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ANALOG Anno 2. n. 3. inverno 1995 Direttore Responsabile: Daniele Brolli INDICE Giù nelle Terrefonde di Harry Turtledove Stranieri di Poul Anderson Ada Wilkins in linea via cavo di John Brunner La materia nascosta di McAndrew di Charles Sheffield Nel grande Rift di Miranda di David Nordley L'emissario di Stephen Kraus Oltre il muro di T. W. Quick EDITORIALE ... Pensate alla gente che vive in quella località chiamata Catadupa, nei pressi delle cascate dove il Nilo precipita da altissime montagne: per effetto del continuo immenso fragore, essa ha perso il senso dell'udito. Così il suono prodotto dal moto velocissimo di tutto l'universo è talmente forte da non potere essere percepito dalle orecchie degli uomini; analogamente non riuscite a fissare direttamente il Sole, perché i vostri occhi rimangono abbagliati dai suoi raggi... Marco Tullio Cicerone, Somnium Scipionis Adesso che la Terza guerra mondiale è finita, e la sicurezza regna sovrana, mi sento autorizzato a esprimere la mia opinione su due importanti aspetti di questa terribile faccenda. La prima osservazione è questa: il confronto nucleare che il mondo ha atteso e temuto così a lungo e che, tutti ne erano convinti, avrebbe dovuto distruggere ogni forma di vita sul nostro pianeta, è durato in realtà quattro minuti scarsi. (...) La seconda eccezionale caratteristica della terza guerra mondiale è che io sono praticamente l'unica persona al mondo a sapere che essa ha avuto luogo. James G. Ballard, La mostra delle atrocità NOTE Harry Norman Turtledove, nato nel 1949 e laureato in storia bizantina,
è ben noto anche in Italia per il suo ciclo di Videssos, tradotto dalle edizioni Nord. Dopo aver esordito nel campo della sword & sorcery nel 1979 si è cimentato con buoni risultati anche nel campo della fantascienza pure, diventando una delle colonne portanti proprio di Analog. Sulla Isaac Asimov ha invece presentato una serie di racconti con una visione alternativa del medioevo, il ciclo di Basil Argyros, in cui Maometto diviene un santo cristiano. Il romanzo breve che presentiamo ha vinto il premio Hugo nel 1994. Poul William Anderson, nato nel 1926, è uno di quegli autori viventi che la fantascienza e il fantastico annoverano come maestri. Si tratta probabilmente dello scrittore classico più legato agli archetipi del fantastico mitologico e/o fiabesco, con una preferenza per quei miti di origine scandinava che probabilmente hanno a che fare con la sua provenienza etnica. Nato infatti da genitori scandinavi, ha vissuto i primi anni della sua vita in Danimarca, prima di rifugiarsi negli Stati Uniti a causa della Seconda Guerra Mondiale. Si è laureato in fisica nel 1948. Per i curiosi, è il suocero di Greg Bear. Di John Brunner i nostri lettori possono rintracciare un racconto inedito anche nel numero dieci della rivista di Isaac Asimov ora in edicola. Britannico del 1934, Brunner è stato in passato uno degli autori più innovativi del genere, lavorando a fondo sulla possibilità di elaborare un linguaggio nuovo e capace di ristabilire un contatto con il vasto organismo del sociale che la fantascienza andava a esplorare nei suoi tentativi antiutopici. Il prodotto di questo sforzo, sfortunato da un punto di vista commerciale, furono romanzi, scritti con uno stile frammentato tra cronaca e flusso di coscienza alla Dos Passos, come Tutti a Zanzibar, L'orbita spezzata e Il gregge alza la testa. Dopo il fallimento di questo progetto grandioso, Brunner è tornato verso tematiche più classiche, non disdegnando neppure una ripresa della space-opera. Come avranno capito dall'assiduità con cui lo presentiamo, Charles Sheffield è uno degli autori della Analog che più amiamo. Pressoché sconosciuto in Italia (se si eccettuano due romanzi del ciclo dell'Heritage Universe editi dalla Nord: Le guide dell'infinito e Progetto Proteus) si è affermato negli ultimi anni come uno degli scrittori di fantascienza più raffinati, vincendo tra l'altro con il racconto lungo Georgia on my Mind, che
abbiamo tradotto nello scorso numero, sia il premio Hugo che il Nebula. Gerald David Nordley, figura emergente della fantascienza americana. Nato e cresciuto a Minneapolis, laureato in fisica, si è fatto vent'anni di aviazione lavorando nei settori più avanzati della propulsione aeronautica. Ha lavorato per i lanci spaziali occupandosi della gestione delle comunicazioni via satellite. Ha fatto ampio uso della sua esperienza in campo aerospaziale nei suoi racconti, partendo da uno spunto tecnico, Nordley elabora trame che affrontano la problematica tecnologica senza per questo trascurare l'elemento umano. Si può dire che Nordley sia il miglior interprete contemporaneo dello spirito della fantascienza dell'Età dell'Oro. Analog LAGGIÙ NELLE TERREFONDE di Harry Turtledove Una bomba stellare minaccia di cancellare gli spazi aperti delle Terrefonde Dall'omnibus scesero due gruppi di turisti che chiacchieravano animatamente. Radnal vez Krobir li guardò da sotto la lunga falda del suo berretto paragonandoli ad altri escursionisti che aveva guidato in precedenza nel Parco della Fossa. Rientravano nella media, decise: un vecchio che spendeva il suo denaro prima di morire, giovani alla ricerca dell'avventura in un mondo ipercivilizzato, alcuni che apparentemente non rientravano in nessuna categoria e avrebbero potuto essere artisti, scrittori, ricercatori o qualsiasi altra cosa al mondo. Passò a guardare le donne della comitiva con una curiosità di tipo diverso. Stava per comprarsi una moglie dal rispettivo padre, ma non l'aveva ancora fatto: legalmente e moralmente restava un agente libero. Qualcuna delle nuove arrivate non era male: un paio di altatesta delle regioni orientali, slanciate, snelle e brune, che sembravano molto unite, e un'altra della stessa razza di Radnal, i fronteforte, più bassa, tarchiata e bionda, dagli occhi infossati sotto le grosse arcate orbitali. Una delle due dell'Altaterra gli rivolse un sorriso smagliante. Lui lo ricambiò avviandosi verso il gruppo, con i lembi della veste di lana che gli sventolavano attorno. «Salve, amici» li salutò. «Capite tutti il tarteshano? Ah, bene.»
Mentre parlava vi furono degli scatti di macchinette fotografiche. Ci era abituato, i turisti delle comitive sprecavano sempre foto con lui, anche se non era quello che erano venuti a vedere. Snocciolò il consueto discorso di accoglienza: «A nome della Tirannia Ereditaria del Tartesh e del personale del Parco della Fossa, sono lieto di porgervi il più cordiale benvenuto. Nel caso non aveste letto il mio distintivo, o magari parlate il tarteshano ma non ne conoscete i caratteri, mi chiamo Radnal vez Krobir. Sono biologo di zona del parco, addetto al compito di guida per la durata di due anni». «Durata?» disse la donna che gli aveva sorriso. «A sentirlo sembra una condanna ai lavori forzati.» «No, affatto, non intendevo niente del genere.» Fece un largo sorriso. Gran parte dei turisti lo ricambiò. Alcuni rimasero seri, probabilmente quelli che sospettavano che l'allusione fosse pertinente e il sorriso tutta scena. C'era qualcosa di vero in questo. Lui lo sapeva, ma i turisti no, o almeno così si supponeva. «Tra poco» riprese «vi porterò agli asini per l'escursione nella Fossa vera e propria. Come sapete, cerchiamo di eliminare dal parco gli aspetti meccanici della nostra civiltà per mostrarvi com'erano le Terrefonde fino a non molto tempo fa. Ma non c'è da preoccuparsi. Gli asini hanno un passo molto sicuro. Sono anni che non ne perdiamo uno, o almeno non un turista.» Stavolta qualcuna delle risatine di risposta era nervosa. Probabilmente solo un paio del gruppo avevano già fatto qualcosa di così arcaico come andare sul dorso di un animale. Tanto peggio per quelli che ci pensavano solo in quel momento. Le regole erano chiare. Le due altatesta avevano l'aria davvero turbata. Quei placidi somari le preoccupavano più delle fiere della Fossa. «Meglio rimandare il più possibile il momento peggiore» disse Radnal. «Ora, se vi accomodate sotto il colonnato per una mezza decima, parleremo di ciò che rende unico il Parco della Fossa.» La comitiva lo seguì all'ombra. Parecchi di loro sospirarono di sollievo. Radnal doveva sforzarsi per mantenersi serio. Il sole del Tartesh era caldo, ma se lì li infastidiva solamente, nella Fossa si sarebbero abbrustoliti. Era quella la prospettiva. E se si fossero beccati un colpo di sole, lui li avrebbe rimessi in sesto. L'aveva già fatto in precedenza. Indicò la prima mappa illuminata: «Venti miliardi di anni fa, come vedete, le Terrefonde non esistevano. Un ampio braccio di mare separava quella che adesso è la parte sudoccidentale del Grande Continente dal resto.
Notate che quelle che allora erano due masse di terra si congiungevano a est, e proprio in questo punto sorgeva un ponte continentale». Fece un'altra indicazione, stavolta con maggior precisione. «È rimasto questo tratto di mare, che ora è un lungo braccio dell'Oceano Occidentale.» Passò alla mappa successiva, con i turisti al seguito. «Tutto è rimasto così fino a circa sei milioni di anni fa. A quell'epoca, dato che la parte sudoccidentale del Grande Continente ha iniziato a spostarsi a nord, una nuova distesa si è gradualmente spinta qui, allo sbocco occidentale di questo mare interno. Separato dall'Oceano Occidentale, ha iniziato a prosciugarsi: l'acqua che perdeva per evaporazione era maggiore di quella che riceveva dai fiumi. Ora, se volete seguirmi...» La terza mappa aveva molte sfumature di azzurro in gradazioni differenti. «Il mare ha impiegato circa mille anni a trasformarsi nelle Terrefonde. Parecchie volte è anche tornato a riversarsi dall'Oceano Occidentale, con l'abbassamento dei Monti della Barriera provocato dalle forze tettoniche. Ma da almeno cinque milioni e mezzo di anni, le Terrefonde hanno all'incirca la configurazione attuale.» L'ultima mappa mostrava l'immagine familiare per tutti i ragazzini che studiavano geografia: la fossa delle Terrefonde che segnava il Grande Continente come una cicatrice chirurgica, per la cui orografia occorrevano colori che non venivano usati in nessun altra parte del globo. Radnal portò i turisti al recinto degli asini. Gli irsuti animali erano già imbrigliati e sellati. Radnal spiegò come montarli, diede una dimostrazione e attese i pasticci dei turisti. Le due altatesta misero il piede sbagliato nella staffa, come volevasi dimostrare. «No, così» disse lui, ripetendo la dimostrazione. «Prima il piede sinistro, poi su con una giravolta.» Quella che gli aveva sorriso ci riuscì al secondo tentativo. L'altra recalcitrava. «Mi aiuti» disse. Con uno sbuffo dal naso aguzzo, anziché un sospiro, Radnal la prese per la vita e la issò fin quasi sulla sella mentre lei montava. La ragazza ebbe una risatina deliziata: «Lei è così forte. È così forte, Evillia». Ridacchiò anche l'altra altatesta, presumibilmente Evillia. Radnal sbuffò di nuovo, più forte. I tarteshani e gli altri di razza fronteforte che vivevano a nord delle Terrefonde e nella fossa stessa erano davvero più vigorosi della maggior parte degli altatesta, ma di solito non altrettanto agili. E comunque, che differenza faceva? Tornò al lavoro: «Ora che abbiamo imparato a montare gli asini, dobbiamo imparare a smontare». I turisti brontolarono, ma Radnal era ineso-
rabile. «Inoltre, dovete trasportare le provviste dall'omnibus e sistemarle nelle bisacce. Vi faccio da guida, non da servitore.» In tarteshano, le parole avevano sfumature che significavano sono un vostro pari, non uno schiavo. Quasi tutti i turisti smontarono, ma Evillia restò sull'asino. Radnal andò a grandi passi verso di lei: persino la sua pazienza aveva un limite. «Forza, così.» La indirizzò negli appositi movimenti. «Grazie, liberuomo vez Krobir» disse lei in un tarteshano sorprendentemente scorrevole. Poi si girò verso la sua amica. «Hai ragione, Lofosa: è proprio forte.» Radnal sentì le orecchie avvampargli sotto i paraorecchi di piumino. Un altatesta bruno della parte meridionale delle Terrefonde ancheggiò avanti e indietro e disse: «Sono geloso di te». Parecchi turisti scoppiarono a ridere. «Sbrighiamoci» disse Radnal. «Prima carichiamo gli asini, prima incominciamo e più cose vediamo.» Quella frase faceva sempre effetto: non ci si dava al turismo se non per vedere il massimo possibile. Come da imbeccata, l'autista si avvicinò con l'omnibus al recinto. I portelli del bagagliaio si aprirono con un sibilo di aria compressa. L'autista prese a scaricare roba dai contenitori. «Non dovreste avere problemi» disse Radnal. L'equipaggiamento di ognuno era stato pesato e misurato in precedenza, per accertare che agli asini non toccasse trasportare niente di troppo voluminoso o pesante. La maggior parte della gente trasferì con facilità la roba nelle bisacce. Le due altatesta invece ci misero un bel po' di tempo a sistemare ogni cosa. In un primo tempo lui pensò di aiutarle, poi decise di no. Se si beccavano una multa per il carico supplementare sugli asini, era colpa loro. Alla fine comunque riuscirono a farci stare tutto, anche se le loro bisacce erano gonfie come un serpente che aveva appena trangugiato un giovane cammello senza gobba. Un paio di altri turisti ciondolavano afflitti, con le bisacce piene di avanzi. Sfoderando un sorriso che sperava non risultasse troppo aggressivo, Radnal li condusse alla bilancia e riscosse un decimo di unità d'argento per ogni unità di peso in eccesso. «È un oltraggio» disse l'altatesta bruno. «Lo sai chi sono io? Il figlio di Moblay Sopsirk, assistente del principe del Lissonland.» Si erse in tutta l'altezza, che superava quella di Radnal di quasi un cubito tarteshano. «Allora può permettersi i quattro e tre decimi» ribatté Radnal. «E comunque non sono io a intascare l'argento. Va tutto alla manutenzione del parco.»
Continuando a brontolare, Moblay pagò. Poi se ne andò a passi pesanti e saltò sulla sua cavalcatura con più grazia di quanta gliene avesse attribuita Radnal. Nel Lissonland, ricordò la guida, a volte la gente importante andava sui cavalli striati per puro esibizionismo. Era qualcosa che non capiva. Non gli interessava cavalcare un asino quando non doveva scendere nel Parco della Fossa. Se c'erano modi migliori di fare le cose, perché non sfruttarli? Anche una coppia di tarteshani di mezza età era colpevole di bagaglio in sovrappeso. Anche loro erano sovrappeso, ma per quello Radnal non poteva farci niente. Eltsac vez Martois protestò: «Alla partenza per la bilancia eravamo nei limiti». «Se controlli bene quanto segna» disse al marito Nocso zev Martois. «E tu probabilmente non l'hai fatto.» «Da che parte stai, tu?» grugnì lui. Lei gli strillò in risposta. Radnal attese che la piantassero e riscosse la quota d'argento per il parco. Quando i turisti rimontarono sugli asini, la guida andò al cancello sul lato opposto del recinto, lo aprì e ripose la chiave in una borsa che portava alla cintola attorno alla vita sotto l'abito. Poi, tornando alla propria cavalcatura, disse: «Quando passerete di qua, entrerete nel parco vero e proprio, e allora entreranno in vigore le disposizioni che avete sottoscritto. Per la legge del Tartesh, le guide del parco hanno l'autorità di ufficiali militari entro i confini del territorio. Non intendo esercitarla più del necessario: dovremmo cavarcela benissimo con il semplice buonsenso. Ma sono tenuto a rammentarvi che tale autorità esiste». Aveva anche un cannone portatile in una delle bisacce sull'asino, ma non vi accennò. «Per favore, statemi dietro e cercate di seguire il sentiero» disse. «Oggi non sarà molto ripido. Stanotte ci accamperemo su quello che una volta era l'orlo della piattaforma continentale. Domani scenderemo nel fondo dell'antico mare per l'equivalente in profondità di un monte di altezza media al di sopra del livello dell'acqua. Il terreno sarà più ripido.» La fronteforte disse: «Sarà anche più caldo, molto più caldo di ora. Ho visitato il parco due o tre anni fa, e sembrava una fornace. Tenetelo presente, tutti quanti». «Ha ragione, damalibera, ehm...» fece Radnal. «Sono Toglo zev Pamdal.» Si affrettò ad aggiungere: «Solo una lontana parente di un ramo collaterale, le assicuro». «Come dice lei, damalibera.» A stento Radnal mantenne ferma la voce. Il Tiranno Ereditario del Tartesh era Bortav vez Pamdal. Bisognava tratta-
re coi guanti anche una lontana parente di un ramo collaterale. Radnal era lieto che Toglo avesse avuto la cortesia di fargli sapere chi fosse, o meglio, chi fosse il suo lontano parente di un ramo collaterale. Se non altro, non sembrava una ficcanaso che poi andava a sparlare della gente con le amicizie che senza dubbio aveva in alto loco. Anche se il tratto lungo il quale procedevano gli asini si trovava sotto il livello del mare, non era ancora a grande profondità. Non sembrava molto diverso dal territorio attraversato dai turisti in omnibus per arrivare ai margini del Parco della Fossa: arido e ricoperto di arbusti striminziti, biancospini e palme che parevano piumini dai lunghi manici. Radnal lasciò che fosse la natura stessa del terreno a parlare, pur rilevando: «Se scavate nel suolo da queste parti per un paio di centinaia di cubiti, non troverete altro che uno strato di sale, ed è lo stesso dovunque nelle Terrefonde. Qui sulla piattaforma non è molto spesso, perché quest'area si è prosciugata in fretta, ma c'è anche qui. Per i geologi è stato uno dei primi indizi del fatto che una volta le Terrefonde fossero un mare, nonché uno dei mezzi per tracciare i confini dell'antico bacino acquatico». Il figlio di Moblay Sopsirk si asciugò la faccia sudata col braccio. Mentre Radnal, come tutti i tarteshani, si copriva per proteggersi dal calore, Moblay portava solo un cappello, le scarpe e una cintura con la borsa dell'argento, al massimo un temperino o uno stuzzicadenti e tutto ciò di cui riteneva non poter fare a meno. Era di carnagione abbastanza scura da non doversi preoccupare del cancro alla pelle, ciononostante non appariva troppo a suo agio. Fu lui che disse: «Se un po' di quell'acqua tornasse nelle Terrefonde, Radnal, il Tartesh avrebbe un clima migliore». «Lei ha ragione» fece a sua volta Radnal. Ormai si era rassegnato agli stranieri che lo chiamavano per nome con rude familiarità. «Staremmo centinaia di volte più freschi d'estate e più caldi d'inverno. Ma se i Monti della Barriera precipitassero di nuovo, perderemmo l'immensa area racchiusa dalle Terrefonde e le risorse minerarie che ne ricaviamo: sale, altri prodotti chimici dell'evaporazione e le riserve petrolifere, che non sarebbero accessibili a grande profondità. I tarteshani si sono abituati da secoli al calore. Non ci dà fastidio.» «Non esageriamo» disse Toglo. «Non credo sia un caso che i condizionatori del Tartesh si vendano in tutto il mondo.» A Radnal toccò annuire: «Ha ragione, damalibera. Però quel che rica-
viamo dalle Terrefonde supera gli inconvenienti climatici». Come sperava, arrivarono al campo ancora col sole. Lo vide tramontare dietro le montagne a occidente. I turisti smontarono con sollievo dagli asini e deambularono qua e là, lamentandosi dei dolori alle cosce. Radnal fece loro scaricare del legname dalle rastrelliere che si trovavano da un lato del campo. Accese i falò di cottura con qualche schizzo da un contenitore a pressione di combustibile da batteria e un accendino di selce e acciaio. «La solita pigrizia umana» ammise scherzosamente. Come per la sua perizia a dorso d'asino, il solo fatto che sapesse accendere un fuoco sorprese i turisti. Tornò alle cavalcature e tirò fuori razioni preconfezionate che gettò direttamente tra le fiamme. Quando le sommità scoppiettarono e iniziarono a emettere vapore, le recuperò con una lunga forchetta. «Ecco qua» disse. «Levate la pellicola d'alluminio e avrete del cibo tarteshano, non un banchetto per gli dei, forse, ma abbastanza da impedirvi di morire di fame e incontrarli prima del tempo.» Evillia lesse la scritta di lato sulla confezione. «Queste sono razioni militari» disse sospettosa. Molti brontolarono. Come tutti gli altri liberi tarteshani, anche Radnal aveva fatto la ferma prescritta di due anni nella Guardia Volontaria del Tiranno Ereditario. Perciò intervenne a difesa delle razioni: «Come dicevo, vi impediranno di morire di fame». Le razioni, montone e stufato d'orzo, con carote, cipolle e una dose abbondante di pepe tritato e aglio, non erano tanto male. I Martois mandarono giù le loro tutto d'un fiato e ne chiesero delle altre. «Mi dispiace» disse Radnal. «Gli asini ne portano solo una quantità limitata. Se ve ne do un'altra razione a testa, qualcuno soffrirà la fame prima di arrivare al rifugio.» «Ma abbiamo fame già da adesso» disse Nocso zev Martois. «Proprio così» le fece eco Eltsac. Si scambiarono un'occhiata, forse sorpresi di essere d'accordo. «Mi dispiace» ripeté Radnal. Non gli era mai capitato prima che qualcuno chiedesse il bis. Riflettendoci, andò con gli occhi a Toglo zev Pamdal, per vedere come se la cavava con una razione così scarsa. Quando la incontrò con lo sguardo, stava appallottolando la confezione vuota per gettarla in un contenitore di rifiuti. La donna aveva un'andatura aggraziata, anche se non poteva valutarne la corporatura per via dei paludamenti. Come i giovani e i meno giovani, si
perse in fantasie. E se fosse stato in trattative col padre di questa qui invece di Markaf vez Putun, che si comportava come se la figlia Wello cacasse argento e pisciasse petrolio?... Aveva abbastanza buonsenso da accorgersi quando sfociava nel ridicolo, il che era già più di quanto concedevano gli dei. Il padre di Toglo avrebbe potuto trovare per lei senza dubbio mille altri candidati migliori di un biologo con niente di speciale. Non che il confronto con la bruta realtà gli impedisse di pensarci, ma almeno gli impediva di prendersi troppo sul serio. Sorrise mentre sfilava il sacco a pelo dalle gerle degli asini. I turisti li gonfiarono a turno con una pompa a pedale. Col caldo che faceva, in gran parte preferirono distendersi sui sacchi a pelo, anziché infilarcisi dentro. Alcuni si tennero gli abiti, altri avevano abbigliamento speciale da notte, alcuni fecero a meno dei vestiti. Nel Tartesh vigeva un blando tabù contro la nudità, non tanto da provocare in Radnal l'orrore alla vista della carne, ma più che sufficiente a fargli dare un'occhiata a Evillia e Lofosa mentre si sfilavano spensieratamente camicie e pantaloni. Erano giovani, attraenti e perfino muscolose per essere delle altatesta. Gli sembravano ancora più nude perché i loro corpi erano meno villosi di quelli dei fronteforte. Con suo sollievo, l'abbigliamento gli nascose la piena reazione alla loro vista. Rivolto al gruppo, disse: «Dormite più che potete, stanotte. Non restate svegli a chiacchierare. Domani ci toccherà stare in sella quasi tutto il giorno, per giunta su un terreno peggiore di quello di oggi. Meglio essere ben riposati». «Sì, capoclan» disse il figlio di Moblay Sopsirk, come si rivolgerebbe un giovane al leader della propria cerchia di parenti. Ma un giovane dall'aria sfrontata come Moblay si sarebbe beccato un ceffone sul muso dal capoclan, per ricordargli di non riprovarci. Tuttavia, dato che Radnal aveva parlato a ragion veduta, gran parte dei turisti cercò di addormentarsi. Non ancora conoscevano quelle regioni selvagge, a parte probabilmente i Martois, ma non erano stupidi: pochi stupidi accumulavano argento a sufficienza per permettersi un'escursione nel Parco della Fossa. Come di solito faceva la prima notte con ogni nuovo gruppo, Radnal non seguì il suo stesso consiglio. Poteva tirare anche senza dormire e, conoscendo benissimo ciò che li attendeva, non avrebbe sprecato energie nello spostamento verso la Fossa vera e propria. Dalla cavità di una palma si sentì il soffiare di un gufo. Nell'aria aleggiavano lievi aromi. Salvia e lavanda, oleandro, lauro, timo. Molte piante del posto avevano foglie che secernevano oli aromatici. La loro patina ri-
duceva la perdita di liquidi, che qui erano sempre di vitale importanza, e rendeva sgradevoli le foglie a insetti e animali. I falò morenti attiravano le falene. Di tanto in tanto il loro bagliore illuminava altre forme, più grandi: pipistrelli e caprimulgi che piombavano giù ad approfittare del banchetto. I turisti non badavano né agli insetti né ai rapaci. Il loro russare superava il soffio del gufo. Dopo i primi viaggi da guida, Radnal si era convinto che praticamente russavano tutti. Anche lui, immaginava, anche se non si era mai sentito. Sbadigliò, si stese sul suo sacco a pelo con le mani dietro la testa e guardò le stelle che sembravano esposte su un panno di velluto nero. Qui se ne vedevano molte di più che alla luce della grande città: un'altra ragione per lavorare nel Parco della Fossa. Le guardò nel loro lento moto rotatorio. Non c'era modo migliore per svuotare la mente e scivolare nel sonno. Con le palpebre che gli si appesantivano, notò qualcuno, no, qualcuna, alzarsi dal proprio sacco a pelo: Evillia, che andava alla latrina dietro dei cespugli. Lui spalancò gli occhi. Alla luce fioca, la donna pareva una statua vivente di bronzo levigato. Appena gli diede le spalle, lui si passò la lingua sulle labbra. Ma invece di infilarsi di nuovo nel sacco, al ritorno Evillia si accoccolò accanto a quello di Lofosa. Le due altatesta risero sommesse. Un attimo dopo si alzarono e andarono verso Radnal. La sua libidine toccò livelli di allarme. Che stavano facendo? Gli si inginocchiarono ai due lati. Lofosa disse in un bisbiglio: «Secondo noi, sei un bel pezzo d'uomo». Evillia gli mise la mano sul legaccio della veste e iniziò a disfarlo. «Tutte e due?» proruppe lui. Gli era tornata la libidine ed era impossibile dissimularla visto che stava supino. Nel contempo lo assaliva l'incredulità. Le tarteshane, anche le prostitute, non erano così sfacciate (e pensare che Evillia gli aveva rammentato del lucido bronzo vivente), e neanche i tarteshani. Certo, questi ultimi indugiavano in fantasie erotiche, ma in genere se le tenevano per sé. Le altatesta si fecero un'altra risata sommessa, come se il suo riserbo fosse la cosa più buffa da immaginare. «Perché no?» disse Evillia. «In tre si può fare un sacco di roba interessante che in due è impossibile.» «Ma...» Radnal accennò al resto del gruppo. «E se si svegliano?» Le ragazze risero più forte e le carni ebbero movenze ancor più seducenti. Lofosa replicò: «Impareranno qualcosa». Di certo fu Radnal a imparare un po' di cose. Una fu che, dopo i trenta,
non era più in grado di far felice più di una donna per notte, anche se era stato bello provarci. Un'altra, che con tante distrazioni sensuali far felici due donne nello stesso tempo era più difficile che picchiarsi con una mano sulla testa e grattarsi lo stomaco con l'altra. Ancora, che né Lofosa né Evillia avevano alcuna inibizione, per nessuna parte dei loro corpi. Si sentiva venire meno, sapeva che la mattina dopo sarebbe stato un bel po' in difficoltà. «Abbiamo pietà di lui» chiese Evillia, in tarteshano, per fargli capire il tono canzonatorio. «Credo di sì» rispose Lofosa. «Per questa volta...» Si torse come un serpente, strusciando le labbra contro quelle di Radnal. «Dormi bene, liberuomo.» Lei ed Evillia tornarono ai loro sacchi a pelo, lasciandolo a domandarsi se avesse solo sognato la loro presenza, ma era troppo stanco per crederci. Stavolta scivolò nel sonno come immergendosi. Ma prima di cedere, vide Toglo zev Pamdal che tornava dalla latrina. Per un attimo la cosa non significò niente. Ma se tornava proprio in quel momento, doveva esserci andata prima, quando lui era troppo occupato per notarlo... E questo significava che l'aveva visto così occupato. Fece un verso sibilante da lucertola maculata, anche se non stava certo diventando verde. Toglo tornò al proprio sacco a pelo senza guardare né lui né le due altatesta. Tutte le fantasie che si era permesso su di lei si smorzarono. La mattina successiva non si sarebbe potuto aspettare altro che la fredda cortesia di una personalità importante nei confronti di un subalterno dai modi che lasciano a desiderare. Il peggio... E se inizia a spettegolare col gruppo? si domandò. Poteva sempre stringere i denti e tirare avanti, pensò. E se si lamenta sul mio conto col Tiranno Ereditario? Nessuna delle possibili risposte gli piaceva. Perderò il lavoro era la prima che gli veniva in mente, e quelle successive ancor peggio. Si chiese perché non fosse stato il figlio di Moblay Sopsirk ad alzarsi per svuotare la vescica. Moblay si sarebbe roso d'invidia e ammirazione, ma non di disgusto come di certo avrebbe fatto Toglo. Radnal diede un altro sibilo. Visto che non poteva riparare il malfatto, cercò di convincersi che avrebbe tirato avanti alla meno peggio e affrontato tutto ciò che ne sarebbe scaturito. Se lo ripeté diverse volte. Ma questo non gli impedì di restare sveglio per quasi tutta la notte, anche se era stanchissimo.
Fu il sole a svegliare la guida turistica. Sentì che alcuni del gruppo erano già in piedi e si agitavano. Pur con gli occhi cisposi e ancora assonnato, si costrinse a uscire dal sacco a pelo. Avrebbe preferito essere il primo ad alzarsi, come sempre, ma la fatica e l'assillo della notte precedente l'avevano spuntata sulle migliori intenzioni. Per rimediare a quella che gli sembrava una mancanza, cercò di muoversi a velocità doppia del solito, ma questo non fece altro che provocargli altri piccoli inconvenienti: inciampò su una pietra e per poco non cadde, confuse la latrina col falò e il falò con la latrina, cercò di recuperare i contenitori della colazione da un asino che trasportava solo foraggio. Finalmente trovò le salsicce affumicate e il pane azzimo. Evillia e Lofosa gli fecero larghi sorrisi prendendo le salsicce, e questo lo agitò ancor di più. Eltsac vez Martois rubò un panino alla moglie, che lo ricoprì d'improperi con la scurrilità di uno scaricatore portuale e il volume molto più alto. Poi a Radnal toccò portare la colazione a Toglo zev Pamdal. «Grazie, liberuomo» disse lei, con più naturalezza di quanto sperasse. Quindi gli occhi grigi della donna si appuntarono sui suoi. «Spero abbia dormito bene.» Era un buongiorno abituale dei tarteshani, o almeno lo sarebbe stato se nel suo tono... No, decise Radnal, lei non pareva affatto divertita. «Ehm, sì» riuscì a rispondere, e si defilò. Con gran sollievo, portò la colazione successiva a un fronteforte che mise via taccuino e carboncino per prenderla. «Grazie» disse il tipo. Anche se pareva abbastanza cortese, l'accento gutturale, la tunica a righe e i pantaloni che indossava lo rivelavano nativo del Morgaf, il regno dell'arcipelago di fronte alla costa settentrionale del Tartesh, nonché il nemico abituale della Tirannia. La tregua di vent'anni, tuttora in vigore, era la più lunga da secoli. Normalmente, Radnal sarebbe stato cauto in presenza di un morgaffo. Ma ora con lui gli sembrava più facile che confrontarsi con Toglo. Con un'occhiata al taccuino, disse: «È un disegno, vero, liberuomo...» Il morgaffo tese le mani davanti a lui nel saluto della sua gente. «Sono Dokhnor di Kellef, liberuomo vez Krobir» disse. «Grazie per il suo interesse.» In realtà voleva far intendere smettila di spiarmi. Radnal non ne aveva l'intenzione. Con qualche abile tratto di carboncino, Dokhnor aveva colto l'aspetto dell'accampamento: le buche del fuoco, gli oleandri dinanzi alla latrina, gli asini impastoiati. In qualità di biologo che operava sul campo, Radnal sapeva cavarsela a sua volta con un pezzo di carboncino. Però non
al livello di Dokhnor. Neanche un ingegnere militare avrebbe saputo far di meglio. Quel pensiero lo insospettì. Guardò più attentamente il morgaffo. L'uomo aveva il portamento di un soldato, ma questo non provava niente. Molti morgaffi erano soldati. Anche se molto più piccolo del Tartesh, il regno insulare si era sempre difeso bene nei conflitti. Radnal rise fra sé. Se Dokhnor era un agente, perché si trovava nel Parco della Fossa e non, per esempio, in una base navale lungo l'Oceano Occidentale? Il morgaffo gli lanciò un'occhiataccia: «Se ha finito di esaminare il mio lavoro, liberuomo, forse porterà la colazione a qualcun altro». «Certamente» rispose Radnal nel tono più glaciale che poteva. Di sicuro Dokhnor aveva la proverbiale arroganza dei morgaffi. Forse questa era la prova che non era una spia. Una vera spia sarebbe stata più affabile. O forse una vera spia avrebbe pensato che nessuno si sarebbe aspettato un comportamento da spia e si sarebbe comportata come una spia in incognito. Radnal si rese conto che poteva allungare la catena all'infinito con l'immaginazione. Ci rinunciò. Quando i contenitori della colazione furono terminati, i sacchi a pelo sgonfiati e ripiegati, il gruppo si accinse a rimontare sugli asini per il viaggio verso il Parco della Fossa vero e proprio. Come aveva già fatto la notte prima, Radnal avvertì: «Oggi il sentiero sarà molto più ripido. Se lo affrontiamo con calma e attenzione, andrà tutto bene». Non ebbe il tempo di finire la frase che la terra tremò sotto i piedi. Tutti rimasero perfettamente immobili, tranne un paio che lanciarono esclamazioni di spavento. D'altro canto, tutti gli uccelli caddero in silenzio. Radnal viveva da sempre in quella terra ad alta sismicità. Attese che il tremore terminasse e così infatti accadde dopo qualche cardiobattito. «Niente di cui preoccuparsi» disse quando il terremoto finì. «Questa parte del Tartesh è attiva sotto il profilo sismico, probabilmente a causa del mare interno prosciugatosi tanto di quel tempo fa. La crosta terrestre sta ancora adattandosi alla mancanza di peso della grande quantità di acqua venuta meno. Ci sono diverse faglie tettoniche nell'area, alcune in prossimità della superficie.» Dokhnor di Kellef alzò una mano: «E se un terremoto facesse, come dire, cadere i Monti della Barriera?» «Le Terrefonde sarebbero inondate.» Radnal si fece una risata. «Liberaomo, se non è accaduto negli ultimi cinque o sei milioni di anni, non perderò il sonno al pensiero che possa succedere domani o ogni volta che
scendo nel Parco della Fossa.» Il morgaffo annuì cortesemente: «Mi pare una risposta sensata. Proceda pure, liberuomo». Radnal ebbe l'impulso di fargli un saluto militare. Parlava con la stessa naturale presunzione di autorità tipica degli ufficiali tarteshani. La guida turistica montò sull'asino, aspettò che gli altri si allineassero alla rinfusa dietro di sé e fece un cenno: «Andiamo». Il sentiero che scendeva nel Parco della Fossa era pieno di crepe e rovinato dalla roccia che una volta era stato il fondo del mare. Era largo solo sei o otto cubiti e spesso procedeva a zigzag. Un motore con la trazione a quattro ruote ce l'avrebbe fatta, ma Radnal non avrebbe voluto essere quello che ci provava alla guida della barra. Il suo asino strappò un gladiolo e si mise a masticarlo. Questo gli rammentò una cosa che aveva dimenticato di segnalare al gruppo. Perciò disse: «Quando saremo più giù nel parco, dovete impedire ai vostri animali di brucare. Lì il suolo contiene grosse quantità di sostanze come il selenio e il tellùrio, oltre ai consueti minerali. Si sono concentrate durante l'evaporazione del mare. Non sono dannose per le piante delle Terrefonde, ma lo sono eccome per gli asini, fino forse a ucciderli, se mangiano quelle sbagliate». «E come facciamo a sapere quali lo sono?» chiese a gran voce Eltsac vez Martois. Soppresse l'impulso di sbattere Eltsac fuori dal sentiero e farlo rotolare giù nel Parco della Fossa. Quell'idiota d'un turista sarebbe probabilmente atterrato sulla testa, che con ogni evidenza era troppo dura per essere danneggiata soltanto da una caduta di qualche migliaio di cubiti. Rispose: «Non permettete in nessun caso al vostro asino di brucare. Quelli da soma portano il foraggio e ce ne sarà dell'altro al rifugio». Il gruppo cavalcò in silenzio per un po'. Poi Toglo zev Pamdal disse: «Questo sentiero mi ricorda quello nel gran canyon che attraversa il deserto occidentale nell'impero di Stekia, sul Doppio Continente». Radnal fu nello stesso tempo lieto che Toglo gli rivolgesse la parola e invidioso della ricchezza che le permetteva di viaggiare. Solo una parente collaterale del Tiranno Ereditario, eh? «Io invece ho visto solo delle foto» disse con una punta di desiderio. «Immagino vi sia qualche similarità nell'aspetto, ma il canyon si è formato in modo diverso dalle Terrefonde: per erosione, non per evaporazione.» «Sì, è così» disse lei. «Anch'io ho visto solo delle foto.»
«Oh.» Forse, dopotutto, era davvero una lontana parente. «Il gran canyon» riprese lui «somiglia molto di più alle gole scavate dai nostri fiumi prima di tuffarsi in quello che una volta era il fondale marino per formare i Laghi Acri nelle parti più basse delle Terrefonde. Ce n'è uno minuscolo nel Parco della Fossa, anche se si prosciuga spesso. È il fiume Dalorz, che però non ha un flusso sufficiente a mantenere alto il livello del lago.» Poco dopo, quando il sentiero deviò a ovest intorno a un masso di calcare, molti turisti si lanciarono in esclamazioni alla vista di un brumoso pennacchio di acqua che si riversava sul fondo del parco. «È il Dalorz?» domandò Lofosa. «Esatto» rispose Radnal. «Ma ha un corso troppo irregolare, perciò il Tartesh non ha ritenuto opportuno costruire una centrale energetica nel punto in cui si riversa dall'antica piattaforma continentale, anche se l'abbiamo fatto con altri fiumi più grandi. Sono quelli che forniscono oltre tre quarti della nostra elettricità: un altro vantaggio delle Terrefonde.» Nel cielo passavano da oriente a occidente delle nubi che parevano di zucchero filato. A parte queste, nient'altro si frapponeva dinanzi al sole che picchiava sui turisti con sempre maggiore intensità man mano che scendevano. Gli asini scalciavano polvere a ogni passo. «Qui non piove mai?» domandò Evillia. «Non molto spesso» ammise Radnal. «Il deserto delle Terrefonde è uno dei punti più aridi della Terra. I Monti della Barriera raccolgono quasi tutta l'umidità che spira dall'Oceano Occidentale, e il resto finisce sulle altre catene montuose che si estendono verso le Terrefonde da nord. Ma ogni due o tre anni il Parco della Fossa subisce un diluvio. Sono i periodi più pericolosi da queste parti. Un torrente può tracimare in un dilavamento e travolgervi prima che ve ne rendiate conto.» «Ma sono anche i periodi più belli» disse Toglo zev Pamdal. «Sono state proprio delle foto del Parco della Fossa dopo una pioggia a spingermi a venire, e ho avuto la fortuna di trovarmici durante la mia ultima visita.» «Una fortuna che vorrei condividere» disse Dokhnor di Kellef. «Ho portato dei pastelli a colori oltre al carboncino, nel caso mi riesca di ritrarre la vegetazione dopo la pioggia.» «Le circostanze le sono sfavorevoli, anche se la damalibera è stata fortunata a suo tempo» disse Radnal. Dokhnor allargò le mani in segno di approvazione. Come tutto quello che faceva, il gesto fu rigido, contenuto, perfettamente controllato. Radnal non riusciva a immaginarselo preso dagli slanci dell'estasi artistica per i fiori del deserto, per quanto rari e stu-
pendi. Disse: «I fiori sono belli, ma sono solo la punta dell'iceberg, se mi si consente di usare un paragone del tutto inappropriato. Ogni forma di vita nel Parco della Fossa dipende dall'acqua, come del resto da ogni altra parte. Qui si è adattata a sfruttarne molto poca, ma non a farne del tutto a meno. Appena giunge la benché minima umidità, piante e animali cercano di assorbirne quanto basta allo sviluppo per un'intera generazione e a riprodursi in quel minuscolo frangente che impiega a prosciugarsi». Quasi un quarto di decima dopo, un cartello al margine del sentiero annunciò che i turisti ora si trovavano al di sotto del livello marino più di quanto fosse possibile in qualsiasi altro posto fuori dalle Terrefonde. Radnal lo lesse ad alta voce e fece notare, con evidente soddisfazione, che il lago salato che costituiva il punto successivo più sommerso sulla terraferma si trovava in prossimità delle Terrefonde e poteva quasi considerarsene un prolungamento. Il figlio di Moblay Sopsirk disse: «Non credevo ci fosse gente così orgogliosa di questa desolazione da volerci includere ancora una parte del Grande Continente». La pelle bruna gli impediva di arrostire sotto il sole del deserto, ma il sudore gli imperlava le braccia nude e il torso. Poco oltre la metà della discesa, sulla roccia era stata ricavata un'ampia piazzola di sosta. Radnal permise ai turisti di fermarsi per un po' a sgranchire le gambe, alleviare il posteriore e servirsi della puzzolente latrina. Passò in giro le razioni preconfezionate ignorando le recriminazioni del gruppo. Notò che Dokhnor di Kellef mangiava il pasto senza lamentarsi. Gettò la propria confezione vuota nel bidone accanto alla latrina, poi, a un paio di cubiti dal bordo del sentiero diede un'occhiata in basso, al letto delle Terrefonde. Visto da lì, il Parco diventava spettacolare dopo qualcuna delle rare piogge. Ora invece era soltanto cotto dal sole: piccole pozze chiare di sale, terra brunastra o giallognola, ciuffi di vegetazione d'un verde avvizzito sparsi qua e là. Neanche l'area intorno al rifugio era irrigata artificialmente: il Tiranno aveva prescritto per legge che il Parco della Fossa dovesse restare incontaminato. Mentre uscivano dal sentiero e si avviavano sul fondo dell'antico mare verso il rifugio, Evillia disse: «Pensavo che fosse come stare in fondo a un catino, con montagne tutt'attorno. Invece non mi pare. Vedo soltanto quelle da cui siamo scesi e i Monti della Barriera a ovest, ma a est non c'è niente e a sud è lo stesso, più o meno. Solo qualche ombra all'orizzonte». «Anch'io mio aspettavo che sarebbe stato come il fondo di un catino la
prima volta che sono venuto qui» disse Radnal. «E in effetti siamo sul fondo di un catino. Ma non sembra, perché le Terrefonde sono piuttosto estese in confronto alla loro profondità. È un immenso catino poco profondo. Quello che lo rende interessante è che la sommità è allo stesso livello del fondo di gran parte degli altri catini geologici, mentre il fondo è più basso di tutti.» «Cosa sono quelle crepe?» domandò Toglo zev Pamdal indicando delle fessure nel terreno che tagliavano la strada alla comitiva. Alcune non erano più larghe di un chicco d'orzo, altre, simili a bocche spalancate, presentavano aperture di un paio di dita da una sponda all'altra. «In un terreno arido come questo, si ritrovano crepe di ogni tipo sul suolo, per via del fango che si asciuga in modo diseguale dopo ogni pioggia» disse Radnal. «Ma quelle che avete appena visto corrono lungo una faglia. Il terremoto che abbiamo sentito poc'anzi probabilmente è stato provocato proprio da questa faglia: è il tratto distintivo di due zolle tettoniche della crosta terrestre che entrano in collisione.» A Nocso zev Martois sfuggì un'esclamazione spaventata: «Vuol dire che se ci capita un altro terremoto quelle crepe si allargano e ci inghiottono?» Diede uno strattone alle redini dell'asino, come per affrettarsi e allontanarsi il più possibile dalla faglia. Radnal evitò di ridere: la Tirannia non lo pagava per ridere in faccia ai turisti. Rispose serio: «Se si preoccupa perfino di un'evenienza così remota, tanto varrebbe temere che il cielo le cada in testa; c'è la medesima probabilità». «Ne è davvero sicuro?» Anche Lofosa pareva ansiosa. «Ne sono sicuro.» Cercò d'indovinare da dove venissero lei ed Evillia: probabilmente dall'Unità del Krepalga, a giudicare dall'accento. Il Krepalga era la nazione altatesta all'estremo limite nordoccidentale. A ovest confinava con le Terrefonde. Soprattutto, anche quello era un territorio ad alta sismicità. Se Lofosa ne sapeva così poco di terremoti, non doveva avere molto cervello. E se Lofosa non aveva molto cervello, come giudicare il fatto che lei ed Evillia avessero scelto Radnal per divertirsi? Nessuno dovrebbe mettere in dubbio le capacità intellettive dei propri partner sessuali, perché la cosa si riflette su di sé. Radnal fece quello che avrebbe fatto qualsiasi individuo sensato: cambiò argomento. «Presto arriveremo al rifugio, perciò è il caso di pensare piuttosto a sfilare la vostra roba dalle bisacce e riporla nei cubicoli da notte.»
«Io invece voglio pensare a darmi una strigliata» lo contraddisse il figlio di Moblay Sopsirk. «A ognuno di voi spetta un secchio di acqua al giorno per uso personale» disse, e tagliò corto col coro di brontolii. «Non lamentatevi: gli opuscoli sono chiari in proposito. Quasi tutta l'acqua dolce arriva nel Parco della Fossa attraverso il sentiero che abbiamo percorso, in groppa a questi asini. Pensate a come vi godrete un bel bagno caldo quando usciremo dal parco.» «Pensate a come avremo bisogno di un bel bagno caldo quando usciremo dal parco» disse il fronteforte anziano che per Radnal era uno che spendeva tutto l'argento accumulato in vita sua (con suo imbarazzo, aveva dimenticato il nome di quel tipo). «Per le altatesta non è un grosso problema, perché i loro corpi sono perlopiù glabri, ma tutte le mie setole saranno un intrico di grasso al termine dell'escursione.» Lanciò un'occhiataccia a Radnal, come se fosse colpa sua. Intervenne Toglo zev Pamdal: «Inutile innervosirsi, liberuomo vez Maprab». Benter vez Maprab, ecco chi era, pensò Radnal, con un'occhiata di gratitudine a Toglo. Lei però stava ancora parlando al vecchio fronteforte: «Ho un barattolo di detergente a secco per peli. Basta passarselo con un pettine, ed è più di quanto me ne occorra. Lo dividerò con lei». «Be', è gentile da parte sua» disse Benter vez Maprab, addolcendosi. «Avrei dovuto portarmene un po' anch'io.» Certo che avresti dovuto, vecchio scemo, anziché lamentarti, pensò Radnal. Notò anche che Toglo, ancor prima del viaggio, aveva già capito cosa portarsi. Gli sembrava giusto, anche lui avrebbe fatto lo stesso se fosse stato un turista anziché la guida. Naturalmente se avesse dimenticato il detergente a secco per peli, se ne sarebbe fatto prestare un po' da lei. Respirò a fondo. Forse era troppo pratico per il suo stesso bene. Qualcosa di piccolo e sbiadito sfilò tra gli zoccoli degli asini e scomparve a balzelli in una macchia di oleandro. «Cos'era?» domandarono in molti, mentre spariva tra le foglie cadute ai piedi delle piante. «È una delle specie di dipo che vive quaggiù» rispose Radnal. «Non saprei dirvi esattamente quale con un'occhiata di due soli cardiobattiti. Ci sono molte varietà in tutte le Terrefonde. Vivevano in territori aridi quando esisteva ancora il mare interno e si erano evoluti per procurarsi l'umidità necessaria dal cibo. Questo li ha adattati in anticipo a farcela qui, dove l'acqua è così scarsa.» «Sono pericolosi?» domandò Nocso zev Martois.
«Solo se lei fosse un cespuglio» disse Radnal. «In realtà non è proprio così. Alcuni si nutrono di insetti, e una specie, quella dei dentiaguzzi, dà la caccia e uccide i parenti più piccoli. Costituiva una minuscola categoria di predatori prima che nelle Terrefonde si insediassero dei carnivori veri e propri. Oggi è poco diffusa, specie al di fuori del Parco della Fossa, ma se ne trovano ancora degli esemplari, spesso nei posti più torridi e secchi, dove non resistono altri carnivori.» Poco dopo la guida indicò una pianticella informe, dalle foglioline di un colore verdognolo bruno: «Chi sa che cos'è?» Faceva quella domanda ogni volta che portava un gruppo sul sentiero, e solo una volta gli avevano risposto esattamente, dopo una pioggia. Ma ora Benter vez Maprab disse sicuro: «È un'orchidea delle Terrefonde, liberuomo vez Krobir, e per giunta di tipo comune. Solo se ce ne avesse fatta vedere una a venatura rossa, sarebbe valsa la pena di fare tutta questa scena». «Ha ragione, liberuomo, è proprio un'orchidea. Però non somiglia molto a quelle che si vedono nei climi più ospitali, vero?» disse Radnal, con un sorriso all'anziano fronteforte. Forse era un appassionato di orchidee, e probabilmente era questo il motivo della sua venuta nelle Terrefonde. Benter per tutta risposta si limitò a brontolare e ad aggrottare le ciglia. Evidentemente si aspettava di vedere una rara orchidea a venatura rossa fin dal primo giorno nel parco. Radnal decise di perquisirgli i bagagli alla fine dell'escursione: era vietato per legge portare fuori dal parco qualsiasi specie di esemplare. Spuntò un dipo, che si mise a rosicchiare una foglia dell'orchidea. In un lampo da dietro la pianta sbucò qualcosa che afferrò il roditore e scappò via. I turisti tempestarono Radnal di domande: «Ha visto?» «Cos'era?» «Dov'è andato?» «Era un uccello koprit» rispose. «Veloce, vero? Appartiene alla famiglia dell'averla maggiore, ma si è adattato di più a vivere al suolo. Può volare, ma in genere corre. Dato che gli uccelli emettono urea sotto forma più o meno solida, non di urina come i mammiferi, se la cavano abbastanza bene nelle Terrefonde.» Indicò il rifugio, che adesso era a poche centinaia di cubiti. «Vedete? C'è un altro uccello koprit sul tetto che si guarda attorno per vedere cosa gli riesce di prendere.» Un paio di dipendenti del parco uscirono dal rifugio. Salutarono Radnal e presero le redini dai turisti e li aiutarono a sistemare gli asini nella stalla. «Portate solo lo stretto indispensabile per la notte, al rifugio» disse uno di loro, Fer vez Canthal. «Il resto lasciatelo nelle bisacce da sella, per il viag-
gio di domani. Meno fate e disfate i bagagli, meglio è.» Alcuni turisti, viaggiatori veterani, annuirono all'ottimo consiglio. Evillia e Lofosa proruppero in esclamazioni, come se fosse inaudito. Con un moto di disappunto per la loro ingenuità Radnal distolse lo sguardo dalle due, ma erano troppo carine. Anche il figlio di Moblay Sopsirk la pensava così. Mentre il gruppo si avviava dalla stalla al rifugio, lui andò dietro a Evillia e le mise una mano attorno alla vita. Nel contempo dovette cadere, perché il suo grido di spavento fece voltare di scatto Radnal verso di loro. Moblay era lungo disteso sul lercio pavimento della stalla. Evillia barcollò, agitò disperatamente le braccia e gli piombò addosso pesantemente. Lui gridò di nuovo, e gli mancò il fiato quando lei, per rialzarsi, lo colpì col gomito alla bocca dello stomaco. La ragazza, quasi fosse la personificazione della sollecitudine, guardò l'uomo a terra: «Mi dispiace» disse. «Mi ha spaventata.» Moblay ci impiegò un po' di tempo a sedersi, per non dire a rialzarsi. Alla fine disse ansante: «Non mi azzarderò mai più a toccarla» in un tono che sottintendeva che era lei a rimetterci. Lei se ne infischiò. Radnal disse: «Dovremmo ricordare che veniamo da Paesi diversi e abbiamo usi diversi. Se ci comportiamo con calma e attenzione, eviteremo di metterci a disagio reciprocamente». «Perché, liberuomo, lei si sentiva a disagio stanotte?» chiese Lofosa. Invece di rispondere, Radnal si mise a tossire. Lofosa ed Evillia scoppiarono a ridere. Nonostante quello che aveva detto Fer vez Canthal, si limitavano a trasportare le loro bisacce nel rifugio. Forse non avevano molto cervello, ma i corpi, quei corpi così levigati, oh, così nudi, erano tutta un'altra cosa. Il rifugio non era niente di lusso, ma in compenso aveva delle retine per tener fuori gli insetti delle Terrefonde, luci elettriche e ventilatori che, pur non rinfrescando l'aria del deserto, almeno la agitavano un po'. C'era anche un frigorifero. «Niente razioni preconfezionate stanotte» disse Radnal. I turisti sorrisero con gratitudine. La buca di cottura era all'esterno: il rifugio era già fin troppo caldo senza accendere un fuoco all'interno. Fer vez Canthal e l'altro dipendente, Zosel vez Glesir la riempirono di pezzi di carbone, li irrorarono di combustibile e li accesero. Poi misero una carcassa smembrata di agnello su una griglia e la sospesero sulla buca. Ogni tanto uno dei due la cospargeva di una salsa piena di pepe e aglio. La salsa e il grasso fuso colavano sulle braci e sfri-
golavano fra nuvolette di fumo profumato. Radnal aveva l'acquolina in bocca. Nel frigorifero c'era anche idromele, vino di datteri e d'uva e birra. Qualche turista bevve smodatamente. Con grande sorpresa di Radnal, Dokhnor di Kellef prese solo acqua ghiacciata. «Ho fatto voto alla Dea» spiegò. «Non è affar mio» rispose Radnal, ma gli si risvegliarono i sospetti. La Dea era la divinità adorata più di frequente dall'aristocrazia militare morgaffa. Forse annoverava tra i fedeli anche un artista in viaggio, ma per Radnal era improbabile. Comunque non ebbe il tempo di attardarsi sul problema di Dokhnor. Zosel vez Glesir lo chiamò a fare onore all'agnello. Con un grosso paio di bastoncini da pasto ne prese un pezzo alla volta, posandoli in piatti di carta. I Martois mangiarono come gatti delle caverne affamati. A Radnal vennero i sensi di colpa: forse le razioni ordinarie non bastavano per loro. Poi guardò la carne in sovrappiù che gonfiava le loro vesti. I sensi di colpa scomparvero. Non si sarebbero certo sciupati. Evillia e Lofosa si erano già versate diversi boccali di vino di datteri e la cosa ben presto provocò delle difficoltà alle ragazze. In genere i krepalgani mangiavano con coltello e spiedo, e loro due maneggiavano a fatica i bastoncini da pasto usa e getta. Dopo aver tagliato la carne a pezzettini, Lofosa li rincorreva nel piatto senza riuscire a prenderli. Evillia ci riusciva, ma le cadevano mentre cercava di portali alla bocca. Sembravano tutte e due delle allegre ubriache, e ridevano dei loro stessi incidenti. Perfino l'impettito Dokhnor arrivò a cercare di insegnare alle ragazze come usare i bastoncini. Ma la sua lezione non sortì grandi effetti, anche se le due altatesta gli si avvicinarono tanto da ingelosire Radnal. «Lei è così bravo» disse Evillia. «Voi morgaffi dovete usarli ogni giorno.» Dokhnor scosse la testa nel cenno negativo della sua gente: «La nostra posata abituale ha denti, cucchiaio e lama in un'unica soluzione. I tarteshani dicono che siamo silenziosi perché rischiamo di tagliarci la lingua ogni volta che apriamo la bocca. Ma io ho viaggiato nel Tartesh e ho imparato a cavarmela con i bastoncini». «Mi lasci riprovare» disse Evillia. Stavolta fece cadere il pezzo di agnello sulla coscia di Dokhnor e lo prese con le dita. Dopo aver indugiato con la mano sulla gamba del morgaffo quanto bastava a dare un'altra fitta di gelosia a Radnal, si mise in bocca il pezzettino. Il figlio di Moblay Sopsirk iniziò a cantare nella sua lingua. Radnal non
capiva quasi nessuna delle parole, ma il motivo era pieno di brio, sciolto e facile da seguire. Ben presto l'intero gruppo batteva il tempo con le mani. Si passò ad altre canzoni. Fer vez Canthal era un potente baritono. Tutti nel gruppo parlavano tarteshano, ma non tutti conoscevano le canzoni del Tartesh tanto da fargli il coro. Come per Moblay, quelli che non sapevano cantare battevano le mani. Al cadere della notte arrivarono nugoli di moscerini che pizzicavano. Radnal e gli altri si ritirarono nel rifugio, le cui retine proteggevano dalle punture. «Ora capisco perché portate addosso tanta roba» disse Moblay. «Sono armature contro gli insetti.» L'altatesta bruno aveva l'aria di chi non sa da dove cominciare a grattarsi. «Ovvio» disse Radnal, sorpreso che Moblay ci avesse messo così tanto a rendersi conto dell'evidenza. «Ma se sta fermo per un paio di cardiobattiti, abbiamo uno spray per eliminare il prurito.» Moblay sospirò mentre Radnal gli spruzzava addosso l'analgesico. «Nessuno vuol sentire un'altra canzone?» Stavolta la risposta fu scarsa. Stando al coperto, certa gente si sentiva inibita. Altri invece si ricordarono che la giornata era stata lunga. Così Toglo zev Pamdal non fu l'unica turista ad andarsene nel cubicolo da notte. Dokhnor di Kellef e il vecchio Benter vez Maprab avevano scovato una scacchiera di guerra e ben presto furono assorbiti da una partita. Moblay si avvicinò a guardare. Lo stesso fece Radnal, che si dilettava anche lui negli scacchi di guerra. Dokhnor, che aveva i pezzi blu, mosse un fante sulla fascia vuota che separava il suo lato della scacchiera da quello avversario. «Attraversamento del fiume» disse Moblay. «È così che si chiama in lissonese lo spazio vuoto?» disse Radnal. «Da noi è la fossa.» «E in morgaffo è la Manica, come il canale che separa le nostre isole dal Tartesh» disse Dokhnor. «Tanto non importa come si chiama: il gioco è lo stesso dovunque.» «Un gioco che richiede silenzio e concentrazione» disse Benter, con una chiara allusione. Dopo un po' di riflessione, mosse un consigliere (si chiamava così il pezzo sul lato rosso della scacchiera; l'equivalente blu era l'elefante) di due caselle in diagonale. Le pause di concentrazione del vecchio tarteshano divennero più frequenti man mano che il gioco proseguiva. L'attacco di Dokhnor aveva co-
stretto il governatore rosso a sgattaiolare lungo le linee verticali e orizzontali della sua fortezza, e le sue guardie lungo le diagonali a sfuggire o bloccare i pezzi blu. Finalmente Dokhnor allineò uno dei propri cannoni con quello dell'altro e dichiarò: «La partita è finita». Benter annuì tetro. Era difficile giocarsi bene il cannone (il pezzo rosso dell'identico valore era la catapulta): si muoveva in verticale e in orizzontale, ma ogni volta doveva scavalcare un altro pezzo. Così era il cannone posteriore, non quello anteriore che minacciava il governatore rosso. Ma se Benter avesse interposto una guardia o uno dei suoi carri da combattimento, la minaccia si sarebbe spostata al cannone anteriore. «Ha giocato benissimo» disse Benter. Si alzò dalla scacchiera di guerra e andò a un cubicolo. «Chi vuol farsi una partita?» chiese Dokhnor agli spettatori. Il figlio di Moblay Sopsirk scosse la testa. Radnal invece disse: «Io l'ho fatta, vedendola giocare. Non mi dispiace battermi con un avversario superiore, purché mi resti qualche possibilità. Anche perdendo, c'è sempre da imparare. Ma lei mi ha appena messo a tappeto, e sotto certi aspetti ci resterò per un po'». «Come vuole.» Dokhnor piegò la scacchiera, fece scorrere i dischetti nel sacchetto e ripose il tutto su una mensola. «In tal caso, vado a letto.» Si recò al cubicolo prescelto quasi a passo di marcia. Radnal e Moblay si guardarono dapprima l'un l'altro, poi si voltarono verso la scacchiera. Per tacita intesa, entrambi parvero convenire che se nessuno dei due voleva cimentarsi con Dokhnor di Kellef, giocare tra di loro sarebbe stato scortese. «Un'altra sera» disse Radnal. «Mi sembra giusto.» Moblay sbadigliò, scoprendo i denti tanto più candidi in contrasto col bruno della pelle. «Tanto sono quasi sfinito... no, si dice finito in tarteshano, vero? Be', ci vediamo domattina, Radnal.» Ancora una volta la guida turistica dovette reprimere l'irritazione perché Moblay aveva omesso la particella di cortesia vez. All'inizio, quando gli stranieri dimenticavano quel vezzo della grammatica tarteshana, gli sembrava di essere deliberatamente insultato. Ora sapeva che non era così, eppure notava ancora l'omissione. Dal cubicolo di Dokhnor veniva un lumicino: una lampada da lettura a batteria. Però il morgaffo non stava leggendo. Sedeva sulla stuoia da notte con le spalle contro il muro. Aveva il taccuino da disegno sulle ginocchia ripiegate. Radnal sentì il lieve graffiare del carboncino sulla carta. «Che fa?» bisbigliò Fer vez Canthal. Una generazione di pace non ba-
stava a instillare nella maggior parte dei tarteshani la fiducia nei loro vicini isolani. «Disegna» rispose Radnal, anche lui a bassa voce. Nessuno dei due voleva attirare l'attenzione di Dokhnor. Avrebbe potuto sembrare una risposta innocente. Ma non lo era. Radnal continuò: «Secondo i suoi documenti di viaggio, è un artista». Ancora quel tono rivelatore. «Se è davvero una spia, Radnal vez» disse Zosel vez Glesir «avrebbe una macchina fotografica, non un taccuino da disegno. Tutti portano la macchina fotografica nel Parco della Fossa, non ci si farebbe neppure caso.» «Vero» disse Radnal. «Ma non si comporta da artista. Si comporta da membro della casta degli alti ufficiali morgaffi. L'hai sentito: ha fatto voto alla loro Dea.» Fer vez Canthal disse qualcosa di irriverente sulla Dea morgaffa. Ma prima di farlo abbassò ancor di più la voce. Un ufficiale morgaffo, nel sentire un'offesa alla propria divinità, avrebbe potuto lanciare una sfida formale. E visto che nel Tartesh i duelli erano illegali, avrebbe potuto limitarsi a uccidere. L'unica cosa certa era che non avrebbe certo ignorato l'insulto. «Non possiamo fargli e farci niente, a meno che non scopriamo che sta davvero spiando» disse Zosel vez Glesir. «Sì» disse Radnal. «L'ultima cosa che vuole il Tartesh è offrire il destro al Morgaf per un incidente.» Pensò a cosa sarebbe capitato a chi commetteva un errore così grossolano. Nulla di buono, poco ma sicuro. Poi gli venne in mente un'altra cosa: «A proposito del Tiranno, sai chi c'è nel gruppo? Nientemeno che la damalibera Toglo zev Pamdal». A Zosel e Fer sfuggirono dei fischi sommessi. «Hai fatto bene ad avvertirci» disse Zosel. «Le faremo scudo coi nostri corpi.» «Non credo ci tenga granché» disse Radnal. «Certo, trattatela bene, ma senza esagerare.» Zosel annuì. Fer aveva ancora in mente Dokhnor di Kellcf: «Se è davvero una spia, che cosa ci fa nel Parco della Fossa anziché in un posto importante?» «Ci ho pensato anch'io» disse Radnal. «Una copertura, forse. D'altronde, chissà dove andrà al termine dell'escursione.» «Se non altro so dove me ne andrò io adesso» disse Zosel, sbadigliando. «A letto. Se volete restare in piedi tutta la notte a preoccuparvi delle spie, fate pure.» «No, grazie» rispose Fer. «Una spia dev'essere pazza o in vacanza per
venire nel Parco della Fossa. Se è pazzo, non dobbiamo preoccuparci di lui, e del resto neanche se è in vacanza ci tocca prendercene briga. Perciò vado a letto anch'io.» «E se pensate che me ne resti a parlare da solo, siete pazzi tutti e due» disse Radnal. I tre tarteshani si alzarono. La lampada da lettura di Dokhnor si spense, e il suo cubicolo piombò nell'oscurità. Radnal attenuò la luce nella sala comune. Si gettò sulla stuoia da notte con un lungo sospiro. Avrebbe preferito stare all'esterno, raggomitolato in un sacco a pelo, sotto una rete contro i moscerini. Era questo il prezzo che pagava per fare quello che più gli piaceva la maggior parte del tempo. Sapeva che di lì a poco le sue russate si sarebbe aggiunte a quelle dei turisti. Poi all'ingresso del suo cubicolo apparvero due forme femminili. Per gli dei, non un'altra volta, pensò con gli occhi sgranati che sottolineavano quanto fosse stanco. Disse: «Non date molta importanza al sonno?» Evillia rise piano, o forse era Lofosa. «Non quando c'è di meglio da fare» disse Lofosa. «Inoltre, abbiamo qualche nuova ideuzza. Ma possiamo sempre vedere se c'è qualcun altro sveglio.» Radnal era sul punto di dirle di farlo e portarsi Evillia. Invece si sentì dire: «No». La notte precedente aveva avuto per lui un valore educativo che non si sarebbe mai sognato. Era proprio quello che immaginava la gente quando si parlava dei benefici accessori di un posto da guida. Fino alla notte scorsa, credeva si trattasse di storie inventate: in due anni da guida non aveva mai corso la cavallina con una turista. Ora... il volto gli si allargò in un sorriso sentendosi crescere all'altezza della situazione. Le altatesta vennero dentro. Come avevano promesso, provarono nuove cose a tre. Si domandava fin quando poteva durare la loro inventiva, e se lui poteva durare altrettanto. Di certo sarebbe stato bello provarci. La sua capacità di resistenza e l'estro delle ragazze si affievolirono di pari passo. Ricordava che si erano alzate dalla stuoia. Gli pareva di ricordare che erano andate nella sala comune. Dopodiché era certo di non ricordare più nulla. Dormì come un ciocco di una foresta pietrificata. Quando l'urlo lo scosse dal sonno, il suo primo pensiero confuso fu che erano passati solo un paio di cardiobattiti. Ma un'occhiata all'orologio tascabile mentre si allacciava la veste gli rivelò che era quasi l'alba. Si precipitò nella sala comune. Molti turisti erano già lì, alcuni vestiti altri no. Altri arrivavano a ogni istante, insieme agli altri due dipendenti del Parco della Fossa. Tutti non fa-
cevano che dire: «Che succede?» Anche se nessuno rispondeva esplicitamente alla domanda, non ce n'era bisogno. Evillia, nuda come quando se la spassava con Radnal, stava in piedi accanto al tavolo dove Benter vez Maprab e Dokhnor di Kellef avevano giocato alla guerra. C'era anche lo stesso Dokhnor, ma non in piedi. Stava lungo disteso sul pavimento, con la testa piegata in un angolo innaturale. Evillia si era messa un pugno in bocca per reprimere un altro grido. Se lo tolse e disse tremula: «È... è morto?» Radnal andò a grandi passi verso Dokhnor, gli afferrò il polso e sentì il battito. Non ce n'era, e il morgaffo non respirava. «Esatto, è morto» disse cupo Radnal. Evillia gemette. Le si piegarono le ginocchia e cadde addosso a Radnal che stava curvo in avanti. Quando Evillia svenne, Lofosa strillò e corse verso di lei per aiutarla. Anche Nocso zev Martois strillò, e più forte ancora. Il figlio di Moblay Sopsirk si affrettò verso Radnal ed Evillia, imitato da Fer vez Canthal e Zosel vez Glesir. Così fece anche un altro turista, un altatesta che aveva parlato poco durante la discesa al rifugio. Si intralciavano tutti a vicenda. Al che l'altatesta silenzioso smise di esserlo e gridò: «Sono un medico, che i sei milioni di dei vi maledicano! Fatemi passare!» «Lasciate passare il medico» tuonò Radnal, facendosi scivolare di dosso Evillia e posandola sul pavimento il più delicatamente possibile. «Si occupi prima di lei, liberuomo Golobol» aggiunse, lieto di ricordare il nome del dottore. «Temo che ormai sia troppo tardi per Dokhnor.» Golobol era bruno quasi quanto Moblay, ma parlava il tarteshano con un accento diverso. Mentre si chinava su Evillia, lei gemette e si mosse. «Starà bene, oh sì, ne sono certo» disse. «Ma questo poveraccio...» Come Radnal, il medico sentì il battito di Dokhnor. E come Radnal, si accorse che non c'era. «Lei ha ragione, signore. Quest'uomo è morto. È morto già da un po'.» «Come fa a saperlo?» chiese Radnal. «L'ha tastato, no?» disse il medico. «Certo avrà notato che la carne a iniziato a raffreddarglisi. Oh sì, altroché.» Ripensandoci, Radnal l'aveva in effetti notato, ma non vi aveva prestato particolare attenzione. Si era sempre fatto un vanto di aver imparato piuttosto bene le nozioni di pronto soccorso. Tuttavia non era un medico, e
non teneva automaticamente conto di tutto, come avrebbe fatto un medico. Ma il suo rincrescimento fu interrotto quando Evillia lanciò un urlo di cui sarebbe stato fiero un gatto delle caverne a caccia. Lofosa si chinò su di lei e le parlò nella loro lingua. L'urlo s'interruppe. Radnal cominciò a pensare cosa c'era da fare. Golobol disse: «Signore, guardi qui, se non le spiace». Golobol indicò un punto dietro al collo di Dokhnor, proprio al di sopra della macabra torsione. Radnal dovette ammettere: «Non vedo niente». «Voi fronteforte siete villosi, è per questo» disse Golobol. «Comunque guardi qui, questo, ehm scoloramento, è così che si dice nella vostra lingua? Sì? Bene. Sì. Questo scoloramento è il tipico segno che si ritrova dopo un colpo col taglio della mano, un colpo inferto per uccidere.» Nonostante il calore delle Terrefonde, Radnal si sentì ghiacciare la bocca dello stomaco. «Sta dicendomi che si tratta di omicidio?» La parola lacerò come un bisturi il parlottio nella stanza. Un cardiobattito prima c'era il caos, subito dopo il silenzio. In quel silenzio repentino e intenso Golobol ripose: «Sì». «Oh, per gli dei, che pasticcio» disse Fer vez Canthal. Per Radnal divenne tanto più urgente pensare al da farsi. Perché mai gli dei (anche se lui non credeva in tutti e sei i milioni di loro) avevano permesso l'assassinio proprio di una persona della sua comitiva turistica? E perché, per tutti gli dei in cui credeva, aveva dovuto trattarsi proprio del morgaffo? Il Morgaf sarebbe stato sospettoso, per non dire ostile, se uno dei propri sudditi fosse rimasto vittima di un delitto nel Tartesh. Se poi Dokhnor di Kellef era davvero una spia, il Morgaf sarebbe stato più che sospettoso. Il Morgaf sarebbe stato furioso. Radnal andò al radiofono. «Chi chiami?» chiese Fer. «Intanto la milizia del parco. Tanto in ogni caso bisogna avvertirli. E poi...» Radnal aspirò profondamente. «Poi penso sia meglio chiamare gli Occhi e Orecchie del Tiranno Ereditario, a Tarteshem. L'omicidio di un morgaffo consacrato alla Dea è un affare troppo serio per la sola milizia. Inoltre, preferirei che fosse un Occhio e Orecchio a informare il plenipotenziario morgaffo anziché provarci io.» «Sì, lo capisco» disse Fer. «Non vorrei che le cannoniere morgaffe attraversassero la Manica per assaltare le nostre coste solo perché tu hai detto una cosa sbagliata. O peggio...» L'addetto al rifugio scosse la testa. «No, neppure il re dell'arcipelago sarebbe tanto folle da mettersi a lanciare bombe stellari per una faccenda di portata tanto minima.» La voce di Fer si fe-
ce ansiosa. «O no?» «Non credo.» Ma anche Radnal era ansioso. La politica non era stata più la stessa dopo l'avvento delle bombe stellari, cinquant'anni prima. Né il Tartesh né il Morgaf le avevano usate, neanche quando erano in guerra, però entrambi i Paesi continuavano a costruirle. E lo stesso facevano altre otto o dieci nazioni sparse nel globo. Se scoppiava un'altra grande guerra, sarebbe potuta diventare facilmente la Grande Guerra, quella che tutti temevano. Radnal pigiò dei bottoni sul radiofono. Dopo un paio di scariche, rispose una voce: «Milizia del Parco della Fossa, parla il subdirigente vez Steries». «Dio ti benedica, Liem vez» disse Radnal. L'altro era un uomo che conosceva e gli era simpatico. «Sono vez Krobir, dal rifugio turistico. Spiacente di dirtelo, ma c'è stato un decesso. E ancora più spiacente, a quanto pare si tratta di un omicidio.» Radnal spiegò cos'era successo a Dokhnor di Kellef. Liem vez Steries replicò: «Non poteva essere un altro al posto del morgaffo? Adesso ti tocca tirare in ballo gli Occhi e Orecchie, e sanno solo gli dei che casino scoppierà». «Avevo già deciso di fare la prossima chiamata a Tarteshem» convenne Radnal. «Forse dovevi farla per prima, ma ormai...» disse Liem vez Steries. «Il tempo di far decollare un elicottero e arrivo con un addetto alle circostanze. Addio.» «Addio.» La chiamata successiva di Radnal passò attraverso un centralinista. Dopo circa duecento cardiobattiti, si ritrovò a parlare con un Occhio e Orecchio di nome Peggol vez Menk. Al contrario del miliziano del parco, Peggol interrompeva di continuo con domande, perciò la conversazione durò il doppio della prima. Quando Radnal terminò, l'Occhio e Orecchio disse: «Hai fatto bene a chiamarci, liberuomo vez Krobir. Ci occuperemo degli aspetti diplomatici e invieremo in volo una squadra per collaborare alle indagini. Non far uscire nessuno dal... rifugio, hai detto? Addio». Il radiofono aveva un diaframma per parlare sulla console, non il fonoauricolare portatile, più comune, e più riservato. Perciò avevano tutti sentito quel che aveva detto Peggol vez Menk. E non piaceva a nessuno. Evillia disse: «Significa che ce ne dobbiamo stare rinchiusi qua dentro... con un assassino?» Fu scossa da tremiti. Lofosa la abbracciò stretta. L'obiezione di Benter vez Maprab era differente: «Vede, liberuomo, io
ho sborsato un bel po' di argento per un'escursione nel Parco della Fossa, e intendo farlo. Altrimenti adirò le vie legali.» Radnal represse un gemito. La legislazione del Tartesh, basata fondamentalmente sul principio della fiducia, ci andava pesante con chi violava in qualsiasi modo un contratto. Se il vecchio fronteforte faceva causa, probabilmente avrebbe ottenuto un enorme riconoscimento di danni dal Parco della Fossa... e da Radnal, in qualità di individuo che non era stato in grado di espletare il servizio come da contratto. Come se non bastasse, cominciarono a protestare anche i Martois. Radnal, da individuo retto e onesto, non aveva mai dovuto ricorrere a un difensore in vita sua. Si chiese se aveva abbastanza argento per permettersene uno in gamba. Poi si chiese se gli fosse rimasto ancora dell'argento dopo essersela vista con turisti, tribunale e difensore. Toglo zev Pamdal tagliò corto con le chiacchiere: «Aspettiamo qualche cardiobattito. È morto un uomo. E questo è più importante di tutto il resto. Magari se c'è un ritardo nella fase iniziale dell'escursione, il Parco della Fossa ci risarcirà prolungandone la durata nel finale, a recupero del tempo per cui abbiamo pagato». «Ottima proposta, damalibera zev Pamdal» disse Radnal con gratitudine. Fer e Zosel annuirono. Un rombo lontano nel cielo crebbe fino a diventare assordante. L'elicottero della milizia sollevò un piccolo vortice di polvere atterrando tra le stalle e il rifugio. Ciottoli volanti rimbalzarono su muri e finestre. Il motore fu spento. Man mano che le pale rallentavano, la polvere ricadeva. Radnal si sentì come se un dio benevolo gli avesse scacciato di dosso un demone della notte. «Credo che la vostra permanenza si prolungherà al massimo di un giorno» disse allegro. «Com'è possibile, isolati qui in questo deserto abbandonato dagli dei?» disse ringhioso Eltsac vez Martois. «Proprio per questo» disse Radnal. «Proprio perché siamo nel deserto. Supponga che usciamo per vedere quel che c'è da vedere nel Parco della Fossa. Dove può scappare il colpevole a dorso d'asino? Se cerca di andarsene, sapremo subito chi è perché sarà l'unico a sparire, e lo rintracceremo subito con l'elicottero.» La guida turistica fece un sorriso radioso. I turisti fecero lo imitarono... compreso l'assassino che si trovava tra di loro, rammentò Radnal a se stesso. Nel rifugio entrarono Liem vez Steries e altri due miliziani del parco. Indossavano versioni militari dell'abbigliamento di Radnal: le loro vesti
lunghe anziché essere bianche erano a chiazze marroni e verdognole, e lo stesso i berretti a falde lunghe. Le mostrine erano opache, anche le fibbie metalliche dei sandali erano dipinte per evitare riflessi. Sul tavolo dove la notte prima Dokhnor e Benter vez Maprab avevano giocato alla guerra Liem posò un registratore. L'addetto alle circostanze si mise a scattare foto con un trasporto tale che pareva un turista. Domandò: «Il corpo è stato spostato?» «Solo quanto ci bastava ad assodare che l'uomo era morto» rispose Radnal. «Noi chi?» domandò l'addetto alle circostanze. Radnal presentò Golobol. Liem registrò le deposizioni di tutti: prima Evillia, che parlò tra lacrime e sospiri, quindi Radnal, dopodiché il medico, infine gli altri turisti e gli addetti al rifugio. Per la maggior parte di loro, fu un ripetersi a vicenda: avevano sentito un grido, si erano precipitati fuori dai cubicoli e avevano visto Evillia china sul cadavere di Dokhnor. Golobol aggiunse: «La donna non può essere responsabile della sua morte. Era già spirato da un po', una o due decime, direi. Quella sfortunata ragazza ha solo scoperto il cadavere». «Capisco, liberuomo» gli assicurò Liem vez Steries. «Ma dato che è stata lei, la sua testimonianza dell'accaduto è importante.» Il miliziano aveva appena terminato di raccogliere l'ultima deposizione quando fuori dal rifugio atterrò un altro elicottero. Appena si esaurì il vortice di polvere sollevato, entrarono quattro uomini. Gli Occhi e Orecchie del Tiranno sembravano più agiati commercianti che soldati: portavano berretti dalle falde di pelle lucida, vesti allacciate con alamari d'argento e anelli agli indici. Uno di loro annunciò: «Sono Peggol vez Menk». Era basso e snello, almeno per la media del Tartesh, e portava il berretto di sghimbescio, con l'aria azzimata. Aveva uno sguardo straordinariamente acuto, come se aspettasse che qualcuno dei presenti commettesse un errore. Subito individuò Liem vez Steries e gli chiese: «A cosa si è proceduto finora, subdirigente?» «Il solito» rispose il miliziano. «Deposizioni di tutti i presenti, e il nostro addetto alle circostanze, l'agente scelto vez Tofana, ha scattato qualche foto. Non abbiamo spostato il corpo.» «Bene così» disse l'Occhio e Orecchio. Uno dei suoi uomini aveva iniziato a scattare altre foto. Un altro posò un registratore accanto a quello
che già stava sul tavolo. «Faremo una copia del suo filo, e ne faremo uno anche noi. Forse ci verranno delle domande che le sono sfuggite. Ha già effettuato una perquisizione dei bagagli?» «No, liberuomo» disse Liem vez Steries con voce dura. Neanche a Radnal sarebbe piaciuto essere espropriato del lavoro da qualcun altro. Tanto gli Occhi e Orecchie facevano sempre quel che gli pareva. Perché no? Erano i custodi del Tartesh. Ma chi erano i loro custodi? «Ci penseremo noi.» Peggol vez Menk si sedette al tavolo. Il fotografo inserì un nuovo rullino e seguì gli altri due Occhi e Orecchie ai cubicoli da notte vicino all'ingresso. Era quello di Golobol. «Fate attenzione, oh, vi prego» esclamò il medico. «Certi miei strumenti sono delicati.» Peggol disse: «Voglio sentire la donna che ha trovato il cadavere». Estrasse un taccuino e lo guardò. «Evillia.» Un po' più calma, Evillia ripeté la sua storia, con le stesse parole di prima, o almeno così parve a Radnal. Se a Peggol vennero altre domande, non le fece. Circa un decimo di decima dopo, toccò a Radnal. Peggol si ricordò il suo nome senza dover consultare il taccuino. Ancora una volta, fece le stesse domande di Liem vez Steries. Quando terminò, Radnal ne aveva una a sua volta: «Liberuomo, mentre sono in corso le indagini posso portare questo gruppo nelle Terrefonde?» Spiegò che Benter vez Maprab aveva minacciato di far causa, e i motivi per cui riteneva improbabile la fuga anche da parte di un turista colpevole. L'Occhio e Orecchio si tirò il labbro inferiore. Sotto si faceva crescere un pizzetto, che gli allungava il mento come quello di un altatesta. Quando lo mollò, il labbro si ritirò con schiocco liquido. Con quel berretto di sghimbescio, aveva un'aria saputa e cinica. A Radnal crollarono le speranze. Si aspettava che Peggol gli scoppiasse a ridere in faccia anche solo per aver sollevato la questione. Peggol disse: «Liberuomo, so che tecnicamente lei ricopre un grado militare, ma s'immagina se scopre l'assassino, o se lui colpisce ancora? Pensa di riuscire a catturarlo e riportarlo indietro per il processo e la decapitazione?» «Io...» Radnal s'interruppe prima di andare oltre. La domanda ironica gli aveva ricordato che quello non era un gioco. Anche se Dokhnor di Kellef era una spia, adesso era morto, e chiunque l'avesse eliminato poteva uccidere ancora... Potrebbe uccidere anche me, se scopro chi è, pensò. Disse: «Non so, vorrei poterlo credere, ma non ho mai fatto nulla del genere».
Negli occhi di Peggol vez Menk passò qualcosa che somigliava all'approvazione: «È onesto con se stesso. Non è da tutti parlare così. Hmm... Non si tratta di rischiare solo il suo argento in un processo, vero? No, è chiaro: anche quello del Parco della Fossa, che poi è del Tiranno Ereditario.» «Era proprio quel che pensavo» disse Radnal, che per fortuna apparve patriottico. In realtà gli premeva di più il suo argento. Ne era certo, per sincerità con se stesso, ma non gli sembrava di caso di rivelarlo a Peggol. «Ne sono sicuro» disse asciutto l'Occhio e Orecchio. «Quel che più conta per me è l'argento del Tiranno. Allora, che si fa? Diciamo che porta via i turisti, come da contratto. Ma, e se io venissi con lei per le indagini mentre i miei colleghi continuano il lavoro qui? Le pare ragionevole? «Sì, liberuomo. Grazie» esclamò Radnal. «Bene» disse Peggol. «La mia concubina mi chiedeva da un pezzo di portarla qui. Ora vedrò di accontentarla.» Fece un sorriso di complicità. «Come vede, considero anche i miei interessi.» Gli altri Occhi e Orecchie erano passati metodicamente da un cubicolo all'altro, esaminando i bagagli dei turisti. Uno di loro portò un codice trovato nel cubicolo di Lofosa e lo gettò sul tavolo, dinanzi a Peggol vez Menk. La copertina era una foto a colori di un'attraente coppia di altatesta che fornicavano. Peggol lo sfogliò. Tutte pagine erano variazioni sullo stesso tema. «Divertente» disse. «Anche se avrebbe dovuto essere sequestrato all'ingresso nel nostro territorio.» «Mi piace!» Lofosa aveva l'aria indignata. «Voi, ipocriti fronteforte, che fingete di non fare certe cose... e invece sotto sotto vi piacciono. Avrei dovuto immaginarlo.» Radnal sperò che Peggol non le chiedesse come faceva a saperlo. Era certo che lei glielo avrebbe spiattellato, in tutti i dettagli. Di lei ed Evillia si poteva dire tutto, tranne che fossero riservate. Ma Peggol disse: «Non siamo venuti a fare i mestatori di fango. Con quel volume avrebbe potuto sfiancare Dokhnor, ma non l'ha usato per ucciderlo. Lasciateglielo, se le piace svelare ai quattro venti quel che dovrebbe tenere in riserbo». «Oh, sciocchezze!» Lofosa prese il codice e lo riportò al cubicolo, agitando i fianchi a ogni passo, come per contraddire Peggol senza aggiungere una parola. Gli Occhi e Orecchie non trovarono altro da far ispezionare al capo, né nel suo cubicolo né in quello di Evillia. Per Radnal fu una sorpresa, visto
che le due donne avevano portato dentro tutto tranne gli asini. Alzò le spalle: probabilmente avevano riempito le bisacce di fronzoli femminili e cianfrusaglie che avrebbero potuto lasciare al loro albergo nel Tartesh, se non addirittura nel Krepalga. Poi smise di preoccuparsi di loro. L'Occhio e Orecchio che era andato al cubicolo di Dokhnor lanciò un fischio. Peggol vez Menk si precipitò là dentro. Uscì con qualcosa stretto in pugno. L'aprì. Radnal vide due stelle d'oro a sei punte: mostrine morgaffe. «Allora era una spia» esclamò Fer vez Canthal. «Può darsi» disse Peggol. Ma quando parlò al radiofono con Tarteshem, scoprì che Dokhnor aveva dichiarato il grado di capo battaglione all'ingresso nella Tirannia. L'Occhio e Orecchio restò deluso. «Un soldato, sì, ma non una spia, a quanto pare.» Intervenne Benter vez Maprab: «Ora, se la smettete di frugare, vorrei che ci permetteste di proseguire l'escursione. Non mi restano molti giorni da vivere, e detesto sprecarne anche uno solo». «Calma, liberuomo» disse Peggol. «È morta una persona.» «E con questo? Non se la prenderà certo se visito le tanto vantate meraviglie del Parco della Fossa.» Benter era furente quasi fosse stato il Tiranno Ereditario che dava una strigliata a un volgare subalterno. Radnal, vedendo come reagiva Benter quando era urtato, si chiese se non avesse rotto il collo a Dokhnor per il semplice motivo di aver perso una partita di guerra. Benter era vecchio, sì, ma non debole. E di certo veterano dell'ultimo conflitto con il Morgaf, o magari di quello precedente, contro il Morgaf e l'Unità del Krepalga assieme. Sapeva come ammazzare. Radnal scosse la testa. Se andava avanti così, il passo successivo sarebbe stato sospettare di Fer e Zosel, o perfino della sua ombra. Si augurò di non aver perso il tratto delle guide turistiche. Stava di fatto che gli veniva più semplice studiare il metabolismo del grosso ratto del deserto che figurarsi chi del gruppo si fosse appena macchiato di un omicidio. Peggol vez Menk disse: «Dovremo perquisire i fabbricati annessi prima di andarcene. Il liberuomo vez Krobir vi ha già avvertito che partiremo domani. Se volete il mio parere professionale, non la si spunterebbe in nessun tribunale, con la garanzia di un soggiorno prolungato come indennizzo». «Bah!» Benter si allontanò a passi pesanti. Radnal colse lo sguardo di Toglo zev Pamdal. Inarcò lievemente un sopracciglio e scosse la testa. Lui diede una scrollatina di spalle. Sorrisero entrambi. In ogni gruppo, qualcu-
no finiva sempre per essere una spina nel fianco. Radnal allargò il sorriso, lieto che Toglo non ce l'avesse con lui per la scappatella con Lofosa ed Evillia. «A proposito di fabbricati annessi, liberuomo vez Krobir» disse Peggol. «C'è solo la stalla, giusto?» «Più la latrina, sì» rispose Radnal. «Ah, già, la latrina.» L'Occhio e Orecchio arricciò il naso. Era ancora più sporgente di quello di Radnal. Quasi tutti i fronteforte avevano dei nasoni, come per compensare i loro crani oblunghi. Per questo particolare, i lissonesi, che di solito avevano nasi schiacciati, certe volte chiamavano i tarteshani nappe. L'appellativo faceva scoppiare delle risse in tutti i porti dell'Oceano Occidentale. Fer vez Canthal accompagnò alle stalle uno degli uomini di Peggol. L'Occhio e Orecchio ovviamente aveva bisogno di appoggio contro gli asini feroci e assetati di sangue che stavano là dentro, o almeno così pareva a giudicare dal suo atteggiamento. Quando Peggol gli aveva ordinato di andare, aveva esitato come se gli avesse detto di invadere il Morgaf e portargli le orecchie del re. «Voi Occhi e Orecchie non vi occupate molto di questioni esterne alle grandi città, vero?» chiese Radnal. «Se n'è accorto?» Peggol vez Menk inarcò un sopracciglio. «Ha ragione; siamo metropolitani fino all'osso. Di solito le minacce al regno arrivano da orde di gente sotto mentite spoglie. In quasi tutti gli altri casi, tocca all'esercito intervenire, non a noi.» Il figlio di Moblay Sopsirk andò allo scaffale dov'era la scacchiera da guerra: «Radnal, visto che oggi non possiamo uscire, ti va di fare la partita rimandata stanotte?» «Magari un'altra volta, liberuomo vez Sopsirk» disse la guida turistica, trasformando il nome di Moblay nell'equivalente tarteshano più approssimato. Forse quell'individuo bruno avrebbe capito l'antifona e iniziato a rivolgerglisi con più rispetto. Ma Moblay non sembrava il tipo da capire le antifone, stando alle sue avances con Evillia e a questa proposta di gioco ancor più inopportuna. L'Occhio e Orecchio tornò dalla stalla senza la soluzione alla morte di Dokhnor. Dai commenti a bassa voce con i colleghi, si capiva che era lieto di averla scampata a quella tana di animali feroci. I dipendenti del Parco della Fossa se la ridevano sotto i baffi. Perfino qualche turista, a contatto con gli asini solo da due giorni prima dell'Occhio e Orecchio, si fece beffe
del suo timore. Qualcosa sul tetto mandò un verso acuto e stridulo. L'Occhio e Orecchio che si era avventurato nella stalla sobbalzò nervoso. Peggol vez Menk inarcò di nuovo il sopracciglio: «Cos'è, liberuomo vez Krobir?» «Un uccello koprit» disse Radnal. «Ma non arrivano certo a infilzare anche gli esseri umani sugli aculei di biancospino.» «No, eh? Buono a sapersi.» Peggol mascherò la risata con un colpo di tosse. Il pranzo di mezzodì consisté di razioni preconfezionate. Radnal lanciò uno sguardo preoccupato a Liem vez Steries: le bocche extra al rifugio avrebbero esaurito le provviste prima del previsto. Liem comprese il motivo dello sguardo e disse: «Se necessario, ne porteremo delle altre dall'avamposto della milizia con l'elicottero». «Bene.» Peggol vez Menk e Liem vez Steries passarono il grosso del pomeriggio appartati al radiofono. Radnal si preoccupava per l'elettricità, ma non più di tanto. Anche se si fosse esaurito il combustibile del generatore, si poteva abbondantemente sopperire con le celle solari. Nel Parco della Fossa non scarseggiava certo la luce. Dopo cena, i miliziani e gli Occhi e Orecchie aprirono qua e là i sacchi a pelo sul pavimento della sala comune. Peggol stabilì turni di guardia di circa mezza decima a testa per i suoi uomini e quelli di Liem. Radnal si offrì anche lui come sentinella. «No» rispose Peggol. «Non che io dubiti della sua innocenza, liberuomo vez Krobir, ma formalmente si sospetta anche di lei e dei suoi colleghi. Il plenipotenziario morgaffo potrebbe protestare se la lasciassi in condizione di poter approfittare di noi.» Per quanto comprensibile, Radnal se ne risentì. Al massimo dell'irritazione, si ritirò nel cubicolo, si stese e si accorse che non riusciva a dormire. Le ultime due notti era stato sul punto di crollare all'arrivo di Evillia e Lofosa. Adesso era sveglio, e loro non venivano. Si chiese perché. Le due ragazze avevano abbondantemente dimostrato che non gliene importava se qualcuno le guardava mentre facevano l'amore. Forse lo ritenevano troppo riservato per fare qualcosa con i miliziani e gli Occhi e Orecchie là fuori. Fino a pochi giorni prima, avrebbero avuto ragione. Adesso ne dubitava. Loro davano così per scontata la fornicazione da far apparire ridicolo ogni altro punto di vista. Quali che fossero le loro ragioni, non vennero. Radnal si scosse e aprì il
sacco a pelo. Pensò di andare fuori a scambiare quattro chiacchiere con l'uomo di guardia, ma decise di no: Peggol vez Menk avrebbe sospettato che aveva pessime intenzioni, se ci provava. Questo non fece che irritarlo ulteriormente, e togliergli ancor di più il sonno. Come pure una lite furibonda tra i Martois su chi dei due - Eltsac sosteneva che era stata Nocso, Nocso che era stato Eltsac - avesse perduto la striglia. Alla fine Radnal doveva essersi appisolato, perché si svegliò di colpo quando gli uomini accesero le luci nella sala comune appena prima dell'alba. Per un paio di cardiobattiti si domandò che ci facessero lì. Poi ricordò. Con uno sbadiglio afferrò il berretto, si allacciò la cinta della veste e uscì dal cubicolo. Nella sala comune c'erano già Zosel vez Glesir e una paio di turisti che parlavano con i miliziani e gli Occhi e Orecchio. La conversazione si smorzò quando Lofosa emerse dal cubicolo senza essersi prima vestita. «Quello della guida dev'essere un lavoro duro» disse Peggol vez Menk, con l'aria di pensare come tutti che una guida non faceva altro che cacciarsi nel sacco a pelo con le turiste. Radnal grugnì. Effettivamente in questo viaggio non aveva fatto altro che cacciarsi nel sacco a pelo con Lofosa o Evillia. Ma non è sempre così, avrebbe voluto dire. Solo che Peggol probabilmente non gli avrebbe creduto, perciò tenne la bocca chiusa. Se un Occhio e Orecchie non era convinto di qualcosa, iniziava ad andare a fondo. E se iniziava ad andare a fondo, continuava finché non trovava quello che cercava, a prescindere dal fatto che ci fosse davvero. La guida e Zosel andarono a prendere le confezioni della colazione. Al ritorno trovarono tutti alzati, con Evillia che era riuscita a distrarre qualche maschio da Lofosa. «Ecco a lei, damalibera» disse Radnal porgendo la razione a Toglo zev Pamdal. Nessuno le prestava particolare attenzione: era solo una donna tarteshana paludata in una veste tarteshana, non una puttanella straniera senza niente addosso. Radnal si chiese se la cosa la irritasse. Stando alla sua esperienza, alle donne non piaceva essere ignorate. Ma se anche era irritata, non lo dava a vedere. «Spero abbia dormito bene, liberuomo vez Krobir?» disse. Non degnò neanche di un'occhiata Evillia e Lofosa. Però non diede a vedere neanche se in quel buongiorno c'era dell'altro, e questo andava benissimo per Radnal. «Sì. Spero anche lei» rispose.
«Abbastanza bene» disse la donna. «Anche se non come prima dell'assassinio del morgaffo. Peccato che non potrà più fare quegli schizzi, aveva del talento. Che la Dea gli conceda vento, terra e acqua nell'altro mondo. È questa la preghiera degli isolani, no?» «Sì, credo di sì» disse Radnal, anche se ne sapeva poco di formule religiose morgaffe. «Sono contenta che sia riuscito a far proseguire l'escursione nonostante la triste sorte in cui è incorso quell'uomo, Radnal vez» disse. «Tanto la cosa non può certo danneggiarlo e le Terrefonde sono così affascinanti.» «Infatti, lib...» cominciò Radnal. Poi si interruppe, la fissò e batté le palpebre. Toglo non gli si era rivolta con l'espressione formale, ma col grado intermedio di cortesia tarteshana, e questo significava che lei si sentiva in una certa confidenza con lui e non lo respingeva. Alla luce di quello cui la donna aveva assistito la prima notte al campo, era un piccolo miracolo. Radnal fece un largo sorriso e si concesse un piccolo privilegio: «Anch'io sono contento, Toglo zev». Circa un decimo di decima dopo, mentre lui e Fer portavano confezioni vuote al contenitore di rifiuti, l'altro dipendente del Parco della Fossa gli diede una gomitata nelle costole e disse: «Ti vengono dietro proprio tutte le donne, eh, Radnal vez?» Radnal restituì la gomitata, più forte: «Vatti a buttare nel Lago Acre, Fer vez. Questo gruppo è solo una fonte di guai. Inoltre, per Nocso zev Martois faccio solo parte dell'arredo». «Tanto quella non ti piacerebbe» replicò Fer con una risatina. «Ero solo geloso.» «L'ha detto anche Moblay» rispose Radnal. Per lui era una novità provocare la gelosia altrui a causa della propria attrazione sessuale, e non gliene importava niente. Per i criteri del Tartesh, era alquanto disdicevole mettersi così in bella mostra, come arricchirsi illecitamente. Invece Evillia e Lofosa non ne erano affatto infastidite, anzi, ci marciavano. Ma davvero vuoi essere come Evillia e Lofosa, si domandò, anche con dei corpi del genere? Sbuffò col naso e disse: «Torniamo dentro, almeno faccio muovere la comitiva». Dopo due giorni di allenamento, i turisti si reputavano cavalieri stagionati. Saltarono in groppa agli asini e li guidarono senza fatica fuori dai box. Peggol vez Menk li guardò quasi con la stessa apprensione del tirapiedi che era andato a perquisire la stalla. Si tirò la veste bianca, come per paura che gliela sporcassero. «E si aspetta che cavalchi una di queste crea-
ture?» disse. «È lei che ha chiesto di venire» rispose Radnal. «Comunque non è necessario cavalcare: può sempre seguirci a piedi.» Peggol gli lanciò un'occhiata furente: «No, grazie, liberuomo vez Krobir». Deliberatamente, non disse affatto Radnal vez. «Vuol essere così gentile da farmi vedere come si sale su una di queste sommità ambulanti?» «Certo, liberuomo vez Menk.» Radnal montò un asino, poi smontò e rimontò. L'asino gli diede un'occhiataccia, quasi chiedendogli di decidersi. Smontò ancora una volta e prese lo sbuffo asinino per l'equivalente di un'alzata di spalle rassegnata. Dopodiché disse a Peggol: «Ora provi lei, liberuomo». Al contrario di Evillia e Lofosa, l'Occhio e Orecchio riuscì a imitare i gesti di Radnal senza bisogno di essere preso per la vita dalla guida. Tanto meglio, pensò Radnal: Peggol non era agile e ben fatto come le altatesta. Il suo commento fu: «Quando torno a Tarteshem, liberuomo vez Krobir, mi limiterò ai motori». «Anche per me è lo stesso, quando sono a Tarteshem» rispose Radnal. La comitiva si avviò una decima dopo l'alba: non presto come avrebbe voluto Radnal, ma era il massimo che ci si poteva aspettare dopo gli imprevisti del giorno prima. Li guidò a sud, verso le pianure centrali del Parco della Fossa. Sotto il cappello di paglia, il figlio di Moblay Sopsirk era già madido di sudore. Qualcosa si nascose in gran fretta sotto le foglie carnose di un'euforbia del deserto. «Cos'è che or ora abbiamo intravisto, liberuomo?» chiese Golobol. Radnal sorrise al frasario del medico. «Era un grosso ratto delle sabbie. È un membro della famiglia dei gerbilli, adattatosi a nutrirsi espressamente di piante grasse ad alta concentrazione di sale nel fogliame. I grossi ratti delle sabbie si ritrovano dappertutto nelle Terrefonde. Sono una calamità nelle aree in cui c'è acqua sufficiente per l'agricoltura.» Moblay disse: «Hai l'aria di saperne parecchio in proposito, Radnal.» «Non quanto mi piacerebbe, liberuomo vez Sopsirk» rispose Radnal, sempre cercando di persuadere il lissonese a smetterla con quell'indebita familiarità. «Li studio quando non faccio la guida turistica.» «Io detesto tutti i tipi di ratti» disse recisamente Nocso zev Martois. «Oh, io non saprei» obiettò Eltsac. «Alcuni ratti sembrano carini.» I Martois iniziarono una discussione. Gli altri li ignorarono. Moblay disse: «Hmp. È curioso passare tutto il tempo a studiare ratti».
«Lei, piuttosto, come si guadagna da vivere, liberuomo?» ribatté Radnal. «Io?» Il volto di Moblay, bruno, glabro e dal naso schiacciato, era diverso in tutto e per tutto da quello di Radnal. Eppure la guida distinse la maschera vacua che balenò per un cardiobattito: l'espressione di un uomo che aveva qualcosa da nascondere. Moblay disse: «Come ti ho detto, sono assistente del principe, che abbia cento di questi anni». In effetti l'aveva già detto, ricordò Radnal. Magari era vero, ma all'improvviso si convinse che non era tutta la verità. A Benter vez Maprab non importava affatto del grosso ratto delle sabbie. Però gli interessava l'euforbia spinosa sotto cui si era nascosto. Infatti disse: «Liberuomo vez Krobir, mi spiega che relazione c'è fra queste piante e i cactus dei deserti del Doppio Continente?» «Non esiste alcuna relazione, a dire il vero.» Radnal lanciò un'occhiataccia al vecchio fronteforte. Vuoi farmi fare una figuraccia davanti a tutti, vero? pensò. E riprese: «Le somiglianze derivano dall'adattamento ad ambienti simili. È detta evoluzione convergente. Basta aprirle per rendersi conto che non c'è alcuna relazione: nelle euforbie si trova una linfa densa e lattiginosa, mentre quella dei cactus è limpida e acquosa. Anche le balene e i pesci somigliano parecchio, ma è solo perché vivono entrambi nel mare, non perché siano affini». Benter si curvò in groppa all'asino. Radnal si compiacque con se stesso, come dopo averla spuntata su una squadra di commandos della marina morgaffa e non su un vecchio tarteshano petulante. Qua e là sulle spine dell'euforbia, c'erano un dipo, un paio di cavallette, uno scinco spalatore e altre creaturine morte. «Chi le ha appese a seccarsi?» domandò Peggol vez Menk. «Un uccello koprit» rispose Radnal. «Gran parte delle averle maggiori mettono in dispensa quello che hanno preso senza mangiare subito.» «Oh.» Peggol sembrò deluso. Forse sperava che nel Parco della Fossa ci fosse qualcuno che maltrattava gli animali, per dare la caccia a quella canaglia. Toglo zev Pamdal indicò la lucertola trafitta, che pareva al sole da parecchio: «Si nutrono perfino di roba così secca, Radnal vez?» «No, probabilmente no» rispose Radnal. «O almeno, io non lo farei.» Provocatole un sorrisetto, continuò. «In realtà, l'uccello koprit non mette in dispensa solo roba da mangiare. Serve anche a far bella mostra con altri koprit, specie nella stagione degli accoppiamenti. È come se il maschio dicesse alle eventuali compagne: "Guardate qui che cacciatore." Inoltre i ko-
prit non espongono solo creature vive che hanno catturato. Ho visto mucchi di pezzetti colorati di fili di lana, di ferro, frammenti di plastica lucida, e una volta perfino un vecchio ponte di denti falsi, tutto poggiato sulle spine.» «Denti falsi?» Evillia guardò Benter vez Maprab con la coda dell'occhio. «Tra noi c'è chi dovrebbe preoccuparsene più degli altri.» Molti turisti soffocarono scoppi di risate. Anche Eltsac ridacchiò. Benter guardò stizzito la altatesta. Lei lo ignorò. Nel cielo c'erano un paio di punti semoventi, così minuscoli da essere quasi invisibili. Proprio mentre Radnal li indicava al gruppo, se ne aggiunse un terzo. «Un altro pennuto ottimista» disse. «Questa zona è l'ideale per gli avvoltoi. Le correnti ascensionali che si alzano dal suolo delle Terrefonde agevolano il volo. Sono in attesa di veder cadere riverso e morire un asino, o anche uno di noi. Dopodiché calano giù a banchettare. «Di che si nutrono, in mancanza di turisti?» chiese Toglo zev Pamdal. «Cammelli senza gobba, cinghiali e tutto ciò che dall'alto sembra morto» rispose Radnal. «L'unico motivo per cui non sono più diffusi è che il terreno è troppo arido per il sostentamento di molti erbivori di grosse dimensioni.» «Sono stato in un posto del tutto diverso» disse il figlio di Moblay Sopsirk. «Nel Duvai, a est del Lissonland, ci sono pascoli pieni di mandrie a perdita d'occhio, quasi come prima dell'avvento dell'umanità. Però negli ultimi cento anni sono state decimate dalla caccia. O almeno così dicono i duvaiani. A quell'epoca non ero ancora nato.» «Anch'io l'ho sentito» convenne Radnal. «Qui invece non è così.» Sottolineò con un gesto quel che intendeva. Le Terrefonde erano troppo torride per essere ricoperte d'erba. Sparse qua è la sulla distesa c'erano delle piante grasse, alcune spinose, altre ricoperte di cera per evitare la perdita d'acqua. Nel panorama si alternavano ad arbusti dall'aspetto avvizzito: pimpinelle, oleandri e pianticelle d'ulivo delle Terrefonde, troppo piccole per essere alberi veri e propri. Una vegetazione ancor più minuta spuntava all'ombra di quella più sviluppata. Radnal sapeva che dappertutto erano sparsi dei semi in attesa delle piogge così scarse. Ma la maggior parte del terreno era spoglio come se il mare si fosse ritirato solo il giorno prima, non da cinque milioni e mezzo di anni. «Voglio che beviate tutti moltissima acqua» disse Radnal. «Con un clima del genere si suda molto più di quanto si creda. Tanto ne abbiamo
un'abbondante provvista sugli asini e domani notte, al ritorno al rifugio, riempiremo gli otri. Non lesinate l'acqua: se non ci si sta attenti, un colpo di sole può essere letale.» «Non è che mi vada molto di bere acqua calda» brontolò Lofosa. «Mi spiace, damalibera, ma il Parco della Fossa non dispone di risorse sufficienti a trasportare un refrigeratore per tutte le esigenze personali» disse Radnal. Ma nonostante la rimostranza di Lofosa, lei ed Evillia bevevano a intervalli regolari. Radnal si grattò la testa, domandandosi come facevano le krepalgane a sembrare così oche senza mai cacciarsi davvero nei guai. Evillia si era portata perfino delle bustine dolcificanti, così mentre tutti gli altri ingurgitavano acqua a temperatura sanguigna, lei invece beveva ponce di frutta a temperatura sanguigna. I cristalli inoltre davano anche all'acqua una colore sanguigno. Radnal decise di farne a meno. Un po' prima di mezzogiorno giunsero al Lago Acre. Era più una palude salata che un lago: il fiume Dalorz non riversava dall'antica piattaforma continentale acqua sufficiente per mantenere pieno il letto di un lago a fronte della tremenda evaporazione delle Terrefonde, eternamente calde, eternamente aride. Infatti attorno alle pozze fangose risaltava il chiarore delle saline. «Attenti che gli asini non mangino assolutamente nulla in questa zona» li avvertì Radnal. «L'acqua porta di tutto in superficie dallo strato di sale sotterraneo. Perfino la vegetazione delle Terrefonde ha difficoltà di adattamento.» Ed era assolutamente vero. A onta dell'assenza di acqua da qualsiasi altra parte del Parco della Fossa, il panorama attorno al Lago Acre era arido perfino rispetto alla media delle Terrefonde. La maggior parte delle piante che lottavano per crescere lì erano nane e striminzite. Benter vez Maprab, il cui unico interesse pareva la botanica, indicò qualche eccezione: «Cos'è quella? Lo spettro di una pianta abbandonata dagli dei?» «Ne ha l'aria» rispose Radnal: era un arbusto dai rami e le foglie striminziti, quasi scheletrici. Anziché sul verde, dava sul bianco sfavillante e cangiava ai moti della brezza. «È una granata, e si trova solo nel Lago Acre. Deposita il sale che prende dalle pozze d'acqua sotto forma di cristalli su tutte le sue parti esterne. Questo ha un duplice effetto: elimina il sale e tramite la patina riflettente abbassa la temperatura della pianta.» «E probabilmente rende poco appetibile la granata» disse Toglo zev
Pamdal. «Sì, ma con due sole eccezioni» precisò Radnal. «Una è il cammello senza gobba, che riesce a smaltire l'eccesso salino. L'altro è il mio piccolo amico, il grosso ratto delle sabbie, anche se lui preferisce le euforbie, più succose.» La fronteforte si guardò attorno: «Sia la prima volta che sono venuta che ora, mi aspettavo di vedere un sacco di lucertole, serpenti e testuggini. Mi meraviglio del contrario. Pensavo le Terrefonde fossero il posto ideale per le creature a sangue freddo». «All'alba e all'imbrunire ne vedrà un bel po', se ci fa caso, Toglo zev. Ma non nelle ore più calde. Non è esatto definire i rettili animali a sangue freddo: piuttosto, la loro temperatura corporea è variabile, non costante, come quella degli uccelli e dei mammiferi. Loro si riscaldano esponendosi al sole e si raffreddano evitando i raggi meridiani, altrimenti finirebbero abbrustoliti.» «Come li capisco.» Evillia si passò una mano tra i folti capelli neri. «Sono cotta a puntino: mi si può servire a tocchi con le pinzette da pranzo.» «Non esageriamo» disse Radnal. «È ancora sotto i cinquemila, ne sono sicuro, e perfino qui la temperatura può superarli. Senza contare che non è nel Parco della Fossa che si trovano i punti più bassi delle Terrefonde. Duemila cubiti più sotto, la temperatura massima oltrepassa i seimila.» I non tarteshani diedero dei gemiti. Ma anche Toglo zev Pamdal e Peggol vez Menk. A Tarteshem il clima era relativamente mite, con temperature che superavano i quattromila solo dalla fine della primavera all'inizio dell'autunno. In un accesso di curiosità morbosa, il figlio di Moblay Sopsirk domandò: «Qual è la più alta temperatura mai registrata nelle Terrefonde?» «Poco più di seimila e seicento» rispose Radnal. I turisti diedero nuovi gemiti, stavolta più intensi. Radnal guidava la fila di asini intorno al Lago Acre. Si guardava bene da avvicinarsi troppo a quel po' d'acqua che si trovava nel lago in questo periodo dell'anno. Certe volte sul fango si formava un strato di sale, poteva perciò accadere che un asino lo forasse con lo zoccolo, così l'animale restava in trappola e si tagliava la zampa contro la crosta dura e affilata. Dopo un po', la guida turistica chiese: «Avete fatto tutte le foto che volevate?» Avuto l'assenso generale, disse: «Allora possiamo tornare al rifugio».
«Un momento.» Eltsac vez Martois indicò un punto sulla riva opposta del lago. «Cosa sono quelli là?» «Non vedo niente, Eltsac» disse la moglie. «Devi aver visto, come si dice, un miraggio.» E un cardiobattito dopo aggiunse risentita: «Oh!» «È un branco di cammelli» disse piano Radnal. «Cercate di non spaventarli.» Il branco era ridotto: un paio di maschi dai lunghi colli, due coppie di femmine, più minute, e dei piccoli dall'aria goffa sulle loro gambe sproporzionate. Al contrario degli asini, avanzavano sulla crosta intorno al Lago Acre. Avevano zoccoli ampi e morbidi, che si dilatavano sotto il loro peso e non li facevano cadere di sotto. Un maschio stava di guardia mentre il resto del branco beveva da una pozza di acqua melmosa. Golobol sembrava preoccupato. «Quel liquido terribile di sicuro li avvelenerà» disse. «Non lo berrei certo per salvarmi la vita.» Fece una smorfia di disgusto con la faccia tonda e bruna. «Se lo bevesse lei, metterebbe fine ai suoi giorni in un battibaleno. Ma i cammelli senza gobba si sono evoluti in linea con le Terrefonde. Hanno reni meravigliosamente efficienti nel filtrare grosse quantità di sale.» «Perché sono privi di gobbe?» chiese Lofosa. «I cammelli del Krepalga hanno le gobbe.» Dal suo tono, solo quelli che conosceva erano in regola. «Lo so che i cammelli del Krepalga hanno le gobbe» disse Radnal. «Ma non i cammelli della parte inferiore del Doppio Continente, e neppure questi. La risposta credo sia che per la fauna delle Terrefonde ogni cumulo di grasso, com'è in fondo una gobba, rappresenta un ostacolo nel combattere il caldo.» «Prima dell'avvento dei motori, nel Krepalga ci spostavamo sui cammelli» disse Evillia. «Avete mai provato a domare questi senza gobba?» «Ottima domanda» disse Radnal, con un sorriso radioso per nascondere la sua sorpresa a una domanda intelligente da parte della ragazza. Quindi proseguì: «In realtà si è provato a più riprese. Finora però senza risultato. Sono troppo caparbi per obbedire agli esseri umani. Se li avessimo già addomesticati, ora saresti in groppa a uno di loro, anziché su questi asini. Sono più adatti per questo terreno». Toglo zev Pamdal grattò le orecchie alla sua cavalcatura: «Però sono più brutti degli asini». «Niente da obiettare, damalibera, ehm, Toglo zev» disse Radnal. «Anche per me sono di una bruttezza inconcepibile, e per di più tendono a riprodursi.»
Come offesi da quelle parole che non potevano udire, i cammelli senza gobba rialzarono le teste dall'acqua e si allontanarono al trotto dal Lago Acre. I dorsi si alzavano e si abbassavano, a tempo con l'andatura traballante. Evillia disse: «A volte nel Krepalga i cammelli si chiamano barche del deserto. Ora capisco perché: se ci andassi in groppa mi verrebbe il mal di mare». I turisti scoppiarono a ridere. Anche Radnal. Ci voleva dell'acume per fare una battuta in una lingua diversa da quella di Evillia. Allora, si domandò Radnal, perché lei faceva finta di essere così svampita? Ma alzò le spalle: aveva visto un sacco di gente davvero assennata commettere solenni stupidaggini. «Perché i cammelli non divorano tutto il foraggio del Parco della Fossa?» chiese Benter vez Maprab. Sembrava più preoccupato per le piante che per i cammelli senza gobba. «Quando i branchi sono troppo numerosi per le risorse del parco, eliminiamo i più deboli» rispose Radnal. «Questo ecosistema è fragile. Se non provvedessimo a mantenerlo in equilibrio, impiegherebbe troppo a riassestarsi da sé.» «Ci sono branchi di cammelli senza gobba allo stato brado fuori dal Parco della Fossa?» domandò Toglo. «Qualcuno esiguo, in aree delle Terrefonde troppo aride per essere popolate» disse la guida turistica. «Però non molti. Di tanto in tanto introduciamo nuovi maschi in questo branco per incrementare la diversità genetica, ma provengono da parchi zoologici, non dallo stato brado.» Il branco si allontanò rapidamente, nascosto alla vista dalla polvere sollevata. «Sono contento che abbiamo avuto occasione di vederli, anche se da lontano. È per questo che gli dei hanno creato lunghi obbiettivi per le macchine fotografiche. Ma adesso dovremmo proprio avviarci al rifugio.» Il viaggio di ritorno a nord sembrò curiosamente irreale a Radnal. Anche se tra i turisti cavalcava Peggol vez Menk, loro parevano ostinarsi più che mai a fingere che Dokhnor di Kellef non fosse morto, che questa fosse una vacanza come tante. L'alternativa era guardarsi le spalle in continuazione, tener presente che quello accanto poteva essere un assassino. In effetti, accanto a qualcuno c'era davvero un assassino. Chiunque fosse, non sembrava affatto diverso dagli altri. Ed era questa la maggiore preoccupazione di Radnal. Gli sciupava perfino il piacere della conversazione con Toglo zev Pam-
dal. Non riusciva a immaginarsela capace di uccidere, ma non riusciva a immaginare nessuno del gruppo capace di uccidere, a parte Dokhnor di Kellef, che era morto, e i Martois, capaci di uccidersi a vicenda. Ormai si permetteva di chiamarla "Toglo zev" senza premettere un "ehm". Aveva davvero voglia, anche se gli mancava il coraggio, di domandarle come faceva a starle simpatico dopo che l'aveva visto spassarsela con le due altatesta. I tarteshani non avevano un buon concetto di quelli che esageravano con i piaceri fisici. Inoltre, si chiedeva cosa fare se Evillia e Lofosa fossero tornate nel suo cubicolo quella notte. Le avrebbe mandate via, decise. Altro era dare il buon esempio con un gruppo turistico, altro con la milizia del parco e gli Occhi e Orecchie. D'altronde quelle due, altro che buon esempio, davano... Forse non le avrebbe mandate via. Si picchiò un pugno sul ginocchio, irritato per la debolezza della sua stessa carne. A soli duemila cubiti dal rifugio, il suo asino sbuffò e si impuntò. «Il terremoto!» gridarono in tarteshano e altre lingue. Radnal si sentì mancare il terreno e vide con meraviglia che i Martois si stringevano in groppa alle loro cavalcature. Dopo quella che parve una decima ma che doveva essere un intervallo misurabile in cardiobattiti, la scossa finì. E appena in tempo: l'asino di Peggol vez Menk, spaventato dal sommovimento, stava per disarcionare l'Occhio e Orecchio, facendolo finire un cespuglio di biancospino. Radnal afferrò le redini della bestia, calmandola. «Grazie, liberuomo vez Krobir» disse Peggol. «Sarebbe stato brutto.» «E lei stava peggiorando tutto mollando le redini» dichiarò Radnal. «Se fosse stato su un motore, non si sarebbe aggrappato alla barra?» «Spero proprio di sì» disse Peggol. «Ma se stavo su un motore, quello non avrebbe cercato di andarsene per conto proprio.» Il figlio di Moblay Sopsirk guardo a occidente, verso i Monti della Barriera: «È stato peggio di quello di ieri. Per un attimo ho temuto di veder venire giù l'Oceano Occidentale con un'onda grossa come la criniera del Dio Leone». «Come ho già detto, non c'è proprio da preoccuparsene» disse Radnal. «Per spostare quelle montagne ci vorrebbe un terremoto molto, ma molto forte, e nel punto sbagliato.» «Speriamo.» Moblay non appariva affatto tranquillizzato. Radnal accantonò quelle preoccupazioni con la punta di scherno che si finisce per provare verso chi reagisce in modo eccessivo a un pericolo al
quale si è abituati. Sul Doppio Continente a volte imperversavano tempeste di vento estese e implacabili. Radnal era certo che ne sarebbe stato spaventato a morte. Ma gli stekiani probabilmente le affrontavano senza problemi, proprio come lui non ci rimetteva il sonno per i terremoti. Il sole calò sulle cime dei Monti della Barriera. Come trafitto a sangue, i raggi si arrossarono mentre nelle Terrefonde le ombre si allungavano. Anche il vetro, il metallo e la plastica degli elicotteri posati tra il rifugio e le stalle sfavillarono di rosso. La loro vista riportò al dunque Radnal. Si chiese a cosa fossero approdati i miliziani e gli Occhi e Orecchie in cerca di indizi. Entrambi uscirono, all'arrivo della comitiva turistica. I miliziani, con le vesti maculate, erano quasi invisibili sullo sfondo del deserto. Gli Occhi e Orecchie, paludati di bianco, oro e pelle lucida, si sarebbero visti da mille cubiti, o perfino dalle montagne della Luna. Liem vez Steries fece un cenno di saluto a Radnal: «Com'è andata? Avete impacchettato l'assassino?» «Perché, vedi qualcuno impacchettato?» Radnal si voltò verso il gruppo e disse ad alta voce: «Adesso andiamo a sistemare gli asini. Non ce la fanno da soli. Quando avranno mangiato e bevuto, penseremo a noi». E a cosa sta accadendo, aggiunse tra sé e sé. I turisti erano più silenziosi del giorno prima, stavano abituandosi a cavalcare. Il povero Peggol vez Menk aveva l'andatura arcuata che spesso si nota nei rachitici. «E dire che ieri pensavo di prendermi la giornata libera» disse lugubre. «Magari l'avessi fatto. La sua chiamata l'avrebbe presa un altro.» «Poteva toccarle un incarico peggiore» disse Radnal, aiutandolo a dissellare l'asino. Peggol roteò gli occhi per dire che era impossibile. Fer vez Canthal e Zosel vez Glesir vennero a dare una mano per occuparsi degli asini dei turisti. Avevano lo sguardo impaziente, sotto le falde dei berretti. «Abbiamo un sacco di roba da raccontarti, Radnal vez» cominciò Fer. Peggol aveva le natiche doloranti, ma il cervello gli funzionava ancora. Lo interruppe con un gesto deciso: «Si risparmi le notizie per quando saremo un po' più in privato, liberuomo». Poi indicò con più calma la gente assiepata nelle stalle fra le chiacchiere. «Qualcuno potrebbe sentire quel che non deve.» Fer parve mortificato. «Chiedo scusa, liberuomo, senza dubbio ha ragione.»
«Senza dubbio.» Dal tono di Peggol, non poteva essere altrimenti. Sotto la falda lucida del berretto, saettava con gli occhi qua e là, valutando ciascuno col calibro dei suoi sospetti. Che non si attenuarono quando toccò a Radnal. Radnal avvertì un'ondata di risentimento, che poi però si attenuò. Lui sapeva di non aver ucciso nessuno, ma l'Occhio e Orecchio non lo sapeva. «Accenderò la buca del fuoco» disse Fer. «Buona idea» disse passando Eltsac vez Martois. «Ho una fame che mi mangerei uno di quei cammelli, crudo e senza sale.» «Possiamo fare di meglio» disse Radnal. Notò lo sguardo eloquente di Peggol a Fer vez Canthal: se un turista aveva sentito per caso quel frammento di conversazione a caso chiunque avrebbe potuto origliare qualsiasi altra cosa. Liem vez Steries accolse Peggol con un formale saluto militare cui non ricorreva neanche cinque volte l'anno: si irrigidì come per un attacco di tetano, alzando la mano destra fino a sfiorare col medio la falda del berretto. «Ossequi, liberuomo. Sapevamo dell'abilità degli Occhi e Orecchie del Tiranno, ma finora non li avevamo mai visti in azione. La sua squadra è eccezionale, e quello che hanno trovato...» Al contrario di Fer vez Canthal, Liem ebbe il buonsenso di tenere la bocca chiusa, per il momento. Radnal avrebbe voluto trascinarlo nel deserto per strappargli tutto quello che sapeva. Ma anni di lavoro di ricerca ne avevano fatto un individuo paziente. Mangiò la cena, cantò con gli altri, discusse del terremoto e di quel che aveva visto all'andata e al ritorno dal Lago Acre. Dopodiché, uno per uno, i turisti andarono in cerca dei sacchi a pelo. Il figlio di Moblay Sopsirk, invece, venne a cercare lui per una partita alla guerra. Radnal acconsentì di giocare per pura cortesia, anche se aveva la testa così occupata che era sicuro di venire stracciato dal bruno lissonese. Anche Moblay però aveva la testa occupata, o forse non era quel giocatore che lui si aspettava. La partita si ridusse a una commedia di errori che facevano mordere le labbra agli spettatori per impedirsi di suggerire mosse migliori. Comunque alla fine vinse Radnal, anche se senza stile. Tra il pubblico c'era Benter vez Maprab. A fine partita si lasciò sfuggire un verdetto in due periodi, che suonava quasi come un necrologio: «Un omicidio sprecato. Se l'avesse vista il morgaffo, sarebbe morto d'imbarazzo». E se ne andò al cubicolo con l'espressione schifata. «Riproveremo un'altra volta, a mente più lucida» disse Radnal a Moblay, che annuì mesto.
Radnal ripose la scacchiera e i pezzi. Moblay era l'unico turista che si tratteneva ancora nella sala comune. Radnal andò a sedersi accanto a Liem vez Steries, alzandosi dal tavolo dal gioco e lasciando il lissonese. Moblay si rifiutò di capire l'antifona. Alla fine Radnal prese il toro per corna: «Mi perdoni, liberuomo, ma abbiamo molto da discutere in privato». «Non preoccupatevi di me» disse Moblay cordiale. «Spero di non esservi d'impaccio. Il fatto è che m'interesserebbe sentire come investigate voialtri tarteshani. Magari potrei cavarne qualcosa di utile da riferire al principe.» Radnal sbuffò dal naso. Staccando le parole a una a una, disse: «Liberuomo vez Sopsirk, anche lei è sottoposto all'indagine. Per dirla schietta, dobbiamo parlare di cose che lei non dovrebbe ascoltare». «E abbiamo cose ancora più importanti da discutere» intervenne Peggol vez Menk. «Le ricordo che non si trova nel suo principato, liberuomo.» «Non avrei mai pensato di poter essere ritenuto colpevole» disse Moblay. «Io so benissimo di non esserlo, e credevo che per voi fosse lo stesso. Bah, adesso provo a farmi una scopata con le krepalgane, visto che a quanto pare stanotte Radnal non ci farà niente con loro.» Peggol inarcò un sopracciglio: «Loro?» In quella parola c'erano mille domande. Sotto le coppe di piumino, a Radnal avvamparono le orecchie. Per fortuna riuscì a rispondere alla domanda con un'altra domanda: «Cos'è più importante di scoprire chi ha ucciso Dokhnor di Kellef?» Peggol passò in rassegna con gli occhi i cubicoli, con l'aria di domandarsi chi fingeva di dormire. «Perché non facciamo una passeggiata all'aria fresca della notte? Può venire anche il subdirigente vez Steries: è rimasto qui tutto il giorno e può dirle cos'ha scoperto. Io l'ho già saputo durante la mia passeggiata serale e potrei fare un po' di confusione nel riferirgliele.» «Vada per la passeggiata» disse Radnal, pur chiedendosi dove pensava Peggol vez Menk di trovare l'aria fresca della notte nel Parco della Fossa. I deserti al di sopra del livello del mare si raffreddavano rapidamente dopo il tramonto, ma non nelle Terrefonde. Comunque fuori, nell'oscurità silenziosa, pareva un po' più fresco. Radnal, Peggol e Liem camminarono in silenzio per un duecento cubiti. Solo quando non furono più a portata d'udito del rifugio il miliziano del parco annunciò: «I colleghi del liberuomo vez Menk hanno scoperto un lettore di microstampa tra gli effetti del morgaffo.»
«Per gli dei, davvero?» disse Radnal. «Dove, Liem vez? Da cosa era camuffato?» «Da carboncino da disegno.» Il miliziano scosse la testa. «Pensavo di conoscere tutti i trucchi da codice, ma questo è nuovo. Adesso possiamo sbatterlo sotto il naso del plenipotenziario se inizia a far storie sulla perdita di un cittadino morgaffo nel Tartesh. Ma è ancora poco rispetto a quello che c'era nel lettore.» Radnal sgranò gli occhi: «E ti pare poco sventare una guerra col Morgaf?» «Sì, liberuomo vez Krobir» disse Peggol vez Menk. «Ricorda il terremoto di oggi...» «Sì, e ieri ce n'è stato uno di minore intensità» lo interruppe Radnal. «Si verificano di continuo da queste parti. Non ci fa caso nessuno, a parte turisti come il figlio di Moblay Sopsirk. Si rinforzano gli edifici per non farli crollare, tranne che sotto scosse peggiori, e si tira avanti.» «Parole sagge» disse Peggol. «O almeno sagge in circostanze normali. Ma non in questo caso.» «Perché no?» domandò Radnal. «Perché, se è vero il contenuto del lettore di microstampa di Dokhnor di Kellef, e ne discuteremo quando sarà il momento con i morgaffi, qualcuno sta cercando di provocare un terremoto molto particolare.» Radnal aggrottò le folte sopracciglia unendole sul naso: «Non so ancora di cosa sta parlando». Liem vez Steries chinò il capo verso Peggol vez Menk: «Col suo permesso, liberuomo?...» Peggol annuì e lui proseguì. «Radnal vez, nel Parco della Fossa da anni vengono introdotte clandestinamente componenti di una bomba stellare.» La guida turistica fissò l'amico a bocca aperta: «È folle. Se qualcuno ha introdotto una bomba stellare nel Tartesh, dovrebbe piazzarla nel palazzo del Tiranno Ereditario, non qui. Gli interessa far saltare in aria l'ultimo branco di cammelli senza gobba sulla faccia del terra?» «Punta ben oltre» rispose Liem. «Vedi, la bomba si trova sottoterra, su una delle faglie più vicine ai Monti della Barriera.» Il miliziano si voltò a occidente, verso il profilo seghettato della recente catena montuosa... ...la catena montuosa che faceva da diga all'Oceano Occidentale. La notte era calda e secca, ma sul collo e sotto le ascelle di Radnal iniziò a colare del sudore freddo. «Vogliono provare a buttar giù le montagne. Non sono geologo: possono farcela?»
«Lo sanno solo gli dei» rispose Liem. «Neanch'io sono geologo, e non lo so. Ma posso dirti questo: a quanto pare i morgaffi sono convinti che funzionerebbe.» Peggol vez Menk si schiarì la gola: «Il Tiranno Ereditario scoraggia le ricerche in quest'area proprio per paura che una risposta precisa cada in mani sbagliate. Perciò i nostri studi sono limitati. Tuttavia, ritengo che si possa ottenere un simile risultato». «I colleghi del liberuomo hanno radiofonato a un geologo notoriamente affidabile» aggiunse Liem. «Gli hanno sottoposto parte del contenuto del lettore di microstampa come esercizio teorico. Alla fine, aveva l'aria di essersela fatta addosso.» «Capisco.» Anche Radnal guardò verso i Monti della Barriera. Cos'aveva detto Moblay? Un'onda grossa come la criniera del Dio Leone. Se le montagne crollavano all'improvviso, l'onda sarebbe arrivata fino al Krepalga prima di arrestarsi. Le morti, le devastazioni, sarebbero state incalcolabili. Chiese balbettando: «Che facciamo?» «Ottima domanda» disse Peggol, come sempre laconico. «Magari tutti i turisti fossero tarteshani. Potremmo passarli perbene al terzo grado, fino a cavargli la verità.» Perbene, Radnal lo sapeva, era un eufemismo per duramente. La giustizia del Tartesh era pragmatica, non certo indulgente, al punto che se la si applicava agli stranieri le relazioni diplomatiche potevano tendersi fino a provocare una guerra. La guida turistica disse: «Non possiamo farlo perbene neanche con i nostri, visto che tra loro c'è Toglo zev Pamdal». «L'avevo dimenticato.» Liem fece una smorfia. «Ma non si può sospettare anche di lei. Perché una parente del Tiranno Ereditario mirerebbe a distruggere la nazione stessa del Tiranno? Non ha senso.» «Non sospetto di lei» disse Radnal. «Volevo dire che dobbiamo usare la testa, non ricorrere alla forza bruta.» «Io sospetto di tutti» disse Peggol vez Menk, con la stessa naturalezza che avrebbe messo nella frase Stanotte fa caldo. «Se è per questo, sospetto anche dell'informazione trovata tra gli effetti di Dokhnor. Magari l'hanno messa lì apposta per indurci a torchiare i turisti e coinvolgerci in incidenti con i loro governi. I morgaffi sono di una malafede senza limiti.» «Può darsi, liberuomo, ma possiamo rischiare che si tratti solo di malafede e non di un pericolo autentico?» disse Liem. «Se intende ignoriamo il pericolo? È ovvio che no» disse Peggol. «Però può sempre essere malafede.»
«E i morgaffi arriverebbero a uccidere uno dei loro agenti solo per ingannarci?» chiese Radnal. «Se Dokhnor fosse vivo, non avremmo idea del piano.» «Arriverebbero anche a questo, proprio perché si aspettano che non li riteniamo tanto insensibili» rispose Peggol. Radnal pensò che se al mattino il tempo era nuvoloso, l'Occhio e Orecchio avrebbe sospettato che qualcuno aveva rubato il sole. Certo, era proprio quello il compito degli Occhi e Orecchie, ma rendeva Peggol una presenza inquietante. «Dato che non possiamo interrogare perbene i turisti, che facciamo domani?» disse Radnal. «Continuiamo come oggi» replicò Peggol, afflitto. «Se uno di loro fa il minimo passo falso, saremo giustificati nell'uso di appropriati mezzi persuasivi.» Neanche per un uomo che spesso nel lavoro ricorreva alla tortura era facile dire chiaramente quella parola. «C'è un problema immediato, liberuomo vez Menk...» cominciò Radnal. «Mi chiami pure Peggol vez» lo interruppe l'Occhio e Orecchio. «Siamo assieme in questo guaio, tanto vale che ci trattiamo da amici. Scusi, diceva?» «Prima o poi la comitiva vorrà andare a occidente, Peggol vez, verso i Monti della Barriera, e verso la faglia dove magari c'è la bomba stellare. Se c'è bisogno del tocco finale, sarà la migliore occasione per l'eventuale responsabile. Sempre che sia uno del gruppo, ovvio.» «E quando conta di portarci là?» Se prima sembrava infelice, ora era lugubre. Né Radnal contribuì a tirargli su il morale: «La puntata a occidente era proprio nell'itinerario di domani. Posso cambiarlo, ma...» «Ma questo rivelerebbe al colpevole, se esiste un colpevole, che sappiamo cosa c'è sotto. Già.» Peggol si toccò il pizzetto sotto il labbro. «Credo comunque sia il caso di fare il cambiamento, Radnal vez.» Visto che anche Radnal aggiungeva al suo nome la particella di cortesia, fece lo stesso. «Meglio allertare il nemico che offrigli un'occasione su un piatto d'argento.» «Liberuomo vez Menk...» fece Liem vez Steries. L'Occhio e Orecchio interruppe di nuovo: «Quel che ho detto a Radnal vale anche per lei». «Ma certo, Peggol vez» disse Liem. «Soltanto, com'è stato possibile per il Morgaf mettere su un piano del genere senza il minimo sentore da parte nostra? Non intendo mancare di rispetto, le assicuro, ma la cosa mi preoc-
cupa.» Accennò ai Monti della Barriera, che all'improvviso apparivano un baluardo molto meno solido di prima. «È una domanda legittima, e non la prendo come un'offesa. Vedo due possibili risposte.» Radnal aveva la sensazione che l'Occhio e Orecchio vedesse almeno due risposte per tutte le domande. Peggol comunque disse: «Una è che si tratti di una finta del Morgaf per aizzarci contro gli altri Paesi confinanti, come dicevo prima. L'altra è che il piano sia autentico, e il suo eventuale autore l'ha proposto ai morgaffi per metterli in condizione di piombarci addosso dopo la catastrofe». Due possibilità ugualmente logiche. Radnal non sapeva per quale optare. E visto che le cose stavano così, disse: «Ora non possiamo farci niente, perciò è meglio che andiamo a dormire. Domattina dirò ai turisti che andiamo a est, anziché a ovest. Tanto è comunque un'escursione interessante. Si tratta...» Peggol lo bloccò alzando la mano. «Dato che vedrò tutto domani, perché sciupare l'attesa?» Si torse sul busto. «Non c'è il rischio di morire per compressione del posteriore, vero?» «Che io sappia, non è mai successo.» Radnal soffocò un sorriso. «Forse diventerò il primo caso del genere, e finirò in tutti i codici di medicina.» Peggol si strofinò le parti afflitte. «E domani mi toccherà cavalcare di nuovo, eh? Che sfortuna.» «Se non ce ne andiamo subito a dormire un po', ci appisoleremo in sella» disse Radnal con uno sbadiglio. «Ormai il tramonto è già passato da un paio di decime. Pensavo che Moblay non se ne andasse mai più al cubicolo.» «Forse gli sei solo simpatico, Radnal.» Liem vez Steries cantilenò il nome della guida, parodiando il modo in cui il lissonese ometteva la particella di cortesia. Radnal lo rimbeccò: «Dovrebbero portarti via i demoni della notte, per un'idea del genere, Liem vez». Si aspettò che il miliziano lo stuzzicasse con allusioni a Evillia e Lofosa, ma Liem lasciò perdere. Si chiese quali altre idee fossero venute alle due ragazze dell'Unità del Krepalga, e se stanotte intendessero sperimentarle con lui. Sperò di no: come aveva detto a Peggol, aveva bisogno di dormire. Poi però si domandò se anteporre il sonno alla fornicazione fosse un segno di incipiente vecchiaia. E tanto peggio se era così, decise. Tornò al rifugio con Peggol e Liem. Gli altri miliziani e gli Occhi e Orecchie segnalarono a bisbigli che era tutto a posto. Radnal per curiosità poggiò l'orecchio ai cubicoli di Evillia, Lofosa e del
figlio di Moblay Sopsirk. Da nessuno dei tre venivano gemiti e tonfi. Si chiese se fosse stato Moblay a recedere dalla proposta alle krepalgane o loro a respingerlo. O magari se l'erano già spassata e adesso dormivano. No, questo era improbabile, altrimenti gli Occhi e Orecchie avrebbero ammiccato per l'abbondanza di particolari goduti con gli occhi e le orecchie. Con un nuovo sbadiglio, Radnal andò al suo cubicolo, si sfilò i sandali, sciolse la cintura e si coricò. Il sacco a pelo pneumatico sospirò come un'amante sotto di sé. Scosse la testa infuriato. Dopo due notti con Lofosa ed Evillia, aveva la testa piena di idee indecenti. Comunque, sperò lo lasciassero in pace. Sapeva che la loro scappatella con lui era già stata inclusa nel dossier di Peggol vez Menk. E il dossier non sarebbe certo migliorato se gli Occhi e Orecchie l'avessero visto spassarsela... o peggio, l'avessero sentito litigare con loro per mandarle via. Le due notti precedenti Evillia e Lofosa erano arrivate proprio mentre stava per addormentarsi. Quella notte, nervoso per il loro eventuale arrivo e per quasi tutto quello che gli avevano detto Peggol e Liem, tardò parecchio ad addormentarsi. Ma le ragazze rimasero nei loro cubicoli. Si assopì senza accorgersene e riaprì gli occhi di scatto al verso rauco di un uccello koprit che annunciava l'alba dal tetto. Ci mise un paio di cardiobattiti a svegliarsi del tutto, ad accorgersi di essersi addormentato e a ricordare il da farsi per stamane. Si infilò i sandali, allacciò la cintura e andò nella sala comune. Quasi tutti i miliziani e gli Occhi e Orecchie erano già in piedi. Peggol invece no. Radnal si chiese se sapere quanto russava potesse essere una buona arma di ricatto. Liem vez Steries disse piano: «Stanotte niente omicidi». «Lieto di saperlo» rispose Radnal, con una punta di sarcasmo e insieme di sincerità. Lofosa uscì dal cubicolo. Portava sempre quella che per Radnal doveva essere la tenuta da notte del Krepalga, vale a dire la pelle. Non aveva un capello fuori posto, ed era intervenuta sugli occhi per farli sembrare più grandi e luminosi. Tutti gli uomini la guardarono, alcuni esplicitamente, altri meno. Lei sorrise a Radnal e disse con voce argentina: «Spero non abbia sentito la nostra mancanza, stanotte, liberuomo vez Krobir. Sarebbe stato divertente come le due precedenti, ma eravamo troppo stanche». Senza dargli il tempo di rispondere, e ce ne avrebbe messo un bel po', uscì per andare alla latrina. La guida turistica si guardò i sandali, per evitare gli sguardi altrui. Co-
munque sentì colpetti di tosse, a indicare che anche gli altri non sapevano cosa dire. Alla fine Liem osservò: «Sembra così in confidenza con te da poterti chiamare solo Radnal vez». «Immagino di sì» borbottò Radnal. In senso fisico, erano intimi al punto che lei avrebbe potuto fare a meno anche del vez. Inoltre, la ragazza parlava così bene il tarteshano da saperlo. Era solo che aveva cercato di metterlo ancora più in imbarazzo mescolando quelle frasi formali con un messaggio così esplicito. Neanche se ci avesse provato per sei lune sarebbe riuscita a fargli fare una tale figura da stupido. Evillia uscì dal cubicolo vestita, o meglio svestita, come Lofosa. Non si fermò a stuzzicare Radnal, ma andò dritta alla latrina. Lei e Lofosa si incrociarono dietro gli elicotteri. Parlarono per qualche cardiobattito, dopodiché ognuna proseguì per la sua strada. Toglo zev Pamdal entrò nella sala comune proprio mentre tornava Lofosa. Quest'ultima fissò la fronteforte, come a sfidarla nel fare commenti sulla propria nudità. Molti tarteshani, e soprattutto tarteshane, ne avrebbero fatti un bel po', di commenti. Toglo invece si limitò a dire: «Spero abbia dormito bene, damalibera». Dal tono disinvolto, sembrava rivolta a una vicina che non conosceva bene ma con la quale era in ottimi rapporti. «Sì, grazie.» Lofosa chinò gli occhi, rendendosi conto che non poteva certo stuzzicare Toglo con le grazie esposte profusamente. «Ne sono lieta» disse Toglo, sempre con dolcezza. «Non vorrei che si prendesse un'infreddatura in vacanza.» Lofosa scattò di mezzo passo in avanti come punta da uno spillo. Toglo si era già voltata a salutare gli altri che arrivavano nella sala comune. Per un cardiobattito o forse due, Lofosa digrignò i denti come un gatto delle caverne. Poi tornò nel cubicolo a finire di prepararsi per la giornata. «Spero di non averla offesa... troppo» disse Toglo a Radnal. «Al contrario, credo sia stata diplomatica» rispose lui. «Hmm» disse lei. «Chissà se è un complimento, per come va il mondo.» Radnal non rispose. Dopo quello che aveva saputo la notte precedente, il mondo poteva andare anche peggio di quanto immaginava Toglo. Lui stesso dovette mettere a dura prova le sue doti diplomatiche dopo la colazione, quando si trattò di spiegare al gruppo che sarebbero andati a est anziché a ovest. Golobol disse: «Ritengo che tale mutamento dell'itinerario sia oltremodo penoso, sì». Il suo volto tondo e bruno aveva un'espressione afflitta.
Per Benter vez Maprab tutti i cambiamenti erano penosi. «Questo è un oltraggio» disse furente. «Il tappeto erbaceo in prossimità dei Monti della Barriera è di gran lunga più ricco di quello orientale.» «Mi dispiace» disse Radnal, in una miscela interessante di verità e menzogna. Non gli importava di irritare Benter, ma avrebbero preferito non avere una ragione così impellente. «Per me non fa niente se oggi andiamo a est invece che a ovest» disse Toglo zev Pamdal. «Secondo me da entrambe le direzioni ci sono cose altrettanto interessanti da vedere. Però mi piacerebbe sapere perché questo cambiamento nella tabella di marcia.» «Anch'io vorrei saperlo» disse il figlio di Moblay Sopsirk. «Toglo ha ragione... Cos'è che si tenta di nasconderci?» I turisti cominciarono a parlare tutti assieme, i Martois a gridare. In risposta al lissonese, Radnal si augurò che nel Parco della Fossa si aprisse una fossa ancora più profonda, diciamo fino al centro rovente della Terra, per gettarci dentro Moblay. Non solo era villano al punto di rivolgersi a una donna senza la particella di cortesia, (d'altronde anche se l'avesse usata, sarebbe stata comunque un'indebita licenza, senza l'esplicito permesso) ma era anche ficcanaso e attaccabrighe. Peggol vez Menk sbatté la mano sul tavolo accanto al quale era morto Dokhnor di Kellef. Il colpo sperò il cicaleccio. Nell'improvviso silenzio, Peggol disse: «Il liberuomo vez Krobir ha cambiato il vostro itinerario su mia proposta. Alcuni aspetti del caso di omicidio stanno a indicare che è meglio procedere in questo modo, nell'interesse del Tartesh». «Questo non ci dice nulla, assolutamente nulla.» Ora Golobol era davvero arrabbiato. «Lei si esprime con un linguaggio ineccepibile, ma quale significato vi si nasconde?» «Se le dicessi subito tutto quel che vuol sapere, liberuomo, lo svelerei anche a chi non dovrebbe sentire» disse Peggol. «Pfui!» Golobol cacciò fuori la lingua. Eltsac vez Martois disse: «Penso che voialtri Occhi e Orecchie vi atteggiate un po' da semidei». Ma la dichiarazione di Peggol mise a tacere la maggior parte dei turisti. Mai come dall'avvento delle bombe stellari le nazioni erano diventate così ansiose di mantenere i segreti a vicenda. Il che per Radnal era un po' chiudere la stalla dopo che erano scappati i buoi, ma chissà? Poteva esserci di peggio delle bombe stellari. Disse: «Prometto di svelarvi al più presto che cosa succede in ogni parti-
colare». Peggol vez Menk gli lanciò un'occhiataccia. Non avrebbe detto a un altro neanche il suo nome, potendo farne a meno. «Sì, ma che cosa succede?» gli fece eco Toglo. Dato che neanche lo stesso Radnal lo sapeva con certezza, accolse quel commento in dignitoso silenzio. Poi disse: «Più ce ne stiamo qui a discutere, meno avremo la possibilità di vedere, indipendentemente da quale direzione finiremo per scegliere». «Questo sì che ha senso, liberuomo vez Krobir» disse Evillia. Né lei né Lofosa avevano discusso se andare a est o a ovest. Radnal passò in rassegna il gruppo e vide più rassegnazione che sdegno. Disse: «Alle stalle ora, liberuomini e damelibere. Ci sono molte cose affascinanti da vedere a est del rifugio, e anche da sentire. C'è la Tana dei Demoni della Notte, per esempio.» «Oh, bene!» Toglo batté le mani. «Come dicevo, l'ultima volta che sono venuta pioveva. La guida temeva troppo le inondazioni improvvise per portarci lì. È da quando ho letto il codice orripilante di Hicag zev Ginfer che voglio vederla.» «Vuol dire Le rocce maledette?» Toglo perse punti in fatto di gusto agli occhi di Radnal. Cercando di mantenersi cortese, disse: «Non era granché in fatto di accuratezza, si poteva fare di meglio». «Per me era robaccia» disse Toglo. «Ma sono andata a scuola con Hicag zev e da allora siamo rimaste amiche, perciò ho dovuto leggerlo. Comunque, se non altro, dà una parvenza di esotismo alla tana dei Demoni della Notte, che sia vero o no anche in minima parte.» «Molto minima... appena un po'» disse Radnal. «L'ho letto anch'io, e l'ho trovato molto avvincente» disse Nocso zev Martois. «Secondo la guida turistica è una sciocchezza» le disse il marito. «Non ho detto proprio questo» obiettò Radnal. Ma i Martois già non l'ascoltavano: ancora una volta il loro spasso era strillarsi in faccia a vicenda. «Basta con le ciarle. Se proprio ci tocca farlo, sbrighiamoci almeno» disse Benter vez Maprab. «Come vuole, liberuomo.» Radnal si augurò che nella Tana dei Demoni della Notte ci fossero davvero demoni della notte. Con un po' di fortuna, si sarebbero trascinato Benter tra le rocce e nessuno della comitiva avrebbe più dovuto vederlo o sorbirselo. Purtroppo, solo nei codici tutto procedeva così a puntino.
I turisti se la cavavano meglio con gli asini. Anche Peggol sembrava meno fuori posto a dorso d'asino, o almeno non lo dimostrava come il giorno prima. Mentre il gruppo si allontanava dal rifugio, Radnal si voltò a guardare i miliziani del parco e gli Occhi e Orecchie tornare alle stalle per ripassarle al setaccio. Si costrinse a dimenticare l'indagine sull'omicidio e a tener presente che era una guida turistica. «Dato che stamane siamo partiti prima, è più probabile vedere piccoli rettili e mammiferi che si riparano dall'avanzare della calura» disse. «Molti di essi...» Si bloccò a un improvviso movimento nella sabbia qualche cubito in là. «Per gli dei, eccone uno proprio adesso.» Smontò. «Dev'essere uno scinco spalatore?» «Un che?» Ormai Radnal si era abituato al coro che provocava ogni volta che accennava a qualcuno degli abitanti alquanto insoliti delle Terrefonde. «Uno scinco spalatore» ripeté. Si acquattò. Sì, ci aveva azzeccato, ecco l'esca. Sapeva di avere delle probabilità alla pari. Se la prendeva per la coda, la lucertola avrebbe mollato l'appendice, svignandosela. Ma se la prendeva per il collo... Fatto. Lo scinco si agitò come un pezzo di gomma impazzito, cercando di divincolarsi. Inoltre, evacuò. Lofosa fece un verso di disgusto. Per Radnal non c'erano problemi. Dopo trenta o quaranta cardiobattiti, lo scinco ci rinunciò e si fermò. Radnal non aspettava altro per portare fra i turisti la lucertola non più grande di un palmo. «Gli scinchi sono diffusi in tutto il mondo, ma quello spalatore è la varietà più curiosa. È l'equivalente terrestre di una rana pescatrice. Guardate...» Picchiò sul mucchio di carne arancione che spuntava di due dita alla base del dorso. «Lo scinco s'infila sotto la sabbia, facendo spuntare solo quest'esca e il naso. Vedete com'è largo il torace? Così sembra un animale che striscia, non uno che vive nel sottosuolo. Ha una muscolatura specifica, in grado di far piegare le costole in un modo che pare sbagliato. Quando si avvicina un insetto, la lucertola ci tira su la sabbia, poi si piega di scatto su se stessa e l'afferra. È una splendida creatura.» «È la cosa più schifosa che abbia mai visto» dichiarò il figlio di Moblay Sopsirk. Alla lucertola non importava di essere né l'una né l'altra. Lo scrutava con gli occhietti scuri e velati. Se quella varietà sopravviveva per un altro mi-
lione di anni (ammesso che le Terrefonde sopravvivessero per un altro paio di lune, pensò nervoso Radnal), i futuri esemplari avrebbero anche potuto perdere la vista. Era già successo con altri scinchi sotterranei. Radnal uscì dal sentiero e rimise la lucertola a terra. La bestiolina scappò via a velocità sorprendente con le sue zampette così corte. Dopo sei o otto cubiti parve fondersi col terreno. Qualche istante dopo, solo la vivace esca arancione ne tradiva la presenza. Evillia chiese: «Ci sono creature più grosse che vanno a caccia di esche per prendere gli scinchi?» «Per la verità, sì» disse Radnal. «Gli uccelli koprit distinguono il colore, così vi capiterà spesso di vedere scinchi spalatori impalati nelle loro scorte di cibo. Se ne nutrono anche le volpi notturne, dalle lunghe orecchie. Queste però li scovano con l'odorato, non con la vista.» «Spero che non mi piombi addosso un uccello koprit» disse Evillia scoppiando a ridere. Lei e Lofosa portavano un paio di tuniche arancioni, quasi della stessa tinta della pelle sull'esca dello scinco, con una doppia fila di grossi bottoni d'oro, e collane di plastica con ganci d'oro. Radnal sorrise: «Non credo lei corra pericoli. E ora che la lucertola è al sicuro, almeno per il momento, vogliamo andare?... No, aspettate, dov'è il liberuomo vez Maprab?» Dopo qualche cardiobattito, il vecchio fronteforte spuntò da dietro un grosso e ramificato arbusto spinoso, con la cintura della veste ancora in mano. «Chiedo scusa per il ritardo, ma mentre ce ne stavamo qui ho pensato di rispondere al richiamo della natura.» «È solo che non volevo perderla, liberuomo.» Radnal fissò Benter mentre risaliva sull'asino. Era la prima volta che lo sentiva scusarsi. Si chiese se il turista stava bene. Il gruppo cavalcò lentamente diretto a est. Dopo un po', la gente iniziò a lamentarsi. «Il Parco della Fossa si somiglia dappertutto» disse Lofosa. «Già? Quand'è che vediamo qualcosa di diverso?» convenne il figlio di Moblay Sopsirk. Radnal sospettava che avrebbe parlato a quel modo anche se Evillia avesse detto che il cielo era rosa: sbavava per lei. Intanto continuava. «Fa caldo, è piatto e arido dovunque. Anche i biancospini sono monotoni.» «Liberuomo, se voleva scalare montagne e rotolarsi nella neve, doveva andare da qualche altra parte» disse Radnal. «Le Terrefonde non offrono niente del genere. Ma le montagne e la neve si trovano dappertutto, mentre il Parco della Fossa è qualcosa di unico. E se mi dite che questo terreno è
simile a quello che abbiamo visto ieri attorno al Lago Acre, liberuomo, damalibera» lanciò un'occhiata a Lofosa «credo che vi sbagliate.» «Certo che si sbagliano» s'intromise Benter vez Maprab. «Quest'area ha una flora molto differente da quell'altra. Notate le euforbie dalle foglie più sviluppate, gli oleandri...» «Sono solo piante» disse Lofosa. Benter si batté la mano in testa per la sorpresa e il disappunto. Radnal si aspettava un'altra esplosione di rabbia da parte sua, ma si limitò a borbottare tra sé e lasciar perdere. All'incirca un quarto di decima dopo, Radnal indicò una massa grigia all'orizzonte orientale. «Ecco la Tana dei Demoni della Notte. Vi prometto che non avete ancora visto niente di simile nel Parco della Fossa.» «Spero proprio sia interessante, oh sì» disse Golobol. «Mi è piaciuta molto la scena in cui i demoni escono al tramonto, con gli artigli grondanti di sangue» disse Nocso zev Martois, con la voce acuta e tremula di eccitazione. Radnal sospirò: «Le rocce maledette è solo orripilante, damalibera. Nella tana non ci sono demoni, e non escono né al tramonto né altre volte. Ho passato la notte nel sacco a pelo a neanche cinquanta cubiti da quella pila di rocce e sono ancora qui, con tutto il sangue al posto giusto nelle vene.» Nocso fece una smorfia. Senza dubbio preferiva il melodramma alla realtà. Dato che era sposata con Eltsac, la realtà non doveva sembrarle troppo attraente. La Tana dei Demoni della notte era un cumulo di granito grigio, alto circa un centinaio di cubiti, che si levava dalla piatta distesa delle Terrefonde. Il granito era tempestato di cavità di tutte le dimensioni. Sotto il sole implacabile, quelle buie aperture a Radnal sembravano le orbite di un teschio fisse su di lui. «Qualche buca è abbastanza grande da far passare una persona» osservò Peggol vez Menk. «Qualcuno le ha esplorate?» «Sì, in molti» rispose Radnal. «Però lo scoraggiamo, perché anche se nessuno ha mai trovato tracce di demoni della notte, sono ottime tane di vipere e scorpioni. Ci sono anche nidi di pipistrelli. Senza dubbio la leggenda su questo posto è nata per via dei pipistrelli che al tramonto volavano fuori a caccia d'insetti.» «I pipistrelli ci sono dappertutto» disse Nocso. «Ma c'è soltanto una Tana dei Demoni della Notte, perché...» Improvvisamente si levò la brezza, che fino a quel momento non aveva
soffiato. A terra si formarono vortici di polvere. Radnal si afferrò il berretto. E dalle molte gole minerali della Tana dei Demoni della Notte venne un lamento e un ululato cavernoso che gli fece rizzare tutti i peli del corpo. Nocso ne fu estasiata: «Ecco!» esclamò. «L'urlo dei demoni immortali, che vogliono liberarsi per scatenare l'orrore sul mondo!» A Radnal venne in mente la bomba stellare che poteva essere sepolta vicino ai Monti della Barriera, e pensò a orrori peggiori di quelli che avrebbero potuto provocare dei demoni. Disse: «Damalibera, è solo il vento che suona dei flauti stonati, come sa di certo. La roccia più friabile intorno alla Tana è stata erosa dalle intemperie, e la Tana stessa ha subito un bel po' di sabbiature. Tutto ciò che non era solido come il resto è scomparso, e questo spiega il formarsi delle aperture. Ora, quando il vento ci soffia attraverso, producono gli strani suoni che abbiamo sentito». «Hmp!» fece Nocso. «Se ci sono degli dei, come fanno a non esserci dei demoni?» «Damalibera, dovrebbe parlarne con un prete, non con me.» Radnal giurava sull'esistenza degli dei del Tartesh ma, come molta gente colta della sua generazione, finiva tutto lì. Peggol vez Menk disse: «Damalibera, la questione dell'esistenza o meno dei demoni non c'entra necessariamente con il fatto che infestino la Tana dei Demoni della Notte. Soltanto che se non ci sono demoni, è improbabile che se ne trovino nella Tana.» Il faccione di Nocso schiumava di rabbia. Ma ci pensò due volte prima di beccarsi con un Occhio e Orecchio. Invece girò la testa e si mise a strillare con Eltsac, che a sua volta le strillò. La brezza vorticava attorno a loro, mandando la sabbia sul volto della guida. Dalla Tana dei Demoni della Notte continuavano a venire note stonate. Ci furono ulteriori scatti delle macchinette fotografiche. «Avrei voluto portarmi un registratore» disse Toglo zev Pamdal. «L'interessante di questo posto non è la veduta ma quello che si sente.» «Può acquistare un filo della Tana dei Demoni della Notte durante una tempesta di vento al chiosco di articoli da regalo all'entrata del Parco della Fossa.» «Grazie, Radnal vez, posso farlo all'uscita. Però avrei preferito registrare direttamente quello che ho sentito di persona.» Toglo andò con lo sguardo a Eltsac e Nocso, che continuavano ad abbaiarsi a vicenda. «Be', non proprio tutto.» Evillia disse: «Questa Tana dei Demoni della Notte era in fondo al ma-
re». «Esatto. È il risultato dell'erosione provocata dal prosciugamento del fango e del sale che la circondavano. Consideratela una versione in miniatura degli altopiani che sorgono nelle Terrefonde. Nell'antichità erano isole. Ma naturalmente la Tana era sommersa anche allora. E potrebbe tornare a esserlo, pensò. Immaginò i pesci scrutare nei buchi del granito secolare, i granchi che vi si rifugiavano in cerca di resti di serpenti e ratti delle sabbie. Il quadro prese vita nella sua mente in ogni dettaglio. Era preoccupante: voleva dire che lui prendeva sul serio la minaccia. Era così preso da quelle preoccupazioni che ci mise un paio di cardiobattiti ad accorgersi che il gruppo era caduto in silenzio. Quando lo notò, si affrettò ad alzare gli occhi, chiedendosi cosa c'era che non andava. A un terzo della distanza dalla Tana dei Demoni della Notte, c'era una gatto delle caverne che li fissava. Il gatto delle caverne doveva dormire in un interstizio, ed era stato svegliato dal chiasso dei turisti. Sbadigliò, scoprendo le zanne gialle e la lingua rosa. Poi, con uno sguardo fermo dalle sfumature d'ambra, riprese a scrutare i turisti, come domandandosi con che salsa andassero. «Allontaniamoci dalla Tana» disse piano Radnal. «Meglio non fargli credere che siamo una minaccia.» Era una parola, pensò. Se il gatto delle caverne decideva di attaccare, il cannone portatile l'avrebbe ferito, ammesso che avesse la fortuna di colpirlo, ma non ucciso. Comunque aprì lo stesso il fodero sulla sella. Per una volta, i turisti fecero esattamente come aveva detto. La vista del grosso predatore smuoveva paure che risalivano all'era in cui gli uominiscimmia imparavano l'andatura eretta. Il figlio di Moblay Sopsirk domandò: «Ce ne saranno degli altri? Nel Lissonland i leoni cacciano a branchi». «No, i gatti delle caverne sono solitari, tranne che nella stagione degli accoppiamenti» rispose Radnal. «Discendono dallo stesso ceppo dei leoni, ma hanno abitudini differenti. Nelle Terrefonde non ci sono assembramenti animali tanto grossi da rendere la caccia a branchi un'efficace strategia di sopravvivenza.» Proprio mentre Radnal si chiedeva se il gatto delle caverne fosse tornato a dormire, quello si mosse di scatto. Con la lunga criniera brunastra al vento, spiccò un balzo dal ripido pendio della Tana dei Demoni della Notte. Radnal sfoderò il cannone portatile, e vide che anche Peggol ne aveva uno. Ma giunto al suolo, il gatto delle caverne si allontanò in un baleno dalla
comitiva. Il suo manto bigio lo rendeva quasi invisibile sullo sfondo del deserto. Le macchinette fotografiche scattarono a raffica. Dopodiché la bestia scomparve. «Com'era bello» disse in un soffio Toglo zev Pamdal. Ma un istante dopo andava già sul pratico. «Dove trova l'acqua?» «Non ne ha molto bisogno, Toglo zev» rispose lui. «Come le altre creature delle Terrefonde, sfrutta al massimo il corpo delle prede. Inoltre...» indicò a nord «...c'è qualche piccola sorgente tra le colline. Quando era ancora permessa la caccia ai gatti delle caverne, uno dei modi preferiti era trovare una sorgente e attendere che l'animale venisse a bere.» «Un'azione veramente criminale» disse Toglo. «Certo, per noi.» Radnal condivideva a metà. «Ma era abbastanza naturale per uno che aveva subito una razzia del gregge o addirittura perso un bambino. Sbagliamo nel giudicare il passato con gli attuali criteri.» «La più grossa differenza tra passato e presente è che noi moderni possiamo fare del male su più vasta scala» disse Peggol. Forse pensava alla bomba stellare sottoterra. Ma nella storia recente c'erano tante di quelle atrocità che Radnal non se la sentiva di contestarlo. Eltsac vez Martois disse: «Be', liberuomo vez Krobir, devo ammettere che per quella bestia è valso il prezzo d'ingresso». Radnal fece un sorriso radioso. Eltsac era l'ultimo dal quale si sarebbe atteso una lode. Ma ecco che intervenne Nocso: «Però sarebbe stato più emozionante se il gatto delle caverne ci fosse venuto addosso e lui avesse dovuto sparargli». «Infatti» convenne Eltsac. «Mi sarebbe proprio piaciuto filmarlo.» Perché, si chiese Radnal, i Martois andavano d'accordo solo quando avevano ambedue torto? Disse: «Con tutto il rispetto, sono ben lieto che l'animale se ne sia andato dalla parte opposta. Non mi va di sparare a una creatura tanto rara, ma ancor più di mancare il colpo e di vedere qualcuno farsi male». «Mancare il colpo?» Nocso lo disse come se non ci avesse mai pensato. Ed era probabile: nelle storie di avventura i personaggi facevano sempre centro. Eltsac disse: «Non è facile sparare bene. Quando ero di leva nelle Guardie Volontarie, dovetti riprovare tre volte per l'abilitazione al fucile». «Oh, ma il tuo caso è diverso da una guida turistica» disse Nocso con sprezzo. «Lui deve saper sparare bene.» Superando le grida indignate di Eltsac, Radnal disse: «Le faccio presente
che non ho mai sparato con un cannone portatile da quando lavoro al Parco della Fossa.» Non aggiunse che, potendo scegliere tra il gatto delle caverne e Nocso, avrebbe preferito sparare a quest'ultima. Si rialzò il vento e dalla Tana dei Demoni della Notte giunsero di nuovo dei suoni spaventosi. Radnal pensò a come si sarebbe sentito se fosse stato, mettiamo, un ignorante cacciatore che sentiva per la prima volta quei lamenti spettrali. Era certo che se la sarebbe fatta addosso dalla paura. Ma nonostante questo, restava un fatto: giudicare con i criteri del passato era ancora più stupido quando il presente offriva informazioni più affidabili. Se Nocso credeva ai demoni della notte solo per aver letto in proposito cose orripilanti e a forti tinte, questo significava che aveva meno sale in zucca di quanto gli dei non ne dessero a uno scinco spalatore. Radnal sorrise. A giudicare dai fatti, lei in effetti aveva meno sale in zucca di quanto gli dei non ne dessero a uno scinco spalatore. «Andremo in direzione opposta al gatto delle caverne» disse infine Radnal. «Cerchiamo anche di stare in gruppo. Se proprio ci tenete a saperlo, chi esce dai ranghi merita di finire divorato.» I turisti allora presero a cavalcare quasi incollati l'uno all'altro. Per Radnal, il lato orientale della Tana dei Demoni della Notte non era molto diverso da quello occidentale. Ma lui ci era stato già decine di volte. Non si potevano biasimare i turisti, se volevano vedere il più possibile. «Non ci sono demoni neanche qui, Nocso» disse Eltsac. La moglie lo ignorò. Radnal si chiese perché restassero sposati, o si fossero sposati, dato che si beccavano tanto. Pressioni del parentado, probabilmente. E non era affatto una buona ragione. Allora perché continuava a mercanteggiare sul prezzo coniugale col padre di Wello zev Putun? I Putun erano una solida famiglia della bassa aristocrazia, un'ottima relazione per un individuo intraprendente. Non c'era niente che non andava in Wello, o almeno così gli pareva, eppure non lo attirava molto. Se avesse letto Le rocce maledette non avrebbe capito che era un cumulo di sciocchezze? Forse. E la cosa lo preoccupava. Ma, se voleva una donna con la quale poter parlare, non gli sarebbe andata meglio una concubina? Peggol ne aveva una. Radnal si chiese se lui ne fosse contento. Probabile di no... Peggol provava un piacere perverso a non essere mai contento di niente. Il pensiero di Wello riportò in mente a Radnal le due notti di sregolatezza che si era goduto con Evillia e Lofosa. Era certo di non voler sposare una donna la cui unica attrattiva fosse il corpo, ma nel contempo non rite-
neva del tutto saggio sposarne una il cui corpo non lo attraesse. Quello di cui aveva bisogno... Sbuffò. Quello di cui ho bisogno è una dea incarnata e innamorata di me... se prima non distrugge la fiducia che ho in me stesso rivelandomi che è una dea. Ma era improbabile trovare una compagna del genere, specie a un prezzo coniugale inferiore al bilancio annuale del Tartesh. Forse andava bene anche Wello, dopotutto. «Torniamo per la stessa strada dell'andata?» chiese Toglo zev Pamdal. «Pensavo di no» disse Radnal. «Piuttosto contavo di allungare verso sud, al ritorno, per darvi modo di vedere una zona da dove non siete passati prima.» Non riuscì a evitare di aggiungere: «Per quanto a certa gente sembri tutto lo stesso». Il figlio di Moblay Sopsirk fece un'espressione innocente: «Se ti riferisci a me, Radnal, sono lieto di scoprire novità. Non è che ci sia stato tante volte». «Hmp» fece Toglo. «Mi piace molto essere qui. Sono contenta di aver visto finalmente la Tana dei Demoni della Notte, e anche di averne sentito il suono. Ora capisco perché i nostri antenati credevano che ci vivessero delle orride creature.» «Pensavo lo stesso solo un duecento cardiobattiti fa» disse Radnal. «Che simpatica coincidenza.» Un sorriso le illuminò il volto. Ma con grande disappunto di Radnal, l'allegria non le durò a lungo. Infatti lei disse: «Quest'escursione è talmente stupenda che non posso fare a meno di pensare che sarebbe stata ancora più bella se Dokhnor fosse ancora vivo, o perlomeno se sapessimo chi l'ha ucciso». «Sì» disse Radnal. Aveva passato quasi tutto il giorno a guardare da un turista all'altro per cercare d'immaginare chi aveva spezzato il collo al morgaffo. Era stato anche sul punto di sospettare dei Martois, poi però li aveva scartati perché troppo incapaci di uccidere qualcuno in silenzio. E se tutto quel loro beccarsi e schiamazzare serviva solo a mascherare secondi fini? Si fece una risata vaga come quelle di Peggol vez Menk. Non ci credeva. Inoltre, Nocso ed Eltsac erano tarteshani. Non avrebbero mai voluto la distruzione del loro Paese. E se fossero stati pagati tanto da volerlo distruggere? Nocso si volse a guardare la Tana dei Demoni della Notte proprio nell'attimo in cui un uccello koprit s'infilava in uno dei buchi nel granito. «Un demone! Ho visto un demone della notte!» strepitò.
Radnal rise di nuovo. Se Nocso era una spia o una sabotatrice, lui era un cammello senza gobba. «Andiamo» disse ad alta voce. «È ora di tornare.» Come promesso, ricondusse il gruppo al rifugio per un'altra strada. Il figlio di Moblay Sopsirk non ne fu entusiasta: «Forse non è proprio lo stesso, ma neanche molto diverso». «Oh, sciocchezze!» disse Benter vez Maprab. «La flora è del tutto differente da quella che abbiamo osservato stamane.» «Non per me» disse Moblay caparbio. «Liberuomo vez Maprab, visto il suo interesse per le piante di ogni genere, era per caso uno studioso di botanica?» domandò Radnal. «No, per gli dei!» La risata di Benter sembrava un nitrito. «Prima di andare in pensione, avevo una catena di negozi di fiori e piante.» «Ah, capisco.» Finalmente era chiaro. Con tutta quell'esperienza pratica, Benter era riuscito a saperne sulle piante più di qualsiasi studioso. Un quarto di decima dopo, il vecchio rallentò l'asino con un colpo di redini e andò dietro un altro cespuglio. «Spiacente di trattenervi» disse al ritorno. «Purtroppo i miei reni non sono più quelli di una volta.» Eltsac vez Martois sghignazzò: «Non ti preoccupare, Benter vez. A uno come te tocca dover annaffiare le piante. Ah ah!» «Sei più stupido dell'asino» lo rimbeccò Benter. «Per favore, liberuomini!» Radnal riportò la calma tra i due e si assicurò che cavalcassero a debita distanza l'uno dall'altro. Non gl'importava che se le dessero tre cardiobattiti dopo l'uscita dal Parco della Fossa, ma fino ad allora erano sotto la sua responsabilità. «Devo ammettere che l'argento deve proprio sudarselo» osservò Peggol. «Ne vedo di scemi nel mio ambito di lavoro, ma almeno non sono obbligato a trattarli con cortesia.» Abbassò la voce. «Ora che il liberuomo vez Maprab è andato dietro il cespuglio, non si è limitato a fare i suoi bisogni e basta. Si è anche chinato a estrarre qualcosa dal suolo. Ero nei paraggi.» «Davvero? Interessante.» Radnal non riteneva che Benter fosse coinvolto nell'assassinio di Dokhnor di Kellef. Ma anche asportare di nascosto delle piante dal Parco della Fossa era un crimine, di quelli con cui la guida turistica sapeva vedersela molto meglio che con un omicidio. «Per il momento non se ne fa niente. Ma perché quando torniamo al rifugio non fa perquisire di nuovo dai suoi uomini i bagagli di Benter?» Nello sguardo di Peggol passò un lampo divertito: «Le piacerebbe». «A me? Tanto varrebbe fosse stato Eltsac. Ma non ha sale in zucca, né
altrove in corpo.» «Ne è sicuro?» A Peggol passavano per la testa le stesse cose di Radnal. E probabilmente da prima di Radnal. Faceva parte del suo lavoro. Ma Radnal replicò deciso: «Sposava Nocso zev, se aveva sale in zucca?» Questo gli valse il primo sorriso franco da parte di Peggol. Aggiunse: «Inoltre, non sa niente dei biancospini, se non come evitarli con l'asino, e forse neanche quello». «Sono d'accordo, Radnal vez, anche a voler fare l'avvocato del diavolo.» All'approssimarsi del rifugio, Golobol si lamentava con Moblay: «Cos'abbiamo visto, a parte la Tana dei Demoni della Notte e, oh sì, il gatto delle caverne? Escluso questo, è stata una giornata da niente». «Liberuomo, se si ostina a ignorare tutto quel che accade d'interessante, per lei ogni giorno è monotono» osservò Toglo. «Ben detto!» Da guida turistica, Radnal non poteva parlare apertamente con quelli che portava in giro. Ma stavolta l'aveva fatto Toglo al posto suo. Lei sorrise: «Perché è venuto a vedere le Terrefonde se non le piace il risultato?» «C'è gente simile in tutti i gruppi, Toglo zev. Per me non ha senso, eppure è così. Se avessi i soldi per vedere le Nove Torri di Ferro di Mashyak, non mi lamenterei perché non sono d'oro.» «È un atteggiamento costruttivo» disse Toglo. «Sarebbe molto meglio se fossero di più a pensarla così.» «Sarebbe molto meglio se...» Radnal tacque. Se non avessimo il terrore di una bomba stellare nascosta qui da qualche parte, stava per concludere il periodo. Ma non era una mossa intelligente. Non solo avrebbe spaventato Toglo, o almeno fatto preoccupare, visto che lei non pareva spaventarsi troppo facilmente, ma Peggol vez Menk gli sarebbe piombato addosso in modo imprevedibile per aver violato le norme di sicurezza. Di colpo immaginò come sarebbe stato: come l'Oceano Occidentale che si riversava nelle Terrefonde tracimando dai monti devastati. Cercò di ridere di sé, in genere non gli venivano paragoni tanto letterari. Ma il riso gli si spense. Il paragone era letterario, ma poteva diventare letterale. «Che cosa sarebbe meglio, Radnal vez?» domandò Toglo. «Che cosa stava per dire?» Non poteva rivelarle cosa stava per dire. E non aveva la parlantina tanto sciolta da inventarsi un'amenità. Con suo stesso disappunto, gli venne di dire: «Sarebbe meglio se ci fosse più gente come lei, Toglo zev, che non ha le fisime per quel che vede fare agli altri».
«Oh, quello. Penso che non ci fosse niente di male per nessuno, Radnal vez. Avevate l'aria così beata. Certo, io lo farei al riparo dagli occhi altrui, ma non vedo alcun motivo d'irritazione da parte mia. «Ah.» Radnal non sapeva come prendere la risposta di Toglo. Però ormai si era già spinto fin troppo in là, perciò se ne stette zitto. Tra le euforbie sfilò qualcosa di minuscolo, inseguito da qualcosa di più grosso. La corsa finì in una nuvola di polvere. Prevenendo il solito coro di Cos'è?, Radnal disse: «Un dentiaguzzi ha appena colpito». Il roditore carnivoro si acquattò sulla preda. La guida turistica tirò fuori un monoculare per guardare meglio. «La vittima è un grosso ratto delle sabbie.» «Uno degli animali che studi tu?» disse Moblay. «Che fai, gli spari col cannone per vendetta?» «Secondo me dovrebbe proprio farlo» dichiarò Nocso zev Martois. «È stato un ignobile bruto ad aggredire quell'indifesa bestiolina pelosetta.» Radnal stava per chiederle se le era piaciuto il montone l'altra sera, ma pensò che non avrebbe capito. Perciò disse: «O i carnivori si nutrono di carne o muoiono di fame. Un dentiaguzzi non è proprio un simpatico coccolone come il grosso ratto delle sabbie, però ha il suo posto nella catena della vita». Il dentiaguzzi era più piccolo di una volpe, dal dorso marrone rossiccio e il ventre color crema. A prima vista era simile a un qualsiasi altro dipo, con le gambe posteriori adatte a saltare, grosse orecchie e una lunga coda a pennello. Ma anche il muso era lungo, e macchiato di sangue. Il grosso ratto delle sabbie mandava ancora deboli squittii. Nonostante questo, il dentiaguzzi gli conficcò i denti nel ventre e iniziò a divorarlo. Nocso diede un gemito. Radnal cercò di mettersi nella sua testa. Lei era disposta a credere in demoni della notte capaci di malvagità di ogni genere, eppure bastava la vista di un piccolo predatore in azione a farle rivoltare lo stomaco. Ci rinunciò: l'incoerenza di certe persone era così grande che non capiva come si potessero conciliare gli opposti. Disse: «Come vi ho fatto notare un paio di giorni fa, il dentiaguzzi si trova bene nelle Terrefonde perché i dipi si erano già adattati a condizioni simili quando questa parte del mondo era ancora sommersa. I suoi parenti erbivori estraggono l'acqua che gli occorre da foglie e semi, mentre questo sfrutta i tessuti degli animali che cattura. Neanche durante una delle rare piogge si vede bere un dentiaguzzi». «Disgustoso.» Nocso rabbrividì, agitando tutto il suo corpo abbondante. Radnal si domandò per quanto tempo la sua carcassa avrebbe fornito i
fluidi necessari a un dentiaguzzi. Per molto tempo, pensò. «Ecco il rifugio!» gridò a squarciagola il figlio di Moblay Sopsirk. «Acqua, birra e vino freschi!...» Come la sera prima, gli Occhi e Orecchie e i miliziani uscirono in attesa del gruppo che tornava. Man mano che gli asini si avvicinavano, Radnal vedeva meglio i volti degli uomini rimasti lì. Erano tutti molto tetri. Stavolta non intendeva stare a chiedersi cos'era successo per un paio di decime. Disse ad alta voce: «Fer vez, Zosel vez, pensate voi ai turisti. Voglio sapere che sta succedendo». «Va bene, Radnal vez» rispose Fer. Ma il suo tono non era meno grave dell'espressione. Radnal smontò e andò da Liem vez Steries. Non fu sorpreso di trovarsi Peggol vez Menk alle calcagna. Arrivarono dal subdirigente della milizia con un gran frusciare di vesti. Radnal domandò: «Qual è la novità, Liem vez?» Il volto di Liem vez pareva scolpito nella pietra: «La novità è l'interrogatorio» disse piano. «Domani stesso.» «Per gli dei» disse Radnal sgranando gli occhi. «A Tarteshem l'hanno presa sul serio.» «Ci puoi giurare.» Liem si asciugò con la manica il sudore dalla fronte. «Vedi quei coni rossi oltre la buca di cottura? È il posto di atterraggio dell'elicottero che arriva domattina.» «Ma... un interrogatorio.» Radnal scosse la testa. I metodi degli Occhi e Orecchie erano tutt'altro che leggeri. «Se interroghiamo gli stranieri, potremmo scatenare una guerra.» «A Tarteshem lo sanno, Radnal vez» disse Liem. «Hanno registrato su filo le mie obiezioni. Sono state respinte.» «Il Tiranno Ereditario e i suoi consiglieri probabilmente considerano i rischi e i danni di un'eventuale guerra inferiori a quello che subirebbe il Tartesh se la bomba funziona secondo le aspettative di chi l'ha nascosta» disse Peggol. «E se invece non esiste? O se nessuno dei turisti ne sa niente?» disse Radnal. «Ci metteremo contro l'Unità del Krepalga, il Lissoland e le altre nazioni, e per cosa? Niente. Li chiami al radiofono, Peggol vez, e veda di fargli cambiare idea.» Peggol scosse la testa: «No, per due ragioni. Una è che questa linea di condotta è stata decisa a un livello troppo alto per la mia influenza. Sono solo un agente operativo: non ho voce in capitolo sulla grande strategia.
L'altra è che il vostro radiofono è troppo esposto. Non intendo far sapere a nessuno prima del tempo che sarà interrogato». Radnal dovette concedergli che la cosa aveva senso, per ragioni di sicurezza. Ma non per questo gli piaceva. Poi gli venne in mente ancora qualcos'altro. Si voltò verso Lem vez Steries: «Ehm, sarò interrogato anch'io? E Zosel vez e Fer vez? E Toglo vez Pamdal? Gli inquisitori torchieranno anche una parente del Tiranno Ereditario?» «Non so che risponderti» disse il miliziano. «La gente con cui ho parlato nel Tartesh non me l'ha detto.» Lanciò un'occhiata a Peggol. «D'altronde, non credo amino molto mettere le cose in pubblico.» «Senza dubbio» disse Peggol. «Adesso dobbiamo comportarci il più normalmente possibile, senza lasciarci sfuggire che domattina avremo dei visitatori.» «Mi sarebbe più facile comportarmi normalmente se sapessi di non essere torturato con uno schiacciapollici, domani» disse Radnal. «Il Tiranno Ereditario indennizza con molta generosità gli innocenti, dopo simili tormenti» disse Peggol. «Il Tiranno Ereditario è generoso.» Radnal non poteva dire altro a un Occhio e Orecchio. Anche se l'argento faceva meraviglie, non compensava certo per il terrore e per i danni, a volte permanenti, provocati. La guida turistica preferiva restare integra, anziché diventare ricca e storpia. Liem rimarcò: «Non sarà difficile tenere all'oscuro i turisti. Guardate che fanno». Radnal si voltò, lo vide e sbuffò. Quelli del suo gruppo avevano trasformato l'area delimitata dai coni rossi in un Campetto da gioco. Tutti tranne il compassato Golobol correvano qua e là lanciando avanti e indietro la palla di gomma-spugna di chissà chi e cercando di placcarsi a vicenda. Se in quello sport c'erano delle regole, Radnal non riusciva a immaginarle. Il figlio di Moblay Sopsirk, ostinato fino all'imprudenza, continuava a sbavare per Evillia e Lofosa. Incurante delle abrasioni sul suo didietro quasi scoperto, trascinò a terra Lofosa. Quando lei si rialzò, le mancava qualche bottone d'oro. Era indifferente alle sue parti esposte. Moblay invece si era beccato della polvere negli occhi e rimase ancora un po' a terra. Anche Evillia aveva perso dei bottoni, mentre a Toglo zev Pamdal si era rotta la cintura, e lo stesso era successo a Nocso zev Martois. Toglo saltellava qua e là chiudendosi la veste con una mano, mentre Nocso non se ne curava. Alla vista della grassona tutta ballonzolante nel campo sportivo improvvisato, Radnal avrebbe voluto che lei, non Toglo, avesse un po' più
pudore. Fer vez Canthal domandò: «Comincio a preparare la cena?» «Scalda i carboni, ma per il resto aspetta» disse Radnal. «Se la godono tanto che è meglio lasciarli fare. Domani non se la passeranno tanto bene.» «Neanche noi» ribatté Fer. Radnal annuì con una smorfia. Benter vez Maprab marcò stretto Eltsac vez Martois e mandò giù nella polvere quell'individuo più robusto e più giovane. Benter saltò in piedi e diede una pacca sul didietro a Evillia. Lei si girò di scatto, sorpresa. «Quel vecchio ha ancora cartucce da sparare» disse Peggol, vedendo alzarsi Eltsac con una mano sul naso sanguinante. «Infatti.» Radnal osservava Benter. Anche se avanti con gli anni, era in forma. Forse sarebbe stato in grado di rompere l'osso del collo a Dokhnor di Kellef. Ma una sconfitta al gioco della guerra era un motivo sufficiente? O giocava lo stesso gioco più recondito di Dokhnor. I turisti mollarono la partita solo quando il sole scivolò dietro i Monti della Barriera e sul rifugio calò il crepuscolo. I coni brillavano di una tenue fosforescenza rosea. Toglo lanciò la palla a Evillia dicendo: «Sono lieta che abbia tirato fuori la palla, damalibera. Era parecchio che non mi divertivo tanto, e così spensieratamente». «Mi è parso un ottimo modo di sgranchirci dopo tanto cavalcare e starcene seduti» rispose Evillia. Aveva ragione. Se Radnal avesse portato altri turisti laggiù, sempre che il rifugio non fosse finito sommerso da migliaia di cubiti di mare, si sarebbe ricordato di portare lui stesso una palla. Poi aggrottò le ciglia in un'espressione autoaccusatoria. Avrebbe dovuto arrivarci da sé, invece di rubare l'idea a una del gruppo. «Se già prima avevo sete, adesso mi sento più a secco del deserto» tuonò Moblay. «Dov'è quella birra?» «Aprirò il refrigeratore» disse Zosel vez Glesir. «Chi altro vuole qualcosa?» Fu sopraffatto dai turisti che gli si precipitavano addosso. «Per favore, amici! Se mi schiacciate, chi vi porta da bere?» «Ce la caveremo comunque» disse Eltsac vez Martois, ed era la prima osservazione sensata che faceva. Fer vez Canthal arroventò i carboni nella buca del fuoco. Zosel recuperò una carcassa di porco a pezzi e una grossa porzione di costole di bue. Radnal iniziò a redarguirlo per l'eccessiva prodigalità con cui aveva intaccato le scorte di cibo, ma si interruppe. Inutile preoccuparsi del resto del viaggio, se il giorno dopo quella gente sarebbe finita nelle mani degli inquisito-
ri. Radnal mangiò con gusto, e cantò con gli altri dopo cena. Per qualche centinaio di cardiobattiti cercò di dimenticare cosa c'era in serbo per l'indomani. Ma quel pensiero lo riassaliva fin troppo spesso. A un certo punto gli mancò la voce così di colpo che Toglo gli lanciò un'occhiata per vedere cos'era successo. E lui le sorrise imbarazzato sforzandosi di far buon viso a cattivo gioco. Poi la guardò. Non riusciva a immaginarla coinvolta nel piano per inondare le Terrefonde. Né gli Occhi e Orecchie che la interrogavano come gli altri. D'altronde però non pensava neppure che arrivassero a rischiare incidenti diplomatici pur di interrogare turisti stranieri. Il che forse significava che ancora non afferrava la vastità della portata dell'emergenza. In tal caso, Toglo correva gli stessi rischi degli altri. Horken vez Sofana, l'addetto alle circostanze della milizia del Parco della Fossa, si avvicinò alla guida: «Mi hanno detto che voleva far perquisire le bisacce di Benter vez Maprab, liberuomo vez Krobir. Ho trovato... queste». Tese la mano. «Interessante. Aspetti, agente scelto vez Sofana.» Radnal andò da Benter, che stava seduto, e gli batté sulla spalla. «Le dispiace seguirmi, liberuomo?» «Che c'è?» brontolò Benter, ma seguì lo stesso Radnal. La guida disse: «Vorrei sapere che ci facevano nella sua bisaccia...» indicò le piante sulla palma aperta di Horken vez Sofana «...queste orchidee a venatura rossa. L'asportazione di piante e animali, specie di varietà rara come queste, è passibile di detenzione, ammenda, frustate, o tutt'e tre le cose.» Benter vez Maprab spalancò la bocca e la richiuse senza proferir parola. Poi ci riprovò: «Io... io le avrei coltivate con cura, liberuomo vez Krobir». Era così abituato a essere lui quello che recriminava da non saper reagire quando si recriminava nei suoi confronti... specialmente se colto sul fatto. Ma era un misero trionfo per Radnal. Cos'erano un paio di orchidee a venatura rossa quando tutte le Terrefonde potevano essere sommerse? La guida disse: «Intanto le confischiamo, liberuomo vez Maprab. E il suo equipaggiamento sarà perquisito di nuovo all'uscita dal Parco della Fossa. Se non troviamo nient'altro di contrabbando, chiuderemo un occhio. Altrimenti... non ho certo bisogno di entrare in dettagli». «Grazie... molto gentile.» Benter se la filò. Horken vez Sofana diede un'occhiata di disappunto a Radnal: «L'ha la-
sciato andare con troppa facilità». «Forse, tanto domani saranno gli inquisitori a occuparsi di lui.» «Hmm. Un furto di piante non è granché rispetto a tutto il resto.» «Infatti, era quel che pensavo. Magari dovremmo ridarle a quel vecchio rugoso, così almeno saranno al sicuro se... be', sai cosa.» «Già.» L'addetto alle circostanze era pensoso. «Ma se gliele ridiamo subito, si chiederà perché. E neanche questo ci fa comodo. In ogni caso, è una brutta faccenda.» «Sì.» La scoperta di preoccuparsi per la salvezza di qualche reliquia del Parco della Fossa gli fece capire che aveva cominciato a credere all'esistenza della bomba stellare. I turisti iniziarono a ritirarsi nei cubicoli. Radnal li invidiò perché ignoravano quel che era in serbo per l'avvenire immediato. Sperò in una visita di Evillia e Lofosa nel silenzio delle tenebre, incurante di quel che avrebbero pensato gli Occhi e Orecchie e i miliziani. Il corpo aveva in sé la dolcezza dell'oblio. Ma il corpo aveva anche degli inconvenienti. Tutte e due le krepalgane iniziarono a trottare avanti e indietro dalla latrina ogni quarto di decima, e alle volte anche più spesso. «Dev'essere qualcosa che ho mangiato» disse Evillia, poggiandosi esausta allo stipite dopo il terzo tragitto. «Hai un astringente?» «Dovrebbe essere nella borsa del pronto soccorso.» Radnal andò a frugarci e trovò le pillole arancione che cercava. Gliele diede con dell'acqua in un bicchiere di carta. «Ecco.» «Grazie.» Si cacciò le pillole in bocca, mandò giù l'intero bicchiere e chinò la testa all'indietro per ingoiarle. «Spero facciano effetto.» «Anch'io.» Radnal mantenne a stento il tono indifferente. Nel drizzarsi per prendere l'astringente, aveva fatto spiovere il seno sinistro dalla tunica. «Damalibera, credo che lei si ritrovi con qualche bottone in meno dopo quella partita.» Evillia si ricoprì, un gesto quasi annullato dalla successiva scrollata di spalle. «Non mi sorprenderebbe. Quelli che non sono saltati, sono stati strappati.» Scrollò di nuovo le spalle. «È solo pelle. Ti dà fastidio?» «Dovrebbe saperlo che non è così» disse quasi con furia. «Se lei stesse bene...» «Se stessi bene, mi piacerebbe star bene» convenne lei. «Ma visto che le cose stanno così, Radnal vez...» Almeno l'aveva chiamato col nome e la
particella di cortesia. Fece una smorfia. «Visto che le cose stanno così, spero mi scuserai, ma...» Si riaffrettò fuori, nella notte. Quando Lofosa fece la terza corsa alla latrina, Radnal le fece trovare le pillole al ritorno. Lei le mandò giù quasi fosse questione di vita o di morte. Anche lei aveva perso altri bottoni. Radnal si sentì in colpa a pensare a certe cose mentre lei stava così male. Dopo una partita alla guerra con Moblay fiacca quasi quanto la prima, Radnal andò al cubicolo. Quella notte non aveva niente da discutere con Liem o Peggol: sapeva cosa sarebbe successo. E in un modo o nell'altro, riuscì comunque ad addormentarsi. «Radnal vez.» Una voce silenziosa lo strappò dal sonno. Non era né quella di Lofosa né di Evillia, chinate su di lui nella promessa di delizie per i sensi. Era Peggol vez Menk, in piedi all'ingresso. Radnal si svegliò del tutto: «Cosa c'è che non va?» domandò. «Quelle due altatesta che non sopportano i vestiti» rispose Peggol. «E allora?» chiese Radnal confuso. «Sono andate alla latrina da un pezzo, e nessuna delle due è tornata. Il mio uomo di guardia è venuto a svegliarmi prima di andare a vedere se stavano bene. Ma non c'erano.» «Dove saranno andate?» A Radnal erano già capitato dei turisti idioti che se ne andavano in giro da soli, ma mai nel bel mezzo della notte. A quel punto gli vennero in mente altre possibilità. Saltò in piedi. «E perché?» «È quello che ho pensato anch'io» disse Peggol tetro. «Se non tornano presto, la risposta verrà da sola.» «Non possono essersi allontanate» disse Radnal. «Dubito abbiano pensato di andare sugli asini. A stento riescono a distinguere la testa di quegli animali dalla...» La guida si interruppe. Se Evillia e Lofosa non erano quelle che sembravano, chi poteva dire di cosa fossero veramente capaci? Peggol annuì: «Seguiamo gli stessi pensieri». Si tirò il pizzetto sotto la bocca. «Se questo significa ciò che temiamo, rintracciarle dipende molto da lei. Lei conosce le Terrefonde, al contrario di me.» «I nostri mezzi migliori sono gli elicotteri» disse Radnal. «Appena fa giorno, perlustreremo la superficie del deserto cento volte più in fretta che a dorso d'asino.» Disse qualcos'altro, ma Peggol non lo sentì. Non sentì neanche se stesso, non con il rombo improvviso che venne dall'esterno. Si precipitarono fuori, facendosi largo tra gli Occhi e Orecchie e i miliziani già accorsi.
E guardarono tutti gli elicotteri in fiamme. Radnal rimase incredulo e sgomento per un paio di cardiobattiti. Poi l'urlo di Peggol vez Menk lo riportò in sé: «Dobbiamo chiamare Tarteshem, immediatamente!» Radnal si girò di scatto, precipitandosi al radiofono sgomitando tra i turisti. Ma quando azionò l'interruttore non si accese subito la luce ambrata. Si infilò sotto il tavolo per vedere se c'era qualche collegamento staccato. «Si sbrighi!» gridò Peggol. «Questo dannato affare non si accende» gridò Radnal in risposta. Prese il radiofono. Tintinnava e non avrebbe dovuto farlo. «È rotto.» «È stato rotto» dichiarò Peggol. «Come può essere stato rotto, se gli Occhi e Orecchie e i miliziani sono rimasti per tutto il tempo nella sala comune?» disse la guida, non tanto per contraddire Peggol quanto manifestando ad alta voce il suo stupore. Ma Peggol aveva una risposta: «Se una di quelle donnacce krepalgane è passata senza vestiti, e hanno fatto su e giù per tutta la notte, può darsi che non ci siamo accorti di cosa faceva l'altra. Magari ci ha picchiato su... mmm, no, più probabile che se ci abbia lavorato sotto con l'aggeggino giusto... sarebbero bastati cinque cardiobattiti». Radnal ci avrebbe messo ben più di cinque cardiobattiti, ma lui non era un sabotatore. Se invece Evillia e Lofosa lo erano... Non che ne dubitasse, ma la cosa lo faceva star male dentro. Lo avevano sfruttato, si erano servite dei loro corpi per cullarlo nell'illusione che fossero quelle stupide puttanelle che si fingevano. E aveva funzionato... Avrebbe voluto lavarsi a non finire: gli sembrava che non sarebbe mai più tornato pulito. Liem vez Steries disse: «Meglio assicurarci che gli asini siano a posto». Si precipitò fuori e corse attorno alle carcasse crepitanti delle macchine volanti. La porta della stalla era chiusa contro il pericolo dei gatti delle caverne. Il miliziano la aprì spingendola. Nel crepitare delle fiamme, Radnal sentì una secca detonazione, vide un lampo di luce e Liem piombò a terra, dove giacque immobile. Radnal e Golobol, il medico, corsero verso di lui. La luce del fuoco era rivelatrice. Liem non si sarebbe rialzato mai più, non con quelle spaventose ferite. La guida turistica andò alle stalle. Sapeva che qualcosa non andava, ma ci mise un istante a capirlo. Poi fu colpito dal silenzio. Gli asini non si agitavano nei box, a mordere il fieno e fare i soliti rumorini.
Guardò nella stalla attraverso la porta rotta. Gli asini giacevano a terra sui lati. I loro fianchi non si alzavano e abbassavano. Radnal passò di corsa da uno all'altro. Tutti gli asini erano morti... tranne tre, che mancavano. Uno per Evillia, pensò la guida, uno per Lofosa, e uno per le provviste. No, non erano affatto stupide. «Lo stupido sono io» disse, e tornò di corsa al rifugio. Diede le pessime notizie a Peggol vez Menk. «Siamo nei guai, poco ma sicuro» disse Peggol, scuotendo la testa. «Ma sarebbe peggio, se tra meno di una decima non dovesse arrivare la squadra dell'interrogatorio. Le inseguiremo col loro elicottero. È anche armato di cannone: se non si arrendono... addio. Per gli dei, spero che oppongano resistenza.» «Anch'io.» Radnal girò di scatto la testa da un lato. Il volto gli si aprì in un largo sorriso. «Non è l'elicottero, adesso? Perché è in anticipo.» «Non so» rispose Peggol. «Un cardiobattito, forse sì, invece. Se hanno chiamato da Tarteshem senza risposta, magari hanno deciso che qualcosa non andava e hanno inviato subito l'elicottero.» Il frastuono del motore e dei rotori aumentò. Il pilota doveva aver localizzato i fuochi e proceduto alla massima velocità. Radnal si affrettò a uscire per accogliere gli Occhi e Orecchie in arrivo. La sagoma scura dell'elicottero si stagliava ampia nel cielo. Come accennato da Peggol, questo era un apparecchio militare, non un semplice velivolo di servizio. Si diresse verso i coni fosforescenti che delimitavano l'area di atterraggio. Radnal lo osservò posarsi al suolo. Ricordò che Evillia e Lofosa non avevano fatto altro che correre qua e là per la zona di atterraggio, tra una risata e l'altra, e... bottoni perduti. Agitò le mani, precipitandosi verso i coni: «No!» gridò. «Aspettate!» Troppo tardi. Appena l'elicottero toccò terra, si alzarono nuvole rosa soffocanti. La guida vide il lampo sotto un pattino e sentì la detonazione. Il pattino si accartocciò. L'elicottero sbandò. Una pala del rotore si conficcò nel suolo, si spezzò con un rumore secco e sfilò sulla testa di Radnal. Se lo avesse colpito, lo avrebbe decapitato. Il pannello laterale dell'elicottero finì sulla superficie delle Terrefonde. Un'altro colpo secco... e all'improvviso ci furono fiamme dappertutto. Gli Occhi e Orecchie intrappolati nell'elicottero urlarono. Radnal cercò di aiutarli, ma il calore gli impediva di avvicinarsi. Le urla smisero di colpo. Sentì l'odore penetrante della carne bruciata. Il fuoco divampò. Peggol vez Menk si avvicinò di corsa a Radnal. «Ho cercato di fermarli» disse la guida con la voce rotta.
«L'ha intuito prima di me, una colpa che mi trascinerò nella tomba» replicò Peggol. «Non ho previsto quel pericolo, come invece avrei dovuto. Tra quegli uomini c'erano dei miei amici.» Si diede un pugno sulla coscia. «E adesso, Radnal vez?» Non c'è che la morte, all'arrivo delle acque, fu il primo pensiero che venne in mente alla guida. Meccanicamente, disse le cose più ovvie: «Aspetti l'alba. Cerchi di trovare le loro tracce. Si metta in spalla quanta più acqua possiamo e le inseguiamo a piedi. Lasci un uomo qui per quando arriva il prossimo elicottero. Dia ai turisti tutta l'acqua che reggono e li rimandi su per il sentiero. Forse sfuggiranno all'inondazione.» «I suoi suggerimenti hanno senso. Ci proveremo» disse Peggol. «Altro?» «Preghi» gli disse Radnal? Lui annuì con una smorfia e si voltò. Il figlio di Moblay Sopsirk si fece strada fra gli Occhi e Orecchie, avvicinandosi di corsa a Radnal e Peggol. «Liberuomo vez Krobir...» cominciò. Radnal roteò gli occhi. Stava per invocare un demone della notte sulla testa di Moblay, ma si fermò. Disse invece: «Un cardiobattito. Mi ha chiamato nel modo giusto». Quella che avrebbe dovuto essere una cortese sorpresa, divenne un'accusa. «Infatti.» In Moblay era cambiato qualcosa. Alla luce degli elicotteri in fiamme sembrava... non come Peggol vez Menk, perché restava pur sempre un altatesta con naso piccolo e la pelle bruna, ma comunque dallo stesso stampo di un Occhio e Orecchio, duro e intelligente, non più lascivo e importuno. Disse: «Liberuomo vez Krobir, chiedo scusa per averla irritata, ma volevo apparire più incapace che potevo. Uno dei modi era chiamarti così. Sono un assistente del Principe: sono un Servo Silenzioso». Peggol diede un grugnito. Evidentemente sapeva cosa significava. Radnal no, ma poteva immaginarlo: qualcosa di simile a un Occhio e Orecchio. Gridò: «C'è qualcuno in questo gruppo che non porta la maschera?» «O meglio, perché togliersela solo adesso?» domandò Peggol. «Perché il Principe, che il Dio Leone gli conceda molti anni, non vuole che le Terrefonde siano inondate» disse Moblay. «Per noi il disastro sarebbe inferiore, è ovvio, ne possediamo solo una striscia nella parte più meridionale. Ma il Principe teme il conflitto che ne seguirebbe.» «Chi lo ha riferito al Lissonland?» disse Peggol. «Lo abbiamo saputo dal Morgaf» rispose Moblay. «Il re dell'isola voleva che partecipassimo all'attacco al Tartesh dopo l'inondazione. Ma i morgaffi
hanno sostenuto di non essere gli autori del piano, e non ci hanno detto chi ha piazzato qui la bomba stellare. Noi sospettavamo l'Unità del Krepalga, ma non avevamo prove. Questo è uno dei motivi per cui stavo sempre alle costole delle krepalgane.» Fece un largo sorriso. «L'altro dovrebbe essere ovvio.» «Perché il Krepalga?» si chiese Peggol ad alta voce. «L'Unità non si è alleata col Morgaf contro di noi durante l'ultimo conflitto. Cos'è che vogliono al punto di rischiare una guerra con le bombe stellari?» Radnal rammentò il suo stesso discorso sulle origini delle Terrefonde, nonché l'inquietudine per la portata di una piena incontrollata. «Credo di conoscere parte della risposta» disse. Peggol e Moblay si girarono dalla sua parte. Lui proseguì. «Se le Terrefonde vengono sommerse, il nuovo mare centrale si fermerebbe ai confini occidentali del Krepalga. L'Unità avrebbe una linea costiera del tutto nuova, e sarebbe in condizione di sfruttare il nuovo mare meglio sia del Tartesh che del Lissonland.» «La piena ci impiegherebbe un bel po' per arrivare fino al Krepalga» obiettò Moblay. «È vero» disse Radnal. «Ma chi potrebbe arrestarla?» Riandò con la mente alla mappa. «Nessuno, credo, non con quella massa d'acqua.» «Penso lei abbia ragione.» Peggol annuì con decisione. «Forse non è solo a questo che punta il Krepalga, ma almeno in parte. L'Unità deve aver lavorato al piano da anni: avranno tenuto conto di tutte le conseguenze possibili.» «Ora permettetemi di aiutarvi» disse Moblay. «Ho sentito dire dal liberuomo vez Krobir che gli asini sono morti, ma farò tutto il possibile a piedi.» Per Radnal ogni alleato che si faceva avanti era bene accetto. Ma Peggol disse: «No. Le sono grato per la sua franchezza e sospetto che ora sia sincero, ma è un rischio che non oso correre. Un uomo a piedi può essere altrettanto pericoloso. Dato che è del mestiere, sono certo che capirà». Moblay fece un inchino: «Temevo l'avrebbe detto. Capisco. Che il Dio Leone vi accompagni». I tre uomini tornarono al rifugio. I turisti bombardarono di domande Radnal. «Nessuno ci ha detto la benché minima cosa» si lamentò Golobol. «Che succede? Perché ci sono elicotteri che esplodono a destra e a manca? Me lo dica!» Radnal lo disse a lui... e a tutti gli altri. Per quasi cinque cardiobattiti, le parole provocarono un silenzio di sasso. Poi cominciarono a gridare tutti
assieme. La voce di Nocso zev Martois superò le altre: «Significa che non finiamo il giro?» Con maggiore buonsenso, Toglo zev Pamdal disse: «Possiamo aiutarla in qualche modo a inseguirle, Radnal vez?» «Grazie, no. Vi servirebbero delle armi e non ne abbiamo da darvene. La vostra migliore speranza è di raggiungere le terre alte. Dovreste partire appena caricate tutta l'acqua che riuscite a trasportare. Riparatevi nella parte centrale della giornata, quando il sole picchia al massimo. Con un po' di fortuna dovreste tornare sulla vecchia piattaforma continentale in, be', un giorno e mezzo. Se la piena ritarda tanto, per un po' dovreste essere al sicuro lì. E mentre vi spostate, potreste sempre essere individuati da un elicottero.» «E se la piena arriva mentre siamo ancora quaggiù?» domandò Eltsac vez Martois. «Che succederebbe in quel caso, liberuomo sapientone?» «Avrà la consolazione di sapere che sono morto qualche cardiobattito prima di lei. Spero sarà contento», disse Radnal. Eltsac lo fissò stupito. «Non ho tempo per altre sciocchezze, ormai. Muovetevi, gente. Peggol vez, mandiamo con loro anche un paio di Occhi e Orecchie. I suoi uomini non serviranno a molto nell'attraversare il deserto. E quanto a quello, anche lei...» «No» disse fermamente Peggol. «Il mio posto è al centro degli eventi. Non resterò indietro, ho una buona mira e inoltre ho un certo fiuto per le tracce.» Radnal non aveva alcuna intenzione di discutere: «D'accordo». Gli otri d'acqua sarebbero dovuti andare a dorso d'asino. Radnal li riempì dalla cisterna mentre i miliziani e gli Occhi e Orecchie tagliavano cinghie per adattarli alle spalle degli uomini. Quando finirono, il cielo a oriente si era tinto di un rosa vivido. Radnal cercò di non dare ai turisti dei carichi di più di un terzo del loro peso: era il massimo che si poteva trasportare senza crollare. Nocso zev Martois disse: «Con tutta quest'acqua, come facciamo a trasportare del cibò?» «Impossibile» disse secco Radnal. La guardò fisso. «Per un po' potrete farne a meno, ma non dell'acqua.» Dare una ripassata ai turisti era un piacere nuovo ed eccitante. Dato che poteva essere l'ultimo, se lo godeva il più a lungo possibile. «Riferirò la sua insolenza» strillò Nocso. «È l'ultima delle mie preoccupazioni.» Radnal si rivolse gli Occhi e O-
recchie che si avviavano per il sentiero con i turisti. «Cercate di tenerli uniti, cercate di non strafare a mezzodì, assicuratevi che bevano tutti... e anche voi. Gli dei vi accompagnino.» Un Occhio e Orecchio scosse la testa: «No, liberuomo vez Krobir, accompagnino lei. Se gli dei le dànno un occhio, ci andrà bene a tutti. Ma se l'abbandonano, falliremo tutti». Radnal annuì. Ai turisti disse: «Buona fortuna. Se gli dei sono propizi, vi rivedrò in cima al Parco della Fossa». Nessun cenno a quel che invece sarebbe accaduto se gli dei avessero pasticciato come al solito. Toglo disse: «Radnal vez, se ci rivedremo, mi adopererò per lei con tutta la mia influenza». «Grazie» fu tutto quello che Radnal riuscì a dire. In altri frangenti, avrebbe fatto chissà cosa per la raccomandazione di una parente del Tiranno Ereditario. Perfino adesso, era un pensiero gentile, ma di scarso peso dato che se la sarebbe guadagnata solo con la sopravvivenza. Una striscia di rosso dorato striò l'orizzonte a est. I turisti e gli Occhi e Orecchie avanzavano faticosamente a nord. Un uccello koprit annunciò l'alba dal tetto con un verso acuto. Peggol ordinò a uno dei restanti Occhi e Orecchie di rimanere al rifugio e mandare a occidente tutti gli elicotteri che venivano. Poi disse solennemente: «Liberuomo vez Krobir, mi pongo sotto il suo comando insieme al collega liberuomo vez Potos. Dia gli ordini». «Se è questo che vuole» ribatté Radnal con un'alzata di spalle. «Sa cosa faremo. Marceremo a occidente e delle due l'una: o prendiamo le krepalgane o finiamo annegati. Non è uno scherzo. Andiamo.» Radnal, i due Occhi e Orecchie, gli addetti al rifugio e i miliziani superstiti si avviarono dalle stalle. La luce del mattino illuminò le tracce di tre asini diretti a ovest. La guida turistica tirò fuori il monoculare e scrutò l'orizzonte a occidente. Senza fortuna: alture e avvallamenti nascondevano alla vista Evillia e Lofosa. Fer vez Canthal disse: «C'è un punto rialzato circa tremila cubiti a ovest. Dovresti guardare da lì». «Forse» rispose Radnal. «Ma conterei di più nel trovare una buona pista. Non intendo sprecare neanche un cardiobattito di tempo, e beccare qualcuno non è così facile neanche se vuole farsi scovare. Ti ricordi quel poveraccio che si allontanò dal gruppo quattro anni fa? Impiegarono elicotteri, cani, di tutto, ma trovarono il suo cadavere solo un anno dopo, e fu per ca-
so.» «Grazie per aver alimentato le mie speranze» disse Peggol. «Non c'è niente di male a sperare» ribatté Radnal. «Ma quando ha deciso di restare sapeva che le probabilità erano scarse.» I sette viandanti si avviarono affiancati in modo irregolare, a circa cinque cubiti di distanza l'uno dall'altro. Radnal, il miglior segugio, stava al centro; a destra c'era Horken vez Sofana, a sinistra Peggol. Immaginò che così avevano un'ottima possibilità di ritrovare la pista nel caso lui la perdesse. Un'evenienza che divenne più probabile man mano che avanzavano. Evillia e Lofosa non erano andate dritte a ovest. Lo capì subito. Invece avevano deviato verso nordovest per qualche centinaio di cubiti, poi a sudovest per un altro centinaio, nel deliberato tentativo di depistare eventuali inseguitori. Per giunta avevano scelto il terreno peggiore che potevano, e questo rendeva più arduo seguire le tracce degli asini. Radnal si sentiva mancare ogni volta che si fermava a guardarsi in giro per ritrovare le impronte degli zoccoli. A ogni passo il gruppo perdeva terreno: le krepalgane cavalcavano più in fretta di loro che procedevano a piedi. «Devo fare una domanda» disse Horken vez Sofana. «Immaginiamo che la bomba stellare esploda e i monti precipitino. Come farebbero a scappare queste due donne?» Radnal alzò le spalle, non ne aveva idea. «Ha sentito, Peggol vez?» chiese. «Sì» disse Peggol. «Mi vengono in mente due possibilità...» «Avrei dovuto immaginarlo» disse Radnal. «Zitto. Come dicevo prima della sua sciocca interruzione, una è che la bomba stellare sia a detonazione ritardata, permettendo la fuga delle due esecutrici. L'altra è che queste agenti sapevano dall'inizio che era una missione suicida. Il Morgaf ha già impiegato personale del genere, e anche noi, una volta o due. Anche il Krepalga poteva reperire servi capaci di tanto, per quanto la prospettiva possa apparirci spiacevole.» Horken fece un lento e deliberato assenso. «Quello che dici mi pare convincente. Forse era previsto un ritardo per permettere a quelle due di mettersi in salvo, poi hanno deciso di sacrificarsi quando hanno capito che prima o poi le avremmo smascherate.» «È vero» disse Peggol. «Ma potrebbero ancora avere intenzione di scappare. Per esempio, se sono riuscite a nascondere da qualche parte un cilin-
dro di elio, potrebbero gonfiare parecchi profilattici e involarsi dalle Terrefonde.» Per un cardiobattito Radnal si chiese se parlava sul serio. Poi la guida disse: «Vorrei essere altrettanto allegro di fronte alla morte». «La morte mi coglierà comunque, allegro o no» disse Peggol. «Voglio andarle incontro con coraggio finché posso.» La conversazione languì. Man mano che il sole saliva, il deserto si faceva più torrido e pareva sempre di più che tutta quella fatica per camminare passo a passo non valesse la pena. Avanzando faticosamente, Radnal si deterse il sudore dagli occhi. L'otre d'acqua sulle spalle iniziò a sembrargli più pesante di tutti gli altri zaini trasportati. Si chiese quanto a lungo potesse reggere un peso così grande. Ma sarebbe stato un suicidio non incamerare acqua allo stesso ritmo con cui sudava. Al contrario dei fanatici morgaffi citati da Peggol, lui voleva sopravvivere se possibile. Aveva dato a tutti una provvista d'acqua per circa due giorni. Se non raggiungeva Lofosa ed Evillia entro la fine del secondo giorno... Scosse la testa. In un modo o nell'altro, a quel punto non avrebbe avuto più importanza. All'approssimarsi del mezzodì, ordinò ai viandanti di fermarsi all'ombra di uno spuntone di calcare. «Riposiamoci per un po'» disse. «Quando ripartiremo dovrebbe fare più fresco.» «Non abbastanza per me» disse Peggol. Ma si sedette all'ombra con un sospiro di gratitudine. Si tolse l'elegante berretto e lo tastò tristemente. «Al massimo ci farò una pezza per i piatti.» Radnal gli si accoccolò accanto, troppo accaldato per parlare. Il cuore gli pulsava. Così forte che si chiese se stesse per cedere. Poi si accorse che quel battito ritmico proveniva dall'esterno. La stanchezza gli passò. Saltò in piedi, si sfilò il berretto e lo agitò in aria: «Un elicottero!» Anche gli altri del gruppo si alzarono, agitarono le mani e gridarono. «Ci ha visti!» disse Zosel vez Glesir. Agile come una libellula, l'elicottero virò a mezz'aria e sfilò dritto verso di loro. Si posò a circa cinquanta cubiti dallo spuntone. I rotori rimasero in moto: poteva ridecollare all'istante. Il pilota si affacciò dal finestrino e gridò qualcosa a Radnal. Nel frastuono, lui non capì un'acca di quello che aveva detto l'altro. Il pilota gli fece cenno di avvicinarsi. Il rumore e la polvere erano ancora peggio sotto la pale ruotanti del rotore. Radnal dovette alzarsi in punta di piedi contro la lamiera bollente
dell'elicottero per capire le parole del pilota: «Quanto sono lontane quelle maledette krepalgane?» «Hanno più di una decima di vantaggio, e vanno a dorso d'asino. Direi trentamila cubiti a ovest.» Radnal dovette ripeterlo diverse volte, poi il pilota annuì e rientrò nella cabina. «Aspetti!» gridò Radnal. Il pilota rimise fuori la testa. Radnal gli chiese: «Ha incontrato il mio gruppo che saliva sul sentiero verso la vecchia piattaforma continentale?» «Sì. In questo momento li staranno raccogliendo.» «Bene» gridò Radnal. Il pilota gli lanciò un radiofono portatile. Lui lo afferrò: adesso non era più tagliato fuori dal resto della ricerca. Si accomiatarono. L'elicottero si rialzò in fretta, puntando a ovest. La guida sentì un'ondata di sollievo: anche se annegava, le persone affidategli si sarebbero salvate. «Dato che c'è l'elicottero, è proprio necessario proseguire?» chiese Impac vez Potos, l'Occhio e Orecchio che era con Peggol. «Ci può scommettere, liberuomo.» Radnal ripeté la storia del turista perduto che era rimasto là. «Indipendentemente dal numero di elicotteri impiegati nella ricerca, l'area da perlustrare è enorme, e loro non vogliono farsi trovare. Parteciperemo alla caccia fino alla fine. Da come ci hanno ingannati tutti quanti, quelle krepalgane non ci renderanno le cose facili.» «Continuiamo a riposarci o ci avviamo subito?» domandò Peggol. Radnal ci rifletté per qualche cardiobattito. Se c'era l'elicottero, voleva dire che a Tarteshem già sapevano via radiofono della gravità della situazione. E questo significava che di certo sarebbero arrivati interi stormi di elicotteri, il tempo di farli decollare. Perciò probabilmente il loro gruppo avrebbe potuto ricevere rifornimenti. Ma non intendeva perdere nessuno per un colpo di caldo, un rischio connesso alle fatiche del deserto. «Ancora un decimo di decima» disse alla fine. Fu il primo a rialzarsi al termine della sosta. Gli altri sei si alzarono con tanti di quei lamenti e scricchiolii alle giunture da sembrare un'armata di invalidi. «Ci sgranchiremo strada facendo» disse Fer vez Canthal fiducioso. Poco dopo Radnal fu colto dal panico perché aveva perso la pista. Fece un cenno a Peggol e Horken vez Sofana. Loro si misero a setacciare il terreno a carponi, senza risultato. Per un duecento cubiti, da ogni parte non c'era altro che terra battuta dura come la roccia. «Se hanno sradicato un cespuglio per spazzare le tracce, per ritrovarle sarà peggio che vedersela con
un demone della notte» disse Horken. «Inutile provarci» dichiarò Radnal. Gli altri inseguitori lo guardarono sorpresi. Lui proseguì: «Sprecavamo solo tempo qui, giusto?» Nessuno obiettò. «Allora questo è l'ultimo posto dove vorremmo stare. Faremo una ricerca a spirale. Zosel vez, tu rimani qui a segnare questo punto. Prima o poi ritroveremo la pista.» «È solo una speranza» disse piano Peggol. «Sì. Se ha un'idea migliore, l'ascolterò volentieri.» L'Occhio e Orecchio scosse la testa e, un attimo dopo chinò il capo. Mentre Zosel restava sul posto, gli altri inseguitori si avviarono in una spirale che andava allargandosi. Dopo un centinaio di cardiobattiti, Impac vez Potos gridò: «L'ho trovata!» Radnal e Horken corsero a vedere. «Dove?» chiese Radnal. Impac indicò una striscia di terra più soffice di quella della maggior parte della zona. Infatti, c'erano delle impronte. I due uomini più esperti si accoccolarono a dare un'occhiata più da vicino. Alzarono gli occhi e si guardarono. «Liberuomo vez Potos, queste sono tracce di dentiaguzzi. Se guardi meglio, vedi perfino il segno della coda nella polvere. Gli asini non lo fanno.» «Oh» disse Impac con una vocettina triste. Radnal sospirò. Non aveva neanche accennato al fatto che le impronte erano troppo piccole per essere quelle degli asini e che neppure gli somigliavano. «Riproviamo» disse. Tornarono a formare la spirale. Quando Impac gridò di nuovo, Radnal rimpianse di non averlo voluto ferire. Se li interrompeva ogni cento cardiobattiti, non avrebbero mai trovato un bel niente. Stavolta Horken rimase al posto suo. Radnal si avvicinò a Impac. «Vediamo» disse in un grugnito. Impac indicò di nuovo. Radnal si riempì i polmoni per ricoprirlo d'improperi per il tempo che gli faceva perdere. Ma gli improperi gli restarono in gola. Ai suoi piedi c'erano inequivocabilmente le tracce di tre asini. «Per gli dei» disse. «Sono giuste questa volta?» chiese Impac ansiosamente. «Sì. Grazie, liberuomo.» Radnal richiamò con un grido gli altri inseguitori. Tutti e sette puntarono a sudovest, seguendo la pista ritrovata. Fer vez Canthal andò a dare una pacca sulla spalla a Impac. Lui si rallegrò come se avesse dato una dimostrazione di coraggio in presenza del Tiranno Ereditario. E l'aveva ben meritato, considerando il servigio che aveva appena reso al Tartesh. È stato anche fortunato, pensò Radnal. Ma gli ci era voluto del coraggio
per richiamarlo una seconda volta dopo aver fatto così clamorosamente cilecca la prima. E anche occhi aguzzi per individuare entrambi i gruppi d'impronte, anche se una volta scoperti non riusciva a capirne l'origine. Perciò non era solo una questione di fortuna. Anche Radnal diede una pacca sulla spalla a Impac. Radnal versava sudore. La traspirazione lo rinfrescava un po', ma non abbastanza. Come una macchina che si riforniva di carburante, bevve di nuovo dall'otre che portava in spalla. Adesso aveva il sole in faccia. Si calò il berretto sugli occhi, chinò la testa e riprese il duro cammino. Quando le krepalgane tentarono di nuovo di deviare a zigzag, si accorse in tempo del trucco ed evitò di perdere centinaia di preziosi cardiobattiti seguendo la pista sbagliata. Ormai il cielo brulicava di elicotteri a occidente. I loro rombi si perdevano quasi in tutte le direzioni, talvolta così bassi da sollevare polvere. Radnal avrebbe voluto strangolare i piloti che volavano in quel modo: oltretutto rischiavano di cancellare la pista. Urlò nel radiofono. Gli elicotteri più bassi guadagnarono quota. Un grosso elicottero da trasporto atterrò a qualche centinaio di cubiti dai viandanti. Un portello scivolò di lato aprendosi. Ne discese uno squadrone di soldati che si diressero a ovest in gran furia. «Ci sono vicini o sono solo disperati?» si domandò Radnal. «Di sicuro disperati» disse Peggol. «Vicini, possiamo solo sperarlo. Ancora non siamo annegati. Però...» Per lui c'era sempre un però. «Non abbiamo neppure preso le sue due sgualdrine.» «Non erano mie» disse Radnal senza troppa convinzione. Ma aveva vivido in mente il ricordo delle loro carni che si strusciavano contro la sua, l'odore del loro respiro, l'afrore salato della loro pelle. Peggol gli lesse in volto: «D'accordo, Radnal vez, l'hanno sfruttato e ingannato. Se la fa sentire meglio, hanno ingannato anche me: pensavo avessero il cervello nella figa. Mi hanno preso in giro con quei libri di fornicazione che avevano tra i bagagli e tanto sfoggio di nudo. Ci hanno ritorto contro il nostro stesso puritanesimo. Come potevano essere pericolose delle ragazze che si comportavano così? Ma non ci cascheremo più». «Il danno può essere già stato fatto.» Radnal non riusciva a smettere di sentirsi in colpa. «In tal caso, lei espierà fino in fondo» disse Peggol. Radnal scosse la testa. Morire nell'inondazione delle Terrefonde non era espiare a sufficienza, non con una piena che avrebbe distrutto il suo Paese
e il rischio di un conflitto con le bombe stellari che poteva annientare il mondo. Il terreno gli tremò sotto i piedi. Nonostante la temperatura da fornace del suolo del deserto, gli vennero i sudori freddi. «Vi prego, dei, fermatelo» disse, la sua prima preghiera da anni. La scossa si fermò. Gli tornò il respiro. Era solo un piccolo terremoto: avrebbe deriso i turisti se ci avessero dato peso. In un altro momento l'avrebbe ignorato. Ora invece l'aveva quasi spaventato a morte. Un uccello koprit drizzò la testa e lo guardò da un cespuglio di biancospino dove aveva la sua scorta. Fece il suo verso acuto e si posò a terra. Radnal si chiese se poteva volar via a velocità e distanza sufficienti a salvarsi dalla piena. Dal radiofono venne una scarica. Radnal pigiò il pulsante di trasmissione: «Qui vez Krobir». «Comandante di gruppo Turand vez Nital a rapporto. Abbiamo localizzato le spie krepalgane. Sono morte tutte e due.» «Fantastico!» Radnal riferì la notizia. I suoi compagni si abbandonarono a una stanca allegria. Poi però gli tornarono di nuovo in mente le notti con Evillia e Lofosa. E fu proprio allora che si accorse che il comandante di gruppo vez Nital non era parso affatto pazzo di gioia e sollevato come avrebbe dovuto. Lentamente disse: «Cosa c'è che non va?» «Abbiamo intercettato le krepalgane che si dirigevano a est.» «A est... Oh!» «Capisce la situazione?» disse Turand. «A quanto sembra avevano già completato l'opera e forse tentavano di scappare. Ora è impossibile interrogarle. La prego, tenga aperto il canale, per dar modo a un elicottero di individuarla e condurla qui. Lei è l'unica speranza per il Tartesh di localizzare la bomba prima che esploda. Ripeto, tenga aperto il canale.» Radnal obbedì. Guardò i Monti della Barriera. Parevano più alti adesso di quando si era messo in viaggio. Per quanto avrebbero ancora svettato in quel modo? Inoltre il sole vi si stava avvicinando. Come poteva effettuare la ricerca al buio? Domani avrebbe potuto essere troppo tardi. Riferì ai compagni quello che aveva detto l'ufficiale. Horken vez Sofana imitò uno che nuotava. Radnal si chinò a raccogliere un sassolino e glielo tirò. Poco dopo accanto ai sei viandanti atterrò un elicottero. Dall'interno fu aperto il portello scorrevole. «Forza!» gridò una voce. «Muovetevi, muo-
vetevi!» Radnal e gli altri si inerpicarono sull'elicottero più in fretta che poterono. Il velivolo decollò prima che il portello fosse richiuso del tutto. Un duecento cardiobattiti dopo l'elicottero atterrò con tanta forza da far battere i denti alla guida. Il membro dell'equipaggio accanto al portello lo aprì facendolo scorrere di lato: «Fuori!» gridò. Radnal saltò per primo, seguito dagli altri. A qualche cubito da loro c'era un individuo con un'uniforme simile ma non identica a quella della milizia. «Chi è il liberuomo vez Krobir?» disse. «Sono Turand vez Nital.» «Sono io vez Krobir» proruppe Radnal. Alle spalle del soldato c'erano due cadaveri. A Radnal mancò il respiro. Aveva visto cadaveri sulle pire funerarie, ma mai stesi come animali da macello. Disse la prima cosa che gli venne in mente: «Non sembrano colpite dalle vostre armi». «Infatti, non abbiamo sparato. Quando si sono accorte di non avere scampo, si sono avvelenate.» «Erano delle professioniste» mormorò Peggol. «Può darsi» disse Turand con un grugnito. «Questa qui» indicò Evillia «non era ancora morta quando siamo arrivati. Ha detto: "Troppo tardi", ed è spirata, che i demoni della notte tormentino il suo spirito per l'eternità.» «Allora faremo meglio a trovare quella stramaledetta bomba al più presto possibile» disse Radnal. «Ci può condurre nel punto in cui sono state intrappolate le krepalgane?» «In un cardiobattito» disse Turand. «Venite con me. È a soli due o trecento cubiti.» Si mosse a passo svelto, facendo venire il fiatone ai viandanti esausti che gli stavano dietro. Alla fine si fermò e attese impaziente che lo raggiungessero. «È qui che le abbiamo trovate.» «E ha detto che venivano da est?» chiese Radnal. «Esatto, anche se non so da quando» rispose l'ufficiale. «Da qualche parte c'è quella dannata bomba stellare. Stiamo perlustrando l'intero deserto, ma questo è il suo parco. Forse le balzerà agli occhi qualcosa che ci è sfuggito. Altrimenti...» «Non vada oltre» disse Radnal. «Me la sono quasi fatta addosso per quella piccola scossa poco fa. Pensavo già di finire sbattuto a riva ai confini del Krepalga, a dieci milioni di cubiti di distanza.» «Con una bomba stellare sotto i piedi, non serve preoccuparsi per la piena che provocherà» disse Turand. «Ehp!» Radnal non ci aveva pensato. Se non altro, sarebbe successo in fretta.
«Basta con le chiacchiere» disse Horken vez Sofana. «Se dobbiamo cercarla, cominciamo subito.» «Cercatela, e che gli dei vi mettano le ali alla vista» disse Turand. I sette viandanti si riavviarono a ovest. Radnal fece del suo meglio per seguire le tracce degli asini, ma le impronte dei soldati spesso le confondevano. «Come possiamo rintracciarle con questa confusione» gridò. «Tanto valeva sguinzagliare qui un branco di cammelli senza gobba.» «Non è così tragica» disse Horken. Chinandosi, indicò il terreno: «Ecco, qui c'è una traccia. Qui un'altra, a pochi passi. Possiamo farcela. Dobbiamo farcela». Radnal sapeva che l'agente scelto aveva ragione: si vergognava del suo sfogo. Lui stesso rintracciò l'impronta successiva di zoccolo, e un'altra ancora. Si trovavano dai lati opposti di una fessura della faglia: vedendole, seppe con certezza che la bomba stellare non poteva trovarsi molto lontano. Ma avvertiva l'incalzare del tempo. «Forse i soldati hanno già trovato la bomba stellare» disse Fer vez Canthal. «Inutile contarci. Guarda quanto ci hanno messo a trovare le krepalgane. Dobbiamo cavarcela da soli.» Radnal capì che non era solo una questione di tempo ma anche di responsabilità. Se fosse morto, allora l'avrebbe fatto con la consapevolezza del fallimento. Eppure, mentre i cercatori procedevano disperatamente attraverso il Parco della Fossa, gli animali delle Terrefonde continuavano a fare la solita vita: non sapevano di poter perire da un cardiobattito all'altro. Un uccello koprit svolazzò sulla sabbia a pochi passi da Radnal, abbattendo un artiglio. «Ha preso uno scinco spalatore» disse, come se quegli uomini accaldati ed esausti fossero membri di una comitiva turistica. La lucertola si dimenava, cercando di liberarsi. La sabbia schizzava da tutte le parti. Ma l'uccello koprit non mollò gli artigli, beccò lo scinco e lo sbatté a terra finché non smise di muoversi. Poi volò con la sua vittima verso un biancospino. Impalò lo scinco su una spina lunga e resistente. La lucertola era l'ultimo arrivo per la sua dispensa, che comprendeva anche due cavallette, un serpentello e un dipo. E, com'era nelle abitudini dei koprit, questo usava l'arbusto spinoso per esporre degli oggetti luminosi che aveva trovato. C'era un fiore giallo, non molto appassito, che doveva trovarsi lì dall'ultima pioggia. E non molto lontano dalla lucertola, l'uccello aveva avvolto su
una spina un paio di lacci arancioni. Gli occhi di Radnal si posarono su questi ultimi, passarono oltre e tornarono indietro di scatto. Non erano lacci. Lì indicò: «Non sono le collane che Evillia e Lofosa portavano ieri?» chiese rauco. «Sì» dissero assieme Peggol e Horken. Faceva parte del loro mestiere notare e ricordare i minuscoli dettagli. Ne sembravano certi. Quando Peggol cercò di prendere le collane dalla spina, il koprit fece dei versi furiosi. Gli si avventò in viso con gli artigli protesi. Lui barcollò all'indietro, dimenando le braccia. Radnal agitò il berretto andando verso il biancospino. E quello impaurì l'uccello quanto bastava per impedirgli di gettarsi in picchiata su di lui, anche se continuò a strepitare. Afferrò le collane e si allontanò dalla dispensa più in fretta che poté. Le collane erano più pesanti di quel che sembrava, troppo pesanti per essere di plastica da quattro soldi, come gli erano apparse in un primo tempo. Le rigirò per osservarle all'interno. «Dentro sono di rame» disse stupito. «Vediamo.» Peggol e Horken avevano parlato di nuovo assieme. Presero una collana ciascuno. Poi fu Peggol a rompere il silenzio: «È filo da detonatore». «Infatti» convenne Horken. «Comunque non ne ho mai visto con isolante rosso. In genere dovrebbe essere marrone o verde per mimetizzarlo. Stavolta era mimetizzato da gioiello.» Radnal guardò a turno Horken e Peggol: «Volete dire che questi fili dovrebbero essere collegati alla pila che azionerebbe la carica esplosiva della bomba stellare allo scoccare del timer?» «Proprio così» disse Peggol. Horken vez Sofana annuì solennemente. «Ma adesso non più, perché sono qui e non al loro posto.» Cercando le parole, Radnal riprese: «E sono qui perché sono piaciuti a un uccello koprit, o forse li ha scambiati per cibo - sono dello stesso colore di un'esca di scinco - li ha strappati e se n'è volato via portandoseli». Solo allora capirono. «Nientemeno, quel koprit ha salvato il Tartesh!» «Quell'orrido coso a momenti mi beccava un occhio» brontolò Peggol. Il resto del gruppo lo ignorò. Un paio di loro risero. Altri, come Radnal, rimasero in silenzio, troppo stanchi, riarsi e sbalorditi per dimostrare la loro gioia. Alla guida turistica ci vollero diversi cardiobattiti per ricordare che portava un radiofono. Lo accese e attese in linea Turand vez Nital. «Cos'ha trovato?» abbaiò l'ufficiale. Radnal sentiva la sua tensione. La stessa che
aveva avvertito lui fino a qualche istante prima. «I fili del detonatore sono stati staccati dalla bomba stellare» disse, partendo dalle buone notizie. «Non so ancora dove si trova, ma senza di questi non può esplodere.» Dopo una pausa di silenzio segnato di scariche, Turand disse lentamente: «È diventato scemo? Com'è che si ritrova con i fili senza la bomba stellare?» «È stato l'uccello koprit che...» «Cosa?» Quello di Turand era un ruggito che fece vibrare il radiofono in mano a Radnal. Spiegò tutto meglio che poté. Seguì dell'altro silenzio. Alla fine il soldato disse: «È sicuro che si tratti del filo del detonatore?» «Sì, stando ai pareri concordi di un Occhio e Orecchio e un addetto alle circostanze del Parco della Fossa. Chi altri se non loro può riconoscere questa roba?» «Ha ragione.» Turand fece un'altra pausa, quindi: «Ha detto un uccello koprit? Sa che non ne avevo mai sentito parlare prima?» Dal tono, pareva meravigliato. Ma all'improvviso tornò ad avere una voce preoccupata. «È sicuro che il filo non è stato lasciato lì per tenderci l'inganno finale?» «No.» La paura serrò Radnal in una morsa. Lui e i suoi compagni erano arrivati fino a questo punto solo per essere vittime dell'inganno finale? Horken diede un ruggito più forte di quello di Turand: «L'ho trovata!» gridò da dietro un'euforbia a circa venti cubiti. «Non poteva essere distante perché i koprit hanno il proprio territorio. Perciò ho continuato a cercare e...» Indicò a terra. Alla base dell'euforbia c'era un piccolo timer collegato a una pila elettrica. Il timer era capovolto: il koprit ci doveva aver messo un bel po' a staccare col becco quei fili che tanto lo attiravano. Radnal si chinò, raddrizzò il timer. Quasi gli cadde di mano: la lancetta delle decime e dei cardiobattiti era sullo zero. «Date un'occhiata» disse in un soffio. Impac vez Potos si sporse a guardare. Il giovane Occhio e Orecchio schioccò la lingua tra i denti. «Un uccello koprit» disse Horken. Si gettò a carponi e si mise a scavare sotto tutte le piante e i massi in un raggio di una paio di cubiti dall'euforbia. Dopo neanche un centinaio di cardiobattiti, lanciò un'acuta esclamazione senza parole. Radnal gli si chinò accanto. Horken era incappato in uno spuntone di arenaria grosso quanto la sua testa. Sotto c'era una fenditura nel suolo che
correva da un lato all'altro. Da questa spuntavano due fili brunastri. «Un uccello koprit» ripeté Horken. Gli elicotteri e i soldati non avrebbero fatto in tempo. Ma il koprit, affamato o in cerca di femmine da attirare nel suo territorio, aveva individuato qualcosa di colorato e... Radnal tirò fuori il radiofono: «Abbiamo trovato il timer. È staccato dai fili che presumo arrivino alla bomba stellare. È stato proprio il koprit a staccare i fili usati dalle krepalgane per collegare il timer». «Un uccello koprit.» Adesso fu Turand vez Nital a dirlo. Sembrava sbalordito quanto loro, ma si riprese in fretta. «Inutile dirle che è una notizia eccellente. Manderò immediatamente degli uomini nella vostra attuale posizione, per iniziare a dissotterrare la bomba stellare. Chiudo.» Peggol vez Menk stava ancora esaminando il timer. Lo sguardo gli tornava sulla lancetta verde che intersecava lo zero. Disse: «A che profondità pensa sia sepolta la bomba?» «Parecchio, per smuovere la faglia» rispose Radnal. «Non saprei dire quanto: non sono uno studioso di geologia. Ma Turand vez Nidal si sbaglia se crede che i suoi uomini la porteranno alla luce prima della notte.» «Come avrà fatto il Krepalga a seppellirla qui?» disse Impac vez Potos. «Voi del Parco della Fossa non l'avreste notato?» «Il Parco della Fossa è grande» disse Radnal. «Lo so, o almeno dovrei: l'ho percorso in lungo e in largo» disse stancamente Impac. «Eppure...» «Inoltre quest'area non è frequentata» continuò Radnal. «Non ho mai portato un gruppo da queste parti. È chiaro che i krepalgani hanno corso dei rischi a fare quel che hanno fatto, ma non dei rischi enormi.» Peggol disse: «Dobbiamo assicurarci che un pericolo simile non si verifichi mai più. O aumentiamo la milizia, o stanziamo nella zona delle truppe fisse, o installiamo una base di Occhi e Orecchie, non lo so. Dobbiamo capire quale mossa offre le migliori garanzie di sicurezza. Ma qualcosa faremo». «Dovrete anche tener conto di ciò che è meno dannoso per il Parco della Fossa» disse Radnal. «È un fattore anche quello» disse Peggol. «Ma probabilmente secondario. Ci rifletta, Radnal vez: se crollano i Monti della Barriera e l'Oceano Occidentale inonda le Terrefonde, non sarà ancora più dannoso per il Parco della Fossa?» Radnal aprì la bocca per ribattere. Per lui era stato sempre di vitale importanza mantenere il parco nello stato attuale. L'uomo aveva già saccheg-
giato fin troppo le Terrefonde. La Fossa era ciò che di meglio, e forse di unico, restava a ricordare cos'era stata quella regione. Ma aveva passato giorni interi a chiedersi se sarebbe annegato il cardiobattito successivo, e per l'intera giornata appena trascorsa era stato certo che sarebbe accaduto. E se lui fosse annegato, il suo Paese sarebbe annegato con lui. In confronto a tutto questo, una postazione di soldati o di Occhi e Orecchie gli sembrò all'improvviso una piccola cosa. Non disse più niente. Era molto tempo che Radnal mancava da Tarteshem, anche se la capitale del Tartesh non era molto distante dal parco della Fossa. Non aveva mai sfilato in città su un motore dal tetto aperto, con la gente festosa lungo i marciapiedi. Avrebbe dovuto piacergli. Di certo piaceva a Peggol vez Menk, che gli sedeva accanto nel motore. Peggol sorrideva e salutava con la mano, come se fosse stato appena nominato sommo sacerdote. Ma dopo essere stato tanto tempo negli ampi spazi aperti delle Terrefonde, in compagnia soltanto di se stesso o al massimo di piccole comitive turistiche, per Radnal muoversi tra una tale calca di gente risultava più opprimente che appagante. Guardava nervosamente gli edifici che torreggiavano sul lungo viale. Gli sembrava più di passare in un canyon che tra costruzioni fatte dall'uomo. «Radnal, Radnal!» inneggiava la folla, come se tutti lo conoscessero tanto bene da chiamarlo per nome in modo intimo, quasi nudo. Gridavano anche: «Uccello koprit! Uccello koprit! Che la lode degli dei scenda sull'uccello koprit!» Questo gli tolse un po' di nervosismo. Vedendolo sorridere, Peggol disse: «Si direbbe quasi che abbiano appena visto l'ultima opera di un artista». «Ha ragione» rispose Radnal. «Forse dopotutto è un peccato che non sia qui anche l'uccello koprit per la cerimonia.» Peggol inarcò il sopracciglio: «Li ha convinti lei a non catturarlo». «Lo so. Ho fatto la cosa giusta» disse Radnal. Non gli sembrava giusto mettere in gabbia l'uccello che aveva sottratto i fili del detonatore. Il Parco della Fossa esisteva proprio per consentire alle proprie creature di vivere allo stato libero e selvaggio, con la minore interferenza possibile da parte dell'umanità. Era per merito del koprit che tutto sarebbe continuato come prima. E metterlo in gabbia dopo una cosa del genere a Radnal sembrava pura ingratitudine. Il motore entrò sul terreno del palazzo del Tiranno Ereditario. Si fermò dinanzi allo splendente edificio in cui viveva Bortav vez Pamdal. Sul parco
vicino alla strada era stato installato un ponteggio provvisorio e un podio. Le sedie pieghevoli che si trovavano di fronte erano piene di dignitari del Tartesh e di altre nazioni. Non c'erano krepalgani tra i presenti. Il Tiranno Ereditario aveva rispedito in patria il plenipotenziario dell'Unità Krepalgana, espulso dal Tartesh tutti i cittadini krepalgani e chiuso il confine. Finora non aveva preso altri provvedimenti. Radnal rifiutava ma nel contempo approvava la cautela del tiranno. Nell'era delle bombe stellari, bisognava occuparsi con cautela anche del tentato omicidio di un'intera nazione, altrimenti si poteva sfociare in un doppio omicidio collettivo. Un uomo in abito elegante si avvicinò al motore con un profondo inchino: «Sono l'ufficiale del protocollo. Se i liberuomini vogliono venire con me...» Radnal e Peggol lo seguirono. L'ufficiale del protocollo li accompagnò sul palco, li fece accomodare e si allontanò in fretta per andar a occuparsi degli altri del gruppo dei sette viandanti, i cui veicoli erano parcheggiati dietro quello da cui erano scesi la guida turistica e L'Occhio e Orecchio. Sentendosi sotto esame da parte di personalità così importanti, Radnal tornò di nuovo nervoso. Si sentiva fuori posto in quel genere di compagnia. Ma in seconda fila sedeva Toglo zev Pamdal, che gli fece un largo sorriso e un cenno di saluto. La vista di una persona che conosceva e gli piaceva gli rese più facile l'attesa del resto della cerimonia. Squilli di tromba eseguirono l'inno nazionale del Tartesh, e Radnal non riuscì a rimaner seduto. Si alzò in piedi con la mano al cuore fino al termine dell'inno. L'ufficiale del protocollo salì sul podio e annunciò: «Liberuomini, liberuomo, il Tiranno Ereditario». I tratti di Bortav vez Pamdal adornavano l'argento, sorridevano dagli edifici pubblici, apparivano di frequente sullo schermo. Ma Radnal non si sarebbe mai aspettato di vedere il Tiranno Ereditario di persona. Bortav sembrava più vecchio che nelle immagini, e non altrettanto risoluto e saggio: in altre parole un uomo e non un semidio. Ma la sua voce risonante da baritono parlava da sé. Per un quarto di decima parlò a braccio, lodando il Tartesh e condannando quelli che avevano cercato di raderlo al suolo e promettendo che il pericolo non si sarebbe mai più verificato. In breve, era un discorso politico. Dato che a Radnal interessavano più i reni del grosso topo delle sabbie che la politica, ben presto smise di prestare attenzione. Quasi non si accorse che il Tiranno Ereditario lo chiamava per nome. Si
scosse e si alzò di scatto. Bortav vez Pamdal gli fece cenno di avvicinarsi al podio. Come in sogno, lui andò. Bortav gli mise un braccio intorno alle spalle. Il Tiranno Ereditario era un po' profumato. «Liberuomini, damelibere, vi presento Radnal vez Krobir, i cui occhi aguzzi hanno individuato quei malefici fili, provando così che gli dei non avevano abbandonato il Tartesh. Per le sue prodi imprese volte alla salvaguardia non solo del Parco della Fossa, non solo della Terrefonde, ma dell'intero Tartesh, lo ricompenso con cinquemila unità di argento e dichiaro che d'ora in poi lui e i suoi discendenti siano riconosciuti come membri dell'aristocrazia nazionale. Liberuomo vez Krobir!» I dignitari applaudirono. Bortav vez Pamdal annuì, prima al microfono, poi a Radnal. Fare un discorso lo spaventava quasi più di quello che aveva passato nelle Terrefonde. Cercò di fingere che fosse una conferenza scientifica: «Grazie, eccellenza. Lei mi onora oltre i miei meriti. Terrò sempre cara la sua benevolenza». Si fece indietro. I dignitari applaudirono di nuovo, forse perché era stato così breve. Fuori dal microfono, il Tiranno Ereditario gli disse: «Resti qui accanto a me, mentre premio i suoi colleghi. L'altro dono per lei arriverà alla fine». Bortav chiamò il resto dei sette viandanti, uno a uno. Elevò anche Peggol ai ranghi dell'aristocrazia come Radnal. Gli altri cinque ottennero le sue lodi e cospicue somme d'argento. Questo parve ingiusto a Radnal. Senza Horken, per esempio, non avrebbero mai trovato la pila elettrica e il timer. Ed era stato Impac a ritrovare la pista quando perfino Radnal l'aveva persa. Ma non per questo poteva protestare. Anche come eroe del momento, non aveva l'autorità per farsi ascoltare da Bortav. Inoltre, supponeva che nessuno avesse fatto sapere al Tiranno Ereditario che aveva fornicato con Evillia e Lofosa pochi giorni prima che si allontanassero per innescare la bomba stellare sepolta. Bortav vez Pamdal era un rigido conservatore in fatto di morale. Non avrebbe elevato di rango Radnal se fosse stato al corrente di tutto quello che aveva fatto nel Parco della Fossa. Per salvarsi la coscienza, Radnal ricordò a se stesso che dopo la cerimonia di quel giorno la vita sarebbe stata più facile per tutti e sette i viandanti. Era vero. Eppure non era del tutto convinto che fosse abbastanza. Zosel vez Glesir, l'ultimo a essere chiamato sul podio, terminò di ringraziare e tornò al proprio posto. Bortav vez Pamdal reclamò il microfono. Appena si smorzò l'applauso a Zosel, il Tiranno disse: «La nostra nazione
non dimenticherà che abbiamo sfiorato il disastro, né le imprese di tutti quelli che hanno contribuito a sventarlo nel Parco della Fossa. Per commemorare l'accaduto, mostrerò qui per la prima volta l'emblema che d'ora in poi sarà affisso al Parco della Fossa». L'ufficiale del protocollo portò un quadrato di fibra dal lato lungo due cubiti scarsi. Lo porse a Radnal e mormorò: «Il velo si sgancia dall'alto. Tenga in alto l'emblema in modo che la folla possa vederlo quando lo scoprirà». Radnal obbedì. I dignitari applaudirono. La maggior parte di loro sorrise, qualcuno scoppiò a ridere scopertamente. Anche Radnal sorrise. Quale modo migliore di simboleggiare il Parco della Fossa che un uccello koprit appollaiato su un biancospino? Bortav vez Pamdal lo chiamò ancora una volta al microfono. Lui disse: «La ringrazio di nuovo eccellenza, adesso anche a nome del personale del Parco della Fossa. Saremo orgogliosi di questo emblema». Si allontanò dal microfono, poi girò la testa e bisbigliò all'ufficiale del protocollo: «Che ne faccio di questo?» «Lo poggi di lato al podio» rispose l'imperturbabile ufficiale. «Ci penseremo noi.» Mentre Radnal tornava al suo posto, l'ufficiale annunciò: «Ora ci spostiamo nel Salone dei Ricevimenti per i rinfreschi e un pranzo». Radnal riuscì a entrare insieme agli altri nel Salone dei Ricevimenti. Prese un bicchiere di spumante da un cameriere con un vassoio d'argento, quindi se ne stette qui e là a ricevere congratulazioni da importanti funzionari. Era come fare la guida turistica: sapeva quasi tutto quel che doveva dire, e improvvisò nuove risposte su vecchi temi. Con lampo d'intuito, a un tratto si rese conto che i politici e i burocrati facevano lo stesso con lui. L'intera faccenda era formale come un ballo figurato. Quando lo capi, il suo nervosismo sparì definitivamente. O almeno così pensava, finché gli si avvicinò Toglo sorridendo. Chinò il capo: «Salve, damalibera, sono lieto di rivederla». «Se ero Toglo zev nel pericolo del Parco della Fossa, rimango Toglo zev anche al sicuro qui a Tarteshem.» Sembrava che il tono formale di Radnal l'avesse delusa. «Bene» disse lui. Nonostante la sua promessa di protezione quando era partita dal rifugio, tantissima gente che si dimostrava amichevole verso i dipendenti del Parco della Fossa poi li snobbava se li incontrava in città. Non che la ritenesse un tipo del genere, ma era meglio andare sul sicuro. Come per magia, acanto a Radnal apparve Bortav zev Pamdal. Il Tiran-
no Ereditario aveva le guance un po' arrossate: forse aveva bevuto un bicchiere di spumante di troppo. Parlò come per ricordarlo a se stesso: «Conosce mia nipote, vero, liberuomo vez Krobir». «Sua... nipote?» Radnal passò uno sguardo stupito da Bortav a Toglo. Si era presentata come una lontana parente. Una definizione che non calzava a una nipote. «Spero che le piacerà stare qui.» Diede una pacca sulla spalla a Radnal, alitandogli del vino sul volto, e se ne andò lemme lemme a intrattenersi con altri ospiti. «Non hai mai rivelato di essere sua nipote» disse Radnal. Ora che si ritrovava all'improvviso aristocratico avrebbe potuto pensare di parlare col capoclan della lontana parente del Tiranno Ereditario. Ma farlo col fratello di Bortav vez Pamdal o la sorella-capofamiglia... impossibile. «Mi dispiace» rispose Toglo. Radnal la studiò, aspettandosi che quello scusarsi fosso solo per salvare la forma. Invece lei aveva l'aria di fare sul serio. Disse: «Già è fin troppo difficile portare il nome del mio clan. Lo sarebbe di più se dicessi a tutti quanto è stretta la mia parentela col Tiranno Ereditario. La gente non mi tratterebbe come un essere umano. Credimi, lo so». Dall'amarezza della voce, doveva essere così. «Oh» disse Radnal lentamente. «Non ci ho mai pensato, Toglo zev.» Il sorriso della donna quando lui la chiamò per nome con la particella lo fece stare meglio. «Avresti dovuto» gli disse. «Quando gli altri sentono che faccio parte del clan Pamdal, o si comportano come se fossi di vetro e potessi rompermi se solo respirano più forte, o altrimenti cercano di capire cosa possono ottenere da me. E a me non interessa nessuno dei due atteggiamenti. Per questo minimizzo la parentela.» «Oh.» Lo sbuffo di risa di Radnal era rivolto più che altro a se stesso. «Ho sempre immaginato che appartenere a un clan ricco e famoso rendesse la vita più semplice e facile, non il contrario. Non credevo potesse comportare degli inconvenienti. Mi dispiace di non essermene reso conto.» «Non era il caso» disse lei. «Credo che mi avresti trattata allo stesso modo anche se avessi saputo dal primo cardiobattito chi era mio zio. Non mi capita tanto spesso, perciò ci tengo tanto.» Radnal disse: «Mentirei con te se ti dicessi che non ho mai pensato a quale famiglia appartenessi». «Be', è ovvio, Radnal vez. Saresti stato stupido a non pensarci. Non mi aspetto tanto. D'altronde, fino all'episodio dell'uccello koprit, pensavo che
gli dei l'avessero finita con i miracoli. Ma qualunque cosa tu abbia pensato, non te ne sei lasciato influenzare.» «Ho cercato di trattarti il più possibile come gli altri» disse lui. «Credo ti sia comportato a meraviglia» rispose lei. «È per questo che siamo diventati subito amici nel Parco della Fossa. Ed è per la stessa ragione che mi piacerebbe restassimo amici.» «Piacerebbe moltissimo anche a me» disse Radnal. «Sempre che tu non pensi che io lo dica solo per approfittare della situazione.» «Non credo che tu lo faresti.» Anche se Toglo continuava a sorridere, lo valutava con gli occhi. Lei aveva detto che in passato qualcuno aveva cercato di approfittarsi di lei. Radnal dubitava che se la fosse cavata bene. «La tua condizione mi rende ancora più difficile dirti anche che mi piacevi moltissimo, laggiù nelle Terrefonde.» «Sì, questo posso capirlo» disse Toglo. «Non vuoi ch'io pensi che stai cercano di approfittarne.» Valutò di nuovo Radnal. Stavolta, anche lui fece lo stesso con lei. Forse il primo che aveva cercato di conquistare l'amicizia della donna a proprio vantaggio, c'era riuscito. Lei era, pensò Radnal, una persona semplice e buona. Ma ci avrebbe scommesso le cinquemila unità d'argento che il secondo a provarci aveva avuto il benservito. Buona non significava che fosse stupida. Non per questo lei gli piaceva di meno. Forse Eltsac vez Martois era attratto dalle stupide, ma Eltsac stesso era stupido. Radnal si era dato di tutto, ma raramente dello stupido. L'ultima volta che lo aveva pensato di se stesso era stato quando aveva scoperto chi erano davvero Lofosa ed Evillia. Ovvio che quando commetteva un errore, non faceva le cose a metà. Ma era riuscito a riscattarsi... con l'aiuto di quell'uccello koprit. Toglo disse: «Se diventiamo veri amici, Radnal vez, o forse perfino qualcosa di più...» Una possibilità alla quale lui stesso non avrebbe osato accennare, ma tutt'altro che spiacevole. «... promettimi una cosa.» «Che cosa?» chiese lui, improvvisamente circospetto. «Non mi piacciono le amicizie con le condizioni. Mi ricorda fin troppo dell'ultimo trattato con Morgaf. È un pezzo che non combattiamo contro gli isolani, ma non ci fidiamo di loro, né loro di noi. L'abbiamo visto anche nelle Terrefonde.» Lei annuì: «È vero. Però, spero che la mia condizione non sia troppo onerosa». «Continua.» Lui prese un sorso di spumante. «Bene, allora. Radnal vez Krobir, la prossima volta che ti vedo in un sacco a pelo con un paio di altatesta nude, o anche delle fronteforte, se è
per questo, dovrai considerare finita la nostra amicizia.» Un po' di vino gli andò su per il naso. Questo gli peggiorò l'accesso di soffocamento. Per ritrovare la calma, si prese qualche cardiobattito asciugandosi con un quadrato di lino. «Affare fatto, Toglo zev» disse poi solennemente. Si strinsero le mani. Titolo originale: Down in the Bottomlands Analog Science Fiction and Fact, January 1993 STRANIERI di Poul Anderson Le Genti della Landa superano le barriere culturali per chiedere aiuto al misterioso Popolo della Notte L'altra notte, mentre mi trovavo sulla cima della scogliera a Hrau, in cerca di sogni, è passato uno spirito. La luna era alta nel cielo, era piena, e così brillante da nascondere la maggior parte delle stelle, mentre le nuvole ne avevano imbiancato quasi tutta la faccia. La sua luce brillava sulle onde oscure, quasi ad aprire una via verso la Patria Perduta. In lontananza, a nord, sulla mia sinistra, l'orizzonte tremolava a causa dei fuochi dei morti. Il vento carezzava e arruffava il mio pelo. Era fresco, e pieno di odori salati che facevano fremere le mie antenne. La risacca si frangeva in spuma candida, così lontano sotto di me che il suono giungeva debole e costante, come il mormorio del Primo Fiume che correva a gettarsi nel mare quand'ero giovane. In questo luogo c'era una bella solitudine, che mi faceva sperare di avere dei sogni che mi aiutassero a capire cosa significasse questa vita che ora s'avvicinava alla fine. Non avevo pensato di essere il tipo che potesse capirlo - non sono un santo, né ho familiarità con l'Invisibile - ma la Madreacqua dice che dovrei, a causa di ciò che accadde molto tempo fa. Ah, quanto tempo fa! Mentre aspettavo, qualcosa brillò in lontananza. Poteva essere una foglia, schiarita dall'autunno, che il vento rincorreva lungo le onde spumose. Eppure era troppo grande, si muoveva troppo regolarmente, e non veniva
portata dal vento ma lo incrociava da est. Era forse la forma della mia guida verso il sonno? Rabbrividii. Si avvicinò ancora, finché all'improvviso non cominciò a oscillare. A quel punto era così vicina che riuscii a vedere cosa c'era sotto, l'oggetto a forma di coltello che si faceva strada lasciando una scia sulla quale la luce della luna mulinava e si frangeva. La mia pinna, già abbassata, mi si richiuse con forza contro il dorso. Quella non era una delle nostre canoe di passaggio. Quella era una barca del Popolo della Notte. Perché erano venuti a cercarci, dopo tutti questi anni? Cos'era cambiato nella Foresta o nella Patria Perduta? Ed era un cambiamento da temere o da desiderare? Per poco non mi misi a gridare, ma la paura me lo impedì. Mi rannicchiai per non essere visto contro le stelle d'occidente e il Flusso Celeste. La barca fantasma procedeva veloce e silenziosa, parallela alla riva ma ben distante dai flutti. Man mano che si allontanava il terrore mi abbandonava. A bordo ci poteva essere qualcuno che avevo conosciuto? Balzai in piedi estendendo al massimo la mia pinna, in modo che la luce della luna non ci si riflettesse, gridai e spiccai un salto. La barca seguiva la sua rotta. Non so se mi videro. Certamente avrebbero potuto, data la vastità dei loro poteri. Ma non so se mi videro. La barca svanì verso sud. Il dolore mi sgorgò da dentro. Caddi a quattro zampe, con la coda che sbatteva avanti e indietro. Piansi per la mia perdita, se davvero fu una perdita. Nessun sogno sarebbe venuto fino all'alba. Per il momento, tuttavia, era venuta la calma. Mi rialzai e intonai il canto dell'addio. Dopo di che andai a casa. Oggi vi racconto ciò che ho visto. Molti di voi sono giovani. Avete sentito i racconti e imparato i canti, ma non conoscete la Patria Perduta come noi pochi anziani che ci siamo nati e che una volta camminavamo sulle colline e facevamo offerte alle tombe degli antenati. E tra quelli che hanno visto il Popolo della Notte resto io solo. Io solo li cercai nella Foresta. Noi che ricordiamo ne abbiamo pagato il prezzo e abbiamo sofferto di quella perdita di cui i mortali che hanno a che fare con loro devono soffrire. Ma il mio sacrificio fu al di là e al di sopra di questo. Perciò voialtri non sapete ciò che credete di sapere. Devo cercare di dirvelo. Ascoltatemi. Può darsi che la barca fantasma fosse diretta verso qualche mistero invisibile. Può darsi che il Popolo della Notte abbia sorvolato molte volte quest'isola a nostra insaputa. La notte scorsa li ho visti per caso o volevano
che li vedessi? Può essere stato il segno che cercavo, perché mi tenessi pronto. E quando sarò nel mio dolmen verranno con la luce della luna e mi parleranno all'orecchio. Chi può dirlo? Se vi cercheranno dovrete avere il sacro timore, la cautela e anche l'arcana letizia che furono nostre, non nelle parole ma nel profondo dei vostri sogni. È per i vostri figli e per i figli dei vostri figli, che non avranno innumerevoli antenati che veglino su di loro come li abbiamo avuti noi, ma avranno soltanto noi. Anche se credete di aver già sentito la mia storia, non è così. Ascoltatemi. Per due giorni la gente a casa vide il fumo salire in lontananza sulla brughiera di Dossoquarzo. Ktiya una volta era un grosso villaggio agricolo. Ktiya e i suoi terreni coltivati ci misero parecchio a bruciare quando gli Aurighi diedero loro fuoco. La tetra vista ci accompagnò opprimente durante il ritorno a Oaua, persistendo nell'alba seguente. Alla fine il fumo si assottigliò, e i venti pietosi dispersero ciò che ne restava. Ma non potevano allontanarne la memoria, né i nostri presentimenti. Ktiya era un villaggio vasto, dicevo, e aveva avuto l'aiuto di molte altre Genti della Landa, come indicavano i falò che permettevano di capire che gli Aurighi vi si stavano dirigendo. Ciò nonostante Ktiya fu distrutto. Oaua era piccolo, e verosimilmente sarebbe rimasto solo quando poco dopo fossero giunti i devastatori, poiché i nostri simili là intorno sarebbero stati in preda allo sconforto. «Ma noi li abbiamo cacciati, Ak'hai'i» protestò il mio compagno Izizi quando mi costrinsi a dire una cosa del genere. «Ne abbiamo uccisi diversi e feriti ancora di più, come sai meglio di chiunque altro tra noi, finché sono fuggiti disordinatamente spingendo i loro ehin a tutta velocità verso est.» «Erano solo un piccolo gruppo» risposi. «Credo che noi fossimo tre volte tanti. E anche così molti dei nostri restarono a terra, morti o feriti. Si ritirarono ordinatamente, portandosi dietro i caduti, tranne quei due che avevamo circondato.» «Dovresti cantare queste gesta, Ak'hai'i» disse lui. Avrei ben potuto farlo, poiché fui io a guidare la carica che spezzò la linea nemica. Tagliammo fuori uno dei loro carri, e Ngi della Baia del Tuono infilzò il guidatore con la sua lancia, ma fui io, io, io che saltai oltre il parapetto e uccisi quel guerriero. La mia scure gli fracassò la testa prima che la sua lama potesse farmi più che un taglio superficiale, e ora quella stessa lama riposava inguainata sul mio petto. Ma l'oscurità era sorta in me con il fumo di Ktiya. «Si ricompattarono
all'istante» dissi. «Avrebbero potuto farci a pezzi inseguendoci uno per uno mentre fuggivamo. Non lo fecero, perché non ne valeva la pena per loro. Avevano fatto ciò che volevano fare, e desideravano soltanto tornare alla loro tribù.» Ci trovavamo nella Loggia del Maschio, noi che eravamo andati in battaglia ed eravamo sopravvissuti. Presto avremmo cercato le femmine e la loro saggezza, ma prima dovevamo occuparci di quelli di noi che avevamo portato a casa perché fossero sepolti, e di noi stessi. In seguito avremmo riferito tutto alle femmine e ci saremmo consultati con esse, e tutti insieme avremmo cercato di venire a patti con l'Invisibile. Così facevano le Genti della Landa nei tempi andati. Oggi è diverso. Tutto è diverso. Il freddo dimorava all'interno delle spesse mura d'argilla. La luce del sole filtrava attraverso l'intreccio di materia vegetale sulla soglia, lasciandoci in penombra. Il tetto in paglia odorava di umidità notturna e foraggio secco, un odore pacifico. Tenevamo lo sguardo fisso sulla fiamma della lampada in cima alla mensola. «Ma che cos'era allora che gli Aurighi erano venuti a fare?» chiese Ngi. Lui e la sua famiglia vivevano appartati, sostentandosi più con la pesca in riva al mare o avventurandosi nella baia su una zattera che non lavorando la terra. Perciò non ne sapeva quanto noi che stavamo al villaggio, e fino a quel momento non c'era stato abbastanza tempo, né fiato, perché potesse esserne messo al corrente. «Erano venuti a saccheggiare» gli risposi. «Avevano fatto piazza pulita nella valle, della gente e del raccolto. Sulla via del ritorno non avrebbero incontrato altro che uccelli nel cielo e bestie vaganti sul terreno. Nulla sarebbe cresciuto tranne il foraggio per le loro greggi. In questo modo, pezzo a pezzo, sottrarranno alle Genti della Landa tutto il loro mondo.» «Cosa li spinge a comportarsi così?» gridò Izizi. Scrollai la mia pinna. «Chi lo sa? Forse nemmeno loro stessi. Può darsi che col tempo le cose siano andate peggiorando di più nell'estremo oriente che qui, man mano che il sole è andato allontanandosi dal suo corso.» «Ma se la prendono con noi che non gli abbiamo mai fatto nulla!» «I pesci che finiscono nella mia rete potrebbero pensare lo stesso di me» disse Ngi, duro. «Hanno il potere, è vero» mormorai. «I carri e il ferro.» Così chiamavamo il terribile materiale che tagliava e feriva, infrangibile, più affilato della pietra acuminata meglio lavorata. Nessuno sapeva chi gli avesse dato quel nome per primo. La Madreacqua disse che la parola poteva venire da colo-
ro che l'avevano usata. A volte facevano dei prigionieri, e forse qualcuno di questi nel corso degli anni era riuscito a fuggire e a tornare indietro. «Se potessi» tuonò Ngi «userei questo potere contro di loro, proprio Come loro fanno con noi.» «Ma il destino ha stabilito diversamente» risposi. «Ora restiamo in silenzio, uniamo il nostro spirito nella fiamma della lampada e troviamo la pace.» E la calma regnò. Ma non dentro di me. Ero in preda alla rabbia e al dolore. Che fare? Riportando gravi perdite avevamo ucciso alcuni membri di uno dei loro gruppi d'assalto, e io avevo preso una delle loro armi. Ma a che serviva se le loro orde avevano lame a profusione e noi non sapevamo farne neppure una? Alla fine estrassi la mia lama. Gli altri erano completamente assorti nel fissare la fiamma della lampada e non la videro. La guardai e la tastai come facevo ogni volta che ci fermavamo a riposare lungo la strada verso casa. Era lunga quasi quanto il mio braccio, ma al centro non più grossa del mio pollice esterno. Una lama in pietra di quella forma poteva essere solo da cerimonia, sarebbe andata distrutta se fosse stata usata in battaglia. Invece il ferro non si sarebbe neppure scheggiato. Era di uno splendore oscuro, e liscia come il ghiaccio. Il taglio della lama, che mi faceva sanguinare se la strofinavo, aveva la bella curvatura di una foglia rivolta verso il sole. Alla sua sommità c'era una traversa di sicurezza. L'impugnatura al di sopra non era semplicemente avvolta, ma era un pezzo a se stante, legno duro intagliato fissato in qualche modo alla lama e avvolto in una pelle, che si allargava fino al pomo in cui era incastonato un cristallo. Quando sollevai l'arma, la trovai pesante come la pietra, ma così bilanciata che era come se mi fosse diventata viva in mano. Il cristallo scintillò nell'oscurità, un occhio che mi guardava come l'occhio di un predatore. La preda ero io. Lo era la mia gente. Certamente non ero il primo che fosse riuscito a conquistare una lama di ferro. Dev'essere accaduto più di una volta, quando i nostri affrontarono gli invasori. Ma a che serviva? Senza la capacità di usarla, possederla sarebbe stato solo uno svantaggio nella prossima battaglia, ben peggio che avere soltanto le armi con cui si aveva familiarità. Sarebbe stato meglio lasciare quel trofeo ad attendere nella tomba degli antenati. Ancora meglio, forse, lasciarla affondare in uno specchio d'acqua o gettarla sulla cima di una collina. L'Invisibile potrebbe accettarla come offerta e concederci la pace dell'anima, o il Popolo della Notte potrebbe prenderla ed esserne tanto soddisfatto da dare qualche pic-
colo aiuto ai suoi simili. La fiamma sulla mensola vacillò. Mi chiamò e il mio spirito la seguì. Quando tornai nel mio corpo sapevo cosa dovevo fare. In quei giorni la Madreacqua di Oaua era Riao, vecchia, saggia e addentro ai misteri. Quando le comunicai le mie intenzioni, noi due da soli a casa sua, mi disse con più calma di quanto mi sarei aspettato: «Sei troppo impetuoso». «È che ho speranza» risposi. «Non vedo altre possibilità.» «È molto probabile che incontri la morte o peggio, tu che hai moglie e figli.» «Vado proprio perché ce li ho.» «Qual è il tuo piano?» «Non ne ho. Come posso farne se non so niente? Cercherò finché troverò il Popolo della Notte, poi li pregherò o cercherò di costringerli, come mi sembrerà meglio. Ci sono dei racconti su quegli antenati che ebbero a che fare con loro. Anche mia nonna ne vide uno.» «Volano dalla Foresta, attraverso la Landa, a volte. Più spesso di quanto non sappiamo, credo» convenne Riao. «La maggior parte di quelli che li vedono solo per un attimo hanno paura di parlarne. Se proprio devi correre questo rischio, perché non li cerchi nell'oscurità più vicina a noi?» «Come posso essere sicuro d'incontrarne qualcuno se gli anni passano nell'attesa? Vanno e vengono come il vento. O possono ben accorgersi di me e starmi lontano. E poi, se ne catturassi uno la loro collera potrebbe abbattersi su tutto il villaggio. Potrebbero rovinare il raccolto e appestare il bestiame. Da solo, addentro al loro territorio, potrei ben attirarli a me, e capirebbero che ogni aggressione contro di loro verrebbe da me solo.» «Ben detto» disse. «E poi hai già cacciato ai margini della Foresta. Parti, non parlarne con nessuno e lascia che io sogni di questo.» Lasciai la sua scura capanna, con delle strane cose appese al soffitto, e andai a casa. Come entrai Hroai mi guardò severamente e mandò fuori i nostri piccoli. «La tua pinna è quasi bianca» mormorò. Ondate violacee le pulsavano tra le costole. «Ho intenzione di affrontare un certo pericolo» le dissi. «Di nuovo?» «Non è un'altra battaglia. Non ti farebbe piacere saperne di più. Ho il tuo permesso di partire?» Restò a lungo in silenzio, ma la sua pinna si oscurò e s'illuminò più vol-
te, la coda le si contrasse, il pelo le si sollevò leggermente alle estremità. Alla fine disse: «Credo che tu sappia ciò che vuoi. Per il bene dei bambini non ne parlerò. Nel bene e nel male è il destino che ti guida. Godiamoci l'un l'altro finché possiamo.» E quella notte mi amò più volte e con violenza. La mattina dopo tornai da Riao. «Devi andare» dichiarò «ma prima t'insegnerò qualcosa e ti darò ciò che potrà aiutarti.» E così restai con lei per tre giorni e tre notti. Non posso rivelare ciò che m'insegnò, posso dire solo che osservai certi segni e imparai certi incantesimi. Alla fine mi condusse al Primo Fiume, nel punto in cui formava una cascatella, presso una valletta ombrosa, normalmente proibita ai maschi, e mi purificò. Dopodiché mi diede un lazo. «La sua fibra viene da un rampicante cresciuto sulla tomba dei miei antenati» disse. «L'ho intrecciato di notte, cantando degli inni ai raggi di luna tra un ordito e l'altro. Potrebbe legare uno di quelli che cerchi. Mettiti in cammino.» «Lasciami tornare a casa per salutare» le chiesi. «Non te la sentiresti» disse la Madreacqua. L'alba stava spuntando al di sopra della foschia e del fragore nella valletta. Mi prostrai dinanzi a lei, mi rialzai e cominciai il mio viaggio. Dalla cima di una collina guardai tutt'attorno. Rivedo quell'immagine, mentre lo racconto, più chiara e dai colori più vivi di quella che vediamo ora. Ma ero giovane allora. Le ombre si stagliavano lunghe e tristi nella luce del mattino. Generavano le forti curve della Landa, le colline emergevano da ogni parte, finché vidi il tenue luccicare del mare; le valli tra i loro declivi; il fiume che si snodava lucente attraverso una rete di affluenti che vi si tuffavano con foga o dolcemente. Il terreno era imbrunito dall'autunno, tranne dove le coltivazioni formavano delle piccole chiazze scure. Verso nord c'erano alcuni alberi sparsi, striminziti e resi nodosi dal vento, che anticipavano la Foresta. Dolmen e sepolcri di passaggio sovrastavano grigi le cime. Oaua era un villaggio piccolo e delizioso, con le sue capanne rotonde raggruppate insieme e il fumo dei camini che filtrava dai tetti di paglia. Era circondato, come dalle braccia e le gambe di un amante, da una serie di graticci che formavano una recinzione. Pensavo al trambusto e al vocio del risveglio. Sapevo che Hroai era già fuori nell'aia con il suo stecco per zappare, mentre il piccolo Uo dava da mangiare agli animali e la più piccola Lyang puliva la casa e badava al neonato ancora senza nome, ma non potevo sentire
né vedere nessuno di loro da dove mi trovavo. Sussurrai: «Addio». E mi diressi verso nord. Faceva freddo. Anche nel pomeriggio mi bastava spiegare la pinna soltanto a metà per stare fresco. Le nuvole venivano trascinate verso il basso dal vento burrascoso. Non sarebbe dovuto essere così. Il colore giallastro del foraggio e degli arbusti faceva pensare a un'estate fredda e umida. Quando mia madre era bambina la neve cadeva raramente d'inverno. Ma erano già diversi anni che si vedevano notti nere di gelo. Più tardi quel giorno, risalendo il fiume verso la sorgente, arrivai sull'Henge. Non mi ci attardai. Quelle pietre erette erano troppo sinistre. Le Genti della Landa non vi si riunivano più per i riti, come i miei nonni mi raccontarono che un tempo erano soliti fare. Non che credessimo che su quel luogo sacro fosse caduta una maledizione. Ma se un osservatore si fosse trovato sulla pietra lastricata durante il solstizio, il sole non sarebbe sorto nemmeno sopra l'Altare delle Stagioni. La sacralità se n'era andata dopo che le vie celesti si erano fatte sfavorevoli. Il tempo era diventato freddo e ventoso, e gli Aunghi avevano cominciato ad arrivare. Ciononostante questa restava una buona terra, la Terra Madre, e l'avrei tenuta per noi, se il fato me ne avesse dato il potere. Così giurai, allora. Verso sera mi accampai. Il mio piano era di entrare nella Foresta quando la luna fosse stata piena. Probabilmente la luna avrebbe dato più potere al Popolo della Notte, ma a me avrebbe consentito di vedere. Nel frattempo, comunque, avrei approfittato del buio per riposare. Recisi alcuni giunchi con i quali costruii uno sbarramento e lo piazzai nel fiume, sperando di trovarci la mia colazione all'alba. Non accesi il fuoco, perché sarebbe stato complicato e inoltre avrebbe potuto attirare un'attenzione che per il momento non volevo. Invece, trovai dei sassolini che mi disposi intorno, ed entro i cui margini srotolai la pelle che usavo per coperta, e mangiai un po' delle provviste essiccate che avevo portato con me. Oltre a queste cose, avevo una lancia e la mia scure. Tenevo le armi in mano, la pelle e la sacca sulle spalle. Un coltello pendeva da una cordicella che tenevo al collo. Se qualcosa della mia attrezzatura si fosse rotto avrei potuto prontamente rimpiazzarlo, poiché c'erano molte pietre appuntite nella Landa. Inoltre, di traverso sul torace tenevo la lama di ferro, con il lazo di Riao avvolto attorno alla sua guaina. Avevo il sonno leggero, e sognavo casa mia. Non sapevo cosa ciò significasse.
Man mano che avanzavo gli alberi si facevano più alti e più fitti. Il terzo giorno mi ero ormai addentrato nella Foresta. Perlopiù incontravo piante dal legno duro come pietra, dai tronchi rossi che si levavano alti al punto che i rami si curvavano in fronde che schermavano il cielo. La luce del sole riempiva le ombre più in alto d'incerto turchese e quelle più in basso di chiazze bianche. Le distanze apparivano incalcolabili, poiché anche l'occhio ben presto ci si perdeva. In alcuni luoghi vedevo capiblù fioriti verso l'alto, bassi fiori notturni, fiordiluna splendenti, intrecci di vitigni, spinaguzze penosamente rattrappite. Ma perlopiù tra gli alberi non c'era nulla, tranne vecchie foglie che frusciavano sotto i piedi. Talvolta un uccello alafischio volava da un ramo, un volarosso cinguettava, un ronziere svolazzava nelle vicinanze. E quando mi capitava di fermarmi per un po', se ascoltavo attentamente potevo sentire uno scalpiccio indistinto in mezzo ai cespugli. Questi rumori a malapena rompevano il silenzio. Qui era più caldo che fuori sulla Landa, e pieno degli odori della terra. Mi ero già avventurato così lontano in passato, cacciando uk'ho o tricorni. Così una volta giunsi a un campo del Popolo della Notte. Anche ad altri era capitato. Ma sempre dichiaravamo a voce alta che non intendevamo oltrepassare i loro confini, e ci allontanavamo. Questa volta dovevo fare ciò che in precedenza avevo negato di voler fare. Toccai la corda che avvolgeva la lama e affrettai il passo prima che il coraggio mi abbandonasse. Il mio percorso mi aveva allontanato dal Primo Fiume e dal conforto del cielo aperto al di sopra, mentre qui la terra cominciava a innalzarsi. Avevo fatto base in luoghi umidi e ombrosi. Seguii il corso di un affluente verso la sorgente. Scorreva lento, fiocamente luccicante. Le ombre si addensavano. La sera si stava ormai avvicinando quando trovai ciò che cercavo. Tutte quelle radure erano piccole. Pensavo che fosse per avere gli alberi attorno vicini, in modo da tenere il pieno sole lontano dalle piante delle streghe. C'era bisogno anche di molta acqua. Il ruscello vi scorreva nel mezzo. Le piante, alte e strane, crescevano in file ordinate. L'ultima volta che le avevo viste erano verde brillante, ma era in un'altra stagione. Adesso erano quasi bianche, erano secche, e dai loro rami pendevano lunghe bacche racchiuse in una sorta di pellicola. Quattro alberi nani e nodosi sorgevano nel mezzo. Foglie verde pallido e grossi frutti rossi crescevano a grappoli su di essi. Non toccai nulla. Alcuni racconti narravano di cacciatori sconsiderati che avevano rubato da terreni come questi. Speravano che i trofei avrebbe-
ro portato loro fortuna, ma ne ebbero solo disgrazie. Un bambino di uno di loro ne mangiò, e sebbene il sapore lo spinse a sputare immediatamente tutto, rimase malato per giorni. E poi ci sono i racconti sul Popolo della Notte che faceva visita alle femmine sagge, parlava con loro, e a volte le avvertiva del fatto che la gente agiva in modo poco saggio, ma rifiutava il cibo offerto, e qualsiasi bevanda tranne l'acqua. Solo il Popolo della Notte può passare tra i mondi senza portare con sé la morte. Dando una semplice occhiata intorno trovai ciò che non avevo trovato precedentemente, quando mi limitavo a osservare e fuggire. Un sentiero s'apriva lungo il lato più lontano della radura, snodandosi in curve sinuose che presto sfuggivano alla mia vista. Non era un percorso abituale di animali selvaggi, ma un ampio sentiero, tracciato con cura, ripulito dalle erbacce. Osservando da vicino riuscii a vedere delle tracce sul terreno, dei solchi che correvano fianco a fianco a una distanza di circa due code. Tracce di ruote? Da chi ne avevano appreso l'uso gli Aurighi? Abbandonai la domanda e cercai qualcosa per nascondermi. Un folto cespuglio dalla parte opposta del campo mi sembrò adatto. Mi ci sistemai e attesi. Il sole tramontò, e i suoi raggi filtrarono nei rari spazi lasciati dalla fitta boscaglia, così come i miei pensieri. Quando sarebbe arrivato il Popolo della Notte per provvedere al proprio raccolto? Avrei potuto attendere fino ad allora? Cos'avrei dovuto fare? Cosa avrebbero fatto loro? I canti e i racconti dicevano quant'era pericoloso andarli a disturbare. Ma c'erano anche dei racconti che parlavano del bene che facevano e dei prodigi che operavano quand'erano ben disposti. Tutto ciò accadeva nei tempi antichi, quando uscivano più liberamente nella Landa, e non era poi così raro che qualcuno li incontrasse. Per quanto ne sapeva Riao, non era più capitato a nessuno che fosse ancora vivo oggi, a parte qualche visione fugace. Non sapeva cosa fosse cambiato, né perché. Un racconto diceva che una potente Madreacqua era divenuta talmente arrogante e ambiziosa da prendere prigioniero uno di questi visitatori, con la forza e tramite incantesimi. Andò incontro a una fine orribile quando gli altri si presentarono alla sua porta, e in seguito non fecero più visita a nessuno. Molti altri racconti dicevano che avere a che fare con il Popolo della Notte, anche se per esserne aiutati, aveva un prezzo molto alto: secondo alcuni la metà dell'anima. Ciononostante ero deciso a correre il rischio, dato che l'anno successivo gli Auriga sarebbero tornati. Il sole tramontò. Sorse la luna, ma la sua luce non riusciva a penetrare la
Foresta. L'oscurità gravava su di me. Le sue creature stridevano e trillavano, e ululavano a una distanza tripla. Mi sedetti sulla coda, il più immobile possibile. Alla fine mi appisolai. Un nuovo suono mi riportò alla piena coscienza. Per un momento fui consapevole della sete. Il tempo era passato lentamente, finché la luna aveva raggiunto le cime degli alberi attorno alla radura. La paura mi fece trasalire, togliendomi ogni altro pensiero. Ciò che sentivo venire da ovest era lo scalpitio degli zoccoli degli ehin. La luna era alta nel cielo. Le nuvole coprivano interamente le macchie sulla sua faccia. La luce gelava le foglie, e queste inzuppavano il campo e si scioglievano nel ruscello. I contorni delle cose erano netti, le loro ombre erano screziate. L'aria s'era fatta fredda e immobile. L'acqua mormorava i suoi segreti. Si udirono i tonfi degli zoccoli. Un appartenente al Popolo della Notte avanzava a cavallo da sotto gli alberi. Cavalcava. Il suo ehin non tirava un carro, ma incedeva fiero e aggraziato come se non fosse addomesticato, con lui in groppa. Lo stupore mi assalì. Com'era possibile? Allora ricordai che il Popolo della Notte non aveva la coda. Era alto, tanto quanto io sono lungo dal muso alla punta della coda, e snello. La luce della luna lo rivelò pallido e senza pelo. Ma i peli gli crescevano in testa a formare una criniera incolta e in setole nella parte inferiore della faccia. La sua faccia era liscia, tranne che per gli occhi incavati e un becco proteso verso l'esterno. Le orecchie erano piccole e rotonde. Non aveva alcuna pinna sulla schiena. Avrete sentito strane dicerie sull'aspetto del Popolo della Notte. Questa è la verità. Giunse ai margini del campo e tirò le redini che aveva fissato attorno alla testa dell'ehin. L'animale si fermò e lui balzò a terra. Vidi che aveva legato una specie di sedile sul dorso dell'ehin... Accidenti, dimentico che la maggior parte di voi non ha mai visto una bestia del genere. Come molti grossi quadrupedi della terraferma, al posto di una vera pinna ha una bassa fila di costole e membrane lungo il collo e la schiena. Ce n'è una parte morbida che la femmina presenta al maschio quando lo monta nel periodo fertile. Osservai attentamente il cavaliere. Stava dritto come quand'era seduto, senza bisogno della coda per stare in equilibrio. Mi venne da chiedermi cosa usasse quando doveva colpire con forza qualcosa e non aveva l'ascia, ma subito mi dissi: chi oserebbe attaccarlo? Io avrei osato, se avessi dovuto farlo.
La corda era scivolosa quando la sciolsi per farne un rotolo da tenere nella mano sinistra. La destra era libera, pronta a estrarre la lama, dato che le mie armi in pietra certamente qui non mi sarebbero state utili. Il freddo ferro poteva qualcosa contro il Popolo della Notte? O avevano fatto un patto con i guerrieri dell'est, a cui avevano insegnato l'uso del ferro e della ruota? Quel pensiero rafforzò la mia volontà. Entrò nel campo, e controllò le piante delle streghe come un qualsiasi agricoltore che si voglia render conto di come matura il raccolto. In qualche modo ciò rendeva tutto ancora più misterioso. Quale sarebbe stata la sua messe? Chiamai a raccolta il mio coraggio e avanzai alla luce della luna. Mi sentì, si guardò intorno e restò immobile per un istante, come spaventato. Alzai la mano destra. «Salve a te, o potente» mi sentii gridare. «Perdonami per il disturbo che ti arreco. Ma il bisogno del mio popolo è grande.» Mi fermai. Lo ehin pestava le zampe e sibilava. Per quello che sembrò un tempo molto lungo, l'appartenente al Popolo della Notte restò immobile. Infine si mosse verso di me. Né voi né io potremmo mai riprodurre quell'andatura. Si fermò a una coda di distanza, e restammo in silenzio l'uno di fronte all'altro. «Io sono Ak'hai'i di Oaua» dissi appena ne fui in grado. «Di recente gli Aurighi sono giunti fino a Ktiya, e ne hanno distrutto il territorio, nonostante l'aiuto dei maschi della Landa che vivono in quella zona. L'anno prossimo o l'altro ancora attaccheranno anche noi. Dopodiché, anno dopo anno, finiranno col prendersi tutto. L'ultimo di noi giacerà insepolto e non ci sarà più nessuno a indicare la via verso casa agli antenati la notte di dei Morti. Venire da voi è stata una scelta mia e di nessun altro. Ma ti prego, aiutateci.» La sua bocca, sotto il becco, si aprì. I denti che scintillarono alla luce della luna erano diversi da tutti quelli che avevo mai visto in un individuo o in una bestia. Mentre parlava, la bocca si torceva attorno a essi. La sua voce era un canto soprannaturale, pieno di ipertoni e suoni che noi non possiamo produrre. E cambiava quei suoni che noi siamo in grado di produrre al punto che capivo a stento il loro significato. Quand'ero piccolo, mio padre aveva un volarosso domestico che sapeva dire qualche parola. Erano meno aliene di quelle che sentivo in quel momento. E quelle parole erano pronunciate in maniera incerta. Le risento ora, proprio come vedo quel luogo lambito dalla luna, la luce come brina gelata
sulle chiome degli alberi e sull'acqua mormorante. Proprio come sento il freddo che in quel momento mi penetrava. «Voi... gente... mai... venite... così.» «La morte mi ha spinto a venire» cercai di giustificarmi. «Ci conoscete da molto tempo. I nostri antenati si ricordano di voi. Aiutateci, o moriremo!» Aprì le mani. Ognuna aveva un dito in più, e solo una delle cinque dita dalla strana forma era un pollice. O così sembrava. «Non potere aiutare» disse. «Tu vai.» Mi feci forza, con tenacia. «Dovete aiutarci.» Puntò un dito verso di me. «Vai.» Restai dove mi trovavo. Nessun lampo mi colpì, nessuna maledizione mi fulminò. Indietreggiò di un passo. Aveva paura? Non poteva essere, o sì? Era immortale. Eppure c'erano dei racconti che narravano di come ciò che facevano fosse limitato quando avrebbero potuto fare molto di più. E perché evitavano la luce del giorno? Si mosse verso il suo ehin. Probabilmente aveva una bacchetta magica o un'arma legata all'animale. Se non avessi agito subito, ben presto avrei potuto essere morto - e insepolto - o diventare pazzo o essere trasformato in pietra. Prima che la paura mi gelasse, in un lampo afferrai il lazo incantato. Lo fece girare vorticosamente sopra la mia testa e colpii. Sono un cacciatore. Gli si avvolse intorno alle gambe, cambiò direzione e lo gettò a terra. Gridava e cercava di liberarsi. Gli balzai accanto e gli avvolsi la corda intorno al corpo, stringendo forte, finché giacque avvinghiato come un taorhi pronto per essere macellato. Assicurai i legami, vincendone la resistenza. Mi fissò. La luce della luna era più brillante del bianco dei suoi occhi. «Lascia me andare» ansimò. «Non potere aiutare.» «Penso che tu possa ma non voglia» risposi. «O la tua gente può. Vedremo.» Si irrigidì e mi sfidò: «Cosa fai?» Lo sgomento s'insinuò nel mio spirito. Come avrei mai potuto convincere il Popolo della Notte? Quale tragico destino mi ero già attirato? Ciononostante... egli giaceva là, intrappolato. Parlava in maniera elementare, doveva conoscere poco il linguaggio, lui, il signore della conoscenza. Nessuno dei suoi confratelli era giunto a salvarlo sulle ali del ven-
to. Attraverso lo sgomento che si era impadronito di me si affacciò un pensiero. «Resterai in queste condizioni fino all'alba» gli dissi. Respirò a fatica. Preso coraggio, mi chinai per osservare da vicino quello che incredibilmente avevo catturato. Ciò che avevo creduto fosse pelle si piegava e s'increspava secondo i suoi movimenti. Mi sforzai di toccarlo. Era un rivestimento, come un copricapo che indossiamo quando il tempo è gelido, anche se questo era tessuto talmente bene che l'ordito e la trama non si vedevano, ed era aderente alle sue membra. Estrassi la lama di ferro. La sua viva pesantezza divenne la mia volontà stessa. «Non avrai alcun riparo dal sole» lo minacciai. Con cura tagliai il rivestimento. La sua vera pelle riluceva pallida sotto la luna. Quando tirai il tessuto per liberarlo dalla corda si strappò. Lo denudai dalle spalle ai fianchi, e gli lasciai la pancia scoperta sotto il cielo. Ciò che vidi allora mi riempì talmente di stupore da farmi cadere la lama e balzare all'indietro. «Ma tu sei femmina!» gridai. Quale male ero stato prossimo a scatenare? La sua bocca si torse verso l'alto. Ne eruppe un suono furioso come un latrato. «Io maschio» disse con voce strozzata. Mi controllai di nuovo e guardai più da vicino. Effettivamente ciò che gli spuntava tra le gambe non somigliava molto all'organo femminile. Il Popolo della Notte era proprio così deforme? Mi sovvenne quanto poco astuto fosse stato. Se mi avesse lasciato credere di essere femmina probabilmente l'avrei lasciato andare. Gli Aurighi uccidono tutti, ma le Genti della Landa rispettano il Potere della Vita. O l'avrei liberato? Non apparteneva al mio popolo, il cui bisogno era grande. Non lo sapevo, e non importava. Era maschio. E non era poi tanto furbo, a prescindere da ciò che sapeva. Era mio, almeno fino a quando fossero arrivati i suoi liberatori assetati di vendetta. Biascicò qualcosa nella sua lingua, o almeno così pensai, e cercò di strappare la corda che lo legava. Restai in attesa. L'alba era ancora lontana. La pazienza era la mia unica forza. Dovevo essere la roccia che sopravvive al vento della notte. Non ci volle molto perché si calmasse. Il suo sguardo arcano incrociò il mio. Mi costrinsi a non distoglierlo. «Il sole uccidere me» disse. «Sole, fuoco, brucia, io morto.» «Se non lo aiuterai, il mio popolo morirà» replicai. «Non sapere come.»
«Tra di voi ci sono quelli che lo sanno.» Dovevo crederlo. «Portami da loro.» Il silenzio colmò quel pozzo di luce lunare che era la radura. Il mio spirito era freddo. Alla fine disse: «Io porto te». Il freddo divenne una marea irruente. «Sei disposto a giurarlo?» gli chiesi. «Sull'onore dei tuoi antenati, mi porterai sano e salvo dalla tua gente, e loro mi ascolteranno?» Mosse la testa su e giù. «Io porto te, io porto te.» Quello non era un giuramento. Forse il Popolo della Notte non poteva giurare. Forse, essendo immortali, non avevano antenati. Bene, se avesse voluto ingannarmi non avrei avuto comunque speranza. «Andremo» dissi. Mi chinai e disfeci il nodo. Nel frattempo ordinai: «Stai fermo». Obbedì. Tenni la lama pronta a colpire mentre scioglievo il lazo e lo usavo per legargli le mani dietro la schiena. Si alzò, e per un momento ci fissammo di nuovo negli occhi. «Io... Sten» disse. «Sten Granstad.» O qualcosa del genere, data la mia incapacità di riportare quei suoni. Mi offriva il suo nome in ostaggio, come io gli avevo offerto il mio? La gola mi si serrò. Riuscii a ripetere «Ak'hai'i» solo un attimo prima che mi facesse segno. La sua bocca si piegò, ma non emise alcun latrato. «Vieni, Ak'hai'i» disse piuttosto dolcemente, e si voltò. Non rischiai di rompere l'incantesimo andando a prendere le mie cose da quello che era stato il mio nascondiglio. Se mai fossi potuto tornare a casa, sarebbe stato semplice costruirmi una piccola scure, che sarebbe stata sufficiente per il viaggio. Camminammo verso ovest seguendo l'ampio sentiero. Mi aveva fatto tenere l'ehin per le briglie. Con l'altra mano tenevo la corda incantata che lo legava a me. Con il passare del tempo e l'aumentare della distanza percorsa, la mia stretta si allentava. Non aveva fatto alcun tentativo di fuggire, né altro che potesse allarmarmi. Non dava segno d'essere in collera perché l'avevo legato e gli avevo rovinato gli abiti. Piuttosto, camminava al mio fianco quasi come un normale compagno di viaggio. Naturalmente eravamo legati, per i suoi simili, e una volta tra loro il prigioniero sarei stati io. Ciò che avevo ottenuto era, al massimo, il diritto di parlare con loro. E ciò avrebbe potuto non portare a molto di più che la morte, e in seguito a un eterno e impotente vagabondare. L'unico suono erano i nostri passi e il battere degli zoccoli dell'ehin
mentre percorrevamo il sentiero illuminato dalla luna. Le ombre si spostavano e rimpicciolivano. La rugiada cominciava a brillare sui massi e sugli alberi caduti. Il freddo si tramutava in gelo. Le stelle si muovevano lentamente nel cielo. I miei pensieri erano rari e sognanti. Ero andato oltre me stesso, così come ero andato oltre il mio mondo. Ci lasciammo alle spalle diversi campi di piante delle streghe, e una volta anche un riparo. Era di legno, dai tronchi lavorati così finemente che nessuna scure di pietra avrebbe mai potuto fare altrettanto. La sua forma era perfettamente quadrata, una cosa che non avevo mai visto prima. Eppure era normale legno naoi. Il mio sognare svanì come la nebbia del mattino quando improvvisamente udimmo un tramestio di zoccoli davanti a noi. Lo ehin di Sten sibilò. Ci fermammo. Mi irrigidii, in attesa del mio destino. I rami sopra di noi erano sottili. Dietro il loro intreccio la luna appariva enorme. La sua luce si riversava sul sentiero. Dietro una curva, oltre le ombre screziate, un'altra cavalcatura apparve in quel chiarore uniforme, e su di essa un altro appartenente al Popolo della Notte. Alle sue spalle avanzavano due bestie di genere sconosciuto. Erano dei quadrupedi, alti quasi fino alla mia anca. Erano ricoperti di un pelo folto, dal lungo muso alla corta coda. Quando mi fiutarono ringhiarono, e i loro artigli luccicarono. Il cavaliere si fermò, sgranò gli occhi e cercò di prendere qualcosa. «Nadia!» gridò Sten. Il cavaliere estrasse una canna di ferro cava da un fodero e la puntò. Sten parlò velocemente in un linguaggio cadenzato che le nostre gole non potrebbero mai riprodurre, se non in maniera sconnessa e parziale. Il cavaliere gli rispose. Io stavo fermo in attesa del mio destino. Sten si rivolse a me. «Nadia Zaleski» disse, e fece un cenno con la testa. Non riesco a dirlo meglio di così, ma compresi che era un nome. Emise un latrato e aggiunse: «Lei femmina». Davvero? La squadrai perplesso. Anche lei aveva il corpo coperto, ma riuscivo a notare delle differenze. La sua criniera era nera, più lunga di quella del maschio. A parte le sottili strisce di peli che il Popolo della notte ha sopra gli occhi al posto delle antenne, non le cresceva nient'altro sulla faccia. Il suo corpo era più piccolo, più slanciato e meno spigoloso, con due rigonfiamenti sul petto. Se non me lo avessero detto, avrei creduto che lei fosse il maschio e lui la femmina. Ma misero nelle mie mani questa conoscenza, e insieme una certa speranza. Mi avvicinai alle spalle di Sten e gli liberai le braccia. «È lei la vostra
Madreacaqua?» domandai titubante. «Se è così la supplicherò.» Nadia mi parlò da dove si trovava. Sebbene non riuscisse a dare il suono appropriato alle nostre parole, queste fluivano molto più rapidamente, e con una voce più alta e dolce di quella del maschio. «Non abbiamo Madreacqua» disse. «Ti sei avventurato lontano dal tuo mondo, Ak'hai'i.» «Ma certamente tu sei stata nel nostro, potente signora» ebbi il coraggio di rispondere. Mosse la testa su e giù. La criniera le ricadeva sulle spalle. «Ci sono stata. Dov'è la tua casa, Ak'hai'i?» Quando glielo dissi mormorò: «È passato molto tempo da quando sono stata a Oaua. Certamente non eri ancora nato. Ma m'incontravo con la sua Madreacqua - l'andavo a trovare di nascosto, perché la paura di me non spingesse il suo popolo a temere anche lei - e parlavamo di molte cose. Era Kiluo». Rabbrividii. «Kiluo giace nella sua tomba. Ora è Riao che si occupa dell'Invisibile per noi.» Facendomi coraggio aggiunsi: «Ma perché dovrebbe essere strano? Voi del Popolo della Notte non potete invecchiare». Un suono come una brezza nel buio le uscì dalla bocca. Era forse pena? «Noi non invecchiamo in fretta quanto voi, Ak'hai'i.» A quelle parole, in qualche modo la speranza dentro di me da fuoco si fece ghiaccio. Avevo intrappolato e irretito Sten. L'avevo costretto a guidarmi fin qui con la minaccia di farlo bruciare vivo dal calore del sole. Adesso Nadia diceva che anche loro un giorno sarebbero dovuti morire. «Non avete il potere di salvarci?» gridai. Parlarono tra loro. «Me ne andrò» dissi scoraggiato. «Perdonate il mio popolo per il disturbo che vi ho dato. Loro non ne sapevano nulla.» Nadia alzò una mano. «Aspetta» gridò. Mi voltai. Il sangue mi pulsava nella testa. «Tu hai avuto il coraggio di fare ciò che mai nessuno aveva osato prima di te, Ak'hai'i» disse piano. «Per questo motivo cercheremo di aiutarti, se possiamo. Ma non faccio promesse. E temo che il prezzo che dovrai pagare sarà alto, sia che tu vinca o perda. Lo vuoi?» «Lo voglio, lo voglio» ripetei, in tono solenne. Per un momento restò immobile, in silenzio. Si mordicchiava le labbra. «Possiamo spingerci fino a questo punto?» si domandò. «Credo che dobbiamo, costi quello che costi» le rispose Sten, anch'egli nella mia lingua. Nadia spronò il suo ehin verso ovest. «Seguitemi» disse. Sten montò sul suo. Io andavo loro dietro. Le bestie da caccia procede-
vano dietro la mia coda. Di ciò che accadde in seguito posso dire ben poco. Ci mancano le parole. Ci mancano gli occhi e i pensieri. Lo capite? Una cosa può essere talmente strana che non si riesce a vederla. Non si sa come guardare. È come una nebbia in cui i colori turbinino vorticosamente, ora più chiari, ora più scuri, ma mai allo stesso modo. A volte la nebbia si squarcia in alcuni punti, e per un breve istante un oggetto prende forma, ma è come un pezzo di ghiaccio o un fulmine. E ciò che si sente non è che una voce in un sogno, che sembrano avere significato soltanto fino al risveglio, quando non si riesce più a ricordarne il senso. Noi tre avevamo viaggiato per un buon tratto, quando Sten sbadigliò, si stiracchiò e farfugliò qualcosa. Nadia gli rispose, prima di spiegarmi. Quant'erano diventati gentili tutt'e due! «È stanco.» A quel punto la mia sorpresa non poteva che essere minima, ma lei la notò ugualmente. Piegò la bocca mentre diceva con un filo di voce: «Ci stanchiamo e dobbiamo dormire, proprio come voi. Sten è in viaggio per il suo solito giro fin dal tramonto». «È stato un viaggio faticoso?» domandai, chiedendomi quali pericoli potesse aver incontrato. Emise come un piccolo latrato. «No, fino a quando ti ha incontrato. Stava soltanto controllando se era tutto a posto nei nostri campi. Ma è stata una lunga veglia per lui.» Restò in silenzio per un po'. Gli zoccoli degli ehin facevano un rumore sordo, e la pelle dei sedili sulla loro groppa cigolava. «Nel luogo dove dovremmo essere i giorni e le notti non durano che la metà di quanto durano qui.» «Perché non vi fermate a riposare?» dissi poco acutamente. «Dobbiamo essere certi di tornare prima dell'alba.» «È vero che il Popolo della Notte non resiste alla luce del giorno?» Mosse la testa su e giù. «Il vostro sole è troppo forte per noi.» Perplesso, restai in silenzio. Ero stanco anch'io al termine del nostro viaggio. Ma ciò che trovai laggiù mi tolse ogni senso di mortalità. Ero come lo spirito di un insepolto, dotato di una consapevolezza incorporea in un mondo non più mio. Ma questo mondo non era mai stato mio. Non ne avevo nemmeno il ricordo. La roccaforte del Popolo della Notte si trova su un'altura sul mare. La Foresta è alle sue spalle e gli alberi le crescono su tre lati. Il quarto dà su una baia che allora era un sentiero di luce intermittente sotto la luna che
tramontava. Quelle pareti, di pietra e legno, s'innalzano poderose, sotto una volta fatta anch'essa di legno lavorato. Le finestre sono piene di ghiaccio trasparente che non si scioglie mai, attraverso il quale brilla una luce gialla tenue come quella dell'alba. Poco distante ci sono le fonderie. Di loro non so dire nulla, se non che vidi delle fiamme guizzare e udii il clangore del ferro sul ferro, con in sottofondo dei rumori come ronzii e tramestii. Fui condotto nella casa. Ci venne incontro l'alto Popolo della Notte, e altri giunsero dai boschi e dagli stabilimenti, tenendo in mano delle luci che in un primo momento, vedendole da lontano, presi per stelle discese sulla terra. Grazie a esse e alle finestre luminose, vidi come le vesti del Popolo della Notte fossero colorate: rosso fuoco, arancione intenso, giallo color foglia di primavera, verde gemma e verde mare, azzurro cielo e blu mare, viola rosso sangue, nonché il bianco della neve e il nero dei pozzi degli oracoli. Il loro modo di parlare cantilenante mi fluiva intorno. Mi sembrava che alcuni fossero arrabbiati e mi avrebbero volentieri colpito a morte con gli oggetti di ferro che portavano, ma può darsi che mi sbagliassi. Ciò che è certo è che la volontà di Nadia e Sten prevalse. E chi aveva più diritto di salvarmi la vita di Sten? Le prime luci dell'alba cominciavano ad affacciarsi sulla Foresta quando mi condussero all'interno. E là non posso dire cosa ci fosse. Non che mi sia stato proibito, è che non ne sono capace. Nessun mortale lo sarebbe. Potrei parlare di stanze levitanti, dei colori dell'arcobaleno e di musica che mi cullava sulla sua corrente, ma come potrei rievocare tutto ciò da quella tomba di passaggio che è la mia memoria? Il non aver mai potuto condividere con nessuno questo miracolo mi ha reso diverso dagli altri per sempre. Mi diedero un luogo dove stare. Mi portarono cibo e acqua pura. Mi ascoltarono attentamente, mi fecero delle domande, ascoltarono le mie risposte, parlarono tra loro, mi lasciarono solo, infine tornarono interrogandomi ancora. Talvolta facevano dei nomi che conoscevo, di appartenenti alle Genti della Landa, ma tutti quelli che avevo conosciuto o di cui avevo sentito parlare da bambino erano ormai morti. Ebbi un'ulteriore conferma che il Popolo della Notte ci aveva visitato spesso. «All'inizio abbiamo cercato di imparare qualcosa su di voi, di capirvi» disse Nadia una volta. «A volte sono accadute delle cose spiacevoli. Suppongo che sia inevitabile quando due razze sono così diverse. Abbiamo nutrito delle speranze, ma non hanno portato a nulla, e ormai è raro che la-
sciamo la Foresta.» Spuntò il giorno. Gli abitanti si ritirarono nella loro grande casa dalle molte stanze. Chiusero delle lastre di legno sulle finestre. Se qualcuno di loro doveva avventurarsi all'esterno si copriva bene e si riparava dalla luce, con dei pezzi di ghiaccio nero a protezione degli occhi. «Sai, questo non è il nostro mondo» mi disse Nadia. «Da dove venivano i vostri antenati?» mormorai. «Da un luogo molto lontano, sotto un sole più mite» rispose. «Caddero dal cielo molto, molto tempo fa... un periodo che comprenderebbe parecchie generazioni delle vostre. Da allora abbiamo fatto quel che potevamo con ciò che avevamo.» Sconcertato com'ero non riuscii a domandare altro. La giornata trascorreva lentamente. Verso mezzogiorno incontrai uno che sembrava quasi una Madreacqua, sebbene fosse maschio. I peli sulla sua testa erano bianchi. «Gli Aurighi hanno acquisito da voi le loro conoscenze?» ebbi l'ardire di chiedergli, dato che avevo visto degli ehin tirare dei veicoli su ruote. «No» affermò senza remore. «Di loro non sapevamo altro se non che ci sono dei pastori sulle pianure orientali. Né sapevamo, finché non ce ne hai dato notizia, che alcuni di loro si fossero spinti così a ovest.» «Saccheggiano e uccidono» dissi. «Nel nome di quel po' d'amicizia che dev'esserci stata tra il Popolo della Notte e i Wold, aiutateci. Altrimenti moriremo.» «Cosa vorresti che facessimo?» «Voi lo sapete certamente meglio di me. Dateci armi di ferro e carri, e addestrateci nel loro uso.» «Temo che gli invasori siano troppi per voi. Provengono da un paese enorme. E poi, vorreste veramente diventare come loro?» «Allora combatteteli voi» insistetti. «Sorprendeteli nei loro accampamenti con il favore del buio, colpiteli con i fulmini che si narra siate in grado di padroneggiare e costringeteli a ritirarsi dai nostri territori.» «Non possiamo fare neanche questo» disse, con garbo e senza pietà. «Anche loro hanno diritto di vivere. Le pianure sono colpite dalla siccità, e la situazione non cambierà per generazioni.» La mia disperazione lo investì: «Come fate a saperlo?» La sua franchezza diminuì leggermente. «Lo sappiamo. L'abbiamo sempre saputo. Il vostro sole così caldo e la vostra luna così grande hanno un influsso tanto forte su questo vostro mondo che la sua orbita si modifica
rapidamente... come le stelle contano vite dopo vite.» Così egli disse. Queste parole riecheggiano dentro di me come le parole di un sogno la Notte dei Morti, mai capite e mai dimenticate. Negli anni successivi ho pensato che forse intendeva riferirsi al divergere delle vie celesti. Mi rannicchiai in quella stanza buia piena di cose lucenti, la coda ritta come se mi preparassi alla battaglia e urlai: «E noi non l'abbiamo, il diritto di vivere?» Si voltò e si allontanò da me. Le sue vesti ondeggiarono per la rapidità del movimento. Fuggiva? Cercai lo spazio che mi era stato assegnato, giacqui là con gli occhi chiusi e cercai di evocare Hroai e i nostri figli dentro di me. Non potevano venire. Mi ero spinto troppo lontano, in una terra troppo estranea. Il sole si spostava faticosamente verso ovest. Sten entrò nel mio rifugio, che era divenuto la mia gabbia. Le nostre conversazioni gli avevano fornito una maggior padronanza della lingua terrestre. La sua voce era esitante. «Forse abbiamo trovato cosa possiamo fare per te» disse. Potreste pensare che questa sia la fine della mia storia. Il resto l'avete già sentito, fin da quando avete cominciato ad ascoltare, al punto che vi è penetrato nella carne e nelle ossa. Ma io vi dico che non finisce qui. Per tutta la vita ho continuato lentamente a capire, continuando a sforzarmi di farlo fino all'altra notte sulla scogliera, quando vidi passare la barca fantasma. Oggi vorrei trasmettervi questa comprensione, se ne sarò capace, perché potreste averne bisogno dopo che sarò tornato dalla mia Hroai, nel nostro dolmen. Sapete che mi trovai a bordo di un'altra barca fantasma, nel periodo che seguì il tramonto del sole, con due appartenenti al Popolo della Notte. Erano Nadia e Sten. Il vento gonfiava le vele, e noi corremmo a lungo sulle onde mormoranti, sulle quali la luce della luna scorreva a fiumi. L'odore del sale e degli abissi mi riempiva le antenne. Incrociammo grandi creature e degli uccelli in volo ci sfiorarono, ma viaggiammo senza danni su quella distesa desolata, e all'alba avvistammo la più orientale tra quelle isole. Durante il giorno la esplorai, mentre Sten e Nadia si riparavano in una tenda sulla spiaggia. «È un bel posto» dissi loro. «Il terreno è ricco e le sorgenti sono fresche.» «Ne siamo contenti» rispose Nadia. «Sapevamo soltanto che era qui.» «Ma è isolata» dissi.
«Questo è un bene» replicò Sten. «Così nessuno verrà a cercare di occupare il vostro territorio. Nessuno vi darà la caccia.» Diceva il vero. Non potei giungere ad affermare che era soltanto una mezza verità. Dov'erano le tombe? Come potevamo restare uniti ai nostri antenati se abbandonavamo la madrepatria? Quando giunse l'oscurità noi tre eravamo già in viaggio verso casa. I venti furono inclementi, e il mattino ci trovò ancora in mare. I due appartenenti al Popolo della Notte avevano spiegato la vela più grande sullo scafo e si stringevano l'una contro l'altro. Per me quella sarebbe potuta essere una giornata persa a dondolare su un infinito luccichio d'acqua. Invece divenne un tempo di magia, poiché parlammo liberamente insieme tutt'e tre. Riuscii ad apprendere qualcosa, per quanto poco, sul Popolo della Notte. Sten disse che erano capaci di creare una cosa che potesse far viaggiare una barca senza vele o remi, ma che non avevano mai trovato il tempo di costruirla, pochi com'erano in un mondo straniero. Be', non è questo che intendo per comprensione. Sono soltanto parole. L'acqua e le parole possono passare tra i mondi senza portare la morte. Ma l'acqua disseta, mentre le parole provocano una sete che non può mai essere placata. Sbarcammo presto nel buio e vedemmo che il Popolo della Notte aveva preparato le canoe nella sua roccaforte. Spesso ho dovuto chiarire perché questo fu ciò che fecero per me, invece che una barca come le loro. Ve lo dirò di nuovo. Costruire una barca fantasma e governarla richiede delle conoscenze e delle arti magiche al di là delle nostre possibilità. Avremmo potuto imparare, ma ci sarebbe voluto più tempo di quello di cui potevamo disporre. Il Popolo della Notte progettò per noi la semplice canoa a remi con la vela quadrata che conoscete. Nei pochi giorni che seguirono, trascorsi dentro la casa nelle ore di luce e all'aperto nelle ore buie, mi insegnarono a costruirne altre e a condurle sul mare verso le isole. E poi mi rimandarono indietro. Tornai a mani vuote ma spiritualmente arricchito. Profetizzai e insegnai - l'aiuto della Madreacqua Riao e la forza di Hroai mi permisero di tener duro - e quei mesi furono amari, perché chi lascerebbe volentieri la madrepatria? Ma alla fine lo facemmo, noi Genti della Landa, villaggio dopo villaggio, lasciandoci alle spalle le nostre case in fiamme. Ora siamo qui, e questa è la nostra casa, e voi siete felici di esserci. Ma i nostri antenati sono stati lasciati soli. Questo, e la memoria dell'alba che nasce sulle colline, è il prezzo che
noi, le vostre madri e i vostri padri, dobbiamo pagare. Voi e i vostri figli, i figli dei vostri figli, ci ripagherete, vi prenderete cura delle nostre tombe e visiterete i nostri sogni? O ci sarà solo il Popolo della Notte a sussurrare alle nostre orecchie? E io, io ho dato di più. Metà della mia anima, come ammonivano gli antichi canti. Sono stato nella casa delle meraviglie, e ne sarò ossessionato per sempre. Nessun altro conoscerà mai ciò che io ho conosciuto, e così anch'io sarò per sempre solo. Tuttavia ricordo l'espressione di Hroai quando le portai la speranza. E anche il Popolo della Notte ha pagato. Non ho capito cosa dovettero dare all'Invisibile a causa di ciò che fecero. Ma quando ci dicemmo addio Nadia mi prese tra le braccia. «Proprio quando stavamo cominciando a conoscerti!» pianse sommessamente, e posò la bocca sulla mia. Dell'acqua le sgorgò dagli occhi. Era salata. Titolo originale: Strangers Analog Science Fiction and Fact, January 1988 ADA WILKINS IN LINEA VIA CAVO di John Brunner In una rete di comunicazione supersofisticata possono anche verificarsi interferenze dall'altro mondo... «Oh, bene» sospirò il ministro dell'industria e delle risorse energetiche. «Direi che è il caso di muoverci... Dov'è il mio discorso?» Il suo segretario particolare, un azzimato giovanotto di nome Hornby, gli sventolò sotto il naso un fascio di carte, e lui ne lesse alcune frasi per assicurarsi che fosse il testo giusto. Era passato oltre un anno dall'inaugurazione del ponte a Dunbar, ma il ricordo di come ci fosse arrivato con il discorso già tenuto la settimana precedente a una vendita di beneficenza a Woolton Parva gli bruciava ancora. Ma per fortuna questo era quello giusto. Era pieno di espressioni forti su tutti quegli stranieri invidiosi che consideravano l'Inghilterra una forza finita, e che si erano visti superare nell'attenzione mondiale dall'interesse suscitato dall'ultima grandiosa innovazione britannica - un cavo supercondut-
tore in grado di trasmettere vaste quantità di dati a distanze virtualmente infinite senza bisogno di ripetitori. Tutta roba tremendamente tecnica, naturalmente. Oh, per qualche facile nomina, vari di navi, feste di partito e quel genere di cose... Ancora, necessariamente, perché il diavolo era certamente alla guida del paese in quel momento. Quando non c'erano scioperi c'erano scandali. Quando non c'erano assalti alle banche c'erano bancarotte. Essendogli venuto in mente questo, chiamò: «Hornby!». E si rese conto di come non riusciva a nascondere i segni di nervosismo nella sua voce. «Sì, signore?» «Da Graveney hanno risolto quel problema che c'è stato con le loro forze di lavoro, non è vero?» «Vuol dire la vertenza industriale che li ha portati a rimandare la data prevista dell'inaugurazione?» «E che ci ha causato quei terribili inconvenienti, al punto di dover modificare gli inviti che avevamo esteso a così tante persone perché potessero assistere alla posa di un'altra pietra miliare nella lunga e invidiabile scia di successi britannici! Per tutta risposta mi sembra che i delegati della Comunità Europea abbiano deciso di non essere presenti! Vi siete assicurato che non saremo piantati in asso un'altra volta?» «Ho chiamato il signor Graveney appena sono arrivato stamattina» disse Hornby. «Nonostante non fosse del suo umore migliore - infatti mi ha detto di aver lavorato sui circuiti per tutta la notte - mi ha assicurato che alle sei del mattino era tutto a posto. C'è soltanto un inconveniente piuttosto deplorevole: è possibile che l'inventrice stessa non partecipi alla cerimonia. Per stanchezza, a quanto pare. È distrutta dalla mancanza di sonno.» «Bene, ecco cosa succede quando si mette una donna in un posto di responsabilità» brontolò il ministro, sistemando il discorso nel portafogli e controllando il suo aspetto nello specchio appeso alla parete dell'ufficio. «No. Non dimostro carattere. Non sembro abbastanza duro!» E poi, mentre si stirava i lineamenti, spiacevolmente sorpreso: «Avete detto l'inventrice?» «Sì, signore» replicò Hornby perplesso. «La dottoressa Julie Underwood, cioè.» «Mio Dio» esclamò il ministro con supremo disgusto. «S'infilano dappertutto di questi tempi, non è vero? Come si suol dire te le trovi sempre tra i piedi. Hai qualche altra bella sorpresa nella manica?» «Prego?»Hornby batté gli occhi. «Non riesco a seguirvi. Dopo tutto, il
Primo Ministro...» «Lei è l'eccezione che conferma la regola!» disse seccamente il ministro. «Suppongo che i delegati stranieri siano tutti uomini, ma questo ministro africano che deve arrivare? Sarà forse una donna? I giapponesi hanno mandato una donna a rappresentare le industrie Kikoshita? Devo esserne adeguatamente informato!» «Per quanto ne so, no» sospirò Hornby. «Spero che abbiate ragione» disse il ministro, e raccogliendo la cartella si diresse impettito verso la limousine che l'avrebbe portato al suo elicottero. «L'avvio formale avrà luogo a mezzogiorno» spiegò Hugh Graveney per la ventesima volta al branco di cronisti che lo inseguiva. Avrebbero potuto e dovuto leggere ciò che stava dicendo loro nel materiale scritto distribuito in precedenza, ma apparentemente nessuno se n'era dato pena. Il che era fin troppo tipico della prassi seguita in tutta l'Inghilterra... «Dopo di che sarà offerto un rinfresco, all'una. Alle due e mezza è prevista la partenza del ministro per il suo impegno successivo, e fra quell'ora e le tre andranno via anche le altre personalità. Ma, ricordate, nulla di tutto ciò è più che simbolico - un simbolo che segnerà il momento in cui una delle invenzioni più importanti dei tempi moderni sarà resa pubblica in un mondo che ne ha un bisogno disperato!» Ringraziando in cuor suo chiunque nello staff delle pubbliche relazioni avesse coniato quell'espressione, svoltò l'ultimo angolo della successione di corridoi lungo i quali aveva condotto i cronisti per fargli dare un'occhiata ad alcuni dei laboratori dove venivano effettuate le ricerche. Mentre il gruppo sfilava lungo l'atrio principale, dove venivano preparate le bandiere sul palchetto temporaneamente allestito per la cerimonia, giunse alla conclusione del suo discorso raggiungendone il punto cruciale dal punto di vista finanziario. «Oltre a procurare consistenti ordini di esportazione, siete stati informati delle persone venute dall'Africa, dall'Asia e dal Medio Oriente, questo importante risultato dovrebbe garantire un ottimo valore ai titoli della nostra società che verranno offerti al pubblico lunedì prossimo. L'istituto di credito Kray & Haig ne sta organizzando l'emissione e la circolazione. Potrete avere ulteriori dettagli da loro o dalla signorina Pink e dal signor Frownlee del nostro staff, che sono pronti ad aiutarvi. Fra poco dovrò andare ad accogliere i nostri ospiti stranieri, ma c'è ancora un po' di tempo per qualche
domanda. Sì?» disse rivolto a un cronista che sfoggiava un abbigliamento particolarmente alla moda. «Dov'è Julie Underwood?» Chiaramente era una domanda che tutti avrebbero voluto fare. Quelli con le telecamere le sollevarono, guardandosi attorno. «Ha lavorato fino alle sei di stamattina sugli ultimi test» spiegò Hugh. Ma questo era un ostacolo inevitabile, che prima o poi si sarebbe dovuto affrontare... «Ha il diritto di riposare.» «In quella foto c'era veramente lei o era una controfigura?» Hugh strinse i pugni. Era sembrata una buona idea quella di mettere anche quell'istantanea di Julie in bikini assieme alle altre di membri dello staff abbigliati più convenzionalmente, nel calendario pubblicitario annuale della ditta, eppure... Si sforzò di mantenere calmo il tono della voce mentre rispondeva. «La dottoressa Underwood è la prova vivente che bellezza e intelligenza non sono incompatibili. Vi assicuro che non ha alcun bisogno di controfigure. A questo proposito, voi di chi siete la controfigura oggi? Dov'è la persona intelligente e competente che mi aspettavo il vostro direttore avrebbe mandato?» Diverse risatine indicarono che alcuni dei cronisti erano divertiti dall'imbarazzo di un collega impopolare. Grazie al cielo, perché quello scherno era stato un po' azzardato. «Ci sono domande sensate? Devo scappare in... hm!... meno di due minuti.» Un giovanotto dalla faccia seria alzò la mano. «Il signor Graveney, perché è stato necessario continuare a fare dei test anche durante la notte precedente l'inaugurazione ufficiale?» «Abbiamo avuto una vertenza sindacale» rispose Hugh seccamente. E, incurante dei consigli dello staff delle pubbliche relazioni, stanco com'era, ampliò la risposta trasformandola in una spiegazione. «Alcuni lavoratori si sono rifiutati di prendere ordini dalla dottoressa Underwood senza un'ulteriore indennità per il fatto di dover dipendere da una donna. Naturalmente questo è illegale. Ma quando abbiamo cercato di licenziarli si sono rivolti al loro sindacato reclamando il diritto allo sciopero. Il sindacato, in pieno accordo con le leggi contro la discriminazione sessuale, si è opposto allo sciopero. E quando abbiamo avuto l'autorizzazione a scaricare quei testoni avevamo già accumulato un mese di ritardo sul programma.»
«Allora» chiese ancora il giornalista «anche se il cavo ultraconduttore è stato sperimentato nei laboratori, fino a oggi non era mai stato collaudato a fondo in una normale situazione operativa?» Si guadagnò un'occhiataccia, ma era una bella domanda. «Se volete dire che non abbiamo mai collaudato prima d'ora un cavo che va da qui a Birmingham, collocato sottoterra come si fa di solito, che condivide i condotti con le linee elettriche e quelle telefoniche, con le tubature dell'acqua e con quelle delle fogne... allora è così. Ma la notte scorsa abbiamo avuto degli ottimi risultati, perfettamente conformi alle nostre previsioni computerizzate. Adesso vi prego di scusarmi, ma i miei collaboratori mi reclamano insistentemente.» Alla stazione ferroviaria un gruppo d'inviati della Graveney & Graveney Limited era in attesa, con largo anticipo rispetto al previsto, nel punto della banchina dove il vagone di prima classe dell'espresso proveniente da Londra avrebbe dovuto arrestarsi. Pioveva, e non c'erano abbastanza ombrelli. Inoltre, come se non fosse bastato il ritardo causato dal guasto al treno precedente, che ancora si ripercuoteva su tutto il sistema, in seguito a un errore del computer il vagone di prima classe era stato attaccato in coda al convoglio invece che al vagone ristorante. Buone vecchie Ferrovie Britanniche! Questi fatti non avevano certo contribuito a migliorare l'umore del signor Oshihara, capo dell'ufficio approvvigionamenti, delle industrie Kikoshita di Osaka per rendere il suo titolo in termini equivalenti. In accordo con la tradizione nella quale era stato allevato, si asteneva dal fare commenti. Ma aveva le labbra serrate, ed era piuttosto pallido, e quando incontrò i rappresentanti della ditta si limitò a un minimo di cortesia formale. Sudati, consapevoli della pessima impressione già riportata dal loro cliente, potenzialmente il più importante, abituato com'era alla ferrea puntualità dello Shinkansen, accompagnarono lui e il suo staff alla limousine che li attendeva e che fecero partire in tutta fretta. Nel frattempo un gruppo guidato da una ragazza che parlava arabo si occupava delle persone negli altri scompartimenti. Erano i delegati dei paesi produttori di petrolio, ostacolati nei loro sforzi per entrare a far parte del mondo moderno proprio dalla mancanza di quelle comunicazioni interne economiche e affidabili che il cavo Underwood prometteva, anch'essi vennero sistemati dentro grandi macchine di lusso. Sull'altro lato della banchina, dov'era sceso da uno scompartimento di
seconda classe che per una volta non era insopportabilmente sovraffollato, Philip Nyanza notò che c'erano altre due persone che avevano l'aria di esser state inviate ad accogliere qualcuno, tra le quali s'era accesa una discussione. Gli sembrò ragionevole avvicinarsi. Lo fece, sollevando il bavero del cappotto per ripararsi dalla pioggia battente. Era a meno di un metro da loro quando tutt'a un tratto si accorsero della sua presenza, e in un profluvio di scuse gli domandarono chi era. Lui non lo negò. E quindi si scoprì perché erano così agitati. A parte la sua scelta, che evidentemente consideravano di cattivo gusto, di viaggiare in seconda classe, qualcuno aveva fatto confusione e non c'era un'altra macchina per lui. Philip sospirò, facendo mentalmente degli inevitabili confronti tra le aspirazioni europee e la loro capacità di realizzarle. Tuttavia disse gentilmente: «Bene, sono sicuro che troveremo un taxi». E con il taxi riuscirono ad arrivare alla sede centrale della ditta appena in tempo per una frettolosa stretta di mano con Hugh Graveney, prima che questi si precipitasse fuori, sotto la pioggia, per accogliere il ministro arrivato in elicottero. Fin da quello stadio iniziale le cose stavano andando piuttosto storte. Per quanto Philip riusciva a capire, il fatto che il signor Oshihara invariabilmente viaggiasse non soltanto con un interprete ma anche con un cappellano, o quello che ne era l'equivalente nella religione scintoista, non era stato fatto notare agli incaricati dell'organizzazione dei posti a sedere. Poiché sarebbe stato un grave insulto per il suddetto cappellano non vedersi assegnare un posto confacente al rango del suo principale, ci voleva un'altra sedia. I due che avevano accompagnato Philip fin lì si dileguarono in un nuovo profluvio di scuse, per andare a prendere un'altra sedia in un ufficio lontano, dato che tutti quelli più vicini erano già stati razziati. Oh, be', si sapeva che Kikoshita era abbastanza ricco da comprare e vendere nazioni intere... Sospirando, Philip si ritirò in un angolo, vicino a una porta leggermente socchiusa. Dal di dentro qualcuno esclamò: «Philip Nyanza!» Si girò e s'illuminò in volto. «Julie cara, riconoscerei la tua voce ovunque! Dì un po', come mai non sei là fuori con i pezzi grossi?» aggiunse a voce bassa, vedendo che lei si allontanava dalla soglia come se temesse di essere notata. Indossava un abito scuro, ma i capelli erano biondi e splendenti come sempre.
«Oh...!» esclamò con un gesto d'irritazione misto a disgusto. «Ho tirato fuori la scusa di aver lavorato tutta la notte, per potermene liberare. Hugh e le sue trovate pubblicitarie! Ne ho già fatto esperienza. L'hai saputo?» «La faccenda del calendario?» suggerì Philip. «Proprio così»disse Julie con una punta di sarcasmo. «È una fotografia meravigliosa, la migliore che abbia mai fatto, e anche se non posso rivendicare il merito della mia bellezza non vedo perché non dovrei esserne orgogliosa. Ma da allora sono sempre stata, come dire, venduta a prezzo stracciato! Playboy mi sta perseguitando per farmi fare un servizio fotografico nuda! Perciò con tutti questi reporter in giro ho deciso che sarebbe stato meglio non farmi vedere. Soprattutto dato che ho insistito per un rinvio. Hai saputo di quei bastardi che non volevano prendere ordini da una donna e che quindi ci hanno fatto ritardare di un mese rispetto al previsto? Sì? Quant'è inglese, eh? Ma il ministro ha detto che tra un mese non andava bene perché lui doveva andare all'estero, e Hugh si è comportato come se la presenza di un membro del governo potesse attribuire alla questione una specie di grazia divina! Mio Dio, sembrerebbe che far parte del governo possa elevare le persone su un piano esistenziale superiore... Philip, scusa!» Gli afferrò la mano. «Continuo a vederti com'eri nel periodo del dottorato di ricerca. Ma adesso anche tu fai parte di un governo, non è vero?» «A causa dei miei errori» ammise Philip «mi hanno convinto ad accettare il ministero delle telecomunicazioni e dell'informatica, ma in un paese dov'è difficile ottenere uno stanziamento per qualcosa di più che un tamtam questo non è molto più che una sinecura. Non ci passo più di uno o due giorni alla settimana. Il resto del tempo lo dedico alla mia ricerca all'università. L'università! Mi sto interessando sempre di più a ciò che considero invenzioni primitive e sottoutilizzate in questo campo. Se hai visto gli Atti della Società Africana per lo Studio delle Comunicazioni avrai notato qualcuno dei miei scritti... No?» Tenendo la voce bassa si avvicinò come per parlare confidenzialmente, venendosi a trovare sul limitare della porta. Lei lo fece avvicinare di uno o due passi, in modo da non essere visti. «Mi dispiace» mormorò lei. «Ma più di qualunque altra cosa non voglio assolutamente incontrare questo ministro di cui Hugh è tanto entusiasta. Detesta le donne. Dio solo sa perché, anche se si può immaginare che sua madre ci abbia parecchio a che fare. Non l'ho ancora sentito fare un discorso che fosse privo di sciovinismo sessista. Scommetto che è il tipo che paga le prostitute perché si vestano da bambinaie e gli sculaccino il sedere.
Solo il cielo sa come riesca a mantenere il suo posto... Dove eravamo rimasti?» «Tu» disse Philip con un sorriso forzato «stavi per ammettere di non aver letto le mie ultime pubblicazioni.» «Philip, il fatto è che io...» «Non preoccuparti. Nulla su cui ho lavorato è da premio Nobel. Ma questa tua grande invenzione... Funziona davvero, no? I tuoi test sono andati bene?» Sul viso di Julie apparve un sorriso stanco. «Oh, splendidamente. A parte, cioè, la chiamata che abbiamo avuto da Ada Wilkins.» «Cos'è, una specie di scherzo interno al gruppo?» azzardò Philip. «Spero sinceramente che finisca per rivelarsi tale. Se non...» Si morse il labbro. «Oh, diavolo! Di tutti i fenomeni anomali che mi sono capitati, questo è il peggiore. Me ne sono andata alle sei stamattina, dicendo che avrei cercato di dormire un po', e volevo farlo veramente. Ma non riuscivo a smettere di pensare a come avesse fatto Ada Wilkins a inserirsi sulla nostra linea. Ancora non ci riesco» disse con una risatina acidula. «E il mistero mi sta facendo ammattire!» «Cos'è successo?» «Stavamo facendo dei controlli di routine per eliminare vari tipi di piccole interferenze. C'era qualche vortice di corrente passeggero in alcuni punti dove il nostro cavo segue il percorso di una linea elettrica principale, e avevamo un problema con l'interfaccia che ci ha dato un gran bel mal di testa, perché stiamo usando dei canali separati di potenza due alla quindicesima, proprio come dice il comunicato stampa, e con una perdita della forza del segnale su scala planetaria assolutamente trascurabile! Ma forse non è il caso che t'importuni con dettagli di questo tipo, vero?» «Avevamo appena risolto il problema dell'interfaccia che ci siamo trovati davanti a questo... questo fenomeno che non riesco a spiegarmi. Avevamo preparato l'attrezzatura per i test, la stessa che fa passare tutti i canali televisivi, i telefoni e i fax delle banche, quelli governativi e quelli commerciali, i sistemi da computer a computer attraverso quest'unico cavo, così economico da poterci permettere - voglio dire che anche la povera Inghilterra in rovina si può permettere - di installare tre o quattro cavi di sostegno per evitare il rischio di... Oh, Dio. Lo sto facendo di nuovo. È ciò che succede quando non si è dormito per una settimana intera.» «La prospettiva di un costo contenuto è una delle caratteristiche che mi hanno spinto a venire qui» disse Philip con dolcezza. «Se dobbiamo essere
trascinati dentro il ventunesimo secolo controvoglia preferiremmo non dover pagare troppo caro questo dubbio privilegio.» Con un sorriso ammiccante gli strinse di nuovo la mano. «Philip, sei davvero splendido! Sei una simpatica persona con i piedi per terra, e dopo tutte le stronzate che dovrò sopportare da Hugh e...» «E dai tuoi sistemi sperimentali?» «Che bastardo!» disse, ma il sorriso rimase. «Bene! Abbiamo scoperto che il problema nel collegamento si è verificato presso un cimitero in disuso vicino alla sorgente termale di Leamington, dove qualcuno ha dimenticato di tener conto del cedimento del terreno dovuto allo sprofondamento delle tombe, che ancora contenevano delle bare parzialmente intatte. Macabro, non è vero?» «Come me anche tu devi discendere da una genealogia di dottori stregoni» disse Philip con una risatina. «Sono cresciuto giocando con una mezza dozzina di teschi dei miei antenati. Vieni al punto!» «Sì, scusa.» Si passò stancamente la mano tra i capelli. Erano discretamente in ordine, ma subito si scompigliarono. «Bene! Dovevamo trasmettere una successione di test standard che simulavano tutto ciò che il cavo potrebbe dover contenere, e quando è stato risolto il problema nel collegamento ci aspettavamo di trovare una perfetta corrispondenza tra il segnale sulla nostra linea e quello trasmesso dalle normali linee della British Telecom. Abbiamo trovato, suppongo, una del proverbiale "milione di scimmie". Senza il minimo preavviso, è apparso sul monitor un messaggio. Diceva, cito testualmente: "Sono Ada Wilkins nata Crosthwaite e voglio parlare con mio figlio Reggie."» «Ma...» Philip fece mezzo passo indietro, sembrava sbalordito. Julie lo fissò con i suoi luminosi occhi azzurri. «So esattamente cosa stai per dire. Qualcuno ha realizzato una burla elaborata. Perché il ministro si chiama Reginald Crosthwaite Wilkins, non è vero? Ma tu non hai idea di quanto sia davvero elaborata, non più di quanto ne avessi io quando sono andata al telefono verso le nove, dopo che non sono riuscita a dormire.» «Sua madre si chiamava Ada Emily. È morta trent'anni fa. È stata sepolta nel cimitero in mezzo al quale passa il nostro cavo, che all'epoca era ancora in uso. Cosa» concluse con uno scatto «direbbero di questo i tuoi antenati dottori e stregoni?» Prima che Philip potesse rispondere, furono interrotti. Un volto preoccupato comparve sulla porta dietro di lui.
«Ministro Nyanza, vi prego di scusarmi! C'è voluto più di quello che immaginavo per trovare un'altra sedia, e poi non riuscivo più a trovarvi! Tutti vi stanno aspettando... Caspita, dottoressa Underwood!» «Non preoccupatevi di me!» disse bruscamente Julie, e diede un'occhiata teatrale al suo orologio. «È mezzogiorno passato, e se dovete trovare una sedia anche per me il ritardo sarà ancora maggiore. Philip, torna il più presto possibile, d'accordo?» Le lanciò un bacio e si lasciò condurre via. Quando gli sguardi torvi e irati dovuti alla sua tardiva ricomparsa si furono placati, la cerimonia procedette come previsto. In termini stucchevolmente adulatori forniti dallo staff delle pubbliche relazioni della sua società, che aveva lavorato insieme a una consulenza esterna, il ministro veniva lodato da Hugh per cose di cui non aveva alcun merito, come i fondi per la ricerca stanziati dal suo predecessore. È sempre bene mantenere buoni rapporti con i potenti, commentò Philip. Tra sé, naturalmente. Quindi il ministro si lanciò nel suo discorso, che era lungo il doppio e anche meno pertinente. Tanto per cambiare, anziché essere sessista era sciovinista. La sua enfasi retorica si fece dapprima noiosa quindi - e soprattutto agli occhi degli ospiti arabi e del signor Oshihara - offensiva. Vantarsi dei giorni in cui l'Inghilterra dominava "l'impero sul quale non tramonta mai il sole" era, per dirla senza esagerare, di cattivo gusto, stante l'attuale situazione mondiale. Perfino Hugh, che l'aveva considerato un gran colpo da mettere da parte per lo spettacolo di oggi, cominciò a sembrare preoccupato. Fortunatamente Hornby, il suo segretario particolare, riuscì a far scivolare un biglietto sotto gli occhi del ministro, e in modo altamente parasintattico ne affrettò l'orazione verso l'epilogo. «Sarà ora un piacere e un privilegio per me» aggiunse mentre voltava rapidamente i fogli del suo discorso fino ad arrivare all'ultimo. «Attivare l'interruttore e inaugurare il primo di quelle che, a Dio piacendo, saranno le migliaia di cavi sottoconduttori di produzione britannica in tutto il mondo. Ah... è questo il bottone giusto?» Gli fu risposto di sì, e con la determinazione di un bulldog lo premette. Immediatamente l'arcaica stampante appositamente installata sul palchetto perché il ministro potesse averne una copia in tempo reale da porta-
re a casa come souvenir, cominciò a ronzare. La carta si srotolava riga dopo riga. Piegandosi in fiduciosa attesa di qualcosa da mettere fianco a fianco ai classici dei primi tempi della comunicazione moderna. «Venga qua, signor Watson» e «Che ha mai creato Iddio?» Reginald Crosthwaite Wilkins, ministro dell'industria e delle risorse energetiche, lesse - e rilesse ancora - e si lasciò sfuggire un unico grido che gli veniva dal cuore. «Mamma!» Fuori di sé per la rabbia e il disappunto, Hugh osservava la scena di quello che aveva sperato fosse il suo grande momento. La sala era quasi vuota. Il ministro, in collera per l'insulto rivolto non soltanto a lui ma alla memoria di sua madre, sacra per lui ormai da trent'anni, era tornato al suo elicottero quasi di corsa. Di conseguenza anche gli altri vip si erano dileguati. E i cronisti si erano precipitati a raccogliere storie che, Hugh lo sapeva con amara certezza, avrebbero fatto della società un oggetto di scherno. Per quanto riguardava il suo capitale, l'istituto finanziario Kray & Haig aveva chiamato per preannunciare una dichiarazione formale di disimpegno, sostenendo di non essere in grado, dopo tutto, di occuparsi dei titoli della Graveney & Graveney la settimana successiva... Fra lo Scilla del dileggio e il Cariddi del fallimento ci poteva comunque essere ancora una via da seguire. Facendosi coraggio, Hugh diede un'ultima occhiataccia alla stampante che aveva generato quell'incredibile, ridicolo, spaventoso messaggio, e si diresse verso il suo ufficio, gridando contro tutti i suoi dipendenti che non si trovavano in servizio a Birmingham, dall'altra parte del circuito. «E trova Julie!» sbraitò rivolto alla sua segretaria Di Pink, passandole accanto mentre dava in escandescenze. «Bisogna dirlo anche a lei!» «È a pranzo» fu la risposta inattesa. «Cosa?» s'irrigidì improvvisamente. «Sì, con il signore africano, Nyanza. Ha detto che era un peccato gettar via tutto quel cibo, dato che non è in conto deposito.» «Non ci posso credere! Come potrebbe mai avere appetito dopo quello che è successo...! Va bene, dì a tutti che siamo nella sala da pranzo. Speriamo almeno che il signor Nyanza sia comprensivo, anche se nessun altro lo è!» «Naturalmente» diceva Julie tra un boccone e l'altro di vol-au-vent al salmone «tutti i membri del mio staff tecnico, tranne un paio di persone,
sono dislocati lungo la linea pronti a rilevare ogni eventuale ripetersi del tipo di problema nel collegamento di cui ti dicevo prima, oppure si trovano a Birmingham. Non avremmo mai immaginato che sarebbe potuto saltar fuori qualche problema che Hugh o io non potessimo risolvere. Dopo tutto, abbiamo mangiato, dormito e respirato ultraconduzione per circa cinque anni. Hai visto come quel fesso di ministro...? Oh, ciao Hugh! Hai deciso di fare la cosa più ragionevole evitando che tutto questo splendido cibo andasse sprecato?» Prese una tartina al caviale. «Come puoi pensare al cibo in un momento come questo?» disse Hugh seccato, sedendosi di fianco a lei. «Ministro Nyanza, scusate se sono stato scortese. Dovrei veramente dirvi quanto apprezzo il fatto che siate ancora con noi, mentre...» «Mentre tutti gli altri topi hanno abbandonato la nave?» propose Philip, con uno scintillio malizioso negli occhi mentre sceglieva una fetta di quiche fresco. «Oh, sarei rimasto in ogni caso, a meno che non fosse crollato il tetto. Julie e io abbiamo studiato assieme per il dottorato di ricerca. Sono contento di aver avuto l'occasione d'incontrarla di nuovo.» Hugh s'illuminò in volto per un attimo. Poi si ricordò visibilmente da dove veniva Philip: un minuscolo e povero angolo d'Africa che le industrie Kikoshita avrebbero potuto comprarsi una dozzina di volte. Sarebbe stato inutile cercare salvezza da quella parte. «Che diavolo può essere successo?» gemette, e si nascose il volto tra le mani. «Stavamo parlando proprio di questo» gli disse vispa Julie. «Nessuno di noi ha potuto veder bene il messaggio di oggi, e ho saputo da Philip che il ministro era così furioso che l'ha strappato dalla macchina e se l'è ficcato in tasca. L'hai visto almeno per un attimo?» «Sì, l'ho visto bene» mormorò Hugh, premendosi gli occhi con le nocche. «Non ho avuto il tempo di memorizzarlo, ma per quanto posso ricordare diceva così: "Reggie, sembra proprio che tu creda di essere tanto in gamba perché sei ministro e tutto il resto, ma aspetta solo che abbia l'occasione di scoprire i tuoi altarini su..." Era arrivato fin qui quando Wilkins ha urlato "Mamma!"» «Perché non fate stampare l'intero testo?» suggerì Philip in modo pratico. «Immagino che dobbiate averlo in memoria?» «Ma che diavolo!» Hugh si rizzò sulla sedia e batté i pugni sul tavolo. «Questa dimostrazione è stata fatta così in fretta e furia che non siamo stati
lì a collegare una memoria periferica alla linea dimostrativa. A che sarebbe servito, del resto? Il collegamento era programmato per trasmettere soltanto qualche frase vuota ma citabile che ci aveva fornito il nostro staff delle pubbliche relazioni!» «Oh, Hugh!» disse Julie in tono di rimprovero, con un luccichio negli occhi. Prese un'altra tartina al caviale e la masticò rumorosamente. Prima che potesse svilupparsi un litigio, Philip s'inserì: «Su quali basi, allora, può aver identificato l'autore del messaggio? Sembrate sicuro che non includesse il nome che Julie mi ha detto esser saltato fuori alle sei di stamattina». «Assolutamente» bofonchiò Hugh. E come se gli stesse tornando l'appetito prese una delle tartine che Julie apprezzava tanto, e continuò a bocca piena: «Forse ha riconosciuto il suo modo di esprimersi, anche se sua madre è morta da trent'anni, da quando andava ancora all'università... Mio Dio! Ma che sto dicendo? C'è solo una spiegazione razionale, non è così? Abbiamo subito un sabotaggio, e in maniera abile e spietata. Per quanto mi dispiaccia doverlo ammettere, sono costretto a concludere che uno dei nostri dipendenti, che sono le uniche persone ad avere accesso a qualunque punto in cui un messaggio falso avrebbe potuto essere inserito nel sistema, devono essere stati corrotti, o qualcosa del genere!» «Non posso accettare questa spiegazione» disse Julie decisa. «Credo che tu sia ancora ossessionato da quegli idioti che volevano un aumento per il fatto di dover prendere ordini da una donna. E poi quelli non lavoravano per noi, ma per un appaltatore esterno. No, il nostro gruppo è insieme da anni. Tutti abbiamo interesse che la cosa abbia successo. Siamo protetti da brevetti fino alle orecchie. Non c'è un'altra società che sia in possesso delle nostre tecniche nel raggio di chilometri. Quando cominceremo a vendere delle licenze, possiamo aspettarci tutti...» «Non è che tu stia parlando come se il sistema funzionasse?» l'interruppe Hugh con tono glaciale. «Ha funzionato perfettamente, e tu lo sai bene! Fino alla faccenda di Ada Wilkins! E se qualcuno fosse stato corrotto per sabotare la dimostrazione avrebbe fatto una cosa stupida come quella? Quello è proprio il tipo di cosa che garantirebbe che facessimo un bel po' di controlli in più. Che è quello che abbiamo fatto, non è vero? E l'abbiamo archiviato come un'interferenza anomala!» «Che si è ripresentata nel momento stesso in cui il circuito è stato avviato di nuovo!» gridò Hugh con voce stridula. «Non puoi metterla come ti
pare! O era un'interferenza anomala, o era un atto deliberato. E nel primo caso, il sistema non potrà essere operativo finché non saremo riusciti a eliminarla. Ma dato che nulla di simile si è mai verificato prima, sono più propenso a credere alla teoria del sabotaggio. Hai una terza ipotesi?» Scuotendo la testa avvilita, Julie allontanò il suo piatto. «Se vogliamo essere rigorosamente logici su questa questione» disse Philip mentre porgeva all'uno o all'altra un pezzo di sedano «dobbiamo considerare almeno una terza possibilità. Riconosco che è di gran lunga la meno probabile, ma...» «Il signor Graveney!» gridò qualcuno dal corridoio. Tutti si voltarono. Bob Brownlee dello staff delle pubbliche relazioni entrò nella sala da pranzo di corsa, agitando degli appunti. «Il signor Graveney, ho appena sentito le notizie alla radio!» «L'ultima cosa che mi serve» ribatté Hugh «è che mi si dica cosa stanno facendo i media di questo pasticcio!» «Signore, ascoltatemi, vi prego! Ciò che hanno detto è che c'è stato un inconveniente nella dimostrazione di oggi del cavo ultraconduttore. Dopo il suo ritorno a Londra - e questa è la parte veramente interessante! - il ministro ha dato mandato a dire ai suoi avvocati di diffondere una dichiarazione in cui si afferma che non risponde al vero l'accusa secondo la quale avrebbe approfittato della sua posizione per esercitare indebite pressioni per far assegnare dei contratti sull'energia nucleare a Mulrowdy e Point Glaze.» «Ma chi l'ha mai accusato di questo?» obiettò con scarso interesse Hugh. «È la prima volta che ne sento parlare. E tu, Julie? E lei, signor Nyanza?» Philip disse pensieroso: «No, ma... Ditemi, il signor Graveney. Potrebbe esserci stata un'altra riga scritta dalla stampante che non era visibile dalla vostra posizione?» Hugh strizzò gli occhi con forza. «Ah... sì! Non ci avevo pensato prima, ma ovviamente vedevo le righe solo dopo che avevano superato il livello di stampa.» Riaprendo gli occhi guardò Philip con rispetto. «Questo dà alla teoria del sabotaggio un'importanza diversa, non è vero? Se il motivo non ha nulla a che fare con noi, se non in via subordinata, e lo scopo principale è screditare Wilkins...» «Dà anche spazio alla terza possibilità, a cui stavo per accennare quando è arrivata questa notizia.» «Vale a dire?»
«Che il messaggio venga effettivamente da sua madre.» Seguì un silenzio perplesso, durante il quale sia Hugh che Julie si limitarono a fissarlo. Per fortuna furono interrotti nuovamente, prima che l'uno o l'altro dei due potesse reagire in qualche modo. Di Pink irruppe in fretta e furia. «Abbiamo appena parlato al telefono con Bill Ogden da Birmingham, signore. È sicuro che non c'è alcun difetto nel cavo, laggiù. Ha dato ai suoi uomini mezz'ora per il pranzo, poi vuole che riattiviamo la stampante qui per ulteriori test, questa volta con le memorie periferiche collegate. E poi un'altra cosa. Chiede se potete spiegargli che tipo di guasto deve cercare, perché non ne ha la - uh - più pallida idea.» Di aveva un'aria umile. «Ho un po' censurato l'ultima parte, a dire il vero.» «Grazie» sospirò Hugh. «Allora andiamo avanti con questa faccenda. Abbiamo trenta minuti per definire il guasto impossibile nel sistema infallibile. Julie, senti arrivare l'ispirazione?» Malinconicamente rispose: «Proprio per niente. Anche se Philip fa delle battute per rincuorarci». «Che battute?» protestò Philip. Julie lo fissò. Quindi proruppe in un'aspra risata. «Ah, è la tua genealogia di dottori stregoni che parla! Risparmiali per dopo, va bene? Abbiamo un vero problema per le mani, che potrebbe portare alla rovina Hugh e me, la società e tutte le persone coinvolte.» Philip condiscendente si appoggiò allo schienale della sedia. «Benissimo. Ma può darsi che il punto di vista di una persona non direttamente coinvolta possa essere utile. Posso affermare di essere moderatamente ben informato sull'ultraconduzione. Sono rimasto enormemente colpito dagli scritti originali di Schuyler e Sanback, nei quali ponevano le basi teoretiche, e incidentalmente coniavano anche il nome che voi avete ripreso. Ma a meno che non mi sia sfuggito qualcosa i loro esperimenti a Toronto non sono approdati ad alcuna applicazione pratica. Né ha prodotto maggiori risultati tutto il lavoro successivo nei laboratori, dove perfino esperti di chiara fama in qualche modo non sono riusciti a vedere la differenza tra ultraconduzione e superconduttività. Finché non ci sei arrivata tu, Julie, nessun altro ricercatore di cui abbia avuto notizia è riuscito a cogliere quella che a posteriori sembra una differenza estremamente ovvia.» Allungando una mano verso un piatto intatto di sandwich al salame, Julie strinse le spalle. «A che serve essere modesti? Mi è capitato di essere la persona che ha trovato il modo di trasformare l'ultraconduzione da cu-
riosità matematica in principio applicabile. Ciò che tutti gli altri cercavano era una struttura cristallina con resistenza ambientale pari a zero. Invece io ho cercato un modo di trasmissione che potesse essere reso autocompensativo. E l'ho trovato! Il che è come...» Hugh diede un colpo di tosse teatrale, e Julie si riempì la bocca di salame. Philip sorrise forzatamente. «Non preoccupatevi, signor Graveney. Il mio paese non si può permettere di mettere in piedi un'industria in competizione con la vostra. E non sono solito vendere le informazioni che ottengo confidenzialmente. Ma una volta diffusasi la notizia che c'era un sistema pratico per sfruttare l'ultraconduzione, lo spettro delle possibilità si è presto ridotto a una sola. Voi non costruite il vostro cavo in senso tradizionale. Lo fate crescere. Può non aver bisogno di ripetitori né di coibentazione, ma sono sicuro che non può operare senza essere nutrito. «In altre parole: è vivo.» Hugh e Julie si fissarono l'un l'altro. Alla fine Julie sospirò. «Bene, una volta archiviate le richieste di brevetto era inevitabile che qualcuno leggesse tra i fumi della nostra verbosità fuorviante... Hai ragione. I trefoli fanno crescere automaticamente dei gangli di sovralimentazione, proprio come se volessero che la forza del segnale si mantenesse costante. Si potrebbe dire che si adattino alla necessità di un rafforzamento. Cosicché la perdita d'informazione è trascurabile. La resistenza non è zero, come potrebbe esserlo? Ma semplicemente inumidendo le estremità del cavo si hanno due ordini di magnitudine in più rispetto a quanto chiunque altro sia mai riuscito a ottenere.» Per un momento Hugh sembrò intenzionato a protestare, ma poi decise in favore di un po' di salmone affumicato e formaggio fresco con erba cipollina. Philip, l'espressione pensosa, si rivolse di nuovo a Julie. «Quindi potete usare segnali su scala di millivolt o anche di microvolt. Potreste... prendere la registrazione di un elettroencefalogramma di un paziente di un villaggio fuori mano e trasmetterla senza doverla convertire o amplificare a un ospedale in città per una diagnosi.» «È un'applicazione a cui non avevo pensato. Ma è il genere di cosa che sarebbe assolutamente possibile.» «Tranne che per una questione secondaria!» disse seccamente Hugh. «La prima volta che mostriamo la nostra roba in pubblico, succede una catastrofe!» «È possibile» disse Philip con prudenza «che succeda il contrario. Vi
suggerisco di riaccendere la stampante. Adesso.» «Hm?» Hugh diede un'occhiata all'orologio. «È inutile. Bill Ogden ha detto che avrebbe dato ai suoi uomini mezz'ora per il pranzo. Non ci sarà nessuno a Birmingham, all'altro capo del cavo, per altri venti minuti.» «Proprio per questo» disse Philip e attese. Un silenzio imbarazzato si protrasse insopportabilmente a lungo. Alla fine Julie disse: «Philip, se non fossi mezzo morta dalla stanchezza direi che devi essere pazzo. Ma nello stato in cui sono non posso fare a meno di pensare che sia proprio una buona idea. E anche se non è una buona idea, è comunque un'idea, e sono stufa di star qui a discutere». Balzò in piedi e si diresse verso la porta. Afferrando un paio di panini ripieni di sardine, come se la prospettiva dell'azione gli avesse restituito l'appetito, Hugh la seguì, e Philip - assieme a Di Pink e Bob Frownlee - li seguì da presso. Raggiunto il palchetto non ancora smantellato sul quale si trovava la stampante, si resero conto che il signor Wilkins si era effettivamente dileguato con l'intero testo del messaggio, con l'ultima riga e tutto il resto. Inoltre, nella sua furia aveva fatto inceppare l'alimentazione della carta. Ci vollero un paio di minuti per rimetterla a posto. Poi, con l'aria di un suicida che si dirigesse verso Beachy Head, Hugh premette a fondo l'interruttore. Per un bel po' non accadde nulla. Stava già per allontanarsi disgustato quando... Click. Tutti restarono a bocca aperta. Sgranarono gli occhi, inorriditi e incantati. Click. Julie si chinò per leggere le due lettere apparse fino a quel momento, entrambe seminascoste dal meccanismo di scrittura della stampante. Si portò il dorso della mano alla bocca. «Se c'è scritto A-D» disse Hugh, stringendo i pugni e chiudendo gli occhi «credo che potrei... È così?» Click. «Dev'essere il fattore di bassa resistenza» proseguì con disperato ottimismo. «Stiamo ricevendo dei segnali imprevedibili da fonti ambientali. Scommetto che c'è una discontinuità meteorologica tra qui e...» La sua falsa convinzione venne meno. Si fece silenzioso. «Ma» strepitò Julie «c'è scritto ADA. E calcolare le probabilità contrarie a interferenze accidentali che producano...»
Click. E poi un'altra serie di click, con rapidità crescente, come una persona anziana che cercasse di liberarsi dei reumatismi della notte precedente andando a far colazione. Chiaro come il giorno, la macchina ancora una volta stampò il nome ADA EMILY WILKINS NATA CROSTHWAITE. E si fermò, rallentando sulle ultime tre o quattro lettere come se avesse esaurito l'energia. «Ah!» esclamò Hugh. «Ci sono! Qualcuno ha impiantato un dispositivo di sabotaggio lungo la linea. Ma dato che era predisposto per operare una volta sola, ha una fonte d'energia limitata. Quello che sta arrivando è il suo ultimo flebile guizzo. Ora tutto quello che dobbiamo fare è scovarlo, in modo da fornire la prova di ciò che ha rovinato la dimostrazione di oggi...» La sua voce si affievolì, mentre si rendeva conto che sia Julie che Philip lo fissavano gelidi. «Sei capace di inserire un segnale estraneo in uno dei miei cavi senza danneggiarlo?» disse Julie seccamente. «No! E ho passato tutta la mattina a cercare di trovare un modo. Fammi provare con un altro circuito e vediamo cosa succede.» Hugh alzò le mani e si voltò. Ma si girò di nuovo dopo pochi secondi. «Niente! Quindi il dispositivo si è esaurito, come vi avevo detto!» Ignorandolo, Julie continuò a provare diversi circuiti. «Quelli periferici sono i più probabili, suppongo» mormorò a Philip, che assentì. «Ho sempre pensato che tu fossi in gamba, ma non ho mai saputo che avessi una tale padronanza di queste cose. Sei sicura di non aver letto i miei scritti su...» Lei lo interruppe: «Sì, accidenti, li ho letti! Ma solo perché ho riconosciuto il tuo nome, non perché li avessi presi sul serio. Stavo per dirtelo stamattina ma non me ne hai dato il tempo, e comunque questa è l'ultima cosa su cui avrei voluto discutere. Adesso non ho alternative. Guardate!» La stampante, ancora con difficoltà, riprese a fare click... «Samuel Herbert Edwards!» lesse Philip ad alta voce. «Hmm! Sarebbe bene contattare chiunque si trovi presso il cimitero di Leamington per controllare se c'è una lapide con quel nome. Ovviamente la signora Wilkins non può essere l'unica persona sepolta laggiù.» «Voi dovete averci qualcosa a che fare» scoppiò Hugh. Afferrò Philip per le spalle e lo costrinse a girarsi. «Cos'è, una specie di colpo diplomatico, un complotto per sbarazzarvi di un ministro che non vi piace?» Colto di sorpresa, Philip restò a bocca aperta. «Rispondetemi!» lo investì Hugh. «Avete appena detto che la madre del
signor Wilkins è sepolta nel cimitero di Leamington. Come fate a saperlo? Anche se fosse vero, e ne dubito!» «Hugh, sta' zitto» disse Julie in un tono gelido come il vento invernale. «Stai diventando isterico. Philip lo sa perché gliel'ho detto io. L'ho scoperto stamattina verso le nove e mezza. L'avrei detto anche a te, se non fossi stato così preso dalla tua grande interpretazione tragica!» Al che la stampante fornì un altro nome: Mavis Jane Edwards. Voltandosi Julie disse: «Philip, non mi sarei mai sognata che potesse essere possibile, ma... ma credo proprio che tu abbia ragione». «Il che vuol dire» disse Philip, non riuscendo a trattenere un sogghigno «che ciascuno di noi è in eccellente compagnia. Si può presumere che abbiamo beccato marito e moglie sepolti nella stessa tomba.» «Credi che la vicinanza fisica possa essere un fattore cruciale?» «A priori, niente affatto, ma finché non ne sapremo di più sulla capacità volitiva di un individuo in stato di post-mortem, credo che dovremo considerarlo come un dato significativo. Non so ancora cosa mi spaventi di più: se l'idea che il contatto postmortem sia un fenomeno elitario, o il rischio che possa essere talmente comune da farci sommergere da una moltitudine di sconosciuti che vengano a trovarsi casualmente in contatto.» «Ci hai pensato molto più di me, ovviamente» disse Julie. «Andiamo a berci un po' di champagne. Ne abbiamo bisogno sia per celebrare una delle più grandi giornate nella storia che per difenderci dalla scoperta che non lo sia.» «Logica ammirevole!» ridacchiò Philip, e le prese il braccio. «Basta!» urlò Hugh. «Basta con queste... queste stupidaggini new age! O io sono fuori di testa o lo siete voi. Si direbbe proprio che tu ti stia vantando di aver stabilito un contatto con i morti!» Si mise le mani sulle tempie e strinse forte, come se temesse che la testa gli potesse volar via. «Quasi, ma non è esattamente così» disse Philip nel tono più serio possibile. «Piuttosto si dovrebbe dire che finalmente è stato fornito loro un canale affidabile per mezzo del quale contattarci. Che è ciò che farà vincere a Julie non soltanto il Nobel, ma anche diversi altri premi non ancora conosciuti, che saranno inventati appositamente per poterle essere assegnati. Julie cara, che dicevi a proposito dello champagne?» «Ne abbiamo messo da parte una grossa scorta per gli ospiti di oggi» disse lei. «Se siamo fortunati, si saranno dimenticati di toglierlo dal ghiaccio.»
Incapace di pensare cos'altro potesse fare, Hugh li riaccompagnò passivamente alla sala da pranzo, dove i resti del rinfresco quasi intatto venivano portati via. Ma lo champagne era ancora fresco, e quando fu aperto e versato Hugh aveva già recuperato la sua presenza di spirito. «Che diavolo succede?» domandò supplichevole. «Julie, per pietà, spiegamelo!» «Philip è l'unico che possa aiutarti» rispose lei. «Quasi quasi se l'aspettava.» «Quasi quasi?» ripeté Philip ironicamente. «Un decimo dell'uno per cento sarebbe più vicino alla realtà. Ma perlomeno non avevo escluso del tutto questa possibilità, come sospetto abbia fatto chiunque altro.» «A parte quelli ai quali non era nemmeno venuto in mente» aggiunse Julie. «Bell'osservazione.» Philip assaggiò il vino e alzò le sopracciglia in segno di approvazione. «È stata proprio un'ottima idea... Sì! Signor Graveney, tra i difetti delle persone come voi - scusate la mia franchezza, ma è la verità - tra i difetti delle persone come voi nei paesi tecnicamente avanzati c'è la cattiva abitudine di dare per scontato che non si possano portare avanti delle ricerche serie senza attrezzature di laboratorio sofisticate, grandi energie, e tutti gli ultimi ammennicoli luccicanti. Eppure a questo punto avremmo ben dovuto riconoscere che questo non comprende tutta la storia dell'esistenza umana. Di tutte le invenzioni più importanti, almeno nove su dieci sono state realizzate con il genere di sostanze che si possono trovare in una fattoria arretrata come quella in cui sono cresciuto. Per portare avanti un progetto che produca risultati utili non è necessario un budget da un miliardo di dollari. Non sto sminuendo i vantaggi della tecnologia moderna. Sarebbe sciocco, dato l'enorme progresso rappresentato dal cavo Underwood se paragonato alla tela di un ragno, perfino a quella tessuta sul teschio della persona con cui si vuole entrare in contatto...» Ma Hugh si stava tenendo di nuovo la testa e dondolava avanti e indietro. Da un momento all'altro, era evidente, avrebbe potuto cominciare a gemere. «Sembra che non abbia molto senso andare avanti, non è vero?» sospirò Philip, rivolto a Julie. «Potresti cercare di spiegare tutto per bene a me» contrattaccò lei acida. «Te l'ho detto, ho letto i tuoi scritti su quest'argomento. Ma non ricordo alcun riferimento a teschi e ragnatele!» Philip ebbe la cortesia di mostrarsi imbarazzato. «No, ho ritenuto oppor-
tuno omettere quella parte. E stiamo ancora valutando le componenti farmacologiche del preparato che mi hanno dato quando sono entrato in contatto per la prima volta con un mio trisavolo. Funziona, ma non siamo sicuri del come. I sogni, ovviamente, sono un mezzo così inaffidabile - anche se il fatto che il tuo cavo si dimostri un autentico passo avanti dovrà in fin dei conti dipendere da quel problema a cui ho già accennato: cioè se solo poche personalità particolarmente forti possono ristabilire un contatto con il mondo che hanno lasciato, o se è una capacità comune. A sentire te, il mezzo disponibile deve produrre un effetto determinato. Un assiro che usa la scrittura cuneiforme o un egiziano abituato ai geroglifici non trarrebbero un gran vantaggio da una stampante che usa caratteri romani moderni. Perciò rimarrà per un certo tempo una questione aperta se ci siano degli antenati ancora in grado di comunicare da un passato così lontano. E comunque la maggioranza delle specie è sempre stata analfabeta, il che circoscrive ulteriormente il campo sperimentale.» «E se si facesse passare l'input in un computer equipaggiato con un apparato grafico adatto all'epoca storica in cui hanno vissuto?» «Potrebbe dare buoni risultati. Almeno fornirebbe un mezzo per verificare la mia teoria che, qualunque sia la forma di energia che i nostri antenati adoperavano per mantenersi nella loro versione dell'essere, dev'essere cumulativa, cosicché più la gente ha vissuto e più probabile diventa che la porzione residua delle loro identità sia in grado di agire su oggetti materiali, anche se soltanto elettroni. L'apparizione di un messaggio la prima volta che un cavo ultraconduttore è stato attivato è indicativa, per usare un eufemismo. Ma...» Julie teneva la mano alzata. «Me ne sono appena ricordata. Parlando dei miei cavi prima hai detto: "Sono vivi!" Pensi che questo fatto possa averci qualcosa a che fare?» «Non si dovrebbe escluderlo. Ma non devi farti l'idea che questa sia più che una congettura, anche se è vero che mi è stato insegnato a usare la tradizionale via dei sogni per interrogare gli antenati quando avevo cinque o sei anni, per cui si potrebbe dire che ci ho lavorato su per trent'anni. Ma la dimostrazione è più stimolante che conclusiva.» Hugh si rizzò a sedere all'improvviso. «Cosa? Dopo tutto questo ammettete di non credere davvero alle fesserie di cui avete cianciato finora? Ma questo è ridicolo!» Philip, raccogliendo tutta la pazienza che poté, disse con voce calma: «Signor Graveney, per quanto mi possa considerare soddisfatto del fatto
che l'informazione che ho ricevuto in sogno la notte scorsa abbia avuto origine nella psiche di qualcuno che è fisicamente deceduto, non c'è alcun modo di persuadervi a credermi a meno che non si generi e compaia sullo schermo un segnale che corrisponda ai dati che vengono trasmessi. Vero? Naturalmente. Fino a quando il processo non sarà oggettivato voi, come chiunque altro, avete il diritto di sostenere che è il risultato di un autoinganno. Oppure il risultato dei segnali generati all'interno del mio cervello sulla base di qualche tipo di rappresentazione della mia idea della persona che immagino stia parlando con me. E questa è una possibilità che ho preso in considerazione in alcune pagine delle mie pubblicazioni delle quali Julie non ha voluto discutere stamattina!» Lei stava per ribattere quando Di Pink entrò di corsa, con in mano un telefono che depose accanto a Hugh. «Mi dispiace interrompere, signore, ma è urgente. C'è Scotland Yard in linea. Hanno mandato qui degli investigatori per esaminare uno scritto diffamatorio che sostengono abbiamo realizzato contro il signor Wilkins.» Hugh scosse la testa frastornato. «Vuol dire che siamo indagati noi o lui?» Di appariva imbarazzata. «Temo di non averlo chiesto.» «Oh, bene...» Hugh fece per prendere il telefono. Julie si alzò con aria decisa. «Dì loro che non si aspettino di trovarmi qui» disse. «Cosa?» «E neppure Philip. Vieni!» disse afferrandogli il braccio. «Andiamo a Leamington per esaminare le lapidi. No?» «Hai preso nota dei nomi?» «Certo. E ho lasciato la stampante sull'automatico, in modo che analizzi tutti i canali a turno e stampi i messaggi che arrivano. Dovrebbe funzionare. Sempre che, naturalmente, Bill non intensifichi di nuovo il canale regolare. Di, fa' la brava e non provocarlo finché non mi avrà sentito. E digli di raggiungerci a Leamington.» Perplessa, Di annuì e prese appunti su ciò che le era stato detto. Con la mano ancora a qualche centimetro dal telefono, Hugh protestò: «Non potete lasciarmi ad affrontare tutto questo da solo! A questo punto non stiamo solo rischiando di andare in rovina, abbiamo la fottuta polizia alle calcagna!» «In rovina?» disse Philip. «Signor Graveney, ancora non avete afferrato, vero?» Si piegò in avanti, piantando i palmi delle mani sul tavolo, di fronte
a Hugh. «Adesso sono sicuro al novanta per cento che i miei sospetti stiano per essere confermati. Il che significa che potrete vendermi immediatamente diverse centinaia di chilometri di cavo Underwood. E non è tutto. Non vi hanno detto perché il signor Oshihara viaggia sempre con un cappellano? È perché non prende mai una decisione sugli affari senza consultare i suoi onorevoli antenati, il cui giudizio considera più del proprio.» Hugh restò a bocca aperta, ma una scintilla cominciò a guizzargli negli occhi. «Oh, wow» disse piano Julie. «Non ero arrivata a tanto, ma... Wow! Soltanto, sarà un mondo terribilmente differente, non è vero?» «Difficile, e forse doloroso da mettere a punto» convenne Philip con calma. «Ma avrà i suoi pregi. Senza dubbio attireranno di più le persone come me, già abituate ad affidarsi ai consigli degli antenati, ma ritengo che possa ben portare dei vantaggi anche ai paesi più avanzati. Non è stato detto giustamente che ci sono due tipi di sciocchi? Il primo dice: "Questo è vecchio, quindi è buono." L'altro dice: "Questo è nuovo, quindi è meglio." Per la prima volta abbiamo la possibilità di riconciliare questi punti di vista.» «E senza un giorno d'anticipo» disse Julie. «Vieni. La mia macchina è nel parcheggio sul retro. Dovrai guidare tu, sono troppo stanca, ma dovremmo arrivare al cimitero in un'ora al massimo.» Battendo sulla spalla di Hugh con fare rassicurante, Philip la seguì verso la sua macchina, una versione dell'Universo nuova di zecca. Titolo originale: Ada Wilkins On-Line During Down Time Analog Science Fiction and Fact June 1991 LA MATERIA NASCOSTA DI MC ANDREW di Charles Sheffield Ai confini del sistema solare scopriremo a quale materia è legato il nostro futuro?
Il messaggio era chiaro e conciso: Caro capitano Roker, l'istituto invierà una squadra esplorativa in un settore situato approssimativamente a mezzo anno luce da Sol, allo scopo di verificare talune ipotesi sulla materia scura nelle attuali teorie cosmologiche. La data prevista per la partenza è tra sei giorni. Data la sua notoria esperienza di astronavi della classe Hoatzin a propulsione bilanciata, gradiremmo sapere se è disposta a partecipare in qualità di componente dell'equipaggio per il Progetto Materia Mancante. Qualora le interessasse tale possibilità, la invito a contattare me o il dr Dorian Jarver all'indirizzo suindicato. Cordiali saluti, Arthur Morton McAndrew, Ricercatore, Istituto Penrose. Chiaro, ma anche del tutto sconcertante. Non ero affatto sorpresa che McAndrew volesse verificare oscure teorie scientifiche. Questo rientrava nei suoi compiti. Gente che di fisica ne sapeva molto più di me aveva detto che McAndrew era il migliore, tra i viventi, un nome da pronunciare insieme a quelli di Newton ed Einstein. Prevedibile, inoltre, che volesse allontanarsi tanto dal sistema solare. Lo faceva sempre quando riteneva ci fosse qualcosa che valeva la pena osservare più da vicino, o semplicemente quando aveva bisogno di un po' di tempo e spazio per riflettere in solitudine. «Non posso farne a meno, Jeanie» mi aveva ripetuto parecchie volte. «È splendido lavorare con i colleghi, ma in questa professione i risultati che contano si ottengono da soli.» Né d'altronde era strano che m'informasse del viaggio solo all'ultimo momento. Un paio di volte se l'era svignata all'improvviso, scorazzando per il sistema solare, e a me era toccato andare a ripescarlo e tirarlo fuori dai guai. Ma passiamo agli aspetti misteriosi della faccenda. Da quando ci conoscevamo, ed erano anni, non mi aveva mai inviato una lettera intestata al "capitano Roker", tanto meno firmandola per esteso. Nei suoi messaggi ero sempre "Jeanie", mentre lui si firmava "Mac" o "Macavity", il soprannome che gli avevo affibbiato ispirandomi al Libro del vecchio opossum, perché
come Macavity, il gatto del mistero, McAndrew faceva cose che apparentemente violavano la legge della gravità. Secondo, non scriveva affatto quando progettava una spedizione. Piuttosto mi chiamava senza preavviso, a qualsiasi ora del giorno o della notte, dicendo in termini vaghi che aveva in mente di farsi un viaggetto, e che ne pensavo di essere della partita? Terzo, ero invitata a partecipare alla spedizione del Progetto Materia Mancante in qualità di componente dell'equipaggio. Solo un dettaglio, ma di quelli che mi davano una strapazzata all'ego. Mac sapeva che da quindici anni non facevo che il capitano di astronave, e nient'altro. Quarto, l'intero tono della lettera risultava troppo pomposo e ufficiale per essere farina del sacco di McAndrew. Non sarebbe mai riuscito ad apparire così formale, neanche a provarci. E c'era ancora un altro mistero ad arricchire lo scenario. Chi diavolo era Dorian Jarver? Eppure pensavo di conoscere tutti gli scienziati di punta all'Istituto Penrose. Era la quinta domanda della lista, e la meno importante, finché non tentai di chiamare McAndrew per una spiegazione. Allora, anziché passare per una delle vecchie linee di accesso diretto agli uffici individuali dell'Istituto Penrose, mi rifilarono a un Centro Messaggi da dove la mia chiamata venne immediatamente smistata da McAndrew a Dorian Jarver. Il direttore Jarver non è disponibile, disse cortesemente una voce. La preghiamo di lasciare il suo nome e l'interessato la richiamerà al più presto possibile. Attaccai senza aspettare di scoprire se la voce dall'altra parte era autentica o registrata. Il direttore Jarver? Cos'era successo al mio vecchio amico, il professor Limperis, l'uomo più nero del mondo, alla guida dell'Istituto da molto prima della mia visita iniziale? Non fu difficile trovare la risposta. Mi inserii in un database e richiamai il file del personale dell'Istituto Penrose. Il professor Limperis era in elenco, questo sì, ma come professore emerito ed ex direttore. Il nuovo direttore era Dorian Jarver, già capo del gruppo applicazioni di scienza terrestre, nipote del consigliere Griss, capo del Dipartimento Terrestre di Alimentazione ed Energia. Anna Lisa Griss, cioè, una signora alla quale una volta nella Nube di Oort McAndrew aveva involontariamente reciso un braccio con un laser a impulsi. Ormai doveva esserle ricresciuto da un pezzo, ma avevo dei dubbi sul fatto che quel ricordo si fosse rimarginato assieme alla cicatrice. Mi attenni a un vecchio principio di McAndrew, e passai a un database
di pubblicazioni scientifiche. Dorian Jarver c'era, e aveva all'attivo otto o nove relazioni dall'aria discreta, ma non recenti. L'ultima risaliva a undici anni prima. A quanto pareva, il nuovo direttore dell'Istituto Penrose era un ex fisico. McAndrew era tutto fuorché un ex fisico. Perché avrebbe dovuto citare il suo nome accanto a quello di Jarver come qualcuno che avrei potuto contattare? Avevo ricevuto il messaggio di McAndrew al termine di un normale viaggio di ritorno da Titano. Appena l'Assembly che pilotavo fu messa al sicuro e tutte le sue sezioni situate in un'orbita stabile di parcheggio, firmai il congedo e filai dritta all'Istituto Penrose su una mini-versione da cinque G a propulsione bilanciata di McAndrew. «La invito a contattare me o il dr Dorian Jarver» diceva la lettera. È certo che per contatto s'intende anche una visita. Nella fase finale dell'avvicinamento, l'Istituto si profilò come un duplice uovo, tutto gibbosità e spuntoni. Lo esaminai attentamente. Poteva spostarsi secondo le esigenze della ricerca in qualsiasi punto del sistema solare tra Mercurio e la Cintura degli asteroidi, senza alcun mutamento delle proprie strutture. Infatti erano sempre le stesse. Mentre ormeggiavo, vidi la Dotterei e la Merganser attraccate ai paranchi esterni. Erano state i primi prototipi dotati della propulsione bilanciata di McAndrew, che tutti gli altri, compreso lo stesso McAndrew, insistono nel chiamare propulsione a bassa inerzia. Quelle navi antiquate non venivano più utilizzate. Erano state sostituite da un progetto più avanzato, rappresentato dalla Hoatzin. Di quest'ultima, intravidi a distanza l'imponente placca di massa, superata in lunghezza dall'asta centrale. Appariva un po' sudicia e malandata, come d'altronde si addiceva alla prima e unica nave che aveva visitato l'Arca di Massingham e la Nube di Oort. I cambiamenti cominciarono all'interno, appena attraversai la camera di equilibrio. Nell'Istituto di una volta il visitatore si trovava subito ad attraversare una discarica di apparecchiature obsolete in attesa di smaltimento. In caso di emergenza sarebbe stata una corsa a ostacoli, ma nessuno sembrava preoccuparsene. Ora invece mi ritrovai in un ambiente pulito e sgombro. Le pareti erano dipinte di bianco, il pavimento era di un grigio lucido e nel bel mezzo della stanza troneggiava qualcosa che di certo non si era mai vista prima nell'Istituto: una lunga scrivania, due addetti alla ricezione e davanti a loro un terminal di registrazione per le entrate e un vassoio pieno di lasciapassare. La donna dietro la scrivania non smise di armeggiare con l'ampio pan-
nello di controllo che aveva di fronte, ma l'uomo mi lanciò un'occhiata interrogativa. «Sono qui per vedere McAndrew» dissi, e mi avviai verso il corridoio a sinistra. C'ero stata un'infinità di volte, e sapevo dove se la faceva McAndrew, in una stanza zeppa di roba che in confronto perfino la vecchia entrata dell'Istituto risultava elegante. Mac non buttava mai via gli apparecchi di scarto. Li teneva in ufficio. «Non di lì, signora» disse l'uomo educatamente. «Adesso il professor McAndrew è dall'altra parte. Provvederemo ad accompagnarla, e se prima per cortesia vuole firmare...» Cominciavo a sentire McAndrew nelle orecchie. Per il momento era solo un bisbiglio. Ma quando ebbi firmato, dichiarato l'identità, controllata poi con un mappatore di DNA, ricevuto un passi, rifiutato dei rinfreschi (per quanto tempo volevano trattenermi nell'area di ricezione?) la voce di Mac mi lanciava delle urla. «Aiuto, Jeanie» gridava. «Aiuto, aiuto, aiuto!» Questo non era l'Istituto Penrose che conoscevo, quel covo di procedura casuale e scienza superba dove Mac lavorava da metà della sua vita. Era diventato un clone delle miriadi di uffici tecnologici della fascia terrestre. E le cose dovevano ancora peggiorare. Quando fui condotta ai nuovi uffici operativi, controllata, registrata e con tanto di passi, non era per andare da McAndrew. «Tra pochi minuti» disse la guida, in risposta alla mia domanda. «Ma prima, il direttore.» Fui introdotta in un nuovo ambiente, tirato a lucido e quasi privo di arredo. La guida se ne andò immediatamente e io mi guardai attorno. Non c'era una scrivania né un terminale. In un angolo, su una sedia bianca e rigida sedeva un individuo altrettanto rigido e pensieroso con la mano sulla fronte. «Capitano Roker» disse, e si alzò. Sorrise, scoprendo i denti bianchissimi, ma a labbra strette, con l'aria preoccupata. «Sono Dorian Jarver, il direttore dell'Istituto Penrose. Devo ammettere che non mi aspettavo una sua visita prima che ne sapesse di più sul progetto, ma è una fortuna che sia qui, perché ora faremo tutti del nostro meglio per persuaderla.» «Sono già persuasa.» Mi accorsi che era vero, e lo era stato fin da quando avevo visto quel lussuoso foyer d'ingresso. «Vengo a rapporto per prendere servizio.» «Per la spedizione di cui parla il professor McAndrew nella lettera che le ha inviato? Ma la missione e il suo ruolo non sono ancora del tutto definiti.»
«Potrà definirli dopo. Intanto sono qui, pronta a incominciare.» Dorian Jarver doveva essere rimasto sorpreso sia per il mio arrivo che per la mia immediata accettazione. «Sono lieto di saperlo» disse, anche se non sembrava. «Lei è accompagnata dalle migliori referenze. E devo ammettere che sono alquanto preoccupato per la spedizione proposta. Potrebbe essere pericolosa, e il professor McAndrew è troppo prezioso per metterlo a rischio. È uno dei nostri elementi più inestimabili.» Nonostante tutto ciò che quell'individuo ignorava, ovviamente si rendeva conto del valore di McAndrew. La missione poteva essere davvero pericolosa, perché Mac si sarebbe precipitato a passo di carica fino all'inferno se solo avesse intravisto un fattore scientifico interessante situato nell'ultimo girone. Era fin troppo prezioso per rischiare di perderlo. Ma l'ultima parola di Jarver mi turbava. Non uno scienziato, non un essere umano. Un elemento e basta. «È stata altre volte all'Istituto Penrose?» aggiunse Jarver. Annuii. Non sapevo cosa gli avesse detto di me McAndrew, ma sospettavo che il nuovo direttore non avesse idea di quanto fossimo intimi. «Allora avrà notato i cambiamenti qui. Era da un po' che il Consiglio si preoccupava per l'Istituto. Quando il direttore Limperis è andato in pensione e sono subentrato io, il Consiglio ha insistito sul fatto che da quel momento le operazioni venissero organizzate in maniera del tutto differente.» Per qualche minuto parlò di quei cambiamenti. Migliori apparecchi e strutture per gli scienziati. Uffici più grandi e più puliti. Più attenzione da parte del personale di assistenza ai servizi ordinari di manutenzione. Per gli scienziati di punta abolizione della necessità di sprecare tempo in chiamate, lettere e richieste d'informazioni dall'esterno, banalità che potevano essere sbrigate da personale di livello inferiore. A sentirlo, sembrava fantastico. Ma niente mi toglieva dalla testa la lettera di McAndrew, stranamente imbarazzata. Volevo vederlo e assicurarmi che stesse bene. Col pensiero di McAndrew mentre Jarver seguitava a parlare, ritenni di avere appena accennato a una replica. Ma al direttore doveva andare bene, perché dopo qualche minuto l'interesse per la conversazione parve scemargli. Annuì e disse: «Ora, capitano Roker, sono certo che vorrà saperne di più sulla spedizione. Il Progetto Materia Mancante metterà alla prova alcune idee tra le più basilari della cosmologia. Ma naturalmente McAndrew potrà informarla di gran lunga meglio di me». Giunto il momento di alzarci pensai di avere inquadrato Dorian Jarver.
L'avevo già visto prima, molte volte. Non proprio lui, ma il tipo. Se ne trovavano a bizzeffe ai massimi livelli del governo terrestre: uomini e donne competenti, dediti anima e corpo al lavoro, che iniziavano come scienziati, scoprivano che non sarebbero mai emersi dalla media, e sostituivano molto presto l'attività di ricerca con quella di gestione ed amministrazione. Nel corso degli anni, Jarver si era trasformato da scienziato a burocrate calcolatore. Be', voleva dire che prima mi ero sbagliata. Diciamo che si trattava del mio primo errore sul Progetto Materia Mancante. Il direttore mi condusse in un ufficio dalla parte opposta del corridoio e aprì la porta. Era grande, molto più grande del vecchio bugigattolo zeppo di McAndrew. Aveva la medesima parvenza antisettica del resto del nuovo Istituto. Ma perfino Jarver non poteva influire sull'aspetto dell'occupante. McAndrew se ne stava pigramente seduto su una poltroncina, con uno sguardo inespressivo rivolto verso la parete. Si era tolto le scarpe, e aveva i piedi nudi e sporchi. I capelli radi, di un biondo rossiccio, se ne stavano ritti a ciuffi, come se ci avesse passato le mani, cosa che in genere faceva quando rifletteva. Inoltre, mi accorsi dal rossore delle dita delle mani e dei piedi che se li era tirati e li aveva fatti schioccare, in un modo che detestavo. Alzò gli occhi appena entrammo, ruotando con noncuranza la sedia verso di noi. «Jeanie Roker» disse. Non si alzò, e non parve affatto sorpreso del mio arrivo inatteso. Guardai Jarver con la coda dell'occhio. Se Mac voleva convincere il direttore di conoscermi appena, avrebbe dovuto comportarsi in maniera ben diversa. «Il professor McAndrew» disse Jarver rivolto a me. Avrebbe potuto essere una presentazione o magari una dichiarazione di scusa. «Se permette, capitano Roker, vi lascerò a discutere della spedizione. La rivedrò dopo.» Appena uscì mi chinai ad abbracciare McAndrew dopo una separazione di sei mesi. Al diavolo le formali strette di mano. Lui ricambiò l'abbraccio, poi mi lasciai andare sulla sedia di fronte e dissi: «Mac. Che diavolo succede qui?» «L'hai già visto.» Il suo viso assunse un'espressione cupa, rassegnata, che non mi piaceva per niente. «Nuovi uffici, nuove procedure e tutta questa scena. Ora dimmi, avevo davvero bisogno di un ufficio nuovo?» «Conta tanto? Puoi lavorarci come in quello di una volta, e comunque è piacevole venire a trovarti e potersi sedere su qualcosa di più morbido di
un calibratore scalare ottico. E poi, Jarver ha ragione, l'Istituto stava diventando un po' diroccato. Adesso fa una buona impressione. Ti inacidisci con l'età.» Mi lanciò un'occhiataccia e disse: «Fosse solo questo, potrei essere d'accordo con te... invece no. Hai ricevuto quella lettera. Non ti ha un tantino meravigliata?» «Perché pensi che sia venuta?» Credo che non mi avesse sentito. «Debita procedura» disse. «Così la chiamano. Ma c'è ben altro. Nessun messaggio, promemoria, relazione o lettera esce di qui senza marchi di approvazione ufficiale. Hai visto com'era ridotta la lettera che ti ho inviato dopo che loro ci hanno messo le mani. Anche tutta la corrispondenza in arrivo, sia personale che professionale, viene aperta prima che la passino. Lo stesso schifo per i messaggi verbali. Le chiamate in arrivo e in partenza sono tutte annotate e registrate. Hai visto quel maledetto pannello di apparecchiature nella zona d'ingresso, col personale amministrativo che ficca il naso dappertutto? Credimi, è come stare in una dannata prigione.» «Mac, la tua è una reazione eccessiva. Jarver è abituato a far marciare tutto in stile terrestre. Sono fissati con la procedura. Gli ci vorrà un po' a imparare come si fanno le cose all'Istituto. Tu e gli altri lo metterete in riga.» «Noi?» McAndrew sbuffò. «Io e gli altri lo rimetteremo in riga? Ma se Emma Gowers, Wenig e Lucky Macedo hanno già dato le dimissioni e se ne sono andati.» Ci rimasi di sasso. Li conoscevo tutti e tre e, senza volerlo, mi facevano sentire meno intelligente di una fuori posto a un ricevimento di scimpanzé. «Mac, questo non fa che darmi ragione. Se Jarver perde gente di quel calibro, deve per forza rendersi conto che non durerà neanche altri tre mesi. A meno che non sia tanto stupido da non accorgersi di quello che manda via.» Vidi un mutamento nell'espressione di McAndrew. È l'uomo più onesto del sistema, anche quando questo indebolisce le sue tesi. In quel momento aveva l'aria di sentirsi in colpa. «Il peggio è proprio questo» disse. «Jarver non è affatto stupido. Ha avuto questo posto probabilmente per via della sua parentela con Anna Griss. Lei non ama l'Istituto dopo quello che le ho fatto. Ma Jarver non ci è venuto con l'intenzione di distruggerlo. Vedi, è un buon fisico, con la straordinaria abilità di percepire davvero quel che è importante.»
«Non mi è sembrato, a giudicare dal suo curriculum di pubblicazioni. Non ne ha molte all'attivo, ed è materiale scritto molto tempo fa.» «Jeanie.» McAndrew mi guardò con la stessa espressione di disappunto di un uomo il cui cane avesse appena commesso una marachella da animale non addomesticato. «Quante volte devo dirti che un curriculum di pubblicazioni non ti rivela proprio niente. Qualsiasi stupido può vomitare parole ed equazioni, un anno sì e un anno no, per poi darle alle stampe. Le relazioni non contano un bel niente se altra gente non le utilizza. Invece avresti dovuto dare un'occhiata all'indice delle citazioni, per vedere quante volte il lavoro di Jarver viene riportato come fonte da altre persone. Se l'avessi fatto, ne avresti trovato centinaia. È vero che adesso non pubblica più, ma quando lo faceva era veramente bravo.» Povero vecchio McAndrew. Cominciavo a capire il vero problema. C'era un nuovo direttore che faceva tutto quello che a Mac non piaceva. Era un uomo che avrebbe voluto odiare e denigrare. Ma non poteva farlo. Jarver era un buon fisico, e dunque quasi al di là della censura. «Ma se è così intelligente, dovresti riuscire a lavorare con lui. Persuaderlo.» «Maledizione, ma io l'ho già persuaso. La nuova spedizione sta tutto in questo. Sono riuscito a convincere Jarver che dobbiamo arrivare a un bel pezzo di strada da Sol. Dopodiché fermarci, starcene quieti, effettuare le nostre brave misurazioni e scoprire più di quanto sia riuscito nessun altro sulla distribuzione di materia mancante.» Dovevo saperne di più, ma non era il momento. Mezzo anno luce da Sol era un viaggio lungo, anche con cento G di accelerazione continua e la compressione di relatività che ci sarebbe derivata dall'alta velocità. Avremmo avuto intere settimane a disposizione per parlare della materia mancante, degli esperimenti di Mac e di qualunque altra cosa dell'universo. Nondimeno, sarebbe stato interessante sapere perché mai dovevamo arrivare fin là. «Perché non fare gli esperimenti all'Istituto?» «Perché da queste parti c'è troppo rumore.» Ora che la conversazione si addentrava nella fisica, McAndrew riprendeva a somigliare di più a quello che conoscevo. Decisi che c'era ancora speranza, forse dopotutto non era un uomo finito. «È colpa di Sol» proseguì. «Sol produce un baccano così infernale, sotto il profilo gravitazionale e in ogni lunghezza d'onda che ti viene in mente, che non si può fare nessun esperimento discretamente significativo a meno di mezzo anno luce. È come cercare di ascoltare la ca-
duta di una gocciolina mentre qualcuno picchia su una grancassa proprio vicino al tuo orecchio. Dobbiamo allontanarci, arrivare dove l'ambiente interstellare è piacevole e silenzioso.» «Ma è esattamente quello che farai. Ti allontanerai quanto vorrai dall'Istituto con la Hoatzin. Allora perché non sei contento?» Mi venne un pensiero terribile. «A meno che non stai per dirmi che Jarver ha intenzione di venire con noi.» «No, no.» McAndrew tornò improvvisamente cupo. «Dice che gli piacerebbe, ma è troppo occupato a dirigere l'Istituto. Non verrà. Ma manderà con noi i gorilla prediletti della zia, Lyle e Parmikan, per sorvegliarci e inviare rapporti. È questo che mi mette in agitazione, Jeanie. È questa la ragione per cui ti ho inviato la lettera...» McAndrew mi mandò in bestia. Quella di cui parlava era una decisione perfettamente naturale, dal punto di vista di Jarver. Lui l'aveva gonfiata più del dovuto. Ma questo, ovviamente, accadeva prima di incontrare Van Lyle e Stefan Parmikan. Il dubbio piacere di quell'incontro non fu rimandato troppo a lungo. Avvenne quello stesso pomeriggio, quando McAndrew mi trascinò al seminario settimanale, una tradizione dell'Istituto Penrose dall'inizio delle mie visite. La vecchia sala riunioni, con il suo pessimo impianto di aereazione e le sedie di plastica bianca dallo schienale duro, era scomparsa. Al suo posto c'era un salone con file di comodi posti a sedere disposti a gradinata. Poteva contenere un trecento persone. Ai seminari che ricordavo al massimo ci andavano in cinquanta, se l'argomento era davvero importante. Quel giorno non c'erano più di trenta persone nella sala. Io e McAndrew ci sedemmo al termine dell'ultima fila occupata. Cercai di riconoscere le persone che conoscevo dalle nuche. Me la cavai abbastanza bene con oltre la metà dei presenti. Per quanto Wenig, Gowers e Macedo se ne fossero andati, la maggior parte dei veterani dell'Istituto non aveva ancora mollato. Il relatore, Siclaro, un altro dei fissi all'Istituto, era già in posizione e fremeva per incominciare. «I primi decimillesimi di secondo dopo il Big Bang sono molto più interessanti di tutto il resto della storia dell'universo.» Quella fu la sua prima frase. La seconda invece non saprei dirti quale fosse. Vedete, non mi aspettavo certo di capire il seminario, perché non mi era mai successo in
passato. Ma potevo sempre godermelo. Come una psicologa a uno spettacolo di varietà, mi concentrai sul pubblico, esaminando i nuovi arrivati per cercare d'indovinare le loro specializzazioni e il relativo grado di preparazione. Un esercizio futile, naturalmente. Emma Gowers, la massima esperta del sistema solare in allineamenti di nuclei multipli, sembra e si veste come una puttana d'alto bordo. Wenig potrebbe essere il suo magnaccia, e lo stesso McAndrew somiglia a un ragioniere che ha bisogno di un taglio di capelli e di un buon pasto. Non si riesce mai a capire, punto e basta. I cervelli non collimano con le apparenze. All'estrema sinistra della nostra fila c'era un gruppo di tre individui. Vidi Dorian Jarver. Era chino in avanti, intento a seguire la relazione. Immediatamente alla sua destra c'erano due uomini che m'incuriosivano, perché anche loro non si curavano affatto della conferenza e mostravano invece molto interesse per il pubblico. Sgomitai a McAndrew, proprio mentre dal fondo arrivò in tutta fretta una tipa che si chinò a bisbigliare all'orecchio di Jarver. Lui sospirò, scosse la testa e seguì rapidamente la donna fuori dal salone. «Che c'è?» disse finalmente McAndrew. Gli era sfuggito l'intero episodio di larver. «Quei due uomini. Chi sono?» Sbuffò: «Quei due? Van Lyle e Stefan Parmikan». Li fissai con rinnovata curiosità. Van Lyle, che soltanto in seguito scoprii quale fosse dei due, era un individuo massiccio, dalle spalle ampie, i capelli biondi e ricciuti e un profilo gradevole, anche se non del tutto regolare. Non fingeva neppure di ascoltare la relazione, invece osservava il pubblico con scoperto interesse. Accanto a lui la minuscola figura di Stefan Parmikan, dalle spalle arrotondate, era molto più discreta. A un osservatore casuale sarebbe parso che seguiva tutto quello che diceva Siclaro. Ma quasi a ogni secondo, girava la testa di scatto lanciava un'occhiata a qualcuno. Quando i nostri sguardi s'incrociarono, si affrettò a distogliere il suo. «Mac» dissi. E mi fermai. Era scivolato via dal posto accanto al mio. Lo vidi giù sul podio del relatore che indicava lo schermo con una mano. «Lo sapete qual è il problema» diceva. «Siamo tutti convinti che la quantità di materia esistente nell'universo è appena sufficiente a farlo e-
spandere in permanenza. Questo dà asintoticamente lo spazio-tempo piatto, un'idea alla quale ci piace credere per una dozzina di buone ragioni teoriche. Ma la materia luminosa, quella che vediamo, incide solo per un centesimo all'incirca sulla composizione necessaria allo spazio-tempo concluso. Perciò, dov'è il resto? Dov'è la materia mancante? «Sono d'accordo con Siclaro, solo il diavolo può rispondere sulla base degli esperimenti fin qui effettuati. Non mi propongo certo di provarci. Ma abbiamo progettato una serie interamente nuova di esperimenti cruciali che possiamo effettuare a distanza da Sol, dove non c'è tanta interferenza.» A quel punto si inoltrò in una discussione sulla materia nascosta, sul motivo per far compiere alla Hoatzin un viaggio di andata e ritorno di un anno luce. Ma non riuscii ad ascoltarlo, perché non ero più da sola. I due uomini seduti vicino a Jarver erano scivolati quietamente dall'altro capo della stanza e ora si trovavano accanto a me. «Il capitano Roker?» disse quello biondo. «Volevo salutarla. So che saremo compagni di viaggio.» Mi fissò negli occhi con aria sincera, prese la mia mano nei suoi grossi artigli carnosi e la tenne qualche secondo più del necessario. «Lieto di conoscerla» aggiunse il suo compagno, chinandosi verso di me e stringendomi la mano a sua volta. «Sono Stefan Parmikan. Ho sentito molto parlare di lei.» Aveva un sorriso che era la versione debole e informe di quello confidenziale di Van Lyle. E invece di inchiodarmi come Lyle, i suoi occhi marroni guardarono dovunque tranne che nei miei. «Ha sentito parlare di me?» Ero sorpresa. McAndrew era più chiuso di un'ostrica. «Da chi?» «Il capo. Il consigliere Griss.» La sua debole presa era come un cumulo di cartilagine umida, molto peggio della stretta confidenziale di Lyle, ma non era quello a preoccuparmi. Improvvisamente, misi assieme tutti i pezzi. Finora, a forza di riflettere, avevo sbagliato tutto. Certo, Anna Lisa Griss poteva piazzare i suoi parenti nelle alte sfere, e nessuno ne sarebbe stato sorpreso. Il nepotismo è sempre lo stesso. Così aveva fatto in modo di sistemare Dorian Jarver alla direzione dell'Istituto Penrose. Ma per sua sfortuna, Jarver era un tipo davvero schietto, uno scienziato coscienzioso animato da autentica stima verso i fisici. E lei non poteva cambiarne la natura. Ma qualcos'altro sì, affibbiargli come assistenti quelli che prediligeva: tipi senza alcuna propensione per la scienza, che avrebbe-
ro seguito il modo di agire del consigliere e fatto quello che lei diceva. Le sue istruzioni per loro erano di modellare l'Istituto secondo i propri gusti, trasformarlo nella normale copia della burocrazia terrestre che lei capiva e controllava così bene. E loro lo stavano facendo. Ora ero convinta che il vero autore del messaggio per me non era stato McAndrew. Erano stati Lyle o Parmikan a impostarlo, con Anna Griss alle spalle. Mac aveva chiesto il mio aiuto, ma era lei che tirava le fila. Lei mi voleva a bordo della Hoatzin per un viaggio che avrebbe controllato, attraverso Van Lyle e Stefan Parmikan, dall'inizio alla fine. Cos'era che mi rendeva tanto sicura? C'è una cosa a cui non ho accennato a proposito del battibecco che avevamo avuto con Anna Griss nella Nube di Oort. McAndrew le aveva amputato il braccio, e già questo era un male, ma forse perdonabile perché lui credeva di farlo per salvarle la vita. Prima di questo però, io l'avevo guardata dritta negli occhi, sfidato la sua autorità e asserito la mia posizione di capitano della nave. Lei era stata costretta ad accettarlo. Ma conoscendo Anna, sapevo che la cosa non sarebbe mai stata perdonata o dimenticata. Neanche quando lei avesse fatto occhio per occhio, o meglio braccio per braccio. Sentii aprirsi la porta in fondo alla stanza. Jarver stava rientrando e Lyle e Parmikan si affrettarono ai loro posti accanto a lui. Con un tremito, mi drizzai al mio posto. Negli ultimi minuti ero stata sfiorata da qualcosa che mi aveva fatto venire i brividi, e non sapevo ancora cosa fosse. «Perciò si tratta di questo» diceva McAndrew dal podio. «Le due migliori candidate al ruolo di materiali mancanti per appiattire l'universo sono la materia scura calda, probabilmente neutrini di energia con una piccola massa di riposo, generati subito dopo il Big Bang; o forse invece la materia scura fredda, particelle come gli assioni necessari alla conservazione della parità di carica, o i fotini e gli altri oggetti imponenti richiesti dalle teorie della supersimmetria. «Allora, a quale delle due dobbiamo credere, la calda o la fredda? Non lo sappiamo. In ambedue i casi ne derivano dei problemi per descrivere il modo in cui si formarono le galassie. «Quel che è peggio, non stiamo misurando abbastanza materia di nessuno dei due tipi. Messe assieme danno meno della metà della densità di massa necessaria a costituire un universo piatto. Probabilmente stiamo sottostimando in misura rilevante o la materia scura fredda o la calda. «Quale delle due? La teoria non dà ancora la risposta. La maggior parte
degli eventi che determinano tutto questo hanno incominciato a verificarsi nei primi 10-35 secondi dopo l'origine dell'universo, quando non c'eravamo ancora noi a fare esperimenti, quando le leggi della fisica forse non erano le stesse. «Forse non riusciremo mai a scoprire la composizione della materia mancante, finché non collochiamo i nostri strumenti al giusto posto di osservazione, nello spazio profondo interstellare.» Si fermò. Siclaro annuì in segno di apprezzamento, e Mac tornò lemme lemme al suo posto. Naturalmente gli era sfuggito tutto lo scambio con Lyle e Parmikan. Gli sarebbe sfuggito anche se gli fosse capitato sotto il naso, perché non vedeva niente quando parlava di fisica. Aveva temporaneamente dimenticato la sua irritazione per i cambiamenti all'Istituto, e sembrava alquanto soddisfatto della vita. Io no. Mi avevano attirato all'Istituto per un viaggio assieme a McAndrew a mezzo anno luce dal sistema solare con Lyle e Parmikan. Anna Griss aveva architettato il mio arrivo. Era inconcepibile che le sorprese finissero lì. Che altre delizie erano in serbo quando mi sarei trovata nello spazio con i gorilla di Anna sulla Hoatzin? Una domanda che si perse nei giorni trafelati prima della partenza. La Hoatzin era pronta di tutto punto, ma non avevo ancora eseguito l'ispezione del motore e tutti gli altri preparativi che faccio di solito. Salii a bordo della nave, per verificare ogni cosa e non trovai niente che non andasse, tranne un leggero squilibrio nella propulsione che si sarebbe risolta in una correzione a metà della rotta, quando la nave si sarebbe rivoltata, a un quarto di anno luce da Sol. Né Lyle né Parmikan mi crearono problemi. Anzi, a stento li vidi prima che ci ritrovassimo tutti e quattro per il controllo finale e la partenza. Allora Stefan Parmikan si presentò con un bagaglio di quasi dieci volte superiore a quello consentito. Si oppose fermamente quando gli disse di portarlo via. «Tutto quello spazio» indicò la Hoatzin con il suo disco di massa da cento metri e l'asse da quattrocento metri che sporgeva come un'immensa asta grigia dal centro. «C'è spazio da sprecare per la mia roba.» Come faceva un uomo del nostro tempo a diventare adulto e saperne così poco della propulsione bilanciata di McAndrew?
«Il disco che stai indicando è fatto di materia solida compressa» dissi. «La densità è di milleduecento tonnellate per centimetro cubico, e la gravità superficiale è di centodieci G. Se vuole legare il suo bagaglio là sopra, buona fortuna.» «E l'asse? Si vede che è vuota.» «Sì. E deve restarlo, così la capsula abitativa può muovercisi su e giù. Altrimenti non potremmo compensare le accelerazioni gravitazionale e inerziale. O avviciniamo la capsula al disco mentre aumentiamo l'accelerazione o mi dice come facciamo a sopravvivere a cento G.» Dato che non dava grossi segnali di comprensione, agitai la mano. «La parte abitabile della Hoatzin si riduce a una sfera di quattro metri. Non voglio passare il resto del mese a inciampare sulla sua roba. E non intendo sprecare tempo a discutere. Quel bagaglio non viene con noi. Chiuso. Lo porti via, così possiamo prepararci a salire.» Parmikan mi guardò in cagnesco e si mise a borbottare, ma alla fine si riportò tutto indietro. Quando ricomparve un'ora dopo con un carico molto più piccolo, spinsi tutti a bordo della Hoatzin il più in fretta possibile, per evitare altri intoppi. Forse non fui meticolosa come avrei dovuto nell'ispezionare il bagaglio. Ma ho il sospetto che anche se lo fossi stata, non sarebbe servito a nulla. Ci dev'essere una minaccia ben definita per indurre ad aprire gli effetti personali della gente. Mi aspettavo scortesie, discussioni e forse problemi di disciplina, ma non pericolo. Diciamo che si trattava del mio secondo errore nel Progetto Materia Mancante. Una volta avviati mi sentii molto meglio. Con la propulsione in funzione sul perimetro del disco di massa, la Hoatzin è avvolta da un flusso di plasma altamente relativistico. I segnali non lo attraversano. Tutte le comunicazioni con Anna Griss e chiunque altro nel sistema solare erano bloccate. E questo mi andava benissimo. Alla fine delle prime ventiquattro ore a pieno regime ce la cavavamo a meraviglia. Procedevamo a un quarto della velocità della luce, in uscita da Sol ad angolo retto sul piano dell'eclittica e già alla distanza di Nettuno. Avevamo fissato una tipica routine di bordo, in basa alla quale ciascuno dava agli altri quanto più spazio possibile. Non c'è altro da fare quando si sa di dover passare un bel po' di tempo insaccati in un ambiente non più grande di una buona cucina. Ma a un tratto, inaspettatamente, il nostro silenzio in trasmissione provocò dei problemi.
Da ore la Hoatzin era piacevolmente silenziosa. McAndrew si era messo una tuta, di quei nuovi modelli trasparenti, così leggeri che si può stare comodamente nel vuoto assoluto accorgendosi a stento di indossarla. Stava per uscire. Quasi tutti sarebbero terrorizzati dalla prospettiva di lasciare la capsula con la propulsione in attività. Se per un qualsiasi motivo venisse disattivata, la capsula automaticamente sarebbe sbalzata dal lato opposto dell'asse, per mantenere il campo interno a un G. Ma se ci fosse qualcuno che non fosse saldamente assicurato alla capsula, piomberebbe a cento G di accelerazione verso il disco di massa. Una fine rapida, ma di quelle incasinate. McAndrew però non metteva mai in dubbio il buon funzionamento della sua invenzione. Era già uscito allegramente per verificare le condizioni dei nuovi rivelatori di massa che avrebbe utilizzato una volta giunto a destinazione, nel bel mezzo del nulla. Eravamo diretti nel settore a più. bassa densità di materia conosciuto, oltre l'estremo limite della Nube di Oort, dove avremmo trovato meno di un atomo ogni cento metri cubici. Guardavo i display regolati sull'esterno, in parte per esaminare il pennacchio di plasma che si lasciava indietro la Hoatzin, alla ricerca del minimo segnale di variabilità della propulsione, e in parte, a dire il vero, perché volevo tenere d'occhio McAndrew. Seconde lui la propulsione bilanciata non avrebbe mai creato problemi, anche se la prima volta che era stata impiegata a momenti lui ci restava. Con l'attenzione rivolta agli schermi, non mi accorsi di Stefan Parmikan che mi scivolava alle spalle. Avvertii la sua presenza solo quando sentii una voce soffice e sibilante che disse: «Sono tenuto a inviare tutti i giorni un rapporto al Consiglio, e a poter ricevere messaggi da loro». Mi girai di scatto. Il viso di Parmikan era a non più di un palmo dal mio. Forse non era colpa sua, ma perché doveva avere sempre quella bocca umida? «Ma il professor McAndrew mi ha detto che non possiamo inviare messaggi alla Terra quando siamo in propulsione» continuò. «Proprio così. Né alla Terra, né da qualsiasi altra parte. I segnali non passano.» «In tal caso, la propulsione dev'essere disattivata una volta al giorno, secondo il tempo di bordo.» «Se lo scordi.» Fui un tantino brusca, ma a quanto pareva Lyle e Parmikan si erano imbarcati nella spedizione senza saperne un'acca della nave, della propulsione e di tutto il resto. E quella di Parmikan non sembrava
una richiesta, ma un ordine. «Perderemmo un paio d'ore ogni volta che avviamo e interrompiamo l'alimentazione» proseguii. «Inoltre, la capsula andrebbe su e giù per l'asse come uno yo-yo per bilanciare il cambio di accelerazione da cento G a zero. Per di più, quando saremo a una certa distanza, i messaggi ci impiegherebbero troppo tempo ad arrivare e sarebbero inutili.» «Tuttavia, è tecnicamente possibile disattivare la propulsione e spedire e ricevere messaggi?» «Sì. Ma anche ridicolo, sotto il profilo pratico. Non lo faremo.» Parmikan mi fece quel suo sorriso umido, e per la prima volta parve avere un motivo di soddisfazione: «Invece sì, signora Roker. O meglio, lo farà lei. Disattiverà la propulsione una volta al giorno, per comunicare con la Terra». Tirò fuori di tasca un documento giallo, con il timbro del Consiglio in bella vista, e me lo porse. Non capitano Roker. Signora Roker. In pochi secondi diedi un'occhiata al documento e capii di cosa si trattava. Avevo tra le mani la nomina di Parmikan a capitano della Hoatzin per questa missione. Nell'agitazione dei preparativi per la partenza avevo del tutto dimenticato la lettera originale che avevo ricevuto. Un invito a partecipare alla spedizione in qualità di componente dell'equipaggio, non di capitano. Nei giorni prima della partenza avevo istintivamente assunto il massimo ruolo. E Lyle e Parmikan avevano avuto l'astuzia di assecondarmi, arrivando a chiamarmi "capitano Roker" finché adesso ci trovavamo in pieno viaggio ed era troppo tardi per fare qualcosa. «Allora, Signora Roker? Contesta l'autorità assegnatami da questo documento?» «Ne contesto il buon senso. Ma ne accetto la validità.» Diedi una scorsa al resto della pagina. Il comando di Parmikan si estendeva dal momento della partenza dall'Istituto Penrose all'attracco del ritorno. Nessuna scappatoia. «Ne convengo, lei è il capitano. Qui però non c'è niente sui miei compiti, né si specifica che dovrei accettarli. Perciò, se vuole disattivare la propulsione da solo, senza il mio aiuto...» Stefan Parmikan non disse nulla, ma i suoi occhi castani sempre sfuggenti si appuntarono per un attimo sui miei con un lampo di trionfo. Infilò una mano in tasca, estrasse una minuscola unità di registrazione e la mise in funzione. «Vengo a rapporto per prendere servizio» disse una voce. Era la mia.
«Per la spedizione di cui parla il professor McAndrew nella lettera che le ha inviato? Ma la missione e il suo ruolo non sono ancora del tutto definiti.» Questo era Dorian Jarver. «Potrà definirli dopo. Intanto sono qui, pronta a incominciare.» Ci fu una pausa, mentre quella parte della registrazione terminava. Poi la voce di Jarver riprese: «In conformità con la precedente dichiarazione del capitano Jean Pelham Roker, questo serve a definire i suoi compiti nella missione della Hoatzin denominata Progetto Materia Mancante. La signora Roker presterà servizio in qualità di generica componente dell'equipaggio, ricevendo ordini e incarichi dal capitano Stefan Parmikan e dall'ufficiale in seconda Van Lyle». Incastrata. E solo e soltanto per colpa mia. Avevo avvertito brutte vibrazioni al momento dell'incontro con Parmikan e Lyle. Ma poi avevo tirato dritta e ignorato i miei istinti. Diciamo che si trattava del mio terzo errore. McAndrew stava rientrando attraverso la piccola camera di equilibrio. Mi rivolsi a lui: «Mac, metti che disattiviamo la propulsione ogni giorno per un minuto o due, quanto basta a inviare un messaggio ad alta velocità verso la Terra. Aggiungendoci il tempo necessario ogni volta a intensificare e far decrescere l'alimentazione, di quanto aumenterebbe la durata totale del viaggio?» Mi fissò per un momento, poi spalancò la bocca e sul viso gli apparve una strana espressione di vacuità che sconfinava nell'idiozia. Mi andava benissimo. Volevo coglierlo proprio mentre era perso nel suo mondo, a riflettere e fare calcoli. Avevo rinunciato a cercar di capire cosa passava per la testa a McAndrew quando era preso dalla risoluzione di un problema. Anche se quello che gli avevo domandato era semplice e chiaro, e io stessa avrei potuto fare i calcoli in un po' di tempo, avrei scommesso che lui invece non stava utilizzando nessuna delle tecniche cui sarei ricorsa io. Come mi aveva detto uno dei membri dell'Istituto anni prima, McAndrew ha una mente che vede dietro gli angoli. «Cinque giorni» disse dopo pochi secondi. «Naturalmente secondo il tempo di bordo. Due mesi terrestri, tenendo conto della compressione temporale.» «È accettabile» disse Parmikan. «Signora Roker, la prego di effettuare i preparativi necessari e sottopormeli.» Si girò, tornandosene alla propria cuccetta, mentre io restai a fumare di rabbia e lanciare imprecazioni. Dopo un paio di minuti, mi sedetti a programmare i tempi ottimali per interrompere periodicamente la propulsione.
Dovevo conciliarla con altre attività, per dar modo a Parmikan di fare la sua chiamata quotidiana interferendo al minimo nella routine di bordo. McAndrew mi si avvicinò quando avevo quasi terminato e disse: «Jeanie, non ho afferrato cosa voleva quando mi hai fatto quella domanda, altrimenti avrei detto che era una cosa difficile. Non devi sopportare questa sciocchezza da parte sua». «Devo, invece.» Presi il risultato dei miei sforzi, sapendo che Van Lyle mi aveva tenuto gli occhi addosso tutto il tempo che ci avevo lavorato. «Conosci quanto me la prima regola dei viaggi spaziali: volente o nolente, c'è un solo capitano. Il capitano della Hoatzin è Parmikan.» Andai con la tabella che avevo preparato all'area di riposo riservata a Parmikan, coperta da una tendina. I piccoli spazi concessi a ognuno di noi erano volutamente situati in modo da tenerci il più possibile separati, lungo il perimetro della capsula. Picchiai alla riloga della tenda. «Questo è il prospetto orario che suggerisco» dissi quando spuntò la testa di Parmikan, e glielo porsi. Ma lui non lo prese. «È una procedura semplice?» domandò. «Credo di sì. Ho fatto del mio meglio per semplificarla il più possibile.» «Bene. Allora non credo avrà problemi a eseguirla. Mi informi quando la propulsione verrà disattivata e saremo pronti per la prima opportunità di comunicazione con la Terra. Avrò un altro incarico per lei.» Ritirò la testa dietro la tenda. Cominciavo a capire quale sarebbe stato lo stile di comando di Parmikan. Lui avrebbe dato tutti gli ordini. Io avrei svolto tutto il lavoro. Era la vendetta di Anna Lisa Griss per aver fatto valere la mia autorità su di lei. Per due mesi avrei dovuto obbedire a ogni minimo capriccio di Parmikan. Ero ancora così ingenua da credere che questo l'avrebbe soddisfatta. Cos'era, il mio quarto errore? Ormai stavo perdendo il conto. Me ne stetti a ribollire di rabbia per la prospettiva di ricevere degli ordini, finché mi ricordai che Lyle e Parmikan erano del tutto ignoranti di come andavano le cose a bordo. A quel punto pensai: meno male. Che effetto ti avrebbe fatto se Parmikan avesse rilevato i controlli personalmente? E proseguii col programma di disattivazione della propulsione a intervalli regolari. Soltanto che McAndrew aveva ascoltato il mio scambio con Parmikan e gli dispiaceva per me. Insistette a voler occuparsi lui del tedioso compito di cambiare la tabella di marcia della propulsione. Acconsentii. Con lui andavo sul sicuro, dato che Mac è così perfezionista in questo genere di
cose da farmi sentire una sciattona qualche volta. Ma Mac riesce a entrare in tutte le pieghe solo nelle questioni scientifiche. Invece nel profilo generale della missione della Hoatzin gli sfuggì qualcosa che io avrei notato subito. Lo scoprii molto dopo, e quasi troppo tardi. Diciamo che si trattava del mio quarto errore e chiudiamo qui il conto. Per me le interruzioni del nostro corso erano un inutile inconveniente. Non avevo idea di cosa inviassero o ricevessero Parmikan e Lyle nelle loro comunicazioni quotidiane. Ne ero espressamente esclusa, e in ogni caso Parmikan riusciva a tenermi impelagata in mille altre cose che mi era impossibile occuparmi dei messaggi. Aveva un genio insuperabile nell'escogitare compiti avvilenti e inutili. Comunque sapevo che la persona a inviare e ricevere dall'altro capo non era Dorian Jarver. Il collegamento era ubicato sulla Terra non all'Istituto Penrose. E McAndrew, com'era tipico di lui, riuscì a trovare un modo di trasformare in un'opportunità anche i periodi in cui la propulsione era disattivata. Decise che poteva utilizzare quei pochi minuti ogni giorno per effettuare i suoi primi esperimenti. Una mattina, subito dopo colazione andai in fondo alla capsula abitativa per sfuggire a Van Lyle. Non mi mollava mai con quei suoi occhi penetranti, mi seguiva dovunque. Trovai McAndrew seduto al pannello delle sue apparecchiature, che fissava la parete con la fronte corrugata. «Problemi?» Alzò le spalle e si grattò la testa tendente alla calvizie. «Pare di no. Tutto è regolare alle verifiche interne. Ma guarda qui.» Avvicinò un display. «Ho il rivelatore di massa più sensibile puntato sulla nostra destinazione finale. Tutti gli strumenti confermano che non c'è assolutamente nulla lì. Ma guarda questi.» Indicò dei piccoli segnali acustici nel livello di uscita delle apparecchiature. «Rumore?» suggerii. «O il risultato della nostra alta velocità? O forse un effetto locale, qualcosa a bordo della Hoatzin?» Mi aveva detto che i suoi nuovi strumenti erano sensibili alle interferenze in modo sovrannaturale. «No, vengono decisamente da fuori, da molto lontano. E sono regolari. È il genere di segnali che si ricevono da grossi oggetti in volo, che coprono distanze uniformi attraverso il proprio campo visivo. Soltanto che là fuori non c'è nulla. È un assoluto mistero.» «Allora devi solo avere pazienza. Abbiamo già superato il punto di rota-
zione della nave. Tra dodici giorni saremo là, e potrai cercare il tuo...» «Membro Roker!» Era la voce di Parmikan, che risuonava nella capsula abitativa. «Venga qui. Ho un incarico da eseguire immediatamente.» Aspirai profondamente, trattenendo l'aria. Incominciava un'altra giornata divertente. Ce n'erano ancora dodici prima di posarci nel più perfetto nulla mai visto da esseri umani, a mezzo anno luce dal Sole. Dato che l'intero spazio abitabile della Hoatzin consisteva in un diametro di quattro metri, sapevo già prima di partire dall'Istituto che avremmo vissuto gomito a gomito. Ma data l'assenza d'intimità, c'era una forma di vicinanza che non mi sarei mai aspettata. La sorpresa venne a tarda sera del ventitreesimo giorno di viaggio, quando Mac era sul fondo schermato della capsula abitativa a borbottare sui rilevamenti tuttora anomali provenienti dalle sue apparecchiature. I segnali acustici aumentavano. Col consenso di Parmikan, Mac aveva gradualmente mutato la nostra rotta, spostando la direzione della nave verso la fonte più forte del segnale. Saremmo giunti a un decimo di anno luce dalla nostra destinazione originaria, ma come aveva fatto notare McAndrew, quella era stata una scelta più o meno arbitraria. Qualsiasi posto dove la densità della materia fosse bassa sarebbe servito altrettanto bene allo scopo. Alle undici Stefan Parmikan dormiva. Io me ne stavo seduta in cuccetta con le gambe incrociate ad ascoltare una conferenza dell'Istituto dalla mia biblioteca su nastro. Era "Fisica moderna per tecnici", di Gowers, Siclaro e McAndrew, un corso concepito per essere a più bassa intensità delle relazioni seminariali dell'Istituto, consistenti in duecento dimostrazioni di fila. Erano disponibili altre tre serie di conferenze, a livelli di difficoltà che diminuivano rapidamente. Avevano tutti dei titoli ufficiali, ma nell'Istituto le avevano soprannominate "Fisica per animali", "Fisica per vegetali" e "Fisica per giocatori di football". Me le ero portate tutte e quattro, non si poteva sapere, ma tenevo duro con "Fisica per tecnici". Finalmente mi stavo facendo un'idea più chiara del perché ci stavamo precipitando a rotta di collo a mezzo anno luce da Sol. C'era qualcosa di assente nell'universo, qualcosa che secondo le migliori menti invece avrebbe dovuto esserci: la materia mancante. La "roba luminosa", la materia visibile, quasi non basta a mantenere in equilibrio l'universo su quella linea sottile fra l'espansione perpetua e il
collasso nel Big Crunch. È questo che pretendono i teorici, ma la roba luminosa rappresenta solo l'un per cento della massa necessaria. Al massimo se ne può ricavare un fattore di dieci da altri tipi di materia, più o meno simile a quella visibile ma troppo fredda per essere vista, e questo è tutto. Rimane così un fattore di meno dieci nella massa. E qui è l'inghippo. Allora bisogna puntare su altri materiali, meno conosciuti. Fra i candidati, i neutrini che si muovono quasi alla velocità della luce, materia scura calda. Ce n'è un sacco, prodotti subito dopo il Big Bang ma maledettamente difficili da individuarsi per via sperimentale. I neutrini non interagiscono troppo con la materia comune. Attraverserebbero perfino un pezzo di piombo lungo anni luce, se mai fosse disponibile. Sono dei candidati al ruolo di materia mancante, ma non i primi in classifica. Non bastano a conferire all'universo la giusta densità di struttura, e comunque la loro massa totale risulta scarsa. Gli altri candidati sono più lenti e pesanti dei neutrini. Si tratta della scuola della materia scura fredda, assioni, fotini e gravitini, e neanche loro danno la giusta densità all'universo. Pur aggiungendoli alla massa dei neutrini, il tutto risulta troppo piccolo. In effetti, McAndrew sosteneva che ormai eravamo arrivati fin dove potevano le teorie. Ora bisognava andare sul campo, dove c'era una maggiore possibilità di riuscita per gli esperimenti, e misurare la quantità esistente di materia scura calda e materia scura fredda. Dopodiché avremmo saputo a che punto eravamo. Per me era una completa novità. Ero in piena concentrazione, alle prese con le teorie di quelle imbranate delle PMID, Particelle di Massa a Interazione Debole, quando fui interrotta. Era da tre giorni che mi ero accorta di avere sempre Van Lyle alle calcagna. E me ne accorsi ancor di più quando sentii un paio di braccia che mi avvinghiavano da dietro e due mani che mi si chiudevano sui seni. «Ehi, Jeanie» mi sussurrò all'orecchio Lyle. «Hai delle belle tette. Per un po' sarà tutto tranquillo e confortevole. Vogliamo fare amicizia?» Scattai in avanti sulla cuccetta, divincolando le gambe e cercando di liberarmi. Lui teneva duro e mi faceva male. «Toglimi queste manacce di dosso.» Avrei voluto dirgli di molto peggio, ma sapevo che saremmo stati insaccati assieme per un altro po' di settimane, nonostante tutto. Ero stata addestrata a evitare attriti a bordo, e volevo mantenermi calma per chiudere l'incidente in termini civili. Mi voltai per guardarlo in faccia e mi liberai. «Via, non fare così.» Aveva sulle labbra un sorriso largo e viscido,
dell'uomo che è convinto d'essere un dono divino per le donne. «Andiamo. Scaldati. Potremmo divertirci parecchio.» Allungò di nuovo una mano sul mio seno, e gliela spinsi via. «Piantala, Lyle! Non se ne fa niente, chiaro?» «Perché non l'hai provato. Un sacco di donne potrebbero dirti che non resterai delusa. Vuoi dare un'occhiata alle mie referenze?» Poi, mentre non facevo che scostare la sua mano che mi frugava, stavolta palpandomi l'inguine, disse: «Ehi, Jeanie, sei davvero forte. Non hai idea di come mi piacciano le donne forti». «Davvero, eh?» Ne avevo abbastanza. «E questo, è abbastanza forte per te?» Ruotai su me stessa con tutta la forza mentre lui si sporgeva con il viso verso di me, e colpii con un pugno sul naso. Fece un male cane, a me, voglio dire. Non m'importava niente di quanto aveva fatto male a lui. Ma non credo apprezzò il gesto, perché col sangue che gli schizzava dal naso spiaccicato imbrattando la mia cuccetta lanciò un grido terribile che fece accorrere McAndrew. Meno male, perché a quel punto ero in piedi, giù dalla cuccetta, pronta a mollare a Lyle un calcio nelle palle almeno dieci volte più forte del pugno sul naso. McAndrew si mise fra noi prima di darmene il tempo. Si chinò su Lyle con una pezza in mano per detergere il sangue. «Che è successo?» Lyle diede solo un terribile suono nasale. «È inciampato mentre si avvicinava» dissi «e ha battuto con la faccia sul taglio della cuccetta. Prendi la cassetta del pronto soccorso.» McAndrew guardò la cuccetta quando apparve finalmente Stefan Parmikan. Sapevo che McAndrew stava calcolando rapidamente l'altezza e l'angolo d'impatto, scartando quella possibilità. Ma non disse una parola. Nemmeno Lyle, a parte i lamenti quando Parmikan cercò di spostargli il naso rotto per cercare di riassestarglielo in modo ragionevole. Sistemammo il naso alla meno peggio e somministrammo un sedativo a Lyle. Parmikan tornò a letto. Durante il periodo di riposo, McAndrew si chinò sulla sponda della mia cuccetta e mi bisbigliò: «Jeanie? Lo so che sei sveglia. Tutto a posto?» «Sto benissimo.» Non volevo farlo infuriare come me. «Non ha battuto sulla cuccetta, vero? Ti ha fatto delle avances e tu l'hai colpito.» «Cosa te lo fa pensare?» Si supponeva che McAndrew riservasse tutto il
proprio intuito alla natura, ma non alla natura umana. «Parlava di te due giorni fa, in tua assenza. Ha detto che voleva portarti a letto. Bagnare il biscotto, per la precisione.» «E tu te ne sei stato lì senza far niente? Per l'amor di Dio, perché non gliel'hai impedito? Potevi dirgli che siamo amanti, da anni.» Ci fu una lunga pausa preoccupata. «Non sarebbe stato giusto parlare di te in quei termini. E poi, Jeanie, non sei affatto di mia proprietà, lo sai.» McAndrew, McAndrew. Se non fossi così presa da te, ti torcerei quel collo da scrupoloso puritano. «Ma sai una cosa?» continuò. «Temo che questo renderà più difficile l'atmosfera di lavoro durante l'esperimento.» Meno male che era buio, altrimenti avrei rotto il naso anche a lui. I primi ventitré giorni di viaggio erano andati piuttosto male, o così sembrava. Il mattino successivo scoprii che gli ultimi cinque sarebbero stati molto peggio. Senza contare il periodo riservato agli esperimenti di McAndrew, seguito da un viaggio di ritorno all'Istituto di quattro settimane. Il ventiquattresimo giorno si capì l'aria che tirava. Van Lyle si alzò presto. L'ematoma sul naso gli si era misteriosamente dilatato, dandogli un paio di occhioni bordò. Con un cerotto bianco e rigido nel bel mezzo del viso, somigliava a un gufo vendicativo mentre si tirava giù dalla cuccetta barcollando. Si guardò attorno furente. «L'interno di questa capsula è sporco. Dev'essere pulito.» «Niente di grave» dissi. «È semplicemente quel che c'è da aspettarsi da una nave dopo tre settimane.» «Lasci giudicare a me.» Lyle prese un piatto di cereali umidi, lo capovolse e lo lasciò cadere deliberatamente sul pavimento. «Si metta al lavoro. Prima questa cabina, poi i miei alloggi. Nel pomeriggio verrò a ispezionare i risultati.» Mi trattenni per un pelo. Quando Stefan Parmikan fece la sua comparsa dieci minuti più tardi, avevo preso gli attrezzi delle pulizie dalle rastrelliere sulla volta ed ero pronta a usarli. Lui guardò, non a me, ma oltre. «Cosa crede di fare?» «Prepararmi a pulire la cabina, su istruzioni dell'ufficiale Lyle.» «Molto bene. Potrà farlo dopo. Ora ho bisogno che lei mi spieghi la procedura di correzione automatica di rotta della nave.» Incredibile. Possibile che finalmente a Stefan Parmikan interessava il
funzionamento della Hoatzin? Mi alzai per seguirlo, ma lui si voltò e indicò gli attrezzi delle pulizie. «Prima li rimetta a posto nelle rastrelliere sulla volta. Non voglio passare il resto del giorno a inciampare nella sua roba. E non intendo sprecare tempo a discutere. Potrà riprenderla dopo.» Non mi fece bene rendermi conto che Parmikan stava citando le mie stesse parole sul suo bagaglio che avevo rifiutato di prendere a bordo. Iniziai a riporre gli attrezzi delle pulizie, e a pensare bene di Fletcher Christian. Nei cinque giorni successivi sembrava che non ce ne fosse uno allegro sulla Hoatzin. Parmikan e Lyle cercavano continuamente di farmi uscire dai gangheri, restando continuamente delusi. Ci andarono vicino, ma non gli avrei dato di certo il piacere di sapere quanto. E McAndrew, che avrebbe dovuto essere felice come una pasqua perché era arrivato il momento dei suoi esperimenti, era diventato serio e introverso. La Hoatzin si era avvicinata alla fonte del suo più forte segnale anomalo, ma questo non pareva aver risolto il suo problema. «Guarda qui, Jeanie» disse durante una delle mie rare pause dalla schiavitù. Avevo appena verificato che la nave aveva raggiunto destinazione e velocità finali, con la conferma che eravamo di nuovo in posizione di quiete rispetto a Sol. «Questi sono segnali in tempo reale, vengono emessi proprio in quest'istante. Le mie apparecchiature sono puntate su un settore a soli due secondi luce da qui. Puoi vederlo in display sulla parte sinistra dello schermo.» Guardai. A parte un triangolo di tre stelle luminose di riferimento, il display della lunghezza d'onda visibile era vuoto. «Non c'è niente» dissi. «Proprio così. E adesso, l'input dai rivelatori di massa. Sono predisposti per esaminare lo stesso campo e li ho regolati in funzione visuale puntati a due secondi luce di distanza.» McAndrew fece apparire velocemente il risultato del rivelatore di massa a destra, sul display diviso in due. Lo fissai. Non mi aspettavo di vedere niente neppure sul lato destro dello schermo, e fu esattamente ciò che vidi. Il settore a due secondi luce da noi, dov'erano puntati gli apparati di rivelazione di massa di McAndrew erano assolutamente privi di materia, più di ogni altro settore conosciuto. «Be'» feci per dire. E fu allora che accadde qualcosa di impossibile. Sulla metà sinistra dello schermo continuava a non esserci altro che le lontane
stelle di riferimento, ma nella parte che raccoglieva gli input del sistema di visualizzazione di massa si vide un oggetto che attraversò lo schermo regolarmente, da cima a fondo. Era una chiazza dai contorni definiti e di forma irregolare, con la configurazione di un sigaro grosso, ricurvo e bitorzoluto. Ci mise una decina di secondi dalla prima apparizione in cima allo schermo fino alla sua progressiva scomparsa dal margine inferiore. Doveva muoversi a non più di qualche miglio al secondo rispetto alla Hoatzin. «Mac, forse hai impostato male i display. Così mostrano campi visuali differenti.» «Nient'affatto, Jeanie. Ho controllato una dozzina di volte. Mostrano la stessa parte del cielo.» «Ripassalo. Fammelo rivedere.» «Non è necessario. Aspetta venti secondi e ne vedrai un altro. All'incirca uno al minuto.» Aspettammo. Alla fine una seconda forma, apparentemente identica alla prima, si mosse con grazia sullo schermo del rivelatore di massa. E lo schermo della lunghezza d'onda visibile appariva sempre vuoto. «Ultravioletto» dissi. «O infrarosso, microonda...» «Li ho controllati tutti. Niente, dalle radiazioni ai sensori di particelle. Solo il segnale dai rivelatori di massa.» «Allora sono buchi neri. Nuclei. Devono esserlo.» «È esattamente quel che ho pensato, quando ci trovavamo ancora a una certa distanza e il segnale era solo una macchia confusa senza struttura. Ma guarda soltanto che forma ha quella...» Lo schermo era attraversato da una terza sagoma, che pareva una grossa banana piena di escrescenze. «Eppure sai quanto me che i buchi neri devono avere almeno una simmetria rotazionale. Invece quella roba non ha affatto un'asse di simmetria. È un'altra cosa. Ho fatto un test attivo. Ho inviato un flusso di particelle a intercettare uno di quegli oggetti. Se si fosse trattato di un buco nero, si sarebbe dovuto avere un segnale di radiazione di ritorno quando le particelle venivano prese dal campo gravitazionale. Invece non è arrivato un bel niente. Le particelle ci sono passate attraverso come se non ci fosse nulla di nulla.» Avvertii una strana sensazione di prurito lungo la schiena. Stavamo osservando il nulla, un spettro del vuoto, una memoria perduta di materia. Da un cavaliere di spiriti e d'ombre, son convocato a torneo, dieci leghe più oltre dell'estremo confine del mondo... solo che nel nostro caso quelle
dieci leghe erano diventate mezzo anno luce. «Mac, non è possibile. Non possono esistere.» «E invece sì.» A McAndrew brillavano gli occhi. Capii che avevo frainteso il suo stato emotivo. Non era frustrazione. Erano un immenso entusiasmo trattenuto e un'intima gioia. «E ora che le ho viste più dettagliatamente, so cosa sono.» «E cosa, allora?» «Te lo dirò, ma non prima che abbiamo la possibilità di ottenere un autentico primo piano. Vieni, Jeanie.» Andò dritto agli alloggi privati di Parmikan, picchiò sul muro e tirò la tenda di lato senza attendere un invito. Parmikan e Lyle stavano assieme là dentro, con le teste vicine. Se n'erano stati in disparte dal giorno prima, dopo un messaggio insolitamente lungo alla o dalla Terra. Si allontanarono di scatto all'intrusione di McAndrew. «Vogliamo effettuare un piccolo spostamento della Hoatzin» disse senza preamboli. «E devo uscire. Gradirei avere con me il capitano Roker.» Se stava chiedendo il permesso, chiamarmi "capitano Roker" con Stefan Parmikan era il modo peggiore di ottenerlo. Mi aspettavo un immediato rifiuto. Invece i due uomini si scambiarono una rapida occhiata, poi Parmikan si rivolse a McAndrew. «Che intende per spostare la nave?» «Solo di poco, di un paio di secondi luce. C'è qualcosa cui devo dare un'occhiata nell'ambito dei miei esperimenti. Appena saremo nella giusta posizione, avrò bisogno di portare fuori con me un paio di rivelatori di massa ed esaminare una struttura. Ci metterò qualche ora, tutto qui. Ma è un lavoro da fare in due, e mi serve aiuto.» Non mi aspettavo certo che si offrissero di farlo Lyle o Parmikan, ma nello stesso tempo neanche che mi avrebbero dato il permesso. Se stavo fuori, come avrebbero potuto infliggermi mansioni disgustose? Invece Parmikan annuì immediatamente. «Benissimo» disse McAndrew. La sua diffidenza era sparita. «Jeanie, mentre preparo le apparecchiature, voglio che tu porti la Hoatzin dritta incontro a una delle anomalie. Mettici giusto al centro, e assestaci a velocità relativa zero.» Non discussi. Ma quando lui se ne andò in fondo alla capsula abitativa, feci esattamente la metà di quello che aveva richiesto. Una porzione piccola e guardinga del cervello mi si stava risvegliando da un sonno in cui doveva essere piombata da quando avevo deciso di rispondere alla lettera di
McAndrew fiondandomi direttamente all'Istituto. Così feci sì che ci avvicinassimo a uno degli oggetti e ridussi a zero la velocità relativa... ma tenni la nave a un paio di chilometri di distanza anziché realizzare l'incontro richiesto da McAndrew. Poteva anche sapere esattamente con cosa aveva a che fare, ed essere sicuro che non c'era pericolo. Ma finché non l'avessi saputo anch'io, avrei continuato a considerare pericoloso in tutto e per tutto ogni settore vuoto dello spazio occupato da un mistero. Mentre portavo a termine il mio compito, notai una piccola incongruenza nelle operazioni del computer della Hoatzin. Il programma funzionava a puntino, ma appena inserivo ogni cambiamento di posizione e velocità, una luce di avvertimento segnalava che si stava sviluppando un carico extra di dati. Il tempo di risposta era di una frazione di secondo più lungo del solito. Avrei dovuto accorgermene quando, su insistenza di Parmikan, avevamo incominciato ad attivare e disattivare la propulsione ogni giorno, ma era stato Mac a programmare tutti quei cambiamenti per farmi un favore. E se Mac fosse stato subito pronto a uscire, avrei potuto ignorarlo anche adesso. Invece, diedi un'occhiata per vedere dove andavano a finire i dati ottenuti. Trovai un "Trastullo da Scemi". I dati che creavo finivano in un programma di controllo della traiettoria di un tipo molto disprezzato dai professionisti. Era quel genere di roba che chiunque poteva utilizzare e nessuno lo faceva, perché era garantito che sarebbe stata inefficace. In un Trastullo da Scemi, per ogni movimento compiuto dalla nave si otteneva e veniva registrato il movimento inverso. Se in seguito si faceva scorrere il programma, la nave sarebbe tornata al punto di partenza lungo qualsiasi tipo di traiettoria, sia pure tortuosa, avesse seguito all'andata. L'unico vantaggio del programma era la semplicità. Bastava premere un bottone e non c'era più bisogno di pilotare. Ma non se ne parlava neppure di tornare lungo la traiettoria originale. C'erano dei sistemi molto più efficaci per programmare la propulsione. E di certo non avevo dato io il comando di far confluire i dati richiesti nel Trastullo da Scemi prima che la Hoatzin lasciasse l'Istituto Penrose. Era stato Mac? E in tal caso perché? Ormai avevo cominciato a fare gli straordinari in fatto di prudenza. Istintivamente cancellai dalla memoria l'intera sequenza del Trastullo da Scemi, e lasciai un messaggio sullo schermo di controllo: IL PROGRAMMA DI RITORNO AUTOMATICO SULLA TERRA È STATO CANCELLATO DAL CAPITANO ROKER.
Sembrava ragionevole quando lo feci, ma iniziai a ripensarci appena raggiunsi McAndrew. Lui aveva messo in funzione gli apparati di osservazione del rivelatore di massa come unità autonome e si era già messo la tuta. «Mac.» Prima mi infilai la tuta e mi accertai al cento per cento che non ci sentissero Van Lyle o Stefan Parmikan. «Sei stato tu a inserire un Trastullo da Scemi nel computer della Hoatzin?» Era intento a infilare gli ingombranti rivelatori nella camera di equilibrio. «Perché avrei dovuto fare una simile stupidaggine» disse, e scomparve attraverso il portello. Già, perché avrebbe dovuto fare una cosa del genere? mi domandai. Perché avrebbe dovuto farla chiunque altro? A meno che non avesse sospettato che per il viaggio di ritorno verso Sol non ci sarebbero più stati dei piloti competenti come me o McAndrew a guidare la Hoatzin. Paranoica? Potete scommetterci. Non c'era altro modo di stare a bordo. Uscii dalla camera di equilibrio nel silenzio perpetuo che riempie lo spazio tra le stelle. Sol si era affievolita, indistinguibile da dozzine di altre. La individuai dalla posizione, non dalla luminosità superiore. Il settore in cui ero sospesa appariva completamente vuoto e privo di caratteristiche, nonostante i sistemi di potenziamento visuale della tuta. Qui le particelle erano di meno e il vuoto più rimarcato. Ma un osservatore umano non si sarebbe mai accorto della differenza. Mi voltai verso Sol. In un modo o nell'altro la situazione era questa: se mandavo tutto all'aria e qualcosa andava storto, era lunga fino a casa. Azionai i getti, allontanandomi delicatamente dalla nave per avvicinarmi a McAndrew. Lui guardò con grande irritazione i valori sul rivelatore di massa. «Jeanie, hai fatto un errore. Siamo a chilometri di distanza dalla fonte.» «Puoi ben dirlo. Due chilometri, per l'esattezza. So che ci si vede attraverso e sembra che non ci sia niente là, però voglio avvicinarmi a questo particolare niente con molta cautela.» Diede un sospiro paziente, da martire afflitto da una lunga sofferenza e disse: «Ah, Jeanie. Non c'è proprio alcun pericolo qui, come invece pensi tu. So benissimo di che si tratta». «Forse. Ma non me l'hai detto.» «Lo farò ora, in ogni caso. È materia ombra.» Quindi, al mio sguardo perplesso rispose: «Sono sorpreso che tu non ne abbia mai sentito parlare». «Lo so, Mac, sono una continua delusione per te. Però è così. Perciò
dimmelo tu.» «È meraviglioso. Una logica conseguenza della teoria della supersimmetria. Subito dopo il Big Bang, vale a dire all'incirca 10-43 secondi dopo, prima che si verificasse qualsiasi altro evento conosciuto, la gravità si separò da tutto il resto. Più o meno come le radiazioni si separarono dalla materia, ma il distacco della gravità avvenne molto prima. Ne è risultata una sorta di incrinatura nella simmetria di scissione, da cui hanno avuto origine due tipi di materia: quella ordinaria e quella ombra. Proprio come la materia e l'anti-materia, soltanto che la materia e la materia ombra non possono interagire né attraverso forze nucleari forti, né le radiazioni, né la forza nucleare debole. Possono interagire solo per influsso gravitazionale. È impossibile rilevare la materia ombra sparandogli contro delle particelle. Ci abbiamo provato anche noi. Le particelle avvertono la forza gravitazionale, ma di decine di ordini di grandezza più debole per poter avere il benché minimo effetto.» Guardai il nulla, nella stessa direzione in cui erano puntati i rivelatori di massa. «Stai dicendo che qualsiasi cosa ci sia là, è reale quanto me e te, ma non possiamo vederla?» «Non possiamo e non lo potremo mai. La vista dipende da un'interazione con le radiazioni. C'è un solo modo per sapere cos'abbiamo scoperto, ed è tramite questi.» Accennò ai rivelatori di massa. «Siamo perfettamente al sicuro, come dicevo. Ma dobbiamo effettuare una mappatura dettagliata. Chissà cosa c'è là? Potrebbe trattarsi di una stella di materia ombra, e non abbiamo idea di quanto potrebbe essere grande un astro in quel tipo di universo o quali siano le leggi che ne regolano le forze. Oppure abbiamo intercettato un gruppo di astronavi interstellari di materia ombra, o una colonna di formiche di materia ombra che avanzano in un supermondo di materia ombra. «Credi che scherzi, ma non è così. Potrebbe essere di tutto. L'unico modo per avere un'idea di cos'abbiamo scoperto è mediante una struttura a tracciato. È per questo che ho bisogno di te: mettere transetti è un lavoro che si fa in due.» Siamo perfettamente al sicuro, aveva detto. Ma forse solo fuori dalla Hoatzin. «Mac, prima di iniziare il lavoro, dobbiamo parlare. Credo che abbiamo un brutto problema.» Gli dissi del Trastullo da Scemi nel computer della nave. Gli vidi corrugare la fronte attraverso il visore della tuta. «Ma perché a-
vrebbero dovuto sprecare tanto accumulo di dati per una cosa del genere?» «Per poter tornare anche se ci fosse accaduto qualcosa a tutti e due.» A quel punto feci con la mente il passo finale, quello cui finora avevo resistito. «Mac, in realtà è stato deciso che non dobbiamo tornare da questo viaggio. Il piano prevede che scompariamo mentre ce ne stiamo qua fuori. Se ora fosse attivata la propulsione della nave, chi verrebbe a sapere che ne è stato di noi?» Si volse a guardare la Hoatzin e disse: «Non arriverebbero a tanto». «Adesso no di certo. Ho cancellato il programma sul quale facevano affidamento per tornare. Perciò hanno bisogno di noi.» O anche soltanto di uno di noi. Ma non lo dissi. «Per il momento siamo relativamente al sicuro.» «Ma che succede quando torniamo dentro? Non possiamo restare qua fuori per sempre.» «Non so che risponderti. Abbiamo aria a sufficienza per sei o sette ore. Dobbiamo escogitare qualcosa, e presto.» Altroché se dovevamo escogitare qualcosa. Ma non ci riuscivamo. Io avevo la mente vuota. Quanto a McAndrew, è un supercervello, ma non per questo genere di problemi. Dopo mezz'ora in caduta libera a un tiro di schioppo dalla nave, scosse la testa. «Ci rinuncio. Ma è da stupidi. Non serve a niente starcene qui con la mani in mano. Perlomeno potremmo effettuare delle misurazioni.» Mi affidò uno dei rivelatori di massa, con i sensori di posizione inerziale regolati sulla Hoatzin per riferimento, e cominciò a spedirmi da un determinato punto a un altro sotto le sue direttive, mentre anche lui si spostava di continuo con un moto relativo. Aveva tutta l'aria di sapere quel che voleva. Tanto meglio, perché io invece ero tutta presa dalla situazione a bordo. Cosa avremmo fatto quando la scorta d'aria sarebbe diminuita? Rimuginai su quel problema senza risultati mentre McAndrew effettuava quattro passaggi rettilinei attraverso il settore di un chilometro di ampiezza che aveva descritto come materia ombra. I rivelatori di massa confermavano che lì c'era qualcosa. Mentre io non vedevo assolutamente nulla. Al quinto passaggio McAndrew si fermò a metà strada. Mi disse di avvicinarmi, mentre faceva compiere al suo rivelatore una complessa spirale nello spazio. Al termine di questa lasciò il rivelatore dov'era, venne verso di me ed esaminò la registrazione sul mio apparecchio. «Be', che io sia dannato» disse. «Jeanie, penso che tu avevi ragione. Re-
sta qui.» E lasciandomi disorientata e con la sensazione di avere l'intelligenza di un segnale stradale, sgattaiolò via. Stavolta mosse nello spazio il suo rivelatore di massa attraverso un sentiero ancora più complesso, facendo frequenti pause e avanzando con molta cautela. «Nell'insieme ancora non ho idea di cosa sia» disse quando tornò verso di me. «Ma una cosa posso dirti di sicuro. Nello spazio ombra esistono strutture che non abbiamo mai incontrato nel nostro spazio-tempo.» «Avevo ragione su cosa?» domandai. «Hai appena detto che avevo ragione. Ma su che cosa?» «Che non avremmo dovuto piazzarci la nave nel bel mezzo senza saperne di più. Attraverso il settore della materia ombra, vedo un'evidenza di singolarità di linee gravitazionali, o qualcosa di molto simile. Nel nostro universo non ci sono. Se ci fossimo avvicinati troppo avremmo potuto finire nei guai.» «E secondo te non siamo nei guai anche adesso, con Lyle e Parmikan che ci aspettano?» «Ho pensato anche a quello.» Si avvicinò, dietro il visore si vedevano la sua faccia tesa e la barba lunga. «Credo che la tua reazione sia eccessiva. Non abbiamo alcuna prova che Lyle e Parmikan sapessero che nel computer della Hoatzin c'era un Trastullo da Scemi. Tanto meno prove che volessero farci del male. Comunque» proseguì senza darmi il tempo di interromperlo «una cosa è certa: quando torniamo nella camera di equilibrio, entrerò prima io, mentre tu resterai fuori. Li conosco tutti e due, mi rispettano, e non mi torceranno un capello.» McAndrew dice le bugie così male da risultare patetico. Non stetti lì a discutere. Ma a pochi metri dal portello dissi: «L'hai capita al contrario. È a me che non torcerebbero un capello, perché gli serve un pilota per tornare. Inoltre tu non sai usare la nostra sola arma. Non avvicinarti troppo al portello.» Mi lanciai verso la camera di equilibrio, infilandomi dentro e richiudendomi in un attimo il portello alle spalle, con McAndrew che picchiava da fuori. Mentre l'ambiente si riempiva di aria, feci un piccolo lavoretto. Consistette nel saltare tre diverse procedure di sicurezza, perciò ci volle qualche minuto. Alla fine mi mossi verso il portello interno, quindi scattai all'indietro, in piedi vicino a quello esterno. Non sapevo cosa aspettarmi. Lyle e Parmikan intenti alle solite faccende di bordo, con una trafila di lavori sgradevoli da affidarmi? O in attesa di protestare perché senza alcuna ragione avevo cancellato un programma
che uno di loro aveva installato nel computer con un fine del tutto innocente? Quello che non mi aspettavo era un'arma a proiettili in mano a Van Lyle e puntata sul mio ombelico. Mollai un pugno sul comando del portello, pensando in un lampo che avrei dovuto effettuare un'ispezione più accurata dei bagagli prima di imbarcarci sulla Hoatzin. Mi mossi più in fretta che potevo, ma loro erano già pronti. Io ero troppo lenta. Lyle pigiò il grilletto. Mentre lo faceva accaddero due cose. Parmikan colpì la mano di Lyle e strillò: «Non ucciderla! Ci serve per riportarci indietro». Questa fu la mia salvezza, perché fece sbagliare la mira a Lyle. Nello stesso tempo il portello esterno, col meccanismo di sicurezza rotto dal mio pugno, esplose in un rigurgito di aria. Fui sbalzata fuori anch'io, col pensiero del fallimento del mio piano di contrattacco all'ultima trincea. Fui colpita. E la mia arma segreta risultò inutile, perché Lyle e Parmikan si erano già messi le tute. Sentii la lieve debolezza derivante dall'improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Poi la tuta mi si richiuse e pochi secondi dopo McAndrew mi afferrò, facendomi smettere di girare. Mi aveva seguito quando ero emersa in quella nube cristallina di aria congelata. Per la prima volta sentii dolore e abbassai gli occhi. Mi mancava metà polpaccio della gamba sinistra. Il laccio emostatico automatico aveva attraversato la tuta e si era stretto al di sotto del ginocchio. Il flusso di sangue si era già arrestato. Sarei sopravvissuta, sempre se ce l'avessimo fatta a sopravvivere nei prossimi minuti. Il che sembrava improbabile. Anche Lyle e Parmikan erano sbucati dal portello, e Lyle aveva sempre la pistola. La alzò. E mi sparò di nuovo. O l'avrebbe fatto, se avesse avuto più dimestichezza con la cinematica della caduta libera e la conservazione del moto. Invece il rinculo della pistola lo fece capitombolare di colpo all'indietro, mentre il proiettile si perdeva chissà dove. Prima che Lyle riuscisse a rimettersi in sesto per far fuoco di nuovo, McAndrew mi trascinò via, con il sistema propulsivo della tuta al massimo per spingerci tutti e due. Il bello di Mac era che non gli servivano molti dati per trarre delle conclusioni. «Non cercare di colpirla da lontano.» Questo era Parmikan a Lyle, attraverso la radio della tuta. «È ferita. Avvicinati. Poi togli di mezzo lui e prendila. Non ucciderla, deve riportarci a casa.»
«Non la ucciderò.» Questo era Lyle, col cerotto bianco sul naso che risaltava attraverso il visore della tuta. «Prima devo lavorarmela, quella puttana. Alla fine preferirà essere morta.» Ci venivano dietro, sapendo che non avevamo un posto dove nasconderci. Per nostra sfortuna, ci ritrovavamo disarmati e braccati nell'angolo più vuoto dello spazio conosciuto. Non potevamo scappare da nessuna parte e presto avremmo esaurito l'aria. In ogni caso, McAndrew continuava a indietreggiare, trascinandomi con lui, ma non in una semplice linea retta. Stavamo zigzagando all'insù, di lato e in diagonale, rotolando nel cielo. Il che può aver senso se uno cerca di sfuggire ai colpi, ma non se il nemico ha appena dichiarato che sparerà solo quando sarà vicino. Dopodiché ci fermammo del tutto. Mac si guardò attorno in cerca di Lyle e Parmikan. I due rivelatori di massa erano dove li avevamo lasciati e più oltre si distingueva il profilo della Hoatzin. Ci sollevammo di un paio di metri, fermandoci di nuovo. «Rieccoci qui» mormorò. «E ci restiamo.» Lyle e Parmikan non si erano mossi mentre procedevamo a spirale nello spazio. Ora si avviarono dalla nostra parte. Ben presto ne distinsi le facce, pallide per il chiarore riflesso delle apparecchiature interne dei visori. McAndrew non si mosse ancora. La sensazione di distacco e irrealtà che mi aveva sopraffatto quando ero stata colpita iniziò a passare. Adesso ero spaventata. Ma appena feci per avviare il mio sistema propulsivo per filarmela dai due tipi che avanzavano, Mac mi fermò con la mano. «No, Jeanie. Lascia stare, e non ti muovere.» Ci si stavano avvicinando. Parmikan lo precedeva di due o tre metri. Lyle aveva sempre la pistola, ma aveva imparato la lezione. Non avrebbe sparato fin quando non avrebbe potuto farlo a bruciapelo, troppo vicino per mancare la mira per gli effetti della rotazione in caduta libera. «Mac!» Non potevamo restarcene lì a farci macellare come agnelli. Mi girai di scatto per farglielo capire e gli vidi l'espressione sul viso. Si tormentava, mordendosi il labbro. «Mac, andiamo. Non possiamo mollare.» Ma scosse la testa. «Mi dispiace, Jeanie» disse. «È più forte di me. Non posso tirarmi indietro. Accada quel che accada, devo dargli una possibilità.» E alzò un braccio verso Lyle e Parmikan. «Non avvicinatevi. Restate fermi là. Correte un rischio terribile.» Questo li fermò, per uno o due secondi. Si guardarono attorno e non videro niente. Lyle sbuffò dal naso rotto, mentre Parmikan, per la prima vol-
ta da quando lo conoscevo, scoppiò in una sonora risata. «Non ci provi con noi, McAndrew» disse. «Non siamo nati ieri. Se ne stia buono, le prometto una fine rapida e pulita.» Aveva ripreso ad avvicinarsi. Gli vidi il ghigno sulla bocca informe attraverso l'intensificatore visuale della mia tuta. Sembrava più allegro che mai. Ma un attimo dopo il bianco immacolato della sua tuta fu attraversato da una sottile linea scura che trapassò Stefan Parmikan da un fianco all'altro, quasi due pollici al di sotto dell'ombelico. Si chinò a guardarsi mentre la linea si allargava. Proruppe in un urlo, e cercò di farsi indietro. Troppo tardi. Il suo moto lo trasportava in avanti. E così facendo, iniziò a ridursi, accorciandosi e comprimendosi verso i fianchi. La sottile linea nera divenne un tunnel rosso e violaceo che gli attraversava il corpo roteando. Gli organi interni ci piombavano dentro attorcigliati dall'alto e dal basso. Finché Parmikan non lo superò del tutto. L'urlo si spense. Un paio di gambe, ancora unite in alto, fluttuò nella nostra direzione. A parte si muoveva un torso, reciso di netto. Ne sprizzò del sangue, che si solidificò in mille goccioline di vapore ghiacciato. Lyle, che si trovava qualche metro più in là, ebbe il tempo di fermarsi. Si immobilizzò, con la pistola sempre in pugno. «Dammela.» Radunai quel po' di energia che mi restava e parlai alla radio della tuta senza dare a McAndrew il tempo di reagire . Dopodiché, visto che Lyle esitava dissi: «Dammela immediatamente. O finirai come lui». Sembrava non avesse sentito. Aveva gli occhi incollati su quell'orrore che era il corpo tranciato di Parmikan. Poi però annuì e lasciò la pistola, che si allontanò dolcemente da lui. Per dare un'idea di quanto fossi fuori di me, mi avviai a prenderla. Ma McAndrew mi trattenne. «Resta ferma anche tu dove sei» disse. «E, Lyle, non si muova di un millimetro finché non veniamo a recuperarla. Ci sono altre singolarità di linee gravitazionali dappertutto in questo volume.» Riprendemmo a muoverci, con McAndrew che mi trascinava come zavorra in uno strano sentiero ellittico che piegava dalla parte di Lyle. Alla fine McAndrew riuscì ad avvicinarsi e afferrare la pistola. «Molto bene.» La agitò prima verso Lyle, poi verso la Hoatzin. «Di qui alla nave è tutto sgombro. Si avvii da quella parte. E si ricordi che ne so molto più di lei in fatto di balistica in caduta libera. Non mancherò il col-
po.» Tutti e tre scivolammo lentamente verso il portello, ma McAndrew non fece entrare Lyle. Mi porse la pistola e disse: «Prima tu, Jeanie. Puoi riparare la camera di equilibrio in modo che funzioni?» «Credo di sì.» Entrai. «Devo solo risistemare i bloccaggi di sicurezza.» Sembrerà un'inezia, e magari lo era. Però rischiai di perdere i sensi prima di sistemarli e poter nuovamente riempire d'aria l'interno della Hoatzin. Dopo un'eternità, il portello si rimise in funzione. Rimasi tesa a riflettere. Avevo la pistola. E se Lyle aveva sopraffatto McAndrew? Abbandonai quelle preoccupazioni quando Lyle sbucò dal portello interno. Aveva i modi e il comportamento di un uomo ormai privo di risorse aggressive. Gli feci sfilare la tuta, ma tenni la mia finché non entrò anche McAndrew. Non degnò Lyle di un'occhiata. Venne dritto verso di me e mi esaminò la gamba ferita. «Mi dispiace, Jeanie» disse, aiutandomi a sfilarmi la tuta. «So di averci messo in pericolo avvertendoli. Se Parmikan si fosse fermato in tempo, avremmo potuto essere uccisi. Ma non potevo lasciarlo venire avanti attraverso quella linea di singolarità senza dargli almeno una possibilità. Non potevo e basta. Tu avresti fatto lo stesso, no?» «Ma certo.» Col cavolo. Se era per me, anche Lyle se ne sarebbe stato a fluttuare nel vuoto tranciato in due, come Stefan Parmikan. Ma rispetto a McAndrew sono un rigurgito di barbarie e vendicatività. «Non pensarci, Mac. Hai fatto la cosa migliore.» Feci una smorfia quando la tuta mi si sfilò dal polpaccio e diede uno strappo al sangue incrostato. «Allora, di chi è stata l'idea, Van Lyle?» dissi. «Chi ha deciso che io e McAndrew non saremmo tornati da questa spedizione?» Si era seduto accasciandosi, con gli occhi rivolti al pavimento. Alzò la testa e aprì la bocca per parlare, poi ci ripensò. Scosse la testa. Non lo biasimavo. Al ritorno sarebbe stato arrestato e sicuramente condannato. Ma quello che potevano fargli le autorità del sistema solare non era neanche la metà della vendetta di Anna Lisa Griss se l'avesse tradita. McAndrew era andato al centro medico della capsula ed era ritornato con due siringhe spray. «Ti metto a nanna, Jeanie, mentre ti medico la gamba» disse. «Per una completa riparazione dovrai attendere il ritorno. Ma prima, tanto per essere sicuri...»
Si avvicinò a Van Lyle e gli premette la siringa sul collo reclinato. Lyle cercò di alzarsi, con un'espressione allarmata sul volto. Era già troppo tardi. «Meglio tenerlo a nanna per tutto il viaggio di ritorno» disse Mac, mentre Lyle, dopo aver lottato per qualche secondo, scivolò in avanti e cadde a faccia in giù sul pavimento. «Così non dovremo preoccuparci.» Non mi stavo preoccupando. Subito dopo toccava a me, ed ero pronta fisicamente. Il polpaccio aveva cominciato a farmi tremendamente male. Però alzai la mano in cenno di protesta. «Mac, aspetta un attimo. Non dovremmo tornare se tu non hai ancora terminato gli esperimenti. E hai appena incominciato.» Mi si piazzò alle spalle: «Non essere sciocca, Jeanie. Posso venire qui quando mi pare. E di certo lo farò. Ci sono dei grossi interrogativi in attesa di risposta. Devo mappare con più dettagli la struttura di quegli oggetti di materia ombra. E ora abbiamo un altro candidato al ruolo di materia nascosta. Qual è la quantità di materia scura fredda, di materia scura calda e di materia ombra?» La punta fredda della siringa mi toccò la nuca e lo spray mi si diffuse attraverso la pelle. Ne sentii subito l'effetto sotto forma di un piacevole calore rilassante che mi si spandeva in tutto il corpo. «Mac» dissi, mentre la capsula della Hoatzin iniziava a confondermisi attorno. «Ci hai salvato, ma non so come hai fatto. Come facevi a sapere dove andare, a mettere quella singolarità gravitazionale esattamente tra noi e loro due?» «Facilissimo» disse. «Avevo le misurazioni dai rivelatori di massa. Questo riduceva il tutto a un problema di teoria del potenziale inverso. Dato il campo, dove sono le masse necessarie a generarlo? Ero già sicuro che c'erano singolarità lineari di materia ombra, di quelle che avrebbero agito, sotto il profilo gravitazionale, su qualsiasi elemento del nostro universo in cui si fossero imbattute. Ma dove si trovavano esattamente? Ci ho lavorato su mentre tu eri dentro la camera di equilibrio, a fare quei giochetti con Lyle e Parmikan. Naturalmente, ho dovuto fare delle supposizioni riduttive e sperare che non influissero sulla risposta. Non sarebbe stato male avere un computer? Ma non c'era tempo. Ho fatto quel che ho potuto.» Ho fatto quel che ho potuto. Cioè, nei pochi istanti in cui ero stata sparata fuori dal portello con una ventata di aria gelida, aveva risolto mentalmente un problema per cui mi ci sarebbe voluta mezza giornata solo per impostarlo e un computer per trovarvi una risposta. E l'aveva fatto sapendo
che poteva restarci secco nella mezzora successiva. Materia scura fredda. Materia scura calda. Materia ombra. Quelle parole mi vorticavano in testa mentre il mondo si oscurava, e il viso serio di McAndrew mi si appannava davanti agli occhi. Materia scura fredda. Materia scura calda. Materia ombra. Quale delle tre aveva dominato il nostro passato, per creare l'attuale struttura dell'universo? Non ne avevo idea. Quel che sapevo per certo, mentre scivolavo nell'incoscienza, era che il futuro del nostro universo sarebbe stato dominato dalla materia grigia fredda, come quella che McAndrew e pochi altri come lui nascondevano tra un orecchio e l'altro. Titolo originale: The Hidden Matter of McAndrew Analog Science Fiction and Fact June 1992 IL GRANDE RIFT DI MIRANDA di G. David Nordley Addentratevi con noi nei meandri bucherellati di questa luna dalle mille insidie I Questo l'ho iniziato quando già abbiamo camminato, strisciato e scavato per cinquantatré chilometri nei meandri del Grande Rift di Miranda, e già siamo penetrati per diciassette chilometri sotto il livello medio della sua superficie. L'ho iniziato poiché la madre di tutti i terremoti mirandiani ha chiuso la porta dietro di noi, e le possibilità che questo oggetto venga recuperato sono un po' più numerose di quante ne abbia io; anche per questo ho deciso che non sarebbe bastato limitarmi a tirar giù appunti per un futuro articolo. L'ho iniziato perché ho fede nella caparbietà umana, anche quando l'impresa appare disperata. Sono convinto che alla fine verranno a salvarci. Io sono Wojciech Bubka, e questo è il mio diario. Miranda, satellite di Urano, è una metafora cosmica che esemplifica tutte quelle cose del creato che vengono a trovarsi assieme pur senza adattarsi
granché bene le une alle altre, come succede nel caso di un matrimonio al secondo tentativo di salvataggio, o con le leggi di integrazione razziale, o ancora quando un poeta cerca di barcamenarsi come giornalista scientifico. Circa un miliardo di anni fa, Miranda esplose; poi, piano piano, i pezzi tornarono a riammucchiarsi alla meno peggio. Dentro sono rimasti dei buchi. Delle grotte. Spazi vuoti in cui si sono infilate delle cose che non dovrebbero trovarsi lì, che non c'entrano col resto. Com'è successo per molte altre grandi scoperte, l'esistenza del sistema di grotte è apparsa ovvia a tutti, dopo. Sennonché Nikhil Ray, il nostro geologo, ha dovuto sopravvivere a una decina d'anni di scherno, a parecchi articoli rifiutati, a un divorzio da una moglie che non intendeva sopportare la derisione degli ambienti accademici, e alla pubblica umiliazione perpetrata dai media che si occupano di divulgazione scientifica, prima che l'establishment della geologia ammettesse a malincuore che la rete sismologica impiantata sulla superficie di Miranda aveva confermato le sue teorie. Nikhil si era semplicemente limitato a osservare che, sebbene Miranda sembrasse costituita dalla medesima materia degli altri corpi celesti del sistema uraniano, la sua densità era minore: una volta e un terzo quella dell'acqua, mentre le altre lune erano tutte dense due volte l'acqua. Più ghiaccio e meno roccia sotto la superficie era un'ipotesi. L'altra possibilità, pazientemente illustrata da Nikhil, era che sotto ci fosse meno di tutto, bolle e spazi vuoti sparsi ovunque. Grazie a quella particolare logica da pecoroni che affascina tutti, non appena gli esiti delle indagini sismologiche hanno dimostrato che Miranda conteneva sostanziose quantità di niente, Nikhil immediatamente è diventato una piccola celebrità del Sistema Solare, con una cattedra da ordinario alla Coriolis, e una bellissima e nervosa giovane donna rinascimentale come moglie-trofeo. Peccato che, prima del trionfo, temo avessero fatto in tempo a formarsi degli spazi vuoti anche dentro di lui. Come Miranda, anche Nikhil non lasciava trapelare nulla dalla sua superficie di cortesia e vivacità, quando lo incontrai. Era alto, per essere un bengalese. La mancanza di sole aveva reso chiara la sua pelle, appena bronzea; i tratti del viso affilato rimandavano ad antenati arabi o inglesi, o magari a entrambi. Si muoveva con una rapida e risoluta energia, che bilanciava gradevolmente i suoi modi cordiali e tolleranti da intellettuale aristocratico della miglior tradizione imperiale. Se adesso diffidava della gente, se teneva tutti quanti gentilmente a distanza, se nutriva un segreto di-
sprezzo per i suoi simili, ebbene, di queste pecche non si era accorta la dottoressa Catherine Ray, la quale se lo era sposato subito dopo la riabilitazione accademica. Penso che, in seguito, quando si è accorta di quel vuoto dentro suo marito, una parte di lei si sia ritratta inorridita, mentre un'altra parte, quella raziocinante, abbia preso a dirle che non c'era poi ragione di mandare a monte una relazione che le permetteva di frequentare i più prestigiosi ambienti accademici del Sistema Solare. Forse ciò spiegava come mai lei avesse scelto di partecipare a un'esplorazione di due settimane insieme a una persona che detestava; chissà le storie che ci avrebbe ricamato sopra. Forse ciò spiegava il suo cinismo. O forse no. Tre giorni fa, e sembra già un secolo, ci siamo calati dal bordo di quest'enorme, frastagliata spaccatura che è il Rift, l'incontro fra due strutture geologiche dissimili tenute assieme dalla tenue gravità di Miranda e da poco altro. Al di sotto della superficie soffocata dalla polvere e costellata di crateri, si estende il Grande Rift, una serie di spazi vuoti delimitati da dorsali di pressione; legno grezzo incollato alla meglio da un falegname pigro al sabato sera. Nikhil ritiene che attraversi la luna da parte a parte. Ci sono altri rift, altre diaclasi, altri sistemi di spazi vuoti, ma il più grosso è questo. Uhm, sì, tutto questo vuoto sostanzioso. Visto che sono un poeta le contraddizioni mi affascinano, e così ho trovato allettante la possibilità di esplorare vaste aree di vuoto nascoste dietro apparenze di concretezza. A me piace riempire vuoti, per così dire. Sono stato un ribelle in un mondo letterario di oscurità artefatta che non riesce mai a produrre alcun senso di identificazione, né a convincere i poeti che il loro lavoro vale qualcosa di più che l'equivalente intellettuale della masturbazione - anche come soldi, intendo. La metafora di Miranda mi ha catturato subito; un'epopea che giaceva sotto la polvere e i ghiacci, e meraviglie da scoprire e ammirare nel più grande sistema di caverne sotterranee dell'Universo conosciuto. Gli articoli, le interviste e i talk-show me li vedevo già con la mente. Dovevo solo andare su quella luna. La buona idea che ho avuto per arrivare a realizzare il mio progetto si chiama Miranda Lotati. Quattro anni fa l'avevo avuta fra i miei studenti di letteratura alla Coriolis University. Era la figlia del tizio che presiedeva il comitato di coordinamento del "Solar System Astrographic's", una grande appassionata di speleologia. Quando seppi della scoperta delle caverne misteriose fatta da Nikhil, fu un gioco da ragazzi riallacciare i contatti, sta-
volta senza più quelle remore etiche che vigono nelle università. Lei aveva già al suo attivo un'impressionante lista di grotte, montagne e altri strani luoghi, grazie anche ai soldi e alle conoscenze di suo padre, credevo. Ai tempi delle mie lezioni mi aveva dato l'impressione di essere una ragazza ombrosa e permalosa. I suoi elaborati erano pura tediosità condensata, mai una riga in più della lunghezza richiesta, anche se trattavano i punti che andavano trattati; in tutta onestà non potei esimermi dal promuoverla a pieni voti. Ora che sapevo delle caverne appena scoperte su Miranda, decisi che quella ragazza aveva chiaramente il suo destino scritto nel nome. Non mi sorprese lo scoprire, dopo una breve indagine, che al momento lei non aveva nessuna relazione in corso. Così decisi che doveva averne una con me, adoperandomi in proposito. Abbastanza sorprendentemente, ebbi successo. Un successo tale che non era più così chiaro se fosse lei a far parte dei miei piani, o piuttosto io dei suoi. Lo stare con Randi mi portò a rendermi conto col tempo di quanto lei somigliasse a una specie di buco nero: di quel che ci finisce dentro, non torna fuori più niente. Le cose vengono catturate dalla sua gravità e le ruotano attorno, piegandosi poi alla sua volontà senza nessun apprezzabile sforzo verbale da parte sua. Lei è capace di starsene per una serata intera senza dire nient'altro che «a-ha.» Piaciuto Bach? Bella, la tua casa. Ne vuoi ancora? Ti è piaciuto? Vuoi che lo rifacciamo anche domani? «A-ha.» «Senti un po', se si va dentro Miranda mica ci si può limitare a scattare qualche foto, non credi? Io sono uno che con le parole se la cava abbastanza bene, e forse potrei prestare i miei servigi per stendere una cronaca della spedizione. Che ne dici?» «A-ha.» Non erano state necessarie le parole per raggiungere un accordo con lei, ma le condizioni erano le sue, non c'era niente da fare. Però io e lei eravamo complementari. Diventai il suo rappresentante. Convinsi suo padre a sovvenzionare Nikhil, e convinsi Nikhil ad accettare il sostegno da parte di uno dei suoi antichi nemici. Randi si occupò di organizzare le persone e le cose che le sarebbero servite per la spedizione. Randi era solo taciturna, mica scema. Cominciò a lavorare per preparare la spedizione con grande, metodica disciplina. Quando proprio non poteva fare a meno di parlare, faceva delle liste: «Pile, riciclatori d'aria, picconi,
un robot, corde, mute di riserva, carta, tende sottovuoto, attrezzatura medica, contenitori per rifiuti, ecc». Queste cose le otteneva grazie a sovvenzioni, donazioni, a nome di suo padre, favori di amici di spedizioni precedenti e fortuna. Ha lavorato molto duro per organizzare tutto. Ho capito che mi aveva compreso in quell'"ecc", da qualche parte fra le due e, e sono stato anche fortunato. Certo che se avesse aggiunto alla sua lista pure una "porta di servizio" per uscire da qua sotto, magari ne avremmo avuta una. Mentre scrivo lei è distesa accanto a me, nella tenda, preoccupata ed esausta. Anch'io sono molto stanco. Abbiamo sprecato una giornata intera, seduti sui nostri contenitori cilindrici per l'equipaggiamento, a discutere per convincerci a vicenda che vale la pena andare avanti. Nikhil ci ha illustrato la nostra spiacevole situazione: l'omonimo di Randi trema mentre sobbalza su e giù nella sua orbita imperfetta, come se volesse anch'esso marcare una sorta di personale diversità. Tensioni accumulatesi nei secoli al suo interno si liberano improvvisamente, incuranti delle conseguenze. Nikhil ha detto che avevamo appena fatto un'interessante scoperta, e cioè che Miranda, a causa di queste scosse, sta tuttora restringendosi attraverso il graduale collassamento delle sue caverne. Inoltre, con una forza di gravità così bassa, ci sarebbero voluti degli anni perché tutta la serie delle scosse di assestamento terminasse. Il pericolo-terremoti non sarebbe calato che molto tempo dopo la nostra fuga, o la nostra morte. Bisognava accertarsi che la porta dalla quale eravamo entrati fosse veramente chiusa. E lo era, a doppia mandata. L'ampia galleria già percorsa per arrivare a questa caverna è adesso un interstizio, una crepa. Una cicatrice e una differenza di sfumatura rimangono a demarcare la fusione forzata di due strati di roccia clastica precedentemente separati. Sam si è attaccato con tutte e quattro le sue braccia alla parete, ancorandosi con le dita a rampino, poi ha fatto aderire parte del suo ventre composito al nuovo interstizio, tintinnando finché non è riuscito a tirar fuori un'immagine del passaggio ostruito. «Il restringimento resta invariato per almeno un chilometro» ha annunciato. Nemmeno il filo di fibra ottica che ci siamo trascinati dietro durante gli ultimi tre giorni raggiunge più la superficie. Sam ha rimosso il filo dall'apparecchio per le comunicazioni e lo ha legato alla punta del suo radar laser.
«L'apertura è a quindici chilometri circa da qui» riporta Sam. «E come fai a saperlo?» gli chiedo. «Specchio parziale» fa Randi, per conto di Sam. «Riflessione interna.» Quindici chilometri. Non che avessimo pensato sul serio a scavare per un chilometro, però ci si poteva forse provare. Così i conti con la realtà li abbiamo fatti subito. L'idea di una morte rapida non mi fa molta paura, e i rari casi di morte durante le esplorazioni spaziali sono per lo più di quel tipo. Il mio atteggiamento verso i rischi della spedizione è che, se ce la farò, la ricompensa sarà grande, mentre se rimarrò ucciso, be', pace. Avrei dovuto considerare che esiste pure la possibilità che la vita mi sia lentamente e dolorosamente tolta a poco a poco, e che mi ritrovi sepolto in una tomba di roccia clastica. Siamo rimasti in silenzio a lungo; io pensavo a come morire senza dolore prima che l'Universo prendesse lui l'iniziativa, senza preoccuparsi per l'eventuale sofferenza che mi avrebbe causato. A un certo punto la voce di Nikhil ha riempito quel vuoto. «Amici, eravamo al corrente dei rischi. Se può essere di una qualche consolazione, è stato il più violento terremoto registrato da quando hanno impiantato gli strumenti su questa luna, addirittura dieci volte più intenso degli altri. Questo tipo di assestamenti» diceva indicandoci le faglie evidenti intorno a noi «avrebbe dovuto già essere terminato qualcosa come cento milioni di anni fa. Siamo stati poco fortunati, temo.» «Forse il passaggio potrebbe riaprirsi, che dici?» fa sua moglie, i tratti delicati del suo viso gualciti dall'ansia dietro l'invisibile visiera del casco. Nikhil non coglie l'ironia nella voce di lei, così le risponde ironicamente a sua volta. «Forse sì. Magari fra un altro centinaio di milioni di anni.» Sorride. Randi dice la sua, pacatamente. «Venti giorni. Il catalizzatore della CO2 si esaurisce in venti giorni. I viveri che abbiamo bastano per due settimane, ma possiamo farli durare anche per un mese o più. Pure l'acqua basterà per un mese, dipende da come la razioniamo, e comunque possiamo averne dell'altra se scalpelliamo del ghiaccio e lo mettiamo nel riciclatore. Però senza catalizzatore non possiamo pulire l'aria.» «E nemmeno possiamo smettere di respirare» aggiunge Cathy. «Cathy» le chiedo «magari è normale, per un poeta, pensare a queste cose, non mi biasimare. Ecco... esiste un modo per andarsene in maniera tranquilla, quando e se verrà il momento?» «Più di uno» mi dice alzando le spalle. «Posso farti dormire con un ane-
stetico, e poi ucciderti.» «In che modo?» «Importa qualcosa?» «A noi poeti, sì.» Lei annuisce, e sorride. «Ebbene, Wojciech, ti pianto un chiodo da roccia nel cuore, affinché tu non possa resuscitare e quindi svalutare i tuoi manoscritti, che ormai varranno milioni.» I rari sorrisi di Cathy hanno i denti. «Mia cara» fa Nikhil, mentre i rice-trasmettitori dei nostri caschi riproducono fedelmente il tono di condiscendenza nella sua voce. «Se tratti così i tuoi malati nei letti d'ospedale, andiamo bene.» «Mio caro» mormora Cathy «che ne sai tu di come si tratta la gente a letto?» Botta e risposta. Chissà, forse sono queste frecciate reciproche a tener insieme il loro matrimonio, come i gluoni che tengono incollato un mesone finché non annichilisce. Intanto Sam è tornato dalla "porta d'ingresso". «Non possiamo uscire per di là, né i nostri soccorritori possono raggiungerci in venti giorni usando le trivelle attualmente a disposizione. Suggerisco perciò di andare da qualche altra parte.» Un robot ha il privilegio di conservare una certa capacità di ragionamento logico anche in frangenti come questo. «Giusto. Se aspettiamo qui» interviene Nikhil «Miranda potrebbe toglierci l'opzione di una morte dilazionata, assistita o meno. Le scosse d'assestamento sono altamente probabili.» «Assestamenti, franamenti, asfissia» elenca Randi «o anche altri esiti del genere.» Nikhil scrolla le spalle e si volge all'estremità opposta della caverna. «Andiamo?» «Ti verrei dietro anche se ti gettassi in fondo al pozzo, caro» gli fa Cathy. Randi e io ci scambiamo un'occhiata il cui significato è "meno male che ci sei tu". «Mappe, per quello che possono servire» comincia Randi. «Razioni, turni di riposo, chi sta davanti, eccetera. Dobbiamo decidere adesso, finché possiamo pensare.» A queste parole lei ha guardato Nikhil dritto negli occhi. «Finché ce ne importa qualcosa.» «Molto bene, allora» fa Nikhil. «Sam non è che sia molto creativo, quando si trova alle prese con ciò che non conosce. Cathy e Wojciech han-
no aree di competenza diverse, perciò forse dovremmo essere io e Randi a capeggiare a turno la fila. Propongo che d'ora in poi non si sprechi più tempo a cenare, e che si ripieghi con tanti piccoli spuntini a ore diverse...» «Mio caro idiota, se vogliamo uscire da qui ci serve l'energia delle proteine» lo interrompe Cathy. «La prima colazione è molto più importante della cena.» «Forse potremmo raggiungere un compromesso sul pranzo» azzardo. «Viaggiare a lungo, livello d'energia, reattività da sostenere.» «D'altro canto, però» correggo «moderazione in tutte le cose.» Quando Randi ha finito di pianificare tutto, ci siamo decisi a partire, anche se il periodo di sonno era ormai vicino. Andavamo in fila indiana, seguendo uno dei due capofila che si alternavano. Io mi tiravo dietro un contenitore con l'equipaggiamento, Cathy quell'altro e Sam chiudeva il corteo. C'era un breve passaggio che collegava la nostra caverna alla successiva, più stretto dei precedenti. «Credo... di scorgere segni di erosione da vento» ci ha fatto sapere Nikhil da là davanti, con voce sorpresa. «Vento?» dico, piuttosto meravigliato. Che vento può mai esserci, qui su Miranda? «Le collisioni di quando la luna si riformò devono aver liberato grosse quantità di gas per un breve periodo. Doveva uscir fuori in qualche modo. Notate le striature, a mano a mano che venite avanti.» In effetti c'erano, si vedevano molto chiaramente, come se qualcuno avesse sabbiato le pareti del passaggio. Tanto tempo fa, Miranda aveva respirato. «Penso» continua lui «che debba sussistere un equilibrio fra il gas nelle caverne di Miranda e il gas che circonda il sistema degli anelli. La gravità di Miranda non è sufficiente per trattenere gas compresso, ma la bassa temperatura e un sistema di caverne che lo ingabbia, coadiuvato esternamente da una sorta di barriera che si oppone alla sua diffusione... uhm, potrebbe anche essere.» «Quanto gas?» chiedo. Nikhil scuote la testa. «Difficile saperlo da qui, non credi?» Abbiamo continuato per mezz'ora oltre il tempo stabilito allo scopo di trovare un riparo adeguato che ci offrisse protezione dalle scosse d'assestamento. Il passaggio in cui ci troviamo è così angusto che abbiamo potuto gonfiare le nostre tende soltanto disponendole una dietro l'altra. Abbiamo consumato la cena in quella che usiamo io e Randi. Un pasto parco, af-
follato, silente e pieno di cattivi odori. Persino Nikhil è sembrato depresso. Mentre ci rimettevamo i caschi per sgonfiare la tenda e permettere così ai Ray di far ritorno nella loro, mi sono detto che era l'ultima volta che mangiavamo messi così. Le tende gonfiabili portano via troppo tempo ed energia. Ripressurizziamo la nostra tenda e io assaporo il sano piacere di guardare Randi mentre si leva la sua tuta aderente e si lava con una pezza inumidita. Mi fa cenno di girarmi mentre usa il servizio inserito in un'estremità del nostro contenitore per l'equipaggiamento, e così io srotolo il mio schermo per appunti, indosso l'apposita benda attorno alla testa e comincio a subvocalizzare scandendo bene le parole che voglio far apparire sullo schermo. Più tardi lei mi sfiora il braccio per comunicarmi che tocca a me; mi bacia piano e si infila sotto le lenzuola elastiche, addormentandosi all'istante. È il mio turno. Il quarto giorno l'abbiamo passato a scivolare attraverso una serie di ampie caverne quasi orizzontali. Miranda, lo si è capito, sta ancora respirando. Un alito spettrale, a dire il vero, avvertibile soltanto dai sensibilissimi strumenti di Sam. Però esistono differenziali di pressione. Il gas scorre ancora per queste caverne, cercando di raggiungere la superficie, e così Sam riesce a trovare i passaggi buoni grazie al monitoraggio dei flussi molecolari. Procedevamo tirandoci avanti con la forza delle braccia, simili a subacquei con i pesi all'interno di una grotta sottomarina; un'analogia calzante, poiché ci si muove così lentamente che l'attrito è praticamente nullo. Mentre procedevamo ho dimenticato il mio cupo destino, affascinato dal meraviglioso ghiaccio marmorizzato che mi circondava. Poi ho guardato Randi, che mi precedeva nella fila; mentalmente le ho tolto il coprituta impolverato, immaginando poi il suo corpo sodo e flessuoso mentre si muoveva fasciato dalla tuta aderente. Immaginavo i muscoli delle sue braccia da scalatrice contrarsi e rilassarsi, immaginavo il suo collo e gli avambracci, così solidi e definiti. Anche lei, a suo modo, è una poetessa. Una poetessa che riesce a parlare a malapena, ma che ha scritto un'intera epica col linguaggio del corpo e del movimento. Sam ci ha informato che è ormai tempo per una nuova ricognizione e per un cambio di capofila. Nel chilometro successivo il passaggio si è ristretto a tal punto che siamo stati costretti ad avanzare a fatica dentro cunicoli
larghi appena per infilarci le nostre ossa. A forza di contorcimenti mi sto riempiendo di lividi, ma non ho paura che la tuta si strappi. Il tessuto è liscio, scivoloso e praticamente invulnerabile. Il primo giorno della nostra spedizione Randi mi aveva spaventato a morte cercando di fare harakiri con un'affilatissima e durissima scheggia di roccia; si dava delle pugnalate così tremende che la pietra si è rotta. Lei aveva riso della mia reazione, dicendomi che dovevo aver fiducia nel mio equipaggiamento. Dopo le è venuto un livido scuro che ora spicca in mezzo a macchie più chiare e antiche, testimonianza di quanto il suo corpo sia stato collaudato duramente. Quando facciamo l'amore glielo bacio, e lei dice «A-ha. Che t'avevo detto?» Quando Randi aveva solo tredici anni, scalò i Monti di Gilbert nell'antartide mercuriano, insieme a suo padre e suo fratello, trasportando sulle sue spalle l'intera attrezzatura per la pressurizzazione. Subì una frattura da sforzo all'ulna, ma non disse niente a nessuno finché la cima non fu raggiunta. Il cunicolo si è allargato ed è sbucato in un'altra caverna; ci siamo sentiti un po' più sollevati. Alla fine della caverna ci siamo dovuti infilare in un nuovo passaggio molto stretto. Randi si è messa a capo della fila, seguita da Nikhil, poi da me, Cathy, e infine Sam. Sam mi ricorda un granchio cubista, o anche un piccolo tagliaerba senza manico, con delle zampe d'insetto al posto delle ruote. Ciarliero e spiritoso, con tutta una gamma di battute umoristiche immagazzinate nelle sue memorie, Sam è il nostro esperto sul già accaduto, sul già visto, ma ha delle difficoltà a interpretare ciò che ancora non conosce. Per questo solitamente sta in coda. Alla fine della giornata abbiamo percorso ventotto chilometri, e ci siamo avvicinati al centro per altri diciotto. Sembra che la nostra strada conduca proprio là, sebbene Nikhil sostenga che, più probabilmente, stiamo seguendo la frattura che c'è fra i due blocchi più grandi che si ricongiunsero un miliardo di anni fa, e questa frattura traccia una corda passante a una cinquantina di chilometri al di sopra del centro. Questo nostro viaggio è un'impresa disperata, senza reali possibilità di giungere a buon fine. Ma è molto meglio, molto più umano lottare contro il destino piuttosto che star fermi ad attendere la morte. Stasera Randi e io abbiamo mangiato nella nostra tenda, Nikhil e Cathy nella loro.
II Il quinto giorno ci siamo piantati. Stamattina Randi mi ha svegliato esplorando il mio corpo, facendo aderire varie parti del suo al mio, aiutata in questo anche dalle lenzuola elastiche, che ci tenevano stretti assieme. È stato come se il sogno erotico che stavo facendo fosse proseguito nella realtà, così non mi sono poi meravigliato più di tanto della sua intrusione. «Hai dei lividi nuovi» le ho detto, dopo aver aperto gli occhi. I suoi sono rimasti chiusi. «'Giorno» ha mormorato, avvolgendosi ancora di più attorno a me. Peccato che intanto il tempo abbia continuato a scorrere. I nostri caschi hanno emesso un bip simultaneo; era Sam che ci richiamava al dovere, fortunatamente troppo tardi per impedire che parte di me diventasse parte di Randi. Sam ci ha ricordato che, se volevamo realizzare la nostra illusione di fuga, non avevamo molto tempo da perdere. Randi è saltata fuori dalle lenzuola quasi volando, con movenze atletiche e aggraziate, poi, lentamente, si è abbandonata sulla sua brandina davanti a me, nuda ed esuberante, stiracchiandosi come una gatta sensuale e guardandomi dritto negli occhi, ormai resi suoi schiavi. «Esibizionismo femminile. Innocuo, sano, fa star bene.» Innocuo? Sorrido, e le ricordo che è tempo di andare. «Ricevuto» mi risponde, con una risata. Tira fuori la sua tuta aderente dalla balla di abiti che si trova a un capo della tenda e comincia a srotolarsela addosso. Queste tute si infilano come un paio di collant, con la differenza che dentro sono lisce, e si adattano facilmente alle forme del tuo corpo. Del suo corpo. Faccio anch'io come lei. In un attimo sgonfiamo la tenda e impacchettiamo il tutto. C'è voluta un'ora prima che Sam riuscisse a trovare il passaggio. È poco più di una crepa, larga appena da consentirci di provare. Per un'altra ora siamo rimasti a discutere se era il caso di andare là dentro. Altre vie d'uscita non ce n'erano, così ci siamo decisi. Sembravamo formiche, l'attrezzatura e i coprituta spinti davanti a noi, i corpi che cercavano ogni millimetro di spazio a disposizione per avanzare. Non avevamo fatto nemmeno cento metri in un'ora, stavamo perdendo le speranze; Sam, però, continuava a rassicurarci sulla presenza di altre caverne più avanti. Fosse stato Nikhil a capeggiare la fila, forse ce la saremmo cavata me-
glio. Più grosso di Randi e meno disposto a infischiarsene dei disagi, sarebbe avanzato più lentamente e avrebbe scalpellato via più roccia. E ciò, alla fine, si sarebbe tradotto in più strada percorsa. Comunque, mentre stavo procedendo centimetro dopo centimetro con la mente assorta sull'enigma di Randi, Miranda ha emesso un gemito, o almeno questo mi è parso di udire nel casco schiacciato contro il soffitto della fenditura in cui ci trovavamo. Ho avvertito qualcosa. La pressione contro le mie costole era forse aumentata? Cercavo di scacciare il panico, concentrandomi sulle altre persone e sulle loro lampade che mandavano luce nei pochi interstizi liberi fra il passaggio e i corpi. «Non mi posso muovere.» Questa era Cathy. «E mi sto raffreddando.» Le nostre tute sono il meglio della gamma "Explorers", venti strati di fibre elastoresistenti racchiusi da due strati di agglomerante macromolecolare. Nonostante siano così sottili, quelle tute sono assolutamente isolanti, perfette in assenza d'atmosfera, come su Miranda. Solitamente le perdite conduttive di calore verso il ghiaccio criogenico intorno a noi sono limitate a quelle parti delle mani e dei piedi che entrano in contatto con la superficie. Sbarazzarci del calore corporeo è a volte un problema, le fibre elastoresistenti, di color nero o nero-fumo, solitamente lavorano fin troppo bene. Ma se si ha un intero metro quadrato di superficie corporea pressato contro materiale criogenico, anche le migliori fibre chimiche che l'Astrographic Society può permettersi iniziano a perdere colpi. Il vecchio detto "più fredda di una tetta di strega" potrebbe dare un'idea di come si sentisse Cathy in quel frangente. «Non posso fare molto» le ho risposto «sono quasi bloccato anch'io. Tieni duro.» «Sam» boccheggia Cathy, con una voce che è un campo di battaglia fra panico e self-control «incunea il tuo fianco nella fenditura accanto a me. Devi assolutamente impedire che si restringa ancora.» «Non funzionerà, Cathy» replica il robot «rimarrei schiacciato e distrutto senza aver ottenuto alcunché.» «Ricorda le tue leggi!» strilla Cathy. «Tu devi ubbidirmi. Muoviti, presto, prima che mi si rompano le costole! Nikhil, di' al robot di ubbidirmi!» «Cathy, cara» fa Nikhil «comprendo il tuo disagio, ma non potresti pazientare un pochino, per favore? Lasciaci riflettere sul da farsi.» «Fra pochi minuti sarò un pezzo di ghiaccio e tu vuoi riflettere. Accidenti, Nikhil, mi fa male. Sacrifica il robot e salvami. Io sono il vostro me-
dico!» «Cathy» fa Sam «cercheremo di salvarti, ma abbiamo percorso soltanto cento chilometri dopo il terremoto. Ce ne potrebbero essere altri mille da percorrere. Se si incontrano difficoltà simili ogni cento chilometri, può darsi che ci si trovi per altre dieci volte in una situazione come questa. Ma di robot da sacrificare ce n'è uno soltanto, come vedi. Sacrificarmi adesso porrebbe gli altri in una situazione di rischio accresciuto. Per ora non si sta muovendo nulla, perciò il riflettere non è un'azione che ci esponga a pericoli imminenti.» «Maledetto pezzo di ferro, sto congelando! Tiratemi fuori di qui!» Un silenzio pieno d'imbarazzo è calato su di noi dopo questo scoppio d'ira, e per un minuto nessuno ha fiatato. Poi Cathy ha preso a piangere, con singhiozzi sommessi e spaventati, la qual cosa ci ha rassicurato che almeno era ancora viva. A un certo punto Randi ha rotto il silenzio. «Gli altri possono muoversi in avanti?» «Sì, un po'» fa Nikhil. «Anch'io» aggiungo. «Sam» ordina Randi «scarabeo teleguidato. Corda.» «Ho queste cose.» «A-ha. Mandami lo scarabeo con la corda passando per Cathy. Quando avrò preso la corda, attaccaci una ganascia, appena dietro i piedi di Cathy.» «Sì Randi» dice Sam, accettando gli ordini. «Ma perché?» Vuole anche altre informazioni. «Perché così i piedi di Cathy possono... afferrare, no... avere un appiglio per fare forza.» Nella voce di Randi si avverte la sua frustrazione con le parole, ma la paura no, quella non si sente. «Puoi fare un modello? Un'immagine? Vedere quello che succederà?» «Posso raffigurare Cathy che, appoggiata alla ganascia sulla corda, ruota orizzontalmente, per poi farsi passare intorno la corda, e... Si può fare!» esclama Sam. «Lo scarabeo sta arrivando.» «In fretta, per favore» frigna Cathy, dando l'impressione di essersi un poco ripresa. Posso sentire il granchietto teleguidato insinuarsi di gran fretta negli interstizi fra il mio corpo e la roccia. La corda - praticamente un filo - comincia a passare accanto a me, un fascio di fibre di Fullerene di un millimetro di sezione che può sostenere il peso di un dinosauro a gravità terre-
stre. Mi sembra che una fila di formiche mi marci sulla pelle. Rabbrividisco quando l'allarme della temperatura comincia a lampeggiare anche nel mio visore. Le zampette dello scarabeo ticchettano sul mio casco mentre passa. Rimango lì immobile in attesa per quella che mi pare un'ora. «Prendete la corda» ordina Randi, e noi eseguiamo. «Ci sei coi piedi, Cathy?» «Non... non sento la ganascia.» «Va bene. Provo a tirare un po'... Adesso, Cathy?» «Sì, adesso la sento. Oh, Dio, speriamo che funzioni.» «Bene» risponde Randi. «Tutti pronti? Tirate.» Impunto i miei scarponi chiodati e tiro con tutte le mie forze. Praticamente non si muove niente. «Maledizione!» Randi è arrabbiata. «Usa il robot, sto congelando» singhiozza Cathy. «Tesoro» mormora Nikhil «lo sta appunto usando, il robot, non è un robot.» Comincio a sentir freddo anch'io. Le punte dei piedi le ho ben salde nella roccia, ma non posso piegare le ginocchia, così che riesco a far forza solo coi polpacci. Se solo potessi adoperare anche i muscoli delle cosce, se solo avessi un punto d'appoggio decente. Naturalmente, il problema è tutto lì. «Randi» le chiedo «e se Cathy provasse ad afferrare la corda con le mani, e si facesse forza appoggiando i piedi su Sam? Non credi che potrebbe funzionare?» «A-ha. Sam, puoi, ehm, venire sotto i piedi di Cathy e, ehm, ancorarti là?» «Sotto? Vuoi forse dire dietro, così che lei possa puntare i piedi contro di me?» «Sì, volevo dire dietro, Sam. Ehm» Randi sta di nuovo lottando con le parole «ehm, fai ruotare l'immagine con i piedi in giù, così anche tu vedi quello che vedo, cioè... che immagino io.» «Sì... posso raffigurarmela. Potrebbe funzionare, ma le ginocchia di Cathy non possono piegarsi più di tanto.» «Ricevuto, Sam. Forse anche solo un poco basterà. Tutto bene, Cathy? Hai capito?» «S-Sì, Randi.» Secondi di sfregamenti, silenzio, e poi: «A posto, i miei piedi poggiano su Sam». «Allora proviamo. Tiriamo al tre. Uno, due, tre.»
Stavolta la corda ha ceduto un po', ma non molto. Comunque, sempre più di quanto non si fosse mossa nell'ultima mezz'ora. «Proviamo ancora.» Randi sta nuovamente tendendo il cavo. «Uno, due, tre.» Questa volta è stato come stappare una bottiglia. Nella mezz'ora successiva siamo avanzati con grande fatica sul ventre per forse centodieci metri. Alla fine Randi ha scalpellato via l'ultima ostruzione, riprendendo fiato. Esausto e smarrito com'ero, non riuscivo a trovare le parole per descrivere la sensazione che ho provato nello sbucar fuori da quello strettissimo passaggio, un vero e proprio cunicolo orizzontale che dava su di una cornice ghiaiosa, leggermente inclinata, sospesa sulla prima grande caverna. Mi è sfuggito un gemito involontario: la transizione dalla claustrofobia all'agorafobia è stata decisamente troppo brusca. All'improvviso questo spazio immenso, con le pareti che svanivano dentro a tenebre nerissime. Anche i fasci luminosi delle nostre lampade ne venivano ingoiati; si vedeva soltanto un remotissimo baluginio in risposta. Il display del mio casco mi mostrava dei numeri rossi lampeggianti che mi comunicavano per quanti metri sarei caduto, circa seicento, quanto sarebbe durata la mia caduta, circa due minuti, e quanto sarebbe stato violento l'impatto, quasi dieci metri al secondo. Una velocità che, data la mancanza d'aria, sarebbe stata la massima raggiungibile. Pensate a un centometrista olimpico che corre a tutta birra contro un muro. Nel ritrarmi con troppa foga dall'orlo del dirupo, ho perso il mio appoggio nella gravità centesimale di Miranda. Con esasperante frustrazione mi sono accorto di aver spiccato un gran balzo. Non potevo riancorarmi alla superficie coi miei scarponi chiodati, né afferrare alcunché con le mani. Mi sono detto di star calmo, che sarei rimbalzato verso la parete della caverna non appena avessi toccato terra. Ho atteso finché non ho ricominciato a ridiscendere. Ho cercato di raggiungere la cornice con un braccio, ma il salto mi portava verso fuori. Era chiaro che la mia traiettoria mi avrebbe allontanato dalla cornice prima che potessi toccarla. Non c'era niente che potessi fare per salvarmi - la mia pistola a reazione era in uno dei contenitori per l'equipaggiamento. Visioni di Wile E. Coyote che si agita in aria tentando di riguadagnare l'orlo di una rupe mi passavano davanti agli occhi, anch'io mi sono trovato a nuotare involontariamente nel vuoto allo stesso modo. Non vale, almeno il coyote aveva un'atmosfera a disposizione.
I numeri del casco erano diventati rossi di nuovo mentre fluttuavo al di là dell'orlo. Troppo disperato per sentirmi in imbarazzo, ho improvvisamente ritrovato la voce, cacciando fuori una specie di suono gutturale. Ho ripreso fiato, ma prima che potessi gracchiare di nuovo, Cathy mi ha afferrato il braccio, attaccando una corda alla mia cintura. Mi ha stretto forte la mano in silenzio quando, ancorato a un chiodo da roccia, mi sono rannicchiato contro una parete della caverna, il più lontano possibile dall'orlo della cornice. Stavo tremando. Troppo. Troppo. In quel momento ho cancellato tutti i giudizi che avevo formulato in precedenza su Cathy. Sam ha detto che la caverna è lunga ventisette chilometri, parecchio inclinata verso il basso. La cornice su cui ci troviamo sovrasta una parete verticale di seicento metri che verso il fondo si incurva sotto di noi. Ci accampiamo cautamente sulla cornice, ritirandoci nelle nostre tende ben ancorate coi chiodi da roccia, e consumiamo una doppia razione in silenzio, incapaci di distogliere i nostri pensieri dal vasto spazio che si estende al di fuori delle sottili pareti artificiali dei nostri rifugi. Il sonno sarà il benvenuto. Sesto giorno. L'oscurità del sonno ha assorbito i miei pensieri allo stesso modo in cui la caverna aveva fatto con la luce delle nostre strobolampade. Mi sono svegliato senza aver sognato. Dopo attimi di una calda e annebbiata semincoscienza, la dura realtà della mia situazione mi è tornata alla mente. Brividi. C'è voluta un'intera giornata per percorrere gli ultimi dieci chilometri, comprese le cinque ore di incoscienza fra le lenzuola elastiche. L'andatura da tenere avrebbe dovuto essere molto più spedita. Questa mattina Randi sembra allo stesso tempo spaventata e determinata. Non abbiamo perso tempo. Ci siamo vestiti, abbiamo preparato il contenitore e acceso i recompressori pochi minuti dopo esserci svegliati. La colazione è stata una razione di crackers trangugiata attraverso l'apertura del casco. Riposta la tenda nel contenitore mi sono girato verso Randi che guardava il vuoto oltre l'orlo della cornice. Teneva il dispenser del filo di Fullerene in una mano e un capo nell'altra. Ha teso il filo con uno schiocco. Ricordavo che ci eravamo presi dietro cinquanta chilometri di filo di Fullerene. «Randi, non avrai mica intenzione di...»
Lei si gira e mi sorride, allo stesso modo in cui un ragno sorride a una mosca. Sì, che ne ha l'intenzione. «Ma è ridicolo!» È tutto ciò che Nikhil riesce a dire quando Randi gli spiega ciò che ha in mente. Cathy, docile e mansueta dopo il trauma del giorno prima, è capace di emettere soltanto un piccolo e spaventato risolino. E così ci prepariamo a uno dei più lunghi salti con elastico della storia, nel tentativo di sbarazzarci dell'intera distanza fra un capo e l'altro della caverna con una mortale picchiata. Nikhil fa un buco col trapano in una porzione di parete dall'aspetto sufficientemente monolitico e ci attacca il dispenser del filo. Sam, dotato della sua brava propulsione, sarebbe rimasto su a controllare che tutto fosse andato bene, per poi raggiungerci in seguito. Randi ha staccato un pezzo di filo tendendolo fra due chiodi, per farci vedere come dovevamo usarlo per imbragarci alla parete in una gravità che su Miranda era meno di un milli-g. Così sospesi, è stato facile avvolgerci le gambe col filo. Sembravano diventate delle molle. «Pistole a reazione?» «OK» risponde Nikhil. «Piedi a posto?» Tre "OK" in risposta. «Filo fissato.» «OK» fa Sam. Randi si schiarisce la voce. «Pronti? Al tre. Uno, due, tre.» Abbiamo spiccato il salto, grossomodo nella direzione del centro di Miranda. Dopo qualche attimo di terrore irrazionale ci siamo ripresi, contemplando le meraviglie della relatività mentre, in caduta libera, il "tetto" della caverna passava oltre, rapidissimo. Una strana sensazione; chiudendo gli occhi, mi sembrava di fluttuare nei pressi di una stazione spaziale. Quando li ho riaperti la strobo mi ha mostrato la parete frastagliata della caverna passare a tutta velocità soltanto poche dozzine di metri da me. E si stava pure avvicinando, notavo. Nikhil stava raccogliendo ulteriormente il filo che ci univa per tenerci più vicini, adoperando anche la pistola a reazione per aumentare la nostra velocità e deviarci così quel tanto che bastava dalla parete. Una foresta di intrusioni di ghiaccio, che eoni di milligravità instabile avevano incurvato come zanne d'elefante, ci stava passando troppo vicina perché potessi non farci caso. La gravità minuscola e qualche piccola spinta della pistola a re-
azione ci hanno riportato verso il centro della caverna. Stavamo volando. Poi, all'improvviso uno shock, un fortissimo strattone ai nostri piedi, col sangue che corre subito alla testa non appena il filo comincia a tendersi. Randi, nonostante stia girando su se stessa, ha tenuto il suo radar puntato verso il "giù". Dopo una ventina di secondi così, la trazione ai nostri piedi che aumenta sempre più, a un tratto, con rapidità sorprendente, le pareti della caverna si fermano. «Ora!» dice Randi, e lascia il filo, abbandonando tutti quanti noi a fluttuare un chilometro o quasi dal fondo della caverna. Ho dato un impulso stroboscopico per dare un'occhiata alla parete più vicina a noi. Sembrava di essere dentro a un geode d'ametista; ovunque, affilati cristalli di un tenue violetto. «Magnifico» fa Cathy, con una nota di forzatura nella voce. Immagino che volesse mostrarsi carina con noi, riportare il tutto su basi più normali, dopo quello che era successo il giorno prima. «Suggerirei di guardare giù, ti conviene» le ricorda Nikhil. A Cathy, ma anche a noi. «Non vorrai mica rimetterci nei pasticci, vero?» Niente replica da parte di Cathy. L'ho guardata. La visiera del suo casco era girata verso la foresta di cristalli, immobile e congelata. Uno sbuffo della mia pistola a reazione e mi sono avvicinato a lei; le ho toccato il braccio, ottenendo la sua attenzione. Cathy faceva cenno di sì. I cristalli erano veramente giganteschi, qualcosa di meraviglioso. Ho controllato il display del mio casco. La sua funzione di riferimento inerziale mi diceva che mi trovavo cinquanta chilometri sotto la superficie e che l'accelerazione dovuta alla flebile gravità di Miranda era inferiore a sette centimetri per secondo al quadrato. In pratica avremmo raggiunto il terreno accidentato un chilometro più sotto in meno di tre minuti... colpendolo alla velocità di 11 metri al secondo. Ho pensato nuovamente al centometrista olimpico che si schianta a tutta birra contro un muro. «Randi, siamo troppo in alto, non credi?» Cercavo di mantenere normale la mia voce. Di solito era Sam a farci da grillo parlante, ma al momento non c'era. Come risposta Randi ha sparato un chiodo con attaccata la corda nella parete più vicina a noi, che ormai stava scorrendo a una velocità allarmante. «Lasciatevi andare alla parete coi piedi in avanti, toccate, poi lasciatevi andare ancora» ci ha detto. «Piedi in avanti!» ha fatto eco Nikhil, mentre la corda che si tendeva ci dava all'improvviso una percezione falsata del basso, mandandoci verso la
parete. Poi si è allentata, abbandonandoci in una traiettoria obliqua che ci avrebbe condotto direttamente nella foresta di cristalli. Le pistole sparachiodi sono una grande invenzione, ma non riescono a sostituirsi a una bella mazza. «Niente paura» ci rassicura Nikhil. «Sono solo un paio di metri al secondo. Provo io, stavolta.» Spara il chiodo non appena Randi finisce di riavvolgere la corda. Alla fine raggiungiamo nuovamente la parete. Cathy è tutta irrigidita, sembra molto spaventata, ma piega correttamente le sue gambe, riparandosi nel contempo il viso con un braccio mentre gli enormi cristalli ci corrono incontro. Appena li abbiamo toccati, si sono ridotti in polvere senza opporre la benché minima resistenza ai nostri scarponi. Decisamente mi aspettavo qualcosa di un pochino più solido. «Deposito, non estrusione?» fa Randi, con l'intonazione interrogativa chiaramente diretta a Nikhil. «Direi. Brina prodotta a bassa gravità. Difficile trovare altrove roba del genere, non credete?» «Tu, tu lo sapevi, non è vero?» lo accusa Cathy, il respiro rotto. «Lo sospettavo» le risponde Nikhil, senza far trasparire alcuna emozione dalla sua voce. «Comunque ho preso tutte le precauzioni che avete preso voi. Non è che poi mi sentissi così sicuro, no?» «Ciao ciao! Ci vediamo in fondo.» Era la voce di Sam. La tensione era rotta, e tre di noi hanno puntato le lampade stroboscopiche contro il robot che ci stava sorpassando in caduta libera. La parete dove siamo atterrati si incurvava dolcemente verso il fondo della caverna, la qual cosa ci avrebbe permesso di ricoprire la distanza restante con balzi lunghi cento metri, sbriciolando cristalli a ogni passo, con una sorta di piacere vandalistico nel distruggere siffatta bellezza per necessità. Abbiamo raggiunto Sam ridendo. «Per di qui» ci ha comunicato, indicando una solida parete con uno dei suoi arti «c'è un'altra grande caverna, posta più o meno nella direzione che ci interessa. Sembra essere di pendenza media, invece che quasi verticale.» I display dei nostri caschi hanno riprodotto rumorosamente la raffigurazione ottenuta dal robot con metodi sismologici, e ci hanno mostrato chiaramente la parte iniziale della cavità in pendenza. Dopo un paio di false vie abbiamo trovato una fenditura che conduceva direttamente nella nuova galleria. Cathy tremava, al momento di infilarcisi
dentro. La caverna era profonda soltanto tre chilometri, si poteva discernere chiaramente l'altro capo. Abbiamo sparato un chiodo proprio laggiù, e ci siamo rallegrati nel constatare che aveva tenuto. Restando in linea grazie alla corda, siamo stati in grado di percorrere l'intera caverna in dieci minuti. Nel toccar terra, Cathy ha smosso un masso abbastanza grosso, facendogli produrre fragili, tintinnanti rumori di ghiaccio che si rompeva mentre rotolava distruggendo alcuni cristalli di brina. Dopo qualche secondo ho compreso la portata di ciò che era appena successo. «Ehi, l'ho sentito!» «C'è un'atmosfera. Prevalentemente metano e azoto. Circa dieci millibar e cento gradi Kelvin» Sam ha risposto alla mia domanda implicita. Che bravo il nostro robot. Fossimo tutti morti, forse Sam ce l'avrebbe fatta ugualmente a uscire. Anzi, quasi certamente. Qualcuno avrebbe letto questo diario. La caverna successiva ci portava verso il basso, così come quella dopo. Continuavamo a procedere, ben oltre il tempo stabilito per fermarci, quasi senza rendercene conto. I nostri martelli ora producevano degli echi acuti e soprannaturali che risuonavano nelle caverne, rumori come di biglie d'acciaio fatte cadere su di un vassoio metallico. Ci siamo accampati a soli centosettanta chilometri dal centro di Miranda, ottantacinque sotto il livello del suolo: Nikhil ha detto che se il Rift continuava così, lungo una porzione di corda tangente al centro, noi eravamo a più di un terzo del cammino, molto in anticipo sulla tabella di marcia. Randi viene verso di me mentre pianto un picchetto per montare la tenda, e mi posa una mano sulla spalla. «Cathy e Nikhil, troppa tensione. È pericoloso.» «Già. Non ci possiamo fare niente.» «Forse sì, invece. Dormi con Cathy, stanotte. Bisogna tenerli lontani. Una tregua.» Guardo Randi. È seria. Le forze gravitazionali vicino a un buco nero possono essere fatali, dicono. «Maschi in una tenda, femmine nell'altra?» «No. Non posso dare a Cathy ciò di cui ha bisogno.» «Cosa ti fa pensare che io possa?» «Sta' con lei. Falla sentire una persona.»
A dir la verità, non è che apprezzi il comportamento di Cathy molto di più di quanto non faccia Nikhil. Penso di comprendere cosa lei stia passando, e la giustifico, eppure continuo a considerarla più come un'estranea che come una persona alla quale voler bene. Ciò che Randi mi chiedeva non era affatto semplice. E poi c'era anche l'altra faccia della medaglia. «E tu? Con Nikhil?» «Una volta ho marinato una settimana di lezioni a Stanford. Sono andata in un bordello del Nevada. Buffo, eh? Volevo sapere se ne sarei stata capace, in caso di bisogno. Per vivere. Ci rimasi quattro giorni. Ero brava, ma non avevo la vocazione.» Ha toccato la tasca del mio coprituta, dove tengo il recorder elettronico che registra ogni cosa, per il futuro articolo. «Puoi trascrivere queste cose quando usciamo. I segreti sono una rottura.» Scrolla le spalle. «Papà reggerà benissimo.» «Randi...» Ho capito che i conti tornavano anche stavolta. Randi sembra essere in perpetua ribellione contro la comodità e la normalità, sempre alla ricerca dei suoi limiti estremi e dei rischi più grossi, per dimostrare a se stessa di poter provare tutto e sopportare tutto. Ma, diversamente da quegli scienziati con la faccia da topo che arrotondano scrivendo gialli erotici, Randi non può sfogarsi verbalmente. Per esprimersi, lei deve viverle, le cose. «Randi, si può vedere di fare qualcosa per Cathy e Nikhil, ma questa tua idea mi sembra un po' estrema.» «Solo stavolta. Dài.» Si è rannicchiata vicino a me, sorridendo. «Devi solo essere gentile. Non ti fare problemi. Lascia che sia lei a... Forse dei baci, degli abbracci, non so. Forse vorrà solo che l'ascolti. Quello che sarà, non dirle di no. Solo stanotte, d'accordo? Così non si uccideranno l'un l'altro. E non uccideranno noi.» Mi ci è voluto un minuto prima di capire bene. Poi mi è venuto alla mente un altro fatto. Randi e io siamo single, non abbiamo nemmeno mai coabitato. Nikhil e Cathy, invece... «Come farai a dirglielo?» le chiesi. Randi ha scosso la testa, sembrava atterrita. «No, io no!» Non credo che potrò finire di registrare gli avvenimenti della giornata sul mio diario, stasera. III Settimo giorno. La scorsa notte non è successo niente di trascendentale. Nikhil ha dimostrato che l'idea dello scambio lo divertiva molto, ed è sem-
brato risollevarsi da subito. Cathy, invece... Dopo essere rimasta a lungo irrigidita nel suo nervosismo, semplicemente si è sciolta fra le mie braccia, piangendo come una bimba. Io sono rimasto a tenerla, mentre parlava. Era nata in una ricca famiglia marziana di mercanti, ed era sempre stata una ribelle, intellettualmente parlando. Si era scontrata molto presto con l'autoritario movimento pastorale delle sue parti, quello dal quale è nata in seguito la Nuova Riforma. Quando aveva quindici anni fu espulsa dalla scuola perché si era vantata di essere andata a letto con un ragazzo. Non era vero, ma lei si giustificò così: «Odiavo a tal punto quelli che mi dicevano che non si doveva fare, che dissi a tutti che l'avevamo fatto». I suoi genitori, dovendo barcamenarsi fra questa loro figlia scapestrata e i clienti, risolsero la questione spedendola all'Accademia Paleontologica Interplanetaria su Venere L1. Fu lì che incontrò Nikhil per la prima volta, a quel tempo ricercatore addetto agli esercizi in un corso introduttivo di paleontologia. Cathy prese la sua laurea in medicina a ventidue anni, gettandosi poi anima e corpo in ricerche di archeoimmunologia. Una conferenza sulle tracce di patologie nei fossili fece sì che la sua strada si incrociasse nuovamente con quella di Nikhil, il quale aveva appena schivato la controversia sulla struttura interna di Miranda sottoponendo a scansione protonica alcuni carotaggi prelevati su Tritone, per criticare quelli che propugnavano la panspermia. Il suo status da emarginato accademico rappresentava un motivo d'attrazione, per lei. Cominciarono a frequentarsi. Quando lui fu colpito da improvvisa celebrità, lei buttò le sue remore dalla finestra e accettò di sposarlo. Ma si accorse che Nikhil teneva nascosta la sua sensualità a un livello molto, molto profondo, e c'era un vuoto freddo e artificiale dove avrebbe dovuto esserci la sua allegria. Cathy mi ha raccontato che il loro primo battibecco erudito era stato proprio durante la luna di miele, a proposito del suo monokini. Da allora non avevano fatto che ritornare a più riprese su quell'episodio, continuando a battibeccare e a ricamarci sopra come personaggi di Virginia Woolf. «Quel maledetto bastardo d'un pallone gonfiato rinsecchito è molto bravo per certe cose» mormorava, mentre si stringeva contro di me. «C'è una gran puzza qui, lo sapevi?» Poi si è addormentata, con le lacrime agli occhi. Era desiderabile, morbida, e al di là di ciò che la coscienza mi permetteva. Stamattina, quando i nostri occhi si sono cercati e incontrati, mi chiedevo se lei si aspettasse qualcosa me, e se fosse stato il caso che io, come a-
mico, mi fossi offerto a lei. Per non sbagliare ho lasciato stare, e lei ha sorriso e basta. Eccettuato forse per quel breve sguardo, io e lei abbiamo continuato a essere solo amici. Randi non ha detto nulla della sua notte in tenda con Nikhil, né mi aspettavo che lo facesse. Mi ha abbracciato calorosamente e molto a lungo, dopo aver parlato con Cathy. Eravamo molto carini gli uni con gli altri mentre smontavamo il campo e ci accingevamo a partire lungo una serie di grandi caverne da percorrere con i giganteschi passi della milligravità. Stamattina Cathy ha distribuito le ultime pillole per la ritenzione del calcio. Nel giro di una settimana cominceremo ad avvertire i sintomi classici della bassa gravità, fragilità e deficit osseo. Non è che ce ne preoccupiamo più di tanto, si può recuperare bene, se sopravviveremo. Alla fine della giornata non è che sia stanco, ma mi trovo con la mente un po' rintronata, a forza di vedere tutte quelle meraviglie di cristallo. Da dove vengono questi cristalli? O meglio, da dove sono sbucati? Sam e Nikhil concordano che il flusso di gas che c'è ora, sebbene sorprendentemente intenso, non è assolutamente sufficiente per depositare queste foreste di cristalli nelle poche centinaia di milioni di anni trascorsi da quando Miranda si è riformata. Eravamo a centocinquanta chilometri di profondità, quando Nikhil ha detto che le rocce intorno a noi dovevano sopportare una pressione di più di novanta atmosfere per opporsi al collassamento delle caverne. Non era quindi strano se ora di caverne grandi non se ne incontravano più così tante come prima. Le pareti erano silicato, non roccia clastica. Lastroni di roccia solida invece che roccia e ghiaccio sporco. La notte scorsa mi sembrava che il gemito che di tanto in tanto si udiva fosse più acuto. «Mezzanotte passata, tempo universale» annuncia Cathy. Forse si è ripresa dallo spavento di prima, pronta a rientrare nel suo ruolo di medico, ma la sua voce sembra ancora un po' tremolante. «Penso sia ora di fermarci a riposare» ci comunica, mentre stavamo spingendo il nostro bagaglio davanti a noi dentro a un cunicolo al termine di una galleria, guidati verso la caverna successiva dal sonar di Sam; io e Randi abbiamo riso, al momento era un tantino difficile assecondare quel suggerimento. Però lei non aveva tutti i torti. Abbiamo già compiuto più della metà del tragitto attraverso Miranda in soltanto cinque dei nostri venti giorni, siamo molto avanti sulla tabella di marcia. Nikhil, che capeggia la fila, non coglie l'ironia della battuta di Cathy e le fa: «Sì, cara. Mi sembra un'idea decisamente buona. Magari nella prossima
caverna, eh?» «Voi umani sarete decisamente più efficienti, dopo aver riposato.» Sam dice queste parole con un tono faceto, il che rende merito allo staff medico di supporto dei suoi programmatori. D'altra parte ho come l'impressione che il suo finto orgoglio robotico infastidisca parecchio Cathy. «Noi» gli rispondo «non ce l'abbiamo mica un milligrammo di antiidrogeno nel cuore.» «La vostra invidia per le mie doti superiori è in sé una dote mirabile, poiché riconoscete...» «Shiva!» sbotta Nikhil dal davanti. «Che c'è?» gli rispondono tre voci quasi all'unisono. «È enorme. Una caverna enorme. Io... Dovete vederla coi vostri occhi.» Lo raggiungiamo, e ci troviamo ancora sopra una cornice, sporgente su un'altra caverna. Non sembra essere una caverna particolarmente grande, all'inizio - i fasci luminosi delle nostre strobolampade arrivano all'altro lato - solo l'ennesima cattedrale di cristalli. Poi guardo giù e... vedo delle stelle. Per fortuna l'esperienza fatta nella "Stanza di Randi" mi permette di tenere sotto controllo le mie reazioni, sebbene cerchi di aggrapparmi subito alla corda più vicina. «Spegnete le lampade, se potete» ci suggerisce Nikhil mentre facciamo nuovamente capolino dall'orlo della cornice. Le stelle scompaiono. Riaccendiamo le strobolampade, ed ecco di nuovo le stelle. L'occhio umano non è in grado di cogliere intervalli di tempo tanto piccoli, forse sarà stata la mia immaginazione. Fatto sta che le "stelle" laggiù sembrano accendersi un attimo dopo il flash stroboscopico. «Novanta chilometri» fa Sam. «Novanta chilometri!?» Nikhil è incredulo, un duro colpo per la sua compostezza. «Come può essere? I minerali clastici non possono reggere una pressione del genere!» Randi si assicura alla parete, poi comincia a rovistare nel pallet che mi ero tirato dietro, tornandone con un piccone da geologo. Colpisce la cornice su cui la gravità quasi inavvertibile ci ha deposto e ne esce un tintinnio acuto, che raggiunge le mie orecchie presumibilmente passandomi attraverso gli scarponi. «Nichel ferroso?» domanda Nikhil. «A-ha. Penso di sì» risponde Randi. «Fratturato. Da qui in giù.» «Forse Miranda è finita in pezzi perché conteneva di questa roba» azzarda Cathy.
«Pure supposizioni» taglia corto Nikhil. «Ragazzi, dobbiamo muoverci.» «Lo so. Prendo un pezzo, le analisi a dopo» dice Randi. «Andiamo, dài.» «Di là o giù?» La mia non era una domanda stupida. I nostri piani erano di seguire il Grande Rift, che, presumibilmente, continuava all'altro lato. Ma sotto di noi c'erano novanta chilometri di corsa completamente libera da ostacoli verso il centro esatto della luna. Ho pensato a Jules Verne. «Abbiamo meno di due settimane di tempo per lasciare questo satellite» ci ricorda Nikhil. «Dopo, potremo sempre tornarci.» «Deposito centrale di gas, camini. Altre connessioni» borbotta Randi. Dopo attimi di perplessità, ci arrivo anch'io. Se scendessimo giù per questo pozzo, abbandoneremmo il tragitto stabilito e punteremmo decisamente verso il centro; il Rift, però, non piega affatto verso il centro, come Sam ha stabilito con certezza grazie ai suoi rilievi. È anche vero che, se da qui in avanti il Rift cessa di essere la via di sfogo per i gas, ciò significa che le aperture fra una caverna e l'altra potrebbero non essere sufficientemente ampie da consentirci di avanzare. Dobbiamo cercarci un'altra porta di servizio. «Ma si capisce» fa Nikhil. «Se tutte le strade portano a Roma, è anche vero che tutte partono da Roma. Questo gas che cerca di uscir fuori, questo vento dal nucleo, è proprio ciò che ha connesso queste caverne, erodendo i passaggi quel tanto che bastava da consentirci di passare. Randi vuol dire che dobbiamo andare a cercare un altro camino, e il posto migliore per trovarlo è proprio il centro. È così, no?» «A-ha» riconosce Randi. Nessuno parla. Nel silenzio più completo giurerei di sentire un gocciolio, che quasi copre una pulsazione sorda, forse il mio cuore. A ogni modo, l'assoluto silenzio tombale delle caverne superiori non c'è più. Arrischio un'altra sbirciata oltre l'orlo. Che ci sarà mai, laggiù? «Abbiamo un problema» ci informa Cathy. «Gas venefici. La pressione dell'azoto arriva a un ventesimo di bar, più di quanto non fosse sul vecchio Marte. Abbastanza da consentire il convogliamento di quantità pericolose di aromatici - non mi riferisco tanto al metano, ma al cianogeno o simili. Non so se l'avete notato, ma questa robaccia sta cominciando a condensarsi sui nostri arnesi e a riempire di tanfo le tende. Vicino al centro potrebbe essere anche peggio, e non saprei come fare per decontaminarci.» «Ehm, i razzi.» È Randi a rompere il silenzio. «I razzi di Sam. Le nostre pistole a reazione. Proviamo.» Così abbiamo provato. Abbiamo dovuto calcolare a che distanza dove-
vamo metterci dai getti, per quanto tempo doveva durare la cosa - abbastanza da vaporizzare qualsiasi particella sulla superficie dei nostri coprituta e degli equipaggiamenti, ma senza danneggiarli - e per quante volte avremmo potuto farlo. Sam aveva abbastanza propellente per compiere centoventi decontaminazioni complete. Non saremmo mai vissuti abbastanza per consumarle tutte. Cathy ha fatto da volontaria per l'esperimento; si è fatta investire col getto, è entrata nella tenda, e quando ne è uscita ha detto che era profumata come una rosa. Decidiamo di andare verso il centro. Così vicini al centro di Miranda, l'accelerazione gravitazionale è ridotta a poco più di cinque centimetri per secondo al quadrato, più o meno un trecentesimo di quella terrestre. Cinque milli-g. Lascia andare un oggetto davanti a te, chiudi gli occhi, conta fino a tre e riaprili: l'oggetto sarà più in basso di due o tre dita appena, sempre lì che fluttua. Così te lo dimentichi per una decina di minuti e fai altre cose. Quando torni a guardare, non c'è più. Si trova dieci chilometri più in basso, e sta cadendo a una velocità tre volte più elevata di quella raggiungibile da un uomo: circa trenta metri al secondo. Sempre che non abbia già colpito qualcosa o qualcuno. La bassa gravità, non fanno che ripetertelo, può essere pericolosa. Questo discorso vale se si è nel vuoto, ma noi non eravamo più nel vuoto. Ognuno di noi, insieme alla sua quota d'equipaggiamento pesava meno di dieci newton (circa come un litro di vodka laggiù in Polonia, ho pensato con nostalgica similitudine) e la nostra superficie poteva equivalere all'area di un piccolo aquilone. Fossimo caduti, avremmo magari potuto mantenere una velocità di tre metri al secondo in un primo tempo, per poi terminare la nostra discesa lentamente, come fiocchi di neve. Non so neanch'io perché, ma mi sono venute in mente le farfalle. «E se ci fabbricassimo delle ali?» «Ali? Davvero?» Il tono di Nikhil è piuttosto scettico. «Delle ali!» Cathy è entusiasta. «Lenzuola, tiranti da tende, nastro, filo. Si può fare» dice Randi. «È qualcosa di cui potremmo pentirci amaramente» ci avverte Nikhil. Quattro ore dopo, somiglianti a mostri usciti da un incubo di Batman, siamo pronti. Randi parte per prima. Con apparente nonchalance si dà una piccola spinta per raggiungere la verticale del baratro, e molto lentamente comincia a scendere. Mordendomi il labbro e tremando un po', la seguo. Dopo di me, ecco uno stoico Nikhil e una tranquilla Cathy.
Trascorsa una decina di minuti ho cominciato ad avvertire una tenue resistenza, e mi sono reso conto che potevo planare in qualche modo, o almeno controllare il mio assetto. Dopo alcune prove, Randi ha trovato che un movimento simile allo stile farfalla nel nuoto era quello che meglio le permetteva di spostarsi in avanti. Mezz'ora dopo la partenza abbiamo capito come aumentare o diminuire la nostra velocità di discesa senza fare sforzi, e addirittura eravamo in grado di riprendere quota, se solo lo avessimo voluto. Stavamo volando sul serio. Dopo un'altra ora di discesa siamo arrivati alla fonte di quel gocciolio che avevo udito la scorsa notte. Del liquido si era condensato lungo le pareti del camino, formando delle gocce grandi come bocce da bowling. Quando le gocce si staccavano, cadevano per un circa un chilometro, andando poi a finire in una pozza che riempiva una fenditura lungo una parete del camino. L'equivalente mirandiano di una cascata sembrava uno di quei filmati ultrarallentati che mostrano qualche cosa cadere in acqua provocando una marea di schizzi e bolle; però, in questo caso, si era in macroscala e in tempo reale. «Prevalentemente etano» ha detto Sam. Più denso e aerodinamico di noi, Sam manteneva la nostra stessa velocità di discesa grazie all'azionamento di un razzo posteriore, che gli permetteva si spostarsi da un lato all'altro del camino; quest'operazione la chiamava "scoreggia vagabonda". Se per caso esco da qua sotto, andrò a dire due paroline agli ingegneri che gli hanno preparato il software. «Wojciech, vieni a vedere!» Era Cathy, che urlava dall'altro lato del camino. Mi sono avvicinato agitando le braccia come pagaie, insieme a Randi e Nikhil. «Conviene sia qualcosa d'importante» ha detto Nikhil, ricordandoci che non avevamo tempo da sprecare. Un avvertimento opportuno per me, che prima mi ero lasciato incantare da gocce che ci mettevano dei minuti a cadere e da laghetti con la superficie perennemente oscillante. Cathy si è portata vicino alla parete, mantenendo la sua posizione con colpi d'ala ogni tre o quattro secondi. Non appena l'abbiamo raggiunta, lei ci ha indicato col piede una porzione di roccia nuda. Proprio nel mezzo sporgeva una specie di "T" biancastra, con delle asole circolari in ognuna delle alette. «È un chiodo da roccia. Senza dubbio.» Quello che lei non ha detto è che il chiodo certamente non lo avevamo
piantato lì noi. «Sam, ci puoi dire a quando risale?» «È più recente della parete. Ma quest'ultima sembra essere una porzione di superficie di uno dei corpi che hanno originato Miranda così com'è ora. Vedete quei crateri?» Adesso che me li fa notare, li vedo. Alcuni minicrateri molto regolari, di quelli che abbondano sulle superfici di moltissime lune senza atmosfera. Sennonché ci sono duecento chilometri di roccia e ghiaccio a frapporsi fra questi crateri e lo spazio. Mi sento spiazzato e sbalordito allo stesso modo di quando, da bambino, esplorando gli spuntoni al bordo settentrionale del Grand Canyon del Colorado, sulla Terra, a duemila metri d'altezza sul livello del mare scopersi delle conchiglie imprigionate nella roccia. «Il chiodo» puntualizza Sam «è più recente dei cristalli di brina, poiché l'area in cui si trova è stata prima sgomberata.» Tutto torna, allora. I cristalli che circondano la porzione di roccia nuda sono lunghi circa un metro. «Guardate la lunghezza dei cristalli più vicini» dico agli altri, eccitato dalla mia scoperta. «Qualunque cosa sia stata a ripulire la roccia, ha spazzato via anche i microcristalli intorno al chiodo, ma un po' più lontano si è limitata a buttarli giù, lasciando una base per la rigenerazione dei cristalli. Così l'altezza dei cristalli appena fuori la zona ripulita è la loro crescita da quel momento.» «Ma a che velocità crescono?» chiede Nikhil. «Noi non lo sappiamo. Sappiamo solo che adesso sembra essere particolarmente lenta. Mi dispiace dirlo, perché sono interessato alla cosa come tutti quanti voi, ma dobbiamo muoverci. Sam ha registrato ogni cosa. Se riguadagneremo la superficie, senz'altro altre spedizioni verranno quaggiù per dare un'occhiata. Se non dovessimo riuscirci, be', che stiamo qui a fare? Andiamo, allora?» Senza aspettare un cenno d'assenso dagli altri, Nikhil si gira verso il basso e comincia a dare convinti colpi d'ala in direzione del centro di Miranda. «Ma che vada a...» sibila Cathy, mentre torna verso il chiodo e, abbandonando una delle ali, si attacca al manufatto alieno, puntando poi i piedi contro la roccia dalla quale sporge; lo afferra con entrambe le mani e tira. Il chiodo, nessuna meraviglia, rifiuta di muoversi. «Altre spedizioni. Ritorneremo» le dice Randi. Cathy ha mollato, sta ansimando. Si è nuovamente lasciata andare verso il basso, nel contempo allontanandosi dalla parete. Noi siamo restati vicino a lei, accompagnandola finché non ha ricominciato a muovere le ali. In seguito, non abbiamo fatto nessuno sforzo per raggiungere Nikhil, che a quell'ora si trovava già un
chilometro più in basso. L'aria - potevamo chiamarla così, adesso - stava diventando torbida, nebbiosa. Nikhil, sebbene il display del mio casco rilevasse la sua presenza, non si vedeva. Sam, con tutti i suoi radar, sonar, filtri, e una vista con gamma di spettro ampliata, non badava molto alla nebbia; continuava a svolazzare da una parte all'altra di questa smisurata caverna verticale, prelevando campioni. Quando non siamo più riusciti a scorgere le pareti, ci siamo radunati nel mezzo. Incredibilmente, nonostante l'elevatissima pressione che preme sulle sue pareti, il camino si stava allargando. «Questa roba è letale» ci ha avvertito Cathy. «Che tutti si assicurino di mantenere una pressione abbastanza buona, ma non tanto da rischiare di aprire una fessura. L'ossigeno potrebbe incendiarsi, a contatto con questi gas. Se questo camino si trovasse sulla Terra, la Polizia Ambientale l'avrebbe già smantellato.» Un breve controllo mi assicura che la mia tuta è a posto, ma con un differenziale di pressurizzazione del genere ci avrei pensato due volte, prima di avvicinarmi a una fiamma. Le nostre tute erano state progettate e programmate per essere adoperate in assenza d'atmosfera, non nel bel mezzo di una guerra chimica. Noi le stavamo collaudando ben oltre i loro parametri operativi. «Il camino va battezzato» dice Randi. «A-ha. Un lavoro per il poeta, credo.» Sì, era compito mio. Sul momento mi venne in mente soltanto "La Ciminiera di Nikhil", un po' per onorare lo scopritore, e un po' per dargli una stoccatina, vista la sua poca voglia di esplorare il condotto verticale. Cathy si è messa a ridere, alla fine. Non potendo vedere nulla o quasi, ho chiesto a Sam di darmi un modello 3-D del camino, e subito il solerte robot lo ha inviato alle apparecchiature ottiche del mio casco. Un modello tridimensionale in sezione di Miranda è stato proiettato dalla mia visiera alcuni metri davanti a me. Il camino era quasi perfettamente allineato con l'asse del polo nord, e appariva trovarsi là dove due enormi blocchi ricurvi, grandi un centinaio di chilometri, si sono accostati. Immaginate due grossi cucchiai di legno rivolti uno di fronte all'altro. Questi lastroni sono molto duri, come nickel, o come asteroidi di silicato. Ormai di teorie che spiegano la presenza di corpi celesti come questi ce ne sono molte: radioattività e stress gravitazionali potrebbero aver riscaldato e differenziato anche corpi molto piccoli; il caos gravitazionale del giovane sistema solare potrebbe aver espulso molti asteroidi dalla cintura,
e qualcuno potrebbe esser stato catturato dal campo gravitazionale di Urano; o forse, l'impatto che ha rovesciato Urano su un fianco ha provocato il rilascio di materiale planetesimale dal suo nucleo, materiale che è poi entrato a far parte del suo sistema di lune. Avevo messo il pilota automatico, un colpo d'ali ogni dieci secondi circa per tenermi al passo con Randi mentre fantasticando mi fingevo astrogeologo, così non ho notato che l'aria si stava facendo più chiara. La nube di nebbia sembrava essersi divisa in due parti che andavano a ricoprire i due lati del camino, lasciandolo relativamente libero nel mezzo. Poi la nube si è assottigliata ulteriormente, e attraverso dei buchi che si erano formati ho potuto vedere un fiume che scorreva... di fianco a me? sotto di me? sopra? «Randi, c'è un fiume.» «Ricevuto, Wojciech.» «Ma come può trovarsi qui? Che ci fa?» «Gravitazione.» «Certo» aggiunge Nikhil. «Ora il camino è largo quasi tre chilometri. Un suo lato si trova più vicino a Urano rispetto al baricentro di Miranda, perciò si muove a una minore velocità circolare orbitale. Lì le cose tendono quindi a cadere verso l'interno, come dall'apoassi di un'orbita più piccola. L'altro lato è più distante da Urano rispetto al centro, e si muove a una velocità orbitale maggiore. Lì le cose tendono a sfuggire verso l'esterno. «La massa di Miranda ora ci circonda come un guscio gravitazionale equipotenziale, per cui non se ne avverte l'attrazione; le uniche forze in gioco sono l'attrazione di Urano e la forza centrifuga di Miranda. Non sono intense, soltanto pochi milli-g, ma comunque sufficienti per determinare il senso di scorrimento per i fluidi. Sotto certi aspetti, questo luogo assomiglia alla superficie di Titano, sebbene faccia un po' più caldo e la pressione atmosferica sia ben lontana dall'essere così alta.» «È acqua?» Sam risponde di no alla domanda di Cathy. «La temperatura è di soli duecento Kelvin, circa settanta gradi al di sotto di quella necessaria per solidificare l'acqua. Quaggiù ha la consistenza della dura roccia.» Sul fondo, o alla fine, della ciminiera di Nikhil c'è una roccia di tre chilometri di diametro, la quale possiede un suo proprio microscopico campo gravitazionale. Abbiamo calcolato che il centro esatto di Miranda dovrebbe trovarsi duecentotrenta metri sotto i nostri piedi, così vicino che ora possiamo veramente considerarci senza peso. Abbiamo lasciato che Sam ci illuminasse per bene il paesaggio, poi abbiamo montato le nostre tende. La
decontaminazione è stata un po' rischiosa; dopo abbiamo gettato quasi tutta la robaccia che ricopriva noi e la nostra roba verso entrambi i lati del camino. L'aria, nel punto in cui ci troviamo, è quasi totalmente azoto, freddo e secco. Ci abbiamo messo fino a mezzanotte per montare il campo, così siamo andati a dormire subito dopo aver finito. Era stata davvero una lunga giornata. Nikhil e Cathy avevano dimenticato, la scorsa notte, che la loro tenda non era più circondata dal vuoto, tutt'altro. Le loro parole ci giungevano per la maggior parte flebili e attutite, ma qualcosa era passato. Le ore più piccole dell'ottavo giorno trasportavano chiaramente concetti come: «... porco arrogante e ingrato...» «... hai l'autodisciplina di una bertuccia in calore...» «... così freddo e arido che...» «... stupidi diversivi mentre le nostre vite sono appese a un filo...» Randi ha aperto gli occhi e mi ha guardato. Era quasi terrorizzata. Si è avvinghiata a me, aggrappandosi forte. Può sembrare strano che questa donna d'acciaio che non ha paura di niente si faccia prendere dalle convulsioni se le capita di assistere a un matrimonio che se ne va in pezzi, ma la prima infanzia di Randi era trascorsa fra le liti continue dei suoi genitori. C'era stato un divorzio, a quanto pare uno di quelli pesanti, specialmente dal punto di vista di una bambina di sei anni, ma lei non mi aveva mai raccontato molto altro. Ho tossito, più forte che potevo, e subito il risuonare di voci risentite è stato rimpiazzato dal distante ruggito delle rapide di etano. Poi Randi ha mormorato qualcosa. «Eh?» Stava forse per suggerirmi un nuovo scambio? «Non potremmo sposarci? Noi due?» È stata la prima volta che ha toccato l'argomento. Io avevo favorito la nostra relazione all'unico scopo di realizzare i miei progetti su questa spedizione, e mai, dico mai le avevo in qualche modo suggerito di avere altre mire su di lei o sul suo patrimonio. Ero certo che questo modo di impostare il rapporto fosse reciproco. «Ehm, Randi. Ascolta, non credo che dovremmo metterla in questi termini. Poeti morti di fame che cercano di farsi passare per reporter scientifici non ci farebbero una gran figura nella tua cerchia. E poi» dico indicando l'altra tenda con la testa «quelli non mi mettono nello stato d'animo giu-
sto per discutere di certe cose. Perché, vedi...» «Perché tu non fai così.» Randi mi aveva interrotto. Una cosa veramente insolita, lei non interrompeva mai, se si eccettuavano i casi di emergenza. Era la persona meno loquace che conoscessi. E va bene, ho pensato. Dev'essere un'emergenza pure questa. L'ho baciata sulla fronte, poi ho soffocato una risata. Per un poeta doveva essere una moglie ben strana! Stava lì seduta a lottare con se stessa, sforzandosi di trovare le parole per dire qualcosa. «Perché... il sesso, il lavorare insieme, l'avventura, i ricordi di questo, non abbiamo mai paura, non litighiamo.» I miei genitori avevano avuto le loro brave discussioni, ma era molto raro che alzassero la voce. Evidentemente, la lite dei signori Ray aveva riaperto delle vecchie ferite in Randi. L'ho abbracciata, confortandola come meglio potevo. Poi la curiosità ha avuto la meglio su di me. «I tuoi genitori litigavano?» «Papà non andava alle feste. Non gli piaceva. Non gli piacevano gli amici della mamma. Solo i suoi soldi.» Randi mi stava guardando negli occhi con un'espressione diversa, non avrei saputo dire se più arrabbiata o implorante. «Così, lei gli ha fatto sparare. Ha pagato qualcuno.» Non avevo mai sentito niente del genere, eppure qualsiasi inezia capitasse al signor Gaylord Lotati era una notizia, e neanche di poco conto. «Eh?» «Mamma conosceva qualcuno che conosceva qualcuno. Il soggetto non era all'altezza, ferita al petto non mortale. Dottore privato. Detective privato, ma privato sul serio. Sono arrivati a mettersi d'accordo, divorzio senza condizioni. «Avevo sei anni. Allora seppi solo che papà era andato all'ospedale per una settimana perché si era ammalato. Poi la mamma non è più tornata a casa, dopo uno dei suoi viaggi. Venne un furgone a portare via della roba, di quelli che usano per i traslochi. Uno degli operai si mise a giocare a palla con me. Venne un altro furgone, che portò papà e me in una casa più piccola. «Non c'erano più urla, mai, e non c'era più la mamma. Così adesso lo sai. Quando mi abbracci, non penso più a niente. Mi sento tranquilla, e voglio sentirmi tranquilla per sempre.» Cosa mai avrei dovuto risponderle, in un inferno di idrocarburi gelati? Mi sono limitato a cullarla piano fissando le pareti della tenda, come se po-
tessero darmi una risposta. «Ascolta, io ti voglio bene, davvero» le ho detto alla fine. «Però ho bisogno di trovare anch'io i miei "perché". Non voglio che si crei un rapporto di dipendenza, fra noi due.» Le ho sorriso. «Noi dovremmo comportarci più come Plutone e Caronte, piuttosto che come Urano e Miranda.» «Chi fa Plutone?» chiede lei maliziosamente, lo sguardo penetrante e lucido per le lacrime che stavano per uscirle. Mi sta mangiando con gli occhi. Non si può scappare da un buco nero, e una volta caduto nel suo orizzonte degli eventi e fuso con lei in una singolarità, la questione di chi sia Plutone e chi Caronte non ha più nessuna importanza. Così come non ne hanno i rumori che facciamo. Era già tardi quando siamo rientrati nell'universo reale per un nuovo round di ricerca della porta di servizio; quando siamo emersi dalla tenda già sgonfia, Cathy e Nikhil avevano già finito di impacchettare per bene l'attrezzatura nel loro pallet. Ci siamo guardati tutti quanti negli occhi con grande imbarazzo reciproco. Poi, Nikhil ha appoggiato una mano sulla spalla di sua moglie. «Scusateci. Un po' troppa tensione, ecco tutto. Non si ripeterà più.» Nikhil indica colei che ci circonda, Miranda. «Allora, continuiamo?» «Hai idea dove dovremmo cercare?» gli chiedo. «Una via d'uscita per l'etano?» propone Randi. Sì, pensavo, quei fiumi dovranno pur andare da qualche parte. Mi auguravo solo di non doverci nuotare dentro. «C'è un'altra caverna» annuncia Sam «dall'altra parte di questo nodulo siderofilico.» «Questo cosa?» fa Cathy. «Questa maledetta roccia ferrosa di tre chilometri su cui poggi i piedi» scatta Nikhil, prima che Sam possa rispondere. Poi ritrova il controllo e aggiunge: «Cara». Lei annuisce seccamente. Randi ha provato a dare un paio di colpi al nodulo, tanto per saggiarne la consistenza, più per frustrazione che per mettere in dubbio ciò che ha detto Sam. Dopo cinque ore di ricerche, è diventato chiaro che le uniche vie d'uscita erano i fiumi d'etano. «Mi perdonerete se adesso rimpiango di aver abbandonato il Rift.» Nikhil non poteva proprio fare a meno di dirlo. Cathy era vicina, così le ho toccato la mano. Lei si è irrigidita.
Dovevamo scegliere se andare a sinistra o a destra, testa o croce. Ogni lato dello spartiacque gravitazionale aveva il suo fiume di etano, ed entrambi i fiumi scomparivano. Sam ha sondato e risondato le aree vicine ai due laghi di etano in fondo alla ciminiera di Nikhil. Il fiume interno, dalla parte di Urano, sembrava sfociare in una caverna dall'altra parte della "Roccia di Cathy", come abbiamo chiamato il nodulo centrale. Quell'altro sembrava scorrere per sette chilometri prima di arrivare a sfociare da qualche parte, però la sua direzione pare fosse verso il Grande Rift. Nessuno si sarebbe azzardato a contraddire Nikhil, questa volta. Adesso che abbiamo deciso la strada da intraprendere, c'è il problema di come percorrerla. «Semplice» dichiara Cathy. «Sam va con una corda, noi entriamo in una tenda e ci facciamo tirare dall'altra parte.» «Sfortunatamente io non sono in grado di sopportare un'immersione nell'etano così prolungata» ci fa sapere Sam. «E voi necessitate della mia fonte d'energia, quantomeno, per completare con successo il viaggio.» «Cathy» chiede Randi «com'è l'etano? Sì, insomma, quanto male fa?» «Se lo respiri, ti si seccano i polmoni.» «Abbiamo le tute pressurizzate.» «Ne può sempre filtrare attraverso i pori delle tute.» Cathy aveva ragione. Se l'umidità del corpo e i gas della pelle possono piano piano farsi strada attraverso il tessuto delle tute, allora era anche possibile che l'etano potesse entrarci. Randi annuisce. «E chiudere i pori della tuta?» Mi è sfuggito un forte «Che!?» non appena mi sono reso conto a cosa stava pensando. Le tute aderenti funzionano proprio perché lasciano respirare la pelle; il sudore e i gas si diffondono lentamente attraverso il tessuto poroso. Fermare questo processo avrebbe potuto rivelarsi parecchio disagevole, se non fatale. Ma la dottoressa in medicina Cathy Ray non pareva crucciarsene più di tanto. A quanto sembra si può sopravvivere, per un tempo limitato. «Molecole grandi. Ne hai, Cathy?» «Ho una sostanza per rivestire ustioni e abrasioni, fibre semi-intelligenti. Il nome industriale è Exoderm; che ne dici, Sam?» «L'Exoderm non passa attraverso i pori della tuta. Però, essendo una sostanza porosa a sua volta, può consentire all'etano di penetrarvi attraverso, dopo un certo tempo. Poche migliaia di molecole al secondo per metro quadro.»
Randi scrolla le spalle. «Se oltre alla tuta c'è quella roba, ne passeranno ancor meno. Troppo poco per preoccuparsene.» «Vengo con te» le faccio, meravigliandomi di me stesso, ma Randi scuote la testa. «Tu proverai con l'altro passaggio se io non ce la dovessi fare. Piglia la schifezza, Cathy.» Cathy apre uno dei contenitori e tira fuori una bomboletta spray. Io comincio a preparare una tenda. «Sarà un po' complicato farlo dentro una tenda» considera Cathy. «Ma quale tenda. È pronta, la roba?» chiede Randi. Cathy fa cenno di sì, e se ne spruzza un po' per prova su un braccio. Per un attimo il braccio è come ricoperto di zucchero filato, ma subito dopo la sostanza collassa, trasformandosi in una specie di pezza lucida. Cathy se la toglie e la esamina per bene. «Perfetto. Ora mi serve soltanto della pelle nuda e un posto dove lavorare.» Per tutta risposta Randi comincia a iperventilarsi, poi, prima che qualcuno la possa fermare, entra in decompressione, si toglie il casco con movimento fluido, disattiva le sicurezze della sua tuta e se la toglie, fluttuando davanti a noi completamente nuda. Va dato merito a Cathy di non essersi fatta bloccare dallo shock. «Limitati a espirare. Non inspirare, o sei morta» dice a Randi, cominciando a spruzzarle rapidamente la schiena mentre ancora sta levandosi gli scarponi. In meno di un minuto Randi viene ricoperta da una sostanza grigia e cremosa; subito dopo, con calma e precisione, si riarrotola la tuta aderente su quella roba appiccicosa, sigilla e controlla per bene, e torna a indossare il casco. Tutto fatto in meno di tre minuti. Nikhil è rimasto senza parole, e io non è che sia molto più ciarliero. «Tutto bene?» chiedo, nonostante la risposta appaia ovvia. Randi è incurante. «Un decimo di atmosfera, novanta sotto zero, niente vento, né umidità, né convezione. L'aria pizzica un po'. Tonifica. Nessun problema, questa schifezza è isolante. Posso tenere il fiato anche cinque minuti.» «Fa... Faresti meglio a muoverti, ora» le fa Cathy, sforzandosi di mantenere un tono professionale. «L'etano non può raggiungerti, ma la tua pelle non respira più.» Randi annuisce. «Dispenser della corda. Ganci. Pistola sparachiodi.» Mi do una scrollata e tiro fuori queste cose dallo stesso pallet in cui si trovava l'Exoderm di Cathy. Randi attacca il capo libero della corda alla cintura, lo ritoglie, controlla e ricontrolla il gancio e infine si riattacca la
corda. «Tre strattoni, d'accordo? Vi do cinque minuti di tempo per prepararvi, poi comincio a tirare. Va bene?» Tutto chiaro. Poi lei si avvicina a me, mi afferra il casco e ci appoggia il suo. «Ce la farò. Se va male, poi non farmela pesare, eh?» Le ho stretto forte la mano, in un tentativo estremamente inadeguato di farle capire che le ero vicino. Poi lei ha sciolto gli ancoraggi degli scarponi e, spinta dalla sua pistola a reazione, ha raggiunto la riva del lago di etano, a un chilometro e mezzo di distanza. Non c'era, ritenevo, nessuna ragione che impedisse di intrecciare un filo di fibra ottica per comunicazioni a un filo di Fullerene, così che la corda risultante si potesse adoperare sia per comunicare che per tirare, arrampicarsi e fare i salti con l'elastico. Il nostro filo non era fatto in questo modo, così abbiamo perso il contatto radio con Randi poco dopo che si è tuffata nel lago. Lei continuava a tirarselo dietro, ma questo non voleva dir niente. Poteva essere morta, e il suo corpo venire trasportato dalla corrente. Mi chiedevo se ci fosse stata una corda attaccata anche al chiodo alieno che abbiamo trovato più sopra, e per quanto tempo sia rimasta là. Sperando che Randi ce l'avesse fatta, ci preparavamo al viaggio dentro l'etano. Le tende smontate completamente, i contenitori per l'attrezzatura risigillati. Ho preparato una matassa di corda, facendone passare un capo per una puleggia piantata sul Sasso di Cathy, nel caso che qualcuno volesse ritornare per questa strada. «Dubito che ce ne serviremo» mi fa notare Nikhil. «Ma, nel caso, dovremo benedire la tua previdenza. Stai diventando bravo, signor Bubka.» «Grazie.» Continuavo a fissare il dispenser, combattendo l'irrazionale impulso di tirarla indietro. Cathy ha preso i contenitori sigillati e li ha spostati vicino alla riva, dove un cambio d'orientamento dei mini campi gravitazionali faceva sì che se ne stesse in piedi ad angolo retto rispetto a Nikhil e me. Poi si è seduta, fissando il lago in cui Randi era scomparsa. Io sono rimasto a trafficare con le mie pulegge. Nikhil si avvicina a me. «Io non mi sento bengalese, lo sai» mi dice all'improvviso. «Avevo dieci anni quando i miei genitori furono cacciati da Calcutta. Ragioni politiche, anche se non ho mai saputo esattamente come andarono le cose. Comunque ho frequentato la scuola in Australia, poi
Cambridge e il dottorato alla Jovis Tholus.» Le sapevo già, tutte queste cose. Comunque, per mantenere la conversazione, gli ho risposto. «La Jovis Tholus University è Neoriformista, non è vero?» «Ufficialmente è non-settaria, sovvenzionata dallo stato, capisci. Il consiglio accademico potrebbe essere orientato in quel senso, ma la sua influenza non è molto forte. Inoltre, una cosa come la geologia Neoriformista non esiste neppure. Sempre che non si vada a scavare sulla faccia di Marte.» Nikhil muove la sua mano in un ampio gesto, a indicare che vuole lasciar cadere l'argomento. «Insomma, come vedi, le mie radici sono in due ambienti ben diversi. Il freddo, disciplinato mondo intellettuale delle università inglesi, e l'eclettico, coercitivo e superstizioso calderone bengalese.» Nessun dubbio su quale dei due preferisse. Ho voluto cercare di trovargli un punto debole. «Allora sei aristoteliano.» «Sebbene accetti questa tua definizione, non mi piace lasciarmi ingabbiare da categorie.» «L'aurea mediocritas, il rigettare gli estremi, deve esercitare un certo fascino su di te.» «Direi di sì.» «Va bene, Nikhil. Allora non puoi negare che, entro limiti ragionevoli, anche la spontaneità sia una buona cosa. Una valvola di sicurezza applicata agli obblighi dell'evoluzione, una scorciatoia per le idee e la comunicazione. E poi la creatività, l'arte. Qualcosa che ci spinge a compiere buone azioni, che ci porta alla compassione, all'empatia.» «Forse.» Mi risponde con un sorriso gelido. «Non sono un robot. So di cosa stai parlando. Le possiedo anch'io, quelle cose...» il suo disgusto era evidente nel modo in cui diceva cose «... dentro di me, così come tutti. Ma io mi sforzo di trattenermi dal compiere azioni non pianificate, mi sforzo di ascoltare e analizzare quei brontolii biochimici prima di avere una qualsiasi reazione. È il mio modo d'essere, io mi preferisco così.» «Anche Cathy?» Mi sono morso la lingua subito dopo averlo detto, ma Nikhil si è limitato a scuotere la testa dentro al casco. «Cathy non capisce. Sono cresciuto in un posto dove la vita valeva poco, e il dolore era la norma. Ho visto cose orribili, a Calcutta... cose che comunque esercitavano una certa attrazione su di me.» Lo sguardo fisso dei suoi occhi marroni aveva un'espressione contraddit-
toria, difficile da interpretare. Forse un bambino curioso di sette anni mi stava spiando da dietro una spessa barriera di sofisticazioni adulte. Ma questa barriera era in grado di proteggerlo da noi? O di proteggere noi da lui? Cos'era successo la notte che Randi aveva passato con lui? «Sai» continua Nikhil «Cathy non sperimenterà mai quelle cose, almeno finché avrò controllo su me stesso. Lei è tutto per me, io le devo troppo.» Scuote la testa. «Se solo non mi chiedesse quel che non ho il coraggio di darle... Rimanga fra noi, d'accordo?» Non avrei saputo cosa rispondergli, ma proprio in quel momento Sam ci ha informato che il filo non si svolgeva più. Un brusco cenno di assenso e subito siamo volati "giù" verso la riva del fiume di etano, restando in attesa dei tre strattoni che ci avrebbero dato il via libera. Non sono arrivati. Abbiamo provato a tirare un po' su il filo, era lento. Abbiamo aspettato ancora, rifiutandoci di affrontare ciò che quella situazione implicava. Io mi sono messo ad aggiornare questo diario, sforzandomi di non pensare al presente. IV Verso la fine della nostra arbitraria giornata ho chiesto a Cathy di star pronta a mettermi l'Exoderm. Non c'era da discuterne, probabilmente avevamo già aspettato anche troppo. «Non farmela pesare» aveva detto Randi. Ho soffocato il mio dolore, non gliela volevo far pesare. Poi ho ricordato che il destino comune di molte spedizioni finite male era stato quello di estinguersi piano piano, coi membri che muoiono uno dopo l'altro. Mi sarebbe mancata, maledizione. I piani erano di provare con l'altro fiume, ma non se ne parlava neanche. Sarei passato per la stessa via, per non rinunciare alla speranza di poterla ancora recuperare. Avevo bisogno di quel piccolo pezzetto di speranza, per andare avanti. Per la legge di Murphy, proprio quand'ero già nudo e mezzo congelato, proprio quando - mezzo ricoperto da quella robaccia spray - trattenevo il fiato circondato da etano e azoto, il filo si è teso. Tre volte. Cathy e Nikhil hanno dovuto aiutarmi a rimettermi la tuta e a chiuderla bene, stavo tremando in modo pazzesco, troppo sollievo. Abbiamo dovuto sudare sette camicie per insaccare Sam, Cathy e Nikhil dentro una tenda sgonfia. Visto che io ero pronto per immergermi, e visto che, a quanto pareva, Randi era sopravvissuta alla sua immersione, abbia-
mo deciso che sarei rimasto all'esterno per togliere di mezzo eventuali ostacoli che si fossero presentati nel sifone. Stavo ricontrollando ancora i sigilli quando Randi ha cominciato a tirare forte. Per fortuna mi ero ricordato, ringraziando l'Universo, di agganciare anche l'ultimo dei contenitori alla mia corda. In un attimo siamo stati trascinati tutti nel lago d'etano. Faceva freddo, come immergersi nudi nel Mare di Bering. L'etano bolliva a contatto con la mia tuta aderente, e lo spazio fra questa e il coprituta si è riempito quasi subito di una densa schiuma di etano, piuttosto isolante. Grazie a quella e alla lucentezza bianco-argentea del coprituta, la mia muta era in grado di mantenere il suo interno a una temperatura di circa 290° Kelvin. Avevo i brividi, e cercavo di contrarre e rilassare ogni muscolo che potessi immaginare, mentre tutti insieme avanzavamo rapidamente nell'etano liquido. Non c'era granché da vedere. Il passaggio era largo, probabilmente reso tale da eoni di flusso ininterrotto. Le strobolampade rivelavano una nebbia di bollicine tutt'intorno; per il resto le tenebre nascondevano ogni cosa. Il filo ci stava tirando... su? Giù? Comunque, verso la parte interna del passaggio, fuori dalla corrente. Ho afferrato il filo per oppormi un poco con le gambe alla tensione, come se mi stessi calando da un monte che si trovava in un mondo a bassa gravità. Intanto la tenda con i miei compagni e i pallet venivano sballottati sulle asperità della parete del cunicolo. Ho chiesto il tempo al display, e il casco mi ha mostrato che eravamo sotto da un'ora. Abbiamo aggirato un angolo, entrando in un condotto molto più stretto. Ero così occupato a evitare agli altri di cozzare contro sporgenze varie, che mi ero dimenticato di quanto freddo avessi. Notavo, però, che la pelle cominciava a prudermi. All'improvviso, un debole baluginio davanti a me. È stata solo immaginazione? No. Dopo pochissimo tempo, un lampo di luce ha rivelato uno squarcio schiumoso sopra di noi. In un attimo siamo affiorati in superficie, il liquido era in ebollizione. Randi ci stava facendo cenno con la mano mentre ci tirava a riva. Sono uscito fuori con un calcio e un colpo di reni, gettandomi fra le sue braccia. Dev'essere passato un minuto prima che mi ricordassi di liberare gli altri componenti della spedizione dalla loro tenda-batiscafo. «Nessun terreno solido alla fine del condotto principale. Sono emersa in un mare ribollente pieno di schiuma e spuma, non potevo vedere niente, neanche un soffitto. Sono dovuta tornare indietro e prendere la deviazione.» Stava tremando. «Ho bisogno di entrare nella tenda, presto.» Ma con tutte le nostre procedure di decontaminazione, era impossibile
far presto. Siamo finalmente riusciti a infilarci nei nostri bozzoli tubolari quand'erano ormai le 03.00, tempo universale del decimo giorno. Durante i preparativi Randi gemeva squassata dai brividi, ormai semincosciente. L'Exoderm le si è staccato insieme alla tuta aderente, scoprendole una pelle di un rosso vivissimo, tranne che nelle dita delle mani e dei piedi, che erano invece di un brutto giallo nerastro. Ho collegato il minidoctor e ho chiamato Cathy, che subito ha programmato un rigenerante generale per tessuti e uno stimolante, ordinando nel contempo di aumentare il fattore d'isolamento della tenda. Per le 05.00 Randi stava dormendo e respirando normalmente, anche il rossore le era leggermente diminuito. Cathy ha chiamato offrendosi di controllare il minidoctor, affinché anch'io potessi riposare un poco. Mi sono addormentato con un dubbio in testa, e cioè se, con le vite di tutti a repentaglio, mi sarei spinto tanto in là. Il giorno dieci è stato corto. Eravamo esausti, tutti quanti. Non ci siamo mossi fino alle 15.00. Randi ha un aspetto terribile, specialmente le sue mani e i suoi piedi sono mal messi, ma si è ugualmente tirata su da sola la tuta di riserva, senza il minimo lamento. La mia faccia deve averle detto quel che pensavo, perché mi stava guardando male. «Farò la mia parte.» Cathy però ci stava aspettando al varco, così ha riportato Randi dentro la tenda, ripressurizzandola nuovamente. Nikhil e io ci siamo scambiati un'occhiata, mettendoci a impacchettare tutto quanto il resto. Quando le donne ricompaiono, Cathy afferma, in maniera molto risoluta, che Randi deve restare in posizione supina, a riposo assoluto. Randi non era d'accordo. «Io farò la mia parte... Io, io devo.» Toccava a me. «Randi. non credi che sia ora di dare una possibilità anche a qualcun altro? A me, per esempio. E poi, se non guarisci, finiresti per diventare una palla al piede.» Randi scuote la testa. «Non so mettermi a discutere. Io non lo so, ma... Non voglio fare da bagaglio.» «Non lo chiamerei far da bagaglio» interviene Nikhil «ma riposo forzato per ordine del medico. Ora, se vuoi essere una vera professionista per meriti tuoi, piuttosto che per graziosa concessione paterna, stringi i denti, conformati alle direttive mediche e piantala di farci perdere tempo.»
«Nikhil, tesoro» ruggisce Cathy «leva quelle tue dannate zanne dalla psiche della mia paziente!» Nikhil aveva perfettamente ragione, ma avrei voluto dargli un cazzotto per il modo in cui l'aveva detto. «E sia» fa Nikhil, ignorando completamente il tono di voce di sua moglie. «Mi scuso per il riferimento personale, Randi, ma il fatto resta. Per favore, non crearci difficoltà.» Senza che nessuno l'avesse sostenuta nelle sue posizioni, Randi ha ceduto. S'è fatta legare su di una barella improvvisata, costruita con le stesse imbragature, le stesse lenzuola e gli stessi nastri che avevamo adoperato per fabbricare le sue ali. Fatto questo, Nikhil si rivolge a me. «Non volevi stare in testa?» Fortunatamente il cammino ricominciava con una versione in scala ridotta di un terzo della Ciminiera di Nikhil. Non era una galleria tutta diritta, ma piuttosto una serie di caverne verticali leggermente storte. Sam si è portato più avanti con una corda, si è ancorato e poi ci ha tirato su. I brevi passaggi tra una caverna e l'altra erano le tipiche fenditure larghe e basse che già avevamo incontrato, e io riuscivo a procedere senza particolari difficoltà, sebbene sia stata una sorpresa scoprire quanta roccia e ghiaccio si dovesse scalpellare via per procedere agevolmente. Era un lavoro veramente duro da farsi chiusi dentro a una tuta pressurizzata, la mia considerazione di Randi e Nikhil cresceva di metro in metro. Alla fine dell'ultima caverna il camino piega verso nord, restringendosi progressivamente a imbuto. Possiamo sentire il vento soffiare intorno a noi. Di là c'è una grande caverna orizzontale, asciutta, ma piena di cristalli di brina. La fenditura del Rift è chiaramente visibile sul soffitto. La esamineremo meglio domani. Il livello di etano è ormai sceso abbastanza da evitarci le procedure di decontaminazione, e, prima di ritirarci nelle nostre tende, ci siamo congratulati a vicenda per aver percorso il sessanta per cento del Rift in meno della metà del tempo a disposizione. Mentre ci prepariamo per la notte, Randi dice che le è tornata la sensibilità nelle dita. Ciò significa che quando oggi pomeriggio ci aveva chiesto di fare lei da battistrada ancora non l'aveva. Ora dorme tranquilla, è solo mezzanotte e anch'io mi farò un bel sonno notturno, dopo tanto tempo. L'undicesimo giorno è finito, meno male. Siamo nuovamente tutti esausti, e amaramente delusi. Questa mattina ci ha portato una scoperta che, in altre circostanze, avrebbe giustificato da sola l'intera spedizione: resti
mummificati di alieni, probabilmente gli stessi che piantarono quello strano chiodo. Supini sul pavimento della caverna c'erano due corpi grandi e uno piccolo, distesi sopra quelle che dovevano esser state le loro tute pressurizzate. Avevano terminato le scorte di cibo, o d'aria, abbandonandosi in quel modo? O erano morti di qualcos'altro, ricomposti da compatrioti che magari avremo trovato più avanti? Erano bipedi con tre paia di arti, più alti di noi e forse non altrettanto pesanti da vivi; trattandosi di cadaveri mummificati, era difficile stabilirlo. Le loro braccia superiori erano molto più grosse e forti di quelle di sotto, e le teste mi facevano pensare a dei panda. Non appartenevano, per quanto ricordassi, a nessuna delle cinque razze conosciute di viaggiatori spaziali. In un altro frangente questa scoperta avrebbe potuto rappresentare un evento di enorme portata, ma allo stato dei fatti mi sono sentito soltanto vagamente irritato per la complicazione che ci si era parata davanti. O il mio senso del meraviglioso non si era ancora risvegliato, oppure me lo ero lasciato alle spalle, qualche caverna-geode fa. «Da quanto?» Cathy chiede a Sam, con voce soffocata. Lei almeno era affascinata dalla cosa. «Se il tasso attuale di deposizione della polvere può essere utilizzato per una proiezione, direi circa duecentotrentamila anni, con deviazione standard di diecimila.» «A parte le tute pressurizzate, non c'è nient'altro» osserva Nikhil. «Da questo fatto si può evincere che questa caverna non è a fondo cieco, quindi affrettiamoci. Hai preso le immagini, Sam? Bene, andiamo?» Seguiamo Nikhil, allontanandoci dai cadaveri. «La via di sfogo del gas» continua guardando avanti «è probabilmente lassù.» «La crepa sul soffitto io la raggiungo con un balzo» fa Sam. «Vi potrei tirar su tutti quanti.» Siamo partiti, ma presto il Rift ci ha fermati. Una volta dentro le cavità del soffitto, ci siamo accorti che non c'era alcun flusso di gas, anche se era proprio lì che i rilievi sismologici di Sam - e i nostri occhi - avevano identificato il Rift. Abbiamo tentato lo stesso a infilarci in un cunicolo; quasi subito si è ristretto, trasformandosi in un supplizio tremendo. Ancora tre chilometri e un solido blocco ci ha costretti a ritornare alla caverna. Un secondo tentativo con una nuova fenditura nel soffitto si è dimostrato poi altrettanto inconcludente. «Scosse» fa Nikhil. «Il Rift qui si è richiuso. Oh, magari cento milioni di anni fa, a giudicare dalla polvere.» E così, quando i dinosauri dominavano
la Terra, Miranda ricombinava il suo labirinto, senza alcun dubbio con il precoce proposito di frustrare la nostra spedizione. Finalmente Sam ha trovato l'uscita di sfogo dei gas. Riportava di nuovo a nord. «Io nomino questa caverna la Caverna dei Vicoli Ciechi» faccio mentre ce ne andavamo, con l'intento di sdrammatizzare un po'. Sorprendentemente, Nikhil - bontà sua - mi risponde con un "ah!". Oggi a Randi non si poteva dir di no, così è andata davanti a dare il cambio a Nikhil. Sennonché si è stancata subito, almeno a quanto diceva Cathy, che la stava monitorando, così sono passato in testa io a fare strada. I pendii erano lievi, il sentiero abbastanza ampio, pochi gli interventi del piccone. Macinavamo i chilometri quasi di corsa, impegnandoci soltanto per superare gli occasionali spuntoni sporgenti. Ci siamo presi una pausa serale in una piccolissima caverna a bolla, dieci metri di diametro; abbiamo consumato la nostra razione quotidiana di crackers, insistendo con Randi perché ne prendesse doppia razione. Nessuno si è messo a darsi da fare per la notte, il che significava chiaramente che eravamo tutti d'accordo per un'altra serata di arrampicate e di discese. «Stiamo per passare» dice Sam, mandando la sua mappa sui display dei nostri caschi. «Siamo molto vicini all'estremità superiore della Ciminiera di Nikhil.» Non gli ha risposto nessuno, ma chiaramente ciò significava che stavamo tornando sui nostri passi, perdendo terreno. C'era una nuova caverna orizzontale, col flusso d'aria diretto verso l'asse dei poli. Era proprio così, allora. Nessuno ha voluto pensarci, stasera, e di comune accordo abbiamo deciso di rimandare a domani la conferma della nostra supposizione. Una volta avevo letto un romanzo classico di uno scrittore chiamato Vance, in cui si narrava di un luogo immaginario dove un mezzo lecito per suicidarsi era quello di entrare in un labirinto senza fine e poi vagabondare là dentro, reincrociando i propri passi tante volte finché non si moriva d'inedia. Laggiù si moriva perché non si riusciva più a ritrovare la via d'uscita; qui, invece, non sappiamo neanche se esista, una via d'uscita. L'inizio del dodicesimo giorno ci ha dunque visto ancora una volta in cima alla Ciminiera di Nikhil, in piedi su di una sporgenza della cornice, non molto diversa da quella a circa un chilometro da qui dalla quale ci eravamo affacciati l'altra volta. Eravamo molto tranquilli, pienamente consci del terreno perduto sulla tabella di marcia. Ci siamo ritrovati a meno della
metà del cammino attraverso Miranda, con meno della metà del tempo a disposizione per percorrerlo. Sam ha fatto un giro tutt'intorno, in cerca di altri sfoghi per il gas che non fossero quello dal quale eravamo venuti. Non ce n'erano. La nostra unica possibilità era ritornare giù. «Proviamo con l'altro fiume» chiedo «oppure col ramo principale del sifone di Randi, quello che sbuca nel Mare Ribollente?» Nikhil, nonostante pesi meno di quattro newton, si stava riposando lungo disteso sulla cornice. La radio trasmetteva la sua voce mentre lui era assolutamente immobile; mi ricordava in modo macabro quegli alieni morti nella Caverna dei Vicoli Ciechi. «Il Mare Ribollente» riflette a voce alta «riceve l'afflusso principale del fiume, così deve per forza avere una valvola di sfogo per i gas, da qualche parte. Ovviamente è contenuto in una caverna, quindi ha anche un soffitto. Forse potremmo provare a sparare un chiodo verso il soffitto, così alla cieca.» Ho pensato alla Ciminiera di Nikhil. Un tiro alla cieca in un posto del genere non avrebbe funzionato. «Sam potrebbe provare a raggiungere il soffitto volando» propongo. «Se lo proteggiamo per bene dall'etano finché non raggiungiamo la superficie del Mare Ribollente, dopo potrebbe farcela a reggere un'esposizione momentanea. Una volta arrivato al soffitto, ci potrebbe tirare su tutti quanti.» Cathy annuisce, buttando giù un sasso nella Ciminiera. L'abbiamo guardato sparire relativamente veloce. È denso, ho pensato. Meno soggetto all'attrito. Come poi si è scoperto, non sono stato il solo a formulare quel pensiero. «Guardate qua» annuncia Randi. Teneva le mani su un masso di forse due metri di diametro, già staccato da terra. Randi lo scuoteva facilmente, nonostante la sua massa fosse di almeno cinque o sei tonnellate. «Scommettiamo che questo non cade come un fiocco di neve?» dice, mentre gli pianta un chiodo da roccia. Anche in una così bassa gravità, ci sono voluti due di noi per sollevarlo oltre il bordo. Due ore dopo, quando ci trovavamo circa a un chilometro dal Sasso di Cathy, abbiamo spiccato un balzo per portarci fuori della scia del masso, e lo guardiamo mentre finisce la sua caduta. È andato a schiantarsi con un tonfo rimbombante, finendo in mille pezzi, molti dei quali, rimbalzando, sono stati catturati dalle pareti del camino. Presto abbiamo raggiunto la no-
stra velocità massima locale, e, fluttuando come piume, abbiamo terminato la nostra corsa nella polvere, non lontano da dove eravamo atterrati tre giorni prima. Cathy ha stabilito che Randi non è abbastanza in forma per una nuova immersione, e ritiene che nemmeno io debba tornare ad arrischiarmi. Ho ancora qualche chiazza rossa sulla pelle, nonostante la mia immersione sia durata molto ma molto meno. Guardiamo Nikhil, il quale aggrotta la fronte. Cathy scuote la testa. «È il mio turno, credo.» La sua voce, però, trema. «Sono una brava nuotatrice, e penso che Nikhil non ci provi da anni. Lo spray me lo dai tu, Wojciech. Non devi coprire ogni centimetro quadrato, le fibre si assestano da sole, ma me devi mettermene abbastanza. Spruzza ininterrottamente per almeno quindici secondi. Randi, io non ce la faccio a tenere il fiato come fai tu. Mi dovrai aiutare a rimettere e chiudere la tuta, più svelta che puoi.» Quando tutto è stato pronto, Cathy ha tirato qualche respiro profondo e si è tolta il casco e la tuta, veloce quasi come Randi. Questa qui, ho pensato mentre le mettevo lo spray, e la stessa donna della crisi isterica di una settimana prima, in quel cunicolo. Intanto completiamo l'intera operazione in cento secondi. La puleggia che avevo lasciato prima funzionava ancora, però l'avremmo potuta usare soltanto per arrivare fino alla deviazione che conduceva alla Caverna dei Vicoli Ciechi. Da quel punto in poi era soltanto Cathy a doverci tirare. Non è stato affatto divertente farsi sigillare in un'opaca tenda sgonfia, per essere poi trascinati e sbatacchiati qua e là per quasi un'ora, senza poter fare assolutamente nulla. Il ritorno del mio minuscolo peso mentre Sam ci tirava su verso il tetto della caverna del Mare Ribollente è stato un grande sollievo. Randi, Nikhil e io siamo sgusciati a fatica dalla tenda, brontolando un po' ma, in fin dei conti, felici. Eravamo sul pavimento di una grotta che Sam ha trovato a circa duecento metri dal centro del soffitto a volta della grande caverna. Il pavimento era in pendenza, ma non eccessivamente, e ciò importa poco quando la forza di gravità è così piccola. Ho dato una mano a Nikhil coi tiranti di una tenda, e presto eravamo pronti a ripressurizzarla. Sam ha ricaricato le batterie inserite nei contenitori di servizio e Randi ha attaccato una lampada a luminescenza alla parete. Cathy è entrata per togliersi l'Exoderm mentre noi montavamo l'altra tenda.
A lavoro fatto ci siamo distesi nelle nostre piccole camere, galleggiando in silenzio. Volevo dare un'occhiata al di là dell'entrata della grotta; tutto ciò che il flash della mia strobolampada mi ha permesso di vedere è stato un biancore diffuso di sotto, e una foresta di stalattiti gialle e bianche, molte delle quali lunghe centinaia di metri, attaccate al soffitto. L'estremità più lontana della caverna, sebbene Sam avesse detto che si trovava solo a un paio di chilometri, era completamente nascosta dalla nebbia. Poi ho notato altre cose. La mia tuta aderente, per esempio, non me la sentivo così aderente come avrebbe dovuto essere. «Che pressione c'è, qua dentro?» «Mezzo bar» risponde Sam. «Ho regolato le vostre tute affinché la pressione positiva sia minima. Siamo circondati da azoto, metano, etano, e vapori di ammoniaca, con qualche altro gas organico volatile. A proposito, il Mare Ribollente è costituito per la maggior parte di ammoniaca. Qui la temperatura raggiunge i 220° Kelvin. L'etano si vaporizza non appena entra in contatto con l'ammoniaca, ecco spiegato tutto quel ribollire.» La gravità di Miranda era insufficiente per generare una pressione come quella; mi chiedevo cosa stesse succedendo. «Wojciech» sussurra Randi, come se temesse di risvegliare qualcosa. «Guarda le pareti.» «Eh?» Le pareti della grotta erano di un color grigio-marrone, come quelle di qualsiasi altra grotta - eccetto che su Miranda. «Oh, niente cristalli di brina.» Lei strofina la mano sulla parete e poi me la mostra, sporca di una robaccia marrone. «Vorrei esaminare questa roba al microscopio. Sam?» Il robot arriva subito e prende il campione, avvicinandolo al suo apparato ottico inferiore. Io vedevo quello che vedeva lui, proiettato all'interno del mio casco. «Sembra essere presente» dice «un'apparente struttura cellulare, ma forse non si può neanche chiamare tale. Molecole organiche e ammoniaca dentro a una specie di gel.» Mentre guardavo, una delle cellule sviluppa una biforcazione. Ero affascinato, non ho nemmeno notato l'arrivo di Cathy. «Devono assorbire le sostanze direttamente dall'aria» teorizza. «L'aria è tossica, a proposito, ma non a basse concentrazioni. Forse qualcosa ha filtrato i cianogeni e gli altri gas veramente letali. Forse è stata proprio questa roba qui.»
«In fondo alla grotta c'è pieno» osserva Randi. «Come va?» «La mia pelle non si è infiammata come la vostra, però ho delle zone irritate. Fisicamente, sono sfinita. Spero che ci fermeremo qui, stanotte.» «Questa è una delle vie di sfogo per i gas della caverna del Mare Ribollente» aggiunge Sam. «Dovrebbe essere una buona scelta ripartire da qui. Il passaggio è libero da ostruzioni, per quanto posso rilevare io, se si eccettuano queste escrescenze, trasparenti al mio radar.» «Impediscono all'aria di uscire liberamente» osserva Nikhil «il che deve contribuire all'innalzamento della pressione qua dentro. Ritengo che prendano l'energia necessaria alla loro organizzazione dal calore sviluppato dalla condensazione.» «Eh?» Avevo rimosso i recuperi di scienze fatti a scuola. «Wojciech, quando un vapore si condensa, passa da uno stato a un altro. Quando il vapore di etano ritorna etano liquido, restituisce la stessa quantità di calore che era stata necessaria per farlo giungere a ebollizione. Questo calore può rendere possibili alcune delle reazioni chimiche che questa roba necessita per prosperare.» «È viva?» chiedo. «Difficile dirlo» risponde Cathy. «Una diatriba semantica. I cristalli di brina sono vivi? C'è un continuum di organizzazioni e comportamenti dalle rocce alle persone. Qualsiasi linea di demarcazione venga tracciata, risulterebbe arbitraria, poiché taglierebbe a metà zone grigie che non è possibile definire.» «Umpf» sbuffa Nikhil. «Ci sono distinzioni che non sono campate in aria. Questa roba si riproduce, credo. Prendiamo pure dei campioni, però non scordiamo che abbiamo bisogno di riposo.» «Certo, caro.» Cathy non può fare a meno di sbadigliare. Dentro alla tenda, Randi e io ci siamo divisi l'ultima cena regolare, pollo rigenerato e un piatto di pasta che ci eravamo conservati per festeggiare qualcosa. La tenda puzzava di corpi e idrocarburi, ma ormai ci eravamo abituati da un pezzo: il cibo aveva un ottimo sapore, nonostante l'assalto alle nostre narici. Da questo momento in poi ci sarebbero stati soltanto dei crackers da mangiare, ma ormai eravamo sicuramente sulla buona strada per uscire. Dovevamo esserlo. Randi si è ripresa completamente, e mi sorride, mentre si rannicchia sotto le sue lenzuola elastiche per il riposo notturno. Dev'essere stata l'energia che ci ha infuso il nostro primo vero pasto dopo giorni. Randi mi ha svegliato nel cuore della notte, attirandomi gentil-
mente nella sua cuccetta. Voleva fare all'amore, più che per piacere, come atto di sfida contro il nostro probabile destino. Con mia sorpresa ho accettato il suo invito. Abbiamo cominciato ad accarezzarci in una spirale di intensità sempre maggiore, probabilmente alimentata anche dalla nostra paura. Erano le forze d'attrazione gravitazionale nei pressi dell'orizzonte degli eventi di Randi; lei non era soltanto forte come donna, bensì forte in termini assoluti, più forte della maggior parte degli uomini che io avessi mai conosciuto, me incluso. Semiserio, l'ho avvertita di stare attenta alle nostre costole, che si potevano rompere, così indebolite dalla bassa gravità. Ciò, oltre a farla ridere, l'ha spinta a stringermi tanto forte che per qualche attimo non ho potuto respirare, la qual cosa l'ha fatta ridere di nuovo. Una volta finito, lei ha alzato il dito medio della mano destra verso il soffitto della tenda, ridendo come una pazza. Io l'ho imitata, anche se per un attimo mi sono sentito triste per Nikhil e Cathy. È stata un'altra di quelle mattine di cortesie reciproche; in pochi minuti abbiamo impacchettato tutto e siamo partiti, con efficienza record. Ci siamo guardati intorno alla ricerca dello sfogo dei gas e Sam ci ha indicato proprio la massa marrone in fondo alla grotta. «I gas vanno là, passando proprio attraverso quella roba» ha detto. La roba l'abbiamo chiamata "criofungo". Si trovava su entrambi i lati dell'ampia fenditura verticale allargata dall'erosione che partiva dal fondo della grotta. Cresceva fino a congiungersi nel mezzo, anche se le due colonie di criofungo non si fondevano fra loro, semplicemente si limitavano a premere l'una contro l'altra. Così abbiamo visto che si poteva avanzare lo stesso, non senza qualche sforzo, un po' spingendo, un po' nuotando, nell'interstizio centrale. C'eravamo già fatti strada per cinque chilometri di criofungo a forza di spingere, quando un pensiero piuttosto inquietante mi è venuto alla mente. Questa roba marrone e gommosa assorbiva sostanze organiche attraverso le pareti delle sue cellule; ebbene, ho chiesto a Cathy, queste sostanze organiche dovevano essere per forza dei gas? «Ho fatto un esperimento. Ho dato da mangiare al mio campione una briciola di cracker razionato.» «E che è successo?» «La briciola si è come sciolta nel criofungo. Ci sono molecole di trasporto disseminate ovunque sulle pareti delle cellule.»
Ci ho pensato per un secondo. «Cathy, e se non avessimo le tute?» «Forse l'acqua sarebbe un po' troppo calda per il criofungo, però acqua e ammoniaca sono reciprocamente solubili. Se proprio ci tieni a farti prendere dall'ansia, considera che la tua tuta è porosa. Potrebbe aiutarti ad andare più svelto.» Con gli occhi della mente vedevo i suoi denti, mentre mi sorrideva. «È curioso, cara» ha borbottato Nikhil. «Tutto ciò offre una prospettiva completamente diversa a questo nostro vagare per le viscere di Miranda.» A queste parole, uno scoppio di risate isteriche ha rotto ogni tensione residua rimasta, risolvendosi poi in un sentimento di unione quasi spirituale fra noi. Non so, forse è necessario trovarsi faccia a faccia con la morte insieme a qualcuno per provare sensazioni simili. Se così dev'essere, così sia. Dopo dieci chilometri il criofungo ha cominciato a perdere elasticità. Dopo dodici si polverizzava al tocco, offrendo una resistenza ancor più debole dei cristalli di brina. La polvere marrone volava via insieme alla corrente di gas, in una specie di nebbia brunastra. Non potevo vedere nulla, così ho fatto passare Sam accanto a me, perché ci guidasse per un po'. Il robot ci ha fatto da cane per ciechi per tre chilometri, prima che la polvere cominciasse a diradarsi. Era di nuovo tardi, molto oltre il tempo prefissato per montare il campo. Siamo sottoterra da tredici giorni, secondo i nostri calcoli ce ne rimangono altri otto. Sam dice che ci troviamo ancora a duecentoquindici chilometri al di sotto della superficie, così abbiamo deciso di continuare per un'altra ora o due. Il passaggio adesso è diventato un tubo dalle pareti abbastanza lisce, l'attrito è praticamente zero. Spariamo un chiodo verso la curva successiva e ci tiriamo avanti. «Fortissima erosione da vento» rileva Nikhil, mentre gira l'occhiello di un chiodo per liberarlo. «Un vento veramente molto intenso deve aver soffiato lungo questo condotto per milioni di anni, prima che il criofungo riuscisse a soffocarlo.» Le strobolampade ci mostravano un'incredibile galleria di forme contorte, ghirigori, e rocce lugubremente statuesche, santi e gargolle di certe chiese gotiche. A un certo punto siamo sfociati in una caverna lunga circa un chilometro, leggermente in salita, formata da due lastroni megalitici inclinatisi l'uno verso l'altro, forse minati da quel tumultuoso sfiato dei gas. In confronto al percorso verso il centro, con le sue foreste di cristalli di brina, questo posto si presentava spoglio e asciutto. Sam ha coperto l'intera distanza fra le due estremità della caverna con un unico balzo calcolato,
portando una corda all'altro capo. Abbiamo cominciato a tirarci di là. Siamo risaliti già un po' verso la superficie, per cui il nostro peso è tornato sui venti newton; sempre pochissimo, sono d'accordo, ma provate voi a portare venti newton su e giù per diciotto ore di fila. «Basta» fa Cathy. «Le mie braccia non ce la fanno più. Fermatevi anche voi, oppure seppellitemi qui.» Con queste parole ha mollato la corda, lasciandosi fluttuare lentamente verso il pavimento. C'era silenzio. Nessun gocciolio, nessun sibilo. Faceva pensare al vuoto, così lontano sopra di noi. Ho cercato di rompere un po' la tensione dando un nome alla caverna. «A parte tutto, questa qui la vedo bene come tomba. Penso che la possiamo chiamare Tomba Egizia.» «Non è divertente, Wojiciech» fa Nikhil, brusco. «Scusami, amico. È che sono un po' stanco anch'io. Possiamo fermarci qui, se volete, ma non vorrei che poi ce ne dovessimo pentire.» «È ora di fermarci. Siamo messi bene con la tabella di marcia» fa Randi. «Dobbiamo dar retta al nostro corpo. Affaticarci così tanto non va bene.» «E sia» ha concesso Nikhil, mollando anche lui la corda. Poi si è avvicinato a Cathy e le ha messo un braccio attorno alla vita, la qual cosa annoto poiché si è trattato della prima manifestazione concreta d'affetto che io abbia mai visto fra loro due. Randi e io abbiamo lasciato i contenitori e ci siamo lasciati cadere a nostra volta verso il pavimento, atterrando più duramente di quanto ci saremmo aspettati; la milligravità obnubila la capacità di giudizio. Per certi aspetti fa anche di peggio, perché ti fa percepire il sopra e il sotto, e contemporaneamente ti convince che tanto non contano niente. Nel montare il campo eravamo tutti molto attenti e gentili gli uni con gli altri. Ma ognuno di noi, dentro di sé, stava cercando di raggiungere un compromesso con l'idea che la settimana che ancora ci rimaneva non sarebbe bastata per riportarci in superficie, visto anche com'erano andate le cose fino ad allora. Prima di ritirarci nelle tende, ci siamo tutti tenuti le mani per un poco. È stato un gesto spontaneo, prima non l'avevamo mai fatto. Però è sembrato giusto dirci in quel modo che potevamo contare gli uni sugli altri. V La registrazione precedente riguarda il tredicesimo giorno; questa copre il quattordicesimo e il quindicesimo. E già, la mia disciplina nel tenere il
diario comincia a farsi un po' traballante. Credevamo tutti che Randi fosse una specie di macchina, indistruttibile e risoluta quasi quanto Sam, ma la scorsa notte, alla fine del giorno quattordici, quella macchina ha pianto. Le razioni ridotte e la fatica ci stanno mettendo a dura prova. Ci siamo fatti tirare da Sam nell'attraversare le poche caverne che abbiamo incontrato, ma più che altro si è trattato di contorcersi per avanzare dentro a fenditure molto anguste, con un umano ad aprire la strada. Cambiavamo il capofila tutte le volte che incontravamo uno spazio abbastanza ampio per poterlo fare, ma una volta sono passate sei ore. È capitato quando davanti c'era Randi. Non ha mai rallentato, ma quando finalmente siamo sbucati in una piccola grotta, è rotolata su un fianco per farmi passare, il viso rivolto verso la parete. Per le successive quattro ore non ha detto una parola. Ci siamo ritrovati sul fondo di una grande caverna a forma di fagiolo, centosessanta chilometri al di sotto della superficie, quasi alla profondità dell'estremità superiore della Ciminiera di Nikhil. Abbiamo montato il campo barcollando, con Sam che controllava e ricontrollava ogni cosa. Siamo semplicemente crollati sulle lenzuola distese, con ancora i coprituta addosso, dormendo per un'ora o giù di lì, prima che i nostri corpi ci inducessero a soddisfare le loro necessità. Lavata e un poco ristorata dal sonnellino, Randi si è rannicchiata fra le mie braccia, lasciandosi andare. Il suo corpo è una massa di lividi, vecchi e nuovi. Anche il mio, del resto. «Tu ti devi permettere una valvola di sicurezza» le ho detto. «Quando Cathy ha qualcosa che le rode, lo fa sapere a tutti per intero. Nikhil mette il muso. Io faccio lo stupido, e dico battute cretine. Tu non devi fingere con noi, Randi.» «Non lo faccio per te. Ma per me. Devo far finta che ce la faccio, o sarò dimenticata, come la mamma.» Ho riflettuto sulle sue parole. Una donna che aveva cercato di uccidere il marito per ottenere una migliore posizione sociale avrebbe potuto essere capace di chissà che altro. «Cosa vuol dire, Randi? Ne vuoi parlare?» Ha fatto segno di no con la testa. «Non posso spiegare.» Le ho baciato la fronte. «Credo di essere stato abbastanza fortunato ad avere i genitori che ho avuto.» «Sì. Brave persone. Una bella fattoria. Non litigavano. E allora chi te l'ha fatto fare, di venire qui?» Chi me l'aveva fatto fare? «Volevo l'avventura, volevo essere conosciuto anche al di là dell'oscuro mondo della poesia. La mamma aveva ereditato
la fattoria da suo padre; un'ottima occasione in Polonia per smettere di vivere di sussidi statali, e così i miei vi si trasferirono. Fanno un lavoro utile, a dir la verità; stanno dietro ai robot agricoli. Però sono terrorizzati dall'eventualità di perderlo, perché i lavori veri sono troppo pochi e un sacco di gente validissima sarebbe disposta a qualsiasi cosa pur di ottenere un lavoro sulla Terra. Così i miei hanno fatto di tutto per apparire più carini e premurosi possibile, senza mai pestare i piedi a nessuno. Chissà, forse sarebbe andata meglio con dei genitori meno carini.» «Ma tu sei, ehm, carino come loro.» «Beneducato, a dispetto di me stesso.» Oh sì, e sempre sulla difensiva, come imparano a essere i non conformisti dopo averle prese nei denti innumerevoli volte, devastati emotivamente con grazia ed educazione da un mondo che li rifiuta. «A proposito, Randi, io odio quella parola.» «Eh?» «Carino.» «Ma l'hai usata tu.» «Sì, e non mi piace nemmeno fare quella cosa. Senti, sei anche tu stanca come lo sono io?» Volevo scusarmi e salutare, per ritrovare una dubbia serenità nei miei sogni. «No. Non ancora. Faccio tutto io.» «Davvero...» «Magari è l'ultima volta, visto come vanno le cose.» Sapevamo entrambi che aveva ragione, ma il mio corpo non ce la faceva. Siamo stati lì, abbracciati stretti come se volessimo infondere un altro po' di vita dentro noi stessi. Non ricordo il momento in cui ho preso sonno. Il quindicesimo giorno è stato una replica del precedente, eccetto che il turno lungo da battistrada è toccato a Cathy. Lei sì che ha rallentato. Per sette ore non ha fatto che fermarsi quando si stancava e ripartire quando le veniva freddo. Alla fine siamo riusciti ad arrivare in un posto dove ho potuto darle il cambio. Ciò che più mi ha sorpreso è stata la reazione di Nikhil. Nessuna critica, nessun incoraggiamento ironico. Si è limitato a chiederle se era disposta a ripartire ogniqualvolta lui sentiva freddo. La giornata è finita ben oltre dopo mezzanotte. Per qualche ragione, faccio fatica a prendere sonno. Oggi finalmente il cunicolo di sfogo si è trasformato in una catena di piccole caverne, simili alla porzione di Rift incontrata poco prima di arri-
vare alla sommità della Ciminiera di Nikhil. Ci siamo fatti rimorchiare da Sam per la maggior parte del tempo, e abbiamo dovuto strisciare a lungo solamente un paio di volte. La buona notizia è che, grazie alla nostra scarsa attività fisica, stiamo consumando poco il catalizzatore di CO2, e forse ci salterà fuori un giorno in più. La cattiva notizia è che Randi ha dovuto tagliare ancora di più le nostre razioni. Non avevamo posto molta attenzione nel ripartire il cibo, perché eravamo convinti che sarebbe stata la CO2 a fregarci per prima. E invece avremmo dovuto. È stata colpa di tutti e di nessuno. Ognuno di noi si era concesso dei cracker extra, qua e là. E adesso mancavano. Esausti come al solito, la sera siamo arrivati in una specie di tunnel lungo cinquecento metri, pieno di detriti. L'ho chiamato "Il Magazzino del Rigattiere". Sam non ha trovato subito l'uscita, ma dato che abbiamo già fatto così tanta strada, abbiamo stabilito che ci si poteva fermare, per recuperare un po' di sonno. Diciottesimo giorno. Nei due giorni precedenti ci siamo avvicinati alla superficie di quindici chilometri complessivamente. Il Magazzino del Rigattiere era a fondo cieco, almeno per qualsiasi cosa delle dimensioni di un essere umano. C'erano indizi di diffusione del gas verso l'alto, attraverso fratture nella roccia clastica, ma era chiaro che non era quella la principale via d'uscita del gas, con tutta evidenza richiusa da un terremoto milioni di anni fa. Siamo dovuti ritornare indietro fino a una diramazione che era sfuggita a Sam mentre ci stava tirando su per un camino di medie dimensioni. Logica ed esperienza volevano che il foro d'uscita si trovasse in cima al camino, e infatti là c'era un buco attraverso il quale abbiamo proseguito. Fino ad arrivare al Magazzino del Rigattiere. Miranda ha una logica tutta sua. Abbiamo trovato l'uscita vera mentre ci calavamo giù per il camino. «Un essere umano» ha detto Cathy quando ha visto l'ampia fenditura verticale, la vera apertura di sfogo «sarebbe stato sufficientemente curioso per andare a controllare. È così profondo.» Nikhil le ha risposto, intendendo prendere le difese di Sam, credo. «Non lo so, cara. Con la fretta e tutto, magari nemmeno io mi sarei girato.» L'involontaria autoidentificazione di Nikhil con un robot ci ha lasciati tutti senza parole. Poi a Randi è scappata una risatina, e dopo un po' stavamo tutti ridendo istericamente ancora una volta. Chi ha studiato i meccanismi dell'umorismo sa che non c'è molta distanza fra il riso e le lacrime.
Nikhil ha lasciato la presa per mettere il suo braccio attorno alla vita di Cathy, sorprendendoci nuovamente. E lei gli ha risposto. Mi sono allungato per agguantarli prima che scendessero abbastanza centimetri da far tendere la corda alle loro cinture. Così, alla fine del diciassettesimo giorno, avevamo percorso sessanta chilometri di caverne e cunicoli, avvicinandoci però alla superficie di soltanto una quindicina di chilometri. Alla fine del diciottesimo giorno abbiamo percorso altri quindici terribili chilometri strisciando dentro a fenditure, trovando una sola caverna degna di questo nome. Ci siamo arresi alla stanchezza in uno slargo della fenditura, dalle dimensioni a malapena sufficienti per consentirci di gonfiare le tende. Ciò che è successo oggi non è stata una lite. Non abbiamo più l'energia per metterci a litigare. Eravamo appena emersi in uno slargo della fenditura che stavamo percorrendo a fatica, circa dieci metri lungo, dieci metri largo e alto due. Cathy era davanti, e si apprestava a continuare per il passaggio all'altra estremità, quando Nikhil ha ceduto al pessimismo. «Cathy» ha chiamato. «Fermati. Il passaggio si sta restringendo troppo, è un altro maledetto vicolo cieco. Dobbiamo tornare indietro fino all'ultima caverna grande e cercare un'altra via d'uscita.» Cathy è rimasta in silenzio, ma la corda si è fermata. Randi, piuttosto infastidita, gli fa: «Non c'è tempo» e si infila nel passaggio dietro a Cathy. Nikhil apre la bocca, poi sbuffa. «Spiacente, signorina. Io sono il geologo e il membro più anziano di questa spedizione. Per dire le cose come stanno, la responsabilità è mia.» A questo punto ha perso convinzione, è sembrato confuso. «Hai ragione quando dici che non c'è tempo. Non c'è tempo per mettersi a discutere.» Nessuno apre bocca, ma Randi continua come se niente fosse. «Ho detto di tornare indietro, hai capito? Torniamo indietro.» Faticavo a capire; c'erano ancora quattro, forse cinque giorni di tempo. Trovando la via giusta, potevamo ancora farcela ad arrivare in superficie. Però, avanzando così lentamente, non ci saremmo mai riusciti comunque. Forse lui aveva ragione, ho pensato. Ma Randi non era disposta a cedere. «No, Nikhil. Tu sei in debito con me, Nikhil, per due settimane fa. Io me le segno. Adesso si va avanti. Il flusso d'aria, le striature, gli scandagli di Sam, e, e i miei soldi, cazzo.» Non ci arrivavo. Ho dovuto ricordarmi che anch'io ero parte dell'orbita d'accrescimento di Randi. «I soldi del tuo papà» le sibila Nikhil; poi, con falsa allegria aggiunge:
«Su, va tutto bene. Coraggio, amici, rimettiamo Randi in barella finché non si sia... ripresa». Cerca di acchiappare Randi: annaspa goffamente, a dir la verità. Randi si gira e si ancora, le mani libere e gli scarponi bloccati nella roccia. «No, Nikhil, torna indietro» lo avverto. «Non sai quel che fai.» «Ah, tu non sai quanto io apprezzi la tua perizia con le parole, amico mio.» La sua voce è molto alterata, ora. «Ma adesso è ora di ascoltare quello che dico io, che è molto più importante. Sono troppo stanco per continuare a sopportare di essere contraddetto da dei dilettanti. Si torna indietro. Forza, Cathy. E anche tu...» Si lancia ancora verso Randi. A questo punto so che è uscito di senno, e forse ne capisco anche il motivo. Deve averlo capito anche Randi, perché all'ultimo secondo, invece di colpirlo e forse fargli del male, si limita a evitare con uno scatto le sue dita protese. Immediatamente, Randi si mette a urlare di dolore. «Che c'è?» chiedo, passando accanto allo sbigottito Nikhil per raggiungere Randi. Sta piangendo forte. «La caviglia. Ho dimenticato di sganciare i rampini degli scarponi. Ero stanca. La gravità sempre bassa, le ossa si sono indebolite. Accidenti, se fa male.» «È rotta?» Mi ha fatto cenno di sì, recuperando il controllo, le labbra serrate. Però i suoi occhi erano ancora pieni di lacrime. Non c'era nulla che potessi fare per lei al momento, se non darle un antidolorifico. Ma c'era qualcosa che potevo fare per Nikhil, ho pensato. Dov'era Cathy? «Nikhil?» Cercavo di mantenermi calmo. «Qual è il tuo parziale di O2?» «Non ho capito, scusa.» «Scusati con Randi. Ti ho chiesto qual è il tuo parziale di O2.» «L'ho tenuto un po' basso. Sai com'è, no? Meno O2, meno CO2. Ho cercato di impiegare le risorse al meglio.» «Che... cosa..?» «Zero virgola uno. Nessun problema, ho parecchia esperienza con l'altitudine...» «Per favore, rimettilo a zero virgola due per cinque minuti, e poi parliamo.» «No, aspetta. Non posso tollerare che si insinui...» «Sii ragionevole, Nikhil. Riportalo a zero due per un po', fallo per me. Solo cinque minuti non faranno male a nessuno.»
«Oh, be'... Certo che no. Ecco qua. E adesso, cosa dovrebbe succedere?» «Aspetta.» Abbiamo aspettato, in silenzio. Randi piangeva piano, cercando di dominare il dolore. Ho guardato la faccia di Nikhil farsi via via più preoccupata. Alla fine gli ho chiesto: «Sei di nuovo tra noi?» Ha annuito, in silenzio. «Penso di sì. Le mie scuse, Randi.» «Sono diventata maldestra. Troppo forte per le mie ossa. Fa niente. E non è neanche vero che sei in debito con me. È stupido, ma è stata una scelta mia.» Quale scelta? Due settimane fa, nella tenda di Nikhil? «Molto bene» ha risposto Nikhil, cercando di fare appello alla sua dignità. Chi, se non Randi, avrebbe potuto sminuire una caviglia rotta con un "fa niente"? E chi, se non Nikhil, avrebbe potuto accettare quelle parole? Ho scosso la testa. Randi non poteva impedire alla sua voce di rivelare il dolore mentre si teneva la gamba, mostrando il suo scarpone destro. «Bisogna far qualcosa. Cathy. Dopo nella tenda.» Naturalmente non si poteva vedere nulla, finché non si fosse tolta lo scarpone. «Bene» le fa Nikhil «avevi ragione tu, probabilmente. Questa è la direzione giusta. Riprendiamo il cammino?» L'ho messo a tacere con un gesto e ho tirato fuori dal contenitore un antidolorifico per Randi. Lei l'ha passato per l'apertura apposita del casco, inghiottendolo a fatica. «C'è ancora un po' di etano, qui» ha detto con una risatina. «Mi tiene sveglia. Ce la farò.» «Mi farai sapere.» Ero arrivato così vicino al suo orizzonte degli eventi che qualsiasi oggetto appartenente al mondo esterno mi appariva distorto e incurvato dalla sua presenza. Questi erano gli ultimi istanti di libertà, gli ultimi minuti e gli ultimi secondi in cui ancora potevo osservare la nostra relazione dall'esterno. La mia esistenza indipendente veniva deformata al punto tale che nessuna forza della natura avrebbe mai potuto riportarla alle sue condizioni originarie. Il mio destino era di diventare una singolarità insieme a lei. Il fatto che abbia considerato quasi seriamente di eliminare NikhiI può dare la misura della mia fame e della mia stanchezza in quel momento; l'ho esaminato freddamente, come si fa con uno scarafaggio che si sta per schiacciare. Con la pistola sparachiodi sì poteva fare un bel lavoro pulito.
Però, ho pensato, non si poteva non interpellare Cathy in proposito. Magari lei desiderava tenerselo, come cagnolino. Cathy, naturalmente, ci stava facendo strada. Lei sì che sapeva cosa fosse la responsabilità, un concetto di cui NikhiI aveva completamente dimenticato il significato. Meglio buttarla sull'ironia. «Cathy» ho chiamato. «Randi ha una caviglia rotta. A parte ciò, siamo pronti a seguirti.» Nessuna risposta, ma la radio non funzionava bene in queste condizioni; c'erano troppe curve e pieghe nella fenditura, e nella roccia una qualche sostanza che si mangiava le frequenze come fosse vernice antiradar. Così ho tirato due volte la corda per segnalarle che era tutto a posto, che potevamo seguirla. La corda era lenta. Forse l'ira verso NikhiI le stava un po' annebbiando le capacità di giudizio, comunque Cathy aveva scelto di affermare la sua autorità nella maniera più incontrovertibile: avanzando da sola. O, per lo meno, speravo ardentemente che fosse successo solo questo. Mi sono tirato avanti verso l'imboccatura del passaggio e ho guardato. Niente. «Sam, raggiungi Cathy e dille di aspettare, stiamo arrivando.» Sam si è intrufolato di fianco a me, sgambettando via veloce. Di lì a poco i suoi monitor nel mio casco si sono spenti, anche lui era ormai arrivato oltre la portata della radio. Siamo rimasti ad aspettare che la corda si tendesse in un silenzio straziante. NikhiI fingeva di esaminare la parete, Randi teneva gli occhi fissi davanti a sé, come fosse in trance. Io la guardavo, volevo toccarla, ma non c'era l'energia sufficiente per spingermi fino alla parte opposta della piccola grotta, dove si trovava lei. La speranza e la paura crescevano entrambe nell'attesa. Il fatto che non stesse succedendo nulla poteva significare che Cathy si fosse spinta molto più in là di quanto la nostra passata velocità di avanzamento potesse lasciarci credere, la qual cosa sarebbe stata davvero un'ottima notizia. Ma poteva anche darsi che un qualche disastro, là più avanti, avesse portato via sia lei che Sam, e allora sarebbe stata morte certa anche per noi. Oppure, come quando Randi è tornata dal Mare Ribollente, poteva trattarsi anche di qualcosa che stavamo trascurando di immaginare. «Wojiciech, Nikhil, potreste spegnere le lampade?» ha chiesto Randi con tono calmo, aspettandosi di essere prontamente ubbidita. Ho guardato Nikhil, il quale teneva gli occhi fissi nel vuoto, facendo capire che prati-
camente non gliene poteva importare di meno. Comunque la sua lampada si è spenta. Io ho annuito e ho spento la mia. All'inizio l'oscurità era totale; poi, a mano a mano che le pupille si dilatavano, ho capito che potevo percepire come un contrasto grigioverde, un'ombra. La mia ombra. Mi sono girato verso la sorgente della luminescenza. Naturalmente era la fenditura alle mie spalle, quella dentro cui erano scomparsi Cathy e Sam. Ora che i miei occhi si erano abituati all'oscurità, l'imbocco della fenditura mi sembrava quasi risplendente. Ne usciva una luce bianca, con una leggera tonalità verdastra. Le ombre proiettate dalle sporgenze di roccia e di ghiaccio facevano somigliare l'apertura alla bocca di una qualche bestia mostruosa in procinto di divorarci. «C'è una ragione per cui dovremmo rimanere qui?» ho chiesto. Siamo andati anche noi. Il cunicolo ben presto si è allargato e, dopo un'ora di avanzata abbastanza sul ventre agevole, è stato nuovamente possibile tornare a macinare decine di metri alla volta tirandoci avanti con la corda. Abbiamo fatto dieci chilometri in questo modo, poi, all'improvviso, la fenditura si è trasformata in un tunnel tubolare, dalle pareti tanto lisce da sembrare artificiali. Il tunnel è sfociato in una caverna di un centinaio di metri di diametro, grossomodo a forma di goccia, con le pareti di ghiaccio levigato e un disco luminoso in cima. Stavo per usare la mia pistola sparachiodi quando Randi, toccandomi il braccio, mi ha fatto notare una sorta di scala di chiodi da roccia con doppio occhiello, piantati a distanza di due metri l'uno dall'altro, che portava verso il disco luminoso. Stavamo per salire nella Dimora Sferica quando la corda di Cathy si è tesa nuovamente. L'orologio segna la fine del diciannovesimo giorno. Ma a quanto pare siamo troppo esausti e troppo eccitati per metterci a dormire. La caverna sopra di noi è pressoché perfettamente sferica, e ciò spiega il nome che le abbiamo dato; il suo diametro è di quasi quindici chilometri. Una sorta di pinnacolo, tutto adorno come un albero di Natale di piattaforme aggettanti, si estende dal soffitto al pavimento, lungo l'asse verticale; se una struttura del genere rimane in piedi è anche grazie ai soli settantacinque milli-g di gravità che ci sono qui. Ci troviamo a meno di quaranta chilometri dalla superficie, per cui già siamo tornati a essere circondati da un vuoto che può definirsi tale. Ci sono però dei segni che ci fanno capire che qui non è stato sempre così. «Cathy?» Nikhil sta chiamando sua moglie. È la prima volta che apre bocca, dal li-
tigio di prima. «Siete già qui, grazie al cielo. Abbiamo aspettato a chiamarvi finché non siamo stati sicuri che non era pericoloso.» «Abbiamo visto la luce.» «Si è accesa appena sono entrata. Sam ha cercato se c'erano altri dispositivi automatici, tipo antifurto o qualcosa del genere.» «Apparentemente» salta su Sam «non ce ne sono. La fonte d'energia è ripartita in due elementi: Un modulo di uranio radionico a lunga durata, e una sorta di pila a carburante solido, che entra in attività quando viene riscaldata. Quest'ultima sembra in grado di produrre quasi un kilowatt.» «Benissimo» gli ho risposto, chiedendomi se il suo software potesse distinguere il tono di contraria irritazione della mia voce. «Cathy, Randi ha una caviglia rotta.» Anche in meno di un centesimo di g, Randi non avrebbe potuto minimamente appoggiare quel piede a terra. «Oh, no! Dobbiamo gonfiare subito una tenda. Sam, lascia stare e vieni qui, mi servi. E anche tu!» Sta indicando Nikhil. «È un'emergenza medica, quel che dico è legge. O hai qualcosa da ridire anche stavolta?» Il tono di voce di Cathy sta sfiorando l'isterismo. Nikhil si gira dall'altra parte, e senza fiatare comincia a preparare la tenda. Randi si rivolge a Cathy. «Cathy, Nikhil ha abbassato troppo il suo ossigeno, voleva risparmiare il catalizzatore di CO2 per tutti noi. Non era più in sé. La caviglia fa un male del diavolo, ma è stata colpa mia. Mi farebbe star meglio se tu, ecco, se tu non lo sgridassi troppo. D'accordo?» Cathy rimane immobile per un paio di secondi, poi mormora: «Va bene, va bene. Dammi un minuto per prendere il necessario, poi entriamo nella tenda. Vedrò quel che posso fare. Wojciech?» «Sì, Cathy?» «Senz'altro tutti avrete già capito che con mio marito è andata a rotoli, ma in questo momento non posso tentare di riaggiustare le cose fra noi perché devo riaggiustare la caviglia di Randi. Lui è paralizzato dalla paura.» Tira la striscia di velcro che chiude una delle sue tasche e ne estrae una scatoletta piatta. «Dagli una di queste e digli che mi dispiace.» L'ho guardata. Sembrava sull'orlo di un collasso, ma si teneva su grazie a uno sforzo di volontà che doveva essere supremo. Forse anch'io apparivo così, ai suoi occhi. «Scusami, Wojciech» ha sussurrato. «Sto facendo del mio meglio.» Ho preso la sua mano e l'ho stretta. «Ce la faremo, va bene? Cerca di te-
ner botta, dottore.» Lei mi ha risposto con un breve sorriso, gli occhi lucidi; poi ha afferrato il minidoctor seguendo Randi nella tenda, che si è immediatamente gonfiata. Nikhil era rimasto seduto sull'altro contenitore. Mi sono avvicinato, andandomi a sedere accanto a lui. «Ascolta, Nikhil, per come la vedo io, tutto questo non importa proprio niente. L'unica cosa che conta è che ce ne andiamo via da questa luna vivi tutti e quattro.» Mi ha guardato per un po', poi è tornato a fissare il terreno. «Invece sì che importa, Wojciech. Lo sai cos'è la morte in vita? Quando il tuo corpo sta ancora lì, ma tutto ciò che credevi di essere è stato distrutto? La mia reputazione... diranno che Nikhil Ray ha ceduto all'eccessivo stress. Era troppo dura per il vecchio Nikhil. Nikhil picchia le donne. Sarà maledettamente terribile.» Mi sono ricordato la scatoletta di Cathy, l'ho tirata fuori e l'ho aperta. «Prescrizione del dottore, Nikhil. Lei a te ci tiene, devi credermi.» Nikhil mi ha risposto con una smorfia spettrale; ha preso la capsula e l'ha introdotta nell'apertura del suo casco. «Non posso dire di approvare l'uso di psicofarmaci, ma non credo sia il caso di deludere il dottore ancora una volta, vero? Fui io ad avviarla alla carriera medica, lo sai? Aveva diciotto anni, quando ci siamo incontrati. Studentessa di biologia evolutiva a un corso di paleontologia dove tenevo lezioni di supporto. Era bellissima, maledizione, come mai mi era capitato di...» Ha sollevato le sue mani per fare un gesto, poi le ha rimesse giù. «Non ho rispettato la mia regola del pensare prima, e ora, ogni giorno, resta questo a ricordarmi il mio errore.» «Senti, Nikhil, lei non ce l'ha con te.» Ho provato a pensare a qualcosa che potesse indurlo a distogliere la mente da quei pensieri. «Abbiamo qualche minuto. Di', perché non diamo un'occhiata qui intorno? Magari è l'unica possibilità che abbiamo. Non appena Cathy avrà sistemato Randi, andremo a riposare un po', e poi ripartiremo subito per la superficie. Abbiamo quaranta chilometri da fare, e solo due giorni prima che il catalizzatore si esaurisca.» «Il mio ramo, no? Sta bene.» Sembra che si sia tirato un po' su. «A quanto pare i visitatori si sono portati via tutto, quando se ne sono andati. Naturalmente sarebbe molto strano se si fossero riportati via veramente tutto.» «Uh?» «I campi-base sono solitamente caratterizzati da un eterogeneo disordine. Ogni sorta di oggetti, non immediatamente utilizzabili, viene sparpa-
gliata all'intorno. Se chi butta via la roba non teme l'intervento della polizia ambientale, la roba se ne rimane lì, nei pressi dell'accampamento; magari ai prossimi esploratori che passeranno da quelle partì potrà forse tornare utile qualcosa.» «Capisco. Allora pensi che ci sia una discarica, da qualche parte?» «Questi avevano una cripta, a quanto pare. Dunque potevano avere anche una discarica, perché no.» Quale scarto di tecnologia aliena ci potesse tornare utile, non ne avevo idea. Sarebbe servito molto di più dei due giorni che ancora avevamo a disposizione per capirci qualcosa. Ma la conversazione sembrava aver un poco risollevato Nikhil, così l'ho assecondato. Dopo un po' abbiamo trovato il deposito dei rottami. Era un monticello a circa cento metri dalla base della torre centrale, dello stesso colore del resto, a causa della polvere che io ricopriva. Un colpetto con la mia pistola a reazione ha soffiato via un po' della polvere dal ciarpame. E di ciarpame si trattava, appunto. Roba di scarto. Piastrelle rotte, qualche scatola dalla quale spuntavano collegamenti elettrici. Quello che sembrava essere stato un alambicco, ormai era in frantumi. Un piccolo veicolo su ruote che somigliava moltissimo a un triciclo per bambini, un casco spaziale allungato con la visiera rotta. Altre cose. Sarò rimasto lì a rovistare per cinque minuti buoni prima di accorgermi che Nikhil era ancora fermo all'alambicco. «Nikhil?» «Appartiene al regno del possibile l'eventualità che io riesca a redimermi. Guarda qua.» La parte che spiccava di più era una grande serpentina che sembrava fatta di tubo di plastica. C'erano poi altre parti, forse dei motori elettrici, e alcune ampolle che dovevano servire a contenere liquidi distillati. «Il tubo, Wojciech.» «Non capisco.» «Se ci respiriamo dentro, a questa temperatura la CO2 nel nostro fiato dovrebbe condensarsi.» «Oh! Potremmo far senza il catalizzatore.» Poi mi è venuto in mente il rovescio della medaglia. «Non mi pare granché portatile.» «No, non lo è.» Nikhil stava annuendo lentamente, soppesando le parole. «Non è necessario che lo sia. Cathy e Randi possono restare qui, mentre tu,
Sam e io partiamo in cerca di aiuto col nostro catalizzatore.» Avevo sentito bene? Ci ho pensato su. Randi era inabile; Cathy, per temperamento e forza era forse la meno adatta fra noi per affrontare la dura risalita che ancora ci attendeva. Era sensato, ma Randi... Sì, doveva essere d'accordo anche Randi. Lei era un'esperta. «Faremmo meglio a vedere se funziona, prima» ho detto a Nikhil. VI Un'ora dopo l'alambicco era già in moto. Nastro adesivo, connettori di riserva, la sorgente di luce aliena e le istantanee capacità di calcolo di Sam hanno prodotto qualcosa in grado di mantenere in vita due persone non troppo attive. Per far sublimare la CO2 condensata sarebbe stato necessario riscaldare la macchina ogni due ore, altrimenti avrebbe corso il rischio di ostruirsi. Comunque, per funzionare, funzionava. Con la caviglia di Randi, invece, non c'era da stare allegri. «Ora sta riposando» ci ha detto Cathy, quando finalmente è riemersa dalla tenda pressurizzata, esausta. «È una brutta frattura, c'è frantumazione. Le ossa di Randi si erano indebolite, eccessiva permanenza in bassa gravità, credo. A ogni modo la frattura interessa anche il calcagno, ha il piede troppo gonfio perché si possa pensare di infilarlo nel suo scarpone pressurizzato. Ho dovuto chiuderla in una sacca di salvataggio per uscire dalla tenda.» A questo punto Cathy ha lanciato un'occhiata di disprezzo a suo marito, il quale aveva lo sguardo rivolto al suolo. «Passeranno giorni prima che il gonfiore venga riassorbito, e inoltre lei dovrebbe nutrirsi molto di più di quanto noi le possiamo dare.» «Io...» comincia Nikhil; poi, in un momento che ricorderò per sempre, sembra confondersi. «Io?» A questo punto, semplicemente, Nikhil si affloscia, cadendo lentamente nella polvere, trascinato giù dalla tenue gravità di Miranda come una foglia d'autunno. Noi eravamo entrambi troppo sorpresi per andare a sorreggerlo, sebbene la sua caduta sia durata alcuni secondi. «No, no...» Cathy sembra soffocare. Mi sono inginocchiato vicino a lui, distendendogli braccia e gambe. Non mi era venuto in mente nient'altro di meglio da fare. «Ictus?» Ho chiesto a Cathy. Lei ha cercato di scuotersi, per cercare di recuperare il suo atteggiamento professionale. L'ho sentita respirare.
«Forse. La telemetria del cuore è a posto. Forse è soltanto svenuto. Andiamo a prendere il necessario dall'altra tenda.» Siamo riusciti a combinare qualcosa solo grazie all'aiuto di Sam. Abbiamo fatto degli errori nella messa a punto delle apparecchiature, errori che si sarebbero rivelati fatali se Sam non fosse stato lì a notarli e correggerli. Eravamo stanchi e avevamo mangiato troppo poco. Ci abbiamo messo un'ora. Abbiamo messo Nikhil nella tenda e Cathy stava per seguirlo, quando mi ha fermato. «Il kit medico principale si trova nella tenda di Randi. Mi servirà se dovrò operare. Senz'altro lei è uscita dalla sacca di salvataggio per dormire, quando l'ho lasciata sola. Tu dovrai svegliarla, farla tornare nella sacca e depressurizzare...» Ho alzato una mano. «A questo ci arrivo anch'io, e se non ci arrivassi, c'è sempre Randi. Le è partito un piede, mica la testa.» Cathy ha fatto un cenno di assenso. L'ho vista sorridere un po', dietro la visiera. «Randi» ho chiamato «mi dispiace svegliarti, ma abbiamo un problema.» «Ho sentito. La radio è stupida, cari amici. Non puoi mai sapere se stanno parlando di te, o con te. Arrivo subito col kit medico.» «Eh?» Cathy è scioccata. «No, Randi non cercare di metterti quello scarpone, per favore, non...» «Troppo tardi» le risponde Randi. Guardiamo la tela della tenda sgonfiarsi mentre la pressione all'interno cala. Randi esce dall'apertura col kit medico e una borsa per i campioni. Cathy e io posiamo immediatamente gli occhi sul suo scarpone sinistro. Sembra perfettamente normale, a parte il fatto che è stato fissato con una strana imbragatura fatta di chiodi e nastro. Poi guardiamo la borsa per i campioni. Contiene una rigonfia parodia blu-verdastra di piede umano tagliato di netto appena sopra la caviglia, a quanto sembra con un laser chirurgico. Ero rimasto senza parole, non sapevo che fare. «Oh, no, Randi» grida Cathy, gettandosi verso di lei. «Ho tentato, Randi, ho tentato.» «Non avevi tempo.» Si abbracciano. «Non dire niente a lui» dice Randi, facendo un cenno col capo verso la tenda di Nikhil «finché non saremo fuori di qui, sani e salvi. Per favore, mh?» Cathy è rimasta immobile, poi ha annuito lentamente. Ha preso la borsa
per i campioni ed esaminato il taglio del piede amputato. «A parte tutto, sembra un lavoro ben fatto. Almeno lasciami dare un'occhiata alla tua gamba, prima di andartene, va bene?» Randi ha scosso la testa. «Aprire sarebbe un casino. L'ho cauterizzata col laser. Plastiflesh su tutto il moncone, sigillato con la plastica. Un casino di anestesia locale, non sento niente. Un lavoro fatto abbastanza bene, Cathy.» Finalmente ritrovo la mia voce. «Randi... perché?» «Nikhil è andato. Bisogna muoversi. Non aver paura Wojciech, me lo rigenerano. Adesso dobbiamo andare, io e te.» «Io? Adesso?» Dopo qualche attimo di sorpresa, ho capito. Cathy doveva rimanere con Nikhil. E io avevo già visto troppe situazioni in cui una persona da sola non ce l'avrebbe fatta; ci avremo provato in due. Inoltre, l'alambicco di fortuna per la CO2 poteva sostenere a sua volta non più di due persone. «Si va finché non si crolla, poi si dorme. È il solo modo. Mangiamo tutto il cibo che è rimasto. Bisogna arrivare fuori di qui.» Cathy ha annuito. Mi ha allungato il piede di Randi quasi distrattamente, ed è entrata nella tenda di Nikhil per curarlo. Randi si è messa a ridere, mi ha ripreso il piede e l'ha buttato via, verso il mucchio di ciarpame della Dimora Sferica. Con una gravità così bassa, probabilmente ci è pure arrivato. Ho cercato di non pensare a niente mentre Randi e io ci preparavamo alla partenza, con l'aiuto di Sam. Muovendoci con gesti lenti e calcolati, non abbiamo fatto molti errori. A che cosa facesse appello Randi per continuare, non lo sapevo. Io facevo appello a lei. Dopo un'ora eravamo pronti a partire, e abbiamo salutato Cathy. Lei doveva aspettare lì, forse da sola, se Nikhil non si fosse ripreso, o forse per sempre, se noi non ce l'avessimo fatta. Chissà come doveva essere. Magari, in futuro, degli esploratori l'avrebbero scambiata per uno degli esseri che si costruirono una base in questa caverna. Magari anche noi avevamo già compiuto lo stesso errore coi cadaveri trovati nella Caverna dei Vicoli Ciechi. Almeno avessi fatto l'amore con Cathy, quella notte che abbiamo passato insieme. Sentivo di lasciare la nostra relazione incompiuta, sentivo di lasciare qualcosa di non detto, un sentimento condiviso che non ci eravamo comunicati. Adesso, almeno un ultimo abbraccio sarebbe stato bello, ma ormai lei era nella tenda, a prendersi cura di suo marito. Senza cibo,
con pochissimo tempo a disposizione, Randi e io dovevamo partire, e subito. Nella corsa verso la superficie, perdere anche un solo minuto poteva essere determinante. L'instancabile Sam ha scalato la torre aliena, trovando il foro d'uscita nella magnifica cupola a volta rivestita di cristalli del tetto della caverna, poi ci ha gettato una corda. Ero sospeso fra cose meravigliose, ma così stanco che, mentre Sam ci tirava su, mi sono quasi addormentato. Era un'esperienza surreale, al di là di ogni descrizione. Di ciò che è successo nei giorni seguenti mi ricordo molto poco. Sam ci ha trascinato per cunicoli, camini, passaggi e caverne. Ogni tanto si fermava a causa di qualche problema che Randi, non si sa come, si sforzava di risolvere. Una volta ci siamo trovati davanti a un muro di roccia spesso un metro, abbastanza fessurato da permettere al gas di passarci attraverso. Il radar acustico di Sam rivelava una grande caverna dall'altra parte, e così abbiamo dovuto scavarci la strada nel muro fino a sbucare sull'altro lato. Sam sa fare una quantità di cose, ma non è stato costruito per tenere in mano un piccone. Di questa mancanza dovranno senz'altro tener conto i progettisti dei prossimi robot da impiegarsi nelle esplorazioni speleologiche. Nell'aprirci un varco in quel muro, Randi e io ci siamo dati il cambio ogni cinque minuti per un'eternità di tre ore, finché, con uno scoppio isterico di energia anaerobica, non mi sono aperto la strada a calci. Eravamo troppo stanchi per festeggiare. Ci siamo limitati a tener stretta la corda che Sam si tirava dietro, cercando di rimanere svegli e vivi mentre procedevamo per un'altra caverna e un altro cunicolo. Nell'ennesima caverna foderata di cristalli, abbiamo trovato un altro chiodo da roccia alieno. Randi pensava potesse essere differente da quello trovato prima, così Sam l'ha estratto e l'ha messo in una borsa per campioni; la borsa l'abbiamo assicurata proprio su Sam, colui che fra noi aveva più probabilità di sopravvivere. Ho annotato questo perché, pur sapendo di essere molto vicini alla morte, continuavamo ad agire con in mente il futuro. Si deve morire, ho pensato, quindi tutti viviamo per qualcosa. Però, alla fine continuiamo a chiederci: per che cosa? A che scopo? Nel raccogliere il chiodo da roccia stavamo aggiungendo un altro piccolo elemento che potesse permettere di rispondere a quelle domande.
Questa sarebbe stata quasi certamente la nostra ultima "notte" in una tenda. Puzziamo entrambi, almeno credo, mi sono spinto troppo oltre per poterlo dire con certezza. Abbiamo continuato per trentasette ore consecutive, senza mai fermarci. Sam ha detto che ci troviamo a meno di tre chilometri dalla superficie, ma la sequela di caverne giace orizzontale, e si rifiuta di salire. Teoricamente, il nostro catalizzatore dovrebbe essersi esaurito, anche se continuiamo a respirare. L'ennesimo terremoto mi ha intrappolato. Randi era davanti a me. In qualche modo è riuscita ad appiattirsi contro la parete di quel tanto per consentire a Sam di passare, per aiutarmi. Sam mi ha liberato il casco, così che potessi distendere il collo. Nel frattempo era in atto un altro sommovimento, molto vasto e lento stavolta; il gemito del martoriato mantello di Miranda era chiaramente udibile, poiché il mio casco veniva nuovamente pressato fra le due pareti della fenditura in cui mi trovavo. Potevo vedere il passaggio davanti a me restringersi a poco a poco, a ogni orribile onda di movimento, anche se avvertivo che la pressione sul mio corpo mi dava un po' di tregua. Ma se il passaggio si fosse richiuso con Randi da questa parte, saremmo morti tutti e due. «Vai!» ho detto a Randi. «Sono nelle tue mani, ora.» Come se non fosse sempre stato così. Poi vengo sospinto di fianco e all'indietro da un'altra serie di onde sismiche. Il ghiaccio si rompe mandando suoni acuti, Sam si intrufola nel passaggio, opponendo il suo lato più sottile a miliardi di tonnellate di roccia clastica. Quasi non vedo più Randi. «Ti amo» mi dice. «Ce la farò.» «Nessun dubbio. Ehi, siamo sposati, va bene?» «Solo così?» «Per l'autorità che mi deriva dall'essere un uomo in una situazione disperata.» «D'accordo, allora. Siamo sposati. Due bambini, ci stai?» «Ci sto.» «Ti amo.» La pressione ha schiacciato Sam, alcune delle sue interiora elettroniche sono sparse sul pavimento del passaggio. Non posso vedere alcunché oltre di lui. «Sam?» chiedo, ma è inutile.
«Randi?» Niente. Per una qualche misteriosa ragione, non avvertivo pressione su di me, in quel momento. Troppo preoccupato per Randi, troppo esausto per interessarmi alla mia stessa sorte, mi sono appisolato. Al mio risveglio era senza dubbio presente della CO2 nel mio casco. Buio pesto. Il casco aveva spento la mia lampada a luminescenza, per conservare illogicamente un watt o due. Ero intontito. Ho pensato che girarmi di schiena mi avrebbe permesso di respirare meglio, riflettendo vagamente che un punto percentuale di peso in più sui miei polmoni potesse essere un problema. Con mia sorpresa ho constatato che riuscivo a girarmi. Nel nero più completo sopra la mia testa è comparsa una stella. Per poco: ho sbattuto le palpebre, e non c'era più. Ho continuato a fissare quell'oscurità più totale sopra di me per diversi minuti, non osando credere a ciò che avevo visto. Finché non ne ho vista un'altra. Sì, una stella vera. Ho pensato che sopra la mia testa si fosse aperta una crepa fino alla superficie; incredibilmente stretta, o forse era la superficie a essere ancora lontana. Comunque un'apertura attraverso la quale poteva farsi strada la luce di una stella. Non ero neanche lontanamente nelle condizioni di tentare un'arrampicata, ma, se i fotoni avevano potuto entrare per la crepa, magari avrebbero anche potuto uscirne. Allo stremo delle forze, squassato da brividi, ho cominciato a trasmettere. «Base Urano, Base Urano, qui Wojciech Bubka. Mi trovo al fondo di una fenditura sulla superficie di Miranda. Aiuto. Base Urano, Base Urano...» Qualcosa mi viene spruzzato sulla faccia, svegliandomi ancora. Aria, e anche acqua in sospensione. Ho aperto gli occhi e ho visto che un tubo si è attaccato alla mia visiera, trapanandole un foro attraverso il quale far passare dei tubi più piccoli. Uno di questi, serpeggiando, stava cercando di farsi strada fra le mie labbra. Le ho aperte per agevolarlo, e mi sono ritrovato in gola qualcosa di dolce e caldo da ingoiare. «Grazie» ho gracchiato, col tubicino in bocca. «Si immagini» mi ha risposto una voce di donna giovane; sembrava anche lei molto sollevata, quasi quanto me.
«Mia moglie si trova in questo cunicolo, da qualche parte nella direzione in cui si trova la mia testa. Può far arrivare anche a lei qualcuno di questi tubi?» Attimi di esitazione. «Sua moglie?» «Miranda Lotati. Lei era con me, stavamo cercando di raggiungere la superficie. È andata in quella direzione.» Ancora esitazione. «Ci proveremo, Wojciech. Faremo tutto il possibile.» Dopo qualche altro minuto, una minuscola versione di Sam mi è caduta sul petto, affrettandosi fra i rottami dell'altro robot verso lo strettissimo passaggio che aveva percorso Randi, portandole una corda. La corda mi scorreva addosso, sembrava non fermarsi mai. Ricordavo di aver letto da qualche parte che, mentre il viaggio verso la singolarità di qualcuno che sia entrato nell'orizzonte degli eventi di un buco nero è inevitabile, tale viaggio, osservato dal nostro universo, può durare all'infinito. Quello che molta gente ricorda a proposito del nostro salvataggio è stato l'escavatore; un affare immenso e abbagliante pieno di pistoni, con artigli d'acciaio che sbriciolavano la roccia clastica del Rift come fa un formichiere che vada in cerca di formiche. Ciò che loro hanno visto, vi assicuro, non è stato in alcun modo altrettanto impressionante, o spaventoso di quel che ho visto io, che ero direttamente sotto la cosa. Mi trovavo già in una nave-ospedale, a letto, quando hanno ritrovato Randi, undici chilometri da dov'ero io, lungo un passaggio che andava restringendosi sempre di più. Alla fine si era rotta le ossa cercando di passare da dove non era più possibile, centimetro dopo centimetro. Fratturato il bacino, spezzate entrambe le clavicole, due costole e l'altra caviglia. Era stata quest'ultima a fermarla, poiché quando ha ceduto, non aveva più alcuna possibilità per cercare di avanzare ulteriormente in quel cunicolo fatale. Così era rimasta là, cercando di rimanere in vita il più possibile, minuto dopo minuto, nonostante tutto. E, nonostante tutto, ce l'ha fatta. Sono riusciti a infilarle i primi tubi attraverso il suo scarpone destro, vuoto, bucando il plastiflesh che le sigillava il moncone, dopo aver constatato che il piede destro era ormai un pezzo di ghiaccio. Sulle prime non mi
hanno detto nulla, volevano essere sicuri che lei fosse ancora viva. Quando i soccorritori sono arrivati da Cathy, lei li ha guidati con calma da suo marito, paralizzato nella tenda, poi, non appena ha capito che lui era in buone mani, ha preso un sedativo e ha cominciato a urlare finché non è svenuta. Dopo, si è negata alle interviste per settimane intere. Però adesso sta bene, e ci ride sopra. Lei e Nikhil vivono in un grande palazzo dell'università su Tritone, e ospitano le nostre riunioni nella loro casa senza tetto - hanno fatto in modo che la pioggia cadesse da qualche altra parte. Miranda (mia moglie) ha passato tre anni senza mani e piedi, ed è tornata su Miranda (la luna) in quelle condizioni, con una tuta potenziata, per guidare delle persone alla Caverna dei Vicoli Ciechi. Oggi è facile distinguere la linea in cui la pelle scurita dall'aria e dal sole delle sue braccia e delle sue gambe si congiunge con la pelle liscia e rosea delle mani e dei piedi nuovi. Comunque, se non la noti, lei è pronta a indicartela con un sorriso. Allora, agl'inferi ci siamo stati, noi quattro. Ma siamo diventati veramente amici? Per divertirci abbiamo tutti dei compagni più congeniali. Nikhil è sempre alquanto altezzoso, e poi lui e Cathy non hanno smesso di punzecchiarsi, ma lo fanno molto spesso col sorriso sulle labbra. Sono arrivato a concludere che, per qualche misteriosa ragione, a loro piace stimolarsi in quel modo; forse la cosa supplisce anche a dei bisogni dei quali Nikhil non è disposto a parlare. Di solito Cathy e Randi non tirano fuori molti argomenti di conversazione, finendo spesso per lasciare a noi maschi dalla lingua poco sciolta - o così si crede - la possibilità di esprimerci. Nikhil sostiene che ho assorbito abbastanza lezioni di geologia da poter passare gli esami per il dottorato, magari un giorno o l'altro ci provo pure. Molte volte lui mi prepara delle lezioni vere e proprie dirette a quel fine, ma l'anticipo che mi è stato versato per il nostro libro è tale che non avrò bisogno di fare più nulla per il resto della mai vita, se non per il gusto di farlo. Non credo di andare pazzo per la geologia, in fin dei conti. Spesso, quando ci facciamo visita, ci limitiamo a rimanere seduti, tutti e quattro, senza dire e fare nulla se non succhiare i piccoli acini dell'uva locale, che così tanto ci piace. Ci sorridiamo a vicenda, richiamando alla mente i ricordi.
Ma non lasciatevi ingannare dalle deliberate differenze che esistono fra noi. Noi quattro siamo legati da qualcosa che va ben oltre l'amicizia, ben oltre le conversazioni leggere, ben oltre le mie critiche idiote alle nostre eccentriche personalità e le mie critiche a posteriori agli sbagli che abbiamo commesso laggiù, nel Grande Rift di Miranda. Queste sono solo briciole di un banchetto di grandezza, celebrato per sostenere coloro che verranno dopo di noi. La sublime verità è che, quando sono con mia moglie, Nikhil e Cathy, mi sento elevato al di sopra di ciò che è semplicemente umano. Allora io siedo al cospetto di questi semidei che, ingaggiando un combattimento mortale, hanno sfidato la volontà dell'Universo, e hanno vinto.
L'autore ringrazia per l'ispirazione Fritz Leiber (Un secchio d'aria), Hal Clement (Still River) e, naturalmente, Jules Verne (Viaggio al centro della terra). Titolo originale: Into the Miranda Rift Analog/Science Fiction & Fact July 1993 L'EMISSARIO di Stephen Kraus È una tendenza umana quella
di immaginarsi in anticipo i contorni di un evento di particolare importanza. Ma la realtà non ha l'obbligo di cooperare. Roger si tolse lo zaino e si lasciò cadere su una delle sedie della mia sala da pranzo. Sembrava distrutto, aveva i capelli lunghi e arruffati, il viso incavato e pallido. Ma almeno era vivo. Erano mesi che non ricevevo sue notizie e avevo cominciato a pensare al peggio. Si mise a frugare nello zaino, e tirò fuori un logoro libro rilegato in pelle. «Che ne pensi di questo?» mi domandò. A parte la breve telefonata che aveva fatto dall'aeroporto, queste erano le prime parole che mi rivolgeva da tre mesi. Roger era fatto così. Decisi di stare al gioco. Aprii il libro sul risvolto di copertina, che portava inscritto con mano sicura "Cap. J. Knowles" Il cognome era uguale a quello di Roger. «Un tuo parente?» Annuì. «Il mio bis-bis-bisnonno.» Il testo era stato scritto da una mano debole e confusa che evidentemente non era quella del proprietario del libro. Ma il mistero si chiariva da sé: Memorie della Parrocchia di Birwood scritte da: Dnl. Meese, Rettore Anno 1781 «È la storia di una parrocchia?» Roger annuì. Era scritto secondo le regole arcaiche, c'erano le caratteristiche abbreviazioni, errori di ortografia, ricciute f al posto delle s. Uno stile ridondante. Cominciai a leggere l'introduzione: Birwood si trova all'incrocio tra la strada principale di Peirce e il Torrente Marie nella Contea di Salop. Il Torrente Marie, che nasce vicino a Marton, delimita il confine della nostra Parrocchia con quella di Onslow, e in quel punto un ponte di pietra passa sul torrente ai cui piedi si trova la nostra parrocchia. Il ponte attualmente è molto malandato, ma non c'è modo di rimetterlo a posto perché i parrocchiani di Onslow dicono che il ponte appartiene al nostro territorio mentre noi sosteniamo che si trova nel loro. C'era quasi una vena di umorismo in quell'insieme di pedanterie e catti-
verie. «Dove l'hai trovato?» domandai. «Sembra un oggetto di valore.» «Era di mio zio Claude. Lui è morto, e il libro è finito nelle mie mani. L'ho trovato in una scatola di biscotti insieme a un mucchio di carte e fotografie, ricordi di famiglia, insomma. In tutte le fotografie sono rappresentati uomini tetri vestiti di nero, tutti quanti con lo stesso naso adunco.» Roger si passò una mano sul naso. «Abbastanza simili al mio, per la verità.» «Tra le carte ci sono certificati, ritagli di giornale, e cose del genere. Risalgono la storia della mia famiglia fino a dieci generazioni, quando abitavamo in un piccolo villaggio del centro dell'Inghilterra.» «Birwood?» Tirai a indovinare. «Esatto. Ed è li che sono stato.» Si tirò indietro i capelli nervosamente. «A proposito, ti ringrazio per avermi accolto con un preavviso così breve.» Ebbe un'esitazione. «Ho davvero bisogno di parlarti.» «Non preoccuparti.» Guardò attraverso la finestra alle mie spalle verso la strada tranquilla che passava davanti a casa mia. «Ci vorrà un po' di tempo.» «Non ho fretta.» Roger mi rivolse un sorriso stanco. Quando ricominciò a parlare il tono della sua voce era basso e misurato, quasi come se avesse paura che le parole dovessero esaurirsi da un momento all'altro. «Lo scorso agosto ricevetti una lettera dalla Fondazione Nazionale delle Scienze» cominciò «che mi toglieva la sovvenzione. Credo che tu ne abbia sentito parlare, tutto il dipartimento ne era venuto a conoscenza nel giro di poche ore. Non riuscivo a crederci. Un semplice foglio governativo e tutti i miei soldi erano perduti.» Fece schioccare le dita. «Così. «Rimasi seduto per tutto il pomeriggio nel mio studio a fissare la lettera. Quel progetto era tutta la mia vita.» Si fermò per un attimo e scosse la testa. «Potrà anche sembrare stupido, ma è vero. «Dopo un po' tornai a casa, e crollai addormentato sul divano. Quando mi svegliai il mattino successivo trovai tre valige sul pianerottolo... C'era il biglietto di un avvocato che mi spiegava che mio zio era morto nominandomi suo parente più stretto. «Mi misi a dare un'occhiata tra le sue cose. Lo feci con un certo distacco, non vedevo mio zio Claude da dieci anni. Finii per dare quasi tutto in beneficenza. Non c'era nulla che avesse un significato particolare. Erano semplicemente delle cose. Forse utili a lui, ma per me assolutamente inuti-
li. «Poi trovai la scatola dei biscotti con il libro e le fotografie. Sotto c'era un lucchetto, alcuni fiori secchi, e uno strano pezzo di plastica... nero, con un disco a un'estremità e quattro tubi vuoti all'altra. Cimeli di famiglia, supposi, anche se il pezzo di plastica non lo era di sicuro. «Finii per leggere il manoscritto di Birwood per tutta la notte. Non mi sono mai interessato molto di storia, ma quel reverendo Meese aveva una vena di cattiveria che mi teneva inchiodato a girare queste fragili pagine. Soprattutto nei confronti della mia famiglia. C'è un capitolo dedicato a noi verso la fine... guarda se riesci a trovarlo.» Lo trovai, dopo che ebbi sfogliato rapidamente per qualche minuto il vecchio libro. Cominciava così: La Famiglia di Wm. Knowles della fattoria del Mulino. Wm. Knowles fu il primo a stabilirsi a Birwood, e agli inizi visse molto poveramente tra le rovine del Castello di Blanthorne. Quando era ancora un ragazzo, Wm. Knowles lasciò la regione per andare a combattere con il Duca di Marlborough e non ritornò alla parrocchia che alcuni anni dopo. Allora si costruì un mulino vicino al torrente Marte e si costruì una casa con i soldi che aveva guadagnato chissà dove. A quel punto seguiva un lungo resoconto di una controversia legale tra William Knowles e un certo signor Oakely. La controversia riguardava il diritto di sedere in una particolare panca della chiesa, tra le altre cose. Aveva vinto l'antenato di Roger. Poi gli avvenimenti si erano fatti più drammatici: Wm. Knowles fu coinvolto in molte altre dispute, ma l'ultima fu contro un certo Thomas Norris, un compagno di birreria. Alla fine litigarono violentemente (a causa di una donna, sostennero i testimoni) e il signor Norris fu ferito al braccio, di cui perse l'uso, ma il signor Knowles fu pugnalato al cuore. Roger sogghignò. L'effetto fu un po' sinistro. «Non avrei mai creduto che la mia famiglia avesse origini di questo tipo. Voglio dire, guardaci adesso... siamo tutti o contabili o chimici o cose del genere. Continua, si fa più interessante.» La seconda sezione diceva:
Wm. Knowles ebbe un figlio da Anna Newcomb un figlio, Martin, che ereditò la fattoria del Mulino. Martin Knowles si diede il titolo di gentiluomo e andò a Cambridge a studiare i classici, ma ritornò in occasione della morte di suo padre senza due dita della mano destra, perdute forse in una qualche zuffa in cui si era trovato coinvolto. Qualche tempo dopo Martin Knowles trovò un filone di buon piombo minerale (chiamato Galena), in fondo a una cava del torrente che scorreva nella sua proprietà. Il fatto fu considerato strano (anche se di buon auspicio), visto che il piombo è conosciuto solo nel Galles che è a molte leghe di distanza. Mr. Knowles assunse degli uomini di Birwood e di altri luoghi perché lavorassero in miniera e ne ricavò un grande profitto. Ma alla fine, nella miniera, si scatenò una disputa con un certo Jn. Bender, un lavorante di Martin, che si risolse a vantaggio di Knowles. Il signor Bender, che ancora oggi è un uomo forte e capace, ruppe uno dei picconi del signor Knowles. Il signor Bender disse che non avrebbe pagato l'attrezzo, affermando che si era rotto perché non era adatto a quel lavoro, e non per colpa sua (disse anche che c'era qualcosa in quel piombo che lo rendeva troppo duro per il piccone). A causa di questo disaccordo i due uomini finirono per accapigliarsi, con il risultato che il signor Bender si ruppe l'anca e adesso può camminare solo con il bastone. Successivamente si mise a fare il lavoro di carraio, e così fu molto più fortunato di molti dei suoi compagni che perdettero il lavoro quando Martin Knowles, poco dopo, chiuse la miniera. Quell'incidente sembrò concludere la carriera di Martin Knowles. Trovai soltanto un altro riferimento su di lui: Martin Knowles attualmente si vede poco in pubblico, ed è difficile incontrarlo anche alla birreria dove andava abitualmente. Quelli che vanno a trovarlo alla fattoria del Mulino dicono che passa il tempo seduto vicino alla finestra con un piccolo oggetto nella mano offesa che getta in aria di continuo. Io stesso l'ho visto mentre lo faceva e quando gli ho domandato dove avesse preso quell'arnese (che è dello stesso colore del carbone e ha quattro piccole sporgenze) lui mi ha risposto soltanto che l'aveva trovato nella miniera. Alzai gli occhi sbigottito. Roger annuì. «È successa la stessa cosa anche a me, quando ho letto questo passaggio. Ho cercato nella scatola dei biscotti fino a che non ho
trovato questo pezzo di plastica. Nero e con quattro protuberanze, nessuna possibilità di errore. Il mio anello del college aveva un piccolo diamante incastonato. L'ho strofinato sulla superficie del pezzo di plastica e il diamante si è polverizzato.» Roger si allungò attraverso il tavolo e mi guardò dritto negli occhi. «Mi misi in tasca l'oggetto e andai in macchina al laboratorio. Provai a staccarne un pezzo per analizzarlo. Ma non ebbi fortuna. Alla fine riuscii a farne evaporare qualche molecola con un raggio laser e le sottoposi al mio spettrometro di massa. «La sostanza risultò essere un boro ceramico mescolato a molibdeno e a qualche tipo insolito di terriccio. Che sommati insieme in qualche modo danno vita a una sostanza talmente dura che non sono nemmeno riuscito a misurare quanto dura fosse. «Poi ho cercato i detriti di piombo gallese a cui il manoscritto fa riferimento. Erano di epoca Cretacea; presumibilmente i giacimenti di Birwood erano simili. Se davvero Martin Knowles aveva trovato l'oggetto nella sua miniera, la sostanza doveva essere sufficientemente coriacea da riuscire a sopravvivere nel sottosuolo per un centinaio di milioni di anni. «Non che fossi davvero disposto a crederci, ma continuai a pensare e a ripensare a quei fatti. Potevo presumere con sicurezza che Martin Knowles avesse trovato l'oggetto. Non poteva averlo costruito, quel tipo di tecnologia non esiste nemmeno adesso. Potevo inoltre presupporre che facesse parte di qualcosa di più grande, di qualcosa su cui uno sfortunato minatore di nome John Bender aveva spezzato uno dei picconi del suo datore di lavoro. «Inoltre, qualche tempo dopo, Martin Knowles aveva chiuso una miniera che gli dava un grande profitto, facendo perdere il lavoro a mezza città, e per il resto della sua vita si era tenuto lontano dalla sua amata birreria. Perché? Per essere certo del proprio silenzio? O si trattò semplicemente di superstizione? «Feci qualche indagine ulteriore. Riuscii a trovare Birwood su una cartina aggiornata, e parlai con una certa Irene Adams dell'ufficio turistico del posto. Lei era ben contenta di parlarmi della città, ma non aveva mai sentito parlare di nessuna vecchia miniera di piombo, e a dire la verità sembrava inorridita all'idea. «Immediatamente dopo il presidente chiamò dal suo ufficio. Mi disse che avrei dovuto lasciare il dipartimento alla fine dell'estate. Me l'aspettavo; e non dissi nulla. Discutemmo su ciò che ne sarebbe stato della mia at-
trezzatura, e così via. Poi mi domandò quali fossero i miei progetti immediati. «Gli dissi che stavo per fare un breve viaggio in Inghilterra per completare una parte della ricerca. L'idea mi era venuta in mente all'improvviso mentre rispondevo. «Non avevo intenzione di stare via a lungo. Forse due o tre settimane. Ma presi la precauzione di depositare tutte le mie cose in un magazzino e di dare la disdetta dell'appartamento. Avrei dovuto dirti dove stavo andando, ho anche provato a chiamarti tre o quattro volte. Ma non avrei saputo cosa risponderti se tu me ne avessi chiesto la ragione. «Partii il giorno successivo. Trascorsi a Londra una sola notte e poi mi diressi in treno verso Nord. Non volevo fermarmi. Così comperai una vecchia bicicletta a Shrewsbury, e pedalai per il resto del tragitto. Fu veramente molto piacevole. È una regione molto bella: piena di villette, e di morbide e verdi colline con siepi e greggi. «Raggiunsi Birwood in un paio d'ore, e Irene mi trovò una pensione nel centro della città. Dissi alla padrona che ero un naturalista. «Ebbi una curiosa sensazione di déja vu rispetto alla città. Eccetto un'unica strada lastricata e alcune file di case, credo che non sia cambiato nulla dal 1781. La chiesa si trova ancora vicino al torrente Marie, e il ponte di pietra non è mai stato riparato. «Cercai qualche traccia della mia famiglia nella chiesa e nel palazzo del comune. Il pastore fu molto disponibile quando capì chi ero: la decima generazione di discendenza del ceppo di Birwood, eccetera. «William Knowles, il primo Knowles menzionato nel manoscritto, era morto nel 1734. Non riuscii a trovare nessuna registrazione della sua nascita. Martin Knowles visse dal 1713 al 1788. E il Capitano John, il padrone del libro, era il suo bis-bis nipote. Controllai tutto, compresa la panca per cui William Knowles e il signor Oakley avevano litigato. Mi sedetti lì durante il servizio domenicale per insistenza del parroco. «Localizzare la proprietà della famiglia Knowles fu molto più problematico. Dovetti scartabellare tra i registri comunali di un secolo. Alla fine, trovai la delimitazione dei confini della fattoria del Mulino stabiliti dall'agrimensore in un vecchia carta della regione: "In longitudine dal Meridiano delle isole Azzorre (o Isole della Fortuna) 21° 37' 12" e 52° 53' 14" di latitudine a nord dell'equatore." «Adesso la zona è completamente selvaggia, neppure le pecore ci vanno a pascolare. Ma riconobbi abbastanza facilmente i resti della fattoria. Il
mulino è costruito sopra al torrente, e la torre di pietra esposta verso Birwood è ancora lì. Vicino alle fondamenta annerite di uno dei fabbricati annessi trovai un piccolo appezzamento in cui c'erano una mezza dozzina di lapidi semidivelte. Una apparteneva a Martin Knowles, morto nel 1788, all'età di settantacinque anni. «Trascorsi il resto del pomeriggio giù al torrente, con le ginocchia a bagno nel "marie". Successivamente cercai la parola nel dizionario della padrone della pensione: significa terreno friabile ad alto contenuto di carbonato, usato come fertilizzante e per costruire mattoni. Utile per una fattoria, suppongo. Ma spaventoso per camminarci. Dopo un'ora ebbi la sensazione che i miei stivali si fossero riempiti di cemento. Ma il manoscritto diceva che Martin Knowles aveva trovato la sua vena di piombo in una cava in fondo al "marie", così mi misi a cercare. «Localizzai la miniera il terzo giorno. Niente di drammatico. Avanzai faticosamente su di un altro terreno paludoso e attraverso un altro appezzamento di cardi, e all'improvviso, proprio davanti a me, sul lato più vicino al torrente, vidi una cava con accanto un classico cumulo di detriti da miniera. «Davanti trovai delle attrezzature arrugginite abbandonate, ma l'entrata era incustodita. Fu l'oscurità a fermarmi. La luce non sarebbe potuta penetrare che per poco più di un metro o due attraverso le travi che sostenevano l'apertura. Non c'era nessun segno di esplorazioni recenti, né bottiglie né lattine di birra vuote. Sembrava che il luogo fosse completamente abbandonato. «Quel pomeriggio presi un treno per Birmingham e spesi una piccola fortuna per comperare un'attrezzatura da roccia. Ritornai alla miniera il mattino successivo, con chiodi a espansione da ancoraggio, attrezzi e carta abrasiva. Non usavo equipaggiamenti del genere da anni, ma l'abilità mi ritornò velocemente. «La discesa fu abbastanza facile, circa quindici metri in profondità tra ragnatele e sterco di pipistrello prima che il tunnel finisse. A quel punto potevo camminare, anche se piegato in due. «I libri ti dicono di essere molto accorto nei tunnel delle vecchie miniere, ma quello in particolare sembrava piuttosto solido. Controllai di continuo il soffitto e i puntelli di sostegno, ma non c'era nulla di cui preoccuparsi. «Inizialmente cercai di muovermi più in fretta che potevo, mi ero fatto l'idea che qualsiasi cosa John Bender avesse scoperto, dovesse trovarsi alla
fine del pozzo. Ma la schiena cominciò a farmi male dopo qualche centinaio di metri, e mi ritrovai a sbattere la testa contro il basso soffitto. Un'ora e mezzo più tardi fui costretto ad avanzare carponi. «Continuai a strisciare, ascoltando l'eco del mio respiro che si diffondeva all'infinito, finché non sentii il vuoto sotto le mani. Mi tirai indietro, e poi orientai la torcia direttamente su un pozzo verticale profondo tre metri. Fui costretto a fermarmi finché non smisi di tremare, prima di potermi predisporre alla discesa. «Intrapresi la sezione successiva molto lentamente; il passaggio era terribilmente angusto. Dopo avere percorso un breve tratto superai una curva scoscesa e mi ritrovai in una sezione trasversale di forma rettangolare di un minerale grigio lucido. Non c'era alcun segno della presenza di strani oggetti. «Ricordo di esser rimasto perfettamente immobile, con l'aria acre che mi scendeva giù per la gola. Ma che cosa ero andato a pensare? Sul serio avevo creduto che un manoscritto dimenticato potesse salvare la mia carriera? Ero davvero disperato fino a questo punto? «Non ero certo di volerlo scoprire. Ma c'erano troppe coincidenze. Di sicuro il frammento nero era una cosa reale. Doveva esserci qualcosa laggiù. «Tornai indietro strisciando verso la superficie. Ogni passo mi procurava una fitta di dolore alle ginocchia e alle braccia. Quando raggiunsi la base del pozzo rischiai di precipitare, e fui costretto a fermarmi per riposare. «La circolazione dell'aria nel pozzo era particolarmente intensa, in quel punto. Sembrava che la miniera tirasse lenti e lunghi respiri. L'umidità trasudava dalle pareti di pietra. Poi mi cadde l'occhio su un passaggio laterale che all'andata non avevo notato. «Le travi che sostenevano l'entrata erano crollate; i frammenti di roccia la bloccavano quasi completamente. Mi domandai come mai i supporti avessero ceduto, dal momento che nel pozzo della miniera, per un miglio o più, un centinaio di altre travi erano rimaste solidamente al loro posto. Potevo solo immaginare che fosse stato qualcuno a farle crollare, per scoraggiare l'accesso al passaggio. «Cominciai a fare rotolare le pietre da un lato. Legai una fune a uno dei supporti e tirai finché non riuscii a toglierlo. Mi asciugai il sudore dagli occhi e andai avanti finché non ebbi aperto un buco largo quanto le mie spalle. «Aspettai che la polvere si depositasse, poi feci scivolare la torcia attraverso il passaggio. Si estendeva solo per qualche metro. Finalmente, inca-
strato in un obliquo filone di minerale, vidi un ammasso nero, grande come un frigorifero. Aveva gli angoli arrotondati e i fianchi lisci che al raggio intenso e bianco della mia lampada sembravano opalescenti.» «Quel nero splendore mi fece venire in mente il frammento che avevo trovato nel baule di mio zio, l'oggetto sembrava assolutamente intatto tranne che per alcuni graffi profondi sulla parte superiore. «Avanzando per qualche metro tra il pietrisco, notai che quei graffi erano molto regolari; quando fui ancora più vicino mi resi conto che si trattava di un qualche tipo di segni, che si ripetevano con un motivo esagonale. Mi assicurai alla parete del passaggio che avevo alle spalle e cercai di riprendere fiato. Da quel punto potevo arrivare a toccare solo un lato dell'oggetto. La superficie era liscia come il vetro. Mi avvicinai abbastanza da poter togliere la polvere che copriva quelle figure disegnate sul coperchio. Sembrava che formassero un diagramma, simile a un puzzle, senza senso, linee interdipendenti di un modello esagonale... «Rimasi in contemplazione finché non mi fece male la testa. Così chiusi gli occhi per un attimo. Quando li riaprii, il significato balzò fuori in un istante. Il diagramma mi stava dicendo, nel modo più chiaro possibile, in che modo aprire il coperchio dell'oggetto. «Erano indicate otto chiusure: cilindri infilati che emettevano bagliori e ruotavano ad angolo acuto. Ciascuno aveva sei rientranze leggermente più piccole della punta delle mie dita. «Mi ruppi diverse unghie prima che mi venisse in mente di aiutarmi con dei bulloni infilati in un pezzo di legno. Quando mi resi conto che erano avvitati in senso antiorario, i cilindri ruotarono facilmente. Questo fatto mi colpì più di qualsiasi altra cosa. Qualsiasi meccanismo incastrato in un filone minerario del Cretaceo avrebbe dovuto essersi saldato milioni di anni prima. «Potevo forzare l'apertura che c'era in cima in cinque minuti. Quando il coperchio cominciò a sollevarsi, mi resi conto all'improvviso di quanto quell'oggetto assomigliasse a un sarcofago. Esitai un attimo prima di guardare dentro, un po' spaventato al pensiero che avrei potuto vedere i resti di... non sapevo bene cosa. Un viaggiatore del tempo? Una creatura aliena con sei piccole dita, accovacciata lì dentro? «Puntai la torcia all'interno e tirai un respiro profondo. Non c'erano né ossa né abiti in decomposizione. Solo diagrammi e centinaia e centinaia di parti interconnesse in modo meravigliosamente preciso. «Per prima cosa studiai i diagrammi. A quel punto ero in grado di inter-
pretarli rapidamente. Ogni cosa presentava una profonda simmetria a sei lati. Tutte le figure e i loro raggruppamenti formavano degli esagoni parziali o completi. Ma mi resi conto che non erano tanto i disegni a essere organizzati in quel modo, quanto il cervello di chi li aveva costruiti. «C'era un diagramma principale da cui si ramificavano tutti gli altri, una specie di tavolo da cui divergevano delle colonne. Al centro c'era un solo esagono, poi uno spazio, poi due esagoni, poi tre. Ciascun gruppo di esagoni era accoppiato a un simbolo, una sorta di sistema numerico. «A quel punto scoprii una tavola periodica. Sei gas inerti formavano un esagono nel centro; e degli elementi con gli involucri parzialmente pieni turbinavano verso l'esterno. Una serie di molecole li circondava. A ciascun ordine era assegnato il proprio simbolo, modificato da altri simboli che indicavano stati isomerici o ionici. «Seguii uno dei rami interni del diagramma, svitando cilindri man mano che procedevo. Trovai un assemblaggio largo una trentina di centimetri e spesso tre che oscillava da un lato. Sotto di esso c'erano molte altre istruzioni, e un numero ancora maggiore di assemblaggi. «Ero piegato a lavorare su di esso in una posizione assolutamente scomoda e sotto una luce totalmente inadeguata. Ma non potevo andarmene. Mi misi a disassemblare e a catalogare, copiare, disegnare e riassemblare. «Gli elementi primari erano piccoli scomparti, che in qualche caso si allargavano in canali larghi come punte di spilli, a ognuno dei quali era attaccata una specie di valvola. Alcuni tubi esagonali dello spessore di un capello erano saldati su tutta le superficie, ramificandosi e ricongiungendosi di continuo. All'inizio pensai che si trattasse di connessioni elettriche, poi capii che erano ottiche. Più tardi, in un punto molto profondo del meccanismo, trovai un gruppo di cristalli icosaedri che emettevano flussi di luce contro le facce lisce di un migliaio di quei tubi esagonali. «Non risalii in superficie fino a quando la luce che avevo alle spalle non cominciò ad abbassarsi. Rimasi davanti all'entrata della miniera a fissare la luce del giorno finché non mi bruciarono gli occhi. Quasi non ricordavo più che aspetto avesse. «Ero troppo stanco per inventare qualsiasi scusa sui miei vestiti stracciati o sui miei orari eccentrici. Fortunatamente, la padrona della pensione era abbastanza discreta da non fare domande. Mi preparò delle focacce con la marmellata d'arance mentre cercavo di chiarirmi le idee. «A chi dovevo dirlo? Alla polizia? Alla stampa? Decisi che mi sarei sentito più a mio agio se avessi contattato qualcuno dell'università. Ma ancora
non ero tranquillo. Se solo fossi riuscito a farmi venire un'idea migliore su come far funzionare quell'affare. «In ogni caso decisi di riposare e di fare un'altra visita. «La seconda discesa avvenne in modo più veloce, la mia attrezzatura da roccia era ancora sul posto, e sapevo cosa aspettarmi. Ma rimasi più atterrito che mai dalla complessità dell'oggetto. Provai a copiare alcuni dei diagrammi più semplici per poterli studiare in seguito, ma mi accorsi immediatamente che avrei dovuto disegnare per giorni e giorni. Poi mi venne l'idea di riprodurli sulla carta mediante sfregamento, proprio come fa la gente con le pietre tombali. Funzionava in modo fantastico, anche per le figure più piccole. Me ne andai con il blocco degli appunti pieno.» Roger cercò nello zaino e tirò fuori un fascio di fogli. Ne strappò uno e me lo passò. C'erano delle linee bianche filiformi in rilievo su spessi segni scuri di matita. Erano segni incomprensibili. Tutto ciò che riuscivo a identificare era una simmetria a sei lati. «Posso tenerlo?» domandai. Roger fece un cenno di assenso come se fosse un fatto assolutamente irrilevante. «Le figure erano per la maggior parte indicatori» disse. «Segnalavano che il meccanismo era operativo fino a che l'acqua si trovava allo stato liquido, cosa che veniva indicata da immagini dell'acqua in differenti stati. L'ambiente appropriato era composto da azoto, ossigeno e qualche altro componente. Per quello che ricordo l'atmosfera della Terra risponde senza problemi ai requisiti. «Per mettere in moto quest'oggetto si devono riempire alcune camere con sostanze chimiche, per la maggior parte organiche semplici: aminoacidi, lipidi, monosaccaridi, più qualche traccia di metallo, acqua e idrato di sodio. L'energia richiesta è di una semplicità incredibile: una forte luce intensa. «In definitiva, le istruzioni mi avevano detto tutto tranne ciò che l'oggetto faceva. Passai un bel po' di tempo a rifletterci su. L'ipotesi migliore era che fosse un pezzo di apparecchiatura per la sopravvivenza di una colonia aliena, una fonte di cibo di scorta, intendo, da utilizzare in un ecosistema estraneo. Ma allora come mai non avevo trovato niente di simile nelle vicinanze? E per quale ragione avrebbero dovuto costruire una cucina automatica, per poi abbandonarla per un centinaio di milioni di anni? «In quattro viaggi ero riuscito a esaminare una dozzina di assemblaggi. Credevo che andando in profondità si sarebbero fatti più semplici, con ca-
mere grandi abbastanza da accogliere piastre fumanti per arrostire bistecche aliene, o qualsiasi altra cosa di cui si nutrissero. Invece non c'era niente del genere. I componenti diventavano sempre più piccoli e intricati. Mi riusciva addirittura difficile comprendere la maggior parte di loro. «Per un po' cercai di seguirne i percorsi, provando a indovinarne le reazioni. Ma dopo il secondo o il terzo livello di profondità dovetti rinunciare. Il massimo che potevo riuscire a fare a riguardo era valutare il numero delle connessioni. Riemersi con 200.000 prodotti di reazione. Fu allora che mi resi conto che la mia ipotesi della cucina automatica non funzionava. Era troppo complicata. «I diagrammi finivano sull'angolo destro del lato frontale della scatola. Le diramazioni mi avevano portato a ispezionare un lungo assemblaggio di forma conica che arrivava quasi sulla cima dell'oggetto. Terminava con un foro, e un tramezzo molto sottile lo collegava al corpo principale attraverso una dozzina di tubi. «Orientai la torcia in direzione della cavità sinistra dell'assemblaggio. Scoprii una camera sferica, qualche centimetro all'interno, proprio contro quella frontale. Da un lato c'era una cavità più piccola di forma molto familiare. Presi lo zaino e tirai fuori il pezzo che era passato da Martin Knowles fino a me. Poi lo rimisi al suo posto per la prima volta dopo un centinaio di anni. «Ci ripensai seduto tranquillamente su un traliccio spezzato, domandandomi che razza di uomo fosse il mio sette volte bisnonno. Naturalmente poteva essere stato qualcun altro a smantellare per primo quell'oggetto. Ma ne dubitavo. Chi altro avrebbe avuto il coraggio di toccarlo? L'oscurità che c'era lì sotto doveva averlo fatto sembrare ai minatori che l'avevano trovato un oggetto uscito dalla fucina del Diavolo. «Per un attimo mi sembrò di sentire la presenza di Martin Knowles lì nel pozzo vicino a me, che guardava i diagrammi da dietro le mie spalle, rabbrividendo nella sua finanziera e nelle sue scarpe con le fibbie. Era un uomo istruito. E sarebbe stato capace esattamente come me di decifrare le istruzioni. Ma era nato un secolo troppo presto per capire il significato della chimica. «Capisci la sua frustrazione? Me lo immaginavo mentre faceva crollare le travi di legno, aveva un temperamento violento comune a tutta la sua stirpe. Qualcosa stava cercando di comunicare con lui da un'inimmaginabile distanza di tempo e di spazio, ma lui semplicemente non poteva capire, e non poteva nemmeno rispondere.
«Mi chiedo se avesse mai compreso che funzione avesse quell'oggetto. Io a quel punto lo sapevo con certezza. Era una macchina per costruire alieni. Quelle migliaia di reazioni servivano semplicemente a sintetizzare un ovulo fertilizzato e a impiantarlo in quell'utero nero sferico.» Roger chiuse gli occhi. Sembrava molto stanco. «Non potevo parlarne con nessuno. Riesci a capire? Se l'avessi fatto il governo inglese quasi certamente avrebbe chiuso la miniera per un fatto di sicurezza nazionale. «Non potevo correre questo rischio. Avevo bisogno di farmi pubblicità. Ne avevo assoluto bisogno. «Ho sentito dire da qualche parte che le componenti chimiche in un uomo hanno un valore di trenta dollari circa. Posso garantire che la chimica aliena è molto più costosa. Tra i reagenti e il laser che mi erano serviti come fonte luminosa, il progetto stava cominciando a oltrepassare i limiti della mia carta di credito. «Il problema maggiore era costituito dal generatore, che pesava circa cinquanta chili. Alla fine decisi di smontarlo e portarlo giù in sezioni. Ma tutto il resto fu abbastanza semplice. Nel giro di qualche giorno, fui pronto a partire. Per mettere in moto il meccanismo bastava semplicemente girare qualche vite dei cilindri. Fatto questo l'operazione era automatica, e assolutamente silenziosa. Passai dei brutti momenti a pensare che non sarebbe accaduto proprio nulla. «Il periodo indicato per la gestazione, o di qualsiasi altra cosa si trattasse, era di cinque settimane, che mi sembrarono cinque anni. Durante il giorno trasportavo giù nella miniera la benzina per il generatore; avevo le mani che puzzavano perennemente di benzina. Per il resto passeggiavo per il villaggio, leggevo e mangiavo. In città c'erano due birrerie che risalivano ai tempi dei miei antenati. Evitai di frequentarle entrambe. «L'ultima notte la trascorsi in miniera, seduto con le braccia strette intorno alle ginocchia, a guardare la scatola. La padrona della pensione aveva preparato qualche focaccia extra per me, e ogni ora o poco più ne ingoiavo una automaticamente. A un certo punto devo essermi addormentato. «Mi risvegliai con la sensazione di qualcosa che si strofinava contro i miei piedi. Sembrava liscia e calda, ma non umida. Aprii gli occhi di botto. Un raggio di luce si rifletteva su una forma lunga circa trenta centimetri e alta quindici, che aveva l'aspetto di una curva morbida ininterrotta. «Saltai in piedi e indietreggiai in un angolo. Sentii una specie di lamento
e un leggero odore dolciastro che si sovrapponeva a quello solito di muffa. «La forma morbida dimenandosi mi si avvicinò. Era più o meno di forma ellissoidale, senza piedi. La sua pelle era nera come l'ebano e leggermente rugosa. L'unico tratto distintivo era una curiosa protuberanza appuntita sul davanti. «Girai intorno all'oggetto. Si era aperta una porta vicino alla parte inferiore, che lasciava esposta la camera sferica che avevo visto precedentemente dall'interno. La camera era completamente vuota eccetto che per una pozza di umidità sul fondo. «Guardai di nuovo la creatura. Dava la sensazione di sentirsi insulsa lì sul pavimento, con la sua protuberanza simile a un muso. Indifesa. E affamata. Stava proprio irradiando fame. «Non sapevo che fare. Tutto ciò che avevo erano le focaccine. Ne tirai fuori una dallo zaino e la feci rotolare verso la creatura. Il muso la trovò dopo un pochino. La creatura inspirò un'altra volta, con un rumore che sembrava provocato dalle contrazioni del suo corpo che si muoveva. Alla fine scivolò sopra la focaccia. Dopo qualche minuto e un considerevole sniffaggio si spostò di nuovo. Nel punto in cui prima si trovava la focaccia era rimasta solo una chiazza umida. «La mia conoscenza della zoologia è praticamente nulla, ma ero quasi certo che nulla di origine terrestre mangiasse in quel modo. «Mi sedetti su una pietra e guardai la cosa. Dopo un po' la tirai su e la infilai nello zaino. «Mi misi a considerare la creatura come un lui, indipendentemente dal fatto che non presentasse alcun carattere sessuale distintivo, anzi, alcuna caratteristica in generale, escludendo il muso. Era una specie di creatura minimale. Lo chiamai Martin, in onore di Martin Knowles. «Scoprii che aveva bisogno di molta acqua, che assorbiva attraverso la pelle. E che era piuttosto sensibile alla luce. Per il resto era piuttosto facile prendersene cura. Mangiava qualsiasi cosa, persino le aringhe affumicate che mi mettevo in tasca a colazione per non urtare i sentimenti della padrona della pensione. E gli piaceva essere grattato sul muso. «Osservai Martin per tutto quel primo giorno e per tutta la notte. Lui in qualche modo sentiva la mia presenza, e cercava di seguirmi ovunque andassi. Quando voleva, riusciva a muoversi in modo incredibilmente veloce. Finalmente il secondo giorno sul tardi mi addormentai. Feci un sogno pieno di colori brillanti e mi svegliai ritrovando Martin che pazientemente disfaceva con il muso il tappeto fatto all'uncinetto. Lo dissuasi gentilmen-
te, e trascorsi il resto del pomeriggio a domandarmi cosa fare di lui. «La situazione era evidentemente cambiata. Un grosso oggetto nero era una cosa, ma Martin... be', chi poteva considerarlo veramente una minaccia per la sicurezza nazionale? Si adattava molto più naturalmente alla categoria dei giocattoli innocui. Mi domandai pigramente se avrei potuto chiederne i diritti residui. «Tuttavia volevo ancora contattare, per prima cosa, qualcuno dell'università. Sfogliai i giornali che avevo comprato fino a che non mi fui imbattuto in un riferimento a Richard Burns, un chimico fisico di Cambridge, che ricordavo di avere incontrato a una conferenza. Mi sembrava che fosse un personaggio piuttosto introdotto; probabilmente lui sapeva come muoversi tra le infrastrutture. Chiamai il suo ufficio e presi appuntamento per la settimana successiva. «Era cominciato il conto alla rovescia. In pochi giorni, mi dissi, il mondo sarebbe diventato un posto molto diverso e l'NSF avrebbe senza dubbio considerato la mia proposta successiva con ritrovato rispetto... «Mi muovevo per la stanza in preda a una sorta di delirio. Poi diedi un'occhiata a Martin e ritornai alla realtà. La verità era che non sapevo nulla di più di quello che sapevo il giorno in cui il baule dello zio Claude era arrivato nel mio appartamento. Che cosa era Martin, in ogni modo? E la mia ipotesi della cucina cosmica era del tutto sbagliata? Martin poteva essere l'equivalente alieno di una mucca, una fonte di proteine. Sembrava più intelligente di una mucca, ma questo non provava nulla. Anche gli alieni che lo mangiavano probabilmente erano molto più intelligenti di noi. Il problema era che la sua specie non poteva avere costruito l'oggetto. La sorte dei delfini: niente mani. Naturalmente poteva essere lo stadio primario di qualche ciclo complesso di vita aliena, o telecinetica, ecc. «Ma nessuna di queste cose aveva davvero importanza. L'esistenza di Martin era il fatto più importante. Avremmo potuto studiare il suo metabolismo, la sua struttura cellulare, la biologia molecolare. Mi dicevo queste cose, ma non riuscivo a crederci. Volevo stabilire un contatto. «Quella successiva fu una giornata tranquilla; le condizioni climatiche poco clementi ci costrinsero a restare in casa. Insegnai a Martin a giocare a baseball. Gli tiravo un pezzo di carta appallottolato, e lui lo colpiva con il muso. Stupido, ma giocammo comunque per un paio d'ore. «Durante il pomeriggio mi sedetti nella logora poltrona della mia camera a guardare la pioggia. L'ironia della mia situazione mi impressionava enormemente. Presto sarei diventato la persona più famosa della terra, dopo
essere stato per così tanto tempo una delle più sconosciute. Mi interrogavo sul mio abbigliamento. Avevo qualcosa di adatto per incontrare il presidente? Senza dubbio qualche mio ritratto in jeans stracciati e camicia di flanella sarebbe apparso nei libri delle scuole elementari in futuro. Pensai ai contratti editoriali, alle apparizioni televisive, alle interviste. Di che cosa avrei parlato? Tutto ciò che conoscevo era la chimica. «A un certo punto mi addormentai sulla poltrona, e fece un sogno straordinario. «Non avevo quella sensazione di confusione spirituale che di solito accompagna i miei sogni. Tutto era chiaro, solido e definito, come se mi fossi semplicemente svegliato in un luogo diverso. Era l'ora dell'alba o del crepuscolo, ed ero circondato da una specie di deposito di rottami ingegnosamente organizzato, che si estendeva in ogni direzione fino all'infinito. E sembrava che il tutto si muovesse. Una scheggia di sole rosso spaccava l'orizzonte, inondando il brillante cielo notturno e gettando ombre lunghe e striscianti. Non appena i miei occhi si furono abituati alla luce, mi resi conto di trovarmi sopra a un gigantesco ingranaggio d'ottone che aveva cominciato a scorrere sotto i miei piedi. Si muoveva in modo irregolare, a balzi, producendo uno spaventoso stridore. L'aria puzzava di petrolio bruciato. «Cominciai a muovermi facendo attenzione, quasi strisciando, verso un punto lontano, in alto, che sembrava fermo. Saltai dal congegno a un pignone che era impalato su un fusto del diametro di tre tronchi. La sua estremità era nascosta da un gioiello elegantemente sfaccettato. «Il pignone mi gettò sull'estremità di un ripiano. Mi afferrai e mi tirai su. Il ripiano, all'altra estremità, era dentellato. Un centinaio di metri più avanti nella confusa luce rossa riuscii a distinguere un enorme meccanismo a forma di verme che ruotava in modo intermittente, e che era attaccato all'ingranaggio della rastrelliera a cui ero appeso. Il sole era fermo all'orizzonte. Mi trascinai fino a che non mi trovai precisamente di fronte al punto stabile che avevo visto dal basso. Feci una corsa, saltando tre metri di spazio nero e rotolai fino a fermarmi. «Mi trovavo in una specie di mesa di acciaio inossidabile, nel punto più alto di un paesaggio di rocchetti, scappamenti e armamenti, che risonavano macinando e frantumandosi gli uni contro gli altri. C'era qualcosa di terribilmente sbagliato. «Dopo un po' la logica del meccanismo mi divenne più chiara. C'erano raggruppamenti di componenti, e raggruppamenti di raggruppamenti, e co-
sì via fino alla quinta o la sesta potenza. A grande distanza, tra i gruppi collegati in modo meno immediato, sembrava che i congegni stessero girando in modo più regolare. Il disordine aumentava in prossimità della mia posizione. Il punto focale doveva essere nascosto da qualche parte proprio sotto i miei piedi. Considerai la situazione ancora per qualche minuto, poi mi abbassai dalla sporgenza in cui mi trovavo e mi immersi nel caos. «Mi feci strada tra una molla e dei volani bloccati, fino a un punto in cui si stava alzando del fumo nero e in cui lo stridore era continuo. Riuscii solo a riconoscere la testa di un meccanismo che premeva su un fusto di benzina stretto tra due congegni. «Non ricordo molto bene i cinque minuti successivi, tranne il rumore dei macchinari che si facevano in pezzi, e le ombre che si spostavano e le nuvole di scintille che volavano ogni volta che i congegni si frantumavano contro un'elica. Strisciai dentro il meccanismo, non so esattamente perché, ma sembrava molto importante che io lo facessi. Mi attaccai a qualcosa e tirai il meccanismo di avvitamento fino a che non saltò e andò a cadere rumorosamente su un piano di cromo levigato. «Mi alzai, respirando profondamente. Il clamore si smorzò, diventando più ritmico e tonale. Dopo qualche minuto fui in grado di distinguere delle note, poi delle melodie, e infine la risposta antifonale di parti del meccanismo più lontane. Man mano che mi arrampicavo verso la mesa, la musica si faceva sempre più sincronizzata, risonante e interconnessa finché non si trasformò in qualcosa che potevo quasi toccare e gustare. «Mi trovavo su una sporgenza, con la testa buttata all'indietro, divorato dalla musica, mentre il sole, all'inizio in modo esitante, poi più sicuro, cominciava ad alzarsi. «Chiusi gli occhi e quando li riaprii ero di nuovo nella mia stanza. Vidi Martin che era seduto vicino a me con il muso allungato. Qualcosa nella sua posizione esprimeva orgoglio e piacere.» «Smise di piovere poco dopo il tramonto, e Martin e io andammo a fare una passeggiata lungo un viottolo delimitato da alberi gocciolanti. Una specie di fruscio si diffondeva attraverso l'erica man mano che procedevamo. Ma per il resto il mondo era assolutamente perfetto. Martin si muoveva in fretta. Io ansimavo un po' per stargli dietro. «Dopo un'ora o poco più, i campi che erano dalla parte opposta alla nostra cominciarono a diventare traslucidi. L'effetto mi sembrò assolutamente naturale, e me ne accorsi solo per caso. Avevo la sensazione che le stelle
scorressero sopra di noi. «Ci inerpicammo su una collina, e Martin era sempre più eccitato. Riuscii a distinguere sulla cima solo la sagoma scura di una grande casa angolare. «Un sentiero di ciottoli conduceva all'entrata principale della casa. Martin avanzò ansiosamente. Io mi fermai bruscamente davanti alla porta d'ingresso, perché non desideravo spaventare gli inquilini. Mi accorsi che ciascuno dei ciottoli del sentiero aveva una figura scolpita sopra. Avevo il block notes nella tasca posteriore; lo presi e velocemente le ricopiai. Quando alzai gli occhi vidi che Martin stava bussando alla porta principale con il muso. «Il vento sui campi arati si era fatto pungente. Mi accorsi con la coda dell'occhio che le stelle avevano rallentato e si erano fermate in una configurazione sconosciuta. Spostai il peso del corpo da un piede all'altro. Martin sembrava molto sicuro di sé. Bussò un'altra volta. «Dopo che ebbe bussato per la seconda volta la porta si aprì pesantemente verso l'interno. L'ingresso era molto buio, e completamente vuoto, c'era solo una lunga parete vuota e uno strana pavimentazione di tavole storte. Ma ciò che catturò la mia attenzione fu la figura che vidi sulla porta. Era una forma tarchiata alta circa un metro, avvolta in un abbondante mantello. Il mantello nascondeva del tutto le sue fattezze, ma riuscii a distinguere all'altezza del pavimento una sporgenza arrotondata, simile alla testa di uno scarafaggio. La forma si sollevò leggermente, e il mantello scivolò via. «Era una notte molto buia. Anche la luce delle stelle era fioca, quasi rossa, come se le stelle fossero terribilmente invecchiate. Ma riuscii comunque a vedere la faccia della creatura abbastanza chiaramente. Era un cerchio formato da sei occhi senza palpebre, circondato da una massa di tentacoli fluttuanti, con al centro un buco nero scintillante. «Per un attimo rimasi paralizzato nel vano della porta. Poi... mi girai e corsi via. Ricordo che la notte era spaventosamente tranquilla. Gli unici suoni erano costituiti dai miei passi che risonavano sui ciottoli incisi di fronte alla casa e lo rumore delle gocce che cadevano dagli alberi. Dopo qualche metro inciampai in una radice e caddi pesantemente. Mi rimisi in piedi e ripresi a correre. «Non rallentai finché non vidi le luci del villaggio. Mi appoggiai contro un albero e presi fiato finché i polmoni smisero di bruciare. Alla fine mi venne in mente di cercare Martin. Era ai miei piedi, tremante.»
«Quella notte non riuscii a dormire. Camminai avanti e indietro per la camera ripetendo mentalmente la scena che avevo visto davanti alla porta. Cercavo di ricordare altri dettagli. Non potevo esserne certo, la casa era talmente scura, e mi ero molto spaventato alla vista di quella figura aliena, ma mi sembrava di ricordare che alla fine del corridoio si affollavano delle altre creature nere. Il mattino successivo, non appena si alzò il sole, misi Martin nello zaino e uscii a cercare la casa. Alla luce del giorno le strade avevano un aspetto diverso, e non ero del tutto sicuro del percorso che avevo seguito. Devo avere attraversato la campagna una dozzina di volte. Uscii di nuovo la notte successiva, con Martin che camminava al mio fianco, e ancora la notte successiva. «Non la trovai. «Una mattina molto presto - eravamo rimasti fuori per tutta la notte sulla via del ritorno fummo costretti ad attraversare lo spazio erboso del villaggio per tornare a casa. Permisi a Martin di giocare per un po' sul prato. Sembrava che si divertisse. Si rotolava tra l'erba, ci si strofinava con il muso, ne mangiava un po'. Riuscivo a capire dov'era passato dalla vaga impronta esagonale che lasciava dietro di sé. «Stava annusando un'insegna postale, quando un anziano signore con degli splendidi baffi bianchi sbucò dall'ombra proprio davanti a noi. «Feci un debole sorriso e dissi buona sera, non sapevo davvero che altro fare. «Il vecchio avanzò lentamente poi si fermò a guardarci. Ebbi il sospetto che la sua vista non fosse più quella d'un tempo. «"Lei ha un'animale molto bello" disse. Tendeva a parlare con un tono di voce un po' alto. «Lo ringraziai. «"Ah, cos'è esattamente?" «Ci pensai un po'. "È un jabberwock?" Pensai che fosse una specie di gioco di parole mal riuscito. «"Una specie di terrier, allora?" «"Esattamente." «Lui annuì come uno che sa il fatto suo. "È di una specie americana?" «"Esatto." «"Un bell'esemplare. Bene, veda di tenerlo a freno, signore." E detto questo se ne andò per la sua strada.
«Stavo quasi per rimanerci secco.» «Ne avevo abbastanza. Il giorno dopo dissi addio alla padrona della pensione e presi un treno per Londra. Salii sul primo volo diretto a casa, e ti chiamai dall'aeroporto.» Sospirò. «Ed eccomi qui.» La voce di Roger si era affievolita quasi fino a spegnersi. Sembrava disperatamente stanco. Ma non potevo permettergli di smettere di raccontare. «Vai avanti» dissi. «È tutto.» Scossi la testa. «E che ne è stato di Martin?» «Martin è nel mio zaino.» Cercai di dire qualcosa, ma non ci riuscii. Guardai lo zaino. «È lì?» «Certo. Non avrai pensato che l'avessi abbandonato? Ero un po' preoccupato per gli agenti della dogana, ma non hanno ispezionato il mio bagaglio, così non ci sono stati problemi. Vuoi vederlo?» Passò un camion, facendo rotolare una mezza dozzina di attrezzi mentre girava l'angolo. «Adesso?» domandai. «C'è un po' troppa luce qui...» Roger aspettò che spegnessi le luci, poi aprì lo scomparto più basso dello zaino e cercò all'interno. Sentii un odore pungente, piuttosto gradevole, con qualche traccia di cannella e una sfumatura di terriccio che non riuscii a identificare. Tirò fuori qualcosa di allungato e di un colore nero iridescente e lo appoggiò sul pavimento. Si mosse verso di me facendo un suono simile al fruscio della seta. Feci un involontario passo indietro. «Gesù, Roger... che cos'è?» «È uno strumento, simile a quello che aveva trovato il mio antenato. Solo che questo è organico. L'oggetto della miniera doveva durare per milioni di anni, dunque era stato costruito con un materiale che potesse servire a questo scopo. Ma la ceramica non potrebbe mai svolgere i compiti che svolge Martin.» La creatura, non c'erano dubbi sul fatto che fosse viva, si fece più vicina. Non appena la mia vista si adattò all'oscurità, vidi la curiosa protuberanza a cui Roger si era riferito come a un muso. Si era srotolato fino a coprire una misura di venti centimetri o poco più e stava succhiando una delle mie
scarpe. Stavo quasi per perdere l'equilibrio nel tentativo di togliermi di mezzo. Ma Roger mi fermò. «Credimi, non c'è nulla di cui avere paura.» Tirai un respiro profondo. «Va bene, ma che cos'è? È qualcosa di simile a un... non può certamente essere cibo spaziale.» «No, naturalmente no. Martin non è una creatura aliena senziente. È una macchina. Enormemente specializzata. Il suo compito consiste nell'aiutarmi a contattare la sua gente.» Provai a sollevare una mano e permisi alla creatura di esplorarla con il muso. Il contatto fu leggermente elettrico. «L'informazione è stata immagazzinata in qualche modo nel suo materiale genetico. E lui è stato in grado di passarla al mio cervello direttamente, come se copiasse il file di un computer. Il suo lavoro consiste nello stabilire un protocollo comunicativo, poi di effettuare una complessa conversione di formato, traducendo i suoi dati nei nostri idiomi neurali. Mi piacerebbe sapere come fa.» Mi grattai la fronte. «Roger, un momento. Di che cosa stai parlando?» «Della casa scura, è di questo che sto parlando. Credo che nell'idioma di Martin fosse il suo pianeta di appartenenza. In qualche modo mi ha portato là. Non so se ci siamo spostati fisicamente o se si è trattato di qualcos'altro. Ma sono sicuro che la casa è esistita nei confini della città di Birwood solo quella notte.» Scossi la testa. «Ancora non riesco a capire. Mi sembra così complicato. Ma come mai non hanno lasciato semplicemente... non so, un trasmettitore o una nave spaziale o qualcosa del genere?» Roger sollevò Martin, e lo grattò delicatamente sul muso. «Ci ho pensato. Credo che fosse troppo rischioso. Non si vuol far sapere a chiunque dove ci si trova. Uno dei compiti di Martin deve essere stato quello di esaminarci, e credo fosse proprio questo il senso del sogno del meccanismo a orologeria. Siamo abbastanza intelligenti? Abbastanza indifesi? Credo di sì. Così lui ha cercato di portarmi a casa sua. «Ma ho avuto solo quell'unica occasione. Non siamo mai più tornati indietro, e non ho più fatto nessun sogno.» La sua voce aveva lo stesso suono di un vetro infranto. «Sembra tutto così... effimero» dissi. «Sei sicuro che la casa fosse reale?» Roger cercò in una tasca e tirò fuori una striscia di carta completamente coperta con segni a matita. La srotolò con molta attenzione.
«L'ho trovata nel mio taccuino la mattina successiva alla mia visita alla casa, sono le iscrizioni che c'erano sui ciottoli.» L'immagine mostrava un sorprendente disegno stilizzato: un anello composto da sei piccoli cerchi circondati da una corona che si irradiava in brevi linee serpeggianti. Un viso. Le mani mi tremarono un po'. «Che cosa hai intenzione di fare? Vuoi indire una conferenza stampa?» Roger scosse la testa. «Ti dispiacerebbe se per prima cosa andassi a dormire? Non puoi immaginare quanto sono stanco.» Il mattino successivo mi svegliai presto con il profumo di caffè appena fatto mescolato allo strano odore di cinnamomo. Chiamai Roger. Non ci fu risposta. Con le tende abbassate il soggiorno era piuttosto buio. Ma capii immediatamente che se n'era andato. Sul tavolo della colazione trovai un familiare libro di pelle con un messaggio ripiegato dentro la copertina. Presi il messaggio; per decifrarlo fui costretto prima ad aprire le tende. Rimasi impressionato di quanto la calligrafia fosse simile a quella dell'iscrizione del Capitano John Knowles sul frontespizio. Ma il tono era quello tipico di Roger: Mi dispiace di avere evitato di rispondere alla tua domanda ieri notte. No, non ho intenzione di indire una conferenza stampa. Sarai tu a farlo. Credo di averti lasciato sufficienti prove per convincere chiunque. Tu sarai capace di trattare con i giornalisti molto meglio di me. Io non sono un eroe. È una questione su cui ho avuto occasione di riflettere molto negli ultimi giorni. Soprattutto ho cercato di capire perché sono scappato via da quella casa scura sulla cima della collina. Ero terrorizzato, naturalmente; ma avrei potuto controllarmi. E più o meno razionalmente, ho capito che se avessi varcato quella soglia, non sarei mai più tornato indietro. Posso dire onestamente che questa era la cosa che mi spaventava di meno. Ma avevo fatto tutto talmente in segreto. Non ne avevo parlato con nessuno. Anche se allora avevo le mie ragioni per farlo. Ma se avessi accettato l'invito della creatura l'oggetto e Martin sarebbero scomparsi insieme a tutto il resto con me. Non potevo davvero permettere che questo accadesse, persino uno scienziato disoccupato ha delle responsabilità professionali. E poi, a dire il vero, c'erano anche delle altre ragioni. Volevo che la gente sapesse chi ero e che cosa avevo fatto. Tu glielo dirai, non è vero?
Ti chiedo ancora un favore. Mi servono due mesi. È per questo che sono tornato indietro invece di andare al mio appuntamento a Cambridge. Avevo bisogno di parlare con qualcuno di cui potessi fidarmi. Mentre leggi questa mia lettera, io sono in viaggio per l'Inghilterra. Ho già comprato le sostanze chimiche di cui ho bisogno. L'oggetto è intatto; posso creare un altro Martin, e trovare di nuovo la casa. Questa volta non fuggirò. Il glifo di Roger era apposto in fondo. Poggiai il messaggio e chiusi le tende. Il muso di Martin, da sotto il tavolo si arricciò in modo inquisitivo verso di me. Sembrava molto affamato. Titolo originale: The Emissary Analog Science Fiction/Science Fact, November 1988 OLTRE IL MURO di W. T. Quick Le nuove tecnologie producono spesso nuovi inconvenienti e alcuni sono molto più insidiosi di quanto si possa sospettare Si gelava. Una folata di vento mi colpì sibilando, appena misi il piede fuori dall'entrata di servizio dell'hotel, facendomi volar via il cappello. Certo che a pensarci bene avrebbero potuto progettare in modo migliore quegli edifici giganteschi, avrebbero potuto cercare di controllare meglio le correnti artificiali che producono, ma naturalmente non l'hanno fatto. Riuscii ad afferrarlo prima che andasse a finire a metà dell'isolato, e feci bene; quella mattina mi ero appena rasato, e la pelle nuda mi si sarebbe congelata a quell'ora della notte. Me lo calcai in testa e uscii dal caseggiato dirigendomi verso la stazione monolev. La strada era quasi completamente deserta, c'era solo una coppia di tremanti derelitti pigiati contro una grata del riscaldamento pubblico, avvolti in strati di stracci, che si sfregavano le mani ed emettevano nuvolette di vapore argenteo. C'era un gran silenzio, come succede in centro, quando il freddo si stringe intorno pesante, quasi a mettere in sordina su
ogni cosa. Sentivo il fiato cristallizzarsi sulle sopracciglia, e mi augurai che nella stazione funzionasse il riscaldamento. Quando si era rotto, l'inverno prima, la Manutenzione della Metropolitana di Chicago ci aveva messo un mese prima di rimetterlo a posto. La morsa del freddo tende a incasinare tutto. I due barboni non sollevarono la testa quando li oltrepassai, nemmeno per chiedere l'elemosina, nonostante avessi l'aspetto del classico pollo. Come minimo avevo un cappotto nuovo, e dovevano avermi visto uscire dall'hotel, il che significava che avevo un lavoro. E se mi avessero guardato più da vicino, probabilmente avrebbero riconosciuto il lucente attacco dell'impianto sotto il mio orecchio sinistro, ma non lo fecero. Se l'avessero visto, nemmeno il freddo li avrebbe trattenuti. Lo sapevo, perché anch'io avevo fatto quel viaggio. Janna aveva detto che mi avrebbe aspettato nell'appartamento. Speravo che se ne ricordasse, ma con Janna non si poteva mai dire; se era incazzata con me, poteva essere andata ovunque. In qualsiasi posto in cui potesse attaccare la spina. La stazione era deserta, con quella dura, grigia atmosfera delle due del mattino, con la luce che ti fa sentire gli occhi pieni di polvere. Qualche volta me ne accorgo di più quando sono stanco, o depresso, ma in quel caso stavo solo aspettando il treno, senza preoccuparmi di niente in particolare, e mi domandavo se fosse rimasto nel frigorifero abbastanza da mettere insieme uno spuntino notturno. «Ehi...» Mi guardai intorno senza riuscire a vedere nessuno. La voce che avevo sentito era bassa e titubante, come se chiunque avesse parlato non fosse certo di volerlo fare. Mi guardai intorno di nuovo, più lentamente stavolta, e mi accorsi di una forma indistinta accucciata nell'angolo più buio della sala d'attesa, sotto la scala mobile. «Hai detto qualcosa?» domandai alla figura. Allora si sollevò, rimase ferma per un attimo, poi fece qualche passo avanti nella luce, così mi resi conto che si trattava di un ragazzino di circa dieci anni, e, a giudicare dall'espressione dei suoi tratti spiritati, era terrorizzato. «Che succede? Hai qualche problema, piccolo?» Il ragazzino venne verso di me, improvvisando una corsetta che era allo stesso tempo un esitante saltellio. Diedi un'occhiata veloce in giro. Era abbastanza tardi, e abbastanza freddo persino per le gang, ma succedono cose
ancora più strane. Non vidi nessuno. Per quello che ne sapevo, eravamo soli. «Senti, devi aiutarmi.» «Certo.» Infilai la mano nella tasca del cappotto, cercando degli spiccioli. «Ti basta un dollaro?» «Non ho bisogno di soldi!» Mi fermai, e tirai fuori la mano dalla tasca. «Ah. Niente soldi? Senti, ragazzino, non mi faccio di droghe, e anche se...» Scosse la testa vigorosamente. I sottili capelli biondi si sollevarono formando delle piccole onde. «Devo tirarmi fuori di qui». La voce si ridusse a un sibilo e i suoi occhi blu scattarono in direzione della scala mobile. «Loro mi prenderanno. Mi stanno aspettando di sopra.» «Loro chi...?» Poi capii. Me ne ero dimenticato. Lo guardai di nuovo e notai il segno rosso di un livido sul suo zigomo destro. Alla luce sembrava quasi un'ombra, come se fosse truccato. Sospirai. «Hai dei problemi con una gang?» Cercavo di sembrare amichevole. Da quando me ne ero tirato fuori, avevo cercato di dimenticarmi che cosa significasse vivere per strada. Ma adesso vedevo un'immagine, come se fosse riflessa in uno specchio opaco e vecchio; e quell'immagine era lì davanti a me. «Che cosa è successo? Hai preso qualcosa? Hai dei guai con i tuoi?» Le mie parole lo spaventarono. Si allontanò da me di qualche passo, con gli occhi sbarrati. «Tu sei dei loro!» gridò e piegò la spalla sinistra, cominciando a girarsi. Ma io fui più veloce. Afferrai il suo braccio destro prima che potesse scappare. Lui si girò, ringhiando e tentando di graffiarmi con la mano libera. «Ehi, no. Oh, lascia!» nonostante fosse piccolo era un demonio. Sentii un bruciore improvviso sulla guancia e gli tirai uno schiaffone sull'orecchio. Stordito, rimase immobile per un momento, poi improvvisamente cominciò a tremare. Mi resi conto che stava piangendo. «Va tutto bene. Senti, mi dispiace. No, senti... Io non sono un gangster. Lo ero, ma molto tempo fa. Mi stai ascoltando? Non faccio parte di nessuna gang, non più, da moltissimo tempo.» Smise di lottare e mi guardò. «Sì? È vero?» «Sicuro.» Si asciugò il viso con la manica. Poi abbassò lo sguardo sul pavimento. «Forse, uhm, allora, sono stato fortunato. Almeno sai di che cosa parlo.»
Annuii. «Probabilmente.» Mi domandai quanto sarebbe durata questa storia, e se Janna si sarebbe incazzata perché ero in ritardo, e se mai Janna sarebbe stata ancora lì ad accorgersi che ero in ritardo, e perché non mi ero trasferito a Miami due anni prima come avevo programmato. Almeno a Miami fa caldo. «Ti va di parlarmene?» Fece una smorfia incerta. «Se mi lasci andare il braccio.» Lo feci, e lui mi raccontò. Qualche minuto dopo il treno entrò in stazione, noi saltammo a bordo, e il verme luminoso s'infilò nella galleria buia. Perché, vedi, forse sono sempre stato un po' matto... Ed era proprio di questo che si trattava, di pura follia. Mentre il monolev usciva dal sottosuolo e sfrecciava in direzione nord costeggiando il Dike, lanciai qualche occhiata furtiva al mio compagno di viaggio. Era pelle e ossa, con quel pallore smunto dato dalla mancanza di nutrimento, dalla paura, dalla mancanza di un tetto. Sulla mano sinistra, tatuato grossolanamente sulla carne, tra il pollice e l'indice, c'erano i criptici simboli blu scuro; riconobbi il logo dei Darkstone Ragers, e un altro che mi fece davvero rivoltare le budella. Era un marchio da schiavo. Il ragazzo era una proprietà della gang, come se fosse stato un pezzo di carne. Schiavitù? Nella cinta metropolitana? Certo. La madre del ragazzino (i loro padri sembra che non esistano mai) probabilmente l'aveva venduto per una cifra sufficiente a comprarsi un paio di grammi, forse quando aveva ancora sei o sette anni. Le bande preferiscono non comprarli più grandi, perché altrimenti sono troppo difficili da addestrare. Naturalmente è illegale, ma la legge non si dà molto da fare sulle strade. Intendo la polizia. I Darkstone Ragers e gli altri dettano la propria legge, e se vogliono comprare dei ragazzini per fargli fare delle commissioni o per usarli come spacciatori o tutta una serie di altre cose anche peggiori, chi vuoi che li fermi? Di sicuro non i poliziotti. I Ragers possiedono intere caserme. Così mi ritrovavo, in effetti, ad avere rubato una proprietà dei Darkstone Ragers, il gruppo peggiore della zona a nord del Loop. Mi domandai che cosa ne avrebbe detto Janna. No, non me lo domandavo. Lo sapevo già. Improvvisamente sperai che fosse uscita per andare da qualche parte. Non sapevo come spiegarle la sensazione che mi aveva preso, quando avevo visto quel ragazzino nello specchio del mio stesso passato tortuoso. Qualcuno una volta mi aveva aiutato. E chi avrebbe aiutato lui adesso? Mi resi conto che l'avrei fatto io.
Mi manca una rotella. Come dicevo. Si chiamava Scully. E nient'altro. Rimase adeguatamente impressionato dalla mia tana, un ampio monolocale in uno dei pochi edifici all'asciutto della zona nord, le cui finestre si affacciano dal terzo piano o sull'Alto Dike e sul lago. «Eccoci» dissi. «A casa.» Janna non c'era, anche se come al solito era facile riconoscere le sue tracce; un piatto con qualcosa di scuro lasciato a metà a seccarsi sul tavolinetto, la lavastoviglie aperta e piena di piatti sporchi, un paio di pantacalze che penzolavano dal bordo del letto a muro. Scully diede un'occhiata in giro. «Hai una compagna di stanza?» Feci cenno di sì. Riconobbe i panta elasticizzati per quello che erano. «È una tipa sciatta, eh?» «Puoi dirlo». Improvvisamente mi sentii irritato con lui. Chi era per permettersi di criticare i miei gusti in fatto di compagnia? L'avevo raccattato, o no? Questo mi fece venire in mente qualcos'altro. «Ascolta, Scully, devi metterti in testa un paio di cosette, va bene? Lei si chiama Janna, e questa è casa sua quanto mia. Tu sei un ospite. Capito ospite?» Scrollò le spalle. «Uhm uhm.» «La prima regola è: gli ospiti non rubano. Pensaci, quando ti prende la fregola di sapere quanto potresti farti su con il mio computer. O con il mio CD o con qualsiasi altra cosa. Sentimi bene, tu hai avuto una possibilità. Ma appena qualcosa scompare misteriosamente, sarà meglio che scompaia anche tu. E l'unico posto in cui puoi andare è dove ti ho trovato.» Fece il broncio. «Non ho intenzione di rubare le tue stronzate.» Sogghignai. «Cerca di ricordartene. Io non sono affatto uno scemo, ragazzino. Se succede, forse un giorno o l'altro potrei ritrovarti da qualche parte. Così fa in modo che le cose filino lisce, va bene?» Annuì ancora una volta. Sapevo che era l'unica cosa che avrei ottenuto, così lasciai cadere l'argomento. Andai verso il grande armadio a muro, presi delle coperte e le tirai in un punto sotto il finestrone. «Ti accampi qui, d'accordo? Dovrebbe andarti bene, no?» A giudicare dal suo aspetto, qualsiasi cosa avesse a che vedere con coperte e un tetto sulla testa andava molto più che bene. Per la prima volta da quando l'avevo incontrato, si concesse un breve sorriso.
«È perfetto, Jack.» Rimase zitto un attimo. «È così che ti chiami, Jack, giusto? Non mi hai dato un nome falso?» Ricambiai il sorriso. «Mi chiamo Jack, Scully. Jack Berg. Come c'è scritto nel mio terminal. Adesso cerca di dormire un po'.» Lo guardai mentre si preparava la cuccia sul pavimento. Dopo un po' dissi. «Buona notte, Scully» poi spensi la luce. «Notte.» Rimasi al buio. Dopo poco disse: «Ehi, Jack...» «Sì.» «Grazie.» «Di niente. Dormi.» Poco dopo sentii il leggero e costante ritmo del respiro. Almeno non russava. Di niente, eh? Se solo... «Janna, dannazione, se solo tu mi lasciassi spiegare...» Era alta, più alta di me, sottile come un giunco e con un temperamento combattivo. Aveva i capelli rossi, e in quel momento erano rossi anche gli occhi. Per la rabbia, suppongo. Stava emettendo dei piccoli sibili mentre lanciava i vestiti appallottolati dentro una borsa di lana. «È solo per un pochino, fino a che io...» Si fermò, si drizzò e mi guardò di traverso. Nello spazio relativamente piccolo del mio monolocale, il suo sguardo feroce riecheggiava. «Senti, Berg, non voglio saperne più nulla dei tuoi progetti di impegno sociale. La cosa che fa traboccare il vaso è che ci troviamo a essere in tre in questo lercio letamaio, e che tu non me lo hai domandato. Dolcezza, io amo la mia fottuta privacy!» Adesso stavo cominciando a friggere, ed ero quasi a mezza cottura. «Eh? Questo sarebbe uno sporco letamaio? Un tempo sembrava che ti andasse bene. Quando eri tu (com'è che l'hai definito?) il mio ultimo progetto di impegno sociale.» Non si degnò neppure di lanciarmi un altro sguardo rabbioso, ma si girò e ricominciò ad appallottolare un paio di jeans. Bene, che andasse al diavolo. In ogni modo non era affatto una relazione perfetta. Non più, da quando Janna si era accorta che facevo i chip, e infatti ero, come lei mi aveva definito "il misterioso Signor Bee". Be', sì, infatti. Ci sarebbe mancato altro che firmassi il lavoro con il mio vero nome.
È arrivato il momento di dare qualche breve spiegazione. Sotto il mio orecchio destro c'era un impianto ciber-neurale. Un impianto. Anche Janna ne aveva uno, anche se non ho mai indagato su quali fossero le sue fonti. Gli impianti costano una discreta somma di denaro. Il mio l'ho avuto tramite l'hotel, dopo avere fatto due anni di tirocinio come apprendista barman. Quando lavoravo, i chip inseriti nell'impianto mi regalavano, in realtà, memorie artificiali. Ero in grado di capire, ma non di parlare, più di un centinaio tra lingue e dialetti. E potevo preparare quasi diecimila cocktail. Sei arrivato adesso dal Botswana e vuoi bere qualcosa di familiare? Non c'è problema, fratello. Ti preparo immediatamente un latte di capra ghiacciato con bourbon. Capita che nel Botswana importino un sacco di bourbon, e capita che i chip del mio hotel lo sappiano. Sono una merda di barista senza il mio impianto, credetemi, ma con quello sono un fottuto genio. Lo stesso principio è valido a un sacco di altre aree, e le persone che hanno un impianto sono assolutamente su un gradino sociale infinitamente più elevato rispetto a quei poveri bastardi a reddito zero, che io chiamavo il Viaggio prima di venirne fuori. «Bene» disse. «Sono pronta.» Si mise la sacca da viaggio sulle spalle. «Ci siamo divertiti molto» aggiunse. Forse, un tempo, era stato così. Ma non adesso. «Io, ehm, Janna...» I suoi occhi si addolcirono un pochino. «Senti, Jack, non cercare di spiegare. Non voglio che tu sia costretto a fare una scelta. Non sono stata io a portare qui questo straccioncello e non me ne importa nulla di nessuna delle profonde ragioni psicologiche che credi di avere come motivazione per ciò che stai facendo. Comunque...» Scrollò le spalle leggermente, cosa non facile con la sacca da viaggio. «Se non fosse stato per lui, sarebbe successo per qualcos'altro. Lo sappiamo tutti e due.» Proprio in quel momento capii che aveva ragione, ma con la perversione che si produce alla fine di ogni rapporto, improvvisamente desiderai che rimanesse, e che tutto ritornasse come era stato un tempo. Forse anche lei provò la stessa sensazione, almeno un po', incurvò arricciò le labbra e disse: «Su, diamoci un bacio. In onore dei vecchi tempi, prima che me ne vada. O mi metta a piangere». Così lo feci io e lo fece lei, e dopo, lo feci ancora. Erano anni che non piangevo, da quando era morta mia madre. E Scully era ancora lì.
Il treno monolev fece una fermata poco a nord dell'Evanstone, e noi aspettammo mentre i poliziotti locali salivano a bordo per controllare i nostri permessi d'entrata. Il mio era un permesso da studente a lungo termine, tutto stropicciato dagli anni di utilizzo. Scully era seduto sul sedile accanto al mio, e stringeva convulsamente il suo giornaliero provvisorio, tenendo lo sguardo fisso fuori dal finestrino sul paesaggio scintillante. Il suo naso lasciava delle piccole macchie unte sul finestrino. Senza alcun dubbio era la prima volta che usciva da Chicago. «Che cosa stanno facendo?» mi domandò a disagio, mentre il paio di gorilla di Evanstone avanzavano nella carrozza. «Controllano i nostri permessi. Tutto qui, non c'è niente di cui preoccuparsi. Tu tieni la bocca chiusa, in ogni caso. Lascia parlare me.» Annuì. Era un ragazzino di strada e probabilmente sapeva come comportarsi con quei poliziotti di periferia anche da solo, ma adesso era fuori dal suo territorio e spaventato. Anche in mia compagnia. «Stai calmo» sussurrai mentre si avvicinavano. I poliziotti raggiunsero i nostri sedili. Quello più vicino sollevò una mano guantata di nero, con la faccia impassibile dietro la mascherina trasparente. Gli diedi il mio pass. Scully presentò il proprio e il poliziotto prese anche quello. Lesse i due permessi, poi mi guardò. «Sei uno studente?» «Uh-uh. Della Northwestern.» «Uno studente universitario, eh? E chi è questo con te?» «Un amico» dissi. Scully sembrava a posto. Gli avevo comprato qualche vestito nuovo, be', qualche vestito semi-nuovo, in un grande magazzino, gli avevo fatto tagliare i capelli e lo costringevo a fare la doccia tutti i giorni. Il livido era scomparso dopo poco più di una settimana, e il risultato finale era quasi decente. «Un amico?» «Sì, viene a fare un giro al campus con me. Gli faccio dare un'occhiata in giro.» «Anche lui vuole diventare uno studente?» C'era una leggera piega di cattiveria nella voce del poliziotto. Non mi piaceva, ma non potevo farci niente. Ai poliziotti di periferia noi gente di città non piacciamo molto e per come vanno le cose, hanno le loro buone ragioni. Il Muro intorno a Chicago non è stato costruito per divertirsi. Senza di esso, probabilmente
non ci sarebbe più nessuna periferia. Ma comunque stiano le cose, non dovrebbero essere così dannatamente duri su tutto. «No, signore. Viene solo in visita, proprio come dice il permesso.» Un piccolo 'signore' non fa mai male. E non rende più difficile dargli una coltellata più avanti. Evidentemente anche Scully lo sapeva, perché se ne rimase seduto, a sbattere gli occhioni azzurri cercando di sembrare innocente. Il poliziotto diede un'ultima occhiata ai nostri permessi e poi ce li restituì. «Bene. Voi, ehm, ragazzi, state attenti, adesso. Cercate di non infrangere nessuna legge. Questa non è più Chicago.» Come se Chicago fosse una specie di palude piena di mostri. Be', non è del tutto falso. «Sissignore» dissi. Mancavano circa altri dieci minuti alla nostra fermata. Diedi un colpetto sulla spalla di Scully. «Lo vedi quel segno? Che cosa significa?» Era un grande spinello rosso, a forma di segnale di stop, ma le parole scritte sopra dicevano, "Dì di no". Piuttosto stantio. Nessuno diceva di no da trent'anni, altrimenti gente come i Ragers si sarebbero ridotti in miseria da molto tempo. Scully socchiuse gli occhi. «Stop» fece alla fine «Dice, stop». Sospirai. Era proprio come pensavo. «Tu lo sai perché ti sto trascinando qui?» Scosse la testa. «Perché stai per andare a scuola.» La sua faccia scarna assunse esattamente l'espressione che mi aspettavo. «Non fare quella faccia. Credi che io paghi il mio appartamento perché non so leggere?» «Io so leggere» rispose indignato. Gli dissi che cosa c'era scritto sul cartello. «Tu sai cos'è un analfabeta?» «Mi hai imbrogliato.» «Perché sono più intelligente di te. Ed è così perché sono capace di leggere. E adesso stai zitto.» Sarebbe stata più dura di quanto pensassi. E non mi ero affatto aspettato che fosse facile. Siccome era successo anche a me, me ne accorsi subito, forse anche prima di lui.
«Come vanno i compiti?» gli domandai. Era rannicchiato vicino al finestrone, e faticosamente tracciava delle lettere su un quaderno per appunti. Fuori, cadeva qualche fiocco di neve grigio sporco. Riuscivo a distinguere un mucchio di fogli di carta portati dal vento accatastati contro l'unico albero rachitico che c'era di fronte al nostro edificio. Alzò gli occhi. «Odio questa merda». «Uh-uh. Però continuerai a farli, vero?» «Mi hanno messo in una classe di bambini. Dei fottuti mocciosi. Mi trattano come se avessi la peste o qualcosa del genere.» Sospirai mentre mi accovacciavo vicino a lui. «Per forza. Credono che tu sia una specie di animale. È quello che gli raccontano a casa loro. Scully, lo sai come ha fatto Chicago a diventare così?» «Lo è sempre stata» disse lentamente. «No, non sempre. È stato qualcosa che si chiama economia sociale. Ascolta. Vedi, molto tempo fa il governo smise di cercare di aiutare la gente. O almeno cominciò a fare molto meno di quello che faceva prima. Ma la gente non se ne andò, quella che aveva bisogno di aiuto. Rimasero esattamente dov'erano, nelle città. Così le città provarono a fare quello che faceva prima il governo, e per un po' riuscirono a far funzionare le cose. Più avanti, però, arrivarono nelle città persone povere in numero sempre maggiore, perché era l'unico posto in cui potevano ricevere del denaro. Ma i cittadini non riuscirono più a trovare il denaro da nessuna parte. Dovettero tirarlo fuori con delle tasse. Mi segui?» Era già andato oltre. «Ma è assurdo. So che cosa sono le tasse. Ma i poveri non ne pagano nessuna.» «Hai capito perfettamente. Alla fine, le città semplicemente smisero. Fine dei pagamenti per la scuola o per l'assistenza sanitaria, alloggi e cose di questo tipo. Erano rovinati. E a quel punto le città caddero a pezzi. Fu allora che vennero costruite cose come il Muro di Evanston.» Annuì assennatamente. «Scommetto che la gente decise di prendersi ciò di cui aveva bisogno». «Fu piuttosto violento per un po'. Alla fine, le città cominciarono a riprendersi, alcune. La maggior parte come centri d'affari e simili. Potevano tassare gli affari, e ciò aiutava. E questo è il punto in cui ci troviamo adesso.» Guardò fuori dalla finestra, seguendo con occhi assenti la neve che cadeva, mentre ci rifletteva.
«Ma che c'entra con il fatto che io sappia leggere?» Feci schioccare la lingua. «Ancora non l'hai capito, eh? È fuori di qui, dall'altra parte del muro. E lì che vuoi stare. Ed è lì che voglio... maledizione, dove andrò, un giorno molto vicino. Dove ci sono i soldi. E dove le gang, e la merda, e..» Gli afferrai la mano, e lo costrinsi a guardare il marchio di schiavitù. «E cose come questo non esistono». «Ehi, mi stai facendo male.» Lo lasciai andare, pieno di vergogna. Qualsiasi cosa fosse quella di cui Scully aveva bisogno, non era di sicuro un altro che gli facesse del male. Non quello. «Mi dispiace» dissi. Ci fu un minuto di penoso silenzio. «Ascolta, Scully, so come ti senti. Ti trattano come se tu fossi immondizia. E non ti costringerò ad andarci, se non vuoi. È una tua scelta, amico. Fino in fondo. Ma se ti adagi nella situazione in cui sei, rimarrai solo uno dei tanti ragazzi di strada. Tu hai visto la differenza. Almeno, se deciderai così, saprai ciò che stai facendo. Sta a te. Alla fine dipenderà sul serio sempre da te. Hai capito?» Si fissò la mano, poi guardò di nuovo fuori dalla finestra. Mi sembrò che ci fosse molto caldo nella stanza, e mi alzai. Andai verso il divano, e mi sdraiai a guardare il soffitto. Dopo un po' Scully mi raggiunse. «Ehi, Jack.» «Che c'è?» «Vuoi aiutarmi? Abbiamo un compito domani.» Rimasi impassibile. «Certamente, Scully. Certamente.» Rincasai presto dal lavoro, verso le dieci. Fuori c'era più freddo del cuore di una guardia carceraria, ed era più buio dei peccati di un politico. La notte portava la promessa della neve. Lanciai uno sguardo incuriosito alla grande limousine Yugo blindata che era parcheggiata di fronte al mio palazzo, ma non la guardai da vicino. C'era un autista dentro, che mi guardava da dietro il volante. Forse qualche boss giapponese teneva nascosta una prostituta nel palazzo, ed era venuto a farle visita. Quando aprii la porta del mio monolocale, mi resi conto dell'errore che avevo commesso. Per prima cosa notai Scully, seduto sul divano, con la faccia tirata e contratta, come la notte in cui l'avevo incontrato. Due giganti mettevano a dura prova il parquet vicino alla finestra. Avete mai visto i pupazzi di neve cittadini? Li costruisci grandi, ma dopo un po' si coprono
di fuliggine, cenere e qualsiasi cosa li faccia diventare grigi, e cominciano anche a sciogliersi, e alla fine si gelano. Quei due uomini sembravano proprio così, grandi, grigi e lucidi. Mi guardavano senza nessuna traccia di umanità sul viso. Vicino a Scully, con un enorme ghigno sul viso, c'era Billy Dee. Avrei dovuto immaginare che sarebbe successo. La città era la città, e nulla rimaneva segreto a lungo. Ma non c'era nulla che avrei potuto fare, così avevo cercato di scacciare l'idea dalla mente, sperando che le cose si aggiustassero. Stupido. «Ciao, Bill» dissi. «Come vanno gli affari?» Billy Dee era il vice-presidente dei Darkstone Ragers. Qualche volta, anche se di rado, avevamo combinato insieme un affare. «Iceberg» rispose lui, con un sorriso larghissimo e bianchissimo, come se all'improvviso si fosse accesa una luce. Poi si mise a ridere sommessamente, quasi che tutto sommato fosse felice di vedermi alla luce di quel sorriso. Aveva una voce profonda e sdolcinata, che sembrava quella di un commesso viaggiatore. E una bella risata. Si diceva che potesse ridere in quel modo mentre ti uccideva. «Cosa succede, Billy Dee?» «Non ho ricevuto molta mercanzia da te negli ultimi tempi, Iceberg. Anzi, piuttosto il contrario. Tu hai preso la mia mercanzia.» Si rimise a ridacchiare e sorrise in modo davvero luminoso. Qualcosa di molle, verde e cattivo cominciò a risalirmi la gola. «Ah, be', stai parlando di Scully?» E improvvisamente il sorriso e la risata si spensero. «Sto parlando della mia mercanzia, amico. Sto parlando del mio schiavo.» Le sue dita tozze serrarono il braccio di Scully come cavi d'attracco e Scully rimase senza fiato. «Ehi, aspetta un momento» dissi. I due mostri si alterarono un pochino e io feci molta attenzione a non muovermi troppo. «Non possiamo parlarne?» Billy Dee me lo concesse. «Di che cosa vuoi parlare, amico? Tu mi hai derubato. Ti piacerebbe che venissi qui, e mi prendessi questo schifoso divano? O il computer che c'è lì? Che cosa ne penseresti, Iceberg?» «Non mi piacerebbe, Billy Dee.» «Bene, allora non c'è molto da discutere, no?» La cosa verde e cattiva era tornata giù nel mio stomaco. Mi domandai se
sarei riuscito a mettere le mani addosso a Bill prima che i suoi scagnozzi mi fermassero. Probabilmente no. Anche se ci dovevo provare. Tirai un respiro. Billy Dee mi guardava come se fosse in grado di leggermi il pensiero. E forse ci riusciva. Sghignazzò, lasciando l'azione in sospeso, e me insieme a essa. Poi: «Dieci mila dollari». «Cosa?» «Diecimila dollari.» Ripeté. «Se compri la mia mercanzia, non si tratta più di un furto, no?» Mi sentivo come se fossi tornato indietro da un lungo e profondo precipizio. «Billy Dee, dove vuoi che riesca a trovare tutti questi soldi?» Si alzò in piedi. La visita di cortesia stava per concludersi. «Non lo so, Iceberg. Non so nemmeno cosa pensi di farci con un pezzo d'immondizia come questo. Non ho mai sentito dire che te la fai con questa merda. Così forse si tratta di qualcosa d'altro. Ma se vuoi continuare il tuo gioco, il prezzo è diecimila. Non posso permettere che si sappia che qualcuno mi deruba.» Mi oltrepassò dirigendosi verso la porta. Chissà come, i suoi scagnozzi erano già al suo fianco. Uno di loro aprì la porta, diede un'occhiata in giro e uscì. Fece un segno. Poi uscì Billy Dee, e alla fine l'altro gorilla. Il vicepresidente dei Ragers si fermò un attimo. «A proposito, ti saluta Janna. Adesso sta con me. È davvero un esserino grazioso.» Lanciò un'occhiata a Scully. «Non mi sembra un grande affare.» Fece una pausa. «Lo sai, Berg, se tu fossi venuto subito da me, il prezzo sarebbe stato di duemila. In memoria dei vecchi tempi. Ma non l'hai fatto. Ed è per questo che adesso è di diecimila. Una volta facevamo dei buoni affari insieme. Ed è l'unica ragione per cui non ti faccio fare a pezzi subito. Ma si tratta d'affari, nulla di personale. Mi dispiace.» E detto questo se ne andò. Chiusi la porta scrupolosamente e diedi tre giri di chiavistello. Mi spostai vicino alla finestra e rimasi a guardare finché la limousine non se ne fu andata. Poi lasciai cadere la tenda. «Stai bene?» chiesi alla fine. La voce di Scully tremava proprio come le mie ginocchia. «Sì. Ma Cristo, Jack, che cosa hai intenzione di fare?» Scossi la testa. «Mi sto cagando sotto.» Due notti dopo, mentre tornavo a casa dal lavoro mi saltarono addosso.
Erano in tre. Ci misero del tempo e fecero un buon lavoro. Mentre mi trascinavo sulle scale del condominio, giudicai di avere almeno due costole rotte. Un occhio era già tumefatto per le botte e l'altro era ridotto a una fessura bluastra. Ma le mie mani erano a posto, ed erano stati molto attenti a non colpire la zona intorno alle orecchie. L'impianto non aveva subito danni. Questo mi fece capire che erano professionisti pagati per portarmi un messaggio. Billy Dee non era molto interessato ai diecimila dollari. Scully mi aiutò a fasciare il torace, tirando le bende quando gli chiesi di farlo. Aveva una strana espressione in volto. Mi sistemai in una posizione meno dolorosa nel letto ribaltabile e lo guardai. «Okay» dissi, «sputa il rospo». Si sedette sul bordo del letto. Gli occhi luccicavano appena nell'oscurità. «Potrei tornare indietro» disse «No, non potresti.» Guardò la mia faccia pesta. «Non riusciresti a fermarmi.» «Uh-uh. Ma non intendevo questo. Quello che è successo non ha nulla a che vedere con te. Non ti riguarda affatto, anzi.» «Che vuoi dire?» «Be', se Bill voleva soltanto te, avrebbe potuto prenderti quando è venuto qui. O propormi di rimandarti indietro. Ma non l'ha fatto. Credimi, è qualcos'altro che gli interessa.» «Non capisco.» «Vuole me, Scully.» Ci mise un po' a capire. «Se volesse farti fuori, non lo fermerebbe nulla. Ma allora, ah...» Poi gli venne in mente «Che tipo di affari facevi con lui, Jack?» «L'hai capito finalmente» dissi. «Sai che cos'è il daze?» Era un ragazzo di strada. «Certo che lo so. I chip del sogno. La gente come te, che ha l'impianto, li paga cari. Lo inserisci e decolli. Una merda per persone ricche.» Andò avanti ancora un po', tanto per dimostrarmi quanto ne sapeva. «Il tipo migliore si chiama Purple Bees, api rosse. Per via del suo colore. Comunque, non se ne trovano molti in giro.» Annuii lentamente. «Esatto. È un bel pezzo che non ne faccio, ormai». «Oh» si limitò a dire. Solo «Oh». Poi aggiunse: «Forse posso ucciderlo». Improvvisamente mi sentii così triste, per tutte le cose che avevo fatto, e per tutte le cose che avrei voluto fare. E forse, anche per tutto il mondo. Pensai alla piccola riserva segreta che avevo messo insieme dai giorni, con
i quali credevo di non aver più a che fare da molto tempo. Mancava solo qualche mese al mio diploma. Potevo spostarmi, andare a stare a Evanston. Mi avrebbero tenuto come precario, e una volta laureato avrei avuto il permesso permanente. Potevo fare così. Ma Scully non poteva, e quello che avevo messo da parte non bastava per tutti e due. Scully fraintese il mio silenzio. Abbassò la voce, e continuò più lentamente, ma calmo e determinato. «Non si preoccuperebbe mai di me. Forse posso riuscire ad arrivargli abbastanza vicino. Ho un coltello.» Forse in quel momento eravamo tutti e due un po' persi. Non so. Forse. «No» dissi. «C'è un'altra possibilità.» Mi tolsi qualcosa dall'occhio. «È questo il problema. C'è sempre un altro modo per scuoiare lo stesso vecchio gatto». Mandò Janna a prendere le sue cose. Per infastidirmi, credo. Lei entrò nella stanza e si guardò intorno. Il suo sguardo scivolò su Scully come se fosse stato carta igienica usata. «Sempre lo stesso vecchio Iceberg. Hai la roba?» Indicai il pacco accuratamente imballato sul tavolo. «Tu hai portato i soldi?» Lei s'avvicinò al tavolo e prese il pacco. Lo aprì, fece un taglio in uno dei due piccoli involucri di gomma e prese uno scintillante chip viola. Poi lo inserì nel suo impianto con un gesto sicuro e preciso. Io la stetti a guardare mentre il suo viso si rilassava e si faceva sognante. Dopo un po' mi alzai, mi avvicinai e le estrassi io stesso il chip. Era il tipo migliore che avessi mai fatto, ed ero sempre stato il più bravo a farli. Lei sarebbe rimasta lì per tutto il giorno, in stato di trance. Rimisi a posto il chip e riavvolsi il pacco. «Hai i soldi?» le domandai di nuovo. Senza dire una parola infilò una mano nella tasca della corta pelliccia e mi passò un sacchettino. «Oro» disse «Come hai chiesto.» «Grazie.» Adesso mi sembrava distante. Forse sembrava distante anche a se stessa. Lentamente si girò verso la porta. Perfetto. Andavamo nella stessa direzione, cioè lontani l'uno dall'altra. Si fermò con la mano sul pomello della porta. «Sai, Jack, sei proprio una testa di cazzo.» «Perché?»
«Sei ancora il migliore. Nessuno ha mai preparato del daze come questo che mi sono appena fatta. Potresti diventare immediatamente ricco. Ma invece...» Diede un'occhiata intorno per il monolocale, poi guardò Scully, e infine me. Non aveva bisogno di chiarire che cosa intendeva con "invece". «Mi sarebbe toccato entrare in affari con Billy Dee». «Questa è la tua spiegazione? Questa è la tua fottuta ragione, per l'amor di dio? Ma tu stai facendo degli affari con lui proprio adesso. È questo che gli racconti al ragazzino? Tutte quelle cose importanti e forti sul migliorare te stesso, e fare del bene. Cambiare le cose?» Mi limitai a guardarla. Non volevo che sapesse quanto mi spaventavano le cose che mi aveva detto. Dopo un po' si girò di nuovo verso la porta e l'aprì. «Non c'è niente che cambia, Jack. Non in città. E nemmeno nel mondo.» Guardai la porta che si chiudeva. Qualcosa di freddo mi percorse la schiena. «Diceva sul serio?» disse Scully. «Voglio dire, tu volevi scappare dai Raggers, da Billy Dee. Me l'hai detto tu. Per questo hai lavorato tanto, imparando tante cose. Ma adesso ti ci sei ricacciato dentro. Bill non ti lascerà mai andare.» Quella porta era davvero interessante. Mi immaginavo di vederla lì fuori, scendere le scale, entrare nella limousine, tornare da Billy Dee con il suo pacco di brillanti sogni viola. Guardai Scully. «C'è una cosa buffa riguardo i sogni» dissi. Mi guardò come se fossi pazzo. «Ascolta, se lavori duro, e impari delle cose, puoi fare in modo che i sogni facciano quello che vuoi tu. Per esempio, puoi creare dei sogni che danno assuefazione. E puoi fare in modo che i tuoi sogni facciano alla mente delle cose terribili. Cioè, a una mente che considera la schiavitù una buona cosa. Puoi anche creare dei sogni che dopo un po' distruggano il nome di qualcuno dalla mente. Forse addirittura due nomi, se ne sai abbastanza.» Scossi la testa. «Ma no, non posso darti nessuna ragione vera per studiare e imparare e fesserie del genere.» Scully si spostò vicino alla finestra per guardare fuori. A nord c'era Evanston. «Jack?» «Cosa c'è?» «Mi aiuterai con i compiti? Ho ancora molto da imparare.»
Sollevai il sacchetto pieno di lingottini d'oro, il mio guadagno sul pacco di daze avanzato dal prezzo di Scully. «Non ora, ragazzino. Abbiamo da fare». «Eh? Che cosa abbiamo da fare?» «I bagagli. Per il viaggio.» «Che viaggio?» «Il Muro, Scully. Il viaggio oltre il Muro.» Ripensai a quanto mi avevano spaventato le parole di Janna. Poi ripensai al modo in cui era stato pronto a tornare indietro, e a uccidere per aiutarmi. E mi resi conto che non avevo mai creduto davvero che la città potesse essere sconfitta, che l'onestà potesse trionfare. Che le cose potessero cambiare. Come diceva Janna, non in questo mondo. Feci una smorfia. «Forse anch'io ho ancora un po' da imparare.» Titolo originale: Goin' Down Daze Analog Science Fiction/Science Fact August 1988 FINE