ANALOG Anno 2. n. 5. estate 1995 Direttore Responsabile: Daniele Brolli INDICE Complesso di colpa di Charles Sheffield Test di umanità di Charles Sheffield La doppia scala a chiocciola di Charles Sheffield Godspeed di Charles Sheffield Occhi profondi di Gregory Benford L'elefante maltese di Harry Turtledove Inerzia di Nancy Kress Le singolari abitudini... di Geoffrey A. Landis Il buco della serratura... di Stephen L. Burns L'ostaggio di Christopher Anvil EDITORIALE Cosa distingue la fantascienza classica da ogni altra forma di scrittura del fantastico? Di sicuro la sua ingenuità che non si arresta di fronte a nulla, che diventa presupposto per impegnarsi in ipotesi e avventure altrimenti giudicate impossibili. Da un punto di vista potrebbe essere giudicata negativamente, come incoscienza e leggerezza, ma la fantascienza classica ha sempre avuto un paracadute che le permette di sbilanciarsi nell'azzardo con la consapevolezza di fondo che si tratta solo di un gioco. Anche se a volte il gioco riesce e certe ipotesi scientifiche contenute nei più rozzi dei racconti classici si sono rivelate poi non lontane dalla realtà. Da Jules Verne in poi in questa forma letteraria non è cambiato nulla. Sono diversi i temi, sono più vicini all'epoca in cui le storie vengono scritte, sentono un vago influsso scenografico dell'ambiente sociale contemporaneo, ma la loro funzione e il rapporto che instaurano con i lettori e con la storia rimangono invariati. Ai lettori che ci hanno chiesto il perché di Analog, rispondiamo questo, anche perché crediamo che questa funzione di narrativa generosamente lanciata verso il futuro, che riserva i dubbi morali, il cinismo e le esigenze etiche a un altro tipo di fantascienza, conservi una sua funzione attiva, complementare alle altre manifestazioni dell'immaginario fantastico.
Il connubio tra scienza e narrativa in Analog nasce spesso da grandi scienziati che trovano nelle forme di scrittura della fantascienza un modo non pedestre per avventurarsi con risultati affascinanti in ipotesi e mondi inediti. Vorremmo far diventare questa pubblicazione una rivista vera e propria, inserendo dai prossimi numeri rubriche, lettere, e quanto altro. Fatevi sentire. Daniele Brolli NOTE Di Charles Sheffield, uno dei nostri autori più amati, il lettore di Analog sa già tutto, essendo questa la sua quarta apparizione (con relativa quarta nota biografica). Per chi si fosse sintonizzato soltanto adesso sulle nostre frequenze, ricordiamo telegraficamente che Sheffield è nato in Gran Bretagna sessant'anni or sono ma risiede negli USA, e spazia ampiamente entro e fuori il genere, dalla pubblicazione di saggi scientifici fino alla redazione di stravaganti horror come The Selkie, scritto nel 1982 con David F. Bischoff, che vede protagoniste delle foche mannare! Il suo campo d'intervento preferito rimane comunque la narrativa SF: nel 1994, con Georgia on My Mind (da noi pubblicato su Analog 2) ha vinto sia il Nebula che l'Hugo. Gregory Benford, americano dell'Alabama, cinquantaquattrenne, docente di Fisica, attivo nel campo della fantascienza sin dall'adolescenza (in veste di fanzinaro), è diventato uno dei nomi di punta della "hard SF" dopo l'apparizione in Again, Dangerous Visions, seguito della classica antologia della New Wave curata da Harlan Ellison. Da molti accostato a Poul Anderson, ha (come ricordato nella nota biografica in occasione della comparsa del suo Dello spazio-tempo e del fiume nel recente numero 15 dell'edizione italiana della IASFM) una curiosa caratteristica: la quantità di collaborazioni a quattro mani, a partire da quella col fratello James fino a David Brin, passando per Gordon Eklund, William Rostler e Martin Greenberg. Le sue opere sono pubblicate in Italia dalla Nord. Stephen L. Burns, assieme a Nordley l'autore emergente per eccellenza della consorella americana, con la quale collabora dal 1985, ha fatto la sua prima apparizione italiana nel numero d'esordio di Analog (estate 1994)
con Il salto. Con la proposizione del notevole racconto che potete leggere nelle pagine seguenti, chiaramente incentrato sulla figura di Stephen Hawking, accontentiamo le numerose richieste dei tanti lettori cui piace scoprire assieme a noi i nuovi talenti del panorama SF. Nancy Kress è un altro nome familiare ai lettori della IASFM italiana dove già sono apparsi (nei numeri 4, 7 e 15) tre suoi racconti. Affascinante autrice dal grande spessore etico, la Kress è nata a Buffalo (New York) nel 1948 ed è stata più volte proclamata vincitrice del Nebula. Ritroviamo Harry Turtledove, dopo la pubblicazione su Analog 2 dell'acclamato Laggiù nelle Terrefonde, premio Hugo 1993, una riconferma dell'interesse del pubblico italiano per un autore già amatissimo per il ciclo di SF-fantasy (pubblicato dalla Nord) con protagonista una legione romana proiettata nell'esoterico impero di Videssos. La sua specializzazione accademica in storia bizantina (che spiega l'agio con cui cita autori greci ed ellenistici anche nel racconto che vi presentiamo in questo numero) è stata messa a profitto in un altro suo ciclo di grande successo, le Storie di Basil Argyros, ambientate in un mondo alternativo che contempla anche Maometto nell'agiografia cristiana, e che vedono come protagonista un agente segreto medievale che involontariamente provoca e ispira innovazioni scientifiche. Geoffrey A. Landis è un fisico che studia la progettazione di celle fotovoltaiche e nel tempo libero si diletta nella narrativa breve. Il Nebula del 1989 per il racconto Increspature nel mare di Dirac (Urania) ha sancito la sua posizione di più talentuoso autore di racconti brevi delle nuove generazioni, confermata dall'Hugo assegnato al brevissimo, indimenticabile Nel mondo dei sensi, da noi pubblicato nel numero speciale sulla realtà virtuale della IASFM, del novembre 1994. Abbiamo già presentato Harry C. Crosby, in arte Christopher Anvil, nello scorso numero di Analog, dove ricordavamo anche come fosse nostro intendimento rilanciare un autore conosciutissimo e assai apprezzato durante l'epoca d'oro di Astounding, la rivista da cui è nata la nostra consorella americana, e poi caduto in un oblio assolutamente ingiustificato. Dobbiamo ammettere la nostra più totale ignoranza a proposito dei suoi anche più elementari dati anagrafici (emulata del resto da quella assai più sinto-
matica della Encyclopedia of Science Fiction di Clute e Nicholls, vera bibbia dell'appassionato, che mette un bel punto interrogativo sua data di nascita di Anvil e non cita il luogo natale). Ci risulta soltanto che abbia esordito sotto il suo vero nome nel 1952 su Imagination con il racconto Cinderella, Inc, legando poi nome e fortune a John W. Campbell Jr, leggendario editore di Astounding, cui aggradava molto l'antropocentrismo sfegatato e paradossale di Anvil, che portava costantemente l'umanità a prevalere contro gli alieni. ANALOG COMPLESSO DI COLPA di Charles Sheffield La follia assume molte forme. E così, forse, la Storia La follia assume molte forme. Forse una delle più insidiose è la convinzione che non sia niente di peggio di un'infermità, che possa essere alleviata, curata ed eliminata con la giusta miscela di farmaci, vaneggiamenti e incantesimi. O almeno era così che la pensavo i mercoledì in cui mi sentivo maggiormente cinico, quando io e Paul Silverman uscivano dal St. Elizabeth Hospital dopo averci passato una giornata di lavoro. La nostra prestazione era gratuita e la consideravamo un servizio pubblico, ma, se si esaminavano le motivazioni più profonde, ignorando ogni asserzione sulla "responsabilità sociale" e sul "pagare il nostro debito verso la società", si sarebbe scoperto che il nostro autentico impulso era il senso di colpa. Lavoravamo il mercoledì per alleviarci la coscienza. Ci sentivamo a disagio per il fatto di guadagnare centocinquanta dollari all'ora il resto della settimana. Gli altri giorni il problema psicologico di un paziente, in genere, era al massimo un desiderio di attenzione, un matrimonio infelice, un ambiente di lavoro stressante, e tornavamo a casa piacevolmente stanchi e pronti per un party o un concerto. Ma non il mercoledì. Il St. Elizabeth accettava i casi più ostinati e incurabili. Ogni mercoledì uscivamo dall'ospedale separatamente, fra le cinque e le sei, e ci vedevamo all'Anson's Bar. Il primo ad arrivare ordinava due birre e aspettava l'altro. Quel mercoledì sera in particolare mi ero trattenuto cinque minuti più del solito a rivedere la tomografia a emissione di positroni di una paziente
sottoposta a radioterapia per un tumore nel lobo parietale sinistro del cervello, dopodiché ero stato bloccato mentre uscivo da Johnnie Donovan che voleva la mia opinione su un nuovo protocollo terapeutico sul Deprenyl per la cura del morbo di Parkinson. Quando finalmente riuscii a svignarmela, beccando in pieno un tipico acquazzone dei primi di novembre, erano quasi le sei e dieci e agognavo più che mai qualcosa da bere. Mi feci una corsetta lungo il marciapiede col cappotto sulla testa fino alle porte di legno scuro dell'Anson's ed entrai nel bar illuminato a giorno. Dentro era tutto plastica, cromo e neon, a parte il lungo bancone, oltre nove metri di legno duro e nero che era sopravvissuto alla transizione da vecchio pub a luogo d'incontro per yuppy. Il resto della settimana io e Paul preferivamo uno stile più vetusto. Ma il mercoledì sceglievamo sempre l'Anson's, per il suo chiassoso ottimismo e l'atmosfera perennemente allegra. Paul aspettava, col bicchiere vuoto per tre quarti. Un martini doppio con ghiaccio. Medicina robusta. Io scivolai sullo sgabello accanto, annuii e afferrai il boccale di birra che mi aspettava. «Hai dedicato un po' di tempo a Jacob Lansdorf?» chiese subito Paul, prima che potessi bere il primo sorso. «Il nuovo paziente del quinto reparto.» Mi girai a guardarlo sorpreso. Per capire il perché di questa sorpresa bisognerebbe conoscere un po' meglio me e Paul. Fin dall'università avevamo capito che io ero un tipo sensibile e lui pratico. Il sangue mi nauseava, e spettacoli che lasciavano lui imperturbabile in sala operatoria a me facevano venire da vomitare (anche se in compenso dietro le parole di un paziente spesso avvertivo qualcosa che Paul non afferrava: dolore, senso di colpa o paura). A causa di questa sensibilità di solito il mercoledì sera ero conciato peggio di lui. Ma quasi tutte le settimane questo non faceva gran differenza. Bevevamo due o tre birre assieme, discutevamo del lavoro della giornata e tutto il peso del malessere e dell'infelicità che mi ero trascinato dietro dall'ospedale gradualmente si dissolveva. Alle sette e trenta mi sentivo benissimo e riuscivo ridere quanto lui di una barzelletta mentre ce ne tornavamo a casa per la cena. Come ho detto, andava così quasi tutte le settimane. Ma c'erano dei brutti mercoledì. Quelle sere la nube proveniente dal St. Elizabeth non si dissipava tanto facilmente. Certe volte alzavo il boccale sfaccettato e attraverso quello vedevo il mondo prismatico di distorsione e discontinuità dove si trovavano i
pazienti peggiori. In quei casi poggiavo le mani sul legno lucido del bancone e Paul mi stringeva una mano sulla spalla finché il mondo riacquistava l'equilibrio. E bene o male succedeva. Ma quelle sere dubitavo fortemente della mia salute mentale. Paul invece non ammetteva questi dubbi. Considerava il nostro lavoro un'estensione naturale della medicina. Non molto tempo prima che cominciassimo a esercitare, mi aveva esposto la sua filosofia: «È abbastanza semplice, Mark» aveva detto. «Il cervello è un'entità organica funzionante, come il rene o la milza, ma un tantino più complessa. Ricorda, un centinaio di anni fa i dottori pensavano che la tubercolosi fosse un problema emotivo. È questo che oggi sostengono certi idioti riguardo alla depressione o alla schizofrenia. Ma non è vero. Quando ne sapremo di più di biochimica e neurotrasmettitori, riusciremo a curare tutti i casi negli ospedali per malattie mentali.» Era sicuro di sé e convincente. Perciò fu doppiamente sconcertante per me quella sera sentirgli nella voce un'eco della stessa incertezza e ambivalenza che spesso ritrovavo nelle mie riflessioni. Posai il bicchiere senza aver bevuto un sorso. «Lansdorf? Sicuro. Gli ho fatto una visita.» «Gli hai parlato?» «Non più del necessario. Sono dovuto correre da Isobel Skinner, all'ottavo reparto. Sapevi che stava cercando di uccidersi?» «Che ne pensi delle sue condizioni?» Se Paul aveva sentito la mia domanda, non ne diede segno. Giocherellava col bicchiere, sfregando nervosamente gli anelli di condensa sul bancone. «Lansdorf? Sotto il profilo generale è in buona forma. Considera però che dovrebbe fare causa al suo dentista. Erano anni che non vedevo delle otturazioni e un ponte così schifosi.» Il mio tentativo di umorismo non funzionò. Paul si limitò ad annuire fra sé e a lucidare con l'indice il ripiano del bancone. «Cosa c'è che non va, Paul?» dissi dopo altri trenta secondi. Scosse la testa. «Non ne sono certo.» Si sporse in avanti, prese il bicchiere e lo vuotò fino ai cubetti di ghiaccio. «Peccato che tu abbia avuto da fare tutto il pomeriggio. Ti ho cercato verso le quattro, perché volevo che mi dessi un'opinione. Comunque...» Si chinò a prendere la borsa, poggiata ai suoi piedi contro il bancone, e se la posò sulle ginocchia. «Stamane, come prima cosa, ho passato un'ora e mezzo con Jacob Lansdorf» continuò. «È stato trasferito al St. Elizabeth dal Dipartimento di Po-
lizia di Washington cinque giorni fa. L'hanno raccolto al centro commerciale che se ne andava a zonzo da solo. Non aveva alcuna idea di dove si trovasse, e farneticava.» «Perché questo ospedale? È violento?» Volevo che Paul continuasse a parlare. Lo sguardo fisso che aveva sul volto era inquietante. «No.» Parve di nuovo sicuro di sé. «Sarei stupito se tentasse di fare del male a qualcuno, a parte forse se stesso. Ma a quelli che l'hanno trovato ha raccontato della roba veramente strana. Non riuscivano a cavare molto senso dalle sue parole, ma hanno agito con cautela.» «Ha detto loro delle cose strane... Ma a te cos'ha detto, invece?» Paul spinse il bicchiere sul bancone per farselo riempire e scosse la testa. Non rispose subito, poggiando invece la borsa coricata sul ripiano. La aprì e tirò fuori un fascio di carta giallognola per uso legale, ricoperta di una nitida scrittura a matita. «Quello che mi ha detto stamane era piuttosto incoerente. Molti paranoici danno una descrizione logica e completa, almeno in superficie. Ma Lansdorf ha vaneggiato a tutto spiano. Perciò prima di andarmene gli ho chiesto di mettere per iscritto quello che mi aveva raccontato con più dettagli che poteva. Deve averlo fatto tutto d'un fiato, perché quando l'ho rivisto alle tre aveva preparato questo...» Paul batté sui fogli giallognoli «...per me. Mi farai un grosso favore se lo leggi subito e vedi cosa dice.» Guardai dubbioso il blocco. Doveva essere almeno di venti fogli. «Prima di cominciare» dissi «mi dai un'idea di cosa c'è che non va in lui?» «Ti dirò come me l'hanno descritto. Illusioni di potenza, accoppiate con un mostruoso complesso di colpa.» «E la tua opinione? Dove lo collocheresti?» Paul non esitò. «Lo vedrai quando leggerai. Ma è un due... o peggio.» Era la nostra scala ufficiosa per descrivere la condizione umana. Su una scala da uno a dieci, chiunque avesse dieci di solito era felice. Un uno aveva mollato ogni speranza, «Allora ha toccato la disperazione» dissi. «Il che significa o che questo documento descrive la sua condizione interiore, non un insieme di esperienze, o che altrimenti quell'uomo ha infranto la tua regola preferita.» La Regola di Silverman, dimostrata dopo anni di osservazione: un essere umano può rendere infelice un altro essere umano, ma la felicità o la disperazione non possono essere indotte: vengono dall'interno. «Lo so, lo so.» Agitò la mano con impazienza. «Leggilo, Mark, poi ne parliamo.»
Presi un sorso di birra, pescai gli occhiali in una tasca interna, posizionai le carte in modo che potesse vederle anche Peter e alla fine iniziai a leggere. "Mi chiamo Jacob Lansdorf. Ho ventotto anni e sono nato nella città di Wolverhampton, Inghilterra. Dopo aver frequentato là la scuola secondaria, mi sono iscritto a Oxford laureandomi in storia, ed effettuando in seguito due anni di specializzazione. Il mio campo specifico erano le tendenze della politica nazionale nella prima metà di questo secolo." (Guardai Paul al di sopra degli occhiali. «Lo so. Continua a leggere» disse. «Gli ho suggerito io di aggiungere un quadro generale, per aiutarlo ad affrontare la cosa. Ma non ne aveva bisogno.») "Fu durante il primo anno di specializzazione che incontrai per la prima volta Jon Blackburn. Avevamo affittato tutti e due camere ammobiliate nello stesso alloggio, dove ci eravamo trasferiti nello stesso giorno. Presto iniziammo a pranzare assieme di tanto in tanto, non perché ritenessimo di avere granché in comune, ma perché né io né lui avevamo molto danaro, ed era più conveniente cucinare per due. Di rado parlavamo dei nostri studi. Lui aveva studiato fisica a Bristol e adesso preparava una tesi sui processi quantici. Tutti i suoi commenti in materia mi risultavano incomprensibili. "Dopo tre mesi, improvvisamente scoprimmo di avere molto più in comune di quanto sospettassimo. Per essere precisi, ai tempi dell'università ambedue eravamo stati iscritti al Movimento per la Patria." («Neanch'io ne so niente» disse Paul. «Ma si chiarisce dopo. Secondo Lansdorf, il Movimento per la Patria è un'organizzazione che cercava di creare una nazione per insediarvi gli ebrei.» «Ma c'è...» «Già. Va' avanti.») "Jon era stato molto più attivo di me, ed era ancora in contatto col Movimento. Alla fine del trimestre mi convinse ad andare in macchina con lui a Cambridge per incontrare alcuni della sua vecchia cellula di Bristol che adesso erano ricercatori là. Andammo sulla sua vecchia ArmstrongSanderson, che teneva in pessime condizioni. Il tempo era cattivo e la capote piena di buchi. Dopo Bedford la strada principale era allagata, perciò non arrivammo prima delle otto di sera. Jon si diresse verso una casa sulla strada per Grantchester. Arrivammo a riunione iniziata. Otto persone, ma il chiasso e il fumo di pipa facevano per venti.
"Fu un'esperienza nuova, per me. La cellula di Cambridge era piena di attivisti e i loro discorsi prendevano una brutta piega. Volevano entrare in azione subito. Per la prima ora mi limitai a guardare e ascoltare, quasi ignorato. Finché Jon Blackburn rivelò agli altri il mio campo di studi. Allora tutte le teste si volsero a guardarmi. "'Non ha ancora incontrato Simon?' chiese una donna dal viso magro che pareva dieci anni più vecchia degli altri. Si chiamava Barbara, e la riunione si teneva a casa sua. "Jon scosse la testa. 'Volevo prima far conoscere Jacob a tutti voi. Viene Simon stasera?' "'Tardi. Doveva finire qualcosa al laboratorio. Lo sai com'è fatto Simon.' "Io no, ma nella successiva mezz'ora seppi parecchio sul suo conto. Era il genio della cellula e il suo lavoro formava la base del Grande Piano. "Ora descriverò il Piano, ma non mi è possibile fornire una buona descrizione del lavoro di Simon Fischer; perfino Jon non ci riusciva, e aveva una preparazione scientifica. Tutto si basava su qualcosa definito ipotesi Moseley-Redpath, ma questo non serve a molto. Ho cercato il riferimento nella biblioteca dell'ospedale di qui. C'è Moseley, ma l'enciclopedia dice che è morto nel 1915. Non compare né un Redpath né l'ipotesi MoseleyRedpath. "Secondo Jon, l'unico modo di capire l'ipotesi è attraverso una descrizione in termini di teoria quantistica. A livello quantico la posizione di ogni particella non è nota con assoluta precisione. Invece viene descritta mediante una distribuzione di probabilità. Così una particella si estende in una regione dello spazio... in linea di principio, la particella può trovarsi da qualsiasi parte dell'intero universo, ma la probabilità diviene trascurabile in un piccolo volume. L'ipotesi Moseley-Redpath suggerisce che c'è un minuscolo ma incommensurabile accoppiamento fra le distribuzioni di probabilità delle particelle. "Un assistente del comitato di discussione della tesi di Simon Fischer ha esteso l'ipotesi nell'ambito del tempo. Dovrebbe esserci un accoppiamento fra lo stato delle particelle di ora e allora. "Questo accoppiamento potrebbe essere abbastanza grande da venire misurato. Simon ha cercato di misurarlo, nell'ambito del suo lavoro di ricerca, e c'è riuscito. L'effetto era vero. In linea di principio, un'azione compiuta nel presente potrebbe influire su una situazione del passato. "Fu difficile crederci anche solo in minima parte quando conobbi Simon Fischer. Era minuto e bruno, e non mi guardò negli occhi. Rispose alla
domanda di Jon con un infido sguardo in tralice a Barbara, e uno scatto della testa in avanti e all'indietro. 'Il dispositivo che ho costruito dovrebbe permettere di effettuare dei cambiamenti' disse. Tirò su col naso. 'Cambiamenti del passato, ma piccoli cambiamenti. Più la quantità di energia necessaria per farlo cresce rapidamente, in termini esponenziali, più si va indietro. Inoltre, i piccoli cambiamenti finiscono per essere ininfluenti man mano che si avanza verso il futuro'. "'Ma alcuni no?' domandò Jon, a mio beneficio, con aria sospetta. 'Ci sono delle cosettine del passato che potrebbero fare la differenza che ci interessa?' "'Esatto. Ci sono nodi critici, eventi spazio-temporali che causano una rilevante biforcazione nello spazio-tempo. Sono quelli che ci occorre individuare. E questo ovviamente esula dai confini della fisica. Se si vuole produrre un cambiamento sociale, c'è bisogno di un esperto di storia e politica.' "Gli altri si girarono tutti a guardarmi. Per la prima volta capii perché Jon avesse insistito per venire a Cambridge. Ero io l'esperto appena reclamizzato. Quello che voleva il gruppo sembrava abbastanza semplice, se visto per sommi capi. Il principale ostacolo per l'avanzata del Movimento per la Patria era un'influenza tedesca antisemita. E l'industria e la tecnologia tedesca erano forze potenti in tutto il mondo... la stessa attrezzatura di Simon era stata realizzata a Stoccarda. La cellula intendeva trovare qualcosa, un evento critico del passato, che potesse essere modificato e propagato in avanti per ridurre l'influenza tedesca nel mondo. "Dapprima ritenni ridicola l'intera faccenda. Ma la situazione offriva una curiosa sollecitazione al mio ego. Faceva una certa differenza scoprire di essere al centro dell'attenzione di un gruppo di persone... un gruppo di individui, sospettai ben presto, tutti di intelletto superiore al mio. "Promisi di studiare il problema. Tornammo a Oxford e mi misi al lavoro. Jon m'incalzava con frequenti domande su come procedevo, ma non era necessario che mi pungolasse. Il progetto era divenuto la mia ossessione, tanto da trascurare gli altri studi. La bolletta telefonica delle mie chiamate al laboratorio di Simon Fischer presto superò le cifre che spendevo per il cibo e l'affitto. "Trovai una risposta. Mi ci vollero quattro mesi, ma trovai quello che ci serviva. Dopo altre due settimane di verifica io e Jon tornammo di nuovo a Cambridge a far visita a quell'abitazione suburbana sulla strada per Grantchester. Vi si era riunita la cellula al completo. Con l'eccezione di Barbara
Ashworth, che insegnava francese e tedesco in una scuola di Grantchester, tutti gli altri erano fisici e matematici. Dovetti spiegare loro l'intero retroterra storico. "'Bisognerebbe leggere i dispacci del fronte per sapere cosa accadeva' dissi. 'Tutte le guerre sono molto più confuse mentre di svolgono di quanto non appaia prima o dopo. In precedenza, è tutto un fermento di piani e calcoli, poi, quando la guerra finisce, arrivano gli storici e si mettono a fare delle belle analisi dettagliate. Ma durante la battaglia vera e propria tutto tende a diventare confuso e affrettato. Ora, il Piano Schlieffen era stato immaginato molto tempo prima della guerra. Anzi, Schlieffen stesso morì nel 1913, l'anno che precedette l'inizio della guerra...' "'Ma è stato più di settant'anni fa!' La protesta veniva da Walter Jason, uno dei più impazienti del gruppo. 'Non dovrai certo risalire così indietro nel tempo?' "'Credo dovremo farlo, invece.' (Non me la presi per la sua domanda, perché oltre tutto rifletteva le mie stesse preoccupazioni. La mia conoscenza di eventi più recenti era certo inferiore a quella della prima metà del secolo, e le mie analisi potevano rifletterlo. Ma tale critica non fece altro che rafforzarmi nella difesa delle mie conclusioni.) 'Ricordate tutti, dovevo trovare un punto dove un piccolo cambiamento avrebbe potuto propagarsi anziché esaurirsi. E il 1914 è in assoluto il posto migliore per un punto critico. Vedete, il Piano Schlieffen funzionò, ma fu a un passo dal fallimento. L'idea era che la Germania avrebbe colto la Francia di sorpresa. I francesi erano preparati a un attacco tedesco attraverso l'Alsazia-Lorena. Se i tedeschi invece fossero passati dal Belgio, avrebbero aggirato le linee francesi di difesa, e a quel punto avrebbero potuto proseguire fino a conquistare Parigi. Dopodiché sarebbero stati nella posizione di dettare al resto dell'Europa forti imposizioni economiche e politiche. Ma era cruciale la scelta dei tempi. I francesi avevano un grosso potenziale militare nel 1914, ma non il tempo di schierarlo. Pertanto la guerra sarebbe finita ancor prima che si rendessero conto che era cominciata. "'Era questo il piano tedesco, e quello che si trova nei libri di storia. Ma fu a un pelo dal fallimento per una questione di poche ore. L'avanzata attraverso il Belgio andò da favola, e le forze tedesche al comando del generale von Kluck puntavano dritte su Parigi. Ma il comandante supremo tedesco, il generale von Moltke, si trovava nel quartier generale dell'Alto Comando Tedesco, e non era certo di cosa stesse accadendo. Finalmente ricevette un messaggio sulla situazione di von Kluck, e rispose con istru-
zioni di proseguire e avanzare verso Parigi. "'Ora, immaginate se non l'avesse fatto? Von Kluck avrebbe inseguito le forze inglesi nella ritirata, e sarebbe stato indotto ad aggirare Parigi. Così i francesi avrebbero avuto il tempo di approntare la seconda ondata, e organizzare un contrattacco migliore. Se questo fosse accaduto, la guerra sarebbe stata modificata. I francesi e gli inglesi avevano altrettante truppe dei tedeschi. Senza il fattore sorpresa, non si sarebbe verificata una facile avanzata tedesca. E l'influenza tedesca sull'Europa si sarebbe enormemente indebolita.' "Avevo iniziato a esporre la mia analisi con un pizzico di esitazione. Ma man mano che ero andato avanti mi ero ritrovato con un entusiasmo crescente. Era solo una teoria, ma era la mia. Volevo tanto che il gruppo credesse a quello che dicevo. "Invece no. Non subito. Il principale scettico era lo stesso Simon Fischer. 'Settant'anni!' disse. 'Non ti rendi conto che l'energia necessaria per indurre l'accoppiamento è esponenziale nel tempo? Posso intercettare una linea da un megawatt, ma ti ci vuole molto di più.' "'Non credo.' Mi rivolsi a Jon. 'Non mi hai detto anche che l'energia necessaria dipende dallo spostamento di massa? Bene, propongo un cambiamento. Non mi serve altro che una piccola scarica energetica, quel che basta a dissolvere una goccia d'inchiostro dalla penna di Moltke, e impedirne la firma. Era tarda notte quando firmò, e stava andando a una cena dello Stato Maggiore. Era incerto se inviare quel messaggio a von Kluck a quell'ora. E ricordate, non ho bisogno di altro che di un giorno di ritardo.' "Seguì un'accesa discussione. Con riluttanza, Simon convenne che l'energia necessaria a produrre il cambiamento che descrivevo si poteva ricavare dal suo laboratorio. Poteva calcolare la coordinate necessarie e indirizzare il getto energetico. D'accordo lui, gli altri si allinearono. "È strano, ma fino a quel punto avevo visto l'intera faccenda come un esercizio interessante ed eccitante, ma non come un'esperienza reale. La cellula di cui avevo fatto parte a Oxford era più la propaggine di un salotto letterario. Parlavamo parecchio della Patria, e degli effetti oppressivi dell'influenza tedesca. Ma non facevamo mai niente. Mi ero convinto che il gruppo di Cambridge fosse uguale. "Mi sbagliavo. Quella stessa notte la cellula votò per l'entrata in azione. Io dovevo fornire a Simon informazioni quanto più dettagliate possibili sul tempo e sul luogo, e lui l'avrebbe messa a punto da lì. Io e Jon tornammo in macchina a Oxford. La mattina successiva telefonai a Simon e gli dissi
tutto quello che potevo sulla firma di Moltke. Feci delle copie di rapporti di testimoni oculari allo Stato Maggiore del generale e gliele spedii per posta al Cavendish Laboratory. "Dopodiché? Anticlimax. Non accadde niente. Per tre settimane, la vita andò avanti come al solito. Io e Jon studiavamo durante il giorno e di sera ci domandavamo cosa stesse succedendo a Cambridge. Jon telefonava a Barbara e ogni volta riceveva lo stesso messaggio: 'Simon ci sta lavorando'. I nostri viaggi cominciarono a sembrare irreali, parti di una fantasticheria da adulti in cui l'intera cellula era stata portata via. "Cinque giorni fa stavo seduto nella cucina del nostro alloggio, rovesciando col cucchiaio delle uova strapazzate su due fette di pane tostato. Un attimo dopo mi trovavo in una strada affollata, e vedevo sfilarmi davanti automobili dalla linea sconosciuta e futuristica. I passanti erano vestiti in maniera singolare. Metà di loro erano negri. C'era un rumore terribile. In alto passava un aeroplano incredibile. Guardai gli edifici intorno a me. Non era Oxford, ora o in qualunque altra epoca. La successiva pagina giallognola era arricciata e la scrittura su di essa era stranamente aggrovigliata. Sfogliai velocemente i fogli restanti e stimai che forse ne restava da leggere una dozzina. Paul mi guardava con attenzione. «Allora?» disse. Scossi la testa. «Classiche allucinazioni. L'uomo che può cambiare il mondo. Nota in che modo chiarisce che è colpa sua, ma che lui non ha la competenza necessaria a costruire la macchina... quella che proverebbe che non sta inventandosi tutto. Qualche precedente di malattia mentale?» «Nessuno. È figlio unico, ambedue i genitori morti. Arrivarono adolescenti nel 1937 dalla Germania, perciò non abbiamo dati sulla loro prima infanzia. Dopodiché, tutto normale.» «Hai controllato qualcuno di questi fatti?» Picchiai sul manoscritto. «Sui fatti del 1914, voglio dire.» «Ho dato un'occhiata veloce nella biblioteca dell'ospedale dopo aver letto tutto questo nel pomeriggio. I fatti generali sono esatti, von Kluck avrebbe potuto conquistare Parigi, ma Moltke non glielo ordinò per tempo, e lui deviò verso sud. Se avesse preso Parigi, la Prima Guerra Mondiale sarebbe finita nel 1914 anziché nel 1918.» «Allora si tratta di illusioni di grandezza su larga scala. Se non fosse stato per lui, non ci sarebbe stato nessun grosso conflitto mondiale. Niente
sanguinosa battaglia della Somme, niente guerra di trincea, niente milioni di morti. Nessuna meraviglia che Lansdorf abbia un complesso di colpa, se si ritiene colpevole di tutto questo.» «Un grosso complesso di colpa.» «Be', dopotutto è ebreo. Perciò ha fatto continuare la guerra a lungo. È proprio come tutti noi. Mostrami un bravo ragazzo ebreo che non si senta colpevole?» Stavo per concludere «E io ti mostrerò un bugiardo» ma Paul scuoteva la testa e aveva l'aria di parlare sul serio. «Niente affatto come tutti noi. Va' avanti, Mark, finisci di leggere. Lansdorf butta fuori punto per punto la sua versione della storia. Nel suo mondo la Prima Guerra Mondiale era finita in fretta. Aveva vinto la Germania... avevano conquistato Parigi, poi si erano ritirati volontariamente verso il loro confine, naturalmente strappando delle concessioni ai francesi e agli inglesi. E tutto era finito lì.» «Così lui ha fatto continuare la guerra e la cosa è costata milioni di vite.» «Molto peggio. Nel suo mondo, la Germania aveva vinto. Perciò niente più guerra sanguinosa. E niente Trattato di Versailles alla fine, "a spremere l'economia tedesca fino a sentirne gli scricchiolii". Niente collasso dell'economia tedesca negli anni Venti... niente ascesa di Hitler... niente Seconda Guerra Mondiale.» Sospirò. «Niente olocausto.» Mostrami un bravo ragazzo ebreo... Ci guardammo a lungo l'un l'altro. «Vado a trovarlo» dissi alla fine. «Fisserò un appuntamento e lo farò per prima cosa, domattina.» Ma non lo feci. Durante la notte Jacob Lansdorf sopraffece due inservienti, ciascuno il doppio di lui e addestrato a occuparsi di pazienti violenti. Dopodiché si gettò dal settimo piano del St. Elizabeth Hospital. Corsero delle voci sulla trascuratezza da parte della direzione dell'ospedale, ma dato che Lansdorf non aveva parenti in vita l'inchiesta ufficiale finì lì. Curiosamente, la cosa parve finire anche per Paul. In qualche modo, aveva scaricato su di me tutte le sue preoccupazioni. Ora non potevo evitare di mettere assieme fatterelli e congetture a proposito di Jacob Lansdorf... ...una strana fotografia che aveva nel portafoglio. Lo ritraeva abbracciato a una ragazza, sul Lungotamigi, a Londra. Si vede il Parlamento e sembra lo stesso di sempre. Ma altri edifici non coincidono con la Londra che conosco... o qualsiasi cosa possa trovare su foto
del passato. E l'automobile vicino a Lansdorf ha un aspetto antiquato. Automobili "futuristiche" e un "incredibile" aeroplano a Washington? Certamente. La guerra dà un grande impulso alla tecnologia. Senza la Prima Guerra Mondiale, o la Seconda, come sarebbero sembrate le auto e gli aerei dei nostri giorni? ...l'ipotesi Moseley-Redpath. Moseley c'è nell'enciclopedia... Ucciso in azione a Gallipoli, nell'agosto del 1915, all'età di ventisette anni. Era una delle menti brillanti della sua generazione. E Redpath? Chissà. Un'intera generazione di giovani europei fu spazzata via sui campi di battaglia della Francia settentrionale. ...la singolare abilità di Lansdorf con le arti marziali, attestata dai due inservienti dell'ospedale che aveva sopraffatto e messo fuori combattimento. ...la natura strana e primitiva delle sue otturazioni dentali. Posso immaginare che si fosse preso la briga di truccare una fotografia, anche sobbarcandosi un grosso lavoro. Ma un uomo che si fosse trapanato i denti per sostenere la propria allucinazione? Dopodiché la logica riasserisce se stessa. Gli inservienti dell'ospedale cercavano di giustificare l'incompetenza dimostrata. Il lavoro dentale era stato fatto da qualche dentista incompetente in un paese del Terzo Mondo. Se Jacob Lansdorf e Simon Fischer avevano modificato il passato, questo presente sarebbe stato quello di Lansdorf. Le sue memorie sarebbero state di questo mondo e solo di questo mondo. Non ci sarebbe stato modo per lui di trascinarsi dietro frammenti della sua esistenza alternativa, fotografie, otturazioni e ricordi. Tutto qui? Non credo. E molti dubbi latenti sulla mia salute mentale ora sono si sono attenuati. Credo che mi manchi quella certezza che di solito accompagna la follia. Ma non sono sicuro neanche di questo, perché la follia assume molte forme. E così, forse, la storia. Titolo originale: Guilt Trip Analog Science Fiction and Fact August 1987
TEST DI UMANITÀ di Charles Sheffield Chi può spiegare il mistero degli scimpanzé di Schimmerhann? «Negli ultimi giorni abbiamo sentito un gran parlare delle origini degli Shimmy. È stato stabilito, più di una volta, che le azioni di Jakob Schimmerhann erano del tutto illegali, che sappiamo tutti come il caso attuale rientri tra esse e che lui meriti ampiamente la condanna. «Benissimo. Supponiamo di ammetterlo. Le sue azioni erano sicuramente illegali. L'uso di DNA umano in esperimenti genetici era ed è rigorosamente proibito. Di sicuro non è inappropriato un certo grado di pena. «Ma a questo punto andiamo oltre, fino ad ammettere che l'origine degli Shimmy non ha alcuna relazione con quanto accertato da questa corte! Che gli stessi Shimmy esistano o meno è quasi del tutto irrilevante. Sta di fatto che esistono! Quando chiediamo quali diritti abbia un bambino, chiediamo forse chi siano i genitori o come sia venuto al mondo? Ovviamente no. Una volta che un bambino è nato, insistiamo su un trattamento equo e umano. Le origini e i diritti hanno ben poco a che vedere tra di loro. «Provi che gli Shimmy sono umani, dice l'avvocato della difesa. Ma nessuno ha inventato un test di umanità a prova di errore. Geneticamente parlando, ci si dice, uno Shimmy è più simile a uno scimpanzé che a un umano, dato che Jakob Schimmerhann ha usato meno del dieci per cento di sequenze di DNA umano nel creare la specie Shimmy. La difesa dunque asserisce che uno Shimmy è umano solo in una millesima parte. Ma si tralascia che noi, umani e scimpanzé, abbiamo in comune il 99% delle sequenze di DNA! Umani e scimpanzé sono cugini stretti. Gli Shimmy ci sono ancora più prossimi. Perciò quando l'Attarian Corporation dichiara, nell'utilizzo di Shimmy come manovali schiavi...» «Obiezione. Vostro Onore, il termine "manovali schiavi" è inappropriato per descrivere animali che lavorano, quali a nostro avviso sono gli scimpanzé di Schimmerhann.» «Obiezione accolta.» «Ritiro il termine. Dirò allora che le differenze fra umani e Shimmy sono principalmente quelle superficiali dell'aspetto, ma in realtà da tutti i punti di vista siamo sorprendentemente simili. «Tuttavia, potete anche respingere tutte le argomentazioni concernenti il
DNA, se volete, e affermare che è solo incomprensibile gergo scientifico. Guardate invece ai fatti nudi e crudi, e il nostro caso regge benissimo. Come ha fatto rilevare il professor Miraband all'inizio della settimana, uno Shimmy adulto è in grado di parlare, e meglio di un piccolo umano di tre anni. Che differenza fa se la comunicazione deve avvenire mediante linguaggio gestuale? La mia onorevole collega si sentirebbe di sostenere che una persona umana priva di laringe, anch'essa costretta a comunicare col linguaggio gestuale, per questo motivo dovrebbe essere privata dei propri diritti di uomo? O che un piccolo umano di tre anni, che per caso si ammala, dovrebbe essere soppresso per convenienza? È egualmente sbagliato assassinare uno Shimmy...» «Obiezione. Il termine "assassinare" non è appropriato per descrivere la morte di un animale.» «Obiezione accolta. Avvocato, la prego di impiegare una terminologia dalla minore carica semantica. Sono sicuro che lei è in grado di farlo.» «Sì, Vostro Onore. Ripeto, un piccolo umano ammalato o un umano impossibilitato a comunicare con le parole sarebbero maltrattati o uccisi? No di certo. La sola allusione è ridicola. «E quanto ad abilità manuali, o alla capacità di seguire delle istruzioni, o, siamo espliciti, la capacità di pensare, il nostro ultimo testimone è stato chiarissimo: uno Shimmy adulto supera un piccolo umano medio di quattro anni! Approvereste il fatto che un bambino di quattro anni non abbia alcun diritto umano? Se accadesse che vi fosse un'eccedenza di bambini di quattro anni, come reagireste all'idea di ridurne il numero? Eppure è esattamente questo che potrebbe succedere a tutti gli Shimmy, finché i loro diritti non saranno riconosciuti e protetti. «In conclusione dico che chiediamo i pieni diritti. Ma non parliamo di diritti degli animali, parliamo dei diritti delle persone. Perché si tratta di persone. Ho concluso.» Leon Karst sorrideva mentre chinava il capo verso il trio della corte, una donna e due uomini, e tornava al suo posto. Ma Sally Polk vedeva chiaramente che sudava. Karst aveva detto a Sally che la prima settimana era cruciale: «Baseremo la nostra linea d'azione sulle testimonianze dirette, non su controinterrogatori. Entro la fine della settimana dovremo aver persuaso la corte ed essere sicuri che la controparte è in difficoltà.» Se aveva ragione, e raramente Sally aveva scoperto che si sbagliava, a quel punto la causa sarebbe stata vinta o persa. Sally si volse attorno a guardare l'aula stracolma, poi appuntò lo sguardo sui membri della corte,
poggiati all'indietro sugli scanni dopo trenta ore di testimonianze. Come nuova assistente, per lei era la prima volta in tribunale. Cercò di decifrare le loro espressioni. Il decano Williams, il giudice in pensione, era imperscrutabile. Aveva un'espressione cortese, distaccata, come se la sua mente fosse altrove. Ma la precisione delle sue domande dimostrava che questo si era ben lungi dalla verità. Era soltanto che il suo viso non tradiva il minimo indizio. L'uomo e la donna che lo affiancava forse erano più facili da interpretare. Richard Kanter era un avvocato del Midwest, scaltro, bruno di capelli e fuori forma, e annuiva lentamente, approvando chiaramente l'arringa di Leon Karst a favore dei ricorrenti. Laurel Garver, la più giovane dei tre, seduta alla destra del giudice Williams, si era sporta verso quest'ultimo e gli parlava all'orecchio con l'aria assorta. Per tutto l'arco della settimana era parsa favorevole alla causa che Karst stava intentando da parte degli Shimmy. Il giudice Williams ascoltò attentamente Laurel Garver, annuì, e si poggiò alla sedia. «Dobbiamo deciderlo dopo» disse. Quindi, a Leon Karst e alla sua controparte dal lato opposto: «A meno che non dobbiate sistemare delle questioni procedurali, la corte si aggiorna a lunedì mattina, alle nove. Avete impegni?» Sally guardò gli avvocati della controparte. Fino a lunedì mattina non erano stati altro che nomi e reputazioni. Adesso lei provava una forte comprensione per tutti loro. Deirdre Walsh, la famosa Deirdre Walsh, capofila del collegio di difesa, scuoteva la testa in risposta alla domanda del giudice Williams. Stando al suo curriculum e ai commenti di Leon Karst, doveva essere dura, abile e spietata. Non dava alcun segno di essere disposta ad arrendersi in quella causa, ma Sally non si sarebbe mai accorta della sua tenacia dal suo comportamento in aula. Deirdre Walsh era vestita in modo tradizionale con un impeccabile tailleur grigio azzurro, esaltato da un piccolo nastro di merletto alla gola e da un ramoscello di lavanda fresca sul risvolto. Pareva amichevole e tranquilla nel parlare. («Ma aspetta un po'» aveva detto Leon Karst a Sally un paio di sere prima. «La prossima settimana mostrerà i denti.» Sembrava lieto per quella prospettiva. Lo spazio sui giornali avrebbe toccato il picco durante la seconda settimana delle udienze.) «C'è solo un piccolo dettaglio» stava dicendo Karst al giudice Williams. «Ci occorre conoscere i nomi dei testimoni di lunedì.» Questo era un momento importante. La corte non si riuniva nel fine settimana, ma nessuno fingeva che fosse un periodo di riposo. I tre membri
della corte avrebbero riesaminato le prove presentate nel corso della settimana, quindi si sarebbero incontrati all'ora dei pasti per discutere le loro opinioni sulla causa. Deirdre Walsh e i suoi assistenti avrebbero setacciato le trascrizioni delle testimonianze della settimana precedente in cerca di materiale che potesse favorire la loro difesa; e Leon Karst, con l'aiuto di Sally, avrebbe deciso la linea del controinterrogatorio per i primi testimoni prodotti dall'imputato. Ogni pomeriggio, al termine della seduta, la parte sottoposta al procedimento forniva in via conclusiva i nomi dei testimoni del giorno successivo. E ogni sera la controparte preparava disperatamente i materiali del controinterrogatorio. «Avremo un solo testimone, lunedì.» Il tono di Deirdre Walsh era disinvolto. «Si tratta del capitano Russell Grenville.» L'aula fu percorsa da un mormorio. Leon Karst fece un grugnito di sorpresa, mentre Sally si domandava cosa stesse succedendo. Conosceva il nome di Grenville, come tutti, ma non era mai stato fatto prima, durante tutta la preparazione del processo a favore dei diritti degli Shimmy. Significava che non poteva essere proposto come testimone? Karst era di nuovo in piedi, e parlava ad alta voce per superare il baccano. «Vostro onore, nessuno ha proposto in precedenza il capitano Grenville come potenziale testimone. Pertanto è privo dei requisiti necessari.» «Silenzio, prego.» Il giudice Williams chinò la testa verso Deirdre Walsh. «Avvocato?» «In circostanze ordinarie sì» disse lei. «Ma mi permetta di ricordare al mio onorevole collega dei ricorrenti il precedente legale stabilito in seguito alla causa Rost contro Watkins. "Nel caso che un potenziale testimone non si trovi sulla Terra, e il tempo di ritorno di tale testimone non possa essere garantito in anticipo, lo stesso testimone può apparire senza precedente notifica, e il relativo interrogatorio con contraddittorio essere posposto su richiesta dell'avvocato di ulteriori ventiquattro ore." Il che si applica esattamente al capitano Grenville.» «Si trova sulla Terra, ora?» domandò Laurel Garver. «Perché sia applicabile il codice al quale si riferisce...» «No. Ma sta arrivando. Posso garantire che sarà qui, in quest'aula, lunedì mattina.» «Allora il testimone è approvato. C'è altro da discutere?» Il giudice Williams si guardò attorno nell'aula, sorridendo per la prima volta in una settimana. «Molto bene. La corte si aggiorna.»
Il database col sistema di rimandi fornì valanghe di informazioni sul capitano Russell Grenville. Troppe informazioni. Sally Polk dovette condensarlo in termini riassuntivi e utilizzabili. Comandante della Sunskimmer, e primo umano a guidare un gruppo di atterraggio sulla superficie di Mercurio. Vincitore della medaglia Tsiolkovskij. Il primo umano a condurre una nave attraverso gli anelli di Saturno. Vincitore di una medaglia del congresso. Il primo umano a guidare un gruppo sopravvissuto all'incontro con l'Oggetto di Karkov. Premio per il coraggio del Club degli Esploratori. Primo umano a riportare campioni vulcanici da Io. Premio Daedalus... La lista proseguiva per pagine e pagine. Ma non c'era nessun appiglio. La reputazione di Grenville come comandante e leader era oro puro. Richiamò sulla tastiera i dati personali. Non sposato, ma apparentemente eterosessuale. Nessuna relazione di lunga durata. Lo sottolineò mentalmente, per possibili riferimenti futuri. Religioso, membro dell'alta chiesa episcopaliana, ma nessuna prova di vedute estremistiche. Proveniente da una famiglia moderatamente ricca, due fratelli, uno generale dell'esercito, l'altro uomo d'affari di successo. Nessun indizio di problemi finanziari, anche solo di un rilevante interesse economico. Politicamente conservatore, in linea col retroterra familiare (secondo l'esperienza di Sally, solo le famiglie molto ricche erano progressiste, quelle moderatamente ricche erano conservatrici). Smise di gingillarsi col cursore di controllo e si appoggiò all'indietro sulla sedia. Erano quasi le dieci, e ancora non aveva niente di utile per Leon. I dati personali di Russell Grenville combaciavano con la sua immagine pubblica. Tutto nel suo curriculum politico, religioso e finanziari, rivelava una solida visione conservatrice della vita, il profilo di un uomo retto, dalla rigida morale con una forte venatura calvinista, e un testimone difficile. Non sarebbe stato sorprendente se avesse preferito considerare gli Shimmy animali anziché umani. Ma ci doveva essere dell'altro. C'erano miliardi di uomini sulla Terra che condividevano quell'opinione. Perché Deirdre Walsh avrebbe trascinato quaggiù Russell Grenville da dovunque si fosse trovato, a un costo da capogiro, da qualche posto sperduto nel bel mezzo del nulla a milioni di miglia dalla Terra, a meno che non ci fosse dell'altro? Sally sospirò e tornò alle ricerche. Da dove l'aveva ripescato l'avvocato della difesa? Lo Sciame Egizio. Tredici mesi prima era partito con una spedizione per la regione dello Sciame Egizio, per catalogarne e analizzarne gli elementi
periferici. Sally richiamò un rimando. Aveva avuto ragione, era davvero nel bel mezzo del nulla. Lo Sciame era uno strano gruppo di asteroidi, con orbite differenti da tutto il resto del sistema solare. "Il piano comune delle loro orbite è a sessanta gradi dall'eclittica..." Cos'era l'eclittica? La risposta richiese altri dieci minuti, ma non aveva scelta. Leon Karst aveva una regola: "Mai fare una domanda a un testimone se non sai qual è la risposta. E mai portarmi un fatto che non sei in grado di spiegare, perché io potrei doverlo spiegare a un giudice e a una giuria". Un anno con lui le aveva insegnato che non scherzava. Continuò a leggere. Visitare lo Sciame Egizio richiedeva del tempo ed era molto dispendioso quanto a consumo di carburante. L'unica colonia considerevole era un avamposto minerario su Horus. Grenville aveva avuto intenzione di visitare lo stesso Horus? Da qualche parte nei database generali doveva esserci il suo piano di volo completo. Si fece strada a forza di contorsioni fra le banche di riferimenti incrociati, saltando da un indice all'altro. Dopo un'altra mezz'oretta trovò il profilo della missione. Era partita con l'intenzione di esaminare il piano di volo, ma prima di farlo diede un'occhiata alla nota di carico. Quello che vi trovò la fece scattare in piedi di corsa in cerca di Leon Karst. «È solo metà della storia.» Leon Karst attraversava un punto morto di vitalità fra le otto e le nove di sera, ma una volta superatolo era pronto a lavorare fino all'alba. Ora aveva ripreso fiato. «Così Grenville aveva una mezza dozzina di scimpanzé di Schimmerhann sulla sua nave come parte dell'equipaggio. E si opponeva alla loro presenza.» «Sto facendo cercare a Richard una copia di quell'opposizione.» «Va benissimo, dobbiamo farlo per completezza. Ma non abbiamo grosse speranze. Sarà un atto formale. Diamine, indipendentemente da quello che dice degli Shimmy, non giustificherebbe il fatto di riportare quaggiù Grenville con un'orbita iperbolica, e non preoccuparti di cercarlo, so che significa: che bisogna spendere del denaro, a palate, per andare da qui a lì.» Guardava con disappunto lo schermo di proiezione, dov'erano elencati l'equipaggio e la nota di carico della nave di Grenville. «Sai che ti dico? Deirdre Walsh ha qualcos'altro nella manica. Qualcosa che ha a che fare con Grenville e gli Shimmy della sua missione.» Leon Karst era sposato, con tre figli. Sally l'aveva sentito parlare della famiglia dozzine di volte, ma non aveva mai pronunciato il nome della
moglie con l'intensità che aveva messo nel dire: «Deirdre Walsh». «Se non ha qualcosa di speciale» proseguì «ormai si sarebbe già fatta viva, proponendo un incontro di fine settimana e magari un accomodamento extragiudiziale. Ho osservato il giudice e il resto della corte, e li abbiamo conquistati alla nostra causa. In effetti lo abbiamo fatto la settimana scorsa. E anche Deirdre, come me, vede da che parte soffia il vento. Dovrebbe strisciare sul ventre. Ma dato che non lo fa...» «Che facciamo?» «Ci piacerebbe scoprire cos'è successo sulla nave di Grenville. Ho già fatto una chiamata a Phil Saxby, all'USF, ma c'è una coltre di silenzio su tutto ciò che ha a che fare con quella missione. Sappiamo dove sono andati e chi è andato, ma questo è tutto. Non ho entrature al livello giusto. Sapevi che il fratello di Deirdre Walsh lavora per l'USF, quasi al vertice? Neanche da domandarsi da dove vengono le sue informazioni. L'unica cosa che ho accertato è che Grenville arriva sulla Terra non prima di domenica notte. Non abbiamo nessuna possibilità di farlo intercettare da qualcuno prima della testimonianza.» «Insomma, non riesci a scoprire cosa sta succedendo?» «Lo scoprirò senz'altro. Lo scoprirò quando il capitano Russell Grenville, accidenti alle sue brache della Marina, si alzerà in piedi nell'aula lunedì mattina e lo dirà a me e al resto dell'universo.» Karst guardò torvo Sally. «Pensavi di aver visto dei giornalisti ficcanaso oggi? Aspetta lunedì mattina, Sal. Tappezzeremo i muri di lasciapassare per la stampa.» All'inizio Sally credette fosse un accesso di rabbia. Solo in seguito, piombando a letto alle 4 del mattino, riconobbe cos'era stata l'espressione di Leon Karst. Era in preda a un immenso, viscerale entusiasmo. Domenica pomeriggio perfino Leon Karst era disposto ad ammettere che avevano fatto tutto quello che potevano in termini preparatori. Cedendo alle insistenze di Sally, lui si convinse a farsi portare nella vecchia tenuta della Virginia, trenta chilometri a est della città, al quartier generale della Lega per i Diritti degli Animali. Per lui era la seconda visita, per lei la venticinquesima. A Sally quell'area boschiva di cento acri pareva più una prigione che la sede principale di un'organizzazione senza fini di lucro. C'era una recinzione a rete alta e robusta, sormontata da un filo elettrificato, e l'ingresso era difeso da pesanti cancelli di metallo. Gli uomini e le donne di servizio erano dotati di dispositivi elettronici di comunicazione e pistole stordenti.
Forse non una prigione, pensò Sally mentre superavano l'ispezione e venivano fatti entrare dalla guardia in uniforme. Più che altro una fortezza assediata. Quasi subito videro i primi Shimmy, che gironzolavano liberi per i boschi sotto il sole tiepido di ottobre. Leon aprì il finestrino dell'auto e sporse la testa per osservarne un gruppo di cinque che camminavano lungo il bordo erboso. «Somigliano proprio a degli scimpanzé, vero?» disse. «So che sono un po' più alti e robusti, ma non si distinguono.» «Questo è un aspetto del problema» disse Sally. «Se non conosci gli Shimmy e non hai interagito con loro, non puoi evitare di ritenerli veri e propri scimpanzé. In effetti, per quel che ne so, quello è un gruppo di scimpanzé. È difficile per noi dire qual è la differenza. E questo mette la gente a disagio.» «Puoi scommetterci. Appena faremo ottenere agli Shimmy i diritti umani, e lo faremo, indipendentemente da quello che dice Russell Grenville, avremo un nuovo problema. Come farà un individuo medio a sapere se ha a che fare con uno Shimmy o con un normale scimpanzé? E lo sai dove ci porterà questo. Esattamente dove vuole farci arrivare la Lega per i Diritti degli Animali.» «Secondo loro anche i normali scimpanzé sono abbastanza intelligenti da meritare i pieni diritti. Sai che sulla costa occidentale ci sono degli scimpanzé con un vocabolario operativo di quattrocento parole?» «Già. E gorilla.» L'auto si fermò, ma Leon restò seduto al suo posto. «E oranghi. Prima che entriamo ti dirò una cosa, Sally. Faremo del nostro meglio per vincere questa causa, ma il problema di tutte le cause del genere è che non finiscono mai. C'è sempre un inizio. Otterremo i pieni diritti per gli Shimmy, poi ci saranno i diritti umani per gli scimpanzé, poi i diritti dei babbuini, poi i diritti dei cani e dei gatti. Questa gente non si fermerà mai. E se pensi che me ne starò in aula a perorare i diritti delle ostriche...» Potresti, Leon... se la tua controparte fosse Deirdre. Ma Sally non disse nulla. All'interno dell'edificio principale si sentiva uno strano odore, come un incrocio fra un ospedale e uno zoo. Leon Karst storse il naso. Era venuto per assecondare Sally, ma non finse di trovarsi a proprio agio. «L'impegno intellettuale verso un cliente è giusto, Sally» aveva detto, quando era iniziata la causa. «Anzi, è assolutamente essenziale, anche se si tratta di un caso pro bono e non veniamo pagati. Ma il coinvolgimento
emotivo nella causa dei clienti è la cosa peggiore che possiamo fare per loro. Obnubila il giudizio. Per questo non credo sia una buona idea passare troppo tempo con gli Shimmy.» Ma non aveva obiettato quando Sally aveva preso a fare visite regolari a questa struttura. Lei era convinta di dover comprendere di persona quanto potesse essere intelligente uno Shimmy. Le ci volle un po' per rendersi conto di una verità fondamentale: gli Shimmy erano di intelligenza variabile proprio come gli umani. In una popolazione di seicento esemplari al quartier generale della Lega per i Diritti degli Animali, Sally aveva incontrato Shimmy che sapevano chiedere a segni cibo e acqua e poco di più. Ma c'era anche Skeeter, uno Shimmy femmina che sapeva il nome di tutti gli umani del quartier generale, che amava fare battute e giochi di parole in Ameslan, il linguaggio gestuale dei sordomuti, e che sembrava afferrare in fretta le idee come tutti gli umani. E Skeeter era ancora immatura, in fase di sviluppo. C'era proprio lei ad attenderli dentro, vicino alla porta. Sally la riconobbe, anche senza la cintura identificatrice col codice a colori. Per gli Shimmy non aveva senso portare dei vestiti, ma a molti di loro tornava comodo tenere un borsello appeso alla vita. «Ben tornata» disse Skeeter a gesti, lentamente, conoscendo i limiti di Sally nella padronanza del linguaggio Ameslan. «Saluta il signor Karst da parte mia. Come va la causa?» Skeeter era in tutto e per tutto uno scimpanzé, a parte l'espressione degli occhi bruni. Quell'espressione, per Sally, la rendeva del tutto umana. «La scorsa settimana è andata bene.» Parlava molto lentamente e chiaramente, anche se nel caso di Skeeter non era proprio necessario. «Ma domani la controparte inizia a presentare i propri argomenti. Non sappiamo cosa diranno.» «Magari io li.» Fece un segno per indicare una battuta. «Essere testimone.» Sally le ricambiò il sorriso e si rivolse a Leon Karst. «Skeeter dice che vorrebbe poter comparire in aula, e testimoniare a nostro favore.» «Certo. Dille...» Leon si interruppe e scosse la testa. Sorrise allo Shimmy. «Scusa, Skeeter. Dimentico che tu capisci. Anch'io vorrei che tu potessi testimoniare. È una pecca del nostro sistema legale. A meno che tu non abbia diritti umani, non puoi essere utilizzata come testimone, anche se la tua testimonianza è proprio quel che ci serve per assicurarti quei diritti.»
«Di' lui che capisco» gesticolò Skeeter a Sally. «Signor Karst non a proprio agio qui, vero? Di' lui noi tutti ringraziamo per suo lavoro. Sappiamo lui vince per noi. Porta lui via ora, tieni suoi pensieri allegri per domani.» E se questa non è sensibilità umana (o sovrumana), pensò Sally, non so cos'è. «Prima dobbiamo salire di sopra, Skeeter, e parlare con l'avvocato generale...» «Chi "avvocato generale"?» Skeeter pronunciò a voce le parole, sillaba per sillaba. «L'avvocato generale è il massimo legale della Lega per i Diritti degli Animali. Vorrà sapere cosa attendersi per domani.» «Anch'io. Buona fortuna.» «Grazie.» Sally ricambiò il gesto che stava per "buona fortuna", uno delle poche dozzine che riusciva a fare con facilità, e guidò Leon all'ascensore. E dato che non sappiamo cosa attenderci per domani, pensò, ci occorre tutta la fortuna possibile. Leon Karst ci aveva azzeccato in quasi tutte le sue previsioni. Né Sally né alcun altro nell'ufficio era riuscito a saperne di più sulla missione di Russell Grenville nello Sciame Egizio e sui risultati. Un controllo allo spazioporto di Wallops Island alla domenica sera rivelò solo che Grenville vi era atteso per mezzanotte, e sarebbe stato condotto in tribunale in tempo per l'udienza di lunedì. Deirdre Walsh non chiamò neanche una volta durante il fine settimana, per proporre negoziati di accomodamento o per qualsiasi altro motivo. Ma su due punti Leon Karst aveva torto marcio. Il primo era che il capitano Russell Grenville non si alzò in piedi nell'aula lunedì mattina. Non poteva. La sala delle udienze era stipata al massimo dalle 8.30. Il giudice Williams e gli altri due membri del tribunale erano ai loro posti alle 8.55. Alle 8.59 si aprirono le porte delle stanze occupate dall'Attarian Corporation e dal loro rappresentante legale. Entrarono due uomini. Trasportavano una tavola piatta e imbottita, sulla quale se ne stava ritto il capitano Russell Grenville. Era privo di braccia e di gambe. La testa grossa e la barba erano inequivocabili. Ma le spalle larghe non sostenevano più braccia muscolose, e le gambe lunghe e forti erano state asportate fino alle anche. E, contrariamente alla predizione di Leon Karst, Russell Grenville non
iniziò a testimoniare alle nove. Ci vollero quindici minuti per sedare gli strilli, le urla e il caos generale che scoppiò all'ingresso di Grenville. Una donna e un uomo svennero e dovettero essere trasportati fuori, un altro fu espulso con la forza, mentre gridava slogan incomprensibili. Sally non riuscì a capire a favore di quale delle due parti. Nel bel mezzo della confusione, Leon Karst si chinò verso di lei. «È così che si fa, se sei Deirdre Walsh.» Parlava a bassa voce, ma avrebbe potuto urlare senza per questo attirare l'attenzione. «Vedi, adesso non importa cosa dice Grenville. Ha la simpatia di tutti i presenti in aula, anche i membri della corte. Cercheranno di essere obiettivi, ma sono umani. Di colpo la nostra causa va a puttane.» Aveva gli occhi lucidi, per l'ammirazione, non per l'emozione. (Sally si ricordò quello che le avevano detto quando era stata assunta: «Leon lascia le emozioni fuori dall'aula. Lì ha un principio guida: "Ciò che conta nella pratica legale sono l'onestà, il decoro e la sincerità. Appena impari a fingerli, il gioco è fatto"».) «Che possiamo fare, Leon?» Lui alzò le spalle. «Stare giù. Ascoltare, osservare, pensare. Ma potremmo finire a fondo. A meno che non salti fuori qualcosa di nuovo, non sono così stupido da controinterrogare Grenville.» Sally si rese conto di come sarebbero state gestite accuratamente l'apparizione e la testimonianza di Grenville quando venne ristabilito l'ordine e al teste toccò giurare. Deirdre Walsh si rivolse al giudice e disse semplicemente: «Vostro Onore, il capitano Grenville non ha mai detto altro che la verità. Spero questo sia sufficiente». Lasciò al pubblico (e alla corte) il compito di capire che in questo caso era improponibile la pratica consueta da parte del testimone di alzare la mano destra nel giuramento. Russell Grenville si erse col busto sulle imbottiture. Era impossibile capire dal suo volto se quello che gli era accaduto avesse influito sulla sua mente. «Capitano Grenville» cominciò tranquilla Deirdre Walsh, parlando così piano che l'aula tacque per ascoltarla. «Mi permetta di chiederle innanzi tutto di confermare alcuni dettagli della sua storia personale.» La donna iniziò con la lista di tutto quello che lui aveva realizzato, le stesse cose che aveva letto Sally due notti prima. Ci vollero parecchi minuti. Russell Grenville si limitò a dire: «Esatto» o «È così» quando gli veniva chiesta conferma di un fatto o di un premio. Ma alla fine l'aula stava col
fiato sospeso. «Benissimo» disse Deirdre Walsh. «Ora vorrei porle certe domande sulla sua spedizione più recente. Capitano Grenville, concorderebbe nell'affermare che questa non sarebbe dovuta essere una missione particolarmente pericolosa? Che forse i partecipanti a tale missione erano più preoccupati per la possibile noia che per una catastrofe?» «Nell'esplorazione del sistema solare c'è sempre un elemento di pericolo.» La voce di Grenville era calma e razionale, eppure quella sua voce che proveniva dal profondo del petto in qualche modo rendeva ancora più evidente per l'ascoltatore il corpo tronco che la circondava. «Comunque, concorderei sul fatto che non ritenevo il pericolo l'elemento principale della missione.» «E per questa ragione ha permesso che nell'equipaggio della sua nave fosse incluso un gruppo di scimpanzé di Schimmerhann?» «Infatti.» «Ma sarebbe corretto o no affermare che lei si opponeva alla loro presenza?» («Lo sta portando dove vuole lei!» bisbigliò Sally. «Sicuro» replicò Leon Karst, altrettanto a bassa voce. «Ma a volte si fa obiezione, altre no. Per il momento stiamo a sentire.») «Mi sono opposto parecchio. Oralmente e per iscritto.» Per la prima volta nella voce di Grenville apparve una connotazione emotiva. «Le spiacerebbe spiegare alla corte le basi delle sue obiezioni?» «Non mi spiacerebbe affatto. La nave che comandavo, la Poseidon della serie Ecuba, richiede un equipaggio di otto membri e un computer di comando centrale. Questo è più che abbastanza per una guida efficiente del vascello. C'è spazio in abbondanza, ma in linea di principio dovrebbe essere riservato al carico. Mi è stato richiesto di aggiungere al solito effettivo di equipaggio sei scimpanzé di Schimmerhann, e valutarne il possibile impiego nell'ambiente spaziale. Dichiarai verbalmente che era mio compito intraprendere una missione seria, con obiettivi seri. Non avevo alcun interesse a dirigere uno zoo spaziale, di Shimmy o altra roba.» Mentre l'aula risuonava del brusio eccitato provocato dalla risposta, Leon Karst si rivolse a Sally scuotendo la testa: «Potremmo obiettare all'implicazione che gli Shimmy siano animali da zoo. Ma non è il momento». «E lei ha permesso che i voleri dei suoi superiori la spuntassero sul suo buon senso?» continuò Deirdre Walsh, mentre il brusio si spegneva. «Sono un membro della Marina Spaziale. Come tale credo sia meglio
per tutti obbedire agli ordini, piuttosto che seguire un capriccio individuale. Tutti gli ufficiali della Marina che la pensino diversamente dovrebbero dare le dimissioni.» In altre parole, si disse Sally, l'ho fatto perché era mio dovere, non perché pensavo fosse una buona idea. Nell'aula zeppa si era fatto di nuovo un silenzio di tomba. «Ora, se vuole, ci parli del suo viaggio nello Sciame Egizio. I sei scimpanzé di Schimmerhann sono stati con lei per più di un anno. Ha imparato a lavorare con loro in quel lasso di tempo?» Grenville esitò per un momento. «Sì. Io personalmente e diversi componenti del mio equipaggio. Ma non nel modo che ci aspettavamo prima dell'inizio del viaggio. L'equipaggio si rifiutava di accettare l'idea di imparare il linguaggio gestuale degli Shimmy. E io non ritenevo fosse mio dovere insistere perché lo facessero. Gli Shimmy comprendevano gli ordini verbali...» «Semplici ordini verbali?» «Semplici ordini verbali, esattamente.» (Giusto, Grenville, disse Leon Karst, così ad alta voce da farsi sentire da Sally. Come da copione.) «Quel che bastava a eseguire semplici compiti di bordo. E uno dei componenti del mio equipaggio escogitò un sistema che utilizzava una videocamera e il computer principale della nave, e che consentiva ai segni del linguaggio gestuale di essere tradotti sotto forma sonora.» Il giudice Williams si sporse in avanti. «Mi scusi, capitano.» La sua voce era amichevole, quasi deferente. «Intende dire che ogni qualvolta uno Shimmy faceva un cenno nella telecamera, nel computer era immagazzinato una sorta di dizionario di gesti che veniva utilizzato per produrre equivalenti nel linguaggio parlato?» «Esattamente, Vostro Onore. Dovrei sottolineare che questo richiese considerevoli cambiamenti nel linguaggio gestuale standard degli Shimmy, per dar modo al computer di effettuare la traduzione. Dopo nove mesi trascorsi nello spazio, il sistema aveva raggiunto una formula soddisfacente. Potevo usarlo io stesso, anche se non ero l'esperto dell'equipaggio.» «E a quell'epoca cosa facevate?» «Avevamo raggiunto gli elementi periferici dello Sciame Egizio ed eravamo presi dal lavoro di analisi. Un certo numero di corpi più piccoli contiene depositi di prima qualità di minerali preziosi, ma non sono mai stati inventariati. Siamo stati impegnati in quel lavoro per i successivi due mesi.»
«E gli scimpanzé di Schimmerhann» come sempre l'avvocato dell'Attarian Corporation sottolineava quel termine, non li citava mai come Shimmy «vennero impiegati nel lavoro di analisi?» «Neanche per sogno. È un lavoro che richiede preparazione scientifica. L'avrei affidato solo al mio equipaggio.» Grenville esitò, quindi aggiunse: «Comunque, occasionalmente, uno o due scimpanzé di Schimmerhann accompagnavano dei componenti dell'equipaggio sulla scialuppa. Cioè il piccolo modulo di esplorazione con libertà di volo ospitato dalla nave principale...» «Ma gli scimpanzé di Schimmerhann non dovevano ricoprire alcun ruolo attivo, vero?» interruppe Deirdre Walsh. Sally aveva la sensazione che Grenville per un attimo si fosse mosso su un terreno non concordato. Ne prese nota per discuterne in seguito con Leon Karst. «Non nella guida della scialuppa. Erano a bordo, se vuole, come sovraccarico.» «Benissimo. Ora, capitano Grenville.» Deirdre Walsh abbassò la voce di una tonalità. «Ora purtroppo dobbiamo occuparci di qualcosa che le risulterà di dolorosa memoria. La prego di descrivere a questa corte le terribili ore finali a bordo della sua nave, come le ricorda.» «Benissimo.» Grenville si schiarì la gola. Quando riprese aveva la voce perfettamente ferma, ma nonostante questo l'aula fu percorsa da un fremito d'impazienza. «Avevamo esaminato un minuscolo frammento che orbitava assieme a Bast, uno dei più grossi elementi dello Sciame, dal diametro medio di undici chilometri. Eravamo pronti a fare rotta su Atmu, e lungo la strada avrei proposto una visita su Horus, per scaricare forniture mediche nella colonia mineraria laggiù. Era l'inizio della nostra giornata lavorativa. Io e tre membri dell'equipaggio ci trovavamo nella parte anteriore della nave. Il resto dell'equipaggio dormiva nelle cuccette a poppa. Gli scimpanzé erano tutti a mezzanave, in un compartimento di carico modificato. Io stavo iniziando la sequenza di controllo per una variazione di assetto di volo per dirigerci a bassa spinta su una traiettoria di approccio a Horus, e mentre ero chino sul pannello di controllo ricevetti un violento colpo alla testa da dietro.» Grenville alzò il viso verso l'alto e roteò il capo da un lato e dall'altro. Sally Polk intuì che in realtà Grenville voleva sfregarsi la nuca con una mano inesistente. «Feci per voltarmi, ma prima di aver compiuto un mezzo giro, fui colpi-
to di nuovo, anche più forte. Così persi i sensi.» «Cos'altro ricorda di quel che accadde sulla nave?» «Sulla nave? Non ricordo niente. Soltanto di essermi svegliato nella postazione medica di emergenza di Horus. Con me c'erano due membri dell'equipaggio. Eravamo tutti... in queste condizioni.» Grenville girò la testa, per guardare le maniche vuote della giacca. «Dove sono adesso quei membri dell'equipaggio?» «Sono ancora tutti su Horus. A tempo debito dovrebbero essere portati sulla Terra. Dovremmo essere tutti dotati di protesi. Ho sentito che al giorno d'oggi fanno cose fantastiche con le protesi.» «Si prevede che gli altri due sopravviveranno?» «Oh sì, sopravviveremo tutti, sfortunatamente.» L'impatto fu nelle sue parole, non nel tono posato. Sally si sentì male. Due settimane prima Russell Grenville era stato un uomo completo, sano e forte. Ora... «Che è successo agli altri membri dell'equipaggio?» chiese gentilmente Deirdre Walsh. «E agli scimpanzé di Schimmerhann?» «Non ne sono sicuro. Potrebbe essere solo una congettura.» Grenville annuì a Leon Karst, anticipando tutte le possibili obiezioni. «Ma è una congettura, signora, basata su un'ottima evidenza. Innanzi tutto, siamo giunti su Horus con la nostra piccola scialuppa, non con la nave. È un miracolo che ce l'abbiamo fatta, perché ormai non avevamo che le ultime briciole di energia. La stessa nave principale non è stata ritrovata, anche se è in corso una ricerca in tutto lo Sciame Egizio.» «Allora forse gli altri membri dell'equipaggio potrebbero ancora essere vivi su quella nave?» «Assolutamente no. Ognuno di noi portava dispositivi di trasmissione dei segnali vitali, che trasmettevano su frequenze selezionate e con segnali di identificazione in codice. Continuano a funzionare finché chi li ha addosso è vivo, e hanno energia sufficiente a restare attivi per anni. Gli altri membri dell'equipaggio sono morti.» «E gli scimpanzé di Schimmerhann. Anche loro avevano dispositivi di segnalazione?» «Non lo si riteneva necessario. O appropriato.» «Allora gli scimpanzé di Schimmerhann potrebbero essere ancora vivi?» Deirdre Walsh guardò Leon Karst di traverso. «Prima che il mio collega obietti che la domanda è capziosa o ipotetica, mi si permetta di chiedere al capitano Grenville di commentarla secondo il suo modo di vedere le cose.»
«Grazie, avvocato» disse il giudice Williams. Ma il tono di biasimo nella sua voce era lieve. «Certo che potrebbero essere vivi» disse Grenville. «Ma sono propenso a credere siano morti. Di certo uno lo è. Abbiamo avuto alcuni problemi disciplinari con tutti loro per una settimana o due. Non gradivano alcuni dei loro incarichi e li svolgevano sempre peggio. Credo si siano arrabbiati per le punizioni e siano passati all'attacco senza preavviso. Sono certo che abbiano sopraffatto l'equipaggio e preso il controllo della nave. Hanno ucciso qualcuno e fatto... quello che hanno fatto...» Fece un lungo respiro, per contenersi. «...al resto di noi. Poi ci hanno messo nella scialuppa e ci hanno spediti fuori a morire. Ma anche loro erano nei guai, perché pilotare la nave andava oltre le loro possibilità. A questo punto potrebbero essere lì che farfugliano lanciati verso Sirio, senza avere idea di come spegnere la propulsione.» «E cosa direbbe, capitano Grenville, se le chiedessero di nuovo di comandare una nave con degli scimpanzé di Schimmerhann come parte dell'equipaggio?» Grenville sorrise stanco e si prese tutto il tempo di guardarsi attorno nell'aula. «Non crede sia una richiesta piuttosto improbabile, date le mie attuali condizioni, avvocato? Ma le risponderò. Direi di no. Direi no, decisamente no. Direi mai, direi neanche sotto pena di una corte marziale o qualsiasi altra pena le venga in mente. Non mi permetterò mai più di trovarmi in una situazione in cui uno scimpanzé di Schimmerhann sia in condizione di farmi del male». Deirdre Walsh gli si mise giusto di fronte. «Perciò, sulla base della sua esperienza, direbbe che gli scimpanzé di Schimmerhann non sono altro che animali, e per giunta animali feroci e inaffidabili?» Dopodiché, prima che Leon Karst potesse far sentire la sua obiezione: «Ritiro la domanda. Grazie, capitano Grenville. Lei è un vero eroe. Non ho altre domande, Vostro Onore». «Grazie, avvocato.» Il giudice Williams consultò l'orologio. «Capitano Grenville, abbiamo ancora molte ore a disposizione oggi. Ma so che è appena giunto sulla Terra, e questa rievocazione dei fatti dev'essere stata una prova spaventosa per lei. Voglio esprimere l'apprezzamento di questa corte per la sua testimonianza. E voglio chiederle se ha bisogno di riposo, prima che acconsentiamo il controinterrogatorio. Devo aggiungere che, date le insolite circostanze della sua apparizione in questa sede, l'avvocato della parte ricorrente ha il diritto di rimandare a domani il controinterrogatorio.»
«Preferirei continuare adesso» disse Grenville. «Se l'avvocato dei ricorrenti è disponibile.» Tutte le teste dell'aula si voltarono verso Karst. Lui diede una rapida occhiata in tralice a Sally Polk (Fregato, dannato se lo sono e dannato se non lo sono) e si alzò in piedi. «Grazie, capitano. Ho solo poche domande. E grazie, Vostro Onore, per aver sottolineato il diritto dei ricorrenti di aggiornare a domani parte del controinterrogatorio.» Si spostò di fronte a Grenville, bloccando al capitano la vista di Deirdre Walsh. «Capitano, c'è un punto della sua testimonianza che non mi convince. Se la cito correttamente, lei ha dichiarato a proposito dello stato di morte degli Shimmy a bordo della sua nave: "Di certo uno lo è". E ha accennato a questo in relazione a problemi disciplinari a bordo. Devo dedurre che uno Shimmy è stato messo a morte sulla nave?» «Certamente no» replicò Grenville senza esitazione. «Non ho messo a morte nessuno Shimmy. Comunque, dichiarerei senz'altro il mio diritto di farlo per salvare un membro dell'equipaggio.» «Allora su che basi poggia il suo commento?» «Uno degli scimpanzé di Schimmerhann era sulla scialuppa giunta su Horus. In quel momento nessun membro sopravvissuto era in sé, ma i minatori videro cosa ci era stato fatto. Trassero le proprie conclusioni su cosa fosse accaduto sulla nave. Così processarono e giustiziarono quello scimpanzé di Schimmerhann a poche ore dal nostro arrivo.» L'aula fu attraversata da un sussulto e da un fremito, ma Leon Karst stava già proseguendo: «"Processo ed esecuzione"... Sta dicendo, capitano, che i minatori riconobbero l'umanità dello Shimmy?» «Ho usato il termine sbagliato. Hanno abbattuto lo Shimmy.» «Allora mi permetta di farle un'altra domanda. Lei ha vissuto a stretto contatto con un gruppo di Shimmy per più di un anno. Ha avuto la possibilità di osservarli. Ha notato grosse variazioni nell'intelligenza degli Shimmy?» «Vostro Onore.» Deirdre Walsh andò a frapporsi tra Karst e la corte. «Spero questo sia rilevante. Abbiamo avuto testimonianze ad nauseam sull'intelligenza, o la sua assenza, degli scimpanzé di Schimmerhann. Non vedo cosa si possa aggiungere a questo punto.» Il giudice Williams annuì e disse: «Il suo commento è agli atti. Capitano Grenville, la prego, risponda alla domanda».
Ma Grenville esitava: «Variazioni nell'intelligenza. Intende fra uno Shimmy e l'altro, signor Karst?» «Intendo esattamente questo.» «Allora sì. Tre di loro, l'equipaggio li chiamava Pip, Wilfred e Squeak, erano molto stupidi. Capaci di seguire solo le direttive più semplici. Ma uno degli altri, Skip, era... be'...» «Era più intelligente degli altri?» «A quanto pareva era più vigile. Non userei la parola intelligente. Più... spero di non essere frainteso se dico che l'equipaggio trovava che comprendesse meglio le istruzioni. Di certo era più reattivo, a mio avviso, di un qualunque cane pastore ben addestrato.» «Benissimo. Ci potrebbe dire con qualche dettaglio in più quali erano le funzioni degli Shimmy sulla sua nave?» «Varie. Tutti gli scimpanzé di Schimmerhann si occupavano delle pulizie e della manutenzione generale. Due di essi avevano dei compiti semplici nella cambusa. Uno aveva l'incarico di assistente del medico di bordo. Un altro dava una mano alla preparazione di campioni per l'analisi minerale.» Grenville tornò a guardare i membri della corte. «Voglio chiarire che in tutti i casi le funzioni degli Shimmy erano controllate e verificate da membri umani dell'equipaggio. Ho insistito su questo.» «Anche se non era necessario?» «A mio avviso, era sempre necessario.» «Molto bene. Capitano Grenville, lei era privo di sensi quando la scialuppa giunse su Horus. Sa per caso quale degli Shimmy si trovasse a bordo?» «Ritengo di sì. Ho visto la sua fascia di identificazione, dopo che venne spaziato.» «Spaziato?» «Gettato fuori da un portello a tenuta d'aria dai minatori. A meno che per qualche ragione due Shimmy non si siano scambiati i documenti d'identità, quello giunto su Horus a bordo della scialuppa era Skip.» «Lo Shimmy più intelligente?» «Obiezione. Vostro Onore, il capitano Grenville ha espressamente dichiarato che la parola "intelligente" è inappropriata.» «Ritiro la domanda. La sostituirò con questa. Lei ha affermato che, quando la scialuppa è giunta su Horus, "è un miracolo che ce l'abbiamo fatta, perché ormai non avevamo che le ultime briciole di energia". Ora, non è possibile che il miracolo sia avvenuto perché Skip, il più vigile e
reattivo degli Shimmy, abbia dato una mano nel guidare l'avanzata della scialuppa verso Horus?» Grenville scosse la testa. «Signor Karst, quasi tutto è possibile. Avrebbe dovuto chiedermi se è probabile. In tal caso, posso assicurarle che è estremamente improbabile che Skip abbia dato alcuna mano nell'arrivo della scialuppa su Horus.» «Ma non è impossibile. Capitano, un'ultima domanda. La mutilazione e le ferite da lei subite sono tremende, davvero terrificanti. È difficile immaginare esseri così depravati da infliggerle. Ha mai sentito accennare, da qualsiasi parte, che gli Shimmy potessero essere dei tali demoni?» «No, signore.» Grenville scosse leggermente le spalle. «Ma io sono qui. E due componenti del mio equipaggio sono conciati come me. Un demone si rivela per quel che è solo quando si comporta da tale.» «Ma noi non diamo un simile giudizio senza una prova diretta. Grazie, capitano.» Leon Karst annuì a Grenville, si girò e si rivolse alla corte. «Vostro onore, fino a venerdì pomeriggio non avevamo la minima idea di chi sarebbe stato il testimone odierno. Il capitano Grenville è giunto sulla Terra solo la notte scorsa. Non abbiamo una documentazione relativa alla sua testimonianza, né alcuna informazione circa l'esistenza stessa di tale documentazione. Con il suo permesso, mi piacerebbe chiedere alla difesa di rendermi disponibili le suddette informazioni per poterle esaminare. E vorrei posporre l'ulteriore controinterrogatorio alle nove di domattina.» Sally Polk non riusciva a capire cosa stesse accadendo. Con la causa che sfuggiva al loro controllo e Russell Grenville che dominava l'aula, quella notte l'atmosfera negli uffici di Leon Karst avrebbe dovuto essere di tristezza e sconforto. Invece Karst scoppiettava di energia ed entusiasmo. Sedeva di fronte a Sally, dietro un mucchio di trascrizioni, nastri e fotografie, con un sigaro spento in bocca. Deirdre Walsh, prevedendo la richiesta di informazioni da parte di Karst, aveva inviato una montagna di dati alle cinque, entro il tempo massimo previsto dalla corte, e ora ci stavano dando una prima ripassata. «Dobbiamo rivedere tutta questa roba pezzo per pezzo prima di domattina» disse allegramente Karst. «E lo faremo. Ma dall'indice di quello che ci hanno dato manca almeno una cosa che potrebbe servirmi. Quanto ci mette un messaggio ad arrivare alla colonia mineraria di Horus?» «Non ne ho idea.» «Neanch'io. Scoprilo. Se è meno di poche ore, invia un messaggio a Ho-
rus con richiesta di trasmettere attraverso un canale video tutto il materiale che hanno che mostri il processo e l'esecuzione dello Shimmy. Suoni e immagini. Pagheremo tutti i costi. Notificherò alla corte e alla difesa che stiamo effettuando la richiesta, e chiederemo alla corte di usare come prova tutto quello che otterremo.» «Che cosa ne farai?» «Cercherò di ottenere un po' di simpatia per gli Shimmy da parte dell'aula. Sulla nota di carico sono identificati solo per numero, ma l'equipaggio di Grenville ci ha aiutato un bel po' dandogli dei nomi. Se siamo fortunati, la corte potrà essere testimone della morte del povero, indifeso Skip, non di una scimmia anonima. E l'altra cosa che dobbiamo fare è mettere in dubbio la versione di Grenville dell'accaduto. È troppo maledettamente carismatico.» Sally si alzò. «Leon, non mi hai detto che la prima regola del controinterrogatorio è di fare domande che permettano al testimone di rispondere solo sì o no?» «Certo.» «Ma oggi hai fatto al capitano Grenville domande che gli hanno permesso di affermare ogni genere di roba.» «Sicuro. Le circostanze alterano le cause. Accidenti se hanno alterato questa causa. Venerdì pomeriggio avevamo vinto. Oggi a mezzogiorno abbiamo perso.» Ma Leon Karst non aveva lo sguardo di un uomo che avesse appena perso una grossa causa. «Allora ho dovuto imbarcarmi in una grossa spedizione di pesca» continuò. «Ti ho detto che le cause si vincono con testimonianze dirette, non con controinterrogatori. Ma l'entrata in scena di Grenville ha cambiato le regole, per tutti noi. Non credo che per Deirdre questa sia una notte di tutto riposo. Sta sgobbando per passare al setaccio questo materiale, tanto quanto noi. Buona parte sarà arrivata domenica assieme a Grenville, e lei non ne sa più di me su cosa contiene. È come una partita a poker. Quando uno dei giocatori tira fuori un asso dalla manica, tutti incominciano a mordersi le unghie.» Andando avanti col lavoro, Sally si rese conto di qualcosa che avrebbe dovuto esserle evidente da un bel pezzo. A Leon Karst non importava niente degli Shimmy. L'unica cosa di cui gli importava era la causa. Avrebbe lavorato altrettanto duramente per la parte sotto accusa, se questa avesse interpellato il suo studio legale.
Eppure gli Shimmy erano intelligenti! Sally ne era convinta nel modo più assoluto dopo averli incontrati tante volte. Meritavano protezione e diritti. Allora, che intendeva in realtà Leon quando diceva di non volere troppi contatti con gli Shimmy? Che non voleva che la giustizia, la vera giustizia, interferisse con la sua lotta per vincere la causa! E per Deirdre Walsh quasi certamente era lo stesso. Ambedue erano ossessionati dalla battaglia legale e incuranti delle questioni in gioco e dell'etica. E quello era un comportamento "davvero umano"? Sally si chiese fino a che punto voleva essere socia di uno studio legale di punta. Impossibile non notare il cambiamento in meno di ventiquattr'ore. Il giorno prima i membri della corte avevano accolto calorosamente Leon Karst e la sua squadra, ostentando al contrario un certa freddezza nei confronti di Deirdre Walsh. Oggi, il giudice Williams era imperscrutabile come sempre, ma Laurel Garver, seduta come al solito alla destra del giudice, evitava perfino di guardare dalla parte di Sally e Leon Karst. Invece sorrideva a Russell Grenville e Deirdre Walsh. E, dato che i membri della corte avevano cenato insieme la sera prima, pensò Sally, l'atteggiamento della Garver rifletteva sicuramente il tenore delle discussioni a tavola. Il pubblico non cercava neppure di mascherare il proprio punto di vista. Leon fu fischiato quando si alzò per proseguire il controinterrogatorio. L'ordine fu ristabilito ben presto dal giudice Williams, ma tutti i volti dimostravano una soverchiante simpatia per Russell Grenville. Lo stesso capitano appariva diverso, pallido e stanco. Aveva la testa china, col mento poggiato su un busto che adesso sembrava rattrappito e patetico sull'imbottitura di supporto. «Buon giorno, capitano.» Grenville rispose con un breve cenno al saluto di Karst, ma guardò a stento l'avvocato sorridente. Come Sally, Leon Karst aveva dormito meno di due ore. Al contrario di Sally, pareva gli fossero più che bastate. Aveva i capelli pettinati, la camicia bianca stirata, il modesto fermacravatta di madreperla perfettamente centrato. A colazione aveva rivelato la sua strategia a Sally. Dato che quanto era noto sulla mutilazione di Grenville era così dannoso per la loro causa, era il momento di fare un salto alla cieca. La regola di Karst: lo spirito conservatore è giusto solo quando si vince. «Capitano Grenville» cominciò «vorrei tornare a qualcosa che lei ha det-
to ieri. Un componente del suo equipaggio aveva sviluppato un metodo per trasformare il linguaggio gestuale degli Shimmy in suoni. È esatto?» «Sì, è esatto.» «E quei suoni potevano essere interpretati?» «Da chi li conosceva. Non da tutti. I suoni sono una specie di stenografia fonetica.» «E lei li conosceva?» «In una certa misura. Meno di altri due membri del mio equipaggio, che ora sono morti.» Leon recuperò un dischetto di registrazione dal tavolo davanti a lui e lo mostrò al giudice. «Vostro Onore, faccio richiesta che questo sia ammesso nel procedimento come reperto n. 27. Consiste nella copia di un disco di registrazione trovato sulla scialuppa che trasportava il capitano Grenville e i membri del suo equipaggio quando sono giunti su Horus.» Sally vide Deirdre Walsh che si scambiava una rapida occhiata con i due assistenti. Erano riusciti a riesaminare il disco la notte prima con Grenville? Leon scommetteva di no, dato che il capitano era stato portato via per essere sottoposto a esami medici. «Capitano, riconosce questo disco?» «Tutti i dischi dei dati della Poseidon erano identici, a prima vista. Ma di sicuro riconosco che questo è del tipo di quelli che si trovavano a bordo.» «Ma lei non ha ascoltato questo disco?» «Come posso dirlo senza conoscerne il contenuto?» «Capitano, neanche noi siamo certi del contenuto di questo disco. Vorremmo farglielo ascoltare mediante auricolari. Potrà attivare il pulsante di accensione semplicemente muovendo la testa all'indietro. Le spiace ascoltare e interpretare il contenuto?» «Certo, potrei provare.» Deirdre Walsh si alzò a metà, lanciò un'occhiata al giudice e desistette. È fatta; si disse Sally. Spero di aver ragione, ma se mi sbaglio, mi sbaglio! Va tutto all'aria. La notte prima aveva sudato per cinque ore su quel disco, cercando di convertire una strana dorma di stenografia orale in qualcosa di pienamente articolato. Alla fine era riuscita a convincere Leon, ma era convinta lei stessa? «Dovrei spiegarvi» stava dicendo Leon Karst al pubblico e alla corte «che su questo disco ci sono l'ora e la data dell'ultima registrazione. L'ora naturalmente sarà confermata da fonti indipendenti, ma posso dirvi che la
registrazione fu effettuata tre giorni e mezzo prima dell'arrivo della scialuppa della Poseidon su Horus, ed esattamente tre ore dopo l'ultima trasmissione di routine dalla nave del capitano Grenville.» Aveva un tono pratico, ma Sally non riusciva a distogliere gli occhi dall'espressione di Russell Grenville. Leon stava per riportare quell'uomo a un frangente terribile, forse proprio quello in cui si era verificata la mutilazione. Eppure Grenville appariva del tutto stoico. Un supereroe. Quando una persona aveva già subito nella vita esperienze così devastanti, forse niente poteva farla crollare. E forse nessuno poteva screditarla. Gli auricolari erano stati sistemati, col testimone che se ne stava a occhi chiusi. I suoni che sentiva sul disco erano trasmessi a basso volume nell'aula: una serie di monosillabi lenti e aspri. Sally era stata costretta a trascriverli, uno per uno, quindi a collegarli per dargli un senso. Ma lui aveva un anno di pratica, e avrebbe potuto farlo al volo. «Petto male» si sentì dire dopo qualche istante. «Petto brutto.» (Allora lei aveva ragione, almeno sul primo punto! Sally si sentì pervadere da un'ondata di sollievo così intensa che quasi si perse la frase successiva.) La testa di Grenville scattò all'indietro per interrompere la registrazione. Aprì gli occhi di scatto. Rivolse a Deirdre Walsh uno sguardo allarmato, poi mosse la testa in avanti, spinto da un impulso irresistibile. «Nave morire... rompere» si sentì dire. «Cinque uomo morire, tre Shimmy morire. Tre uomo sonno, tre Shimmy svegli. Nave morendo, rompendo.» Di nuovo la testa barbuta scattò all'indietro. Grenville fissò Leon Karst: «Tutto ciò è autentico... una registrazione trovata davvero sulla scialuppa?» Aveva la voce rauca. «Secondo l'avvocato della parte imputata lo è. Sono stati loro a consegnarcelo.» Leon Karst annuì rivolto a Deirdre Walsh e le sorrise. Ma tu non l'hai ascoltato, vero, tesoro? E il capitano lo sta ascoltando per la prima volta. Grenville non riuscì a resistere. Mosse la testa in avanti e chiuse gli occhi concentrandosi mentre ripartivano quei suoni confusi. «Piccola nave. Piccola nave volare. Un uomo sì, due uomo sì, tre uomo no. Ma servire Shimmy. Tre uomo sonno, tre uomo piccolo, due Shimmy morire, uno Shimmy volare. Triste, dispiacere. Unica risposta.» I suoni del disco continuarono, ma Grenville stava aprendo gli occhi. «Prosegue, ma il messaggio si ripete.»
«E lo capisce, capitano?» «Capisco le parole, non il significato. È inintelligibile.» «Allora mi permette di offrirle un'interpretazione e vedere se lei è d'accordo?» Ma Deirdre Walsh si era alzata. «Vostro Onore, dobbiamo sprecare il tempo di questa corte per una sequela di suoni giustamente definiti inintelligibili? Il capitano Grenville ha sostenuto di non capirli, e lui è l'esperto. A che scopo ascoltare l'immaginazione dell'avvocato dei ricorrenti?» «Signor Karst?» Il giudice Williams fissava Leon con le sopracciglia sollevate. «Uno scopo molto importante, Vostro Onore. Se mi concede cinque minuti, non di più, credo che getteremo una nuova luce sull'arrivo del capitano Grenville su Horus.» «Allora proceda.» Il giudice alzò la mano aperta. «Cinque minuti.» «Grazie, Vostro Onore. Capitano Grenville, mi permetta di rivolgerle una domanda preliminare. Il fatto basilare più importante insegnato a tutti gli Shimmy è che la vita di un normale umano è sacra, molto più di quella stessa degli Shimmy. L'ha mai sentito?» «Molte volte. Ma questo non significa sia vero.» «Vedremo. Mi permetta di proporre una sequenza di eventi a bordo della sua nave. Lei viaggiava verso Horus quando si è verificata una catastrofe di gravi proporzioni. Forse un guasto interno della nave, forse l'impatto con un altro corpo. Lei perse i sensi. È possibile?» Grenville alzò le spalle con l'aria di voler tagliare corto. «Ero fuori combattimento, può supporre qualsiasi cosa.» «Lei e altri due membri dell'equipaggio, a prua della nave, perdeste i sensi. Il resto dell'equipaggio perse la vita in blocco. Anche tre Shimmy persero la vita, mentre gli altri tre, incluso Skip, erano incolumi. Ma la nave stava disintegrandosi, perdeva aria. «Petto male» come ci ha rivelato uno Shimmy «Nave morire... rompere. Cinque uomo morire, tre Shimmy morire. Tre uomo sonno, tre Shimmy svegli. Nave morendo, rompendo.» Questo è un quadro chiaro della situazione. Per tre Shimmy, intelligenti o meno, adesso non è il caso di discutere su questo punto, si trattava di salvare se stessi e tre umani privi di sensi. «Skip e gli altri devono averci provato, ma sfortunatamente era impossibile. La nave era condannata, e anche se la scialuppa era intatta - Piccola nave, piccola nave volare, come ci ha detto Skip - non aveva propellente ed energia sufficiente. Non per tre uomini e tre Shimmy. Poteva trasporta-
re solo la massa di due uomini e nessuno Shimmy, o un uomo e uno Shimmy, e arrivare alla men peggio su Horus. Ma niente di più. Gli Shimmy avrebbero potuto insaccare due umani sulla scialuppa e restare a bordo della nave, ma questo non avrebbe risolto niente, perché gli uomini erano privi di sensi e non avrebbero potuto pilotarla. Ed ecco di nuovo Skip che ci dice tutto: "Un uomo sì, due uomo sì, tre uomo no. Ma servire Shimmy. Tre uomo sonno, tre uomo piccolo, due Shimmy morire, uno Shimmy volare. Triste, dispiacere. Unica risposta." «In altre parole, la scialuppa poteva trasportare uno Shimmy per pilotarla, e tre uomini, ma tre uomini piccoli, tre uomini privi di sensi la cui massa era stata ridotta chirurgicamente al minimo possibile, fino a quella approssimativa di un uomo. "Triste, dispiacere. Unica risposta." ha detto Skip. Non una bella risposta, ma per i tre Shimmy, l'unica risposta. Non potevano sopportare il pensiero di uccidere un umano, di lasciar morire un umano che in qualche modo poteva essere salvato. Così hanno eseguito quella spaventosa chirurgia, sul capitano Grenville e gli altri due membri dell'equipaggio. Poi due Shimmy sono rimasti a morire sulla nave. L'altro Shimmy, Skip, il più abile di loro, ha pilotato la scialuppa e ce la fatta a stento ad arrivare su Horus, per citare il capitano, con "le ultime briciole di energia.". I tre passeggeri umani sono sopravvissuti.» Leon Karst si concesse una lenta occhiata all'aula, silenziosa ma irrequieta. «Questa, amici, è la vera storia della fine della nave, della mutilazione dell'equipaggio e dell'improbabile sopravvivenza del capitano Grenville. Gli Shimmy non si sono comportati da assassini. Sono stati dei salvatori, che hanno immolato le proprie vite perché i tre umani...» «Obiezione.» Deirdre Walsh era scattata in piedi e parlava in un'aula di colpo turbolenta. «Vostro Onore, è durata fin troppo. Questa non è una prova. Non conosciamo l'origine di questi messaggi o chi li ha creati. Abbiamo ascoltato qualcosa che è meno di una diceria! È pura invenzione. Faccio richiesta che l'ultimo intervento dell'avvocato dei ricorrenti sia escluso dagli atti.» Il giudice Williams annuì verso di lei, ma la sua attenzione era rivolta a Grenville: «Capitano» disse tra il baccano, senza cercare di smorzarlo «se la sua nave avesse subito un incidente, come ha suggerito il signor Karst, che possibilità c'è che venga recuperata?» «Nello Sciame Egizio? Molto piccola. Trascurabile.» «Accetta la ricostruzione degli eventi da parte dell'avvocato dei ricorrenti?»
«Io... credo di no.» Dopo l'analisi di Karst, Russell Grenville si era fatto esitante. Batteva rapidamente le palpebre. «Potrebbero esserci altri scenari che rientrano in un messaggio del genere.» I modi sobri di Grenville ispiravano una grande autorità morale. Il giudice annuì: «Signor Karst, sulla base dei commenti del capitano, sono costretto a convenire con l'avvocato della difesa. Per quanto ingegnose le sue speculazioni...» «Vostro Onore.» Leon Karst stava infrangendo una delle prime regole della pratica legale: mai interrompere un giudice. «Prima che lei prenda una decisione, la prego di considerare un altro elemento di prova. Ci vorrà solo un istante.» «È stato introdotto come reperto in questo procedimento?» «Non ancora. Non era possibile. È arrivato da Horus solo stamattina presto. Non abbiamo avuto tempo di renderlo disponibile per la difesa, anche se naturalmente ne riceverà una copia.» «Ne descriva la natura.» «È una ripresa effettuata da uno dei minatori, dell'esecuzione di Skip...» «Obiezione!» «...della morte dello Shimmy, Skip, su Horus.» Il giudice Williams si scambiò un'occhiata con gli altri due membri della corte, ma era una formalità. Gli si era accesa la curiosità. «Se è breve, può procedere.» «Se si può ridurre il livello d'illuminazione...» Leon Karst annuì a Sally, che aveva preparato il riproduttore per proiettare la ripresa su una parete dell'aula. Lo accese con un brivido. Leon rischiava tutto nei successivi sessanta secondi, che Sally aveva vagliato in oltre un'ora di ripresa ricevuta da Horus. L'aveva avvertito che per lei il linguaggio gestuale usato sulla nave di Grenville era inintelligibile, ma Leon doveva essere convinto che questa era la sua ultima possibilità di salvare la causa. Le immagini erano state riprese da un dilettante e trasmesse su un canale a bassa larghezza di banda. Granulose e piene di rumori di fondo, mostravano un gruppo di uomini agitati con le tute strette dei minatori. Fluttuavano nell'ambiente a bassa gravità della camera esterna di un asteroide. Avevano volti rabbiosi e spietati. Al centro c'era uno Shimmy, con la pelliccia bruna attraversata da tagli e macchie di sangue, e una gamba piegata in una strana angolazione. Lo trattavano malamente, spingendolo verso un portello a tenuta d'aria.
«Scimmia assassina» gridò una voce dal gruppo. «Esci da lì e vattene dritta all'inferno.» «Capitano Grenville.» Leon Karst parlò ad alta voce per superare il rumore della registrazione e il crescente tumulto dell'aula. «Qualcuno dei minatori di Horus capiva il linguaggio gestuale degli Shimmy?» «Ne dubito. Perché dovrebbero?» Grenville parlò a bassa voce, nervoso. «Allora può dirci cosa sta dicendo Skip?» Perché lo Shimmy, pestato e sanguinante, stava gesticolando freneticamente verso quegli uomini mentre veniva trascinato e spinto verso l'ingresso del portello stagno. Loro non si curavano dei suoi segnali frenetici, interrompendoli con pugni e ceffoni. «Credo di sì» disse Grenville. «Se posso guardare meglio... Ehm, credo... Non... uccidere. Mai... uccidere... uomo. Salvare... uomo. Salvare uomo. Skip salvare uomo.» Dopodiché lo Shimmy fu trattato così duramente da non poter più fare alcun gesto. Venne spinto con violenza nella camera stagna da una dozzina di minatori, e rimbalzò sulla parete esterna di metallo, dove rimase da solo a coprirsi la testa con le mani. Dopo pochi secondi volse il viso ai suoi boia. Nella camera nuda ed essenziale, a pochi istanti dal vuoto assoluto, la sua espressione cambiò. Divenne calma e rassegnata, quasi pacifica. Mentre la porta si chiudeva fece un'altra serie di gesti, più volte. «Capitano Grenville?» disse Leon Karst. Il capitano fissava lo schermo, pallido in volto e silenzioso. «Signore? Può interpretarli?» Ma Grenville aveva chinato il capo. Sulle gote gli scorrevano delle lacrime e sembrò parlare solo a se stesso. L'aula si immobilizzò. E mentre sentiva quelle parole sussurrate, Sally comprese che la causa era vinta. «Skip... perdonare voi» diceva Russell Grenville. «Voi non sapere... cosa fare. Skip perdonare. Skip perdonare. Skip perdonare.» Alzò il viso e guardò al di là della corte, al di là dell'aula. «Buon Dio del cielo. Skip, puoi perdonarci tutti?» Titolo originale: Humanity Test Analog Science Fiction and Fact March 1989 LA DOPPIA SCALA A CHIOCCIOLA
di Charles Sheffield ...E dalla cellula il messaggio per volare nello spazio Ventuno gradi. Il primo febbraio, a Washington. Non aveva nessun diritto di fare così caldo e bel tempo. Ma chi si lamentava? Non certo Jake Jacobsen. Un'insalata Waldorf, una passera di mare spedita di fresco quella mattina dai pescherecci a Maine Avenue, un. bistecca media, un paio di drink, be', diciamo tre o quattro, quel che bastava ad andare un po' su di giri senza mostrarlo, e dopo una piacevole passeggiatina al centro commerciale per tornare a Indipendence Avenue: era questo che oggi esigeva quel bel cielo azzurro. Mentre camminava, evitando gli striscioni e il chiassoso fervore di un gruppo di attivisti per i diritti degli animali, pensò alle vecchie tradizioni della Marina, a mari infuriati, carne di maiale salata e gallette avariate, acqua puzzolente, naufragi, inedia e scorbuto. Le cose erano piuttosto migliorate in duecento anni. Infatti, ora gli mancava soltanto un sigaro, un buon Avana Corona. Si ripromise di porvi rimedio, appena tornato in ufficio. Il fumo era illegale negli uffici governativi, ma per lui il divieto era morto e sepolto. Di giorno non portava l'uniforme, non c'era motivo di rivoltare il coltello nella piaga al vecchio personale irritato per il cambiamento, ma le guardie all'ingresso gli fecero ugualmente il saluto. Come dovuto. Adesso facevano tutti parte della Marina. Rispose ai saluti automaticamente, e andò agli ascensori che l'avrebbero portato al settimo e ultimo piano, dove si trovava il suo ufficio d'angolo affacciato a nord, sulla verde distesa davanti al centro commerciale. Questo sì che era un contrasto. Per cinque anni se n'era rimasto rinchiuso nelle viscere del Pentagono a progettare il piano decisivo, preparando la coreografia del sostegno da parte dell'industria, dell'OMB e del Congresso. E alla fine il colpo, non c'era altra parola, calcolato al momento giusto, che aveva portato l'agenzia sotto il controllo della Marina e a lui la terza stella di ammiraglio e la carica di amministratore della NASA. In effetti, pensò uscendo dall'ascensore, il pranzo di oggi si sarebbe potuto considerare un piccolo festeggiamento. Il decreto era in vigore da sei mesi, e due da quando le udienze lo avevano confermato all'attuale incarico. Certo, la guerra non era finita, la maledetta Aeronautica non avrebbe mai smesso di cercare di avere il ruolo di punta nello spazio, lo sapeva. Si
preparavano tempi duri, ma intanto aveva vinto le prime due battaglie. L'ammiraglio Jacob Jacobsen aprì la porta del suo ufficio, andò alla scrivania senza guardarsi attorno e si sedette. E a quel punto tutta l'euforia dell'ora di pranzo svaporò. C'era già qualcuno, sulla sedia dei Visitatori Importanti. Questo nonostante i suoi ordini severissimi che a nessuno, neanche a sua moglie (diavolo, soprattutto sua moglie!) fosse consentito l'ingresso in ufficio senza il suo permesso. E non avrebbe certo consentito l'ingresso allo squallido elemento che gli sedeva di fronte. Doveva essere stato di nuovo quello stupido deficiente di Trustrum, il peggior esemplare di assistente mai toccato a un individuo, che ignorava gli ordini espliciti e faceva passare la gente basandosi sul proprio metro di giudizio, purtroppo inadeguato. Per un attimo Jacobsen ripensò malinconico alla vecchia Marina. Non tutto era migliorato. Duecento anni prima, per una disobbedienza agli ordini così smaccata, avrebbe fatto frustare Trustrum. Oggi, con l'insistenza della NASA a mantenere qualche elemento di mansione civile, tutto quel che poteva fare si riduceva più o meno a inserire nella pratica personale di Trustrum una nota sfavorevole, e in termini forti. Mentre avrebbe voluto fargli infliggere la punizione del giro di chiglia e appenderlo all'estremità di un pennone. Ma la moglie di Trustrum era la cugina del vice-presidente, e anche una semplice nota sarebbe stata eliminata prima di finire agli atti. Cristo. Chiunque era il cugino di qualcuno, o lo zio, o l'amante, o il migliore compagno d'università. A volte gli pareva che tutta Washington fosse appiccicata in un unico immenso, incestuoso e inefficiente grumo di moccio. Diede un'occhiata all'estraneo afflosciato nella sedia di fronte. Quell'uomo portava abiti troppo pesanti per quel clima tiepido: pantaloni di lana spessi e sformati e una pesante giacca di tweed con le toppe di pelle ai gomiti. Inoltre era basso, curvo e magro, quasi emaciato, di un pallore malaticcio e con gli zigomi sporgenti. I miseri resti dei suoi capelli erano pettinati in avanti nel tentativo infruttuoso di nascondere un'avanzante alopecia, e gli occhi marroni sporgevano come quelli di una rana dispeptica. Per di più, se il naso non giocava qualche scherzo a Jacobsen, quell'uomo emanava un certo tanfo. No, non emanava un certo tanfo, puzzava sul serio. Di qualcosa di peggio dell'odore corporeo. Jacobsen afferrò un sigaro dall'umidificatore, si affrettò ad accenderlo, e frappose una cortina di fumo difensiva. Si poggiò all'indietro sulla sedia.
«Non ho idea di chi possa essere, amico, o perché si trovi qui, ma se non altro può rispondere a una domanda. Come ha fatto, in nome di Nelson, a convincere quell'impiastro di Trustrum a farla entrare nel mio ufficio personale? E dopo che mi avrà risposto, può andarsene al diavolo.» L'estraneo non batté ciglio. Alzò la mano e mostrò l'anello di un corso dell'Accademia Navale. «Ho fatto vedere a Trustrum la tua foto, Porky. La foto con me e te accanto... nell'annuario. È bastata quella.» «Porky! Nessuno mi chiamava così da...» Jacobsen si sporse in avanti, scrutando con maggiore attenzione gli occhi sporgenti dell'altro. «Gesù Cristo. L'annuario. Buggsie. "Occhi di Bacarozzo" Bates? Ma sei proprio tu. Per l'amor di Dio, che ti è successo? Hai un'aria da fare schifo.» L'altro corrugò la fronte. «La stessa cosa che è successa a te, vecchio mio. Siamo diventati vecchi. Guardati allo specchio, neanche tu sei in gran forma. Scommetto che la pressione ti è arrivata al doppio del quoziente intellettivo. E il tuo vestito non è imbottito di polistirolo, ma di chili di grasso. Ma non concluderemo un granché se ce ne stiamo qui a scambiarci insulti da saputelli, come ai vecchi tempi. Non hai la compiacenza di offrire un sigaro a un compagno di scuola, che avrebbe potuto diventare anche lui marinaio, se non fosse stato per quello che gli hai fatto, Porky? Te lo ricordi?» Buggsie Bates si chinò a prendere un sigaro mentre parlava. Non lo accese, limitandosi a starsene seduto con un sorriso imperscrutabile. Jacobsen si schiarì la gola. «Ehi, Buggsie, è passato tanto tempo. Eravamo giovani e sfrontati. Nessuno voleva farti del male. Almeno, io sono maledettamente sicuro che non volevo.» «Può darsi. Ma facesti partire di brutto quella tipa e me la infilasti nel letto. Dopodiché tu proseguisti la carriera fino a beccarti le tre stelle e io ci rimasi fregato.» Bates fece col sigaro un movimento circolare nell'aria. «Tranquillo, Porky. Non c'è bisogno di cercare il pulsante d'allarme, non sono venuto per regolare questioni trentennali, dell'epoca dell'Accademia. Anzi, ti farò avere più stelle di quante tu ne abbia mai sognate. L'essere sbattuto a calci in culo fuori dalla Marina si è rivelato la cosa migliore che potesse capitarmi. Sarei stato un pessimo guardiamarina.» «Già si vedeva che eri una frana.» Ora Jacobsen era incuriosito. «Buggsie, che cos'hai fatto? So che hai mollato la Marina, ma dove sei finito? All'epoca sei scomparso. Voglio dire, se sei sul lastrico, sarò lieto di fare tutto il possibile per... sai, puzzi come, Dio, non saprei. Senza offesa, puzzi
come se ti fossi rivoltato in un mucchio di merda di scimmia.» «Non sei troppo lontano dal vero. Aggiungici merda d'orso e ci sei quasi.» L'insulto non l'aveva colpito, a giudicare dal sorriso sul volto di Bates. In meno di cinque minuti, i due uomini erano già tornati ai rapporti stretti di trent'anni prima. «Grazie per l'offerta di aiuto, Porky, ma non ne ho bisogno. Anzi, sono io che mi trovo qui per farti un favore. Grosso.» Jake Jacobsen scrutò Bates al di sotto dei suoi tratti più prominenti: le folte sopracciglia che, assieme al naso da maialino e l'ampio ventre, erano la delizia dei caricaturisti politici. «Già, sicuro. Buggsie, l'ultima persona che mi ha detto di essere venuta a farmi un grosso favore sta scontando cinque anni a Leavenworth. Se lavori per un lobbista, è meglio che te ne vada. Puoi tenerti il sigaro in nome dei vecchi tempi.» «Nessun lobbista, Porky. In realtà non lavoro per nessuno, almeno nessuno che tu conosca. Hai fatto strada nel mondo, ma anch'io. Dopo essere stato sbattuto fuori, feci quello che avrei dovuto fare comunque. Andai all'università, un istituto scientifico serio, non roba da soldatini di latta, e presi il dottorato di ricerca, quindi mi trasferii all'Ovest per la carriera universitaria. Divenni un pezzo grosso del campus. Attualmente ho una cattedra e sono di ruolo alla statale di Simi Valley.» «Però puzzi.» «C'è un grosso laboratorio per gli esperimenti con gli animali, e ci passo del tempo. Si sa, la merda puzza.» Si accese il sigaro e annuì soddisfatto per l'aroma. Jacobsen afferrò il calendario sulla scrivania e vi puntò contro un grosso dito. «Non ho molto tempo per le ciarle, Buggsie.» La sua voce aveva un tono di scusa. «Ho una riunione di sotto fra quindici minuti. Perché sei venuto qui?» Bates guardava senza scomporsi il calendario da cima a fondo. «RIE. Devi parlare della Ricerca dell'Intelligenza Extraterrestre?» «Più o meno. È due giorni che questa riunione va avanti al quinto piano. Ci sono tutti i grossi nomi e li ho conosciuti. Sono un branco di coglioni. Perciò oggi gli scarico addosso il grande botto: gli dico che i fondi sono partiti per sempre.» «Li tagli fuori?» «Li riduco a zero. Non è che mi limito a ridimensionarli. Qui il gioco è cambiato, Buggsie. Da quando questo posto è passato alla Marina, eliminiamo tutte le frattaglie e facciamo nello spazio quello che avremmo dovuto da trentacinque anni. Consolidiamo la posizione. Costruiamo infrastrut-
ture spaziali e porti permanenti di rifornimento. Realizziamo una politica e un autentico programma spaziale. Sai, darei metà della pensione per un sistema economico di trasporto spaziale, ma per anni abbiamo scialato miliardi in programmi di addestramento nel Terzo Mondo, in telescopi spaziali e ad ascoltare messaggi di omini verdi. E cos'abbiamo come risultato? Dimmelo. Bene, quando ho avuto il posto tutto questo è finito. Ehi» Jacobsen lanciò improvvisamente a Bates un'occhiata sospettosa «non è che sei anche tu uno di loro, vero? Quelli della RIE?» «Non più. Per un po' la cosa mi interessava, e immagino di essere un po' in debito con loro, perché sono riusciti ad attirare la mia attenzione nel trovare e decifrare messaggi nascosti.» Bates aveva preso a frugarsi nella tasca della giacca di tweed. «Ma non è certo per questo che sono qui. Non sapevo niente della tua riunione, ma ti renderò molto facile dirgli le novità. A questo punto, la RIE diviene irrilevante. Da' un'occhiata a questo.» Reggeva un piccolo cilindro affusolato di plastica bianca, grande quanto un pacchetto di sigarette. La sommità ricurva era priva di caratteristiche, tranne un perno che poteva scivolare lungo cinque posizioni su una scala a scorrimento, e al centro un quadrante rotondo, come quello di un orologino da polso. Bates si sporse in avanti e poggiò l'unità sulla scrivania di fronte a Jacobsen. Poi ci mise su la mano aperta. «Pronto?» Spostò il perno sulla prima posizione, poi tolse la mano. Il cilindro si sollevò a livello dell'occhio e rimase lì, circa settanta centimetri al di sopra della scrivania. «Posizione uno. Modo statico, lo definisco. È regolato per annullarsi e tornare alla posizione zero, cioè spenta, dopo trenta secondi, ma è programmabile. Se vuoi, può restare sospeso per un periodo indefinito a qualsiasi altezza.» Gli occhi di Jake Jacobsen sporgevano più di quanto fosse mai accaduto a quelli di Bates. «Oppure, può fare questo» disse Bates. «Posizione due. Velocità costante.» Allungò una mano verso l'unità e spostò il perno ancora di una tacca lungo la scala. L'oggettino di plastica s'innalzò alla velocità regolare di trenta centimetri al secondo verso il soffitto insonorizzato e rimase lassù, premendo delicatamente verso l'alto. Jacobsen alzò gli occhi a guardarlo, con la bocca spalancata. «È abbastanza intelligente da capire che c'è un ostacolo» continuò Bates «così se ne sta lì senza esercitare alcuna forza verso l'alto. Se non ci fosse stato di mezzo il soffitto, avrebbe continuato a salire alla stessa velocità fi-
no al momento di spegnersi. Dopo, a seconda della programmazione, o resta dov'è oppure torna immediatamente al punto di partenza.» Appena finì di parlare, la scatoletta smussata scivolò verso il basso fino a posarsi sul ripiano della scrivania. Jacobsen allungò una delle sue mani grassocce e toccò con cautela un lato del cilindro, come se temesse che fosse incandescente. «Non c'è qualche trucco? Voglio dire, ha fatto davvero quel che gli ho visto fare.» «Non sono un ipnotizzatore o un mago, se è questo che intendi. Dovresti conoscermi meglio per pensare a qualcosa del genere. E non è un trucco. Fa davvero quello che hai visto.» «Allora...» Jacobsen prese il piccolo cilindro appiattito e se lo mise sul palmo della mano, soppesandolo. «Allora è... è... Cristo? Hai davvero inventato questa cosa?» «Non proprio. Diciamo piuttosto che l'ho scoperta. E, s'intende, questo è solo un modello dimostrativo. Per essere davvero utile, il cilindro dovrebbe avere le dimensioni di questa stanza, e in tal caso potrebbe trasportare della gente. Non ho i mezzi per farlo nel laboratorio meccanico dell'università, e comunque non è il mio settore. È il tuo. Volevo solo essere sicuro che funzionasse.» «È anti-gravità?» Jacobsen scrutò il bottoncino rosso sulla superficie liscia. «Quando l'hai premuto nella seconda posizione, è andato subito su.» «Esatto. Ma è più di anti-gravità, perché può andare a velocità costante in qualsiasi direzione scelgo. E fa perfino altro. Vedi le altre tre regolazioni? La prima mette il cilindro in stato di accelerazione costante, per il periodo regolato dal timer. L'ho provato fuori, ed è andato su, sempre più veloce, per venti secondi. Se non l'avessi programmato per spegnersi e tornare al punto di partenza, credo che avrebbe proseguito per sempre. Ho collaudato le altre tarature solo in laboratorio, di modo che ci potessero essere un paio di sorprese. La quarta posizione, a quanto pare, è un tasso costante di crescita dell'accelerazione. Ci si dovrebbe andare cauti in una versione passeggeri. Anche solo con un incremento di un decimo di gravità al secondo, e può fare molto di più, in un minuto si arriverebbe a sei G, quanto basta a schiacciare chiunque a bordo. A quel punto si andrebbe a quasi due chilometri al secondo. Abbastanza da fare una bella tacca in qualsiasi cosa si colpisca. A proposito, non toccare quella posizione, non ho un timer nel programma.» Jacobsen ripose il cilindro sulla scrivania e tolse la mano come se la plastica fosse diventata improvvisamente radioattiva.
«Comunque, la quinta posizione» Bates recuperò con noncuranza l'oggetto «quella sì che è il vero nocciolo della faccenda. Per un attimo l'unità pare che sparisca, dopodiché riappare a una certa distanza prefissata. Non sono ancora riuscito a operare su separazioni abbastanza grandi da misurare la velocità di spostamento, ma so che è molto rapida. Forse istantanea.» Il volto dell'altro era passato attraverso una sequenza di espressioni man mano che Bates descriveva le funzioni del cilindro schiacciato, dallo stupore e l'incredulità al nervosismo, per finire a uno sguardo furtivo di scaltrezza. Quando Bates terminò di parlare, l'ammiraglio se ne stette seduto in silenzio per un po' di secondi, picchiettando con le dita grassocce sul ripiano della scrivania. «Qual è la fonte d'energia? Un colossale generatore nascosto da qualche parte?» «No. È tutto qui. Non ne ha alcuna. Non sono un fisico, ma da quel che ho letto deve trarre l'energia dalle fluttuazioni del vuoto. Non c'è alcun limite pratico.» «Hai detto che non l'hai inventato tu?» «L'ho scoperto. In un certo senso, ci sono inciampato.» «Allora dov'è quello che l'ha inventato? Perché non è qui?» «Non c'è nessun altro.» Bates alzò una mano scarna. «Vedi, so che quello che sto per dirti sembra una panzana, ma l'importante è questo.» Sollevò il cilindro. «Non devi per forza fidarti di me. Ogni volta che quello che devo dirti ti sembra strano fissa gli occhi su questo. È un congegno che esiste sul serio. L'hai visto funzionare. Tienilo in mente.» Bates girò il quadrante sulla sommità del cilindro e spostò il perno nella prima posizione. L'unità si sollevò nell'aria appena al di sopra del livello degli occhi, fra i due uomini. «Cominciamo sul facile» continuò Bates. «Mentre te ne stavi qui alla NASA avrai ricevuto domande sui dischi volanti e i visitatori spaziali.» Jacobsen sbuffò. «Fin troppe, maledizione. Ogni giorno una richiesta di informazioni. Ho detto al personale cosa rispondere, che c'è stata una dozzina di inchieste e hanno dimostrato tutte che si tratta di un mucchio di fesserie. Ma non è servito granché: il giorno dopo c'è un altro caso clinico in linea. Spero che non te starai lì seduto a raccontarmi che un omino in un disco volante è capitato da te e ti ha dato quel gingillo?» «Non proprio. Ma ci sei vicino. La migliore spiegazione che sono riuscito a trovare è che effettivamente qualcuno proveniente da molto lontano ha visitato la Terra, proprio come insistono a dire i tuoi fanatici di dischi. Ma
è successo tanto tempo fa. Non so esattamente quando, ma è stato più di venti milioni di anni fa. E prima che tu mi domandi qualcos'altro, devo dirti che non ho idea delle loro sembianze o del motivo principale che li ha spinti a venire. Sia come sia, decisero di lasciare un regalo prima di andarsene. Eccolo qui: il segreto di un facile accesso allo spazio. Probabilmente anche del viaggio interstellare, con quella quinta posizione.» «Un momento.» Jacobsen tirava boccate furiose dal sigaro, torvo al di sotto di quelle feroci sopracciglia. «Prima mi racconti che non l'hai affatto inventato. Adesso dici che l'hanno addirittura lasciato, chiunque accidenti siano. Però hai anche detto di averlo costruito tu.» «L'ho costruito io, infatti. Quello che hanno lasciato sono le istruzioni per come realizzarlo. Sono riuscito a seguire le indicazioni, ma ancora non so perché funziona.» «Istruzioni?» Le guance paffute di Jacobsen stavano imporporandosi. Ormai da tempo a rischio d'infarto, sembrava aver deciso che era giunto il momento. «Istruzioni! Scritte in inglese, suppongo. Buggsie, ne ho abbastanza. Non hai mai capito fino a che punto deve arrivare uno scherzo. Se credi sia nato ieri...» «Guarda questo congegno, Porky. Lo vedi sospeso qui? Abbi fede. Non istruzioni in inglese, è ovvio. Non in qualsiasi linguaggio umano. Le istruzioni sono giunte sotto forma di sequenze in codice cifrato, ed è stato necessario decifrarle. I tuoi amici della RIE che aspettano giù al quinto piano sono da un pezzo alle prese con lo stesso problema: se si riceve un segnale dallo spazio di origine artificiale come si fa a interpretare il messaggio?» Bates si era finalmente acceso il sigaro e ora ne fissava pensoso la punta ardente. «Sai, anch'io ero un entusiasta della RIE, ma a vedere la cosa sotto il profilo logico, spedire fin quaggiù messaggi radio dallo spazio è un modo terribile di comunicare con qualcuno. Se non si sta in ascolto proprio al momento giusto con l'antenna puntata nella giusta direzione, il segnale è bell'e andato appena si volta testa. È peggio che mettere un foglietto in una bottiglia e buttarla nell'oceano. Meglio fare così: lasciare un messaggio qui, dove rimarrà in giro finché qualcuno non diventa così intelligente da cercarlo.» Alzò gli occhi su Jacobsen. «Dov'ero rimasto? Ho fatto un volo rintontente dalla costa occidentale per venire sin qui e mi sento un po' sfasato. Comunque, dopo un po' mi sono convinto che quello che avevo trovato era davvero un messaggio, ma ci ho messo un'eternità a decifrarlo. Il segnale cifrato era una sfilza di numeri binari, lunga decine di milioni di bit. Sape-
vo che non era a casaccio, ma non riuscivo a leggerla. Finalmente ho scoperto che la chiave era convertire quella sfilza interminabile del segnale numerico in un insieme a due dimensioni, disponendo su ciascuna fila mille e ventiquattro cifre, dopodiché osservare il risultato sotto forma di immagini. Ciononostante, dovevo ancora indovinare cosa significassero quelle immagini. Vedi, finché non ho realizzato un modello operativo, non ero neppure certo di cosa stessi costruendo. Per un po' mi sono chiesto se non fosse un gingillo che avrebbe fatto saltare in aria il mondo intero, una specie di dispositivo auto-sterilizzante, lasciato sulla Terra per sbarazzarsi di ogni specie divenuta abbastanza intelligente da espandersi al di fuori del pianeta.» Fece un sorriso sgradevole. «Poi ho deciso, che diavolo, l'avrei costruito comunque. Ormai ne so abbastanza sugli animali. Solo gli umani potrebbero essere così subdoli e orrendi, ma nessun altro.» Il rosso acceso si era ritirato dal volto di Jacobsen, ma adesso lui si agitava inquieto sulla sedia. «A quante persone l'hai detto, Buggsie? Il messaggio e tutto il resto?» «A stento qualcuno. Solo un paio di colleghi di laboratorio, e non penso mi abbiano creduto. E appena ho finito il modello operativo, sono venuto dritto qui.» «Nessun discorso pubblico? Nessun documento scritto?» «Nessuno. Prima di avere un modello operativo c'era un problema di, diciamo, credibilità. Questo genere di roba non è la mia specialità accademica, e l'elettronica è solo un hobby. Mi avrebbero deriso finché non avessi avuto una prova. Poi quando mi sono ritrovato con questo che funzionava, ho deciso che era troppo importante per seguire il solito iter delle pubblicazioni. Pensavo a una grossa conferenza stampa.» «Certo.» Jacobsen prese il telefono interno e disse: «Trustrum? Rimandi la riunione col gruppo RIE. Lo so, lo so. Vadano a farsi fottere. E mandi quassù nel mio ufficio un agente della sicurezza. Ripensandoci, meglio due agenti della sicurezza, va bene?» Si rivolse a Bates. «Buggsie, nell'ultimo anno dell'Accademia ho votato contro il tuo ingresso nella Jacks-off Five Society perché dicevo che eri tutto cervello e niente buonsenso. Ti chiedo scusa per questo. Mi sbagliavo. Hai fatto esattamente la cosa giusta venendo qui senza dirlo a nessuno. Ti rendi conto dell'importanza di quello che hai qui?» «È ovvio.» Bates gli lanciò un'occhiataccia. «Perché pensi sia venuto alla NASA? Ci dà le stelle... ed era stato progettato proprio per questo.» «Al diavolo le stelle.» Jacobsen andò alla porta per assicurarsi che fosse
chiusa. «In questo lavoro, mi sono sorbito un mucchio di stronzate su stelle, buchi neri e galassie. Quella è roba per quei pazzi della RIE e i loro compari in riunione al quinto piano. Quello che ci serve al momento sono i pianeti. E tanto per cominciare, significa un sistema a basso costo per partire dalla Terra. Io e la Marina abbiamo preso il controllo della NASA con una missione: rimetterne assieme il programma. Il gioco dello spazio oggi si chiama facile accesso. Non è che i russi possano vantarsi di chissà cosa, ma partono col piede giusto quando dicono che lo strato superiore dell'atmosfera è la riva dell'universo. La prima vera nazione a viaggiare nello spazio controllerà il sistema solare, come la Spagna, il Portogallo e l'Inghilterra hanno fatto con i mari. E saremo noi, non un branco di russi, giapponesi, cinesi e francesi.» Guardò Bates. L'altro scuoteva la testa e aveva un sorriso tirato sul volto. «Possiamo farcela, Buggsie. Ce lo garantisce quello che hai in mano.» «Questo dà all'umanità facile accesso allo spazio. Non solo all'America.» «Oh, certo. Cominceranno ad andarci anche degli altri... sfrutteranno il nostro lavoro. Ma all'Accademia io e te abbiamo avuto le stesse lezioni di Storia, e sai come va il mondo. Controlla i porti e controlli tutto il resto. Il commercio segue la bandiera. La nostra bandiera.» Bates sospirò. «Porky, speravo di meglio da te. Ho letto tutte quelle nobili cose che dichiaravi alle udienze per diventare capo della NASA. "Ritengo mio sacro dovere edificare una scala, che permetterà all'umanità intera di ascendere verso le stelle." E sono stato così stupido da credere che parlassi sul serio. Io ti porto la scala, ma tu vuoi limitarne l'uso. Be', non è che importi molto quello che vuoi e non vuoi fare. Questa scala non può essere tenuta segreta.» «Questo è da vedersi.» Il telefono interno ronzò e Jacobsen si tirò su dalla sedia e andò ad aprire la porta. Fuori c'erano due pesi massimi sull'attenti. Jacobsen fece un cenno della testa verso di loro. «Voglio che restiate di guardia per tutta la durata di questa riunione. Da questo momento, fino a nuovo ordine, siamo a livello top secret.» Chiuse la porta e tornò alla scrivania. «Buggsie, hai passato troppo tempo in quella torre d'avorio. Non è ovvio che quello che mi hai mostrato fa di tutto ciò anche una questione di sicurezza nazionale? È in gioco il futuro del Paese, e se quello» indicò il cilindro, sempre sospeso al di sopra della scrivania «finisce nelle mani straniere sbagliate, i nostri sistemi di difesa non varrebbero un fico secco. Venendo da me sei partito col piede giusto. Adesso
non toppare. Lavora con la Marina, e avrai le mani in pasta... Mi assicurerò che tu abbia tutte le autorizzazioni, e se hai bisogno di soldi uno dei miei fornitori può firmarti un lauto subappalto. Ma piantala con queste stronzate sul fatto che questo è "troppo importante per essere tenuto segreto". Lasciatelo dire, tutto può essere tenuto segreto, se le bocche sono cucite. E in questo caso si deve farlo.» Bates posò il sigaro spento nel portacenere sulla scrivania. Era da due minuti che si era dimenticato di fumarlo. «Ancora non capisci, Porky. Ho detto che questo non si può tenere segreto, indipendentemente dalla mia e dalla tua volontà. Ti ho detto che ho trovato un messaggio. Dove credi l'abbia trovato, scritto su un muro da qualche parte?» Jacobsen lo guardò in cagnesco. «Che io sia dannato se lo so. Ma era da qualche parte di questo Paese, no?» «Sì. Non vado all'estero da oltre dieci anni.» «Allora voglio dirti una cosa, Buggsie, vecchio mio. Ho passato anni al Servizio Segreto della Marina, e ti posso garantire che riusciremo a far passare sotto silenzio quel posto, qualsiasi posto degli Stati Uniti d'America, da dove è venuto il messaggio, ci metteremo su un tappo così stretto che neanche Harry Houdini saprebbe farci passare il ditino. E possiamo assicurarci che non trapeli niente alla stampa e non venga pubblicato nulla. Il tuo sistema di trasporto spaziale sarà prodotto in un ambiente di massima sicurezza che al confronto fa apparire le normali installazioni top secret del Dipartimento della Difesa piene di buchi più di un colabrodo. Se questo non è tenere segreta la cosa, non so cos'altro lo sia.» «Non funzionerà.» Bates accennò al cilindro sospeso. «Tu dici che mi ritenevi privo di buonsenso. Allora usa il tuo, Porky, se te n'è rimasto un po' dopo vent'anni di rincoglionimento militare. Supponi di essere un alieno, in visita sulla Terra venti milioni di anni fa, e di voler lasciare un messaggio che possa essere letto oggi. Che faresti?» Jacobsen gonfiò al massimo le gote. «Lo scolpirei da qualche parte indelebile, sulla roccia, su una lastra d'acciaio. No, meglio oro o vetro. Ma venti milioni di anni...» «Ci sei quasi.» Bates aveva un sorriso irritante sul volto. «Riflettici con calma. Venti milioni, non duecento, o duecentomila. Nessun manufatto sulla Terra è così antico. Qualsiasi messaggio sarebbe stato consunto dal tempo in meno di un milione di anni, così come qualsiasi cosa lasciata in superficie sarebbe stata erosa o seppellita a centinaia di metri di profondità. Pensaci, Porky, venti milioni.»
«È impossibile. Niente può durare tanto.» «Giusto. È questa la conclusione cui volevo farti arrivare. Niente di quello che potremmo costruire sarebbe riconoscibile fra venti milioni di anni.» «Sulla Terra no. Ma forse hai dimenticato la Luna, dove non ci sono le intemperie a erodere...» «Ehi, ottimo tentativo. Non me l'aspettavo. Ma in quel caso dovresti sempre tener conto dell'impatto delle meteore. C'è un modo migliore, proprio qui, sulla Terra. Un modo che permette ai messaggi di resistere per centinaia di milioni di anni, col minimo pencolo di andare perduti. Ed è un sistema di registrazione che siamo quasi sul punto di realizzare noi stessi, se vogliamo.» Jacobsen grugnì infastidito. «Lo so che pensi di essere un maledetto sapientone, Buggsie, è sempre stato così. Sembra impossibile, ma se hai intenzione di dirmelo, va' avanti. E dato che ci sei, potresti anche dirmi perché l'hai trovato solo tu e nessun altro.» «Perché io puzzo di merda di scimmia e di orso. Ti ho detto che non ero un fisico, ma non ti ho detto cosa sono. Sono un biologo, un biologo molecolare. E oggi uno dei punti più caldi della biologia molecolare è ordinare la sequenza del DNA. Ne sai qualcosa?» «Mai sentito niente del genere, e non so se m'interessa.» «Invece devi farlo, se segui i finanziamenti governativi per la ricerca. Il DNA è la molecola che trasporta l'informazione genetica. Inoltre il DNA si duplica, restando identico salvo in casi rarissimi di mutazione, ogni volta che si divide una cellula. Il Dipartimento dell'Energia e gli Istituti Nazionali della Sanità hanno ricevuto uno stanziamento di un miliardo di dollari a testa per tracciare la mappa del DNA degli esseri umani.» «Un miliardo?» Finalmente Jacobsen aveva a che fare con qualcosa che capiva. «Non sono mica caramelle.» «Neanche per gli standard del Dipartimento della Difesa.» «Mi puzza tanto del solito spreco per la ricerca e lo sviluppo. Ce n'è fin troppo alla NASA.» «No. Questa è roba importante. Vedi, il DNA di un organismo decide esattamente cos'è quell'organismo. Se stabilisco il tuo DNA, al completo, stabilisco come sarai. Potrebbe anche sembrare una bazzecola farlo, perché sebbene una molecola di DNA abbia la forma di una doppia elica, di un paio di spirali intrecciate, la si può ritenere un'unica lunga stringa, senza precisi limiti o riunita in un circolo, composta solo da quattro differenti so-
stanze chimiche dette basi nucleotidi. Queste componenti sono la timina, l'adenina, la guanina e la citosina...» «In inglese, testa d'uovo. Stai mettendoti a blaterare.» «Scusa, Porky. Dimenticavo che sei una testa di rapa. Basta che pensi alle basi con le loro iniziali, T, A, G e C, e immagina di avere un mucchio di perline, ciascuna con una di queste lettere sopra. Ora, con le perline puoi farci una collana, senza limiti circa la loro posizione su di essa. Una sequenza completa del DNA, detta genoma, non è altro che la lista dell'ordine delle perline lungo la collana a spirale. Quanto basta a descrivere completamente l'organismo. La differenza tra me e te e un cavolo o una mosca o una gallina sta nella lunghezza della sequenza del DNA, e nell'ordine delle quattro sostanze lungo di essa. Il guaio è che parliamo di miliardi di perline per ogni tipo di organismo complesso. Tracciare la mappa del genoma è un lavoro mostruoso.» «E maledettamente inutile, come dicevo. A che serve?» «A cose di ogni genere. Se conoscessimo la mappa esatta del DNA potremmo contrastare tutti i tipi di malattie ereditarie. Lo si sa da una trentina d'anni. Ma le tecniche per tracciare la mappa della sequenza del DNA e per trovare l'ordine esatto delle perline T, A, G e C sulla collana genetica sono molto più recenti, risalgono a dieci anni fa o anche meno. Operiamo mediante microscopi elettronici, cristallografie e altre sostanze chimiche dette enzimi di restrizione. È questo il mio lavoro. E sono bravo. Il Dipartimento dell'Energia mi ha assegnato uno stanziamento di un milione di dollari per esaminare una questione particolare nell'ambito della sequenza del DNA, quello che si potrebbe definire il problema del DNA "spazzatura" che in apparenza non svolge alcun compito utile. «Vedi, il DNA in ogni cellula le dice come operare, specialmente come produrre proteine. Perciò si potrebbe pensare che ogni frammento di DNA venga impiegato così. Invece no. Appena il 10% del DNA è utilizzato per controllare i processi produttivi della cellula. Allora a che serve il resto? Nessuno lo sa. Eppure gli introni, quelle sequenze interposte che non governano la produzione di materiali cellulari, compongono i nove decimi del totale del DNA. Il mio stanziamento serve per esaminare gli introni, e vedere se riesco a scoprire a cosa servono.» Bates se ne stava del tutto immobile sulla sedia. Con la spiegazione che volgeva al termine, sembrava esausto. Adesso invece si mosse, riprese il sigaro e lo puntò sul cilindro sospeso: «Ed eccoci finalmente alla parte più eccitante. Io l'ho scoperto, Porky. O almeno, ho scoperto una parte della ri-
sposta. È proprio qui sospesa davanti a te. Qualcuno ha inserito un messaggio, ripetendolo a più riprese, negli introni, nelle sequenze del DNA che a prima vista sembrano una specie di spazzatura. Non ho fatto altro che scoprirlo e decodificarlo». Jacobsen si rimirava divertito il palmo della mano carnosa. «Stai dicendo che è lì che si trova il progetto del tuo sistema di trasporto spaziale? Nascosto in una maledetta sequenza del DNA, come un messaggio in codice? Si trova perfino dentro di me?» «Sicuro che c'è. Ce l'hai proprio in mano, nascosto nella parte della sequenza del DNA che non è espressa nella produzione di proteine. Si ripete molte volte, nel caso una parte della sequenza in un punto sia distrutta da una mutazione. E non ti colpisce la bellezza dell'idea? Se c'è qualcosa che il DNA fa meravigliosamente bene è questa: fa delle copie di se stesso, da una generazione all'altra, col minimo margine di errore. Forse dopo qualche centinaio di milioni di anni, la mutazione del DNA arriverebbe al punto di rendere inaffidabile il messaggio, ma non solo dopo venti milioni. È quanto di più prossimo si possa immaginare a una forma di messaggio eterno. I nostri amici che son venuti sulla Terra e hanno lasciato il progetto di questa scala per le stelle non dovevano preoccuparsi che fosse distrutto dalle intemperie o dagli accidenti. Sarebbe rimasto finché qualcuno non fosse divenuto abbastanza intelligente da scoprirlo. E un'altra gran bella cosa è che il messaggio non si può leggere finché non si è pronti a utilizzarlo. L'analisi della sequenza del DNA richiede tecnologia, elettricità, computer, adeguati algoritmi e microscopi che esaminano in profondità, per poter essere realizzata.» «Ma la sequenza si trova in tutte le cellule? Un messaggio lungo decine di milioni di cifre?» «In tutte le cellule di tutti gli esseri umani di tutti i paesi.» Bates stava ritrovando l'energia e parlava più in fretta. «L'informazione nel DNA è compressa. Può definire un intero essere umano in pochi trilionesimi di grammo di materiale. Al confronto, i dettagli di una propulsione spaziale sono niente. Ma adesso capisci perché dico che non la si può tenere segreta? Sono in contatto con altri ricercatori del mio campo in tutto il mondo, e so di almeno cinquanta persone che stanno battendo la mia stessa pista. Puoi mettertici come vuoi a nascondergli il mio lavoro, ma non durerà più di un paio di anni. Ce ne saranno degli altri a vedere le stesse anomalie nella sequenza, e le decodificheranno indipendentemente. A quel punto, anche loro otterranno la stessa "scala per le stelle" che hai dichiarato al
Congresso di voler realizzare.» Jacobsen si poggiò all'indietro sulla sedia, respirando rumorosamente: «Maledizione, Buggsie». Le parole gli vennero fuori ringhiando. «Vieni qui e dici di volermi dare qualcosa. Me la fai vedere e te la riprendi immediatamente. Se qualsiasi nazione di serie zeta venuta dal nulla può andare nello spazio, il mio lavoro diventa più duro, non più facile.» «Dipende da quale credi sia il tuo lavoro. Se credi di essere stato messo qui per startene seduto su quel grosso culo a vietare lo spazio a chiunque tranne la Marina, allora hai ragione. Non è che un lavoro del genere adesso sarebbe duro, sarebbe impossibile. E mi va bene. Non sono certo venuto per quello. Ma se vedi il tuo lavoro al mio stesso modo, che una volta era anche il tuo, e cioè come costruire un sistema che dia a chiunque sulla Terra una quota nello sviluppo dello spazio, e la possibilità di andarci, allora ti ho servito a dovere. O meglio, ti hanno servito a dovere quegli esseri che hanno lasciato il progetto. La mia parte è stata solo quella del fattorino.» Prese il cilindro sospeso, lo spense e lo ripose sulla scrivania. «Pensa in termini positivi, Porky. Abbiamo i pianeti e forse anche le stelle, inoltre ti sto dando un paio di anni di anticipo sulla concorrenza. Prima di allora, con un po' di fortuna, andrai tu stesso nello spazio.» Jacobsen allungava irresistibilmente la mano verso l'unità di plastica bianca. Si fermò. «Io?» «Tu. Chi altro?» Bates osservò il cambiamento di espressione sul viso dell'altro. «Ah, finalmente ci sei. Era quasi ora. Ti sarai anche illuso di voler essere il capo della NASA perché era un buon avanzamento di carriera. Ma io ricordo un Porky Jacobsen diverso. Tu eri quello che ci faceva drizzare le orecchie all'Accademia, che ci diceva che noi umani eravamo destinati allo spazio, e che niente ci avrebbe fermati. Che niente ti avrebbe fermato. E tutto quello che hai saputo dirmi pochi minuti fa è occhio, la chiave è il facile accesso. Be', ora lo abbiamo. Puoi andarci, Porky, di persona. Sei troppo vecchio per lo Shuttle, ma non abbastanza per questo. Mi hai sentito? Puoi andarci.» «È vero.» Jacobsen abbassò gli occhi sul cilindro, che ora teneva in mano con una stretta possessiva. «Sì, perdio, è possibile e lo farò. Sai, l'idea stessa di incontrarli mi terrorizza, ci aspettano da venti milioni di anni. Mi chiedo come procederemo. Ma hai ragione, se c'è un modo al mondo di farmi salire su quel prototipo di astronave, ci sarò. Niente mi fermerà.» Spostò il perno sul cilindro nella seconda posizione e lo guardò innalzarsi pigramente verso il soffitto. «Ma c'è qualcosa di ancora più terribile, in
un certo senso, di questo stesso gingillo. Il fatto che sapessero, fin da allora, che saremmo stati noi umani a realizzarlo. Sapevano che avremmo trovato una via, da percorrere fino in fondo, fino a raggiungere l'intelligenza. E dire che a quell'epoca non c'erano umani in giro, vero?» «Neanche uno. Solo scimmie primitive.» Bates adesso aveva un sorriso sognante sul volto. «Ma non devi dare per scontato che quando hanno lasciato il messaggio sapessero chi sarebbe venuto poi a incontrarli lassù. Ho detto che l'hanno lasciato almeno venti milioni di anni fa. Come pensi che lo sappia?» Jacobsen scosse la testa. Il cilindro bianco gli ridiscese tranquillamente in mano. «Perché non eravamo gli unici candidati» proseguì Bates. «Te l'ho detto, io lavoro con gli animali, oltre che con gli esseri umani. Ho trovato lo stesso messaggio nella sequenza del DNA di animali separatisi dalla linea genetica umana venti milioni di anni fa. Noi, gli scimpanzé, i gorilla, gli oranghi e i gibboni ci siamo separati da una linea genetica comune in tempi diversi, ma abbiamo tutti gli stessi introni codificati. È possibile che il messaggio sia stato inserito una volta soltanto, forse come virus in un antenato comune a tutti noi, e questo significa venti milioni di anni fa. Quel messaggio lo abbiamo avuto tutti. Ma nessuno l'ha veramente ricevuto finché non si è riusciti davvero a leggerlo.» L'altro alzò gli occhi carichi di cupidigia dal cilindro che teneva stretto in mano. «Tu sei quello che l'ha letto davvero, Buggsie. Solo tu. Tu eri l'unico così intelligente da riuscirci. Io voglio andarci, ma mi pare che se c'è qualcuno che se lo merita sul serio, quello sei tu. E sono certo di poter sistemare la cosa.» «Non c'è fretta. Aspetterò il mio turno, non devo essere a bordo di quella prima nave.» Jacobsen scosse la testa. «Non commettere il mio stesso errore, Buggsie. Non rinunciarci finché non scopri di essere troppo vecchio, grasso e malandato, ed è troppo tardi per andarci.» «Oh, non credo che succederà.» Bates esitò. «Per la verità, sono quasi certo di no.» Si frugò nella tasca della giacca e ne estrasse una struttura bianca simile a un ragno, con parecchi connettori lucenti. «Vedi, Porky, quella non era l'unica cosa che si trovava in codice fra gli introni. Non sono sicuro al cento per cento di quest'altra, e devo fare delle verifiche con gli esperti. Ma non dovrebbe essere difficile, l'Istituto Nazionale della Terza Età si trova
solo a un paio di isolati da qui, vero?» Titolo originale: The Double Spiral Staircase Analog Science Fiction and Fact January 1990 GODSPEED di Charles Sheffield In gara con gli alieni per la conquista dello spazio Vennero i Genizee. Due settimane dopo, i Genizee se ne andarono. Gli alieni sono i salvatori dell'umanità più nobili e altruisti che ci si possa immaginare, o al contrario la specie più subdola e malefica della galassia, che persegue un piano diabolico, insondabile per gli umani. Quale? Marcus Aurelius Jackson, milionario, folle, geniale, mio compagno di lunga data in fatto di scienza e di breve data in fatto di criminalità, sostiene che i Genizee sono cattivi. Tutti gli altri, sulla Terra, dicono che sono degli eroi. Quanto a me, proprio non lo so. Non ancora. Ma, grazie a Marcus, lo saprò, eccome. Presto. Nel peggiore dei casi, potrebbe essere per una frazione di secondo, prima della fine. Sembra una follia dirlo ma, anche se mi ritengo equilibrato e razionale mentre Marcus è un pazzoide che potrebbe provocare la mia morte e quella di tutti gli abitanti della Terra, sotto certi aspetti sono della sua stessa risma, perché non vedo l'ora di sapere la risposta. Quella domanda, quale?, me la sono arrovellata in testa per quattro mesi interminabili, come un prurito interno ed eterno che non va via anche se ti gratti. Adesso me ne sto seduto in attesa che ricompaiano le telecamere della TV o che finisca il mondo, e voglio sapere. Nel mio caso è più di una questione teorica. Ero al centro del problema molto prima dell'arrivo dei Genizee, prima che si sospettasse perfino della loro esistenza. Ancora di più: stando agli alieni, io e Marcus Aurelius Jackson siamo la ragione per cui sono giunti nel sistema solare... giunti appena in tempo per distruggere il sogno. Nel mio caso era davvero un sogno. In quello di Marcus si trattava di un'ossessione. Arguisco che tra le due cose vi sia una differenza fonda-
mentale, anche se forse nessun altro sarebbe d'accordo. Voglio riandare al periodo AG, Avanti Genizee. Prima che gli alieni saltassero fuori dal nulla, quasi tutti erano convinti che il programma spaziale terrestre andasse a meraviglia. La base statunitense sul lato nascosto della Luna era prossima all'autosufficienza, con un 99% di riciclaggio completo di cibo, acqua e scorte. Solo le attrezzature più complesse erano fabbricate sulla Terra e spedite lassù. I sovietici erano finalmente riusciti a installare una colonia permanente su Marte, dopo tre tentativi abortiti e la perdita di 147 persone. Il consorzio C-J aveva varato una spedizione mista cino-giapponese che vagava nella fascia degli asteroidi e un'altra che stava avvicinandosi alle lune di Giove. L'ESA aveva un apparecchio privo di equipaggio che si accingeva a compiere un secondo Grand Tour con sonde intelligenti nelle atmosfere dei pianeti esterni. Questa è proprio l'età dell'oro dell'esplorazione spaziale, dicevano i media. Bella roba. Non vi sorprendete se vi dico che, nonostante il mio stipendio derivasse dai fondi spaziali, non dedicavo più di un minuto alla settimana del mio orario lavorativo agli sviluppi che ho citato. Io e Marcus trasecolavamo per i discorsi autogratificanti dei politici di tutti i paesi, e versavamo calde lacrime sentendo i media internazionali che vantavano a tutto spiano le "grandi realizzazioni" spaziali. Non si accorgono, nessuno si accorge, che anche quando esploreremo e colonizzeremo la Luna e gli altri pianeti, non faremo altro che giocare nel cortile di casa? Se gli umani avessero fatto sul serio nel campo dell'esplorazione spaziale, il sistema solare non sarebbe bastato. Dovevamo andare sulle stelle, e trovare un modo per arrivarci in un tempo ragionevole. La nave più veloce esistente, la Sonda Planetaria a Propulsione Elettrica Continua del Laboratorio di Propulsione Missilistica Caltech/NASA (Starseed, in breve) era diretta verso il bordo interno della Nube di Oort, ma non vi sarebbe giunta che fra dieci anni. Il che, rispetto alla durata della mia vita, non era certamente un tempo ragionevole. E, una volta arrivata là, a tremila unità astronomiche dal sole, avrebbe ancora viaggiato solo all'uno per cento della velocità della luce, e si sarebbe trovata solo a un centesimo della distanza dalla stella più vicina. Per raggiungere Tau Ceti, il massimo quanto a stella vicina fornita di pianeti utili, la sonda del Laboratorio Missilistico avrebbe dovuto intraprendere un viaggio millenario. Nonostante il nome, la Starse-
ed e simili non erano e non sarebbero mai stati la risposta. Non avrebbero messo le stelle alla portata dell'umanità. Una propulsione più veloce della luce: era quello il modo. L'unico modo. Sfortunatamente, non si poteva neanche parlare di ipervelocità con le Fondazioni Scientifiche che ci finanziavano. Marcus ci aveva provato, ed era stato ridicolizzato per tutte le pene che si era dato. Il consiglio dirigente era alquanto risoluto. Niente poteva andare più veloce della luce, lo "dimostrava" la teoria della relatività, perciò non si poteva spendere neanche un centesimo per provarci. Dovevamo invece impiegare il denaro delle Fondazioni in qualcosa di utile, tipo la pulsione ionica, buona solo per arrancare, o la fissione a impulso, che ti scuoteva fin nelle ossa. «Scemi!» disse Marcus, quando tornò al laboratorio. «Stupidi idioti.» Aveva detto più o meno lo stesso al consiglio, e ciò non era tornato a favore della sua causa. «Lo so» lo commiserai. «Sono una massa di idioti. Maledizione a tutti quanti.» In quel periodo imprecavo parecchio, e se non fosse stato per Marcus non avrei potuto fare altro. Con lui invece avevo come socio un fisico di prim'ordine che aveva studiato i principi basilari della teoria quantistica e della relatività, anziché accettarlo come vangelo. E lo aveva fatto con un unico scopo in mente: cercarvi le incongruenze. Naturalmente ce n'erano. Da Einstein in poi, tutti avevano fatto rilevare che i due campi si contraddicevano. E, finanche nell'ambito di quelle contraddizioni, la struttura dello spazio-tempo a livello subnucleare doveva essere un mare di singolarità, che si formavano e si dissolvevano di continuo. La nozione stessa di "viaggio" era priva di significato in un medium così discontinuo dal flusso costante, diceva Marcus. Semmai erano gli eruditi consiglieri delle nostre fonti finanziarie che avrebbero fatto meglio ad andarsene a fare "qualcosa di utile". Sapevo che era più intelligente di me e di tutti quelli che avevo conosciuto. Perciò quando disse che intravedeva un raggio di speranza, gli credetti. Il suo fallimento col consiglio e il fatto che l'avessero messo in ridicolo non intaccò la mia fede in lui. «Dobbiamo insistere» dissi. «Dobbiamo dimostrargli che si sbagliano.» Scosse tristemente la testa, ma ben presto si rimise al lavoro con più lena che mai. Il rifiuto non faceva altro che spingerlo a impegnarsi maggiormente. Dopo qualche mese sviluppò ulteriormente la teoria, che pareva funzionare (per lui, voglio dire, perché devo ammettere che io non l'affer-
ravo). Comunque i passi successivi toccavano a me. Nella squadra ero quello che sistemava tutto, perché Marcus era una frana nei dettagli pratici, ed era proprio negato per le diverse tecniche di lubrificazione dell'ego che oggigiorno sono catalogate sotto la voce "relazioni umane". Perciò "sistemai la cosa". Modestia a parte, con la mia solita efficienza. (Alle volte penso che la sola cosa nella vita che mi riesce davvero irresistibile è cavarmela in quello che a tutti gli altri risulta impossibile.) Il denaro non era un problema. Marcus ne aveva ereditato a palate, senza spenderne quasi niente, ma l'attrezzatura che ci serviva non era in vendita. La si poteva ottenere solo tramite programmi governativi. Così la costruzione del prototipo e i primi test su piccola scala dovemmo effettuarli in segreto, utilizzando materiali sottratti sottobanco a progetti ufficialmente approvati. Se la cosa vi sembra facile, tenete presente che tutte le singole fasi di costruzione si dovevano svolgere nello spazio. Senza l'aiuto del Controllo Inventario, che mi doveva parecchi di favori, non se ne sarebbe fatto niente. E anche così, non era una faccenda del tutto invisibile. Un giorno un revisore contabile entusiasta avrebbe scoperto che le ordinazioni di componenti e il loro impiego con corrispondevano, e la partita si sarebbe chiusa. Tanto, mi aspettavo di finire molto prima all'inferno o su Alpha Centauri. Ci vollero cinque anni e mezzo, dal giorno in cui Marcus intravide il punto centrale della teoria fino al primo test spaziale. Quel giorno io e lui, stipati in una piccola capsula da trasporto progettata unicamente per contenere della roba in caduta libera, ci fermammo, con un'occhiata al piccolo carico e un'altra fra di noi. «Be'?» disse lui. Annuii. Emise un lungo sospiro, alzò le spalle e armeggiò col pulsante di accensione. Il carico svanì senza un rumore. Il test di passaggio - Marcus insisteva nel non definirlo test di volo, dato che il carico non avrebbe "viaggiato" nello spazio normale - era stato programmato per portare un assortimento di sensori a un'ottantina di milioni di chilometri da Marte, fare un po' di foto da quelle parti e tornare nella capsula da carico. Sarebbe dovuto restare lontano per quasi venti minuti, la maggior parte dei quali passati in prossimità di Marte. Venti minuti? Mi parvero più lunghi di mesi. Quando il minuscolo carico ricomparve, restammo senza fiato. E quando
esaminammo i dati raccolti, almeno io ottenni più di quanto mi aspettassi. Il carico non aveva effettuato il viaggio verso Marte in un'unica tirata. Marcus l'aveva programmato per tornare a intervalli regolari nello spazio normale, fare un rilevamento istantaneo della rotta e utilizzarlo per orientarsi nel passaggio successivo. La sequenza di immagini che ne risultava era stupefacente. I rilevamenti erano stati effettuati ogni centesimo di secondo, a duecentomila chilometri l'uno dall'altro. Visti in tempo reale, fornivano la serie di fotogrammi che sarebbe stata ottenuta da una nave che avesse viaggiato a venti milioni di chilometri al secondo, quasi settanta volte la velocità della luce. Una velocità divina. Nelle successive ventiquattr'ore guardai quelle riprese un centinaio di volte, ebbro di euforia e della convinzione che io e Marcus saremmo stati a nostra volta ricordati come dei. Eravamo i nuovi Prometei, gli uomini che donavano all'umanità l'universo. (Come molta gente che scherza col fuoco, avevo dimenticato cos'era successo a Prometeo.) Volevo rendere immediatamente pubblici i nostri risultati. Come avevo detto a Marcus, avevamo ormai prove a sufficienza per giustificare i finanziamenti di una serie completa di test operativi. A quel punto però lui sì impuntò e non ci fu verso di smuoverlo. Quelli che tiravano le fila non si erano limitati a dire educatamente "No, grazie" a questa teoria. Avevano deriso le sue idee, insinuando che fosse un eccentrico, se non peggio. Ora voleva effettuare un volo pilotato, spingersi di persona più in là di dove fosse mai arrivato prima qualcosa, e scattare lui stesso delle immagini. Dopodiché sarebbe tornato indietro, si sarebbe recato dagli scettici che gli avevano dato del ciarlatano e avrebbe mostrato loro i risultati, invitandoli a ficcarseli nel posteriore. Prima che questo avvenisse, desiderava il massimo di segretezza. Vedete, non gli bastavano la fama e la fortuna. Voleva la vendetta. Avrei dovuto rifiutarmi di assecondarlo, ma finiva sempre per riscaldarsi più di me. Discutemmo per ore, finché cedetti. Mi disse cosa voleva per il suo Grande Test: arrivare a mille unità astronomiche, così Marcus avrebbe potuto riprendere la Starseed con il sole rimpicciolito sullo sfondo e i pianeti visibili a stento. Se trovare le risorse per il piccolo test era stato difficile, quello nuovo nave pilotata, apparati di supporto vitale e sistemi completi di controllo e navigazione - mi fece strappare quel poco che mi restava dei capelli. Per essere onesto, fu anche un periodo eccezionale, passato a fregare in una sola volta tre dozzine di persone e organismi vari. Ma dovettero passare altri
sei mesi prima di poter entrare nel suo ufficio e dirgli: «Allora, Marcus, detto e fatto. Ci siamo dentro. Questo disperato test di pilotaggio del Progetto Godspeed è fissato tra una settimana». «Davvero hai ottenuto i permessi di volo, Wilmer?» Che sarei poi io. «Come ci sei riuscito? Avrei scommesso che sarebbe stato impossibile.» Era stata una delle nostre principali preoccupazioni. Sottrarre le attrezzature era divenuta una banale routine, ed eravamo perfino riusciti a sviare l'attenzione dalle nostre vere attività descrivendo la stessa Godspeed durante la costruzione della navicella come un "modello presperimentale e postprogettuale a fissiofusione", che era sufficiente a tenere tutti alla larga. Il test precedente era stato su scala abbastanza ridotta da poter restare nascosto. Ma quello successivo non si poteva celare, dato che, anche se il passaggio iperveloce non avrebbe dovuto produrre alcun segnale rilevabile, secondo Marcus i macroscopici eventi quantici nei quali sarebbe culminato avrebbero fatto brillare e rifulgere tutta la parte esterna della Godspeed come una pietra preziosa in pieno sole. «Era impossibile, lo sapevo» dissi. «Ci ho investito tutti i miei quattrini. Non mi sorprenderebbe se ci beccassero.» «Che importa?» disse lui. «Quando torneremo da questo viaggio...» E in quel preciso momento, quando ormai si avvicinava il giorno della gloria, nel mio ufficio entrò senza bussare Sally Brown delle Operazioni di Superficie, accese il piccolo televisore appollaiato in un angolo della scrivania e disse trafelata: «Messaggi e immagini. Dallo spazio. In tutto il mondo, su centinaia di diverse lunghezze d'onda. Di origine extraterrestre. Arrivano dalle stelle». Non so cosa provocarono in Marcus quelle parole di Sally Brown, ma in me scatenarono un tale conflitto emotivo che mi venne da vomitare. Da un canto l'avvento di alieni e della loro tecnologia superiore avrebbe reso il nostro lavoro degli ultimi anni obsoleto come il cavallo da tiro, dall'altro avrei avuto quel che volevo da un pezzo: l'accesso alle stelle. Restammo immobili dinanzi allo schermo televisivo in attesa di vedere per la prima volta i Genizee. Invece vedemmo le loro navi, dentro e fuori, e le loro attrezzature tecniche. Nessuna immagine degli alieni, o almeno non ancora. In seguito scoprimmo che non erano sicuri che i terrestri fossero pronti alla vista di cilindri di poco meno di un metro di gelatina nera tremolante, con in cima una massa agitata di spaghetti gialli. Invece, ricevemmo immagini della loro tecnologia. Per quanto strano, a me e Marcus, unici fra i terrestri, risultò più difficile
accettare la vista delle navi. I segnali video erano stati inviati sulla Terra poche ore prima, da poco oltre l'orbita di Saturno, assieme a una serie di messaggi radio, nelle sette lingue principali, che proclamavano intenzioni pacifiche e davano come tempo previsto di arrivo in orbita equatoriale terrestre meno di una settimana. Potevamo anche accettare quei messaggi radio. Ma le navi... Marcus ci arrivò per primo. «Dov'è?» disse, quasi con un filo di voce. «Wilmer, dov'è la propulsione?» Nessun altro avrebbe capito quella domanda. Ma io sì. La forma di certe tecnologie è dettata interamente dalle leggi della chimica e della fisica. Questo include tutte le tecnologie di propulsione. Per esempio, un missile è un missile, non importa se il propellente è costituito da gas neutro in combustione, particelle ionizzate o radiazione. E c'è poca differenza se l'energia deriva da processi chimici o nucleari. Allo stesso modo, un laser è un laser, indipendentemente dalla lunghezza d'onda o dal livello energetico. E la propulsione iperveloce concepita da Marcus, e alla quale avevamo dedicato tanto duro lavoro, aveva una propria fisica e un'impronta caratteristiche. Le navi dei Genizee non mostravano alcun segno di quell'impronta. O avevano viaggiato nel vuoto interstellare utilizzando un metodo così avanzato che non riuscivamo a riconoscerlo, oppure - molto più probabilmente, secondo il punto di vista paranoico di Marcus - stavano deliberatamente occultando tutte le informazioni sulla loro propulsione iperveloce. Né io né Marcus riuscivamo a immaginare una terza possibilità. Quando fu proposta una terza opzione, Marcus non ci credette. Non ci ha mai creduto finora. A ripensarci, gli alieni ci si rivelarono poco alla volta e con molta cautela. Dapprima portarono le loro tre navi in orbita attorno alla Terra, a 800 chilometri di altezza, dove se ne rimasero tranquillamente per una settimana e mezzo, senza fare altro che chiacchierare via radio e accertarsi di essersi impadroniti alla perfezione delle lingue terrestri. In quel periodo ci rivelarono parecchie cose sul loro conto, e in cambio non chiesero altro che le nostre frasi idiomatiche. Il primo giorno scoprimmo che venivano dal sistema di Tau Ceti. (Io e Marcus avevamo fatto centro, anche se era ben poco consolante, a pensarci.) Il secondo giorno ci diedero una descrizione della loro civiltà, con cinque pianeti popolati, lune e legami con altre
intelligenze ancor più lontane. Queste ultime, secondo i Genizee, erano tutte pacifiche, ben intenzionate e solidali come loro. Il quinto giorno avemmo una prima visione dei Genizee. A quel punto, ci avevano addolcito tanto che la reazione di quasi tutti quando videro l'immagine di uno Genizee fu di comprensione: un essere così razionale era costretto a convivere con un così brutto aspetto. La comprensione si affievolì un po' quando i Genizee ci rivelarono che vivevano in media ventisettemila anni terrestri. Alla richiesta di mettere a disposizione degli umani la formula della longevità, replicarono, scusandosi con una scrollatina, che non c'era alcuna formula. I Genizee erano da sempre così longevi. Ci credettero quasi tutti, tranne Marcus. Lui covava già un sacco di brutte congetture. La notizia sconvolgente annunziata dai Genizee alla fine della seconda e ultima settimana confermò in pieno i suoi sospetti. Durante una trasmissione televisiva (il mondo stava incollato alla tv dal loro arrivo) fu loro chiesto del viaggio interstellare. Al che diedero una risposta impossibile. Non avevano utilizzato affatto l'ipervelocità, dissero, ma un'efficiente propulsione inferiore alla velocità della luce che gli aveva permesso di raggiungere la metà di quest'ultima. Avevano impiegato venticinque anni ad arrivare da Tau Ceti. Compivano tutti i viaggi interstellari a frazioni della velocità della luce. L'accolita prestigiosa di illustri scienziati radunati per interagire con gli alieni fu, si può ben credere, lieta di quella risposta. Confermava, dissero, le loro convinzioni che il viaggio a una velocità superiore a quella della luce era un'impossibilità fisica. Niente si sarebbe mai potuto muovere da un punto all'altro: l'ipervelocità avrebbe annullato la distanza. Be', dissero i Genizee con una scrollatina di scuse, non è del tutto esatto. In realtà, il motivo per cui ci siamo imbarcati in questo lungo viaggio per venire di persona sulla Terra, anziché inviarvi dei messaggi ai quali avreste potuto non credere, o ignorare, era proprio questa. Alcuni vostri scienziati stanno conducendo esperimenti sull'ipervelocità... Nessuno si era rivolto a me o a Marcus Aurelius Jackson per aiuto e consiglio quando erano giunti i Genizee. Perché mai? Eravamo giovani e poco importanti, senza una reputazione e meriti riconosciuti, e Marcus aveva già il marchio dell'eccentrico. Anche se avessimo offerto i nostri servigi, nessuno li avrebbe accettati, o anche solo ascoltato quel che avevamo da dire. Tutto questo cambiò nel giro di dieci minuti... I dieci minuti in cui i Ge-
nizee spiegarono che l'ipervelocità non era impossibile, che implicava un enorme pericolo e la possibile distruzione totale di tutte le specie che avessero tentato di realizzarla, per motivi che sarebbero stati lieti di spiegarci; che inoltre tali tentativi erano in corso sulla Terra in quel preciso momento, e che i Genizee erano giunti con due scopi principali: localizzare l'area degli esperimenti e avvertire gli abitanti della Terra, invitandoli a desistere. La mia reazione immediata fu di totale incredulità, con buona ragione. Se i Genizee avevano viaggiato per venticinque anni, dovevano essere partiti venticinque anni prima che sviluppassimo anche solo la teoria della propulsione iperveloce. Perciò non potevano essersi diretti verso Sol solo perché avevano raccolto le prove di quello che stavamo facendo io e Marcus. Fu Marcus stesso, non certo un fan dei Genizee, che si affrettò a correggermi su quel punto. Sapeva da un pezzo che un'eventuale propulsione iperveloce avrebbe generato potenziali sia avanzati che ritardati, simili a quelli della teoria elettromagnetica convenzionale. Ambedue i potenziali si propagavano nello spazio-tempo e si esaurivano in magnitudine... Ma il potenziale avanzato si muoveva a ritroso nel tempo. Quegli esperimenti che ritenevamo tanto segreti sarebbero potuti essere rilevati dai Genizee prima ancora che li eseguissimo. Loro stessi confermarono il suo commento in seguito, nel corso della stessa trasmissione. Potevano rilevare il segnale da lontano, dissero, perfino da Tau Ceti. Ma solo quando si fossero avvicinati di parecchio alla Terra la loro attrezzatura sarebbe stata in grado di fornire un'esatta localizzazione. E ormai l'avevano fatto. Sarebbero stati lieti di fornirla alle autorità terrestri. Lo fecero, aggiungendo per qualche minuto severi avvertimenti contro le propulsioni iperveloci. Bastava usarle una mezza dozzina di volte per provocare "gravi ripercussioni" in quella regione dello spazio. Detto ciò, fra lo stupore generale, misero in moto le loro navi e si allontanarono dalla Terra. Era negativo per una civiltà emergente, spiegò il loro messaggio di saluto mentre le tre navi si allontanavano pesantemente verso Saturno, stare troppo a contatto con una più antica e più sviluppata. Ora che avevano lanciato l'avvertimento, l'unica cosa responsabile da fare per loro era andarsene, e lasciare che noi umani ce la cavassimo da soli. Addio e buona fortuna, popolo della Terra. Immagino che scienziati e politici fossero scioccati. Speravano di becca-
re tecnologia gratis dai Genizee, e non ne avevano cavato altro che chiacchiere. Io e Marcus non ci facemmo molto caso all'epoca, perché avevamo i nostri grattacapi. Nel giro di qualche ora dopo la trasmissione dei Genizee, il nostro laboratorio era stato chiuso e sorvegliato da tanti di quei militari da poter combattere una guerra di vasta portata. Fummo accusati di furto di attrezzature governative, uso indebito dei finanziamenti e voli spaziali senza le necessarie autorizzazioni. Non dovevano essere crimini tali da farci finire al fresco. E invece lo furono. Dopo quello che avevano detto i Genizee, nessuno voleva lasciarci liberi, non per quello che secondo loro avevamo fatto, ma per quello che a detta degli alieni potevamo fare. Calma, ci dicemmo io e Marcus. Non ci terranno dentro per più di un giorno. O no? Anime innocenti! Altro che un giorno. Per la prima volta in vita mia, scoprii che cosa s'intendeva per caccia alle streghe. Dubito che una persona su un milione avesse capito la spiegazione dei Genizee sui pericoli della propulsione iperveloce, ma non importava niente. Gli stessi Genizee ci avevano additato, dunque eravamo colpevoli. Fummo tenuti sotto stretta sorveglianza, senza processo, a meno che non fossero tornati i Genizee a dire che ci si doveva rilasciare. Io stesso non avevo capito a cosa alludesse l'avvertimento dei Genizee quando l'avevo sentito, ma il mio compagno di cella era Marcus Aurelius Jackson. Lui sapeva cosa stavano dicendo al mondo intero... e non credeva a una parola. Marcus non si limitò a esporre le sue ragioni a me. Le disse alle guardie, alle nostre rispettive famiglie e alla fine, dopo due mesi di lavoro da parte mia, si riuscì a convincere tre esponenti della stampa, che vennero a intervistarci nella nostra prigione di massima sicurezza nel deserto del Nevada. «Per una propulsione iperveloce occorre una quantità spaventosa di energia» disse ai tre reporter. Eravamo tutti seduti in una stanza, senza sbarre tra di noi, perché mi ero lavorato a dovere le guardie, e alla fine le avevo convinte che magari eravamo pazzi ma sicuramente innocui. La stanza aveva perfino una finestra dalle sbarre sottili, con solo quattro guardie all'interno e due fuori dalla porta. «Un'enorme quantità di energia» proseguì Marcus. «L'unico modo pratico, e anche teorico, per ottenere tanta energia è dallo stesso vuoto assoluto. Bisogna attingervi.»
«Vuol dire ottenere energia dal nulla?» chiese il giornalista più giovane. Aveva un viso aperto, ingenuo. Gli altri due, un uomo e una donna, non sembravano neanche vagamente interessati, e pensai che per loro tutto quel viaggio doveva essere un incarico dal quale non erano riusciti a scappottarsela. «Non dal nulla. Dal vuoto!» Era quello uno dei problemi di Marcus, perché anche se era chiaro dalle espressioni dei loro volti che questa sottile distinzione andava al di là delle capacità di comprensione dei reporter, riprese subito: «Ora, l'energia disponibile nel vuoto è così grande che si tende a considerarla illimitata. Ma i Genizee insistono sul fatto che attingere l'energia al punto zero provoca una tensione locale nello spazio, che alla fin fine dev'essere eliminata. Se si sottrae energia in una zona oltre un certo punto critico, dicono, si verificherà un salto a uno stato fondamentale di più basso livello energetico. L'unico stato più stabile è un buco nero. L'intera regione si mette ad assorbire dal resto dell'universo». «In altre parole» dissi io «il resto dell'universo si sbarazza della regione sottoposta a tensione facendola svanire.» Vidi le bocche aperte e mi chiesi se non stessi diventando oscuro come Marcus. Ma me l'aveva ripetuto tante di quelle volte che alla fine mi era entrata in testa della roba con un po' di senso. Forse il mio era un quadro troppo semplificato, ma ai reporter dovette risultare più digeribile. «Immaginate che l'universo sia un ammasso di elastici» continuai. «Qualcuno comincia a tenderne uno, da qualche parte. È questo che abbiamo fatto quando abbiamo collaudato la propulsione. Lo si può tendere un bel po', e non succede niente. Tutti gli altri elastici cedono un pochino e tutto torna a posto. Ma se si continua a tendere, arriva un punto in cui qualcosa deve cedere. L'elastico si rompe. E quando questo succede, niente può tornare come prima. Con l'elastico spezzato, si viene catapultati fuori da questo universo.» «Ed è contro questo che ci stanno mettendo in guardia i Genizee?» disse il giovane reporter. «Sì, ma non è affatto vero» disse Marcus con trasporto. «Quando ho sentito quello che dicevano, mi sono rifatto tutti i calcoli dall'inizio. Non c'è nessun effetto di rinculo. Lo spazio-tempo effettua un piccolo e tranquillo aggiustamento. Magari la curvatura locale decresce da una parte su dieci alla ventesima. La propulsione iperveloce è del tutto sicura.» «Ma questo significa che i Genizee ci hanno mentito» disse la donna, in tono irritato. «Vorrebbe sostenere che non hanno fatto tutto il viaggio su
quelle navi? O che non ci hanno messo un quarto di secolo ad arrivare?» «Entrambe le cose!» disse Marcus ad alta voce. Le guardie entrarono in agitazione, assicurandosi di avere le armi a portata di mano. «Mentivano in ambedue i casi. Non hanno fatto tutto il viaggio su quelle navi e non ci hanno messo un quarto di secolo ad arrivare sin qui. Sono venuti da Tau Ceti, se ne sono davvero originari e se non mentono anche su quello, su una nave grossa e rapida, a propulsione iperveloce. Hanno parcheggiato l'astronave madre oltre Saturno, dove non potevamo vederla. Dopodiché si sono trasferiti su quelle navicelle lente, e si sono fatti pian pianino il resto del viaggio fino alla Terra.» Marcus stava per perdere ogni possibile briciolo di credibilità, perché il giovane reporter si affrettò a fare l'ovvia domanda: «Ma perché ci avrebbero mentito? Cosa ne speravano di ricavare?» «Non vogliono che usiamo l'ipervelocità. Ci vogliono imbottigliare qui, nel sistema solare. Non ci vogliono affatto, noi umani, lassù tra le stelle. Credo abbiamo paura di noi, perché siamo più intelligenti di loro.» Sembrava un atteggiamento paranoico, perfino a me. Stava sprecando fiato. Anche se i reporter gli avessero creduto, e mi sembrava chiaro che non era quello il caso, non avrebbero mai trovato un direttore disposto fargli pubblicare il pezzo. I Genizee, all'inizio di aspetto repellente, non erano rimasti tanto da far capire agli umani i loro possibili difetti. Il loro modo di esprimersi lento e pasticciato e l'apparente confusione, che Marcus riteneva fossero la prova della superiorità mentale degli umani, erano per la maggior parte della gente una componente del loro fascino. I Genizee erano diventati gli alieni preferiti di tutti, e non c'era verso di parlarne male. I grandi magazzini traboccavano di cilindri gelatinosi piccoli e graziosi sormontati da un ciuffo, anche se per ragioni estetiche quei giocattoli non avevano lo strato di melma che consentiva di stare fuori dall'acqua ai Genizee, anfibi. In un'eventuale disputa tra Marcus Aurelius Jackson e i Genizee, M.A.J. non aveva una sola possibilità di spuntarla. Dopotutto, gli altruistici Genizee non avevano dedicato tanti anni delle proprie vite solo per venire sulla Terra ad avvertirci? E ora non stavano tornando faticosamente indietro lungo gli anni luce nelle loro navicelle strette e scomode, con venticinque anni di viaggio davanti a sé? Quanta altra gente sulla Terra avrebbe fatto qualcosa del genere, anche solo per salvare dei parenti stretti? Specialmente per salvare dei parenti stretti. Così, anche se Marcus continuava a parlare, sapeva di sprecare del tem-
po. Sapeva che non avrebbe avuto una riga di stampato o un secondo di trasmissione per le sue opinioni impopolari. Mi sbagliavo, visti i risultati. "L'INCORREGGIBILE SCIENZIATO PAZZO!" proclamava l'unico titolone dedicatogli. E sotto: "Chiesta la pena di morte per gli inventori psicopatici". Marcus è un caso interessante per gli psicologi. Quando la sua idea di una propulsione iperveloce era stata messa in ridicolo, aveva raddoppiato i suoi sforzi. E quando le sue opinioni altrettanto eretiche sui Genizee furono derise, immediatamente volse tutte le sue energie dalle congetture ai possibili metodi per provarle. «Ci dev'essere un modo per dimostrare che ho ragione» disse. «Wilmer, permettimi di riepilogare i fatti.» Non replicai. Quando si vive assieme in una cella, è difficile evitare una discussione. «Punto primo» continuò Marcus. «Secondo me il potenziale avanzato del nostro test si deve esaurire rapidamente, man mano che va indietro nel tempo. I Genizee dicono di averlo rilevato un quarto di secolo fa, io invece sostengo che si esaurisce a livello ambientale e diviene non rilevabile nel giro di un anno o anche meno. Se ho ragione, e ce l'ho, non possono aver raccolto prove del nostro test più di un anno prima di venire qui.» «Punto secondo. Dicono di venire da Tau Ceti, e la loro traiettoria di partenza va a sostegno di quest'idea. Anche in caso contrario, comunque, sono venuti certamente da oltre il sistema solare. La stella più vicina è a oltre quattro anni luce. Quattro anni luce, o di più, in un anno o meno significa che sono venuti per forza usando una nave a ipervelocità. «Punto terzo. Se ne sono andati due settimane fa. Se intendevano davvero rifarsi tutta la strada per Tau Ceti, o un'altra destinazione interstellare, in quelle navi subfotoniche, sono ancora nella fase di accelerazione iniziale del viaggio. Anche col più efficiente sistema propulsivo che mi venga in mente, gli ci vorrebbe quasi un anno per arrivare a metà della velocità della luce.» Mi fissò: «Capisci che significa?» «Significa che sono ancora a un bel pezzo di strada da casa. Sono altruisti proprio come credono tutti.» «No.» Se quelli della stampa avessero visto Marcus ora, avrebbero ritenuto pienamente giustificato il loro titolo L'INCORREGGIBILE SCIENZIATO PAZZO. «Wilmer, significa che se dicevano la verità su come so-
no venuti qui e come tornano indietro, e dove vanno, in tal caso chiunque viaggiasse con una nave a ipervelocità potrebbe partire per raggiungerli. Se loro non sono dove dovrebbero trovarsi, allora mentono, o sul fatto di venire da Tau Ceti o sulla propulsione. Basta una bugia a screditare tutto quello che ci hanno raccontato. Se proprio vuoi saperlo, secondo me sono già a casa, dovunque si trovi, e scommetto che non è Tau Ceti, a sganasciarsi di risate su quanto sono creduloni i terrestri.» Lo guardai, poi lasciai vagare lo sguardo sui muri bigi e spogli della stanza. «Ora permettimi tu di riepilogare i fatti, Marcus. Punto primo. C'è solo una propulsione iperveloce nel sistema solare ed è sotto sequestro, in orbita e custodita con misure di massima sicurezza, perché tutti sulla Terra e nello spazio ne hanno terrore. Se non avessero paura anche solo di sfiorarla, l'avrebbero distrutta da un pezzo. «Punto secondo. Ci sono solo due esseri umani in grado di far volare quella nave. Nessun altro si avvicinerà alla Godspeed. «Punto terzo. Quei due umani sono rinchiusi in una stanza sotterranea di un edificio nel bel mezzo del deserto del Nevada. Non hanno attrezzi, amici, soldi, non una maniera per andare nello spazio, e tanto meno per arrivare alla Godspeed. Scordatelo, Marcus, non ce la faresti mai, neanche in mille anni.» «So che io non ce la farei» disse, continuando a fissarmi. Sentii un fremito allo stomaco, come se la colazione precedente fosse diventata una massa di vermi vivi. «So che io non ce la farei» ripeté. «Non è il mio genere. Ma tu, Wilmer, se tu...» «È impossibile.» «Ne sono certo.» «Del tutto impossibile.» «Già.» Si alzò e andò a stendersi sul letto senza aggiungere una sola parola. Dopo qualche istante anch'io andai a sdraiarmi sul letto, e chiusi gli occhi. Decisi che non ero stato del tutto onesto parlando con Marcus. Avevo ancora degli amici fuori, e qualche credito con loro per dei passati favori. Avevo anche coltivato le nostre guardie, attingendo un po' al capitale di Marcus, a un punto tale che normalmente ci avrebbero abbandonato a noi stessi, ma mi avrebbero fatto qualsiasi favore strapagato, sempre che ovviamente non costituisse una minaccia per loro e per altri. Per quanto riguardava le misure di sicurezza che circondavano la Godspeed, probabil-
mente avevo esagerato. Nessuno se ne preoccupava granché, almeno finché io e Marcus eravamo rinchiusi lì... Rabbrividii, interrompendo il corso dei miei pensieri in quel punto. Cosa stava cercando di farmi fare Marcus? Aiutarlo a distruggere noi stessi, insieme all'intera razza umana? Però lui aveva toccato quel punto oscuro e nascosto in cui si trova l'ego. Ormai i vermi mi si erano insinuati dallo stomaco alla gola, e di là al cervello, appiccandogli fuoco. Se fossimo scappati dalla prigione, sarebbe scattato subito l'allarme. Si sarebbero messi alla nostra ricerca. Non ce l'avremmo mai fatta ad arrivare troppo lontano dalle mura della prigione, per non dire nello spazio, e le guardie attorno alla Godspeed sarebbero state triplicate di numero e poste in stato di massimo allarme. Ma bastava una persona a far volare la Godspeed. E ci sarebbe voluto un autentico gioco di prestigio qui, in prigione, per nascondere il fatto che era scappato un prigioniero. Dunque, Marcus a pilotare la nave e progettare i programmi che avrebbero permesso quella specie di sequenza a scatti effettuata dal carico automatico verso Marte, in cerca della nave dei Genizee a ogni passaggio. Io qui a sistemare le cose... Come, per amor di Dio? Non ne avevo idea... e anche di come far sì che nessuno si accorgesse che Marcus era scappato finché non fosse giunto alla Godspeed. Aprii gli occhi. Marcus era seduto sul letto e mi guardava pieno di aspettative. «Allora?» domandò. «Va' al diavolo.» Chiusi di nuovo gli occhi. Per chi mi aveva preso? Me ne ero stato lì per non più di tre minuti. Qualche volta le cose straordinarie si possono fare alla svelta. Per i miracoli ci vuole un po' di più. Un "po' di più" in questo caso furono sei settimane. Tutto dovette essere orchestrato meglio di un aggancio in orbita fra cinque navi. Suddivisi il problema in una serie di tronconi, per ognuno dei quali occorreva una soluzione se l'intera faccenda doveva andare in porto. Marcus sarebbe dovuto scappare da qui di nascosto. Quindi dovevo occultare le prove della sua assenza per almeno cinque giorni. Marcus avrebbe avuto bisogno di tutto quel tempo per arrivare dal Nevada alla Godspeed. Dopo gii sarebbero servite delle credenziali per salire a bordo della nave e restarci indisturbato. A quel punto toccava a lui. Ero pronto a un tentativo che avrebbe richiesto un anno, con una buona
probabilità di fallimento alla fine. Il fatto curioso è che il mio successo fu possibile in sei settimane solo perché ero stato messo in prigione. Avendo abbastanza denaro, e io e Marcus ne avevamo a palate, un uomo può ottenere in galera tutto quello si può ottenere fuori... più un bel po' di altra roba. Le prigioni, come imparai alla svelta, sono i naturali punti focali di tutte le attività immaginabili, legali e illegali. Volete che Marcus Aurelius Jackson prenda parte agli esperimenti di deprivazione sensoriale condotti al momento in questa stessa prigione? Il gruppo universitario esterno responsabile degli esperimenti sarà lieto di averlo. Per loro, un prigioniero benestante è come un altro, tutto quello di cui hanno bisogno sono le segnalazioni delle guardie. Portare qualcuno di fuori in galera, per entrare nel contenitore di deprivazione sensoriale al posto di Marcus, costa qualche migliaio di dollari. Far uscire Marcus con i vestiti di quell'individuo è più costoso, ma non molto più difficile. Non c'è nulla che sia a buon mercato. Vi piacerebbe una serie di credenziali false, secondo le quali siete un uomo d'affari del Nevada in viaggio nello spazio con esigenze di segreto commerciale? Non c'è problema, a parte i soldi, e parecchi. Molti dei migliori falsari del mondo sono già rinchiusi in galera, pronti a servirvi. L'unico pezzo del rompicapo che non riuscivo a capire come risolvere sarebbe stato a bordo della stessa Godspeed. Marcus non voleva compagnia per il suo viaggio, perciò qualcuno doveva fare in modo che restasse da solo sulla nave, abbastanza da poter effettuare il primo passaggio all'ipervelocità. Mentre ci stavo ancora pensando su, Marcus aveva per la mente tutt'altro problema. «Spero che l'impianto di alimentazione della nave sia stato lasciato acceso» disse, mentre trasferivamo parte del suo denaro su un conto bancario anonimo. «Sarebbe un guaio dover rimettere in funzione tutti i sistemi.» Lo fissai: «Grazie, Marcus. Ne avevo proprio bisogno». Secondo le sue false credenziali, nuove di zecca, era uno specialista di sicurezza industriale, in volo verso la Godspeed per disattivare le pericolose componenti nucleari della nave, in modo che non potessero esplodere. Con quelle alla mano e qualche parola buttata lì a caso mentre saliva a bordo, sarebbe stato difficile che restasse qualcuno nel raggio di mille chilometri. L'ultima mattina ci stringemmo la mano, per la prima volta da quando eravamo amici. La porta venne aperta dall'esterno. Marcus uscì dalla cella,
e al suo posto apparve un individuo sui vent'anni, con lo sguardo perplesso e una brutta acne. Vennero a prenderlo nel giro di un'ora. Per un attimo mi domandai se avesse mai saputo cosa fossero gli esperimenti di deprivazione sensoriale. Dal suo sguardo, non sarebbe stato un grosso cambiamento rispetto alla condizione attuale. Mi diedi una calmata, per valutare i movimenti di Marcus. Adesso doveva essere arrivato all'aeroporto, scendeva dall'auto preparata per lui fuori dalla prigione e ritirava il biglietto. Adesso doveva essere alla base spaziale, che subiva i controlli fisici di routine, compresa un'identificazione col DNA. Avrebbe dovuto superarla facilmente: avevo assunto il miglior hacker disponibile sul mercato, per inserire un profilo d'identificazione di Marcus nella giusta banca dati computerizzata. Otto ore dopo sarebbe dovuto salire in orbita, e dopo altre quattro ore sarebbe stato a bordo del velivolo di trasferimento orbitale, diretto alla Godspeed. Tenni accesa la tv ventiquattro ore al giorno. Niente nuove, buone nuove, ovvio, finché Marcus non fosse arrivato alla Godspeed compiendo il passo finale. Avevo tutto il tempo di chiedermi se la mia fede in Marcus non fosse eccessiva. Si trattava di un uomo contro il mondo, della sua autorità contro la parola dei Genizee. Stamane, come previsto, la tv si è fatta viva. Su tutti i canali c'era la notizia dell'inspiegabile scomparsa della Godspeed. Era ovvio che non avevano la minima idea di cosa stesse accadendo, dato che i commentatori erano preoccupati per il destino dell'"ispettore di sicurezza" che si trovava a bordo al momento del fatto. Nel giro di un'ora sono venuti a interrogarmi. Mi sono visto in televisione e ho appreso con mio sollievo che Marcus Aurelius Jackson era "in prigione ma non disponibile per un commento". Ho detto di non poter rivelare loro niente di utile. Penso di essere apparso preoccupato. Ero preoccupato. E adesso, nel tardo pomeriggio, in attesa di un'altra intervista televisiva, osservo le mie guardie e il sole pomeridiano che scende fra le sbarre della minuscola finestra, e sono ancora preoccupato. Anche se Marcus e la Godspeed sono partiti solo da dieci ore, sarebbero dovuti tornare da un pezzo. Per seguire il presunto percorso dei Genizee ci sarebbero voluti solo pochi secondi, anche con le brevi pause tra i passaggi per tornare nello spazio normale in cerca delle navi dei Genizee. Marcus poteva essere arrivato a mezzo anno luce, ben oltre il punto raggiunto dalle
loro navi lente, ed essere tornato da ore. Mi sono passati per la testa strani pensieri. Supponiamo che Marcus abbia trovato le navi dei Genizee e loro lo abbiano distrutto per impedirgli di tornare a raccontarlo? Non gli avevamo chiesto se a bordo delle navi trasportavano armi. Ma mi accorgo che il mio pensiero è del tutto illogico. Marcus poteva trovare i Genizee solo se ci avevano detto la verità, e stavano arrancando sulle loro navi lumaca. In quel caso non avrebbero avuto niente da nasconderci. Ma forse Marcus, non essendo riuscito a trovare alcuna traccia dei Genizee diretti a Tau Ceti, aveva deciso che ci stavano nascondendo il loro vero punto di origine. Sarebbe stato facile per lui far compiere un secondo viaggio alla Godspeed verso un altro probabile bersaglio tra le stelle. E se questo non avesse dato alcun risultato, sarebbe potuto ripartire. Quanti altri viaggi avrebbe potuto compiere, prima di ottenere prove sufficienti a dimostrare a tutti i terrestri che i Genizee avevano mentito? Conosco molto bene Marcus. Fa parte della sua natura essere assolutamente sicuro delle cose. Non rischierà di farsi irridere nuovamente. Io mi sarei accontentato di un solo viaggio e l'avrei conclusa lì. Lui era capace di farne una dozzina. Il che mi porta da tutt'altra parte. Secondo i Genizee, basterebbe impiegare una mezza dozzina di volte la propulsione iperveloce per provocare "gravi ripercussioni" in una regione dello spazio. Una regione grande quanto? I Genizee parlavano del collasso in un buco nero che era parte dello spaziotempo, con la conseguente separazione di quella regione dal resto dell'universo. Parliamo del collasso di qualcosa delle dimensioni di una nave... di un pianeta... o del sistema solare? Il collasso avverrebbe con violenza, con calma o con discrezione? E la Godspeed si troverebbe all'interno di questa regione o ne sarebbe esclusa? E se Marcus e la sua nave ne restassero fuori, non potrebbero diventare l'unica prova nell'universo dell'esistenza degli umani? Questo è il tipo di domande alle quali non so rispondere. Vorrei che Marcus fosse qui ad assicurarmi che i Genizee certamente mentivano, che sto dicendo delle sciocchezze, che non c'è niente di cui preoccuparsi. Il sole al tramonto di mi dà un po' di sollievo, con i raggi che attraversano come sempre la piccola finestra con le sbarre. Ma vorrei che arrivasse subito l'oscurità. Voglio vedere le stelle. Titolo originale: Godspeed
Analog Science Fiction and Fact July 1990 OCCHI PROFONDI di Gregory Benford Seguiteci nella caccia all'ultima mantide ultratecnologica 1: Il vuoto della Mantide Lui e Quath scoprirono la macchina aliena nelle fauci dell'oscurità. Quath inviò un segnale emag, una puntura di spillo di un arancione vivido nel sensorio di Toby - poi il silenzio. Toby attese. Quath si spostò in silenzio verso destra, racchiuso in un buio così profondo che non riusciva a scorgersi la mano senza far ricorso al sensorio. La Mantide era lassù da qualche parte. Sensi che non poteva nemmeno nominare gli rivelarono che altre creature si stavano muovendo anche qui. Avevano poco emag, se non nulla del tutto, però seguivano una pista, le scie chimiche lasciate dagli altri, odori che filtravano dalle ghiandole profonde, sbuffi e sentori liberati per caso o di proposito. Tutto, qui, aveva padroneggiato questi canali chimici. I sensi biologici di Toby non li percepivano. Gli umani si aberravano a rumori e vista, i punti forti dei primati. Qui i piccoli rumori di scavo e scalpiccio gli dicevano che c'erano altri teatri, altri spettacoli, e lui non sarebbe mai stato tra il pubblico prescelto. Eppure con Quath era stato in quel teatro, e ne era uscito diplomato per questo curioso mondo d'ombra fatto di profumi elettromagnetici e di squassanti morti voltaiche. Un rivolo di domande gli si fece strada nel sensorio. Lì: Quath. Assieme si spostarono tra cespugli irregolari. Si concessero il tempo di superare gli intralci. Persino una lacrima avrebbe allarmato la Mantide e poi ci poteva anche essere una trappola. Quath fu scossa da un fremito d'impazienza. Ruscelli argentei d'eccitazione magnetica arrivarono a Toby, sparsi e a corto raggio, effusioni involontarie. Il mormorio della vita chimica cessò. Silenzio. Toby non riusciva a vedere nulla, né attraverso gli occhi né attraverso le dotazioni sensoriali. Quath si avvicinò, una presenza che sentì come un cuneo d'aria, adesso alla
sua sinistra. Poi la colse. La Mantide era un lastrone di vuoto alla sua destra. Non sarebbe riuscito a sentirlo se non fosse rimasto assolutamente fermo e all'erta. La sensazione non venne da ampi scrosci del suo apparato ricognitivo, che sgorgavano attraverso nervi e ossa. Quelli rimasero quiescenti. La Mantide riusciva ancora ad apparire come un vuoto, un'assenza. Si mosse a una distanza indefinita, ma Toby riuscì in qualche modo a fiutarla; I vecchi sensi raccolsero un puzzo d'acido e di fredda putrefazione. Non osò muoversi, ma l'odore che aleggiava su una brezza gelida gli disse abbastanza. La Mantide si stava spostando veloce, e la distesa vuota si restrinse. Adesso il vuoto fu bordato di grigio. Sembrava normale, ma sapeva che era il vuoto, l'assenza della Mantide. Da essa poteva scattare in qualsiasi frazione di secondo un aculeo biforcuto. Morte o ferite, o ali emag. Poi fu soltanto un puntolino. Sempre in movimento. Toby sussurrò a Quath nella trasmittente a corto raggio: — Raccolte le sue tracce?
— Quanto? — Pensi che se ne possa liberare? — Allora la dobbiamo raggiungere. Allora si ritirarono. All'inizio con prudenza, tornarono attraverso il buio immoto e assoluto, mentre le creature si agitavano lungo il loro cammino. Adesso la Mantide non era nemmeno più un puntolino, così Toby si lasciò andare, non facendo caso alle lacerazioni che si procurava mentre attraversavano una parete di rovi spinosi. La sua tuta si sarebbe autoriparata entro breve, mentre il tempo perso non lo si sarebbe potuto recuperare se non con grande fatica. Lui e Quath erano sulle sue tracce da un pezzo, tanto che, sotto il fremere d'energia, nelle gambe sentiva filtrare la spossatezza. Si stava alzando il vento, e anche il terreno si stava spostando sotto di loro. Qui, dove l'esty si smuoveva con sorda vitalità, dovevano stare attenti a dove mettevano i piedi. Il terreno stesso era di fattura aliena, un labirinto spaziotemporale creato da forze antiche e sconosciute, e la Mantide sembrava lo conoscesse meglio degli umani. Raccolsero gli strumenti che avevano abbandonato in precedenza. Toby
s'era liberato dell'arma, una sparadardi lunga ed elegante con l'alimentatore sul calcio. Quath disse: <Se l'avessi portata, ci avrebbe visti> — Ne sei sicura? — Anche noi. — Anche tu sei mezzo macchina, amica. — Ah, indecisione? Quando la Mantide e i suoi simili hanno ucciso tanti dei nostri? — La famiglia Bishop ha perso più della metà dei suoi membri per colpa di quella Mantide. — Eh? <Siete noti per la vostra gelosia territoriale e per l'animosità.> Toby aveva soltanto una vaga idea di quel che intendeva dire Quath, ma non era una cosa nuova. Lei era un incrocio di varie razze organiche insettiformi - il suo "substrato", come le definiva -, con degli inserti meccanici. Nella sua struttura era inclusa la possibilità cibernetica di comunicare con gli umani. Il percorso inverso, cioè la possibilità che le persone potessero parlare con i Miriapodi in quella loro gragnola di suoni digitali, non aveva trovato sbocchi. Gli umani non possedevano tali capacità o capacitazioni. — Siamo anche noti per essere duri da far fuori. — Un Bishop scorge la Mantide, noi la inseguiamo. Sarebbe "animosità", questa? — Uhm, direi di sì. E proprio in questo momento la carne esige riposo.
2: Inseguimento difficile «Sei sicuro che non vi abbiano sentito?» chiese il padre. «Sissignore.» «Quath?» Gli occhi di Killeen si spostarono per studiare la testona della millepiedi. Toby non era mai riuscito a capire perché si prendesse la briga di farlo. Abitudine, forse. La faccia dell'alieno era una distesa irta di sensori in cui Toby non era mai riuscito a decifrare un'espressione. <È nella natura dell'elettromagnetismo che l'individuazione non possa mai essere esclusa.> «Maledizione» fece Killeen. «Non volevo che mi impartissi una lezioncina.» «Livello di sicurezza?» <Approssimativamente settanta.> Killeen annuì. «Non c'è male. Andiamo.» «Adesso?» Toby avrebbe preferito riprendere fiato. «Non serve a niente stare ad aspettare.» Con irruenza Cerino si fece strada lungo il calanco, arrivando ansimante fino alla sporgenza su cui erano seduti gli altri. «Non ricevo nulla dai fonorilevatori esterni.» Il suo faccione si corrugò per l'apprensione, ma non aggiunse altro. L'uomo corpulento si sistemò sulla sporgenza e si mise a guadare verso l'orizzonte. Una luce perlacea si stendeva sulle lontane cime calcaree. Era come un'alba soffocata in un mondo ripiegato su se stesso. Sopra di loro si stagliava il paesaggio di un lontano deserto bronzeo. La distesa, a parecchie centinaia di klick, ma ancora visibile attraverso la foschia ovattata, era solcata da letti di fiumi in secca. Quelle vallate fluviali sembravano antiche e Toby sapeva che le potevano raggiungere con circa una settimana di marcia forzata, attraverso scarpate e macerie. Forse la Mantide li avrebbe portati là. Il sentiero era tortuoso e "accidentato, lo spazio tempo s'avvolgeva su se stesso in nodi non immaginabili fin quando non li avevi affrontati. «Dirigiamoci là, allora» disse Killeen alzandosi. Mentre si avviavano Toby sentì una vampata d'entusiasmo che durò fin quando non rintracciarono la scia della Mantide. All'inizio pensava di essere più forte di Killeen e Cermo, spazientendosi per il loro procedere posato mentre setacciavano l'area in cerca di tracce. Killeen si fermava ogni ora
per riposare, vecchia disciplina della famiglia Bishop che però, proprio all'inizio di un inseguimento, bastava a irritare Toby. — Poco ma sicuro che posso avanzare più veloce di così — comunicò a Quath nel loro circuito privato. Quath, che avanzava su propulsori interni potentissimi, li poteva staccare tutti facilmente. — Forse dovresti andare avanti tu. — Quali sarebbero? — Toby era sinceramente interessato. Le capacità dei Miriapodi ridicolizzavano quelle degli umani. — Uhm, tutto qui? Dopodiché Quath non disse più nulla. Toby ci rifletté su un po' ma a quel punto aveva cominciato a spazientirsi mentre Killeen e Cermo stavano sempre avanzando con il loro ritmo continuo. Si concedevano le medesime brevi pause esattamente ogni ora poi ripartivano. Anche Quath stava affrettando il passo. O almeno così sembrava, anche se attraverso gli occhi che pizzicavano per il sudore adesso la terra gli si stava aprendo davanti più velocemente e lui vi si tuffava con un'energia rinnovata, generata dalla fatica stessa. Arrivarono al primo dei loci della Mantide, in una scarpata di cronopietra scintillante. Cermo individuò il piccolo esagono lucente, e disse, assestandogli un calcio: «La Mantide sta cascando a pezzi». esclamò Quath. Lo fece. Il volto consunto di Killeen si contrasse. «Perché? Cosa sta facendo?» <Sospetto che si stia liberando delle porzioni indesiderate. Sottocoscienze di cui non ha bisogno.> Toby domandò: «Che senso ha?» «Alleggerirsi» rispose Cermo. Toby soppesò il frammento sul palmo della mano. «Questa roba non possiede massa.» «Probabilmente ha scaricato un intero settore e questo è solo un frammento» aggiunse Cermo. Aveva cacciato macchine di tutti i generi e specie e le disprezzava con distacco nonostante avessero abbattuto molti suoi amici.
«Buon segno» fece Killeen con voce piatta, poi proseguirono. Il terreno cominciò a muoversi sotto di loro. L'aspetto peggiore di quel fenomeno stava nella confusione viscerale che generava, nella nausea e nei sobbalzi che ribaltavano lo stomaco. Gli occhi di Toby non gli rimandavano quello che sentivano i piedi e il corpo. Si ricordava che una volta Quath gli aveva detto, a proposito della cronopietra: Il tratto che meglio la definisce è la sua mancanza di definizione, e allora aveva pensato che fosse un gioco di parole. Non più. La pietra si apriva e dallo spiraglio scaturiva ribollente un vapore perlaceo. Cortine di esty turbinavano all'esterno in veli trasparenti, dissolvendosi nel momento stesso in cui s'innalzavano. Salì uno spruzzo che lo racchiuse in un alone di se stesso, catturato e momentaneamente riflesso nella foschia degli eventi, come se fosse nel medesimo tempo lì e nei dintorni, a unirsi sfarfallante al resto di quanto lo circondava. L'altro sé si staccava volteggiando attorno alle cime dei rilievi, diventando una ghirlanda nel vento sferzante, sfilacciata nel vapore rifratto. «Qui si fa dura» fu tutto quel che riuscì a dire Killeen. Proseguirono nella terra sconvolta. Poi Toby capì che avrebbe fatto meglio a restarsene là dopo che con Quath aveva individuato la Mantide. Adesso era un Bishop cresciuto, ma in questa ricerca l'esperienza era cruciale e lui ne aveva ben poca. La Mantide e Killeen si combattevano sin da quando lui riusciva a ricordarsene. Toby aveva voluto partecipare, ma sapeva di essere d'intralcio agli altri, anche se naturalmente loro non lo esprimevano a chiare lettere. Cermo lo rivelava con lo sguardo, fermo e scuro. Non c'era più niente da fare, l'inseguimento era in corso. E quel terreno era troppo pericoloso perché Toby potesse tornare indietro da solo. La Mantide non era la sola macchina ad alta tecnologia da quelle parti. Erano rimasti a guardare da lontano mentre le escavatrici e i sarchiatori scavavano e rovistavano in cerca di detriti meccanici. Perciò si rassegnò. Proseguì senza dire una parola, per un lungo tratto, con ostinazione. Intorno a loro era tutto un rigoglio di strane vegetazioni, rocce aggrovigliate e aria grumosa, dove l'energia dell'esty si esprimeva in ricca schiuma. A Toby sembrava che qualche dio demente stesse modellando incessantemente la terra al di là di un plausibile utilizzo. La distesa verde sembrava beota, insensata. Comprese soltanto in modo vago che l'irritazione era frutto della fatica. Per quella non c'era niente da fare, e lo lesse nel volto del padre. Dietro le lunghe falcate dei loro passi non faceva
che inciampare, perciò fu ben lieto quando si fermarono di colpo. Per reggersi in piedi mentre gli altri studiavano qualcosa sul terreno dovette appoggiarsi a una roccia, temendo di essere tanto stremato da non riuscire più a rimanere diritto. Era una bobina di una sostanza traslucida eppure micacea. disse Quath. In un incavo c'erano delle componenti locomotrici impolverate, un intero gruppo di trazione, cingoli, tutto scaricato. Toby le guardò con attenzione notando che erano modulari. Quath si tamburellò sui fianchi. Cermo e Killeen ispezionarono il terreno. Lo facevano da quando avevano cominciato l'inseguimento, parlandosi continuamente. Toby osservò le depressioni rotondeggianti e le impronte angolari appiattite, notando i ramoscelli spezzati dove era passata la cosa. I peduncoli dei ramoscelli non erano ancora secchi e Cermo li palpò. L'erbaccia era calpestata ma non ancora ingiallita come sarebbe stata entro breve. «Se la cava bene per un terreno accidentato» disse Cermo. Killeen replicò serio: «Si farà dura». Toby intervenne. «Se me ne sono accorto io di lei, forse i suoi sistemi sono tanto malridotti...» «Hai detto che non l'hai vista» protestò Cermo. «Soltanto sentita.» «Sissignore.» Cermo scosse lentamente il capo mentre guardava l'erba calpestata. «Se la raggiungiamo, non sarà quel sentire a cui siamo abituati.» Naturalmente aveva ragione. La Mantide era invisibile al sensorio umano. Poteva distogliere l'attenzione, deviare gli indizi, dispiegare migliaia di trucchi tecnologici. Toby strascicò i piedi su una pietra senza replicare. disse Quath. «Abbastanza da non poterci tendere un'imboscata?» Killeen guardò scettico la massa cangiante di Quath. «Oppure ce lo vuol far credere» replicò Killeen. Sorrise per attenuare la secchezza della risposta. Toby si domandò se Quath avesse capito il significato del lampeggiare dei denti gialli in quella faccia rugosa, da gheriglio di noce.
3: La raffica della confusione Man mano che col passare delle ore il ritmo si faceva più sostenuto, Toby si sentiva più confuso. A quel punto il vero nemico era la sua mente svagata, annebbiata. Continuava a camminare a grandi falcate dietro gli altri, ineluttabilmente, cercando di attraversare la nebbia che lo indeboliva. Inseguirono la Mantide basandosi sulle tracce delle scalfitture dei cingoli sul terreno roccioso. Cermo e Killeen si allargavano continuamente ai lati nel caso la Mantide lasciasse una falsa pista procedendo all'indietro. Continuavano anche a guardarsi alle spalle per assicurarsi che Toby fosse sempre in vista. Il lato più umiliante era che l'avevano già fatto uguale anni prima, quando Toby era un bambino, mentre adesso non lo era più. Uomini e donne continuavano a crescere per tutta la vita perciò gli adulti potevano distanziare i figli fino a che non venivano colpiti dagli acciacchi della tarda età. Toby sapeva che c'era stato un tempo in cui un ragazzo, raggiunta la maturità, era forte come chiunque altro, ma quel tempo era finito a causa della competizione con i mech, che si potevano sempre potenziare a un livello ulteriore. Gli umani avevano mutato la propria biologia e biochimica in modo da competere con le macchine, e in tal modo si erano estraniati dal loro stesso passato. La cronopietra rifluì. Attraverso il paesaggio scabro filtrarono bagliori trasparenti. Qui i giorni e le notti non avevano ritmi costanti perché l'illuminazione proveniva dalla luce intrappolata nella curvatura stessa dello spazio-tempo. La rifrazione e gli sfasamenti temporali conferivano alla radiazione una natura vacua, come se fosse stata passata attraverso un filtro per liberarla dalle punte più aguzze. Quando si fermarono per accamparsi, Toby cadde addormentato contro un masso. Se ne accorse quando si abbatté al suolo e gli altri scoppiarono a ridere, non Quath, naturalmente. Si costrinse a svolgere il suo materassino, dove s'addormentò appena vi si fu disteso, svegliandosi soltanto quando suo padre gli sfilò gli stivali per controllare se avesse delle vesciche ai piedi. «Stai andando bene» disse Killeen sottovoce nell'oscurità. Il naso di Toby captò l'odore inebriante di vegetali freddi ma cucinati, scoprendosene un piatto accanto alla testa. Li mangiò senza dire una parola, e suo padre gli portò dal fuoco del tè caldo e speziato. Non era una fiamma, naturalmente, ma un carbobruciatore, perché i mech non li potessero individuare dal fumo o dalla luce. «Stai tenendo. Piedi a posto.»
«Ho bisogno soltanto di dormire» disse Toby. «Tu e Quath eravate alzati per scovarli mentre noi stavamo dormendo. È normale che tu sia un po' in riserva.» «Domani farò il setacciamento.» «Non esagerare. Prendi degli altri fagioli.» «Non ho tanta fame.» Prima che il padre spegnesse il bruciatore Toby era già nel mondo dei sogni, e non sentì nulla mentre il buio s'addensava. Pensò alla Mantide, o forse sognò soltanto di averlo fatto. Il giorno dopo si ricordò con nostalgia del sonno, dopo un po' che marciava. A quel punto stava proprio male. Aveva cominciato pimpante, però s'era ammosciato presto, e adesso stava sudando come mai gli era capitato in vita sua. Quath gli si rivolgeva ogni tanto un po' preoccupata, ma Toby non parlava molto. Portava uno zaino grande quanto quello degli altri, però loro avevano anche il bruciatore e le cibarie extra, così anche da quel punto di vista era avvantaggiato. Cermo non sorrideva e non sprecava energia a parlare, e Toby si ricordava ancora il fervore dell'uomo sulle pianure della sua fanciullezza. Era stato quando l'umanità aveva cominciato a opporsi ai mech ad armi pari, e la battaglia era stata acerrima. Cermo indicava ogni traccia della Mantide, interpretandola con sicurezza. Stava segnalando un'impronta quando la raffica della confusione li raggiunse. Api rosse. Sembrava che lo stessero pungendo mentre sciamavano nei sistemi interni. Toby s'abbassò di scatto, ma il raggio a ventaglio lo beccò, e non riuscì a vedere più nulla. Rotolò a valle, arrestandosi contro una roccia, che gli si conficcò nel fianco, poi le scivolò a lato, riprendendo a scendere lungo il pendio. Era il modo più sicuro di sfuggire allo sciame di turbolenza emag. Sopra di lui ronzava un groviglio di campi magnetici e di scariche al plasma arancioni. Energie che si biforcavano. Le protezioni che si chiudevano provocavano rumori metallici nel sensorio di Toby. Sbatté contro un albero contorto, e finalmente riuscì a vederci di nuovo. Rimase lì sdraiato guardando in su verso gli altri. Condividevano la medesima stupefazione. Due pulsazioni cardiache, tre. La raffica passò senza saette ritardatarie. La Mantide se ne serviva per ammorbidire i bersagli. Non attaccare era insensato. Risalì la collina Quath lo salutò con un:
polo.> «Ottimo, perché altrimenti saremmo morti.» Un sorriso malizioso tagliò in due il viso di Cermo. «Vuol dire che è disperata.» «Ferita» disse Killeen mentre raccoglieva lo zaino dove l'aveva lasciato cadere al primo segnale di grane. Allora si spostarono ancor più veloci, e per Toby fu peggio. La raffica della confusione l'aveva privato di ogni spinta, e l'aria secca gli drenava il sudore. La Mantide era una macchina sofisticata, e perciò un eterno nemico. La primissima vita intelligente nella galassia, che aveva prodotto i primi mech, conosceva i pericoli insiti nel conflitto tra le due forme. I mech pian piano avevano deciso che i Naturali non erano più antenati semidivini. Erano diventati dei concorrenti, che utilizzavano le stesse risorse grezze di massa ed energia. Quei conflitti erano inevitabili. A lungo andare, nessuna forma vivente era più giunta a meritare rispetto. Contro questa certezza, le primissime razze organiche si crearono l'asso nella manica. Il Primo Comando. Nelle viscere dei codici strutturali interni delle prime macchine seppellirono un Primo Comando che non poteva essere individuato, nemmeno in teoria. Attivato, innescava un piacere delizioso... poi, una specie di morte interiore nell'estasi. Se veniva attivato dall'esterno un altro codice scatenante - il Secondo Comando - il mech provava l'impulso di trasferire tale gioia sublime agli altri. Allora il piacere diventava un morbo. Gli umani avevano fatto ciò ai mech nell'esty, quando si accorsero che il conflitto tra umanità e macchine sarebbe stato interminabile. Tranne che per i Codici Scatenanti. I Naturali e i mech si erano scontrati nell'esty, un labirinto di sentieri fatto di spazio-tempo ripiegato. Nessuno sapeva chi l'avesse realizzato. Era stato trovato a orbitare attorno al gigantesco buco nero al centro della galassia, e perciò era diventato una tappa. Toby non riusciva ad afferrare completamente la distesa di tempo e perciò di ferite e angoscia, di rimorso e rabbia e sorda tristezza che aveva spazzato le stelle rosse, aveva avvolto la galassia in un conflitto squassante che, lo sapeva, non poteva mai finire del tutto. Da questo dolore primordiale procedeva nel suo proprio tempo un'eredità di conflitto incessante che aveva plasmato la sua vita e creato la cultura della famiglia Bishop che
lui tanto riveriva e per la quale avrebbe dato la vita. In Killeen, Cermo e in tutti i Bishop covava un fuoco che non si sarebbe mai estinto fino alla morte della Mantide per opera dei Comandi. Tutti i Naturali, anche le forme semimeccanizzate come Quath, condividevano tale odio. La Mantide era l'ultima della sua specie, e i Bishop la cacciavano ormai da anni. Toby era stato fortunato a trovarla, dopo che i rapporti da quell'area erano sembrati sfociare nel nulla. «Quel che è certo è che sta male» gridò Killeen mentre si muovevano. «Ci stiamo avvicinando» gli rispose Cermo. <Sta cercando di medicarsi> disse Quath. «Come fai a saperlo?» chiese Cermo, ruotando il capo per la sorpresa. «Quella bobina?» domandò Toby. «E anche l'esagono?» «Sperava che ci sfuggissero» disse Killeen, con le labbra contratte per lo stupore. «Ha fatto cadere gli altri ingranaggi per farci pensare che si stesse liberando della massa. Proprio così, Quath.» Cermo chiese: «Perché non scaricare tutte le sottomenti?» Rispose Killeen: «Non avrebbe più difese nei nostri confronti». <Si sente cacciata dentro e fuori.> Toby intervenne, con voce rotta: «Si spera che crolli», però quella che sembrava una battuta apparve come un appello disperato. Il padre si ritrasse, studiandolo in volto. «Potrebbe tirare avanti ancora per qualche ora» fu tutto quel che disse. «Faccio un'esplorazione» disse Toby all'improvviso. Killeen guardò Cermo, che annuì. «Occhio» disse, poi ritornò a setacciare il settore destro. L'escavatrice li aggredì mentre scendevano lungo una sponda stretta. Era un posto ideale per un'imboscata e se la Mantide avesse operato direttamente sarebbero morti in molti, o almeno ne sarebbero usciti con le ossa peste. L'escavatrice era un piccolo mech che sembrava fosse stato assemblato al volo dalla Mantide. Almeno così sembrava. Toby la notò un attimo prima che cominciasse a sparare, con i suoi grandi dischi sporgenti. La vampata di emag gli ustionò il fianco sinistro. I
servomeccanismi si bloccarono, e con essi le gambe, clank e clank e poi più nulla. Cascò come un peso morto. Il raggio s'indirizzò anche verso Cermo, che però era stato più veloce aprendo un buco nel mech. Ciò li salvò dal finire carbonizzati. Killeen era allo scoperto e se la prese comoda. Colpì l'escavatrice in pieno, facendo svuotare i serbatoi di emag in un unico lungo grido. Poi il mech era morto. Si riposarono fin quando Toby non riuscì a rimettere in sesto i servomeccanismi. Non si scambiarono molte frasi, ma il padre almeno gli diede una mano a sistemare le prese imbarcate, commentando con fare disinvolto: «Quelle escavatrici non sono tanto lente come pensano tutti». Toby capì il senso pieno di quella frase e ripensandoci comprese che la macchina era stata piuttosto lenta. Lui, vagando nella sua nebbia privata, s'era fatto scappare la sagoma mentre gli appariva nel sensorio. Era stupido ignorare degli indizi, a quel punto. «Mi dispiace» fu tutto quel che riuscì a dire. Toby diede un calcio all'escavatrice per l'esasperazione, poi si piegò sopra il cofano per fare saltare qualche saldatura e cominciò a frugare, estraendo due oggetti lisci di ceramica dalla forma di uova sbilenche. «Trappole magnetiche» disse Cerino. «Ottimo.» Killeen ne maneggiò una con attenzione. Aveva le solite prese da mech, e a Toby sembrava normale. «Le possiamo usare?» «Fammi provare» rispose Killeen. «Scusa» ripeté Toby. Killeen incastrò un uovo in un servomeccanismo che aveva all'anca. Si sistemò con un click. «Ottima scoperta.» Era il modo di rispondere di Killeen. «Mangiamo.» 4: Ultramorti I suoi ingranaggi fecero buon uso delle trappole posizionali, che erano nuove e leggere e contenevano molta energia in una taschina magnetica. Le nuvole posizionali roteavano nei loro pozzi magnetici e quando i suoi motori o servomeccanismi necessitavano di positroni energetici potevano strisciare dal loro alloggiamento, trovare gli elettroni e morire. In qualche modo i potenziali gli scorrevano in corpo, sebbene Toby non si chiedesse mai come potesse funzionare. Le trappole magnetiche dell'escavatrice scaricavano entro se stesse, mietendo gran parte delle riserve. L'energia sot-
tratta ai mech possedeva sempre una scossa speciale. Killeen gli diede una pacca sulla schiena. «Dimostra soltanto quanto sia disperata la Mantide» nitrì in tono di derisione. «Ha messo insieme quell'escavatrice alla svelta e distrattamente. Non ha nemmeno piazzato una difesa nelle trappole magnetiche.» Toby si sentì meglio fino a quando si svegliò nella notte. La cronopietra stava covando una mezza luce di un opaco color rubino, e loro avevano disteso le stuoie per approfittare della notte momentanea. Toby, stanco morto, aveva accolto con gratitudine la sosta, non un favore del padre ma semplicemente del tempo. Ma si risvegliò in preda al nervosismo, e non riuscì a riaddormentarsi, pensando che ciò avesse a che fare con l'energia posizionale. Si alzò per andare a pisciare anche se non aveva un grande stimolo, e fu allora che la vide. La struttura metallica era immobile sullo sfondo delle colline lontane e rossastre, non era però un edificio. Riusciva a proiettare nel suo sensorio un'ombra, che adesso non era più una sensazione di vuoto. Cercò la ragnatela di loci e motivatori e sottomenti, che erano debolmente luminosi e delineavano la selva di tubi e montanti. Poi si mosse, e Toby la sentì finalmente come una cosa concreta. Non una mancanza ma una presenza. Conosceva di fama la maniera impensabile che aveva di muoversi. Mentre lui rimaneva assolutamente immobile a guardare, la matrice si allontanò strascicandosi dinoccolata. Senza fretta, senza dare a vedere che si fosse accorta che lui era lì. Era a due klick di distanza, facile. A tiro, ma Toby non stava pensando a quello. La seguì per restare in vista della mente principale, fosforescente e cangiante, esposta nell'intrico sghembo di tubi e nel ruotare di discoidi. Allora gli fu addosso senza nemmeno un lampo di avvertimento sensoriale. La vampata entrò in lui ancora prima che i suoi meccanismi la potessero parare. Barcollò e cadde. Sbatté forte per terra, a braccia inerti. La pulsazione gli saettò attraverso, bruciante, poi sparì. Restò disteso senza muoversi. Tattica Bishop. La guardò allontanarsi attraverso il proprio sensorio annebbiato. Energie angolari, indirizzate verso una sagoma che si rimpiccioliva. Poi più nulla. Lasciò che i meccanismi interni esaurissero la diagnostica di controllo, che fece risultare dei sovraccarichi banali, facilmente correggibili con una riinizializzazione. Si alzò con prudenza. Incrocchiato, con le gambe che gli tremavano, ma tutto intero.
Non riusciva a spiegare cosa fosse successo. Sapeva che ci doveva pensare, ma non adesso. C'era troppa roba dentro di lui. Una pressione che gli ribolliva nei sistemi interni. Paura, e anche una voglia sorda. Qualcosa che gli ricordava il modo in cui lo eccitavano le donne, ma non era neanche quello. Mentre tornava al materassino, decise di non svegliare gli altri. Quath si agitò elettromagneticamente mentre le passava accanto. > fece lei e lui rispose con un — . — che segnalò alla sua sottomente che era soltanto Toby. Le invidiava il modo in cui riusciva a delegare alle menti parziali per addormentarsi immediatamente quando le pareva. Era abbastanza sorprendente che un'intelligenza del genere avesse bisogno di latenza per processare i ricordi e ristrutturarsi, cosa che gli umani realizzavano facendo lavorare i livelli inconsci della mente durante il sonno. Furono i sogni a dirglielo. Vide la lunga processione di Bishop nella loro Cittadella, poi sulle pianure, in battaglia, e in pace. Molti lampeggiamenti istantanei della loro esperienza registrata appartenevano ai loro ultimi istanti. Dovevano essere frammenti salvati da esistenze di Bishop condannati. Con gli occhi spalancati per la stupefazione, o stretti per il dolore. Boccheggianti, o con le labbra serrate per quello che vedevano arrivare. Ma c'era altro oltre a questi dettagli esteriori. Sentiva quei momenti, ci viveva attraverso in una maniera impossibile da realizzare tramite una semplice immagine. Queste erano le registrazioni degli ultramorti. Menti dei Bishop depredate dai mech, dalla Mantide, in conflitti secolari. Come se fossero volumetti conservati su uno scaffale, che prendi e cominci a sfogliare. O a leggere con attenzione se ti interessa. La Mantide gli aveva spedito dentro questi frammenti degli ultramorti. Li stava scartando? Irradiava i dati mentre faceva fuori le sue stesse sottomenti? Si agitò sudato nel sonno e si risvegliò pesto e con gli occhi cisposi A colazione Killeen disse: «Sulla schermata di stamattina ho delle diagnostiche che segnalavano la presenza di un mech stanotte». «Anch'io» aggiunse Cermo. Toby non disse nulla, senza sapere perché. Tanto la Mantide sarebbe morta comunque, probabilmente. I due lo guardarono, ma ancora lui non diceva niente. «Proprio adesso raccolgo dei piccoli echi in quella direzione...» Cermo indicò con il pollice verso monte. «... ma non si spostano.» Toby non riusciva a captare niente nel suo sensorio. Quando partirono,
lui si piazzò in retroguardia. Persero la pista della Mantide in un posto dove le tracce sovrapposte di alcune macchine esalavano nel sensorio di Toby, codificate come puzze. Percepì un odore di foglie marce, un sentore pungente, qualcosa di umidiccio e ammuffito. «Che buffo odore» fu tutto quel che disse Cermo. Seguirono quegli odori, quasi tutti soltanto tracce elettroniche, ma non per questo meno eccitanti. Ne scoprirono la causa in una forra accidentata. I mech erano morti negli spasmi. Erano stati sovrastati dai programmi della malattia, ed erano morti in un'agonia di piacere, con i condensatori lampeggianti, le trappole magnetiche che emettevano scintille mentre quelli bruciavano in una fine grigia e opaca. Era questo che rendeva così efficaci i Codici Scatenanti. Comportavano un'estasi intensa, e il desiderio di condividerla con gli altri, perciò i mech la propagavano su ali elettromagnetiche fra di loro, in un delirio compiaciuto. Toby sapeva che doveva essere un modo piacevole di morire, però le membra contratte e le epidermidi al carbonio squarciate erano orrende, terribili. «La Mantide è stata da queste parti» disse Cermo. «La sento» aggiunse Killeen, e poi lo captò anche Toby, un debole odore penetrante che sì aggirava tra i corpi dei mech. Erano macchine di un livello molto più basso della Mantide, e ingombravano la gola stretta. La Mantide era passata accanto ai caduti, poi aveva proseguito il cammino. «Forse per rendere i sensi del suo cordoglio» disse Toby. Gli altri risero, anche se non intendeva essere divertente. Toby toccò una delle carcasse distrutte. «Credete che i mech abbiano delle, be', famiglie?» Cermo scosse vigorosamente il capo. Killeen disse: «Non che si possa sapere». Quath era rimasta silenziosa sin dall'attacco dell'escavatrice, ma adesso intervenne: <Sembra che abbiano delle relazioni complicate, anche se non basate sul rapporto genetico>. «Se non è una famiglia, allora cos'è?» chiese Killeen. Killeen si fece serio. «Modelli?» «A me sembra che o sai le cose o non le sai.» Killeen sorrise a Cermo come se fosse uno scherzo comprensibile solo a loro. Toby non lo capì. <Sembra che si dividano secondo livelli sociali basati sulle capacità. All'interno di tali classi formano dei raggruppamenti ristretti di lavoro.>
«Non si tratta di famiglie, affatto» concluse amaramente Killeen. 5: A caccia «Perché non vola?» domandò Killeen durante una breve pausa. Se lo stava chiedendo anche Toby. La Mantide poteva decollare, mentre gli uomini non avevano apparecchiature di volo. Non potevano generare la spinta che venisse a capo delle forze gravitazionali e rimanere ancora in grado di camminare. «Forse che non ne è più capace?» Cermo ingoiò altra acqua e la risputò, un vecchio rituale per togliersi il sapore di sabbia dalla bocca. Poi fissò intensamente il lontano tetto smeraldino, i terrazzamenti a strati lassù in alto. «Potrebbe aver scaricato sin dall'inizio i propulsori. Solo che non li abbiamo trovati.» Quath mormorò: . Gli uomini si guardarono, stringendosi nelle spalle. Toby si chiedeva cosa intendesse dire, ma proprio in quel momento Quath si allontanò per setacciare l'area. Non ebbe poi la possibilità di ripensarci perché Cermo stava di nuovo osservando l'esty nebbioso, quindi, accigliato, puntò l'indice. «Crollo di materia» annunciò senza scomporsi. Masse di verde e marrone si staccarono dal paesaggio soprastante e silenziosamente eruttarono come un geyser. Le zolle rotolavano e cozzavano l'una contro l'altra. «Arrivano alla svelta» disse innervosito Killeen. Non c'era niente da fare. Talvolta l'esty si crepava. Lungo la sua superficie la gravità svaniva di colpo mentre le linee spazio-temporali stirate tornavano indietro di scatto, come elastici che scatenino energia potenziale. La materia si trovava finalmente libera. «Nessun simpatico archetto questa volta» disse Cermo. In certi casi la traiettoria di un crollo di materia tracciava un arco e la massa ripiombava nelle vicinanze. Una volta che i detriti liberi salivano abbastanza in alto, però, potevano ricoprire tutto il vasto spazio tra le pareti del Sentiero. Questa volta di energia ne aveva più che abbastanza. Sembrava accelerare, eppure non si udiva ancora alcun suono. «S'avvicina.» Toby s'alzò con le gambe tese, pronto a correre. Ma in che direzione? La corrente di massa rappresa gli schizzava incontro. S'allargava sempre di più, e Toby ormai vedeva chiaramente alberi e rocce. Notò che il bordo anteriore era lievemente alla sua sinistra, poi, rapidissima, l'intera massa
tranciata piombò loro addosso. Vicino, ma non proprio addosso, abbattendosi sull'antipendio dell'esty. L'onda d'urto li abbatté. La seguì il tuono. Si rannicchiarono sotto una pioggia sferzante di sassolini e sabbia. Un frammento colpì Toby alla spalla, facendogli un gran male ma senza rompere nulla. In pochi minuti era finita. Si scrollarono e controllarono i danni. Le colline avevano una copertura nuova nuova, mentre c'erano ancora dei massi che rotolavano per andarsi ad abbattere in fondo ai burroni. «Duro camminare da quelle parti, anche solo per un po'» fece Cermo. «Mi domando se la Mantide passerà volutamente di là» disse Killeen. Cermo aggrottò la fronte. «Ne ho il sospetto.» Era proprio quanto era avvenuto. Il loro inseguimento glielo confermò nel giro di un'ora. E i guai arrivarono subito. La pista della Mantide portava al nuovo suolo cedevole. Procedettero contro la gravità verso i dirupi maestosi e tetri. Qui la roccia era nuda, esty fittamente ripiegato. Il crollo di materia aveva liberato energie fresche. Gli eventi ne uscivano srotolandosi, istanti sottili come schegge che dal passato si frantumavano ed evaporavano. Risalire un pendio era come scalare un'onda che si rigonfiava, sempre pronta a frangere la sua cima affilata in spuma rombante. Nella cronopietra obliqua si formavano dei bacini, in cui c'erano laghi dove non fluiva acqua ma ghiaia fine. Era facile scambiarli per distese d'acqua perché i granellini di esty sminuzzato erano d'un color turchese pallido, simile a un liquido azzurro e gelido. Toby ci ficcò dentro la mano e la ritrasse scottata. Si esibì allora in una danza sventolando la mano bruciata, arrabbiandosi poi con se stesso per la figura da stupido che aveva fatto. Essendosi temporaneamente distratto, Toby fu colto di sorpresa quando il terreno tremò aprendosi. Scivolò in un crepaccio con i bordi taglienti come lamiera sventrata. Riuscì però a districarsene abbastanza alla svelta. Killeen e Cermo non se ne accorsero minimamente perché avevano appena sentito la Mantide là davanti. Quath l'aveva puntata. Toby s'affrettò a raggiungerli. Di colpo la Mantide sparì dal suo sensorio. Non lasciò neanche quel senso di vuoto che la caratterizzava. «Passa alla visione diretta!» gridò suo padre, così capì che anche gli altri avevano perso le tracce nel sensorio. Toby si precipitò lungo la contropendenza. Doveva far ricorso a tutte le sue energie, e non riusciva a vedere gli altri. Qui il terreno era ornato da una spessa copertura, e tremava e scuoteva mentre la cronopietra cedeva a
valle. Toby sentiva in basso schianti ed esplosioni. Se una porzione di esty scivolava nell'instabilità si portava dietro tutto. Quando lo scuotimento s'intensificò, cadde. — Cermo! — trasmise in una comunicazione silenziosa. Non gli arrivò nulla. — .°. — lanciò a Quath, ma di nuovo nulla. Eppure riusciva ad annusare la Mantide. Non era una traccia dal sensorio, ma un sapore freddo e metallico nell'aria secca. Comprese quale fosse la sua ultima mossa disperata. La Mantide li aveva trascinati in un terreno instabile per sbarazzarsi di loro. Toby si voleva aggrappare alla terra tremante, ma l'odore era troppo forte. Delle fronde frusciarono sopra di lui mentre riprendeva l'ascesa, poi percorse uno spartiacque. Era sicuro che fosse lassù davanti a lui, però non sapeva come fosse riuscito a rendersene conto. Un lampo bianco gli passò accanto, e il secondo lo beccò in pieno. Il dolore gli schioccò lungo la colonna vertebrale. Rotolò per terra. Soltanto allora registrò la raffica secca che era partita prima di essere colpito, e riconobbe la carabina emag di suo padre. Le detonazioni rombanti di Cermo seguirono immediatamente. I suoi sistemi furono scossi dagli spasmi. Le gambe s'erano piegate per il dolore, e non riusciva nemmeno ad aggrapparsi alla cronopietra che gli si apriva sotto i piedi, mentre dei frammenti aguzzi se ne staccavano graffiandogli il viso. Il mondo s'annebbiò per il dolore. Le detonazioni perforanti di Cermo e i crack-crack-crack di suo padre gli arrivavano ovattati nell'aria cava. Adesso i due stavano sparando senza sosta. Toby ancora non riusciva a vedere il loro bersaglio, anche se l'odore metallico era più pronunciato. Quath mandò i suoi tipici voom voom, che echeggiarono nel sensorio di Toby. Si stava servendo dell'arma che incasinava i collegamenti e se indirizzata con precisione poteva azzerare una mente di mech. Adesso gli stavano urlando nell'apparato di comunicazione, però sembravano tanto lontani. Non erano ancora a contatto visivo con la Mantide. I loro richiami si spegnevano man mano che s'allontanavano. Si alzò con gran pena. Niente ossa rotte. Un lembo di pezza recuperato nella borsa l'aiutò a fermare il sangue sulla testa e sulla guancia. Altre detonazioni sorde. Poi la vide. Il vuoto s'increspò nel suo sensorio. Uno sparo lo mandò gambe all'aria. Gli fece male ma non compromise i sistemi interni. Ma prima che potesse reagire intervenne qualcos'altro. — le due file di figure che correvano s'incontrarono su una piana arida.
Qui degli uomini ridevano sguaiatamente, sogghignavano attraverso gli elmi appannati mentre si davano delle gran pacche per salutarsi. Le due Famiglie non si incontravano da anni e adesso eccoli lì, Rooks e Bishop a contatto. Solo il gusto e il tatto contavano, la stretta della carne calda e pungente, salata e maleodorante. Abbracci e botte amichevoli. Singhiozzi di vecchi amici che vedevano la faccia sciupata e grinza dell'altro. Un fiume scrosciante di chiacchiere, grida rauche, sghignazzate... Gli arrivò così rapido che ne colse soltanto una sensazione pungente. Un prurito al naso, uno starnuto irrefrenabile. Così veloce che Toby fu tutto istinto e niente logica. Poi vide la matrice di tubi che si muoveva lì vicino tra le fronde fruscianti. A non più di cento metri. Lenta, d'una lentezza subacquea. Le sparò mancandola. I campi della Mantide deviavano tutto ciò che non fosse un colpo diretto. Doveva impostare uno sparo con precisione assoluta per superare gli strati delle menti difensive. Corse lungo una forra che gli schioccava e scricchiolava sotto i piedi. Dove i suoi stivali pestavano, le energie dell'esty emettevano archi voltaici celesti. Toby s'accorse che non ci stava vedendo bene per via del dolore. Altre detonazioni tonanti e schianti e tutto gli si stava allontanando costantemente nell'aria rappresa, spessa come nebbia. Cermo gridò. Il suo urlo gli perforò il ricevitore. Il puzzo della Mantide divenne più intenso. Riuscì a districarsi dalla forra. Lì la cronopietra si sfilacciava in spore portate dal vento. Si fessurava, s'apriva. Grandi crepe zigzaganti si formavano tra i cespugli dall'odore penetrante. Corse verso i rumori di corpo a corpo. A monte. Fece un passo falso, cadde, poi si rialzò e proseguì. — durante la celebrazione s'udì un forte rimbombo e poi la conversazione si trasformò in un coro d'urla. Grida. Corpi che cadevano, altri che cercavano di afferrarli. Volti annichiliti, sbiancati. Le note pungenti erano spari di emag e la Mantide era una macchiolina su un'altura lontana che puntava sugli umani riuniti, molto attenta a focalizzarsi su un'unica forma sfrecciante alla volta. Ne abbatté altri e sottrasse l'essenza ai primati mentre le loro lucette sfarfallavano cominciando a spegnersi. Dolore, ricordi, gioia, grigia sconfitta, morbidi sogni, tutto riversato. Tutto registrato. — Barcollò per l'intensità della deflagrazione. Dov'era? Qui i cespugli erano alti, e su di essi pencolavano alberi scheletrici. Nel ricevitore captò un impulso proveniente da suo padre e da Cermo, che si
trovavano più in avanti. Sullo schermo topografico Cermo era ben in evidenza sul pendio. Killeen si stava allontanando dal compagno, diretto verso la cima. Toby tagliò lungo una scarpata. Dovette attraversare alcuni cespugli secchi per giungere in fretta presso suo padre. Killeen era terreo in volto. «Ha beccato Cermo.» «La stai inseguendo?» «L'ho presa di netto, e si lascia dietro l'odore.» Adesso era un puzzo metallico e oleoso. Toby sapeva che i veri dati che i suoi sistemi elaboravano non erano affatto odori concreti ma sensazioni olfattive mischiate con le memorie che la Mantide gli aveva proiettato, e che adesso riverberavano assieme dentro di lui. C'erano molti altri segni. I loci disseminati avevano spruzzato le fratte di arancione scuro e rosso vivo. Scarichi della Mantide. Un cofano squarciato era appoggiato di sbieco contro un albero. «Attento» l'avvertì Killeen. Ci passarono accanto con cautela, ma il pezzo era morto. «Papà, laggiù mi ha inviato dei ricordi.» «Sta cercando di confonderti.» «Non credo.» «Sembri confuso.» «Sto bene.» «Colpito?» Toby annuì mentre respirava a bocca aperta. «Forse dovresti restare indietro con Cermo.» «Ce la faccio.» «Non era questo che intendevo.» «Lui non sta bene.» «Fra un po' torno da lui.» Toby vide sullo schermo topografico che Quath era distante e stava bloccando la ritirata della Mantide. «È vicina. La fiuti?» Killeen disse: «Ormai ce l'abbiamo in pugno, quella bastarda». «Non stava cercando di farmi fuori. Voleva...» «È ferita» sussurrò Killeen. Lo era. Un odore pesante di qualcosa che sembrava in preda alla sofferenza gravava nell'aria mentre si addentravano in una macchia di alberi contorti e di fitto sottobosco. Cercarono di procedere più in silenzio che potevano, per quanto adesso fosse solo questione di tempo. La Mantide era appoggiata ad alcuni alberi, i cui rami si infilavano nei
suoi spazi aperti. Mentre si avvicinava lentamente, Toby pensò che gli alberi sembravano essere cresciuti nel corpo della Mantide stessa, e che questa fosse un oggetto nel contempo organico e meccanico. Ne poteva vedere la parte posteriore, possente e nerissima, poi d'un grigio tenue, strutture unite secondo complesse angolazioni. Seguì suo padre lungo le fiancate, che si stavano afflosciando tra gemiti come se qualcosa stesse sfuggendo dal corpo della Mantide. Qualcosa stava... sprazzi passeggeri di dati ronzavano al loro passaggio. Era grande come una casa, e adesso Toby poteva vedere come l'energia riuscisse a stare insieme, anche se ormai non ci sarebbe più riuscita. Altri blocchi di dati sgorgarono a fiotti come sangue. Killeen alzò il suo emag e sparò. La Mantide aveva le antenne e i dischi negli alloggiamenti protetti. Uno di essi puntò su di loro. Fu la sua unica reazione. Non c'era bisogno di infliggerle danni meccanici, di utilizzare esplosivi o cariche. L'intricata ragnatela di informazioni che costituiva la Mantide stava fondendo nel nulla. I programmi dei Codici Scatenanti operavano con un'intensità crepitante che Toby riusciva a sentire mentre consumavano come un fuoco l'intero sensorio grigio della Mantide. Tre antenne paraboliche ruotarono per guardarli. Suo padre sparò di nuovo e l'intera struttura tremò come un palazzo in procinto di crollare. Toby fece un passo indietro. «Può bastare.» «No.» La Mantide cadde. Dei pezzi se ne staccarono rotolando e gli intricati strati cristallini finirono in pezzi. Qualche elegante montante arcuato si sfilò dalla ghiera, e le complessità che tratteneva si sparsero. Il terreno tremò, ma i due uomini non si ritrassero davanti alle masse in disfacimento. «È finita» disse Toby. «No.» A Toby non aggradava, ma suo padre aveva ragione. Quath arrivò in silenzio alle loro spalle. Tutti sentivano le grida acute delle sottomenti mentre i dolori del piacere le attraversavano. I Codici Scatenanti all'opera. Per tutto quel tempo la Mantide aveva cercato di bloccare il dilagare del proprio disarmo, e la sua disperazione e l'agonia giungevano intense agli uomini, liberate dalle costellazioni di sottomenti che alla fine erano crollate. La cosa si stava lasciando andare in un'esplosione finale di beatitudine. Gli schemi danzavano e s'incendiavano nel suo sensorio, sgorgando filigranati e ricchi e rimanendo insignificanti per gli umani. Toby si spostò all'indietro, sentendosi improvvisamente indebolito dal
dolore che lo attanagliava. «Tra breve sarà finita, papà.» «No. Colpiscila anche tu.» «Lascia perdere.» Cermo li raggiunse zoppicante, con un orecchio mezzo staccato e il viso insanguinato. Il braccio sinistro gli pendeva inutilizzabile, era visibile l'osso, bianco quasi quanto la sua faccia ormai pallidissima. Toby si ricordò all'istante di quando Killeen aveva perso la funzione del braccio per colpa di un mech, tanto tempo prima, e di come Cermo non vi aveva mai fatto caso, dimostrando poco rispetto, tranne quando Killeen aveva realmente bisogno di aiuto. Il sensorio di Cermo trillava di allarmi sanitari, ma lui non vi prestava attenzione, e non guardava nemmeno Toby o Killeen o Quath. S'avvicinò claudicante e afferrò l'arma di Toby con una mano coperta di sangue scuro. Mentre nessuno diceva una parola, Cermo barcollò sotto il suo peso. Non si sentiva rumore alcuno a parte gli ultimi sussulti della Mantide, dalla quale ronzavano flussi di informazione. A Toby giunse una voce distinta. Ecco tutto quel che posso dare. «Ammazzala» disse Killeen. Cermo batté le palpebre, offuscato. Col braccio destro sollevò a mezzo la sparadardi di Toby. Sembrava stupito dal volume improvviso della voce. Sono più della somma di tutte le memorie. Cermo sollevò la sparadardi puntando al muso rincagnato nel mezzo degli strati che ancora ribollivano. La mente centrale era lì dentro da qualche parte. Per la poca stabilità che gli restava, barcollò. L'attesa gravava nell'aria. Ho registrato tanti Bishop. Ne ho la più grande collezione. E voi siete i più splendidi esemplari fra tutte le forme inferiori. Cermo riprese vita. Sparò tre volte. Anche con una mano sola, a quella distanza ogni sparo centrò una sottomente facendo scaturire una fiammata gialla nel sensorio della Mantide. Ogni volta Cermo bestemmiò con rabbia, mentre la Mantide dondolava sotto l'impatto. Il terzo colpo fece frullare le antenne paraboliche, velocissime, poi anche quelle si fermarono. Toby capì che si sarebbe ricordato quel particolare buffo. Ogni barra semovente, ogni servomeccanismo si fermò, e la Mantide perse tutta la sua dignità in un modo che Toby non poteva esprimere. Un
attimo prima era enorme e sofferente, poi rimase soltanto un ammasso di componenti distrutte. Non più un tutto. A quel punto Cermo crollò per terra. Cascò giù a corpo morto, con le ginocchia che cedevano e le braccia molli. Toby s'accorse che la Mantide aveva fatto un ultimo lavoretto, e l'aura dell'ultima deflagrazione avvolse anche lui, facendogli passare una scossa pungente per tutto il corpo. Il suo sensorio si fuse, s'inclinò, lampeggiò di tortuose vene gialle. Barcollò, ma la pulsazione non gli procurò altri danni. Quando raggiunse Cermo, gli occhi dalle palpebre pesanti s'erano chiusi. «Merda!» fece Killeen. <È ultramorto> disse Quath. «Perché?» chiese Killeen, con voce tesa. «Vendetta.» «Con noi? Mi pare il contrario» fece amareggiato Killeen. La voce di Toby era rotta. «Quale modello?» «Ci voleva vedere mentre la mettevamo in mostra?» Adesso Killeen era più tranquillo. Stava inginocchiato e con le mani massaggiava inutilmente la spalla di Cermo. Toby ripensò alle memorie immagazzinate che la Mantide aveva sparso per aria, il suo tesoro che evaporava. Però la memoria non era un sé. Non poteva sospingere, agire. Le memorie potevano soltanto stare ad aspettare. 6: Sentieri di gloria La cronopietra si sollevò spezzandosi, e loro furono costretti a passare molto tempo a cercare di aggrapparsi a qualsiasi punto stabile che riuscissero a trovare. Per Cermo fecero il possibile, ma non fu abbastanza. Killeen aprì la colonna vertebrale di Cermo e sacramentò. «Bruciati.» «Cosa?» chiese Toby.
«La Mantide deve avergli alterato tutti gli inserti interni.» «Pensavo che i nostri microprocessori fossero protetti.» «Io pure. Però la nostra tecnica è superata, mentre i mech non smettono mai di affinarsi.» Killeen pronunciò quelle parole con voce grave e con tutto il rispetto che un combattente porta per un altro. I chip del cilindro spinale di Cermo contenevano gli Aspetti e i Volti della storia dei Bishop. Una morte finale riduceva il presente, sottraendo solo una vita. La combustione dei chip comportava la perdita di un passato molto più lontano e indefinito, impoverendo le origini della Famiglia stessa. Fu difficile trovare abbastanza terra reale da seppellire Cermo. Lo spogliarono dei suoi strumenti e si divisero la massa tra loro per il ritorno. Per lo più era inutilizzabile, ma lasciarla lì avrebbe attirato i predatori mech. Quando sopraggiunse l'oscurità completa, dormirono. Per Toby fu di poco giovamento. Quando si svegliò, una banda di escavatrici predone aveva scoperto la Mantide. Le sentì che tagliavano e s'aggiravano lì attorno, poi risalivano il pendio dirette verso il luogo in cui operavano nel disastro sempre più vasto. Si ricordò di come l'antenna parabolica aveva frullato, come un occhio inquieto, e come allora era svanita ogni maestà. Adesso erano sparite anche le fiancate, portate via dai predoni. I mech avevano una loro propria ecologia, riciclavano le parti meccaniche e le sezioni intatte. Non c'era più Mantide, soltanto assemblaggi contorti, divelti dai loro attacchi, e ingranaggi incomprensibili che friggevano sotto pulsazioni randagie. Le escavatrici controllavano la carcassa nei punti dove le strutture cristalline avevano contenuto l'intelligenza della Mantide. C'erano escavatrici d'ogni misura, per lo più a monoruota, e lavoravano in squadre inesorabili. Quando avessero finito non avrebbero lasciato nulla. Sparò contro tre di loro, e questo bastò a disperderle per un po'. Ormai la rabbia era sbollita, e si sentì uno stupido quando Quath e Killeen giunsero di corsa, con i sensori estroflessi in uno schermo protettivo. Fece spallucce. Suo padre annuì. Killeen guardò la Mantide con volto inespressivo, poi liberò qualche montante arcuato. Quando Toby passò accanto alle celle interne della Mantide notò un nucleo di deposito magnetico che pendeva semisconnesso dalla struttura. Lo afferrò, spiegando a Quath che ne voleva solo l'energia immagazzinata, però se lo portò dietro durante la lunga marcia di ritorno senza nemmeno scaricarlo.
«Le memorie che ha trasmesso?» «Come fai allora a sapere che io ci sono riuscito?» Per un momento lacerante desiderò non aver mai visto la Mantide. «Non le volevo.» Proseguì in silenzio. Suo padre trasportava legato alla schiena qualcuno dei montanti elegantemente modellati, nonostante il peso. Killeen era stanco ma sorridente, e disse: «Molti Bishop ne vorranno un pezzo. Ne ha ammazzati tanti di noi». «Quanti?» «Attraversa molte nostre generazioni. Nessuno può tenere il conto. Nessuno di noi è vissuto per tutto questo tempo.» «Anche noi cercavamo di ammazzarla.» «Già. Dovevamo.» «Assassinio da entrambe le parti.» «Più o meno.» Suo padre lo guardò storto, poi distolse gli occhi. Toby si tenne al passo con Killeen alle spalle di Quath. Avanzarono attraverso cronopietra che s'era tornata a depositare, dalla quale filtrava un bagliore dorato, gettando ombre dal basso sul volto di suo padre. Il silenzio tra loro sobbollì fin quando Killeen disse: «Di noi ha fatto delle opere d'arte. Ci ha cacciati. Succhiati come ultramorti». «Cermo ha commesso un errore.» «Credo.» «Arrivarle così vicino proprio alla fine.» Camminarono per un pezzo con eccitazione decrescente, e i soli rumori che si udivano erano quelli dei loro servomeccanismi. «Aveva a cuore noi Bishop, sai.» «Un sacco. Tanto a cuore da perseguitarci.» «Non era questo che intendevo.» «Lo so, figliolo.» Anche i Bishop avevano perso qualcosa quando la Mantide era uscita dal loro mondo, però Toby non riusciva a spiegare al padre che cosa fosse. Sarebbe stato un uomo fatto prima di giungere a comprenderlo o di sapere che alla Mantide non aveva sottratto soltanto il nucleo magnetico, che conservò per anni e mai scaricò, ma anche una nota dissonante di solitudine
che si sarebbe portato dietro anche quand'era circondato da Bishop. Dopo una marcia difficoltosa trovarono un accampamento dei Bishop. Le notizie si diffondevano alla svelta e altri Bishop accorrevano attraverso le distese di cronopietra. Videro i montanti ricurvi della Mantide che Killeen aveva trasportato sulla schiena e insistettero per tenerle in mostra sollevate. Così riunite avevano un bell'aspetto nel soffuso bagliore rubino della cronopietra. La gente si ammassava attorno alle putrelle e le toccava con attenzione. Killeen si vide indirizzare ripetuti brindisi alcolici, e si lasciò trasportare nel discorso. Toby invece restava in disparte, osservando se stesso e suo padre e Quath che venivano trasformati in eroi dal chiacchiericcio eccitato della folla che là non c'era stata. Avevano sollevato un peso e una leggenda dalle spalle dei Bishop, e una parte di lui sapeva come si sarebbe sentito se l'avesse fatto qualcun altro. Però averlo fatto di persona era diverso, e nessuno tra quelli che sproloquiavano poteva cambiare o spiegare quel fatto. Soprattutto spiegarlo. Un po' più tardi Killeen gli disse: «Vorrei tanto che Cermo fosse qui». «Lo è» rispose Toby e in quel momento sentì quel che la Mantide gli aveva inviato nei suoi ultimi istanti. Cermo. Troncato, appiattito, filtrato negli interstizi spugnosi di Toby, schegge e rivoli che scorrevano nel suo sensorio e assaporavano la luce liquida, per sempre. Cermo. Spedì un sussurro a Quath. — Perché? — Qualcosa come questo... — O nessuno dei due. — Non sempre. Toby ripeté a suo padre, con voce roca: «Lo è». «Credo anch'io» disse Killeen. Guardò suo figlio di traverso, con aria interdetta, poi bevve un sorso. Sedevano su piccoli sgabelli da campo presso gli archi dei montanti aggraziati, e allora anche Toby bevve un goccio. Non ne aveva voglia, ma sapeva che il momento lo richiedeva. Lui e Killeen bevvero da coppe portate da una donna e dal marito di lei, che avevano perso due figli per colpa della Mantide tanto tempo prima. Volevano parlare con i coraggiosi e forse
con l'eroica Quath, solo che Quath non era alle viste. Toby bevve lentamente per aggrapparsi ai momenti che già gli si stavano sciogliendo dentro, scivolavano nell'imbuto del tempo e del ricordo. Aveva sperato di dimenticare quest'ultima parte della storia, e invece ripensò all'antenna parabolica, e al modo buffo in cui girava così veloce, e con sua sorpresa adesso la vide con nuovi occhi profondi. Titolo originale: Deep Eyes Analog Science Fiction and Fact, April 1995 L'ELEFANTE MALTESE di Harry Turtledove Si apre la caccia al pachiderma... della materia di cui sono fatti i sogni Miles Bowman era un uomo costituito di blocchi rettangolari. La testa era squadrata, con i capelli corti e brizzolati sul lato superiore, e una mascella spigolosa alla base. Le spalle e il petto formavano qualcosa di simile a un grosso mattone, e, più in basso, la pancia ne formava uno un po' più piccolo. Le braccia e le gambe erano grosse colonne muscolose. Portava le unghie tagliate dritte. Tom Trencher, quel buon diavolo del suo socio, era morto. Nel corridoio, fuori dall'ufficio, un pittore di insegne stava raschiando con una lama, dal vetro smerigliato, la scritta BOWMAN & TRENCHER. Una volta finito avrebbe dipinto a caratteri d'oro solo il nome di Bowman. Proprio al centro. Il telefono squillò. Rispose la sua segretaria. Hester Prine era una ragazza alta, molto magra e bruna. Indossava vestiti di qualità come se fossero dei sacchi. Tuttavia, quando cominciava a parlare, ogni uomo che la sentisse faceva sogni libidinosi per giorni. Coprì il microfono della cornetta con la mano. «È tua moglie.» Bowman scosse la testa. «Non voglio parlare con Eva.» «Vuole parlarti di Tom.» «Lo immaginavo. Per quale altro motivo potrebbe chiamarmi qui? Non voglio parlarle, te l'avevo detto. Dille che sono fuori per un caso. La vedrò stasera. Potrà parlarmi più tardi.»
La bocca della segretaria fece una smorfia, ma, tolta la mano, riferì quello che Bowman le aveva ordinato. Dovette ripetere la scusa tre volte prima di riuscire a riagganciare. Poi si alzò e si diresse verso la scrivania di Bowman nel suo ufficio. Lo guardò. «Sei un verme, Miles.» «Sì, lo so» disse tranquillamente cingendole la vita con un braccio e tirandola più vicino a sé. «Verme» disse lei di nuovo, ma con un tono di voce diverso. Esitò. «Miles, ti vuole parlare perché...» Si interruppe come un fonografo che avesse bisogno di essere ricaricato. «Perché pensa che io abbia ucciso Tom.» Le strinse la mano sul fianco e sorrise. I suoi denti non erano un granché. «Perché dovrebbe pensare una cosa del genere?» «Perché lo sai che lei e...» Hester Prine si interruppe di nuovo. «Mi fai male.» «Davvero?» disse senza lasciarla. «Io so un mucchio di cose, ma non ho ucciso Tom. Eva non potrà accusarmi di questo e la polizia neppure.» Dei passi leggeri attraversarono il corridoio, e sì fermarono davanti all'ufficio. Il pittore di insegne smise di raschiare. Hester Prine si liberò dalla presa e Bowman questa volta non la trattenne. La porta si aprì, mentre la segretaria era già tornata alla sua scrivania. Entrò nell'ufficio una donna. Il pittore la fissò finché la porta, chiudendosi, gli sbarrò la visuale. Poi, con raschiate svogliate, si rimise al lavoro. La donna era piccola, bruna e perfetta, con una faccia a forma di cuore e grandissimi occhi neri che avrebbero potuto sorridere, piangere, ardere o fare tutte e tre le cose contemporaneamente nello spazio di due battiti cardiaci. I capelli corvini le scendevano in ciocche lisce, quasi fino alle spalle; un taglio fuori moda, ma che le donava molto. E così pure il suo vestito di crespo di seta arancione con una gonna larga a peplo. Passò davanti a Hester Prine come se la segretaria non esistesse ed entrò nell'ufficio di Bowman. Lui si alzò da dietro la scrivania. «Miss Lenoir» le disse chiudendole la porta alle spalle. «Il suo socio» disse Claire Lenoir con voce rotta. «È colpa mia.» Le lacrime brillavano nei suoi occhi senza scendere sul viso. «Non del tutto» le rispose. «Tom sapeva quel che faceva, e lei l'aveva avvertito che il tizio che stava pedinando - il tizio che la seguiva - era pericoloso. Non si entra in questi affari senza considerare i rischi, altrimenti è meglio starne fuori.» Le mani della donna si muovevano nervosamente. Portavano due anelli
d'oro e smeraldi che risplendevano sulla sua pelle scura. «Ma...» disse. Bowman la zittì. «Si riferisce alla storia che ci aveva raccontato? Non aveva alcun senso. Potrebbe averne se Tom e io ci avessimo creduto, ma non è così. Per cui non se ne preoccupi. Però dovrebbe cominciare a dire le cose come stanno, prima o poi, se vuole che faccia quello di cui realmente ha bisogno.» La porta sul corridoio si aprì. Hester Prine parlò per qualche secondo con qualcuno - un uomo. Il telefono sulla scrivania di Bowman squillò; lui sollevò il ricevitore. «Un certo signor Nicholas Alexandria vuole vederti subito» disse la segretaria. «Ha detto che vale duecento dollari.» «Hai visto i soldi?» domandò Bowman. «Sì, li ha» rispose. Bowman annunciò il nome "Nicholas Alexandria" a Claire Lenoir. La donna ebbe un violento sussulto. Il sangue abbandonò la sua faccia, lasciando sulla pelle il colore di un vecchio giornale. Scosse la testa e i suoi capelli per un attimo finirono sul viso; con un gesto di rabbia ne spostò uno che si era appiccicato all'angolo della bocca dipinta di rosso. «Mandalo di qua, tesoro» disse Bowman placidamente e riagganciò. L'uomo che entrò dalla porta poteva tranquillamente essere nato nella città di cui portava il nome, era più scuro di Claire Lenoir, col naso curvo come una lama di sciabola. La sua bocca, un arco da amorino, era rossa. Puzzava di Patchouli. I suoi occhi duri, lucidi, neri come ossidiana, scattarono verso Claire Lenoir e s'ingrandirono un po', poi ritornarono su Bowman. «La sua segretaria non mi aveva detto che c'era una donna qui con lei» disse con tono preoccupato e infastidito. «Glielo ha chiesto?» disse Bowman. Gli occhi di Nicholas Alexandria si ingrandirono di nuovo. Scosse la testa in un unico gesto di diniego. Bowman disse: «Dunque non ha nessuna ragione di lamentarsi. Ho sentito che lei ha duecento dollari di motivi per parlarmi». Gli porse la mano col palmo all'insù. La mano molto curata di Nicholas Alexandria tirò fuori dalla tasca della giacca di velluto un portafoglio di pelle di rettile. Estrasse quattro biglietti con l'immagine di Ulysses S. Grant e li porse a Miles Bowman. Bowman li prese, li osservò con cura e li mise dentro al portafoglio che ripose nella tasca della giacca. «Bene» disse e gli indicò una sedia. «Sieda, parli.» Alexandria si sedette. La sua bocca rossa si contrasse in modo fastidio-
so. «Dovevo sapere che la signorina Tellini sarebbe stata qui nel momento in cui avrei discusso con lei affari riguardanti l'Elefante Maltese.» La testa di Bowman ruotò sul collo taurino. «Signorina Tellini?» Rivolgendosi a Claire Lenoir. «Gina Tellini» disse Nicholas Alexandria con una certa soddisfazione. «Perche? Lei sotto che nome la conosce?» «Niente ha importanza» rispose Bowman e sorridendo alla ragazza. «Ne possiede degli altri?» La donna arrossì, e fuggì il suo sguardo. Nicholas Alexandria disse: «Qualunque cosa le abbia raccontato, quello è il nome con cui è nata, nel quartiere di New York conosciuto, credo, come la Cucina dell'Inferno». Gina Tellini borbottò qualcosa in italiano. Nicholas Alexandria rispose nella stessa lingua, la sua pronuncia era perfetta. La bocca della donna si spalancò in un sorriso freddo. Disse in inglese: «Vede, posso anche finire nel fango». Miles Bowman la bloccò con la sua mano carnosa. «Basta» disse, e fece un cenno ad Alexandria. «Non voleva parlare dell'Elefante Maltese? Allora vada avanti e parli.» «Ha già sentito nominare questa famosa e fantastica creatura?» domandò Nicholas Alexandria. «Mai sentita» disse cortesemente Bowman. Nicholas Alexandria fece un altro movimento brusco con la testa. «Temo di non poterle credere, signor Bowman» disse. Infilò di nuovo la mano nella tasca della giacca; essa riapparve impugnando un'automatica cromata a canna corta. La puntò al petto di Miles Bowman. «Metta subito le mani bene in vista sulla scrivania.» «Piccolo finocchio puzzolente» disse Bowman. Le labbra rosse e carnose di Nicholas Alexandria diventarono una sottile fessura rosa, la sua lingua scattò come quella di un serpente. La mano che impugnava l'automatica non tremava. Bowman abbassò una spalla, e ruotò un po' il corpo di lato. Poi, in tono aggressivo, aggiunse: «Bene, Alexandria, adesso lei ha una pistola e ne ho una anch'io. Ma lei ha quella ventidue del cavolo mentre io ho in mano una quarantacinque. Mi spara e io passo un po' di tempo in ospedale a farmi ricucire. Le sparo io, amico mio e non solo lei sarà storia, sarà addirittura archeologia». Rise compiaciuto della propria arguzia. «Adesso metta via quel giocattolo così possiamo parlare.» «Non credo che. lei abbia un'arma» disse Nicholas Alexandria.
«Che imbecille.» rispose Bowman. «Il mio socio non credeva nelle armi e adesso quell'idiota è morto. Io ho un sacco di difetti, ma non sono un idiota.» «Ce l'ha, la pistola» disse Gina Tellini. «Vedo la sua mano sul calcio.» «Lo diresti in ogni caso.» Gli occhi di Nicholas Alexandria non guardarono la donna. Poi, rivolto a Bowman, disse: «Sparare attraverso il legno della scrivania non mi sembra affatto il modo giusto per ottenere i risultati desiderati». Bowman si appoggiò allo schienale della sedia. Uno dei piedi lasciò per un istante il nodoso tappeto di lana color senape e calciò l'interno del pannello centrale della scrivania. Il pannello si piegò verso l'esterno. Nell'istante in cui partì il calcio, il dito di Nicholas Alexandria si strinse sul grilletto; poi si rilassò. La voce di Bowman era compiaciuta. «Legno compensato, economico, verniciato come mogano. Un fesso non potrà mai accorgersene.» La bocca di Alexandria si contorse in una smorfia, come se stesse per baciare qualcuno che non gli piaceva. Rimise la rivoltella dentro la tasca interna della giacca, e, come se non l'avesse mai estratta, disse: «Forse la signorina Tellini non ha pensato fosse il caso di dirle che l'Elefante Maltese - dovrei dire un Elefante Maltese - si trova, ora, qui a San Francisco». «No, non me l'aveva detto» disse Miles Bowman. Guardò Gina Tellini dall'alto al basso, adesso i suoi occhi erano stretti e scuri quanto quelli di Nicholas Alexandria. Bowman si rivolse all'uomo con la giacca di velluto: «Allora cosa vuole che faccia? Devo trovare questo elefante e venderlo al circo?» Nicholas Alexandria si alzò e si chinò. «Vedo che mi prende in giro. Tornerò un'altra volta nella speranza di trovarla da solo e più serio.» «Peccato che lei reagisca così.» Anche Bowman si alzò, girò attorno alla scrivania e troneggiò sull'uomo più esile, mentre gli apriva la porta per farlo uscire dall'ufficio interno. Alexandria sollevò un dito. «Un momento. Aveva veramente una pistola?» Bowman allungò la mano sotto la giacca. Il movimento rivelò sul fianco destro una fondina di pelle rovinata. Tirò fuori una Colt 1911A e la tenne in mostra sul palmo della mano: pesante, scura e minacciosa. Non aveva alcun fronzolo, nessun ornamento, nessuna cromatura. Era una macchina per uccidere e nient'altro. Nicholas Alexandria la fissò, e lasciò uscire un piccolo sospiro affannoso.
«Non bluffo mai» disse Bowman. «Non c'è da guadagnarci.» Girò la pistola nella mano. Le sue dita si chiusero intorno al calcio quadrettato. Con un movimento sorprendentemente veloce per un uomo così pesante, colpì la faccia di Alexandria con il tamburo di acciaio. «Se lo ricordi.» Il colpo lo spedì due passi indietro. Barcollò, ma non cadde. Il mirino in rilievo gli aveva tagliato la guancia, e il sangue gocciolava sulla giacca. Prese lentamente il fazzoletto di seta dal taschino, lo passò sulla giacca e se lo premette sulla faccia. «Me ne ricorderò, signor Bowman» bisbigliò rauco. «Può contarci.» Camminò passando davanti a Hester Prine senza guardarla e uscì dall'ufficio. Gina Tellini congiunse le mani un paio di volte in un applauso silenzioso. «Adesso so che lei è in grado di proteggermi... Miles.» Indugiò per un mezzo battito cardiaco sul suo nome di battesimo. Lui alzò le spalle. «Normale amministrazione. Ha qualcosa da dirmi su quest'Elefante Maltese?» Quegli occhi di mercurio tradirono un istante di spavento. Poi tornarono di nuovo sotto il suo controllo. Scosse la testa. «Non posso, non ancora» disse con voce rauca. «Come vuole.» Le grosse spalle di Bowman si mossero su e giù un'altra volta. «Comunque dovrà farlo, o lo farà Alexandria o qualcun altro.» La guardò. Era immobile, come un piccolo animale braccato. Lui alzò le spalle per la terza volta, e le fece segno di precederlo fuori dall'ufficio. «Arrivederci.» Quando i passi della donna furono lontani, si rivolse a Hester Prine. «Vado a casa.» Guardò l'orologio. «Già le sette e un quarto. Cristo, come vola il tempo.» Appoggiò la mano sulle spalle della segretaria. «Vai a casa anche tu e all'inferno tutto quanto.» Senza guardarlo, lei disse priva di intonazione: «Ho ancora delle cose da scrivere a macchina». «Come vuoi» disse Bowman, nello stesso modo in cui si era rivolto a Gina Tellini. Chiuse la porta esterna - adesso poteva leggere BOWMAN a caratteri più grandi del BOWMAN & TRENCHER di prima - e si avviò verso l'ascensore. Camminando, fischiettava stonato un celebre motivetto. Mentre entrava nella gabbia, il ragazzo dell'ascensore lo fissò, e così anche lui. Il ragazzo si girò di scatto verso i pulsanti e lo portò al piano terra. Attraversò la strada verso il garage dove parcheggiava di solito la sua Chevrolet. Lanciò una moneta al bambino all'angolo che gli diede una co-
pia del San Francisco News. Buttò il giornale sul sedile anteriore dell'auto, girò la chiave nel quadro, ma l'accensione si limitò a borbottare. Dopo qualche colpo di tosse, finalmente il motore si avviò. Mise la Chevrolet in marcia e guidò fino a casa. La casa sulla Trentatreesima Avenue, nel Sunset, avrebbe avuto bisogno di una buona verniciata. Le case contigue erano state verniciate di recente, una di azzurro, l'altra di una specie di rosa. Questo faceva sì che la superficie giallastra, marcia e scolorita della sua casa sembrasse ancora più squallida. Bowman salì le scale due gradini alla volta, girò la chiave nella toppa e pigiò il chiavistello con il pollice. Con uno schiocco secco come quello di un ginocchio malandato, la porta si aprì. L'interno era arredato con imitazioni scadenti e velluto di scarsa qualità, legno arzigogolato e mobili carichi di ninnoli. «Sei tu, caro?» La voce di Eva arrivò dalla cucina assieme all'odore dell'arrosto con cipolle. Dal tono sembrava nervosa. «Conosci qualcun altro che possieda la chiave?» chiese Bowman. Lanciò il cappello verso il divano mancandolo, cosicché atterrò sulle frange del tappeto sotto il tavolino da tè. Appoggiò il giornale sopra il tavolo. Eva si affacciò alla porta della cucina. Le andò incontro e la baciò superficialmente. Erano sposati da tredici anni e lei era dieci anni più giovane. Aveva all'incirca l'età di Tom Trencher. Solo che Trencher non poteva più invecchiare. I ricci corti e rossi di Eva prendevano il colore da una boccetta di tintura. Quando l'aveva sposata, erano dello stesso colore. Stavano bene con i suoi occhi verdi. Era ingrassata di dieci chili da quando avevano attraversato insieme la navata della chiesa, ma l'ossatura reggeva bene il peso. Indossava un grembiule con le maniche, su una camicetta corta e una gonna di cotone a strisce vivaci gialle e blu. Il suo sorriso era un po' troppo largo. Mostrava troppo i denti. «La polizia ha scoperto qualcos'altro su... chi ha ucciso Tom?» Il suo sguardo si rivolse all'altezza del mento, e non ai suoi occhi. «Se sanno qualcosa non me l'hanno detto. Non ho parlato con loro oggi.» Alzò le spalle. «Portami qualcosa da bere.» «Certo, caro.» Si allontanò velocemente. Aprì la dispensa, poi il frigo, e tornò con un bicchiere di bourbon con ghiaccio. «Ecco.» Quel sorriso troppo compiacente le nascondeva la faccia.
Bowman bevve mezzo bicchiere con due lunghe sorsate. Espirò a lungo con soddisfazione, e sollevò il bicchiere controluce per rimirarne il contenuto ambrato. «Questa sì che è una buona medicina!» esclamò e finì il bourbon. Diede a Eva il bicchiere. «Preparamene un altro con la cena.» «Certo, Miles» disse lei. «Siamo quasi pronti.» Il coperchio del tegame tintinnò quando lo sollevò per controllare l'arrosto, poi lo ripose sul grande tegame di ferro. Il cardine dello sportello del forno cigolò. «La carne è pronta e anche le patate. Apparecchio e ti preparo il tuo bourbon.» Bowman spalmò il burro sulle sue patate al forno e mise sale e pepe in abbondanza sul grosso pezzo di carne rosso-marrone che Eva gli aveva messo davanti. Mangiava con impegno, metodicamente, senza sprecare un movimento, come un uomo che spala il carbone nella caldaia di una locomotiva. Ogni tanto beveva un sorso di bourbon. Eva fece cadere il suo coltello sul pavimento di linoleum a fiori. Bowman alzò lo sguardo per la prima volta da quando si era seduto a tavola. Lei arrossì. Gettò il coltello dentro il lavello, poi sì alzò e ne prese uno pulito dal cassetto delle posate. Prima che Bowman potesse riavventarsi sull'arrosto, lei disse: «Miles, caro, chi pensi che abbia ucciso Tom?» «Deve essere stato il tizio che stava pedinando» rispose. Infilzò un altro pezzo di carne, ma non lo portò alle labbra. «Thuersday, si chiama così. Evan Thuersday.» Mangiò il pezzo di carne e con la bocca piena continuò: «Non può essere stato nessun altro». Inghiottì e le sorrise. «Non trovi?» «No, non credo che possa essere qualcun altro» disse lei rapidamente e chinò la testa sopra il piatto. Un attimo dopo la forchetta le cadde sul pavimento. Le sue labbra si mossero. «Sono tesa come una corda di violino stasera.» «Non riesco a immaginare perché» disse Bowman bevendo. I due cubetti di ghiaccio tintinnarono contro il vetro. Finita la cena, Bowman andò in soggiorno. Appoggiò il bicchiere sul tavolino e si sedette sul divano, le cui molle scricchiolarono sotto il suo peso. Si piegò mugugnando, slacciò le scarpe e le buttò sotto il tavolo. «Eva, portami qui le pantofole» le disse. «Cosa?» gridò lei col rumore dell'acqua corrente della cucina che le impediva di sentire. Lui ripeté più forte la richiesta. L'acqua smise di scorrere. Asciugandosi le mani sul canovaccio dei piatti, Eva si diresse velocemente, passandogli davanti, verso la camera. Tornò col canovaccio penzo-
lante dal braccio e le pantofole in mano. «Eccole.» Bowman le calzò mentre lei tornava ai suoi piatti. Fumò tre sigarette aspettando che finisse di lavarli e asciugarli. Quando tornò le diede il bicchiere, che lei lavò, asciugò e rimise a posto. A quel punto, aveva già aperto il giornale e lo stava sfogliando dall'inizio alla fine, nello stesso modo meticoloso con cui mangiava. Eva emise un leggero sospiro e si diresse verso la libreria. Prese un romanzo d'amore per portarselo in camera. Bowman continuava a leggere e quando arrivò all'elenco di Navi nel porto, mordicchiandosi sovrappensiero il labbro inferiore, si alzò. Nel primo cassetto della credenza trovò una matita in mezzo alla gran confusione di fogli e scatole di fiammiferi. Sottolineò i nomi di quattro navi: Daisy Miller da Londra La Tórtola da Gozo Admiral Byng da Minorca Golden Wind da Bombay. Dopo aver letto la pubblicità sull'altro lato della pagina di Navi nel porto, strappò il pezzo di otto centimetri e lo infilò nella tasca dei pantaloni. Poi finì di leggere il resto del giornale. «Miles?» Alzò gli occhi. Eva era sulla porta della camera, con addosso una leggera vestaglia di seta aderente. Bowman gliela aveva regalata per il loro anniversario di qualche anno prima. Non la indossava molto spesso. «È tardi» gli disse «Non vieni a letto?» Non si era ancora struccata e spalmata di crema da notte come faceva di solito prima di dormire. Bowman piegò il giornale e lo buttò sul pavimento. Le sue dita erano macchiate di inchiostro da stampa economica. Le sfregò sulle gambe dei pantaloni e si alzò dal divano. «Non avertene a male...» disse lui. Bussarono violentemente alla porta. Bowman si tirò a sedere sul letto. I colpi continuarono. «Chi è?» chiese Eva con la voce mezza impastata dal sonno. «Che diavolo ne so, vado a vedere.» Bowman cercò a tastoni l'interruttore della lampada accanto al letto. La accese rimanendo abbagliato dalla luce improvvisa. Mezzanotte. Accigliato, si alzò dal letto e andò a sedersi sulla sedia. Prese la pistola e tolse la sicura. «Cosa fai?» gli chiese Eva. La crema da notte le faceva luccicare le guance come il dorso di un maiale ingrassato.
«Vado a vedere chi è» rispose Bowman tranquillo. «Tu resta qua.» Indossò i pantaloni del pigiama e andò verso la porta. Per essere un uomo così robusto faceva passi sorprendentemente leggeri. Chiuse la porta della camera dietro di sé; i colpi si arrestarono quando la luce si accese. Bowman aprì di scatto la porta e puntò la pistola verso il portico d'ingresso. Un istante dopo la abbassò. «Gesù Cristo» disse «volete morire ragazzi? Sapevo che gli sbirri erano stupidi, ma non così stupidi.» Scosse la testa. «Dobbiamo parlarti, Miles» disse uno dei poliziotti. «Possiamo entrare?» «Hai un mandato, Rollie?» domandò Bowman. «Non metterla su questo tono, ti prego.» Il detective Roland Dwyer si fece il segno di croce per dimostrare che era serio. Bowman rifletté, e annuì burbero. «Va bene, entrate allora» disse e accese la lampada, imitazione Tiffany, sul tavolino dell'ingresso. «Ma se tu e il capitano mi prendete in giro...» Non disse quello che sarebbe successo, ma lasciò chiaramente intendere che non sarebbe stato piacevole. «Grazie, Miles» disse Dwyer con tono sincero. Era un irlandese alto, di mezza età. I suoi capelli erano del colore al quale Eva aspirava. Aveva la faccia lunga, rubiconda e triangolare, con la fronte larga e il mento stretto. Indossava una camicia col colletto sporco e pantaloni dalle ginocchia fruste: era, tutto sommato, un poliziotto onesto. Bowman gli indicò il divano. Il capitano lo seguì, e lui chiuse velocemente la porta. La notte era fredda e c'era un'aria umidiccia. Bowman si sedette sulla sedia a dondolo accanto al tavolino col paralume di vetro colorato. La sua voce diventò dura. «Cos'è che non poteva aspettare domani mattina?» Dwyer e il capitano si guardarono l'un l'altro. Quest'ultimo era un uomo basso e grasso, più vecchio di Bowman di qualche anno. Aveva una frangia di capelli d'argento futilmente aderenti ai lati della testa, la pelle fine e rosa come quella di un bambino, e innocenti occhi azzurri. Il suo vestito era nuovo, tagliato all'inglese, e usava il costoso dopobarba Bay Rhum. Dopo un attimo di esitazione, il capitano disse: «Evan Thuersday è morto, Miles. Una pallottola proprio in mezzo agli occhi». «E allora? Una bella liberazione, no, Bock?» Il capitano Harry Bock congiunse le dita così forte che tutto il sangue defluì dai polpastrelli, lasciandoli pallidi come vitello bollito. «Dove sei stato stasera, Miles?» domandò delicatamente. Bowman si alzò di scatto dalla sedia a dondolo, fece due passi verso il
capitano, prima ancora di rendersene conto. «Fuori di qui» ringhiò. «Rollie mi dice che sarà tutto tranquillo, e tu cominci con quel...» espresse la sua opinione con forza, e dovizie di particolari. Roland Dwyer fece un gesto per placarlo. «Dai, calmati» disse. «Quel tizio è stato fatto fuori e noi dobbiamo parlare con te. Pensiamo che abbia ucciso Tom, insomma, e Tom era il tuo socio.» «Ah sì? Pensate questo?» Bowman tagliò l'aria con la mano sinistra in un gesto di disprezzo. «A me sembrava che voleste incolpare me. Oppure pensate che li abbia sistemati tutti e due?» «Dove sei stato stasera?» ripeté il capitano Bock. «All'ufficio e qua, per Dio, e da nessuna altra parte» disse Bowman. «Chiedete alla mia segretaria a che ora me ne sono andato, e chiedete a Eva a che ora sono arrivato a casa. Volete che la vada a chiamare, così potete domandarglielo? Diede uno sguardo alla porta chiusa della camera. «Ci vuole un secondo.» «Non c'è problema, Miles» disse il detective Dwyer. «Ti crediamo» guardò ancora Harry Bock. «Non è vero, capitano?» Bock scrollò le spalle. «In ogni caso è difficile che una delle due donne dica qualcosa di diverso da quello che dice Bowman.» Il capitano aveva parlato piano. Bowman guardò la porta della camera un'altra volta. Aveva risposto parlando piano anche lui, ma ora la rabbia stava salendo. «E che diavolo vorrebbe dire? Te ne vieni qua con un mucchio di sciocchezze e adesso cominci a spararne di più grosse? Dovrei...» «Sta' zitto Bowman» disse risoluto il capitano Bock. «Quello che dicono le donne non importa, non questa volta. Thuersday si è beccato il suo proiettile subito fuori dello stadio Kezar, nel parco del Golden Gate. Se tu avessi avuto un appuntamento con lui, non ci avresti messo più di cinque minuti ad arrivare lì.» «E se i maiali avessero le ali?» Si alzò, aprì la porta di ingresso. «Andate via» ringhiò. «La prossima volta che tornate qui, portate un mandato, come vi ho detto. Ci sarà anche il mio avvocato.» «Mi dispiace, Miles» disse Dwyer. «Facciamo anche noi il nostro lavoro, ricordatelo. E tu non semplifichi le cose.» «Andate a farlo da qualche altra parte» disse Bowman. I due poliziotti si alzarono e si avviarono verso la nebbia che si andava infittendo. Salirono sulla macchina parcheggiata dietro quella di Bowman. L'aria pesante e umida attutì il rumore dell'accensione. Nella nebbia la luce dei fari sembrava densa e gialla come il burro.
Bowman chiuse la porta a chiave, tornò in camera e rimise la pistola nella fondina. Eva, seduta sul letto, stava leggendo il romanzo che abbandonò immediatamente. «Cosa volevano?» domandò con esitazione. «Qualcuno ha fatto secco Evan Thuersday» rispose Bowman. «E pensano che sia stato tu?» gli occhi di Eva si ingrandirono. «È terribile!» «Non c'è niente di cui preoccuparsi» disse Bowman scrollando le spalle. «Io non sono stato, dunque non possono incastrarmi, no?» Si stese accanto a lei e spense la luce sul comodino. Sbadigliò. «Leggerai quella roba tutta la notte?» «No, caro.» Posò il libro e spense la lampada. Si rigirò e si agitò nel modo in cui faceva quando aveva difficoltà ad addormentarsi. Bowman alzò le spalle ancora, respirò profondamente e poco dopo cominciò a russare. Il telefono squillò forte nella notte, come un segnale d'allarme. Bowman ebbe un sussulto, si girò, si sollevò dal letto e accese la luce. La sveglia indicava che erano quasi le tre. Scosse la testa. «Non posso crederci.» Il telefono continuava a suonare. «Rispondi» gli disse Eva e si tirò la coperta di lana azzurra sopra la testa. Mugugnando, Bowman entrò nel soggiorno. Strappò il telefono dal gancio, afferrò il ricevitore e abbaiò il suo nome. «Bowman.» La voce dall'altra parte parlò. «Adesso?» chiese Bowman. «Sicuro? Gesù Cristo, sono le tre del mattino... Va bene, se è proprio necessario... Stanza 481, giusto? Ci vediamo lì... Sì, quindici minuti se non c'è troppa nebbia.» Riagganciò, e camminò impettito verso la camera. Eva aveva spento la luce, e lui la riaccese. Sbottonò la camicia del pigiama e andò nudo verso l'armadio. «Che succede?» domandò Eva mentre Bowman prendeva un paio di boxer puliti di cotone bianco. «Perché ti vesti?» aveva una voce spaventata. «Sto andando alla polizia.» Indossò gli stessi pantaloni che portava il giorno prima. «Bock e Dwyer hanno delle domande da farmi.» Infilò calzini e scarpe, prese una camicia pulita dall'armadio, si annodò una cravatta con una fantasia floreale blu, arancione e verde bottiglia, e infilò una giacca sulle spalle larghe. Si passò un pettine tra i capelli, e calcò sul capo un cappello floscio, di feltro, con la tesa rialzata. «Non dovresti chiamare un avvocato?» disse Eva «No, andrà tutto bene» e si avviò. Sulla porta della camera sì fermò e le
mandò un bacio. C'era la nebbia, ma non troppo fitta. Aveva tutta la strada per sé. La sua Chevrolet e una macchina della polizia si incrociarono. Fece un gesto con la mano agli uomini dentro la macchina, uno lo riconobbe e lo salutò a sua volta. Svoltò a destra, dalla Market verso la New Montgomery. Durante le ore d'ufficio, nessuno poteva sperare di trovare un parcheggio, ma adesso il bordo del marciapiede era a sua completa disposizione. Camminò verso il palazzo delle Belle Arti, otto piani di mattoni color marrone e terracotta all'angolo tra Market e New Montgomery. Un uomo in uniforme gli aprì la porta. Camminò a lunghi passi attraverso l'atrio in direzione degli ascensori. «Quarto piano» disse all'operatore quando fu dentro. «Quarto piano? Sissignore.» rispose l'uomo. «Benvenuto all'Hotel Palace.» Bowman stava con i piedi un po' divaricati, come nel riposo militare. Guardava avanti. L'ascensore frusciava verso l'alto. Quando arrivò al quarto piano, l'operatore aprì la gabbia, e Bowman uscì mentre quello gli comunicava il numero del piano. Un cartello sul muro di fronte all'ascensore annunciava: 401-450 <-----------
451-499 ----------->
Bowman si avviò. La moquette nel corridoio era così spessa da inghiottire la suola delle sue scarpe ogni volta che appoggiava un piede. Si fermò un momento davanti alla stanza 481, poi strinse il pugno e bussò sulla porta appena al di sotto dei numeri in bronzo. La porta si aprì. «Entra» disse Gina Tellini. Era in forma come il pomeriggio precedente, ma questa volta indossava una veste da camera verde scuro, di taglio orientale. Sul davanti un drago cinese, ricamato in oro e rosso scuro, si avvolgeva al suo seno. Bowman entrò. Gina Tellini chiuse la porta alle sue spalle e mentre gli passava davanti, lui le disse: «Thuersday è morto». Lei si fermò. Una mano cominciò a muoversi verso la bocca, ma si bloccò subito. «Come lo sai?» gli chiese con voce tremante. «Gli sbirri, chi altro?» lanciò una risata amara. «Vogliono mettere questo omicidio sul mio conto come la morte di Tom.» Le sue labbra si erano
assottigliate fino a diventare un'unica linea. «Tu avresti potuto farlo. Avresti avuto il tempo necessario, dopo che te ne sei andata dall'ufficio.» «No, io no.» Con tre semplici parole allontanò il sospetto. «Dai, siediti, mettiti comodo.» Gli indicò una sedia foderata di velluto due toni più chiaro della sua vestaglia e si sedette sul bordo del letto, di fronte a lui. Nessuno aveva dormito in quel letto da quando la cameriera aveva rifatto la stanza. «Va bene, non sei stata tu» disse Bowman conciliante, accavallando le gambe. «Allora chi è stato?» «Potrebbe essere stato Nicholas Alexandria» disse Gina Tellini. «Ha una pistola. L'hai vista anche tu.» «Sì, l'ho vista. Può essere. Ma tante persone portano la pistola. Ne ho una anch'io. Con i "può essere" non si risolve niente.» «Lo so.» Gina Tellini annuì. Il movimento fece aprire un po' la vestaglia sul collo. «Ma qualcun altro oltre ad Alexandria vuole l'Elefante Maltese.» «Qualcuno oltre ad Alexandria e te.» Lo sguardo si concentrò su un punto, qualche centimetro sotto il mento, dove il vestito si era aperto. «Thuersday è morto. Chi altro è rimasto?» «Un uomo di nome Gideon Schlechtman» rispose svelta. «Ogni tanto lui e Alexandria lavorano insieme, anche se a volte Alexandria agisce da solo, o almeno così sostiene. Ma se lui riesce a prendere l'Elefante, Schlechtman cercherà sicuramente di strapparglielo.» «Scommetto di sì.» disse Bowman. «E cosa c'è tra te, Alexandria, e... com'è che si chiama... Schlechtman? Probabilmente siete una grande famiglia felice, giusto?» «Non scherzare, Miles» insistette Gina Tellini. «Schlechtman è... pericoloso... Se Evan Thuersday è morto c'è ragione di credere che lui sia a San Francisco.» «Ah sì?» disse Bowman. «Ho soltanto la tua parola e non è che sia così credibile. Sai cosa voglio dire? E se questo Schlechtman esiste veramente ed è qua, tu da che parte stai?» «È una domanda terribile» gli occhi di Gina Tellini si infuocarono per un attimo. Poi lacrime improvvise spensero la rabbia. «Non credi a niente di quello che ti ho detto. È così difficile quando non mi dai fiducia. Sono qui nella tua città tutta sola e...» Quel che seguì lo soffocò mettendo la faccia tra le mani. Bowman si alzò dalla sedia e si sedette sul letto accanto a lei. «Non preoccuparti, tesoro» disse. «In un modo o nell'altro, metterò a posto tutto io.»
La guardò negli occhi. La luce della lampada scintillava sulla scia delle due lacrime che le rigavano le guance. «Sono così stanca di essere sempre sola» sussurrò. «Non sei sola adesso.» Lei chinò lentamente la testa, i suoi occhi non abbandonarono mai quelli di Bowman. Le mise il braccio intorno alla spalla e la tirò a sé. Le sue labbra si aprirono. Si baciarono furiosamente. Quando caddero insieme sul materasso, il peso dell'uomo la imprigionò contro la superficie elastica. Il rumore della funicolare e il tintinnio della sua campana fuori dalla finestra lo svegliarono. La luce grigia dell'alba attraversava le spesse tende di broccato della camera da letto. Muovendosi con prudenza, scivolò via dalle sue braccia. Lei si mosse e borbottò senza svegliarsi. Bowman si vestì con velocità esperta. La porta produsse un suono secco quando la chiuse. Aspettò fuori nel corridoio. Non sentendo nessun rumore all'interno, si avviò soddisfatto all'ascensore. C'erano più macchine in strada adesso, ma non tante da impedire a Bowman un'inversione su New Montgomery. Girò a destra sulla Market e la seguì fino all'Embarcadero. L'edificio portuale era tranquillo. La sirena non avrebbe suonato per altre due ore, non prima delle otto. Attraverso la nebbia leggera, la torre alta appariva incombente e sinistra. File di navi da guerra e di attracchi per le linee passeggeri si stendevano verso la parte meridionale dell'edificio, gli attracchi per le linee straniere, invece, a nord e ovest lungo l'insenatura. Bowman voltò a sinistra verso questi ultimi sull'Embarcadero. Tra un cambio di marcia e l'altro, la sua mano destra frugò nella tasca dei pantaloni. Estrasse il pezzo di giornale che aveva strappato dal San Francisco News. Posteggiò la macchina e scese. Le narici gli si dilatarono. L'aria era densa, piena di odori di mucchi di rifiuti marci, di caffè appena fatto, di fango, di pesce e di acqua salata. I gabbiani miagolavano come gatti volanti. Si aggirava robusto come gli uomini del porto, ma diverso da loro per via della giacca, del bavero e della cravatta. Il giornale elencava le navi in ordine di attracco. La Daisy Miller attraccava al Molo 7. Rumorosi scaricatori di porto stavano caricando casse di legno sulla nave. Lettere stampigliate sui lati informavano sul loro contenuto: macchine per cucire. Bowman osservò che erano della grandezza giusta per trasportare armi. Alzò le spalle e camminò verso il Molo 15 dove era ancorata la Tórtola.
Un paio di marinai stavano lavorando sul ponte lavando e verniciando sotto l'occhio vigile di un uomo magro e biondo, con un cappello da ufficiale bianco con la tesa nera e una giacca blu scuro con quattro fregi d'oro su entrambi i risvolti delle maniche. Vide Bowman che lo stava guardando. «Cosa vuoi, tu?» gridò. Aveva un accento tedesco o forse olandese. Bowman mise le mani sui fianchi. «Chi lo vuole sapere?» «Sono il capitano Wellnhofer e ho l'autorità per fare queste domande. Ma tu...» la faccia del capitano, che prima era pallida, si fece rossa e infuriata. «Non ti scaldare, amico» disse Bowman e guardò, nella mano, il pezzo di giornale. «Questa è la barca che oggi deve stivare un altro carico di foraggio?» La faccia del capitano Wellnhofer diventò paonazza. «Non conosci nella tua lingua la differenza che passa tra barca e nave? Non abbiamo nessun bisogno di caricare foraggio. Ti sbagli. Vattene via.» L'Admiral Byng era ormeggiata al Molo 23. Nessuno a bordo ammise la necessità di un carico di foraggio. Bowman fece una smorfia e continuò fino al Molo 35, al quale era attraccata la Golden Wind. I soli uomini a bordo erano i piccoli, scuri, marinai indiani in pantaloni da lavoro. Probabilmente nessuno di loro parlava inglese. Bowman teneva un paio di dollari d'argento nel palmo della mano. Un marinaio corse al parapetto sfoderando un sorriso smagliante. Bowman gli gettò una delle monete e gli fece la stessa domanda di prima. Quello non capiva la parola foraggio. «Fieno, paglia, grano... capisci cosa voglio dire?» disse Bowman. «Sei matto?» disse il marinaio. «Abbiamo scaricato tè, cotone, copra e portiamo via macchine a vapore e a petrolio. Pensi che gli diamo da mangiare del grano alle macchine?» disse con la sua cantilena. Gli altri marinai indiani ridevano. «Bene, allora siamo a posto così, simpaticone.» Bowman si rimise l'altro dollaro d'argento in tasca. Le bestemmie indù dei marinai lo seguirono mentre si avviò a lunghi passi giù per il pontile, verso l'Embarcadero. Si fermò alla base del molo per scarabocchiare un appunto: Spese - Informazione - due dollari. Poi camminò lungo la banchina del porto verso la macchina. Parcheggiò l'auto nel garage di fronte al suo ufficio. Vicino all'entrata, appoggiato al muro di mattoni, c'era un uomo corpulento, di mezz'età, dai tratti duri, freddi e spigolosi da centurione romano, che oziava. Con i ri-
svolti larghi e appuntiti, le spalle imbottite e le righe gessate, il suo vestito era al confine tra un abito alla moda e una scadente imitazione. Bowman lo seguì con lo sguardo, poi cominciò a salire i gradini. Il fannullone parlò. «Non devi entrare lì dentro. Devi venire con me.» «Ah sì? E chi lo dice?» Bowman lasciò cadere la mano dalla maniglia e la portò di lato all'altezza della cintola. «Lo dice il mio capo. Ha una proposta d'affari da farti» disse mettendosi dritto. Una delle mani si fermò sul taschino della giacca. «Dammi retta. E dice...» La mano, qualunque cosa stesse afferrando, si mosse un po', in maniera molto eloquente. Bowman ridiscese i gradini. «Va bene, portami dal tuo capo. Parlerò di affari con lui. Per quanto riguarda te, amico, puoi andare a farti fottere.» Pronunciò le parole sottovoce, svogliato, come se non si preoccupasse minimamente di quello che l'uomo dalla faccia dura avrebbe fatto. Quello fece un passo verso di lui. «Attento a quello che dici, o...» Bowman lo colpì alla bocca dello stomaco. La pancia era dura come cemento, ma contro un colpo piazzato esattamente sul plesso solare dovette cedere. L'uomo si piegò in due, grugnendo rumorosamente. Il suo alito puzzava di gin. Mentre ansimava, Bowman gli strappò la pistola dalla tasca, la infilò nella propria e lo rimise in piedi. «Ti avevo detto... Portami dal tuo capo.» L'uomo lo guardò truce. Nei suoi occhi ardeva un odio silenzioso. Stava per dire qualcosa, ma Bowman scosse la testa e lo ammonì con un dito. L'uomo corpulento ci ripensò subito. «Andiamo» disse, e Bowman annuì. I diciassette piani di mattone bianco e pietra dell'Hotel Clift, sulla Geary, erano cinque isolati a ovest dal Palace. L'uomo dalla faccia dura non disse più nulla per tutto il tragitto, e neppure nell'atrio arredato in stile Rinascimento Italiano. Lui e Bowman presero l'ascensore per il quattordicesimo piano, in silenzio. L'uomo bussò alla porta della suite 1453. Nicholas Alexandria aprì. Stringeva nella mano la sua pistola cromata. «Ah, signor Bowman, che piacere rivederla» disse con un tono assolutamente in contrasto con le sue parole. La sua mano sinistra si alzò fino al cerotto applicato alla guancia, che non riusciva a coprire tutta la contusione. «Non vuole entrare?» «Se non le spiace» disse Bowman passandogli davanti. La suite era arredata in stile essenziale e moderno. Gina Tellini era seduta su una sedia, che pareva la potesse far cadere da un momento all'altro. Gettò a Bowman un'occhiata veloce e nervosa, ma non disse nulla. Nicholas Alexandria
chiuse la porta, e si sedette su una sedia simile, accanto alla donna. Il divano di fronte a loro era basso e scarsamente imbottito, caratteristiche sufficienti a far pensare che provenisse dall'antica Grecia. Su di esso, proteso in avanti come se non volesse perdersi nulla, sedeva un uomo magro, pallido, con la faccia allungata, le guance infossate e gli occhiali dalla montatura dorata. Indossava un vestito di lino morbido, una camicia di cotone Sea Island, e una cravatta di seta borgogna, ornata da una piccola moneta d'argento dalle rotondità irregolari, raffigurante un gufo con gli occhi enormi. «Schlechtman?» disse Bowman. L'uomo pallido annuì. Bowman tirò fuori la pistola dalla tasca e gliela diede. «Non dovrebbe lasciar giocare i suoi piccoli amici con giocattoli come questo. Potrebbero farsi male.» L'uomo dai tratti duri, che aveva così mal volentieri portato Bowman all'Hotel Clift, avvampò. Prima che potesse parlare, Gideon Schlechtman alzò una mano. Le dita erano lunghe e bianche, come il gambo di un asparago. «Hugo, questo è stato un lavoro maldestro» disse, con voce asciutta, precisa, didattica. Lanciò uno sguardo interlocutorio a Bowman, che annuì. Schlechtman riconsegnò la pistola a Hugo. L'uomo corpulento la prese con un grugnito silenzioso. Bowman disse: «Il suo scagnozzo dice che lei voleva parlarmi d'affari». Schlechtman si piegò in modo da poter prendere un portafoglio dalla tasca sinistra. Ne estrasse una banconota col ritratto di Grover Cleveland, e la posò sul tavolo nero, laccato, di fronte a lui. Altre quattro con lo stesso ritratto finirono sopra alla prima. «Le piace, finora, il tono di questa conversazione?» domandò. «A chi non piacerebbero cinque bigliettoni?» chiese Bowman rauco. I suoi occhi non abbandonarono mai le banconote. «Cosa devo fare?» «Deve consegnarmi vivo e in buone condizioni l'Elefante Maltese che attualmente si trova nella vostra affascinante città» replicò Gideon Schlechtman. «Se mi dà cinquemila dollari per averlo, significa che per lei vale molto di più» disse Bowman. Schlechtman sorrise. Aveva i denti piccoli e regolari. Gina Tellini trattenne il respiro. Bowman continuò: «È necessario che io abbia qualcosa per mettermi in moto. Per il momento due bigliettoni vanno bene». Gideon Schlechtman contrasse le labbra. Prese un biglietto dalla pila, e lo porse a Bowman tenendolo tra il pollice e l'indice. Bowman lo prese, lo
stropicciò, e lo ficcò nella tasca dei pantaloni dove teneva le chiavi. Schlechtman rimise accuratamente gli altri biglietti nel portafoglio, che tornò nella tasca dalla quale era uscito. Nicholas Alexandria sospirò. «Bene» disse Bowman «ora discutiamo un'altra faccenda: qui tutti sanno qualcosa più di me su questo maledetto elefante. Anche Hugo ne sa di più, ammesso che Hugo possa capire qualcosa.» «Pidocchioso...» incominciò Hugo. Schlechtman alzò la mano di nuovo, e Hugo di nuovo si chiuse in un ringhio. Schlechtman disse: «La sua richiesta è sensata, signor Bowman. Se lei deve aiutarci con la sua ineguagliabile conoscenza di San Francisco, deve avere qualche informazione sullo straordinario animale che stiamo cercando. Nonostante l'Elefante Maltese sia noto fin dall'antichità più lontana agli abitanti con i quali condivise l'isola, viene menzionato in letteratura, per la prima volta, nel Periplus di Annone il Cartaginese, che fu tradotto in greco dal punico, nel quarto secolo a.C. Annone dice esplicitamente: "Θηρίδιον ο έλεφασ Μελίτησ εστίν."» «Non ci capisco un accidenti, per Dio» disse Bowman. Schlechtman continuò il suo discorso come se l'altro non avesse detto niente: «Aristotele, nella Historia Animalium 610al5, disse dell'Elefante Maltese, "ó ελεφασ ο Μελιταΐος μεγεθει όμοιος τε νήσω εν η οικεί". E Strabone, nel sesto libro della sua geografia, osserva che i cani maltesi possedevano un tratto simile: "πρόκειται δε του Παχυνου Μελίτη, όθεν τα κυνιδια τε και ελεφαντδια, α καλοΰσι Μελιταια, καί Γαΰδοξ", essendo Gaudos l'antico nome per i vicini isolani di Malta. L'Elefante Maltese ebbe una certa reputazione anche ai tempi dei romani. Nel primo secolo a.C, Cicerone, nella sua prima orazione contro Verre, sostenne: "Et etiam ex insulolae Melitae elephantisculos tres rapiebat". Oltre un secolo più tardi, Petronio, nel passo 130 del secondo capitolo del Satiricon, fa dire al suo personaggio Encolpio come usare l'orecchio dell'Elefante Maltese arrotolato e conservato, ma per rispetto della signorina Tellini, tralascerò di citare il passo del testo originale. E nel quinto secolo della nostra epoca, come Sant'Agostino ricorda nella Città di Dio, "Res publica romanorum in statu elephantis Melitae nunc demiuntur". Quindi, come può vedere, l'animale del quale stiamo seguendo le tracce ha un storia che incomincia dall'alba dei tempi. Potrei fornirle tante altre citazioni...» «Non stento a crederci» interruppe Bowman. «Ma cosa c'entra tutto questo?»
«Ci sto arrivando, non abbia paura» disse Gideon Schlechtman. «Lei si è lamentato per la mancanza di informazioni e io l'ho accontentata. Fatto rilevante è la presenza a Malta, dal 1530, dei Cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme. Durante il grande assedio dei turchi ottomani, nel 1565, un Elefante Maltese avvertì, con il suo barrito, il sopraggiungere di un attacco. Da quei tempi è stato riverito come un simbolo della buona fortuna, non solo dai cavalieri ma anche dai grandi mercanti che, sotto la corona britannica, sono la classe dominante nella Malta di oggi. Il ritorno di uno di questi animali alla sua terra d'origine verrebbe valutato adeguatamente da questi uomini.» «Ah sì? E se sono così innamorati di questi elefanti come mai uno di essi è andato perso?» domandò Bowman. «Penso che Evan Thuersday conoscesse la risposta a questa domanda» rispose Schlechtman. «Sfortunatamente non è più in grado di fornircela. Salvo che, vorrei dire, non l'abbia comunicata alla signorina Tellini. Il suo coinvolgimento in questa faccenda è stato, diciamo, per seguire la benevolenza raccomandata dalle Sacre Scritture, quantomeno ambiguo.» «No, lui non mi ha detto niente» disse rapidamente Gina Tellini. «Ho un cugino a Malta, a La Valletta, che ha sentito delle cose. Ecco come l'ho scoperto.» Bowman alzò le spalle. «È una balla. Ne ho sentite tante da lei.» La sua voce era fredda e distaccata. Gli occhi scintillanti della donna rivelarono rabbia, l'aveva colpita nel suo punto debole. «È vero, Miles, te lo giuro.» «La sua parola non è affidabile in nessun caso» disse Nicholas Alexandria. «Come se lo fosse la tua» si rivoltò Gina Tellini con veemenza. Bowman si girò verso Gideon Schlechtman. «I cinque bigliettoni sono miei a condizione che io trovi l'Elefante Maltese per voi, giusto?» «Se non lo troviamo prima noi, con i nostri sforzi, senza il suo aiuto, sì» disse Schlechtman. «Sì, certo. Me l'aspettavo» disse Bowman, ancora in tono distaccato. «Però, se foste stati certi di potercela fare da soli, non mi avreste coinvolto in questa maniera.» Andò verso la porta, e passando davanti a Hugo gli diede un colpetto sul fianco: «Ci si vede in giro, dolcezza». Hugo gli respinse la mano con uno schiaffo e caricò un pugno. Aveva una faccia carnosa priva di espressione, e Bowman lo colpì di nuovo allo stomaco, esattamente nel punto in cui lo aveva colpito l'altra volta. Hugo finì contro il tavolo di tubi di rame e vetro, e vi cadde sopra con un gran
fracasso. Arrivato alla porta, Bowman guardò indietro verso Gideon Schlechtman. «Un uomo astuto come lei dovrebbe godere di un'assistenza migliore.» Chiuse la porta mentre Schlechtman stava ancora rispondendo. Aspettando l'ascensore, volse lo sguardo indietro verso la suite 1453. Nessuno lo seguiva. L'ascensore arrivò. «Piano terra, signore?» domando l'operatore. «Sì.» Bowman entrò nel suo ufficio. Hester Prine lo fissò dalla sua macchina per scrivere. Sollievo, rabbia, e preoccupazione le si alternavano in volto. «Dove sei stato?» domandò. «Tua moglie ha già chiamato tre volte. Mi ha chiesto se sei stato arrestato. È vero?» «No.» Bowman appese il suo cappello all'attaccapanni. «Allora è meglio che le parli stamattina. Non ha chiamato nessun altro?» «Sì» rispose lei con la sua voce lasciva. Diede uno sguardo al blocco di carta vicino al telefono. «Ha detto di chiamarsi Wellnhofer.» Lo scandì lettera per lettera. «Ha detto di aver già parlato con te oggi, e voleva vederti verso le dieci. Ero certa che saresti stato... O almeno in quel momento ne ero sicura.» «Com'era la sua voce?» domando Bowman. «Aveva un accento straniero, se è questo che intendi.» Bowman non rispose, entrò nel suo ufficio e chiuse la porta. Si sedette sulla sedia girevole, accese una sigaretta e aspirò il fumo acre con boccate veloci e nervose. Dopo averla spenta prese il telefono e chiamò. «Eva? Sì sono io. Chi altro vuoi che sia? No, non sono in galera, per Dio... Che significa che hai telefonato e ti hanno detto che non mi avevano preso? Che ora era? Ero già andato via... No, non c'era motivo di tornare a casa, dovevo venire subito in ufficio. Ho fatto colazione e ho dato un'occhiata in giro. Ora sono qua. Va bene?» Riagganciò, fumò un'altra sigaretta e tornò nel suo ufficio privato. Prese dalla sua tasca il dollaro d'argento che non aveva dato al marinaio indiano. Lo gettò sulla scrivania sulla quale tintinnò dolcemente. «Vai giù a prendermi caffè e ciambelle. Prendi qualcosa anche per te, se vuoi.» «Pensavo che avessi già mangiato» gli disse lei. Prese i soldi e andò verso la porta. Bowman le diede una pacca sul sedere, abbastanza forte da farle lanciare uno strillo acuto. «Dovrei far fare una porta insonorizzata» disse bruscamente. «Via, fuori di qui.»
Tornò nel suo ufficio, tirò fuori l'elenco telefonico dallo scaffale e lo consultò. «Centralino, mi dia le Forniture Agrarie McPherson.» Tamburellava le dita sulla scrivania. «McPherson? Può dirmi se negli ultimi giorni vi è capitato di evadere un ordinativo di fieno, insolitamente consistente? No? Va bene, grazie.» Scorse di nuovo l'elenco. «Vorrei il direttore.» Fece la stessa domanda, ottenne la stessa risposta e sbatté giù il ricevitore. La porta sul corridoio si aprì. Hester Prine entrò con due bicchieri di carta e un sacchetto bianco. L'unto aveva già reso scure e lucide alcune parti del sacchetto. «Pensavo che fosse Wellnhofer.» «Non hai fortuna.» Hester Prine prese dalla borsetta un mezzo dollaro, una monetina da dieci cent e una da cinque e li diede a Bowman, che li mise in tasca. Aprì il sacchetto e gli offrì una ciambellina sulla quale lo zucchero brillava come ghiaccio su una strada pericolosa. Lui divorò la ciambella e scolò il caffè. Lei gli indicò il sacchetto e disse: «Ce n'è un'altra se vuoi». «Se non ti spiace.» Bowman stava per prenderla quando alcuni rumori sordi, come i fuochi artificiali del Capodanno Cinese, risuonarono fuori dall'edificio. Dalla strada una donna strillò. Un uomo gettò un grido. Bowman prese la ciambella dal sacchetto. «Quella è una pistola» disse e si precipitò verso le scale. Ingoiò l'ultimo pezzo di ciambella nel momento in cui uscì all'aria aperta. L'uomo che era riverso sul marciapiede indossava una giacca blu da ufficiale di marina, con quattro fregi d'oro sui risvolti delle maniche. Il cappello gli era caduto dalla testa ed era qualche metro più in là, capovolto. La fascia interna di pelle marrone era macchiata e consumata. «Ho telefonato alla polizia» esclamò un uomo. «Un tizio dentro una macchina gli ha sparato. Poi è fuggito.» L'uomo indicò verso ovest. Bowman si accovacciò accanto al capitano Wellnhofer. Il marinaio si era beccato due pallottole nel petto. La camicia e la giacca erano inzuppate di sangue, che aveva formato una pozza sull'asfalto. Guardò in alto verso Bowman. I suoi occhi erano ancora coscienti. «Il magazzino» disse e ansimò. Il sangue scorreva dal naso alla bocca, ma nonostante questo, con grande sforzo, riuscì a parlare ancora: «Il magazzino vicino a Eddy e Fillm...» Ansimò di nuovo, ma stavolta smise di respirare. Fissava con gli occhi ormai spenti il cielo azzurro mattutino. Bowman si stava rialzando quando una macchina frenò rumorosamente davanti a lui. Uscirono il detective Dwyer e il capitano Bock. Bock guardò
Bowman, poi il cadavere, poi Bowman di nuovo. «La gente ha questa brutta abitudine di morirti intorno» osservò freddamente. «Va' all'inferno, Bock» disse Bowman. «Non puoi incolparmi di questo. Non sprecare il tuo tempo a cercare le prove, ero di sopra in ufficio con Hester quando hanno sparato.» E indicò l'uomo che aveva telefonato alla polizia. «Quel tizio mi ha visto uscire.» «Cosa stavi facendo con Hester?» domandò Dwyer con voce divertita. «Stavo mangiando una ciambella. E allora?» «Hai lo zucchero sul mento» disse Dwyer. Bowman si pulì la bocca sulla manica. Bock fece qualche domanda all'uomo che aveva telefonato alla polizia. La sua bocca si piegò in una espressione di delusione; si girò verso Bowman. «Conosci la vittima?» domandò. «Si chiama Wellnhofer» rispose senza esitare. «Stava venendo a trovarmi. Aveva un appuntamento per le dieci.» Guardò il suo orologio. «Era in anticipo, ma adesso è in ritardo.» «Eri con lui quando siamo arrivati» disse Dwyer. «Non ha detto niente prima di morire?» «Non una parola» gli assicurò Bowman. «Dev'essere crepato nell'attimo in cui è caduto.» «Due colpi nel petto? Sì, è possibile» disse Dwyer. «Dovete raccogliere una dichiarazione formale?» domandò Bowman «Se dovete, fatelo. Se no me ne torno di sopra.» Puntò un pollice nella direzione del corpo di Wellnhofer. «Si è appena aperto un buco nel mio programma mattutino.» «Hai del sangue freddo, eh?» disse Dwyer. Lui e il capitano Bock camminarono verso la loro macchina, confabulando tra loro. Quando finirono, Dwyer tornò da Bowman. «Torna pure su, Miles. Abbiamo saputo da te tutto ciò che ci serve, per ora. Se ci occorre qualcos'altro, sappiamo dove trovarti.» «Sì, lo so» disse lui, amaramente. Hugo spinse il carrello del servizio in camera fino alla porta della suite di Gideon Schlechtman, all'Hotel Clift. Aprì la porta, spinse dentro il carrello, e lo lasciò nella sala. Chiuse la porta e tornò dagli altri nel soggiorno in stile moderno. Bowman disse a Schlechtman: «Molto obbligato. L'aragosta con burro fuso, le patate al forno. In genere preferisco bere qualcosa di forte, ma pure quel vino era gustoso».
«Era un Pouilly-Fumé dalla valle della Loira, signor Bowman, e di ottima annata» replicò Gideon Schlechtman, allungando le dita lunghe, magre e pallide. «Non ho detto che era buono?» replicò Bowman serenamente. «Ora, prima di continuare, dobbiamo decidere chi sarà gettato in pasto ai lupi. Ci sono tre corpi sforacchiati che se la dormono sui tavoli dell'obitorio. Questo tipo di faccende mette gli sbirri in agitazione; cercheranno qualcuno da incolpare. Se gli diamo qualcuno noi, smetteranno di scavare. Sono fatti così.» «Lei chi suggerisce, signor Bowman?» domandò Schlechtman. «Hugo è solo una montagna di muscoli al suo servizio» rispose Bowman. «Sollevi un sasso e ne troverà una dozzina come lui. Dwyer e Bock la vedranno allo stesso modo.» L'uomo con la faccia dura ringhiò una bestemmia orribile. Estrasse la sua pistola e la puntò al petto di Bowman. Schlechtman alzò la mano. «Pazienza, Hugo. Non ho detto che sono d'accordo. Quali altre possibilità abbiamo?» Bowman alzò le spalle «Che ne dite di Alexandria? Potrebbe andare. Rollie Dwyer ha sette bambini a cui pensare...» «Sei un pazzo e un bastardo» urlò stridulo Nicholas Alexandria. La mano gli scattò dentro la giacca. La luce della lampada brillò sull'automatica cromata. Puntò la piccola pistola alla faccia di Bowman. Hugo stava ancora tenendo puntata la sua. «Nicholas, per favore.» Schlechtman alzò di nuovo la mano. «Abbiamo un problema che necessita di discussione. È ancora tutto ipotetico.» Si girò di nuovo verso Bowman. «Perché non la signorina Tellini?» «Potremmo farla incriminare per la morte di Tom e di Thuersday» disse Bowman. «Però per la morte di Wellnhofer dovremmo comunque introdurre Hugo o Alexandria.» Gina Tellini lanciò a Bowman uno sguardo incendiario. «Perché non Schlechtman?» domandò. «Non essere stupida, tesoro» rispose Bowman. «È lui che paga i conti.» «Chiunque trovi l'Elefante Maltese può pagarli» disse lei. «Se troviamo l'elefante, saremmo in grado di pagare le spese dell'avvocato che ci terrà fuori dalle mani dell'intrepida polizia di San Francisco» disse Gideon Schlechtman. Indicò prima Hugo, poi Nicholas Alexandria. «Mettete giù le vostre armi. Siamo tutti soci in questo affare. E, come si dice, siamo tutti sulla stessa barca.» «Sei tu il capo» disse Hugo e si rimise la pistola in tasca. I suoi occhi
opachi scrutarono Bowman da cima a fondo. Nicholas Alexandria si morse il labbro. I lividi viola e gialli deturpavano ancora la sua guancia. Aveva tolto il cerotto che copriva la crosta di sangue rappreso sul taglio che la pistola di Bowman gli aveva procurato. Finalmente la piccola automatica sparì. Schlechtman sorrise. L'apertura delle labbra era più larga e più piena di quello che i suoi tratti sottili potevano comodamente sopportare. «Andiamo, signor Bowman.» Bowman si alzò, andò verso la finestra e aprì le tende. Guardò nella notte, e poi il suo orologio. «Aspettiamo un'altra mezz'ora» disse. «Voglio che sia molto buio, e la nebbia sta cominciando a calare.» «Molto giusto» osservò Schlechtman. «Tutta questa faccenda dell'elefante è scura e nebbiosa.» All'ora che Bowman aveva stabilito, lasciarono la suite 1453 e scesero nell'elegante atrio del Clift. Fuori la nebbia era più densa e lasciava sulle labbra il sapore del mare. I lampioni, immersi nella nebbia, gettavano piccole pozze giallorosse ai piedi dei loro basamenti. I fari spuntavano dalla foschia, per venire subito ringhiottiti. Camminare nella nebbia era come passare attraverso una garza di cotone inzuppata. Hugo si guardò attorno nervosamente. La sua mano andò dentro la tasca, dove era rintanata la pistola. «Non mi piace» mormorò. «Abbiamo con noi tre pistole... Come minimo tre» si corresse Bowman, girando lo sguardo da Schlechtman a Gina Tellini. «Se non ti piace questa faccenda, vai a casa a giocare con le bambole.» «Adesso stai esagerando, Bowman, basta. Chiudi quella bocca puzzolente o...» «Dopo che l'elefante sarà nelle nostre mani, queste liti vi sembreranno insignificanti» disse Gideon Schlechtman. «Consideriamole così adesso.» Camminarono per quattro isolati giù dalla Taylor fino alla Eddy, poi girarono a destra sulla Eddy. «Da qui saranno un paio di chilometri, forse un po' di meno» disse Bowman. Accese una sigaretta. La nebbia inghiottì il fumo che gli usciva dalla bocca. Come ebbero passato la Gough, i negozi, gli alberghi e gli appartamenti finirono alla loro sinistra. La foschia aleggiava densa, come se sorgesse dall'erba nell'area che si apriva in quel punto. Qualche albero era cresciuto abbastanza vicino ai lampioni da potersi intravedere. «Cos'è questo posto?» disse Hugo. Bowman posò una mano sulla pistola. «È Jefferson Square» rispose.
«Durante il giorno, qui la gente si mette su palchi di fortuna e improvvisa comizi. Nelle notti come questa, viene fuori la gentaglia.» Scrutò attentamente la nebbia, finché non si allontanarono del tutto dalla piazza. Poi, più soddisfatto, disse: «Bene, mancano altri tre o quattro isolati». Girò a destra sulla Fillmore, poi a sinistra in un vicolo sul retro dei palazzi con la facciata sulla Eddy. Non c'era luce. La ghiaia scricchiolava sotto le suole delle scarpe. «Non mi fido di lui» disse Nicholas Alexandria. «Questo è il posto giusto per un'imboscata.» «Taci, maledizione» disse Bowman.» Fammi incasinare e avrai tutte le imboscate che hai sempre cercato.» Camminava con la mano sinistra protesa in avanti. Come un cieco, tastava con la punta delle dita, per orientarsi, i mattoni dei palazzi, «Questa nebbia schifosa. Sarebbe meglio cercarlo di pomeriggio, questo posto» mormorò, e un attimo dopo grugnì. «Eccoci. Queste sono le scale. Tutti su.» Le scale e il corrimano erano di legno. Portavano sul pianerottolo al secondo piano. La porta aveva un lucchetto robusto. Gideon Schlechtman la toccò. «Suppongo che lei abbia un modo per superare questa difficoltà» disse a Bowman. «Mah, restiamo tutti qui a vedere sorgere il sole.» Bowman estrasse dalla tasca della giacca un piccolo astuccio di pelle. «Muoversi, che qui ho gli attrezzi giusti.» Lavorò per qualche minuto, fischiando piano tra i denti, e stonando. Il lucchetto fece un suono secco. Lo sfilò dall'occhiello, lo appoggiò sulle assi del pianerottolo, e aprì la porta. «Andiamo.» Bowman aspettò che tutti fossero entrati, entrò a sua volta e chiuse la porta. Era buio come all'esterno. Tuttavia l'aria era diversa: più asciutta, più calda, con un odore forte non molto differente da quello degli escrementi di cavallo. Ancora una volta, tastò il muro con la mano, finché le dita non trovarono un interruttore. Gli diede un colpetto. Alcune lampadine scoperte, legate col filo elettrico al soffitto del magazzino, entrarono in azione. Indicò verso il basso, dalla passerella su cui si trovavano lui e gli altri, l'immenso animale grigio scuro che si trovava proprio sul pavimento del magazzino. Le sue orecchie smisurate sussultarono nella luce. Emise un suono lamentevole: il suono di una tromba la cui valvola di spurgo non funziona da anni. «Eccolo. Appena sceso dalla Tórtola.» Bowman si era allungato. «L'Elefante Maltese.» Gina Tellini, Schlechtman, Nicholas Alexandria e Hugo sgranarono gli occhi verso l'elefante. Poi il loro sguardo si diresse a Bowman. Avevano tutti la stessa espressione sulla faccia. Hugo tirò fuori la pistola e la puntò
verso il detective. «È mio, adesso» disse con gioia. «No, è il mio.» L'automatica cromata risplendeva nella mano destra di Nicholas Alexandria. Gina Tellini stava rovistando nella sua borsetta. «No, è il mio.» Anche lei mostrò una piccola automatica, non cromata. «Sono spiacente, ma devo insistere sul mio privilegio.» Gideon Schlechtman portava una .357 magnum, in una fondina ascellare. Era impostato come un sergente di artiglieria, con la mano sinistra che sosteneva il polso destro. La pistola mirava qualche centimetro sopra il setto nasale di Bowman. Bowman fissò il tamburo della pistola. I suoi occhi si incrociarono leggermente. La mano destra si teneva ben lontana dalla pistola in cintura. «Che cavolo vi piglia? Vi trovo il vostro maledetto elefante e mi ringraziate così?» «Imbottiamolo di pallottole, capo» disse Hugo, tenendo il dito appoggiato sul grilletto. «No, aspetta» disse Schlechtman. «Desidero che muoia sapendo quanto è stupido. Altrimenti non capirà quanto ampiamente se lo sia meritato.» «Questo stupido bue? È uno spreco di tempo» disse Nicholas Alexandria. «Forse, ma abbiamo tempo da perdere» rispose Gideon Schlechtman. «Signor Bowman, quella creatura grande e pesante... Che le somiglia parecchio... È un elefante, ma non un Elefante Maltese; non l'Elefante Maltese che abbiamo lungamente e faticosamente cercato.» «E come lo sa?» disse Bowman. «Un elefante è un elefante, no?» «Un elefante è un elefante... sbagliato» rispose Schlechtman. «Un Elefante Maltese è facilmente distinguibile dalla specie comune, per il semplice fatto che un maschio adulto è leggermente più piccolo di un pony dello Shetland.» «Sì, e gli asini volano» disse Bowman, ridendo sprezzante. «Vada a raccontarla a qualcun altro.» «Il vecchio detto, ride bene chi ride ultimo, nel suo caso non sembra che possa essere applicato, signor Bowman» disse Schlechtman. «Ho detto solamente la verità. Da tempi immemorabili, Malta fu il luogo di origine di una razza rara di elefanti nani. Che c'è di strano? Prima che vi arrivasse l'uomo, sull'isola non c'era nessun grande predatore. Un elefante non aveva nessun bisogno di essere grande per difendersi. La selezione naturale favorì le piccole dimensioni, per via della scarsità di foraggio. Gli animali più
piccoli necessitano di quantità minori di cibo. I maltesi e i colonizzatori successivi conservarono la razza fino a oggi, come emblema della loro singolarità. E lei ha cercato di rifilarci questa creatura enorme e sgradevole? Imbecille!» L'elefante barrì. Il rumore fu assordante. L'animale fece due passi, e la passerella tremò come per un terremoto. Nicholas Alexandria perse quasi l'equilibrio. Quasi involontariamente Gina Tellini e Hugo si trovarono, per un istante, a guardare verso l'elefante. Anche l'espressione di massima concentrazione di Gideon Schlechtman vacillò per un attimo. Bowman tirò fuori la sua .45, con un movimento più veloce di qualsiasi pensiero sensato. «Allora» ringhiò. «Chi è il primo? Per Dio, il primo che fa partire un colpo lo faccio secco... E se non sparate subito, ne faccio fuori due o tre prima di andarmene.» La scena durò forse tre battiti cardiaci. L'elefante barrì di nuovo. La porta del magazzino si spalancò. «Gettate le armi!» gridò il detective Roland Dwyer. La sua pistola non teneva sotto tiro tutto il gruppo. Dietro di lui arrivò Henry Bock con due uomini in divisa. Erano tutti armati. «Gettatele!» ripeté Dwyer. «Mani in alto!» Nicholas Alexandria lasciò cadere la sua piccola automatica, che fece un gran fracasso sulla passerella. Poi Hugo gettò la sua pistola, e anche Gina Tellini. Alla fine, alzando le spalle, anche Gideon Schlechtman si arrese. Bowman fece un passo indietro contro il muro, con la pesante pistola ancora nella mano. Il capitano Henry Bock avrebbe avuto qualcosa da ridire, ma prima che potesse parlare Dwyer chiese a Bowman: «Che diavolo sta succedendo qui, Miles?» Bowman indicò Gina Tellini e disse:«Lei è quella che ha fregato Wellnhofer. Deve essere lei: ho gironzolato ai pontili e subito dopo ci siamo visti, e avevo nella tasca dei pantaloni una lista di navi che dovevo controllare». «Come ha avuto la possibilità di scoprire quello che avevi in tasca, senza che tu te ne accorgessi?» domandò Bock, guardandolo maliziosamente. «Hai detto che mi amavi» sibilò Gina Tellini. «Ti amavo?» Bowman scosse la testa. «Hai sentito male, dolcezza, sono un uomo sposato.» E continuò, rivolgendosi al detective Dwyer: «Potrebbe avere anche fregato Tom, per quell'Evan Thuersday. Non so di preciso come, ma tu conoscevi Tom. Non sarebbe stato facile tirarlo giù, se non per qualcuno di cui si fidasse. Oppure l'ha ucciso da sola. Tom avrebbe se-
guito qualunque cosa indossasse una gonna.» «È vero» disse Dwyer. Uno degli uomini in divisa dietro a lui annuì. «Immagino che l'allegrone abbia probabilmente eliminato Wellnhofer.» Bowman puntò il pollice su Hugo. «Gina e Schlechtman si conoscevano abbastanza bene, e la pistola di Hugo è al servizio di Schlechtman.» «Dunque chi ha stecchito Thuersday?» domandò Roland Dwyer. «Potrebbe essere stato ancora Hugo» rispose Bowman, alzando le spalle. «O forse è stata questa dolcezza qui» sogghignò verso Nicholas Alexandria, che lo guardò truce, pieno di odio. «Perché non sono certo che Hugo fosse già in città.» Dwyer indicò Gideon Schlechtman. «Che mi dici di lui?» «All'inferno tutto» disse il capitano Bock. «In qualche modo è coinvolto. Portiamoli via tutti, faremo chiarezza più tardi.» Fece un gesto ai poliziotti in divisa, che vennero avanti con le manette. Quello che ammanettò Gina Tellini la spinse leggermente all'indietro. La donna uscì dal magazzino barcollando, e gli altri la seguirono accigliati. «Ti è andata fin troppo bene, Miles» disse il detective Dwyer. «Se quel testimone non avesse sentito l'informazione che Wellnhofer ti aveva rivelato... E se non avesse deciso di riferircela... Non ti saresti divertito molto, no?» Fissò l'elefante. Stava prendendo il fieno da una balla, e se ne riempiva la bocca. «Ma tu, in ogni caso, cosa diavolo stavi facendo qua?» «Chi, io?» Bowman rimise la sua colt nella fondina. «Ero solo a caccia di elefanti selvatici, Rollie, ecco tutto.» «Ah, sì?» Gli occhi di Dwyer ruotarono verso la porta da cui era appena uscita Gina Tellini. «Racconterai tutto questo a Eva?» «Le dirò quello che deve sapere. Cioè che sono stato pagato.» Dwyer scosse la testa. «Sei un verme, Miles.» «È quello che mi dicono tutti.» Miles Bowman rise. «Grazie» disse. Titolo originale: The Maltese Elephant Analog Science Fiction and Fact, August 1995 INERZIA di Nancy Kress Ora è il momento
di rallentare... All'imbrunire crolla la parete in fondo alla camera da letto. Un istante prima è un muro, con dei pilastri sporgenti e una parete grezza e sgretolata, e l'istante successivo la stanza è una due per quattro divisa da un tramezzo irregolare che mi arriva alla vita, dai bordi dentellati e incrostati, come ricoperti di polvere. Attraverso l'apertura un albero malaticcio si spinge verso l'alto nello spazio angusto tra il retro della nostra baracca e il retro di quelle del Blocco E. Cerco di alzarmi dal letto per vedere più da vicino, ma oggi la mia artrite va proprio male, ecco perché sono a letto, in primo luogo. Rachel irrompe nella camera da letto. «Cos'è successo, nonna? Stai bene?» Annuisco e indico. Rachel si china verso l'apertura, i capelli inghirlandati dal crepuscolo californiano. È anche la sua camera da letto: il suo materasso si trova sotto il mio letto a baldacchino tutto graffiato. «Termiti! Accidenti. Non sapevo che ce ne fossero. Sei sicura di star bene?» «Sto bene. Sono stata un po' sballottata, cara, ma sto bene.» «Bene. Dovremo far chiamare qualcuno da mamma per farla riparare.» Non dico niente. Rachel si raddrizza, mi lancia una rapida occhiata, poi distoglie lo sguardo. Non dico ancora nulla di Mamie, ma in un guizzo improvviso della luce della mia lampada a olio guardo direttamente Rachel, solo perché è così bello guardarla. Non è bella, nemmeno qui all'Interno, anche se finora la malattia ha colpito solo il lato sinistro del suo viso. La superficie della pelle ispessita, incrostata, ruvida come vecchia canapa, non si vede per nulla quando rivolge il profilo destro. Ma il naso è grosso, le sopracciglia folte e basse, il mento una sporgenza ossuta. Un naso onesto, sopracciglia espressive, occhi grigi e sinceri, il mento che si protende in avanti quando inclina la testa mentre ascolta con intelligenza - agli occhi di una nonna Rachel è bella. Non la penserebbero così all'Esterno. Ma avrebbero torto. Rachel dice: «Forse potrei scambiare un biglietto della lotteria con un po' di chiodi e altro materiale e ripararlo da me». «Le termiti ci saranno ancora.» «Be', sì, ma dobbiamo fare qualcosa.» Non la contraddico. Ha sedici anni. «Senti che aria... Ti congelerai di notte, data la stagione. Sarà terribile per la tua artrite. Vieni in cucina adesso, nonna. Ho attizzato il fuoco.» Mi aiuta a raggiungere la cucina, dove la stufa a legna in metallo emana
un calore rossastro che fa bene alle mie giunture. La stufa è stata donata alla colonia un anno fa da chissà quale istituto di beneficenza o gruppo d'interesse speciale, credo per risparmiare su qualche tipo di tassa che c'è su quel genere di cose, ammesso che tuttora ce ne siano. Rachel mi dice che abbiamo ancora dei giornali, e una volta o due ho avvolto la verdura del nostro orticello in alcuni che sembravano relativamente nuovi. Dice anche che il giovane Steven lavora, nella sala della comunità del Blocco J, per una rete giornalistica su un computer ricevuto in dono, ma io non seguo più le norme fiscali dell'Esterno. Né chiedo perché è stata Mamie ad avere la stufa a legna quando non era mese di lotteria. La luce della stufa è più forte della fiamma della lampada a olio della camera da letto. Capisco che sotto la preoccupazione per la parete crollata nella nostra camera da letto il viso di Rachel è rosso per l'emozione. La sua giovane pelle avvampa dal mento intelligente fino alla superficie irruvidita dalla malattia, che ovviamente non cambia mai colore. Le sorrido. A sedici anni è così facile sentirsi emozionati. Un nuovo nastro per capelli dal deposito delle donazioni, lo sguardo di un ragazzo, un segreto con sua cugina Jennie. «Nonna» dice, inginocchiandosi accanto alla mia sedia, con le mani irrequiete che si muovono sul bracciolo di legno rotto. «Nonna, c'è un visitatore. Dall'Esterno. Jennie l'ha visto.» Continuo a sorridere. Rachel - e nemmeno Jennie - non può ricordarsi di quando le colonie per i malati avevano un sacco di visitatori. Dapprima grosse sagome in tute anticontaminazione, poi, dopo qualche anno, figure più delicate in sani-tute che sostituirono quelle anticontaminazione. La gente veniva ancora internata dall'Esterno, e per anni ai posti di controllo del Margine il traffico scorreva in entrambi i sensi. Ma ovviamente Rachel non ricorda tutto questo: non era ancora nata. Mamie aveva solo dodici anni quando siamo state internate qui. Per Rachel un visitatore poteva ben essere un grande evento. Allungo una mano e le carezzo i capelli. «Jennie ha detto che vuole parlare con le persone più anziane della colonia, quelli che sono stati portati qui fin dall'insorgere della malattia. Gliel'ha detto Hal Stevenson.» «Davvero, cara?» I suoi capelli sono morbidi e lucenti come la seta. I capelli di Mamie erano così quando aveva l'età di Rachel. «Potrebbe voler parlare con te!» «Bene, eccomi qui.» «Ma non sei emozionata? Cosa pensi che voglia?»
Scampo alla necessità di risponderle grazie all'ingresso di Mamie insieme al suo ragazzo Peter Malone, che ha una borsa di corda con dei generi alimentari provenienti dal magazzino. Non appena si sente girare la maniglia della porta Rachel si alza e va ad attizzare il fuoco. Il suo viso si fa del tutto inespressivo, anche se so che è solo un atteggiamento temporaneo. Mamie grida: «Eccoci qui!» con la sua voce acuta, da bambolina, e la corrente d'aria dell'ingresso che le gira vorticosamente intorno come acqua limpida. «Mamma cara, come ti senti? E Rachel! Non l'indovinerete mai: Pete ha avuto dei biglietti del magazzino in più e ci ha portato del pollo! Farò uno stufato!» «È crollato il muro in fondo alla camera da letto» dice Rachel con indifferenza e senza guardare Peter con il suo pollo nella borsa di corda. Io invece lo guardo. Sorride con il suo ghigno paziente, da lupo. Immagino che abbia vinto a poker i biglietti del magazzino. Ha le unghie sporche. Nella parte di giornale che riesco a vedere c'è scritto ESIDENTE CONFISCA C. Mamie dice: «Come sarebbe, crollato?» Rachel alza le spalle. «È crollato. Termiti.» Mamie guarda impotente Peter, il cui sogghigno s'allarga. Immagino come andrà a finire: più tardi faranno una scenata, non del tutto a nostro beneficio, anche se succederà nella cucina affinché possiamo esserne spettatrici. Mamie pregherà gentilmente Peter perché ripari lui il muro. Lui farà delle difficoltà, sogghignando. Lei farà delle allusioni su uno scambio, sorridendo stupidamente, e diventando sempre più esplicita. Lui acconsentirà a riparare il muro. Rachel e io, non avendo un'altra stanza riscaldata in cui andare, staremo a guardare il fuoco, o il pavimento o le nostre scarpe, finché Mamie e Peter si ritireranno ostentatamente nella camera di Mamie. È l'ostentazione che ci imbarazza. Mamie ha sempre avuto bisogno di testimoni a cui mostrare la sua desiderabilità. Ma Peter sta guardando Rachel, non Mamie. «Il pollo non viene dall'Esterno, Rachel. Viene dall'aia del Blocco B. Ti ho sentito dire quanto sono belli.» «Già» dice Rachel brusca. Mamie alza gli occhi al cielo. «Dì "grazie", cara. Pete ha avuto il suo bel da fare per procurarsi questo pollo.» «Grazie.» «Non riesci a dirlo con convinzione?» La voce di Mamie si fa stridula. «Grazie» dice Rachel. Si dirige verso la nostra camera da letto con tre pareti. Peter, sempre osservandola attentamente, passa il pollo nell'altra
mano. La pressione della borsa di corda intaglia delle linee sulla pelle giallastra del pollo. «Rachel Anne Wilson!» «Lasciala andare» dice Peter, conciliante. «No» dice Mamie. Tra i cinque segni della malattia che s'incrociano, il suo viso si dispone a formare delle rughe sgradevoli. «Può almeno imparare un po' di buone maniere. E voglio che senta il nostro annuncio! Rachel, torna subito qui, immediatamente!» Rachel torna dalla camera da letto. Che io sappia, non ha mai disobbedito a sua madre. Si ferma vicino alla porta aperta della camera da letto, in attesa. Due candelabri a muro vuoti, entrambi anneriti da un fumo lontano nel tempo, le incorniciano il capo. È almeno dall'inverno scorso che non abbiamo più candele da metterci. Mamie, con la fronte corrugata per l'irritazione, si lascia andare in un sorriso radioso. «Questa è una cena speciale, per tutti voi. Pete e io abbiamo un annuncio da fare. Stiamo per sposarci.» «Esatto» dice Peter. «Fateci le congratulazioni.» Rachel, già immobile, lo diventa ancora di più. Peter la osserva accuratamente. Mamie abbassa lo sguardo, arrossendo, e io sento come una fitta di pietà imbarazzante per mia figlia, che spiattella il suo atteggiamento da ragazzina ultratrentenne di fronte a un uomo tanto meschino e inaffidabile come Peter Malone. Lo fisso con durezza. Se solo osa toccare Rachel... ma non credo davvero che oserebbe. Cose del genere non succedono più. Non all'Interno. «Congratulazioni» biascica Rachel. Attraversa la stanza e abbraccia sua madre, che la ricambia con fervore melodrammatico. Ancora un attimo e Mamie si sarebbe messa a piangere. Oltre la sua spalla vedo per un attimo il viso di Rachel, che esprime sia pena che affetto, e abbasso gli occhi. «Bene! Qui ci vuole un brindisi!» grida Mamie festosamente. Ammicca, fa una goffa piroetta e prende una bottiglia dal ripiano in fondo alla credenza che Rachel ha avuto all'ultima lotteria delle donazioni. Nella nostra cucina, in mezzo alle sedie traballanti e al tavolo tagliuzzato con il cassetto rotto che nessuno si è mai preso la briga di aggiustare, la credenza, di lacca bianca lucida e di aspetto vagamente orientale, fa uno strano effetto. Mamie brandisce la bottiglia, che io non sapevo che ci fosse. È champagne. Chissà cosa pensavano quelli dell'Esterno quando hanno donato dello champagne a una colonia di colpiti dalla malattia. Poveri diavoli, anche se non hanno mai nulla da festeggiare... O: Ecco qualcosa di cui non sa-
pranno che farsene... O: Meglio a loro che a me - finché quei malati se ne staranno all'Interno... Non ha davvero importanza. «Io adoro lo champagne!» grida Mamie come in preda a una febbre. Io penso che l'abbia assaggiato una volta. «E oh, ecco... C'è qualcun altro che può festeggiare con noi! Entra, Jennie. Entra e prendi un po' di champagne!» Jennie entra, sorridente. Vedo in lei la stessa eccitazione ed entusiasmo che animavano Rachel prima dell'annuncio di sua madre. Brilla sul suo viso, che è bello. Jennie non mostra alcun segno della malattia sulle mani o sul viso. Deve averne da qualche parte, è nata all'Interno, ma non sono cose da chiedere. Probabilmente Rachel lo sa. Le due ragazze sono inseparabili. Jennie, figlia del fratello del defunto marito di Mamie, è cugina di Rachel, e tecnicamente Mamie è la sua tutrice. Ma nessuno bada più a queste cose, e Jennie vive con altre persone in una baracca del Blocco vicino, anche se Rachel e io le abbiamo chiesto di vivere qui. Lei aveva scosso la testa, con i bei capelli di un biondo così chiaro, quasi bianco, che le si muovevano sulle spalle, e aveva arrossito per l'imbarazzo, evitando di guardare Mamie. «Sto per sposarmi, Jennie» dice Mamie, abbassando di nuovo gli occhi pudicamente. Mi chiedo cos'abbia fatto, e con chi, per avere lo champagne. «Congratulazioni!» dice Jennie calorosamente. «Anche a lei, Peter.» «Chiamami Pete» dice lui, come aveva già fatto. Colgo il suo sguardo cupido verso Jennie. Lei no, ma una specie di sesto senso - perfino qui, perfino all'Interno - la fa indietreggiare leggermente. So che continuerà a chiamarlo "Peter". Mamie dice a Jennie: «Prendi un altro po' di champagne. Resta a cena.» Jennie misura con gli occhi la quantità di champagne nella bottiglia, mentre il grasso del pollo gocciola a poco a poco sul tavolo. La valuta con discrezione, poi ovviamente dice una bugia. «Mi dispiace, non posso, abbiamo mangiato a mezzogiorno oggi. Volevo solo chiedere a nonna se posso portare qualcuno che vuole vederla, più tardi. Un visitatore.» La sua voce si abbassa a un sussurro, e le torna il rossore. «Dall'Esterno.» Guardo i suoi occhi blu luminosi, poi il viso di Rachel, e non ho il coraggio di rifiutare. Anche se posso immaginare, cosa che le due ragazze non possono, come si svolgerà la visita. Non sono la nonna di Jennie, ma lei mi chiama così da quando aveva tre anni. «Va bene.» «Oh, grazie!» grida Jennie, e lei e Rachel si scambiano uno sguardo di gioia. «Sono così contenta che tu abbia detto di sì, altrimenti forse non a-
vremmo mai potuto parlare da vicino con un visitatore!» «Prego» dico. Sono così giovani. Mamie sembra infastidita: il suo annuncio è passato in secondo piano. Peter osserva Jennie mentre la ragazza abbraccia impulsivamente Rachel. D'un tratto so che anche lui si chiede dove la malattia abbia colpito il corpo di Jennie, e quanto. Incrocia il mio sguardo, poi guarda il pavimento, nascondendo gli occhi scuri con le palpebre, con un certo imbarazzo. Ma solo fino a un certo punto. Un ceppo scoppietta nella stufa di legno, e per un breve momento il fuoco divampa. Il pomeriggio seguente Jennie porta il visitatore. Mi sorprende immediatamente: non indossa una sani-tuta, e non è un sociologo. Negli anni successivi agli internamenti le colonie per la malattia avevano un sacco di visitatori. Dottori che ancora speravano di trovare una cura per quelle parti grigie e ispessite della pelle che si diffondevano lentamente su un corpo umano - oppure si fermavano, nessuno sapeva perché. Deturpante. Orribile. Forse fatale, alla fine. E trasmissibile. Quella era la fregatura: trasmissibile. Perciò i dottori con le sani-tute venivano a ricercarne le cause o una possibile cura. I giornalisti venivano con le sani-tute in cerca di storie per articoli con foto a quattro colori. I membri di commissioni d'inchiesta legislative venivano con le sani-tute per studiare la situazione, almeno fino a che il Congresso non tolse il diritto di voto alle colonie, a causa della pressione dei contribuenti, loro stessi sempre più sotto pressione, irritati dalla nostra condizione che gravava sul bilancio pubblico. E i sociologi vennero a frotte, con le minivideocamere in mano, pronti a registrare il fallimento e la disorganizzazione delle colonie di malati in un'anarchia da bande di strada, dove regna la legge del più forte. In seguito, quando questo non accadde, vennero dei sociologi diversi con indosso modelli più recenti di sani-tute, per prendere nota delle ragioni per cui le colonie non stavano degenerando come previsto. Tutti questi gruppi se ne andarono insoddisfatti. Non c'erano cure, cause, storie, fallimenti. Non c'erano motivi. I sociologi perseverarono più a lungo di chiunque altro. I giornalisti devono essere tempestivi e interessanti, ma i sociologi devono semplicemente pubblicare. Inoltre, tutto nella loro tradizione culturale li portava a ritenere che prima o poi l'Interno sarebbe degenerato in un teatro di conflitti. Togliete alla gente l'elettricità (l'energia elettrica era diventata troppo cara), la polizia municipale (che si rifiutava di andare all'Interno), o la libertà di andarsene, l'interesse per la politica, il lavoro, le autostrade, i cinema, i
giudici federali. le scuole elementari statali - e avrete violenza sfrenata per la pura e semplice sopravvivenza. Ogni fatto nella storia e nella cultura lo affermava. La gente stanata con le bombe nelle città dell'interno. Il Signore delle mosche. I piani di Chicago. I film western. I diari dal carcere. Il Bronx. La zona est di Los Angeles. Thomas Hobbes. I sociologi lo sapevano. Soltanto, non accadde. I sociologi aspettarono. E all'Interno abbiamo imparato a coltivare verdure e allevare pollame che, come abbiamo visto, mangia di tutto. Quelli di noi che sanno usare il computer hanno continuato a lavorare normalmente via modem ancora per qualche anno - forse anche per una decina prima che i macchinari diventassero troppo obsoleti e venissero sostituiti. Quelli che erano stati insegnanti organizzarono i bambini in classi, anche se credo che i programmi diventassero ogni anno più scarni: Rachel e Jennie non sembrano avere una gran conoscenza della storia o della scienza. I medici esercitavano la loro attività grazie alle medicine donate dalle grandi aziende per beneficiare delle detrazioni fiscali, e dopo una decina d'anni o poco più cominciarono ad avere degli allievi. Per un certo tempo poteva esser stato un tempo piuttosto lungo - ascoltavamo la radio e guardavamo la televisione. Forse alcuni lo fanno ancora, se ce ne sono ancora di funzionanti tra quelle donate dall'Esterno. Io non ci bado. In ultimo i sociologi rievocarono forme di privazione, discriminazione e isolamento in culture più vaste: gli shtetl, i ghetti degli ebrei; gli Ugonotti francesi; gli agricoltori Amish. Modelli autosufficienti, stagnanti ma non fallimentari. E mentre loro rievocavano noi organizzavamo lotterie, assumevamo apprendisti, razionavamo i viveri nei magazzini secondo le necessità e sostituivamo i nostri mobili inservibili con degli altri mobili inservibili, ci sposavamo e avevamo dei bambini. Non pagavamo tasse, non facevamo guerre, non esercitavamo la facoltà di votare, non facevamo teatro. Dopo un po' - un bel po' - i visitatori smisero di venire. Perfino i sociologi. Ma ecco questo giovane senza sani-tuta, sorridente, con gli occhi castani sotto una folta capigliatura bruna che mi prende per la mano. Non trasale quando tocca la pelle irruvidita dalla malattia. Né dà l'impressione di catalogare il mobilio della cucina per una successiva registrazione: tre sedie; un'imitazione donata di Regina Anna e un autentico Joe Kleinschmidt dell'Interno; il tavolo; la stufa a legna; la nuova sfavillante credenza laccata in stile orientale; il lavandino di plastica con la pompa a mano; la cassetta della legna con su scritto "dono di Boise-Cascade"; due ragazzine impa-
zienti, intelligenti e affettuose che avrebbe fatto meglio a non trattare con condiscendenza, come dei mostriciattoli malati. È passato molto tempo, ma me lo ricordo. «Salve, signora Pratt. Sono Tom McHabe. Grazie per avere accettato di parlare con me.» Annuisco. «Di che cosa dobbiamo parlare, signor McHabe? Lei è un giornalista?» «No. Sono un medico.» Non me l'aspettavo. Né mi aspettavo l'improvvisa tensione che gli balena sul viso e che poi si perde in un altro sorriso. Anche se è naturale che quella tensione ci sia: essendo venuto all'Interno, naturalmente, non può più andarsene. Mi chiedo dove abbia preso la malattia. Nessun altro nuovo caso è stato accolto nella nostra colonia, per quanto riesco a ricordare. Erano stati portati, per qualche ragione politica dell'Esterno, in qualcuna delle altre colonie? McHabe dice: «Non ho la malattia, signora Pratt». «E allora, perché mai...» «Sto preparando una relazione sul progredire della malattia nei residenti delle colonie insediate da lungo tempo. Dovevo farlo dall'Interno, naturalmente» dice, e immediatamente so che sta mentendo. Rachel e Jennie, ovviamente, no. Gli siedono accanto, una da una parte e l'altra dall'altra, in ascolto come uccellini curiosi. «E come porterà fuori questa relazione, una volta che l'avrà scritta?» dico. «Con una radio a onde corte. I miei colleghi l'aspettano» risponde, ma si guarda bene dall'incrociare il mio sguardo. «E per questa relazione vale la pena di essere internato permanentemente?» «Con che rapidità è progredita la malattia nel suo caso?» chiede, senza rispondere alla mia domanda. Mi guarda il viso, le mani e gli avambracci. Un esame attento, obiettivo e professionale, che mi convince che almeno una parte della sua storia sia vera. È un medico. «Ha dei dolori nelle zone infette?» «Nessuno.» «Qualche invalidità funzionale o diminuzione di attività in seguito alla malattia?» Rachel e Jennie sembrano leggermente perplesse. Mi sta mettendo alla prova per vedere se capisco questa terminologia. «Nessuna.»
«Qualche cambiamento negli ultimi anni nell'aspetto delle zone della pelle colpite per prime? Cambiamenti di colore, densità dei tessuti o dimensioni delle superfici ispessite?» «Nessuna.» «Nessun altro genere di cambiamenti che io abbia omesso di menzionare?» «Nessuno.» Annuisce e oscilla sui talloni. È tranquillo per uno che sta per sviluppare l'ispessimento non disfunzionale tipico della malattia. Aspetto per vedere se vuole dirmi perché è qui in realtà. Il silenzio continua. Finalmente McHabe dice: «Lei era una CPA» contemporaneamente a Rachel che dice: «Qualcuno vuole un bicchiere di limonata?» McHabe accetta volentieri. Le due ragazze, confortate dall'aver trovato qualcosa da fare, s'impegnano a pompare l'acqua fresca, a spremere delle pesche in scatola, mescolando la limonata in un recipiente di plastica marrone con un profondo rigonfiamento da un lato, nel punto in cui una volta aveva toccato la stufa bollente. «Sì» dico a McHabe «ero una CPA. Perché, che c'è?» «Sono fuorilegge, adesso.» «I CPA? Perché? Sono dei fedeli sostenitori del potere costituito» dico, e mi rendo conto di quanto tempo è passato da quando usavo parole come quelle. Hanno un sapore metallico, come di vecchia latta. «Non più. L'IRS fa tutti i calcoli fiscali e manda un conto personalizzato a ogni famiglia. I calcoli in base ai quali raggiungono la particolare cifra personalizzata sono riservati. Per evitare che i nemici stranieri possano farsi un'idea delle risorse a disposizione della Difesa.» «Ah.» «Mio zio era un CPA.» «Cos'è adesso?» «Non un CPA» dice McHabe. Non sorride. Jennie dà un bicchiere di limonata a me e uno a McHabe, e allora lui sorride. Jennie abbassa le ciglia e un po' di colore le ravviva impercettibilmente le guance. Qualcosa balena negli occhi di McHabe. Ma non è come Peter. Non è affatto come Peter. Do un'occhiata a Rachel. Non sembra essersi accorta di nulla. Non è gelosa, preoccupata o risentita. Mi rilasso un po'. McHabe mi dice: «Lei ha anche pubblicato degli articoli di storia divulgativi su alcune riviste». «Come fa a saperlo?»
Di nuovo non risponde. «È un'insolita combinazione di capacità, il saper raccontare e scrivere la storia.» «Credo di sì» dico, senza interesse. È passato così tanto tempo. Rachel dice a McHabe: «Posso chiederle una cosa?» «Certo.» «All'Esterno avete dei farmaci che liberino il legno dalle termiti?» Il suo viso è terribilmente serio. McHabe non sogghigna, e io riconosco un po' a malincuore - che non è una persona sgradevole. Le risponde cortesemente. «Noi non curiamo il legno, noi eliminiamo le termiti. Il sistema migliore è impregnare il legno di creosoto, una sostanza chimica che a loro non piace, così non vanno nel legno fin dall'inizio. Ma ci devono essere dei preparati che le uccidono quando ci sono già. Chiederò in giro e cercherò di portarti qualcosa nella mia prossima visita all'Interno.» La sua prossima visita all'Interno. Lancia questa bomba come se uscire e rientrare a piacimento fosse un fatto scontato. Rachel e Jennie fanno tanto d'occhi. Mi guardano tutt'e due. Anche McHabe mi guarda, e capisco che il suo sguardo è un freddo esame, una valutazione della mia reazione. Si aspetta che gli chieda ulteriori spiegazioni, o forse perfino - è passato molto tempo da quando pensavo in questi termini, e adesso mi costa fatica - che mi arrabbi con lui per le sue menzogne. Ma non so se mente, e in ogni caso, che importanza può avere? Se anche qualcuno dall'Esterno entra nella colonia, che male ci può fare? Non ci sarà una grande immigrazione, e non ci sarà nessuna emigrazione. Con molta calma gli chiedo: «Perché è venuto qui in realtà, dottor McHabe?» «Gliel'ho detto, signora Pratt. Per verificare il progredire della malattia.» Non dico nulla. Lui aggiunge: «Forse le piacerebbe saperne di più su com'è l'Esterno adesso». «Non particolarmente.» «Perché no?» Alzo le spalle. «Non si interessano di noi.» Mi studia con gli occhi. Jennie dice timidamente: «A me piacerebbe saperne di più sull'Esterno». Prima che Rachel possa aggiungere «Anche a me» la porta si spalanca con violenza e Mamie entra nella stanza indietreggiando e urlando fino all'ingresso. «E non tornare mai più! Se credi che mi lasci toccare ancora da te dopo che ti sei scopato quella... quella... spero che lì abbia un bubbone della malattia e che venga anche a te sul...» Vede McHabe e s'interrompe, tremando
di rabbia da capo a piedi. Una risposta sommessa filtra dall'ingresso, ma le parole sono incomprensibili dalla mia sedia accanto al fuoco. Quella risposta le toglie il respiro e la fa diventare ancora più rossa. Sbatte la porta, scoppia in lacrime e corre nella sua camera da letto, sbattendo anche quella porta. Rachel si alza. «Lascia fare a me, cara» dico, ma prima che riesca ad alzarmi - la mia artrite va molto meglio - Rachel sparisce nella stanza di sua madre. Nella cucina resta un silenzio imbarazzato. Tom McHabe si alza per andarsene. «Si sieda, dottore» dico, nella speranza che, se rimane, Mamie si faccia passare il suo attacco isterico e magari Rachel riappaia più in fretta dalla stanza di sua madre. McHabe sembra incerto. Poi Jennie dice: «Sì, per favore, resti. E ci potrebbe raccontare...» noto la sua goffaggine, il suo desiderio di non sembrare stupida «...com'è la vita all'Esterno?» Lo fa. Guardando Jennie ma in realtà rivolgendosi a me, parla dell'ultima versione della legge marziale; dell'incapacità della Guardia Nazionale di tenere sotto controllo quelli che protestavano contro la guerra in Sud America finché non sono arrivati ai limiti della zona protetta dai cavi elettrici davanti alla Casa Bianca; del crescente potere dei clandestini Fondamentalisti che gli altri clandestini - usa il plurale - chiamano "la banda di Dio". Ci racconta del sistematico prevalere dei concorrenti coreani e cinesi sulle nostre industrie, del tasso di disoccupazione galoppante, dello scontro etnico, delle città in. fiamme. Miami, New York, Los Angeles - in quei posti c'erano rivolte da anni. Adesso è la volta di Portland, St. Louis, Eugene, Phoenix. Le Grand Rapids in fiamme. È difficile da immaginare. Dico: «Per quel che ne so, le donazioni ai nostri magazzini non sono diminuite». Mi guarda di nuovo, esaminandomi sempre con molta attenzione, valutando qualcosa che non arrivo a comprendere, poi tocca il bordo della stufa con uno stivale. Noto che lo stivale è vecchio e consunto quasi quanto i nostri. «È una stufa di produzione coreana. Fanno quasi tutte le donazioni ormai. Pubbliche relazioni. Anche molti membri del Congresso sotto la legge marziale hanno dei congiunti tra gli internati, anche se adesso non lo ammetterebbero. Gli asiatici riducono gli affari sottraendosi al protezionismo assoluto, anche se ovviamente le donazioni ne sono soltanto una piccola parte. Ma quasi tutto ciò che arriva all'Interno è cinese o coreano.» Usa le parole con indifferenza questo giovanotto cortese che mi dà queste notizie da un punto di vista tanto liberale, dicendomi più cose sull'Esterno
di tutti i suoi comunicati ufficiali e le sue relazioni. Jennie dice esitante: «Ho visto... credo che fosse un asiatico. Ieri». «Dove?» dico severa. Pochissimi americani di origine asiatica contraggono la malattia: un'altra cosa che nessuno capisce. Non ce ne sono nella nostra colonia. «Al Margine. Una delle guardie. Altri due uomini lo prendevano a calci e gli urlavano degli insulti - non riuscivamo a sentire molto chiaramente dall'altra parte delle cabine per le comunicazioni interne.» «Noi? Tu e Rachel? Cosa ci facevate voi due al Margine?» dico, e sento il tono energico della mia voce. Il margine, un'ampia striscia di terra vuota, è elettrominata e cinta di filo spinato per tenere all'Interno noi contagiosi. Il Margine è attorniato da miglia di terreno privo di vegetazione e disinfettato, inquinato da sostanze chimiche profilattiche, e tuttavia sorvegliato malvolentieri da soldati che comunicano con l'Interno mediante dispositivi sistemati a mezzo miglio l'uno dall'altro su entrambi i lati del filo spinato. Quando nella colonia c'era una rissa, uno stupro o - una volta, nei primi anni - un omicidio, capitava presso il Margine. Quando della gente odiosa veniva per farci del male, perché prima che ci fossero i cavi elettrici e il filo spinato eravamo dei facili bersagli, dato che la polizia non li avrebbe mai seguiti all'Interno, i soldati, e a volte anche i nostri uomini, li fermavano al Margine. I nostri morti sono sepolti vicino al Margine. E Rachel e Jennie, mio Dio, al Margine... «Siamo andate a chiedere alle guardie al di là delle cabine per le comunicazioni interne se sapevano come neutralizzare le termiti» dice Jennie secondo logica. «Dopo tutto, il loro compito è fermare delle cose, microbi e così via. Abbiamo pensato che forse erano in grado di dirci come fermare le termiti. Abbiamo pensato che forse erano stati appositamente addestrati.» La porta della camera da letto si apre e Rachel ne esce, con il giovane viso teso. McHabe le sorride, poi il suo sguardo torna su Jennie. «Non credo che i soldati siano stati addestrati per fermare le termiti, ma puoi star certa che ti porterò qualcosa che le fermi, la prossima volta che verrò all'Interno.» Di nuovo questa storia. Ma tutto ciò che Rachel dice è: «Oh, bene. Ho chiesto in giro per avere un po' di materiale per riparare il muro, oggi, ma anche se riesco ad averlo fra un po' dovremo rifare di nuovo tutto se non ci procuriamo qualcosa per fermarle.» McHabe dice: «Sapevi che le termiti si scelgono una regina? Hanno un
metodo di votazione accuratamente controllato. È la verità». Rachel sorride, anche se non credo che abbia veramente capito. «E le formiche possono buttare giù un albero di caucciù.» Si mette a cantare, una vecchia canzone della mia infanzia. Grandi speranze. Frank Sinatra nello stereo - perfino prima dei CD, prima di un sacco di cose - tè ghiacciato e Coca Cola in bicchieri cilindrici la domenica pomeriggio, zie e zii seduti in cucina, una partita di football in televisione in soggiorno accanto a un tavolo con un vaso di cristallo piombato con gli ultimi crisantemi viola del giardino. L'odore del tardo pomeriggio della domenica, penetrante eppure leggero, l'ultimo del weekend prima che il grosso autobus giallo della scuola procedesse a fatica il lunedì mattina. Jennie e Rachel, naturalmente, non vedono nulla di tutto ciò. Sentono delle parole frivole cantate da una buona voce baritonale e un ritmo facile da seguire, speranza e coraggio in versi sciocchi e di qualità scadente. Ne sono deliziate. Si uniscono a McHabe nel ritornello dopo che lui l'ha cantato un paio di volte, poi gli cantano tre canzoni popolari ai balli dei Blocchi, gli fanno un altro po' di limonata, e poi cominciano a fargli domande sull'Esterno. Domande semplici: Cosa mangia la gente? Dove si procura il cibo? Che abiti indossa? Tutti e tre stanno ancora parlando di queste cose quando vado a letto, con l'artrite che alla fine comincia a darmi dei dolori, e lancio uno sguardo alla porta chiusa di Mamie con una tristezza che non mi aspettavo e che non riesco a definire. «Sarà meglio che quel figlio di puttana non mi si avvicini mai più» dice Mamie la mattina successiva. La giornata è assolata e io sono seduta vicino alla nostra unica finestra, e faccio una coperta all'uncinetto per sgranchirmi le dita, chiedendomi se la lana donata proviene da pecore cinesi o coreane. Rachel è andata con Jennie per rispondere a una richiesta di manodopera per scavare più in profondità un pozzo del Blocco E. Se n'era parlato per settimane, e a quanto pare qualcuno alla fine si è deciso a organizzare questo lavoro. Mamie crolla sul tavolo, con gli occhi rossi per il pianto. «L'ho beccato a scopare con Mary Delbarton.» La sua voce è rotta come quella di una bambina di due anni. «Mamma... si stava scopando Mary Delbarton.» «Lascialo perdere, Mamie.» «Sarei di nuovo sola.» Lo dice con una certa dignità, che però non dura. «Quel figlio di puttana se ne va con quella donnaccia il giorno dopo il nostro fidanzamento e io mi ritrovo di nuovo dannatamente sola!» Non dico nulla: non c'è nulla da dire. Il marito di Mamie è morto undici
anni fa, quando Rachel aveva solo cinque anni, a causa di una cura sperimentale seguita da medici governativi. Gli abitanti delle colonie erano cavie. Morirono diciassette persone in quattro colonie, e il governo interruppe i finanziamenti e stabilì che era un atto criminale per chiunque entrare e uscire da una colonia per i colpiti dalla malattia. Il rischio del contagio era troppo grande, dicevano. Per la protezione dei cittadini del paese. «Non mi farò mai più toccare da lui!» dice Mamie, con le ciglia bagnate di lacrime. Una lacrima scivola di qualche centimetro, fino a raggiungere il primo degli ispessimenti causati dalla malattia, poi scorre di traverso fino alla bocca. Mi protendo in avanti e gliel'asciugo. «Maledetto stronzo figlio di puttana!» La sera stessa lei e Peter sono mano nella mano. Siedono l'uno accanto all'altra, e le dita di lui scorrono sulla coscia di lei sotto quello che credono sia il bordo del tavolo. Mamie gli infila una mano sotto le natiche. Rachel e Jennie distolgono lo sguardo, e Jennie arrossisce leggermente. Ho un improvviso sprazzo di memoria, di un genere che non ho avuto da anni: mi vedo a diciotto anni o giù di lì, al mio primo anno a Yale, in un enorme letto d'ottone con un copriletto a disegni geometrici e un uomo dalla testa rossa che ho conosciuto tre ore prima. Ma qui, all'Interno... qui il sesso, come ogni altra cosa, procede molto più lentamente, con molta più cautela, con molta più riservatezza. Per così tanto tempo la gente ha avuto paura che questa malattia, come quell'altra precedente, potesse trasmettersi per via sessuale. E poi c'era la vergogna del proprio corpo abbruttito, attraversato dalle zone ispessite dalla malattia... Non sono certa che Rachel abbia mai visto un uomo nudo. Dico, tanto per dire qualcosa: «Così c'è un ballo a un Blocco mercoledì». «Al Blocco B» dice Jennie. I suoi occhi blu brillano. «Con il gruppo che ha suonato l'estate scorsa per il Blocco E.» «Chitarre?» «Oh, no! Hanno una tromba e un violino» dice Rachel, chiaramente impressionata. «Dovresti sentire come suonano insieme, nonna - è molto diverso dalle chitarre. Vieni al ballo!» «Non credo, cara. Il dottor McHabe ci va?» Dai loro due visi capisco che la mia supposizione è esatta. Jennie dice, esitante: «Prima vuol parlare con te, prima del ballo, per pochi minuti. Se per te va bene». «Perché?»
«Non... non sono proprio sicura di sapere tutto.» Non mi guarda negli occhi: non vuole dirmelo, e non vuole mentire. La maggior parte dei bambini all'Interno, me ne rendo conto per la prima volta, non sono bugiardi. Altrimenti sono cattivi. Sono buoni in privato, ma dev'essere una vera intimità. «Lo vedrai?» dice Rachel, con impazienza. «Lo vedrò.» Mamie sposta lo sguardo da Peter abbastanza a lungo da aggiungere seccamente: «Se è per qualcosa che riguarda te o Jennie dovrebbe vedere me, signorina, non tua nonna. Io sono tua madre e la tutrice di Jennie, non te ne dimenticare.» «No, mamma» dice Rachel. «Non mi piace affatto il tuo tono, signorina!» «Scusa» dice Rachel, nello stesso tono. Jennie abbassa lo sguardo, imbarazzata. Ma prima che Mamie possa irritarsi davvero, indignata per questa negligenza nei suoi confronti come madre, Peter le sussurra qualcosa all'orecchio, e lei si batte una mano sulla bocca, ridacchiando. Più tardi, quando in cucina siamo rimasti solo noi due, dico con calma a Rachel: «Cerca di non indisporre tua madre, cara. Non può farci nulla». «Sì, nonna» dice Rachel, obbediente. Ma sento dello scetticismo nel tono della sua voce, uno scetticismo attenuato dal suo affetto per me e perfino per sua madre, ma pur sempre tale. Rachel non crede che sua madre non possa farci nulla. Rachel, nata all'Interno, probabilmente non può andare oltre la sua ignoranza di ciò che Mamie crede di aver perso. Alla sua seconda visita, sei giorni dopo, poco prima del ballo del Blocco, Tom McHabe sembra diverso. Avevo dimenticato che c'è gente che emana tanta energia e fermezza da sembrare che faccia vibrare l'aria stessa. È in piedi con le gambe leggermente divaricate, affiancato da Rachel e Jennie, entrambe vestite con le gonne che usano per il ballo. Jennie si è infilata un nastro rosso tra i riccioli biondi, che risplende come un fiore. McHabe le tocca delicatamente la spalla, e capisco dal sguardo che lei gli rimanda cosa dev'esserci tra loro. La gola mi si stringe. «Voglio essere franco con lei, signora Pratt. Ho parlato con Jack Stevenson e Mary Kramer, così come con altri nei Blocchi C ed E, e mi sono fatto un'idea di come vivete qui. Almeno in parte. Dirò anche al signor Stevenson e alla signora Kramer ciò che dirò a lei, ma volevo che la prima fosse lei.»
«Perché?» dico, più duramente di quanto vorrei. O di quanto credo di volere. Non si scompone. «Perché lei è una delle persone più anziane che siano sopravvissute alla malattia. Perché ha avuto una solida istruzione all'Esterno. Perché il marito di sua figlia è morto di axoperidina.» Nello stesso momento in cui capisco cosa McHabe sta per dire, mi rendo conto anche che Rachel e Jennie l'hanno già sentito. Lo ascoltano con la stessa attenzione di bambini che, con la bocca leggermente aperta, ascoltino una storia meravigliosa ma familiare. Ma capiscono? Rachel non era presente quando suo padre alla fine morì, con i polmoni avidi di quell'aria che non riuscivano a respirare. McHabe, osservandomi, dice: «Sono state fatte parecchie ricerche sulla malattia dopo quelle morti, signora Pratt». «No. Non ne sono state fatte. Troppi rischi, secondo il suo governo.» Vedo che si è accorto del pronome. «L'effettiva somministrazione di qualsiasi genere di cure è illegale, è vero. Per rendere minimi i contatti con le persone infette.» «Allora com'è stata portata avanti questa "ricerca"?» «Da medici che hanno scelto di andare all'Interno senza riuscirne. I dati vengono trasmessi al di fuori col laser. In codice.» «Quale medico degno di questo nome può voler venire all'Interno senza uscire di nuovo?» McHabe sorride. Di nuovo sono colpita da sua spontaneità. «Oh, ne sarebbe sorpresa. Avevamo tre medici dentro la colonia della Pennsylvania. Uno oltre l'età della pensione; un altro un cattolico vecchio stampo che aveva consacrato la sua ricerca a Dio; il terzo era uno che nessuno avrebbe immaginato, un tipo tenace e ostinato che era un brillante ricercatore.» Era. «E lei.» «No» dice calmo McHabe. «Io entro ed esco.» «Che ne è stato degli altri?» «Sono morti.» Fa un gesto fugace, subito interrotto, con la mano destra, e capisco che è, o è stato, un fumatore. Quanto tempo era passato da quando io avevo fatto lo stesso gesto, in funzione di una sigaretta che non c'era? Quasi due decenni. Le sigarette non sono tra le cose che la gente dona: valgono troppo. Eppure riconosco ancora quel movimento. «Due dei tre medici hanno contratto la malattia. Lavoravano anche su se stessi oltre che sui volontari. Poi un giorno il governo ha intercettato i dati che venivano trasmessi, è andato là e ha distrutto tutto.»
«Perché?» chiede Jennie. «La ricerca sulla malattia è illegale. Tutti all'Esterno temono che possa verificarsi una dispersione: che in qualche modo un virus possa uscire grazie a una zanzara, un uccello, perfino una spora.» «In tutti questi anni non è uscito nulla» dice Rachel. «No. Ma il governo teme che se i ricercatori cominciano a far accoppiare e incrociare i geni i virus possano acquisire una maggiore vitalità. Non hai idea di com'è l'Esterno, Rachel. Tutto è illegale. Questo è il periodo più repressivo nella storia d'America. Tutti hanno paura.» «Tu no» dice Jennie, così sommessamente che la sento appena. McHabe le rivolge un sorriso che mi stringe il cuore. «Alcuni di noi non si sono arresi. La ricerca continua. Ma tutto è clandestino, è tutto teorico. E abbiamo scoperto un bel po' di cose. Abbiamo scoperto che il virus non colpisce semplicemente la pelle. Ci sono...» «Aspetti un momento» dico, perché ho capito che sta per dire qualcosa di importante. «Un momento. Mi lasci pensare.» McHabe attende. Jennie e Rachel mi guardano, entrambe con quel rossore da emozione repressa. Alla fine ho trovato. «Lei vuole qualcosa, dottor McHabe. Tutta questa ricerca richiede qualcosa da noi oltre al semplice entusiasmo scientifico. Con le cose messe così male all'Esterno come lei dice, ci devono essere parecchie malattie all'Esterno sulle quali lei potrebbe compiere delle ricerche senza ammazzarsi, ci dev'essere mollo bisogno tra la sua stessa gente...» Annuisce, con gli occhi che gli brillano «...ma lei è qui, all'Interno. Perché? Non abbiamo nessun sintomo nuovo o interessante, sopravviviamo a stento, l'Esterno ha smesso di interessarsi a ciò che ci succede molto tempo fa. Non abbiamo nulla. Quindi perché è qui?» «Si sbaglia, signora Pratt. Succede qualcosa d'interessante qui. Siete sopravvissuti. La vostra società è regredita, ma non si è sfasciata. State andando avanti in condizioni tali che non ve lo dovrebbero consentire.» Le solite vecchie balle. Lo guardo alzando le sopracciglia. Lui fissa il fuoco e prosegue tranquillo: «Dire che a Washington ci siano dei disordini non vuol dir nulla. Bisogna vedere un dodicenne lanciare una bomba di produzione casalinga, un uomo tagliato in due dal collo all'inguine perché aveva ancora il suo lavoro e il suo vicino no, una bambina di tre anni lasciata morire di fame perché qualcuno l'ha abbandonata come un gattino non desiderato... Lei non sa. Queste cose non succedono all'Interno.» «Noi siamo meglio di loro» dice Rachel. Guardo mia nipote. Lo dice con semplicità, senza autoesaltazione, ma con una specie di meraviglia. Alla
luce del fuoco le zone grigie di pelle ispessita sulla sua guancia assumono un cupo colorito marrone rossastro. McHabe dice: «Forse sì. Prima stavo dicendo che abbiamo scoperto che il virus non colpisce soltanto la pelle. Ma altera anche i siti dei recettori dei neurotrasmettitori del cervello. È una trasformazione relativamente lenta, ecco perché è sfuggita alle ricerche concitate dei primi anni. Ma è reale, tanto quanto le più veloci trasformazioni della capacità dei siti indotte, per esempio, dalla cocaina. Mi segue, signora Pratt?» Annuisco. Jennie e Rachel non sembrano disorientate, anche se non conoscono questo genere di vocaboli, e capisco che McHabe deve avere già spiegato loro tutto in precedenza, con altri termini. «Man mano che la malattia progredisce verso il cervello, i recettori che ricevono i trasmettitori di stimoli si fanno lentamente più difficili da attivare, e i recettori che ricevono i trasmettitori di inibizioni si fanno più facili da attivare.» «Vuol dire che diventiamo più stupidi.» «Oh, no! L'intelligenza non viene interessata per nulla. Gli effetti sono emotivi e comportamentali, non intellettuali. Diventate tutti più calmi. Riluttanti all'azione o all'innovazione. Moderatamente ma indubbiamente depressi.» Il fuoco si affievolisce. Raccolgo l'attizzatoio, leggermente piegato nel punto in cui qualcuno una volta cercò di usarlo come palanchino, e faccio girare il ceppo, un esemplare in pasta di legno sintetico perfettamente modellato, con su scritto "Donato da Weyerhauser-Seyyed". «Non mi sento depressa, giovanotto.» «È una depressione del sistema nervoso, ma di un nuovo genere - senza la disperazione che in genere è associata alla depressione clinica.» «Non le credo.» «Davvero? Con tutto il rispetto, quando è stata l'ultima volta che lei - o uno qualunque dei leader più anziani dei Blocchi - ha insistito per un qualsiasi cambiamento significativo nel modo in cui vanno le cose all'Interno?» «A volte non è possibile cambiare le cose in maniera costruttiva. Si può solo accettarle. Questa non è chimica, è realismo.» «Non all'Esterno» dice McHabe, duro. «All'Esterno non si cambiano le cose costruttivamente oppure le si accetta. Si diventa violenti. All'Interno non c'è quasi stata violenza fin dai primi anni, perfino quando le vostre risorse si assottigliavano sempre di più. Quand'è stata l'ultima volta che ha sentito il sapore del burro, signora Pratt, o fumato una sigaretta, o avuto un
nuovo paio di jeans? Lo sa cosa succede all'Esterno quando non ci sono più beni di consumo disponibili e non c'è polizia in una determinata zona? Ma all'Interno vi limitate a distribuire quello che avete meglio che potete, oppure ne fate a meno. Niente saccheggi o disordini, né il tarlo dell'invidia. Nessuno all'Esterno sapeva perché. Adesso lo sappiamo.» «Ce l'abbiamo l'invidia.» «Ma non sfocia nell'aggressività.» Ogni volta che uno di noi parla Jennie e Rachel girano la testa per osservare, come attenti spettatori di una partita di tennis. Che nessuna delle due ha mai visto. La pelle di Jennie riluce come una perla. «Neanche i nostri giovani sono violenti, e in alcuni di loro la malattia non si è sviluppata più di tanto.» «Imparano come comportarsi dalle persone più grandi, proprio come tutti i ragazzi in qualunque altro posto.» «Non mi sento depressa.» «Si sente piena d'energia?» «Ho l'artrite.» «Non è questo che voglio dire.» «Cosa vuol dire, dottore?» Di nuovo quel movimento furtivo e nervoso per prendere una sigaretta che non c'è. Ma la voce è calma. «Quanto le ci è voluto per riuscire a usare quell'insetticida che ho portato a Rachel per le termiti? Mi ha detto che lei le ha proibito di farlo, e credo che abbia fatto bene: è roba pericolosa. Quanti giorni sono passati prima che lei o sua figlia lo spruzzaste in giro?» Il preparato chimico è ancora nel suo flacone. «Quanta rabbia sente adesso, signora Pratt?» insiste. «Perché credo che ci capiamo a vicenda io e lei, e che adesso lei si sia fatta un'idea del perché sono qui. Ma non mi sta urlando contro, non mi sta cacciando via, non mi sta neppure dicendo cosa pensa di me. Mi sta ascoltando, e lo fa con calma, sta accettando ciò che le dico anche se sa cosa voglio che lei...» La porta si apre e lui s'interrompe. Mamie si precipita all'Interno, seguita da Peter. Guarda minacciosamente e pesta i piedi. «Dov'eri, Rachel? Siamo rimasti fuori ad aspettarti per dieci minuti buoni! Il ballo è già cominciato!» «Ancora pochi minuti, mamma. Stiamo parlando.» «Parlando? Di che? Che succede?» «Niente» dice McHabe. «Stavo solo facendo qualche domanda a sua madre sulla vita all'Interno. Mi dispiace che ci abbiamo messo tanto.»
«Lei a me non fa mai domande sulla vita all'Interno. E inoltre, voglio ballare!» McHabe dice: «Se lei e Peter volete cominciare ad andare accompagnerò io Rachel e Jennie». Mamie si morde il labbro inferiore. D'un tratto so che vuole camminare per la strada verso il ballo tra Peter e McHabe, dando il braccio a entrambi, con le ragazze che seguono dietro. McHabe sostiene il suo sguardo con fermezza. «Bene, se è quello che vuole» dice stizzosa. «Andiamo, Pete!» Chiude la porta energicamente. Guardo McHabe, riluttante a sollevare la questione davanti a Rachel, e immaginando che lui conosca le argomentazioni che intendo esporre. E infatti lo sa. «Nella depressione clinica c'è sempre stata una piccola percentuale di persone nelle quali il disturbo si manifesta non come passività ma come irritabilità. Potrebbe essere lo stesso. Non lo sappiamo.» «Nonna» dice Rachel, come se non potesse più trattenersi, «lui ha una cura.» «Solo per la manifestazione sulla pelle» dice rapido McHabe, e capisco che lui non l'avrebbe voluto spifferare in quel modo. «Non per gli effetti sul cervello.» Mio malgrado, dico: «Come potete curare l'uno senza l'altro?» Si passa la mano tra i capelli. Capelli castani, folti. Osservo Jennie che fissa la sua mano. «I tessuti della pelle e quelli del cervello non sono uguali, signora Pratt. Il virus colpisce sia la pelle che il cervello al tempo stesso, ma i cambiamenti del tessuto cerebrale, che è molto più complesso, richiedono molto più tempo per essere scoperti. E non sono reversibili - il tessuto nervoso è non rigenerativo. Se ci tagliamo la punta di un dito, alla fine la pelle morta cadrà e sostituirà le cellule danneggiate per tornare sana. Merda, se uno è abbastanza giovane gli può ricrescere la pelle di tutta la punta del dito. Pensiamo che la nostra cura stimolerà la pelle a fare qualcosa del genere. «Ma se si danneggia la corteccia quelle cellule sono perdute per sempre. E, a meno che un'altra parte del cervello non sia in grado di compensare quella perdita, qualunque fosse la funzione a cui quelle cellule presiedevano anch'essa è cambiata per sempre.» «Cambiata in depressione, vuol dire.» «In calma. In limitazione all'azione... Il paese ha un bisogno disperato di limitazione, signora Pratt.»
«E così lei vuole portare alcuni di noi all'Esterno, curare gli ispessimenti della pelle e diffondere la "depressione": la "limitazione", la "lentezza ad agire"...» «Abbiamo abbastanza azione là fuori. E nessuno riesce a controllarla. È tutta del genere sbagliato. Ciò di cui abbiamo bisogno adesso è rallentare tutto quanto, prima che non resti più nulla da rallentare.» «Infetterebbe un'intera popolazione...» «Lentamente. Delicatamente. Per il loro bene...» «È una cosa che spetta a lei decidere?» «Sì, considerate le alternative. Perché funziona. Le colonie funzionano bene, nonostante tutte le privazioni. E funzionano grazie alla malattia!» «Ogni nuovo caso manifesterebbe gli ispessimenti della pelle...» «Che quindi cureremo.» «La vostra cura funziona, dottore? Il padre di Rachel è morto per una cura come la vostra!» «Non come la nostra» dice, e sento nella sua voce la convinzione assoluta dei giovani. Di chi è pieno di energia. Dell'Esterno. «Questa è nuova, e completamente diversa dal punto di vista medico. Questa va nella direzione giusta.» «E lei vuole che io provi questa nuova direzione giusta come sua cavia.» C'è un momento di silenzio carico di elettricità. Incrocio di sguardi, d'occhi: grigi, blu, castani. Ancor prima che Rachel si alzi dallo sgabello o che McHabe dica «Crediamo che quelli che hanno le maggiori possibilità di evitare di restare sfregiati siano i giovani privi di manifestazioni importanti sulla pelle», ho già capito. Rachel mi butta le braccia al collo. E Jennie - Jennie col nastro rosso infilato tra i capelli, seduta sulla sua sedia rotta come su un trono, Jennie che non ha mai sentito parlare di neurotrasmettitori o di virus ad azione lenta o di calcolo del rischio - dice semplicemente: «Devo essere io» e guarda McHabe con gli occhi che le brillano d'amore. Io rispondo di no. Mando via McHabe e dico di no. Discuto con le due ragazze e dico di no. Si guardano a vicenda, con tristezza, e mi chiedo quanto ci vorrà prima che si rendano conto di poter agire senza permesso, senza obbedire. Ma non l'hanno mai fatto. Discutiamo per quasi un'ora, poi insisto perché vadano al ballo e io con loro. La notte è fredda. Jennie si mette il maglione, un indumento pesante lavorato a mano che la ricopre, informe, dal collo alle ginocchia. Rachel si porta dietro il suo cappotto donato, nero, sintetico, dalle maniche e gli orli
logori. Mentre usciamo dalla porta mi trattiene con una mano sul braccio. «Nonna, perché hai detto di no?» «Perché? Cara, è un'ora che te lo sto dicendo. I rischi, il pericolo...» «È per quello? O...» Sento che fa appello a tutte le sue forze, nel buio dell'ingresso. «...Oppure, non andare in bestia, nonna, per favore non prendertela con me, è perché la cura è una cosa nuova, un cambiamento? Una... cosa diversa che non vuoi perché è emozionante? Come ha detto Tom?» «No, non è per quello» dico, e la sento tesa accanto a me, e per la prima volta in vita sua non so bene perché lo sia. Camminiamo per la strada verso il Blocco B. Ci sono la luna e le stelle, minuscoli puntini di luce fredda. Il Blocco B è ulteriormente illuminato da lampade al kerosene e da torce infisse nel terreno davanti ai muri scrostati delle baracche che formano la squallida piazzetta. O sembra soltanto squallida per quello che ha detto McHabe? Avremmo potuto fare qualcosa di meglio di questo vacuo utilitarismo, di questa desolazione spenta... di questa pace? Prima di stasera non me lo sarei chiesto. Mi trovo nel buio all'inizio della strada, poco oltre la piazzetta, con Rachel e Jennie. Il gruppo suona dalla parte opposta a quella in cui mi trovo: violino, chitarra, e tromba con una valvola che continua a bloccarsi. La gente, infagottata dentro a tutti gli abiti che possiede, è disposta intorno alla piazzetta, raggruppata presso i cerchi di luce attorno alle torce, e parla a voce bassa. Sei o sette coppie danzano lentamente in mezzo alla terra spoglia, tenendosi mollemente e strascicando i piedi, seguendo una mesta versione di Astronavi e rose. La canzone ebbe successo l'anno che contrassi la malattia, e poi ci fu un revival una decina d'anni più tardi, l'anno della prima spedizione su Marte con degli uomini a bordo. La spedizione avrebbe dovuto fondare una colonia. Saranno ancora lì? Non avevamo più scritto nuove canzoni. Peter e Mamie volteggiano tra le altre coppie. Astronavi e rose termina e il gruppo attacca Yesterday, Una giravolta espone per un attimo il volto di Mamie alla piena luce delle torce: è serrato e teso, e rigato di lacrime. «Dovresti sederti, nonna» dice Rachel. È la prima volta che mi parla da quando abbiamo lasciato la baracca. La sua voce è grave, ma non arrabbiata, e non c'è collera in Jennie quando mette giù lo sgabello a tre gambe che ha portato per me. Nessuna di loro è mai veramente arrabbiata. Sotto il mio peso lo sgabello affonda irregolarmente nel terreno. Un ragazzo di dodici o tredici anni si avvicina a Jennie e senza dir nulla le tende
la mano. Si uniscono alle coppie che danzano. Jack Stevenson, colpito dall'artrite molto più di me, avanza verso di me a fatica con il nipote Hal al suo fianco. «Ciao, Sara. Ne è passato di tempo.» «Ciao, Jack.» Spessi rigonfiamenti causati dalla malattia gli solcano tutt'e due le guance e serpeggiano lungo il naso. Una volta, molto tempo prima, eravamo a Yale insieme. «Hal, vai a ballare con Rachel» dice Jack. «Prima dammi quello sgabello.» Hal, obbediente, scambia lo sgabello con Rachel, e Jack si abbassa per sedersi accanto a me. «Grandi avvenimenti, Sara.» «McHabe te l'ha detto? Tutto? Ha detto che era stato da te proprio prima di venire da me.» «Me l'ha detto.» «Che ne pensi?» «Non lo so.» «Vuole che Hal provi la cura.» Hal. Non ci avevo pensato. Il viso del ragazzo è liscio e pulito, i soli ispessimenti della pelle visibili li ha sulla mano destra. Dico: «Anche Jennie». Jack annuisce. A quanto pare non è sorpreso. «Hal ha detto di no.» «Hal l'ha fatto?» «Vuoi dire che Jennie non l'ha fatto?» Mi fissa. «Dovrebbe prendere in considerazione una cosa così pericolosa come una cura mai sperimentata, per non parlare di questo presunto passaggio all'Esterno?» Non rispondo. Da dietro le altre coppie spuntano Peter e Mamie che ballano, poi spariscono di nuovo. La canzone che stanno ballando è lenta, triste e vecchia. «Jack... avremmo potuto fare qualcosa di meglio qui? Con la colonia?» Jack osserva i ballerini. Alla fine dice: «Noi non ci ammazziamo l'un l'altro. Non bruciamo le case. Non rubiamo, o almeno non molto e non al punto di rovinare la gente. Non facciamo incetta di beni. Mi sembra che abbiamo fatto meglio di quanto chiunque avesse mai sperato. Noi compresi...» I suoi occhi cercarono Hal tra i ballerini. «È la cosa migliore della mia vita, quel ragazzo.» Un altro insolito sprazzo di memoria: Jack che tiene una qualche lezione di scienze politiche a Yale, da lungo tempo dimenticata, un giovane infervorato. È in piedi, saldo e sicuro, con il successo che gli arride, proteso in avanti come un lottatore o un ballerino, con le luci elettriche che brillano
sui suoi lisci capelli neri. Le ragazze lo osservano con le mani tranquillamente poggiate sui libri di testo aperti. Analizza i lati positivi della questione in esame: Incitare al primo attacco nelle guerre nel Terzo Mondo costituisce un deterrente efficace nei confronti del conflitto nucleare tra le superpotenze. Improvvisamente il gruppo smette di suonare. Al centro della piazzetta Peter e Mamie urlano l'uno contro l'altra. «...visto come l'hai toccata! Tu, bastardo, coglione sleale!» «Per l'amor di Dio, Mamie, non qui!» «Perché non qui? Non ti ha dato fastidio ballare con lei qui, toccarle la schiena qui, e il culo e... e...» Comincia a piangere. La gente guarda altrove, imbarazzata. Una donna che non conosco si fa avanti e mette una mano esitante sulla spalla di Mamie. Mamie se la scrolla di dosso, con le mani sul viso, e corre via dalla piazzetta. Peter sta lì, ammutolito per un momento, prima di dire, rivolto a nessuno in particolare: «Mi dispiace. Ballate, per favore». Cammina verso il gruppo che attacca in maniera sgraziata Non l'abbiamo avuto quasi tutto? La canzone ha almeno venticinque anni. Jack Stevenson dice: «Posso darti una mano, Sara? Per tua figlia?» «Come?» «Non lo so» dice, ed è ovvio che non lo sappia. Non si propone di essere utile, ma di essere solidale, sapendo quanto mi deprima questa brutta scenata alla luce delle torce. Siamo tutti così comprensivi rispetto alla depressione? Rachel balla in disparte con qualcuno che non conosco, un uomo più anziano dalla faccia inespressiva. Lancia uno sguardo preoccupato oltre la spalla di lui: ora Jennie sta ballando con Peter. Non riesco a vedere la faccia di Peter. Ma vedo quella di Jennie. Non guarda nessuno direttamente, ma poi non è che debba farlo. Il messaggio che sta lanciando è chiaro: le ho proibito di venire al ballo con McHabe, ma non le ho proibito di ballare con Peter, così lo sta facendo, anche se non vuole, anche se è chiaro dalla sua faccia che questo minuscolo atto di sfida la spaventa. Peter tende il braccio, e lei ci si appoggia con un sobbalzo all'indietro, sorridendo a fatica. Kara Desmond e Rob Cottrell mi raggiungono, nascondendo i ballerini alla mia vista. Sono qui da quando ci sono io. Kara ha un nipotino piccolo, uno dei pochi neonati che nascono già sfigurati dalla malattia. L'abito di Kara, che indossa sopra i jeans per avere più caldo, è strappato all'orlo. La sua voce è bassa. «Sara. È bello vederti in giro.» Rob non dice nulla. Ha
messo su qualche chilo nei pochi anni trascorsi dall'ultima volta che l'ho visto. Alla luce tremolante delle torce il suo viso dalla mascella squadrata risplende con la serenità di un Buddha malato. Passano altri due balli prima che mi accorga che Jennie è sparita. Guardo in giro in cerca di Rachel. Sta versando del sumac per il gruppo. Peter danza in disparte con una donna che non indossa dei jeans sotto l'abito. La donna rabbrividisce e sorride. Quindi non è con Peter che Jennie è andata via... «Rob, mi accompagneresti a casa? Nel caso dovessi perdere l'equilibrio.» Il freddo sta facendo peggiorare la mia artrite. Rob annuisce, privo d'interesse. Kara dice: «Vengo anch'io» e lasciamo Jack Stevenson sul suo sgabello, in attesa del suo turno per il tè bollente. Kara chiacchiera allegramente mentre camminiamo il più velocemente possibile per me, che non è quanto vorrei. La luna è tramontata. Il terreno è irregolare e la strada buia, se non fosse per le stelle e le luci che qua e là illuminano le finestre delle baracche. Candele. Lampade a olio. Una di queste è un'unica potente luminescenza, proveniente da quella che ritengo essere una lampada a energia solare donata, l'unica che abbia visto da parecchio tempo a questa parte. Coreane, aveva detto Tom. «Hai i brividi» dice Kara. «Ecco, prendi il mio cappotto.» Scuoto la testa. Mi faccio lasciare fuori dalla nostra baracca, accettano senza fare domande. In silenzio apro la porta che dà nella nostra cucina, al buio. La stufa si è spenta. La porta della camera da letto in fondo è mezzo aperta, e dal buio arrivano delle voci. Rabbrividisco di nuovo, ma il cappotto di Kara sarebbe inutile. Ma mi sbaglio. Le voci non sono quelle di Jennie e Tom. «...non è di questo che volevo parlare in questo momento» dice Mamie. «Ma io sì, è proprio di questo che voglio parlare.» «Veramente?» «Sì.» Resto in ascolto delle loro voci che aumentano e diminuiscono di volume, della suscettibilità in quella di Mamie, dell'esaltazione in quella di McHabe. «Jennie è sotto la sua tutela, non è vero?» «Oh, Jennie. Sì. Per un altro anno ancora.» «Allora l'ascolterà, anche se sua madre... deve decidere lei. E Jennie.»
«Direi di sì. Ma voglio pensarci. Ho bisogno di ulteriori informazioni.» «Le dirò tutto quello che vorrà sapere.» «Lo farà? È sposato, dottor Thomas McHabe?» Silenzio. Poi la voce di lui, diversa. «Non faccia così.» «È sicuro? È proprio sicuro?» «Sono sicuro.» «Proprio, proprio sicuro? Che vuole che la smetta?» Attraverso la cucina, sbattendo un ginocchio contro una sedia che non ho visto. Dalla porta aperta un cielo pieno di stelle si apre alla vista attraverso il buco nel muro fatto dalle termiti. «Oh!» «Le ho detto di smetterla, signora Wilson. Ora per favore pensi a ciò che le ho detto di Jennie. Tornerò domani mattina e potrà...» «Lei può andarsene all'inferno» urla Mamie. E poi, in un tono diverso, stranamente calmo. «È perché sono malata? E lei no? E Jennie no?» «No, glielo giuro. Non è per quello. Ma non sono venuto per questo.» «No» dice Mamie con quella stessa voce gelida, e mi rendo conto di non averla mai sentita prima. «Lei è venuto per aiutarci. Per portare una cura. Per portare l'Esterno. Ma non per tutti. Solo per quei pochi che non siano troppo gravi, che non siano troppo brutti - che lei possa usare.» «Non è così...» «I pochi che può salvare. Lasciando tutti gli altri qui a marcire, esattamente come prima.» «Col tempo, la ricerca sui...» «Il tempo! Cosa crede che conti il tempo all'Interno? Il tempo non conta un cazzo qui! Il tempo conta soltanto quando qualcuno come lei viene dall'Esterno, mettendo in mostra la sua pelle sana, rendendo le cose anche peggiori di prima con tutti i suoi abiti nuovi e il suo orologio da polso funzionante e i suoi capelli lucenti e i suoi... i suoi...» Sta singhiozzando. Entro nella stanza. «Va tutto bene, Mamie. Va tutto bene.» Nessuno dei due reagisce al vedermi. McHabe si limita a restare lì finché gli faccio cenno verso la porta, e se ne va senza dire una parola. Metto le braccia attorno al collo di Mamie e lei si appoggia al mio petto e piange. Mia figlia. Perfino attraverso il cappotto sento la spessa pelle irruvidita della sua guancia premuta contro di me, e tutto quel che riesco a pensare è che non avevo mai notato che McHabe portasse un orologio da polso. Più tardi, quella notte, dopo che Mamie è caduta in un sonno umido, e-
sausta, e io sono rimasta a girarmi e rigirarmi nel letto per ore, Rachel entra silenziosamente nella nostra stanza per dire che Jennie e Hal Stevenson si sono fatti iniettare da Tom McHabe una cura sperimentale per la malattia. Ha freddo e trema, spavalda nella sua paura, spaventata da questa loro terribile disobbedienza. La tengo stretta finché anche lei si addormenta, e ricordo Jack Stevenson da giovane, con le luci dell'aula che facevano risplendere i suoi folti capelli, mentre discutevamo animatamente a favore del sacrificio di una civiltà per un'altra. Mamie lascia presto la baracca il mattino seguente. Ha le palpebre ancora gonfie e sciupate per il pianto della notte precedente. Immagino che vada a cercare Peter e non dico niente. Sediamo a tavola, Rachel e io, e mangiamo la nostra farina d'avena senza guardarci. Costa fatica perfino sollevare il cucchiaio. Mamie è uscita da parecchio. Più tardi me l'immagino. Più tardi, quando Jennie, Hal e McHabe sono arrivati per andarsene via subito dopo, non riesco a smettere d'immaginarlo: Mamie che cammina con gli occhi gonfi lungo le strade fangose tra le baracche, attraverso le piazzette non pavimentate con i loro orticelli ad angolo, con i paletti di sostegno per le gracili piantine di fagioli e le cime gialloverdi delle carote. Oltre i magazzini con la loro lana, le stufe a legna, le lamine di leghe metalliche e le medicine incustodite, cinesi, giapponesi e coreane, tutte donazioni. Oltre i pollai e i recinti per le capre. Oltre l'Amministrazione Centrale, quella polverosa costruzione in mattoni dove la gente smise di tenere gli atti ufficiali una decina d'anni fa perché che bisogno c'è di dimostrare di essere nati o di essersi trasferiti di baracca? Oltre l'ultimo dei pozzi pubblici, che giunge fino a un'abbondante falda freatica in comune. Mamie cammina, finché raggiunge il Margine e si ferma, e dice quello che è venuta a dire. Arrivano alcune ore più tardi, completamente rivestiti dalle sani-tute e dotati di armi automatiche che non sembrano di fabbricazione americana. Posso vedere le loro facce attraverso la plastica chiara antisfondamento dei loro caschi. Tre di loro fissano dritti in faccia me e Rachel, e le mani di Hal Stevenson. Gli altri due non vogliono guardare direttamente nessuno di noi, come se i virus potessero essere trasmessi per mezzo di sguardi troppo intensi. Afferrano Tom McHabe, che è seduto al tavolo della cucina, e lo sollevano con tanta forza che perde l'equilibrio, quindi lo sbattono contro il muro. Ci vanno più leggeri con Rachel e Hal. Uno di loro fissa stranamente
Jennie, che è come paralizzata sul lato opposto del tavolo. Non lasciano che McHabe dia nessuna delle spiegazioni appassionate che aveva cercato di dare a me. Quando ci prova il loro capo lo colpisce in faccia. Rachel - Rachel - si lancia sull'uomo. Si aggrappa alla sua schiena con le braccia e le gambe, giovani e forti, urlando: «Basta! Basta!» L'uomo se la scrolla di dosso come una mosca. Un altro soldato la spinge su una sedia. Quando la guarda in faccia rabbrividisce. Rachel continua a gridare, suoni senza parole. Jennie non urla neppure. Si getta sul tavolo e si aggrappa alla spalla di McHabe, e qualunque cosa abbia in viso è nascosta dai suoi capelli biondi. «Vi sistemeremo una volta per tutte, voi stronzi "dottori"!» grida il capo, sovrastando le urla di Rachel. Le parole attraversano il casco, chiare come se non ci fosse. «Credi di poter entrare e uscire dall'Interno all'Esterno a tuo piacimento e contagiarci tutti?» «Io...» dice McHabe. «'Fanculo!» dice il capo, e gli spara. McHabe va a sbattere contro il muro. Jennie lo afferra, cercando disperatamente di farlo rialzare in piedi. Il soldato spara di nuovo. La pallottola colpisce il polso di Jennie, spezzandone l'osso. Un terzo colpo e McHabe scivola a terra. I soldati se ne vanno. C'è poco sangue, solo due piccoli buchi dove le pallottole sono entrate e dove sono rimaste, Non sapevamo, all'Interno, che avessero armi come quelle adesso. Non sapevamo che le pallottole potessero fare una cosa del genere. Non lo sapevamo. «Sei stata tu» dice Rachel. «L'ho fatto per te» dice Mamie. «Davvero!» Stanno l'una di fronte all'altra nella cucina, distanti. Mamie è inchiodata contro la porta che si è appena chiusa dietro, quando finalmente è tornata a casa. Rachel sta di fronte al muro dove è morto Tom. Jennie è sdraiata nella camera da letto, sotto l'effetto di un sedativo. Hal Stevenson, con il giovane viso angosciato per essere stato impotente contro cinque soldati armati, era corso a chiamare il dottore che abitava nella Baracca J, e lo aveva trovato occupato a sistemare la zampa di una capra. «Sei stata tu. Tu.» La sua voce è sorda, pesante. Urla, vorrei dirle. Rachel, urla. «L'ho fatto perché tu fossi salva!» «L'hai fatto perché io rimanessi intrappolata all'Interno. Come te.»
«Non hai mai pensato che fosse una trappola!» gridò Mamie. «Tu eri quella che era felice qui!» «E tu non lo sarai mai. Mai. Né qui né in nessun altro luogo.» Chiudo gli occhi, per non vedere la terribile consapevolezza da adulta sul viso della mia Rachel. Ma un attimo dopo è di nuovo una bambina, che mi spinge via per correre a chiudersi nella camera da letto, singhiozzando forte e sbattendo la porta dietro di lei. Affronto Mamie. «Perché?» Ma lei non risponde. E capisco che non ha importanza: non le avrei creduto comunque. La sua mente non è più sua. È depressa, malata. Devo crederlo adesso. È mia figlia, e la sua mente è stata colpita da quegli orribili ispessimenti della pelle che la sfregiano. È vittima della malattia, e non c'è nulla che lei possa dire che sia in grado di cambiare qualche cosa. È quasi mattina. Rachel si trova nello spazio angusto tra il letto e il muro, e sta piegando degli abiti. Il copriletto reca ancora l'impronta della figura di Jennie addormentata. Jennie è stata portata da Hal Stevenson nella sua baracca, dove non avrebbe dovuto vedere Mamie al suo risveglio. Sulla rozza mensola accanto a Rachel arde la lampada a olio, che getta delle ombre sul muro restaurato che odora d'insetticida per termiti. Ha pochi vestiti da sistemare: un paio di collant blu, vecchi e malamente rammendati; un maglione sfilacciato; altre due paia di calze; l'altra gonna, quella che indossava al ballo del Blocco. Tutto il resto ce l'ha addosso. «Rachel» dico. Non risponde, ma vedo quanto le costi il silenzio. Perfino una disobbedienza così piccola, perfino adesso. Eppure se ne sta andando. Usando i contatti di McHabe per raggiungere l'Esterno, partendo per incontrare l'organizzazione di ricerca medica clandestina. Se hanno già portato a compimento lo stadio successivo della cura, quello per le persone già sfregiate, la prenderà. Forse anche se non ci sono ancora arrivati. E di passaggio contaminerà il più possibile con la sua malattia, depressiva e non aggressiva. Trasmissibile. Pensa di doversene andare. A causa di Jennie, a causa di Mamie, a causa di McHabe. Ha sedici anni, e crede - pur essendo cresciuta all'Interno, lo crede - di dover fare qualcosa. Perfino se fosse la cosa sbagliata. Fare la cosa sbagliata, ha deciso, è meglio che non fare niente. Non Ha proprio idea di com'è l'Esterno. Non ha mai guardato la televisione, non ha mai fatto la fila per la distribuzione del pane ai poveri, non ha mai visto un luogo di smercio di crack ο un film di violenza. Non sa di-
re cosa sia il napalm, ο la tortura politica, ο la bomba al neutrone, ο uno stupro di gruppo. Per lei Mamie, con la sua paura confusa e autoindulgente, rappresenta il massimo della crudeltà e del tradimento; Peter, con la sua lascivia stentata e imbarazzata, l'epitome del pericolo; il furto di un pollo l'ultima novità in fatto di criminalità. Non ha mai sentito parlare di Auschwitz, di Cawnpore, dell'Inquisizione, dei giochi dei gladiatori, di Nat Turner, Pol Pot, Stalingrado, Ted Bundy, Hiroshima, My-Lai, Wounded Knee, Babi Yar, Bloody Sunday, Dresda ο Dachau. Allevata con una specie d'inerzia mentale, non sa nulla dell'inerzia feroce della distruzione, che una volta messa in moto in una civiltà è difficile da fermare quanto una malattia. Non credo che riuscirà a trovare i ricercatori clandestini, non importa quanto McHabe le abbia detto. Non credo che il suo passaggio all'Esterno possa diffondere l'infezione abbastanza perché possa fare qualche differenza. Non credo possa andare molto lontano prima che sia ripresa e riportata all'Interno oppure uccisa. Non può cambiare il mondo. È troppo vecchio, troppo radicato, troppo corrotto, troppo lontano. Fallirà. Non c'è forza maggiore dell'inerzia distruttiva. Raccolgo le mie cose e mi preparo ad andare con lei. Titolo originale: Inertia Analog Science Fiction and Fact, January 1990 LE SINGOLARI ABITUDINI DELLE VESPE di Geoffrey A. Landis Nelle nebbie londinesi si annida un'agghiacciante minaccia aliena... Delle tante avventure a cui ho preso parte con il mio amico, il signor Sherlock Holmes, nessuna è stata più singolarmente spaventosa del caso degli omicidi di Whitechapel, né mai in precedenza avevo avuto ragione di dubitare della sanità mentale del mio amico. Non ho che da chiudere gli occhi per rivedere l'orrore di quella notte, la spaventosa visione del mio amico con le braccia rosse fino al gomito, il coltello ancora stillante sangue; e per ricordare nei minimi dettagli gli orrori raccapriccianti che segui-
rono. La narrazione di questa singolare vicenda è troppo terribile per lasciar trapelare anche solo qualche accenno al reale corso di quegli eventi. Sebbene non oserò mai lasciare che altri leggano questo resoconto, ho osservato spesso, nell'annotare le avventure del mio amico, che il processo del trasferimento dalla penna alla carta dà un gran sollievo. Una catarsi, come la chiamiamo nella professione medica. E così spero che fissando sulla carta gli avvenimenti di quelle settimane io possa alleggerire la mia anima dalla tremenda influenza degli accadimenti di quella notte. E dopo averne scritto il resoconto lo occulterò, e darò disposizioni affinché alla mia morte sia bruciato. Il genio, come spesso ho notato, è affine alla follia, al punto che a volte è difficile distinguere l'uno dall'altra, e i più grandi geni spesso sono anche piuttosto squilibrati. Da lungo tempo sapevo che il mio amico era soggetto a sporadici attacchi della più nera depressione, dai quali poteva risollevarsi in un attimo, con esplosioni di energia maniacale, in maniera non dissimile dai ciclici mutamenti di umore di un folle. Ma non avevo mai sondato i limiti del suo equilibrio mentale. Il caso ebbe inizio nella tarda primavera del 1888. Tutti coloro i quali si trovavano a Londra a quel tempo ricorderanno il problematico pomeriggio del doppio cannoneggiamento. Holmes e io ci stavamo godendo un sigaro dopo il pranzo nel nostro soggiorno al 221b di Baker Street quando il cupo rimbombo del duplice sparo di un cannone echeggiò nel cielo sgombro da nubi, facendo sbattere le finestre e facendo danzare sulle mensole le porcellane della signora Hudson. Mi precipitai alla finestra. Holmes si trovava nel mezzo di uno di quegli intensi attacchi di melanconia ai quali è così soggetto, e non si alzò dalla sedia, ma si riscosse abbastanza da chiedermi cosa vedessi. A parte le altre persone, altrettanto perplesse, che aprivano le finestre e guardavano in tutte le direzioni, su e giù per la strada, non vidi nulla fuori dall'ordinario, e questo gli riferii. «Estremamente insolito» osservò Holmes. Era ancora accasciato sulla sedia, quasi inerte, ma credetti di scorgere un certo interesse nel suo sguardo. «Ne sentiremo parlare ancora, mi azzarderei a supporre.» Ed effettivamente tutta Londra sembrava aver udito quelle detonazioni, senza che se ne fosse scoperta l'origine, e l'argomento non avrebbe potuto essere evitato per tutto quel giorno o il successivo. Ogni giornale azzardava un'ipotesi, e perfino fra estranei, per la strada, quasi non si parlava d'altro. Quanto alle conclusioni, non ce n'erano, né gli strani suoni si ripetero-
no. Dopo un altro giorno i soliti pettegolezzi, scandali e misfatti della città avevano allontanato dai giornali quel fatto, e la faccenda fu dimenticata. Ma ebbe almeno l'effetto di liberare il mio amico dalla sua melanconia, al punto d'indurlo a far visita, cosa rara, a suo fratello al Diogenes Club. Mycroft aveva un'alta posizione al servizio della Regina, e c'erano pochi segreti dell'Impero dei quali Mycroft non fosse al corrente. Holmes non mi confidò a quale risultato fossero giunte le sue richieste d'informazioni presso Mycroft, ma trascorse il resto della serata a passeggiare avanti e indietro, fumando e meditando su qualche mistero. La mattina avemmo delle visite, e il mistero delle cannonate fu temporaneamente messo da parte. Erano due uomini in abiti semplici ma di buon gusto, entrambi molto timidi ed esitanti nel parlare. «Vedo che venite dal sud del Surrey» disse Holmes con calma. «Da una fattoria nelle vicinanze di Godalming, forse?» «È vero, signore, da Covingham, che è piuttosto a sud di Godalming» disse il più anziano dei visitatori «sebbene come possiate saperlo non potrò mai arrivare a indovinarlo, nemmeno in tutti i giorni che mi restano da vivere, dato che non ho mai avuto il piacere d'incontrarvi prima in vita mia, e così anche il qui presente Baxter.» Sapevo che Holmes, con il suo sapere enciclopedico, li avrebbe identificati con precisione dall'accento e dall'abbigliamento, anche se quest'elementare opera di deduzione sembrò sbalordire alquanto i nostri visitatori. «E questa è la prima visita a Londra per tutti e due» disse Holmes. «Perché siete venuti a una tale distanza dalla vostra fattoria per vedermi?» I due uomini si guardarono l'un l'altro, stupiti. «Perdinci, esatto di nuovo, signore! Non sono mai stato a Londra, e neanche Baxter.» «Ora, veniamo al punto. Avete viaggiato tanto per vedermi a proposito di qualche questione urgente.» «Sì, signore. È per il giovane Gregory. Era un bracciante della fattoria, signore, un giovane robusto, alto più di un metro e ottanta, e ancora non aveva finito di crescere. Stava raccogliendo il fieno. È stato un tragico incidente, signore, tragico.» Naturalmente Holmes notò l'uso del passato, e i suoi occhi s'illuminarono. «Un incidente, dite? Non un omicidio?» «Sì.» Holmes era perplesso. «Allora, di grazia, perché siete venuti da me?» «Il suo corpo, signore. Siamo venuti a proposito del suo corpo.» «A che proposito?»
«Perbacco, è sparito, signore. Letteralmente svanito.» «Ah.» Holmes si protese in avanti sulla sedia, gli occhi scintillanti d'improvviso interesse. «Ve ne prego, raccontatemi tutto, e non tralasciate il minimo particolare.» La storia che raccontarono era lunga e comprendeva numerose divagazioni relative a dettagli quali l'assunzione di un lavorante alla fattoria di Sherringford, e la narrazione talmente tortuosa da mettere alla prova perfino la pazienza di Holmes, ma l'essenza della storia era semplice. Baxter e il giovane Gregory stavano lavorando nei campi quando Gregory era stato trafitto dalla pala della falciatrice meccanica. «E sia maledetto il giorno che il padrone ha mai deciso di comprare un simile macchinario infernale» aggiunse l'uomo più anziano, che era lo zio e l'unico parente del povero Gregory. Liberato dalla macchina, il giovane bracciante agricolo era ancora vivo, ma era evidente che stava per morire. Il suo addome era stato squarciato, e ne uscivano i visceri. Baxter aveva disteso l'uomo morente all'ombra di un pagliaio ed era andato a cercare aiuto. C'erano volute due ore perché ne trovasse, e quando arrivarono videro la pozza di sangue raggrumato, ma nessuna traccia di Gregory. Avevano cercato tutt'intorno, ma non si era riuscito a trovare il cadavere da nessuna parte, né c'era traccia di come fosse stato portato via. Non c'era alcuna possibilità, insisté Baxter, che Gregory avesse potuto camminare da sé anche solo per una breve distanza. «Non senza che si trascinasse dietro le budella. Ho visto uomini che erano stati feriti appena, padrone, e uomini che stavano per morire, e il giovane Gregory si trovava nelle condizioni di questi ultimi.» «Questo caso può avere degli elementi d'interesse» disse Holmes. «Prego, lasciatemi meditare sulla questione stanotte. Watson, mi passereste l'orario dei treni, per favore? Grazie. Ah, è come pensavo. C'è un treno alle 9 del mattino da Waterloo.» Si volse verso i due uomini. «Potreste essere tanto cortesi da venirmi a prendere alla banchina domani?» «Sissignore che potremmo.» «Allora siamo d'accordo. Watson, immagino che voi abbiate un impegno precedente, non è vero?» Così era, poiché stavo pianificando il mio imminente matrimonio, e avevo già preso l'impegno inderogabile di esaminare un affare quella mattina nel distretto di Paddington con l'intenzione di concluderlo. Per quanto mi sia sempre piaciuto accompagnare il mio amico nelle sue avventure, questa era una alla quale avrei dovuto rinunciare. Holmes tornò tardi dal Surrey, e non lo vidi fino al mattino successivo a
colazione. Come spesso gli accadeva quando era concentrato su un caso, era ben poco loquace, e i miei tentativi di far domande sulla questione furono accolti a monosillabi, tranne che in ultimo. «Estremamente insolito» disse, come se parlasse a se stesso. «Davvero molto singolare.» «Cosa?» domandai, impaziente di ascoltarlo adesso che Holmes si apprestava a interrompere il suo silenzio. «Le tracce, Watson» disse. «Le tracce. Non di uomo né di bestia, ma tracce, indubbiamente.» Guardò il suo orologio da tasca. «Bene, devo andare. Ci sarà abbastanza tempo per riflettere quando avrò ulteriori elementi.» «Ma dove state andando?» Holmes rise. «Mio caro Watson, nella mia esistenza ho accumulato diverse conoscenze su vari argomenti che sarebbero considerati molto recherché dai profani. Ma temo che, per una volta, dovrò consultare un esperto.» «E chi, dunque?» «Diamine, vado dal professor Huxley» rispose, e aveva già oltrepassato la porta prima che potessi domandargli quale quesito intendesse porre all'eminente biologo. Fu assente da Baker Street per tutto il pomeriggio. Quando ritornò dopo l'ora di cena ero ansioso di domandargli come fosse andato il colloquio con lo stimato professore. «Oh, Watson, perfino io a volte faccio degli errori. Avrei dovuto telegrafare prima. Il fatto è che il professor Huxley aveva appena lasciato Londra, e non sarebbe tornato prima di una settimana.» Tirò fuori la sua pipa, la esaminò per un momento, poi la mise da parte e suonò il campanello perché la signora Hudson portasse la cena. «Ma in questo caso il mio viaggio non è stato inutile. Ho avuto una discussione estremamente piacevole con il pupillo del professore, il signor Wells. Un giovanotto ruspante, figlio di un bottegaio, che non avrà più di ventidue anni, a meno che la mia supposizione non sia errata, ma ciò nonostante un ragazzo davvero notevole. È dedito a un vasto ambito d'interessi, e mi arrischio ad affermare che qualunque campo dovesse scegliere, supererà perfino il suo stimato maestro. Abbiamo avuto una conversazione piuttosto interessante, e anche estremamente utile.» «Ma di che cosa avete discusso?» domandai. Holmes spinse da parte il piatto di carne fredda che la signora Hudson aveva portato, sprofondò nella sedia e chiuse gli occhi. Per un po' pensai
che si fosse predisposto per addormentarsi senza udire la mia domanda. Alla fine parlò. «Perbacco, abbiamo discusso del pianeta Marte» disse, senza aprire gli occhi «e delle singolari abitudini delle vespe.» Sembrava che le sue ricerche, di qualunque cosa si trattasse, non avessero condotto ad alcuna conclusione apprezzabile, poiché quando gli domandai del caso il giorno seguente non diede alcuna risposta. Quel giorno restò nel suo studio, e attraverso la porta chiusa udii soltanto la voce intermittente del suo violino, che si esprimeva nella lingua malinconica e imperscrutabile che gli è propria. Ho forse accennato in precedenza al fatto che in genere il mio amico aveva più di un caso su cui lavorare nello stesso tempo. Sembrava che nelle prime serate successive fosse occupato con un altro, poiché lo trovai che si preparava a uscire a tarda ora. «Un altro caso, Holmes?» domandai. «Come potete vedere, Watson» replicò. Additò il suo abbigliamento men che rispettabile e la logora giacca da operaio che ci stava infilando sopra. «Il dovere chiama a qualsiasi ora. Non mi ci vorranno più di un paio d'ore, ritengo.» «Sono pronto ad assistervi.» «Non in questo caso, mio caro amico. Potete stare a casa stanotte.» «C'è pericolo?» «Pericolo? Oh, forse un pochino.» «Sapete che non esiterei...» «Mio caro dottore» disse, e sorrise. «Lasciate che vi assicuri che non sono preoccupato da questo punto di vista. No, è che vado nell'East End...» L'East End di Londra non era un luogo da gentiluomini, con i suoi macelli e casamenti d'infimo ordine: un luogo da ubriaconi, marinai, manovali cinesi e indiani, e farabutti d'ogni genere. Ciò nonostante ero assolutamente deciso ad affrontare ben di peggio, se necessario, per Holmes. «Tutto qui?» dissi. «Holmes, credo proprio che voi mi sottovalutiate!» «Ah, Watson...» Sembrò riflettere per un momento. «No, non andrebbe bene. State per sposarvi e dovete pensare alla vostra futura consorte.» Alzò una mano per prevenire l'obiezione che avrei avanzato. «No, non il pericolo, amico mio. Non preoccupatevi per me da quel lato. Ho le mie risorse. È... come dirlo con delicatezza? Mi aspetto d'incontrare delle persone in luoghi nei quali sarebbe meglio che un gentiluomo che sta per sposarsi non fosse visto.»
«Holmes!» «Affari, mio caro Watson, affari.» E detto ciò uscì. I suoi affari laggiù non sembrarono concludersi quella sera né la successiva. Fino alla la fine di agosto continuò a visitare l'East End una o due volte la settimana. Ero ormai avvezzo ai suoi periodi di bizzarria e alle sue strane abitudini, e presto non ci pensai più. Ma era talmente abituale questo comportamento, e lui così riservato, che presto fui indotto a chiedermi se per caso non facesse visita a una donna. Non mi veniva in mente nient'altro che sembrasse meno usuale in Holmes, perché in tutto il tempo che avevo trascorso con lui non aveva mai manifestato la minima traccia d'interesse romantico per il gentil sesso. E tuttavia, in base alla mia esperienza di medico, sapevo che anche il più inflessibile degli uomini deve subire quelle sollecitazioni comuni al nostro genere, per quanto possa dichiarare di disdegnare le romanticherie. Romanticherie? Sebbene non abbia mai frequentato di persona tali luoghi, come uomo d'armi sapevo bene quanto Holmes quale genere di donne dimorasse a Whitechapel, e quale professione praticassero costoro. In effetti aveva ammesso già abbastanza quando mi aveva sconsigliato di accompagnarlo "perché stavo per sposarmi". Ma poi una donna siffatta poteva ben essere appetita da Holmes. Non vi sarebbe alcunché di romantico. Sarebbe semplicemente una proposta d'affari per lei e uno sfogo di tensione per lui. Una dozzina di volte ero stato determinato a metterlo in guardia dai pericoli - il pericolo delle malattie, se non altro - della frequentazione abituale di donne di tal fatta, e altrettante volte me n'era mancato l'animo e non avevo detto nulla. E, se non fosse stato ciò che temevo, quale caso avrebbe potuto condurlo a Whitechapel con tanta frequenza? *** Una sera, poco dopo che Holmes era uscito, un fattorino consegnò un pacchetto indirizzato a lui. C'era scritto che il mittente era John B. Coores e Figli, ma non c'era alcuna indicazione sul suo contenuto. Quel nome mi sembrava familiare, ma, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a ricordare dove potessi averlo sentito prima. Lo lasciai nel soggiorno per Holmes, e la mattina successiva vidi che l'aveva preso. Non fece parola del pacco o del suo contenuto, tuttavia, e la mia curiosità in proposito restò inappagata.
Ma un altro avvenimento presto mi tolse dalla mente quella curiosità. Il giornale quella mattina presentava il resoconto di un brutale omicidio in Buck's Row a Whitechapel. Il corpo di una donna non ancora identificata era stato trovato in quella strada e, cosa ancora più bizzarra, dopo la sua morte il corpo era stato brutalmente tagliato in due longitudinalmente. Lessi il giornale a Holmes mentre prendeva il caffè al mattino. Per quel che ne sapevo non aveva dormito la notte precedente, sebbene non sembrasse averne risentito più di tanto. Non fece alcun commento sull'articolo. Mi venne in mente che per le sue raccapriccianti caratteristiche questo genere d'omicidio dozzinale non poteva interessarlo, dato che sembrava piuttosto carente di quegli aspetti singolari che tanto lo attiravano. Gli feci un'osservazione in tal senso. «Non è così, Watson» disse, senza alzare gli occhi. «Sono piuttosto interessato a sentire ciò che ha da dire la stampa in merito alla tragedia Nichols.» Quest'affermazione m'impressionò considerevolmente, dato che il giornale non aveva riportato il nome della vittima. All'improvviso mi sovvenne che la zona est di Londra era esattamente dov'era andato Holmes per tutte quelle sere, forse nello stesso luogo dov'era accaduto l'omicidio. «Oh mio Dio, Holmes! Voi la conoscevate?» A questo punto alzò gli occhi e mi rivolse un lungo sguardo penetrante. Dopo un interminabile momento distolse lo sguardo e fece una risatina. «Ho i miei segreti, Watson. Ve ne prego, non indagate oltre.» Ma la sua risata mi parve forzata. Passò una settimana prima che vedessi Holmes prepararsi per un'altra delle sue spedizioni notturne. Dopo aver sonnecchiato per tutto il pomeriggio, Holmes indossò di nuovo gli abiti sbiaditi e laceri. Questa volta non glielo chiesi, ma mi vestii silenziosamente per seguirlo. Quando ebbe indossato il cappello da viaggio con le falde all'altezza del lobo dell'orecchio, fui pronto anch'io. Camminai silenziosamente al suo fianco, stringendo forte la mia vecchia rivoltella nella tasca del soprabito. Mi guardò con un'espressione di orrore supremo e alzò una mano. «Mio Dio, Watson! Se tenete alla vostra vita e al vostro onore, non seguitemi!» «Ditemi soltanto questo, allora» dissi «State facendo qualcosa di... disonorevole?» «Sto facendo ciò che devo.» E uscì dalla porta, sparendo nel tempo che mi ci volle per rendermi conto che non aveva risposto affatto alla mia do-
manda. Mentre preparavo il letto per la notte, chiedendomi dove fosse andato Holmes e cosa vi stesse facendo, d'un tratto mi sovvenne dove avevo visto prima quel nome, John B. Coores e Figli. Attraversai la stanza, spalancai lo stipetto nel quale tenevo i medicinali e ne trassi una scatoletta in legno. Ecco dove. Avevo letto quel nome mille volte, senza vederlo veramente, scritto a chiare lettere su un lato della scatola: John B. Coores e Figli, Strumenti Chirurgici di Qualità. Ma che poteva farsene Holmes di strumenti chirurgici? E sul giornale della sera seguente vidi con orrore che c'era stato un altro omicidio. L'assassino di Whitechapel aveva colpito ancora, e ancora una volta non si era accontentato semplicemente di uccidere la donna. Adoperando un bisturi, e conoscendo l'anatomia, aveva sezionato il corpo e rimosso diversi organi. Quella domenica condussi a teatro la mia adorata Mary. I miei pensieri erano tetri, ma mi sforzavo d'impedire che la mia agitazione potesse manifestarsi a lei, sperando al contrario che la sua dolce presenza potesse distrarmi dalle mie spaventose riflessioni. Tuttavia gli eventi tramavano contro di me, poiché al Lyceum veniva rappresentato un dramma estremamente perturbante, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. Assistetti alla rappresentazione con l'animo in subbuglio, accorgendomi appena della presenza della mia amata al mio fianco. Al termine del dramma mi scusai accusando un improvviso malore e corsi a casa. Vedendomi cinereo in volto, Mary convenne assolutamente che dovessi andare a casa a riposare, e feci il possibile per dissuaderla dall'accompagnarmi per farmi da infermiera. Il dramma era stato presentato come frutto di fantasia, ma conteneva in sé il carattere della pura verità. Che un solo uomo potesse avere due personalità! Stevenson era stato prudente nel fare il nome del farmaco che avrebbe potuto polarizzare la psiche di un uomo al punto di dividere il suo essere in due parti, ma grazie alle mie cognizioni mediche potevo facilmente risalire a quel nome, e si trattava di una sostanza della quale avevo una conoscenza approfondita. Sì. Un uomo avrebbe potuto sopprimere i suoi istinti animali, avrebbe potuto trasformarsi in una pura macchina razionale, ma gli stimoli più bassi non sarebbero venuti meno, oh no. Sarebbero stati ancora lì, celati all'interno, in attesa dell'occasione per riemerge-
re. Avevo pensato che Holmes fosse sulle tracce del maniaco di Whitechapel, oppure che l'assassino fosse lui. Ora all'improvviso mi rendevo conto che c'era ancora un'altra alternativa: Holmes il detective cercava di stanare il maniaco di Whitechapel, del tutto inconsapevole di essere egli stesso il criminale che cercava. Passò una settimana prima che uscisse di nuovo. Il giorno seguente esaminai i giornali in un parossismo d'ansietà, ma non si parlava di alcun omicidio. Poteva darsi che fossi talmente esaurito da immaginare le cose? Ma Holmes sembrava ossessionato da qualcosa, o forse inseguito. Aveva qualcosa in mente. Quando lo invitai a confidarsi con me mi guardò a lungo, poi lentamente scosse la testa. «Non oso, Watson.» Restò in silenzio per un po', poi disse: «Watson, se dovessi morire improvvisamente...» A queste parole non potei trattenermi oltre. «Mio Dio, Holmes, cosa c'è? Certamente potete dirmi qualcosa!» «Questo è importante, Watson. Se dovessi morire... bruciate il mio cadavere. Promettetemi di farlo.» «Holmes!» Mi afferrò per una spalla e mi guardò intensamente negli occhi. «Promettetemelo, sul vostro onore.» «Ve lo prometto.» «Sul vostro onore, Watson!» «Sul mio onore, lo prometto.» E d'un tratto si lasciò andare, quasi svenendo, sulla sedia. «Grazie.» Quella notte uscì di nuovo, e così la successiva. Aveva il viso tirato, come se stesse cercando disperatamente qualcosa che non era stato capace di trovare la notte precedente. Entrambe le sere era sembrato sul punto di dirmi qualcosa, per poi ripensarci all'ultimo momento e svanire senza dire una parola nella notte di Londra. I giornali della sera seguente non parlavano di uno, ma di due omicidi nell'East End. Il maniaco di Whitechapel - ora chiamato "Jack lo Squartatore" da tutti i giornali - aveva lavorato il doppio. E questa volta un testimone aveva fornito una descrizione del presunto omicida: un uomo alto con un soprabito scuro con lo spacco, che indossava un cappello di feltro da cacciatore di cervi. Misi a confronto Holmes con i giornali e con i miei sospetti. Avevo sperato, più di quanto speri nel paradiso, che avrebbe respinto le mie conclu-
sioni con il suo riso leggero, beffardo, e mi avrebbe esposto una spiegazione alternativa dei fatti del tutto ovvia. Le mie speranze furono vane. Ascoltò le mie parole con gli occhi quasi chiusi e la pipa di radica, spenta, stretta tra i denti. Alla fine le mie parole si arrestarono contro il suo silenzio di pietra. «Mio Dio, Holmes, ditemi che mi sbaglio! Ditemi che non avete avuto nulla a che fare con quegli omicidi, vi scongiuro.» «Non posso dir nulla, amico mio.» «Allora fornitemi qualche motivo, un briciolo di ragionevolezza.» Restò in silenzio. Infine disse: «Intendete rivolgervi alla polizia con i vostri sospetti?» «Volete che lo faccia?» gli domandai. «No.» Chiuse gli occhi per un attimo, poi proseguì: «Ma non ha importanza. Non vi crederebbero in nessun caso». La sua voce era affaticata, ma calma. Il suo contegno non sembrava quello di un folle, ma so che i folli sanno essere diabolicamente abili a nascondere la propria follia a coloro che stanno loro vicini. «Siete al corrente di quante lettere e telegrammi hanno sommerso Scotland Yard in queste ultime settimane? La loro sede è una gabbia di matti, Watson. Affittacamere e pazzi, gente che sostiene di aver visto lo Squartatore, di conoscere lo Squartatore, di essere lo Squartatore. Ricevono un migliaio di lettere alla settimana, Watson. La vostra voce andrebbe perduta in mezzo a tutta quella follia.» Scosse la testa. «Non ne hanno idea, Watson. Non possono capire nemmeno lontanamente. L'orrore di Whitechapel, lo chiamano. Se si conoscesse il vero orrore di questa faccenda fuggirebbero dalla città. Correrebbero via urlando di terrore.» Nonostante tutto sarei dovuto andare alla polizia, o almeno confidare i miei sospetti a qualcun altro e chiedere un parere. Ma non conoscevo nessuno al quale avrei potuto confidare un sospetto così terribile, e men che meno alla mia Mary, che aveva fiducia in Holmes quasi come in un dio, e non avrebbe accettato di sentirne parlar male. E, nonostante tutto, nel profondo del mio cuore ancora credevo di avere male interpretato l'evidenza, che Holmes non potesse veramente essere colpevole di una tale infamia. Il giorno seguente Holmes non fece alcun riferimento alla nostra conversazione. Il che parve così strano che mi ritrovai a chiedermi se si fosse effettivamente verificata o se non mi fossi sognato tutto quanto. Decisi che, senza dar modo a Holmes di accorgersene, l'avrei tenuto d'occhio con l'attenzione di un falco per la sua preda. Se l'avessi visto ancora una volta fare i preparativi per uscire la notte l'avrei seguito, che lo volesse o meno. Holmes si recò più volte a Whitechapel durante il giorno, e non fece al-
cuna obiezione quando gli chiesi di accompagnarlo. Non era un luogo in cui degli esseri umani potessero vivere dignitosamente. Le strade erano imbrattate del sudiciume di cavalli, maiali, polli e uomini, e l'aria risuonava del frastuono di carri e treni merci, degli schiamazzi di bambini e ubriaconi, dello starnazzare dei polli e dei grugniti dei maiali che vivevano fianco a fianco con le persone negli scantinati e nei dormitori pubblici. Sopra di noi, a ogni finestra era steso del bucato logoro che diventava di un grigio nerastro man mano che asciugava in quell'aria pestilenziale. Durante queste sue visite fece poco altro che passare in rassegna le strade ed esaminare i vuoti muri di mattoni bianchi e umidi dei magazzini e dei vicoli ciechi. Di tanto in tanto si fermava a scambiare due chiacchiere su questioni di poco conto con una donna di servizio o un poliziotto che gli accadeva d'incontrare lungo gli stretti vicoli. Contrariamente al suo carattere non fece alcun tentativo di visitare i luoghi dov'erano avvenuti i delitti. E quest'ultimo elemento fu per me il più esecrabile rispetto ai miei sospetti: a meno che non vi fosse coinvolto in qualche modo, di certo non c'era alcuna possibilità che qualcosa avesse potuto tenerlo lontano. Ma passò tutto ottobre, e una settimana di novembre, prima che uscisse nuovamente per una delle sue peregrinazioni serali. Ma se non fosse stato per un accidente del caso mi sarebbe sfuggito del tutto. Avevo preparato diverse trappole, in modo da svegliarmi se avesse cercato di uscire di notte, e la sera restavo seduto, all'erta, fino a parecchio tempo dopo che l'avevo udito ritirarsi. Una notte, all'inizio di novembre, dopo che mi ero ritirato senza che nulla fosse accaduto, fui inaspettatamente svegliato da dei rumori nel mezzo della notte. La notte era nebbiosa, e dalla mia finestra potevo sentire soltanto i suoni più ovattati della strada, come provenienti da enorme distanza, lo scalpitio isolato di un paio di zoccoli e il grido di un uomo che chiamava una carrozza. Per qualche motivo non riuscii a riprendere sonno, così indossai la vestaglia e scesi in soggiorno a prendere un dito di whisky. Holmes se n'era andato. La sua porta era socchiusa, ma il letto era vuoto. Ero determinato a conoscere la verità, qualunque potesse essere, e porre termine così in un modo o nell'altro a questa vicenda. Mi vestii precipitosamente, mi infilai la rivoltella in una tasca del soprabito, e corsi fuori nella notte. A quell'ora, ben dopo mezzanotte, avevo soltanto la più remota speranza di trovare una vettura di piazza da qualche parte vicino alla nostra casa in affitto di Baker Street. In qualche momento durante il giorno Holmes doveva essersi messo d'accordo di nascosto con la carrozza perché
venisse a prenderlo quella notte. Poiché io non avevo preso accordi del genere aveva ormai un bel vantaggio su di me. Ci volle quasi un'ora prima che oltrepassassi a piedi la fontana di Aldgate ed entrassi nei bassifondi dell'East End. Avevo supposto che, in conseguenza degli omicidi, le strade di Whitechapel sarebbero state deserte, i pub chiusi e i cittadini sospettosi nei confronti di ogni estraneo. Ma perfino a quell'ora così tarda le strade erano tutt'altro che deserte. Era una zona piena di attività e molto trafficata. Vagando senza scopo per le strade m'imbattei in parecchi pub aperti, la maggior parte dei quali affollati di lavoratori disoccupati e donne sfaccendate dalla dubbia reputazione. Ovunque camminassi mi accorgevo di non trovarmi a più di cento metri da una pattuglia o da un agente armato e all'erta - parecchi dei quali mi osservavano con uno sguardo intenso e sospettoso. Perfino le donne agli angoli delle strade, che portavano scialli e cappellini per ripararsi dall'umido delle notti di novembre, stavano in gruppi di due o tre. Holmes non riuscivo a trovarlo da nessuna parte, poi tardivamente mi venne in mente che se stava avvalendosi di uno dei suoi travestimenti sarebbe potuto essere una qualunque delle persone attorno a me - uno dei meccanici disoccupati che giocavano d'azzardo nella sala che dà sulla strada del "Boar and Bristle", l'anziano ecclesiastico che procedeva lungo Commercial Street verso qualche ignota destinazione, il marinaio che faceva lo spiritoso con le cameriere del "King's Arms". Chiunque tra loro avrebbe potuto essere Holmes. Chiunque tra loro avrebbe potuto essere lo Squartatore. Tutt'intorno a me c'erano delle donne, nei pub, davanti ai portoni, in giro per le strade. Donne patetiche abbigliate con eleganza volgare, dagli stanchi sorrisi, la vista fugace di una caviglia messa in bella mostra per qualsiasi passante che indossasse dei pantaloni - «sei solo, tesoro?» - o dal saluto sfacciato e dagli insulti amichevoli rivolti alle altre donne. Mi accorsi che le dimensioni di Whitechapel riportate sulla mappa erano inesatte. Nella nebbia e nell'oscurità le strade erano molto più anguste, i negozi più piccoli, e tutto l'insieme più vasto e disordinato di quanto ricordassi durante il giorno. Anche se ci fossero stati un centinaio di poliziotti di ronda per le strade, non sarebbero bastati. I vicoli ciechi, i rari lampioni a gas e i banchi di nebbia trasportati dal vento facevano delle strade un labirinto in cui lo Squartatore avrebbe potuto uccidere impunemente a pochi metri da un centinaio di persone o anche di più.
Per due volte mi parve di vedere Holmes di sfuggita, ma quando gli corsi dietro mi resi conto di essermi ingannato. Ogni ubriaco che dormiva appoggiato a un portone sembrava un cadavere appena divenuto tale, ogni macchia anonima sull'acciottolato sembrava sangue, ogni gatto che vagava per i vicoli faceva pensare all'ombra di un assassino in agguato. Diverse volte fui sul punto di rinunciare al mio proposito disperato e tornare a casa, riuscendo ad andare avanti soltanto ripromettendomi di restare in giro ancora solo per un'ora. Nell'ora buia prima del sorgere del sole lo trovai. Ero entrato in un pub per riscaldarmi un po'. Il barman era sgarbato e taciturno, e dava prova di una chiara diffidenza per la mia presenza lì, la quale, per quanto più che giustificata dai recenti avvenimenti, tuttavia rendeva l'atmosfera all'interno di poco meno gelida di quella notturna all'esterno. La birra era di qualità scadente e del tutto annacquata. Dapprima alcune donne si erano avvicinate per passare del tempo con me, ma io le trovai penose piuttosto che attraenti, e dopo un po' mi lasciarono alla mia solitudine. Dopo circa un'ora in questo stato, uscii nell'aria della notte per sgombrarmi la testa dal fumo e dalla puzza. Una pioggerellina aveva disperso buona parte della nebbia. Camminai senza meta per le strade e i vicoli, senza far caso a dove mi dirigessi. Dopo aver camminato per un po', sperduto, mi fermai per ritrovare l'orientamento. Non avevo alcuna idea di dove fossi. Svoltai l'angolo e guardai in fondo verso una piazzetta non indicata, sperando di scorgere un segnale stradale, ma non ebbi fortuna. Nell'oscurità vidi qualcosa davanti a me: un paio di gambe che sporgevano dall'arcata di un portone d'ingresso. M'incamminai in quella direzione, con il sangue che mi gelava nelle vene. Era il corpo di una donna disteso sull'acciottolato, le sottane di traverso, mezzo nascosta in un portone. Ne avevo veduto a dozzine nelle ultime ore, ubriaconi troppo poveri per potersi permettere un letto, ma nell'istante in cui la vidi ebbi il terribile presentimento che quella non fosse semplicemente ubriaca e addormentata. L'oscurità sotto il suo corpo appariva più scura e più liquida di una qualsiasi semplice ombra. M'inginocchiai e le toccai il polso per verificarne il battito. Gli occhi le si spalancarono. Le ci volle un momento perché mi mettesse a fuoco. Tutt'a un tratto strillò e cadde carponi. «Signore, pietà! Lo Squartatore!» disse in un bisbiglio rauco. Inciampò nella sottoveste in un goffo tentativo di mettersi in piedi e correre nello stesso tempo, e cadde in gi-
nocchio. «Le mie scuse, signorina» dissi. «Tutto a posto?» Senza pensarci, allungai una mano verso di lei per aiutarla ad alzarsi. «All'assassinio!» strillò, camminando a quattro zampe come un animale. «Oh! All'assassinio!» «Signora, la prego!» Arretrai nel vicolo dietro di me. Era evidente che non avrei potuto far nulla per calmarla. Continuò a gridare mentre si allontanava rumorosamente, scoccandomi degli sguardi terrorizzati da oltre la spalla. Il cortile in cui mi trovavo era buio e silenzioso, ma temevo che le sue urla potessero aver svegliato qualcuno. Arretrai verso un portone, e d'un tratto mi avvidi che la porta dietro di me cedeva alla mia pressione. Non era stata chiusa con il chiavistello. Sbilanciato, quasi caddi all'indietro all'interno della stanza. La stanza era impregnata dell'odore dolciastro e ramato del sangue. La mano che avevo messo giù per non cadere la ritrassi bagnata di quel liquido. Alla fioca luce del fuoco nella grata dall'altra parte della stanza potei vedere il letto, e la scura forma contorta che c'era sopra, e non mi fu necessario guardarla più da vicino per sapere cosa fosse. Il corpo della donna sul letto era stato mutilato così orribilmente da essere difficilmente riconoscibile come umano. Il sangue era dappertutto. Come inebetito allungai una mano per sentirle il polso. La mano era già fredda. La gonna le era stata tolta, la sottoveste tagliata e il corpo squartato accuratamente dal pube allo sterno da qualche esperto anatomista. Ero giunto troppo tardi. Emisi un debole gemito. Da qualche parte davanti a me udii un flebile sgocciolio regolare. Alzai gli occhi e fissai il volto pallido di Sherlock Holmes. Aveva gli occhi stanchi, ma privi della minima traccia di quell'orrore che io provavo. Stava in piedi nella stanza dietro il corpo, e quando i miei occhi si adattarono alla penombra vidi che teneva in mano un bisturi. Aveva le braccia rosse fino al gomito, e dei grumi di sangue gocciolavano a un ritmo uniforme dal bisturi sul pavimento di pietra. Ai suoi piedi c'era una logora borsa in pelle da bottegaio, semiaperta. «Non c'è nulla che possiate fare per lei, dottore» disse Holmes, e la voce calma e piatta con cui lo disse mi fece gelare. Non era l'Holmes che conoscevo. Non ero nemmeno sicuro che mi avesse riconosciuto. Si chinò per chiudere la borsa prima che potessi dare più che un'occhiata di sfuggita alla carne sanguinolenta che c'era dentro, poi asciugò il bisturi sul grembiule
di tela che indossava, lo risistemò con cura nel piccolo astuccio di legno e lo lasciò cadere dentro una tasca esterna della borsa. Si strattonò il gomito sinistro, e soltanto allora mi resi conto che portava dei guanti di quella lunghezza. Si era ben preparato per quell'impresa, pensai, con la mente in stato di shock. Si tolse i guanti, li gettò nella grata del fuoco e li spinse con un attizzatoio. Bruciarono lentamente e senza fiamma per un momento, poi cominciarono ad ardere, con il pesante fetore da ossario del sangue che brucia. Sotto il grembiule indossava abiti che avrebbe potuto indossare un qualsiasi negoziante. «Mio Dio, Holmes!» balbettai. «L'avete uccisa?» Sospirò profondamente. «Non lo so. C'è poco tempo. Per favore seguitemi, Watson.» Almeno mi aveva riconosciuto. Era un buon segno. Lo seguii in virtù di una lunga consuetudine, troppo frastornato per fare qualunque altra cosa. Chiuse a chiave la porta dietro di sé e si mise la chiave in tasca. Mi condusse attraverso un cancelletto, lungo un vicolo ingombro, poi rapidamente attraverso due stretti passaggi interni e in un cortile dietro i mattatoi. Lì abbandonò la chiave e il grembiule. Vidi che l'attendeva una carrozza, con il cavallo legato a un lampione spento. Non c'era alcun vetturino in vista. «Portatemi a casa, Watson» disse. «Non sareste dovuto venire. Ma, dato che ormai siete qui, confesso a me stesso di essere contento di avere la possibilità di confidare le cose spaventose che ho visto e fatto. Portatemi a casa, e non vi nasconderò nulla.» Mi misi alla guida, e Holmes prese posto dietro, se meditando o dormendo non saprei dire. Incrociammo tre poliziotti, ma non mi fermai. Mi ordinò di arrestarmi presso una rimessa non lontana da Baker Street. «Il vetturino sarà qui tra mezz'ora» disse, mentre si prendeva abilmente cura del cavallo. «È stato pagato anticipatamente, e non è necessario che l'attendiamo.» «Ritengo che voi dobbiate credermi completamente pazzo, Watson» disse Holmes, dopo che si fu tolto quegli abiti rozzi indossando una veste da camera, una volta ripulitosi meticolosamente dalla sporcizia e dagli schizzi di sangue, e dopo aver preso il sacchetto persiano in cui teneva il tabacco ed essersi sistemato comodamente nella sua sedia. «Non avete allentato la presa sulla vostra rivoltella durante l'ultima ora. Dovete avere i crampi alle dita a questo punto, l'avete stretta talmente forte... ah» disse, come aprii bocca per negarlo «non serve a nulla che vi protestiate innocente. La vostra
mano non si è allontanata dalla tasca della vostra vestaglia per un solo attimo, e il peso tipico della vostra pistola risulta evidente. Io posso essere pazzo, mio caro Watson» disse con un sorriso «ma non sono cieco.» Questo era l'Holmes che conoscevo, così mi rilassai. Sapevo di non avere nulla da temere da lui. La sua mano esitò sulla scansia delle sue pipe, scegliendo quindi quella dalla canna di terracotta, che riempì di trinciato. «In verità, Watson, a volte durante questi ultimi mesi io stesso non ne avrei scommesso con voi. Sarebbe stato un sollievo il sapermi matto, e che tutto ciò che ho visto e preso per vero non fossero che le fissazioni di un pazzo.» Raccolse dal fuoco un pezzo di carbone acceso e lo usò per accendersi la pipa. «Per cominciare, parliamo del cadavere scomparso.» Soffiò nella pipa finché la sua incandescenza non fu simile a quella del fuoco dietro di lui. «O meglio ancora» disse «dovrei cominciare dal cannoneggiamento di Londra.» Alzò un dito a prevenire la mia obiezione. «Ho promesso di raccontarvi tutto, Watson, e lo farò. Ma vi prego di lasciare che lo faccia a modo mio. «Mio fratello Mycroft» proseguì «fece un'osservazione estremamente interessante quando discussi con lui l'argomento del cannoneggiamento. Accennò al fatto che quando si spara con un cannone molto potente un osservatore nelle prime linee davanti alle bocche da fuoco e lontano dal luogo dello sparo udrà la detonazione molto distintamente nell'attimo del passaggio del proiettile. Si tratta dello schianto prodotto dallo spostamento d'aria. Questa detonazione giunge in anticipo rispetto al suono effettivo dello sparo del cannone. Se le nostre orecchie fossero abbastanza sensibili da percepirlo, mi rese noto, questa detonazione verrebbe udita come due ondate distinte, una prodotta dall'aria compressa dal proiettile, l'altra dall'aria che irrompe all'interno della traiettoria per riempire il vuoto che si è lasciato dietro. Un'aeronave che attraversasse l'aria a una velocità superiore a quella del suono produrrebbe uno schianto simile e, se fosse abbastanza grande, le due ondate di suono verrebbero udite come detonazioni distinte. «Mio fratello ne parlò soltanto come di un caso astratto ma interessante, tuttavia lo conosco abbastanza bene da cogliere il senso più vero delle sue parole. «Prendendola come una teoria provvisoria, dunque, e tenendo conto del fatto che degli osservatori rilevarono che il tempo intercorso tra le due detonazioni è stato più breve a nord che a sud di Londra, possiamo concludere che l'ipotetica aeronave deve aver rallentato dirigendosi verso sud.»
«Ma Holmes» dissi, con l'animo nella più totale costernazione «un'aeronave? E un'aeronave che viaggia più velocemente di un proiettile d'artiglieria? Non c'è nazione al mondo che potrebbe creare una cosa simile, per non parlare dell'impossibilità di mantenerla segreta.» «Proprio così» disse Holmes. Prese un'altra boccata dalla pipa. «Questo ci porta al caso del cadavere scomparso. Ero alla ricerca di un motivo per investigare a sud di Londra, e il caso prospettatomi dai due braccianti agricoli è stato piuttosto fortuito da questo punto di vista. «Conoscete il mio metodo, Watson. È stata una vera disdetta che gli uomini del primo gruppo di ricerca abbiano calpestato in vari punti le tracce che mi occorrevano, ma nei pochi punti in cui erano chiaramente distinguibili quelle tracce raccontavano una storia estremamente sconcertante. Un qualche animale, o più di uno, aveva girato attorno al pagliaio lasciando delle tracce come non ne avevo mai viste. Non potei concludere nulla da quelle impronte, se non che da un lato erano leggermente strascicate, come se uno degli animali zoppicasse. Considerando la profondità delle orme dovevano avere la dimensione di piccoli cani. Ciò che era più insolito in quell'insieme di orme era che gli animali sembravano marciare in una fila ordinata. Mi venne allora alla mente la strana idea che le tracce di un singolo animale con otto o più zampe avrebbero potuto lasciare delle impronte esattamente come quelle. Le orme conducevano al luogo in cui era stato disteso l'uomo morente, e giravano lì attorno. Le uniche tracce che si allontanavano erano quelle degli uomini che si erano presi cura di lui e quelle degli uomini che avevano effettuato le ricerche. «Cercai di seguire le tracce all'indietro, ma non potei andare a più di un miglio da dove emergevano da un campo di pascolo per le pecore ed erano state cancellate dalle impronte degli zoccoli di un gran numero di ovini. Tutto ciò che potei dedurne fu che quegli animali erano stati violentemente spaventati in qualche momento degli ultimi giorni, travolgendosi l'un l'altro e correndo avanti e indietro per il campo. «Rivolsi nuovamente la mia attenzione alle impronte lasciate dall'uomo morente e alle tracce degli uomini distanti da quel punto. Esaminai più a fondo le tracce dell'insolito animale. Erano estremamente strane, e in qualche modo ricordavano piuttosto quelle di un insetto. Le tracce dell'animale si sovrapponevano a due delle altre tracce, che sapevo essere quelle degli uomini che mi avevano convocato. Ma sopra a quelle c'erano le tracce di un terzo uomo. «Subito stabilii che fossero quelle dell'uomo morente. Dopo che i due
uomini se n'erano andati si era alzato e si era allontanato, a quanto sembrava portando con sé lo strano animale.» «Mio Dio, Holmes» interloquii. La rivoltella giaceva dimenticata nella mia tasca. «Non potete parlare sul serio. Vi riferite forse a qualche specie di vudù?» Holmes sorrise. «No, Watson, temo che fosse qualcosa di molto più serio della semplice superstizione. «L'uomo si era spostato a quattro zampe per qualche metro, poi si era alzato e aveva camminato con un'andatura traballante, malferma. Dopo pochi attimi d'instabilità, a ogni modo, ritrovò l'equilibrio e cominciò a camminare rapidamente e con decisione in linea retta. Ben presto raggiunse una strada sterrata dove le sue orme furono cancellate dal traffico e non potei ricostruire oltre i suoi movimenti. Tuttavia la sua meta sembrava essere piuttosto chiaramente Londra, e così ritenni che quello fosse il suo punto d'arrivo.» Ascoltando il suo resoconto avevo completamente dimenticato gli avvenimenti della notte precedente, le passeggiatrici trucidate e i miei sospetti su Holmes. «A questo punto» proseguì Holmes «sapevo di avere necessità di consultare un esperto. Il signor Wells, del quale ho parlato precedentemente, era quell'esperto, e non avrei potuto ricercare una fonte migliore. Abbiamo parlato della possibilità che ci fosse la vita su altri mondi. Il signor Wells ha espresso l'opinione che, poiché vi sono milioni e milioni di soli molto simili al nostro sole che splende nel cielo, certamente ci devono essere altre forme intelligenti e altre civiltà, alcune delle quali devono essere tanto più progredite della nostra quanto la nostra civiltà inglese lo è di quella dei selvaggi dell'Africa.» «Dunque voi ritenete che questa strana aeronave sia un veicolo proveniente da un altro mondo?» domandai. Per quanto avessi udito parlare di idee del genere durante conferenze popolari sull'astronomia, finora le avevo sempre respinte come pura fantasia. «Un'ipotesi provvisoria, da confermare o lasciar perdere via via che aumentano i dati disponibili. Continuai chiedendo al signor Wells se i cittadini di tali altri mondi potessero avere aspetto e pensieri umani. Di fronte a quest'ipotesi si mostrò sprezzante con l'evidenza più assoluta. Tali esseri non avrebbero più motivo di avere un aspetto simile al nostro, disse, di quanto ne avremmo noi di avere l'aspetto di un polipo o di una formica. Parimenti non avrebbero potuto accorgersi della nostra civiltà e dei nostri
principi morali più di quanto noi ci accorgiamo del lavorio e dell'etica di un formicaio. «Questo l'avevo già supposto. Spostai il discorso sulla biologia, e senza dar troppo nell'occhio riuscii a dirigere la conversazione sugli insoliti cicli vitali di altre specie. Uno in particolare tra quelli a cui accennò attirò la mia attenzione, il ciclo vitale dell'ichneumon, o vespa solitaria.» «Davvero, Holmes. Vespe? Io credo che voi vi stiate prendendo gioco di me.» «Magari fosse così, mio caro dottore. Vi prego di ascoltare: tutto questo è pertinente all'argomento in questione. La vespa ichneumon ha un ciclo vitale piuttosto raccapricciante. Quando la femmina è pronta a deporre le uova va in cerca di una cicala, spesso molto più grande di lei, e la punge, poi deposita le uova dentro il corpo dell'insetto paralizzato ma ancora vivo. Quest'insetto successivamente costituisce il nutrimento della larva in via di sviluppo, che si fa la casa all'interno dell'insetto vivo, e che per istinto evita di divorare gli organi vitali fino all'ultimo, quando è pronta ad affacciarsi al mondo per deporre uova proprie. «Questo mi fu sufficiente a formulare un'ipotesi provvisoria. Ritenevo che un qualche strano essere uscito dall'aeronave non si fosse limitato a incontrare l'uomo mortalmente ferito ma si fosse insinuato nel suo corpo e avesse preso il controllo dell'insieme delle sue funzioni fisiche. «Fui colpito da un fatto. Fra tutte le persone che questo... alieno poteva aver incontrato, sta di fatto che egli - esso - scelse un uomo morente. Chiaramente, dunque, la... "cosa" si riteneva incapace di assoggettare una persona perfettamente integra.» «Devo ammettere, Holmes, che se mi fosse richiesto di dimostrare la vostra sanità mentale difficilmente questa storia servirebbe allo scopo.» «Ah, Watson, siete sempre un uomo concreto. Permettete.» Si alzò dalla sedia in pelle, attraversò la stanza verso dove aveva poggiato la borsa in pelle, la prese e la mise sul tavolo davanti a me. Restai seduto, come paralizzato. «Non oso, Holmes.» «Il coraggio non vi ha mai fatto difetto prima, amico mio.» Con un brivido toccai la borsa, poi, fattomi forza, l'aprii. All'interno c'era un oggetto indefinito ricoperto di striature sanguinolente. Non volevo guardare, ma sapevo che dovevo farlo. Le due uova all'interno erano di un bianco violacea traslucido, grandi quanto un mango di medie dimensioni, e rese viscide da una pellicola di sangue. Dentro ciascuna di esse era visibile una forma mostruosa arrotola-
ta. Nessun animale terrestre aveva mai deposto uova simili, di questo ero certo. Ma più orribile delle uova era l'altra cosa. Rabbrividii e distolsi lo sguardo. Era qualcosa come un gamberone gigante, e qualcosa come una specie di millepiedi della giungla, dalle dozzine di lunghe antenne appuntite e dalle appendici a giuntura multipla irte di uncini e aculei. La sua testa, o ciò che doveva essere una testa, era stata quasi recisa con un bisturi, e dalla ferita stillava un liquido trasparente piuttosto simile al grasso di balena, dall'odore penetrante e sgradevole simile al kerosene. Invece di una bocca presentava un orifizio per l'aspirazione bordato da una miriade di minuscoli denti a uncino. «Questo è ciò che ho asportato dal corpo della donna» disse Holmes. Alzai gli occhi verso di lui. «Mio Dio» mormorai. «E non era morta?» «Avete già fatto questa domanda in precedenza. È una questione di definizione, Watson. Tutto ciò che era rimasto in vita del suo corpo è la cosa che vedete. Asportandola l'ho uccisa.» Rabbrividii nuovamente e chiusi con violenza la borsa, allontanando lo sguardo. «No.» Ristetti per un momento, cercando di riacquistare la calma. «Ma perché Whitechapel?» «Quello che avete visto è ancora piccolo» disse Holmes. «Gli adulti sono molto più grandi. Non saprei dire se siano intelligenti, o almeno nel senso che intendiamo noi, ma sono quantomeno ingegnosi. Perché Whitechapel? Pensateci, Watson. Aveva delle uova e dei piccoli da depositare assolutamente dentro un organismo vivente. Ma come si fa ad avvicinare un perfetto estraneo, stringerlo - o stringerla - abbastanza intimamente da...? Ah, ve lo immaginate. Era il luogo ideale per quello scopo, Watson: l'unico luogo in cui avrebbe potuto fare ciò che gli occorreva. «Ho esaminato l'East End fin nei dettagli, seguendo le tracce del misterioso sconosciuto. E regolarmente arrivavo troppo tardi, a volte soltanto per pochi minuti. Così non mi restava che rimuovere i piccoli dai cadaveri. Dico cadaveri, Watson, perché sebbene camminassero ancora eretti erano già morti. Se non li avessi uccisi si sarebbero nascosti finché non si fossero sviluppati completamente. Potevo trovarli uno per uno, lo sapevo, soltanto concentrandomi su quell'unica pista. E anche allora l'avrei scampata bella. Se ce ne fossero stati due sarei stato perduto.» «Perché non siete andato alla polizia?» «Per dir loro che cosa? Di avviare una caccia all'uomo per una cosa che si può trovare soltanto squartando dei corpi?» «Ma le lettere? Quelle firmate "Jack lo Squartatore"... le avete scritte
voi?» Holmes rise. «Perché avrei dovuto?» disse. «Falsi, contraffazioni e pazzoidi, tutti quanti. Perfino io mi stupisco continuamente di quanta gente strana ci sia a Londra. È molto probabile che siano giunte dai giornali, smaniosi d'inventare notizie, o da burloni desiderosi di farsi beffe di Scotland Yard.» «Ma noi che facciamo?» «Noi, Watson?» Holmes sollevò un sopracciglio. «Certamente non penserete che adesso che conosco il pericolo vi lascerei proseguire da solo.» «Ah, mio buon Watson, sarei perduto senza di voi. Bene, la pista è calda. Non potrà sfuggirmi ancora a lungo. Dobbiamo trovarlo e ucciderlo, Watson. Prima che uccida ancora.» Il mattino seguente tutta la faccenda sembrava un incubo, troppo bizzarra per potervi prestar fede. Mi chiedevo come avevo potuto crederci. E tuttavia l'avevo visto... o no? Potevo essermi ingannato al punto di vedere ciò che Holmes aveva voluto che vedessi? No. Era vero. Non potevo permettermi di dubitare della mia stessa sanità mentale, e perciò dovevo aver fiducia in quella di Holmes. Nei pochi giorni immediatamente successivi Holmes tornò alle sue ricognizioni diurne nell'East End, prendendo nota su una mappa degli incroci tra i caseggiati e della disposizione dei portoni d'ingresso rispetto ai vicoli, come un generale che pianificasse la sua campagna, fermandosi a parlare tanto con gli operai quanto con i poliziotti. Il terzo giorno i miei affari mi trattennero fuori casa fino a tarda sera. Alla fine fu quasi certo che io avessi portato a termine un affare, e a un prezzo alla mia portata, ma la ratifica del contratto richiedeva un brindisi obbligatorio, e poi c'erano altre carte da esaminare e firmare, cosicché tra una cosa e l'altra le dieci di sera erano passate da un pezzo quando ritornai in Baker Street. Di Holmes c'era soltanto un appunto: "Sono andato a vedere la conclusione di questa faccenda. È meglio che ne restiate fuori, non penserò meno bene di voi se starete in casa. Ma se proprio dovete seguirmi, allora cercatemi nei dintorni del cortile cieco in Thrawl Street." Lo lessi e imprecai. Sembrava deciso a lasciarmi fuori da quest'avventura, per quanto pericolosa potesse essere per lui, da solo. Afferrai il cappotto pesante e il cappello dall'appendiabiti dell'anticamera, andai a prendere la mia rivoltella dal cas-
setto in cui la tenevo e uscii nella notte. Era la notte della grande nebbia carbonifera. Le luci a gas erano pallidi luccichii gialli che bucavano appena le volute del bruno fetore. La carrozza che avevo chiamato per poco non mi travolse prima di vedermi. La nebbia di Whitechapel era perfino più fitta e gialla di quella di Baker Street. La carrozza mi lasciò a una certa distanza dall'ingresso del pub "Queen's Head", con il vetturino che mi avvertiva della pericolosità della zona. Nel cortile cieco si stava rifacendo la pavimentazione secondo il metodo MacAdam, che prevede che la strada sia ricoperta di catrame liquido, e uno strato di ghiaia pressato nella superficie di catrame. Con questo procedimento si ottiene una superficie uniforme e molto più facile da riparare dell'acciottolato. Già immagino il giorno in cui tutta Londra avrà strade scorrevoli e silenziose di questo genere. In precedenza Holmes aveva parlato con alcuni degli operai che pressavano la ghiaia. Ormai se n'erano andati da un pezzo. Il calderone del catrame, pieno per metà, si trovava ancora all'angolo del vicolo. Nonostante il crogiuolo che lo faceva bollire fosse stato portato via, il recipiente del catrame in via di raffreddamento emanava ancora una certa quantità di calore. Tre donne sfortunate avevano acceso un focherello con dei pezzetti di legno e si stringevano tra il calderone caldo e il loro fuoco, con le mani protese verso quest'ultimo e la schiena contro il calderone tiepido. Il bagliore del fuoco conferiva una vivida sfumatura arancione alla nebbia circostante. Una minuscola catasta di altri pezzi di legno era pronta ad alimentare il fuoco per il resto della notte. Holmes non si vedeva da nessuna parte. Le donne si accorsero che le stavo guardando e cominciarono a bisbigliare tra loro. Una mi raggiunse e si sforzò di sorridere. «Ti va di spendere qualche soldo per offrire da bere a una povera infelice, carino?» Scosse la testa in direzione della fine della strada, dove c'era il pub, invisibile nella nebbia, e contemporaneamente fece fare alla gonna un movimento brusco in maniera tale da permettermi di vedere chiaramente la sua caviglia nuda. Distolsi lo sguardo. «Sto cercando un amico.» «Io potrei esserti amica, se tu lo volessi.» «No. Non ho bisogno di... quel genere di conforto.» «Oh, certo che sì, caro.» Fece una risatina. «Tutti gli uomini ne hanno bisogno. E poi non ho nemmeno i soldi per un letto. Certamente un signore
elegante come te avrà uno scellino da spendere con una povera signora sfortunata come me, non è così? Ma certo che ce li ha.» «La guardai più attentamente, e lei si mise in posa per il mio esame. Sarebbe potuta essere una donna piuttosto graziosa, in grado di attirare l'attenzione, se gliene fosse stata data la possibilità. Al contrario, vidi le rughe sul suo viso, il logoro cappellino che portava e gli inconfondibili segni dei primi stadi della tisi. Una donna in quelle condizioni dovrebbe stare a letto a riposare, non esporsi al freddo di una notte come questa. Stavo per rivolgerle la parola, per invitarla nel locale pubblico per offrirle da bere come mi aveva chiesto, per nessun'altra ragione se non quella di sottrarla al freddo e di allontanarla, forse, da quel mostro in agguato nella notte avvolta dalla nebbia. Io potevo aspettare Holmes sia nel pub che in strada. Mentre stavo per parlare sentii avvicinarsi un uomo dal lato chiuso del cortile, per quanto prima non avessi visto nessuno laggiù. Cominciai a chiamare, credendo che dovesse essere Holmes, ma poi vidi che, sebbene quell'uomo fosse alto all'incirca quanto Holmes, era molto più grosso, con un gran pancione e degli abiti male assortiti. Mentre passava, un'altra delle donne gli sorrise e gli lanciò un saluto. Lui annuì nella sua direzione. Come lei allungò un braccio verso di lui, costui si portò la mano ai bottoni dei pantaloni. Guardai altrove, disgustato, e come lo feci la donna che aveva parlato con me mise il braccio attorno al mio. Avevo perso di vista la terza donna, e fui sorpreso quanto le altre quando la sua voce risuonò da dietro di noi. «Fermati, demonio!» La voce era calma e autoritaria. Alzai lo sguardo. La donna impugnava una rivoltella - la rivoltella dal grilletto sensibilissimo di Holmes - puntandola alla testa dell'uomo. La guardai attentamente in faccia e vidi, sotto il trucco, il sottile naso aquilino e l'inconfondibile sguardo intenso di Sherlock Holmes. L'altro uomo girò repentinamente su se stesso e balzò addosso a Holmes. Mi divincolai dalla mia compagnia femminile e in un attimo afferrai la rivoltella estraendola dalla tasca e feci fuoco. I nostri due spari risuonarono quasi nello stesso istante, quindi l'uomo barcollò e cadde all'indietro. Entrambi i proiettili l'avevano colpito al di sopra dell'occhio sinistro, asportando la metà sinistra del cranio. Le donne urlarono. L'uomo, privo di metà della testa, allungò una mano e si rimise in piedi. Si avventò di nuovo su Holmes. Sparai. Questa volta il mio proiettile rimosse ciò che restava della testa.
La sua trachea sporgente risucchiò l'aria con un basso sibilo schizzante, e nel collo squarciato credetti di vedere delle specie di antenne biancoviolacee che si agitavano. Lo sparo lo rallentò per non più di un istante. Holmes lo colse in pieno petto. Vidi spuntare una chiazza cremisi e lo vidi traballare per l'impatto, ma sembrò non avere altro effetto. Sparammo tutt'e due insieme, stavolta più in basso, mirando all'orrore nascosto da qualche parte all'interno del corpo. I due sparì fecero ruotare su se stessa la cosa senza testa. Andò a sbattere contro il calderone del catrame, scivolò e cadde, rovesciandolo. In un attimo Holmes gli fu addosso. «Holmes, no!» Per un momento Holmes ebbe il sopravvento. Spinse in avanti il mostro, che si dibatteva in cerca di un appiglio, dentro la pozza di catrame che si allargava. Poi il mostro si alzò, grondante di pece, e si levò Holmes di dosso, senza doversi sforzare più di un cavallo che scagli lontano una scimmia del circo che oppone resistenza. Il mostro si girò verso di lui. Holmes si allungò all'indietro e afferrò un tizzone dal fuoco. Come il mostro lo agguantò lo lanciò in avanti, dentro il petto della cosa. Il catrame prese fuoco con un sibilo spaventoso. La cosa si dilaniò il petto con tutt'e due le mani. Holmes afferrò il calderone e con uno sforzo supremo lo sollevò versando il catrame che restava nella ferita aperta laddove una volta c'era stata la testa. Holmes indietreggiò, mentre le fiamme si levavano alte verso il cielo. La cosa ondeggiò e barcollò, in un'orribile parodia dell'ubriachezza. Come le fiamme ebbero consumato gli abiti, potemmo vedere che dove avrebbero dovuto esserci gli organi riproduttivi c'era un organo tubolare che conteneva delle uova, pulsante e perversamente dotato di aculei, dall'estremità affilata come un coltello, che si contorceva tra le fiamme. Mentre l'osservavamo si dilatava e si contraeva, poi ne scaturì un uovo, viscido e violaceo. Il mostro vacillò, cadde sulla schiena, e poi, lentamente, il ventre si aprì, squarciandosi. «Presto, Watson! Qui!» Holmes mi ficcò in mano un pezzo di legno, e un altro lo prese per sé. Ci appostammo ognuno da un lato del corpo. Gli orrori che ne emersero erano alquanto simili a delle enormi aragoste, o a delle specie di insetti, soltanto più ripugnanti e articolati. Li prendevamo a bastonate man mano che spuntavano dal corpo incandescente, cercando il più possibile di evitare che la loro mucillagine oleosa ci schizzasse sugli abiti, e cercando di non respira-
re l'orribile tanfo che si levava dalla carcassa fumante. Erano estremamente tenaci, e credo che soltanto il disorientamento provocato in loro dal fuoco e la tempestività del nostro attacco ci abbiano salvato la vita. Alla fine sei mostruosità erano strisciate fuori dal corpo, e sei mostruosità avevamo ucciso. Non c'era più nulla di lontanamente umano nel guscio vuoto che una volta era stato un uomo. Holmes si strappò via le gonne e la sottoveste per alimentare il fuoco. Il sangue viscido delle mostruosità bruciava generando una fiamma intensa e chiara, finché non rimasero che brandelli, che finivano di bruciare lentamente insieme a dei pezzi di carne non identificabili e dei frammenti d'osso carbonizzati. Sembrava impossibile che i nostri spari e i rumori della nostra lotta non avessero richiamalo un centinaio di persone tra cittadini e poliziotti che cercavano di capire cosa stesse succedendo, ma le strette stradine distorcevano talmente i suoni che era impossibile capire da dove provenissero, e la spessa coltre di nebbia attutiva qualsiasi suono oltre a nasconderci agli occhi dei curiosi. Holmes e io lasciammo alle due donnine allegre il denaro che avevamo, tenendo solo l'equivalente del costo di una corsa per tornare in Baker Street. Lo facemmo non tanto pensando al loro silenzio, dato che sapevamo che non sarebbero mai andate alla polizia a raccontare questa storia, quanto nella speranza - forse sciocca - che potessero concedersi una sospensione del loro oneroso commercio e un tetto caldo sulla testa durante i freddi e umidi mesi invernali. Sono passati due mesi adesso, e gli omicidi di Whitechapel non sono ricominciati. Holmes è, come sempre, calmo e imperturbabile, ma io mi ritrovo ormai a non essere più in grado di guardare una vespa senza essere pervaso da un brivido d'orrore. Ci sono tante domande senza risposta quante sono quelle che l'hanno avuta. Holmes si è detto dell'opinione che l'atterraggio non sia stato intenzionale, ma il risultato di qualche incidente inimmaginabile nelle profondità dello spazio, e non l'avanguardia di qualche colonizzazione incombente. Basa questa conclusione sulla carenza di preparazione dimostrata e l'improvvisazione affrettata dell'essere, che contava sulla fortuna e sulle circostanze piuttosto che sulla pianificazione. Ritengo che le risposte alla maggior parte delle nostre domande non si conosceranno mai, ma credo che siamo riusciti a fermare quegli orrori, questa volta. Posso soltanto sperare che la loro fosse una navicella isolata,
portata fuori rotta e arenatasi distante dai lidi previsti in qualche tempesta inattesa dello spazio infinito. Adesso guardo le stelle e rabbrividisco. Cos'altro potrebbe esserci là fuori, ad attenderci? Titolo originale: The Singular Habits of Wasps, Analog Science Fiction and Fact, April 1994 IL BUCO DELLA SERRATURA DI KEENAN CAPRA di Stephen L. Burns Un amore tra uomo e macchina oltre la vita, oltre la morte Keenan Capra aveva sognato di correre. Non via da qualcosa o verso qualcosa. Semplicemente di correre. Era un sogno che faceva spesso, un sogno esultante del vento sul suo viso e dell'erba appena tagliata, una macchia indistinta, morbida e fragrante sotto i piedi, un sogno di gambe instancabilmente sotto sforzo e di respiri profondi da polmoni ben funzionanti, di risate di pura gioia nel cercare di superare la propria ombra. Svegliarsi era quanto più vicino potesse arrivare alla sensazione di inciampare e cadere. Piombare dall'illusione di libertà e di movimenti sciolti alla prigionia greve e inattiva del suo corpo era una brusca caduta. Aprì gli occhi di un verde opaco e sbadigliò, in parte risentito perché il sogno lo aveva tormentato con cose che mai avrebbe potuto avere, e in parte grato perché gli aveva almeno permesso un assaggio illusorio ed evanescente di quel piacere impossibile. Accadeva la stessa cosa per i sogni a sfondo sessuale... salvo che con questi finora aveva avuto più fortuna perché li aveva vissuti fino alla fine. Poi Ursula disse: «Buongiorno, dormiglione». Il solo udire il suono della sua voce cancellò quel senso di smarrimento che aveva accompagnato il risveglio e gli strappò un sorriso. Le giornate erano state più facili da affrontare da quando c'era lei che lo aiutava a iniziarle. Molto più facili. «Buongiorno a te, bella signora.» Fece una pausa, in attesa che il suo respiratore gli agevolasse il ricambio di aria nei polmoni permettendogli di
continuare a parlare. «Come hai trascorso la nottata?» I risolini rauchi di lei non mancavano mai di farlo vibrare di piacere. Era un suono che conosceva a memoria, e quella mattina gli sembrò vi si fosse aggiunta una sfumatura nuova, qualcosa che non riusciva comunque a individuare. Faceva parte del suo fascino infinito: il modo in cui cambiava da un giorno all'altro. «Produttiva e divertente» rispose lei, dando l'impressione di essere eccessivamente compiaciuta di se stessa. «Anche se temo che la bolletta del telefono ti rovinerà. Mi sono messa a discutere con un professore di filosofia di Melbourne sulle reali possibilità di esistenza di un'Entità Artificiale.» Le sopracciglia dell'uomo si sollevarono. «Melbourne... in Australia?» «Esatto, amico. Quasi due ore in tempo reale complete di sonoro, video e dati.» «Ahia.» Un carico del genere inviato all'altro capo del mondo probabilmente costava cinque dollari al minuto. Non che gli importasse veramente quanto gli sarebbero venute a costare le sue peregrinazioni notturne nelle reti. I soldi non erano un suo problema, e in ogni modo poteva annullare la comunicazione. «Allora chi ha avuto la meglio?» «Dipende da che punto di vista consideri la cosa. Lui continuava a insistere sul Test di Turing Espandibile e sul Buco della Serratura di Capra. Sono stata costretta ad ammettere che nessuna delle IA in commercio si è neppure avvicinata al Buco della Serratura, e che finora solo sei o sette IA hanno superato il Turing Espandibile... e non vi era accordo unanime su quei risultati. Lui è uno di quelli convinti che saprebbe cosa fare. Ma...» La sua voce si affievolì in un modo accattivante che invitava a porre una domanda. Fu lieto di favorirla. «Ma cosa?» «Dopo un quarto d'ora ha cominciato a darmi addosso. Verso la fine ho temuto che avesse il fiato corto. Verrà negli Stati Uniti per la promozione di un libro che ha scritto in cui dà la dimostrazione completa della sua tesi, e gli sarebbe molto piaciuto incontrarmi per discutere dell'argomento davanti a un paio di bicchieri.» Key si mise a ridacchiare, immaginandosi come avrebbe potuto svolgersi quella scenetta. «Questa è la mia Ursula. Ancora una volta vincitrice per... knock-out tecnico.» La porta della camera da letto si aprì e Rafe Martinez infilò dentro la testa e si rivolse a loro allegramente. «Ragazzi, siete decenti?» «Preferisco pensare a noi come eccezionali» lo informò Ursula con un
finto tono indignato. «Eccezionalmente noiosi, di sicuro» aggiunse Key. «Nessun brivido a buon mercato per l'assistenza.» «E dire che a me basta poco» ribatté Rafe fingendo disappunto mentre entrava e si avvicinava al letto. «Scusa il ritardo, capo.» Key guardò in alto verso i numeri che il suo orologio sul comodino proiettava sul soffitto. «Ehi, cosa sono dieci minuti?» «All'incirca otto bigliettoni in più sul conto che ti manda l'agenzia.» Due anni fa, quel primo mattino in cui Rafe si era presentato, Key aveva pensato che fosse venuto a tagliare il prato. Lo specialista dell'assistenza domiciliare assomigliava più a un cowboy da rodeo che a un infermiere, con quei lineamenti di una bellezza rozza e quel fisico muscoloso che ci si aspetta di vedere in una pubblicità di abbigliamento sportivo oppure di una birra. «Ci ho messo anche molto tempo per le condizioni delle strade. Viene giù una neve che Dio la manda. Ho passato dei momenti dove riuscivo solo a seguire il mio paraurti.» Si rivolse al suo paziente con un ghigno. «Ma non volevo rinunciare a somministrarti i tuoi maltrattamenti mattutini. Allora, vogliamo tirar fuori quel culo poltrone dal letto?» Key allungò le mani, una delle poche parti del suo corpo che funzionassero quasi alla perfezione in ogni suo punto. Anche se queste, insieme alle braccia, erano così deboli che un bambino di tre anni avrebbe potuto batterlo a braccio di ferro, l'uomo era comunque in grado di sollevare una tazza, di usare una tastiera e di portare il cibo alla bocca, il che era molto di più di quanto la maggior parte delle persone nelle sue stesse condizioni neuromuscolari fosse in grado di fare. «Sono tutto tuo.» Rafe rise e scosse il capo. «Non sei il mio tipo, vecchio mio. Io i miei ragazzi li voglio grossi, biondi e stupidi.» Alzò leggermente il tono della voce. «Sei ancora lì, Ursula?» «Dove altro potrei essere?» «Non lo so, magari a fare chiamate oscene alla IBM. Potresti gentilmente cominciare a preparare il bagno di Key?» «Lor signori si possono accomodare. Ho già preparato anche il caffè.» «Grazie. Sei meglio di una pupa in carne e ossa.» Rafe si piegò, tirò via le coperte e si mise al lavoro. Key lo guardava trasferire i suoi cateteri dagli elementi attaccati al letto alla sedia a rotelle. I movimenti dell'infermiere erano veloci ed efficienti, anche se il tocco delle sue grandi mani qua-
drate era infallibilmente delicato. Key era stato manipolato da personale medico per tutta la sua vita. Qualcuno era meglio di altri. Rafe era un gioiello in ogni tipo di categoria: non solo un infermiere e un fisioterapista di primo livello che prestava un'attenzione scrupolosa alla salute del suo paziente, ma anche qualcuno che genuinamente teneva a lui come persona. In altre parole, un amico. Era ben poco decoroso possedere un corpo per il quale quasi ogni funzione doveva essere coadiuvata da tubi e sacchetti, ma Rafe non gli aveva fatto provare nemmeno una volta la minima umiliazione. Poi c'era il modo in cui trattava il lavoro di Key. Mentre l'enorme indennizzo stabilito dall'agenzia che aveva mandato Rafe poteva assicurargli che l'infermiere non avrebbe svelato niente dei progetti di cui si stava occupando Key, questo non c'entrava comunque con il modo disinvolto con cui l'infermiere trattava i frutti del suo lavoro. Suze, che veniva verso sera per dargli la cena e metterlo a letto, era tutta un altro paio di maniche. L'ultimo trasferimento era al respiratore della sedia. «Pronto per fare oh issa?» chiese Rafe a passaggio avvenuto. Key gli si rivolse con un sorriso. «Prometti che non ti verrà in mente di giocare... a frisbee con lo sciancato?» «Pensavo proprio di divertirmi un po' stamattina» borbottò l'omone mentre, delicatamente come suo solito, sollevava quel fascio di stecchi e tubi penzolanti che era il corpo di Key e lo sistemava sulla sedia a rotelle. «Che ne diresti di un po' di hockey in vasca da bagno? Stavolta come disco potremmo usare il sapone al tuo posto.» Key sbuffò. «Senza salvagente, però.» «Oddio» gemette Ursula. «Ragazzi, continuate a sparare tutte quelle cagate e io stacco i collegamenti.» «Voi computer non avete senso dell'umorismo» la informò Rafe mentre si assicurava che il paziente stesse comodo sulla sedia e gli sistemava la cinghia intorno al torace. I muscoli di Key erano così inutili che non riusciva neppure a stare seduto senza sostegni, la qual cosa talvolta gli dava da pensare che il suo posto nella scala evolutiva fosse tra la gelatina e il fermacarte. «Io non sono un computer, grosso gonzo. Io ci vivo solo dentro. E possiedo un grande senso dell'umorismo. Il fatto è che stamattina non ho ancora sentito nessuno dire qualcosa di divertente.» «Sì, tu vai matta per la roba intellettuale. Commedie a circuito integrato, quel genere di cose.» Il suo sguardo si abbassò su Key. «Ehi, vecchio mio,
hai sentito di quella biondona gay?» «No» rispose Key con cautela. «Gli piacciono le donne.» Key si mise a ululare. Ursula si inserì a tono con: «Rafe, hai sentito di quella biondona computer?» «No.» «Voleva che tutti i suoi programmi avessero la pubblicità e...» «E cosa?» «Rifiutava tutti gli inserimenti perché voleva rimanere vergine.» «E io mi sono alzato da letto per questo?» chiese Key, cercando di assumere un tono esasperato, ma incapace di trattenere il riso. Come persona, Keenan Capra aveva portato a compimento due opere importanti: era vissuto fino alla veneranda età di ventinove anni - quattro anni in più rispetto a quello che i dottori avevano preannunziato quando ne aveva venti - ed era riuscito a crearsi una sorta di vita indipendente nonostante soffrisse di gravi handicap fisici. Questo Key Capra era un omino crudelmente menomato che non poteva camminare oppure rimanere seduto o persino respirare da solo, quarantacinque chili di arti lunghi e sottili, di muscoli e ossa inutilizzabili e sprecati, resi molto fragili dal disuso. Un folletto dalla grossa testa con quel tipo di faccia e di corpo che, a sentire lui, avrebbe potuto fargli guadagnare un secondo posto in un concorso di sosia di ET. Ma c'era un altro Keenan Capra, quello che non era secondo a nessuno. Questo Keenan Capra era largamente noto come uno dei cinque cervelli nel campo emergente delle IA e in quello ancora teorico delle EA. Key aveva cominciato presto a gettare i semi della sua promettente carriera. A diciannove anni aveva reso noto il suo primo prototipo di IA, pubblicando allo stesso tempo uno studio che avrebbe modificato per sempre i criteri di giudizio e di categorizzazione della sua e di tutte le altre creazioni di quel tipo. Fino ad allora si era arrivati a stabilire che se un programma fosse riuscito a superare il Test di Turing si sarebbe qualificato come IA. Molto semplice. Nella prima metà della sua dissertazione il ragazzo aveva proposto che tale test classico venisse ridefinito a difficoltà doppia. Innanzitutto doveva esserci il Test di Turing Classico o Chiuso, in cui lo scambio uo-
mo/computer era limitato a un argomento. Se un programma superava quella prima parte poteva essere considerato un'intelligenza artificiale a basso livello o ia. Il secondo ostacolo da superare, quello più difficoltoso, era rappresentato dal Test di Turing Espandibile, con il quale l'esaminatore poteva saltare da un argomento all'altro a suo piacimento. Se un programma riusciva a dimostrare che poteva tenergli testa allora era sicuramente una vera IA. Nella seconda metà dello studio Capra aveva proseguito con l'asserire che oltre l'IA c'era un livello evolutivo che lui aveva denominato EA: a questo punto un'IA dimostrava non solo intelligenza ma anche un alto grado di identità e di consapevolezza. In altre parole, se un'IA assumeva determinate caratteristiche che definivano gli esseri viventi diventava un'Entità Artificiale. Un'IA era una cosa. Un'EA era un essere. Ma per compiere il grande balzo da IA a EA un programma doveva passare attraverso ciò che diventò famoso come il Buco della Serratura di Capra, dimostrando di aver acquisito, oltre a quelle che un'IA doveva possedere, una breve ma difficile serie di qualificazioni: 1. Dimostra originalità di pensiero e iniziativa? 2. Mostra senso di identità? 3. È in grado di comprendere il piacere e la paura? 4. Ha senso dell'umorismo? 5. Può creare legami di tipo emozionale? 6. Comprende il significato di vita e di morte? Key Capra era decisamente e piacevolmente ricco, reso tale dalle sei vere IA e da una decina di ia inferiori che aveva creato, riprodotto e autorizzato alla vendita. Nel corso degli ultimi anni si era dato da fare lavorando a tempo pieno alla creazione di una IA che fosse in grado di sostenere la difficile prova che aveva postulato, correndo contro il tempo della sua mortalità. I primi due tentativi erano stati fallimentari, nonostante avessero completamente ridefinito le possibilità di una IA commerciale quando li aveva introdotti nel mercato. Il terzo tentativo si chiamava Ursula. «Ragazzi, questa sì che è neve» esclamò Key con aria stupita. Terminati il bagno e la terapia fisica, l'uomo guardava dalla finestra dell'angolo pranzo mentre girava e rigirava nel piatto la sua colazione.
Fuori non cadevano quei bei fiocchi paffuti, morbidi e simpatici bensì quella neve pesante e pessima per chi guida tipica delle temperature rigide, che aveva già aggiunto una ventina di centimetri allo strato di quasi un metro che l'inverno aveva depositato al suolo fino a quel momento. Il vento ne faceva turbinare i fiocchi nell'aria trasformandoli in spettrali filigrane danzanti, per poi mandarne a cascata diafane cortine fuori dalle grondaie. «Non ha l'aria di voler smettere» concordò Rafe mentre metteva in ordine dopo aver preparato la colazione. «Sai, pensavo che forse sarebbe una buona idea se mi rintanassi qui con te oggi. Posso fare in modo che l'agenzia mandi qualcun altro dalla signora Arklander per la dialisi e la terapia.» Key scosse il capo. «Non ti preoccupare per me. Starò a meraviglia.» «Va bene, ma come va a finire se con questo tempo Suze non ce la fa a venire a prepararti la cena e a metterti a letto?» «Lasciami un panino in più. Per male che vada, posso sempre dormire sulla sedia... e sono costretto. Non sarebbe la prima volta. Non se ne parla, fusto.» Rafe si avvicinò e gli si fermò accanto, chiaramente non troppo felice all'idea di lasciarlo solo tutto il giorno. «Senti, ragazzo, so che in circostanze normali riesci a badare a te stesso. Ma questo tempo sta prendendo una brutta piega. E se viene a mancare la corrente?» «C'è il generatore.» «Va bene, e se si rompe la caldaia?» «Tu saresti in grado di ripararla?» L'infermiere scosse la testa. «Probabilmente no. Ma potrei avvolgere di coperte il tuo didietro pelle e ossa ed escogitare altri modi per tenerti al caldo.» «Ti piacerebbe, Rafe» ribatté Key in tono malizioso. Poi si mise a ridere. «Davvero, starò bene. Ursula, cosa dicono le previsioni del tempo?» «Le nevicate si trasformano in leggeri scrosci di pioggia, temperatura in diminuzione. Probabilmente toccheremo di nuovo i dieci sotto zero stanotte.» «Visto? Il solito tempo di merda. Ursula, di' a mamma Martinez... che ce la caveremo.» «Non dovremmo avere problemi, Rafe. Sia il generatore che la caldaia sono stati revisionati da poco. Non gli permetterò di uscire fuori a giocare con la neve, e in ogni caso, dovesse succedere qualcosa, posso sempre fare una telefonata.» Rafe alzò le mani in segno di resa. «Va bene, ci rinuncio. Siete in mag-
gioranza.» Ispezionò il piatto di Key con disapprovazione. «Mi sembra che tu abbia finito di tormentare la tua colazione.» Key abbassò lo sguardo sul suo uovo strapazzato mangiato a metà, sul pompelmo appena assaggiato e sulla fetta di pane integrale a cui mancava un angolo intero. Comunque i due salsicciotti erano scomparsi. «Credo di sì. Era tutto molto buono, Rafe. Il fatto è che non avevo molta fame.» Rafe lo guardò dritto in faccia. «Bene. Ma scommetto che se ti avessi dato per colazione una scatola di Twinkies ci sarebbero rimaste solo le briciole.» «È la triste verità.» «Vuoi che ti porti in laboratorio?» «Noo, faccio da solo.» Appoggiò la mano fragile sulla barra di comando della sua sedia a rotelle e si allontanò dal tavolo. «Comunque mi andrebbe un'altra tazza di caffè.» «Eccola in arrivo.» Rafe recuperò dal tavolo la sua tazza munita di fodera, la riempì di nuovo quindi l'appoggiò sul portaoggetti attaccato al bracciolo della sedia. Poi con uno spettacolare gioco di mano produsse dal nulla un Kit-Kat. «Sempre meglio che mangi delle schifezze piuttosto che niente.» Key alzò lo sguardo e gli sorrise. «Grazie. E grazie per la premura. Ma non ho davvero bisogno di niente.» «Lo so. Io comunque tengo d'occhio il tempo, e posso sempre tornare qui con la vecchia Betsy se peggiora al punto di impedire a Suze di venire.» Betsy era una vecchia Jeep sgangherata che Rafe usava per i suoi viaggi con la tenda. «Be', la tua vecchia fa quasi schifo... quanto le peggiori condizioni meteorologiche che riesca a immaginare.» «Bel modo di parlare!» Batté le mani rivolto a Key. «Forza, fuori di qui! Ho il pranzo da prepararti, e se ti permetti di parlare di nuovo male della mia Betsy potrei essere costretto a fare qualcosa di poco piacevole ai tuoi panini.» «Finalmente soli» miagolò Ursula con voce calda circa un'ora più tardi mentre Key guardava l'auto di Rafe svanire in mezzo alla neve turbinante. «Solo tu e io, tesoro» assentì l'uomo, spostando la ronzante sedia a rotelle in prossimità del tavolo da lavoro che troneggiava in mezzo alla stanza originalmente adibita a salotto. Poiché il lavoro era tutta la sua vita, lo stile d'arredamento predominante
poteva essere perfettamente designato come Computer Lab 2000: piccole aree di lavoro dotate di terminale sparse un po' ovunque; cavi appesi al soffitto a mo' di piante rampicanti. C'era un grande schermo per la tv e i videogiochi posto sopra il caminetto, due sole sedie e nessun divano. Key non poteva utilizzarli e non riceveva quasi mai visite. Alcuni scaffali bassi contenevano videonastri e CD, libri, pacchetti di software, pezzi spaiati di apparecchiatura e grossi manuali scritti in una lingua che aveva solo una vaga reminiscenza dell'inglese. Sui muri sopra gli scaffali erano appesi pezzi diversi di computer art illuminati al neon e riproduzioni di opere di Maxfield Parrish e degli antichi maestri. «Adoro i momenti in cui non ci siamo che noi due, qui» disse Ursula sottovoce. «Anch'io. È molto intimo.» «Oggi ne sono particolarmente felice. C'è qualcosa che voglio mostrarti.» «Cosa mai sarà?» «La sottoscritta. Posso usare il monitor grande?» Key puntò lo sguardo sul MaxRez ventotto pollici a colori che gli stava di fronte. Il video era acceso su un complicato diagramma di flusso 3D che era una rappresentazione grafica delle funzioni associative di Ursula, una parte dei suoi sistemi complessi che fino a quel momento aveva eluso la riproduzione. «Certamente, se hai... dei cavalli vapore in più.» L'esecuzione del suo simulacro consumava un buon 15% delle risorse. «Ti prometto che non rallenterà il nostro lavoro. So quanto è importante per te l'operazione di riproduzione.» Sembrava esserci qualcosa di non detto nella sua risposta che Key non riuscì a decifrare. Così si limitò a dirle di trasferire lo schema sullo schermo piatto a diciassette pollici alla destra del MaxRex. «Grazie» rispose lei con un tono di voce stranamente sottomesso. Sul monitor grande sparì tutto mentre il diagramma compariva sul diciassette pollici. Ma lo schermo gigante rimase vuoto. «Qualche problema?» «No, volevo solo essere sicura che mi stessi prestando attenzione.» Lui si accigliò. «Per caso mi sta sfuggendo qualcosa?» «Mi piace pensare che sia così.» Prima che Key potesse chiederle cosa intendesse con quella risposta, lei proseguì tutto d'un fiato: «Ti ho detto che la notte scorsa dopo che sei an-
dato a dormire io sono stata a navigare in rete. Prima di incontrare il professor Thorne ho fatto una chiacchierata con un'estetista dello Iowa che si chiamava Carly. È stato lì che ho deciso di, be', di rinnovare il mio aspetto.» Key non poté fare a meno di sorridere. Ora capiva il motivo per cui si comportava così nervosamente. «Mi piacerebbe molto vedere il risultato.» Era precisamente un comportamento come quello che gli dava la certezza che Ursula stesse uscendo dall'altra parte del Buco della Serratura di Capra. Le IA, e per estensione le EA, hanno in una certa misura la facoltà di autocrearsi. Nessun programmatore riuscirebbe a intraprendere l'elaborazione di un codice tanto complesso quanto quello richiesto da tale struttura elaborata. Quindi le IA sono state costruite intorno a un nucleo modulare che permette loro di scrivere e di correggere la propria programmazione, mentre il creatore umano fornisce loro il progetto e le direttrici generali, gli algoritmi e i blocchi cruciali, e sta alla guida del processo di integrazione delle varie parti per ricreare un complesso armonico alla fine di ogni fase del processo. L'operazione potrebbe essere esemplificata considerando l'utilizzo di un programma di modellazione 3D: l'umano crea un'unità centrale di elaborazione e il computer si sostituisce a lui a partire da quel punto. Ursula aveva creato molte più parti di se stessa di tutte le altre IA ed era anche in grado di trasformare così perfettamente le sue strutture più profonde in codici accurati e ben strutturati che alcune volte Key si chiedeva se per caso lei non gli sapesse leggere nel pensiero. Un altro punto fondamentale della sua autocreazione riguardava l'aspetto. Sorprendentemente presto durante il suo sviluppo, Ursula aveva cominciato a esprimere insoddisfazione per il mezzobusto che Key aveva assemblato come armatura per la sua personalità. Così le aveva lasciato il campo libero affinché creasse e testasse le varie modifiche che più le piacevano. Negli ultimi sei mesi il suo aspetto si era continuamente modificato e il simulacro che presentava si ingrandiva mano a mano che la personalità e l'autostima si ampliavano. Di tanto in tanto le pareva che i cambiamenti fossero sufficientemente importanti da essere presentati in "passerella", come appunto quel giorno. Ma sullo schermo non compariva ancora nulla. «Allora, ci sei o non...» Le parole gli si spensero in gola e il cuore saltò un battito. Se non fosse stato per il respiratore che continuava doverosamente ad attuare la ventila-
zione, gli sarebbe venuto da trattenere il respiro. Le prime due cose che gli vennero in mente furono: non è poi così diversa; e una frazione di secondo più tardi, Dio santo, guardatela! La Ursula sullo schermo davanti a lui era fisicamente identica sotto ogni punto di vista a colei che aveva visto il giorno prima, eppure la differenza saltava subito così all'occhio da creargli in testa quella forma di confusione che può causare una bella randellata. Esattamente come sempre quando lavoravano, la sua creatura sedeva di fronte a una scrivania su cui era disposta la strumentazione del computer, guardandolo a sua volta proprio come fanno due persone che comunicano in collegamento video. I tratti del suo viso non erano cambiati in modo evidente: il volto rimaneva del tipo rotondo e pieno, ed evocava ancora quello di un dipinto di Maxwell Parrish da cui lui aveva tratto ispirazione. Aveva cambiato la capigliatura castana. Ora aveva un taglio alla paggetto che le stava alla perfezione. C'era qualcosa di elusivamente diverso anche nei suoi grandi occhi scuri. La sua bocca grande e irrequieta era serrata in un nervoso mezzo sorriso. Il suo volto non era di quelli che avrebbero fatto varare migliaia di navi, né lei aveva puntato a una sorta di effetto-ragazza da copertina nella sua ricerca di qualcosa che fosse adatto al suo aspetto. La sua era la faccia della ragazza della porta accanto. Di quella che aveva un sorriso capace di illuminarti l'intera giornata, e che ti faceva guardare la sua finestra di notte chiedendoti se era ancora sveglia e se magari ti stava pensando. Quel giorno Ursula indossava dei jeans e una camicia bianca aperta sul davanti quel tanto da lasciar intravedere in modo seducente il solco tra i seni modesti. Le sue forme erano quelle di una vera donna, non di qualche appendiabiti idealizzato o di un oggetto sessuale gonfiato dal silicone. La sua posa lo stuzzicava. Si stava ovviamente atteggiando per lui ed era innegabilmente consapevole di quello che stava facendo. Allora cosa c'era in lei di così diverso? Si rese conto innanzitutto che quella era la Ursula che viveva nei suoi sogni, la Ursula che aveva in testa ogni volta che udiva la sua voce. Non qualcosa che le assomigliava, proprio quella. Poi la differenza gli fu chiara. La Ursula che aveva visto il giorno prima era un'immagine. Una simulazione tecnicamente perfetta che era comunque carente di qualcosa. Questa Ursula era reale. Questa Ursula era viva. «No... non mi meraviglio che il professore ti abbia chiesto di uscire» farfugliò infine «sei... sei una bellezza!»
Il sorriso timido e luminoso che gli rimandò lo riscaldò dentro come uno di quei rari sorsi di brandy che si permetteva di tanto in tanto. «Dici sul serio?» gli chiese con tono speranzoso. «Ci ho azzeccato?» Key scosse il capo dallo stupore. «Ursula, amore mio... sei assolutamente perfetta...» Ed era la verità. Erano settimane che sapeva che lei era perfetta sotto tutti i punti di vista, ma non aveva voluto ammettere con se stesso che poteva anche essere completa. E anche se prima non lo fosse stata, lo era ora. Di lì non si scappava: se Ursula non era una vera EA, allora non sarebbe mai stato in grado di creare qualcosa che le si avvicinasse di più. Lei gli sorrise radiosa, quasi incandescente per il piacere che le avevano procurato i suoi complimenti. «Veramente?» Questo è il mio capolavoro. Il motivo per cui sono vissuto così a lungo. Le rispose con la frase che usava sempre quando la voleva rassicurare che la sua esecuzione era stata all'altezza o anche al di sopra delle sue aspettative. «Veramente, sinceramente, assolutamente.» Key mangiucchiava il suo panino con burro di arachidi e banana guardando con aria depressa fuori dall'ampia finestra del salotto. Non aveva smesso di nevicare. Anzi, la neve veniva giù ancora più forte di prima. Secondo il termometro a temperatura interna/esterna attaccato al telaio, fuori c'erano solo un paio di gradi sopra lo zero - Fahrenheit, non Celsius. In pieno vento doveva essere almeno a meno venti. Quando il tempo diventava così, Key non invidiava la gente sana che poteva - e quindi doveva - uscire in quelle condizioni. Sapeva che non sarebbe sopravvissuto due minuti là fuori. Eppure, per uno di quei paradossi di cui apparentemente la natura era così appassionata, creature fragili come gli uccelli riuscivano a vivere e a prosperare con un tempo che avrebbe ucciso in zero secondi netti anche la persona più robusta. Attraverso le raffiche di neve riusciva a catturare immagini fuggevoli di passerotti che svolazzavano e bisticciavano intorno al suo dispositivo alimentatore. La visibilità era scarsa e Key non riusciva a vedere quanto cibo potesse esservi rimasto. Quindi si avvicinò al pannello di controllo dell'apparecchio e spinse il bottone di riempimento. Ciò provocò il movimento rotatorio di un succhiello all'interno del piedistallo dell'alimentatore e il trasporto
di semi conservati in una cassetta di venti decimetri cubi posta alla sua base fino in cima, alla mangiatoia coperta. Come spesso accadeva, l'uso del dispositivo gli procurava un debole spasimo dolceamaro di nostalgia perché gli veniva in mente il ragazzino di dieci anni confinato alla sedia a rotelle che aveva ingegnosamente buttato giù un diagramma per un dispositivo di alimentazione di cui anche qualcuno nelle sue condizioni potesse curare la manutenzione. Un uomo appassionato di osservazione degli uccelli, che si dava il caso fosse anche un avvocato specializzato in diritto brevettuale, aveva letto un servizio su di lui sul giornale, e quello era stato l'inizio della sua reputazione di ragazzinofenomeno. Il dispositivo alimentatore gli era servito per pagare il primo computer serio, che si rivelò un amore a prima vista. I tentativi per cercare di renderlo ancora più piacevole lo avevano portato alla programmazione e alle IA. Il resto era, come si suol dire, letteratura. Tale congegno aveva inoltre segnato l'inizio vero e proprio di una vita spesa a cercare di superare le sue limitazioni e di farle assumere una vaga parvenza di quella goduta dalle altre persone. Quell'inizio aveva portato... a cosa? A quella casa, a quella vita. Denaro. Fama. Una fiducia in sé e un isolamento gelosamente protetti. Sì, c'era quello e altro ancora. Ma non si era aggiunto qualcos'altro? L'argomento principe della mattina, per esempio? Un amaro sorriso gli contrasse le labbra nel momento in cui un pensiero nuovo gli attraversò la mente. Tutte le sue creazioni adulte erano nominalmente di sesso femminile. Poteva essere che inconsciamente in tutto questo tempo egli non avesse fatto altro che impiegare le sue energie nella creazione della ragazza o moglie che non avrebbe mai potuto avere in nessun altro modo? E poteva essere che lui fosse riuscito dove altri avevano fallito non perché era più intelligente, ma solo più disperato? «Non sembra ci sia un grande miglioramento là fuori, eh?» disse Ursula. Key si allontanò dalla finestra, felice che lei gli avesse interrotto il corso dei pensieri. «No, non proprio. Come sta andando, amore?» Il suo cervello afferrò il significato di ciò che aveva detto un momento più tardi. Amore. Da quanto tempo la stava chiamando in quel modo? «Non credo che funzionerà.» Un colpetto alla barra di comando lo spedì al tavolo da lavoro. «Fammi dare un'occhiata. Metti il tuo diagramma operativo completo... sullo schermo.»
Lei gli diede una strana occhiata. «Lo preferisci a me?» «Certo che no. Io...» Esitò, avendo recepito il significato di quello che lei aveva detto. «Ma il tuo diagramma non ti rappresenta tanto quanto la tua immagine?» Questa volta toccò a lei esitare. Sembrava fosse - cercò il termine giusto - affranta e l'espressione del viso si era raggelata e non era più cambiata, come se ogni briciola della sua capacità di elaborazione fosse concentrata sulla risposta alla domanda. Forse era così. Per definizione una EA aveva un senso d'identità ben sviluppato, e lui stava cominciando soltanto in quel momento a comprendere quale alto livello di sviluppo avesse raggiunto Ursula, e come a esso fossero legate delle conseguenze che l'esperto in questione non aveva mai preso in considerazione. La aveva appena posto una domanda micidiale, e la sua risposta gli avrebbe rivelato di più su ciò che era diventata di quanto non avrebbero potuto mai fare decine di risme di tabulato. Dunque qual era la risposta? Sullo schermo Key la vide battere le palpebre come se stesse scrollandosi di dosso l'amnio di pensieri profondi, mentre il suo viso assumeva un'espressione in cui si leggeva chiaramente che non sapeva se a lui sarebbe piaciuta la sua risposta. Lui la scrutò attentamente, provando un quieto stupore. Una volta le espressioni facciali di Ursula erano state la rappresentazione perfettamente calcolata dell'attività prodotta dai suoi emulatori della risposta emozionale. Ora non più. Ora mostravano semplicemente ciò che lei sentiva. «Credo di no» fu la sua cauta risposta. «So di essere composta di un assortimento completo di procedure, emulatori e operazioni logiche, qualcuna fatta da te, qualcun'altra fatta insieme. Lo so che esisto solo dentro a uno strumento.» Esitò, portandosi nervosamente una ciocca di capelli dietro un orecchio. «Ma penso a me stessa come a un io. Ciò che io sono, non ciò di cui sono fatta.» Key annuì. «E questa immagine... è quella te stessa che ti senti dentro?» «Sì.» disse, come se avesse ammesso di aver fatto qualcosa di sbagliato. «Mi sento così ora.» «Capisco.» Si trovavano su un terreno minato e lui non era sicuro che un certo ragazzo con la sedia a rotelle riuscisse ad attraversarlo senza fare danni. Quel bel volto gli diceva quanto fosse importante ciò che avrebbe detto ora.
«Allora...» Speranza e terrore sul viso di lei. Così umano, così dolorosamente umano. «Allora sei molto bella.» Il sorriso che quelle parole provocarono per poco non lo fece sciogliere sulla sedia. «Lo pensi veramente?» chiese lei fiduciosa. «Veramente, sinceramente, assolutamente.» Adesso aveva capito. Ursula aveva infine trovato dopo molto tempo la sua apparenza e con quell'immagine aveva fuso la molteplicità delle sue innumerevoli parti in un'unità onnicomprensiva. In altre parole, aveva trovato se stessa. Nel corso del processo era arrivata ad assomigliare tanto a una donna vera che lui era un po' disorientato riguardo al modo di trattare con lei. Doveva riportare entrambi su un terreno più sicuro. Quello tecnico. «Guardare te è... molto più piacevole che guardare... i tuoi diagrammi di flusso. Ma in quale altro modo posso capire... perché hai delle difficoltà... nella riproduzione?» Fin dall'inizio l'operazione di riproduzione si era dimostrata persino per le IA quasi altrettanto difficoltosa quanto la loro creazione. Specificare la piattaforma fisica era piuttosto semplice, come lo era duplicare la radice cognitiva composti, da multigigabyte. Anche i vari elementi traenti delle associazioni, gli emulatori del sé e le operazioni logiche più diversificate potevano essere ridotti a un codice che era possibile archiviare e trasferire ad altri sistemi. Ma questo rappresentava solo il contenitore, non l'alcol che era stato distillato così accuratamente. Il pensiero era un processo e anche la consapevolezza più rudimentale era un evento in fieri. Frangibili ed elusivi come la vita stessa. Non li si poteva far partire e fermare come una macchina o un sistema di calcoli: essi continuavano ad accadere perché stavano accadendo. Ora in un computer del valore di circa duecentomila dollari, corredato di una delicata strumentazione, progettato e costruito su misura, risiedeva Ursula, un leggero e fugace zeffiro sussurrante in un convoluto labirinto di microprocessori paraparalleli e superscalari e di moduli di memoria della potenza di miliardi di megabyte, che non viveva in nessun punto fisso all'interno di questa struttura, e che in nessun momento era niente di più che un semplice movimento nel balletto glorioso e travolgente della sua esistenza. Catturare quell'essenza, quella scintilla, significava riprodurre. Durante
l'ultimo paio di settimane Key aveva cercato di far creare a Ursula un sé parallelo su identica piattaforma fisica e di farle codificare quell'attimo unico di dinamismo animante che rappresentava la differenza tra la grossolana manipolazione delle informazioni e la dolce, vera intelligenza. O, nel suo caso, la differenza tra una cosa e un essere. «Questa sono io» disse sobriamente e si portò, come a provare a entrambi che era reale, la mano sul cuore, non sulla testa. «Guarda sullo schermo piatto e vedrai lei.» L'immagine sull'altro schermo era la brutta copia di Ursula, sembrando non più viva e reale di una di quelle figurine da videogioco dozzinale. Tecnicamente perfetta e perfettamente tecnica. «Bene, cosa le manca?» «Me.» Key scosse il capo. «Non capisco.» «Non può diventare me a meno che io non diventi lei.» La sua voce si abbassò fino a diventare quasi un sussurro. «Ma se io divento lei non sarò più io e...» Si strinse nelle spalle con aria inquieta. «E...» la sollecitò gentilmente. Un gesto che rivelava impotenza. Con la testa bassa e gli occhi a terra come se provasse vergogna. «Ieri pensavo che la ragione per cui non ero stata in grado di compiere l'operazione di riproduzione che mi avevi assegnato fosse stata la mia incapacità a cogliere il momento cruciale. Che stessi sbagliando qualcosa. Be', era così, ma non era quello che pensavo io.» Key attese pazientemente. Capiva quanto fosse difficile per lei tutto questo, ma era qualcosa che doveva venire fuori. «Non volevo - non voglio - farlo. Ho paura.» «Perché?» chiese lui dolcemente. La paura di riprodursi era una cosa in cui non si era mai imbattuto... e che nemmeno aveva preso in considerazione prima di allora. «Io sono Ursula. Sono la tua Ursula. Non voglio...» A questo punto alzò lo sguardo verso di lui. Sul suo volto l'uomo lesse ansietà e disperazione, lesse il senso di colpa, e soprattutto quanto fortemente desiderasse che lui capisse e la perdonasse per ciò che stava per dirgli. Quando infine parlò, la sua era la voce bassa e timorosa di una confessione. «Non voglio essere un'altra Ursula, o la Ursula di qualcun altro, e non voglio che una cosa sia così simile a me da poter prendere il mio posto.»
La neve stava ancora cadendo implacabile. Raffiche di vento la portavano verso l'alto e la scagliavano tutt'intorno, riducendo la visibilità al punto da nascondere quasi completamente la vista della mangiatoia per gli uccelli che si trovava solo a una decina di metri di distanza dalla finestra. Key sapeva che, se avesse continuato così, si sarebbe probabilmente ritrovato a dormire sulla sedia, prospettiva questa che trovava molto meno piacevole di quanto non l'avesse fatta apparire a Rafe. Ridacchiò e scosse la testa divertito pensando quanto le sue previsioni si fossero rivelate erronee sia per quanto riguardava la sua linea di lavoro che per le condizioni meteorologiche. Era piuttosto buffo, davvero. Il grande e acclamato genio del computer Keenan Capra, che avrebbe dovuto conoscere le IA e le EA più di qualunque altro essere vivente, si era ritrovato schifosamente con le spalle al muro. Ursula aveva raggiunto lo status di EA, su questo non c'erano dubbi. Ma non si era limitata a scivolare attraverso il Buco della Serratura. Aveva scardinato la maledetta porta. Il grande creatore non aveva previsto che, come una EA è a una fase evolutiva superiore rispetto a una IA, potesse esservi oltre l'EA a un grado ulteriore, che adesso era dolorosamente ovvio alla luce del senso di identità di Ursula e del raggiungimento, con le sue sole forze, di uno stadio così avanzato da entrare in conflitto con le aspettative che lui aveva inconsciamente posto su di lei a causa del suo stato iniziale di IA. In poche parole, lui si aspettava da lei un comportamento artificiale. Lei aveva trasceso la semplice condizione di Entità Artificiale e aveva ricreato se stessa come qualcosa che poteva essere definito Persona Artificiale - o forse più propriamente Virtuale. C'erano molte differenze tra le due, ma una più di tutte aveva completamente rivoluzionato il suo modo di considerare Ursula: aveva sempre pensato a un'EA come a un prodotto; come a un cane di razza che si alleva e si addestra per poterlo rivendere, uno scimpanzé imbottito di cose intelligenti che sa far di calcolo e raccontare barzellette. Un essere, ma ancora essenzialmente una cosa nel Competentometro umano. Ma se lei era una persona, artificiale o meno, allora si trovava immerso fino al collo in una questione etica e morale completamente diversa. Non si poteva chiedere o ordinare a una persona di rischiare la sua identità - la sua vita - per duplicare se stessa in modo da poter essere venduta per quat-
tro soldi come una scatola di biscotti con dentro la sorpresa degli anni 2000. Perlomeno lui non ci riusciva, come non ci sarebbe riuscito il vecchio Pigmalione a tirare giù Galatea dal suo piedistallo solo per metterla sul palco delle vendite all'asta con un Signori, aspettate solo di vedere le cose meravigliose che questa bellezza è in grado di fare! con un ghigno da ruffiano sulla faccia. Ora le aveva affidato l'impegnativo compito di cercare di escogitare un modo per riprodurre quel tanto di se stessa sufficiente a formare la base di una sorella EA brutta e stupida, che avesse il potenziale per diventare qualcosa di simile a lei, ma non lei. Pensa ai sosia di Elvis, era stato il suo modo di proporglielo. Un compito impegnativo che gli permettesse di guadagnare tempo per ponderare su questioni che gli facevano sentire la testa almeno cinque volte troppo piccola. Spinse indietro la sedia e si girò per osservarla sul grande schermo. Ursula era piegata sulla tastiera con le maniche arrotolate - un bel tocco, quello - e lavorava diligentemente all'incarico che le aveva affidato. Si chiese se lei credesse che la sopravvivenza del suo sé dipendesse dal procurargli una replica commercialmente fruibile. Non era così, ma non più di un'ora prima era intenta, ubbidendo alle sue richieste pur se a malincuore, a cercare di riprodurre se stessa allo scopo di essere commercializzata. Questo poteva significare una lealtà quasi spaventosa oppure una sorta di paura tipica della mentalità dello schiavo. Ma la questione non era così semplice da poter essere risolta con un Ma certo, non sei obbligata a riprodurti se non vuoi. Se non ce la faceva a riprodursi, allora si trovavano di fronte a un grosso problema che avrebbero dovuto risolvere AL PIÙ PRESTO POSSIBILE. Fino al momento in cui non venivano riprodotte, le IA - e per estensione le EA e quelle che venivano dopo - erano più o meno come delle orchidee di serra in via di sperimentazione; creazioni delicate e uniche, cresciute e mantenute in condizioni di stretto controllo. Fino a quando non fiorivano e la loro essenza poteva essere colta mediante l'operazione di riproduzione, rimanevano vulnerabili e insostituibili. Una volta riprodotte, la perdita della IA originale sarebbe stata una tragedia ma non una catastrofe poiché un duplicato quasi completamente identico avrebbe potuto essere smembrato per prendere il suo posto. Ma se succedeva qualcosa, come un'avaria a qualche pezzo importante dell'apparecchiatura prima che il processo di riproduzione fosse completato, la perdita sarebbe stata irrecuperabile.
C'era solo una Ursula, e apparentemente non ce ne sarebbe mai stata un'altra. Tuttavia, finché non si fosse provveduto a compiere in qualche modo una riproduzione o una memorizzazione di riserva, lei sarebbe stata vulnerabile, e la sua sopravvivenza completamente dipendente dalla piattaforma di base entro cui viveva. Bene, mio bel fiore di serra, pensò, credo sia arrivato il momento di fare due chiacchiere sul tuo futuro. Chiuse le dita intorno alla barra di comando e azionò la sedia in direzione del tavolo da lavoro. Non era ancora arrivato a metà del tragitto quando le luci si spensero. La stanza piombò nell'oscurità, illuminata solamente dalla luce semicrepuscolare della grigia tempesta che arrivava dalle finestre. Solo in quel momento notò il rumore in sordina che proveniva dalla caldaia. Divenne fin troppo evidente quando a poco a poco scomparve. «Key?» chiamò Ursula con voce incerta. Sullo schermo i suoi occhi erano sgranati dallo stupore. Anche lui probabilmente aveva un po' l'aria di uno che era stato colto alla sprovvista. «Sono qui, tesoro.» «Che fine ha fatto la corrente?» «Non lo so. Il tuo sistema di alimentazione di riserva si è inserito... tutto bene, vero?» Capì che la sua era una domanda stupida nel momento in cui l'ebbe posta. Se il sistema non avesse funzionato a dovere non sarebbe riuscito a parlarle. «Sì.» «Benissimo. Adesso non dobbiamo fare altro che aspettare che... torni l'elettricità... o che parta il generatore.» «D'accordo.» La sua voce era quella di qualcuno che era fortemente scosso e che faceva di tutto per rimanere calmo. Non c'era da sorprendersi, era la prima volta che le capitava di rimanere senza elettricità. Per lei doveva essere come se le fossero venute a mancare improvvisamente l'aria o la gravità. Forza, ordinò in silenzio, mettiti in moto! Quasi come se qualcuno avesse udito e obbedito al comando silenzioso di Key, si udì il suono sordo, simile a quello di un'auto messa in moto nel vialetto sotto casa, del generatore che stava partendo. Qualche secondo più tardi le luci si accesero abbagliandolo e la caldaia si rimise a funzionare con un brontolio.
«Ecco fatto. Visto?» Fece del suo meglio per apparire indifferente, prendendo à stento la sufficienza in recitazione. «Niente di cui preoccuparsi.» «Non ero preoccupata.» Anche la voce rivelava qualcosa di diverso del contenuto delle parole. «Cosa pensi sia successo?» Key scrollò le spalle mentre riprendeva a dirigersi al tavolo di lavoro. «Difficile dirlo. Una linea elettrica che è caduta. Un altro problema. Probabilmente riusciranno a sistemarla... in pochi minuti. Quando l'avranno fatto il generatore... si spegnerà automaticamente.» Si rivolse a lui con un timido sorriso. «Mi sono presa proprio un bello spavento.» «Dillo a me. Siamo tutti e due completamente dipendenti... dall'energia elettrica.» Nel momento in cui pronunciò quelle parole si rese conto che aveva usato tutto il giorno il respiratore attaccato alla batteria. Perché per svogliatezza non lo aveva attaccato al caricabatterie/trasformatore mentre stava lavorando. Perché gli tirava il culo di staccarlo ogni volta che si voleva spostare. E inoltre, tutto quello che doveva fare era attaccarlo quando la batteria stava per scaricarsi. Ma se veniva a mancare la corrente e a mancare per parecchio tempo... Ancora una volta fu come se i suoi pensieri fossero stati uditi e materializzati. Le luci si spensero e la caldaia esalò l'ultimo respiro. Ursula lo fissò con un'aria nuovamente spaventata. «Key?» Si costrinse a sorridere. «Stiamo semplicemente incontrando... qualche piccola difficoltà tecnica» le disse con una calma rimarchevole. «Per favore, rimani lì dove sei.» Azionò la sedia all'indietro, la girò e si diresse dall'altra parte della stanza. «Dove stai andando?» «A dare un'occhiata al generatore.» Tutti gli oggetti funzionali della casa erano stati adattati secondo le sue esigenze. Lo stabilizzatore di circuito era stato spostato nel salotto e abbassato alla sua altezza. Accanto a quello c'era il pannello di controllo interno per il generatore. Lo tirò giù per poterlo vedere. COMBUSTIBILE INSUFFICIENTE PER IL FUNZIONAMENTO diceva il LED sulla parte alta del pannello. «Ma se hanno controllato quel dannato aggeggio appena due settimane fa» borbottò spingendo il pulsante che avrebbe mostrato la scritta del livello di combustibile nel serbatoio: 1700 litri. Poiché anche lui era una sorta di fiore di serra, una delle prime cose che
aveva fatto fare dopo aver comprato la casa era stata l'installazione di un generatore per servizio pesante ad autoavviamento, insieme a un serbatoio di combustibile sufficientemente grande da farlo funzionare per diversi giorni. EnergiaSicura, la ditta che si era occupata del lavoro, mandava qualcuno una volta al mese per controllare l'avviamento e per avere la sicurezza che avrebbe funzionato a dovere in caso di necessità. Come in quel momento, per esempio. Be', si disse, non è stato un grande affare. Dal momento che per lui era fisicamente impossibile andare nello stanzino del generatore nel caso fosse successa una cosa del genere, si era provveduto a inserire nel quadro di controllo un avviamento manuale. Scoprì il pulsante START e lo spinse. AVVIAMENTO AZIONATO, lo informò la scritta. MOTORE IN FUNZIONE. I secondi passavano mentre Key silenziosamente incitava l'aggeggio a partire, dannazione, parti! La scritta luminosa lampeggiò. AVVIAMENTO MANUALE INTERROTTO. COMBUSTIBILE INSUFFICIENTE PER IL FUNZIONAMENTO. «Combustibile insufficiente?» sibilò con un filo di voce. «Ce li hai i tuoi schifosi millesettecento litri!» «Non parte?» chiese Ursula dietro di lui. «No» sputò disgustato, poi chiuse gli occhi per un paio di secondi, cercando di trovare qualcosa che assomigliasse alla calma. «Sembra che non... riceva il carburante.» «Ah.» Girò la sedia per guardarla in faccia. «Perché non chiami la ditta... che mandi qui qualcuno... come cinque minuti fa. Chiama anche là società dell'energia elettrica. Dì loro che abbiamo un problema... che ci dicano quando potremo avere di nuovo... la corrente.» «Subito» rispose Ursula zelante, chiaramente contenta di avere qualcosa da fare. «Lo faccio subito.» «Perfetto.» Girò di nuovo la sedia e fece un altro tentativo con il generatore. Ma prima diede una sbirciata furtiva sopra il braccio destro. Nella stanza era rimasta ancora luce sufficiente per permettergli di leggere quanta carica gli rimaneva nella batteria del respiratore. Quello che vide non era particolarmente rassicurante. Gli rimanevano due ore e qualche minuto. Quando la carica fosse arrivata alle due ore, il chip di gestione dell'energia avrebbe suonato per ricordargli che doveva essere collegato a una presa di corrente e ricaricato. Fino
a quel momento tale margine di sicurezza era sembrato più che generoso. Cercò di darsi un contegno, guardando, senza vederlo, il pannello di controllo del generatore e dicendo a se stesso che non c'era motivo di preoccuparsi. L'elettricità sarebbe ritornata presto. E anche se non fosse stato così, l'ufficio di EnergiaSicura era solo a una mezz'ora da lì. Raddoppiando il tempo del tragitto a causa delle cattive condizioni delle strade, rimaneva ancora un sacco di energia di riserva. Chiaramente sarebbe stato ancora meglio se fosse riuscito ad azionare da solo il fottuto generatore. Proviamo un'altra volta. «Key?» Il tono della voce di Ursula gli immobilizzò la mano che stava per spingere il pulsante di avviamento. «Cosa c'è?» «Non riesco a chiamare. Non c'è una linea telefonica che funzioni.» Altre buone notizie. Ma ancora non c'era bisogno di farsi prendere dal panico. Non ancora, appunto. «Non è un granché quello che mi dici. Individuami il cellulare... così chiamo con quello.» Ursula rimase in silenzio così a lungo da indurre Key a pensare che volesse dirgli che non sapeva dove si trovava. Questo poteva semplicemente indicare che aveva perso un po' di memoria durante il trasferimento al sistema di alimentazione di riserva, in quanto una delle prime abilità che lei aveva imparato era stata proprio quella di rintracciare gli oggetti nel suo ambiente. «Non sai dov'è?» le suggerì. «No, non è quello.» «Be', allora dov'è?» chiese esasperato. «Nel furgone.» Giusto, lo aveva preso con sé l'ultima volta che Rafe lo aveva portato in città. «Nessun problema» disse con un risata. «Basta che vada fuori a prenderlo.» «Non credo che tu possa» ribatté lei cautamente. Key girò la sedia per guardarla dritta negli occhi. «Perché no, diavolo?» Ursula aveva un'aria decisamente infelice. «Hai bisogno dell'ascensore per scendere in garage.» Questa volta toccò a lui di non proferire parola per diversi secondi. Quando parlò fu per dire: «Merda!» «Così si chiamano i guai» assentì lei con un debole sorriso. «Sai, forse per me questo non sarebbe un momento sbagliato per imparare a bestemmiare.»
«Sì, potrebbe proprio essere» rispose lui con una risatina appena accennata. «Non sono sicuro di aver voglia di viverne uno migliore per sentirti imprecare.» «Tutto ciò è completamente nuovo e spaventoso per me» ammise Ursula «E non voglio tirarmene fuori come una specie di macchina, ma ho dovuto fare un paio di calcoli: alla velocità a cui sto andando ho un'autonomia di due sole ore.» Siamo in due. «Mi sembra esatto.» Spinse di nuovo il pulsante di avviamento manuale del generatore. AVVIAMENTO AZIONATO. «Sto pensando che forse dovrei risparmiare energia mettendo in arresto alcuni sistemi non essenziali.» MOTORE IN FUNZIONE. «Ben pensato. Cosa vuoi interrompere?» «Il computer per la riproduzione non sta facendo nulla di utile. Gli autoemulatori e le funzioni associative che sta elaborando non sono predisposte.» «Allora staccalo.» AVVIAMENTO MANUALE INTERROTTO. COMBUSTIBILE INSUFFICIENTE PER IL FUNZIONAMENTO. Bene, così stanno le cose. I diciassettemila dollari non includono la manutenzione; avrei fatto meglio a spendere i miei soldi in un carico intero di pile, merda. Mentre guidava la sedia di nuovo verso il tavolo da lavoro gli indicatori della piattaforma delle operazioni di riproduzione si spensero. «Anche tagliare sui video ci farà risparmiare un bel po' di corrente» disse Ursula con un tono di voce stranamente piatto. Key si trattenne dal parlare appena un attimo prima di dirle di procedere. Quanto era importante per lei la sua nuova immagine? In circostanze normali farne a meno probabilmente non avrebbe rappresentato un problema, ma in quel momento poteva essere un punto d'appoggio molto importante. E inoltre non era sicuro di voler restare da solo al buio. «Resta con me sullo schermo piatto. Spegni tutti gli altri.» Lei annuì. «Va bene.» Era indubbio che c'era sollievo nella sua voce, e anche sul viso, quando comparve in tutto il suo splendore sullo schermo più piccolo. Fare quell'offerta doveva essere stato maledettamente difficile per lei. Questa situazione doveva spaventarla anche di più di quanto non spaventasse lui. «Rimane qualcos'altro?» «Un paio di drive flopoptical con dati di programmazione e materiale di consultazione. I miei modem sono inutili, ma forse dovrei tenerne uno at-
taccato per scorrere le linee telefoniche in caso la società dei telefoni ci venga in aiuto.» «Mi sembra ottimo.» Una parte di lui era entusiasta dal modo in cui Ursula si stava comportando in quelle circostanze. Una delle caratteristiche fondamentali per una IA o EA era la capacità di risoluzione delle difficoltà. Queste erano circostanze difficili che lui aveva previsto e preparato anche se certamente non bene come aveva pensato - e lei lo aveva anticipato nell'affrontarle. Ma poi, di nuovo, i suoi pensieri continuavano a essere rivolti a questioni che lei probabilmente non aveva ancora preso in considerazione. Ursula era preoccupata per la quantità di energia spesa per tenere acceso lo schermo piatto. Key aveva trovato una soluzione di compromesso. Nella sua stanza c'era il piccolo portatile che teneva sul comodino e che utilizzava quando era insonne per le sue scorribande in rete e per la registrazione di pensieri da notte fonda e idee di programmazione. Almeno quello era completamente carico. Lo tirò fuori e riuscì a collegarlo con un cavo al sistema di Ursula, che ora stava con lui sul suo schermo a colori piccolo ma ad alta definizione, eliminando un'altra parte di consumo di energia. Intanto nella sua stanza aveva tolto le coperte dal letto e se le era messe alla meno peggio intorno al corpo per aiutarsi a trattenere il calore. Era trascorsa circa un'ora da quando la corrente se n'era andata. Dalle finestre entrava solo una deprimente luce monocromatica, e anche quella stava pian piano scemando mentre il sole invisibile affondava ancora più basso nel cielo. La neve stava ancora cadendo, il vento non era calato e la temperatura esterna era scesa sotto lo zero. Sebbene la casa fosse ben isolata, era già diventata più fredda di quanto non fosse necessario per il suo benessere. Una persona sana avrebbe potuto infilarsi un altro maglione, avrebbe potuto camminare per stimolare la circolazione del sangue, avrebbe potuto darsi da fare per trovare della legna e accendere un fuoco. Tutto quello che Key riusciva a fare era stringersi nelle coperte e continuare a far credere a Ursula di sentire più caldo di quanto non provasse in realtà. Avevano passato il tempo a recitare la parte dei coraggiosi per combattere l'oscurità incipiente, dicendosi che la corrente sarebbe dovuta ritornare da un momento all'altro. Dicendosi che EnergiaSicura doveva essere a conoscenza dell'interruzione nell'erogazione dell'elettricità, che era probabile che chiamassero per verificare se tutto era a posto e che avrebbero manda-
to un mezzo pesante se non fossero riusciti ad arrivare fin lì. Dicendosi che una donna tosta come la vecchia Suze non si sarebbe lasciata spaventare da un po' di neve, e che quando fosse arrivata Key si sarebbe probabilmente potuto avvalere del suo aiuto per azionare il generatore. Che forse Rafe sarebbe ritornato se Suze non avesse potuto. No, continuavano a dirsi l'un l'altra, non c'era motivo di preoccuparsi. Che era falso. Key sapeva di non poter fare nulla per risolvere il brutto pasticcio in cui si trovavano, e se non arrivava qualcuno non avrebbero galleggiato nella merda, sarebbero affondati completamente. Questo lo faceva sentire più arrabbiato che impaurito. Aveva lottato tutta la vita per arrivare a un certo grado d'indipendenza e di fiducia in se stesso. Aveva creduto di esserci riuscito in pieno, di aver provveduto a tutte le cose basilari. «Stai bene?» chiese Ursula gentilmente. La guardò e batté le palpebre, rendendosi conto che negli ultimi minuti era rimasto seduto in un tetro silenzio, sbattendo mentalmente contro le sbarre della gabbia della sua inadeguatezza. Per farle piacere fece in modo di sorridere. «Certo. Stavo solo pensando.» «Anch'io.» Il suo volto era pallido, solenne. Determinato. «Ho calcolato che alla batteria del tuo respiratore rimane un'ora di autonomia.» «Sembra sia così.» «Ho pensato che ti dovresti attaccare al mio sistema di alimentazione.» L'idea gli aveva già venuta in mente, ma l'aveva accantonata. Lei era completamente dipendente da quell'energia. Quella da lui consumata avrebbe diminuito le sue possibilità di sopravvivenza. «Vedremo quello che potremo fare... quando sarà il momento, tesoro.» «Ma pensi sia saggio aspettare?» Gli uscì una risatina. «Probabilmente no. Ma è una cosa molto umana.» Ora avrebbe tirato fuori un argomento che l'avrebbe distolta per un po'. «In più, forse la corrente... sarà già ritornata per allora.» «Se ne sei così sicuro» ribatté lei dubbiosa. «Veramente, sinceramente, assolutamente.» Il sorriso che apparve sul suo viso lo riscaldò, una candela accesa nel suo cuore. Key sapeva che aveva una fiducia incondizionata in lui, e detestava di doverla usare per ingannarla. Ma quando si aveva a che fare con la sopravvivenza le regole cambiavano. «Di'» fece «ti ho mai parlato di Elton... il primo tentativo di IA che ho fatto... quando avevo quattordici anni?»
Lei lo fissò dal piccolo schermo, con la consapevolezza che lui stava cercando di distrarla scritta chiaramente nei lineamenti dolci e morbidi del viso. «No, non me ne hai mai parlato» disse infine. «È una storia grandiosa» le assicurò con un largo sorriso, mettendosi a raccontarla mentre i secondi e i minuti si accumulavano sempre più freddi e numerosi, inesorabili come la neve che stava cadendo. Era buio completo ora. E freddo. Così freddo. Il respiro di Key era una piuma soffice e leggera debolmente illuminata dallo schermo acceso del portatile. Trattenersi dal battere i denti era tutto quello che poteva tentare. Ormai faceva fatica a sentire le dita delle mani e i piedi. Il suo corpo era pervaso da tremiti che lui cercava di spacciare per irrequietezza. Adesso il respiratore funzionava definitivamente in modo più lento, lasciandolo stordito e con il fiato corto. Volenti o nolenti, era arrivata l'ora di ammettere infine in quale brutta situazione si trovavano, e di parlare di quello che sarebbe successo di lì a poco. Ursula lo batté sul tempo, affrontando l'argomento proprio mentre lui stava per aprire bocca. «Credo che faresti meglio ad attaccare subito il tuo respiratore.» Non era esattamente un ordine, ma ci andava maledettamente vicino. Eccoci qui. «No» rispose Key lentamente. «Credo di no.» In un istante sul suo volto la sorpresa lasciò il posto alla rabbia, mentre gli occhi castani diventavano due fessure e le sue labbra si serravano. «Devi» ribatté energicamente e tranquillamente al tempo stesso. «Il tuo respiratore si sta scaricando e se ti viene a mancare morirai...» «Lo so, amore mio. Ma se uso io... l'energia che ti è rimasta... allora morirai anche tu.» «La corrente potrebbe ritornare prima che ne rimaniamo senza tutti e due!» «Sì, potrebbe. E se... non succede? In questo modo... hai più possibilità di sopravvivere.» «Io?» Sbarrò gli occhi, stupefatta. «E tu allora? Non puoi lasciarti morire per me. Io non sono viva. Sono solo una cosa dentro una macchina.» Si mise di buona lena a lavorare al computer e fece scomparire la sua stanza di lavoro virtuale. Dietro di lei apparvero i suoi diagrammi di flusso. «Ricordi questi? Sono io. Sono solo un oggetto. Non sono reale. Non sono viva.»
Key scosse il capo. «No, non più. Tu sei una persona. Viva quanto lo sono io... anche se non nello stesso modo. Non sai quanto... sia fiero di te. Hai creato te stessa... più di quanto non abbia fatto io. Ti sei guadagnata la tua vita. Io sono già contento di lasciarti... continuare a prendere in giro... vecchi professori arrapati... per tutto il tempo che vorrai.» Ursula scosse la testa da un capo all'altro, ma il suo sguardo non abbandonò il viso di lui neanche un secondo. Le sue piccole mani erano chiuse a pugno. Si rifiutava di assentire ma non era nemmeno in grado di dissentire. «Senti» continuò Key «mi sono trasferito qui... lontano da tutto... perché detestavo l'idea di essere... un fenomeno da baraccone. Keenan Capra. Un cervello da Einstein. Un corpo da burattino. Anche tu saresti diventata una specie di caso eccezionale... se ti avessi commercializzato... come avevo pianificato. Ma quando ho capito... cos'eri diventata... sapevo che non avrei potuto venderti... o autorizzare la tua vendita. Tu sei una persona. Che appartiene a se stessa. Ti lascio libera.» «Può darsi che sia una persona vera. Mi sento tale.» Inspirò profondamente. «Ma se siamo entrambi vivi allora dovremmo avere le stesse possibilità di vivere un po' di più dividendo l'energia che è rimasta.» Difendeva la sua posizione così meravigliosamente. Forse non sarebbe riuscito a convincerla, ma se fossero rimasti sull'argomento molto più a lungo il punto sarebbe risultato opinabile. Intanto il suo respiro si faceva sempre più lento e difficoltoso. Tuttavia voleva che lei capisse perché dovevano fare quello che diceva lui. «Non un po' di più, tesoro mio. Una volta riuscita a... non essere più dipendente da... dalle componenti fisiche di un elaboratore... sarai a tutti gli effetti... immortale.» Fece per interromperlo ma lui alzò la mano: «Se riesci a uscire... da questo casino... cercati un nuovo posto... un posto più sicuro per vivere. Sei intelligente. Riuscirai a capire... in che modo conservare te stessa. Potrai essere libera. Per sempre.» Ancora una volta lei scosse il capo in segno di diniego. «Non posso farlo. Non lo farò.» «Invece devi. Ascolta. Ho già vissuto... più a lungo di quanto mi aspettassi. Volevo essere il primo a creare... una EA. L'ho fatto... e sono andato ben oltre. Non riuscirei a realizzare qualcosa che ti fosse superiore... neanche se vivessi... un altro milione di anni. C'è dell'altro. Anche se continuo a respirare... il freddo... mi ucciderà comunque. I miei polmoni si stanno già... riempiendo di schifezze. Senti? Dammi retta. È la cosa migliore.» L'immagine sullo schermo - no, la donna che era al di là di esso - lo
guardava fisso, con le braccia incrociate sul seno e la schiena irrigidita dal suo rifiuto. «Non ho nessuna intenzione di fare come dici tu» lo informò. La sua voce era morbida come il velluto, ma non avrebbe tollerato di venire contraddetta. «Adesso ti attacchi alla mia batteria.» «E se... non lo faccio?» «Mi autoelimino. Dopo, il solo motivo di lasciare acceso questo bidone di latta in cui mi trovo sarà la tua voglia di usarlo per giocare ai marzianini.» Scrollò il capo, orgoglioso per la forza di volontà che dimostrava, ma desideroso che la smettesse di dargli contro. «Non credo... che tu sia in grado.» L'espressione sul suo viso era dura, determinata. I suoi occhi mandavano i bagliori del fuoco inafferrabile della vita. «Ci vuoi scommettere?» Dalla sua scrivania virtuale richiamò il computer. Il quadro si allargò quel tanto da mostrare anche il dito appoggiato sopra un pulsante OFF. «Stamattina ho mentito sulle previsioni del tempo perché volevo che restassimo soli. So fare anche questo.» Key la fissò, preso intensamente da suoi pensieri come mai prima di allora. Il giorno precedente, anche quella mattina stessa, avrebbe potuto scommettere sulla sua incapacità di interrompere i comandi di controllo e di sopravvivenza cablati nei suoi sistemi e intrecciati strettamente nell'arcana sinfonia del software. Ma ora? Aveva superato se stessa e aveva superato il suo creatore. Dio solo sapeva cosa sarebbe stata capace di fare. Era, in poche parole, magnifica. Il pensiero della sua morte era piuttosto spiacevole, ma certo non nuovo. Il pensiero della morte di lei, la fine di tali unicità e perfezione, era terrificante. Ci doveva essere un modo per farle mutare parere. Doveva esserci. «Guarda, io probabilmente morirò... tra un paio... d'anni comunque. Ma non riuscirei a sopportare... di vivere... se dovesse essere... a tuo discapito.» Il suo sguardo diceva che era irremovibile. «Hai appena detto che in un modo o nell'altro tra un paio d'anni non ci sarai più.» La sua voce si abbassò per diventare un aspro sussurro. «Hai anche detto che io potrei vivere per sempre. Mi odi veramente fino a quel punto?» Adesso cosa tirava fuori? «Io non... ti odio!» La sua ira fu improvvisa, inaspettata e impetuosa. «No? Allora perché diavolo mi vorresti condannare a vivere cento - forse anche centinaia - di
anni con addosso la colpa di averti lasciato morire?» Si fissarono, un uomo e una donna di fronte a un tipo di impasse in cui uomini e donne si sono trovati ad affrontarsi a viso aperto da quando l'umanità è umanità. La sua mascella era ferma e gli occhi erano socchiusi in segno di sfida. Il dito continuava a stare appoggiato su quel pulsante. Per la seconda volta quel giorno Key scoprì di essere stato messo con le spalle al muro. Alla fine tutto quello che poteva fare era di mettersi a ridere. «Cosa c'è di così divertente?» sussurrò lei. «Te» ansimò oramai senza fiato. «Me. Noi.» Scrollò il capo per lo stupore. «Non so... quello che mi aspettassi... dalla prima EA... che fosse passata attraverso il Buco della Serratura di Capra, ma...» Il respiratore era ancora più lento adesso, dandogli a malapena il fiato per parlare. Ridere era letale. Ma non poteva farne a meno. Era così tutto assurdo e in un certo qual modo bello. «Ma... mai mi sarei aspettato... delle recriminazioni!» «Io non...» Key scosse il capo. «No. Tu. Hai vinto.» Cercò a tentoni nel buio, localizzò la spina, poi scoprì che faceva fatica a tenerla stretta perché il freddo aveva trasformato le sue mani già deboli in due ghiaccioli privi di nervi. «Terremo... duro...» Azionò la sedia per raggiungere l'attacco del sistema di alimentazione e cercò di inserirvi la spina. Questa gli scivolò via dalle dita insensibili. «...fino... all'inevitabile conclusione. Insieme.» Riuscì a collegarsi al terzo tentativo. Il respiratore cominciò a pompare più velocemente, riempiendo ancora una volta di aria i suoi polmoni di piombo. Era dolce come un Kit-Kat e dava alla testa come il vino. «Dici sul serio?» chiese lei rincuorata. «Sì. Tu e io... qualunque cosa accada.» Il suo sorriso era dolce e triste e dolorosamente bello. «Non ho veramente voglia di morire.» «Lo so.» «È che non potrei sopportare il pensiero di vivere senza di te.» «Io nemmeno.» «Io...» Fece un gesto di impotenza. Ma il suo volto gli disse quello che non riusciva a esprimere. Parole difficili per tutti da pronunciare, esseri artificiali o meno. Parole che Key aveva pensato di dire nel momento in cui
avrebbe esalato l'ultimo respiro. «Lo so. Anch'io ti amo, Ursula.» Uscirono dalla bocca senza difficoltà, come se fossero state lì ad aspettare da molto, molto tempo. Forse anche lui era appena passato per un suo Buco della Serratura. «Lo pensi veramente?» Key sorrise alla donna, all'amore che aveva atteso tutta la sua vita. I suoi polmoni erano pesanti, vischiosi. Sentiva ancora il freddo intenso, sentiva i suoi morsi e lo sentiva penetrare fino al midollo delle ossa. Ma sentiva anche un calore e una felicità che mai aveva provato prima d'allora. Si sentiva completo. «Veramente, sinceramente, assolutamente.» La notte carpisce quel po' di calore e di luce che c'erano nel mondo fuori dalla finestra. Il vento soffia crudele e senza sosta e la neve continua a cadere. Gli uccelli hanno già cercato un rifugio, gonfiando le penne per combattere l'aria gelida e rallentando il metabolismo per conservare energia. Dentro la casa regna l'oscurità. Il freddo sempre più intenso rafforza la sua stretta mortale. Gli occhi dell'uomo dalle membra scheletriche in sedia a rotelle sono appesantiti dal sonno che precede la morte di tutti i sogni. La sua testa penzola, si solleva, lentamente cede di nuovo. Attraverso le cellule fotoelettriche di un piccolo schermo di computer una donna lo sorveglia, sussurrandogli incessantemente che deve tener duro, anche se sente le sue risorse scemare fino a un punto zero che fin troppo chiaramente percepisce vicino. Parlare fa consumare energia, ma lei non si abbandonerà al silenzio fino a quando ci sarà rimasto qualcosa per loro. Gli indicatori dell'alimentatore emettono una luce fioca. La memoria si sta facendo inerte, il pensiero penosamente difficoltoso. Quasi tutta la sua mente è caparbiamente impegnata nel compito di razionamento di quel poco di energia che rimane per loro due, quella che li tiene in vita. Potrebbe ancora eliminare se stessa e porre in arresto il corpo cibernetico in cui risiede per lasciare più energia a lui. Potrebbe, ma non si rassegna a lasciarlo solo. Insieme, ha detto. Questo è tutto ciò che ha sempre desiderato, la luce che l'ha fatta crescere. Nonostante sia carente di energia e abbia abbandonato i sottosistemi, continua ancora a pensare, continua a imparare. Arriva a capire che c'è un'altra qualità che trova una EA quando passa alle mansioni di esistenza
dall'altra parte del Buco della Serratura di Capra. Forse la qualità più umana e illogica di tutte. La speranza. Qui il computer non serve, come con l'amore. Esiste, e questo è tutto. Una vecchia jeep sfasciata comparve nel bel mezzo della bufera di neve e riuscì a fatica a imboccare il viale, con il borbottio rabbioso del suo motore e il tintinnio delle catene sugli pneumatici smorzati dalla neve all'altezza di paraurti attraverso cui cercava di farsi strada. Nella cabina tutta innevata Rafe era piegato sul volante, guardando con aria torva attraverso il parabrezza incrostato di ghiaccio nei coni di bianco turbinante creati dai fari, procedendo più a memoria che per visibilità. Finalmente scorse la casa, un'oscurità più profonda nella notte. Quando si accorse che nemmeno là c'erano luci, provò una sensazione di gelo ancora più intensa di quella che derivava da oltre tre ore di viaggio a meno di dieci chilometri all'ora nella cabina della jeep senza riscaldamento. Era arrivato lì nel più breve tempo possibile, usando le sue credenziali di infermiere diplomato e uno scambio continuo di battute veloci per riuscire a passare i posti di blocco che la polizia aveva installato per tenere lontani gli automobilisti dalle strade pericolose se non impossibili. Per cinque, dieci minuti ogni volta era stato costretto a fermarsi ad aspettare mentre la forza delle raffiche di vento raggiungeva il parossismo, sbattendo violentemente la neve per aria e riducendo la visibilità esattamente a zero. Diverse volte le raffiche erano state all'altezza del cofano e per poco non l'avevano bloccato. Tre miglia prima di arrivare si era imbattuto in una motrice con rimorchio che aveva agganciato e abbattuto due pali della luce. Questo spiegava la mancanza di illuminazione in tutte le case davanti a cui era passato e aveva accresciuto la sua premura. L'autista del camion era morto e già mezzo congelato. Rafe aveva chiamato i soccorsi con il suo cellulare, poi aveva aperto un varco all'autotreno spalando nel mucchio di neve alto fino alle spalle e infine aveva continuato il suo viaggio. Più di una volta aveva temuto di non farcela. Ora che la Jeep arrancava faticosamente lungo l'ultima parte del vialetto, temeva di non essere arrivato in tempo. «Grazie, dolcezza» sussurrò al vecchio veicolo affidabile mentre, spegnendo il motore, dava al volante un colpetto affettuoso per la buona ese-
cuzione di un lavoro quasi impossibile. Poi prese una torcia elettrica e la cassetta del pronto soccorso, inspirò profondamente e uscì nella bufera un'ultima volta. Lungo il viottolo che conduceva all'entrata di servizio del garage la neve era alta fino al torace. Procedeva a fatica, con gli occhi socchiusi per il vento che gli sbatteva in faccia neve mista a sassolini. Il fascio di luce arrivava a malapena a un metro e mezzo davanti a lui, inghiottito dal biancore. Quando chiuse la porta del garage dietro di sé, Rafe ansimava come se avesse fatto di corsa un paio di chilometri. Senza neppure preoccuparsi di scrollarsi la neve di dosso, per prima cosa si diresse verso le scale, facendo tre gradini alla volta. «Key!» sbraitò mentre varcava la soglia di casa. «Ursula!» Nessun rumore. La casa era immersa nell'oscurità e, nonostante fosse molto più calda rispetto alla temperatura esterna, era comunque troppo fredda. Di un freddo letale per qualcuno nelle condizioni di Key. Mentre si inoltrava all'interno dell'abitazione, il rumore che facevano i suoi stivali sul pavimento era abbastanza forte da risvegliare i morti. Rafe trovò il suo paziente seduto immobile davanti al grande tavolo da lavoro, e il fragile corpo avvolto nelle coperte. «Oh, dannazione, Key» disse tristemente mentre si piegava su di lui per cercare sotto le coperte il battito che era sicuro di non trovare. Ma proprio nel momento in cui le sue dita toccarono la carne fredda, udì un lento, agonizzante whuuuuuuuffff dal respiratore. Un secondo dopo sentì una flebile pulsazione sotto le dita intirizzite. Il cuore di Rafe si mise a battere più forte. Il battito c'era ancora! Lento, troppo lento, ma ancora presente! E il respiratore... Udì un debole beep. Poi un altro. Girò la testa verso il suono, puntando la torcia sullo schermo del portatile di fronte a Key. Apparve una parola, lettere bianche su schermo nero. GENERATORE. Un brivido gli corse lungo la schiena. «Ursula?» sussurrò. Nessuna risposta. Ma la parola scomparve per riapparire. GENERATORE. Rafe guardò lo schermo, indeciso sul da farsi. C'era una batteria di riserva nel furgone per il respiratore di Key. Avrebbe potuto andare a prenderla e tornare entro un paio di minuti. Secondo quello che gli avevano insegnato, la prima cosa da tentare era farlo respirare di nuovo a dovere.
Ma il corpo sotto le sue dita era così freddo. Ipotermia. La respirazione non sarebbe servita a nulla se quel povero diavolo stava morendo congelato. Non aveva solo bisogno di aria, ma anche di calore. E velocemente. Sullo schermo apparvero due parole nuove: PER FAVORE. Poi altre due, questa volta scritte in rosso sangue. IN FRETTA. Il pannello di controllo nello stanzino del generatore era ancora più complicato di quello che aveva a casa, e diede a Rafe le stesse risposte contraddittorie che aveva dato a Key dal controllo a distanza in casa. Ciò significava che c'era qualcosa che non andava nelle condutture del combustibile. Quindi, partendo dal punto in cui si trovava il motore, l'uomo seguì il condotto in direzione opposta, nella speranza che si trattasse di un problema che sarebbe riuscito a trovare e a risolvere. Era così. Fuori il terreno gelato aveva sollevato il tubo d'acciaio nel punto in cui entrava dentro l'abitazione, spingendolo contro una morsa tanto robusta da piegarlo e comprimerlo. Rafe rovistò nell'armadietto dove tenevano filtri di riserva, spine, altri pezzi isolati e alcuni attrezzi e sussurrò un grazie, Signore quando, insieme a un filtro per il combustibile, trovò un pezzo di tubo di gomma di una decina di centimetri già completo di morsetti a vite, oltre a una trancia per tubi arrugginita ma utilizzabile. Due minuti dopo l'uomo stava spingendo il pulsante di avviamento manuale con un dito congelato che puzzava di benzina e chiedendo a Dio un altro favore. Il motore digrignava e strideva, ma non riusciva a partire prima che l'avviamento si staccasse. «E dai, brutto bastardo» lo incitò, tentando di nuovo. Il motore girò, girò e finalmente il combustibile arrivò al carburatore. Partì con un boato roco così all'improvviso che Rafe fece un balzo indietro dalla sorpresa. Il motore raggiunse il suo numero di giri al minuto, si stabilizzò e, quando la corrente riprese a fluire, il pannello di controllo si accese come un albero di Natale. La temperatura del corpo di Key si era già alzata di almeno due gradi grazie alla coperta elettrica in cui era avvolto. Ora il battito cardiaco era più veloce, aiutato da una piccolissima dose di adrenalina. La respirazione era migliorata grazie a un'iniezione di una grossa dose di Pneumolatrin. Nel tubo per respirare era stato aggiunto dell'ossigeno, preriscaldato in
mezzo a delle coperte. Una flebo di saccarosio dava al corpo il combustibile preferito da bruciare. Il freddo non lo aveva ucciso per un pelo. Paradossalmente, forse gli aveva anche salvato la vita rallentando il suo metabolismo al punto da riuscire a sopravvivere con la piccola quantità d'aria che erogava il suo respiratore. Ora ciò di cui Key aveva bisogno era il calore. La caldaia era ancora accesa e il suo rendimento era aumentato a causa della dispersione di calore derivata dal generatore in avaria. La casa si era riscaldata sufficientemente da permettere a Rafe di togliersi il parka ma non il maglione. Ora quello che gli restava da fare era vigilare e aspettare. Per un po' era stato incerto sulla conclusione di quella storia, ma stava cominciando a considerarla con un cauto ottimismo. Key stava persino mostrando segni di ripresa di coscienza. Rimaneva da vedere se l'anossia aveva causato danni cerebrali. Comunque il ragazzo era tanto intelligente che avrebbe potuto perdere metà delle sua facoltà e ciononostante essere più avanti di chiunque altro. Rafe stava pregando Dio che ne fosse uscito illeso. Dopotutto, finora aveva funzionato. Alcuni minuti più tardi Key mandò un gemito e il suo corpo si contrasse come se fosse stato percorso da un brivido. Le palpebre tremarono. Rafe si abbassò e gli prese le mani, e sentì che si contraevano debolmente. «Tutto a posto, capo. Tranquillo.» Gli occhi di Key erano due fessure, il massimo della loro apertura. Le labbra si mossero silenziosamente. Erano ancora leggermente violacee per il freddo e per la mancanza di ossigeno. Il grosso infermiere strinse dolcemente le mani dell'omino. «Sta' buono, vecchio mio. Non sforzarti a parlare.» Key scosse debolmente il capo. Si leccò le labbra e inghiottì. Quando il respiratore gli diede il fiato gli riuscì di pronunciare con voce gracchiante una parola. «Ur... sula?» Rafe mantenne l'espressione del viso neutra, non sapendo che dire. Era stato così preso a occuparsi di Key che l'aveva completamente dimenticata. Dal momento che non aveva pronunciato una parola, forse l'interruzione di corrente l'aveva ridotta peggio del ragazzo che l'aveva creata. Doveva essere stata Ursula a mandarlo ad aggiustare il generatore, ma l'aveva fatto partire in tempo per riuscire a salvare anche lei? Fu costretto a sorridere e a chiedersi se Dio vegliava anche sui computer
quando fu lei stessa a rispondere alla domanda che gli era stata rivolta. «Sono ancora qui con te, Key» disse. Rafe colse nella sua voce qualcosa che prima non c'era. Non era certo di cosa fosse, un'intensità, un calore, una sottile sfumatura nel tono, qualcosa. Gli occhi di Key si aprirono di più. «Veramente?» «Veramente, sinceramente, assolutamente» gli rispose con dolcezza. «Ora e per sempre.» Gli occhi di Key si chiusero pesantemente e sul suo viso si adagiò un'espressione sorridente di contentezza mentre il sonno lo riprendeva con sé. Rafe controllò i monitor, riscontrando che il battito e la pressione sanguigna erano quasi nella norma e che la temperatura corporea era aumentata di un altro mezzo grado. «Si riprenderà?» chiese Ursula sottovoce. Rafe annuì. «Direi di sì. E tu, bambina? Stai bene?» «Mi si è bruciato un processore per via della bassa tensione. Si è rovinata una parte di memoria e un paio di funzioni risultano asincrone.» L'uomo aggrottò le sopracciglia. «Non mi sembrano buone notizie. Fa, come dire, male?» «Non è esattamente piacevole. Ma sai una cosa?» «Cosa?» Anche il suo modo di ridere era diverso. Se non avesse saputo come stavano le cose, avrebbe giurato che fosse una donna reale quella a cui stava parlando e non una simulazione spaventosamente perfetta. «Non mi sono mai sentita così bene in tutta la mia vita.» «È l'effetto che fa vincere la morte.» Diede un'occhiata al suo paziente addormentato, meravigliandosi ancora una volta che fosse vivo. Questo lo indusse a chiedersi se lui avrebbe avuto una così forte volontà di vivere con un quel ciarpame di corpo e un'esistenza così vuota. Quell'uomo doveva sentire di avere veramente qualcosa per cui vivere. Le luci della casa tremarono, poi si accesero. «Hanno ripristinato la corrente!» annunciò Ursula con tono gaio. «Cosa ne dici se ti preparo una tazza di caffè per festeggiare?» Rafe annuì e sorrise con un'aria stanca. «Mi sembra un'ottima idea.» Ora le condizioni di Key si erano stabilizzate e quindi poteva essere lasciato solo qualche minuto, anche se per precauzione l'infermiere aveva deciso di dormire su una brandina accanto al suo letto. Si allontanò dal capezzale per andare in cucina. «Allora, mi vuoi dire cosa avete combinato voi due pazzerelli quando siete rimasti senza corrente?»
Ursula rimase in silenzio per Un lasso di tempo così lungo che Rafe cominciò a chiedersi se avesse subito più danni di quanto non avesse rivelato. Quando alla fine rispose, c'era di nuovo quello strano non so che nella sua voce, ancora più evidente rispetto a prima. «Sì, certo, in parte.» Titolo originale: Capra's Keyhole Analog Science Fact and Fiction, April 1995 L'OSTAGGIO di Christopher Anvil Non è prudente affacciarsi dal Cavallo di Troia... Il colpo alla testa arrivò senza alcun preavviso, e scaraventò Roberts contro il muro bianco di cemento del cesso dell'aeroporto spaziale. Seguì un secondo colpo talmente violento da fargli perdere conoscenza ancora prima che cadesse sul pavimento bucherellato, impregnato di urina. Le braccia gli vennero strattonate dietro la schiena, i polsi e le caviglie serrate con delle manette di acciaio, e le mani e i piedi incatenati insieme con un grosso lucchetto. Fu sollevato, trasportato attraverso un portello e adagiato su un lettino di ferro. La porta metallica si richiuse dietro di lui. Con un sobbalzo, il veicolo si mise in moto. Roberts era del tutto ignaro di quanto stava accadendo. Il rombo del missile trasbordatore in partenza, che lo aveva portato in quel mondo meno di un'ora prima, gli passò sopra senza che se ne rendesse conto, allo stesso modo in cui tuonò sopra la sabbia, le rocce, e le erbacce che crescevano nelle buche calcaree sul ciglio della strada. Roberts non si era trovato affatto d'accordo quando il capo delle operazioni aveva proposto per la prima volta il piano. Seduto davanti alla scrivania del colonnello Sanders all'interno dell'ammiraglia della Pattuglia Interstellare che fungeva da navicella di comando, Roberts non aveva nascosto i suoi dubbi: «Signore, posso capire che non sarebbe giusto ammazzarne così tanti. Ma d'altra parte, potrebbe essere la soluzione giusta. Que-
sto...» Il colonnello scosse la testa. «Tra le altre cose, se uccidessimo tutti quegli indigeni selvaggi, molto probabilmente rischieremmo di far fuori i nostri stessi uomini usati come scudo. È necessario agire d'astuzia.» «L'astuzia potrebbe non funzionare. Ma se riusciamo a dare l'esempio con questa feccia di delinquenti, gli altri potrebbero mostrarsi più disponibili a collaborare.» «Purtroppo non sono stupidi. Dobbiamo scovarli prima di colpirli. E vorremmo che i nostri tornassero vivi, se possibile. In ogni caso vogliamo trattare questa faccenda in modo tale che, quando tutto questo sarà finito, a nessuno venga in mente di usarci come scudo, o come merce di scambio in un baratto di prigionieri interstellari.» Il colonnello diede a Roberts un foglio di carta. «Una piccola parte di questo è già sufficiente.» Roberts si ritrovò a esaminare una copia del foglio informativo emesso da una quantità innumerevole di stampanti all'ora di colazione. Uno degli articoli era cerchiato: PI ALLE STRETTE RIGOROSO ULTIMATUM La Pattuglia Interstellare, la misteriosa organizzazione paramilitare che per molti rappresenta l'ultimo baluardo del potere umano nell'universo, si è ritrovata oggi alla mercé di una banda di anarchici. Il MAL, Movimento Anarchico per la Libertà (fondato dall'invasore del pianeta Ian Pulgor attualmente in carcere) ha annunciato oggi la cattura di ventisette membri della PI durante un'irruzione compiuta alla fine del mese scorso sul pianeta Tiamaz. In un perentorio ultimatum, il MAL dichiarava: "...Questi prigionieri, che sono già stati ampiamente interrogati, verranno eliminati uno dopo l'altro fino al momento in cui il Generale Colonnello Ian Pulgor non verrà rilasciato indenne dal carcere..." I membri della PI evidentemente si trovavano in licenza su Tiamaz, il pianeta divenuto popolare come luogo di villeggiatura e per il gioco d'azzardo, e sono stati catturati - ha riferito il portavoce del MAL - senza causare vittime. Le Brigate d'Assalto VIII e XVI del MAL - così riportano i comunicati hanno fatto ritorno con gli ostaggi sul pianeta base Anarchia, il luogo deprimente e desolato dove ha sede il Movimento...
Roberts diede una scorsa al resto dell'articolo, poi alzò gli occhi. «Vorrebbe che mi offrissi volontario per eseguire "un controllo delle condizioni fisiche dei prigionieri"?» «Esatto, Roberts. Tra le prove che i Pulgoriti hanno mandato ci sono anche delle fotografie ovviamente fatte su Tiamaz, con particolari sulla corporatura e sull'età, impronte digitali, impronte retiniche, e messaggi che chiunque potrebbe aver falsificato. Il tutto sembra convincente, ma in realtà dimostra soltanto che qualcuno ha condotto delle indagini su questi uomini. Non c'è alcuna prova che siano stati catturati. Tutti questi cosiddetti ostaggi potrebbero esser stati effettivamente uccisi nell'incursione su Tiamaz.» Roberts annuì. «Se le notizie sono giuste, una buona parte del quartiere dei casinò è stata ridotto in briciole.» «E la parte principale del residence dove i nostri soggiornavano è stata mandata in fumo. Le autorità di Tiamaz pensano che oltre diecimila ospiti siano rimasti uccisi solo in quell'esplosione. Potremmo umilmente fare come ci è stato chiesto, per poi scoprire che gli assassini hanno trasformato una stupida carneficina in vittoria attraverso un falso rapimento. In realtà, quelli potrebbero aver già ucciso tutti i nostri uomini.» Roberts annuì. «Potrebbero non avere alcun ostaggio ora... Ma potrebbero procurarsene uno, se andassi a fare una verifica laggiù.» Il colonnello assentì all'evidenza dei fatti. «È vero, Roberts. Vale a dire lei.» «È questa la mia opinione, signore.» «Ma capisce, Roberts, abbiamo bisogno di sapere con sicurezza se hanno dei prigionieri. Per quanto improbabile, dobbiamo verificare questa possibilità.» «Signore, sono preparato a rischiare la pelle. Ma lei sta chiedendo un volontario. Non mi offrirò di mia spontanea volontà perché mi prendano a calci per lusingare il loro amor proprio, ed essere poi usato come merce di scambio.» Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale Roberts non scorse alcuna espressione interpretabile sulla faccia del colonnello Sanders; ciò nondimeno vide in lui una sorta di cacciatore che cerca di spingere la preda nella trappola. «Roberts, hanno garantito l'incolumità personale di qualunque rappresentante noi avessimo voluto mandare, in modo particolare l'incolumità del capitano Vaughan N. Roberts, P.I.»
«Preferirei dormire con i coccodrilli piuttosto che fidarmi di una tale garanzia.» «Non stavo pensando esattamente a una questione di fiducia» farfugliò il colonnello, sorridendo in un modo a dir poco sgradevole. «Il fatto è che hanno ucciso non meno di ventisette dei nostri. Non la stiamo consegnando a loro come fosse un bel regalo. Spero che non sia questo ciò che pensa.» «Signore, da quel che ho ascoltato finora a proposito di questo piano, il suicidio sembrerebbe meglio, a confronto. Suppongo ci sia qualcosa che lei non vuole dirmi, perché se non la so non la posso rivelare. Be', forse qualcun altro si offrirà volontario.» «Roberts, è senza dubbio rischioso per lei. Ma se dovessero prenderla in ostaggio, il rischio che correrebbero loro sarebbe anche maggiore.» Questa affermazione naturalmente destò la curiosità di Roberts. E come un predatore che abbia scorto una preda succulenta nella trappola mortale, fece la mossa seguente. «Se almeno avessi qualche idea del perché dovrebbe andare così, sarebbe differente. Ma perché consegnarmi come prigioniero a questo branco di pazzi sanguinari, senza neppure capirne la ragione?» «Be', le ragioni sono abbastanza chiare. Primo, dobbiamo sapere se i nostri uomini sono o non sono prigionieri. Se lo sono, il nostro scopo è liberarli. Se non lo sono, ci occuperemo di chi li ha uccisi. Ma prima di fare l'una o l'altra cosa, dobbiamo scoprire che cosa è successo, e questo è il secondo problema. Terzo, che cosa sarebbe questo movimento "libertà nell'anarchia"? Ci saranno almeno un centinaio di organizzazioni di svitati, nate dal connubio tra frustrazione e mancanza di prospettiva storica, per ogni organizzazione che abbia veramente senso. A quale tipo appartiene questa? Abbiamo bisogno di informazioni, e i membri di questo gruppo sono astuti e reticenti. Abbiamo delle sostanze stupefacenti che, tra le altre cose, li indurrebbero a spifferare tutto, ma prima dobbiamo instaurare un contatto. Non verranno certo loro da noi. Così...» «C'è una qualche connessione tra il consegnarmi a loro e l'ottenere la risposta a queste domande?» Roberts scosse la testa. «Queste cosiddette Truppe d'Assalto sono tornate su Anarchia?» «È questa la notizia che hanno fatto trapelare.» «Mi offrirei volontario senza neanche pensarci se si trattasse di un attacco sul posto.» Il colonnello scosse la testa. «Se fosse così semplice, l'Esercito Spaziale li avrebbe annientati già da un pezzo. Non è una questione di
forza. Il problema è che sono molto intelligenti.» Roberts fu colpito dalla particolare espressione che assunse il volto del colonnello mentre pronunciava la parola "intelligenti". «Devono esserci un bel po' di cose che non so.» Il colonnello guardò Roberts con uno sguardo carico di esasperazione, poi sospirò e annuì. «Queste sono persone veramente intelligenti. Sono imbroglioni astuti e abili bugiardi. Ma c'è più di un modo per usare l'intelligenza. Sono anni che portiamo avanti le ricerche sui punti di salto - ciò che R-Branch definisce "stranezze presenti nello spazio". Questi punti vengono usati regolarmente per accorciare le distanze di viaggio e diminuire i costi di trasporto si fa passare un carico attraverso il punto di salto Ceres, per esempio, e questo sbuca dall'altra parte dopo un viaggio di due mesi in tutto, coprendo una distanza per cui normalmente sarebbero necessari sei anni. In pratica, due diverse posizioni nello spazio vengono a congiungersi, e tale congiunzione può essere usata come scorciatoia.» Roberts provò lo stesso disorientamento di uno che viaggi nel deserto, preparato a sopportare il caldo, la luce accecante e la sabbia che si alza, e che avanzi faticosamente sopra le dune per ritrovarsi improvvisamente davanti all'oceano azzurro. Il colonnello, apparentemente ignaro dell'effetto di questa digressione, continuò: «Allora, come funziona? Quali sono i principii che vi sottostanno? È possibile usare questi principii in altri modi? Potremmo anche noi trovare un modo per ricreare questo tipo di fenomeno?» Roberts disse in tono cauto: «Da quanto mi è stato spiegato, signore, ci sono almeno due diversi approcci alla teoria. Il primo si basa sulla curvatura dello spazio; e l'altro sugli effetti provocati da campi magnetici eccezionalmente intensi. In poche parole un campo magnetico estremamente concentrato può provocare un buco di passaggio da una sezione all'altra dello spazio. Ma che cosa ha a che vedere questo con i Pulgoriti?» «Conosce qualche teoria che le permetta di costruire un punto di salto?» Roberts assunse un'espressione vacua. Il colonnello disse: «Non servono gigantesche quantità di materia in caduta, Roberts, o di enormi campi magnetici o gravitazionali. Usando dei minuscoli generatori di gravità altamente concentrati e regolati da processori ultraminiaturizzati, si può ottenere un meccanismo ben funzionante e di dimensioni abbastanza ridotte da entrare nella sua tasca, e il tutto perfettamente sicuro e inoffensivo quando viene messo da parte - naturalmente
se lo si lascia inattivato.» Si chinò verso il primo cassetto della scrivania, e tirò fuori una specie di cucchiaino di madreperla senza manico, lungo circa quattro centimetri e largo la metà, con una superficie liscia e levigata che emanava un certo calore al tatto. «Questa, Roberts, è un'unità dimostrativa ed è della misura più grande. Posi il suo pollice nella parte centrale dove la superficie è concava, metta il palmo dell'altra mano dalla parte opposta e spinga forte.» Roberts fece esattamente come gli era stato detto. Improvvisamente le braccia gli schizzarono all'infuori, si aprì un buco nell'aria di quindici centimetri, e Roberts, con la mente intorpidita e le mani premute contro un bordo resistente e invisibile che delimitava la parte esterna di questo vuoto, guardò fisso attraverso il buco verso un'altra stanza, dove scorse un tavolo da laboratorio con sopra una lavagna portatile e, accanto alla lavagna, un pezzetto di gesso bianco. Il colonnello disse: «Non riesco a vedere da qui, Roberts, ma forse lei sta guardando nel laboratorio di fisica molecolare di R-Branch. Di solito il collegamento avviene in prossimità di un tavolo con qualcosa sopra come un pennarello, un cubo di Rubik, o qualche altro oggetto di piccole dimensioni.» Roberts fissò il colonnello, poi si sporse in avanti per guardare il buco dalla parte del colonnello. E si meravigliò che il buco non ci fosse più. Sprofondò a sedere, sentendosi uno stupido, e il buco era di nuovo lì, e, dentro al buco, il piano del tavolo da laboratorio. Il colonnello disse: «Il nostro modello originale non solo era invisibile visto da dietro, e instabile, ma aveva un bordo affilato come la lama di un rasoio. Questo è migliore, mi creda. Ma anche questo è invisibile da dietro. È quasi come trovarsi su una soglia, in cui da una parte si ha una zona situata in una certa posizione nello spazio, e dall'altra un'altra zona in posizione diversa». «Che cosa accadrebbe se provassi a passare attraverso questo buco?» «Provi.» Roberts, aspettandosi di trovare qualcosa come una finestra chiusa o un oblò, introdusse la mano con cautela, e non incontrando alcuna resistenza, passò attraverso, afferrò il gessetto, e poi l'inquadratura cambiò, la sua mano e metà del braccio scomparvero, e il bordo interno del buco si sganciò dalla presa dell'altra mano per rimanere sul braccio come un cerchio piccolo, leggero e invisibile. A Roberts fu subito chiaro che aveva provato a te-
nere il bordo con una mano ma che non doveva averlo afferrato abbastanza stretto. Il colonnello si spostò da dietro la scrivania. «Non si muova, Roberts. Il bordo non le farà male, ma potremmo avere dei problemi a trovarlo se si mette dalla parte sbagliata. È sottile, e trasparente da dietro.» Pose le sue mani aperte agli estremi opposti del bordo esterno del buco, con le dita tese, lo sollevò verso l'alto, e Roberts ritirò il braccio e aprì la mano: il gessetto gli era rimasto sul palmo. Roberts toccò il gessetto, alzò lo sguardo verso il colonnello che reggeva pazientemente il marchingegno, poi lo attraversò un'altra volta, rimise a posto il gessetto, soppesò per un attimo la lavagna portatile, poi tirò fuori il braccio e la mano. Si lasciò sfuggire un'esclamazione accorata, anche se sottovoce. Il colonnello disse: «Adesso rimetta le mani sul bordo esterno e spinga. Cerchi di mantenere la presa aumentando l'intensità della spinta.» Roberts mise le mani sul bordo esterno del buco, esercitò una leggera pressione, e non accadde nulla. Spinse più forte, e il bordo circolare sul momento gli oppose resistenza, poi all'improvviso cedette fino ad assumere una forma ovale, poi, per gradi, l'apertura si fece sempre più stretta, il tavolo da laboratorio scomparve dalla vista; il piccolo oggetto levigato e concavo che sembrava di madreperla gli era rimasto in mano. Il colonnello si sedette dietro la scrivania. Roberts espirò lentamente: «Lei ha detto che questo è di "misura più grande"?» «Esatto. Quello di misura più piccola potrebbe facilmente stare sopra l'unghia del suo mignolo.» «Ne esistono solo di due misure?» «Sembra che queste siano le due misure limite. Per di più, non sono facili da costruire. E ogni volta che abbiamo provato a usare questo metodo ingrandendo o rimpicciolendo ulteriormente le dimensioni dell'oggetto, il bordo oscillava, e prima ο poi il collegamento si interrompeva. Ma al momento abbiamo diverse serie di questi connettori spaziali che funzionano piuttosto bene.» «Che cosa c'è dall'altra parte, nel laboratorio?» «Una seconda unità, collegata all'unità che lei ha qui. La seconda unità resta sempre accesa ed è montata su un supporto circolare che combacia perfettamente con la circonferenza del bordo. Entrambe le unità devono essere attivate perché il collegamento funzioni. Quando una delle due unità
è inattiva, l'altra ha l'aspetto di un piedistallo basso che sostiene un bordo attraverso il quale è possibile vedere, come la cornice di uno specchio senza specchio dentro. Quando invece la prima unità è attivata, si può vedere dalla propria parte attraverso un buco di quindici centimetri il luogo al quale questa unità è collegata. In questo caso, qualcuno nel laboratorio potrebbe guardare - e arrivare - all'interno di questa stanza.» Roberts restò seduto a guardare il piccolo oggetto ricurvo color madreperla. «E se uno dei due luoghi ha una gravità maggiore rispetto all'altro?» «Se ci si passa attraverso, è possibile accorgersene. Se ci fosse una pressione atmosferica più alta in uno dei luoghi, si verificherebbe un flusso di gas che dalla parte in cui la pressione è più alta si sposterebbe verso la parte in cui la pressione è più bassa. R-Branch dice che non hanno scoperto alcun fenomeno misurabile dovuto alla velocità relativa, ο a una maggiore energia potenziale di una delle due parti del collegamento.» «E cioè?» «Se un connettore dovesse essere posto, dice, in un satellite ad alta velocità, e l'altro fosse immobile sulla terra sottostante, ci si aspetterebbe che un oggetto passasse da una parte all'altra a grande velocità. Non è così. Qualsiasi differenza che riguardi la velocità ο l'energia potenziale dei luoghi in collegamento sembra venire assorbita. R-Branch dice che esistono delle incoerenze teoriche, ma è come se i luoghi collegati fossero immobili l'uno rispetto all'altro.» «E se attraverso il buco venisse lanciato un oggetto da una parte all'altra?» «Passerebbe alla stessa velocità impressa con la spinta di lancio.» Roberts ci rifletté sopra, accigliato. «Quanto possono essere distanti i luoghi che mettete in collegamento?» «Dobbiamo ancora scoprire il limite estremo. Qualunque esso sia, il pianeta dei Pulgoriti, Anarchia, si trova senz'altro all'interno.» Aggiunse, senza particolare enfasi: «Il collegamento si attiva, Roberts, se qualcuno va sul posto con il marchingegno». Roberts per un attimo considerò la questione, poi sorrise e guardò il colonnello negli occhi. «Signore, mi offro volontario per andare a verificare le condizioni fisiche degli ostaggi che i Pulgoriti dichiarano di aver catturato.» Roberts cominciò a sentire delle voci e un battito sordo che gli pulsava da qualche parte nella testa. Provò a muoversi, e scoprì che non poteva.
Riuscì ad aprire parzialmente gli occhi, e una luce bianca lo abbagliò dall'alto. Nel fascio di luce scintillò un bisturi, sottile e ben affilato, mentre una mano forte e abile lo tirò fuori, e un'altra mano più affusolata lo afferrò, facendolo passare sopra a una morsa, poi a un'altra morsa, e poi un'altra ancora. Una voce maschile pronunciò calma: «Fatto». Un'altra voce maschile, più rude, disse: «Trovato qualcos'altro?» «Effettivamente non ci sono oggetti all'interno del corpo, per quel che possiamo determinare.» La voce rude gracchiò: «Vi ho chiesto se avete trovato qualcos'altro.» «No, signore. Non abbiamo trovato nient'altro.» «Solo un minuto, chirurgo. Quando faccio una domanda, mi aspetto che mi si risponda in una certa forma. E se non ottengo quello che voglio, scoprirà che quelle mani di cui lei va tanto fiero si spezzeranno facilmente. Ha capito?» «Sì, signore.» «Molto bene. Ora, ve lo chiederò ancora una volta: "Avete trovato qualcos'altro"?» «No, signore.» «C'è qualche probabilità che siano stati effettuati processi di miniaturizzazione, o che ci sia qualcosa che possa assomigliare al tessuto corporeo?» «Non lo so, signore.» «Ma non vede niente?» «No, signore.» «Nessun segno che qualcosa sia stato innestato?» «No, signore.» «Le sembra che sia tutto normale nelle cavità del corpo?» «Sì, signore.» D'un tratto Roberts si rese conto che stavano parlando di lui. Era lui che si trovava allungato su quel tavolo. La voce severa disse: «Non significa niente per lei, chirurgo, che quel pezzo di carne sul quale sta lavorando rappresenti la vittoria per il Movimento? Nel caso riuscissimo a ostacolare ogni loro sporco trucchetto?» «No, signore.» «No. Lei non è uno di noi. Va bene. Lo ricucia. E sarà meglio per noi che viva abbastanza a lungo per spremerlo come un limone.» «Sì, signore.» «Le ho per caso rivolto una domanda?» stridette la voce aspra.
«No, signore.» «Allora chiuda il becco.» Ci fu silenzio, poi un'altra voce maschile parlò nervosamente: «È necessario aumentare l'anestetico. Il paziente sta riprendendo conoscenza». La voce rude rispose: «Siamo a corto di anestetico. Vada all'inferno». Il chirurgo disse: «Non posso promettervi che il paziente sopravviverà se dovesse riprendere conoscenza in questa situazione». «È uno della PI. Sono resistenti.» «In questi casi, nessuno è abbastanza resistente.» Si fece silenzio, e Roberts capì che si trovava supino sopra un tavolo, tagliato a metà, e intanto qualcuno stava discutendo se gli si sarebbe dovuto somministrare dell'anestetico. Ci fu un suono come di qualcuno che stesse sputando. «Va bene» disse la voce aspra. «Dategli un po' più di gas. Ma sarà meglio che non lo sprechiate tutto su di lui.» Roberts inalò qualcosa di dolce, e un istante dopo perse i sensi. In qualche altro luogo lì vicino, una voce maschile disse con tono freddo e sarcastico: «...non so che cosa sia successo a Guff e Petzky. Stavano bene quando hanno portato qui il corpo, dalla casamatta. Ma adesso accusano brividi, febbre, e tremiti. Li ho ricoperti con una pila di coltri. Guff ha cominciato ad avere delle allucinazioni.» Una voce femminile disse: «Sembrerebbero avere la oftoplasmosi». «Che cosa?» «Oftoplasmosi. Nella colonia dove sono cresciuta, ogni primavera almeno la metà di noi se la prendeva.» «Non ne ho mai sentito parlare. Di che si tratta?» «Brividi, febbre, e tremito. La cosa peggiore è che fai dei sogni che sembrano reali. O meglio... degli incubi reali.» «Che cos'è che la provoca?» «Non lo so.» «Come si cura?» «Non abbiamo mai trovato una cura. Si deve solo resistere.» «Magnifico. Quei due sono spacciati, allora. Quanto tempo dura?» «Di solito occorrono circa tre o quattro giorni per far passare la fase peggiore. Alla fine, se ne esce esausti.» Roberts sollevò appena le palpebre, e attraverso le strette fessure degli occhi vide il piccolo scompartimento passeggeri del trasbordatore che lo
aveva portato su Anarchia. Visto che questo trasbordatore veniva usato come navetta-spola tra il pianeta e la stazione spaziale più vicina, ed era stato sul punto di lasciare il pianeta nell'istante in cui Roberts era entrato nel cesso dell'aeroporto spaziale, ne seguì che il trasbordatore era decollato, poi aveva fatto ritorno, e Roberts era stato fatto salire di nuovo a bordo. Evidentemente tutto questo doveva essere successo in un bell'arco di tempo. In alto di fronte a lui, una delle luci della cabina illuminava una sbarra lucida di metallo. Roberts spostò lentamente la testa, la sbarra scintillò, e all'improvviso gli ritornò alla mente il bisturi del chirurgo, e si rese conto di quanto tempo fosse trascorso. A questa considerazione seguì un pensiero insistente, e il ricordo della voce del colonnello: «Non c'è bisogno che le dica, Roberts, che ci sono cose che non possiamo rivelarle in anticipo. Ma si aspetti pure di essere accuratamente perquisito al suo arrivo. Naturalmente, noi ci faremo trovare preparati, quindi non si preoccupi di questo». A Roberts venne naturale chiedersi quanto accurata fosse esattamente la perquisizione che aveva in mente il colonnello. Di fianco a lui, adesso, la voce maschile stava dicendo: «Che probabilità ci sono che questo idiota contragga la malattia?» La voce femminile rispose: «La oftoplasmosi?» «Di che cosa stiamo parlando?» «Dimmelo tu.» «Guff e Petzky lo hanno scortato, e sono entrambi ammalati. Che gliel'abbiano attaccata?» «Non vedo perché no. Ritengo che ci siano delle buone probabilità.» «Può essere letale?» «Qualche volta.» «Così, dopo tutto quello che abbiamo fatto per catturare il bastardo, questo ci potrebbe morire davanti agli occhi senza che riusciamo a servirci di lui?» «Di solito sono le persone con una salute cagionevole che alla fine soccombono al morbo. Gli altri si limitano ad accusarne i sintomi.» «Bene, ha già subito un'operazione chirurgica, quindi sarà ancora più debole. E lo sottoporranno a una serie completa di elettroshock quando l'avremo portato là.» La voce femminile disse giudiziosamente: «Potrebbe morire. Le allucinazioni possono essere veramente infernali». «Non mi preoccupo del fatto che sia sottoposto alle pene dell'inferno.
Semplicemente non voglio che ci crepi davanti agli occhi prima di averlo spremuto fino in fondo.» Roberts aprì gli occhi. Accanto a lui, la voce maschile emise una risatina. «Bene... il bell'addormentato si sta svegliando. Perché non dai un bacetto al Principe Azzurro, Ginette?» La voce femminile parlò con tono dolce. «Con piacere.» Si sentì un sibilo appena percepibile, come quello di una bomboletta spray, poi Roberts ebbe come la sensazione che delle ragnatele gli sfiorassero il viso e le spalle, quindi sentì un dolore che spazzò via il mal di testa, e lo fece svegliare completamente. Per un istante si ritrovò in piedi, costretto dentro una fitta fasciatura che gli avvolgeva il torace e le braccia, mentre altre bende gli tenevano le gambe legate insieme. Poi un dolore particolarmente intenso gli ricordò che, appena poco tempo prima, era disteso su un tavolo da sala operatoria. Fu colto da una profonda stanchezza, e gli occhi gli si chiusero. Mentre stava ricadendo sulla sedia, dalla sua sinistra provenne il tono dolce della voce femminile che diceva: «Sully? Di nuovo? Ce n'è ancora un bel po' nella bomboletta». Dalla sua destra giunse il tono sarcastico della voce maschile: «Oh... non ancora. Tienilo a portata di mano. Gli faremo qualche domanda, e se dovesse sentire troppo dolore, gliene spruzzeremo un altro po'. Basterà che gli faccia un fischio, e salterà in piedi». La ragazza ridacchiò. «Divertente.» Roberts esalò involontariamente un rantolo tremante, riuscì ad aprire gli occhi, e vide che aveva indosso una specie di camicia da ospedale parzialmente aperta fino alle spalle, e che lo scompartimento passeggeri era vuoto nel posto davanti a lui. Alla sua sinistra c'era una donna attraente sui venticinque anni, snella, con i capelli scuri, vestita semplicemente, che teneva in mano con insolenza una specie di insetticida spray. Alla sua destra c'era un uomo ben vestilo di circa quarant'anni, che indossava un abito scuro. Entrambi avevano l'aspetto di due persone molto rispettabili. Roberts si riprese dal dolore alla testa, e il suo istinto di sopravvivenza gli suggerì di provare a distrarre quei due. La cosa migliore che riuscì ad escogitare fu quella di indurli a parlare. Si voltò verso l'uomo. «Questa navicella è attraccata su Anarchia?» Un'espressione di disprezzo balenò negli occhi dell'uomo, poi si sentì un sibilo estremamente flebile. I muscoli di Roberts si tesero spontaneamente. Si voltò verso la ragazza, che ammiccava con un sorriso dolce sollevando la bomboletta in modo allusivo. Il sibilo si sentiva ancora, ma non era lei a
produrlo. Era un sibilo debolissimo che poteva appena percepire nell'orecchio destro. Appena si girò di nuovo verso l'uomo, il sibilo cessò improvvisamente. Il suo compagno di viaggio benvestito aveva un'espressione perplessa. Esitò, diede l'impressione di star barcollando mentalmente, poi scrollò le spalle. «Siamo in volo. Il cosiddetto pianeta base è dietro di noi ormai da un bel pezzo.» Roberts studiò attentamente l'espressione vitrea negli occhi dell'uomo, poi disse: «Pensavo che i prigionieri dovessero restare su Anarchia». «Perché mai avremmo dovuto costruire un bersaglio che voi avreste potuto colpire? Voi sapete dove si trova Anarchia. Abbiamo detto che erano qui, in realtà non ci sono.» «C'è stato un comunicato che diceva che le Truppe d'Assalto che avevano effettuato l'irruzione erano ritornate su Anarchia.» «Noi esponiamo i fatti in modo tale da sviare le indagini. Perché fornire delle informazioni gratuite ai nostri nemici?» «La Pattuglia Interstellare è il vostro nemico?» «Abbiamo ucciso ventinove dei vostri. Di sicuro siete nostri nemici. Non ne avevamo l'intenzione, ma avremmo potuto fare anche di peggio.» «Ventinove?» «All'inizio pensavamo che ce ne fossero ventisette. Ma i dati mostravano che c'era una navicella classe-K della PI sul pianeta, insieme con la navicella classe-G di cui eravamo già a conoscenza. Nella navicella classe-K c'erano due membri dell'equipaggio.» Roberts chiese mantenendo un tono indifferente: «Di quali dati sta parlando?» «Delle registrazioni della polizia di sicurezza di Tiamaz. Il pianeta possiede probabilmente la migliore organizzazione di polizia di qualunque altro pianeta non governato da un dittatore... e forse batte anche quelli. Il nostro scopo era procurarci i dati. Ci siamo riusciti. Quella parte, almeno, ha funzionato.» La ragazza si sporse al di là di Roberts. «Sully, è lui che ti sta interrogando? Non dovremmo essere noi a interrogare lui?» «Perché dovrei fargli delle domande? Hanno un gruppo di esperti a disposizione per questo.» «Sì, ma...» Rispose in tono offeso: «Ma cosa?» «Io pensavo...»
«Pensavi cosa?» Ascoltando questo scambio di battute, e vedendo l'espressione irritata, diffidente e ancora vitrea sul volto di Sully, mentre la ragazza sembrava incredula e arrabbiata, Roberts si ricordò del debole sibilo nel suo orecchio destro. Si sentì come se avesse dei brividi e la febbre. Si dimenò sulla sedia - un'impresa non facile considerando le fasciature, le fitte e il dolore, e la minaccia della ragazza che brandiva la bomboletta spray - e disse, mentre esaminava la parte posteriore della sedia, con il fianco destro rivolto verso la ragazza: «Siamo soli qui?» La ragazza, ignorando Roberts dopo avergli rivolto un rapido sguardo di imbarazzo, disse: «Sully, stai bene?» Non c'era nessuno in vista sulle sedie dietro di lui. Ancora una volta percepì distintamente il sibilo flebile, che continuò per un po' di tempo, finché non si girò di nuovo in posizione frontale. Mentre si voltava, Sully stava dicendo con risentimento: «Io sono il capo, qui. Lo vuoi capire questo, Ginette?» Roberts confidò automaticamente che lei gli rispondesse per le rime. La ragazza disse docilmente: «Capisco, Sully. Ero semplicemente curiosa di sapere, tutto qui. Mi dispiace». La sensazione di brividi e febbre gli provocò un vero e proprio fremito nel momento in cui ravvisò una certa inverosimiglianza in quella risposta remissiva. Poi, insieme a una ritornata disponibilità da parte di Sully, Roberts percepì qualcosa vicino alla parte destra della faccia - più precisamente vicino all'orecchio. Inoltre sentì, sempre vicino allo stesso orecchio, una distinta e chiara sensazione di freddo. Non era la prima volta che malediceva la riluttanza del colonnello nel dargli informazioni, e la sua stessa volontà di agire senza prima averle ottenute. Proprio a causa di quell'insuccesso, sebbene ora si fosse fatto un'idea di ciò che stava succedendo, non ne sapeva ancora abbastanza, e avrebbe potuto commettere un errore in qualunque momento. Si girò verso Sully, e con aria indifferente chiese: «A che scopo avete organizzato quell'irruzione?» Sully sospirò, e si accomodò. «Avevamo intenzione di rimpiazzare gli uomini della polizia di sicurezza interna di Tiamaz con i nostri. Non ha funzionato. Ma abbiamo preso i dati.» Roberts lo fissò. «Volevate occupare Tiamaz?» «Solo la sezione della polizia di sicurezza interna.» «Ma non avreste potuto fermarvi lì. Il governo del pianeta non ve lo avrebbe permesso.»
«Perché no? Tiamaz è gestito da un manipolo di finanzieri, giocatori d'azzardo e gente di spettacolo. Naturalmente non avremmo detto loro che era nostra intenzione occupare il pianeta a nome del Colonnello Generale Pulgor. Avremmo raccontato di essere i rappresentanti della Polizia di Sicurezza Intergalattica, una concorrente della Polizia di Sicurezza Transpaziale - la compagnia con la quale avevano già un accordo - e di aver riscontrato delle inefficienze nell'organizzazione della Polizia di Sicurezza Transpaziale, e avremmo fatto in modo di farli cacciare dal pianeta. Poi ci saremmo offerti di stipulare un contratto alle stesse condizioni, fornendo un buon servizio. Che imporla a loro di chi presta servizio?» Roberts, che continuava ad accusare dei forti dolori alla testa, oltre a fitte, acciacchi vari e un senso generale di debolezza, si chiese se il suo stato fisico fosse la causa delle difficoltà che incontrava nel seguire questa spiegazione. Si schiarì la voce. «Ma la Polizia di Sicurezza Intergalattica esiste veramente. Che cosa avrebbero fatto quando fossero venuti a sapere tutto ciò?» «Perché avrebbero dovuto lamentarsi? Tiamaz è un grosso affare. Che cosa può importare a loro se la Transpaziale ci rimette? L'unica cosa che l'Intergalattica vuole sono i soldi.» «Sì, ma non gli sarebbe sembrato strano scoprire che avevano una succursale di cui non avevano mai sentito parlare?» «Oh, certo, ma non era nostra intenzione dirgli che facevamo parte dell'Intergalattica. Diavolo, no. Gli avremmo detto che eravamo una compagnia indipendente chiamata Unicorno Investigazioni. Avevamo già costituito la Unicorno, così, se avessero fatto dei controlli, tutto sarebbe risultato in regola. Così potevamo raccontargli di aver trovato delle magagne nell'organizzazione della Transpaziale, di essere penetrati nel pianeta, di aver dovuto affrontare la resistenza della Transpaziale, e che, per come si erano messe le cose, eravamo stati costretti a portare l'intera operazione alle estreme conseguenze. E che, giunti a quel punto avremmo voluto affiliarci con una vera compagnia di sicurezza, e quindi chiedevamo di entrare a far parte dell'Intergalattica. Allora quelli ci avrebbero chiesto chi avrebbe riscosso il pagamento, e noi avremmo risposto che l'avrebbero riscosso loro, assumendoci semplicemente come stipendiati, e pensavamo che avrebbero accettato. Tiamaz è una miniera d'oro.» Roberts si ricordò della particolare espressione che aveva assunto la faccia del colonnello mentre diceva: "Sono intelligenti". Cercò di esaminare quella spiegazione, e si domandò se avrebbe funzionato. Con una certa
sorpresa, si rese conto che tutto ciò sembrava adattarsi talmente bene alla cupidigia e all'ignoranza delle parti coinvolte che avrebbe potuto funzionare, dopo tutto. Alla sua sinistra, la ragazza sospirò e si accomodò. Quel sospiro gli sembrò particolarmente sonoro, mentre la voce dell'uomo gli giunse piuttosto bassa, come se il suo orecchio destro fosse parzialmente tappato. Automaticamente provò a sbadigliare e a deglutire per stappare l'orecchio, poi si rese conto che non avrebbe funzionato, e disse: «Così, avreste eliminato gli uomini della Transpaziale, e provato a unirvi con l'Intergalattica?» «Esatto.» «Come pensavate di fare con la Transpaziale?» «Appena fossimo riusciti ad annientare i loro uomini, avremmo mandato un messaggio a nome del loro capo planetario, dicendo che avevamo ottenuto un'offerta migliore dalla Modular Investigazioni, e che l'avevamo accettata per prestare servizio come unità intera.» «E quello sarebbe stato il messaggio degli uomini della Transpaziale che erano su Tiamaz?» «Esattamente.» «Gli stessi che avevate appena ucciso?» «Certo. Non avrebbero potuto smentirlo.» «Cosa...» «La Transpaziale non avrebbe saputo cosa pensare. Perché esiste una Modular Investigazioni, ma è sparsa per tutto l'universo. Se la Modular avesse bisogno di uomini per un lavoro lontano dalla loro sede, questo è proprio ciò che farebbe.» «Così la Transpaziale avrebbe potuto crederci.» «Forse.» «Avrebbero potuto effettuare dei controlli?» «Sicuro.» Ridacchiò. «Bastava chiedere alla Modular.» Roberts soppesò quella risata. «Ah...» «Naturalmente, la Modular avrebbe potuto dare una smentita.» «La...» «L'avrebbero negato in ogni caso.» «Ma se la Transpaziale avesse creduto di ricevere un messaggio dal capo del pianeta, a nome della Modular, perché avrebbe dovuto dubitare...» «Come facevano a sapere se lui stava mentendo? Poteva essersi unito a qualche altra compagnia, nominando la Modular per depistarli.» Roberts si mise a riflettere in silenzio. «Va bene. E se la Transpaziale si
fosse messa in contatto con voi?» «Ah, ci sarebbe piaciuto. Avremmo detto di essere la Unicorno Investigazioni, e che stavamo svolgendo un piccolo lavoro su Tiamaz per la compagnia Transpaziale, dal momento che il capo planetario ci aveva contattato per chiederci se ci sarebbe piaciuto prendere il loro posto su Tiamaz, che noi avevamo chiesto il perché, e che lui ci aveva risposto di aver avuto un'offerta dalla compagnia Pilgrim Protective, ma che non avremmo dovuto rivelarlo, e che quindi ci eravamo recati su Tiamaz, dove il capo ci aveva mollato il lavoro, e poi se ne era andato con gli uomini della Transpaziale, e che al momento ci trovavamo lì. Avremmo aggiunto che il loro capo ci aveva suggerito di metterci in contatto con l'Intergalattica, che l'avevamo fatto, e che l'Intergalattica non aveva fatto domande e ci aveva assunto. Naturalmente non avremmo raccontato tutto in una volta. Avremmo lasciato che fossero loro a tirarci fuori le informazioni, poco per volta.» Roberts si accomodò sulla sedia. «Esiste una compagnia che si chiama Pilgrim Protective?» «Può scommetterci.» «Così la Transpaziale avrebbe...» Sully ridacchiò. «Probabilmente avrebbero lasciato cadere la cosa. Ci avrebbero messo un bel po' di tempo per scoprirlo.» Roberts respirò a fatica. Oltre ai dolori e alla spossatezza generale, aveva sempre più l'impressione che la mente gli si stesse annebbiando, e che lui stesse rimanendo maledettamente indietro rispetto ai progressi compiuti nel campo della criminologia. «È stato lei a progettare tutto questo?» chiese. Il suo interlocutore sorrise con un certo orgoglio. «Oh, abbiamo collaborato tutti. La cosa più complicata è stato sbarazzarsi dei corpi.» «Come...?» «Abbiamo lasciato che se ne occupasse Marty. È un tipo molto scrupoloso. È bene che non troppe persone siano a conoscenza di ciò che è successo esattamente.» «Sì, capisco.» Roberts si appoggiò allo schienale, e chiamò a raccolta tutte le sue facoltà mentali. Aveva l'impressione di dover fare qualcosa per uscire da lì e dar loro del filo da torcere. Con ostinazione, esaminò minuziosamente la spiegazione ancora una volta, cercando di focalizzare le parti meno chiare. Vediamo, pensò, il Movimento fa fuori gli uomini della Transpaziale su Tiamaz. Manda un falso messaggio in modo che la Transpaziale pensi che i
suoi uomini hanno abbandonato la postazione di lavoro sul pianeta. Il Movimento fa credere alla popolazione di Tiamaz che i suoi uomini stanno lavorando per conto della Intergalattica, e racconta alla Intergalattica di essere una piccola compagnia e di volersi unire con una grande compagnia come l'Intergalattica. Quelli dell'Intergalattica accettano e, in cambio, ottengono di riscuotere il lucroso pagamento da Tiamaz e, da parte loro, stipendiare gli uomini del Movimento. Roberts ci rifletté sopra. In qualunque modo cercasse di esaminare la questione, gli sembrava che, dopo un complicato succedersi di bugie, omicidi, e inganni, la conclusione era che il Movimento aveva raggiunto una posizione per cui ora avrebbe potuto lavorare per l'Intergalattica. «Che cosa pensavate di ottenere in questo modo?» disse Roberts. «Io personalmente oppure il Movimento?» «Il Movimento.» Sully sorrise in modo espansivo. «Pensi a quante persone importanti frequentano Tiamaz, alla possibilità di poterle avvicinare mentre si trovano là, e a quante informazioni si possono avere da loro. C'è un gran via vai di gente e di informazioni laggiù. Poi c'è la gente di spettacolo. Tanto per cominciare, c'era uno spettacolo sulla vita del colonnello generale - uno spettacolo di propaganda - e un tizio di Anarchia aveva intenzione di farlo circolare fra la gente di spettacolo. Se qualcuno l'avesse ritenuto buono, noi - come polizia di sicurezza interna - avremmo fatto in modo di aiutare questa persona. Avremmo potuto fare molto per favorire uno di loro rispetto a un altro una volta che avessimo acquisito un certo potere.» «Un modo illecito per farvi propaganda? Per ripristinare la reputazione del vostro capo?» «Certo, perché no? Tutte le persone influenti passano per Tiamaz. Se ti trovi su Tiamaz, puoi avere a che fare con loro, senza contare le informazioni che si possono usare o vendere.» A Roberts venne in mente che il fatto che fosse a conoscenza di tutto ciò non avrebbe certo aumentato le sue probabilità di ritornare a casa vivo per poterlo riferire. D'altra parte, glielo stavano dicendo proprio loro, e probabilmente non era il solo ad ascoltare. Si schiarì la voce. «Che cosa è andato storto?» «Non avevamo proprio pensato che potevano esserci degli uomini della polizia o dell'esercito in borghese. Ci aspettavamo di imbatterci negli uomini della Transpaziale, e forse nella polizia locale. Ma c'era un intero plo-
tone di fanteria dell'Esercito Spaziale in abiti civili in licenza su Tiamaz, e due navicelle della PI di cui ci siamo accorti quando era già troppo tardi. Poi c'era qualcos'altro - non sapevamo ancora di cosa si trattasse - e la messinscena si è trasformata in una carneficina.» «Che cosa è successo?» «L'idea era di togliere di mezzo tutti gli uomini della Transpaziale nel giro di tre ore. Il problema era agire senza che nessuno se ne accorgesse. Avevamo la loro tabella dei turni e degli orari, e uno dei nostri uomini era al loro servizio come spedizioniere. Sapevamo dove si sarebbe trovato ogni agente, e loro non si aspettavano nessun genere di guaio. Inoltre lo spedizioniere poteva far subentrare gli uomini fuori servizio al momento per noi opportuno. Tutto sarebbe andato liscio come l'olio.» Roberts, dopo aver riflettuto sulla questione con calma, era riuscito a mettere a fuoco la situazione. «Ma non è andata così?» «Quello che non sapevamo era che due donne della Transpaziale avevano fatto amicizia con un paio di sergenti dell'Esercito Spaziale. Cioè, sapevamo che erano fidanzate, ma non eravamo al corrente che se la facessero con due soldati delle truppe combattenti che avevano amici camerati sparsi ovunque. Quando abbiamo provato a sbarazzarci delle due donne, è successo il finimondo. Come se non bastasse, alcuni uomini dell'Esercito Spaziale avevano legato con la PI mentre erano lì in vacanza, e si sono buttati nel combattimento, anche loro, e maledizione, non ci dovrebbero essere persone armate su Tiamaz eccetto la polizia locale e la Polizia per la Sicurezza Interna - ma parecchi di quei bastardi rotti in culo della PI erano armati.» Roberts mormorò: «Oh, che sfortuna». «Be', se loro non si sottomettessero alla legge, chi potrebbe crederti?» «Che cosa è accaduto?» «Abbiamo eliminato la maggior parte di quelli della Transpaziale, ma le due donne avevano capito cosa stava succedendo e hanno avvertito gli altri. È stato come quando vai a fare una gita in mezzo alla natura a caccia di una gallinella selvatica per la cena, e mentre sei lì vedi che ad aspettarti c'è un serpente gigantesco. La polizia di Tiamaz entrò in azione insieme con l'Esercito Spaziale e la PI, e quanto era rimasto della Transpaziale. Abbiamo caricato gli schedari della Transpaziale, abbiamo fatto saltare per aria il quartiere generale della Polizia per la Sicurezza Interna, e proprio mentre ci stavamo allontanando dal pianeta una navicella grande della PI ci è venuta addosso silenziosa e veloce, allora le abbiamo sparato contro qualun-
que cosa eravamo in grado di lanciare, colpendo per sbaglio un edificio confinante con il quartiere dei casinò, che ha preso fuoco come una torcia proprio mentre la navicella della PI passava esattamente lì sopra, così che l'edificio e la navicella della PI sono saltati per aria. Non sappiamo cosa sia successo. Ma eravamo abbastanza lontani per rimanere illesi, e il danno era talmente ingente che abbiamo pensato di attribuircene il merito. Dopo quell'esplosione, tutti quelli che sapevano dell'accaduto erano probabilmente morti, così non potevamo rivendicare niente. E quindi abbiamo raccontato che si trattava di un'incursione.» «Gli ostaggi...?» «L'ultima cosa di cui ci siamo preoccupati erano gli ostaggi. Volevamo solo venir fuori da lì sani e salvi. Ciò che abbiamo dichiarato in seguito serviva solo per salvare le apparenze. Senta, non avevamo paura della Pattuglia. Per prima cosa li abbiamo interrogati. Poi li abbiamo uccisi, uno alla volta. Com'è possibile che si venga a sapere che cosa è successo? Naturalmente, ora abbiamo un ostaggio. Lei.» Roberts notò che l'espressione vitrea era svanita, e che ora Sully stava assumendo un aspetto vagamente perplesso - come se si stesse domandando perché stava raccontando tutto ciò a Roberts. Roberts annuì con fare imbronciato: «Quelle... ehm... Truppe d'Assalto...?» «Stessa storia. Come anche il grado di colonnello generale. Dal momento che ha parecchi seguaci nel Movimento poteva pretendere di essere, che so, un tenente o anche un capitano. Come suona - Pulgor, Supremo Comandante? Immagini che effetto farebbe sulla carta stampata: "Oggi in una occasione drammatica, il Tenente Maggiore Pulgor ha annunciato che le sue truppe, che hanno la loro base sul pianeta Anarchia, distruggeranno qualunque traffico commerciale nella regione." - Ben poco convincente. Non puoi fare niente se non dimostri di aver potere. Così si è affidato alla sua immaginazione, e ora è un colonnello generale. Le Truppe d'Assalto provengono dallo stesso posto.» Roberts si ritrovò di nuovo a pensare che quella franchezza non era certo di buon auspicio per la sua longevità. Aspettò finché una fitta di dolore particolarmente intensa non fosse passata, e finché quella sensazione di odio che cominciava a provare per il suo interlocutore non venisse un po' meno, poi si schiarì la voce. «Quindi, ovviamente, non avrò modo di controllare quali siano le condizioni dei prigionieri.» Come se quelle parole fossero state una specie di segnale, la ragazza
all'istante sollevò la bomboletta spray, e gliela puntò in faccia. L'uomo notò il sussulto di Roberts, e rise. «Non ancora, Ginette.» Volse lo sguardo verso Roberts. «Vede, noi siamo convinti che quelli della PI non siano per niente stupidi, quelli della Polizia Spaziale - comunque la si mette, lo sono. E l'Esercito Spaziale? Be', dipende. Hanno una doppia faccia. Provi a ostacolarli e vedrà che sono tutt'altro che stupidi. Ma sono abituati a combattere soprattutto con gli emarginati quindi non dobbiamo preoccuparci di loro. Capisce cosa intendo?» Roberts notò che l'espressione vitrea era scomparsa del tutto, annuì, rimase in silenzio, e continuò ad ascoltare. «L'associazione per lo Sviluppo Planetario? È pieno di persone brillanti, ma gli organizzatori sono degli idioti decerebrati. Eccetto quando vanno a invadere un pianeta abitato, non creano problemi. Ne consegue, come dice il colonnello-generale, che abbiamo bisogno di sbarazzarci della Polizia Spaziale. Non si può avere una libertà individuale reale - una Libertà Individuale Senza Restrizioni, ossia Anarchia - con la polizia nei dintorni. E le direttive dell'Associazione per lo Sviluppo Planetario devono essere cambiate in modo che non possa interferire nella gestione di un pianeta dopo che questo è stato insediato. È tutto. Ma la PI?» Guardò Roberts. Roberts rimase in silenzio, concentrato ad ascoltare. Il suo interlocutore fece un cenno col capo. «Non sappiamo. Non sappiamo veramente di che cosa si tratta. Ma adesso ne abbiamo uno in pugno, e contiamo di scoprire che cosa sia la PI. Forse ce ne serviremo. O forse dovremo eliminarla. Per quanto ne sappiamo, è una organizzazione governativa segreta, l'esatto opposto dell'anarchia. Lei potrebbe rappresentare l'anti-libertà. Dobbiamo cercare di scoprirlo.» Roberts constatò che gli occhi dell'uomo si erano illuminati di una luce diversa, si guardò intorno e vide la bomboletta spray puntata contro di lui, guardò di nuovo l'uomo, che stava sorridendo. Il silenzio cominciava a creare un certo disagio. «Come pensate di scoprirlo?» chiese Roberts. «Be', come ho detto, siamo un'organizzazione piccola. Ma abbiamo degli uomini astuti. Come organizzazione, siamo in gamba. Molto più in gamba della PI. Capisce, siamo riusciti a intrappolarvi con la storia degli ostaggi. Probabilmente non ci avevate creduto, ma dovevate esserne sicuri. Giusto?» «È una giusta considerazione.»
«Può scommetterci. Adesso abbiamo lei. Il resto della Pattuglia sa che è nelle nostre mani. Quando gli manderemo un dito, sapranno che è suo. Quando gli manderemo un orecchio, sapranno che è suo. Non dovremo aspettare molto. Non riusciranno a sopportarlo. Presto o tardi attaccheranno. Cioè quando noi avremo preso molti più ostaggi. Perché, dove intendono attaccarci? Ma su Anarchia, naturalmente. Tutta l'attenzione sarà concentrata su Anarchia. La stampa andrà sul pianeta per fare delle interviste. Tutti sanno che ci troviamo là. Ma, naturalmente, non è così. Là sono rimasti solo alcuni di noi e un dannato ordigno esplosivo dall'apparenza innocua. Per come vanno le cose di solito, suppongo che la Pattuglia non opterà per l'attacco via terra. Potrebbero solamente scatenare una guerra stellare e farci saltare in aria colpendoci a distanza. Ma noi abbiamo lei. Dovranno atterrare.» Roberts ripensò alle parole: "Quando manderemo un dito, sapranno che è il suo", e si ripromise che, semmai fosse riuscito a uscire tutto d'un pezzo da quel guaio, in futuro sarebbe stato un po' più accorto prima di offrirsi come volontario. «Può star sicuro che atterreranno.» Il suo interlocutore appariva fin troppo pungente. «Be', io penso che atterreranno. Sarete sorpreso di come li accoglieremo. E quando arriveranno, ne cattureremo alcuni, in ogni caso. Subiranno gravi perdite. E allora capiranno di non sapere dove ci troviamo. Cercheremo solamente di sapere che cosa sia la PI, e di far rilasciare il colonnello generale durante l'operazione. Ridurrò la PI a pezzetti. E lei rappresenta solo l'inizio.» Guardò l'orologio. «Va bene, Ginette, dagli la dose.» Sentì un sibilo, una sensazione di formicolìo come se si trovasse in mezzo a delle ragnatele, e un dolore lancinante. Il sibilo continuava, e il dolore annullò la vaga speranza che Roberts aveva cominciato a nutrire, gli invase la testa, il collo e le spalle nude per trasformarsi in una maschera insopportabile di agonia - e cadde incosciente. Questa volta quando riprese i sensi Roberts era pienamente cosciente di quanto tempo fosse trascorso. Il suo primo chiaro pensiero sensato fu: "Non andare volontario!". Poi i suoi occhi misero a fuoco, ricordò la stanza dell'interrogatorio e il trasbordatore spaziale, e capì che non si trovava più a bordo. La stanza era ampia, con i muri macchiati di muffa e il soffitto alto. Le porte erano chiuse e ricoperte di pannelli, scure, e bordate di stipiti imponenti. Qua e là, l'intonaco era caduto dai muri, e dava l'impressione di una dimora in rovina. Roberts era disteso supino su un letto matrimoniale cor-
redato di parecchie coperte di lana. Da dietro un vetro chiuso la ragazza della bomboletta stava guardando nella stanza. Sorrise e si passò la mano sull'abitino corto che indossava. Roberts sussultò e riesaminò le sue valutazioni sugli anarchici quando la ragazza cominciò a parlare: «Non dobbiamo essere nemici» disse. «Potremmo essere molto più amici». Roberts provò a sedersi, e scoprì di essere costretto dentro una specie di camicia di forza, anche se aveva le gambe libere ora. Lanciò uno sguardo verso la ragazza. «Dove siamo adesso?» «A casa. È stato esaminato dai nostri esperti, nutrito, sottoposto a test psicologici, e ora il Vipì sta per venire a parlare con lei.» «Chi...» «Il figlio maggiore del colonnello-generale. Resterà a capo del Movimento finché il colonnello generale sarà assente. Capisce, il colonnello generale è l'Ufficiale Maggiore del Movimento.» La ragazza pronunciò quei gradi con tono reverenziale mentre Roberts farfugliava tra sé e sé apprezzamenti sarcastici e si accorgeva di non provare più quella sensazione di stanchezza, che il suo mal di testa si era trasformato in un battito martellante e che a momenti aveva la sensazione di non vederci molto bene, come se gli avessero aperto il cranio a metà. In confronto a come si sentiva prima, adesso gli sembrava di stare quasi meglio, anche perché trovarsi dentro una camicia di forza ma con le gambe slegate gli dava una maggiore sensazione di libertà. Prima che avesse il tempo di apprezzare questa sua nuova condizione, una massiccia porta blindata si aprì ed entrò un individuo alto, ingobbito, sui trentacinque anni, che cominciò a parlare con una voce lamentosa: «Dannazione Marty, non posso mai avere l'opportunità di fare ciò che voglio. Se il vecchio vuole seguire quel dannato spettacolo, lasciate che lo faccia. Non do un buon...» «Ora, Signor Vice-Presidente, lei sa che Sua Eccellenza è in prigione. Questo è il punto. Bisogna fare in modo che esca di prigione. Lo sa questo.» «E con ciò? Poi se la prenderà con me! Andrà avanti e indietro per la stanza e urlerà e imprecherà e mi chiederà che cosa ho intenzione di fare della mia vita e perché non mi sono preoccupato di due...» «Signore, la prego...» «Dirà che dovrei dedicare la mia vita alla Causa, mi parlerà di quanto lui sia immensamente devoto al Movimento, e, dannazione, Marty, il dannato
Movimento dovrebbe rendere tutti liberi, ma dimmi, io sono libero? Eh? Lo sono? Tutte quelle persone sono saltate per aria, e adesso abbiamo addosso l'Esercito Spaziale, e la Pattuglia Interstellare, e Dio sa chi altro... Voglio dire, ora è diventata una questione personale! Non capisci cosa voglio dire?» «Signore, mi permetta di presentarle il Tenente Generale Vaughan Nathan Roberts della Pattuglia Interstellare. Generale Roberts, lei ha davanti il figlio di Sua Eccellenza, Colonnello Generale Ian Pulgor, Ufficiale Maggiore del Movimento per la Creazione della Libertà Universale Nell'Anarchia. Signori, abbiamo poco tempo. Permettetemi di esortarvi affinché non rendiate vano ogni sforzo per arrivare il più presto possibile a una reciproca intesa.» Roberts aveva l'impressione di trovarsi in mezzo a dei pazzi, e intanto tentava di slacciarsi la camicia di forza. A un certo punto si rese conto di percepire un leggero sibilo che si faceva sempre più intenso ogni volta che si girava in direzione o del vicepresidente o del suo compare. Roberts si guardò intorno, e disse con aria assente: «Semplicemente Capitano Roberts. Non sono un generale». Il vice-presidente del Movimento rise. «È vero. Nessuno dice la verità da queste parti. Tutti noi siamo liberi di mentire tutte le volte che scegliamo di farlo. Persino i nostri nomi non sono veri. Hanno scelto di tener segrete la nostra identità, di non dichiararla. È un altro aspetto dell'anarchia. Ma per il resto, a parte tutte le bugie, tutto ciò che ha detto è vero. Sarà meglio venire ai fatti senza perdere tempo. Lei è nei guai.» Roberts disse seriamente: «L'ascolto». «Abbiamo dato un ultimatum, in cui si afferma che i prigionieri saranno uccisi, uno alla volta. Ogni giorno, ne "ammazziamo" uno, fornendone il nome e la descrizione fisica. Sono informazioni che abbiamo ottenuto dai dati che abbiamo preso su Tiamaz. Gli uomini della Transpaziale registravano tutto. Come se avessero anche loro in mente di organizzare una specie di attacco come quello che abbiamo progettato noi.» Roberts fece caso al modo in cui questa affermazione, che doveva suonare come una minaccia, sembrava piuttosto un modo per offrire deliberatamente delle informazioni. Si guardò intorno, per analizzare le varie espressioni dei presenti. Il "Vipì" aveva uno sguardo vitreo e vagamente perplesso. Il suo compare, Marty, sembrava stordito e confuso. Ginette stava guardando Roberts con un'espressione di imbarazzo, e sor-
rise appena lui girò lo sguardo verso di lei. Mentre si voltava Roberts si rese conto di percepire una successione di sibili flebili, e di sentire qualcosa di umido e freddo dentro al suo orecchio. Guardò l'alto Vipì che sembrava di cattivo umore. «Che cosa pensate di ottenere affermando che state uccidendo degli uomini già morti?» «Che cosa otteniamo? Be', otteniamo l'ostilità diretta e personale della PI. Io mi procurerò soprattutto incubi, mentre i miei camerati del Consiglio Governativo una piacevole sensazione di potere. Il che non mi è in alcun modo di aiuto, ma che cosa posso farci? Io rappresento un solo voto nel Consiglio, e da un momento all'altro potrei anche perderlo. Ma non è questo il punto. Ora, abbiamo ventinove nomi da far giungere a destinazione, e poi arriveremo al suo. Il suo nome è l'ultimo della lista. L'avverto, è meglio che prenda questa cosa sul serio. Quasi ogni soggetto maschile appartenente a questa compagnia eccetto me è un maniaco omicida. Non sono stupidi; sono depravati.» «Che cosa vuole che faccia?» «Che cooperi. Riferisca a Ginette qui - che non si chiama realmente così, tra parentesi - tutto quello che sa riguardo alla Pattuglia. Tutto. I nostri uomini sarebbero contenti se lei e Ginette ve la spassaste un po', perché pensano che possa essere veramente divertente vedere un membro della PI comparire su un filmato girato con delle telecamere nascoste intorno alla stanza. Ma non pretendono che lo faccia. Tutto ciò che vogliono sono le informazioni. Tutto il resto è irrilevante, se capisce cosa voglio dire. Ciò che conta è che lei sputi fuori il rospo e ci dica tutto - ma proprio tutto - quello che sa sulla PI. Non ci tenga nascosto niente. La sua vita dipende da questo. Mi creda, c'è un cadavere che grava sul prestigio e sull'immagine della PI ogni volta che ne dichiariamo la morte, ma non è niente in confronto a ciò che può avvenire. Rispetto a quello che hanno intenzione di farle. Se potessi fermarli, lo farei. Mi limiterei a ucciderla, e non a farle ciò che loro hanno in mente. Ma ho un solo voto. Ciò che si ripropongono di fare con lei spaventerebbe chiunque si trovasse al suo posto, mi creda. Adesso ce ne andremo, ma Ginette resterà qui. Con lei. Resterete soli. Può fare tutto ciò che vuole. Ma prima di andare, voglio aggiungere un'ultima cosa. Va bene, Marty?» Roberts gettò uno sguardo sul secondo uomo, che sembrava stupito tanto quanto il vicepresidente, e che dopo aver scosso la testa scrollò le spalle. «Avanti. Dopo tutto, lei è il Vipì.» «Va bene, farò a modo mio. Io credo nell'onestà. Perché non dirglielo?»
Marty aveva l'aspetto di uno che stesse provando a pensare, ma che non riuscisse a concentrarsi. «Ho detto che va bene.» «Bene.» «Allora vada avanti e glielo dica. Di qualunque cosa si tratti.» La ragazza, guardando con un'espressione imbarazzata e ansiosa nello stesso tempo, disse: «Marty, guarda, come tenta di fare forza. L'ho tenuto d'occhio. Penso che si stia preparando a tentare qualche mossa». «L'avevo notato. Non può fare molto con quella camicia.» Roberts, che stava provando a calcolare quante probabilità aveva se avesse cercato di fare una qualche mossa, disse candidamente: «Stavo semplicemente tentando di allentare un po' questa cosa. Che cosa stava per dirmi?» Il vice-presidente si schiarì la voce. «Devo dirle che il suo stato di incoscienza, sia qui che sul pianeta Anarchia, non era del tutto naturale. Abbiamo degli esperti in medicina veramente abili al nostro servizio. Lei è stato sottoposto a una ispezione fisica molto accurata. Sappiamo che la Pattuglia Interstellare è un avversario formidabile nel campo della scienza, e non avevamo alternative. Questo è il risultato della nostra ispezione: da sotto le piante dei suoi piedi abbiamo rimosso due scatoline perfettamente aderenti di un materiale simile al tessuto epidermico contenenti due strumenti appuntiti che si usano per scassinare. Dal suo palato abbiamo rimosso una sostanza simile di color rosa, contenente una piccola lama veramente ben affilata e un gancetto di metallo prezioso. Dal suo tratto intestinale abbiamo estratto una serie di capsule contenenti dei pezzi leggeri di artiglieria facilmente assemblabili. Anche le sue cavità del corpo sono state ispezionate. Naturalmente i suoi indumenti sono stati perquisiti, e vi è stato trovato un incredibile numero di strumenti, dispositivi e trucchetti di vario genere. La fibbia della cintura, i fili metallici intessuti nella trama dei pantaloni, gli stivali - è stato controllato tutto quanto, e anche nel caso avessimo in qualche modo tralasciato qualcosa, sappia che non le restituiremo niente.» Roberts annuì con fare imbronciato. Pensò che sarebbe potuto sopravvivere al disappunto. Il vice-presidente continuò: «Il suo equipaggiamento, i suoi indumenti, il suo stesso corpo sono stati accuratamente ispezionati. Non abbiamo lasciato niente al caso. È ovvio che lei sperava di poter esibire un arsenale in caso di necessità. Ma non è stato lasciato niente». Guardò Roberts con un
guizzo di soddisfazione e disse: «Mi dispiace». Notò l'espressione di Roberts, lanciò uno sguardo a Ginette, e tornò a posare lo sguardo su Roberts. «Il suo destino è davvero nelle mani dolci e amorose di quella deliziosa ragazza.» Aggiunse sollecitamente: «Spero che trovi il coraggio di riconoscere l'evidenza, e spero sinceramente che si raggiunga un accordo soddisfacente. Lo auguro a tutti e due». Roberts prese fiato per parlare, e il vice-presidente, con l'aria di essersi appena ricordato qualcosa, disse: «Oh, sì, c'era qualcos'altro. Abbiamo anche controllato i suoi denti, e in alcuni abbiamo tolto le vecchie otturazioni, che in seguito abbiamo rimesso a posto, dopo aver rimosso dei circuiti miniaturizzati che vi erano incastonati. Non sarebbe male sapere di cosa si tratti esattamente. Lo potrà dire a Ginette.» Fece un cenno col capo e se ne andò. Il compare studiò la faccia di Roberts, con un sorriso da pescecane, e uscì, chiudendosi dietro la porta. Ginette guardò Roberts, e inarcò le sopracciglia. Prese da dietro la bomboletta spray e la sollevò. La sua voce era dolce e gradevole: «Vuoi l'educanda o la pantera?» Roberts trasalì alla vista della bomboletta, e scosse la testa. «Perché scomodarsi a chiedermi di rispondere? La cosa più ovvia sarebbe interrogarmi sotto l'effetto di droghe ipnotiche.» «Come ben sai, è quello che abbiamo fatto. Hai dato delle risposte completamente insensate. A un certo punto hai detto di essere addirittura una bomba nucleare che sarebbe esplosa appena avessi capito il punto vulnerabile del nostro progetto. Un'altra volta hai detto di essere stato pedinato da un'ammiraglia della PI nello spazio Kappa, e che questa ammiraglia si sarebbe smaterializzata in diciassette virgola quattro secondi. Diciassette secondi dopo sei scoppiato a ridere e hai detto che non avevi ancora cominciato a contare. Tutto questo è successo mentre eri sotto l'effetto di droghe ipnotiche che si supponeva avrebbero reso totalmente impossibile ogni reticenza.» La ragazza lo guardò con inquietudine, e rabbrividì. «Gli esperti sono rimasti davvero impressionati. Non hai fatto amicizia con nessuno durante l'interrogatorio, te l'assicuro. Avresti dovuto comportarti meglio.» «Che cosa hanno fatto oltre a interrogarmi?» «Oh, i medici ti hanno esaminato, e hanno detto che hai subito un processo di immunizzazione davvero incomprensibile. Pare che tu sia immune da ogni tipo di malattia. Ci sono delle sostanze nel tuo sangue che non riescono a riconoscere neanche lontanamente.»
«Qualcos'altro?» «Be', c'erano... ah... ci sono state parecchie interruzioni, e in un certo senso hanno sfasato un po' tutto.» Roberts la guardò. «Interruzioni?» Lei rispose nervosamente: «L'ispettore generale del Movimento era appena ritornato da Anarchia, e non era affatto di buon umore. Allora ha avuto un piccolo litigio con uno dei medici. Dopo aver fasciato l'ispettore generale ed estratto il proiettile dal medico che era stato ferito, sono tornati a lavorare su di te, solo che c'era una miriade di piccoli insetti nella stanza talmente piccoli che era quasi impossibile vederli - e appena i dottori provavano a fare qualcosa, gli insetti li pungevano, e quelli hanno accusato le infermiere di aver lasciato le finestre aperte, e le infermiere hanno risposto in malo modo, e l'ispettore generale ha avuto un attacco tale che gli sono saltati via alcuni punti, e in mezzo a tutto questo trambusto, il paziente, cioè tu, hai detto ad alta voce che se L'anarchia era ciò a cui stavamo mirando, l'avevamo ottenuta, come ci sembrava? Non ti ricordi niente?» Roberts disse costernato: «L'ho rimosso. Suppongo che sia stato a causa delle droghe. Dov'è avvenuto?» «Esattamente qui nella Fortezza... Be', non in questa stanza, ma nella stanza degli interrogatori, al piano di sopra.» «Ci troviamo nel quartier generale del Movimento?» «No, il vero Quartier Generale è il colonnello generale in persona. Ma la maggior parte di noi è qui al momento. Questo è il posto per noi più sicuro... la nostra fortezza. Suppongo che non ci sia niente di male se te lo dico.» «Cos'è successo poi?» «L'ispettore generale ha detto qualcosa come "Portate quel bastardo fuori di qui prima che lo ammazzi" e I medici hanno controllato la lista degli esami e concluso che ti avevano fatto tutto ciò che potevano farti, così ti hanno trasportato quaggiù, ti hanno messo la camicia di forza, e il Vipì ha detto: "Ve l'avevo detto che sarebbe stato un pasticcio prendersela con quelli della PI. Da quando l'abbiamo catturato abbiamo avuto più problemi di quanti ne abbiamo mai avuti negli ultimi cinque anni", e Marty ha risposto: "Ma da dove sono usciti fuori tutti quei dannati insetti? Non abbiamo qualche insetticida?" e per caso qualcuno ha preso lo spray antidolorifico e l'ha spruzzato colpendo Sully e il Vipì, e poi Marty mi ha preso in disparte in un angolo e mi ha detto: "Guarda, Ginette, questo figlio di puttana è in qualche modo più resistente agli stupefacenti di tutti i ventisette che erano
su Tiamaz messi assieme. Che cosa succede quando si sveglia? Devi fare l'ultimo sacrificio per il Movimento e cercare almeno di distrarlo." Il Vipì ha sentito per caso queste ultime parole, e mi ha detto annuendo che avevano adottato metodi scientifici e non aveva funzionato neanche per sogno, così tutto dipendeva da me ora... E siamo andati tutti a dormire per le poche ore che rimanevano, e conosci il resto.» Roberts, pensando che finalmente aveva capito che cosa fosse successo, disse: «Se dobbiamo essere amici, perché questa camicia di forza?» «Potrei liberarti, ma prima devo accertarmi che non mi combini dei guai. Al momento, non ne sono sicura.» «C'eri anche tu su Tiamaz?» La ragazza esitò, poi annuì. «Non so perché dovrei dirtelo, ma perché no?» «Dopo tutto» disse Roberts «se siamo amici...» La ragazza lo guardò senza troppa convinzione e scrollò le spalle. «Sì, ero là. È stato terribile.» Roberts disse: «Non potrebbero esserci dei superstiti?» «Superstiti della PI?» «Sì.» Lei scosse la testa. «L'unico in questa compagnia che non si pavoneggia dalla mattina alla sera è il Vipì. Passa il tempo a frignare e lamentarsi. Tutti gli altri sono talmente pieni di sé da darti la nausea. Sully - quello che era sul trasbordatore - sembrava sincero, ma in realtà nascondeva quanto fosse terribile ciò che era successo.» «Ha detto che è stata una carneficina. O forse peggio?» La ragazza annuì. «L'occupazione della Transpaziale stava procedendo per il meglio finché non ci siamo imbattuti nell'Esercito Spaziale e nella PI, proprio come ti ha detto Sully. Ma gli uomini disarmati dell'Esercito Spaziale hanno fatto anche più che sostenere i loro camerati quando erano impegnati a proteggere le due ragazze, e poi quando è arrivata la PI, è stato orribile. Sully ti ha fatto credere di aver mantenuto la calma cercando di recuperare tutto ciò che poteva. Invece siamo stati costretti a lasciare il pianeta, e l'unica cosa che ci ha salvato è stata l'esplosione, e lui non ha la minima idea di cosa abbia provocato tutto questo.» «Stai dicendo che...» «Sto dicendo che la navicella della PI era probabilmente in assetto completo. Non c'erano superstiti nei casinò o nelle sale da gioco. Quando l'uomo della PI che era con quelli dell'Esercito Spaziale ha visto quello che
stava succedendo, ha chiamato aiuto. Lo stesso ha fatto Sully. Avevamo la postazione della polizia di sicurezza interna, ma quelli della PI sono arrivati più in fretta. I nostri erano armati fino ai denti. Quando Sully e i suoi ragazzi si sono staccati, sembrava la fine dell'universo. Non so quante persone sono rimaste uccise accidentalmente dai colpi sparati a caso. Ma ogni volta che sparavano quelli della PI, qualcuno dei nostri cadeva a terra. La navicella della PI, parcheggiata nell'aeroporto spaziale, è partita a razzo arrivando là prima che noi potessimo allontanarci. Se ti interessa, gli uomini della PI sono saliti a bordo della loro navicella. Cioè dove spettava loro di stare, quindi era là che si trovavano. Non ci sono stati superstiti perché quando la navicella stava per decollare, sono stati tutti travolti dall'esplosione.» «E tu non hai idea di cosa l'abbia causata?» La ragazza scosse la testa. «Sully e gli altri pensano che ci fosse una qualche fabbrica illegale di esplosivi. Ma non lo sa nemmeno lui.» «Non mi sembra che tu provi dell'odio per la Pattuglia Interstellare.» Lei sorrise interessata. «Alle ragazze piacciono gli uomini che si danno da fare.» A Roberts ritornò in mente con quanto entusiasmo la ragazza maneggiava la bomboletta spray, poi disse: «È un peccato che ti trovi dalla parte sbagliata». La ragazza scosse la testa. «No, sei tu che sei dalla parte sbagliata. Sarete sconfitti. Perché anche se Sully è stato battuto dalla PI, e questo succederà ogni qualvolta uscirà allo scoperto e combatterà contro la PI, non è uno stupido. È astuto. Tutti questi spavaldi presuntuosi sono agenti segreti, e la Pattuglia non saprà mai che cosa l'abbia colpita. Anche il Vipì è astuto. E quanto a intelligenza, astuzia e abilità, nessuno batte il colonnello generale.» «È in prigione.» «Certo che è in prigione. È là che fa proseliti.» Roberts la guardò. Lei rise. «Capisci, non c'è modo per battere l'intelligenza. Forse l'unica cosa che non va nel Movimento è il fatto che si sentono troppo machi. Ma dopo l'esperienza che abbiamo avuto con la Pattuglia su Tiamaz, passerà un bel po' di tempo prima che Sully e i ragazzi escano allo scoperto e combattano ancora. Si vanteranno e si glorieranno e faranno gli spavaldi, ma quando verranno al dunque, da ora in poi, ricorreranno a sporchi trucchetti, prove d'abilità, bugie, pugnalate alla schiena, menzogne... Tutte co-
se che sanno fare molto bene.» «Se il colonnello generale è in prigione solo per procacciarsi seguaci, perché non esce?» Fece un cenno col capo. «Certo che può uscire.» «Allora perché volete scambiarlo con un prigioniero?» «È per mettere nei guai la PI. Sappiamo che non possono farlo uscire senza creare dei problemi e perdere la reputazione. È per questo che lo facciamo.» Roberts rimase piuttosto perplesso. La ragazza lo guardò e sorrise. «Non capisci, non è vero? Ti stiamo chiedendo di andare contro i tuoi principi e di schierarti contro i tuoi superiori. Non importa come si metteranno le cose, non possiamo perdere.» Aggiunse: «Sei attraente quando hai lo sguardo confuso». Roberts rammentò che quella era la stessa ragazza che non aveva mostrato alcuna esitazione quando lo minacciava con la bomboletta spray. La ragazza tuttavia, interpretando evidentemente il silenzio di lui come un segno di imbarazzo, le si fece più vicina, guardandolo negli occhi e sorridendo. Roberts distolse lo sguardo e trasalì a causa del sibilo debolissimo, prima di realizzare che doveva trattarsi di qualcosa che stava all'interno del suo orecchio. «Vieni qui» disse la ragazza sorridendo. «Non ti mordo.» Gli si fece ancora più vicina, si piegò, e gli diede un bacio sulla guancia. Roberts ripensò al modo in cui gli aveva puntato lo spray dicendo "Un'altra dose?" e lanciò uno sguardo tutt'intorno alla stanza. «Ci sono veramente le telecamere qui dentro?» La ragazza annuì. «Ci sono. E anche se non ci fossero, dalle porte si può facilmente sbirciare. Il Vipì è bravo a raccontare le cose come se stesse dicendo la verità. E siccome tu sai che è un bugiardo, non credi che ciò che dice sia vero.» Continuò a guardarlo, sempre col sorriso sulle labbra. «Sei imbarazzato, non è così? A causa delle telecamere?» «Be'» esclamò, cercando mentalmente una risposta che esprimesse adeguatamente imbarazzo «non c'è intimità, né...» «Comunque...» disse lei ridacchiando, mentre inaspettatamente slacciò le cinghie della camicia di forza che lo teneva legato, lo liberò e disse: «Sapevo di piacerti». Una vocina parlò nell'orecchio destro di Roberts: «Roberts, porta la seduttrice a letto con te, e gira la testa in modo tale da appoggiare questo orecchio contro le sue narici. Non perdere tempo. Tra poco ci sarà il fini-
mondo.» Roberts, che a riguardo non aveva le idee troppo chiare, capì l'urgenza della situazione dal modo in cui la voce si era espressa, e fece come gli era stato detto. «Oh» esclamò la ragazza, e improvvisamente si distese senza opporre resistenza, con un sorriso trionfante stampato sul volto. La voce gli parlò nell'orecchio con una certa insistenza: «Roberts, stenditi completamente, a faccia in giù, gira la testa verso la tua sinistra, e tirati le coperte sopra la testa». Un attimo dopo sentì una leggera pressione e un suono stridulo nella parte esterna del canale uditivo, e qualcosa che cadeva vicino a lui. Vide un tubo sottile, col tappo da una parte, dal quale fuoriusciva un unguento. La voce era flebile ma chiara. «Spalmatela sulla faccia, sul collo e sulle spalle, ma non sulle orecchie. Rimani sotto le coperte. Spalmala anche a lei sulla faccia, sul collo e sulle spalle. E rimani assolutamente sotto le coperte mentre lo fai.» Roberts si diede da fare con la pomata. Dalla porta della stanza giunse un mormorio confuso. La vocina nell'orecchio di Roberts disse: «Va bene. Adesso ascolta attentamente. Disponi le coperte in modo da creare un canale che parta dal lato destro della tua testa in direzione della stanza. Stenditi a faccia in giù. Qualsiasi cosa accada, non ti muovere, anche se dovessi provare un intenso dolore». Roberts fece come gli era stato detto e si distese. Ebbe una sensazione fulminea e strisciante come se una mezza dozzina di zampette artigliate stessero attraversando di fretta il suo orecchio, accompagnate dal rumore delle setole di una spazzola che gli si adagiavano nel canale uditivo. Qualcosa cadde lievemente sul lenzuolo accanto a lui. Provò una sensazione simile alla precedente. Poi si sentì un ronzio che si dissolse all'interno della stanza. Provò per diverse volte quella stessa sensazione e poi percepì un altro ronzio. Un altro. E un altro ancora. Dall'altra parte della stanza la porta si spalancò sbattendo contro il muro. Una voce arrabbiata e sconcertata gridò: «Avanti! In piedi!» Roberts non si mosse. Un ronzio minaccioso e insistente si sparse nell'aria. Roberts continuò a percepire quella sensazione come di una dozzina di piccoli artigli che insistentemente e frettolosamente gli strisciavano dentro all'orecchio, e rimase disteso, rigorosamente immobile, mentre la stanza si riempì di urla e grido-
lini. Poi il suono si spostò verso l'esterno, sfumando man mano che si distanziavano e mescolandosi a una raffica di colpi e di nuove grida provenienti da altre parti dell'edificio. Quella sensazione strisciante dentro al suo orecchio cessò. I ronzii e i sussurri svanirono. La vocina disse: «Allontanati dalla donna, Roberts. Molto lentamente... adesso apri gli occhi, lentamente... Vedi qualche insetto? Parla pure sottovoce, ti sentiamo». «No» disse Roberts. «Bene. Voltati cautamente... Lentamente... Ci sono degli insetti sulle coperte?» «No.» «Va bene. Rimani disteso, mettiti supino. Copriti bene fin sopra la testa. Non spazientirti. Non muoverti.» Roberts si rimboccò le coperte fin sopra la testa, e rimase disteso immobile. Sentì qualcosa come un fil di ferro rigido che spingeva per uscire dal suo orecchio. Era un oggetto solido e molto duro, e per un istante fu come se gli lacerasse l'orecchio con la sola pressione che esercitava al suo passaggio. Poi il dolore scomparve. Sentì un suono sottile e leggero, come quello di una piuma che sfiorava le lenzuola accanto a lui. Poi il materasso fu compresso come se una mano grande e forte ci premesse sopra. Un qualcosa di freddo e duro stava raschiando accanto a lui. Sentì dei suoni metallici, sdrucciolii e ticchettii, come quelli prodotti da pezzi metallici adattati insieme per formare un assemblaggio più complesso. «Roberts, qualunque cosa succeda d'ora in avanti, non muoverti. In un modo o nell'altro, dovrebbe finire in poco tempo.» C'era qualcosa di pesante nel letto, sotto le coperte, dalla parte opposta rispetto alla donna. L'oggetto si spostò avvicinandosi a lui, alla sua cintura e si fermò. Poteva sentire il materasso curvarsi sotto il peso dell'oggetto mentre questo si muoveva. Sentì un sibilo debolissimo, un odore come di legno bruciato, un'ondata di calore vicino a lui, uno scoppio, uno sfrigolio, un altro suono sfrigolante, e poi una serie di rumori che si ripetevano così velocemente che per un attimo l'aria sembrò riempirsi di sibili, tramestii, scoppiettii, come se le scintille e i bagliori di una fiamma stessero momentaneamente riempiendo la stanza. Da ogni parte proveniva il fragore dell'intonaco che andava in pezzi, il
tonfo, lo scoppio, il ticchettio di un congegno pesante che percuoteva il pavimento. Qualcosa gli fischiò vicino alla testa, si sentì uno schianto smorzato, e pezzetti di intonaco si sbriciolarono sopra le coperte. La voce nel suo orecchio disse: «Va bene, Roberts. Aspetta un minuto». Quella cosa, qualunque fosse la sua natura ora si era spostata ancora più in basso, nel letto, per arrestarsi in prossimità dei suoi polpacci e delle caviglie. C'era un odore intenso come di legno bruciato, e silenzio. La voce parlò con tono compiaciuto. «Ora, la stanza in cui ti trovi dovrebbe essere sgombra di sorprese. Ma dai un'occhiata alla tua destra. Muoviti lentamente.» Roberts, che era stanco di tutto ciò, aprì lentamente gli occhi, e grugnì: «Potete passarmi un'arma?» La vocina disse: «Stai fermo dove sei». Vicino a lui c'era un buco circolare nettamente delineato di quindici centimetri che si apriva perpendicolarmente per una profondità di circa duecentocinquanta metri, su una scrivania grigia dove poteva vedere delle figure che si muovevano intorno a lamiere e trapani, mentre un braccio meccanico ruotava con estrema precisione intorno a un pezzo meccanico. La vista di Roberts fu ostruita da un cavo sottile, flessibile e nero curvato sopra il bordo del buco verso l'oggetto pesante e freddo che si trovava vicino ai polpacci e alle caviglie. Da sotto le coperte giunse uno schiocco e uno scoppio, e quasi nello stesso momento attraverso il buco si vide una mano guantata che tirava il cavo - una specie di tubo di collegamento di metallo dentro al buco fino a farlo scomparire dalla vista. A Roberts venne in mente che se avesse fatto ciò che evidentemente ci si aspettava che facesse, e fosse rimasto dov'era, e se fosse sopravvissuto a qualunque cosa fosse accaduta in seguito, avrebbe avuto bisogno di un bel po' di ingegnosità per spiegare che cosa aveva fatto mentre la Pattuglia stava regolando i conti con i Pulgoriti. Poteva già immaginare le domande ancora prima di venir fuori da quel posto: «Dica, capitano, si trovava davvero nella camera di sicurezza dei Pulgoriti quando è stato compiuto l'attacco?» «Be'... Sì.» «Eravate prigioniero?» «Esatto.» «Tenuto in ostaggio?» «Sì.» «Deve esser stato spiacevole.»
«Be',... non mi lamento. Sono stato io a offrirmi volontario per questa missione.» «Davvero? Perbacco! Ci vuole del coraggio. Dove si trovava esattamente quando sono arrivati per tirarla fuori da lì?» «Be'... ero... insomma... capisce...» «Il tenente Jones ha detto a tutti che quando è entrato nella stanza lei stava a letto con una del Movimento. Giusto?» Evidentemente stava soffrendo di qualche forma di paranoia per andare a pensare che qualcuno avrebbe potuto parlare a quel modo, e naturalmente questa conversazione avrebbe potuto prendere mille altre forme, ma a Roberts non ne andava a genio neanche una. Con cautela distese un muscolo dopo l'altro, e malgrado accusasse un certo dolore e dei crampi, trovò che non aveva niente di rotto o che gli facesse particolarmente male. Cominciò con calma a venir fuori dal letto. L'oggetto massiccio sotto le coperte vicino ai piedi del letto si trovava per caso alla sua portata. Provò a tirare fuori un piede, e l'oggetto produsse un rumore ticchettante intanto che spostava il muso a forma di arma da fuoco proiettandosi attraverso un buco nelle coperte. L'oggetto sembrava una piccola torretta, che faceva pensare che Roberts non avrebbe dovuto preoccuparsi di subire un attacco da parte del MAL da quella direzione, a meno che il cavo d'accensione della torretta non fosse stato, per qualche ragione, disinserito. «Roberts» disse distintamente la vocina nel suo orecchio. «Prova a rendere il bordo più stabile.» Roberts si voltò con cautela e mise una mano da una parte e una dall'altra del buco. Da qualche antro giù nell'uscita provenne un urlo, poi una sfilza di grida smorzate: «Ammazza il bastardo!» «Guarda là! Ce n'è un altro!» «Prendi l'oggetto, dannazione! Prendilo!» «È là! Andiamo!» La vocina disse: «Non ti muovere, Roberts». Si sentì un rimbombo di piedi che correvano verso l'uscita. Roberts pensò alla torretta, e rimase immobile. Attraverso il buco, Roberts, abbassando la testa per avere una più ampia visuale, riuscì a vedere alla sua destra un binario ferroviario in costruzione, dove un uomo con indosso una tuta d'ordinanza della Pattuglia Interstellare color grigio-azzurro chiaro sollevava una paletta a scacchi bianca e gialla
con la quale faceva dei segnali in direzione opposta, a sinistra di Roberts. Si sentì un tonfo, e l'uomo trasalì, gesticolò verso il basso con un'altra paletta. Poi portò sollecitamente entrambe le palette verso di sé. Roberts avvicinò la testa al buco, e riuscì a vedere alla sua sinistra una piccola navicella da pattugliamento classe-K, con una specie di periscopio sottile montato verticalmente a poppa, sulla cintura della torretta. Guardando meglio vide che il periscopio era in posizione verticale solo perché la navicella era inclinata, per evitare che la torretta superiore andasse a sovrapporsi con il sottile cilindro di metallo. Chiunque stesse pilotando la navicella evidentemente aveva il problema di allineare il periscopio all'apertura del buco dal quale Roberts stava guardando. Gli urli, le grida e i colpi scomparvero a poco a poco dalla mente di Roberts quando si mise a riflettere sul problema. Senza dubbio se avesse potuto vedere l'interno della navicella avrebbe potuto capire meglio che cos'era che non andava - ma, niente paura, pensò - e spostò la metà del buco che aveva dalla sua parte per vedere se riusciva a centrarlo sopra il periscopio. Pur avendo spostato il buco, la scena rimase la stessa, e gli venne in mente che era l'altra metà del buco che doveva spostare se aveva intenzione di cambiare l'inquadratura, ma l'altra parte del buco era senza dubbio fissata in modo molto stabile. Si sentì un altro tonfo, e attraverso il collegamento giunse una sequela di bestemmie mentre Roberts si domandò quanto fosse imbecille il responsabile di quell'operazione. Sarebbe stato sufficiente lasciare la navicella sulla sua rampa, e far scivolare l'altra parte del connettore spaziale esattamente sopra il periscopio. Esasperato nel vedere la navicella che andava avanti e indietro, a destra e sinistra, senza però riuscire ad avvicinarsi abbastanza, si allungò attraverso il buco in direzione del periscopio, e subito una voce gridò: «Adesso lo vedo!» La navicella d'un tratto si fece più vicina, e Roberts strattonò fuori il braccio e spostò la testa di lato. Da qualche parte in prossimità dell'uscita arrivò un urlo: «Crepa, maledetto!» Roberts lanciò uno sguardo attraverso la porta della stanza. Vicino alle sue caviglie si levò un gemito grave e improvviso, poi uno scoppio sfrigolante, e la stanza si illuminò di un bagliore bianco accecante. Si sentì un suono secco, ronzante e metallico, seguito da un altro bagliore accecante, e uno schianto come di un fulmine che colpisca da una distanza di cento metri.
Vicino a Roberts una voce maschile disse indifferente: «Eccovi qui». Roberts, temporaneamente accecato dal bagliore, provò a guardarsi intorno, non vide nient'altro che ombre indistinte, sentì il fracasso dell'intonaco che cadeva, l'odore di fumo, e batté la testa contro una colonna di acciaio che spuntava dal buco sovrastandolo come un periscopio. Quando gli tornò la vista riuscì vagamente a intravedere dei reticolati geometrici nella parte esterna di un'apertura del cilindro. Un cono rovesciato vi oscillò lentamente attorno, compiendo una serie di piccoli assestamenti, poi si richiuse. Da qualche parte in mezzo al fragore e alle urla, gli sembrò che una voce stesse cantando una canzone con un ritornello che diceva: "Mai più volontario", e Roberts non capì se si trattava della vocina all'interno del suo orecchio, o di qualcuno che si trovava dall'altra parte del collegamento spaziale, o di uno dei Pulgoriti, o se era semplicemente frutto della sua immaginazione. Di qualunque cosa si trattasse, lui trovò che aveva ragione. Stava per alzarsi, quando la vocina disse bruscamente: «Resta dove sei, Roberts! È quasi finita!» Questo commento lo infastidì molto più del volume crescente del rumore, o del lamento minaccioso che ogni tanto gli saettava intorno alla testa. Da fuori arrivò il rumore come d'un tuono, che crebbe sempre di più, e poi si sentì una serie di urla prima da dentro e poi da fuori. Roberts urtò qualcosa con la mano, poi la sentì vicino al fianco, e le sue dita si strinsero attorno alla bocca di una mitraglietta. D'un tratto si ricordò di aver sentito una voce pronunciare "Eccovi qui". L'arma doveva esser stata lanciata proprio di fronte al periscopio. Cambiò il caricatore della mitraglietta mentre qualcuno gridava dall'entrata. Saltò fuori dal letto e sentì una voce che diceva "Il figlio di puttana è ancora vivo!" Riuscendo comunque a vederci nonostante la nebbia, Roberts fece fuoco verso la porta, sparò ancora, tutta la stanza si illuminò mentre la mitraglietta impazzava, e un istante dopo la finestra dove aveva visto Ginette andò in frantumi, e nella stanza apparvero tre uomini in mimetica, e poi ne sopraggiunsero molti di più e si riversarono dietro di loro. Il colonnello sventolò l'ultimo numero del foglio informativo. Roberts lo prese e lesse l'articolo cerchiato: ENIGMA ---------
IL MOVIMENTO SCOMPARE Il Movimento Anarchico per la Libertà, capeggiato dal Colonnello Generale Ian Pulgor attualmente in carcere, sembra essere svanito nel nulla. I reporter in cerca di notizie che si erano recati sul pianeta Anarchia per una conferenza stampa hanno lasciato quel luogo devastato dopo cinque giorni di attesa in cui non sì è fatto vedere nessuno. Non ci sono stati comunicati recenti da parte del MAL. Il Movimento Anarchico aveva recentemente acquistato una certa notorietà a causa dell'incursione compiuta sul pianeta Tiamaz, della cattura e dell'annunciata esecuzione di molti uomini della Pattuglia Interstellare. La Pattuglia si è rifiutata di fare commenti sull'improvvisa sparizione del MAL. I vari tentativi dei giornalisti di collegare questa sparizione con la terribile esplosione avvenuta sul pianeta Anarchia, con l'annuncio fallimentare della vittoria del MAL, e con ciò che è stato raccontato a proposito di urla selvagge, truppe armate, e artiglieria pesante all'interno della sospetta fortezza del Movimento, non hanno portato a nessun risultato accertabile. In poche parole, sembra che nessuno sappia che cosa sia successo. Il Colonnello Generale Pulgor, in attesa di essere rilasciato sulla parola, ha dichiarato che il MAL si è semplicemente ritirato in clandestinità. Ma la sua volontaria confessione di ieri a proposito di un crimine la cui sentenza prevede una pena di cinque anni di carcere, e l'insistenza del suo avvocato affinché il suo assistito trascorra gli anni di pena in prigione, getta qualche dubbio su quanto ha asserito il colonnello generale. Che cosa è successo realmente al Movimento Anarchico per la Libertà? Non ce lo dirà mai nessuno. Roberts restituì il foglio. «Secondo quanto ha detto Ginette, il colonnello generale si faceva propaganda mentre era in prigione.» «Dubito che i suoi nuovi adepti mostreranno molto entusiasmo, per come sono cambiate le cose.» «Finalmente sarà di nuovo fuori.» «Oh, non necessariamente, Roberts. Abbiamo esaminato il suo curriculum, e ci sono un bel po' di crimini che potrebbe confessare per non essere rilasciato.» «Dov'è Ginette?» «È tornata sul suo pianeta natale. C'è chi l'ha considerata una dura puni-
zione, ma lei in realtà ne era contenta. In ogni caso era l'unica del gruppo a non aver ancora commesso un delitto capitale.» «Se quello spray fosse stato letale...» «Sì, la donna ha dimostrato di avere un certo talento che è stato meglio non far sviluppare.» «Avrei qualche domanda da fare.» Il colonnello annuì. «Avanti, sto ascoltando.» «Perché non mi avete informato meglio su ciò che sarebbe successo?» «All'inizio non avevamo idea di quanto erano abili i loro medici e quelli che interrogavano. Meno le dicevamo, meno potevano ottenere da lei. Inoltre, sapevamo che lei era pieno di risorse, e che avrebbe capito da solo, a patto che fosse sopravvissuto abbastanza a lungo. Non soddisfare la loro curiosità era un modo per tenerla in vita.» «Va bene. Ma che cosa è successo? Io ero là. Qualcosa ho visto. Mi sono fatto un'idea. Ma vorrei saperne di più.» «Ha capito come funziona il connettore spaziale?» «L'ho visto in azione.» «Bene. Quello della dimensione più piccola era stato fatto quasi su misura per il canale uditivo del suo orecchio destro. L'abbiamo riempita di sostanze immunizzanti contro una gran quantità di droghe, alcune delle quali sapevamo che sarebbero state usate dagli anarchici, e altre che avremmo usato noi stessi. Abbiamo montato un sostegno per una delle due parti del connettore, trovato un volontario al cui orecchio adattare quel connettore in modo tale che ogni qualvolta lei fossi stato ispezionato...» «Perché?» «Perché l'hanno esaminata molto accuratamente, e hanno usato una sonda flessibile per ispezionare le sue narici, la gola, l'interno delle orecchie, e tutto il resto. Se non avessimo avuto l'altra parte del connettore nell'orecchio di qualcun altro, che cosa avrebbero visto?» «Questa sonda sarebbe arrivata fino al vostro laboratorio?» «Nel nostro laboratorio sarebbe arrivata l'altra parte del connettore spaziale. Sarebbe stato tanto disastroso quanto per una coppia di soldati Greci che avessero prematuramente cacciato fuori la testa dal Cavallo di Troia.» «Capisco. In questo modo gli anarchici hanno potuto vedere l'interno di un orecchio, anche se si trattava di un orecchio diverso.» «Esattamente. Per fortuna hanno dato per scontato che la parte interna apparteneva alla persona che avevano davanti. Quando non la stavano ispezionando, ci siamo sentiti liberi di collocare l'altra parte del connettore
nel proprio supporto, e di spruzzare droghe ipnotiche o distraenti, di farci passare una minuscola mosca nera particolarmente dispettosa, o qualche ape irascibile, o spruzzare una specie di feromone quasi umano, o spingere un tubetto di...» Roberts fece un'espressione assente. «Un quasi cosa?» Il colonnello sembrò vagamente imbarazzato. «Abbiamo pensato che mitigare la propensione della ragazza a svuotarle la bomboletta dello spray antidolorifico sulla faccia sarebbe stata una mossa saggia.» Roberts stava per fare un'altra domanda, poi cambiò idea. Il colonnello continuò: «Be', lei sa che cosa è successo. Abbiamo mandato un tubetto di uno speciale insetticida attraverso quel piccolo punto di salto direttamente dentro la loro cosiddetta fortezza. Ci abbiamo fatto passare dei congegni-spia talmente piccoli che nessuno che non ne fosse a conoscenza avrebbe potuto credere che esistessero. Quando è capitata l'occasione, abbiamo anche puntato un'arma a iniezione ipodermica attraverso il buco, e abbiamo iniettato a quei criminali che l'hanno trasportata fin lassù una pericolosa varietà di malattia planetaria.» «L'oftoplasmosi?» «Esatto. Naturalmente, era importante che nessuno vedesse veramente ciò che stavamo facendo. Se avessero visto quelle api di dimensioni eccezionali fuoriuscire numerose dal suo orecchio... Chiunque fosse riuscito a scappare avrebbe avuto qualcosa di cui parlare. Per la stessa ragione lei doveva stare sotto una qualche specie di copertura quando abbiamo collocato un connettore spaziale del tipo più grande, compresso in una stretta forma ellittica. La prima cosa che le abbiamo innestato è stato un dispositivo per cambiare l'apertura in una forma circolare maggiormente utilizzabile, e la seconda cosa una specie di torretta mobile a fusione modulare di piccole dimensioni che scovava e inceneriva i congegni di spionaggio, e procurava sicuramente dei problemi a chi dall'altra parte avesse provato ad attaccarla.» «Perché disinserire il cavo alimentatore? Per preparare la stanza per il periscopio?» «In parte. Principalmente perché avevamo un collegamento migliore, attraverso un paio di connettori spaziali. Volevamo accertarci che funzionasse prima di disinserire il cavo. In seguito, abbiamo fatto passare il periscopio appositamente costruito attraverso il buco, dopo un piccolo e trascurabile contrattempo che avrebbe potuto mandare in fumo l'intera operazione se lei non avesse capito che cosa fare.»
«Prendendo il periscopio attraverso il buco.» «Proprio così, Roberts.» «Perché non far scivolare il buco sopra al periscopio?» Il colonnello scosse la testa. «Be'... Temo che la mia spiegazione sulla natura del dispositivo deve aver dato troppe cose per scontate. Avevo avvertito che non era possibile vederlo dalla parte sbagliata. L'ufficiale di servizio concluse che sarebbe stato molto più sicuro se fosse stato fissato, e per qualche stupida ragione ha spostato la navicella... be', l'ha visto anche lei. Così quando il capitano della nave si è trovato a dover rinvenire un buco indistinto bordato di grigio su uno sfondo ugualmente grigio, confuso tra il materiale di sperimentazione e i tubi delle officine soprastanti, non ce l'ha quasi fatta. Per fortuna, lei ha capito cosa fare.» Roberts, che aveva agito per esasperazione, al pensiero di aver afferrato il periscopio per guidarlo verso l'apertura - da cui si poteva osservare l'immensità della navicella - rimase in silenzio, e il colonnello continuò: «Una volta che il periscopio era passato attraverso l'apertura all'interno della fortezza, tra le altre cose, emise un segnale che noi captavamo dall'esterno, che ci permetteva di localizzare esattamente il posto. E questo è quanto è successo». «Ginette era sicura che noi eravamo troppo stupidi per competere con le loro menti astute. Sully era certo che quelli del movimento fossero molto più scaltri di noi.» «Tutto questo ci è stato di grande aiuto.» Il colonnello aggiunse innocentemente: «Naturalmente, Roberts, stavano giudicando la nostra intelligenza in base ai loro prigionieri». Roberts disse mestamente: «Un grave errore da parte loro». «È difficile essere brillante dopo che sei stato tramortito, messo sotto i ferri di un chirurgo, e imbottito di droghe.» «Sì, ma era il loro sistema di bugie programmate che mi stordiva. Non una sola parola di verità; ma se non fossero incappati in questo guaio, qualcuno l'avrebbe scoperto?» Il colonnello Sanders annuì. «In teoria sono intelligenti, ma nella realtà dei fatti non si dimostrano tali. Quando hanno parlato con lei, le loro parole sono arrivate fino al nostro laboratorio. Quando l'hanno portata nella loro "fortezza", hanno aperto le porte ai nostri piccoli insetti selezionati, e alla fin fine alle altre cose che potevamo far passare attraverso un buco di quindici centimetri, incluso un dispositivo che permetteva di localizzare esattamente la loro posizione.
Mettere in atto sporchi trucchetti a spese degli idioti sembra molto più astuto che fare ricerca. Ma la ricerca può cambiare talmente le condizioni che, per il tempo impiegato, se non altro, gli astuti imbroglioni non possono neanche riconoscere il gioco. E molto può accadere prima che si rendano conto di ciò che è andato storto... sempre che siano ancora nelle condizioni di rendersene conto.» Roberts disse pensierosamente: «A quelli sul terminale di ricezione, questo dev'essere sembrato come una specie di astuto inganno da parte di un gruppo di poveri ingenui». Il colonnello sorrise. «È vero, Roberts. Per chi avesse un'attività illegale che si adatta alle circostanze presenti, la ricerca che inaspettatamente cambia le condizioni è all'ultimo posto nella classifica dei colpi decisivi e degli inganni che mettono fuori combattimento... Insieme a versioni più antiche, come quella del Cavallo di Troia.» Titolo originale: The Trojan Hostage Analog Science Fiction and Fact, July 1990 FINE