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ANNE PERRY I PECCATI DELLA LUPA (Sins Of The Wolf, 1994) A Kimberley Hovey per il suo aiuto e la sua amicizia 1 Hester Latterly si mise seduta ben eretta sul treno guardando fuori dal finestrino l'ondulata campagna delle Lowlands scozzesi che si estendeva a perdita d'occhio. Il sole degli inizi di ottobre stava levandosi all'orizzonte in mezzo alla foschia. Erano passate da poco le otto, i campi coperti di stoppie erano ancora velati a fior di terra da festoni di nebbia e alberi poderosi pareva fluttuassero senza radici al di sopra di essa con foglie che cominciavano solo qua e là, su qualche ramo, a prendere sfumature del colore del bronzo. Le case che riusciva a scorgere erano in massiccia pietra grigia e sembrava che fossero sbucate così, direttamente dal suolo, tanto apparivano differenti da quelle delle regioni meridionali, dalle coloriture più tenui. Qui non c'erano tetti coperti di torba, non c'erano muri intonacati, adorni di fregi decorativi in gesso, ma alti comignoli fumanti, frontoni scannellati che si stagliavano contro il cielo, e larghe finestre che pareva ammiccassero nelle tenui luci del primo mattino. Aveva fatto ritorno a casa quando suo padre e sua madre erano morti alla fine della guerra di Crimea, quasi un anno e mezzo prima. Le sarebbe piaciuto rimanere a Scutari fino alla amara conclusione, ma la tragedia familiare aveva richiesto la sua presenza. Da allora, aveva tentato di realizzare nella pratica alcune delle nuove esperienze infermieristiche imparate tanto penosamente e con tanta fatica, e addirittura di introdurre qualche riforma nelle concezioni inglesi di igiene ospedaliera ormai tanto antiquate, in armonia con le teorie della signorina Nightingale. Ma il risultato di tutte le sue fatiche era stato quello di vedersi licenziare perché giudicata disubbidiente e testarda. E in effetti non esisteva modo di difendersi contro l'una come l'altra accusa. Ne era colpevole. Suo padre era morto dopo un tracollo finanziario che lo aveva anche, praticamente, messo al bando e fatto cadere in disgrazia dal punto di vista sociale. Non era rimasto un soldo né per lei né per suo fratello Charles.
Certo, Charles avrebbe pensato di persona a provvedere anche a lei, di tasca propria, spendendo parte del proprio stipendio, ed Hester sarebbe stata costretta a vivere con lui e sua moglie ben sapendo di dover dipendere in tutto e per tutto da loro, ma un pensiero del genere era intollerabile. Nel giro di pochissimo tempo si era trovata un posto come infermiera privata, e una volta che il paziente era guarito, ne aveva trovato un altro. Alcuni erano simpatici, altri meno; ma lei non era mai rimasta più di una settimana senza un impiego remunerato, e di conseguenza era completamente libera e padrona di sé. Quell'estate aveva accettato, ma solo per poco tempo, un altro lavoro in un ospedale dietro insistenti richieste da parte della sua amica, e spesso benefattrice, lady Callandra Daviot quando la morte dell'infermiera Barrymore aveva fatto affiorare per il dottor Christian Beck la minaccia di un arresto con relativo processo. Una volta che quel caso era stato finalmente risolto lei si era trovata un'altra assistenza privata, ma anche quella si era conclusa e quindi, adesso, eccola di nuovo a cercarsi una nuova sistemazione. L'aveva trovata sotto la forma di un'inserzione su un quotidiano di Londra. Una illustre e importante famiglia di Edimburgo stava cercando una giovane donna di buona famiglia, con qualche esperienza di assistenza ai malati, che accompagnasse la signora Mary Farraline, una anziana gentildonna di salute cagionevole per quanto, in realtà, non soffrisse di una vera e propria malattia, nel viaggio che desiderava fare a Londra e, sei giorni più tardi, in quello di ritorno a casa. Nell'inserzione si specificava che sarebbe stata data la preferenza a una delle compagne e aiutanti della signorina Nightingale. Naturalmente il viaggio sarebbe stato pagato al completo dalla famiglia, e la persona prescelta sarebbe anche stata generosamente ricompensata per le mansioni a lei richieste. Le domande andavano inoltrate alla signora McIvor, al n. 17 di Ainslie Place, Edimburgo. Hester non era mai stata a Edimburgo, anzi non era mai stata nemmeno in Scozia, e il pensiero di quattro giornate di viaggio in treno da trascorrere a quel modo, in quell'epoca dell'anno, le parve molto piacevole. Scrisse alla signora McIvor precisando quale fosse la sua esperienza, elencando le sue qualifiche e dichiarandosi disposta ad accettare l'incarico. Quattro giorni dopo ricevette una risposta; accluso al messaggio con il quale la signora McIvor le confermava che era stata scelta per quell'incarico, c'era un biglietto ferroviario di seconda classe per il viaggio sul treno della notte per Edimburgo del martedì successivo, con partenza alle 21.15
da Londra e arrivo alle 8.35 della mattina dopo a Edimburgo. Una carrozza sarebbe venuta ad accoglierla alla Waverley Station, per accompagnarla a casa Farraline dove avrebbe passato la giornata facendo conoscenza con la sua paziente; e alla sera lei e la signora Farraline avrebbero preso il treno per tornare a Londra. Hester aveva fatto qualche piccola ricerca su Edimburgo, unicamente perché la interessava, anche se appena arrivata ne sarebbe praticamente ripartita, perlomeno la prima volta. Forse al suo ritorno con la signora Farraline dopo la permanenza a Londra avrebbe avuto l'opportunità di fermarsi un giorno o due. Perché, allora sì che avrebbe avuto a sua disposizione tutto il tempo che voleva; quindi non era escluso che potesse vedere qualcosa della città. Le avevano detto che per quanto fosse la capitale della Scozia, era molto, ma molto, più piccola di Londra, con appena centosettantamila abitanti a confronto dei quasi tre milioni di Londra. Nonostante questo, era considerata di notevole importanza, tanto che la chiamavano "l'Atene del Nord", celebre per la sua cultura in modo particolare in campo medico e legale. Il treno affrontò sferragliando una curva della strada ferrata e rollò improvvisamente, fra violenti scossoni, sui binari; quando l'aria fu tornata limpida, dopo le ondate di fumo, Hester poté scorgere in lontananza i tetti scuri della città dominati dalla sagoma irregolare del castello appollaiato sul suo massiccio sprone di roccia, che si stagliava contro il cielo e al di là di tutto questo il tenue luccichio del mare. A dispetto di quello che il buon senso avrebbe suggerito, si sentì cogliere da un brivido sottile di eccitazione che la percorse da capo a piedi come se fosse lì lì per dare inizio a qualche grande avventura e non semplicemente per trascorrere una sola giornata in una casa sconosciuta prima di assumersi una mansione professionale delle più banali e comuni. Il viaggio era stato lungo e disagevole in quanto una carrozza di seconda classe non offriva un minimo di privacy, e anche lo spazio di cui poteva disporre era molto limitato. Naturalmente lei era rimasta seduta in posizione eretta per tutta la notte; di conseguenza si sentiva un po' intorpidita ed era riuscita ad appisolarsi solo di tanto in tanto. Si alzò in piedi e si riassettò le vesti; poi, con tutta la discrezione possibile, cercò di riaggiustarsi anche i capelli. Finalmente il treno entrò in stazione fra nuvole di vapore, rombo metallico di ruote, voci che gridavano e sportelli che sbattevano. Hester afferrò l'unica valigia che avesse con sé, una specie di sacca morbida abbastanza
grande da contenere un puro e semplice cambio di biancheria e il necessario da toilette, e si avviò a scendere sul marciapiede. L'aria frizzante la fece trasalire. Per un attimo rimase con il fiato sospeso. Dappertutto intorno a lei traffico e frastuono, gente che chiamava i facchini, strilloni che vendevano i giornali, il cigolio stridulo e secco, delle ruote di carretti e carri. Dal fumaiolo uscì una folata di fumo e cenere mentre un fuochista con la faccia annerita fischiettava allegramente. Nuvole di vapore volteggiavano lungo tutto il marciapiede; un uomo si lasciò sfuggire un'imprecazione mentre qualche granellino di fuliggine gli calava sul colletto pulito della camicia. Hester provò un senso assurdo e selvaggio di esaltazione mentre si avviava a passo lesto, con una fretta assolutamente poco signorile, verso le scale e l'uscita. Un donnone paludato in un abito nero di stoffa rigida e una cuffia a visiera legata sotto il mento la scrutò con disapprovazione e osservò con voce alta e sonante, rivolta all'uomo che le era vicino, che non riusciva proprio a capire che cosa combinassero i giovani, oggigiorno. Nessuno di loro aveva più il minimo senso di ciò che fosse corretto e conveniente, o no. Avevano un modo di comportarsi addirittura sfrontato, anzi scandaloso, e manifestavano con una franchezza un po' eccessiva le loro opinioni, sia che ne avessero il diritto o no. Quanto alle giovani donne, avevano la testa piena delle idee più inconcepibili e sconvenienti che si potessero immaginare. «Certo, mia cara» rispose l'uomo con aria distratta continuando a guardarsi intorno alla ricerca di un facchino che si incaricasse del trasporto dei loro bagagli straordinariamente numerosi. «Certo, son sicuro che hai ragione» soggiunse quando ebbe l'impressione che lei volesse continuare sullo stesso tono. «Insomma, Alexander, a volte penso che tu non mi ascolti neanche» ribatté la donna incaponita. «Oh, sì che ti ascolto, mia cara, ti ascolto» rispose lui, voltandole le spalle e gesticolando in direzione di un facchino. Hester sorrise tra sé mentre si faceva strada tra la folla, diretta alla scalinata che portava all'uscita e, dopo aver consegnato il biglietto, si ritrovò in strada. Le occorse solo qualche istante per individuare la carrozza che era venuta a prenderla; il vetturino era l'unico che scrutasse attentamente ogni persona che usciva mostrandosi solo un po' esitante quando vide una giovane donna che indossava un semplice tailleur grigio e portava con sé una valigetta. Hester la oltrepassò e domandò rivolgendosi all'uomo: «Scusa-
temi, siete stato mandato dalla signora McIvor?» «Certo, sono io. E voi sareste la signorina Latterly, appena arrivata da Londra per far compagnia alla padrona?» «Sì, precisamente.» «Bene, allora, ho proprio idea che sarete pronta a sedervi davanti a una bella colazione appena arrivata a casa. Non credo che servano niente su quei treni, ma noi possiamo fare di meglio, lo so di sicuro. Qua, lasciate che vi prenda quella sacca.» Lei stava per protestare che non era pesante ma l'uomo gliela tolse ugualmente di mano e, attraversato il marciapiede, l'aiutò a salire in carrozza e poi ne richiuse lo sportello. Il viaggio fu fin troppo breve; a Hester sarebbe piaciuto vedere qualcosa di più della città. Procedettero oltre il ponte, imboccarono Princess Street e la percorsero quasi per intero passando davanti alle vetrine di bei negozi e alle facciate eleganti delle case sulla destra e, sulla sinistra, al declivio verde dei giardini, al monumento a Walter Scott e più oltre, e più in alto, al castello. In fondo voltarono a destra verso la parte nuova della città e dopo un brevissimo percorso fra strade georgiane, si ritrovarono in Ainslie Place. Il numero 17 era esattamente come le case vicine, da ambo i lati: un pianterreno e tre piani con spaziose finestre che diminuivano man mano di grandezza a ogni piano, la facciata dalla simmetria perfetta, proporzioni che erano ben calibrate ed eleganti e rivelavano l'attenzione alla semplicità, caratteristica del periodo della Reggenza. La carrozza continuò girando verso il retro della casa; in fondo, lei era più una persona di servizio che un ospite. Hester scese nel cortile prima che il vetturino riconducesse il veicolo e il cavallo alle scuderie, e si presentò alla porta. Questa si aprì prima che lei avesse il tempo di suonare il campanello e un ragazzino, il solito servitorello tuttofare che aveva anche le mansioni di lustrascarpe, la squadrò con interesse. «Sono Hester Latterly, l'infermiera che accompagnerà la signora Farraline nel suo viaggio» si presentò. «Sì, signorina. Se volete entrare, vado subito ad avvertire il signor McTeer.» E senza aspettare la sua risposta, la precedette attraverso la cucina fin nel corridoio dove rischiò quasi di andare a sbattere contro un maggiordomo dalla faccia magra e sparuta, l'espressione funerea. Il maggiordomo osservò Hester con attenzione. «Dunque voi sareste l'infermiera che è venuta per accompagnare la padrona a Londra.» Lo disse come se Londra fosse una specie di cimitero.
«Farete meglio a entrare. Adesso Mirren penserà a portar dentro la vostra valigia, sono sicuro. E credo proprio che vi farà comodo mangiare un boccone prima di presentarvi alla signora McIvor.» Poi la guardò dalla testa ai piedi come se volesse soppesarla. «Come anche vi farà piacere darvi una lavata e avere la possibilità di pettinarvi i capelli.» «Grazie» accettò lei imbarazzata, sentendosi ancora più sporca e in disordine di quanto avesse creduto fino a quel momento. «Già, e adesso se volete passare in cucina, la cuoca vi preparerà la colazione e poi qualcuno verrà a chiamarvi quando la signora McIvor sarà pronta.» «Su, venite avanti» disse il piccolo lustrascarpe con aria giuliva, girando sui tacchi per accompagnarla, ripercorrendo a ritroso il corridoio, fino in cucina. «Come sono fatti i treni, signorina? Io non ci sono mai stato sopra.» «Pensa agli affari tuoi, Tommy» fu l'ordine che il maggiordomo gli diede in tono acido. «E lascia perdere i treni. Hai già finito con gli stivali buoni del signor Alastair?» «Sì, signor McTeer. Li ho fatti tutti.» «Allora ti troverò qualcos'altro...» Hester si vide servire un ottimo pasto in un angolo del grande tavolo della cucina, poi venne fatta passare nella piccola stanza da letto che le era stata destinata, adiacente alla camera dei bambini, dove avevano già depositato la sua sacca da viaggio. Si lavò la faccia e il collo, e si pettinò di fresco. Non ebbe neanche un minuto da aspettare perché vennero subito a cercarla. Si ritrovò così accompagnata dallo spettrale e deprimente McTeer oltre la porta di feltro verde in un grande vestibolo dove il pavimento era di pietra a riquadri bianchi e neri, vagamente simile a una scacchiera. I muri erano coperti di boiserie e qua e là vi erano appese teste di animali, imbalsamate e incorniciate, una mezza dozzina, quasi tutte di cervi europei. A ogni modo l'unica cosa che attirò la sua attenzione, trattenendola a lungo, fu un ritratto maschile, a grandezza naturale, che si ritrovò proprio di fronte. Dominava il vestibolo non solo per i suoi colori, che erano già di per sé singolari, ma per qualche particolare caratteristica della personalità dell'uomo raffigurato, che era rivelata dai suoi lineamenti. La testa era di forma allungata, gli occhi grandi e di un celeste limpido, il naso lungo e sottile, rastremato sul ponte, e la bocca larga, dalla linea priva di incisività, e stranamente incerta. I capelli biondi gli scendevano in una folta ciocca
sulla fronte e costituivano una chiazza di colore talmente imprevista e singolare da attirare gli occhi di chiunque si fosse trovato a passare di lì, perché spiccavano in modo curioso fra le tonalità cupe del legno di quercia della boiserie, i tenui riflessi delle dorature e lo sguardo vitreo di quei cervi maschi, morti da tanto tempo, che circondavano il ritratto. Il maggiordomo la precedette attraverso il vestibolo e poi imboccò un corridoio passando davanti a parecchie porte fino a quando si fermò di fronte a una di esse; dopo aver bussato rapidamente, la spalancò e si fece da parte perché Hester potesse passare. «La signorina Latterly, signora, l'infermiera arrivata da Londra.» «Grazie, McTeer. Vi prego accomodatevi, signorina Latterly.» La voce era amabile e gentile, modulata, e ben impostata anche se risentiva, ma solo lievemente, della cadenza estremamente corretta, ma anche un po' monotona, caratteristica delle persone della buona società di Edimburgo. La stanza era quasi completamente arredata nelle tonalità di un azzurro freddo né troppo spento né troppo vivo, con un motivo floreale, un po' vago e indistinto, sia nella carta da parati sia nel tappeto. Le ampie finestre si aprivano su un piccolo giardino e la luce del primo mattino dava alla stanza un'atmosfera gelida anche se un bel fuoco ardeva nel focolare. A occuparla c'era una sola persona, una donna magra e snella la quale, come età, doveva avvicinarsi ai quarant'anni, e che Hester, alla prima occhiata, immaginò stretta parente dell'uomo il cui ritratto era appeso nel vestibolo. Aveva la stessa faccia allungata, il naso sottile e la bocca larga, ma in lei non vi era la minima traccia di indecisione. Le sue labbra avevano una forma stupenda, gli occhi azzurri erano fermi, l'espressione decisa e lo sguardo diretto. I capelli biondi erano acconciati secondo la moda corrente, una moda severa, ma il loro colore caldo li rendeva pieni di un fascino che non avrebbero certo avuto se la loro sfumatura fosse stata meno luminosa e splendente. Eppure, malgrado tutto ciò, la sua faccia non era bella; ne trapelavano, e in modo fin troppo evidente, energia e autorevolezza; del resto la signora McIvor non si prendeva affatto la pena di mascherare la propria intelligenza. «Vi prego entrate, signorina Latterly» ripeté. «Io sono Oonagh McIvor. Sono stata io a scrivervi a nome di mia madre, la signora Mary Farraline. Spero che il vostro viaggio da Londra sia stato gradevole.» «Sì, grazie, signora McIvor, è stato piacevolissimo, e ho trovato estremamente godibile tutta quella parte che ho potuto fare alla luce del giorno.»
«Ne sono molto lieta.» Oonagh le sorrise con calore inaspettato e tutta la sua faccia si trasformò. «I viaggi in treno possono essere così estenuanti e sporchi, poi!, in un modo addirittura incredibile. Adesso sono sicura che avrete piacere di far la conoscenza della vostra paziente. Devo avvertirvi, signorina Latterly, che mia madre dà subito l'impressione di godere di una salute eccellente mentre, in realtà, si tratta di un'assurda e ridicola finzione. Si stanca molto più facilmente di quanto non voglia ammettere e la medicina che prende è assolutamente essenziale per il suo benessere, anzi forse addirittura per la sua vita stessa.» Aveva parlato con voce piana e calma, ma vi vibrava un senso di urgenza, o di ansia, come se volesse mettere bene in chiaro l'importanza di quanto stava dicendo. «Non è per niente difficile da somministrare» continuò. «Si tratta di una semplice pozione di gusto sgradevole, ma basta un dolcetto, subito dopo, per compensare largamente dell'amaro della medicina.» Alzò gli occhi a guardare Hester che era rimasta in piedi davanti a lei. «Il fatto è, molto semplicemente, che mia madre può dimenticarsi di prenderla se si sente bene; così, quando comincia a star male per non averla presa, ormai è troppo tardi per provvedere a quella dimenticanza senza pericolo e, magari, addirittura un possibile danno al suo stato di salute. Non dubito che mi comprenderete, vero?» Ma per quanto affermasse di non avere dubbi in proposito, la sua faccia aveva assunto un'espressione interrogativa. «Senz'altro» Hester si affrettò a rispondere. «Sono molte le persone che preferiscono fare a meno di una medicina se appena credono di poterlo fare, e non sanno valutare bene fino a che punto sono in grado di rischiarlo. È facile da capire.» «Ottimamente.» Oonagh si alzò in piedi. Era alta quanto Hester, magra e snella, però senza dare l'impressione di essere esile o emaciata, e si muoveva con garbo ed eleganza malgrado l'impaccio delle ampie gonne. Attraversarono il vestibolo e Hester non poté fare a meno di lanciare un'altra occhiata al ritratto. Quel viso la ossessionava, le sue ambiguità le erano rimaste stranamente impresse nella mente. Non sapeva decidere se le piacesse o no. Ma in ogni caso non avrebbe potuto dimenticarlo. Oonagh le sorrise e rallentò il passo per un attimo. «Mio padre» disse, benché Hester avesse già capito che non poteva trattarsi di nessun altro. Non le sfuggì un tremito nella voce di Oonagh e intuì come, dietro, ci fosse un'emozione profonda, accuratamente repressa. Del resto immaginava che una donna del genere fosse sempre controllata, e in modo perfetto, di fronte agli estranei e al personale di servizio. «Hamish
Farraline». Oonagh continuò. «È morto otto anni fa. Da allora in poi è sempre stato mio marito a dirigere la ditta.» Hester aprì la bocca, stupita, poi si rese conto di quanto ciò fosse inappropriato, e la richiuse. Ma Oonagh l'aveva già visto. Sorrise e alzò impercettibilmente il mento. «Mio fratello Alastair è il Fiscale» spiegò. «Va in ufficio quanto più spesso gli è possibile, ma i suoi doveri lo tengono lontano per la maggior parte del tempo.» Non le sfuggì la confusione di Hester. «Il Procuratore Fiscale.» Il suo sorriso si accentuò, incurvandole le labbra. «Qualcosa di simile a quello che voi in Inghilterra chiamereste il Pubblico Ministero.» «Oh!» Hester, a dispetto di se stessa, non nascose di esserne impressionata. La sua conoscenza con la Legge si riduceva alla frequentazione di Oliver Rathbone, il brillante avvocato che aveva incontrato tramite Callandra e Monk, e a proposito del quale i suoi sentimenti erano tanto confusi, in un modo addirittura tormentoso. Ma quella era una faccenda del tutto personale. Professionalmente aveva per lui soltanto l'ammirazione più profonda. «Capisco. Dovete essere molto orgogliosa di lui.» «Sì, certo.» Oonagh continuò a camminare verso le scale poi esitò fino a quando Hester non l'ebbe raggiunta; e cominciarono a salirle insieme. «Il marito della mia sorella più giovane lavora anche lui nella società di famiglia. È molto abile e capace in tutte le questioni che riguardano la stampa. Siamo stati molto fortunati che abbia scelto di diventare uno di noi. È sempre meglio quando una società antica come quella dei Farraline può rimanere in famiglia.» «Che cosa stampate?» Hester domandò. «Libri. Ogni genere di libri.» In cima alle scale Oonagh imboccò il pianerottolo, con il pavimento coperto da un tappeto turco rosso e si fermò di fronte a una delle molte porte. Dopo aver bussato brevemente, la aprì ed entrò. Questa stanza era del tutto diversa dalla sala azzurra del pianterreno. Qui i colori erano tutta nella gamma dei gialli caldi e del bronzo, e sembrava che fosse illuminata dalla luce del sole benché, in effetti, il cielo al di là delle tende di stoffa fiorata fosse di un grigio quanto mai minaccioso. Alle pareti erano appesi quadri di paesaggi, piccoli, con la cornice dorata, e anche la lampada aveva la frangia dorata. Ma Hester non ebbe quasi il tempo di osservare tutto ciò. La sua attenzione era stata subito attirata dalla donna che sedeva, proprio di fronte a loro, in una delle tre ampie poltrone imbottite di un tessuto a fiori. Sembrava alta, forse perfino più alta di Oonagh, e sedeva con la testa
eretta, e la schiena rigida, impettita. I suoi capelli erano quasi completamente bianchi e la faccia, dalla linea allungata, aveva un'espressione intelligente e arguta che non poteva passare inosservata. Non era particolarmente attraente, e perfino da giovane non doveva essere stata una gran bellezza perché aveva il naso troppo lungo e il mento troppo rientrante, ma la sua espressione faceva dimenticare tutto questo. «Dovete essere la signorina Latterly» disse con voce alta e ferma, e prima che Oonagh avesse il tempo di fare qualsiasi presentazione. «Io sono Mary Farraline. Vi prego, entrate e accomodatevi. A quanto ho capito voi dovete accompagnarmi a Londra e assicurarvi che io mi comporti come la mia famiglia vorrebbe, vero?» Un'ombra passò sulla faccia di Oonagh. «Mamma, noi siamo soltanto preoccupati per il tuo benessere» si affrettò a interloquire. «A volte dimentichi di prendere la tua medicina...» «Sciocchezze!» Esclamò Mary tagliando corto. «Non me ne dimentico. La verità è un'altra: non sempre mi occorre. Molto semplice.» Sorrise a Hester. «La mia famiglia si preoccupa per nulla» spiegò spiritosamente. «Per disgrazia, quando si comincia a perdere la forza fisica, la gente ha la tendenza a pensare che si cominci anche a perdere lo spirito e l'intelligenza.» Oonagh rivolse gli occhi a Hester con un'espressione che era paziente, ma anche da cospiratrice. «Credo proprio che io non sarò affatto necessaria» Hester disse ricambiando quel sorriso. «Ma mi auguro di poter essere almeno capace di rendervi il viaggio un poco più comodo e piacevole, anche se si trattasse soltanto di eseguire i vostri ordini e di provvedere a che abbiate tutto quanto vi occorre.» Oonagh si rilassò leggermente, e incurvò un poco le spalle come se, poco prima, fosse rimasta inconsciamente impettita, sull'attenti. «Per questo non direi proprio che può servirmi una delle infermiere di Florence Nightingale.» E Mary scrollò il capo. «A ogni modo comincio a pensare che voi sarete una compagnia molto migliore di tante altre. Oonagh dice che siete stata in Crimea. È proprio vero?» «Sì, signora Farraline.» «Bene, sedetevi. Non c'è bisogno di rimanere lì impalata come se foste una cameriera.» Le indicò la poltrona che aveva di fronte e continuò a parlare mentre Hester obbediva. «E così, siete andata a fare l'infermiera con l'esercito? Perché?»
Hester si trovò a essere talmente sconcertata da non riuscire a pensare a una risposta pronta. Era una domanda che non si era più fatta da quando il suo fratello maggiore, Charles, le aveva domandato a suo tempo per quale motivo volesse fare una cosa tanto pericolosa e totalmente inadatta. Naturalmente questo era successo prima che la fama di Florence Nightingale l'avesse fatta diventare quasi rispettabile. Adesso, diciotto mesi dopo la pace, Florence Nightingale era seconda solo alla Regina nel rispetto e nell'ammirazione del Paese. «Su, andiamo» Mary disse in tono divertito. «Dovete pur avere avuto una ragione. Le giovani donne non fanno i bagagli e abbandonano la famiglia e gli amici, per partire per paesi stranieri, e in questo caso in condizioni così disastrate, senza una ragione molto pressante.» «Mamma, può darsi che sia stato qualcosa di privato, di strettamente personale» Oonagh protestò. Hester scoppiò in una risata scrosciante. «Oh no!» Disse rispondendo così a entrambe. «Non si è trattato né di una storia amorosa, e nemmeno del fatto che il mio fidanzato mi aveva piantato in asso. Avevo voglia di fare qualcosa che fosse più utile invece di rimanermene seduta a casa a ricamare e a dipingere, occupazioni che non mi riescono particolarmente bene né l'una né l'altra, oltre al fatto che avevo sentito parlare delle terribili condizioni che c'erano laggiù dal mio fratello minore, che vi serviva nell'esercito. Io... io suppongo che fosse qualcosa che andava a pennello per il mio carattere.» «Proprio quello che immaginavo.» Mary annuì con un lieve cenno del capo. «Non esistono molte ambizioni da realizzare per le donne. La maggior parte di noi se ne sta a casa a badare che la lampada rimanga accesa, in senso non solo metaforico, ma anche letterale.» Si voltò a guardare Oonagh. «Ti ringrazio, mia cara. È stato un pensiero molto gentile, molto premuroso da parte tua, trovarmi una compagna che abbia un tal senso della passione per l'avventura, oltre al coraggio di seguirlo. Non dubito che mi godrò pienamente il viaggio a Londra.» «È quello che spero» Oonagh ribatté con voce quieta. «Sono sicura che la signorina Latterly si occuperà di te nel migliore dei modi e si rivelerà una compagnia interessante. Adesso che ci penso sarà meglio che le faccia mostrare da Nora l'astuccio della tua medicina e che le spieghi come si prepara una dose.» «Se proprio lo ritenete necessario...» e Mary si strinse nelle spalle. «Vi ringrazio di essere venuta, signorina Latterly. Aspetto con piacere il mo-
mento in cui vi rivedrò a pranzo, e poi anche a cena, naturalmente, anche se questa dovrà essere un po' anticipata rispetto al solito. Credo che il nostro treno parta alle nove e un quarto e di conseguenza dovremo trovarci già in vettura come minimo mezz'ora prima. Da casa dovremo partire alle otto e un quarto. In genere è un po' troppo presto per poter cenare con tutte le solite comodità; d'altra parte stasera non se ne potrà fare a meno.» Con qualche parola di scusa, la lasciarono. Poi Oonagh condusse Hester nello spogliatoio della signora Farraline e la presentò alla sua cameriera personale, Nora, una donna magra, bruna, dal modo di fare grave e compassato. «Piacere, signorina» disse quest'ultima, guardando Hester educatamente e, almeno in apparenza, senza mostrare il minimo segno di gelosia o di risentimento. A questo punto Oonagh se ne andò e per la mezz'ora successiva Nora mostrò a Hester l'astuccio della medicina che era semplice come Mary le aveva già lasciato capire, in quanto si trattava unicamente di una dozzina di flaconcini di vetro pieni di un liquido, uno per ogni sera e ogni mattina fino al momento del suo ritorno a casa. La dose era già pronta; di conseguenza non c'era più nessun altro preparativo di cui occuparsi. Non restava, quindi, che versare il contenuto del flaconcino in un bicchiere, già provvisto anche quello, e controllare che la signora Farraline non lo rovesciasse distrattamente o, cosa ben più grave, non si dimenticasse di aver già presa la medicina e ne prendesse una seconda dose. Questo, come Oonagh le aveva già fatto rilevare, avrebbe potuto essere un fatto gravissimo, e forse far addirittura correre alla signora Farraline un rischio mortale. «Toccherà a voi conservarla.» Nora richiuse accuratamente l'astuccio e passò la chiave a Hester. Era legata a un cordoncino rosso. «Vi prego, infilatela al collo; a questo modo sarà impossibile perderla.» «Certamente.» Hester ubbidì e si fece scivolare la chiave all'interno del corpetto. «Un'idea eccellente.» Hester aveva preso posto, seduta un po' di sbieco, sull'unica poltroncina che esistesse nello spogliatoio; Nora era rimasta in piedi accanto agli armadi. Le valigie di Mary erano già aperte e la cameriera aveva cominciato a riempirle. Data l'abbondanza di tessuto richiesta dalla moda per ogni singola gonna, bastavano una mezza dozzina di abiti per occupare uno spazio esagerato. Una gentildonna che prevedesse di doversi cambiare come minimo tre volte al giorno, passando dall'abito da mattina a qualcosa di adatto per uscire a pranzo, e poi da un abito da pomeriggio a una toilette
per il tè e a un'altra per la cena, difficilmente poteva viaggiare con meno di tre capaci valigie, se non di più. Soltanto per sottovesti, camicie, corsetti, calze e scarpe ne sarebbe stata necessaria una. «Non toccherà a voi pensare agli abiti» Nora esclamò con orgoglio addirittura possessivo. «Me ne occuperò io. C'è già un elenco dove abbiamo scritto tutto, e a casa della signorina Griselda ci sarà qualcun altro che penserà a vuotare le valigie. A voi non resterà altro da fare che pettinare la signora Farraline al mattino. Credete di essere capace?» «Sì, certamente.» «Bene. In tal caso è tutto quello che ho da mostrarvi.» Una lieve espressione di corruccio le oscurò il viso. «C'è qualcos'altro?» Hester domandò. «No, no, niente.» Nora scrollò la testa. «Vorrei soltanto che non dovesse partire. Quanto a me, ci patisco a pensare a quel viaggio. A ogni modo non ce n'era nessun bisogno. So bene che la signorina Griselda è sposata da poco e aspetta il suo primo bambino, e che... pover'anima! si preoccupa in un modo incredibile a leggere tutte le lettere che continua a mandare. D'altra parte c'è gente che è fatta così. Starà benone, è la cosa più probabile; a ogni modo, in un caso o nell'altro non c'è niente che la padrona possa fare.» «È delicata di salute, la signorina Griselda?» «Signoriddio, no! Si è solo messa in testa chissà cosa che l'angustia. Stava benissimo fino a quando non ha sposato quel signor Murdoch con tutte le sue arie e le sue belle maniere.» Si mordicchiò un labbro. «Ecco una cosa che non avrei dovuto dire. Sono sicura che è un uomo molto simpatico.» «Sì, è quello che penso anch'io» Hester rispose senza esserne convinta. Nora la guardò con un lieve sorriso. «Credo che vi farebbe piacere una bella tazza di tè» propose. «Sono quasi le undici. C'è sempre qualcosa di pronto in sala da pranzo, se lo gradite.» «Grazie. Credo proprio di sì.» L'unica persona seduta al lungo tavolo in quercia era una giovane donna, piccola di statura, minuta, che Hester giudicò sui vent'anni o poco più. Aveva i capelli nerissimi, folti e lucenti, una carnagione olivastra ma dal colorito caldo che le donava moltissimo, come se fosse appena rientrata da una bella passeggiata corroborante. Non era per niente alla moda, quel suo colorito, perlomeno secondo i canoni di Londra, ma Hester lo trovò un cambiamento piacevole rispetto al classico pallore, che suscitava tanta
ammirazione e al quale lei ormai aveva dovuto abituarsi. I lineamenti di questa donna erano netti e incisivi; al primo momento sembravano soltanto graziosi, ma osservati più attentamente rivelavano un'intelligenza e una determinazione caratteristici di una personalità molto più spiccata. Forse non era appena sui vent'anni ma doveva aver passato da poco i trenta. «Buon giorno» Hester disse incerta. «La signora Farraline?» La donna alzò gli occhi di scatto come se il suo arrivo inaspettato l'avesse fatta trasalire; poi sorrise e il suo comportamento cambiò completamente. «Sì. E voi chi siete?» La domanda non aveva niente di intimidatorio, ma piuttosto rifletteva la curiosità, come se l'apparizione di Hester fosse miracolosa, e una specie di gradevole sorpresa. «Vi prego, accomodatevi.» «Sono Hester Latterly. L'infermiera che deve accompagnare la signora Mary Farraline a Londra.» «Oh... già. Be', vi prego, sedete. Gradite un po' di tè? Oppure preferite latte e cacao? E un biscotto di pasta frolla o una focaccina di farina d'avena?» «Il tè, se è possibile; e i biscotti di pasta frolla hanno un'aria molto appetitosa» Hester rispose, accettando; e prese posto di fronte a lei. La donna versò il tè e lo passò a Hester, poi le offrì il piatto con i biscotti di pasta frolla. «Mia suocera prende il suo di sopra» continuò. «E naturalmente tutti gli uomini sono andati in ufficio, e Eilish non si è ancora alzata. Come sempre, a quest'ora.» «Sta forse... poco bene?» Hester aveva appena pronunciato queste parole quando si rese conto che avrebbe fatto meglio a tacere. Se una persona della famiglia decideva di non alzarsi fino all'ora di pranzo, non erano affari suoi e non toccava a lei domandarne il motivo. «Signoriddio, no! Oh, povera me, sarà meglio che mi presenti. Che mancanza di etichetta da parte mia! Sono Deirdra Farraline, la moglie di Alastair.» Guardò Hester con aria interrogativa come se volesse controllare se tutte quelle spiegazioni le dicevano qualcosa e intuì, dall'espressione della sua faccia, che doveva già sapere chi lui fosse. «E poi c'è Oonagh» continuò. «La signora McIvor, quella che vi ha scritto, e c'è Kenneth, ed Eilish... che è la signora Fyffe, anche se io non riesco mai a vederla in questa veste... non so perché... e per ultima Griselda, che adesso vive a Londra.» «Capisco. Grazie.» Hester sorseggiò il tè, addentando il biscotto di pasta frolla. Il gusto era
ancora migliore del suo aspetto, tanto friabile che si scioglieva in bocca, dall'impasto ricco e sostanzioso. «Non dovete preoccuparvi per Eilish» Deirdra continuò, ciarliera. «Non si alza mai a un'ora decente, ma sta benissimo di salute. Basta guardarla per capirlo. È una creatura affascinante, la donna più incantevole di tutta Edimburgo, non mi meraviglierei che la giudicassero tale... ma anche la più pigra. Non mi fraintendete, le sono molto affezionata» si affrettò a soggiungere. «Ma non fino al punto di passar sopra alle sue manchevolezze.» Hester sorrise. «Se aspirassimo soltanto alla perfezione, saremmo tutti molto soli.» «Condivido pienamente la vostra idea. Eravate già stata a Edimburgo?» «No. No, non sono mai nemmeno stata in Scozia.» «Ah! Avete sempre vissuto a Londra?» «No, ho trascorso un certo periodo di tempo in Crimea.» «Signoriddio benedetto!» Le sopracciglia di Deirdra scattarono verso l'alto. «Oh. Oh, certo. La guerra. Sì, Oonagh aveva detto qualcosa a proposito del fatto che intendeva assumere una delle infermiere della signorina Nightingale per mia suocera. Non riesco a capire perché. In fondo ha soltanto bisogno di una piccola dose della sua medicina, e direi che non è proprio quello che si può esigere da un'infermiera che ha lavorato nell'esercito! Ci siete arrivata per nave? Chissà quanto tempo ci avete messo.» Fece una smorfia, incupita, e prese un altro biscotto di pasta frolla. «Oh, se l'uomo potesse volare. Allora sì, che non sarebbe più assolutamente necessario girare tutt'intorno all'Africa, e basterebbe passare per l'Europa e l'Asia.» «Non è necessario girare intorno all'Africa per arrivare in Crimea» Hester le fece rilevare con garbo. «Si trova sul Mar Nero. E ci si arriva passando dal Mediterraneo e risalendo il Bosforo.» Deirdra accantonò questa obiezione che considerava priva di importanza con un gesto della mano, piccola e forte. «Però bisogna fare il periplo dell'Africa per arrivare in India, oppure in Cina. È tutto basato sullo stesso principio.» Hester non riuscì a trovare una risposta adatta, e ritornò quindi al suo tè. «Non trovate tutto questo terribilmente banale e addomesticato... dopo la Crimea?» Deirdra domandò incuriosita. Hester avrebbe potuto pensare che una battuta del genere facesse parte della solita conversazione futile e oziosa che si fa con persone che non si
conoscono bene, se non avesse colto l'intensità dell'espressione che si era disegnata sulla faccia di Deirdra e il lampo di intelligenza apparso nei suoi occhi. Si domandò come risponderle. Le mansioni di chi si occupava dell'assistenza ai malati erano spesso noiose, benché i pazienti raramente lo fossero. Certo il pericolo e la sfida della guerra in Crimea ormai erano scomparsi, come anche il senso di cameratismo. Ma d'altra parte erano stati spazzati via anche la fame e il freddo e la paura e una collera terribile e profonda come la compassione. A tutto questo era subentrato il tumulto emozionale di lavorare con Monk. Aveva conosciuto William Monk quando, da ispettore di polizia, si era occupato delle indagini relative al caso Gray e, per il tramite di Callandra, gli aveva fatto da assistente, subito dopo, durante il caso Moidore. Ma lui aveva abbandonato burrascosamente le forze di polizia, e dato le dimissioni; quindi era stato costretto ad aprire un ufficio di investigazioni private come detective. E di nuovo lei si era trovata a chiedere il suo aiuto per Edith Sobel quando il generale Carlyon era stato assassinato. Non solo, ma sempre lei era anche sembrata la persona ideale da far assumere all'ospedale quando era stato scoperto il cadavere dell'infermiera Barrymore. Tuttavia i suoi rapporti con Monk erano fin troppo complicati per cercare di spiegarli e in ogni caso non apparivano certo tali da risultare raccomandabili, per ciò che riguardava lei stessa e le sue referenze, a una famiglia altamente rispettabile come i Farraline in cerca dell'accompagnatrice più adatta per la loro madre. Deirdra stava ancora in attesa, con gli occhi fissi sulla sua faccia. «A volte» Hester confessò «sono felicissima di non essere più costretta a lavorare in quelle condizioni però mi manca anche la camerateria, e questo è doloroso.» «E la sfida?» Dierdra insistette, sporgendosi attraverso il tavolo. «Non è una cosa magnifica cercar di realizzare qualcosa di immensamente difficile?» «No, quando non si ha alcuna speranza di successo, e il dolore del fallimento è provocato dalle sofferenze di altre persone.» La faccia di Deirdra prese un'espressione amara e avvilita. «No, certo. Mi spiace, è stato crudele da parte mia. Ma non lo intendevo come forse può esservi sembrato. Stavo pensando a una sfida della mente, alle capacità inventive, alle aspirazioni di qualcuno... io...» s'interruppe sentendo aprire la porta. Fu Oonagh a entrare. Oonagh prima le guardò passando gli occhi dall'una all'altra con aria scrutatrice, poi il suo viso si addolcì in un
sorriso. «Mi auguro che vi troviate a vostro agio, signorina Latterly, e che ci si occupi di voi nel modo più adatto.» «Oh, sì, certamente, grazie» Hester rispose. «Stavo domandando alla signorina Latterly che mi parlasse delle sue esperienze, o perlomeno di qualcosa di esse» Dierdra disse in tono pieno di entusiasmo. «Sembrano molto stimolanti.» Oonagh prese posto al tavolo e si servì del tè. Poi lanciò un'occhiata dubbiosa a Hester, che le stava seduta di fronte. «Suppongo che qualche volta, adesso, lei debba trovare l'Inghilterra molto chiusa, limitata e restrittiva dopo la libertà della Crimea, vero?» Era una strana osservazione, e certo rivelava un interesse e un'intelligenza maggiori del solito. Quella non era una futile battuta pronunciata più che altro per sostenere la conversazione, per avere qualcosa da dire. Hester non rispose immediatamente, e Oonagh cercò di spiegarsi meglio: «Alludo al peso della responsabilità che voi dovete aver avuto laggiù, se qualcosa di tutto ciò che ho letto è appena appena vicino alla verità. Dovete aver assistito a molte sofferenze atroci, gran parte delle quali avrebbero potuto essere completamente evitate, se si fosse esercitato un maggiore buon senso. E immagino che voi non abbiate sempre avuto sottomano un ufficiale di alto grado, né dell'esercito né del servizio medico, ogni volta che bisognava decidere qualcosa in fretta.» «No... infatti non l'avevamo» Hester si affrettò a confermare, sconcertata dall'intuito che Oonagh rivelava. Anzi, adesso che si trovava lì seduta in quella tranquilla sala da pranzo con il suo tavolo lucido e una credenza di legno elegantemente intagliato, si rese conto come la responsabilità, la fiducia, la capacità di poter agire secondo una propria scelta fossero due degli aspetti della campagna di Crimea di cui sentiva molto profondamente la mancanza. Adesso talmente tante delle sue decisioni erano molto triviali. E tanto più doveva essere così per una donna come Oonagh McIvor le cui responsabilità erano in gran parte di carattere domestico e familiare. Che cosa avrebbe servito la cuoca per cena? Come risolvere il litigio fra la sguattera e la ragazza che si occupava della lavanderia? Era il caso di invitare Tizio e Caio a cena questa settimana con gli Smith... oppure era meglio invitarli la settimana prossima con gli Jones? Sarebbe stato più opportuno mettere il vestito verde, domenica, oppure quello azzurro? Osservando l'intelligenza e la determinazione che rivelavano le fattezze di Oonagh,
Hester si accorse come non fosse una di quelle donne che sprecano le proprie energie in cose del genere, che non avevano la minima importanza non solo in quel giorno specifico, ma... figurarsi poi!... nel corso della vita di una persona. Era invidia quella che le pareva di cogliere nel curioso timbro della voce di Oonagh? «Rivelate una straordinaria comprensione» replicò ad alta voce, incrociando lo sguardo fermo di Oonagh. «Non credo che nemmeno io sarei mai riuscita a formulare tanto bene questo problema a me stessa. Confesso che a volte mi sono quasi sentita soffocare dall'obbligo dell'obbedienza, quando ero abituata all'azione, semplicemente perché non c'era nessun altro a cui rivolgersi e l'urgenza della situazione non ci consentiva il minimo ritardo.» Deirdra la stava osservando attentamente, il viso illuminato da un profondo interesse, il tè dimenticato. Oonagh le sorrise come se questa risposta, in un certo senso, le facesse piacere. «A quanto sciupio e a quanto spreco dovete aver assistito, e a una sofferenza enorme» osservò. «Naturalmente ci saranno sempre decessi a cui assistere quando ci si occupa di medicina, ma non è assolutamente possibile paragonare un ospedale a un campo di battaglia. Ecco un aspetto della situazione che per voi deve essere stato un sollievo. Non ci si indurisce, non si diventa indifferenti dopo aver assistito a tanta morte?» Hester rifletté per qualche istante prima di rispondere. Quella che aveva davanti non era una persona che meritasse, o tantomeno avrebbe accettato, una risposta trita o falsa. «Non è tanto il fatto che ci si indurisce» disse con aria meditabonda. «Ma piuttosto che si impara a dominare le proprie emozioni, e infine a ignorarle. Se ciascuna di noi si fosse concessa di indugiare su di esse, si sarebbe diventate talmente tristi e infelici da non essere più di alcuna utilità a quelli che continuavano ancora a vivere. E mentre è più che naturale provar compassione, è anche del tutto insensato e inutile in un'infermiera, soprattutto dove c'è tanto di pratico e prosaico da fare. Le lacrime non servono a estrarre le pallottole né a ridurre un arto fratturato.» Un'espressione di calma riempì gli occhi di Oonagh, come se qualche domanda fastidiosa avesse ottenuto risposta. Si alzò dalla seggiola, trascurando di finire il suo tè, e si riassettò le gonne. «Sono convinta che siate proprio adatta per accompagnare la mamma a Londra. Vi troverà una compagna molto stimolante, e sono assolutamente fiduciosa che sarete la
persona ideale per averne cura. Grazie per essere stata così schietta con me, signorina Latterly. Mi sento completamente tranquilla.» Guardò l'orologino che portava appeso a un nastro all'altezza della spalla dell'abito. «C'è ancora un po' di tempo prima di pranzo. Forse gradite trascorrerlo in biblioteca? C'è un bel calduccio lì dentro, e nessuno vi disturberà, se avete voglia di leggere.» Poi lanciò un'occhiata a Deirdra. «Oh, sì.» Anche Deirdra si alzò. «Credo che farò meglio ad andare a controllare i conti con la signora Lafferty.» «L'ho già fatto io» disse Oonagh tranquillamente. «Però non ho ancora dato un'occhiata al menu di domani con la cuoca. Magari potresti occupartene tu.» Se Deirdra si risentiva degli interventi della cognata nella conduzione della casa, l'espressione della sua faccia non lo lasciava affatto trasparire. «Oh, come ti ringrazio! Detesto i numeri, sono sempre più o meno gli stessi, e così noiosi! Sì, senz'altro, vado io a parlare con la cuoca.» E dopo aver pronunciato queste parole rivolse un sorriso incantevole a Hester, scusandosi se doveva lasciarla. «Sì, mi farebbe un gran piacere poter leggere qualcosa» Hester accettò. Non era stato precisamente un invito, quello che le era stato fatto; d'altra parte non aveva niente di meglio con cui occupare il tempo e quindi lasciò che le indicassero come arrivare nella stupenda biblioteca, le cui pareti, su tre lati, erano letteralmente ricoperte di scaffali pieni di libri, molti di questi rilegati in cuoio e con il titolo impresso in oro sul dorso. Rimase incuriosita osservando che parecchi dei più belli, come anche molti altri di quelli rilegati più modestamente in tessuto, fossero stati stampati dalla Farraline & C. Comprendevano una grande varietà di argomenti, e c'erano romanzi come anche opere di altro genere. Parecchi celebri autori, non solo fra quelli viventi ma anche fra quelli del passato, vi erano rappresentati.. Scelse un libro di poesie e si accomodò in una delle sei o sette capaci poltrone, aprendolo per cominciare a leggere. La stanza era avvolta da un silenzio quasi totale. Al di là della sua porta massiccia poteva udire i suoni e i rumori della vita della famiglia; di tanto in tanto dal fuoco nella grata si levava solo un lieve crepitio oppure si udiva il fruscio, a intervalli, di una foglia strappata dal vento e mandata a battere contro i vetri della finestra. A poco a poco perdette il senso del tempo e trasalì quando, alzando gli occhi, si trovò una giovane donna di fronte. Non aveva nemmeno sentito la porta che si apriva.
«Scusatemi, non volevo farvi spaventare» disse la nuova arrivata. Era molto magra, e molto alta, ma la sua figura veniva subito dimenticata non appena la si guardava in faccia. Era una delle creature più incantevoli che Hester avesse mai visto, con i lineamenti delicati ma anche carichi di passionalità. La sua pelle era chiara, con quel riflesso luminoso caratteristico di chi ha i capelli rossi; e questi, folti e abbondanti, le circondavano la testa in un specie di alone scarmigliato che aveva tutte le sfumature calde delle foglie che cominciano ad appassire. «Signorina Latterly?» «Sì» Hester disse, riscuotendosi. Mise da parte il libro. «Io sono Eilish Fyffe» si presentò la giovane donna. «Venivo ad avvisarvi che il pranzo è servito. Spero che ci farete compagnia.» «Sì, con piacere.» Hester si alzò in piedi, poi si voltò ricordando di mettere a posto il libro. Eilish fece un gesto spazientito con la mano. «Oh, lasciate stare. Ci penserà Jeannie a metterlo via. Non sa leggere, ancora, ma troverà ugualmente lo scaffale dal quale l'avete preso.» «Jeannie?» «La cameriera.» «Oh! Credevo che fosse...» Hester si interruppe. Eilish si mise a ridere. «Una bambina? No... perlomeno, sì. Sì suppongo di sì. È solo una delle cameriere. Sui quindici anni, almeno è questa l'età che pensa di avere. Ma sta imparando a leggere.» Si strinse nelle spalle mentre pronunciava queste parole, come per accantonare l'argomento. Poi le rivolse un sorriso abbagliante. «I bambini sono Margaret, Catriona e Robert.» «I figli della signora McIvor?» «No, no. Sono i figli di Alastair. Il mio fratello maggiore, il Procuratore Fiscale.» Fece una piccola smorfia mentre pronunciava queste parole, come se avesse quasi provato un senso di rispettoso timore nei suoi confronti fino a poco tempo prima soltanto. Hester capì quello che lei doveva provare, pensando al proprio fratello maggiore, Charles, che era sempre stato un po' severo e un po' minaccioso e con i piedi talmente sulla terra da essere praticamente incapace di accettare l'assurdità di certe cose della vita. «Alec e Fergus sono a scuola. I figli di Oonagh. E credo che anche Robert partirà presto per la scuola.» Intanto aveva spalancato la porta della biblioteca, quella che dava sul vestibolo. Non accennò affatto alla propria famiglia e di conseguenza Hester immaginò che ancora non ne avesse una. Forse era sposata da poco tempo.
Il pranzo non fu un pasto particolarmente ricco e abbondante, e la famiglia presente in casa era già tutta lì raccolta quando Eilish introdusse Hester nella sala da pranzo e le indicò il posto che doveva occupare. Mary Farraline sedeva a capotavola da un lato, Oonagh dall'altro. All'estremità più lontana c'erano Deirdra e un uomo anziano che assomigliava a tal punto al ritratto del vestibolo che Hester ne rimase talmente sconcertata da osservarlo con gli occhi sgranati. Si trattava soltanto dello stesso colorito come dei lineamenti, degli stessi capelli biondi, che adesso stavano diventando paurosamente radi, della pelle chiara, del naso sottile e della bocca mobile e delicata. Quanto all'uomo interiore che queste apparenze nascondevano, era totalmente diverso. Anche lui aveva subito profonde ferite nello spirito, ma non diede a Hester alcuna sensazione di incertezza, come gliel'aveva data il ritratto, e nemmeno di ambiguità; c'era in lui la consapevolezza intensa e acuta di un dolore che doveva essere stato schiacciante, e dal quale, dopo aver lottato, era stato sconfitto. I suoi occhi azzurri erano infossati e lo sguardo fisso nel vuoto, come incapace di posarsi su qualcuno in modo particolare. Venne presentato come Hector Farraline. Tutti gli si rivolgevano chiamandolo zio Hector. Hester sedette al posto che le era stato assegnato e la prima portata venne servita. La conversazione era garbata ma, in genere, insignificante; serviva allo scopo per il quale era intesa, di manifestare cortesia e buona volontà senza impegnare minimamente il pensiero o distrarre da ciò che si stava mangiando. Hester, con molta discrezione, si guardò intorno scrutando quei visi che avevano tanto in comune e sui quali, tuttavia, il carattere o gli avvenimenti avevano impresso un marchio tanto differente. L'unica a non essere una Farraline di nascita era Deirdra. Mentre gli altri erano tutti snelli con la figura slanciata, biondi e di una statura parecchio al di sopra della media, lei era piccola, bruna, e piuttosto tozza e tarchiata. Eppure il suo viso rivelava una intensa capacità di concentrazione, e vi affiorava un eccitamento ben controllato che la rendevano più animata e vivace degli altri. Rispondeva quando la cortesia e la buona educazione lo richiedevano, ma senza mai intromettersi personalmente, con qualche commento, nella conversazione. A quanto sembrava, erano i suoi pensieri segreti a consumarla. Eilish parlava a tratti, di rado, come se lo facesse unicamente perché le buona maniere lo esigevano, ma negli intervalli anche lei lasciava capire come fosse assorta nelle riflessioni che le si affollavano alla mente. Hester si scoprì a rivolgere ripetutamente lo sguardo a Eilish, forse perché era
talmente bella che fissarla diventava una cosa naturale, ma anche perché le pareva in preda a una tristezza che la maschera sottile della cortesia e dell'interesse non riuscivano a celare. Era lasciato quindi solo a Oonagh e a Mary il compito di introdurre nel discorso un argomento dopo l'altro; e tutti dovevano essere gradevoli e non far nascere discussioni. «Quanto sarà lungo il tuo viaggio, mamma?» Deirdra domandò, rivolgendosi a Mary non appena la portata più importante del pasto venne servita. «Quasi dodici ore» Mary replicò. «Anche se per buona parte di esse non farò che dormire, così sembrerà molto più corto. A me sembra che sia un modo eccellente di viaggiare, non trovate, signorina Latterly?» «Senz'altro» Hester confermò. «Anche se il poco che ho visto della Scozia arrivando qui, mi lascia pensare che sia molto bella da guardare soprattutto in quest'epoca dell'anno.» «Dovrete tornare facendo il viaggio durante il giorno la prossima volta» Mary le suggerì. «Così potrete guardare fuori dal finestrino per tutto il tempo. Se non piove, dovrebbe proprio essere molto bello.» «Non riesco assolutamente a capire il motivo della tua partenza» disse Hector Farraline, che non aveva ancora aperto bocca fino a quel momento. Aveva una voce stupenda, calda, dal timbro melodioso; anche se era un po' impastata nel pronunciare alcune parole, si indovinava che, quando era perfettamente sobrio, la sua dizione doveva essere bellissima, con quel leggero tono cantilenante caratteristico del nord della Scozia, e del tutto priva della cadenza edimburghese, più blanda e monotona, che risuonava nella parlata di Mary. «Griselda ha bisogno di lei, zio Hector» Oonagh disse. «Il periodo durante il quale una donna aspetta il suo primo figlio è sempre carico di emotività e lei è facilmente impressionabile. Non mi sembra una cosa insolita che non si senta bene e sia un po' apprensiva.» Hector sembrò confuso. «Apprensiva? E per quale motivo? Non la circonderanno di tutte le cure possibili e immaginabili? Credevo che fosse gente benestante... una famiglia di un certo spicco dal punto di vista sociale. Almeno questo è quanto il giovane Connal mi aveva detto.» «Di spicco dal punto di vista sociale? I Murdoch?» Mary disse divertita, con voce tagliente, mentre sollevava di scatto le sopracciglia argentee e assumeva un'espressione sconcertata. «Non essere assurdo, mio caro. Sono originari di Glasgow. Nessuno che abbia una certa importanza ha mai sen-
tito parlare di loro.» «Si è sentito parlare di loro a Glasgow» Deirdra interloquì prontamente. «Alastair dice che hanno una posizione di un certo rilievo e, in ogni caso, un'enorme quantità di denaro.» Eilish rivolse il lampo di un sorriso a Hector; poi chinò gli occhi. «La mamma ha detto nessuno che abbia una certa importanza» osservò con voce quieta. «E secondo me questo significa che si può escludere l'intera Glasgow, non è vero, mamma?» Mary arrossì lievemente ma si rifiutò di battere in ritirata. «Per la maggior parte, anche se forse non proprio tutta. Credo che ci siano zone molto piacevoli un po' più a nord.» «Per l'appunto.» Eilish sorrise con gli occhi chini sul proprio piatto. Hector si aggrottò. «In tal caso perché non viene a casa per avere il suo primo bambino, qui dove possiamo circondarla di mille cure? Se quelle sono persone che non hanno nessuna importanza a Glasgow, cosa ci sta a fare a Londra?» Dopo questa battuta che aveva una sua logica un po' stramba si voltò a guardare Mary con gli occhi offuscati, la faccia piena di confusione, dominando a fatica la collera. «Tu dovresti rimanere qui e Griselda dovrebbe tornare a casa di modo che il suo bambino nasca in Scozia. Perché quel come-si-chiama...» raggrinzì la faccia socchiudendo gli occhi. «Come si chiama?» E guardò Oonagh. «Connal Murdoch» si affrettò a ricordargli lei. «Già» confermò Hector. «Proprio così! Per quale motivo Colin Murdoch...» «Connal, zio Hector.» «Come?» Adesso era completamente confuso. «Si può sapere di che cosa stai parlando? Perché continui a interrompermi e poi ripeti quello che dico?» «Prendi un bicchiere d'acqua.» Oonagh fece seguire i fatti alle parole e gliene riempì un bicchiere, passandoglielo. Lui non lo degnò di uno sguardo e bevve un sorso del vino che aveva davanti. Ma non continuò a parlare. Hester ebbe la netta impressione che avesse dimenticato quel che stava per dire. «Quinlan sostiene che riapriranno il caso Galbraith» Deirdra disse nel silenzio che seguì; e subito la sua faccia prese un'espressione tesa, chiusa, come se si pentisse di aver scelto proprio quell'argomento. «Quinlan è il marito di Eilish» Oonagh spiegò a Hester. «Ma lui non ha niente a che vedere con la professione legale e quindi non so fino a che
punto la sua informazione sia affidabile. Secondo me si tratta semplicemente di un pettegolezzo.» Hester si aspettava che Eilish si lanciasse in sua difesa e insistesse nell'affermare che aveva ragione e aveva detto la cosa giusta oppure che non aveva l'abitudine di ascoltare, e tanto meno di ripetere, i pettegolezzi. Invece rimase in silenzio. Hector scrollò la testa. «Non farà certo piacere ad Alastair» disse acido. «Non farà piacere a nessuno.» Mary adesso sembrava malcontenta, e una ruga le segnò la fronte fra le sopracciglia. «Credevo che ormai quella faccenda fosse definitivamente chiusa.» «E io mi aspetto che lo sia» Oonagh disse con convinzione. «Non pensarci, mamma. Sono semplicemente chiacchiere. Quando non avranno seguito, nessuno le sentirà più.» Mary la guardò con aria grave ma non rispose. «Con tutto questo vorrei che tu non partissi per Londra» Hector disse senza rivolgersi a nessuno in particolare. Aveva l'aria triste e angustiata, come se quella partenza fosse una specie di offesa personale, per lui. «Si tratta soltanto di pochi giorni» Mary replicò e la sua faccia prese un'espressione incredibilmente gentile mentre lo guardava. «Lei ha bisogno di essere rassicurata, mio caro; è molto, molto preoccupata, sul serio, sai.» «Non riesco a capire perché.» Hector scrollò la testa. «Un sacco di stupidaggini. Chi sono questi Munro. Non si occupano di lei nel modo più decente? Possibile che Colin Munro non abbia un medico?» «Murdoch...» e le labbra di Oonagh si strinsero in una smorfia di impazienza. «Connal Murdoch. Certo, che ha un dottore. Senza dubbio ha anche delle levatrici. Ma la questione è come Griselda si sente. E poi la mamma rimarrà lontano una settimana soltanto.» Hector allungò la mano per bere un altro po' di vino e non disse niente. «Hanno nuove prove per il caso Galbraith?» Mary domandò, rivolgendosi a Deirdra, sempre con quella ruga tra le sopracciglia. «Alastair non me ne ha parlato» Deirdra replicò, e parve stupita. «Oppure se l'ha fatto, non me ne ricordo. Mi sembra che abbia detto che le prove non erano sufficienti e quindi la causa va considerata chiusa.» «Precisamente» disse Oonagh in tono fermo. «La gente ne parla semplicemente perché sarebbe stato un tale scandalo se Galbraith avesse dovuto presentarsi a un processo, essendo la persona che è! Ci saranno sempre gli invidiosi di un uomo nella sua posizione, gente che fa andare la lingua a
tutto spiano, sia che abbiano qualcosa di cui parlare sia in caso contrario. Il pover'uomo è stato costretto a lasciare Edimburgo. E questa dovrebbe essere la fine della faccenda.» Mary le lanciò un'occhiata, fece per parlare, poi cambiò idea e abbassò gli occhi sul proprio piatto. Nessun altro aggiunse qualcosa. Il resto del pasto passò accompagnato solo da qualche rara osservazione occasionale e, quando fu finito, Oonagh suggerì a Hester di prendersi qualche ora di riposo prima dell'inizio del viaggio di ritorno. Se voleva, poteva salire servendosi dello scalone principale alla camera da letto già predisposta per lei. Hester accettò con gratitudine e aveva già cominciato a salire i gradini quando incontrò di nuovo Hector Farraline. Lui era più o meno a metà della rampa e aveva il viso devastato dal dolore e, sotto il dolore, da una collera violenta. Stava fissando il ritratto che si trovava appeso alla parete di fondo, all'estremità opposta del vestibolo dal pavimento a riquadri bianchi e neri. Hester dovette fermarsi proprio dietro di lui. «È molto bello, vero?» disse, intendendo le proprie parole come una specie di conferma di ciò che Hector pensava. «Bello?» Lui disse con amarezza e senza voltarsi a guardarla. «Oh, sì, molto bello. Era un uomo di grande bellezza, Hamish. E si considerava, anche un uomo straordinario.» La sua espressione non cambiò; né lui si mosse ma rimase aggrappato alla balaustra, un po' affacciato nel vuoto al di là di essa. «Volevo dire che è un bel ritratto» Hester si corresse. «Naturalmente io non ho conosciuto quel signore e quindi non posso fare commenti su di lui.» «Hamish? Mio fratello Hamish. Naturale che non lo ha conosciuto. È morto da otto anni anche se con quell'affare appeso lì io non ho mai la sensazione che sia veramente morto del tutto... semplicemente mummificato e ancora presente, qui con noi. Dovrei costruire una piramide e mettercelo sotto... ecco una buona idea. Un milione di tonnellate di granito. Una tomba simile a una montagna!» Molto lentamente scivolò verso il basso finendo seduto sulla pedata dello scalino, le gambe allargate attraverso la rampa, bloccandole la strada. Sorrise. «Due milioni! Che aspetto possono avere due milioni di tonnellate di roccia, signorina... signorina...» i suoi occhi la fissarono, grandissimi e offuscati. «Latterly» si affrettò a soggiungere Hester. «Il mio nome è Hester Lat-
terly» spiegò lentamente. «Molto piacere. Hector Farraline.» Abbozzò il gesto di inchinarsi e scivolò giù di un altro scalino, venendo a sbattere contro le caviglie di Hester. Lei si tirò indietro. «Piacere, signor Farraline.» «Mai visto le grandi piramidi egiziane?» Domandò lui con aria piena di innocenza. «No. Non sono mai stata in Egitto.» «Dovreste andarci. È molto interessante.» Assentì parecchie volte e Hester ebbe paura che scivolasse ancora più in basso sui gradini. «In ogni caso lo farò, dovesse mai capitarmi l'occasione» si affrettò a rassicurarlo. «Mi pareva di aver sentito dire da Oonagh che eravate stata da quelle parti.» Si sforzò di concentrarsi, raggrinzendo tutta la faccia. «Oonagh non sbaglia mai, mai. È una donna proprio snervante. Mai discutere con Oonagh. Legge nei tuoi pensieri come chiunque altro leggerebbe in un libro aperto.» «Sono stata in Crimea.» Hester si tirò indietro scendendo un altro gradino. Non voleva che lui la facesse cadere, casomai avesse perduto di nuovo l'equilibrio, cosa che sembrava in imminente pericolo di fare. «Crimea? E per che cosa?» «La guerra.» «Oh.» «Mi domando...» stava per chiedergli se la poteva lasciar passare quando udì alle proprie spalle il passo cauto, pieno di discrezione, del maggiordomo, McTeer. «E per quale motivo voi dovreste andare in guerra?» Hector si rifiutava di cercare di risolvere quell'enigma. «Siete una donna, non potete combattere!» Cominciò a ridere come se quest'idea lo divertisse. «Su, adesso andiamo, signor Farraline, prego» McTeer intervenne in tono fermo. «Salite nella vostra camera e sdraiatevi un po' sul letto. Non potete rimanere qui seduto tutto il pomeriggio. La gente ha bisogno di andare su e giù per le scale.» Hector si liberò con una scrollata di lui. «Andatevene, brav'uomo» disse spazientito. «Avete una faccia che sembra quella di una prefica a un funerale. Non potreste avere un aspetto peggiore neanche se il funerale fosse il vostro.» «Sono dolente, signorina.» McTeer si voltò a guardare Hester con aria di scusa. «È un po' noioso, ma innocuo. Non vi darà alcun fastidio, salvo con
le sue continue chiacchiere.» Afferrò Hector prendendolo sotto le braccia e lo costrinse a rialzarsi in piedi. «Su, venite adesso, non vorrete che la signorina Mary vi veda mentre vi state comportando come uno sciocco, vero?» Bastò sentir nominare Mary perché Hector diventasse immediatamente sobrio. Rivolse un ultimo sguardo carico di veleno al ritratto in fondo al vestibolo, poi lasciò che McTeer lo aiutasse a rimettersi ben saldo sulle gambe e, insieme, ripresero a salire lentamente i gradini, lasciando a Hester la possibilità di seguirli senza problemi. Hester dormì, anche se non ne aveva avuto nessuna intenzione, e si svegliò trasalendo per scoprire che era venuto il momento di prepararsi a una cena un po' anticipata e a portare la sua sacca da viaggio giù, nel vestibolo, insieme al mantello, perché tutto fosse pronto per andare alla stazione. La cena venne servita in sala da pranzo, ma stavolta la tavola risultò apparecchiata per dieci. A capotavola, adesso, sedette Alastair Farraline. Era un uomo dall'aspetto imponente e Hester lo riconobbe subito per quello che doveva essere in quanto la somiglianza con le altre persone di famiglia era stupefacente. Aveva la stessa faccia allungata e i capelli biondi, considerevolmente radi sulla fronte, il naso sottile, aquilino, e la bocca larga. La sua struttura fisica, la sua figura nel complesso, assomigliava più a quella di Mary che a quella dell'uomo del ritratto e, quando parlò, la sua voce si levò profonda e calda. Era senz'altro la sua caratteristica più rimarchevole. «Piacere, signorina Latterly. Vi prego, accomodatevi.» Le indicò l'ultima sedia che era rimasta vuota. «Sono lieto che abbiate accettato la nostra proposta di accompagnare la mamma a Londra. In questo modo potremo essere tutti più tranquilli per quello che riguarda il suo benessere e la sua salute.» «Vi ringrazio, signor Farraline. Farò del mio meglio perché abbia un viaggio facile e piacevole.» Prese posto rivolgendo un sorriso alle altre persone che sedevano intorno al tavolo. Mary stavolta occupava il posto all'altra estremità, di fronte ad Alastair, e alla sua destra era seduto un uomo sulla quarantina dall'aspetto completamente diverso da quello degli altri Farraline, esattamente come era diverso l'aspetto di Dierdra. Aveva una testa massiccia, squadrata, e i capelli folti, quasi neri, pettinati all'indietro, appena appena ondulati. Gli occhi erano infossati sotto le sopracciglia scure, il naso prominente era dritto, forte, e la bocca rivelava non solo una natura appassionata, ma anche una grande forza di volontà. Era una faccia
interessante, diversa dal solito, e così la giudicò anche Hester. A Mary non sfuggì la sua occhiata. «Mio genero, Baird McIvor.» E glielo presentò con un sorriso pieno di affetto. Poi si voltò al giovanotto seduto alla sua sinistra, di fianco a Oonagh. Evidentemente era anche lui un membro della famiglia perché i suoi colori erano simili a quelli degli altri e la sua faccia rivelava la stessa incertezza, la stessa sfumatura di umorismo e di vulnerabilità. «Mio figlio Kenneth» disse. «E l'altro è mio genero, Quinlan Fyffe.» Intanto rivolgeva lo sguardo verso l'unica persona che Hester ancora non conoscesse. Anche lui era biondo, ma di un biondo chiarissimo, quasi argenteo, e i suoi capelli, dai ricci fitti fitti, erano tagliati cortissimi. Aveva la faccia lunga, il naso dritto e un po' troppo massiccio rispetto agli altri lineamenti, la bocca piccola, ben cesellata. Era una faccia intelligente, che rivelava meticolosità, la faccia di un uomo che tanto diceva, tanto sapeva nascondere. «Piacere» Hester ripeté puntigliosamente. Ciascuno degli altri due replicò e la conversazione si svolse sporadica, un po' stentata, mentre veniva servita la prima portata. Le domandarono del suo viaggio da Londra e lei rispose che era stato eccellente e li ringraziò per il loro interessamento. Alastair si aggrottò e lanciò un'occhiata al fratello più giovane che pareva assorto nel cibo che aveva nel piatto e stava divorando con una fretta straordinaria. «Abbiamo tutto il tempo del mondo, Kenneth. Il treno non parte fino alle nove e un quarto.» Kenneth continuò a mangiare e non voltò la testa per guardare Alastair. «Io non vengo alla stazione. Farò i miei addii alla mamma qui.» Ci fu un attimo di silenzio. Anche Oonagh smise di mangiare e si voltò verso di lui. «Esco» fece il giovanotto con una voce che aveva assunto un tono di sfida. Ma Alastair non fu soddisfatto di quella risposta. «Si può sapere dove vai, visto che prima ceni qui, a casa, però non puoi venire alla stazione con noi per salutare la mamma?» «Che differenza c'è se le faccio i miei addii qui invece di farglieli alla stazione?» Kenneth domandò. «E se sono qui a mangiare la spiegazione è perché a questo modo posso salutarla come si conviene, invece di essere già uscito prima ancora di cena.» Sorrise come se questa fosse la risposta più soddisfacente del mondo. Alastair arricciò le labbra ma non aggiunse altro. Kenneth continuò a mangiare, sempre in fretta. La seconda portata venne servita; mentre tutti mangiavano Hester si mi-
se a studiare, con discrezione, le facce dei Farraline. Kenneth, era chiaro, pensava soltanto al suo prossimo impegno, di qualsiasi cosa si trattasse. Non guardava né a destra né a sinistra, ma continuava a divorare ciò di cui si era servito senza interruzione; poi rimase al suo posto, con un'espressione chiaramente spazientita mentre aspettava che la cameriera gli togliesse il piatto, e si passasse alla portata successiva. Due volte alzò la testa e gli occhi di scatto, come se volesse dire qualcosa, e Hester intuì che, se ne avesse avuto il coraggio, avrebbe chiesto che la sua porzione gli venisse servita separatamente, prima degli altri. Hector mangiò molto poco ma vuotò due volte il bicchiere del vino. Prima di riempirglielo per la terza volta, McTeer si voltò cercando di incrociare lo sguardo di Oonagh. Lei scrollò impercettibilmente la testa e fu solo perché, in quel momento, la stava osservando che Hester poté notare quel gesto. McTeer portò via la bottiglia nel suo cestino, e Hector non disse niente. Deirdra accennò a una cena importante che si stava organizzando e alla quale le sarebbe piaciuto partecipare. «E per andarci, ti occorrerà un vestito nuovo, vero?» Alastair disse in tono secco. «Sarebbe bello poterlo avere» ammise lei. «Il mio unico desiderio è quello di farti figurare nel miglior modo possibile, mio caro. Non mi farebbe molto piacere se la gente pensasse che la moglie del Procuratore Fiscale indossa sempre lo stesso vestito a una cerimonia dopo l'altra.» «C'è ben poco rischio che succeda qualcosa del genere» Quinlan ribatté con un sorriso. «Quest'anno te ne sei fatta almeno sei... a quanti ne ho potuti contare io!» Ma non c'era rancore nella sua voce, solo una sfumatura divertita. «Nella sua qualità di moglie del Procuratore Fiscale, lei deve partecipare a tutti questi avvenimenti mondani molto più di qualsiasi altro di noi» Mary disse in tono suadente. E poi soggiunse: «Grazie a Dio» sottovoce. Baird McIvor la guardò con un sorriso. «A te non interessano queste serate d'onore pubbliche, mamma, vero?» Parlò come se sapesse già la risposta; il suo viso olivastro rivelava non solo quanto fosse divertito da quella confessione ma anche il considerevole affetto che doveva provare per lei. «No, infatti» confermò Mary, con gli occhi scintillanti. «Un mucchio di gente che crede di essere chissà chi, seduta intorno a un tavolo a mangiare esageratamente bene, che enuncia opinioni pompose e solenni su tutto e su tutti. Mi capita spesso di pensare che se una persona si azzardasse a dire
una battuta di spirito sarebbe immediatamente punita, magari con una multa, e poi mandata via.» «Esageri, mamma.» Alastair scrollò la testa. «Il giudice Campbell è un po' acido, sua moglie è eccessivamente piena di sé, il giudice Ross ha la tendenza a schiacciare un pisolino appena possibile, ma nella gran parte gli altri sono persone abbastanza accettabili.» «La signora Campbell?» Mary alzò le sopracciglia argentee e la sua espressione diventò severa, e un po' maligna. «Giuro che non ho mai seeentito proprio gnente di simile a questo, ma proprio gnente, dal giorno in cui sono naaata!» Esclamò con un accento esageratamente affettato. «Quando noi si era rigazze, poi non...» Eilish scoppiò in una risatina convulsa lanciando un'occhiata a Hester. Evidentemente si trattava di uno scherzo abbastanza noto e ripetuto in famiglia. «Quando lei era "rigazza", suo nonno faceva il pescivendolo sul molo lungo il Leith e sua madre correva in giro a far commissioni per il vecchio McVeigh» Hector disse torcendo le labbra. «No, possibile!» Oonagh non nascose la propria incredulità. «La signora Campbell?» «Certo... ma a quell'epoca si chiamava Jeannie Robertson» le assicurò Hector. «Con due treccioline castane che le penzolavano sulla schiena, proprio così..., sissignora... e le scarpe sfondate.» Deirdra lo osservò con nuovo interesse. «Me ne ricorderò la prossima volta che mi guarda dall'alto in basso con quel sogghigno sulla faccia!» «Il suo vecchio è morto annegato» Hector continuò, visibilmente soddisfatto di quell'uditorio che pendeva dalle sue labbra. «Ha bevuto un goccio di liquore di troppo, ed è caduto giù dal molo una sera di dicembre. Nel ventisette, ricordo. Proprio così, milleottocento ventisette.» Alla fine l'impazienza di Kenneth ebbe il sopravvento sulla cautela. Voltandosi verso McTeer, gli ordinò di servirgli il dessert prima degli altri. Mary si accigliò; Alastair aprì la bocca come se volesse dire qualcosa, poi colse un'occhiata di Mary e cambiò idea. Oonagh fece qualche osservazione a proposito di una commedia che veniva rappresentata in quei giorni in città. Quinlan si dichiarò d'accordo con lei e Baird lo contraddisse immediatamente. Si trattava di una questione totalmente priva di importanza eppure Hester rimase sconcertata sentendo che le loro voci erano venate da una tale animosità da lasciar quasi pensare che si trattasse di un argomento di enorme interesse personale, di un sog-
getto di estrema importanza per tutti. Lanciò un'occhiata alla faccia di Quinlan e si accorse che i suoi occhi si erano induriti, e stringeva le labbra guardando fisso davanti a sé. Dall'altra parte del tavolo, proprio di fronte a lui, sedeva Baird, incupito, le sopracciglia aggrottate, le mani contratte. Pareva che si crogiolasse in qualche segreto dispiacere. Eilish non guardava né l'uno né l'altro ma teneva gli occhi bassi sul proprio piatto, gingillandosi con la forchetta, trascurando il cibo che aveva davanti. Nessuno diede l'impressione di considerare la scena come qualcosa di particolarmente diverso dal solito. Mary si rivolse ad Alastair. «Deirdra dice che hanno intenzione di riaprire il caso Galbraith. È vero?» Alastair alzò lentamente la testa mentre la sua faccia prendeva un'espressione dura, guardinga. «Chiacchiere» rispose a denti stretti. Poi lanciò uno sguardo verso il fondo della tavola, verso sua moglie. «È ripetendo cose del genere che si offre alla gente ignorante la possibilità di fare supposizioni, ed è così che viene rovinato il buon nome di certa gente. Mi spiace che tu non abbia capito come sarebbe stato meglio evitare commenti simili.» La faccia di Mary diventò cianotica per quell'insulto, ma non aprì bocca. Le guance di Deirdra si coprirono di rossore, e i muscoli della sua gola ebbero una contrazione. «Non ne ho accennato a nessuno fuori da questa stanza» ribatté infuriata. «È un po' difficile che la signorina Latterly si metta a correre in giro per Londra e vada a riferirlo alla gente. Nessuno di loro ha mai sentito parlare di Galbraith! E in ogni caso, è vero? Hanno intenzione di riaprire il processo?» «No, naturalmente no» Alastair ribatté furioso. «Non esistono prove. Ci fossero state, io per il primo non avrei emesso un'ordinanza di non luogo a procedere.» «Non ci sono nuove prove?» Mary insistette. «Non ci sono assolutamente prove, né vecchie né nuove» Alastair replicò, incrociando il suo sguardo con aria sicura, e pronunciando queste parole con tono di finalità. Kenneth si alzò da tavola. «Scusatemi. Devo andare altrimenti arriverò tardi.» Si chinò a sfiorare la guancia di sua madre con un bacio. «Ti auguro buon viaggio, mamma. Saluta Griselda affettuosamente per me. Verrò a prenderti alla stazione quando tornerai a casa.» Si voltò verso Hester. «Arrivederci, signorina Latterly. Piacere di aver fatto la vostra conoscenza.
Sono lieto che la mamma venga affidata a mani tanto capaci. Buona notte.» E con un cenno generico di saluto verso gli altri uscì dalla stanza richiudendo la porta. «Si può sapere dove va?» Alastair domandò stizzito. Si guardò intorno, fissando gli altri seduti intorno al tavolo. «Oonagh?» «Non ne ho nessuna idea» Oonagh disse. «Una donna, suppongo,» Quinlan insinuò con l'ombra di un sorriso. «C'è da aspettarselo.» «Be', e come mai non ne sappiamo niente?» Alastair domandò. «Se la corteggia, dovremmo pur sapere di chi si tratta!» Lanciò un'occhiataccia al cognato. «Sei al corrente di qualcosa, tu, Quin?» Quinlan sgranò gli occhi, stupefatto. «No. No, e nel modo più assoluto! La mia era semplicemente un'ipotesi. Magari mi sbaglio. Magari va a giocare d'azzardo, e perché non potrebbe andare a teatro?» «Per il teatro è tardi» Baird intervenne con prontezza. «Ma lui ha detto di essere in ritardo!» Quinlan obiettò. «No, niente affatto. Ha detto che sarebbe stato in ritardo se avesse aspettato che noi finissimo» Baird lo contraddisse. «Sono soltanto le otto meno dieci minuti» Oonagh interloquì. «Forse si tratta di un teatro qui nelle vicinanze.» «Da solo?» Alastair domandò dubbioso. «Può darsi che si trovi in teatro con qualcuno. Ma insomma, è proprio così importante?» Eilish domandò. «Se sta facendo la corte a una ragazza, ce l'avrebbe detto... soprattutto se è convinto che sta ottenendo qualche successo...» «Voglio sapere di chi si tratta prima che lui abbia "qualche successo"!» E Alastair le lanciò un'occhiataccia. «Perché a quel punto potrebbe anche essere troppo tardi!» «Smettila di arrabbiarti per qualche cosa che non è ancora avvenuto» Mary disse brusca. «E adesso... McTeer, veda di far servire il dessert e ci lasci concludere piacevolmente il nostro pasto prima di accompagnare la signorina Latterly e me alla stazione. È una bella serata e avremo un viaggio piacevole. Hector, mio caro, saresti tanto gentile da passarmi la panna liquida? Sono sicura, di qualsiasi dolce si tratti, che mi piacerà metterci sopra un po' di panna liquida.» Con un sorriso Hector ubbidì e il resto del pasto venne trascorso tra chiacchiere futili e prive di interesse, fino a quando arrivò il momento di alzarsi, fare i saluti necessari, raccogliere mantelli e bagaglio, e avviarsi
verso la carrozza che aspettava. 2 «Su, vieni, mamma.» Alastair prese Mary per un braccio e la guidò attraverso la folla verso il treno per Londra, enorme e splendente di fianco al marciapiede, gli sportelli dalle maniglie in ottone spalancati, le vetture dalle fiancate lucenti che pareva giganteggiassero su di loro mentre gli si avvicinavano. La locomotiva buttò fuori un altro sbuffo di vapore. «Non preoccuparti, abbiamo ancora mezz'ora» Alastair disse subito. «Dov'è Oonagh?» «È andata a controllare se il treno partirà in orario, credo» Deirdra replicò, accostandosi un poco di più a lui per lasciare il passo a un facchino che stava arrivando con un carrettino sul quale erano state caricate cinque valigie. «'sera, signorina.» L'uomo abbozzò il gesto di toccarsi l'ala del berretto con un dito. «'sera, signore, signora.» «'sera» risposero loro distrattamente. Si aspettavano quella cortesia eppure la consideravano come un'intrusione sgradita nel loro gruppo. Hector stava un po' in disparte con il colletto del soprabito rialzato come se sentisse freddo, gli occhi fissi sulla faccia di Mary, anche se lei era girata lievemente di lato e gli dava quasi le spalle. Eilish stava avviandosi verso lo sportello spalancato della carrozza, piena di curiosità. Baird si era messo di guardia alle tre valigie di Mary e Quinlan passava il peso del corpo da un piede all'altro come se provasse una vaga impazienza e non vedesse l'ora che tutta quella faccenda fosse finita. Oonagh ritornò, rimase indecisa per un istante, guardando prima Alastair e poi sua madre; infine, come se avesse raggiunto una decisione, prese Mary per un braccio e insieme si avviarono lungo il marciapiede fino a raggiungere la carrozza dove si erano fatti riservare i posti. Hester le seguì tenendosi indietro di un paio di metri. Mary sarebbe rimasta assente solo una settimana, ma anche in tal caso non era il momento più adatto perché un'estranea, e soprattutto una persona che era alle sue dipendenze, dovesse imporre in modo specifico la propria presenza. Per Hester, i doveri che l'aspettavano, non erano ancora cominciati. Nell'interno, la carrozza era del tutto diversa da quella di seconda classe sulla quale Hester aveva viaggiato all'andata. Non era costituita da un vasto spazio aperto con rigidi sedili dallo schienale duro, ma da una serie di
scompartimenti separati, ciascuno con due sedili imbottiti, l'uno di fronte all'altro, disposti in modo da poter far sedere affiancate almeno tre persone con la massima comodità oppure... che pensiero meraviglioso!... da consentire a una persona di rannicchiarsi su uno di essi e, rialzate le gambe con i piedi nascosti sotto la gonna, dormire con una certa comodità. C'era quel tanto di privacy necessaria a sentirsi al riparo da qualsiasi presenza importuna in quanto le bastò un'occhiata per capire che lo scompartimento era stato riservato interamente per la signora Mary Farraline e la sua compagna. Hester si sentiva già più sollevata di spirito. Sarebbe stato ben diverso dal lungo e sfibrante viaggio di andata durante il quale era riuscita solo a schiacciare qualche pisolino, breve e spesso disturbato. Si scoprì a sorridere nell'aspettativa. Mary rivolse appena uno sguardo intorno a sé quando salì in vettura. Probabilmente aveva già viaggiato in prima classe, su un treno, e di conseguenza tutto questo non aveva il minimo interesse per lei. «Le valigie sono nel bagagliaio, affidate alla guardia» Baird disse dalla porta fissando Mary in faccia con quello sguardo attento e incisivo che sembrava dedicato soltanto a lei, e a nessun altro, quando parlava. «Penseranno loro a scaricarlo per voi a Londra. E fino a quel momento potrete dimenticarvene.» Alzò la valigetta che conteneva il necessario per la notte, gli oggetti da toilette e l'astuccio della medicina sistemandola sulla reticella portabagagli per lei. Alastair gli rivolse un'occhiata stizzosa, poi non si prese più la briga di dire altro come se tutto fosse già stato detto prima, e non fosse servito né allora né adesso a cambiare qualcosa, o forse perché in quelle circostanze erano cose troppo banali di cui preoccuparsi. Tutta la sua attenzione era concentrata sulla madre. Aveva l'aria turbata, sembrava di cattivo umore. «Credo che tu abbia tutto quanto ti può occorrere, mamma. Spero che il tuo viaggio sarà tranquillo, senza imprevisti.» Non guardò Hester, ma il significato delle sue parole era evidente. Si chinò come se volesse baciare Mary su una guancia; poi evidentemente cambiò idea e si raddrizzò di nuovo sulla persona. «Griselda verrà a prenderti, naturalmente.» «E noi saremo qui a riceverti al tuo ritorno, mamma» Eilish disse con un rapido sorriso. «Un po' difficile, mia cara.» L'espressione di Quinlan rifletteva molto chiaramente i suoi pensieri. «Arriverà alle otto e mezzo del mattino. Ti è mai capitato di essere già alzata a quell'ora?» «Posso essere alzata... se qualcuno mi sveglia» Eilish ribatté in tono di
difesa. Baird aprì la bocca poi la richiuse senza parlare. Oonagh aggrottò le sopracciglia. «Naturale che puoi, basta che tu abbia volontà a sufficienza per farlo.» Tornò a rivolgersi a Mary. «E adesso, mamma, hai tutto quanto ti occorre? È qui lo scaldino per i piedi?» Abbassò gli occhi verso il pavimento e lo sguardo di Hester seguì il suo. Gli scaldini. Che idea magnifica. Durante il viaggio di andata aveva provato un tal freddo ai piedi che a un certo punto le era perfino sembrato di non sentirli più. «Mandate a prenderli» Quinlan esclamò alzando le sopracciglia. «Devono esserci.» «Eccoli» Oonagh gli rispose, curvandosi per tirar fuori da sotto uno dei sedili una delle grosse bottiglie in pietra. Era riempita di acqua bollente con l'aggiunta di qualche sostanza chimica che, così si supponeva, una volta scossa energicamente, le avrebbe restituito qualcosa del calore che doveva aver lentamente perduto, secondo le leggi di natura, verso il mattino. «Eccoti qua, ben sistemata, mamma. È proprio bella calda, l'acqua! Appoggiaci sopra i piedi. Dov'è la coperta da viaggio, Baird?» Lui, ubbidiente, gliela porse e lei la prese e fece di tutto per sistemare Mary in modo che fosse il più comoda possibile, avvolgendogliela intorno; poi ripiegò quella di riserva su uno degli altri sedili. Nessuno prestava molta attenzione a Hester dalla quale, almeno in apparenza, nessuno si aspettava che cominciasse a dedicarsi alle proprie mansioni fino al momento vero e proprio della partenza. Lei sistemò la sacca da viaggio in modo che non desse fastidio, poi prese posto sul sedile di fronte e rimase ad aspettare. A poco a poco gli addii si conclusero e ciascuno dei Farraline si ritirò nel corridoio fino a quando l'unica a rimanere fu Oonagh. «Addio, mamma» disse a voce bassa. «Penserò io a tutto fintanto che sei via... e farò tutto come lo avresti fatto tu.» «Che cosa strana da dire, mia cara.» Mary sorrise divertita. «Ormai sei tu che ti occupi praticamente di tutto quanto riguarda il governo della casa. E adesso che mi ci fai pensare, credo che sia quello che stai facendo da molto tempo. Ma ti posso assicurare che non mi è mai neanche passato per l'anticamera del cervello di preoccuparmi!» Oonagh le diede un bacio a fior di labbra, poi si rivolse a Hester fissandola con uno sguardo incisivo e sereno. «Addio, signorina Latterly.» E dopo un attimo se n'era andata anche lei.
Mary si sistemò sul sedile in modo da essere un poco più comoda. Com'era naturale, viaggiava lei nella direzione della corsa del treno; sarebbe toccato invece a Hester di viaggiare guardando il paesaggio che fuori dal finestrino sfuggiva all'indietro. Sulla faccia di Mary si disegnò una smorfia, come se le ultime parole di Oonagh la divertissero, in certo qual modo. «Siete preoccupata?» Hester disse subito, chiedendosi se c'era qualche modo di diradare le sue paure. Mary Farraline non era soltanto una paziente, per lei, ma anche una persona nei confronti della quale provava d'istinto calore umano e affetto. Mary alzò le spalle, stringendole lievemente. «Oh no, non proprio. Non mi viene in mente nessuna cosa pratica di cui preoccuparmi. Avrete caldo abbastanza, mia cara? Vi prego, adoperate la coperta di scorta.» E le indicò dove Oonagh l'aveva posata. «È stata presa per voi. E poi, in fondo, avrebbero dovuto davvero fornirci uno scaldino ciascuna.» Fece schioccare lievemente la lingua fra i denti, e fu l'unica manifestazione di fastidio. «A ogni modo penso che una sarà del tutto sufficiente per noi due. Vi prego... cambiate posto e venite a sedervi proprio di fronte a me, e appoggiate i piedi sull'altra metà dello scaldino. E non discutete, sapete? Non riuscirei assolutamente a sentirmi a mio agio se sapessi che voi, lì seduta, tremate dal freddo. Ho preso abbastanza spesso treni dalla stazione di Edimburgo per essere familiare con le loro scomodità.» «Avete viaggiato molto?» Hester le domandò, spostandosi per prendere posto secondo le direttive di Mary e rendendosi conto che lo scaldino dava un sollievo incredibile ai suoi poveri piedi già ghiacciati. Fuori gli sportelli venivano chiusi fragorosamente e il facchino stava gridando qualcosa, ma la sua voce venne sommersa da una folata di vapore eruttato sibilando dalla locomotiva. Il treno cominciò a muoversi lentamente, sferragliando; poi a poco a poco acquistò velocità e ben presto sbucarono fuori dalla pensilina della stazione inoltrandosi nell'oscurità della campagna. «Sì, una volta viaggiavo molto» Mary rispose alla domanda mentre assumeva un'espressione sognante, l'espressione di chi si abbandona ai ricordi. «Luoghi di ogni genere: Londra, Parigi, Bruxelles, Roma. Sono andata perfino a Napoli una volta, e a Venezia. L'Italia è talmente bella.» Sorrise mentre a quel ricordo il suo viso si illuminava. «Tutti dovrebbero andarci almeno una volta nella vita. Preferibilmente quando si è sui trent'anni. Perché in questo caso si dovrebbe essere abbastanza maturi da rendersi conto
di quanto possa essere meravigliosa, da sentire e gustare qualcosa di tutto ciò che è stata, e provare la sensazione di essere circondati dal passato, che dà sempre profondità al presente. E nello stesso tempo quando si è sui trent'anni si è ancora abbastanza giovani perché il profumo del passato possa arricchire la parte più grande dell'esistenza.» Il treno adesso procedeva tra scossoni e sobbalzi a velocità sempre maggiore. «Secondo me è un peccato trovarsi di fronte a certi prodigi, nella propria vita, quando si è troppo giovani e quando si ha troppa fretta per valutarli per quello che sono. È tremendo valutare le fortune che si potrebbe aver avuto soltanto misurandole in retrospettiva.» Hester stava riflettendo con tale serietà sull'impatto di un simile pensiero da non trovare una risposta. «Ma anche voi avete viaggiato» Mary disse, posando gli occhi scintillanti sul viso di Hester. «E in modo molto più interessante di me... almeno per la maggior parte. Oonagh diceva che siete stata in Crimea. Se quelle memorie non sono troppo penose per voi, sarei ben felice di sentirvi raccontare qualcosa delle vostre esperienze. Confesso di avere in mente una tale quantità di domande da farvi... anche se capisco quanto poco conveniente sia! Sono sicura che è indice di cattiva educazione domandare troppe cose; d'altra parte sono vecchia abbastanza per non preoccuparmi di ciò che è considerato corretto e di ciò che non lo è.» Hester aveva già scoperto come le domande di molte persone fossero formulate malamente e basate su presupposizioni originate dal tempo di pace e dall'ignoranza dell'Inghilterra, perché lì, a casa, la grande maggioranza della gente sapeva soltanto quello che leggeva sui giornali. E per quanto l'abilità della stampa di criticare e sollevare dubbi, adesso, fosse ben maggiore di prima, i giornali continuavano tuttora a essere molto lontani, nelle loro descrizioni, dal tragico orrore della realtà. «Vi fa tornare alla memoria ricordi che possono turbarvi?» Mary si affrettò a dire, con un tono di voce che lasciava capire come volesse quasi scusarsene. «No, affatto» negò Hester, più per cortesia che perché quella fosse la verità. I suoi ricordi erano incisivi e complessi, ma solo raramente aveva provato il desiderio di sfuggirvi. «Ho solo paura che possano diventare noiosi per il mio prossimo perché io ho opinioni molto precise e decise su talmente tante cose che finisco per ripetermi quando insisto nel descrivere gli errori e mi capita di omettere quei particolari che forse potrebbero rendere più interessante il mio racconto.»
«Non credo che sarei minimamente interessata a un resoconto riguardoso e scialbo, senza nessun tocco drammatico, più o meno simile a quello che potrei leggere ogni giorno sul giornale.» Mary scrollò vigorosamente la testa. «Ditemi che cosa avete provato. Cos'è stato che vi ha meravigliato più di tutto? Cos'è stato il meglio, e cosa il peggio?» Con un gesto della mano affusolata le lasciò capire che poteva passar sopra qualcosa. «E non intendo le sofferenze dei soldati, perché quelle, le prendo per scontate. Alludo a ciò che riguarda voi, voi stessa.» Il treno adesso viaggiava a un ritmo sempre uguale che, con la sua regolarità, aveva qualcosa di calmante, distensivo. «I topi» Hester rispose senza esitare. «Il tonfo dei topi che cadevano dai muri sul pavimento; quello, e svegliarsi intirizzita.» E il ricordo era preciso e lucido, proprio come lo stava descrivendo; smussava i contorni del presente e le faceva dimenticare il piacevole calduccio della coperta in cui era avvolta. «Non era poi tanto brutto quando si era alzate e ci si muoveva di qua e di là... e bisognava pensare a quello che si stava facendo... ma quando ci si svegliava di notte con un tal freddo da non riuscire a riprendere sonno, anche se ci si sentiva quasi male dalla stanchezza, ecco quella è una delle sensazioni che mi è rimasta maggiormente impressa.» Sorrise. «Svegliarmi bella calda, imbacuccarmi di nuovo nelle coperte, udire la pioggia fuori, che scroscia, e sapere che nella mia camera non c'è niente di vivo all'infuori di me, questo sì che è meraviglioso.» Mary rise, e fu un suono caldo, squillante, di autentico divertimento. «Che facoltà imprevedibile è mai la memoria! Le cose più strane ci riportano il ricordo di tempi e luoghi che da chissà quanto credevamo perduti nel passato.» Si lasciò andare contro lo schienale del sedile, il viso disteso, gli occhi immersi in qualche fantasticheria lontana. «Lo sapete che io sono nata l'anno successivo a quello della caduta della Bastiglia...» «La caduta della Bastiglia?» Hester era confusa. Mary non la guardava più, ma fissava il suo sguardo su un ricordo che le era affiorato alla memoria tutto d'un colpo, che qualcosa aveva rievocato in modo nitido e accurato. «La rivoluzione in Francia, Luigi XVI, Maria Antonietta, Robespierre...» «Oh!, Oh, naturalmente.» Ma Mary pareva sempre assorta nei propri pensiero. «Che tempi furono quelli! L'imperatore aveva l'intera Europa sotto il suo dominio.» La voce di Mary si abbassò diventando un sussurrio pieno di timore reverenziale, tanto che si riusciva a malapena a percepirlo al di sopra dello sferragliare
più rumoroso delle ruote del treno sulle traversine. «Era a soli trenta chilometri lontano da noi, al di là della Manica, e soltanto la Marina faceva da ostacolo tra le sue armate e l'Inghilterra... e poi, naturalmente, anche la Scozia.» Il sorriso sulle sue labbra si accentuò e, a dispetto delle rughe che glielo segnavano e dei capelli d'argento, il suo viso parve colmarsi di un'innocenza e di un'espressione talmente radiosa da lasciar pensare che si fosse buttata gli anni dietro le spalle e fosse tornata a essere una giovane donna, momentaneamente imprigionata nel corpo di una vecchia. «Ricordo lo spirito che avevamo a quei tempi. Ci aspettavamo l'invasione da un giorno all'altro. Gli occhi di tutti erano rivolti a est; avevamo sistemato vedette in cima alle scogliere e fuochi di segnalazione pronti per essere accesi nel momento in cui il primo francese avesse messo piede sulla spiaggia. Su e giù lungo la costa ogni uomo, donna e bambino era di guardia e aspettava, pronte sottomano le armi di fortuna, fabbricate artigianalmente. Avremmo lottato fino all'ultimo di noi prima di consentirgli di conquistarci.» Hester taceva. L'Inghilterra era sempre stata sicura, per tutta la sua esistenza. Poteva immaginare cosa dovesse essere stato il timore di soldati stranieri che passassero da prepotenti per le strade, incendiando le case, distruggendo campi e fattorie, ma era soltanto un gioco dell'immaginazione, non avrebbe mai potuto nemmeno sfiorare la realtà. Perfino nei giorni peggiori della guerra di Crimea quando le truppe degli Alleati rischiavano di esser sconfitte, Hester aveva sempre visto l'Inghilterra in sé e per sé come un paese in pace, inespugnabile e, salvo per quello che riguardava i piccoli e modesti lutti, le perdite private e personali, intatto. «I giornali si erano messi a pubblicare vignette atroci su di lui.» Il sorriso di Mary si accentuò per un attimo poi si spense all'improvviso; ebbe un brivido e guardò dritto negli occhi Hester. «Le mamme avevano l'abitudine di impaurire i loro figlioletti quando erano disubbidienti, minacciandoli di chiamare "Bony" perché venisse a portarseli via. Ripetevano che divorava i bambini piccoli, e c'erano illustrazioni che lo raffiguravano con una gran bocca spalancata, coltello e forchetta tra le mani, e l'Europa sul piatto.» Il treno rallentò fino a procedere quasi a passo d'uomo mentre si inerpicava per una ripida pendenza. Una voce maschile gridò qualcosa di incomprensibile. Si levò un fischio. «E poi, quando anch'io ebbi i miei figli a Edimburgo» Mary continuò «la gente aveva preso l'abitudine di far paura a quelli che non ubbidivano con le storie di Burke e Hare. Strano, vero, come adesso ci sembra molto più
sinistro? Due irlandesi i quali avevano cominciato a vendere cadaveri a un medico perché potesse insegnare l'anatomia ai suoi studenti, e poi avevano continuato saccheggiando le tombe e infine arrivando addirittura all'assassinio.» Il treno riacquistò velocità. E lei guardò Hester incuriosita. «Chissà per quale motivo un assassinio commesso per sezionare cadaveri fa gelare il sangue nelle vene come non succede mai quando ci si sente raccontare la storia di un omicidio avvenuto per furto? In fondo, tutta questa storia venne fuori nel 1829, e Burke fu impiccato... Hare invece no, mai, sapete! A quanto posso dire io, è ancora vivo adesso!» Fu scossa da un brivido. «Però in seguito, ricordo che avevamo una cameriera la quale un bel giorno se ne andò senza dire niente a nessuno, senza avvertire che si licenziava. Non abbiamo mai saputo dove fosse finita... molto probabilmente era scappata con un uomo... ma, come è logico, tutti gli altri domestici non fecero che dire che erano stati Burke e Hare a impadronirsi lei, e che l'avevano fatta a pezzi in qualche posto, chissà dove!» Si avvolse più strettamente nello scialle, per quanto la carrozza ferroviaria non fosse certo più fredda di quel che era stata prima, i loro piedi continuassero a essere appoggiati sullo scaldino e i loro corpi piacevolmente avviluppati in una coperta. «A quell'epoca Alastair era sui dodici anni.» Si morse un labbro. «E Oonagh ne aveva sette, grande abbastanza per ascoltare queste storie e comprendere il terrore che suscitavano. Una notte, si era nel cuore dell'inverno ed era scoppiato un violento temporale, sentii il tuono e mi alzai per vedere se tutto andava bene. Li trovai insieme nella camera di Oonagh, seduti sul letto, imbacuccati in una coperta con la candela accesa. E compresi quello che era successo. Alastair aveva avuto un incubo. A volte, gli capitava. Era entrato nella camera di lei, presumibilmente per vedere se stava bene e non aveva paura, ma in realtà perché voleva sentire il conforto della sua presenza, voleva la sua compagnia. Anche lei era impaurita; con gli occhi della mente rivedo ancora il suo faccino, pallidissimo, con gli occhi sbarrati, ma intenta a spiegare nel modo più persuasivo ad Alastair che Burke era stato impiccato e ormai era morto, ma proprio morto, si poteva stare sicuri!» Proruppe in una risatina aspra. «E come descriveva tutto questo fin nei minimi particolari, tanto ne era convinta!» Hester non ebbe difficoltà a immaginare la scena. Due bambini seduti uno accanto all'altro, che fingevano di rassicurarsi a vicenda e sussurravano con voce roca storie orribili di ladri di cadaveri, di chi li disseppelliva
clandestinamente per venderli agli anatomisti, di oscuri assassinii in vicoli bui, e del tavolo insanguinato del chirurgo che sezionava quei corpi. Ricordi simili rimangono impressi profondamente, e cose di questo genere condivise con qualcun altro creano un tale vincolo, nato dalla sicurezza e dalla fiducia, che gli altri, in seguito, ne vengono automaticamente esclusi. Lei non aveva mai condiviso niente del genere con Charles, il fratello maggiore, troppo pieno di dignità per cedere a debolezze simili, anche fin dai tempi più lontani ai quali potesse tornare con i suoi ricordi. Era stato James quello col quale lei aveva avuto dei segreti, e vissuto delle avventure. Ma James era stato ucciso in Crimea. «Mi spiace» Mary disse piano, e la sua voce si insinuò nei pensieri di Hester. «Ho detto qualcosa che vi ha dato dolore.» Non era una domanda, ma un'affermazione. Hester rimase sconcertata. Aveva pensato che Mary si rendesse conto della sua presenza solo marginalmente, e certo non con tale attenzione e curiosità da intuire quello che lei provava. «Forse quello dei dissacratori di tombe per trafugare cadaveri non è stato l'argomento migliore, avrei dovuto immaginarlo» Mary osservò con un po' di disagio. «No, assolutamente» Hester si affrettò a rassicurarla. «Stavo pensando ai due bambini insieme, e mi è tornato in mente mio fratello minore. Mio fratello maggiore è sempre stato un po' troppo pieno di sé, troppo pomposo, ma James era divertente.» «Ne parlate con il verbo al passato. E... se ne è andato per sempre?» La voce di Mary si fece dolce e gentile, come se anche lei conoscesse fin troppo bene lo strazio di chi ha perduto qualcuno. «Sì, in Crimea» Hester replicò. «Come mi spiace. Dire che capisco quello che provate sarebbe assurdo, ma ne ho una vaga idea. Io ho avuto un fratello ucciso a Waterloo.» Pronunciò questa parola con cura, meditatamente, come se avesse qualcosa di mistico. Per molte persone dell'età di Hester poteva essere quasi incomprensibile però lei aveva sentito troppi soldati che ne parlavano per non sentirsi accapponare la pelle. Era stato il più grande scontro su un campo di battaglia avvenuto in Europa, il crollo di un impero, la fine dei sogni, e l'inizio dell'età moderna. Uomini di tutte le nazioni avevano combattuto fino a non reggersi più in piedi per la spossatezza e sul campo erano rimasti i feriti e i morti di tutti gli eserciti d'Europa, come lord Byron aveva detto, «confusi in una sola rossa sepoltura».
Alzò gli occhi e sorrise a Mary in modo che si rendesse conto come anche lei potesse comprendere almeno in parte qualcosa della sua grandiosità. «Io a quell'epoca ero a Bruxelles» riprese Mary con le labbra che si curvavano in una smorfia ironica. «Mio marito era soldato, maggiore nei Royal Greys...» Hester non udì più il resto di ciò che le veniva detto. Il fragore con cui le ruote del treno correvano sui binari, sferragliando, rendevano impossibile cogliere tutte le parole, qualcuna andava perduta... ma la sua mente era concentrata in modo totale sulla figura dell'uomo del ritratto con quel ciuffo biondo e una faccia che rivelava contemporaneamente tanta intensità di sentimenti, tanta vulnerabilità e un ambiguo senso del potere. Non era difficile immaginarlo alto, eretto, di un'eleganza suprema in uniforme, consumare la notte fra le danze in qualche salone di Bruxelles, senza mai dimenticare neanche per un attimo che al mattino sarebbe balzato a cavallo per andare a combattere una battaglia tale da decidere la nascita o la caduta delle nazioni, dalla quale migliaia di uomini non sarebbero più ritornati e altre migliaia ancora, e ben più numerosi, sarebbero usciti ciechi o mutilati. Poi ripensò al dipinto che aveva visto della carica dei Royal Scots Greys a Waterloo, al balenio della luce su quei cavalli bianchi che si lanciavano nel folto della mischia, con la criniera svolazzante, i cavalieri in giacca rossa protesi sul collo dell'animale, la polvere e il fumo dei cannoni che annebbiavano tutto il resto, che oscuravano la scena dietro di loro. «Dev'essere stato un uomo straordinario» esclamò impulsivamente. Mary parve sorpresa. «Hamish?» Sospirò lievemente. «Sì, certo che lo è stato. Adesso sembra che appartenga a un altro mondo, Waterloo, a un passato talmente lontano! Erano anni che non ci pensavo più.» «È tornato dalla battaglia sano e salvo?» Hester non aveva paura di fare questa domanda perché sapeva che era morto solo da otto anni; Waterloo, invece, risaliva a ben quarantadue anni prima. «Con graffi e ammaccature, ma niente che si potesse chiamare una ferita vera e propria» Mary rispose. «Hector si era preso una pallottola di moschetto nella spalla e una ferita di sciabola in una gamba, però è guarito abbastanza in fretta anche lui.» «Hector?» Perché meravigliarsene? Quarantadue anni prima Hector Farraline doveva esser stato un uomo molto diverso dall'ubriacone di adesso. L'espressione negli occhi di Mary era sempre distaccata, sognante, triste e dolce e piena di ricordi. «Oh, sì, Hector era capitano. Era un soldato mi-
gliore di Hamish ma, trattandosi del fratello minore, suo padre gli aveva comperato soltanto un brevetto da capitano. Mancava completamente del garbo di Hamish, o del suo fascino. E quando la guerra finì, fu Hamish a rivelare fantasia e ambizione. Fu lui a fondare la società tipografica Farraline.» Non c'era bisogno di aggiungere altro; essendo il maggiore, non poteva che toccare a lui di ereditare l'intero patrimonio di famiglia. Lo sapevano tutti. «Dev'essere stata una grande perdita» Hester commentò ad alta voce. La luce si spense sul viso di Mary e la sua espressione diventò formale, come se si preparasse a ricevere delle condoglianze secondo un'usanza a lungo praticata. «Sì, naturalmente» rispose. «Vi ringrazio di queste parole.» Si mise a sedere un poco più eretta al suo posto. «Ma abbiamo parlato anche troppo di un passato così lontano nel tempo. Adesso mi piacerebbe sentir descrivere qualcuna delle vostre esperienze. Vi è mai capitato di conoscere di persona la signorina Nightingale? Oggigiorno si legge tanto su di lei! E vi giuro che a volte, in certi ambienti, sembra circondata da un rispetto e da una ammirazione perfino maggiori di quelli che circondano la Regina stessa. È davvero una donna così straordinaria?» Per quasi mezz'ora Hester si dilungò a descrivere le sue esperienze nel modo più vivace e colorito possibile. Parlò a Mary di sperpero e sofferenze, della stupidità e della paura costante, del rigido freddo dell'inverno, della fame, dell'estenuazione provocate dall'assedio. Mary la ascoltava attentamente, interrompendo solo per chiedere ulteriori particolari, spesso semplicemente per assentire con un cenno del capo. Hester le descrisse la calura e le luci splendenti dell'estate, le navi bianche nella baia, il prestigio e l'eleganza degli ufficiali e delle loro consorti, i galloni d'oro che scintillavano al sole, la noia, il cameratismo, le risate e quelle volte in cui si era sforzata di non piangere altrimenti sapeva che non sarebbe più stata capace di smettere. Poi, dietro richiesta di Mary, e poiché tutto questo era ben vivo nella sua memoria, con qualche risata e raccontando anche qualche buffo aneddoto, le descrisse molto delle persone che aveva ammirato e disprezzato, amato o odiato, e per tutto il tempo Mary, immobile al suo posto, gli occhi chiari fissi sulla faccia di Hester rimase ad ascoltarla con attenzione totale mentre il treno procedeva fra scosse e sobbalzi, sferragliando, rallentava in salita e poi riacquistava velocità. Parevano come su un'isola, in un mondo illuminato dal lume della lampada, circondato dal ritmico fragore delle ruote, dall'ondeggiare della carrozza sulle rotaie in mezzo all'oscurità, con la campagna invisibile al di là dei finestrini. Erano
al calduccio, ben avviluppate nelle loro coperte, i piedi che quasi si toccavano sullo scaldino in pietra. Una volta il treno si fermò e scesero tutte e due nella frizzante aria notturna non tanto per sgranchirsi le gambe, anche se non era affatto sgradito, quanto piuttosto per approfittare dei gabinetti pubblici della stazione. Risalite in treno al suono di un fischietto, mentre la locomotiva eruttava nuvoloni di vapore man mano che acquistava velocità, si avvolsero di nuovo nelle coperte e Mary pregò Hester di continuare il suo racconto. Hester acconsentì. Non ne aveva avuto alcuna intenzione ma adesso si scoprì a parlare con veemenza degli ideali che avevano continuato ad ardere come una fiamma, e tanto intensamente, in lei dopo il ritorno in patria, della passione che la divorava di dare subito inizio a una serie di riforme nelle corsie degli ospedali antiquati dell'Inghilterra con i loro regolamenti restrittivi e le loro pratiche retrograde. Mary ebbe un sorriso triste. «Se mi raccontate che avete avuto successo, comincerò a non essere più capace di credervi.» «Giustissimo! Purtroppo sono stata licenziata per la mia arroganza e per aver agito senza attendere gli ordini.» Non aveva avuto nessuna intenzione di confidarglielo. Non si poteva certo dire che fossero cose adatte a suscitare la fiducia in un paziente; d'altra parte Mary ormai era già qualcosa di più, di molto di più... e le parole le erano uscite dalla bocca prima che facesse in tempo a riflettere. Mary scoppiò in una risata, un suono caldo e squillante, che rivelava quanto tutto questo la divertisse. «Brava. Se dovessimo tutti agire soltanto secondo gli ordini ricevuti, non avremmo ancora inventato neanche la ruota. Ma voi come ve la siete cavata?» «Cavata?» Mary inclinò lievemente la testa da un lato, e il suo viso esprimeva il dubbio e la curiosità. «Non venite a dirmi che vi siete limitata semplicemente ad accettare il licenziamento come una brava ragazza e ve ne siete andata, ubbidiente, lasciando l'impiego! Sono sicura che continuate a combattere per la vostra causa in un modo o nell'altro, vero?» «Ecco... no...» si accorse che il viso di Mary lentamente rivelava lo sgomento. «No... perché ci sono state altre battaglie» si affrettò a proseguire. «Per... per un certo tipo di giustizia, diciamo.» Mary la guardò sgranando gli occhi, con rinnovato interesse.
«Oh!» «Ehm... io...» per quale motivo doveva sentirsi così riluttante a parlare dell'aiuto prestato a Monk? Non c'era niente di disonorevole nell'impegno, che si era assunta, di aiutare la polizia. «Mi è capitato di fare la conoscenza di un ispettore di polizia che stava eseguendo le indagini relative all'assassinio di un ufficiale dell'esercito, e... sembrava che ci fosse il rischio di commettere un terribile errore giudiziario...» «E voi siete riuscita a impedirlo?» Mary era saltata alla conclusione. «Ma in seguito, non siete più tornata al problema delle riforme dell'assistenza infermieristica?» «Ecco...» Hester si ritrovò ad arrossire lievemente, il viso di Monk con quegli occhi grigio scuro e gli zigomi larghi e alti talmente vivido davanti agli occhi della sua memoria che avrebbe potuto essere addirittura seduto lì, davanti a lei. «Ecco, ci sono stati altri casi... subito dopo.» Inciampò leggermente nelle parole. «E poi si è presentato di nuovo il problema dell'ingiustizia. Io mi sono trovata nella posizione più adatta per essere di aiuto...» Un lento sorriso incurvò le labbra di Mary. «Capisco. Perlomeno credo di capire. E non c'è dubbio che dopo il primo, ce ne sia stato un altro, vero? Che tipo è questo vostro poliziotto?» «Oh, ma non è mio!» Hester si affrettò immediatamente a chiarire l'equivoco, e con una maggior veemenza di quanto intendesse. «Ah, no?» Mary non parve convinta ma la sua voce era allegra, come se reprimesse una risata. «Non gli siete affezionata, mia cara? Ditemi, quanti anni ha, e qual è il suo aspetto fisico?» Hester si domandò per un attimo se non fosse il caso di dire la verità, che Monk non sapeva nemmeno lui quanti anni avesse. Un incidente alla carrozza sulla quale viaggiava, un giorno, gli aveva fatto perdere completamente la memoria; la conoscenza del suo stesso io e della sua vita gli stava tornando solo a tratti, a frammenti, man mano che i mesi erano diventati un anno, e più di un anno. Era una storia troppo lunga; e, in fondo, non era neanche la sua storia. Quindi non andava raccontata. «Non lo so con sicurezza» disse evitando una risposta diretta. «Sulla quarantina, penserei.» Mary annuì. «Il suo aspetto, il suo modo di fare?» Hester cercò di essere onesta e imparziale, ma scoprì che era più difficile di quanto si aspettasse. Monk aveva sempre suscitato sentimenti ed emozioni di vario genere in lei, sia ammirazione, per la sua intelligenza lucida
e inquisitrice, e il coraggio e la dedizione alla scoperta della verità; ma anche impazienza, perfino disprezzo, per certi sprazzi di amarezza nei confronti di chi sospettava di qualche crimine, e verso i suoi stessi colleghi se erano meno pronti, meno agili mentalmente di lui, o meno disposti a correre qualche rischio. «Ha una buona statura» cominciò incerta. «Anzi, è decisamente alto. E ha un portamento molto eretto, che lo fa sembrare...» «Elegante?» Mary insinuò. «No... cioè, sì, ma non è quello che stavo per dire.» Che assurdità inciampare nelle parole a questo modo! «Credo che la parola che stavo ricercando fosse snello, flessuoso. Non è bello. Le sue fattezze sono buone, ma in lui c'è qualcosa di troppo deciso che... stavo per dire che rasenta l'arroganza, mentre non è proprio del tutto vero. È arroganza fatta e finita, semplicemente.» Respirò a fondo e continuò prima che Mary potesse interrompere. «Ha un modo di fare irritante. Si veste in un modo splendido e spende fin troppo soldi per il suo abbigliamento perché è vanitoso. Racconta quella che secondo lui è la verità senza il minimo riguardo e senza minimamente preoccuparsi che sia corretto oppure no. Non ha né pazienza né rispetto per le autorità e molto poco tempo a disposizione per chi è meno capace e abile di lui, però non sopporta che si passi sopra a un'ingiustizia non appena si accorge che è stata commessa ed è pronto ad ammettere una verità indipendentemente da quello che gli può costare.» «A quello che mi dite, si tratta di un uomo singolare» Mary osservò con interesse. «E dovete conoscerlo molto bene, direi. Se ne è mai reso conto, lui?» «Monk?» Hester domandò sorpresa. «Non ne ho nessuna idea. Sì, suppongo di sì. Capita molto di rado che misuriamo le parole quando discutiamo fra noi.» «Che interessante.» Non c'era nemmeno una sfumatura di sarcasmo nella voce di Mary, ma solo una profonda curiosità. «> Ed è innamorato di voi, questo Monk?» Hester arrossì violentemente. «No, nel modo più assoluto!» Lo negò con calore, ma si accorse di avere la gola chiusa da un nodo mentre pronunciava queste parole. Per un solo, assurdo, momento, ebbe paura di scoppiare in lacrime. Sarebbe stato una mortificazione, oltre che infinitamente stupido. Doveva mettere subito in chiaro le cose e dissipare l'equivoco in cui Mary, evidentemente, era caduta. «Siamo stati amici in certi casi perché credevamo nella stessa causa ed eravamo pronti tutti e
due a combattere contro ciò che era sbagliato» disse in tono fermo. «Ma per quello che riguarda le questioni d'amore, lui non prova alcun interesse per le donne come me, preferisce...» deglutì a fatica, perché quel ricordo era vivido e particolarmente doloroso «...quelle del genere di mia cognata, Imogen. Effettivamente lei è molto graziosa, dolcissima, sa come essere affascinante senza, mostrarsi goffa o adulatrice, ma anche come far nascere negli altri il desiderio di proteggerla. E non che sia una creatura vana o inetta, credetemi!» «Vedo» Mary ammise, con un cenno di assenso. «Tutte abbiamo conosciuto donne come quelle in un momento o l'altro; della nostra esistenza. Sorridono a un uomo e lui immediatamente si sente migliore, e più bello, e senz'altro più eroico e audace di prima.» «Proprio così!» «Di conseguenza il suo Monk è uno stupido quando ci sono di mezzo le donne.» Era un'affermazione, non una domanda. Hester preferì non rispondere. «E io preferisco qualcuno come Oliver Rathbone» proseguì, per quanto non fosse ben sicura fino a che punto fossero vere le sue parole. «È un avvocato, un penalista di grandissima fama...» «Colto e bene educato, senza dubbio» Mary disse con voce atona. «E degno di stima?» «Sì, abbastanza, a quanto ne so io» Hester replicò come se volesse mettersi sulla difensiva. «A ogni modo suo padre è una delle persone più simpatiche che mi sia capitato di conoscere. Mi sento bene, mi sento confortata solo a ricordare il suo viso.» Mary sgranò gli occhi. «Davvero? Ho frainteso. Di conseguenza il signor Rathbone non è senza interesse. Raccontatemi qualcosa di più sul suo conto.» «Anche lui è estremamente intelligente, ma in un modo del tutto diverso. È molto sicuro di se stesso, e ha un senso graffiante dell'umorismo. Non è mai noioso e ammetto che non mi capita molto spesso di capire quello che sta effettivamente pensando, certe volte, a ogni modo sono sicurissima che non è sempre quello che dice.» «Ed è innamorato di voi? Oppure non sapete nemmeno questo?» Hester ebbe un sorrisetto di compiacimento, perché quel bacio che lui le aveva dato all'improvviso, impulsivamente, adesso le tornava alla memoria con tale vivezza da sembrare come qualcosa che era accaduto appena una settimana, e non un anno prima. «Credo che sia un'espressione un po' trop-
po forte, però mi ha dato motivo di pensare che non mi trovi del tutto priva di attrattive» replicò. «Oh, splendido!» Mary esclamò con visibile piacere. «E questi due signori hanno antipatia l'uno per l'altro, ne sono sicura, vero?» «Certamente» Hester confermò con una soddisfazione che la lasciò stupita. «Ma non credo che questo abbia qualcosa a che fare con me... o se non altro, molto poco» soggiunse. «Ecco una cosa molto intrigante, davvero!» Mary disse in tono giulivo. «Mi spiace che la nostra conoscenza sia tanto breve da non consentirmi di vedere come andranno a finire le cose.» Hester si sentì arrossire di nuovo. Aveva la confusione più completa nel cervello. Aveva parlato dei propri sentimenti come se si trattasse di una storia romantica, una storia d'amore. Ma desiderava proprio che lo fosse? Si sentiva imbarazzata per essersi comportata tanto da sciocca. Impossibile pensare addirittura di poter sposare Monk, perfino nel caso lui glielo domandasse... e non lo avrebbe mai fatto. Non facevano che litigare in continuazione. C'era troppo in lui che non trovava assolutamente di proprio gusto. Di questo non aveva fatto cenno con Mary... sarebbe stato sleale... ma esisteva una vena di crudeltà in Monk che la lasciava sconvolta e impaurita; c'erano zone oscure del suo carattere, e impulsi dei quali capiva di non potersi fidare. Non avrebbe mai potuto impegnarsi a qualche cosa con un uomo simile, e in ogni caso a niente di più di una pura e semplice amicizia. Oppure doveva sposare Oliver Rathbone, se lui fosse riuscito ad arrendersi a un sentimento tanto forte e potente da spingerlo a domandarglielo? Avrebbe dovuto sposarlo. Sarebbe stata una proposta molto migliore di quella che la gran parte delle donne avesse mai ricevuto, figurarsi poi una donna della sua età. Aveva quasi trent'anni, per amor del cielo! Soltanto un'ereditiera poteva illudersi di arrivare ancora al matrimonio a una simile età. E lei, ben lungi dall'essere un'ereditiera, doveva lavorare per mantenersi. In tal caso per quale motivo non avrebbe dovuto cogliere al volo una simile occasione? Mary la stava ancora osservando con gli occhi luminosi e ridenti. Hester aprì la bocca per parlare ma poi si scoprì a non aver la minima idea di ciò che stava per dire. Quell'aria divertita si dissolse, scomparve dalla faccia di Mary. «Siate ben sicura di quale dei due desiderate, mia cara. A prendere la decisione
sbagliata, potreste rimpiangerlo per il resto dei vostri giorni.» «Non c'è nessuna decisione da prendere!» Hester ribatté un po' troppo in fretta. Mary non disse niente, ma l'espressione della sua faccia lasciava chiaramente capire come non le credesse affatto. Il treno stava rallentando di nuovo e alla fine si arrestò con grande fragore di ferraglie. Qualche sportello venne aperto, qualcuno si mise a gridare a squarciagola qualcosa. Il capostazione passò sul marciapiede, pronunciando ad alta voce il nome della stazione davanti a ogni carrozza. Hester riaggiustò la coperta in modo che avvolgesse meglio le ginocchia di tutte e due. Fuori, nel buio solcato di tanto in tanto da qualche tremula luce, si levò lo squillo di una campana che qualcuno agitava energicamente e pochi minuti più tardi la locomotiva eruttò altro vapore e riprese a muoversi. Erano quasi le dieci e mezzo. Hester si accorse che la stanchezza del viaggio della notte precedente cominciava a farsi sentire, mentre Mary, invece, dimostrava ancora di essere ben sveglia e di non avere sonno. Oonagh aveva detto che sarebbe stato necessario somministrarle la sua medicina non più tardi delle undici o, al massimo, alle undici e un quarto. Evidentemente Mary non aveva l'abitudine di andare a letto presto. «Siete stanca?» Provò a domandarle. A dir la verità trovava molto piacevole la compagnia di Mary e sapeva che non avrebbero avuto ulteriori possibilità di conversare al mattino. Sarebbero arrivate alle nove passate da poco e il tempo sarebbe stato tutto occupato dal fatto di lasciare la carrozza, recuperare il bagaglio e localizzare Griselda e il signor Murdoch. «No» Mary rispose tutta allegra, benché avesse già soffocato un paio di sbadigli. «Oonagh vi avrà detto senza dubbio che io ho l'abitudine di andare a letto verso le undici, al più tardi? Sì, è quello che pensavo. Credo che Oonagh avrebbe potuto essere una brava infermiera. È intelligente ed efficiente di natura, la più pratica di tutti i miei figli; non solo, ma ha l'arte di persuadere le persone a fare la cosa giusta con tale abilità che, alla fin fine, quelle si convincono che è stata una loro idea.» Abbozzò una smorfia. «Ed è veramente un'arte, sapete? Qualche volta avrei voluto averla anch'io! E poi ha una capacità di giudizio eccellente. Mi sono meravigliata moltissimo per la rapidità con qui Quinlan ha imparato a rispettarla. Non capita spesso che un uomo con la sua personalità riveli quel genere di considerazione per una donna, specialmente tanto vicina a lui di età, e che la sua considerazione sia sincera... e badate che non sto parlando del genere di buona educazione che manifesta nei miei confronti.»
Hester non lo trovò difficile da credere. Non le era sfuggita la forza della determinazione che la faccia di Quinlan rivelava, e l'intelligenza dietro quegli occhi azzurri, così pronti e attenti. Indubbiamente avrebbe trovato di maggiore utilità l'amicizia di Oonagh a confronto di quella di chiunque altro della famiglia. Era chiaro che Baird lo detestava, Deirdra provava per lui la più completa indifferenza, concentrata com'era sui propri interessi e, a dar retta a ciò che Mary diceva, Alastair contava sulla capacità di giudizio di Oonagh come aveva sempre fatto fin da quando erano bambini. «Sì, lo credo anch'io» Hester confermò. «Ma una buona capacità di giudizio e le arti della diplomazia non sono mai sprecate in una famiglia numerosa. Possono fare tutta la differenza fra felicità e desolazione.» «Avete ragione, certo che avete ragione» Mary ammise con un cenno di assenso. «Ma forse è un fatto che non tutti apprezzano.» Hester sorrise. Sarebbe stata poco cortese se avesse ammesso di averlo già capito da sola. «Avrete un soggiorno piacevole a Londra?» Le domandò. «Pensate che vi verrà offerta l'opportunità di cenare fuori e di andare a teatro?» Mary esitò un attimo prima di rispondere. «Non ne sono del tutto sicura» disse pensierosa. «Non conosco molto bene né Connal Murdoch né la sua famiglia. È un giovanotto piuttosto sussiegoso, austero, molto consapevole dell'opinione degli altri. Può darsi che Griselda non abbia voglia di accompagnarmi. Ma se andremo a teatro, sarà per vedere uno spettacolo dei più banali, purtroppo, niente che non possa provocare controversie o polemiche.» «Può darsi che lui ci tenga a farvi buona impressione» Hester le fece notare. «In fondo, siete sua suocera e ci terrà moltissimo a quella che potrà essere l'opinione che vi farete nei suoi confronti.» «Oh, povera me.» Mary sospirò mordicchiandosi un labbro. «Ho torto. Naturale che potrà farlo. Ricordo quando Baird aveva appena sposato Oonagh... talmente timido da mettere tutti in imbarazzo eppure, a quell'epoca, com'era innamorato.» Le sfuggì un profondo sospiro. «Naturalmente è anche quel genere di passione che a poco a poco si consuma e si logora man mano che ci si conosce meglio; il mistero viene svelato, e la familiarità annulla il senso di meraviglia e di stupore. Si può rimanere eccitati e stupiti solo per un tempo molto breve.» «Ma indubbiamente poi arriva l'amicizia, quella specie di calore che...» la voce di Hester si smorzò, interrompendosi. Le sembrava tutto così ingenuo, quello che stava dicendo... Si accorse di essere arrossita.
«È la speranza di tutti» Mary disse a voce bassa. «Se si è fortunati, la tenerezza e la comprensione non muoiono mai, come la capacità di ridere, e i ricordi.» Intanto, mentre parlava, aveva gli occhi fissi su qualcosa di indistinto oltre le spalle di Hester, qualcosa che doveva vedere soltanto con gli occhi dell'immaginazione. Hester si raffigurò l'uomo del ritratto di nuovo, chiedendosi quando fosse stato dipinto, cercando di cogliere i segni del tempo sulla sua faccia e quanto avesse potuto cambiare, quanto la familiarità potesse avergli tolto di prestigio e di fascino. Non ci riuscì. Per lei, in quel viso, c'era ancora troppo che continuava a sfuggirle, allegria, emozioni e sentimenti che sarebbero sempre stati qualcosa di comprensibile soltanto a lui, e a nessun altro. Mary aveva scoperto tutto questo, e aveva continuato ad amarlo? Hester non lo avrebbe mai saputo, era impossibile. Anche Monk era un tipo del genere. Non lo si conosceva mai abbastanza per essere sicuri che non avesse ancora in serbo qualche sorpresa, che non rivelasse qualche sentimento o convinzione che prima non si erano mai scoperti. «L'idealismo è un gran brutto compagno di letto» Mary disse all'improvviso. «Ecco una cosa che devo dire a Griselda, povera bambina; e senz'altro è da dire anche a quest'uomo che lei ha sposato. Può darsi che sia un principe azzurro quello con il quale ci si incammina lungo la navata di una chiesa dopo le nozze, ma in ogni caso è un comune mortale quello con il quale ci si sveglia la mattina dopo. E poiché anche noi siamo comuni mortali, la stessa cosa vale per loro.» Hester sorrise a dispetto di se stessa. Si preparò ad alzarsi. «Si sta facendo tardi, signora Farraline. Non pensate che dovrei preparare adesso la vostra medicina?» «Credete?» Mary alzò le sopracciglia. «Probabilmente, sì, senz'altro. Ma non sono ancora pronta a prenderla. Per tornare alla vostra domanda di poco fa, sì, credo che andrò a teatro. Insisterò per andarci. Ho portato con me alcuni abiti molto adatti per simili occasioni. Disgraziatamente non ho potuto portare il mio preferito perché è di seta, e l'ho macchiato proprio sul davanti, dove si vede.» «Non si può far smacchiare?» Hester domandò, molto comprensiva. «Oh senz'altro, ma non ne abbiamo avuto il tempo prima di partire. Sono sicura che Nora ci penserà durante la mia assenza. Ma a parte il fatto che mi piace, disgraziatamente è l'unico abito che possiedo che metta nel giusto risalto la mia spilla di perle grigie. È veramente bella, ma le perle grigie non sono facili da portare; in fondo non mi piace metterla con i vestiti
di un colore troppo acceso, o con qualsiasi cosa che luccichi. A ogni modo, non ha importanza. Si tratta di una settimana soltanto e credo proprio che avremo molto poche occasioni di vestirci formalmente. In fondo, faccio questo viaggio per vedere Griselda, non per avere un assaggio della vita mondana di Londra.» «Immagino che sarà molto emozionata al pensiero di aspettare il suo primo bambino?» «Al momento, no» Mary rispose, abbozzando una smorfia. «Ma lo diventerà. Ho paura che si preoccupi troppo della sua salute. In fondo, in lei non c'è niente che non funzioni.» Mary finalmente si decise ad alzarsi ed Hester si alzò in piedi rapidamente anche lei per offrirle il braccio e sorreggerla. «Grazie, mia cara» Mary accettò. «La verità è che Griselda si preoccupa un po' troppo per ogni doloretto, immagina che ci sia qualche cosa di grave che fa soffrire il bambino, oppure che possa nascere con qualche difetto irreparabile. È una brutta abitudine, questa, e gli uomini la trovano insopportabile a meno che, naturalmente, non siano loro quelli che si preoccupano di ogni piccolo malessere.» Si soffermò un attimo sulla porta dello scompartimento, snella, impettita, con un sorriso sulle labbra. «Devo avvisare Griselda di questo. E rassicurarla perché non ha nessun motivo di stare in ansia. La sua creatura nascerà perfetta, e tutto andrà per il meglio.» Il treno stava rallentando di nuovo e, quando entrò in stazione, scesero tutte e due per approfittare dei servizi che offriva. Hester si accorse di essere la prima a risalire nello scompartimento. Fece quello che poteva per rassettarlo, sprimacciare i cuscini, distendere la coperta in modo che fosse pronta per Mary e prendere in mano lo scaldino per dargli una bella scrollata. In effetti adesso il freddo si faceva sentire parecchio e il buio al di là dei finestrini era chiazzato da qualche goccia di pioggia. Tirò giù l'astuccio della medicina e l'aprì. I flaconcini vi erano sistemati in file ordinate; il primo era già stato usato; il piccolo contenitore di vetro appariva vuoto. Non se n'era accorta quando aveva controllato l'astuccio a Edimburgo ma il vetro era colorato e il liquido difficile da distinguere. Nora doveva aver usato quel flaconcino la mattina stessa, ed era stata una sciocchezza. Questo significava che adesso si sarebbero ritrovate con una dose in meno del previsto. A ogni modo, forse era abbastanza facile da sostituire; bastava soltanto avvertire Mary in tempo. Soffocò uno sbadiglio con difficoltà. Adesso si sentiva proprio molto stanca. Ormai erano trentasei ore che non faceva una bella dormita. Se non
altro, per fortuna, quella notte avrebbe potuto alzare un po' i piedi e rilassarsi invece di rimanere seduta, rigida e impettita, in mezzo ad altre due persone. «Oh, avete tirato giù l'astuccio» Mary disse dalla porta dello scompartimento. «Sì, immagino che abbiate fatto bene. La mattina qui arriverà anche troppo presto.» Entrò, vacillando un po' perché proprio in quel momento il treno si era mosso all'improvviso e aveva cominciato ad acquistare subito velocità. Hester allungò una mano per sorreggerla, e Mary si mise a sedere. Sulla soglia si profilò la figura del capotreno, l'uniforme immacolata, i bottoni lucenti. «Buona sera, signore. Tutto bene qui da voi?» E si sfiorò la visiera del berretto con l'indice. Mary si era messa a guardare, fuori dal finestrino, la notte che sfrecciava oltre di esso, anche se in realtà non c'era niente da vedere salvo la pioggia e il buio. Si voltò bruscamente. Impallidì di colpo, ma fu questione di un attimo perché riacquistò subito tutta la sua calma, accompagnata da qualcosa che sembrava quasi un'ondata di sollievo. «Oh, sì, grazie.» Tirò il fiato, in fretta. «Sì, tutto bene.» «Benissimo, signora. Allora vi auguro la buona notte. Arriveremo a Londra alle nove e un quarto.» «Sì, grazie. Buona notte.» «Buona notte» Hester soggiunse mentre lui si ritirava in fretta, allontanandosi con quel passo particolare, dondolante, sgraziato e maldestro che però gli consentiva di conservare sempre un perfetto equilibrio. «Vi sentite bene?» Hester domandò con ansia. «Vi ha fatto paura arrivando così all'improvviso? Sto pensando che forse siamo un po' in ritardo con la vostra medicina. Devo insistere perché la prendiate subito. Mi sembrate un po' pallida.» Mary si tirò addosso la coperta e Hester gliela rimboccò tutt'intorno. «Sì, sto benissimo. Sto perfettamente» Mary rispose in tono fermo. «Quel pover'uomo mi ha fatto venire in mente tutt'altra persona, con quel naso lungo e quegli occhi nocciola; per un attimo mi è sembrato di avere Archie Frazer davanti.» «Qualcuno che vi è antipatico?» Hester tolse il tappo al flaconcino e versò il liquido nel piccolo bicchiere che era stato provvisto a tale scopo. «Personalmente, non lo conosco.» Mary arricciò le labbra in una smorfia di repulsione. «È stato uno dei testimoni nella causa Galbraith, o in quella che perlomeno avrebbe dovuto essere la causa Galbraith, se si fosse arriva-
ti fino a discuterla in tribunale. Invece è stata emessa l'ordinanza di non luogo a procedere. Alastair diceva che le prove era insufficienti.» Hester le porse il bicchiere e lei lo prese e bevve, facendo una piccola smorfia. Oonagh aveva anche provveduto a un pacchetto di bonbon zuccherati per togliere il sapore cattivo della medicina e Hester gliene offrì uno. Lei lo accettò con gratitudine. «Dunque il signor Frazer è un personaggio pubblico?» Volle insistere in quell'argomento per distrarre Mary e farle dimenticare l'amaro della medicina. Mise il bicchiere di nuovo al suo posto e chiuse l'astuccio, tornando a sistemarlo sulla reticella portabagagli. «Più o meno.» Mary si distese nel sedile cercando di mettersi più comoda che poteva e Hester le rimboccò meglio la coperta tutt'intorno. «Si è presentato a casa da noi una sera» Mary continuò. «Un ometto ambiguo, dall'aria furbesca, una di quelle persone striscianti che vanno e vengono senza che nessuno se ne accorga, un po' come certe creature notturne, che mirano soltanto a fare del male. Quella è stata l'unica volta che l'ho visto di persona. E al lume di una lampada, proprio come quel disgraziato del capotreno, poveretto! Sono sicura che sto malignando su di lui.» Sorrise. «E probabilmente anche su Frazer.» Ma c'era ancora una sfumatura d'incertezza nella sua voce. «E adesso, vi prego, cercate di dormire un po' anche voi. So benissimo che non vedete l'ora di chiudere gli occhi. Ci chiameranno al momento opportuno e avremo tutto il tempo necessario ad alzarci e renderci rispettabili per Londra.» Hester guardò l'unica lampada a petrolio che irradiava una luce tenue, giallastra, nello scompartimento. Non c'era alcun mezzo di abbassarne il lucignolo; d'altra parte era praticamente convinta che quel poco riverbero non avrebbe impedito a nessuna delle due di addormentarsi. Si rannicchiò sul sedile cercando di mettersi più comoda che era possibile, e rimase stupita quando, nel giro di pochi minuti, il rumore ritmico delle ruote sulle traversine la cullò fino a farla cadere addormentata. Si svegliò parecchie volte ma soltanto per cercare una posizione meno disagevole e per rammaricarsi che non facesse un poco più caldo. I suoi sogni furono turbati dai ricordi della Crimea, del freddo e della immane stanchezza e nello stesso tempo della necessità di rimanere sveglia per assistere le persone che stavano infinitamente peggio di lei. Alla fine si svegliò trasalendo per scoprire il capotreno sulla soglia dello scompartimento che la guardava sorridente. «Fra mezz'ora siamo a Londra, signora» disse. «Buon giorno a voi!» E scomparve.
Si accorse di avere un gran freddo, e di essere tutta indolenzita. Si rialzò lentamente. I capelli si erano sciolti, ricadendole sulle spalle, e aveva perduto qualche forcina, ma erano tutte cose facilmente rimediabili. Doveva svegliare Mary, che era ancora rannicchiata sotto la coperta con la faccia rivolta verso la parete, esattamente come lei l'aveva lasciata. Pareva che quasi non si fosse mossa. O perlomeno la coperta era ancora ripiegata come prima. Non sembrava che fosse stata nemmeno toccata. «Signora Farraline» disse nel suo tono più accattivante. «Stiamo avvicinandoci a Londra. Avete dormito bene?» Mary non si mosse. «Signora Farraline?» Ancora nessun movimento. Hester le toccò una spalla e la scrollò con tutta la delicatezza possibile. A volte le persone anziane dormono fitto. «Signora Farraline!» La spalla non era cedevole al tatto; anzi, sembrava completamente irrigidita. Hester provò un fremito di inquietudine. «Signora Farraline! Svegliatevi! Siamo quasi a Londra!» Disse con crescente insistenza. Mary continuò a rimanere immobile. Hester la scrollò più energicamente, la costrinse a voltarsi. Gli occhi erano chiusi, la faccia pallida e, quando le toccò la pelle, si accorse che era gelida. Mary Farraline doveva essere morta da molte ore. 3 La prima sensazione di Hester fu di profondo dolore per la sua perdita. Molto tempo prima forse avrebbe tentato, almeno al primo momento, di rifiutare completamente la realtà di questo fatto, di rifiutarsi di credere che Mary fosse deceduta, ma ormai aveva visto anche troppo la morte per non riconoscerla, perfino quando arrivava assolutamente senza alcuna premonizione. La sera prima Mary le era sembrata in salute eccellente e di ottimo umore; eppure doveva essere morta fin dagli inizi della nottata. Il suo corpo era freddo al tatto, e per raggiungere una simile rigidità occorrono da quattro a sei ore. Hester le nascose il volto con un lembo della coperta, dolcemente, e poi si tirò indietro. Il treno adesso non correva alla stessa velocità di prima e qua e là appariva qualche casa nella luce grigiastra del primo mattino al di
là dei finestrini rigati di pioggia. Poi fu qualcos'altro a travolgerla: il senso di colpa. Mary era stata una sua paziente, affidata alle sue cure, e soltanto dopo poche ore era morta. Perché? Che cosa aveva fatto in modo tanto clamorosamente sbagliato? Che cosa aveva confuso o dimenticato, perché Mary fosse morta senza nemmeno un grido, un ansimo, un lamento, senza nemmeno cercare di lottare perché le veniva meno il respiro? Forse tutto questo era accaduto... per disgrazia lei, Hester, dormiva troppo profondamente per sentirla, e lo sferragliare del treno aveva soffocato quei suoni. Non poteva continuare a rimanere lì, con gli occhi fissi su quella figura immobile sotto la coperta. Bisognava avvertire le persone necessarie, cominciando dal capotreno e dalla guardia. Poi, naturalmente, una volta raggiunta la stazione ci sarebbe stato da pensare al capostazione e forse alla polizia: non lo si poteva escludere. E dopo tutto questo, e sarebbe stata una cosa infinitamente peggiore, avrebbe dovuto dirlo a Griselda Murdoch. Bastò questo pensiero a farla star male. Meglio cominciare. Rimanere lì, immobile, non sarebbe servito a niente, e contemplare quella scena non faceva altro che aggiungere dolore a dolore. Sentendosi inebetita si spostò verso l'ingresso dello scompartimento e, maldestra e incerta nel camminare com'era, andò a sbattere con violenza un gomito contro lo stipite in legno. Era ghiacciata e irrigidita per la tensione. Soffriva più di quanto capiva che avrebbe sofferto di norma, ma non aveva tempo per il dolore. Da che parte dirigersi? Dall'una o dall'altra. Non faceva differenza. Bastava fare qualcosa, non rimanere lì indecisa. Si avviò verso sinistra, in direzione della parte anteriore del treno. «Capotreno! Capotreno, dov'è?» Un uomo in divisa e con un paio di grossi baffi sporse fuori la testa da dietro un angolo e la guardò con occhi sgranati. Aprì la bocca e fece per parlare ma lei era già corsa avanti. «Capotreno!» Una donnina esile con i capelli grigi la guardò malevola. «Buon Dio, figliola, si può sapere cos'è successo? Perché fate tutto questo chiasso?» «Avete visto il capotreno?» Hester domandò ansante. «No, non l'ho visto. Ma per amor del cielo tenete la voce più bassa.» E senza ulteriori commenti si ritirò nel suo scompartimento. «Posso aiutarvi, signorina?» Si voltò di scatto. Era il capotreno finalmente, con un'espressione mite e anonima sulla faccia; non poteva sospettare neanche lontanamente il fasti-
dio che lei stava per dargli. Forse era abituato alle passeggere isteriche. Fece uno sforzo per tenere la voce bassa, parlare con calma e riacquistare un certo autocontrollo. «Ho paura che sia successo qualcosa di molto grave...» Perché tremava tanto? Aveva visto, in passato, cadaveri a centinaia. «Sì, signorina. E di che si tratta?» Era ancora del tutto imperturbabile, e dimostrava semplicemente l'interesse dettato dalla cortesia. «Ho paura che la signora Farraline, la gentildonna con la quale viaggiavo, sia morta durante la notte.» «Probabilmente è soltanto addormentata, signorina. Ci sono persone che dormono fitto, molto fitto...» «Sono infermiera, io!» Hester rispose in tono tagliente con la voce che tornava ad alzarsi, stridula. «E riconosco la morte quando la vedo!» Stavolta lui prese un'aria completamente sconcertata. «Oh, poveri noi. Siete proprio sicura? Una signora anziana, era? Il cuore, suppongo. Ha avuto un attacco, si è sentita male, è così? Avreste dovuto chiamarmi a quel punto, sapete!» E la guardò con aria di rimprovero. In qualsiasi altro momento Hester forse gli avrebbe domandato che cosa pensava di poter fare, lui!... ma adesso era troppo angosciata per mettersi a discutere. «No... no, non ha emesso nemmeno un sospiro per tutta la notte. L'ho trovata così quando poco fa mi sono avvicinata per svegliarla.» La sua voce aveva ricominciato a tremare, aveva le labbra rigide e faticava perfino a pronunciare ogni parola. «Non so... cos'è successo. Immagino che sia stato il cuore. Prendeva una medicina per il cuore.» «Si è dimenticata di prenderla, è così?» L'uomo la guardò dubbioso. «No, niente affatto! Sono stata io stessa a dargliela. Non fareste meglio a fare rapporto alla guardia?» «Ogni cosa a suo tempo, signorina. Farete meglio ad accompagnarmi nel vostro scompartimento, così daremo un'occhiata. E se invece si sentisse male, semplicemente?» Ma la sua voce rivelava ben scarse speranze in proposito; in fondo, a questo modo cercava soltanto di rimandare il momento in cui avrebbe dovuto veder confermata la notizia. Hester, ubbidiente, girò sui tacchi e lo precedette a ritroso fino al loro scompartimento fermandosi sulla soglia e lasciando che fosse lui a entrare. Lui scostò la coperta dalla faccia di Mary e la considerò solo per un attimo prima di coprirgliela di nuovo e di battere in ritirata in tutta fretta. «Sì, signorina. Ho paura che abbiate ragione voi. La povera signora è
deceduta. Vado ad avvertire la guardia. Rimanete qui e non toccate niente, d'accordo?» «Sì.» «Bene. Forse farete meglio a sedervi. Non vorremmo correre il rischio di vedervi svenire o qualcosa del genere, eh?» Hester stava per ribattere che lei non sveniva mai. Però cambiò idea. Si sentiva piegare le ginocchia e sapeva che non l'avrebbero sorretta a lungo; le avrebbe fatto un gran piacere mettersi di nuovo seduta. Lo scompartimento era freddo e, malgrado i sobbalzi, gli scossoni e lo sferragliare del treno, pareva stranamente silenzioso. Mary giaceva sul sedile di fronte a lei, non più nella posizione confortevole nella quale si era addormentata ma voltata lievemente da una parte, come Hester l'aveva lasciata. Era ridicolo pensare che avrebbe potuto metterla un po' più comoda e, infatti, Hester dovette imporsi a forza di non avvicinarsi, di non cercare di toccarla per sistemare il suo corpo in modo più naturale. Aveva provato simpatia per Mary, fin dal primo momento in cui si erano conosciute. Possedeva una vitalità e un candore che erano unici, e attraenti; in Hester aveva già fatto risvegliare un sentimento molto simile all'affetto. I suoi pensieri vennero interrotti dall'arrivo della guardia. Era un ometto con un paio di folti baffi e gli occhi lugubri. Sul davanti della giacca della sua divisa c'era un'imbrattatura di tabacco da naso. «Brutta faccenda» disse con aria dolente. «Molto triste. Una bella e buona signora, senza dubbio. Purtroppo adesso non si può fare più niente per esserle di aiuto, pover'anima. Dove la stavate accompagnando?» «A trovare la figlia e il genero» Hester rispose. «Saranno alla stazione...» «Oh poveri noi, oh poveri noi. Be', non ci si può far niente.» Scrollò la testa. «Lasceremo scendere tutti gli altri passeggeri e poi manderemo a chiamare il capostazione. Lui sarà senz'altro capace di rintracciare questa figlia. Come si chiama? Voi sapete come si chiama, signorina?» «Signora Griselda Murdoch. Suo marito è il signor Connal Murdoch.» «Molto bene. Be', purtroppo il treno è pieno e di conseguenza non possiamo offrirvi un altro scompartimento nel quale ritirarvi, mi spiace. Ma fra pochi minuti saremo a Londra. Cercate soltanto di stare calma.» Si voltò al capotreno. «Non avete qualcosa che potete dare a questa giovane signorina, qualcosa di curativo, magari?» Il capotreno alzò di scatto le sopracciglia cespugliose. «Mi state forse domandando se porto sulla mia persona qualche bevanda forte, signore?»
«Naturalmente no» ribatté la guardia in tono amabile. «Sarebbe contro la politica della società. Pensavo semplicemente che poteste portare sulla vostra persona qualche sostanza curativa, una bevanda utile contro il freddo o lo shock o qualcos'altro. Per i passeggeri, e via dicendo.» «Be'...» il capotreno allungò un'occhiata alla faccia esangue di Hester. «Be', suppongo di riuscire a trovare qualcosa del genere, per così dire.» «Bene. Andate a dare un'occhiata, Jake, e se ci riuscite, cercate di portare un goccetto di qualcosa di forte a questa povera creatura, ci siamo capiti?» «Signorsì! Ottimamente!» Mantenne la parola. Avendo "trovato" il brandy proibito, ne offrì a Hester il cappuccio della bottiglia, che fungeva da bicchierino, pieno fino all'orlo, e poi la lasciò di nuovo, bofonchiando qualcosa di inintelligibile a proposito delle proprie mansioni. Ci volle un altro quarto d'ora durante il quale Hester continuò a essere scossa da brividi di freddo e si sentì cogliere da un'apprensione crescente, prima che il capostazione facesse la sua comparsa sulla soglia dello scompartimento. Aveva una strana faccia scialba, i capelli ramati e, in quel preciso momento, doveva soffrire di un violentissimo raffreddore di testa. «Oh, dunque adesso, signorina» disse, e sbottò in un fragoroso starnuto. «Sarà meglio che ci spieghiate esattamente quello che è successo alla povera signora. Chi era? E, fra l'altro, voi chi siete?» «Si chiama Mary Farraline, è di Edimburgo» Hester rispose. «Io sono Hester Latterly, assunta per accompagnare la signora Farraline da Edimburgo a Londra per somministrarle la sua medicina e badare che fosse circondata da tutti i comodi necessari.» Adesso una spiegazione del genere sembrava un po' stiracchiata, perfino assurda. «Capisco. E per che cosa le veniva data questa medicina, signorina?» «Un disturbo cardiaco, credo. Non mi sono stati riferiti particolari sulle sue condizioni di salute; mi è stato semplicemente detto che la medicina doveva esserle somministrata regolarmente, in quali quantità e a che ora.» «E voi gliel'avete data, signorina?» Adesso la squadrava da sotto le sopracciglia. «Siete proprio sicura di averlo fatto?» «Sì, sicurissima.» Si alzò in piedi, tirò giù l'astuccio della medicina, lo aprì, e gli mostrò i flaconcini vuoti. «Ne sono stati usati due» osservò il capostazione. «Giusto. Io gliene ho somministrato uno solo la notte scorsa, verso le undici meno un quarto; l'altro devono averlo usato al mattino.»
«Ma voi siete salite su questo treno ieri sera» le fece rilevare il capotreno, occhieggiando al di sopra della spalla del capostazione. «Dovete essere salite in vettura alla sera. Perché il treno, prima, non parte.» «Questo lo so» Hester disse pazientemente. «Forse si sono trovati ad avere meno flaconcini di quello che credevano, oppure la cameriera è stata negligente, ma tutto questo era già stato preparato, perché venisse usato da me. Non so. Ma io le ho dato la seconda dose, prendendola di lì» e indicò il secondo flaconcino che risultava ancora infilato nella relativa custodia. «Ieri sera.» «E come stava allora, signorina? Si sentiva già male?» «No... no, sembrava in ottima salute» Hester rispose onestamente. «Capisco. Be', sarà meglio metter qui qualcuno di guardia a controllare che non...» esitò «...non venga disturbata; quanto a voi, farete meglio a venire con me per cercar di rintracciare la figlia di questa povera signora, quella che era venuta ad aspettarla alla stazione, povera creatura.» Il capostazione aggrottò le sopracciglia continuando a fissare Hester. «Siete sicura che non abbia gridato o chiamato durante la notte? Voi eravate qui, devo concludere... e ci siete rimasta tutta la notte?» «Sì, infatti» Hester rispose asciutta. Lui ebbe un altro attimo di esitazione, poi proruppe in un rumoroso starnuto e fu costretto a soffiarsi il naso. La scrutò attentamente per qualche minuto, senza lasciarsi sfuggire un solo particolare della sua figura esile e snella, eretta e impettita, e cercando di calcolare in qualche modo quale fosse la sua età; alla fine decise che molto probabilmente gli diceva la verità. «Io non conosco il signore e la signora Murdoch» Hester disse tranquillamente. «Dovrà far diffondere in qualche modo l'annuncio che li cerchiamo, in modo da rintracciarli.» «Provvederemo noi a tutte le cose di questo genere. E, adesso, cercate di riacquistare tutto il vostro controllo, signorina, per venire a dire a quelle povere creature che la loro mamma è spirata.» La scrutò con gli occhi socchiusi. «Sarete capace di farlo, signorina?» «Sì... sì, certamente. Vi ringrazio per la vostra premura.» Seguì il capostazione che usciva a ritroso dallo scompartimento, e poi la precedeva fino allo sportello della carrozza. Qui si voltò per aiutarla a scendere sul marciapiede. Fuori l'aria era frizzante e le alitò fredda sul viso; odorava di fuliggine e di vapore e del sudiciume di migliaia di piedi sporchi. Un vento gelido fischiava lungo il marciapiede a dispetto della
tettoia sovrastante, e un assordante rumore nel quale si confondevano il rotolio delle ruote dei carretti, il ticchettio dei tacchi delle scarpe, il frastuono degli sportelli che venivano chiusi con un tonfo e delle voci, riecheggiava levandosi fino all'ampia volta al di sopra della sua testa. Seguì il capostazione che si faceva largo fra la folla, ormai diradata, fino a quando raggiunsero i gradini che portavano al suo ufficio. «Sono... qui?» Gli domandò, accorgendosi improvvisamente di avere la gola chiusa da un nodo. «Sì, signorina. Non è stato difficile trovarli. Una giovane signora e un gentiluomo che erano ad aspettare l'arrivo di quel treno. È bastato domandarlo.» «E nessuno ancora glielo ha detto?» «No, signorina. Abbiamo pensato che era meglio se venivano a saperlo da voi, in quanto voi conoscete la famiglia, e naturalmente conoscevate anche la signora stessa.» «Oh.» Il capostazione aprì la porta e si fece da parte. Hester entrò immediatamente. La prima persona che vide fu una giovane donna che aveva bellissimi capelli castano chiari con riflessi ramati, ondulati come quelli di Eilish, ma molto meno luminosi, quasi biondo-rossicci invece che della sfumatura brunita, caratteristica delle tonalità dell'autunno. Il suo viso era ovale, le fattezze regolari ma del tutto prive sia della intensità espressiva sia della bellezza di quello della sorella. Comunque, la si poteva giudicare, nel complesso, una donna più bella che brutta, di una bellezza quieta e piacevole, ma dopo aver conosciuto Eilish, Hester non poté fare a meno di considerarla come una specie di ombra, di pallido riflesso di quella. Forse col tempo, quando la sua condizione presente fosse giunta al termine e lei non si fosse più sentita tormentare da tante, e diverse, forme di ansietà, avrebbe potuto venire ad assomigliare maggiormente a Oonagh, e dimostrare maggior vivacità e fiducia in se stessa. Ma fu l'uomo al suo fianco a parlare. Era più alto di lei di una decina di centimetri, aveva la faccia ossuta, gli occhi seminascosti dalle palpebre pesanti e l'abitudine di arricciare le labbra che attirava subito l'attenzione sulla sua bocca tumida, ben formata. «Voi siete l'infermiera assunta per accompagnare la signora Farraline durante il viaggio?» Domandò. «Bene. Forse potete dirci cos'è tutta questa storia? Dov'è la signora Farraline? Perché ci hanno tenuto qui ad aspettar-
la?» Hester lo fissò negli occhi un istante, in modo da fargli capire che aveva sentito perfettamente quel che le stava dicendo, poi si voltò verso Griselda. «Mi chiamo Hester Latterly. Sono stata assunta per accompagnare la signora Farraline. Mi duole infinitamente di dover essere proprio io a portarvi notizie molto brutte. La signora era di ottimo umore ieri sera e sembrava anche in perfette condizioni di salute, ma si è spenta nel sonno, durante la notte. Non penso che abbia sofferto perché non si è lasciata sfuggire nemmeno un lamento.» Griselda la fissava con gli occhi sgranati come se non avesse capito nemmeno una delle parole che le erano giunte alle orecchie. «La mamma?» Scrollò la testa. «Non capisco quello che dite. La mamma doveva venire giù, a Londra, a dirmi... non so cosa. Ma ripeteva che tutto sarebbe andato per il meglio! Ecco quello che diceva! Me lo aveva promesso.» Si voltò con aria incerta verso il marito. Lui non la degnò di uno sguardo e continuò a tenere gli occhi fissi su Hester. «Cosa state dicendo? Questa non è una spiegazione di un bel niente. Se la signora Farraline fosse stata in perfetta salute ieri sera, non sarebbe...» cercò l'eufemismo più giusto «...non si sarebbe spenta così, semplicemente... senza... santo cielo, credevo che voi foste un'infermiera. Che senso ha far viaggiare un'infermiera con lei se poi deve succedere una cosa del genere? Voi siete peggio che inutile!» «Su, andiamo, signore!» interloquì il capostazione in tono pieno di buon senso. «Se la buona signora era già un po' avanti negli anni, e aveva il cuore in brutte condizioni, avrebbe potuto andarsene in qualsiasi momento. C'è da essere grati, piuttosto, che non abbia sofferto.» «...che non abbia sofferto, brav'uomo? Ma se è morta!» Esplose Murdoch. Griselda si coprì la faccia con le mani e cadde di schianto all'indietro sulla seggiola di legno che stava alle sue spalle. «Non può essersene andata» piagnucolò. «Aveva intenzione di dirmi... no, questo non lo sopporto! Lo aveva promesso!» Murdoch la guardò; la sua faccia rivelava la confusione, la collera e un senso di impotenza. Si aggrappò all'unica ancora di salvezza che gli veniva offerta. «Su, da brava, adesso, mia cara. C'è qualche verità in quello che dice il capostazione. È stata una cosa assolutamente improvvisa, ma dobbiamo essere grati che non abbia sofferto. Perlomeno così sembra.» Griselda alzò a guardarlo due occhi sbarrati, colmi di orrore. «Ma lei
non... voglio dire che non c'è stata nemmeno una lettera. È una cosa tremendamente importante. Non avrebbe mai... oh, è terribile.» Si nascose di nuovo la faccia fra le mani e scoppiò in lacrime. Murdoch guardò il capostazione, ignorando Hester. «Dovete capire, mia moglie adorava sua madre. Questo per lei è un colpo durissimo.» «Certamente, signore, è più che naturale» il capostazione confermò. «Logico che lo sia. Lo sarebbe per chiunque, soprattutto per una giovane signora piena di sensibilità.» Griselda si alzò in piedi di scatto. «Lasciatemela vedere!» Domandò, scostandoli per farsi avanti. «Ma insomma, mia cara» Murdoch protestò afferrandola per le spalle. «Non ti farebbe proprio bene per niente... E devi riposare. Pensa alle tue condizioni...» «Ma devo!» Si divincolò per liberarsi dalla sua stretta e venne a mettersi di fronte a Hester, con la faccia talmente pallida che la spruzzatina di lentiggini sulle sue guance spiccava, adesso, come tante macchioline di sudiciume. Gli occhi erano stralunati, sbarrati. «Che cosa vi ha detto?» Domandò. «Deve pur avervi detto qualcosa! Qualcosa sul motivo per il quale veniva qui da me... qualcosa che riguardava me! Non l'ha fatto, forse?» «Ha detto soltanto che aveva intenzione di venire a rassicurarvi in modo che non ci fosse più il minimo motivo di ansietà per voi» Hester rispose con dolcezza. «Su questo è stata molto chiara. Non dovete assolutamente essere ansiosa, in nessun senso, proprio per niente.» «Ma perché?» Griselda esclamò agitatissima, alzando le mani come se volesse prendere Hester per le braccia e mettersi a scuoterla, se ne avesse avuto il coraggio. «Siete sicura? Potrebbe darsi che non lo dicesse sul serio! Avrebbe potuto semplicemente... non so... voler essere gentile.» «Non lo credo affatto» Hester rispose con molta franchezza. «Da quanto ho visto della signora Farraline, non doveva essere abituata a parlare senza motivo, neanche per consentire a qualcuno di mettersi tranquillo e di non tormentarsi; se ciò che ha detto non fosse stato la pura e completa verità, avrebbe potuto benissimo fare a meno di parlare. Naturalmente è tremendamente difficile per voi in un momento così tragico, ma io cercherei di convincermi, se fossi al vostro posto, che non c'è, nel modo più assoluto, alcun motivo di preoccupazione.» «Davvero? Devo credervi?» Griselda esclamò vivacemente. «Pensate proprio così, signorina...» «Latterly. Sì, proprio così.»
«Vieni, mia cara» Connal disse in tono suadente. «Tutto questo, adesso, non ha poi una grande importanza. Ci sono disposizioni da dare. E devi scrivere alla tua famiglia a Edimburgo. C'è una quantità di cose delle quali occuparsi.» Griselda si voltò a guardarlo come se le avesse parlato in una lingua sconosciuta. «Cosa?» «Non preoccuparti. Penserò io a tutto. Scriverò stamattina stessa, una lettera con tutte le notizie e i particolari che sappiamo. Se la imposto oggi, partirà con il treno della notte e la riceveranno a Edimburgo domattina. Cercherò di rassicurarli dicendo che tutto è successo durante il suo riposo e che lei quasi certamente non ha sofferto.» Scrollò il capo leggermente. «E, adesso, mia cara... questa è stata una giornata terribile per te. Devo ricondurti a casa dove la mamma si occuperà di te.» La sua voce rivelava un improvviso senso di sollievo al pensiero di aver trovato il modo migliore di risolvere con eleganza una situazione in cui non sapeva come sbrogliarsela. «Devi soprattutto pensare alla tua... salute, mia cara. Dovresti riposare. Non c'è niente che tu possa fare qui, te lo assicuro.» «È verissimo, signora» interloquì prontamente il capostazione. «Andate con vostro marito. Più ragione di così non potrebbe avere, credetemi.» Griselda esitò, lanciò un altro sguardo angosciato a Hester, poi cedette a una forza superiore alla sua. Hester la seguì con lo sguardo mentre si allontanava e, intanto, provava sollievo, e le tornava in mente, triste ma preciso, il tono di voce di Mary quando diceva che Griselda si preoccupava in modo assolutamente inutile. Le pareva quasi di sentirsela riecheggiare nel cervello, di ricordare persino la sfumatura di umorismo da cui era venata. Forse avrebbe dovuto essere più esplicita nel cercare di confortarla, dire qualcosa di più. Griselda le era sembrata più distrutta e disperata per la mancanza di quella rassicurazione che riguardava il nascituro che per la morte stessa di sua madre. Ma, forse, perché era l'emozione più facile da affrontare tra le due. Mentre ci sono persone che si rinchiudono nella collera e nell'impotenza, e a lei era capitato spesso di trovarsene parecchi esempi davanti agli occhi, Griselda si aggrappava alla paura. Il fatto di essere in attesa di un figlio, e soprattutto del primo figlio, poteva provocare ogni genere di strani turbamenti e far affiorare sentimenti che, di norma, rimangono più nascosti. Ma Griselda se n'era andata e ormai non c'era più niente da aggiungere a quanto aveva già detto. Forse, col tempo, Murdoch sarebbe riuscito a trovare le cose giuste da dire o da fare.
Ci volle quasi un'altra ora di domande e di risposte tanto ripetitive quanto futili prima che a Hester venisse dato il permesso di lasciare la stazione. Aveva ripetuto a tutte le persone, che avessero qualche autorità in merito all'accaduto, le istruzioni esatte che le erano state date a Edimburgo, come Mary si fosse comportata durante le ore della sera, come non si fosse lagnata nel modo più assoluto di qualche malessere e, anzi al contrario, come le fosse sembrata di un buon umore addirittura insolito. No, Hester non aveva sentito niente che fosse al di fuori dell'ordinario durante la notte, e il rumore delle ruote sulla strada ferrata aveva soffocato e annullato, in ogni caso, quasi tutto il resto. Sì, certo che aveva somministrato alla signora Farraline la sua medicina, un flaconcino secondo le istruzioni. L'altro flaconcino era già vuoto. No, non sapeva quale fosse la causa della morte della signora Farraline. Era partita dal presupposto che si trattasse di quel mal di cuore di cui soffriva. No, non le era stata fatta la storia della malattia. Non era lei ad assisterla come infermiera; si era limitata semplicemente ad accompagnarla e ad assicurarsi che non dimenticasse di prendere la medicina o non ne prendesse una dose doppia. C'era da pensare che avesse fatto qualcosa del genere? No, perché non aveva mai aperto lei, personalmente, l'astuccio che era sempre rimasto nel posto preciso in cui Hester lo aveva messo. A parte il fatto che Mary non era distratta, né rivelava certe dimenticanze caratteristiche di chi, a poco a poco, sta diventando senile. E infine, annientata dalla tristezza, inebetita, Hester ottenne il permesso di andarsene e raggiunse la strada dove chiamò con un cenno un hansom e diede al vetturino l'indirizzo di Callandra Daviot. Non prese nemmeno in considerazione il fatto che potesse essere cortese ed educato o no, presentarsi da lei nel bel mezzo della mattinata, senza averla prevenuta e in condizioni di estrema agitazione. Il suo desiderio di sentirsi al calduccio e al sicuro, di udire una voce familiare, era talmente forte da annullare il normale senso del decoro che possedeva. Non che Callandra fosse una di quelle persone che badano a cose di questo genere, ma le stramberie non erano da mettere sullo stesso livello della mancanza di rispetto e considerazione. La giornata era grigia e, portato dal vento, arrivava anche qualche scroscio di pioggia, ma Hester continuò a non badare a quello che aveva intorno. Strade sudice e muri sporchi di fuliggine e marciapiedi bagnati vennero a poco a poco lasciati indietro per essere sostituiti da piazze più eleganti, foglie morte e chiazze di colori autunnali, ma era tanto assorta nei propri
pensieri che niente di tutto questo riuscì a richiamare la sua attenzione. «Eccoci arrivati, signorina» disse infine il vetturino, voltandosi a occhieggiarla attraverso lo spioncino. «Cosa?» Domandò lei bruscamente. «Eccoci qui, signorina. Scendete oppure avete intenzione di rimanere ancora lì seduta per un po'? Guardate che se non scendete dovrò farvi pagare ugualmente. Devo guadagnarmi da vivere, sapete?» «No, figurarsi se voglio rimanere qui dentro» ribatté lei, indispettita, affrettandosi ad aprire lo sportello con una mano mentre afferrava la sacca da viaggio con l'altra. Scese con gesti goffi e maldestri e, posata la sacca sul marciapiede, lo pagò e gli augurò il buon giorno. Non appena il cavallo riprese a muoversi e la pioggia aumentò di violenza, creando larghe pozzanghere nei punti dove le pietre del selciato erano sconnesse, Hester afferrò di nuovo la sua sacca e salì i gradini della porta. Signoriddio fa che Callandra sia in casa... che non si trovi fuori, impegnata in una delle mille cose di cui si interessa! Si era rifiutata di pensare a una possibilità del genere, prima, perché non se la sentiva di affrontarla, ma adesso le sembrava talmente probabile che esitò persino per un attimo sui gradini, e rimase indecisa sotto la pioggia battente, i piedi fradici, la gonna che si impregnava d'acqua dove aveva sfiorato le pietre del selciato. Ormai non c'era niente da perdere. Diede uno strattone alla maniglia del campanello e aspettò. La porta le venne aperta, ma ci volle un attimo perché il maggiordomo la riconoscesse; a quel punto la sua espressione cambiò. «Buon giorno, signorina Latterly.» Fece per dire qualcos'altro, ma poi evidentemente ci ripensò e tacque. «Buon giorno. Lady Callandra è in casa?» «Sì, signorina. Se volete entrare, vado ad avvertirla che siete arrivata.» Si spostò di lato per farla passare, sollevando lievemente le sopracciglia di fronte all'aspetto piuttosto malconcio e trasandato di Hester. Le tolse di mano la sacca che mise da una parte con mosse guardinghe, poi si ritirò con qualche parola di scusa, lasciandola inzuppata e grondante di pioggia sul pavimento tirato a cera. Fu Callandra in persona ad accorrere, mentre sulla sua faccia bizzarra, dal lungo naso, si disegnava un'espressione di ansietà. Come sempre, i capelli le sfuggivano alle forcine come se fossero stati arruffati da un colpo di vento e l'abito verde, che portava, rivelava subito come lei badasse più ai propri comodi che ai dettami della moda e dell'eleganza. Le gonne am-
pie, che le stavano molto bene quando era più giovane e snella, adesso non riuscivano a nascondere una certa opulenza dei fianchi, ma la facevano sembrare più bassa di quanto in realtà fosse. A ogni modo il suo portamento, come sempre, era perfetto; e il senso di umorismo come l'intelligenza che la sua espressione rivelava, sostituivano abbondantemente qualsiasi mancanza di bellezza. «Mia cara, hai un aspetto spaventoso!» esclamò preoccupata. «Mi vuoi dire cos'è successo? Credevo che fossi partita per Edimburgo. È stato annullato l'impegno?» Per un attimo non badò alla gonna fradicia e all'abito piuttosto stropicciato di Hester, o ai capelli, arruffati e spettinati come i suoi. «Hai un aspetto da fare spavento. Stai male?» Hester sorrise per il puro e semplice sollievo, vedendosela davanti. Callandra sapeva farle provare una sensazione di calore umano e di affetto che andava al di là del puro e semplice benessere fisico; era un po' come ricevere un'accoglienza festosa e piena di affetto tornando a casa da un viaggio compiuto in perfetta solitudine. «Sì, che sono andata a Edimburgo. E sono tornata a casa con il treno della notte. La mia paziente è morta.» «Oh santo cielo, come mi dispiace» si affrettò a rispondere Callandra. «Prima che tu arrivassi laggiù? Che disgrazia. Con tutto ciò... oh...» frugò in faccia a Hester con gli occhi. «No, non è questo che intendevi dire, vero? È morta mentre era affidata alle tue cure?» «Sì...» «Non mi sembra che si siano comportati molto bene se ti hanno fatto partire con una persona tanto malata» riprese Callandra in tono deciso. «Povera creatura, essere morta lontano da casa, e su un treno, poi! Devi essere in condizioni terribili. Basta guardarti per capirlo.» Prese Hester per un braccio. «Vieni a sederti. Quella gonna è fradicia. Non ho niente di mio che ti possa andar bene, ti ballerebbe tutto addosso. Dovrai accontentarti del vestito di una delle cameriere. Potrà andare fino a che questo sarà asciutto. Altrimenti c'è il rischio di...» si interruppe di colpo e assunse un'espressione dolente. «...c'è il rischio di morire» Hester concluse per lei con l'ombra di un sorriso. «Grazie.» «Daisy!» Callandra chiamò ad alta voce. «Daisy, vieni qui per favore!» Una ragazza bruna e snella, con occhi grandissimi, apparve ubbidiente uscendo dalla sala da pranzo, lo straccio per la polvere in mano, la cuffietta di pizzo un po' sbilenca sulla testa.
«Sì, Signoria?» «Hai più o meno la stessa altezza della signorina Latterly. Dovrai essere tanto buona da prestarle un vestito fino a quando il suo non sarà asciutto... non riesco a capire che cosa ha combinato con quella gonna ma sta sgocciolando acqua dappertutto e si deve provare freddo come a Natale tenendola addosso! Oh, forse farai meglio a cercare anche un paio di scarpe e di calze per lei. Poi, strada facendo, chiedi alla cuoca di mandare un po' di cioccolata calda nel salotto verde.» «Sì, Signoria.» La ragazza abbozzò una specie di inchino e, dopo un'occhiata a Hester per assicurarsi di aver ben capito le istruzioni, si avviò a eseguire l'incarico affidatole. Dieci minuti più tardi Hester indossava un abito di lanetta grigia che le andava a pennello, salvo per la lunghezza in quanto era più corto di cinque centimetri alle caviglie e quindi metteva bene in evidenza le calze e scarpe che le erano state prestate, e sedeva accanto al fuoco di fronte a Callandra. Quella stanza era una delle sue preferite, arredata interamente nelle tonalità del verde scuro e del bianco, con le porte e le strombature delle finestre bianche, che attiravano subito l'occhio verso la luce. Il mobilio era nelle sfumature calde del legno di palissandro, le imbottiture in broccato color panna, e sul tavolo c'era grande vaso, largo e basso, di crisantemi bianchi. Tenendo stretta la tazza di cioccolata bollente fra le mani, Hester cominciò a sorseggiarla piena di gratitudine. Era assurdo provare tanto freddo; non era nemmeno inverno e, certo, fuori non si poteva dire che il tempo fosse gelido. Eppure continuava a rabbrividire. «Lo shock» fece Callandra con voce piena di comprensione. «Bevi. Ti farà sentir meglio.» Hester bevve un altro sorso e sentì il liquido bollente che le scendeva in gola. «Stava così bene la sera prima» esclamò concitata. «Siamo rimaste sveglie a parlare di tante cose... E lei avrebbe parlato ancora di più, solo che la figlia mi aveva dato istruzioni di non farla rimanere sveglia oltre le undici e un quarto al massimo.» «Se è stata bene fino all'ultima, proprio l'ultimissima, sera della sua vita, va considerata una donna molto fortunata» Callandra disse, occhieggiando Hester al di sopra del bordo della propria tazza. «La maggior parte delle persone restano malate almeno per un certo periodo, e di solito si tratta di settimane. Naturalmente è uno shock, ma presto sembrerà, piuttosto, una vera e propria benedizione divina.» «È quello che mi aspetto anch'io» Hester disse lentamente. Il cervello le
confermava che tutto quanto Callandra le stava spiegando era assolutamente vero, eppure continuava a provare soltanto rammarico e senso di colpa, profondi e acuti sia l'uno come l'altro. «Mi piaceva moltissimo» disse a voce alta. «In tal caso rallegrati che non abbia sofferto.» «Mi sono sentita così inefficiente, così trascurata» Hester protestò. «Non l'ho aiutata proprio in nulla. Non mi sono neanche svegliata. Per l'utilità o la consolazione che le ho dato, tanto valeva che me ne rimanessi a casa.» «Se è morta nel sonno, cara la mia ragazza, non avresti potuto essere, comunque, né di aiuto né di conforto» Callandra le fece rilevare. «Già, suppongo...» «Immagino che tu abbia dovuto informare qualcuno? La famiglia?» «Sì. La figlia e il genero erano venuti a prenderla. Lei è rimasta letteralmente sconvolta.» «Naturalmente. E a volte un dolore che colpisce all'improvviso può far perdere il lume degli occhi e far diventare del tutto irragionevoli. È stata sgarbata con te?» «No... proprio per niente. È stata molto giusta.» Hester ebbe un sorriso amaro. «Non mi ha rimproverato assolutamente, mentre avrebbe avuto tutte le ragioni per farlo. E invece, più che per tutto il resto, è sembrata angosciata per non aver potuto sapere ciò che sua madre aveva intenzione di dirle. La povera creatura aspetta un bambino, il primo. Era preoccupata per la sua salute e la signora Farraline andava da lei proprio per rassicurarla. Sembrava quasi uscita di senno quando si è resa conto che non avrebbe mai saputo ciò che la signora Farraline stava per dirle.» «Certo che, nell'insieme, è una situazione delle più disgraziate» Callandra osservò in tono pieno di comprensione. «Ma non è colpa di nessuno. Salvo della signora Farraline stessa per essersi sobbarcata un viaggio del genere quando anche lei aveva già una salute tanto delicata. Una lunga lettera sarebbe stata molto più consigliabile. Comunque è facile dare giudizi e fare commenti con il senno di poi.» «Non credo di aver mai provato maggior simpatia, una simpatia tanto profonda e tanto immediata, per un'altra qualsiasi delle mie pazienti» Hester disse, deglutendo a fatica. «È stata molto schietta, molto onesta. Mi ha raccontato che era andata a un ballo la sera prima della battaglia di Waterloo. Diceva che tutte le persone, che avessero una certa importanza in quel momento in Europa, erano lì, presenti. E che l'atmosfera, in fondo, era stata piena di allegria, e voglia di ridere e di apprezzare la bellezza e diver-
tirsi, con una voglia di vivere disperata e spasmodica sapendo ciò che l'indomani avrebbe portato.» Per un attimo la luce tenue della carrozza ferroviaria e la faccia mobile, intelligente, espressiva di Mary, sembrarono più reali del salotto verde e del fuoco che scoppiettava lì, davanti a lei, in quel momento. «E poi gli addii, la mattina» continuò. «Gli uomini in giacca rossa con i galloni dorati, i cavalli che sentivano l'eccitazione nell'aria, l'odore della battaglia, i finimenti che tintinnavano, gli zoccoli mai fermi.» Finì con un sorso la cioccolata ma continuò a tenere la tazza vuota fra le mani. «Nel vestibolo c'era un ritratto di suo marito. Una faccia interessantissima, straordinaria, che rivelava una grande intensità di emozioni anche se, in buona parte, rimanevano appena accennate, vagamente nascoste, soltanto intuibili. Capite che cosa intendo?» Guardò Callandra con aria interrogativa. «La forma della sua bocca rivelava una natura appassionata, ma gli occhi manifestavano l'incertezza, come se si dovesse sempre cercar di indovinare quello che lui stava realmente pensando.» «Un uomo complicato» Callandra confermò. «E molto abile l'artista a cogliere tutto questo nell'espressione di un viso, se è proprio come me lo descrivi.» «È stato lui a fondare l'azienda tipografica di famiglia.» «Davvero.» «È morto otto anni fa.» Callandra continuò ad ascoltarla per un'altra mezz'ora mentre Hester le parlava dei Farraline, di quel poco che aveva visto di Edimburgo e di ciò che intendeva fare per cercarsi un altro impiego. Poi si alzò e suggerì a Hester di andare a ravviarsi i capelli, che avevano bisogno di parecchie forcine e le sembravano piuttosto in disordine; dopo avrebbero preso in considerazione l'idea del pranzo. «Sì... sì, certo» Hester si affrettò a rispondere; soltanto in quel momento si rendeva conto di quanto tempo aveva costretto Callandra a dedicarle. «Devo scusarmi... io... avrei dovuto...» Callandra la fece ammutolire con un'occhiata. «Sì» Hester disse ubbidiente. «Sì, vado a cercare qualche altra forcina. E credo anche che Daisy vorrà riavere indietro il suo vestito. È stata molto gentile a prestarmi questo.» «Il tuo è un po' difficile che sia già asciutto» Callandra le fece notare. «Ci sarà tempo per pensarci quando avremo pranzato.» Senza discutere ulteriormente Hester salì al piano superiore, nella came-
ra da letto per gli ospiti dove Daisy aveva portato la sua sacca da viaggio, e l'aprì per cercare il pettine e qualche forcina in più. Ci infilò una mano e la allungò fino in fondo, speranzosa, poi cominciò a tastare tutt'intorno. Niente pettine. Tentò dall'altra parte e le sue dita lo toccarono dopo un momento. Per le forcine fu un po' più difficile. Avrebbero dovuto essere avvolte in un pezzetto di carta ma dopo svariati minuti non le aveva ancora rintracciate. Spazientita, afferrò la sacca e ne rovesciò il contenuto sul letto. Con tutto ciò non riuscì ugualmente a individuarle subito. Prese in mano la camicia che si era cambiata in casa della signora Farraline, prima di quel pisolino pomeridiano... Quasi quasi non riusciva a capacitarsi che tutto ciò fosse successo soltanto in giorno prima. La scrollò e qualcosa ne cadde fuori rotolando sul pavimento con un lieve tintinnio. Doveva essere il pacchetto di carta che conteneva le forcine. Ne aveva le giuste dimensioni, come il peso. Girò intorno al letto e, quando fu dall'altra parte s'inginocchiò per cercarlo. Era sparito di nuovo. Mosse la mano sul tappeto, tastando lentamente, con delicatezza, tutt'intorno per raggiungerlo. Eccolo! Vicino alla gamba del letto. Lo tirò su e si rese conto istantaneamente che qualcosa non funzionava. Non era un pacchetto di carta, non erano nemmeno le forcine sparpagliate. Era un oggetto di metallo cesellato, dalla lavorazione elegante e raffinata. Lo guardò attentamente. Poi provò un tuffo al cuore e si sentì la bocca arida, all'improvviso. Era un gioiello, anzi una spilla, dalla forma rotonda, a cerchio, incisa riccamente, con un motivo a volute, tempestata di brillanti e di grosse perle grigie. Non l'aveva mai vista ma ne aveva la descrizione scolpita nella memoria. Era la spilla di Mary Farraline, quella di cui le aveva parlato dicendo che la considerava la sua preferita e che aveva lasciato a casa perché l'abito sul quale la portava abitualmente, e che la metteva in particolare risalto, era macchiato. Con dita tremanti, maldestre, la afferrò e, con i capelli ancora spettinati perché non aveva avuto il tempo di ravviarli e tenerli a posto con le forcine, scese di nuovo le scale ed entrò nella sala verde. Callandra alzò gli occhi. «Cosa c'è?» Le era bastato uno sguardo alla faccia di Hester per capire che si trattava di qualcosa di nuovo, e di molto grave. «Cosa è successo?» Hester le mostrò la spilla. «È di Mary Farraline» disse con voce rauca. «L'ho trovata adesso nella mia sacca da viaggio.» «Farai meglio a sederti» Callandra disse con voce cupa, allungando una
mano per prendere la spilla. Hester si lasciò cadere in una poltrona, piena di riconoscenza. Le pareva che le gambe non la reggessero da tanto le sentiva tremare. Callandra, quando ebbe la spilla fra le mani, la girò e la rigirò attentamente, esaminando le perle, poi il marchio caratteristico, il marchio ufficiale dei metalli preziosi, sul retro. «Probabilmente vale molto» disse con voce bassa e molto grave. «Da novanta a cento sterline come minimo.» Alzò gli occhi verso Hester con la fronte segnata da una ruga profonda. «Immagino che tu non abbia nessuna idea del modo in cui è finita nella tua sacca da viaggio, vero?» «No, assolutamente. La signora Farraline ha detto che non l'aveva portata con sé perché il vestito sul quale la mette abitualmente era stato macchiato.» «In questo caso sembrerebbe che la sua cameriera non abbia ubbidito con grande attenzione ai suoi ordini.» Callandra si morse un labbro. «Ed è anche... molto, ma molto meno che onesto. È difficile immaginare che una cosa del genere possa essere successa soltanto per caso. Hester, qui c'è qualcosa di grave, qualcosa che non si spiega affatto, e per quanto io mi ci sforzi, non riesco a capirci un bel niente. Abbiamo bisogno di aiuto, e ti propongo di chiedere a William...» Hester rimase impietrita. «...di darci il suo consiglio» Callandra concluse. «Qui non si tratta di qualcosa che possiamo risolvere da sole, e non sarebbe neanche saggio arrischiarsi a farlo. Mia cara, qui c'è qualcosa di molto grave. Quella povera signora è morta. Non si può escludere che per chissà quale disgraziato errore il suo gioiello sia finito fra le cose che ti appartengono, ma in nome di Dio... ti giuro che non riesco a capire quale possa essere stato!» «Ma pensate...?» Hester cominciò, detestando il solo pensiero di doversi rivolgere a Monk per essere aiutata. Le sembrava così inefficace e, in quel momento, si sentiva talmente stanca e sbalordita da non aver la forza di affrontare quel tipo di lotta, emotivamente così spossante, che il confronto con Monk avrebbe necessariamente provocato. «Sì, proprio sì che lo penso» rispose Callandra, andando per le spicce. «Altrimenti non lo avrei proposto. Dio mi guardi dall'andar contro i tuoi desideri, ma non insisterò mai abbastanza per convincerti a cercare il consiglio di qualcuno e a farlo senza porre tempo in mezzo.» Hester rimase immobile per qualche istante, a riflettere, a cercare di trovare una spiegazione in modo da non essere costretta ad andare da Monk,
pur rendendosi perfettamente conto, già mentre faceva tutto questo, che sarebbe stato inutile. Non esisteva spiegazione che avesse un minimo di senso logico. Callandra aspettò, rendendosi conto di aver manifestato con la massima chiarezza il proprio punto di vista; adesso si trattava semplicemente di scendere a patti, e arrendersi. «Sì...» Hester disse a mezza voce. «Sì, voi avete ragione. Torno di sopra e cerco le forcine, e poi vado a vedere se riesco a trovare Monk.» «Puoi prendere la mia carrozza» Callandra le offrì. Hester ebbe un pallido sorriso. «Non vi fidate di me e pensate che non ci vada?» Ma non aspettò la risposta. Sapevano tutte e due che quella era l'unica soluzione sensata. Monk la guardò con aria accigliata. Si trovavano nel piccolo salotto che lei gli aveva consigliato di usare come locale in cui ricevere gli eventuali clienti. Li avrebbe fatti sentire molto più a loro agio invece del suo ufficio, piuttosto austero e fin troppo funzionale, che poteva intimidire, o impaurire. Già Monk in sé e per sé era un personaggio capace di innervosire chiunque con quel viso glabro, dall'ossatura forte, e lo sguardo deciso, penetrante. Lui era in piedi vicino alla mensola del camino in quanto aveva sentito la porta esterna che si apriva e qualcuno che si affrettava a entrare. La sua espressione, riconoscendola, aveva rivelato un curioso miscuglio di piacere e di fastidio. Evidentemente si era illuso che si trattasse di un cliente. Adesso esaminava con occhio critico il suo abito semplice, quello che le aveva prestato la cameriera di Callandra, la sua faccia pallida, i capelli, pettinati frettolosamente. «Cos'è successo? Avete un aspetto da far spavento.» Queste parole furono pronunciate con un tono di critica chiara e spietata. Poi un lampo di ansietà gli illuminò lo sguardo. «Non vi sentirete male, per caso?» La sua voce era venata di collera. Sarebbe stato scomodo, e sconveniente, se lei si fosse sentita male. Oppure era paura, la sua? «No, non sto male» rispose lei, acida. «Sono tornata da Edimburgo con il treno della notte, insieme a una paziente.» Era difficile raccontare ogni cosa con la compostezza e il distacco che avrebbe desiderato. Se almeno ci fosse stato qualcun altro a cui rivolgersi, altrettanto abile e capace di vedere i pericoli, e di darle un consiglio tanto buono quanto pratico! Lui aprì la bocca come se volesse ribattere con una frase pungente; poi,
conoscendola bene come la conosceva, si rese conto che doveva essere successo qualcosa di veramente grave. E aspettò, guardandola attentamente. «La mia paziente era una signora anziana di un certo rango sociale a Edimburgo» continuò Hester con la voce che si faceva più sommessa e perdeva la sua asprezza. «Una certa signora Mary Farraline. Ero stata assunta per somministrarle la sua medicina per ultima cosa alla sera, perché in fondo era tutto quanto avevo da fare. A parte quello, credo che si trattasse più che altro di tenerle compagnia.» Lui non interruppe. Hester ebbe un sorriso di amaro divertimento. Solo qualche mese prima Monk l'avrebbe interrotta. Ma il fatto di essere obbligato a cercarsi i clienti per guadagnarsi da vivere invece di averli come un diritto, cioè come gli capitava quando era ispettore di polizia, gli aveva insegnato non tanto l'umiltà quanto ad aprire gli occhi per quello che poteva essere il suo tornaconto personale. Con un cenno le indicò di sedersi mentre prendeva posto di fronte a lei, sempre ascoltandola. Hester tornò col pensiero, dolorosamente, al motivo della sua presenza lì. «Si è addormentata verso le undici e mezzo» continuò. «O perlomeno questa è l'impressione che ha dato. Io, personalmente, ho dormito benissimo, in quanto ero rimasta praticamente sveglia... in una carrozza di seconda classe per tutto il viaggio da Londra la notte precedente.» Deglutì. «Quando mi sono svegliata al mattino, poco prima del nostro arrivo qui, in città, ho cercato di scuoterla, e ho scoperto che era morta.» «Mi spiace» fece lui. C'era sincerità nella sua voce, ma anche un senso di attesa. Capiva come questo dovesse averla disturbata. Anche se probabilmente si trattava di qualcosa al di là del suo controllo, era tutto sommato una specie di fallimento e lui sapeva che Hester l'avrebbe considerato come tale. Ma, prima, non era mai venuta a confidargli né i suoi fallimenti né le sue tristezze... o, se non altro, lo aveva fatto solo indirettamente. Impossibile che lo scopo della sua visita fosse semplicemente questo. Rimase con un piede appoggiato al parafuoco, la spalla contro la mensola del camino, aspettando che lei continuasse. «Naturalmente ho dovuto informare il capostazione e poi la figlia e il genero che erano venuti a riceverla. C'è voluto un po' di tempo perché potessi lasciare la stazione. Quando sono venuta via, sono andata a parlare con Callandra...» Lui assentì. Era quello che si sarebbe aspettato. Anzi, era quello che lui
stesso avrebbe fatto. Callandra era forse l'unica persona alla quale sentiva di poter confidare i propri sentimenti. Mai e poi mai avrebbe consentito a Hester di scoprire quale fosse la sua vulnerabilità. Naturalmente lei se l'era vista inconsapevolmente rivelare qualche volta, mentre a Callandra non era mai capitato, ma si trattava di tutt'altra cosa, assolutamente non voluta o intenzionale. «Mentre ero da lei ho avuto occasione di andare di sopra a cercare qualche altra forcina.» Il sorriso di Monk era sarcastico. Hester sapeva di avere i capelli ancora spettinati, gli leggeva per filo e per segno nella mente, sapeva tutto quanto gli stava passando per il cervello. La sua voce si fece di nuovo aspra. «Ho infilato la mano nella mia sacca da viaggio e invece delle forcine ho trovato una spilla... una spilla di brillanti e perle grigie. Non era mia, e sono sicurissima che appartenesse alla signora Farraline, perché me l'ha descritta durante la nostra conversazione, quando mi raccontava quello che avrebbe fatto a Londra.» La faccia di Monk si incupì; staccandosi dalla mensola del camino venne a sedersi nella poltrona di fronte a Hester, aspettando pazientemente che si sedesse anche lei. «Dunque non la portava durante il viaggio in treno?» Domandò. «No. È questo il punto. Ha detto di averla lasciata a casa, a Edimburgo, perché l'abito sul quale era abituata a metterla, si era macchiato!» «E la spilla veniva portata soltanto con quell'unico abito?» Monk domandò stupito e incredulo. Senza farglielo notare con lo sguardo, col cervello era già andato oltre, e capiva quelle paure. «Perle grigie» spiegò lei anche se era inutile. «Sarebbero state il gioiello sbagliato con gran parte dei colori, non sono vistose.» Continuò a parlare per evitare il momento in cui avrebbe dovuto ammettere ciò che questo in realtà significava. «Perfino il nero non sarebbe stato...» «D'accordo» fece lui. «Lei ha detto di averla lasciata a casa? Non suppongo che abbia pensato personalmente a mettere i vestiti nelle valigie, vero? Aveva una cameriera per cose di questo genere. E le sue valigie sarebbero rimaste nel bagagliaio, con la guardia, durante il viaggio. Vi è capitato di conoscere questa cameriera? Avete per caso litigato con lei? Era gelosa perché le sarebbe piaciuto venire a Londra e voi le avete portato via il posto?» «No. Non aveva nessuna voglia di venire. E non abbiamo litigato. È stata perfettamente affabile e gentile.»
«E allora chi ha messo la spilla nella vostra sacca da viaggio? Non sareste venuta qui da me se ce l'aveste messa voi stessa.» «Non siate così presuntuoso!» Hester esclamò. «Naturale che non sono stata io. Se fossi una ladra, non mi pare che sarebbe proprio il caso di venire qui a raccontarvelo!» La sua voce si stava facendo sempre più squillante, sempre più stridula e rabbiosa, man mano che la paura si impadroniva di lei e cominciava a vedere più chiaramente il pericolo della sua situazione. Monk la guardò con aria imbarazzata. «Dov'è la spilla adesso?» «A casa di Callandra.» «Poiché la disgraziata donna è morta, qui non si tratta di risolvere semplicemente la faccenda restituendogliela. E non sappiamo se sia stata smarrita per un vero e proprio caso fortuito oppure se tutto ciò non faccia parte di un tentativo delittuoso. Potrebbe diventare molto antipatica, questa faccenda.» Si mordicchiò un labbro, dubbioso. «La gente che è stata colpita da un lutto spesso diventa irragionevole e fin troppo pronta a passare dal dolore alla collera. È più facile andare su tutte le furie e scaricare la disperazione con qualche accusa rivolta ad altri. La restituzione di questo gioiello dovrebbe essere risolta in modo professionale, da parte di qualcuno di cui ci si assicura i servizi perché si impegni a occuparsi dei vostri interessi. Sarà meglio andare a parlare con Rathbone.» E senza aspettare di vedere se lei acconsentiva ad accettare questo consiglio, staccò il soprabito dall'attaccapanni, ne tolse anche il cappello, e si avviò alla porta. «Be', non state lì seduta a quel modo!» Disse acido. «Più in fretta si fa, meglio è. Fra l'altro, io rischio di perdere un cliente se sto qui a gingillarmi.» «Non è necessario che veniate con me» rispose lei sulla difensiva, alzandosi in piedi. «Sono capacissima di trovare Oliver per conto mio e di raccontargli quello che è successo. Grazie del consiglio.» Gli passò davanti e uscì raggiungendo l'androne dell'edificio. Fuori pioveva e, quando aprì la porta che dava sulla strada, l'aria fredda la fece rabbrividire. Un po' come la paura e il senso di isolamento che provava dentro di sé. Monk non le diede retta e la seguì fuori, richiudendosi la porta alle spalle e cominciando a camminare verso una delle grandi arterie di traffico dove avrebbero potuto trovare un hansom che li portasse da Tottenham Court Road a ovest, attraverso la città, in direzione degli Inns of Court e di Vere Street dove Oliver Rathbone aveva il suo studio. Hester fu costretta a seguirlo altrimenti avrebbe dovuto dare inizio a una discussione che sarebbe stata totalmente stupida.
Il traffico era intenso, carrozze, vetture di piazza, carri e carretti di ogni genere e tipo passavano nell'una e nell'altra direzione, sollevando spruzzi d'acqua dai rigagnoli, con le ruote che frusciavano sul selciato umido, i cavalli con il pelo sgocciolante, fradicio di pioggia che lo faceva sembrare più scuro. I vetturini sedevano con il colletto del soprabito rialzato, la falda del cappello abbassata, in un vano tentativo di impedire alla pioggia gelida di correre giù per il collo, le mani irrigidite sulle redini. Lo spazzino all'incrocio, un bambinetto sugli otto o nove anni, era ancora lì e si dava un gran daffare a spingere il letame di lato in modo da offrire ai pedoni un passaggio se volevano attraversare la strada. Sembrava una di quelle creature sempre di buon umore, che sanno solo vedere il lato buono di ogni situazione. I calzoni, di un tessuto troppo leggero, gli si incollavano alle gambe; la giacca, troppo lunga, gli rimaneva scostata all'incollatura, ma l'enorme berretto che teneva ben calcato sulla fronte pareva che gli riparasse la testa quasi completamente dalla pioggia, salvo per il mento e il naso. Lo teneva inclinato a un angolo tale che si riusciva a distinguere soltanto la metà inferiore del suo faccino e la prima cosa che si vedeva, in lui, era il sorriso della sua bocca sdentata. Monk non aveva nessun bisogno di attraversare la strada ma gli buttò ugualmente un mezzo penny, e Hester si sentì improvvisamente invadere da un'ondata di speranza. Il bambinetto lo afferrò al volo e se lo mise automaticamente fra i denti, per dargli una schiacciatina e assicurarsi che fosse autentico, poi si toccò con la punta di un dito la visiera del berretto, quasi invisibile sotto le sue numerose pieghe, e gli gridò da lontano i suoi ringraziamenti. Monk chiamò con un cenno un hansom e, non appena questo si fermò, ne spalancò lo sportello per far salire Hester, poi la seguì mentre dava al vetturino l'indirizzo di Rathbone. «Non sarebbe meglio se, prima, andassi a prendere la spilla?» Hester gli domandò. «Così potrei consegnarla a lui perché la restituisca ai Farraline.» «Credo che la prima cosa da fare sia denunciare quanto è successo» replicò Monk, sistemandosi sul sedile mentre la vettura si metteva in movimento con un sobbalzo. «Per la vostra stessa sicurezza.» Quel brivido di gelo tornò. Hester non disse niente. Viaggiarono in silenzio sulle strade bagnate. Non riusciva a pensare ad altro all'infuori di Mary Farraline, a quanto l'aveva trovata simpatica, alle descrizioni dell'Europa della sua giovinezza, di Hamish come soldato, eroico e splendido nell'uniforme, e degli altri uomini con i quali aveva danzato in quelle sera-
te che avevano preceduto giorni tanto tumultuosi. Come erano sembrati vividi nei suoi ricordi. Era quasi impossibile accettare il fatto che se ne fosse andata anche lei così all'improvviso, e per sempre. Monk non interruppe le sue riflessioni. Qualsiasi cosa occupasse il suo cervello in quel momento, evidentemente lo occupava in modo totale. Soltanto una volta, quando lo guardò in tralice si accorse di quanto profonda fosse la concentrazione che rivelavano la sua faccia, lo sguardo fisso, le sopracciglia appena un po' corrugate, la bocca contratta. Distolse di nuovo gli occhi, sentendosi tagliata fuori. A Vere Street la vettura si arrestò e Monk ne scese, tenendo lo sportello aperto quel tanto necessario perché lei si spostasse sul sedile e lo spalancasse con le proprie mani intanto che lui pagava il conducente e attraversava il marciapiede raggiungendo l'ingresso dell'edificio dove si affrettò a dare una brusca tirata al cordone del campanello. La porta venne aperta da un impiegato con i capelli bianchi, il colletto inamidato e la giacca a code. «Buon pomeriggio, signor Monk» disse asciutto. Poi adocchiò Hester alle sue spalle. «Buon pomeriggio, signorina Latterly. Prego, entrino al riparo dalla pioggia. Un tempo orribile.» Scrollò la testa, mettendosi di lato per farli passare e li precedette nel vestibolo e nella stanza d'ingresso dello studio legale. «Purtroppo temo che il signor Rathbone non vi stia aspettando.» Li guardò dubbioso, i suoi occhi grigio chiaro erano fermi, incisivi, sembravano un po' quelli di un maestro di scuola ormai privo di qualsiasi illusione. «Sta parlando con un signore.» «Aspetteremo» Monk rispose con aria cupa. «È una questione urgente, la nostra.» «Certo.» L'impiegato fece un cenno di assenso e indicò un sedile perché si accomodassero. Monk rispose con un rifiuto e rimase in piedi, impaziente, allungando gli occhi al di là della parete divisoria in vetro oltre la quale, in un ufficio, i commessi più giovani in giacca nera copiavano documenti e scritture legali con la loro miglior calligrafia corsiva, chiara e regolare, e altri impiegati più anziani consultavano massicci volumi di legge alla ricerca di elementi di riferimento e precedenti giudiziari. Hester si sedette, anche Monk la imitò ma si alzò in piedi di nuovo, quasi subito. Sembrava che non fosse capace di stare fermo. Un paio di commessi sollevarono la testa osservandolo con la coda dell'occhio, ma nessuno aprì bocca. I minuti continuarono a passare. La faccia di Monk si fece più tesa, la
sua impazienza più evidente. Finalmente la porta dello studio di Rathbone si spalancò e un anziano gentiluomo con folte basette ne uscì, si voltò a dire ancora qualcosa, poi abbozzò un inchino e attraversò l'ufficio mentre l'impiegato, che aveva ricevuto Hester e Monk, si alzava dalla sua scrivania e gli porgeva il cappello e il bastone. Monk si fece avanti. Nessuno si sarebbe azzardato a bloccargli la strada. Afferrò la maniglia dello studio e spalancò la porta, venendo a trovarsi faccia a faccia con Oliver Rathbone. «Buon giorno» gli disse brusco. «Hester e io abbiamo una questione urgentissima per la quale ci occorre il vostro aiuto.» Rathbone non indietreggiò di un passo. La sua faccia affilata, con occhi e bocca che rivelavano l'arguzia e senso dell'umorismo registrarono soltanto una bonaria sorpresa. «Davvero?» Allungò gli occhi oltre Monk all'impiegato che aveva accompagnato il cliente alla porta e adesso era rimasto in piedi a chiedersi come comportarsi con Monk e la sua deplorevole mancanza di buone maniere. Rathbone incrociò il suo sguardo; fra loro passò una tacita intesa. Monk se ne accorse e, inspiegabilmente, gli diede fastidio. Ma in quel momento era nella posizione del supplicante e quindi fare del sarcasmo sarebbe stato come darsi la zappa sui piedi. Si tirò da parte in modo da permettere a Rathbone di vedere Hester che si trovava proprio alle sue spalle. Oliver Rathbone era di statura media, snello e vestito in modo raffinato, con la classica disinvoltura di chi è abituato a usare i tessuti migliori e a dare per scontata l'eleganza. Tutte cose che non richiedevano il minimo sforzo perché, per lui, facevano parte di un ben preciso modo di vivere. Tuttavia quando osservò la faccia pallida e insolitamente cupa di Hester e il suo aspetto, un po' trascurato e negletto nell'insieme, anche la sua compostezza si incrinò e, senza più badare a Monk, si fece avanti, ansioso. «Mia cara Hester, cos'è successo? Sembrate talmente... angosciata!» Non lo vedeva da quasi due mesi, e anche quella volta era stato più per caso che per un calcolo preciso. Non era sicura del modo in cui considerava i loro rapporti. A rigor di termini si trattava di qualcosa di professionale piuttosto che di privato e personale. Lei non frequentava il suo ambiente sociale. Eppure erano amici in un senso molto più profondo di quanto si potesse dire di molti altri, semplici, conoscenti. Condividevano una appassionata fiducia nella giustizia, e si erano manifestati reciprocamente le loro
idee su determinati argomenti con maggior franchezza, forse, di quanto ciascuno di loro non avesse mai fatto con qualsiasi altra persona. D'altro canto, esistevano interi mondi di sentimenti ed emozioni personali che non avevano mai nemmeno sfiorato alla lontana. Adesso lui la stava fissando con visibile preoccupazione. Benché avesse i capelli abbastanza chiari, i suoi occhi erano scurissimi, e Hester si accorse di essere acutamente consapevole di tutta l'intelligenza che li illuminava. «Santo cielo, raccontategli tutto!» Monk esclamò, agitando un braccio verso lo studio di Rathbone. «Ma non qui fuori» soggiunse, casomai lei fosse tanto distratta da dimenticare ogni discrezione. Senza degnarlo di uno sguardo, Hester passò davanti a Rathbone ed entrò nel suo studio. Monk la seguì e Rathbone li raggiunse per ultimo dopo aver richiuso la porta. Hester cominciò immediatamente. Pacata, nel modo più conciso, con quel minimo di emozione che non riuscì a controllare, gli descrisse per sommi capi quello che era accaduto. Rathbone rimase in silenzio ad ascoltarla senza interromperla e Monk, benché avesse aperto la bocca per dire qualcosa un paio di volte, sia nell'una che nell'altra occasione cambiò idea. «E adesso dov'è questa spilla?» Rathbone disse quando Hester concluse il suo racconto. «Presso lady Callandra» replicò lei. Rathbone conosceva Callandra abbastanza bene perché non fosse necessario spiegargli di chi si trattasse. «Però non era presente quando l'avete trovata, vero? Non che questo abbia importanza» soggiunse Rathbone in fretta, perché non gli era sfuggito quanto Hester si mostrasse costernata per la domanda. «Siete proprio sicura di non aver capito male quando la signora Farraline ha detto di aver lasciato questo gioiello a Edimburgo?» «Non riesco a pensare come. Non aveva nessun motivo di portare la spilla con sé in quanto il vestito si era macchiato e lei aveva detto, chiaro e tondo, che un gioiello del genere non andava bene per nessun altro.» Non poté trattenersi dal chiedergli: «Secondo voi cosa può essere successo?» «La vostra sacca da viaggio ha una vaga somiglianza con una qualsiasi delle valigie che la signora Farraline aveva con sé, sia nello scompartimento sia nel bagagliaio, dov'erano affidate alla guardia? O con qualsiasi altra che potreste aver osservato nel suo spogliatoio di Edimburgo?» Hester si sentì agghiacciare. Le pareva di avere lo stomaco chiuso da una
morsa. «No. La mia è una sacca delle più comuni, in cuoio marrone, con i fianchi flosci, morbidi. Le valigie della signora Farraline erano in pelle di cinghiale gialla, con sopra il monogramma con le sue iniziali, ed erano in serie, tutte uguali.» La sua voce era stridula, la bocca arida. Intuiva la crescente irritazione di Monk alle proprie spalle. «Nessuno avrebbe potuto confondere la mia con una delle sue» concluse. Rathbone disse con voce molto bassa: «In tal caso ho paura di non riuscire a trovare alcuna spiegazione salvo quella del dolo, cioè di un'intenzione illecita. Ma per quale motivo chiunque possa aver fatto una cosa del genere, non riesco a immaginarlo.» «Ma sono rimasta là, da loro, meno di una giornata» Hester protestò. «E non ho fatto proprio niente che potesse offendere qualcuno!» «Farete meglio ad andare a prendere questo gioiello e a portarmelo immediatamente. Penserò io a scrivere agli eredi della signora Farraline per informarli che è stato rintracciato e che lo restituiremo il più presto possibile. Vi prego non sprecate altro tempo. Non credo che ci si possa permettere di aspettare.» Hester si alzò in piedi. «Non capisco» disse incerta. «Sembra tutto così insensato.» Rathbone si alzò anche lui girando intorno alla scrivania per andare ad aprirle la porta. Lanciò un'occhiata a Monk, poi tornò a guardare Hester. «Probabilmente si tratta di qualche dissenso familiare del quale noi siamo completamente all'oscuro o magari addirittura di un gesto compiuto con l'intento di danneggiare proprio la signora Farraline, un gesto che comunque è fallito tragicamente in seguito alla sua morte. Al momento direi che non ha praticamente nessuna importanza. La vostra parte adesso è quella di portarmi il gioiello per il quale vi rilascerò una ricevuta. Poi penserò io a risolvere la faccenda per quello che riguarda i rapporti con gli esecutori testamentari della signora Farraline.» Lei ebbe ancora un attimo di esitazione, perché si sentiva il cervello sempre più confuso ricordando le loro facce: Mary, Oonagh, Alastair a cena, intorno alla tavola, la bellissima Eilish, Baird e Quinlan che si detestavano tanto chiaramente e non facevano nulla per nasconderlo, Kenneth che aveva fretta di andare al suo appuntamento, una Deirdra distratta, l'uomo il cui ritratto era appeso nel vestibolo, e lo zio Hector, l'ubriacone che divagava parlando, e diceva cose sconnesse. «Venite» esclamò Monk brusco, prendendola senza troppe cerimonie per un gomito. «Non c'è tempo da perdere e non ne abbiamo di sicuro per star
qui a cercare di risolvere un problema sul quale non abbiamo informazioni.» «Sì... sì, vengo» confermò Hester, sempre incerta. Poi voltandosi verso Rathbone: «Grazie» disse. Il tragitto di ritorno a casa di Callandra si svolse in silenzio, Monk apparentemente assorto nei suoi pensieri, Hester che rifletteva ancora sconcertata sui suoi ricordi di Edimburgo e si lambiccava il cervello in cerca di un motivo qualsiasi per il quale qualcuno avesse dovuto giocarle uno scherzo così stupido e perverso. Oppure lo avevano voluto fare a Mary? O alla cameriera personale di Mary? Che fosse questa la soluzione? Sì, doveva esserlo. Una delle altre cameriere, invidiosa, aveva cercato di metterla nei guai, forse perfino di farle perdere il posto e offrirsi di sostituirla, ma senza commettere un'azione grave e rischiosa come quella di rubare la spilla. Stava per spiegare tutto questo a Monk quando la carrozza si fermò e scesero. E con tutto questo, il pensiero appena fatto andò dimenticato. Tuttavia, il maggiordomo che venne ad aprire la porta, a casa di Callandra, era pallidissimo e assolutamente incapace di abbozzare anche un pallido sorriso; li fece entrare in fretta e furia e richiuse la porta con un colpo secco. «Cosa c'è?» Monk domandò subito. «Temo, signore, che ci siano due persone della polizia nel salone» il maggiordomo rispose con voce cupa, e un'espressione che rivelava non solo la sua ansia ma anche il suo disgusto. «Adesso c'è Sua Signoria che sta parlando con loro.» Monk gli passò davanti e attraversò il vestibolo a lunghi passi concitati, spalancando con energia la porta del salone. Hester gli andò dietro, più calma e fredda adesso che il momento temuto era arrivato. Callandra era ferma in piedi al centro del salone ma si voltò non appena intuì che qualcuno aveva aperto la porta. Accanto a lei c'erano due uomini, uno piccoletto, dalla figura tozza, una faccia scialba, anonima, e gli occhi molto grandi; l'altro più alto, più magro, con l'aspetto furbastro. Se riconobbero Monk non lo lasciarono capire. «Buon giorno, signore» disse quello piccoletto cortesemente, ma i suoi occhi rimasero impassibili. «Buon giorno, signora. Sergente Daly della Polizia Metropolitana. Voi dovete essere la signorina Latterly, vero?» Hester deglutì a fatica. «Sì...» tutto d'un tratto non riuscì a tenere né ferma né moderata la propria voce. «Cosa volete? Si tratta della morte della
signora Farraline?» «No, signorina, al momento no.» Si fece avanti, cortese e molto formale. A quanto pareva, il suo compagno più alto aveva un grado inferiore al suo. «Signorina Latterly. Ho l'autorità di perquisire la vostra valigia, e la vostra persona stessa se fosse necessario, alla ricerca di un gioiello di proprietà della defunta signora Mary Farraline che, secondo sua figlia, manca dal suo bagaglio. Forse potete risparmiarci la necessità di qualcosa di tanto spiacevole dichiarando subito di essere in possesso di un oggetto del genere?» «Ce l'ha lei, sì» Monk interloquì glaciale. «E ha già fatto rapporto della faccenda al suo legale, e adesso siamo tornati qui, dietro suo consiglio, a prendere la spilla per riportargliela in modo che lui possa restituirla agli eredi della signora Farraline.» Il sergente Daly annuì. «Molto saggio da parte vostra, signorina, ma disgraziatamente non basta. Agente Jacks...» e indicò con un brusco cenno del capo l'uomo che aveva con sé «...volete andare con questo signore e farvi consegnare l'articolo di cui sopra?» Tornò a guardare Monk. «Forse volete essere così gentile, signore? Quanto a voi, signorina Latterly, temo che dovrete seguirci.» «Sciocchezze!» Callandra si fece avanti. «La signorina Latterly vi ha già detto quello che è successo. Ha trovato il gioiello che risultava mancante e ha già provveduto a compiere tutti i passi necessari per la sua restituzione. Non vi occorrono ulteriori spiegazioni. Ha avuto un lungo viaggio di andata a Edimburgo e di ritorno da quella città, ed è stata assoggettata a un'esperienza che può sconvolgere chiunque. Non verrà in nessun posto con voi, unicamente per ripetere una spiegazione che vi deve già essere, fin d'ora, del tutto chiara. Non siete uno stupido, caro il mio uomo, e quindi potete capire benissimo quello che è successo.» «No, non lo capisco, Signoria» disse lui tranquillamente. «Non riesco proprio a capire per quale motivo una donna rispettabile, che assiste gli infermi, debba portar via a una vecchia signora un gioiello che le appartiene, ma a conti fatti la situazione è proprio questa. Ed è indiscutibile. Il furto è sempre furto, signora, chiunque sia stato a commetterlo e qualsiasi possa essere l'oggetto rubato. E mi dispiace, ma lo ripeto, signorina Latterly, dovrete venire con noi.» Scrollò lievemente la testa. «E non rendete le cose più difficili a voi stessa cercando di fare resistenza. Sarei molto dispiaciuto di dovervi condurre fuori di qui in manette... ma lo farò, se mi doveste costringere.»
Per la seconda volta in quella giornata, Hester si sentì travolta dallo shock e dall'incredulità come da un colpo di vento che poi svaniva, lasciandosi dietro soltanto una gelida e amara consapevolezza. «Non lo renderò necessario» disse con una vocina fievole fievole. «Non ho rubato niente alla signora Farraline. Era la mia paziente e ho avuto il massimo rispetto per lei. Io non ho mai rubato niente a nessuno.» Si rivolse a Callandra. «Grazie, ma credo che, in questo momento, le proteste non servano a niente.» Si sentiva tragicamente vicina alle lacrime, e non si fidava più ad aprire bocca, a rivolgere la parola a nessuno di loro, men che meno a Monk. Callandra andò a prendere la spilla che aveva posato sulla mensola del camino prima che Hester uscisse e la consegnò in silenzio al sergente. «Grazie, signora» disse lui accettandola, poi la avvolse in un ampio fazzoletto pulito che si era tolto dalla tasca della giacca. Infine tornò a rivolgersi a Hester. «E adesso, signorina, credo che la cosa migliore sarebbe se veniste con noi. Forse l'agente Jacks può andare a prendere la vostra sacca da viaggio per voi. Ci sarà già dentro tutto quello che vi può occorrere, almeno per stanotte.» Hester rimase sbalordita; poi si rese conto che, naturalmente, i due poliziotti erano già convinti che lei sarebbe stata costretta a seguirli. Avevano anche saputo dove rintracciarla. Doveva essere stata la sua padrona di casa a suggerire il nome di Callandra. Sì, era un'ipotesi più che plausibile. Capitava, di solito, che fosse sua ospite abbastanza spesso, nell'intervallo di tempo fra l'una e l'altra delle assistenze a pazienti privati che accettava di assumere. Quando si rese conto di tutto questo provò la sensazione di sentirsi sbattere con forza una porta alle spalle, senza più scampo. Ebbe solo il tempo di allungare un'occhiata a Monk e di cogliere un'espressione di collera violenta sulla sua faccia. Un attimo più tardi si ritrovò nel vestibolo, con i due poliziotti ai fianchi, condotta inesorabilmente verso la porta spalancata e la strada più oltre, fredda e grigia sotto la pioggia battente. 4 Hester prese posto sul sedile posteriore del furgone nero della polizia, completamente chiuso, e l'agente, come il sergente, sedettero ai suoi fianchi. Non poteva vedere niente, anzi poteva soltanto sentire i sobbalzi e gli scossoni della vettura che si muoveva man mano che si allontanavano dal-
la casa di Callandra dirigendosi verso il luogo, chissà quale!, in cui stavano per condurla. Nel suo cervello c'era solo un turbinio delle sensazioni più disparate. Le pareva di avere la testa piena di rumore, si sentiva ottenebrata. Non riusciva a soffermarsi lucidamente nemmeno su un solo pensiero. Perché nell'attimo stesso in cui le pareva di essere riuscita a coglierlo e a esaminarlo, le veniva di nuovo strappato e portato lontano. Come aveva potuto finire, la spilla con le perle, nelle sua sacca da viaggio? Chi poteva avercela messa? E perché? Mary l'aveva lasciata a casa, e lo aveva anche detto. Per quale motivo poteva una persona qualsiasi aver desiderato di fare del male a Hester? Non aveva nemmeno avuto il tempo di farsi un nemico, perfino nel caso in cui fosse stata un personaggio abbastanza importante per qualcuno di loro da spingerli a correre un rischio del genere. Il furgone si arrestò ma Hester continuò a non vedere niente poiché era sbarrato da ogni parte. Un po' più avanti un cavallo nitrì, e un uomo si lasciò sfuggire una bestemmia. Poi con uno scossone ripartirono. Possibile che lei fosse semplicemente la vittima di qualche oscuro complotto, qualche piano o qualche vendetta di cui ignorava assolutamente ogni cosa? Ma quale piano? E come avrebbe potuto difendersi? In che modo avrebbe potuto provare qualcosa? Guardò di sottecchi il sergente e riuscì a scorgere soltanto il suo rigido profilo mentre fissava davanti a sé la parete più lontana del furgone. Il disgusto in lui era talmente palpabile che le parve quasi di sentirlo come un gelo che penetrava nell'aria. E lo poteva capire. Era da disprezzare la persona capace di derubare una paziente, una vecchia signora, un'inferma che si fida totalmente di te. Lo aveva sulla punta della lingua, era pronta a ripetere che non l'aveva presa lei, ma nel preciso istante in cui apriva la bocca e si preparava ad annunciarlo, si rendeva subito conto che sarebbe stato futile. Era logico che si aspettassero di sentirla negare un fatto del genere. Qualsiasi ladro lo avrebbe fatto. Per tutta la durata del viaggio le parve di vivere in un incubo; finalmente, quando ebbero raggiunto la stazione di polizia, venne accompagnata in una stanzetta squallida e silenziosa e accusata formalmente di aver rubato una spilla con perle di proprietà della sua paziente, signora Mary Farraline di Edimburgo, ora deceduta. «Io non l'ho presa» disse lei con voce tranquilla. Le loro facce erano tristi e sprezzanti. Nessuno si degnò di risponderle.
Venne accompagnata giù, nelle celle, sospinta delicatamente dentro da una mano dietro la schiena, all'altezza della vita, ma prima ancora che facesse in tempo a voltarsi verso la porta, questa venne richiusa con sordo fragore e sprangata con un catenaccio. La cella era non più larga di tre, tre metri e mezzo quadrati, con una branda da un lato e una specie di panca di legno con un buco nel mezzo, che evidentemente serviva per le necessità naturali. Sopra la branda c'era una finestra in alto, sbarrata; i muri erano sbiancati a calce e il pavimento ricoperto di chissà quale pietra liscia, annerita, che pareva tutta di un solo pezzo, non tagliata a lastroni. Ma la cosa più stupefacente era che, nella cella, si trovavano già altre tre persone, una donna anziana, forse vicina alla sessantina, con i capelli di un color giallo del tutto innaturale, la pelle gessosa e stranamente scialba. Costei scrutò Hester con aria inespressiva. La seconda persona era brunissima con lunghi capelli morbidi raccolti in una crocchia arruffata. Il viso, lungo e scarno, aveva una sua strana bellezza. Gli occhi, così scuri e infossati da sembrare quasi neri, scrutarono Hester con crescente sospetto. Il terzo occupante della cella era un bambino, che non doveva avere più di otto o nove anni, macilento, sporco, con i capelli tagliati a ciocche talmente irregolari che alla prima occhiata era impossibile stabilire se si trattasse di un maschio o di una femminuccia. Anche gli indumenti che lo coprivano erano di ben scarso aiuto perché si trattava, più che altro, di una specie di conglomerato di indumenti da adulto ritagliati sulle sue misure, rappezzati e legati intorno alla vita con un pezzo di spago. «Be', a guardarti sembri un'anatroccola morta sotto un temporale» fece la donna bruna in tono critico. «Prima volta, eh? Cos'hai fatto? Sgraffignato qualcosa?» I suoi occhi attenti e penetranti esaminarono, intanto, il vestito che Hester indossava, quello prestato dalla cameriera. «Fai la svenevole? Ma a guardarti non sembra neanche che ce le hai, le chiappe, con quella roba addosso che sembra una vela quadra!» «Cosa?» Hester si sentì confusa, lenta di comprendonio. «Vestita a quel modo, nessun signore ti guarderà mai» riprese la donna, sprezzante. «E poi non c'è bisogno di darsi tante arie con noi, siamo tutti in famiglia.» Socchiuse di nuovo gli occhi. «Invece tu no... non sei una di noi.» Era un'accusa, non una domanda. «Naturale che non lo è» interloquì stancamente la donna più anziana. «Se non capisce neanche quello che dici, Doris!» «Siete... parenti?» Hester domandò lentamente, includendo nella sua
domanda anche il bambino. «No che non siamo parenti, stupidona!» La donna scrollò la testa con l'aria di chi vuole tagliar corto. «Cioè, noi siamo tutte professioniste. E tu no, vero? Forse hai pensato di provarci e ti hanno beccato. Cos'hai fatto... sgraffignato qualcosa?» «No. No, ma loro dicono di sì.» «Oh. Innocente, eh?» Il suo tono beffardo lasciava capire come non le credesse affatto. «Quanto a questo, siamo tutte innocenti! La nostra Marge, che è qui con noi, non si è mai sognata di procurare aborti, giusto, Marge? E la nostra Tilly anche lei non ha fatto mai girare nessuna trottola. E naturalmente quello che gestisco io non è un bordello.» Si appoggiò una mano sul fianco. «Io sono una donna decorosa e rispettabile. Proprio così. Che colpa ne ho se qualcuno dei miei clienti ha gusti un po' strani?» «Cosa intendete per "far girare la trottola"?» Hester avanzò di qualche passo nella piccola cella e sedette sulla branda, a mezzo metro circa dalla donna di nome Marge. «Sei scema o cosa?» Doris domandò. «"Girare la trottola"» disse e fece un movimento a spirale con le dita. «Non hai mai giocato con una trottola da bambina? Ne avrai pur vista una, a meno che tu non sia anche cieca oltre che imbecille.» «Non si va in prigione per aver giocato con la trottola.» Hester stava cominciando a stizzirsi. Quegli insulti gratuiti erano qualcosa contro cui si accorgeva di non saper combattere. «E invece sì, se finisci in mezzo alla gente a dar fastidio» Doris disse arricciando le labbra. «Non è così, Tilly? Dico bene? Piccola stupida sfacciata.» La bambina la guardò con gli occhi sgranati e fece segno lentamente di sì con la testa. «Quanti anni hai?» Hester domandò. «Non so» Tilly rispose con indifferenza. «Non dire scemenze» riprese Doris. «Sa contare, lei.» «Certo che so!» Tilly protestò indignata. «So contare fino a dieci.» «Ma tu dieci non ne hai» Doris disse, accantonando l'argomento. Tornò a guardare Hester. «E allora, cos'hai rubato, ce lo vuoi raccontare, mia bella signora che ti sei fatta beccare?» «Una spilla con sopra delle perle» Hester rispose in tono scostante. «E quanto a voi, rispettabili signore, cos'avete fatto per ritrovarvi qui?» Doris sorrise mettendo in mostra due file di denti macchiati e sporchi,
ma forti e regolari. Bianchi, sarebbero stati bellissimi. «Be', c'è qualcuna di noi che ha permesso a certi gentiluomini di pagare per il loro piacere, il che mi sembra semplicemente giusto, almeno da come vedo io le cose. Ma ce n'era uno nella mia stanza sul retro che scriveva lettere e ai piedipiatti quello non piace, perché non piace a quei parrucconi degli avvocati.» Notò la confusione di Hester con evidente compiacimento. «Oppure te lo devo parlare pulito così che sua eccellenza può capire: dicono che io prendevo soldi per fornicare e che quel bel tomo nella mia stanza sul retro scriveva raccomandazioni e documenti legali per la gente che ne aveva bisogno, ma non poteva procurarseli nel solito modo. È molto bravo a lavorare di penna, Tarn, proprio così. È capace di scrivere qualsiasi cosa, tutto quello che vuoi... atti di proprietà, scritture legali, testamenti, lettere di raccomandazione, referenze. Tu chiedi quello che vuoi e lui te lo scrive, e ci vuole un buon avvocato per capire la differenza.» «Vedo...» «Davvero? Adesso vedi sul serio?» Arricciò un labbro. «Non credo proprio che tu possa vedere un bel niente, stupida vacca che sei.» «Vedo che tu sei qui esattamente come ci sono io» Hester disse. «Il che significa che sei altrettanto stupida, salvo che tu ci sei già stata anche prima. E finirci due volte dev'essere proprio un'arte, vero?» Doris si lasciò sfuggire una bestemmia. Marge ebbe un sorriso privo di allegria. Tilly si tirò indietro andando ad accoccolarsi sul bordo della branda, perché si preparava ad assistere a un bel pestaggio. «Aspetta e vedrai quello che ti va a capitare» Doris disse mettendo il broncio. «Ti manderanno in qualche posto come lo "Steel", lì dalle parti di Cold Bath Fields per qualche anno, a cucire tutto il giorno finché ti sanguinano le dita, a mangiare la sbobba, a morir di caldo d'estate e a gelare d'inverno, senza nessuno con cui parlare con quella tua voce da signorona piena di arie.» Marge annuì. «Proprio così» disse con voce dolente «Ti costringono a stare in silenzio, certo. Non si parla. E poi ci sono anche le maschere.» «Maschere?» Hester non riusciva a capire. «Maschere» Marge ripeté, passandosi lentamente la mano sulla faccia. «Maschere, così nessuno può vedere l'aspetto di nessun altro.» «Perché?» «Non so. Forse per farti sentir peggio, suppongo. Così sei sola. Non puoi imparare niente di cattivo da nessun altro. È un'idea nuova.» Tutto stava assumendo sempre di più le proporzioni di un incubo. Que-
st'ultima informazione contribuiva ancora di più a darle tutte le caratteristiche della irrealtà totale. Cercò di immaginare file e file di donne vestite di grigio, silenziose e mascherate, senza un volto, che faticavano, che soffrivano il freddo, piene di odio e disperazione. In un mondo simile, come avrebbero potuto essere qualche cosa di diverso? E i bambini che giocavano con la trottola per la strada e intralciavano il traffico e davano fastidio ai passanti. Si sentiva soffocare da un miscuglio di rabbia e di compassione, da un desiderio quasi isterico di fuggire, evadere di lì. Aveva il cuore in gola, le ginocchia che non la reggevano anche se era già seduta. Capiva che non sarebbe riuscita assolutamente ad alzarsi neanche se lo avesse voluto; e in fondo, non avrebbe avuto alcun senso farlo. «Ti senti male?» Doris disse con un sorriso. «Ti ci abituerai. E non ti illudere di avere la branda perché non è così. Marge è malata sul serio. La branda tocca a lei. E in ogni caso, era qui prima di noialtre.» Nelle prime ore della mattina seguente Hester venne condotta in tribunale e rimase in stato di arresto. Dal tribunale fu accompagnata alla prigione di Newgate e messa in una cella con una prostituta e due ladruncole. Un'ora dopo la mandarono a chiamare avvertendola che il suo avvocato era venuto a parlarle. Si sentì invadere da un impeto di speranza assurda come se quel lungo incubo potesse considerarsi finito, e dispersa l'oscurità da cui si sentiva circondata. Balzò in piedi e inciampò, rischiando quasi di cadere, nell'ansia di oltrepassare quella porta e percorrere il corridoio di nuda pietra per raggiungere il locale nel quale Rathbone sarebbe stato ad aspettarla. «Via, via» disse in tono brusco la guardiana, mentre la sua faccia dura, inespressiva, si incupiva. «Cerca di comportarti come si deve. Non è il caso di emozionarsi a questo modo. È venuto solamente a parlarti, e nient'altro. Vieni con me, rimani dietro di me e parla soltanto quando sei interrogata.» Poi girò sui tacchi e si incamminò a passo di marcia con Hester alle calcagna. Si fermarono di fronte a una grande porta di metallo. La guardiana scelse una grossa chiave da quelle che portava appese a una catena alla cintola, la infilò nella serratura e la girò. La porta si aprì in silenzio sotto la pressione delle sue braccia poderose. Nell'interno, il locale era completamente imbiancato, illuminato a gas e, nel complesso, abbastanza ridente. Oliver Rathbone era in piedi dietro una seggiola all'estremità più lontana di un tavolo di legno grezzo. Di fronte a lui, un'altra sedia, vuota.
«Hester Latterly» disse la guardiana con un mezzo sorriso a Rathbone. Era un po' incerta, come se non sapesse bene se cercare di essere gentile con lui oppure se andasse considerato un nemico, come tutti gli altri reclusi. Occhieggiò i suoi abiti immacolati, le scarpe lucidissime, i capelli ben pettinati, e decise di essere cordiale, amichevole. Poi notò l'espressione che era apparsa sulla sua faccia alla vista di Hester, e qualcosa in lei si agghiacciò. Il sorriso risultò una smorfia fissa, orribile, come una cosa morta. «Bussate quando volete uscire» gli disse glaciale, e non appena Hester fu entrata, richiuse la porta con un tonfo tale da frastornare, tanto violento riecheggiò il fragore del metallo contro la pietra. Hester aveva troppa voglia di piangere per riuscire a parlare. Rathbone girò intorno al tavolo e le prese le mani stringendole fra le proprie. Il calore delle sue dita fu come una luce nell'oscurità; Hester gli si aggrappò convulsamente, almeno per quel tanto che seppe osare. Lui la fissò dritto negli occhi solo per qualche istante, misurando tutto il terrore che si era impadronito di lei; poi la lasciò andare di colpo e la sospinse gentilmente indietro, facendola accomodare sulla seggiola che le era più vicina. «Sedetevi» le ordinò. «Non dobbiamo sprecare il tempo che abbiamo.» Lei ubbidì, cincischiando le gonne nel tentativo di riaggiustarsele intorno in modo da poter accostare la sedia al tavolo quel tanto che era necessario e stare più comoda che era possibile. Rathbone prese posto di fronte protendendosi leggermente verso di lei. «Sono già stato a parlare con Connal Murdoch» disse in tono grave. «Pensavo di poterlo persuadere che tutta questa faccenda è fondata soltanto su un errore, e che non si tratta affatto di qualcosa in cui la polizia dovrebbe essere coinvolta.» I suoi occhi presero un'espressione di scusa. «Disgraziatamente l'ho trovato molto intransigente e non sono riuscito a ragionare con lui.» «E Griselda, la figlia di Mary?» «Non ha quasi aperto bocca. Era presente, però mi ha dato l'impressione di lasciare che fosse lui a fare tutto e, francamente, l'ho trovata in uno stato di grandissima angoscia.» Tacque, frugandole in faccia con gli occhi come per voler giudicare, dalla espressione di Hester, in che modo fosse opportuno continuare. «È un modo cortese di dire che non riusciva a concentrarsi su quello che stavate dicendo?» Lei gli domandò. Non poteva permettersi eufemismi. «Sì, ammise Rathbone.» Sì, suppongo che si trattasse di questo. Il dolore
può assumere molte forme differenti e non poche di esse sono spiacevoli, ma lei non mi è sembrata tanto addolorata quanto piena di spavento... perlomeno questa è l'impressione che ho ricevuto. «Di Murdoch?» «Purtroppo non ho tanta sensibilità da esserne sicuro. Ho pensato di no, ma poi ho avuto anche la sensazione che lui la rendesse nervosa... o ansiosa. Non ho un'impressione netta. Mi spiace.» Aggrottò le sopracciglia. «Ma adesso tutto questo ha ben poca importanza. Ho fallito nel mio intento di persuaderlo ad accantonare la questione. Perciò ho paura che le cose procederanno nel senso che intenteranno un'azione legale e, mia cara... dovete prepararvi in tal senso. Farò tutto quanto è in mio potere perché venga affrontata e conclusa il più rapidamente possibile e anche con la massima discrezione. Ma voi dovete aiutarmi rispondendo a ogni cosa, se potete, con estrema chiarezza.» S'interruppe. Il suo sguardo era penetrante; pareva che sapesse andare fin nel profondo, al di là di tutte le difese dietro le quali lei poteva trincerarsi, come se potesse vedere non soltanto i suoi pensieri ma anche la paura crescente che a poco a poco la pervadeva. Soltanto un giorno prima Hester lo avrebbe trovato invadente e importuno; e si sarebbe infuriata di fronte a tanta arroganza da parte sua. Adesso gli si aggrappò come se fosse l'unica possibilità di salvezza in quel gelido deserto di sabbie mobili nelle quali le pareva di affondare sempre più a ogni momento che passava. «Ma tutto questo non ha alcun senso» disse in preda alla disperazione. «Lo avrà» insistette lui con un pallido sorriso. «Il fatto è che non siamo a conoscenza di tutti i fatti, molto semplice. Ed è compito mio cercare di saperne almeno quel tanto sufficiente a provare che voi non avete commesso alcun crimine.» Alcun crimine. Naturale che non aveva commesso alcun crimine. Forse era stata distratta e aveva trascurato qualcosa, e se non lo fosse stata, magari Mary Farraline avrebbe potuto essere ancora viva. In ogni caso, un fatto era inequivocabile: non aveva preso lei la spilla. Anzi non l'aveva mai vista in vita sua, prima di allora. Si sentì riscaldare il cuore da un pallido raggio di speranza. Incrociò lo sguardo di Rathbone e lui le sorrise, ma fu qualcosa di impercettibile, di fievole, un gesto provocato più dalla forza di volontà che dalla fiducia e dalla sicurezza. Al di là delle pareti della squallida stanza in cui sedevano, si levava tutta una serie di suoni che loro potevano udire chiaramente, porte che si chiudevano con un tonfo, massicce e riecheggianti, e lo stridere del ferro con-
tro la pietra. Qualcuno gridò qualcosa e quella voce sollevò una serie di echi, anche se le parole erano indistinguibili. «Raccontatemi con precisione quello che è successo dal momento in cui siete entrata in casa Farraline a Edimburgo» furono le istruzioni che Rathbone le diede. «Ma io...» cominciò lei; poi, notando l'espressione grave della sua faccia, si affrettò a riferirgli ubbidiente tutto ciò che poteva ricordare dal momento in cui era entrata in cucina e vi aveva incontrato il maggiordomo, McTeer. Rathbone l'ascoltava attentamente. Hester ebbe quasi la sensazione che tutto il resto, al mondo, diventasse qualcosa di lontano e distante, che esistessero soltanto loro due seduti l'uno di fronte all'altra, con i gomiti appoggiati a quel tavolo di legno grezzo in una posizione che rivelava quanto fossero profondamente concentrati. Pensò che perfino con gli occhi chiusi sarebbe stata capace di vedere la sua faccia com'era adesso, ogni particolare di essa scolpito nella sua mente, perfino quel po' di grigio che gli spruzzava i capelli alle tempie, dove si gonfiavano lisci e ben pettinati. Lui la interruppe per la prima volta. «Siete andata a riposare?» «Sì... perché?» «Se si eccettua il tempo passato in biblioteca, è stata quella la prima occasione in cui vi siete ritrovata sola in quella casa?» Hester intuì immediatamente quello che le sue parole significavano. «Sì.» Parlò con difficoltà. «Suppongo che diranno che è stato a quel punto che avrei potuto tornare nello spogliatoio e prendere la spilla.» «Ne dubito. Sarebbe stato estremamente pericoloso. La signora Farraline era probabilmente nella sua camera da letto...» «No... no, quando io l'ho vista, era in un boudoir, un salottino a una certa distanza dalla sua camera da letto, mi pare. Anche se suppongo di non poterlo dire con sicurezza. In ogni caso si trovava un po' distante dallo spogliatoio.» «Ma la cameriera avrebbe potuto entrare nello spogliatoio» obiettò lui. «Anzi, le sue mansioni, immediatamente prima di un viaggio così lungo, l'avrebbero di certo costretta a entrarci un buon numero di volte, a controllare di aver messo tutto nelle valigie, che la biancheria occorrente fosse pulita, stirata, ripiegata e sistemata dove avrebbe dovuto essere. Vi pare che fosse proprio quello il momento di correre qualche rischio entrandovi, soprattutto se nessuno supponeva che voi doveste essere lì?» «No... no, assolutamente!» Subito si sentì di nuovo scorata. «E quando
mi sono ritirata a riposare nel pomeriggio la mia sacca da viaggio era lì, nella camera da letto con me. Nessuno avrebbe potuto metterci dentro la spilla.» «Non è questo il nocciolo della questione, Hester» lui disse pazientemente. «Sto cercando di pensare a quello che diranno, a quali erano le occasioni che vi si sono presentate di trovare la spilla e prenderla. Dobbiamo cercar di sapere dove la tenevano.» «Naturalmente» rispose lei con vivacità. «Poteva averla in un astuccio per i gioielli nella sua camera da letto. Sarebbe stata una cosa molto più logica e di buon senso piuttosto che lasciarla nello spogliatoio.» Lo guardò in faccia e vi lesse una gentilezza che le diede uno strano fremito di piacere, però non vi trovò quella leggerezza di spirito che avrebbe dovuto corrispondere alla propria. Indubbiamente, se Mary avesse tenuto la spilla nella propria camera, non sarebbe stata quasi una prova, quella, che lei non aveva potuto portargliela via? Rathbone prese un'aria avvilita, quasi colpevole, come chi si rende conto di dover deludere un bambino. «Ebbene?» Gli domandò Hester. «Non è una soluzione abbastanza buona? Non sono mai entrata nella sua camera da letto. E per tutto il tempo, salvo quando sono rimasta in biblioteca o mentre riposavo, mi sono sempre trovata in compagnia di altre persone!» «Almeno una di esse, mia cara, deve aver mentito. Qualcuno ha messo la spilla nella sua sacca; non solo, ma non è possibile che sia successo per disattenzione o per caso.» Lei si protese verso Rathbone, incalzante. «Ma dovrebbe essere possibile dimostrare che io non ho potuto avere nessuna occasione di portarla via dalla camera da letto, che sarà di certo la stanza nella quale lei teneva l'astuccio dei gioielli. Sono quasi sicura che non si trovasse nello spogliatoio. Tanto per cominciare, non c'era niente su cui appoggiarla.» La sua voce si levò, emozionata, mentre descriveva in modo particolareggiato quel locale. Si protese ancora un poco di più verso di lui. «C'erano tre guardaroba lungo una parete, una finestra nella seconda, un canterano con cassetti appoggiato alla terza e anche un tavolo da toilette con uno sgabello di fronte e tre specchi. Ricordo le spazzole e i pettini e le ciotole di cristallo per le forcine e per i capelli strappati dal pettine. Non c'era sopra nessun astuccio di gioielli. Avrebbe impedito a chi c'era seduto di guardarsi negli specchi. E non c'era niente neanche sul canterano, oltre al fatto che era troppo alto per arrivarci.»
«E la parete più lontana?» Lui ebbe un sorrisetto agro. «Oh... la porta, naturalmente. E un'altra seggiola. E poi una specie di sofà.» «Ma nessun astuccio di gioielli?» «No. Ne sono sicura.» Si sentiva trionfante. Era soltanto una piccola tessera del mosaico che rivelava le sue capacità di ricordare e di ragionare, ma era la prima. «Deve significare qualcosa.» «Significa che voi ricordate in un modo molto lucido e preciso, ma non molto di più.» «Ma deve» disse lei in tono pressante. «Se l'astuccio non si trovava lì, è chiaro che io non avrei potuto toglierne niente.» «Ma, Hester, c'è soltanto la vostra parola che l'astuccio non era lì» Rathbone mormorò arricciando le labbra in una smorfia di preoccupazione, rattristato. «La cameriera...» cominciò lei, poi tacque. «Precisamente» confermò Rathbone. «Le due persone che potrebbero saperlo sono la cameriera, che può essere benissimo stata quella che ha messo la spilla nel vostro bagaglio... e Mary stessa, che purtroppo per noi è irraggiungibile. Chi altri? La figlia maggiore, Oonagh McIvor? Cosa dirà lei?» Adesso la sua faccia esprimeva collera e dolore, benché cercasse di conservare quel distacco che la sua professione esigeva. Hester lo fissò senza parole. Rathbone allungò una mano attraverso il tavolo come se volesse toccarla, poi cambiò idea e la tirò indietro. «Hester, non possiamo permetterci di nascondere la testa nella sabbia per non vedere la verità» disse con aria grave. «Voi siete caduta nel bel mezzo di qualcosa che ci sfugge e sarebbe molto stupido immaginare che tutte le altre persone coinvolte in questa faccenda siano amiche vostre oppure siano necessariamente costrette a dire la verità anche se fosse contraria ai loro interessi. Se Oonagh McIvor fosse costretta a decidere se criticare qualcuno della sua stessa famiglia o voi, che siete un'estranea, non possiamo assolutamente illuderci che voglia o sia capace di ricordare e ripetere con esattezza la pura e semplice verità.» «Ma... ma se qualcuno in casa sua è un ladro, non è logico pensare che lei voglia saperlo?» Hester protestò. «Non necessariamente, soprattutto se non si tratta della cameriera ma di una persona della famiglia.» «Ma perché? E perché soltanto una spilla? E per quale motivo metterla
nella mia sacca da viaggio?» La faccia di Rathbone si irrigidì come se fosse stato colto da un brivido di freddo, e l'ansietà nei suoi occhi si accentuò. «Non lo so, ma l'unica alternativa che riesco a vedere è che siate stata voi a portarla via, e mi rifiuto di farlo.» L'enormità di ciò che Rathbone aveva detto apparve, a Hester, paurosamente chiara. Come poteva aspettarsi che chiunque credesse che non era stata lei ad approfittare dell'occasione che le si era presentata di rubare quella spilla... e poi, quando Mary era stata ritrovata cadavere, che si fosse improvvisamente spaventata e avesse cercato di restituirla? Cercò lo sguardo di Rathbone e capì che stava pensando precisamente la stessa cosa. Ma lui, nel segreto del suo cuore, le credeva? Si stava comportando così soltanto perché lo esigevano i suoi doveri professionali? Hester provò la sensazione che la realtà le sfuggisse e le parve di essere precipitata di nuovo nell'incubo angoscioso di prima, nell'isolamento e nell'incapacità di fare qualcosa, in una confusione senza fine dove niente aveva un senso logico e ciò che, un attimo prima, era lucidità e sanità mentale, un attimo dopo era diventato caos. «Io non l'ho presa» disse improvvisamente, e la sua voce risuonò alta nel silenzio. «Non l'avevo mai nemmeno vista prima di trovarla nella mia sacca. E l'ho consegnata subito a Callandra. Cos'altro avrei potuto fare?» Le mani di Rathbone si chiusero sulle sue, sorprendentemente calde mentre lei aveva tanto freddo. «So che non siete stata voi a prenderla» Rathbone rispose in tono fermo. «E lo proverò. Ma non sarà facile. Dovrete rassegnarvi a dar battaglia.» Lei non disse niente, lottando per tenere sotto controllo il panico che l'aveva travolta. «Avreste piacere che informassi vostro fratello e vostra co...» «No! No... vi prego non ditelo a Charles.» La sua voce era tagliente; senza accorgersene aveva sussultato sporgendosi in avanti. «Non dovete dirlo a Charles... o a Imogen.» Respirò a fondo. Le tremavano le mani. «Sarà già abbastanza duro per lui dovessimo essere costretti a informarlo di quello che è successo, ma se prima possiamo combattere e lottare...» Lui la guardava accigliato. «Non pensate che voglia saperlo, invece? Sono convinto che vorrà offrirvi un po' di conforto, un po' di appoggio, vero?» «Certo che lo vorrebbe» confermò Hester con voce piena di fierezza nel-
la quale si mescolavano la collera la compassione e il bisogno di difendersi. «Ma non saprebbe cosa credere. Vorrebbe convincersi che io sono innocente ma non saprebbe come fare. Charles manca completamente di immaginazione. Non è capace di credere a qualcosa che non riesce a capire.» Sapeva che le sue parole potevano suonare quasi come una critica e non era questa la sua intenzione ma dal tono della sua voce si potevano misurare tutta l'angoscia e la paura che sentiva, se ne accorgeva, e si rendeva conto di non essere più in grado di dominarla. «Rimarrebbe sconvolto, e non saprebbe cosa fare per aiutarmi. Si sentirebbe in dovere di venire a trovarmi, e questo sarebbe terribile per lui.» Avrebbe voluto spiegare a Rathbone che suo padre si era suicidato perché un truffatore lo aveva ridotto alla rovina finanziaria, che la loro mamma era morta quasi subito dopo e che tutto questo era stato per Charles un colpo durissimo. A quell'epoca era lui, dei tre figli, l'unico a trovarsi in Inghilterra in quanto James era morto da poco in Crimea e Hester si trovava ancora laggiù a lavorare come infermiera. Di conseguenza l'impatto totale della sciagura e della rovina era piombato sulle spalle di Charles, e poi anche il dolore. D'accordo, Rathbone ne sapeva qualcosa, perché era stato lui a difendere l'uomo imputato di omicidio nel successivo processo. Ma se non aveva mai misurato interamente la sfortuna del suo infelice padre, Hester non si sentiva affatto disposta a parlargliene adesso, e tantomeno a rivelare o a rivivere la vulnerabilità paterna. Così si ritrovò immobile al suo posto, ammutolita, con il rischio che lui la credesse imbronciata. Rathbone abbozzò un lieve sorriso; sulla sua faccia si disegnò un'espressione rassegnata, venata di amaro umorismo. «Secondo me, lo state giudicando male» disse tranquillamente. «Ma adesso non è di grande importanza. Forse in seguito potremo riparlarne.» Si alzò in piedi. «Cos'avete intenzione di fare?» Si alzò anche lei, troppo rapidamente, andando a sbattere contro il tavolo e facendo strusciare con un rumore raschiante le gambe della seggiola sul pavimento mentre la scostava da sé. Perse l'equilibrio, maldestra, e riuscì a riguadagnarlo soltanto aggrappandosi al tavolo. «E adesso cosa succederà?» Lui le si era accostato, le era venuto talmente vicino che Hester poté sentirsi arrivare alle narici il tenue profumo della sua giacca di lana e il calore della sua pelle. Si accorse di desiderare disperatamente il conforto di un abbraccio, di desiderarlo con tale intensità da sentirsi diventare rossa di vergogna. Si raddrizzò sulla persona e fece un passo indietro.
«Vi tratterranno qui» rispose Rathbone, con una smorfia di dolore. «Io andrò in cerca di Monk e lo manderò a cercare di saperne di più sui Farraline e su quello che è realmente successo.» «A Edimburgo?» Disse lei meravigliata. «Certamente. Non credo che ci sia qualcos'altro che possiamo scoprire a Londra.» «Oh...» Rathbone si avviò alla porta e bussò. «Guardiana?» Poi si voltò a guardarla. «Non vi perdete d'animo» disse dolcemente. «C'è una risposta, e la troveremo.» Lei si sforzò di sorridere. Capiva che Rathbone parlava soltanto per darle conforto ma, anche se era davvero così, le sue parole avevano ugualmente ottenuto un certo effetto. Vi si aggrappò, imponendosi con uno sforzo di credergli. «Certo. Grazie...» Non poterono aggiungere altro a ciò che si erano detti perché si udì il tintinnare delle chiavi che venivano infilate nella serratura e la guardiana si presentò, con la sua faccia cupa e implacabile. Prima di fare appello a Monk, cosa sulla quale stava meditando con idee molto contrastanti, Rathbone ritornò nel suo studio di Vere Street. Dal suo colloquio con Hester non aveva ricavato praticamente niente che avesse un valore pratico e si sentiva molto più svuotato, dal punto di vista emotivo, di quanto non avesse previsto. Una visita ai clienti accusati di qualcosa di criminoso era sempre estenuante. Si mostravano spaventati, ed era naturale, sconvolti per l'arresto. Perfino quando erano colpevoli, il fatto di essere catturati e di ritrovarsi sotto accusa li coglieva sempre alla sprovvista. Quando erano innocenti lo stupore, lo smarrimento, la sensazione di essere travolti da eventi che sfuggivano al loro controllo, avevano un potere devastante. Gli era già capitato di vedere Hester in collera, divorata dalla smania di lottare contro l'ingiustizia, impaurita per altre persone o prossima alla disperazione, però mai spaventata per se stessa. In un certo senso aveva sempre avuto un certo controllo sugli avvenimenti, quando non era in gioco la sua stessa libertà. Si liberò del soprabito e lo consegnò all'impiegato che aspettava di vederselo consegnare. Hester si spazientiva così facilmente con le persone stupide, ed era così fiera e impetuosa, sempre pronta a dare battaglia! Una caratteristica, questa, particolarmente allarmante e altamente sgradevole in
una donna. La società non l'avrebbe tollerata. Sorrise mentre immaginava come sarebbe stata accolta dalla maggior parte delle rispettabili gentildonne di sua conoscenza. Non faticava a immaginare l'espressione che sarebbe apparsa sulle loro facce di persone perbene e rispettabili. Allarmava anche lui, pensò mentre il suo sorriso si accentuava beffardo contro se stesso, e anzi era proprio la qualità in lei che lo attirava di più. Quanto alle donne più gentili e dal comportamento più conformista... be', certo che le trovava più comode, più semplici, meno provocatorie, meno fastidiose nei confronti del suo benessere, meno noiose per la sua presunzione e, indubbiamente, anche per le sue ambizioni mondane e professionali, ma non gli rimanevano mai impresse nella memoria quando si separavano. Non era né turbato da loro né rinvigorito. E la sicurezza stava cominciando a diventare stucchevole malgrado tutti i suoi apparenti vantaggi. Distrattamente ringraziò l'impiegato e gli passò davanti per entrare nel proprio studio. Se ne richiuse la porta alle spalle e andò a sedere alla scrivania. Non doveva permettere che a Hester succedesse quello che stava succedendo. Lui era uno dei migliori avvocati dell'intera Inghilterra, era la persona ideale per proteggerla e per fare in modo che quella imputazione assurda venisse lasciata cadere. Lo indispettiva il fatto di essere costretto a servirsi di Monk per scoprire la verità o perlomeno quel tanto di verità sufficiente a provare l'innocenza di Hester... E la formula del "ragionevole dubbio" per un'eventuale assoluzione sarebbe stata tutt'altro che soddisfacente; ma, senza conoscere i fatti, aveva le mani legate. E non che avesse antipatia per Monk, non proprio, ecco. Quell'uomo possedeva un'intelligenza straordinaria, coraggio e un suo senso particolare dell'onore; perfino il fatto che avesse un carattere difficile, e irritante, che spesso fosse maleducato e sempre arrogante non costituiva, in sé e per sé, un punto a suo danno. Non era un gentiluomo malgrado tutta la sicurezza di sé che dimostrava, l'eleganza, la dizione accurata e corretta nel parlare. La differenza era indefinibile, però esisteva. E poi, c'era in lui, sotto sotto, una certa aggressività della quale Rathbone era sempre stato consapevole. Quanto poi al suo atteggiamento nei confronti di Hester, era infinitamente fastidioso. Ma il bene di Hester era l'unica cosa che avesse importanza al momento. I suoi sentimenti personali nei confronti di Monk erano irrilevanti. Avrebbe mandato un fattorino a cercarlo e, mentre aspettava il suo arrivo, avrebbe fatto meglio a preparare il denaro sufficiente per farlo partire con il treno della notte per Edimburgo, con le istruzioni di rimanerci fino a quando
fosse riuscito a sapere con precisione quali invidie e gelosie, pressioni finanziarie o emozionali, esistessero nella famiglia Farraline per aver fatto nascere un simile, assurdo, complesso di circostanze. Suonò il campanello per chiamare il suo impiegato e, quando la porta si aprì, fece per parlare. Ma poi vide la sua faccia. «Cosa c'è, Clements? È successo qualcosa?» «La polizia, signore. Il sergente Daly è qui e vuole parlarvi.» «Ah.» Forse l'accusa era stata ritirata e lui non sarebbe stato costretto, alla fin fine, a mandare Monk a Edimburgo. «Pregatelo di entrare, Clements.» Clements si morse un labbro, con lo sguardo turbato, e si ritirò per ubbidire. «Ebbene?» Rathbone domandò speranzoso quando il sergente Daly apparve nel vano della porta con aria grave e triste. Rathbone stava per domandargli se l'accusa era stata ritirata quando qualcosa nella faccia di Daly glielo impedì. Il sergente richiuse la porta alle proprie spalle senza dire niente e, nel silenzio, si udì il suono secco e metallico del paletto che si chiudeva con uno scatto. «Sono dolente, signor Rathbone.» La sua voce era limpida e molto chiara. In altre circostanze sarebbe stata gradevole, malgrado la cadenza londinese che aveva la sua parlata. «Ma ho certe notizie piuttosto spiacevoli.» Le parole erano molto blande eppure Rathbone provò un senso di terrore assolutamente sproporzionato alla situazione. Rimase con il fiato sospeso, provò un tuffo al cuore. Si accorse all'improvviso di avere la bocca arida. «Di che si tratta, sergente?» Cercò di dare alla propria voce un timbro calmo e pacato come quello che aveva la voce di Daly, e di smentire completamente, in tal modo, la paura che lo divorava. Daly rimase in piedi, un'espressione addolorata sulla faccia ottusa. «Ecco, signore, purtroppo i signori Murdoch non sono rimasti completamente soddisfatti per il modo in cui la povera signora Farraline è deceduta, visto che era una cosa praticamente inaspettata... ecco... e così hanno chiamato il loro medico personale perché facesse un esame...» lasciò la frase in sospeso. «State parlando di un'autopsia?» Rathbone domandò con asprezza. Perché diavolo il brav'uomo non andava subito al nocciolo della questione? «Be', e il risultato?» «Lui non è molto convinto che sia stata una morte naturale, signore.»
«Cosa?» «Non è convinto...» «Ho sentito benissimo!» Rathbone fece il gesto di alzarsi dalla poltrona ma le gambe lo tradirono e cambiò idea. «Che cosa c'era di non naturale in quel decesso? Il medico della polizia non aveva detto che si trattava di collasso cardiaco?» «Sissignore, è proprio così che ha detto» Daly confermò. «Ma il suo è stato un esame un po' affrettato, eseguito partendo dal presupposto che la signora era anziana e soffriva già di una malattia cardiaca.» «E adesso mi state dicendo che non è vero?» La voce di Rathbone si alzò anche se lui non aveva avuto nessuna intenzione di mettersi a gridare. Risuonava stridula perfino alle sue stesse orecchie, lo capiva. Doveva assolutamente riuscire a controllarsi meglio! «Nossignore, non è quello che sto dicendo» Daly rispose scrollando il capo. «Non ci sono dubbi che fosse anziana e anzi, a quanto pare, era già da qualche tempo che soffriva di questa malattia. Ma quando il dottore di casa Murdoch ha eseguito di un esame un po' più approfondito, come gli era stato chiesto di fare, non se ne è mostrato più altrettanto convinto. Allora il signor Murdoch ha suggerito un'autopsia, come è pieno diritto che venga richiesto da parte della signora Murdoch, date le circostanze, soprattutto con il furto, e tutto.» «Si può sapere che cosa intendete dire, caro il mio uomo?» Rathbone esplose. «Non vorrete forse suggerire che la signorina Latterly ha strangolato la sua paziente per impossessarsi di un gioiello, vero? E che poi si è affrettata a avvertire di averlo trovato e ha fatto ogni tentativo per restituirlo alla famiglia?» «Nossignore, non strangolata...» Daly rispose tranquillamente. Rathbone si sentiva la gola chiusa da un nodo, a tal punto che gli pareva di non riuscire quasi a respirare. «Avvelenata» Daly concluse. «Con una dose doppia della sua medicina, per la precisione.» Guardò Rathbone con infinita tristezza. «Lo hanno scoperto quando l'hanno tagliata, cioè aperta, e hanno guardato dentro. Non era facile da individuare, è qualcosa che colpisce il cuore, ma dal momento che la signora veniva curata con quella medicina, e c'erano due flaconcini vuoti quando avrebbe dovuto essercene uno solo, era la cosa più naturale cercare quello prima di tutto, capite? Non molto piacevole, purtroppo, ma innegabile. Mi spiace, signore, ma adesso la signorina Latterly è trattenuta in carcere sotto l'imputazione di omicidio.»
«M-ma... ma...» la voce di Rathbone si spense, gli morì in gola. Aveva le labbra aride. «Lì, con lei non c'era nessun altro, signore. Era in perfetta salute, la signora Farraline, quando è salita sul treno a Edimburgo in compagnia della signorina Latterly, ed era morta, povera anima, quando è arrivata a Londra. Mi dica lei cos'altro dobbiamo credere.» «Non lo so. Ma quello, no!» Rathbone protestò. «La signorina Latterly è una donna coraggiosa, una donna d'onore, che ha servito in Crimea con Florence Nightingale. Ha salvato dozzine di vite, a gran rischio della propria. E ha rinunciato alle comodità, agli agi, alla sicurezza dell'Inghilterra per...» «Anch'io so tutto questo, signore» Daly lo interruppe con fermezza. «Voi provatemi che qualcun altro ha ucciso la vecchia signora e io sarò il primo a ritrattare l'imputazione contro la signorina Latterly. Ma fin quando non lo farete, dobbiamo tenerla in carcere.» Sospirò, guardando Rathbone con tristezza. «Non fa piacere neanche a me. Sembra proprio una simpatica giovane signorina, e anch'io ho perduto un fratello in Crimea. So quello che alcune di quelle donne hanno fatto per i nostri uomini. Ma è il mio dovere; e la simpatia o l'antipatia, per la massima parte delle volte, non c'entrano proprio per niente.» «Sì... sì, certo.» Rathbone si lasciò andare contro la spalliera della poltrona, sentendosi svuotato, come se avesse fatto una lunga corsa. «Grazie. Comincerò subito a fare quello che è il mio dovere, a scoprire cosa è successo e a provare che lei non ha nessuna parte in tutto questo.» «Sissignore. Vi auguro buona fortuna. E avrete bisogno di fortuna, e molta, tutta la fortuna del mondo, e non soltanto di fortuna, credetemi!» E con questo girò sui tacchi, e aprì la porta lasciando Rathbone a fissarlo con gli occhi sgranati mentre si allontanava. Erano passati solo pochi istanti quando Clements ritornò, con espressione piena di ansia. Mise dentro la testa dalla porta con aria interrogativa. «Signor Rathbone, c'è forse qualcosa che posso fare?» «Cosa?» Trasalendo Rathbone si sforzò di prestargli attenzione. Ma i suoi pensieri continuavano a essere tumultuosi. «Cosa c'è, Clements?» «C'è qualcosa che posso fare, signore? Mi par di capire che si tratta di una brutta notizia, non so ancora di che genere.» «Sì, che puoi fare qualcosa. Vai a chiamare immediatamente il signor William Monk.» «Il signor Monk, signore? L'investigatore, volete dire?»
«Sì, naturalmente, l'investigatore. Vai a chiamarlo.» «Dovrò dargli qualche motivo di questa chiamata, signor Rathbone» Clements disse impacciato. «Non è il tipo di persona disposta a venire qui semplicemente perché lo dico io.» «Digli che la faccenda Farraline ha preso all'improvviso una bruttissima piega, che dobbiamo temere il peggio, e che mi occorre che dedichi la sua più completa attenzione a questo caso con la massima urgenza» Rathbone replicò, mentre la sua voce si faceva , senza che se ne accorgesse, più aspra e più forte. «Se non dovessi trovarlo...» Clements cominciò. «Continua a cercarlo finché lo trovi! E non tornare qui senza di lui, mi raccomando.» «Sissignore. Credetemi, sono molto dolente, signore.» Rathbone si sforzò di prestargli attenzione. «E per che cosa? Non hai commesso nessun errore.» «No, signore. Sono molto dolente che il caso Farraline abbia preso improvvisamente una brutta piega. La signorina Latterly è una gran brava e simpatica persona, e sono sicuro...» s'interruppe. «Vado a cercare il signor Monk, signore, e ve lo conduco qui immediatamente.» Ma occorsero due lunghe ore tormentose prima che Monk spalancasse la porta dello studio senza aver bussato ed entrasse a lunghi passi concitati. La sua faccia era pallida, e la sua bocca larga e sottile appariva trasformata in una smorfia severa. «Cos'è successo?» Domandò. «Cosa c'è che non è andato per il suo verso adesso? Per quale motivo non vi siete messo in contatto con il legale dei Farraline per dare spiegazioni su quello che è successo?» Alzò di scatto le sopracciglia. «Se credete che vada proprio io a Edimburgo a riportare quell'oggetto, vi sbagliate.» Il tumulto di sentimenti ed emozioni contro il quale Rathbone stava lottando dal primo momento in cui Daly si era presentato nel suo studio, la paura, l'ansia, il senso di impotenza, le visioni che l'immaginazione gli faceva nascere nella mente su quello che poteva accadere e che la sua intelligenza gli descriveva lucidamente, si coagularono tutte insieme in un accesso di collera, che era il modo di scaricarle più facile e più violento. «No, che non voglio, proprio per niente!» Esclamò a denti stretti. «Cosa credete? Che abbia mandato Clements a chiamarvi unicamente per affidare a voi qualche commissione che toccherebbe a me? Se questo è un esempio di tutto quanto siete capace di fare, ho sprecato il mio tempo... e il vostro.
Avrei dovuto chiamare qualcun altro... chiunque altro, che Dio mi aiuti!» Monk diventò ancora più pallido. Era in grado di leggere e interpretare quell'esplosione di cattivo umore da parte di Rathbone come se avesse avuto davanti un libro aperto. Intuiva non soltanto i suoi timori, ma anche i suoi dubbi sulle proprie capacità e, per Rathbone, fu come prendersi uno schiaffo in piena faccia. «Il cadavere di Mary Farraline è stato esaminato, ne hanno fatto l'autopsia» gli spiegò in tono glaciale «su richiesta della figlia Griselda Murdoch. A quanto risulterebbe, è deceduta per aver preso una dose eccessiva della sua medicina, quella medicina che Hester era stata incaricata di somministrarle. Di conseguenza la polizia ha accusato Hester di omicidio... e c'è da pensare che, alla base di questa nuova imputazione, ci sia il furto della spilla.» Provò una punta di soddisfazione accorgendosi che la faccia di Monk diventava ancora più pallida di prima e che sbarrava gli occhi per lo shock, come se avesse ricevuto un colpo terribile, e totalmente inaspettato. Rimasero a guardarsi in un silenzio glaciale per qualche istante. Poi Monk, assorbito lo shock, riacquistò il suo autocontrollo molto più in fretta di Rathbone, addirittura più in fretta di quanto non avesse pensato lui stesso. «Sbaglio, o ci eravamo trovati d'accordo sul fatto che Hester non l'avesse uccisa?» Monk disse in tono pacato. «A dispetto di qualsiasi evidenza del contrario?» Rathbone abbozzò un pallido sorriso, ricordando i sospetti e i timori che Monk aveva nutrito su se stesso quando si era ripreso dall'amnesia, la dura lotta che aveva combattuto contro la rete sottilissima di prove che gli si stringeva sempre più addosso. Scorse negli occhi di Monk identici ricordi e, per un attimo, la loro intesa fu chiara come la luce del sole. Ogni inimicizia era svanita. «Certo» si affrettò a confermare. «Sappiamo soltanto una minima parte della verità. Quando la conosceremo completamente, la storia sarà del tutto diversa.» Monk sorrise. Poi quell'attimo passò. «E che cosa vi fa pensare che un giorno riusciremo davvero a saperla proprio tutta?» Monk gli domandò. «Chi, in nome di Dio, conosce tutta la verità su qualche cosa? Voi, magari?» «Se sapessi sui fatti che sono accaduti quel tanto sufficiente a dimostrarla in modo inoppugnabile» Rathbone ribatté gelido «sarebbe più che abbastanza. Siete disposto ad aiutarmi per la parte pratica della questione o pre-
ferite rimanere lì impalato a discutere quali sono i lati più simpaticamente etici della faccenda?» «Oh, la parte pratica della questione?» Monk domandò sarcastico, alzando le sopracciglia. «E cosa avreste in mente?» Il suo sguardo sfiorò il piano della scrivania, cercando la dimostrazione di qualcosa di materiale che si era ottenuto, qualche traccia di un progresso, e non vi trovò niente. Rathbone, intanto, era fin troppo consapevole delle proprie manchevolezze; fra il momento in cui Daly se n'era andato e quello in cui Monk era arrivato, tutto quanto aveva saputo fare era stato semplicemente di riuscire a sbrigare altre questioni urgenti per rimanere libero di occuparsi soltanto del caso Farraline, ma si rifiutò di spiegarlo a Monk. «Ci sono tre possibilità» disse con voce piana, ma tagliente. «È chiaro» Monk ribatté secco secco. «Potrebbe essere stata lei stessa a prendere una dose eccessiva di medicina per un caso disgraziato...» «No, proprio per niente.» Rathbone lo contraddisse con visibile soddisfazione. «Non è stata affatto lei a prenderla da sola. Esiste un'unica, disgraziatissima, eventualità e cioè che qualcuno abbia messo una dose sbagliata nel flaconcino prima che questo uscisse dalla casa dei Farraline di Edimburgo. Se lei si è somministrata qualcosa con le proprie mani, allora è stato un gesto deliberato e non può che trattarsi di suicidio. E questa sarebbe, materialmente parlando, la seconda possibilità mentre, a giudicare dalle circostanze e tenendo conto della sua personalità come Hester ce l'ha descritta, è da escludere nel modo più assoluto.» «E la terza è l'omicidio» Monk concluse. «Commesso da qualcun altro che non è Hester. Probabilmente qualcuno, a Edimburgo, ha riempito il flaconcino della medicina con una dose letale e poi ha lasciato che fosse Hester a somministrarla.» «Precisamente.» «Disgrazia o assassinio. Chi ha preparato la dose? Il dottore? Un farmacista?» Monk domandò. «Non so. Questa è una delle tante domande alle quali bisogna trovare risposta.» «E cosa si può pensare della figlia, Griselda Murdoch?» Monk si mise a muoversi, impaziente, per lo studio di Rathbone, andando avanti e indietro come non sopportasse di rimanere fermo. «Cosa sappiamo di lei?» «Soltanto che si è sposata da poco e sta aspettando il suo primo bambino e, a quanto pare, prova qualche ansia per la propria salute. Mary Farraline veniva proprio a Londra per rassicurarla.»
«Rassicurarla? Cosa intendete dire? Come poteva rassicurarla? Cosa sapeva che la signora Murdoch, invece, ignorava?» Monk sembrò spazientito, come se l'assurdità di quella risposta si potesse soltanto spiegare con una mancanza di prontezza e di lucidità da parte di Rathbone. «Per amor di Dio, brav'uomo, io non faccio la levatrice! Cosa volete che ne sappia» Rathbone ribatté in tono impermalito, tornando a prender posto dietro la scrivania. «Forse si trattava di qualche malattia che ha fatto da piccola, durante l'infanzia. Magari era questo che la preoccupava.» Monk preferì ignorare tale risposta. «Devo presumere che in famiglia siano tutte persone facoltose?» Domandò, tornando a voltarsi per guardare Rathbone in faccia. «Sembrerebbe di sì, ma potrebbero anche essere coperti di ipoteche fino al collo, a quanto ne so io! Ecco una delle molte cose che bisogna scoprire.» «Be', e che cosa state pensando di fare a questo proposito? Non ci sono avvocati in Scozia? Bisogna che se ne occupi un legale. Una persona che se ne intende. Un testamento?» «Me ne occuperò io» rispose Rathbone a denti stretti. «Ma occorre tempo, e indipendentemente dalla risposta, non ci spiegherà cosa è accaduto in quella carrozza ferroviaria, né tantomeno chi è stato a manomettere qualcosa nell'astuccio della medicina prima, addirittura, che le due donne salissero in treno. Il meglio che possiamo augurarci è che venga fatta un po' di luce sugli affari di famiglia e su quelli che potrebbero essere stati i moventi di un eventuale delitto fra le persone che vivono in casa Farraline. Potrebbe trattarsi di una questione di denaro, ma non possiamo rimanere qui, con le mani in mano, nella speranza che si tratti proprio di quello.» Le sopracciglia di Monk scattarono verso l'alto mentre osservava con profonda antipatia la figura elegante di Rathbone, seduto in poltrona a gambe accavallate. E per quanto strano fosse, Rathbone scoprì che questo fatto non lo mandava su tutte le furie. La prosopopea, forse sì. Avrebbe perduto il lume degli occhi di fronte alla calma, perché avrebbe significato che Monk non aveva paura, che tutto quanto era successo non aveva tanta importanza, per lui, da toccarlo sul vivo o da colpirlo duramente, a fondo, nei suoi sentimenti. La mancanza di paura in Monk non gli avrebbe dato conforto. Il pericolo era reale; soltanto uno sciocco poteva non accorgersene. «Voglio farvi partire per Edimburgo» disse Rathbone con un lieve sorriso. «Ai fondi provvederà io, naturalmente. Deve cercar di sapere quanto
più che è possibile sulla famiglia Farraline, su ciascuno dei suoi singoli componenti.» «E voi, cosa avete intenzione di fare?» Monk domandò di nuovo, venendo a piantarsi davanti alla scrivania, i piedi leggermente allargati, le mani strette a pugno lungo i fianchi. Rathbone gli rivolse un'occhiata gelida, un po' anche perché c'era ben poco, almeno fino a quel momento, che potesse essere di qualche utilità. Le sue qualità più preziose spiccavano al meglio in un'aula di tribunale, quando doveva affrontare i testimoni, e una giuria. Sapeva addirittura annusare la menzogna, sapeva come ritorcere e rivoltare abilmente le parole di un bugiardo fino a farlo cadere in trappola, come scoprire la verità sotto una fitta patina di inganno, la nebbia dell'ignoranza e della incapacità di ricordare, come sondare il problema come un chirurgo fino a estrarne il fatto schiacciante, quello che poteva portare alla condanna. Ma ancora non aveva testimoni, salvo Hester medesima, e lei sapeva tanto poco, disgraziatamente. «Ho intenzione di approfondire i fatti dal punto di vista medico» replicò. «E le questioni legali alle quali avete accennato poco fa. E mi preparerò per il processo.» Sembrò che la parola processo facesse dimenticare di colpo a Monk il suo furore di poco prima, e riacquistare tutta la sua lucidità come se avesse ricevuto in piena faccia uno spruzzo di acqua gelata. «Prima di partire devo andare a trovare Hester» disse con voce quieta. «Vedete di combinarmi una visita.» La sua faccia si indurì. «Devo sapere tutto quello che può raccontarmi sul loro conto. Ci occorre tutto ciò che riusciamo a scoprire, perfino le impressioni, le cose udite solo a metà, i pensieri e i ricordi... tutto in senso assoluto. Dio solo sa come riuscirò a ottenere di essere ricevuto da quella gente! E figurarsi, poi, se avranno voglia di parlare con me.» «Provate a raccontare qualche fandonia» ribatté Rathbone con un sorrisetto amaro. «Non venite a dirmi che una cosa del genere vi offende!» Monk gli lanciò un'occhiata velenosa ma non rispose. Rimase immobile come prima, per un istante, poi girò sui tacchi e si avviò alla porta. «Avevate parlato di fondi» disse con evidente disagio. E in un lampo, l'intuito fece capire a Rathbone fino a che punto Monk si detestasse per essere costretto a domandarglieli. Avrebbe voluto fare tutto senza il suo aiuto, per amore di Hester. Monk si accorse, guardando Rathbone negli occhi, che aveva capito tut-
to questo. Bastò a farlo andare su tutte le furie, non solo perché gli si leggeva tanto facilmente in faccia quello che pensava, e Rathbone avrebbe potuto immaginare facilmente quali erano le sue condizioni finanziarie ma forse, ancora di più, perché a questo modo rivelava i suoi sentimenti per Hester. Perfino lui stesso avrebbe preferito non misurarli fino in fondo. Arrossì, e la sua bocca si trasformò in una sottile linea dura. «Clements ha già tutto pronto per voi» Rathbone gli rispose. «Unitamente a un biglietto per il treno di stanotte per Edimburgo. Parte alle nove e un quarto.» Diede un'occhiata all'orologio d'oro che portava nel taschino del panciotto, un oggetto di pregio, e di raffinata bellezza, con la cassa cesellata. «Tornate a casa a far le valigie e a prendere quello che pensate vi possa esser necessario; io provvederà a procurarvi il permesso per una visita alle carceri. Scrivetemi da Edimburgo per farmi sapere se fate progressi.» «Naturalmente» Monk confermò. Ebbe un attimo di incertezza, poi aprì la porta e se ne andò. Rientrò nel suo alloggio con il cervello in tumulto. Si sentiva inebetito. Hester accusata di assassinio. Tutto ciò aveva le connotazioni terrificanti di un incubo; se dal punto di vista mentale avrebbe voluto respingere quest'idea, dal punto di vista pratico, e materiale, capiva quanto fosse crudamente e atrocemente reale. Vi ritrovava qualcosa di familiare, come se si trattasse di qualcosa che aveva sempre saputo, anche prima. Mise in una valigia la biancheria pulita che avrebbe potuto occorrergli, calzini, rasoio e pennello per la barba, spazzola per i capelli, il necessario per la toilette e un paio di scarpe di ricambio. Non poteva prevedere quanto a lungo sarebbe rimasto a Edimburgo; fra l'altro, a quanto ne sapeva, non gli pareva di esserci mai stato. Quindi non poteva immaginare se avrebbe fatto molto freddo, o no. Probabilmente aveva un clima più o meno simile a quello del Northumberland. D'altra parte riusciva a ricordare soltanto a sprazzi, a immagini fugaci, anche quello; non ne aveva una sensazione convalidata dalla realtà dei fatti. In ogni caso, aveva ben poca importanza al momento. Capiva il motivo per cui gli erano familiari quella sensazione di disagio che lo turbava profondamente, quella paura e quel miscuglio di incredulità e di completa rassegnazione. Era un po' simile a certe esperienze del suo passato come quella di essere sia il cacciatore sia la preda cui viene data la caccia, che aveva avuto riaprendo gli occhi e riprendendo la conoscenza, all'ospedale, dopo l'incidente. Allora non aveva saputo nemmeno ricordare il suo stesso nome, e aveva scoperto qualcosa di sé a poco a poco man ma-
no che ricercava l'assassino di Joscelin Grey. Adesso, quasi due anni più tardi, ancora non era riuscito a sapere tutto sul proprio conto e sul proprio passato, e molto di ciò che aveva scoperto, vedendolo filtrato attraverso gli occhi degli altri, in parte ricordato in parte soltanto intuito o sospettato, continuava a confonderlo, perché lo metteva di fronte a qualità e caratteristiche della propria personalità che non gli piacevano affatto. Ma stavolta non c'era tempo di pensare a se stesso. Doveva risolvere questo assurdo problema della morte della signora Farraline, e della parte che Hester vi aveva avuto. Richiuse la valigia e la portò con sé mentre cercava la sua padrona di casa per informarla, in tono asciutto e senza particolari spiegazioni, che doveva partire per Edimburgo per motivi di lavoro e non sapeva quando sarebbe rientrato. Lei era abituata a quel modo di fare e non ci badò. «Oh, sì» rispose distrattamente. Poi soggiunse, con un'espressione più attenta in quanto si trattava di qualcosa che per lei era di somma importanza: «E mi manderete i soldi dell'affitto, vero, se rimarrete via tanto a lungo, signor Monk?» «Senza dubbio» confermò lui sempre più seccamente. «Quanto a voi, conservatemi la corrispondenza.» «Questo, lo farò senz'altro. E tutto il resto sarà né più né meno come dovrebbe essere. Quando lo avete mai trovato diverso da prima, signor Monk?» «Mai» rispose lui suo malgrado. «Vi auguro il buon giorno.» «Buon giorno a voi, signore.» Al momento in cui raggiunse la prigione, si accorse che Rathbone aveva mantenuto la parola ed erano stati presi gli accordi necessari per consentirgli una visita all'imputata come assistente dell'avvocato, e di conseguenza, in un certo senso come suo consigliere legale. La guardiana che lo condusse lungo il corridoio dal pavimento in pietra grigia, verso la cella, aveva un torso massiccio, le braccia poderose, e un'espressione di antipatia profonda sulla faccia dai lineamenti grossolani. Monk si sentì agghiacciare guardandola e si accorse di essere in preda, come non gli capitava da molto tempo, a qualcosa di molto affine al panico. Sapeva il perché di quella sensazione. La donna era al corrente dell'accusa contro Hester, cioè di aver assassinato un'anziana gentildonna che era la sua paziente e che logicamente si fidava di lei per derubarla di un gioiello che poteva valere, forse, qualche centinaio di sterline. La somma sufficiente a farla vivere fra gli agi per un anno almeno, ma al prezzo di una
vita umana. Doveva aver visto tragedie di ogni sorta, il peccato e la disperazione, passare in quelle celle: donne maltrattate che avevano ucciso mariti, magnaccia o amanti violenti; donne deboli, inette e disperate che avevano assassinato i loro bambini; donne affamate e avide che avevano rubato; donne astute, sfacciate o sfrontate, ignoranti, perverse e viziose, impaurite, sciocche... doveva conoscere ogni aspetto della follia e del vizio. Ma niente, a suo giudizio, era tanto spregevole quanto la donna istruita e bene educata, la donna di buona famiglia, che si degradava fino ad avvelenare una vecchia signora affidata alle sue cure per procurarsi qualcosa di cui non aveva bisogno. Non ci sarebbe stata nessuna volontà di perdonare in lei, nemmeno la solita compassione distratta e noncurante che si poteva mostrare per la ladra o la prostituta sorprese a compiere un improvviso atto di violenza contro un mondo violento. Con la gelosia e l'indivia e la frustrazione delle persone ignoranti o oppresse, avrebbe detestato Hester perché era una signora. E contemporaneamente l'avrebbe anche detestata per non aver saputo vivere all'altezza dei privilegi che, per nascita, erano diventati suoi automaticamente. Era già abbastanza brutto che li avesse ricevuti; averli traditi era del tutto inaccettabile. La paura che Monk provò in quel momento si condensò in un senso di gelo, in un cupo malessere spirituale. La guardiana continuò a precederlo senza mai voltarsi verso di lui per tutto il corridoio fino a quando giunse alla porta di una cella; qui infilò, e girò nella serratura, una chiave massiccia. Perfino a quel punto non gli rivolse neanche un'occhiata. Era, il suo, un segno del profondo disprezzo che provava, e che estendeva anche a lui. Nemmeno la curiosità lo rendeva meno violento. Dentro la cella, Hester era in piedi. Si voltò lentamente quando sentì che scattava la serratura, con una luce di speranza che le illuminava la faccia. Poi vide Monk. La speranza si smorzò e venne sostituita da dolore, cautela e uno strano lampo che era un po' di aspettativa e un po' di costernazione. Per un attimo Monk si accorse di essere in preda a sentimenti diversi: commozione, simpatia, desiderio di proteggerla e rabbia impotente contro gli avvenimenti, contro Rathbone, in modo particolare contro se stesso. Si voltò verso la guardiana. «Quando avrò bisogno, vi chiamerò» disse gelido. Lei ebbe un attimo di esitazione, e per la prima volta la sua curiosità ebbe il sopravvento. Lesse in faccia a Monk qualcosa che la infastidì, la consapevolezza istintiva che avrebbe combattuto con armi che lei non posse-
deva, che non avrebbe mai provato paura per se stesso. «Sissignore» gli rispose con aria truce, e chiuse la porta sbattendola con energia assolutamente non necessaria. Monk osservò Hester senza fretta, e con somma attenzione. Non aveva niente da fare lì dentro, dalla mattina alla sera, eppure appariva stanca. Aveva ombre oscure che le segnavano gli occhi, e la pelle di un pallore pauroso. I capelli erano raccolti con semplicità; evidentemente non aveva fatto nessuno sforzo per acconciarli in un modo che le donassero maggiormente. Era vestita con semplicità. A guardarla si sarebbe detto che fosse già rassegnata. Che avesse rinunciato a tutto. Doveva aver ottenuto che le mandassero qualche abito da casa, probabilmente per il tramite di Callandra. Ma per quale motivo non aveva scelto qualcosa di un modo un po' meno scialbo, qualcosa di un po' più provocante? Gli si affollarono alla memoria i ricordi della disperazione che lui stesso aveva provato durante le indagini per il caso Grey, quando si era visto costretto ad affrontare un orrore ben peggiore, il pensiero non soltanto della prigione e della forca, ma anche l'incubo della colpa in sé e per sé. A quell'epoca erano stati il coraggio e la collera sferzante di Hester che lo avevano salvato. Come osava arrendersi quando si trattava di lei stessa? «Avete un aspetto tale da fare spavento» disse gelido. «E si può sapere cos'è quel cencio che vi siete messa, in nome di Dio? A guardarvi si direbbe che siate lì ad aspettare di salire al patibolo. Ma se non hanno ancora neanche cominciato a farvi il processo!» L'espressione di Hester si incupì lentamente passando dalla perplessità alla collera, ma fu la manifestazione di un sentimento pacato e freddo, completamente privo di ardore. «È uno di quelli che adoperavo durante l'assistenza ai malati» rispose tranquillamente. «È caldo e comodo. Non riesco a capire per quale motivo vi prendete la briga di notare una cosa del genere. Che importanza ha, in fondo?» Lui cambiò argomento bruscamente. «Sono in partenza per Edimburgo con il treno di stanotte. Rathbone vuole che io scopra tutto quello che posso sui Farraline. Si presume che sia stato uno di loro ad assassinarla...» «È l'unica soluzione alla quale sono arrivata anch'io» rispose Hester pacatamente ma senza convinzione. «A ogni modo prima di sentirmelo domandare da voi, non so chi sia stato o perché l'abbia fatto. Non riesco nemmeno a pensare a un movente valido, e qui non ho nient'altro da fare salvo riflettere proprio su quello.» «Siete stata voi a ucciderla?»
«No.» Non c'era collera in lei, soltanto una rassegnazione tetra e disperata. Bastò a infuriare Monk. Avrebbe voluto prendere Hester per le spalle, e scuoterla fino a far scatenare in lei un furore pari al proprio, fino a quando non fosse andata talmente in collera da mettersi a lottare e continuare a lottare fino a che non avessero scoperto la verità, per poi costringere tutti gli altri a guardarla bene in faccia, a riconoscerla, e ad ammettere che avevano sbagliato. Monk si accorse di detestare quel cambiamento in lei; tanta quiete non le era caratteristica. Per quanto, non si poteva esattamente dire che gli piacesse il suo modo di fare, prima. Aveva sempre parlato troppo, e manifestando troppo chiaramente le proprie opinioni, sia che fosse informata o no su un argomento. Era completamente diversa dal genere di donna che lo attirava, non aveva la gentilezza, il calore femminile o il garbo che riscuotevano sempre la sua ammirazione, gli facevano battere più rapido il sangue nelle vene e risvegliavano il desiderio in lui. Ma con tutto ciò, vederla in quelle condizioni lo turbava profondamente. «Allora è stato qualcun altro» disse. «A meno che non vogliate raccontarmi che si è suicidata, vero?» «No, naturale che non si è suicidata!» Adesso, finalmente, era infuriata anche lei. Le sue guance si colorirono lievemente di rosa. «Se l'aveste conosciuta, un'idea del genere non vi passerebbe neanche per l'anticamera del cervello.» «Forse era senile, in qualche modo incapacitata?» Insinuò. «E si è uccisa per sbaglio?» «Questo è ridicolo.» La voce di Hester si levò aspra. «Non era più senile di quanto non lo siate voi. Se non sapete fare meglio di così, state sprecando il mio tempo! E quello di Oliver se è lui che vi ha assunto per questo lavoro!» Lui si sentì felice di veder riaffiorare in Hester il solito spirito anche se lo usava soltanto in difesa di Mary Farraline; ma rimase anche profondamente irritato dall'insinuazione che la sua presenza lì fosse soltanto il risultato di una precisa richiesta di Rathbone, e perché sarebbe stato debitamente compensato per la sua opera. Non riuscì a capire per quale motivo quelle parole gli dessero tanto fastidio; a ogni modo era un pensiero sgradito e la sua reazione fu istantanea. «Non fate la bambina, Hester. Non ce n'è il tempo, ed è molto poco conveniente in una donna della vostra età.» Adesso sì che lei era infuriata sul serio. Monk si rese conto che a provocare quella collera era stata l'allusione alla sua età, una cosa in sé e per sé
stupida. D'altra parte a volte Hester era effettivamente un po' stupida. Come la maggior parte delle donne. Hester lo guardò con manifesta antipatia. «Se avete intenzione di andare a Edimburgo per parlare con i Farraline, è un po' difficile che siano disposti a dirvi qualcosa di più salvo che mi hanno assunto per accompagnare la signora Farraline a Londra, per somministrarle la sua medicina sera e mattina, e per fare in modo che fosse circondata da tutte le comodità possibili. E io non sono stata all'altezza di quello che era richiesto da me! La mia è stata una mancanza enorme, tragica. Non so cos'altro vi potete aspettare di sentir dire da quella gente, giusto?» «L'autocompassione non vi dona né più né meno come non dona alla maggioranza della gente» ribatté Monk aspro. «E ci manca il tempo.» Lei gli lanciò un'occhiata che rivelava la più profonda avversione. Monk la ricambiò con un sorriso, più che altro una smorfia, una contrazione delle labbra, ma provò ugualmente sollievo vedendo che Hester, adesso, era tanto in collera da esser pronta a combattere... anche se preferiva che di tanta soddisfazione da parte sua, lei non si accorgesse. «Naturalmente è ciò che mi diranno» ammise. «E io farò moltissime domande.» Già mentre parlava stava formulando il proprio piano. «Perché dirò che mi presento in casa loro a nome del Pubblico Ministero e dell'accusa e che desidero essere ben sicuro che tutto sia in ordine in maniera da poterci presentare in tribunale con una causa assolutamente incontestabile. Di conseguenza dovrò esaminare in ogni minimo particolare il periodo di tempo del vostro soggiorno presso di loro.» «Ci sono rimasta un giorno soltanto» fece Hester. Monk non le badò. «Poi, nel corso di questi colloqui, vedrò di sapere tutto quanto d'altro è possibile sul loro conto. Uno di loro l'ha assassinata. In qualche modo, sia pure minimamente, finiranno per tradirsi.» Lo affermò con ben maggiore sicurezza di quanta non sentisse, anche se non doveva assolutamente lasciarglielo capire. Il meno che potesse fare era proteggerla dalla più amara delle verità, dalle circostanze che risultassero chiaramente a sfavore del loro successo. Si augurava con tutto il cuore di poter fare di più. Era terrificante ritrovarsi così impotente quando la questione aveva tutta quella importanza! La collera di Hester scomparve con la stessa rapidità con cui qualcuno avrebbe potuto spegnere un lume. La paura ebbe il sopravvento su tutto il resto. «Lo farete davvero?» La sua voce era venata da un tremito. Senza pensarci, Monk allungò una mano e strinse quella di lei, la strinse
convulsamente. «Sì, è quello che farò. Non credo che sarà facile, o tantomeno che sarà una cosa rapida, ma lo farò.» Tacque. Si conoscevano troppo bene. Le lesse negli occhi ciò che stava pensando, e ricordando... quell'altro caso che avevano risolto insieme, scoprendo la verità, alla fine, e troppo tardi... quando l'uomo sbagliato era stato processato e mandato sul patibolo. «Lo farò, Hester» esclamò appassionatamente. «Troverò la verità, qualsiasi cosa costi, chiunque sia la persona che dovrò rovinare o distruggere per arrivarci.» Gli occhi di Hester si riempirono di lacrime; improvvisamente girò la testa dall'altra parte. Per un attimo era stata colta da un tale spavento da non riuscire quasi a dominarsi. Monk digrignò i denti. Per quale motivo continuava a voler mostrare tanto stupidamente la propria indipendenza? Perché non si metteva a piangere come le altre donne? Allora sì che lui avrebbe potuto prenderla tra le braccia, offrirle un certo conforto, di qualsiasi genere fosse... che sarebbe stato del tutto inutile e privo di significato. Tanto che, dopo, lui si sarebbe detestato. Ma non riusciva a sopportare di vederla così... e nello stesso tempo sarebbe stato ancora peggio se l'avesse vista comportarsi in un modo diverso. Si accorse di detestare anche l'obbligo che aveva di essere lì, di non potere buttarsi tutto dietro le spalle e andarsene. Questo non era semplicemente uno dei soliti casi dei quali si occupava abitualmente. Qui si trattava di Hester, e il solo pensiero di poter fallire era insopportabile. «Parlatemi di loro» le ordinò, burbero. «Chi sono i Farraline? Cosa pensate di quella gente? Quali sono state le vostre impressioni?» Lei si voltò a guardarlo sorpresa. Poi lentamente riuscì a dominare la propria commozione e rispose: «Il figlio maggiore è Alastair. È Procuratore Fiscale...» Lui la interruppe. «Non voglio i fatti. Quelli posso scoprirli da solo, ragazza mia. Voglio capire che cosa provate voi nei confronti di quell'uomo. Era felice o infelice? Era preoccupato? Voleva bene a sua madre o la odiava? Ne aveva paura? E lei, era una donna possessiva, esageratamente protettiva, pronta alla critica, dominatrice? Ditemi qualcosa!» Hester ebbe un pallido sorriso. «A me è sembrata generosa e normalissima...» «È stata assassinata, Hester. E la gente non commette un assassinio senza un motivo, anche se è brutto. Qualcuno deve averla detestata oppure aveva paura di lei. Perché? Ditemi qualcosa di più sul suo conto. E non
venite a raccontarmi che era una persona adorabile. A volte le donne giovani vengono uccise proprio perché sono troppo adorabili, e troppo affascinanti; ma non succede mai con le donne vecchie.» Il sorriso di Hester si accentuò leggermente. «Non credete che io, qui, non abbia cercato di capire per quale motivo qualcuno avrebbe potuto ucciderla? In effetti Alastair mi è sembrato un po' ansioso, ma avrebbe potuto esserlo per un motivo qualsiasi. Come dicevo, è Procuratore Fiscale...» «E cosa sarebbe un Procuratore Fiscale?» Non era quello il momento di aggrapparsi al proprio orgoglio e tirare avanti a tentoni, nell'ignoranza. «Credo che sia qualcosa di più o meno simile a un Pubblico Accusatore, al Pubblico Ministero, insomma.» «Uhm...» intanto nel suo cervello affiorava qualche possibilità. «Il fratello più giovane, Kenneth, doveva uscire per andare a un appuntamento di cui la famiglia sapeva ben poco. Sono partiti dal presupposto che corteggiasse qualche ragazza che loro non avevano ancora conosciuto.» «Vedo. Nient'altro?» «Non so. Non lo so proprio sul serio. Quinlan, cioè il marito di Eilish...» «Chi è Eilish? Avete proprio detto Eilish? Che razza di nome sarebbe?» «Non so. Scozzese, suppongo. È la seconda figlia. Oonagh è la maggiore. Griselda, la più giovane.» «Cosa stavate dicendo di Quinlan?» «Ho avuto l'impressione che lui e Baird McIvor, il marito di Oonagh, si detestassero. Non riesco a capire come qualcosa di tutto questo possa spingere all'omicidio. In ogni famiglia ci sono sempre correnti sotterranee di simpatie e di antipatie, soprattutto quando tutti vivono sotto lo stesso tetto.» «Che Dio mi salvi da un'eventualità simile!» Monk esclamò accalorandosi. Il solo pensiero di vivere a tanto stretto contatto con altra gente lo spaventava. Era geloso della propria vita privata e non voleva render conto di sé a nessuno... figurarsi poi, a qualcuno che lo conoscesse intimamente. Hester lo fraintese. «Nessuno sarebbe stato pronto all'omicidio, nel caso di Mary Farraline, per avere la libertà di potersene andare.» «Ma la casa non era sua?» Monk le domandò subito. «Cosa ne sapete dei soldi? No, non affaticatevi a rispondermi. Non ne sapreste niente in ogni caso. A scoprirlo penserà Rathbone. Ditemi esattamente che cosa avete fatto dal momento in cui siete arrivata in quella casa fino al momento in cui siete venuta via. Quando siete rimasta sola? Dov'era lo spogliatoio o il
locale nel quale è stato lasciato l'astuccio delle medicine?» «Ma ho già raccontato a Oliver tutto questo» protestò lei. «E io voglio sentirvelo ripetere con le vostre parole» ribatté Monk gelido. «Non posso lavorare su prove di seconda mano. E poi, io vi farò le mie domande, che non sono le sue.» Hester acconsentì senza continuare a insistere e, dopo essersi seduta sull'orlo del letto, gli descrisse con attenzione e con minuzia di particolari tutto ciò che riusciva a ricordare. Dalla semplicità e dalla facilità con cui le parole le salivano alle labbra, dal fatto che non ebbe mai neanche un attimo di incertezza, Monk intuì che doveva aver ripassato la parte molte volte. E questo bastò a renderlo ancor più acutamente consapevole di come doveva essere stata impaurita, al buio, distesa sulla branda di quella cella, fin troppo intelligente per non rendersi conto, lucidamente, dell'enormità del pericolo, perfino della possibilità che non si riuscisse mai a sapere la verità o che si venisse a sapere quando era troppo tardi perché lei potesse venir salvata. Lo aveva già visto accadere. E Monk stesso, già prima, aveva subito degli insuccessi. Ma stavolta, per dio, non sarebbe stato un insuccesso, il suo, indipendentemente da quello che poteva costare. «Grazie» alla fine le disse, alzandosi in piedi. «Adesso devo andare. Devo prendere il treno per il nord.» Anche Hester si alzò. Era pallidissima. Lui avrebbe voluto dirle qualcosa che placasse i suoi timori, qualcosa che potesse darle speranza... ma sarebbe stata una bugia, e non le aveva mai mentito. Hester aprì la bocca, come se volesse parlare, ma poi cambiò idea. Monk non poteva andarsene senza dire qualcosa... ma cosa? Cosa c'era che non fosse un insulto al suo coraggio e alla sua intelligenza? Lei tirò su col naso, piano. «Dovete andare.» Seguendo un impulso improvviso Monk le afferrò una mano e se la portò alle labbra, poi la lasciò ricadere e in tre passi raggiunse la porta. «Sono pronto!» Gridò, e dopo un attimo le chiavi tintinnarono nella serratura e la porta si spalancò. Monk uscì senza guardarsi indietro. Dopo che Monk ebbe lasciato il suo studio, Oliver Rathbone esitò solo per pochi attimi prima di prender una decisione: in fondo, a ben pensarci, sarebbe stato opportuno andare a far visita a Charles Latterly. Hester lo aveva supplicato di non parlare dell'accaduto alla sua famiglia quando l'imputazione era stata semplicemente quella di furto, perché tutti e due si
erano augurati di poterla affrontare e risolvere nel giro, al massimo, di qualche giorno. Ma adesso si trattava di un omicidio, e i quotidiani della sera avrebbero riportato tutta la storia. Non fosse altro che per pura e semplice umanità, occorreva andare ad avvisarlo prima che questo succedesse. Sapeva già l'indirizzo e gli occorsero solo cinque minuti per trovare un hansom e dare le istruzioni al vetturino. Poi cercò di pensare a un modo decoroso di presentargli la notizia. Anche se la sua intelligenza gli faceva capire che non esisteva, era un problema più facile da considerare invece di mettersi a riflettere sulle mosse successive per preparare la difesa di Hester. Impossibile lasciare che fosse qualcun altro ad assumerla, eppure il peso di una simile responsabilità gli pareva già schiacciante anche se non erano ancora passate nemmeno dodici ore da quando Daly si era presentato nel suo ufficio. Erano le cinque e dieci del pomeriggio. Charles Latterly era appena rientrato in casa, terminati gli affari della giornata. Rathbone non lo aveva mai visto prima. Sceso dalla carrozza, diede ordine al vetturino di aspettare, anche a lungo se fosse stato necessario, fino a quando lui non si fosse tornato fuori per andar via, e si avviò alla porta. «Sì, signore?» Il maggiordomo domandò in tono cortese perché il suo occhio esercitato aveva stabilito subito che la condizione sociale di Rathbone era quella di un gentiluomo. «Buona sera» Rathbone replicò in tono asciutto. «Mi chiamo Oliver Rathbone e sono il legale della signorina Hester Latterly. Desidero parlare con il signor Latterly per una questione di affari che, e mi duole dirlo, non può attendere.» «Davvero, signore? In tal caso, vorrete essere tanto cortese da passare nel salottino in modo che io possa informare il signor Latterly del vostro arrivo e dell'urgenza della questione di cui dovete parlargli.» «Grazie.» Rathbone entrò ma invece di passare nel salottino quando il maggiordomo gliene aprì la porta, rimase nel vestibolo. Era un locale piacevole, accogliente, ma perfino a un'occhiata distratta e un po' frettolosa, poteva rivelare i segni di un certo logorio, di un'usura negli oggetti e negli arredi che lasciavano pensare, sia pure non in modo clamoroso, a una situazione finanziaria non più florida come in passato. Con una fitta di compassione gli tornò in mente la rovina, seguita dal suicidio, del signor Latterly senior, e la morte di dolore, avvenuta pochissimo tempo dopo, di sua moglie. Adesso lui portava notizie di una nuova tragedia, forse ancora peggiore di quest'ultima.
Charles Latterly uscì dalla porta sulla destra in fondo al vestibolo. Era un uomo alto, biondo, sui quarant'anni, i capelli un poco radi, la faccia magra, lunga, e, in quel momento, macerata dalla preoccupazione. «Buona sera, signor Rathbone. In che cosa posso esservi utile? Non ricordo di aver mai avuto l'onore di conoscervi, ma il mio maggiordomo m'informa che siete il legale di mia sorella. Non sapevo nemmeno che avesse avuto occasione di servirsi delle capacità di un professionista in questo campo.» «Mi duole di disturbarvi senza preavviso, signor Latterly, ma vi porto una notizia delle più sconfortanti. Non ho assolutamente il minimo dubbio sul fatto che la signorina Latterly sia totalmente senza colpa, e di nessun genere, ma c'è stato un decesso... un decesso per cause non naturali... di una delle sue pazienti, un'anziana gentildonna che stava viaggiando in treno da Edimburgo verso Londra. E sono spiacente, signor Latterly, ma Hester è stata imputata del suo omicidio.» Charles Latterly lo guardò con gli occhi sgranati come se non riuscisse ad afferrare il significato di quelle parole. «È stata colpevole di negligenza?» Disse, battendo leggermente le palpebre. «Non è da lei. Io non approvo la sua professione, se così volete chiamarla, ma sono pienamente convinto che sia più che competente nel modo in cui svolgerla. Non credo, signore, che possa essersi comportata scorrettamente.» «Non è accusata di negligenza, signor Latterly» Rathbone disse lentamente, odiandosi per ciò che stava facendo. Perché mai questo brav'uomo non aveva afferrato la situazione subito senza costringerlo a ripetere ogni cosa? Perché doveva prendere quell'espressione così offesa e stralunata? «È accusata di averla deliberatamente uccisa per poter rubare una spilla.» «Hester? Ma è assurdo, irrazionale!» «Sì, naturalmente» Rathbone confermò. «E ho già assunto un investigatore il quale si recherà a Edimburgo, partendo stanotte, in modo da indagare sulla questione e sapere la verità. Purtroppo temo che non saremo in grado di provare la sua innocenza prima che l'intera faccenda venga portata in tribunale e si faccia un processo; e molto probabilmente la notizia apparirà sui giornali di domani mattina, se non già su quelli di stasera. Ecco il motivo per il quale sono venuto a informarvi... per evitarvi di venirlo a sapere a quel modo.» «I giornali! Oh, poveri noi!» Dal viso già pallido di Charles scomparve anche la più lieve traccia di colore. «Lo sapranno tutti. Mia moglie. Imogen non deve sentirne parlare. Potrebbe...» Rathbone si sentì cogliere da una furia irragionevole. Tutti i pensieri di
Charles erano stati unicamente per ciò che sua moglie avrebbe potuto provare. Non aveva neanche domandato come Hester si sentisse... e perfino dove fosse. «Ho paura che si tratti di qualche cosa da cui non potrete proteggerla» disse in tono un po' agro. «E non è nemmeno escluso che lei possa desiderare di andare a trovare Hester, e portarle tutto quanto può esserle di qualche utilità e conforto.» «Trovarla?» Charles non nascose di essere confuso. «Dov'è Hester? Cosa le è successo? Che cosa le hanno fatto?» «È in prigione, dove rimarrà fino al giorno del processo, signor Latterly.» Charles diede l'impressione di essere stato folgorato. Rimase con la bocca socchiusa, gli occhi sgranati mentre l'incredulità si trasformava in orrore. «Prigione!» Esclamò strabiliato. «Volete dire...» «Naturalmente.» Il tono di Rathbone era più freddo di quanto fosse logico se, in tutto quanto stava accadendo, non fosse stato coinvolto anche lui stesso con i suoi sentimenti. «È accusata di omicidio, signor Latterly. Date le circostanze, non esiste la minima possibilità che possano dimetterla dal carcere.» «Oh...» Charles gli voltò le spalle, chiuso nei propri pensieri mentre la sua faccia finalmente dimostrava un lampo di compassione. «Povera Hester. Ha sempre avuto coraggio, e quanta ambizione di fare le cose più straordinarie. Mi ero abituato a pensare che non dovesse aver paura di niente.» Proruppe in una risatina strozzata. «E anche a desiderare che provasse un po' di paura... perché allora sì che avrebbe anche imparato almeno un po' di cautela, perché le avrebbe insegnato a essere guardinga!» Ebbe un attimo di incertezza, poi sospirò. «Ma non avrei mai voluto che ci arrivasse a questo modo.» Riportò il suo sguardo su Rathbone, con il viso ancora segnato dal dolore benché adesso avesse riacquistato la compostezza di prima. «Naturalmente vi pagherò tutto quello che è necessario per la sua difesa, signor Rathbone. Ma temo di possedere molto poco e non posso certo togliere a mia moglie quanto le devo per il suo mantenimento, che per me è un obbligo, mi capite?» Arrossì, a disagio. «Conosco, sia pure vagamente, la vostra reputazione. Forse, viste le condizioni in cui ci troviamo, sarebbe meglio se voleste passare questa causa a qualcuno di meno...» cercava un eufemismo per ciò che intendeva dire, ma non riuscì a trovarlo. Rathbone gli venne in aiuto in parte perché non gli piaceva vederlo an-
naspare a quel modo, visibilmente in difficoltà, per quanto poca simpatia avesse nei suoi confronti, ma soprattutto perché stava perdendo la pazienza. «Vi ringrazio della vostra offerta, signor Latterly, ma il vostro aiuto finanziario non sarà necessario. La mia considerazione per Hester sarà una ricompensa sufficiente. Il più grande favore che potrete farle sarà quello di aiutarla di persona, di confortarla, di assicurarla della vostra lealtà e soprattutto di non perdervi d'animo in modo che Hester possa trarre forza da voi. Mai, in nessuna circostanza, lasciatele pensare che temete il peggio.» «È naturale» Charles disse lentamente. «Sì, certo. Ditemi dove si trova e andrò da lei... sempreché, è logico, mi consentano di vederla, vero?» «Spiegate che siete l'unica persona di famiglia che Hester abbia, e vi daranno senz'altro il permesso di farle visita» Rathbone rispose. «Si trova a Newgate.» Charles trasalì. «Capisco. Che cosa ho il permesso di portarle? Di che cosa potrebbe aver bisogno?» «Forse vostra moglie potrebbe trovarle un po' di biancheria e di abiti di ricambio? Non credo che esistano le possibilità, là dentro, di fare un po' di bucato.» «Mia moglie? No... no, non permetterei mai a Imogen di andarci. E in un posto come Newgate, poi. Anzi cercherò di nasconderle, di questa storia, tutto quanto mi sarà possibile. La addolorerebbe terribilmente. Penserò io a trovare qualche abito per Hester.» Rathbone stava per protestare ma, con un'occhiata alla faccia di Charles, che improvvisamente si era fatta chiusa, con le labbra corrucciate, e gli occhi offuscati dalla testardaggine, si rese conto che esistevano nei loro rapporti delicatezza, ritegno e lati oscuri che non riusciva nemmeno a immaginare, come le insondabili profondità del carattere dello stesso Charles, e che qualsiasi discussione sarebbe stata inutile. Una visita alle carceri fatta di malavoglia o con riluttanza non sarebbe stata affatto utile; e, dopo tutto, era soltanto Hester la persona che per lui aveva importanza. «Benissimo, se questa è una decisione finale» disse freddamente. «Dovete fare quello che credete sia più giusto.» Si raddrizzò sulla persona. «Di nuovo, signor Latterly, vi ripeto che sono profondamente addolorato di avervi portato una notizia così grave, ma vi prego anche di stare tranquillo che farò tutto il possibile per ottenere che Hester venga assolta nel modo più completo, che la sua posizione sia chiarita totalmente e, nel frattempo, che sia trattata, per quanto è possibile, nel modo migliore.» «Sì... sì, certo. Vi ringrazio, signor Rathbone. È stato cortesissimo da
parte vostra aver pensato di venir di persona. E...» Rathbone attese, già quasi voltato verso la porta, sollevando le sopracciglia. Charles parve a disagio. «Vi ringrazio per assumervi la difesa di Hester senza che vi venga pagato un onorario. Io... noi... noi ve ne siamo profondamente grati.» Rathbone abbozzò un inchino. «È un mio privilegio, signore. Vi auguro il buon giorno.» «Buon giorno, signore.» Alle nove meno un quarto Rathbone era alla stazione ferroviaria. Anche se la sua presenza lì era inutile. Non c'era nient'altro che potesse dire a Monk, eppure si accorse di non saper rinunciare all'idea di ritrovarsi ancora con lui, di parlargli un'ultima volta, forse perfino di assicurarsi, nel modo più concreto e definitivo, che fosse effettivamente a bordo di quel treno. Il marciapiede era rumoroso, affollato di gente e di carretti carichi di bagagli, di facchini che gridavano mentre gli sportelli delle carrozze ora si spalancavano ora venivano richiusi con un tonfo. I viaggiatori di tanto in tanto avevano un brivido di freddo, lì, all'aperto, e alcuni di loro si dedicavano agli ultimi saluti, altri si guardavano intorno alla ricerca di un viso familiare che non trovavano. Rathbone si fece largo tra loro con il colletto del soprabito rialzato per difendersi dal vento. Dov'era Monk? Accidenti a lui! Per quale motivo doveva dipendere proprio da una persona per la quale provava una simpatia così scarsa? Eppure avrebbe ben dovuto riconoscerlo lì, sul marciapiede. Già il suo portamento e la sua figura erano abbastanza singolari; non solo, ma era anche un poco più alto della media. Dove accidenti era? Per la quinta volta guardò l'orologio della stazione. Dieci minuti alle nove. Possibile che non fosse ancora arrivato? Era presto. La cosa migliore sarebbe stata percorrere il treno da cima a fondo. Tornò indietro fino allo sportello della vettura più prossima ai respingenti, cercando di aprirsi un varco tra la folla che diventava sempre più fitta, e salì sul treno, guardando in ogni scompartimento per controllare se ci fosse Monk. Di tanto in tanto lanciava anche un'occhiata fuori dal finestrino, e fu in una di queste occasioni, quando era circa a metà del treno e l'orologio segnava le nove e sette minuti, che vide per un attimo la faccia di Monk mentre passava, fuori, affrettandosi lungo il marciapiede. Rathbone si lasciò sfuggire una bestemmia, provando un miscuglio di rabbia e di sollievo, e facendosi avanti, oltre un corpulento signore tutto
vestito di nero, spalancò lo sportello della carrozza e nella fretta per poco non cadde fuori. «Monk!» Gridò con tutta la voce che aveva in corpo. «Monk!» Monk si voltò. Era vestito con eleganza, come se avesse intenzione di cenare fuori. Il suo soprabito aveva un taglio perfetto, che lo snelliva, e al tempo stesso una cadenza perfetta, perché non gli faceva una grinza; e le sue scarpe spazzolate con tanta cura da apparire addirittura splendenti. Parve sorpreso di vedere Rathbone, ma non a disagio. «Avete trovato qualcosa?» Esclamò stupito. «Di già? Impossibile che abbiate già ricevuto notizie da Edimburgo... e allora, di che si tratta?» «Non ho trovato niente» Rathbone disse, anche se in cuor suo si augurava appassionatamente che fosse vero il contrario. «Sono venuto semplicemente a vedere se c'era qualcos'altro su cui sarebbe stato utile discutere fintanto che ne avevamo ancora l'occasione.» Un'ombra di delusione velò gli occhi di Monk, ma fu talmente lieve che se Rathbone fosse stato meno intuitivo, gli sarebbe del tutto sfuggita. Quasi finì per perdonargli quel soprabito dal taglio tanto perfetto. «Per quello che mi riguarda non so niente» Monk rispose glaciale. «Vi farò rapporto per posta, di tutto quanto verrò a sapere che possa essere utile. Terrò per me le mie impressioni, fino al ritorno. E sarebbe utile che voleste fare la stessa cosa per me, sempre partendo dal presupposto che possiate scoprire qualcosa. Vi farò sapere il mio indirizzo appena avrò trovato un alloggio. Adesso vado a raggiungere il mio posto prima che il treno parta senza di me. Allora sì, che ci troveremmo nei pasticci, tutti e due.» E senza alcun'altra forma di saluto, gli girò le spalle e si avviò verso lo sportello della carrozza più prossima, salì, e lo richiuse con forza dietro di sé, lasciando Rathbone immobile sul marciapiede, a imprecare sottovoce, sentendosi offeso, inetto, non all'altezza della situazione, convinto che ci fosse qualcos'altro che avrebbe dovuto dire, ma gli sfuggiva. 5 Monk non si godette quel viaggio in nessun senso, nel modo più assoluto. L'incontro con Rathbone sul marciapiede della stazione gli aveva dato un certo piacere perché era segno dell'infinita preoccupazione che lui doveva provare. Soltanto il fatto di sentirsi coinvolto a fondo, dal punto di vista dei suoi sentimenti, in quanto era accaduto, avrebbe potuto spingerlo a dimenticare la dignità fino al punto di presentarsi in stazione, alla sua
partenza, adducendo pretesti assolutamente privi di senso comune e di utilità. Di norma, se non altro, sarebbe bastato soltanto il pensiero che Monk se ne sarebbe accorto, perché l'intuito non gli mancava, per consigliargli di rimanere a casa. Ma il conforto che tutte queste riflessioni gli davano scomparve molto in fretta man mano che il treno, circondato da folate di vapore, sferragliava uscendo dalla stazione per affrontare l'oscurità impregnata di pioggia che era calata sui tetti londinesi, offrendogli a tratti una panoramica, alla tenue luce dei lampioni a gas, su strade che a poco a poco si facevano più deserte, sul luccichio dell'acciottolato umido, sui coni di luce dei lampioni circondati di nebbia, e di tanto in tanto su un hansom solitario che portava a destinazione qualche cliente. Immaginò Rathbone che tornava nel suo studio e prendeva posto dietro la scrivania mettendosi a sfogliare carte e documenti a vuoto, senza riuscire a fare qualcosa di utile, lambiccandosi il cervello in cerca di ciò che avrebbe potuto servire mentre Hester, sola nella piccola cella di Newgate, impaurita, si rannicchiava sotto quelle coperte così leggere, tendendo l'orecchio al suono secco e rimbombante dei tacchi delle scarpe sull'impiantito di pietra e del tintinnio delle chiavi nella serratura, oltre a sapere che, sulla faccia delle guardiane, avrebbe letto l'odio. Su tutto questo non aveva illusioni. Quelle donne la consideravano colpevole di un crimine spregevole; non ci sarebbe stata nessuna compassione per lei. E il fatto che non fosse ancora stata processata avrebbe avuto ben poco peso per loro. Per quale motivo Hester non poteva essere come le altre donne e scegliersi un'occupazione più logica e sensata? Qual era la donna normale pronta a mettersi in viaggio per andare di qua e di là, sola soletta, e assistere persone che non aveva mai nemmeno visto prima? E lui stesso, poi, per quale motivo si agitava tanto per Hester? Era logico che finisse per incappare in qualche disastro un momento o l'altro, la ragazza. Solo per un colpo straordinario di fortuna non le era già capitato di trovarsi in qualche guaio quando era in Crimea. Quanto a lui stesso, che stupido a lasciare che i suoi sentimenti venissero coinvolti in tutto questo! Non gli piaceva il tipo di donna che Hester era, non gli era mai piaciuto. Quasi tutto in lei lo irritava, in un modo o nell'altro. D'altra parte per pura e semplice umanità, era necessario fare tutto il possibile per aiutarla. Le persone si fidavano di lui e, a quanto ne sapeva, in tutta la sua vita non aveva mai deluso chi aveva creduto in lui, non aveva mai tradito la fiducia di nessuno. Perlomeno non intenzionalmente. Cer-
to, aveva pienamente fallito nei confronti del suo mentore, anni prima, questo almeno lo ricordava, adesso. Ma era stato diverso. Se non aveva saputo essere all'altezza della situazione, lo doveva alla mancanza di capacità, non perché non avesse tentato, in ogni senso, di fare tutto quanto era in suo potere. E tutto questo non andava spiegato con la gentilezza; ogni dato di fatto che aveva scoperto sul proprio conto gli confermava la propria, assoluta, mancanza di gentilezza. Però che fosse un uomo d'onore, questo sì. E non aveva mai sopportato l'ingiustizia. No. Sussultò con un sorriso amaro. Questo non era vero. Non aveva mai sopportato l'ingiustizia legale. E invece, lui stesso era stato sicuramente ingiusto, e fin troppo spesso, ingiusto verso i suoi sottoposti, esageratamente pronto alle critiche, troppo frettoloso nel giudicare e nel criticare. Ma per quanto tutto questo potesse far male, non aveva senso continuare a crogiolarsi nei ricordi del passato. Niente avrebbe potuto cambiarlo. Il futuro invece era tutto lì, di fronte a lui, in suo potere. Avrebbe scoperto chi aveva ucciso Mary Farraline e perché, e lo avrebbe dimostrato, prove alla mano. Indipendentemente dal fatto di desiderarlo per una questione di orgoglio, Hester lo meritava. Si comportava spesso come una sciocca, quasi sempre era prepotente, supponente, acida nei suoi commenti, troppo decisa nelle sue opinioni e arbitraria; però era totalmente onesta. Qualsiasi cosa avesse detto riguardo al viaggio da Edimburgo, non avrebbe potuto essere che la verità. Non sarebbe stata nemmeno capace di mentire a se stessa per nascondere un errore, figurarsi poi se era capace di mentire con gli altri! E questa era una qualità rara in chiunque, uomo o donna che fosse. E poi, naturalmente, non era stata lei a uccidere Mary Farraline. Un'idea del genere era grottesca, ridicola. Avrebbe potuto uccidere qualcuno perché era indignata, offesa... ne avrebbe certo avuto il coraggio e la passionalità... mai però per ricavarne un utile personale. E se aveva ucciso qualcuno che considerava tanto ignobile e mostruoso da rendere comprensibile un'azione del genere, non lo avrebbe certo fatto a quel modo. Lo avrebbe fatto faccia a faccia. Avrebbe colpito l'avversario alla testa, o l'avrebbe ferito con un pugnale, non certo avvelenato nel sonno. Perché in Hester non c'era niente di ambiguo, di equivoco. Soprattutto, aveva coraggio. Certo che aveva coraggio. Si mise a guardare fuori dal finestrino la campagna avvolta dall'oscurità che fuggiva veloce mentre il treno passava con il suo fragoroso rimbombo attraverso le contee intorno a Londra, diretto al nord. Era seduto, molto poco comodamente, fra un ometto mingherlino
vestito di grigio che cercava di leggere il giornale con gli occhiali posati precariamente sul naso, e un altro, tozzo e panciuto, che dormiva già. Di fronte a lui, due uomini più giovani discutevano freddamente sullo stato finanziario della nazione. Hester sarebbe sopravvissuta a tutto questo. In Crimea aveva sofferto anche di peggio, durezze materiali ben più terribili, un freddo atroce, probabilmente anche la fame, e settimane senza una buona nottata di sonno... e anche il pericolo, il pericolo di una ferita o di una malattia, o di tutte e due. Si era recata su un campo di battaglia in mezzo al rombo dei cannoni e al crepitio delle fucilate, addirittura alla portata dei proiettili, a quanto lui ne sapeva. Quindi era naturale che sarebbe sopravvissuta a una settimana o due a Newgate. Era assurdo sentirsi così spaventato per lei. Non era una donnicciola qualsiasi, capace soltanto di svenire o di mettersi a piangere di fronte alle difficoltà. Avrebbe sofferto, naturalmente, perché anche lei era impressionabile e sensibile come chiunque altro, ma lo avrebbe superato. La sua parte era quella di presentarsi in casa Farraline e scoprire la verità. Eppure man mano che la sera si trasformava lentamente in notte e le persone intorno a lui a poco a poco cedevano al sonno e alla stanchezza, questo entusiasmo lo abbandonò; tutto quanto riusciva a immaginare, man mano che sentiva sempre di più il freddo e si accorgeva di essere sempre più stanco e indolenzito, era la difficoltà di scoprire qualcosa di utile in una casa e presso una famiglia in lutto, chiusa su se stessa, dove qualcuno era colpevole di un assassinio e gli altri avevano già trovato il capro espiatorio perfetto in un'estranea, già accusata e mandata in carcere. Al mattino aveva la schiena dolorante, i crampi ai muscoli di una gamba per la mancanza di un briciolo di comodità o di esercizio fisico, e i piedi talmente freddi che gli pareva di non sentirli più. Quanto al suo umore, era in condizioni altrettanto cattive. A Edimburgo il freddo era pungente ma, almeno, non pioveva. Un vento gelido ululava ingolfandosi per Princess Street, ma Monk non provava il minimo interesse né per la sua storia né per le sue bellezze architettoniche e, di conseguenza, fu ben contento di chiamare con un cenno la prima carrozza di piazza che vide e di dare al conducente l'indirizzo dei Farraline in Ainslie Place. Dalla strada la casa gli parve senz'altro maestosa e imponente. Se i Farraline ne erano i proprietari e l'edificio non era gravato da nessuna ipoteca, bisognava considerarli, se non altro dal punto di vista finanziario, i padroni
anche di un sostanzioso patrimonio. Tra l'altro, nel giudizio di Monk, era anche una casa di ottimo gusto. Del resto, la semplicità classica dell'intera piazza gli piacque in un modo straordinario. Ma tutto questo era collaterale. Riportò la propria attenzione sul problema di cui doveva occuparsi. Salì il gradino e diede uno strattone al campanello. La porta si spalancò e un uomo che, a giudicare dalla sua espressione avrebbe potuto essere un impresario di pompe funebri, lo scrutò senza il minimo interesse. «Il signore desidera?» «Buon giorno» disse Monk in tono asciutto. «Mi chiamo William Monk. Arrivo da Londra per una questione importante. Vorrei parlare con il signor Farraline oppure con la signora McIvor.» E tirò fuori il proprio biglietto da visita. «Certo, signore.» La faccia dell'uomo non registrò il minimo cambiamento. Allungò verso di lui un vassoio d'argento. Monk vi lasciò cadere il biglietto da visita. A quanto pareva... no, non era affatto un impresario di pompe funebri, ma il maggiordomo. «Vi ringrazio, signore. Se volete essere tanto cortese da aspettare nel vestibolo, vado a vedere se la signora McIvor è in casa.» Esattamente la stessa finzione educata e cortese che usava a Londra. Naturalmente l'uomo sapeva già benissimo se la sua padrona era in casa, la questione da risolvere era un'altra, cioè, molto più semplicemente, se fosse disposta a ricevere Monk, o no. Aspettò nel vestibolo adorno di fiocchi di crèpe, passando il peso del corpo da un piede all'altro, per l'impazienza. Aveva già riflettuto sul messaggio che le avrebbe fatto recapitare se si fosse rifiutata di vederlo. Si augurava che il fatto di essere arrivato da Londra potesse bastare... Quanto a tutto il resto non occorreva che ne fossero informati i domestici. Non dovette rimanere a lungo nell'incertezza. Non fu il maggiordomo a tornare ma una donna sui trentacinque anni, snella, impettita. Per un attimo il suo portamento, come il suo modo di camminare gli ricordarono Hester; anche lei aveva la stessa fierezza e determinazione nel modo in cui teneva le spalle ben allargate ed erette, nel portamento della testa. E tuttavia la sua faccia era del tutto differente e i suoi capelli biondi, color del miele, dalle morbide ondulazioni, completamente diversi da quanti altri mai gli fosse capitato di vedere. A rigore non la si poteva dire bella; i suoi lineamenti rivelavano un'eccessiva individualità, il taglio della mandibola troppa forza, e i suoi occhi una freddezza che sfidava ogni convenzione. Ogni con-
formismo. Doveva trattarsi di Oonagh McIvor. «Signor Monk.» Era la constatazione di un fatto, non una domanda. Non appena Monk udì la sua voce, con quel timbro così limpido e squillante, si rese conto che una donna del genere sarebbe stata capace di affrontare e risolvere qualsiasi situazione salvo, forse, le più disperate. «McTeer mi informa che siete arrivato da Londra per motivi di affari e desiderate la mia collaborazione. Ha capito bene quello che gli avete detto?» «Sì, signora McIvor.» Dalla descrizione di Hester non ebbe dubbi sulla sua identità, non ebbe nemmeno bisogno di domandarglielo. E nemmeno si accorse di provare il minimo imbarazzo a mentire. «Mi sto occupando dell'imputazione alla signorina Latterly per ciò che riguarda la morte della vostra defunta madre, e sono stato incaricato di prendere in esame i fatti, non solo quelli noti, ma anche quelli che potrebbero essere scoperti successivamente, in modo che non sussistano errori, malintesi o sorprese spiacevoli, quando la causa verrà portata in giudizio. Il verdetto sarà definitivo. Dobbiamo assicurarci che sia quello giusto.» «Davvero?» Le sue sopracciglia chiare si sollevarono impercettibilmente. «Quanta accuratezza... è incredibile! Non avevo assolutamente l'idea che la pubblica accusa in Inghilterra... se non sbaglio c'è qualche differenza tra il Pubblico Ministero e il Procuratore Fiscale che abbiamo noi... fosse tanto diligente.» «Si tratta di un caso importante.» Incrociò i suoi occhi senza il minimo disagio, senza cercare di evitarli e senza nemmeno tentare di comportarsi come la buona educazione richiedeva. D'istinto intuiva che Oonagh McIvor avrebbe disprezzato la deferenza rispettando invece la forza, fintanto che lui non si fosse azzardato a fare lo spaccone o le avesse lasciato sospettare qualcosa del genere; fintanto che non si fosse lasciato sfuggire una vana minaccia, esplicita o sottintesa. Si erano conosciuti solo da pochi minuti eppure era già la cautela quella che rivelavano l'uno nei confronti dell'altro e un'abilità di misurare non solo l'intelligenza ma anche la fermezza dell'interlocutore che, questo fu il giudizio di Monk, non era del tutto disinteressata da parte di lei. «Mi fa piacere vedervi mostrare tanta sensibilità di fronte a tutto questo.» Concesse alle proprie labbra di accennare un sorriso. «Naturalmente la famiglia vi offrirà tutta l'assistenza possibile. Il mio fratello maggiore è Procuratore Fiscale qui, a Edimburgo. Quindi non ci è ignoto il fatto che perfino nei casi in cui la colpevolezza sembra assolutamente scontata, la pubblica accusa può fallire nell'intento di ottenere una condanna se le per-
sone incaricate non dedicano ogni cura alla preparazione delle prove. Presumo che abbiate una lettera a tale effetto?» La domanda era formulata con cortesia, ma si capiva che una risposta evasiva non sarebbe stata gradita. «Naturalmente.» Monk tirò fuori un documento falso, anche se assolutamente convincente, che si era preparato servendosi della carta da lettere con l'intestazione della polizia, ancora in suo possesso. Che l'indirizzo fosse quello del commissariato sbagliato, non aveva troppa importanza; Monk confidava nel fatto che lei non potesse conoscerlo. «Il mio compito risulta notevolmente più facile visto che comprendete con tanta prontezza la necessità di essere ben sicuri di ogni dettaglio» riprese mentre lei esaminava la lettera. «Confesso che non credevo che sarei stato tanto fortunato da trovare tutta questa...» esitò, perché voleva che lei pensasse che la frase si sarebbe conclusa con la parola "delicatezza", mentre in realtà stava cercando la parola più adatta che non risuonasse come lusinghiera. La giudicava una donna capace di provare disprezzo per adulazioni tanto smaccate anche se non era del tutto sicuro che sarebbe stata tanto franca e schietta da farglielo capire salvo, forse, solamente con un'occhiata gelida, un improvviso spegnersi di ogni interesse nei suoi occhi. «...capacità di accettare la realtà dei fatti» concluse. Stavolta il sorriso di Oonagh si fece più accentuato, e sulla sua faccia si disegnò un'espressione chiaramente più accattivante mentre qualcosa di simile a un lampo di curiosità le illuminava gli occhi intanto che lo considerava con maggior attenzione. «Sono addolorata, naturalmente, signor Monk, ma il dolore non ha offuscato le mie capacità intellettive al punto da togliermi la lucidità mentale necessaria per capire che il mondo deve andare avanti e queste faccende devono essere svolte secondo la legge e le procedure più corrette. Prego, ditemi esattamente in quale modo possiamo esservi di aiuto. Suppongo che vorrete interrogare qualcuno, in modo specifico i domestici che svolgono il loro servizio ai piani superiori della casa, vero?» «Sì, questo sarebbe necessario» ammise Monk. «Ma i domestici possono spaventarsi molto facilmente di fronte a tragedie come queste e, in conseguenza, le loro versioni dell'accaduto a volte possono essere differenti. Mi sarebbe di estrema utilità parlare anche con tutti i membri della famiglia, e magari rimandare l'interrogatorio dei domestici a un'epoca successiva quando il turbamento iniziale sarà a poco a poco scomparso. Non vorrei dare l'impressione che li sospetto di qualche cosa.» Stavolta il sorriso di lei fu divertito, anche se venato di amarezza. «Dav-
vero, signor Monk? Non so fino a che punto siate convinto della colpevolezza della signorina Latterly, però credo che vi sarà pur passato per il cervello il sospetto che, almeno per quel che riguarda la cameriera personale di mia madre, si potrebbe logicamente pensare che sia stata lei a rubare la spilla?» «Naturale che mi è passato per il cervello, signora McIvor.» Monk ricambiò il suo sorriso continuando a fissarla negli occhi. «Ma non si possono escludere anche altre risposte, e di un genere completamente diverso sia pur lasciando sbrigliare la fantasia, anche se mi sembrano abbastanza improbabili. La difesa, perché senza dubbio ce ne sarà una, dal momento che non può dimostrare l'innocenza della signorina Latterly, farà ogni tentativo per provare la colpevolezza di qualcun altro. Oppure, dovessero proprio trovarsi con le spalle al muro, i suoi avvocati difensori cercheranno di dimostrare che l'assassino è tutt'altra persona che ne ha avuto il movente, i mezzi o l'opportunità. È proprio questo che sono venuto a impedire.» «In tal caso, sarà meglio cominciare con piani ben precisi da parte nostra» riprese lei con voce decisa. «Immagino che vorrete trovarvi un alloggio, se siete appena arrivato a Edimburgo, e magari riposare un poco dopo il viaggio, se avete passato tutta la notte in treno. Quindi non penso che vi dispiacerebbe venire da noi a cena stasera quando potrete incontrare anche il resto della famiglia?» Era un invito fatto formalmente, e per un motivo di affari più che valido; eppure rivelava un interesse che sembrava più attento e inquisitore, anche se abilmente dissimulato. «Sarebbe una soluzione eccellente, vi ringrazio, signora McIvor» accettò Monk. Non doveva lasciarsi trascinare troppo dall'entusiasmo; era appena agli inizi e, fino a quel momento, non aveva imparato assolutamente nulla; ma se non altro il primo ostacolo era stato superato con una facilità sorprendente. «Vi ringrazio.» «Allora ci vediamo alle sette» disse lei, salutandolo con un leggero cenno del capo. «McTeer vi accompagnerà alla porta, e se pensate che possa darvi qualche informazione utile, vi prego, consideratevi pure libero di domandargliene. Buon giorno, signor Monk.» «Buon giorno, signora McIvor.» Monk aveva chiesto a McTeer un consiglio per la questione dell' alloggio e la risposta datagli con voce cupa, e visibilmente di malavoglia, lo aveva infastidito tanto trasudava degnazione. McTeer gli aveva suggerito una serie di locande e di pensioni che si trovavano tutte nel quartiere più
antico della città. Quando Monk gli aveva domandato se non ci fosse niente di più vicino ad Ainslie Place, era stato informato con sussiego dal maggiordomo che Ainslie Place non era una zona in cui esistessero strutture del genere. Così alle dieci Monk si ritrovò in una strada fiancheggiata da case alte e strette, conosciuta sotto il nome di Grassmarket, la valigia penzoloni da una mano, di pessimo umore. Si stava accorgendo a ogni momento che passava di trovarsi in una città sconosciuta. Suoni e odori erano diversi da quelli di Londra. L'aria era più fredda, ma non era intrisa di fuliggine e dell'odore di fumo dei comignoli anche se i caseggiati erano chiazzati da abbondanti macchie d'umido e perfino dalle grondaie sgocciolava acqua sudicia. L'acciottolato delle strade sembrava molto simile a quello di Londra ma gli stretti marciapiedi ai lati erano rialzati soltanto di poco rispetto al centro della via, dove passava il traffico, e anche i rigagnoli lungo i marciapiedi erano poco profondi. D'altra parte la strada in sé e per sé era talmente ripida che bastava la sua pendenza a far asciugare il lastricato. Camminava lentamente, guardandosi intorno, interessato a dispetto di se stesso. Gli edifici erano in massima parte in pietra, e questo dava subito un senso di dignità e di solidità, quasi tutti alti quattro o cinque o sei piani oltre i quali si disegnava contro il cielo la linea irregolare e disordinata dei tetti curiosamente inclinati, e nei tetti si aprivano le finestre degli abbaini oppure la loro linea veniva spezzata da bei frontoni incorniciati da modanature, tanto che davano l'impressione che le tegole d'ardesia fossero inframmezzate da rampe di scalini. Su un frontone notò una croce in ferro e, allungando il collo e ripiegando la testa all'indietro per osservare meglio, ne notò un'altra e un'altra ancora. Non si trattava senz'altro di una chiesa, e nemmeno gli parve che potesse essere un edificio religioso di qualche altro genere. Qualcuno gli finì addosso, urtandolo violentemente; soltanto allora si rese conto trasalendo di non essersi fermato, ma di aver continuato a camminare mentre alzava la testa per guardare in alto e che, in questo modo, creava un intralcio agli altri passanti. «Scusate» disse in tono perentorio. «Già, fareste meglio a guardare dove andate e a non camminare con la testa in aria a quel modo... Così rischiate di scaraventare qualche poveraccio nel rigagnolo» fu la risposta pronunciata con una voce dal forte accento scozzese anche se una cadenza talmente netta e precisa che le parole erano ugualmente comprensibili senza sforzo. «Avete perduto la strada?» L'uo-
mo esitò, perché aveva capito di trovarsi di fronte a un forestiero e quindi di dovergli perdonare l'errore commesso. Comunque i forestieri erano tutti mezzi stupidi, e nessuno poteva aspettarsi che si comportassero in modo normale. «Qui siamo a Templelands, nel centro di Grassmarket.» «Templelands?» Monk domandò subito. «Già. Ma lo sapete, almeno, dove state andando?» Adesso pareva disposto a essergli di aiuto, come dev'essere ogni brava persona con le persone inette, che non sanno cavarsela da sole. Monk fu costretto a reprimere un sorriso. «Stavo cercando un alloggio.» «Oh, davvero? Be', troverete una bella stanza pulita da William Forster, un po' più avanti, al numero 20; e poi c'è anche McEwan, il fornaio, nella casa accanto. Oste e stalliere, è il nostro Willie. Lo vedrete scritto sul muro. Non può scapparvi, se avete gli occhi nella testa.» «Grazie. Vi sono obbligato.» «Figuratevi.» Poi fece il gesto di proseguire. «Perché Templelands?» Monk si affrettò a domandargli. «Qual era il tempio che c'era qui una volta?» La faccia dello sconosciuto rivelò un blando e divertito disprezzo. «Nessun tempio da queste parti. I terreni appartenevano ai Templari, molto molto tempo fa. All'epoca delle crociate, e così via, capite?» «Oh.» Monk rimase sorpreso. Non aveva mai pensato che Edimburgo fosse tanto antica e nemmeno che i Templari si fossero spinti tanto a nord. Si risovvenne confusamente di vaghi ricordi storici, di nomi come quello di Maria regina di Scozia, e della Antica Alleanza con la Francia, e dei re Stuart, e delle battaglie sulle brughiere oltre Culloden, e Bannockburn, e dei massacri sui pendii coperti di neve di Glencoe, di assassini segreti come quello di Duncan, oppure di Rizzio o addirittura di Darnley proprio lì, in Edimburgo stessa. Un groviglio confuso di storia e di impressioni che ricordava solo vagamente, ma faceva parte della sua eredità di uomo del nord e rendeva quelle strade con le loro case torreggianti, più familiari. «Grazie» soggiunse ma l'uomo si era già allontanato, dopo aver compiuto il suo dovere. Monk attraversò la strada e continuò a procedere fino a quando non vide le parole WM. Forster, stalliere & locandiere scritte sulla facciata di un'imponente costruzione, tra il primo e il secondo piano, e il nome "McEwan - Fornaio" a un'estremità. Si trattava di un edificio composto del pianterreno e tre piani; il pianterreno e il primo di essi erano in massicci blocchi squadrati di pietra e le finestre, ampie, lasciavano pensare a camere
grandi e spaziose. Da parecchi dei grossi comignoli che si alzavano lungo la costa del tetto si levava un po' di fumo, e questo era un segno di buon augurio. Poiché non aveva un cavallo, pensò fosse inutile oltrepassare l'arcata che dava l'accesso al cortile, ma bussò pochi e rapidi colpi alla porta principale. Questa gli venne aperta quasi subito da un donnone indaffarato ad asciugarsi le mani nel grembiule. «Sì?» «Sto cercando un alloggio» Monk replicò. «Possibilmente per una settimana o due. Avete una camera?» Lei gli lanciò una rapida occhiata, per farsi un giudizio su di lui, come era logico aspettarsi da chi faceva l'affittacamere. «Sì, ce l'ho.» Evidentemente Monk aveva ricevuto la sua approvazione. Se avesse avuto altri indumenti in valigia della stessa qualità di quelli che portava addosso, essi da soli sarebbero bastati a pagargli la pensione per un mese intero e anche più. «Venite dentro e ve la mostro.» Si tirò indietro per farlo passare e lui la seguì confortato. L'interno era stretto e poco illuminato, ma aveva un buon odore di pulito e l'aria era calda e asciutta. Qualcuno stava cantando dalla cucina, più in fondo, con voce squillante, di tanto in tanto perfino un po' aspra, ma era un suono gioviale e sereno, e Monk lo giudicò di buon augurio, di buona accoglienza. La donna lo precedette su per tre rampe di scale, sbuffando e respirando rumorosamente oltre ad arrestarsi a ogni pianerottolo per riprendere fiato. «Eccoci qua» disse fra un ansito e l'altro quando ebbero raggiunto l'ultimo piano e poté spalancare la porta della camera che Monk avrebbe occupato. Era pulita e ariosa; dalle finestre si guardava su Grassmarket e i tetti delle case di fronte. «Sì» fece lui senza esitare. «Questa andrà benissimo.» «Venite su dall'Inghilterra?» Domandò lei tanto per dire qualcosa. A giudicare dal tono in cui aveva parlato si sarebbe pensato che si trattasse di un paese forestiero; e in fondo, a rigor di termini, lo era. «Sì.» Ecco un'occasione che Monk non avrebbe dovuto sprecare. E in ogni caso, non aveva tempo da perdere. «Sì, sono consulente legale.» Una specie di eufemismo, quello, se vogliamo, ma consigliabile; era sempre meglio che lasciar pensare di far parte della Polizia. «Stiamo preparandoci per un processo che riguarda la morte della signora Farraline, che abitava su, ad Ainslie Place.» «È morta?» La donna esclamò stupita. «E com'è successo? D'altra parte,
era già avanti negli anni, dunque non c'è poi da meravigliarsi tanto. Cosa stanno facendo, litigano sul testamento?» La sua faccia rivelava un certo interesse e bastò quell'insinuazione per rendere subito Monk più attento. «Be', a dir la verità si tratta di qualcosa di cui non dovrei parlare, signora Forster...» aveva rischiato, presumendo che lei fosse la moglie del padrone della locanda, e non venne contraddetto. «A ogni modo credo che non ci sarà proprio bisogno che sia io a raccontarle tutto, vero?» Il sorriso della donna si accentuò, significativo. «I soldi non sono sempre una benedizione del cielo, signor...» «Monk, William Monk» si affrettò a soggiungere lui. «Allora c'è di mezzo un mucchio di soldi?» «Be', toccherebbe a voi saperlo, no?» I suoi occhi erano vivaci, color nocciola, pieni di divertimento. «Non ancora» tergiversò lui. «Anch'io mi sono fatto le mie idee in proposito... naturalmente.» «Come è logico» lei assentì. «E tutta quella grossa tipografia che hanno aperto intorno al milleottocento venti, e che diventa sempre più grossa, e quella bella casa su, nella parte nuova della città. Oh, lì c'è proprio un bel mucchio di soldi, signor Monk. E secondo me, non c'è da meravigliarsi se si accapigliano. E la vecchia signora era ancora proprietaria di una buona parte, o almeno così ho sentito dire, anche se il colonnello Farraline ormai è già morto da otto o dieci anni.» Monk fece qualche rapida riflessione e poi decise di rischiare. «La signora Farraline è stata assassinata, lo sapevate? È questo il caso di cui mi sto occupando.» Lei rimase strabiliata. «Ma cosa mi dite! Assassinata? Be', giuro che non lo avrei pensato mai e poi mai... povera vecchia. E adesso ditemi un po' chi può aver fatto una cosa del genere, in nome di Dio?» «Be', si sospetta che sia stata l'infermiera che l'ha accompagnata in treno durante il viaggio fin giù a Londra...» si detestò per essere costretto a dirlo, sia pura indirettamente, e senza fare il nome di Hester. Ma era quasi come ammettere che un'idea del genere fosse possibile. «Oh. Che brutta cosa! E per che motivo, poi?» «Una spilla» rispose lui a denti stretti. «Che lei ha restituito e prima ancora che qualcuno si fosse accorto della sua mancanza. L'ha trovata nella sua valigia; dovrebbe esserci finita per caso, o almeno così lei ha detto.» «Oh, ma sul serio?» La signora Forster alzò le sopracciglia non nascon-
dendo un certo scetticismo. «E che cosa avrebbe potuto farsene una donna di quel genere di una spilla come quella che la signora Farraline era abituata a portare? Lo sappiamo tutti di che razza sono le infermiere. Ubriacone, sporche e, per la maggior parte, della peggior risma possibile. Che cosa tremenda. Povera creatura.» Monk si accorse di essere arrossito e strinse le mascelle come se volesse triturare le parole fra i denti. «Era una delle giovani che sono andate ad assistere i nostri soldati in Crimea... agli ordini della signorina Nightingale.» La sua voce adesso era graffiante e priva totalmente di quel controllo che aveva giurato a se stesso di non perdere. La signora Forster parve imbarazzata. Guardò Monk con gli occhi sgranati, frugandogli in faccia, nel tentativo di capire se avesse parlato sul serio, se avesse detto la verità. Fu sufficiente una sola occhiata per averne la conferma. «Be', mai e poi mai io...» ripeté. Respirò a fondo, con gli occhi sempre fuori dalle orbite. «Forse potrebbe non esser stata lei. Avete pensato anche questo?» «Sì» rispose Monk con un sorriso amaro. «L'ho pensato.» Lei tacque, ma continuò a fissarlo con tanto d'occhi, in attesa. «Questo vorrebbe dire che è stato qualcun altro» riprese Monk, completando il suo pensiero. «E sarebbe molto interessante scoprire di chi si tratta.» «Di sicuro» confermò la donna, e si strinse nelle spalle massicce. «Giuro che non vi invidio l'incarico che vi siete preso. Sono una famiglia potente, i Farraline. Lui è il Fiscale, lo sapevate?» «Già, e cosa mi raccontate degli altri?» Era facile, oltre che naturale, domandarlo; e l'opinione della donna poteva servirgli a mettere insieme qualche altra notizia. «Oh, be', non so molto all'infuori di quello che si sente raccontare in giro. Ma adesso è McIvor a dirigere l'azienda, cioè il marito della signorina Oonagh; non è scozzese, viene da non so quale posto del sud dell'Inghilterra. Pare che sia abbastanza capace. E tutto sommato, non c'è niente da dire contro di lui.» «Salvo che è inglese?» «Già, proprio questo. Ma immagino che lui non ci possa fare niente, vero? E poi c'è il signor Fyffe. Ho sentito dire che viene da Stirling. O magari da Dundee, a ogni modo si tratta di un posto un po' più a nord di qui. Un uomo intelligente, così dicono, molto intelligente.» «Ma non granché simpatico.» Fu Monk ad affermarlo per lei.
«Oh, ecco...» si capiva che non ci teneva a dirlo chiaro e tondo, ma bastava guardarla in faccia per accorgersi che era d'accordo. «È il marito della signorina Eilish» insinuò Monk. «Già. Oh, lei sì che è una gran bellezza, almeno a quel che ho sentito dire. Però io non l'ho mai vista con questi occhi, mi capite? Ma dicono che è la creatura più bella che abbia mai messo piede a Edimburgo.» «C'è qualcos'altro?» «Come?» «C'è qualcos'altro che dicono sul suo conto?» «Figuriamoci, no. Niente. Perché, non è abbastanza?» Lui sorrise a dispetto di se stesso. E immaginò quali sarebbero stati i commenti di Hester di fronte a una descrizione simile. «Che tipo di persona è, quali sono le sue ambizioni, le sue idee?» «Oh, di questo, non ho mai sentito niente, figuriamoci!» «E sulla signora Farraline, invece?» «Una vera gentildonna, è voce comune. Lo è sempre stata, e bella anche, fin da molti anni fa. Il colonnello Farraline era un gentiluomo, generoso con il suo denaro, e lei ne seguiva l'esempio. Hanno sempre dato alla città. Il povero maggiore Farraline, invece, lui sarebbe il fratello minore, be', è tutt'altro genere. Beve come una spugna, proprio così. Sobrio, non lo è quasi mai. Che vergogna, quella, quando un signore con tutte le sue opportunità si riduce ad attaccarsi alla bottiglia.» «Sì, è proprio una vergogna. Ma sapete perché? C'è stata qualche tragedia nella sua vita?» Lei arricciò le labbra. «A quanto ho sentito dire, no. Ma cosa volete che ne sappia io? Suppongo che sia soltanto un debole. Il mondo ne è pieno! Cercano la risposta a tutti i problemi della vita nel fondo di una bottiglia. Ci sarebbe da pensare che dopo averne scolate una ventina o giù di lì debbano aver capito, ormai, che non è quella la soluzione... invece no!» «E a proposito dell'ultimo figlio, Kenneth?» Monk domandò, poiché pareva che lei avesse ormai esaurito l'argomento della ubriachezza di Hector. La donna si strinse di nuovo nelle spalle. «Semplicemente un bel signorino con più soldi e tempo, a disposizione, che buon senso. Ma mi aspetto che, col tempo, tutto questo passerà. Diventerà più maturo. Peccato che sua madre non sia più qui a vedere il cambiamento anche se credo che invece lo potrà notare il Fiscale. Non penso proprio che abbia voglia di vedergli commettere qualche stupidaggine e rovinare il buon nome della famiglia. O fare un matrimonio sbagliato. Non sarebbe il primo bel damerino
a combinare una cosa del genere.» «Ma non lavora anche lui nell'azienda di famiglia?» Monk domandò. «Oh, sì, almeno così ho sentito. Non so bene cosa faccia ma sono sicura che sarà abbastanza facile scoprirlo.» Una strana espressione le illuminò gli occhi, di curiosità, di incredulità mista all'affiorare di una strana eccitazione. «Secondo voi è stato uno di loro ad ammazzare la mamma?» Poi la cautela ebbe di nuovo la meglio. «No, mai! Sono tutte persone molto rispettate, signor Monk. Persone tenute nella massima considerazione. Hanno una parte importante negli affari cittadini, come il signor Alastair, per esempio. Ha un sacco di rapporti con il governo, oltre a essere il Fiscale, Alastair!» «Già, non credo che sia probabile» ribatté Monk in tono saggio. «Ma potrebbe anche essere stata una cameriera. Non si può escluderlo, e io devo controllare tutto ben bene.» «Naturale!» confermò lei, riaggiustandosi il grembiule e facendo la mossa di avviarsi alla porta. «Bene, allora sarà meglio che vi lasci a occuparvi dei fatti vostri.» Raggiunta la porta si voltò un'ultima volta. «Così sarete qui per una settimana o due, ho capito bene?» «Precisamente» confermò Monk con l'ombra di un sorriso. «Vi ringrazio, signora Forster.» Non appena ebbe vuotato la valigia tirando fuori i pochi indumenti che aveva portato con sé, compilò un succinto messaggio per Rathbone, informandolo che era alloggiato al N. 20 di Grassmarket, Edimburgo, e dopo un rapido pranzo nella locanda, andò a impostare la lettera prima di riprendere il cammino in direzione della parte nuova della città e di Ainslie Place. Il pub locale sarebbe stato un ottimo posto dove fare qualche indagine sulla famiglia. Era molto probabile che il domestico o qualcuno degli staffieri vi andassero abitualmente a bere un bicchiere. Avrebbe dovuto cercare di essere il più discreto possibile, ma non aveva difficoltà: in fondo era un elemento essenziale della sua professione. Ma la giornata era ancora agli inizi, e per l'ora di cena avrebbe dovuto trovarsi a casa Farraline. Di conseguenza non gli restava che occupare il pomeriggio cercando di venir a sapere quali dei bottegai locali avessero rapporti con la famiglia che abitava al N. 17; poi l'indomani e il giorno successivo si sarebbe messo a dare la caccia ai garzoni che consegnavano la merce i quali a loro volta avrebbero potuto fornirgli informazioni su cameriere, lustrascarpe e ragazzini tuttofare, in modo da scoprire qualcosa
di più sulla vita quotidiana in casa Farraline. E, logicamente, ci sarebbero anche state le solite indagini di routine a partire da un interrogatorio del medico di Mary Farraline che aveva prescritto la famosa medicina per cercare anche di sapere qual era la dose esatta che le veniva somministrata normalmente, per passare poi al farmacista che aveva preparato la medicina seguendo la ricetta, già calcolando di esercitare qualche pressione su di lui per fargli ammettere la possibilità di aver commesso un errore. Anche se c'era da aspettarsi che avrebbe respinto un'accusa del genere. E infine avrebbe intrapreso un'indagine presso tutti gli altri farmacisti di Edimburgo per provare come Hester non avesse acquistato la digitale presso di loro; e c'era sempre la remota speranza che potessero invece identificare, in questo eventuale cliente, uno dei membri della famiglia Farraline. Ritornò ad Ainslie Place vestito con eleganza impeccabile, alle sette precise, come gli era stato indicato. Venne ricevuto da McTeer, dall'aspetto sempre molto lugubre, ma stavolta inequivocabilmente educato e cortese, e fatto passare nel salone dove la famiglia, già radunata, stava aspettando l'annuncio che il pranzo era servito. Si trattava di una stanza ampia e arredata lussuosamente, ma non ebbe neanche un attimo di tempo da dedicare a farne un esame più approfondito. Tutta la sua attenzione venne immediatamente assorbita dalle persone che si erano voltate a guardarlo, tutte insieme, mentre vi veniva introdotto. Un uomo con un carattere meno forte e meno sicuro di sé lo avrebbe trovato fastidioso e ne sarebbe rimasto innervosito. Monk era troppo preoccupato e corrucciato per cedere a simili presentimenti. Pertanto li affrontò a testa alta e con espressione ferma. La prima a farsi avanti fu Oonagh. Era vestita di nero, naturalmente, come tutti gli altri. L'usanza richiedeva il lutto un anno, come minimo, per un parente stretto, come la madre. Ma il suo abito aveva un taglio squisito e una linea che seguiva prudentemente la moda, la crinolina che le gonfiava la gonna non era esagerata, e il riverbero della lampada dava un bagliore caldo ai suoi capelli chiari lasciando quasi pensare che avesse scelto quel colore, o piuttosto la mancanza di esso, non tanto per un preciso dovere quanto per l'effetto che ne risultava. «Buona sera, signor Monk» disse garbatamente. Non sorrise, eppure c'era un calore nei suoi occhi e nella sua voce che gli diede l'impressione di essere accolto meglio di quanto avrebbe potuto aspettarsi, date le circostanze. «Buona sera, signora McIvor» rispose lui. «È molto gentile da parte vo-
stra mostrare tutta questa cortesia nei miei confronti. Avete trasformato un dovere in un'esperienza che non dimenticherò.» Lei ricevette il complimento come andava giustamente inteso, cioè come se fosse appena poco di più di una pura e semplice risposta di cortesia; poi si voltò a indicare l'uomo che si trovava in piedi presso la mensola del camino, il posto più caldo e più accogliente della stanza. Era di statura leggermente superiore alla media e di corporatura snella anche se cominciava ad appesantirsi un po' sui fianchi. I suoi capelli erano biondi come quelli di Oonagh ma fittamente ondulati e già radi sulla fronte. Aveva il naso aquilino, i lineamenti netti ed eleganti, di una bellezza tutt'altro che ordinaria e, comunque, piena di distinzione. «Questo è il mio fratello maggiore, Alastair Farraline, il Procuratore Fiscale» disse lei, presentandoli. Poi, volgendosi verso Alastair, soggiunse: «Come ti dicevo poco fa, il signor Monk è venuto da Londra per assicurarsi che al processo non saltino fuori sorprese sgradevoli nel caso avessimo dato per vero, o scontato, qualcosa che non lo era.» Alastair esaminò Monk con occhi freddi, azzurrissimi. La sua espressione non mutò salvo nella curva delle labbra carnose che si indurirono lievemente. «Piacere di conoscervi, signor Monk, rispose.» Benvenuto a Edimburgo. Personalmente, non riesco a capire la necessità del vostro viaggio. Mi sembra frutto di eccessive cautele. Ma sono lieto che il Pubblico Ministero, e l'avvocato per l'accusa a Londra, considerino la questione di importanza tale da mandare qualcuno qui da noi ad avere conferma di determinate cose. Non ho idea di ciò che può preoccuparli. Non esiste alcuna possibilità di difesa. Monk ringoiò rapidamente la risposta che gli era salita alle labbra. Mai, nemmeno per un attimo, doveva dimenticare il motivo per cui si trovava lì. Soltanto la verità era importante, e bisognava scoprirla a qualsiasi costo. «Anch'io non vedo come sia possibile» confermò, e la sua voce si levò inaspettatamente aspra. «Devo supporre che siano ridotti praticamente alla disperazione pensando alla prospettiva di dover affrontare una giuria.» Alastair ebbe un pallido sorriso. Il fremito, che gli passò sulla faccia, lasciò capire come non gli fosse sfuggito quel tanto di mordace che aveva il tono di Monk e come lo avesse preso per indignazione inorridita di fronte al delitto. Non doveva mai sospettare che non era rivolta contro Hester, ma in suo favore. «Immagino che sarà una semplice formalità» disse con aria tetra. «Quel tanto sufficiente a soddisfare la legge e a dimostrare che, legalmente, lei è
stata difesa.» Oonagh si voltò verso un uomo con i capelli scuri che si teneva un po' discosto dagli altri, e un po' arretrato rispetto al gruppo. I suoi lineamenti erano del tutto differenti, perfino la forma stessa della sua testa meno angolosa e più larga. Poteva far parte della famiglia soltanto perché vi era entrato in seguito a un matrimonio. La sua espressione era assorta, meditabonda; il suo viso rivelava sentimenti ed emozioni repressi. «Mio marito, Baird McIvor» Oonagh disse con un sorriso incantevole, sempre fissando Monk. «Dirige l'azienda di famiglia dall'epoca della morte di mio padre. Forse, questo, lo sapevate già?» Era solo una domanda retorica per ricordare a tutti i presenti lo scopo della visita di Monk. «Piacere, signor McIvor» Monk rispose. «Piacere» Baird replicò. La sua voce era netta, un poco sibilante, e la dizione perfetta, eppure Monk vi colse immediatamente una leggera cadenza che lo rivelava originario di qualche altra regione dell'Inghilterra, e dopo un attimo si rese conto che si trattava di quella dello Yorkshire. Quindi Baird McIvor non solo era inglese ma proveniva anche da quella che tutti consideravano la più selvaggia e la più fiera delle contee, quasi una piccola nazione a sé stante. Hester, questo, non glielo aveva menzionato. Forse al suo orecchio quella intonazione e quella cadenza regionale erano sfuggite. Come alla maggior parte delle donne, a lei interessavano di più i rapporti umani. Poi Oonagh si voltò verso un uomo che toccava appena l'altezza media, con la faccia magra e affilata come la sua, ma con i capelli molto più chiari che gli circondavano la testa quasi in una specie di aureola di riccioli fitti fitti. A una prima occhiata poteva assomigliare ai Farraline ma poi le diversità erano facili da cogliere, la bocca meno larga e tumida, con le labbra dal disegno netto, ben cesellato, e un naso dritto come un righello. E poi c'era anche qualcosa di differente nel suo modo di fare, una sicurezza di sé che era solo frutto dell'intelletto, e non dello stato sociale o del potere. Curioso come cose tanto impercettibili, l'inclinazione della testa, la ruga fra le sopracciglia, un'incertezza, la sensazione di dover stare in guardia di fronte a una potenziale minaccia, potessero rivelare le origini di un uomo ancora prima di sentirlo parlare. «Questo è mio cognato, Quinlan Fyffe,» Oonagh gli disse, guardandolo e poi riportando gli occhi su Monk. «È un mago per ciò che riguarda la stampa, fortunatamente per noi, ed è molto brillante nelle trattative di affari di ogni genere.» Non usò quella lieve condiscendenza che una gentil-
donna inglese avrebbe manifestato verso chi si occupava di attività commerciali, anzi ne parlò con ammirazione. D'altra parte i Farraline non appartenevano alla nobiltà; si erano fatti da soli e presumibilmente ne erano anche orgogliosi. Il padre di Oonagh aveva fondato l'azienda ma non ne era stato soltanto il padrone bensì anche il titolare. Così a Oonagh mancavano completamente le false vanità di chi vive nell'ozio e il senso di superiorità di chi può permettersi di fare a meno di lavorare. «Piacere, signor Fyffe» Monk disse. «E mia sorella Eilish, la moglie di Quinlan» Oonagh continuò, sorridendo dolcemente a una donna più giovane di lei, e poi riportando gli occhi su Quinlan e sfiorandogli il braccio con la mano. Era uno strano gesto, pieno di familiarità, come se in un certo senso gli concedesse di nuovo in sposa la propria sorella o forse avesse l'intenzione di ricordargli quel fatto. Dopo tutto quanto la signora Forster aveva detto, Monk considerò Eilish con interesse, preparandosi a una delusione. Gli bastò un'occhiata perché tutta l'indifferenza di poco prima venisse dimenticata. La sua bellezza non era soltanto fatta di lineamenti perfetti, era una luminosità, qualcosa di radioso, che colpiva la fantasia, un garbo e una grazia che facevano riaffiorare alla memoria sogni quasi dimenticati. Guardandola, Monk non riuscì nemmeno capire se gli piacesse; la sua bellezza aveva qualcosa che lo turbava, perché rivelava anche la sicurezza di sé e mancava di quella vulnerabilità che, di solito, lo colpiva in modo particolare nella bellezza femminile. In genere, non gli dispiaceva qualche piccola imperfezione; faceva sembrare una donna fragile, accessibile. Nel caso di Eilish Farraline, non poteva passar sopra alla forza della sua personalità. Quando si era vista una volta, non si poteva più dimenticarla. Lei lo scrutò con scarsissima curiosità, come se non riuscisse a concentrare totalmente su di lui la sua attenzione. Gli balenò che forse Eilish era troppo assorbita da se stessa per dedicare i propri pensieri a qualcun altro. Nel preciso momento nel quale le presentazioni si conclusero, vennero interrotti dall'entrata di quella che era, almeno di nome, la padrona di casa. Deirdra Farraline era piccola, bruna, e irradiava una tale vitalità da rendere privo di interesse l'abito nero, piuttosto trasandato, che indossava, e la sua mancanza completa di gioielli come una dimenticanza del tutto trascurabile. Non possedeva neanche un po' della straordinaria bellezza della cognata, eppure il suo viso piacque a Monk fin dal primo momento. C'era calore umano in lei, e umorismo, al punto da convincersi persino di poter scoprire in una donna del suo stampo ancora altre qualità da apprezzare, se avesse
potuto conoscerla un poco più profondamente. «Buona sera, signor Monk» disse lei non appena gli fu presentata. «Mi auguro che potremmo esservi di qualche aiuto.» Gli sorrise, ma il suo sguardo si allungò immediatamente più oltre, come se avesse in mente qualcos'altro. «Qualcuno ha visto Kenneth? Insomma, è troppo scorretto da parte sua!» «Non aspettare!» fece Alastair, acido. «Può raggiungerci quando arriva, altrimenti salterà la cena. Il suo modo di comportarsi in questi giorni è assolutamente avventato, irriflessivo. Dovrò parlargliene.» La sua faccia si indurì. «Ci sarebbe da pensare che, date le circostanze, riuscisse a mostrare un minimo di lealtà alla famiglia. Ormai è venuto il momento di scoprire chi sia questa persona che sta corteggiando, e se si tratta di una donna a modo.» «Non devi crucciarti per questo adesso, mio caro» Oonagh disse con voce quieta. «Hai già fin troppe cose di cui occuparti. Penserò io a parlare con Kenneth. Credo che preferisca evitare di portarla qui in casa proprio in questo momento.» Lui la guardò, illuminandosi tutto di sollievo, poi sorrise. E quel sorriso alterò totalmente la sua espressione. Con un pizzico di fantasia Monk non ebbe difficoltà a immaginare come doveva essere stato da giovane e intuì qualcosa dell'intimità che doveva esistere fra fratello e sorella. Poi rivolse uno sguardo a Oonagh, chiedendosi se, in realtà, fosse lei la maggiore dei due malgrado le apparenze che facevano pensare al contrario. «Molto bene» Deirdra si affrettò a intervenire. «McTeer mi ha avvertito che la cena è pronta. Vogliamo passare in sala da pranzo, signor Monk?» «Grazie» lui accettò, ringalluzzito al pensiero che Deirdra avesse chiesto proprio a lui di farle da cavaliere. Il pasto fu gustoso anche se non particolarmente ricco, e Alastair lo presiedette accomodandosi a capo del lungo tavolo in quercia da refettorio con aria grave, come l'occasione richiedeva, ma con cortesia perfettamente adeguata. Kenneth non si fece vedere né Monk vide segno di Hector Farraline, che Hester gli aveva descritto. Forse era troppo in preda ai fumi dell'alcol per partecipare alla cena. «Può darsi che mi sia sfuggito qualcosa della spiegazione» Quinlan cominciò non appena la zuppa venne portata via e servito il manzo. «Ma cosa siete esattamente venuto a fare a Edimburgo, signor Monk? Noi non sappiamo niente di quella disgraziata donna, salvo quanto ci ha raccontato lei stessa. E probabilmente si trattava soltanto di un mucchio di fandonie.»
Un lampo di collera si delineò sulla faccia di Oonagh che, comunque, lo controllò quasi subito. «Non hai nessun motivo per dire una cosa simile, Quin» fu il suo commento, pronunciato in tono di rimprovero. «Ma credi sul serio che avrei fatto partire la mamma con una persona che non mi avesse fornito le prove della sua identità e delle sue qualifiche?» Per un attimo il viso di Quinlan fu illuminato da un guizzo di autentica malevolenza che si affrettò a nascondere, subito, sotto un'ombra di rispetto. «Sono sicurissimo, mia cara Oonagh, che non l'avresti certo mandata in nessun posto con un'assassina, se lo avessi saputo; d'altra parte sembra indiscutibile che, senza saperlo, tu abbia proprio fatto una cosa del genere!» «Oh, ma è una vergogna!» Esclamò Eilish senza più dominarsi, rivolgendogli un'occhiata carica di livore. Lui si voltò a sorriderle, dimostrandole che la sua collera o la sua indignazione lo lasciavano del tutto imperturbabile. Monk si domandò se ci avesse fatto l'abitudine oppure se la sua fosse pura e semplice indifferenza. C'era da pensare che ci godesse, perversamente, a scandalizzarla? O forse quella era la sua reazione più vivace, perché la toccava sul vivo, e scatenarla era sempre meglio della semplice apatia. A ogni modo i rapporti fra loro, molto probabilmente, erano privi di interesse per quello che riguardava l'assassinio di Mary Farraline, che invece era l'unica cosa importante per lui. Tutto il resto era collaterale. «Mia cara Eilish» Quinlan esclamò con aria di finta costernazione. «Non c'è dubbio che sia tragico, ma è anche indiscutibilmente vero. Non è forse per questo che il signor Monk si trova qui da noi? Mary era di costituzione abbastanza robusta; avrebbe potuto tirare avanti ancora per anni e anni. E non era, di certo, né distratta né maldestra, e non esiste fra tutte le mie conoscenze, persona che meno di lei abbia mai mostrato qualche tendenza al suicidio.» «Sei inutilmente indelicato» Alastair interloquì con vago cipiglio. «Ti prego, ricordati che sei non soltanto alla presenza delle signore, ma anche che queste signore sono state recentemente colpite da un lutto.» Le sopracciglia chiare di Quinlan si sollevarono; corrugò la fronte. «E quale sarebbe un modo delicato di esprimere tutto questo?» Si affrettò a domandare. Baird McIvor gli lanciò un'occhiata di fuoco. «Un modo delicato sarebbe stato quello di tacere del tutto, per esempio, ma dal momento che nessuno ha pensato a dirtelo, è evidente che aspettarselo, da uno come te, sa-
rebbe troppo.» «Ecco, veramente...» Deirdra cominciò, ma venne fatta ammutolire da una interruzione di Oonagh, brusca e decisa. «Se dobbiamo proprio litigare mentre siamo a tavola...» e fece un gesto blando con la mano esile «...che sia almeno per qualche argomento che ha una certa importanza. La signorina Latterly ha portato con sé referenze eccellenti, e non ho mai avuto il minimo dubbio che non sia stata realmente in Crimea a prestare la sua assistenza ai soldati agli ordini della signorina Nightingale e che, come infermiera, non fosse solo capace e abile ma anche diligente. Posso soltanto presumere che abbia ceduto a una tentazione momentanea, forse provocata da qualche circostanza della sua vita privata di cui non siamo al corrente e che, poi, quando è stato troppo tardi, si sia lasciata cogliere dal panico. Si potrebbe perfino arrivare a pensare che lo abbia fatto per il rimorso.» Rivolse un rapido sguardo a Monk, con gli occhi sgranati, lucenti. «Il signor Monk è qui per assicurarsi che la causa predisposta dall'accusa contro di lei sia perfetta e il suo avvocato difensore non possa tirar fuori qualche sorpresa che ci metta in imbarazzo. Secondo me dovrebbe essere nel nostro migliore interesse aiutarlo per quanto ci è possibile.» «Naturale che è così» intervenne Alastair prontamente. «E lo faremo senz'altro. Prego, diteci che cosa desiderate da noi, signor Monk. Io non ne ho nessuna idea.» «Forse potremmo cominciare con un resoconto esatto e preciso per quanto è possibile, da parte di ciascuno di voi, della giornata durante la quale la signorina Latterly è stata qui, in casa vostra» Monk rispose. «Se non altro, sarebbe utile a definire con maggior rigore i periodi di tempo nei quali ha avuto l'opportunità di nascondere la spilla nella propria sacca da viaggio, oppure trafficare intorno all'astuccio delle medicine.» Non appena disse questo si rese conto di essersi tradito. Notò con orrore che stava diventando rosso e si sentì lo stomaco stretto da una morsa di ghiaccio. Per un attimo il silenzio calò sui commensali. Alastair corrugò le sopracciglia, rivolse un'occhiata a Oonagh, poi a Monk. «Quale motivo avete di pensare che abbia fatto l'una o l'altra di queste cose qui, in casa nostra, signor Monk?» Adesso tutti lo stavano guardando, Deirdra con curiosità, Eilish con ansia, Quinlan con fare sprezzante, Baird con guardingo interesse, Oonagh con divertito umorismo e qualcosa di molto vicino alla compassione. Intanto Monk aveva il cervello in tumulto e stava riflettendo il più rapi-
damente possibile. Come venir fuori senza guai dalla trappola nella quale era andato a cadere di sua spontanea volontà? Non riuscì a trovare una bugia che potesse essergli utile. Tutti intanto stavano aspettando. Doveva assolutamente dire qualcosa! «Pensate che sia stato un gesto spontaneo?» domandò lentamente, passando gli occhi dall'uno all'altro dei Farraline. «Che cosa può aver fatto prima: ha rubato la spilla o preparato il veleno?» Deirdra trasalì. Eilish si lasciò sfuggire un lieve borbottio di costernazione. Quinlan sorrise a Monk. «Voi fate diventare dilettantesco il mio tentativo di indelicatezza» esclamò in tono amabile. Eilish si portò le mani alla faccia. Baird scoccò a Quinlan un'occhiata velenosa. «Suppongo che il signor Monk lo stia facendo con uno scopo ben preciso, Quin, non semplicemente per malignità» Deirdra disse a bassa voce.. «Proprio così» Monk confermò. «Come immaginate che sia accaduto?» Inconsapevolmente girò gli occhi verso Oonagh. A dispetto del fatto che Alastair era il capo della famiglia, e Deirdra la padrona di casa, intuiva come Oonagh fosse la più forte, e come avesse probabilmente già preso quello che lui immaginava fosse stato, in precedenza, il posto di Mary. «Io... io ammetto di non averci mai riflettuto, nel senso più completo» rispose lei esitante. «Non è qualcosa che mi... sul quale mi facesse piacere riflettere.» «Signor Monk, è proprio necessario tutto questo?» Alastair arricciò il naso in segno di indignazione per quei fatti esposti in modo così nudo e crudo. «Non pensate che forse si potrebbe discuterne nel mio studio dopo, evitando di parlarne alla presenza delle signore?» Monk non possedeva nessuna delle illusioni, così caratteristiche della buona società, sulla capacità, o meno, delle donne di affrontare certe emozioni. In un lampo, la sua memoria gli riportò davanti agli occhi, e in modo singolarmente vivido, la figura di donne che aveva conosciuto nel passato, donne il cui coraggio e la cui capacità di sopportazione avevano conservato unite le loro famiglie mentre affrontavano la malattia, la povertà, il lutto, il rifiuto della società in cui vivevano e la rovina finanziaria, e che nello stesso tempo si erano mostrate perfettamente capaci di tirare avanti a denti stretti e a testa alta, sia pur messe di fronte a ogni umana debolezza e sciagura. Quando si toccava il fondo della natura umana, erano molto meno pronte a scandalizzarsi degli uomini.
«Preferirei discuterne alla presenza delle signore» disse a voce alta, rivolgendo un sorriso forzato ad Alastair. «La mia esperienza mi insegna che sono, fra tutti gli essere umani, le più osservatrici, specialmente nei riguardi di altre donne, e che la loro memoria di solito è eccellente. Rimarrei veramente molto sorpreso se non ricordassero, sul conto della signorina Latterly, molto di più di quello che non siete in grado di fare voi, per esempio.» Alastair lo guardò con aria meditabonda. «Direi che avete ragione» finì per ammettere dopo qualche istante. «Benissimo. Ma non stasera. Stasera ho alcuni documenti che devo esaminare. Magari avreste piacere di venire a pranzo domenica, dopo la funzione in chiesa? Questo ci consentirebbe un'opportunità di svolgere tutte le altre indagini che avete da fare in tal senso. Presumo che vorrete vedere la casa. E parlare con il personale di servizio, naturalmente.» «Grazie. Molto premuroso da parte vostra» Monk accettò. «Con il vostro permesso farò l'una e l'altra cosa, magari domani. E gradirei anche parlare con il medico di famiglia. Sarà un vero piacere per me venire a pranzo da voi domenica. Quale può essere l'ora più conveniente?» «All'una meno un quarto» Alastair replicò. «E adesso, vediamo di parlare di qualcosa di più gradevole. Eravate mai stato a Edimburgo prima, signor Monk?» Monk tornò in Grassmarket profondamente assorto nei suoi pensieri, cercando di ritrovare nelle persone di Ainslie Place quel gioco di sentimenti e di emozioni che Hester gli aveva tratteggiato così succintamente, e di costruire su di essi qualcosa di più fosco e truce rispetto a quelle che, invece, erano le apparenze. Cioè che si trattasse unicamente di una normalissima, facoltosa, famiglia di commercianti, né più né meno come apparivano. Indubbiamente Quinlan e Baird McIvor non avevano simpatia l'uno per l'altro. Può darsi che alla radice di un sentimento del genere ci fosse qualche motivo grave, o anche odioso, ma avrebbe potuto altrettanto semplicemente trattarsi dell'antipatia che nasce istintivamente tra due uomini i quali hanno in comune tutte le cose sbagliate, l'arroganza, un carattere impulsivo, l'ambizione, e nessuna di quelle giuste, come l'ambiente sociale dal quale provengono, per esempio, il senso dell'umorismo o della tolleranza. A ogni modo era stanchissimo dopo la nottataccia passata in treno e le notizie sconvolgenti del giorno prima. A quel punto le congetture erano
senza senso. Avrebbe potuto osservare di nuovo tutte quelle persone la domenica successiva, e avrebbe anche avuto tempo a sufficienza per formulare qualche ipotesi. L'indomani sarebbe stato meglio cominciare con il medico di famiglia, del quale Alastair gli aveva dato il nome, e con i farmacisti. Dopo di che, avrebbe dovuto dedicarsi a trovare altre fonti di informazione di carattere più generale: il pub più vicino che i domestici di sesso maschile magari frequentavano occasionalmente, i garzoni e fattorini, i venditori ambulanti e gli spazzini che ripulivano l'incrocio stradale i quali potevano avere l'occhio attento e, per pochi spiccioli, anche la lingua pronta. «Sì, certo» rispose il medico con aria dubbiosa, scrutando Monk con infinito sospetto. «Curavo io la signora Farraline. E che gran dama era! Ma lei dovrà pur saperlo che tutto quanto passava fra noi era sotto il vincolo della più stretta confidenza?» «Naturalmente» Monk ammise, anche se faticava a dominarsi. «Io desideravo solamente sapere quale fosse la dose esatta del farmaco che le avete prescritto per il cuore...» «E per quale motivo? In che senso questi sarebbero affari vostri, signor Monk? Non avete forse detto di essere venuto qui a nome della pubblica accusa mentre si sta preparando il processo a quella sciagurata infermiera che l'ha uccisa? Ho sentito che le ha somministrato due dosi della medicina, non è forse vero?» E scrutò Monk con gli occhi socchiusi. «Sì, che è vero» Monk rispose estremamente guardingo, e senza alzare la voce. «Ma occorre che questo sia provato e al di là di ogni possibile dubbio, in una corte di giustizia. Qualsiasi particolare deve essere controllato. E adesso, dottor Crawford, volete essere così cortese da spiegarmi con precisione cosa le avete prescritto, se si trattava né più né meno del solito farmaco, e chi è stato il farmacista incaricato della preparazione materiale della medicina?» Crawford afferrò carta e penna e cominciò a scribacchiare furiosamente per qualche attimo; poi spinse il foglio attraverso la scrivania in direzione di Monk. «Ecco qua, giovanotto. Questa è la ricetta precisa identica, che non potrete mai far preparare da nessun farmacista in quanto non l'ho firmata. E questi sono il nome e l'indirizzo del farmacista che di solito preparava la medicina. Credo che si servissero sempre dello stesso.» «Non è insolito che una dose doppia di un medicinale molto forte possa essere letale?»
«Certamente, ma della sostanza curativa vera e propria c'è dentro una quantità molto modesta. Dev'essere misurata con esattezza.» Alzò il pollice e l'indice accostandoli, ma senza che si toccassero. Fra le due dita sarebbe potuto passare, forse, un capello. «Ecco perché viene messa in sospensione in flaconcini di vetro. Un flaconcino per dose. Così non si possono fare errori.» Monk rifletté se fosse opportuno o no cercare di strappargli qualche piccola informazione sugli altri membri della famiglia, e poi lo giudicò inutile. Crawford lo osservava con occhi guardinghi, che rivelavano non solo il sospetto ma anche il divertimento. «Grazie» disse Monk asciutto, ripiegando il pezzo di carta e infilandolo nel taschino del panciotto. «Andrò a far visita al signor Landis.» «Non mi risulta che abbia mai fatto un errore» Crawford disse giovialmente. «E non mi risulta nemmeno che un farmacista abbia mai confessato di averlo fatto.» Scoppiò in una risata sincera, divertita. «Neanch'io» ammise Monk. «Ma qualcuno deve aver versato due dosi in un solo flaconcino oppure sostituito una dose letale con una di quelle semplicemente curative. Chissà che lui non riesca a raccontarmi qualcosa di utile.» «Per quale motivo, piuttosto, non somministrarle semplicemente due delle solite dosi?» Crawford osservò polemico. «È possibile» e Monk sorrise. «Ma lei era il tipo di donna che ne avrebbe prese due? Suppongo che l'abbiate avvertita che due dosi avrebbero potuto essere letali?» Il lampo divertito scomparve dagli occhi di Crawford. «Certo che l'ho fatto!» Esclamò. «Mi state accusando di incompetenza!» Monk gli rivolse un'occhiata di schietta soddisfazione. «Sto cercando di sapere se esisteva la possibilità che la signora Farraline ne avesse prese due dosi, invece di pensare che ne sia stata manomessa una.» «Già, adesso a ogni modo lo sapete! Andate a trovare il signor Landis. E lui vi dirà, senza dubbio, come si sarebbe potuto fare. Vi auguro il buon giorno, signore.» «Be', si potrebbe distillare.» Landis corrugò la fronte, pensieroso. «Ridurre il liquido fino a quando diventa della stessa, quantità di una singola dose. Ma per questo occorrerebbe avere l'attrezzatura adatta, o qualcosa che possa essere utilizzato in tal senso. Praticamente impossibile servirsi
della cucina mentre c'è la cuoca a trafficarci. Farsi notare. Un rischio troppo grosso. Non sono cose da farsi seguendo l'impulso del momento.» «E allora?» Monk domandò. «Voi, come fareste?» Landis gli lanciò un'occhiata in tralice. «Seguendo l'impulso del momento? È difficile dirlo. Non credo che lo farei. Aspetterei un po' fino ad avere un'idea migliore. Ma in questo caso bisognava fare in fretta, o sbaglio?» «Lei è rimasta in casa loro un giorno soltanto.» «Comperare un po' di digitale e sostituire a una dose ordinaria una che era addirittura doppia. Siete proprio sicuro che non portasse la digitale con sé? Quella donna faceva l'infermiera, giusto? Forse ne aveva già un po', per i casi di emergenza... no, non funziona. Un medico, forse, non un'infermiera. E se l'avesse rubata?» «Per quale motivo?» «Ah, ecco che mi avete colto in fallo... a meno che non aspettasse un'opportunità del genere? Allora sì che bisogna proprio giudicarla una donna con un grandissimo sangue freddo.» Landis fece una smorfia. «Badate bene, è possibile. Qualche mese fa, proprio qui a Edimburgo, abbiamo avuto un bruttissimo caso di avvelenamento da digitale. Un uomo ha avvelenato la moglie. Una faccenda orribile. Una donna insopportabile, con una lingua viperina, ma naturalmente questa non è una scusa per avvelenarla. E se la sarebbe anche cavata senza danni, solo se gliene avesse dato un po' meno. Non è facile da rintracciare, la digitale. In apparenza si può pensare di trovarsi davanti a un collasso cardiaco dei più comuni, se si riesce a misurare la quantità giusta. Quel povero diavolo ha esagerato. E li ha insospettiti.» «Capisco. Vi ringrazio.» «Non sono stato di grande utilità, vero?» «Suppongo che non abbiate venduto neanche un po' di digitale quel giorno a una donna che potrebbe rispondere alla sua descrizione?» Monk domandò mentre all'improvviso provava un lieve senso di nausea. Naturalmente Hester non aveva fatto acquisti del genere, ma se fosse stata una donna che le somigliava...? Un po' più alta della media, alta, le spalle erette, squadrate, i capelli castani, la faccia intelligente dai lineamenti piuttosto pronunciati, ma con una bocca molto bella. «No» Landis rispose senza incertezza. «Ne siete proprio sicuro? Vi sentireste di giurarlo?» «Senza la minima esitazione. Non ne ho venduta a nessuno quel giorno.»
«E durante la stessa settimana, non ne avete venduta a nessun altro che facesse parte della famiglia Farraline?» «No, a nessuno salvo al dottor Mangold e al vecchio signor Watkins. Li conosco entrambi da anni. Non hanno niente a che vedere con i Farraline.» «Grazie» Monk esclamò con improvviso entusiasmo. «Vi ringrazio proprio molto. E adesso, signore, non potreste darmi il nome e l'indirizzo di tutti gli altri farmacisti che si trovino nel raggio di una distanza ragionevole da Ainslie Place?» «Certo che posso» Landis acconsentì aggrottando le sopracciglia, sconcertato. Cercò un pezzo di carta e vi scrisse qualche riga con le informazioni richieste, poi le consegnò a Monk augurandogli buona fortuna. Monk lo ringraziò profusamente e uscì a lunghi passi lasciando la porta che ondeggiava sui cardini. Il succo della sua ricerca negli altri negozi fu pressappoco identico. Ottenne la stessa risposta. Nessuno riconobbe la sua descrizione di Hester e nessuno affermò di aver venduto della digitale a una persona qualsiasi della famiglia Farraline o, addirittura, a chiunque altro che non conoscessero di persona. Monk affrontò l'indagine su altre direttrici, cercando altre fonti di informazione, il pub, i venditori ambulanti e gli spazzini ai crocicchi stradali, garzoni di botteghe e fattorini e strilloni di giornali, ma venne soltanto a sapere pettegolezzi dei più banali e generici, che non gli diedero l'impressione di poter servire a uno scopo qualsiasi. L'opinione comune sui Farraline era ottima; si trattava di una famiglia che da molto tempo aveva dimostrato la propria generosità nei confronti della città e di varie cause una più nobile e degna dell'altra. Hamish era stato malato per qualche tempo prima della sua morte avvenuta otto anni prima ma la sua reputazione era molto buona, anche senza essere eccelsa. Di Hector si parlava con tolleranza e con compassione per Mary, che tuttavia era rispettata per avergli offerto un tetto. Anzi sembrava che fosse rispettata praticamente per tutto ciò che faceva e in modo più specifico per ciò che era, una gentildonna piena di dignità, carattere e assennatezza. Anche Alastair era tenuto in grande considerazione, rispetto, e qualcosa che avrebbe potuto definirsi timore reverenziale. Occupava un'alta carica e appariva in possesso di considerevoli poteri. Che li esercitasse con discrezione andava a suo credito. Si era comportato con dignità durante un recente processo, in cui l'imputato era un certo signor John Galbraith accusato di aver defraudato i suoi investitori di somme notevolissime di denaro, ma si trattava di un'accusa che presentava molti lati oscuri. Sulla onorabili-
tà delle persone che avevano presentato l'imputazione a suo carico esistevano forti dubbi. Le prove apparivano adulterate. Il Procuratore Fiscale aveva avuto il coraggio di dare ordine di un non luogo a procedere nei confronti dell'accusato. Il resto erano soltanto pettegolezzi, e dei più banali. Quinlan Fyffe era giudicato estremamente intelligente, oriundo di Stirling oppure di Dundee. Non era ancora molto popolare. McIvor, malgrado il suo cognome, era inglese. Peccato che la signorina Oonagh non avesse ritenuto opportuno sposarsi con un uomo di Edimburgo. La signorina Deirdra era molto stravagante, almeno così si raccontava, e pareva avesse una vera e propria mania per comperarsi abiti nuovi, ma era completamente priva di gusto. La signorina Eilish stava a letto fino alle ore più strane. Sarà anche stata la donna più bella della Scozia, in ogni caso era la più pigra, su questo non c'erano dubbi. Tutte cose assolutamente inutili e nemmeno molto interessanti. Monk ringraziò le varie persone che erano state fonte di tali notizie e rinunciò ad approfondirle ulteriormente. Il pranzo domenicale ad Ainslie Place risultò un pasto molto meno formale di quanto non fosse stata la cena di quella sera. Monk arrivò proprio mentre la famiglia stava tornando dalla funzione religiosa. Erano tutti vestiti di nero. Le donne portavano abiti con la gonna enorme che le facevano assomigliare a campane rovesciate, mantelli bordati di pelliccia che si stringevano addosso e cuffie guarnite di nastri neri che restringevano il loro campo visivo e proteggevano la faccia dagli spruzzi di pioggia. Gli uomini portavano cappelli a cilindro e soprabiti neri, quello di Alastair aveva anche il colletto di astrakan. Avanzavano a coppie, l'uno al fianco dell'altro, senza rivolgersi la parola; e così entrarono nel vestibolo, seguiti immediatamente da Monk. Il funereo McTeer si affrettò a farsi avanti per ritirare rispettosamente i loro mantelli. Poi prese anche da Alastair cappello e bastone lasciando che Bair Quinlan e Kenneth sistemassero personalmente i propri nel portaombrelli o sull'attaccapanni. «Buon giorno, signor Monk» disse con aria truce prendendo anche il suo cappello e il suo soprabito. Monk, dall'epoca del caso Grey, non aveva più l'abitudine di portare con sé il bastone. «Una giornata molto fredda, signore, e diventerà anche peggio. Sto pensando che sarà un inverno crudo.» «Grazie» Monk rispose. «Buon giorno» disse poi, inclinando lievemente la testa verso ogni persona della famiglia. Alastair aveva l'aria infreddolita
mentre il colorito caldo di Deirdra la faceva apparire animata e vivace; se soffriva per la perdita subita, il dispiacere non aveva lasciato segno sulla sua vitalità. Oonagh era pallida, ma come già in precedenza la sua risolutezza e la forza di carattere riuscivano a nascondere abbastanza bene qualsiasi turbamento intimo o premonizione segreta. Era chiaro che Eilish aveva fatto lo sforzo di alzarsi in tempo per accompagnare la famiglia in chiesa, e niente poteva appannare la sua bellezza. Era presente anche Kenneth, il figlio avventuroso, un giovanotto simpatico ma assolutamente comune, come tipo, il quale assomigliava a sufficienza agli altri fratelli e sorelle per lasciar capire come facesse parte anche lui della famiglia. Sembrava che avesse una certa fretta e non appena si fu liberato di tutto quanto si era messo addosso per uscire, fece un cenno di saluto a Monk e scomparve subito dirigendosi verso il salone. «Prego, entrate, signor Monk» disse Oonagh con uno strano sorriso, pieno di schiettezza. «Riscaldatevi accanto al fuoco e magari accettate un po' di vino. O forse preferite dello whiskey?» A Monk dispiacque rifiutare, ma sapeva quanto gli occorresse tutta sua lucidità mentale. «Grazie» rispose. «Il fuoco mi sembra una magnifica idea, e anche il vino, se c'è qualcun altro che lo prende, magari? Per me è ancora un po' troppo presto per un goccio di buon whiskey.» Mentre Oonagh si avviava verso il solito, grande, salone della prima volta, la seguì. Il fuoco scoppiettava nella grata con lievi crepitii che promettevano un bel calduccio ancora prima che Monk potesse allungare un'occhiata alle sue fiamme giallastre. Intanto si accorse che stava sorridendo senza averne l'intenzione. Man mano che entravano nel salone, tutti inconsciamente si accostavano al fuoco, le donne prendendo posto in capaci poltrone, gli uomini in piedi. Uno dei domestici si mise a girare per la stanza con un vassoio d'argento fra le mani, per servire coppe di vino caldo, zuccherato e speziato. Alastair girò lo sguardo verso Monk al di sopra dell'orlo del proprio bicchiere. «Avete avuto qualche successo con le vostre indagini, signor Monk?» Gli domandò aggrottando le sopracciglia. «Anche se non so che cosa pensate di poter scoprire. Non c'è dubbio che la polizia abbia fatto tutto il necessario, vero?» «Qualche tranello, signor Farraline, o qualche inganno» Monk rispose disinvolto. «Nessuno di noi vuole che venga sollevata un' eccezione di inammissibilità solo perché siamo stati eccessivamente fiduciosi o negli-
genti.» «No... no davvero. Sarebbe disastroso. Vi prego, fate pure qualsiasi indagine considerate necessaria fra il nostro personale di servizio.» Lanciò un'occhiata a Oonagh. «Li ho già istruiti in merito, tutti» disse lei dolcemente, rivolgendo gli occhi prima ad Alastair e poi a Monk. «Vi dovranno rispondere sinceramente e senza reticenze.» Si morse un labbro come se riflettesse sull'opportunità di cercare qualche scusa per loro, ma poi evidentemente decise che era inutile. «Dovrete cercare di capirli se si mostreranno un po' nervosi.» Lo squadrò con aria grave, frugandogli in faccia con gli occhi per avere la sicurezza che sarebbe stato comprensivo, e li sgranò lievemente quando ne ebbe la tacita conferma. «Sono tutti ansiosi di dimostrare che non sono stati negligenti. È logico che ciascuno di loro provi l'impressione che forse, in un modo o nell'altro, avrebbero dovuto essere in grado di impedire quello che è successo.» «Che assurdità!» Baird interloquì bruscamente. «Se c'è qualcuno da rimproverare, siamo noi. E siamo sempre stati noi ad assumere la signorina Latterly. Le abbiamo parlato e l'abbiamo giudicata un tipo di persona eccellente. Non toccava ai domestici persuaderci del contrario.» Sembrava chiaramente a disagio. «Abbiamo già fatto questo discorso» Alastair esclamò con irritazione. «Nessuno poteva saperlo.» «Oh, sì.» E Quinlan scoccò un'occhiata a Monk. «Ci avete domandato che cosa poteva essere successo, a nostro giudizio. Non mi par di ricordare che qualcuno vi abbia mai risposto, vero?» «Non ancora» Monk ammise, sbarrando gli occhi. «Forse vorreste cominciare voi, signor Fyffe?» «Io? Bene, lasciatemi vedere un po'.» Quinlan bevve un sorso del suo vino, con aria assorta; ma se provava angoscia o turbamento, li mascherava bene. «È impossibile che quella sciagurata donna abbia pensato di uccidere la mia povera suocera, a meno che non avesse già visto la spilla, quindi questo deve essere accaduto abbastanza presto, il...» Deirdra ebbe un sussulto mentre Eilish posava il bicchiere che aveva in mano senza portarlo alle labbra. «Non capisco che cosa sperate di guadagnare con tutto questo» esclamò Kenneth in tono concitato. «È una conversazione che fa paura!» «Paura o no, dobbiamo ben sapere quello che è successo» Quinlan replicò in tono mordace. «Non ha senso pretendere che tutto questo possa
scomparire nel modo più comodo per noi unicamente perché non ci piace.» «Per tutti i santi del paradiso, ma sappiamo bene quello che è successo!» Anche Kenneth alzò la voce. «Quella maledetta infermiera ha assassinato la mamma! Cos'altro c'è da sapere... non è abbastanza? Volete anche i particolari, dall'a alla z? Io, ve lo assicuro, no.» «Sarà la legge a richiederlo» Alastair disse gelido. «Non impiccheranno quella donna senza le prove più assolute. E neanche dovrebbero farlo. Dobbiamo essere sicuri, al di là di ogni possibile dubbio.» «E chi ha qualche dubbio?» Kenneth domandò. «Io, no.» «Sapete forse qualcosa che il resto di noi ignora?» Monk gli domandò con voce cortese, gli occhi scintillanti. Kenneth lo guardò strabiliato mentre sul suo viso si riflettevano la frustrazione, il risentimento, il desiderio di giustificarsi. «Be', allora sai qualcosa?» Alastair domandò. «Naturale che non sa niente, mio caro» Oonagh intervenne in tono suadente. «La verità è che non sopporta anche solo di pensare ai dettagli di quel che è successo.» «Cosa crede? Che noialtri ci divertiamo?» La voce di Alastair si levò improvvisa e per la prima volta diede l'impressione di essere lì lì per perdere tutta la sua compostezza. «Santo cielo, Kenneth! O dici qualcosa di utile o è meglio che tu stia zitto.» Oonagh gli si accostò leggermente e gli posò, lieve, una mano sul braccio. «A dir la verità, Quin ha fatto un'osservazione non del tutto errata» Deirdra disse con le sopracciglia corrugate, e la faccia aggrottata per lo sforzo di concentrarsi. Pareva che non si fosse accorta del turbamento di Alastair. «La signorina Latterly deve aver visto la spilla prima di decidere di somministrare a mia suocera una dose doppia di medicina...» evitò di usare la parola veleno. «E poiché mia suocera non la portava, c'è da pensare, di conseguenza, che l'abbia vista nella sua valigia, ma mi sembra una cosa che non ha senso...» «E per quale motivo?» Alastair domandò in tono reciso. La faccia di Deirdra non rifletteva la collera ma solo lo sforzo di riflettere. «E come avrebbe potuto? C'è da pensare che abbia frugato in lungo e in largo nella valigia di mia suocera, a un certo punto, magari quando si supponeva che si fosse ritirata in camera a riposare? E le abbia preparato contemporaneamente anche quella dose doppia di medicina?» «Non capisco perché tu dica tutto questo.» Alastair la guardò stizzito,
ma già la sua espressione appariva più attenta, concentrata, e smentiva le sue parole. Tutte le teste si girarono a fissare prima Alastair e poi Deirdra. «Be', non poteva certo prepararle la medicina proprio davanti ai suoi occhi» Deirdra si affrettò a spiegare. «E non poteva somministrargliene due dosi insieme. La mamma non le avrebbe prese.» Monk sorrise perché era la prima volta che provava un po' di soddisfazione dal momento in cui Rathbone gli aveva dato la tremenda notizia. «Le vostre capacità di osservazione sono eccellenti, signora Farraline. Non c'è neanche da pensare che vostra suocera possa aver preso una dose doppia della sua medicina.» «Eppure è andata proprio così» Alastair ribatté accigliandosi. «È stata la polizia a informarci di questo, il giorno precedente al vostro arrivo. Perché si tratta esattamente di quello che è successo.» Adesso Oonagh era diventata molto pallida, tra le sopracciglia la sua fronte era segnata da una lieve ruga provocata dalla tensione. Girò gli occhi da Alastair a Monk senza dire una parola, aspettando che fosse lui a dare qualche spiegazione. Monk scelse le parole con estrema attenzione. Possibile che proprio questo punto fosse la chiave di tutto? Si rifiutava di nutrire qualche speranza eppure si accorgeva di essere diventato rigido dalla testa ai piedi, di sentirsi dolere i muscoli. «È possibile che la signora Farraline fosse talmente facile alle dimenticanze da aver accettato le due dosi della medicina, da prendere insieme, oppure ne abbia presa una lei stessa e poi abbia lasciato che la signorina Latterly gliene somministrasse l'altra?» Ricordò il modo in cui Crawford aveva respinto quest'idea e sapeva quale sarebbe stata la risposta. Oonagh aprì la bocca ma, in quell'attimo di esitazione che passò prima che parlasse, Eilish fu più pronta di lei. «No, assolutamente no. Non so quale sia la risposta, ma non è questa.» Baird era molto pallido. Guardò Eilish con un'espressione talmente turbata che sembrava quasi di angosciosa disperazione, anche se evidentemente era Monk la persona a cui stava per rivolgere le sue parole. «In tal caso la risposta deve essere che la signorina Latterly ha visto la spilla in casa, prima che venisse messa in valigia, ed è stato a quel punto che ha fatto i suoi piani. Deve aver preparato la dose doppia prima della partenza.» «E come?» Deirdra domandò.
«Non lo so.» Lui non si lasciò sconcertare. «In fondo, faceva l'infermiera. Probabilmente sapeva come preparare alcuni tipi di medicine oltre a somministrarle ai pazienti. Qualsiasi imbecille può sostituire un flaconcino o presentarlo a qualcuno.» «Ma per quello che riguarda la preparazione?» Monk domandò con aria di finta ingenuità. «È un po' difficile che gli ingredienti si trovassero in giro per la casa.» «Naturalmente no» Deirdra ammise, passando con gli occhi dall'uno all'altro dei suoi familiari, con espressione aggrottata. «Non ha alcun senso, vero? Cioè, non mi sembra neppure lontanamente possibile. È rimasta qui soltanto un giorno... anzi, ancora meno. È per caso andata fuori, c'è qualcuno che lo sa? Signor Monk?» «Presumo che avrete già interrogato i farmacisti locali?» Quinlan domandò. «Sì, e nessuno ha venduto digitale quel giorno a una donna che rispondesse alla descrizione della signorina Latterly» Monk rispose. «E neppure a qualsiasi altro cliente che lui non conosce già personalmente.» «Come è sconcertante» Quinlan disse senza mostrarsi minimamente sconcertato, almeno in apparenza. Monk sentiva che qualche speranza gli stava nascendo nel cuore. Ecco, proprio lì davanti a lui, il germe del dubbio. «Secondo me, vi sfugge quello che è il nocciolo della questione» Oonagh osservò con estrema dolcezza. «Molto probabilmente la spilla si trovava già nell'astuccio dei gioielli, quello da viaggio, della mamma; e lo avevano sul treno con loro. Come al solito era la mamma a tenerne la chiave. La signorina Latterly l'ha visto mentre stava preparando la medicina o forse vi ha frugato dentro per pura e semplice curiosità in un momento in cui la mamma, magari, era scesa in qualche stazione per approfittare dei servizi. Quante opportunità può averne avute durante una serata tanto lunga!» «Ma la digitale» Baird obiettò. «Quella dove se l'è procurata? Impossibile pensare che l'abbia trovata in una stazione ferroviaria.» «Presumibilmente la portava con sé» Oonagh rispose con un lieve sorriso. «Faceva l'infermiera. Non abbiamo nessuna idea di quello che poteva avere nella sua sacca da viaggio.» «Nell'eventualità di trovar qualcuno da avvelenare?» Monk disse incredulo. Oonagh lo guardò con un'espressione piena di umorismo e qualcosa che
poteva passare per pazienza. «È possibile, signor Monk. Sembra la più logica delle spiegazioni. Voi stesso ci avete fatto rilevare che gli altri metodi e mezzi di somministrazione, a ben pensarci, non erano accettabili anche se li abbiamo ugualmente presi in esame. Cos'altro rimane?» Monk provò l'impressione che il fuoco si fosse spento. La luce e il calore scomparvero intorno a lui. Che sciocchezza, illudersi che esistesse una soluzione tanto semplice! Eppure a dispetto di tutta la sua intelligenza, era stata proprio quella la sua speranza. Adesso se ne rese conto con rabbia e un vivo senso di autocritica. «Naturalmente...» Alastair cominciò ma venne interrotto da un uomo alto e corpulento, con i capelli color oro-rosso un po' sbiadito, e gli occhi lievemente offuscati, il quale entrò a passo incerto lasciando la porta a doppio battente spalancata dietro di sé. Scrutò le pareti, e poi il suo sguardo venne a concentrarsi su Monk con un barlume di curiosità. Per un attimo il silenzio fu completo. Alastair si lasciò sfuggire un sospiro. Monk colse, in un lampo, l'espressione della faccia di Oonagh, intensa ma anche intraducibile, prima che si facesse avanti a prendere il nuovo arrivato per un braccio. «Zio Hector...» la voce le si spezzò in gola, in un tremito, poi tornò suadente come prima. «Questo è il signor Monk, che è venuto da Londra per aiutarci per la questione della morte della mamma.» Hector deglutì convulsamente, come se avesse qualcosa che lo stringeva al collo e di cui non riuscisse a liberarsi. L'angoscia e il tormento sulla sua faccia erano talmente evidenti che sarebbero apparsi addirittura imbarazzanti se lui non si fosse reso conto di essere al centro dell'attenzione generale. «Aiutarvi?» Disse incredulo. Guardò Monk con indignazione. «Cosa siete, un impresario di pompe funebri?» Lanciò uno sguardo corrucciato ad Alastair. «Da quando in qua invitiamo a pranzo i becchini?» «O Dio!» Alastair esclamò, esasperato. Kenneth girò la faccia dall'altra parte, impallidendo. Deirdra guardò gli altri commensali, a uno a uno, senza saper cosa fare. «Non è un becchino» cominciò Quinlan. «È stata Griselda a pensare a tutto quello, zio Hector» Oonagh disse con dolcezza, passandogli il proprio bicchiere di vino. «A Londra. Te l'ho già raccontato, o non te ne ricordi più?» Lui afferrò il bicchiere e lo scolò in un colpo, poi riportò gli occhi su di lei anche se era chiaro che aveva una certa difficoltà a mettere a fuoco la
sua faccia. «Davvero?» Gli sfuggì un rutto; e fece un gesto imbarazzato con la mano. «Non credo di...» «Vieni, caro, ti farò mandare di sopra il pranzo. Ho l'impressione che tu non sia nelle migliori condizioni per poterlo gustare qui, con noi.» Hector tornò a rivolgersi a Monk. «E allora, voi chi diavolo siete?» Monk rivelò un poco di quel tatto che gli era così poco caratteristico. «La mia presenza qui ha a che vedere con la Legge, signor Farraline. Ci sono alcuni dettagli che bisogna esaminare e risolvere.» «Oh...» sembrò soddisfatto. Oonagh si girò lievemente per lanciare a Monk un'occhiata di gratitudine; poi con gentilezza aiutò Hector ad avviarsi di nuovo alla porta e a uscire. Quando finalmente tornò indietro gli altri erano già in sala da pranzo, seduti intorno al tavolo. Il pranzo venne servito e mentre lo consumavano Monk ebbe l'opportunità di osservarli a uno a uno, perché la conversazione non esigeva alcuno sforzo da parte sua. Continuò a rimuginare su quello che gli aveva detto un ragazzino, di quelli che si prestano a fare commissioni e riferire messaggi in cambio di qualche soldo. Lanciò discretamente un'occhiata a Deirdra Farraline. La sua faccia continuava a piacergli. Era squisitamente femminile, tutta morbide curve nella guancia e nella mandibola, con un bel naso elegante, una fronte spaziosa che, pure, rivelava la determinazione. Non c'era niente di debole o di apatico in lei. Si accorse, molto scioccamente, di provare un po' di delusione per il fatto che, a quanto si era sentito riferire, il suo unico interesse fosse per la vita mondana e che riuscisse a spendere somme pazzesche per far colpo sulle persone dell'ambiente sociale che frequentava. Naturalmente in quel momento era vestita di nero da capo a piedi, come il lutto richiedeva, ma quel colore le donava; tuttavia, osservandola con occhi critici, si accorse che il suo vestito non si poteva certo definire all'ultima moda. Anzi, secondo i criteri correnti a Londra, sarebbe stato giudicato addirittura dozzinale, se non brutto. I pettegolezzi erano giusti; quella donna non aveva il minimo gusto. E gli seccò di doverlo ammettere. Poi si voltò verso Eilish, augurandosi che nessuno lo sorprendesse in quell'atto. Trovava la sua bellezza già abbastanza irritante così com'era, senza che qualcuno si accorgesse che la stava guardando. Assecondare la sua vanità era l'ultima cosa al mondo che volesse, in quel momento. Ma avrebbe sbagliato a preoccuparsi. Eilish continuò a tenere la testa abbassata sul proprio piatto e, se un paio di volte rialzò gli occhi, fu soltan-
to per lanciare uno sguardo a Baird. Anche il suo vestito era nero, naturalmente, ma aveva un taglio che le donava molto di più, e rivelava come lei fosse molto più attenta alla moda corrente anche nei minimi particolari. Anzi, nessuna bellezza londinese, indipendentemente da tutto il resto, avrebbe potuto valorizzarlo meglio di lei. Infine si voltò verso Oonagh. La giovane donna stava sorvegliando il servizio e controllando che i suoi commensali avessero tutto in abbondanza e si trovassero a loro agio. Monk aveva a disposizione soltanto un attimo per guardarla, altrimenti lei se ne sarebbe accorta. Anche il suo vestito era di ottimo taglio, semplice, e più alla moda di quello di Deirdra. E non erano soltanto l'animazione, la vivacità e l'intelligenza a dare questa impressione. In qualsiasi cosa Deirdra spendesse i suoi soldi, non si poteva affatto dire che fossero gli abiti da lutto che indossava. Il pasto continuò mentre si conversava correttamente e cortesemente senza approfondire in particolare nessun argomento; quando arrivò alla fine, Kenneth chiese il permesso di andarsene tra la stizza di Alastair e un sarcastico commento da parte di Quinlan. Quanto al resto della famiglia, tutti si trasferirono nel salone per dedicarsi a quel genere di occupazioni che venivano considerate convenienti e adatte alla giornata festiva. Alastair si chiuse nel suo studio a leggere, anche senza dichiarare apertamente che la sua scelta sarebbe stata la Sacra Scrittura; e così la domanda che gli era stata fatta da Quinlan non ottenne risposta. Oonagh e Eilish presero in mano i loro ricami; Deirdra disse di avere una visita d'obbligo da fare a una vicina che era ammalata, e la notizia non sollevò alcun commento. Evidentemente in famiglia la conoscevano e Deirdra andava a farle visita con regolarità. Quinlan prese in mano un giornale, e fu subito il bersaglio di una o due occhiate di disapprovazione che ignorò, e Baird disse che doveva andare a scrivere qualche lettera. Monk approfittò di quella occasione per andare in cerca del personale di servizio da interrogare a proposito della giornata in cui Hester era stata lì, in casa. E questo si rivelò un compito difficile. I domestici avevano le idee confuse, la loro memoria risentiva di quanto avevano saputo sulla morte di Mary ed erano viziati dal convincimento che la colpevole fosse Hester. Le impressioni erano inutili; soltanto i fatti potevano fornire qualcosa di affine alla verità, ma anch'essi apparivano sospetti. La sola necessità di dover riferire qualcosa di quello che era successo ma, come suol dirsi, di farlo
alla luce del senno di poi, rendeva sfumati i contorni di eventi chiari e sicuri, mentre trasformava in affermazioni nette e decise quello che, a suo tempo, era stato soltanto un pensiero o una sensazione. Nessuno sollevò qualche dubbio o si discostò dalle versioni fornite dagli altri per ciò che riguardava il momento dell'arrivo e quello della partenza di Hester, o la descrizione dello spuntino che aveva consumato lì, in cucina, e sul fatto che Oonagh, poi, l'avesse accompagnata a fare la conoscenza di Mary Farraline. Le signore avevano consumato, insieme, lo spuntino delle undici e il pranzo. Cosa Hester avesse fatto in quell'intervallo di tempo, non si sapeva bene. Ma era logico. Una delle cameriere ricordava di averla vista in biblioteca; qualche altra affermò che le pareva di averla vista salire di sopra ma non se la sentiva di dichiararlo sotto giuramento. Di sicuro, nel pomeriggio era stata accompagnata di sopra perché si riposasse un po'... e sì, certo che avrebbe potuto andare nello spogliatoio di Mary a fare qualsiasi cosa... Sì, la cameriera personale della signora le aveva mostrato i suoi vestiti, le sue valigie e in modo specifico l'astuccio della medicina. In fondo quello era il suo lavoro, giusto? Era stata assunta proprio per somministrare la medicina alla signora Farraline. E come avrebbe potuto somministrargliela se non le avessero mostrato dov'era? Nessuno poteva criticarla per questo! Ma era proprio vero che non la criticavano? Bastava osservare l'espressione delle loro facce per averne la conferma. Ascoltare ciò che si bisbigliavano l'un l'altra quando credevano che lui non le ascoltasse. Verso le cinque, quando cominciava a calare la sera, Monk rinunciò a continuare. Si sentiva profondamente sconfortato. C'era ben poco che lui potesse provare, o non provare, e non si poteva certo dire che avesse qualche importanza soprattutto tenendo conto di quello che Oonagh aveva detto, cioè che l'astuccio dei gioielli si trovava con Mary sul treno. Si sentiva amaramente scoraggiato. Tutto ciò che aveva imparato in quei giorni era nebuloso, niente appariva sicuro salvo il fatto che Hester aveva avuto l'opportunità, i mezzi erano lì, a portata di mano e lei sapeva come usarli quasi più di chiunque altro, e il movente era chiaro... la spilla con le perle... ed era un po' difficile dire che potesse essere un movente valido per una qualsiasi delle persone di famiglia. Tornò nel salone irritato, lottando contro la disperazione e l'angoscia. «Avete scoperto qualcosa?» Eilish gli domandò quando lo vide entrare. Lui aveva già deciso quale sarebbe stata la sua risposta, e si preparò a
dargliela, ma con uno sforzo. «Soltanto quello che mi aspettavo» rispose, sforzandosi di sorriderle anche se il suo fu più che altro il gesto di socchiudere le labbra mettendo a nudo i denti. «Capisco.» «Be', cosa avete pensato?» Quinlan alzò gli occhi dal giornale. «Non immaginerete che sia stato uno di noi a farlo, vero?» «E perché no?» Baird interloquì, seccamente. «Se fossi io a difendere la signorina Latterly, sarebbe, né più né meno, quello che penserei.» «Davvero?» Quinlan si voltò con veemenza per affrontarlo. «E per quale motivo avresti dovuto assassinare nostra suocera, Baird? Avevi forse litigato con lei? Sapeva qualcosa sul tuo conto che noialtri ignoriamo? Oppure è stato per via dell'eredità di Oonagh? O magari Mary ha cercato di convincerti a non mettere gli occhi su mia moglie?» Baird si alzò impetuosamente dalla seggiola lanciandosi contro di lui, ma Oonagh arrivò prima, e si mise fra loro, diventando pallidissima. Lui si arrestò bruscamente e per poco non le andò addosso facendola cadere. Quinlan era rimasto seduto al suo posto, assolutamente immobile, il sogghigno bloccato sulla faccia come una smorfia, gli occhi sgranati. «Smettetela!» Oonagh disse a denti stretti. «Tutto questo è indecoroso, e assolutamente ridicolo.» Si lasciò sfuggire un lungo sospiro tremulo. «Baird, per favore... siamo tutti sconvolti per quello che è successo. Quin si sta comportando molto male, ma tu non fai che peggiorare la situazione.» Gli sorrise, con gli occhi fissi sulla sua faccia sconvolta dalla collera e lui, molto lentamente, si placò facendo un passo indietro. «Sono spiacente...» disse scusandosi non con Quin, ma con sua moglie. Il sorriso di Oonagh si fece un po' più accentuato, più convinto. «Lo so che stavi difendendo me, e non soltanto te stesso, ma non ce n'è alcun bisogno. Quin è sempre stato geloso. Succede agli uomini che hanno mogli così belle. Anche se lo sa che non ce n'è il minimo bisogno... di essere gelosi.» Si voltò di scatto verso Quinlan e rivolse un sorriso anche a lui. «Eilish è tua, mia caro, lo è sempre stata da anni. Ma anche lei fa parte di tutta la famiglia, e chiunque abbia gli occhi non può non ammirare la sua bellezza. Non dovresti risentirti di questo. È un complimento anche a te. Eilish, cara...» Eilish guardò sua sorella, avvampando. «Ti prego, rassicura Quin confermandogli che ha la tua fedeltà più completa. Non dubito che tu lo faccia spesso... ma ti spiacerebbe farlo una vol-
ta ancora? Per la pace di tutti?» Molto lentamente Eilish ubbidì, rivolgendosi a suo marito, e poi di nuovo a Baird, e costringendosi con uno sforzo a fissare suo marito in faccia e a curvare le labbra in un sorriso. «Naturalmente» disse con voce dolcissima. «Vorrei che tu non dicessi come simili, Quin. Non ho mai fatto niente che te ne potesse dare il motivo, lo giuro.» Quinlan guardò Eilish, poi riportò gli occhi su Oonagh. Per un attimo nessuno si mosse; poi lentamente lui si placò e fece un sorriso. «Certo» confermò. «Certo che non hai mai fatto niente del genere. Hai perfettamente ragione, Oonagh. Un uomo con una moglie bella come la mia deve aspettarsi che il mondo l'ammiri e lo invidi. Non ti pare giusto, Baird?» Baird non rispose niente. La sua faccia era impenetrabile. Oonagh si voltò verso Monk. «C'è qualcos'altro in cui potremmo esservi di aiuto, signor Monk?» Domandò, staccandosi da Baird e avanzando verso di lui. «Può darsi che vi venga in mente qualcosa fra uno o due giorni... sempreché, naturalmente, abbiate ancora intenzione di rimanere a Edimburgo?» «Vi ringrazio» lui accettò pronto. «Rimarrò senz'altro in città ancora un poco. Ci sono altre cose che devo approfondire, e prove che devo trovare, in modo da non dare più adito ad alcun dubbio per ciò che riguarda la causa.» Lei non gli domandò che cosa avesse in mente ma si avviò con passo aggraziato ed elegante verso la porta. Accettando quello che era un chiaro segno di congedo, Monk la seguì, dopo aver augurato la buona sera agli altri e averli ringraziati per la loro ospitalità. Fuori, nel vestibolo, Oonagh si fermò sui due piedi e si voltò ad affrontarlo con l'espressione grave. E quando parlò, lo fece abbassando la voce. «Signor Monk, avete intenzione di continuare a investigare su questa famiglia?» Lui rimase incerto per un attimo perché non sapeva con esattezza cosa risponderle. Le frugò in faccia con gli occhi alla ricerca di un minimo segno di paura o di collera, o magari di risentimento, ma ciò che vide fu soltanto quello strano interesse, quel vago senso di sfida, non molto diverso dai sentimenti che gli suscitava nel cuore. «Perché, se è questo che avete intenzione di fare» lei continuò «ho qualcosa da domandarvi.» Monk afferrò al volo l'occasione che gli si offriva. «Certamente» si affrettò a rispondere. «Di che si tratta?»
Lei abbassò gli occhi, nascondendogli i propri pensieri. «Se... se fra le vostre... scoperte, veniste a sapere dove mia cognata riesce a spendere tutti quei soldi, io... noi vi saremmo molto obbligati. Forse sareste tanto gentile da consigliarci in merito... o perlomeno da consigliare me.» Rialzò gli occhi di scatto, fissandolo. «Può darsi che riesca a parlarle in privato e a evitare a questo modo parecchie cose sgradevoli Credete di essere in grado di farlo? Forse non sarebbe molto morale?» «Lo posso fare senz'altro, signora McIvor» rispose Monk senza esitare. Era una sfida che gli veniva lanciata, che Oonagh avesse interesse nella sua risposta o no; e, in fondo, si trattava proprio del pretesto che più gli andava a pennello. Deirdra gli era simpatica, ma l'avrebbe sacrificata senza nemmeno un attimo di esitazione se questo lo avesse aiutato ad arrivare alla verità. Lei sorrise, rivelando umorismo e gusto della sfida sotto i toni freddi della sua voce, dietro la compostezza dei suoi lineamenti. «Vi ringrazio. Forse tornerete fra due o tre giorni a cenare di nuovo con noi?» «Pregusto questa opportunità con grande piacere» rispose lui accettando e poiché McTeer era apparso e si stava avvicinando per consegnargli il soprabito e il cappello, prese congedo. Fu davvero per un puro caso, mentre esitava sul marciapiede, incerto se tornare a piedi fino al Grassmarket oppure spostarsi verso est e raggiungere Princess Street in cerca di un hansom che, voltandosi a dare un'altra occhiata a casa Farraline, scorse una figurina snella dalla gonna voluminosa sgusciare fuori dall'ingresso laterale e avviarsi a passo lesto, quasi correndo, verso la carreggiata. Intuì che doveva trattarsi di Deirdra; impossibile che una semplice cameriera indossasse un abito dalla crinolina così ampia e morbida; oltre al fatto che la donna appena intravista era troppo piccola e minuta per essere Eilish oppure Oonagh. Dopo un attimo vide l'altra figura, che gli veniva incontro attraversando la strada. Quando passò sotto il lampione a gas, lo sconosciuto venne completamente illuminato e Monk poté scorgere chiaramente i suoi abiti modesti, da operaio, la sua faccia sudicia. I suoi occhi erano fissi sulla sagoma di Deirdra, mentre continuava a venire avanti, ansioso, verso di lei. Poi scorse Monk. Rimase agghiacciato, e girò sui tacchi; dopo aver esitato un istante, ripartì a lunghi passi, quasi di corsa, ripercorrendo la strada dalla quale era venuto. Monk aspettò quasi un quarto d'ora ma lo sconosciuto non si fece più vedere e, alla fine, Deirdra rientrò sola in casa.
6 Sul treno, durante il viaggio verso nord, Monk aveva tratto un certo conforto dal pensiero che Hester aveva affrontato privazioni e disagi in Crimea; di conseguenza un soggiorno a Newgate non sarebbe stato qualcosa di nuovo e inaccettabile per la sua esperienza o perfino di notevolmente peggiore di tutto quello con cui aveva già una certa familiarità. Anzi, era arrivato addirittura alla conclusione che sotto certi aspetti avrebbe potuto forse essere migliore. Si sbagliava. Hester lo trovò infinitamente più brutto. Certo, esisteva qualche caratteristica della sua prigionia che le faceva tornare in mente quello che era stato, laggiù, con una tale intensità da rimanere con il fiato mozzo e gli occhi che le bruciavano per le lacrime ricacciate indietro a fatica. Soffriva atrocemente il freddo. Ne tremava in continuazione, da capo a piedi. Aveva perduto ogni sensibilità nelle mani e nei piedi e alla notte riusciva a dormire solo per brevi periodi prima che quel gelo la risvegliasse. E aveva fame. Il cibo veniva passato regolarmente ai detenuti, anche se in dosi ridottissime, ed era tutt'altro che saporito. Questo sì, che assomigliava un po' alla Crimea e forse era anche quasi meglio: qui non aveva paura che la lasciassero morire di fame. Il rischio di ammalarsi era continuo, ma talmente insignificante che non ci pensava quasi più. Un paio di volte, invece, ebbe paura di farsi male o ferirsi, e non tanto per qualche colpo di cannone o per la pallottola di un fucile, naturalmente, ma soltanto perché rischiava di continuo di essere picchiata, o urtata intenzionalmente perché cadesse, dalle guardiane che lasciavano capire senza possibilità di equivoci quanto la detestassero. Se si fosse ammalata, non si faceva illusioni che qualcuno pensasse a curarla o ad assisterla; e questo pensiero era ancora più terrorizzante di tutto quanto aveva cercato di prevedere. Cadere ammalata lì, sola, oppure sotto lo sguardo degli occhi malevoli di persone che provavano piacere di fronte al suo malessere, la sua debolezza e il trattamento indegno che le riservavano, era qualcosa di tanto orribile che a volte la faceva ritrovare in un bagno di sudore gelido, le faceva sentire il cuore che batteva più forte, quasi in preda al panico. Ecco qual era la differenza più grande. In Crimea era stata rispettata dai suoi colleghi, e adorata dai soldati ai quali aveva tanto dedicato. Ma l'affetto o la sensazione di avere uno scopo preciso in quello che si fa, possono
essere un nutrimento per chi ha fame, dare calore anche nell'inverno più crudo, trasformarsi in anestetico per la sofferenza. È qualcosa che può perfino annullare la paura e far ritrovare l'energia perduta quando si è estenuati. L'odio e la solitudine guastavano ogni cosa. E poi c'era il tempo. In Crimea aveva lavorato quasi di continuo, in qualsiasi minuto delle sue giornate. Qui non aveva nient'altro da fare, salvo rimanere seduta sulla sua branda e aspettare, un'ora dopo l'altra, dalla mattina fino alla sera, giorno dopo giorno. Non poteva fare niente che le fosse di aiuto. Tutto era stato rimesso nelle mani di Rathbone, oppure di Monk. Lei si trovava davanti soltanto l'inattività, e senza fine. Aveva preso la risoluzione di non azzardarsi nemmeno a pensare al futuro, di non proiettare la propria mente troppo avanti, fino al processo, di non cercare nemmeno di immaginare l'aula del tribunale come l'aveva già vista tante volte dalla galleria riservata al pubblico, quando era andata ad assistere ai processi dove l'avvocato difensore era Rathbone. Stavolta sarebbe toccato a lei trovarsi sul banco degli imputati, sarebbe toccato a lei osservare di lì tutto ciò che aveva intorno. Il processo si sarebbe svolto all'Old Bailey? Si sarebbe ritrovata nella stessa aula del tribunale in cui era già stata, travolta da paura, orrore o compassione per altri? Non faceva che girare e rigirare intorno alla propria paura con la mente benché avesse giurato a se stessa di non farlo, esaminandola, mettendola alla prova, cercando di indovinare fino a che punto la realtà sarebbe stata diversa da ciò che l'immaginazione le dipingeva. Era un po' come toccare in continuazione una ferita, vedere se faceva male sul serio, proprio come si pensava, se per caso non era già un po' guarita, oppure se non era peggiorata. Quanto spesso le era capitato di rimproverare i soldati feriti perché stavano facendo la stessa cosa? Era stupido oltre che dannoso. E adesso ecco qui anche lei a commettere lo stesso errore. Era un po' come se fosse stata costretta a contemplare senza requie il proprio destino, illudendosi che potesse cambiare, che non fosse davvero come sembrava. E poi c'era quell'altra idea che continuava a sopravvivere in fondo al cervello: cioè, se riusciva ad assorbire adesso tutta la sofferenza possibile, chissà che ai momento in cui tutto questo si fosse trasformato in realtà, non si sentisse ormai preparata ad affrontarlo! La sua desolazione venne interrotta dallo stridio di una chiave che girava nella serratura e dalla porta che veniva spalancata. Lì non era possibile avere niente di privato, un pizzico di riservatezza; la sua cella era contem-
poraneamente isolata in modo totale eppure nello stesso tempo accessibile, in qualsiasi momento, all'ingresso di chiunque. La guardiana che lei detestava maggiormente si presentò lanciandole un'occhiataccia, i capelli chiari raccolti in cima alla testa in una crocchia talmente stretta che le tirava perfino la pelle intorno agli occhi. La sua faccia era quasi completamente priva di espressione. Solo un leggero fremito agli angoli della bocca rivelava non solo il suo disprezzo, ma anche la soddisfazione che provava a manifestarlo. «In piedi, Latterly» ordinò. «Qui c'è qualcuno che vuole vederti.» La sua voce, mentre le dava questo annuncio, era venata di stupore e di rabbia. «Sei fortunata. Cerca di approfittarne meglio che puoi. Non mancherà molto al tuo processo, ormai, e allora non ci sarà più tutto questo andirivieni a tutte le ore!» «Non sarò più qui a preoccuparmene» Hester ribatté acida. Le sopracciglia sottili della guardiana si sollevarono. «Cosa credi? Che te ne andrai a casa? Figurarsi! Ti manderanno sulla forca, mia bella signorina, ti appenderanno per quel tuo collo bianco e magro, fino a che non morirai. E allora non avrà più senso che qualcuno venga a trovarti!» Hester la esaminò lentamente da capo a piedi, con attenzione, incrociando il suo sguardo. «Ho visto anche troppe persone impiccate, che sono state trovate innocenti, dopo, per mettermi a discutere con voi» disse con voce alta e chiara. «La differenza sta nel fatto che questo non vi interessa. Volete veder qualcuno impiccato, e la verità non ha importanza per voi.» La faccia della donna si coprì di rossore mentre la solida muscolatura del suo collo si contraeva. Fece un mezzo passo in avanti. «Stai attenta a come parli, Latterly, o ti faccio vedere io! Prova a ricordarti chi ha in mano le chiavi, qui, vero... e non sei tu, eh? Ce l'ho io il potere, e sarai ben contenta di avermi dalla tua parte quando arriverà la fine. Ho visto un mucchio di gente che si credeva coraggiosa... fino alla notte prima di andare alla forca.» «Dopo un mese affidata alle vostre cure, può darsi che persino la forca non sembri poi così brutta» Hester osservò con amarezza, ma si accorgeva di avere lo stomaco chiuso e il fiato mozzo. «Chi viene a farmi visita?» La sua speranza era stata che si trattasse di Rathbone. Era lui la sua ancora di salvezza, ciò che la teneva ancora unita a un briciolo di sanità mentale. Callandra era venuta un paio di volte ma Hester, senza riuscire a spiegarselo, si era accorta, quando la vedeva, di commuoversi troppo facilmente e di non saper dominare i propri sentimenti. Forse la colpa era di Cal-
landra stessa che le dimostrava chiaramente il suo affetto e l'intensità della sua preoccupazione. Hester, quando lei se ne andava, provava sempre un senso incontrollabile di solitudine. E ci voleva tutta la sua forza di volontà per non abbandonarsi a un accesso di pianto. Ma era soprattutto il pensiero del ritorno della guardiana, del suo disprezzo e della sua soddisfazione, a impedirglielo. Adesso, al di là delle spalle poderose della donna, poté scorgere non Rathbone, ma suo fratello Charles che appariva pallido e profondamente abbattuto. Si sentì travolgere all'improvviso dai ricordi. Le parve di essere quasi sopraffatta dall'angoscia mentre le affiorava alla memoria l'immagine della sua faccia al ritorno a casa dalla Crimea dopo la morte dei genitori. Era stato Charles a descriverle con abbondanza di particolari tutta la gravità della tragedia, e non solo la morte da suicida del padre ma anche come la mamma lo avesse seguito molto presto perché quel suicidio le aveva spezzato il cuore, a informarla che si erano lasciati indietro la rovina, la perdita del patrimonio di famiglia. Anche allora aveva avuto la stessa espressione, che le pareva ormai familiare, in cui si confondevano imbarazzo e ansietà. Appariva completamente indifeso, e per quanto strano fosse, non riusciva a nascondere, ma anzi metteva a nudo con tale semplicità tutti i propri sentimenti e le proprie emozioni che Hester, quando se lo trovò di fronte, ebbe l'impressione di essere tornata bambina. Lui si fece avanti oltrepassando la guardiana, girandole un po' intorno, con gli occhi fissi su Hester. Ed Hester era in piedi, come le era stato ordinato. Gli occhi di Charles si spostarono rapidamente per la cella, soffermandosi su ogni particolare, le pareti spoglie, l'unica finestra lassù, incassata nel muro a una tale altezza per cui nessuno avrebbe potuto guardare fuori di lì. e il cielo grigio oltre le sbarre. Poi osservò la branda con quella specie di comoda incorporata. E infine, per ultima, guardò Hester, chiusa nel liscio e semplice abito da infermiera, grigioazzurro. Fissò la sua faccia, riluttante, come se non riuscisse a sopportare di leggervi ciò che sapeva di doverci leggere. «Come stai?» Le domandò con voce roca. Lei avrebbe voluto dirglielo, e liberarsi del fardello della solitudine e della paura, ma osservando la sua stanchezza, i suoi occhi cerchiati di rosso e sapendo che non avrebbe potuto fare niente, nel modo più assoluto, per soccorrerla salvo soffrire come lei e sentirsi colpevole perché mancava dei poteri necessari ad aiutarla, si accorse che era impossibile. Anzi non lo
prese neanche in considerazione. «Sto perfettamente bene» disse con voce chiara, netta. «Nessuno potrebbe dire che sia piacevole, ma sono sopravvissuta a molto di peggio senza riportarne particolari danni.» Charles si rilassò di colpo; perfino dalla sua espressione scomparve un po' della tensione di prima. Desiderava crederle, e con tutto il cuore; non aveva nessun desiderio di mettere in dubbio ciò che lei gli stava dicendo. «Sì... sì, certo» confermò. «Sei una donna straordinaria.» La guardiana era rimasta lì ad aspettare per dargli le solite istruzioni e spiegargli come fare a chiamarla prima di andar via, ma sentendosi esclusa da quello scambio di parole, si ritirò e sbatté forte la porta senza aprire più bocca. Charles sobbalzò a quel rumore e si voltò di scatto per trovarsi di fronte quella barriera di ferro, liscia e anonima, senza maniglia dalla parte interna. «Va' bene così» Hester si affrettò a dire. «Tornerà quando sarà scaduto il tempo della visita.» Lui riportò gli occhi su Hester, sforzandosi di sorridere anche se gli riuscì male. «Ti danno da mangiare a sufficienza? Ti tengono abbastanza al caldo? A me sembra che qui faccia freddo.» «Non è poi male» mentì lei. «In fondo, non è neanche così importante. Chissà quante persone non hanno mai avuto niente di meglio!» Lui stava cercando disperatamente qualcosa da dire. La solita conversazione formale e bene educata sembrava talmente ridicola... eppure si accorgeva di aver orrore di quella che era la realtà. Fu Hester a decidere per lui altrimenti l'intera visita sarebbe passata a quel modo e non sarebbero mai riusciti a dire niente di tutto quello che, invece, aveva importanza. «Monk è andato a Edimburgo per cercar di scoprire quello che è realmente successo» cominciò. «Monk? Oh, quel poliziotto con il quale tu... che tu conosci. Ma tu...» si interruppe, cambiando immediatamente idea su quello che stava per dire. «Sì» fu Hester a concludere la frase per lui. «Secondo me, le sue probabilità di scoprire la verità sono buone come quelle di qualsiasi altro. Anzi, migliori. Lui non accetta le bugie, sa che non sono stata io a ucciderla e, quindi, continuerà a interrogare e a osservare e a riflettere fino a quando scoprirà chi è stato.» Si sentì meglio per esser riuscita a esprimere a parole tutto questo. Lo diceva per convincere Charles ma, se non altro, era servito anche a sollevare lo spirito a lei. «Ne sei sicura?» Lui domandò ansiosamente. «Non puoi aver commesso
uno sbaglio, eh? Eri stanca, con una paziente che non ti era familiare...» sembrava che volesse scusarsi per ciò che stava dicendo, la faccia arrossata, gli occhi dall'espressione tragicamente grave. Hester avrebbe voluto arrabbiarsi e prendersela con suo fratello, ma se ne dimenticò quasi subito e la collera l'abbandonò, stemperandosi in compassione, dato che lo conosceva molto bene. Che senso aveva ferirlo, addolorarlo? Avrebbe già sofferto anche troppo, in quella situazione. «No» si affrettò a rispondere. «C'era un solo flaconcino di medicina per ogni dose. E io le ho dato un flaconcino. Non era una vecchietta svanita che non sapeva quel che stava facendo, Charles. Era interessante, divertente, saggia, e molto attenta, e consapevole di ogni cosa. Non mi avrebbe certo permesso di commettere uno sbaglio, anche se io mi fossi trovata, mentalmente, nelle condizioni di farlo.» Lui si rabbuiò. «Allora vuoi forse dire che qualcun altro l'ha uccisa deliberatamente?» Era un pensiero orribile, ma inevitabile. «Sì.» «Potrebbe essere stato il farmacista a preparare la medicina con dosi sbagliate?» Si dibatteva anche lui alla ricerca di una risposta più accettabile. «No... non direi. Non solo, ma quella non era la prima dose che lei aveva preso. Se l'intera serie dei flaconcini fosse stata preparata sbagliando le dosi, già la prima avrebbe dovuto ucciderla. E poi chi ha messo la spilla nella mia sacca da viaggio? Impossibile pensare che sia stato il farmacista, vero?» «La cameriera di questa signora?» «Un errore del genere sarebbe impensabile. Sarebbe impossibile commetterlo per sbaglio. Tutti i suoi gioielli erano raccolti nell'astuccio da viaggio che portava con sé, e che era stato messo nella valigetta con il necessario per la notte. C'era soltanto questo gioiello, da solo, nella mia sacca che, in ogni caso, è assolutamente diversa da tutte le sue valigie. Non solo, ma la mia sacca e la sua valigetta per la notte non sono state mai l'una vicino all'altra fino a quando non ci siamo trovate sul treno.» La faccia di Charles era logorata dall'angoscia. «In tal caso suppongo che qualcuno volesse ucciderla... e far accusare te.» Si morse un labbro, socchiudendo gli occhi e corrugando le sopracciglia. «Hester, per amor di Dio, si può sapere perché non hai mai voluto accontentarti di qualche occupazione più rispettabile? Non fai che trovarti coinvolta in crimini e scia-
gure dell'uno o dell'altro genere. Prima il caso Grey, poi i Moidore e i Carlyon, e infine quella tragica faccenda all'ospedale. Si può sapere cosa ti sta succedendo? È quell'uomo, Monk, che ti coinvolge in tutto questo?» La insinuazione la colpì sul vivo ferendola nell'orgoglio, e anche perché qualcuno potesse pensare che, in un modo o nell'altro, fossero Monk, o l'affetto che provava per lui, a governare la sua esistenza. «No, niente affatto» rispose in tono brusco. «Assistere gli infermi è una vocazione che di tanto in tanto comporta anche il contatto con la morte. La gente muore, Charles; tanto per cominciare, muoiono soprattutto quelli che sono malati.» Lui parve confuso. «Ma se la signora Farraline era così malata, perché partono dal presupposto che sia stata assassinata? A me questo sembra del tutto irragionevole.» «Non era malata!» Hester ribatté, infuriandosi. Si accorgeva di essere in una trappola che si era preparata con le sue stesse mani. «Era semplicemente anziana, e soffriva di una lieve malattia cardiaca. Avrebbe potuto vivere ancora per anni e anni.» «Insomma, Hester, così non va. O è zuppa o pan bagnato! O la sua morte è stata una cosa normale, e dovevano aspettarsela, oppure no! A volte le donne sono creature incredibilmente prive di logica!» Abbozzò un sorriso. Non era scortese, e nemmeno voleva fare una critica, si mostrava soltanto paziente. Fu come aver dato esca a una fiammata. «Fandonie!» Hester gridò. «Come osi venirmi davanti a parlare della "maggior parte delle donne". In ogni caso, la maggior parte delle donne non è mai tanto priva di logica come la maggior parte degli uomini. Siamo soltanto differenti, tutto qui. Teniamo meno conto dei cosiddetti fatti, come tu li chiami, e badiamo più ai sentimenti delle persone. E capita molto più spesso che abbiamo ragione noi. In ogni caso siamo molto più dotate di senso pratico. Voi siete soltanto teorie, una buona metà delle quali non funzionano perché hanno qualcosa di sbagliato oppure qualcosa che voi non capite e che rende assurdo tutto il resto.» Si interruppe di colpo, perché era rimasta senza fiato e si stava accorgendo di quanto la sua voce fosse stridula e sonora e anche, perché di colpo si era resa conto di essersi messa a litigare con l'unica persona nell'intero edificio, e forse nell'intera città, che si fosse veramente schierato dalla sua parte, e che da tutta quella faccenda non ricavasse nient'altro che dispiacere e amarezza. Era forse il caso di chiedere scusa a Charles, anche se era sempre così pomposo e
prendeva una grossa cantonata nell'interpretazione dei fatti? Ma lui la prevenì e, anzi, peggiorò ancora di più le cose. «E allora chi ha ammazzato la signora Farraline?» Domandò con un tono pratico che era tragicamente grave. «E perché? È stata una questione di soldi? Evidentemente era un po' troppo vecchia perché si possa pensare alla possibilità di una relazione amorosa.» «La gente non smette di innamorarsi unicamente perché ha superato la trentina» Hester ribatté in tono brusco. Charles la guardò con tanto d'occhi. «Non ho mai sentito che una donna di più di sessant'anni fosse vittima di un delitto passionale» le rispose con voce un poco più alta del normale per l'incredulità. «Non è detto che sia stato un delitto passionale.» «Ti stai comportando in un modo molto esasperante, mia cara. Perché non provi se non altro a sederti, in modo che possiamo parlare un po' più comodamente?» Le indicò la branda dove avrebbero potuto sedere l'uno al fianco dell'altra, e fece seguire l'azione alle parole. «C'è qualcosa che potrei portarti per rendere più facile o comoda la tua situazione? Lo farò senz'altro, se me lo consentono. Ti avevo portato un po' di biancheria pulita che ero andato a prendere nella pensione dove abiti, ma quando sono entrato me l'hanno ritirata. Non dubito che te la consegneranno a tempo debito.» «Sì, per favore. Potresti pregare Imogen di cercarmi un po' di sapone da toilette. Quello che hanno qui, all'acido fenico, mi consuma letteralmente la pelle della faccia. È roba spaventosa.» «Naturalmente.» Trasalì, comprensivo. «Sono sicuro che le farà molto piacere. Te lo porterò appena me lo consentiranno.» «Non potrebbe portarmelo Imogen? Avrei piacere di vederla.» Ma già mentre lo diceva, si stava accorgendo che era una sciocchezza, che era come cercare volutamente di farsi addolorare od offendere. Un'ombra passò negli occhi di Charles e le sue guance si colorirono lievemente di rosa come se si rendesse conto che qualcosa era sbagliato, ma senza riuscire a capire di che si trattasse, o perché. «Mi duole, Hester, ma non posso permettere a Imogen di venire in questo posto. Ne rimarrebbe terribilmente sconvolta. Non riuscirebbe mai a dimenticarlo, continuerebbe a tornarle in mente, e sempre più spesso. Soffrirebbe di incubi. È un dovere per me proteggerla da cose simili, se appena è possibile. Anzi vorrei poterlo fare ancora di più.» Mentre pronunciava queste parole, aveva assunto un'aria addolorata e offesa come se ne soffrisse non solo fisicamente, ma anche nello spirito.
«Sì, certo che è un incubo» ribatté Hester con voce strozzata. «E anch'io lo sogno. Solo che quando mi sveglio non mi trovo nel mio letto a casa, al sicuro, con qualcuno che si occupi di me e mi protegga dalla realtà. Sono sempre qui, con una lunga e fredda giornata di fronte, e un'altra domani e un'altra dopo ancora.» La faccia di Charles si fece impenetrabile, come se non riuscisse ad afferrare questo concetto. «Me ne rendo conto, Hester. Ma di tutto questo Imogen non ha nessuna colpa, e nemmeno io. Sei stata tu a sceglierti la tua strada. E io ho fatto tutto quanto era in mio potere per dissuaderti. Non ho mai smesso di cercare di convincerti che dovevi sposarti quando te ne era stata offerta l'occasione, o avrebbe potuto esserti offerta se fossi stata disposta a dare un piccolo incoraggiamento a qualcuno. Ma tu non hai mai voluto ascoltarmi. No, purtroppo adesso ho paura che sia troppo tardi. Anche se questa faccenda si risolverà come spero che si risolva, e tu verrai assolta e si dimostrerà che sei completamente innocente, è molto poco probabile che tu trovi un uomo disposto a offrirti un matrimonio onorevole a meno che non si tratti di un vedovo che cerca una brava donna per...» «Non voglio nessun vedovo per il quale mandare avanti la casa e sbrigare le faccende domestiche» Hester rispose con il pianto nella voce. «Preferirei venir pagata come governante... e conservare la mia dignità e la libertà di andarmene... piuttosto che sposarmi per fare lo stesso lavoro, fingendo che in una sistemazione del genere esista anche una specie di amore, quando lui potrebbe desiderare soltanto una serva senza essere costretto a pagarla mentre a me farebbe comodo soltanto l'idea di avere un tetto sulla testa e il piatto pieno.» Charles si alzò in piedi; era impallidito, aveva la faccia dura, contratta. «Moltissimi matrimoni si concludono soltanto per ragioni di convenienza e per motivi pratici. Spesso il rispetto reciproco arriva in seguito. E in tutto questo non si perde la minima dignità.» Un sorriso gli illuminò gli occhi, gli fece incurvare le labbra. «Per essere una donna, e tu dici che le donne sono persone così dotate di praticità, sei la creatura più romantica e più completamente priva di ogni senso pratico che io abbia mai conosciuto.» Si alzò in piedi anche lei. Troppo sconvolta da emozioni diverse per rispondere. «La prossima volta che vengo ti porto un po' di sapone. Ti prego... ti prego non perdere la speranza.» Pronunciò queste parole con imbarazzo, come se fossero dettate dal dovere invece che credervi sul serio. «Il signor Rathbone è senz'altro il meglio nel...»
Lei lo interruppe. «Lo so!» Si accorse di non riuscire a sopportare di sentirsi snocciolare parole così ripetitive nella loro mancanza di sincerità. «Ti ringrazio di essere venuto a trovarmi.» Lui fece un gesto, come se volesse baciarla sulle guance, ma Hester si tirò indietro con un movimento brusco. Charles rimase sorpreso per un attimo ma accettò di essere respinto a quel modo con un'espressione che rivelava qualcosa di vagamente somigliante al sollievo, perché così poteva finalmente avere un pretesto per scappare in fretta da quel posto, e dare un taglio netto al prolungarsi di quel colloquio. «Torno... torno a trovarti... presto» le rispose, voltandosi per andare alla porta e batterci sopra con le nocche in modo da chiamare la guardiana che lo facesse uscire. Hester dovette aspettare il giorno successivo per ricevere un'altra visita, e stavolta si trattò di Oliver Rathbone. Ma era troppo disperata e infelice perché il solo fatto di vederlo fosse sufficiente a risollevarle lo spirito, e le bastò guardarlo in faccia per capire chiaramente che lui doveva aver intuito quale fosse il suo umore. Dopo il solito scambio di saluti formali Hester si rese conto, con animo oppresso, che il proprio malessere spirituale rifletteva quello di lui. «Cosa c'è che non va?» Gli domandò con voce tremula. Credeva di aver toccato il fondo, che niente sarebbe riuscito a turbarla ancora di più e, invece, si ritrovava di colpo impaurita tanto da sentirsi quasi male. «Cosa è successo?» Erano in piedi, l'uno di fronte all'altro, nel locale con le pareti imbiancate a calce, il tavolo e le seggiole di legno. Rathbone le afferrò le mani, gliele strinse. Non era una mossa calcolata ma qualcosa di istintivo, e tanta gentilezza non fece che accrescere i suoi timori. Si accorse di avere la bocca arida e respirò a fondo prima di chiedergli di nuovo se era intervenuto qualche fatto più grave, ma le mancava la voce. «Hanno dato ordine che il vostro processo si svolga in Scozia» Rathbone disse a voce molto bassa e pacata. «A Edimburgo. E io non ho validi motivi per contrastare questa decisione. Poiché, a loro giudizio, il veleno è stato somministrato in terra scozzese e, dal momento che noi sosteniamo che sia stato preparato effettivamente in casa Farraline e non abbia niente a che vedere con voi, di conseguenza si tratta, fuor di discussione, di un crimine che ha avuto luogo in Scozia. Se sapeste come mi dispiace.» Hester non capiva. Per quale motivo tutto questo era un colpo così terri-
bile? Rathbone appariva distrutto, ma senza che ce ne fosse un valido motivo. Lui chiuse per un attimo, poi riaprì, quegli occhi scuri, quasi neri, cupi, colmi di angoscia. «Sarete processata secondo la legge scozzese» le spiegò. «E io sono inglese. Non posso rappresentarvi.» Alla fine Hester capì. E ne rimase colpita come se qualcuno le avesse allungato un pugno. Gon una sola mossa, l'unico aiuto nel quale poteva sperare le veniva portato via. Adesso era completamente sola. Rimase troppo attonita, annientata, per parlare, perfino per piangere. Lui le stava stringendo la mano tanto convulsamente che la pressione delle sue dita le faceva male. E soltanto quel dolore le pareva, adesso, il legame con la realtà. Pareva quasi un sollievo. «Troveremo il migliore possibile fra gli avvocati scozzesi» lui le stava dicendo. Ma sembrava che la sua voce venisse da molto lontano. «Naturalmente penserà Callandra al suo onorario. E guai a voi se vi azzardate a discutere. Sono cose alle quali penseremo in seguito. Naturalmente io verrò su, a Edimburgo, e gli farò da consigliere in tutti i modi possibili e immaginabili. Ma sarà lui a parlare, anche se alcune delle parole saranno mie.» Hester avrebbe voluto domandargli se non esisteva qualche mezzo con cui ottenere di affidargli ugualmente la sua difesa. Conosceva la sua abilità, i suoi poteri intellettivi, il suo fascino, la sottigliezza subdola con la quale era capace di illudere, di apparire innocuo e poi di colpire mortalmente. Era stato l'unico filo di speranza a cui aveva potuto aggrapparsi. D'altra parte capiva che Rathbone non le avrebbe mai detto niente di simile se ci fosse stata anche la più piccola opportunità che potesse continuare a occuparsene lui. Evidentemente aveva già tentato ogni via a sua disposizione, e non aveva avuto successo. Era infantile, e inutile, abbandonarsi alla collera, andare in escandescenze contro l'inevitabile. Meglio accettarlo e raccogliere le proprie forze per le battaglie che dovevano ancora essere combattute, qualsiasi fossero. «Capisco...» Lui non trovò nient'altro da aggiungere. In silenzio avanzò di un passo e la prese fra le braccia, stringendola forte, rimanendo perfettamente immobile, senza nemmeno accarezzarle i capelli o una guancia, soltanto sorreggendola contro di sé. Passarono altri tre giorni in gran parte infruttuosi prima che Monk tor-
nasse a cena ad Ainslie Place. Aveva occupato quel tempo venendo a sapere altre cose sulla reputazione dei Farraline, che erano interessanti, ma del tutto inutili almeno per quanto riguardava la possibilità di scagionare Hester dall'accusa. Si trattava di persone altamente rispettate, non solo nel mondo degli affari, ma anche nella loro vita privata. Nessuno aveva avuto alcuna critica sul loro conto, salvo qualche frecciatina velenosa provocata, abbastanza logicamente, dall'invidia. A quanto risultava, Hamish aveva fondato l'azienda tipografica al suo ritorno a Edimburgo poco dopo la fine delle guerre napoleoniche, quando aveva lasciato l'esercito. Hector non aveva mai avuto una parte nella conduzione di quegli affari e continuava a non averla. Viveva, a quanto si sapeva, della sua pensione di ufficiale, poiché era rimasto in servizio anche fin dopo aver ampiamente superato la mezza età. Era venuto in visita alla famiglia del fratello molto spesso, ed era stato sempre bene accolto; adesso viveva praticamente lì, con gli altri Farraline, circondato da un lusso molto al di sopra di quelle che erano le sue possibilità. Beveva troppo, beveva esageratamente, e a quanto risultava dai pettegolezzi che si sentivano in giro, non dava un contributo in denaro né alla famiglia né alla comunità ma, all'infuori di questo, era un personaggio abbastanza simpatico, e non aveva mai dato grandi fastidi a nessuno. Se i suoi familiari erano disposti ad accettarlo così com'era e a sopportarlo, si trattava di una faccenda che riguardava loro soltanto. Del resto ogni famiglia aveva la sua pecora nera e, se alla figura di Hector era collegato qualche fatto sgradevole o vergognoso, nessuno ne sapeva niente fuori dalle mura di casa Farraline. Hamish era stato tutt'altro soggetto. Di lui parlavano come di un lavoratore accanito, di un uomo pieno di inventiva, pronto a rischiare nel campo degli affari e del commercio ed, evidentemente, di notevole successo. La sua azienda dava ottimi profitti, e si era ingrandita dagli inizi molto modesti fino a trasformarsi in una delle migliori e più note stamperie non solo di Edimburgo, ma della Scozia intera. Il personale che vi lavorava non era numeroso in quanto i Farraline preferivano la qualità alla quantità, ma aveva una reputazione senza macchia. Quanto ad Hamish era stato un gentiluomo, un tipo semplice e niente affatto pomposo. Non si poteva escludere che in gioventù avesse corso la cavallina, come suol dirsi; d'altra parte anche questo era abbastanza scontato. In ogni caso l'aveva fatto con discrezione. Non aveva mai creato imbarazzo o problemi alla sua famiglia e il suo nome non risultava legato a nessuno scandalo. Era morto da otto anni, dopo che la sua salute aveva
cominciato lentamente a declinare e, negli ultimi tempi, era sempre stata in via di peggioramento. In ultimo usciva pochissimo di casa. Non si poteva escludere che fosse rimasto vittima di una serie di colpi apoplettici; in ogni caso a risentirne erano state soprattutto le sue facoltà motorie. Non era niente di particolarmente insolito, o raro. Comunque, era stato molto triste perdere un uomo delle sue qualità. E non che suo figlio non fosse un'eccellente persona, anche lui. Meno capace in affari, ma neanche del tutto restio a lasciare la direzione dell'azienda quasi completamente in mano al cognato Baird McIvor. McIvor era un forestiero, e non bisognava dimenticarlo: inglese, ma tutt'altro che cattivo. Soggetto a improvvisi cambiamenti d'umore, a volte, però molto capace, e di un'onestà a tutta prova. Il signor Alastair era il Procuratore Fiscale, e questo solo fatto lasciava capire come sarebbe stato ben difficile, in ogni caso, che trovasse anche tempo per dirigere l'azienda di famiglia. Anche come Fiscale era abilissimo, e onorava l'intera comunità. Magari un pochino pomposo e pieno di sé per il gusto di certuni, d'altra parte un Procuratore Fiscale dovrebbe essere sempre serio, grave e austero. Se la legge non era una questione da prendere sul serio, cos'altro lo era, allora? Anche lui aveva corso la cavallina a suo tempo? Nessuno aveva mai sentito niente in proposito. Ma, a dire la verità, non sembrava davvero il tipo d'uomo capace di farlo. Non risultava che il suo nome fosse collegato a nessuno scandalo. Be', c'era stato il caso Galbraith, ma lo scandalo circondava il nome del signor Galbraight, non quello del Procuratore Fiscale. Monk domandò notizie di questo caso Galbraith, benché fosse convinto di sapere già tutto quanto gli occorreva in proposito. In gran parte si sentì riferire quello che già aveva sentito: Galbraith era stato accusato di frode; pareva che la somma di cui si parlava fosse elevata. Tutti si erano convinti che, una volta arrivati in tribunale, la faccenda si sarebbe conclusa con una condanna; poi il Procuratore Fiscale aveva dichiarato che non esistevano prove sufficienti a intentargli il processo e di conseguenza Galbraith aveva evitato la prigione... ma non la vergogna, perlomeno nell'opinione pubblica. Comunque, era un po' difficile dire che la colpa fosse del Fiscale. E Mary Farraline? Oh, che gran signora! Aveva le qualità che si potevano ammirare, dignità, cortesia immancabile con tutti, mai un briciolo di arroganza e premura nei confronti degli altri, che fossero ricchi o poveri. Quello sì, che era indi-
ce di distinzione e di finezza di sentimenti, giusto? Sempre elegante, però mai in modo ostentato. La sua reputazione personale? Non diciamo assurdità. Una domanda del genere non andava nemmeno posta sul conto della signora Farraline. Incantevole, però senza mostrare mai un'eccessiva cordialità con nessuno. Devota alla famiglia. Be', sì, certo, in gioventù era stata una gran bella donna, e naturalmente era logico che avesse avuto i suoi ammiratori. Non mancava di senso dell'umorismo e sapeva come godersi la vita, ma ce ne correva... da questo a insinuare che si fosse comportata in modo men che corretto oppure fosse stata sfiorata anche solo alla lontana da qualche scandalo! Naturalmente. E la generazione attuale? Be', aveva una reputazione abbastanza buona, ma neanche da paragonare con quella della madre, salvo forse per la signorina Oonagh. Ecco, lei sì che era un'altra autentica gentildonna. Come sua madre, perché le assomigliava, quieta e forte, di un'infinita lealtà verso la sua famiglia... e anche intelligente. C'era chi diceva che fosse lei, con il suo cervello, a mandare avanti l'azienda di famiglia, e non solo quell'uomo abile e capace che era suo marito. Avrebbe potuto essere vero. Ma anche in questo caso, erano affari loro, e di nessun altro. Monk arrivò ad Ainslie Place armato di una conoscenza molto più approfondita dello stato sociale della famiglia e della sua buona reputazione; ma niente di quello che aveva potuto osservare gli aveva offerto anche solo la più vaga idea sull'identità dell'assassino di Mary Farraline... figurarsi, poi, sulla possibilità di fornirne le prove. Fu ricevuto cortesemente da McTeer il quale adesso lo scrutava con un certo interesse, pur non nascondendo di provare tuttora, nei suoi confronti, la più totale disapprovazione. Come già era accaduto le volte precedenti, venne fatto passare nel salone dove era riunita la famiglia quasi al completo. Sembrava che il solo Alastair fosse assente. Oonagh si fece avanti ad accoglierlo con un lieve sorriso sulle labbra. «Buona sera, signor Monk.» Incrociò il suo sguardo con espressione calma, controllata, fin troppo candida e intelligente per essere lusinghiera nel senso usuale della parola. Eppure, per Monk il fatto che provasse tanto interesse verso di lui da non mostrarsi unicamente cortese come la buona educazione richiedeva, ebbe maggior valore di un pizzico di civetteria da parte di un'altra donna. «Come state?» «Benissimo, grazie; e per di più, trovo Edimburgo una città delle più in-
teressanti» le rispose, ricambiando il suo sguardo con lo stesso miscuglio di appassionato ardore nell'occhiata che le lanciò e di attenzione alle regole del gioco mondano nelle parole che le rivolgeva. Oonagh si voltò verso gli altri e lui la imitò, scambiando cortesi parole di saluto, commenti sul tempo e ricorrendo a tutte quelle altre osservazioni di una banalità sconcertante, di cui si servono le persone quando non hanno niente di importante da dire. Quella sera c'era anche Hector Farraline. Aveva un aspetto da far paura. La faccia era talmente pallida che sulle guance spiccavano, bene in evidenza, le lentiggini e gli occhi arrossati. Monk intuì che doveva scolarsi una bottiglia di whiskey al giorno per essere ridotto in condizioni simili. Se andava avanti con quel ritmo non ci avrebbe messo molto a morire alcolizzato. Sedeva semisdraiato, a gambe larghe, sul divano più ampio e soffice della stanza. Scrutò Monk con interesse e una vaga perplessità come se volesse valutare il suo ruolo negli avvenimenti. Monk vide Deirdra con lo stesso piacere che aveva già provato le altre volte. Era una donna straordinaria, ma neanche la sua più cara amica avrebbe avuto il coraggio di affermare che il suo abito fosse all'ultima moda. Monk poteva ammettere, almeno a giudicare dalle apparenze, che fosse piuttosto capricciosa e bizzarra nella scelta degli indumenti da indossare, ma il suo gusto così rigoroso e impeccabile gli consentiva di giudicare se un abito era bello, quando gli capitava di osservarlo, mentre quello di Deirdra non lo era assolutamente. D'accordo, il tessuto era ottimo, e il corpetto adorno di un ricamo in giaietto eseguito con estrema delicatezza, ma le proporzioni della gonna erano tutte sbagliate. La balza più bassa era troppo corta, e questo in una donna di piccola statura può produrre effetti addirittura disastrosi. Quanto alle maniche, poi, sembrava che fossero state rialzate, per accorciarle, sulle spalle, dove si notava una specie di pieghettatura che non avrebbe dovuto assolutamente esserci. Ma nessuna di queste cose aveva grande importanza. Rivelavano, piuttosto, quanto fosse spiccata la sua personalità, e la rendevano anche stranamente vulnerabile, una qualità che in lui aveva sempre trovato un giudice benevolo. Accettò il vino che gli veniva offerto e si accostò lievemente al focolare. «Avete occupato il vostro tempo con successo?» Quinlan gli domandò, occhieggiandolo al di sopra dell'orlo del bicchiere. Era impossibile dire se la sua domanda fosse ironica oppure no. Monk non riuscì a pensare a niente da ribattere che potesse fruttargli una
risposta utile. Cominciava a sentirsi sull'orlo della disperazione. Il tempo passava paurosamente in fretta e fino a quel momento lui non aveva sentito niente, nel modo più assoluto, che potesse essere di qualche utilità a Hester. Ma avrebbe rischiato grosso usando tattiche più pericolose? «So molto più di prima sulla vostra famiglia» rispose con un sorriso che non era tanto cordiale quanto divertito. «Alcuni fatti, qualche opinione, tutte cose di un certo interesse in un senso o nell'altro.» Era una bugia, ma non poteva permettersi la verità. «Sul nostro conto?» Intervenne Baird subito. «Sbaglio o credevo che le vostre indagini riguardassero la signorina Latterly?» «Sto investigando sull'intero quadro della situazione. A ogni modo, se ben ricordate, ho detto di aver saputo molto più di prima, non che io avessi ricercato quelle informazioni come se fossero il mio scopo primario.» «Una differenza direi quasi astratta.» Una volta tanto Quinlan prese le parti di Baird. «E cosa c'è di tanto interessante sulla nostra famiglia? Vi hanno forse raccontato che ha sposato la bellissima Eilish Farraline strappandola quasi alle braccia del suo corteggiatore precedente? Un bravo giovanotto di buona famiglia ma senza un soldo, che la sua famiglia chiaramente disapprovava.» La faccia di Baird si incupì ma fu subito chiaro che avrebbe preferito mordersi la lingua piuttosto che rispondere. Eilish per un attimo parve dispiaciuta e sconcertata, poi lanciò uno sguardo a Baird che si affrettò a girare gli occhi dall'altra parte e infine fissò Quinlan con avversione. «Una vera fortuna che abbiano dato la loro approvazione per quel che vi riguarda» Monk disse con voce atona. «È stato il fascino personale, oppure una famiglia influente o, semplicemente, la ricchezza?» Oonagh trasalì, trattenendo bruscamente il fiato, ma ci fu un lampo divertito nei suoi occhi e un'espressione che lasciava capire come lo ammirasse, intimamente, soprattutto per la sua personalità. Lui non poté fare a meno di notarlo e ne provò una profonda soddisfazione; anzi, fosse stato onesto con se stesso, lo avrebbe definito addirittura un sincero piacere. «Ecco una cosa che avreste dovuto domandare a mia suocera» Deirdra esclamò alla fine. «Immagino che fosse lei la persona di cui bisognava guadagnarsi l'approvazione. Naturalmente sotto molti aspetti Alastair... ma in cose del genere anche lui doveva essere guidato e consigliato. Non so per quale motivo l'altro giovanotto non gli riuscisse gradito. A me sembrava simpatico e perfettamente adatto.»
«"Perfettamente adatto" è una formula che non dice niente» obiettò Kenneth con una sfumatura di amarezza. «Neanche i soldi sono tutto, a meno che non siano veramente tanti, e poi ancora tanti. In sostanza, quella che importa è la rispettabilità... non ti pare, Oonagh?» Oonagh lo guardò con aria paziente ma anche con sottile perspicacia. «Be', certamente non è la bellezza, o lo spirito o il sapersi divertire... e ancor meno sapere come far divertire gli altri, mio caro. Donne di quel genere hanno un loro posto ben preciso, ma non è all'altare.» «Per amor di Dio, ti pregherei di non volerci addirittura spiegare quale sarebbe, invece, questo posto» si affrettò a interloquire Quinlan guardando Kenneth. «La risposta è fin troppo ovvia.» «Be', io continuo a non capirci niente, esattamente come prima» osservò Baird, con gli occhi fissi sulla faccia di Quinlan. «Tu non hai un patrimonio, della tua famiglia non si è mai parlato, e il fascino personale non merita la pena di essere preso in considerazione.» Oonagh lo guardò con un'espressione incomprensibile. «A noi Farraline non occorrono né soldi né legami con particolari famiglie. Noi ci sposiamo perché lo vogliamo. Quinlan ha le sue qualità e fintanto che esse fanno piacere a Eilish, e noi diamo la nostra approvazione, il resto non ha importanza.» Sorrise a Eilish. «Non è forse così, cara?» Eilish esitò; la sua espressione, in quel momento, rivelava un curioso gioco di sentimenti che lottavano per manifestarsi l'uno in contrasto con l'altro, ma alla fine si addolcì trasformandosi in qualcosa di molto simile al desiderio di scusarsi, e ricambiò il suo sguardo. «Sì, certo che è così. A suo tempo ti ho detestato perché ti mostravi d'accordo con la mamma. Anzi credevo che fossi soprattutto tu da biasimare. Ma adesso posso capire che non sarei mai stata felice con Robert Crawford.» Lanciò uno sguardo a Baird, poi girò gli occhi dall'altra parte. «Non c'è dubbio che non fosse la persona giusta per me.» Sulle guance di Baird si diffuse un cupo rossore; ed evitò di guardarla. «Amore romantico» Hector disse apparentemente più a se stesso che a chiunque altro dei presenti. «Che sogno... che bel sogno.» Il suo tono era quello di chi torna con la memoria ai propri ricordi, e gli occhi assorti non si fissavano su nulla in particolare. Tutti gli altri lo ignorarono, volutamente. «C'è per caso qualcuno che sappia a che ora possiamo aspettare Alastair?» Kenneth domandò, passando con gli occhi da Deirdra a Oonagh. «Dobbiamo aspettare... di nuovo... che arrivi anche lui per andare a cena?»
«Dovesse ritardare» Oonagh rispose gelida «sarà per un eccellente motivo, e non perché è privo di considerazione per gli altri oppure ha qualche occupazione mondana alla quale dà la preferenza.» Come un ragazzino, Kenneth fece una smorfia ma non soggiunse niente. Monk si formò la netta impressione che non ne avesse il coraggio, anche se gli sarebbe infinitamente piaciuto. La conversazione continuò saltuariamente, un po' forzata, per altri dieci minuti o un quarto d'ora. Monk si ritrovò a chiacchierare con Deirdra, e non del tutto involontariamente, perché gli piaceva la sua compagnia e non, certo, per ottenere quelle informazioni che interessavano a Oonagh. Era una donna intelligente e gli sembrava schietta, senza quella sottile ambiguità che lui detestava. Intanto osservava Eilish con la coda dell'occhio, ma la sua luminosa bellezza non aveva per lui alcun incanto. Preferiva personalità e spirito. La bellezza in sé e per sé circondava sempre una persona di un alone di invulnerabilità, e proprio per questo la trovava particolarmente priva di attrattive. «Avete scoperto sul serio qualcosa sulla morte della mia povera suocera, signor Monk?» Deirdra gli domandò con aria grave. «Mi auguro che questa faccenda non si trascini per molto tempo ancora, creando ulteriore inquietudine e malcontento, sapete?» Il tono con cui aveva parlato trasformò l'affermazione in una domanda; anche i suoi occhi scuri erano colmi di ansia. Meritava la verità... per quanto Monk non avrebbe esitato a mentire perfino a lei se avesse anche solo pensato che potesse servire ai suoi scopi. «Purtroppo non riesco a vedere come si possa risolvere facilmente» replicò. «I processi penali sono sempre sgradevoli. Nessuno finirà...» si impose con uno sforzo di dirlo «...sulla forca senza che sia stato fatto tutto quello che si può per evitarlo.» D'un tratto, e in un modo assolutamente assurdo, si accorse di essere travolto da un odio cieco per tutti i Farraline, lì in piedi in quella bella stanza calda in attesa di essere chiamati a cena. Uno di loro aveva assassinato Mary Farraline e aveva tutte le intenzioni di lasciare che la legge condannasse a morte Hester al suo posto. «E poi non c'è dubbio che un buon avvocato difensore cercherà di spargere critiche rimproveri e sospetti in qualsiasi altra direzione» soggiunse a denti stretti. «Naturale che sarà sgradevole. Lei lotta per la propria vita. È una donna coraggiosa che ha già affrontato anche prima la solitudine, le privazioni e i pericoli. Non si arrenderà. Dovrà essere piegata e sconfitta.»
Deirdra lo stava fissando con la faccia tesa, gli occhi sgranati. «Parlate come se la conosceste bene» disse con una voce che era appena poco più forte di un sussurrio. Monk riacquistò immediatamente tutto il suo autocontrollo, come un corridore che, dopo aver inciampato, riprende subito l'equilibrio. «È compito mio, signora Farraline. Mi riuscirebbe difficile difendere gli interessi dell'accusa se non avessi familiarità con il nemico.» «Oh... no, immagino di no. Non ci avevo pensato.» Aggrottò le sopracciglia. «A dire la verità non ho mai riflettuto molto su tutto questo. Alastair dovrebbe saperlo meglio di me. Suppongo che abbiate parlato con lui.» Era l'affermazione di qualcosa che dava per scontato, non una domanda. Intanto aveva presa un'aria vagamente mortificata. «Credo proprio che dovreste parlare con Oonagh. Non esiste nessuno che sia più osservatore di lei. Si direbbe che riesca sempre a capire tutto quanto è sottinteso nelle parole di una persona, e non le prende mai alla lettera. Me ne sono accorta spesso. È molto abile nell'interpretare il carattere e la personalità del suo prossimo.» Sorrise. «In fondo è una qualità che dà conforto, avere la sicurezza che qualcuno ti comprende tanto bene.» «Salvo nel caso della signorina Latterly» Monk disse con più sarcasmo di quanto non volesse. A Deirdra il suo tono non sfuggì, e lo scrutò con un misto di intuizione di difesa. Lui si scoprì indispettito non solo per essere stato scortese nei suoi confronti ma anche per essersi tradito. «Non dovete biasimare lei per quello» Deirdra si affrettò a dire. «Aveva tanto da fare, occupandosi come si occupava della mia povera suocera. Era lei con la quale si confidava. Sembrava molto preoccupata per Griselda.» Una ruga sottile si disegnò tra le sue sopracciglia. «Non avrei pensato che ci fosse sul serio qualcosa che non andava. Perché lei è sempre stata il classico tipo della persona che si preoccupa di tutto. Invece c'è da pensare che si trattasse di qualcosa di ben più serio? La prima gravidanza può essere difficile, a volte. Come qualsiasi altra, naturalmente, a dire la verità. Però so che Griselda scriveva parecchie volte alla settimana fino a quando, a un certo momento, perfino Oonagh ha finito per ammettere che era indispensabile che mia suocera andasse a Londra a rassicurarla. Adesso, povera creatura, non saprà mai quello che mia suocera avrebbe potuto dirle.» «Ma la signora McIvor non potrebbe scriverle nel modo più adatto per rassicurarla?» Monk provò a insinuare.
«Oh, sono sicura che deve averlo fatto» Deirdra esclamò in tono deciso. «Vorrei poter essere di aiuto anch'io, ma non so assolutamente quale fosse il motivo della sua ansia. Credo che si tratti di qualcosa che riguarda la storia della famiglia dal punto di vista medico, sul quale mia suocera avrebbe potuto tranquillizzarla.» «In tal caso non dubito che la signora McIvor avrà già pensato a farlo.» «Naturalmente.» Sorrise, di colpo rasserenata. «Se c'è qualcuno che può aiutarla, questa è Oonagh. A parte il fatto che mia suocera si sarebbe confidata con lei in qualsiasi caso. Quindi saprà con precisione cosa dire a Griselda per farla sentire meglio.» Il prolungarsi della conversazione venne reso impossibile dall'arrivo di Alastair che aveva l'aria stanca e un po' infastidita. Per prima cosa si rivolse a Oonagh con la quale scambiò solo una o due parole; poi si rivolse a sua moglie salutandola e si scusò con Monk del ritardo. Dopo un minuto, suonò il gong e tutti passarono in sala da pranzo. Erano già arrivati alla seconda portata quando cominciarono le difficoltà. Hector fino a quel momento era rimasto seduto al suo posto in un relativo silenzio limitandosi solo a qualche risposta occasionale, a monosillabi, finché d'un tratto puntò lo sguardo su Alastair che gli sedeva di fronte, scrutandolo con aria corrucciata anche se riusciva a mettere a fuoco la sua faccia, con quegli occhi un po' vitrei, con evidente fatica. «Suppongo che sia di nuovo quella causa» disse indignato. «Dovresti lasciarla stare. Hai perduto. Punto, e basta.» «No, zio Hector» Alastair rispose stancamente. «Avevo una riunione con lo sceriffo per tutt'altra faccenda, qualcosa che è completamente nuovo.» Hector si lasciò sfuggire una specie di grugnito e non parve affatto convinto, ma non si poteva neanche escludere che fosse troppo ubriaco per aver capito. «Gran brutta causa, quella. Avresti dovuto vincerla. Non mi meraviglio che tu continui a pensarci.» Oonagh riempì il proprio bicchiere di vino dalla caraffa che c'era sul tavolo e lo passò a Hector. Lui lo prese, lanciandole un'occhiata, ma non se lo portò subito alle labbra. «Alastair non vince né perde cause, zio Hector» gli spiegò, poi, dolcemente. «Tocca a lui decidere se le prove sono sufficienti all'imputazione, e per arrivare al processo, oppure no. Nel caso non siano sufficienti, non avrebbe senso che la causa venisse portata in tribunale. Sarebbe semplicemente uno spreco di denaro pubblico.»
«E sottoporrebbe la persona in questione, molto probabilmente innocente, a una prova durissima, a una vera e propria tortura, oltre che a essere pubblicamente svergognata» Monk soggiunse in tono piuttosto asciutto. Oonagh gli lanciò subito un'occhiata di stupore. «Certo, succederebbe anche quello.» Hector guardò Monk come se si fosse ricordato della sua presenza soltanto allora. «Oh, sì... voi siete l'investigatore, vero? Venuto ad assicurarsi che la causa contro quell'infermiera proceda. Peccato.» Occhieggiò Monk con evidente antipatia. «Mi piaceva. Simpatica ragazza. Coraggio. Ci vuole un sacco di coraggio per una donna per andare in un posto come la Crimea, sapete, a curare i feriti.» Adesso sulla sua faccia si era disegnata un'espressione di aperta ostilità. «Cercate di essere ben sicuro di quello che fate, giovanotto. E anche a essere maledettamente sicuro di aver messo le mani sulla persona giusta.» «È quello che farò» rispose Monk, incupito. «La mia dedizione e il mio impegno sono molto più grandi di quello che potete nemmeno immaginare.» Hector lo guardò con tanto d'occhi; poi quasi con riluttanza cominciò a sorseggiare il vino di Oonagh. «Su questo non c'è il minimo dubbio, zio Hector» Quinlan intervenne in tono stizzoso. «E se tu fossi un poco più sobrio, lo capiresti.» «Eccome se lo capirei!» Hector era indispettito. Posò il bicchiere, e poco ci mancò che non lo rovesciasse. Fu Eilish a salvare la situazione perché, trovandosi di fianco a lui, dall'altro lato, si protese a spostare il manico di un cucchiaio per toglierlo di mezzo. «E per quale motivo dovrei capirlo?» Hector domandò, senza badare a Eilish. «Per quale motivo dovrei capirlo, Quinlan?» «Be', se vogliamo partire dal presupposto che, se non è stata lei, è stato uno di noi» Quinlan rispose, mostrando i denti in una specie di sorriso forzato «lei era l'unica persona ad avere un movente. La spilla è stata trovata nella sua sacca da viaggio.» «Libri» Hector disse con aria soddisfatta. «Libri?» Quinlan ripeté in tono derisorio. «Si può sapere di che cosa stai parlando? Quali libri?» Sulla faccia di Hector si disegnò un lampo di irritazione; poi, evidentemente, cambiò idea e preferì dominarsi. «I libri dell'azienda» disse con un sorriso. «I libri mastri.» Ci fu un attimo di silenzio. Kenneth posò coltello e forchetta.
«La signorina Latterly non sapeva niente dei libri mastri della nostra azienda, zio Hector» Oonagh disse con voce pacata. «Era arrivata a Edimburgo soltanto quella mattina.» «Naturale, che lei non ne sapesse niente» Hector confermò in tono indignato. «Ma noi, sì.» «Naturale, che noi ne sappiamo qualcosa» Quinlan ammise. E a Monk parve che solo per un attimo si fosse trattenuto dal soggiungere «...stupido che non sei altro.» «E uno di noi sa se sono corretti o sbagliati» Hector continuò intestardendosi. La faccia di Kenneth si era colorita di rosa. «Io per esempio, zio Hector. Perché è compito mio occuparmene. E i conti tornano... al centesimo.» «Certo che i conti tornano» Oonagh esclamò con franchezza, guardando in faccia prima Kenneth, poi Hector. «Sappiamo tutti che sei addoloratissimo, che sei sconvolto, per la morte della mamma, ma stai cominciando a dire cose senza senso, zio Hector. E questo non rende giustizia a nessuno di noi. Sarebbe una buona idea se tu volessi smettere di discutere di questo argomento, così poi nessuno avrà da pentirsene.» Intanto non lo abbandonava nemmeno per un attimo con gli occhi. «La mamma non avrebbe certo avuto piacere di vederci litigare, oppure di sentirci fare osservazioni offensive come questa.» Hector sembrava instupidito, come se per un momento avesse dimenticato la morte di Mary e poi, tutto d'un tratto, il peso del suo dolore gli fosse di nuovo crollato addosso di colpo. La sua faccia diventò pallidissima e per un attimo diede l'impressione di essere lì lì per svenire. Eilish si protese verso di lui come se volesse sorreggerlo, anzi il suo gesto risultò subito necessario per aiutarlo a rimanere dritto e seduto sulla seggiola; Baird si alzò immediatamente e girando intorno al tavolo gli venne vicino, aiutandolo in parte ad alzarsi. «Su, vieni, zio Hector. Lascia che ti accompagni nella sua camera. Credo che faresti meglio a sdraiarti sul letto per un po'.» Un'espressione di furore passò sulla faccia di Quinlan mentre Eilish e Baird, insieme, aiutavano Hector ad alzarsi e lo accompagnavano fuori dalla sala da pranzo, sorreggendolo mentre lui procedeva strascicando i piedi, e barcollando. Poterono udire il suono dei loro passi che attraversavano, con andatura irregolare, il vestibolo, la voce di Eilish che diceva qualche parola di incoraggiamento, poi i toni più caldi e profondi di quella di Baird.
«Non so come esprimervi la mia desolazione» Oonagh si scusò, guardando Monk. «Purtroppo il povero zio Hector non gode di quella buona salute che tutti vorremmo. Quello che è successo lo ha colpito molto duramente.» Gli rivolse un sorriso gentile, cercando tacitamente la sua comprensione. «A volte, ho paura che si confonda in un modo terribile.» «Non mi sembra il caso di dire che non "sta bene come vorremmo"» Quinlan esclamò in tono malevolo. «È ubriaco fradicio, quel vecchio imbecille!» Alastair gli scoccò un'occhiata di avvertimento, ma si trattenne dal pronunciare anche una sola parola. Deirdra suonò il campanello perché i domestici venissero a togliere i piatti e a servire la portata successiva. Avevano finito di cenare ed erano tornati di nuovo nel salone prima che Oonagh potesse cogliere l'occasione di scambiare qualche parola a quattr'occhi con Monk. Erano tutti lì, insieme, nella stessa stanza, ma con tale discrezione che nessuno sembrò accorgersene Oonagh lo condusse a poco a poco il più lontano possibile dagli altri fino a quando si ritrovarono soli davanti a una grande finestra, che adesso era stata chiusa contro il buio della notte sempre più fredda, e lontano dalla portata d'orecchio di chiunque. Monk d'un tratto si sentì salire alle narici una folata del suo profumo. «Come state procedendo nella vostra impresa, signor Monk?» Gli domandò a voce bassa. «Sono venuto a sapere ben poche cose che non fossero già previste» rispose lui guardingo. «Su di noi?» Non aveva senso tergiversare, né Oonagh era la donna alla quale Monk fosse pronto a raccontare una bugia, o con la quale volesse raccontarne, proprio su quell'argomento. «Naturalmente.» «Avete scoperto dove Deirdra spende tutti quei soldi, signor Monk?» «Non ancora.» Lei fece una piccola smorfia amareggiata, con la quale pareva anche volersi scusare. Ma nella sua espressione c'era qualcosa di più, qualcosa di tanto intimo e segreto che Monk non riuscì a interpretarlo. «Riesce a sperperare somme enormi di denaro, che non hanno spiegazione convincente neanche se vogliamo considerarle come le solite spese per mandare avanti la casa. Fra l'altro, di quelle, e per la massima parte, se ne occupava mia madre fino al giorno della sua morte, e naturalmente me ne occupavo an-
ch'io.» Si incupì. «Deirdra dice di spendere tutti quei soldi per farsi dei vestiti, ma bisogna pensare che sia esageratamente stravagante perfino per una donna alla moda, sia pure con tutti gli obblighi che una certa posizione sociale richiede.» Respirò profondamente e poi guardò Monk dritto negli occhi. «Sta facendo nascere qualche preoccupazione in mio fratello Alastair. Se... se voi doveste scoprirlo, nel corso delle vostre indagini, vi saremmo gratissimi di saperne qualcosa.» L'ombra di un sorriso le incurvò le labbra. «E potremmo esprimervi la nostra gratitudine nel modo più appropriato e conveniente. Ma non desidero offendervi.» «Vi ringrazio» rispose lui con franchezza. Sì, doveva confessarselo, poteva sentirsi ferito nell'orgoglio con enorme facilità. «Dovessi trovare la risposta a ciò che mi chiedete, e non è escluso che ci riesca, non dubitate che sarà mia premura informarvi subito.» Gli sorrise, sinceramente lieta di essersi accordata con lui; subito dopo spostò il discorso sui soliti argomenti scipiti e banali. Monk si congedò prima delle undici meno un quarto ed era nel vestibolo in attesa che McTeer sbucasse dalla porta a doppio battente di feltro verde quando Hector Farraline scese barcollando le scale e scivolò, sdrucciolando giù per gli ultimi sei gradini e atterrando in fondo alla rampa, aggrappato al pomo del pilastrino, con un'espressione profondamente assorta. «Troverete chi ha ucciso Mary?» Disse in un bisbiglio, lasciando stupito Monk perché, pur ubriaco fradicio come doveva essere, riusciva ancora a parlare sottovoce. «Sì» rispose semplicemente Monk. Secondo lui, argomentazioni razionali o spiegazioni di qualsiasi genere, in quel momento, non sarebbero servite a nient'altro che a prolungare un colloquio il quale non avrebbe potuto diventare che faticoso ed esasperante. «Era la donna migliore che io abbia mai conosciuto.» Hector batté le palpebre e i suoi occhi si colmarono di una tristezza infinita. «Avreste dovuto vederla quando era giovane. Non è mai stata bella come Eilish, ma aveva quella stessa caratteristica, quella specie di luminosità che irradiava dall'interno, quasi come un fuoco.» Scrutò il fondo del vestibolo, al di là delle spalle di Monk, e per un attimo i suoi occhi si posarono sul grandioso ritratto del fratello che fino a quel momento Monk aveva notato solo distrattamente. Le labbra del vecchio si arricciarono, la sua faccia rivelò un tumulto di sentimenti e di emozioni, amore, odio, gelosia, ribrezzo, rimpianto, nostalgia di cose passate, perfino compassione. «Era un bastardo, sapete... a volte» disse con una voce un poco più forte
del sussurrio di prima, una voce che vibrava di intensità. «Il bellissimo Hamish, il mio fratello maggiore, il colonnello. Io sono stato soltanto maggiore, lo sapete? Ma un soldato migliore di quanto non fosse lui! Che splendida figura aveva. E poi, sapeva anche come parlare con le signore. E loro lo adoravano.» Lentamente scivolò seduto sul gradino più basso della scala. «Mary, però, è sempre stata la migliore di tutte. Com'era abituata a camminare bene eretta, le spalle dritte, la testa alta. Aveva spirito, Mary. Era capace di farvi ridere fino alle lacrime... e per le cose più incredibili.» Lui, adesso, sembrava spiacevolmente vicino al pianto, e per quanto spazientito Monk si sentisse, non poté fare a meno di provare un fremito di compassione nei suoi confronti. Era un vecchio, che viveva della generosità di una generazione più giovane la quale, per lui, non provava nient'altro che disprezzo, e senso del dovere. Il fatto che lui, probabilmente, non meritasse niente di più, non poteva essere comunque un grande conforto. «E ha sbagliato» Hector riprese all'improvviso, girando su se stesso per riportare di nuovo gli occhi sul ritratto. «Ha sbagliato di grosso. Non avrebbe mai dovuto fare quello che ha fatto a lei, proprio a lei fra tutti.» Monk continuava a non provare il minimo interesse. Hamish Farraline ormai era morto da più di otto anni. Impossibile trovare qualche legame con la morte di Mary, ed era questa che gli importava, adesso. Soltanto questa. Si sentiva rodere dall'impazienza. Si allontanò di qualche passo. «Guardatevi da McIvor» Hector gli gridò dietro. Monk si voltò. «Perché?» «A lei era simpatico» Hector disse semplicemente, sgranando gli occhi. «Si capiva sempre quando a Mary piaceva qualcuno.» «Davvero.» No, non si sarebbe preso la briga di aspettare che McTeer arrivasse. Quel vecchio stupido probabilmente dormiva nella sua dispensa. Staccò dall'attaccapanni del vestibolo il soprabito e si avviò alla porta d'ingresso proprio nel momento in cui Alastair, uscendo dal salone, gli mormorava qualche parola di scusa per l'assenza di McTeer. Monk gli augurò di nuovo la buona notte, rivolse un cenno di saluto a Hector, seduto sui gradini della scala, e uscì. Aveva rifiutato l'offerta di farsi chiamare una carrozza, e si era già incamminato diretto a sud quando vide una figura inconfondibile passare sotto la luce di un lampione con un'andatura tanto lesta che per poco gli sfuggì. Ma nessun'altra avrebbe potuto avere quella grazia eterea, o quella capigliatura fiammeggiante. Il
cappuccio del mantello le copriva quasi completamente la testa ma quando si voltò verso la luce, poté distinguere chiaramente la sua fronte pallida e quella massa di capelli color rame che la incorniciavano. Dove poteva andare mai Eilish Fyffe da sola, e a piedi, alle undici di sera? Aspettò che gli fosse passata davanti, che avesse attraversato il prato al centro della piazza raggiungendo l'estremità opposta di Ainslie Place, dove per poco non rischiò di farsela sfuggire, non sapendo se avrebbe imboccato St. Combe Street, a est, oppure Glenfinlas Street, a sud. A quel punto Monk si mise a correre in fretta, e senza far rumore, inseguendola e arrivò all'angolo appena in tempo per vederla passare sotto l'altro lampione, all'inizio di Charlotte Square. Aveva un appuntamento? Sembrava non solo la conclusione più ovvia, ma anche l'unica. Altrimenti perché sarebbe uscita sola, e in modo così furtivo da lasciar capire che lo faceva di nascosto? Intanto lei stava procedendo a passo lesto oltre la piazza. In realtà questa era costituita da due corti isolati prima di finire a un grande incrocio con Princess Street, Lothian Road, Shandwick Place e Queensferry Street. Dove diavolo stava andando? Monk non aveva mai provato un particolare interesse per lei, ma adesso l'opinione che se n'era fatta si volse al peggio in modo rapido e decisivo. Lei attraversò il crocicchio senza nemmeno un'occhiata a destra o a sinistra, figurarsi poi dietro le spalle!, e continuò a passo sempre più veloce lungo Lothian Road. Alla loro sinistra si trovavano i giardini di Princess Street e, incombente dall'alto, cupo, minaccioso, il colle con la massa poderosa del castello appollaiato in cima. Monk continuò a tenersi a un centinaio di metri dietro di lei e fu quasi colto di sorpresa quando Eilish girò a sinistra all'improvviso scomparendo in King's Stable Road. Erano luoghi che, comunque, riconosceva. Si trattava della strada che lo avrebbe portato a casa, se avesse voluto andarvi a piedi. Non era lunga e li avrebbe condotti fino al Grassmarket e poi giù per Cowgate. Possibile che si dirigesse proprio da quella parte? Che cosa c'era in quegli edifici bui, stretti l'uno all'altro, o in quelle viuzze, che potesse avere un interesse per una gentildonna come Eilish? Mentre rimuginava sulle contraddizioni e sulle impossibilità di tutto questo, si sentì cogliere all'improvviso da una fitta di dolore atroce, che lo paralizzò. Intanto un'enorme buca nera si apriva di fronte a lui. Quando riprese i sensi, si ritrovò sul marciapiede, appoggiato contro un
muro, con la testa che gli doleva, agghiacciato dalla testa ai piedi, e di un umore addirittura esplosivo. Eilish non si vedeva da nessuna parte. L'indomani tornò ad Ainslie Place di pessimo umore, angosciato, incattivito, e si mise di guardia non appena calò la notte. Tuttavia non fu Eilish quella che vide ma un uomo dall'aspetto malconcio e trasandato, che indossava abiti sporchi e piuttosto consunti, il quale si stava avvicinando ai numero diciassette con aria innervosita, guardando di continuo a destra e a sinistra come se avesse paura di essere osservato. Monk si ritirò ancora più indietro nell'ombra, poi rimase assolutamente immobile. L'uomo passò sotto un lampione della strada e per un attimo la sua faccia fu visibile. Si trattava dello stesso individuo che lui aveva già visto parecchi giorni prima, non con Eilish ma con Deirdra. L'uomo si frugò in tasca alla ricerca di un orologio, lo tirò fuori e lo scrutò, poi lo mise via di nuovo. Curioso. Non dava l'impressione di essere un uomo che fosse capace di leggere le ore, e tantomeno di possedere un orologio. Passarono svariati minuti. L'uomo cominciò a mostrarsi irrequieto, sembrava sulle spine, profondamente a disagio. Monk continuava a rimanere immobile al suo posto senza nemmeno allungare la testa fuori dalla zona d'ombra. Lungo il marciapiede i lampioni creavano piccoli coni di luce. Fra l'uno e l'altro di questi c'era una specie di terra di nessuno nella quale si facevano sempre più cupe le ombre e la foschia. E il freddo aumentava. Monk, costretto a quell'immobilità pressoché assoluta, cominciava a sentirlo. Gli penetrava nelle ossa, gli saliva lentamente sempre più su dalle piante dei piedi. Poi, tutto d'un tratto, eccola. Doveva essere passata dalla porta di servizio, e arrivava sulla strada dal vicolo laterale... ma non era Eilish bensì Deirdra, con la sua figura minuta, vibrante di vitalità. Non degnò nemmeno di uno sguardo la strada per tutta la sua lunghezza o l'aiuola erbosa al centro di Ainslie Place, ma si diresse immediatamente verso lo sconosciuto. Rimasero fermi, vicini, per parecchi minuti, a testa china, parlando con voce tanto bassa che Monk, da dove si trovava, non riuscì nemmeno a udire un mormorio. Poi, improvvisamente, Deirdra scrollò la testa con energia, l'uomo le sfiorò un braccio in un gesto dolce e rassicurante, e lei voltandogli le spalle tornò indietro, rientrando in casa. Lui si allontanò per la stessa strada dalla
quale era arrivato. Monk aspettò fino a mezzanotte passata, sopportando un freddo sempre più intenso ma nessun altro entrò in casa Farraline o ne uscì. Scoprì di avere una voglia pazza di prendersi a calci per non aver pedinato quell'uomo. Seguirono altre due giornate sempre più fredde e sempre più angosciose nelle quali Monk non venne a sapere niente di utile, anzi addirittura niente che non avrebbe potuto dedurre da solo con un minimo di buon senso. Scrisse piuttosto dettagliatamente a Rathbone, spiegandogli in modo minuzioso tutto quanto era riuscito a sapere fino a quel momento e quando, verso il mezzodì del terzo giorno, ritornò nel suo alloggio trovò che c'erano due lettere ad aspettarlo. Una era di Rathbone e, in essa, gli tratteggiava nelle linee generali le clausole del testamento di Mary Farraline. Aveva lasciato la sua sostanza, che era molto considerevole, non soltanto in beni immobili, ma anche come patrimonio personale, suddivisa in modo più o meno uguale fra tutti i suoi figli. Alastair aveva già ereditato la casa e una grossa quota dell'azienda alla morte del padre. La seconda lettera era di Oonagh la quale lo invitava a partecipare a una cena d'onore organizzata dalle autorità municipali che si sarebbe tenuta quella sera stessa e si scusava perché l'invito gli veniva fatto con tanto ritardo. Monk accettò. Non aveva niente da perdere. Il tempo a sua disposizione si stava pericolosamente accorciando e le notti infruttuose trascorse di guardia a casa Farraline non gli avevano consentito di scoprire niente. Né Deirdra né Eilish si erano più fatte vedere. Si vestì con somma cura ma il suo cervello era troppo impegnato nel ripetersi ogni notizia che era riuscito a mettere insieme, per sentirsi innervosito al pensiero che la propria eleganza non fosse all'altezza della situazione oppure come la buona società di Edimburgo lo avrebbe accolto. Come aveva potuto Hester andare a cacciarsi in un guaio simile? Le poche, generiche, impressioni che gli aveva fornito non risultavano di alcuna utilità. Cosa pensare se Deirdra ed Eilish avessero avuto entrambe una relazione clandestina con uomini che vivevano nel cuore dei quartieri più miserabili? Possibile che Mary lo sapesse? Ma non aveva alcun senso ucciderla per questo motivo. Se non aveva già denunciato pubblicamente la cosa, era chiaro che non avrebbe mai più avuto intenzione di farlo. Un dissenso familiare, sia pure dei più aspri e violenti, non poteva spingere all'assassinio nessuno, salvo un pazzo furioso. Se Eilish fosse stata la vittima, la cosa in sé e per sé avrebbe potuto esse-
re più facilmente spiegabile. Quinlan oppure Baird McIvor potevano averne un motivo eccellente. E forse perfino Oonagh, se Baird era veramente innamorato di lei. Ma anche tutto questo aveva ben poco di sensato. Un po' difficile pensare che potesse essere proprio Baird quello che lei andava a raggiungere con quella lunga camminata furtiva lungo King's Stables Road. Arrivò nel grandioso salone in cui era stata organizzata quella cena d'onore con la lettera di Oonagh in mano, pronto a mostrarla a un qualsiasi portiere che potesse mettere in dubbio il suo diritto di essere lì, ma il suo modo di presentarsi deciso e sicuro di sé furono probabilmente sufficienti e nessuno gli si accostò per chiedergli spiegazioni. Si trattava di un trattenimento dei più sontuosi. Da ogni soffitto pendevano lampadari di cristallo, dalle luci abbacinanti. Non faceva fatica a immaginare che venissero calati, e valletti con lunghe candele in mano passassero ore e ore ad accenderli, prima di tornare a sollevarli fino alloro posto. Ogni volta, ogni arco, ogni nicchia di quei soffitti stupendi pareva risplendente. I musicisti suonavano una musica, che non riconobbe, che pareva scandisse l'ingresso degli ospiti i quali andavano e venivano per le sale facendo cenni di saluto e sorridendo, mentre si auguravano in cuor loro di essere riconosciuti da tutte le persone che contavano. Agli invitati si mescolavano i domestici che offrivano con discrezione i rinfreschi, mentre un portiere dalla livrea lussuosa e sgargiante annunciava l'arrivo di coloro che la Società considerava importanti. Non era difficile vedere Eilish. Perfino vestita di nero pareva che irradiasse calore e luce. I suoi capelli erano un ornamento ancora più sontuoso delle tiare e dei diademi delle duchesse, e la sua pelle chiara, che spiccava contro il nero dell'abito, sembrava luminosa. Dalla galleria dov'era salito, Monk poté notare quasi subito la testa bionda di Alastair e, dopo un attimo, quella di Oonagh. Perfino dall'alto, perché di lì poteva soltanto vedere un angolo del suo viso, Oonagh irradiava calma, potere e intelligenza. Anche Mary era sta la come lei? Del resto era proprio ciò che quell'alcolizzato di Hector aveva insinuato. Per quale motivo qualcuno avrebbe dovuto assassinare una simile donna? Per avidità del potere che lei esercitava, oppure perché era lei, in famiglia, a tenere nelle mani il cordone della borsa? O per invidia o gelosia perché aveva le qualità innate che avrebbero fatto sempre di lei la persona più adatta, per le sue doti naturali, a guidare e dirigere gli altri? Oppure si trattava di paura, perché lei sapeva qualcosa
che riusciva intollerabile a qualcun altro, che minacciava la loro felicità, perfino la loro futura sicurezza? Ma di che cosa si trattava? Cosa, Mary avrebbe potuto sapere? E adesso era Oonagh a saperlo, magari senza rendersi conto di quanto ciò fosse pericoloso per lei? Per fortuna Hector era assente e, almeno a quanto Monk riusciva a giudicare, anche Kenneth. Ma a rimanere lì, solo, non aveva niente da guadagnare. Con scarsissimo entusiasmo, provando una tensione che giudicava inspiegabile, si raddrizzò sulla persona e scese le scale, impettito, per confondersi con la folla. Alla cena d'onore si ritrovò seduto accanto a un donnone che portava un vestito nero e viola dalla gonna talmente voluminosa che tutti dovevano rimanere come minimo a un metro, un metro e mezzo di distanza. Del resto Monk non avrebbe affatto desiderato andarle più vicino. Anzi sarebbe stato ben felice se gli avessero risparmiato l'obbligo di conversare con lei. Disgraziatamente, era inevitabile. Deirdra gli sedeva di fronte, al lato opposto del tavolo, e parecchie volte gli capitò d'incrociare il suo sguardo e di ricambiare il suo sorriso. Stava cominciando a pensare che tutta quella storia era una gran perdita di tempo anche se intuiva almeno uno dei motivi per i quali Oonagh doveva averlo invitato. Voleva sapere se aveva fatto progressi nelle sue indagini per scoprire in che modo Deirdra spendeva il denaro. E perché non pensare che lo conoscesse già e cercasse soltanto di ottenere da lui le prove da poter mostrare a Deirdra, e magari provocare quel dissenso che con l'uccisione di Mary si sperava di evitare? Osservando, dall'altra parte del tavolo, la faccia di Deirdra, così piena di vitalità, intelligente, caparbia, si accorse che non riusciva a crederlo. D'accordo, magari era quella che qualcuno avrebbe definito facilmente una donna immorale; doveva avere gusti costosi ed essere una spendacciona, eppure non riusciva assolutamente a credere che fosse stata lei ad assassinare Mary Farraline... e in ogni caso sicuramente non per un motivo, come quello delle sue eccessive stravaganze in fatto di denaro, che avrebbe potuto essere risolto con facilità. D'altra parte sapeva di aver sbagliato anche in precedenza, e soprattutto quando c'erano di mezzo le donne. No... questo non era giusto. Forse si era sbagliato per quello che riguardava la loro forza, la loro lealtà, perfino le loro capacità di provare sentimenti appassionati o di credere con entusiasmo in qualche cosa... ma non
certo quando c'era di mezzo la loro capacità di compiere atti criminosi. Perché doveva sempre dubitare, e in modo così profondo, di se stesso? Perché gli sembrava di fallire in pieno nei confronti di Hester. Eccolo lì a gustare una cena sontuosa fra il tintinnio delle posate, dei bicchieri, il mormorio delle voci, il fruscio delle sete, mentre Hester si trovava nella prigione di Newgate in attesa di un processo dopo il quale, se fosse stata giudicata colpevole, avrebbe dovuto salire sul patibolo. Provò un senso di fallimento proprio perché non riusciva nei propri intenti. «...una toilette che vi dona moltissimo, signora Farraline» qualcuno stava dicendo a Deirdra. «Dal taglio assolutamente originale.» «Grazie» fu la risposta di Deirdra, ma senza quel piacere che Monk si sarebbe aspettato di vederle manifestare di fronte a un tale complimento. «Stupendo» esclamò la imponente gentildonna seduta vicino a lui piegando all'ingiù gli angoli della bocca sottile, che rivelava grettezza e meschinità. «Proprio stupendo. Già, a me quello stile piace moltissimo, e poi ho sempre pensato che le guarnizioni in giaietto siano così eleganti! Ne avevo uno anch'io molto simile, anzi proprio somigliantissimo. Era un po' diverso sulle spalle, se ben ricordo, ma il motivo del ricamo era identico.» Un signore la guardò stupito. Era una cosa strana da dire, e non molto gentile. «L'anno scorso» il donnone soggiunse in tono determinato. Seguendo un impulso improvviso, una riflessione che gli era balenata di colpo, Monk fece una domanda imperdonabile: «L'avete ancora, signora?» E lei gli diede una risposta imperdonabile. «No... me ne sono liberata.» «Come avete fatto bene!» Monk ritorse con voce che aveva assunto all'improvviso un tono malevolo. «Questo abito...» e scrutò la sua figura poderosa «...è più adatto alla vostra... condizione.» Per poco non gli era sfuggita di bocca la parola "età"; ma, del resto, tutti gli altri, mentalmente, l'avevano pronunciata per lui. La donna diventò cianotica, ma preferì tacere. Anche le guance di Deirdra si erano colorite lievemente di rosa e in quell'istante Monk capì, benché non potesse ancora provarlo, che in qualsiasi cosa Deirdra scialacquasse i soldi, non lo faceva di sicuro per rifornirsi il guardaroba come aveva sempre sostenuto. Comperava i vestiti di seconda mano e probabilmente aveva una sarta, piena di discrezione, che glieli modificava in modo che si adattassero alla sua figura trasformandoli quel tanto sufficiente a renderli meno facilmente identificabili, almeno per quanto era possibile.
Lei lo stava fissando con gli occhi sgranati, al di sopra della mousse di salmone e cetrioli e di quel che restava del sorbetto, con aria supplichevole. Monk sorrise scrollando impercettibilmente la testa, anche se era un'assurdità. Lui non aveva alcun motivo di mantenere il suo segreto! Quando incontrò Oonagh più tardi, la guardò fisso negli occhi e le disse che stava ancora indagando sulla questione ma non era riuscito fino a quel momento a ottenere prove conclusive. La bugia non lo turbò minimamente. Con la posta della mattina seguente gli arrivò una lettera di Callandra. Monk lacerò rapidamente la busta e lesse: Mio caro William, mi duole che le notizie, di qui, siano tutte per il peggio. Sono andata a trovare Hester tutte le volte che ho potuto ottenere il permesso. Dimostra un grande coraggio ma mi accorgo che la tensione la logora profondamente. Mi ero illusa, da vera sciocca, che il periodo di tempo trascorso nell'ospedale di Scutari la avesse abituata almeno ad alcune delle durezze e delle difficoltà che Newgate poteva presentarle. Naturalmente la differenza è sconvolgente. La parte del disagio fisico è relativamente trascurabile. Ma sono le sofferenze spirituali, quel tedio senza fine giorno dopo giorno, senza niente da fare salvo lasciare sbrigliare l'immaginazione e giungere a pensare il peggio. La paura è più snervante di qualsiasi altra cosa. A Scutari, di lei c'era estremo bisogno, in continuazione, ed era rispettata, perfino amata. Qui è oziosa, bersaglio di odio e disprezzo da parte delle guardiane che non hanno dubbi sulla sua colpevolezza. Ho sentito da Oliver che non avete ancora fatto alcun progresso significativo nelle indagini relative alla scoperta di chi può aver ucciso Mary Farraline. Vorrei potervi essere di qualche aiuto. Ho domandato a Hester più di una volta qualsiasi ricordo o impressione che possa avere ma non le è venuto in mente niente che non vi abbia già riferito. Temo che la notizia peggiore di tutte sia qualcosa che avremmo dovuto prevedere e mi rammarico di non aver, invece, previsto. Non che si potesse fare qualcosa per impedirlo, anche se lo avessimo saputo fin dagli inizi, purtroppo! Dato che il delitto è stato commesso mentre il treno era in Scozia, chiunque sia colpevole, si richiede che Hester
venga processata a Edimburgo. E noi non abbiamo nessun elemento valido con cui contestare tale richiesta. Quindi verrà rimandata a Edimburgo per affrontare il processo nell'High Court e Oliver non potrà fare nient'altro se non offrire il suo aiuto privatamente. Poiché è qualificato solo a praticare l'avvocatura secondo la Legge inglese, non potrà presentarsi come suo avvocato difensore. Naturalmente provvederà perché venga trovato il miglior legale scozzese possibile ma confesso di sentirmi profondamente turbata al pensiero che Oliver non possa difenderla lui, personalmente. Infatti ha il vantaggio incomparabile di essere convinto in modo totale della sua innocenza. Con tutto ciò, non dobbiamo perderci d'animo. La battaglia non è ancora perduta, e fintanto che questo non accade, non siamo stati sconfitti... né lo saremo. Mio caro William, vi prego di non risparmiarvi in nessun senso per scoprire la verità, in quanto né il tempo né il denaro hanno la minima importanza. Scrivetemi per tutto quello di cui potete avere bisogno. Vostra devotissima Callandra Daviot. Rimase immobile nel sole freddo dell'autunno con quel foglio bianco di carta che pareva diventato una macchia confusa davanti ai suoi occhi; era scosso da un tremito. Rathbone non poteva difenderla. Mai aveva pensato a qualcosa del genere... ma adesso che Callandra lo scriveva, sembrava così evidente! Non aveva mai misurato fino a quel momento quanto avesse contato sull'abilità di Rathbone, come le sue passate vittorie avessero avuto, inconsapevolmente, un tale peso nelle sue riflessioni da fargli quasi sperare che quanto era impossibile potesse avverarsi. Adesso, d'un sol colpo, tutto questo veniva spazzato via. Passò qualche minuto prima che riacquistasse la sua lucidità mentale. Fuori, sulla strada, si fermò un carro a cavalli. Il cantiniere gridò qualcosa e il conducente si lasciò sfuggire una bestemmia. Il suono degli zoccoli dei cavalli che battevano sordi sull'acciottolato, come il rotolio delle ruote, salivano fino a lui e penetravano nella stanza attraverso la finestra aperta. Qualcuno in casa Farraline aveva manomesso e alterato le dosi della medicina di Mary, ben sapendo che questo avrebbe provocato la sua morte. Qualcuno aveva nascosto la sua spilla con le perle nella sacca da viaggio di Hester. Avidità? Paura? Vendetta? Qualche altro movente non anco-
ra né sospettato né individuato? Qual era la meta di Eilish quando si avviava giù per King's Stables Road? Chi era l'uomo rozzo e malvestito che aspettava Deirdra e con il quale lei aveva quei colloqui così animati e misteriosi prima di tornare di corsa in casa? Un amante? Neanche da pensarci, vestito a quel modo. Un ricattatore? Più probabile. E per quale motivo? Perché era prodiga, spendacciona. Giocava d'azzardo, doveva pagare antichi debiti, manteneva un amante, un parente, un figlio illegittimo? Oppure quella sua prodigalità, quella sua smania di buttare i soldi dalla finestra, nascondeva semplicemente la necessità di pagare un ricattatore? A ogni modo una cosa era sicura, non chiedeva quei soldi per comprarsi abiti eleganti. Su questo, era fuor di discussione che avesse mentito. La soluzione non era delle più gradevoli ma Monk decise che occorreva assolutamente seguirla, o seguire l'uomo, e scoprire la verità, qualunque fosse. E bisognava anche seguire Eilish. Se si trattava di una relazione amorosa con il marito della sorella, o con chiunque altro, anche questo occorreva che fosse messo in chiaro, e senza ombra di dubbio. La prima sera fu totalmente infruttuosa. Né Deirdra né Eilish si fecero vedere. Ma la seconda sera era passata da poco mezzanotte quando l'uomo con il cappotto lacero e frusto ritornò; dopo che lui ebbe indugiato furtivamente al di fuori del cono di luce dei lampioni stradali, ed ebbe guardato spesso l'orologio, Deirdra sbucò silenziosa come un'ombra dalla porta di servizio. Dopo uno scambio di battute tanto breve quanto concitato, ma senza alcun visibile gesto di affetto, si staccarono dalla casa e, fianco a fianco, si incamminarono a passo lesto attraverso lo spiazzo erboso di Ainslie Place scendendo verso sud, giù per Glenfinlas Street, percorrendo più o meno la stessa strada di Eilish. Stavolta, però, Monk non si lasciò distaccare, e li seguì senza perderli di vista; non fu difficile perché procedevano con rapidità. Per essere una donna così piccola di statura, Deirdra aveva un buon passo, rapido e scattante, e sembrava che niente la stancasse, anzi che l'idea della meta, verso la quale era diretta, la riempisse di energia e di entusiasmo. Monk, tuttavia, si fermò e si voltò a guardarsi dietro le spalle più di una volta per assicurarsi di non essere seguito nemmeno lui. Non riusciva a dimenticare, con rammarico, la precedente incursione in quella zona che aveva già fatto, seguendo Eilish. Non riuscì a vedere nessuno salvo due giovani uomini che venivano in direzione opposta, un cane nero che frugava col muso nel rigagnolo, e un
ubriacone appoggiato contro un muro che a poco a poco scivolava sempre più giù verso il marciapiede. Soffiava una brezza leggera che portava con sé tanfo di rifiuti e di umidità; qualche lembo di nuvola, al di sopra della sua testa, a tratti nascondeva una luna quasi piena. Fra le chiazze di luce irradiate dai lampioni, sulla strada, gli spazi si confondevano con ombre impenetrabili. La massa imponente del castello torreggiava sopra di loro e a sinistra, con la sua sagoma irregolare e ormai familiare, che spiccava contro il cielo di un colore più chiaro. Deirdra e l'uomo svoltarono in Grassmarket. Qui il marciapiede era più stretto e gli edifici, alti cinque piani, trasformavano improvvisamente la strada che dava l'impressione di camminare nel fondo di una ripida gola. I suoni erano rari, salvo lo scalpiccio dei passi, soffocato dall'umidità e dagli echi, un grido occasionale di richiamo, il tonfo di una porta o di un cancello che si richiudeva e, di quando in quando, quello degli zoccoli di un cavallo se qualche raro viaggiatore era ancora in strada. Il Grassmarket era lungo solo poche centinaia di metri; poi svoltava in Cowgate fino ad attraversare il South Bridge, correndo parallelo a Canongate e diventando, infine, Holyrood Road. A destra si trovavano Pleasance, e Dumbiedykes, a sinistra la High Street, e quello che veniva chiamato il Royal Mile, il Miglio Reale e, in fondo, il palazzo di Holyrood. Fra questi, esisteva un labirinto sterminato di stradine, vicoletti e cortili, di passaggi fra l'uno e l'altro edificio, di gradini che salivano e di gradini che scendevano, e mille nicchie, angoletti e vani di portoni. Monk affrettò il suo passo. Dove diavolo stava andando Deirdra? Non aveva cambiato mai il ritmo del passo, e nemmeno una volta si era degnata di girarsi per dare un'occhiata alle proprie spalle. Davanti a lui Deirdra e l'uomo attraversarono la strada e scomparvero di colpo. Monk imprecò e cominciò a correre, inciampando su un ciottolo e rischiando di perdere l'equilibrio. Un cane che dormiva nel vano di una porta si risvegliò bruscamente, ringhiò, poi riabbassò il muso. Candlermaker Row. Ne svoltò l'angolo rapidamente, appena in tempo per vedere Deirdra e l'uomo che oltrepassavano l'inizio del cimitero a destra, si fermavano, esitavano solo per un momento, e poi entravano in una delle vaste costruzioni sulla sinistra, avvolte dall'ombra. Monk corse dietro alle due figure, e raggiunse quel posto solo pochi minuti dopo che loro lo avevano lasciato. Al primo momento non riuscì a
vedere alcun ingresso. I muri laterali della strada e un'alta cancellata in legno parevano una barriera impenetrabile contro qualsiasi intrusione. Eppure si erano fermati lì, quei due, e adesso non c'erano più. Qualcosa doveva aver ceduto sotto il tocco delle loro mani. Passo passo Monk cominciò a muoversi lungo la parete, spingendo delicatamente, finché sotto il suo peso un cancelletto in legno si spalancò quel tanto sufficiente a consentirgli di sgusciare oltre, a fatica, e ritrovarsi in un cortile a ciottoli dove, sul fondo, appariva una costruzione vagamente simile a un granaio. Una luce a gas filtrava da pertugi e fessure tutt'intorno a una porta sconnessa che, fosse stata spalancata, avrebbe consentito il comodo passaggio di un cavallo e di un carro per trasporti pesanti. Cominciò ad avanzare guardingo, a tentoni, appoggiando cautamente il piede sul terreno prima di gravarvi sopra con il peso del corpo. Aveva paura di sfiorare qualcosa e scatenare un allarme. Non aveva la minima idea di dove si trovava, o di che razza di posto fosse quello in cui era andato a cacciarsi, e nemmeno chi potesse trovarsi lì dentro. Raggiunse la porta senza far rumore e scrutò nell'interno accostando l'occhio a una delle fessure più larghe. La visione che gli si parò davanti fu talmente incredibile, talmente straordinaria, talmente fantasiosa e assurda, al di là di una qualsiasi delle sue fantasticherie più bizzarre, che rimase a osservare quello spettacolo per svariati minuti prima che il suo cervello accettasse tale realtà. Si trattava di un enorme capannone, grande abbastanza perché vi ci si potesse costruire nell'interno un battello, salvo che la struttura che pareva accovacciata al centro dell'impiantito non era stata mai assemblata, e di questo non aveva alcun dubbio, perché, alzata una vela, potesse solcare i mari. Non aveva chiglia, e nemmeno un posto per l'alberatura. Avrebbe potuto assomigliare a un pollastro in corsa, ma non aveva le zampe. Il vano interno era grande abbastanza perché un uomo adulto vi potesse trovar posto seduto e le ali erano allargate come se fossero già lì disposte a sollevarsi, a staccarsi da terra e a volare. Sembrava costruito in gran parte di legno e tela di sacco. C'era una specie di macchinario dove avrebbe dovuto trovarsi il cuore, se fosse stato un vero e proprio uccello. Ma più incredibile ancora, se fosse stato possibile, era la visione di Deirdra Farraline, con addosso un vecchio vestito, un grembiule di cuoio legato alla cintola, massicci guanti di cuoio che coprivano le mani piccole e forti, i capelli tirati indietro e ben scostati dagli occhi. Era curva a lavorare appassionatamente intorno a quel congegno strano, stringendo viti con efficienza e abilità tanto accurate quanto energiche. L'uomo, venuto lì con
lei, adesso si era messo in maniche di camicia e stava spingendo e sollevando un altro pezzo della struttura che, almeno così sembrava, pareva volesse attaccare alla parte posteriore dell'uccello, in modo da prolungarne la coda di almeno due metri e mezzo o tre. Monk aveva ben poco da perdere. Spinse la porta aprendola quel tanto necessario a strisciare dentro e si ritrovò dall'altra parte. Nessuna delle due persone lì, al lavoro, si accorse di lui, tanto assorte erano in ciò che stavano facendo. Deirdra teneva la testa china, la lingua fra i denti, la fronte corrugata per la concentrazione. Monk rimase a osservare le sue mani. Era rapida, molto sicura. Sapeva con esattezza ciò che stava facendo, quale attrezzo le era necessario e come usarlo. L'uomo era paziente, molto abile e capace anche lui, ma pareva che lavorasse sotto le direttive della giovane donna. Passarono cinque minuti buoni prima che Deirdra alzasse gli occhi e vedesse Monk fermo sulla soglia. Rimase impietrita. «Buona sera, signora Farraline» disse lui a bassa voce, facendosi avanti. «Perdonate la mia ignoranza in fatto di tecnica, ma che cosa state costruendo?» La sua voce era talmente normale, talmente priva di qualsiasi critica o anche solo dell'ombra di un dubbio, da lasciar credere che si trovasse, a conversare del tempo, in qualche riunione mondana della buona società. Lei rimase a fissarlo con gli occhi sgranati, quegli occhi scuri, che gli frugarono in faccia in cerca di collera, beffa, disprezzo, uno qualsiasi dei sentimenti che si aspettava, senza trovarli. «Una macchina volante» disse alla fine. Era una risposta talmente strampalata che nessuna spiegazione sembrava adeguata, e forse non valeva nemmeno la pena di tentare di dargliene una. Il suo compagno rimase immobile, con una chiave fissa in mano in attesa di vedere se le occorressero soccorso, protezione o silenzio da parte sua. Bastava guardarlo per capire che era molto imbarazzato, ma Monk si convinse che in quel momento pensava più alla reputazione della giovane donna che alla propria e, certamente, non al pericolo che poteva correre il loro progetto. Ogni genere di domande gli si affollarono al cervello, ma nessuna di esse aveva importanza per il dilemma in cui Hester si trovava. «Dev'essere costosa» disse a voce alta. Lei trasalì. Sgranò gli occhi. Evidentemente era preparata a ribattere difendendo la sua idea della possibilità di volare, della necessità di provare,
rifacendosi ai concetti e ai disegni di tutta una serie di personaggi che andavano da Leonardo da Vinci a Roger Bacon, ma quella del costo era l'ultima cosa che aveva immaginato di sentirsi menzionare. «Sì» disse infine. «Sì, certo che è costosa.» «Più costosa di qualche vestito elegante, all'ultima moda» Monk continuò. Questo le fece salire una vampata alle guance perché si stava rendendo conto di quale fosse il filo del ragionamento di Monk. «Tutto pagato con i miei soldi» protestò. «Ho risparmiato comperando vestiti di seconda mano e facendoli ritoccare. Alla famiglia non ho mai tolto niente. So che qualcuno ha falsificato i libri mastri in ditta ma io non ho mai portato via, a loro, neanche un soldo. Lo giuro! E Mary sapeva quello che io stavo facendo» riprese con vivacità, impetuosamente. «Non posso provarlo, ma lo sapeva. Lo considerava qualcosa di assolutamente pazzesco, però la divertiva. Lo giudicava una meravigliosa follia.» «E vostro marito?» «Alastair?» Lei esclamò incredula. «Santo cielo, no. No.» Si fece avanti, venendogli vicino, la faccia corrucciata, piena di ansia. «Vi prego, non dovete dirglielo! Lui non capirebbe. È un brav'uomo sotto talmente tanti punti di vista, ma non ha un briciolo di fantasia, e neanche di senso del... del...» «Umorismo?» Insinuò Monk. Il viso di Deirdra venne illuminato da un lampo di collera, poi dopo un attimo si addolcì, come se fosse divertita. «No, signor Monk, nemmeno di umorismo. E ridete pure, se volle, ma un giorno questa macchina volerà. Non potete capirlo adesso, ma un giorno sì, lo capirete.» «Posso capire la dedizione e l'impegno» ribatté lui con un sorrisetto forzato. «Perfino l'ossessione. Capisco un desiderio di realizzare qualcosa, talmente struggente e intenso che tutti gli altri desideri gli vengono sacrificati.» L'uomo avanzò di un passo, la chiave fissa, stretta saldamente in mano, ma giudicò che Monk, almeno per il momento, non costituisse alcun pericolo per Deirdra e rimase in silenzio. «Giuro di non aver fatto niente di male a Mary, signor Monk, e nemmeno di sapere chi è stato.» Deirdra respirò a fondo, e poi lasciò sfuggire il fiato in un sospiro. «Cosa avete intenzione di fare a questo proposito?» «Niente» fece Monk stupefatto per quel che stava dicendo. Aveva parlato prima ancora di valutare la questione; la sua risposta era stata istintiva,
dettata dai sentimenti. «Basta che siate disposta a offrirmi tutto l'aiuto possibile per cercar di scoprire chi ha effettivamente ucciso la signora Farraline.» Lei lo guardò mentre i suoi occhi rivelavano come a poco a poco intuisse qualcosa e, almeno a quanto lui poté giudicare, non lo fissavano tanto con rabbia quanto con sbalordimento. «Voi non siete venuto qui, a Edimburgo, a lavorare in nome del Pubblico Ministero e dell'accusa, vero?» «No. Conosco Hester Latterly da molto tempo e non riuscirò mai a credere che abbia avvelenato una sua paziente. Magari sarà capace di ammazzare qualcuno perché è offesa o adirata, oppure per difendersi, però mai per guadagnarci qualcosa.» Lei diventò di colpo pallidissima; le palpebre le calarono sugli occhi. «Capisco. Questo significa che è stato uno di noi... vero?» «Sì.» «E volete che io vi aiuti a scoprire di chi si tratta?» Lui esitò, per un attimo fu lì lì per ricordarle che sarebbe stato il prezzo del suo silenzio, poi giunse alla conclusione che forse sarebbe stato più saggio tacere. D'altra parte Deirdra, quello, doveva già averlo capito. «Ma voi, non volete saperlo?» Preferì domandarle. Lei attese solo un istante. «Sì.» Monk le tese una mano e lei la strinse nella propria, coperta dal guanto di cuoio, in un gesto di tacito accordo. 7 Monk tornò nel suo alloggio infreddolito, stanco e dilaniato da un dilemma. Aveva promesso di riferire a Oonagh se avesse scoperto dove e come Deidra spendeva i suoi soldi... o, più giustamente, i soldi di Alastair. Adesso che conosceva la risposta, tutti i suoi desideri, ogni suo istinto, gli dicevano di non parlarne con nessuno, specialmente di tacere con Oonagh. Naturalmente quell'impresa era del tutto pazzesca, priva di qualsiasi connessione con la realtà, ma era una follia tanto assurda quanto stupefacente, e non danneggiava nessuno. Che importanza aveva se Deirdra spendeva i suoi soldi a quel modo? I Farraline ne avevano in abbondanza, di soldi; sempre meglio che li spendesse in una innocua bizzarria come quella di una macchina volante piuttosto di sperperarli giocando d'azzardo o con un amante o per mettersi in ghingheri con sete e gioielli, per apparire più ricca o più bella delle sue pari. Ma che continuasse pure sulla strada che
aveva imboccato. Si scoprì a marciare a testa alta, a lunghe falcate scattanti, al punto che per poco non passò dritto dritto davanti alla locanda di Wm. Forster, tanto si sentiva esilarato. La mattina dopo, però, si rese conto che avrebbe dovuto sfruttare quell'opportunità per mettere a punto, con lei, un accordo più produttivo. Avrebbe potuto chiederle qualche precisazione sui libri mastri dell'azienda, e indagare se l'accusa lanciata da Hector avesse qualche solido fondamento. E poi c'era ancora da risolvere il problema di quel che doveva dire a Oonagh. Lei non gli avrebbe certo consentito di lasciare che l'argomento venisse rapidamente messo da parte. Se fosse stato costretto a evitarla, si sarebbe visto nella necessità di evitare anche casa Farraline, il che era impossibile. Bastò questo ricordo a far riaffiorare bruscamente Hester nei suoi pensieri con un dolore che lo meravigliò. Nelle sue riflessioni, Hester era sempre stata presente, prima di tutto il resto, come una donna intelligente; poi come una collega di indubbia utilità ma anche come una persona sul conto della quale provava sentimenti confusi e contrastanti. Rispettava le sue qualità, perlomeno alcune di esse, ma in fondo non la trovava affatto simpatica. Una buona parte delle sue abitudini e dei suoi atteggiamenti lo irritavano enormemente. Stare in sua compagnia era un po' come avere un taglietto su una mano, un taglietto prodotto da un foglio di carta, sempre in pericolo di riaprirsi. In fondo non si poteva considerare una vera e propria ferita, però costituiva una fonte costante di disagio. Adesso riaffiorava la consapevolezza che se non fosse riuscito a trovare, prove alla mano, chi aveva effettivamente ucciso Mary Farraline, Hester se ne sarebbe andata per sempre. Non l'avrebbe mai più rivista, non le avrebbe mai più parlato, non l'avrebbe mai più vista raddrizzare le spalle con aria fiera, e venirgli incontro con quella sua figura un po' angolosa, pronta ad affrontare una discussione o ad abbracciare l'una o l'altra causa, a comandarlo a bacchetta e a manifestare concitatamente le proprie opinioni, che esprimeva sempre con la più totale e cieca convinzione. Se gli fosse toccato di affrontare un caso impossibile, disperato, già perduto in partenza, non ci sarebbe stato più nessuno disposto a combattere al suo fianco fino in fondo, e anche oltre, perfino quando la ragione diceva a tutti e due che la sconfitta era già una realtà. Si sentì travolgere da un senso di solitudine incredibilmente profondo mentre fissava l'acciottolato grigio del Grassmarket e il cielo colore del
piombo su quella compagine di tetti dalla sagoma irregolare, perché la luce adesso era quasi peggio di quanto non fosse stato il buio, e incredibilmente più fredda. Il pensiero di un mondo senza di lei lo lasciava desolato, e il fatto di rendersene conto lo addolorava a tal punto, nel segreto del suo cuore, da sentirsi soffocare dall'amarezza e dalla collera. Uscì incamminandosi a passo lesto verso King's Stables Road e, più oltre, Ainslie Place. Almeno in apparenza, il motivo che il suo cervello gli forniva per avviarsi in tale direzione era di avere un colloquio con Hector Farraline e insistere ulteriormente, parlandogli, perché le accuse estremamente vaghe che aveva lanciato a proposito della contabilità dell'azienda di famiglia venissero espresse in modo un poco più logico e sensato, senza lasciarlo brancolare nel buio. Se era vero che venivano falsificati, quello avrebbe potuto essere un movente dell'assassinio... se Mary ne fosse stata a conoscenza o qualcuno avesse avuto intenzione di informarla di questo fatto. Il pretesto della visita era quello di riferire a Oonagh che stava ancora indagando sul conto di Deirdra ma fino a quel momento era soltanto venuto a sapere che era molto poco abile nel campo degli affari, e che aveva le mani bucate quando si trattava di rifornire il proprio guardaroba. Se poi Oonagh avesse insistito per saperne di più, gli sarebbe stato difficile risponderle; ma era troppo logorato dal proprio turbamento segreto per preoccuparsene. La mattinata era fresca, l'aria frizzante dopo la gelata della notte precedente; tuttavia percorrere di buon passo la strada in salita verso Princes Street era tutt'altro che spiacevole. Monk non aveva ancora alcuna familiarità con Edimburgo salvo per ciò che riguardava, al momento, l'immediato circondario di Grassmarket; però gli stava già nascendo nel cuore una certa simpatia per quella città. La parte antica era piena di strade ripide, anguste, con edifici alti, un labirinto di viuzze, di spazi cintati e strade private, rampe di gradini che indolenzivano le gambe, slarghi improvvisi che formavano piccoli cortili e wynds, come in Scozia chiamavano i vicoli, soprattutto verso est, in direzione del famoso Royal Mile, in fondo al quale si ergeva il palazzo di Holyrood. Arrivò in Ainslie Place e fu McTeer a farlo entrare con quella sua solita aria tetra, da uccello del malaugurio. «Buon giorno a voi, signor Monk.» E gli prese il cappello e il soprabito. «Credo che presto avremo altra pioggia.» Monk era proprio dell'umore più adatto per mettersi a discutere. «Altra
pioggia?» Esclamò sgranando gli occhi. «Ma fuori è perfettamente asciutto. Anzi, l'aria è molto dolce.» McTeer non si lasciò scoraggiare. «Non durerà» disse scrollando il capo. «Siete venuto a parlare con la signora McIvor, vero?» «Sarebbe possibile? Vorrei anche vedere il maggiore Farraline, se è disponibile.» McTeer sospirò. «Non posso dire che lo sia o no fino a quando non glielo avrò chiesto, signore. Ma vado a informarmi. Se volete accomodarvi nel salottino, intanto.» Monk accettò e venne introdotto nella stanza avvolta dalla penombra, con le cortine abbassate a metà, e una serie di fiocchi di crespo nero disposti qua e là; e provò all'improvviso una strana apprensione. Adesso che si trattava realmente di affrontare Oonagh e di raccontarle delle bugie, si accorgeva come fosse ancor più difficile di quanto non si era aspettato. La porta si aprì e lui si voltò di scatto, accorgendosi di avere la bocca arida. Oonagh gli si presentò, affrontandolo con la sua espressione pacata, intelligente, di donna che possedeva un gran senso della misura. No, non si poteva realmente dire bella ma in lei c'era una forza di carattere che attirava non solo la sua attenzione, ma anche la sua ammirazione. Le forme e i colori, in sé e per sé, stancano così in fretta, e non importa anche se in principio li abbiamo trovati sensazionali o sorprendenti. L'intelligenza, la forza di volontà, la capacità di vivere grandi passioni e il coraggio di cedervi totalmente, fino in fondo, ecco le cose che erano durevoli. Ma soprattutto Monk si sentiva attirare da quel mistero che c'era in lei, quella parte che non comprendeva e che lei avrebbe sempre tenuto nascosta, volutamente. In un lampo si domandò cosa pensare di Baird McIvor. Che tipo di uomo era se Mary aveva provato simpatia per lui? Aveva chiesto la mano di Oonagh e l'aveva sposata, eppure si era innamorato di Eilish in modo talmente totale e profondo da non riuscir neppure a nascondere i propri sentimenti di fronte alla moglie. Come poteva essere così meschino... e così crudele? Lei doveva averlo notato, vero? Possibile che lo amasse a tal punto da perdonargli una simile debolezza? Oppure voleva bene a Eilish? Il suo cuore era insondabile. «Buon giorno, signor Monk.» Oonagh interruppe il filo dei suoi pensieri e Monk, con un sussulto, tornò al presente. «Avete qualcosa da riferirmi?» Le sue parole erano niente più che cortesi, ma la sua voce vibrava di vitalità e di calore umano. Stava chiedendo qualcosa a un amico, non a una persona che aveva assunto per un determinato incarico.
Se avesse esitato, si sarebbe tradito. La sua perspicacia lo avvertiva di quanto fosse profonda l'intuizione che nascondevano quegli occhi limpidi e pacati. «Buon giorno, signora McIvor» replicò. «Non è granché, e mi spiace; a ogni modo, la mia indagine finora mi porterebbe a concludere che vostra cognata non sia coinvolta in niente di disonorevole. Non credo che giochi d'azzardo o frequenti persone di pessima reputazione o di cattive abitudini. Sono sicuro che non mantiene un amante e non c'è nessuno che fa pressione su di lei per ottenere dei soldi, o a saldo di antichi debiti o per mantenere il silenzio su qualche disgraziata faccenda che risale al passato.» Le rivolse un sorriso schietto, non sfrontato, ma disinvolto. I bugiardi spesso si tradivano perché sembravano esageratamente sicuri di sé. «Anzi, si direbbe proprio che sia semplicemente una donna che ama spendere, una donna prodiga, che ha una scarsissima idea del valore del denaro e nessuna, nel modo più assoluto, su come approfittare di un'occasione vantaggiosa o comperare qualcosa a un prezzo ragionevole.» In un punto imprecisato e lontano della casa, oltre la porta, una cameriera scoppiò in una risatina scrosciante; poi di nuovo fu subito silenzio. Lei lo guardava con insistenza, cercando di leggergli negli occhi. Da molti anni a Monk non capitava di trovarsi di fronte una persona che avesse uno sguardo tanto penetrante, capace - almeno così gli pareva - di intuire quale fosse il temperamento di una persona e non solo di valutare le sue opinioni ma anche di mettere a nudo i suoi sentimenti, e perfino di misurarne le debolezze e le bramosie. D'un tratto lei sorrise e tutto il suo viso si illuminò. «Mi sento molto sollevata, signor Monk.» Gli credeva, oppure era un modo cortese di accantonare l'argomento, almeno per il presente? «Mi fa piacere» confermò lui, meravigliato di provare tanto sollievo adesso che quel momento così carico di intensità era passato. «Grazie per essere venuto a informarmi con tanta premura.» Si tirò indietro facendo qualche passo qua e là per la stanza e riaggiustando meccanicamente una decorazione di fiori secchi sul tavolo al centro di essa. Erano polverosi, sembravano appassiti, e gli fecero venire in mente i funerali. Come se gli avesse letto nel pensiero, o forse non le era sfuggita l'espressione della sua faccia, Oonagh piegò all'ingiù gli angoli della bocca facendo una smorfia. «Non fa proprio un bell'effetto qui, vero? Darò ordine che li tolgano, credo. A una decorazione di questo genere preferirei un
bel fascio di rami e foglie freschi, non vi pare?» Era qualcosa che lo innervosiva vedersi leggere nel pensiero tanto facilmente. E non poté fare a meno di domandarsi se vi avesse letto anche le bugie che le aveva appena raccontato, e avesse semplicemente deciso di passarvi sopra, senza fare alcuna osservazione. «Non mi piacciono i fiori finti» confermò lui, sforzandosi di conservare un'espressione affabile. «Dovete aver lavorato con grande impegno» riprese Oonagh in tono apparentemente superficiale. Per un attimo lui non ebbe idea di che cosa le sue parole significassero, poi trasalì rendendosi conto che si stava riferendo di nuovo al rapporto su Deirdra, che le aveva appena fatto. Possibile che avesse calcato un po' la mano rivelandole le proprie scoperte? Come avrebbe fatto a dimostrarne la fondatezza se Oonagh gli avesse domandato come era riuscito ad arrivare alla verità? «Siete proprio sicuro di ciò che dite?» insistette lei. I suoi occhi ebbero un lampo divertito... oppure semplicemente intuitivo? Non rimaneva nient'altro, salvo la sfrontatezza. Si impose di dare anche alla propria faccia la stessa espressione arguta. Non gli riuscì difficile. «Sì, sono pienamente sicuro di non avere prove che lei sia qualcos'altro, qualcosa di diverso da una persona prodiga, spendacciona, assolutamente incapace di stabilire qual è la somma che dovrebbe realmente pagare invece di quella che riescono a persuaderla a pagare» le rispose. «Ed esistono molte prove, piuttosto, che lei è, in tutto quanto ha importanza, una donna assolutamente rispettabile.» Oonagh si era fermata, eretta, con il dorso alla finestra e la luce le creava una specie di alone intorno al viso, giocando sui suoi capelli. «Uhm...» sospirò lievemente. «E tutto in così poco tempo; eppure avete avuto bisogno di molti giorni per andare in cerca delle prove che serviranno a far condannare la signorina Latterly...» Lui avrebbe dovuto prevederlo, e non l'aveva fatto. Rifletté in fretta. «La signorina Latterly si è data molta pena per nascondere tali prove, signora McIvor. La signora Farraline non ha niente da nascondere. È un po' difficile che il delitto possa venir messo sullo stesso piano di qualche piccola prodigalità dalla sarta, e dalla modista, o per i guanti e la biancheria, per il calzolaio o il merciaio, il pellicciaio o il gioielliere o il profumiere.» «Santo Iddio benedetto!» Oonagh rise voltandosi a guardarlo. «Che sfilata di gente! Sì, forse comincio a capire. A ogni modo vi sono molto ob-
bligata, e anche per aver avuto la cortesia di venire a riferirmelo così in fretta. Come procedono le vostre indagini?» «Fino a questo momento non sono riuscito a trovare nessun elemento del quale la difesa potrebbe approfittare per farci cadere in trappola» rispose, ed era sincero. «Sarei ben felice di poter scoprire dove lei ha potuto procurarsi quella digitale in più; ma non credo che l'abbia ottenuta da qualche farmacista locale a meno che, in questo caso, non si tratti di qualcuno che preferisce tacere in proposito.» «Credo che non ci sarebbe affatto da meravigliarsene. Una vendita del genere li trasformerebbe, per quanto innocentemente l'abbiano fatto, nei complici di un assassinio» disse Oonagh, fissandolo attentamente. «Alla gente non piace compromettere la propria reputazione, soprattutto se si tratta di commercianti. Sarebbe un guaio per i loro affari.» «No.» Monk arricciò le labbra. «Anche se mi piacerebbe scoprire chi è stato. La difesa farà rilevare che lei ha avuto un periodo di tempo molto breve nel quale avrebbe potuto uscire da questa casa. Si trovava in una città che non conosceva... è impossibile che sia andata molto lontano.» Oonagh aprì la bocca come se volesse dire qualcosa, poi si lasciò sfuggire un sospiro. «Avete rinunciato, signor Monk?» C'era solo un'ombra di provocazione nella sua voce, e di disappunto. Monk corse il rischio, per un attimo, di risponderle senza riflettere. Gli erano salite alle labbra le parole più adatte per negarlo, e nel modo più reciso; poi si accorse fino a che punto la commozione avrebbe potuto tradirlo. E, guardingo, calò una maschera sul proprio volto e sui propri sentimenti. «Non ancora» disse con disinvoltura. «Ma non mi manca molto. Non è escluso che presto io possa aver fatto tutto quanto era in mio potere per assicurare la riuscita della causa.» «Mi auguro che tornerete a trovarci prima della vostra partenza da Edimburgo, vero?» La sua faccia era impenetrabile. Ma non le occorrevano una particolare abilità o furberia per ottenerlo, e lo sapeva. E poi, non lo avrebbe giudicato dignitoso. «Grazie, ne avrei piacere. Siete stata della massima cortesia.» La salutò, congedandosi, e quando si ritrovò nel vestibolo deserto, dopo che Oonagh si fu ritirata, si avvicinò a passo quasi di corsa alle scale e cominciò a salirle in cerca di Hector Farraline. Se avesse dovuto aspettare McTeer sarebbe stato costretto a spiegare il motivo per cui voleva vedere Hector, e molto probabilmente gli avrebbero risposto con cortesia ma con un rifiuto.
Conosceva la disposizione delle stanze, in casa Farraline, dalle sue visite precedenti, quando aveva interrogato i domestici e si era fatto mostrare la camera da letto di Mary, il boudoir, e lo spogliatoio dove si trovavano le valigie e l'astuccio della medicina. Individuò senza difficoltà la camera di Hector e bussò alla porta. Gli venne aperta quasi subito con uno zelo che ebbe subito una spiegazione quando Hector prese l'aria delusa; Monk si rese conto che forse si aspettava qualcun altro, probabilmente McTeer con qualcosina per bagnarsi l'ugola. Monk aveva notato che la famiglia non aveva posto limitazioni a quelli che erano i mezzi di sostentamento liquidi per Hector né tantomeno pareva si impegnasse seriamente per impedirgli di ubriacarsi. «Oh, l'investigatore, di nuovo» Hector esclamò in tono di disapprovazione. «Eppure non avete trovato un maledetto niente di niente per tutto il tempo che siete stato qui! C'è qualche povero imbecille che vi paga moneta sonante per niente.» Monk entrò richiudendo la porta alle proprie spalle. In altre circostanze avrebbe perduto le staffe di fronte a un simile linguaggio, ma adesso gli interessava troppo ciò che avrebbe potuto imparare da Hector. «Sono venuto a cercare prove che la difesa potrebbe utilizzare per ottenere l'assoluzione della signorina Latterly» gli rispose con un'occhiata piena di candore. Il vecchio continuava a dare l'impressione di non godere di una buona salute, aveva gli occhi rossi ed era molto pallido, e i suoi movimenti erano sconnessi, incerti. «Perché ha ucciso Mary?» Hector domandò desolato, lasciandosi cadere di schianto nella capace poltrona di cuoio vicino alla finestra. Non si prese la briga di invitare Monk a imitarlo. Tutto nella sua stanza era molto mascolino; c'erano libri a dozzine in uno scaffale appoggiato a una parete, ma troppo lontano perché Monk potesse leggere i titoli. Un acquerello di squisita fattura che raffigurava un ussaro di Napoleone era appeso sopra la mensola del camino, e un altro, di un soldato dei Royal Scots Greys, era appeso alla parete di fronte. Poco più sotto il ritratto di un ufficiale in alta tenuta degli Highlander scozzesi. Era un uomo giovane, molto bello, con lineamenti regolari, folti capelli biondi e grandi occhi sereni. Occorsero parecchi minuti perché Monk lo riconoscesse come un ritratto di Hector medesimo, che risaliva probabilmente a una trentina di anni prima. Cosa diavolo era successo a un uomo come lui in quell'arco di tempo per trasformarlo da ciò che era stato nel patetico rottame di ora? Impossibile addossarne le colpe semplicemente a un fratello maggiore con una personali-
tà più forte, maggiore intelligenza e coraggio? C'era davvero da pensare che l'invidia e il fallimento fossero malattie così virulente? «Per quale motivo una donna come quella dovrebbe rischiare il tutto e per tutto per poche perle?» Hector chiese con voce che si era fatta improvvisamente stizzosa e tagliente. «Non ha senso, caro il mio uomo! Sarà impiccata... non avranno pietà per lei, lo sapete?» «Sì» Monk rispose a bassa voce, con la bocca arida. «Certo che lo so. L'altro giorno stavate dicendo qualcosa a proposito della contabilità dell'azienda, dei libri mastri che vengono falsificati...» «Oh, già. Perché è vero.» Hector rispose senza un attimo di incertezza e con voce quasi inespressiva. «Da chi?» Hector batté le palpebre. «Da chi?» Ripeté, come se fosse una strana domanda da fare. «Non ne ho nessuna idea. Magari da Kenneth. È lui il contabile... ma sarebbe uno sciocco a farlo. Perché risulterebbe troppo evidente. D'altra parte che sia uno sciocco, è indiscutibile.» «Davvero?» Hector lo guardò rendendosi conto che Monk gli stava facendo una domanda, che quella non era soltanto una battuta casuale per rispondergli. «Non ne esiste un motivo specifico» disse lentamente. «È solo l'opinione generale.» Monk ebbe la certezza che mentisse, e fu altrettanto certo che Hector non avesse nessuna intenzione di raccontare a nessuno, con esattezza, per quale motivo Kenneth si fosse guadagnato il suo disprezzo. «Come fate a saperlo?» Gli domandò, andando a prendere posto in una poltroncina più piccola, con lo schienale più rigido, pi fronte a quella in cui Hector sedeva. «Come?» Hector appariva in sé, lucido. «Santo cielo, abito nella stessa casa in cui abita lui! Ci abito da anni. Si può sapere cosa vi prende, brav'uomo?» Monk rimase meravigliato di provare così poca irritazione per quella battuta. «Adesso capisco che voi lo giudicate uno sciocco» disse tranquillamente. «Ma non capisco come fate a sapere che i libri contabili sono stati falsificati.» «Oh, già.» «Be', come fate a saperlo?» Hector evitò di incrociare il suo sguardo. «Qualcosa che Mary diceva. Non ricordo esattamente cosa, a dir la verità. Però ne era contrariata. Mol-
to.» Monk si protese verso di lui con un gesto brusco. «Lei diceva che era stato Kenneth? Vedete di rifletterci un momento, caro signore!» «No, non lo diceva» Hector rispose, corrugando le sopracciglia. «Era semplicemente contrariata.» «Ma non ha mandato a chiamare la polizia?» «No.» Sbarrò gli occhi e osservò Monk con aria soddisfatta. «Ecco perché ho pensato che si trattasse di Kenneth.» Alzò le spalle. «Ma Quinlan è una canaglia intelligente. Non credo che avrebbe qualche perplessità a fare una cosa del genere anche lui. È venuto su dal niente. Tutto cervello e ambizione, smanioso di potere. Fa tutto in un modo ambiguo. Mai capito perché Oonagh sia sempre stata così gentile con lui. Io non gli avrei lasciato sposare Eilish. Lo avrei mandato per la sua strada, anche se, agli inizi, non si può negare che avesse un certo fascino.» «Anche se lei lo amava?» Monk domandò a bassa voce. Hector non disse niente e per qualche istante guardò fuori dalla finestra. «Già, ecco, forse se avessi pensato quello...» «Non lo avete pensato?» «Oli, io?» Le sopracciglia chiare di Hector si sollevarono, e la sua fronte si corrugò. «Cosa ne so io di tutto questo? Lei non viene certo a raccontare a me cose del genere.» Sulla sua faccia si disegnò un'espressione di dolore, talmente intenso e improvviso che Monk ne fu quasi imbarazzato. Era una sensazione rara per lui, e penosa in modo addirittura sorprendente. Per un attimo si sentì confuso, senza più capire cosa doveva dire o fare. Ma Hector non se n'era accorto. La sua commozione, il sentimento che lo aveva colto in quel momento, era troppo intenso e troppo immediato perché potesse preoccuparsi di ciò che gli altri pensavano di lui. «A ogni modo mi meraviglierei se avesse allungato indebitamente le mani su qualcosa che non è suo» disse all'improvviso. «È un mezzo pezzente, d'accordo, ma troppo furbo per rubare.» «E che cosa mi raccontate del signor McIvor?» «Baird!» Hector rialzò gli occhi e la sua espressione cambiò, diventando divertita e compassionevole. «Magari. Ecco un uomo che non ho mai capito. Uno che la sa lunga, e Mary gli era affezionata, a dispetto del suo umore bizzarro. Ripeteva sempre che in lui c'era molto di meglio di quanto non immaginassimo. Il che non è proprio per niente difficile, almeno per quel che mi riguarda.» «È sposato da molto tempo con Oonagh?»
Hector sorrise e questo bastò a trasformare il suo viso in modo addirittura stupefacente. Gli anni nei quali si era trascurato, facendo un uso sbagliato delle proprie forze e delle proprie capacità, gli anni nei quali si era lasciato andare alla deriva, scomparvero di colpo e Monk vide l'ombra dell'uomo in uniforme di gala degli Highlander scozzesi di trent'anni prima. La somiglianza con il ritratto di Hamish Farraline nel vestibolo apparve più forte sotto certi lati, minore sotto certi altri. Identici erano la fierezza e il portamento, la dignità e la sicurezza di sé. Ma in Hector c'era un senso dell'umorismo che mancava nel fratello maggiore e, stranamente, considerato l'uomo che ormai era adesso, un senso di serenità e di pace. «Penserete che sono una strana coppia» Hector disse guardando Monk con l'aria di chi la sa lunga. «Ed è vero. D'altra parte mi dicono che Baird era un uomo pieno di fascino, non appena arrivò qui, un uomo molto romantico. Così bruno, con quell'aria cupa e malinconica, capace di passioni segrete. Avrebbe dovuto essere un Highlander, non un inglese. E Oonagh respinse un avvocato scozzese, che andava a pennello per lei, per accettare Baird. Era anche una buona famiglia quella dell'avvocato, molto buona.» «E la suocera?» Monk gli chiese. Per un attimo sulla faccia di Monk apparve un'espressione di incredulità, come se avesse visto un improvviso barlume di luce. «Oh, già! Una suocera, avete visto giusto. Una specie di megera, era quella donna. Sapete cosa vi dico, non siete stupido neanche la metà di quello che credevo. Sarebbe stata una spiegazione, certo che lo sarebbe stata! Mi riesce facile immaginare che Oonagh abbia preferito rimanere qui, in questa casa, con un uomo come Baird McIvor invece di sposare un altro, un uomo di Edimburgo con una madre qualsiasi, e non parliamo poi di una madre come Catherine Stewart! A quel modo non sarebbe stata padrona, proprio per niente, in casa propria, né avrebbe potuto mettere il naso negli affari dei Farraline come sta facendo adesso.» «Davvero? Pensavo che a capo dell'azienda di famiglia ci fosse Alastair, o mi sbaglio?» «Già, il capo è lui, ma Oonagh ne è il cervello. Come Quinlan, che il diavolo se lo porti.» Monk si alzò in piedi. Non voleva essere sorpreso in quella stanza qualora McTeer fosse salito con qualcosa da bere per Hector, o tantomeno da Oonagh se, al pianterreno, lo avesse visto passare per il vestibolo, diretto all'uscita, un po' troppo tempo dopo averlo salutato. «Grazie, maggiore Farraline. Siete stato molto interessante. Credo che seguirò il vostro consi-
glio e andrò a vedere se riesco a scoprire chi ha falsificato la contabilità nei libri mastri dei Farraline. Vi auguro il buon giorno.» Hector alzò una mano in un abbozzo di saluto e poi si lasciò andare contro la spalliera della poltrona, voltandosi a guardare fuori dalla finestra con aria afflitta. Monk sapeva già molte cose sull'azienda tipografica dei Farraline inclusa la sua ubicazione e di conseguenza non appena ebbe lasciato Ainslie Place prese una carrozza che lo conducesse, passando per Princess Street, in Leith Walk, la lunga strada che portava al Firth of Forth e ai cantieri navali sul Leith. La distanza dalla fine di Princess Street era complessivamente di sei chilometri, e la tipografia si trovava più o meno a mezza strada. Scese, pagò il conducente ed entrò in cerca di Baird McIvor. L'edificio in sé e per sé era ampio, brutto, assolutamente funzionale e fiancheggiato da altri due stabilimenti il più grande dei quali, a giudicare dalla dicitura dipinta sopra la porta d'ingresso, era una fabbrica di cordami. Dentro, c'era un unico, vasto spazio aperto; la parte più recente della costruzione era stata sistemata in modo da formare una specie di anticamera dalla quale una scala in ferro battuto portava a un pianerottolo. Vi si aprivano alcune porte, presumibilmente quelle degli uffici dei direttori dei diversi reparti, della contabilità e delle stanze occupate dagli altri impiegati. Il resto sembrava interamente destinato alla tipografia vera e propria, in quanto era pieno di torchi, macchine per la composizione e tutta l'attrezzatura necessaria, compresi alcuni scaffali per gli inchiostri e i caratteri tipografici. Balle di carta erano ammucchiate all'estremità più lontana, unitamente alle tele per le rilegature, al filo e ad altre macchine ancora. Non c'era trambusto né frastuono, ma il rumore sordo e regolare delle macchine in funzione. Monk chiese all'impiegato che si era fatto avanti per accoglierlo se era possibile parlare con il signor McIvor. Non precisò il motivo della sua visita ed evidentemente l'uomo dovette pensare che fosse venuto per motivi di affari perché non gli domandò niente ma lo precedette di sopra andando a fermarsi davanti alla prima porta, in un bel legno massiccio. Bussò e la aprì. «Un certo signor Monk chiede di voi, signor McIvor.» Monk lo ringraziò entrando prima che Baird potesse avere il tempo di rifiutarsi di vederlo. Dopo aver esaminato solo con un'occhiata fuggevole le scaffalature bene ordinate, la lampada a gas che irradiava una vivida luce
dalla parete, gli strani pezzi di carta bianca sulla scrivania (probabilmente si trovavano lì perché McIvor giudicasse le caratteristiche e le qualità di ogni singolo tipo) e il mucchio di libri posati sul pavimento, tutta la sua attenzione si concentrò su Baird il cui viso rivelava uno stupore allarmato. «Monk?» Fece per alzarsi dalla scrivania. «Cosa siete venuto a fare qui? Cosa volete?» «Solo un poco del vostro tempo» Monk rispose senza un sorriso. Era già arrivato alla conclusione che non avrebbe mai imparato niente da Baird limitandosi semplicemente a fargli delle domande. Ne avesse avuto il tempo, avrebbe preferito adoperare l'astuzia, oppure sfruttare la lucidità del proprio cervello, ma non poteva contarci. Gli rimaneva soltanto la forza. «Sono in possesso di prove secondo le quali sembra lecito sospettare che i libri mastri della ditta siano stati falsificati, e che sia stato fatto scomparire del denaro.» Baird impallidì paurosamente e un lampo di collera si accese nei suoi occhi scuri ma, prima che potesse protestare o negare, Monk continuò. Stavolta sorrise, mostrando i denti in una smorfia che aveva qualcosa di crudele, che non offriva alcun conforto. «A quanto ho saputo la difesa ha assunto un brillante avvocato.» In realtà si trattava di una speranza, perché di sicuro non sapeva ancora niente, ma a quel punto anche non fosse stato vero, lui avrebbe fatto tutto quanto era in suo potere perché diventasse una realtà. «Per quello che ci riguarda, non è nel nostro interesse che possano scoprire un fatto del genere e ne approfittino per insinuare nel cervello dei giurati il sospetto che sia stato quello il vero movente dell'assassinio della signora Farraline. Così riuscirebbero anche a far sorgere il ragionevole dubbio che, in realtà, la colpevole non sia stata la sua infermiera.» Baird si lasciò andare contro lo schienale della poltrona e lo fissò con gli occhi sbarrati, mentre a poco a poco l'espressione della sua faccia rivelava che una tale notizia faceva dimenticare tutto il resto e anche il risentimento o il dispetto potevano venire accantonati. «No... no, senz'altro» ammise a malincuore; ma i suoi occhi continuavano a essere guardinghi. Monk intanto si stava accorgendo che aveva la fronte imperlata di minutissime goccioline di sudore. Questo acuì la sua attenzione, pungolandolo ad andare a fondo della questione. «Dopo tutto» soggiunse «se fosse vero, potrebbe fornire un ottimo movente per un assassinio. Immagino che la signora Farraline non avrebbe certo permesso di lasciar passare impunito un crimine del genere, sia pure
risolvendo la cosa in privato senza denunciare la truffa pubblicamente, vero?» Baird esitò ma l'espressione apparsa sulla sua faccia adesso rivelava oltre alla collera e al dispiacere anche un evidente terrore. Doveva essere un uomo molto più complicato di quanto Monk avesse creduto inizialmente... quando lo aveva giudicato, con un po' di disprezzo, l'uomo capace di preferire Eilish a Oonagh. «No» Baird ammise. «Suppongo che avrebbe affrontato un caso di appropriazione indebita in un senso o nell'altro. E immagino, qualora si fosse trattato di una persona di famiglia, che avrebbe provveduto a risolvere la faccenda personalmente. Anzi, anche in caso contrario, avrebbe senz'altro preferito che la cosa non diventasse di pubblico dominio. Sono situazioni che danneggiano, e in modo grave, il buon nome di un'azienda.» «Precisamente. Ma non sarebbe stato gradevole per il colpevole.» «Immagino di no. Ma che cosa vi fa pensare che ci sia qualcosa che non quadra nella nostra contabilità? Vi ha forse detto qualcosa Kenneth? Oh... è forse Kenneth, proprio lui, quello che sospettate?» «Io non sospetto di nessuno in particolare.» Monk pronunciò queste parole con un tono tale da lasciare aperte due possibilità, che dicesse la verità oppure che cercasse deliberatamente di essere evasivo. La paura era un catalizzatore molto efficace dal quale potevano scaturire altre rivelazioni, di qualsiasi genere. Baird rifletté per qualche minuto prima di continuare. Monk cercò di capire se lo facesse perché si sentiva colpevole oppure perché non voleva mostrarsi ingiusto nei confronti di qualcuno che aveva un certo ascendente, o chissà quali poteri, su di lui. Fra l'una e l'altra cosa pensò che si trattasse del senso di colpa; aveva ancora la faccia coperta da quel velo di sudore, e gli occhi, malgrado lo sguardo fisso davanti a sé, rivelavano qualcosa di sfuggente. «Be', confesso di non sapere niente che possa esservi di aiuto» disse infine. «Ho poco a che fare con la parte finanziaria della nostra azienda. Io mi occupo della carta e delle legature. Quinlan lavora a diretto contatto con la tipografia. Kenneth si occupa della contabilità. Quando è qui, Alastair prende le decisioni di maggiore importanza: quali clienti accettare, quali nuovi affari concludere, e cose del genere.» «E la signora McIvor? A quanto mi risulta, si occupa anche lei della conduzione dell'azienda. Ho sentito dire che è molto capace.» «Sì.» La sua espressione era insondabile e Monk scoprì di non essere capace di interpretarla. Avrebbe potuto essere di orgoglio, o di risentimen-
to, perfino di umorismo. Almeno una dozzina di riflessioni si disegnarono d'un lampo sulla faccia di Baird, e con la stessa rapidità scomparvero. «Sì» lui ripeté. «Ha un notevole acume. Molto spesso Alastair accoglie i suoi consigli sia per le decisioni di affari sia per quelle di carattere tecnico. Per essere più precisi, è Quinlan che ascolta la sua opinione per i problemi che riguardano questioni di stampa, scelta dei caratteri, e via dicendo.» «Di conseguenza il signor Fyffe non ha niente a che vedere con la contabilità?» «Quinlan? No, assolutamente.» Lo disse con un tono di rimpianto che dopo un attimo si trasformò in spietata autoironia. Monk si scoprì sempre più confuso per ciò che lo riguardava. Come poteva un uomo capace di simili sentimenti, intuito e arguzia, innamorarsi di Eilish che pareva non avesse nient'altro da offrire salvo la bellezza fisica? Che in fondo era una cosa così superficiale, e di durata tanto breve! Perfino la cosa più incantevole del mondo diventa noiosa se mancano l'arte dell'amicizia, la voglia di ridere, lo spirito, l'immaginazione, la capacità di ricambiare un amore, a volte perfino di contrariare, criticare, risollevare spiritualmente sia pure lottando, litigare e trasformare. Questo pensiero gli fece tornare in mente, di nuovo, Hester con una lucidità che fu quasi simile a una fitta di dolore. «In tal caso sarà meglio che io approfondisca la questione» disse in un tono brusco e tagliente del tutto inaspettato visto il tono della conversazione. Baird non nascose di non essere entusiasta di questa idea. «Sarebbe sempre meglio della soluzione di dover mandare qui i revisori contabili» Monk continuò. Era una minaccia, e Baird come tale la riconobbe. «Oh, certamente» rispose un po' troppo in fretta. «Senz'altro. Sarebbe costoso, e farebbe nascere nella gente il sospetto che esista qualche valido motivo di pensare che qualcosa non quadri. Sì, approfondite voi la questione, per carità, approfondite voi la questione, signor Monk.» Monk sorrise, o forse fu più una smorfia, la sua. Dunque Baird era lietissimo che Monk trovasse la conferma che tutto andava a perfezione nei libri mastri della ditta oppure, se fosse successo il contrario, era chiaro che tutti avrebbero saputo che lui, Baird, non aveva niente a che fare con quel problema. Eppure continuava ad apparire inquieto, timoroso. Per quale motivo? «Grazie» Monk accettò, e gli voltò le spalle per uscire nel corridoio mentre Baird si alzava dalla sua poltrona dietro la scrivania.
Trascorse il resto della giornata nella ditta tipografica dei Farraline e non trovò assolutamente niente che gli consentisse di approfondire quel lato delle indagini. Se qualcuno aveva falsificato i libri mastri, a lui mancavano le capacità necessarie per scoprirne le prove. Affaticato, con la testa che gli doleva e di un umore decisamente pessimo, se ne andò alle cinque e mezzo per rientrare nel suo alloggio, al Grassmarket, dove c'era una lettera di Rathbone che lo aspettava. Non gli dava alcuna buona notizia ma si limitava semplicemente a informarlo dei propri progressi che erano modesti in modo desolante. Monk passò più di tre ore quella sera in piedi, in Ainslie Place, sempre più infreddolito e ai limiti dell'angoscia, nella speranza che Eilish si azzardasse a un'altra sortita e si recasse di nuovo nel luogo dove già era stata, situato chissà dove, nel quartiere che si trovava al di là di King's Stables Road. Ma mezzanotte arrivò e passò senza che nessuno uscisse dal numero diciassette. La sera successiva si mise di guardia nello stesso posto; stavolta si sentiva non solo in preda a una cupa disperazione ma anche gelato dalla testa ai piedi. Era passata da poco mezzanotte quando venne ricompensato di quella lunga attesa dall'improvvisa apparizione di una sagoma indistinta che, attraversata la parte centrale della piazza, passava a meno di tre metri da dove lui era nascosto, immobile, con il corpo che gli tremava per il freddo e l'eccitazione, e di nuovo si avviava a passo lesto giù per Glenfinlas Street, oltre Charlotte Square, diretta verso il crocicchio. Lui le tenne dietro lasciando una distanza di circa una trentina di metri fra loro salvo quando ci si avvicinava a un incrocio dove lei avrebbe potuto svoltare in una strada secondaria perché, in questo caso, c'era il rischio di perderla di vista. Stavolta anche lui cominciò a voltarsi per guardare alle proprie spalle a intervalli regolari. Non aveva nessuna intenzione di lasciarsi aggredire alle spalle e finire, perduti i sensi, sull'acciottolato mentre Eilish svaniva di nuovo chissà dove, vero? La notte era più fredda dell'ultima volta, un velo di brina cominciava a coprire lentamente le lastre di pietra del marciapiede e l'aria a contatto con le sue labbra umide diventava frizzante e gli penetrava tagliente nei polmoni a ogni respiro. Si rallegrò di potersi muovere in fretta anche se la rapidità e la scioltezza del passo di Eilish continuarono a meravigliarlo. Non s'era aspettato tanta vigoria da una donna così languida e pigra. Già come la volta precedente, lei passò oltre i giardini di Princess Street
proseguendo lungo Lothian Road e svoltò a sinistra per imboccare King's Stables Road passando quasi sotto l'ombra del castello che quella notte si stagliava con la sua massa irregolare e imponente contro uno sfondo di un nero ancora più fitto, e un cielo nuvoloso, senza una stella. Eilish attraversò Spittai Street, procedendo verso il Grassmarket. C'era davvero da pensare che avesse un appuntamento con qualcuno che viveva in un quartiere simile, frequentato soprattutto da mercanti, locandieri e gente di passaggio come lui? E cosa pensare, allora, di Baird McIvor? Se il sentimento che lui aveva creduto esistesse tra loro era, in realtà, solo unilaterale, allora bisognava davvero pensare che lui, prima, si fosse lasciato ingannare più che mai! No, questo non era vero. La sua capacità di essere ingannato dalle donne, dalle donne belle, era praticamente illimitata. Ricordò con amarezza Hermione, e fino a che punto aveva creduto alla dolcezza delle sue parole, aveva pensato che il suo modo di agire fosse dettato dalla pietà mentre poi era risultato come, in effetti, si trattasse soltanto di un profondo desiderio di evitare tutto ciò che poteva darle fastidio o dispiacere. Hermione aveva scelto la strada più facile, in qualsiasi cosa, perché non c'era nel suo cuore nessun desiderio, nessun sentimento tanto forte e possente da indurla a spingersi anche oltre il dispiacere o il dolore, per ottenere la realizzazione di ciò che voleva. In lei non c'era mai stato nemmeno un pizzico di passione, né il bisogno di dare o di ricevere. Aveva paura della vita. Con quale persona lui, Monk, si era ingannato ancor più atrocemente, di quanto non avesse fatto con Hermione? E così Eilish tradiva quel babbeo di Baird fino in fondo, né più né meno come il marito, ben più astuto e dotato di maggior senso critico? E Oonagh? Aveva una vaga idea di ciò che la sua amata sorellina stava combinando? E Mary? Aveva saputo? C'era ancora qualche persona in giro per il Grassmarket. I rari lampioni a gas irradiavano coni di una luce giallastra che gli consentiva di distinguerne la presenza; erano appoggiati a essi, raccolti lì intorno, a girare gli occhi tutt'intorno, indolentemente. Di tanto in tanto un'occasionale scroscio di risate, a scatti e vagamente osceno, dava una chiara indicazione di quelle che erano le loro condizioni. Una donna che portava un abito lacero e malconcio, passò senza fretta, come se andasse a zonzo, e uno degli uomini le gridò dietro qualcosa. Lei gli rispose parlando in un dialetto talmente stretto che Monk non ne capì una sola parola, anche se il loro significato era abbastanza chiaro.
Eilish non badava a niente di tutto questo ma non sembrava nemmeno impaurita e il suo passo non ebbe un attimo di incertezza quando li oltrepassò, procedendo oltre. Monk ricordò di guardarsi alle spalle, ma se c'era qualcuno che li seguiva, non riuscì a capirlo. A ogni modo di gente, in giro, ce n'era ancora. Un uomo, che portava un cappotto nero, stava procedendo a lunghi passi circa dieci metri dietro di lui ma niente nel suo comportamento lasciava sospettare che lo pedinasse; infatti non lo degnò di uno sguardo quando Monk si fermò per qualche attimo prima di riprendere il cammino. A quel punto, ormai, l'uomo lo aveva quasi raggiunto. Si stavano avvicinando all'angolo di Candlemaker Row dove Deirdra aveva svoltato in una viuzza laterale, e più oltre verso i cavernosi, sinistri quartieri più miserabili della città intorno a Cowgate, e verso le gradinate e i wynds fra Holyrood Road e Canongate. Eilish ormai aveva coperto a piedi un tragitto di più di tre chilometri ma non dava segno di rallentare e ancor meno di aver raggiunto la sua destinazione. Ma c'era una cosa ancora più strana, cioè sembrava che quel quartiere le fosse completamente familiare. Mai nemmeno una volta ebbe un attimo di incertezza o dovette controllare dove si trovava. Attraversò il ponte George IV e Monk, seguendola, alzò gli occhi ad ammirare la stupenda fila di case vittoriane, disposte su un pendio un po' più alto rispetto al piano stradale, con le facciate classicheggianti simili a quelle della città antica dalla quale loro stavano arrivando. Aveva creduto che, forse, avrebbe svoltato lì, per raggiungerle. Perché quello era il tipo di casa in cui un amante avrebbe potuto vivere... anche se che razza di amante doveva essere costui se si aspettava, o se addirittura permetteva, a una donna di venire a trovarlo a piedi, da sola, facendo quel lungo cammino e, per di più, a notte fonda? All'estremità più lontana, a una distanza di solo un centinaio di metri, si trovava il Lawnmarket, e la casa del tristemente celebre Deacon Brodie, quella figura corpulenta e imponente di dandy che di giorno figurava come uno dei pilastri dell'alta società di Edimburgo, sessant'anni prima, e di notte diventava un delinquente, e uno scassinatore. A dar retta ai pettegolezzi che circolavano nelle osterie, e al quale Monk aveva prestato orecchio con estrema attenzione nella speranza di scoprire qualcosa sui Farraline, la cosa più infamante, nel caso di Deacon Brodie era stata la sua duplicità in quanto durante il giorno ispezionava e dava consigli sul modo di difendere da qualsiasi ladrocinio quelle case e quegli appartamenti dove poi si reca-
va, a rubare, di notte. Aveva vissuto circondato da un'aura di estrema rispettabilità, lì, nel Lawnmarket, e mantenuto non una sola amante con una famiglia illegittima ma addirittura due. Era sfuggito alla cattura quando i suoi complici erano stati arrestati, scappando in Olanda solo per venirvi catturato con un semplicissimo trucco e rispedito a Edimburgo dove era stato impiccato nel 1788, e fino all'ultimo con una battuta scherzosa sulle labbra. Ma Eilish non svoltò in direzione del Lawnmarket e continuò scendendo verso le immonde e cupe voragini di Cowgate. Monk continuò a seguirla risolutamente. Qui i lampioni stradali erano più radi e il marciapiede, in alcuni punti, largo appena una ventina di centimetri. L'acciottolato era più rustico, irregolare, e quindi dovette stare molto più attento di prima per non correre il rischio di slogarsi una caviglia. Ai lati levavano le loro mura verso il cielo enormi casamenti miserabili, alti quattro o cinque piani, dove in ogni stanza si ammucchiavano una dozzina di persone e anche più, e ci vivevano in condizioni spaventose, senz'acqua, senza fognature, senza ciò che l'igiene più elementare richiedeva. Monk conosceva quel genere di abitazioni perché, a Londra, ne aveva avuto una lunga familiarità. Il fetore che se ne levava era identico, composto del tanfo del sudiciume, delle malattie, e tutte le esalazioni di un corpo umano. Poi d'un tratto l'oscurità fu totale; Monk fu colto da un dolore atroce non solo alle spalle, ma anche contro il petto. Quando riacquistò i sensi era intorpidito dal freddo, talmente irrigidito da aver difficoltà a farsi ubbidire dalle gambe e dalle braccia, con la testa che gli doleva in modo tale da non avere la forza di aprire gli occhi. Un cagnetto col pelo marrone gli stava leccando la faccia incuriosito, speranzoso, senza inimicizia. Era ancora buio, ed Eilish non si vedeva da nessuna parte. Si mise in piedi con difficoltà, chiedendo scusa al cagnetto perché non aveva niente da potergli offrire, e, amareggiato, riprese il cammino per raggiungere il Grassmarket che si trovava a poca distanza di lì. A ogni modo era sempre più deciso a non lasciarsi sconfiggere, men che meno da una donna frivola, superficiale, indegna come Eilish Fyffe. E che i suoi appuntamenti amorosi di mezzanotte avessero una connessione con la morte di sua madre o no, lui era ben deciso a scoprire una volta per tutte dove andasse e per quale motivo.
Di conseguenza la sera successiva rimase ad aspettarla ma, stavolta, non in Ainslie Place bensì all'angolo dove King's Stables Road sbucava nel Grassmarket. Perlomeno si sarebbe risparmiato un pezzo di strada. Durante il giorno aveva anche provveduto a comperare un massiccio bastone da passeggio e un cilindro dalla solida struttura che si calcò con decisione sulla testa ancora dolorante. Durante il giorno aveva preso la precauzione di percorrere Cowgate per tutta la sua lunghezza in modo da poterla conoscere palmo a palmo alla semioscurità dei suoi sporadici lampioni a gas. E nella luce più tenue delle più corte giornate autunnali la visione che si era parata davanti ai suoi occhi era stata desolante. I casamenti erano decrepiti, in pessime condizioni, la muratura in pietra sbreccata, che si sbriciolava, le insegne dei negozi corrose e semicancellate, i muri sozzi e macchiati, logorati dalle intemperie, i rigagnoli e i canaletti di scolo troppo poco profondi, intasati di rifiuti e di acqua stagnante. Le strette viuzze che se ne staccavano risalendo verso la High Street erano affollate di gente e di carretti, ingombri di biancheria stesa ad asciugare, di mucchi di ortaggi e di rifiuti. In quel momento, mentre seminascosto nel vano della porta di un negozio di ferramenta, era in attesa di Eilish, non ebbe difficoltà a ricordarla mentalmente un metro dopo l'altro; prese la decisione di non lasciarsi sorprendere un'altra volta. Era mezzanotte passata da venti minuti quando scorse la sua figura snella sbucare dall'angolo con King's Stables Road e imboccare i Grassmarket. Stavolta camminava un po' più lentamente forse perché portava con sé un grosso pacco dalla forma indefinibile che, a giudicare dalla sua camminata meno elegante e più impacciata del solito, doveva essere pesantissimo. Attese fino a quando Eilish si ritrovò una quindicina di metri davanti a lui, poi uscì rapidamente dal vano della porta e si mise a pedinarla, tenendosi accostato al muro e facendo ondeggiare il bastone con aria apparentemente distratta mentre, in realtà, lo teneva stretto nella mano ben salda. Eilish, percorso Grassmarket per tutta la sua lunghezza, attraversò il ponte George IV senza guardare né a destra né a sinistra e imboccò Cowgate. Niente, in lei, faceva pensare che sospettasse di essere seguita da qualcuno. Mai nemmeno per un attimo ebbe una piccola esitazione oppure si voltò per dare un'occhiata alla strada alle proprie spalle. Cosa accidenti stava combinando? Monk percorse il poco spazio che li separava, a quel punto, e si ritrovarono in quella specie di semibuia caverna che era Cowgate. Lì non doveva
assolutamente perderla di vista. C'era il pericolo che potesse fermarsi da un minuto all'altro e dileguarsi, entrando in uno di quegli alti caseggiati. Allora sì, che sarebbe stato molto difficile ritrovarla. Si trattava di costruzioni di quattro o cinque piani, come minimo, dall'interno più o meno simile a una specie di labirinto, pieno di corridoi e di rampe di scale, di pianerottoli, e di una sfilata di stanze, in cui la gente viveva ammucchiata. E poi, naturalmente, c'erano le scale e le stradine e i vicoletti, ed Eilish avrebbe potuto imboccare uno qualsiasi di essi. Possibile che non conoscesse la paura, una donna bella come lei che si aggirava sola, a mezzanotte passata, in luoghi simili? L'unica risposta ammissibile era quella che sapesse con estrema sicurezza di essere seguita da qualcuno che la proteggeva. Baird McIvor? Sembrava assurdo. Perché diavolo andare fin lì per ritrovarsi con lei? Era una cosa insensata. Anche possedendo l'immaginazione più sbrigliata, perfino accettando l'idea che l'uno o l'altro di loro, e magari tutti e due, non avessero il cervello completamente a posto, era difficile persuadersi che Eilish andasse a un appuntamento amoroso. Esistevano innumerevoli posti più facili da raggiungere, più sicuri e molto più romantici, vicino a casa sua. Oltrepassarono il South Bridge, e più oltre, al di là della figura di Eilish, Monk ne scorse una più indefinita, un po' curva, un sacco buttato sulle spalle, che usciva frettolosamente da un vicoletto per scomparire in un altro, diretta verso l'Infirmary. Rabbrividendo involontariamente Monk ricordò i grotteschi crimini di Burke e Hare, e fu come se avesse visto il fantasma di chi aveva vissuto trent'anni prima dirigersi verso Surgeon's Hall con un corpo assassinato da poco in spalla, da offrire al dottor Knox, il gigantesco anatomopatologo guercio. Girò appena la testa a dare un'occhiata piena di inquietudine dietro le proprie spalle ma non scorse nessuno che sopraggiungesse, avvicinandosi in modo minaccioso. Ormai erano praticamente arrivati a Blackfriars' Wynd e alla casa del cardinale Beaton su un angolo, con i frontoni sporgenti e la muratura semidiroccata. Dalle informazioni avute proprie quello stesso giorno, adesso sapeva come fosse stata costruita all'inizio del sedicesimo secolo dall'allora vescovo di Glasgow, nonché cancelliere di Scozia, durante la reggenza e la monarchia del re Giacomo V, prima che Inghilterra e Scozia venissero unite. Accanto a essa c'era la Zecca Vecchia, una costruzione decrepita e quasi in rovina con una porta murata sulla quale si poteva ancora leggere l'iscri-
zione abbi pietà di me, o dio. Monk già sapeva, ed era il frutto delle indagini svolte durante la giornata, che c'erano anche un annuncio pubblicitario che vantava i meriti di Allison, lo spazzacamino, e un piccolo disegno di due spazzacamini che correvano, anche se adesso non poteva vederlo. Eilish continuò per la sua strada e Menk strinse tra le dita il bastone con maggior forza. Non gli piaceva portarlo con sé. Il suo contatto con la mano gli faceva tornare alla memoria ricordi ripugnanti di violenza, confusione e paura, e soprattutto di un senso schiacciante di colpa. D'altra parte quel sottile brivido che si accorgeva di provare alla nuca era simbolo di un terrore primordiale ancora più grande. E, sia pure incoscientemente, la sua mano vi si avvinghiò con maggior energia. Di tanto in tanto si voltava a dare un'occhiata dietro di sé, ma ogni volta scorgeva soltanto sagome confuse e indefinite. Poi, tutto d'un tratto, a St. Mary's Wynd lei voltò bruscamente a sinistra e Monk rischiò quasi di lasciarsela sfuggire. Fece qualche passo di corsa e riuscì solo per un pelo a trattenersi dall'andare a sbatterle addosso perché lei si era fermata dal vano buio di una porta, il pacco sempre stretto fra le mani. Si voltò a guardarlo per un attimo impaurita, poi quando i suoi occhi, ormai abituati al buio, allungarono uno sguardo dietro di lui, si lasciò sfuggire un urlo: «No!» Monk si voltò appena in tempo per alzare il bastone e parare un colpo. «No!» Eilish disse ancora con voce che vibrava per il tono autorevole, di comando. «Robbie, mettilo giù! Non c'è bisogno...» Riluttante l'uomo abbassò il randello e rimase in attesa, tenendolo sempre pronto, ben stretto. «Siete un uomo molto determinato, signor Monk» Eilish mormorò. «Farete meglio a entrare.» Monk esitava. Lì, fuori, in strada, fosse stato aggredito, gli restava sempre la possibilità di lottare e difendersi; dentro, non aveva idea di quanti uomini potessero esserci. In un quartiere come quello che circondava Cowgate, avrebbe potuto essere eliminato senza lasciare tracce e senza che fosse necessaria una spiegazione. Di nuovo gli si presentarono agli occhi della mente macabre visioni di Burke e Hare, simili a incubi. Adesso la voce di Eilish sembrava quasi ridente, benché lui continuasse a non riuscire a distinguere la sua faccia nella penombra. «Non occorre allarmarsi, signor Monk. Questo non è un covo di ladri ma semplicemente una scuola gratuita per i poveri. Mi spiace che siate stato aggredito e colpi-
to quando mi seguivate l'altra volta. Alcuni dei miei alunni sono molto gelosi della protezione con cui mi circondano. Non sapevano chi foste. Camminando a quel modo furtivo lungo Grassmarket dietro di me, avevate un aspetto veramente sinistro!» «Una scuola gratuita per i poveri?» Monk non nascose di essere stupefatto. Ed Eilish lo fraintese, scambiando il suo stupore per ignoranza. «Ci sono moltissime persone a Edimburgo che non sanno né leggere né scrivere, signor Monk. Anzi, questa non è una scuola gratuita in senso legale. Nessuno di noi dà lezione ai bambini. Ci sono altri che pensano a questo. Noi ci occupiamo degli adulti. Forse non vi siete mai reso conto di quanto sia enorme per un uomo lo svantaggio di non essere in grado di leggere la lingua che parla, vero? Saper leggere è una porta che si apre sul resto del mondo. Se uno sa leggere, può fare conoscenza con le migliori intelligenze del nostro tempo, e anche con quelle del passato!» La sua voce si alzò, carica di entusiasmo. «Potete ascoltare la filosofia di Platone oppure partire per una meravigliosa avventura con sir Walter Scott, vedere il passato che si schiude di fronte a voi, esplorare l'India o l'Egitto, potete...» si interruppe bruscamente, poi continuò a voce più bassa. «Potete leggere i giornali e sapere ciò che dicono gli uomini politici, e formarvi qualche opinione personale cercando di capire se è, o no, la verità. Potete leggere le insegne nelle strade e nelle vetrine dei negozi, e le etichette sulle boccette delle medicine.» «Capisco, signora Fyffe» rispose Monk a bassa voce ma con una sincerità che era del tutto nuova in lui, nei confronti di Eilish. «E so cosa sono le scuole gratuite per i poveri. Si tratta di una spiegazione alla quale non avevo pensato.» Fu a quel punto che Eilish scoppiò in una risata scrosciante. «Quanto candore! Cosa credevate, che avessi un appuntamento? A Cowgate? Ma, insomma, signor Monk! E con chi, posso chiederlo? Oppure avete pensato che fossi a capo di una banda di ladri, magari, e venissi qui a dividere il bottino con i miei complici? Una specie di Deacon Brodie femmina?» «No...» era molto tempo che una donna non metteva Monk in imbarazzo a quel modo; ma l'onestà lo costringeva ad ammettere che se l'era meritato. «Farete meglio a entrare ugualmente.» Tornò a voltarsi verso la porta. «A meno che sia tutto qui ciò che volevate sapere? Non farete meglio ad avere le prove che sono sincera?» C'era una sfumatura beffarda nella sua voce ma, sotto quel tono lieve e divertito, si intuivano il suo turbamento e
la sua commozione. Monk acconsentì seguendola lungo gli stretti corridoi di un caseggiato decrepito. Eilish si arrampicò su per scale traballanti, imboccò un altro corridoio, sempre con l'uomo che aveva chiamato Robbie a pochi passi di distanza dietro di lei, il randello stretto in pugno. Salirono altre scale e finalmente sbucarono in uno stanzone le cui finestre si aprivano sulla strada. Era pulito, soprattutto tenendo conto dell'ambiente circostante; e del resto Monk, a quel punto, ormai si era abituato al tanfo che esalavano, solitamente, caseggiati e locali del genere. Lo stanzone era praticamente privo di mobili con l'eccezione di un tavolo di legno, che doveva essere stato riparato più di una volta, sul quale si trovavano un mucchio di libri e di fogli di carta, alcuni calamai e una dozzina o poco più di penne d'oca, un temperino per affilarne meglio la punta e parecchi fogli di carta asciugante. Gli studenti di Eilish erano un gruppetto di tredici o quattordici uomini di ogni tipo ed età, i quali portavano abiti puliti ma talmente logori e laceri che era chiaro il motivo per cui quella che loro frequentavano veniva comunemente denominata "scuola degli straccioni". Le loro facce si illuminarono di entusiasmo quando videro apparire Eilish; poi si incupirono all'improvviso, diventando torve e insospettite, quando la figura di Monk si profilò dietro di lei. «Va tutto bene» Eilish si affrettò a rassicurarli. «Il signor Monk è un amico. Stasera è venuto ad aiutarci.» Monk aveva appena aperto la bocca per protestare che non era per niente vero, quando cambiò idea e lo confermò con un cenno del capo. Senza una sola parola, tutti si accoccolarono sul pavimento, la maggior parte a gambe incrociate tenendo i libri in equilibrio sulle ginocchia e i fogli di carta sui libri, con altri aperti sul pavimento fra loro e cominciarono lentamente, faticosamente, a scrivere l'alfabeto. Spesso alzavano gli occhi verso Eilish per chiedere aiuto o un cenno di approvazione e lei lo dava, con grande solennità, offrendo ora una correzione ora una parola di elogio. Dopo due ore di scrittura, passarono alla lettura, la ricompensa per le loro fatiche. Arrestandosi parecchie volte, ma continuamente incoraggiati, a uno a uno, riuscirono a portare alla fine, incespicando e tentennando, la lettura di un capitolo di Ivanhoe. Il loro entusiasmo alla fine, ed erano ormai le quattro e venticinque del mattino, mentre ringraziavano Eilish, e con lei ringraziavano Monk, fu una ricompensa più che sufficiente. Anche perché Monk si sentiva letteralmente estenuato. Poi sfilarono fuori dallo
stanzone per farsi un'ora di sonno prima di dare inizio alla lunga giornata di lavoro. Quando anche l'ultimo di loro se ne fu andato, Eilish si voltò verso Monk senza dire una sola parola. «I libri?» Lui domandò anche se sapeva già la risposta e non provava il minimo pentimento al pensiero che potessero costare alla ditta Farraline i suoi interi profitti. «Sì, naturale che provengono dalla tipografia di famiglia» rispose lei fissandolo negli occhi. «È Baird che me li procura, ma se lo racconterete a qualcuno, io lo negherò. Non credo che ne esista la minima prova. A ogni modo so che non lo fareste in ogni caso. Non ha niente a che vedere con la morte della mamma e non servirà nemmeno a far assolvere o a condannare la signorina Latterly.» «Non sapevo che Baird potesse metter mano alla contabilità dell'azienda.» Ecco spiegato il suo nervosismo! «Non può» Eilish gli confermò con aria divertita. «Io ho bisogno di libri, non di soldi. E non ruberei un centesimo neanche se ci fossi costretta. Baird stampa un po' di libri in più, oppure avverte che le scorte cominciano a scarseggiare. Non ha niente a che vedere con la contabilità.» Tutto quadrava. «Vostro zio Hector ha detto che qualcuno falsificava la contabilità.» «Davvero?» Eilish parve solo vagamente stupita. «Be', può darsi che qualcuno l'abbia fatto. Deve essere Kenneth, ma non so perché. Anche se lo zio Hector beve in un modo pauroso e a volte dice cose totalmente insensate e assurde. Ricorda avvenimenti che, secondo me, non sono mai accaduti e confonde un'epoca con un'altra. Io non gli presterei molta attenzione.» Monk stava per rispondere che doveva farlo per favorire la pubblica accusa, ma era stanco di bugie, soprattutto di bugie inutili, e quella non era certo la notte più adatta per raccontarne altre. Si era visto costretto a cambiare radicalmente il proprio giudizio su Eilish. Perché la giovane donna non era affatto né frivola né indolente, e tutt'altro che stupida. Era logico che dormisse fin tardi la mattina; rinunciava al sonno per buona parte della notte! E dedicava quelle ore a persone che non la ripagavano né con una ricompensa in denaro né con elogi pubblici. Eppure lasciava capire molto chiaramente di essere più che soddisfatta di ciò che riceveva in cambio. In quello stanzone dove la luce era fioca, Eilish pareva irradiasse una gioia profonda. Adesso Monk capiva per quale motivo camminasse a testa alta e con passo fiero, da dove avesse origine quel suo sorriso misterioso, come
certi pensieri e certe riflessioni che apparivano totalmente in disaccordo con la conversazione che si faceva abitualmente in famiglia. E adesso capiva per quale motivo Baird McIvor l'amasse più della sua stessa moglie. Anzi in quel momento si rese anche conto che a Hester sarebbe piaciuta, forse l'avrebbe perfino ammirata. «Non sto cercando di provare che la signorina Latterly ha ucciso vostra madre» Monk esclamò seguendo un impulso improvviso. «Sto tentando di provare che non è stata lei.» Eilish lo scrutò incuriosita. «Per denaro? No... Le volete forse bene?» «No.» Poi, istantaneamente, Monk si pentì di averlo negato tanto in fretta. «Non nel senso che intendete» soggiunse accorgendosi di essere diventato rosso. «Lei è una grande amica, una amica intima. Abbiamo condiviso molte esperienze, in altri casi, cercando che giustizia fosse fatta. Lei...» Eilish stava sorridendo. E di nuovo nei suoi occhi apparve quel lieve lampo beffardo. «Non è necessario darmi spiegazioni, signor Monk. Anzi, vi prego, non fatelo. Non vi crederei in ogni caso. So cosa significa amare quando non si vorrebbe amare affatto.» Senza preavviso l'espressione lieta scomparve dalla sua faccia e venne sostituita da un'altra, di grande sofferenza che, forse, era più appariscente di quanto lui non avesse mai notato. «Cambia tutti i vostri progetti, altera ogni cosa. Un attimo prima siete lì, sulla spiaggia a giocare, un attimo dopo eccovi prigioniera della marea, e per quanto si cerchi di lottare, non si è più capaci di riguadagnare la riva.» «State parlando dei vostri sentimenti privati, signora Fyffe. Io sono un amico della signorina Latterly. E i miei sentimenti nei suoi confronti non sono assolutamente tali.» Pronunciò tutte queste parole con chiarezza, in tono veemente, ma gli bastò guardarla in faccia per rendersi conto che non gli credeva. Allora si infuriò, accorgendosi di avere la gola stranamente chiusa. E si sentì sleale, in modo assurdo. «È possibile avere un'amicizia totale per una persona senza provare affatto un sentimento simile a quello che voi mi descrivete» ripeté. «Certo che è possibile» Eilish confermò, avviandosi alla porta. «Verrò con voi fino a Grassmarket; così sarò sicura che non correte pericoli.» Era ridicolo. Lui, un uomo alto e robusto, armato di bastone, e lei una donna esile e snella, più bassa di almeno dieci centimetri, dalla figura delicata come un fiore. Gli faceva pensare a un iris sotto il sole. Non poté trattenere una risata. Eilish lo precedette giù per la scala buia fino all'uscita, e continuò a par-
lare voltando lievemente la testa sulla spalla mentre lui la seguiva. «Quante volte siete stato assalito e picchiato lungo la strada, signor Monk?» «Due, ma...» «Avete sofferto molto? È stato doloroso?» «Sì, ma...» «Vi accompagno fino a casa, signor Monk.» Sulle sue labbra era apparsa soltanto la lieve ombra di un sorriso. Lui respirò a fondo. «Vi ringrazio, signora Fyffe.» A Newgate Hester passava da momenti di una speranza-duramenteconquistata alla disperazione più totale per risalire poi lentamente verso la speranza di prima. Le afflizioni peggiori erano la noia e il senso di impotenza. La fatica fisica, per quanto senza alcuna utilità, avrebbe attenuato la sua sofferenza, le avrebbe consentito di riposare. Invece mentre giaceva sveglia nel buio più totale, rabbrividendo di freddo, la fantasia la torturava presentandole tutte le sue infinite possibilità, e poi tornava sempre a quella stessa immagine, al breve percorso dalla cella alla tettoia sotto la quale il nodo scorsoio l'aspettava. Non aveva paura della morte in sé e per sé, ma piuttosto... e se ne accorgeva agghiacciata dall'angoscia... si stava convincendo che tutto quanto aveva sempre pensato che si trovasse al di là di essa costituiva un credo religioso non forte abbastanza per consentirle di affrontare la realtà dei fatti. Era spaventata come mai, prima, in vita sua. Perfino sul campo di battaglia la morte si presentava sempre improvvisa, senza un avvertimento, senza dare il tempo di riflettere. E poi, in fondo, non era mai stata sola. L'aveva affrontata insieme ad altri, e quasi tutti soffrivano molto più di lei. La sua mente era stata totalmente impegnata a riflettere su ciò che poteva fare per loro; non era rimasto spazio per pensare a se stessa. Adesso si rendeva conto di quale fortuna fosse stata, la sua! Le guardiane continuavano a trattarla con freddezza, con un disprezzo speciale, ma lei ormai ci si era abituata e, anzi, questi fatterelli irritanti le davano qualcosa contro cui combattere, come quando ci si conficca le unghie nel palmo delle mani per lottare contro un dolore più forte. In una giornata particolarmente fredda la porta della cella si aprì e, dopo poche parole soltanto da parte della guardiana, sua cognata, Imogen, entrò. Hester si meravigliò di vederla; aveva accettato quanto Charles aveva detto come qualcosa di definitivo e non si era illusa che sarebbe diventato meno inflessibile. Più a fosche tinte si presentava il futuro, meno probabile le sembrava possibile un fatto del genere.
Imogen era vestita con molta eleganza, come se dovesse recarsi a fare qualche visita pomeridiana a gentildonne dell'alta società, la gonna, sostenuta dalle sottogonne, ampia, sontuosa, adorna di balze, il corpetto stretto, le maniche dalle guarnizioni elaborate. La sua cuffia era ornata di fiori. «Scusami» disse subito, notando l'espressione di Hester e girando rapidamente gli occhi per la cella nuda e squallida. «A Charles ho dovuto raccontare che andavo in visita dalle signorine Begbie. Ti prego, non dirgli che sono stata qui, se non ti spiace. Io... io credo che proprio adesso non avrei la forza di affrontare una discussione, un litigio.» Sembrava imbarazzata ma anche ansiosa di scusarsi. «Lui...» si interruppe. «Lui ti ha dato ordine di non venire» Hester concluse al posto suo. «Non preoccuparti. Certo che non gli dirò niente.» Avrebbe voluto ringraziare Imogen per essere venuta a farle visita... ed effettivamente si sentiva piena di gratitudine... eppure le parole le morirono in gola. Sembrava tutto così falso, quando avrebbe dovuto essere schietto, sincero. Imogen frugò nella reticella e tirò fuori una saponetta dal profumo delicato oltre a un sacchettino di fiori di lavanda secchi talmente fragranti che Hester ne poté aspirare il profumo perfino a due metri di distanza. La delicatezza femminile di tutto questo le fece salire agli occhi lacrime incontrollabili. Imogen alzò di scatto lo sguardo e la sua espressione puramente cortese scomparve sostituita da un'altra, commossa ed emozionata. D'impulso lasciò cadere il sapone e il sacchettino di lavanda e si fece avanti prendendo Hester fra le braccia e stringendola con una forza che Hester non avrebbe mai pensato potesse avere. «Vinceremo!» Esclamò in tono concitato. «Tu non hai ucciso quella donna e riusciremo a provarlo. Il signor Monk può non essere molto simpatico però è straordinariamente intelligente e di una fermezza spietata. Ricordati come ha risolto il caso Grey quando tutti gli altri credevano che fosse impossibile! E lui tiene le tue parti, mia cara. Guai a te se rinunci alla speranza.» Hester era riuscita a conservare tutta la propria compostezza con ogni altro visitatore, perfino con Callandra benché fosse stato molto difficile; ma adesso si accorse di non riuscirci più. Aggrappandosi a Imogen, scoppiò in lacrime e pianse a lungo stretta fra le sue braccia fino a quando si sentì estenuata, come se su di lei fosse calata la pace della disperazione. Le parole di Imogen erano state pronunciate per consolarla e invece, sciaguratamente, l'avevano costretta a concentrare tutta la sua intelligenza sulla
verità contro la quale non aveva fatto che lottare per tutto il tempo, da quando l'avevano condotta lì, dopo il breve soggiorno nella prigione di Coldbath Fields. Tutto quello che Monk, o chiunque altro, avrebbe potuto fare non era abbastanza. A volte anche persone innocenti venivano impiccate. Perfino se Monk o Rathbone fossero stati in grado di provare la verità in un secondo tempo, non le sarebbe stato di nessun conforto e sicuramente di nessun aiuto. Ma adesso invece di lottare contro tutto ciò, di lottare contro la paura e l'ingiustizia, nel cuore cominciava a nascerle qualcosa di molto simile all'accettazione e alla rassegnazione. Forse era dovuto soltanto alla stanchezza, ma era sempre meglio di quella lotta disperata. Perché le faceva nascere nel cuore quasi un senso di liberazione. Adesso non desiderava più sentir parlare di speranza perché era andata più oltre e l'aveva superata; d'altra parte, sarebbe stato crudele dirlo a Imogen e quella nuova calma da cui si sentiva possedere era ancora troppo fragile per potersene fidare. Forse c'era ancora qualcosa in lei che si aggrappava alla irrealtà? E non voleva definirla a parole. Imogen si tirò indietro di qualche passo e la guardò. Doveva aver visto o intuito qualche cambiamento in lei perché non parlò più della sua situazione ma si chinò a raccogliere il sapone e il sacchetto di lavanda che erano caduti. «Non ho neanche domandato se ti è consentito ricevere questi oggetti» disse in tono pratico. «Cosa pensi... che dovresti nasconderli?» Hester tirò su col naso e cercò il fazzoletto per soffiarselo. Imogen aspettava. «Grazie» Hester disse infine, allungando una mano per prenderli; poi se li infilò nella scollatura dell'abito. Il sapone era un po' scomodo da nascondere così ma perfino quel po' di disagio era qualcosa che le dava un vago senso di soddisfazione. Imogen andò a prender posto sulla branda, con le ampie gonne allargate intorno a lei, esattamente come se si trovasse in visita da una signora della buona società, anche se dal giorno della morte e della rovina finanziaria del signor Latterly senior, non aveva mai più fatto niente del genere. Adesso il massimo della sua aspirazione era, appunto, una visita alle signorine Begbie, e niente più. «Non vedi mai nessun altro?» Domandò con interesse. «Voglio dire all'infuori di quella donna insopportabile che mi ha fatto entrare? Perché è una donna, suppongo?» Hester sorrise a suo dispetto. «Oh, sì. Se tu avessi visto in che modo sogguardava Oliver Rathbone, non avresti alcun dubbio in proposito!»
«Non dirmi che parli sul serio?» Imogen era incredula, e un sorriso le aleggiò sulle labbra malgrado il luogo in cui si trovava e il motivo per cui era lì. «A me fa pensare alla signora MacDuff, la governante di mia cugina. Le facevamo scherzi terribili, la tormentavamo. Arrossisco ancora, adesso, quando penso come siamo stati crudeli. Perché i bambini a volte possono essere terribilmente spassosi nel loro candore. D'altra parte alcune volte sarebbe meglio non dire la verità. Può darsi che uno sappia benissimo qual è la verità nel segreto del proprio cuore, ma ci si può comportare molto meglio se non si è costretti a continuare a guardarla.» Hester ebbe un sorrisetto amaro. «Credo di trovarmi proprio in quella situazione, ma disgraziatamente ho molto poco d'altro che attiri il mio interesse.» «Hai avuto notizie dal signor Monk?» «No.» «Oh.» Imogen parve stupita, e Hester all'improvviso si sentì come se Monk l'avesse delusa, e abbandonata. Perché non le aveva scritto? Eppure doveva bene immaginare che cosa potesse significare per lei ricevere anche una sola parola di incoraggiamento, vero? Perché era così sventato? Ecco, questa era una domanda sciocca; sapeva già la risposta. L'affetto e la tenerezza non facevano assolutamente parte del suo carattere, e quando lui riusciva a manifestarli, in genere capitava con donne simili a Imogen, gentili, dal carattere dolce, donne che, abituate sempre a far conto sugli altri, erano le più adatte a rendere omaggio alla sua forza e alle sue qualità; non con donne come Hester, che lui, nei momenti migliori, considerava un'amica, quasi alla stregua di un altro uomo, e nei momenti peggiori una persona dalle opinioni troppo rigorose, graffiante, dogmatica, insomma una vera offesa al proprio sesso. Lealtà e giustizia avrebbero richiesto che Monk andasse in cerca della verità, ma ad aspettarsela oppure a cercare consolazione e conforto in lui si finiva sempre per ritrovarsi offesi, dispiaciuti, e con la sensazione inevitabile di essere stati delusi e traditi. Ed era precisamente quello che lei provava adesso. Imogen la stava osservando attentamente. Sapeva leggere dentro di lei come qualsiasi altra donna. «Sei innamorata di lui?» le domandò. Hester rimase inorridita. «No! Assolutamente no! Non arriverei addirittura al punto di dire che racchiude in sé tutto quanto disprezzo in un uomo, ma certo ci si avvicina molto. D'accordo, è intelligente, e non mi sento di negarlo anche solo per un attimo; però a volte è non solo arrogante ma
anche crudele, e non potrei mai far conto sulla sua capacità di mostrarsi gentile con qualcuno o di non approfittarsi della sua debolezza... neanche per un minuto!» Imogen sorrise. «Mia cara, io non ti ho domandato se avevi fiducia in lui oppure se lo ammiravi o addirittura se ti era simpatico. Ti ho domandato se eri innamorata di lui, che è tutt'altra faccenda.» «Be', non ne sono innamorata. Mi è simpatico, mi piace... a volte. E...» respirò profondamente. «...e ci sono questioni nelle quali sento che potrei fidarmi di lui nel modo più completo. Questioni di onore dove c'è in gioco la giustizia, oppure di coraggio. Sarebbe pronto a lottare anche se tutte le circostanze gli fossero avverse, e senza badare a quanto potrebbe costargli, pur di difendere quello che a suo giudizio fosse giusto.» Imogen la osservò con una strana espressione nella quale il divertimento e il dispiacere si confondevano. «Mi pare, cara, che tu descriva come sue quelle che invece sono le tue virtù, ma non c'è niente di male. Non è la tendenza che abbiamo tutti?...» «Niente affatto. Non è vero.» «Se lo dici tu» e Imogen, per quanto incredula, accantonò l'argomento. «E cosa mi racconti del signor Rathbone? Io devo confessare di trovarlo piuttosto simpatico. È un tal gentiluomo! E poi sono arrivata alla conclusione che dev'essere straordinariamente intelligente.» «Naturale che lo è.» Hester non ne aveva mai dubitato e, mentre pronunciava quelle parole, le ritornarono alla memoria i ricordi di un momento di intimità talmente sorprendente e talmente dolce che finì quasi per domandarsi se lo avesse immaginato, oppure no. Mai e poi mai sarebbe stata capace di baciare un uomo a quel modo senza che un gesto del genere avesse, per lei, un significato profondo. Ma non conosceva gli uomini sotto questo aspetto e forse loro erano molto diversi. Tutto quanto aveva osservato in loro le diceva che, infatti, lo erano. Ma non riusciva a non dare importanza a quello che era avvenuto. Con un senso di vuoto doloroso si rese conto di saperne molto poco, e che adesso ormai non aveva molte illusioni: sarebbe morta senza aver mai amato oppure essere stata riamata. La compassione per se stessa la travolse, come un'ondata di marea, e la sommerse, per quanto ne provasse una grande vergogna. «Hester» Imogen disse con aria grave «stai cominciando a rinunciare. Non è da te mostrarti così patetica e, quando tutto questo sarà finito, ti odierai perché non hai lottato per rimanere all'altezza del tuo coraggio e dei tuoi meriti.»
«Parole di conforto come queste vanno benissimo quando si dicono a qualcun'altro» Hester rispose con un sorrisetto amaro. «Ma la faccenda è ben diversa quando sei tu ad affrontare la realtà della morte. Perché, dopo non c'è più niente.» Imogen impallidì paurosamente e nei suoi occhi passò un'espressione desolata, ma non ebbe un attimo di incertezza. «Vuoi forse dire che la tua morte potrebbe essere, in qualche modo, diversa da quella di altre persone? Diversa da quella dei soldati che hai assistito e curato?» «No... no, naturalmente. Sarebbe arrogante e assurdo.» Il solo fatto che le venissero ricordati i soldati, fece riaffiorare alla sua memoria i loro volti stravolti dalla sofferenza, i loro corpi indeboliti. Lei sarebbe morta in fretta, senza ritrovarsi mutilata o logorata da febbri o dissenteria. Avrebbe dovuto vergognarsi di tanta vigliaccheria. Molti di loro erano stati più giovani di quanto lei non fosse adesso; e avevano assaporato la vita ancora meno. Imogen si sforzò di sorridere e i loro occhi si fissarono per un attimo che parve interminabile, senza esitazioni. Hester non aveva bisogno di farle ad alta voce i propri ringraziamenti. Continuava a essere terribilmente impaurita, sempre insicura su ciò che si trovava oltre la tettoia del boia e il buio improvviso, ma li avrebbe affrontati con la stessa dignità che aveva osservato in altri, sarebbe stata pronta a entrare a far parte del vasto numero di coloro che avevano già imboccato quella strada, e lo avevano fatto a testa alta e senza un tremito nello sguardo. Imogen intuì quando fu il momento più adatto per andarsene e si guardò bene dal guastare ciò che aveva ottenuto, trattenendosi ancora per un po' a parlare di cose banali. In fretta, abbracciò con forza Hester e poi, accompagnata dall'ondeggiante fruscio dell'ampia gonna, raggiunse la porta e chiese che la facessero uscire. Arrivò la guardiana, scrutò Imogen mentre sulla sua faccia agra, con quei capelli tirati strettamente indietro e raccolti in una crocchia, si disegnava un'espressione di disprezzo; poi quando Imogen ricambiò il suo sguardo senza un fremito, il disprezzo dileguò per venire sostituito da qualcosa che assomigliava vagamente all'invidia e a un barlume di rispetto. Le tenne la porta spalancata e Imogen uscì maestosamente senza udire una sola parola. L'ultimo visitatore a Newgate fu Oliver Rathbone. Trovò Hester molto più calma delle occasioni precedenti. La giovane donna lo affrontò senza nemmeno un poco della commozione a malapena contenuta delle altre
volte e lui, invece di esserne confortato, si mise subito in allarme. «Hester! Cos'è successo?» le chiese. Nello stesso momento in cui la porta della cella venne richiusa e si ritrovarono soli, le andò subito vicino e le afferrò le mani, stringendole tra le proprie. «Qualcuno ha detto o fatto qualcosa che vi ha turbato?» «Perché? Perché non sono più impaurita come prima?» Rispose lei con l'ombra di un sorriso. Rathbone si sentì salire alle labbra ben altre parole, parole abbastanza chiare per farle capire che la considerava una rinunciataria. Perfino l'espressione della sua faccia, che non era più angosciata, poteva solo significare che non lottava più tra la speranza e la disperazione. Non potevano assolutamente sapere, in quel momento, che sarebbe stata assolta. Ormai, al punto in cui erano le cose, non era possibile. Quindi Hester doveva aver accettato la sconfitta. Neanche per un solo attimo gli passò per la mente che Hester avesse davvero ucciso Mary Farraline, o intenzionalmente o per un disgraziato incidente. Si scoprì furioso con lei perché si stava arrendendo. Come poteva farlo, dopo tutte quelle battaglie che avevano combattuto insieme per altri, e che avevano vinto? Aveva affrontato il pericolo né più né meno come la maggior parte dei soldati su un campo di battaglia, aveva provato cosa volessero dire ore interminabili di fatica, durezze, privazioni, ed era passata attraverso tutto questo con cuore saldo e spirito appassionato e intatto. Aveva affrontato la rovina finanziaria dei genitori e la loro morte, e ne era sopravvissuta. Come osava crollare proprio adesso? Nello stesso tempo Rathbone si rendeva conto con amarezza che Hester poteva perdere. Il coraggio che si richiedeva da lei era quello che bisogna trovare per combattere quando non c'era più nessuna causa di speranza, un coraggio cieco e immotivato, perfino di fronte alla ragione. Come poteva aspettarsi qualcosa del genere da chiunque? Eccetto che vederla avvilita, scorata, lo spirito ridotto al silenzio, era una prospettiva che gli faceva provare un atroce senso di vuoto, penoso e intollerabile. Che lui stesso, professionalmente parlando, potesse fallire era qualcosa che non gli era mai nemmeno balenato. Fu solo molto tempo dopo che una riflessione del genere gli affiorò alla mente, e con stupore. «Ho avuto moltissimo tempo per rifletterci» Hester continuò tranquillamente, insinuandosi con la voce nei suoi ragionamenti. «Tutta la paura del mondo non servirà a cambiare niente, ma soltanto a portarmi via quel poco che ho.» Proruppe in una risatina tremula. «E forse sono semplicemente troppo stanca per qualcosa che richiede tanta energia mentale.»
Gli salirono alle labbra ogni genere di parole di incoraggiamento: che c'era ancora tempo in abbondanza nel quale avrebbero potuto scoprire qualcosa che condannasse in modo schiacciante qualcuno della famiglia Farraline, o perlomeno qualcosa di talmente clamoroso da far nascere qualche dubbio agli occhi dei giurati; che Monk era brillante e spietato, non si sarebbe mai arreso; che Callandra aveva assunto per la sua difesa il miglior penalista di Edimburgo e che lui stesso, Rathbone, gli sarebbe stato al fianco per tutta la durata del processo; che perfino gli avvocati dell'accusa a volte inciampavano in qualche trabocchetto che si erano creati da soli, strada facendo, per eccessiva fiducia oppure perché i testimoni avevano mentito, si erano impauriti, e si condannavano l'un altro unicamente per paura o per farsi dispetto o per avidità; e che le loro bugie, una volta ritrattate quando si fossero trovati in un'aula di tribunale di fronte alla maestà della Legge, sarebbero servite unicamente a contraddire non solo loro stessi ma anche a farli contraddire reciprocamente. Tutte queste parole gli morirono sulle labbra prima ancora di pronunciarle. Ogni verità era già stata meditata, era già nota tra loro. Farle rivivere di nuovo a parole adesso, quando era già troppo tardi, sarebbe servito soltanto a rivelarle che, in fin dei conti, lui non aveva capito nulla. «Partiamo dopodomani» preferì dirle. «Per Edimburgo?» «Sì. Non posso viaggiare con voi; non lo permetterebbero. Ma sarò a bordo dello stesso treno, e insieme a voi col cuore.» Gli balenò d'improvviso che parole del genere avrebbero avuto un suono romantico e sentimentale; d'altra parte aveva detto proprio tutto ciò che intendeva dire. Tutti i suoi sentimenti e la sua commozione sarebbero stati con lei, con la crescente vergogna e l'imbarazzo, il disagio fisico perché sapeva che lei sarebbe stata ammanettata e la guardiana non l'avrebbe lasciata neanche per un attimo, neanche per le necessità più intime e personali. E, infinitamente più grave di tutto questo, sarebbe stato il pensiero che quello poteva essere l'ultimo viaggio per Hester, l'ultimo viaggio lontano dall'Inghilterra, l'ultimo in senso assoluto. «Hanno ballato tutta la notte, la vigilia di Waterloo» disse all'improvviso Rathbone senza un motivo specifico, salvo che gli inglesi avevano vinto quella battaglia, che aveva segnato la fine di un'epoca. «Chi?» Rispose Hester con un sorrisetto acido. «Wellington... oppure l'imperatore dei francesi?» Lui ricambiò il sorriso. «Wellington, naturalmente. Ricordatevi che siete
inglese!» «La carica della Brigata Leggera?» controbatté lei. Rahtbone le strinse le mani con più forza. «No, mia cara, mai sotto il mio comando! A volte sono stato ridotto alla disperazione, però non sono mai stato temerario. Se era proprio necessario combattere quella sciagurata guerra, allora... meglio la Sottile Linea Rossa!» Sapeva quanto fossero familiari a entrambi quelle ore assurde e incredibili in cui la fanteria delle Highlands aveva resistito a una carica dopo l'altra della cavalleria russa. A volte si erano ridotti a un'unica fila di soldati, ma a ogni uomo che cadeva un altro si faceva avanti a sostituirlo. E per tutta la durata di quell'orribile massacro la linea dei soldati non si era mai spezzata; alla fine era stato il nemico a ritirarsi. Era probabile che Hester avesse assistito e curato gli uomini feriti durante quella prova di resistenza, e forse vi aveva perfino assistito dall'alto delle colline circostanti. «E va' bene» disse lei con un tremito nella voce. «La Brigata Pesante... o la va o la spacca.» 8 Rathbone aveva scritto a Monk per informarlo con quale treno avrebbe viaggiato senza menzionare il fatto che era lo stesso sul quale anche Hester doveva venir accompagnata in Scozia. Di conseguenza quando entrarono nella Stazione Waverley di Edimburgo in una mattina grigia, aveva tutte le ragioni di aspettarsi Monk sotto la pensilina. Anzi, in fondo al cuore covava la speranza che gli avrebbe portato qualche notizia, sia pure poco importante, ma che potesse fornire un nuovo indizio, una nuova traccia da seguire. Ormai il tempo che avevano a disposizione era paurosamente breve, e tutto quanto avevano potuto mettere insieme fino a quel momento erano soltanto pochi, possibili, moventi di altre persone, che un pubblico ministero capace e competente avrebbe accantonato subito, considerandoli pretestuosi, e nati dalla disperazione. Che fossero pretestuosi o no, poteva essere vero; ma che si sentisse ai limiti della disperazione era indubbio. Scese sul marciapiede con la valigia in mano, e si avviò verso L'uscita, talmente assorto da non accorgersi neanche della gente che, a tratti, lo urtava. Non provava nessun piacere al pensiero dell'incontro con il penalista scozzese, James Argyll. La sua reputazione era formidabile. Perfino a Londra il suo nome era circondato di ammirazione. Chissà cosa lo pagava
Callandra! Era molto poco probabile che si degnasse di ascoltare anche un solo consiglio da parte sua e lui, del resto, non aveva la minima idea se considerasse Hester innocente oppure se avesse semplicemente accettato di occuparsi di una causa, che doveva indiscutibilmente suscitare notevole scalpore, per un riguardo nei confronti della vittima, se non dell'imputata. Non bisognava dimenticare che era un uomo di Edimburgo. Forse aveva conosciuto i Farraline, certamente di fama se non di persona. Fino a che punto si sarebbe veramente impegnato? Fino a che punto sarebbe stata totale la sua lealtà, o la sua dedizione alla causa per ottenere la vittoria? «Rathbone? Rathbone, dove diavolo state andando?» Rathbone si voltò di scatto per trovarsi faccia a faccia con Monk, vestito con eleganza immacolata, ma con espressione truce e seccata. Gli bastò per capire, senza domandarglielo, che non aveva buone notizie. «Ha un appuntamento con il signor James Argyll» Rathbone gli rispose acidamente. «Si direbbe che sia lui la nostra unica speranza.» Alzò le sopracciglia, sgranando gli occhi. «A meno che non abbiate scoperto qualcosa di cui non mi avete ancora parlato?» Trasudava sarcasmo, lo capivano tutti e due. Monk aveva già intuito, senza bisogno di tante parole, che nessuno di loro aveva idee utili da mettere in pratica e che stavano naufragando nella stessa disperazione, che lo stesso senso di panico li divorava, al punto da lasciarli con il fiato mozzo. Provavano, l'uno verso l'altro, soltanto il desiderio di fare del male, ferire, offendere, trovare da ridire. Anche questa era una delle molte maschere della paura. Alle loro spalle il marciapiede della stazione era in subbuglio, perché la gente si spingeva, allungava il collo a guardare, verso il fondo del treno dove si trovava la carrozza della guardia. «Oh, Dio!» esclamò Rathbone al colmo dell'angoscia. «Cosa?» domandò Monk, impallidendo. «Hester...» «Come? Dove?» «Nella carrozza della guardia. L'hanno condotta quassù.» Dall'espressione di Monk si sarebbe pensato che volesse schiaffeggiarlo. «Fanno sempre così» ribatté Rathbone fra i denti. «E dovreste saperlo, voi. Su, venite. Non ha senso rimaner qui a guardare a bocca aperta la scena con tutta questa gente. Non possiamo alzare un dito per aiutarla.» Monk esitò perché non riusciva ad accettare l'idea di andarsene, così, semplicemente. Le grida e gli urli, gli sberleffi, i fischi e gli insulti stavano diventando sempre peggio.
Rathbone allungò uno sguardo in direzione dell'uscita, poi esaminò l'intero marciapiede in tutta la sua lunghezza, fino in fondo dove la gente cominciava a raccogliersi. Era dilaniato dall'indecisione. «È arrivato il treno con l'assassina da processare!» Si mise a sbraitare uno strillone di giornali. «Qui potete leggere tutto! Eccomi da voi, signore, ne volete uno? Un penny, signore...» C'era un agente di polizia che cercava di farsi largo, tutto solo, venendo verso di loro. Scostava a spallate chi non gli lasciava il passo. «Su, andiamo, via, fate largo! Badate ai fatti vostri. Non c'è niente da vedere. Soltanto una povera donna che è venuta qui per il suo processo in tribunale. E allora si saprà tutta la storia! Fate largo, per favore! Prego! Lasciate libero il passo. Su, andiamo, venite via.» Rathbone si decise e, girando sui tacchi, tornò ad avviarsi verso l'uscita com'era già stata sua intenzione anche prima. «Quando ha inizio il processo?» Monk domandò, mettendosi a camminare al passo con lui intanto che, finalmente, anche gli altri passeggeri venivano costretti a disperdersi senza troppi complimenti, in modo molto poco dignitoso e, quindi, diventando logicamente di un umore sempre peggiore. «Sfrontato di un pezzente che sei!» Esclamò un anziano gentiluomo, infuriandosi, ma né Monk né Rathbone gli prestarono orecchio. «E guardate un po' dove mettete i piedi, signore! Insomma, non so proprio... come se non ci fosse già la polizia, anche troppo...! Oggigiorno non si può più viaggiare decentemente...» «Su che cosa pensate di fondare la vostra difesa?» Monk chiese mentre, con Rathbone, varcavano i cancelli della stazione e si ritrovavano in strada. «Da quella parte.» E gli indicò i gradini per raggiungere Princess Street. «Non tocca a me» disse Rathbone con amarezza. «È tutto nelle mani di Argyll.» Monk sapeva bene quello che era detto nella lettera, ma purtroppo le spiegazioni non avevano ottenuto lo scopo di sopire i suoi timori. «Per amor di Dio, possibile che Hester non abbia niente da dire in proposito?» Domandò mentre sbucavano in Princess Street, rischiando quasi di far cadere una graziosa signora che si tirava dietro un bambinetto. «Vi chiedo scusa» Rathbone le disse in tono brusco. «Non granché, immagino. Non gli ho ancora parlato e finora ci siamo limitati a scambiarci una serie di lettere, e anche quelle relative alle solite formalità. Non ho nessuna idea, assolutamente, se addirittura la creda innocente o no.»
«Maledetto incapace che non siete altro!» Esplose Monk, voltandosi di scatto per pararglisi davanti e guardarlo in faccia. «Volete forse dire che avete assunto un avvocato a difenderla senza neanche sapere se crede in lei o no?» Afferrò Rathbone per il bavero del soprabito, con la faccia addirittura sconvolta, tanto era il suo furore. Rathbone lo scostò con una mossa secca, di incredibile violenza. «Non sono stato io ad assumerlo, ignorantone! Ci ha pensato lady Callandra Daviot. E quanto a credere nella sua innocenza, sarà una bellissima illusione ma, nelle condizioni precarie in cui ci troviamo, è un lusso che forse non potremmo nemmeno permetterci. Tanto per cominciare, può darsi che un concetto del genere non esista... a Edimburgo.» Monk aprì la bocca per ribattere ma, rendendosi conto di quanto fosse vera quell'osservazione, preferì lasciar perdere. Rathbone si riaggiustò il colletto del soprabito. «Be', e cosa state lì a fare, adesso?» riprese Monk, agro. «Andiamo a far la conoscenza di questo Argyll, e cerchiamo di scoprire se potrà esserci utile.» «Non ha senso fare il tiratore scelto quando non si hanno munizioni» obiettò Rathbone con amarezza, riprendendo il cammino. Sapeva che lo studio di Argyll si trovava lì, sempre in Princess Street; e gli avevano anche spiegato che, dalla stazione, ci si poteva arrivare facilmente a piedi. «Se non sapete chi può essere stato a uccidere Mary Farraline, potreste almeno provare a raccontarmi se avete qualche sospetto su qualcuno, e perché. Immagino che avrete pur raccolto qualche informazione dall'ultima volta che mi avete scritto. Sono passati tre giorni.» La faccia di Monk era tesa e pallidissima quando ricominciò a camminare, di nuovo, a pari passo con Rathbone. Per alcuni minuti camminarono in silenzio, poi finalmente si decise a parlare, con voce stridula. «Sono tornato dai farmacisti. Non riesco a scoprire dove qualcuno, o Hester o chiunque altro, può aver acquistato quella digitale...» «È quanto mi avete già scritto.» «Sembrerebbe che qualche mese fa, qui a Edimburgo, ci sia stato un avvelenamento a base di digitale, E ha suscitato un certo scalpore. Non è escluso che possa aver fatto venire quell'idea al nostro assassino.» Rathbone sgranò gli occhi. «Interessante. Non è granché però avete ragione, potrebbe avergli messo il germe di quest'idea nel suo cervello. Qualcos'altro?» «La nostra maggiore speranza rimane sempre la persona che si occupa
della contabilità. Kenneth Farraline ha un'amante...» «Cosa niente affatto insolita» obiettò Rathbone seccamente. «Non è certo un crimine, fra l'altro. E a che cosa può servirci?» Sia pure con difficoltà, Monk riuscì a dominarsi. «È una donna dai gusti costosi, e lui lavora come contabile dell'azienda. Il vecchio Hector Farraline afferma che i libri mastri sono stati falsificati...» Rathbone si fermò sui due piedi. «E perché, in nome di Dio, non me lo avete detto prima?» «Perché è successo qualche tempo fa e Mary ne era già al corrente.» Rathbone si lasciò sfuggire una bestemmia. «Molto utile» osservò Monk in tono acido. Rathbone gli lanciò un'occhiataccia. Monk continuò a camminare. «Il punto più debole del nostro caso sembrerebbe tutta la serie delle questioni che riguardano i tempi. È impossibile che Hester abbia acquistato la digitale qui a Edimburgo... o perlomeno è quasi impossibile. Come non è possibile che abbia potuto vedere la spilla con le perle fino a quando si è ritrovata in treno sulla via del ritorno. Avrebbe potuto commettere l'assassinio solo se avesse portato la digitale con sé da Londra, il che è assurdo.» «Certo che è assurdo» Rathbone bofonchiò a denti stretti. «Ma ho visto gente finire sulla forca sulla base di prove altrettanto modeste... se l'odio del pubblico è violento quanto basta! Non avete un minimo di buon senso, brav'uomo?» Monk si voltò di nuovo di scatto ad affrontarlo. «In tal caso toccherà a voi far cambiare l'umore del pubblico, ecco.» Non era una domanda, bensì una richiesta. «È ciò per cui siete stato pagato. Cercate di far apparire Hester come un'eroina, una donna che ha rinunciato alla propria famiglia e alla felicità per dedicarsi all'assistenza dei malati e dei feriti. Provate a farla immaginare a quella gente quando era a Scutari, e trascorreva tutte le notti passando dall'uno all'altro giaciglio dei feriti con una lampada in mano, asciugando le loro fronti, confortando i morenti, pregando... dite quello che volete. Cercate che riescano a immaginarla, con gli occhi della fantasia, come una donna eroica, pronta a sfidare le cannonate e le scariche di mitraglia per raggiungere i feriti sul campo, senza un solo pensiero per se stessa... e, in seguito, descrivete il suo ritorno a casa e la sua lotta contro la situazione della medicina per ottenere condizioni migliori... e ricordate che ha perduto il lavoro per essere stata impertinente, e di conseguenza si è vista costretta a farsi assumere come infermiera privata, passando da un
posto all'altro, da una casa all'altra.» «È così che vedete Hester?» Rathbone gli domandò, fermandosi di botto nel bel mezzo del marciapiede, con gli occhi sgranati, un sorriso che gli aleggiava sulle labbra. «No, naturalmente no!» Monk disse. «È una donna testarda, presuntuosa, che fa né più né meno quello che vuole fare. Ma non è il nocciolo della questione.» Era arrossito lievemente pronunciando queste parole, tanto che a Rathbone balenò quanta più verità ci fosse in ciò che Monk aveva detto di quel che lui stesso era preparato ad ammettere. Non solo, ma si rese anche conto con un brivido di stupore che non gli sarebbe stato difficile tratteggiare quella stessa immagine di Hester. «Non posso» disse con amarezza. «Sembra che abbiate dimenticato che qui siamo in Scozia.» Monk si lasciò sfuggire una bestemmia dopo l'altra, con una varietà e una ricchezza di toni e di parole come a Rathbone raramente era capitato di udire. «Oh, molto utile» osservò, facendogli il verso e ripetendo né più né meno ciò che Monk stesso gli aveva detto poco prima. «A ogni modo farò tutto quanto posso per ottenere che Argyll sfrutti nel modo migliore ogni elemento che può riuscire vantaggioso per Hester. Ho ottenuto una cosa...» Cercò di dare un tono disinvolto alle proprie parole, e di non mostrarsi troppo soddisfatto di se stesso. «Oh bene... raccontate» ribatté Monk sarcastico. «Se c'è qualcosa, vorrei saperlo anch'io!» «Allora provate a tacere quel tanto che è necessario perché riesca a dirvelo!» Avevano ripreso il cammino e Rathbone, stavolta, stava affrettando il passo. «Florence Nightingale in persona si presenterà a rilasciare la propria testimonianza per quello che riguarda il carattere di Hester.» «Che meraviglia!» Monk esclamò in tono talmente estasiato che due passanti fecero una smorfia e scrollarono il capo, perché si erano convinti che avesse alzato un po' troppo il gomito. «È stato brillante da parte vostra... è...» «Grazie. Abbiamo stabilito che nessuna persona di casa, nessuno dei familiari di Mary Farraline aveva, materialmente, la possibilità di ucciderla. E cosa mi dite del movente?» L'esaltazione di poco prima dileguò dalla faccia di Monk. «Pensavo di avere due...» «Non mi avete detto niente!»
«Ma a un esame più approfondito si sono eliminati da soli.» «Non avete dubbi in proposito?» «Assolutamente no. La moglie di Alastair è una spendacciona e di notte esce di nascosto per trovarsi con un tizio dall'aria sudicia, un tipaccio male in arnese, vestito da operaio, che però possiede un orologio da taschino.» Rathbone si fermò di botto, incredulo. «E questo non sarebbe un movente?» Monk sbuffò. «Sta costruendo una macchina volante.» «Come dite? Non credo di aver capito bene!» «Sta costruendo una macchina, grande abbastanza per portare un passeggero, e spera che volerà» Monk si affrettò a spiegargli. «In un vecchio magazzino in uno dei quartieri più miserabili della città. D'accordo, è un tipo bizzarro...» «Bizzarro? È così che la definite? Io la chiamerei pazza.» «Nella massima parte, gli inventori sono tipi un po' strani.» «Un po'? Una macchina volante?» Rathbone fece una smorfia. «Andiamo, caro il mio uomo, se qualcuno dovesse scoprirlo, la rinchiuderebbero in un manicomio.» «Probabilmente è per questo che lo fa in segreto, e a notte fonda» Monk ammise, pienamente d'accordo, riprendendo il cammino. «Ma da quello che sono riuscito a sapere sul conto di Mary Farraline, credo che sarebbe rimasta divertita da questo fatto. E sono sicuro che, avesse dovuto prendere lei una decisione, si sarebbe ben guardata dal mandarla in manicomio.» Rathbone non disse niente. «L'altra è la seconda figlia, Eilish» Monk riprese. «Anche lei va fuori di notte, di nascosto, ma sola. L'ho seguita.» Trascurò di menzionare il fatto che per ben due volte era stato assalito e bastonato con tanta violenza da perdere i sensi, e proprio perché si era avventurato a pedinarla. «E ho scoperto dove va': giù, in Cowgate, che è anche quello un quartiere di case di povera gente.» «Non c'entrerà anche in questo storia un'altra macchina fantastica?» Rathbone domandò seccamente. «No, stavolta si tratta di qualcosa di molto più semplice» Monk rispose con voce venata di un vago stupore. «Dirige una scuoletta per i poveri, ma non per bambini bensì per adulti.» Rathbone aggrottò le sopracciglia. «Cosa? Nel cuore della notte? Anche questa è una cosa altamente onorevole da fare!» «Forse perché è probabile che i suoi allievi, durante il giorno, siano al
lavoro» Monk ribatté, mordace. «E in aggiunta a questo, è riuscita a costringere il cognato, innamorato di lei, a regalarle dei libri, sottratti alla ditta di famiglia, perché possano venir usati dai suoi scolari.» «Volete dire che li rubacchiava?» Rathbone pensò che fosse più opportuno fingere di non aver sentito quanto fosse il sarcasmo che trasudava dalla voce di Monk. «Se preferite. Ma anche in questo caso sono stramaledettamente sicuro che Mary avrebbe approvato, e con tutto il cuore, se lo avesse saputo. E non è escluso che lo sapesse.» Rathbone alzò le sopracciglia. «Non avete pensato a domandarlo?» «E a chi?» Monk provò a chiedergli. «Eilish avrebbe risposto di sì, se fosse stata una cosa che aveva una certa importanza anche nel caso in cui Mary non ne avesse saputo niente... e l'unica altra persona a cui domandarlo non avrebbe potuto essere che Mary stessa.» «Tutto qui?» «L'unica altra questione è quella della contabilità dell'azienda.» «Non abbiamo prove per sollevare un problema del genere» Rathbone gli fece notare. «Dicevate che Hector Farraline, per la maggior parte del tempo, è ubriaco fradicio. Di conseguenza questi suoi vaneggiamenti da alcolizzato, anche nel caso avesse ragione, non potranno mai essere sufficienti a richiedere, da parte nostra, una revisione dei libri mastri. Secondo voi, viste le condizioni in cui si trova normalmente, è il caso di chiamarlo sul banco degli imputati?» «Chi lo sa!» Intanto si erano fermati avendo raggiunto il palazzo nel quale James Argyll aveva lo studio. «Vengo dentro anch'io» dichiarò Monk. «Veramente non credo che...» Rathbone cominciò ma Monk si era già avviato, precedendolo, oltre la porta e su per le scale come se niente fosse, e quindi non gli rimase null'altro da fare che seguirlo. Lo studio era molto piccolo e tutt'altro che lussuoso o imponente come Rathbone si era aspettato, con scaffalature piene zeppe di libri sgualciti a furia di essere scartabellati, su tre lati, mentre il quarto era occupato da un piccolo camino dove scoppiettava un bel fuoco. I pannelli deturpati da graffi e sfregi, che rivestivano le pareti, erano di un legno di origine africana. Ma l'uomo di legge in sé e per sé era tutt'altra faccenda. Alto, con spalle poderose e un corpo muscoloso, aveva soprattutto un viso che attirava im-
mediatamente l'attenzione. In gioventù doveva essere stato brunissimo, proprio quello che si definisce il classico "tipo celtico bruno" con occhi molto belli e carnagione olivastra. Adesso quel che rimaneva dei suoi capelli era brizzolato; e la sua faccia, segnata da rughe profonde, era piena di umorismo e illuminata dall'intelligenza. Quando sorrideva, metteva in mostra due file di denti splendidi. «Dovete essere Oliver Rathbone» disse, allungando lo sguardo al di là delle spalle di Monk. La sua voce era profonda, sonora, le cadenze della sua parlata molto accentuate come se fosse orgoglioso di essere scozzese. Gli tese la mano. «James Argyll al vostro servizio, signore. Sento che ci troviamo di fronte a una grande sfida. Ho qui la vostra lettera nella quale mi informate che la signorina Florence Nightingale è pronta a mettersi in viaggio per venire fin qui da noi, a Edimburgo, e presentarsi per la difesa, come testimone sull'indole e la reputazione dell'imputata. Ottimo, veramente ottimo.» Con un gesto indicò le poltrone di cuoio e Monk prese posto in una di esse. Senza che gli venisse offerto, Rathbone occupò l'altra mentre Argyll tornava al proprio posto. «Avete fatto un buon viaggio?» domandò, rivolgendosi a Rathbone. «Non abbiamo tempo per le chiacchiere» interloquì Monk. «Tutto quanto abbiamo in mano per lottare sono la reputazione della signorina Latterly e il modo in cui riusciremo a sfruttare un personaggio come la signorina Nightingale. Presumo che siate al corrente del suo ruolo durante la guerra e di quanto sia grande la sua fama, vero? Se non ne sapevate niente prima, dovreste informarvene adesso.» «Sono al corrente di tutto questo, signor Monk» Argyll rispose con aria visibilmente divertita. «E anche del fatto che fino a questo momento tutto quanto abbiamo in mano, tutto quanto ci può servire per lottare, è soltanto questo. Suppongo che, finora, non abbiate scoperto niente di effettivamente rilevante all'interno della casa e presso la famiglia dei Farraline, vero? Naturalmente terremo nel debito conto quello che è l'eventuale peso da dare alle insinuazioni, alle allusioni, ai sottintesi e ai suggerimenti, ma come ormai saprete di sicuro, se non lo sapevate prima, si tratta di una famiglia molto rispettata qui a Edimburgo. La signora Mary Farraline era una donna dal carattere straordinario, e il signor Alastair è il Procuratore Fiscale, una carica molto affine a quella del vostro Pubblico Ministero.» A Monk l'ironia del suo tono non sfuggì ma si rese conto che era ampiamente meritata. «Volete forse dire che, a tentare un attacco assolutamente privo di solide basi, sarebbe come darci la zappa sui piedi?»
«Sì, senz'altro.» «Possiamo chiedere una revisione ufficiale dei libri contabili dell'azienda?» esclamò Monk protendendosi verso di lui. «Ne dubito, a meno che non abbiate le prove di una truffa o di un'appropriazione indebita, che possa eventualmente essere collegata con l'assassinio della signora Farraline. È questo che avete in mano?» «No... è un po' difficile poter contare soltanto sui vaneggiamenti del vecchio Hector.» L'espressione di Argyll si fece più intensa. «Raccontatemi qualcosa di più sul conto del vecchio Hector, signor Monk.» Con precisione e accuratezza, senza essere interrotto, Monk gli riferì tutto quello che Hector gli aveva detto. Argyll lo ascoltava attentamente. «Lo chiamerete sul banco dei testimoni?» Monk concluse. «Mah... penso che potrei farlo» Argyll disse pensieroso. «Se riesco a ottenerlo senza preavviso.» «In tal caso c'è il rischio che sia troppo ubriaco per venirci in aiuto» Rathbone protestò, raddrizzandosi di scatto al suo posto. «Ma se lo preannunciassi alla famiglia, potrebbero assicurarsi che sia troppo ubriaco addirittura per stare in piedi» Argyll gli fece rilevare. «No, la sorpresa è la nostra unica arma. Non è molto buona, sono d'accordo con voi, ma è tutto quello che abbiamo.» «Cosa farete?» Rathbone domandò. «Tirerete fuori qualche elemento che richieda, come un'esigenza assoluta, la sua convocazione come testimone ma lasciando credere che la faccenda avvenga per un puro caso?» La bocca espressiva di Argyll si curvò in una piega che rivelava l'ammirazione. «Proprio così. Non solo, ma mi pare di aver capito che siete riuscito a ottenere che un altro collega della signorina Latterly, che era in Crimea con lei, si presenti a parlare a suo favore?» «Sì. Un medico che la descriverà in termini altamente elogiativi.» Monk si alzò di scatto, spazientito, e cominciò a camminare su e giù per la stanza. «Niente di tutto questo è di qualche utilità se non siamo in grado di fornire indicazioni su chi ha effettivamente ucciso la signora Farraline. Non è morta per una disgrazia, non si è suicidata. Qualcuno le ha somministrato una dose letale della sua medicina e qualcuno ha messo quella spilla con le perle nella sacca da viaggio di Hester con il chiaro intento di far concentrare i sospetti su di lei. Non potete far nascere dei dubbi sulla colpevolezza di Hester a meno che non abbiate il nome di qualcun altro da
presentare.» «Ne sono perfettamente consapevole, signor Monk» Argyll rispose in tono pacato. «Ed è proprio per questo che continuiamo a contare su di voi. Credo che si possa supporre, e anche con un certo grado di sicurezza, che sia stata una persona della sua famiglia. Quanto ai domestici, li avete praticamente eliminati tutti dalla rosa delle persone sospettate, vero?, a quanto il signor Rathbone mi ha riferito.» «Si, sono stati tutti in grado di dare indicazioni precise sul modo in cui hanno occupato quell'arco di tempo oltre al fatto che si trovavano l'uno in compagnia dell'altro» Monk confermò. «E cosa ancor più importante, sembra che non esista il minimo motivo per cui uno di loro volesse farle del male o addirittura ucciderla.» Si cacciò le mani in tasca con un gesto concitato. «È stata una persona della sua famiglia, ma continuo ancora adesso a non avere assolutamente l'idea di chi possa trattarsi né più né meno come quando sono sceso dal treno, salvo che non credo si tratti di Eilish. Secondo me, la nostra probabilità migliore rimane Kenneth. Ha un'amante, che la famiglia non approva, ed è quello che si occupa della contabilità dell'azienda. In più, è anche uno dei più deboli del gruppo. Dovreste riuscire a farlo confondere proprio bene, chiamandolo sul banco dei testimoni, se sapete il vostro mestiere.» Rathbone sussultò di fronte al tono crudo e tagliente di Monk ma, in fondo, condivideva la sua agitazione. Se gliene fosse stata offerta l'occasione, ci avrebbe pensato lui a mettere in imbarazzo Kenneth e in modo tale da non permettergli di cavarsela! Maledetta la differenza fra la legge inglese e quella scozzese. Si sentiva talmente sconvolto dal fatto di avere le mani legate, che faticava a rimanere fermo al suo posto. Non poteva criticare Monk per la sua irrequietezza o tantomeno per il suo modo di comportarsi. Argyll si lasciò andare contro la spalliera della poltrona, unendo le mani davanti a sé per la punta delle dita e scrutò Monk senza collera. «Lo saprò fare ancora meglio, signor Monk, se mi troverete un motivo per esigere una revisione contabile dei libri mastri della azienda. Sono del parere che il giovane signor Kenneth può essersi benissimo appropriato indebitamente di grosse somme, alterando qua e là i registri per mantenere la sua amante... ma dovremo avere in mano ben più di un sospetto o di un'insinuazione se dobbiamo affermarlo di fronte alla Alta Corte di Giustizia di Edimburgo.» «Vi troverò tutto quello che chiedete» rispose Monk con aria truce.
Argyll alzò le sopracciglia scure. «E che sia una cosa legale, vi prego. Altrimenti non ci potrà servire.» «Lo so benissimo» Monk ribatté a denti stretti. «Lui ne uscirà pulito, e non avrà neanche una valida causa per qualche reclamo o querela, di qualsiasi genere. Basta che facciate la vostra parte.» Rathbone trasalì. Monk scoccò un altro sguardo ad Argyll e poi, senza pronunciare più una sola parola, spalancò la porta e se ne andò. Hester aveva compiuto il viaggio da Londra e Edimburgo nella carrozza della guardia in uno stato, che non era certo quello di chi dorme o prova anche solo qualcosa di vagamente simile a quel riposo che il sonno può dare, mentre aveva tutte le caratteristiche del sogno. Aveva perduto completamente il senso della direzione e, quindi, avrebbe potuto credere senza difficoltà di viaggiare da sud a nord oppure viceversa; stavolta, però, le mancava uno scaldino per i piedi. Era ammanettata alla sua guardiana che sedeva rigida e impettita per l'ansia, con la faccia che pareva una maschera di gelo. Ogni volta che Hester chiudeva gli occhi si aspettava di vedersi davanti Mary Farraline, quando li riapriva; di udire quella sua voce dolce, da persona colta, caratterizzata dalla cadenza scozzese, che le rievocava qualche ricordo del passato, venato di umorismo e di allegria. Fu l'ultima a scendere dal treno e quando, insieme alla guardiana, si ritrovarono sul marciapiede, gran parte degli altri passeggeri si stavano già avviando verso l'uscita della stazione e la strada al di là di essa. C'era la scorta della polizia ad attenderle, composta di quattro corpulenti poliziotti che impugnavano il manganello e si guardavano nervosamente intorno. «Su, andiamo, Latterly» esclamò la guardiana, brusca, dando uno strattone alle mani di Hester imprigionate dalle manette. «Vediamo di non gingillarci troppo, adesso!» «Non ho nessuna intenzione di scappare!» Hester ribatté con voce agra e sprezzante. La guardiana le lanciò un'occhiata piena di livore e ci volle qualche attimo perché Hester se ne spiegasse il motivo. Poi mentre i poliziotti si accostavano, circondandola, e da qualche metro di distanza si levava un urlo carico di rabbia, improvvisamente lo capì. La polizia era stata mandata non a impedire la sua fuga, ma a proteggerla. Una donna si mise a strillare.
«Assassina!» Qualcun altro gridò con voce rauca. «Impiccatela!» Si levò un altro grido e una massa di corpi fece pressione, tumultuando, contro i poliziotti che cercarono di incamminarsi sul marciapiede a passo incerto tanto che, senza volerlo, rischiarono quasi di far cadere Hester con i loro strattoni. A una dozzina di metri di distanza uno strillone vendeva i suoi giornali annunciando a gran voce il processo che stava per aprirsi. «Al rogo!» Strillò una voce limpida e agghiacciante, una voce femminile, che l'odio rendeva stridula. «Bruciate la strega! Mandatela sul rogo!» Quanto a Hester, si accorse di essere letteralmente agghiacciata. Era terrorizzante sentirsi intorno quell'atmosfera che trasudava furore e violenza; pareva quasi una specie di follia collettiva. Perché era irragionevole, mancava di logica, e di pietà. In fondo lei non era ancora nemmeno stata processata. Qualcosa che le avevano scagliato contro, le sfiorò una guancia e andò a sbattere con un tonfo sordo contro lo sportello della carrozza. «Via, via, adesso basta! Su, andiamo!» Esclamò la voce di un altro poliziotto venata di un panico controllato a malapena. «Largo, fate largo. Disperdetevi, gente! Niente assembramenti. Non dovete rimanere qui. Andatevene o dovrò trascinarvi in guardina perché turbate l'ordine pubblico. Lasciate che ci pensi il tribunale a fare quello che deve. E allora ci sarà tutto il tempo che vorrete per la forca. Su, muovetevi... fate passare...» «Non guardarti in giro con quegli occhi sbarrati, stupida!» La guardiana diede un altro strattone a Hester facendole male ai polsi dove le manette le affondarono nella carne, ammaccandola. «Su, andiamo, signorina, non possiamo rimaner qui» disse con più gentilezza il più corpulento dei poliziotti. «Dobbiamo proteggervi.» Frettolosamente, impacciati, sempre sospinti di qua e di là e colpiti dalle gomitate e dagli urtoni della folla, che adesso appariva torva e incattivita, riuscirono a percorrere l'intero marciapiede e a raggiungere l'uscita. Furono condotti subito alla prigione, in un furgone chiuso, e qui altre guardiane aspettavano Hester, la faccia dura, gli occhi colmi di collera. Lei non disse niente, non fece domande, e passò in silenzio nella cella, a testa alta, nascondendo i propri pensieri a quelle donne. Ci rimase fin verso la metà del pomeriggio quando fu scortata in un'altra stanzetta completamente nuda, salvo per un tavolo e due scomode e dure seggiole di legno. Nella stanzetta si trovava già un uomo alto, dalle spalle ampie e, a giudicare dai capelli e dalla barba grigi e dalle rughe agli angoli della bocca, più
vicino ai sessanta che ai cinquant'anni; però dalla sua figura irradiava una carica dominatrice di intensa vitalità, anche se continuava a rimanere immobile. «Buon giorno, signorina Latterly» disse con un tono di voce cortese venato di un'ironia che illuminava anche i suoi occhi scuri. «Sono James Argyll. Lady Callandra mi ha scelto a rappresentarvi in quanto il signor Rathbone non può presentarsi a discutere nessuna causa in un tribunale scozzese.» «Piacere» rispose lei. «Prego, accomodatevi.» Le indicò le seggiole di legno e non appena Hester ne ebbe occupata una, andò a prender posto sull'altra. La scrutava con curiosità e un certo stupore. Hester si domandò, con un vago senso di sarcasmo nei propri confronti, che cosa si fosse aspettato, forse una donna alta e robusta, dall'ossatura grossa, con la forza fisica necessaria ad andare a raccogliere i feriti per portarli in salvo come quella Rebecca Box, la moglie di un soldato, che sfidava i colpi di cannone e le fucilate, e percorreva da sola la terra di nessuno in modo da riportare dietro le linee i feriti e i morti, caricandoseli in spalla. Oppure Argyll aveva immaginato di trovarsi davanti un'ubriacona o una prostituta o una qualsiasi donnaccia ignorante, che non era stata capace di trovarsi un'occupazione migliore all'infuori di quella di vuotare i secchi di acqua sudicia e i rifiuti, e di arrotolare bende? Provò un tuffo al cuore e si accorse che le riusciva difficile dominare il senso di disperazione che l'aveva colta, in modo da non farne apparire nemmeno una traccia sul suo viso o da evitare che le lacrime, trattenute a malapena, le rigassero le guance. «Ho già avuto un colloquio con il signor Rathbone» Argyll le stava dicendo. Con uno sforzo sovrumano Hester riuscì a controllarsi e a ricambiare il suo sguardo pacatamente. «Mi ha detto che la signorina Nightingale è pronta a testimoniare a vostro favore.» «Oh?» Si accorse di avere il cuore in gola per la commozione, e senza preavviso la speranza tornò a riaffiorare insieme a un'assurda fitta di dolore. D'un tratto le riapparivano possibili tutte le cose che aveva avuto care, cose dalle quali aveva già dovuto sopportare di essere separata, perlomeno spiritualmente: persone, ambienti e atmosfere, suoni, perfino l'abitudine di pensare al domani, di avere del tempo in cui fare dei progetti. Si accorse di essere scossa da un tremito; anche le sue mani appoggiate sul tavolo tre-
mavano e fu costretta a stringerle insieme allacciando le dita con tanta forza che le unghie le si conficcarono nella carne. Soltanto così sapeva di riuscire a tenerle ferme e salde quel tanto sufficiente perché lui non notasse il suo tremore. «Deve essere una buona...» «Oh, eccellente» confermò Argyll. «Ma far risaltare le caratteristiche positive del vostro carattere non sarà sufficiente se non potremo anche dimostrare che qualcun altro ha avuto l'opportunità e il movente per assassinare la signora Farraline. Tuttavia, mentre discutevamo la questione col signor Monk...» Era assurdo che solo a sentir menzionare il suo nome Hester provasse uno strano senso di vuoto allo stomaco, e il fiato che morisse in gola. Lui continuò come se non si fosse accorto di niente. «...è risultato che Kenneth Farraline potrebbe aver falsificato i libri contabili dell'azienda in modo da finanziarsi un affaire con una persona che la sua famiglia considera chiaramente non adatta a lui. Per quale motivo non sia adatta e fino a che punto, o quanto profondo sia il legame che lui ha intrecciato con questa donna, e se ci sia anche un bambino o no, oppure quali poteri costei abbia sul giovanotto... sono cose che dobbiamo ancora imparare. Ho spedito il signor Monk a cercare di saperle il più presto possibile. Se è abile e capace come il signor Rathbone mi conferma, non dovrebbe dedicare a queste indagini più di un paio di giorni. Anche se confesso di non riuscire a capire per quale motivo non abbia già provveduto, senza aspettare finora, a cercar di scoprirlo.» Hester continuava ad avere il cuore in gola, a sentirsi mancare la voce. «Forse perché a meno di non riuscire a provare che ha sottratto fondi all'azienda di famiglia, il fatto che abbia un'amante è privo d'importanza» rispose in tono grave. «Moltissimi uomini ce l'hanno, soprattutto quando sono giovani, educati e di buona famiglia, e senza legami di altro genere. Anzi credo quasi di potermi azzardare a dire che è più comune di quanto non si immagini.» Gli occhi di Argyll si allargarono un attimo, tanto era il suo stupore; poi rivelarono un'aperta ammirazione per il suo candore e il suo coraggio. Eppure era uno di quegli uomini che non si lasciavano prendere facilmente dagli entusiasmi. «Naturalmente avete ragione, signorina Latterly. E quello è compito mio. Occorrerà qualche abile mossa legale per ottenere una verifica contabile dei libri della società, e mi propongo di chiamare il signor Hector Farraline sul banco dei testimoni in modo di riuscirci. E ora, se credete, esaminere-
mo insieme l'ordine dei testimoni che il signor Gilfeather convocherà per la pubblica accusa, e vedremo cosa possiamo aspettarci che queste persone dicano.» «Certamente.» Argyll aggrottò le sopracciglia. «Avete mai assistito a un processo penale, signorina Latterly? Ne parlate come se la procedura vi fosse familiare. La vostra compostezza è ammirevole ma questo non è il momento di ingannarmi o indurmi in errore, nemméno in nome della dignità.» Un lampo divertito illuminò il viso di Hester. «Sì, signor Argyll, ho assistito a parecchi di questi processi poiché mi è capitato di tanto in tanto di prestare il mio aiuto al signor Monk.» «Aiuto al signor Monk?» Ripeté lui in tono interrogativo. «C'è forse qualcosa d'importante che non mi è stato riferito?» «Non credo che si tratti di niente d'importante.» Hester abbozzò una smorfia. «Non posso immaginare che i giurati, o il pubblico, lo trovino rispettabile, un fatto del genere, e in ogni caso non servirebbe di sicuro come circostanza attenuante.» «Parlatemene» le chiese Argyll in tono brusco. «Mi è capitato di far la conoscenza del signor Monk quando si stava occupando delle indagini relative all'assassinio di un ufficiale che aveva combattuto in Crimea, di nome Joscelin Grey. A motivo di certi rapporti che erano venuti a crearsi fra il signor Grey e il mio defunto padre, ho potuto fornire un piccolo aiuto al signor Monk» Hester gli spiegò ubbidiente, pur accorgendosi che le tremava la voce. Strano come la memoria le facesse apparire tanto piacevole e tanto caro il ricordo di quei tempi. Discussioni e litigi le si presentavano con i contorni smussati, quasi ridotti a episodi che adesso sembravano addirittura divertenti. Non riusciva più a provare la collera o il disprezzo che l'avevano animata a quell'epoca nei suoi confronti. «Continuate» Argyll insistette. «Da come parlate ci sarebbe da pensare che quello non è stato l'unico caso.» «Infatti. Mi sono servita della mia esperienza infermieristica per ottenere un impiego in casa di sir Basil Moidore quando il signor Monk stava eseguendo le indagini relative alla morte di sua figlia.» Le sopracciglia scure di Argyll scattarono verso l'alto. «In modo da assistere il signor Monk?» Disse senza più riuscire a nascondere il proprio stupore. «Non mi ero reso conto che la vostra devozione fosse tanto profonda.»
Hester si sentì avvampare. «Non si trattava affatto di devozione nei confronti del signor Monk!» Esclamò con voce agra. «Ma del mio desiderio che si arrivasse a far giustizia, se era possibile! Ed è stata la mia devozione a lady Callandra che mi ha consentito di ottenere un posto nel Royal Free Hospital in modo da cercar di sapere qualcosa di più sulla morte dell'infermiera Barrymore. E il fatto che l'avessi conosciuta in Crimea e mi fossi formata un ottimo giudizio nei suoi confronti. Poi mi sono trovata coinvolta nella morte del generale Carlyon perché me lo ha chiesto sua sorella, che è una mia amica.» Adesso lo guardava dritto negli occhi, quasi sfidandolo a dubitare di lei. Un lieve rossore colorì le guance di Argyll anche se i suoi occhi non avevano perduto l'espressione divertita. «Capisco. Di conseguenza avete effettivamente una grande familiarità con le regole a cui ci si deve adeguare per tutto ciò che riguarda le prove e le procedure con cui viene svolto un processo?» «Io... io credo di sì.» «Benissimo. Perdonatemi se posso avervi dato la sensazione di mostrare una certa condiscendenza nei vostri confronti, signorina Latterly.» «Certo che vi perdono» lei rispose in tono amabile. «Vi prego, continuate.» L'indomani Monk dedicò tutto il suo tempo, dall'alba fino a mezzanotte passata, a indagare sul conto di Kenneth Farraline e a mettere per iscritto i risultati delle proprie ricerche in modo da poterle poi presentare a James Argyll. Si trattava di una ricerca che, a suo parere, era in gran parte inutile ma se questo era il desiderio del grande avvocato, non si sentiva di opporgli un rifiuto. Quanto a Rathbone, la sua fu una giornata infruttuosa e sfortunata. C'era ben poco che lui potesse fare e quindi si ritrovò praticamente con le mani in mano. Mai come stavolta si era preoccupato per il modo in cui una causa si sarebbe risolta, mai come stavolta si era sentito impotente a influenzarne l'esito in qualche modo. Almeno una dozzina di volte si era avviato verso lo studio di Argyll per parlargli di nuovo e sempre se lo era impedito a fatica, ripetendosi che sarebbe stata una visita assolutamente inutile. Ma era stata soprattutto la ferita inflitta al proprio orgoglio dalla pura e semplice idea di correre dietro a un altro avvocato, soprattutto quando si trattava proprio di quello che avrebbe preso il suo posto, insieme alla certezza che Argyll gli avrebbe letto in faccia tutto il suo nervosismo tanto era
smaccato e clamoroso, che alla fine lo convinsero a rinunciarvi. Sapeva che Callandra Daviot avrebbe assistito al processo, il cui inizio era stato fissato per l'indomani mattina. Quindi immaginava che sarebbe arrivata a Edimburgo con il treno di quel giorno stesso a meno che non fosse partita anticipatamente, rispetto a lui, e quindi si trovasse già in città prima ancora del suo arrivo. Verso la metà del pomeriggio ormai non sapeva più a che santo votarsi e si mise a camminare avanti e indietro per la sua stanza senza concludere nulla dopo aver mangiucchiato senza appetito il pranzo eccellente che gli avevano servito. In serata si accorse di essere stanco, ma troppo inquieto e teso per potersene andare a letto con la sicurezza di fare un sonno filato fino all'indomani. All'improvviso sentì bussare. Si voltò di scatto. «Avanti!» Gridò, avviandosi a passi concitati verso la porta tanto che quando questa si aprì ci mancò poco che non la ricevesse in piena faccia. Sulla soglia apparve Callandra, e dietro di lei Rathbone scorse la figura di suo padre Henry. Naturalmente Henry Rathbone era al corrente dell'intera faccenda perché lui gliene aveva parlato prima ancora che la leggesse sui giornali. Henry Rathbone aveva conosciuto Hester, anzi l'aveva incontrata in svariate occasioni e a poco a poco le si era affezionato. La vista della sua figura alta, un po' curva, della sua faccia ascetica dall'espressione piena di bontà, adesso gli sembrarono confortanti in un modo addirittura incredibile. «Vi prego di scusarmi, Oliver» Callandra si affrettò a dire nel suo solito tono brusco, vivace. «Mi rendo conto che è tardi e probabilmente vengo anche a interrompere quello che state facendo, ma mi sono accorta che non so più dominarmi né aspettare fino a domattina.» Si fece avanti mentre Oliver si faceva da parte per lasciarla passare, sorridendo a dispetto di se stesso. Henry Rathbone entrò subito anche lui, frugandogli in faccia con gli occhi. «Avanti, prego» Rathbone li invitò, e poi richiuse la porta dietro le spalle di suo padre. Dovette trattenersi per non dire subito che no, non lo interrompevano affatto, che non stava facendo niente... poi l'orgoglio lo trattenne. «Papà! Non mi aspettavo di vederti. Hai fatto bene a venire anche tu.» «Non dire assurdità» Henry Rathbone accantonò tutto quello stupore da parte di suo figlio scrollando lievemente la testa. «Certo che avevo intenzione di essere qui anch'io. Come sta, lei?» «Non l'ho più vista dalla sera precedente alla sua partenza da Londra» Rathbone replicò. «Qui, a Edimburgo, io non sono il suo avvocato. Adesso
permettono soltanto ad Argyll di andare a parlarle.» «E allora, cosa state facendo, voi?» Callandra gli domandò, troppo inquieta e agitata per prendere posto in una delle due capaci e accoglienti poltrone. «Aspetto» Rathbone rispose in tono amareggiato. «Mi tormento, mi lambicco il cervello domandandomi se c'è qualcosa che abbiamo trascurato di fare, qualche possibilità che non abbiamo indagato a fondo.» Callandra aprì la bocca per parlare ma poi vi rinunciò. Henry Rathbone sedette e accavallò le gambe. «Be', camminare su e giù per la stanza non ti può certo aiutare. Forse sarebbe meglio affrontare la questione con un po' di logica. Posso partire dal presupposto che non esista alcuna possibilità che questo veleno sia stato somministrato accidentalmente, per disgrazia, alla signora Farraline oppure che sia stata lei stessa a prenderlo per un suo preciso disegno? Va bene, va bene, non è il caso di perdere le staffe, Oliver. È necessario stabilire i fatti.» Rathbone gli lanciò un'occhiata dominando con difficoltà la propria impazienza. Sapeva fin troppo bene che suo padre non era l'uomo incapace di provare commozione, affetto o qualsiasi altro sentimento, anzi che era ricco di sensibilità, fin quasi a soffrirne, ma il suo autocontrollo e la sua capacità di concentrarsi, invece, lucidamente su un determinato argomento erano tali da mandarlo su tutte le furie proprio perché in quel momento lui era ben lontano dal saperlo imitare. Callandra si decise finalmente a prender posto nella poltrona che era rimasta vuota e si voltò a guardare Henry, speranzosa. «E il personale di servizio?» Henry continuò. «Escluso da Monk» Rathbone rispose. «È stata una persona della famiglia.» «Vedi un po' di ripetermi di che si tratta» gli diede ordine Henry. «Alastair, il figlio maggiore, Procuratore Fiscale, sua moglie Deirdra, che sta costruendo una macchina volante…» Henry alzò, in attesa di una spiegazione, i dolci occhi azzurri che rivelavano una certa perplessità. «Eccentrica» Rathbone ammise. «D'altra parte Monk si è convinto che, all'infuori di questo, è totalmente innocua.» Henry fece una smorfia. «La figlia maggiore si chiama Oonagh McIvor; suo marito Baird, che è innamorato della cognata, Eilish, o almeno così sembra, porta via di nascosto i libri dalla azienda tipografica di famiglia perché lei se ne serva duran-
te le ore di lezione che dà nel cuore della notte per istruire adulti analfabeti in una specie di piccola scuola per i poveri. Suo marito, Quinlan Fyffe, non solo ha sposato una persona di famiglia ma anche trovato un'occupazione nell'azienda. Intelligente, piuttosto antipatico; d'altra parte Monk non è riuscito a scovare nessun motivo per cui possa aver desiderato la morte della suocera. E infine il fratello minore, Kenneth, sul quale fino a questo momento sembra che si concentrino tutte le nostre speranze.» «E non mi dici niente della figlia che vive a Londra?» Henry domandò. «Impossibile che la colpevole sia lei» fu il ragionamento di Rathbone, che gli rispose con voce un po' fremente e concitata. «Non è mai venuta nemmeno nei dintorni di Edimburgo, non si è mai avvicinata né a Mary né alla sua medicina. Possiamo eliminare sia lei, sia il marito.» «Per quale motivo Mary andava a trovarla?» Domandò Henry, senza badare al tono fremente della voce di suo figlio. «Non lo so! Qualcosa che deve aver a che vedere con la sua salute. Aspetta il suo primo bambino ed è molto nervosa. È abbastanza naturale che potesse desiderare di aver vicino la madre.» «Tutto qui, quello che sapete?» «Pensate che potrebbe avere importanza?» Callandra domandò con ansia. «No, assolutamente no!» E Rathbone accantonò tutto quel filone delle indagini con un gesto innervosito della mano. Adesso si era appoggiato contro un tavolo, e pareva poco disposto a mettersi a sedere anche lui. Henry ignorò quella risposta. «Avete mai dedicato qualche riflessione al perché la signora Farraline sia stata uccisa proprio a quell'ora, invece che a qualsiasi altra?» Domandò. «L'opportunità» Rathbone rispose. «Un'occasione perfetta per scaricare la colpa su qualcun altro. Direi che è la spiegazione più ovvia.» «Forse» Henry ammise in tono dubbioso, appoggiando i gomiti ai braccioli della poltrona e accostando le mani che unì per la punta delle dita. «Eppure a me sembra anche possibilissimo che qualcosa abbia provocato il decesso a quell'ora precisa. Non si uccide qualcuno semplicemente perché ci si presenta la buona opportunità per farlo.» Rathbone si raddrizzò sulla persona; finalmente qualcosa di impercettibile, una pallida ombra di ciò che avrebbe potuto chiamare intuito, affiorò dentro di lui. «Avresti in mente qualcosa?» «Certo che varrebbe la pena di esaminare un poco più a fondo tutto quanto è successo durante i tre o quattro giorni immediatamente precedenti
alla partenza per Londra della signora Farraline, non ti sembra?» Henry domandò. «L'assassinio potrebbe essere stato deciso perché finalmente si presentava l'opportunità di metterlo in atto dopo aver aspettato anni, magari... ma potrebbe essere anche stato precipitato da qualcosa che è successo pochissimo tempo prima.» «Effettivamente è vero» ammise Oliver staccandosi dal tavolo al quale era appoggiato. «Grazie, papà. Se non altro abbiamo un'altra strada da esplorare. Sempre che, certo, Monk non l'abbia già fatto e ne sia venuto fuori a mani vuote. Ma non mi ha detto niente.» «Siete proprio sicuro di non poter vedere Hester?» Callandra si affrettò a domandare. «Sì, ne sono sicuro, anche se sarò presente in tribunale, e allora non è escluso che mi possano concedere un colloquio di qualche minuto.» «Per favore...» Callandra era pallidissima. All'improvviso tutta quella commozione che avevano cercato con tanto impegno di dominare dedicandosi alle cose pratiche, sfruttando l'intelligenza e l'autocontrollo, calò nel silenzio di quella stanza calda, ma così poco familiare, con il suo mobilio anonimo e il suo profumo di cera da pavimenti. Oliver Rathbone guardò fisso Callandra, poi spostò lo sguardo sul padre. La comprensione tra loro si rivelò totale; tutta la paura, l'affetto, la consapevolezza di ciò che potevano perdere, era lì, presente, in mezzo a loro; e il senso di impotenza, di avere le mani legate, appariva fin troppo chiaro per aver bisogno di essere espresso a parole. «Certamente glielo dirò» Rathbone rispose a bassa voce. «Ma lei lo sa già.» «Grazie» disse Callandra. Henry si limitò ad annuire. La mattina del processo il tempo era freddo, e l'aria frizzante. Minacciava pioggia. Oliver Rathbone uscì a passo lesto dall'alloggio che occupava nei pressi di Princess Street, risalì la scalinata del Mound di direzione del castello, poi percorse Bank Street per tutta la sua lunghezza e svoltò a sinistra in High Street. Quasi subito si trovò di fronte all'imponente cattedrale di St. Giles, che dominava quasi completamente Parliament Square. Sull'angolo più lontano della piazza si trovavano Parliament Palace, che non veniva più usato fin dall'epoca dell'Act of Union, e la High Court of Justiciary, il Palazzo di Giustizia. Attraversò la piazza. Nessuno lo conosceva o lo riconobbe. Passò davanti a strilloni di giornali che non solo insistevano a gran voce per annunciare
le notizie del giorno ma promettevano scandali e rivelazioni di ogni genere per il numero dell'indomani. L'assassina di Mary Farraline stava per essere processata. Signori, leggetene il resoconto. Scoprite i segreti noti soltanto a pochi, fatevi rivelare storie incredibili, e tutto al prezzo di un solo penny. Li oltrepassò a passo rapido, spazientito. Tutte cose, quelle, che non erano una novità, per lui, ma non gli avevano mai fatto tanto male quando si trattava semplicemente di semplici clienti. C'era da aspettarselo, e andavano accantonate senza preoccupazioni. Quando si trattava di Hester, invece, avevano il potere di far soffrire, e ferire, in un modo interamente nuovo. Salì i gradini, ma anche in mezzo a quegli uomini di legge avvolti nella toga nera continuò a rimanere un estraneo. Era una cosa sorprendente, che lo disorientava. Era abituato a essere riconosciuto, perfino a essere circondato da un notevole rispetto, a vedersi cedere il passo con aria deferente da uomini più giovani di lui, che si sussurravano l'un l'altro informazioni e ricordi sui suoi successi del passato e forse si auguravano di emularli loro stessi un giorno. Qui lui era soltanto un altro spettatore, sia pure di quelli che potevano prendere posto in una delle prime file e di tanto in tanto passare un messaggio all'avvocato difensore. Aveva già preso accordi e ottenuto il permesso di vedere Hester per qualche minuto prima che la Corte si riunisse. Gli avevano indicato un'ora ben precisa. E lui si presentò con due minuti di anticipo esatti. «Buon giorno, signor Rathbone» disse il commesso, asciutto. «Se volete accomodarvi da questa parte, Provvederò perché possiate scambiare qualche parola con l'imputata.» E senza aspettare che Rathbone acconsentisse, girò sui tacchi e lo precedette giù per le strette e ripide scale che portavano alle celle dove i prigionieri venivano rinchiusi prima del processo, e dopo restavano ad aspettare di essere trasportati in un altro luogo dove il loro soggiorno sarebbe stato più duraturo. Trovò Hester in piedi, pallidissima, nella piccola cella. Indossava il solito abito, semplice, grigiazzurro, che le serviva per il lavoro. Aveva un aspetto austero. La dura prova cominciava a incidere sulla sua salute. Non aveva mai avuto una figura florida, piena, dalle curve morbide, ma adesso era notevolmente dimagrita. Le sue spalle segnavano la stoffa dell'abito, ossute e fragili; aveva le guance incavate e gli occhi infossati. Rathbone immaginò che quello fosse stato il suo aspetto durante i giorni peggiori della guerra: quando era affamata, infreddolita, estenuata dalla dura fatica e sconvolta dalla paura e dalla compassione.
Per un attimo, anzi fu meno ancora di un attimo, una scintilla di speranza le illuminò gli occhi; poi le bastò uno sguardo alla faccia di Rathbone perché il buon senso prevalesse. Adesso per lei non c'era più né una tregua né una dilazione. Si sentì imbarazzata al pensiero che lui potesse aver osservato la sua espressione. «B-buon giorno, Oliver» disse con voce quasi ferma. Quante altre volte ancora lui avrebbe potuto parlarle a quattr'occhi? E poi ci sarebbe forse stata la separazione definitiva! C'erano cose di ogni genere che avrebbe voluto dirle, cose che riguardavano i suoi sentimenti, l'affetto e la premura che provava per lei; fino a che punto avrebbe trovato intollerabile la sua mancanza, e quel posto vuoto nella sua vita che nessun altro avrebbe mai potuto occupare, figurarsi poi riempire. Non sapeva con esattezza di che cosa si trattasse dal punto di vista sentimentale e romantico, però non aveva dubbi su quello che era l'affetto degli amici, sulla sua natura, sul suo indicibile valore. «Buon giorno» rispose. «Ho conosciuto il signor Argyll, gli ho parlato, e ne sono rimasto favorevolmente colpito. Sono convinto che sarà all'altezza della sua fama. Possiamo avere la massima fiducia in lui.» Come erano squallidamente formali queste parole, e quanto poco rivelavano di ciò che aveva in mente! «Ne siete proprio sicuro?» Hester gli domandò, guardandolo con perspicacia. «Certo. Immagino che vi abbia dato tutti i consigli più appropriati sul comportamento da tenere e sulle risposte da dargli, oppure ci ha pensato il signor Gilfeather?» Forse era meglio parlare semplicemente di questioni pratiche. Lei sorrise con uno sforzo. «Sì. Ma lo sapevo già dopo tutte le volte che vi ho sentito parlare. Risponderò soltanto a quel che mi viene domandato, parlerò con voce chiara, in tono rispettoso, eviterò di fissare in modo troppo diretto qualsiasi persona...» «Questo, ve lo ha detto lui?» «No... ma voi lo avreste fatto, vero?» Il sorriso di Rathbone fu incerto, perfino dolente. «Sì... l'avrei fatto... con voi. Agli uomini piacciono poco le donne che dimostrano troppa sicurezza di sé.» «Lo so.» «Sì...» Rathbone deglutì a fatica. «Naturale che lo sapete!» «Non preoccupatevi. Mi comporterò in modo mansueto» Hester si affrettò ad assicurargli. «E poi lui mi ha anche preparato su quello che devo
aspettarmi di sentir dire dagli altri testimoni, e mi ha avvertito che il pubblico mi sarà ostile.» Si lasciò sfuggire un sospiro tremulo. «Avrei dovuto aspettarmelo ma è molto spiacevole pensare che tutta quella gente mi ha già giudicato e, praticamente, mi considera colpevole.» «Faremo cambiare idea a tutti» esclamò Rathbone in tono energico. «Non hanno ancora sentito la vostra versione dei fatti e finora conoscono soltanto il punto di vista dell'accusa sull'accaduto.» «Io...» ma non andò oltre. Bussarono alcuni colpi secchi alla porta che subito si spalancò per fare entrare il guardiano. «Spiacente, signore, ma adesso dovete ritirarvi. Devo accompagnare di sopra l'imputata!» Non ci fu più tempo per nient'altro. Rathbone rivolse a Hester un lungo sguardo, uno solo, si impose con uno sforzo di sorriderle, poi ubbidì agli ordini e si ritirò. L'High Court of Justiciary di Edimburgo non assomigliava all'Old Bailey, e Monk, trasalendo sconfortato, dovette ricordare di nuovo a se stesso che si trovavano in un paese differente. Benché Inghilterra e Scozia fossero unite da molti legami comuni e governate da una stessa, unica, regina e da uno stesso, unico, parlamento, la legge qui era diversa, erano diversi la sua storia e il suo patrimonio culturale e, fino a pochissimo tempo prima, sia pure riandando indietro a lungo nei ricordi della nazione, erano state tanto spesso nemiche quanto amiche. I confini erano inzuppati del sangue degli uni e degli altri dei loro uomini; e la "Auld Alliance" non era mai stata con l'Inghilterra, bensì con la Francia, la secolare nemica degli inglesi. Titoli e qualifiche erano diversi, persino in qualche cosa il modo di vestire, e la giuria non era composta da undici uomini bensì da una quindicina. Solo la maestà implacabile della Legge era immutata. La giuria era già al posto destinatole, l'imputata si era sentita rivolgere i capi di accusa, e si stava per dare inizio alle procedure legali. L'accusa era capeggiata da un omone dall'andatura dinoccolata, la voce suadente e spettinati e svolazzanti capelli grigi. La sua faccia aveva un'espressione benevola e le luci si riflettevano sul suo cocuzzolo calvo. Monk intuì, e glielo suggeriva l'istinto, che quell'amabilità e quell'aria gentile, da persona confusa e disorganizzata, erano soltanto una facciata per gettare la polvere negli occhi altrui. Dietro quel sorriso c'erano un cervello acuto, un'intelligenza affilata come un rasoio. Dall'altra parte, parimenti cortese ma con un comportamento e un'attitu-
dine del tutto diversi, c'era James Argyll. Brizzolato, rude, pericoloso, un po' simile a un vecchio orso, aveva occhi scuri e sopracciglia sottili che accentuavano la sua aria di profonda concentrazione, lasciando capire che non aveva paura di niente e non si sarebbe lasciato ingannare da nessuno. Fino a che punto la sua era una battaglia personale con la vita di Hester, da vincere o perdere, come posta in gioco? Questi due personaggi dovevano già essersi incontrati molte altre volte anche prima. Dovevano conoscersi come si può conoscere soltanto un avversario con il quale ci si è misurati più volte, del quale si conoscono le capacità fino al limite estremo. Un amico non si conosce mai in questo modo. Monk si voltò a guardare Hester sul banco degli imputati. Era pallidissima, lo sguardo assorto e distaccato come se fosse inebetita. Forse lo era sul serio. Questa era una realtà terribile, diversa da tutte le altre, e poteva addirittura assumere i contorni dell' incubo. Con i sensi tesi fino allo spasimo, sarebbe poi stata in grado di ricordare, magari, ogni venatura del legno della balaustra del banco, e al tempo stesso non prestare ascolto a ciò che veniva detto. Oppure al contrario le sarebbe stato possibile cogliere perfino quell'attimo in cui il cancelliere di fronte a lei tratteneva il fiato, oppure la guardiana che aveva alle spalle trasaliva, o anche udire il lieve crepitio del fuoco che ardeva nei due camini ai lati della stanza e, nello stesso tempo, non vedere neanche le persone che affollavano la galleria, perfino quando si agitavano irrequiete, si muovevano e si spingevano, per avere una panoramica migliore sull'aula del tribunale sottostante. Il giudice li dominava dall'alto del suo banco; era anziano con la faccia affilata e intelligente, il naso lungo e i capelli radi. Da giovane doveva essere stato molto bello. Adesso quel viso portava chiara l'impronta del suo carattere; e le sue fattezze rivelavano un temperamento mutevole. Il primo testimone per l'accusa fu Alastair Farraline. Nell'aula calò un gran silenzio e poi si sentì che vi passava una specie di sussurrio, un respiro smozzicato, quando venne chiamato il suo nome. Tutti sapevano che era il Procuratore Fiscale, una carica sufficiente a far nascere in ogni persona non solo la paura ma anche il rispetto della Legge. In galleria una donna si lasciò sfuggire un breve grido che esprimeva tutta la sua commozione, trattenuta fino a quel momento, quando salì sul banco dei testimoni. Il giudice le lanciò un'occhiataccia. «Controllatevi, signora, altrimenti vi faccio mandare fuori» fu il suo arcigno ammonimento. La donna si portò di scatto le mani a coprire la bocca.
«Procedete» ordinò il giudice. Gilfeather lo ringraziò e si rivolse ad Alastair con un sorriso. «Per prima cosa, signor Farraline, vi prego di accogliere tutte le condoglianze e la comprensione della Corte per la perdita di vostra madre. Una signora per la quale tutti avevamo certamente la più alta stima.» Alastair, pallido e impettito, la luce che gli splendeva sui capelli, cercò di ricambiare il sorriso di Gilfeather, ma non ci riuscì. «Vi ringrazio» disse semplicemente. Monk lanciò uno sguardo a Hester, ma lei era immobile e stava fissando Alastair. Subito dietro Argyll, Oliver Rathbone sedeva talmente irrigidito e contratto che, perfino dal lato opposto della stanza, Monk poteva vedere quanto fosse teso, sulle sue spalle, il tessuto della sua giacca. «E ora, signor Farraline» Gilfeather continuò «quando vostra madre si è messa a fare progetti per questo viaggio al sud, in Inghilterra, avete avuto subito intenzione, fin dall'inizio, di farla accompagnare da qualcuno che la assistesse?» «Sì...» «E perché, signore? Perché non approfittare di uno dei vostri domestici? Ne avete un numero sufficiente, o sbaglio?» «Naturalmente» rispose Alastair che appariva perplesso e impacciato. «La cameriera personale della mamma non aveva mai fatto viaggi del genere in vita sua e non voleva accompagnarla. Fra l'altro, avevamo paura che se era nervosa sarebbe stata una compagnia poco adatta, se non addirittura inefficiente soprattutto nel caso in cui fosse sorta qualche difficoltà o qualche complicazione.» «Logico» Gilfeather confermò, assentendo con aria saggia. «Il vostro desiderio era quello di trovare una persona competente che potesse occuparsi di lei nel modo migliore e in qualsiasi contingenza; quindi cercavate una donna che avesse già fatto altri viaggi anche prima.» «E che fosse infermiera» Alastair soggiunse. «Più che altro in caso che...» deglutì a fatica. Aveva l'aria desolata e avvilita. «...in caso la tensione del viaggio potesse provocare qualche malessere in nostra madre.» La bocca del giudice si indurì. Dalla galleria giunse un fruscio. Oliver Rathbone sussultò. Argyll continuava a rimanere seduto al proprio posto, con aria inespressiva. «Di conseguenza avete cercato la persona adatta per queste mansioni tramite un'inserzione su un giornale, vero?» Gilfeather insistette.
«Sì. Abbiamo ricevuto tre o quattro risposte ma la signorina Latterly ci è sembrata la persona meglio qualificata.» «Vi ha fornito le referenze, naturalmente?» «Certo. E lei ci è sembrata eccellente.» «Vi è mai capitato in qualsiasi momento di aver motivo di dubitare della saggezza della vostra scelta prima di accompagnarla alla stazione di Edimburgo per il viaggio a Londra?» «No. Sembrava una giovane donna perfettamente accettabile sotto ogni punto di vista» Alastair rispose. Mai, nemmeno una volta rivolse gli occhi verso Hester ma continuò a evitare con somma cura, volutamente, di guardarla. Gilfeather gli fece qualche altra domanda, tutte piuttosto banali. Monk cominciò a non sapersi più concentrare. E lasciò che la sua attenzione si spostasse altrove. Cercò la testa bionda di Oonagh ma non riuscì a scorgerla; invece non fu difficile individuare Eilish prima, poi Deirdra. Si stupì di notare che Deirdra ricambiava il suo sguardo senza sfuggirlo, e che i suoi occhi esprimevano la compassione e qualcosa di vagamente simile a una tacita omertà. Forse era solo il riflesso dei lumi del lampadario. Gilfeather tornò al suo posto fra il brusio e i mormorii eccitati del pubblico raccolto in galleria. E James Argyll si alzò. «Signor Farraline...» Alastair lo guardò con un'espressione fissa, cortese, ma di chiara antipatia. «Signor Farraline.» Argyll non gli rivolse nemmeno un sorriso. «Per quale motivo avete scelto una persona che venisse da Londra a preferenza di un'altra che fosse già qui a Edimburgo? Non abbiamo infermiere accettabili in Scozia?» La faccia di Alastair assunse un'espressione scostante, e la cosa non passò inosservata. «Immagino di sì, signore. Ma nessuna di loro ha risposto alla nostra inserzione. Il nostro desiderio era avere il meglio che fosse possibile trovare. E una donna che aveva servito gli ordini di Florence Nightingale ci è sembrata ineccepibile.» Dal pubblico si levò un mormorio che rivelava sentimenti e opinioni contrastanti: l'approvazione patriottica di Florence Nightingale e di tutto quanto lei rappresentava; la collera al pensiero che la sua reputazione potesse essere macchiata, sia pure indirettamente; e poi stupore, dubbio e aspettativa.
«Avete davvero considerato necessarie qualifiche simili per un compito tanto semplice come quello di somministrare una dose di medicina preparata già in precedenza a una signora intelligente e tutt'altro che inferma o senile?» Argyll domandò in tono venato di curiosità. «I signori della giuria potrebbero stupirsi che una donna di qui, di provata reputazione, non fosse in grado di servire allo scopo altrettanto bene oltre a evitarvi il costo di altri biglietti ferroviari, che sarebbero stati necessari facendo venire un'estranea da Londra.» Stavolta il fruscio che seguì queste parole fu di consenso. Monk cominciò ad agitarsi al suo posto, spazientito. Si trattava di un punto talmente minore da essere addirittura privo di importanza, troppo sottile per illudersi che la giuria arrivasse a comprenderlo, figurarsi poi a ricordarsene quando fosse venuto il momento opportuno. «Volevamo qualcuno che fosse abituato a viaggiare» Alastair ripeté caparbiamente, mentre la sua faccia si copriva di un leggero rossore anche se era impossibile dire quale sentimento, o quale emozione, si nascondesse dietro quelle guance arrossate e quegli occhi colmi di tristezza. Forse riflettevano soltanto il suo dolore e un certo senso di disagio per il fatto di trovarsi costretto a presentarsi pubblicamente e a vedersi osservare con tanto morboso interesse. In genere Alastair era abituato soltanto a essere onorato, rispettato, perfino a suscitare soggezione. Adesso i suoi affari privati, la sua famiglia e i suoi sentimenti, venivano messi a nudo e lui si accorgeva di essere nell'impossibilità di difendersi da tutto questo. «Grazie» Argyll disse molto cortesemente, senza lasciar capire se gli credesse o no. «Fintanto che è rimasta nella vostra casa, la signorina Latterly vi è sembrata una persona del tutto soddisfacente?» Perfino se Alastair avesse desiderato negarlo, adesso si trovava nella posizione di non poterlo fare altrimenti avrebbe dato l'impressione, se era stato commesso qualche errore, di esserne rimasto tacitamente connivente. «Sì, certo» rispose in tono tagliente. «Non avrei mai dato il permesso che mia madre partisse se fossi stato sfiorato anche dal più piccolo sospetto.» Argyll annuì, e sorrise. «Anzi, sarebbe esatto dire che vostra madre ha dato l'impressione di trovarsi particolarmente bene in compagnia della signorina Latterly, vero?» La faccia di Alastair assunse di nuovo l'espressione scostante di poco prima. «Sì... è quello che ho pensato anch'io. Una straordinaria...» e si interruppe. Argyll rimase ad aspettare. Il giudice guardò Alastair con aria interroga-
tiva. I giurati, immobili ai loro posti, lo fissavano con gli occhi sgranati. Alastair si morse un labbro. A quanto pareva, si doveva essere pentito e, ripensandoci, aveva giudicato poco opportuno concludere la frase. Nell'aula del tribunale si levò un mormorio di simpatia. La faccia di Alastair ridiventò impenetrabile e severa, lasciando chiaramente capire quanto detestasse la pubblica pietà. Argyll sapeva bene quando c'era il rischio di perdere ciò che era appena stato guadagnato, anche se non ne sapeva il motivo. «Vi ringrazio, signore. È tutto quanto ho da chiedervi.» Gilfeather fece un cenno di assenso, con aria benevola, e il giudice invitò Alastair a ritirarsi pronunciando altre espressioni di condoglianza e di simpatia, nonché di rispetto, che Alastair accettò a denti stretti. Poi venne chiamata come testimone Oonag McIvor la quale provocò ancor più sensazione di quanta non ne avesse già provocata Alastair. Non aveva alcun titolo, non aveva alcuna carica pubblica, e anche se nessuno avesse saputo chi lei era, la sua aria piena di dignità e di passionalità repressa l'avrebbero fatta ugualmente circondare non solo dal rispetto, ma anche dall'attenzione generale. Naturalmente era vestita di nero, da capo a piedi, ma il suo abbigliamento non aveva niente di trascurato, di scialbo. La sua pelle chiara era delicata ma dalle tonalità calde; la lucentezza dei suoi capelli non veniva nemmeno smorzata dall'austera cuffia nera. Salì i gradini del banco dei testimoni a passo deciso, prestò giuramento con una voce che non aveva un tremito, e infine rimase in piedi ad attendere che Gilfeather cominciasse. Neanche uno dei quindici giurati riuscì a staccare gli occhi da lei. Gilfeather esitò, quasi come se si domandasse fino a che punto avrebbe potuto giocare sulla simpatia e sulla comprensione dei giurati, poi decise di rinunciarvi. Era un uomo astuto e pieno di intuito e capiva quanto fosse inutile sciupare una cosa già bella con ornamenti inutili. «Signora McIvor, vi siete trovata pienamente d'accordo con la decisione di vostro fratello di assumere una infermiera che venisse da Londra per vostra madre?» «Sì, certo» rispose lei lentamente, con calma. «Confesso di averla trovata un'idea ottima. Al momento ho pensato che non solo per le sue capacità professionali ma anche per la sua esperienza in fatto di viaggi, avrebbe potuto essere una compagna interessante per mia madre.» Adesso sembrava quasi che volesse scusarsi. «La mamma aveva viaggiato molto in gioventù e credo che a volte l'emozione e la novità di un viaggio fossero qualcosa di cui sentiva la mancanza. Così ho pensato che una donna del genere
avrebbe potuto parlare con lei di paesi stranieri, di esperienze diverse che sarebbero senz'altro stati argomenti utili a intrattenerla e divertirla.» «Molto comprensibile» Gilfeather assentì. «Credo che, mi fossi trovata nelle stesse circostanze, avrei fatto il vostro stesso ragionamento anch'io. Si direbbe che almeno per questa parte dei vostri accordi e della vostra scelta, l'infermiera sia stata all'altezza delle aspettative.» Oonagh ebbe un pallido sorriso ma non rispose. «Eravate presente all'arrivo della signorina Latterly, signora McIvor?» Gilfeather continuò. Le domande erano tutte quelle che Monk aveva previsto. Gilfeather le fece e Oonagh vi rispose, e la Corte ascoltò con attenzione rapita. Tutti all'infuori di lui che, invece, cominciò a guardarsi intorno fissando con attenzione prima l'una poi l'altra faccia. Gilfeather aveva l'aria soddisfatta, perfino compiaciuta. E la giuria, osservandolo, non avrebbe avuto difficoltà a credere che avesse completamente in pugno l'intero dibattito del processo e non nutrisse dubbi sul suo esito. Monk se ne risentì amaramente pur ammirando la sua professionalità. Disgraziatamente, a motivo dell'incidente di cui era rimasto vittima, non riusciva a farsi tornare alla memoria il processo del suo mentore, che risaliva a tanti anni prima. Non sapeva nemmeno in quale tribunale si fosse svolto, e questo senso di impotenza faceva riaffiorare antichi sentimenti e dolori. A suo tempo aveva saputo la verità, e aveva assistito senza poter far nulla alla condanna di qualcuno che aveva non solo amato ma anche ammirato per un crimine non commesso. A quell'epoca lui era stato giovane e aveva assistito con incredulità all'ingiustizia, non riuscendo a convincersi fin quasi all'ultimo momento che una cosa del genere potesse realmente accadere. In seguito ne era rimasto annientato. Stavolta tutto ciò gli era fin troppo familiare, come una vecchia ferita nella quale il tessuto della cicatrice che la ricopre, viene tolto per mettere a nudo la parte più in profondità, non ancora guarita, ed esplorarla di nuovo con lo specillo. Al tavolo della difesa James Argyll sedeva aggrottando le sopracciglia scure tanto intensamente stava riflettendo. Aveva una faccia autorevole e minacciosa, piena di forza e di sagacia; disgraziatamente era un uomo disarmato. Monk lo aveva deluso. Deliberatamente si servì di quelle parole ripetendole più di una volta a se stesso. Delusione. Fallimento. Qualcuno aveva ucciso Mary Farraline e lui non era stato capace di scoprire alcuna traccia per individuare il colpevole dell'omicidio, oppure il suo movente. Aveva avuto settimane per eseguire le ricerche e tutto quanto era riuscito a
tirar fuori era stato il fatto che Kenneth avesse una graziosa amante con lunghi capelli biondi, la pelle candida, e la chiara determinazione di non voler mai più, in futuro, soffrire la fame o il freddo o dormire in qualche letto sconosciuto per dare piacere a qualche uomo semplicemente perché non ne aveva uno che fosse tutto suo. A dir la verità Monk aveva simpatizzato molto più con lei di quanto non gli riuscisse di provar comprensione per Kenneth, che era stato costretto a farle molti regali costosi, più costosi di quanto volesse, per non perdere i suoi favori. Purtroppo, a meno che qualcuno non fosse in grado di sollevare ragionevoli sospetti di appropriazione indebita per ottenere una verifica contabile dei libri dell'azienda, e tale appropriazione indebita venisse realmente confermata, sarebbe soltanto nato uno scandalo del quale non si poteva neanche essere completamente sicuri; e in ogni caso non si trattava di un valido movente per un delitto. Poi Monk guardò Rathbone e, a dispetto di se stesso, provò un fremito di simpatia. A chiunque non lo conoscesse Rathbone poteva dare l'impressione di essere lì semplicemente ad ascoltare, la testa un po' piegata da un lato, la faccia affilata, l'aria pensosa, gli occhi scuri seminascosti dalle palpebre grevi, come se la sua attenzione fosse totalmente concentrata in ciò che stava accadendo davanti a lui. Monk, invece, lo conosceva già da molto tempo e lo aveva già visto sotto pressione. Per capirlo gli bastava osservare l'angolatura delle spalle, rialzate e curve in avanti sotto la giacca di ottimo taglio, la rigidezza del collo e il lento movimento della mano che si apriva e si richiudeva a pugno sul tavolo; e gli bastò per misurare tutta la frustrazione che doveva ribollire dentro di lui. Qualsiasi cosa pensasse, qualsiasi fossero i sentimenti che mulinavano nel suo cuore, in quel momento non c'era più niente che potesse fare. Qualsiasi cosa avesse potuto fare in modo diverso, si fosse trattato di un'intera strategia differente oppure di qualcosa di tanto modesto come un tono di voce o un'espressione del viso, ormai non gli restava che star lì seduto in silenzio a guardare. Oonagh stava rispondendo alle domande di Gilfeather sui preparativi per il viaggio di Mary. «Chi ha preparato la valigia di vostra madre, signora McIvor?» «La sua cameriera.» «Su istruzioni di chi?» «Mie.» Oonagh esitò solo per la frazione di un momento, pallidissima in faccia, a testa alta. Nessuno nell'aula del tribunale si muoveva. «Sono stata
io a preparare un elenco di quello che avrebbe dovuto metterci, in modo che la mamma avesse tutto quanto poteva servirle e... e non troppi abiti da sera preferendo invece quelli da giorno, più semplici, e le gonne. In fondo... non era una visita mondana... proprio per niente.» Un mormorio di simpatia si levò per la stanza come una folata di vento. I particolari personali rendevano ancora più cruda e incisiva la realtà della morte. Gilfeather aspettò qualche istante, concedendo questo tempo alla commozione. «Capisco. E naturalmente in questo elenco avete anche incluso i gioielli più adatti, vero?» «Sì, certo.» «E avete messo questo elenco nella valigia?» «Sì.» L'ombra di un sorriso si disegnò sulla sua faccia. «In modo che la cameriera, incaricata di preparare il bagaglio per il suo ritorno, potesse controllarlo e niente venisse dimenticato per distrazione. Può essere molto esasperante...» non fu necessario che terminasse la frase. Di nuovo la presenza della donna morta dominò l'aula. Qualcuno, in galleria, stava piangendo. «E questo mi porta a esaminare un altro punto, signora McIvor» disse Gilfeather dopo qualche istante. «Qual era l'esatto motivo per cui vostra madre si preparava al lungo viaggio a Londra? Non sarebbe stato più sensato che fosse vostra sorella a tornare a Edimburgo, perché in questo modo avrebbe potuto rivedere anche l'intera famiglia?» «A fil di logica, certamente» Oonagh confermò, assumendo di nuovo il tono intelligente e pacato di poco prima. «Ma mia sorella è sposata da poco e aspetta il suo primo bambino. Non poteva viaggiare ed era molto ansiosa di rivedere la mamma.» «Davvero? E non sapete per quale motivo?» Nell'aula del tribunale era calato un silenzio profondo. Una donna tossicchiò, circospetta, eppure quel suono si propagò nel silenzio come una scarica di fucileria. «Sì... era preoccupata... impaurita... al pensiero che il suo bambino potesse non essere del tutto normale, magari colpito da qualche malattia ereditaria...» Le parole cadevano a una a una, enunciate con cautela, in quell'atmosfera di intensa aspettativa. Qua e là dalla stanza si levarono ansiti, esclamazioni soffocate. I giurati erano immobili ai loro posti. Il giudice si voltò di scatto verso di lei. Rathbone rialzò la testa, e la sua espressione si fece tesa, molto attenta.
Gli occhi di Argyll frugarono in faccia a Oonagh. «Davvero» Gilfeather mormorò. «E cosa si proponeva di fare vostra madre per placare queste paure, signora McIvor?» Non le domandò di quale malattia si trattasse e Monk sentì i bisbigli e i fruscii che si levavano dalla folla man mano che almeno cento persone si lasciavano sfuggire un sospiro con il quale scaricare il disappunto e la tensione. Oonagh impallidì leggermente. Alzò la testa. Sapeva quali fossero i loro pensieri. «Voleva rassicurarla confermandole che la malattia di cui mio padre era morto, era stata contratta molto prima che lei nascesse e non era ereditaria in nessun senso.» La sua voce era molto pacata, limpidissima. «Si è trattato di una febbre dalla quale era rimasto colpito durante il suo servizio nell'esercito, all'estero; gli aveva danneggiato gli organi interni, e alla fine era stata la causa della sua morte. Griselda era troppo giovane per ricordarsi con precisione di tutto questo; anzi suppongo che all'epoca della morte di nostro padre nessuno gliene abbia nemmeno accennato. Nessuno ha mai pensato che potesse interessarle o preoccuparla.» Esitò. «Mi spiace doverlo dire ma Griselda si preoccupa per la propria salute molto più di quanto sia necessario o naturale.» «State forse dicendo che la sua ansietà era completamente priva di fondamento?» Concluse Gilfeather. «Sì. Completamente. Non sarebbe stato facile convincerla di questo; ecco perché la mamma voleva andare a farlo di persona.» «Vedo. Molto naturale. Non dubito che qualsiasi madre farebbe la stessa cosa.» Oonagh fece segno di sì con la testa ma non aprì bocca. Nell'aula del tribunale l'atmosfera rivelava una certa delusione. Qualcuno cominciava a essere distratto e a non concentrarsi su quanto accadeva. Oonagh si schiarì la gola. «Sì?» Gilfeather si affrettò a domandare. «Non c'è solo la spilla di perle grigie di mia madre a risultare sparita» disse soppesando ogni parola. «Anche se, naturalmente, quella adesso ci è stata restituita.» L'attenzione del pubblico era tornata immediatamente a concentrarsi sul dibattito. Nessuno si mostrava più distratto, irrequieto o assorto in qualcos'altro. «Davvero?» Gilfeather non nascose il proprio interesse. «C'era anche una spilla di brillanti di notevole valore» Oonagh disse con aria grave. «Era stata ordinata al nostro gioielliere di famiglia, ma non si
trova fra gli effetti di mia madre.» Sul banco degli imputati Hester si mise più dritta al suo posto, con un gesto brusco e improvviso, e si sporse leggermente in avanti mentre sulla sua faccia si disegnava lo stupore. «Capisco.» Gilfeather fissò Oonagh sgranando gli occhi. «E quale stima si può fare del valore di questi due pezzi pregiati, signora McIvor?» «Oh, un centinaio di sterline o poco più per le perle; forse una cifra leggermente superiore per i brillanti.» Nell'aula passò un fremito, un trasalimento. Il giudice aggrottò le sopracciglia e si sporse un poco attraverso il banco. «Certo, si tratta di una somma molto considerevole» Gilfeather confermò. «Sufficiente a comprare molti oggetti di lusso per una donna che si guadagna da vivere passando da un lavoro saltuario all'altro.» Rathbone sussultò, ma fu un movimento talmente lieve che forse soltanto Monk se ne accorse, anche se ne intuì a perfezione il motivo. «E questa spilla di brillanti si trovava sull'elenco degli oggetti da mettere nel suo bagaglio per il viaggio a Londra?» «No. Se la mamma la portò con sé, fu una decisione tutta sua, una decisione dell'ultimo minuto.» «Vedo. Ma non l'avete trovata tra i suoi effetti personali?» «No.» «Grazie, signora McIvor.» Gilfeather indietreggiò di qualche passo lasciando così capire con un gesto amabile ed elegante che cedeva il posto ad Argyll. Argyll lo ringraziò alzandosi in piedi. «Questo secondo gioiello... Signora McIvor, non l'avete mai menzionato prima. Anzi, questa è la prima volta che ne sentiamo parlare. Come mai?» «Perché prima non c'eravamo accorti che non si trovasse più» Oonagh rispose in tono pacato e pieno di buon senso. «Che strano? Non c'è dubbio che un oggetto di tanto valore sia sempre chiuso in una cassaforte oppure in un astuccio per i gioielli che si possa chiudere a chiave o qualcosa del genere, vero?» «Presumo di sì.» «Non lo sapete.» Lei parve incerta. «No. Era della mamma, non mia.» «Quante volte gliel'ha vista portare?» «Io...» lo osservò attentamente con lo stesso sguardo limpido e diretto che Monk ricordava di aver notato rivolto a se stesso. «Non ricordo di avergliela mai vista addosso.»
«Come fate a sapere che l'avesse, allora?» «Perché è stata ordinata al nostro gioielliere di famiglia, pagata e ritirata.» «Da chi?» «Capisco qual è il punto, signor Argyll» Oonagh ammise. «Ma non era mia, né di mia sorella e non appartiene nemmeno a mia cognata. Di conseguenza poteva essere soltanto di mia madre. Oserei dire che deve averla portata in qualche occasione in cui io non ero presente e di conseguenza non posso averla osservata.» «Non è possibile, signora McIvor, che si tratti di un dono per qualcun altro, magari per una persona che non è nemmeno della vostra famiglia?» Argyll insinuò. «Questo spiegherebbe il motivo per cui nessuno l'ha vista, e adesso non si trova più, vi pare?» «Se fosse la verità, certamente» Oonagh rispose nel tono di chi vuole metter fine alla questione. «Ma era veramente molto costosa per poter essere regalata a una persona che non fosse della nostra famiglia! Siamo generosi, mi auguro, ma non prodighi.» Qualche testa si chinò in un cenno di assenso. «Di conseguenza, signora McIvor, state dicendo che quella spilla è stata ordinata eppure nessuno l'ha vista, benché sia stata pagata, ho capito bene? Non state affermando di avere una prova qualsiasi sufficiente a lasciar sospettare che la signorina Latterly l'abbia in suo possesso oppure l'abbia mai posseduta in passato?» «Aveva la spilla con le perle» Oonagh gli fece rilevare. «Perfino lei, questo, non può negarlo!» «No, assolutamente no!» Argyll confermò. «E ha fatto tutti gli sforzi possibili per restituirvela non appena se ne è accorta. Ma non ha mai visto quella spilla di diamanti né più né meno come non l'avete mai vista voi!» Oonagh arrossì, aprì la bocca, poi evidentemente cambiò idea perché rimase in silenzio. Argyll sorrise. «Vi ringrazio, signora McIvor. Non ho altro da chiedervi.» Era un altro piccolo punto guadagnato ma quella esaltazione momentanea scomparve quasi subito. Gilfeather era divertito. Poteva permetterselo. Fece chiamare il capotreno che era in servizio sul treno con il quale Mary Farraline e Hester avevano viaggiato. Costui disse né più né meno quello che ci si aspettava. A quanto ne sapeva, nessun altro era entrato nella loro carrozza. Le due donne erano rimaste sole per l'intera durata del
viaggio. Sì, la signora Farraline aveva lasciato il suo scompartimento una volta almeno, e per soddisfare le solite esigenze naturali. Sì, la signorina Latterly era venuta a cercarlo, visibilmente angosciata, per annunciargli la morte dell'anziana signora. Lui l'aveva accompagnata a vedere ed effettivamente sì, gli spiaceva moltissimo confermarlo, ma l'aveva trovata già cadavere. Aveva fatto il suo dovere immediatamente, all'arrivo a Londra. Era stata tutta una cosa molto triste. Argyll sapeva fin troppo bene come fosse inutile alienarsi la simpatia della giuria facendo domande su cose che erano già state confermate in modo abbastanza chiaro ed era inutile riesaminare; avrebbe ottenuto unicamente lo scopo di turbare e far confondere un brav'uomo che si era limitato semplicemente a fare il proprio dovere. Rifiutò l'opportunità di un controinterrogatorio con un lieve gesto di diniego della mano e inclinando la testa. Anche il capostazione disse soltanto tutto ciò che era completamente prevedibile, sia pur mostrandosi di tanto in tanto borioso, pieno di nervosismo e melodrammatico. Di nuovo Monk non riuscì a concentrare sull'interrogatorio la propria attenzione e cominciò a osservare le facce delle persone che si trovavano tutt'intorno a lui. Poté fissare gli occhi su Hester per alcuni istanti perché in quel momento lei stava osservando attentamente il banco dei testimoni. La scrutò con curiosità. Non era bella, ma per quanto lasciasse chiaramente capire di essere tesa e spaventata, rivelava qualcosa di delicato, di raffinato, che era in sé e per sé quasi una specie di bellezza. Privata di ogni artificio e di ogni finzione, perfino della solita maschera imposta dalle buone maniere, la stessa onestà del suo viso sembrava quasi uno specchio in cui si riflettessero emozioni e sentimenti. Si stupì di trovarla così familiare, come se avesse sempre conosciuto ogni linea del suo viso e della sua figura, ogni lampo di espressione che le segnasse i lineamenti. Credette di capire ciò che stava provando, ma si sentì incapace di poterle offrire qualcosa. Anzi questa sensazione di impotenza si rivelò tanto profonda da farsi quasi sentire come un acuto dolore in pieno petto. D'altra parte anche se avesse potuto parlarle, capiva come non ci fosse niente da dire che lei già non sapesse. Forse lo avrebbe aiutato poter mentire. Ma era proprio vero? Non lo sapeva, perché non sapeva mentire. Non gli riusciva bene, e mentire malamente avrebbe avuto soltanto lo scopo di creare una barriera fra loro tale da peggiorare ogni cosa.
Oonagh era rimasta lì, nell'aula del tribunale. Poteva intravedere i suoi capelli biondi che le scendevano sulla fronte sotto l'ala della cuffia scura. Dava un'impressione di calma e di coraggio, come se avesse trascorso ore e ore sola, assorta in profonde riflessioni per far leva su tutte le proprie capacità di autocontrollo prima di lasciare Ainslie Place per presentarsi in tribunale, e adesso nulla avrebbe potuto penetrare oltre la facciata di tanta compostezza. Sapeva chi avesse ucciso sua madre? O lo sospettava, conoscendo i suoi familiari bene come li conosceva? Studiò le sue fattezze, la fronte liscia, gli occhi limpidi, il lungo naso dritto, la bocca carnosa, dalla forma quasi perfetta. Ogni lineamento era bello, eppure nel suo complesso il viso di Oonagh rifletteva un'energia, un'autorevolezza eccessiva perché la si potesse definire bella. Si era accollata l'impegno di fare da guida agli altri dopo la morte di Mary? Stava proteggendo l'onore di famiglia oppure la debolezza, o la perversità, di uno dei suoi familiari? Perfino se fosse riuscito a scoprire chi era il colpevole, Monk capiva che questo non gli sarebbe mai stato rivelato. Persino se? Si sentì agghiacciare. Inconsapevolmente aveva manifestato in modo chiaro la paura ricacciata in fondo al cuore con tanto scrupolo fin dal momento in cui aveva messo piede a Edimburgo. La respinse con energia. Era uno dei Farraline! Doveva esserlo. Spostò il suo sguardo da Oonagh ad Alastair che le sedeva al fianco, gli occhi fissi, senza un turbamento e senza un attimo di debolezza, sul capostazione che stava rilasciando la sua testimonianza. Sembrava ossessionato, come se il peso di quel processo pubblico e una sua tragedia privata e familiare fosse più di quel che era capace di sopportare. Come Monk aveva già osservato una o due volte, sembrava che fosse la sorella alla quale si appoggiava per ricavarne conforto, e non la moglie. Certo, Deirdra era presente anche lei, e gli sedeva vicino, ma il suo corpo era istintivamente inclinato verso sinistra, più vicino a Oonagh, e la spalla destra girata a metà, come per escludere Deirdra. Lei fissava il vuoto davanti a sé, non tanto per ignorare Alastair quanto piuttosto perché sembrava maggiormente interessata dallo svolgimento del processo. Il suo viso non rifletteva quasi né preoccupazione né ansietà, con quella fronte serena, il naso dalla punta all'insù, il mento squadrato. Se aveva il sospetto che una tragedia fosse lì lì per colpire lei e la sua famiglia, non lo dimostrava, come un'attrice consumata.
Kenneth non c'era e, del resto, Monk non si era nemmeno aspettato di vederlo. Sarebbe stato convocato come testimone e di conseguenza non gli era stato ancora concesso di entrare per non correre il rischio che qualcosa di ciò che veniva detto potesse essere da lui utilizzato per alterare le dichiarazioni che stava per fare. Era la legge a richiederlo. Eilish era presente, simile a una fiamma silenziosa. Baird, seduto di fianco a Oonagh, le girava leggermente le spalle anche lui, non era una mossa voluta ma semplicemente quella di chi tende a rinchiudersi in se stesso. Non aveva mai rivolto nemmeno uno sguardo in direzione di Eilish ma perfino dal fondo della stanza dove lui si trovava, Monk poteva misurare il controllo ferreo che stava esercitando su se stesso per impedirselo. Quinlan Fyffe era assente, probabilmente perché sarebbe stato chiamato anche lui a testimoniare. Il capostazione concluse ciò che stava dicendo e Argyll respinse la proposta di interrogarlo a sua volta. Venne mandato via e sostituito dal medico che era stato chiamato a compilare il certificato con il quale si confermava che Mary Farraline era deceduta. Gilfeather si mostrò molto gentile con lui, cercando di non metterlo in imbarazzo in quanto aveva diagnosticato il decesso come dovuto a un banale collasso cardiaco e di conseguenza non aveva giudicato necessarie indagini più approfondite. A ogni modo, malgrado tutto questo, il medico non nascose di essere a disagio e rispose a monosillabi. Argyll si alzò e gli sorrise; poi tornò a sedersi senza pronunciare una sola parola. Era la fine del pomeriggio. L'udienza venne aggiornata. Monk uscì immediatamente in cerca di Rathbone, per sentire da lui come giudicasse che era andato quel primo giorno del processo. Lo intravide sui gradini, e gli arrivò vicino nel preciso momento in cui, con James Argyll, stava salendo su un hansom. Rimasto lì impalato sul cordone del marciapiede, Monk si lasciò sfuggire una serie di colorite bestemmie. A lume di logica sapeva perfettamente bene che Rathbone non poteva dirgli niente che lui già non sapesse, eppure si infuriò per non essere riuscito a scambiare due parole con lui. Rimase lì, immobile, ancora troppo in collera per pensare al da farsi. «Stavate cercando Oliver o soltanto una carrozza, signor Monk?» Si voltò con un gesto brusco e si accorse che Henry Rathbone si trovava lì fermo, a pochi passi di distanza. C'era qualcosa nell'ansia che esprimeva il suo viso affabile, e un senso di vulnerabilità nella sua espressione, che lo
lasciarono svuotato di colpo di tutta la stizza di poco prima, facendogli provare di nuovo soltanto un grande terrore e un bisogno estremo di dividerlo con qualcuno. «Vostro figlio» rispose. «Per quanto suppongo che non potesse dirmi niente che io non abbia già visto con i miei occhi. Eravate in aula? Non vi ho notato.» «Ero proprio dietro di voi» Henry Rathbone rispose con un lieve sorriso. «In piedi. Sono arrivato troppo tardi per trovare un posto a sedere.» Cominciarono a camminare e Monk si mise al passo di fianco a lui. «Non mi ero reso conto che l'interesse del pubblico sarebbe stato tanto! È proprio il lato meno attraente della gente, credo. Io preferisco prender le persone a una a una, ciascuna in sé e per sé; quando diventano una folla scopro sempre che molto spesso finiscono per far leva l'uno sulle qualità meno pregevoli dell'altro. L'istinto del branco, della muta, suppongo. L'odore della paura, di qualcosa che è ferito...» s'interruppe bruscamente. «Mi scusi.» «Avete ragione» disse Monk con aria afflitta. «E Gilfeather è bravo.» Non aggiunse il resto del suo pensiero. Non era necessario. Continuarono a camminare così, in uno strano silenzio nel quale si trovavano pienamente a loro agio, per qualche metro. Monk era sorpreso. Quest'uomo era il padre di Rathbone eppure lui adesso si accorgeva di provare per lui la stessa simpatia che si prova per chi si conosce da molti anni e con cui ci si è sempre sentiti a proprio agio. Invece di risentirsi per la simpatia che Hester aveva sempre manifestato nei suoi confronti, ne fu contento. C'era qualcosa nel viso di Henry Rathbone, nella sua andatura un po' impacciata, nelle gambe lunghe, non perfettamente dritte, che gli riportava alla memoria lontani, confusi e lievi ricordi di quando da giovanotto aveva ammirato il suo mentore infinitamente, quasi senza essere sfiorato dal minimo dubbio sul suo conto. A quell'epoca era stato molto ingenuo. Gli parve che fosse l'ingenuità di un altro uomo, non la propria, quella che stava valutando, come avrebbe fatto con quella di un estraneo; solo che si trattava di una sensazione nata e cresciuta dentro di lui, inspiegabilmente acuta in quei pochi attimi. Sul marciapiede sedeva un mendicante, un uomo privo delle gambe, un vecchio soldato di chissà quale guerra ormai dimenticata dall'opinione pubblica. Vendeva mazzolini di erica bianca come portafortuna. Improvvisamente gli occhi di Henry Rathbone si colmarono di lacrime che rivelavano un'intensa pietà. Senza dire una sola parola sorrise al mendicante e gli offrì sei pence per due mazzolini. Li prese e camminò in si-
lenzio per qualche altro passo, prima di offrirne uno a Monk. «Non perdete la speranza» disse bruscamente mentre scendevano dal marciapiede e si accingevano ad attraversare la strada. «Anche Argyll è intelligente. Il responsabile è uno dei familiari. Pensi che cosa devono provare! Pensi al senso di colpa, indipendentemente da quello che può essere stato il sentimento che li ha spinti a commettere un atto del genere, terrore o avidità, oppure odio per qualche torto, reale o immaginario. C'è sempre un terrore, in chiunque salvo in chi non sia completamente pazzo, per essersi deciso a compiere un passo così irrevocabile.» Monk continuò a tacere camminandogli al fianco di pari passo mentre i pensieri gli si affollavano alla mente. Ciò che Henry Rathbone diceva era la verità. Qualcuno doveva essere in preda a un sentimento ossessivo e trascinante, non privo di terrore e di senso di colpa. «E forse anche è una specie di esaltazione quella che provano» Henry continuò. «Sembra che abbiano vinto. Sono lì lì per ottenere la vittoria.» Monk grugnì. «Che razza di vittoria volete che sia? La conquista di qualche cosa oppure la possibilità di scampare a qualche pericolo? È esaltazione, o sollievo?» Henry scrollò la testa, il suo viso era turbato. Si sentiva particolarmente colpito da quella oscura vicenda, non solo per Mary Farraline ma anche per quello dei suoi figli, o figli acquisiti per via di matrimonio, che l'aveva uccisa. «La situazione è opprimente» rispose, continuando a scrollare il capo. «Le procedure della legge possono arrivare anche a farli intervenire, sapete. È ciò che Oliver farebbe. Interrogatori. Analisi/Indagini. Giocare sui dubbi nati in uno di loro nei confronti degli altri. Mi auguro che Argyll faccia tutto questo anche lui.» Nessuno dei due disse niente a proposito di Hester, ma Monk capiva che Henry Rathbone stava pensando anche a lei. Lì non occorreva parlare né di vittoria né di sconfitta. Era qualcosa di sempre presente, pronto ad affiorare in superficie sotto le loro parole, troppo doloroso anche solo da sfiorare con la mano. Procedettero insieme, in silenzio, risalendo per Lawnmarket. 9 Hester si accorse di provare una sensazione che le era totalmente estranea, quando si ritrovò nelle celle, in una specie di gabbia. Doveva aspettare
di essere tirata su per mezzo di quel ridicolo e assurdo trabiccolo, passando per una botola, in modo da raggiungere l'aula del tribunale senza la necessità di passare fra la folla. La giornata era freddissima e lì, nel sotterraneo, mancava qualsiasi tipo di riscaldamento. Il gelo era totale. Si accorse di rabbrividire senza riuscire a dominarsi e provò a dirsi, in un lampo di beffa nei propri stessi confronti, che tutto ciò non aveva niente a che vedere con la paura. Ma quando arrivò il momento e venne sollevata mediante un argano fino a raggiungere l'aula dove la folla era strabocchevole, perfino il calore che emanavano i due fuochi a carbone e la massa di gente piena di aspettativa, che si accalcava a riempire ogni spazio, non riuscì a penetrare fino a lei, fin dentro di lei, e a far cessare quel tremito o a far rilassare i suoi muscoli contratti. Non frugò con gli occhi in mezzo a quella marea di facce in cerca di Monk o di Callandra o di Henry Rathbone. Era troppo penoso. Le ricordava soltanto tutto ciò a cui dava valore, e che forse molto presto avrebbe dovuto abbandonare. E che si trattasse di un'eventualità di cui tener conto appariva sempre più probabile a ogni testimone che parlava. Aveva visto le piccole vittorie di Argyll ma non se n'era lasciata ingannare. Non erano sufficienti a far nascere un po' di speranza in nessuno, salvo in uno sciocco. Tenevano viva la battaglia, futile com'era almeno fino a quel momento. Vietavano di arrendersi... ma non allontanavano ancora la sconfitta. Il primo testimone di quella giornata fu Connal Murdoch. L'ultima volta che lei l'aveva visto era stato nella stazione ferroviaria di Londra. Si era mostrato sconvolto dalla notizia della morte di Mary, confuso, aveva dato l'impressione di essere in ansia per sua moglie e per il suo stato di salute, non soltanto fisico ma anche mentale. Adesso sembrava una persona del tutto differente. Quell'aria affranta e sconvolta, quei capelli un po' arruffati, quel po' di disordine negli abiti, tutto ciò era completamente scomparso. Era vestito correttamente di nero, in modo semplice; il suo abito era di buon taglio ma abbastanza anonimo. Si capiva che era un abito costoso senza essere elegante, probabilmente perché era lui stesso, Murdoch, che non aveva il minimo concetto di ciò che fosse d'istinto raffinato, ma solo di ciò che era adatto e conveniente. A ogni modo Hester trovò innegabile l'espressione intelligente della sua faccia, con quegli occhi seminascosti dalle palpebre pesanti, la bocca nervosa, un accenno di calvizie. «Signor Murdoch» Gilfeather cominciò con aria amabile «consentitemi
di accompagnarvi dall'uno all'altro degli avvenimenti di quella tragica giornata, così come voi li ricordate. Insieme a vostra moglie stavate aspettando l'arrivo della signora Farraline con il treno della notte da Edimburgo, giusto?» Murdoch assunse un'aria tetra e annuì lievemente per tutta risposta. «Era stata la signora Farraline stessa a scrivervi per informarvi della sua visita?» «Sì.» Murdoch parve un po' stupito anche se c'era da pensare che Gilfeather gli avesse ben specificato quali sarebbero state le domande che aveva intenzione di fargli prima che l'udienza avesse inizio. «C'è mai stata qualche indicazione nelle sue lettere che fosse ansiosa o preoccupata per la propria sicurezza personale?» «No, naturalmente!» «E neanche un accenno a qualche difficoltà familiare, un litigio, o malanimo di qualche genere?» «No, niente del tutto!» La voce di Murdoch si era fatta più aspra. Era chiaro che un'idea del genere gli ripugnava e il fatto che Gilfeather l'avesse enunciata, gli dispiaceva enormemente. «Di conseguenza non avete avuto il minimo presentimento di una disgrazia mentre andavate alla stazione ad accoglierla, non avete minimamente pensato che ci potesse essere qualcosa che non andava secondo i piani prestabiliti?» «Nossignore. Ho già detto di no.» «Quando è stato che avete avuto qualche indicazione che non tutto andava per il meglio?» Nell'aula passò un fremito. Finalmente l'interesse tornava a risvegliarsi. A dispetto di se stessa, Hester allungò uno sguardo verso Oonagh, osservò il suo viso pallido, quella capigliatura stupenda. Sedeva di nuovo vicina ad Alastair, e le loro spalle quasi si sfioravano. Per un attimo provò compassione per lei. Era assurdo, eppure le tornò in mente con estrema chiarezza il momento in cui aveva aperto la lettera di Charles in cui la informava della morte della loro mamma. Era in piedi, sotto il sole limpido del molo, nel porto di Scutari. Il postale era arrivato proprio mentre lei si trovava fuori, perché aveva avuto qualche ora di libertà; così, insieme a un'altra infermiera erano scese a passeggiare fino alla spiaggia. Molti degli uomini si stavano già imbarcando per il viaggio di ritorno a casa. La guerra era praticamente finita. La lotta non era più accanita. Era arrivato il momento in cui si poteva misurare con chiarezza ciò che era costata; si conta-
vano i morti e i feriti, si valutava la squallida vittoria come un fiasco totale, e infinitamente inutile. Un giorno si sarebbe ricordato l'eroismo, ma a quel punto era solo il dolore, solo la sofferenza, che si misuravano. L'Inghilterra era stato un sogno composto di tanti e tali valori mescolati in modo curioso, tutta la calma serena di un'antica cultura, una terra in pace, dai viottoli silenziosi e dai campi fertili sui quali gli alberi allungavano bassi i loro rami, gente pacifica che si occupava dei propri affari, sicuri e incontestati. E nello stesso tempo antichi edifici dalla struttura nobile ed elegante che ospitavano uomini la cui stupidità vacua e fossilizzata aveva mandato un numero incredibile di giovani a morire con una sicumera compiaciuta, tuttora non toccata dal senso di colpa che, secondo lei, avrebbero dovuto provare. Aveva aperto la lettera con gesti rapidi e scattanti, e poi era rimasta lì immobile di fronte a quelle parole nere che spiccavano sulla carta bianca, leggendole e rileggendole come se ogni volta ci fosse qualche speranza che potessero cambiare e dire qualcosa di diverso. Aveva cominciato a sentirsi sempre più infreddolita in mezzo a quel vento, senza rendersene conto. Era questo che Oonagh McIvor aveva provato quando era arrivata la lettera in cui la si informava che Mary era morta? Dalla sua espressione, adesso, era impossibile dirlo. Pareva che fosse completamente concentrata nel compito di sostenere Alastair, che aveva la faccia coperta di un pallore livido. Erano i due più grandi, tra i figli. Erano stati particolarmente vicini a Mary, più degli altri? Ricordò Mary che le raccontava come si fossero sempre aiutati e consolati a vicenda durante l'infanzia. Connal Murdoch stava spiegando come gli fosse stata data la notizia, e come lui l'avesse riferita alla moglie. Era un buon testimone, che rivelava una quieta dignità, e sapeva controllare la propria commozione. Solo di tanto in tanto la sua voce era venata da un tremito, ma nessuno avrebbe potuto sapere se di dispiacere o di collera, oppure se a provocarlo era qualche altro forte sentimento. Hester si guardò intorno alla ricerca di Kenneth Farraline ma non riuscì a vederlo. C'era davvero da pensare che avesse sottratto illecitamente dei fondi all'azienda di famiglia? E quando sua madre lo aveva scoperto, l'avesse assassinata? Uomini deboli di carattere avevano già commesso gesti simili anche prima di lui, soprattutto se erano follemente innamorati; poi, impauriti dalle conseguenze, si erano lasciati andare a commettere qualcos'altro ancora nel tentativo di nasconderlo.
Oonagh sarebbe stata disposta a tenere nascosta la verità per lui? Hester si scoprì a fissare quel suo viso strano, che rivelava tanta autorevolezza, e si accorse di non sapere che cosa rispondersi. Connal Murdoch, intanto, stava parlando di quando l'aveva incontrata nell'ufficio del capostazione. Era davvero incredibile vedersi costretta a star lì ad ascoltare la descrizione di quegli avvenimenti filtrata attraverso gli occhi di un'altra persona, in una versione diversa dalla propria, e non poter correggere bugie ed errori. «Oh, certamente» Murdoch stava dicendo. «Lei sembrava molto pallida ma perfettamente controllata. Naturalmente non avevamo la minima idea, allora, che fosse lei la responsabile della morte di mia suocera!» Argyll si alzò in piedi. «Sì, sì, signor Argyll» disse il giudice in tono spazientito. Poi si voltò verso il banco dei testimoni. «Signor Murdoch, indipendentemente da quelli che possono essere i suoi convincimenti, qui, in quest'aula di tribunale noi partiamo dal presupposto che una persona sia innocente fino a quando la giuria non ha rilasciato il verdetto di colpevolezza. Vi pregherò, pertanto, di ricordarlo nelle vostre risposte.» Murdoch non nascose di essere stato preso alla sprovvista. Era evidente che Argyll moriva dalla voglia di fare una aperta critica nei suoi confronti, ma con le proprie parole, e in modo molto più deciso e tagliente di quanto il giudice non avesse fatto, ma sapeva che non gli sarebbe stato concesso. Dietro di lui Oliver Rarhbone sedeva al suo posto irrigidito, immobile salvo per quel continuo tamburellare con le dita della mano sinistra su un fascio di fogli coperti di appunti. Hester passò con gli occhi dall'uno all'altro dei Farraline. Uno di loro aveva ucciso Mary. Era assurdo che lei dovesse trovarsi lì, sul banco degli imputati a lottare per salvarsi la vita, a guardarli bene in faccia, senza riuscire a capire, perfino in quel momento, chi fosse stato. Lo sapevano, tutti... oppure soltanto il vero, l'unico, responsabile? E il vecchio Hector, non era presente! Questo poteva significare che era ubriaco come al solito oppure che Argyll aveva intenzione di convocarlo come testimone? Non le aveva detto niente in proposito. A volte era meglio che fosse qualcun altro a studiare il piano di difesa e a guidare la battaglia. Eppure c'erano momenti in cui si sentiva indifesa e impotente in modo talmente angoscioso che avrebbe dato qualsiasi cosa pur di essere in grado di alzarsi in piedi e parlare a nome proprio, raccontare ciò che sapeva, interrogare gli altri, costringerli a dire la verità. Ma già
mentre questo pensiero le passava, veloce come il lampo per il cervello, si rendeva conto che era totalmente futile. Gilfeather concluse la serie delle sue domande e tornò a sedersi al suo posto con un sorriso. Aveva l'aria tranquilla, molto soddisfatta di ciò che aveva conquistato, ed era giusto che fosse così. La giuria era chiusa in un silenzio solenne, un silenzio di disapprovazione, i visi impenetrabili, l'opinione già fatta. Nemmeno uno di loro si voltò a lanciare un'occhiata verso il banco dove sedeva Hester. Argyll si alzò in piedi ma c'era ben poco che potesse dire, e niente, nel modo più assoluto, da contestare. Alle sue spalle Oliver Rathbone fremeva d'impazienza. Quanto più si fossero prolungati gli interrogatori di questi testimoni e il resoconto delle prove da loro addotte, tanto più saldamente i giurati si sarebbero arroccati nell'opinione che Hester fosse colpevole. Di solito si è riluttanti a cambiar opinione, una volta che la si è presa. Gilfeather lo sapeva bene quanto lui, da quel mascalzone intelligente che era! Anche la faccia del giudice appariva affilata, severa. Le sue parole potevano esprimere un'indecisione perfettamente corretta dal punto di vista legale ma bastava osservarlo un po' attentamente per capire quale fosse già il suo verdetto. Argyll tornò quasi subito a sedersi e Rathbone si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. Poi, a venir convocata sul banco dei testimoni, fu Griselda Murdoch. Un abile tocco per influenzare l'opinione pubblica e fare pressione sui suoi sentimenti. La sua gravidanza era prossima al termine e lei appariva pallida e molto affaticata come se avesse compiuto quel viaggio solo con difficoltà, per un motivo così tragico. La simpatia e la comprensione del pubblico erano addirittura palpabili nell'atmosfera dell'aula. L'odio per Hester aumentò di colpo, fino a quando lo si percepì greve come un sottile fetore in uno spazio chiuso. Per Rathbone fu una specie di incubo. Non sapeva se smantellare crudamente la sua versione dei fatti in modo da evitare che la simpatia e la comprensione nei suoi confronti aumentassero oppure se un'azione del genere non avrebbe fatto peggiorare in modo inimmaginabile la situazione. Fu quasi contento che una decisione simile non toccasse a lui. Nello stesso tempo starsene lì seduto, con le mani in mano, era qualcosa che andava al di là della sua forza di sopportazione. Scrutò Argyll di sottecchi ma non riuscì a leggergli niente in faccia. Argyll stava fissando con
fiero cipiglio Griselda Murdoch, ma questo avrebbe potuto significare che era semplicemente concentrato ad ascoltare ciò che lei diceva oppure che stava rimuginando sul modo in cui farla cadere in trappola, screditare la sua versione dei fatti, attaccare la sua personalità, la verità delle sue asserzioni o un qualsiasi altro elemento della sua deposizione che potesse influire in qualche modo sull'opinione della giuria. «Signora Murdoch» Gilfeather cominciò con voce affabile come se si rivolgesse a un'inferma o a una bambina «siamo profondamente sensibili di fronte al coraggio che state dimostrando nel venire a rilasciare la vostra testimonianza in questa tragica vicenda, e di quanto deve esservi costato compiere un viaggio di tale lunghezza nel vostro presente stato di salute.» Ci fu un mormorio di simpatia che si levò dall'aula, e qualcuno si azzardò addirittura a manifestare ad alta voce la propria approvazione. Il giudice preferì ignorarli. «Non voglio turbarvi chiedendovi di rivivere quei momenti di commozione che dovete aver provato alla stazione ferroviaria, signora Murdoch» Gilfeather continuò. «Servirebbe soltanto a commuovervi inutilmente, e questa è l'ultima delle mie intenzioni. Vi pregherò soltanto di essere tanto cortese da raccontarci quello che è accaduto dopo il vostro ritorno a casa, con vostro marito, quando sapevate già che vostra madre era morta. Non abbiate fretta e scegliete le parole esattamente come preferite.» «Grazie, siete molto gentile» mormorò lei con voce tremula. Monk, fissandola attentamente, la trovò diversa dalle sue sorelle in un modo inconcepibile. Non aveva né il coraggio né tantomeno il carattere energico e appassionato delle altre. Non c'era dubbio che sarebbe stata una creatura molto più facile con cui convivere, per un uomo, meno esigente, meno pronta a mettere alla prova la pazienza e la sopportazione; ma, santo cielo!, doveva anche essere infinitamente meno interessante. Era incerta, timida, e rivelava una tale tendenza ad autocompassionarsi che Oonagh doveva trovarla insopportabile. Oppure era tutta una finzione, una facciata scelta appositamente per commuovere i presenti in quell'aula di tribunale? Possibile che sapesse chi aveva ucciso sua madre? Era perfino ammissibile, magari in un momento pazzesco di follia, che avessero complottato tutti insieme di uccidere Mary Farraline? No, questo era assurdo. Questi erano i vaneggiamenti del suo povero cervello. Intanto Griselda stava descrivendo a Gilfeather come avesse disfatto le
valigie di Mary e trovato i suoi vestiti e l'elenco degli oggetti che ciascuna di esse conteneva; e ma non fosse riuscita a trovare la spilla con le perle grigie. «Già, capisco» e Gilfeather assentì con aria saggia. «E vi aspettavate di trovarla?» «Certamente. Dall'elenco risultava che avrebbe dovuto essere lì, con il resto.» «E cosa avete fatto, signora Murdoch?» «Ne ho parlato con mio marito. Gli ho detto che era scomparsa, e ho chiesto il suo consiglio» lei rispose. «E lui che cosa vi ha consigliato di fare?» «Be', naturalmente la prima cosa che abbiamo fatto è stata quella di frugare attentamente dappertutto, di passare gli oggetti uno per uno. Ma è risultato, senza ombra di dubbio, che la spilla non c'era.» «Appunto. Adesso sappiamo che la signorina Latterly l'aveva con sé. Questo è un fatto indiscutibile. E poi?» «Ecco... Connal, il signor Murdoch, era molto preoccupato al pensiero che fosse stata rubata, e allora...» ricacciò indietro un singhiozzo che le era salito alle labbra e occorsero alcuni istanti prima che riacquistasse la compostezza di prima. La Corte attese in rispettoso silenzio. Alle spalle di Argyll, Rathbone imprecò sottovoce. «Sì?» Domandò Gilfeather in tono incoraggiante. «Allora ha detto che sarebbe stato opportuno convocare il nostro medico di famiglia perché ci fornisse un'altra opinione sul modo in cui mia madre era deceduta.» «Già, vedo. Ed è stato quello che avete fatto?» «Sì.» «E chi avete chiamato, signora Murdoch?» «Il dottor Ormorod, di Slingsby Street.» «Capisco. Vi ringrazio.» Si rivolse ad Argyll con un sorriso disarmante. «La testimone è a vostra disposizione, signore.» «Grazie, molte grazie.» Argyll si alzò come se districasse a fatica dalla seggiola l'alta figura dinoccolata. «Signora Murdoch...» Lei lo squadrò guardinga, partendo subito dal presupposto che lui le fosse sostanzialmente ostile. «Sì, signor avvocato?» «A proposito di quegli abiti e degli effetti di vostra madre che avete tira-
to fuori dalle valigie. Devo supporre che siate stata voi stessa a disfarle, invece di lasciare che ci pensasse la vostra cameriera, vero? Perché avete una cameriera, immagino?» «Naturale, che ce l'ho!» «Ma in questa occasione, probabilmente a motivo di circostanze così insolite e tragiche, avete preferito essere voi stessa a occuparvene, vero?» «Sì.» «Perché?» Sull'aula del tribunale passò, come una folata di vento, un fruscio, un mormorio, che rivelavano la disapprovazione. Uno dei giurati si lasciò sfuggire un colpo di tossettina secca. Il giudice aggrottò le sopracciglia, sembrò per un attimo che volesse aprir bocca e dire qualcosa, poi all'ultimo momento vi rinunciò. «P-perché?» Griselda sembrava perplessa. «Non capisco.» «Sì, signora Murdoch» Argyll ripeté, immobile, cupo e severo, mentre gli occhi di tutti i presenti si fissavano su di lui. «Per quale motivo siete stata voi a disfare le valigie che contenevano gli effetti personali di vostra madre?» «Io... io non volevo che lo facesse la cameriera...» Griselda disse con voce strozzata. «Lei... lei era...» si interruppe, ben sapendo che la simpatia e la comprensione della Corte avrebbero terminato la frase per lei. «No, signora, mi avete frainteso» Argyll riprese soppesando ogni parola. «Non voglio dire per quale motivo non avete voluto che fosse la cameriera a farlo. Non dubito che tutti noi comprendiamo perfettamente quale sia la risposta a tale domanda, e probabilmente avremmo provato i vostri stessi sentimenti, se ci fossimo trovati al vostro posto. Quello che intendo è tutt'altro: perché avete pensato addirittura di disfarle? Perché non lasciarle semplicemente chiuse, così com'erano, pronte a essere rispedite di nuovo a Edimburgo? Ormai era tragicamente chiaro, e ovvio, che lei non avrebbe più avuto bisogno di niente di ciò che contenevano lì, a Londra, non vi pare?» «Oh!» Griselda esalò questa risposta lieve come un sospiro, e il suo viso diventò pallidissimo salvo per una tenue chiazza di rossore che le coloriva le guance. «Ci si domanda per quale motivo le abbiate disfatte con tanta cura quando ormai si trattava di qualcosa di perfettamente inutile! Fossi stato al vostro posto, io non l'avrei fatto. Le avrei lasciate così com'erano, chiuse, pronte per essere rispedite a Edimburgo.» La voce di Argyll calò di tono
trasformandosi in un sommesso borbottio eppure ciascuna parola si sentiva squillante, orribilmente chiara. «A meno, naturalmente, che non cercassi io stessa qualcosa, lì dentro.» Griselda non disse nulla anche se, adesso, era chiarissimo che si sentiva imbarazzata. Argyll si rilassò lievemente, e si protese verso di lei. «In questo elenco degli oggetti contenuti nelle valigie, c'era anche la spilla di brillanti, signora Murdoch?» «Spilla di brillanti? No. No, non c'era nessuna spilla di brillanti.» «Ne siete sicura?» «Sì, certo... certo che ne sono sicura. Soltanto la spilla con le perle grigie e la collana di topazi e ametiste. E soltanto la spilla con le perle grigie mancava.» «Avete ancora quell'elenco, signora Murdoch?» «No... no. No, non ce l'ho più. Non... non so dove sia andato a finire.» Deglutì faticosamente. «Che importanza ha? Sapete che era la signorina Latterly ad avere la spilla! La polizia l'ha trovata in mezzo alla sua roba!» «No, signora Murdoch» Argyll la corresse. «Questo non è vero. La polizia l'ha trovata in casa di lady Callandra Daviot, dove la signorina Latterly si era accorta di averla nella sua sacca da viaggio. E, anzi, gliel'aveva già consegnata perché fosse rimandata a Edimburgo. La signorina Latterly aveva riferito l'accaduto al suo legale, e chiesto il suo consiglio.» Griselda sembrò confusa, e considerevolmente turbata. «Quanto a questo, io non ne so niente. So soltanto che risultava scomparsa dall'elenco degli effetti personali di mia madre, e che era la signorina Latterly ad averla in suo possesso. Non so cos'altro volete che io dica!» «Io non voglio farvi dire niente, signora. Avete risposto in modo ammirevole alle mie domande, e con grande franchezza.» C'era soltanto una sfumatura di sarcasmo nella sua voce, ma il dubbio era stato sollevato. Poteva bastare. Adesso tutti si domandavano il vero motivo per cui Griselda Murdoch aveva esaminato gli oggetti di proprietà di sua madre, e molti pensavano di conoscere già la risposta. E non era lusinghiera. Si trattava della prima incrinatura nella solidarietà familiare, la prima insinuazione che ci potesse esistere la sfiducia o l'avidità. Argyll tornò al proprio posto con aria soddisfatta. Alle sue spalle Rathbone si sentiva come se, finalmente, le prime scariche di mitraglia, in risposta, fossero state sparate. Avevano colpito il bersaglio ma i danni erano di modesta entità, e Gilfeather lo sapeva bene
quanto loro. Soltanto la folla, il pubblico, aveva visto il sangue, e l'aria vibrava di quel fremito sottile che accompagna sempre l'odore della battaglia. La testimone finale della giornata fu la cameriera personale di Mary Farraline, una donna quieta e triste, vestita in lutto strettissimo, senza neanche il più modesto gioiello che ravvivasse tutto quel nero. Gilfeather fu molto cortese con lei. «Signorina McDermot, siete stata voi a mettere nelle valigie i vestiti della vostra defunta padrona per il viaggio a Londra?» «Sì, io.» «Avevate un elenco di tutto il necessario in modo che potesse servire all'altra cameriera, quella che la signora Farraline avrebbe trovato a sua disposizione al termine del viaggio in casa della signora Murdoch?» «Sissignore. La signora McIvor me l'aveva preparata per facilitarmi il lavoro... e naturalmente anche l'altra cameriera mi aveva pregato di farlo.» «Già, capisco. C'era inclusa anche una spilla di brillanti?» «Nossignore.» «Ne siete proprio sicura?» «Sissignore, sarei pronta a giurarlo.» «Benissimo. Ma c'era una spilla di perle grigie dalla forma insolita?» «Sissignore, c'era.» Gilfeather esitava. Rathbone trasalì. Stava per domandarle se tutto quanto lei aveva messo nelle valigie fosse stato restituito con il bagaglio di Mary? Avrebbe potuto essere sufficiente a discolpare Griselda. Invece lasciò perdere. Forse anche lui non era del tutto sicuro che non avesse preso qualcosa. Avrebbe potuto trattarsi anche solo di un ricordo, privo di valore, ma la sua perdita sarebbe sembrata un furto agli occhi di questa folla eccitata, avida di colpi di scena, ansiosa di scoprire la colpevolezza di qualcuno, a qualsiasi costo. Rathbone si lasciò andare contro la spalliera della seggiola e, per la prima volta, sorrise. Gilfeather aveva fatto un errore. Anche lui era vulnerabile, in fondo. «Signorina McDermot» Gilfeather riprese «avete fatto la conoscenza della signorina Latterly il giorno in cui arrivò nella casa di Ainslie Place per accompagnare la signora Farraline a Londra?» «Certamente, signore. Le ho mostrato l'astuccio della medicina della signora Farraline in modo che sapesse cosa fare.»
Di nuovo l'attenzione del pubblico che affollava l'aula del tribunale venne bruscamente richiamata su ciò che si stava dicendo. Tre giurati che si erano apparentemente distratti, si misero di nuovo, improvvisamente, bene eretti al loro posto. Qualcuno in galleria si lasciò sfuggire un gridolino strozzato e venne istantaneamente coperto di rampogne. «Le avete mostrato l'astuccio della medicina, signorina McDermot?» «Certo che gliel'ho mostrato. Ma non potevo sapere che avesse intenzione di avvelenare quella povera anima!» La sua voce era venata d'angoscia; a guardarla in faccia si sarebbe detto che fosse lì lì per scoppiare in lacrime. «No, di sicuro, signorina McDermot» Gilfeather rispose con voce melliflua nell'intento di calmarla. «Nessuno vi rimprovera per la parte del tutto innocente che avete avuto in tutto questo. Era un vostro dovere mostrarglielo. Partivate dal presupposto che fosse una buona infermiera la quale, è chiaro, aveva bisogno di sapere quali fossero le esigenze della sua paziente, e come soddisfarle. Ma la Corte ha bisogno di essere sicura su quanto è successo, e con precisione. Le avete mostrato l'astuccio contenente la medicina, con i flaconcini che vi si trovavano, e le avete detto che cosa contenevano, e come e quando somministrare la dose?» «Certo... Ho fatto proprio così.» «Grazie. Non c'è altro, signorina McDermot.» Lei fece il gesto di andarsene, voltandosi sul banco dei testimoni per cercar, un po' tentennando, di scenderne i gradini. Argyll si alzò in piedi. «No, signorina McDermot. Pochi minuti del vostro tempo, prego!» Lei sussultò, arrossì violentemente, e tornò indietro ad affrontarlo, a testa alta, con gli occhi terrorizzati. Argyll sorrise, e ottenne soltanto lo scopo di peggiorare le cose. Sembrava che la poveretta fosse lì lì per cadere svenuta. «Signorina McDermot» cominciò con voce sommessa che assomigliava vagamente al sordo brontolio di un orso sonnacchioso «avete mostrato alla signorina Latterly i gioielli della vostra padrona?» «No, naturalmente! Io non sono...» lo guardò con occhi allucinati. «Non siete una donna stupida» concluse Argyll per lei. «No, non ho mai pensato che lo foste. Immagino che non vi passerebbe mai per il cervello l'idea di mostrare i gioielli della vostra padrona a una persona che era praticamente un'estranea... Non li avreste mai fatti vedere a nessuno, vero? Al contrario, avreste mostrato, piuttosto, la massima discrezione o sbaglio?»
Gilfeather abbozzò il gesto di alzarsi dal suo posto. «My lord...» «Sì, signor Gilfeather» disse il giudice seccamente. «So ciò che state per dire. Signor Argyll, state cercando di sviare la testimone inducendola a rispondere come volete voi! Fate pure qualsiasi domanda, prego, ma non partite dal presupposto di conoscere già le risposte.» «Chiedo scusa, my lord» disse Argyll con apparente umiltà. «Dunque, signorina McDermot, vi pregherei di illuminare la Corte su quello che sono i doveri di una buona cameriera. La cameriera personale di una signora. Che cosa avrebbe detto la vostra padrona se aveste fatto vedere i suoi gioielli, o un qualsiasi altro dei suoi oggetti di valore, a una persona qualsiasi al di fuori della famiglia? Vi ha mai dato istruzioni in materia?» «No, signore. Non sarebbe stato necessario. Nessun domestico farebbe una cosa del genere aspettandosi, poi, di conservare il proprio posto.» «Quindi siete assolutamente sicura di non aver mostrato la spilla con le perle, o un qualsiasi altro gioiello, alla signorina Latterly?» «Posso affermare con la massima sicurezza di non averlo fatto. La padrona teneva i suoi gioielli in una cassettina nella sua camera da letto, non nello spogliatoio, signore. E io non ne possedevo la chiave.» «Precisamente. E vi ringrazio. Non avevo dubitato di voi, signorina McDermot. Suppongo che i Farraline possano permettersi la servitù migliore di tutta Edimburgo, e non dubito che non terrebbero al proprio servizio nessuno che ignorasse una regola così fondamentale.» «Vi ringrazio, signore.» «E adesso, passiamo a questo astuccio della medicina. Vi prego, riflettete molto attentamente, signorina McDermot. Quanti flaconcini contiene questo astuccio?» «Dodici, signore» rispose lei, scrutandolo guardinga. «E ciascuno di essi è una dose separata e completa.» «Certo, signore, proprio così.» «Come vi sono disposti, signorina McDermot?» «In due file di sei ciascuna.» «Uno di fianco all'altro, uno sopra l'altro, in due vassoietti? Vi prego, descriveteci questo astuccio» le ordinò. «Uno sull'altro, si trovano i flaconcini, sullo stesso vassoietto... un po' come... un po' come le due metà di un libro... non come se fossero piccoli cassetti» rispose lei. Intanto dava l'impressione di essere un po' meno ansiosa di prima. «Vedo. Una descrizione molto precisa. Ogni volta che la medicina viene
prescritta, vi fate fornire nuovi flaconcini?» «Oh, no. Sarebbe uno spreco enorme. Sono di vetro, con un tappo. Che li chiude in modo ermetico.» «Approvo il vostro senso dell'economia. Di conseguenza il farmacista riempie i flaconcini quando si richiede la medicina?» «Sissignore.» «Specialmente nel caso di un viaggio?» «Sì.» «E quando la signora Farraline è a casa?» «La medicina continua ugualmente ad arrivare in questa forma dalla farmacia, signore. Si tratta di dosi molto esatte altrimenti il farmaco potrebbe...» deglutì a fatica «...diventare fatale, signore. Noi, però, dobbiamo aggiungere il liquido per renderlo gradevole al palato... o perlomeno...» «Già, vero, sì è molto chiaro. E questa era una provvista nuova, una intera dozzina di flaconcini che dovevano servire per il viaggio alla signora Farraline?» «Precisamente, signore. Se fosse rimasta assente più di sei giorni, sarebbe stato abbastanza semplice procurarsi una ulteriore provvista da un farmacista di Londra.» «Una soluzione molto pratica. Aveva portato la ricetta con sé, naturalmente?» «Sì, signore.» «Di conseguenza non c'era motivo di preoccuparsi se ne fosse rimasta senza?» «N-no...» Gilfeather cominciò a muoversi, irrequieto, al suo posto. Era spazientito, e se il suo avversario fosse stato un uomo di celebrità minore, avrebbe considerato questa parte dell'interrogatorio un autentico spreco di tempo. «Signor Argyll» esclamò il giudice in tono stizzoso. «Avete in mente di arrivare a uno scopo ben preciso? Perché in tal caso, è tempo di farlo senza indugiare oltre.» «Sì, my lord» Argyll rispose con voce mielata. Tornò a voltarsi verso il banco dei testimoni. «Signorina McDermot, poteva avere una certa importanza l'eccessiva frettolosità da parte vostra nelle cure alla signora Farraline... cioè, se invece di farla partire con una riserva completa di flaconcini, aveste adoperato uno di quelli già pronti per darle la dose del mattino, il giorno del viaggio, anziché prepararne un'altra dose in più? Domando semplicemente se poteva avere una qualche importanza, non affermo che
lo abbiate fatto!» Lei adesso lo stava fissando come se al suo posto avesse improvvisamente visto apparire un serpente. «Signorina McDermot?» «Dovete rispondere!» Si affrettò a farle sapere il giudice. Lei deglutì. «N-no... No, signore, in fondo non avrebbe avuto alcuna importanza.» «Non le avrebbe fatto correre alcun pericolo?» «No, signore. Assolutamente nessuno.» «Vedo.» Le sorrise come se fosse perfettamente soddisfatto della risposta. «Vi ringrazio, signorina McDermot. È tutto qui.» Gilfeather si affrettò a balzare in piedi. Nell'aula del tribunale passò un fremito di eccitazione che assomigliava al soffio di una brezza attraverso un campo di grano. Gilfeather aprì la bocca. La signorina McDermot lo guardava con gli occhi sgranati. Gilfeather scoccò un'occhiata ad Argyll. Il sorriso di Argyll non cambiò minimamente. Rathbone era impietrito al suo posto con le mani strette a pugno in modo talmente convulso che le unghie gli graffiavano il palmo. Avrebbe osato Gilfeather domandare se la donna si era servita del primo flaconcino? Se lei lo avesse ammesso, la tesi sostenuta dall'accusa sarebbe rimasta indebolita, danneggiata in modo grave. Rathbone rimase con il fiato sospeso. Gilfeather non ne ebbe il coraggio. Non si poteva escludere che la donna avesse effettivamente usato quel flaconcino. Magari non avrebbe avuto il coraggio di negarlo sotto giuramento. Gilfeather tornò a sedersi al suo posto. Di nuovo per l'aula del tribunale passò qualcosa di simile a un sospiro, un fruscio, man mano che il pubblico cedeva alla delusione. Un giurato si lasciò sfuggire una bestemmia che biascicò sottovoce. La signorina McDermot dovette essere aiutata per scendere i gradini del banco dei testimoni e, quando arrivò in fondo, inciampò tanto era il puro, autentico, senso di sollievo che provava. Le labbra di Argyll erano sempre atteggiate allo stesso sorriso. Rathbone levò al cielo una preghiera di ringraziamento. Il testimone successivo convocato da Gilfeather fu il medico che Connal Murdoch aveva chiamato, un uomo paffuto e rotondetto con i capelli neri e un paio di baffi curatissimi, neri anche quelli. «Dottor Ormorod» cominciò in tono amabile non appena le credenziali del medico vennero attentamente controllate. «Siete stato chiamato dal
signor Connal Murdoch per prestare le vostre cure alla defunta, signora Mary Farraline. È esatto, questo?» «Sissignore, è esatto. Alle dieci e mezzo della mattina del sette ottobre di quest'anno del Nostro Signore» il dottore replicò. «Siete accorso immediatamente?» «Nossignore. Stavo assistendo un bambino gravemente ammalato di tosse convulsa. Ero stato informato che la signora Farraline era morta. Quindi non vedevo la necessità di tanta urgenza.» Dalla galleria si levò un risolino nervoso. Uno dei giurati, un omone con una criniera di capelli candidi, si voltò a rivolgere uno sguardo di rampogna al colpevole. «Vi è stato spiegato il motivo per cui vi mandavano a chiamare, dottor Ormorod?» Gilfeather gli chiese. «Era una richiesta insolita in un certo senso, vero?» «Veramente no, signore. Al momento ho immaginato che il mio principale dovere fosse quello di assistere la signora Murdoch. Lo shock di un lutto del genere può essere di per sé la valida causa di qualche inquietudine dal punto di vista medico.» «Già... capisco. E cosa avete trovato quando avete raggiunto la residenza della signora Murdoch?» «La signora Murdoch, povera creatura, si trovava in uno stato di profonda afflizione, il che era naturalissimo, ma la sua causa non era proprio del tutto quella che mi sarei aspettato.» Il medico si stava accorgendo sempre di più di essere il punto focale sul quale si stava concentrando l'attenzione dei presenti. Si raddrizzò ancora di più sulla persona e alzò la testa, soppesando le proprie parole come un attore pronto a recitare un celebre monologo. «Naturalmente era profondamente addolorata per il decesso della madre, ma era anche molto turbata per il modo in cui sembrava che questo si fosse verificato. Il suo timore, signor Gilfeather, era che non fosse interamente dovuto a cause naturali, tenendo conto dei gioielli scomparsi.» «È questo che vi disse?» Gilfeather domandò. «Certamente, signore, proprio questo.» «E cos'avete fatto, dottor Ormorod?» «Ecco, in principio, lo confesso, non le ho completamente creduto.» Fece una smorfia e lanciò un'occhiata alla giuria. Era evidente che uno o due dei giurati si mostravano pieni di simpatia e di comprensione nei suoi confronti. Alcuni di loro assentivano, con un cenno del capo. Per due terzi di loro, almeno, si trattava di gente distinta, gentiluomini di ottima reputazio-
ne, anziani se non addirittura vecchi, abituati ai ghiribizzi femminili, specialmente a quelli delle giovani donne in condizioni particolarmente delicate di salute. «Ma voi, signore, cos'avete fatto?» Gilfeather insistette. Ormorod riportò la propria attenzione sulla questione che si stava discutendo. «Ho eseguito un esame, signore, e considerevolmente particolareggiato.» Di nuovo tacque, per creare un'attesa piena di drammaticità. Gilfeather non si scompose. Rathbone imprecò sottovoce. Argyll sospirò silenziosamente anche se la sua espressione era fin troppo chiara. La faccia di Ormorod si indurì. No, questa non era affatto la reazione che lui si era aspettato. «Mi è stato necessario molto tempo» disse con voce fremente. «E sono stato obbligato a eseguire una vera e propria autopsia, rivolta in modo particolare a un'attenta osservazione di ciò che conteneva lo stomaco della defunta. Ma ho potuto concludere che non esisteva assolutamente alcun dubbio che la signora Farraline fosse deceduta in seguito alla somministrazione di una dose massiccia del farmaco che prendeva abitualmente, un distillato di digitale.» «In che senso una dose massiccia, signor dottore? Fino a che punto? Siete in grado di dirlo?» «Almeno il doppio della quantità che qualsiasi medico con un minimo di responsabilità avrebbe potuto prescriverle» Ormorod rispose. «Non avete alcun dubbio in proposito?» Gilfeather insistette. «No, nessuno nel modo più assoluto. D'altra parte non occorre accontentarsi della mia sola opinione, signore. Il medico legale vi avrà riferito la stessa cosa.» «Per l'appunto. Abbiamo i risultati del suo referto da inserire fra le altre prove» Gilfeather gli assicurò. «E quel referto conferma né più né meno ciò che voi dite.» Ormorod sorrise assentendo. «Vi siete formato un'opinione sul modo in cui quel farmaco può essere stato somministrato?» «Per via orale, signore.» «È concepibile che sia stata usata la forza?» «No, non c'era niente che potesse lasciarlo pensare. Secondo me quella dose della medicina è stata presa del tutto volontariamente. Presumo che la defunta non avesse neanche la più vaga idea che avrebbe potuto farle male.»
«Voi invece non avete alcun dubbio che quella sia stata effettivamente la causa della sua morte?» «Non ho alcun dubbio nel modo più completo e assoluto.» «Vi ringrazio molto, dottor Ormorod. Non ho altre domande da farvi.» Argyll ringraziò Gilfeather e andò a mettersi davanti al dottor Ormorod. «Signore, la vostra testimonianza è stata mirabilmente chiara ed essenziale. Io ho soltanto una domanda da porvi. Ed è questa. Presumo che abbiate esaminato l'astuccio che conteneva la medicina, dal quale è stata tolta la dose somministrata alla defunta, vero? Sì. È logico che l'abbiate fatto. Quanti flaconcini c'erano dentro, signore... fra vuoti e pieni?» Ormorod ci pensò per un attimo, corrugando la fronte. «C'erano dieci flaconcini pieni, signore, e due vuoti.» «Ne siete proprio sicuro?» «Sì... sì, posso affermarlo con certezza.» «Vorreste descriverci il loro aspetto, signor dottore?» «Aspetto?» Era chiaro che Ormorod non capiva lo scopo della domanda. «Sì, dottore; si può sapere che aspetto avevano?» Ormorod alzò una mano con il pollice e l'indice un po' staccati. «I flaconcini erano lunghi da quattro a sei centimetri, e avevano ciascuno un diametro di un po' meno di due centimetri, signore. Del tutto comuni, fra i più banali flaconcini che vengano usati in medicina.» «Di vetro?» «L'ho già detto.» «Di vetro trasparente?» «Nossignore, di vetro colorato, blu scuro, come vuole la consuetudine quando una sostanza è velenosa oppure può essere presa distrattamente o per errore.» «È facile vedere se un flaconcino è pieno o vuoto?» Finalmente Ormorod capì. «Nossignore. Qualora fosse pieno a metà, forse; ma nel caso in cui fosse completamente pieno o assolutamente vuoto darebbe l'impressione di essere esattamente identico agli altri: cioè non è possibile distinguere quanto è il liquido che contiene.» «Vi ringrazio, dottore. Di conseguenza possiamo presumere che uno di essi sia stato usato dalla signorina Latterly la sera precedente, quanto all'altro può darsi che non si riesca mai a saperlo... a meno che la signorina McDermot non dovesse decidersi a raccontarcelo.» «Signor Argyll!» Esclamò il giudice infuriato. «Potete presumere quello che vi fa piacere, ma non dovete enunciare ad alta voce le vostre idee in
quest'aula di tribunale! Qui occorre presentare soltanto le prove. E la signorina McDermot non ha detto una sola parola a tale proposito!» «Sì, my lord» Argyll rispose senza provare il minimo pentimento. Il danno era stato fatto, e lo sapevano tutti. Ormorod non disse niente. Argyll lo ringraziò e lo lasciò andar via. Il dottore scese dal banco dei testimoni con visibile riluttanza. Doveva essergli piaciuta sul serio quella sua apparizione alle luci della ribalta. Il terzo giorno, Gilfeather convocò il medico personale di Mary Farraline per fargli descrivere la malattia di cui soffriva, la sua natura e durata, e giurare che non c'era motivo perché lei non dovesse ancora avere davanti a sé parecchi altri anni per godersi un'esistenza felice e pienamente realizzata. Anche questo suscitò i debiti mormorii di simpatia e comprensione. Poi il medico descrisse il farmaco che le aveva prescritto, e le sue caratteristiche. Argyll non disse niente. Venne convocato il farmacista che aveva preparato materialmente il prodotto, il quale descrisse dettagliatamente quali fossero state, nel caso specifico, le sue mansioni professionali. Di nuovo Argyll non intervenne salvo per aver la conferma che la medicina avrebbe dovuto essere distillata per diventare più concentrata, e di conseguenza per avere efficacia doppia pur conservando lo stesso volume di liquido, e che per ottenere tutto questo non erano necessarie né una conoscenza medica speciale né particolari capacità da parte di un'infermiera. Hester, seduta sul banco degli imputati, guardava e ascoltava. Una parte di lei avrebbe voluto che tutto fosse già finito. Sembrava quasi una specie di danza rituale, anche se si svolgeva solo a parole, nella quale ciascuno interpretava una parte provata e riprovata accuratamente, e già predestinata. Aveva le connotazioni di un incubo, perché a lei toccava solo la parte di osservatrice. Non poteva parteciparvi, anche se quella su cui stavano prendendo una decisione era la sua vita stessa. Lei era l'unica che non poteva tornarsene a casa quando tutto era finito, che non avrebbe certo potuto recitare di nuovo quella parte la settimana successiva o il mese seguente ma ne avrebbe dovuto interpretare un'altra, tutta diversa, con differenti interpreti. Avrebbe voluto che quell'incertezza cessasse, che si arrivasse al verdetto.
D'altra parte, quando ciò si fosse verificato, forse tutto sarebbe stato davvero finito. Ci sarebbe stata la condanna. E non più una speranza, per quanto fievole, per quanto piccola alla quale aggrapparsi. Adesso stava riflettendo che ormai si era rassegnata. Ma ne era proprio convinta? Diceva sul serio? Quando fosse arrivato il momento che non sarebbe più stato un frutto della sua fantasia, quel momento in cui il giudice, mettendo in testa la berretta nera, avrebbe pronunciato la sentenza di morte, era proprio sicura che sarebbe riuscita a rimanere dritta, con le spalle erette, a testa alta, le ginocchia accostate a reggere perfettamente il peso del suo corpo? Oppure avrebbe avuto l'impressione di vedersi girare intorno con un senso di vertigine l'aula del tribunale, e di sentirsi attanagliare lo stomaco dalla morsa della nausea fino a starne male? Forse, in fondo, tutto ciò che le occorreva era ancora un poco di tempo per prepararsi. La testimone successiva fu Callandra Daviot. Chissà come la notizia si era diffusa e quasi tutti, in galleria, adesso sapevano che lei era l'amica di Hester. Di conseguenza il pubblico adesso le era apertamente ostile. Si aspettava una battaglia di intelligenze e di intuito. Pareva quasi che nell'aria vi fosse l'odore del sangue. La gente allungava il collo per poter osservare meglio la sua figura impettita, maestosa, che attraversava l'aula del tribunale e saliva i gradini del banco dei testimoni. Osservandola, Monk provò la sensazione di essere di fronte a qualcosa di familiare, una sensazione talmente profonda da sconvolgerlo. Era come se Callandra non fosse soltanto la donna che aveva conosciuto in quell'ultimo anno e mezzo, che lo aveva aiutato finanziariamente, una donna di cui ammirava il coraggio e l'intelligenza... ma era come se lei fosse parte integrante della sua vita emotiva. Non era bella; persino in gioventù, nel migliore dei casi, si sarebbe potuto dire che aveva soltanto un gran fascino. Aveva il naso troppo lungo, la piega della bocca troppo caratteristica, i capelli troppo ricci sempre crespi e arruffati, in lotta con le forcine in modo strano e molto poco dignitoso. Pareva che non fossero ancora state inventate quelle più adatte a imprigionarli in un'acconciatura decorosa, alla moda. Aveva il difetto di essere un po' larga di fianchi e con le spalle un po' troppo curve e rotonde. Eppure nel complesso la sua figura irradiava una dignità e una onestà che facevano dimenticare l'eleganza di altre dame dell'alta società, e possedeva qualcosa di solido, schietto e autentico in un mondo nel quale dominavano l'artificio e la finzione. Si accorse di smaniare dalla voglia di aiutarla, benché fosse assolutamente impossibile, e nello stesso tempo si
vergognò del proprio sentimentalismo. Seduto al suo posto, con il corpo rigido, tutti i muscoli contratti, cominciò a ripetersi di essere uno sciocco, che non doveva prendersela in modo eccessivo, che tutta la sua esistenza sarebbe continuata pressappoco allo stesso modo per quelle che erano le cose veramente importanti, indipendentemente da ciò che sarebbe accaduto lì, in quell'aula di tribunale. E dopo essersi detto tutto questo, si accorse di non sentirsi affatto meglio di prima. «Lady Callandra.» Gilfeather si mostrò cortese ma distaccato. Non era tanto ingenuo da illudersi di incantarla con il proprio fascino, o che la giuria potesse convincersi che ci sarebbe riuscito. Di tanto in tanto gli era capitato di sopravvalutare l'acume di una giuria; mai però aveva sbagliato in senso contrario. «Da quanto tempo conoscete la signorina Hester Latterly?» «Dall'estate del 1856» rispose Callandra. «E il vostro rapporto è stato amichevole, perfino affettuoso?» «Sì.» Callandra non aveva alternative, era costretta ad ammetterlo. Negarlo sarebbe stato come confermare che era convinta dell'onestà di Hester, e se avesse invece risposto che i loro rapporti erano semplicemente formali, sarebbe stato necessario spiegarne il perché. Lo sapevano sia lei sia Gilfeather, e la giuria si mise a osservarla con crescente curiosità, attenta a tutte le sfumature delle sue risposte. «Eravate al corrente del fatto che intendesse assumere questo incarico presso la famiglia Farraline?» «Sì.» «Ve ne aveva informato lei stessa?» «Sì.» «E che cosa vi aveva detto in proposito? Vi prego, siate precisa, lady Callandra. Sono sicuro che ricorderete di parlare sotto giuramento.» «Naturale che me ne ricordo» rispose lei in tono agro. «E in aggiunta a questo, non ho nessun bisogno, o tantomeno nessun desiderio, di dimenticarmene.» Gilfeather le rispose con un cenno di assenso, ma tacque. «Procedete» la istruì il giudice. «Mi aveva anche detto che si sarebbe goduta quel viaggio in modo particolare perché non era mai stata in Scozia. Così sarebbe stato piacevole anche sotto questo aspetto.» «La posizione finanziaria della signorina Latterly vi è familiare?» Le
domandò Gilfeather, inarcando le sopracciglia, mentre la sua capigliatura dava l'impressione di essere ancora più scarmigliata del solito soprattutto dove ci infilava a tratti le dita. «No, affatto.» «Ne siete proprio sicura?» Gilfeather pareva meravigliato. «Non è possibile che nella vostra qualità di amica, e per di più di un'amica in possesso di un considerevole patrimonio personale, non abbiate mai pensato a informarvi di tanto in tanto se avesse bisogno di aiuto o no?» «No.» Callandra ricambiò il suo sguardo con durezza, sfidandolo a non crederle. «È una donna che ha dignità e amor proprio, e una considerevole capacità di guadagnarsi da vivere per conto proprio. Sono convinta che se si fosse trovata in difficoltà si sarebbe sentita tanto in confidenza con me da chiedermi un aiuto, a parte il fatto che io stessa me ne sarei accorta. Ma una situazione del genere non si è mai verificata. Non è una persona per la quale il denaro sia importante, le basta poter far fronte ai propri impegni. Ha una famiglia, sapete, che sarebbe felicissima di offrirle ospitalità permanente se lei lo desiderasse! Se state cercando di dipingerla come una creatura che non sa più a che santo votarsi per guadagnarsi anche il minimo indispensabile alla sopravvivenza, vi sbagliate di grosso.» «Non avevo nessuna intenzione di farlo» Gilfeather le assicurò. «Stavo pensando a qualcosa che provoca molto meno compassione, ed è comprensibile, lady Callandra: alla pura e semplice avidità di denaro. Una donna che non possiede oggetti eleganti e graziosi, che vede una spilla che le piace e, in un momento di debolezza, la porta via, poi è costretta a nascondere il proprio crimine con uno infinitamente peggiore.» «Frottole, dalla prima all'ultima!» esclamò Callandra furiosa, mentre arrossiva violentemente per la collera e l'indignazione. «Questo è semplicemente un mucchio di fanfaluche. Conoscete ben poco la natura umana, signore, se la giudicate così, e non riuscite a capire che la maggior parte dei crimini di questo genere, come l'assassinio, vengono commessi o da bricconi, che hanno una lunga esperienza in proposito, oppure da qualcuno che fa parte della cerchia della famiglia. E temo che in questo caso si tratti della seconda possibilità. Sono perfettamente al corrente del fatto che il vostro dovere professionale è quello di ottenere una condanna piuttosto che di ricercare la verità... ed è un peccato, a parer mio. Ma...» «Signora!» Il giudice diede un colpo con il suo martelletto sul banco che risuonò con uno schiocco simile a un colpo di fucile. «La Corte non sopporterà oltre la vostra opinione sul sistema legale scozzese e quelle che, a
vostro giudizio, sono le sue manchevolezze. Risponderete alle domande dell'accusa in modo semplice e senza aggiungere nessun commento personale. Signor Gilfeather, vi consiglio di cercar di tenere sotto controllo la vostra testimone, che sia ostile o no!» «Sì, my lord» Gilfeather disse ubbidiente, ma senza mostrarsi tanto infuriato e indispettito come sarebbe stato logico. «E adesso, Signoria, possiamo tornare alla questione che più ci interessa? Vorreste essere tanto buona da descrivere alla Corte con esattezza che cosa è successo quando la signorina Latterly è venuta a trovarvi al suo ritorno da Edimburgo, dopo la morte della signora Farraline? Cominciate con il suo arrivo a casa vostra, per favore.» «Sembrava profondamente sconvolta» Callandra rispose. «Erano pressappoco le undici meno un quarto del mattino, se ben ricordo.» «Ma il treno non arriva a Londra molto prima di quell'ora?» La interruppe lui. «Certo, molto prima» Callandra confermò. «Ma lei era stata trattenuta dal decesso della signora Farraline, dal fatto di dover avvertire il capotreno, e poi il capostazione e infine dal colloquio che aveva avuto con i signori Murdoch. Poi è venuta direttamente da me dalla stazione, stanca e profondamente addolorata. Aveva provato simpatia e affetto per la signora Farraline, benché la avesse conosciuta per così poco tempo. Secondo Hester, era una donna piena di un fascino straordinario, dotata di senso dell'umorismo, molto intelligente.» «Davvero? È quello che credo anch'io» Gilfeather rispose asciutto, lanciando un'occhiata alla giuria e poi tornando a fissare Callandra. «Già fin d'ora sentiamo profondamente la sua mancanza. Che cosa vi ha raccontato la signorina Latterly su quanto accaduto?» Callandra rispose con tutta l'accuratezza possibile, almeno per quel che riusciva a ricordare; mentre lei parlava nessuno si mosse né si sentì il più lieve rumore nell'aula. Poi continuò, guidata nell'interrogatorio da Gilfeather, descrivendo come Hester fosse andata al piano superiore a rinfrescarsi un poco e, al suo ritorno al pianterreno, si fosse presentata con la spilla di perle grigie, e concluse la sua storia ripetendo quali ne fossero state le conseguenze. Gilfeather cercò di fare del suo meglio per ottenere che si esprimesse il più concisamente possibile, cercò di interromperla, di formulare le proprie domande in modo che richiedessero soltanto una conferma o un diniego, ma Callandra si rifiutò apertamente di adeguarsi a queste manovre.
Rathbone continuava a sedere immobile alle spalle di Argyll, ascoltando ogni parola, ma i suoi occhi tornavano sempre più spesso verso la giuria. Osservava le facce dei giurati e poteva accorgersi che provavano rispetto per Callandra e forse, anzi, la avevano addirittura in simpatia, ma nello stesso tempo capivano come fosse chiaramente influenzata e favorevole all'imputata. Fino a che punto avrebbero tenuto conto di tutto questo? Impossibile dirlo. Quindi preferì voltarsi a osservare i Farraline, invece. Oonagh continuava a conservare la solita compostezza, e il suo viso rivelava la calma più assoluta. Osservava Callandra con interesse e non senza rispetto. Al suo fianco Alastair aveva l'aria inquieta, malcontenta, il suo viso dal naso aquilino era tirato, stanco, come se avesse dormito male, il che non lo stupiva affatto. Era al corrente di quello che era stato fatto con i libri mastri dell'azienda? Aveva già dato inizio alle proprie indagini private da quando la madre era morta? Era stato sfiorato da qualche sospetto nei confronti del fratello più giovane, e più debole? Quali discussioni e quali litigi affioravano in quella famiglia quando la porta di casa era chiusa, e il pubblico, il mondo esterno, non potevano né vedere né udire? Non c'era affatto da meravigliarsi che nessuno di loro rivolgesse uno sguardo a Hester! Sapevano, o perlomeno credevano, che fosse innocente? Si allungò a battere con la punta delle dita sulla spalla di Argyll. Molto lentamente, Argyll si protese all'indietro in modo da poter sentire ciò che gli diceva, se si fosse allungato verso di lui a bisbigliargli nell'orecchio. «Avete intenzione di far leva in qualche modo sul senso di colpa della famiglia?» Rathbone gli mormorò a fior di labbra. «È probabilissimo che almeno uno di loro sappia chi è stato... e perché!» «Chi, per esempio?» «Alastair, direi. È il capo della famiglia. E ha l'aria disfatta, sconvolta.» «Non crollerà fintanto che c'è sua sorella a offrirgli il suo sostegno» Argyll rispose con voce tanto fievole che Rathbone dovette tendere l'orecchio per cogliere ciò che diceva. «Se potessi insinuare un cuneo fra quei due, lo farei, ma ancora non so come fare e se mi ci provassi ma fallissi nell'impresa otterrei soltanto lo scopo di renderli ancora più forti. Mi resterà una sola occasione di tentarlo ancora. È una donna formidabile, Oonagh McIvor.»
«Sta proteggendo suo marito?» «È quello che penserei anch'io, ma per quale motivo? Perché Baird McIvor avrebbe dovuto uccidere la suocera?» «Non lo so» confessò Rathbone. Il giudice gli lanciò un'occhiataccia; per qualche istante Rathbone si vide costretto a tacere, almeno fino a quando Callandra si attirò addosso di nuovo la sua disapprovazione, e dovette tornare a concentrarsi su quello che lei diceva. «Paura» sussurrò di nuovo ad Argyll. «Di chi?» Argyll domandò, mentre la sua faccia rimaneva inespressiva. «Giocate sulla paura» replicò Rathbone. «Trovate il più debole e mandatelo sul banco dei testimoni. E fate in modo che gli altri riducano al terrore questa persona perché non li tradisca per paura o per incapacità, oppure per salvarsi la pelle.» Argyll rimase in silenzio tanto a lungo che Rathbone finì per convincersi che non doveva averlo sentito. Si protese di nuovo verso di lui e stava per ripetere ciò che aveva detto quando Argyll gli rispose: «Chi è il più debole? Una delle donne? Eilish con la sua scuoletta per gli analfabeti poveri, o Deirdra con la sua macchina volante?» «No, le donne no» rispose Rathbone con una sicurezza che sorprese lui stesso. «Bene» Argyll acconsentì in tono brusco mentre l'ombra di un sorriso gli curvava le labbra. «Perché in tal caso mi sarei rifiutato di farlo.» «Quanta galanteria» ribatté Rathbone con sarcasmo mordace. «E maledettamente inutile per di più!» «Non si tratta affatto di galanteria» Argyll rispose tra i denti. «Ma di praticità. La giuria si innamorerà di Eilish: non è soltanto molto bella, ma è anche brava e buona. Non vi pare che basti? Potranno deplorare, i giurati, il fatto che Deirdra abbia ingannato il marito ma nel segreto del loro cuore la troveranno simpatica. È una graziosa donnina, piena di coraggio. Il fatto che sia pazza da legare non cambierà proprio niente.» Rathbone provò un gran sollievo ad accorgersi che Argyll non era sciocco come lui temeva. «Date addosso a Kenneth» gli disse ancora rispondendo alla domanda di poco prima. «È lui l'anello debole della catena... e possibilmente l'assassino. Monk ha le informazioni relative alla sua amante. Convocate il vecchio Hector, se è sobrio a sufficienza. Questo dovrebbe bastare a tirare in ballo di nuovo la questione dei libri mastri e della contabilità.»
«Vi ringrazio, signor Rathbone» Argyll rispose a denti stretti. «A questo avevo già pensato.» «Sì, certamente» Rathbone ammise. «Chiedo scusa» soggiunse come se gli venisse in mente soltanto allora. «Le scuse sono accettate» Argyll mormorò. «Sono consapevole di quanto siate legato personalmente all'accusata, altrimenti non le avrei accettate, ve lo assicuro.» Rathbone si accorse di avere la faccia che gli scottava. Non aveva mai pensato al proprio rapporto con Hester come a un "legame personale". «La testimone è a vostra disposizione, signor Argyll!» Esclamò il giudice con asprezza. «Se vorrete essere tanto cortese da dedicare anche a noi un po' della vostra attenzione, signor avvocato!» Argyll si alzò avvampando perché faceva fatica a dominare la collera. Non rispose al giudice. Forse non si fidava del proprio autocontrollo. «Lady Callandra» disse cortesemente «tanto per assicurarci di aver capito esattamente, la signorina Latterly vi ha portato la spilla mentre voi eravate giù, al pianterreno? Non siete stata voi a scoprirla in mezzo alla sua roba, nella sacca da viaggio, e neanche sono stati i vostri domestici a trovarla?» «No. È stata lei, quando è andata a rinfrescarsi prima del pranzo. Nessuno dei miei domestici avrebbe avuto un motivo qualsiasi per frugare nella sua sacca da viaggio e tantomeno l'avrebbe avuto lei stessa se non avesse deciso di fermarsi a pranzare con me.» «Precisamente. E la sua reazione immediata è stata quella di portarvela.» «Sì. Sapeva che non le apparteneva e aveva paura che fosse successo qualcosa di serio, di molto grave.» «In questo è stata tragicamente corretta. E il vostro consiglio è stato di mettersi subito in contatto con un legale che la assistesse in questa faccenda in modo da restituire il gioiello agli eredi della signora Farraline?» «Sì. L'ha presentata al signor Oliver Rathbone.» «La questione, lady Callandra, o la spilla in sé e per sé?» «La questione. Ha lasciato la spilla a casa mia. Adesso rimpiango che non abbia pensato a portarla con sé.» «Ho i miei dubbi che sarebbe servito a cambiare qualcosa in questa triste situazione, signora. Il piano era stato studiato con la massima cura. Lei ha fatto tutto ciò che avrebbe potuto fare una persona di buon senso, e non le è servito a un bel niente.» «Signor Argyll!» La voce del giudice era tagliente. «Non vi darò un al-
tro avvertimento.» Argyll inclinò la testa in un gesto pieno di garbo. «Vi ringrazio, lady Callandra. Non ho altre domande.» L'ultimo testimone per l'accusa fu il sergente Daly che riferì di essere stato chiamato dal dottor Ormorod e descrisse tutto quanto era accaduto da quel momento fino a quando si era presentato ad arrestare Hester e, successivamente, l'aveva anche accusata di assassinio. La sua dichiarazione fu pronunciata in tono piano, guardingo, e anche con profonda tristezza, scrollando la testa di tanto in tanto, mentre i suoi occhi buoni e limpidi scrutavano l'aula del tribunale con blando interesse. Gilfeather lo ringraziò. Argyll respinse la proposta d'interrogarlo. Non c'era niente da dire, niente su cui discutere. Gilfeather sorrise. L'accusa aveva terminato di produrre le sue prove. I giurati si scambiarono in silenzio un cenno di assenso, già sicuri del verdetto. 10 La difesa ebbe inizio la mattina successiva. La folla che riempiva la galleria era di un umore insolito, irrequieta, bisbigliava sommessamente travolta da un misto strano di apatia e di improvviso interesse, gli umori del pubblico cambiavano di momento in momento. C'era chi si dichiarava convinto che tutto fosse finito, che la difesa fosse semplicemente una sottigliezza legale, in modo che non ci si potesse appellare contro procedure non corrette dal punto di vista della Legge. C'era chi si aspettava, quasi quasi, una battaglia di ingegni, per quanto futile. I primi erano gli ammiratori di Gilfeather. I secondi quelli di James Argyll. Quasi tutti erano partigiani dell'uno o dell'altro: chi non provava nessun interesse per i due avversari che stavano per affrontarsi faccia a faccia si era detto talmente sicuro dei risultati da non prendersi nemmeno la briga di venire in tribunale. Rathbone era talmente sulle spine che continuava a schiarirsi meccanicamente la gola al punto che adesso gli doleva. Non aveva chiuso occhio fino a quando era quasi arrivato il momento di alzarsi, poi era sprofondato in un incubo talmente orribile che il risveglio era stato difficile. La sera prima era andato a cercare per un po' la compagnia di suo padre ma, accorgendosi di essere di un umore addirittura insopportabile, aveva preferito non infliggerlo a nessuno, e in modo particolare a lui. Così dalle otto e
mezzo fin quasi a mezzanotte era rimasto solo, riesaminando mentalmente il caso di Hester, prendendo atto di ogni minimo elemento di prova che possedevano e, quando anche questo non aveva dato alcun frutto, facendosi tornare alla memoria, come meglio poteva, tutte le parola dei testimoni convocati da Gilfeather. Niente di conclusivo, no assolutamente. Hester non era colpevole! Ma avrebbe potuto uccidere Mary Farraline e in assenza di qualsiasi altro elemento che lasciasse intendere, o sospettare, la colpevolezza di qualcun altro... e che lo lasciasse intendere in modo credibile, con chiarezza ed energia... qualsiasi giuria l'avrebbe condannata. Argyll poteva essere il miglior avvocato della Scozia intera ma a quel punto ci voleva ben altro e ben di più della sua abilità; così adesso, seduto nell'aula del tribunale affollata, dove l'atmosfera era incandescente, si accorse di non avere il coraggio di alzare gli occhi verso il banco degli imputati dove Hester sedeva. C'era il rischio che gli leggesse la disperazione sul viso, e volle risparmiarle almeno quello. Quindi si guardò bene dal cercare di individuare in galleria anche la testa bruna, dai capelli lisci, di Monk. Aveva quasi nutrito una mezza speranza che non comparisse. Magari gli era venuta l'idea di cercare qualcos'altro, qualche altro spunto o elemento da approfondire. Aveva domandato ai farmacisti se qualcun altro avesse comprato della digitale? Sì, doveva averlo fatto. Era elementare. Monk non era l'uomo capace di accontentarsi della pura e semplice difesa. Avrebbe attaccato, perché così esigeva il suo carattere. Per carità, anzi, era l'essenza stessa della sua personalità! E nemmeno cercò suo padre, Rathbone; anzi evitò nel modo più completo di alzare gli occhi verso la galleria. Non era soltanto vigliaccheria e commozione da parte sua oppure, se si voleva definirlo in un modo più benevolo, senso dell'autoconservazione: era pura e semplice tattica, puro e semplice intuito. A questo punto i sentimenti diventavano obsoleti, occorreva un cervello lucido, una mente chiara e la capacità di riflettere a rigor di logica. Il giudice appariva freddo e soddisfatto di sé. Dal suo punto di vista non era una causa difficile. Non aveva dubbi sulla condanna. Certo, formulare un verdetto di morte per impiccagione nei confronti di una donna non sarebbe stato gradevole, ma gli era già capitato di farlo e non avrebbe esitato a rifarlo di nuovo. Poi se ne sarebbe tornato a casa, dalla propria famiglia, a consumare una buona cena. E l'indomani ci sarebbe stata una nuova causa. E il pubblico lo avrebbe applaudito. L'atmosfera era carica di commo-
zione. C'erano persone alle quali la buona società aveva dato un posto molto alto nella propria stima, che aveva colmato di determinati onori, e alle quali aveva attribuito una capacità di sentimenti e di emozioni superiore a quella dell'uomo comune. Come, per esempio, quelle che appartenevano al mondo della religione e della medicina. E dal momento che erano circondate da una stima particolare, sapevano come si esigesse da loro, in cambio, qualcosa di più del solito. Se cadevano, la loro caduta era rovinosa. La condanna era accompagnata dalla disillusione e dal malessere che nasceva dal fatto di ritrovarsi traditi in ciò in cui si credeva. Era amara, nata dal dolore e dalla collera e dalla autocompassione, perché si vedeva vacillare qualcosa a cui si teneva in particolar modo. L'offesa non era stata fatta soltanto nei confronti di Mary Farraline. Se non ci si poteva più fidare di un'infermiera, niente più al mondo poteva essere dato per scontato. La sicurezza veniva minacciata. E per questo, la punizione era terribile. Rathbone lo lesse, tutto questo, anche sulle facce dei giurati. Le capacità di giudizio venivano compromesse dalla paura. Ed erano pochi gli uomini capaci di perdonare a chi li aveva spaventati. L'udienza ebbe inizio. James Argyll si alzò in piedi. Il silenzio era totale. Non si sentiva nemmeno un sussurrio, né il più piccolo movimento. «Con buona grazia vostra, my lord, e signori della giuria» cominciò «finora avete ascoltato l'enunciazione di molte prove che si basano sui fatti relativi al modo in cui Mary Farraline incontrò la morte, e molte indicazioni sul modo nel quale questa potrebbe essersi verificata. Ma avete sentito descrivere molto poco lei, come donna. La difesa vuole esser l'ultima a cavillare su ciò che è stato detto. Anzi, vorremmo aggiungere qualcosa di più. Era affascinante, intelligente, cortese, onorata; possedeva rare qualità come il senso dell'umorismo e la generosità. Mentre non vogliamo pretendere che fosse perfetta... e chi lo è di noi mortali?..., non ci risulta, sul suo conto, niente di indegno o indecoroso e non abbiamo niente da dire su di lei, se non farne gli elogi. La sua famiglia non è la sola a piangerla.» Il giudice si lasciò sfuggire un robusto sospiro ma tutti gli occhi del pubblico in galleria erano concentrati su Argyll. Uno o due dei giurati aggrottarono le sopracciglia perché non capivano bene dove avesse intenzione di andare a parare. Argyll li scrutò con aria grave. «Tuttavia abbiamo sentito parlare molto poco del carattere e della personalità dell'accusata, la signorina Hester Latterly. Abbiamo sentito dire dalla famiglia Farraline che possedeva tutte le qualifiche necessarie alle mansioni che avrebbe dovuto assumersi per loro
e solo per breve tempo, ma è tutto qui. I Farraline l'hanno considerata come una loro sottoposta, una dipendente, per la durata di poco meno di un giorno intero. Non si può certo dire che fosse il tempo sufficiente a conoscere una persona.» Il giudice si protese verso di lui come se volesse parlare, ma poi cambiò idea. Guardò Gilfeather, ma Gilfeather era addirittura serafico, i capelli spettinati ritti sul cranio, il sorriso amabile, che rivelava la sua totale mancanza di qualsiasi preoccupazione. «A tale scopo mi propongo di convocare due testimoni» Argyll continuò. «E solo perché potreste giudicarne inadeguato uno solo, magari addirittura non obiettivo e influenzato. Per cominciare chiamerò il dottor Alan Moncrieff.» L'interesse generale si ravvivò quando il commesso ripeté il suo nome; poi i fruscii e il brusio aumentarono man mano che il pubblico allungava il collo per avere una visuale migliore dell'aula, quando la porta si aprì e un uomo alto e magro con una faccia di singolare bellezza, dal pronunciato naso aquilino, entrò e attraversò il locale passando fra la galleria e il banco dei testimoni che raggiunse dopo averne salito i gradini. Prestato giuramento si voltò verso Argyll con aria di aspettativa. «Dottor Moncrieff. L'imputata, signorina Hester Latterly, è da voi conosciuta?» «Sissignore, la conosco molto bene.» A dispetto del suo cognome scozzese, la voce di Moncrieff era molto bella, ben modulata, e dallo spiccato accento inglese. Rathbone imprecò sottovoce. Come aveva fatto Argyll a non pensare che sarebbe stato meglio trovare una persona dall'aspetto e dal tipo meno forestiero, più simile a quello degli abitanti locali? Moncrieff poteva benissimo essere nato e cresciuto a Edimburgo, ma nessuno l'avrebbe sospettato. Si pentì di non aver fatto un piccolo controllo personale su tutto questo. Forse avrebbe dovuto intervenire in quella scelta. Ma adesso era troppo tardi. «Vorreste raccontare alla Corte in quali circostanze l'avete conosciuta, dottore?» Argyll domandò. «Durante la recente guerra in Crimea» Moncrieff rispose «ho servito nel Corpo di Sanità dell'esercito.» «Con quale reggimento, dottore?» Argyll gli domandò, sgranando gli occhi, con aria piena di apparente innocenza. «Quello degli Scots Greys, signore» rispose Moncrieff alzando impercettibilmente il mento e raddrizzando le spalle.
Ci fu un attimo di silenzio e poi un sussulto passò fra il pubblico. A trasalire era stata quella mezza dozzina o poco più dei presenti che conosceva bene la storia militare della nazione. Gli Scots Greys, gli Inniskilling Dragoons e la Dragoon Guards, poco più di ottocento uomini complessivamente, schierati sul campo della disastrosa battaglia di Balaclava, avevano resistito alla carica di tremila cavalleggeri russi e dopo otto minuti di un massacro sanguinoso, i russi erano stati respinti, dispersi e costretti alla fuga ripercorrendo la strada per la quale erano arrivati. Uno dei giurati si soffiò il naso rumorosamente e un altro non si vergognò di asciugarsi gli occhi. Dalla galleria qualcuno gridò "Dio salvi la Regina!" e poi tacque. Argyll conservò una gravità perfetta, come se non avesse sentito niente. «Una curiosa scelta per un inglese?» osservò. Gilfeather pareva impietrito al suo posto. «Sono sicuro che non avevate intenzione di essere offensivo, signore» rispose Moncrieff tranquillamente. «Ma io sono nato a Stirling e ho studiato medicina ad Aberdeen e a Edimburgo. Ho vissuto qualche tempo in Inghilterra, ma anche all'estero. Date a mia madre la colpa del mio accento, quando parlo.» «Vi chiedo scusa, signore» Argyll rispose impacciato. «È stata una conclusione frettolosa, dovuta alle apparenze o, diciamo meglio, ai suoni.» Non aggiunse altri commenti sulla stoltezza dei giudizi di chi è prevenuto. Sarebbe stato maldestro. La giuria aveva già colto al volo il concetto, e poteva bastare. Dalla galleria si levò un mormorio di approvazione. Il giudice aggrottò le sopracciglia. Rathbone sorrise a dispetto di se stesso. «Prego, procediamo, signor Argyll» disse il giudice con esagerata esasperazione. «Ovunque il bravo dottore sia nato o abbia studiato, è qualcosa che in questa sede non interessa. Credo di non sbagliare affermando che non certo aveva intenzione di dirci di aver conosciuto la signorina Latterly nell'uno o nell'altro di questi posti, vero? No, infatti era quello che pensavo. Di conseguenza, procedete!» Argyll lasciò capire di non essere minimamente disturbato da tutto questo. Sorrise al giudice e tornò a rivolgersi a Moncrieff. «Dunque avete conosciuto la signorina Latterly mentre eravate in Crimea, dottore?» «Sì, e mi è capitato di incontrarla in varie occasioni.»
«Durante l'esercizio della vostra professione comune?» Il giudice si sporse di nuovo dal banco, mentre una profonda ruga fra le sopracciglia faceva apparire la sua faccia ancora più scarna e affilata. «Signore, questa Corte esige che siate preciso! State inducendo in errore la giuria. Il dottor Moncrieff e la signorina Latterly non hanno una professione comune, come ben sapete; e se non lo sapete, consentitemi di informarvene. Il dottor Moncrieff è un medico, ed esercita l'arte della medicina. La signorina Latterly è un'infermiera, una sottoposta dei medici, da loro guidata nelle cure e nell'assistenza ai malati, incaricata di arrotolare bendaggi, fare letti, sfacchinare ai loro ordini. Non può fare diagnosi sulle malattie, non prescrive farmaci, non esegue interventi chirurgici neanche della più modesta natura. Fa solo ciò che le viene detto, e basta. Sono stato chiaro?» Si rivolse ai giurati. «Signori?» Almeno una metà dei giurati annuì con aria saggia. «Dottore» Argyll riprese in tono amabile, rivolgendosi a Moncrieff «non voglio che facciate troppo affidamento sulla giurisprudenza. Pertanto vi prego di limitarvi alla medicina, quale vostra capacità, e alla signorina Latterly, quale vostro campo di osservazione.» Qua e là per l'aula si levò qualche risolino, rapidamente soffocato. Un uomo, in galleria, scoppiò in una sghignazzata. Il giudice era diventato paonazzo ma gli avvenimenti ormai gli avevano preso la mano. Cercò le parole più adatte e non ne trovò nessuna. «Naturalmente, signor avvocato» Moncrieff si affrettò a ribattere. «Io non ne so niente, all'infuori di quello che è chiaro e visibile a ogni profano.» «Avete lavorato con la signorina Latterly, dottore?» «Frequentemente.» «Quale era la vostra opinione personale delle sue capacità professionali?» Gilfeather si alzò in piedi. «Non stiamo mettendo in dubbio le sue capacità professionali, my lord. L'imputazione nei suoi confronti non è quella di aver commesso un qualsiasi errore di giudizio ma, piuttosto, di procedura. Siamo del tutto sicuri che ogni sua azione sia stata esattamente quella che lei intendeva fosse, eseguita con la più completa consapevolezza delle conseguenze... perlomeno dal punto di vista medico.» «Procedete attenendovi a ciò che è rilevante per il processo, signor Argyll» furono le istruzioni che gli diede il giudice. «La Corte sta aspettando di udire la testimonianza del dottor Moncrieff per ciò che riguarda le
capacità e la reputazione dell'imputata. Rilevante o no che questo sia, è un suo diritto che tale giudizio venga ascoltato.» «My lord, credo che la competenza nell'esecuzione dei propri doveri, il fatto di anteporre le cure e l'assistenza agli altri alla propria sicurezza, pur correndo grave pericolo personale, costituisca già di per sé qualcosa di chiaramente dimostrativo del carattere di una persona» Argyll disse con un sorriso. Ci fu un silenzio lungo, carico di tensione. In galleria nessuno si muoveva. A dispetto di se stesso, Rathbone lanciò una rapida occhiata a Hester. Lei stava fissando Argyll pallidissima in faccia, un'ombra di speranza che le affiorava negli occhi. Rathbone si sentì travolgere da un senso schiacciante di disperazione, talmente totale, per un momento, che gli tolse quasi il respiro. Come se qualcuno, allungandogli un pugno, gli avesse fatto svuotare completamente d'aria i polmoni. Forse era stato un bene che a occuparsi della sua difesa fosse Argyll. Ci teneva troppo a lei, era troppo coinvolto da tutto quanto stava succedendo per avere il perfetto controllo di se stesso. La giuria stava aspettando; tutte e quindici le facce dei giurati erano rivolte verso il giudice. Stavolta era chiaro che i loro sentimenti, la loro commozione, andavano tutti a favore di Argyll. Il giudice strinse le labbra, incollerito, ma conosceva la Legge. «Procedete» disse asciutto. «Vi ringrazio, my lord.» Argyll inclinò lievemente la testa e tornò a rivolgersi a Moncrieff. «Dottor Moncrieff, ve lo domando nuovamente: qual è la vostra opinione sulle capacità professionali della signorina Latterly, dopo aver valutato tutte le circostanze nelle quali avete avuto occasione di vederla lavorare e che vi consentono, quindi, di potervene fare un giudizio?» «Eccellente, signor avvocato» Moncrieff rispose senza esitazione. «Ha mostrato uno straordinario coraggio sul campo di battaglia, in mezzo alle scaramucce provocate dal nemico, lavorando con i feriti quando la sua stessa vita era in pericolo. Non solo, ma si è sempre dedicata alla sua opera per lunghe ore di seguito, spesso per tutta la giornata e una buona metà della notte, senza badare alla propria stanchezza o alla fame o al freddo.» Un'ombra di divertimento si disegnò sul bel viso di Moncrieff. «E poi, aveva iniziativa. In questo, era eccezionale. Più di una volta mi è capitato di riflettere che è una vera sfortuna non consentire alle donne di praticare
la medicina. Parecchie infermiere, in casi nei quali non era facilmente rintracciabile un chirurgo, hanno eseguito con successo gli interventi necessari a rimuovere pallottole di moschetto o schegge di granata, e perfino ad amputare arti letteralmente maciullati sul campo di battaglia. Tra queste posso citare la signorina Latterly.» La faccia di Argyll registrò l'appropriato senso di stupore. «State forse dicendo, signore, che ha fatto da chirurgo... in Crimea?» «In casi estremi, sì, avvocato. La chirurgia richiede una mano ferma, buon occhio, conoscenza dell'anatomia, e nervi saldi. Tutte queste qualità possono essere possedute da una donna come da qualsiasi uomo.» «Frottole e panzane!» Sbraitò qualcuno dalla galleria. «Buon Dio, signore!» Esplose uno dei giurati, e poi arrossì violentemente. «Questa è un'opinione assolutamente fuori del comune, dottore» Argyll esclamò con voce limpida e squillante. «La guerra è un'occupazione assolutamente fuori del comune, grazie a Dio» replicò Moncrieff. «Fosse cosa ordinaria, fosse cosa di tutti i giorni, temo che la razza umana presto verrebbe letteralmente spazzata via, e a opera delle sue stesse mani. Ma per quanto spaventosa possa essere, capita a volte che ci riveli qualità che in caso contrario non sapremmo mai di possedere. Non solo gli uomini, ma anche le donne, toccano vertici di cavalleria e di coraggio, e di capacità, che i tranquilli e più ordinati giorni del tempo di pace non saprebbero mai ispirare. «Mi avete convocato a rilasciare una testimonianza su quello che so del carattere e delle qualità della signorina Latterly, signor avvocato. Posso dire in tutta onestà nient'altro più di quanto segue, cioè che l'ho trovata coraggiosa, onesta, appassionatamente dedita alla sua missione, capace di provare pietà senza nessuna traccia di sentimentalismo. «Quanto al lato negativo, perché non vogliate credermi influenzato o pronto a giudicare soltanto sulla base di idee preconcette, era testarda, a volte frettolosa nel giudicare coloro che considerava incompetenti...» abbozzò un pallido sorriso. «...E in questo mi duole dire che aveva i suoi buoni motivi. E poi a volte il suo senso dell'umorismo non era per nulla accompagnato dalla discrezione. Poteva essere autoritaria, arbitraria, e quando era stanca, diventava di pessimo umore. «Ma nessuno fra quanti conosco l'ha mai vista compiere un solo atto di avidità né lasciarsi trascinare dallo spirito di vendetta, indipendentemente dalle circostanze. Né dimostrare, mai, in qualche modo un po' di vanità
personale. Signoriddio benedetto, caro signore, ma provate un po' a guardarla!» Alzò un braccio per indicare il banco degli imputati protendendosi oltre il parapetto. Tutti si voltarono per seguire il suo gesto. «Ha forse l'aspetto di una donna pronta a commettere un omicidio per procurarsi un oggetto, un gingillo, da usare come ornamento personale?» Perfino Rathbone si voltò a fissare con gli occhi sbarrati Hester, scarna, livida, i capelli tirati indietro e raccolti in una crocchia severa, il vestito grigio-azzurro, semplice e severo come un'uniforme. Argyll sorrise. «Nossignore, non lo dimostra affatto. Confesso che devo darvi ragione; un poco più di vanità personale forse non guasterebbe. Adesso le manca del tutto, secondo me.» Un risolino si levò qua e là per l'aula. In galleria una donna posò la mano sul braccio del marito. Henry Rathbone ebbe un blando sorriso. Monk digrignò i denti. «Vi ringrazio, dottor Moncrieff» Argyll si affrettò a dire. «È tutto quello che intendevo domandarvi.» Gilfeather si alzò in piedi con mosse lente, quasi penose a affaticate. Moncrieff lo affrontò senza impressionarsi. Non era tanto ingenuo da illudersi che i pochi minuti successivi potessero essere facili. Sapeva perfettamente di essere intervenuto in qualche modo, se non proprio cambiandone la tendenza, certo portando qualcosa di differente nell'eccitazione e nel calore della battaglia. Con Argyll si era trovato di fronte un amico, Gilfeather era il nemico. «Dottor Moncrieff» Gilfeather cominciò in tono blando «credo che pochi di noi, fra i presenti, possano immaginare l'orrore e gli stenti che voi e altri come voi, che hanno lavorato nel campo della medicina, devono aver affrontato durante la guerra. Dev'essere stato qualcosa di veramente atroce. Avete parlato di fame, freddo, stanchezza e paura. È stato tutto vero, non avete calcato un po' la mano?» «Per niente» Moncrieff rispose in tono guardingo. «Avete ragione, signor avvocato. È un'esperienza che non si può immaginare adeguatamente.» «Deve costringere a una tensione incredibile chi è stato chiamato ad affrontarla, vero?» «Sissignore.» «Mi rendo conto che non potreste condividerla con me, per esempio, se non nel modo più superficiale e insoddisfacente.» «È una domanda, signor avvocato?»
«No, a meno che non siate di opinione contraria alla mia, eh?» «No, sono d'accordo. Si possono comunicare solo quelle esperienze per le quali esiste un linguaggio, oppure una comprensione comune almeno in parte. Non si può descrivere un tramonto a un nonvedente.» «Proprio così. Questo, di conseguenza, deve farvi provare un certo senso di solitudine, dottor Moncrieff.» Moncrieff non disse niente. «E un senso di affinità nei confronti di coloro che hanno diviso con voi momenti così terribili e drammatici.» Moncrieff non poté negarlo benché bastasse guardarlo in faccia per capire che già immaginava dove Gilfeather andasse a parare. I giurati si protesero dai loro banchi ad ascoltare attentamente. «Senz'altro» fu costretto ad ammettere. «E, molto naturalmente, una certa mancanza di pazienza con quelle donne miti, insulse, prive di comprensione... e forse, a vostro giudizio, inutili... che ignorano completamente l'esistenza di tutto quanto può essere più pericoloso o arduo da praticare del puro e semplice governo della casa, vero?» «Queste sono parole vostre, signore, non mie.» «Ma accurate, dottore? Via, state parlando sotto giuramento! Non provate un desiderio struggente di condividere con qualcuno il ricordo di un passato che adesso descrivete con tanto calore e passione?» L'espressione di Moncrieff rimase impenetrabile. «Non ne ho alcuna necessità, signor avvocato. È qualcosa che supera la possibilità di essere condivisa da me, o da chiunque altro, salvo con quelle parole che vengono pronunciate da gente gretta e meschina, e alle quali solo gli ignoranti prestano fede.» Si sporse al di là della balaustra che stringeva convulsamente con le mani. «Ma non mi sento nemmeno di insultare le donne che sono rimaste a casa a dedicarsi alle loro famiglie e ai loro figli. Ciascuno di noi ha determinate sfide da affrontare, ciascuno di noi ha le proprie virtù. Non è facile fare paragoni, lo considero un esercizio mentale poco proficuo. Come le donne che si occupano di economia domestica non possono comprendere le donne che sono partite per la Crimea, così forse quelle che sono andate in Crimea non conoscono o fingono di non conoscere le difficoltà e le fatiche di quelle che sono rimaste a casa.» «Molto bene, signor dottore. La vostra cortesia vi rende onore» Gilfeather disse a denti stretti mentre il sorriso si spegneva sulle sue labbra. «Ma nonostante questo deve pur esistere un senso di affinità o di intimità, un
sollievo a poter condividere con qualcuno ciò che deve ancor oggi suscitare in voi sentimenti ben profondi?» «Naturalmente.» «Ditemi, dottore, la signorina Latterly aveva sempre lo stesso aspetto inelegante e trascurato che mostra anche oggi, qui, in quest'aula? È una giovane donna, con una figura e dei lineamenti tutt'altro che brutti. Per lei questa dev'essere stata una prova durissima. Prima si è vista rinchiudere nella prigione londinese di Newgate e adesso in quella che abbiamo qui, a Edimburgo. Il processo potrebbe concludersi con una condanna a morte. Non possiamo giudicare con equità le sue attrattive dall'aspetto che ci presenta adesso.» «È vero» Moncrieff lo ammise in tono guardingo. «Vi piaceva, dottore?» «C'è poco tempo per l'amicizia, signor Gilfeather. La vostra domanda chiarisce in modo ammirevole il presupposto dal quale siete partito, cioè che tutti quelli che non sono stati laggiù non possono capire che cosa sia stato. L'ammiravo e l'ho sempre trovata eccellente come persona con la quale lavorare. E l'ho già detto.» «Su, andiamo, dottore!» Gilfeather esclamò sardonico mentre la sua voce si faceva all'improvviso più forte e più aspra. «Non siate disonesto con me! Ci credete sul serio disposti a credere che per due anni vi siete dedicato al vostro dovere, giorno e notte, in modo tale da non cedere mai, neanche una volta, a quelle che sono le esigenze naturali di qualsiasi uomo? Cioè che non siano mai state più forti di voi?» Allargò le braccia, le mani; e il suo viso era tornato sorridente. «Non vi è mai capitato neanche una volta, nei momenti di sosta fra una battaglia e l'altra, quando il sole dell'estate splendeva sui prati, quando c'era tempo per una passeggiata e un picnic... Oh, sì, non siamo totalmente all'oscuro di ciò che è accaduto laggiù! C'erano i corrispondenti di guerra, sapete, e perfino fotografi! Volete davvero farci credere, dottore, che durante tutto questo tempo non avete mai considerato la signorina Latterly come una donna giovane e niente affatto sgradevole?» Moncrieff sorrise. «Nossignore, non vi domando di crederlo. Non avevo neanche riflettuto sulla questione ma dal momento che la sollevate, vi dirò che non è molto diversa da mia moglie, la quale possiede parecchie delle stesse qualità, delle stesse caratteristiche di coraggio e di onestà.» «Ma non era un'infermiera in Crimea, e di conseguenza non era in grado di condividere i vostri sentimenti e le vostre emozioni, dottore!»
Moncrieff sorrise. «Siete in errore, signore. Certamente che era in Crimea; ed è stata assolutamente capace di comprendere quali fossero i miei sentimenti né più né meno come qualsiasi altra persona.» Gilfeather era sconfitto, e se ne stava accorgendo. «Vi ringrazio, dottore. È tutto quello che ho da chiedervi. A meno che il mio onorevole collega non abbia qualcosa da aggiungere, potete ritirarvi.» «No, grazie» Argyll rifiutò, generoso. «Vi ringrazio, dottor Moncrieff.» L'udienza venne aggiornata con un po' di anticipo per l'intervallo del pranzo e i corrispondenti dei giornali uscirono in fretta e furia per mandare in redazione i messaggeri con le ultimissime notizie, facendosi largo a gomitate, spingendosi l'un l'altro, a volte persino inciampando e finendo addosso al resto del pubblico con il rischio di far rotolare per terra qualcuno tanta era la loro eccitazione. Il giudice si era ritirato visibilmente di malumore. Rathbone scoprì di avere sulla punta della lingua almeno cento cose di cui parlare ad Argyll. Ma alla fine non ne disse nemmeno una; gli sembravano anche troppo ovvie quando era il momento di esprimerle, inutili, atte soltanto a tradire le proprie paure. Non aveva pensato di avere fame eppure nella sala da pranzo della locanda divorò il pranzo senza nemmeno accorgersene. A un certo momento abbassò gli occhi e vide che aveva davanti un piatto vuoto. Alla fine non riuscì più a controllarsi. «La signorina Nightingale questo pomeriggio» disse ad alta voce. Argyll alzò gli occhi, con la forchetta in mano. «Certo» confermò. «Una donna formidabile da quello che ho visto di lei... piuttosto poco, fra l'altro, soltanto qualche concisa parola stamattina. Confesso di non essere ancora del tutto sicuro sulla linea da seguire nel farle l'interrogatorio. Mi sto domandando se, invece, non convenga indicarle semplicemente qual è la direzione giusta da prendere e lasciare che distrugga Gilfeather se è tanto spavaldo e impulsivo da attaccarla.» «Dovete farle dire qualcosa che lo spinga ad attaccarla» obiettò Rathbone, subito, posando coltello e forchetta. «È troppo esperto per provocarla a meno che non siate voi stesso a costringerlo. Non le consentirà di rimanere sul banco dei testimoni un solo minuto in più del necessario, sempreché non siate in grado di farle affermare qualcosa che lui non può lasciar passare senza contestazioni!» «Già...» Argyll disse con aria assorta, abbandonando quel poco che rimaneva del suo pasto. «Credo che abbiate ragione. Ma cosa? Non è una
testimone-chiave per tutto quanto è accaduto qui a Edimburgo. Anzi c'è da presumere che non abbia mai nemmeno sentito parlare dei Farraline. Non sa niente di quello che è successo. Lei può semplicemente rilasciare una testimonianza sul fatto che Hester Latterly era un'infermiera pratica, capace e diligente! Il solo valore che lei ha per noi si riduce alla sua reputazione, alla stima in cui è tenuta da tutti. E Gilfeather non si arrischierà di sicuro a mettere in dubbio qualcosa del genere!» Rathbone, intanto, stava riflettendo angosciosamente, con il cervello in tumulto. Florence Nightingale non era donna che si lasciasse manipolare o influenzare nell'uno e nell'altro senso, né da Argyll né tantomeno da Gilfeather. Cosa c'era che avrebbe potuto dire e che fosse pertinente alla causa, cosa... che Gilfeather si vedesse costretto a contestare? Sul coraggio di Hester non esistevano dubbi, come non ne esistevano sulle sue capacità di infermiera. Poi un'idea cominciò a prender forma nel suo cervello, ma era ancora soltanto un'ombra vaga e confusa. Lentamente, cercando di inquadrarla meglio, cominciò a spiegarla ad Argyll, farfugliando, e poi, a poco a poco, mentre vedeva che gli occhi di Argyll si illuminavano, acquistando sempre più fiducia. Quando la Corte si riunì per dare inizio alla seduta pomeridiana, aveva preso posto alle spalle di Argyll, esattamente nella stessa posizione di prima, ma in preda a un fremito di emozione, a qualcosa che si poteva perfino scambiare per speranza. Con tutto ciò non si azzardò ad alzare gli occhi verso la galleria e solo una volta, per un istante, allungò uno sguardo a Hester. «Venga chiamata Florence Nightingale» suonò tonante la voce del commesso e nell'aula del tribunale si levarono mormorii, e fremiti, come se qualcuno rimanesse con il fiato sospeso. Una donna in galleria si lasciò sfuggire uno strillo e soffocò quel suono portandosi le mani a coprire la faccia. Il giudice fece risuonare un colpo di martelletto. «Esigo che ci sia ordine qui dentro! Dovesse continuare questo scompiglio, faccio liberare l'aula. Ci siamo capiti? Qui siamo in una Corte di giustizia, non un luogo di divertimento. Signor Argyll, mi auguro che questa testimonianza sia pertinente alla causa, e non ci sia sotto un tocco di esibizionismo come un tentativo di conquistare un po' di simpatia da parte del pubblico. Se lo fosse, vi assicuro che sarà un fallimento. Qui l'imputata è la signorina Latterly, e la reputazione della signorina Nightingale va considerata non pertinente al
processo.» Argyll si inchinò con aria grave e non disse niente. Gli occhi di tutti erano rivolti alla porta, c'era chi allungava il collo, e chi si agitava al proprio posto per vedere meglio, quando una figura eretta e snella, si presentò sulla soglia, attraversò l'aula senza uno sguardo a destra o a sinistra e salì i gradini del banco dei testimoni. Non aveva niente di imponente. Anzi, in realtà, il suo aspetto era dei più comuni, i capelli di un color castano indefinibile, lisci, tirati indietro e raccolti in una severa acconciatura in modo da lasciar libera la faccia, le sopracciglia dritte e sottili, le fattezze regolari. Nell'insieme il suo aspetto e la sua espressione avevano qualcosa di troppo deciso e determinato perché la si potesse definire graziosa e le mancavano quella luce e quella serenità interiori che possono trasformarsi in bellezza. Non era una faccia accattivante, la sua; anzi poteva perfino incutere una certa paura. Florence Nightingale prestò giuramento, indicando il proprio nome e indirizzo, con voce ferma e limpida; poi rimase ad aspettare che Argyll cominciasse. «Vi ringrazio perché avete accettato di fare un viaggio tanto lungo, rinunciando per un certo tempo a dedicarvi a un'opera importante come la vostra, per presentarvi come testimone in questa causa, signorina Nightingale» cominciò Argyll con aria grave. «Anche la giustizia è importante, signore» rispose lei, fissandolo dritto negli occhi. «In questo caso, si tratta anche di una questione di vita...» esitò per un attimo «... e di morte.» «Precisamente.» Rathbone lo aveva messo in guardia, adoperando tutta la propria appassionata veemenza, contro il pericolo di trattarla con aria protettiva o di dare l'impressione di mostrare una certa condiscendenza nei suoi confronti, nonché di dire cose clamorosamente ovvie. Si augurò in cuor suo che se ne ricordasse! «Siamo tutti perfettamente consapevoli del fatto che non avete nessuna conoscenza dei fatti relativi a questa causa» Argyll cominciò. «Ma vi era ben conosciuta in passato l'imputata, Hester Latterly, vero? E pensate di essere in grado di poter parlare delle sue qualifiche e della sua reputazione?» «Conosco Hester Latterly fin dall'estate del 1854» Florence replicò. «E sono disposta a rispondere a qualsiasi domanda che vorrete farmi sul suo temperamento e le sue capacità.»
«Grazie.» Argyll assunse una posizione più rilassata e disinvolta, la testa leggermente inclinata da una parte. «Signorina Nightingale, c'è stata qualche curiosità sul perché una giovane donna, istruita e di ottima famiglia, dovesse scegliere un'occupazione come quella dell'assistenza ai feriti e ai malati, che in precedenza è stata affidata quasi sempre a donne di modesta condizione sociale e, in tutta franchezza, fin troppo note per abitudini e comportamento piuttosto rozzo e poco scrupoloso... a dir poco.» Alle spalle di Argyll, Rathbone adesso si accorse di essere seduto sull'orlo della seggiola, il corpo che gli doleva dalla testa ai piedi tanta era la sua tensione. Nell'aula il silenzio era profondo. Tutti i giurati fissavano Florence come se fosse stata l'unica persona viva lì dentro. «Anzi, prima della vostra nobile opera di pioniera» Argyll continuò «era proprio il tipo di lavoro adatto per le donne incapaci di trovarsi un impiego rispettabile di carattere domestico. Per esempio, posso chiedervi per quale motivo voi stessa avete deciso di assumervi un compito così arduo e pericoloso? La vostra famiglia non ha mai sollevato obiezioni al fatto che vi dedicaste a un'opera come questa?» «Signor Argyll!» esclamò il giudice in tono stizzoso, con un improvviso movimento scattante in avanti. «Nossignore, i miei non erano d'accordo» Florence rispose, senza badare al giudice. «Anzi hanno sollevato energiche obiezioni alla mia idea e mi sono occorsi molti anni, e suppliche a non finire, prima che cedessero. Quanto alla ragione per cui ho persistito contro la loro volontà, esiste un dovere più alto perfino a confronto di quello che si deve avere verso i propri familiari, e anche un senso di ubbidienza più alto.» Il suo viso adesso era illuminato da una persuasione talmente cieca e totale che perfino le proteste si spensero sulle labbra del giudice. Ogni uomo, ogni donna presente nell'aula, ogni giurato o spettatore, la stava ascoltando. Se il giudice avesse aperto bocca, le sue parole sarebbero state ignorate; e preferì evitarlo. Argyll si mostrava pieno di aspettativa, sgranando gli occhi scuri. «Credo che sia ciò che Dio mi ha chiamato a fare, signore» lei gli rispose. «E a tale scopo dedicherò la mia vita intera.» Fu scossa da un leggero brivido d'impazienza. «Anzi, commetto un torto nei miei stessi confronti, e una viltà, esprimendomi con queste parole. Perché so che Lui mi ha chiamata. Credo di non essere la sola a provare lo stesso desiderio di servire altri esseri umani, ad avere il convincimento che l'assistenza agli infermi sia il modo migliore in cui poterlo fare. Non esiste vocazione più alta, né
più urgentemente richiesta in momenti simili, di quella di dar sollievo alle sofferenze e, dove è possibile, di conservare la vita o restituire la salute a quegli uomini che hanno combattuto per il loro Paese. Potete dubitarne, signore?» «No, non posso, e non mi sento di farlo» Argyll rispose con franchezza. Gilfeather si agitò irrequieto al suo posto come se volesse interromperli, ma intuì che il suo momento non era ancora venuto e si trattenne, sia pure a fatica. Anche Rathbone, con uno sforzo supremo, riuscì a dominarsi e a rimanere immobile. «Ed Hester Latterly ha servito nell'ospedale di Scutari?» Argyll domandò, con faccia che pareva inespressiva, salvo a rivelare un blando interesse. Se anche dentro di lui c'era tutto un tumulto di sensazioni di trionfo o di aspettativa, i suoi lineamenti non lo mostravano minimamente. «Sì, è stata una delle migliori infermiere che abbiamo avuto laggiù.» «In che senso, signorina Nightingale?» «Per la dedizione e la capacità. I chirurghi erano troppo pochi, e troppi i pazienti.» La sua voce era calma e controllata ma vibrava di un'intensità e di una commozione che attiravano l'attenzione di tutti i presenti nell'aula. «Spesso un'infermiera deve agire come pensa che avrebbe agito un chirurgo, altrimenti andrebbe perduta la vita dell'uomo che poteva salvare.» Da un punto imprecisato della galleria si levò un sussulto, un'esclamazione smozzicata, un sibilo di collera di fronte a tanto implicita arroganza, e la faccia del giudice la registrò lasciando capire che non gli era sfuggita. Florence non ne prese assolutamente nota né più né meno che se si fosse trattato di una mosca che ronzava contro i vetri della finestra. «Hester aveva non solo il coraggio ma anche le nozioni necessarie per farlo» continuò. «Oggi ci sono molti uomini vivi, in Inghilterra, che sarebbero sepolti in Crimea, se lei fosse stata una donna meno abile e capace.» Argyll attese qualche istante per consentire che l'impatto di ciò che lei aveva detto venisse assorbito fino in fondo dai giurati. Le loro facce rivelavano un tumulto di sentimenti ed emozioni contrastanti, rispetto per Florence che rasentava quasi un timore reverenziale; i ricordi personali delle guerre combattute e delle perdite subite, quelle di fratelli e figli seppelliti in una carneficina o forse salvati dagli sforzi di donne come lei. E in contrasto con questi sentimenti c'erano un senso di oltraggio e di indignazione alla sfida che in tal modo si faceva alla secolare egemonia del maschio, ai suoi diritti che in precedenza non erano mai stati messi in dubbio. La con-
fusione era penosa; profondi i dubbi e i timori. «Grazie» finalmente Argyll disse mostrando il suo apprezzamento. «E l'avete anche trovata onesta come persona; non solo sincera ma anche rispettosa dei diritti e della proprietà altrui?» «Assolutamente, in tutto e per tutto senza eccezioni» Florence replicò. Argyll ebbe un attimo di incertezza. La tensione era insopportabile. Rathbone, immobile al suo posto, non osava quasi respirare. La decisione che Argyll stava per prendere adesso avrebbe potuto costituire la differenza fra la vittoria e la sconfitta, fra la vita o il nodo scorsoio del boia. Soltanto lui e Argyll sapevano quale fosse l'importanza di quel momento. Se fosse riuscito nel suo intento di costringere Gilfeather a un attacco diretto a Florence, Argyll sapeva che gli avrebbe risposto con una tale passione e una tale forza emotiva da spazzar via tutte le argomentazioni, tutti i cavilli che lui avesse potuto sollevare. D'altro canto, se Gilfeather avesse avuto la saggezza di battere in ritirata e di congedarla, tutto il valore di ciò che lei era stata per Hester sarebbe andato perduto. Poteva bastare? Aveva aizzato Gilfeather a sufficienza, era riuscito a mascherare abbastanza bene l'amo con l'esca? Con estrema lentezza, Argyll sorrise a Florence Nightingale, ringraziandola di nuovo per essersi presentata in tribunale e tornò al suo posto. Rathbone, seduto come prima, immobile, si accorse di avere il cuore in gola. Gli pareva che le pareti dell'aula ondeggiassero intorno a lui. Quei pochi secondi gli parvero lunghi come l'eternità. Facendo strusciare sul pavimento le gambe della seggiola mentre la spostava all'indietro, Gilfeather si alzò. «Siete una delle donne più profondamente amate e altamente rispettate della nazione, e io non voglio dare l'impressione di voler sminuire anche solo di poco tutto questo» cominciò con tono prudente. «Tuttavia, la causa della giustizia è più alta di quella di qualsiasi singolo individuo, e ci sono domande che devo farvi.» «Certamente» acconsentì lei, affrontandolo a testa alta. «Signorina Nightingale, voi dite che la signorina Latterly è un'infermiera eccellente, anzi che ha addirittura rivelato doti e capacità pari a quelle di molti medici militari, quando si è trovata ad affrontare casi di emergenza?» «È vero.» «Che è diligente, onesta e coraggiosa?» «Certo che lo è.» Non c'era un filo di esitazione nella sua voce, un fremito di incertezza.
Gilfeather sorrise. «In tal caso, come si spiega il fatto che sia obbligata a guadagnarsi da vivere non occupando una posizione di alto grado in un ospedale e mettendo a frutto queste qualità così straordinarie, ma viaggiando sul treno della notte da Edimburgo a Londra, per somministrare una semplice dose di medicina a un'anziana signora la cui salute non è certo peggiore di quella della gran parte delle persone della sua età? Non vien logico pensare che mansioni del genere avrebbero potuto essere eseguite in modo pienamente adeguato da una comunissima cameriera personale della suddetta signora?» La provocazione e il senso di trionfo che provava venivano perfino rivelate dalla posizione che il suo corpo aveva assunto, e dalle spalle erette. Rathbone chiuse le mani a pugno conficcandosi le unghie nel palmo. La tensione era insopportabile. Avrebbe ribattuto, Florence, come lui aveva sperato, nel modo in cui aveva fatto conto che rispondesse? Davanti a lui Argyll sedeva rigido, e solo un piccolo muscolo gli palpitava sulla tempia. La faccia di Florence si indurì mentre esaminava Gilfeather con chiara avversione. "Per favore... per favore..." Rathbone stava pregando in cuor suo. «Perché è una donna schietta, con più coraggio che tatto, grazie a Dio» Florence rispose con voce tagliente. «Non le interessa la vita ospedaliera, visto che si trova costretta a ubbidire agli ordini di persone che, di tanto in tanto, dimostrano di possedere minori cognizioni di quante non ne possieda lei stessa, ma sono troppo arroganti per sentirselo dire da qualcuno che considerano inferiore a loro. Forse è un difetto, ma un difetto onesto.» La giuria sorrise. Dalla galleria si levò un grido maschile di approvazione, poi calò istantaneamente il silenzio. «Come l'impetuosità è un difetto» Gilfeather soggiunse, facendo un passo avanti. «E magari, forse, anche l'indulgenza verso se stessi, non lo direste anche voi, signorina Nightingale?» «No, proprio per niente.» «Oh, io sì, eccome! A volte indulgente verso se stessa, e arrogante in modo indiscutibile! È la debolezza, il fallo di una donna che si considera superiore agli altri, persuasa che le proprie opinioni abbiano maggior valore di quelle di uomini addestrati istruiti e qualificati a esercitare la loro professione, una professione alla quale forse aspira anche lei ma per la quale non ha alcun addestramento specifico salvo quello che è frutto di una
pratica esercitata in circostanze assolutamente fuori del comune...» «Signor Gilfeather» lei lo interruppe in tono imperioso, con gli occhi scintillanti, il corpo scosso da un tremito, tanta era la violenza dei suoi sentimenti. «State cercando di spingermi alla collera, signore, oppure siete più ingenuo di quanto un uomo nella vostra posizione abbia il diritto di essere! Avete per caso la più vaga idea di quali siano le "circostanze assolutamente fuori del comune" alle quali vi riferite in modo tanto superficiale? Siete ben vestito, signore. Date l'impressione di godere di una perfetta salute. Quante volte vi è capitato di saltare la cena? Oppure di sapere che cosa significhi avere una fame tale che sareste ben contento di mettere in pentola le ossa di un topo?» Qua e là nell'aula del tribunale qualcuno sussultò, qualcuno rimase senza fiato per lo stupore. Una donna in galleria scivolò in avanti sul suo sedile. Il giudice trasalì. «Signorina Nightingale...» Gilfeather protestò, ma lei lo udì a malapena. «Avete gli occhi, signore, avete le gambe e le braccia. Avete mai visto un uomo al quale una granata ha portato via le gambe? Sapete per caso con quanta rapidità bisogna intervenire per bloccare l'emorragia che potrebbe diventare mortale? Sareste capace di trovare le arterie in tutto quel sangue, e salvarlo? Vi reggerebbe il cuore, o lo stomaco? Ne avreste il coraggio?» «Signorina Nightingale...» Gilfeather tentò di nuovo. «Sono sicura che siate un maestro nella vostra professione» proseguì lei senza badargli, senza sporgersi al di là del parapetto del banco dei testimoni come chiunque altro avrebbe potuto fare, ma rimanendo rigida, impettita, a testa alta. «Ma quanto spesso vi capita di lavorare tutto il giorno e tutta la notte per giorni e giorni di seguito? Oppure tornare a casa dove avete un bel letto morbido... un letto che sia caldo abbastanza, nel quale potervi distendere al sicuro e senza rischi fino alla mattina dopo? Avete mai provato a distendervi su un rozzo telo steso per terra, e avere troppo freddo per dormire, e tendere l'orecchio ai gemiti di quelli che sono in agonia, e sentirvi risuonare nella memoria il borbottio senza senso dei morenti, e sapere che domani e domani e poi ancora domani sarà sempre così, se non peggio, e che tutto quello che tu puoi fare servirà soltanto a rendere un poco più lieve, e più facile tutto questo... ma poco, oh così poco!» Sull'aula del tribunale era calato un profondo silenzio. «E che quando siete malato, signore, e vomitate, oppure soffrite di una diarrea che non riuscite a controllare, c'è qualcuno che vi regge un catino davanti alla bocca, che vi lava e vi pulisce, che vi porta un po' di acqua
fresca, che vi cambia le lenzuola? Vi auguro che siate adeguatamente grato per questo, signore, perché... santo cielo, quanti sono quelli per i quali tutto questo non è possibile, perché sono troppo poche le donne come noi disposte a prestarsi a fare tutto questo, oppure a farlo con il cuore, ma anche con lo stomaco che ci vuole? Sì, Hester Latterly è una donna straordinaria, plasmata dalle circostanze in modo che va' al di là di quello che la maggior parte della gente può immaginare. Sì, è testarda, a volte arrogante, capace di prendere decisioni che farebbero tremare molti cuori meno coraggiosi, meno appassionati, meno commossi da una insopprimibile compassione.» Continuò quasi senza riprendere fiato. «E prima che siate voi a domandarmelo, sono perfettamente convinta che sarebbe disposta a uccidere per salvare la sua stessa vita o quella di un paziente a lei affidato. Preferirei non pensare che sarebbe capace di uccidere unicamente per vendetta, indipendentemente da quanto intollerabile o grave sia il torto che ha subito, ma non mi sentirei di affermarlo sotto giuramento.» Adesso, finalmente, si protese un poco al di là del parapetto del banco dei testimoni, scrutando Gilfeather con occhi di fuoco. «Ma sarei pronta a giurare davanti a Dio che non avvelenerebbe mai una paziente per entrare in possesso di un miserabile gioiello, per poi restituirlo senza che le venisse domandato. Se credete questo, signore, siete un giudice dell'umanità ben più modesto di quanto non abbiate il diritto di essere, soprattutto con la professione che fate.» Gilfeather aprì la bocca, poi la richiuse. Era pienamente sconfitto e lo sapeva. Aveva scatenato una forza della natura, e l'uragano lo aveva colpito in pieno. «Non ho altre domande» disse arcigno. «Vi ringrazio, signorina Nightingale.» Rathbone intanto la stava fissando. «Andate ad aiutarla!» Sibilò ad Argyll. «Come?» «Datele aiuto!» Rathbone ripeté in tono concitato. «Ma guardatela, figliolo!» «Ma, lei è...» cominciò Argyll. «Forte! Nossignori, non lo è! Su, sbrigatevi!» Fu il puro e semplice furore che venava la voce di Rathbone a costringerlo ad alzarsi in piedi. Si precipitò in avanti proprio nel preciso momento in cui Florence, raggiunto l'ultimo gradino della scaletta, stava per crollare al suolo. In galleria, qualcuno allungò il collo per vedere meglio, ansioso. Un
uomo si alzò come se volesse lasciare il suo posto. «Permettetemi, signorina Nightingale» Argyll disse, afferrando Florence per un braccio e aiutandola a reggersi in piedi. «Mi rendo conto che vi siete terribilmente affaticata nel nostro interesse.» «Non è nulla.» Fu come se volesse accantonare ciò che era accaduto, ma gli rimase aggrappata e lasciò che fosse lui a sorreggerla quasi completamente. «Solo un piccolo mancamento. Forse non sto bene come credevo.» Con estrema lentezza Argyll la accompagnò, senza chiedere il permesso della Corte, fino alla porta d'uscita mentre ogni uomo e donna presenti nell'aula la osservava con il fiato sospeso; poi, fra sospiri e mormorii di approvazione e di rispetto, Argyll riprese il proprio posto. «Vi ringrazio, my lord» disse solennemente al giudice. «La difesa adesso chiama sul banco dei testimoni l'imputata, signorina Hester Latterly.» «Si sta facendo tardi» disse il giudice brusco, la faccia corrucciata che rivelava una collera mal repressa. «La Corte, per oggi, aggiorna l'udienza. Potrete convocare la vostra testimone domani, signor Argyll.» Poi allungò un colpo talmente violento di martelletto che diede quasi l'impressione di volerne spezzare l'impugnatura che stringeva nella mano. Hester salì i gradini del banco dei testimoni e si voltò verso la Corte. Aveva dormito poco, e anche quel poco era stato turbato da una serie di incubi; adesso che era arrivato il grande momento, le sembrava lontano dalla realtà. Poteva sentire il parapetto del banco dei testimoni sotto le mani, il legno levigato da migliaia di altre dita strette convulsamente, dalle nocche sbiancate; e il giudice con quella sua faccia affilata, gli occhi profondamente infossati, pareva facesse parte anche lui di un altro incubo. I suoi sensi erano travolti da un incomprensibile suono rumoreggiante, che non aveva né forma né significato. Era la gente in galleria che si parlava oppure era il rombo del suo stesso sangue che le pulsava nelle vene, e le impediva di cogliere visioni e rumori che invece erano chiaramente percepibili a chiunque altro? A dispetto di tutte le promesse che aveva fatto a se stessa, i suoi occhi si alzarono verso la galleria frugando fra il pubblico alla ricerca della faccia glabra e austera di Monk. Scoprì invece Henry Rathbone che la stava guardando e per quanto da quella distanza non lo potesse distinguere chiaramente, la visione di quei limpidi occhi azzurri non avrebbe potuto essere più limpida nella sua memoria, alla stessa stregua della sua gentilezza, del dolore che rivelava per lei, e se ne sentì travolgere in un impeto di commo-
zione quasi incontrollabile. Lo conosceva poco, ridicolmente poco. Aveva avuto soltanto quei pochi momenti da trascorrere con lui e con Oliver nella sua casa di Primrose Hill, una cena tranquilla (con tutte le pietanze rovinate perché erano arrivati troppo tardi), quella serata estiva nel giardino, il cielo illuminato da stelle sopra i rami del melo, il profumo del caprifoglio sul prato. Tutto le era tanto familiare, e tanto dolce, che il dolore le riuscì quasi insopportabile. Avrebbe forse preferito non vederlo nemmeno eppure si accorse di non riuscire a distogliere gli occhi dalla sua figura. «Signorina Latterly!» La voce di Argyll la fece tornare con un brusco sussulto al presente e a quella procedura legale che finalmente aveva inizio. «Sì... signore?» Ecco che le veniva offerta l'opportunità di parlare in difesa di se stessa, l'unica opportunità che le sarebbe stata offerta fra quel momento e il momento della sentenza. Doveva stare attenta. Non poteva permettersi errori di sorta, non una parola, uno sguardo, un gesto che potessero venire interpretati in modo sbagliato. Sapeva che su cose tanto minime era in gioco per lei, la vita o la morte. «Signorina Latterly, per quale motivo avete risposto all'inserzione del signor Farraline con la quale si cercava una persona disposta ad accompagnare sua madre da Edimburgo a Londra? Era un incarico di breve durata, e molto al di sotto delle vostre capacità. Vi veniva pagato profumatamente? Oppure avevate un tal bisogno di fondi che qualsiasi proposta sarebbe stata la benvenuta?» «Nossignore, l'ho accettato perché pensavo che sarebbe stato interessante, e gradevole. Non ero mai stata in Scozia e ne avevo sempre sentito parlare in modo molto elogiativo.» Al ricordo si sforzò di abbozzare un sorriso. «Avevo assistito e curato molti soldati di reggimenti scozzesi e a poco a poco avevo cominciato a provare un enorme rispetto nei loro confronti.» Si accorse che un fremito di commozione passava per l'aula, ma non fu certa di capirne bene il significato. In ogni caso non aveva il tempo di pensarci, ora. Doveva concentrarsi su Argyll. «Capisco» disse lui in tono blando, «E la ricompensa, era buona?» «Era generosa, se si considera quanto poco impegnative fossero le mie mansioni» rispose lei onestamente. «Ma forse si era anche tenuto conto del fatto che, per accettare questo incarico, avrei dovuto rinunciare ad altre assistenze, magari anche più lunghe. Non era sproporzionato.» «Bene. Ma voi non eravate in particolari ristrettezze dal punto di vista finanziario, vero?»
«No. Avevo appena terminato l'assistenza a un caso molto soddisfacente. Con un paziente che stava bene abbastanza per non richiedere più la presenza di un'infermiera, e quasi subito dopo avevo già trovato un altro posto. Era l'ideale per occupare quell'intervallo di tempo.» «Abbiamo soltanto la vostra parola per questo, signorina Latterly.» «Sarebbe abbastanza semplice controllarlo, signore. Il mio paziente...» lui alzò le mani e lei tacque. «Sì, è quello che ho fatto.» Si rivolse al giudice. «C'è una testimonianza in tal senso rilasciata dall'ultimo paziente della signorina Latterly, my lord, e un'altra da parte della signora che la stava aspettando che naturalmente si è vista costretta ad assumere qualcun altro. Propongo che vengano messe a verbale.» «Sì, sì, certo» concesse il giudice. «Procedete, prego.» «Avevate mai sentito parlare della famiglia Farraline prima di accettare quel posto?» «Nossignore.» «Vi hanno ricevuto cortesemente?» «Sissignore.» Gradatamente, in modo preciso e particolareggiato, Argyll le fece descrivere tutta la giornata che aveva trascorso in casa Farraline, senza menzionare alcun membro della famiglia in modo particolare salvo quando era necessario per spiegare i suoi movimenti. Le chiese di descrivere lo spogliatoio nel quale la cameriera personale della signora Farraline stava preparando le valigie, e di parlare di tutto quanto riusciva a ricordare, incluso l'astuccio della medicina, i flaconcini che le erano stati mostrati, e le istruzioni esatte. Lo sforzo di ricordare le tenne la mente tanto occupata da impedire alla paura di insinuarsi nella sua voce. E a questo modo rimase sommersa come una ondata gigantesca, gonfia, in continuo movimento, ma per quanto possente, incapace di travolgerla e annientarla con la sua violenza. Poi Argyll passò al viaggio in treno. A tratti impacciata nel parlare, piena di tristezza, gli occhi fissi su di lui, ignorando il resto dell'aula, Hester gli descrisse come lei e Mary avessero parlato, come Mary avesse rievocato alcuni dei viaggi della sua giovinezza, le persone, l'allegria, le scene e le atmosfere, le cose che aveva amato. Gli descrisse come si era mostrata riluttante a concludere la serata, e come soltanto ricordando le raccomandazioni di Oonagh, che le aveva spiegato come Mary avesse l'abitudine di andare a letto troppo tardi, lei si fosse finalmente decisa a insistere. Con
voce bassa e pacata, ricacciando indietro le lacrime, descrisse il modo in cui aveva aperto l'astuccio, si era accorta che uno dei flaconcini era già stato usato e ne aveva somministrato il contenuto di un secondo a Mary, prima di richiuderlo e di circondarla di tutto quanto potesse farla stare comoda per la nottata, prima di addormentarsi anche lei. Con la stessa voce, solo un poco più esitante, gli descrisse il suo risveglio alla mattina e come avesse trovato Mary morta. Fu a questo punto che Argyll la fece fermare. «Siete proprio sicura di non aver commesso errori nel somministrare alla signora Farraline la sua medicina, signorina Latterly?» «Sicurissima. Le ho dato il contenuto di un solo flaconcino. Era una donna molto intelligente, signor Argyll, non era nemmeno distratta. Se io avessi fatto qualcosa di sbagliato, lei se ne sarebbe certamente accorta e si sarebbe rifiutata di prendere la medicina,» «Questo bicchiere che avete usato, signorina Latterly, vi era stato fornito appositamente?» «Sissignore. Si trovava già nell'astuccio della medicina, proprio per questo scopo, unitamente ai flaconcini.» «Capisco. Era stato studiato in modo da contenere il liquido di un solo flaconcino, o anche più?» «Un solo flaconcino, signore; era proprio quello il suo scopo.» «Precisamente. Di conseguenza per somministrare una maggiore quantità di medicina avreste dovuto riempirlo due volte?» «Sissignore.» Non occorreva aggiungere altro. Argyll poteva accorgersi dall'espressione della faccia dei giurati che avevano afferrato il concetto. «Quanto alla spilla con le perle grigie» continuò. «Vi era già accaduto di vederla prima di accorgervi che si trovava nella vostra sacca da viaggio all'arrivo a casa di lady Callandra Daviot?» «Nossignore.» Fu lì lì per soggiungere che Mary l'aveva menzionata ma poi si trattenne appena in tempo. Il solo pensiero di come fosse andata vicino a commettere un errore del genere la fece letteralmente avvampare. Santo cielo, a questo modo doveva certo dare l'impressione di aver detto una bugia! «Nossignore. Le valigie della signora Farraline si trovavano tutte nella carrozza adibita a bagagliaio, insieme alla mia sacca da viaggio. Non ho avuto più alcuna occasione di vedere l'una o l'altra delle sue cose dopo essere uscita dallo spogliatoio in Ainslie Place. E anche allora, ho visto soltanto qualche abito che era già lì, pronto.»
«Grazie, signorina Latterly. Vi prego rimanete dove siete. Il mio onorevole collega vorrà senza dubbio farvi qualche domanda anche lui.» «Eccome se voglio!» Gilfeather si alzò in piedi con alacrità. Ma prima che potesse cominciare il giudice diede ordine che l'udienza venisse aggiornata per l'intervallo del pranzo e fu solo nel pomeriggio che lui poté lanciare il suo attacco. E che attacco! Si fece avanti verso il banco dei testimoni con i capelli sempre più scarruffati che gli circondavano la testa come un'aureola. Era un uomo grande e grosso, dinoccolato, dall'aria affabile, ma aveva gli occhi scintillanti all'idea della battaglia che vi si preparava. Hester lo affrontò con il cuore in gola, il corpo scosso da un tremito, il fiato mozzo, al punto che ebbe quasi paura di soffocare quando si vide costretta a rispondergli. «Signorina Latterly» lui cominciò in tono melato «la difesa vi ha dipinto come una donna virtuosa, eroica, altruista. Date le circostanze che vi portano qui, dovete concedermi di dubitare della totale accuratezza di tutto questo!» Abbozzò una smorfia. «Persone del genere descritto dal mio onorevole collega non si abbassano fino a commettere improvvisamente un delitto, soprattutto se si tratta dell'omicidio di un'anziana signora affidata alle loro cure, e per ricavarne soltanto, come furto, le poche perle che adornano una spilla. Non siete d'accordo? «Anzi» continuò fissandola con aria concentrata «mi rendo conto che la sua argomentazione è fondata soprattutto sul fatto di quanto sia inconcepibile che una persona possa cambiare il proprio carattere, la propria natura, in modo tanto profondo, e che di conseguenza voi non potete essere colpevole.» «Non sono stata io a preparare la difesa, signore, quindi non posso parlare per il signor Argyll» gli rispose lei tranquillamente. «Ma immagino che quanto dite sia corretto.» «Siete d'accordo con questa ipotesi, signorina Latterly?» La sua voce era brusca, esigeva una risposta. «Sissignore, sono d'accordo, anche se a volte possiamo giudicare erroneamente le persone oppure non essere capaci di interpretare in modo corretto le loro azioni. Se non fosse così, niente ci coglierebbe mai di sorpresa.» Nell'aula passò un brusio divertito, come una folata di vento. Uno o due uomini annuirono, apprezzando la battuta. Rathbone rimase con il fiato sospeso, logorato dall'apprensione.
«Un'argomentazione molto sofisticata, signorina Latterly» ammise Gilfeather. Ma Hester aveva osservato la faccia di Rathbone e capiva per quale motivo lui l'avesse guardata con una tale espressione di supplica negli occhi. Doveva fare ammenda. «Nossignore» disse con umiltà. «Si tratta unicamente di buon senso. Credo che qualsiasi donna vi avrebbe risposto la stessa cosa.» «Può darsi di sì, ma può anche darsi di no, signorina» e Gilfeather abbandonò quell'argomento. «A ogni modo, credo che comprenderete il motivo per cui cercherò di dimostrare come l'alto concetto che hanno di voi non sia esatto.» Lei aspettò in silenzio che lo facesse. Dopo un lieve cenno d'assenso, Gilfeather abbozzò una smorfia. «Per quale motivo siete partita per la Crimea, signorina Latterly? È stato come per la signorina Nightingale, in risposta alla vocazione di servire Iddio?» Non diede alcuna sfumatura né di sarcasmo né di condiscendenza a questa domanda, la sua voce e la sua espressione sembravano schietti e ingenui, eppure nell'aula era percepibile un senso di aspettativa venato di incredulità. «Nossignore.» Hester tenne la propria voce bassa e dolce almeno per quanto era in suo potere. «La mia intenzione era quella di servire le altre creature umane come me nel modo migliore, secondo le mie capacità, ed ero pienamente convinta che fosse una cosa bella e coraggiosa da fare. Ho una vita soltanto, e avrei preferito sfruttarla per fare qualcosa che avesse uno scopo piuttosto che, alla fine, voltarmi indietro a rimpiangere tutte le occasioni perdute, a rammaricarmi di non aver fatto ciò che avrei potuto, di me stessa.» «Di conseguenza siete una donna capace di correre rischi?» Gilfeather domandò con un sorriso che non riuscì a trattenere. «Materiali, signore, non morali. Credo che rimanere a casa, al sicuro e senza far nulla, sarebbe stato un rischio morale, e non vi ero preparata.» «Siete molto sottile nelle vostre argomentazioni, signorina!» «Sto combattendo per la mia vita, signore. Vi aspettereste forse che chiunque facesse meno di così?» «Nossignora. Visto che me lo chiedete, mi aspetto che adoperiate qualsiasi arte, qualsiasi cavillo, qualsiasi sottigliezza e persuasione che la vostra mente è in grado di escogitare e la vostra disperazione di concepire.» Hester lo guardò con profonda avversione. Tutti gli avvertimenti di Ra-
thbone le si affollarono alla mente, con la stessa chiarezza come se glieli stesse elencando in quel preciso momento, ma il turbamento e l'agitazione che provava, glieli fecero dimenticare. Sapeva che stava per perdere, in ogni caso. E non lo avrebbe fatto senza tutta l'onestà e la dignità che erano possibili. «A sentirvi, signore, si direbbe che siamo due animali che combattono l'uno per sopraffare l'altro, non esseri umani razionali che cercano di scoprire la verità e di servire nel migliore dei modi, per quanto è in loro potere, la giustizia. Volete sapere chi ha ucciso la signora Farraline, signor Gilfeather, oppure volete semplicemente mandare sulla forca qualcuno, e io posso andar bene per questo?» Per un attimo Gilfeather rimase sconcertato. Già in precedenza gli era capitato di essere attaccato e combattuto, ma non in questi termini. Sulla stanza passò un fremito, come se il pubblico fosse rimasto con il fiato sospeso. Un giornalista ruppe la matita. «Oh Dio!» Rathbone disse a fior di labbra. Il giudice allungò la mano verso il martelletto ma non calcolò bene la distanza. Le sue dita si chiusero sul nulla. In galleria Monk sorrise, ma si sentiva ugualmente lo stomaco stretto da una morsa dolorosa. «Soltanto la persona giusta potrà andar bene per quello, signorina Latterly» Gilfeather ribatté infuriato. «D'altra parte tutte le prove dicono che quella persona siete voi! E se non è così, vi pregherei di dirmi di chi si tratta, allora?» «Non lo so, signore, altrimenti ve lo avrei già detto» Hester gli rispose. Finalmente Argyll si decise ad alzarsi in piedi. «My lord, se il mio onorevole collega ha qualche domanda per la signorina Latterly, dovrebbe fargliele. In caso contrario, per quanto lei sembri perfettamente capace di difendersi da sola, lo scherno e le parole mordaci, come le insinuazioni, mi sembrano prive di correttezza e senza scopo per gli interessi di questa Corte.» Il giudice gli lanciò un'occhiata arcigna, poi si rivolse a Gilfeather. «Signor Gilfeather, vi prego di venire al punto. Si può sapere che cosa desiderate domandare?» Gilfeather prima rivolse un'occhiataccia ad Argyll, poi al giudice. E infine tornò a dedicarsi a Hester. «La signorina Nightingale vi ha descritto come un angelo di misericordia, dedito all'assistenza dei malati indipendentemente da quelle che pote-
vano essere le vostre stesse sofferenze.» Stavolta non riuscì a non dare una sfumatura di sarcasmo al proprio tono di voce. «Lei vorrebbe che noi vi immaginassimo mentre passate dolcemente dall'uno all'altro letto di un ospedale asciugando una fronte febbricitante, fasciando una ferita; oppure mentre affrontate eroicamente il campo di battaglia per eseguire voi stessa qualche operazione chirurgica al lume guizzante di una torcia.» La sua voce crebbe di tono. «Ma in fondo, signorina, non era forse una vita rude, trascorsa per la maggior parte con i soldati e i civili al seguito di un esercito, con donne di bassa estrazione, e di una moralità ancora più infima?» Alla mente di Hester si affollarono di nuovo i ricordi, vividi e netti. «Molte delle persone al seguito dell'esercito erano le mogli dei soldati, signor avvocato, e la loro nascita era umile né più né meno come quella dei loro mariti» disse con voce venata di collera. «Sono persone che lavorano e lavano la biancheria per loro, e li assistono quando sono ammalati. Qualcuno deve pur fare tutte queste cose. E se gli uomini sono tanto bravi e coraggiosi da morire per noi in battaglie sanguinose, è dunque giusto che siano degni di tutto il nostro appoggio e il nostro sostegno quando sono sani e salvi, ciascuno a casa propria. E se state insinuando che la signorina Nightingale o una qualsiasi delle sue infermiere fossero quelle prostitute che seguono ogni esercito, in tal caso...» Dalla galleria si levò un ruggito di collera. Un uomo si alzò in piedi e minacciò Gilfeather con il pugno. Il giudice si mise a dare colpi furiosi con il suo martelletto ma venne completamente ignorato. Rathbone si prese la testa fra le mani e scivolò un poco più giù sulla seggiola. Argyll si voltò di scatto a dirgli qualcosa, e la sua espressione era incredula e accusatrice. Henry Rathbone chiuse gli occhi e levò al cielo una tacita preghiera. Gilfeather abbandonò immediatamente quella linea di attacco e ne cercò un'altra. «Quanti uomini avete visto morire, signorina Latterly?» Si mise a gridare al di sopra del clamore generale. «Silenzio!» Esclamò il giudice infuriato. «Esigo che ci sia ordine in aula! Silenzio! Altrimenti faccio allontanare il pubblico dalla galleria.» Il rumore si placò quasi immediatamente. Nessuno voleva essere cacciato fuori. «Quanti uomini, signorina Latterly?» Gilfeather ripeté quando il frastuono finalmente si placò. «Dovete rispondere» la ammonì il giudice ancora prima che lei ne aves-
se avuto il tempo. «Non so. Non ho mai pensato a contarli. Ciascuno di loro era una persona, non un numero.» «Ma sono stati molti, moltissimi?» Gilfeather insistette. «Sì, ho paura di sì.» «Di conseguenza siete abituata alla morte; non vi spaventa, non vi lascia certo sconvolta come accade alla maggior parte della gente?» «Tutte le persone che curano i malati sono abituate alla morte, signore. Ma ciò non toglie che non siano più capaci, anche loro, di provarne dolore.» «Siete polemica, signorina! Vi mancano quella gentilezza di modi e quella delicatezza, quell'umiltà che è l'ornamento principale del vostro sesso!» «Può darsi!» Rispose lei. «Ma voi state tentando di far credere alla gente che io non tengo conto della vita, che bene o male sono arrivata al punto da rimanere indifferente di fronte alla morte degli altri, e questo non è vero. Io non ho ucciso la signora Farraline, o chiunque altro. Sono molto più duramente colpita e addolorata dalla sua perdita di quanto non lo siate voi.» «Non vi credo, signorina. Avete dimostrato alla Corte quale sia il vostro carattere. Non avete timore, né senso del decoro, e neanche la minima umiltà. E la Corte potrà giudicarvi come una donna che prende dalla vita ciò che desidera, e sfida chiunque a impedirglielo. La povera Mary Farraline non ha mai più avuto alcuna possibilità di salvezza una volta che avete stabilito quali fossero le vostre priorità e le vostre scelte.» Hester lo fissò con gli occhi sgranati. «Questo è tutto!» Gilfeather esclamò spazientito, con una mossa nervosa della mano per lasciarle capire che era congedata. «È ben poco edificante per la giuria ascoltarmi porre una domanda dopo l'altra mentre voi lì, in piedi, imperterrita, non fate che rispondere in senso negativo. Possiamo dare tutto questo per scontato. Desiderate interrogare di nuovo la vostra testimone, signor Argyll?» Argyll ringraziò con parole cariche di evidente sarcasmo e si rivolse a Hester. «La signora Farraline era una piccola, patetica, vecchia signora, timida, che si lasciava intimorire facilmente?» «No, nel modo più assoluto» rispose Hester con evidente sollievo. «Anzi era proprio l'opposto: intelligente, chiara nell'esprimersi, con una perfetta padronanza di se stessa e di ogni situazione. Aveva avuto una vita estre-
mamente interessante, viaggiato moltissimo e conosciuto persone davvero straordinarie, oltre ad avere assistito ad avvenimenti grandiosi.» Riuscì ad abbozzare un sorriso. «Descrisse il gran ballo al quale aveva partecipato, danzando tutta la notte, prima della battaglia di Waterloo. L'ho trovata coraggiosa, e piena di saggezza, e divertente... e... e l'ho ammirata.» «Vi ringrazio, signorina Latterly. Sì, questa è proprio l'opinione che anch'io mi ero fatto di lei. Immagino che da parte sua la signora Farraline abbia trovato anche voi ben degna della sua ammirazione. È tutto ciò che ho da chiedervi. Per il momento potete ritornare sul banco degli imputati.» Il giudice aggiornò la seduta. I cronisti dei quotidiani si accapigliarono, quasi, nel tentativo di essere i primi a guadagnare l'uscita. Dalla galleria si levò un chiassoso vocio, e le guardiane si accostarono a Hester chiedendo che la gabbia venisse calata nelle viscere dell'edificio in modo da poterla mettere al più presto al sicuro, sotto chiave, prima che il tumulto si scatenasse. Monk si mise a camminare per le strade. Rathbone e Argyll si trovarono per un lungo conciliabolo, che si prolungò fino a mezzanotte passata. Callandra rimase con Henry Rathbone a conversare di tutti gli argomenti possibili e immaginabili. In realtà ogni loro pensiero era rivolto soltanto a Hester e a ciò che l'indomani avrebbe portato. Argyll si alzò in piedi. «Desidero chiamare sul banco dei testimoni Hector Farraline.» In galleria, lo stupore adesso era palpabile. Alastair si alzò in piedi per protestare ma venne costretto a riprendere immediatamente il suo posto. Protestare era inutile e Oonagh, se non altro, se ne rendeva conto. Ad Alastair non rimase che assistere a quanto si svolgeva in aula, in preda a un tormentoso imbarazzo. Hector comparve e si fece avanti camminando molto lentamente, a passo malfermo, gli occhi offuscati che non riuscivano a concentrarsi su nulla. Attraversò l'aula fino ai piedi della scaletta che portava al banco dei testimoni. «Vi occorre aiuto, signor Farraline?» Gli domandò subito il giudice. «Aiuto?» Hector disse corrugando le sopracciglia. «E per che cosa?» «Per salire i gradini, signore. Vi sentite bene?» «Benissimo, signor giudice. E voi?» «In tal caso prendete il vostro posto e preparatevi a prestar giuramento!»
Il giudice lanciò ad Argyll un'occhiata che rivelava tutta la sua chiara disapprovazione. «Suppongo che questo sia necessario, avvocato?» «Certo che è necessario» Argyll gli assicurò. «Benissimo, allora procedete!» Hector salì i gradini, prestò giuramento, e aspettò che Argyll cominciasse. Gilfeather stava osservando la scena con estrema attenzione. «Maggiore Farraline» Argyll cominciò in tono pieno di cortesia «eravate in casa anche voi quando è arrivata la signorina Latterly?» «Cosa? Oh... sì. Naturale, che ero in casa. Ci abito, lì.» «L'avete vista arrivare?» Gilfeather si alzò in piedi. «My lord, l'arrivo della signorina Latterly non è mai stato messo in discussione. Sono sicuro che tutto questo non sia pertinente oltre a essere una perdita di tempo per la Corte.» Il giudice rivolse un'occhiata ad Argyll, inarcando le sopracciglia. «Sto arrivando al punto, my lord, se il mio onorevole collega me lo permetterà» Argyll rispose. «In tal caso cercate di essere un poco più rapido, per favore» gli ordinò il giudice. «Sì, my lord. Maggiore Farraline, avete visto la signorina Latterly girare per la casa, quel giorno?» Hector parve confuso. «Girare per la casa? Che cosa intendete dire: andare su e giù per le scale, e cose del genere?» Gilfeather si alzò in piedi di nuovo. «My lord, questo testimone non... non deve star bene. È chiaro, e lo si vede! Non è in grado di dirci niente che abbia un minimo di interesse! Naturale che la signorina Latterly ha girato per la casa! Un po' difficile che possa essere rimasta lì senza che nessuno la vedesse per l'intera giornata! Il mio onorevole collega sta sprecando il suo tempo!» «Siete voi che state sprecando il vostro tempo!» Continuò Argyll. «Potrei arrivare molto più in fretta a quello che mi interessa se non fossi continuamente interrotto!» «E allora arrivate a quello che vi interessa, signor avvocato!» gli diede ordine il giudice. «Prima che anch'io perda la pazienza. Sono piuttosto incline a essere d'accordo sul fatto che il maggiore Farraline non possiede un autocontrollo sufficiente per esserci di qualsiasi utilità.» Argyll digrignò i denti. Rathbone si stava sporgendo in avanti, con le mani strette a pugno.
«Maggiore Farraline» riprese Argyll. «Vi è capitato di incontrare la signorina Latterly da sola, nel vestibolo di casa, quel giorno, e di scambiare con lei qualche parola a proposito dell'azienda della famiglia Farraline, e della sua ricchezza?» «Come?» «Oh, insomma!» Esplose Gilfeather. «Sì!» Hector rispose in un attimo di lucidità. «Certo. Sulle scale, come ricordo. Le ho parlato per qualche minuto. Simpatica ragazza. Mi piaceva. Peccato.» «Le avete forse detto che qualcuno si era illecitamente impadronito di soldi, falsificando i libri mastri, dell'azienda di famiglia?» Hector lo guardò come se fosse stato morso. «No... no, assolutamente!» Poi il suo sguardo sempre più incerto si staccò da Argyll per spostarsi verso la galleria. Scoprì Oonagh e la guardò con aria implorante. Lei era pallidissima, con gli occhi sbarrati. «Maggiore Farraline!» Disse Argyll in tono fermo. «My lord, questo è inaccettabile!» Protestò Gilfeather. Argyll non gli badò. «Maggiore Farraline, siete ufficiale di uno dei più famosi e più eroici reggimenti di Sua Maestà la Regina. Ricordatevi chi siete, signore! Ricordate che state parlando sotto giuramento. Non avete forse detto alla signorina Latterly che qualcuno si stava appropriando illecitamente di somme di denaro che appartenevano alla Ditta Tipografica Farraline?» «Ma questo è mostruoso!» Gridò Gilfeather, agitando furiosamente le braccia. «E assolutamente non pertinente! La signorina Latterly è sotto processo per l'assassinio di Mary Farraline. Questo non ha proprio niente a che vedere con la causa che si sta discutendo!» Alastair abbozzò il gesto di alzarsi in piedi, di nuovo. Poi si lasciò ricadere al suo posto mentre assumeva un'espressione angosciata. «No, niente affatto!» Disse Hector in un lampo improvviso di lucidità. «Adesso mi ricordo bene. È stato al signor Monk che l'ho raccontato! E lui è andato a cercare McIvor per parlargliene ma non è riuscito a sapere niente. Povero stupido! Questo, glielo avrei potuto dire perfino io. Perché ormai la faccenda è stata messa completamente a tacere!» Per un attimo il silenzio calò profondo sull'aula. Rathbone si accasciò contro il tavolo esausto, ma pieno di sollievo, e il viso olivastro di Argyll si illuminò di un sorriso. Il giudice non nascondeva di essere furioso.
Monk cominciò a battersi una mano chiusa a pugno nel palmo dell'altra e ripeté questo gesto ancora e ancora, più di una volta, fino ad ammaccarsela. «Vi ringrazio, maggiore Farraline» disse sommessamente Argyll. «Sono sicuro che avete ragione. Deve essersi trattato del signor Monk, e non della signorina Latterly. L'errore è stato mio, e me ne scuso.» «Tutto qui?» Hector domandò incuriosito. «Sì, grazie.» Gilfeather si voltò di scatto, compiendo un giro completo su se stesso, e cominciò a fissare la galleria, e i giurati, e infine posò gli occhi su Hector. Hector si lasciò sfuggire un rutto che riuscì a soffocare solo in parte. «Maggiore Farraline, quanti bicchieri di whisky avete bevuto stamattina?» Gli domandò Gilfeather. «Non ne ho idea» Hector gli rispose cortesemente. «Non credo di aver usato un bicchiere. Possiedo una di quelle fiaschette... sapete? Perché?» «Non importa, signore. Questo è tutto, grazie.» Hector cominciò a scendere i gradini della scaletta a passo malfermo. «Oh...» si affrettò a dire ancora Gilfeather. Hector si fermò a tre gradini dal fondo della scaletta, aggrappandosi alla balaustra. «Siete voi, maggiore Farraline, a tenere la contabilità della ditta?» «Io? No, naturalmente. È il ragazzo Kenneth a farlo.» «Li avete esaminati di recente, maggiore Farraline? Diciamo, per esempio, negli ultimi quindici giorni?» «Non mi pare.» «Siete in grado di interpretare, a un attento esame, la contabilità della ditta, signore?» «Mai provato. Non mi interessa.» «Per l'appunto. Vi occorre aiuto per scendere gli scalini, signore?» «No, non credo. Li scendo da solo.» Non aveva ancora finito di parlare quando un piede non trovò l'appoggio; scivolò per gli ultimi tre scalini finendo molto poco elegantemente con il sedere per terra. Si tirò su da solo e, senza l'aiuto di nessuno, si incamminò a passo fermo verso la galleria dove gli venne offerto un posto. «My lord» e Argyll si rivolse al giudice «data la deposizione del maggiore Farraline, vorrei convocare come testimone Kenneth Farraline.» Gilfeather era già scattato in piedi. Esitò, con la protesta sulle labbra. Il giudice sospirò. «Avete qualche obiezione, signor Gilfeather? Sembra
che esista un problema di appropriazione indebita, reale o immaginario che sia.» Argyll sorrise. Se Gilfeather immaginava che lui fosse ben contento di vedersi rifiutare la convocazione di Kenneth come testimone e lasciava che il dubbio si insinuasse nel cervello dei giurati, tanto meglio. «Nessuna obiezione, my lord» si rassegnò Gilfeather. «Sarebbe consigliabile dissipare ogni dubbio.» Poi rivolse un sorrisetto forzato ad Argyll. Argyll piegò il capo in segno di ringraziamento. Kenneth Farraline venne chiamato e prese posto sul banco dei testimoni con l'aria di chi non è per niente contento di come vanno le cose. Non gli sfuggiva la tensione quasi carica di violenza che incombeva sulla Corte, e vedeva Argyll che avanzava verso di lui come un orso che si sta avventando sulla preda. «Signor Farraline, vostro zio, il maggiore Hector Farraline, ci ha detto che siete voi a occuparvi della contabilità della ditta. È esatto?» «Non pertinente, my lord!» obiettò Gilfeather. Il giudice esitava. «My lord, se c'è stata appropriazione indebita di fondi e falsificazione dei libri mastri della ditta, e la persona a capo della famiglia è stata assassinata, riesce un po' difficile considerare tutto questo come non pertinente!» fu il ragionamento di Argyll. «Fornisce un ottimo movente, che non ha nessuna connessione con la signorina Latterly.» Il giudice confermò questo punto, anche se lo fece di malavoglia. «Non lo avete ancora provato, signore. Finora è una pura e semplice supposizione, anzi si potrebbero addirittura definire i vaneggiamenti di un uomo in preda ai fumi dell'alcol. Se non siete in grado di presentare qualche elemento un po' più sostanziale, vi rifiuterò il consenso a proseguire la prossima volta che il signor Gilfeather solleverà un'obiezione.» «Grazie, my lord.» Argyll tornò a rivolgersi a Kenneth. «Signor Farraline, vostra madre era al corrente del fatto che il maggiore Farraline fosse persuaso che i libri mastri della ditta erano stati falsificati?» «Io... io...» Kenneth sembrava al colmo dell'infelicità. Fissava Argyll con occhi vitrei, e lasciava chiaramente capire che avrebbe voluto trovarsi mille miglia lontano di lì. «Ebbene, signor Farraline?» insistette Argyll. «Non ne ho la minima idea!» rispose Kenneth, brusco. «È una...» e deglutì. «Stupidaggine. Nel modo più assoluto.» Affrontò Argyll con aria che poteva sembrare di sfida. «Non manca nessuna somma di denaro, in asso-
luto.» «E voi, che siete il contabile, dovreste saperlo, vero?» «Precisamente.» «E sareste sempre voi, fra l'altro, anche la persona che si trova nella posizione migliore per nascondere questo fatto, eventualmente, eh?» «Ma questo...» Kenneth deglutì di nuovo. «Questa è una calunnia, signore. E del tutto ingiusto!» Argyll manifestò un'ingenuità che non provava. «Dunque non sareste voi la persona che si trova nella posizione migliore per saperlo?» «Sì... sì, certo che sarei io. Ma non manca niente, proprio niente!» «E vostra madre era pienamente soddisfatta su questo punto?» «Ma ve l'ho appena detto!» Nell'aula passò un mormorio di incredulità. Gilfeather si alzò in piedi. Argyll sorrise. Kenneth, come testimone, non valeva granché. Sembrava sempre che raccontasse un mucchio di bugie anche quando non era così. «Benissimo, passiamo a un altro argomento. Siete sposato, signor Farraline?» «Non pertinente, my lord!» protestò Gilfeather. «Signor Argyll!» disse il giudice con aria affranta. «Non intendo tollerare ulteriormente questo continuo divagare. Vi ho concesso ampia libertà, ma ne avete abusato.» «È pertinente, my lord, ve lo assicuro.» «Confesso di non vedere come!» «Siete sposato, signor Farraline!» ripeté Argyll. «No.» «Siete fidanzato?» Kenneth esitò. Era avvampato; aveva un velo di sudore che gli copriva il labbro superiore. I suoi occhi si rivolsero alla galleria occupata dal pubblico, e vi si soffermarono fino a quando non ebbe individuato Oonagh. Poi li riportò su Argyll. «No... no...» «Allora avete un'amante? Una persona che la vostra famiglia non approva?» Gilfeather fece per alzarsi in piedi, poi si rese conto dell'inutilità della sua mossa. Tutti nell'aula aspettavano una risposta. Una donna si mosse e le stecche del suo busto levarono un crepitio nel silenzio. Un pezzo di carbone si spostò, affondando nella brace, sulla griglia di uno dei due camini. Kenneth esclamò con voce strozzata: «No!»
«Se dovessi chiamare sul banco dei testimoni la signorina Adeline Barker, sarebbe d'accordo con voi, signor Farraline?» La faccia di Kenneth era diventata di porpora. «Sì... cioè, no! Io... accidentaccio, ma questi non sono affari che vi riguardano! Non ho ammazzato mia madre! Lei...» Tacque bruscamente, come prima. «Sì? Lei ne sapeva qualcosa?» Argyll lo incitò a continuare. «Oppure era all'oscuro della faccenda?» «Non ho nient'altro da dire. Non ho ammazzato mia madre, e il resto non sono affari vostri!» «Una signorina dai gusti costosi» continuò Argyll. «Non di facile contentatura, per chi ha uno stipendio da contabile anche se lavora per la Ditta Farraline.» «Non manca nemmeno un centesimo!» disse Kenneth incupito. «Andate a contarli voi!» Adesso la sua voce aveva acquistato un tono di sicurezza, era diventata squillante, come se sapesse che nessuno poteva dimostrare che aveva torto. Lo notò anche Argyll. «Forse posso dire che adesso non manca neanche un centesimo, ma è sempre stato così?» La sicurezza di poco prima sembrava sparita. Adesso Kenneth era sulla difensiva. «Certamente. Ve l'ho detto, io non ho preso niente e non sono responsabile della morte di mia madre! A quanto ne so, è stata la signorina Latterly, per quelle sciagurate perle!» «Lo dite voi, signore, lo dite voi» Argyll sorrise cortesemente. «Vi ringrazio, signor Farraline, non ho altre domande da farvi.» Gilfeather si strinse nelle spalle. «Io non ho niente da chiedere a questo testimone, my lord. A quanto credo di capire, non ha niente a che vedere con il nostro caso!» Rathbone si allungò verso Argyll, di nuovo, afferrandolo per una spalla. «Chiamate Quinlan Fyffe!» gli sussurrò in tono concitato. Argyll si voltò verso di lui. «Non ho niente da chiedergli!» sibilò di rimando. «Se do l'impressione che sono disperato, con le spalle al muro, peggioro la mia posizione.» «Provate a pensare a qualcosa!» insistette Rathbone. «Fatelo salire su quel banco...» «Che senso avrebbe! Anche se sapesse chi è stato a ucciderla, non verrà certamente a raccontarlo a noi. È un uomo intelligente, che si domina in modo magnifico. Non si confonderà. Non è Kenneth, lui! E a ogni modo, non possiedo elementi per tentare di metterlo in imbarazzo.»
«E invece sì, che li avete!» Rathbone si allungò ancora di più verso di lui, anche se si era accorto che il giudice gli aveva lanciato un'occhiataccia e la giuria stava aspettando. «Fate leva sui suoi sentimenti! È un uomo fiero, vanitoso. Ha una bellissima moglie, e un cognato che si è innamorato di lei. Quinlan odia McIvor. Sfruttate la sua gelosia!» «E con che?» Rathbone provò a riflettere, febbrilmente. «La contabilità della ditta! Eilish sta portando via di nascosto, sistematicamente, un certo numero di libri con l'aiuto di McIvor per servirsene in quella sua scuoletta per i poveri. Sarei pronto a scommettere che Fyffe non ne sa niente! Per amor di Dio, brav'uomo, vi considerano il più brillante avvocato della Scozia intera! Fate pressione su di lui! Sfruttate i suoi sentimenti per metterlo in difficoltà.» «E se Eilish viene tradita, a questo modo?» gli domandò Argyll. «Monk sarà furibondo!» «Al diavolo Eilish!» ribatté Rathbone in tono feroce. «E anche Monk! Qui si gioca la vita di Hester!» «Signor Argyll!» esclamò il giudice. «Avete intenzione di concludere questo caso per quel che vi riguarda, oppure no?» «No, my lord. La difesa chiama Quinlan Fyffe come testimone, con il consenso della Corte.» Il giudice aggrottò le sopracciglia. «A quale scopo, signor Argyll? Signor Gilfeather, eravate al corrente di questo?» Gilfeather si mostrò meravigliato, ma pieno di interesse, e niente affatto dispiaciuto. Alzò lievemente le spalle. «No, my lord, ma se la Corte è disposta ad aspettare che il signor Fyffe venga mandato a chiamare, non ho obiezioni. Credo che si dimostrerà inutile alla difesa come lo è già stato il signor Farraline.» «Che venga chiamato Quinlan Fyffe!» gridò il messo del tribunale. Le parole vennero ripetute dal commesso che si trovava sulla porta dell'aula e un fattorino fu debitamente spedito a rintracciarlo. Nel frattempo la seduta venne aggiornata. Era l'intervallo per il pranzo. Quando tutti rientrarono nell'aula un'ora più tardi, Quinlan salì sul banco dei testimoni e prestò giuramento. Affrontò Argyll con cortesia esteriore ma con uno sguardo tanto gelido da rasentare l'insolenza. «Signor Fyffe» cominciò Argyll guardingo, soppesando ogni parola. «Siete uno dei dirigenti più importanti della Ditta Tipografica Farraline, vero?»
«Sissignore.» «In quale funzione?» Gilfeather fece il gesto di alzarsi, ma poi cambiò idea. «È pertinente, signor Argyll?» sospirò il giudice. «Se state per tirar fuori la storia della contabilità, devo avvertirvi che non vi darò il permesso di continuare a meno che non siate in grado di presentarci le prove, reali e autentiche, che c'è stata una appropriazione indebita di denaro della società.» Argyll esitò. «I libri che mancano, quelli che Eilish ha portato via di nascosto!» Rathbone sussurrò concitatamente alle sue spalle. «No, my lord» rispose Argyll in tono mielato, fissando il giudice con un sorriso pieno di innocenza. «Non è quella la questione che desidero esaminare al momento.» Il giudice sospirò. «In tal caso non capisco cosa volete! Credevo che fosse per quel motivo che avevate convocato il testimone!» «Sì, my lord, ma dopo aver predisposto le basi necessarie.» «E allora procedete in tal senso, signor Argyll, procedete!» ribatté stizzosamente il giudice. «Grazie, my lord. Signor Fyffe, in quale funzione lavorate per la Ditta Farraline?» «Sono io che ho il controllo della parte tipografica vera e propria, e di tutte le decisioni che la riguardano» replicò Quinlan. «Capisco. Siete al corrente del fatto che, durante l'ultimo anno e forse anche prima, parecchi dei vostri libri sono stati rubati?» Nell'aula l'interesse generale si ravvivò di colpo. Quinlan sembrava incredulo. «Nossignore. Non lo sapevo. E a dirvi la verità, non mi sento portato a credervi neanche adesso! Una mancanza di una certa entità non avrebbe potuto sfuggirci.» «A chi non sarebbe potuta sfuggire, signore?» domandò Argyll. «A voi?» «No, a me no, ma sicuramente...» esitò solo per qualche attimo, ma un lampo gli illuminò gli occhi, il balenio di una riflessione. «A Baird McIvor. È lui che dirige quel reparto della ditta.» «Precisamente» confermò Argyll. «E lui non vi ha riferito niente in proposito?» «Nossignore, proprio niente!»
Di nuovo Gilfeather abbozzò il gesto di alzarsi, ma il giudice con un gesto glielo impedì. «Vi interesserebbe sapere» riprese Argyll con cautela «che è stata vostra moglie a sottrarli alla ditta, con l'aiuto del signor McIvor?» Dalla galleria salì un mormorio. Qualcuno dei giurati si voltò a guardare prima Eilish, poi Baird. Quinlan era rimasto impietrito, e la sua faccia che al primo momento si era coperta di rossore, era subito tornata pallida, anzi livida. Fece per dire qualcosa ma la voce gli morì in gola. «Non lo sapevate» soggiunse Argyll, anche se era evidentemente inutile. «Al primo momento, sembrerebbe una cosa insensata; invece lei ne aveva un ottimo motivo...» Nell'aula si levò un sussurrio, qualcosa di simile a un lungo sospiro, seguito dal silenzio più profondo. Quinlan stava fissando Argyll con gli occhi sbarrati, e Argyll sorrise incurvando appena all'insù gli angoli della bocca. I suoi occhi scintillavano. «Insegna alla gente a leggere» disse con voce limpida e squillante. «Uomini adulti sgobbano e faticano durante il giorno e vengono a imparare da lei, alla notte, come scrivere i loro nomi, come interpretare le insegne stradali, come leggere avvertenze, istruzioni, e forse col tempo perfino ogni genere di stampati e la Sacra Bibbia.» Dalla galleria arrivò un fruscio improvviso, un brusco movimento. Eilish sedeva pallidissima, gli occhi sbarrati. Il giudice si protese verso l'avvocato difensore, aggrottando le sopracciglia. «Devo presumere che abbiate qualche prova di un'accusa tanto fuor del comune, vero, signor Argyll?» «Vorrei cavillare sulla parola che avete usato, my lord» Argyll disse voltandosi a fissare il banco del giudice. «Avete parlato di "accusa". Non vedo come possa essere interpretata in questo senso. A me pare una cosa lodevolissima.» Quinlan si sporse oltre il parapetto del banco dei testimoni, con le dita strette alla balaustra. «Potrebbe esserlo, se tutto si riducesse a questo!» Esclamò in tono concitato. «Invece McIvor non ha scuse! Ho sempre saputo che la desiderava, che le moriva dietro!» La sua voce si stava facendo sempre più forte, sempre più squillante. «Ha tentato di sedurla facendole dimenticare l'onore e la moralità. Ma che dovesse servirsi di questo pretesto per ottenere ciò che vuole e per corrompere anche la sua onestà, è assolutamente imperdonabile.»
Un bisbiglio passò per l'aula. Il giudice diede un secco colpo di martelletto. Argyll intervenne prima che gli arrivasse qualsiasi direttiva dal giudice, o che Gilfeather potesse protestare. «Non state saltando alle conclusioni, signor Fyffe?» Gli domandò con un tono di stupore che era abilmente calcolato per far colpo sul giudice. «Io non ho detto che il signor McIvor avesse fatto qualcosa di più all'infuori di procurarle quei libri.» Quinlan aveva la faccia ancora pallidissima, gli occhi socchiusi, simili a fessure scintillanti. Squadrò Argyll con aria sprezzante. «So benissimo che non lo avete fatto. Mi prendete per un imbecille, signore? Sono anni che lo osservo mentre la guarda come se non riuscisse più a staccare gli occhi da lei, e cerca pretesti per trovarsi a quattr'occhi con lei, e scoppia in risatine e bisbiglia chissà cosa, e poi cade improvvisamente in un cupo silenzio, e si abbandona ad alti e bassi di umore e alla depressione quando lei lo ignora, mentre si sente improvvisamente in estasi quando lei gli mostra interesse.» Di nuovo la sua voce stava diventando stridula. «So benissimo quando un uomo è innamorato di una donna e quando il suo desiderio lo ha consumato al di là di ogni possibile controllo. È riuscito finalmente a trovare un modo di conquistarsi la sua fiducia, e Dio solo sa cos'altro!» «Signor Fyffe...» cominciò Argyll, ma senza una vera e sincera volontà di interromperlo e farlo tacere. «Ma adesso riconosco ciò che avrei già dovuto indovinare da parecchio tempo» Quinlan continuò, fissando Argyll e ignorando il resto della Corte e dell'aula del tribunale. «È incredibile come si possa essere ciechi, fino al momento in cui la tua attenzione non viene costretta con la forza a prendere atto di qualcosa che è doloroso.» Finalmente Gilfeather si alzò in piedi. «My lord, tutto questo è estremamente spiacevole, e non dubito che la Corte provi comprensione per lo sgomento e lo shock del signor Fyffe, ma continua a essere del tutto non pertinente per ciò che riguarda l'assassinio di Mary Farraline e chi lo ha commesso. Il mio onorevole collega sta soltanto perdendo del tempo, e sta tentando di sviare l'attenzione della giuria dall'argomento che è in discussione.» «Sono d'accordo» disse il giudice, e chiuse la bocca stringendo le labbra che si trasformarono in una sottile linea dura. Ma prima che lui potesse aggiungere qualche altra istruzione, Quinlan si rivolse proprio a lui con occhi scintillanti di collera. «Non è vero che non sia pertinente, my lord! Anzi il comportamento di Baird McIvor è più che
pertinente, e lo dico sul serio!» Gilfeather aprì la bocca come se volesse protestare di nuovo. Argyll agitò le mani in un gesto che doveva essere, volutamente, inefficace. Rathbone si mise a pregare sottovoce, le mani contratte, il corpo che gli doleva da capo a piedi tanta era la tensione. Non aveva il coraggio di guardare Hester. Quanto a Monk, si era addirittura dimenticato della sua esistenza. Sul banco dei testimoni Quinlan sembrava ancora più eretto e impettito di prima, la faccia livida, due rughe profonde che gli solcavano la fronte tra le sopracciglia. «Il legale di famiglia mi ha chiesto di esaminare alcune delle carte della signora Farraline, che riguardavano i suoi beni patrimoniali...» «Ebbene, signore?» Lo interruppe il giudice. «Mi occupavo di frequente dei suoi affari finanziari» Quinlan replicò. «Mio cognato Alastair è troppo affaccendato con tutti quegli impegni, e quelle cariche.» «Capisco. Andate avanti.» «Ho scoperto qualcosa che mi ha lasciato turbato e sconvolto» riprese Quinlan, obbedendo. «E mi ha anche spiegato molte circostanze che fino a quel momento andavano al di là della mia comprensione.» Deglutì a fatica. Adesso aveva saputo richiamare su se stesso l'attenzione di ogni persona che si trovava nell'aula, e se ne rendeva conto. Gilfeather si accigliò ma non fece nessun tentativo di interromperlo. «E questa scoperta, signor Fyffe?» Domandò Argyll. «Mia suocera aveva una proprietà, un'eredità di famiglia, nel lontano nord, una fattoria, una piccola tenuta, per essere più precisi, nel Ross-shire. Niente di particolarmente pregevole, soltanto venticinque acri o poco più di terreno, e una casa, ma sufficienti per consentire a una o due persone di mantenersi in modo decoroso.» «Non trovo che sia qualcosa che può turbare o sconvolgere, signor Fyffe» disse il giudice in tono critico. «Vi pregherei di spiegarvi, signore.» Quinlan gli lanciò un'occhiata, poi continuò rivolto verso la Corte. «La proprietà è stata data in affitto da sei anni come minimo, tramite la mediazione di Baird McIvor, ma la signora Farraline non ha mai visto il becco di un quattrino!» Dall'aula si levò un mormorio di costernazione. Uno dei giurati si protese in avanti con un gesto concitato. Un altro alzò gli occhi verso la galleria per cercarvi Baird McIvor. Uno si morse le labbra e rivolse lo sguardo a
Hester. «Siete sicuro di tutto questo, signor Fyffe?» Gli domandò Argyll, lottando per dominare l'eccitazione crescente che provava e che non voleva si insinuasse nella sua voce. «Devo presumere che ne abbiate prove documentate altrimenti non vi azzardereste a fare una simile accusa, vero?» «Naturale che le ho!» Quinlan gli rispose con aria vagamente offesa. «I documenti sono tutti lì e chiunque può vederli. È sempre stato Baird a occuparsi della faccenda; non credo che neanche lui avrebbe il coraggio di negarlo. Né potrebbe farlo. Se ci sia un contratto d'affitto e se tale affitto sia stato pagato, è un mistero. La proprietà può valere parecchie sterline l'anno. Ma dai conti della signora Farraline non risulta niente di tutto questo. Per lei era come se quella proprietà non esistesse.» «Avete provato a domandarglielo direttamente, signor Fyffe?» «Certo che l'ho fatto! E mi ha risposto che si trattava di un accordo privato fra lui e la nostra suocera e che non doveva interessarmi.» «E questa spiegazione non vi ha soddisfatto?» Quinlan lo guardò con aria incredula. «Avrebbe soddisfatto voi, signore?» «No» ammise Argyll. «No, non mi avrebbe soddisfatto. Anzi mi sembra altamente irregolare, e vi confesso che la mia sarebbe un'interpretazione il più benevola possibile.» Quinlan abbozzò una smorfia di disprezzo. «E cosa ci dite delle circostanze alle quali alludevate prima?» continuò Argyll. «Avevate accennato a circostanze che, in precedenza, non riuscivate a comprendere.» «Il suo rapporto con la signora Farraline» Quinlan rispose, e i suoi occhi adesso erano diventati duri e luccicanti. «Poco prima del momento in cui ottenne il diritto di agire a nome suo per ciò che riguardava quella tenuta, sembrava a tutti molto depresso. Sempre cupo, di cattivo umore, trascorreva molte ore da solo, e il suo modo di comportarsi si sarebbe detto quello di una persona che stava per abbandonarsi alla disperazione.» Nell'aula, non una sola persona si azzardava a fare un movimento, o a lasciarsi sfuggire anche una sola parola a mezza voce. «Poi tutto d'un tratto il suo umore cambiò» intanto stava continuando Quinlan. «Dopo molti colloqui con la signora Farraline. Adesso è chiaro che deve averla convinta ad affidargli quell'incarico, cioè a fargli fare da mediatore per lei, e che se ne è servito per risolvere qualche difficoltà finanziaria o quei problemi, che prima lo angosciavano.»
Gilfeather si alzò in piedi. Il giudice gli rispose con un cenno del capo e poi tornò a rivolgersi a Quinlan. «Signor Fyffe, questa è conclusione che può o non può essere corretta. A ogni modo, non potete enunciarla, ma limitarvi soltanto a presentare alla giuria le prove materiali che sono in vostro possesso.» «I documenti, my lord» rispose lui. «Gli atti di proprietà della tenuta, il permesso scritto della signora Farraline perché il signor McIvor agisse come suo mediatore per incassare gli affitti, e il fatto che lui non le ha mai versato neanche un centesimo di quel denaro, per quella o per qualsiasi altra ragione. Non sono prove sufficienti?» «Lo sarebbero per la maggior parte della gente» ammise il giudice. «Ma non è mio privilegio, bensì privilegio della giuria, tenerne il debito conto.» «E non è tutto qui» continuò Quinlan, con l'espressione di chi si trova la morte in faccia. «Ho creduto, come chiunque altro, che fosse stata l'infermiera, la signorina Latterly, ad assassinare mia suocera, per nascondere di averle rubato una spilla adorna di perle grigie. Adesso scopro che diventa sempre più difficile, per me, continuare ad avere tale convinzione. Mi sembra una donna dotata di straordinario coraggio e virtù, cose che naturalmente prima non sapevo.» Respirò a fondo. «E non ho mai collegato questo fatto con un altro: cioè affermo di aver visto mio cognato, Baird McIvor, nei locali della lavanderia nel giorno di libertà della cameriera personale di mia suocera, a trafficare con boccette e flaconcini, versando un liquido dall'uno all'altro.» Nell'aula ci fu un movimento improvviso. Baird era scattato in piedi, livido in faccia. Oonagh cercò di trattenerlo, aggrappandosi al suo braccio. Alastair proruppe in un grido di stupore. Eilish era rimasta immobile al proprio posto, con le nocche delle mani che apparivano sbiancate, impietrita. «Non avevo la minima idea di ciò che facesse, allora, e non mi interessava nemmeno» Quinlan continuò con voce limpida, spietata. «Adesso ho paura di aver assistito a qualcosa di assolutamente atroce e terribile, e che la mia incapacità di coglierne il significato sia costata alla signorina Latterly l'esperienza più orribile fra quelle immaginabili, cioè di essere accusata dell'assassinio della sua paziente e costretta a subire un processo che potrebbe concludersi con la sua condanna a morte.» Argyll era arrossito, e appariva strabiliato. «Capisco» disse con voce strozzata. «Vi ringrazio, signor Fyffe. Deve essere stato molto difficile per voi rivelare tutto questo, in quanto danneggia anche la vostra famiglia. La
Corte apprezza la vostra onestà.» Se queste parole erano dettate dal sarcasmo, nemmeno una sfumatura si insinuò nella sua voce. Quinlan non disse niente. Gilfeather si alzò subito dal suo posto e attaccò Quinlan, la sua accuratezza, i suoi moventi, la sua onestà, ma fallì nell'impresa nel modo più totale e completo. Quinlan si mostrò pacato, fermo, irremovibile; anzi, sembrò che la sua sicurezza quasi aumentasse. Gilfeather si rese conto molto presto che insistendo in quella linea di attacco avrebbe solo ottenuto lo scopo di danneggiare la propria posizione e tornò al suo posto con un solo gesto, amareggiato e furioso. Rathbone non riusciva quasi più a dominarsi. Avrebbe voluto dare ad Argyll cento, mille consigli che gli parevano necessari per l'arringa finale cosa dire ma soprattutto cosa evitare di dire! Era semplice. Giocare sulla commozione, sull'amore per il coraggio e l'onore, non calcare troppo la mano con le allusioni alla signorina Nightingale. Ma non ebbe alcuna opportunità di parlargli e in seguito, riflettendoci, pensò che forse era stato meglio così. Erano tutte cose che Argyll sapeva già. La sua arringa fu un capolavoro, perché dava risalto a ogni sentimento, e ogni emozione, ma senza descriverli in modo smaccato; si limitava ad alludervi abilmente senza metterli in mostra in modo clamoroso. Seppe far leva su quelli degli altri, senza mai rivelare i propri. E quando tornò a sedersi, dall'aula non si levò alcun suono all'infuori dello scricchiolio dello scranno del giudice che si protese verso la giuria per darle ordine di ritirarsi a riflettere sul verdetto da enunciare. Poi cominciò il periodo di tempo più lungo e più breve immaginabile, cioè quello fra il momento in cui il dado viene lanciato e quello in cui ricade. Fu un'ora soltanto, disperata, intollerabile. Tornarono indietro in fila, pallidi in faccia. E non guardarono nessuno, né Argyll né Gilfeather; e soprattutto, e proprio per questo Rathbone si accorse di avere il cuore in gola, non guardarono Hester. «Siete giunti a un verdetto, signori?» Il giudice domandò al portavoce della giuria. «Sì, my lord» rispose lui. «È un verdetto unanime?» «Lo è, my lord.» «Come giudicate la prigioniera: colpevole o non colpevole?» «My lord, il nostro verdetto è di assoluzione per mancanza di prove.»
Calò un silenzio cupo e minaccioso, un senso di vuoto che pure assordava le orecchie. «Assoluzione per mancanza di prove?» Il giudice disse alzando un po' la voce tanto era incredulo. «Sì, my lord, per mancanza di prove.» Lentamente il giudice si voltò verso Hester, con espressione amara. «Avete sentito il verdetto, signorina Latterly. Non siete assolta per non aver commesso il fatto, ma siete libera.» 11 «E questo cosa significa?» Hester domandò con determinazione, fissando Rathbone. Si trovavano nel salotto dell'alloggio che Callandra aveva fissato per tutta la durata del periodo in cui si sarebbe fermata a Edimburgo per il processo. Hester sarebbe rimasta con lei almeno per quella notte, e soltanto l'indomani mattina si sarebbe riflettuto di nuovo sul da farsi. Rathbone sedeva su una seggiola dallo schienale dritto e duro, ancora troppo sopraffatto da tutte quelle emozioni per aver voglia di rilassarsi in una delle poltrone ampie e capaci, e ben più morbide. Monk era in piedi presso il camino, appoggiato appena appena alla mensola, la faccia cupa, le sopracciglia corrugate per la concentrazione. Callandra, invece, sembrava più a suo agio. Con Henry Rathbone, sedeva sul divano di fronte al camino, in silenzio. «Significa che non siete né innocente né colpevole» Rathbone rispose facendo una smorfia. «Si tratta di un tipo di sentenza che, in Inghilterra, noi non abbiamo. Argyll me lo ha spiegato.» «Pensano che io sia colpevole ma non ne hanno tanta sicurezza da sentirsi in dovere di impiccarmi» disse Hester con la voce che le tremava. «Possono processarmi di nuovo?» «Significa che vi considerano colpevole, ma sono stramaledettamente incapaci di provarlo» Monk interloquì in tono amareggiato. Poi si rivolse a Rathbone, con le labbra atteggiate a una smorfia: «Possono processarla di nuovo?» «No. Sotto questo punto di vista è come se avessero pronunciato un verdetto di non colpevolezza.» «Ma la gente se lo chiederà sempre» Hester disse con voce tetra, diventando pallidissima. Era perfettamente consapevole di ciò che questo significava. Aveva visto l'espressione del pubblico in galleria, perfino di coloro
che erano realmente incerti se lei fosse innocente o no. Chi avrebbe mai assunto come infermiera una donna che poteva essere un'assassina? Il fatto che potesse anche non esserlo non sembrava certo una raccomandazione! Nessuno rispose immediatamente. Lei guardò Monk; non che si aspettasse un briciolo di consolazione da parte sua, ma forse lo aveva guardato proprio perché non se l'aspettava affatto. Sulla sua faccia poteva leggere il peggio per quello che riguardava la sua situazione, vi poteva scorgere la pura e semplice, amara, verità. Lui ricambiò quello sguardo con un lampo di collera talmente violento che per un attimo Hester rimase spaventata. Perfino durante il processo a Percival, all'epoca del caso Moidore, non aveva mai notato in lui un furore e una rabbia così malamente controllati. «Vorrei poter dire il contrario» Rathbone mormorò a fior di labbra. «Ma è una conclusione molto insoddisfacente.» Callandra e Monk aprirono la bocca per parlare tutti e due insieme, ma le parole di Callandra vennero soffocate da quelle di lui che erano aspre, furibonde, infinitamente più incisive. Nessuno seppe mai che cosa lei avesse voluto dire. «Non è una conclusione! Per amor di Dio, ma si può sapere che cosa vi prende?» Li guardò a uno a uno con occhi scintillanti di rabbia, indugiando soprattutto su Rathbone e su Hester. «Non sappiamo chi ha ucciso Mary Farraline. Dobbiamo scoprirlo!» «Monk...» cominciò Rathbone, ma di nuovo lui non gli badò soffocando le sue obiezioni con un iroso grugnito di disprezzo. «È uno della famiglia.» «Baird McIvor?» Callandra domandò. «Io ho qualche dubbio» cominciò Henry Rathbone. «Sembrerebbe...» «Insoddisfacente?» Monk domandò con sarcasmo, scimmiottando Oliver con tutti i suoi commenti di poco prima. «Molto. Non c'è dubbio che riusciranno anche a trovare che lui va assolto "per insufficienza di prove" se mai si arrivasse a una causa. Perlomeno è quello che spero. Secondo me è stato quel miserabile ragazzino piagnucoloso, è stato Kenneth. Ha falsificato i libri mastri, ha portato via dei soldi, e sua madre l'ha scoperto.» «Se è stato tanto abile da nascondere le proprie tracce, e dalla sicurezza con cui ha parlato non ho dubbi che sia stato così» obiettò Oliver «non riusciremo mai a dimostrarlo.» «Be', non ci riuscirete di certo se ve ne tornerete in fretta e furia a Londra lasciando McIvor ad affrontare il processo... e magari a finire sulla
forca!» Monk ritorse seccamente. «È questo che avete intenzione di fare?» Rathbone per un attimo parve imbarazzato. Fissò Monk senza nascondere la chiara antipatia che provava nei suoi confronti. «Dobbiamo concludere, da quanto avete detto, che avete intenzione di rimanere, signor Monk?» Domandò Henry Rathbone, il viso placido segnato dalla preoccupazione. «E lo fareste perché siete convinto di poter realizzare qualcosa che fino a questo momento non vi è riuscito?» Un lieve rossore, che rivelava la collera e l'imbarazzo, colorì le guance scarne di Monk. «Abbiamo materia, e ben più abbondante anche solo di quella che ci trovavamo in mano un giorno fa, da esaminare e approfondire. Ho intenzione di rimanere qui finché questa storia non si sarà conclusa.» Guardò Hester con una strana espressione, che era un miscuglio di vari sentimenti, sul viso. «E quanto a voi, non è il caso di essere così impaurita! Che possano provarlo o no, rivolgeranno le loro imputazioni a qualcun altro.» La sua voce fremeva ancora di collera. Lei si sentì assurdamente, irragionevolmente, offesa. Non era giusto. Pareva che Monk la rimproverasse perché la faccenda non era stata del tutto risolta. Era spaventata e riusciva soltanto con uno sforzo enorme a dominarsi e non scoppiare in lacrime. Adesso che i suoi peggiori timori erano scomparsi, che la tensione si era allentata, la confusione, il sollievo, l'ansia continua erano quasi più di quanto potesse sopportare. Provava un gran desiderio di rimanere sola perché soltanto così non avrebbe più dovuto fingere, senza preoccuparsi minimamente di ciò che gli altri potevano pensare. E nello stesso tempo sentiva bisogno di compagnia, avrebbe voluto che qualcuno le buttasse le braccia al collo, la stringesse al cuore con forza, e non la lasciasse più andare. Avrebbe voluto provare il calore umano emanato da qualcun altro, il battito del suo cuore, la sua tenerezza. In ogni caso non aveva nessuna voglia di litigare, men che meno con Monk. Eppure, forse perché si sentiva così vulnerabile, si accorse di essere letteralmente furiosa con lui. L'unica difesa era l'attacco. «Non riesco a capire perché siete così turbato!» Esclamò in tono secco. «Nessuno vi ha accusato di niente, salvo forse di incompetenza! Ma non si manda sulla forca nessuno per una cosa del genere!» Si voltò verso Callandra. «Ho intenzione di rimanere anch'io. Nel mio stesso interesse, come in quello di chiunque altro, voglio scoprire chi ha ucciso Mary Farraline. In fondo, io...» «Non dite assurdità!» Monk la interruppe. «Qui non potete concludere niente, e magari rischiereste di essere d'impaccio.»
«A chi?» Domandò lei. Com'era più facile la collera invece della paura e del senso di vuoto che provava realmente! «A voi? Da quello che siete riuscito a dimostrare finora ci sarebbe da pensare che un po' di gratitudine non guasterebbe se qualcuno vi offrisse il suo aiuto! Non sapete se è stato Baird McIvor, o Kenneth. Lo avete appena detto. Perlomeno io conoscevo Mary, e voi no.» Monk inarcò le sopracciglia. «E che aiuto volete che sia, questo? Se vi avesse raccontato qualcosa di utile, non venite a raccontarmi che avete aspettato finora a rivelarlo!» «Non siate stupido! Naturalmente...» «Questa conversazione non fa progredire di un solo passo la nostra causa» li interruppe Henry Rathbone. «Secondo me, e mi perdonerete se lo dico, è venuto il momento di mettere a punto qualche riflessione un poco più logica e di cedere meno alle emozioni. È più che naturale che dopo un'esperienza così terribile ci si possa consentire un poco di indulgenza nei nostri stessi confronti ma, a ben pensarci, ci servirebbe molto male se vogliamo scoprire sul serio chi è il responsabile della morte della signora Farraline. Forse sarebbe opportuno che ci ritirassimo ciascuno in camera propria a dormire; magari si potrebbe riprendere questa discussione domattina?» «Un'idea eccellente» e Callandra si alzò in piedi. «Siamo tutti troppo stanchi per poter trovare qualche soluzione utile.» «Non ci sono decisioni da prendere» Monk disse con voce stizzosa. «Io tornerò a casa dei Farraline e continuerò le mie indagini.» «E come spiegherete la vostra presenza lì, da loro?» Rathbone domandò arricciando le labbra. «Può darsi che non trovino accettabile, come pretesto, la vostra curiosità personale.» Monk gli lanciò un'occhiata di autentico odio. «Al momento sono terribilmente vulnerabili» rispose lentamente, e con una pazienza venata di sarcasmo. «Adesso è evidente, e per tutti, che uno della famiglia è il colpevole. Così non faranno che puntare il dito l'uno verso l'altro. Non dovrebbe essere un'impresa al di là e al di sopra delle mie capacità riuscire a convincere almeno uno di loro che hanno bisogno dei miei servizi.» Oliver inarcò ancora di più le sopracciglia. «Almeno uno? Il vostro progetto è quello di offrirli a più di uno? Questo sì che provocherebbe una situazione a dir poco interessante!» «E va bene, li posso offrire a uno di loro» Monk concesse, bisbetico. «Sono sicuro che Eilish non è colpevole, e ci terrà molto a provare che
McIvor non lo è neanche lui, visto che ne è innamorata. Penso che non sia impossibile che arrivi al punto di preferire lui al proprio fratello, se fosse costretta a scegliere.» «C'è da presumere che la farete arrivare a questo punto?» «Che intuito avete!» «Non mi sembra di esserne particolarmente fornito. Siete voi piuttosto che mi date l'idea di affermare cose abbastanza ovvie.» Monk aprì la bocca per ribattere. «William!» gli ordinò Callandra. «Vi sarei grata se voleste congedarvi. Se volete tornarvene al vostro alloggio in Grassmarket o no, non è affar mio, ma a me sembra molto chiaro che avete bisogno di una buona nottata di sonno.» Poi osservò Henry Rathbone con espressione piena di affetto. «Sono sicura che dovete esser pronto ad andarvene a letto anche voi, come me. Buona notte, signor Rathbone. Mi siete stato di grande conforto in questo periodo particolarmente difficile, e la mia gratitudine per voi è immensa. Spero che rimarremo amici anche quando sarete ritornato a Londra.» «Sempre al vostro servizio, signora» lui disse con un sorriso che gli illuminò tutta la faccia. «Buona notte. Vieni, Oliver. Abbiamo prolungato anche troppo la nostra visita.» «Buona notte, lady Callandra» Oliver disse cortesemente. Poi si voltò verso Hester, ignorando Monk. Di colpo la sua faccia era diventata gentile. La collera era scomparsa, sostituita da una marcata tenerezza. «Buona notte, mia cara. Stanotte siete libera, e bene o male troveremo la soluzione. Non vi troverete più esposta a nessun rischio.» «Grazie» disse lei mentre un improvviso impeto di commozione le faceva diventare rauca la voce. «So quanto avete già fatto per me, e ve ne sono profondamente grata. Niente di quello che posso dire...» «Non ditelo» la interruppe lui. «Piuttosto, dormite bene. Domani ci sarà tutto il tempo che vorrete per riflettere sul prossimo passo da fare.» Lei respirò a fondo. «Buona notte.» Oliver sorrise e si avviò alla porta. Henry Rathbone lo seguì subito, sorridendo a Hester e uscendo senza aggiungere più una sola parola a ciò che aveva già detto suo figlio. Monk esitò, corrucciato, poi diede l'impressione di volersi rimangiare ciò che stava per dire. «Buona notte.» Se n'era andato e la porta si era richiusa alle sue spalle prima che Hester si rendesse conto che quella era stata la prima volta, a quanto le pareva di
ricordare, che Monk l'aveva chiamata per nome. Era curioso sentirglielo pronunciare, al punto che si sentì divisa tra il sollievo che se ne fosse andato e il dispiacere che non fosse rimasto. Ma tutto ciò era ridicolo. Del resto era talmente stanca e sovreccitata da non riuscire a dare un senso logico ai propri pensieri. «Credo che me ne andrò a letto se non vi spiace» disse a Callandra. Mi sento proprio... «Esausta» Callandra concluse per lei, con infinita gentilezza. «Ed è naturale, mia cara. Adesso chiedo al padrone di mandare su a tutte e due un latte caldo con l'aggiunta di un goccio di brandy. Credo di averne bisogno anch'io come ne hai bisogno tu. Adesso te lo posso confessare, ho avuto una paura mortale di rischiar di perdere la mia più cara amica. E il sollievo è qualcosa che non riesco ancora ad affrontare con la dovuta serenità. Mi sento pronta a fare un bel sonno.» Tese la mano e, senza un attimo di esitazione, Hester gliela strinse e poi si buttò fra le sue braccia aggrappandosi a lei con tutte le forze di cui era capace, e rimase così fino a quando il locandiere non bussò alla porta. La mattina, quando si ritrovarono piuttosto presto, nessuno seppe nascondere di essere un po' imbarazzato per aver manifestato in modo tanto ardente e clamoroso i propri sentimenti, la sera prima. Nessuno vi alluse. Henry Rathbone si congedò per tornare a Londra ma si trattenne ancora un momento per parlare con Hester, pur accorgendosi di non trovare le parole adatte a esprimerle ciò che avrebbe voluto. Ma non aveva la minima importanza. A Hester non occorrevano. Anche Callandra partì, soddisfatta almeno in apparenza di non poter fare niente di più di quanto aveva già fatto per risolvere la situazione che adesso si presentava. Oliver Rathbone disse di volere discutere di nuovo la causa e consigliarsi con Argyll una volta ancora, ma che si sarebbe certamente rivisto non solo con Monk, ma anche con Hester, prima di ripartire anche lui per Londra. Com'era più che logico pensare, c'erano altre cause che lo aspettavano. Con Monk non accennò assolutamente a quanto aveva intenzione di fare ad Ainslie Place e indugiò solo un momento a scambiare qualche parola, in tono piuttosto formale, con Hester. Lei lo ringraziò di nuovo per l'opera compiuta nel suo interesse, ma quando non le nascose il proprio imbarazzo, preferì non insistere sull'argomento. Alle nove, con Monk, si ritrovarono soli perché tutti gli altri erano partiti
con il treno del mattino per il sud. La giornata era ventosa ma non brutta, e a tratti qualche fascio di luce del sole dava all'aria una luminosità che faceva uno stridente contrasto con il loro umore di quel momento. Rimasero fianco a fianco in Princess Street ammirandola in tutta la sua lunghezza, in tutta la sua bellezza, rivolti verso il pendio del colle sul quale si continuava a estendere la parte nuova della città, Ainslie Place compresa. «Non so dove pensate di trovare un alloggio» Monk disse corrugando le sopracciglia. «Il Grassmarket non è assolutamente adatto, e non potete permettervi l'albergo dove stava Callandra.» «Cosa c'è che non va nel Grassmarket?» Gli domandò lei. «Non è adatto a una donna sola» rispose Monk in tono irritato. «Per amor del cielo, pensavo che il vostro buon senso ve lo avesse già fatto capire! Il quartiere ha una gran pessima reputazione e, come se non bastasse, per buona parte non è neanche troppo pulito.» Lei gli lanciò un'occhiata da incenerire. «Peggio di Newgate?» Gli domandò. «Ci avete preso gusto, per caso?» Ribatté lui, a denti stretti. «Allora lasciate che mi occupi io di trovare l'alloggio che mi occorre» Hester ribatté con voce aspra. «E procediamo per Ainslie Place.» «In che senso "procediamo"? Ma io non vi porto con me!» «Non è necessario. Sono perfettamente capace di portarmici da sola. Anzi credo che ci andrò addirittura a piedi. La giornata non è troppo brutta e mi farebbe piacere un po' di esercizio fisico. In questi ultimi tempi non ne ho fatto molto.» Monk alzò le spalle e si avviò a passo lesto, tanto lesto che Hester fu quasi costretta a correre per tenergli dietro. E si ritrovò troppo sfiatata per continuare la conversazione. Ci arrivarono dopo le dieci, Hester con i piedi che le dolevano e troppo accaldata, tanto da sentirsi addirittura a disagio e, ormai, anche di un umore del tutto diverso da prima. Maledetto Monk! Lui, al contrario, sembrava piuttosto soddisfatto di sé. La porta del numero diciassette venne aperta da McTeer. La sua espressione già cupa e depressa lo diventò ancora di più quando si trovò Monk davanti e assunse proporzioni addirittura apocalittiche quando scorse Hester alle sue spalle. «E con chi vorreste parlare?» Disse lentamente, lasciando cadere ogni parola come se annunciasse previsioni di immani disastri. «Siete forse venuto a cercare il signor McIvor?»
«No!» Monk rispose in tono brusco. «Non abbiamo i poteri di venire a cercare nessuno.» McTeer sbuffò. «Credevo che, magari, ora facevate parte della polizia...» Monk si sentiva ancora toccato dolorosamente sul vivo quando doveva ammettere di non essere più un funzionario di polizia e, quindi, di non essere più investito di alcun potere. La sua nuova condizione di investigatore privato gli dava una grande libertà ma nello stesso tempo gli toglieva almeno per una buona metà le possibilità di poterla sfruttare al meglio. «Allora è senz'altro la signora McIvor quella che volete vedere» McTeer concluse come se parlasse tra sé e sé. «Il signor Alastair, a quest'ora, non è mai in casa.» «No, naturalmente» Monk ammise. «Sarei molto obbligato se potessi parlare con chiunque è disponibile.» «Già, già, è quello che direi anch'io. Be', farete meglio a entrare» e con visibile riluttanza McTeer aprì la porta quel tanto necessario a farli passare nel vestibolo che era dominato dal grandioso ritratto di Hamish Farraline. Hester lo fissò con curiosità mentre McTeer si ritirava. Monk aspettò, spazientito. «Cosa state pensando di raccontare?» gli domandò Hester. «Non lo so» rispose lui con sincerità. «È qualcosa che non si può prescrivere e tanto meno somministrare come una dose di medicina.» «Nessuna medicina viene prescritta e somministrata a casaccio» Io contraddisse lei. «Si osservano i progressi del paziente e si fa quanto si ritiene sia il meglio a seconda delle sue reazioni.» «Cercate di non essere pedante!» «Be', se ancora non lo avete capito, sarà meglio prendere una decisione il più in fretta che potete» rispose lei. «Oonagh sarà qui da un momento all'altro a meno che non vi mandi a dire che non ha intenzione di ricevervi.» Lui le voltò le spalle ma le rimase vicino. Hester aveva ragione, e questo solo fatto lo mandava su tutte le furie. Faceva fatica a dominarsi. Troppe erano state le emozioni di quelle ultime settimane; si accorgeva di risentirne ancora profondamente. Non sopportava che i suoi sentimenti gli prendessero la mano. La collera faceva riaffiorare alla memoria lontani ricordi che lo impaurivano, ricordi recenti che gli facevano nascere nel cuore confusione e paura. La possibilità di un fallimento era un altro ricordo, fin troppo recente, che preferiva non rievocare. La commozione nata dalla
consapevolezza che Hester aveva corso un gravissimo rischio di morte aveva scatenato in lui un tumulto di sentimenti intensi, e confusi, che avrebbe preferito ignorare. Hester non interruppe di nuovo il filo delle sue riflessioni fino a quando McTeer non ritornò per dire che sarebbero stati ricevuti in biblioteca. Ma non spiegò da chi. Quando aprì la porta della biblioteca per annunciarli, tutte e tre le donne erano presenti: Eilish, pallida come un fantasma, con occhi incupiti dalla paura; Deirdra tesa, triste, con lo sguardo che si rivolgeva di continuo a Eilish; e Oonagh, composta e grave e con un'espressione che sembrava quasi di scusa. Fu lei che si fece avanti a salutare per la prima Hester, poi Monk. E come sempre, non le mancarono le parole. «Signorina Latterly, non esistono espressioni di rammarico sufficienti per ciò che siete stata costretta a sopportare ma vi prego di credere che siamo sinceramente dispiaciuti e ci scusiamo con tutto il cuore per la parte che abbiamo avuto in tutto questo.» Era un discorsino nobile soprattutto se si considerava che, a essere apertamente accusato, al momento era proprio suo marito. Eilish aveva l'aria avvilita e depressa; e Monk provò un'ondata di compassione nei suoi confronti, cosa, in lui, piuttosto rara. Il comportamento di Quinlan doveva averle creato un profondo disagio. Hester si mostrò addirittura magnanima, indipendentemente da quelli che potevano essere i suoi sentimenti segreti. «Non c'è motivo di scusarsi, signora McIvor. Siete stata colpita da un lutto durissimo di recente, e nelle circostanze più spaventose. Secondo me vi siete comportata con dignità e perfetto autocontrollo. Vorrei esser capace io di fare altrettanto.» Un pallido sorriso curvò le labbra di Oonagh. «Siete molto cortese, signorina Latterly, più generosa di quello che credo sarei io...» e il sorriso si accentuò per un attimo «...dovessimo scambiarci di posto.» Eilish si lasciò sfuggire un suono smozzicato, di gola. Deirdra si voltò verso di lei ma Oonagh non badò a quell'interruzione e girò gli occhi verso Monk. «Buon giorno, signor Monk. McTeer non mi ha spiegato il motivo della vostra visita. Siete qui semplicemente ad accompagnare la signorina Latterly, perché potessimo farle le nostre scuse?» «Non sono venuta ad ascoltare delle scuse» Hester esclamò in fretta prima che lui potesse aprire bocca. «Ma a dire che avevo un'altissima considerazione per vostra madre e che, a dispetto di tutto quanto è accaduto
dall'ultima volta che ci siamo visti, considero la sua perdita la cosa peggiore di tutto quanto è successo.» «Molto generoso da parte vostra» Oonagh ammise. «Sì, era una persona straordinaria. La sua mancanza sarà sentita profondamente, e non soltanto in famiglia.» Sembrava che a quel punto si sarebbero visti congedare e, fino a quel momento, Monk non aveva ancora domandato niente. «Io ho già espresso il mio rammarico tempo fa» esclamò, intervenendo nella conversazione in modo piuttosto brusco. «Adesso sono venuto a chiedere se desideravate il mio aiuto. La questione è tutt'altro che risolta, e la polizia non consentirà che ci si metta una pietra sopra. Non può farlo.» «Come investigatore per fare delle indagini?» Oonagh inarcò le sopracciglia chiare, incuriosita. «Per aiutarci a ottenere un altro verdetto di "assoluzione per mancanza di prove"?» «Non credete colpevole il signor McIvor?» Era una cosa atroce da domandare. Calò un silenzio scandalizzato. Le tre donne erano ammutolite. Perfino Hester sussultò e si morse un labbro. Un pezzo di carbone scivolò nel focolare con un leggero rumore e fuori, al di là delle finestre, si sentì l'abbaiare di un cane. «No!» Esclamò infine Eilish, con la voce che si spense in un singhiozzo. «No, naturalmente no!» Monk si mostrò spietato. «In tal caso vi occorrerà dimostrare che è stato qualcun altro, altrimenti prenderà lui il posto della signorina Latterly con la testa in quel nodo scorsoio.» «Monk!» Esplose Hester. «Per amor di Dio...» «Trovate brutta la verità?» mormorò lui in tono beffardo. «Eppure credevo che proprio voi, fra tutti, foste la persona che non indietreggiava mai di fronte alla realtà.» Hester non rispose. Eppure a Monk parve che l'indignazione irradiasse da lei come qualcosa di impalpabile. In ogni caso non se ne lasciò minimamente turbare. Una lama di pallida luce solare filtrò fra le nuvole allungandosi fino a uno degli scaffali pieni di libri. «Ho paura che abbiate ragione, signor Monk» disse Oonagh in un tono che rivelava tutta la sua avversione per quel discorso. «Indipendentemente dal modo crudo con il quale formulate il vostro pensiero. Le autorità non possono permettersi di lasciare che la questione rimanga irrisolta. Non si sono ancora presentate qui da noi, ma è solo questione di tempo, senza
dubbio. Se non succederà oggi, sarà per domani. So che nessun altro ci può essere di aiuto in una questione come questa, cioè per scoprire la verità. Naturalmente abbiamo i nostri legali, nel caso fossero necessari. Cosa vi proponete di fare?» Non accennò al problema del denaro; era volgare parlarne e lei aveva mezzi più che sufficienti per poterlo ricompensare, qualsiasi fosse la cifra che avrebbe domandato. Magari sarebbe stato sufficiente toglierla semplicemente da quella destinata alle piccole spese casalinghe. Impossibile darle una risposta. Monk stava cercando la verità soltanto per dimostrare, e in modo conclusivo, che la colpevole non era stata Hester. L'altra alternativa accettabile era quella che fosse stata una persona della famiglia Farraline. Fissando Oonagh in faccia, non gli sfuggì l'espressione intensa dei suoi occhi, come quella vena di amaro umorismo che li illuminava, e si rese conto che lo sapeva perfettamente, né più né meno come lui. Eilish si agitò al suo posto irrequieta, a disagio. Deirdra si voltò a guardarla. «Scoprire chi di voi è stato, signora McIvor» Monk disse a bassa voce. «Così perlomeno potremo impiccare l'uomo... o la donna giusta. O forse preferireste semplicemente che venisse impiccata la persona che più vi fa comodo?» Hester si lasciò sfuggire un sommesso gemito di angoscia. Oonagh rimase imperturbabile. «Nessuno potrebbe accusarvi di non parlare con franchezza, signor Monk. Ma avete ragione. Io preferirei che fosse la persona giusta, che si tratti di mio marito o di uno dei miei fratelli. Come vi proponete di procedere? Ormai dovete sapere già molto, ma tutto questo non vi ha ancora portato a nessuna conclusione altrimenti non c'è dubbio che lo avreste detto, negli interessi della signorina Latterly.» Monk si accorse di trasalire come se fosse stato schiaffeggiato. Una volta di più si accorse che il suo rispetto per Oonagh aumentava. Era completamente diversa da qualsiasi altra donna avesse mai conosciuto; e gli venivano in mente ben pochi uomini, o magari nessuno, che potessero starle a pari per il coraggio, la freddezza e lo straordinario dominio di sé che dimostrava. «Ma adesso so molto più di quanto non sapessi allora, signora McIvor. E credo che questo valga per tutti» rispose seccamente. «E ci credete!» Eilish, adesso, dimostrò di non riuscir più a controllarsi come prima. «Credete a tutto ciò che Quinlan ha detto, soltanto perché è
stato...» «Eilish!» La voce di Oonagh la interruppe in tono reciso, costringendola di nuovo all'angoscioso silenzio di poco prima, a fissare Monk con quegli occhi lucenti. Poi Oonagh tornò a rivolgersi a lui. «Devo pensare che, per voi, la faccenda non sia ancora conclusa altrimenti non vi sareste preso la briga di venire qui. E immagino, indipendentemente da ciò che la diplomazia o la cortesia vi possono costringere a dire, che lo abbiate fatto perché è vostra intenzione restituire la più completa onorabilità al nome della signorina Latterly. No, prego, non rispondete. E non protestate, non sarebbe degno di nessuno di noi due.» «Non avevo alcuna intenzione di protestare!» Ribatté Monk sinceramente. «Da come io vedo la situazione, esistono due strade sulle quali procedere partendo dalle prove che possediamo, sia quelle vecchie sia quelle recenti.» «La tenuta della mamma nel Ross-shire» disse Oonagh. «Cos'altro?» «La spilla di brillanti che, a quanto mi pare, non avete mai trovato.» Lei sembrò un po' stupita. «Pensate che abbia importanza?» «Non ne ho nessuna idea, ma lo scoprirò. Chi è il vostro gioielliere?» «La ditta Amott & Dunbar in Frederick Street.» «Grazie.» Monk esitò solo per un attimo. «Sarebbe possibile sapere qualcosa di più sulla tenuta nello...» «Ross-shire» fu Oonagh a finire la frase per lui, sgranando gli occhi. «Se lo desiderate. Naturalmente Quinlan ha consegnato tutta la documentazione alla polizia. L'hanno ritirata ieri sera. Ma il fatto è irrefutabile. La mamma aveva ereditato questa piccola proprietà a Easter Ross. Ha messo tutto ciò che riguardava la locazione nelle mani di Baird e, a quanto sembra, non esiste alcuna ricevuta di denaro in senso assoluto...» «Ci dev'essere pure qualche spiegazione!» Eilish esclamò, disperata. «Baird non lo avrebbe mai rubato, quel denaro, mai e poi mai! È molto semplice.» «Di qualsiasi cosa si tratti, ho i miei dubbi che la faccenda sia così semplice» Oonagh ribatté seccamente. «Ma, certo, mia cara, tutti noi desideriamo credere che la situazione non sia quella che sembra; e nessuno più di me!» Eilish prima arrossì, poi diventò pallidissima. «Dove si trova Easter Ross?» Monk non riusciva a ricordare di quale contea si trattasse, se mai ne aveva saputo qualcosa. Presumibilmente si trovava a est, ma a est di quale località?
«Oh, oltre Inverness, credo» Oonagh replicò con aria assente. «In effetti si trova proprio molto, ma molto a nord. St. Colmac, Port of St Colmac, o qualcosa di simile. In realtà è tutto abbastanza assurdo in quanto la somma complessiva non deve essere molto più di qualche sterlina l'anno. Non si direbbe davvero che valga la vita di una persona!» «C'è gente che è stata ammazzata per una mano di carte» Monk osservò con amarezza e poi, quando si accorse che Hester gli lanciava un'occhiata, si domandò improvvisamente come facesse a saperlo. Eppure aveva parlato con la massima sicurezza. Ecco, si trattava di un altro di quei piccoli sprazzi di memoria che gli tornavano abbastanza spesso, ma del tutto senza preavviso, e senza che potesse collegarli a qualche avvenimento ben preciso. «Non ne dubito» la voce di Oonagh era diventata poco più di un sussurrio. Girò gli occhi verso la finestra. «Vi troverò l'indirizzo esatto se è quello che desiderate. Forse accetterete di cenare con noi stasera e in tal caso potrò fornirvelo in quell'occasione?» «Grazie» Monk rispose; poi d'un tratto rimase incerto perché non era riuscito a capire se Hester fosse stata inclusa nell'invito o no. «Grazie» accettò anche Hester, prima ancora che il problema si ponesse e qualcuno dei presenti pensasse a risolverlo. «Sarebbe molto generoso da parte vostra, soprattutto in vista delle circostanze.» Oonagh trasalì, e fece per parlare ma poi decise che era inutile mettersi a discutere e preferì sorridere. In ogni caso erano state parole di congedo, le sue, e Monk, con Hester, si trovava già nel vestibolo in attesa che McTeer con la sua aria sepolcrale li accompagnasse all'uscita quando Eilish arrivò di corsa a raggiungerli e afferrò Monk per un braccio. Era quasi come se non vedesse nemmeno Hester. «Signor Monk! Non è stato Baird. Lui non avrebbe mai fatto del male alla mamma, a differenza di quello che chiunque può pensare. E non ha mai provato nemmeno tutto questo interesse per il denaro. Deve esserci un'altra spiegazione.» Monk si accorse di provare un'infinita pietà per lei. Conosceva fin troppo bene l'amarezza della delusione, il momento in cui ci si rende conto che la persona, uomo o donna, che si è amata profondamente non è soltanto mediocre ma piena di difetti e di conseguenza ci appare meschina, ripugnante, ignota. Non è come se avesse commesso una piccola mancanza e bastasse perdonarle; purtroppo la realtà è diversa. Non è mai, veramente,
stata quella che si credeva. E l'intero rapporto si trasforma e appare come un'illusione, qualcosa che è stato falso, sia pure senza che lo si sapesse, ma che falso rimane. «Glielo avete domandato?» Le domandò dolcemente. Lei ridiventò pallidissima. «Sì. Dice semplicemente che non ha rubato nulla, ma che si tratta di un argomento del quale non può parlare. Io... io gli credo, certo!, ma non so come spiegarmelo. Per quale motivo non può parlarne quando Quinlan lo accusa di qualcosa di tanto terribile? Che senso ha insistere tanto accanitamente e voler tacere quando...» soffocò un singhiozzo «... ci potrebbe essere in gioco la sua stessa vita?» L'unica risposta che balenò a Monk fu quella che avrebbe potuto trattarsi di un segreto ancora più orribile dell'accusa, oppure che la confermava. Ma preferì non dirglielo. «Non so, però vi prometto che farò tutto quanto posso per scoprirlo. E se Baird è innocente, lo si potrà dimostrare.» «Kenneth?» lei bisbigliò. «Non sopporto di credere nemmeno a questo!» Hester non disse niente benché Monk sapesse che moriva dalla voglia di parlare. Forse, una volta tanto, anche lei non riusciva a trovare parole che non rendessero la situazione ancora più brutta di quello che era. Apparve McTeer, con l'aria di chi si aspetta da un momento all'altro una tragedia di proporzioni inenarrabili, e subito Eilish si tirò indietro di qualche passo, affrettandosi a pronunciare le solite espressione formali di congedo. Monk le rispose a tono e poi le voltò le spalle per avviarsi all'uscita; fu solo in quel momento che scoprì come Hester si fosse messa a parlare con Eilish senza preoccuparsi della presenza di McTeer. Non poteva sentire quello che stava dicendo perché la sua voce era molto bassa ma Eilish le rivolse un'occhiata di profonda gratitudine; poi, qualche istante più tardi, si ritrovarono di nuovo fuori, in strada. «Che cosa le avete detto?» Le domandò. «Non ha senso darle anche un solo briciolo di speranza! Potrebbe proprio essere stato McIvor!» «Perché?» Rispose lei asciutta, alzando il mento con aria fiera. «Perché avrebbe dovuto fare una cosa del genere? E per quale motivo? Mary gli era simpatica, le voleva bene, e il ricavato dell'affitto di una fattoria non è una somma tale che qualcuno possa arrivare al delitto per intascarla!» Lui rinunciò a discutere, esasperato; poi si incamminò a passo lesto in direzione di Princess Street, diretto al negozio del gioielliere. Hester era
troppo ingenua per capire, e troppo testarda per accettare spiegazioni. Quella sera a cena, Monk arrivò vestito con eleganza impeccabile. Quanto a Hester, si presentò, almeno a suo giudizio, conciata da far pietà perché a Edimburgo non aveva con sé nient'altro che il vestito di lanetta grigio-azzurra indossato per tutta la durata del processo. Ma, in compenso, sia lei sia Monk, erano armati di informazioni che cambiavano radicalmente ogni cosa per ciò che riguardava non solo la posizione di Baird McIvor ma anche quella di Kenneth. Il gioielliere li aveva informati che non era stata Mary Farraline a ordinare quella spilla di brillanti, anche se la spesa relativa risultava segnata sul suo conto. Era stato Kenneth. A suo tempo, il gioielliere aveva creduto che si fosse prestato a occuparsi dell'ordinazione del gioiello per fare un favore a sua madre e non aveva approfondito la faccenda... con molto rammarico quando, in seguito, aveva saputo, e da Mary stessa, che lei non l'aveva né ordinata né tantomeno vista in seguito! Naturalmente la faccenda ormai, per quello che lo riguardava, era stata ampiamente liquidata. Ma non aveva idea di come si fosse risolta la cosa fra Kenneth Farraline e sua madre. McTeer li venne ad accogliere alla porta, come al solito, e li fece passare nel grande salone dove stavolta l'intera famiglia era radunata, quasi come se tutti avessero già capito che li attendeva una rivelazione. Anche se, forse, date le circostanze, non era una cosa che doveva sorprenderli. Hester era stata scarcerata anche se completamente non assolta dall'imputazione, e Quinlan aveva accusato apertamente Baird McIvor. Era impensabile che la questione si potesse considerare conclusa. E anche se la polizia non avesse insistito nell'approfondire le indagini, era addirittura inimmaginabile che i Farraline stessi fossero disposti a lasciare le cose come stavano. Come sempre fu Oonagh quella che li salutò per la prima, ma Alastair, che appariva pallido e con l'aria cupa, si affrettò ad imitarla. «Buona sera, signorina Latterly» disse con cortesia studiata. «È stato molto bello da parte vostra presentarvi qui, in casa nostra, con tanta magnanimità. Una donna meno degna e nobile di voi ci avrebbe serbato rancore.» A Monk balenò che un'osservazione del genere avrebbe potuto essere una domanda piuttosto che un'affermazione. Alastair aveva gli occhi angosciati, come se qualche cosa di terribile lo ossessionasse; e non c'era da meravigliarsi quando si pensava che suo fratello oppure il marito della sua sorella più cara potevano essere colpevoli di un assassinio, e che per di più si trattava proprio dell'assassinio della loro madre. Monk non lo invidiava.
Adesso che lo vedeva lì, in quell'elegante salone, con le alte finestre, i lunghi tendaggi, il fuoco che scoppiettava nel camino e i ricordi, i gingilli e i ricami di generazioni e generazioni della famiglia tutt'intorno, si accorse di provare per lui un profondo fremito di compassione. E se fosse stato Baird McIvor? Alastair e Oonagh erano cresciuti insieme, con gli stessi sogni e gli stessi timori, con un'intimità che non c'era stata fra gli altri fratelli. Se il colpevole fosse stato il marito di Oonagh, Alastair ne avrebbe sofferto profondamente come lei. E sarebbe certo stato l'unico con il quale Oonagh non si sarebbe sforzata di nascondere il proprio dolore, la delusione, l'intollerabile senso di vergogna. Nessuno poteva meravigliarsi che le rimanesse tanto vicino, quasi da toccarla, perché era fin troppo chiaro che avrebbe voluto fare il possibile per difenderla da qualcosa di atroce che ancora non l'aveva colpita. Hester era già riuscita, molto generosamente, a trasformare quella battuta di Alastair in un semplice scambio di convenevoli. Furono invitati a farsi avanti, si videro offrire del vino. Eilish cercò di incrociare lo sguardo di Monk. Sembrava imbarazzata in modo addirittura penoso: sapeva che qualcuno avrebbe trovato un nesso fra lei e le accuse lanciate da suo marito. E, per quanto odioso fosse pensarlo, Hester probabilmente doveva soltanto a Quinlan la libertà anche se le sue confessioni erano state frutto dell'interrogatorio di Argyll. Quinlan si trovava all'estremità più lontana della stanza, in piedi, e l'espressione del suo viso affilato, con il naso lungo e le labbra ben disegnate, sembrava quello di chi è assorto in profondi pensieri. Stava osservando Hester con uno sguardo divertito. Forse si stava domandando come lei avrebbe cercato di intavolare una conversazione, che cosa avrebbe trovato da dirgli. Monk si accorse di provare un impeto di odio verso di lui, e non tanto per amore di Hester la quale sapeva benissimo cavarsela da sola in ogni situazione o, in caso contrario, doveva rassegnarsi visto che, se si trovava lì, era soltanto colpa sua... no, ma per Eilish, che non aveva nessuna possibilità di scampo. Baird era in piedi vicino al camino, il più lontano possibile da Quinlan. Sembrava pallido, come se non avesse né mangiato né dormito, e aveva anche lui l'aria perseguitata, come se si preparasse a combattere ma senza alcuna speranza di vittoria. Kenneth era appollaiato sul bracciolo di una delle poltrone, e di lì stava considerando Hester con evidente interesse. Avevano continuato a conversare cortesemente dei soliti argomenti uno più banale dell'altro eppure pareva che l'atmosfera nella stanza fosse carica
di elettricità come se tutti fossero in attesa che qualcuno si decidesse ad affrontare l'unico argomento di una vera importanza. Alla fine fu Alastair a farlo. «Oonagh dice che siete andato a fare qualche indagine a proposito dell'altra spilla che nessuno ha mai visto. Non riesco a immaginare per quale motivo.» Una curiosa espressione gli affiorò negli occhi: dubbio, incredulità, speranza. «Sono sicuro che non penserete che sia stato uno dei nostri domestici a prenderla... vero? Non è andata semplicemente perduta, magari? La mamma a volte poteva essere un po' distratta, trascurata...» lasciò la frase in sospeso e ricadde nel silenzio di poco prima. Nessuno aveva ancora fornito spiegazioni a proposito della spilla con le perle grigie; ma sembrava maleducato e scortese toccare l'argomento proprio davanti a Hester. «No, assolutamente» Monk rispose con aria truce. «Mi spiace, signor Farraline, ma la spiegazione è semplicissima. Vostra madre non l'ha mai avuta per le mani. Tanto per cominciare è stata ordinata da vostro fratello, Kenneth, presumo per offrirla in regalo a quella sua amichetta, che sembra così decisa a non tornare mai più a essere povera. Una decisione molto comprensibile; forse non a voi, ma certamente a chiunque abbia avuto la disgrazia di rimanere sveglio per tutta la notte perché aveva troppa fame o troppo freddo per riuscire a prendere sonno.» Alastair fece una smorfia di disgusto e di indignazione, poi si voltò lentamente a guardare Kenneth. Kenneth diventò paonazzo e la sua faccia si indurì in un'espressione di sfida. Monk allungò uno sguardo verso Eilish. La sua espressione rivelava un penoso miscuglio di angoscia e di speranza come se non si fosse aspettata di provare dispiacere per la colpa di Kenneth mentre, adesso che lo stavano smascherando, si sentiva vergognosa e dispiaciuta. Rivolse un'occhiata a Baird, ma lui pareva assorto in cupi pensieri segreti. Oonagh lanciò uno sguardo interrogativo a suo fratello più giovane. «Be'?» Domandò Alastair. «Non stare lì con quella faccia scura, Kenneth. Qui ci vogliono delle spiegazioni, e che siano chiare! Ammetti, sì o no, di aver comperato quella spilla e di averla fatta pagare alla mamma? Mi sembra inutile negarlo: ne abbiamo le prove.» «Lo ammetto» disse Kenneth con voce strozzata, anche se sembrava venata più di rabbia che di paura. «Se tu ci pagassi decorosamente, io non sarei costretto a...» «Sei pagato per quello che vali!...» Ribatté Alastair in tono secco, arros-
sendo. «Ma anche se non ti si pagasse neanche un centesimo, oltre al fatto che sei mantenuto in tutto e per tutto, mi sembra che questa non sia una buona scusa per comprare regali per la tua amante facendoli poi pagare alla mamma. Buon Dio, cos'altro hai combinato? C'è proprio da credere che lo zio Hector abbia ragione? Hai sottratto fondi alla ditta, falsificando i libri mastri?» Kenneth diventò paurosamente pallido; però anche se sembrava spaventato, aveva l'aria di sfida. E chiunque, guardandolo, avrebbe pensato che non provasse il minimo rimorso. E, stranamente, fu Quinlan che si fece avanti a parlare. Kenneth rimase in silenzio. «Certamente. È successo mesi fa, anzi ormai è passato più di un anno. Mia suocera è stata messa al corrente di tutto a suo tempo. E ha coperto lei l'ammanco con i suoi soldi.» Alastair esplose in un'esclamazione di incredulità: «Oh!, insomma, Quin! Non ti aspetterai che io ci creda! So quello che provi nei confronti di Baird, ma è assurdo! Perché la mamma doveva mettere a tacere le truffe di Kenneth e coprire lei gli ammanchi di cassa, così, come se niente fosse? E immagino che non si parli, in questo caso, di pochi spiccioli, vero? Perché sommette modeste non gli basterebbero neanche a cominciare... con la vita che fa, e per mantenere quell'amichetta, che ha tanta paura della povertà e vuole essere coperta di brillanti... quei brillanti che, a quanto pare, le piacciono tanto!» «No, affatto» Quinlan ammise con una smorfia. «Se dai un'occhiata al testamento, scoprirai che Kenneth non riceve il becco di un quattrino. La parte dell'eredità che Kenneth doveva ricevere è servita a saldare il debito... non solo per i fondi sottratti all'azienda ma, così presumo, anche per la spilla. Era al corrente anche di quello.» Fissò Alastair negli occhi con tale tranquillità, senza nemmeno un fremito di incertezza, che Monk si domandò se quest'ultima non fosse una bugia. Alastair non ribatté. Quinlan sorrise. «Via, via, Alastair. È proprio quello lei avrebbe fatto, e lo sai benissimo! Non avrebbe mai fatto scoppiare uno scandalo con un'azione legale contro il suo stesso figlio. Tutti noi la conosciamo e sappiamo che non sarebbe mai arrivata fino a questo punto... perfino Kenneth! Che bisogno ne aveva quando il rimedio era così facile, così a portata di mano!» Si strinse leggermente nelle spalle. «Così lo ha punito e, nello stesso tempo, ha anche riscattato il debito. Se la cosa si fosse ripetuta, glielo avrebbe fatto ripagare esigendo come suol dirsi la sua libbra di carne... lo
avrebbe costretto a lavorare giorno e notte fino a che il debito non fosse stato saldato.» «Come ti azzardi a...» Alastair cominciò, furioso, ma Oonagh l'interruppe. «Suppongo che i nostri legali saranno al corrente di tutto questo, vero?» disse senza perdere la calma. «Naturalmente» Quinlan confermò. «Nel testamento non vengono date spiegazioni. Si dice soltanto che Kenneth stesso saprà capire perché non riceve la sua parte di eredità, e infatti non ci sono state lagnanze da parte sua.» «Come facevate a sapere tutto questo, quando il resto della famiglia è sempre rimasto all'oscuro di tutto?» Gli domandò Monk. Quinlan inarcò le sopracciglia. «Come facevo a saperlo? Perché, come ho già detto, mi occupavo di molti dei suoi affari. Sono particolarmente abile in questo campo, soprattutto per gli investimenti, e mia suocera lo sapeva. A parte il fatto che Alastair è troppo impegnato, Baird non ha il cervello adatto per questo genere di cose, e evidentemente non sarebbe mai stata tanto stupida da fidarsi di Kenneth!» «Se eri tanto al corrente degli affari della mamma» Eilish gli chiese in tono di sfida, con voce strozzata «come va che non sapevi niente dei terreni di Easter Ross e dell'affitto che lei ne avrebbe dovuto ricavare?» Sembrava che Kenneth fosse stato dimenticato, almeno temporaneamente. Tutti gli occhi si rivolsero prima a Eilish e poi a Baird. Nessuno si occupava minimamente di Monk, oppure di Hester. Baird alzò la testa e li guardò, con aria desolata e avvilita. «Mary era al corrente di tutto quanto, e ogni cosa veniva fatta con il suo permesso» disse senza alzare la voce. «E adesso, basta, non posso raccontarvi altro.» «Benissimo! Ma non è abbastanza!» Alastair si voltò di scatto verso di lui, come se fosse in preda alla disperazione. «Per dio, figliolo! La mamma è morta... avvelenata da qualcuno. La polizia non si accontenterà mai di una risposta del genere! Se non è stata la signorina Latterly, vuol dire che è stato uno di noi!» «Io, no.» La voce di Baird adesso era più fievole di un sussurrio quando gli uscì dalle labbra. «Io volevo bene a Mary, più di chiunque altro... salvo...» si interruppe. Pochi dei presenti nella stanza vennero sfiorati dal dubbio che fosse lì lì per dire "Eilish". Ma Oonagh, no. Oonagh era pallidissima, ma perfettamente composta e controllata. Qualsiasi fossero i sentimenti dai quali era colpita, e dilaniata, di fronte a una simile realtà, evidentemente erano troppo ben nascosti dal tempo, dalla
familiarità, oppure dal puro e semplice coraggio, per affiorare proprio in quel momento. «Naturale!» Alastair esclamò amareggiato. «Sarebbe un po' difficile aspettarsi che tu dicessi qualcosa di meno. Ma le parole adesso non hanno più importanza, sono soltanto i fatti che contano.» «Nessuno conosce i fatti!» Quinlan fece notare, impermalito. «Sappiamo soltanto quello che i documenti di Mary dicono, quello che dicono i banchieri, e le scuse che cerca Baird. Non so quali altri fatti possono esserci ancora, secondo te!» «Immagino che la polizia li possa giudicare sufficienti» intervenne Monk. «Perlomeno per un processo. Cos'altro scoprono, o di cos'altro hanno bisogno, è affar loro.» «È questo che avete intenzione di fare?» Eilish pareva ridotta alla disperazione; l'angoscia venava la sua voce che era sempre più acuta e stridula, si disegnava chiaramente sulla sua faccia sconvolta. «Semplicemente accusare, e poi lasciare che sia la polizia a occuparsene? Baird è uno della famiglia! Abbiamo vissuto con lui in questa casa, lo abbiamo conosciuto giorno dopo giorno per anni, abbiamo condiviso i nostri sogni e le nostre speranze con lui. Non potete così... semplicemente... accontentarvi di dire che è colpevole... e poi abbandonarlo!» Rivolse uno sguardo stralunato ai suoi familiari, passando dall'uno all'altro, sfiorando appena il viso di Quinlan e concentrandosi alla fine su quello di Oonagh, perché forse era a lei che si era sempre abituata a rivolgersi nei momenti del bisogno. «Ma noi non lo abbandoniamo, mia cara» Oonagh le disse con voce sommessa. «D'altra parte non ci restano alternative salvo affrontare la verità, per quanto terribile possa essere. Uno di noi ha ucciso la mamma.» Senza volerlo, d'istinto, Eilish si rivolse di nuovo verso Hester, poi arrossì violentemente. «No, non funziona, bella mia» obiettò Quinlan in tono agro. «Naturalmente è sempre possibile. Un'assoluzione per mancanza di prove è una sentenza imperfetta, ma qualsiasi possa essere la loro opinione, non potranno mai più costringerla a essere processata di nuovo. E poi, vediamo di affrontare i fatti: il suo movente mi sembra molto debole a confronto di quello di Baird! Lui non avrebbe avuto alcuna difficoltà a metterle di nascosto la spilla nella sacca da viaggio... e sarebbe un po' difficile dimostrare che lei ha incassato di nascosto gli affitti di quei terreni di vostra madre!» «Per amor di Dio, Baird! Perché non dici niente?» esclamò Deirdra, che
era rimasta in silenzio a lungo, senza più riuscire a dominarsi. Poi si avvicinò a Eilish e le mise un braccio intorno alle spalle. «Ma non vedi che cosa ci sta facendo tutto questo?» «Deirdra, per favore, bada come parli» fu il rimprovero che uscì quasi meccanicamente dalle labbra di Alastair. Monk era divertito. Se Alastair avesse avuto la più vaga idea di quelle che erano le attività notturne di sua moglie, sarebbe stato ben felice che lei si esprimesse con parole così blande e pacate. Sarebbe stato pronto a giurare che doveva aver imparato espressioni ben più colorite dal suo amico meccanico. «Sembra che esista un solo mezzo.» Hester aprì bocca per la prima volta da quando quell'accusa era stata lanciata contro Baird. E tutti la guardarono con un certo stupore. «Non riesco a capire quale può essere» ribatté Alastair accigliandosi. «Sapete forse qualcosa che noi ignoriamo?» «Non dire assurdità» interloquì Quinlan. «È un po' difficile che mia suocera abbia potuto confidarsi con la signorina Latterly fino al punto di parlarle dei suoi affari dopo averla conosciuta soltanto un giorno, mentre ha sempre evitato di discutere la faccenda almeno con Oonagh, se non con tutti noialtri.» «Signorina Latterly?» Alastair si rivolse a lei. «Uno di noi deve raggiungere quella tenuta del Ross-shire e cercar di sapere cos'è successo degli affitti» rispose lei. «Non ho idea di quanto sia distante, ma in fondo non ha poi tutta questa importanza. È una cosa che va fatta.» «E, fra tutti noi, di chi siete disposta a fidarvi?» Deirdra le domandò seccamente. «Io non riesco proprio a immaginarlo!» «Di Monk, naturalmente» replicò Hester. «Non ha il minimo interesse per quella che può essere la risposta, né in un senso né nell'altro.» «Purché non riguardi direttamente voi» soggiunse Quinlan. «A me sembra che il suo interesse in tutto questo sia evidentissimo, ormai. Quando si è presentato qui, da noi, a suo tempo, ci ha raccontato una storia che, a essere buoni, si poteva prendere per una mezza verità mentre, a volerla giudicare un po' meno gentilmente ma andando molto più vicino alla realtà dei fatti, era senz'altro una fandonia colossale.» «Lo avreste aiutato a scoprire la verità?» Hester lo difese. Quinlan sorrise. «No, naturalmente. Io non faccio accuse, mi limito semplicemente a notare che il signor Monk non è quel campione di onestà che
voi sembrate disposta a credere. «Io non lo credo affatto» ribatté Hester indispettita. «Ho semplicemente detto che lui non ha nessun interesse per chi di voi sta raccontando delle bugie o per quello che è successo del denaro ricavato da quegli affitti.» «Avete proprio un modo molto elegante di esprimervi, sapete!» «Hester avvampò.» «Per favore!» Li interruppe Deirdra, rivolgendosi a Monk. «Tutto questo esula da quanto ci interessa al momento. Signor Monk, vorreste farvi fornire tutti i particolari necessari da Quinlan, e sareste disposto a partire per il nord, e per Easter Ross, per scoprire chi affitta la tenuta e dove sono finiti i soldi dell'affitto e a chi questo affitto sarebbe stato pagato? Suppongo che sarà necessario portare con voi qualche elemento di prova, documenti, carte, tutto quanto può essere utile. Magari addirittura una dichiarazione giurata...» «Un affidativo» la corresse Alastair. «Ma penso che, perfino da quelle parti, ci saranno un notaio o un giudice di pace!» «Certamente» si affrettò a rispondere Monk, ancora indispettito per non averlo suggerito lui stesso prima ancora che Hester lo facesse. Poi, altrettanto in fretta si domandò come avrebbe fatto a trovare i soldi necessari per il viaggio. Tirava già a campare in modo abbastanza precario senza ulteriori complicazioni. Callandra pensava ad aiutarlo nei momenti grami, quando i suoi clienti erano pochi o poveri, e lo faceva sulla base di un accordo secondo il quale lui la teneva al corrente dei casi più interessanti dei quali si stava occupando. Era la forma di amicizia, e di filantropia, da lei prescelta; inoltre le forniva di tanto in tanto il piacere di provare un brivido di emozione, un assaggio del pericolo. Ma Callandra era ripartita per tornarsene a casa e lui non poteva certo chiederle un contributo anche per questo viaggio. Lo aveva già compensato per la parte svolta per la difesa di Hester, ed era bastato a condurlo lì, in Scozia, e a fornirgli un alloggio a Edimburgo come anche a pagare le spese di quello, che aveva a Londra, durante la sua assenza. Callandra non poteva certo immaginare che sarebbe stato necessario un prolungamento del suo soggiorno. «Quanto è distante?» disse ad alta voce. Gli costava uno sforzo enorme essere costretto a domandarlo. Alastair sbarrò gli occhi. «Non ne ho nessuna idea! Trecento chilometri? Quattrocentocinquanta?» «No, non è così lontano» lo contraddisse Deirdra. «Al massimo saranno trecentocinquanta chilometri. Ma penseremo noi alle spese del viaggio,
signor Monk. In fondo, sono affari che riguardano noi, e non voi, quelli che vi portano ad andarci.» Non degnò di uno sguardo Alastair che si era accigliato e Oonagh che appariva un po' meravigliata e aveva gli occhi illuminati da un lampo di agro umorismo. Lei, se non altro, si rendeva conto che tutto ciò veniva compiuto per eliminare anche l'ultimo dubbio che potesse ancora sussistere sull'innocenza di Hester, non perché Monk desiderasse in modo particolare di venire in aiuto a Baird McIvor o a uno qualsiasi dei Farraline. «Immagino che ci sia un treno che arriva fino a Inverness» continuò Deirdra. «Dopo quello non è escluso che dobbiate continuare su un veicolo a cavalli o qualcosa del genere, non lo so.» «In tal caso non appena avrò ottenuto le informazioni necessarie e una lettera da parte vostra che mi autorizzi a tutto quanto è necessario...» per la prima volta si voltò a guardare Quinlan, non Oonagh, per ricevere un cenno di assenso «... prenderò la mia roba e salirò sul primo treno che parte verso il nord.» «Andrete anche voi con lui?» Eilish guardò Hester. «No» si affrettò a rispondere Monk. Hester aveva aperto la bocca per dire qualcosa, ma nessuno seppe mai di che si trattasse. Allora rivolse uno sguardo a Monk, guardandolo bene in faccia, poi studiò le espressioni delle altre persone presenti, e infine cambiò idea. «Rimarrò a Edimburgo» mormorò in tono ubbidiente e sottomesso. Se Monk fosse stato meno preoccupato per l'incarico che doveva svolgere, si sarebbe insospettito di una simile mancanza di vitalità da parte sua nonché della voglia di obiettare e discutere, ma i suoi pensieri erano rivolti a tutt'altro. Poi rimasero a cena, un buon pasto, servito con accuratezza. Ma pareva che su tutta la casa, ed era più che logico, fosse calata una cappa di tetraggine che non era provocata soltanto dal recente lutto ma adesso, anche, da nuove paure. La conversazione, quindi, risultò impacciata e priva di interesse. Hester e Monk presero congedo presto, senza la necessità di trovare falsi pretesti. Il viaggio al nord fu lungo e, per Monk, estremamente noioso. Non vedeva l'ora di arrivare a destinazione. Nessuno a Edimburgo era stato in grado di dirgli come raggiungere Easter Ross una volta arrivato a Inverness. Per quel che riguardava il funzionario delle ferrovie allo sportello dei biglietti, erano terre ignote... fredde, pericolose, prive di un minimo di civilizzazione... ed era impensabile che una qualsiasi persona di buon senso
desiderasse andarci. Per esempio, per fare una vacanza, c'erano Stirling, Deeside, e Balmoral, tutti posti bellissimi. Anche Aberdeen, la città di granito del nord, aveva i suoi pregi; invece quella che si estendeva oltre Inverness era praticamente una specie di terra di nessuno, e chi voleva andarci lo faceva a proprio rischio e pericolo. Il viaggio richiese quasi tutte le ore di luce di una giornata, in quanto ormai si era in autunno inoltrato. Monk, seduto al suo posto, non faceva che rimuginare con aria sempre più cupa e imbronciata su tutto quanto sapeva della morte di Mary Farraline, sui sentimenti, sulle personalità, sulle emozioni e passioni della sua famiglia. Ma non riuscì a raggiungere alcuna conclusione, salvo quella che era stato uno dei suoi familiari a ucciderla, quasi sicuramente Baird McIvor, poiché aveva tacitamente intascato il denaro che riscuoteva per l'affitto della tenuta. Eppure sembrava un movente talmente futile, tanto incredibilmente meschino per un uomo che pareva in preda a sentimenti ed emozioni ben più forti e profondi! Se poi amava Eilish, e sembrava che fosse vero almeno a giudicare dalle apparenze, come aveva fatto a uccidere sua madre se, anche, ne avesse provato la tentazione? Quando scese a Inverness, ormai era già troppo tardi per pensare di proseguire il viaggio verso nord quella sera stessa. Malcontento e indispettito cercò un alloggio e si affrettò a chiedere subito al padrone della locanda come avrebbe potuto raggiungere, l'indomani, Port of St. Colmac. «Oh» disse costui con aria meditabonda. Era un ometto che rispondeva al nome di Mackay. «Oh, già, Portmahomack, volete dire? Ma avrete bisogno del traghetto, allora.» «Il traghetto?» Domandò Monk dubbioso. «Già, dovrete prendere il traghetto per arrivare fino a Black Isle, e poi per attraversare il Cromarty Firth e raggiungere Allnes e di lì proseguire più su, verso Tain. È una strada lunga, sapete. Ma non potete proprio risolvere i vostri affari a Dingwall, magari?» «No» replicò Monk riluttante. Non riusciva nemmeno a ricordare se era ancora capace di stare a cavallo, e questo sarebbe stato il modo peggiore per scoprirlo. «Be', quando il diavolo ci mette la coda... se proprio non ne potete fare a meno» ribatté Mackay con un sorriso. «Allora sarà dalle parti del nostro Tarbet Ness. Un faro bellissimo. Lo si vede per chilometri e chilometri in una notte buia. Ve lo garantisco.» «Posso portare con me un cavallo sul traghetto?» Poi, nel momento pre-
ciso in cui faceva questa domanda si accorse che già solo l'espressione di Mackay gli lasciava capire che aveva detto una stupidaggine. «Be', ne posso noleggiare uno dall'altra parte, vero?» Soggiunse subito, prima ancora che Mackay potesse rispondere. «Già, certo che potete. Da questa parte potete arrivare al traghetto a piedi, parlo di quello che vi porterà fino a Black Isle. Parte proprio dalla spiaggia qua dietro. Voi venite dal sud, vero?» «Sì» e Monk preferì non aggiungere altro. L'istinto gli diceva che un abitante delle regioni di confine come lui stesso, originario del Northumberland, i cui uomini avevano combattuto contro gli scozzesi con incursioni e battaglie e via dicendo per un millennio come minimo, avrebbe potuto essere una presenza sgradita anche se lì si trovavano ben più al nord. Mackay annuì. «Avrete fame» disse in tono pieno di buon senso. «È un bel viaggio lungo da Edimburgo, a quanto dicono.» E fece una smorfia. Per lui quelle erano regioni sconosciute, ed era felicissimo che tali rimanessero. «Grazie» accettò Monk. Si vide servire un pasto a base di aringhe fresche impanate in farina di avena e fritte, con pane appena sfornato tanto era caldo, burro, e un formaggio con la crosta coperta di farina di avena che si chiamava Caboc ed era squisito. Andò a letto e dormì profondamente, quasi senza sogni. La mattina successiva si levò limpida e ventosa. Monk si alzò in tutta fretta e, invece di consumare un'intera colazione nella locanda di Mackay, decise di portare con sé pane e formaggio e si mise in cammino per raggiungere il traghetto che lo avrebbe portato a Black Isle, che in realtà, secondo le informazioni avute, non era un isola vera e propria ma un grande istmo. La distanza non era molta mentre era forte la corrente che, dal Moray Firth penetrava fin nel più piccolo Beauly Firth, e la grande baia che si apriva sulla sua sinistra, a perdita d'occhio. Il traghettatore lo guardò con aria dubbiosa quando gli chiese di essere trasportato dall'altra parte. «Oggi c'è parecchio vento.» Socchiuse gli occhi guardando verso est, accigliato. «Posso aiutare» si offrì subito Monk; poi si pentì: avrebbe voluto mordersi la lingua! Non aveva la minima idea se era capace di remare o no. Dalla sua memoria tutto quanto riguardava acqua, mare o barche era stato completamente cancellato. Anche quando era tornato a casa, nel Northumberland, subito dopo essere uscito dall'ospedale all'epoca dell'incidente e si
era svegliato di notte per scoprire che suo cognato era fuori, in mare, con un battello di salvataggio, un episodio del genere non aveva fatto affiorare nella sua mente nessun ricordo di barche o altro. «Già, bene, magari può servire» ammise il traghettatore, che nel frattempo non si era mosso di un solo passo da dov'era fermo. Monk si rese conto che non poteva rischiare di farlo andare su tutte le furie. Doveva attraversare lo stretto subito perché percorrere a cavallo il tragitto lungo la linea costiera passando da Beauty, Muir of Ord, Conon Bridge e Dingwall avrebbe richiesto un intero giorno in più di viaggio. «Allora quando vogliamo cominciare?» Domandò con l'aria di chi ha fretta. «Per me è necessario arrivare stasera stessa a Tarbat Ness.» «La strada è lunga.» Il traghettatore scrollò la testa, poi alzò gli occhi al cielo e infine li riportò su Monk. «Magari, però, ce la fate. Anche se c'è vento, la giornata sembra bella. E chissà che il vento non cada quando cambia la marea. A volte lo fa.» Monk prese questo discorso come un assenso e fece per salire sulla barca. «Allora non volete neanche aspettare per vedere se c'è qualcun altro?» Gli domandò l'uomo. «Se siete disposto a dare una mano anche voi, il viaggio costa la metà, sapete?» Monk avrebbe potuto ribattere, se si fosse trovato in qualche altro posto molto più vicino a casa, che il prezzo del tragitto avrebbe dovuto essere ancora più ridotto visto che lui era disposto a dare una mano con i remi, sia che a bordo ci fosse anche qualche altra persona oppure no, ma si convinse che era meglio lasciar perdere e far finta di niente. «Be', allora, venite.» L'uomo allungò una mano per aiutarlo. «Sarà meglio che andiamo. Magari c'è qualcuno, a Black Isle, che vuole venire a Inverness.» Monk accettò la mano che l'uomo gli porgeva per aiutarlo a salire a bordo. Non appena i suoi piedi toccarono il tavolato sul fondo e la barca cominciò a beccheggiare sotto il suo peso, si sentì travolgere da una tale ondata di ricordi, e ricordi così acuti e precisi, che ebbe un attimo di esitazione e rimase in precario equilibrio fra la barca e il molo. Non si trattava di qualche immagine che riaffiorava dalla memoria, ma piuttosto di un gioco di sentimenti, di paura e un senso di disagio, e impotenza. Talmente forte che fu lì lì per tirarsi indietro. «Si può sapere cosa vi prende?» Il traghettatore lo guardò incuriosito. «Non avrete già il mal di mare, vero? Ma se non siamo neanche partiti!»
«No, niente affatto» rispose Monk brusco. E si proibì di fornirgli qualsiasi spiegazione. «Be', casomai vi venisse da vomitare» e il traghettatore gli lasciò capire che, se fosse successo, non si sarebbe affatto meravigliato «vi pregherei di farlo dall'altra parte.» «Non vomiterò» ripeté Monk augurandosi che fosse vero, e si decise a prendere posto sulla barca, sedendo sulla scomoda panchetta di poppa. «Be', se avete intenzione di aiutarmi, star seduto lì non serve» e il traghettatore lo guardò con aria corrucciata. «Ma non siete mai stato su una barchetta di questo genere?» A guardarlo si sarebbe detto che avesse qualche dubbio in proposito. Monk lo guardò fisso. «Stavo ricordando l'ultima volta che ci sono stato. Ecco perché era un po' incerto. E la gente che conoscevo a quell'epoca» soggiunse, casomai l'uomo pensasse che lui aveva paura. «Oh, davvero?» L'uomo gli fece posto sul sedile di fianco a sé e Monk vi si trasferì, impugnando l'altro remo. «Devo essere un bell'imbecille.» E scrollò la testa. «Spero di non pentirmi quando ci troveremo al largo, in piena corrente. E lì non bisogna più muoversi, capito? Guai, se no si finisce a bagno. E io non so nuotare!» «Be', se dovessi salvarvi, voglio indietro i soldi del traghetto» ribatté Monk seccamente. «Non li riavrete se a rovesciare la barca siete stato voi» rispose il traghettatore guardandolo dritto negli occhi. «E adesso state un po' zitto, figliolo, e mettetevi a lavorar sodo con quel remo!» Monk ubbidì soprattutto perché ci voleva tutta la sua attenzione per tenere lo stesso ritmo del traghettatore, e sperava di non fare la figura dell'idiota più di quanto non l'avesse già fatta fino a quel momento. Per dieci minuti buoni lavorò con impegno e si accorse che cominciava a essere molto soddisfatto di sé. La barchetta volava sull'acqua. Cominciò a divertirsi. Era piacevole usare il proprio corpo, una volta tanto; gli pareva di poter scaricare in quell'esercizio fisico tutta l'angoscia delle settimane precedenti quando, sentendosi completamente inutile, sedeva in quell'affollata aula di tribunale. Ciò che stava facendo adesso non era poi così difficile. La giornata era splendida, e il sole batteva sull'acqua con uno scintillio quasi abbacinante, trasformando i colori del mare e del cielo in un'unica sfumatura di un azzurro brillante e vivido che gli dava un curioso senso di liberazione, come se, nella loro sterminata immensità, gli portassero conforto e non gli facessero sentire paura. Il vento che si avventava
contro la sua faccia era freddo, ma frizzante e pulito, e l'odore di salmastro era infinitamente piacevole. Poi, senza alcun preavviso, si ritrovarono oltre il promontorio che riparava quel tratto di mare, in balia della marea che proveniva dal Moray Firth ed entrava con forza nel Beauly; Monk rischiò quasi di perdere un remo. Involontariamente sfiorò con gli occhi la faccia del traghettatore e non gli sfuggì la sua espressione di agro divertimento. Con un grugnito impugnò il remo più saldamente, curvando la schiena e sollevandosi poi nel ritmo della remata con tutta la forza che possedeva. Ma rimase sconcertato accorgendosi che invece di procedere con uno scatto veloce e battere in potenza il traghettatore, rischiando di far sbandare la barca, riusciva a stargli a malapena alla pari. La barca solcò l'acqua tagliando la corrente diretta verso la costa ancora distante di Black Isle. Allora cercò di riprendere animo e riflettere, piuttosto, su quello che avrebbe potuto scoprire una volta arrivato alla tenuta di Mary Farraline. O non c'erano contadini ad abitarvi e, di conseguenza, non ci sarebbero stati affitti da pagare, e Baird McIvor si era mostrato semplicemente pigro e incompetente; o il fittabile esisteva e Baird non si era mai curato di andare a ritirare gli affitti; oppure per qualche motivo, una volta ritirati quei soldi, non li aveva consegnati a Mary. C'era da pensare che li avesse tenuti per sé oppure se ne fosse servito per pagare qualche debito che lo disonorava e non poteva saldare servendosi, senza tanti sotterfugi, del denaro che, a detta di tutti, possedeva. Un'altra donna fu la risposta che gli balenò subito. Ma c'era davvero da pensare che potesse amare un'altra donna, oltre a Eilish? Non si trattava magari di qualche relazione segreta, che risaliva al passato e che rimaneva nascosta perché lui pagava il silenzio di qualcuno in modo che Eilish e Oonagh non ne sapessero niente? Una soluzione del genere suonava abbastanza plausibile anche se gli risultava stranamente sgradita. E per quale motivo, in nome del cielo? Qualcuno aveva ucciso Mary! E la prova che il colpevole era stato Baird McIvor avrebbe restituito onorabilità al nome di Hester nel modo più clamoroso. Erano più o meno a metà della traversata e la corrente si era fatta ancora più forte. Doveva remare con quanta forza aveva, gravando con tutto il proprio peso su ogni colpo di remo, appoggiando con forza i piedi sull'asse disposta trasversalmente sul fondo della barca. Il traghettatore continuava a remare con disinvoltura, a un ritmo lento e con una lunga remata, che facevano quasi passare ogni suo movimento per naturale, addirittura privo
di sforzi, mentre a Monk cominciavano già a dolere le spalle. E sempre con l'ombra di un sorriso sulle labbra. I loro sguardi si incrociarono per un attimo, poi Monk distolse gli occhi. Ma a poco a poco cominciò a sviluppare inconsciamente un ritmo proprio, a bloccare il dolore che ogni colpo di remo gli procurava alla schiena. Doveva aver perduto gran parte della abituale energia, del solito vigore, se bastava questa fatica alla quale non era abituato per sentirsi tanto dolorante e a disagio. Si trattava, forse, di una mancanza di allenamento da considerare soltanto recente? Prima della disgrazia era stato diverso e aveva avuto l'abitudine di cavalcare, di andare a remare sul Tamigi, di fare l'uno o l'altro sport? Eppure nel suo alloggio niente lo avrebbe lasciato pensare anche se non si vedeva con la figura appesantita e si sentiva pieno di forza. Forse la colpa era soltanto di questa prova di destrezza fisica alla quale non era abituato. Senza volerlo si scoprì a pensare a Hester. Era una cosa del tutto irragionevole eppure, già nel momento stesso in cui se ne rese conto, si accorse di essere furioso. La sua perdita lo avrebbe colpito e addolorato più di quanto gli faceva piacere pensare. Lo aveva reso vulnerabile, e di questo si risentiva. Poteva pensare al coraggio con forza e chiarezza: era l'unica virtù che ammirava più di tutte le altre. Era la pietra angolare sulla quale si appoggiava tutto il resto. Senza di esso, ogni altra cosa appariva incerta, messa a repentaglio dal gioco capriccioso della buona o cattiva sorte. Quanto a lungo la giustizia sarebbe sopravvissuta senza il coraggio necessario a combattere per difenderla? Sarebbe stata una mistificazione, un'ipocrisia, un inganno che era meglio tacere. Cos'era l'umiltà se non si possedeva il coraggio per ammettere un errore, l'ignoranza e la futilità, la forza di tornare indietro e ricominciare da capo? C'era davvero qualcosa che avesse un valore, la generosità, l'onore, la speranza, la compassione, senza il coraggio che venisse in aiuto a sostenerle? La paura poteva corrodere addirittura l'anima. Eppure la solitudine e il dolore erano così reali! E il tempo una dimensione troppo facile della quale non tener conto. Ciò che poteva essere sopportabile per uno, per due giorni, diventava mostruoso quando si parava davanti senza che se ne potesse vedere la fine. Accidenti a Hester! Tutto d'un tratto si sentì spruzzare d'acqua la faccia. «Avete preso una palata a vuoto» fu il commento divertito del traghettatore. «Cominciate a stancarvi?» «No!» Monk ribatté asciutto, anche se si sentiva quasi esausto. Gli dole-
va la schiena, aveva le mani piene di vesciche, e provava l'impressione che da un momento all'altro gli andassero in pezzi le spalle. «Oh, davvero?» Fece il traghettatore dubbioso, ma non rallentò il ritmo della remata. Monk si beccò un'altra palata a vuoto, sfiorando col remo la superficie dell'acqua invece di affondarvelo, e gli spruzzi che si levarono li colpirono in piena faccia, gelidi, con il sapore salmastro sulle labbra, il bruciore negli occhi. D'un tratto i ricordi riaffiorarono come una visione istantanea, anche se quella parte che riuscì a coglierne chiaramente, il mare grigio, luccicante, il gioco della luce sulle onde, si dissolse quasi prima di venir registrata dal cervello. Ciò che rimase fu il freddo, il senso di pericolo, di urgenza pressante, soverchiante. Era spaventato, le spalle gli dolevano esattamente come adesso, però era stato più giovane, molto più giovane, forse poco più di un ragazzo. La barca procedeva in fretta sull'acqua, fra beccheggi e rollii, sbatacchiata qua e là dalle ondate gigantesche con la cresta ricurva orlata di spuma bianca. Come mai qualcuno si era azzardato a uscire in mare con un tempo simile? E perché lui era tanto impaurito? Non erano le onde a fargli paura, ma qualcos'altro. Ma non riuscì a rintracciare quel ricordo. Non ritrovava niente di più, soltanto quel freddo, la violenza del mare, e quella sensazione terribile, pressante, di urgenza e di ansietà. Tutto d'un tratto la barca cominciò a sfrecciare sull'acqua. Erano al riparo della costa di Black Isle e il traghettatore stava sorridendo. «Siete un uomo testardo» disse mentre si accostavano alla spiaggia. «Stavo pensando che domani non farete di sicuro quello che avete fatto oggi. Sarete tutto un dolore dalla testa ai piedi.» «È possibile» ammise Monk. «Ma chissà, magari la marea sarà girata e il vento non soffierà più così forte contro di noi.» «È quello che si può sempre sperare.» Poi il traghettatore allungò una mano e Monk vi posò i soldi del traghetto. «Ma il treno per il sud non vi aspetterà!» Monk lo ringraziò e andò a noleggiare un cavallo che lo trasportasse al di là delle alte colline di Black Isle, per un certo numero di chilometri, sempre più a nord in direzione del traghetto successivo sul Comarth Firth. Non ebbe difficoltà a procurarselo, e partì a un'andatura lenta e regolare. La sensazione che provava era confortevole, familiare. Scoprì di sapere come guidarlo soltanto con uno sforzo minimo. Si sentiva a proprio agio
anche se non aveva nessuna idea di quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che era salito in sella. Il paesaggio era molto bello; le ondulate colline si estendevano verso nord con leggeri pendii, qualcuna coperta da fitti boschi di piante decidue, qualche altra da pini, ma soprattutto da prati sui quali, a tratti, erano disseminati greggi di pecore e qualche raro capo di bestiame. Era un paesaggio talmente sconfinato che calcolò di potervi spaziare con lo sguardo fino a una distanza di venti chilometri e anche più. Qual era il ricordo che lo aveva turbato in barca? Voleva davvero scoprirlo a ogni costo? C'era qualcos'altro sotto, nascosto da quello, qualcosa di più brutto e di più doloroso. Forse sarebbe stato meglio lasciar perdere. Forse la capacità di dimenticare, stavolta, poteva essere una benedizione. Risalire il pendio di quelle colline era penoso. Si era rotto, letteralmente, la schiena remando attraverso quel braccio di mare, tanto che, forse, adesso camminare un po' non doveva essere del tutto spiacevole. Scese di sella e diede al cavallo un po' di riposo. Affiancati raggiunsero la cresta del colle e scorsero la massa di Ben Wyvis più oltre, con la cima larga e piatta coronata dalle prime nevi dell'inverno. Illuminata dal sole pareva sospesa nel cielo. Si incamminò lentamente, fino a quando la collina alla sua sinistra tornò a essere pianura e poté scorgere montagne oltre le montagne, fin quasi nel cuore della Scozia, azzurrine, violacee, di un candore abbagliante sulle cime che spiccavano contro il cielo di cobalto. Si fermò, ansante, non per la stanchezza ma per il puro e semplice stupore che provava di fronte a tutto ciò. La vastità di quella zona era incredibile. Quasi gli pareva di poter spaziare con lo sguardo senza alcun limite. Più oltre, più sotto, ecco il Cromarth Firth, lucente come acciaio levigato; a est si estendeva a perdita d'occhio verso il mare. A ovest una catena dopo l'altra di montagne continuavano così, fino a confondersi con l'orizzonte in lontananza. Il sole gli batteva caldo in faccia; inconsciamente alzò la testa verso quel vento, verso il silenzio. Era contento di quella solitudine. La compagnia di un altro essere umano sarebbe stata un'intrusione. Qualsiasi parola sarebbe apparsa blasfema in un luogo simile. Forse, però, gli sarebbe piaciuto dividere tutte queste sensazioni con qualcuno, avere vicino una persona in grado di cogliere tanta perfezione, goderne spiritualmente, apprezzarla, una persona capace di rievocarla ancora e ancora, di nuovo, in seguito, nel momento del bisogno. Hester avrebbe capito. Lei avrebbe saputo accontentarsi soltanto di osservare, pro-
vare tante sensazioni, e non dire niente. Perché tutto questo non poteva essere comunicato o trasmesso a qualcun altro con le parole, ma andato semplicemente condiviso con l'incontro degli sguardi, lo sfiorarsi delle mani, la consapevolezza di saperlo riconoscere e apprezzare insieme. Il cavallo sbuffò e Monk tornò con un sussulto al presente, e al tempo che passava. La strada da percorrere era ancora lunga. L'animale ormai era riposato. Occorreva procedere giù verso la spiaggia, e il Foulis Ferry. Gli occorsero l'intera giornata, e più di una volta la richiesta che gli venisse indicata la strada, per raggiungere Portmahomack, come St. Colmac veniva chiamato adesso; e il buio era già calato da molto tempo e si era trasformato nella profonda oscurità della notte quando riuscì finalmente ad arrivare alla fucina del maniscalco in Castle Street per domandargli dove trovare una stalla per il suo cavallo e un alloggio per quella notte, per sé. Il maniscalco fu ben contento di custodirgli l'animale, che conosceva, perché altri viaggiatori l'avevano già usato allo stesso modo, ma per quello che riguardava un eventuale posto dove dormire, poté consigliargli soltanto di chiederlo alla locanda più vicina, qualche chilometro più sotto verso il fondo della collina, nei pressi della spiaggia. La mattina dopo Monk percorse a piedi il chilometro e mezzo, o poco più, lungo la spiaggia dalla sabbia chiara, prima, risalendo il pendio di una collina, poi, che lo separava dalla tenuta di Mary Farraline la quale, a quanto sembrava, era affittata a un tizio di nome Arkwright, ben conosciuto al villaggio, ma senza riscuotere molte simpatie almeno a giudicare dal tono della voce di chi gli aveva dato quelle informazioni. Forse perché, a giudicare dal suo nome, non era un abitante delle Highlands e magari neanche uno scozzese, benché Monk personalmente si fosse visto circondare soltanto dalla massima cortesia a dispetto del suo accento spiccatamente inglese. Era arrivato al buio ma la mattina seguente si levò limpida, solatia, come quella del giorno prima. La camminata non era lunga, poco più di un chilometro, forse, e in cima alla cresta del colle si apriva una larga strada fiancheggiata da sicomori e frassini. A sinistra c'era una grande stalla in pietra e a destra una costruzione più piccola che lui pensò fosse la fattoria di Mary Farraline. Oltre la cima del tetto poteva intravedere i comignoli di una costruzione più vasta, forse addirittura una villa di campagna. Ma non poteva essere il posto che lui stava cercando. Doveva riflettere attentamente su ciò che avrebbe detto. Si fermò sotto gli alberi e si voltò verso la strada che aveva percorso per riprendere fiato.
Il mare si estendeva sotto di lui come una pezza di tessuto di raso di un color azzurro-argento. In lontananza si distinguevano le montagne del Sutherland, con i picchi più alti e più distanti incappucciati di neve. A ovest una lingua di sabbia luccicava chiara sotto lo splendore del sole e al di là di essa l'acqua color cobalto si insinuava verso l'entroterra e le colline azzurre, che a poco a poco assumevano contorni più sfumati, e coloriture violacee, all'orizzonte, distante centocinquanta chilometri o forse più. Il cielo era purissimo, quasi senza una nuvola, e uno stormo di oche selvatiche lo tagliava volando lenta sopra la sua testa, diretta al sud. Si voltò lentamente, seguendo con lo sguardo il loro volo e meditando su ciò che aveva di miracoloso fino a quando non furono scomparse. Poté scorgere, da quel punto, anche il mare più a sud, di un luccichio argenteo nel sole che si alzava sempre più alto nel cielo, e la sagoma di un solitario castello che spiccava cupo contro di esso. Fosse stato di un umore differente, forse avrebbe provato collera e indignazione per la bassezza e l'indegnità di ciò che lo portava da quelle parti. In quella mattina invece si sentiva soltanto schiacciato dal peso di un' infinita tristezza. Percorse gli ultimi pochi metri del suo viaggio e quindi bussò alla porta. «Sì?» L'uomo che venne a rispondere era basso di statura, atticciato, con una faccia liscia che non riusciva ugualmente a nascondere quanto gli desse fastidio la presenza di un estraneo. «Il signor Arkwright?» Domandò Monk. «Sì, sono io. Voi chi siete, e cosa volete qui?» La sua voce aveva un accento inglese ma Monk ci mise un attimo a individuarne la cadenza perché di tanto in tanto era venata da quella più dolce delle Highlands. «Sono venuto da Edimburgo...» cominciò Monk. «Voi non siete scozzese» Arkwright esclamò con voce cupa, indietreggiando di un passo. «Nemmeno voi» ribatté Monk. «Ho detto che sono venuto da Edimburgo, non che ci sono nato.» «E con questo? Non mi interessa sapere di che regione siete!» «Yorkshire!» Era chiarissimo nella cadenza delle parole, nel modo in cui le vocali erano pronunciate. E Baird McIvor era originario anche lui dello Yorkshire. Una coincidenza? La bugia salì spontanea, e subito, alle labbra di Monk. «Sono il legale della signora Mary Farraline. Sono venuto perché mi sto occupando dei suoi affari. Non so se vi hanno informato della sua morte,
che è avvenuta di recente.» «Non la conosco, mai sentito parlare di lei» Arkwight rispose con voce lenta e meditata, ma nei suoi occhi era affiorata un'ombra. Anche lui mentiva. «È strano, questo» disse Monk con un sorriso, che non era di cordialità, ma di soddisfazione. «Perché abitate nella sua casa.» Arkwight impallidì, ma la sua faccia assunse un'espressione dura. Era chiaro che, in quel momento, erano cento e più sentimenti contrastanti quelli che lo turbavano, lottavano nel suo intimo. Sapeva come combattere e Monk intuì che non dovesse essere particolarmente schizzinoso sulla scelta delle eventuali armi da usare. C'era qualcosa di pericoloso in quell'uomo. E cosa ci faceva, lui, un estraneo, in un posto così selvaggio, fra questi grandi spazi limpidi e puri? Arkwight lo stava fissando attentamente. «Non so di chi sia il nome che c'è sugli atti notarili, ma io l'affitto da un tale che si chiama McIvor, e questi non sono affari vostri, caro signor Cornacchia!» Monk non si era presentato ma sapeva benissimo come quello fosse il nomignolo che in genere si affibbiava agli uomini di legge. Pertanto inarcò le sopracciglia con aria scettica. «E pagate l'affitto al signor McIvor?» «Già, proprio così.» Era bellicoso, Arkwight, anche se dal tono della voce sembrava un po' titubante. «E come?» Insistette Monk, guardandosi bene però dall'andargli troppo vicino. «Cosa volete dire? In contanti, naturalmente. Cosa credete, che lo paghi con le patate?» «E in che maniera? Cioè, raggiungete Inverness a cavallo e una borsa con il denaro sul treno della notte per Edimburgo? Ogni settimana? Ogni mese? Vi ci vorranno come minimo un paio di giorni!» Arkwight si accorse di essere stato colto in fallo, e lo lasciò capire dallo scintillio iracondo dei suoi occhi. Per un attimo diede l'impressione di voler allungare un pugno a Monk, poi esaminò la sua figura, l'aspetto imponente, l'elasticità scattante del suo corpo, e ci ripensò. «Non sono affari vostri» grugnì. «Io devo risponderne al signor McIvor, non a voi. In ogni modo, non mi avete fornito prove della vostra identità, e del fatto che quella certa Mary Come-si-chiama sia veramente morta!» Per un attimo un lampo di trionfo gli balenò negli occhi. «Potreste essere chiunque!» «Infatti, potrei» ammise Monk. «Potrei anche essere la polizia.»
«Chi, i piedipiatti?» Però era impallidito. «E per che cosa? Io abito e lavoro qui, alla fattoria. Non c'è niente di illegale in questo! Ma voi non siete un poliziotto, siete soltanto un bastardo ficcanaso che farebbe meglio a stare alla larga di qui se sapesse i rischi che corre!» «Vi interesserebbe, o vi meraviglierebbe molto, sapere che il signor McIvor non ha mai consegnato a nessuno tutti quei soldi che voi gli spedite con il treno?» Monk domandò con aria sarcastica. Arkwight cercò di rispondergli con un ghigno beffardo, ma si capiva che era sforzato, e nei suoi occhi apparve uno strano lampo di ansietà. «Be', è un problema suo, non vi pare?» In quell'attimo Monk intuì per quale motivo Baird McIvor non potesse tradire Arkwight, e Arkwight ne fosse sicuro al cento per cento. Ma che, contemporaneamente, se Baird avesse perduto ogni potere di gestione per quello che riguardava la tenuta, Arkwight lo avrebbe perduto anche lui. Ricatto. Era l'unica risposta concepibile. Perché? A proposito di che cosa? Come era concepibile che quest'uomo conoscesse quello che, almeno a giudicare dalle apparenze, era un gentiluomo, cioè Baird McIvor? Arkwight, nel migliore dei casi, se non era un delinquente poco ci mancava; nel peggiore, anzi, doveva essere un professionista del genere, un esperto nel suo campo. Monk si strinse nelle spalle con noncuranza calcolata, e fece il gesto di girare sui tacchi e andarsene. «McIvor mi racconterà tutto quello che mi occorre sapere» disse con aria tronfia e soddisfatta. «Penserà lui a farmi la soffiata che mi occorre.» «No, niente affatto!» Arkwight rispose in tono di vittoria. «Non ne avrà il coraggio, altrimenti si metterà nei guai con le sue stesse mani.» «Frottole! Chi crederebbe a voi, di fronte alla parola di McIvor? Sarà lui a fare la soffiata che vi metterà nei guai! A dare spiegazioni per quei soldi!» «Tutte le persone che sanno leggere crederanno a me» rispose Arkwight con un sogghigno. «C'è tutto scritto, nero su bianco. E poi porta ancora sulla schiena le cicatrici del maggiolino!» Il carcere. Ecco la risposta. Baird McIvor aveva scontato una condanna in carcere, chissà dove. Probabilmente Arkwight lo sapeva perché nella stessa prigione c'era stato anche lui. Forse avevano lavorato fianco a fianco al cilindro orizzontale che aziona un mulino, il famoso "maggiolino", quella macchina terribile alla quale i carcerati vengono costretti a lavorare per un quarto d'ora di seguito, marciando intorno a una ruota dai ventiquattro
gradini, attaccata a un lungo asse e a una ingegnosa combinazione di banderuole, che deve girare sempre esattamente alla stessa velocità e che provoca mancanza di respiro, senso di soffocamento, una stanchezza mortale. Quel nomignolo era nato per ricordare l'atroce tormento provocato dalle cinghie di cuoio che sfregavano costantemente la pelle e la carne. Ma c'era da pensare che Mary Farraline fosse stata al corrente di tutto questo? Che McIvor l'avesse uccisa per conservare questo atroce segreto, mentre allo stesso tempo compensava Arkwight mediante la concessione della fattoria per la quale non veniva pagato nessun affitto, sempre perché anche lui non parlasse? Pareva tanto evidente che riusciva difficile avere il coraggio di affermare il contrario. Ma perché avrebbe dovuto dispiacergli? Perché lui avrebbe preferito che fosse stato Kenneth? Era assurdo. Eppure, chissà perché, quella baia stupenda, illuminata dal sole, non gli sembrò più così calda e piacevole quando gli voltò le spalle per andarsene e riprese il cammino scendendo per il lento declivio tra le siepi diretto alla fucina del maniscalco per montare in sella di nuovo al suo cavallo e riprendere il lungo e faticoso cammino fino a Inverness. Aveva attraversato Cromarty e Black Isle e si trovava a bordo del traghetto, sul braccio di mare del Beauly, con la schiena dolorante e le spalle torturate da fitte atroci mentre si piegava energicamente sui remi. Era determinato a scaricare la collera su qualche cosa, a dispetto del sorriso del traghettatore e della sua proposta di rinunciare ad aiutarlo. All'improvviso, senza che nulla lo lasciasse prevedere, gli tornò in mente quel periodo della sua infanzia che il primo ricordo aveva fatto riaffiorare con tanta sofferenza. E si rese conto di quale fosse l'altra sensazione che aveva provato, quella oscura e ignota, che ne era rimasta ai margini. Un senso di colpa. Perché stavano tornando da un salvataggio con la loro scialuppa, e lui si era impaurito. Aveva provato un tale, spaventoso, terrore di quella voragine immensa di acqua che si era aperta fra la scialuppa di salvataggio e la nave ormai condannata da rimanere impietrito per il terrore. Così gli era sfuggita la fune appena lanciata e troppo tardi l'aveva vista arrotolarsi su se stessa e scivolare oltre il ponte, nell'acqua. L'avevano lanciata di nuovo, naturalmente, ma erano stati perduti pochi, preziosi attimi e, con quelli, l'opportunità di salvare una vita umana. Adesso, lì, mentre curvava la schiena affondando con energia disperata il remo nelle acque chiare e trasparenti del Beauly Firth, si sentì improvvisamente grondante di sudore. Tutto ciò che riusciva a vedere con gli occhi
della memoria era quell'abisso di acqua vorticosa fra l'una e l'altra fiancata, quella della scialuppa di salvataggio e quella della nave. Qualcosa che era avvenuto tanti anni prima. Ma gli pareva perfino di provare di nuovo, fino in fondo, il senso della vergogna come se fosse successo soltanto da pochi minuti. E si accorse che gli erano salite agli occhi lacrime di umiliazione. Perché gli tornava in mente? Eppure dovevano esserci stati ricordi a dozzine di tempi felici, che aveva vissuto con la propria famiglia; dovevano esserci stati i ricordi di successi e di conquiste. Per quale motivo gli ritornava così vivido alla memoria proprio questo? Possibile che fosse legato anche a qualcos'altro, di più brutto, che invece continuava a sfuggirgli? Oppure era l'orgoglio che gli impediva di accettare un qualsiasi fallimento, e si teneva stretto il ricordo di quell'antica ferita perché gli doleva ancora, e gli amareggiava tutto il resto? Possibile che fosse ossessionato da se stesso fino a questo punto? «Un po' di malumore, oggi» il traghettatore osservò. «Non avete trovato quello che volevate su, al porto?» «Sì... sì, l'ho trovato» replicò Monk, curvo sui remi. «Era quello che mi aspettavo.» «Ma non deve esservi piaciuto a giudicare da quella brutta faccia che fate.» «No... per niente.» Il traghettatore annuì, e tacque. Quando raggiunsero la riva opposta, Monk scese dalla barca con movimenti maldestri tanto era indolenzito, lo pagò e lo salutò. Era un dolore solo, da capo a piedi! Peggio per lui! A voler essere orgogliosi, certe volte... avrebbe dovuto lasciare che fosse il traghettatore a remare. Rientrò a Edimburgo, stanco e senza provare nemmeno un briciolo di soddisfazione per la scoperta fatta. Decise di camminare, a dispetto delle folate di vento freddo che gli soffiavano in faccia, di quella pioggia che di tanto in tanto si trasformava in nevischio e di un cielo grigio. Attraversò Waverley Bridge, imboccò Market Street e raggiunto il ponte George IV, si infilò nel Grassmarket, ritrovandosi davanti alla casa in cui Hester alloggiava senza nemmeno essersi detto per quale motivo preferisse andare direttamente da lei invece di presentarsi in Ainslie Place. Forse in un certo senso aveva deciso che fosse lei che meritava di sapere la verità prima dei Farraline; o perlomeno che dovesse essere presente al momento di raccontarla. Non prese neanche in considerazione il fatto che un atto simile po-
tesse essere crudele. Baird era stato simpatico a Hester o, perlomeno, questa era stata la sua impressione. Era già davanti alla sua porta prima ancora di rendersi conto che in realtà voleva semplicemente condividere la propria delusione, non con chiunque, benché non avesse sottomano nessun altro, ma proprio con lei in modo particolare. Questo bastò a farlo rimanere impietrito con la mano in aria. Ma Hester aveva sentito il rumore dei suoi passi nel corridoio, dal pavimento nudo, senza passatoia, ed era accorsa ad aprire la porta, la faccia piena di aspettativa, e anche di un po' di paura. Gli lesse la delusione negli occhi prima ancora che lui parlasse. «È stato Baird...» era quasi una domanda, anche se non proprio del tutto. Spalancò la porta per farlo entrare. E lui accettò senza neanche badare che quel modo di comportarsi era molto poco conformista, e andava contro le regole. «Sì. È stato in prigione. Arkwight l'uomo della fattoria, lo sapeva; anzi suppongo che quel bastardo abbia scontato una condanna con lui.» Si mise a sedere sul letto lasciando a Hester l'unica seggiola. «Suppongo che McIvor gli abbia consentito di servirsi della tenuta e della fattoria per comperare il suo silenzio, e che quando Mary lo è venuta a sapere, ha dovuto ucciderla per la stessa ragione. Non poteva certo permettere che i Farraline, e tutta Edimburgo, sapessero che lui era un ex forzato.» Hester lo guardò con aria grave, quasi inespressiva, per alcuni secondi. E Monk si accorse di voler cogliere in lei qualche reazione, magari un riflesso del proprio dispiacere, e aprì la bocca per parlare anche se si accorse di non saper cosa dire. Una volta tanto, non aveva neanche voglia di litigare con lei. Voleva un po' di intimità, un appoggio, voleva la fine di tante brutte sorprese. «Povero Baird» disse Hester con un leggero brivido. Monk stava per ridicolizzare quel sentimento quando ricordò con un sussulto che aveva avuto anche lei un assaggio di cosa fosse la prigione, ed era stato molto amaro e molto recente. La battuta gli morì sulle labbra. «Eilish ne verrà fuori distrutta» Hester continuò a bassa voce, per quanto la sua espressione non riflettesse tutto l'orrore di questo fatto. «Sì!» Confermò Monk con veemenza. «Sì, senz'altro.» Hester corrugò la fronte. «Siete proprio sicuro che il colpevole sia Baird? Il solo fatto della condanna scontata in carcere non significa necessariamente che abbia anche ucciso Mary. Non pensate che sia possibile, se questo Arkwight lo ricattava, che lui ne abbia parlato con Mary e lei gli
abbia offerto il suo aiuto, lasciandogli usare la tenuta in questo modo?» «Suvvia, Hester» disse lui con voce stanca. «Questo significa aggrapparsi alle pagliuzze. Per quale motivo avrebbe dovuto farlo? Baird ha ingannato tutta la famiglia, ha mentito sul proprio passato. Perché Mary avrebbe dovuto acconsentire a qualcosa che equivaleva, praticamente, a pagare il ricatto al posto suo? Può darsi che fosse una brava donna, ma a comportarsi a questo modo sarebbe stata addirittura una santa!» «No, non è vero!» Lo contraddisse lei. «Conoscevo Mary, e voi no.» «Ma l'avete conosciuta soltanto per quel viaggio in treno!» «La conoscevo! A lei Baird era simpatico. Me lo ha detto con le sue parole.» «Ma ignorava che fosse un ex forzato!» «Non sappiamo cosa lui abbia veramente fatto!» Si protese verso Monk quasi esigendo con quel gesto che le prestasse ascolto. «Può darsi che glielo abbia confidato e che Mary abbia continuato ad averlo in simpatia ugualmente! Sappiamo che c'è stato un periodo in cui sembrava sconvolto, e che se ne è perfino andato per conto suo. Può darsi che sia successo quando Arkwight si è rifatto vivo. Poi ha confessato tutto a Mary, e lei lo ha aiutato; così ha potuto sistemare le sue cose ed è tornato ad essere quello di prima. È possibilissimo.» «In tal caso chi ha ucciso Mary?» Il viso di Hester assunse di nuovo quell'espressione chiusa, concentrata. «Non so. Kenneth?» «E Baird che si divertiva a pasticciare con quelle sostanze chimiche?» Soggiunse Monk. Sulla faccia di Hester si disegnò un'espressione di disprezzo. «Non siate così ingenuo. Non l'ha visto nessun altro all'infuori di Quinlan, che si rode dalla gelosia. Per tutto quanto riguarda Baird, sarebbe disposto a raccontare un sacco di fandonie!» «E lo lascerebbe finire sul patibolo per un delitto che non ha commesso?» «Senz'altro! Perché no?» Monk la guardò e vide la certezza nel suo sguardo. Si domandò se a Hester non fosse mai capitato di avere qualche dubbio su se stessa, come capitava a lui. Ma, d'altra parte, lei conosceva il proprio passato, non soltanto ciò che provava e sentiva adesso, ma ciò che aveva sempre sentito, pensato e fatto. Non c'erano stanze segrete nella sua esistenza, non c'erano passaggi bui o porte sbarrate nella sua mente.
«È mostruoso» disse a voce bassa. Lei gli frugò in faccia con gli occhi. «Lo è per voi e per me» e la sua voce era sommessa. «Ma Baird, a lui, ha portato via quello che per diritto avrebbe dovuto essere suo. Non la moglie, ma l'amore, il rispetto, l'ammirazione di una moglie. Non può accusarlo di quello, non può punirlo per quello. Forse pensa che sia mostruoso anche questo.» «Questo...» Monk cominciò, ma poi tacque. Hester sorrideva, anche se il suo sorriso non aveva niente di allegro, ma era amaro, doloroso. «Sarà meglio andare dai Farraline a riferire che cosa avete scoperto.» Riluttante, Monk si alzò in piedi. Non c'era alternativa. Eccoli nel salone di Ainslie Place. Erano tutti presenti. Perfino Alastair aveva fatto in modo di rinunciare ai suoi impegni in tribunale o in ufficio. E c'era da pensare che l'azienda tipografica andasse avanti da sola, almeno per quel giorno. «Pensavamo che sareste tornato stamattina» disse Oonagh, scrutando Monk con attenzione. Appariva stanca, la pelle chiara sotto i suoi occhi sembrava segnata, come carta velina spiegazzata, ma la sua compostezza era totale, come sempre. Alastair spostò gli occhi da Monk a Oonagh, e poi tornò a guardare Monk. Eilish pareva logorata dall'attesa e dall'ansia. Era in piedi, vicino a Quinlan, immobile, come impietrita. Baird si era messo in fondo alla stanza a occhi bassi, livido in faccia. Kenneth era appoggiato alla mensola del camino con una lieve smorfia compiaciuta ma era difficile capire se non si trattasse, soprattutto, di un senso di sollievo. A un certo momento sorrise a Quinlan ed Eilish gli scoccò un tale sguardo di odio che lui arrossì e si voltò dall'altra parte. Deirdra, con aria inquieta e malcontenta, aveva preso posto in una poltrona e, accanto a lei, anche Hector Farraline sembrava assorto in tetri pensieri. Una volta tanto, pareva perfettamente sobrio. Alastair si schiarì la gola. «Penso che fareste meglio a riferirci ciò che avete scoperto, signor Monk. Non ha senso starcene qui logorati dal dubbio e dalla paura, a pensar male l'uno dell'altro. Avete trovato questa proprietà terriera di mia madre? Confesso di non averne proprio mai saputo niente, ignoravo addirittura la sua esistenza.» «Non c'è motivo perché tu dovessi saperne qualcosa» Hector obiettò oscuramente. «Non aveva niente a che vedere con te.» Alastair aggrottò le sopracciglia; ma decise di non badargli.
Gli sguardi di tutti erano concentrati su Monk. Perfino Baird lo stava osservando con gli occhi scuri talmente colmi di angoscia che non ebbe più dubbi: sapeva per filo e per segno ciò che Arkwight poteva avergli risposto, e che si trattava della pura e semplice verità. Si accorse di odiarsi per quello che stava facendo. D'altra parte non era la prima volta che scopriva di provar simpatia per una persona colpevole di un crimine, anche se lo trovava deplorevole. «Ho rintracciato l'uomo che abita alla fattoria e gestisce la tenuta» disse ad alta voce senza guardare nessuno in particolare. Hester era in piedi accanto a lui, silenziosa. Monk era lieto della sua presenza. Sotto un certo punto di vista partecipava anche lei, condividendola, alla sua sensazione di smarrimento e di delusione. «Sostiene di aver sempre mandato i soldi al signor McIvor.» Quinlan si lasciò sfuggire un sommesso grugnito di soddisfazione. Eilish aprì la bocca come se volesse dire qualcosa ma, alla fine, tacque. A guardarla in faccia si sarebbe detto che fosse stata duramente colpita. «Ma io non gli ho creduto» continuò Monk. «E perché?» Alastair era meravigliato. «Non ha senso. Oonagh gli sfiorò la manica e lui, come se avesse compreso qualcosa che lei voleva tacitamente comunicargli, ammutolì di nuovo.» Monk, comunque, rispose alla domanda: «Perché non ha saputo fornire alcuna spiegazione sul modo in cui eseguiva questi pagamenti. Gli ho chiesto se andava fino a Inverness a cavallo, e badate si tratta di una giornata intera di viaggio in groppa a una buona bestia oltre a dover prendere ben due traghetti, per spedire una borsa con il denaro col treno in partenza per Edimburgo...» «Ma è assurdo!» Deirdra esclamò in tono sprezzante. «Certamente» convenne Monk. «E allora cosa state dicendo, signor Monk?» Oonagh gli domandò con voce molto ferma. «Se non ha mai pagato Baird, per quale motivo si trova ancora lassù? Perché non è stato scacciato?» Monk respirò a fondo. «Perché sta ricattando il signor McIvor per certi loro rapporti che risalgono al passato; e abita lì senza tirar fuori un soldo, perché questo è il prezzo del suo silenzio.» «Ma di che rapporti state parlando?» Domandò Quinlan. «Mia suocera era riuscita a saperne qualcosa? È per questo motivo che Baird l'ha uccisa?» «Bada a come parli!» Intervenne Deirdra in tono aggressivo, con voce
tagliente, accostandosi un poco di più a Eilish e rivolgendo un'occhiataccia a Baird come per scongiurarlo di negare tutto ciò che stavano ascoltando... Ma bastò un'occhiata alla sua faccia per capire che, da quella parte, non poteva assolutamente aspettarselo. «Quali rapporti, signor Monk? Immagino che avrete le prove di quello che state dicendo, vero?» «Non dire cose insensate, Deirdra» obiettò Oonagh con amarezza. «La prova è la sua espressione. Si può sapere di che cosa sta parlando il signor Monk, Baird? Credo che faresti meglio a spiegarcelo, vero? Così eviterai che sia un estraneo a farlo per te!» Baird alzò gli occhi e incrociò lo sguardo di Monk per un lungo momento, durante il quale sembrò incerto, come in sospeso; poi acconsentì. Non aveva alternativa. Cominciò a voce bassa, fremente, resa aspra dalle sofferenze del passato e dal dolore del presente. «A ventidue anni ho ucciso un uomo. Aveva insultato e offeso un vecchio signore che io rispettavo. Si era fatto beffe di lui, lo aveva umiliato. Ci siamo picchiati. Non intendevo assolutamente, o perlomeno non pensavo che sarei arrivato fino a quel punto... e invece l'ho ammazzato. È caduto picchiando la testa contro il cordolo del marciapiede. «Per questo ho scontato un condanna di tre anni in prigione. È stato allora che ho conosciuto Arkwight. Quando sono tornato libero, ho lasciato lo Yorkshire per venire al nord, in Scozia. E a poco a poco ho fatto carriera, ho avuto successo, e mi sono lasciato alle spalle quel passato. Anzi l'avevo praticamente scordato finché un bel giorno Arkwight si è rifatto vivo, e mi ha minacciato di raccontarlo a tutti se non lo avessi pagato. Io non ero in grado di farlo... avevo appena quel tanto sufficiente a mantenermi, e avrei dovuto dare spiegazioni a Oonagh» ...pronunciò il suo nome come se lei fosse un'estranea, una figura che incarnava il senso dell'autorità. «Naturalmente non ero in grado di farlo. Ho esitato per giorni, e mi sentivo ormai ridotto alla disperazione.» «Lo ricordo...» Eilish bisbigliò, fissandolo angosciata, come se ancora adesso, perfino in quel momento, il suo solo desiderio fosse quello di poterlo consolare, e fargli dimenticare quel passato. Quinlan si lasciò sfuggire un borbottio spazientito e girò subito le spalle. «Mary sapeva» Baird continuò, con voce rauca per l'angoscia. «Aveva capito che c'era qualcosa che mi tormentava in modo addirittura atroce e alla fine le ho raccontato tutto...» Non si accorse neanche che Eilish si irrigidiva di scatto e che sulla sua faccia appariva un'espressione di stupore e di dispiacere. Ma non dovette
capire che si trattava di qualcosa di diverso, che non rifletteva più il dolore per il passato o per lui, ma piuttosto la tristezza e l'offesa per se stessa. Quinlan sorrise. «E le hai raccontato di aver scontato una condanna in prigione» disse, con evidente incredulità. «Sì...» «E ti aspetti che noi lo crediamo?» Alastair aveva preso un'aria cupa, e il dubbio gli si leggeva in faccia. «Insomma, Baird, non ti pare un po' troppo? Puoi dimostrarlo?» «No... salvo per il fatto che mi ha dato il permesso di affittare la tenuta ad Arkwight in cambio del suo silenzio.» Baird alzò gli occhi per cercare lo sguardo di Alastair. E per la prima volta. Era una storia assurda. Per quale motivo una donna come Mary Farraline avrebbe dovuto accettare un uomo con un simile passato, e arrivare addirittura al punto di aiutarlo? Eppure Monk si scoprì a crederci, almeno in parte. Quinlan proruppe in un'aspra risata. «Via, Baird, questa storia non è neanche intelligente!» Kenneth disse con un sorriso, facendo scivolare il piede giù dal parafuoco dove l'aveva appoggiato e andando a sedersi nella poltrona più vicina. «Perfino io potrei trovare una scusa migliore!» «Non c'è dubbio che l'hai già fatto... e spesso, anche!» Oonagh esclamò seccamente, osservando il fratello minore con aria piena di disprezzo. Era la prima volta che Monk le leggeva in faccia una critica così aperta o un'espressione piccata e litigiosa, e ne rimase stupito. Alla fine perfino lei, la conciliatrice, appariva scossa. Monk osservò le sue labbra arricciate, la ruga di ansietà che le segnava profondamente la fronte fra le sopracciglia, ma si rese conto di poter soltanto immaginare, senza conoscerli veramente, quali fossero i sentimenti che lottavano nel segreto del suo cuore. Non si sentiva neanche capace di immaginare se avesse sempre saputo, o magari soltanto sospettato, che, nel passato di suo marito, ci fossero ombre così fosche. Oppure era stato quello che aveva cercato di fare da sempre? Era proprio questo fatto, tanto lampante, che gli era sempre sfuggito... cioè che Oonagh amava il marito, indipendentemente dalla passione che lo ossessionava per la sua sorella più giovane, e che aveva sempre cercato di proteggerlo non solo da quel torbido passato ma anche dai tormenti del presente? Tutto d'un tratto la vide sotto una luce diversa e l'ammirazione che provava per lei diventò smisurata, assumendo contorni di una grandiosità
classica, e non solo per il puro e semplice coraggio, e la compostezza, che aveva sempre mostrato ma perché era una donna che si comportava con una generosità e una capacità di tacere addirittura smisurate. Istintivamente si voltò verso Eilish per vedere se riuscisse a valutare, sia pure vagamente, l'enormità di ciò che aveva fatto. Ma sulla sua faccia riuscì a leggere soltanto la delusione, il dolore cocente di essere stata respinta. Nel momento della maggior disperazione Baird non si era rivolto a lei, ma a sua madre! Lei era stata esclusa. E anche in seguito Baird non aveva mai dimostrato di avere fiducia in lei. E così si era sentita rivelare tutto pubblicamente, da un estraneo. Per quanto poca ammirazione ne provasse, in quell'attivo Monk misurò con esattezza quel che Eilish doveva sentire, tutta la solitudine, la confusione, l'impressione di non valere nulla, la smania di reagire, fare del male a sua volta, e danneggiare per quanto possibile. Perché adesso Monk capiva cos'altro era accaduto su quella scialuppa di salvataggio tanto tempo prima; lui ci si era messo con tutto il suo impegno a fare del proprio meglio, eppure l'eroe era stato un altro. Qualcun altro aveva rimediato al suo errore e salvato quell'uomo sulla nave condannata. Con gli occhi della memoria poteva vedere il ragazzo, più vecchio di lui solo di uno o due anni, in piedi, in precario equilibrio sul ponte viscido, scagliare la fune a rischio di precipitare in acqua, fradicio fino alle ossa, e poi legarla ben salda e strappare quell'uomo dalla terribile voragine. Nessuno gli aveva detto niente, nessuno lo aveva rimproverato, eppure gli pareva ancora di sentirsi risuonare nelle orecchie gli elogi all'altro ragazzo non soltanto per la sua abilità ma anche per il suo coraggio! Ecco qualcosa che faceva male: la prontezza dei riflessi, l'abnegazione e l'audacia, le qualità che Monk desiderava, aveva desiderato possedere, più di qualsiasi altra. La stessa cosa valeva per Eilish. Più di tutto il resto anche lei aveva desiderato essere amata, e che le si mostrasse fiducia. Adesso ciascuno di loro guardava Monk, in attesa del giudizio. Quinlan aveva deciso, ma del resto era quello che aveva fatto fin dal principio. «Se credete a tutte queste storie, siete uno stupido!» Disse con amarezza. Sarebbe meglio che chiamassimo la polizia, prima che Monk lo faccia. Oppure stai meditando di pagare anche il suo silenzio? È troppo tardi per evitare lo scandalo, c'è qualcuno che lo ha già pensato? «Si guardò intorno con gli occhi sbarrati.» È stato uno di noi! Di qui non si scappa. «Uno scandalo» Deirdra ripeté con aria meditabonda, mentre sul suo vi-
so affiorava un'espressione di attenzione penetrante. «Non è possibile che Baird dica la verità, e che nostra suocera abbia deciso di pagare questo Arkwight per evitare lo scandalo?» Cadde un lungo silenzio. Oonagh si voltò verso Baird. «Perché non lo hai detto?» gli chiese. «Perché non credo che sia vero» lui le rispose con molta sincerità, fissandola con gli occhi scuri. «Mary non era tipo da fare una cosa del genere.» «Certo, che lo era!» Interloquì Alastair in tono aspro, poi lanciò a Oonagh uno sguardo che rivelava il suo desiderio di scusarsi, quasi umiliato, perché si era appena reso conto delle parole che gli erano sfuggite. «Credo che per il momento sia meglio lasciare le cose come stanno» disse Oonagh con determinazione. «Non sappiamo la verità...» Hester aprì la bocca per la prima volta. «La signora Farraline mi ha parlato parecchie volte del signor McIvor, durante il viaggio in treno, e sempre con affetto» disse con voce pacata. «Non riesco a immaginare che accettasse di pagare un ricatto semplicemente per impedire che uno scandalo macchiasse l'onore della famiglia. Se avesse avuto intenzione di fare qualcosa del genere, lo avrebbe detestato, magari gli avrebbe perfino chiesto di andarsene...» «Grazie per i vostri commenti, signorina Latterly,» Alastair disse in tono brusco «ma non credo davvero che siate in possesso di informazioni tali da...» «E invece sì, che le possiede!» lo interruppe Deidra. Ma prima che potesse aggiungere qualcos'altro, Alastair le aveva già dato ordine di tacere e si era rivolto a Monk: «Vi ringrazio per l'opera che avete svolto, signor Monk. Avete prove documentate di tutto quanto ci avete detto?» «No.» «In tal caso penso che conserverete il silenzio su quanto sapete fino a quando non avremo preso una decisione sul da farsi. Domani è domenica. Dopo la funzione in chiesa verrete a pranzo da noi, e allora riprenderemo in esame la faccenda per cercare di risolverla. Vi auguro il buon giorno, signor Monk, signorina Latterly.» Non restava altro che accettare il congedo. Monk e Hester si avviarono insieme verso il vestibolo, passarono davanti al grande quadro che raffigurava Hamish e uscirono sotto la pioggia che cadeva scrosciante. 12
Monk e Hester si trovarono subito d'accordo: sarebbero andati anche loro in chiesa la domenica mattina. Monk non lo faceva certo per dedicarsi alla preghiera. La religione non era un argomento al quale avesse mai dedicato un pensiero, ma gli offriva un'altra opportunità di osservare i Farraline. Non domandò a Hester quali fossero le sue ragioni. Presumibilmente erano simili alle proprie. Si incamminarono verso i quartieri nuovi della città lasciandosi il Grassmarket alle spalle, dopo aver calcolato con largo margine il tempo che poteva occorrere, una volta controllata l'ora della funzione, e quindi arrivarono quando la congregazione si stava già radunando. Sfilarono nell'interno della chiesa dietro un'imponente matrona che indossava un abito singolarmente sobrio e austero, appoggiata al braccio di un uomo dalla faccia tetra che teneva il cappello in mano. Sia l'uno che l'altra salutarono con un cenno del capo alcuni conoscenti e ricevettero in cambio cenni di saluto più o meno simili. Tutti avevano un aspetto singolarmente severo. Hester si guardò intorno. Era difficile riconoscere le donne di casa Farraline perché adesso, com'era logico, portavano tutte il cappello. Andare in chiesa senza cappello e guanti sarebbe stato praticamente come arrivarvi completamente nudi. Era più facile individuare gli uomini per il colore dei capelli e per il comportamento caratteristico di ciascuno di loro. Infatti non ci volle molto per adocchiare la testa bionda di Alastair con quella lieve chiazza di calvizie dove i capelli si facevano a poco a poco più radi proprio in cima alla testa. Quasi come se avesse sentito lo sguardo di Hester che si posava su di lui, Alastair si voltò parzialmente verso di loro ma, almeno in apparenza, lo fece soltanto per salutare con un cenno del capo la coppia che li precedeva. «Buon giorno, Procuratore Fiscale» disse la donna con aria tetra. «Gran bella giornata, vero?» Era un'osservazione di rito. In realtà stava cominciando a piovere e il freddo si faceva sentire sempre di più. «È vero, signora Bain» lui rispose. «Una giornata gradevolissima. Buon giorno, signor Bain.» «Buon giorno, Fiscale.» L'uomo inclinò la testa in un gesto rispettoso e andò avanti. «Povera creatura» disse la donna non appena furono passati. «E che brutta faccenda per lui!»
«Cerca di stare zitta, Martha» disse l'uomo con voce tagliente. «Non voglio sentirti spettegolare proprio in chiesa. E come se non bastasse, nel giorno di festa. In chiesa si dovrebbe tacere, e basta!» La donna diventò rossa per la stizza, ma preferì non ribattere per difendersi. Hester si morse un labbro, sentendosi frustrata per lei. Monk la prese per un braccio e la fece entrare, sia pure con una certa difficoltà e dopo aver pronunciato più di una volta parole di scusa per piedi calpestati e dignità offesa, in un banco che si trovava due file dietro quelli dei Farraline. Hester chinò la testa per raccogliersi nella preghiera, e Monk seguì il suo esempio anche se, per lui, quello era un gesto puramente esteriore. Continuò ad arrivare altra gente e parecchie persone lanciarono a Monk e a Hester uno sguardo stupito e irritato. Ci volle un bel po' di tempo prima che si accorgessero di avere occupato un posto che evidentemente per abitudine, e secondo una tacita regola, apparteneva a qualcun altro. Ma non si mossero. Monk osservò quante erano le persone che salutavano con un cenno del capo Alastair o gli rendevano omaggio in qualche altro modo. Chi gli rivolgeva la parola, parlava in un sussurrio, e non lo chiamava per nome quanto piuttosto con il titolo della carica che occupava. «Un uomo così intelligente» mormorò una donna alla sua vicina, proprio davanti a Monk. «Come sono contenta che non abbia appoggiato l'accusa contro il signor Calbraith. Del resto io ho sempre pensato che fosse innocente. Non credo che un gentiluomo come lui possa aver fatto una cosa simile.» «E anche il figlio della signora Forbes» rispose la sua vicina. «Sono sicura che, più che un crimine, è stata una tragedia.» «Precisamente. E la ragazza, se volete che vi dica come la penso, doveva essere una poco di buono. Le conosco bene io, quelle lì!» «Le conosciamo bene tutti, mia cara! C'è stato un periodo in cui ho avuto anch'io una cameriera più o meno dello stesso genere. Naturalmente abbiamo dovuto mandarla via.» «Gran bell'uomo, suo padre!» Intanto i suoi occhi erano tornati a fissare Alastair. «Un vero peccato.» Dall'organo si levò una musica che ispirava alla meditazione. Sulla sinistra qualcuno lasciò cadere un libro degli inni con un tonfo sordo. Nessuno si voltò a guardare.
«Non sapevo che li conosceste.» C'era una sfumatura di interesse nella voce della donna che occupava il posto davanti a quello di Hester, mentre girava un poco la testa per ascoltare meglio, casomai la sua vicina decidesse di dilungarsi sull'argomento. «Oh, sì, e molto bene» annuì quest'ultima, facendo ondeggiare le piume che le ornavano il cappello. «Di una tale bellezza, sapete! Non come quel disgraziato di suo fratello che beve come una spugna, a quanto dicono. E che non ha mai avuto neanche un briciolo di talento. Il colonnello era un tale artista, sapete?» Un anziano gentiluomo, che si trovava alla loro destra, si voltò a lanciare un'occhiataccia a tutte e due, ma venne ignorato. «Un artista? Non lo sapevo! Ho sempre creduto che fosse il proprietario di una tipografia.» «Oh, certo! E un artista di pregio, anche. Disegnava stupendamente, aveva una mano finissima con la penna. Caricature, sapete? Il povero maggiore, al suo confronto, è un disgraziato, una creatura spregevole. Senza talento per niente, salvo per scroccare tutto quanto può alla sua famiglia da quando il colonnello è morto.» Hester si protese a batterle delicatamente con la mano sulla spalla. La donna si voltò di scatto, sussultando e aspettandosi che qualcuno le dicesse di smetterla di parlare in chiesa. «Gradireste una pietra?» Le propose Hester. «Come dite, non ho capito...» «Una pietra» Hester ripeté con voce più chiara. «E a che cosa dovrebbe servirmi?» «A scagliarla» replicò Hester. Poi nel caso lei non avesse capito a che cosa alludeva, soggiunse: «Contro Hector Farraline.» La donna diventò paonazza. «Be', insomma!» «Chiudete il becco, stupida!» sibilò Monk, allungando a Hester una gomitata. «Per amor di Dio, figliola, ma volete proprio farvi riconoscere?» Lei parve sconcertata. «"Assolta per mancanza di prove"!» riprese Monk in tono brusco, ma anche talmente sommesso che lei quasi non riuscì a udirlo. «Non innocente!» Le guance di Hester si colorirono di un rosso acceso; e gli voltò le spalle. La funzione religiosa cominciò. Fu estremamente sobria e pia, e un lungo sermone fu dedicato a peccati quali la superficialità e l'incostanza.
Il pranzo del giorno festivo ad Ainslie Place non risultò gustoso e abbondante come lo sarebbe stato presso qualsiasi altra famiglia di pari condizione economica a Londra. I domestici erano andati anche loro ad assistere alla funzione religiosa e, di conseguenza, per quanto le portate che vennero servite fossero parecchie, si trattava solo di cibi freddi. Ma nessuno fece commenti. La giornata in sé e per sé era considerata una spiegazione sufficiente. Alastair, nella sua posizione di capofamiglia, pronunciò una breve preghiera prima che qualcuno si azzardasse a toccare il cibo che aveva davanti; poi le verdure vennero servite come contorno alle carni fredde. Per un po' tutti evitarono l'argomento della proprietà terriera di Mary, degli affitti, di Arkwight o degli eventuali dubbi sulla colpevolezza di Baird su questo o altri fatti. D'altra parte Baird stesso sembrava che avesse calato una maschera su quelli che potevano essere i suoi sentimenti e le sue opinioni in proposito, come chi ha già accettato la propria condanna a morte. Eilish appariva desolata. Era sempre bellissima. Nessun tipo di dolore avrebbe potuto toglierle la bellezza ma l'ardore che aveva illuminato il suo viso in precedenza adesso appariva scomparso, come se non fosse mai esistito. Deidra aveva il viso segnato da occhiaie profonde, che rivelavano l'insonnia di cui doveva aver sofferto, e continuava a passare gli occhi dall'una all'altra delle persone di famiglia come in cerca di qualcosa che potesse mitigare la sua angoscia, senza trovarvi conforto. Oonagh sedeva al suo posto pallidissima. Alastair aveva l'aria profondamente angosciata, Hector si serviva di vino abbastanza frequentemente, come era sua abitudine, ma sembrava che si fosse impegnato, contro il suo solito, a rimanere sobrio. Soltanto Quinlan dava l'impressione di ricavare un po' di contentezza e soddisfazione da qualche cosa. «Non si può rimandare per sempre» si decise a dire a un certo punto. «Bisogna pur prendere una decisione!» Rivolse uno sguardo a Monk. «Suppongo che abbiate intenzione di tornare a Londra, vero? Se non proprio domani, in un futuro abbastanza prossimo. Non intenderete rimanere a Edimburgo, eh? Non abbiamo altre tenute, altre fattorie, per pagare il vostro silenzio.» «Quinlan!» Esclamò Alastair infuriandosi, mentre batteva con forza il pugno sul tavolo. «Per amor di Dio, figliolo, cerca di avere almeno un briciolo di decenza!»
Quinlan alzò le sopracciglia. «C'è qualcosa di decente in tutto questo? Le tue idee sono diverse dalle mie, caro Procuratore Fiscale. Secondo me tutto quanto è successo è profondamente indecoroso. Cosa ti proporresti di fare? Una congiura che ci trovi tutti d'accordo a calare il silenzio su quanto è successo, in modo da lasciare che l'ombra del dubbio resti sospesa per sempre sulla signorina Latterly?» Si girò di scatto sulla seggiola. «E voi lo consentirete, signorina Latterly? Perché vi procurerà gravissime difficoltà se cercherete un altro posto di assistenza a un malato come infermiera. A meno che, naturalmente, non si tratti di qualcuno che sia disposto ad assumervi nella speranza che il paziente passi a miglior vita, eh?» «Naturale che sarei lieta di veder tutto risolto» Hester gli rispose mentre il resto della compagnia si guardava in un silenzio inorridito. «Ma per ottenerlo non voglio che nessuno prenda il mio posto sulla forca, soprattutto se si dovesse trattare di qualcuno che è innocente come lo sono io. Non posso negare che esista la possibilità di qualche imputazione nei confronti del signor McIvor ma non le trovo così determinanti.» Si voltò verso Alastair. «Sono determinanti, Procuratore Fiscale? Sareste pronto a mandare sotto processo una persona sulla base delle prove che avete messo insieme finora?» Alastair arrossì, poi diventò pallido. Deglutì faticosamente. «È impensabile che una causa simile possa venir affidata a me, signorina Latterly. Ho rapporti troppo stretti di parentela con l'eventuale imputato.» «Non è questo che lei voleva dire!» Esclamò Quinlan in tono sprezzante. «Del resto Alastair è famoso per non arrivare mai al processo! Dico bene, Procuratore Fiscale?» Alastair non lo degnò di alcuna risposta e preferì rivolgersi a Baird. «Suppongo che domani andrai in tipografia come al solito?» «Domani è chiusa» Baird rispose, battendo le palpebre come se faticasse a concentrarsi su ciò che gli era stato detto. Hector si allungò verso la caraffa per servirsi di altro vino. «E perché?» Domandò accigliandosi. «Cosa c'è che non funziona? Domani è lunedì, o sbaglio? E per quale motivo non andare a lavorare di lunedì?» Gli sfuggì un rutto che cercò di reprimere. «Nella parte esterna occorre qualche lavoro di ripristino. Mancherà il gas. E non possiamo lavorare al buio.» «Sarebbe stato meglio costruire più finestre» Hector osservò, irritato. «Tutta colpa di quella stramaledetta stanza segreta di Hamish. L'ho sempre detto io che era un'idea stupida.»
Deirdra parve confusa. «Di che cosa stai parlando, zio Hector? Non è possibile aprire altre finestre, oltre a quelle che si aprono sulla facciata principale. Degli altri tre lati, quello sul retro ha tutte le porte che danno sul cortile, e sui fianchi è tutt'uno con gli altri magazzini.» «Non riesco a capire perché mai gli servisse una stanza segreta!» Hector non la stava ascoltando. «Del tutto inutile. E l'ho anche detto a Mary.» «Una stanza segreta?» Deirdra abbozzò un sorrisetto agro. Oonagh offrì la caraffa a Hector, e quando si accorse che lui cincischiava con la mano senza riuscire ad afferrarla saldamente, pensò a servirlo di vino riempiendogli il bicchiere. «Non esistono stanze segrete nella tipografia, zio Hector. Forse ricordi qualcosa della casa antica, quando eravate ragazzi.» «Non...» cominciò lui infuriandosi, poi la fissò negli occhi azzurri, limpidi, dallo sguardo fermo, pacati e tranquilli come dovevano essere stati i suoi, trent'anni prima, e le parole gli morirono sulle labbra. Oonagh gli sorrise e poi si rivolse a Monk: «Chiedo scusa, signor Monk. Vi abbiamo messo in una posizione sgradevole, e probabilmente vi abbiamo anche creato qualche imbarazzo con le nostre discussioni familiari. Naturalmente non possiamo aspettarci che conserverete il silenzio sulle vostre scoperte che riguardano un personaggio molto discutibile come il signor Arkwight, e il fatto che sia l'affittuario della mamma. Questo signore sostiene di aver sempre pagato l'affitto, e mio marito sostiene il contrario cioè che mia madre ha concesso ad Arkwight di occupare la tenuta senza pagare un soldo, in cambio del suo silenzio. Che tali accordi siano stati presi con il consenso di mia madre, è qualcosa che non riusciremo mai a sapere. Quinlan, per motivi suoi privati, è convinto che mia madre fosse all'oscuro di tutto. Io invece preferisco credere che lo sapesse. Adesso sta a voi agire come pensate che sia più giusto.» Si rivolse a Hester. «Quanto a voi, signorina Latterly, posso soltanto scusarmi per avervi coinvolto nella nostra tragedia familiare. Mi auguro che niente di tutto quanto è avvenuto qui abbia raggiunto Londra, o perlomeno la cosa non sia stata risaputa in modo dettagliato, in modo che non debba influire sul vostro futuro o anche sulle vostre possibilità di guadagnarvi da vivere, come pensa Quinlan. Se potessi disfare ciò che è stato fatto, in modo da favorirvi, lo farei subito ma è al di là dei miei poteri. Mi spiace.» «È qualcosa di cui ci rammarichiamo tutti» Hester rispose tranquillamente. «Non dovreste sentirvi affatto obbligata a farmi le vostre scuse, ma
vi ringrazio per la vostra amabilità. Ho conosciuto la signora Farraline solo per un tempo molto breve ma a giudicare da quello che mi raccontò, la sera del nostro viaggio, preferisco credere a tutto quanto voi stessi credete. E non lo trovo per niente difficile.» Oonagh sorrise ma i suoi occhi rimasero freddi, e la tensione che rivelavano non scomparve a questa risposta. A ogni modo, non appena il pranzo finì, Monk diede l'impressione di avere una certa fretta di congedarsi. «Affido la questione alle vostre mani» disse ad Alastair. «Voi adesso siete stato messo al corrente dell'esistenza di questa proprietà di vostra madre, del modo in cui se ne è disposto, e del fatto che a occuparla come fittabile è questo Arkwright. Dovete informare la polizia di quanto giudicate appropriato. Nella vostra qualità di Procuratore Fiscale, vi trovate in una condizione molto migliore della mia per giudicare che cosa possa costituire una prova, e che cosa non lo sia affatto.» «Grazie» Alastair accettò queste sue parole con aria grave ma anche lui, almeno apparentemente, senza un particolare sollievo. «Addio, signor Monk, signorina Latterly. Mi auguro che il vostro viaggio di ritorno a Londra sia gradevole.» Non appena si ritrovarono fuori dalla porta e sul marciapiede, Monk si rialzò per quanto era possibile il colletto del soprabito e Hester si avvolse più strettamente nel cappotto azzurro per ripararsi dal vento. «Che mi venga un accidente se voglio concludere a questo modo la faccenda! Niente affatto. Uno di loro l'ha ammazzata! E se non è stato McIvor, si tratta di uno degli altri.» «Sarei straordinariamente felice se si trattasse di Quinlan» Hester esclamò accalorandosi mentre attraversavano la strada e cominciavano a camminare sull'erba. «Che uomo insopportabile, letteralmente odioso! Ma perché mai Eilish lo ha sposato? Anche la persona più stupida del mondo può capire, guardandola, che lo detesta adesso... e non c'è affatto da meravigliarsi! Secondo voi, Hector era ubriaco?» «Naturale che era ubriaco! È sempre ubriaco, povero diavolo!» «Mi domandò perché» Hester disse con aria pensierosa, affrettando il passo per non rimanere indietro. «Che cosa gli è successo? A quanto diceva Mary, in passato era un uomo brillante e pieno di fascino come Hamish, e più coraggioso come soldato.» «L'invidia, suppongo» rispose lui senza interesse. «Il fratello più giovane, la possibilità di comprare un brevetto da ufficiale ma di un grado inferiore, il fatto che Hamish si sia incamerato tutta l'eredità e, a quanto pare,
avesse anche intelligenza e talento.» Intanto erano arrivati sul lato opposto della piazza. Imboccarono, ridiscendendola, Glenfinlas Street. «Intendevo dire che mi piacerebbe sapere se anche voi pensate che fosse tanto ubriaco da dire un sacco di sciocchezze» Hester riprese. «A proposito di che?» «Di una camera segreta, naturalmente» rispose lei spazientita, dopo esser stata costretta a fare un'altra corsettina per tenersi alla pari con Monk e aver quasi urtato, così facendo, una donna che passava con una cesta. «Per quale motivo Hamish avrebbe dovuto costruire una stanza segreta nei locali della sua tipografia?» «Che ne so! Per nascondere libri proibiti!» «Quali sono, di solito, i libri considerati proibiti?» Lei gli domandò con il fiato mozzo. «Volete dire rubati? Ma, no! Non avrebbe senso!» «No, naturalmente non rubati! Ma libri blasfemi, corruttori, molto probabilmente pornografici.» «Oh... oh, vedo.» «No, non vedete un bel niente. Però non è escluso che possiate capire.» Lei preferì non spaccare il pelo in quattro e mettersi a discutere. «Ma è qualcosa per cui si potrebbe addirittura arrivare al delitto?» «Se sono in quantità sufficiente, e magari nel testo non lasciano niente o quasi niente alla fantasia, potrebbero valere un mucchio di soldi» replicò Monk. Due gentiluomini attraversarono la strada davanti a loro. Uno faceva ondeggiare il bastone. «Volete dire che si potrebbero vendere per un bel mucchio di soldi!» Anche Hester, quando voleva, sapeva essere altrettanto pedantesca. «Ma come valore, non ne hanno nessuno.» Lui fece una smorfia. «Non credevo che una donna come voi conoscesse questo genere di pubblicazioni.» «Ho fatto l'infermiera nell'esercito!» Ribatté lei acida. «Oh.» Per un attimo Monk si sentì confuso, preso in contropiede. Preferiva non pensare che Hester fosse al corrente di simili cose, e meno ancora che le fossero finite sotto gli occhi. Se ne sentiva offeso. Le donne, soprattutto le donne perbene, non avrebbero mai dovuto trovarsi fra le mani tutto quanto di osceno riesce a creare la più morbosa e torbida fantasia umana. Senza accorgersene, affrettò il passo, andando quasi a sbattere contro una coppia, un uomo e una donna. L'uomo gli lanciò un'occhiataccia e bofon-
chiò qualcosa. Hester fu costretta a mettersi a trotterellare per non rimanere indietro. «Si può sapere se andiamo a controllare se esiste, o no?» Gli domandò con il fiato corto. «Vi prego, rallentate un po' il passo. A questo modo non posso né parlare né ascoltarvi.» Lui obbedì bruscamente e Hester, senza volerlo, nella sua corsettina, gli passò davanti di un paio di passi. «Certo, è quello che ho intenzione di fare» le rispose. «Ma voi, no.» «E invece io, sì.» Era un'affermazione molto semplice, concisa, contraddittoria, piena di testardaggine. Non sembrava affatto una domanda o tantomeno una preghiera. «No, voi non venite. Potrebbe essere pericoloso...» «E per quale motivo? Hanno detto che domani, in tipografia, non ci sarà nessuno, e anche oggi possiamo essere sicuri che sia deserta. Non si azzarderebbero mai a lavorare in un giorno festivo!» «Ho intenzione di andarci stasera, quando è buio.» «Naturale che ci andremo quando è buio. Sarebbe assurdo andarci alla piena luce del giorno; chiunque potrebbe vederci.» «Voi non venite!» Adesso si erano fermati di botto e creavano un ostacolo sul marciapiede. «E invece sì che ci vengo. Avrete bisogno di aiuto. Se è effettivamente una stanza segreta, non sarà così semplice da trovare! Magari saremo costretti a bussare alle pareti per sentire se suonano vuote, oppure a muovere...» «E va bene!» Ribatté lui, reciso. «Ma dovrete fare quello che vi verrà detto!» «Naturalmente.» Monk sbuffò, e di nuovo riprese il cammino a passo lesto. Non erano ancora le undici, ma il buio era già molto fitto salvo per la lanterna che Hester reggeva, quando con Monk si trovarono finalmente nel vasto locale della tipografia e diedero inizio alla loro ricerca. Per evitare rumore inutile erano stati costretti a forzare la porta. Monk possedeva, in questo campo, abilità che lasciarono Hester strabiliata, anche se lui si guardò bene dal fornirle qualche spiegazione sul modo in cui le aveva apprese. Forse non se ne ricordava neanche. Per più di un'ora frugarono dappertutto lentamente e metodicamente, ma la costruzione era molto solida e la sua pianta di una semplicità estrema. In
realtà si trattava di una struttura più o meno simile a quella di un granaio, pressoché identica ai due magazzini che la fiancheggiavano, e che doveva servire unicamente allo scopo di stampare libri. Non c'erano, quindi, né decorazioni né sculture o intagli, né nicchie, scaffalature, mensole di camini o altro che potessero mascherare un'apertura. «Era ubriaco!» Disse Monk indignato. «Odiava Hamish a tal punto che stava semplicemente cercando di dare fastidio, di creare difficoltà... così ha detto la prima cosa che gli è saltata in testa, per quanto assurda potesse essere.» «Non abbiamo ancora frugato molto» obiettò Hester. Lui le lanciò uno sguardo fulminante, che pareva ancor più truce al riflesso giallastro della lanterna, in quella specie di caverna cupa nella quale si trovavano. «Be', avete forse un'idea migliore?» Gli chiese Hester. «Volete semplicemente tornare a Londra e non sapere mai chi ha ucciso Mary?» Ammutolito Monk riprese a esaminare le pareti. «Questa segue dritta dritta la linea del muro confinante con il magazzino adiacente» disse, mezz'ora dopo. «Non vi esiste il minimo spazio per una nicchia nascosta, figurarsi poi per un'intera stanza.» «E se fosse nel soffitto?» Disse Hester, in preda alla disperazione. «Oppure negli scantinati?» «Ci sarebbero le scale per arrivarci... invece mancano.» «Eppure deve essere qui! La verità è che non l'abbiamo ancora trovata.» «La vostra logica è tipica» ribatté lui acido. «Non l'abbiamo trovata, quindi deve essere qui.» «Non è quello che ho detto! Lo avete capito al contrario!» Lui inarcò le sopracciglia. «Dev'essere qui perché non l'abbiamo trovata? Sarebbe un miglioramento dal punto di vista deduttivo?» Hester prese la lanterna e lo piantò in asso, al buio. Non c'era niente da perdere a perquisire quei locali un poco più a lungo. Era l'ultima occasione che rimanesse. L'indomani sarebbero partiti e a Baird McIvor non restava che affrontare un processo e magari rischiare l'impiccagione, oppure continuare a vivere sotto l'ombra di un'altra sentenza di "assoluzione per mancanza di prove". In un caso come nell'altro, lei non sarebbe mai stata sicura sull'identità dell'assassino di Mary. Aveva un bisogno assoluto di saperlo, e non soltanto per se stessa ma perché il viso di Mary, animato, intelligente, spiritoso, era ancora impresso in modo incisivo nella sua mente né più né meno come quando aveva chiuso gli occhi per addormentarsi quella
notte sul treno per Londra, e il suo ultimo pensiero era stato quello che la trovava molto simpatica. Non la trovò per un puro caso ma soltanto a furia di battere e bussare metodicamente, furiosamente. Un massiccio pannello della parete scivolò di lato mettendo a nudo una porticina. La stanza in sé e per sé, in origine, doveva aver fatto parte del magazzino adiacente e non della costruzione in cui si trovavano. Di conseguenza il fatto che esistesse era sempre rimasto un segreto perché nessuna pianta di quel piano della costruzione avrebbe fatto rilevare qualche differenza. Per rendersi conto della sua esistenza sarebbe stato necessario avere i progetti e i disegni delle due costruzioni comunicanti, e confrontarli. «L'ho trovata!» gridò esultante. «Non strillate!» sibilò Monk che le veniva subito alle spalle, facendola sussultare. Per poco non le sfuggì la lanterna di mano. «Non fate così!» esclamò lei, secca secca, precedendolo nella cavità buia che aveva davanti. Con la lanterna sollevata e protesa quanto era possibile davanti, non appena vi entrarono poterono avere una panoramica dell'intera stanza. Era senza finestre, lunga circa quattro metri e larga poco più di tre, con il soffitto basso e un unica apertura, una specie di sfiatatoio necessario alla ventilazione che si trovava all'estremità più lontana, in un angolo, comunicante con l'esterno. Per una buona metà il locale era occupato da torchi tipografici, inchiostro, mucchi di carta e taglierine. Altro spazio era preso da un tavolo che assomigliava quasi a un cavalletto e a uno scaffale che conteneva tutta una serie di strumenti per l'incisione e la stampa oltre a un buon numero di boccettine piene di acidi. Al di sopra del tavolo c'era, sporgente, un braccio al quale si sarebbe potuta appendere una grossa lampada a gas senza paralume. Una volta accesa, avrebbe dovuto diffondere una luce molto vivida e brillante. «Cos'è tutto questo?» Hester domandò stupita. «Qui non ci sono libri.» «Dobbiamo aver trovato la fonte della ricchezza dei Farraline» disse Monk quasi intimidito, in un sussurrio. «Ma qui non ci sono libri! A meno che non li abbiano già spediti tutti?» «Non libri, amore mio... soldi! Qui è dove stampano i soldi! Hester si sentì un brivido correre lungo la schiena, e non solo per quello che la risposta di Monk significava ma anche per l'appellativo che le aveva rivolto.» «Volete dire... banconote false?» balbettò.
«Oh, sì, false... anzi falsissime! Ma devono essere stati molto abili per averla fatta franca tutto questo tempo.» Si staccò da lei di qualche passo, portandole via la lanterna, per chinarsi sui torchi ed esaminarli con maggiore attenzione. «E quanto è questo denaro!» Continuò. «Qui ci sono parecchi biglietti da una sterlina, e altri da cinque, dieci e venti sterline. E guardate un po', sono anche di tutte le diverse banche della Scozia, la Royal, la Clydesdale, la Linen Bank. E perfino quelle della Banca d'Inghilterra. Ed ecco altre che sembrerebbero banconote tedesche, e queste sono francesi. Hanno gusti sono molto eclettici... e, per dio, come sono ben falsificate!» Lei venne a occhieggiarle al di sopra della sua spalla, a fissare con gli occhi sgranati quelle lastre di metallo. «Come fate a capire che la faccenda va avanti da molto tempo? Non potrebbe essere cominciata di recente, magari?» «La ricchezza della famiglia risale a molto addietro nel tempo» rispose Monk. «Fino ai tempi di Hamish... sarei pronto a scommettere che il primo incisore, quello originario, sia stato lui. Ricordate ciò che raccontava quella donna in chiesa? E Deirdra ha accennato al fatto che fosse un ottimo copista.» Prese in mano una banconota e la esaminò con attenzione. «Questa è moneta corrente. Guardate le firme che vi compaiono.» «Ma se hanno fabbricato anche banconote recenti, chi è l'artista, adesso? Non si tratta di una di quelle professioni per le quali si va in giro a cercare l'esperto e, poi, lo si assume in ditta!» «Naturale che non è così. Sarei pronto a scommettere quello che volete che adesso è Quinlan a occuparsene. Non c'è da meravigliarsi che sia così maledettamente arrogante! Sa che non possono fare a meno di lui, e lo sanno benissimo anche loro. Li ha messi in trappola. Povera piccola Eilish! Immagino che sia stata lei il prezzo che hanno pagato.» «Ma è qualcosa di inconcepibile, addirittura!» esclamò Hester inorridita. «Nessuno sarebbe disposto a...» poi si interruppe. Ciò che stava per dire era assurdo, e lo sapeva. Fin da tempi immemorabili le donne erano state date in sposa a qualcuno perché così faceva comodo alle ambizioni o alla convenienza delle loro famiglie, e anche per motivi ben peggiori. Lei, se non altro viveva ancora in casa propria, e godeva della ricchezza di tutti i Farraline. Fra l'altro Quinlan aveva pressappoco la sua età, non era brutto, non era un ubriacone, non era né malato né ripugnante. E magari non si poteva nemmeno escludere che, agli inizi, le avesse voluto bene, prima che lei lo tradisse innamorandosi forse senza neanche accorgersene, di Baird.
Oppure era stato un tentativo di Oonagh per autoproteggersi, quello di offrire in sposa la bellissima sorella minore a un uomo che l'avrebbe posseduta, ma senza sopportare la minima infedeltà? Povera Oonagh... aveva fallito nel suo scopo. Le loro azioni potevano essere senza macchia, ma nessuno poteva controllare i loro sogni. Monk mise di nuovo a posto le banconote con cautela, esattamente dove le aveva trovate. «Secondo voi, Mary sapeva?» Hester domandò in un bisbiglio. «Io... io mi auguro di no. Non sopporto l'idea che avesse dato il suo consenso a tutto questo. So che non è un male come quello di danneggiare materialmente le persone, che è solo avidità, ma...» Lui la guardò con la faccia vacua, i piani scabri delle sue guance e della fronte liscia che luccicavano al lume della lanterna, la forma del naso accentuata dall'ombra. «È un delitto vergognoso!» mormorò tra i denti. «A sentirvi, è come se non ci fossero vittime... perché non riflettete. Cosa fareste se metà dei vostri soldi non valessero nulla, e non riusciste a capire qual è la metà falsa? Come potreste vivere? Di chi potreste fidarvi?» «Ma...» non c'erano parole da aggiungere, e tacque. «La gente avrebbe paura di vendere» continuò Monk in tono più concitato. «E voi potreste vendere, e commerciare, ma con chi? Chi può volere ciò che avete da offrire, chi può darvi ciò di cui avete bisogno? Fin dal giorno in cui l'uomo ha acquisito le merci e l'agiatezza, ha affinato le proprie abilità e imparato a collaborare con gli altri per il beneficio di tutti, si è sempre abituato a un mezzo comune di scambio, il denaro. Anzi, fin da quando abbiamo dato inizio a quella che potremmo chiamare civilizzazione e imparato che siamo non solo una collezione di individui, ciascuno per sé, ma che, piuttosto, abbiamo realizzato il concetto di comunità, il denaro è stato il perno di tutto quanto. Basta inquinare questo, e si colpisce alle radici stesse la nostra società.» Hester lo osservava con gli occhi sgranati, mentre a poco a poco si faceva strada dentro di lei un'idea di quanto tutto ciò fosse grandioso, e la capacità di misurare l'immensità di un'eventuale danno. «E le parole» Monk continuò, col viso acceso, tanta era la violenza dei suoi sentimenti. «Le parole sono il nostro mezzo di comunicazione, quello che mette l'uomo a un livello superiore agli animali. Possiamo pensare, formulare concetti, possiamo scrivere e passare i nostri convincimenti da una nazione all'altra, da una generazione all'altra. Provate a inquinare i nostri rapporti con l'adulazione e la manipolazione, il nostro linguaggio
con le bugie, la propaganda, un uso delle immagini fatto secondo i nostri comodi, la prostituzione di parole e significati, e mancherà qualsiasi modo per intenderci. Diventeremo isolati. Niente è più reale. Ci sentiamo annegare in quella che è la palude degli espedienti, della finzione. La cupidigia, la corruzione e, in ultima analisi, il tradimento: ecco i peccati della lupa.» Si interruppe bruscamente, squadrandola come se la vedesse realmente solo in quel momento. «La lupa?» insistette lei. «Cosa intendete dire? Quale lupa?» «Quella che si trova nell'Inferno» rispose lui lentamente, pronunciando le parole con chiarezza, a una a una. «Il fondo dell'inferno nel senso più completo e assoluto. Dante. I tre famosi animali dell'Inferno. La lonza, il leone e la lupa.» «Ricordate chi vi ha fatto leggere questo, chi ve l'ha insegnato?» Hester domandò quasi in un sussurrio. Lui aspettò talmente a lungo a rispondere che lei credette non l'avesse nemmeno sentita. «No...» trasalì. «No, non me ne ricordo. Sto sforzandomi... ma è qualcosa che mi sfugge. Non sapevo nemmeno di conoscere tutto questo fino a quando ho cominciato a pensare alle banconote falsificate. Io...» si strinse leggermente nelle spalle e voltò la faccia dall'altra parte. «Qui abbiamo saputo tutto quanto ci occorreva. Potrebbe essere il motivo per il quale Mary è stata uccisa. Se fosse venuta a scoprirlo, chissà come, non è escluso che siano stati costretti a costringerla al silenzio per sempre.» «Chi? Quale di loro?» «Chi lo sa! Forse Quinlan. Magari lei lo ha sempre saputo fin dal principio. Quanto a questo, toccherà alla polizia scoprirlo. Su, venite. Qui non possiamo scoprire nient'altro.» Sollevò la lanterna e si avviò verso la porta tornando sui propri passi. Ma gli occorsero un minuto o due per trovarla perché si era richiusa di nuovo. «Dannazione» disse stizzito. «Avrei giurato di averla lasciata aperta.» «Verissimo» fece Hester che gli veniva subito dietro. «Se si è richiusa da sola, vuol dire che ha un contrappeso. E questo significa che possiamo aprirla anche di qui in qualche modo.» «Naturale che possiamo aprirla anche di qui» ribatté lui tagliente. «Ma come? Provate un po' ad alzare la lanterna.» Fece scorrere la punta delle dita sul muro, andando per tentativi, esaminandolo millimetro per millimetro. Ci mise meno di tre minuti per scoprire il paletto. Non era nascosto, si trovava semplicemente in una posizione difficile da raggiungere. «Ah...»
esclamò soddisfatto, e gli diede uno strattone. La porta non si mosse. Provò di nuovo. «È bloccata?» domandò Hester accigliandosi. Lui ci si provò altre tre volte prima di accettare la verità. «No, secondo me è sbarrata.» «Ma non è possibile! Se si blocca semplicemente richiudendola, come faceva Quinlan a venir fuori? Non può aver lavorato qui dentro senza poter uscire casomai ne avesse avuto voglia! E se... se per caso... avesse avuto qualche necessità naturale da soddisfare?» Lui si voltò lentamente, fissandola con quella specie di candore che tanto spesso li aveva accomunati. «Non credo che si sia bloccata da sola. Secondo me siamo stati chiusi qua dentro deliberatamente. Qualcuno si è reso conto che avevamo preso Hector in parola e ha aspettato di vedere se saremmo realmente venuti qui a controllare. Si tratta di qualcosa di troppo prezioso e segreto perché possano permetterci di scoprire la stanza segreta, magari per caso...» «Ma gli operai non torneranno fino a martedì! Quinlan ha detto che sarebbe rimasta chiusa, la tipografia, per via delle tubature del gas!» Esclamò Hester rendendosi conto con crescente lucidità di ciò che questo poteva significare. Il locale era piccolo, privo di finestre, praticamente sigillato salvo per quello sfiatatoio necessario alla ventilazione. Al martedì mancavano trenta ore, come minimo. Si avvicinò allo sfiatatoio e si allungò per toccarlo con la mano. Non esalava nemmeno un filo d'aria, nemmeno una folata gelida. Era stato bloccato... naturalmente. Inutile aggiungere il resto. «Lo so» fece lui a bassa voce. «Si direbbe proprio che, alla fin fine, saranno i Farraline a vincere. Mi spiace.» Lei si voltò con una reazione improvvisa di furore: «Be', non possiamo almeno distruggere questa macchina che stampa le banconote? Non possiamo fracassare le lastre o qualcosa del genere?» Lui sorrise, poi scoppiò in una risata sommessa, ma chiaramente divertita. «Brava! Certo, e perché no? Proviamo a guastarle! Almeno avremo realizzato qualcosa.» «Li farà impazzire di rabbia» fece Hester pensierosa. «Non è escluso che possano andare su tutte le furie, e magari ammazzarci?» «Cara figliola, se non saremo già morti soffocati, ci ammazzeranno in ogni caso. Sappiamo quanto basta per mandarli tutti al patibolo; il guaio è che non sappiamo soltanto chi sia stato il colpevole!» Lei respirò a fondo per calmarsi. Anche se lo aveva già capito, era diver-
so sentirglielo dire con tanta chiarezza. «Sì... sì, è naturale che lo faranno. Bene, cerchiamo almeno di distruggere quelle lastre. Nel caso la polizia le scoprisse, saranno ugualmente una prova. E a ogni modo, come dite voi stesso, la falsificazione è una cosa terribile, è un inquinamento, una corruzione dei nostri mezzi di scambio reciproci. Dovremmo stroncarla per quanto ci è possibile.» E senza aspettare che lui la imitasse, andò ad afferrarne una. Ma rimase impietrita. «Cosa c'è?» Si affrettò a domandare Monk. «No, non distruggiamole» esclamò Hester con un fremito di autentico piacere. «Accontentiamoci semplicemente di sciuparle, di guastarle tanto poco che non se ne rendano conto ma quanto basta perché, quando avranno stampato tutte le banconote che vorranno, a meno che non vengano poi esaminate con la massima attenzione, non si accorgano dei danni fatti da noi. Mentre la prima persona che le osserverà con attenzione, si accorgerà che sono false. Sarebbe molto più efficace, non vi pare? È una vendetta migliore...» «Eccellente! Cerchiamo gli strumenti per l'incisione, e l'acido. Ma state attenta che non ve ne cada una sola goccia sulla pelle. O magari sul vestito, perché potrebbero accorgersene.» Si misero all'opera con determinazione, lavorando fianco a fianco, cancellando sulle lastre pronte per l'incisione qualcosa qui e là, segnandole con qualche sgorbio, ma sempre in modo quasi impercettibile fino a quando non le ebbero guastate, in un modo o nell'altro, dalla prima all'ultima. Ci misero fino alle due del mattino e oltre, mentre la luce della lanterna diventava sempre più fioca. Intanto, adesso che avevano poco d'altro da fare, ormai, si stavano accorgendo sempre di più del freddo. Senza pensarci, meccanicamente, sedettero l'uno accosto all'altro su alcuni scatoloni di carta ammucchiati in un angolo, in modo da non rimanere a contatto con il pavimento che era gelato. Non si sentiva alcuna corrente d'aria. In effetti la stanza era, praticamente, sigillata e, adesso che non erano più completamente concentrati sul modo di rovinare le lastre, a poco a poco si stavano accorgendo che l'aria diventava sempre più viziata. E disgraziatamente gran parte dello spazio era già occupato da scatole, casse e macchinari. «Non riesco a convincermi che Mary fosse al corrente di questo» Hester ripeté, ancora rattristata da quel pensiero, torturata dai ricordi della donna che aveva conosciuto, o credeva di aver conosciuto, sul treno per Londra. Poi riprese: «Non riesco davvero a credere che abbia accettato di vivere nel lusso per tanti anni, quando sapeva che la sua ricchezza proveniva dalla
fabbricazione di banconote false!» «Forse lo giudicava anche lei alla vostra stregua» rispose Monk, fissando la piccola pozza di luce emanata dalla lanterna. «Un crimine senza vittime, che si poteva spiegare solo con l'avidità di denaro.» Hester non rispose per qualche minuto. Monk non l'aveva conosciuta, e quindi capiva che sarebbe stato difficile spiegargli quale fosse il senso di onestà che aveva creduto di scoprire in Mary. «Secondo voi sono stati tutti, insieme?» Disse infine. «No» rispose subito Monk; poi si rese conto della posizione in cui veniva a mettersi seguendo una logica del genere. «E va bene, forse lei non c'entra. E in ogni caso anche se ne era al corrente, tutto quello che abbiamo in giro...» e piegò la testa per indicarle i torchi da stampa «...non era comunque un motivo valido per ucciderla. Ma se non sapeva niente, come pensate che lo abbia scoperto? Impossibile che sia venuta qui, nella tipografia, in cerca di questa stanza! E se, invece, lo sapeva, perché non ha chiamato la polizia? Perché andarsene a Londra? D'accordo, aveva un motivo urgente ma non si può definirlo un caso di emergenza, vi pare? Aveva senz'altro tutto il tempo che voleva per risolvere, prima, questa faccenda.» Scrollò il capo. «Ma c'è davvero da pensare che Mary avrebbe esposto la propria famiglia allo scandalo, alla rovina e alla prigione? Non sarebbe più ragionevole pensare che abbia semplicemente chiesto che smettessero? E vi sembra un motivo sufficiente per farla fuori, eliminarla per sempre?» «Se io fossi un falsario» replicò Hester «avrei risposto "Sì, mamma" e trasferito la sede della mia attività altrove. Sarebbe stato infinitamente meno pericoloso, invece di ucciderla.» Lui non rispose, ma rimase assorto nei propri pensieri. Faceva ancora più freddo di prima. Si accostarono ancora di più, trovando conforto nel calore l'uno del corpo dell'altro; perfino il ritmo uguale del loro respiro sembrava una specie di sicurezza di fronte alla minaccia della oscurità che li circondava, della consapevolezza che il tempo era poco e ogni secondo, passando, diventava uno di meno. «Che cosa ha detto lei... sul treno?» Domandò Monk a un certo momento. «Ha parlato del passato, per la maggior parte.» Hester tornò col pensiero a quella sera. «Allora, lei viaggiava. E ha partecipato al gran ballo che è stato dato a Bruxelles la vigilia della battaglia di Waterloo, lo sapevate?» Rimase con lo sguardo fisso nell'oscurità, parlando a voce bassa. Sembrava più appropriato al suo umore di quel momento, e le faceva risparmiare
energia. E poi erano seduti talmente vicini l'uno all'altra che quel sussurrio poteva bastare. «E mi ha descritto quel ballo, e i colori e la musica, i soldati in uniforme, tutti in rosso e azzurro e oro, gli ufficiali di cavalleria, di artiglieria, gli Ussari e i Dragoni, gli Scots Greys.» Sorrise perché davanti agli occhi della mente le affiorava il viso di Mary, tutto illuminato man mano che riviveva quella sera, quella notte. «Mi ha descritto Hamish, com'era elegante, com'era brillante e pieno di fascino, e come tutte le signore lo adorassero.» «A quell'epoca Hector beveva già?» Domandò lui. «Oh, no. Ha parlato anche di Hector. È sempre stato il più tranquillo, il più affettuoso... non è la parola che ha adoperato però è quello che intendeva. E ha detto anche che, come soldato, era meglio di Hamish.» Sorrise. «E poi mi ha descritto l'orchestra e l'allegria, e le risate per ogni battuta scherzosa, e quelle danze piene d'entusiasmo, vorticose, nelle quali si girava tutt'intorno alla sala fino ad avere le vertigini, le luci e i colori, lo scintillio dei gioielli e il guizzare delle fiammelle delle candele e quei lampi color rosso.» Respirò a fondo. «E insieme la consapevolezza, in tutti, che l'indomani forse uno su dieci di loro sarebbe morto, e due o tre sarebbero rimasti feriti, magari rovinati per sempre, e mutilati di un braccio o di una gamba, o accecati, o Dio sa cos'altro! A ogni modo, qualsiasi cosa pensassero o sentissero, nessuno ne parlava, e i suonatori non perdevano una battuta della musica. Era presente anche Wellington. È stato uno dei momenti più alti della storia. Tutta l'Europa era con il fiato sospeso.» Deglutì e cercò di impedire alla propria voce di tremare. Doveva avere anche lei il coraggio di Mary. Aveva affrontato la morte già prima, e una morte peggiore. Sarebbe stata con Monk e, a dispetto di tutte le inimicizie che li avevano divisi, delle discussioni, dei litigi, della rabbia e del disprezzo, non avrebbe voluto avere nessun altro vicino a sé. Le spiaceva soltanto per lui, che si trovasse lì. «E mi ha anche raccontato il terrore che aveva provato in quei momenti per Hector anche se non si era mai permessa di farglielo capire» concluse. «Vorrete dire Hamish» la corresse lui. «Davvero? Sì, naturale. L'aria si fa sempre più rarefatta, vero?» «Sì.» «E poi mi ha parlato anche dei suoi figli, soprattutto di (Donagli e di Alastair, e del grandissimo affetto che li aveva sempre uniti anche quando erano piccoli.» E gli descrisse ciò che riusciva a ricordare della storia narrata da Mary di quella notte di burrasca e del fatto che li aveva trovati in-
sieme, a consolarsi reciprocamente. «Una donna proprio straordinaria, Oonagh» fece lui a bassa voce. «A volte può fare un po' paura, tutta quella forza.» «Anche Alastair deve aver avuto una gran forza altrimenti non sarebbe il Procuratore Fiscale. Deve esserci voluto un bel coraggio per rifiutarsi di mandare Galbraith sotto processo. A quanto pare si trattava di una causa molto grossa, con importanti risvolti politici, e tutti si aspettavano che lui affrontasse il processo e venisse giudicato colpevole! Credo che questa fosse l'opinione anche di Mary.» «Da quello che ha detto la donna davanti a noi in chiesa, pare che si sia rifiutato di mettere sotto processo parecchie persone. Avete freddo?» «Sì, ma non ha importanza.» «Volete il mio soprabito?» «No... perché allora sareste voi ad avere freddo.» Lui se lo tolse. «Non mettetevi a discutere» disse con voce truce. E cominciò a posarglielo sulle spalle. «Mettetelo intorno alle spalle di tutti e due.» Hester si mosse in modo da renderlo possibile. «Non è grande abbastanza» si lagnò lui. «Ci accontenteremo...» «Mary si aspettava che Galbraith fosse processato? E come fate a saperlo?» «Ha detto qualcosa a proposito di un tizio che si chiamava Archibald Frazer che una sera era andato lì in casa, molto tardi, come di nascosto. Ho l'impressione che questo la preoccupasse.» «Perché? Chi era?» «Un testimone nella causa Galbraith. Lui si irrigidì.» «Un testimone?» Si voltò leggermente a guardarla al lume della lanterna. «E per quale motivo un testimone avrebbe dovuto presentarsi a casa di Alastair a notte fonda? E Mary era molto preoccupata?» «Sì, sembrava che questo fatto la infastidisse.» «Perché sapeva che quell'uomo non avrebbe dovuto presentarsi a casa Farraline, ecco! Alastair non avrebbe dovuto assolutamente ricevere un testimone in privato. E poi mi dite che la causa è stata chiusa così, in quattro e quattr'otto, e non si è mai arrivati a una vera e propria imputazione?» Adesso Hester lo guardava con gli occhi sgranati. Perfino a quella luce che si faceva sempre più tenue, al riflesso giallastro della lanterna fra le ombre, poteva leggere nei suoi occhi che, in quel preciso momento, a
Monk era balenato lo stesso pensiero che aveva avuto lei. «Corruzione?» Bisbigliò. «Il Procuratore Fiscale ha accettato del denaro, o qualcos'altro, per non esercitare l'azione penale contro il signor Galbraith... e Mary aveva proprio paura di questo!» «Una volta sola?» Monk disse lentamente. «Oppure spesso? Quella donna in chiesa ha detto che c'erano stati parecchi casi in cui le imputazioni erano andate a finire in niente, e nel modo più inaspettato. Il nostro Fiscale è soltanto un uomo, abbastanza coraggioso da sfidare le aspettative e respingere la proposta di un processo indipendentemente da quella che può essere la pubblica opinione, oppure è un uomo corrotto che accetta ricompense, in denaro o di altro genere, in modo da non aprire una causa contro chi può, ed è disposto, a pagare il suo prezzo?» «Ma anche se potessimo dare una risposta a tutto questo» Hester continuò, con voce fievole «nasce un'altra domanda: Mary lo sapeva, o lo temeva? E Alastair ne era consapevole?» Monk rimase in silenzio per qualche minuto, ripiegato su se stesso nell'angolo in cui erano rannicchiati, il corpo di sbieco, le gambe allungate davanti a sé, coperte dalla gonna di Hester per tenersi caldo come meglio potevano. Il lume della lanterna diventava sempre più tenue, ormai gli angoli del locale erano completamente nascosti dall'oscurità. L'aria diventava sempre più pesante, e sempre più viziata. «Forse non sospettava né di Kenneth né di Baird» sussurrò Hester alla fine. «E magari neanche di Quinlan per il falso delle banconote. Preferirei quasi pensare che lei non lo sapesse.» «Dannazione!» Imprecò Monk fra i denti. «Maledetto Alasiair Farraline!» La stessa rabbia e la stessa frustrazione, a quel punto, dominavano anche Hester ma molto più forte era il desiderio di dividere l'intensità di quel sentimento con tutte le sue sottigliezze e le sue sfumature di delusione, paura, ricordi, pensieri intuiti solo a metà, smania di conoscere la verità, e senso della propria colpevolezza. Monk allungò una mano per stringere quella di lei che era posata sulla gonna. Per un attimo Hester non si mosse, poi senza pensare si protese con la fronte contro la guancia di Monk, facendo scivolare la testa più giù fino a quando poté appoggiarla nell'incavo del suo collo, con il viso voltato a metà contro la spalla. Il gesto, nel suo insieme, le parve il più giusto, stranamente familiare. Si sentì invadere da un senso di pace mentre a poco a poco la collera si spegneva. Tutto era sempre vero, sempre ingiusto e irri-
solto, ma non aveva più la stessa importanza. L'aria era greve in modo addirittura tormentoso, non aveva la più vaga idea di che ora fosse. La luce del giorno, lì dentro, non avrebbe fatto alcuna differenza. Con dolcezza, Monk la scostò da sé solo di un poco. Hester lo guardò all'ultima, fievole luce della lanterna; osservò le fattezze nette e incisive della sua faccia, i grandi occhi grigi. In quel momento non esisteva più alcuna finzione fra loro, nemmeno una tenue traccia di riserbo o un tentativo di evadere dalla realtà, e nessun rifiuto. Era quanto di più definitivo poteva esservi, e totale. Molto lentamente Monk si sporse in avanti, e con infinita lentezza la baciò sulla bocca, con tenerezza incredibile, quasi con reverenza, come se quel gesto fosse l'ultimo che le forze gli consentivano, quasi come se si trattasse di qualcosa di sacro, la resa dell'ultimo bastione della fortezza. Hester non avrebbe mai pensato di non rispondere, di non concedere tutta se stessa fino nell'intimo, con la stessa generosità, in un abbraccio che desiderava da tanto tempo... e contemporaneamente di rivelarlo con l'appassionata tenerezza delle sue labbra e delle sue braccia. Fu non molto dopo, quando la lanterna si era definitivamente spenta e giacevano accasciati, avvinti, infreddoliti e quasi svenuti tanto l'aria ormai mancava quasi completamente, che senza il minimo preavviso si udì un suono, un tonfo e un lieve fruscio. Un fascio di luce filtrò nella stanza, giallastro e tenue. E, cosa ancor più gradevole, vi penetrò una corrente d'aria fresca, dolce, che aveva profumo di carta. «Siete qui? Signor Monk?» domandò una voce incerta, un po' impastata, venata dalla dolce cadenza musicale del nord. Monk si rialzò a sedere lentamente, con la testa che gli doleva, gli occhi che facevano fatica a mettere a fuoco qualcosa. Hester era immobile al suo fianco; gli pareva di non sentirla quasi più respirare. «Signor Monk?» ripeté la voce. «Hector!» mormorò Monk con le labbra aride. «Hector... cosa...? Siete voi...?» Ma non riuscì a concludere la frase perché fu colto da un accesso di tosse. Hester si rialzò a sedere anche lei, con gesti goffi e maldestri, aggrappandosi a lui. «Maggiore Farraline?» bisbigliò. Inciampando in una risma di carta che gli ostruiva il passo, andando a sbattere con un fianco contro l'angolo del torchio e lasciandosi sfuggire un'esclamazione sommessa di dolore, Hector venne avanti verso di loro,
posando la lanterna sul pavimento. Aveva un aspetto terrificante a quella luce giallastra, i capelli radi erano ritti a ciuffi arruffati sul cranio, gli occhi iniettati di sangue, cerchiati. La sua concentrazione era intensa ed evidentemente gli costava un grande sforzo, ma era riscattata dal sollievo che si disegnava sulla sua faccia. «Signor Monk! State bene?» Poi vide Hester. «Buon Dio! Signorina Latterly! Io... mi scuso... non ho neanche pensato di potervi trovare qui!» Allungò un braccio per aiutarla a rialzarsi poi con un certo imbarazzo si accorse di quanto fossero in disordine le sue vesti. «Siete in grado di alzarvi in piedi, signorina? Vi dispiacerebbe... voglio dire...» esitò, non del tutto sicuro di essere capace di prenderla fra le braccia perché non ne aveva la forza fisica né più né meno come Monk, nelle condizioni in cui si trovava in quel momento. «Sì, credo proprio di star bene, vi ringrazio.» Lei cercò di sorridere. «O se non altro presto mi sentirò meglio, quando avrò un poco più d'aria.» «Certamente, certamente!» Si raddrizzò di nuovo sulla persona, poi si rese conto che non le aveva prestato il minimo aiuto. A ogni modo Monk c'era arrivato prima di lui e si era rialzato sia pure con gesti impacciati e adesso si stava chinando per aiutare Hester a rialzarsi anche lei, nascondendola con il proprio corpo in modo che Hector non la osservasse mentre si riaggiustava gli abiti e si dava un'aria un poco più presentabile. «Vi prego, affrettatevi» Hector li incitò, recuperando la lanterna. «Non so chi vi abbia chiusi qua dentro ma non è del tutto improbabile che possano essersi accorti della mia assenza, e che vengano a cercarmi. E credo proprio che sarebbe meglio se non ci trovassero qui dentro.» Monk proruppe in una risata aspra, che somigliava quasi a un latrato, e senza ulteriori commenti uscirono dalla stanza segreta richiudendosene la porta alle spalle. Poi seguirono Hector, guardinghi, attraverso i locali della tipografia adesso illuminati a malapena dalla luce del giorno che vi penetrava a fiotti dalle finestre che si aprivano sulla facciata principale. «Che cosa vi ha convinto a seguirci?» Hester gli domandò quando si trovarono fuori, mentre si accorgeva di ricuperare un poco le forze all'aria fresca. Hector non nascose il proprio imbarazzo. «Credo... credo di essere stato un po' sbronzo ieri sera. Non ricordo granché di quello che si è detto a tavola, all'ora di cena. Avrei dovuto rinunciare agli ultimi tre bicchieri che mi sono scolato. Ma mi sono svegliato nel cuore della notte senza aver la minima idea di che ora fosse. Avevo la testa pesante come il piombo però
ho capito subito che era successo qualcosa di grave. Questo lo ricordo... è qualcosa di molto grave.» Sbatté le palpebre con aria di scusa e non nascose di sentirsi pieno di vergogna. «Ma neanche per tutto l'oro del mondo sono riuscito a ricordare di che si trattasse.» «Non importa» rispose Monk, magnanimo. «Siete arrivato in tempo.» Fece una smorfia. «C'è mancato poco, sapete!» Poi prese Hector per un gomito e si incamminarono tutti e tre affiancati sulla strada dall'acciottolato sconnesso. «Ma questo non ci spiega perché siete qui!» Protestò Hester. «Oh...» Hector diventò triste. «Be', quando mi sono svegliato stamattina, mi è venuto in mente. Ho capito di aver detto qualcosa a proposito della stanza segreta...» «Avete detto di sapere che ne esisteva una» lo interruppe Monk. «Nella tipografia. Ma non ne sembravate molto sicuro. Questa, almeno, è stata la mia conclusione più che altro partendo da certe deduzioni, non da qualcosa che sapevo con sicurezza... riguardo al contenuto della stanza segreta, soprattutto.» «Deduzioni?» Hector continuava sembrare confuso. «Non so. Cosa c'è dentro?» «Be', perché siete venuto?» Monk ripeté la domanda. «Che cosa vi ha fatto pensare che fossimo proprio lì o che qualcuno ci avesse chiuso dentro?» La faccia di Hector si rasserenò. «Ah... ma è chiaro! Vi eravate concentrato su quell'idea: lo si leggeva chiaramente sulla vostra faccia. Ho capito che sareste andato a cercarla. In fondo, non potevate certo permettere che la signorina Latterly continuasse a vivere, per il resto dei suoi giorni, con quella macchia sul suo nome onorato, vero?» Scrollò la testa. «Anche se non avrei mai pensato di trovare lì dentro anche lei.» Aggrottò le sopracciglia guardando Hester, e per farlo sbandò leggermente tanto che Monk fu costretto, spingendolo per il braccio, a fargli riprendere la direzione di prima. «Siete una giovane donna molto originale.» Un impeto di tristezza lo travolse facendogli cambiare stranamente l'espressione del viso. «Capisco per quale motivo Mary vi avesse in simpatia. A lei piacevano tutte le persone che mostravano il coraggio di essere se stesse, di bere la coppa della vita fino alla feccia e senza paura. Lo ripeteva sempre.» Cercò di incrociare il suo sguardo; aveva l'aria grave. Di nuovo Monk fu costretto a impedirgli di finire nel rigagnolo che scorreva lungo la strada anche se la loro andatura era relativamente lenta.
«E una volta che mi sono reso conto che sareste andato a cercare quella stanza» Hector continuò «ho capito, naturalmente, che se veniva usata per qualche cosa, chiunque se ne servisse vi avrebbe seguito e molto probabilmente vi avrebbe anche chiuso lì dentro.» Batté lievemente le palpebre. «A dirvi la verità, avevo una paura terribile che vi avessero già fatto morire. Sono ben contento che non sia successo.» «Non sappiamo come ringraziarvi» Monk disse con sincerità. «Vi ringraziamo moltissimo» Hester aggiunse, aggrappandosi un po' più strettamente al suo braccio. «Figuratevi, è stato un piacere, mia cara» rispose lui. Poi un'espressione sconcertata si disegnò di nuovo sulla sua faccia: «A proposito, cosa c'è dentro?» «Non lo sapete?» Rispose Monk in tono quasi noncurante, anche se la sua voce si era fatta più tagliente. «No, non lo so. È qualcosa che risale all'epoca di Hamish?» «Credo di sì. Che riguarda Hamish, per il passato. E che adesso riguarda Quinlan.» «Strano. Hamish non ha mai conosciuto Quinlan bene fino a questo punto. Era già malato quando Eilish lo conobbe. Anzi, stava diventando cieco, e aveva momenti di confusione mentale, e gli arti paralizzati. Per quale motivo avrebbe dovuto lasciare una cosa qualsiasi a Quinlan e non ad Alastair o magari addirittura a Kenneth?» «Perché Quinlan è un'artista» rispose Monk, aiutando Hester ad attraversare la strada dall'acciottolato sconnesso per raggiungere il marciapiede opposto. «Davvero?» Hector pareva meravigliato. «Non lo sapevo, questo. Non ho mai visto niente delle sue opere. Sapevo che Hamish era un artista, naturalmente. Anche se il suo lavoro non mi piaceva molto: troppa tecnica e troppo poca fantasia nei suoi disegni. A ogni modo, suppongo che sia soltanto una questione di gusti.» «Per i biglietti di banca, la fantasia non occorre» obiettò Monk seccamente. «Biglietti di banca?» Hector si fermò di botto in mezzo alla strada. «Falso di biglietti di banca» spiegò Monk. «Ecco quello che c'è lì dentro: lastre per incisione e torchi per la stampa di banconote false.» Hector si lasciò sfuggire un lungo e lento sospiro, come se quel pensiero e quella paura fossero rimasti rinchiusi a lungo dentro di lui, repressi per anni.
«Davvero si tratta di questo?» Fu tutto quanto riuscì a dire. «Mary lo sapeva?» gli domandò invece Hester, frugandogli in faccia con gli occhi. Lui la guardò accigliato, lentamente, corrugando le sopracciglia chiare, mentre la luce del sole del primo mattino metteva in rilievo le lentiggini sulle sue guance. «Mary? No, naturalmente. Non avrebbe mai tollerato niente di simile. Mary era una brava donna... aveva le sue... le sue...» arrossì, amareggiato «...le sue debolezze. Raccontava bugie, ci era costretta...» per un attimo non nascose di essere in collera, ansioso di difenderla. Poi anche la collera dileguò, con la stessa rapidità con la quale si era manifestata. «Ma lei non era disonesta. Non in questo senso. Non lo avrebbe mai permesso! Perché non si tratta... non si tratta di derubare una sola persona, ma in questo caso è come derubare tutti! È... qualcosa di corrotto.» «Non ho mai pensato che lo avrebbe tollerato» obiettò Hester soddisfatta, anche se non poteva negare di essere sconcertata per qualcos'altro che lui aveva detto... profondamente sconcertata. Si voltò verso Monk. «Dove stiamo andando? Se stai cercando un veicolo di qualche genere, abbiamo appena lasciato alle nostre spalle una delle strade di grande traffico.» «State andando negli uffici, vero?» Hector pronunciò queste parole quasi come se fossero un'affermazione, e non una domanda. «State andando ad affrontarli. Siete sicuro di...?» aggrottò nuovamente le sopracciglia squadrando con aria dubbiosa prima Hester, poi Monk. «Noi tre non siamo i soldati migliori che si potrebbero avere... siete rimasto chiuso in quella stanza per tutta la notte senz'aria, io sono un vecchio troppo logorato dall'alcol e dall'infelicità per aver la forza di reagire e la signorina Latterly, vi chiedo scusa, è soltanto una donna.» «Io mi sento freschissimo» disse Monk con voce spenta. «Voi siete un soldato, signore, e quindi non verrete meno al vostro impegno nell'ora del bisogno, e la signorina Latterly non è una donnicciola qualsiasi. Saremo più che sufficienti.» Continuarono in silenzio, ciascuno immerso nei propri pensieri. In realtà si trattava soltanto di due o trecento metri; com'era logico gli uffici non si trovavano più distanti dalla tipografia di quanto fosse necessario. A un certo momento a Hester balenò di domandare a Hector come avesse saputo, addirittura, che esisteva quella stanza, e per quale motivo non si fosse mai preso la briga di andare a darle un'occhiata. Forse, nel suo cervello confuso tutto questo aveva creato un affollarsi di ricordi, di gelosie e di
segreti che magari risalivano all'infanzia; e dal momento che Hamish era morto da molto tempo, ormai niente di questo aveva più avuto importanza fino a quando, oscuramente, in mezzo alle nebbie dell'alcol, si era reso conto che era successo qualcosa di grave, a cui bisognava porre rimedio in gran fretta. Raggiunsero gli uffici e i magazzini della tipografia senza aver pronunciato un'altra sola parola. E qui si fermarono, esitarono solo per un attimo, poi Monk bussò seccamente alla porta. Non appena un impiegato venne ad aprire, entrò, seguito subito dagli altri due. L'impiegato indietreggiò, balbettando qualche parola e cercando di fargli le sue rimostranze, ma venne ignorato. Monk continuò dritto per la sua strada, attraversando il vestibolo e passando nell'ampio salone interno dal quale la scala in ferro battuto conduceva all'ufficio di Baird, e a quell'altro, di cui Alastair si serviva nelle rare occasioni in cui faceva un' apparizione in ufficio. Come al solito, il vasto antro sottostante era pieno zeppo di balle di carta, di rotoli di tessuto, di bobine di spago e di scaffali e scaffali pieni di libri, che si allungavano a perdita d'occhio e aspettavano di essere spediti. Pareva che non ci fosse nessuno in giro. Perfino l'impiegato si era nuovamente eclissato. Se nella tipografia c'era qualcuno, evidentemente tutti si trovavano all'estremità più lontana dell'edificio, a occuparsi dell'imballo e della spedizione dei libri. Hector non nascose di essere sconcertato, lasciando capire che non sapeva se manifestare disappunto o sollievo. Avrebbe voluto combattere l'ultima battaglia, ma era troppo stanco per pregustare quel momento e troppo insicuro del suo esito. Monk non aveva simili apprensioni. La sua faccia sembrava una maschera di ferro attraverso la quale filtrava la luce dura e scintillante degli occhi, quando cominciò a salire i gradini. «Su, venite» ordinò senza aspettare di vedere se l'ubbidivano. Quando arrivò in cima alla rampa percorse il corridoio in tre passi e spalancò con violenza la porta dell'ufficio di Baird. Dentro c'erano tre persone: Alastair, Oonagh, e Quinlan Fyffe. Alastair parve stupito e irritato per l'arrivo dell'intruso, Quinlan semplicemente meravigliato, mentre l'usuale calma di Oonagh si concretizzava in un'espressione distaccata e gelida. Fissò Monk con gli occhi sgranati senza ancora vedere Hester che gli veniva subito dietro o Hector che non aveva ancora varcato la soglia della stanza. «Si può sapere, in nome di Dio, cosa volete adesso?» Alastair domandò.
Sembrava infastidito e stanco ma non particolarmente allarmato e, certo, non aveva l'espressione colpevole di chi poteva meravigliarsi di vederlo ancora vivo. Monk rivolse uno sguardo a Quinlan che lo ricambiò con un mezzo sorriso divertito e ironico. Oonagh, come tanto spesso accadeva, aveva un'espressione indecifrabile. «Sono venuto a fare il mio ultimo rapporto» rispose Monk con qualcosa nella voce che assomigliava vagamente a un pizzico di ironia. «Ce lo avevate già fatto, signor Monk» Oonagh rispose freddamente. «E noi vi abbiamo già ringraziato per i vostri sforzi. Alla polizia, spiegheremo quello che avremo deciso per ciò che riguarda la questione della proprietà terriera della mamma. Ormai non è più affar vostro. Se si tratta di qualcosa che vi turba la coscienza, penserete voi ad agire come ritenete più opportuno. Noi, quanto a questo, non possiamo fare niente.» «Non potete, per esempio, rinchiudermi nella stanza segreta del vostro magazzino e lasciare che ci muoia soffocato?» Domandò Monk inarcando le sopracciglia. Lanciò un rapido sguardo a Quinlan, notò che impallidiva paurosamente e che i suoi occhi si fissavano su Oonagh. Dunque lei almeno sapeva! «Non ho idea di che cosa state dicendo» Oonagh rispose pacatamente. Fino a quel momento non si era ancora accorta né di Hester né di Hector. «Ma se siete rimasto chiuso nel magazzino, dovete accusare soltanto voi stesso, signor Monk. Il fatto di trovarvi lì può essere solo spiegato nel senso che stavate facendo qualcosa di abusivo e io non riesco a immaginare un qualsiasi scopo onesto che vi abbia spinto ad andarci nel cuore della notte di una domenica. Con tutto ciò, è evidente che in qualche modo siete riuscito a venirne fuori; e non mi pare che abbiate sofferto per la disavventura.» «Io non ho fatto niente per tentare di uscire. A liberarmi è stato il maggiore Farraline.» «Quel maledetto Hector!» Quinlan esclamò a denti stretti. «Figuratevi se il vecchio ubriacone non cacciava il suo naso anche lì!» «Chiudi il becco!» Intervenne Oonagh in tono aspro senza nemmeno guardarlo. Si rivolse a Monk: «Che cosa stavate facendo nel nostro magazzino, signor Monk? In che modo potete spiegarlo?» «Ci sono andato a cercare la stanza segreta che il maggiore Farraline aveva menzionato a pranzo» rispose lui, osservandola con la stessa incisiva attenzione con la quale Oonagh scrutava lui. A guardarli si sarebbe detto
che non ci fosse nessun altro presente. «L'ho trovata.» Le sopracciglia chiare di Oonagh si sollevarono. «Davvero? Ignoravo l'esistenza di un posto simile.» Ma Monk sapeva che era una bugia; lo aveva letto sulla faccia di Quinlan. «Era piena zeppa di tutta l'attrezzatura necessaria a fabbricare banconote false» le rispose. «Di tutti i tagli, e per diverse banche.» Sulla sua faccia non si leggeva ancora nulla che la potesse tradire. «Santo cielo! Siete sicuro?» «Sicurissimo.» «Chissà da quanto tempo esisteva. Fin dall'epoca di mio padre, immagino, se lo zio Hector dice che era una stanza segreta.» Alastair spostò lievemente il peso del proprio corpo da un piede all'altro con un rumore quasi impercettibile. Monk gli lanciò un rapido sguardo, poi riportò gli occhi su Oonagh. «Quasi sicuramente» confermò. «Ma viene anche usata adesso. Alcune delle lastre per incisione sono recenti, risalgono all'anno scorso.» «Come fate a dirlo?» Un lampo divertito illuminò gli occhi di Oonagh. «L'inchiostro era ancora umido?» «Le banconote cambiano, signora McIvor. E vi si fanno nuovi disegni.» «Capisco. Dunque state dicendo che qualcuno continua a usare quella stanza per stampare banconote false?» «Sì. E voi dovreste esserne contenta.» La voce di Monk adesso pareva venata di amato umorismo. «Renderà un poco più leggero il peso che grava sulle spalle di vostro marito. Perché questo costituisce un altro ottimo movente per un assassinio.» «Davvero, signor Monk? Non riesco a vedere come.» «Se vostra madre l'avesse scoperto...» Stavolta fu lei che si mise a ridere. «Non dite assurdità, signor Monk! Immaginate che la mamma non lo sapesse? A Hector sfuggì un'esclamazione strozzata, ma non si mosse.» «Voi stessa avete fatto finta di non saperlo» Monk le fece rilevare. «Certo, ma soltanto prima di rendermi conto che vi eravate accorto che viene usata tuttora.» Adesso la sua faccia era fredda e implacabile. Non nascondeva più l'inimicizia. Alastair pareva impietrito. La mano di Quinlan si chiuse su un tagliacarte luccicante sulla scrivania; e prese una posizione tale da facilitargli una mossa imprevista, e aggressiva.
«Non, naturalmente, che questo sia l'unico movente per l'assassinio» Monk riprese con la voce che vibrava di collera, inasprita, carica di pungente e profondo disprezzo. «C'è anche il caso Galbraith e Dio solo sa quali altri.» «Il caso Galbraith? Si può sapere di che diavolo state parlando?» Quinlan domandò. Monk stava osservando Alastair e, se avesse avuto ancora qualche dubbio sulle accuse che gli aveva appena rivolto, adesso capì che non era assolutamente più il caso di averne. Alastair era diventato pallido come un cadavere, aveva gli occhi terrorizzati, le labbra flaccide e semiaperte. Istintivamente, si voltò a guardare Oonagh. «Lei sapeva!» ringhiò Monk travolto da un'emozione tanto profonda da sbalordirlo. «Vostra madre sapeva e l'avete assassinata per farla tacere! Eravate onorato dalla fiducia dei vostri colleghi, occupavate una posizione ben al di sopra di quella dei comuni cittadini... e vendevate la giustizia! Vostra madre, quello, non ha potuto perdonarlo, così l'avete uccisa e avete tentato di fare impiccare la sua infermiera al vostro posto!» «No!» Stavolta non fu Alastair a parlare perché ormai non ne sarebbe più stato capace. La voce proveniva da dietro le sue spalle. Monk si voltò a metà ed osservò Hector che si faceva avanti, si faceva largo fra gli altri, con gli occhi sgranati che fissavano Alastair. «No» disse ancora. «Non è stato Alastair a preparare la lista degli abiti di Mary per Griselda! Sei stata tu! Sei stata tu a mettere quella spilla nella sacca da viaggio di Hester. Alastair non avrebbe nemmeno saputo dove andare a cercarla. Alastair, che Dio lo aiuti, l'ha uccisa, ma sei stata tu che avresti lasciato impiccare Hester al suo posto.» «Fandonie!» Oonagh esclamò con asprezza. «Chiudi il becco, vecchio imbecille!» Uno spasimo di dolore si disegnò sui lineamenti di Hector, talmente cocente da essere addirittura inconcepibile perché era sproporzionato a quell'insulto che doveva essersi sentito rivolgere apertamente, o forse doveva anche soltanto aver letto nel pensiero altrui, almeno cento altre volte prima di quel momento. La cosa sorprendente, a questo punto, fu che Hester intervenne nella discussione, da dove si trovava, appena dietro le spalle di Monk. «Impossibile che sia stato Alastair a mettere la spilla nella mia sacca da viaggio» disse lentamente. «Perché Mary la portava con un solo abito, e lui
sapeva che non lo aveva fatto mettere in valigia né intendeva portarlo con sé. Era stato lui a rovinarglielo in modo che Mary fosse costretta a farlo smacchiare!» «Non è possibile che sia stato smacchiato prima della sua partenza?» domandò Monk. «Non dite assurdità! Ci vogliono giorni e giorni per ripulire con attenzione un abito di seta, disfare le cuciture e poi rimettere tutto a posto!» Tutti si voltarono contemporaneamente verso Oonagh che abbassò gli occhi. «Non sapevo che avesse macchiato quell'abito. Volevo proteggere lui» disse a bassa voce. Alastair la guardò con un sorriso terribile, colmo di grande disperazione. «Mary non lo sapeva» Monk continuò con voce fievole, appena percettibile. Eppure le parole caddero nella stanza pesanti come pietre. «Aveva paura, perché aveva visto Archibald Frazer in casa; ma, quello, avreste potuto spiegarglielo. L'avete uccisa per niente!» Molto lentamente, come in un incubo, Alastair si voltò verso Oonagh con una faccia cadaverica, invecchiata di colpo eppure nello stesso tempo carica di tutta la desolata inettitudine di un bambino smarrito. «Avevi detto che lei lo sapeva! Mi hai detto che lo sapeva! Non dovevo ucciderla! Oonagh... che cosa mi hai fatto?» «Niente, Alastair! Niente!» Si affrettò a rispondere lei, tendendo le mani per afferrargli le braccia. «Ci avrebbe rovinato, credimi!» La sua voce era disperata, piena di concitazione nel tentativo di fargli capire tutto. «Ma non lo sapeva!» La voce di Alastair si fece più squillante, stridula, tanto era disperato per quel tradimento. «E va bene! Non sapeva né quello né delle banconote false.» La gentilezza era scomparsa e d'un tratto i suoi lineamenti erano diventati brutti. «Però sapeva dello zio Hector e di papà, e lo avrebbe detto a Griselda! Ecco il motivo del suo viaggio al sud! Griselda con quella stupida ossessione per la sua salute e per il suo bambino! Lei lo avrebbe detto a Connal, e così la notizia sarebbe diventata di dominio pubblico.» «Gli avrebbe detto... cosa? Si può sapere di che cosa stai parlando?» Alastair, ormai, era completamente smarrito. Pareva che avesse dimenticato la presenza di tutti gli altri nella stanza, salvo quella di Oonagh. «Papà è morto da anni! Cosa c'entrava questo con il bambino di Griselda? Non ha alcun senso...» La faccia di Oonagh era livida come la sua, ma rispecchiava il furore e il disprezzo. Non rivelava né paura né debolezza. «Papà è morto di sifilide,
stupido! L'aveva assorbita come una spugna! Di che cosa pensi che fosse un sintomo la sua cecità, o la paralisi? Lo abbiamo tenuto in casa e abbiamo fatto correre la voce che avesse avuto un colpo apoplettico... cos'altro dovevamo fare?» «Ma... ma... ci vogliono anni e anni perché la sifilide...» s'interruppe. Dalle labbra gli uscì un curioso suono strozzato e sommesso, un rantolo, come se non fosse più capace di respirare. Era talmente inorridito da non riuscir più a muoversi, salvo a balbettare con le labbra aride. Adesso pareva quasi che si reggesse in piedi soltanto perché Oonagh lo sosteneva. «Questo significa... questo significa che tutti noi... Griselda... il suo bambino, tutti i nostri figli... oh, Gesù benedetto!» «No, non lo significa affatto!» Gli rispose Oonagh stringendo le mascelle. «La mamma lo sapeva fin dal principio. Ecco quello che aveva intenzione di raccontare a Griselda. Quello che mi aveva appena raccontato... che Hamish non era nostro padre... non è stato il padre di nessuno di noi!» Alastair adesso la guardava come se lei gli avesse parlato in una lingua incomprensibile. Oonagh deglutì faticosamente. Pareva che le parole soffocassero anche lei, com'era accaduto poco prima per Alastair. Il suo viso livido rifletteva la sofferenza, il dolore. «Hector è nostro padre... è il padre di tutti noi... a cominciare da te, per finire a Griselda... sei un bastardo, Alastair. Tutti siamo bastardi. Nostra madre era un'adultera, e quell'ubriacone rimbecillito è nostro padre! Vuoi che il mondo intero lo sappia? Come puoi continuare a vivere accettando una cosa del genere, Procuratore Fiscale...!» Ma Alastair ormai pareva incapace di pronunciare una sola parola. Era come se fosse stato colpito a morte. L'unico suono che spezzò il silenzio della stanza fu la risata di Quinlan, selvaggia, amara, isterica. «L'amavo» disse Hector, fissando Oonagh. «L'ho amata tutta la vita. Lei in principio era innamorata di Hamish, ma dopo che ci siamo conosciuti, sono stato io... sono sempre stato io quello che amava. Sapeva ciò che Hamish era... e non ha mai permesso che la toccasse.» Oonagh ricambiò quello sguardo con un'espressione di odio profondo, indescrivibile. Adesso il viso di Hector era rigato di lacrime. «L'ho sempre amata» ripeté. «E tu l'hai uccisa, anche se non hai commesso materialmente il delitto.» La sua voce si faceva più alta, più forte. «Hai venduto la mia splendida Eilish a questa creatura... per procurarti i suoi servizi di falsario.» Non
degnò Quinlan neanche di uno sguardo. «Gliel'hai venduta come si fa con un cavallo o con un cane! Hai usato l'adulazione e l'inganno con tutti noi, sfruttando le nostre debolezze contro di noi... perfino nel mio caso. Io volevo rimanere qui, fare parte di voi. Siete tutta la famiglia che ho, e tu lo sapevi, e io ti ho permesso di usare ciò che sapevi!» Deglutì a fatica. «Signore Iddio, ma quello che hai fatto ad Alastair...» Ma fu Quinlan, a questo punto, che finalmente reagì. Afferrato il pesante tagliacarte si avventò non contro Hector, ma contro Monk. Monk riuscì a muoversi appena in tempo. La lama gli graffiò un braccio mentre lui si tirava indietro, facendo perdere l'equilibrio a Hester e andando a sbattere contro la balaustra di ferro della scala a chiocciola. Riuscì a evitare di oltrepassarla e precipitare nel vuoto perché vi finì contro con il torso e un piede gli scivolò facendogli cedere di schianto le gambe e mandandolo a rotolare lungo disteso ai piedi di Hester. Alastair continuava a rimanere immobile, come ipnotizzato. Oonagh attese solo un attimo, poi si rese conto che non avrebbe più potuto esserle utile. Per un attimo terribile, rimase con gli occhi fissi su Hector, poi gli si precipitò addosso curvandosi per colpirlo in pieno al plesso solare e rovesciarlo al di là della balaustra facendolo precipitare sull'impiantito del locale sottostante, che si trovava sei o sette metri più in basso. Lui lo intuì dall'espressione dei suoi occhi ma fu troppo lento a muoversi. Oonagh lo colpì al petto, non a sinistra, non proprio sotto il cuore. Così cadde di sbieco contro la balaustra e indietreggiando fece perdere l'equilibrio a Hester. Lei si aggrappò a Quinlan proprio mentre stava cercando di avventarsi di nuovo contro Monk e colpirlo. Si udì un urlo stridulo, poi ci fu un movimento disperato e disordinato di braccia e di gambe, il panico cieco di un attimo, e infine un tonfo agghiacciante che si levò dall'impiantito più sotto. Poi calò il silenzio totale, rotto solamente dal pianto di Alastair. Hester si allungò a occhieggiare oltre l'orlo della scala. Quinlan giaceva al suolo, i capelli biondi che gli circondavano la testa come un alone d'argento. Non c'era sangue ma il braccio destro che impugnava il coltello era ripiegato sotto di lui, e bastò un'occhiata perché tutti capissero che non l'avrebbe mosso mai più. Finalmente Alastair diede l'impressione di riacquistare una parvenza di autocontrollo. Si guardò intorno alla ricerca di un'altra arma, gli occhi luccicanti di un odio quasi forsennato. Oonagh ormai aveva capito come non ci fossero più spazi né per parole
né per pretesti di qualche genere. Si precipitò oltre Hector che aveva il fiato mozzo e Monk ancora lungo disteso sul pavimento, ignorando Hester, e scese rumorosamente la scala di ferro, avviandosi verso il retro del vasto edificio fino a quando la videro dileguarsi fra le balle di carta. Alastair girò uno sguardo forsennato intorno a sé; poi, dopo solo un attimo di esitazione, la seguì. Monk scattò in piedi e si chinò su Hector. «State bene? Vi ha fatto male?» «No...» Hector tossì e ansimò perché non riusciva a respirare. «No...» guardò Monk con gli occhi stralunati. «No, non mi ha fatto male. Come ho potuto generare quella creatura? E Mary... Mary era...» Ma Monk non aveva più tempo per riflessioni del genere. Si voltò in fretta a vedere se era illesa Hester che, in realtà, si era fatta soltanto graffi e ammaccature, poi si precipitò giù per le scale dietro a Oonagh e Alastair. Hester lo imitò, raccogliendosi le gonne e rialzandole con un gesto molto poco dignitoso ma straordinariamente comodo, e Hector li seguì a passo pesante e molto incerto ma incredibilmente veloce. Fuori, in strada, Oonagh e Alastair erano almeno una cinquantina di metri avanti e la distanza tra loro aumentava. Monk partì con uno scatto e si mise a correre a tutta velocità. Raggiunsero una via di grande traffico; Alastair, agitando le braccia e gridando, si buttò addirittura davanti a una carrozza in arrivo. Uno dei cavalli fece uno scarto e il cocchiere, alzandosi molto scioccamente in piedi per difendersi da quella che immaginava fosse un'improvvisa aggressione, perduto l'equilibrio, precipitò al suolo con le redini ancora strette fra le mani. Alastair, balzato a cassetta, si voltò solo un attimo in modo da aiutare Oonagh a salirvi anche lei, poi con grida selvagge incitò i cavalli a ripartire al galoppo sfrenato. Monk si lasciò sfuggire una bestemmia, ansante, invelenito, e si fermò con una sdrucciolata al crocicchio, mettendosi a lanciare occhiate a destra e a sinistra in cerca di un veicolo di qualsiasi genere. Hester lo raggiunse, poi anche Hector. «Che Dio li maledica!» Gridò Monk con voce strozzata dalla rabbia. «Che Dio maledica lei soprattutto!» «Dove possono andare?» Hector tossicchiò, ansando perché aveva il fiato corto. «La polizia li acchiapperà...» «Dobbiamo tornare indietro e chiamare la polizia!» La voce di Monk si levava sempre più forte, tanta era la collera che lo divorava. «E quando
finalmente avremo spiegato la morte di Quinlan e saremo riusciti a persuaderli che noi non c'entriamo e non siamo i colpevoli, e avremo mostrato anche a loro la stanza con tutta l'attrezzatura necessaria a stampare banconote false, Oonagh e Alastair saranno arrivati alla banchina e non è nemmeno escluso che possano trovarsi già imbarcati, e in viaggio verso l'Olanda!» «Non possiamo farli rimandare indietro?» Domandò Hester, anche se già pronunciando queste parole si rendeva conto che sarebbe stato molto più difficile; con tutta l'Europa a disposizione e magari anche amici disposti ad aiutarli, era perfino possibile che riuscissero a far perdere le loro tracce e a scomparire per sempre. «La fabbrica di birra!» Esclamò improvvisamente Hector, alzando di scatto un braccio per indicare qualcosa sull'altro lato della strada. Monk lo fissò con un'occhiata da incenerire. «Cavalli!» Hector fece per attraversare la strada a passo strascicato e malfermo. «Non possiamo fare la caccia a quei due a bordo di un carro da trasporto come quello di una fabbrica di birra!» Gli gridò dietro Monk, ma cominciò ugualmente a seguirlo. Hector, però, ne tornò fuori dopo pochi attimi soltanto e non a bordo di uno di quei carri massicci, ma alla guida di un bellissimo calessino al quale era attaccato un solo cavallo. Lo fermò quel tanto necessario perché Monk aiutasse Hester a salirvi e poi la seguisse con un balzo maldestro e talmente mal calcolato che quasi le finì addosso. «Di chi è il calessino che avete rubato?» Provò a gridare anche se non gliene importava niente. «Del padrone della birreria, immagino» Hector gli gridò di rimando e poi dedicò tutta la sua attenzione a controllare il cavallo impaurito e a incitarlo a lanciarsi a una velocità tale da far rizzare i capelli in testa per il terrore, all'inseguimento della carrozza scomparsa. Monk si protese in avanti, aggrappato alla fiancata del calessino, la faccia livida. Hester cercò di tirarsi un po' indietro, cercando di sistemarsi meglio sul sedile mentre la vettura oscillava e ondeggiava paurosamente sulla strada, andando sempre più veloce. Hector aveva dimenticato tutto il resto salvo quel figlio e quella figlia che lo precedevano. Hester capì per quale motivo Monk fosse così paurosamente pallido. Non faceva fatica a immaginare il caos dei ricordi che lo rendevano sconvolto, con i muscoli contratti, il corpo fradicio di sudore anche se il suo
cervello ricordava solo parzialmente una serie di sensazioni vaghe e confuse... quell'altra carrozza che correva veloce nella notte per finire rovesciata, in un mucchio di legna fracassata e di ruote che giravano a vuoto, con il cocchiere ucciso sul colpo e lui stesso che vi rimaneva incastrato sotto, ferito e svenuto, mentre in un solo istante tutta la sua vita precedente veniva cancellata di colpo e dimenticata per sempre. D'altra parte non c'era niente che lei potesse fare salvo tenersi ben salda a bordo del calessino. Non poteva fargli capire che adesso sapeva. Un altro crocicchio apparve in lontananza ma la carrozza doveva averlo già oltrepassato perché non si vedeva più. Avrebbe potuto imboccare almeno una di quelle quattro vie. C'era da pensare che avesse continuato dritto senza fare svolte? Ma il cavallo del calessino ormai era lanciato al galoppo e quando Hector diede una strappata alle redini facendo quasi scivolare al suolo l'animale, e poi lo incitò a imboccare la strada di destra, il calesse ormai viaggiava praticamente su due ruote. Monk venne scaraventato addosso a Hester e ci mancò poco che non rotolassero fuori tutti e due insieme e, a salvarli, fu solo il peso di Monk che trascinò Hester sul fondo del veicolo. Monk si lasciò sfuggire una serie di imprecazioni colorite e furibonde mentre il calessino si raddrizzava e continuava la sua corsa a precipizio lungo Great Junction Street, e poi svoltava di nuovo, quasi subito, verso il mare, mandandoli a rotolare a catafascio dall'altra parte. «Si può sapere che cosa diavolo state facendo, maledetto pazzo che non siete altro?» Monk tentò di slanciarsi ad afferrare Hector ma mancò la presa. Hector pareva si fosse dimenticato di lui. La carrozza era riapparsa di nuovo, davanti a loro. Potevano vedere i capelli biondi di Alastair arruffati dal vento e Oonagh stretta a lui, quasi come se la tenesse avvinta al proprio corpo con l'altro braccio. La strada cambiò di nuovo direzione, ed eccoli lungo il fiume stretto e profondo che sfociava nel mare. C'erano barconi all'ancora lungo le rive, e qualche peschereccio. Un uomo, con un balzo improvviso, si gettò di lato per non essere investito, rovesciando sul calessino e i suoi occupanti una serie di improperi. Un bambino si lasciò sfuggire uno strillo e scappò via. Una pescivendola si mise a gridare, snocciolando bestemmie, e scagliò la propria cesta vuota contro la carrozza. Uno dei due cavalli si imbizzarrì e perduto l'equilibrio andò a urtare l'altro; poi con un movimento improvviso, quasi incredibile, proseguirono la corsa mettendosi di traverso sulla
strada e andando a sbattere contro il muricciolo del porto a picco sul mare più sotto. La carrozza sbandò mentre le stanghe si spezzavano. Poi rimase in equilibrio per un attimo, e infine si rovesciò lentamente nel fiume trascinando Oonagh e Alastair con sé. I cavalli rimasero rabbrividendo sulla riva, con gli occhi roteanti, lasciandosi sfuggire striduli nitriti di terrore, imprigionati dai finimenti e dalle catene. Hector diede uno strattone alle redini, buttandosi indietro con tutto il proprio peso, che non era indifferente; cercava di far fermare la propria bestia, mentre con l'altra mano azionava contemporaneamente il freno. Monk balzò al suolo e si precipitò sulla riva. Hester con uno scatto gli andò dietro, strappandosi la gonna che si impigliò e rischiando quasi di slogarsi una caviglia sull'acciottolato sconnesso della strada. La carrozza stava già sprofondando con lentezza impressionante, risucchiata e imprigionata dalla fanghiglia che si era accumulata coi secoli sul fondo del fiume, fino a diventare molto alta e spessa, sotto l'impeto della marea che saliva. Oonagh e Alastair erano in acqua, tutti e due, dopo essersi liberati da redini e finimenti, e si dibattevano per rimanere a galla. I pochi attimi successivi rimasero impressi per sempre nel cuore di Hester. Alastair, riacquistato il respiro, si avvicinò a lunghe e robuste bracciate a Oonagh, che si trovava a poca distanza da lui. Per un attimo si ritrovarono faccia a faccia nell'acqua sporca; poi lentamente, con gesti che parevano a lungo meditati, Alastair allungò le mani e dopo aver afferrato la sorella per la pesante capigliatura, le spinse la testa sott'acqua. E ve la tenne per un bel po' mentre lei si dibatteva. La marea lo raggiunse, lo sommerse ma lui la ignorò, preferendo lasciarsi trascinare via dalle ondate piuttosto di mollare l'orribile fardello cui si stringeva. Monk assisteva alla scena paralizzato dall'orrore. Hester si lasciò sfuggire un grido. A quanto le parve di ricordare, poi, era la prima volta nella sua vita che si metteva a urlare. «Che Dio vi aiuti!» Mormorò Hector con la voce velata. Nell'acqua ormai niente più si muoveva. I capelli di Oonagh affiorarono chiari, galleggiando alla superficie, e l'ampia gonna le si gonfiò intorno. Ma non si muoveva più. «Santa Maria madre di Dio!» Esclamò la pescivendola alle spalle di Monk, facendosi ripetutamente il segno della croce. Infine Alastair alzò gli occhi, i capelli incollati alla faccia sporca di fango. Era estenuato; la marea si era impadronita di lui, ormai lo aveva capito.
Come risvegliandosi da un sogno, Monk si voltò verso la pescivendola: «Non avete una corda?» domandò. «Vergine benedetta!» esclamò lei inorridita e turbata. «Non vorrete impiccarlo!» «No, naturalmente, stupida!» ribatté lui, esasperato. «Voglio tirarlo fuori!» E con queste parole legò un capo della corda a una stanga e, con l'altro annodato alla cintola, si buttò nel fiume e venne immediatamente trascinato dalla corrente lontano dal muricciolo e dal tetto della carrozza che era ancora visibile a pelo d'acqua. Intanto altra gente era accorsa e si era raccolta lì intorno. Un uomo in pesante maglione di lana e stivaloni da pescatore afferrò la corda alla quale Monk era legato, reggendola saldamente per fargli da contrappeso; un altro si spinse fino in cima al muricciolo con una scaletta di corda. Ci vollero dieci minuti prima che Monk venisse tirato lentamente a riva. I pescatori gli tolsero dalle braccia i due cadaveri e, per ultimo, tirarono sulla banchina anche lui, tremante di freddo, bagnato fradicio. Si rimise in piedi lentamente, gravato dal peso dei vestiti grondanti. Un gruppetto di gente si era radunato intorno a loro, pallido, strabiliato e sconvolto quando il corpo di Oonagh venne deposto sul lastricato, la pelle che pareva di marmo grigio, gli occhi sbarrati... E subito anche Alastair le fu adagiato di fianco, con un'espressione più quieta, freddo come il ghiaccio, ormai fuori dalla sua portata, irraggiungibile anche da lei. Monk la contemplò, poi si voltò a guardare Hester istintivamente, come aveva sempre fatto, e in quel momento misurò tutta la grandiosità di ciò che esisteva fra loro. Non avrebbe mai cercato di scacciare dalla propria mente il ricordo di quella notte nella stanza segreta; anche se fosse stato possibile si sarebbe ben guardato dal farlo... ma suscitava nuove emozioni in lui, che avrebbe voluto respingere. Creava punti vulnerabili, lo lasciava in preda a ferite dalle quali non sapeva come guarire. Le lesse in faccia che aveva capito; anche lei era incerta e impaurita, perché era una donna, e una donna terribilmente spaventata. Ma in quell'attimo Hester ebbe anche la sicurezza, una sicurezza che andava al di là e oltre qualsiasi cosa, che esisteva una fiducia fra loro più antica e più forte e che non sarebbe mai stato possibile spezzare, qualcosa che non era amore, anche se lo racchiudeva, e collera e tanti modi differenti di pensare: era la vera amicizia. Monk ebbe paura che Hester avesse già capito come quella, per lui, fos-
se la cosa più preziosa del mondo. Si affrettò a girare gli occhi dall'altra parte, a riportarli sul viso morto di Oonagh. Tese una mano e le chiuse gli occhi, non per compassione ma per un senso di pudore. «I peccati della lupa ormai tornano a taglio» disse a bassa voce. «Eccoli: cupidigia, inganno e, buon ultimo, il tradimento.» FINE