JULIAN MAY & MARION ZIMMER BRADLEY IL GIGLIO CELESTE (Sky Trillium, 1997) A Pat Brockmeyer PROLOGO Finalmente il vecchio...
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JULIAN MAY & MARION ZIMMER BRADLEY IL GIGLIO CELESTE (Sky Trillium, 1997) A Pat Brockmeyer PROLOGO Finalmente il vecchio aveva perso i sensi, cadendo prono sul tavolo da pranzo, in mezzo agli avanzi di cibo. Il prigioniero abbassò la lucente lama di vetro finché la punta non sfiorò la pelle scura e grinzosa del collo dell'Arcimago. Un colpo. Un singolo movimento del braccio e sarebbe finito tutto. Agisci! Ma il prigioniero si trattenne, maledicendosi per essere un codardo sentimentale, nel cuore una tempesta di emozioni contrastanti. La coppa di vino avvelenato giaceva rovesciata accanto alla flaccida mano bruna di Denby. Sulla lucida superficie in legno di gonda, le goccioline formavano piccole pozze che piano piano sbiancavano la laccatura. Con ogni probabilità, quel magnifico tavolo, vecchio di oltre dodicimila anni, era rovinato; ma il suo folle proprietario sarebbe sopravvissuto. Alla fine, teso sopra la sagoma inerme dell'Arcimago del Firmamento, con in mano il coltello dalla lama affilata come un rasoio, il prigioniero trovò impossibile uccidere il proprio carceriere. Perché esito? si domandò. Forse a causa del bizzarro senso dell'umorismo del vecchio o del suo terribile incarico, che trascura in modo tanto scandaloso? Mi tiro indietro perché Denby Varcour mi ha risparmiato la vita, pur condannandomi a condividere il suo grottesco esilio? O si tratta di magia, che agisce per proteggere questo antico impiccione benché giaccia qui, davanti a me, vulnerabile come un bimbo addormentato? Non importa, comunque sia. Agisci! Uccidilo! Il veleno lo ha soltanto stordito. Uccidilo ora, prima che sia troppo tardi! Ma ne era incapace. Nemmeno il potere della sua Stella bastava a fargli affondare la lama. Denby era là che russava dolcemente, Un sorriso sulle labbra corrugate, del tutto al sicuro, mentre il suo potenziale assassino si logorava e si spazientiva. La ragione del fallimento era incomprensibile, ma l'incapacità restava. Scuotendo il capo, disgustato di se stesso, il prigioniero rimise il coltello
di vetro sul piatto da portata su cui era appoggiato il succoso ladu che avrebbe dovuto fungere da dessert. Con un'ultima occhiata inquieta al folle mago privo di sensi, si precipitò fuori della stanza. Gli ci volle solo un attimo per recuperare la sacca contenente indumenti caldi e strumenti magici rubati che aveva nascosto in una credenza nell'anticamera che portava al salone. Poi fuggì, correndo lungo i corridoi bui e silenziosi in direzione della stanza della donna morta, posta a quasi due leghe da lì, in un altro quadrante della Luna dell'Uomo Scuro. Il prigioniero sapeva di non aver tempo da perdere. Come al solito i messaggeri e i portatori Sindona si erano ritirati nella Luna Giardino, ma non si poteva dire quando l'una o l'altra di quelle terribili statue viventi avrebbe deciso di tornare a cercare il suo folle padrone per assolvere qualche misterioso compito. Se un Sindona avesse rinvenuto Denby drogato, avrebbe compreso immediatamente cos'era successo, allertando di conseguenza le sentinelle. E se quei bellissimi demoni avessero raggiunto il prigioniero, egli sarebbe morto. Le sentinelle avrebbero scoperto che la sua Stella aveva riacquistato potere, e neppure le senili bizzarrie di Denby sarebbero bastate a salvargli la vita. L'uomo in fuga si fermò un istante. Afferrando il pesante medaglione di platino che teneva appeso al collo - e che recava incisa un'immagine a molte punte -, fece ricorso alla magia per controllare la sua prigione. La Stella riferì che l'anziano Arcimago era ancora svenuto e che non c'erano Sindona in circolazione. Le uniche cose in movimento sulla Luna dell'Uomo Scuro erano gli attendenti, gli strani congegni meccanici che, simili a grandi lingit metallici, si aggiravano lentamente su gambe snodate per svolgere i lavori domestici. Una di quelle macchine si parò davanti al fuggiasco, spuntando all'improvviso da dietro un angolo del corridoio. Portava una cesta di globilampada spenti e procedeva pazientemente, «annusando» all'intorno con una delle appendici simili a braccia, alla ricerca di luci da soffitto non più accese e quindi da sostituire. «Levati di torno, cosa!» Il prigioniero passò accanto all'ingombrante aggeggio, urtandolo e facendolo quasi rovesciare, cosicché la collezione di globi luminosi si sparpagliò sul pavimento. Il piede del fuggiasco atterrò su una delle lampade e lui perse l'equilibrio cadendo sulle ginocchia. «Ti chiedo scusa, padrone», disse avvilito l'attendente addetto all'illuminazione. «Sei ferito? Devo convocare uno dei consolatori perché ti curi?»
«No! Non farlo! Te lo proibisco!» Le sopracciglia del recluso s'imperlarono di sudore. Si rimise in piedi a fatica e riuscì a parlare con un tono più normale. «Non sono ferito. Ti ordino di procedere coi tuoi soliti compiti. Non richiedere assistenza, hai capito?» Quattro occhi non umani lo studiarono. Le strane creazioni di Denby erano i più solleciti dei servitori, del tutto capaci di costringerlo ad accettare le cure mediche di un Sindona consolatore anche contro il suo volere, se ne avesse davvero avuto bisogno. Poteri Oscuri! pregò in silenzio. Fate che non chiami un Sindona. Fate che i miei accurati piani non vengano rovinati e la mia vita annientata per colpa di una macchina priva d'intelletto! «È vero che non sei ferito», disse infine l'attendente alle luci. «Riprenderò il lavoro. Mi spiace per l'inconveniente causato...» Batté gli occhi in segno di saluto e iniziò a raccattare il carico sparso sul pavimento. Il prigioniero si allontanò, fingendo noncuranza, ma, non appena si ritrovò fuori della portata visiva dell'attendente, si rimise a correre, sentendo la paura crescere. E se quella dannata macchina avesse avvertito comunque un Sindona? E se le sentinelle fossero già state lanciate all'inseguimento? Ormai correva a più non posso, facendo sventolare i lembi della veste da sera e risuonare cupamente gli stivali sull'elastico pavimento del corridoio. Crampi di terrore gli attanagliavano il ventre e ogni respiro era diventato come una pugnalata. Abitare in quel dannato posto per due anni l'aveva spogliato della forza fisica e mutilato della determinazione. Ma ci avrebbe posto rimedio, se fosse riuscito a eludere i Sindona e a sfruttare finalmente il secondo dono della donna morta... Si ritrovò nella zona abbandonata della Luna dell'Uomo Scuro, un silenzioso labirinto di gallerie vuote e saloni, appartamenti e camere da letto disabitati, laboratori e biblioteche in disuso. Era lì che la retroguardia degli Scomparsi aveva vissuto - molto, molto tempo prima - mentre lottava inutilmente per arginare l'avanzata del Ghiaccio Vincitore. Di buon grado, Denby gli aveva dato il permesso di esplorare quelle stanze spettrali, apparentemente incurante di ciò che lui avrebbe potuto trovare laggiù. Già nei primi tempi di prigionia, aveva scoperto la camera della donna morta, ricevendone il primo preziosissimo dono. Grazie a esso aveva raccolto una piccola collezione di arnesi magici, che erano però ovviamente inutili finché restava prigioniero di Denby. L'Uomo Scuro era invulnerabile alla magia ordinaria. Molto tempo dopo, quando ormai aveva scoperto la verità riguardo a se
stesso e all'instabilità del mondo, il recluso aveva trovato il secondo regalo della donna morta: il sistema per fuggire da quella strana prigione e dal suo carceriere pazzo. Il terzo e ultimo dono, senza il quale gli altri due risultavano inutilizzabili, l'aveva trovato proprio due giorni prima. Non aveva traccia di magia, ed era per quel motivo che Denby ne era stato sopraffatto. Il vecchio non era morto, come il prigioniero aveva sperato, ma se la perdita di sensi fosse durata appena un poco di più... Uomo della Stella, dove stai andando? Misericordiosi Poteri Oscuri, le sentinelle l'avevano scoperto! Le loro voci gli risuonavano nel cervello come enormi campane di ottone. Cos'hai fatto all'Arcimago del Firmamento? Quali beni rubati porti in quel sacco? Rispondici, Uomo della Stella! In qualunque momento si sarebbero potuti materializzare nel corridoio con lui. Avrebbero puntato il dito per la sentenza mortale, e la sua vita sarebbe terminata in uno sbuffo di fumo, mentre il suo teschio spoglio e cavo rimbalzava sul pavimento. Uomo della Stella, questo è il nostro ultimo avvertimento. Fermati e fornisci spiegazioni! Ma lui continuò a scappare. All'improvviso, dal nulla alle sue spalle e a meno di dieci eli, apparvero quattro Sindona che si misero a inseguirlo a grandi passi. I Sindona, chiamati Sentinelle del Pronunciamento Finale, sembravano statue d'avorio viventi, più alte e più belle di qualsiasi essere umano. Indossavano soltanto cinture di scaglie blu e verdi incrociate, elmicorona iridescenti e portavano teschi dorati che simboleggiavano il loro incarico letale. Il procedere delle sentinelle era lento e ritmato, e lui riuscì a tenerle abbastanza lontane, ma era quasi allo stremo delle forze. Il cuore pareva sul punto di scoppiargli nel petto e le gambe vacillanti non l'avrebbero retto più per molto. Ma dov'era la stanza? Avrebbe dovuto raggiungerla in breve tempo! Il misterioso corridoio, però, sembrava non avere fine e le sentinelle si avvicinavano d'istante in istante. Davanti agli occhi comparvero macchie rosse, quindi la vista prese a sfocarsi. Sono finito, si disse, e cadde in avanti verso l'oscurità, lasciando la presa sul sacco. Mentre cadeva afferrò il medaglione, in un ultimo gesto di richiesta d'aiuto. E la Stella parve infondergli nuova forza; benché steso a terra, riuscì a sollevare il capo e ad aprire gli occhi. Vide i quattro pallidi Sindona che marciavano verso di lui, i teschi dorati stretti sotto il braccio sinistro, ma vide anche che gli era stato concesso un
miracolo. Infatti era sdraiato proprio davanti a una porta massiccia, realizzata in solido metallo e contrassegnata da un grande simbolo annerito, del tutto simile all'argentea Stella dalle molte punte che portava al collo. L'uscio non aveva né chiavistello né toppa, e distava solo pochi passi. Come un morente, strisciò con angosciosa lentezza, quindi sollevò il medaglione e lo appoggiò contro la porta. No! gridarono le sentinelle, alzando all'unisono il braccio destro per incenerirlo. L'uscio si spalancò. All'interno c'era la donna morta, che parve quasi volgere il capo verso di lui sorridendo, offrendogli silenziosamente asilo. Chissà come, venne trascinato dentro, e la porta si richiuse con fragore alle sue spalle. Era avvolto dalla notte, una notte scintillante di stelle che non pulsavano. La camera era così fredda che il respiro che gli lacerava i polmoni ansanti si trasformava in una nuvola gelida e il sudore che gli scorreva sul viso diventava ghiaccio. Un gemito involontario gli sfuggì dalle labbra irrigidite. Aveva dimenticato che era possibile far visita alla donna morta soltanto alle sue condizioni. Semiparalizzato dal dolore e dall'intenso gelo, estrasse un mantello dalla sacca, se lo mise addosso e sistemò il cappuccio fin quasi a coprirsi gli occhi. Quindi armeggiò per infilare un paio di guanti foderati di pelliccia. Barcollando si alzò, la schiena contro la porta chiusa, lottando per riprendere il controllo del corpo e della mente. I Sindona sarebbero stati in grado d'irrompere all'interno e catturarlo? La donna morta sorrideva, serena, e pareva dire: No. Non senza l'esplicito ordine dell'Uomo Scuro, e lui è ancora privo di sensi. La donna sedeva su una sorta di trono e non lo guardava direttamente. Un'intera parete della stanza era formata da una gigantesca finestra, e gli occhi vitrei della figura, spalancati, sembravano fissare il panorama all'esterno in rapita fascinazione. In mezzo a un milione di stelle che risplendevano di luce viva ma non tremolante, era sospesa una luminosa sfera bianca e azzurra. La Luna Giardino e la Luna della Morte non erano visibili, dato che seguivano il proprio corso nei cieli in qualche punto alle spalle della dimora dell'Uomo Scuro, perciò non vi era nulla a distrarre dalla bellezza di quella straziante visione. Lontano innumerevoli leghe, il Mondo delle Tre Lune si librava come una compatta acquamarina coperta di nubi. Il mondo in pericolo. Il mondo che era la casa del prigioniero e che soltanto lui poteva salvare. Il mondo che era sicuramente stato anche la casa di lei, dodicimila anni prima.
Era morta con lo sguardo nostalgicamente fisso su quel globo azzurrino, una mano stretta alla Stella appesa alla catena gemmata che portava sul petto e l'altra a reggere una piccola fiala di vetro di foggia curiosa, in cui restavano soltanto alcune gocce ormai congelate. Il gelo aveva conservato perfettamente il corpo, vestito con eleganti abiti di un nero luttuoso. I capelli erano scuri, striati d'argento. Era di mezza età, ma di una bellezza incomparabile, ed era prigioniera, proprio come lui. Gli archivi dell'Uomo Scuro gli avevano raccontato parte della sua tragica vicenda: si chiamava Nerenyi Daral ed era stata la fondatrice della possente Società della Stella. Chi l'amava al di sopra di ogni ragione e lealtà l'aveva «salvata» dal destino che aveva colpito la maggior parte dei membri del suo gruppo, solo per vederla rinunciare volontariamente alla vita piuttosto che sfuggire al Ghiaccio Vincitore insieme con lui, che disprezzava tanto. La perdita di Nerenyi aveva condotto Denby Varcour, il più grande eroe degli Scomparsi e Arcimago del Firmamento, alla pazzia. Il prigioniero s'inchinò profondamente davanti al corpo della donna, cercando di controllare i brividi. Non poteva sopravvivere a lungo a una temperatura così rigida. Se il secondo dono della donna morta si fosse dimostrato inefficace, non essendo stato usato per tutti quegli anni, di sicuro sarebbe morto congelato prima che Denby si svegliasse, ordinando alle sentinelle di catturarlo. «Non sono riuscito a ucciderlo, Signora della Stella», le confessò. «Può darsi che sia stata la magia a proteggerlo... Sospetto tuttavia che sia stato il mio spirito a esitare, incapace di togliergli la vita in modo tanto pusillanime, mentre egli giaceva privo di sensi col sorriso sul volto, sazio di vino e buon cibo. Se mai venisse il giorno in cui lui e io c'incontrassimo in onorevole duello magico, uomo contro uomo, non esiterei a distruggerlo. È sufficiente?» La voce che avrebbe potuto essere quella di lei rispose: Sì. Hai trovato gli strumenti fondamentali degli incantesimi? Quelli che ti consentiranno di ricominciare l'opera? «Li ho trovati.» Sollevò il sacco. «La mia Stella mi ha guidato, anche se ci è voluto del tempo. Adesso sono pronto a tornare nel mondo, riconquistare le tre parti dello Scettro del Potere e portare a termine il compito che mi hai affidato.» Le Tre faranno il possibile per impedirtelo. «Signora, nessun essere umano mi fermerà... nemmeno colei che amo. Lo giuro sulla Stella.»
La prima volta che aveva scoperto Nerenyi Daral, l'istinto l'aveva spinto a mettere in contatto il proprio medaglione con quello di lei... e l'antica magia della sua Società aveva avuto effetto, garantendogli finalmente di nuovo tutto il potere della Stella. Era stato quello il primo dono della donna morta. Il secondo era un viadotto, uno di quei meravigliosi corridoi che l'Uomo Scuro e i Sindona utilizzavano per spostarsi all'istante da un punto all'altro delle lune cave. Ma quel particolare viadotto, invisibile al momento, come sempre erano anche gli altri simili passaggi finché un adepto non ne comandava l'apertura, conduceva dalla Luna dell'Uomo Scuro al mondo sottostante. La sua esistenza era stata rivelata al prigioniero nel corso di una delle sue ultime visite. Nerenyi Daral l'aveva avvertito che l'Arcimago del Firmamento avrebbe saputo immediatamente se qualcuno avesse tentato di usare quel viadotto, dopo di che l'avrebbe sigillato oppure avrebbe ordinato di trasportare il recluso in qualche nuovo e ben più terribile luogo di prigionia. Soltanto se l'Uomo Scuro fosse stato ucciso, o reso inabile, il passaggio avrebbe portato alla libertà. Il minuscolo contenitore di vetro che Nerenyi teneva in mano era stato il terzo dono. Solo per un caso fortuito l'aveva notato, due giorni prima, e si era chiesto cosa contenesse. Quando aveva compreso che si trattava di veleno, aveva immediatamente cominciato a fare progetti per la fuga. «Adesso sono pronto ad andare», le disse. «Signora della Stella, ti supplico di aprirmi il viadotto che conduce nel mondo.» Giuri sulla Stella di ricreare la mia Società e portare avanti il suo grande fine; ripristinare l'equilibrio del mondo? Lui afferrò il medaglione con la mano guantata. Le dita stavano perdendo sensibilità e il freddo mortale stava rapidamente penetrando anche sotto il mantello. «Lo giuro», rispose. Allora prendi la mia Stella, caro figlio adottivo ed erede, e donala a qualcuno in cui riponi la massima fiducia. Con l'aiuto della rinata Società, reclama lo Scettro del Potere. È ancora in grado di sconfiggere il Ghiaccio Vincitore. Impara a controllarne le pericolose facoltà e lascia che il Giglio Celeste splenda di nuovo. Con reverenza staccò le dita di lei dal medaglione, sollevò la catena gemmata che reggeva il ciondolo e glielo sfilò dal collo, per metterlo nella propria sacca. «Farò come comandi... Ma ora, Signora, ti prego di lasciar-
mi andare, altrimenti morirò congelato mentre sono sul punto di riottenere la libertà.» Va'. Attivazione sistema viadotto! Si udì un armonioso scampanellio cristallino e un anello verticale di luce del diametro di circa due ell apparve alla sinistra della poltrona della donna morta. Al suo interno si trovava un'area di oscurità totale da cui soffiava un vento caldo che odorava leggermente di muffa. «Il viadotto è pronto a trasportarmi?» Sì. Non devi fare altro che entrare. Un tempo conduceva soltanto nel regno del Ghiaccio Vincitore; per questo non mi è stato utile. Sono giunta qui grazie a esso, ma non potevo usarlo per fuggire. In questi ultimi giorni, però, da quando la Calotta del Ghiacciaio Eterno è temporaneamente arretrata, il viadotto sfocia in un luogo sicuro. Il fuggiasco esitava. «Posso domandare in quale punto del mondo emergerò?» La Voce della Stella rispose con asprezza: Andrai dove sei inviato, e là devi immediatamente iniziare a compiere la tua missione. Presto! Denby sta per svegliarsi. Raggiungerà la porta tra un istante. «Allora, Signora, addio!» Tenendo stretta la sacca, fece un passo all'interno del cerchio luminoso e scomparve. Si udì un secondo suono come di campane e il cerchio si spense. I resti dell'ultimo respiro del prigioniero, nuvolette di minutissimi cristalli di ghiaccio, turbinarono nell'aria gelida attorno al corpo sul piccolo trono. La porta della stanza si aprì di colpo. Le quattro sentinelle Sindona entrarono a passo di marcia, i teschi dorati in posizione di attacco. Dietro di loro, strascicando i piedi, veniva un vecchio dalla pelle scura e i capelli ricciuti bianchi come la neve. Era avvolto in un mantello di pelliccia di worram di un caldo colore dorato. «Orogastus!» gridò. La voce forte e sonora avrebbe potuto appartenere a un uomo molto più giovane. «Sei ancora qui?» Se n'è andato, replicò una delle sentinelle. «Bene, questo è un sollievo», commentò Denby Varcour. «Adesso possiamo tentare di salvare il mondo... sempre ammesso che possa essere salvato! Peccato che non mi abbia finito, ma avrei dovuto saperlo che sarei stato costretto ad assistere sino in fondo.» Agitò la mano in direzione dei Sindona, ordinando loro di tornare nel corridoio, quindi si avvicinò al cadavere congelato e si fermò a fissarlo.
«Perdonami, mia amata Nerenyi. Era un'opportunità troppo bella per sprecarla. Non potevo rendergli le cose eccessivamente facili, capisci?» Come sempre, i lineamenti sereni della donna erano atteggiati al sorriso. 1 Il principe Tolivar se ne stava sdraiato al buio, vestito di tutto punto tranne che per gli stivali, cercando disperatamente di non addormentarsi. Non si era azzardato a lasciare accese le lampade a olio d'argento e neppure una candela, per timore che qualcuno scorgesse la luce sotto la porta. L'unica fonte d'illuminazione nella stanza proveniva dai lampi che accendevano il cielo dietro la finestra e dall'orologio sul tavolino accanto al letto, un manufatto degli Scomparsi il cui quadrante irradiava una debole luminescenza verde. Gliel'aveva donato sua zia Kadiya, la Signora degli Occhi, per il suo ultimo onomastico. Lei era l'unica al mondo, a parte il buon vecchio Ralabun, a non disprezzarlo. Prima o poi l'avrebbe fatta vedere a tutti, in particolare ai suoi odiosi fratelli maggiori, il principe ereditario Nikalon e la principessa Janeel. Sarebbe venuto il giorno in cui non lo avrebbero più preso in giro chiamandolo inutile principe cadetto, ma l'avrebbero temuto e rispettato come meritava! Se solo avesse riavuto il suo tesoro... Là sdraiato, Tolivar digrignava i denti e desiderava che i minuti che scorrevano al rallentatore passassero più in fretta. Ralabun non sarebbe arrivato fino alle due dopo mezzanotte... sempre ammesso che arrivasse. «Deve venire!» mormorò il principe. Ma non aveva osato rivelare a Ralabun il morivo per cui aveva bisogno di lui, e il vecchio servitore avrebbe potuto liquidare l'insolita convocazione come un capriccio infantile. Avrebbe potuto dimenticarsi di passare, o anche addormentarsi nell'attesa. Lo stesso Tolivar aveva molte difficoltà a tenere gli occhi aperti. «Sacro Fiore, non lasciare che mi assopisca», pregava. Era già spaventatissimo al pensiero di ciò che l'aspettava. Se si fosse addormentato e quel sogno terribile si fosse presentato di nuovo... avrebbe potuto avere la tentazione di rinunciare. Probabilmente era stato sciocco da parte sua nascondere il tesoro fuori nella Palude Labirinto, ma lo stratagemma gli era parso necessario. Le antiche pietre della Cittadella di Ruwenda erano già di per sé permeate di magia, e ora boccioli del sacro Giglio Nero fiorivano ovunque sul poggio, prosperando alla luce delle Tre Lune. Ma la cosa peggiore era che l'altra
sua zia, la temibile Arcimaga Haramis, aveva preso l'abitudine di fare visita a sua madre troppo spesso, lì nella Capitale Estiva che era la dimora della loro fanciullezza. Tolivar non poteva rischiare che la Bianca Signora scoprisse il suo segreto, perciò aveva trovato un nascondiglio nella palude dove occultare le sue cose più preziose. Nessuno gliele avrebbe tolte. Mai. «Sono mie di diritto, dato che le ho salvate», cercò di rassicurarsi. «Anche se ho solo dodici anni e non sono ancora in grado di sfruttarle appieno, preferirei morire piuttosto che consegnarle ad altri.» Lo sgradevole pensiero che avrebbe anche potuto morire quella notte stessa, affogando tra i flutti neri del fiume, gli si affacciò di nuovo alla mente. «E allora, che sia», mormorò, «perché se lascio il tesoro a Ruwenda durante le grandi piogge potrebbe venire spazzato via da una forte tempesta. O essere sepolto dal fango prima del nostro ritorno la prossima primavera, o anche trovato da qualche Oddling sbandato e restituito quindi alla Bianca Signora. A quel punto non avrei più ragioni per vivere.» Se solo la Stagione Umida non fosse arrivata così inopportunamente presto, quell'anno! Ma zia Haramis aveva detto che il mondo era fuori equilibrio, e le strane condizioni atmosferiche riflettevano proprio quello sbilanciamento, così come l'attività incessante dei vulcani e il numero di terremoti in continuo aumento. Il fiume Mutar, che fiancheggiava il Poggio della Cittadella, aveva superato i livelli di guardia quasi senza preavviso. Re Antar e la regina Anigel avevano quindi deciso che la Corte dei Due Troni non poteva rischiare di attendere la fine del mese per trasferirsi nella Capitale Invernale di Derorguila nel Labornok, ma che l'entourage reale avrebbe fatto meglio a partire entro sei giorni, prima che le acque della palude salissero troppo. Il principe Tolivar, il più giovane della famiglia, aveva reagito alla notizia con sgomento. Se la tempesta continuava, il flusso del Mutar sarebbe diventato troppo forte per consentirgli di pagaiare da solo contro corrente nel barchino che teneva nascosto per le sue escursioni segrete. Aveva pregato sia il Sacro Fiore sia i Poteri Oscuri che aiutavano i maghi, implorando per avere appena qualche ora senza pioggia e un po' di tregua nell'innalzamento del livello delle acque. Ma le suppliche erano state vane. Il momento della partenza del seguito reale si avvicinava sempre di più e ormai non restavano che due giorni. L'indomani la carovana avrebbe cominciato a formarsi, e alla luce del mattino non sarebbe riuscito a uscire
furtivamente dalla Cittadella senza essere visto. Doveva recuperare il tesoro quella notte, oppure lasciarlo dov'era. Tolivar cercò di allontanare la disperazione ascoltando il rumore della pioggia che batteva contro la finestra della sua camera. Era un suono che conciliava il sonno. Più volte il principe si accorse che gli si stavano chiudendo gli occhi e fu in grado di risvegliarsi di scatto. Ma il tempo passava così piano e il tamburellare delle gocce era così monotono che alla fine non riuscì a evitare di essere preda del torpore. Ed ecco apparire di nuovo l'ormai familiare incubo. Negli ultimi due anni l'aveva tormentato in continuazione: il rombante terrore del grande terremoto, fumo dagli edifici in fiamme, lui stesso un prigioniero piagnucoloso, la sua paura infantile tinta della colpa del tradimento. E poi la fuga miracolosa! Un'improvvisa ondata di coraggio nel cuore che l'aveva reso audace al punto di afferrare il grande tesoro! Nel sogno, prometteva solennemente di usarlo e diventare un eroe. Avrebbe salvato la città di Derorguila dall'esercito che la stringeva d'assedio, salvato i suoi reali genitori e tutto il popolo schierato in ordine di battaglia. Anche se in quel momento aveva solo otto anni, avrebbe fatto quelle cose grazie alla padronanza della magia... Nel sogno, utilizzava lo strumento magico, e morivano tutti. Proprio tutti. Difensori leali e feroci invasori, il re, la regina, suo fratello e sua sorella, persino la Signora degli Occhi e l'Arcimaga Haramis, tutti morti a causa della magia che aveva realizzato! Un immenso cumulo di corpi giaceva sulla neve insanguinata nel cortile del palazzo all'esterno della Rocca di Zotopanion, e lui, Tolivar, era l'unico rimasto in vita. Ma come era potuto succedere? Era davvero stata colpa sua? Abbandonò l'orribile scena correndo per la città distrutta. Dal cielo scuro cadeva una fitta nevicata, e il vento di burrasca che trasportava i fiocchi prese a parlargli con voce maschile: Tolo! Tolo, ascoltami! So che hai il mio talismano. Ti ho visto prenderlo quattro anni fa. Attento, stolto principe! La magia di quell'oggetto può ucciderti con la stessa facilità con cui ha ucciso gli altri. Non imparerai mai a usarlo senza rischi. Restituiscilo! Tolo, mi ascolti? Lascialo là fuori, nella Palude Labirinto. Verrò io a prenderlo. Tolo, ascolta! Tolo... «No! È mio! Mio!» Il principe si svegliò di soprassalto. Era al sicuro nella sua stanza nella Cittadella di Ruwenda. Attraverso le spesse mura di pietra il tuono si udiva a stento, e nelle orecchie gli risuonava l'eco del proprio grido di terrore.
Controllò l'orologio sul comodino, scoprendo che era ancora troppo presto, quindi ricadde sul guanciale pronunciando maledizioni da bambino. Quell'incubo era così stupido! Non aveva mai ucciso nessuno con la magia. I suoi familiari erano vivi, stavano bene e non sospettavano nulla. Lo stregone era morto, ma per sua propria colpa. Lo sapevano tutti. «Recupererò il mio tesoro nonostante le piogge», borbottò tra sé. «Lo porterò con me a Derorguila e continuerò a fare pratica per perfezionarne l'uso. E un giorno sarò potente come era lui.» Finalmente l'orologio batté le due. Il principe Tolivar sospirò, si mise a sedere sul bordo del letto e iniziò a infilarsi gli stivali più pesanti che aveva. Il suo fisico debole era spossato dopo una giornata trascorsa a radunare e impacchettare le cose che avrebbe portato con sé a Labornok. I servitori si erano occupati dei vestiti, ma tutto il resto spettava a lui. Aveva già preparato le sei casse di legno con finiture d'ottone che in quel momento si trovavano nell'oscurità del salottino oltre la porta, e ben quattro di esse erano piene quasi soltanto dei suoi preziosi libri. C'era anche un piccolo forziere di ferro con una serratura robusta, che il principe si augurava di poter riempire e aggiungere agli altri bagagli. Se solo Ralabun si fosse spicciato! Adesso l'orologio segnava quindici minuti dopo l'ora prestabilita. Tolivar indossò il mantello impermeabile. Portava sia uno spadino sia un pugnale da caccia. Aprendo la finestra a battenti e scrutando fuori, notò che la pioggia era diminuita, anche se a ovest i lampi continuavano a schioccare. Da quel lato della Cittadella era impossibile vedere il fiume, ma sapeva che sarebbe stato alto e veloce. Finalmente udì qualcosa raspare piano la porta. Tolivar attraversò la stanza di corsa e fece entrare un vecchio Nyssomu assai robusto vestito di pelle impermeabile marrone scuro finemente decorata con impunture d'argento. Ralabun, il Responsabile delle Scuderie Reali ora in pensione, era il più caro amico e confidente di Tolivar. Di solito aveva un'aria di sonnacchiosa amabilità, ma quella notte il suo viso largo e rugoso era cinereo per la preoccupazione e i prominenti occhi gialli parevano quasi sul punto di schizzare fuori dalle orbite. «Sono pronto, Cuore Celato. Ma ti prego di dirmi perché dobbiamo uscire con un tempo simile.» «È necessario», replicò brusco il principe. Ormai da molto aveva rinunciato a esortare Ralabun perché, tra i soprannomi della palude, gliene conferisse uno di migliore auspicio.
«È una notte orribile per trovarsi in mezzo alla Palude Labirinto», protestò il vecchio amico e servitore. «Senza dubbio questa tua misteriosa incombenza può attendere fino a domani mattina.» «No, invece», ribatté il principe, «perché alla luce del giorno qualcuno ci vedrebbe di certo. E domattina presto il lord cerimoniere di palazzo radunerà tutti i bagagli della nostra famiglia e inizierà a formare il convoglio di carri. No, dobbiamo andare stanotte. Muoviamoci ora!» Il ragazzo e l'aborigeno scesero di corsa una scala sul retro, solitamente usata solo dalle cameriere e dagli altri domestici addetti agli appartamenti reali. Al piano sottostante, un mezzanino che dava sul grande atrio principale, si trovava la cappella, oltre alle piccole salette delle udienze di re Antar e della regina Anigel e agli adiacenti uffici dei ministri del regno. Lì facevano la ronda le guardie del turno di notte, ma Tolivar e Ralabun riuscirono a eluderle senza sforzo e scivolarono in una minuscola alcova accanto alle stanze del cancelliere, dove scatoloni di carteggi riempivano tre alti scaffali. «Il passaggio segreto è qui», disse a bassa voce Tolivar. Mentre Ralabun restava senza fiato per lo stupore, il principe scostò una scatola e allungò la mano dietro di essa. Rimise a posto il contenitore e nel più assoluto silenzio tutto lo scaffale centrale si mosse verso l'esterno come una porta, rivelando un'apertura buia. «Hai portato la lanterna cieca come ti avevo chiesto?» Ralabun la estrasse da sotto il mantello, facendo scivolare la copertura in modo che la luce prodotta dai bruchi-lume si propagasse in un debole raggio. I due compagni entrarono nel passaggio segreto, che Tolivar si richiuse alle spalle. Quindi prese in mano la lanterna e cominciò a percorrere rapido il corridoio stretto e polveroso, ordinando al Nyssomu di seguirlo. «Ho sentito Immu, la balia della regina, parlare dei passaggi segreti della Cittadella», commentò Ralabun, «ma non ne avevo mai visto uno. Immu dice che molti anni fa, quando i Tre Petali Viventi del Giglio Nero erano ancora giovani principesse, lei e Jagun condussero la regina e sua sorella lady Kadiya fuori della Cittadella grazie a uno di questi corridoi nascosti, evitando così che il perfido re Voltrik le uccidesse. È stata la tua reale madre a mostrarti questa via segreta?» La risata di Tolivar risuonò amara. «No, ne ho avuto notizia da un maestro molto più condiscendente. Fai attenzione! Dobbiamo scendere questi gradini assai ripidi, che sono anche umidi e scivolosi.» «Chi ti ha detto dei passaggi segreti, allora? È stata Immu?»
«No.» «Li hai scoperti in uno di quei vecchi libri che ami tanto studiare?» «No! E smettila di farmi domande!» Ralabun si chiuse in un mortificato silenzio, mentre continuavano la discesa con estrema cautela. Le pareti della stretta scalinata diventavano sempre più bagnate, e nelle fessure crescevano pallidi ammassi fungini che ospitavano creature dalla flebile luminescenza chiamate infingardi mucosi. I piccoli animaletti strisciavano sugli scalini come lumache lucenti, rendendo insidioso il passo e producendo un odore molto sgradevole se calpestati. «Non manca più molto», comunicò Tolivar. «Siamo già a livello del fiume.» Dopo qualche minuto raggiunsero un altro portale segreto, dotato di un macchinario in legno che scricchiolò quando il principe prese ad azionarlo. Emersero in una capanna in disuso zeppa di rotoli di corda ormai imputridita, barili incrinati e casse da imballaggio rotte. Un paio di vart spaventati fuggirono via squittendo mentre Tolivar e Ralabun si dirigevano verso la porta esterna della baracca. Il principe richiuse lo spiraglio della lanterna e sbirciò fuori con grande cautela. Cadeva solo una pioggerellina sottile ed era molto buio. Guardie non ce n'erano, perché quel molo era stato abbandonato da anni, a seguito della guerra tra Ruwenda e Labornok, e il relativo ingresso alla Cittadella sigillato. Facendo molta attenzione procedettero sulle assi marce del molo, Ralabun in testa. La notte, la vista dei Nyssomu era molto più acuta di quella degli umani, e i due non osavano accendere un lume che avrebbe potuto essere notato dalle ronde sul parapetto sopra di loro. «La mia barca è laggiù», disse Tolivar, «nascosta sotto quella bitta di ormeggio spezzata.» Ralabun ispezionò l'imbarcazione con aria dubbiosa. «È molto piccola, Cuore Celato, e la corrente del Mutar diventa più forte di ora in ora. Dovremo risalirla per un tratto molto lungo?» «Solo per circa tre leghe. E la barca è abbastanza robusta. Io mi metterò ai remi centrali mentre tu bratterai col remo sensile di poppa, e insieme risaliremo la corrente e attraverseremo il fiume. Una volta arrivati sull'altra sponda, troveremo delle acque stagnanti e procedere risulterà molto più facile.» Ralabun sogghignò. «Non ti facevo un marinaio tanto esperto.» «Ho esperienza in molte più cose di quante tu non creda», replicò picca-
to il ragazzo. «Andiamo, adesso.» Salirono a bordo e mollarono gli ormeggi. Tolivar remava con tutte le forze, che in verità non erano molte, ma Ralabun, benché anziano, aveva braccia muscolose per gli anni di duro lavoro alle scuderie, perciò l'imbarcazione avanzava con andamento regolare sul grande fiume. Dovettero scansare detriti e relitti galleggianti, tra cui addirittura interi alberi sradicati dalla Palude Nera posta a monte della Cittadella. A un certo punto incontrarono persino un tronco con sopra un enorme e feroce raffin, che navigava con la stessa disinvoltura di un mercantile di Trevista. Mentre li superava, passando a una distanza inferiore a tre braccia, l'animale ringhiò ma non fece la minima mossa che indicasse l'intenzione di lasciare quel posto sicuro per attaccarli. Lungo la riva opposta al Poggio della Cittadella, che era fangosa e disabitata, la corrente era molto meno forte, proprio come aveva preannunciato il principe. Stanco, Tolivar tirò a bordo i remi e lasciò che fosse il solo Ralabun a spingere la barca. Procedevano senza difficoltà ed ebbero modo di conversare, gridando per superare il fragore dell'acqua impetuosa. Tolivar spiegò: «Sulla riva nord, nella sezione più intricata appena sopra il Tonfano del Mercato, c'è un torrentello affluente poco profondo che si unisce al fiume. È là che siamo diretti». Ralabun annuì. «So di cosa stai parlando: un corso d'acqua senza nome ostruito da felci ed erbe infestanti. Ma non è navigabile...» «Sì che lo è, se si fa attenzione. Sono transitato per quel torrente più volte durante la Stagione Secca, in segreto, come un qualunque ragazzo destinato alla banchina.» Ralabun emise un grugnito di disapprovazione. «È stato il massimo dell'imprudenza, Cuore Celato! Anche così vicino al Poggio della Cittadella, la Palude Labirinto non è un luogo sicuro per un bambino umano da solo. Se soltanto me l'avessi chiesto, sarei stato felice di accompagnarti a giocare tra gli acquitrini...» «Non ero in pericolo», replicò il principe con tono arrogante. «E i miei affari nella palude erano seri e personali. Non avevano niente a che fare col genere di vani divertimenti a cui di solito ci dedichiamo assieme.» «Mmm. E dunque, quale grande mistero nasconde quel torrente?» «Sono fatti miei», rispose sgarbato Tolivar. Questa volta fu evidente che aveva urtato i sentimenti del Nyssomu. «Bene, chiedo quindi umilmente perdono a Sua Signoria per essermi impicciato!»
Il tono del ragazzo si addolcì. «Non ti offendere, Ralabun. Anche i compagni più uniti devono tenere ognuno per sé qualcosa di privato. Stanotte sono stato costretto a chiederti di aiutarmi a raggiungere il mio nascondiglio segreto a causa dell'impeto della corrente. Non c'era nessun altro di cui mi potessi fidare.» «E io sono contento di accompagnarti! Ma confesso di essere triste perché non mi hai confidato ogni cosa. Lo sai che non racconterei mai ad anima viva un tuo segreto!» Tolivar esitava. Non aveva avuto l'intenzione di rivelare all'amico la natura del suo tesoro, ma ora era fortemente tentato all'idea che almeno una persona sapesse del portentoso oggetto che possedeva. E chi meglio di Ralabun? Quindi Tolivar gli disse: «Giuri che non parlerai del mio segreto né al re né alla regina? E neppure all'Arcimaga Haramis in persona, neanche se te l'ordinasse?» «Giuro sulle Tre Lune e sul Fiore!» rispose risoluto Ralabun. «Di qualunque segreto tu mi faccia partecipe, ne sarò fedele custode finché i Signori dell'Aria mi trasporteranno al sicuro nell'aldilà.» Il principe annuì solennemente. «Molto bene, allora. Stanotte vedrai il mio grande tesoro, quando lo recupererò dal nascondiglio nella palude. Ma se rivelerai ad altri di che si tratta, metterai a rischio non soltanto la tua vita, ma anche la mia.» I grandi occhi tondi di Ralabun risplendevano nell'oscurità mentre con una mano disegnava nell'aria il simbolo del Giglio Nero. «Cos'è mai questo oggetto meraviglioso che andiamo cercando, Cuore Celato?» «Qualcosa che ti devo mostrare, piuttosto che parlartene», replicò il principe. E non aggiunse altro, nonostante l'insistenza del Nyssomu. Dopo un'altra ora di viaggio, la pioggerella cessò e prese a soffiare un vento fresco, che spazzò via le nuvole nere in un piccolo angolo di cielo stellato. Sulla riva opposta, le torce accese del Mercato di Ruwenda all'estremità più occidentale del Poggio della Cittadella baluginavano debolmente, dato che ormai l'ampiezza del Mutar era superiore a una lega. A quel punto entrarono nella sezione più intricata del fiume, dove durante la Stagione Secca c'erano parecchie isole coperte di boschi. Ora erano in massima parte sommerse, e sulle acque turbinose svettavano solo le fronde degli imponenti gonda e kala. Sarebbe stato facile perdere la rotta, e più volte il principe dovette correggere la direzione presa da Ralabun. Purtroppo, il vecchio mastro stalliere non era esperto nella navigazione della palude come aveva affermato.
«Ecco il torrente», sbottò infine Tolivar. «Ne sei sicuro?» Ralabun pareva dubbioso. «A me sembra che dovremmo continuare...» «No. È qui. Ne sono certo. Svolta.» Brontolando, il Nyssomu si piegò sul remo. «La giungla qui attorno è già allagata e piena di detriti trascinati dalla corrente. Non c'è nessuna traccia di un canale. Davvero, io credo...» «Taci un momento!» Il principe riprese posto a prua. Le poche stelle fornivano a malapena luce a sufficienza per orientarsi. Ben presto l'acqua divenne molto bassa, con fitti boschetti di canne dalle foglie eusiformi, erbe lanceolate e felci rosse tra gli alberi torreggiatiti. Approfittando del momento di tregua dall'acquazzone, gli animali selvatici della Palude Labirinto cominciarono a farsi sentire. Gli insetti frinivano, schioccavano, ronzavano e producevano suoni musicali simili a scampanellii. I pelrik fischiavano, i gorgheggiatori notturni trillavano, i karuwok sguazzavano e sibilavano mentre in lontananza un gulbard emetteva il suo gutturale richiamo di caccia. Quando Ralabun non fu più in grado di usare il remo da bratto a causa dell'acqua troppo poco profonda e del legname galleggiante che si ammassava, gridò: «Non è possibile che sia qui, Cuore Celato!» Il ragazzo fece uno sforzo per controllare l'esasperazione. «Farò io da guida, mentre tu spingi la barca con la pertica. Passa tra quei due grandi alberi di wilunda. Conosco la strada.» Ralabun obbedì controvoglia, ma anche se ogni tanto il canale pareva irrimediabilmente bloccato dalla boscaglia e dai rampicanti, davanti a loro si apriva sempre una striscia di acqua navigabile larga giusto quanto l'imbarcazione. Procedevano molto piano, ma dopo un'altra ora raggiunsero una piccola area di terra asciutta, sul cui roccioso perimetro crescevano felci spinose, wydel piangenti e imponenti kala. Tolivar indicò un punto di approdo e Ralabun portò a riva la barca. «È qui?» mormorò stupito. «Avrei giurato che ci fossimo persi.» Con un balzo il principe scese su un argine coperto di cladio appiattito dalla furia delle piogge e legò la cima di prua a una sporgenza. Quindi prese la lanterna, aprì lo sportellino e fece cenno al Nyssomu di accompagnarlo lungo un sentiero quasi invisibile che procedeva tortuoso tra rocce affioranti e vegetazione che grondava acqua. Giunsero a una radura dove si trovava una piccola capanna di pali tagliati a colpi d'ascia e fasci d'erba, il cui tetto era fatto con uno spesso strato di
felci foraggio. «L'ho costruita io», disse con orgoglio il principe. «È qui che vengo a studiare magia.» La larga bocca di Ralabun si spalancò per lo stupore, mostrando le corte zanne gialle. «Magia? Un ragazzo come te? Per il Triuno... dunque il nome Cuore Celato ti calza a pennello!» Tolivar sciolse il legaccio che chiudeva la semplice porta di vimini e fece un inchino ironico. «Prego, accomodati nel mio laboratorio di mago.» L'interno era perfettamente asciutto. Il principe accese una lampada riflettente a tre candele posta su un tavolo improvvisato. La capanna aveva ben pochi mobili, a parte uno sgabello, una damigiana di acqua potabile e una serie di mensole su cui erano posti alcuni barattoli e barilotti di cibo conservato. Di certo non c'era traccia di strumenti o libri, né di alcuno degli altri arnesi che ci si aspetterebbe di trovare nel covo di uno stregone. Tolivar si mise in ginocchio, scostò le felci e i giunchi recisi che coprivano il pavimento di terra e cominciò a sollevare una lastra di pietra larga e sottile. Nella cavità sottostante c'erano due borse di tela di lana grezza, una piccola e l'altra più grande. Tolivar le posò entrambe sul tavolo. «Questi sono gli oggetti preziosi per cui siamo venuti», spiegò a Ralabun. «Pensavo non fosse saggio tenerli nella Cittadella.» Il vecchio aborigeno rimirava le due borse con crescente apprensione. «E che accadrà a queste cose quando ti sarai trasferito a Derorguila per l'inverno?» «Ho un nascondiglio sicuro tra le rovine appena fuori la Rocca di Zotopanion, dove non va mai nessuno. L'ho scoperto quattro anni fa, durante la Battaglia di Derorguila, quando ho avuto la fortuna di entrare in possesso di questo grande tesoro.» Il ragazzo aprì la sacca più grande e ne estrasse una scatola sottile e poco profonda, all'incirca della lunghezza del braccio di un uomo e larga tre spanne. Era realizzata con materiale vetroso scuro, e sopra il coperchio era impressa in rilievo una stella d'argento dai molti raggi. «Signori dell'Aria! Non può essere!» proruppe a gran voce Ralabun. Senza dire neanche una parola, Tolivar aprì la borsa piccola. Alla luce della lampada qualcosa brillò di un intenso color argento: era una coroncina lavorata in modo curioso, con sei cuspidi molto piccole e tre più alte. Era decorata con incisioni che rappresentavano volute, conchiglie e fiori, e al di sotto di ognuna delle punte più grandi si trovava un volto grottesco: uno era un ripugnante Skritek, il secondo un umano atteggiato a una smor-
fia di disgusto, e il terzo un essere feroce dai capelli ricciuti stilizzati a guisa di stella, che pareva lanciare un muto grido di dolore. Sotto il viso centrale si trovava una minuscola riproduzione del blasone reale del principe Tolivar. «Il Mostro a Tre Teste», gracchiò Ralabun, quasi fuori di sé dallo sgomento. «Il talismano magico della regina Anigel, da lei consegnato come riscatto al vile stregone Orogastus!» «Non appartiene né a mia madre né a lui, ora», affermò Tolivar. Si appoggiò sul capo il diadema e all'improvviso il suo esile corpo e il visetto scialbo parvero trasfigurati. «Il talismano è legato a me per opera dello scrigno stellato, e chiunque lo tocchi senza il mio consenso verrà ridotto in cenere. Non sono ancora in grado di dominare completamente il potere del Mostro a Tre Teste, ma un giorno ci riuscirò. E quando quel momento verrà, diventerò un mago più grande e potente di quanto Orogastus sia mai stato.» «Oh, Cuore Celato!» gemette Ralabun. Ma prima che potesse continuare, il ragazzo aggiunse: «Ricorda il giuramento, vecchio amico». Dopo di che si tolse il diadema e lo ripose nella borsa di tela, facendo lo stesso con lo scrigno stellato. «Andiamo, adesso. Forse riusciremo a essere a casa prima che ricominci a piovere.» 2 «Ora!» gridò Kadiya. «Prendeteli!» L'immensa rete d'intrappolapiede intrecciati cadde, le molte funi che la reggevano recise allo stesso momento dal gruppo di Nyssomu arrampicatisi tra le alte fronde degli alberi di kala. Era piena notte, ma la saetta di fuoco di un lampo illuminò l'attimo in cui la rete atterrava sul suolo della foresta acquitrinosa e affievolì il luccichio arancione negli occhi della stupefatta unità di guerra Skritek. L'imboscata era riuscita. Oltre quaranta mostruosi Affogatoli, intrappolati di colpo tra quelle maglie tenaci e vischiose, ringhiavano e strillavano tra i rombi di tuono. Con zanne e artigli tentavano senza successo di strappare la rete, mentre le code sferzavano l'aria e il fango, impigliandoli ancora di più. Dalla pelle scagliosa salì una nuvola nociva e disgustosa, che però non impedì a chi li aveva fatti prigionieri di piantare nel terreno fradicio lunghi pali uncinati al fine di assicurare i bordi della rete. I Nyssomu che non erano impegnati nell'impresa presero a saltellare di gioia, strabuzzando
gli occhi per farsi beffe dell'antico nemico, festeggiando e brandendo cerbottane e lance. «Consegnati a me, Roragath!» ordinò Kadiya. «Il tuo piano d'invasione e di brigantaggio è ormai fallito. Adesso devi subire la punizione per avere violato la Tregua della Palude Labirinto.» Mai! replicò il capo degli Skritek, usando il linguaggio senza parole. Era un essere gigantesco, alto quasi il doppio della donna, e aveva ancora un portamento eretto nonostante le maghe appiccicose che lo avvolgevano. La Tregua ormai non ci vincola più. E anche se così fosse, non ci arrenderemmo mai a una debole femmina umana. Combatteremo fino alla morte piuttosto che consegnarci a te! «Dunque non mi riconosci, infido Affogatore», mormorò Kadiya. Si rivolse allora a un robusto uomo del Popolo, proprio dietro di lei. «Jagun. Si direbbe che la visione notturna di questi sciocchi infrangitori di tregue sia debole quanto il loro intelletto. Si portino delle torce per illuminarli.» Aveva ricominciato a piovere forte, ma al comando di Jagun diversi membri del reparto Nyssomu strofinarono delle conchiglie da fuoco e accesero delle fascine di canne intinte nella pece che avevano estratto dagli zaini e fissato su lunghi bastoni. Quando fiamma dopo fiamma le torce presero vita, rivelando la turbolenta scena che si svolgeva nella radura, i guerrieri Skritek catturati presero a sibilare e a mugghiare con aria di sfida. Poi, mentre i portatori di fiaccole convergevano verso Kadiya, che nel frattempo, non tenendo conto dell'acquazzone, si era tolta il mantello col cappuccio, i mostri tacquero. Era una donna di statura media, ma sembrava alta in mezzo alla schiera di minuscoli Nyssomu. Aveva i capelli castano-rossicci, legati con dei nastri a formare una sorta di corona. Indossava una corazza in maglia di scaglie dorate sopra indumenti in pelle da abitante delle foreste, molto simili a quelli dei suoi compagni, e sul petto spiccava l'emblema del sacro Giglio Nero. Su ogni petalo del Fiore c'era un occhio luccicante: uno dorato come quelli del Popolo, uno marrone intenso come quelli della stessa Kadiya e uno azzurro argenteo con strani bagliori nella pupilla scura. Quest'ultimo era come quelli degli Scomparsi. Adesso ti riconosciamo, ammise riluttante il capo degli Affogatori. Sei la Signora degli Occhi. «E sono anche il Grande Avvocato di tutti i Popoli, inclusi voi, stolti Skritek degli Acquitrini del Sud. Come osate invadere e depredare queste terre appartenenti al Popolo Nyssomu in violazione del mio editto? Ri-
spondimi, Roragath!» Noi non riconosciamo la tua autorità! Inoltre, uno più grande di te ci ha rivelato la verità riguardo al tuo illegittimo armistizio. Ci ha detto che presto torneranno gli Scomparsi e il Giglio Celeste risplenderà di nuovo nei cieli. Allora voi umani e tutti i vostri ossequiosi schiavi Oddling sarete disfrutti. Il Mondo delle Tre Lune sarà com'era in principio: dominio dei soli Skritek. Sì! Sì! ruggirono i mostri, che ripresero ad agitarsi e a contorcersi nella rete con più vigore di prima. «Chi vi ha raccontato questa oltraggiosa menzogna?» domandò Kadiya. Non ottenendo risposta dal capo degli Skritek, estrasse dal fodero una strana spada scura dal pomo tripartito, alla cui lama non affilata mancava la punta. Capovolgendola, la tenne alta, e al solo vederla tutti quei malvagi abitanti della palude che teneva prigionieri cominciarono a gemere per la paura. «Riconoscete certo l'Occhio di Fuoco Trilobato che reggo in mano.» Kadiya parlava con una calma terribile. Sul suo viso scendevano grosse gocce di pioggia che cadendo sull'armatura scintillavano come gemme. «Sono la custode di questo autentico talismano degli Scomparsi, che può decidere in un attimo se avete o no il diritto di schernirmi. Ma capite bene questo, Affogatori degli Acquitrini del Sud: se verrete giudicati colpevoli di sedizione, l'Occhio vi avvolgerà in un fuoco magico e morirete miseramente.» A quel punto i mostri stavano parlottando tra loro. Infine, Koragath disse: Abbiamo creduto a ciò che ci ha raccontato l'Uomo della Stella, anche se non ci ha portato prove oltre alle meraviglie effettuate per mostrare la propria dimestichezza con la magia. Forse... ci siamo ingannati. «Un Uomo della Stella...?» sbottò costernato Jagun. Ma con un gesto Kadiya gli impedì di continuare. «Le falsità escono facilmente da una bocca spigliata e malefica», replicò rivolta a Roragath, «e degli sciocchi riluttanti ad abbandonare le proprie vecchie maniere violente non desiderano altro che credere a imbroglioni e ciarlatani. So perché vi siete opposti alla Tregua: abitando in un angolo remoto della palude pensavate di essere al di sopra dell'autorità della Bianca Signora... e al di sopra di me che faccio rispettare il suo volere. Vi siete sbagliati.» Il gigantesco Skritek proruppe in un lamento di furiosa disperazione. Kadiya degli Occhi, smetti di rimproverarci come stupidi mocciosi! Lascia
che il tuo talismano ci giudichi e ci uccida. Almeno questo porrà fine alla nostra vergogna. Ma Kadiya abbassò la sua strana spada e la ripose nel fodero. «Forse non sarà necessario. Finora, Roragath, tu e la tua banda vi siete resi colpevoli solo di sporadiche azioni violente e della distruzione del villaggio di Asamun. Alcuni rappresentanti del Popolo Nyssomu sono stati feriti, ma nessuno è morto, anche se non per merito vostro. È quindi possibile concertare un risarcimento. Se fate ammenda delle vostre azioni ostili e promettete solennemente di tornare nei vostri territori e rispettare l'armistizio, vi risparmierò la vita.» Per un momento interminabile il muso del capo Skritek restò puntato verso l'alto con aria di sfida, ma infine la grande testa si chinò in segno di sottomissione e la creatura cadde in ginocchio. Prometto a nome mio e dei miei compagni di obbedire ai tuoi comandi, Signora degli Occhi, e questo lo dichiaro di fronte alle Tre Lune. Kadiya annuì. «Liberateli», disse alla squadra di Nyssomu. «Quindi fate sì che Asamun e i suoi consiglieri abbiano modo di negoziare l'indennizzo.» Si rivolse di nuovo al capo Skritek, posando una mano sul simbolo che aveva sul petto. «Fa' che il tuo cuore non contempli altre slealtà, Roragath degli Affogatoti. Ricorda che mia sorella Haramis, la Bianca Signora, Arcimaga della Terra, può vedervi ovunque andiate. Mi comunicherà subito se oserete infrangere ancora la Tregua della Palude Labirinto. Se ciò dovesse accadere, vi scoverò e questa volta vi colpirò senza pietà.» Comprendiamo, replicò Roragath. Ci è consentito vendicarci del malvagio che ci ha ingannati? È venuto da noi soltanto una volta, poi si è allontanato verso ovest in direzione delle montagne, fuori da Ruwenda e verso Zinora. Ma potremmo rintracciarlo... «No», rispose Kadiya. «Vi ordino di non inseguire il sobillatore. La Bianca Signora e io lo affronteremo a tempo debito. Avvertite soltanto gli altri Skritek di non prestar fede alle sue bugie.» Sollevato da terra il mantello che si era levata per mostrarsi ai prigionieri, se lo rimise addosso per difendersi dalla pioggia incessante e chiese a Jagun di prendere una torcia e di seguirla. Fianco a fianco, la Signora degli Occhi e il suo braccio destro si misero in marcia lungo l'ampio sentiero che conduceva al fiume Vispar. Dopo che Haramis, la Bianca Signora, aveva saputo dei mostri in rivolta nel remoto Sud e ne aveva parlato alla sorella Kadiya, c'erano voluti dieci
giorni per mobilitare il piccolo esercito di Nyssomu e preparare l'imboscata contro l'unità di guerra Skritek. Adesso che la spedizione si era conclusa in modo positivo, Kadiya si sentiva molto stanca. Le parole del capo Skritek erano state fonte d'inquietudine e di sconcerto, ma non era dell'umore adatto per discuterne con l'Arcimaga. E non aveva neppure voglia di sentirsi una predica dalla sorella, quando questa avesse saputo di come aveva usato il talismano. Avanzando a fatica nel fango, bagnata fradicia dalla testa ai piedi e dolorante in ogni singolo muscolo, la Signora degli Occhi afferrò il cordoncino che portava al collo ed estrasse l'amuleto che aveva tenuto nascosto tra le vesti. Splendeva di una debole luce dorata, e toccandolo dava una piacevole sensazione di calore che confortava il cuore: era una goccia di ambra fossile color miele che al suo interno racchiudeva un bocciolo di Giglio Nero. Grazie, pregò. Grazie, Dio Triuno del Fiore, per avere concesso che il bluff funzionasse ancora una volta, per avermi dato la forza. E perdonami per l'implicito inganno... se conoscessi un altro modo, lo utilizzerei. Coi venti di tempesta che davano il via a una Stagione Umida decisamente anticipata ruggendo tra gli alti rami degli alberi sopra di loro, Kadiya e Jagun quasi non scambiarono una parola finché non raggiunsero la piccola ansa di acque stagnanti del fiume ormai ingrossato dove avevano lasciato le imbarcazioni. Il Popolo Nyssomu era solito viaggiare su barchini realizzati con tronchi d'albero scavati e chiatte assai lente, che venivano faticosamente spinti con pali o remi da bratto. Il natante di Kadiya, invece, seguiva lo stile degli Wyvilo, cioè aveva una leggera struttura in legno ricoperta da pellami raschiati e molto sottili. Era stato appoggiato contro le radici sporgenti di un grosso kala, e quando lei e Jagun ci saltarono dentro mollando gli ormeggi, dalle acque butterate dalla pioggia emersero due grandi teste affusolate, che li fissavano con aria di curiosa attesa. Erano rimorik, formidabili animali acquatici che avevano un rapporto speciale - non del tutto definibile come domestico - col Popolo Uisgu, i timidi cugini dei Nyssomu che abitavano nella Palude Dorata a nord del fiume Vispar. Dato che Kadiya era l'Avvocato di tutti i Popoli, Uisgu inclusi, godeva anch'essa del favore dei rimorik. Parecchi di quegli animali, desiderosi di servirla, avevano lasciato il territorio abituale per trasferirsi nel fiume Golobar, accanto al Maniero degli Occhi appartenente a Kadiya, che si trovava circa settanta leghe a est. Gli occhi delle bestie acquatiche brillarono come giaietto alla luce della
torcia sgocciolante di Jagun. I rimorik avevano pelo verde screziato, vibrisse setolose ed enormi denti che ora mostravano in quella che per loro era un'espressione amichevole e garbata. Dividi con noi il miton, Signora. Abbiamo atteso il tuo ritorno troppo a lungo. «Certo, cari amici.» Dalla borsa che portava alla cintura Kadiya tolse una bottiglietta ottenuta da una lagenaria rossa. Stappatala, ne bevve un sorso, offrì a Jagun la sua parte, quindi versò un po' del sacro liquido nel palmo della mano sinistra. Gli animali si avvicinarono nuotando e bevvero, lappando gentilmente con le orripilanti lingue, appendici simili a fruste dalla punta acuminata che utilizzavano per arpionare le prede. Il miton svolse l'attesa benigna azione magica, e i quattro improbabili amici provarono un grande appagamento che affinò i loro sensi e sconfisse la fatica. Finito quel momento di comunione, Kadiya sospirò. Jagun infilò i finimenti ai rimorik, e senza il minimo rumore i grandi animali s'immersero trascinando velocemente la barca lungo il fiume ampio e scuro, diretti verso la scorciatoia segreta che li avrebbe riportati tutti a casa in meno di sei ore. Kadiya e Jagun viaggiavano al riparo di un'incerata vegetale, masticando un'austera cena a base di radici di adop essiccate e gallette. La donna commentò: «Mi sembra che sia andata bene. La tua idea di realizzare una rete trabocchetto con gli intrappolapiede è stata brillante, Jagun, e ci ha evitato una battaglia campale contro i diavoli della palude». Il largo viso giallognolo del vecchio aborigeno pareva una maschera e i luminosi occhi paglierini la fissavano con disapprovazione. Che fosse profondamente turbato era evidente. Kadiya brontolò tra sé, conoscendo benissimo il motivo. Poteva posticipare la ramanzina di sua sorella Hara, ma non quella del vecchio amico Nyssomu. Jagun rimase a lungo senza parlare, mentre Kadiya aspettava, mangiando anche se ormai aveva perso l'appetito. Intanto la pioggia continuava a battere e la barca sibilava e vibrava per la grande velocità. Infine, Jagun disse: «Lungimirante, sono quattro anni che porti avanti con successo l'incarico che hai scelto, anche se il tuo talismano non è più legato a te e non è in grado di operare magie. Nessuno a parte me e le tue due sorelle sa che l'Occhio di Fuoco Trilobato ha perduto il suo potere». «Fino a oggi il segreto è rimasto tale», commentò Kadiya in tono pacato. «Ma tremo al pensiero di ciò che potrebbe accadere se continui a utilizzare il talismano nella tua funzione di Avvocato, come hai fatto stanotte.
Se si scoprisse la verità, il Popolo ne sarebbe profondamente scandalizzato. Il tuo onore risulterebbe macchiato e la tua autorità compromessa. Non sarebbe dimostrazione di maggiore saggezza fare come la Bianca Signora ti ha spesso chiesto e consegnare a lei l'Occhio di Fuoco, perché lo custodisca finché non sarà possibile fargli riacquistare il potere?» «Il talismano è mio», dichiarò Kadiya. «Non lo abbandonerò mai, nemmeno nelle mani di Haramis.» «Se smettessi semplicemente di portarlo, nessuno oserebbe domandartene il motivo.» Lei diede un profondo sospiro. «Forse hai ragione. Ho pensato e pregato molto al riguardo, ma non è una decisione facile da prendere. Hai visto come gli Skritek erano terrorizzati dall'Occhio, questa sera.» La mano le scivolò sull'elsa della spada scura e afferrò le tre sfere congiunte all'estremità, ora così fredde, mentre un tempo erano state calde. L'Occhio di Fuoco Trilobato, creato anni prima dagli Scomparsi per i loro scopi misteriosi, era stato capace di una magia terribile, dato che era una delle tre parti del grande Scettro del Potere. Un tempo quel talismano era stato legato allo spirito di Kadiya, alla sua anima, e i tre lobi si erano aperti al suo comando rivelandosi copie viventi degli occhi che adornavano la sua armatura. Ne aveva dominato forza e potere, e chiunque avesse osato toccare la spada senza il suo permesso sarebbe morto immediatamente. Ma quattro anni prima lo stregone Orogastus, ultimo erede degli Uomini della Stella, aveva rubato il talismano di Kadiya, e ne aveva acquisito un secondo appartenente alla regina Anigel per mezzo di una vile estorsione. Aveva legato a sé entrambi gli strumenti, osando sperare che l'Arcimaga Haramis, spinta dall'amore che provava per lui, gli avrebbe consegnato anche il terzo. Invece, per un colpo di sfortuna, Orogastus aveva perso il talismano di Anigel e in seguito, nel corso di una battaglia risolutiva, era stato sconfitto e distrutto dalla magia delle tre sorelle. La spada senza padrone era stata restituita a Kadiya, ma il talismano non si riuniva più come prima al suo magico amuleto d'ambra, per legarsi al volere della giovane donna. A quanto pareva, l'Occhio di Fuoco Trilobato era morto come Orogastus. Nonostante ciò, Kadiya aveva continuato a portare con sé l'arma spuntata. «Non ho mai deliberatamente mentito al Popolo riguardo alla funzione del mio talismano», continuò rivolta a Jagun. «Il suo valore simbolico ri-
mane, anche se è inutile dal punto di vista della magia. Hai visto quanto bene ha fatto stasera. Senza la sua minaccia, di certo gli Skritek ci avrebbero combattuti fino alla morte. Grazie a esso, sono riuscita a risparmiare la loro vita e a evitare ingenti perdite tra i Nyssomu.» «Questo è vero», ammise Jagun. «Gli Affogatori torneranno agli Acquitrini del Sud e racconteranno agli altri membri della tribù di come sono stati sconfitti e poi graziati dalla Signora degli Occhi e dal suo talismano.» Si strinse leggermente nelle spalle. «In questo modo la Tregua della Palude reggerà finché non si presenterà una nuova crisi... E c'è sempre la possibilità che Haramis riesca a scoprire come legare di nuovo a me il talismano, restituendogli la forza.» L'omino scosse il capo, ancora dubbioso. Come altri della sua razza, all'apparenza si sarebbe quasi detto umano, con le sue minuscole narici longitudinali, una larga bocca dai piccoli denti aguzzi sul davanti e le strette orecchie dritte che spuntavano da entrambi i lati del berretto da cacciatore. Molti anni prima era stato Capocaccia Reale di re Krain di Ruwenda, defunto padre di Kadiya. Quando era solo una ragazzina, Jagun l'aveva accompagnata nella Palude Labirinto che occupava tanta parte del piccolo regno sull'altopiano, insegnandole molti segreti di quei luoghi umidi e scegliendo per lei, come nome da palude, quello di Lungimirante a causa della sua vista acuta. E quel soprannome si era rivelato profetico quando Kadiya era diventata guardiana dell'Occhio di Fuoco Trilobato e protettrice del Popolo aborigeno che divideva il Mondo delle Tre Lune col genere umano. Nel corso degli anni, Jagun era rimasto il migliore amico e più stretto collaboratore di Kadiya. A volte la giovane si sentiva un po' umiliata, perché lui pareva dimenticare che ormai non era più una bambina, e la sgridava per il temperamento focoso e l'incrollabile testardaggine che di quando in quando prevalevano sulla razionalità. La cosa più seccante al riguardo era che Jagun aveva quasi sempre ragione. «Devi renderti conto, Lungimirante», le disse allora con tono grave, «che quel particolare conflitto con gli Skritek era fuori dell'ordinario. Il racconto di Roragath relativo a un menzognero Uomo della Stella deve essere stato un grande shock per te come lo è stato per me.» «L'idea che gli Scomparsi possano tornare è assurda», affermò Kadiya con scherno. «E solo i Signori dell'Aria sanno che tipo di prodigio possa essere un 'Giglio Celeste'. Quanto al cosiddetto Uomo della Stella...» «E se fosse accaduto il peggio», azzardò Jagun, «e lo stregone maledetto in persona fosse tornato di nuovo dalla morte?»
«Impossibile! È stato il talismano di Haramis a dirle che Orogastus era morto.» Le labbra di Kadiya si atteggiarono a una smorfia di disgusto. «E da allora la mia sciocca sorella ha pianto in segreto per quell'anima dannata.» «Non prenderti gioco della sincera emozione della Bianca Signora», sbottò severo Jagun, «soprattutto visto che tu non hai mai conosciuto la passione d'amore. Non si può scegliere chi amare... come purtroppo so per esperienza.» Kadiya lo fissò stupita. Da quando conosceva Jagun, egli non aveva mai avuto una compagna. Ma non era il momento giusto per approfondire un argomento tanto delicato. «Allora», gli domandò, «pensi che Orogastus possa avere passato ad altri il compito di portare a termine la sua opera sacrilega? I sei accoliti di cui abbiamo notizia, quelli che riteneva le sue Voci, sono certamente morti. E non si sono trovati altri apprendisti stregoni quando mio cognato ha perquisito i covi di Orogastus nella terra di Tuzamen.» «Persone del genere possono essere sfuggite alla giustizia di re Antar una volta venute a conoscenza del destino avverso del loro maestro», replicò Jagun. «E se sono state astute e hanno evitato di usare la magia in modo eccessivo, potrebbero essere sfuggite anche allo sguardo indagatore della Bianca Signora. Neppure il Cerchio dalle Tre Ali è in grado di tenere sotto controllo ogni parte del mondo in ogni momento del giorno e della notte.» Kadiya finì le gallette e l'adop e iniziò ad aprire delle noci blok col pugnale, estraendone la polpa per entrambi. «È più probabile che questo cosiddetto Uomo della Stella non sia altro che un impostore, un agente di qualche nemico di Laboruwenda intento a incitare alla ribellione per causare disordini a fini politici. È stato molto intelligente far sollevare gli Skritek proprio ora, all'inizio delle piogge. La corte di Anigel e di Antar sta per ritirarsi nelle pianure del Labornok per l'inverno, lasciando a Ruwenda soltanto una guarnigione ridotta. Quel giovane farabutto, re Yondrimel di Zinora, sarebbe ben felice di vedere i Due Troni trascinati in una serie di conflitti rovinosi coi diavoli della palude durante la Stagione Umida. A quel punto la sua nazione potrebbe assumere il controllo delle vie commerciali occidentali di Laboruwenda.» «Ciò è plausibile», ammise Jagun. «Roragath ha detto che l'Uomo della Stella si è allontanato in quella direzione.» «Se Yondrimel sta tramando qualche mascalzonata, re Antar e la regina
Anigel metteranno subito fine ai suoi piani. Non può permettersi di essere colto con le mani nel sacco mentre è intento a minare la stabilità dei Due Troni. Altre nazioni civili lo metterebbero al bando e non avrebbe più nessuno con cui commerciare le sue perle, tranne i Barbari Piumati.» Jagun stava rovistando nel sacco delle provviste alla ricerca di un cavaturaccioli. Appena l'ebbe trovato, stappò un fiasco di vino di halabacche e riempì due coppe di legno. «I Signori dell'Aria concedano che la questione venga risolta rapidamente», disse, in un brindisi riverente. Kadiya sollevò la propria coppa ed entrambi bevvero. Quando Jagun prese di nuovo la parola, il suo tono racchiudeva un terribile monito. «Ma se davvero la Società della Stella è rinata, allora non soltanto la nostra terra di Laboruwenda ma anche il resto del mondo può essere sull'orlo della catastrofe. Col tuo talismano inutilizzabile e con quello della regina Anigel perduto, non c'è la possibilità di riunire il Triplice Scettro del Potere, che è l'unica arma sicura contro l'antica magia della Società della Stella.» Scrutando il Nyssomu da sopra il bordo della coppa, Kadiya sorrise. «Animo, vecchio amico! Le mie sorelle e io scopriremo la verità riguardo a questa situazione. Domani, dopo che avrò dormito nel mio letto e rinfrescato il mio cervello stanco, parlerò con Haramis. Per ora, gustiamoci il nostro vino e non aggiungiamo altro.» Ma il giorno seguente, quando Kadiya fece inviare da Jagun la Chiamata per l'Arcimaga della Terra con il linguaggio senza parole, non ottenne risposta. 3 «Iriane!» chiamò dolcemente Haramis parlando nel proprio talismano. «Iriane, mi senti? Devo comunicarti notizie gravi e ho un disperato bisogno dei tuoi consigli. Ti prego, rispondimi.» Ma l'area interna del Cerchio dalle Tre Ali che reggeva tra le mani, osservandolo come si potrebbe fare con un piccolo specchio, rimase un informe mulinello di luminescenza perlacea. I gioiosi e paffuti lineamenti dalla lieve colorazione azzurrina dell'Arcimaga del Mare non apparvero. Haramis aggrottò le sopracciglia, perplessa. «Talismano, puoi dirmi perché Iriane non risponde?» È coperta da una schermatura magica. «Si trova nella sua residenza?»
No. Si trova nelle Isole Cave, tra il Popolo delle Onde del lontano Ovest. «Perché rifiuta di parlarmi?» chiese lei con impazienza al Cerchio. La domanda non è pertinente. «Uffa! Adesso immagino che dovrò andare a cercarla.» Sollevò l'arpa appoggiata sul tappeto accanto a lei e pizzicò lentamente le corde per calmarsi e concentrarsi. In un ampio vaso di ceramica vicino alla finestra si trovava una grande pianta coperta di fiori a tre petali scuri come la notte, e guardandola si sentì sollevata. Per tutta la sera Haramis, Arcimaga della Terra, era rimasta nel suo studio utilizzando il Cerchio dalle Tre Ali per osservare lo scontro tra sua sorella Kadiya e gli Skritek. Le parole pronunciate dal capo dei mostri l'avevano impressionata e turbata. Non appena Kadiya era risultata vincitrice, Haramis aveva lasciato la scena dell'imboscata sperando di consultare la propria collega e mentore, l'Azzurra Signora del Mare. La giovane Arcimaga della Terra non aveva pensato neppure per un istante di affrontare quella situazione da sola. Se un altro Uomo della Stella era libero e intento a realizzare i piani del suo defunto maestro, allora il mondo correva di nuovo un pericolo terribile. Quanto all'idea che gli Scomparsi potessero tornare, era talmente incredibile che Haramis quasi non osava pensarci... «Oh, Iriane!» esclamò ad alta voce. «Non potevi scegliere un momento peggiore per andare a nasconderti!» Con un certo sforzo, Haramis riuscì di nuovo a calmare l'agitazione strimpellando l'arpa e contemplando i Fiori. Non doveva permettere alla sua indocile immaginazione di correre troppo. Prima di assumersi il compito di andare in cerca della volubile Arcimaga del Mare, avrebbe dovuto scoprire chi aveva fomentato l'insurrezione dei diavoli della palude. Gli aborigeni Skritek erano notoriamente ingenui, e colui che li aveva incitati alle ostilità poteva anche non essere altro che un semplice truffatore umano. Posò l'arpa e sollevò di nuovo il talismano. «Mostrami la persona che ha detto agli Skritek di essere un membro della Società della Stella.» Obbediente, il Cerchio dalle Tre Ali mostrò l'immagine nebulosa di una scena notturna in un rifugio pietroso, illuminato dalle braci color cremisi di un fuoco di bivacco ormai quasi spento. Qualcuno giaceva addormentato sul terreno. All'ordine dell'Arcimaga, la visione si allargò finché le parve di trovarci-
si all'interno e fu quindi in grado di aggirarsi in quel luogo e osservare tutto da vicino, riuscendo a vedere bene come fosse giorno. Su ogni lato s'innalzavano alte montagne, molte incappucciate da ghiacciai. Sul terreno dell'accampamento non c'era neve, ma soffiavano gelide raffiche di vento che provocavano fiammate e poi quasi lo spegnimento del fuoco. «Dove si trova questo posto?» chiese al talismano. Sui monti Ohogan sopra Zinora, circa novecento leghe a est della tua Torre. Il buio sconfitto dalla magia del Cerchio, Haramis poté vedere un grosso fronial, molto ben tenuto e coi palchi di corna abbondantemente coperti d'argento, legato vicino a un rumoroso fiumiciattolo. Con movimenti pigri stava strappando foglie dagli arbusti che crescevano tra i ciottoli. La sella e i finimenti, ammassati con cura a lato del fuoco, erano di ottima qualità e realizzati secondo lo stile zinorano, con bardature d'argento ornate di perle. Dall'altra parte del campo si trovava invece l'uomo addormentato, avvolto talmente stretto nelle coperte di lana di zuch che era visibile soltanto il naso. Accanto a lui era appoggiato un robusto paio di quelle che avevano l'aspetto di bisacce... solo che non erano fatte di cuoio, ma di pelle di uccelli esotici, con le penne rosse e nere ancora al proprio posto. Non potevano che essere opera dei Sobraniani, i ricchi ma alquanto incivili umani che abitavano le frontiere occidentali del mondo conosciuto, al di là della nazione di Galanar. Sulle bisacce era appoggiato un intricato congegno di metallo scuro, alla cui vista Haramis provò una fitta d'incredulo orrore e non poté non emettere un grido. Tuttavia la sua Proiezione risultò impercettibile al dormiente, che non si mosse neppure quando lei si chinò accanto all'oggetto per studiarlo meglio. Era lungo poco più di mezzo ell, appiattito e di forma triangolare a una estremità, quasi come l'impugnatura di una balestra. Da esso sporgevano tre cilindri sottili o bacchette, stretti assieme da una serie di anelli e terminanti in una sfera di metallo dentellata. Nel punto in cui l'impugnatura superiore si congiungeva alle bacchette si trovava una sorta di manichetta svasata, e dietro di essa numerosi pomelli, borchie e appendici dallo scopo misterioso. Quel particolare strumento non le era familiare, ma l'Arcimaga ne aveva visti altri simili: nella sua Caverna del Ghiaccio Nero dietro la Torre sul monte Brom che le apparteneva, e anche quattro anni prima, durante l'assedio di Derorguila da parte dello stregone Orogastus. L'oggetto posseduto
dal presunto Uomo della Stella era un'arma antica, uno dei manufatti degli Scomparsi che di quando in quando rispuntavano tra i resti delle loro città in rovina. Da tempo agli uomini e al Popolo era proibito disporre di quei terribili armamenti, ma Orogastus ne aveva acquisiti parecchi depredando il deposito segreto di un precedente Arcimago della Terra, e i suoi guerrieri tuzameni e raktumiani li avevano utilizzati con effetti mortali muovendo guerra a re Antar e alla regina Anigel di Laboruwenda. Quando l'esercito dello stregone era stato sconfitto, Haramis aveva fatto in modo che tutte le armi arcaiche usate dal nemico venissero raccolte e distrutte. Aveva anche reso inutilizzabili tutto l'equipaggiamento bellico e altri oscuri strumenti degli Scomparsi immagazzinati nella sua Torre, oltre a quelli rimasti nell'antico deposito segreto nel Kimilion parzialmente saccheggiato dallo stregone. Metodicamente, nel corso di molti mesi, aveva sfruttato la magia del proprio talismano per visitare ogni rovina ed eventuale altro luogo dimenticato sul mondo-continente in cui fossero nascoste antiche armi ancora utilizzabili. Alla fine le aveva distrutte tutte. Il talismano gliene aveva dato conferma. E allora, da dove mai proveniva l'esemplare che stava ai suoi piedi? Da sotto il mare, rispose il talismano, e l'Arcimaga emise un mormorio di disapprovazione per la propria stupidità. Ma certo! Il talismano interpretava sempre le richieste in senso letterale, e lei gli aveva ordinato di setacciare la terra. L'arma era un po' rovinata, ma ben pulita e ovviamente funzionante. Usata in qualche funesta azione dimostrativa, avrebbe imposto rispetto e timore per chi la possedeva sia tra il Popolo sia tra gli umani in ogni parte del mondo, a prescindere dal fatto che chi la maneggiava fosse davvero un membro della Società della Stella. A quel punto, anche altri strumenti di offesa di quel genere potevano essere stati recuperati dai nascondigli sottomarini per scopi nefasti. Haramis si alzò e restò a guardare la sagoma del dormiente. «Talismano, fallo girare in modo che possa vederlo con chiarezza.» Da sotto le coperte si levò un brontolio smorzato. L'uomo girò su se stesso e così facendo mostrò il viso e la parte superiore del corpo. Era giovane e di corporatura robusta, con capelli castani e una barbetta rada lasciata probabilmente crescere per dare ai lineamenti piuttosto morbidi un'aria di maggiore maturità. La sopratunica era di pesante seta grigia, stracciata e sudicia, ma riccamente imbottita di pelliccia. Attorno al collo, appeso a una catena di platino molto ben lavorata, portava un disco con
una Stella a molte punte. Ingrandendone l'immagine, Haramis notò che il medaglione non era un falso: era identico a quello che indossava Orogastus, ma nella sua Proiezione l'Arcimaga non poteva dire se il gioiello avvolgeva il suo proprietario con un'aura magica oppure no. «Chi è quest'uomo?» domandò Haramis al Cerchio. «Da dove viene?» Le domande non sono pertinenti. «È l'unico della sua stirpe?» La domanda non è pertinente. «Quali sono i suoi piani?» La domanda non è pertinente. «Come ha ottenuto quest'arma? Può disporre di altre simili?» Le domande non sono pertinenti. «Perché mi consenti la Vista di quest'uomo anche se porta la Stella?» Perché è un neofita e non gode ancora di tutti i poteri della Società a cui appartiene. Haramis sbottò in una risata sinistra. Be', quelle sì che erano notizie utili! Adesso sapeva per certo che l'uomo addormentato non era un impostore ma un vero iniziato della temibile corporazione di antichi stregoni, troppo poco pratico nelle arti magiche per riuscire a schermarsi completamente al suo sguardo, come il suo defunto maestro poteva invece fare, ma esperto quanto bastava a nascondere identità e intenzioni. I rifiuti del talismano confermavano all'Arcimaga anche il sospetto che il giovane Uomo della Stella avesse compagni molto più potenti e pericolosi di lui. Haramis non desiderava prenderlo prigioniero, e non intendeva neppure distruggere quella sua insolita arma. Piuttosto, preferiva controllarne le mosse tramite il talismano, sperando che egli le avrebbe fornito informazioni preziose sulla Società. Il confronto con lui, e qualunque altro compagno o alleato potesse avere, avrebbe dovuto aspettare. «Ho scorto abbastanza di questa visione», disse. Di colpo, si ritrovò nel suo studio, seduta nella poltrona accanto al caminetto piacevolmente acceso, coi rigogliosi fiori di Giglio Nero nell'ombreggiata nicchia della finestra. Lasciò il Cerchio dalle Tre Ali libero di ondeggiare contro il suo petto e si appoggiò allo schienale, pensosa. Dunque le armi venivano dal mare! Non aveva mai sospettato che gli Scomparsi avessero potuto abitare anche là, oltre che sulla terraferma, e neppure la Signora Azzurra aveva mai menzionato la cosa. Bonaria e fiduciosa, Iriane governava i suoi ingenui sudditi aborigeni con mano leggera.
Con ogni probabilità non si sarebbe neanche accorta della silenziosa ricerca di armi proibite da parte della Società della Stella. Purtroppo, l'Arcimaga del Mare dal carattere dolce sapeva ben poco della perfidia del genere umano. Il riservato Popolo delle Onde di Iriane, in grado di risiedere sott'acqua per lunghi periodi, avrebbe dovuto aiutare Haramis a recuperare e distruggere tutti quei pericolosi manufatti che si trovavano ancora nascosti in fondo al mare. E ancora più impellente sarebbe stata la collaborazione di Iriane alla ricerca della sede principale degli Uomini della Stella. Era più che probabile che quei furfanti avessero il proprio covo nelle lontane e inesplorate regioni occidentali del mondo-continente, o addirittura su un'isola. In quel momento un'idea agghiacciante colpì Haramis. Sollevò il talismano. «Mostrami una veduta a volo di voor delle Isole Cave, nel regno della Signora Azzurra.» Di nuovo la stanza scomparve. A Haramis pareva quasi di librarsi a grande altezza sulle ali di un possente gipeto, uno di quegli uccelli dotati di denti e di grande intelligenza che erano suoi amici e aiutanti. Sotto di sé vide un'altra penisola, che si allungava nel mare dal limite sudoccidentale del mondo. Al largo della costa si trovava un gruppo di isole di notevoli dimensioni, alcune spoglie e altre coperte da una vegetazione inusuale. C'era anche qualche vulcano attivo che fumava piano. Nella sua Proiezione, volò tra i puntini di terra circondati dal mare, notando l'ingresso di numerose caverne. Per un essere umano quello era un luogo triste e desolato, martellato da immense onde che si riversavano dal selvaggio Mare Occidentale, e spazzato da venti che soffiavano a gran velocità per migliaia di leghe, non frenati dalla terraferma. C'erano insediamenti del Popolo delle Onde molto distanti tra loro, ma non scorse tracce umane. «La Società della Stella risiede qui?» domandò. No, rispose il Cerchio dalle Tre Ali. Be', era un sollievo. Studiò la scena con maggiore attenzione. Si trattava di una regione che non conosceva, perché gli esseri umani non vi si erano mai stanziati, né, per quanto ne sapeva, avevano mai neppure visitato le Isole Cave. Quelli della sua razza che avevano deciso di non Scomparire, che erano rimasti nel Mondo delle Tre Lune e avevano sfidato il Ghiaccio Vincitore, abitavano zone più ospitali a sud e a est. Se qualche animo coraggioso si era avventurato negli alieni dintorni governati dall'Arcimaga del Mare, non aveva fatto ritorno alle terre civilizzate per raccontare la sua impresa. La
stessa Haramis era stata troppo impegnata con le questioni del suo regno per esplorare quello di Iriane. «Quanto distano dalla mia Torre queste isole?» chiese al talismano. Oltre settemila leghe, a volo di voor. Per mare, ed è così che gli umani le raggiungerebbero, sono quasi ottomila leghe. «Sacro Fiore!» mormorò l'Arcimaga. «È una vera benedizione che non debba fare affidamento su una nave o un uccello per arrivare qui.» Cancellò la visione e tornò ad ambienti più familiari. Il talismano avrebbe potuto trasportarla fisicamente in quel luogo in un istante, con la stessa facilità di una Proiezione. E per quel mezzo di trasporto straordinariamente utile poteva ringraziare la cara Iriane. Insegnando a Haramis a utilizzare con perizia la magia personale, la Signora Azzurra aveva permesso alla giovane collega di dominare i più ampi poteri del Cerchio dalle Tre Ali in modi che Kadiya e Anigel non erano mai riuscite a ottenere coi loro talismani. Haramis sapeva che non avrebbe mai potato ripagare Iriane per quanto aveva fatto per lei. «Spero solo di trovarla al più presto.» Fissò il Cerchio ormai vuoto. Il talismano di Haramis non era molto grande. A una estremità, la bacchetta d'argento aveva un anello per consentire di appenderla alla catena che portava al collo, mentre all'altra c'era un cerchio largo leggermente più di una spanna umana, coperto da un trio di minuscole ali. Queste ultime circondavano una lucente goccia d'ambra con proprio al centro un Giglio Nero fossile, identica agli amuleti delle sue sorelle. Alla nascita, le tre principesse di Ruwenda avevano ricevuto in dono i magici amuleti dall'Arcimaga Binah, che le aveva definite Petali del Giglio Vivente, preannunciando loro un destino pauroso e compiti terribili. Vivendo quel destino, Haramis, Kadiya e Anigel avevano affrontato e superato molte delle rispettive debolezze personali, e tutte e tre le sorelle si erano assunte responsabilità tremende e allo stesso tempo magnifiche. Che gli eventi che si stavano verificando in quel momento stessero per condurle a una sfida più grande di quelle sinora fronteggiate? Proprio come il Sacro Fiore, erano Tre e anche una. Il futuro dell'Arcimaga, quello della Signora degli Occhi e quello della regina risultavano inesorabilmente intrecciati, che lo volessero oppure no... Per contrastare la Società della Stella era necessario coinvolgere anche Kadiya e Anigel, di questo Haramis era più che certa. Decise che si sarebbe trasferita a casa di Kadi subito dopo avere parlato alla Signora Azzurra. Il Cerchio dalle Tre Ali avrebbe trasportato lei e la sorella dalla regina A-
nigel, che era in residenza alla Cittadella di Ruwenda. La regina era incinta di quattro mesi, ma questo non le avrebbe impedito di operare al fianco del marito Antar e dei capi delle altre nazioni per opporsi alla minaccia armata della Società della Stella al già precario equilibrio del mondo. Kadiya avrebbe dovuto chiamare a raccolta il Popolo. Con la loro abilità di comunicare mentalmente anche a grande distanza e la profonda conoscenza della terra e del mare, gli aborigeni sarebbero stati d'importanza inestimabile nella ricerca della Società della Stella. Haramis decise anche che avrebbe insistito con Kadi perché le consegnasse il talismano privo di potere per custodirlo al sicuro, come avrebbe dovuto fare già da tempo. Non vincolato com'era, avrebbe potuto essere rubato da qualunque ladruncolo... o persino dagli Uomini della Stella! Era già abbastanza grave che il talismano di Anigel, il diadema detto Mostro a Tre Teste, fosse andato perduto durante la guerra contro Orogastus. La perdita di un secondo pezzo dello Scettro del Potere sarebbe stata insopportabile. Orogastus... Dal momento della sua morte, quattro anni prima, quasi non aveva più osato pronunciare il suo nome. Che rapporto c'era tra il Maestro della Stella che aveva amato tanto disperatamente e quella rinascita della Società? Haramis si alzò dalla poltrona e prese a camminare davanti alla finestra. Era una notte di tormenta in cima alle montagne dove si trovava la sua Torre. La neve cadeva copiosa e un vento pungente che proveniva dal ghiacciaio a nordovest ululava contro i vetri come un coro di demoni dei dieci inferni. Mentre meditava con tristezza sugli eventi del passato, giocherellava col talismano. Quando Orogastus aveva dato inizio all'assalto di Derorguila, la capitale settentrionale dei Due Troni, aveva in suo possesso non solo il Mostro a Tre Teste e l'Occhio di Fuoco Trilobato, ma anche un particolare contenitore vetroso sul cui coperchio spiccava l'emblema della Società della Stella e che era in grado di legare o slegare i talismani. Aveva utilizzato quello scrigno stellato, d'importanza cruciale, 'per trasferire la proprietà del Mostro e dell'Occhio da Anigel e Kadiya a se stesso. Lo scrigno, al pari del diadema magico della regina, era sparito nel tumulto della battaglia. Per qualche tempo, Haramis era stata convinta che fosse stata un'unica persona a trovare entrambi gli oggetti magici perduti e che ora lo sconosciuto in questione fosse effettivamente legato al Mostro a Tre Teste. Infat-
ti il talismano dell'Arcimaga, che aveva ancora pieni poteri e che le aveva prontamente indicato la collocazione dell'Occhio spento di Kadiya (e senza esitare l'aveva condotta dal giovane Uomo della Stella), si era rifiutato con fermezza di rivelare alcunché riguardo al diadema scomparso e allo scrigno che ne controllava la legatura. Iriane aveva convenuto con Haramis che questo poteva significare soltanto che la magia del Mostro a Tre Teste era pienamente attivata: il talismano era vincolato a un nuovo padrone. E tuttavia nel Mondo delle Tre Lune non era comparso nessun nuovo grande stregone. Il proprietario del diadema lo teneva nascosto e inutilizzato. Haramis non riusciva a immaginarne il motivo, a meno che quella persona non stesse aspettando di mettere le mani anche sul talismano di Kadiya per legare pure quello a sé grazie allo scrigno stellato. Possedendo due parti dello Scettro del Potere, il mago sconosciuto avrebbe avuto a disposizione una magia quasi più potente di quella di Haramis. Se, così equipaggiato di meravigliosi strumenti degli Scomparsi, si fosse alleato con una rinata Società della Stella, di certo il mondo sarebbe stato perduto. «Signori dell'Aria», pregò Haramis, «abbiamo vissuto in pace per questi quattro anni, eppure è chiaro che il mondo non ha davvero recuperato l'equilibrio sconvolto da Orogastus. È forse il mio amore per lo stregone scomparso - che, confesso, resiste inalterato - ad averci lasciati tanto vulnerabili?» O, come già una volta in precedenza, poteva essere accaduto l'impensabile? No, sia reso grazie al Triuno! Quello era impossibile. Haramis non avrebbe mai dimenticato il giorno in cui lei e le sue intrepide sorelle avevano rivolto contro lo stregone la distruzione che lui intendeva riversare su di loro. Il Fiore aveva superato la Stella. Si era verificata l'inattesa vittoria del Giglio Vivente... e l'annientamento di Orogastus, anche se Haramis aveva sperato di risparmiarlo. Il momento in cui aveva chiesto del destino dell'amato e la risposta impietosa del talismano erano ancora impressi a fuoco nel suo cuore. Accanto alla profonda finestra dov'era la pianta di Giglio Nero, cominciò a piangere. Sul vetro appannato dal gelo era rimasta una piccola zona trasparente, e da lì poteva vedere i fiocchi di neve portati dal vento correre verso di lei. Quasi fossero fatalmente attratti dalla luce all'interno della stanza, andavano a colpire lo spesso vetro a piombo precipitando nell'oblio.
Anche lui aveva subito un'attrazione fatale. Haramis avrebbe voluto evitare a Orogastus il castigo supremo. Prima dell'ultimo incontro, aveva posto l'esagono nero chiamato Fulcro della Società della Stella all'interno di un'antica prigione degli Scomparsi. Quel luogo, un baratro aperto nella roccia viva e situato nelle profondità della terra, avrebbe trattenuto saldamente lo stregone a prescindere dal tipo di magia a cui avesse fatto ricorso. Il Fulcro avrebbe dovuto attirare verso di sé Orogastus come una calamita nell'attimo in cui applicava i suoi massimi poteri a favore del male. Una volta imprigionato, magari ravveduto grazie alla persuasione e al reciproco amore, l'Arcimaga sperava che lui potesse mutare le proprie intenzioni in modo da consentirle di liberarlo. Ma un tremendo terremoto aveva scosso quella parte del mondo, facendo sprofondare la voragine dove si trovava il Fulcro. Lo strumento magico, però, aveva realizzato comunque l'incantesimo previsto, trascinando Orogastus in un caos roccioso e privo d'aria nell'istante della sua sconfitta. Haramis aveva domandato al talismano che ne fosse stato di lui, e quello aveva risposto: Ha seguito la via degli Scomparsi. Non è più di questo mondo. «Morto.» L'Arcimaga si allontanò dalla finestra e si passò una mano fredda sugli occhi che continuavano a lacrimare. «Sei morto, mio povero amore. E io sono sola con quel cupo ufficio che mi ha costretta a distruggere l'unico uomo che abbia mai amato.» E adesso i doveri di quell'incarico non potevano più essere rinviati. Era tempo che andasse a cercare Iriane, e quindi incontrasse le sue sorelle. Ma prima... Sollevò il talismano e ci guardò dentro. «Cerchio dalle Tre Ali, mostrami ciò che in precedenza ho avuto timore di far apparire: una visione reale del volto del mio defunto amore. Ho un disperato bisogno di conforto, e rinfrescare il ricordo di lui è l'unica benedizione sufficiente.» Il talismano prese vita, il Cerchio si riempì di pallidi colori luccicanti, e disse: La richiesta non è pertinente. «Come?» gridò sconvolta. «Mi neghi una cosa tanto semplice, talismano crudele e capriccioso?» La richiesta non è pertinente. «Vuoi farmi impazzire, oltre a spezzarmi il cuore? Mostramelo subito!» No, replicò con calma il talismano. Non posso mostrarti il volto del defunto Orogastus perché non esiste. «Cosa significa?» chiese brusca. «So che ora di lui restano solo ceneri,
sparse tra arroventate rocce sotterranee. Ti domando soltanto di rinnovarmi il ricordo dei suoi lineamenti. Se davvero il mondo ha perso equilibrio e armonia, allora devo imbarcarmi in nuove e pericolose avventure. Io... io vorrei avere un suo ritratto che mi dia consolazione. E magari mi serva anche d'ammonimento. Di certo non ci può essere nulla di male in questo. Ti ordino di dipingere per me il suo viso com'era durante gli ultimi giorni passati in questo mondo.» Ora la tua richiesta può essere soddisfatta. Gli incessanti mulinelli di luce perlacea s'illuminarono, solidificandosi. Per un attimo si vide una testa coperta da un teatrale ornamento argentato, circondata da un alone di raggi e con due terribili stelle bianche al posto degli occhi. «No! Non è così che voglio ricordarlo. Riproduci il volto di colui che amavo.» La visione scomparve, quindi si riformò. Dall'interno del Cerchio, l'immagine di un uomo dai capelli bianchi, smunto e rugoso eppure stranamente bello, parve guardarla dritto in viso. Aveva la mascella volitiva e sulle labbra un sorriso sarcastico. Gli occhi avevano lo stesso colore dei suoi: la più chiara sfumatura d'azzurro possibile, con grandi pupille nere che custodivano segreti scintillii d'oro. Mentre fissava rapita l'immagine, Haramis fece ricorso ai propri poteri personali. Nella mano destra teneva il talismano, e all'improvviso nella sinistra apparve qualcosa di evanescente e cristallino, piatto e leggermente più piccolo del cerchio, che riluceva come una gemma immateriale. «Un ritratto», ordinò l'Arcimaga. La lente di nebuloso cristallo si scurì e divenne un'effigie identica a quella creata dal talismano, dipinta con cura su avorio di horik e incorniciata in oro. La visione all'interno del Cerchio dalle Tre Ali svanì, ma il ritratto dello stregone, che era reale, rimase. Haramis lo mise in una tasca del vestito, poi lasciò lo studio per completare i preparativi per i suoi viaggi magici. 4 Dopo avere dato istruzioni a Magira, alla sua castellana Vispi e al Dorok Shiki, suo cerimoniere di palazzo, l'Arcimaga indossò vesti più calde e il lungo mantello della sua carica. Il tessuto era bianco cangiante, e a ogni movimento pareva mutare in quel delicato azzurro che si può osservare
nella neve all'ombra. Il manto era bordato con nastri di platino e sul dorso aveva l'emblema del Giglio Nero. Sollevò il cappuccio a coprire i lunghi capelli corvini, quindi calzò i guanti. Nel silenzio del suo appartamento privato pregò di avere forza e successo; poi, in piedi sullo scendiletto di pelliccia, prese di nuovo in mano il Cerchio dalle Tre Ali. «Trasportami fisicamente in quel luogo nelle Isole Cave in cui si trova l'Arcimaga del Mare.» La stanza da letto si dissolse e le parve di essere nel bel mezzo di un fantastico set teatrale: una grotta di diamanti immateriali che risplendevano dei cento colori dell'arcobaleno. Un battito di ciglia e l'illusione era scomparsa. Si trovava all'interno di una vera caverna, umida ed estremamente fredda. Stalattiti gocciolanti pendevano dal soffitto come zanne di un gigantesco animale con la bava alla bocca. Al di sotto c'erano pozze nere come l'inchiostro in cui le gocce tintinnavano e tonfavano. Da ogni parte si delineavano pilastri di roccia, forme scolpite dall'acqua simili a statue semidissolte e altre strane formazioni. Chiazze di una sostanza luminosa, che avrebbe potuto essere muffa o persino una serie di colonie d'infingardi mucosi, erano disseminate sulla superficie irregolare del soffitto della grotta e diffondevano luce su quell'ambiente misterioso. «Iriane!» gridò. Ma nessuno rispose, quindi chiese al suo talismano: «Dov'è l'Arcimaga del Mare?» Come in risposta, da una delle pozze più ampie si udì un improvviso sciacquio. Ne emersero tre aborigeni dall'aspetto sconosciuto a Haramis, che si scossero e si misero in fila, fissandola con luminosi occhi dorati. Erano di bassa statura, come i Nyssomu e gli Uisgu, ma avevano la pelle scagliosa delle più alte razze della foresta. La forma del viso era leggermente simile a un muso, come negli Wyvilo e nei Glismak, ma per il resto avevano fattezze quasi umane. Avevano mani palmate e piedi con artigli robusti sulle tre dita, e sulla parte superiore del braccio portavano una serie di bracciali d'oro in cui brillavano dischi colorati fatti con squame di pesce. Al posto dei capelli, le teste tondeggianti mostravano molte creste parallele che andavano dalla fronte alla nuca, e che, come le grandi orecchie, erano munite di nervature connesse da una membrana traslucida che le faceva somigliare alle pinne dei pesci. Non indossavano abiti, ma le scaglie dei loro corpi parevano quasi un'armatura verde e blu che dava loro un aspetto armonioso e attraente.
«Vi porgo i miei saluti», disse Haramis. «Sono l'Arcimaga della Terra e sto cercando la mia amica Arcimaga del Mare.» «Ti porteremo da lei», risposero all'unisono i rappresentanti del Popolo delle Onde. Il loro linguaggio le era sconosciuto, ma come sempre il talismano le consentì di comprendere il senso delle parole. «Posso domandare il vostro nome e sapere a quale razza del Popolo appartenete?» L'aborigeno al centro, che portava una collana di dischi colorati, indicò il proprio cuore e disse: «Questi è Ansebado, Primo dei Lercomi, e costoro sono il Secondo e il Terzo, Milimi e Terano, anche loro fedeli sudditi della Signora Azzurra. Se vuoi visitarla, seguici». Visitarla? Haramis provò un moto di apprensione. Che Iriane fosse malata, o che le fosse accaduto addirittura qualcosa di peggio? In fila indiana, i tre Lercomi si misero in marcia a passo spedito, gli artigli dei piedi che ticchettavano sulla pietra bagnata. Man mano che procedevano l'aria della caverna si faceva più fredda e, col diminuire della temperatura, anche il numero delle creature luminescenti scese drasticamente. Dopo aver inciampato parecchie volte nell'oscurità sempre più fitta, Haramis sollevò il talismano, ordinando all'ambra col giglio di risplendere con maggiore forza e illuminarle la strada. Che posto spaventoso, pensò. Tranne che per le masse luminose, quell'Isola Cava sembrava sterile e priva di vita, senza alcun segno a indicare che esseri pensanti vi avessero mai lasciato la propria impronta. Non c'era traccia di minerali metalliferi né di altro di valore, e gli aborigeni non esploravano luoghi del genere per puro divertimento, com'era tipico degli umani. Cosa diamine ci faceva lì Iriane? Haramis non vedeva l'amica da parecchio tempo e all'improvviso si rese conto di quanto le fossero mancati il caustico umorismo e il buonsenso della Signora Azzurra. L'Arcimaga del Mare non era una persona spirituale o tendente al misticismo. Amava il buon cibo e i bei vestiti (e prendeva in giro Haramis per il suo disinteresse verso entrambe le cose), ed era stata l'unica a dispiacersi davvero per l'amore infelice della sua giovane collega per Orogastus. Haramis pensava che, a differenza delle sue sorelle, Iriane avrebbe capito anche il motivo per cui portava con sé il ritratto. Grazie all'età e all'esperienza, la Signora Azzurra avrebbe quasi sicuramente saputo se esisteva realmente la possibilità che gli Scomparsi tornas-
sero - come il giovane Uomo della Stella aveva detto agli Skritek - e cosa faceva presagire il cosiddetto Giglio Celeste. Magari Iriane avrebbe anche potuto ottenere il parere del misterioso Arcimago del Firmamento in rapporto alla rinascita della Società della Stella. L'enigmatico Uomo Scuro della Luna si era limitato a fornire assistenza durante l'ultima guerra, peraltro malvolentieri, e dopo di allora aveva ignorato ogni tentativo di Haramis di comunicare con lui. Il viaggio sotterraneo nell'Isola Cava parve durare ore, di caverna in caverna, sempre più giù, nelle regioni dell'oscurità glaciale. Infine, dopo aver attraversato un tunnel stretto e pieno di stalattiti simili a zanne, i Lercomi condussero l'Arcimaga in una camera molto diversa dalle altre. Era avvolta da una bruma gelida soffusa di un'intensa luminosità azzurrognola, che turbinava e ondeggiava come un panneggio irreale nascondendo i dettagli della grotta. «Là», disse il portavoce degli aborigeni accennando all'indistinta sorgente luminosa. «La Signora è là.» «Iriane?» Il richiamo di Haramis era esitante. Si diresse verso la luce nebulosa, avanzando guardinga sul pavimento di roccia coperto di ghiaccio. All'improvviso la foschia si ridusse svelando uno spettacolo che la bloccò di colpo, facendole salire alle labbra un'esclamazione di stupore. File e file di Lercomi stavano in silenzio, a testa china, davanti a quello che a prima vista Haramis credette essere un enorme zaffiro luccicante. L'oggetto era alto due volte lei e presentava un nucleo più scuro. Avvicinandosi, si rese conto di essersi ingannata ritenendolo una pietra preziosa. All'interno di quella trasparenza blu c'erano le ampie forme di una donna in posizione eretta. Indossava una veste color indaco cosparsa di minuscole gemme scintillanti che disegnavano un grazioso panorama marino. Una cappa trasparente blu scuro pendeva da due spille di perle poste sulle spalle. I capelli neri erano pettinati in un'elaborata acconciatura di boccoli e onde, fermati da piccoli pettini di conchiglia e fermagli con perle all'estremità. Le braccia paffute dell'Arcimaga del Mare erano tese in un'impietrita e inutile supplica. La bocca era aperta, come se fosse stata bloccata mentre gridava, e gli occhi sfolgoravano di terrore. «O Dio Triuno, no!» mormorò Haramis. «Sì. Ah, sì!» gemette il Popolo Lercomi in una risposta affranta. Haramis corse verso quella strana cassa di vetro che imprigionava la sua
amica. Solo toccandola scoprì la verità. La Signora Azzurra mosse gli occhi, anche se in modo quasi impercettibile. Era sepolta in un enorme pezzo di ghiaccio blu. Ed era viva. «Chi ha fatto questo?» Haramis domandò ad Ansebado, dopo aver tentato inutilmente di liberare Iriane. «Quattro umani a bordo di una piccola barca a vela», spiegò il Primo dei Lercomi, «sono venuti al nostro villaggio sull'Isola del Tramonto, che è a mezza giornata di viaggio da qui via mare. Tre erano uomini, il quarto una donna, e ci hanno chiesto di chiamare la Signora Azzurra.» «Quando è successo?» «Quasi dodici lune fa. Eravamo molto stupiti, perché le uniche persone della vostra razza che avessimo mai visto erano i Barbari Piumati, e anche loro vengono molto di rado per scambi commerciali con conchiglie da fuoco, oro e preziose squame di pesce... e comunque mai durante il periodo delle tempeste. «Quelle persone umane avevano modi altezzosi ed erano terribilmente sgarbate. Portavano tutte una Stella appesa a una catena. Quando abbiamo domandato per quale motivo chiedevano udienza alla Signora, invece di rispondere hanno ucciso parecchi dei nostri anziani con una spaventosa magia. Quindi hanno ripetuto la richiesta, minacciando di distruggere prima i nostri figli, poi l'intera tribù se non ci fossimo affrettati a eseguire gli ordini. Non avevamo scelta, e abbiamo obbedito. Non c'era scelta! Capisci, Bianca Signora?» Haramis non disse nulla, e l'uomo delle Onde continuò: «Abbiamo spiegato che il portale magico della nostra Signora Azzurra si trova qui, sull'Isola Spazzavento. Gli sconosciuti hanno obbligato noi tre a portarli nella caverna che vedi. Poi... questi è stato il responsabile della perfida Chiamata. In quanto Primo dei Lercomi, era mio triste dovere. Ma se avessi saputo cosa sarebbe successo, avrei preferito chiedere a quei bruti di massacrarci tutti». Cominciò a piangere, e così pure il Secondo e il Terzo, e in un minuto tutte le piccole persone che affollavano la grotta avvolta dalla foschia azzurra singhiozzavano e gemevano contrite, battendo il capo crestato sul terreno. Haramis riuscì a calmarli, e ordinò che le venisse raccontato il resto della storia. Fu di nuovo Ansebado a parlare: «Non appena l'Arcimaga del Mare ha messo piede oltre la soglia incantata (che tuttora si trova alle sue spalle)
quell'azione orribile era già stata compiuta. La femmina forestiera, una coi capelli color del fuoco, ha usato uno strumento magico per cospargere la povera Signora di un qualche gelido liquido astrale. Si è congelata immediatamente. Ulteriori spruzzi hanno prodotto il blocco di ghiaccio blu che vedi. Non c'è fiamma in grado di scioglierlo. Non c'è preghiera che possa farlo scomparire. Neppure la tua magia riesce a vincerlo! Nel Regno del Mare, il nome dei Lercomi Popolo delle Onde sarà per sempre considerato con disprezzo, perché abbiamo condannato la nostra cara Signora Azzurra a una morte in vita». «Forse no», replicò Haramis in tono non troppo gentile, sollevando il talismano per prevenire un'altra ondata di mesto parapiglia. «Questo ghiaccio non è una vera magia: si tratta di qualcos'altro, che riguarda gli Scomparsi e la loro scienza. In questo momento non posso liberare la Signora Azzurra, ma forse è possibile trovare un modo.» Ansebado e la sua gente caddero in ginocchio col viso a terra per ringraziarla, ma lei ordinò che si alzassero, si ricomponessero e rispondessero a qualche altra domanda. Haramis apprese che quei malvagi esseri umani indossavano tutti i caratteristici abiti neri e argento della Società della Stella. Nessuno superava i trent'anni di età, erano di statura differente e tutti tranne la ragazza dalla chioma rossa avevano capelli brizzolati o bianchi. Portavano ognuno un'arma diversa ma comunque antica: una uccideva facendo bollire il sangue, un'altra emetteva piccoli fulmini letali, la terza provocava convulsioni fatali e la quarta, la più grande e la più complessa a vedersi, aveva creato l'incantesimo che aveva colpito la Signora Azzurra. «I malfattori sono rimasti con noi parecchi giorni», continuò Ansebado, «facendo domande sulle regioni subacquee di questa zona, in cui un tempo avevano prosperato gli Scomparsi. Poi è arrivata una seconda barca a vela con altri due Uomini della Stella. Uno era giovane e privo di particolari tratti distintivi, a parte il tono prepotente e grossolano. L'altro invece si differenziava da tutti. Era molto più vecchio e indossava un copricapo in pelle argentata, simile a una stella a molte punte, che gli nascondeva la parte superiore del viso lasciando però ampiamente scoperta la nuca. Aveva lunghi capelli pallidi come il platino della sua Stella.» Haramis emise un grido strozzato. Sembrava che il ghiaccio avesse avvolto anche i suoi organi vitali. Non poteva essere. Non doveva essere... Si ritrovò a domandare: «Era... era alto?» «Più degli altri, che gli mostravano grande rispetto e lo chiamavano Ma-
estro. È sceso in questa grotta, ha superato il portale della Signora Azzurra ed è scomparso. Gli altri l'hanno aspettato per alcune ore, finché è ricomparso. A quel punto sono risaliti tutti sulle barche e se ne sono andati.» «Oh, Signori dell'Aria», sussurrò Haramis. Con le dita guantate rigide e goffe, si tolse di tasca il piccolo dipinto con la cornice d'oro e a stento riuscì a formulare un'ultima domanda: «Era questo il Maestro della Stella?» Alla vista del ritratto l'aborigeno si accigliò, quindi rispose. «Il viso era parzialmente nascosto dal copricapo a stella, ma... sì. Era lui. Aveva gli occhi così. Occhi come i tuoi, Bianca Signora.» Il dolore nato nel cuore gonfio dell'Arcimaga della Terra si stava propagando in tutto il suo corpo come metallo fuso. Era un dolore gioioso, misto a folle paura. Parlò con voce incrinata dall'emozione. «Dopo l'imprigionamento della Signora Azzurra, voi Popolo Lercomi avete per caso visitato le rovine sommerse degli Scomparsi su ordine degli Uomini della Stella?» «No», rispose Ansebado, «ma abbiamo saputo che altre tribù delle Onde sono state costrette a farlo. Hanno raccolto alcuni manufatti antichi che gli Uomini della Stella desideravano molto, ma nessuno, neppure noi, sa di cosa si tratti.» Haramis, invece, lo sapeva. «Tornerò da voi, Ansebado. Ordino che fino a quel momento il vostro Popolo vegli sulla Signora Azzurra. Se qualcuno dovesse uscire dal portale magico, comunicatemelo immediatamente, anche se per farlo doveste sacrificare la vita. E ora, addio.» Afferrò con forza il suo talismano e ordinò alla magia di condurla da Kadiya. 5 La regina Anigel fissava il piatto che aveva davanti, un semplice filetto di pesce garsu alla griglia e una porzione di tuberi dorun glassati, quindi posò coltello e forchetta. «Confesso che il resoconto di Hara sulle terribili condizioni della povera Signora Azzurra mi ha fatto passare l'appetito. Il mio cuore è straziato al pensiero che non possiamo fare nulla per liberarla da quel diabolico incantesimo.» «Se Iriane è congelata», commentò con ragionevolezza Kadiya, «non soffre. Che bene può farle se ti tormenti e ti lasci morire di fame?» «Sei sempre così razionale», disse Anigel con un sospiro. «Ma hai un cuore di pietra.»
«Sciocchezze», ribatté la Signora degli Occhi servendosi una bella dose d'insalata di crescione amaro e versandoci sopra abbondante salsa al formaggio. «Si deve solidarizzare e avere compassione per i guai altrui, ma non fino al punto di rovinarsi la salute... soprattutto se si hanno doveri di Stato da svolgere. Non sei d'accordo, Hara?» L'Arcimaga chinò il capo. «Il mio talismano si rifiuta di confermare i miei sospetti, ma ritengo che l'imprigionamento di Iriane possa essere solo l'inizio di un nuovo periodo critico per tutti noi. Il ritorno della Società della Stella e l'eventualità che Orogastus stia ammassando armi degli Scomparsi mettono in grave pericolo la pace e l'equilibrio del mondo. È probabile che noi tre siamo di nuovo obbligate a combattere, e se sarà così avremo bisogno di tutta la forza fisica e mentale possibile. E tu, mia cara sorellina, hai anche importanti responsabilità personali.» La regina Anigel ascoltò il rimbrotto nel più assoluto silenzio ma, se pur con evidente riluttanza, ricominciò a mangiare. Le gemelle stavano cenando nella Cittadella di Ruwenda, sedute alla tavola principale cui presiedeva la regina, mentre gli altri membri della corte banchettavano in tavolate minori nel grande salone illuminato dalle torce. Erano in molti a mancare, inclusi re Antar e i suoi consiglieri militari, ed era assente la solita allegra convivialità che caratterizzava il pasto serale. Meno di un'ora prima, i poteri magici di Haramis avevano trasportato lei e Kadiya nella Cittadella, dove avevano riferito alla corte laboruwendiana non solo della sventura dell'Arcimaga del Mare ma anche dell'apparente ritorno della Società della Stella sotto la guida di Orogastus. Quest'ultima notizia aveva provocato un moto di rabbia, dato che ormai mancava soltanto un giorno alla partenza dell'entourage reale per il lungo viaggio verso Labornok. Re Antar, il lord maresciallo Lakanilo e il generale Gorkain si erano ritirati a preparare in tutta fretta nuovi piani per aumentare la sicurezza del convoglio, lasciando la regina e le sue due sorelle a fare congetture riguardo a ciò che quei terribili eventi potevano far presagire. «Al momento», disse l'Arcimaga, «soltanto i Signori dell'Aria sanno quali possano essere i progetti a lungo termine di Orogastus. Ma possiamo essere certe che implicano la conquista del mondo... sia con mezzi fisici sia con l'uso della magia nera.» Anigel aggiunse del miele cristallizzato alla tazza di tè darci e mescolò con aria cupa. «Trovo difficile credere che ancora una volta quell'uomo diabolico sia sfuggito alla morte. Chi avrebbe mai pensato che una cosa del genere fosse possibile? Hara, come ha potuto il tuo talismano ingannar-
ti riguardo al suo destino?» Fu Kadiya a dare la sgradevole risposta. «Il talismano aveva detto il vero... solo che l'Arcimaga ha male interpretato le sue parole.» Haramis ammise la colpa con un dolente cenno del capo. Estrasse il ritratto di Orogastus e lo posò sul tavolo di fronte alle sorelle. «Quando ho chiesto di vedere il volto del defunto stregone, il talismano non ha potuto accontentarmi. È stato solo quando ho formulato la domanda in modo diverso, evitando di menzionare la morte, che mi ha mostrato la sua immagine cosicché io potessi dar forma a questo ritratto.» A quel punto, la Signora degli Occhi sbottò con asprezza: «Dannato stregone! Per quanto ne sappiamo, avrà già trovato lo scrigno stellato e avrà legato a sé il Mostro a Tre Teste di Anigel!» «No», affermò sicura Haramis. «Il mio talismano indica che non è così. È qualcun altro a possedere il diadema e lo scrigno, ma il Cerchio non mi dice chi.» "Kadiya prese in mano il coltello da tavola e con estrema precisione tagliò via la coscia del succulento togar arrosto che stava sul piatto di portata davanti a lei. «Puoi scommettere platino contro noccioli di plarr che Orogastus scoverà questo nuovo timido mago e gli proporrà un'alleanza.» «Probabilmente hai ragione, Kadi», replicò Anigel. «E questo è un motivo in più perché tu segua il consiglio di Hara e dia a lei da custodire il tuo inefficace talismano in modo che nessuno di quei due farabutti possa appropriarsene.» «Mai!» ribatté Kadiya con la bocca piena. «Nemmeno se le Tre Lune precipitassero dal firmamento!» «Oh, Kadi», gridò esasperata la regina. «È l'unica cosa giusta da fare, e lo sai.» «Senti da che pulpito viene la predica», mormorò la Signora degli Occhi puntando verso la sorella l'osso del volatile. «Proprio tu che hai consegnato il tuo talismano a Orogastus come riscatto...» «... per salvare la vita del re mio marito!» esclamò Anigel piena di sdegno. «Avrei forse dovuto lasciarlo morire prigioniero?» «Non hai dato a Hara e a me il tempo di liberarlo», ribatté Kadiya, «e hai ceduto ai rapitori con una fretta indecorosa, aprendo la strada all'invasione del tuo regno.» Sommessamente, in modo che gli altri commensali non se ne accorgessero, la regina cominciò a piangere. «Hai ragione. Ho sbagliato... ma lo stai facendo anche tu. È certo che prima o poi Orogastus o questo nuovo
stregone sconosciuto ruberanno il tuo Occhio di Fuoco Trilobato. La mia stupidità e la tua testardaggine possono ancora condannarci tutti.» «Accidenti, Kadi», disse l'Arcimaga abbracciando la sorella. «Hai forse dimenticato che Ani è incinta e non dovrebbe essere turbata?» «Dietro quell'aria fragilina è robusta come un volumnial da tiro che una volta all'anno partorisce il suo cucciolo», commentò con durezza Kadiya. «E che nessuna di voi pensi di convincermi a rinunciare al mio talismano con questa recita sdolcinata.» Anigel smise di piangere. Si tirò su a sedere e si asciugò gli occhi con un tovagliolo, facendo spallucce. «Valeva la pena tentare», disse con grazia. «Per il Fiore!» sbottò l'Arcimaga, mortificata sia dal ben realizzato sotterfugio della regina sia dall'intransigenza di Kadiya. «Mi porterete alla follia.» «Ma no, cara Haramis», ribatté Anigel, ora davvero seria. «Faremo invece tutto il necessario per aiutarti a sconfiggere gli Uomini della Stella e a ristabilire l'equilibrio del mondo, a qualunque costo personale.» Rivolse alla terza sorella un'occhiata d'acciaio. «Non è così, Kadi?» «Oh... sterco di lothok!» gridò la Signora degli Occhi, scagliando sul piatto la coscia di togar. «Immagino che dovrò arrendermi. Avrai l'Occhio di Fuoco, Hara. Che importa se il mio orgoglio è a pezzi e la mia baldanza vacilla?» «È per il meglio», disse l'Arcimaga con evidente sollievo. «Posso tenere con me il talismano almeno fino al momento in cui noi tre ci separiamo?» domandò Kadiya. «Sicuro. Non può esserci pericolo all'interno della Cittadella. So per certo che qui non ci sono viadotti attraverso cui Orogastus o i suoi accoliti possano entrare e rubare l'Occhio.» «Quei tre volte dannati passaggi segreti!» esclamò Kadiya. Haramis spinse da parte piatti e posate, distese un grande tovagliolo pulito sul tavolo e vi appoggiò sopra il suo talismano. Si percepì un lieve odore di lino bruciacchiato, e di colpo il pezzo di stoffa divenne una mappa stupendamente dettagliata del mondo-continente. «I viadotti non sono vera magia, anche se a noi sembra così perché sappiamo ben poco della scienza che sta dietro la loro costruzione. Mostra i portali del viadotto!» Anigel emise un grido di stupore, perché la mappa si era improvvisamente cosparsa di puntini scarlatti grandi come punte di spillo. «Così tanti!» «E ora», continuò l'Arcimaga, «da quando Orogastus ha rubato alcuni li-
bri di Iriane che ne spiegano il funzionamento, sono accessibili anche allo stregone e alla sua Società della Stella.» Kadiya intervenne: «Quei manigoldi sono capaci di spuntare da quei punti come ziklu da una garenna, e attraverso di essi possono anche infilarsi sottoterra sfuggendo agli inseguitori. Al momento Hara non è in grado di distruggere i viadotti o di chiuderli con la magia». «Sembra che gli Scomparsi usassero quei corridoi per viaggi saltuari per il loro mondo», spiegò la Bianca Signora. «Alle persone normali le aperture dei viadotti risultano invisibili e impercettibili, ma se si conosce approssimativamente la dislocazione del portale, basta solo pronunciare il corretto comando arcano - 'sistema viadotto, attivati' - e questo diventa visibile e operativo. Alcuni viadotti sono stati distrutti nel grande conflitto tra gli Scomparsi e la Società della Stella, ma rimangono questi indicati sulla mappa. In precedenza sono stati usati solo dagli Arcimaghi del passato e dai Sindona, quando si avventuravano fuori del Luogo della Conoscenza.» «Ti interesserà sapere, Ani», aggiunse Kadiya indicando uno dei puntini, «che questo viadotto si apre direttamente nella Rocca di Zotopanion del Palazzo d'Inverno di Labornok! È stato per questa via che Iriane e i Sindona hanno avuto accesso al complesso fortificato nel momento culminante della Battaglia di Derorguila.» «Sacro Fiore!» sbottò costernata la regina. «E non c'è modo di eliminare quegli abominevoli tunnel?» «Il mio talismano afferma di sì», rispose Haramis. «Però le istruzioni che mi dà sono in un gergo scientifico arcaico e fino a ora non sono riuscita a interpretarle. Quando tornerò alla mia Torre analizzerò meglio il sistema per rendere inutilizzabili i viadotti, ma per il momento dovremo bloccarli ostruendo i portali. Tutti quelli ubicati in luoghi critici devono essere chiusi con solide sbarre o mucchi di terra, e tenuti costantemente sotto controllo.» Anigel studiò la mappa con attenzione. «Nella Palude Labirinto ci sono meno sbocchi che altrove, ma qui ce n'è uno non molto distante dal Sentiero della Regina. Chissà se... Il viaggio verso la Capitale Invernale sarà così lungo e noioso con le prime piogge. Se, come dici, esiste un viadotto che porta direttamente alla Rocca di Zotopanion...» «Non pensarci neanche!» strillò terrorizzata Haramis. «Soltanto un esperto nella scienza degli Scomparsi può osare farlo. A volte il percorso dei viadotti è fisso e non si ha alcun controllo sulla destinazione finale. In altri casi, se prima di entrare si recita una sorta di complesso incantesimo,
il tunnel porta il viaggiatore nel punto specificato, ma se l'incantesimo non è pronunciato in modo esatto, la persona rischia di emergere in mezzo al Ghiacciaio Eterno o addirittura nelle profondità marine.» Indicò di nuovo la mappa, ed era vero che alcuni puntini scarlatti si trovavano in luoghi pericolosi. «Dannazione», disse la delicata e schizzinosa regina. Aveva raccolto i capelli biondi con nastri di un color oro così scuro da sembrare quasi marrone, e indossava un'ampia tunica di satin ricamata a nido d'ape dello stesso colore, guarnita di pelliccia di worram e completata da una collana di ambra del giglio. La gravidanza di quattro mesi non si notava ancora. «Mi sarebbe proprio piaciuto passare rapida nel viadotto insieme con la corte, risparmiando a tutti il lungo viaggio sotto la pioggia fino a Derorguila.» «Io potrei trasportare te, Antar e i bambini», si offrì Haramis, pur con una certa esitazione, «anche se portare altre persone costringe la mia magia al massimo sforzo.» Ma la regina scosse il capo. «Dicevo così per dire, Hara. Non mi sognerei mai di chiederti di stancarti tanto. No, dobbiamo andare a Labornok col resto della corte, come si conviene.» «Vi darò delle copie di questa mappa», disse l'Arcimaga. «Ani, dovrai predisporre dei soldati - preferibilmente con aiutanti aborigeni - che stiano di guardia agli sbocchi critici dei viadotti a Labornok e a Ruwenda. Ordinerò al Popolo di Kadi di controllare i portali nelle regioni più remote: la Palude Labirinto, i monti Ohogan e la Foresta di Tassaleyo. Se dei membri della Società della Stella dovessero farsi vedere, il Popolo darà l'allarme utilizzando la comunicazione mentale.» «E cosa facciamo coi viadotti delle altre nazioni?» domandò la regina. «Ho già inviato un messaggio di avvertimento», rispose Haramis. «Ben presto ogni paese civile sarà all'erta riguardo a persone sospette che indossino una stella.» «Quei furfanti non possono fare stregonerie senza i loro medaglioni», intervenne Kadiya rivolta ad Anigel. «Purtroppo non si può dire lo stesso per le armi degli Scomparsi, che non sono davvero magiche ma derivano dalle stesse antiche scienze che hanno creato i viadotti e quegli strani manufatti che è ancora possibile acquistare da qualche mercante.» «E come ci difenderemo dagli Uomini della Stella, se sono armati a quel modo?» chiese preoccupata la regina. «Abbiamo sempre la nostra magia», replicò l'Arcimaga. «E se il Triuno vorrà, presto potremo contare anche sull'alleanza con tutte le nazioni sotto
le Tre Lune per contrastare le forze, numericamente molto inferiori, dei lealisti della Stella. Dopo aver avvisato gli altri paesi, ho anche richiesto che, a bordo di navi veloci, mandassero a Derorguila degli inviati straordinari, e le delegazioni dovrebbero giungere là quando il seguito reale di Laboruwenda avrà portato a termine il lungo viaggio verso le pianure. Tra quaranta giorni, nella tua capitale si terrà un'assemblea per la difesa reciproca.» «Sarò felice di aiutare te e il mio reale marito a chiamare a raccolta le nazioni», disse la regina Anigel. «E immagino che Kadi farà lo stesso col Popolo.» «Non subito», replicò la Signora degli Occhi, «perché mi è stato affidato un compito di più ampio respiro. Soltanto uno stato si è tirato indietro davanti al piano di alleanza di Hara: Sobrania.» La regina assunse un'espressione afflitta. «Avrei dovuto saperlo. I Barbari Piumati temono a tal punto delle trame contro di loro da parte di Galanar o delle repubbliche di Imlit e Okamis, che si oppongono a qualunque patto che usurpi la loro tanto vantata indipendenza. L'imperatore Denombo di Sobrania è un uomo giusto, secondo i suoi princìpi, ma impetuoso e imprevidente, poco incline a preoccuparsi di nazioni diverse dalla sua collezione di tribù ribelli. Pensi di andare da lui per tentare di convincerlo, Kadi?» «Sì, e che il Fiore mi protegga. Hara me l'ha ordinato e io obbedisco di buon grado.» «E avrà anche un altro incarico», aggiunse l'Arcimaga, abbassando la voce benché i musicisti avessero iniziato a suonare il brano introduttivo agli spettacoli della serata: il rumore era tale che origliare pareva impossibile. «Ti ho detto di aver osservato un giovane Uomo della Stella sulle montagne sopra Zinora. Portava con sé delle bisacce piumate fatte a Sobrania. Potrebbe trattarsi di un particolare privo d'importanza... ma potrebbe anche essere un indizio prezioso.» «Per individuare l'ubicazione del quartier generale della Società della Stella!» Gli occhi della regina Anigel, blu come il cielo nella Stagione Secca, brillavano di eccitazione. «Hai altre tracce che indichino Sobrania?» «Non ancora», ammise Haramis, «perché il mio talismano non ha la possibilità di scrutare uomini della Società che abbiano il totale controllo dei poteri magici della Stella. È stato solo per fortuna, o per la benevolenza dei Signori dell'Aria, che ho potuto individuare e visitare il giovane Uomo della Stella che aveva sobillato gli Skritek. Si trattava di un novellino, in-
capace di sfruttare appieno la protezione magica, che forse stava compiendo una missione di minore importanza mentre i suoi compagni si occupano di complotti di maggior peso.» Interruppero il discorso per qualche momento, mentre i paggi liberavano la tavola dalle prime portate e presentavano torte e frutta fresca, oltre a riempire nuovamente di vino i calici. Poi si udì una fanfara di trombe e corni, e tra applausi scroscianti una troupe di acrobati tuzameni entrò nel salone saltando e facendo capriole. «Ma come può Kadi», chiese la regina a Haramis ora che le sue parole erano di nuovo coperte dal frastuono, «sperare di avvistare gli Uomini della Stella a Sobrania, se persino la tua grande magia è impotente?» «Con gli occhi», replicò laconica Kadiya. «Non quelli del talismano trilobato, ma i due che Dio ha posto sul mio viso. Ovunque gli Uomini della Stella si nascondano, e potrebbe benissimo essere un luogo sottosviluppato come la Terra dei Barbari Piumati, quei farabutti dovranno pure mangiare e dormire. E a meno che vivano miseramente come vagabondi nelle zone più selvagge, avranno bisogno di un'abitazione fissa di una certa grandezza, di cibo, vestiti puliti, animali da cavalcare quando non schizzano di qua e di là attraverso viadotti magici, oltre a dei servitori che tengano in ordine il tutto. E non potranno mantenere l'invisibilità in continuazione, dato che richiede un grande sforzo. Se è a Sobrania che si nascondono, li scoverò. Se non sono lì, proverò altrove, secondo le indicazioni di Hara.» «Gli Uomini della Stella sapranno che li stai cercando», ribatté Anigel. «Ti scruteranno con la stregoneria e ti daranno la caccia.» «Hai scordato», disse Kadiya, fingendo di guardare i saltimbanchi con un sorriso frivolo, «come noi tre, da giovani principesse, siamo sfuggite a Orogastus, alle sue Voci e al malvagio re Voltrik? Nessuno di quegli infami poté individuarci con la magia, perché eravamo protette allora... come lo siamo oggi.» Dalla camicia che portava sotto il farsetto da abitante della foresta tolse il pendente d'ambra con all'interno il Giglio Nero fossile, che riluceva debolmente appeso a una catena d'oro. «Solo i tre talismani dello Scettro del Potere erano in grado di annullare la magia del Fiore.» «Ah», sospirò la regina Anigel, sorridendo rasserenata mentre la mano andava rapida a sfiorare il bustino dove era nascosto il suo amuleto. «Ma certo. Temo di dare un po' troppo per scontato il suo potere magico.» Haramis sorrise. Il suo giglio nell'ambra era comodamente alloggiato tra le ali d'argento del Cerchio che portava al collo. «Kadi sarà schermata alla
vista di quanti intendano farle del male con la magia. L'ambra ha anche altri poteri, ma questo è forse il più prezioso.» «In effetti gli Uomini della Società o i loro seguaci potrebbero comunque riconoscermi mentre mi aggiro da quelle parti», ammise Kadiya, «come io potrei riconoscerli dalla Stella. Ma mi travestirò, e lo stesso farà la squadra che viaggerà con me. Forse, se riesco a farmi obbedire dall'ambra, potrei anche riuscire a rendermi invisibile!» «Portando con te a Sobrania qualcuno del tuo Popolo della Palude, ti farai notare troppo», la ammonì Anigel. «Si dice che gli aborigeni di quei luoghi lontani siano di aspetto molto diverso da quelli della Penisola.» «Devo portare Jagun, perché la sua opinione è indispensabile, così come la sua capacità di comunicare mentalmente a grandi distanze, che mi permette di restare in contatto con Haramis. I miei altri compagni in questa ricerca saranno umani. Ani, ti chiedo di trovare sei dei tuoi più valenti giovani Compagni Fedeli che si offrano volontari per accompagnarmi. Gli Wyvilo ci porteranno fino a Var e al mare lungo il Grande Mutar. Nella capitale varoniana ho degli amici che ci forniranno una nave e tutto il necessario per indagare a Sobrania.» Gli acrobati eseguirono un numero spettacolare e, ligia al proprio dovere, la regina applaudì. «Sembra che tu abbia pensato a tutto. Quanto a sei cavalieri coraggiosi, te li trovo di sicuro. Anche di più, se credi.» «Ho intenzione di viaggiare rapida e leggera. Sei basteranno.» «L'impresa comporta comunque un grande pericolo», fece notare Haramis. «E, come hai detto tu, se Orogastus dovesse ottenere di nuovo un talismano attivo, neppure l'ambra del giglio gli impedirebbe di vederci e ascoltarci. Con un talismano sarebbe in grado di localizzarti facilmente, Kadi. Non so se potrebbe ucciderti mentre indossi l'ambra, ma serviresti male la nostra causa se ti ritrovassi incastrata in un blocco di ghiaccio blu come la povera Iriane!» Kadiya fece un largo sorriso all'Arcimaga. «È compito tuo fare in modo che non succeda. Sorvegliami meglio che puoi, e se ci riesci avvertimi dei pericoli. Troverò il covo degli Uomini della Stella e li farò uscire col fumo, come cantatori notturni da un albero del miele.» «Agisci solo seguendo il piano che abbiamo concordato!» si raccomandò Haramis. «Non devi assolutamente attaccare Orogastus o la Società della Stella da sola!» Kadiya abbozzò un ironico inchino. «Certo che no, Bianca Signora.» «Perdona la mia scortesia», si scusò l'Arcimaga. «Ma per amor di Dio,
Kadi... promettimi di evitare azioni avventate.» «Devi fare molta attenzione», intervenne Anigel. «Mi sento in colpa... il mio compito è tanto più semplice e sicuro dei vostri. Mia cara Kadi, ti accompagnerei io insieme con tutti i cavalieri della Compagnia del Giuramento, se portassi in grembo un solo bambino e non tre.» «Tre gemelli!» Kadiya e l'Arcimaga erano entrambe stupefatte. «Immu ne è certa solo da poco», spiegò la regina, riferendosi alla piccola e vecchia Nyssomu che era stata levatrice della loro sfortunata madre, la regina Kalanthe, e poi balia e amica fidata delle sorelle. «Che questa gravidanza sia un altro segno?» si domandò Haramis. «Anche questi bambini potrebbero avere un destino nobile e terribile come noi tre?» Anigel posò una mano su quella dell'Arcimaga per rassicurarla. «È più probabile che si tratti di un fatto assolutamente naturale. Comunque, Immu dice che tutti i miei figli non ancora nati sono maschi, perciò noi Petali del Giglio Vivente non dobbiamo temere di venire usurpate.» «Scema!» rise Kadiya, e si voltò ad abbracciare e baciare Anigel. «Che il Fiore benedica te e i tuoi nuovi bambini. Antar deve essere così orgoglioso!» «Lo è», confermò la regina, «e lo stesso vale per i miei due figli maggiori. Solo Tolivar sembra preoccupato all'idea. Dodici anni sono un'età così difficile, quando un ragazzo si avvicina alla maturità ed è tormentato da emozioni sconosciute. Il povero Tolo è sempre stato vittima di scarsa fiducia in se stesso e dell'invidia per i suoi fratelli più grandi, e adesso sembra risentito per l'imminente nascita dei gemelli. Ma sono certa che quando li vedrà non potrà che voler loro tanto bene.» Haramis e Kadiya si scambiarono un'occhiata dietro le spalle della sorella: il giovane principe Tolivar era un bambino schivo e geloso, che fino a non molti anni prima era stato un vero e proprio monellaccio. Soffriva oltremodo il ruolo di subalterno al principe ereditario Nikalon, che a quindici anni non era solo più alto e più bello, ma anche decisamente più popolare tra i cortigiani e le persone comuni. La principessa Janeel, di un anno minore di Niki e sveglia come un fedor femmina, non si era mai fatta scrupolo di prendere in giro il fratellino, che riteneva debole di carattere. Tolo ricambiava detestandola con tutto il cuore. Nel corso degli anni, Kadiya si era sforzata di essere particolarmente gentile con l'infelice principino, ma temeva che potesse pensare di essere solo oggetto di pietà. Tolivar pareva non provare affetto per nessuna delle
sue illustri zie e quella sera, prima di pranzo, le aveva salutate in modo a malapena educato. Kadiya si mise a studiare il ragazzino, seduto assieme al resto dei giovani reali e nobili a un tavolo non distante dalle tre gemelle. Il principe ereditario Nikalon e la principessa Janeel stavano ridendo con gli altri e lanciando monete agli acrobati che uscivano di scena, ma Tolivar se ne stava coi gomiti appoggiati sul tavolo e un'espressione indecifrabile in volto. Il suo nome della palude era Cuore Celato, e Kadiya pensò che gli si addicesse anche troppo. «Tolo ha bisogno di poter fare qualcosa di utile», disse. «Ani, hai mai pensato di non tenerlo più attaccato alle tue gonne? Di permettergli di lasciare la corte per un po', in modo da non doversi sempre paragonare a Niki o sentirsi sminuire da Jan?» «È sempre stato il mio piccolino», confessò Anigel, «e da quando mi è stato restituito, quattro anni fa, me lo sono tenuto vicino, sperando che il mio amore bastasse a irrobustire la sua fragile autostima. Ma forse hai ragione tu. Per un po' di tempo i nuovi nati assorbiranno tutta la mia attenzione, e Tolo potrebbe sentirsi peggio che mai.» «Lascia che venga con me», propose d'impulso Kadiya. «Magari non fino a Sobrania, ma almeno per la prima parte della missione. Jagun e io lo terremo così impegnato che non avrà il tempo di fare il broncio o compatirsi.» «È giovane», disse dubbiosa Anigel, «e non ha un fisico forte.» L'espressione di Kadiya era beffarda. «È sopravvissuto al rapimento da parte dei pirati e alla prigionia in mano a Orogastus. Anche se è un po' bassino, è abbastanza robusto. Non proteggerlo troppo, Ani. Non dovremmo negare ai ragazzi il diritto di affrontare e superare grandi ostacoli: queste cose possono trasformare in eroico anche un animo timido o petulante.» «Come so benissimo anch'io», ammise la regina con un sorriso. «Tu che ne pensi, Hara?» «L'idea ha degli aspetti positivi», rispose l'Arcimaga, «a patto che il ragazzo venga tenuto sotto stretto controllo. Ralabun, il mastro stalliere che adesso è in pensione, non è un suo grande amico? È una persona responsabile, anche se non dotata di un grande cervello. Magari potrebbe accompagnare Tolo.» «Chiediamo direttamente al ragazzo cosa ne pensa», propose Kadiya. «Non lo porto con me se non vuole.» «D'accordo.» La regina Anigel acconsentì con un po' di riluttanza. «Ma
se accetta, devi promettermi di rimandarlo a casa prima di avventurarti oltre la Penisola.» «Lui e Ralabun possono prendere uno dei veloci cutter engiani a Mutavari, e con quello arrivare a Labornok», disse Kadiya, «e, se il vento è favorevole, raggiungere Derorguila non molto dopo l'arrivo dell'entourage reale. Che ne dite di parlargliene subito?» «Benissimo.» La regina chiamò un paggio e gli disse d'invitare il principe Tolivar a unirsi a loro al tavolo principale. 6 Quando gli venne riferito il messaggio, Tolo strinse le labbra. «In che guaio ti sei cacciato questa volta?» domandò la principessa Janeel. «Hai riempito troppi carri di casse dei tuoi preziosi libri?» «Magari», interloquì il principe ereditario Nikalon, «ha deciso di portarsene appresso così tanti che non c'era più posto per gli stivali o le mutande.» La battuta fece scoppiare a ridere tutta la tavolata di giovani. Tolo arrossì e abbassò il capo per nascondere la rabbia, mentre seguiva il paggio fino al tavolo principale dove fece un inchino. «Come posso servirti, Grande Regina e madre?» domandò. Dal suo viso era scomparsa qualunque emozione. Era un bambino magro coi capelli biondi e la carnagione molto pallida, come se trascorresse troppo tempo segregato al chiuso. «Tua zia Kadiya ha una proposta da farti», rispose Anigel. La Signora degli Occhi spiegò la situazione nei dettagli, senza minimizzare la durezza del viaggio, dato che all'andata avrebbero dovuto seguire la corrente del Grande Mutar in piena, e al ritorno la nave che avrebbe riportato a casa da Var il ragazzo avrebbe senza dubbio dovuto affrontare la furia della burrasca. Con stupore di Anigel, il principe Tolivar si liberò del solito manto d'indifferenza come un coleottero nas che emerge dalla pula. Aveva gli occhi luminosi per l'eccitazione mentre esclamava: «Oh, sì, zia Kadi! Porta anche me e Ralabun! Prometto che ti obbedirò in tutto, e che non mi lamenterò mai, non mi sottrarrò ai miei doveri e non ti darò fastidio». «Allora è deciso», disse la Signora degli Occhi battendogli affettuosamente sulla spalla. «Vorrei solo che mi permettessi di aiutarti a cercare gli Uomini della
Stella», aggiunse risoluto Tolivar. Le tre donne risero. «Sei coraggioso ma ancora troppo giovane», commentò l'Arcimaga. «Il mondo deve essere salvato da Orogastus», insistette il ragazzo abbassando la voce. «Ho sperimentato di persona i suoi sistemi malvagi e ingannevoli. Se necessario, darei la mia vita per distruggerlo.» «Basterà che tu serva lealmente tua zia», disse la regina. «Lascia le questioni più serie a chi è più vecchio e saggio.» «Sì, mamma.» L'atteggiamento del principe non avrebbe potuto essere più rispettoso e docile. Fece un inchino e lasciò il salone, affermando di voler riferire subito a Ralabun la grande notizia. «Povero Tolo.» Anigel seguì il figlio con sguardo preoccupato. «Il tempo che ha trascorso prigioniero di Orogastus l'ha segnato così profondamente. Continua a sentirsi in colpa per aver creduto alle menzogne dello stregone sul fatto di diventarne l'erede e apprendista nelle arti magiche.» «Era troppo immaturo per comprendere la scelleratezza delle sue azioni», replicò gentilmente l'Arcimaga. Ma la regina scosse il capo. «Aveva otto anni, ed era in grado di riconoscere il male. Ha continuato a implorare Antar e me di perdonarlo per averci ripudiati, e noi abbiamo tentato di rassicurarlo in ogni modo, ma il suo senso di colpa rimane intenso. Kadi... sii gentile con lui. Cerca di tranquillizzare il suo spirito inquieto.» «Farò quel che posso», replicò la Signora degli Occhi, «ma presumo che la guarigione di Tolo avverrà solo col tempo. E con qualche azione riparatrice che sente di dover compiere.» «Viviamo momenti pericolosi», commentò Haramis sospirando. «Ci saranno rischi, sfide e occasioni di eroismo più che sufficienti per tutti, anche per il giovane principe. Pregate che possiamo dimostrarci all'altezza, sorelle. Pregate con tutto il cuore e l'anima, perché non posso fare a meno di sentire che ben presto dovremo affrontare qualche nuovo disastro.» Solo molto dopo la mezzanotte il ragazzo osò aprire il suo forziere di ferro, quello che si era rifiutato di far portar via dai domestici fino all'ultimo istante prima della partenza del convoglio. Ne estrasse il sacchetto di stoffa più piccolo, liberò il Mostro a Tre Teste e lo tenne tra le mani tremanti. Il diadema d'argento brillava alla luce della candela sgocciolante posta sul comodino, e le ombre facevano quasi sembrare vive le orribili facce incise su di esso.
Doveva osare? C'era una possibilità di successo se l'avesse fatto? L'inattesa grande occasione si era presentata quasi come un miracolo, ma non sarebbe durata molto. Si appoggiò sul capo il diadema, fece un respiro profondo e si sforzò di parlare senza tentennamenti. «Mostro a Tre Teste», bisbigliò, «tu appartieni a me! Dimmi la verità: se ottengo l'Occhio di Fuoco Trilobato di mia zia Kadiya, che ora è inattivo, e lo metto nello scrigno stellato, si legherà a me?» Per un attimo non accadde nulla, poi una voce misteriosa all'interno della sua testa rispose: Sì. Se premi in sequenza le gemme colorate all'interno dello scrigno, l'Occhio sarà fedele solo a te e distruggerà chiunque altro si prenda la libertà di toccarlo senza il tuo permesso. «E l'Occhio obbedirà ai miei ordini?» Lo farà, ammesso che siano pertinenti. Tolivar quasi gridò dalla gioia. «Puoi... puoi farmi diventare invisibile in modo che io riesca a entrare nella stanza di mia zia senza che mi veda?» La domanda non è pertinente. Il principe quasi scoppiò a piangere per la frustrazione. Oh, no! Questo no! Non ora! «Fammi diventare invisibile! Te lo ordino!» La richiesta non è pertinente. A volte il talismano obbediva ai suoi comandi, soprattutto quando gli faceva domande semplici o gli chiedeva di dargli la Vista di persone o luoghi molto distanti, ma spesso gli rispondeva con quella irritante frase di rifiuto. I suoi tentativi di praticare la magia, compiuti nella capanna della palude o nell'altro nascondiglio tra le rovine di Derorguila, erano sempre stati timidi ed esitanti, e raramente coronati da successo. Tolivar aveva buoni motivi per sentirsi intimorito dal talismano: poteva accadere, infatti, che per ragioni sconosciute il potere magico si ritorcesse contro il suo possessore. Era successo a Orogastus mentre Tolivar era suo ostaggio, anche se lo stregone non era rimasto ferito seriamente. Ma anche se c'era pericolo, Tolivar non poteva lasciarsi scappare quell'occasione. «Non mi arrenderò alla vigliaccheria», disse tra sé il principe. «Dopotutto il Mostro mi ha già reso invisibile una volta, non appena diventato mio.» Chiuse gli occhi stretti stretti e prese a respirare lentamente, inspirando ed espirando finché non si sentì più calmo, quindi si rivolse di nuovo al talismano, scegliendo però con cura le parole. «Spiegami come diventare invisibile.» Visualizza l'azione da compiere, quindi pronuncia l'ordine.
Che fosse davvero tanto semplice? Il potenziale del talismano veniva dunque attivato dal pensiero prima che dalle parole? Era quello il grande segreto per padroneggiare con successo la magia? Si trattava di un concetto che il ragazzo non aveva mai preso in considerazione. Forse quando era riuscito a farsi obbedire aveva inavvertitamente visualizzato ciò che voleva realizzare? Fa' che sia così! Ti prego, fa' che sia così! Con gli occhi ancora chiusi, Tolivar evocò nella mente un'immagine di se stesso seduto sul letto in camera sua, con indosso il diadema. Mantenendo limpida la visione, fece in modo che il suo corpo svanisse come fumo che si disperde. Non parlò finché la stanza immaginaria non fu vuota. «Talismano», intonò, «ora rendimi invisibile.» Attese qualche secondo, poi aprì gli occhi. Lentamente, sollevò una mano davanti al viso. Non vide altro che la stanza e i mobili. Si precipitò a controllare al piccolo specchio appeso al muro, accanto al lavamano: nessun volto gli restituì lo sguardo che fissava sulla superficie riflettente! Il talismano aveva obbedito. Si sedette su uno sgabello e tolse gli stivali, che divennero visibili non appena li appoggiò sul pavimento, quindi corse alla porta in punta di piedi. Lì si fermò, come colpito da un pensiero ispiratogli dalla riapparizione delle calzature. Anche l'Occhio di Fuoco sarebbe scomparso una volta preso in mano? Se così non fosse stato e se zia Kadiya si fosse svegliata e l'avesse visto allontanarsi da lei fluttuando nell'aria grazie a poteri magici, avrebbe potuto lanciare il pugnale. In quel caso, invisibile o no, Tolivar avrebbe potuto restare ferito o addirittura ucciso. Fece un esperimento sollevando la brocca d'argento dal catino del lavamano, ed emise un grugnito disperato. Orrore! L'oggetto era rimasto del tutto visibile e sembrava veleggiare nella stanza. Ma il ragazzo riuscì a ricomporsi, e chiudendo ancora gli occhi immaginò che la brocca fosse scomparsa. Questa volta senza parlare ad alta voce, formulò mentalmente un pensiero-ordine: Talismano, rendi invisibile la brocca. Riaprì gli occhi. Le sue dita continuavano a stringere il liscio manico metallico e i muscoli rispondevano al peso che reggevano... ma non si vedeva nulla. Con molta circospezione riappoggiò la brocca al suo posto. Udì un debole suono, ritirò un attimo la mano, quindi diede un colpetto al contenitore che non riusciva a vedere. Eppure c'era. Si ritrovò a soffocare una risata di gioia. Stava cominciando a capire il senso della cosa! Neppure le parole ad alta voce erano indispensabili. Era
il pensiero a contare davvero nella realizzazione della magia. «È così?» domandò al talismano. E la voce dentro di lui rispose: Sì. Di nuovo serio e concentrato, fece riapparire la brocca, poi scivolò fuori in corridoio e si diresse verso la stanza della zia Kadiya. Se l'era tenuto al fianco, come al solito, sul letto, ma quando si era svegliata la mattina seguente l'Occhio di Fuoco Trilobato era sparito ed era rimasto soltanto il fodero vuoto. Jagun le giurò che non era entrato nessuno, dato che lui aveva dormito proprio davanti alla sua porta. Servitori e guardie della Cittadella non avevano notato nulla d'insolito. E tuttavia non c'era dubbio che l'Occhio di Fuoco fosse stato rubato. Il peggio era che il Cerchio dalle Tre Ali di Haramis si rifiutava di mostrare il luogo in cui si trovava la magica spada spuntata e non rivelava neppure il nome del ladro. «Questo può significare soltanto», disse la Bianca Signora alle sue due sorelle alquanto scosse, «che il talismano di Kadi adesso è legato a qualcun altro e di nuovo attivo. È inutile tentare di cercarlo fisicamente nella Cittadella di Ruwenda: è troppo vasta, con un numero infinito di potenziali nascondigli. Inoltre, senza dubbio il ladro se ne è andato da un bel po' col suo bottino. Una ricerca accurata non solo sarebbe futile, ma renderebbe anche di dominio pubblico il furto del secondo talismano, demoralizzando la gente. Deve restare solo tra noi tre e Jagun.» «Adesso siamo sicuramente perduti», interloquì la regina con voce grave di disperazione. «Per tutto questo tempo, è stato uno dei miei cortigiani ad avere in mano lo scrigno stellato e il mio diadema trafugato! E adesso possiede anche l'Occhio di Fuoco. Quel miserabile sarà probabilmente sul punto d'incontrare Orogastus! La situazione è senza speranza.» «Non parlare da sciocca, Ani», l'interruppe brusca Kadiya. «Noi andremo avanti... come abbiamo già fatto in un'altra occasione, quando era lo stregone in persona a possedere due talismani. Quello sì che era un momento apparentemente senza speranza, eppure abbiamo vinto. Se il Triuno vorrà, accadrà anche questa volta.» Il giorno successivo le tre sorelle si salutarono e lasciarono la Cittadella di Ruwenda. L'Arcimaga Haramis usò la magia per trasportarsi all'istante nella sua Torre sul monte Brom. Là iniziò a preparare proposte per il vertice sulla
difesa che si sarebbe svolta a Derorguila, oltre a escogitare istruzioni per quanti del Popolo dovevano essere addetti all'importante compito del bloccaggio dei viadotti. Oltre a ciò, intendeva fare ricerche nei propri archivi e in quelli della Signora Azzurra, nella speranza di scoprire un modo di controllare i portali invisibili o di distruggerli. Non era ottimista riguardo a un successo a breve termine. Kadiya, il principe Tolivar, Ralabun, Jagun e sei dei valorosi Compagni Fedeli della regina partirono per la prima tappa del viaggio che li avrebbe condotti nella lontana Sobrania. Al principe fu concesso di portare una scatola di ferro di modeste dimensioni, che teneva ben chiusa e affermava contenesse alcuni dei suoi libri di maggior valore. Alcune imbarcazioni leggere trainate da rimorik avrebbero consentito loro di attraversare il lago Wum; quindi, dopo aver superato le Cascate di Tass e disceso il Grande Mutar in mezzo alla vasta Foresta di Tassaleyo, sarebbero giunti a Let, la città Wyvilo dove si sarebbero imbarcati su una nave mercantile aborigena diretta al regno di Var e al Mare Meridionale. La carovana con la regina Anigel, re Antar e tutta la loro corte cominciò il lungo viaggio verso nord per Labornok, che era previsto durasse almeno trenta giorni. La Stagione Umida era già pienamente iniziata, e sul lungo convoglio di carri, carretti, cavalieri e viaggiatori a piedi si rovesciava una pioggia incessante, come fossero state aperte le cateratte del cielo. Nonostante l'inclemenza del tempo, la lenta avanzata dell'entourage reale attraverso la palude era sorvegliata da molti occhi furtivi. 7 Dopo dieci giorni di viaggio a bordo dell'ingombrante carrozza che trasportava anche Immu e le quattro lady al personale servizio della regina, Anigel era annoiata a morte. Il nuovo Sentiero della Regina nella palude, aperto solo l'anno prima, non veniva meno alla propria fama di grande meraviglia del mondo. Era solido come una strada carrozzabile realizzata su un terreno asciutto, persino con le piogge eccezionalmente forti che affliggevano quel trasferimento, e Anigel non vedeva motivo per non cavalcare anche lei, andando avanti e indietro per fare visita ai suoi cortigiani e guardarsi attorno come facevano il re, i suoi figli e i membri maschi della nobiltà.
Le donne si mostrarono scioccate da tanta temerarietà e cercarono di dissuaderla, ma la regina respinse le loro obiezioni. Dopotutto, era la sua strada. Per quasi sei anni ne aveva supervisionato la costruzione, cercando di aumentare i fondi a essa destinati nonostante le risorse scarseggiassero, facendo fronte alle bande di Glismak ribelli e ad altri problemi con gli aborigeni e infondendo fiducia negli ingegneri quando insistevano che alcune parti della strada proprio non si potevano realizzare. Anigel abbassò il finestrino della carrozza e chiamò un paggio che cavalcava lì accanto. «Fa' venire il Mastro Stalliere dei Fronial Reali.» Alle preoccupate signore che la circondavano, lanciò un sorriso. «Mi rifiuto di viaggiare rinchiusa in una carrozza mal ventilata come un'invalida solo perché sono in gravidanza. Non farà certo male ai miei bambini non ancora nati se salgo in sella sotto la schietta pioggia ruwendiana.» «Ma le regine incinte non fanno queste cose!» esclamò lady Belineel. Apparteneva a un'antica famiglia labornoki, ed era anche troppo contenta di poter esprimere disappunto verso le più tolleranti abitudini ruwendiane. Sorprendentemente, Immu, la vecchia balia Nyssomu, intervenne in aiuto di Belineel. «La tua strada non è il viale principale di Derorguila, mia regina. Attraversa alcune tra le zone più pericolose della Penisola, soprattutto in questo punto, e nell'aria si sente puzza di Skritek. Ti prego di restare nella carrozza.» «Sciocchezze», replicò Anigel. «Io sento solo odore di fango e foglie bagnate, e la traccia lasciata da innocui tarenial... oltre a un profumo troppo dolce che mi sta facendo venire il mal di testa.» Sporse il viso dal finestrino e si rivolse al pari di mezza età che aveva fatto chiamare. «Lord Karagil, ti prego di portarmi subito una cavalcatura e di far sì che i miei Compagni Fedeli mi assistano. Cavalcherò per il resto della giornata.» «Questo è davvero insensato», commentò scorbutica Immu. «Non si dovrebbero correre rischi quando si è sul punto di procreare.» La decisione di Anigel lasciò sgomento anche il responsabile dei fronial reali. «La balia Oddling ha ragione riguardo agli Skritek, mia regina, perché i nostri perlustratoti hanno trovato tracce fresche. È insolito per gli orridi discendenti degli Affogatori spingersi tanto a est, ma...» «Obbediscimi», replicò la regina, con tono basso e gentile ma deciso. «Se i miei Compagni Fedeli non possono proteggermi dalla progenie degli Skritek, allora è tempo che ripongano la spada e si dedichino al ricamo. Per prima cosa farò visita al mio reale marito, che si trova nel gruppo d'avanguardia.»
«Cocciuta cocciuta cocciuta!» le disse Immu, usando i modi eccessivamente familiari dei domestici di età avanzata. «È sconveniente che una donna di stirpe reale, gravida, se ne vada in giro a galoppare in mezzo a un corteo di soldati e guidatori di cavalli da tiro... anche se non ci fosse pericolo per i nascituri.» «Comunque», ribatté gioiosamente Anigel, «io vado.» A quel punto Immu pregò le nobildonne: «Nessuna di voi cavalcherebbe con la regina?» Ma le dame si limitarono ad addurre scuse e continuarono a protestare. Alla fine, infastidita, Immu sbottò: «Allora ci vado io!» Anigel lanciò un'occhiata dubbiosa alla balia Nyssomu. «Se proprio insisti, puoi sicuramente montare in sella dietro di me, cara amica. Ma mi permetto di dire che sarebbe molto scomodo per una persona di piccola statura come te, perché verresti sballottata in continuazione.» All'improvviso lord Karagil s'illuminò. «Ho un'idea che potrebbe risolvere tutti i problemi», dichiarò, allontanandosi rapido. Ritornò presto con due stallieri, di cui uno conduceva un fronial bianco con la bardatura reale per la regina, e l'altro il puledrino di quello stesso animale, già addomesticato ma non ancora delle dimensioni di un adulto, equipaggiato con finimenti e sella improvvisati per Immu. Felice, Anigel indossò stivali e mantello. Accompagnata da venti cavalieri dei suoi Compagni Fedeli, e seguita con rassegnazione da Immu sul puledrino dalle gambe lunghe, la regina cavalcò seguendo la direzione di marcia fino a raggiungere l'avanguardia. Là trovò che re Antar e il suo comandante in capo, il generale Gorkain, erano smontati davanti a uno dei nuovi ponti che attraversava un affluente del fiume Virkar, molto ingrossato. Si stavano consultando con due perlustratori aborigeni vestiti con la livrea dei Due Troni. Il lord maresciallo Lakanilo e numerosi altri ufficiali appartenenti alla nobiltà restavano nelle vicinanze in groppa ai loro destrieri, come scorta reale. Sotto la cappa impermeabile indossavano solo elmi e corazze leggeri, proprio come i Compagni Fedeli, il re e il generale. Una truppa di soldati bene armati e un singolo cavaliere in tenuta da battaglia erano scesi sulla riva del fiume, dove si preparavano a imbarcarsi su di un'ampia chiatta il cui equipaggio era formato da due barcaioli umani e una guida Nyssomu. Re Antar salutò la moglie e gli altri nuovi venuti con cortesia, quindi mostrò ad Anigel la mappa che lui, Gorkain e i perlustratori stavano studiando.
«Uno di quei viadotti infernali di cui ci ha avvertiti Haramis si trova a circa sei leghe da qui verso valle», le spiegò Antar. «Dei soldati al comando di sir Olevik si sono offerti volontari per montare la guardia mentre il grosso del nostro convoglio passa da quelle parti. Viaggeranno con quella chiatta.» «Ma che possono fare i nostri coraggiosi uomini», domandò a bassa voce la regina, «se i cattivi dovessero saltar fuori da quel portale magico mentre stanno di guardia? I soldati non possono combattere la magia, e di certo non ci sarà tempo sufficiente a barricare il viadotto in modo efficace.» «No, mia regina», ammise il generale Gorkain. «In verità tutto ciò che sir Olevik e i suoi uomini possono sperare di ottenere è distrarre gli eventuali invasori per un breve periodo, vendendo cara la pelle mentre i loro compagni Oddling c'inviano un avvertimento.» «Hanno davvero cuori impavidi», mormorò la regina. «Le probabilità che gli Uomini della Stella sferrino un attacco tanto presto sono davvero poche», la rassicurò Antar. «E non è neanche molto probabile che Orogastus decida di assaltare una colonna imponente e bene armata come la nostra. Stiamo semplicemente prendendo tutte le precauzioni possibili.» «Entro due volte dieci notti», disse uno dei piccoli perlustratoli Nyssomu, «il nostro Popolo che abita in questa parte della Palude Labirinto avrà bloccato il viadotto, come ordinato dalla Bianca Signora e dalla Signora degli Occhi. Ammasseremo una grande quantità di terra e pietre in quel punto e metteremo una guardia.» «Una volta fatto questo, sarà molto difficile per gli Uomini della Stella emergere dal viadotto senza farsi notare», intervenne l'altra guida. «Dovrebbero fare ricorso ai poteri magici per scavarsi una via d'uscita. E di questo ci accorgeremmo subito, quindi invieremmo l'allarme col linguaggio senza parole.» Anigel tornò a guardare la mappa. «Sembra che non ci siano altri viadotti vicino alla strada fino alle montagne. Di questo possiamo proprio essere grati.» In quel momento dal gruppo dei Compagni Fedeli si levò un rauco grido d'incoraggiamento all'indirizzo di sir Olevik e dei suoi uomini che si stavano allontanando dalla riva a bordo della chiatta. «Che il Fiore vi benedica», esclamò la regina, sporgendosi dal parapetto del ponte per disegnare nell'aria il simbolo del Giglio, «e vi riporti sani e salvi al nostro cospetto.»
Gli uomini sull'imbarcazione risposero con urla e grida, brandendo le armi, poi la chiatta virò seguendo un'ansa del fiume e scomparve alla vista dietro una fitta boscaglia. L'avanguardia riprese il lento procedere sotto la pioggia, con Anigel e Antar fianco a fianco in mezzo allo squadrone di cavalieri e Immu sempre appresso alla regina. A una discreta distanza da loro seguiva un corteo lungo oltre due leghe: carriaggi trainati da volumnial, carichi dei bagagli della corte; altri carri con cibo e rifornimenti, eleganti carrozze e diligenze che trasportavano la nobiltà e i funzionari pubblici, ufficiali reali e cavalieri a dorso di fronial, e quasi un migliaio di servitori di lunga data in sella e a piedi. Una doppia fila di soldati arrancava su entrambi i lati della colonna principale, e il suono del loro canto attraversava dolcemente gli acquitrini per giungere all'orecchio di quanti cavalcavano in testa al convoglio. Adesso Anigel era soddisfatta, e ispezionava con orgoglio il Sentiero della Regina. Quella che per tempo immemorabile era stata solo una pista poco visibile e pericolosa utilizzabile unicamente nella Stagione Secca (e anche allora soltanto da chi avesse conoscenza della zona o delle mappe segrete dei Capi Mercanti) ora era diventata una bella strada. Il suo fondo sopraelevato, formato da strati alterni di ghiaietto e pesanti tronchi provenienti dalla Foresta di Tassaleyo, si trovava a tre ell e forse più dall'acquitrino ed era ricoperto di ciottoli. Ponti in legno avevano rimpiazzato gli antichi guadi di fiumi e ruscelli, tranne nel punto in cui si attraversava l'ampio Virkar, al confine col Dylex, dove c'era un traghetto. Locande con posti di guardia, situate a un giorno di viaggio di distanza l'una dall'altra, offrivano un rifugio sicuro dove piccoli gruppi di viaggiatori o di mercanti potevano riposare, ma la colonna reale era troppo numerosa e doveva obbligatoriamente accamparsi sulla strada, lasciando che soltanto i reali e i nobili anziani o infermi trovassero accoglienza sotto un tetto. La sezione centrale del Sentiero della Regina, che l'entourage reale stava superando in quel momento, era più stretta rispetto al resto della strada, perché era stato estremamente difficile costruirla. Serpeggiando per quasi cento leghe tra il Castello di Bonar e la capitale del Dylex, Virk, questa parte del percorso attraversava una zona selvaggia priva d'insediamenti umani. Alberi torreggianti e un fitto intrico di felci spinose, rampicanti e una vegetazione quasi impenetrabile circondavano il sentiero e in molti tratti addirittura lo sovrastavano, in modo che a volte alla regina Anigel pareva di cavalcare in un tunnel verde velato da una cortina di pioggia. L'avanguardia si fermò a mezzogiorno, per mangiare cibi freddi e ripo-
sare mentre un sole assai gradito faceva brevemente capolino tra le nubi e sollevava sbuffi di vapore dal selciato. Ma quando i cavalieri rimontarono in sella, le nuvole di tempesta erano già riapparse, oltre a un vento sempre più forte. Nonostante questo, Anigel si ritrovò ad assopirsi in groppa al paziente fronial che, insieme con gli altri animali, procedeva lento. Le teste dai palchi ramificati si muovevano a scatti, i tendini delle gambe schioccavano, e gli ampi zoccoli piatti facevano clop clop sulle pietre coperte di muschio. Sopra di loro, il cielo plumbeo diventava sempre più opprimente, benché avesse smesso di piovere. La regina venne risvegliata di colpo quando zaffate di puzzo rivoltante cominciarono a contaminare l'aria. Nessuno si sorprese allorché il generale Gorkain ripercorse a ritroso la strada passando in mezzo alla schiera di cavalieri e salutò il re e la regina prima di riferire notizie sgradevoli. «Un perlustratore riferisce di ossa di raffin spolpate di recente, poco più avanti sul Sentiero della Regina, e l'acciottolato mostra tracce di larve di Skritek. Ci fermiamo qui per colmare la distanza che separa il nostro gruppo avanzato dal grosso della carovana. Il lord maresciallo e i Compagni Fedeli scorteranno da vicino le loro maestà, e dei soldati di fanteria ci accompagneranno finché il pericolo non sarà passato. Ho anche inviato un messaggero per richiamare il principe ereditario Nikalon e la principessa Janeel: non è più prudente che vadano avanti e indietro lungo il convoglio assieme ai loro giovani amici.» «Molto bene», disse Antar. «Procedete pure.» Il generale toccò la visiera dell'elmo in cenno di saluto e diede di sprone al suo fronial. Ma prima che potesse allontanarsi si udirono le grida dei cavalieri in avanscoperta: «Larve! Larve sulla strada!» Gorkain imprecò e spinse il proprio destriero in quella direzione, estraendo lo spadone a due mani. Il maresciallo Lakanilo e una decina di Compagni Fedeli chiusero i ranghi attorno al re, alla regina e a Immu, le lance in resta, mentre altri membri del gruppo d'élite seguivano il generale. Nell'aria si sparse un odore fortissimo e terribile. Per un po' restarono tutti in silenzio, e gli unici suoni che si udivano erano un lontano rumore di zoccoli e lo scricchiolio dei finimenti, oltre al sibilo e al ticchettare della pioggia che aveva ripreso a cadere. Poi Immu mormorò: «Guardate là!» Indicò uno stagno scuro sulla destra della strada, seminascosto da felci prive di spine alte due volte un uomo. Da quell'acqua schiumosa si stavano sollevando decine di forme biancastre luccicanti, alcune grandi quasi quanto un essere umano, altre molto
più piccole. Somigliavano a schifosi vermi grassi o a larve, perché non avevano nulla di riconoscibile come una testa pur essendo dotate di tozzi arti con unghie simili a rasoi. Mentre raggiungevano la stretta banchina a lato della strada, sollevarono la parte anteriore, rivelando bocche spalancate con denti verdi che grondavano veleno. I mostri ciechi oscillavano in qua e in là alla ricerca di una preda, che individuavano grazie all'udito molto fine. Per un istante il gruppo col re e con la regina restò paralizzato dall'orrore, poi un giovane cavaliere esclamò: «Pietre di Zoto, che esseri ripugnanti! Sembrano giganteschi vermi usciti da un cadavere!» Al suono della sua voce le larve di Skritek cominciarono a inarcarsi e a contorcersi per risalire il terrapieno e raggiungere la strada. La lunga spada di re Antar lasciò il fodero con una sorta di canto. «Seguitemi, Compagni Fedeli!» Anche se il suo fronial scivolava, lo spinse giù dalla ripida discesa, seguito dappresso dal lord maresciallo e dai cavalieri, e con un unico fendente ben assestato tagliò in due una delle prime larve, che si disintegrò, spargendo sul re un nauseabondo icore gelatinoso. I Compagni trafissero con le loro lance altri giovani Skritek assetati di sangue, o li passarono a fil di spada, gridando per la rabbia e il disgusto quando anch'essi venivano inzuppati dai puzzolenti fluidi emessi da quei corpi larvali. Il fronial di Lakanilo cadde sul terreno fangoso, stridendo in agonia poiché le zampe anteriori erano strette da mascelle avvelenate. Ma i Compagni si precipitarono in aiuto del lord maresciallo trascinandolo in salvo, uccidendo le larve che si abbarbicavano tenacemente e concedendo una morte pietosa alla povera cavalcatura antilopina ormai condannata. Non ci volle molto perché tutte le larve venissero uccise o fuggissero, lasciando Antar e i cavalieri ricoperti di bava vischiosa dalla testa ai piedi. Alcuni ell più in là si levarono grida trionfanti, a indicare che l'altro branco di Skritek immaturi era stato stanato da Gorkain e dai suoi uomini. «Ben fatto», fu il caloroso commento della regina Anigel. Ma il re si guardò e fece una smorfia. «Solo il Triuno sa come ci toglieremo di dosso questa schifezza, a meno di non tuffarci a testa in giù nella palude e ricoprirci di fango, invece che di bava di Skritek.» Quasi in risposta, sopra di loro si udì un rombo di tuono e iniziò a scendere un vero diluvio. Antar si tolse l'elmo, rovesciò la testa in modo che l'acqua potesse scorrergli sul viso, e scoppiò a ridere. «Grazie, misericordiosi Signori dell'Aria! Quando la colonna principale ci avrà raggiunti, sa-
remo di nuovo quasi presentabili.» «Forse dovreste fare ritorno alla vostra carrozza, mia regina», suggerì ad Anigel il lord maresciallo Lakanilo. Era un uomo segaligno, dai modi seri e solenni nonostante l'aspetto ridicolo dato da tutto quel sudiciume. Aveva assunto quella carica a seguito dell'eroica morte del lord maresciallo Owanon nella Battaglia di Derorguila. La regina scosse il capo, respingendo la proposta di ritirarsi. «Per carità, Lako! Col lezzo di Skritek più forte che mai, le mie lady si avvolgeranno il viso in veli inzuppati nel profumo, e francamente il mio naso è meno offeso dal fetore dei mostri.» La principessa Janeel e il principe ereditario Nikalon arrivarono al piccolo galoppo accompagnati da un gruppo di nobili, salutando rumorosamente i genitori e i Compagni Fedeli. «Puah!» strillò la principessa turandosi il naso. «Il puzzo di larve di Skritek è molto peggiore qui... oh!» Alla vista delle creature trucidate lanciò un grido. «Sono morte stecchite, mia signora», interloquì il lord maresciallo. «Non c'è nulla da temere.» Il principe Nikalon aveva estratto la spada e mentre osservava i resti fetidi gli brillavano gli occhi. «Ne sei certo, Lako? Forse sarebbe meglio perlustrare la palude... Io sono pronto!» A quindici anni, aveva quasi raggiunto la statura di un uomo, e indossava elmo, corazza e cappa militare. «Pronto pronto pronto!» esclamò l'irascibile Immu. «Adesso i tuoi reali genitori e i Compagni Fedeli si sentiranno di certo molto sollevati, visto che è arrivato un tale campione!» «Oh, Immu», brontolò il principe. I cavalieri ridevano, ma con bonomia, perché erano tutti molto affezionati all'impetuoso Niki. «Non c'è bisogno di lasciare la strada», disse Antar. «Anzi, sarebbe sconsiderato farlo, dato che l'acqua continua a salire.» «Be', mi dispiace di essermi perso la battaglia. Non avevo mai visto larve di Skritek.» Il ragazzo rinfoderò la spada e prese a fare domande ai cavalieri riguardo all'attacco, mentre il lord maresciallo mandava a prendere un altro destriero. Janeel cavalcò fino a dove si trovavano i suoi genitori e la piccola vecchia balia, esprimendo sollievo alla notizia che l'unica vittima era stata un fronial. «Come sono orribili quelle larve! È vero che alla nascita uccidono la loro genitrice?» «Accade molto spesso», rispose Immu. «Gli Skritek adulti hanno l'uso
della ragione - be', più o meno! - ma i giovani sono voraci e irrazionali. Se la madre è fortunata, riesce a salvarsi dopo avere deposto la prole allo stato larvale, ma è più comune che i piccoli si sveglino prima della nascita e si facciano strada a morsi attraverso il corpo della genitrice.» «Uh!» fece Janeel. Sotto il cappuccio del mantello impermeabile il viso le si era sbiancato, e se la regina Anigel non fosse sembrata impassibile, sarebbe stata più che felice di allontanarsi da quello spettacolo disgustoso. «Non c'è da stupirsi che gli Skritek non conoscano l'amore e la gentilezza.» «Eppure», intervenne il principe Nikalon con gusto macabro, avendo raggiunto i genitori e la sorella, «gli Skritek sono la più antica razza del mondo, e i saggi affermano che il Popolo discenda da loro. Anche tu, Immu!» «Io credevo che la razza più antica fosse quella degli uomini», replicò la principessa. «Noi non siamo originari di questo mondo», intervenne la regina. «Vostra zia Haramis, l'Arcimaga, ha appreso che gli esseri umani sono giunti qui dal Firmamento Esterno innumerevoli secoli fa. I nostri antenati erano gli Scomparsi.» «Quello che è ancor più stupefacente», continuò pacato re Antar, «è che gli Scomparsi usarono il sangue degli Skritek e dell'umanità per creare una razza-popolo in grado di resistere al Ghiaccio Vincitore.» «Ma... perché?» A differenza del fratello maggiore, la principessa non aveva mai udito quella storia, come peraltro la maggior parte della gente, dato che l'Arcimaga aveva deciso dovesse essere tenuta segreta, e fosse meglio limitarne la conoscenza alla famiglia reale e ai suoi più stretti e fidati collaboratori. «Gli antichi umani si sentivano in colpa ad abbandonare il mondo che il loro guerreggiare aveva ampiamente contribuito a distruggere», spiegò Antar. «Vedi, Jan, gli Scomparsi credevano che il ghiaccio che senza volere avevano creato, dodici volte dieci centinaia fa, avrebbe divorato tutta la terra tranne i margini del continente e alcune isole. Pensavano che gli Skritek sarebbero morti, lasciando il mondo privo di esseri raziocinanti. Ma le cose non sono andate così. Dopotutto il ghiaccio non è riuscito a vincere, e gli Skritek e la nuova intrepida razza del Popolo hanno continuato a vivere insieme. Lo stesso dicasi di alcuni uomini cocciuti, rimasti quando gli altri erano Scomparsi nel Firmamento Esterno.» «Gli aborigeni che chiamiamo Vispi», proseguì la regina, «gli abitanti
delle vette delle montagne che aiutarono tua zia Haramis a ottenere il suo talismano e che ora sono il suo Popolo speciale, sono il risultato di quell'esperimento di tanto tempo fa. Sono loro i veri primogeniti, che uniscono la stirpe umana agli Skritek. Ovviamente partoriscono come gli uomini, al pari delle razze più elevate del Popolo.» «Ma i Vispi sono così belli», replicò Jan, «mentre le altre razze del Popolo...» S'interruppe, rendendosi conto di quanto fosse disdicevole parlare a quel modo davanti alla vecchia balia Nyssomu. «Oh, Immu, scusa. Non era mia intenzione insultarti.» «Non ho motivo di offendermi, tesoro.» Immu era calma. «Agli occhi di Nyssomu e Uisgu i Vispi paiono davvero poco attraenti. Voi li definite belli soltanto perché vi somigliano di più.» «Ma, allora, come si sono create le altre razze del Popolo?» domandò Janeel. «Alcune sono state prodotte con nuove infusioni di sangue Skritek», rispose la regina con tono cupo. La principessa meditò sulle orribili implicazioni della cosa, e per qualche momento lei e il fratello rimasero silenziosi. Poi Immu aggiunse: «Nel corso degli anni, anche nuovo sangue umano ha contribuito alla mescolanza razziale. Nei tempi antichi, gli umani si accoppiavano spesso col Popolo, ed è solo nelle ultime sei centinaia che la vostra gente ha cominciato a chiamare Oddling la mia, sostenendo che siamo esseri inferiori. In altri regni umani, il disprezzo verso di noi continua ancora oggi. Soltanto a Laboruwenda è accettato il fatto che abbiamo un'anima, e alcuni di noi godono anche dei privilegi della cittadinanza». «Farò in modo che anche la nazione di Raktum faccia lo stesso», sentenziò con semplicità la principessa Janeel, «quando avrò sposato Ledavardis e sarò diventata la sua regina.» «Oh, Jan!» esclamò arrabbiata Anigel. «Lo sai che ti ho proibito di affrontare l'argomento davanti al tuo reale padre!» «Cos'è questa storia?» Antar fissò la figlia. «Non dirmi che sogni ancora quel reuccio gobbo simile a uno spirito maligno?» «Ledavardis di Raktum è un uomo coraggioso», ribatté Janeel, «e non è uno spirito maligno più di quanto lo sia Niki. Anche se il suo fisico non è bello, è nobile di cuore.» «Lo dici tu!» Furioso, il re si rivolse alla principessa parlando a denti stretti, la barba bionda arruffata. «Per quel che ricordo io, i raktumiani non sono altro che pirati ravveduti soltanto a metà, e nessuna mia figlia sposerà
mai il loro re deforme! Come puoi dimenticare che Raktum si è alleata con Tuzamen e lo spregevole stregone Orogastus per farci la guerra?» «Ledo ha combattuto e si è arreso con onore», replicò Janeel. «E da quel giorno in poi ha ordinato alla sua gente di cambiare i vecchi sistemi che non conoscevano leggi e comportarsi in modo civile.» «Civile!» La risata del re era sprezzante. «Non è cambiato un bel niente nel regno dei pirati, tranne il fatto che adesso i corsari raktumiani commettono i loro crimini di nascosto, mentre prima erano sfrontati come le vipere di Viborn. Non sposerai mai Ledavardis.» La principessa scoppiò a piangere. «A te non importa che io sia felice, padre. Il vero motivo per cui respingi Ledo è la vana speranza che io sposi re Yondrimel di Zinora, quello scaltro spaccone. Ma non mi costringerai mai ad accettarlo! Lascia che sposi una delle figlie della regina Jiri.» «Jan, tesoro mio!» La regina Anigel si affrettò a intervenire. «Ti prego di astenerti. Non è questo il luogo per simili discussioni. Aspettiamo di raggiungere la prossima locanda, e...» Le sue parole vennero inghiottite da un tuono colossale. Contemporaneamente la strada tremò come scossa da un terremoto, e un lampo di luce accecò tutti i presenti. Adesso la pioggia cadeva con la forza di una calamità. Dai cavalieri, che si erano allontanati un po' per non disturbare l'intimità della famiglia reale, si levarono grida sgomente. I fronial scartavano terrorizzati dall'inaspettato fragore, e il re dimenticò la rabbia adoperandosi per evitare che il destriero imbizzarrito della figlia scivolasse oltre la strada precipitando nelle vorticose acque in continua crescita. Il principe Nikalon stava facendo lo stesso con la cavalcatura della madre perché, sotto il selvaggio acquazzone, il bianco fronial montato da Anigel scalpitava e scuoteva con violenza la testa dalle corna ramificate. La regina riprese il controllo dell'animale soltanto dopo che Niki fu smontato ed ebbe afferrato le briglie. A parecchi ell di distanza, il puledro cavalcato da Immu si era sdraiato sul ventre accanto al ciglio di sinistra della strada, tremante di paura, mentre la vecchia balia lo spronava ad alzarsi senza successo. A quel punto, però, il fronial della principessa Janeel sfuggì alla presa di Antar e quasi calpestò Immu e il puledrino mentre galoppava via ripercorrendo a ritroso la strada verso il convoglio principale. «Compagni Fedeli!» gridò la regina. «Seguite la principessa!» Quindi a suo figlio: «Salva Immu! Guarda... la banchina accanto a lei sta crollando!» Il principe Nikalon saltò di nuovo in groppa al suo fronial e con un gran
rumore di zoccoli si precipitò lungo la strada sferzata dalla pioggia. Chinandosi sulla sella, afferrò la piccola Nyssomu proprio nell'attimo in cui il puledro ruzzolava per la discesa a lato della strada e scompariva nell'acqua fangosa e ribollente senza emettere suono. «Porta da me Immu, Niki», gridò la regina, «poi aiuta tuo padre e tua sorella!» Anigel non riusciva a capire perché i Compagni Fedeli non fossero accorsi. La fitta pioggia e la crescente oscurità le impedivano di vedere i cavalieri che stavano più avanti sulla strada rispetto a lei, ma poteva udirne le voci tra i continui rombi di tuono e uno strano rumore, come di qualcosa che soffia o scorre con impeto. Quando Immu fu in salvo, in sella dietro di lei, e il principe ebbe raggiunto Antar, che nel frattempo era riuscito a fermare la cavalcatura di Janeel, la regina diede di sprone al suo fronial per raggiungere i Compagni. Ma dopo solo pochi passi, il candido animale si fermò bruscamente, slittando. «Gran Dio, la strada!» urlò Anigel, guardando in basso. Il tratto di strada che divideva la regina dai suoi cavalieri era interrotto da un ripido squarcio largo oltre cinque ell: a quanto pareva, un fulmine aveva distrutto una parte della carreggiata. L'acqua, che in precedenza era bloccata su un lato della via sopraelevata e lastricata, adesso scorreva da una parte all'altra, piena di alberi sradicati e altri detriti galleggianti. Prima che Anigel potesse riprendersi dallo stupore, un altro luminosissimo lampo e lo schiocco distruttivo di un tuono fecero tremare il Sentiero della Regina e vacillare il suo destriero. «Reggiti forte, Immu», gridò, tirando le redini dell'animale verso destra, in modo da farlo girare in cerchi molto stretti anche se protestava stridendo. Questa volta, però, non s'imbizzarrì, e la donna poté infine calmarlo e spingerlo verso il re e i ragazzi. Ma di nuovo il destriero si arrestò di colpo. Vedendo una seconda frattura nella strada, Anigel trattenne il fiato. Era più stretta della precedente, ma si allargava di secondo in secondo perché le acque rosicchiavano via il terrapieno. La regina e Immu si ritrovavano sole su una sorta d'isoletta lastricata in mezzo a una furiosa piena. «Ani!» urlò il re. «Mamma!» gridarono Nikalon e Janeel. Il tuono parve dare una risposta beffarda. I Compagni Fedeli restavano sul proprio lato della strada tagliata in due, impotenti, ma numerosi carri e
parecchi soldati avevano finalmente raggiunto il re. Un uomo, rapido nel pensiero e nell'azione, si precipitò da Antar con un rotolo di corda, e padre e figlio smontarono per aiutarlo a lanciare la cima oltre le acque tumultuose. Anche Anigel e Immu scesero di sella e si accovacciarono sul bordo della loro porzione di strada, che diminuiva a vista d'occhio. Per due volte la fune non le raggiunse, ma al terzo lancio Immu riuscì ad afferrarla, emettendo uno strillo di trionfo e rischiando di cadere nel fiume di fango. «Presto!» gridò la balia alla regina. «Legatela attorno alla vita!» Anigel tentò, ma proprio in quel momento la piena erose ulteriormente la base stradale così che il selciato sotto i suoi piedi si sgretolò, facendola precipitare in una buca poco profonda ma piena d'acqua, braccia e gambe impigliate nel lungo mantello impermeabile. Lasciata cadere la corda, Immu avanzò carponi fino a lei, aiutandola a liberarsi. Regina e balia strisciarono sull'insidiosa superficie che andava dissolvendosi, mentre il re, recuperata la fune, tentava e ritentava di lanciarla al di là del baratro sempre più ampio. Ma ormai la lunghezza della corda non era più sufficiente, e ben presto l'isoletta di strada sarebbe stata spazzata via del tutto. «La tua ambra del giglio!» gridò Immu alla regina, superando il frastuono della tempesta. «Ordinale di salvarci!» Stavano strette l'una all'altra. Anigel afferrò l'amuleto magico con una mano, mentre con l'altra continuava a tenere abbracciata Immu. Dietro di loro, il bianco fronial raspava e strideva in preda al terrore. Il terreno sotto i suoi zoccoli si sciolse letteralmente, e la povera bestia venne trascinata lontano dal vortice limaccioso. Una terza, mostruosa esplosione risuonò nello stesso istante in cui il fulmine colpì. L'aria si riempì di sassi, pezzi di legno, zolle di terra e fango e una bruma torbida, che si unirono alle grida di frustrazione dei salvatori mancati. La regina Anigel si sentì sprofondare, sentì Immu strappata alla sua stretta, sentì i colpi stranamente indolori dei rami portati dal vento che le turbinavano attorno, sentì che piano piano scivolava nell'acqua scura e tumultuosa che le riempiva la bocca e il naso, soffocandole in gola la preghiera al Giglio Nero. Poi non sentì più nulla. 8
Il viadotto sul monte Brom era situato nella Caverna del Ghiaccio Nero. Molti anni prima aveva consentito agli Scomparsi di accedere al loro misterioso deposito nelle profondità dei monti Ohogan, e ora, come Haramis aveva previsto, il viadotto forniva allo stregone Orogasrus il modo di penetrare nella sua Torre. Grazie al magico Cerchio dalle Tre Ali lo osservò emergere dal nulla, attraverso un disco scuro privo di spessore che scomparve con un acuto scampanellio non appena lo ebbe oltrepassato. Indossava le vesti argento e nere con tutte le insegne caratteristiche del Maestro della Stella, inclusi i guanti e la terribile maschera-copricapo a forma di stella che gli nascondeva la parte superiore del volto. Se ne stava tranquillo proprio al centro del pavimento di ossidiana della grotta, a fissare la volta di granito venato di quarzo che torreggiava sopra di lui e le centinaia di alcove, vani e stanzette su tutti i lati. La particolare illuminazione del luogo, che derivava da fonti invisibili, faceva sì che le estrusioni ghiacciate nelle fenditure della roccia brillassero come onice lucidato. Mentre si dirigeva lento verso l'uscita, lo stregone pareva immerso nei suoi pensieri, forse ricordando il tempo in cui la Caverna del Ghiaccio Nero e il suo stupefacente contenuto appartenevano a lui. Le scure porte vetrose delle stanze e delle nicchie erano tutte aperte. Restavano solo pochi sofisticati gingilli e sciocchezzuole, del tutto inutili per i suoi fini. I reparti che avevano contenuto le antiche armi, o altri strumenti da utilizzare per intimidire o ferire, erano vuoti. «Dunque hai distrutto ogni cosa, non è vero?» Parlò rivolto all'aria sottile, ben sapendo che lei lo stava osservando attraverso il talismano. «Eppure hai tenuto lo strumento più micidiale di tutti! Non ti è mai venuto in mente che alle altre due parti dello Scettro del Potere sarebbe negato l'utilizzo più grande e terribile se non esistesse il Cerchio dalle Tre Ali?» Haramis non disse nulla. In realtà ci aveva pensato; aveva persino preso in considerazione l'idea di gettare il Cerchio dentro uno dei vulcani attivi delle Isole Fiammeggianti, davanti all'evidenza che gli altri due talismani erano passati nelle mani di una persona sconosciuta. Ma la piccola bacchetta d'argento le era costata moltissimo dal punto di vista personale, e lo scopo originale del Triplice Scettro, la cui concretizzazione era stata impedita dodicimila anni prima, non aveva cessato d'incuriosirla. Non riusciva proprio a liberarsi del talismano. Orogastus raggiunse una grande porta di legno incrostata di brina e tornò a rivolgersi a lei. La bocca aveva assunto una piega ironica. «Ho il tuo
permesso di entrare nella Torre, Bianca Signora? Dopotutto è mìa, anche se ne hai usufruito liberamente per questi sedici anni.» Haramis fece sì che la porta si aprisse silenziosamente. Gli avrebbe concesso quell'unica visita, durante la quale lei avrebbe fatto quello che si doveva fare. Lo stregone s'inchinò in segno di ringraziamento e si affrettò a imboccare il rozzo corridoio che lui stesso aveva realizzato perforando la roccia con uno degli antichi macchinari. Nella sua mente si affollavano i ricordi. Aveva abitato lì sul monte Brom per la maggior parte del frustrante periodo del sodalizio con Voltrik, defunto re di Labornok, e sempre lì aveva istruito i suoi primi tre seguaci. Le Voci Verde, Azzurra e Rossa (possano i Poteri Oscuri garantire loro la gioia eterna!) non solo l'avevano servito fedelmente fino alla morte, ma l'avevano anche aiutato ad aumentare la visione taumaturgica... proprio come i loro meno validi successori. Ovviamente adesso, grazie all'Uomo Scuro e a Nerenyi Daral, non gli serviva più l'aiuto di altre menti per dominare il pieno potenziale magico della Stella. Purtroppo, la Stella da sola non bastava per portare a termine il suo ultimo e definitivo piano. Per quello, ci sarebbe voluto il Triplice Scettro. Ottenerne due parti sarebbe stato relativamente semplice, ma la terza apparteneva a Haramis, e strappargliela con la forza o la coercizione era quasi impossibile. Però esisteva un'alternativa, e quella sera era giunto là proprio per esaminarla... Alla fine del tunnel si ritrovò al livello inferiore della scalinata della Torre. Si fermò sul pavimento di pietra, di fronte all'entrata principale, saggiando l'aura della sua vecchia dimora. Era così diversa da come la ricordava, permeata dell'alieno incantesimo del Giglio Nero. Adesso la Torre apparteneva senza dubbio a Haramis. Per un attimo fu colpito da un'acuta sensazione di paura: la Stella gli avrebbe assicurato una protezione sufficiente? In verità, non lo sapeva. Ma era venuto lo stesso. Sui vari lati si trovavano dei depositi, ora praticamente vuoti, la scuderia dove un tempo aveva tenuto i suoi destrieri e il gabbiotto che ospitava i macchinari per il ponte levatoio che permetteva di superare la voragine esterna. Non si stupì affatto scoprendo che il meccanismo da lui tenuto con tanta cura ora era arrugginito e abbandonato. Nessuno usava più quell'incredibile ponte. La Bianca Signora si serviva dei suoi poteri soprannaturali per viaggiare, e gli aborigeni Vispi che le facevano da servitori andavano
dove volevano volando sui giganteschi uccelli che vivevano tra le rocce scoscese dei dintorni. A parte il vento notturno, udibile a stento attraverso le spesse mura, la Torre era silenziosa. Non c'era traccia della presenza di lei, ma lo stregone sapeva che lo stava aspettando, e sapeva anche dove trovarla. Salendo la scala a chiocciola, si domandò se si sentisse tormentata quanto lui per l'imminente incontro. Era lì grazie alla tolleranza di lei: le sarebbe stato abbastanza facile distruggere il tunnel che collegava la caverna alla Torre, in modo che il viadotto si trasformasse in una strada senza uscita. Ma non l'aveva fatto. L'ultima volta che i due avevano diviso il rifugio della Torre, Haramis era poco più di una ragazzina sconsiderata, che aveva appena ricevuto un talismano i cui poteri le erano sconosciuti e che era sensibile al fascino di un uomo bello e più anziano. Stregarla per lui avrebbe dovuto essere facile come stregare un vart arboricolo appena nato. E invece, era stata lei a stregarlo. Raggiunse la biblioteca, il luogo in cui si erano scambiati il primo e unico bacio, e aprì la porta. Era stata la sua stanza preferita, il suo santuario, stipato dei volumi più rari e preziosi del mondo. Non era cambiata molto: in quella sera di gelo pungente erano stati tirati dei tendoni a coprire le alte finestre, e due poltrone imbottite coperte di splendido damasco rosso erano state avvicinate al confortevole calore del caminetto. A separarle, un tavolino con sopra una caraffa di vino bianco, due robusti calici in vetro intagliato in stile Vispi e un piatto con dei dolcetti. Lei si alzò da una delle poltrone, per un attimo null'altro che una sagoma scura stagliata contro le fiamme arancioni. Poi si fece avanti in modo che la luce delle bizzarre lampade da biblioteca degli Scomparsi la mostrassero con chiarezza, e lui sentì il cuore in gola. I capelli corvini le scendevano fino alla vita in trecce morbide e lucenti. Indossava un manto di velluto bianco con bordi di pelliccia blu argento sulle ampie maniche e sul fondo, e una cintura azzurro chiaro con decorazioni in pietra di luna. La veste sottostante era in soffice challis azzurro polvere, con minuscoli Gigli Neri ricamati sul collo, dove pendeva la bacchetta del Cerchio dalle Tre Ali. «Buongiorno a te, Maestro della Stella», disse Haramis. «Vestito per combattere, a quanto vedo. Che peccato! Avevo sperato in una breve tregua mentre discutevamo di ciò che sta per accadere.» E quella era una bugia. Una bugia piccola, ma la prima detta da Haramis da quando era diventata Arcimaga della Terra, e pronunciata deliberata-
mente per spingerlo verso le azioni che sarebbero seguite... Lui non disse nulla, ma si levò con ostentazione i guanti d'argento e li lasciò cadere sul tappeto che ricopriva il pavimento. Quindi si tolse anche il copricapo e il mantello nero, lasciando cadere a terra pure quelli. Deposti gli strani capi di vestiario in maglia metallica con lucenti pannelli di pelle nera, restò di fronte a lei avvolto in una semplice tunica di lana non sbiancata e calzoni attillati di un materiale più scuro, infilati negli alti stivali. Dalla cintura pendeva una scarsella in cui s'indovinava qualcosa di pesante. «Salute a te, Arcimaga della Terra.» La sua voce, non filtrata dalla magia del talismano, era melliflua e ingannevolmente piacevole come la ricordava, ma il viso era più vecchio di quanto avesse mostrato il ritratto, scarno e segnato dalle vicissitudini della vita, con profonde rughe tra gli occhi pallidi e ai lati della bocca. «Guarda! Ho abbandonato gli strumenti della stregoneria e con questo propongo formalmente un armistizio.» «Accetto», rispose Anigel, mentendo per la seconda volta. E con un gesto che era chiaramente una sfida si tolse dal collo la catena a cui era appeso il Cerchio e la posò sul tavolo. Seguì un silenzio assoluto. Lui si avvicinò e tese una mano dalle lunghe dita sopra la bacchetta. Le tre minuscole ali in cima al Cerchio si spiegarono e il brillio dell'ambra del giglio all'interno inviò un pulsante avvertimento. «Davvero permetteresti che mi uccidesse?» domandò lui con tono scherzoso. Lei si strinse nelle spalle. «Se vuoi sollevare il mio talismano, Maestro della Stella, ti concedo il permesso di farlo. Non ti farà alcun male, ma lo troverai del tutto privo di reazione, come un qualunque cucchiaio o forchetta. Sai bene che obbedisce soltanto al padrone a cui è legato... e anche allora, in qualche caso, in modo capriccioso.» Lui rise, e invece di toccare la bacchetta prese la caraffa di vino e riempì i calici per entrambi. «Capriccioso per davvero. Preghiamo che chiunque ora possegga gli altri due talismani abbia nel padroneggiarli gli stessi problemi che abbiamo avuto noi.» «Quindi sai che l'Occhio di Kadiya è stato rubato.» «Sì.» «L'ha preso uno dei tuoi adepti?» Lo stregone sorrise enigmatico. «Il ladro non è un mio alleato... non ancora.»
Lei ignorò la provocazione, gli occhi fissi sulla Stella. «Io ho messo da parte il mio talismano: non potremmo, almeno per un po', dimenticare la magia e avere un incontro come uomo e donna?» Orogastus abbassò le palpebre, che gli velarono lo sguardo. Avrebbe osato affrontarla senza protezione? Ma confidava che lei non sarebbe mai stata tanto meschina da violare una tregua, proprio come era certo che il suo amore per lui durasse ancora. Si tolse dal collo il medaglione con la Stella e lo posò sul tavolino accanto al talismano. Si sedettero, lei un po' rigida, lui comodo e leggermente scomposto per scaldarsi gli stivali accanto al fuoco. «Allora hai spiato le mie sorelle», riprese Haramis. «Non sono in grado di vederle personalmente, come sai benissimo, perché sono schermate dall'ambra del giglio. Ma i loro accoliti mi hanno inconsciamente rivelato cosa stava accadendo. Il furto dell'Occhio di Fuoco rappresenta uno sviluppo molto seccante, oltre che difficile da decifrare. Ci si deve chiedere perché questo misterioso ladro non abbia fatto uso del suo magico bottino. Che sia un campione di prudenza e si accontenti di tenere nascosti al sicuro entrambi i talismani? O è troppo timido per maneggiarli, sapendo che gli stessi Scomparsi ne temevano il terribile potere? Oppure il nostro astuto ladruncolo è semplicemente cauto? Che stia sperimentando gli strumenti magici in modo da non farsi notare fino a quando non avrà raggiunto sufficiente esperienza e fiducia in se stesso?» «Credo che non tarderemo molto a scoprirlo», disse Haramis, come per un oscuro presagio, «e per nostra sventura.» «Forse, Arcimaga», replicò lui disinvolto, «dovremmo prendere in considerazione un'alleanza contro questa minaccia comune.» Il sorriso della donna era gelido. «Non sono più la bambina sempliciotta che speravi di convincere ad aderire alla causa dei Poteri Oscuri, Maestro della Stella.» «Questo lo so bene. E tu scoprirai che non sono più l'uomo che ero quando mi sono scontrato coi Petali del Giglio Vivente e ho... preso la via degli Scomparsi.» Per un attimo, un'ardente speranza le trasfigurò il viso, ma volse lo sguardo stringendo le labbra, inesorabile nel suo fermo proposito. «Posso giudicarti solo dalle azioni, che mi dicono che sei lo stesso di sempre: affascinante, convincente e del tutto senza scrupoli quando si tratta di seguire la tua malvagia ambizione.» Lui piegò la testa all'indietro e rise, i lucidi capelli bianchi che riflette-
vano la luminosità del fuoco come nuvole alte al tramonto. Il suo divertimento era giovanile, spontaneo, assolutamente privo di malizia o cinismo. «Non sai niente delle mie attuali ambizioni, cara Haramis, proprio come non sai dove sono stato tenuto prigioniero quando tu mi credevi morto.» Aveva gli occhi brillanti mentre si chinava verso di lei al di sopra del tavolo. «Ti andrebbe di ascoltare questa storia?» Haramis annuì, ancora corrucciata, non osando parlare. Lo stregone si appoggiò allo schienale e bevve un lungo sorso di vino. «È stato il Grande Fulcro a salvarmi, ovviamente: lo strumento magico della mia corporazione che era stato creato come contromisura nei confronti dello Scettro del Potere, in modo da attirare a sé chiunque portasse la Stella e venisse colpito e sconfitto dalla magia dello Scettro. Mi ha salvato la vita in ben due occasioni. La prima volta, quando la sua esistenza era ancora sconosciuta a tutti noi, sono stato trascinato nell'Inaccessibile Kimilion, molto all'interno del ghiacciaio, e abbandonato là per dodici anni. Non sapevo in che modo fossi stato trasportato in quella Terra di Ghiaccio e Fuoco. Dopo che aveva svolto il suo lavoro, l'Arcimaga Iriane sottrasse il Fulcro, che in seguito diede a te. Crudele Haramis! Intendevi usarlo per rinchiudermi per sempre in quell'Abisso della Prigionia che si trova sotto il Luogo della Conoscenza. Ma sarebbe stato più pietoso darmi la morte.» «Io... io speravo che ti saresti ravveduto. Non sopportavo di distruggerti, neanche indirettamente.» Teneva gli occhi fissi sulle mani strette in grembo. Si vergognava, come lui sapeva sarebbe accaduto. Lo stregone stava di nuovo manipolando i suoi sentimenti, come aveva già fatto in precedenza. Questa volta, però, il risultato sarebbe stato diverso. «Guarda caso», continuò Orogastus, «un'altra persona ha ostacolato il tuo piano. Ha tolto il Fulcro dall'abisso appena prima che tu e le tue sorelle mi sconfiggeste con lo Scettro per la seconda volta, ed è stato così che mi sono svegliato sano e salvo in un letto... all'interno di una delle Tre Lune.» «Per il Fiore!» gridò Haramis, che all'improvviso aveva capito. «Denby! E adesso suppongo ti abbia rispedito indietro per terminare ciò che avevi lasciato in sospeso. Oh, quel perfido sciagurato! Ma che razza di Arcimago è, per giocare a questo modo con l'equilibrio stesso del mondo?» «Secondo me, l'Uomo Scuro è un pazzo senescente, ma ciò nondimeno mi ha insegnato molto. Tu sai chi è davvero l'Arcimago del Firmamento?» «Iriane mi ha raccontato qualcosa delle sue abitudini bizzarre e dell'atteggiamento scostante. So che è molto vecchio e che s'interessa poco di quanto accade nel nostro mondo; tuttavia ci ha garantito l'aiuto di quei
Sindona chiamati Sentinelle del Pronunciamento Finale per sconfiggere il tuo esercito e salvare i Due Troni. Perché ti abbia salvato...» L'Arcimaga scosse la testa. «Sei felice che l'abbia fatto?» chiese sottovoce Orogastus. «Sì... che Dio mi aiuti!» replicò lei. E questa non era una bugia. «Persino ora», continuò lo stregone, «non so quasi nulla dei motivi dell'Uomo della Luna, però so chi è. È lo stesso grande eroe degli Scomparsi che ha sconfitto la Società della Stella e determinato la nascita del Popolo. È Denby Varcour, un uomo dalla carnagione bruna che ha più di dodicimila anni. Quando gli Scomparsi fuggirono davanti al Ghiaccio Vincitore, lui rimase, assieme a una piccola schiera di compagni, sperando di porre rimedio ad alcuni dei danni che l'umanità aveva causato al mondo. Il Popolo Vispi e i loro telepatici amici volatili sono stati creati in laboratori all'interno della sua Luna.» Haramis era sbalordita. «La Luna è cava? Quindi lui non vive sulla superficie come facciamo noi qui?» «Tutte e tre le Lune sono realizzazioni dell'antica magia. Quella detta dell'Uomo Scuro, in cui io ero tenuto prigioniero, ha al proprio interno tutto ciò che è necessario a una vita civile, inclusi laboratori abbandonati pieni di strumenti meravigliosi e appartamenti splendidamente arredati che nessuno abita. Il secondo corpo celeste è chiamato Luna Giardino, e anche se non mi è stato concesso di visitarlo, so che si tratta di una serra che ospita piante e animali, e parte del nostro cibo proveniva da lì. È anche la residenza di numerose di quelle dannate statue viventi, che nei miei confronti agivano da guardiani e servivano Denby in altri modi misteriosi.» «I Sindona», mormorò Haramis. Aveva ripreso il controllo di sé, quindi sorseggiò il vino e assaggiò un dolcetto. «Il terzo pianeta è definito Luna della Morte, ma non ne conosco il motivo. Le Tre Lune sono connesse tra loro e con questo mondo tramite viadotti. È attraverso uno di essi che due anni fa sono riuscito a fuggire. Come non ha importanza. Per quanto strano sembri, l'Arcimago del Firmamento non ha mai tentato di ricatturarmi... del resto, è matto.» «Perché dici questo?» «Per il modo in cui si comporta. Conversa coi morti e rimprovera se stesso per delle colpe imprecisate. Altre volte sembra del tutto inconsapevole di cosa accade attorno a lui, come fosse in trance. Nel corso della mia prigionia, è stato premuroso, addirittura gioviale, permettendomi di andare a zonzo per la Luna e di studiare i suoi strani tesori. Ma di quando in
quando, per ragioni che non riuscivo a capire, si metteva a gridare volgari imprecazioni e minacciava di esiliarmi sulla Luna della Morte, affermando che tutti i membri della Società della Stella non meritavano altro che morire sotto tortura. Questi raptus di furia insensata erano tanto più preoccupanti in quanto fino a un attimo prima era stato un modello di ragionevolezza.» «E così sei fuggito», commentò lei con tono piatto. «E per due anni sei stato... dove?» Ma Orogastus si limitò a scuotere il capo sorridendo. «So che sei alla ricerca del quartier generale della mia corporazione, come tua sorella Kadiya. Ma quando scoprirai il luogo in cui abitiamo, il saperlo non ti servirà a nulla. La Società della Stella è rinata per assistermi nella realizzazione del mio grande obiettivo.» Lei lo fissò con aria ferma e malinconica. «Dunque eccoci al nocciolo della questione, Maestro della Stella. Quale sarebbe il tuo obiettivo? Tu e i tuoi adepti intendete forse conquistare il mondo nell'interesse dei tuoi Poteri Oscuri? Il barbaro imprigionamento della povera Iriane sarebbe un avvertimento del destino che mi infliggerai se mi opporrò a te?» Invece di rispondere, l'uomo si versò dell'altro vino e bevve. Quindi disse: «Tu porti con te il mio ritratto, Haramis. Perché?» «Perché sono una sciocca», ribatté lei. «Ma a dispetto di me stessa, sono vincolata e decisa a svolgere il mio solenne dovere di Arcimaga della Terra e Petalo del Giglio Vivente... quale che sia il prezzo personale. E questa volta, se il mio ufficio prevedesse la tua distruzione, non esiterò.» Da una tasca interna estrasse il dipinto che raffigurava lo stregone e glielo lasciò vedere per un attimo, poi si alzò con improvviso vigore, dirigendosi rapida al caminetto, e gettò la miniatura d'avorio tra le fiamme. Lui chinò il capo, e quando riprese a parlare aveva la voce malferma. «Io ti amo, Haramis. Devi credermi. Devi credermi anche quando ti dico che le mie intenzioni riguardo a questo nostro mondo non sono malvagie né egoistiche.» Lei continuava a voltargli le spalle, gli occhi fissi sul ritratto che anneriva. «Vorrei poterti credere.» «Ho imparato molto mentre ero prigioniero di Denby, sullo squilibrio mortale che minaccia il mondo, su me stesso, sul motivo per cui esisto e su di te. Tu pensi che il compito della tua vita sia inevitabilmente legato a quello delle tue sorelle. Io dico che il tuo destino va molto al di là delle loro insignificanti preoccupazioni, come il sole è superiore ai bruchi-lume
della Palude Labirinto.» Aprì la borsa che portava in vita e ne tolse una seconda Stella. Mentre gliela tendeva, i gioielli incastonati nella catena presero a risplendere. «Questa è per te.» Lei si voltò e guardò il medaglione, i lineamenti irrigiditi per il turbamento. «Mai!» «Insieme, possiamo salvare il mondo. Haramis, tesoro, tu e io utilizziamo una magia trascendente. Siamo più simili di quanto ci siamo mai resi conto. Basta guardarci allo specchio! Sono i nostri occhi a rivelarlo. Denby Varcour ha i medesimi occhi argentei, identici. E lo stesso la donna che amava, la cui mano ormai morta ha favorito la mia fuga. Noi siamo della stirpe degli Scomparsi! Ma non capisci cosa deve significare tutto questo?» Ci volle qualche minuto prima che Haramis riuscisse a replicare. «L'Azzurra Signora del Mare, mia carissima amica, è stata anche colei che mi ha istruita nelle alte arti magiche. Mi ha insegnato tutto ciò che sapeva, dando così a me l'incarico di ripristinare l'equilibrio del mondo, dopo il caos provocato da te e dai tuoi crimini. Le mie sorelle hanno subito affermato di volermi aiutare, ma ho sempre creduto che la responsabilità principale ricadesse indubbiamente su di me. Con tutti i miei dubbi, ancora dilaniata tra l'amore per te e il mio dovere, mi sono recata dal Sindona chiamato il Maestro, che mi ha fornito un'ultima preziosa indicazione: 'L'amore è permesso, la devozione no'.» Lui sorrise, offrendo di nuovo la seconda Stella appesa alla catena ingemmata. «Enigma affascinante. Che mi lascia almeno una piccola speranza.» Ma Haramis scosse il capo, parlando in tono basso ed esitante. «Ho udito Iriane ripetere l'aforisma nell'orribile istante in cui il Fiore ti ha sconfitto e il Fulcro ti ha trascinato via da questo mondo. Per tutti questi anni in cui ti ho creduto morto e dannato per la tua malvagità, ho meditato su quelle parole, incapace di scoprirne il significato. Soltanto adesso, sapendo che sei vivo, sono in grado di trarre nuove indicazioni e forza dall'affermazione del Maestro... da quella massima misteriosa e terribile che a chi la medita non riserva un dolce sollievo ma soltanto la fredda soddisfazione del dovere portato a compimento.» Si avvicinò al tavolino e gli tolse di mano la Stella di Nerenyi Daral, che lasciò cadere sul tappeto per allontanarla col piede. «Comprendi il significato dell'enigma, Maestro della Stella?» Lui balzò in piedi e la afferrò con un'emozione simile alla ferocia. «Io
comprendo solo il mio amore per te... e il fatto che anche tu mi ami!» «Sì», replicò lei. «Io ti amo.» Le pupille dei suoi occhi si erano dilatate, e nel centro di ognuna brillava un puntino di bianco fulgore. «Haramis!» gemette lo stregone, e anche nel suo sguardo abbassato sulla donna sfavillavano due fiamme gemelle di luce stellare. La forza dell'abbraccio iniziale era stata addirittura dolorosa, ma poi il contatto si era addolcito e l'Arcimaga sentì le sue mani cullarle la testa. Il viso di lui si chinò e le loro labbra si unirono. Per un tempo imprecisato l'unico suono udibile nella stanza fu lo scoppiettare del fuoco nel grande camino. Ma alla fine il bacio terminò e la luce ineffabile diminuì e scomparve. Gli occhi di entrambi vedevano di nuovo il mondo reale. Lui emise un vibrante sospiro. Lei pronunciò il suo nome per la prima volta. Lasciò ricadere il capo contro il petto dello stregone, che appoggiò la guancia sui suoi morbidi capelli neri, e restarono insieme così, immobili, finché Haramis si liberò dalla stretta e si allontanò. Il suo viso era calmo, quasi triste. «L'amore è permesso», mormorò. «La devozione no.» «Ma cosa significa?» La voce dell'uomo era aspra per la preoccupazione. «Significa che non può esserci più di questo, Orogastus. Nessuna consacrazione apertamente dichiarata di uno all'altra. Nessuna unione all'interno della tua Stella. E, soprattutto, nessuna reciproca venerazione fisica... perché è questo che implica la devozione.» «Puoi negare la speciale magia che abbiamo creato insieme?» gridò lui, stringendole le mani. «Questo è solo l'inizio, Haramis! Tu e io...» «Siamo avversari», intervenne lei, ponendo di nuovo fine al contatto e voltandogli le spalle. «Noi siamo antagonisti, come lo erano i defunti campioni degli Scomparsi e l'antica Società della Stella. Io sono al servizio del genere umano e del Popolo, obbligata a guidarli e assisterli con la mia magia. Tu e i tuoi seguaci adorate i Poteri Oscuri e non esitate di fronte a nessuna azione malvagia che possa favorire i vostri piani.» «Tu non capisci! Le cose non stanno più così. Perché non lasci che ti spieghi...» «Io capisco che Iriane sta sopportando una morte in vita. Capisco la provocazione degli Skritek da parte di un tuo adepto e le sofferenze inflitte agli inoffensivi Nyssomu a causa di questo. Capisco che disponi di armi terribili che la tua corporazione ha usato nella gratuita e spietata uccisione di Lercomi innocenti. E non dubito che tu e i tuoi scagnozzi siate colpevoli di
altri crimini che non sono ancora stati portati alla mia attenzione.» Si girò per guardarlo in volto. «Mi sbaglio?» «Al momento opportuno Iriane verrà liberata», rispose lui. «Mi dispiace molto della morte di parte del piccolo Popolo delle Onde. I miei seguaci appartengono a una nazione che li crede animali privi di anima e non sempre io sono in grado di controllarli. Ma ho fatto in modo che nessun Nyssomu venisse ucciso dagli Affogatori...» «Libera subito la Signora Azzurra», implorò Haramis. «Distruggi le antiche armi che hai raccolto. Abbandona il progetto di conquistare il mondo.» «Non posso», replicò lui, «perché è parte di un mio più grande piano inteso a salvarlo! Ignorando la realtà della situazione, Iriane mi avrebbe ostacolato, e lo stesso dicasi per i governanti delle nazioni che non fossero obbligati a eseguire i miei ordini.» «Qualunque persona pensi con rettitudine ti ostacolerebbe!» disse Haramis con voce tonante. All'improvviso il talismano era di nuovo nelle sue mani. «Sapevo che saresti venuto qui, Orogastus. Sapevo che avresti tentato ancora di convincermi, come già avevi fatto. Decidere come agire mi ha strappato il cuore dal petto e forse ha condannato all'inferno la mia anima, ma ho giurato che non te ne saresti andato da questa Torre per riprendere la tua opera malvagia. Non finché è in mio potere evitarlo.» Una subitanea nuvola di fumo, più nera della mezzanotte, avvolse l'Arcimaga. Mentre lo stregone arretrava, stupito da quel repentino cambiamento, l'oscurità prese a vorticare e si riunì formando tre grandi petali, che divennero un'incombente sagoma tripartita alta fino al soffitto della biblioteca. Un Giglio Nero. La donna si fece avanti dal centro del Fiore, sollevata dal pavimento, avvolta e incappucciata da un biancore lucente che sembrava combinare in sé tutti i colori dell'arcobaleno. Nella mano destra tenuta alta stringeva il Cerchio dalle Tre Ali che circoscriveva un vuoto nero da cui lo stregone non riusciva a staccare gli occhi. Di colpo il vuoto si espanse, come fosse una grande finestra tonda spalancata su una notte senza lune e senza stelle, a nascondere la sagoma luminosa dell'Arcimaga, anche se il suo fulgore permaneva all'interno del fumo ribollente. Lei non parlò, tuttavia lo stregone si sentì spinto a entrare nel Cerchio, quasi fosse un viadotto che conduceva all'eternità. «No!» gridò Orogastus, incapace di accettare il fatto che lei potesse re-
almente minacciarlo di morte quando era rimasto indifeso al suo cospetto per l'amore e la fiducia che provava. «Haramis, non puoi farlo!» Il Cerchio si allargò ulteriormente, nascondendo alla vista gli scaffali della biblioteca, i mobili, il grande camino di pietra, inghiottendo persino la luce della stanza. Lo stregone restò circondato dal fumo luccicante, sempre più vicino a quel prodigio, magnetico e terribile, che lo obbligava a entrare nella notte senza fine. Aveva paura. Una paura mortale. Eppure, mentre lo spaventoso Cerchio continuava ad avanzare, la sua preghiera non fu rivolta ai Poteri Oscuri ma a lei. «Haramis. Haramis, tesoro mio! Non puoi non rispettare la nostra tregua, tradire il tuo giuramento di Arcimaga... il nostro amore. Lasciami andare!» So che è scorretto distruggerti in questo modo, Orogastus. So di averti mentito e di aver mancato alla parola data. Ma agendo così posso risparmiare al nostro mondo grandi sofferenze... forse addirittura evitarne l'annientamento. Senza di te, la tua Società della Stella fallirà e scomparirà. Finalmente regneranno pace ed equilibrio. «Mio diletto amore, sei tu a voler perpetrare questo mostruoso tradimento, o è quel perfido talismano? È stato lui a tentarti perché sovrapponessi il tuo volere al fato? Denby Varcour conosceva il pericolo nascosto nello Scettro del Potere! Ha discusso a lungo con Binah e Iriane perché era contrario a che tu e le tue sorelle possedeste le parti di quel crudele strumento, benché diviso rispetto alla sua triplice interezza. Lo sai perché? Perché i talismani sono in grado di possedere i loro possessori!» Haramis stava in silenzio, nascosta. L'immenso Cerchio si avvicinò ancora, fino a librarsi a un dito di distanza dal corpo pietrificato dello stregone. Al di là, il nulla. L'estinzione. Un altro istante e sarebbe scomparso. L'avrebbe consegnato al vuoto senza fine, pensando che, calpestando la propria coscienza, avrebbe operato per un bene superiore. All'estremo della disperazione, lo stregone si rivolse di nuovo direttamente a lei: «Non fidarti né di te stessa né del talismano! Chiedi al tuo Fiore se è questo che devi fare. Domanda al Giglio Nero se è giusto che io muoia così! Interroga il Fiore per sapere se è il modo per risanare il mondo!» All'improvviso, divenne cieco. Il Cerchio mi ha inghiottito, pensò, e sono solo nell'oscurità, per sempre, senza nient'altro che la mia anima a mostrarmi in continuazione i miei pec-
cati. Perché non mi ha ascoltato? Perché non ha lasciato che le spiegassi... Poi la udì piangere. Sentì il calore del fuoco. Percepì l'aroma del vino e l'odore delle antiche rilegature dei libri, della carta e della pergamena. Aprì gli occhi e la vide, accasciata a faccia in giù sul tappeto davanti al camino. Il Cerchio appeso alla catena che portava al collo era un vuoto anello d'argento, ma in cima a esso l'ambra del giglio brillava come un minuscolo sole con le ali. Stordito per il sollievo, riusciva soltanto a starsene immobile, senza quasi osare respirare, a guardarla. Dopo qualche minuto, lei si sollevò e si mise a sedere in mezzo alle pieghe del suo mantello da Arcimaga. «Come ho potuto?» gli chiese, parlando più da bambina che ha affrontato qualcosa di orribile che da donna pentita. «Sacro Fiore, come ho potuto vagheggiare un simile disonore, anche solo per un istante? E senza allo stesso tempo smettere di amarti?» «La risposta sta nelle tue mani», le disse lui con tono serio. Haramis abbassò lo sguardo sul talismano. «Non ti credo.» Ma aprì le dita e lasciò cadere il Cerchio dalle Tre Ali, che ondeggiò dalla catena. A quel punto Orogastus riprese a parlare. «Mentre ero prigioniero di Denby, ho scoperto alcune cose riguardo allo Scettro - riguardo alla magia dei tre talismani - che dovrai accettare e affrontare, Haramis. Lascia che ti spieghi...» «Vattene!» replicò lei con voce roca per la disperazione. Aveva gli occhi pieni di lacrime. «Sei sempre stato un bugiardo e un manipolatore, e adesso sono diventata anch'io come te. Iriane e il Maestro si sbagliavano. Il nostro amore è una cosa deprecabile e io lo sradicherò dal mio cuore, a costo di morire!» Cercò di rialzarsi ma le gambe non la reggevano, quindi fu lui ad aiutarla. E prima che potesse protestare, la baciò fuggevolmente sulle labbra. «Ne riparleremo», le disse, «quando avrai meditato con calma su ciò che è accaduto oggi. E quando altri fatti avranno contribuito a chiarirti le idee.» «Vai via!» gridò lei, mettendo tra loro il Cerchio che teneva con le mani tremanti, gli occhi chiusi stretti stretti per evitare che sgorgasse un nuovo fiume di lacrime. «Via!» Lo stregone raccolse gli abiti che si era tolto e la seconda Stella, rimise al collo il suo medaglione e se ne andò.
9 Lummomu-Ko, Portavoce di Let, capo del Popolo Wyvilo e amico devoto della Signora degli Occhi, si era adoperato volentieri per procurare a lei e alla sua squadra un passaggio a bordo di una chiatta di proprietà di suo cugino e diretta a valle lungo il Grande Mutar. Nonostante le proteste di Kadiya, aveva insistito per accompagnarla fino alla capitale di Var, che si trovava alla foce del fiume sulla costa meridionale della Penisola. Durante i giorni trascorsi in viaggio, Kadiya era stata nervosa e irritabile, e quando l'Arcimaga era giunta da lei in Proiezione, Lummomu aveva atteso per oltre un'ora nella tuga di prua mentre le due sorelle discutevano in privato. Quando finalmente la Signora degli Occhi era emersa da sottocoperta, il Wyvilo aveva sentito un tuffo al cuore. Il corpo di lei era teso per la rabbia repressa e il viso impolverato mostrava inequivocabili tracce di lacrime ormai asciutte. «La Proiezione della Bianca Signora portava notizie davvero brutte», annunciò Kadiya. «Devo parlare immediatamente con Wikit-Aa.» «Mio cugino è al timone», replicò Lummomu. «Vieni con me e stai attenta a dove metti i piedi.» Da dietro, il capo Wyvilo aveva l'aspetto di un uomo molto alto, di corporatura robusta, ma la notevole quantità di sangue di Skritek che aveva nelle vene gli dava un viso appuntito come il muso di un animale, con temibili denti bianchi e prominenti occhi dorati con pupille verticali. Collo e dorso delle mani erano in parte scagliosi e in parte coperti di corti peli rossi. Seguendo la passione del Popolo della Foresta per fronzoli e ornamenti umani, il Portavoce di Let era vestito in modo sontuoso. La cappa impermeabile era di morbida pelle marrone con decorazioni dorate impresse a rilievo sul bordo del cappuccio e sul fondo. Indossava pantaloni e giacca di broccato color ocra sotto un corpetto senza maniche di cuoio di milingal verde smeraldo. Gli stivaloni in tinta avevano la suola alta e speroni coriacei, anche se non era mai montato in sella a un fronial in vita sua. L'insieme era completato da una luccicante bandoliera tempestata di pietre preziose e da un vistoso fodero di fattura zinoriana. A uno sguardo non allenato, la giovane donna che seguiva lo splendido aborigeno sarebbe parsa niente più che una serva. Era vestita di semplice lana grigia e cuoio nero graffiato, e soltanto la magnifica spada e il portamento baldanzoso lasciavano intendere che fosse lei a capo della spedizio-
ne. Con molta cautela Kadiya e Lummomu si diressero verso la poppa della grande imbarcazione girando attorno a casse, cesti e barili che facevano parte del carico, sul ponte reso sdrucciolevole e pericoloso dalla pioggia incessante. La nebbiolina offuscava l'aria e rendeva quasi invisibili i lontani argini del fiume, al punto che l'avanzata della chiatta in mezzo alla corrente pareva illusoriamente lenta. Ma il Grande Mutar era già in piena, e l'imbarcazione commerciale aborigena filava tra le acque turbolente e marrone veloce quasi come un corriere al galoppo. Era previsto che raggiungessero la foce del fiume, e Mutavari, la capitale varoniana, entro altri nove giorni. Mentre oltrepassavano la cabina illuminata, Kadiya scorse il giovane principe Tolivar e il suo grande amico Ralabun oltre gli spessi vetri tondeggianti degli oblò. Stavano guardando i Compagni Fedeli e i membri dell'equipaggio Wyvilo fuori servizio giocare una partita dopo l'altra di ballaossa per alleviare la noia. Già parecchi anni prima Jagun aveva constatato che lui e Ralabun non avevano molto in comune, quindi preferiva passare la maggior parte del tempo libero con Wikit-Aa, lo skipper Wyvilo. Kadiya e Lummomu trovarono i due nella piccola tuga di poppa, che per il timoniere costituiva una misera protezione dalla furia degli elementi. Un po' stipati, i quattro divisero il riparo. Jagun vide l'espressione scoraggiata sul viso della Signora e mormorò: «Allora ci sono brutte notizie, Lungimirante?» «Si è verificato un disastro rivelatore», rispose la donna, e cominciò a raccontare come la regina Anigel fosse stata trascinata nella palude allagata vicino al fiume Virkar. «I guerrieri di Antar e i perlustratori Nyssomu che accompagnavano l'entourage reale l'hanno cercata per due giorni. Hanno salvato Immu, che era stata spazzata via dall'acqua insieme con la regina, ma della mia povera sorella non hanno trovato traccia.» «Di certo il talismano della Bianca Signora...» prese a dire Jagun. Ma Kadiya scosse il capo. «Non mostra dove si trovi Ani, né rivela alcunché riguardo alle sue condizioni, neppure se sia viva o morta. Senza dubbio è in azione la magia nera.» Jagun, Lummomu e Wikit-Aa chinarono il capo e intonarono insieme: «Possano il Triuno e i Signori dell'Aria avere pietà». Kadiya continuò. «Dopo che il Sentiero della Regina si è spaccato - forse per colpa dei fulmini, ma più probabilmente a causa della stregoneria
degli Uomini della Stella - il convoglio reale è dovuto rientrare alla Cittadella di Ruwenda, e sarà impossibile riparare la strada prima della Stagione Secca.» «Ma le ricerche della povera regina continuano?» domandò Lummomu. «Sì», rispose Kadiya, «con rinforzi provenienti dal Castello di Bonar e dagli insediamenti Nyssomu della zona. Ma potrebbe essere tutto inutile. Appena prima che mia sorella scomparisse, dalla carovana reale era stata inviata una squadra di guerrieri a guardia dell'ingresso di un viadotto posto accanto alla palude, ed è sparita anche quella.» «Per il Sacro Fiore!» esclamò Jagun. «Allora è praticamente certo che gli Uomini della Stella li abbiano rapiti tutti attraverso il viadotto!» «Sicuro come le fasi delle Tre Lune», commentò Kadiya con una smorfia. «E la potente Bianca Signora afferma di non poterci fare niente. Niente! È stata ad amoreggiare con quel bastardo di Orogastus, che in qualche modo l'ha turbata, e adesso dice che deve pensare alle varie alternative prima di agire! E mentre lei esita, la mia povera sorella incinta e gli altri potrebbero morire... o patire torture. Quindi andrò io stessa a salvarli, dato che Haramis rifiuta di farlo. Dobbiamo tornare immediatamente indietro.» «Signora, no!» esclamò il capitano Wyvilo, la voce colma di sgomento. «Voi non capite la difficoltà...» «Ormai ho deciso, Wikit-Aa», ribadì Kadiya. «Sarai ampiamente rimborsato per qualunque perdita.» «Non è questo il punto», replicò Wikit. «Sarei felice di sacrificare il mio carico se servisse a salvare la regina vostra sorella, ma per tornare a Let per la via da cui siamo venuti, contro la corrente del Grande Mutar in piena, occorrerebbero non meno di due volte dieci notti. Forse addirittura tre.» «E poi ci sono ancora nove giorni di viaggio, se non più, da Let al Castello di Bonar passando dalle Cascate di Tass, per arrivare al lago Wum e infine alla strada nella palude. Dopo così tanto tempo, come puoi sperare di trovare viva la regina se persino la Bianca Signora ha fallito?» intervenne Lummomu-Ko. «Li cercherò finché il Ghiaccio Vincitore non avrà gelato i dieci inferni!» sbottò Kadiya. «Quanto a come... la soluzione mi è apparsa qualche attimo dopo che era svanita la Proiezione dell'Arcimaga. Andrò nel luogo in cui si trova lo sbocco del viadotto con una squadra di guerrieri coraggiosi e ordinerò al passaggio di aprirsi usando le parole che la Bianca Signora mi ha insegnato. Ovunque conduca il viadotto, io e i miei compagni
andremo... e all'altra estremità troveremo il nascondiglio degli Uomini della Stella, la regina e le altre persone che tengono prigioniere.» «La tua reale sorella potrebbe già essere morta», disse pacato Jagun. «Anigel è viva!» insistette Kadiya. «Siamo Figlie del Triplice, Petali del Giglio Vivente. Lo saprei, se fosse spirata. Wikit-Aa, ti ordino di tornare indietro.» «Signora degli Occhi», disse allora lo skipper Wyvilo, «dovete capire che questa imbarcazione non è adatta a navigare contro una corrente così forte. E poco più che una massiccia zattera con due alloggiamenti gemelli sul ponte, come si addice a un natante che deve essere in grado di sopportare l'avversità di rapide violente e i continui colpi dei detriti galleggianti trasportando più merce possibile. Una volta arrivati nella capitale di Var, dopo avere sistemato il carico, siamo soliti vendere la chiatta come legname. Il viaggio di ritorno lo facciamo a bordo di piccole canoe varoniane che spingiamo con le pagaie lungo le secche.» «Allora devi far sbarcare me e i miei cavalieri al villaggio più vicino», ribatté Kadiya. «Mi procurerò un'altra piccola imbarcazione e dei barcaioli che ci riportino a Ruwenda. Il principe Tolivar e Ralabun resteranno con voi e prenderanno la nave a Mutavari come previsto.» «Non ci sono villaggi umani da queste parti», le spiegò Wikit. «Prima della Tregua della Palude, la gente di Var aveva troppa paura del selvaggio Popolo Glismak che abita nei dintorni per considerare la possibilità di usare il Grande Mutar come via commerciale. Persino noi Wyvilo evitavamo la parte bassa del fiume che attraversa il territorio tribale Glismak, e questo c'impediva il commercio coi varoniani. Adesso, ovviamente, i mercanti di Mutavari sono ben felici di dare il benvenuto alle nostre barche, ma d'insediamenti umani lungo il fiume in pratica non ce ne sono, a causa del carattere instabile dei Glismak. Qui esistono soltanto rozzi avamposti dove gli agenti mandatari delle compagnie di Mutavari trattano coi cacciatori di animali da pelliccia e i cercatori d'oro delle tribù.» Gesticolò rivolto alla riva destra, quasi del tutto nascosta dalla nebbia. «C'è un posto di scambio di questo tipo, nei dintorni, ma è un luogo disgustoso...» «Accosta», ordinò Kadiya, «e riesamineremo la situazione.» Era mezzogiorno quando la chiatta attraccò. Il mandatario varoniano a capo del lugubre avamposto era un tipo barbuto assai tracagnotto di nome Turmalai Yonz. Indossava sudici indumenti di pelle scamosciata e aveva modi entusiastici che suscitavano più di un sospetto. Quando Kadiya e la
sua squadra scesero a terra, li accolse cordialmente e portò tazze di salka, il sidro amaro che era la bevanda nazionale di Var. Fatto questo se ne andò, con la promessa di controllare la disponibilità di barche leggere dotate di equipaggio. La giornata si mantenne buia e triste, con la pioggia incessante che s'infiltrava attraverso il tetto malmesso del porticato annesso alla squallida abitazione del mandatario. Kadiya, Lummomu, Jagun, Wikit e lord Zondain, il più anziano dei sei cavalieri appartenenti ai Compagni Fedeli, sedevano su sgabelli grezzi a un tavolo traballante. «Perlomeno l'agente sembrava ottimista riguardo alla possibilità di esserci utile», commentò lord Zondain in tono speranzoso. «Anche se non posso certo dire che quel tizio mi piaccia molto.» Il cavaliere era un uomo robusto i cui radi capelli stavano già ingrigendo. Era nativo di Dylex, nel nordest di Ruwenda, e anche i suoi fratelli più giovani, Melpotis e Kalepo, facevano parte della squadra che accompagnava Kadiya e al momento erano rimasti a bordo della chiatta insieme con gli altri tre cavalieri. «Questo Turmalai ha un sorriso da brigante», aggiunse il piccolo Jagun aggrottando le sopracciglia. «Ho visto quelli come lui muoversi furtivi nella zona portuale di Derorguila e alle fiere campionarie di Trevista. Ti promettono qualunque cosa, ma quanto alla consegna è tutta un'altra storia... specialmente se hai pagato in anticipo.» «Dubito che in questa miserabile tana di pelrik si possa reperire un'imbarcazione bene equipaggiata», brontolò Lummomu-Ko. Aveva osservato l'attività che si svolgeva sul molo con crescente preoccupazione, dato che poteva scorgere diverse figure gironzolare attorno al vascello Wyvilo. «Gli umani di queste regioni sono poveri e senza leggi, e gli onesti mercanti di Mutavari li disprezzano profondamente.» «Verissimo», ribadì Wikit-Aa. «Inoltre questa gente del fiume odia il Popolo Wyvilo, perché noi siamo dei gran lavoratori e quindi siamo più ricchi. Non ci fermiamo mai in questi tristi avamposti, se appena possiamo evitarlo. E vi dico in tutta sincerità che sarebbe saggio andarcene da qui al più presto.» Si picchiettò il muso con un dito artigliato. «Mi prude il naso, e tra gli Wyvilo questo significa guai in vista.» «Devo trovare il modo di tornare a Ruwenda!» Kadiya era irremovibile. «Non mi serve una trireme reale, giusto tre o quattro canoe per portare me, Jagun e i cavalieri...» «E me», aggiunse Lummomu. «Hai bisogno di una guida fidata per attraversare la regione dei Glismak, ed è ben difficile che tu possa trovarne
una qui.» Wikit-Aa tracannava salka con la naturalezza di chi ha molta pratica. «Per la Signora e la sua squadra si prospetta una condizione alquanto incerta anche col tuo ragguardevole aiuto, cugino. Non sarebbe più sensato continuare a scendere via fiume sino a Mutavari e da lì imbarcarsi insieme col giovane principe su una nave che faccia rotta attorno alla Penisola fino a Labornok?» «Si impiegherebbe più tempo che a risalire il fiume», replicò Lummomu, «a causa della grande distanza e dei venti contrari in questo periodo dell'anno.» «E poi da là dovremmo viaggiare via terra da Derorguila a Ruwenda per raggiungere il viadotto», intervenne Kadiya, «superando il Passo Vispi. Coi primi monsoni, potremmo anche trovare il valico innevato, ora che ci arriviamo. No, sono decisa a tornare risalendo il Mutar.» La cedevole porta della casetta si aprì scricchiolando e apparve il mandatario sorridente con un vassoio su cui si trovavano una zuppiera di terracotta fumante, una pila di ciotole sbeccate e una serie di cucchiai di legno. «Nobili ospiti! Questa umile persona vi prega di condividere dello stufato di karuwok appena fatto. Anche se gli utensili sono modesti, troverete il piatto delizioso e adatto a scaldare lo stomaco in una giornata tanto malinconica.» Kadiya aggrottò le sopracciglia. «Questo è davvero molto cortese da parte tua, agente mandatario Turmalai, ma non abbiamo ordinato del cibo.» L'uomo barbuto ridacchiò e si mise a disporre le ciotole. Fece un cenno a un paio di giovani alti e trasandati che erano emersi da una porta sul retro e stavano portando un calderone col coperchio e un grande orcio di salka coperto di vimini lungo il sentiero che conduceva al fiume. «Mi sono preso la libertà d'inviare i miei figli con degli spuntini per i vostri compagni sulla barca. Il costo sarà modico, ve l'assicuro. Mentre mangiate, i miei soci si stanno occupando della vostra richiesta di piccole imbarcazioni con rematori.» «Dall'odore sembra mangiabile», ammise lord Zondain, annusando la porzione di stufato che gli era stata messa nella ciotola, «e per quel che mi riguarda, sono affamato.» «Splendido!» Il mandatario si sfregò le mani e sorrise. «Porterò dell'altra salica.» E detto questo rientrò di corsa nell'abitazione. Kadiya fissava il suo piatto senza entusiasmo, ma Zondain stava già mangiando a quattro palmenti. «Buttatevi!» li esortò il Compagno Fedele.
«È davvero buono.» Jagun sollevò il cucchiaio e avvicinò la lunga lingua al contenuto. Gli occhi gialli gli uscirono dalle orbite e si mise a sputare, schizzando in piedi e rovesciando il tavolo in modo che le ciotole, i bicchieri di salica e la zuppiera con lo stufato si sparpagliarono sulle assi marce della veranda. «Sacro Fiore... è corretto con radice di yistok! Non mangiatelo!» Kadiya, Lummomu-Ko e Wikit-Aa lanciarono lontano i loro cucchiai e balzarono anch'essi in piedi, portando la mano alle armi. Ma lord Zondain restava seduto sullo sgabello, la testa ciondoloni sul petto. «Avvelenato!» gridò la Signora degli Occhi. «Oh, quell'infido ammasso di sterco di worram! Lummomu, fa' quanto puoi per il povero Zondain, poi sistema le cose con Turmalai. Voialtri... con me alla barca!» Si precipitò lungo il sentiero, la grande spada d'acciaio che scintillava nella pioggia, con lo skipper Wyvilo e Jagun al seguito. La zona del molo era un insieme disordinato di baracche traballanti, balle di pelli di animali e cuoio, legname ammassato con trascuratezza e imbarcazioni tirate in secco. Era chiaro che i figli del mandatario si trovavano a bordo della chiatta di Wikit, mentre altri tre straccioni varoniani stavano a guardia della passerella di legno, uno armato di una sciabola arrugginita, gli altri con in mano lunghi coltelli. «Veleno! Veleno! Non mangiate il cibo!» gridò Kadiya ai compagni a bordo, mentre allo stesso tempo faceva roteare la spada in direzione dell'uomo con la sciabola. Questi parò il colpo in modo goffo, quindi corse verso di lei nel tentativo di spingerla giù dalla passerella, e farla finire nelle rapide acque del fiume. Ma Kadiya si spostò di lato e allungò un piede. Mentre il varoniano, urlando, perdeva l'equilibrio, lei lo colpì alla base del collo con la pesante elsa della spada. L'uomo precipitò in acqua con un gran tonfo e venne portato via dalla corrente. Wikit-Aa aveva già avuto la meglio sul suo avversario umano, trapassandolo con una sottile lama di acciaio zinoriano. Il suo muso si aprì in un orribile ghigno di trionfo. «Vado a vedere cosa succede a bordo!» urlò, e saltò nella barca precipitandosi verso la tuga di poppa da cui provenivano rumori di battaglia. Kadiya ruotò su se stessa per aiutare Jagun. In un attacco, il piccolo Nyssomu aveva ferito il braccio sinistro del suo assalitore, ma il furfante era riuscito a far indietreggiare l'Oddling in un vicolo cieco formato da due enormi balle di cuoio di tarenial. Pregustando lo spargimento di sangue, l'uomo ridacchiava, e stava sollevando il braccio per sferrare una coltellata
alla gola di Jagun quando Kadiya gli troncò di netto l'arto sotto il gomito. Il varoniano cadde urlando in un lago di sangue. Proprio in quel momento una figura umana precipitò fuori della finestra della tuga con gran fragore. Si trattava di uno dei figli del vile mandatario, che andò a colpire l'orlo di murata dell'imbarcazione, restandovi aggrappato in modo precario per qualche istante. Quindi scivolò strillando nel fiume, quando un cavaliere si sporse dall'oblò e lo colpì con forza con una spada insanguinata. Dall'interno giunsero sonore acclamazioni. Un altro dei Compagni Fedeli, sir Bafrik, si affacciò alla porta della tuga e gridò: «Quei bastardi li abbiamo sistemati, principessa! Come ve la passate lì?» «Che qualcuno di voi vada alla casupola! Controllate se Lummomu ha bisogno di aiuto.» Mentre parecchi cavalieri si allontanavano di corsa, tornò a occuparsi del varoniano ferito, che aveva un colorito cinereo e se ne stava seduto stringendosi il braccio sanguinante. «Vuoi morire, canaglia, o devo curarti la ferita?» «Vi... vi prego, clemente Signora», mormorò. Non pioveva più e faceva quasi scuro. Sir Bafrik e sir Sainlat trasportarono fuori un giovane imbrattato di sangue e senza tante cerimonie lo scaraventarono sul molo accanto al morto, dove rimase sdraiato e quasi privo di sensi. Il principe Tolivar uscì strisciando dalla tuga insieme col Nyssomu Ralabun per osservare la scena. Entrambi sembravano storditi dal terrore. Wikit-Aa diede rapidi ordini al suo equipaggio, quindi si avvicinò a Jagun e se ne stette impassibile a guardare Kadiya che assisteva il ferito. La Signora degli Occhi usò la cintura dell'uomo come laccio emostatico, che arrestò il mortale zampillare di sangue, mentre il suo fazzoletto quasi pulito servì a fasciare il moncherino. «Avete della resina di halaka tra le vostre scorte?» domandò al paziente una volta finito il bendaggio. «È l'unica cosa davvero utile per curare questo genere di tagli.» «Io non... non lo so», mormorò l'uomo. «Il mandatario Turmalai tiene sotto chiave quel tipo di farmaci.» «Se non ce ne fosse dovrei cauterizzare la ferita col fuoco», ammonì Kadiya, «altrimenti morirai di cancrena. In piedi, dunque. Lo skipper e io ti aiuteremo a raggiungere la casupola.» Seguiti da Jagun, lei e Wikit sorressero il varoniano con un braccio solo, che era sul punto di avere un collasso, e lo trascinarono fino alla cadente stamberga del mandatario. Turmalai, che alternava imprecazioni urlate a squarciagola a singhiozzi, era stato legato a una solida sedia di legno e ve-
niva sorvegliato da Lummomu e da sir Edinar. Kadiya ordinò ai due Wyvilo di mettere il ferito in un'altra stanza e di occuparsi di lui come meglio potevano. A quel punto notò che sir Melpotis e sir Kalepo erano inginocchiati in un angolo, accanto a un giaciglio improvvisato: vi era sdraiato lord Zondain, che giaceva immobile e pallido come fosse stato di cera. «Come sta?» chiese Kadiya. Il giovane Melpotis scosse il capo. Aveva le guance madide di lacrime. «Signora», rispose invece Kalepo, «il nostro nobile fratello Zondain è passato serenamente nell'aldilà, elevato alla gloria dai Signori dell'Aria.» «Possa il Triuno garantirgli la pace», bisbigliò Kadiya. Per un istante abbassò lo sguardo sul Compagno morto, quindi risollevò piano gli scintillanti occhi marrone e li fissò sull'agente mandatario imprigionato, che non aveva smesso di lamentarsi rumorosamente. «Carogna infestata di vermi», lo apostrofò, avvicinandosi per affrontarlo. «La tua ospitalità consiste sempre nell'avvelenare gli invitati?» Turmalai Yonz non rispose, ma continuò a lagnarsi e a singhiozzare con forza per la perdita dei propri figli: prima di essere catturato e legato da Lummomu, aveva assistito alla lotta sul molo. «Puah!» esclamò con disprezzo Wikit-Aa. «Uno dei ragazzi ha solo perso i sensi per un colpo e ha riportato qualche piccola ferita, mentre l'altro, quello che è caduto fuoribordo, è stato visto raggiungere la riva una cinquantina di ell più a valle.» «I miei amati figlioli sono vivi?» gridò l'agente. «Sia lode a Tesdor il Compassionevole, il Donatore di Vita!» Kadiya afferrò qualche ciocca dei luridi capelli del mandatario e gli fece raddrizzare la testa con violenza. Nell'altra mano stringeva un pugnale. «Sei davvero fortunato, sacco di vomito di woth», commentò in tono colloquiale. «I tuoi mocciosi bastardi sono sfuggiti alla morte che avrebbero meritato.» La punta della lama punzecchiò la gola di Turmalai. «Ma tu affronterai il giudizio del tuo dio tra non più di due minuti se non rispondi con sincerità alle mie domande.» Il mandatario si dimenò ed emise un grido gorgogliante. «Perché hai avvelenato il nostro cibo?» chiese Kadiya. «Solo per pura cattiveria, al fine di derubarci, oppure... avevi altri motivi?» Gli occhi di Turmalai ruotavano disperati. L'acciaio affilato che aveva contro la gola fece sgorgare un sottile rivolo di sangue. «C'era... un'offerta», gracchiò. «Fatta a tutti noi che abitiamo lungo il fiume. Se fossimo riusciti a catturarvi, viva o morta, e a portarvi in un de-
terminato luogo prima delle prossime Lune piene, ci sarebbe stato un premio di un migliaio di corone di platino.» «Per i Sacri Speroni di Zoto!» esclamò sir Kalepo, dato che la cifra era davvero iperbolica. Lui e il fratello Melpotis abbandonarono un attimo il capezzale del fratello morto e si misero a fianco della Signora degli Occhi. «E chi ha promesso una tale incredibile munificenza?» domandò Kadiya con una smorfia, lasciando la presa dei capelli del mandatario e rinfoderando il pugnale. «Non è stato pronunciato alcun nome», rispose scontroso Turmalai Yonz. «Ci è stato comunicato soltanto il punto in cui dovevate essere condotta, nei pressi della Doppia Cascata che si trova nel tratto superiore del fiume Oda, che confluisce nel Mutar circa venti leghe a valle da qui. Non potevo credere alla mia buona fortuna quando vi ho vista scendere a riva.» Kadiya estrasse di sotto il mantello un pezzo di stoffa ripiegato, che aprì. «Sai leggere una mappa, sterco di qubar?» «Sì, Signora.» Lei indicò un fiume sul tovagliolo istoriato. «Questo è l'Oda. Il luogo in cui sarebbe stato pagato il premio per la nostra cattura è forse questo puntino rosso?» L'uomo guardò di traverso la stoffa che gli era stata spinta sotto il naso. «S-sì. Proprio quello. Dovevate essere condotta lì all'alba di una qualunque mattina della luna attuale, e avremmo trovato ad attenderci quelli che avevano messo la taglia.» «All'alba...» Kadiya annuì brevemente, poi rimise via la piantina con indicata la collocazione dei viadotti e si rivolse ai cavalieri. «Compagni, portate il corpo di lord Zondain al molo. Costruiremo la sua pira funebre con le merci di questo spregevole assassino.» «No!» gridò Turmalai Yonz. «Sarò rovinato!» «Ringrazia piuttosto», replicò sir Kalepo, «che non sarete usati come combustibile anche tu e i tuoi.» Lui, Edinar e Melpotis portarono via il cadavere. Lummomu e Wikit uscirono dall'altra stanza. «Abbiamo trovato la medicina», comunicò Lummomu, «e l'abbiamo applicata alla ferita di quel furfante. C'era anche una bottiglia di ottimo brandy di Galanar, che ha consumato per attenuare il dolore. Adesso è privo di sensi.» «Non gli avrete dato l'ultima roba buona rimasta?» gemette il mandatario. Wikit gli appioppò una manata sull'orecchio e quello si afflosciò, piagnucolando.
«Che dobbiamo fare di questa abominevole creatura, Signora?» Lemmomu domandò a Kadiya. «Lascialo legato alla sedia. Prima o poi qualcuno verrà a liberarlo, e se il ferito non muore, ci penserà lui quando, domani sul tardi, si sveglierà dall'annebbiamento dato dall'alcol.» «E che ne è del vostro desiderio di risalire il fiume?» chiese Wikit. «Ho visto che ci sono dei barchini che potrebbero servire allo scopo.» «Ho cambiato idea. Per favore, tornate alla chiatta e fate i preparativi per salpare. Jagun e io vi raggiungeremo tra poco.» Kadiya fece cenno all'amico Nyssomu di avvicinarsi e lui la seguì fuori nel buio. Si spostarono a lato della casupola e si misero sotto i rami gocciolanti di un grande ombako. «Vorrei che parlassi a mia sorella, la Bianca Signora», disse Kadiya all'aborigeno, «pregandola di mandarmi una sua Proiezione.» «Molto bene», replicò Jagun. Chiuse i luminosi occhi gialli, e mentre inviava la Chiamata nel linguaggio senza parole, il piccolo corpo divenne rigido come un ceppo di legno. Un attimo dopo, Haramis era là, così spettrale e immateriale che sarebbe stato impossibile scorgerla anche solo a pochi passi di distanza. Cosa c'è, Kadi? «Hai visto ciò che è accaduto qui?» No, rispose l'Arcimaga. Sono stata occupata con altre questioni. Kadiya le raccontò i fatti per sommi capi, e la Bianca Signora si agitò molto. Avrei dovuto prevederlo! Che sciocca sono stata. Era ovvio che avrebbero cercato di catturarti, dopo avere preso la povera Ani! «Per esercitare pressioni su di te?» domandò torva Kadiya. Senza dubbio. «E se Orogastus ti mostrasse Ani e me rinchiuse nel ghiaccio azzurro, tu gli daresti il tuo talismano?» No, disse l'Arcimaga. Kadiya sorrise. «Bene!... È chiaro che a questo punto non posso risalire il fiume seguendo le secche, non con ogni misero ghiozzo del Grande Mutar che mi aspetta leccandosi i baffi. Dovrò procedere come avevamo previsto inizialmente, andando fino a Sobrania.» Non molto tempo fa ho visto il giovane Uomo della Stella che aveva sobillato gli Skritek prendere una nave da Taloazin, in Zinora. Anche lui era diretto a Sobrania. Che il quartier generale della Società della Stella sia lì oppure no, si tratta quantomeno di un posto adatto per iniziare le indagini.
«Cosa facciamo per Ani? Io avevo deciso di entrare a cercarla nel viadotto della Palude Labirinto, che tu approvassi o no.» Non sarà necessario. Ho già stabilito di andarci io stessa. Prega per me, cara Kadi. La Proiezione scomparve, ma Kadiya restò a fissare la macchia di fogliame scuro dove era apparsa l'immagine di Haramis finché Jagun non le appoggiò una mano sulla spalla. «Lungimirante, stanno accendendo la pira di lord Zondian. Dovremmo esserci anche noi.» «Sì», sospirò, e si diressero insieme verso il molo sotto la pioggia uggiosa. Dopo qualche istante, la giovane disse: «Jagun, sei disposto ad accompagnarmi in un viaggio che potrebbe essere molto più pericoloso del trasferimento via mare a Sobrania?» «Lo sai che è così. E i cinque Compagni Fedeli ti daranno la stessa risposta. Dove andiamo?» «Ne parleremo dopo avere detto addio a Zondain», replicò la Signora degli Occhi. 10 Dopo la lotta nell'acqua gelida e il susseguente tuffo in un vuoto caratterizzato da un fragore continuo, per la regina Anigel ci fu un lungo intervallo di silenzio assoluto. Poi, lentamente, cominciò a riprendere i sensi. Si trovava sdraiata in una specie di veicolo che si muoveva sobbalzando e in molte parti del corpo provava un forte dolore che cresceva e diminuiva a ondate, annebbiando il passare del tempo e rendendo impossibile il pensiero razionale. Era consapevole della verde luce crepuscolare che s'insinuava tra le palpebre aperte per un istante, degli odori speziati della foresta e del canto di uccelli sconosciuti. Qualcuno le parlò, ma comprendere le parole era impossibile. Sprofondò di nuovo nell'incoscienza. Poi venne la notte, e udì degli zoccoli rumoreggiare sulla roccia nel buio. Il carro s'inclinò terribilmente, aggravando le sue ferite. Pianse di un'angoscia impotente sinché infine non si fermarono. Rozze voci maschili si unirono ai nitriti nervosi dei destrieri e degli animali da tiro, e ai suoi singhiozzi soffocati dalle coperte. Ogni respiro era come una pugnalata. Non riusciva a muovere la gamba destra e neppure il braccio sinistro. All'improvviso fu scossa dall'esplosione di un tuono, e il suo corpo sussultò per nuovi piccoli sobbalzi mentre gli animali stridevano per il terrore.
Qualcuno gridò un ordine. Il carro ondeggiò di nuovo in avanti, riprendendo la marcia piena di scossoni. Ora, però, al suo cervello confuso parve che si fossero in qualche modo allontanati dal mondo naturale e stessero invece viaggiando attraverso il più interno dei dieci inferni, dato che ai suoi occhi gonfi apparivano roboanti colonne di fuoco, arancioni contro il cielo notturno. Il calore era così intenso che prese a dibattersi sul suo giaciglio in un'agonia di paura, invocando il marito con voce rotta. Re Antar non rispose. Tutto ciò che si udì fu un grido roco: «Più in fretta, che siate dannati! Usate la frusta. Può piovere da un momento all'altro, e sarà la fine per tutti!» In quel mentre il movimento sussultorio del carro aumentò tanto che la regina, tormentata dal dolore, svenne ancora, entrando di nuovo in un mondo di sogni senza forma. Quello stato continuò finché una luce, intensa al punto di oltrepassare le palpebre chiuse, le baluginò sul viso e al risveglio le lasciò un'immagine persistente di stelle colorate. Udì un dialogo indistinto. Il calore del fuoco era scomparso. Non era più in viaggio, ma stava riposando su un divano o su un letto al chiuso, del tutto incapace di muoversi. Poi qualcosa di duro e smussato la colpì lateralmente alla gola, e una volta di più perse conoscenza. Quando riprese di nuovo i sensi era giorno, e tutto era tranquillo. Sospesa tra sonno e veglia, all'inizio non era certa che quanto stava provando fosse reale. Io sono Anigel, si disse. Sono la regina di Laboruwenda, ero ferita e quasi affogata, ma adesso sono viva e sto bene. Non sapeva bene di dove venisse quella consapevolezza, e non ricordava affatto com'era riuscita a evitare l'annegamento. Giaceva sulla schiena sotto un sottile copriletto. Due cuscini rigidi, compatti come sacchetti di sabbia, le impedivano di muovere la testa, che era leggermente sollevata. Anche mani e piedi erano in qualche modo bloccati, ma non era scomoda. Dalla profondità del suo ventre ci fu un lieve movimento e lei sorrise: anche i suoi bambini erano vivi. Anigel poteva vedere un soffitto basso incorniciato da travi antiche e la parte superiore di un muro di pietra. Sulla destra c'era una finestra a battenti che si apriva su un cielo grigio ed era circondata da tendaggi di fattura grossolana. La brezza portava un lieve odore pungente che di primo acchito non seppe identificare. Sul muro a sinistra era appeso un grande arazzo realizzato con colori vivaci. La parte che riusciva a scorgere rappresentava un'eroina dalle lunghe
trecce rosse, coperta fin sotto il collo da una corazza esotica, intenta a colpire con la spada qualche nemico sconfitto. Dalle rocce ai lati dei combattenti salivano alte fiamme quasi del colore dei capelli della donna. Sullo sfondo, i resti bruciati di una foresta distrutta creavano scheletrici disegni neri contro un cielo livido carico di nuvole temporalesche. Sì. L'odore nell'aria era di legno bruciato, reso più intenso dalle recenti piogge... Stupita e disorientata, Anigel passò un po' di tempo a studiare il manufatto. Non era intessuto. Ma allora, di cosa era fatto? Qual era la terra che intendeva rappresentare? E che genere di nemico era quello che l'eroica donna barbara stava per uccidere? Alla regina Anigel pareva di vitale importanza conoscere quelle cose, benché non ne comprendesse il motivo. Si lambiccò il cervello finché non arrivò alla soluzione. Piume. Quel brillante arazzo era realizzato con intricatissimi strati di piume, e la donna trionfante stava per trucidare un uomo dalla barba rossa e l'aria stranamente familiare che si faceva piccolo per la paura. Indossava un mantello sgargiante e stringeva il manico di un'ascia da combattimento riccamente decorata. Piume... Sobrania. All'improvviso seppe al di là di ogni dubbio che si trovava nel paese del lontano Ovest dove il tempo era mite per la maggior parte dell'anno e un generoso numero di uccelli abitava le fertili foreste. La Terra dei Barbari Piumati era un insieme di piccoli regni e tribù assai sparpagliati, su cui il sedicente «imperatore», Denombo, regnava senza però governare davvero la truculenta popolazione. Ma Sobrania si trovava a migliaia di leghe di distanza dalla Palude Labirinto. L'unico modo in cui poteva essere stata trasportata lì era... «No!» gridò la regina. Cominciò a lottare con tutte le forze per liberarsi, ma senza risultato. Era inerme come un togar con le ali legate sul banco di un pollivendolo. Ma perché, si chiese, la mia ambra del giglio non mi ha protetta mentre cadevo nelle acque in piena? È stato perché non ho formulato in tempo la preghiera o c'è qualche altra ragione? Aveva forse perso l'amuleto? Che qualche farabutto gliel'avesse preso? Non aveva modo di saperlo, perché il copriletto le arrivava fino al collo e non era in grado di spostarlo, nonostante gli strenui tentativi. Infine si abbandonò di nuovo, esausta, e chiuse gli occhi, cercando di
non piangere. Rabbia, frustrazione e paura l'assediavano, ma rifiutò di arrendersi, facendo lunghi respiri profondi per calmarsi. Provò a riflettere su chi poteva averla catturata e per quale motivo, ma la sua mente confusa non produceva risposte utili, e anche solo pensare le faceva dolere la testa. Giglio Nero, pregò disperata, aiutami! Aiutami! Per un istante il Fiore tripartito parve brillare dietro le sue palpebre abbassate, poi la regina Anigel scivolò di nuovo in un sonno senza sogni. 11 «Bianca Signora, tutti noi della tua casa ti preghiamo: non compiere questa azione nefasta!» Gli enormi occhi inumani di Magira, la castellana Vispi della Torre dell'Arcimaga, traboccavano di lacrime. Per un istante il corpo alto e snello della donna aborigena sembrò tremolare e sparire, lasciando solo quelle iridi verde-ghiaccio inondate di sofferenza e apprensione a brillare nella penombra della stanza dell'Arcimaga. Un battito di ciglia e Magira tornò visibile, avvolta nel suo leggero vestito scarlatto dal colletto ingemmato. I tratti del viso erano quasi umani, a parte gli occhi molto più grandi e le graziose orecchie a punta seminascoste dai capelli chiarissimi. Lei e altri della sua razza avevano servito premurosamente Haramis sin da quando aveva assunto l'ufficio del mantello bianco. Benché il Popolo Vispi fosse noto per il sangue caldo, Magira tremava violentemente per l'intensità delle proprie emozioni, e si stringeva addosso il vestito quasi a proteggersi da un gelo mortale. «Perdonami!» gemette. Quindi scomparve di nuovo per un attimo, come tendevano a fare quelli della sua razza quando erano preda di profondo turbamento, e quando si rimaterializzò parve più calma. «Ti imploro con la massima urgenza di ripensarci. Non entrare nel viadotto che ha inghiottito la regina tua sorella.» Haramis sedeva a un tavolino nel suo soggiorno privato, dove aveva preso qualche ultimo appunto sulla lavagna magica riguardo alla ricerca di armi antiche che il Popolo delle Onde avrebbe dovuto condurre in mare. Era quasi mezzanotte, il momento che aveva scelto per partire. L'ultima tempesta di neve che aveva spazzato i monti Ohogan si era esaurita, e le Tre Lune brillavano illuminando la stanza dalla finestra, in una notte di freddo intenso, rendendo argentei i fiori e le foglie della grande pianta di Giglio Nero nel vaso accanto alla tenda. «Magira, amica mia, ormai ho deciso», replicò l'Arcimaga, gentile ma
ferma. «Devi rassicurare gli altri e dire loro che compio questo gesto solo perché non ho altra scelta. Mi dispiace che tu sia tanto angosciata...» Magira l'interruppe, parlando in un sussurro tremebondo. «Bianca Signora, mai prima, in tutti gli anni in cui ti ho servita, mi sono permessa di mettere in discussione la tua saggezza, ma questo viaggio che stai per intraprendere nel viadotto è una cosa diversa. Sai che noi Vispi siamo il Popolo più antico, a cui i nostri creatori Scomparsi hanno affidato incarichi speciali. Nel corso di migliaia di anni, il ricordo dei nostri doveri è diventato sempre più vago, e molto è stato dimenticato o trasformato in leggenda. Ma gli obblighi riguardo ai viadotti sono rimasti ben chiari: ci è stato comandato di evitarli perché rappresentano un pericolo mortale, e di accertarci che nessun essere ci entri inavvertitamente. Se attraversi uno di quei portali segreti, potremmo non rivederti più! Soltanto gli Scomparsi conoscevano il funzionamento dei viadotti. Quanti hanno osato accedervi non sono mai tornati. Si dice che la cosa più terribile di quei passaggi sia che non portano a morte rapida e indolore chi li viola, ma conducono in un regno di orrori infiniti dove l'anima continua a vivere, in una perpetua agonia di terrore, senza possibilità di fuga.» «Non posso starmene qui ad attendere gli eventi», ribatté determinata Haramis. «Ogni giorno scopro nuove malefatte compiute dai tirapiedi di Orogastus. Non ti ho ancora raccontato l'ultima mostruosità, di cui ho avuto conferma solo questa mattina. Oltre a mia sorella Anigel, altri sette sovrani sono scomparsi misteriosamente: i cari vecchi Widd e Raviya di Engi, la regina di Galanar, il re di Raktum e i governatori eletti di Imlit e Okamis. Sono spariti tutti poco prima che venisse portata via la regina Anigel. Nessuno nelle nazioni colpite ammetterebbe mai il fatto davanti a me, senza dubbio per timore che i sovrani spariti vengano uccisi. Ho potuto sapere per certo della loro assenza solo grazie alla magia del mio talismano, dopo che la richiesta di conferire con loro in persona mi è stata stranamente negata. Ho già riferito l'accaduto ai capi di stato di Var, Zinora e Tuzamen, e ho avvertito anche re Antar, in modo che prendano precauzioni particolari per evitare di venire rapiti.» «Pensi che i governanti umani catturati siano stati fatti sparire attraverso i viadotti, come la regina Anigel?» «Senza dubbio. E questo rende più urgente il fatto che sia io stessa a individuare il quartier generale della Società della Stella, e prima possibile. Non posso aspettare che Kadiya porti a termine il lungo viaggio per mare fino a Sobrania. Se non agisco in fretta, andrà a tutto vantaggio di Oroga-
stus. Non preoccuparti per me, Magira: per entrare nel viadotto che ha inghiottito Anigel mi renderò invisibile, e sarò armata della mia magia più forte.» «Ma se qualcosa andasse male...» «Sono certa che il Cerchio dalle Tre Ali e l'amuleto dell'ambra del giglio al suo interno faranno in modo che non mi accada nulla.» Haramis si alzò per avvicinarsi a Magira, e le appoggiò una mano sulla spalla. «Non ho altra scelta, cara amica. Kadiya aveva ragione quando mi ha fatto notare che il viadotto attraverso cui Anigel è stata rapita è l'unico indizio significativo riguardo al luogo dove si nascondono i malvagi Uomini della Stella. Deve condurre a una regione non distante dalla fortezza della Società, se non addirittura all'interno del quartier generale vero e proprio. Non intendo attaccare gli Uomini della Stella in questa occasione, né intraprendere altri combattimenti avventati. Mi limiterò a osservarli. Se tutto va bene, sarò di nuovo qui prima che faccia giorno.» La castellana s'inchinò. «Molto bene, Signora. Che i Signori dell'Aria possano difenderti.» Detto questo, Magira lasciò la stanza. Haramis si trasferì in camera da letto e indossò un completo molto resistente che si era fatta realizzare apposta dal sarto della Torre e che consisteva in tunica col cappuccio e pantaloni in tessuto bianco idrorepellente. Portava anche guanti e stivali di pelle, e alla cintura una scarsella con cibo, acqua e un coltellino a serramanico. Sopra questi abiti legò il mantello da Arcimaga. Dopo essersi inginocchiata per una breve preghiera, sollevò il Cerchio dalle Tre Ali. «Talismano, ti ordino di rendermi invisibile a qualunque osservatore.» Appena realizzato il suo desiderio, si autotrasportò fino al viadotto nella Palude Labirinto, dov'era stata rapita sua sorella la regina. Quando la solita immagine cristallina della destinazione prevista divenne solida, Haramis si ritrovò su un piccolo appezzamento di terreno sopraelevato nel bel mezzo della palude allagata. Era notte e pioveva a catinelle, ma la magia le consentiva una visione chiara della zona. Era già stata lì in precedenza, alla ricerca di tracce del rapimento di Anigel. Il fango calpestato attorno allo sbocco del viadotto era stato livellato dalla pioggia battente, e l'unico aspetto insolito di quel luogo era una linea dritta quasi impercettibile, lunga poco più di un ell, che intaccava ostinatamente il terreno fradicio. Il talismano avrebbe potuto rendere visibile e attivo il viadotto, se glielo avesse chiesto, ma in quel momento era meglio adoperare sistemi non magici per quell'ingiunzione.
Haramis fece apparire nella propria mente una visione dell'arcano portale, mentre allo stesso tempo diceva sottovoce: «Sistema viadotto, attivati». Ed eccolo là, annunciato dal solito trillare di campanelli, un grande disco più scuro delle ombre della notte, posto in verticale all'interno dell'incavo nel terreno e circondato da un lieve alone di luce perlacea. Non aveva spessore e le superfici anteriore e posteriore erano identiche. Non importava da quale parte un aspirante viaggiatore vi entrasse. Dalla scorsa data a un libro di Iriane sull'argomento, Haramis ricordava che i viadotti potevano operare in due modi diversi. Ci si poteva semplicemente entrare ed essere trasportati automaticamente verso una destinazione preordinata, come aveva già fatto una volta viaggiando dall'Altopiano del Kimilion alla dimora di Iriane nel Mar dell'Aurora. Oppure era possibile immettersi e dare simultaneamente un complesso ordine mentale, chiedendo di venire trasportati in un luogo a propria scelta. Haramis non intendeva arrischiare questa seconda alternativa finché non avesse compreso molto meglio la struttura dei passaggi. L'unico segno a indicare che il meraviglioso marchingegno degli Scomparsi non era un'impenetrabile figura in ebano era il lieve alito di vento che emanava. In precedenza, quando Haramis aveva provato ad attivare proprio quel viadotto, senza però osare di entrare, la brezza proveniente da chissà dove aveva trasportato un piacevole sentore silvestre. Adesso, per quanto strano, il profumo era senza dubbio quello del pane appena sfornato! L'Arcimaga chiese al suo talismano dove conducesse il passaggio, ma il Cerchio dalle Tre Ali rispose: La domanda non è pertinente. Sospirò. Proprio come si aspettava: c'era solo un modo per svelare il segreto del viadotto, quindi vi entrò. Di colpo provò la stessa orribile sensazione di soffocamento sperimentata viaggiando verso il regno settentrionale della Signora Azzurra, la medesima impressione di restare sospesa nel nulla mentre la mente le scoppiava, percossa da una gigantesca e pulsante nota musicale. Il viaggio fino all'iceberg artificiale di Iriane era durato appena un istante, ma questo passaggio si rivelò più prolungato e portò Haramis sull'orlo del panico, con quell'esplosione che pareva continuare in eterno, separando la struttura del suo corpo negli atomi che lo componevano, sparpagliandoli in modo da escludere ogni speranza di ricomporli, lasciando la sua anima alla deriva in un vuoto martellante. Oh, Dio buono, pensò. Dopotutto mi hai abbandonata? Sono intrappola-
ta qui nel buio per sempre? «Benvenuta.» Udì una voce stridula, percepì ancora più intenso il profumo semplice e delizioso del pane fresco, provò un improvviso calore, sentì una superficie solida sotto i piedi, vide... Un uomo molto vecchio dalla carnagione bruna e gli occhi argentei con grandi pupille nere la salutava con un cenno del capo. Sorrideva felice. Ovviamente, il talismano non l'aveva resa invisibile a lui. I ricciuti capelli candidi gli stavano in piedi sulla testa come lana di zuch. Indossava una tunica di un nero polveroso lunga fino ai piedi, bordata di frammenti di diamante anneriti, e sopra a essa un normalissimo grembiule da cuoco che aveva un disperato bisogno di essere lavato. Haramis lo fissò a bocca aperta, troppo stupefatta per parlare. Si trovavano in una sorta di atrio, col disco nero del viadotto proprio al centro e quattro corridoi simili a raggi di una ruota che si dipartivano e quasi sparivano nell'oscurità in lontananza. Il vecchio le fece cenno di seguirlo lungo uno dei passaggi e dopo poco svoltò in una porta aperta. La stanza era bene illuminata, ingombra di oggetti e bizzarra, ma tuttavia riconoscibile come una specie di cucina. Lungo un lucido muro verdastro si trovava un bancone di metallo stipato di ceste di frutta e verdura fresche, barattoli di miele trasparenti, colorati vasetti di marmellate e conserve, e numerosissime boccette di spezie essiccate. Pentole e padelle di rame pendevano dai ganci al soffitto, e sui ripiani della credenza si trovavano piccoli attrezzi dalla funzione sconosciuta e una stupefacente varietà di scatole di ceramica e contenitori vari, tutti etichettati con un alfabeto che non le era noto. In mezzo alla stanza troneggiava un tavolo di foggia strana, con accanto uno sgabello. Su di esso si notava una grande ciotola di vetro coperta da uno strofinaccio a quadretti bianchi e rossi, una lastra di metallo unto con sopra sparsa della farina gialla macinata grossolanamente, un tagliere di legno infarinato, una ciotolina con del liquido pallido pieno di bollicine e un piccolo pennello, un piatto con un panetto di burro e un grosso coltello seghettato. Addossati a un altro muro c'erano quelli che parevano mobili dispensa, oltre a parecchie strane porte con degli spioncini di vetro, uno dei quali enigmaticamente illuminato dall'interno. Sopra di esso una splendente gemma rossa lampeggiava piano. «E siamo anche giusto in tempo!» ridacchiò il vecchio. «Lo so che bisognerebbe lasciarlo raffreddare, ma è talmente buono appena uscito dal forno!»
Afferrò un paio di presine di stoffa imbottita e aprì lo sportellino ingioiellato, estraendo una teglia con sopra tre filoni di pane dorato lunghi e stretti. Richiuse energicamente la porta del forno (facendo così spegnere la luce rossa) e trasferì il pane su una griglia metallica. Poi si tolse il grembiule e cominciò a lavarsi le mani infarinate a uno splendido lavello privo di pompa, che a quanto pareva produceva acqua calda e fredda al semplice desiderio dell'interessato. «Non ci siamo presentati ufficialmente», continuò l'anziano signore guardandola di sopra la spalla mentre scuoteva via l'acqua in eccesso e cercava a tentoni un altro strofinaccio a quadretti. «Sono Denby Varcour, il tuo collega celeste.» Girò sui tacchi, assunse una posa affettata e puntò l'indice destro verso il pane fumante. «Non posso aspettare. Paciuff!» Ridacchiò mentre uno dei lunghi filoni di pane eseguiva una sorta di saltello, sollevandosi di pochissimo nell'aria per ricadere sulla griglia. «Sì! Si è raffreddato abbastanza.» Preso un bel vassoio di legno da una credenza, cominciò a riempirlo, aprendo una credenza dopo l'altra. Trovò due piatti di cristallo sfaccettato e tazze assortite, oltre a un paio di coltellini d'argento spalmaburro. Da quella che si sarebbe detta una magica cantina refrigerante collocata accanto al lavello, estrasse una brocca di vetro contenente del liquido bianco, poi dal tavolo afferrò il piatto del burro, il grosso coltello seghettato e il filone che aveva appena stregato. «Preferisci marmellata o pâté di carne?» domandò. Lei non riuscì a fare altro che scuotere la testa. «Più che giusto. Così semplice è ancora meglio, condivido! Seguimi.» Con un piede aprì una porta a spinta, che si spalancò su un'ampia stanza incredibilmente in disordine: pareva essere uno studio o una biblioteca. Gli scaffali non ospitavano solo libri, ma anche contenitori trasparenti pieni delle lavagnette magiche che Haramis sapeva essere il materiale di consultazione degli Scomparsi. Strani congegni metallici che avrebbero potuto essere strumenti scientifici erano posti qua e là su dei supporti. Marciando davanti a lei, Denby appoggiò il vassoio su un tavolo di legno di fronte a una distesa di tendaggi di velluto blu, tirati. Accanto alle tende c'era una grande porta tondeggiante che al posto della maniglia o del chiavistello aveva una placca molto elaborata e tempestata di pietre preziose. Un intenzionale movimento del dito di Denby fece precipitare libri, carte e dei misteriosi piccoli aggeggi neri dal tavolo al pavimento coperto da un folto tappeto, facendo spazio in modo che potessero mangiare. L'uomo av-
vicinò una sedia di pelle e le ordinò di sedersi, quindi si lasciò cadere pesantemente su un'altra sedia proprio di fronte a lei. «Ho dimenticato i tovaglioli», osservò, ammiccando. «Ma non ti preoccupare, ci penserà uno degli attendenti.» Schioccò le dita, e in un istante una stupefacente piccola macchina simile a un lingit meccanico, ma con una scatola aperta al posto del corpo, oltrepassò la porta della cucina e si avvicinò al tavolo. Uno dei molti arti snodati prese due tovaglioli di lino ben piegati dal comparto posteriore e li posò con cura accanto ai piatti. «C'è altro, padrone?» domandò la cosa con una vocina ronzante. «Magari una tazza di tè?» chiese Denby a Haramis. Lei scosse il capo, ancora troppo stupefatta per parlare. Allora Denby ordinò alla macchina di raccogliere gli oggetti dal pavimento e metterli sulla scrivania, dopo di che congiunse le mani nodose e chinò il capo. «Sia grazie alla Fonte di Luce Eterna per questo buon cibo.» Afferrato il filone di pane, prese allegramente ad affettarlo. Era ancora abbastanza caldo da fumare. Spalmò uno strato abbondante di burro su entrambe le porzioni e riempì le tazze col contenuto della brocca. «È latte di volumnial, bello freddo. Lo bevete ancora laggiù, vero?» «Sì...» Haramis prese il suo pezzo di pane, lo fissò per un attimo, quindi alzò lo sguardo sul padrone di casa. «Sei tu. L'Arcimago del Firmamento.» Avendo la bocca piena, il vecchio si limitò ad assentire con un cenno del capo. «Allora sei stato tu a rapire la regina mia sorella e gli altri governanti umani?» Denby scosse la testa, continuando a masticare. «Solo te. Necessario.» L'Arcimago inghiottì una sorsata di latte, poi si pulì le dita unte sul tovagliolo. «Ho temporaneamente cambiato la programmazione del viadotto fatta da Oro per averti in visita. Ovviamente sono in grado di revocare le direttive di trasporto di chiunque.» «Quindi... Anigel e gli altri non sono qui?» «No. Ma tu senza dubbio sì! E per restare... almeno per un po'.» Cominciò a ridere fragorosamente, ansimando e dondolando avanti e indietro, facendo volare briciole in tutte le direzioni. La piccola macchina domestica iniziò pazientemente a ripulire quel macello. Haramis stava lottando per mantenere il controllo delle proprie emozioni. «Cosa significa 'per restare'?» «Oh, cara bambina! Faremo di quelle belle chiacchierate, tu e io! Devi raccontarmi della tua vita, e anche della vita delle tue sorelle. Il mondo di
sotto mi aveva così disgustato, sprofondato in malinconica disperazione. Che fare, che fare! Avevo programmato la nascita di Orogastus prima che Binah presentasse il suo nuovo schema, e sin dall'inizio ho trovato la sua idea sciocca e inutile. Ma a quella sentimentale di Iriane piacque molto, e le due insieme mi costrinsero ad accettare di fare un tentativo. Non potevo credere che tre ragazzine sarebbero riuscite ad aggiustare le cose quando noi avevamo tentato e fallito, ma avete trovato davvero le tre parti dello Scettro. Sembrava che dopotutto in voi ci fosse realmente qualcosa di magico... qualcosa che aveva a che fare col modo in cui focalizzavate e influenzavate i fili che reggono il destino del mondo. Petali del Giglio Vivente uniti alla rinascita della Stella! Scienza magica contro magia scientifica! Neppure io ho mai intuito i reali aspetti del possibile risultato, e adesso non ha più importanza. In definitiva avete fallito, come sapevo sarebbe accaduto, ma farò in modo che alla fine tutto vada nel modo giusto. Aspetta e vedrai.» «Non so di cosa tu stia parlando», sbottò sconcertata Haramis. L'uomo le strizzò l'occhio con aria astuta. «C'è vera magia nella vostra ambra del giglio, molto superiore alla scienza magica della Stella e del Collegio degli Arcimaghi. Estremamente intrigante... e altrettanto pericoloso! Avevo quasi paura che l'ambra potesse impedirmi di farti arrivare qui e mandare all'aria il mio progetto, ma tutto ha funzionato benissimo.» Haramis decise che era indubbiamente pazzo, proprio come aveva detto Orogastus, ma rispose con calma. «Mi dispiace di non poter accettare il tuo cortese invito a rimanere, Arcimago del Firmamento. A essere sincera, ho intenzione di andarmene subito, perché altre importanti faccende richiedono la mia attenzione.» Afferrò il Cerchio dalle Tre Ali, visualizzò la sua Torre sul monte Brom, e attese la visione cristallina che precedeva sempre il viaggio magico. Non accadde nulla. Il buffonesco buonumore scomparve dal volto di Denby con la stessa rapidità di un'impronta sulla sabbia cancellata dalle onde dell'oceano, lasciandogli un'espressione di arcigno trionfo. L'uomo si alzò, si chinò verso Haramis appoggiando le nocche sul tavolo, e la sua voce, fino a quel momento stridula e indebolita, produsse una risonanza metallica. «La magia che hai imparato da Iriane qui non funziona, Haramis. Trae la sua forza dalla terra, che è il tuo personale dominio di Arcimaga. E neppure il talismano ti obbedirà, perché il suo potere deriva dalle inesauribili fonti planetarie, e qui sei al di là anche della loro sfera d'influenza. L'unico modo per andartene è attraverso i viadotti che controllo io... oppure per quella via.»
Ridacchiò, accennando alla porta rotonda accanto alla tenda. Era realizzata con un materiale metallico nero, e aveva un unico enorme cardine. «Ma quella porta conduce a una liberazione che è eterna, e soltanto io l'attraverserò.» Il viso di Haramis era acceso di rabbia. «Denby, ti avverto...» - «Rassegnati, Arcimaga.» Riapparve il sorriso condiscendente. «Ho intenzione di farti rimanere con me fino al momento opportuno per lasciarti andare.» «E io dico che ti sbagli! Perché posso fare affidamento su una terza fonte di potere magico che mi appartiene sin dalla nascita.» Haramis sfiorò le ali d'argento che schermavano l'ambra del giglio e queste si aprirono, rivelando una minuscola luce, intensa come una stella d'oro. Mentre lei si alzava e si dirigeva alla porta tondeggiante, Denby emise un rauco strillo sbigottito. «Avevi ragione riguardo alla magia del mio amuleto», continuò Haramis. «È indipendente dal talismano e in grado di aiutarmi in molti modi. Mi dispiace di non poterne discutere con te. Ti basti sapere che l'ambra può aprire qualunque serratura della tua dimora, inclusa questa.» Denby fece un salto, e una sincera preoccupazione apparve sul suo volto bruno e avvizzito. «Haramis... aspetta!» gridò. «Non capisci! Non puoi aprirla! Per te sarebbe la morte!» Barcollò sino alla finestra vicino alla tondeggiante porta nera e scostò i tendaggi. Haramis urlò costernata. Appoggiandosi con tutto il peso a una sedia, fissò il panorama all'esterno: era un cielo notturno, disseminato di un numero così grande di stelle multicolori che era impossibile contarle. Tre corpi celesti illuminati da un lato stavano sospesi in mezzo a una profusione di sfavillanti puntini. Uno pareva di dimensioni modeste, di colore azzurro e bianco, gli altri due erano molto più grandi e argentei, senza caratteristiche distintive. «Sacro Fiore!» mormorò Haramis. «Mi hai portata sulla tua Luna!» «Sì», rispose Denby, quasi scusandosi. «Davvero, non te ne puoi andare finché non te lo permetto. È necessario che tu rimanga, sul serio... come è necessario che al momento anche Iriane se ne stia fuori dalla mischia.» «Cosa? Tu sai della sua mostruosa prigionia e non farai nulla per aiutarla?» Con gli occhi sbarrati, Haramis si avvicinò all'Uomo Scuro e lo afferrò per le spalle ossute. «Tu, pazzo malandato! A che razza di stupido gioco credi di giocare?» «A nessun gioco! A nessun gioco!» gemette lui. «Ahi! Mi fai male. Stai attenta, giovane Arcimaga! Ho dodicimila anni, le mie ossa sono fragili e il mio povero cuore è debole. Potrei morirti tra le mani se mi tratti troppo ru-
demente... e allora non torneresti più a casa.» Haramis lo lasciò andare e gli parlò con gelido disprezzo. «Spiegati, dunque. Se non è qui, dove si trova mia sorella Anigel? E perché hai osato interferire con l'esecuzione dei miei solenni doveri?» L'Uomo Scuro sollevò le mani in un gesto pacificatore. «La regina sta bene, e anche gli altri governanti. Orogastus li ha rinchiusi nel suo castello di Sobrania. Fa tutto parte del mio piano.» La goccia di ambra del giglio in cima al Cerchio dalle Tre Ali prese a brillare come un minuscolo sole, mentre il viso di Haramis si faceva spaventoso per l'ira e la determinazione. «Denby Varcour», intonò la donna, «ti ordino, in quanto collega Arcimago e mio pari, di rimandarmi immediatamente nel mondo, o dovrai pagarne conseguenze terribili.» L'Uomo Scuro doveva avere quasi del tutto ripreso il controllo dei propri nervi scossi, perché piegò la testa di lato e atteggiò le labbra a una smorfia di scherno. «Quali conseguenze? Hai forse intenzione di far saltare via i denti da questo mio cranio che ormai si sta sgretolando, se non ti obbedisco? O vorresti rinnegare il tuo sacro giuramento e trucidare me, un debole vecchio eccentrico che ha a cuore soltanto l'interesse del mondo? Potresti farlo facilmente anche solo usando le mani, sai. Ma ti prego di evitarlo, incantevole giovane Haramis. Ti ho portata qui per un ottimo motivo.» La sua espressione divenne di divertito rimprovero. «Ed ero così sicuro che avresti apprezzato il pane fresco.» «Cos'è che vuoi?» gridò disperata Haramis. Di colpo, l'uomo parve serio e del tutto sano di mente. «Arcimaga, tu sai che il Mondo delle Tre Lune che ami tanto è squilibrato e instabile, a rischio di catastrofe.» «Be', sì... questo lo so. Le mie sorelle e io abbiamo tentato di ripristinare l'equilibrio, come la profezia diceva che avremmo fatto. Un tempo abbiamo creduto che tutto sarebbe andato per il meglio una volta sconfitto Orogastus, ma non è stato così. Ora sospetto che soltanto riunendo le tre parti dello Scettro del Potere si potrà limitare il pericolo che ci minaccia.» «Sì», concordò l'Arcimago del Firmamento. «È lo Scettro a celare il segreto, quel dannato strumento in grado sia di risanare il mondo sia di annientarlo. Tu ne hai un pezzo, gli altri due sono...» La voce del vecchio si affievolì, e lui scosse il capo. «Ma le cose non sono così semplici.» «E allora spiegami», replicò Haramis. L'Uomo Scuro abbozzò un timido sorriso. «Credo che, se mi permettessi di mostrarti una cosa, ti sarebbe più agevole capire. Mi accompagneresti su
quella Luna laggiù? C'è uno sbocco del viadotto nell'alcova accanto alla libreria centrale.» La Bianca Signora aggrottò le sopracciglia. «Orogastus ha parlato di una Luna Giardino e di una Luna della Morte.» «È in quest'ultima che dobbiamo andare.» Come Denby gesticolò per aprire il viadotto, si udì il familiare suono di campanelli e apparve un disco scuro. «Non sto cercando d'imbrogliarti, ragazza. Andrò io per primo, se preferisci.» Detto questo, scomparve. Haramis esitò un istante. «La Luna della Morte! Devo essere pazza quanto Denby.» Afferrò il talismano, mormorò una breve preghiera, e lo seguì. Riemersero l'uno accanto all'altra su una specie d'impalcatura tondeggiante e trasparente, sospesa in una caliginosa luce crepuscolare cremisi. Sopra di loro, sotto di loro e su tutti i lati fino a dove riuscivano a vedere, fluttuava una miriade di sfere dorate del diametro di circa due ell e mezzo, ognuna legata a quelle vicine da fili sottilissimi a stento visibili, che creavano l'effetto di un'enorme tela di lingit elegantemente tessuta, cosparsa di gigantesche gocce di rugiada. Quando gli occhi si adattarono meglio alla penombra, Haramis si accorse che le sfere erano trasparenti e contenevano una sorta di foschia luminosa. All'interno di ognuna si scorgeva una forma umana, immobile, vestita con abiti di foggia insolita. «Generosi Signori dell'Aria!» esclamò Haramis, colpita. «Ce ne devono essere migliaia! Chi sono?» «Quelli che non sono riusciti a Scomparire», rispose Denby Varcour. 12 «Ma sono proprio morti?» domandò Haramis, sopraffatta dalla pietà e dall'orrore alla vista delle innumerevoli bolle lucenti e dei corpi al loro interno: uomini, donne e bambini. «No», rispose Denby. «Dormono, come devono continuare a fare, dimenticati da tutti tranne me e i Sindona sopravvissuti.» «Ma perché non li liberi?» gridò. «Quelle povere anime... non sono morti e neppure realmente vivi! È orribile!» «Ho atteso dodicimila anni, sperando che arrivasse il momento giusto. Ma non è mai accaduto. Se queste persone venissero riportate in vita ora...» S'interruppe di colpo, scuotendo il capo. «Cosa accadrebbe?» chiese Haramis.
«Ti racconterò tutto, figliola», disse Denby, prendendola sottobraccio e spingendola di nuovo verso il disco del viadotto, «la storia vera, non le mezze verità che hai ascoltato da Iriane durante il tuo periodo di studi. Ma non possiamo parlare qui. Non in questa maledetta Luna della Morte. Vieni con me.» Contro la propria volontà venne trascinata di nuovo nel buio scampanellante. Quando il passaggio fu completato si ritrovarono in un altro luogo a prima vista piuttosto comune, un'area lastricata di forma esagonale del diametro di circa quindici ell, delimitata da un parapetto di pietra traforata. Sopra di loro il sole brillava intensamente, e per un attimo Haramis provò una sensazione di gioia e di sollievo, pensando di essere di nuovo nel mondo in cui era nata. «Vieni a dare un'occhiata», le disse Denby, dirigendosi verso l'orlo della piattaforma e stendendo un braccio in un gesto d'invito. Accanto a lui, Haramis emise un grido stupefatto. Lei e l'Arcimago del Firmamento si trovavano in cima a un'enorme piramide composta da terrazze digradanti. Sul livello appena inferiore erano piantati fiori blu e arancioni in aiuole geometriche, che si alternavano a frutteti con piccoli alberi carichi di frutti di molte varietà differenti. La terza terrazza dall'alto ospitava boschetti di piante di maggiori dimensioni, distese simili a prati punteggiate di animali al pascolo e specchi d'acqua di forma irregolare che risplendevano sotto il sole. Ancora più in basso, altri ampi terrazzamenti verdi circondavano il tutto e si estendevano a perdita d'occhio nelle profondità nebbiose. Haramis sollevò lo sguardo e si stupì vedendo che altre immense piramidi si ergevano in ogni direzione. Non c'era orizzonte, solo una disorientante concavità che si protendeva verso l'alto, a contenere un numero infinito di quei misteriosi rilievi. E quelle che all'inizio aveva creduto nuvole scure dalla forma strana sulla calotta blu del cielo risultarono essere ulteriori configurazioni esagonali, molto ravvicinate, con un «sole» che oscurava le più piccole proprio sopra di loro. Si trovavano all'interno di una sfera colossale costellata di giardini piramidali, con un'intensa fonte luminosa al centro. «Un tempo qui c'erano abitazioni, cupole per lo svago e aree di divertimento», spiegò l'Uomo Scuro. «Ma vederle vuote mi rendeva triste, perciò ho ordinato ai Sindona di togliere tutto tranne le colture e gli oggetti nella Grotta della Memoria.» La prese di nuovo sottobraccio. «Ed è proprio alla grotta che siamo diretti, ma volevo che prima vedessi la Luna Giardino da questo punto panoramico.»
Il viadotto si era trasformato in una buca nera di forma circolare proprio al centro della piattaforma. Prima che lei potesse dire una parola, con estrema disinvoltura Denby aveva messo un piede all'interno del cerchio ed era sparito. «Non mi ci abituerò mai», mormorò irritata Haramis, e stringendo il proprio talismano, seguì il vecchio Arcimago. Un istante e si ritrovò in una radura screziata dai raggi del sole, accanto al suo sorridente ospite. In lontananza, lo scintillio di un laghetto attirò il suo sguardo, ma poi rivolse l'attenzione alla bizzarra vegetazione che aveva sotto i piedi e che pareva vagamente familiare. I fili d'erba erano molto sottili e avevano l'orlo più liscio che seghettato, e qui e là, nei punti più soleggiati, spiccavano i morbidi capolini gialli d'insoliti fiori selvatici. «Nel Luogo della Conoscenza ci sono piante simili», osservò Haramis. «Già. Quello era l'archivio floreale della nostra università sulla terra. Ma il mio è molto più carino, non ti sembra?» Il vecchio si chinò a raccogliere un soffione di tarassaco perfettamente sferico. «Queste sono le piante del nostro mondo d'origine, coltivate in entrambi i luoghi per ragioni sentimentali, oltre che per il loro genoma unico.» Soffiò, e i semi se ne volarono via, appesi a minuscoli ombrellini. «Eoni fa, queste piante servivano come base per la riproduzione controllata degli ibridi, che là sotto rappresentano il più prezioso dei raccolti. Ovviamente le varietà erano molto più numerose prima che arrivasse il Ghiaccio Vincitore a distruggere l'equilibrio ecologico e geofisico.» «Non capisco.» «Ma certo che no! Questo è uno dei motivi per cui ti trovi qui.» Si voltò e si diresse verso il laghetto, costringendola a seguirlo. «La Grotta della Memoria è là in fondo, tra le rocce dall'altra parte dello stagno. All'interno c'è qualcosa d'interessante che ti voglio mostrare, così potrai anche sederti e riposare un po'.» Costeggiando la riva, Haramis ammirò gli esotici fiori bianchi e rosa che crescevano nell'acqua, circondati da foglie tonde e piatte che galleggiavano sulla superficie come zattere. Su di esse si trovavano strani animaletti verdi accucciati che la fissavano con sporgenti occhi color oro, mentre un insetto con quattro ali, molto grande, sfrecciava tenendosi basso sullo specchio del laghetto ma anche ben lontano dalle bestiole sedute sulle foglie. «È tempo che tu conosca la storia del Mondo delle Tre Lune», disse Denby quando raggiunsero l'ingresso della caverna, che era ampio ma solo di poco più alto di loro. «So che Iriane ti ha raccontato qualcosa quando
studiavi con lei, ma c'è molto di più. Prego, entra.» La grotta era quasi accogliente, delle dimensioni del salotto di una villetta. Da un punto non meglio precisato, nell'ombra, proveniva un tintinnare d'acqua. Sulle pareti e sul soffitto, le felci crescevano rigogliose, e il pavimento era ricoperto di muschio. Al centro si trovava un basso piedistallo su cui era appoggiata una sfera di pietra di circa un ell di diametro, e dietro di esso c'era una panchina di legno ricurva. Denby sfiorò la sfera, che subito s'illuminò dall'interno, diventando di un blu intenso con un'unica area irregolare ocra e marrone scuro, fittamente puntinata di azzurro. «Ma è una rappresentazione del nostro mondo!» esclamò Haramis. «Riconosco l'unico continente dalle mappe che si trovano nella biblioteca della mia Torre, anche se su questo globo la forma sembra un po' diversa. Ma dov'è il Ghiacciaio Eterno?» «Ah!» sbottò Denby con aria saputa. «Questo mostra il pianeta com'era prima dell'avvento dell'umanità, quando gli Skritek regnavano in abominevole supremazia in cima all'evoluzione animale.» Con l'indice colpì la chiazza marrone. «Hai ragione riguardo al fatto che allora il continente aveva contorni per qualche verso differenti: il mare era più alto, ma anche la terra, perché non doveva sopportare il peso di una spessa calotta di ghiaccio su più della metà della sua superficie.» La fece sedere sulla panchina, e subito apparve una delle onnipresenti macchine chiamate attendenti, che con discrezione attraversò in punta di piedi la verdognola luce crepuscolare portando due calici di cristallo colmi di un liquido rosso violaceo nella scatola posta sul dorso. «I rinfreschi che hai richiesto, padrone», disse ronzando. «C'è altro?» «Portami un diagramma schematico del Triplice Scettro del Potere», ordinò Denby, allungando una coppa a Haramis e prendendo l'altra per sé. L'attendente si allontanò a grandi passi nelle profondità della grotta. Haramis fissò la sua bibita come fosse un bacile per scrutare le acque. Il profumo era allo stesso tempo inebriante e familiare: era acquavite di bacche di bruma, una delle bevande preferite a Ruwenda, la sua casa. «Lo Scettro... allora è quello il nocciolo della questione?» «Oh, sì, figliola. Da quando lo squilibrio del mondo si è aggravato, ha rappresentato sia la nostra più luminosa speranza sia la suprema minaccia. Ma lascia che ti racconti l'intera storia, a modo mio.» «Suppongo tu abbia svelato tutto anche a Orogastus, quando ha soggiornato qui.»
Il vecchio ridacchiò. «Tre Petali del Giglio Vivente e l'ultimo Maestro della Stella... Ma certo che gliel'ho detto! E lui ha appreso anche molto altro facendo ricerche nei miei archivi, scoprendo in che modo lo squilibrio può essere corretto. È per questo che è nato. È per questo che voi siete nate!» E cominciò a cantilenare: Uno, due, tre: tre in uno. Uno la Corona degli Illegittimi, dono di saggezza, amplificatrice di pensieri. Due la Spada degli Occhi, distributrice di giustizia e misericordia. Tre la Bacchetta delle Ali, chiave e unificatrice. Tre, due, uno: uno in tre. Vieni, Giglio. Vieni, Onnipotente. «Questo è il cantico! Questo è il segreto! Il modo per fare appello al Giglio Celeste e guarire le antiche ferite del mondo! Binah e Iriane pensavano che voi tre ragazze sareste state in grado di farlo, ma io ho scommesso su Orogastus. È impossibile riunire tutte quelle nazioni e tribù tanto disparate con la dolcezza e il lume della ragione, sai. Va contro la natura umana, contro la natura aborigena. La forza! Soltanto con quella si può avere un risultato positivo. Schiacciando l'opposizione! Durante la guerra degli incantesimi abbiamo tentato con la persuasione e il ragionamento, e cosa abbiamo ottenuto, eh? Un disastro, ecco cosa! E alla fine una Luna della Morte. Non potrei mai lasciare che si risvegliassero in questo ambiente primitivo: distruggerebbero la vostra semplice civiltà con la loro scienza e la magia superiore, facendo ricominciare daccapo le dispute.» Durante l'infervorata arringa era saltato in piedi, gli occhi spalancati e particelle di saliva che gli schizzavano dalla bocca. Lei, allarmata, si era ritratta. Dunque è davvero pazzo, pensò. Squilibrato come il mondo... «So cosa stai pensando», mormorò l'Uomo Scuro quasi allegramente. La frenesia scomparve e lui si risedette sulla panchina. Dopo avere preso un sorso di liquore rimase a fissare la rappresentazione luminosa del mondo ed emise un sospiro pieno di sofferenza. «Sì, lo so cosa stai pensando, e hai ragione. Sono pazzo. È per questo che non potrei mai sistemare le cose da solo.» Due grandi lacrime scivolarono lungo le rugose guance brune. Haramis gli parlò con dolcezza. «Eri sul punto di narrarmi la storia. Ti
prego, comincia.» E questo fu il racconto di Denby Varcour. I guai sono iniziati dodici volte dieci centinaia fa. A quel tempo, il mondo appariva esattamente come questo globo. Il continente aveva una miriade di laghi con isolette, ed è proprio lì che costruimmo la maggior parte delle nostre città. Tu hai visto alcune rovine, in mezzo alla vostra Palude Labirinto: luoghi meravigliosi come Trevista, attraversati da canali simili a filigrana e decorati da parchi e giardini verdeggianti. Modificammo la flora planetaria originale affinché si adattasse alle nostre necessità, e operammo anche su alcuni degli animali, benché fossero già compatibili con la nostra biologia fondamentale. Gli insediamenti furono un successo per molte centinaia, ma poi fummo bruscamente abbandonati a noi stessi quando l'ultrastruttura politica esterna si sgretolò e divenne pericoloso viaggiare per il firmamento. Per alcuni altri mondi, questo fatto fu una vera calamità, ma non per noi. Oh, no! Il nostro pianeta era piccolo ma del tutto autosufficiente, e la nostra popolazione era stabile, illuminata e soddisfatta. Vivevamo quanto volevamo, poi passavamo serenamente nell'aldilà, quando ci pareva giunto il momento propizio per spostarci su un altro piano esistenziale. I più erano lavoratorifilosofi, ma avevamo anche molti artisti e quadri di scienziati professionisti e ingegneri che mantenevano in efficienza i macchinari necessari. Io sono stato uno di loro, finché non è iniziato il Tempo Inquieto. Non mi è facile descrivere il Tempo Inquieto a una persona semplice come te, abituata a vivere in una cultura preindustriale relativamente malagevole. (Non guardarmi così! Non sei nient'altro che una barbara, una primitiva intelligente... Oh, d'accordo. Mi scuso per gli insulti, ma è comunque la verità.) A te, il mondo in cui vivevamo sarebbe sembrato un paradiso: nessuno soffriva la fame, nessuno era malato, ignorante od oppresso. La criminalità era quasi inesistente. Tutti avevano un lavoro appagante e parecchio tempo libero per coltivare altri interessi. Tuttavia, dopo anni di tranquillità, uno strano nuovo scontento apparve come dal nulla. D'improvviso la gente cominciò a mettere in discussione le antiche abitudini, i credo e la scala di valori. Discutevamo appassionatamente di argomenti come la natura dell'universo e il nostro posto al suo interno, degli aspetti più profondi della vita, della mente, dell'amore e del libero arbitrio. All'inizio i confronti erano civili e razionali, ma col passare del tempo
gli opposti gruppi filosofici diventarono sempre più intolleranti e fanatici. Le dispute cominciarono a finire in risse violente, e questo avrebbe dovuto metterci in guardia riguardo a ciò che ci aspettava, ma non fu così. Avevamo vissuto in pace tanto a lungo che non avevamo neppure vere armi. La turbolenza sembrava far parte del divertimento e dell'eccitazione che circolavano nel mondo. Non che tutto ciò che accadde durante il Tempo Inquieto sia stato negativo: le invenzioni scientifiche si susseguivano, inclusi quei meravigliosi viadotti in grado di trasportare una persona ovunque sul pianeta in un battito di ciglia. Nacquero nuove forme d'intrattenimento e scuole d'arte. Vennero costruite le Tre Lune, inizialmente come colonie di vacanza e parchi di divertimento per quanti si erano scoperti insoddisfatti dei passatempi tradizionali. Novità si aggiungeva a novità, controversia a controversia. Era un periodo eccitante e anche pauroso, perché i più saggi tra noi sospettavano che la nostra un tempo pacifica società non sarebbe stata più la stessa. Nessuno dei nostri storici è mai stato certo riguardo a chi per primo riesumò l'antica arte umana che qualcuno chiama magia... ma comunque, all'improvviso, eccola apparire da chissà dove. Affascinante, eh? La magia era più di un'altra moda passeggera. Quanti la praticavano impararono a manipolare sia le risorse interne della mente umana sia le misteriose e inesauribili fonti dell'ordine naturale che la mente è in grado d'influenzare. I veri maghi sono sempre avidi di un maggiore potere, soprattutto della capacità di controllare altri esseri umani. Continuammo a occuparcene, ed è alquanto interessante notare che gli scienziati (come me) si rivelarono i migliori incantatori. Non tutti potevano praticare la magia, è ovvio, e quanti non ne erano in grado cominciarono a temere, invidiare e odiare chi, invece, sapeva utilizzarla. Questi ultimi, quando cominciarono a essere più influenti, si divisero in due fazioni opposte: i maghi, che erano molto ipocriti e bacchettoni riguardo all'utilizzo delle loro capacità occulte per il cosiddetto bene dell'umanità, e gli stregoni, che avevano la tendenza a guardare dall'alto in basso i non adepti e pensavano di avere il diritto divino di dominare la società. Una donna di nome Nerenyi Daral fu la scintilla che infine incendiò la nostra precaria polveriera sociale. Per innumerevoli ere non era esistito in mezzo a noi il tipo di fascino e magnetismo personale che sprigionava lei. Era estremamente bella e attraente, non solo per la mera perfezione fisica, ma per il suo brillante intelletto, per la forza di volontà e la capacità d'im-
porre lealtà e profonda devozione. Fondò la corporazione chiamata Società della Stella, e i migliori stregoni si affrettarono a seguirla. Lo scopo manifesto della Società era l'energico miglioramento del mondo tramite la scienza magica e il ripristino dei viaggi attraverso il firmamento. I maghi più potenti appartenevano a un gruppo di opposizione chiamato Collegio degli Arcimaghi, consacrato a una visione più conservatrice della società, in cui nessuno doveva essere oppresso dalla magia, neppure in nome del bene comune. A capo del Collegio vi ero io, e non c'era chi mi invidiasse quella posizione. Il conflitto tra le due fazioni sfociò in una guerra che infuriò per oltre duecento anni e venne combattuta utilizzando le armi e le magie più ingegnose che eravamo in grado di realizzare. Oltre quattro quinti della popolazione perirono, e alla fine il pianeta stesso parve lavarsene le mani di noi, anche se noi maghi sapevamo che la colpa per avere sconvolto l'equilibrio naturale andava attribuita all'umanità. Sin dall'inizio della guerra degli incantesimi, terremoti devastanti scossero le regioni in cui si combattevano le battaglie più feroci. Vulcani generati da magie sbagliate spuntarono in luoghi dove prima non ne erano mai esistiti, riempiendo il cielo di fumo e trasformando il giorno in notte. Piante e animali perirono per morie misteriose. Violenti incendi provocati da conflitti occulti spazzarono via foreste e praterie. Quando veniva davvero la sera e il momento per le Tre Lune di brillare, esse apparivano di un colore terribile, simile a sangue coagulato, quasi un segno premonitore del grande disastro che si sarebbe verificato. Poi il clima cominciò a cambiare. Non pensare che la temperatura del mondo sia scesa sotto zero all'improvviso. Neanche per sogno! Gli inverni, sì, diventarono più rigidi, ma in realtà ciò che ci ha condannati è stata l'accelerazione del ciclo naturale delle precipitazioni. Aveva qualcosa a che fare con la polvere nell'aria prodotta dai nuovi vulcani e il fumo dei boschi e delle pianure in fiamme. Nelle terre basse, la pioggia in pratica non smetteva mai di cadere, mentre sulle montagne e nelle terre alte interne la neve scendeva in grandissima quantità e invece di sciogliersi si accumulava, trasformandosi in ghiaccio per la compressione del proprio peso. Al termine dei duecento anni di conflitto magico, si era creato il Ghiacciaio Eterno ed era iniziata una vera e propria Era Glaciale. Persino allora, quando finalmente la maggior parte della gente era rinsavita, la Società della Stella rifiutò di abbandonare il suo scopo originale e
di cessare le ostilità. Neppure i Sindona, quei nostri meravigliosi servitori meccanici, furono in grado di sconfiggere la corporazione. Disperati, i membri del Collegio degli Arcimaghi che erano sopravvissuti crearono il triplice strumento detto Scettro del Potere, designato a contrastare la terribile stregoneria della Società della Stella e a riportare il mondo al precedente equilibrio naturale. Lo Scettro fu affidato ai tre capi Arcimaghi, uno dei quali ero io. Ci accingemmo a distruggere il quartier generale della Società, che si trovava sui monti Ohogan, nella parte orientale del mondo. Ogni Arcimago adoperava un pezzo separato dello Scettro, quegli strumenti che voi Petali del Giglio Vivente avete proclamato vostri talismani. Ma pregavamo il cielo di non essere mai costretti a riunire le tre parti e a fare ricorso a tutto il potenziale dello Scettro. Ne avevamo paura, capisci? Quando i talismani venivano usati disgiuntamente, erano formidabili per incanalare il potere occulto, e questo l'avevamo già dimostrato. Ma teoricamente lo Scettro unificato avrebbe dominato una magia totipotente. Era in grado di attingere alla forza vitale dell'intero pianeta e di tutti gli esseri viventi che lo abitavano, capace non solo di sottomettere la Stella ma anche d'invertire l'insulto ecologico che aveva determinato l'avvento dell'Era Glaciale. C'era però il rischio che il potere del Triplice Scettro potesse fare a pezzi un mondo così squilibrato. Alla fine non avemmo il coraggio di usare quello strumento, neppure per porre termine alla guerra che aveva distrutto la nostra civiltà. Ognuno di noi tre Arcimaghi portava una parte dello Scettro durante l'assalto finale alla fortezza della Società della Stella, in cui eravamo sostenuti da un esercito di quei Sindona chiamati Sentinelle del Pronunciamento Finale, che sono autorizzati a uccidere. I miei due colleghi combatterono valorosamente contro gli stregoni, ma perirono nella lunga battaglia. Quanto a me, grazie all'Occhio di Fuoco Trilobato, sconfissi gli Uomini della Stella in un decisivo confronto di magia contro magia. Dopo di che consegnai i tre pezzi dello Scettro ai Sindona, ordinando che venissero nascosti dove nessuno avrebbe potuto trovarli. Un gruppetto di stregoni sopravvissuti fuggì e si rifugiò nelle terre alte a ridosso del ghiacciaio, vicino al centro del mondo-continente. Nerenyi Daral era tra i membri della Società della Stella catturati e da noi rinchiusi nell'Abisso della Prigionia. La maggior parte dei miei colleghi pretendeva
che fosse messa a morte, ma io non lo permisi, perché non appena vidi di persona la Signora della Stella, me ne innamorai con tutto il cuore e l'anima. E l'amo ancora, che il cielo mi aiuti! Quando finalmente la guerra degli incantesimi fu terminata, il nostro bel Mondo delle Tre Lune era in rovina. Erano rimaste in vita meno di un milione di persone. La mostruosa calotta di ghiaccio permaneva nonostante l'unione di scienza e magia esercitata dal Collegio degli Arcimaghi, e sembrava certo che avrebbe continuato a espandersi fino a fagocitare tutte le terre emerse a eccezione del bordo costiero e della frangia di isole. In un mondo simile, la vita umana poteva esistere solo al livello più disperato e primitivo. Nemmeno una colonia sottomarina, che per il cibo dipende da acque relativamente calde, avrebbe potuto sopravvivere quando fossero stati gli iceberg a dominare gli oceani. Sapevamo cosa si doveva fare. Saremmo Scomparsi, abbandonando il mondo per tentare di trovare un'altra casa oltre il Firmamento Esterno. La maggior parte della popolazione si preparò a emigrare, mentre noi Arcimaghi ci assumemmo un impegno diverso. Dato che condividevamo la responsabilità della guerra, facemmo un voto collettivo di riparare ad alcuni dei danni che l'umanità aveva inflitto al pianeta. Lì la nostra razza non poteva più sopravvivere, ma era possibile che un'altra specie, più robusta, ci riuscisse. Poi, quando, dopo eoni, i ghiacciai si fossero sciolti, magari il Mondo delle Tre Lune avrebbe potuto essere nuovamente popolato da esseri raziocinanti. Il nostro Collegio creò una nuova razza, combinando il patrimonio genetico umano a quello dei selvaggi Skritek, gli unici aborigeni senzienti che ancora vivevano sul paludoso Altopiano Ruwendiano dove il clima a quel tempo si manteneva non troppo rigido. I nostri laboratori si trovavano nel Luogo della Conoscenza, situato anch'esso nella Palude Labirinto ma sotterraneo, dove era stata la nostra maggiore università. La nuova razza infine creata fu quella dei Vispi: esseri belli e intelligenti dotati di una modesta capacità di utilizzare la magia nella vita quotidiana. Per loro generammo anche una specie di aiutanti-compagni, giganteschi uccelli telepatici che voi chiamate gipeti o voor, che avrebbero aiutato i Vispi a spostarsi da uno all'altro dei loro insediamenti sparsi tra il ghiaccio e la neve. Nel frattempo, era venuto il momento per l'umanità di andare a cercarsi una nuova dimora. Erano state costruite sei immense navi, in attesa accanto alle Tre Lune.
Dato che si prevedeva che il viaggio sarebbe durato per un imprecisato numero di anni, tutte le persone a bordo dovevano essere fatte cadere in un sonno incantato, da cui si sarebbero risvegliate automaticamente una volta raggiunta una destinazione adatta. Una delle Lune fu modificata in una sorta di zona di ancoraggio per i passeggeri, poiché ci voleva un po' di tempo per prepararli al sonno e rinchiuderli in speciali contenitori. I primi cinque vascelli furono caricati di dormienti e lanciati nel firmamento con successo; quindi venne il momento di far partire il sesto. Come sai, mia cara Haramis, all'ultimo istante numerosi esseri umani decisero di restare. Alcuni erano cocciuti intransigenti che si rifiutavano di abbandonare le proprie case, ma altri avevano motivi più seri per non andare. Perché, vedi, si era verificato un nuovo disastro. Nerenyi Daral e parecchi altri membri di rango elevato della Società della Stella erano fuggiti dall'Abisso della Prigionia. Avevamo creduto che il reclusorio fosse inespugnabile, non conoscendo l'esistenza del magico congegno di sicurezza degli Uomini della Stella chiamato Grande Fulcro. Quel dispositivo - lo stesso che per due volte ha salvato Orogastus da morte certa - era stato portato via dal luogo dell'ultima grande battaglia dagli stregoni che avevano evitato la cattura. Infine quei fuggiaschi avevano trovato un rifugio nell'Inaccessibile Kimilion, dove avevano attivato il Fulcro, strappandoci Nerenyi e alcuni dei suoi luogotenenti. Ogni tentativo di noi del Collegio degli Arcimaghi d'individuare gli Uomini della Stella che erano evasi fallì, e quando venne il nostro turno di salire sull'ultima nave celeste, esitammo, temendo che i potenti stregoni della Società potessero trovare il modo di rendere schiavi gli ingenui Vispi e vanificare il nobile progetto a cui avevamo lavorato tanto duramente. Sperando di evitare una simile disgrazia, anche noi Arcimaghi decidemmo di rimanere. Gli emigranti dell'ultimo gruppo, già privi di conoscenza all'interno delle bolle-utero, aspettavano su una delle Lune di essere trasportati alla nave attraverso un viadotto. Il mondo sottostante era stretto nella morsa dell'inverno, e spaventose tempeste si abbattevano sulla terra e sul mare. Con grandi difficoltà disattivammo tutti gli sbocchi terrestri di viadotti non ancora sepolti dal ghiaccio, in modo che gli Uomini della Stella che ci erano sfuggiti non potessero utilizzarli. Nessuno sospettava che un singolo viadotto collocato nel Kimilion fosse stato liberato dal gelo dalla prima compagine di fuggiaschi.
Eravamo nel bel mezzo delle manovre per disporre correttamente il vascello, prima di sistemare a bordo i passeggeri, quando accadde. Attraverso il viadotto, Nerenyi Daral e la sua coorte salirono sulla nave e tentarono di prenderne il controllo. Ci fu una rissa breve ma violenta. Diciannove dei ventotto membri rimasti della Società della Stella e la maggior parte di quelli del nostro Collegio furono uccisi. Soltanto sei Arcimaghi rimasero illesi, mentre undici sopravvissero pur se gravemente feriti. Io catturai Nerenyi Daral, ma gli altri otto stregoni riuscirono a riguadagnare la superficie del mondo grazie al viadotto riprogrammato, e sparirono una volta di più. Mandammo i feriti al Luogo della Conoscenza perché venissero curati dai Sindona consolatori, mentre il resto di noi cercava di riprendere le urgenti operazioni di carico della nave celeste. Ma ecco un nuovo disastro: il grande vascello era stato danneggiato a morte dal fulmine artificiale degli armamenti degli Uomini della Stella. Essendo semisenziente, la nave ci avvertì che la sua distruzione si sarebbe inevitabilmente verificata entro un paio di giorni, e ci mostrò anche come avremmo potuto allontanarla in fretta dalle Tre Lune in modo che non venissero compromesse quando fosse andata in pezzi. Spostammo il vascello dall'altro lato del pianeta, dove venne consumato da una sfera di fuoco più luminosa del sole. I miei colleghi Arcimaghi si ritirarono nel Luogo della Conoscenza a piangere le perdite. Io restai nella Luna che ora porta il mio nome come custode degli Incapaci di Scomparire, insieme con Nerenyi Daral, la Signora della Stella. Era mia intenzione convertirla con l'amore, ma lei invece escogitò la fuga assoluta, lasciandomi solo con quei poveri dormienti che non riapriranno mai gli occhi in un nuovo mondo. Da quel momento sono rimasto qui accanto a quelle persone, meditando su come migliorare il loro triste destino e quello del pianeta. Trascorsero oltre undicimila anni e l'Era Glaciale parve declinare. Le minuscole sacche d'insediamenti umani avevano sopportato un'esistenza dura e primitiva, ma erano sopravvissute. Lo stesso dicasi per i discendenti degli stregoni della Società della Stella fuggiti, che avevano nascosto i propri poteri e tentato di mescolarsi ai comuni esseri umani. I Vispi avevano una vita migliore, grazie ai membri residui del Collegio degli Arcimaghi e ai Sindona loro assistenti, che ne erano i benevoli guardiani. Ma le nostre amate creature non si moltiplicavano con la rapidità che
avevamo auspicato. Data la bellezza dei Vispi, a volte gli umani rimasti sul pianeta si accoppiavano con loro, e la prole, che risultava più fertile, molto spesso non somigliava ai genitori. Alcuni di questi bambini Oddling vennero crudelmente abbandonati durante l'infanzia dai genitori umani, mentre altri lasciarono spontaneamente la società umana o Vispi per vivere per conto proprio una volta cresciuti. Nel corso degli anni, le tribù Oddling divennero vere e proprie razze: Nyssomu, Uisgu, Dorok, Lercomi e Cadoon, le genti della palude, del mare, della montagna e della giungla. Anche i feroci Skritek esistevano ancora, e inevitabilmente il loro sangue andò a mescolarsi con quello del Popolo, dando vita ad aborigeni più alti e dall'aspetto meno umano: gli Wyvilo, i Glismak e gli Aliansa. Ma la razza più prolifica di tutte era quella dei paradossali superstiti umani! Erano riusciti a prosperare nonostante il ghiaccio, e dopo migliaia di anni avevano numericamente superato di molto il Popolo e preso possesso delle terre migliori. Era nata una nuova civiltà umana, molto più semplice di quella degli Scomparsi, e l'antica storia del Mondo delle Tre Lune era stata quasi del tutto dimenticata. Noi Arcimaghi avemmo meno successo nel riprodurci. I membri originali del Collegio furono molto longevi, ma a tempo debito passarono tutti nell'aldilà... tranne me. Infine i nostri successori adottivi lasciarono il Luogo della Conoscenza e stabilirono la propria residenza in diverse parti del mondo, dove servirono come guardiani e fonti di saggezza. Adesso di noi ne restano solo tre. Ma è rimasta anche la Stella. E il mondo, che era sembrato riconquistare l'equilibrio perduto, si trova di nuovo sull'orlo del baratro. Nove centinaia fa, fui testimone dell'inizio dell'atroce regresso e, insieme con me, lo furono Iriane e il tuo predecessore, l'Arcimaga Binah. Io provocai la nascita di Orogastus - ultimo dei veri Uomini della Stella - mentre Iriane e Binah escogitarono la nascita di voi tre gemelle nella speranza di neutralizzarlo. Come l'Azzurra e la Bianca Signora avevano sperato, tu e le tue sorelle Anigel e Kadiya avete trovato i pezzi perduti dello Scettro del Potere. Da allora voi tre e il Maestro della Stella avete sopportato e superato parecchie vicissitudini, ma la mia visione del vostro destino congiunto e del futuro del mondo è annebbiata e incrinata. Sono così vecchio, così logorato, così stanco... e con ogni probabilità non sono più nemmeno sano di mente. Ma comunque sia, so che esistono due alternative per ripristinare il
grande equilibrio: entrambe sono condizionate dallo Scettro del Potere ed entrambe sono estremamente pericolose. Senza dubbio Orogastus è in grado di realizzare la ricostruzione. Se diventerà governatore del mondo, farà quello che va fatto utilizzando la forza bruta e la magia nera della Stella. Anche il Fiore, con voi Tre che ne siete l'incarnazione umana, potrebbe ricreare l'equilibrio, e la vostra vittoria sarebbe di certo più propizia ed elegante di quella della Stella. Ma io non comprendo il Giglio Nero. Fa parte del retaggio magico originale di questo mondo, è più antico sia del Collegio sia della Stella, e per questo motivo non mi fido. Ogni logica afferma che voi Tre Petali del Giglio Vivente fallirete. Ma potrei anche sbagliarmi... È per questo che ti trovi qui, mia cara Haramis! Forse possiamo elaborare insieme la soluzione elegante, e forse no. Ma non ti consentirò di lasciare la mia Luna e interferire con Orogastus. Vi ho visti insieme, quando eri pronta a ucciderlo nonostante il tuo amore e il tuo sacro giuramento. Sciocca! È lui la vera speranza del mondo, non tu e le tue inutili sorelle. No, non osare discutere con me, Arcimaga della Terra! Adesso sei qui e qui resterai finché Orogastus non avrà conquistato il mondo e usato lo Scettro per salvarlo. O distruggerlo una volta per tutte. 13 Seguendo gli ordini della Signora degli Occhi, il capitano Wikit-Aa portò la chiatta alla confluenza col fiume Oda. Con l'equipaggio Wyvilo ai remi, l'imbarcazione si mosse controcorrente per un breve tratto e venne ormeggiata nell'acqua stagnante per consentire un comodo accesso alla riva sinistra. Mancava un'ora al tramonto e la pioggia aveva cessato di cadere. «Adesso ti chiedo di mandare a terra dei perlustratori», disse Kadiya a Wikit, «per stabilire se esiste davvero una pista transitabile parallela all'Oda. Nel frattempo, mi consulterò coi miei compagni.» Si ritirò nella tuga di poppa dove l'attendevano i Compagni Fedeli, Lummomu-Ko, Jagun, il principe Tolivar e Ralabun. La cabina era stata ripulita alla meglio dopo la lotta con gli uomini del mandatario, ma una finestra chiusa con delle assi rendeva necessario l'uso delle lampade, e l'odore dello stufato di karuwok avvelenato e della salka rovesciata continuava-
no a pervadere l'aria. «Ho cambiato ancora i miei programmi», esordì Kadiya dopo che gli altri le si furono radunati attorno, seduti su cuccette, sgabelli e bauli. «Questo nuovo piano dipende dal fatto che gli scout di Wikit trovino una pista libera che risalga il fiume Oda, ma lui pensa che ci riusciranno.» «E prevedi di marciare a terra, Signora?» Il giovane cavaliere Edinar era pieno di stupore. «Ma perché?» Lei spiegò con pazienza. «Come la maggior parte di voi sa, è stata la Società della Stella a incitare il miserabile Turmalai Yonz ad attaccarci. L'obiettivo principale ero io, e per la mia cattura, viva o morta, era stata offerta un'ingentissima ricompensa, che sarebbe stata pagata se io fossi stata consegnata in un determinato luogo proprio sull'Oda, vicino alla cosiddetta Doppia Cascata, a circa ventitré leghe da qui risalendo il fiume.» S'interruppe e lasciò vagare lo sguardo sul gruppo. «Il posto della consegna coincide con lo sbocco del viadotto.» «Per i Sacri Lobi di Zoto!» esclamò sir Bafrik. Era il nuovo capo dei cavalieri, un robusto trentenne dalla barba nera che adesso era anche il più anziano dei Compagni. «Possiamo quindi desumere che quel passaggio magico conduca al luogo in cui abitano gli Uomini della Stella?» «La mia deduzione è stata proprio questa», replicò Kadiya. Gli altri cominciarono a commentare ad alta voce, ma la giovane donna sollevò la mano per chiedere silenzio. «Compagni, voi avete anticipato la mia prossima affermazione. Intendo entrare nel viadotto, utilizzandolo come scorciatoia per raggiungere il regno dei nostri nemici. Jagun si è già detto disposto ad accompagnarmi, ed è mio fervente desiderio che anche voi cinque vi uniate a noi.» «Parlo a nome di tutti», disse Bafrik. «Verremo volentieri.» Gli altri lanciarono grida di approvazione. «E io pure», aggiunse il Wyvilo Lummomu-Ko, «se ritieni che possa esserti utile.» Kadiya fece un gesto dispiaciuto. «Amico mio, la situazione rimane la stessa: il tuo aspetto non umano e la grande statura renderebbero troppo difficile il camuffamento quando dovremo muoverci in mezzo ai nemici. Ti prego quindi di prenderti cura del principe Tolivar e di Ralabun durante il resto del viaggio lungo il Grande Mutar e di assicurarti che arrivino sani e salvi a Derorguila secondo il piano originale.» L'aborigeno annuì. «Li proteggerò a costo della vita.» Allora Kadiya si rivolse al principe. «Tolo, mio caro, devo riferirti noti-
zie gravi, che hanno influenzato parecchio il mio cambiamento di programma.» E gli raccontò di come la regina Anigel fosse probabilmente stata rapita attraverso un altro viadotto il cui sbocco si trovava nella Palude Labirinto, e di come l'Arcimaga avesse scoperto che anche altri regnanti erano stati sequestrati. «Ma la Bianca Signora non può fare nulla per salvare la mia povera mamma?» domandò il bambino. «Mi ha riferito di non poter neppure descrivere il luogo in cui sono tenuti prigionieri la regina e gli altri», rispose Kadiya. «Il suo talismano è muto in proposito. Entrambe riteniamo che siano in mano agli Uomini della Stella, schermati alla vista dalla magia nera. Come abbiamo ipotizzato, c'è solo un modo per scoprire se il quartier generale della Corporazione si trova a Sobrania: dobbiamo attraversare il viadotto presso la Doppia Cascata.» I cavalieri bisbigliarono tra loro, poi sir Kalepo si rivolse a Kadiya. «Signora, hai detto che i passaggi incantati sono invisibili a occhio nudo e utilizzabili solo impiegando la stregoneria. Dato che non hai più il tuo talismano, l'Occhio di Fuoco Trilobato, come individueremo l'ingresso?» «I viadotti possono essere aperti da chiunque pronunci alcune parole di potere», rispose Kadiya. «È vero che normalmente sono invisibili, ma senza dubbio nelle vicinanze delle cascate ci saranno degli indizi per segnalare il punto in cui sarebbe stato pagato il premio per la mia cattura. Il viadotto non sarà lontano.» «Se non dovessimo trovarlo», puntualizzò Jagun, «avremmo sprecato come minimo quattro giorni.» «E questa parte della foresta è abitata da una banda di Glismak particolarmente selvaggia», aggiunse Lummomu. «A dispetto dell'editto della Bianca Signora, praticano ancora il cannibalismo. Non sarebbe meglio se l'equipaggio di Wikit e io vi accompagnassimo a questa doppia cateratta?» «Non metterò ulteriormente in pericolo l'innocente Popolo Wyvilo per nostro tornaconto», replicò Kadiya. «Basterà che tu e lo skipper aspettiate qui a bordo per cinque giorni. Se per allora non saremo tornati, potrete dare per certo che abbiamo trovato il viadotto e ci siamo imbarcati nella nostra nuova missione.» «Oppure che vi è capitato un incidente fatale», mormorò Lummomu, «e siete passati nell'aldilà.» «Dovremo pregare per un esito positivo», ribatté Kadiya. «Ma stai sicuro che i miei Compagni e io non ci faremo cogliere di sorpresa una secon-
da volta. Partiremo bene armati e guardinghi.» «Signora.» Il più flemmatico e franco dei giovani cavalieri, sir Sainlat, intervenne con riluttanza. «Ti prego, non credere che io esiti a seguire il tuo comando, ma come possiamo sapere cosa ci aspetta all'uscita del passaggio magico? Potremmo incontrare il vile stregone Orogastus in persona, o forze della sua Società della Stella superiori a noi...» «Non pensare che abbia intenzione d'infilarmi nel viadotto come un impetuoso shangar che si lancia a capofitto nella trappola del cacciatore», replicò Kadiya. «Ho concepito un piano d'azione molto prudente di cui vi parlerò a tempo debito, che mi consentirà di scoprire in anticipo come stanno le cose all'uscita del viadotto.» «Consulterai la Bianca Signora!» s'intromise Melpotis. «Non credo», ribatté evasiva Kadiya. «Mia sorella Haramis è molto impegnata coi suoi affari, e se riusciamo a raggiungere il paese degli Uomini della Stella avrò tutto il tempo di consigliarmi con lei.» «E che succederebbe se dovessi accertare che entrando nel viadotto dovremmo affrontare circostanze disperate?» domandò Jagun. «Se le cose stessero così, abbandoneremmo il tentativo per tornare alla chiatta e riprendere il programma iniziale che prevedeva di raggiungere Sobrania via mare.» «Certo che sarebbe un vero peccato», borbottò sir Bafrik. «Il pensiero che presto potremmo incontrare le canaglie che hanno rapito la nostra regina mi infiamma il cuore!» Gli altri si dissero d'accordo. Kadiya diede alcune istruzioni, ordinando loro di radunare le proprie cose e tenersi pronti a partire all'alba del giorno successivo, poi se ne andò per discutere dei preparativi con Wikit-Aa. Ma non appena aprì la porta della cabina e uscì sul ponte fradicio di pioggia, il principe Tolivar la seguì di corsa, con un'espressione agitata sul viso pallido. «Zia Kadi, ti prego di riconsiderare la questione. Lasciami venire con te per aiutarti a salvare mia madre. Io... io lo so di non essere forte, ma potrei esserti utile in molti modi.» Kadiya lo fissò spazientita. «Non vedo come. No, non saresti altro che un peso, Tolo. E se tu avessi l'acume che Dio ha dato ai qubar, lo sapresti da solo e non mi faresti perdere tempo. Se non oso arrischiarmi ad avere con me un guerriero intrepido e vigoroso come Lummomu-Ko, perché mai dovrei pensare di portarmi appresso un bambino di dodici anni?» «Perché... perché...» Ma non riuscì a pronunciare le parole che aveva in
mente. Kadiya lo spinse da una parte e si diresse all'altra cabina. Per un po' Tolivar restò solo accanto alla battagliola della chiatta, fingendo di guardare verso terra in direzione della fitta foresta anche se aveva la vista annebbiata. Quando infine Ralabun uscì a cercarlo, il ragazzo gli parlò in modo sgarbato, ordinandogli di andarsene. Ma il vecchio Nyssomu aveva già scorto le sue lacrime di rabbia. L'incubo si presentò di nuovo al principe alle soglie dell'avventura più importante della sua vita. Questa volta era eccezionalmente vivido e privo dei dettagli fittizi che in precedenza avevano distorto i suoi ricordi. Aveva quattro anni di meno ed era vestito con una pacchiana imitazione in miniatura delle insegne regali di Laboruwenda. Dalla cintura pendeva una minuscola spada e sul capo portava una corona con pietre di Strass. Un esercito proveniente da Tuzamen e dal regno pirata di Raktum aveva invaso la capitale settentrionale dei Due Troni, e la città era sul punto di arrendersi. Nel sogno, la Voce Porpora, quel ripugnante scagnozzo di Orogastus, e una squadra di sei guardie tuzamene stavano scortando Tolivar attraverso il tumulto e la carneficina che infuriavano a Derorguila. Il bambino aveva scoperto che Orogastus fingeva soltanto di essere suo amico, che aveva mentito quando aveva promesso al giovane principe che sarebbe diventato suo figlio adottivo ed erede della sua magia. Il ragazzino terrorizzato aveva invece compreso che, quando infine Laboruwenda fosse caduta, sarebbe salito al trono come governante fantoccio. E anche peggio, perché era destinato a essere un riluttante complice nell'omicidio di suo padre, di sua madre e dei suoi due fratelli più grandi. Sarebbero dovuti morire tutti prima che il principe Tolivar potesse ereditare i Due Troni. Nel sogno piangeva di rabbia e vergogna, trascinato senza possibilità di scampo per le strade devastate della capitale. L'inverno eccezionalmente rigido che indicava lo squilibrio del mondo aveva imprigionato nel ghiaccio Derorguila. Ovunque giacevano soldati e civili morti o feriti, il cui sangue chiazzava la neve. Il fumo degli edifici in fiamme e il terribile odore di morte facevano tossire e vomitare il bambino. I ciottoli coperti di ghiaccio erano troppo scivolosi perché potesse camminarci sopra, e quindi continuava a cadere. Infine, la Voce Porpora, che si lamentava aspramente della sua lentezza,
si caricò in spalla il principe dal passo incerto e gli diede in consegna il prezioso scrigno stellato che stava portando al suo padrone, il quale comandava l'attacco al palazzo. Adesso procedevano con maggiore rapidità, superando piccoli assembramenti di difensori impegnati nell'ultima e disperata battaglia. Ovunque, moltitudini urlanti di pirati raktumiani e di appartenenti ai clan tuzameni si aggiravano carichi del bottino saccheggiato dalle abitazioni incendiate. E fu allora che si verificò il terremoto. Un imponente muro di mattoni precipitò sulla Voce Porpora e le sei guardie, uccidendoli tutti all'istante. Solo per miracolo Tolivar venne scagliato lontano, procurandosi graffi e ammaccature ma niente di più serio. Anche lo scrigno stellato non aveva subito danni. Il principe agì con rapidità, nonostante fosse quasi fuori di sé dalla paura. Non aveva altro che la sua piccola spada per difendersi e sapeva che se avesse cercato di nascondersi tra le rovine della città sarebbe presto morto congelato o avrebbe incontrato un destino anche peggiore finendo tra le mani degli invasori. Dopo aver abbandonato tra le macerie la corona giocattolo e alcuni indumenti, in modo che Orogastus lo credesse morto se l'avesse cercato con la magia, il bambino si affrettò a raggiungere il palazzo percorrendo stradine secondarie e tortuose vicino al fiume Guila, completamente gelato. Infine riuscì a entrare nelle scuderie reali attraverso una porta segreta nel muro della fortezza che una volta gli aveva mostrato il suo amico Ralabun. Attorno alla Rocca di Zotopanion si stava combattendo una battaglia decisiva, l'ultima possibilità per i laboruwendiani decisamente inferiori di numero. Migliaia di assalitori raktumiani e tuzameni si scaraventarono sul complesso del palazzo, e lo stesso Orogastus bombardò i portoni della fortezza con sfere infuocate emesse dall'Occhio di Fuoco Trilobato. Scivolando lungo i bui corridoi delle scuderie diretto alla stanza di Ralabun, dove sperava di trovare rifugio, il giovane principe s'imbatté in uno spettacolo orribile: in una pozza di sangue rappreso, fuori degli alloggi degli stallieri, giaceva il corpo di un pirata con un forcone infilzato nella gola. Allungato scompostamente sopra di lui, la mano ancora stretta al manico del forcone, c'era Ralabun... con un pugnale raktumiano nella schiena. «Oh, no!» gridò il principe chinandosi sull'amico. Il Nyssomu emise un debole lamento e aprì un appannato occhio giallo. «Vai subito nella mia stanza, Tolo. Resta nascosto finché non vengo a prenderti.» Poi l'occhio si richiuse e Ralabun smise di parlare. In realtà, Ralabun non era morto, solo gravemente ferito e privo di sensi,
ma, nel sogno come nella realtà, Tolivar si sentì privato dell'ultima speranza. Udendo sopraggiungere qualcuno, il principe si precipitò nell'accogliente stanzetta del mastro stalliere Nyssomu, dove si nascose dietro un mantello abbandonato in un angolo. Un uomo, che si muoveva furtivo e respirava affannosamente, come se anche lui avesse corso a perdifiato per salvarsi la vita, entrò nella camera e si richiuse la porta alle spalle. La mano del principe si strinse attorno all'elsa della piccola spada. La fioca luce proveniente dal caminetto di Ralabun mostrava che l'intruso era avvolto in un lercio abito dorato. Si trattava dell'accolito che Orogastus chiamava Voce Gialla, inviato dallo stregone ad aiutare il giovane re Ledavardis di Raktum nell'invasione. Di sotto il cappuccio della Voce apparve un luccichio d'argento e Tolivar quasi gridò per lo stupore: l'uomo indossava il diadema talismano chiamato Mostro a Tre Teste! Orogastus l'aveva prestato al suo scagnozzo in modo che la Voce potesse trasmettergli notizie della battaglia che si svolgeva attorno a lui. Per Tolivar era chiaro che la vigliacca Voce Gialla fosse fuggita, abbandonando il proprio dovere quando la lotta era diventata troppo accesa. Nel sogno, il cuore del principe traboccava di coraggio e determinazione. (Nella realtà aveva agito quasi senza pensare.) A eccezione della zona accanto al camino, dove ora si trovava la Voce che si serviva dalla cena abbandonata da Ralabun, la stanza era buia. Tolivar strisciò alle spalle dell'accolito mentre questi, preso un mestolo, cominciava a versare in una fondina dello stufato caldo tolto da una pentola sul fuoco. Il bambino premette la punta della piccola spada contro la nuca dell'uomo, trapassando il cappuccio. «Stai fermo!» sibilò il principe. «Metti giù quello che hai in mano.» «Non volevo fare del male a nessuno», disse tremula la Voce, ma Tolivar punzecchiò l'accolito con la lama finché questi non lasciò cadere fondina e mestolo. «Sono solo un cittadino disarmato, coinvolto per errore nei combattimenti...» «Zitto... o morirai! E non muoverti.» «No che non mi muovo», piagnucolò la Voce Gialla. «Non mi sogno neanche di muovermi.» La spada lasciò il suo collo, e più rapida di un lampo gli tolse il cappuccio, facendo saltar via il diadema magico dalla testa rasata. Il Mostro a Tre Teste si avvitò nell'aria per poi andare a colpire con clangore il pavimento e rotolare nell'oscurità nascondendosi alla vista. «Poteri Oscuri... il talismano no!» strillò l'accolito. «Maestro! Aiuta-
mi..». Solo allora il principe Tolivar si rese conto della sconsideratezza della sua azione, perché la Voce Gialla si voltò in un turbine e lo assalì, emettendo un gutturale ululato e trascinandolo pesantemente a terra con sé. Il bambino riuscì a divincolarsi, ma aveva perso la spada. A fatica l'accolito si sollevò sulle ginocchia, barcollando e premendosi il petto nel punto in cui si stava allargando una macchia scura. I suoi occhi erano diventati delle brillanti stelle bianche, e Tolivar sapeva per certo che adesso era Orogastus in persona a guardarlo attraverso quelle pupille. Mentre la Voce Gialla si contorceva nell'agonia finale, cercando invano di estrarre la piccola spada che per puro caso gli si era conficcata nel cuore, la sua testa si voltò lentamente. Per un breve istante quegli occhi luminosi, simili a due piccoli fari nell'oscurità, illuminarono il principe Tolivar. Il bambino si accucciò in un angolo, la bocca spalancata in un terrore privo di parole. Poi le orbite lucenti si spensero e la Voce Gialla cadde morta sul pavimento. Nel sogno, il giovane principe si alzò e recuperò la spada dal cadavere, ripulendo la lama sulla veste dell'accolito. Quindi, avvicinatosi con calma al letto di Ralabun, utilizzò la spada per frugarvi sotto e tirar fuori il diadema magico. Per un certo tempo fissò il Mostro a Tre Teste in silenzio, vedendo dall'emblema della Stella collocato sotto il volto centrale che il talismano era ancora legato a Orogastus e che l'avrebbe ucciso se avesse osato toccarlo a mani nude. La coroncina d'argento che formava una parte del possente Scettro del Potere era appartenuta alla regina sua madre, prima che lei la consegnasse a Orogastus come riscatto per il marito re Antar... e anche per il figlio più giovane Tolivar. Ma allora il principe si era rifiutato di abbandonare lo stregone, accecato dalla grande illusione che Orogastus gli volesse bene e che un giorno gli avrebbe trasmesso il suo potere. «Mi hai mentito», mormorò il bambino, stranamente eccitato. «Ma io il potere lo otterrò comunque.» Afferrò lo scrigno stellato, di cui conosceva assai bene il funzionamento, e lo aprì. All'interno del basso contenitore c'era un piano di maglia di metallo, e in un angolo alcune pietre preziose piccole e piatte. Sempre usando la spada, Tolivar lasciò cadere il diadema nello scrigno. Un lampo luminoso parve indicare che non era più vincolato a Orogastus. Una dopo l'altra, il principe premette le gemme colorate in ordine consecu-
tivo, e tutte si accesero. Infine, premette la pietra bianca. Si udì un suono melodioso e tutte le lucine si spensero. Il ragazzo fissava esitante il Mostro a Tre Teste: lo scrigno stellato aveva compiuto la sua opera? Adesso il talismano era legato a lui? Se non era così, con ogni probabilità l'avrebbe ucciso appena l'avesse toccato. In quello stesso istante dall'esterno giunsero grida e rumori assordanti. Stavano arrivando i pirati! Le mani gli tremavano mentre afferrava il contenuto dello scrigno. Al tatto, il metallo del diadema era caldo, ma il talismano non lo annientò. Sotto la mostruosa figura centrale, dove fino a poco prima si trovava l'emblema a molti raggi della Società della Stella, ora riluceva una minuscola copia del blasone principesco di Tolivar. «Sei davvero mio!» esclamò stupito, e si mise sul capo il diadema. Le voci all'esterno erano ormai vicinissime alla porta. «Talismano, rendi invisibile me e anche lo scrigno stellato», ordinò. Doveva essere accaduto, perché la porta si spalancò e tre furfanti con la spada insanguinata guardarono dentro, fecero commenti sprezzanti all'indirizzo della Voce Gialla morta e se ne andarono altrove. Il principe sentì il cuore gonfiarsi di una meravigliosa sensazione di fiducia. «Diventerò uno stregone persino più grande di te, Orogastus!» proclamò al vento. «E ti farò pentire di avermi imbrogliato.» A quel punto il sogno finì e per il principe ebbe inizio l'incubo a occhi aperti. Tolivar! Tolivar, principe di Laboruwenda! Vuoi sentirmi? «No... vattene.» Ancora mezzo addormentato, il ragazzo si coprì la testa col rozzo cuscino e s'infilò ancora più sotto le coperte del letto a castello. Non me ne andrò, Tolo. Non finché non accetterai di essere mio alleato. «No!» bisbigliò Tolivar. «È tutto frutto della mia immaginazione. Tu non mi stai davvero parlando, Orogastus. Non sai nemmeno dove mi trovo.» Questo non è vero. Sei sdraiato in un letto a bordo di una chiatta Wyvilo. L'imbarcazione è ormeggiata per la notte sul fiume Oda, a poca distanza dalla confluenza col Grande Mutar. Questo non lo puoi sapere, replicò il bambino alla voce nella sua testa. E invece lo so. E sai perché, Tolo? Perché nel profondo del cuore tu vuoi che lo sappia! Se così non fosse, i tuoi due talismani ti schermerebbero da me.
No. Sei solo un sogno. È la mia cattiva coscienza che ti evoca. Mi sento in colpa perché... perché una volta ho preferito te ai miei genitori. Quando li odiavo... Eri troppo giovane per capire cosa stavi facendo. Il tuo odio non era sincero. Tuo padre e tua madre lo sanno. Da tempo hai fatto ammenda dei tuoi peccati infantili. Non contano più adesso che hai quasi raggiunto l'età adulta. E comunque nessuna di quelle birichinate da bambino ha a che fare con la mia solenne promessa... che ora sono pronto a mantenere. Le tue menzogne non mi interessano. Lasciami solo! Ma certo che sei interessato. Come potresti non esserlo, dato che sei così intelligente? Più di qualsiasi altra cosa al mondo desideri saggiare il vero potenziale celato in quei meravigliosi oggetti che possiedi. Vattene. Lasciami in pace. Esci dai miei sogni. Ti disprezzo! Un giorno, per espiare i miei peccati, ti ucciderò. Sciocchezze. Sii sincero con te stesso, Tolo! Sai che soltanto io posso insegnarti tutti i segreti dell'uso dei talismani. Non impareresti mai da solo. Vieni con me a Sobrania, caro ragazzo. Basta che entri nel viadotto... Mai! Stai cercando d'imbrogliarmi. Nessuno può fare del male al possessore del Mostro a Tre Teste e dell'Occhio di Fuoco Trilobato. Questo lo sai. Non li ho. Sì che li hai. Ti ho visto nelle scuderie, mentre la mia Voce Gialla moriva. Sei l'unico che avrebbe potuto prendere il diadema e lo scrigno stellato. E chi se non il loro proprietario avrebbe potuto rubare l'Occhio di Fuoco? Non io. Non io... Caro Tolo, sai cosa intende fare domani tua zia Kadiya. Seguila! Quando entrerai nel viadotto e arriverai a Sobrania, troverai ad attenderti dei guerrieri della mia compagnia che ti condurranno da me. Ci sarà una gioiosa festa di ben tornato a casa, mio figlio adottivo ed erede da tempo perduto. Sarai immediatamente iniziato alla Società, come ti avevo promesso quattro anni fa. Io... io non mi fido di te. Ma devi. Sono l'unico che può aiutarti ad adempiere il tuo destino. No! Tolo! Vieni da me! No no no! Sai che devi venire da me! Tolo... Tolo... Tolo...
Il principe gemette ad alta voce e sentì una mano scuotergli la spalla. «No! Stammi lontano...» «Tolo! Svegliati, figliolo. Sono zia Kadi. Stai facendo un brutto sogno.» Il principe strisciò fuori di sotto le coperte. La zia era in ginocchio accanto a lui nell'oscurità, il viso fiocamente illuminato dalla splendente goccia d'ambra che teneva appesa al collo. Era ancora piena notte. La pioggia tamburellava sul tetto della cabina e il respiro profondo dei Compagni Fedeli, di Jagun e Ralabun, tutti addormentati, rivaleggiava coi rumori provocati dagli animali della foresta all'esterno. «Scusa», mormorò in tono mortificato Tolivar. «Il sogno sembrava così vero.» Kadiya lo baciò sulla fronte. «Non ti preoccupare, adesso è finito. Prova a rimetterti a dormire.» Il ragazzino si voltò, il viso rivolto alla parete della cabina. «Tenterò.» La donna gli diede un'ultima carezza rassicurante e tornò al proprio giaciglio. Il principe rimase sdraiato immobile finché non fu certo che si fosse addormentata, poi lasciò cadere una mano oltre la sponda del letto, per assicurarsi della presenza del forziere di ferro. C'era ancora, con al sicuro all'interno i suoi tesori. A occhi bene aperti, il principe Tolivar attese l'alba. 14 Dopo aver salutato Tolivar e Ralabun, Kadiya indossò il mantello con cappuccio e uscì sul ponte della chiatta all'aria del primo mattino. Faceva freddo e tutto era silenzioso. Una fitta nebbia avvolgeva l'acqua e la terra, ma almeno aveva smesso di piovere. Lummomu-Ko e Wikit-Aa si trovavano vicino alla passerella di legno per aiutare i cinque Compagni Fedeli a mettersi in spalla un'intelaiatura in legno che reggeva sacchi con armi di riserva, abiti, pochi oggetti indispensabili e cibo. Jagun era già sceso a riva a conferire col gruppo di perlustratori Wyvilo. «Siamo quasi pronti, lady Kadiya», disse sir Bafrik. «Il capitano dice che sulla strada per raggiungere il viadotto dobbiamo fare attenzione agli alberi-calice mangiauomini e ai velenosi insetti suni.» «E a causa della nebbia», aggiunse sir Edinar con gusto macabro, «c'è un pericolo particolare rappresentato dai rapaci namp, creature orribili native solo di queste zone. Si appostano sul fondo di buche astutamente occultate, in attesa che prede poco guardinghe ci ruzzolino dentro.»
«Ho sentito parlare di questi namp, Edi. Sono senz'altro formidabili ma non possono certo competere con un campione bene armato come te.» Kadiya si rivolse quindi a Wikit-Aa. «In che condizioni è la pista? I tuoi scout pensano che saremo in grado di raggiungere le cascate e il viadotto per mezzogiorno di domani?» «Qui nelle terre basse la via è parzialmente allagata», riferì il capitano della chiatta, «ma i miei uomini hanno segnato una breve strada alternativa. Verso ovest, dove il terreno risale, la pista originale ritorna subito agibile. Salvo contrattempi, dovreste coprire facilmente la distanza in un giorno e mezzo. Ma sono sempre preoccupato per la possibile presenza di cannibali Glismak.» Kadiya sfiorò lo stemma araldico del Giglio con gli Occhi che decorava la sua corazza di scaglie di milingal. «Persino qui, nel selvaggio sud di Var, il Popolo della Foresta avrà sentito nominare la Signora degli Occhi.» «Temo», replicò Wikit-Aa con straordinaria dolcezza, «che abbiano sentito nominare anche le mille corone offerte dagli Uomini della Stella per la vostra cattura.» Kadiya non poté che ridere. «Sarò io a pretendere un premio a mia scelta da quei farabutti, una volta attraversato con successo il viadotto.» «Aspetteremo cinque giorni, dunque», promise lo skipper. «Signora, addio.» Lei lo salutò con un cenno del capo, abbracciò brevemente Lummomu, quindi si volse verso i cavalieri, che attendevano con malcelata impazienza. Sotto i mantelli impermeabili in pelle, indossavano elmi d'acciaio e cotta di maglia completa. «Compagni», disse la donna, «per noi è tempo di sbarcare.» Mentre scendevano dalla plancia in fila indiana, Jagun consegnò a ognuno bastoni da passeggio appena tagliati. E fu proprio lui a fare strada nella giungla brumosa, con gli uomini subito dietro e Kadiya a chiudere la fila dopo avere salutato un'ultima volta con la mano il principe Tolivar, che li guardava da un oblò aperto della tuga di poppa. Pochi istanti e il gruppo non era già più visibile. «Cugino, questo non mi piace.» Lummomu stava seguendo Wikit-Aa mentre lo skipper faceva un giro d'ispezione, controllando personalmente i legamenti che tenevano insieme la massiccia zattera di tronchi. Aveva cominciato a cadere una pioggerellina sottile. «Da quando abbiamo lasciato il Mutar per entrare in questo immissario, il naso mi prude moltissimo. A-
vrei dovuto insistere per accompagnare la spedizione... almeno fino alla Doppia Cascata. Non riesco a ignorare la sensazione che stia per accadere una grande disgrazia, ma se debba colpire noi o la Signora degli Occhi, non saprei dirlo.» Wikit-Aa si strinse nelle spalle, ruotando i grandi occhi. «Cugino, anche a me prude il naso, ma riesco a pensare a una sola calamità che potrebbe verificarsi al momento, e sarebbe perdere gli ormeggi. Questa sponda sinistra è troppo bassa per stare tranquilli. Presto ricomincerà a piovere e quando l'Oda salirà, la riva verrà inondata. Se non vogliamo rischiare che la corrente ci rispedisca indietro nel Grande Mutar dobbiamo spostare la chiatta dall'altro lato del fiume, in quell'insenatura laggiù, e legarla ad alberi più possenti. Se davvero desideri evitare un disastro, vai a prua e preparati a manovrare una gaffa.» Ci vollero oltre tre ore di duro lavoro per spostare la poco maneggevole imbarcazione in un luogo più sicuro. A fatica terminata, Lummomu-Ko si unì allo skipper e al resto dell'equipaggio nella tuga di prua, dove il cuoco servì un lauto pasto. Dopo pranzo, con la pioggerellina trasformatasi in acquazzone, tutti gli Wyvilo si apprestarono a fare un gradito pisolino. Il Portavoce aveva dimenticato l'inquietudine del mattino. Si svegliò nel tardo pomeriggio, il naso che prudeva come non mai. Qualcosa lo spinse a controllare la tuga di poppa, dove il principe Tolivar e Ralabun erano rimasti appartati dal momento della partenza di Kadiya e dei cavalieri. Con orrore, Lummomu scoprì che il bambino e il suo amico Nyssomu erano spariti, lasciandosi alle spalle un forziere di ferro aperto e vuoto, posto sotto la branda del principe. «Devo raggiungerli!» disse il costernato Portavoce di Let allo skipper, che lo aveva seguito a poppa. I due Wyvilo rimasero sul ponte sotto la pioggia battente, guardando al di là del canale. La distesa di acqua marrone che scorreva rapida aveva raggiunto almeno cinquantacinque ell di larghezza. «Dobbiamo riportare la barca sull'altra riva, immediatamente!» Ma Wikit-Aa era più pratico. «Cugino, l'equipaggio è esausto. Non ce la faremmo prima di notte, e una volta fatto scendere a terra te, non avremmo altra possibilità che lasciarci trasportare dalla corrente fino al Grande Mutar, perché là non ci sono punti d'attracco sicuri, ora che il fiume è salito.» «Ho promesso di difendere Tolivar a costo della vita! Se non mi porti tu dall'altra parte, ci andrò a nuoto!» Wikit-Aa appoggiò le mani sulle spalle del Portavoce, come a bloccarlo. «Cugino, fermati un attimo a riflettere! Il principe e Ralabun devono esse-
re riusciti a scivolare giù dalla chiatta prima che lasciassimo la sponda sinistra. Questo significa che se ne sono andati più di sei ore fa, poco dopo la partenza della Signora degli Occhi. Secondo me, il ragazzo ha deciso d'impulso di accompagnare la zia. È stata una mossa avventata, senza dubbio, ma quando la squadra della Signora si fermerà per la notte, il principe non avrà problemi a raggiungerla. Tu non riusciresti di certo a trovarlo prima di allora.» Lummomu si batté la mano sulla fronte scagliosa in un gesto di furiosa frustrazione. «Che sia dannata la stupidità del ragazzo! Che sia dannato quel Ralabun per essere stato indulgente con lui invece di agire in modo razionale! Ah, se solo fossi capace di parlare con Jagun e avvisarlo!» Ma gli Wyvilo, a differenza del piccolo Popolo della Palude Labirinto, erano incapaci di usare il linguaggio senza parole a distanza apprezzabile. «È inutile che tu ti metta a inseguirli», insistette Wikit-Aa. «Il mio onore richiede che vada!» «Ma la logica suggerisce che tu rimanga.» Lummomu-Ko sollevò al cielo le mani munite di artigli ed emise un profondo ruggito carico di rabbia e umiliazione. Lo skipper invece si limitò a incrociare le braccia e a scuotere la testa, aspettando che il solito buonsenso del cugino tornasse a prevalere. Quando finalmente ciò accadde, i due aborigeni entrarono insieme nella tuga e si versarono un bicchiere di salka dalla grande brocca coperta di vimini che aveva portato Turmalai Yonz. Già da un bel po' l'equipaggio aveva stabilito che non era avvelenata. A mezzogiorno la truppa di Kadiya si fermò al riparo di un ampio bruddock per un rapido pasto a base di formaggio e gallette, trovando modo di sedere su delle rocce che, una volta levata la copertura di muschio di krip, risultarono asciutte. Jagun tentò di accendere il fuoco per preparare il tè, ma l'aria era così carica di umidità che risultò impossibile persino per uno abile come lui, quindi dovettero accontentarsi dell'acqua fredda. Il buonumore tornò in parte quando il piccolo Nyssomu scorse un cespuglio con dei grappoli di bacche bianche. «Questi sono sifani», spiegò Jagun con entusiasmo. «Sono deliziosi e molto dissetanti, e anche se il resto delle nostre razioni è assai modesto, almeno avremo un ottimo dessert.» «Il dessert è la mia portata preferita», replicò sir Edinar. E senza por tempo in mezzo il fanciullesco cavaliere prese a divorare i frutti succulenti, strappando rami da passare agli altri.
La pioggia si era leggermente calmata, ma la visibilità era ancora scarsa. Si erano spostati dalle terre basse fitte di vegetazione a una zona più elevata, in cui procedere era più semplice benché il sentiero fosse ripido. In alcuni punti delle frane avevano cancellato la pista, ma le deviazioni non facevano perdere molto tempo e si era potuto mantenere un buon passo. Di quando in quando si scorgevano gruppi dei micidiali alberi-calice - ingannevolmente belli, con tronchi carnosi e una corona di foglie colorate a forma di coppa che nascondeva tentacoli in grado di trascinare un uomo alla morte - ma il gruppo non incontrò serpenti velenosi né grandi animali predatori. «Direi che abbiamo percorso circa otto leghe», disse Jagun sgranocchiando un pezzo di pane. «Possiamo proseguire tranquillamente per altre tre o quattro ore, ma poi dobbiamo trovare un posto sicuro dove fermarci, ben distante dal sentiero e dove i Glismak che si aggirano furtivi nella notte non possano trovarci con facilità. Le grandi rocce lungo la sponda del fiume possono offrire riparo dalla pioggia, ma purtroppo non è consigliabile arrischiarsi ad accendere un fuoco una volta calata la sera.» «Un vero peccato», sospirò Melpotis. Lui e Kalepo, fratelli dell'assassinato lord Zondain, avevano visi lunghi, barba gialla e scintillanti occhi scuri. «Il fuoco aiuterebbe a tenere lontane le bestie feroci.» «La nostra preoccupazione principale sono i Glismak», replicò Kadiya, «e magari anche Uomini della Stella dediti al saccheggio che si fossero avventurati attraverso il viadotto. L'ambra del giglio mi avvertirà se la mia vita dovesse essere in pericolo, perciò quando sarà buio dovremo stare vicini e tenere le armi a portata di mano.» «Pensi forse», domandò sir Bafrik con apprensione, «che a guardia del viadotto della Doppia Cascata troveremo un squadra di stregoni?» «Quel farabutto di Turmalai Yonz ha affermato che il premio per me sarebbe stato pagato all'alba», rispose Kadiya. «Perciò mi sembra plausibile che gli Uomini della Stella si facciano vivi ogni giorno a quell'ora per vedere se la mia preziosa carcassa è stata messa in vendita. Se arriviamo sul luogo del viadotto attorno a mezzogiorno, come ho previsto, con ogni probabilità lo troveremo deserto. Certo è che faremo comunque un'attenta perlustrazione prima di avvicinarci.» «E di sicuro», intervenne sir Bafrik, «saremo abbastanza saggi da attendere che faccia buio prima di entrare nel viadotto.» «Se il passaggio conduce direttamente al covo di Orogastus», replicò tetro il corpulento Sainlat, «non avrà importanza che lo attraversiamo di
giorno o di notte. Saremo costretti a combattere per la nostra vita.» «Io sono pronto a tutto!» dichiarò il giovane Edinar, pulendosi le labbra dal succo di sifani, e anche Kalepo e Melpotis si dissero decisi a lottare. Ma Kadiya smorzò gli entusiasmi. «Devo far svanire le vostre sanguinarie speranze, Compagni, almeno a breve termine. Una volta raggiunto il viadotto, ci entrerò io per prima... e da sola.» Immediatamente gli uomini presero a protestare, cercando di convincerla a cambiare idea, ma lei non cedette. «Il mio amuleto mi nasconderà a sguardi ostili, e se non ci saranno problemi all'altro lato del cancello magico, sempre ammesso che consenta un ingresso sicuro nel regno dello stregone, farò subito ritorno qui per far venire anche voi.» Neppure Jagun approvava l'idea. «Lungimirante, ma che succede se il viadotto sbocca in un posto pericoloso?» «Come ben sai l'ambra del giglio mi ha salvato la vita molte volte. Non mi abbandonerà certo in questa occasione.» I cinque cavalieri restarono seduti in silenzio per alcuni minuti, rimuginando sulle parole di Kadiya, estremamente dubbiosi riguardo al suo piano ma restii a opporvisi nel timore di essere considerati sleali. Alla fine, fu di nuovo Jagun a parlare. «E che cosa dovremmo fare, Lungimirante, se una volta entrata nel viadotto non tornassi?» «In quel caso dovresti parlare a distanza con la Bianca Signora e comunicarle il mio destino», gli disse, «quindi seguire i suoi ordini.» «Non sarebbe più prudente consultarla prima?» «No», ribatté ferma Kadiya. Jagun chinò il capo in un gesto di silenzioso rimprovero. Kadiya si alzò e prese lo zaino. «Ci siamo trattenuti qui abbastanza a lungo. Riprendiamo il cammino.» La tribù di Glismak della zona dell'Oda aveva un unico insediamento di meno di quaranta anime a tre giorni di marcia dalla Doppia Cascata. La maggior parte dei membri di quella razza conduceva un'esistenza austera limitandosi alla caccia e alla raccolta. Quelli che risiedevano più a nord, vicino al territorio Wyvilo, di quando in quando facevano rozzi lavori manuali per i loro simili aborigeni e persino per gli umani. Alla tribù dell'Oda, più fortunata di altre, il mandatario Turmalai Yonz aveva insegnato a catturare e scuoiare il diksu blu, e a trattarne la pelliccia che era molto richiesta e apprezzata. Iniziati in questo modo al commercio, i Glismak di
questo gruppo erano diventati molto più ambiziosi, in quanto ormai avvezzi a lussi come bevande alcoliche, ornamenti di perle provenienti da Zinora e coltelli d'acciaio. Il mandatario Turmalai acquistava le loro pelli all'inizio di ogni Stagione Umida, e i Glismak l'avevano visto di recente. Considerato che una balla di pelli alta quanto la capanna del capo villaggio degli Oda, che la tribù aveva impiegato quasi sei mesi ad accumulare, aveva fruttato loro un'unica corona d'oro varoniana, era ovvio che il Popolo dell'Oda fosse rimasto sbalordito quando Turmalai Yonz aveva riferito del premio favoloso offerto dagli Uomini della Stella per la cattura della Signora degli Occhi. La somma di mille corone di platino andava ben al di là della comprensione dei Glismak. (Avendo soltanto tre dita per mano, non avevano mai imparato a contare oltre il sei, e tuttavia sapevano che mille doveva essere molto più di così.) Con la falsa promessa di Turmalai di dividere il denaro se avessero trovato la Signora, i Glismak Oda avevano fatto ritorno alle loro trappole nascoste nella parte più selvaggia della regione. Mentre lavoravano, tenevano i grandi occhi rossi bene aperti nella speranza d'individuare la preziosa preda umana. E il giorno prima l'avevano trovata. La chiatta Wyvilo era entrata nel tratto più basso del fiume Oda appena prima del tramonto. C'era foschia, ma gli osservatori sulla riva avevano visto con chiarezza una femmina umana piuttosto piccolina e coi capelli marrone rossiccio legati in una treccia appoggiarsi all'orlo di murata, mentre l'imbarcazione veniva ormeggiata per la notte. I marinai Wyvilo, una razza molto vicina alla loro, erano nemici troppo formidabili per poterli affrontare. I Glismak in agguato non potevano fare altro che aspettare e sbadigliare, implorando il loro dio a tre teste di far scendere a riva la Signora degli Occhi e i suoi compagni aborigeni. Alla fine, le loro preghiere erano state esaudite. I Glismak del fiume Oda erano una razza di Popolo alquanto primitiva, ma non per questo stupida. Decisero di attendere che la preda e gli uomini armati che l'accompagnavano raggiungessero il portale magico, prima di attaccare, in modo da non dover trasportare il cadavere per un tratto troppo lungo. Il mattino seguente il tempo era molto migliorato. Pioggia e nebbia erano scomparse del tutto, e quando Kadiya e i suoi furono tornati sulla pista dal bivacco accanto al fiume, il sole era spuntato. Marciarono per quattro ore, senza vedere nulla d'insolito né udire altro che il rumore del fiume che
precipitava sui massi, il raro trillo di un uccello canterino e lo sporadico grido di qualche animale lontano. «A questo punto la Doppia Cascata non dev'essere molto distante», commentò Jagun quando il sole fu quasi a picco. «Ottimo», ribatté sir Sainlat, «perché sono quasi stufo di arrampicarmi su questo sentiero roccioso. Venderei l'anima per un fronial sellato!» Gli altri risero e cominciarono a prenderlo in giro, ma la verità era che tutti ormai erano stanchi, non essendo abituati a camminare con l'armatura e per di più portando un carico pesante sulle spalle. Kadiya, che continuava a stare in retroguardia, come aveva fatto per la maggior parte del tempo, si fermò per voltarsi a osservare la strada da cui erano venuti. La valle dell'Oda si era ristretta, e l'aspetto della foresta era mutato. Avevano superato le umide terre basse di Tassaleyo ed erano entrati nell'area collinare pedemontana della catena meridionale degli Ohogan. Molto in alto, nella volta formata dalle fronde degli alberi sopra la pista, qualcosa di rosso attirò la sua attenzione. Era un grande ala garzata, la cui apertura alare superava l'ampiezza delle sue mani, che svolazzava in cerca di nettare. Alla vista della graziosa creatura Kadiya sorrise, quindi riprese il cammino, mentre gli altri avevano già raggiunto la cima della ripida cresta. Vide Jagun farle dei cenni e la sua mano andò automaticamente all'elsa della spada. L'Oddling, però, non sembrava preoccupato, quindi si limitò ad affrettare il passo e in un attimo gli fu accanto. Dritto davanti a loro, ecco il traguardo: due fiotti d'acqua che brillavano e luccicavano precipitando per quasi cento ell lungo la parete della montagna. Alla base della Doppia Cascata c'era un laghetto, coperto di candida schiuma nel punto d'impatto delle cateratte e di un limpido azzurro-verde nelle zone più lontane. La radura attorno a esso sembrava assolutamente deserta. Si avvicinarono di soppiatto, senza incontrare nessuno, e alla fine si ritrovarono ai piedi delle cascate gemelle in un fitto boschetto di alberi alquanto singolari. I tronchi presentavano delle aperture verticali di oltre un ell che si aprivano e chiudevano in continuazione, rivelando fauci ricoperte di lucenti punte verdi simili a enormi zanne. Qui e là si notavano alberi con la «bocca» chiusa, dalle cui labbra legnose filtravano sangue e altri fluidi indefinibili. «Gli Wyvilo chiamano questi alberi lopa», spiegò Kadiya ai Compagni, che si erano radunati attorno a un esemplare e lo osservavano con apprensione. «Hanno un aspetto repellente, ma non rappresentano un pericolo per
gli esseri umani, a meno di essere tanto sciocchi da infilare una mano nell'apertura dentata. Quando mia sorella Anigel intraprese l'iniziale ricerca del suo talismano, il Mostro a Tre Teste, trovò il diadema nascosto all'interno di un lopa gigantesco e riuscì a recuperarlo solo grazie a grande coraggio e altrettanta ingegnosità.» All'improvviso, Jagun, che aveva abbandonato il gruppo per esplorare una zona accanto al laghetto, si mise a gridare: «Lungimirante! Credo di aver trovato lo sbocco del viadotto». Gli altri corsero da lui, e là, tra due lopa di eccezionali dimensioni cresciuti vicino all'acqua, ecco una liscia lastra di pietra stranamente priva di muschio o di altra vegetazione del sottobosco. Su di essa era incisa una scanalatura perfettamente dritta, mentre sul tronco di uno degli alberi era appesa una tavoletta con sopra dipinta una stella dalle molte punte. «Vedremo subito se hai ragione», disse Kadiya e, ammonendo tutti di stare indietro, ordinò: «Sistema viadotto, attivati!» Con un basso suono di campanelle apparve un grande disco nero che sembrava non avere spessore, e i cavalieri lanciarono grida stupite. Kadiya annuì soddisfatta e si liberò dalle cinghie dello zaino. Prima che gli altri potessero pronunciare verbo, estrasse dal farsetto la lucente goccia d'ambra che le pendeva dal collo e la sollevò tenendola stretta nella mano sinistra. La destra era appoggiata sull'elsa della spada. «Giglio Nero», disse, «ti prego di schermarmi alla vista di persone ostili e tenermi al sicuro da ogni male.» Entrò nella minacciosa superficie scura del viadotto e scomparve. Seguì un attimo di assoluto silenzio. Poi si udì un urlo da fermare il cuore, un ringhio di rabbia e frustrazione uscito da molte gole. Jagun e i cavalieri si voltarono di scatto. Con zanne scoperte e occhi fiammeggianti, più di venti enormi guerrieri aborigeni armati di lance dalla punta d'acciaio stavano scendendo a balzelli lungo il declivio boschivo costellato di massi. «Glismak!» gridò Jagun. Non aveva finito di parlare che già le creature lanciavano le loro armi. Le aste, dirette contro la Signora degli Occhi, andarono verso il viadotto, ma in un battito di ciglia il disco nero scomparve e la maggior parte delle lance finì per librarsi sopra il laghetto della cascata senza recare offesa. Fu solo per caso che una delle punte metalliche colpì sir Bafrik alla gola, priva di protezione. Il cavaliere barcollò all'indietro mentre il sangue gli si riversava copioso sul petto, quindi cadde nell'acqua, che divenne scarlatta.
Per un attimo il gruppo di cannibali si fermò, gridando e mugghiando per il disappunto causato dall'inaspettata perdita della preda. Quindi alcuni estrassero corte spade varoniane, mentre altri sollevarono mazze di pietra e armi varie, e tutti presero ad avanzare verso Jagun e i quattro cavalieri rimasti con l'intenzione di sbarazzarsi di loro in men che non si dica. Dopo di che, avrebbero organizzato un festino di consolazione. 15 Essere invisibili ha i suoi svantaggi. Quando il principe Tolivar e Ralabun lasciarono la chiatta e cominciarono a seguire Kadiya e gli altri per la piana fluviale dove la nebbia era fitta, ci misero poco a scoprire che i vapori non penetravano lo spazio occupato dai loro corpi non visibili, e che a uno sguardo attento era possibile individuare il contorno di una forma umana tracciato dalla turbinante foschia. Il principe era sconcertato. Non riusciva a pensare ad alcun ordine da dare al talismano per migliorare la situazione. Perciò alla fine lui e Ralabun si limitarono a mantenere una certa distanza dal gruppo, sperando di non essere notati. Quando finalmente il grosso della nebbia scomparve e i due tornarono a essere davvero invisibili, si presentò una nuova difficoltà. Né il principe né Ralabun sapevano dove si trovasse l'altro in un determinato momento e quando, per esempio, il ragazzino dovette fermarsi per un bisogno naturale, il Nyssomu proseguì senza accorgersene, salvo poi farsi prendere dal panico una volta resosi conto che i suoi passi erano gli unici che si udivano. A quel punto Ralabun si precipitò di gran carriera lungo la pista che aveva appena percorso, urlando a perdifiato il nome del principe. Irritato, Tolivar rimproverò aspramente il vecchio mastro stalliere. «Testa di legno che non sei altro! Che senso ha essere invisibili se tradisci la nostra presenza con quella boccaccia? Non avrei mai dovuto farti venire con me!» «In quel caso, Cuore Celato, avresti dovuto portartelo tu lo scrigno stellato», replicò Ralabun con dignità ferita, «per non parlare del cibo e degli altri rifornimenti. Inoltre, senza la mia conoscenza dei luoghi selvaggi, un ragazzino come te si perderebbe di certo o sarebbe vittima di qualche incidente fatale prima di avere viaggiato per mezza lega.» Ma questo non era vero. Il principe aveva imparato molto dalle escursioni clandestine nella Palude Labirinto, mentre per oltre quarant'anni Ra-
labun aveva passato la maggior parte delle sue giornate nelle scuderie reali, godendo delle civilizzate comodità umane, e aveva dimenticato quasi tutto ciò che aveva appreso in gioventù riguardo alle astuzie da palude. In realtà, come guida era meno che inutile. Aveva fatto un sacco di storie ammonendo il principe di non toccare gli alberi-calice, gli intrappolapiede o altri vegetali che erano una minaccia alquanto evidente, dimenticando d'indicare pericoli più subdoli come i mortali insetti suni che penzolavano da un filamento di secrezione viscosa in mezzo ai cespugli, oppure gli snafi, che parevano foglie morte ma in realtà erano piccoli animali che avanzavano strisciando su una moltitudine di zampette simili a dita, in grado d'iniettare veleno se s'infilavano sotto i vestiti e venivano a contatto con la pelle. Per di più Ralabun irritava il principe fermandosi in continuazione a osservare la foresta, facendo ruotare le lunghe orecchie a punta, annusando l'aria carica di pioggia e mettendo in guardia dall'approssimarsi silenzioso di predatori che però non apparivano mai. Alla fine il principe perse la pazienza e prese il comando della spedizione, dopo di che cominciarono ad avanzare più rapidamente. Da quel momento in poi, se c'era da attraversare un torrente, era il ragazzo a stabilire il punto del guado o su quali pietre saltare. Tolivar decise anche che avrebbero fatto meglio a evitare le zone dilavate della pista, selezionando con cura la strada da seguire in modo che il loro passaggio non provocasse ulteriori smottamenti. E quando il sentiero pareva scomparire in mezzo ad alberi abbattuti o al sottobosco grondante, era ancora Tolivar a ritrovare la direzione giusta, anche se Ralabun dava in escandescenze sostenendo di aver sempre saputo che strada prendere. Affrettandosi sotto la pioggia, raggiunsero il luogo in cui Kadiya e i Compagni Fedeli avevano consumato il pasto di mezzogiorno, e fecero una brutta scoperta: nel denso fango si scorgevano numerose orme di grandi zampe a tre artigli che il principe indicò al Nyssomu. «Quelle non sono di animali», disse, cercando d'impedire alla voce di tremare. «Deve trattarsi di Glismak. Guarda come le impronte si sovrappongono a quelle di zia Kadi e dei suoi compagni! Quei bruti li stanno seguendo.» «Oh, che il Sacro Fiore ce ne scampi e liberi!» si lamentò Ralabun. «Dobbiamo trovare il modo di avvertire il gruppo della Signora della presenza dei cannibali!» «Magari potrei sussurrarle all'orecchio in modo che creda che sia il suo
amuleto del Giglio Nero a parlare. O addirittura uno dei Signori dell'Aria.» Il principe ridacchiò nervosamente, perché l'idea di essere scambiato per un guardiano celeste non gli dispiaceva affatto. Appoggiò con forza le dita sui lati del diadema, chiuse gli occhi e ordinò di avere la Vista di Kadiya. Quello era un genere di magia che aveva praticato spesso, diventando abbastanza esperto. «Puoi vedere la Signora?» mormorò Ralabun in preda all'ansia. «Sì.» Nella mente di Tolivar era apparsa un'immagine molto chiara della Signora degli Occhi e degli altri, che stavano camminando a passo pesante lungo la pista sempre più ripida, circondati da vorticosi riccioli di nebbia. Sentì la voce di Ralabun che diceva: «Avvertila del pericolo, Cuore Celato. In fretta!» «Zia! Mi senti?» Ma Kadiya continuava a procedere incurante, anche se Tolivar non smetteva di chiamarla, tenendo gli occhi chiusi per non perdere la Vista. «È inutile», disse infine il ragazzo. «Dev'esserci un trucco che consente di parlare a distanza che io ancora non conosco.» «Molto probabile. Faresti bene a scoprire le intenzioni dei cannibali.» Tolivar ordinò al diadema di mostrargli i Glismak, e il talismano obbedì prontamente, offrendo al principe la visione di aborigeni molto alti e di aspetto temibile che trottavano in fila indiana lungo uno stretto sentiero soffocato da enormi felci e altri arbusti. «Dove si trovano i Glismak rispetto a me?» bisbigliò il ragazzo rivolto al Mostro a Tre Teste. Sono all'incirca una lega a sud del viottolo del fiume, e si stanno allontanando da te. «Stanno seguendo mia zia Kadiya?» Si stanno allontanando anche da lei. È impossibile determinare le loro intenzioni, dato che non ne parlano e sono esseri dotati di volontà propria. Tolivar ripeté a Ralabun ciò che aveva detto il talismano, e il Nyssomu ne fu molto incoraggiato. «Forse i cannibali hanno ritenuto la squadra della Signora troppo forte per poterla attaccare. In fondo non sono che ingenui selvaggi. Di quando in quando devi tenere sotto controllo i bruti col tuo talismano, per accertarti che non ritornino. Adesso, però, faremo meglio a muoverci. Non sarebbe saggio da parte nostra tenerci a una distanza eccessiva dalla Signora degli Occhi, se ci auguriamo di poter entrare nel viadotto subito dopo di lei.» Si rimisero in marcia il più velocemente che potevano, ma nessuno dei due aveva le gambe lunghe. A peggiorare le cose, la pista a quel punto era
quasi tutta in salita ed erano spesso costretti a fermarsi per prendere fiato, colpiti da fitte ai fianchi. Poi cominciò a farsi buio. Tolivar li rese di nuovo visibili, temendo che potessero separarsi inavvertitamente nella crescente oscurità. «È comunque ora che ci fermiamo per la notte. Chiedo al Mostro a Tre Teste di trovare una grotta asciutta o un albero cavo? O devo provare a usare la magia dell'Occhio di Fuoco per tagliare del legno e fare un tetto a falda come riparo?» «Non me ne importa niente.» Ormai il vecchio Nyssomu era davvero scoraggiato. «Starei benissimo anche qui se potessi avere un paio di stivali asciutti... e sollievo al dolore per la vescica sul tallone destro.» «Proviamo a vedere se posso aiutarti», disse Tolivar. Estrasse la scura spada spuntata dalla cintura e la tenne in mano prendendola per la lama, come aveva visto fare a Orogastus. «Occhio di Fuoco Trilobato! Ti ordino di curare i piedi di Ralabun e di asciugare i suoi stivali.» Mentre parlava, il principe visualizzò ciò che desiderava si compisse. I lobi che formavano il pomo della spada si aprirono, e tre Occhi magici fissarono i piedi di Ralabun. «Ahi! Ahi! Scotta!» All'improvviso dagli stivali presero a uscire nuvolette di fumo e Ralabun si mise a danzare in modo frenetico, piagnucolando e bofonchiando imprecazioni aborigene. Il principe si affrettò a scusarsi. «Perdonami! Non sapevo che sarebbe andata così! Forse avrei fatto meglio a usare il diadema. Mi ero dimenticato che la spada talismano di zia Kadi è più un'arma che una bacchetta magica. Uhm... la tua vescica è guarita?» «Come faccio a saperlo», gemette il Nyssomu in modo pietoso, «coi piedi in fiamme? La prossima volta, aspetta almeno che mi sia tolto gli stivali, prima di fare esperimenti. Anzi, meglio ancora, fa' pratica della tua stregoneria amatoriale con qualcun altro... i cannibali Glismak, per esempio!» «Spero di non doverlo fare», ribatté mogio il ragazzino, «e faresti meglio ad augurartelo anche tu.» Ralabun sospirò. I piedi si erano raffreddati in fretta, e la vescica era guarita davvero. «Scusa, Cuore Celato, so che volevi solo aiutarmi. Ma sono così stanco e bagnato...» Tolivar premette le dita sul diadema. «Talismano, puoi condurci in un luogo asciutto dove trascorrere la notte al sicuro?» Si. Sul fianco della collina alla tua destra, in mezzo alle rocce, c'è una
nicchia di dimensioni sufficienti. Segui la scintilla verde. Una minuscola luce color smeraldo uscì dalla bocca della testa centrale del diadema e iniziò lentamente ad allontanarsi dalla pista. Tolivar prese per mano Ralabun. «Vieni, è tempo che riposiamo e mangiamo. Con un po' di fortuna troverò il sistema di asciugare il resto dei tuoi vestiti usando la magia. Ma non temere, caro amico: questa volta proverò prima su di me.» La mattina si svegliarono ristorati, e Tolivar scoprì che Kadiya e la sua squadra si trovavano meno di un quarto di lega davanti a loro, a fare colazione vicino al fiume Oda. «E i Glismak stanno seguendo noi, o loro?» il ragazzino domandò al diadema. No. Soddisfatto e spavaldo, visto che il suo ambizioso progetto procedeva così bene, il principe rese di nuovo invisibili se stesso e Ralabun. I due si rimisero in marcia nello stesso momento in cui ripartivano Kadiya e i Compagni. Camminarono per parecchie ore e, pur diventando sempre più esausti col passare del tempo, riuscirono comunque a mantenersi alle spalle degli altri. Poi scoprirono tracce fresche di Glismak che attraversavano il sentiero dirigendosi verso destra. Tolivar si fermò ed esaminò costernato le minacciose impronte. «Questo è strano», commentò Ralabun. «Mi pareva che il tuo diadema avesse detto che i cannibali non ci seguivano.» La terribile verità apparve al principe in un lampo. «No... ci stavano girando attorno per preparare un'imboscata! Sono stato così stupido da domandare al talismano soltanto di una delle tante possibilità, e lui risponde sempre in modo letterale. Presto! Dobbiamo cercare di avvertirli!» Ripartì di corsa, cadendo e addirittura procedendo carponi, perché in quel punto la pista era estremamente ripida. «Non riesco a starti dietro, Cuore Celato», disse boccheggiando il mastro stalliere. «Continua senza di me e...» In lontananza ci fu una raffica di grida bestiali, seguita dall'urlo di dolore di un uomo. In preda al terrore gli amici invisibili strisciarono in cima a una cresta rocciosa. Sotto di loro, vicino alle cascate gemelle, si trovava una piccola radura circondata da alberi mostruosi. Sembrava affollata di esseri enormi
che saltavano e si aggiravano agitando spade, mazze con la testa di pietra e asce varoniane arrugginite, e allo stesso tempo strillavano in modo orribile. Non indossavano abiti, dato che sulla schiena, sulle spalle e nella parte superiore delle braccia erano ricoperti di placche di pelle lucente che fungevano da armatura. Il resto del corpo presentava una peluria bionda che sulla testa cresceva molto di più andando a formare vere e proprie criniere. Il viso aveva forma di muso, un po' come gli Wyvilo, loro simili, ma gli occhi invece che gialli erano di un rosso brillante. La bocca riluceva di lunghi denti bianchi e avevano mani e piedi artigliati. La banda di Glismak era impegnata in una battaglia campale contro i quattro Compagni Fedeli schiacciati dal soprannumero. Del quinto cavaliere, di Jagun e della Signora degli Occhi, nessuna traccia. «Che possiamo fare?» si lamentò Ralabun. «Guarda! Uno dei Compagni è a terra. Oh, no! I selvaggi lo stanno facendo a pezzi!» «Devi fare esattamente ciò che ti dico.» All'improvviso il principe era sicuro e risoluto. «Esci dal sentiero sulla sinistra, scivola giù dalla collina e dirigiti verso quella rupe scoscesa vicino alla cascata. Salici sopra e comincia a scagliare sassi contro i Glismak con tutta la forza che hai. Strilla come se fossi un fantasma dell'Inferno Spinoso. Questo distrarrà i cannibali e forse contribuirà a spaventarli al punto di farli scappare. Nel frattempo, io farò quello che posso coi talismani.» «Ma...» «Sbrigati!» sibilò il principe. Quasi ruzzolando, prese a scendere lungo la pista, trascinando con sé l'Occhio di Fuoco Trilobato. Una volta raggiunta la radura e potendo quindi vedere distintamente i partecipanti al combattimento, si fermò, appoggiando a terra un ginocchio. Reggendo il talismano per la lama smussata, puntò l'elsa verso il più alto dei tre Glismak che avevano assalito il cavaliere caduto. Nella propria mente, il ragazzo vide la nefanda creatura ridotta in cenere, quindi disse: «Occhio di Fuoco, distruggilo». Le tre orbite che formavano il pomo della spada si aprirono, rivelando occhi che si fissarono sul gigantesco Glismak. Dall'occhio umano si dipartì un raggio dorato, da quello del Popolo un lampo verde e da quello argenteo degli Scomparsi un fascio luminoso di un bianco ustionante. Il corpo del guerriero selvaggio fu avvolto dalla radiosità tricolore. In un istante la sua carne si consumò, quindi scomparvero anche le ossa lucenti, lasciando sul terreno fangoso soltanto una chiazza grigia simile a cenere bagnata. Gli altri aggressori si fecero indietro, stupefatti. La loro vittima predestinata
era ancora viva, e infatti il cavaliere si mise faticosamente seduto, irriconoscibile a causa del sangue rappreso che lo ricopriva, a fissare meravigliato le ceneri. Anche il principe era stupito che il nuovo talismano gli avesse obbedito con tanta prontezza, e il cuore gli si riempì di gioia e di orgoglio. Indirizzò l'Occhio di Fuoco sugli altri due Glismak che si trovavano ancora vicini al Compagno a terra, come paralizzati, e incenerì pure loro col fulmine magico. Gli altri cannibali presero ad agitarsi furiosamente, gridando nel tipico linguaggio gutturale, quindi iniziarono a fuggire e dopo pochi istanti si erano rifugiati tutti nella foresta. Tolivar, sempre invisibile all'estremità della radura, non riuscì a evitare un grido di trionfo. «Chi è là?» strillò sir Edinar. Lui e i fratelli Kalepo e Melpotis erano gli unici Compagni ancora in piedi. Tutti e tre presentavano molte ferite, ma nessuna mortale. «Qualche stregone è venuto in nostro aiuto», disse il cavaliere curvo al suolo, poi emise un gemito di dolore e ricadde esausto. Dalla voce il principe identificò sir Sainlat, che sanguinava in decine di punti. Aveva un piede praticamente staccato dalla gamba da un colpo d'ascia dei Glismak, e da quella ferita il sangue zampillava come una fontanella scarlatta. Tolivar si precipitò verso di lui. Toccando con due dita il diadema che portava sul capo, chiuse gli occhi e nella sua immaginazione vide Sainlat alto e forte come era stato quella mattina alla partenza dalla chiatta. «Talismano», mormorò, «fa' che sia ancora così.» Il corpo di Sainlat fu avvolto da una morbida luce verde. Il robusto cavaliere si stiracchiò e si mise a sedere. Sul viso non aveva più tracce di sangue e lo stupore lo fece rimanere letteralmente a bocca aperta, perché tutte le ferite erano svanite. Persino armatura e indumenti erano puliti e in condizioni perfette. «Sacro Fiore!» urlò Edinar. Seguito da Melpotis e Kalepo, corse dal Compagno ristabilito, e i tre rimisero in piedi Sainlat e cominciarono a ridere e a scambiarsi pacche sulle spalle. Mentre festeggiavano a quel modo, il principe ordinò al Mostro a Tre Teste di curare anche gli altri. Una triplice pulsazione di luce verde annunciò la realizzazione della magia, lasciando i cavalieri trasformati storditi dallo shock e dalla gioia. «O Mago, fatti avanti e accetta il nostro ringraziamento!» riuscì a dire Kalepo. Tolivar parlò camuffando la voce in modo che paresse roca. «Dove sono
gli altri? Dov'è la Signora degli Occhi?» «Avete sentito?» esclamò Sainlat. «È da qualche parte qui vicino!» I Compagni cominciarono a farfugliare tutti insieme, finché Tolivar strillò: «Edinar, rispondimi!» Il giovane cavaliere riprese il controllo di sé. «Mago invisibile, la Signora degli Occhi ha attraversato il viadotto - speriamo sia giunta nella terra degli Uomini della Stella - e ci ha promesso di tornare presto. Sir Bafrik, gravemente ferito, è caduto nel laghetto e temo che sia morto. Quanto al Nyssomu Jagun, non so dove possa essere. Non lo vedo da quando siamo stati assaliti dai selvaggi Glismak. Ma tu chi sei? Sei uno dei servitori Vispi della Bianca Signora? Gli invisibili Occhi nella Nebbia?» Il principe espresse una domanda muta al talismano: Bafrik è vivo? No, rispose la voce nella sua testa. È passato serenamente nell'aldilà e il suo cadavere è stato trascinato via dalla corrente. Dov'è Jagun? In questo momento si trova sull'orlo di una tana di namp, a metà della collina sulla tua sinistra, chiedendosi chi mai abbia appena divorato quel feroce animale. «Un namp!» gemette il principe ad alta voce. «No! Oh, no!» E scappò via, spezzando rumorosamente rami del sottobosco e incespicando su rocce nascoste. I quattro cavalieri videro i danni provocati nella vegetazione e lo seguirono dappresso, dando voce alle loro perplessità. Dopo pochi minuti Tolivar scorse Jagun, che fissava cupo una cavità nel terreno che misurava all'incirca due ell e mezzo di diametro. Ovviamente fino a poco prima era ricoperta di ramoscelli, foglie secche e altro ciarpame reperito nella foresta per mascherarne la presenza. Qualcosa - o qualcuno - aveva frantumato la sottile copertura ed era precipitato all'interno. «Occhio di Fuoco, tiralo fuori sano e salvo!» gridò con voce stridula il principe. «Oh, ti prego! Salva Ralabun!» La richiesta non è pertinente. Il ragazzo invisibile cadde in ginocchio sull'orlo della buca, proprio di fronte a Jagun, e guardò in basso. La fossa era piena di ombre, ma sul fondo, semisepolta da terriccio e resti della copertura, si scorgeva una figura gigantesca che quasi riempiva tutto lo spazio disponibile. Aveva l'aspetto di una testa calva e gonfia, con due luminosi occhi azzurri grandi come piatti che guardavano in su tra palpebre rugose. Il namp si spostò e parve sorridere, rivelando un'immensa bocca che si allungava da un lato all'altro della faccia. Dal punto in cui ci sarebbero dovute essere le orecchie spun-
tavano arti cortissimi con dita simili a rami. «Davvero questa... questa bestia schifosa ha catturato Ralabun?» domandò il principe al talismano, con voce tremante. Sì. Tolivar scoppiò a piangere. «Oh, no! Mio povero vecchio amico! Se solo tu fossi stato più esperto nelle cose della vita selvaggia... se solo non ti avessi detto di uscire dal sentiero! Adesso te ne sei andato e non c'è magia che possa riportarti indietro!» Jagun aveva un'aria corrucciata e teneva gli occhi fissi sul punto in cui il peso del bambino invisibile aveva schiacciato i detriti della foresta. Ormai erano arrivati anche i Compagni Fedeli, che lanciavano occhiate piene di raccapriccio all'interno della buca. Alla loro vista il namp prese a leccarsi le labbra violacee e a raspare il terreno con le minuscole mani. «Principe Tolo?» chiese il vecchio cacciatore Nyssomu. «Sei tu?» Proprio in quel momento il namp ebbe un grottesco singulto, rabbrividì e batté rapidamente le palpebre. Tolivar, Jagun e i cavalieri si affrettarono ad allontanarsi dall'orlo della buca, mentre la creatura singhiozzava di nuovo, mostrando file e file di denti macchiati ma appuntiti. Il tremolio del namp si trasformò in spasmi violenti, intervallati da suoni che davano un'idea d'intasamento. All'improvviso le fauci si spalancarono come l'apertura di un colossale sacco frangiato di zanne, e ci fu un'eruttazione della potenza del tuono. Un sottile contenitore d'argento volò nell'aria, accompagnato da una quantità di muco, e atterrò ai piedi di Jagun. Dopo essersi liberato a quel modo, il namp sospirò, si scosse e si seppellì nel terriccio così da lasciare esposti soltanto gli occhi semichiusi, che rilucevano debolmente nell'oscurità della tana. Si udì uno scricchiolio nel sottobosco ed emerse Kadiya. «Sei tornata sana e salva, signora!» esclamò Jagun. «Sia lode al Triuno!» «Davvero», replicò lei, «e ho anche avuto abbastanza successo. Ma prima di parlare di questo, lasciate che vi presenti un certo mago.» Rapida, girò attorno alla buca del namp e andò a fermarsi nel punto in cui l'impronta di due piedi segnava il terreno, quindi afferrò qualcosa che si sarebbe detto nient'altro che aria. «Puoi anche renderti visibile, Tolo.» Il giovane principe apparve, con sul capo il Mostro a Tre Teste e l'Occhio di Fuoco Trilobato ancora stretto in una mano sudicia. Aveva le guance striate di lacrime. Kadiya l'aveva agguantato per il farsetto e, anche
se i due erano più o meno della stessa statura, nella stretta della zia Tolivar sembrava impotente, come la preda appena catturata da un lothok, immobile e rassegnata al proprio destino. «E sarebbe questo il mago che ci ha salvato la vita?» disse sir Edinar, quasi senza fiato per la sorpresa. «Impossibile!» aggiunse Sainlat. «Porta il diadema magico», fece notare Melpotis, «e ha con sé il talismano rubato alla Signora degli Occhi.» «Ma è solo un bambino», lo schernì Kalepo. «Ho ucciso i Glismak e curato le vostre ferite», ribatté Tolivar con tono piatto. «Io sono un mago, e il vostro disprezzo non cambierà le cose.» «Sei anche un ladro», replicò calma Kadiya, «e a questo proposito...» Con fermezza condusse il principe allo scrigno stellato coperto di muco. «Aprilo!» Come sopraffatto da un'immane fatica, Tolivar obbedì. Quando la zia gli ordinò di posare all'interno l'Occhio di Fuoco Trilobato, lo fece senza dire una parola. Quindi la Signora degli Occhi passò le dita sulle pietre preziose contenute nello scrigno. Ne seguirono una fiammata di luce e un suono melodioso. Un attimo dopo Kadiya sollevò la spada magica con un sorriso trionfante, reggendola con entrambe le mani dalla parte della lama smussata, con l'elsa verso l'alto. «Talismano», domandò, «appartieni di nuovo a me? Il tuo potere è ora ripristinato?» Annidata tra i pomi congiunti dell'impugnatura della spada, ecco l'ambra del giglio di Kadiya, splendente come una minuscola fiammella nel tramonto che avanzava. I lobi scuri parvero aprirsi, e tre Occhi lucenti che rispecchiavano quelli sulla sua corazza di scaglie dorate la fissarono. Sono legato a te, Signora, e al massimo delle potenzialità. «Bene», commentò Kadiya. «Ora ti ordino di schermare me e i miei compagni dalla Vista di Orogastus e di tutta la sua Società della Stella.» Fatto. Gli Occhi si chiusero e Kadiya s'infilò la spada nella cintura, quindi si rivolse agli altri. «Jagun, per favore, prenditi cura dello scrigno stellato.» «Certo, Lungimirante.» «Non possiamo indugiare oltre», riprese Kadiya. «Il sole sta calando e dobbiamo attraversare il viadotto. Dall'altra parte ci aspetta qualcuno che ha promesso di aiutarci a raggiungere la città di Brandoba, dove risiede l'imperatore Denombo, ma non attenderà a lungo.»
«Ma allora il passaggio conduce davvero a Sobrania?» esclamò Edinar. «Sì.» «E gli Uomini della Stella?» s'informò Melpotis. «Hanno conquistato il paese?» «Non ancora», rispose Kadiya, che si voltò verso il principe Tolivar. «Prima di andare, voglio che tu mi dia il Mostro a Tre Teste per tenerlo al sicuro. Jagun! Apri lo scrigno stellato.» Il ragazzino fece un passo indietro. Il viso aveva ripreso vita. Gli occhi sbarrati per la paura, sollevò la mano per tenersi stretto sul capo il diadema. La sua voce era un mormorio spezzato. «No! Io... io non consegnerò mai il mio talismano. Non finché avrò vita!» «Non è tuo», replicò Kadiya. «Appartiene a tua madre, proprio come il Cerchio dalle Tre Ali appartiene all'Arcimaga Haramis e questo Occhio di Fuoco Trilobato a me.» «La mamma l'ha dato spontaneamente a Orogastus», insistette cocciuto il principe. «Come riscatto per liberare te e il tuo reale padre!» esclamò Kadiya con un tono davvero terribile. Afferrò lo scrigno stellato dalle mani di Jagun e, tenendolo aperto, avanzò verso Tolivar. «Metti il diadema nello scrigno.» «No», sussurrò il ragazzo. A quel punto lei estrasse di nuovo la spada spuntata e la rivolse contro la fronte di Tolivar, tenendola a meno di un dito dal bordo della coroncina. I tre Occhi si aprirono. «Tolo, fa' come ti dico. Consegna il talismano.» «Non toccarlo!» l'ammonì disperato. «Sai che ti ucciderebbe se cercassi di toglierlo al legittimo proprietario. Io sono stato in grado di legarlo a me solo perché Orogastus l'aveva prestato alla sua Voce Gialla, che non era altrettanto protetta.» Per parecchi secondi Kadiya rimase a fissare il nipote, ma la forza di volontà del ragazzo era troppo forte. «E allora tientelo, per quel che ti può servire.» La Signora degli Occhi fece roteare la spada e la rinfoderò. Una volta di più il pomo trilobato pareva di semplice metallo nero. «Sainlat, Melpotis: riportate Tolo alla chiatta sul fiume.» «No!» gridò il principe. «Ho giurato di salvare mia madre! Se provi a rimandarmi indietro, userò la magia per impedirtelo.» «Lungimirante», si affrettò a dire Jagun, «forse sarebbe meglio che il principe ci accompagnasse. Potrebbe essere in grado di contribuire a salvare la regina Anigel, dato che ha mostrato una certa abilità nel comandare il suo talismano.»
«Il trucco dell'invisibilità era davvero notevole», aggiunse sir Edinar. «E il fatto che ci abbia guariti lo è stato anche di più», continuò Sainlat a mo' d'incoraggiamento. «Io stesso stavo quasi per morire, e ora non solo mi sono ripreso, ma mi sento anche rinvigorito.» Gli altri cavalieri mormorarono la propria approvazione. Kadiya guardava il ragazzino con aria pensosa e corrucciata. «E quando sua madre sarà in salvo assieme a noi», riprese Jagun, «potrà restituirle il talismano.» Poi, rivolgendosi al principe: «Lo farai, Cuore Celato?» Udendo pronunciare il suo nome della palude, che gli aveva dato il defunto Ralabun, il principe trasalì, ma non rispose. Allora, con più pazienza di prima, intervenne Kadiya. «Tolo, se ti lascio venire con noi, prometti di sottostare al mio comando e di evitare di produrre magie tramite il diadema senza mio esplicito consenso?» Il principe esitava, le labbra sempre più strette, ma infine disse: «Lo prometto». Kadiya stava quasi per domandargli di promettere anche di restituire il talismano ad Anigel, ma temeva che insistendo troppo il ragazzino potesse continuare a rifiutarsi e magari addirittura tentare di scappare rendendosi invisibile. Inoltre, era molto più probabile che consegnasse il diadema su richiesta della regina in persona. «Molto bene», disse Kadiya sospirando, «adesso prepariamoci ad attraversare il viadotto. Allo sbocco dall'altra parte non ci sono Uomini della Stella né altri furfanti, ma la persona che ci sta apettando, un uomo del Popolo che ha acconsentito a farci da guida, è di temperamento nervoso e fifone, e potrebbe andarsene senza di noi se non ci affrettiamo.» «Aspetta!» gridò il principe, dirigendosi verso il bordo della tana del namp. «Zia, questa miserabile creatura ha ammazzato il mio povero amico Ralabun. Non so se il mio diadema magico può ucciderla, ma ti chiedo di permettermi di tentare.» «Ma il namp non ha commesso un omicidio», replicò la Signora degli Occhi. «È solo un animale selvatico, non ha l'uso della ragione. Si è procurato del cibo nel modo che gli è consueto, senza cattiveria. Sarebbe ingiusto sopprimerlo ora, a sangue freddo. Non riesci a capirlo, Tolo?» «No.» Il ragazzo non osava guardare Kadiya. La voce di lei si fece dura. «E allora lascia vivere quella creatura perché te lo ordino io.» Gli voltò le spalle e iniziò a scendere la collina seguita da Jagun e dai cavalieri.
«Ma io devo ucciderlo!» gridò disperato il principe. «Devo!» Kadiya gli lanciò una rapida occhiata da dietro la spalla. «Non solo non lo farai, ma non devi farlo, perché la colpa della morte di Ralabun non è del namp, ma di qualcun altro. Come sai benissimo nel profondo del cuore.» Tolivar sbiancò. Non aggiunse altro ma prese a scendere anche lui. 16 Il debole rumore provocato dall'apertura della porta fece sì che finalmente la regina riprendesse del tutto i sensi. La sovrana tenne comunque gli occhi chiusi, mentre dei passi si avvicinavano al suo letto. Fu una voce di donna, vibrante e imperiosa, quella che udì. «Ormai dovrebbe essersi completamente ripresa, Maestro della Stella.» Un grugnito maschile confermò l'ipotesi. «Non c'è proprio stato modo di levarle il Giglio Nero, però. Non è bastato nemmeno il potere della Stella. Quando vengono toccati, l'amuleto e la catena a cui è appeso diventano di un bianco bollente, che non brucia la sua pelle, ma solo quella della persona che tenta di afferrarli. Abbiamo provato persino usando tenaglie e altri attrezzi, ma o prendono fuoco o scottano troppo per poterli tenere in mano.» «Non importa. Non credo che l'ambra possa danneggiarci. Si limita a proteggerla. Adesso dammi il congegno diagnostico.» «Sì, Maestro.» «Regina Anigel!» La voce dell'uomo era anche troppo familiare. «Svegliati.» La donna aprì gli occhi. Due persone con indosso gli abiti nero-argento della Società della Stella la fissavano. Una era una donna alta, l'immagine vivente della bella guerriera dai capelli rossi rappresentata sull'arazzo di piume appeso al muro dietro di lei. Al suo fianco, Orogastus. «Adesso capisco tutto!» gli disse Anigel con gelido furore. «Quando il tuo piano di affogarmi è fallito, mi hai rapita attraverso quel maledetto viadotto.» «Buon pomeriggio, maestà», disse educatamente lo stregone. Teneva in mano un apparecchietto metallico, che le appoggiò per un istante sulla fronte. L'oggetto emise un debole stridio, a cui seguì un cenno di approva-
zione da parte di Orogastus, che quindi le posò il marchingegno sul ventre coperto. Lei protestò con rabbia, ma lo stregone non le prestò attenzione, limitandosi a riporre il piccolo strumento nella propria veste e a sorridere. «Sarai felice di sapere che ti sei ristabilita completamente dalle recenti ferite e che anche i tuoi bambini non ancora nati godono di ottima salute. Quanto all'annegamento, non faceva parte del mio piano e lo sciocco incompetente che l'ha organizzato in modo tanto goffo è stato redarguito.» «Dov'è Immu, la mia balia Nyssomu?» chiese Anigel. «È stata spazzata via dalla corrente insieme con me. Tenete prigioniera anche lei?» Lo stregone scosse il capo. «Di lei non so nulla. Laggiù nella Palude Labirinto c'erano soltanto un cavaliere ruwendiano e alcuni soldati, che hanno attaccato i miei servitori che ti trasportavano al viadotto.» «Sir Olevik! Cosa gli è accaduto?» Orogastus si strinse nelle spalle. «Lui e i suoi uomini sono stati uccisi nella zuffa, ridotti in cenere dalle nostre armi invincibili.» La freddezza dello stregone riempì la regina di sdegno. «Liberami!» gridò, dando strattoni ai vincoli che le impedivano di muoversi. «Come osi tenermi legata al letto come un criminale della peggior specie?» «I lacci servivano soltanto a impedire che ti agitassi durante i sei giorni d'incoscienza che ti sono serviti a guarire», replicò Orogastus. «Non volevamo certo che le tue preziose ossa si saldassero male.» «Perché mi hai rapita? Ti avverto, Orogastus, né il mio reale marito né l'Arcimaga Haramis si sottometteranno a te per salvare la mia vita e quella dei bambini che porto in grembo. Non sono più la vigliacca che quattro anni fa ti ha consegnato supinamente il suo talismano! Adesso sarei pronta a morire, se così facendo rovinassi i tuoi piani!» Lo stregone sorrise e con la mano esile si allontanò dal viso i lunghi capelli bianchi. «Preferirei che vivessi, regina Anigel, ma la decisione spetta solo a te. Ne discuteremo più tardi.» Si rivolse alla donna appartenente alla Società della Stella. «Naelore, libera la regina e aiutala a vestirsi, poi conducila nella sala protetta. Vi aspetterò là con gli altri.» Detto questo lasciò la stanza, richiudendosi la porta alle spalle. Senza preoccuparsi di nascondere il fatto che si sentiva oltraggiata, la Donna della Stella tolse di scatto il copriletto che avvolgeva Anigel. «Ti farò da addetta alla vestizione soltanto questa volta, regina. Ma se fosse stato per me avresti fatto la convalescenza nelle prigioni sotterranee insieme coi tuoi arroganti colleghi monarchi.» «Cosa? Tenete prigionieri degli altri sovrani? Chi?»
Naelore si chinò sulle caviglie di Anigel, liberandole, poi slacciò le manette imbottite che aveva ai polsi. «Lo scoprirai presto.» Senza molta gentilezza, la Donna della Stella aiutò la regina a mettersi seduta. Anigel si accorse di essere fasciata intorno ai fianchi come un neonato mentre per il resto era nuda, tranne che per l'amuleto del Giglio Nero. Quando dondolò lentamente i piedi per appoggiarli a terra, dal suo stinco destro, dall'avambraccio sinistro e dalla parte sinistra della cassa toracica caddero brandelli di uno strano materiale giallognolo, sottile, delicato e raggrinzito come pelle di yarkil lesso. Un altro grande pezzo di quella sorta di stoffa scivolò dalla spalla sinistra, disintegrandosi in minuscoli fiocchi non appena cadde tra le lenzuola. «Che cos'è?» chiese Anigel, spazzolandoselo via di dosso. «Aggiusta-ossa», rispose brusca la donna dai capelli rossi. «Fa parte delle miracolose attrezzature del Maestro.» Rovistò in una credenza e ne tolse della biancheria intima, poi aprì una cassapanca da cui estrasse un abito di broccato verde prato di foggia insolita. Pesava pochissimo, e aveva una miriade di minuscole rosette di piume gialle ricamate sopra. Anigel si stirò, passando le dita tra i biondi capelli sciolti. Sembravano abbastanza puliti. «Immagino che gli altri miei indumenti fossero rovinati.» «Come il tuo regale corpo, finché il Maestro non ha eseguito il suo incantesimo di guarigione.» Le labbra di Naelore si contorsero in una smorfia sdegnosa. «In quell'alcova ci sono una bacinella e una brocca per lavarsi, e un gabinetto dietro la porta piccola. Non ti gingillare.» Anigel non si prese neppure la briga di risponderle, ma fece toilette il più in fretta possibile. Indossò la biancheria e il vestito, poi raccolse i capelli sulla nuca e li fermò con due forcine di legno dorato. Naelore aveva appoggiato sul letto per lei anche una cintura di piume gialla e verde, oltre a un mantello di lana color ocra. Morbide scarpe di pelle marrone con decorazioni di piume verde smeraldo completavano l'insieme. Anigel si osservò compiaciuta e si pose sul petto l'amuleto d'ambra col Giglio Nero fossile. «Ti ringrazio, Naelore, di avermi procurato degli abiti adatti.» «Non sono stata io a scegliere i tuoi vestiti», replicò seccamente la Donna della Stella, «ma il nostro Maestro. E qui c'è un ultimo ornamento da indossare.» Allungò un paio di manette d'oro legate da una catena. In silenzio, Anigel le consentì d'incatenarla. «Adesso vieni», ordinò Naelore. «Ci staranno aspettando.» E si diresse
alla porta. «Una domanda», disse Anigel, fermandosi davanti all'arazzo di piume che mostrava la guerriera in mezzo alle fontane di fuoco. «È un tuo ritratto?» «No», rispose la Donna della Stella. Per la prima volta sulle sue labbra apparve un sorriso non pervaso di scortesia. «È una mia antenata, quella da cui prendo il nome e che ha costruito questo castello. Venne anche ingiustamente privata del suo impero. Ma lo riconquistò... proprio come farò io, molto presto.» Anigel seguì Naelore lungo corridoi di pietra, guardandosi attorno con profondo interesse. Che quel posto fosse il quartier generale della Società della Stella che fino a quel momento Haramis aveva cercato invano? Se si trovava davvero a Sobrania, e non in uno dei suoi arretrati sottoregni, con l'aiuto del Giglio Nero forse poteva riuscire a scappare e a rimettersi alla mercé dell'imperatore Denombo. Non era alleato di alcuna nazione, ma era molto cavalleresco e le avrebbe di certo offerto asilo finché Haramis o qualcun altro non fossero arrivati a salvarla... «Qui dentro», disse Naelore indicando una porta aperta. All'interno c'era una piccola sala, quasi una sorta di salotto, con per finestre solo strette feritoie. Lampade a olio d'argento appese ai muri fornivano l'illuminazione necessaria, eppure ci vollero comunque alcuni minuti perché Anigel riuscisse a stabilire chi fossero le altre persone presenti. Attorno a un grande tavolo rotondo posto al centro della sala erano disposte nove sedie. Quella accanto a Orogastus era vuota, probabilmente riservata a lei, mentre le altre erano occupate da cinque uomini e due donne, tutti legati come lei con manette dorate. Dietro ogni prigioniero c'era un appartenente alla Società della Stella, munito di una delle stravaganti armi degli Scomparsi. «Benvenuta, regina di Laboruwenda», disse Orogastus chinando il capo in un gesto educato e rispettoso. «Credo tu conosca tutti a questo tavolo.» Ed era proprio così. Stupefatta, Anigel lasciò scorrere lo sguardo sui compagni di prigionia, le cui espressioni andavano dalla rabbia più cupa a una disinvolta indifferenza. Alla destra dello stregone sedeva una noncurante coppia anziana vestita con eleganti abiti di corte ormai fuori moda: l'Eterno Principe Widd e l'Eterna Principessa Raviya delle Isole di Engi. I tre uomini dall'abbigliamento sobrio dall'altra parte del tavolo erano il presidente Hakit Botal di Oka-
mis e i duumviri Prigo e Ga-Bondies, che insieme governavano la Repubblica di Imlit. La donna con l'aspetto matronale e il sorriso amaro, in abito cremisi, era la regina Jiri di Galanar. Tra lei e il posto destinato ad Anigel, curvo sulla propria sedia e torvo come un gradolik in gabbia, c'era Ledavardis di Raktum, un ventenne a cui il tarchiato corpo deforme e l'aspetto poco attraente avevano fatto attribuire il soprannome di «Re Gobbo». Erano trascorsi tre mesi dall'ultima volta che Anigel l'aveva visto, quando si era recato alla Cittadella di Ruwenda per chiedere la mano di sua figlia Janeel. Era difficile riconoscere in lui il giovane monarca splendidamente vestito che era giunto a Ruwenda come pretendente, perché ora l'abbigliamento di re Ledavardis era sporco e stracciato, come se non fosse stato facile catturarlo. L'occhio sinistro era coperto da una benda, mentre il destro era iniettato di sangue e la pelle all'intorno era tumefatta. Le catene delle sue manette erano grosse il doppio di quelle degli altri. «Oh, miei poveri amici», mormorò Anigel. «Che triste incontro!» «Spiacente di vedere che hanno acchiappato anche te, tesoro», disse con voce stridula l'Eterna Principessa Raviya. «Un gran bel pasticcio, vero?» L'Eterno Principe Widd ridacchiò, incredibilmente di buonumore. «Sette giorni fa stavamo giocando a croquet sul prato della spianata coi nostri bisnipotini, quando un paio di tizi stellati sono spuntati da chissà dove all'altezza dell'archetto blu e ci hanno portati via. Quei furfanti hanno ammonito i ragazzi di non lasciar trapelare che eravamo stati rapiti, altrimenti ci avrebbero uccisi.» «Gli Uomini della Stella hanno minacciato di mutilare le mie amate figlie se si fosse sparsa la voce del mio sequestro», intervenne la regina Jiri. Gli ufficiali eletti di Okamis e Imlit annuirono all'unisono. Erano tutti legati alla casa reale di Galanar per matrimonio, avendo sposato tre delle nove principesse fighe di Jiri. «Anche noi siamo stati ghermiti attraverso quelle strane botole magiche...» disse il presidente Botal «... o comunque vogliate chiamarle.» «Le chiamiamo viadotti», replicò con cortesia Orogastus. «Prego, regina Anigel, siedi, così daremo inizio alla riunione.» Naelore condusse Anigel alla sedia vuota, quindi sollevò il cappuccio del proprio abito d'argento a coprire i capelli fiammanti, estrasse un piccolo oggetto da una tasca interna e si mise in piedi alle spalle della regina. «Prestigiatore di bassa lega!» gridò re Ledavardis, schizzando in piedi e agitando i pugni incatenati con fare minaccioso. «Non ti servirà a niente tenermi prigioniero. Pensi che la nazione sovrana di Raktum ti accetterà
mai come suo signore? Mai, finché le Tre Lune non diventeranno meloni spinosi!» Avrebbe continuato con la tirata, ma Orogastus aggrottò le sopracciglia e fece un gesto spazientito. Di colpo Naelore si allontanò dalla sua posizione dietro la sedia di Anigel, sollevò il sottile strumento metallico che teneva in mano e lo batté leggermente sulla spalla del re. Il grido di Ledavardis scosse il gruppo. Gli altri prigionieri inizialmente rimasero scioccati, poi cominciarono a indirizzare oltraggiose imprecazioni all'impassibile Donna della Stella. Il giovane re ricadde sulla sedia, boccheggiando. «Che Raktum mi accetti come signore feudale oppure no non è una questione da dibattersi ora», disse Orogastus, quando il trambusto si fu acquietato. «Basta che il suo sovrano e tutti voi altri adesso siate miei prigionieri. Resterete qui a Castel Conflagrante, ostaggi del buon comportamento delle vostre nazioni, finché un mio piano non sarà maturo.» «E che piano sarebbe?» domandò la regina Jiri con fare innocente. «Ne discuteremo i dettagli a tempo debito, maestà», rispose Orogastus, «quando ci conosceremo meglio.» «Pfui», sbuffò il duumviro Prigo. Era un individuo smilzo con scaltri occhi marrone e i modi compassati di uno studioso. «Per quanto hai intenzione di trattenerci qui, stregone?» «Potrebbe essere per un certo tempo, eccellenza», ammise Orogastus. «Fino a che non saranno catturati anche i capi delle altre nazioni?» insistette Hakit Botal. «E il governo del mondo si dissolverà in un caos totale?» Il sorriso sul volto di Orogastus scomparve. «Purtroppo l'Arcimaga Haramis ha avvisato tutti riguardo al dislocamento dei viadotti, quindi ritengo che d'ora in poi i regnanti ancora in libertà staranno molto più attenti a non essere rapiti. Ma non fa nulla. I più importanti sono già in mio potere.» Già, pensò Anigel. Tranne uno: mio marito Antar! Gli altri sovrani ancora liberi sono deboli e malaticci, come il vecchio re Fiomadek di Var, oppure... di per sé inclini ad allearsi con lo stregone, come Yondrimel di Zinora ed Emiling di Tuzamen. Nei pallidi occhi di Orogastus permaneva un bagliore terribile e implacabile. «Voi tutti rimarrete qui come ostaggi, assicurando così che i vostri sudditi non intralcino le mie attività, finché il Giglio Celeste non annuncerà al mondo intero la mia grande vittoria.» I prigionieri lo fissavano in silenzio. Infine, l'Eterno Principe Widd agitò
il dito ossuto verso lo stregone. «Senti un po', giovanotto! Io posso sopportare di vivere in una sgradevole gattabuia sotterranea, e credo di poter affermare lo stesso per gli altri uomini. Ma la mia povera moglie Raviya è stata martirizzata dalla sciatica in quell'umida cella, perciò se hai un minimo di decenza devi ospitare le signore in alloggi migliori.» «A questo si può provvedere», replicò serafico Orogastus. «Fino a oggi, tranne nel caso della regina Anigel che doveva riprendersi dalle ferite, la vostra detenzione è stata resa deliberatamente dura in modo che poteste comprendere la gravità della situazione. Ma d'ora in avanti, a patto che accettiate alcune semplici condizioni, vi verranno assegnate stanze più confortevoli e verrete trattati come graditi ospiti invece che come prigionieri qualunque. Sta a voi decidere se trascorrere la permanenza qui, in gradevoli appartamenti che si confanno al vostro rango, o vivere in celle senza finestre in compagnia di criminali comuni.» Titubanti, i capi di Stato cominciarono a mormorare tra loro. Ledavardis si alzò di nuovo, senza pronunciare verbo. «Se mi date la vostra parola di rimanere nei termini», disse lo stregone, «sarete liberi di aggirarvi all'interno di Castel Conflagrante. Ma credetemi quando vi dico che non soltanto è a prova di evasione, ma che è anche impossibile prenderlo d'assalto. Non c'è potere sotto le Tre Lune in grado di liberarvi.» Anigel strinse il pendente d'ambra appeso all'elegante catena d'oro. Era caldo e parve darle conforto. «Cosa vorresti che promettessimo?» «Giurate di non fare del male a nessuno di quelli che si trovano nel palazzo, e che per il tempo che trascorrerete qui vi comporterete in modo dignitoso.» «Molto bene.» Le parole di Anigel si udivano a malapena. «Io lo giuro, su questo sacro Giglio Nero.» Orogastus pose la stessa domanda a turno anche agli altri, che diedero la loro parola d'onore. Tutti tranne il Re Pirata, che sollevò il viso rovinato e sputò verso l'imperturbabile stregone. La Donna della Stella estrasse dal proprio abito un nuovo oggetto magico, diverso dallo strumento di tortura usato in precedenza, e questa volta lo conficcò nel collo di Ledavardis, che emise un profondo sospiro e crollò privo di sensi sul tavolo. «Lasciate che lo portino via i carcerieri», disse Orogastus, alzandosi. «Per favore, Naelore, mostra agli altri nostri ospiti la loro nuova sistemazione. Il resto degli Uomini della Società, invece, venga con me all'osser-
vatorio.» «Sì, Maestro», replicarono in coro i sette Uomini della Stella. Sempre con in mano le loro strane armi, seguirono lo stregone che lasciò la stanza. «Da questa parte», ordinò Naelore, e la forza della sua personalità era tale che i governanti in catene sfilarono mansueti dietro di lei senza dire una parola. Si spostarono a un piano superiore del maschio centrale, dove suite arredate con cura si aprivano su un unico corridoio illuminato da finestre. Come ai prigionieri veniva assegnato un appartamento (Widd e Raviya condivisero quello più ampio), Naelore toglieva loro le manette d'oro. «Vi verranno destinati dei servitori», disse con malagrazia, «e vi saranno spiegate le regole della casa. All'interno di Castel Conflagrante potete andare ovunque tranne che nelle zone in cui le guardie vi impediscono di entrare. Durante la notte sarete chiusi a chiave in camera. Se cercherete di scappare o in qualche modo non osserverete la parola data, verrete subito confinati nei sotterranei.» Anigel fu l'ultima ad avere le proprie stanze, e quando Naelore le tolse le manette, le parlò con tono gentile e disinvolto. «Hai detto che ti hanno privata del tuo impero. Come si è verificata questa ingiustizia?» Naelore rispose a denti stretti. «Ero la primogenita, ma il nostro defunto padre, l'imperatore Agalibo, dichiarò mio fratello più giovane, Denombo, erede del suo dominio, col mio secondo fratello Gyorgibo destinato a succedergli in caso Deno morisse senza discendenti. Mio padre ha fatto questo nonostante io sia più saggia e di maggior coraggio, sostenendo che i re vassalli di Sobrania non mi avrebbero mai accettata perché donna.» «Capisco. Ma in certe nazioni si tratta di una consuetudine immutabile.» «Qui però non è stato sempre così!» gridò la Donna della Stella piena di rancore. «Più di due centinaia fa, Sobrania aveva un'imperatrice - la stessa Naelore la Possente da cui ho preso il nome - e il suo regno fu un periodo di prosperità ineguagliata. Allora l'egemonia di Sobrania si estendeva su tutto il Mare Meridionale! Galanar non era altro che una nostra provincia, e gli smidollati capi di Imlit e Okamis s'inginocchiavano davanti al poggiapiedi dell'imperatrice Naelore. Persino l'orgogliosa Zinora ci pagava il tributo annuale di un carico di nave delle perle migliori.» «Quindi tu speri che Orogastus e la Società della Stella ti aiuteranno a detronizzare tuo fratello Denombo?» Gli occhi di Naelore bruciavano. «Non lo spero, lo esigo... ed entro tre giorni!» Senza aggiungere altro girò sui tacchi e se ne andò, sbattendo la porta.
La regina restò immobile per un istante, profondamente assorta. Poi, massaggiandosi i polsi con aria distratta, si aggirò per la suite, decidendo infine di fermarsi accanto alla finestra aperta del salottino per osservare lo strano panorama. Il sole era calato da poco, lasciando un cielo minaccioso coperto di nuvole grigie screziate di cremisi nella parte inferiore. La vista era stupefacente. Il castello della Società della Stella era appollaiato su di una collina dai fianchi piuttosto ripidi e alta più di cinquecento ell, che si ergeva dalle nebbie di una vasta depressione a forma di catino. Alte rocce scoscese, in lontananza, definivano il perimetro dentellato del bacino. Il fondo era quasi piano, con grandi affioramenti di pietra nera e pallide zone verdastre che sembravano acquitrini. Una foresta ricopriva i versanti dell'altura centrale che aveva in vetta il castello, ma si sarebbe detto che un violento incendio avesse impazzato nella parte più bassa, lasciandosi dietro una scia di tronchi riarsi e vegetazione bruciacchiata. Dalla base della collina si dipartiva un sentiero tortuoso che attraversava la depressione e pareva dirigersi al bastione roccioso, lontano parecchie leghe. «Che desolazione!» disse tra sé Anigel. Strinse l'amuleto d'ambra del giglio che portava al collo e si accorse di tremare. «Signori dell'Aria... concedetemi di non partorire i miei tre gemelli in questo posto orribile! Aiutatemi a trovare il modo di riconquistare la libertà.» Udì un rumore dietro le spalle e quando si voltò vide la regina Jiri di Galanar sulla soglia. «Povero tesoro», mormorò con dolcezza. «Temo ci siano davvero poche possibilità di realizzare il tuo desiderio. Lo stregone ha scelto anche troppo bene il luogo in cui collocare la sua fortezza.» «Allora questo castello è sul serio sorvegliato e difeso dalla magia nera?» Jiri si mosse e andò alla finestra, vicino ad Anigel. «Oh, nei domini della Società della Stella c'è magia più che sufficiente... ma non serve per assicurare l'inespugnabilità di Castel Conflagrante. Quando mi trovavo nelle prigioni sotterranee, la mia guardia sobraniana, che si chiamava Vann, non si faceva molti scrupoli a descrivermi le peculiarità di questo luogo in cambio di anelli e altri ninnoli.» Mostrò un indice alquanto cicciottello. «Vedi? Mi è rimasto soltanto questo rubino. Ho imparato molto anche da un individuo di nome Gyor che stava nella cella accanto alla mia.» «Gyor? Hai detto che si chiamava Gyor? E che tipo di uomo era?» «Non potevo vederne il viso, dato che le nostre celle erano sullo stesso lato, e lui non parlava di sé e neppure del motivo per cui era stato impri-
gionato, ma mi ha intrattenuta con moltissime storie sinistre riguardo ai fantasmi che abitano questo vecchio castello, e sapeva anche parecchio su come Orogastus fosse riuscito a impossessarsene due anni fa.» «Ma come può essere a prova di fuga», ribatté Anigel, «senza l'uso della stregoneria?» «Guarda attentamente l'area sottostante. Vedi o senti la presenza di creature viventi?» Anigel studiò il panorama con attenzione. Il silenzio era totale. Non cantava nessuno dei famosi uccelli di Sobrania, nell'aria non c'erano voor né looru, né altri predatori alati, e nessun insetto o animale annunciava il finire del giorno. L'unica cosa in movimento era una sottile foschia che aleggiava sugli acquitrini e si espandeva lentamente fino a scivolare sulle aree di alberi scheletriti nella parte inferiore della collina, arrestandosi nel punto in cui la foresta sul pendio era rimasta intatta. «Non avverto alcun segno di vita animale», disse Anigel. «Perché laggiù non può vivere nulla», replicò Jiri. «Dal sottosuolo filtra un miasma velenoso. Non la foschia, che è innocua, ma un vapore invisibile con solo un debolissimo odore. Ricopre il fondo del bacino appena sotto il limite degli alberi bruciati. Di quando in quando il vento forte lo allontana, ma ritorna sempre, invisibile e letale.» «Eppure là c'è una strada», protestò Anigel. «E io stessa mi ricordo di essere stata portata qui in una sorta di carro...» «Ti ricordi anche il fuoco?» domandò Jiri. Anigel aggrottò le sopracciglia. «Be', sì.» «Quello è l'unico modo per disperdere l'atmosfera venefica. È infiammabile, capisci? Quando il Maestro della Stella o i suoi accoliti devono attraversare la conca, danno fuoco alle esalazioni. A quel punto appaiono dei geyser fiammeggianti, e dopo averli lasciati ardere per alcuni minuti, si può respirare aria pulita al posto di quella nociva. Allora si può percorrere la strada in tutta sicurezza, ma è importante fare in fretta, perché... il cielo aiuti chiunque non abbia raggiunto la collina del castello o l'anello più esterno delle scoscese rupi là in fondo, quando i geyser fiammeggianti si spengono! Il flusso di gas sotterraneo è irregolare e può ridursi a nulla in qualsiasi momento, facendo così estinguere il fuoco e consentendo quindi al miasma letale e invisibile di riempire di nuovo la piana non appena il flusso riprende. Anche una forte pioggia potrebbe spegnere le fiamme. I comuni mortali hanno un terrore folle di Castel Conflagrante, che era stato il rifugio segreto di un'imperatrice di Sobrania morta tanto tempo fa. Nes-
suno osa venire qui tranne gli adepti di Orogastus. Oltre al reale pericolo dei geyser, la leggenda dice che il luogo è frequentato dai fantasmi delle persone che a causa di quell'imperatrice sono bruciate vive.» «Guarda là!» sbottò Anigel. «Stanno aprendo il portone principale del castello! Qualcuno deve avere intenzione di avventurarsi fuori.» «Allora stiamo a vedere», replicò Jiri. Fianco a fianco, le due regine rimasero davanti alla finestra aperta. L'oscurità si faceva più fitta, riempiendo il bacino nebbioso di ombre indecifrabili, mentre a ovest le nuvole diventavano viola. A causa dell'angolo del muro esterno del castello e del gruppo di alberi nel mezzo, non riuscivano a vedere bene la progressione del gruppo che scendeva. Quando venne acceso il gas, lo stupore fu grande. All'improvviso ai piedi della collina apparve un globo appiattito di opaca luce vermiglia, e un istante dopo le due donne udirono una penetrante detonazione, quindi dei sibili prolungati, come si trattasse di fuochi d'artificio. La sfera di fuoco iniziale allungò orizzontalmente dei tentacoli blu che si suddivisero in miriadi di rami in tutte le direzioni, mantenendosi piuttosto bassi sul terreno. Ed ecco rimbombare una seconda esplosione, e poi altre ancora, grandi e piccole, che crepitavano e tuonavano mentre la rete di fuoco blu diventava più luminosa e si trasformava in una cortina di fulgore dorato che avvolse l'intero fondo del bacino. Il velo incandescente si era appena posato ed era già sparito, lasciando al suo posto centinaia di geyser fiammeggianti, ondeggianti fontane di colore rosso dorato che danzavano e zampillavano attorno alla collina di Castel Conflagrante quasi fossero esseri viventi, facendo risaltare in controluce gli scheletrici alberi bruciati e riflettendosi nelle scure acque paludose. «Ecco che vanno!» disse la regina Jiri puntando il dito. «Grande Dea... è un piccolo esercito!» «E in testa ci sono Orogastus e Naelore, la Donna della Stella», affermò convinta Anigel. Dei puntini di fuoco che si muovevano a gran velocità, ovvero torce portate da una colonna di cavalieri che spingevano i propri animali al galoppo, intesserono una trama intricata tra le costanti vampate dei geyser. Affascinata, Anigel restò a fissare la scena finché la schiera sparì in lontananza. Sembrava fosse stata formata da parecchie centinaia di cavalieri e da un notevole numero di carri. «Adesso hai visto coi tuoi occhi», disse la regina Jiri, «perché è impossibile fuggire. Anche se riuscissimo a uscire dal castello, non potremmo
mai attraversare la piana. Moriremmo soffocati o segnaleremmo la nostra fuga ai carcerieri accendendo il gas infiammabile. Non c'è speranza, come mi ha assicurato Gyor, il mio vicino di cella.» «Forse non è vero.» Anigel parlava con tale calma che la sua voce si udiva appena. Afferrò l'ambra del giglio, la cui luminosità s'intensificò non appena le sue dita la sfiorarono, e disse: «Vedi questo amuleto? È un oggetto magico che potrebbe servire a liberarci». «E allora perché mai Orogastus ti avrebbe permesso di tenerlo?» domandò senza mezzi termini la regina più anziana. «Principalmente per una ragione molto semplice: i suoi non sono riusciti a levarmelo. Ma la cosa più importante è che non ne comprende a fondo il potere, che è del tutto diverso dal suo tipo d'incantesimi. Da quando eravamo infanti, le mie sorelle gemelle Haramis, Kadiya e io portiamo queste gocce d'ambra, che contengono un fiore fossile del sacro Giglio Nero. Questi amuleti sono simbolo del nostro destino e servono anche a proteggerci. Ci guidano sul sentiero dell'esistenza e ci mostrano la direzione se ci perdiamo. Se la nostra vita è in pericolo per colpa della magia, l'ambra trova il modo di salvarci. Io stessa mi sono resa invisibile grazie al suo aiuto, e posso anche aprire qualunque serratura semplicemente appoggiandoci contro il talismano.» «No!» mormorò deliziata la regina di Galanar. «Sì», replicò Anigel. «Di noi Tre che portiamo l'ambra del giglio, io sono la meno coraggiosa, ma farò del mio meglio, e se i Signori dell'Aria lo permettono, la mia magia ci farà fuggire da questa prigione.» «Non preoccuparti di chiedere il consenso agli angeli», commentò Jiri. «Dovremmo discutere la questione coi nostri compagni di sventura.» «Certamente. E dobbiamo anche farlo presto, perché penso ci si offra un'occasione unica per scappare, mentre così tanti membri della Società della Stella sono lontani dal castello.» Jiri decise in un attimo. «Ci consulteremo a cena. Intanto io ora vado ad avvisarli, in modo che siano tutti presenti.» «Non parlare delle tue conversazioni con l'uomo nella cella accanto. Ho ragione a presumere che gli altri non conoscano il suo nome?» «Altroché.» Il viso di Jiri era allo stesso tempo stupito e curioso. «Erano tutti troppo occupati coi loro problemi per curarsi di lui.» «Penso di sapere chi possa essere, e perché è stato incarcerato. È possibile che ci sia di grande aiuto.» Anigel si spiegò; poi, mentre Jiri ascoltava stringendo gli occhi, descris-
se il piano di fuga, che sembrava esserle venuto in mente in un singolo momento d'ispirazione. «Magia», mormorò la regina di Galanar quando Anigel ebbe concluso. «E una magia incerta, senza dubbio! ... be', tesoro, io sono pronta a tentare, ma potremmo durar fatica a convincere gli altri!» Per molto tempo, dopo che la regina Jiri se ne fu andata, Anigel continuò a rimanere alla finestra, a osservare finché i fuochi non cominciarono a languire e a ridursi. Uno dopo l'altro i geyser fiammeggianti si spensero, e infine non restò che un unico lungo pennacchio blu dorato, a oscillare nel vento della notte come uno spettrale ballerino. Quando un domestico bussò alla porta di Anigel per avvertirla che la cena era pronta, ormai era scomparso anche l'ultimo geyser, e l'area circostante la collina del castello era diventata un catino di velenosa oscurità. 17 «Ma perché tentare proprio stasera?» brontolò Hakit Botal, presidente di Okamis. «Insomma, ci siamo a malapena ripresi dalle restrizioni delle segrete! Non abbiamo neppure avuto il tempo di esplorare il castello e trovare la via di fuga migliore.» «C'è soltanto un modo per uscire, caro genero», intervenne con tono brusco la regina Jiri, «ed è per la strada da cui siamo entrati, attraverso il portone principale.» «E il motivo per cui dobbiamo tentare stanotte», aggiunse Anigel, «è che di certo è il momento in cui i nostri carcerieri meno se l'aspettano: con tutti voi appena usciti da quelle anguste celle e io da poco risvegliata dal sonno stregato... e soprattutto con Orogastus e le sue squadre partiti poco fa per fare guerra all'imperatore Denombo.» I sette governanti in ostaggio gironzolavano per il castello con aria distratta, dopo avere lasciato la sala da pranzo dove avevano cenato tutti assieme. Ognuno portava una coppa di peltro e una bottiglia piena del vino forte e corposo che era stato servito a tavola. Seguendo il piano tratteggiato da Anigel mentre mangiavano, fingevano di bere e ridacchiare come fossero un po' brilli, osservando con ostentazione gli arazzi piumati e la collezione di statue esotiche che si trovavano in nicchie fiancheggiate da torce sfavillanti. Nel frattempo si spostavano lungo un ampio corridoio, dirigendosi verso la grande scala che portava ai piani inferiori. Il numero degli uomini ai posti di guardia era esiguo e questi, molto rilassati, non pre-
stavano particolare attenzione ai prigionieri che andavano a zonzo qua e là. In giro c'erano ben pochi altri domestici della Società della Stella, dato che la maggior parte dei commensali era rimasta in sala da pranzo a bere e far baldoria. «Non so se sono nelle condizioni migliori per questa avventura», bisbigliò Ga-Bondies. «Potreste anche dover continuare senza di me.» Il duumviro che condivideva la carica più alta di Imlit col collega Prigo pareva estremamente pallido. Era un uomo di mezza età, corpulento, con radi capelli color sabbia e modi lagnosi. «Coraggio, vecchio mio!» lo esortò Prigo. Continuando la recita, lanciò una risatina stridula e finse di bere direttamente dalla bottiglia. «Se ce la può fare una donna incinta come la regina Anigel, puoi riuscirci anche tu.» «Quell'ignobile cibo!» si lamentò Ga-Bondies. «Salsicce grasse, nauseanti verdure lesse, pane tanto granuloso da far rabbrividire, budino di grasso di rognone di bue, e da bere soltanto questo atroce vinaccio! Per lo meno l'adop e l'acqua che ci davano in galera erano molto più facilmente accetti all'apparato digerente. In questo momento mi sento così dispeptico che potrei vomitare.» «Oh, poverino!» Gli occhi della vecchia principessa Raviya ebbero un fremito ironico mentre brindava al sofferente col calice vuoto. «Forse avresti dovuto evitare il terzo piatto di salsicce.» Qualcuno represse una risata. Ga-Bondies si tolse di tasca un fazzoletto e si tamponò la fronte imperlata di sudore. «Signora, dopo sei giorni di vile incarcerazione, stavo morendo di fame! Ci si sarebbe potuti aspettare che uno stregone intenzionato a conquistare il mondo allestisse almeno una tavola decente. E invece no! Ci hanno rifilato un pasto adatto solo a dei villici.» «Quando il gatto non c'è, i topi ballano», citò la regina Jiri. «Scommetto che tutto il castello si è lasciato andare alla pigrizia non appena Oro e l'esercito sono partiti. Avete notato che gli unici due Uomini della Stella presenti a cena erano molto giovani?» «Apprendisti lasciati a guardia del forte coi servitori anziani», commentò Raviya, «e a dir tanto una trentina di guerrieri. Il salone avrebbe potuto contenere un numero di persone dieci volte superiore.» «Anigel e io ne abbiamo vista una schiera all'incirca di quelle dimensioni lasciare il castello», aggiunse Jiri. «Cosa spera mai di conquistare, lo stregone, con un esercito così limitato?» domandò Widd.
«Deve combattere un branco di barbari superstiziosi», replicò cupo Prigo, «con ogni probabilità non gli servono più uomini.» «È possibile che l'esercito si sia portato appresso il cibo migliore», borbottò amaramente il duumviro Ga-Bondies, la mente ancora rivolta alle proprie viscere in subbuglio. «Teniamo alto il morale dei combattenti e al diavolo quelli che restano.» «Sospetto che il vecchio Oro abbia un sacco di problemi nell'approvvigionamento di questo posto», osservò con sagacia il principe Widd. «Non puoi costringere i migliori fornitori a fare consegne giornaliere attraverso un inferno di miasmi.» «Senza dubbio lo stregone ottiene le sue merci con la magia nera», intervenne il presidente Hakit Botal, «proprio come ha strappato noi alla nostra patria.» «Quando Ga-Bondies e io siamo stati rapiti», osservò Prigo, «noi e i nostri assalitori siamo usciti dal viadotto magico nel bel mezzo di una fitta foresta. Degli uomini armati di un campo vicino erano in attesa per condurci al castello, e ci sono voluti un giorno e una notte per arrivare qui. Per tutto il tragitto non ho notato né un villaggio né una capanna di cacciatori. La pista che abbiamo seguito era stretta e coperta di vegetazione, come se venisse usata di rado. Di sicuro non è per quella via che giungono rifornimenti regolari.» Tranne Anigel, tutti gli altri riferirono esperienze simili. Nonostante i luoghi dei rapimenti fossero diversi, era chiaro che i regnanti erano emersi dallo stesso sbocco e da lì erano stati portati a Castel Conflagrante. Nessuno oltre ad Anigel aveva idea di come funzionassero i viadotti, e non sembravano neppure a conoscenza del fatto che ne esistessero parecchi. «C'è una questione di vitale importanza di cui a cena non abbiamo parlato», disse Hakit. Si era fermato, fingendo d'interessarsi a un arazzo che rappresentava una bella villa al mare nello stile zinoriano preferito dai Sobraniani facoltosi, tutta tegole dorate e accecanti muri bianchi. «Supponiamo di riuscire a fuggire dal castello e ad attraversare il bacino dei geyser fiammeggianti. Dopo, dove andiamo?» «A Brandoba, la capitale di Sobrania», rispose Anigel. «Chiederemo asilo al nostro collega sovrano, l'imperatore Denombo... oppure, se questo non fosse possibile, convinceremo il capitano di qualche nave a condurci in salvo a Galanar, dove i guerrieri della regina Jiri sapranno difenderci.» «Ma come faremo a trovare la strada in questo territorio sconosciuto?» insistette Hakit Botal. «Seguendo Orogastus?»
Anigel annuì. «Ci sarà pure la magia della mia ambra del giglio a guidarci... e magari avremo anche aiuto da un'altra fonte.» «Ma se non sappiamo neppure quanto disti la capitale di Sobrania!» «All'incirca quattrocento leghe», replicò la regina Jiri, «se quel chiacchierone della guardia mi ha detto la verità in cambio dei miei gioielli.» La bocca del presidente Hakit si spalancò. «Quattrocento?» «Oh, povera me», disse con voce tremula la principessa Raviya. «È così lontana?» «Non c'è un posto più vicino dove rifugiarci?» domandò il principe Widd. «Nessuno dove possiamo dirci veramente al sicuro», rispose Jiri. «A quanto pare la Società della Stella ha spaventato per bene i capi locali.» Il duumviro Prigo non nascose la costernazione. «Ma questo è terribile! Perché non ci è stato comunicato prima, mentre discutevamo il piano a tavola? Io davo per scontato...» «Ci vorrà oltre un mese per coprire la distanza con una cavalcatura», intervenne Ga-Bondies. «Non ce la posso fare. Assolutamente no. Non sono un uomo in salute.» Hakit lanciò un'occhiata ad Anigel. «Regina, non sei stata affatto schietta con noi. Non abbiamo esperienza di viaggi attraverso zone selvagge. È follia pensare di poter raggiungere la corte dell'imperatore Denombo, se è così lontana. Gli inseguitori dal castello ci ricatturerebbero di certo.» «Non se la mia magia ci assiste, come prego che farà», disse Anigel, concedendo uno sguardo gentile a Ga-Bondies, il cui volto era terreo. «E non dovrete neppure sopportare un viaggio lungo e arduo, duumviro. Qualche giorno al massimo.» «Di certo non puoi pensare di entrare di nuovo in quell'infernale buco magico che ci ha portati qui!» esclamò Hakit. «No», replicò Anigel. «A quel viadotto possono esserci ancora delle guardie e non abbiamo modo di sapere dove ci condurrebbe. Mi è stato detto che gli adepti sono in grado di cambiare la destinazione di alcuni viadotti, e quello utilizzato per rapirci è senz'altro di tipo mutevole. Non essendo però noi maghi, non possiamo sperare di comandarlo a piacimento.» «Ma allora cosa dobbiamo fare?» domandò Hakit. «Spiegati, regina, altrimenti... io non ti seguirò.» Il presidente di Okamis era un uomo di statura imponente, ben rasato e con una mascella prominente che amava spingere avanti per enfatizzare le
proprie parole. Nella sua prospera patria, era abituato a godere di poteri quasi dittatoriali. In precedenza, a cena, quando Anigel aveva descritto la fase iniziale della sua proposta di fuga, di primo acchito Hakit Botal aveva sollevato obiezioni, sogghignando con aria di condiscendenza e disprezzo all'idea di affidare il loro destino al presunto potere di un amuleto d'ambra. Poi, vedendo che gli altri non trovavano nulla di strano nell'opporre la magia buona alla stregoneria nera di Orogastus, Hakit aveva chiesto di assumere l'incarico di capitanare la fuga, per non lasciare il compito a «una dama educata alla finezza come Sua Maestà, che aveva senza dubbio una limitata esperienza di simili pericolose avventure». La regina Anigel aveva rivolto al presidente di Okamis un sorriso dolce, dicendogli di sentirsi liberissimo di proporre un piano alternativo al suo e di capeggiarlo, se gli altri decidevano di seguirlo. Tuttavia, siccome in realtà Hakit non aveva assolutamente nulla di concreto da suggerire, alla fine fu costretto a rassegnarsi di malagrazia quando il resto del gruppo promise solennemente di appoggiare Anigel. «So che sei preoccupato», gli disse lei a quel punto, «ma ho delle valide ragioni per tenere segreta la seconda parte del mio progetto, per ora. È solo per proteggerci, nel malaugurato caso che uno di noi fosse... catturato dal nemico durante la fuga.» Mentre i prigionieri rimuginavano su quelle parole, cadde uno spiacevole silenzio, dato che le implicazioni sottintese erano ben più di una. A differenza dei reali, che durante la cena avevano tutti dimostrato la propria ostilità nei confronti di Orogastus, i tre capi delle repubbliche avevano più volte indicato una certa disponibilità a favorire lo stregone e la sua Società della Stella, se questo fosse andato a vantaggio delle rispettive nazioni. Continuarono a camminare, evitando di guardarsi negli occhi. Infine Prigo, esprimendosi con elaborata disinvoltura, cambiò argomento. «Sembra ovvio che gli Uomini della Stella abbiano dei mezzi di trasporto magici se intendono attaccare Denombo entro tre giorni, come Naelore ha detto alla regina Anigel.» «Credo sia così», convenne Anigel. «E spero che anche noi riusciremo a raggiungere la capitale di Sobrania usando lo stesso sistema.» «Ma come?» «C'è qualcuno che potrebbe essere in grado di dircelo, duumviro», rispose Anigel, «oltre a darci altre informazioni utili. Tra breve la regina Jiri e io scenderemo nei sotterranei a prendere quella persona, in modo che possa accompagnarci nel tentativo di fuga.»
«Non quell'agitatore di Ledavardis!» esclamò Ga-Bondies indignato. «Non il Re Pirata!» «Non possiamo certo lasciarlo qui a languire», replicò evasiva Anigel. Prigo sbuffò sdegnoso. «Ledo deve biasimare solo se stesso se non è libero sulla parola come noi.» «Intendi liberarlo», domandò il principe Widd, «usando il tuo amuleto d'ambra per aprire le serrature?» «Sì», rispose Anigel. «È proprio quello che mi auguro di fare.» «E ti aspetti anche che quel tuo gingillino magico ci trasporti a Brandoba in un battito di ciglia?» chiese Hakit con ironico scetticismo. La regina gli diede una risposta garbata. «Purtroppo la mia ambra del giglio non è in grado di operare un simile miracolo, ma con l'aiuto del Triuno il suo potere potrebbe comunque essere sufficiente a liberarci.» Hakit si fece cupo. «Potrebbe? Mi sa che questo tuo piano potrebbe essere la nostra fine!» «Non c'è nulla di sicuro», replicò serafica Anigel, «tranne il fatto che un giorno passeremo tutti serenamente nell'aldilà. Quanto a me, non sono ancora pronta a morire... e non intendo neppure cedere il mio paese e la mia autorità a un ignobile stregone, come invece certi altri governanti probabilmente farebbero. Le mie due sorelle e io conosciamo Orogastus da tempo, e la magia del nostro Giglio Nero ci ha salvate da lui in molte occasioni. Se i Signori dell'Aria ci sorridono, il Fiore potrebbe aiutarci ancora una volta.» «Questa evasione sembra sempre più incerta», commentò Hakit con una smorfia acida. «Ho dei ripensamenti molto seri, soprattutto dato che ti rifiuti di darci una dimostrazione della tua magia.» Anigel annuì, come ad accettare la critica. «Prima non è stato possibile, visto che l'amuleto agisce solo per salvarmi dai pericoli o per guidarmi in circostanze rischiose. Aprire le porte della prigione sotterranea per liberare Ledavardis sarà quindi una prova cruciale per il mio piano. Se l'ambra fallisce, sapremo che Castel Conflagrante è sotto qualche potente incantesimo steso da Orogastus che il Giglio Nero non è in grado di contrastare.» «In quel caso che succederebbe?» s'informò il principe Widd. «Se le porte della segreta non si aprissero, tornerò buona buona nelle mie stanze, dove pregherò perché qualcuno venga a salvarci o paghi un riscatto, dopo di che me ne andrò dritta a letto... e consiglio a quanti non si fidano di me di farlo subito! Non intendo perdere altro tempo in chiacchiere. Chi è con me riprenda la recita degli allegri ubriachi, perché siamo vi-
cini alle scale e vedo un paio di uomini di guardia in quel punto.» Dopo un attimo di esitazione, la seguirono tutti. Widd e Raviya si presero a braccetto e cominciarono a cantare una ballata engiana a proposito di una ragazza che amava un marinaio. Prigo eseguì un balletto attorno a loro e Hakit finse di tracannare dalla bottiglia, mentre in realtà teneva un dito nel collo. Ga-Bondies si limitò ad avanzare barcollando, sembrando sempre più in preda alla nausea. In. cima alle scale, con una risatina sciocca la regina Anigel augurò la buonasera alle due guardie, che risposero divertite. «Brav'uomini, stiamo per evadere», disse loro con aria furba. «Suonate l'allarme! Chiamate Orogastus e la sua banda di prestigiatori!» Le apatiche guardie non fecero nulla per ostacolare i distinti ostaggi, che procedevano lungo la scala tra risa e canzoni da taverna. Al piano terra del maschio c'era un ampio atrio a volte con un pozzo, vasche per l'acqua e palizzate per legare i destrieri. Sul pavimento, escrementi di fronial, un sacco di grano rotto e altri rifiuti lasciati dal piccolo esercito dello stregone. Un unico largo passaggio conduceva direttamente dai piedi della scala al barbacane e al corpo di guardia del portone, mentre altri corridoi a destra e a sinistra davano sul cortile interno che circondava il maschio e dove con ogni probabilità vi erano baracche e stalle, cucine, un forno e gli altri servizi domestici di un castello bene attrezzato. A eccezione del passaggio per il barbacane, la zona era buia e piena di ombre disorientanti, illuminata solo da fiochi cesti-lume appesi. Gli unici soldati in vista erano a una cinquantina di ell, vicino al portone. Anigel andò a sedersi sull'ampio bordo della vasca più grande, usata per lavare, unì le mani a coppa e prese dell'acqua, fingendo di rinfrescarsi il viso. «Adesso, per favore», bisbigliò, «riunitevi attorno a me per riesaminare il da farsi.» «Io continuo a non sentirmi bene», riprese a frignare Ga-Bondies. La regina si limitò a sorridergli. «Tu, la principessa Raviya, Hakit e Prigo andrete al barbacane, dove dovete scoprire con esattezza quante guardie sono in servizio nelle vicinanze e il sistema di ronda. Prigo deve osservare con attenzione la piccola porta per le sortite che si apre nel portone principale, attraverso la quale dovremo uscire, e prendere scrupolosamente nota della posizione di ogni chiavistello, serratura o sbarra.» «Le guardie potrebbero insospettirsi se ci attardiamo troppo», commentò Hakit. «Continuate la messinscena della sbronza allegra», gli disse Anigel.
«Raccontate a chiunque incontriate quanto siete felici di avere lasciato le segrete e di poter camminare liberamente per il castello... anche se trovate il luogo molto misterioso. Ricordate il nostro piano! Chiedete alle guardie se i corridoi sono abitati dai fantasmi. Dite di aver visto qualcosa di sinistro mentre vi aggiravate facendo baldoria. Domandate se sono sicuri che il Maestro della Stella abbia scacciato tutti i demoni e gli spiriti cattivi. Una volta messe a disagio le guardie, ritornate qui al pozzo, dove Widd vi starà aspettando. Da quel momento unitevi a lui e seguite le sue indicazioni.» «Sarà fatto», disse con fermezza la principessa Raviya. Anigel si rivolse all'anziano Eterno Principe, i cui occhi segnati da evidenti borse luccicavano per l'eccitazione. «Caro amico, rammenta che il tuo compito è di trovare la scuderia, che senza dubbio dev'essere in uno degli edifici posti nel cortile interno. Rallegra col vino gli stallieri e i domestici che sono di servizio là. Fa' in modo che alzino ben bene il gomito.» Gli allungò la sua bottiglia e quella della regina Jiri. «Trova la maniera di esaminare tutte le cavalcature rimaste e se puoi ispeziona il locale dove si custodiscono selle e finimenti, cercando di trovarci dei mantelli da pioggia. Per la fuga ci serviranno nove fronial veloci e robusti.» «Nove?» domandò sorpreso Widd. «Ma siamo solo otto, incluso il giovane re Ledavardis.» «Nove», ripeté ferma Anigel. «Quando hai terminato le indagini, lascia gli stallieri dicendo che hai gradito la loro compagnia al punto di andare a prendere altro vino. Toma qui, raduna gli altri e portali con te alla scuderia, come dovessero ammirare gli animali e conoscere i ragazzi con cui hai appena fatto amicizia. Distribuisci le bottiglie rimaste, e quando gli addetti al servizio di stalla avranno l'ugola a mollo dovrete sopraffarli nel modo più silenzioso possibile, legarli e imbavagliarli. Ricordate però che abbiamo dato la nostra parola di non fare del male a nessuno all'interno del castello! Bardate le cavalcature e riempite le bisacce con tutto il cibo e le bevande che riuscite a trovare. Ci serviranno anche delle torce da esterno e una scatola con acciarino e pietra focaia. Ognuno dovrà avere un ampio mantello con un cappuccio di qualche sorta, anche se si trattasse semplicemente di una coperta da fronial. Dovete restare nascosti nella scuderia finché Jiri e io non torniamo.» «Baderò a tutto io», la rassicurò l'Eterno Principe. «Sarebbe meglio», intervenne in modo autoritario e invadente Hakit, «se fossi io a svolgere l'incarico nella scuderia. Sono fisicamente più forte di
Widd, e se dovessero esserci dei problemi sarei in grado di difendermi meglio.» «Ma l'Eterno Principe ha un aspetto molto più innocuo», gli fece notare con ragionevolezza Anigel. «Ed è la persona perfetta per conquistarsi la fiducia degli stallieri. Finché i loro sensi non saranno ottenebrati dall'alcol, potrebbero diffidare di un uomo robusto come te.» Hakit emise un grugnito scettico, ma non aggiunse altro. Anigel studiò l'ambra del giglio. «Adesso chiederò al mio amuleto in quale direzione si trovano le scuderie.» Sollevò in alto la goccia dorata, sempre appesa alla catena, in modo che l'Eterno Principe e gli altri potessero vederla bene, e mormorò la richiesta. All'interno del ciondolo che risplendeva debolmente apparve una minuscola striscia di luce, la cui estremità lampeggiante puntò verso il corridoio di destra. «Misericordia!» esclamò l'atterrita principessa Raviya. «È davvero magico!» «Così si direbbe», replicò Prigo, il cui viso scarno s'increspò in un pedante sorriso di approvazione. «E ora, Giglio Nero», disse Anigel tenendo stretta l'ambra e fissando il minuscolo Fiore fossile all'interno, «ti prego d'indicarmi la strada per raggiungere la prigione sotterranea.» La traccia luminosa ondeggiò e la scintilla si spostò all'estremità opposta, indicando la zona dietro la grande scalinata, dove ardeva un'unica torcia. «Giusto, è proprio lì», commentò Jiri. «Noi altri conosciamo la strada anche troppo bene. Dunque forza, figliola, andiamo a salvare il Re Gobbo.» «Prima dobbiamo vedere se la mia ambra può aprire la porta centrale delle segrete.» «La prova!» sussurrò Prigo. In silenzio, si spostarono tutti nell'area dietro le scale. Il portale era di pesante legno di gonda rinforzato con parecchio ferro, e aveva un'unica toppa, lunga quanto l'indice di un uomo. Anigel afferrò l'ambra, che nella penombra riluceva come una lampada in miniatura, e sfiorò la placca della serratura. La porta della prigione si spalancò, girando sui cardini bene oliati. Al di là c'era una scala ripida illuminata da fiaccole gocciolanti inserite in sostegni a muro piuttosto distanziati. «Ha funzionato!» mormorò Prigo. «La magia ha funzionato sul serio! A
questo punto non possiamo più tornare indietro.» Ga-Bondies emise un flebile gemito di paura. «Che la fortuna possa arridere a tutti i nostri sforzi», pregò sottovoce l'Eterna Principessa Raviya. «Andiamo, ragazzi.» E detto questo si diresse verso il corpo di guardia seguita dai tre alti funzionari. Il vecchio principe Widd posò un lieve bacio sulla guancia di Anigel e s'incamminò lemme lemme, intonando un canto marinaresco tipico delle Isole di Engi, mentre le bottiglie che teneva in braccio tintinnavano una sorta di accompagnamento. «Pronta?» chiese Jiri ad Anigel. «Prendimi la mano», ordinò la regina più giovane. Con l'altra, teneva saldamente l'amuleto, a cui si rivolse ad alta voce. «Giglio Nero, fa' di nuovo ciò che facesti quand'ero una ragazza, quando mi salvasti dalla morte. Nascondimi alla vista delle altre persone.» La regina di Galanar sobbalzò: all'improvviso pareva che sulla soglia del grande portale ci fosse soltanto lei. Se non fosse stato per la mano calda che stringeva nella sua. «Adesso si comincia a fare sul serio», disse una voce nell'aria. Jiri si sentì trascinare avanti e iniziò a scendere la scala che portava alle segrete. 18 «Sei stata saggia», disse Jiri alla sua compagna invisibile, mentre scendevano nelle viscere del castello, «a non dare troppa fiducia a Hakit Botal e ai duumviri. I miei tre generi sono governanti molto competenti, ma sono anche dei pragmatisti assoluti, che stringerebbero alleanza coi Demoni del Gelo del Ghiacciaio Eterno se pensassero che può servire a mantenere la prosperità commerciale di Imlit e Okamis.» «Lo so», ribatté Anigel. «È per questo che con loro a perlustrare l'area del portone ho mandato anche Raviya: per ridurre la tentazione di un tradimento dell'ultimo minuto.» «Oh, tesoro, se è per questo vogliono scappare tanto quanto noi. Ma hanno paura per la propria pelle. Noi reali siamo amati dal popolo dei nostri paesi. So che i miei sudditi non si fermerebbero davanti a nulla per riavermi sana, salva e tutta intera, e sono certa che anche la tua gente farebbe lo stesso. Ma i funzionari eletti non godono di tanta devozione. Poverini! Sono del tutto rimpiazzabili, proprio come un uovo di griss rotto per sbaglio può essere sostituito da un altro quando si prepara una torta. Nel caso
di Hakit Botal, molti cittadini della sua nazione si metterebbero a ballare per strada se sapessero che è stato rapito.» «Non posso crederci! Glielo impedirebbe se non altro l'orgoglio nazionale.» «Sì, forse.» Negli occhi di Jiri si accese un lampo di pungente arguzia. «Tuttavia, un woth presuntuoso come Hakit deve avere avuto un travaso di bile al pensiero di dover fare affidamento su una donna per potersi salvare. Anche se si tratta di una regina intrepida come te.» Si udì una profonda risata. «Dovrebbe incontrare le mie due sorelle! Io sono senz'altro il meno notevole dei Petali del Giglio Vivente e per nulla coraggiosa come può sembrare. Avrò bisogno di appoggiarmi molto a te in quest'avventura, Jiri. Sei l'unica ad avere un carattere davvero ardimentoso.» «Sciocchezze», si schermì la regina di Galanar. La voce proveniente dall'aria era densa di presagi. «La mia magia può farci superare il portone del castello, ma la strada per Brandoba è ancora lunga, come la cara vecchia Raviya ci ha fatto notare. Se all'interno del palazzo siamo obbligati a non recare danno a nessuno, una volta all'esterno e in fuga per salvarci la vita, il giuramento non vale più. Tempo fa mi è capitato di uccidere un uomo ma so di non essere in grado di colpire volontariamente un essere umano in modo letale, neppure se fossimo attaccati dagli inseguitori. E tuttavia potrebbe non esserci alternativa al combattimento, per coronare col successo il nostro tentativo di fuga.» Jiri strinse la mano dell'amica invisibile. «Lascia queste cose a me e agli altri.» Muovendosi rapide e silenziose, le due donne arrivarono in fondo alle scale, dove c'era una sorta di vestibolo. Da un lato si trovava un portale arrugginito con sopra scritto ARMERIA, e dall'altro un cancello con inferriate a chiudere il passaggio che conduceva alle celle e alla stanza dei secondini. «Diamo un'occhiata nell'armeria», suggerì Jiri. «Chissà che non ci sia qualcosa che possa venirci utile in seguito.» Al tocco dell'ambra di Anigel, l'uscio si aprì verso l'interno, completamente buio. Le regine si affrettarono a entrare, richiudendosi la porta alle spalle. Subito Anigel divenne visibile, con l'amuleto che aveva al collo brillante al punto di rischiarare l'intero ambiente come fosse stato giorno. Nella stanza fredda e umida, ornata di polverose tele di lingit negli angoli più alti, non c'era molto da vedere. Ovviamente l'esercito di Orogastus si
era portato via il meglio tra spade, alabarde e mazze, lasciando solo lame non affilate e piene di tacche, scuri d'arme troppo pesanti e lance con l'impugnatura storta. Le numerose casse di legno aperte contenevano pochi altri arnesi da battaglia di piccole dimensioni, oltre a elmi ammaccati, cotte lunghe e corte di maglia metallica assai malandate. Delle stupefacenti armi antiche degli Scomparsi menzionate da Haramis, neanche l'ombra. «Vedi qualcosa che tu e gli altri potreste adoperare?» domandò Anigel. La regina Jiri stava rovistando in una delle casse. «Be', non sono un soldato. Era il mio caro defunto marito Collo a occuparsi di queste cose, quando i re delle tribù sobraniane facevano incursioni entro i confini occidentali di Galanar. Ma questo potrebbe farci comodo, e lo posso nascondere senza difficoltà.» Teneva in mano un semplice strumento che consisteva in un manico di legno a cui era attaccata una catena che terminava in una corta e spessa verga di acciaio. «Un mazzafrusto. Da ragazzina, sovente aiutavo i contadini della fattoria reale dove passavamo le vacanze a battere le graminacee che coltivavamo per realizzare piatti deliziosi riservati alla tavola principale. Il correggiato che utilizzavo per separare i chicchi dalla pula era simile a questo, anche se decisamente meno pericoloso.» Fece un sorriso risoluto. «A quei tempi riuscivo a colpire un tafano in volo, o a staccare un solo petalo da una regina dei prati. Magari non ho perso la mano.» Anigel represse un brivido. «Ricorda il giuramento di non ferire nessuno dentro il castello.» «Un giuramento estorto con la minaccia non è vincolante. Potrebbe dirtelo anche il più scalcinato degli avvocati.» E s'infilò il mazzafrusto in una tasca. «Ti prego! Dobbiamo condurre l'azione senza violenza! Non posso rinnegare il mio Giglio Nero!» «Oh, d'accordo», sospirò Jiri. «Adesso mi serve il tuo aiuto per vestirmi», disse Anigel. «Ho deciso di non usare i nostri veli per portare a termine il raggiro e di prendere invece un po' di questa roba. Sarà più efficace.» Jiri ridacchiò. «Sì, credo proprio che tu abbia ragione. Ci sono altri cambiamenti nel piano?» Anigel scosse il capo. «Basta che reciti bene quando sei nella stanza delle guardie, per preparare come si deve il mio ingresso trionfale.»
I tre secondini erano seduti a un tavolaccio a finire la cena a base di pane, formaggio e birra. Gli occupanti delle celle erano tranquilli, avendo appena consumato la propria ben più magra razione. Adesso che la maggior parte degli altolocati ostaggi era stata liberata, di prigionieri ne restavano assai pochi. «Quasi mi mancano», disse il corpulento sergente di nome Vann. «Sarà dannatamente noioso qui senza di loro.» «Senza dubbio sentirai la mancanza della grassa regina di Galanar», osservò beffarda una delle guardie, un uomo asciutto col viso grottescamente deturpato dalle cicatrici e senza un orecchio. «Chiudi il becco, Ulo», ringhiò il sergente, «se ci tieni alla salute.» «Lo sa tutto il corpo di guardia che le stavi dietro per ingraziartela», intervenne il terzo carceriere, pulendosi la schiuma della birra dai baffi. Aveva almeno sessant'anni ma era ancora piuttosto prestante. «E non solo perché era bella come una visione, giusto?» Al suo sogghigno si unì quello del compagno. Vann picchiò il pugno sul tavolo. «Piantatela, dannazione!» «Altrimenti?» domandò Ulo con aria insolente. «Ci dai un cazzotto sul naso? Kobit ha ragione: ti facevi corrompere dalla regina Jiri. Le raccontavi Matuta sa quali segreti in cambio dei suoi gioielli. Questo è tradimento, ecco cos'è. Alza un dito su uno di noi e andremo a fare due chiacchiere con gli Uomini della Stella al piano di sopra.» «Non potete provare niente», gridò rabbioso Vann. «E se solo cercate...» «Ssst!» La guardia che si chiamava Kobit balzò di scatto dallo sgabello con gli occhi sbarrati. «Avete sentito?» Vann si alzò e si diresse alla porta con passo pesante. Una gamba gli era stata amputata appena sotto l'anca, e sostituita con un piolo intagliato. «Misericordiosa Madre Matuta!» esclamò indietreggiando stupito. «È proprio lei!» La regina Jiri di Galanar, splendida in velluto porpora con un velo di seta bianca e un diadema di foglie e fiori colorati, entrò sorridendo nella stanza. «Buonasera, guardie.» I carcerieri mormorarono un saluto di risposta, toccandosi la fronte. Vann si rivolse alla reale visitatrice con una certa apprensione. «Signora, voi non dovreste stare qui.» «No?» La regina Jiri pareva sorpresa. «Ma le porte erano tutte aperte e senza soldati di piantone, quindi ho pensato che...» «Le porte erano aperte?» sbottò Vann. «Ma è impossibile!»
«I turni di servizio sono meno rigidi», osservò Ulo con un sorriso furbo. «La maggior parte degli uomini idonei si è messa in marcia assieme al Maestro e alla sua squadra di maghi.» «Desideravo soltanto dire qualche parola di conforto a re Ledavardis», spiegò Jiri con tono pieno di blandizie. «Questo pomeriggio Naelore, la Donna della Stella, l'ha trattato in modo molto brutale. Sono sicura, sergente, che in questo non ci sia niente di male.» Finse di aggiustarsi il velo, e il rubino che portava al dito brillò alla luce della torcia. «Be'...» La regina sfiorò il braccio di Vann. «Vieni con me, se credi. Confesso che stanotte le ombre mi paiono particolarmente minacciose. Mentre scendevo le scale quasi mi è mancato il coraggio: ogni volta che curvavo per seguire la spirale, mi sembrava di essere preceduta da un fantasma semivisibile.» Emise una risatina nervosa. «Forse era uno degli spettri che si dice infestino questo grandioso edificio.» Si avviò lungo il corridoio che portava alle segrete, seguita da Vann. «Visto che rubino?» commentò acido Ulo. «Cosa ci scommetti che...» Kobit piegò la testa di lato. «Ascolta.» Il tono era ansioso. Entrambi gli uomini rimasero sulla soglia, fissando lo sguardo nella direzione opposta a quella presa da Vann e dalla regina. Le torce che fiancheggiavano il lungo corridoio fino alla scala si stavano spegnendo, una dopo l'altra, a partire da quelle più lontane. Dalla zona ormai al buio proveniva un suono che univa un respiro rauco a gemiti di dolore. Ulo portò la mano alla spada. «Che diavolo succede?» Un lamento spettrale echeggiò dalle mura di pietra, proprio dove si era appena spenta l'ultima fiaccola. Poi tutto fu silenzio. Le uniche fonti di luce erano la lanterna tremolante all'interno della stanza delle guardie e un'altra appesa all'ingresso del blocco di celle, a più di quindici ell di distanza. «Per le Lacrime di Matuta!» gracchiò Kobit. «Guarda là.» Ritta tra le ombre scure svettava una figura assai improbabile. Indossava una cotta d'arme di maglia sbrindellata a maniche corte, un elmo di foggia antica, guanti di metallo e gambiere. Tutte queste protezioni, però, non parevano appoggiare su un corpo umano di carne e ossa, ed erano visibili solo grazie alla flebile luce dorata che proveniva da sotto il corpetto di maglia, nel punto in cui avrebbe dovuto esserci il cuore. L'apparizione reggeva alta una vecchia spada arrugginita.
«Sventura!» gridò con voce stridula e aspra. «Sventura su quanti abitano in questo castello maledetto! Perché ben presto saranno morti come lo sono io.» Il fantasma si levò l'elmo, e al di sotto non c'era la testa. Quindi si diresse a grandi passi verso le due guardie impietrite. Ulo e Kobit gridarono all'unisono e si precipitarono verso le celle, dimenticandosi completamente di avere delle armi anche loro. Una volta sistemato il rubino al sicuro nella scarsella che portava in vita, il sergente Vann si smise comodo su una panchina di pietra all'altro capo del buio blocco di celle, proprio sotto l'unica lanterna. La regina Jiri aveva pagato per una conversazione privata col giovane Re dei Pirati. «Caro Ledo», bisbigliò rapida. «Preparati. Siamo qui per liberarti. Quando la porta della tua cella si apre, esci immediatamente. Ci sono tre guardie e potremmo avere bisogno del tuo aiuto per metterle in gabbia.» Re Ledavardis, l'occhio buono luccicante e l'altro ancora nascosto sotto le bende macchiate di sangue, mormorò una gioiosa imprecazione. Non appena Jiri ebbe dato lo stesso messaggio all'uomo nella cella accanto, si udirono le grida di terrore delle guardie. Vann si alzò ondeggiando e zoppicò fino all'ingresso della prigione, in tempo per scontrarsi con Ulo e Kobit che correvano a perdifiato e quasi lo calpestarono. «Un fantasma! Un fantasma!» gridava Kobit. «Sbarra la porta del blocco di celle!» strillò Ulo. Ma la regina Jiri era stata velocissima a mettersi tra loro, e la sua mole era decisamente d'intralcio. «Stupide teste bacate!» ringhiò Vann agli uomini. «E voi, Signora! Fatevi da parte in modo che possa vedere...» «Sventura! Morte e sventura su tutti gli abitanti di questo luogo maledetto! Sventura!» Il guerriero senza testa, spada sguainata ed elmo sottobraccio, apparve sulla soglia con un urlo raccapricciante. Vann barcollò all'indietro, la gamba di legno gli s'incastrò in una fessura del pavimento e l'uomo cadde lungo disteso, del tutto inerme. Quando le cinghie che lo tenevano fermo cedettero, l'arto artificiale si separò dal moncone e il sergente gridò di dolore. Le altre due guardie scapparono lungo la fila di celle, i cui occupanti si aggrapparono alle sbarre per osservare la scena a bocca aperta. Il fantasma lanciò lontano l'elmo e si tolse gli scomodi guanti. Qualcosa che riluceva come una piccola stella gialla e fluttuava nell'aria simile a un
piroforo sfiorò la serratura della cella di Ledavardis, la cui porta sbarrata si spalancò. Rapido come un rimorik all'attacco, il re si precipitò fuori, afferrò per le spalle Vann, ancora a terra, e lo trascinò nell'angusta stanzetta da cui era appena stato liberato. Il fantasma toccò di nuovo il chiavistello e questo si richiuse. «Gyor è lui», disse la regina Jiri indicando il sudicio disgraziato, coi capelli color rame tutti arruffati e la barba lunga, che si trovava nella cella accanto a quella del pirata. Adesso era evidente che la dolce voce del fantasma apparteneva a una donna. «Esci, amico, perché tu evadi con noi.» Anche la sua serratura si aprì. «Ma tu chi sei?» domandò il prigioniero stupefatto. «Cosa sei?» Il fantasma, che ora aveva l'aspetto di una camicia di maglia animata e un paio di gambiere legate a gambe invisibili, non si degnò di rispondere. Invece, si voltò per dirigersi verso Kobit e Ulo, che si facevano piccoli per la paura nell'angolo più lontano. «Sventura! Preparatevi a morire!» gridava in tono da lamento funebre lo spettro, la spada arrugginita che tagliava l'aria in grandi archi. Gli altri prigionieri erano così impauriti che presero a fare una gran baraonda. «Voi, guardie!» gridò la regina Jiri. «Salvatevi dal demone vendicatore! Entrate in una cella e chiudete la porta. I fantasmi non possono attraversare le sbarre.» La totale mancanza di logica delle sue parole passò inosservata. All'avvicinarsi dello spettro senza testa, Kobit e Ulo si gettarono in una delle celle vuote e sbatterono la porta. L'apparizione si fermò e i due uomini trattennero il fiato, perché all'interno della fluttuante cotta di maglia iniziò a materializzarsi un corpo. Si trattava di una donna molto graziosa, con gli occhi luminosi come zaffiri e biondi capelli scarmigliati. Sotto la cotta d'arme indossava una veste verde rialzata sopra le ginocchia. Abbassò la spada e la lasciò cadere a terra. Nell'altra mano la regina Anigel reggeva l'ambra del giglio. Con essa sfiorò il chiavistello della porta dietro cui si erano nascoste le due guardie, producendo un sonoro scatto, quindi tornò da Jiri e dagli uomini che aveva liberato. Gli altri uccellini in gabbia emettevano bisbigli e mormorii stupiti. «Il mio amuleto non serve soltanto per aprire, ma anche per chiudere!» disse, sorridendo a re Ledavardis. «Saresti cosi gentile da aiutarmi a togliere questa cotta, che è molto pesante? Dovremo portarla via con noi, insie-
me con l'altra armatura e la spada.» Il monarca raktumiano scoppiò a ridere. «Allora il fantasma eri tu, mia futura suocera! Meraviglioso!» La aiutò a levarsi la cotta, poi le sciolse le gambiere. Jiri stava già raccogliendo i guanti e l'elmo. Il prigioniero dai capelli rossi che si faceva chiamare Gyor cadde in ginocchio davanti ad Anigel e le baciò la mano. «Signora, ti sono debitore. Anche se non so chi tu sia né perché abbia deciso di salvarmi.» Anigel si presentò, quindi disse: «Il tuo vero nome non è forse Gyorgibo? E non sei il fratello minore dell'imperatore Denombo e della Donna della Stella Naelore?» «Sì, sono Gyorgibo, arciduca di Nambit», rispose il giovane con lo stupore dipinto in volto, «e sono il fratello dell'imperatore. Ma non hai ancora soddisfatto la mia curiosità...» «Ehi!» strillò uno degli uomini ancora chiusi in gattabuia. «E noi? Vorrete mica lasciarci qui a marcire?» «Che genere di uomini sono?» chiese sottovoce Anigel a Gyorgibo. «Ladri, attaccabrighe e tre che hanno disertato e si sono rifiutati di accompagnare l'esercito di Orogastus quando oggi è partito per la sua efferata missione.» «Conosci i dettagli della spedizione?» domandò eccitata la regina Jiri. «Certamente, maestà. La mia crudele sorella è venuta qui a beffarsi di me, prima di partire con lo stregone. Fra tre giorni sarà il compleanno dell'imperatore, che viene sempre celebrato nella capitale in concomitanza con la grande Festa degli Uccelli. Naelore e Orogastus hanno intenzione di attaccare Brandoba mentre gli abitanti sono distratti dai festeggiamenti. Grazie alle miracolose armi degli Scomparsi assalteranno il palazzo e uccideranno Denombo. Dopo di che, con me dato per morto, per legge sarà mia sorella a salire al trono. In cambio dell'aiuto da parte della Società della Stella, Naelore ha giurato di usare ogni risorsa del nostro impero per contribuire alla conquista del mondo intrapresa da Orogastus.» Anigel si avvicinò al fratello dell'imperatore. Sotto gli strati di sporco e i cespugli formati dalla disordinata barba di fuoco e dai capelli scompigliati, c'era un uomo alto e avvenente. «E il piano di Orogastus prevede che lui e il suo esercito superino volando le quattrocento leghe che ci separano da Brandoba, prima d'iniziare questa guerra?» gli domandò fissandolo attenta. «No di certo. A meno di due ore di sella da Castel Conflagrante, oltre il bacino dei geyser, si trova un passaggio magico chiamato Grande Viadotto. Conduce a una foresta sulle montagne che dominano la capitale.»
«Un secondo viadotto!» esclamò Jiri. «Ma sicuro! Doveva essercene uno per rifornire il castello.» Puntò il dito verso Anigel. «Ma tu sapevi...» Anigel alzò la mano per impedire all'amica di continuare. «Ci sono molti viadotti, sparsi in tutto il mondo, e senza dubbio parecchi anche a Sobrania. Avevo la mappa con la loro posizione, ma ne ho dimenticato i particolari.» Quindi tornò a rivolgersi a Gyorgibo: «Dimmi in breve cosa sai di quel corridoio magico: è controllato dalle guardie?» «No. Non è ritenuto necessario. Il Grande Viadotto è un'apertura enorme, in grado di consentire l'ingresso d'interi carri coperti e anche di uomini in sella a fronial. Io stesso l'ho attraversato da prigioniero, dopo essere stato catturato da Naelore e i suoi accoliti durante una battuta di caccia sui monti Collum, otto lune fa. Da allora ho appreso che il Grande Viadotto non serve soltanto per la consegna delle provviste al castello, ma anche come tragitto abituale delle spie della Società della Stella da tempo infiltrate a Brandoba.» «E a che distanza dalla capitale si emerge dal viadotto?» s'informò Anigel. «Non lo so con certezza. Lo sbocco si trova nel folto della Foresta di Lirda, un'estesa riserva di caccia imperiale nelle colline pedemontane di Collum, proibita alla gente comune. Un piccolo esercito non avrebbe problemi a nascondersi in quei boschi, per avanzare su Brandoba di notte, approfittando dei festeggiamenti.» «Proprio nello stile del vecchio Oro», disse lentamente Ledavardis. «Intrufolarsi nella festa di compleanno dell'imperatore! Ricordi come ha interrotto l'incoronazione di Yondrimel?» «Nessuno lo ricorda meglio di me», replicò arcigna Anigel. «Perché è stato allora che hai cospirato con Orogastus per rapire mio marito e i bambini.» Il Re Pirata sembrava in imbarazzo. «Non sono stato io, ma la mia perfida nonna... che Dio la punisca. E ho già implorato il tuo perdono per la mia involontaria complicità, futura suocera.» Anigel non replicò. Fu Gyorgibo a parlare con insofferenza. «Come ordineremo al Grande Viadotto di aprirsi per noi? Quando mi hanno portato qui, l'ingresso era invisibile finché Naelore non ha pronunciato un incantesimo che l'ha fatto apparire. Ma non sono riuscito a sentire cos'ha detto.» «Io conosco le parole», lo tranquillizzò Anigel. «Adesso dobbiamo andarcene, passando in armeria a prendere delle armi per i nostri amici.» «E gli altri prigionieri?» mormorò Jiri.
Scuotendo la testa, Anigel fece cenno ai tre di precederla. Il cancello di sbarre all'ingresso della prigione, rimasto aperto quando il sergente aveva scortato all'interno la regina di Galanar, venne chiuso con forza, e bloccato da Anigel che lo sfiorò con l'amuleto. Furibondi, i carcerati rimasti cominciarono immediatamente a inveire. Mentre si voltava per allontanarsi, Anigel colse lo sguardo del sergente Vann. Seduto sul pavimento della prima cella, incapace di alzarsi senza la gamba di legno, aveva sul volto un sorriso sardonico. «Ben fatto, Signora», le disse. «Davvero ben fatto. Ma fate attenzione alla diavolessa Naelore: sua Altezza Imperiale non crede ai fantasmi!» La regina annuì. «Grazie dell'avvertimento, sergente. E mi raccomando, goditi il rubino!» 19 Percorsero l'ampio corridoio che portava al barbacane a un rumoroso galoppo, davanti a tutti il fantasma senza testa. Gli altri otto cavalieri indossavano lunghi mantelli il cui cappuccio nascondeva il viso. Si schierarono davanti all'alto portone del barbacane, brandendo torce accese e gemendo come anime dannate, mentre facevano girare su se stessi i destrieri dalle lunghe corna, creando la maggior confusione possibile. Gli stupefatti armigeri, quando si precipitarono fuori del posto di guardia, indietreggiarono alla vista dello spettro che era sceso di sella con un balzo. L'armatura priva di corpo riluceva dall'interno come una sorta di lampada di forma umana. Faceva ondeggiare una spada decrepita, saltellava, ululava e minacciava morte e distruzione, mentre i suoi compagni ancora in groppa ai fronial imperversavano nel cortile d'ingresso, mandando scintille dalle torce. Prima che il capitano della guardia riuscisse a riprendersi e a dare degli ordini sensati, lo spettro danzante aveva raggiunto la porta per le sortite, un piccolo uscio sulla sinistra del portone attraverso cui poteva passare un cavaliere alla volta. Sui lucchetti di ferro e sui due pali di legno che lo sbarravano ondeggiò una lucina, e il battente fu aperto. L'apparizione emise un grido di trionfo, mentre la truppa che portava il fuoco attraversò il varco con fragore di tuono, i mantelli svolazzanti. «Morte e sciagura!» urlò il fantasma, afferrando le redini del proprio destriero e rimontando in sella. «Una morte di fuoco colpisca quanti ci seguono!» Quindi sparì, e per qualche incantesimo la porta si richiuse con forza e fu di nuovo sbarrata. Per quanto facessero, le guardie non riusciro-
no a riaprirla e neppure a sbloccare il portone grande. «Suonate l'allarme!» gridò il capitano della ronda. «Chiamate gli Uomini della Stella!» Ancora non aveva un'idea chiara di cosa fosse successo, ma era un ufficiale veterano e intendeva fare la cosa giusta: passare la responsabilità a un'autorità superiore. Per un po' gli abitanti del castello si affannarono attorno al portone principale, inesplicabilmente invulnerabile. Gli Uomini della Stella, il castellano, il siniscalco e gli altri servitori anziani radunati dal salone erano tutti storditi dalle troppe bevute. Vennero portate delle asce, ma fu subito chiaro che ci sarebbero volute ore per aprire un varco attraverso lo spesso legno. Poi nelle scuderie trovarono gli stallieri legati e imbavagliati (a nessuno però venne in mente di controllare le segrete) e l'identità degli spettrali cavalieri divenne chiara. L'imprevista disgrazia servì a rendere del tutto sobrio un giovane Uomo della Stella, che finalmente pensò di andare a prendere la sua portentosa arma degli Scomparsi che emetteva un sottile raggio di luce rossa in grado di sciogliere pietra e metallo, e che tagliò la porta per le sortite come uno stocco può affettare un budino. A quel punto i fuggiaschi avevano acquisito un prezioso quarto d'ora di vantaggio. «Dobbiamo... dobbiamo usare le nostre Stelle per informare il Maestro?» Lo stregone il cui cervello era ancora annebbiato dall'alcol si consultò in privato col suo collega già più vigile. «Meglio aspettare di aver ricatturato gli ostaggi», rispose il secondo uomo della Società, dopo averci pensato un attimo. «Non vogliamo preoccuparlo per niente, vero?» Riunirono un drappello di trenta guerrieri in sella ai fronial e partirono all'inseguimento. Il vento portava l'odore della pioggia imminente e della resina delle piante aghiformi, le nuvole si erano infittite e senza una torcia Anigel riusciva a stento a vedere il ripido sentiero a zigzag che conduceva ai piedi della collina. «Sacro Fiore, dammi più luce!» L'amuleto che portava al collo brillò con maggiore intensità, e lei spinse avanti il fronial, a ridosso dei suoi compagni con le fiaccole. Mentre cavalcava, si tolse il vecchio elmo e abbandonò i guanti di pelle guarniti di metallo che avevano contribuito a realizzare la messinscena del fantasma. Senza fermarsi e smontare, però, non aveva modo di liberarsi del pesante
corsaletto di maglia né di allentare le fibbie delle gambiere che le scorticavano la pelle, ma in quel momento una sosta era del tutto fuori questione. Doveva cavalcare a gran velocità, come facevano gli altri, nonostante il crescente dolore, e pregare che la magia dell'ambra avesse reso impossibile aprire il portone del castello. Sono libera! si disse. Stranamente, non ci fu nessuna sensazione di esultanza a scaldarle il cuore. Adesso che l'iniziale euforia per la fuga era scemata, si sentiva preda dell'apatia e dello stordimento. La sua fiducia in se stessa vacillava e la fede nel Giglio Nero che l'aveva sostenuta fino ad allora sembrava stillarle dall'anima, come acqua che defluisce da una pozza sulla spiaggia con la bassa marea. Anigel era quasi sdraiata sull'ampio collo del fronial, le mani strette alle redini, col terribile peso delle maglie di ferro della cotta d'arme che le feriva le spalle attraverso la sottile stoffa dell'abito. Scendendo lungo il viottolo roccioso, l'animale sobbalzava e slittava, ma i larghi zoccoli non persero l'appoggio. Attorno a lei, la foresta di piante aghiformi che ricopriva il pendio era un insieme confuso di altissimi tronchi con rami lunghi ed esili. Si sentiva infreddolita ed esausta, e non c'era da stupirsene. In fondo si era risvegliata soltanto quella mattina da un sonno incantato durato sei giorni... guarita, certo, ma senza aver recuperato in pieno le forze. Cominciò a piovigginare. Anigel schioccò la lingua per dire al fronial di andare più veloce, ma l'istinto della creatura si opponeva ai suoi ordini ed essa continuò a procedere a un cauto trotto. Ormai la pista era troppo scoscesa per consentire una maggiore velocità, e inoltre cambiava continuamente direzione costringendo a brusche svolte. La pioggia divenne più fitta, leggera ma insistente. Pochi minuti e Anigel era zuppa, dato che non aveva pensato a mettersi addosso il mantello militare assicurato alla sella dietro di lei. Sballottata, malconcia e completamente abbattuta, allentò le redini alla sua cavalcatura. All'improvviso il fronial emise uno strido e si bloccò. La regina scoprì di trovarsi in mezzo ai compagni di fuga, parecchi dei quali erano smontati e parlottavano inquieti. Si erano fermati nella zona dei ceppi bruciati in prossimità della base della collina, appena sopra il bacino pieno di gas letali. Hakit Botal, che era tra quelli in piedi, si rivolgeva a Gyorgibo con tono irritante. «Che vuoi dire? C'è la possibilità che con la pioggia non prenda-
no fuoco del tutto?» «Posso dirvi solo quanto ho appreso nei mesi di prigionia», replicò l'arciduca. «È capitato che la pioggia abbia provocato l'esplosione delle esalazioni infiammabili, invece dell'accensione prevista. In quel caso s'incendiano gli alberi e c'è chi è morto sul colpo per la forte scossa, anche tra coloro che si trovavano ben lontano dal bordo.» «Ma non c'è altra via d'uscita!» gemette Ga-Bondies. «Volevo solo che foste al corrente dei rischi», disse il Sobraniano. «Non sono certo arrivato fin qui per arrendermi e tornare nelle segrete!» ringhiò Hakit rivolto a Gyorgibo. «Sei troppo codardo per tentare? Allora da' a me la torcia!» «Impiegatuccio presuntuoso!» ribatté Gyorgibo con scherno. «Non hai idea di quanto siano pericolosi i geyser!» «Per amore della Dea, smettete di litigare!» intervenne Jiri di Galanar. «Ecco la nostra guida, ci dirà lei cosa dobbiamo fare. Aiutate quella povera donna a scendere di sella e a togliere l'armatura. È bagnata fino all'osso.» Jiri e re Ledavardis soccorsero Anigel facendole indossare una veste di lana pesante e un mantello con cappuccio. Quando fu vestita con indumenti caldi, gli occhi di tutti si puntarono su di lei colmi di aspettativa. «Gyorgibo», esordì lei con voce piatta, «sei disposto ad accendere il gas anche se può esserci pericolo?» «Sì», fu la semplice risposta. «Montate tutti in sella e tenetevi pronti.» Il Sobraniano estrasse una corta spada trovata in armeria, abbatté un alberello bruciacchiato e ne tagliò i rami. Ne risultò un palo alto due volte un uomo. A quel punto Gyorgibo legò una delle torce in cima all'asta e prese a scendere per il sentiero a piedi, reggendo il brando fiammeggiante davanti a sé. «Seguitemi e portate il mio destriero», gridò, «ma tenetevi a distanza di sicurezza.» L'aria era immobile, con solo debolissime tracce di odore miasmatico, e gli unici suoni erano il tonfo degli zoccoli dei fronial, il rumore dei sassi e il sussurro della pioggerella. Infine giunsero in uno spiazzo aperto e pianeggiante, del tutto privo di vegetazione, che declinava verso il fondo della valle con una scarpata alta oltre venti ell. Ammonendo gli altri di non avvicinarsi, Gyorgibo raggiunse l'orlo del bacino camminando carponi, quindi calò verso il basso il palo con la torcia. Un crepitio assordante scosse il terreno, seguito da un lento e sonoro vvuuuump.
La prima accensione provocò un'improvvisa fiammata biancoazzurra, che sbocciò in un'incandescente sfera appiattita di un vivido rossoarancione espandendosi appena al di sotto del terrapieno. Mentre l'arciduca si affrettava a raggiungere gli altri, che facevano fatica a controllare i fronial in preda al panico, cominciò a propagarsi un sibilo molto forte, intervallato da moltissime piccole esplosioni. Sottili vene di fuoco azzurro simili a fulmini ramificati attraversavano il bacino in tutte le direzioni, viaggiando a un'altezza di quasi sei ell. Il reticolo infuocato s'ispessì, trasformandosi in una luminescente coltre dorata che riempì completamente la depressione. Un attimo dopo innumerevoli geyser fiammeggianti presero vita eruttando, e la bruma incandescente scomparve. L'Eterno Principe e l'Eterna Principessa si concessero un applauso. «Aspettate qui qualche minuto», ordinò Gyorgibo sorridendo soddisfatto e sollevato, «finché l'aria fresca non prenda il posto degli effluvi nocivi. Poi potremo scendere per quella rampa.» I fronial si tranquillizzarono, proprio come i loro cavalieri. Anigel mormorò un tremulo ringraziamento a Ledavardis per aver trattenuto il suo destriero quando minacciava d'imbizzarrirsi. «Col tuo permesso, futura suocera», replicò il Re Pirata, «cavalcherò al tuo fianco e farò in modo che non ti accada nulla mentre attraversiamo quell'inferno.» «Apprezzo molto il tuo aiuto», gli disse Anigel, «perché ti confesso che sono stanca morta.» Non fece parola della gravidanza, ma si chiedeva preoccupata come stessero i tre bambini. Era da molto prima di cena che non li sentiva muovere. «Avanti!» gridò Gyorgibo. Lui e il suo fronial si slanciarono lungo la discesa che portava al bacino delle fontane di fuoco. Lui aveva perduto la torcia e Anigel non ne aveva, ma gli altri sollevarono le loro fiaccole e lo seguirono dappresso. Una volta raggiunto il fondo piatto e cosparso di cenere della depressione furono in grado di spostarsi a un rapido trotto. La regina si affidò alle cure di re Ledavardis, afferrando il pomo della sella mentre lui reggeva le redini. Su entrambi i lati le colonne di fuoco salivano in mezzo alle rocce affioranti, e le fiamme si riflettevano nelle pozze paludose punteggiate di pioggia. Era uno spettacolo di stupefacente bellezza. I geyser erano sia grandi sia piccoli, variando di misura da un'altezza che a stento avrebbe raggiunto il ginocchio di un uomo a ben oltre dieci ell. Tutti pulsavano in modo irregolare, eruttando scrosci di scintille per poi riprendere ad ardere in modo più tranquillo. Di quando in quando qualcuno pareva avere esaurito il flusso gassoso ed essere sul punto di e-
stinguersi, ma dopo poco si udiva una piccola esplosione provocata da una favilla vagante che riaccendeva il geyser. Non dovendo concentrarsi per portare il proprio ombroso fronial, dopo aver percorso circa una lega Anigel decise di voltarsi a controllare gli altri. Hakit Botal cavalcava dietro di lei, e alle spalle del presidente di Okamis si delineava l'altura alberata con in cima Castel Conflagrante, colorito di un rosso sinistro a causa delle fiamme. Lungo il sentiero che scendeva dalla collina si muoveva rapida una fila di baluginanti lucine arancioni. «Guardate, oh, guardate!» strillò la regina. «Ci inseguono!» Re Ledavardis commentò con un'imprecazione da vero pirata. «Spronate i fronial», gridò invece Hakit. Ma non era cosa semplice. Alla luce del giorno non avrebbero avuto problemi a individuare la pista tortuosa, ma durante la notte, con ombre ingannevoli in ogni dove e le fontane di fuoco che li accecavano, avevano rischiato di sbagliare strada parecchie volte e gli animali continuavano a urtarsi a causa dei confusi ordini impartiti dai loro cavalieri. «Così non va!» urlò infine Gyorgibo. «Dobbiamo rallentare, almeno finché non siamo usciti da questo dannato bacino.» Il treno d'inseguitori, presumibilmente più pratici del sentiero, continuava ad avvicinarsi. Poi cominciò a piovere più forte, e tutto attorno a loro i geyser fiammeggianti iniziarono a ridursi e a spegnersi. «Che dobbiamo fare?» strillò il duumviro Ga-Bondies. «I vapori ci soffocheranno!» «Sono più pesanti dell'aria», spiegò a gran voce Gyorgibo, «quindi possiamo proseguire per un po' in tutta sicurezza, finché le nostre teste e quelle dei fronial restano più in alto. Spegnete le torce! Non dobbiamo correre il rischio di far riaccendere il gas. Regina Anigel, cavalca qui davanti con me e fa' che il bagliore della tua ambra magica ci serva da guida... E adesso affrettiamoci!» Avanzarono nel pantano meglio che potevano, tenendo gli occhi fissi sull'unica flebile luce in testa al gruppo. Ben presto la pioggia battente e una bruma che cominciò a materializzarsi sopra gli acquitrini resero impossibile individuare gli inseguitori. I contorni del bacino si facevano sempre più indistinti, mentre i geyser fiammeggianti continuavano a spegnersi. Infine restarono soltanto due fuochi giallo-bluastri, che rilucevano debolmente tra le alte rocce immerse nei mulinelli di foschia. Quando anche quelli si estinsero, gli ostaggi in fuga rimasero al buio, tranne che per il
luccichio minuto ma costante dell'amuleto della regina Anigel. Quasi il cielo stesso volesse farsi gioco di loro, la pioggia cessò all'improvviso. Il destriero di Anigel veniva guidato dall'arciduca Gyorgibo, ma a lei ormai non importava più di vivere o morire. Aveva il cuore troppo sfiduciato e la mente troppo esausta e sconsolata per soerare in un miracolo. Stavano per essere catturati. Sapeva che la colpa dell'insuccesso era sua e che la morte dei suoi compagni sarebbe pesata sulla sua anima nel momento del passaggio nell'aldilà. Poi fu raggiunta da una folata che odorava di catrame e le causò un subitaneo accenno di nausea. I vapori velenosi! Con immenso sforzo si raddrizzò sulla sella e aprì gli occhi: l'ambra del giglio riluceva su una fitta cortina di nebbia che arrivava al petto dei fronial. Non ci sarebbe voluto molto... «Ci sono quasi addosso!» gridò Hakit Botal. Anigel udiva il rumore sordo degli zoccoli, ma non riusciva a vedere nulla. Anche gli inseguitori venuti dal castello avevano spento le torce. «Signori dell'Aria, accoglieteci», mormorò. «Siamo pressoché arrivati all'altro versante», disse Ledavardis. «Vedo la scarpata. Più in fretta! Spronate i vostri animali! Dobbiamo risalire il terrapieno prima che i nemici ci raggiungano.» «Ha ragione», urlò Gyorgibo. «C'è ancora una possibilità!» Anigel sentì il proprio destriero aumentare l'andatura, e dopo poco eccoli inerpicarsi con passo incerto su una china fangosa, emergendo dal miasma letale come da un lago. Le rocce scoscese che delimitavano il bacino si stagliavano contro un cielo semicoperto di nubi, dietro cui occhieggiava una delle lune, che tingeva d'argento l'arcano paesaggio. Gyorgibo non era più in testa al gruppo, ma stava ripercorrendo a ritroso il sentiero urlando agli altri di affrettarsi se volevano salva la vita. Mentre passava al galoppo, assestava a ogni fronial un colpo sul fianco con la parte piatta della spada. Gli animali stridevano, scuotevano il palco di corna e balzavano avanti, arrampicandosi sull'area di rocce fuligginose che delimitavano la depressione e formavano la zona franca al di sopra dei gas. Adesso gli inseguitori erano ben visibili, soldati di cavalleria con l'armatura che solcavano la foschia in groppa ad animali all'apparenza privi di zampe, simili più a bizzarre imbarcazioni che a fronial da guerra. Due Uomini della Stella su destrieri bianchi procedevano all'avanguardia, fianco a fianco. Uno di essi emise un grido indistinto e imbracciò l'arma con cui aveva trapassato il portone del castello.
Gyorgibo voltò il suo fronial e prese a risalire furiosamente il sentiero. «Attenzione! State indietro!» gridò agli altri ostaggi. Raggiunta la cima tirò bruscamente le redini, facendo impennare il fronial, e lanciò la spada nel bacino. Non accadde nulla, e il Sobraniano imprecò disperato. «Pensavo avrebbe prodotto almeno una scintilla in grado di far prendere fuoco ai vapori, ma ora...» Anigel udì con chiarezza la risata dell'Uomo della Stella che reggeva l'arma. Quando decise di tirare il grilletto e lanciare il magico raggio di fuoco rosso, lui e il suo destriero, che si trovavano davanti agli altri, non avevano ancora raggiunto la base della rampa. Un'esplosione potentissima fece quasi cadere di sella i governanti in fuga. Per un istante Anigel fu assordata e sul punto di svenire. Il suo fronial barcollò; poi, superato il primo shock, prese a recalcitrare e a caracollare per il dolore e la paura. La regina si afferrò saldamente al palco di corna dell'animale e riuscì a rimanergli in groppa finché non si riprese. Sotto la cengia su cui si trovavano divampava una vasta conflagrazione blu-dorata, e mescolate ai crepitii dell'immenso falò si udivano le grida di uomini in agonia. Poco dopo, le voci cessarono, la luminosità che avvolgeva tutto diminuì e il bacino tornò di nuovo a riempirsi di geyser fiammeggianti. Per parecchi minuti gli evasi da Castel Conflagrante non poterono far altro che adoperarsi per calmare i loro destrieri isterici. Miracolosamente, nessuno era stato disarcionato, e alla fine tutti e nove si raggrupparono in cima alla salita per volgere lo sguardo verso il fondo del bacino. Lungo il sentiero più basso si scorgevano informi cumuli neri, da cui salivano sottili pennacchi di fumo dalle sfumature rossastre per effetto dei geyser tremolanti. «Grande Dea, abbi pietà», mormorò la regina Jiri fissando pietrificata la scena. «Hanno fatto tutto da soli.» Nessun altro parlò. Ancora qualche minuto e voltarono i fronial, rimettendosi lentamente in marcia. 20 Kadiya fu l'ultima ad attraversare il viadotto e, una volta uscita, si affrettò a disattivarlo. Dopo l'immobilità dei boschi del fiume Oda, la stordente cacofonia della giungla sobraniana la colpì quasi con violenza. I compagni
che l'avevano preceduta si erano stretti in un incredulo gruppo sotto uno dei grandi e frondosi alberi-nido, scioccati dagli stridi rauchi, i sibili, gli strilli, i fischi e i trilli dissonanti che assalivano le loro orecchie. «Per gli Astragali di Zoto!» sbottò sir Edinar. «Ma che razza di bestie chiassose ci sono qui a Sobrania?» «Mi hanno detto che si tratta soltanto dei famosi uccelli», rispose Kadiya. «Suppongo che ci abitueremo al rumore.» Sir Melpotis si guardava attorno con fare circospetto, tenendo stretta la spada. «Avevi trovato tracce degli Uomini della Stella da queste parti?» Kadiya scosse il capo. «Solo il loro emblema, inchiodato sull'albero laggiù. Ammesso che fossero qui all'alba, ormai se ne saranno andati di certo. Ma sospetto che l'offerta di una ricompensa non fosse altro che uno stratagemma. Se i Glismak l'avessero pretesa, con ogni probabilità sarebbero stati uccisi invece che premiati per il loro disturbo.» Diede un'occhiata in giro anche lei, poi disse: «Ah. Ecco la nostra guida, che ci stava aspettando come promesso». A causa del fitto fogliame sopra le loro teste, persino la vista eccezionalmente acuta di Kadiya aveva avuto difficoltà nell'individuare la persona appoggiata alla base di un tronco a una decina di ell di distanza. Era un uomo alto e magro, e sia la tunica a maniche lunghe sia i calzoni che indossava erano coperti di piume intessute, screziate di grigio come la corteccia. Il berretto a punta, che copriva i capelli brizzolati, sul davanti aveva una piccola visiera con un velo di rete a maglie larghe che mascherava la parte superiore del viso. Su quella inferiore era stata spalmata una sostanza scura che confondeva i tratti somatici. Quando Kadiya gli si avvicinò salutandolo, parlando ad alta voce per superare il frastuono degli uccelli, egli non si mosse. «Grazie per averci aspettati, Critch. Questi sono gli amici di cui ti ho parlato, anche loro vincolati da giuramento a opporsi ai perfidi Uomini della Stella.» Critch si allontanò dall'albero e sollevò il velo, rivelando lineamenti regolari come quelli di qualunque essere umano, benché contratti dal sospetto. Soltanto gli occhi, enormi e dorati, e le mani con tre dita che stringevano un affilato falcetto con l'impugnatura lunga, tradivano la sua appartenenza al Popolo. Kadiya presentò gli altri, lasciando per ultimo il principe Tolivar, che non si fece scrupolo di porre la domanda che il resto del gruppo non osava rivolgere: «A che razza appartieni, Critch? Direi che sei un Vispi, se non
fosse che non hai gli occhi verdi». «Sono un Cadoon», spiegò riluttante l'aborigeno. «Coi Vispi abbiamo una stretta parentela, ma dato che in noi scorre una maggiore quantità di sangue umano, non possediamo le loro capacità soprannaturali e dobbiamo guadagnarci da vivere in modi assai più umili.» Lanciò un'occhiata torva al principe e si rivolse a Kadiya. «Ditemi perché un ragazzino fa parte di una squadra di osservatori armati fino ai denti... e perché sia voi sia il ragazzo portate strumenti in grado di produrre magie potentissime.» «Mi sorprende che tu li riconosca», commentò Kadiya. «La mia gente non è abile nel percepire gli incantesimi quanto i Vispi», replicò Critch, «ma in questo campo non siamo neppure ottusi come tanti altri... Signora degli Occhi, quando mi sono impegnato ad aiutarvi, credevo foste un comune essere umano. Ma se siete una maga...» «Non lo sono quasi per nulla», spiegò la donna alzando le spalle con aria afflitta, «e mio nipote Tolo è ancora meno esperto di me.» «Non assisterò degli stregoni... neanche se incompetenti!» Critch puntò il dito verso la tavoletta di legno con sopra dipinta una Stella. «Quei furfanti hanno oppresso il mio popolo per quasi due anni. Hanno persino ucciso degli innocenti cercatori di piume Cadoon per aver osato venire in questo luogo, che è sempre stato uno dei nostri principali punti di raccolta finché gli Uomini della Stella non hanno deciso di rivendicarne il possesso, meno di una luna fa. Io sono qui oggi solo perché ho avuto occasione di vedere allontanarsi al galoppo i soldati della Società che di solito stanno a guardia del posto.» «Eccellente!» commentò sir Melpotis. «Sai dove erano diretti?» «No.» L'aborigeno raccattò un grosso zaino nascosto dietro l'albero e fece un passo indietro. «Quelli che hai visto», gli chiese Kadiya, «erano veri Uomini della Stella che portavano il medaglione stellato o si trattava solo di tirapiedi?» «Non chiedetemi altro! Non voglio avere niente a che fare con voi.» Kadiya tese entrambe le mani in un gesto di rappacificazione. «Amico, io sono esattamente chi ti ho detto di essere prima: una figlia del re di Laboruwenda, una delle nazioni a est di qui, venuta a cercare mia sorella, la regina Anigel. È stata rapita dagli Uomini della Stella che potrebbero tenerla prigioniera in questo paese. Se tu ci portassi a Brandoba, la capitale...» «Non vi ho mai detto che l'avrei fatto», ribatté con ferocia il Cadoon. «Ho detto che avrei potuto mostrarvi la via, che è lunga e pericolosa.»
«Hai affermato anche che esiste una strada più breve, a bordo della tua imbarcazione.» «Anche se non foste dei maghi, esiterei a raggiungere la capitale. Per settimane tra il Popolo è corsa voce che durante la Festa degli Uccelli di quest'anno accadrà qualcosa di terribile. E la festa inizierà a due giorni da oggi, al calare della sera.» «Che tipo di voce?» chiese Kadiya, estremamente agitata. «Ha qualcosa a che vedere con la Società della Stella? L'imperatore è in pericolo?» Ma Critch non intendeva rispondere. «Per favore, ripensaci», lo implorò Kadiya. «Oltre alla mia povera sorella, gli Uomini della Stella hanno rapito anche altri governanti. Esiste la forte probabilità che gli stregoni intendano rapire o addirittura uccidere lo stesso imperatore Denombo. Speravamo di poterlo avvertire e ottenere il suo appoggio per salvare mia sorella Anigel.» «Il Popolo Cadoon non è molto amico dell'imperatore. Gli umani di Sobrania ci disprezzano, nonostante desiderino smodatamente le piume che raccogliamo e vendiamo loro. No... Dovrete trovarla da soli, la strada per Brandoba.» Come Critch tornò a dirigersi nel sottobosco, Jagun si fece avanti. «Aspetta!» gridò, superando lo strepito degli uccelli. «Non essere precipitoso. Questa Signora non è una maga e noi non siamo malfattori. Ti prego, lascia che ti spieghi!» Critch si fermò, ma continuò a mantenere ben salda la presa sul suo falcetto. «Come vedi», gli disse Jagun, «anch'io come te appartengo al Popolo. La Signora degli Occhi, che è detta anche Lungimirante, Figlia del Triplice e principessa Kadiya, è la mia più cara amica sin da quando era bambina. Nel nostro paese, Kadiya è il Grande Avvocato e Campione di tutti i Popoli. Per molti anni ha lealmente difeso i Nyssomu, gli Uisgu, i Dorok, gli Wyvilo, i Glismak pacifici e persino gli Skritek della Palude Labirinto nelle loro dispute con gli umani. Appena un anno fa la Signora ha portato la pace tra il feroce Popolo degli Aliansa delle Isole Senzavento e i mercanti umani di Zinora. I Vispi dei monti Ohogan vengono in visita nella sua residenza come onorati ospiti. Il talismano che porta lady Kadiya non è uno strumento di magia nera ma piuttosto il simbolo del suo nobile ufficio. Anche in questo momento ci protegge dalla Vista dei malvagi Uomini della Stella.» «Potete provare la veridicità di quanto avete detto?» domandò Critch.
L'espressione di Kadiya era ironica. «Trovando un posto calmo e tranquillo, dove possiamo sentire i nostri pensieri, potrei fare appello all'altra mia sorella, che è l'Arcimaga della Terra, usando il linguaggio senza parole. Sarà ben lieta di chiedere ai suoi amici Vispi di garantire per me.» Il Cadoon indicò il principe Tolivar, il cui diadema luccicava nell'ombra verdeggiante. «E lui?» Kadiya sospirò. «Lui è un problema. Ma ti assicuro che non ti farà del male.» Si rivolse al nipote. «Tolo, diglielo anche tu.» «Lo giuro», confermò il principe. «Per favore, aiutaci. Darei la vita per salvare mia madre, la regina Anigel.» Critch ci pensò sopra un po', poi disse: «Qui ho finito di raccogliere piume, e sono pronto a tornare a casa sul litorale. Potete accompagnarmi, a patto di non starmi tra i piedi e di non impedirmi di cercare». «Quanto dista casa tua?» s'informò Kadiya. Critch si strinse nelle spalle. «Un po'. Quando arriveremo alle scogliere a picco sul mare avrete la vostra occasione di dimostrare che siete davvero amici dei nostri simili, i Vispi. Fatelo e potrei prendere in considerazione di aiutarvi a raggiungere la capitale di Sobrania.» Lo seguirono attraverso la rumorosa foresta per molte noiosissime ore, fermandosi di quando in quando mentre raccoglieva penne e piume cadute sotto i grandi alberi-nido e le infilava nello zaino. Quando scese la notte, però, l'aborigeno non accennò a sostare e continuò la marcia. Al pari di Jagun e come tutti quelli del Popolo, Critch riusciva a vedere bene al buio, ma gli affaticati umani furono ben felici quando si levarono le Tre Lune a illuminare debolmente lo stretto sentiero. Fu nel malinconico momento che precede l'alba che finalmente lasciarono la giungla e salirono verso una zona più aperta, con cespugli a foglia larga e richiami di volatili più deboli e melodiosi. All'improvviso il Cadoon li avvertì di restare immobili e aspettare. Avanzò un poco, si chinò, e dalla cintura tolse una rete non più grande di un fazzoletto, appesantita sul bordo da minuscoli sassolini. Con grande perizia la lanciò sotto uno degli arbusti, appena al di sopra della superficie del terreno, e il risultato fu un acuto e furioso cinguettare. Facendo molta attenzione Critch recuperò la sua preda, un minuscolo uccellino che per coda aveva un'unica lunga penna che luccicava alla luce della luna come fosse tempestata d'infinitesimali diamanti. «Che bello!» disse Kadiya.
«Il vitt è la creatura più rara di Sobrania», le spiegò festante Critch. «Non ne avevo mai trovati in questa regione. Di solito frequentano le sorgenti calde nei boschetti d'alta montagna, ma è anche vero che quest'anno la neve è rimasta molto più a lungo del solito.» Usando un paio di piccole forbici da tosatura, recise la penna scintillante e lasciò libero l'animale, il quale si avventò con furia sulla sua mano, beccandola a sangue prima di sparire. Il raccoglitore si limitò a ridere, tenendo alto il trofeo. «Per questa i mercanti di piume di Brandoba mi pagheranno abbastanza da mantenere la famiglia per sei mesi. Si direbbe che mi abbiate portato una gran fortuna stanotte... o dovrei ringraziare la vostra magia?» «Solo la tua abilità», ammise Kadiya. «L'uccellino riporta dei danni per la perdita del suo ornamento?» «No, è ferito soltanto nell'orgoglio. Sia la legge sobraniana sia la nostra religione Cadoon non ammettono che noi raccoglitori di piume facciamo del male agli animali. In massima parte raccogliamo penne perse naturalmente, e solo quando incontriamo rarità come quel vitt utilizziamo le reti o della pania appiccicosa.» Proseguirono il cammino, e mentre il cielo cominciava a rischiarare, giunsero in una brughiera rocciosa. Finalmente, quando ormai Kadiya e i suoi stremati compagni pensavano di non poter fare un altro passo senza cadere a terra, arrivarono su un promontorio accidentato che dominava una vasta distesa di acqua grigio piombo. Sull'altra costa, a est, si poteva a malapena discernere l'ondulazione delle colline, dietro le quali delle montagne dentellate si stagliavano contro il cielo tinto dei colori dell'alba. Dal mare saliva una brezza fredda e si poteva udire il mormorio delle onde. «Questo è il più grande degli estuari che creano insenature nella costa sobraniana», spiegò Critch, «e di là c'è Sobrania.» «Quante ore ci vogliono per andare in barca sull'altra riva?» domandò sir Melpotis. «Almeno dieci», disse Critch. «Purtroppo in questo periodo dell'anno i venti sono lievi e non a favore.» «Comunque siamo talmente esausti che prima dobbiamo dormire», intervenne Kadiya. «In ogni caso c'è tutto il tempo. Se nella capitale è probabile incontrare guai, è meglio entrarci dopo il tramonto, quando la Festa degli Uccelli sarà già iniziata e i cittadini faranno meno caso a degli stranieri.» Da un bel po' l'aborigeno aveva riposto il falcetto in un fodero sulla
schiena, ma l'atteggiamento del suo corpo in tensione mostrava ancora che stava sulla difensiva. «Non vi porterò da nessuna parte, Signora degli Occhi, se non mi darete prova di essere quella che dite. Fate come avete promesso e appellatevi ai Vispi usando il linguaggio senza parole, altrimenti vi lascerò qui. Il sentiero per Brandoba è alla vostra sinistra. Vi ci vorranno almeno dodici giorni per raggiungere la città a piedi, costeggiando l'estuario, e per attraversare i ponti a pedaggio delle Isole di Zandel dovrete essere sottoposti ai minuziosi controlli dei funzionari sobraniani.» La donna ignorò il tono ostile. «I miei compagni possono sedersi e riposare? Parlerò a distanza con la Bianca Signora, mia sorella, che chiamerà uno dei suoi amici Vispi per accontentarti.» Critch piegò la testa e diede un burbero assenso. Kadiya e i suoi furono ben felici di togliersi dalle spalle i pesanti zaini, e mentre i cavalieri e Jagun si lasciarono cadere sull'erba tra le rocce che offrivano un ottimo riparo, il principe Tolivar restò a fissare la zia con un misto di curiosità e timore ben dissimulato. Sapeva per certo che avrebbe detto all'Arcimaga che era lui a possedere il Mostro a Tre Teste e che aveva rubato l'Occhio di Fuoco Trilobato. Kadiya si tolse dalla cintura la spada magica e la sollevò tenendola per la lama smussata. «Talismano», intonò sicura, «mostra a me e alle persone qui presenti una visione di Haramis, Arcimaga della Terra.» Una delle scure sfere congiunte che formavano l'elsa della spada brunita si aprì, rivelando un lucente occhio marrone. Immediatamente, l'alta figura della Bianca Signora, avvolta nel suo scintillante mantello periato e con le braccia tese, si materializzò nell'aria tra Kadiya e il Cadoon, che emise un grido stupefatto. «Sorella, ti saluto!» disse Kadiya. «Siamo giunti sani e salvi nella terra di Sobrania, e vorrei chiederti un piacere.» L'Arcimaga rimaneva immobile e silenziosa. «Hara? Parlami!» La richiesta non è pertinente. Prima che la mortificata Kadiya potesse reagire, con tono di superiorità il principe Tolivar le disse: «Quella non è realmente l'Arcimaga, ma solo una sua immagine priva di vita. Hai fatto lo stesso errore che faccio spesso anch'io e hai usato le parole sbagliate per porre la richiesta al talismano». «E allora», sbottò lei esasperata, «perché non usi il tuo Mostro a Tre Teste e fai tu la domanda come si deve?» L'espressione di Tolivar divenne umile. «Io... io non so usare per niente
il linguaggio senza parole. È una funzione del talismano che per ora mi sfugge. Scusami, zia. Sono stato maleducato a correggerti.» Kadiya sospirò. «La prossima volta usa un tono meno sprezzante e sarò ben felice di accettare il tuo aiuto su come usare questi maledetti affari. Il mio talismano è stato inutilizzabile per quattro anni e adesso sono terribilmente fuori allenamento... Occhio di Fuoco! Voglio parlare con la Bianca Signora superando le leghe che ci dividono. Consentimi di farlo e permettici anche di vederla.» L'immagine scomparve e il talismano parlò di nuovo, ad alta voce: Questo non è possibile. «Perché no?» Non si trova in questo mondo. Kadiya sentì il sangue gelarsi nelle vene. «Cosa? Vorresti dire che mia sorella Haramis è morta?» Non è morta. «E allora dov'è?» gridò disperata Kadiya. La domanda non è pertinente. Il Cadoon la fissava con inamovibile scetticismo, mentre Jagun e i Compagni Fedeli erano atterriti. Lottando per controllare lo sgomento, Kadiya si sforzò di sorridere. «Be', ti avevo avvertito che non sono una vera maga. Il mio talismano riusciva a essere spesso recalcitrante e poco collaborativo anche quando ero allenata a usarlo.» «Potresti tentare di parlare a distanza con Magira», suggerì Tolivar. «Mmm. Questo dovrebbe risultare abbastanza facile, dato che appartiene al Popolo e sa usare il linguaggio senza parole.» Kadiya fece un respiro profondo. «Talismano! Voglio parlare con Magira, castellana della Torre della Bianca Signora, e avere una Vista chiara. Fa' che venga veduta e udita anche dai miei compagni.» Immediatamente la donna Vispi parve essere lì con loro, di fronte a Kadiya, con un'espressione stupita sul bel viso. Indossava il solito vestito di stoffa scarlatta molto leggera e una collana di pietre preziose. I capelli chiari, sotto cui s'intravedevano le graziose orecchie a punta, sembravano mossi dalla brezza del mare. «Signora degli Occhi», esordì la castellana Magira. «Come posso servirti?» «Di' a questa persona», rispose Kadiya indicando Critch, «chi sono io e spiega che non sono una maga alleata dei malvagi Uomini della Stella ma
un capo rispettabile, e che sono giunta qui con la mia gente in cerca della regina Anigel.» Obbediente, la donna Vispi descrisse in breve l'elevata posizione di Kadiya nel regno di Laboruwenda e confermò anche il rapimento dei governanti umani. Mentre Magira parlava, il cercatore di piume si rilassò visibilmente, proprio come Jagun e i cavalieri, che si sentivano molto sollevati. «Ho cercato di parlare con l'Arcimaga attraverso il talismano, ma senza successo», disse Kadiya a Magira, dopo che la castellana ebbe finito con le rassicurazioni. «Hai idea di cosa possa esserle successo?» «Questa che mi dai è una notizia davvero malinconica, Signora degli Occhi! Due giorni fa la Bianca Signora è entrata nel viadotto che aveva inghiottito la regina Anigel, pensando che l'avrebbe condotta nel covo di Orogastus e della sua Società. Da allora non ne abbiamo saputo più nulla.» «Qui a Sobrania Haramis non c'è», replicò ansiosa Kadiya, «altrimenti il talismano me l'avrebbe detto.» «Se è stata catturata dagli Uomini della Stella, potrebbe essere tenuta prigioniera nello stesso luogo stregato dove sono rinchiusi la regina e gli altri governanti rapiti. Anche il talismano dell'Arcimaga si era rifiutato di offrirle la Vista dei sequestrati, e lei aveva concluso che dovevano essere stati schermati da qualche terribile magia nera.» «Suppongo che questo spieghi il suo silenzio. Ma perché il mio talismano afferma che 'non si trova in questo mondo'?» «Ah, no!» gridò Magira terrorizzata. «Non dirmi che ha pronunciato quelle parole!» «Di sicuro Haramis non è morta», si affrettò a spiegare Kadiya. «Me l'ha assicurato l'Occhio di Fuoco. Ma che poteva significare quella frase?» La castellana le rispose con grande riluttanza. «Forse non te lo dovrei dire... Lo stregone Orogastus è venuto a trovare la mia Signora qui nella sua Torre. Lei... lei lo ama a dispetto di se stessa.» «Lo so», ribatté asciutta Kadiya. «Ma cosa c'entra?» «Aveva creduto che fosse morto quando era sprofondato nell'Abisso della Prigionia, perché il suo Cerchio dalle Tre Ali aveva affermato che 'non era in questo mondo'. In realtà, Orogastus era stato salvato dall'Arcimago del Firmamento e tenuto prigioniero nella Luna dell'Uomo Scuro, che è assolutamente fuori della nostra portata e praticamente... fuori del mondo. Pensi sia possibile che la Bianca Signora si trovi là?» «Sacro Fiore», mormorò Kadiya. «Penso sia più che possibile. Il punto
di sbocco dei viadotti può essere cambiato da quanti sono esperti nell'usarli. Ma Haramis non sarebbe mai andata di proposito in un luogo del genere senza dircelo! E perché mai l'Uomo della Luna avrebbe dovuto catturarla contro la sua volontà? Si presume sia indifferente alle faccende umane.» «Chi può davvero capire le azioni degli Arcimaghi?» ribatté desolata Magira. «Grazie dell'aiuto», le disse Kadiya, quindi la congedò e si rivolse ai propri amici. «Ecco un altro bel guaio! E a quanto pare il mio talismano non è in grado di dirmi niente in proposito.» «Forse i nostri due talismani», intervenne Tolivar, «agendo insieme possono ottenere quanto uno da solo non riesce a fare.» Gli occhi di Kadiya s'illuminarono. «Proviamo. Stringimi la mano, e con l'altra afferra anche tu l'Occhio di Fuoco.» Ma il principe si tirò indietro, timoroso di toccare la spada che ora era legata a lei. «Ti do il permesso!» disse allora Kadiya. «Non ti farà del male.» Il ragazzino allungò la mano e gli astanti restarono senza fiato per lo spavento, dato che zia e nipote furono subito avvolti da un alone luminoso coi colori dell'arcobaleno. L'Occhio di Fuoco non era più nero opaco, ma risplendeva come argento fuso, e dai tre Occhi si riversavano raggi color oro, verde e bianco. Anche il diadema che portava Tolivar rifulgeva, con raggi colorati simili ai precedenti che uscivano dalle bocche aperte dei Tre Mostri. «Ora!» gridò Kadiya. «Tolo, ripeti la domanda con me: dov'è Haramis?» Le parole pronunciate all'unisono ottennero risposta. Risiede con l'Arcimago del Firmamento. «Di nuovo, figliolo! Chiediamo che parli con noi.» Ma questa volta ricevettero la solita, frustrante replica: L'ordine non è pertinente. «Quando tornerà?» La domanda non è pertinente. Jagun e i Compagni Fedeli emisero dei mormorii di disappunto. Kadiya e il principe tentarono di scoprire altri particolari riguardanti Haramis, ma i talismani rifiutarono di rispondere. «Bene, questo è quanto», commentò la Signora degli Occhi. «Almeno sappiamo qualcosa in più di prima.» «Che ne è della mia reale madre?» chiese preoccupato Tolivar. «Magari possiamo scoprire dove è tenuta prigioniera.» «Ragazzo astuto!» disse Kadiya. «Perché non ci ho pensato?» Operando
di nuovo insieme, ordinarono ai talismani di svelare il luogo in cui si trovava la regina Anigel. Sta cavalcando nella Foresta di Lirda «Sacri Stinchi di Zoto!» esclamò Sainlat. «Ma allora la regina è libera?» «Tolo», disse Kadiya, «per prima cosa dobbiamo richiedere una Vista privata di tua madre, senza che lei lo sappia, in modo che non possa inavvertitamente tradirci coi nemici che potrebbero starle accanto. Sai come possiamo fare?» «Forse meglio di te, zia», ribatté il bambino. «Chiudiamo gli occhi e diamo l'ordine.» Lo fecero, e nella loro mente apparve una visione sbalorditiva: una fila di fronial che sul far dell'alba avanzavano lenti e pesanti in una terra boscosa molto sinistra, e la regina assopita che ciondolava il capo. Il suo destriero era condotto da nient'altri che il Re dei Pirati, e il resto del gruppo era chiaramente formato dai governanti rapiti di Galanar, Imlit, Okamis ed Engi. Alcuni dormicchiavano in sella come Anigel, mentre altri erano svegli ma parevano stanchi e stravolti. In testa alla colonna c'era un uomo sconosciuto dall'aspetto logoro, con capelli e barba di un rosso ramato. «Aiutami a chiamare tua madre!» chiese Kadiya con insistenza al nipote. «Pronuncia mentalmente il suo nome con tutta la forza di volontà che hai.» Ma anche se entrambi tentarono di contattare a distanza Anigel, lei non se ne accorse e continuò nel suo sonno simile a torpore, incapace di rispondere al richiamo magico. A quel punto Kadiya domandò ai talismani se sua sorella e gli altri erano in salvo. No. «Potete dirci come aiutarli?» No. «Dove sono diretti?» A Brandoba. «Buon Dio!» esclamò Kadiya. «Davvero?» La domanda non è pertinente. Scoppiò a ridere. «Già, senza dubbio... Diteci se gli Uomini della Stella progettano malefatte durante la festa di Brandoba.» La domanda non è pertinente. «Diteci dove si trova Orogastus.» La domanda non è pertinente. Kadiya e Tolivar riaprirono gli occhi e si scambiarono uno sguardo afflitto. «Penso che i nostri talismani non ci diranno niente dell'infame stre-
gone e dei suoi accoliti perché la Stella li protegge», spiegò la donna. «Ma quando tua madre si sarà svegliata tenteremo ancora di parlarle, e magari ci riusciremo.» Separarono le mani e la luminosità occulta scomparve. «Signora», disse sir Edinar, «come ti sono sembrati la nostra cara regina e i suoi compagni? Davvero non sono feriti?» Kadiya descrisse la visione agli altri, e quando parlò del sudicio capogruppo, Critch intervenne: «L'uomo dai capelli rossi e coperto di stracci che avete visto potrebbe essere l'arciduca Gyorgibo, fratello minore dell'imperatore. È scomparso molte lune fa durante una battuta di caccia nella Foresta di Lirda». «Dov'è quel luogo?» chiese Kadiya. Il Cadoon indicò il profilo montuoso dall'altra parte della baia. «È una riserva imperiale, tana di animali feroci e uccelli carnivori come il terribile nyar, e si trova in mezzo alle terre alte orientali, al di là di Brandoba. Da tempo è proibita ai comuni cittadini umani e a tutto il Popolo. Solo la nobiltà sobraniana può cacciare in quel posto... e pochi anche di loro, perché negli ultimi due anni Lirda è diventata tristemente nota come covo di stregoni. Quando l'arciduca scomparve, tutti i membri del suo gruppo vennero trovati ammazzati, tranne uno. Il cacciatore sopravvissuto era stato ferito in modo incurabile, ma prima di morire disse che gli Uomini della Stella capeggiati dall'esiliata arciduchessa Naelore avevano catturato Gyorgibo. Da allora, nessuno ha più osato entrare nella riserva, a eccezione dei lord rinnegati che appoggiano la rivendicazione del trono da parte di Naelore. Se la vostra regina sta attraversando la Foresta di Lirda, potrebbe trovarsi in grave pericolo.» «I cavalieri che accompagnavano mia madre non parevano intimoriti o in fuga per salvarsi la vita», disse il principe Tolivar. «Piuttosto avevano l'aria incredibilmente affaticata, e le loro cavalcature sembravano quasi sfinite.» Kadiya scosse lentamente il capo. «Non riesco a pensare a niente che possiamo fare per dar loro una mano. Ma adesso c'è un'altra persona con cui dobbiamo parlare: re Antar. Dovrai aiutarmi ancora, Tolo, dato che non sono mai stata capace di parlare a distanza con esseri umani non magici, come invece sa fare tua zia Haramis.» Chiamarono il re, e dietro i loro occhi chiusi apparve una chiara visione di Antar svegliato bruscamente nelle sue stanze della Cittadella di Ruwenda. L'uomo era stupito che Kadiya avesse recuperato l'Occhio di Fuoco e che il talismano fosse di nuovo efficace.
Kadiya sorvolò sulla questione. «Caro cognato, ho notizie incoraggianti.» E gli spiegò cosa avevano scoperto su Anigel grazie ai talismani. La gioia di Antar fu solo lievemente smorzata quando apprese cos'era accaduto a Haramis. «Forse», disse, «la Bianca Signora si è recata sulle Tre Lune per ottenere l'aiuto dell'Arcimago del Cielo. Magari lui conosce un modo per distruggere quel miserabile di Orogastus una volta per tutte.» «Immagino sia possibile. Dopotutto, Denby ci ha già aiutate una volta... Ma adesso ti devo dire che corre voce che ci siano guai in vista nella capitale di Sobrania. Orogastus e i suoi Uomini della Stella potrebbero essere sul punto di agire.» «C'è qualcosa che posso fare?» chiese Antar. «Mi sento inutile stando qui, così lontano.» Kadiya ci pensò un attimo. «Credo che dovresti chiedere a un amico Nyssomu di radunare da te dei Vispi, usando il linguaggio senza parole.» «Può farlo Immu. L'abbiamo tratta in salvo dalla palude.» «Ottimo. Se riusciamo a salvare Ani e gli altri capi di Stato rapiti e quindi a imbarcarci al largo di Sobrania, i Vispi possono alzarsi in volo sui loro avvoltoi barbati e divulgare la notizia a tutti gli altri governi.» S'interruppe. «Se invece falliamo, o se il colpo di stato organizzato da Orogastus riesce e Denombo viene detronizzato, bisognerà trasmettere anche questa informazione.» «A prescindere da ciò che succede», replicò Antar, «tutte le nazioni della Penisola dovranno fare immediati preparativi per la guerra. Non c'è tempo da perdere in riunioni e conferenze, come sperava di poter fare Haramis.» «Temo che tu abbia ragione.» «Il grosso della corte è rientrato insieme con me nella Cittadella a causa della strada interrotta», riprese il re, «ma il generale Gorkain e il maresciallo Lakanilo si sono affrettati a raggiungere Derorguila con un gruppetto di valorosi, e chiameranno a raccolta i nostri sudditi delle terre basse mentre io radunerò un piccolo esercito per difendere la Palude Labirinto. Anche così, però, possiamo fare ben poco per controbattere la stregoneria, senza l'aiuto della Bianca Signora. Dobbiamo pregare che torni presto... e sperare che tu ti sbagli riguardo alle bellicose intenzioni di Orogastus.» «Se conquista Sobrania, senza dubbio userà la grande flotta di galee imperiali per invadere le nazioni orientali. Ho intenzione di fare tutto il possibile per avvisare l'imperatore Denombo e fornirgli l'aiuto che il mio talismano mi consente di offrire, una volta che Ani e gli altri governanti sa-
ranno fuori pericolo.» «Che i Signori dell'Aria ti assistano», disse Antan Passarono qualche altro minuto a discutere di questioni strategiche, quindi si salutarono. Kadiya e il principe aprirono gli occhi. «Non hai detto a papà che avevo il diadema magico», disse sottovoce Tolivar. «No. Lasciamo che scopra quanto sei stato avventato solo dopo che avrai restituito volontariamente il talismano a tua madre. Il gesto mitigherà la rabbia e il dispiacere.» Ordinò poi al nipote di stringerle la mano un'ultima volta. «Adesso cercheremo d'informare l'imperatore sobraniano del pericolo che corre.» Diedero indicazioni ai talismani ed ebbero una visione del sovrano. Denombo dormiva come un sasso, tutto solo nella sontuosa camera da letto, tranne che per uno snithe da compagnia raggomitolato su un tappeto ai piedi del letto. La sua amata moglie Rekae era morta sei anni prima, insieme col bambino nato morto che avrebbe dovuto essere l'erede imperiale. Nonostante l'insistenza dei suoi consiglieri e dei sottoregnanti del suo poco unito impero barbarico, Denombo non si era risposato. «Imperatore!» lo chiamò dolcemente Kadiya. «Imperatore di Sobrania, svegliati.» Il dormiente si stiracchiò sotto un grande ammasso di trapunte di piumino. Indossava un berretto da notte ricamato in oro e il viso era semisepolto nelle lenzuola. Quando Kadiya lo chiamò di nuovo, piano piano aprì un occhio annebbiato. «Chi è là?» bofonchiò Denombo attraverso gli incolti baffi rosso mattone. «Sono Kadiya della Palude Labirinto, sorella della regina Anigel di Laboruwenda. Ti sto parlando grazie alla magia.» L'imperatore si mise a sedere di scatto, improvvisamente sveglio, e fece spaziare lo sguardo in tutta la stanza. Non c'era nessuno. «Vattene, demone dei sogni!» strillò. Lo stupefatto snithe, le scaglie della colonna vertebrale sollevate per la preoccupazione, si alzò e trotterellò a fianco del suo padrone, lanciando sommessi latrati. Kadiya cercò di rassicurare il monarca. «Non sono un demone, imperatore, ma una tua amica, venuta a darti un messaggio importante. Non devi avere paura.» Il viso dell'imperatore si fece violaceo e gli occhi gli schizzarono fuori delle orbite per la rabbia. «I Sobraniani non hanno paura di niente! Mostra-
ti, dannazione!» Ma Kadiya, benché un po' più esperta del principe Tolo nell'uso del talismano, non era mai stata in grado di proiettare un'immagine e non ci riuscì nemmeno adesso, coi due talismani che operavano all'unisono. Quando tentò di spiegare la faccenda all'imperatore, questi estrasse un lungo pugnale da sotto il cuscino, si liberò di lenzuola e coperte e balzò sul pavimento con l'arma sguainata. «Lo so chi sei!» prese a strillare. «Sei uno stregone malvagio... uno di quei dannatissimi lacchè muniti di Stella che servono quella traditrice di mia sorella! Guardie! A me! Guardie!» «Imperatore, lo stregone Orogastus potrebbe avere organizzato un piano contro di te! Ascoltami...» Ma Denombo non faceva che urlare. La porta della sua camera si spalancò e una decina di guerrieri armati di spade e asce da battaglia si precipitarono all'interno. Ne derivò un grande alterco, con l'imperatore che dava ordini incoerenti ai suoi uomini (perché in realtà la voce senza corpo l'aveva terrorizzato), e i soldati che gridavano e si aggiravano con passo pesante, rovesciando cassepanche, sedie e tavoli, menando fendenti agli arazzi alla ricerca di malintenzionati appostati nell'ombra, e addirittura infilzando i guanciali e i piumini impilati sul letto imperiale, caso mai gli Uomini della Stella si fossero nascosti proprio lì. La Signora degli Occhi sospirò e disse: «Talismano, basta...» La scena tumultuosa scomparve. Lei lasciò la mano di Tolivar e ripose l'Occhio di Fuoco nella cinta. «È inutile. L'imperatore ha troppa paura degli Uomini della Stella per prestare attenzione a qualunque messaggio puzzi di magia. Dovrò andare ad avvertirlo di persona.» Si rivolse a Critch. «Amico mio, adesso sei convinto che non avevamo alcuna intenzione di farti del male? Ci porterai alla capitale di Sobrania con la tua barca? Ovviamente ti pagheremo bene.» «Vi porterò a Brandoba senza che paghiate nulla», replicò il Cadoon, «ora che sono certo che siete nemici degli Uomini della Stella. Ma nella mia capanna c'è qualcosa che sarete felici di acquistare... oggetti di scambio che questa stagione non ho portato al mercato a causa delle voci inquietanti che girano.» Sir Edinar sbuffò sdegnoso. «Piume? Ha! Stai di certo scherzando! Cosa vuoi che ce ne facciamo?» «Casa mia si trova in una baia poco lontano da qui», replicò Critch. «Venite a dare un'occhiata a quello che ho da vendervi, poi vedremo chi
riderà per ultimo!» 21 Ormai era l'alba nella Foresta di Lirda. Finito un pasto leggero nella suite imperiale del grande casino di caccia, Orogastus si avvicinò alla porta-finestra che dava sul balcone, l'aprì e uscì fuori. La costruzione era appollaiata in cima a uno spuntone di roccia a strapiombo e nel canyon sottostante le rapide, dello strano color gesso che caratterizzava le acque del fiume Dob, infuriavano rombando sopra massi enormi. Il freddo mattutino penetrava attraverso gli indumenti imbottiti che lo stregone portava per prepararsi a indossare l'armatura, ma lui non ci fece caso mentre oltrepassava un angolo per poter osservare una sezione aperta del terreno della proprietà, circondata da alberi enormi. Là si era accampato per la notte il suo piccolo esercito. Nella bruma del mattino i guerrieri si muovevano lenti, smontando le tende e facendo i bagagli con sciatta negligenza, tossendo, sputando, brontolando e ringhiando contro i sergenti che cercavano di farli spicciare. Il quartiermastro, il Capitano della Stella Praxinus di Tuzamen, stava strillando furiosamente con gli addetti ai fronial per qualche pasticcio relativo ai carri dei rifornimenti. Ci sarebbero stati dei ritardi prima che l'armata potesse arrivare alla base stabilita per l'invasione di Brandoba. Non per la prima volta, Orogastus volse gli occhi al cielo e chiese allo spirito di Nerenyi Daral perché mai, tra tutti i luoghi possibili, l'avesse mandato a Sobrania a riorganizzare la grande opera della Società. La gente era abbastanza perspicace, ma assai cocciuta, caparbia e con la tendenza a discutere anche il più semplice degli ordini. E se quegli uomini, che erano la sua squadra d'élite, difettavano tanto di disciplina, come poteva sperare di tenere sotto controllo la più vasta forza partigiana mobilitata nella capitale dai segreti seguaci dell'arciduchessa Naelore? Una volta che quella banda di bravacci avesse messo le mani sulle armi degli Scomparsi, avrebbe potuto abbandonarsi a una furia cieca nell'impeto della battaglia. Persino il potere della Stella avrebbe potuto non bastare a frenare migliaia di barbari infuriati che all'improvviso scoprivano la letale potenzialità dell'alta tecnologia. Era di vitale importanza procurarsi un talismano in grado di garantire che l'assalto a Denombo seguisse i suoi piani meticolosi. Era tempo di esercitare la massima pressione sul ragazzo.
Orogastus lasciò il balcone per rientrare nello pseudorustico salotto imperiale dalle travi intagliate, i lucidi muri pedinati, i candelabri tempestati di gemme e i tappeti di piume. Si sedette di nuovo al tavolo dove poco prima aveva consumato una frugale colazione a base di farinata di ferol e frutta, e si concesse del tempo per raccogliere i pensieri. Poi afferrò il medaglione della Stella e osservò il principe Tolivar da una certa distanza. Non era ancora il momento adatto per parlargli, ma sarebbe venuto presto. Orogastus si dedicò quindi al ben più arduo compito di comunicare con Haramis. A differenza di Tolo, i cui sentimenti ambivalenti avevano lasciato uno spiraglio nella barriera creata dal talismano, la Bianca Signora e sua sorella Kadiya erano totalmente schermate sia alla Vista sia al dialogo mentale. C'era però la forte possibilità che l'amore di Haramis la rendesse ricettiva alla sua Chiamata. Prese di nuovo in mano la Stella. Amore mio! So che mi puoi sentire se lo vuoi. Rispondi! È la tua ultima occasione di evitare la guerra. Di' che verrai con me. Insieme possiamo ristabilire l'equilibrio del mondo ed evitarne la distruzione. Rispondimi, te ne prego! Ma non udì nulla, tranne il ruggito lontano di un nyar o di qualche altro predatore della foresta, e gli stridi dei fronial del suo esercito, poco desiderosi di essere sellati. Haramis era distante e silenziosa, proprio come il giorno precedente, quando l'aveva chiamata prima di lasciare Castel Conflagrante. Haramis! Devi credere che durante il soggiorno nella Luna dell'Uomo Scuro sono cambiato. La mia ambizione non è più di dominare il mondo ma di salvarlo! Raggiungerò questo scopo con la forza, se non c'è altro modo... Tu puoi imporre a tua sorella Kadiya e a tuo nipote Tolivar di consegnare a te i loro talismani. Tu e io allora riuniremo il Triplice Scettro del Potere e insieme lo useremo per curare la terra ferita e far scomparire per sempre il Ghiaccio Vincitore. Haramis! Parlami! Si era alzato, avvicinandosi alla finestra da cui si scorgeva l'accampamento. Le fruste schioccavano e i carrettieri urlavano alle bestie da tiro. Il lento treno degli approvvigionamenti e le relative scorte di cavalieri sarebbero partiti per primi, seguiti a breve distanza dal corpo d'armata principale. Lui e i suoi Uomini della Stella avrebbero lasciato l'edificio per ultimi, dopo aver tenuto un breve consiglio di guerra. Haramis... Accetterei persino che fossi tu a guidare il Triplice Scettro contro lo squilibrio planetario. Basta solo che tu venga da me, mia adora-
ta! Lascia che ti spieghi ciò che ho appreso dagli archivi degli Scomparsi in possesso di Denby... informazioni terribili a cui l'Uomo Scuro sembra del tutto indifferente. Si interruppe, le sopracciglia aggrottate per la rabbia al ricordo dell'apatica reazione del vecchio davanti alle sue scoperte, della risata senile e della maniera sprezzante con cui aveva preso le distanze dal destino del mondo, dicendo: «Lascia che accada, figliolo. Non ha senso immischiarsi, cercare d'interferire con la direzione presa dal cosmo. Puoi riuscire a procrastinare l'inevitabile per un po', ma alla fine le cose andranno comunque come devono andare...» Se pur Denby sa che il disastro è imminente, nella sua pazzia si rifiuta di fare qualcosa per evitarlo. Parlami, amor mio! Di' che verrai da me e ordinerò che il mio esercito faccia dietrofront e si ritiri nel castello. Altrimenti questa guerra comincerà secondo i miei piani, e neppure io avrò più modo di fermarla. Mia diletta Haramis, rispondi! A occhi chiusi, la rivide nella memoria e cercò con tutta l'anima di proiettare il suo amore, il suo desiderio di allontanarsi dalla violenza, se soltanto si fosse unita a lui. Ma non ci fu replica. Gli s'incurvarono le spalle e le dita, che aveva stretto dolorosamente attorno alla Stella, si rilassarono. Quando aprì gli occhi, all'interno delle pupille scure brillavano due gelidi punti luminosi. Molto bene. Che sia come i Poteri Oscuri della Società della Stella comandano. Quasi in risposta, sentì il casino di caccia tremare leggermente. Si trattava solo di uno degli innocui terremoti assai comuni in quella regione, che i locali chiamavano Sospiri di Matuta e sostenevano indicassero l'indulgenza della dea di fronte ai manifesti peccati dell'umanità. La prima volta che Orogastus era giunto a Sobrania, si era allarmato per quelle scosse, ma Naelore aveva assicurato che mai nella storia della nazione i movimenti tellurici avevano provocato danni e che in nessun caso la grande catena montuosa attorno a Brandoba aveva mostrato segni di attività sismica o vulcanica degni di nota. Lo stregone sfiorò la sua Stella. «Poteri Oscuri... questi sismi sotterranei sono sintomo del grande squilibrio del mondo? Preannunziano forse il disastro che si avvicina?» Chiuse di nuovo gli occhi e rimase immobile, lasciando che tutti i pensieri gli scivolassero fuori della mente in modo da poter essere più ricettivo a un eventuale responso. Ma i Poteri non gli avevano mai parlato diretta-
mente attraverso la Stella, e non gli fornirono una risposta chiara neppure questa volta. Una seconda scossa, tanto piccola che in circostanze normali non se ne sarebbe nemmeno accorto, fece vibrare il pavimento sotto i suoi piedi. Poteva essersi trattato solo di una coincidenza, o forse i Poteri Oscuri avevano risposto come meglio potevano. Sospirò, sapendo che l'intera verità non sarebbe stata resa nota finché non avesse posto la domanda al Mostro a Tre Teste. Quindi indossò l'armatura, tranne l'elmo scintillante con la raggiera appuntita che portava sottobraccio, e scese al piano di sotto per conferire con gli altri maghi. I membri effettivi e veramente esperti della Società della Stella erano trenta, ma due erano stati lasciati al castello a controllare gli ostaggi reali e Praxinus aveva già il suo daffare a tener testa al recalcitrante esercito. Gli altri si erano riuniti nel salone principale del casino di caccia, una stanza con un caminetto gigantesco (che in quel momento ospitava solo un magro fuocherello) e mobili grotteschi realizzati con le ossa delle prede dei cacciatori imperiali. I muri erano stipati di polverosi trofei, teste di animali e uccelli spaventosi, oltre che di scudi di pelle incrinati e una collezione di armi primitive. Radunati gli Uomini della Società in modo informale davanti al camino, Orogastus riesaminò con ciascuno il ruolo che avrebbe avuto nell'assalto, tenendo per ultima l'arciduchessa Naelore. «La nave che trasporta l'armamento magico raggiungerà Brandoba domani sul tardi», disse lo stregone. «Possiamo stare tranquilli che nessun funzionario portuale ficcanaso salirà a bordo?» La Donna della Stella commentò con una risata cinica. «Gli addetti alle banchine e gli agenti del dazio saranno andati tutti a casa a prepararsi per la Festa degli Uccelli, tralasciando il loro dovere. Anche se i festeggiamenti iniziano propriamente solo dopo lo spettacolo dei fuochi d'artificio a mezzanotte, tutta la città comincia a far baldoria al tramonto. Non temere, Maestro. Il mio fedele amico Dasinzin scaricherà la nave senza interferenze.» «L'unica cosa che temo», replicò gelido Orogastus, «è che l'incompetenza dei tuoi lealisti possa costarci il fattore sorpresa.» Naelore si mostrò mortificata. «Perdonami se parlando ti ho mancato di rispetto. Andrà tutto bene... lo giuro! I lord che sostengono il mio tentativo di rovesciare l'usurpatore sono grossolani e sbrigativi, ma non sono stupidi.
Capiscono benissimo che la loro unica possibilità d'insediarmi sul trono dipende dalla tua magia. Morirebbero per me, ma preferirebbero vivere e riavere il potere perduto.» «E i nostri travestimenti? Per ora la mia Stella non ha indicato che i tuoi stessero portando qualcosa alla base prescelta nella foresta.» «I carri si muoveranno dalla città domani nel tardo pomeriggio, mentre i festaioli cominciano ad arrivare dalla campagna circostante pregustando la serata. I costumi arriveranno più che in tempo... tutti neri, come hai ordinato. E le forze lealiste saranno vestite di rosso scarlatto, in modo da poter essere identificate prontamente.» Lo stregone approvò con un cenno del capo. Quando non ci furono più domande, si rivolse all'assemblea di Uomini della Stella: «Tutto quello che resta da fare spetta a me. Devo parlare a distanza ai nostri compagni di Castel Conflagrante per far loro sapere che va tutto bene. Voi potete prepararvi a partire». Gli stregoni lasciarono la sala, tranne Naelore che rimase silenziosamente a fianco di Orogastus mentre egli usava la Stella per comunicare coi due giovani Uomini della Società rimasti a guardia degli ostaggi. Inspiegabilmente, mettersi in contatto con loro fu impossibile. A quel punto lo stregone utilizzò la propria magia per osservare e ascoltare le persone comuni all'interno del castello, e quasi subito seppe della fuga dei prigionieri e dell'orribile destino dei loro inseguitori. «Poteri Oscuri, abbiate pietà!» mormorò, impressionato. Naelore gli si avvicinò. «Maestro, cosa c'è?» «Si è verificato un disastro tremendo!» Parlando in tono sommesso, le spiegò l'accaduto. «Questo significa che dobbiamo rinviare - se non addirittura abbandonare - la nostra campagna.» «Assolutamente no! Intendevi utilizzare gli ostaggi solo dopo la conquista di Sobrania. Be', possiamo benissimo ricatturarli in tempo.» «Ma avevo anche contato sulla regina Anigel come fondamentale elemento di scambio per riottenere il Mostro a Tre Teste dal principe Tolivar. Senza quel talismano, la mia strategia complessiva potrebbe crollare.» L'arciduchessa avrebbe voluto ribattere, ma lui le fece cenno di desistere e riprese in mano la Stella per cercare i fuggiaschi. «Eccoli qui», mormorò, «in viaggio lungo un sentiero non lontano dal Grande Viadotto. Non riesco a vedere Anigel, ma dev'esserci anche lei, schermata dalla sua ambra del giglio.» Imprecò sottovoce. «Sono ad almeno sei ore dal casino di caccia! Se invio una schiera di Uomini della Stella a ricatturarli, l'esercito perderà
una guida vitale durante l'invasione... ma non potrei mai affidare un compito simile a comuni guerrieri. La loro lealtà verso la Stella è quantomeno fragile, e i governanti evasi potrebbero senza dubbio offrire doni irresistibili per corromperli.» Picchiò un pugno guantato d'argento contro l'altro, in uno sfogo di rabbia. «Non c'è alternativa. Dobbiamo sospendere l'invasione sinché i fuggiaschi non saranno ricatturati. Significa un ritardo di almeno un giorno, e la perdita del vantaggio di colpire durante la Cerimonia imperiale dei Doni Augurali, quando Denombo è più vulnerabile.» Prese l'elmo per seguire gli Uomini della Stella che avevano già lasciato l'edificio. «Maestro, aspetta!» gridò Naelore con voce bassa ed eccitata. «Ho un'idea che potrebbe salvare la situazione.» «Cosa?» Lo stregone girò sui tacchi. «Il piano è disperato», ammise la donna, «ma credo valga la pena di tentare.» E si mise a spiegare. Inizialmente incredulo, Orogastus si rese poi conto che non c'era alternativa. «Molto bene», disse infine. «Se sei disposta a rischiare il tuo trono in questo folle progetto, non ti fermerò. Ma ricorda che l'esercito dovrà lasciare la base domani, entro un'ora dal tramonto, per poter essere in posizione prima che inizino i fuochi d'artificio.» «Il mio vecchio compagno Tazor e io possiamo farcela», replicò lei, il viso splendente. «Io ti riporterò la regina Anigel e lui farà in modo che gli altri ostaggi restino rinchiusi qui nel casino di caccia fino a dopo la caduta di Brandoba.» Lo stregone sorrise alla Donna della Stella. «Adesso vedo più chiaramente perché la tua gente ti ritiene adatta a fare l'imperatrice.» Le prese la mano. «Che i Poteri Oscuri ti sostengano.» «Lo stesso sia per te», rispose la donna, chinando il capo in modo che lui non potesse vedere la forte emozione che soffondeva di rossore il suo viso. Quindi indossò l'elmo raggiato e si precipitò a cercare Tazor. 22 L'arciduchessa Naelore studiò i due alti uccelli incapaci di volare legati con una sorta di guinzaglio agli alberi all'esterno del casino di caccia imperiale, quindi assunse un aspetto torvo per nascondere la paura crescente. «Amico mio, se questa missione non fosse così cruciale per la nostra sorte futura, niente potrebbe costringermi a toccare queste tue bestie ripugnan-
ti.» I pennuti carnivori superavano i due ell di altezza al garrese, e sotto i raggi del sole il loro piumaggio riluceva di un blu acciaio. Gli uccelli erano stati temporaneamente immobilizzati con un incantesimo mentre Tazor lavorava su di loro, ma i crudeli occhi rossi lanciavano sguardi di fuoco ai due stregoni, segno che, se anche il corpo dei nyar poteva essere bloccato dalla magia, lo stesso non poteva dirsi dello spirito. «Finché portiamo la Stella e diamo loro ordini con sicurezza incrollabile», spiegò Tazor, «queste creature ci obbediranno e non faranno alcun male né a noi né alle prede umane che inseguiamo.» Mentre Naelore osservava, disgustata e affascinata allo stesso tempo, lui sistemava le briglie. Orogastus e gli altri Uomini della Società erano partiti a seguito dell'esercito circa un'ora prima, e Tazor aveva avuto bisogno di tutto quel tempo per fare uscire i nyar dal folto della foresta, anche con l'aiuto della Stella. «Sei assolutamente certo che questi mostri non ci si rivolteranno contro?» chiese Naelore. «No, Altezza Imperiale. Qualche rischio c'è sempre. Ma vale la pena di correrlo, come ho detto al Maestro della Stella.» Con molta attenzione passò le briglie su un becco munito di denti formidàbili. «Nyar! Soltanto uno matto come te sceglierebbe come animali da compagnia dei predatori tanto orribili, per non parlare dell'idea di cavalcarli. Come ti è venuto in mente d'intraprendere un progetto tanto bizzarro?» «Lo consideravo una sfida per la mia Stella», ammise lui, assestando una pacca affettuosa sul collo di uno degli uccelli. Era grande quanto i tronchi utilizzati per le pareti dell'edificio. «Questa coppia si avventurava nei pressi del casino di caccia perché spesso davo loro da mangiare, e quando sono diventati meno feroci ho cominciato a pensare di addomesticarli. Ti confesso che mi ha stupito vedere che alla fine la stregoneria ha funzionato e li ha resi docili. Era un modo per passare il tempo sei lune fa, mentre languivo in questo posto dimenticato, privato della gloria della tua imperiale presenza durante il mio turno di guardia ai rifornimenti per il castello.» «Ma dai!» disse Naelore sdegnando il complimento. Intanto però gli sorrideva, perché erano davvero vecchi amici. Prima che l'avvento di Orogastus cambiasse per sempre la loro vita, Tazor aveva il titolo di capocerimoniere di palazzo per quanto riguardava la residenza dell'arciduchessa appena fuori Brandoba. Adesso erano compagni nella Società della Stella e teoricamente pari, ma entrambi sapevano benissimo che le cose non stava-
no così. «Se i Poteri Oscuri ci sorridono», continuò Tazor, «gli uccelli ci consentiranno di riparare al danno fatto da quegli sciocchi negligenti al castello. I nyar sono lesti come il monsone invernale. Neppure un fronial da corsa con le corna mozzate può reggere il passo. Raggiungeremo gli ostaggi entro tre ore.» «Se a causa di questa missione dovessi perdermi la battaglia di Brandoba», disse Naelore tenendo le labbra strette, «farò arrosto il fegato dell'ostaggio che ha organizzato la fuga!» «Penso che sappiamo entrambi chi dev'essere stato: l'unica che il Maestro non ha mai potuto scrutare con la magia perché è protetta dall'ambra del giglio.» «Maledetta quella regina-strega! Lo sapevo che avrei dovuto toglierle il ciondolo in un modo o nell'altro... oppure farla restare priva di sensi finché non ci fosse più stata utile e fosse stato possibile ucciderla. Ma Orogastus non ha voluto ascoltarmi. E adesso possiamo soltanto presumere che Anigel accompagni gli altri ostaggi.» «E dove altro potrebbe essere andata? La troveremo, Altezza Imperiale. Non preoccuparti. Non ti perderai la battaglia e non sarai privata del tuo trionfo su Denombo.» «Ah, quanta strada abbiamo fatto in soli due anni, vecchio mio! Chi avrebbe mai detto che quando hai aperto la porta della mia villa per quel perentorio bussare a mezzanotte, facevi entrare nella nostra esistenza uno stregone? E per di più uno che avrebbe trasformato il nostro disorganizzato gruppuscolo di reietti politici in una schiera in grado di rovesciare un impero.» «Ho capito che Orogastus era un uomo pericoloso non appena ho posato gli occhi su di lui», commentò sarcastico Tazor. «E lo stesso vale per te.» «È questa la ragione principale per cui ho deciso di fidarmi di lui.» «Ed è anche il motivo per cui te ne sei innamorata?» «Bastardo insolente», replicò la donna, sempre ridendo. Ma dal suo sguardo era sparito il buonumore. Smise di parlare e si affrettò ad allacciare la sella del secondo nyar. Tazor era un uomo imponente, più alto persino della statuaria arciduchessa, e possedeva una notevole forza fisica. Aveva occhi perspicaci piuttosto ravvicinati che dominavano un naso importante. Come a molti altri membri della Società della Stella, con l'evidente eccezione di Naelore dalla chioma di fuoco, i capelli gli erano diventati prematuramente bianchi a
causa della rigida iniziazione alla magia dei Poteri Oscuri. «Tazor», disse la donna con tono insolitamente esitante, «pensi che Orogastus manterrà davvero le promesse che mi ha fatto?» «Penso che ti farà diventare imperatrice di Sobrania», rispose l'ex cerimoniere di palazzo. «Per quanto riguarda il suo grandioso piano di conquista del mondo per mezzo della stregoneria e l'idea di nominarti suo coadiutore, sono molto meno ottimista. La Stella è una cosa meravigliosa, ma il mondo è molto grande... e gli ultimi fatti ci hanno ricordato che in esso ci sono altri maghi oltre a Orogastus e alla nostra Società della Stella.» «Ammetto che ero molto turbata quando il Maestro ci ha rivelato che il giovane principe aveva consegnato uno dei talismani a quella strega di palude di Kadiya. Ma consentendo al ragazzo e alla maga di percorrere il viadotto che porta a Sobrania, Orogastus ha astutamente riportato entrambi i pezzi dello Scettro a distanza utile. Così sarà facile riprenderli.» «Facile?» Tazor scosse il capo. «Non più di quanto lo sarà detronizzare Denombo.» «Lascia solo che mi arrivi a portata di spada!... Comunque, possiamo accelerare le cose ricatturando la regina Anigel e gli altri. Andiamo.» Montarono in groppa agli uccelli privi di ali, fermi come statue nel cortile anteriore dell'edificio. Naelore sollevò il suo medaglione della Stella e con esso sfiorò il collo della cavalcatura piumata. Il becco dentato del nyar si spalancò e l'animale emise un ruggito di tuono. Quando gli ordinò cosa fare, la bestia si precipitò come una meteora lungo il sentiero che portava al Grande Viadotto, lasciando il suo compagno a tossire in una nuvola di polvere. Imprecando, Tazor la seguì. Fu solo per un vero colpo di fortuna che l'Eterno Principe Widd riuscì ad afferrare l'Eterna Principessa prima che scivolasse di sella mentre guadavano il fiume fangoso. «Aiuto!» gridò l'uomo, disperato. «È successo qualcosa a Raviya!» Il presidente Hakit Botal voltò il fronial, rientrò in acqua e sostenne l'anziana principessa col forte braccio sinistro. Era fiacca come un fagotto di stracci. I sensi l'avevano abbandonata e i lineamenti rugosi erano terrei. Il presidente e il principe la portarono in salvo sulla riva opposta, dove tutti tranne Gyorgibo smontarono di sella e si avvicinarono. La regina Anigel e la regina Jiri di Galanar fecero sdraiare a terra la vecchia amica con infinita dolcezza.
«Triuno, abbi pietà di lei!» cominciò a piangere Widd. «Oh, mia povera Raviya. L'asprezza della fuga è stata troppo per lei.» «Respira», disse Jiri, dopo averle allentato il bustino, «e il battito cardiaco sembra regolare. Senza dubbio è stata solo sopraffatta dalla stanchezza e dalla tensione.» Il duumviro Ga-Bondies sbuffò. «Se è per questo, lo siamo tutti! È una follia proseguire. I fronial risentono ancora della fatica di ieri e dei vapori nocivi che hanno respirato. Si azzopperanno di certo se non li facciamo riposare... e io con loro. Non c'è un solo osso del mio corpo che non urli di dolore, e sto anche morendo di fame.» «E allora muori in silenzio», ribatté inflessibile il Re dei Pirati. Il robusto monarca gobbo si levò la cappa e la usò per coprire la principessa Raviya, che batté le palpebre gemendo. Il principe Widd sospirò. «Se solo potesse avere un boccone di cibo e riposarsi con un bel sonno.» La piccola quantità di cibo e bevande che erano riusciti a portar via agli stallieri del castello era stata consumata la sera precedente, quando avevano fatto una breve sosta, quasi in preda al panico per gli spaventosi rumori provocati dalle creature della Foresta di Lirda. Da allora avevano preso soltanto acqua e qualche scipito frutto che Gyorgibo aveva assicurato essere nutriente. «Sarebbe pericoloso fermarci a riposare adesso», disse l'arciduca. «Durante il giorno i rischi derivanti dalle bestie feroci e dagli uccelli sono davvero pochi, ma se gli Uomini della Stella hanno saputo della nostra evasione potrebbero venire a cercarci.» «Desidero quasi che lo facciano», grugnì Ga-Bondies. «Ci stiamo muovendo verso ovest con una certa regolarità, allontanandoci dalle terre alte», continuò imperterrito Gyorgibo. «Non ci vorrà molto perché giungiamo in qualche punto che mi è familiare, potendo quindi abbandonare il sentiero. Nelle zone più basse di Lirda ci sono delle scorciatoie per Brandoba che possiamo sfruttare per sfuggire agli inseguitori.» «Non se Orogastus usa la magia per venirci a prendere», fece notare Prigo. Hakit Botal si espresse mostrando una stizzosa rassegnazione. «Se arrivano gli Uomini della Stella, non abbiamo modo di difenderci. Ma suppongo che lo stregone e i suoi siano impegnati in altre faccende. Potrebbero essere già nella capitale, a mettere a soqquadro il palazzo di Denombo.»
«Perché dovremmo continuare a questa andatura pazzesca?» domandò Prigo. «È manifestamente impossibile riuscire ad avvertire l'imperatore. Dobbiamo considerare le nostre necessità... oltre a quelle dei nostri rispettivi paesi, sprofondati nel caos dal nostro rapimento. A che serve essere sfuggiti allo stregone se poi moriamo miseramente in questa zona selvaggia piena di strida e ululati?» La notte precedente, dopo aver attraversato il bacino dei geyser fiammeggianti, avevano cavalcato altre due ore prima di raggiungere il luogo dove si trovava il Grande Viadotto, chiaramente identificabile dal terreno insolitamente calpestato. Anigel aveva pronunciato l'incantesimo e l'attraversamento del passaggio buio era avvenuto senza incidenti. Avevano trascorso una notte inquieta nella radura vicino allo sbocco del viadotto, poi si erano rimessi in viaggio alle prime luci dell'alba. Era facile seguire l'ampio sentiero... troppo facile. L'arciduca e re Ledavardis, i migliori cavalieri del gruppo, erano andati a turno in avanscoperta a perlustrare la strada, per non correre il rischio d'incappare nelle forze dello stregone. Gli altri avevano continuato con grande fatica, cullati dal canto d'innumerevoli uccelli. Di quando in quando venivano risvegliati dal torpore dall'urlo di qualche animale invisibile, ma per il resto avevano sonnecchiato in sella finché non si era verificato l'incidente di Raviya. L'Eterna Principessa si risvegliò completamente e con voce flebile disse: «Sto benissimo. Basta che mi facciate rimontare in sella e continuerò senza problemi». «No, cara», replicò premurosa Anigel. «Non puoi. Prigo ha ragione. Siamo andati troppo oltre e dobbiamo riposare.» «Se questa foresta è una riserva imperiale», intervenne Ledavardis, «dovrebbe esserci qualche rifugio. Cosa mi puoi dire, Gyor?» L'arciduca sobraniano alzò le mani in un gesto impotente. «In realtà c'è un grande casino di caccia vicino al fiume Dob, oltre a capanne, comodi nascondigli di posta e numerosi campi attrezzati permanenti. Ma purtroppo lungo questo sentiero non vedo luoghi familiari. Può darsi che sia stato realizzato dagli Uomini della Stella a uso del traffico verso il Grande Viadotto. Questo fiume... potrebbe anche essere il Dob, ma le acque sono così piene di fango bianco che ne dubito. Il Dob scorre trasparente come cristallo dalla sorgente sui monti Collum ed è la principale fonte idrica di Brandoba. Non è mai stato fangoso, nemmeno durante le piogge più forti.» «Magari», disse Anigel, «la mia ambra del giglio c'indicherà la via.» Afferrò il ciondolo e lo studiò, gli occhi stravolti dalla fatica. «Sacro Fiore, in
quale direzione possiamo trovare un rifugio sicuro?» L'ambra continuò a splendere, ma al suo interno non apparve nessuna scintilla. «Non funziona. Forse la mia vita non è sufficientemente in pericolo.» «O forse», intervenne piano Jiri, «qui nei dintorni non c'è un luogo sicuro per noi. Chiedi al tuo amuleto se dobbiamo fermarci o proseguire.» Anigel lo fece, ma solo per lanciare un grido di delusione quando l'ambra si accese di una luminosità accecante per poi diventare spenta e opaca un istante dopo. «C'è qualcosa che non va...» Tutto attorno a loro il canto degli uccelli della foresta era diventato uno strido dissonante. Gyorgibo, l'unico ancora in sella, si alzò sulle staffe sguainando una spada arrugginita e scrutò preoccupato il sentiero che costeggiava il fiume. Ma l'attacco, quando venne, giunse da tutt'altra direzione. Una nube d'innumerevoli minuscole creature piumate, blu acceso, verdi e gialle, esplose dal fitto sottobosco e cominciò a vorticare furiosamente sulla testa degli stupefatti governanti, schizzando contro i loro visi e tempestandone di colpi i corpi con le ali che si muovevano a gran velocità. Raviya strillò, pur se debolmente, e parecchi degli uomini presero a imprecare. I fronial terrorizzati s'impennavano e sferzavano l'aria con gli zoccoli. Poi quelli senza cavaliere fuggirono tornando al di là del fiume, mentre Gyorgibo dovette faticare per non essere disarcionato. Tutti cercavano di difendere le parti scoperte dai becchi taglienti, mettendosi i mantelli sul capo e agitando le braccia nell'inutile tentativo di allontanare gli uccellini. «Basta!» ordinò una voce stentorea. Lo stormo di volatili scomparve in fretta come era apparso. Anigel sbirciò di sotto il mantello e vide due spaventose apparizioni a un tiro di schioppo dal gruppo, lungo il sentiero. Si trattava di enormi uccelli dal collo lungo con massicce zampe ricoperte di scaglie, più grandi di qualunque voor avesse mai visto. Il corpo era blu scuro, i poderosi becchi erano dentati e gli occhi splendevano come carboni ardenti. Seduti in groppa alle bestie c'erano due maghi vestiti con le insegne argento e nere della Società della Stella, pettorali d'acciaio e impressionanti elmi con un diadema a forma di stella. Uno dei cavalieri si fece avanti, estraendo dal fodero un'arma degli Scomparsi. «Gyorgibo di Nambit! Smonta e sottomettiti a me!» Anigel riconobbe la voce, e anche i capelli rossi che uscivano di sotto l'elmo: era Naelore. I lineamenti sudici dell'arciduca erano distorti dall'odio. Invece di arren-
dersi alla Donna della Stella, spronò il suo fronial e la caricò al galoppo, la spada pronta a colpire. Lei sollevò la propria arma e si vide un subitaneo lampo dorato, accompagnato da un insolito suono acuto simile a un cinguettio. La cavalcatura di Gyorgibo emise un grido terribile e si abbatté al suolo, le zampe divaricate in modo scomposto e le corna spezzate, e là rimase lamentandosi da far pietà. Lo stesso arciduca venne sbalzato di sella, rotolò a terra a testa in giù e si fermò alla base di un grande albero-nido, giacendo esanime. «Qualcun altro ha voglia di combattere?» Tazor avvicinò il suo nyar a quello di Naelore e puntò la strana arma che teneva in mano sul fronial ferito. Ne uscì un raggio scarlatto che colpì l'animale in mezzo agli occhi, uccidendolo all'istante. «Ci sottomettiamo!» gridò il presidente Hakit Botal, alzando le mani. «Risparmiateci!» Ga-Bondies cadde in ginocchio, piagnucolando, anche lui con le braccia alzate. Prigo era rimasto a occhi sgranati, ancora in parte avvolto nel mantello. Il principe Widd, re Ledavardis e la regina Jiri, che avevano cercato di proteggere l'Eterna Principessa dall'assalto dei frenetici uccellini, si accovacciarono accanto all'anziana donna che giaceva supina e fissarono gli stregoni. Anigel ignorò i nyar e i loro temibili cavalieri e si diresse da Gyorgibo, chinandosi su di lui molto preoccupata. «Stagli lontana!» ordinò Naelore. Scese di sella, lasciando il nyar immobile, e andò verso la regina. «Tuo fratello ha battuto la testa», disse calma Anigel, «ma sembra stia riprendendo i sensi. Lasciami...» «Zitta! Vieni qui.» Con grande dignità, Anigel si alzò e si avvicinò alla Donna della Stella, che le puntava contro l'antico strumento di guerra. «Quel che è troppo è troppo», disse l'arciduchessa. «Levati l'amuleto e posalo a terra in mezzo a noi.» «No», replicò Anigel. «Puoi anche trucidarmi sui due piedi, io non mi toglierò mai il mio Giglio Nero.» «E allora preparati a morire, stupida cagna!» «Altezza Imperiale!» Anche Tazor era smontato e si era avvicinato alle due donne. E pure il suo nyar era rimasto immobile al proprio posto. «Avrei un suggerimento.» «Parla», disse la maga. «Abbiamo in nostro potere i due duumviri di Imlit, ma per assicurare la
collaborazione della nazione ce ne basta uno.» Tazor sollevò l'arma e afferrò Ga-Bondies per il colletto. «Magari se facessi a fette un braccio del più anziano...» «No!» strillò il duumviro facendosi piccolo per la paura. «Abbiate pietà!» «... la regina Anigel potrebbe cambiare idea.» «Procedi», disse Naelore. Ga-Bondies scoppiò istericamente in lacrime, e subito Anigel si tolse la catena dal collo appoggiando l'amuleto sulla fangosa riva del fiume. Adesso sul viso della Donna della Stella spiccava un sorriso di velenosa soddisfazione. Puntò la sua arma contro l'ambra e si vide un lampo di luce gialla... ma l'amuleto rimase intatto. Naelore inveì contrariata. «Tazor! Vedi un po' se riesci a distruggere quell'affare.» Il mortale raggio rosso non si rivelò più efficace del lampo dorato. «Altezza, la magia del Giglio Nero lo rende invulnerabile. Ma ho un'altra idea.» Prese la vecchia spada che Gyorgibo aveva lasciato cadere e la usò per sollevare l'amuleto, tenendolo per la catena. Anche se la spada divenne subito bollente, riuscì a lanciare l'amuleto nel fitto della boscaglia. Tazor posò la spada fumante e sorrise. «Lasciamo che nelle notti buie le bestie selvatiche si chiedano cosa sia mai quello strano oggetto.» Naelore piegò il capo all'indietro e rise. Afferrò con forza Anigel per la spalla e la spinse verso un nyar. «Tazor, aiutala a montare in sella. Siederà dietro di me mentre mi affretto a raggiungere la base. Tu, invece, occupati dei nostri degni ospiti.» «Lo stregone malvagio ci ucciderà tutti!» uggiolò lamentoso GaBondies. Naelore guardò il grasso duumviro con disgusto. «Abbiamo altri progetti per te, budella tremule! Al Maestro della Stella serve solo la strega-regina, per fare in modo che suo figlio gli ceda il talismano.» Nelle braccia dell'ex cerimoniere di palazzo, Anigel s'irrigidì, il respiro bloccato in gola. «Mio figlio? Di quale figlio stai parlando?» «Di tuo figlio Tolivar, è ovvio», rispose l'arciduchessa. «Quello che indossa il Mostro a Tre Teste. Aveva anche lo scrigno stellato e il secondo talismano - l'Occhio di Fuoco - ma tua sorella Kadiya l'ha costretto a ridarglieli.» «Tolo... il mio talismano... Ma è impossibile! Il bambino si trova a Var, a migliaia di leghe da qui, e anche Kadi. E comunque Tolo non ha il dia-
dema.» Naelore rise di nuovo. «Quale madre conosce davvero i propri figli? L'ha in suo possesso - e lo usa - da almeno quattro anni, all'insaputa di tutti tranne che del Maestro della Stella, che gli parla in sogno. Adesso il tuo prezioso figliolo, sua zia e i loro scagnozzi sopravvissuti si trovano a Sobrania, proprio come te. A questo punto dubito che ci vorrà molto perché vi incontriate, con vostro reciproco dispiacere.» Tazor issò la regina, che aveva perso le forze per lo shock, sul nyar dell'arciduchessa. Quindi legò le mani di Anigel e l'avvolse ben bene in un mantello. «Mi occupo degli altri e ti raggiungo, Altezza Imperiale», disse a Naelore. «Ma non lasciare che il Maestro della Stella rinvii l'invasione per aspettare me.» Naelore annuì brusca e montò in sella. Sollevando la mano guantata d'argento per salutare Tazor, diede di sprone all'animale che si allontanò rapido. «Ci riporterai a Castel Conflagrante, allora?» chiese Ledavardis di Raktum all'Uomo della Stella. Adesso sia lui sia la regina Jiri erano in piedi, mentre il vecchio Widd si era inginocchiato ad abbracciare Raviya. Apparivano entrambi pallidi ma sereni. «No», rispose Tazor, tenendo lo sguardo su Gyorgibo che aveva cominciato a lamentarsi e a tendere i muscoli sotto i colpetti di stivale dell'Uomo della Società. «Vi rinchiuderò tutti quanti nel casino di caccia imperiale, dove ha passato la notte il nostro esercito. Si trova a circa ottanta leghe da qui, e ci vorranno sei o sette ore in sella seguendo il corso del fiume. I feroci abitanti della Foresta di Lirda vi terranno tranquilli per alcuni giorni, finché non avremo terminato i nostri affari a Brandoba e verremo a riprendervi.» Si rivolse a Hakit Botal. «Signor presidente, voi e il Re Gobbo attraversate il fiume e riacchiappate i fronial fuggiti. Fate in fretta o con la mia sputafuoco brucerò le orecchie di una delle signore.» Appoggiandosi l'arma su una spalla, si voltò verso il duumviro Prigo. «Voi! Prendete quella vecchia spada e tagliate due pali lunghi e parecchi ell di liane resistenti. Dovremo fare una barella per la principessa Raviya.» Quindi a GaBondies: «Togliete finimenti e coperta da quel fronial morto, poi slacciate le cinghie delle staffe e separate ogni striscia». Mentre gli ostaggi maschi ancora in forze svolgevano i loro incarichi, Tazor si avvicinò lentamente a Jiri, Raviya e Widd che stavano bisbigliando tra loro. «Come si sente la vecchia signora?» domandò, non senza gen-
tilezza. «L'Eterna Principessa soffre soprattutto di sfinimento», rispose la regina di Galanar. «Quella della lettiga è un'idea eccellente. Ne farai una anche per il povero arciduca?» L'Uomo della Stella ridacchiò con cattiveria. «Lasciate pure che viaggi legato e gettato sulla mia sella come un nunchik morto. Non ha importanza. Tanto, a differenza di voi, non sopravvivrà a lungo all'ascesa al trono della sorella.» «Non è che per caso», disse Jiri con qualche moina, «avresti del vino da condividere con la principessa Raviya? Le darebbe forza.» «Prendete l'otre di pelle dalla mia bisaccia.» Jiri diede un'occhiata diffidente al grande nyar. «Oddio! Non oserei avvicinarmi a quell'orribile uccello...» «È sotto incantesimo. Non si muoverà né vi farà del male a meno che non glielo ordini io.» Jiri si avvicinò all'enorme creatura e cominciò a cercare in una delle bisacce, che era talmente in alto da risultare quasi sopra la sua testa. «Forse l'otre è nell'altra», disse e girò attorno al volatile, non più in vista di Tazor. Un attimo dopo gridò: «Sembra proprio che non riesca a trovarlo». Mugugnando, l'Uomo della Stella andò ad aiutarla. La grassoccia regina di mezza età si fece da parte, sorridendo con aria di scusa, entrambe le mani nascoste sotto le ampie maniche. Reggendo l'arma degli Scomparsi in una mano, Tazor le voltò le spalle e con l'altra cercò a tastoni nella borsa in pelle decorata di piume. Jiri si spostò dietro di lui. Lo spazio tra il bordo dell'elmo stellato dello stregone e la parte superiore della corazza era stretto, appena due dita. La regina estrasse dalla manica il mazzafrusto, fece ruotare la catena sopra la testa e mandò il pesante blocco di ferro in fondo alla catena stessa a colpire proprio nel punto privo di difesa. Si udì uno schiocco da gelare il sangue. Il collo spezzato, Tazor cadde a terra senza un gemito. Il nyar prese improvvisamente vita, ruggendo, e fece un saltello all'indietro. Iniziò a raspare il terreno fangoso con aria di sfida, abbassò la testa e tese i muscoli per avventarsi contro la regina. Ma dai cespugli ecco apparire una figura che si trascinava carponi. Era l'arciduca Gyorgibo che, afferrata l'arma degli Scomparsi caduta di mano a Tazor, la puntò direttamente verso la bocca del mostro, che spalancava il becco dentato minacciando Jiri. La testa del nyar scomparve in una fiammata rossa e il corpo colossale precipitò rumorosamente al suolo.
«Per i Tentacoli di Heldo!» gridò re Ledavardis. Lui e Hakit Botal si trovavano sulla sponda opposta del fiume, atterriti da ciò che la regina e Gyorgibo avevano fatto. «Mi dispiace davvero per Tazor», disse Jiri. «Non era neanche lontanamente malvagio fino al midollo come Naelore.» Nei suoi occhi brillava una lacrima e l'arciduca le cinse le spalle per confortarla. A quel punto si avvicinarono furtivi anche i due duumviri, che osservarono a bocca aperta il cadavere senza testa dell'enorme carnivoro e quello dell'Uomo della Stella. «Cara suocera», disse scosso Prigo, «sono stupefatto. Rendo onore al tuo ardimento guerresco.» «Ma in nome di Dio, con che cosa l'hai colpito?» chiese Ga-Bondies. «Un vecchio mazzafrusto trovato nelle segrete del castello.» Jiri si sciolse dall'abbraccio di Gyorgibo. «Devo andare da Raviya. Tutta questa violenza dev'essere stata un grande shock per lei.» Ma l'Eterna Principessa sedeva ritta e con tutta calma si riassettava gli scompigliati capelli candidi, con Witt accovacciato al suo fianco. «Immagino che il vino poi tu non l'abbia trovato», l'apostrofò Raviya. La regina Jiri sorrise. «Era nella prima bisaccia che ho esaminato. Per fortuna il nyar non ci è caduto sopra. E c'è anche del cibo.» «Possiamo dividerlo», disse Raviya, «dopo di che dovremmo proprio riprendere il cammino. Una volta messo qualcosa nello stomaco starò benissimo.» Chinò la testa verso il marito. «Cosa stai aspettando, vecchio? Va' a prendere le vettovaglie che si trovano su quella bestiaccia morta e prepara per tutti.» Re Ledavardis, che aveva riattraversato il fiume e si era riunito al gruppo, prese da parte Jiri. «Credi davvero che Raviya sia in condizioni di viaggiare?» La regina ci pensò un istante. «Al momento si sente meglio, ma non può resistere a lungo. Converrebbe trasportarla su una barella. Seguendo le tracce lasciate dai nyar dovremmo raggiungere il casino di caccia imperiale dove voleva condurci l'Uomo della Stella. Là troveremo di certo cibo decente e dei letti, se intendevano farne la nostra prigione.» «Potremmo scoprire che l'edificio è abitato da seguaci di Orogastus.» «In quel caso dovremo semplicemente sottometterli», disse graziosamente Jiri. Il Re dei Pirati le strizzò l'occhio buono. «Bene! Credo che per un po' non dovremo preoccuparci che torni Naelore. Non con la regina Anigel da
tenere a bada e lo stregone che istiga alla rissa nella capitale sobraniana.» «Anigel...» Il dolce viso della regina si tinse di dispiacere. «Povera bambina. Temo che dovremo lasciare il suo destino nelle mani dei Signori dell'Aria.» «Forse c'è qualcosa che posso fare.» Le fattezze poco aggraziate di re Ledavardis s'illuminarono, non appena ebbe l'idea. «Se voi vi occupate di tutti i preparativi qui, io proverò a cercare l'amuleto d'ambra. Dubito che farebbe del male a un amico e futuro genero della sua proprietaria. Chissà? Il Giglio Nero potrebbe accondiscendere ad aiutare un certo pirata nel salvataggio della regina Anigel.» «Hai intenzione di seguirla?» Gli occhi di Jiri erano sbarrati. «La spada e la miracolosa arma antica dell'Uomo della Stella morto saranno utili per ridurre il vantaggio che i carcerieri della regina hanno su di me.» «Ledo, sei proprio un giovane coraggioso», commentò Jiri. Il re le prese la mano e la baciò. «Detto da te, questo è il più grande dei complimenti.» 23 Nonostante la grande stanchezza, il principe Tolivar continuava a girarsi e rigirarsi, sdraiato su un sacco di morbido piumino nella capanna di Critch il Cadoon. Si erano messi a letto di giorno, ma il piano superiore dell'abitazione era buio e fresco, con soltanto due minuscole finestre con inferriata, una di fronte all'altra, sotto le gronde del tetto di paglia. Dalle travi pendevano decine di sacchi di tela, ognuno contenente penne e piume di colore diverso. Il russare dei quattro Compagni Fedeli che dormivano dall'altro lato dello stanzone si univa al debole rumore delle onde che s'infrangevano sulla spiaggia di ciottoli appena fuori, e ai miagolii e agli stridi di griss, pothi e altri uccelli marini. Kadiya e Jagun avevano detto che avrebbero riposato al piano di sotto, ma Tolivar li udì conversare per un bel po' con l'aborigeno e la sua famiglia. La promessa fatta alla zia impediva al principe di usare il diadema per ascoltare di nascosto... non che gli importasse davvero della misteriosa mercanzia che la Signora degli Occhi stava acquistando per la sua scorreria a Brandoba il giorno dopo. Infatti, Kadiya aveva chiarito senza ombra di dubbio che lui sarebbe dovuto rimanere a bordo dell'imbarcazione insieme con Jagun e Critch, mentre lei e i cavalieri si recavano in città ad avvisare
l'imperatore che gli Uomini della Stella stavano preparando qualche trucco malefico e a chiedergli aiuto per salvare la regina Anigel e gli altri ostaggi. Tolivar si era tolto il diadema e l'aveva infilato sotto la camicia, dove sarebbe stato al sicuro. Gli aveva ordinato di svegliarlo immediatamente se qualcuno gli si fosse avvicinato. Mentre se ne stava là nel dormiveglia, le dita si strinsero attorno al talismano. Sei mio, continuava a ripetergli. E il Mostro a Tre Teste rispondeva sempre: Sì. Pur desiderando con tutto il cuore che sua madre tornasse sana e salva, la certezza che gli adulti avrebbero cercato di costringerlo a restituirle il diadema gli rodeva il fegato. Era così ingiusto! In fondo la regina aveva consegnato il talismano a Orogastus — sotto coercizione, è vero, ma comunque di propria spontanea volontà - e a sua volta Tolivar l'aveva preso allo scagnozzo dello stregone. La pretesa di sua madre nei confronti del Mostro a Tre Teste aveva realmente maggior valore di quella di Orogastus? Anche quando il diadema era stato nelle sue mani, si era limitata a tenerlo nascosto, non utilizzando praticamente mai il suo magico potere, se non per parlare a distanza con le sorelle. Il talismano è mio, si ripeteva Tolivar, mio di diritto... e non importa quello che gli altri possono pensare o dire. Ma ancora per poco. Chi...? Non è il mio talismano che parla! No. Sono il Maestro della Stella. Il tuo maestro, Tolo. No! Mai! Vattene dai miei sogni! Non stai sognando. E ti ho già spiegato che non potrei parlarti se tu non volessi. Questa è una bugia... È la verità, e lo sai benissimo. Tu mi ammiri ancora e desideri ardentemente condividere il mio potere in qualità di mio figlio adottivo ed erede. È ignobile da parte tua negarlo... proprio come è ignobile non ammettere di aver causato la morte di Ralabun il Nyssomu. Ralabun! Mio povero vecchio amico, io non volevo che morisse. È stato un incidente, anche se zia Kadiya ha detto... Responsabilità non significa necessariamente colpa. Ascoltami, Tolo: se non avessi ordinato a Ralabun di accompagnarti sul sentiero del fiume Oda, sarebbe ancora vivo. Accetta questo fardello, come deve fare ogni comandante! Ma non torturarti con sensi di colpa. La crudele Signora de-
gli Occhi cerca di controllarti instillandoti l'idea che sei moralmente colpevole della morte del tuo amico. Ma non è così. ... Davvero? Pensi che Ralabun si sarebbe tirato indietro sapendo che tu intraprendevi da solo un viaggio pericoloso? No. Anche se non gliel'avessi ordinato, sarebbe comunque venuto con me. E sapevi che c'era un namp in agguato quando hai fatto allontanare Ralabun dal sentiero? Certo che no! Quindi è morto per un semplice incidente, non per un tuo errore o una tua negligenza. Capisci? Sì. Io... io ti ringrazio per avermelo spiegato, Orogastus. Tolo, siamo stati separati per molti anni, e sono io da biasimare maggiormente per questo. Ma è venuto il momento di colmare la distanza che ci divide. Allontanati da quelle persone fredde e indifferenti che non sanno apprezzare il tuo vero valore. Un tempo mi amavi come un padre adottivo. Torna da me ora e riprendi il tuo posto al mìo fianco. I miei Uomini della Stella e io non siamo potuti venire a riceverti allo shocco del viadotto a causa di altre questioni di vitale importanza. Ma possiamo incontrarci altrove. No! Domani salperai per Brandoba insieme con gli altri, e anch'io sarò in città. Usa il tuo talismano per eludere Kadiya e vieni da me, portando lo scrigno stellato. Possiamo incontrarci a... No! Orogastus, mi hai imbrogliato già una volta, quando non ero altro che un bambino sciocco e dispettoso. Non accadrà di nuovo. Tutto ciò che vuoi è portarmi via il talismano. Non posso prenderlo. Lo sai. Quello che desidero tu faccia è rendermi il talismano liberamente, come hai restituito l'Occhio di Fuoco Trilobato a tua zia. Quello... era diverso. Non sai come usare correttamente il tremendo potenziale magico del diadema. È uno strumento atto a ripristinare l'equilibrio del mondo, non un congegno per futili giochi di prestigio. So che non sei riuscito a dominare il talismano, che con esso ti sei semplicemente trastullato in quella tua capanna segreta nella Palude Labirinto. Conosco il talismano meglio di quanto credi!
Tolo, esiste un unico modo per te di diventare uno stregone esperto: restituirmi il diadema ed entrare a far parte della mia Società della Stella. Vieni da me, caro ragazzo. Perdonerò la tua slealtà e ti reintegrerò come mio figlio adottivo ed erede. E quando morirò, il Mostro a Tre Teste sarà di nuovo tuo... solo che allora ne sarai davvero il padrone... oltre a essere il padrone del mondo. Orogastus, mi hai già usato come un fantoccio. Ma non accadrà più. Nel profondo del cuore, Tolo, desideri ancora essere mio figlio. Forse. Ma quel desiderio non è che una fantasia infantile. È una tentazione ben nascosta dentro di me che emerge solo quando dormo. Quando sono sveglio e ho il controllo delle mie facoltà mentali, ti respingo. E ti respingo anche ora! Avevo sperato che saresti venuto da me di tua spontanea volontà... ma così sia. Lascia che ti faccia un'altra domanda: ti importa che tua madre viva o muoia? Certo che mi importa! Allora usa il diadema per avere una sua Vista. Adesso il destino della regina Anigel è solo nelle tue mani, come non è mai stato quello del povero vecchio Ralabun. Cosa stai dicendo? Che la regina è prigioniera della mia alleata, l'arciduchessa Naelore, una donna pericolosa e implacabile. Non è vero! Ho già avuto una Vista di mia madre. È libera in una foresta da qualche parte vicino a Brandoba, accompagnata dagli altri governanti che avevi rapito. È vero che la regina Anigel era fuggita dal castello con gli altri, ma è stata ricatturata. Il tuo diadema te la mostrerà come sventurata prigioniera in balia di Naelore. Svegliati e ordina al Mostro a Tre Teste di verificare ciò che ho detto. Io... io ho dato la mia parola a zia Kadiya di non utilizzare la magia del talismano senza il suo permesso. Cosa? Chiedere il permesso? Sei uno scolaretto piagnucoloso che deve implorare la sua bambinaia di lasciargli usare il guardaroba, o sei il proprietario di una parte del grande Triplice Scettro del Potere? Non devi alcuna fedeltà a tua zia. Ha sfruttato il tuo dolore per estorcerti quella promessa. Non ha valore. Adopera il talismano per aver conferma della cattura di tua madre. Fallo subito! Io... ti crederò sulla parola.
Ragazzino sciocco. Osi prenderti gioco di me? Perché dovrei? Forse perché coltivi ancora la patetica speranza di salvare tua madre da solo! Tolo, ne ho abbastanza delle tue chiacchiere infantili. La regina Anigel e i tre bambini non ancora nati che porta in grembo faranno una fine orribile sotto la spada di Naelore, se non vieni a Sobrania in tutta fretta e non mi consegni sia il Mostro a Tre Teste sia lo scrigno stellato. Non ti credo... Nel centro di Brandoba si trova il palazzo imperiale, e davanti a esso c'è un grande parco, una zona all'aperto dove i cittadini che celebrano la Testa degli Uccelli si riuniranno a mezzanotte per ammirare lo spettacolo dei fuochi d'artificio. Recati là, accanto alla Tontana del Griss Dorato! Ti troverò io e lascerò tua madre libera e illesa alle tue cure non appena mi avrai consegnato il talismano e lo scrigno. Il diadema è mio di diritto! E la vita di tua madre appartiene a me... Non commettere errori, ragazzo! Se non mi obbedisci, vicino alla fontana troverai il suo corpo sventrato. Sacro Fiore... no! E la colpa di questa morte sì che ricadrà irrevocabilmente su di te. Ne soffrirai finché vivi. No no no... Al principe parve di vedere il volto della madre, dai cui occhi sgorgavano fiotti di lacrime. Continuava a ripetere il suo nome, pregandolo di consegnare il diadema allo stregone in modo che la vita sua e quella dei bambini che aveva in grembo fossero risparmiate. Ma Tolivar era inspiegabilmente ammutolito. Non riusciva a risponderle. Per quanto provasse, non ce la faceva proprio a pronunciare quell'unico «sì», che avrebbe reso libera sua madre. Non poteva cedere il suo talismano. No! Mai! Si svegliò di soprassalto, si sollevò sui gomiti e lasciò correre freneticamente lo sguardo nella stanza delle piume. Ormai era pomeriggio inoltrato e un raggio di sole illuminava la danza di minuscoli granellini di polvere. A quanto sembrava i quattro cavalieri si erano svegliati ed erano scesi al piano inferiore. Soltanto l'orecchio della sua mente percepiva ancora l'eco dello straziante appello della regina Anigel e il suo vergognoso rifiuto. A meno che, dopotutto, non si fosse trattato solo di un sogno. Avrebbe dovuto scoprire come stavano veramente le cose. La promessa
fatta alla zia adesso non sembrava altro che la parola di un marmocchio ingenuo e impaurito. Che diritto aveva la Signora degli Occhi di chiedergli di astenersi dall'usare la magia, soprattutto quando la vita di sua madre poteva dipendere da essa? «Talismano», mormorò, rafforzando la presa sul cerchio metallico che aveva tolto di sotto la camicia. «Mostrami la regina Anigel.» Chiuse gli occhi, e nella sua mente apparve una visione, come fosse stato uno degli uccelli di Sobrania che scendeva librandosi da grande altezza e si andava a posare sul ramo di un albero a qualche ell dal suolo. In un'ampia radura della foresta stazionavano parecchie centinaia di cavalieri armati di tutto punto. Alcuni erano Uomini della Stella, che sopra l'abito da maghi indossavano corazze d'acciaio ed elmi con spunzoni di metallo molto appuntiti. In mezzo all'esercito c'era un padiglione di tela aperto sui lati, sotto cui sedeva Orogastus, intento a bere vino da una coppa d'oro. Appena fuori del rifugio, ecco Naelore che, vestita con la lucente armatura nera e argento, sorrideva con aria trionfante alle truppe che la salutavano. In mano reggeva uno spadone. Legata a un alberello davanti alla maga, invece, si trovava la regina Anigel. Le vesti della prigioniera erano sporche e stracciate, i capelli biondi sparsi in modo disordinato, mentre polsi e caviglie erano lividi e sanguinanti a causa delle cinghie di cuoio che li legavano. Mentre Tolivar guardava terrorizzato, Naelore abbassò la spada fino a che la punta si fermò tra i seni di sua madre. Con tocco leggero, la lama si spostò sul ventre, facendo un piccolo taglio verticale nel tessuto grezzo. Come sempre, la visione offerta dal talismano di Tolivar era muta. L'arciduchessa sembrava incalzare la regina con mille domande, ma Anigel restava serenamente indifferente, lo sguardo nel vuoto. La moltitudine di soldati e Uomini della Stella rideva con aria di scherno. «Mamma!» gemette piano il ragazzo. «Oh, mamma!» La regina Anigel non poteva udire suo figlio, ma evidentemente Orogastus sì. Lo stregone si voltò e parve fissare dritto in viso il principe. L'elmo del Maestro della Stella aveva raggi più lunghi ed era maggiormente decorato rispetto a quelli degli altri membri della Società. Una visiera copriva la parte superiore del viso, ma i sardonici occhi d'argento erano ben visibili. Anche se le labbra dello stregone non si mossero, Tolivar udì con chiarezza la sua voce. Non raccontare a nessuno ciò che hai visto, altrimenti la regina e i tuoi
fratellini non ancora nati saranno giustiziati sul posto Ricorda incontriamoci a mezzanotte alla fontana vicino al palazzo. Sarò mascherato, ma mi riconoscerai. Porta il diadema e lo scrigno. Hai capito? Finalmente Tolivar riuscì a pronunciare la fatidica parola. «Sì», mormorò. «Farò come dici.» La visione scomparve, e dietro le palpebre chiuse il principe vide solo un vuoto rossastro. Lacrime amare gli sfuggirono di sotto le ciglia, rigandogli le guance. Ma non ci badò, restando sdraiato immobile come un sasso, le mani strette attorno al talismano finché la rabbia impotente si sciolse in un'infelicità tale da inebetire. Dopo molto tempo, sua zia Kadiya lo chiamò e gli disse di scendere per la cena. «Arrivo», rispose rimettendosi il Mostro a Tre Teste sotto la camicia, questa volta con le punte acuminate verso l'interno in modo che gli pungessero la pelle nuda. Era un'ora dopo il tramonto del giorno successivo quando la barca Cadoon, governata dal solo Critch, entrò lentamente nel porto di Brandoba. Dietro di essa, dall'altra parte dell'estuario, a occidente, si vedevano altissime nubi tinte di rosso scuro, indizio certo di pioggia prima del mattino. Anche il vento leggero che aveva rallentato il passaggio dell'imbarcazione adesso girò verso ovest, aiutando il capitano aborigeno a guidare la barchetta nelle acque affollate di galee, mercantili dagli alti alberi e una miriade di natanti più piccoli ancorati in rada, il cui sartiame era in massima parte punteggiato di lampade a olio in vetro colorato in onore della Festa degli Uccelli. Sulla riva, la capitale sobraniana risplendeva di luci. Cesti-lume appesi ad alti tralicci fiancheggiavano i viali e molte strade, e da ogni edificio pendevano festoni di lanterne. Il lungomare era pieno di gente in costume che danzava e faceva capriole, e in qualche caso addirittura si dondolava dalle eleganti balaustrate lungo le banchine. Sugli ampi scaloni della spianata, svariate bande di ottoni sembravano impegnate in una gara musicale che consisteva nel suonare più forte e coprire le altre. I passeggeri di Critch erano rimasti sottocoperta mentre la nave si avvicinava alla riva, perché degli umani su un vascello aborigeno avrebbero potuto destare sospetti. Kadiya e gli altri sbirciarono fuori degli oblò, osservando lo spettacolo, finché Critch non si ormeggiò a un molo usato solo dai mercanti Cadoon e situato a una certa distanza dalla zona centrale del porto.
Il cercatore di piume scese un attimo a terra a parlare col Popolo locale, quindi risalì a bordo e disse: «Adesso potete salire sul ponte e sbarcare senza pericolo». Jagun e il principe furono i primi a percorrere la scaletta della cabina, seguiti da quelli che dovevano scendere a riva. Kadiya e i Compagni Fedeli indossavano i costumi acquistati da Critch, che avrebbero permesso loro di passare inosservati tra la gente che festeggiava. Dato che la cabina era molto buia, quella era la prima occasione che avevano di vedersi bene l'un l'altro con addosso le maschere infilate con l'aiuto di Jagun e Tolivar. La Signora degli Occhi portava un abito con cappa di splendide piume porpora iridescenti. In cima al cappuccio in tinta c'era una lunga cresta gialla, e un becco dorato all'altezza delle sopracciglia le teneva in ombra il viso. Sotto il mantello era nascosto il talismano, nella propria guaina. «Sei splendida, Lungimirante», disse Jagun, e lei fece un inchino ironico. I fratelli Kalepo e Melpotis erano entrambi vestiti di blu scuro, con costumi che volevano rappresentare i nyar. Gli ampi e avvolgenti copricapi avevano becchi spalancati muniti di denti attraverso i quali erano in grado di vedere. Il piumaggio di Edinar era rosso acceso, con uno strano rostro piatto attaccato al cappuccio. Quando Melpotis prese a ridere sotto i baffi per il buffo aspetto del giovane cavaliere, Edinar trovò il fischietto da richiamo inserito nel copricapo e, soffiando, emise un sonoro qua qua che fece sbellicare dalle risa i due nyar. L'ultima figura in costume a emergere fu sir Sainlat. A causa del suo fisico imponente, soltanto uno dei travestimenti si era dimostrato della misura giusta, quello di un pothi di mare. Era realizzato con piume di un rosa intenso e sul didietro aveva una ridicola coda a ventaglio rosa e nera. Il cappuccio lasciava esposto il viso a eccezione del naso, nascosto dietro un grande becco a cono nero. «Mi sento un perfetto idiota», esordì con allegria il possente cavaliere. «Ah, ma sembri anche peggio», lo rassicurò Edinar. «Mi complimento per l'abilità della tua famiglia», disse Kadiya a Critch. «I costumi sono fatti benissimo. Non impediscono i movimenti e l'armatura e le armi nascoste sotto non si vedono per nulla.» Il Cadoon aprì un grande paniere di vimini che si trovava sul ponte e ne trasse una sacca di rete piena di tondeggianti oggetti colorati. «Magari potreste portare con voi alcune di queste. Sono uova di griss fatte seccare e riempite di coriandoli e spore che fanno starnutire, quindi sigillate con la
cera. È un'antica consuetudine del carnevale frantumarle e spargerne il contenuto sugli altri festaioli. Potrebbero risultare utili se foste ostacolati dalla folla.» «Grazie», replicò Kadiya, «ma per questo basterà la mia magia. È meglio se non siamo troppo carichi. Ma torniamo a noi: se non saremo qui per domani all'alba o se in città scoppiassero tumulti seri, riprendi il mare con Jagun e il principe Tolivar. A tempo debito mi metterò in contatto con Jagun tramite il mio talismano, e lui ti riferirà nuove istruzioni.» Fece un cenno del capo ai cavalieri, che scesero la passerella di legno e rimasero ad aspettarla sul molo. In contrasto con la scena di massa che si scorgeva sul lungomare, la zona utilizzata dalle imbarcazioni aborigene era praticamente deserta, a eccezione di qualche marinaio delle poche barchette simili a quella di Critch che oscillavano piano nell'acqua scura. I Cadoon non prestarono la minima attenzione al gruppo di umani vestiti in modo stravagante. Prima di scendere Kadiya si avvicinò al principe Tolivar, che era andato a sedersi a prua, e lo ammonì in privato. Il ragazzino rispose con aria docile. Dopo di che la donna tornò nella parte centrale della barca, dove erano rimasti Jagun e Critch. «Fate molta attenzione al bambino», disse a bassa voce. «Non lasciatelo solo neppure un istante. Sembra molto abbattuto e non penso tenterà qualche mossa avventata, ma se lo facesse ditemelo subito col linguaggio senza parole.» «Ci occuperemo di lui, Lungimirante», la rassicurò il vecchio Nyssomu. Era sul punto di andare, ma Critch la fermò. «Signora, ho da comunicarvi alcune notizie riportate da un battelliere della mia razza che ho incontrato mentre legavo le cime.» Puntò il dito verso la zona più lontana e fosca del porto. «Vedete la grande nave laggiù alla fonda, quella con un'unica luce rossa in poppa?» Kadiya annuì. «Batte le insegne di Zinora ed è arrivata solo questo pomeriggio. Il mio amico mi ha assicurato che non si tratta di un normale mercantile costiero, ma di una galea trireme a tre alberi, uno dei vascelli più veloci in circolazione. L'equipaggio non è zinoriano ma sobraniano, e il proprietario è un nobile di nome Dasinzin, noto per essere un simpatizzante dell'arciduchessa ribelle, Naelore.» Kadiya mormorò un'imprecazione ed estrasse il talismano. Puntando la spada in direzione della nave misteriosa, che era poco più di una sagoma
nera contro il cielo che scuriva, disse: «Occhio di Fuoco, dimmi se quel vascello appartiene agli Uomini della Stella». La domanda non è pertinente. «Dammi una Vista del suo spazio di carico.» L'ordine non è pertinente. Il viso cupo, Kadiya rinfoderò la spada magica. «Penso», disse Jagun, «che non rispondendo il tuo talismano ti abbia fornito la risposta che cercavi.» «Uomini della Stella... o io sono seconda cugina di un togar strabico!» La donna tornò a rivolgersi a Critch: «Sai se i funzionari portuali dell'imperatore sono saliti a bordo di quella nave?» «No. A causa della festa ormai imminente, tutte le ispezioni sono state rinviate. Battellieri Cadoon come il mio amico hanno portato alla galea cibo fresco e altri rifornimenti, e mentre erano là l'equipaggio è stato poco accorto nel parlare... come fanno spesso gli umani quando trattano con la mia gente, pensando che siamo stupidi e inferiori. I battellieri hanno appreso che l'imbarcazione non proveniva da est, dove si trovano Zinora e le altre nazioni umane, ma da una lontana latitudine nordoccidentale, oltre le terre delle tribù senza legge, dove non abita nessuno tranne il piccolo Popolo delle Onde.» Kadiya strinse gli occhi. «Intendi dire quegli aborigeni acquatici che hanno come guardiana Iriane, l'Arcimaga del Mare?» «Proprio così. Ma si dice che la Signora Azzurra sia morta e il suo Popolo sia stato soggiogato dalla Società della Stella.» Kadiya e Jagun si scambiarono un'occhiata. Entrambi sapevano dell'imprigionamento di Iriane nel ghiaccio incantato e della probabilità che Orogastus avesse costretto il Popolo delle Onde a raccogliere le armi degli Scomparsi nascoste sott'acqua. Se la trireme apparteneva davvero agli Uomini della Stella e portava quelle armi arcane, poteva proprio preannunciare un'invasione. «Grazie per questa importante informazione», disse Kadiya a Critch. «Ti esorto ad avvertire i membri locali del Popolo Cadoon di tenersi alla larga da quella nave. A chiunque appartenga, si trova a Brandoba per scopi tutt'altro che buoni.» «Farò come dite.» «Al momento», continuò Kadiya, «non oso tentare di esaminare la galea di persona. Prima di tutto devo riferire all'imperatore Denombo del rapimento degli altri governanti da parte della Società della Stella, e avvisarlo
che anche la sua nazione e la sua stessa vita possono essere in immediato pericolo, Informerò l'imperatore della presenza della trireme e lascerò che se ne occupi lui.» «Noi terremo d'occhio la nave misteriosa, Lungimirante», intervenne Jagun. «Se l'equipaggio cerca di portare a riva qualche carico sospetto o se agiscono apertamente da invasori, ti avviserò subito.» «Pregate che i Signori dell'Aria siano con noi, stanotte.» Kadiya ordinò di nuovo al talismano di schermare lei e i cavalieri dalla magica Vista degli Uomini della Stella, quindi scese di corsa sul molo, dove i quattro Compagni Fedeli attendevano con impazienza. Pochi minuti e gli infiltrati in costume erano scomparsi tra i depositi, lasciando Jagun e Critch a fissarli. «Non sarà facile per loro raggiungere l'imperatore stasera», osservò il Cadoon. «Prima sarà impegnatissimo con gli obblighi cerimoniali verso la dea Matuta, poi dovrà presiedere al grande spettacolo dei fuochi d'artificio. Attorno al palazzo ci sarà una folla immensa, e a volte scoppiano delle risse. Le guardie staranno all'erta, anche se di solito durante la prima serata la gente è piuttosto tranquilla, soprattutto se i fuochi pirotecnici sono belli e la Cerimonia imperiale dei Doni Augurali è ricca e generosa.» «Cos'è un dono augurale?» gli domandò Jagun. «È un omaggio distribuito dall'imperatore alla gente comune in onore della festa. Delle ragazze che sfilano in corteo su carri decorati lanciano minuscoli pacchetti alla folla. La maggior parte dei doni contiene un foglietto con un detto saggio o spiritoso avvolto attorno a una caramella o a un dolcetto, ma in alcune si trovano monete d'oro e d'argento... e per il più fortunato di tutti ce n'è sempre una di platino.» Il rumore della folla festante aumentava. Alla musica delle scatenate bande di ottoni si erano aggiunte le ritmiche raffiche di fischi provenienti dai richiami che, a quanto pareva, erano parte integrante dei costumi della gente che improvvisava parate e marciava nelle strade. Critch il Cadoon staccò lo sguardo dal pittoresco spettacolo sulla riva e tornò a fissare la trireme con aria tetra. «Stasera il vento porta un odore di pioggia fredda fuori stagione... e di qualcosa di molto brutto.» Critch indicò le acque del porto. «E vedi com'è stranamente chiazzato il mare da queste parti? È grigio come un cucciolo di gruel, e una cosa simile non l'ho mai vista né sentita raccontare. Non sai quanto vorrei non aver acconsentito ad accompagnarvi a Brandoba, amico Jagun.» «Ma così facendo potresti aver permesso alla mia Signora di salvare
molte vite.» «Vite umane!» borbottò Critch. «Come puoi servire una padrona che appartiene alla razza dei nostri oppressori?» «Nel nostro paese della Palude Labirinto», spiegò Jagun, «alcuni membri del mio Popolo sono stati stretti alleati dell'umanità per molte centinaia, guadagnandosi il suo rispetto e persino il suo amore. E in tempi recenti, grazie alle tre donne conosciute come i Petali del Giglio Vivente, una delle quali è la mia Signora, l'antico antagonismo tra uomini e Popolo si è molto ridotto. Adesso sappiamo che in entrambe le razze scorre lo stesso sangue, perciò ci sforziamo di comportarci da veri fratelli e sorelle, anche se diversi per aspetto.» «I Sobraniani non la pensano così», replicò Critch, «e lo stesso dicasi per il Popolo Cadoon. Perché, allora, sei tanto sicuro che ciò che credi tu sia giusto?» Jagun passò un po' di tempo raccontandogli la storia degli Scomparsi, della grande guerra tra gli Arcimaghi e la Società della Stella, della semidistruzione del mondo che ne era derivata e di come se l'erano passata i sopravvissuti per dodici volte dieci centinaia fino al giorno presente. Quando Jagun ebbe terminato, Critch si mostrò molto stupito, anche se trasse una cupa soddisfazione dal sapere che per qualche misterioso motivo il mondo non funzionava a dovere, perché questo confermava i suoi timori indefiniti. Poi i due aborigeni restarono in silenzio accanto alla battagliola, finché il principe Tolivar si allontanò dalla prua, dove era rimasto da solo fuori portata d'orecchio, e si rivolse loro. «Non ho dormito bene la notte scorsa», esordì il ragazzino. «Penso che adesso andrò di sotto a coricarmi. Non è molto divertente guardare una festa da tanto lontano.» «Vengo con te», disse Jagun. Il principe sorrise. «Non ce n'è bisogno.» «Comunque», insistette il vecchio cacciatore, «andremo insieme lo stesso.» Aspettò che il bambino cominciasse a scendere la scaletta che portava in cabina, poi lo seguì dappresso. Tolivar aiutò Jagun a fare ordine tra gli indumenti sparsi e altri resti della vestizione dei costumi, poi si arrampicò in una delle strette cuccette di proravia e finse di mettersi a dormire. Per oltre un'ora il Nyssomu rimase seduto nella minuscola cambusa della barca, poi tornò silenziosamente sul ponte, proprio come il principe aveva sperato facesse. Nessuno degli oblò dell'imbarcazione era più largo di due spanne e il
boccaporto per il ponte di poppa era chiuso con un rampone, quindi l'unico modo di risalire era per la scaletta. Tolivar era più che sicuro che Jagun o Critch sarebbero rimasti a guardia della scala per tutta la notte, ma era anche certo che nessuno dei due pensava davvero che avrebbe tentato di scappare. Credevano che piangesse ancora la morte di Ralabun e che avrebbe mantenuto la promessa di non usare la magia. Dato che ritenevano pure che la regina Anigel fosse libera, non potevano immaginare che avesse motivo di andarla a cercare. Sbagliato, disse pensoso tra sé il principe, su tutti i fronti. Scivolato fuori della cuccetta, indossò gli stivali, poi tolse il diadema di sotto la camicia e se lo mise in testa. «Talismano», comandò mentalmente, «dimmi dove Jagun ha nascosto lo scrigno stellato.» È nell'armadietto centrale della cambusa. Allora Tolivar ordinò al talismano di renderlo invisibile, prese il cofanetto, infilandolo in una delle borse che avevano contenuto i costumi, e se lo legò alla schiena. Quando anche sacco e scrigno stellato furono invisibili, fece una nuova richiesta al diadema: «Dimmi come posso far addormentare Jagun e Critch di un sonno incantato». Basta che li vedi in quel modo nella tua mente e ordini che sia fatto. «Ma... l'incantesimo farà loro del male?» Alla fine moriranno di fame e di sete se non li risvegli in tempo, o non modifichi l'incantesimo. «Posso ordinare che dormano solo fino al sorgere del sole?» Certamente. Il principe Tolivar chiuse gli occhi e immaginò i due uomini del Popolo sdraiarsi e scivolare dolcemente nel sonno. Poi li visualizzò che si svegliavano all'alba, ordinò che la magia venisse eseguita, quindi riaprì gli occhi. «Dormono?» Sì. Con un sospiro di sollievo, il ragazzo salì la scaletta e uscì sul ponte. Gli aborigeni erano raggomitolati ai lati del paniere di vimini pieno di uova colorate. Tolivar trascinò il piccolo Jagun accanto a Critch e coprì entrambi con un'incerata, per proteggerli dal freddo e dalla possibilità di pioggia. Guardò pensieroso il cesto, poi ne trasse il sacchetto di rete colmo di proiettili, se lo legò in vita e rese invisibile anche quello. «Talismano! Dimmi dove si trova mia madre.» La richiesta non è pertinente.
Il principe sentì il cuore farsi pesante. «È nascosta dal potere malvagio della Stella?» La domanda non è pertinente. Ma il principe sapeva che era così. In precedenza, quando Orogastus aveva voluto che venisse a conoscenza del pericolo in cui si trovava la regina Anigel, la Vista era stata abbastanza chiara. «Bene, so dove trovarla», si disse Tolivar. Alzò lo sguardo al cielo. Un velo di nuvole alte creava aloni sinistri attorno alle Tre Lune, e un vento sempre più teso fischiava tra il sartiame della barca, facendo uno strano controcanto agli squilli delle bande di ottoni. Non aveva idea di quante ore mancassero a mezzanotte, quando avrebbe incontrato Orogastus. Tolivar aveva ancora un'unica domanda per il suo talismano, una a cui erano appese le sue ultime, deboli speranze. «Orogastus potrà vedermi anche se sono invisibile?» Sì, perché ancora vacilli nel rifiutarlo. Proprio come aveva sospettato il principe. Sempre invisibile, percorse la passerella e scese sul molo, senza preoccuparsi di dare un'occhiata alle navi nel porto. Una di esse, una grande trireme priva delle festose illuminazioni che rallegravano tutte le altre, sembrava salpare l'ancora dalle acque pallide e scivolare piano piano verso riva. 24 L'esercito di Orogastus entrò di soppiatto a Brandoba nel tardo pomeriggio, coi cavalieri che attraversavano alla spicciolata la poco usata Porta dei Raccoglitori, sul lato nordest delle propaggini della città. Seguendo gli ordini del Maestro della Stella, guerrieri e Uomini della Società si mischiarono alla folla in festa senza dare nell'occhio. A un'ora prestabilita avrebbero dovuto incontrarsi coi partigiani dell'arciduchessa Naelore al parco centrale dove, se tutto andava bene, il gruppo d'invasori avrebbe ricevuto l'ordine di assaltare il palazzo. Tutti i seguaci della Stella erano vestiti allo stesso modo, con una voluminosa cappa di lucide penne nere e un cappuccio-maschera da uccello, dai riconoscibili occhi dorati. L'unica eccezione in mezzo allo stormo scuro era una figurina seduta in sella dietro uno degli uccelli neri, che indossava delle poco appariscenti piume bianche e grigie di griss di mare sopra
una semplice tunica di lana. «Smetti di agitarti», disse Naelore alla sua passeggera, «altrimenti ordino alla mia Stella di riempirti di dolori.» «Se soltanto mi slegassi i polsi», replicò la regina Anigel, «potrei afferrarmi al bordo della sella e non rischiare costantemente di perdere l'equilibrio. E il fatto che il copricapo di questo schifoso costume da volatile continui a scendermi sugli occhi non aiuta di certo.» L'arciduchessa rise. «Liberarti? Non pensarci neppure, strega-regina! Persino senza il tuo odioso Fiore saresti di certo in grado di compiere terribili magie.» «Non sono una strega», ribatté pacata Anigel, «e il Giglio Nero che sembri temere tanto serve solo a difendere me, non a offendere gli altri.» «Ah! Raccontalo agli Uomini della Società che hanno cercato di levartelo dal collo quando eri priva di sensi a Castel Conflagrante. Non appena hanno toccato quel maledetto amuleto si sono ritrovati con le dita scorticate fino all'osso da un fuoco magico.» «Davvero? Non sapevo che la mia ambra del giglio fosse capace di simili cose! Non avrei fatto volontariamente del male ai tuoi accoliti.» «E suppongo», continuò Naelore con tono aspro e critico, «che non intendessi nuocere neppure a quelli che sono arsi vivi durante la vostra fuga attraverso il bacino dei geyser fiammeggianti!» «Mi dispiace molto che i nostri inseguitori siano morti», le rispose Anigel, «ma ci hanno sparato contro con un'arma antica, mettendo a rischio la vita mia e dei miei compagni. È stata proprio quell'arma a riaccendere i vapori infiammabili.» «Questo lo dici tu», controbatté Naelore. E quando Anigel stava per proseguire con le rimostranze, la Donna della Stella le ordinò di tacere. Orogastus, che era entrato in città per ultimo, si era trovato a cavalcare proprio dietro l'arciduchessa e la sua prigioniera, e in quel momento diede di sprone al fronial e le affiancò. Sotto il becco nero del suo copricapo piumato, gli occhi chiari risplendevano lucenti. «Vado un po' avanti», disse a Naelore, «in modo da poter individuare più prontamente i nostri nemici tra la folla. È improbabile che la Stella mi dia una Vista di Kadiya, dato che sarà quasi sicuramente schermata dal suo talismano, ma potrei riuscire a scrutare qualcuno del suo gruppo, se si allontanasse abbastanza da lei. Stai all'erta, e guardati da qualunque donna con una spada scura spuntata.» Lo stregone spinse la sua cavalcatura tra la calca sempre più fitta, con
Naelore e Anigel al seguito. Ben presto vennero inglobati in una fiumana di persone in costume, alcune a dorso di fronial ma la maggior parte a piedi, che si dirigevano verso il centro città con un certo anticipo per trovare un buon posto allo spettacolo di fuochi d'artificio nel parco. Gruppi di musicisti, che si spostavano con la folla o si erano sistemati più comodamente su balconate che davano sulla strada, faticavano per farsi ascoltare al di sopra del frastuono cadenzato dei fischietti da richiamo, della gente chiassosa e dei canti di ubriachi. Di quando in quando gli schiamazzatori rompevano uova piene di coriandoli luccicanti e spore, provocando starnuti, strilli e invettive spiritose finché lo scompiglio portato dall'aria non si dissolveva. Orogastus e Naelore usarono la magia della Stella per difendersi dalla polvere che solleticava il naso e per scostare i partecipanti alla festa che bloccavano loro il passaggio. Finalmente, arrivati a pochi isolati dal palazzo imperiale, i due stregoni e la prigioniera lasciarono il viale affollato e rumoroso per svoltare in una stradina laterale molto più tranquilla. Era fiancheggiata da palazzi maestosi, tutti addobbati con immagini di uccelli e stendardi piumati. Tremule lanterne verdi e oro, i colori araldici di Sobrania, splendevano tra i rami degli alberi e appoggiate sugli alti muri di pietra intonacata che racchiudevano la maggior parte delle case. Pure lì gironzolavano parecchie persone in costume, ma sembravano stranamente calme, riunite in gruppetti silenziosi sotto gli alberi o sedute fianco a fianco sui paracarri. Anche nella luce incerta, Anigel riusciva a vedere che erano tutte vestite di piume rosse. Naelore cavalcava rigida, tenendo tirate le redini e non voltandosi mai a guardare Anigel. Era chiaro che tratteneva il destriero per tenersi distanziata da Orogastus. «Parlami di tua sorella Haramis!» disse all'improvviso. La stupefatta regina cominciò a recitare l'elenco dei doveri dell'Arcimaga della Terra, ma non era quello che voleva sapere la Donna della Stella. «È bella? Descrivimela.» «Haramis è molto più alta di me», rispose Anigel. «Ha fluenti capelli neri e occhi azzurro argento, con grandi pupille in fondo alle quali splendono minuscoli lampi di un fuoco dorato. Si può certo dire che sia molto bella, ma è più probabile notarla per l'aspetto autorevole e l'aura di forza soprannaturale che sembra avvolgerla.» «E lo... lo ama come lui ama lei?» Pur se colta di sorpresa, Anigel comprese per istinto ciò che intendeva l'altra donna, oltre alla ragione che stava dietro la domanda. «Penso che
Haramis desideri con tutto il cuore e l'anima di non aver mai amato e di non amare Orogastus. Nella vita, hanno scopi del tutto diversi. Non riesce a non amarlo, ma da tempo ha rinunciato alla speranza di consumare quell'amore.» La postura della Donna della Stella si rilassò, come si fosse liberata di un grande peso. Quando riprese a fare domande, i suoi modi erano meno arroganti. «So che tua sorella Haramis possiede il terzo pezzo del Triplice Scettro del Potere. Che aspetto ha quello strumento meraviglioso?» «Il Cerchio dalle Tre Ali è una piccola bacchetta che termina con una sorta di anello. Le ali sono minuscole, appese in cima all'anello a racchiudere un pezzo di ambra del giglio identico al mio. Haramis porta la bacchetta al collo, appesa a una catena.» «È in grado di utilizzare appieno la magia di questo Cerchio... o ha solo una minima capacità di sfruttare il talismano, come la strega Kadiya e il tuo figliol prodigo coi loro?» Prima di rispondere Anigel aspettò un attimo, chiedendosi come mai la Donna della Stella non avesse posto la domanda a Orogastus, pensando poi che forse l'aveva fatto... E tuttavia, non le sembrava un buon motivo per non rispondere. «Dubito che qualcuno vivo oggi comprenda a fondo il funzionamento dello Scettro del Potere. Si tratta di un manufatto degli Scomparsi, e dev'essere così formidabile che persino coloro che lo inventarono alla fine ebbero paura di usarlo. Separate, le tre parti dello Scettro che si chiamano talismani sono molto meno potenti. Senza dubbio Haramis è molto più abile di Kadiya nel controllo del proprio talismano, ma le sue grandi arti magiche sono quasi del tutto indipendenti dal Cerchio Alato e le derivano piuttosto dal suo ufficio sacro e benefico.» «Benefico? Ma se è una tiranna, come gli Arcimaghi del Mare e del Cielo! Il Maestro della Stella dice che quei tre manipolano l'umanità e i Popoli Oddling da tempo immemorabile. Si oppongono al progresso scientifico e sociale perché minaccerebbe la loro posizione di potere.» «Sciocchezze», replicò Anigel. «Non posso parlare per l'Uomo Scuro della Luna, ma sia mia sorella Haramis sia Iriane, l'Arcimaga del Mare, sono guardiane gentili che non si sognerebbero mai di opprimere le genti di questo mondo. Hanno fatto voto solenne di non usare mai la magia per fare del male ad anima viva.» «Eppure», continuò imperterrita Naelore, «una volta Haramis ha riunito lo Scettro per cercare di uccidere il Maestro della Stella!»
«No», la corresse Anigel. «Haramis, Kadiya e io abbiamo usato lo Scettro per ritorcere la stregoneria di Orogastus contro di lui quando intendeva distruggere noi tre e conquistare il nostro piccolo regno.» «Non è quello che dice il Maestro!» «Spesso Orogastus modifica la verità per adattarla ai propri scopi.» «A me non ha mai mentito. E nemmeno agli altri membri della Società della Stella.» Anigel sospirò. «E ha promesso che la vostra corporazione governerà il mondo insieme con lui se lo assistete nei suoi progetti vanagloriosi? Devo dirti che una volta ha provato a tentare Haramis con la stessa ridicola proposta...» La donna sobraniana si voltò sulla sella e fissò Anigel con rabbia ardente. «Tu, stupida pazza!» sibilò. «Che ne sai delle grandi e nobili intenzioni del Maestro? Governare...? Certo che lo farà! Ma non per soddisfare ambizioni personali. Il suo scopo è salvare il mondo dal terribile cataclisma a cui sta andando incontro del tutto inconsapevolmente.» «Quale cataclisma? Di cosa stai parlando?» «Se Orogastus non ci salva, siamo spacciati. Questo nostro mondo vacilla sull'orlo della distruzione, minato da misteriose malattie interne messe in moto molti eoni fa. Il Maestro della Stella ha appreso i particolari di questo tremendo pericolo mentre era imprigionato dall'Arcimago del Cielo. E soltanto il Maestro conosce il modo per salvarlo.» «Ma allora perché», chiese Anigel con gentile ragionevolezza, «non continua semplicemente a portare avanti quel suo progetto da esaltato? Invece, ha inviato agenti a fomentare la sedizione e la discordia in tutto il continente. Ha rapito e tenuto in ostaggio i legittimi governanti di sei nazioni. E, a meno che la mia ipotesi sia sbagliata, direi che stasera è qui a Brandoba nella speranza di detronizzare l'imperatore Denombo, in modo che tu possa salire al trono di Sobrania! Se il vero fine di Orogastus è la salvezza del mondo, perché mai si è imbarcato in una guerra di conquista?» «Il rimedio necessario a guarire il pianeta è drastico», rispose con sincerità Naelore, «e richiede grandi sacrifici alla popolazione oltre che l'utilizzo di magia ineffabile. Coi vostri strumenti, voi, governatori orgogliosi e ignoranti, non sareste mai in grado di controllare i vostri popoli nei giorni del riequilibrio. Siete troppo codardi, troppo indisciplinati ed egoisti per fare ciò che dev'essere fatto. È necessario che un capo onnipotente vi obblighi.» Anigel avrebbe voluto replicare indignata, ma Naelore proseguì senza
lasciarle il tempo d'intervenire, parlando come in trance. «Io stessa non sono altro che la volonterosa serva del Maestro della Stella. Quando diventerò imperatrice di Sobrania farò tutto quello che mi chiederà per favorire la sua grande strategia. Infine, quando la sua opera sarà compiuta e il Giglio Celeste splenderà sulla nostra terra, dopo che il Ghiaccio Vincitore sarà stato bandito per sempre e gli Scomparsi cammineranno di nuovo tra noi, allora condividerò il trionfo del Maestro. E magari conquisterò anche il suo amore, se i Poteri Oscuri lo vorranno.» A quel punto Anigel era senza parole. Il grande ghiacciaio continentale sciolto? Il ritorno degli Scomparsi? Era assurdo! Ma l'equilibrio del mondo era davvero minato, e in maniera grave. Haramis ne era convinta e aveva citato a questo proposito i forti terremoti, le numerose eruzioni vulcaniche e il clima disastroso che negli ultimi anni avevano afflitto tante aree del continente. Tuttavia, l'Arcimaga non aveva mai lasciato intendere che quei fatti potessero essere presagi della fine del pianeta. Oppure sì? Istintivamente la regina si portò le mani legate alla gola, a cercare il conforto dell'amuleto del Giglio Nero. Ma il Fiore non c'era più, proprio come Haramis, e non c'era nessuno tranne lei a rispondere a tutte quelle domande... Orogastus aveva diretto la propria cavalcatura verso un palazzo con un imponente cancello di ferro, dove gli strani gruppi di festaioli vestiti di rosso erano particolarmente numerosi. Sollevò la Stella e un custode aprì il portone. Ordinando a Naelore di seguirlo, spinse il fronial all'interno. I due animali percorsero un breve sentiero di ghiaia fiancheggiato da giardini, finché non raggiunsero l'ingresso illuminato dell'abitazione. Nove uomini sobraniani in alta uniforme e mantelli di penne rosso sangue aspettavano sull'attenti sotto il portico, i caschi piumati sotto il braccio. Orogastus smontò e diede le redini del fronial a uno dei numerosi lacchè in livrea che si trovavano ai lati, poi si tolse cappa e cappuccio e li consegnò a un altro. Alla vista della sua esotica armatura della Società della Stella, i nobili sobraniani restarono senza fiato. Allontanando con un gesto un terzo servitore, lo stregone in persona aiutò Naelore a scendere di sella, lasciando Anigel appollaiata sulla cavalcatura. Con un unico movimento, l'arciduchessa si tolse il travestimento scuro e lo lasciò cadere a terra. Anche lei indossava le insegne di guerra argento e
nere della confraternita di stregoni, tranne l'elmo raggiato, ma ogni pezzo della sua corazza era decorato con cesellature in oro e brillanti. Da una catena ingemmata che portava al collo pendeva la Stella di Nerenyi Daral. Le chiome fiammeggianti erano in parte nascoste da una corona di oro e platino a forma di uccello con le ali aperte verso il basso, che al posto della testa aveva un unico enorme smeraldo ed era cosparso di luminosissimi diamanti bianchi e gialli. Diede il braccio al Maestro della Stella, che chinò il capo in segno di rispetto e l'accompagnò davanti agli uomini in attesa. «Signori», esordì Orogastus, «vi presento la vostra imperatrice.» I nove nobili estrassero le spade a due lame e le tennero in alto, rendendole onore e fedeltà. «Naelore!» gridarono. «Lunga vita a sua Maestà Imperiale l'imperatrice Naelore!» Si fecero avanti a uno a uno, reggendo alta la spada perché lei la benedicesse sfiorandola. Poi i due più imponenti portarono uno splendido manto di piume, le cui sfumature passavano dall'acceso scarlatto del cappuccio e delle spalle al più profondo granata del bordo, e con esso cinsero Naelore. Terminata la breve cerimonia, l'arciduchessa parlò. «Amati vassalli e fedeli seguaci! Vi ringraziamo per esservi uniti a noi in questa fatidica notte che verrà ricordata finché esisterà la nostra nazione. Finalmente è arrivato il momento di porre rimedio alla grande ingiustizia. Col vostro aiuto, e quello delle forze che avete riunito, abbatteremo nostro fratello Denombo l'usurpatore e prenderemo il posto che ci compete sul trono imperiale di Sobrania. In seguito, dopo avere assaporato questa prima vittoria, noi personalmente capitaneremo l'armata imperiale nei Mari Meridionali, al fine di riannettere all'impero quelle terre un tempo dominate dalla nostra antenata, la prima Naelore di gloriosa memoria.» «Salute, vittoriosa imperatrice Naelore!» I nove lord si batterono la corazza coi guanti d'acciaio. «Salute, Naelore la Possente! Salute, Naelore la Conquistatrice!» Avrebbero continuato a quel modo se Orogastus non avesse alzato la mano, gesto che fece zittire tutti di colpo. I lord barbari erano come statue di marmo, incapaci di muovere un muscolo. «I festeggiamenti verranno dopo», disse gelido lo stregone. «Chi di voi è il proprietario della trireme alla fonda nel porto?» Un altro gesto di Orogastus restituì ai Sobraniani la normale mobilità. Il disinvolto sfoggio di magia dello stregone li aveva sconcertati e intimoriti, ma nessuno osò lamentarsi. La stessa Naelore non sembrava minimamente preoccupata. Posò la mano sull'avambraccio di un uomo con grandi baffi
ricurvi e l'armatura decorata in smalto blu, uno di quelli che le avevano portato il mantello. «Maestro della Stella», disse la donna, «questo è il lord ammiraglio Dasinzin, nostro alleato leale e caro amico di gioventù. È suo il vascello che ci ha portato il materiale tanto indispensabile alla nostra grande impresa.» Dasinzin si schiarì la voce e lo guardò in cagnesco, le dita strette sull'elsa della spada inguainata. «E così, tu saresti il grande stregone che ha promesso di ridare il trono alla nostra imperatrice.» Orogastus si limitò a sorridere. «Saresti d'accordo a discutere con noi la tua strategia?» domandò Dasinzin con pericolosa cortesia. «O pretendi che seguiamo ciecamente il tuo corpo d'armata di prestigiatori?» Orogastus parve non cogliere l'insulto. «Lord ammiraglio, hai ordinato all'equipaggio della tua galea di portare a riva le casse sigillate?» «Dovremmo averle qui a casa mia entro un'ora. Gli uomini della tua avanguardia mi avevano già avvertito che dovevano essere scaricate e trasportate di nascosto, poche casse per volta.» «E i tuoi capitani coi loro luogotenenti?» continuò lo stregone. «Anche loro sono facilmente reperibili?» «Sono riuniti nel giardino sul retro, in attesa di ordini.» Orogastus annuì soddisfatto. «Molto bene. Andrò subito a parlare con loro. In strada ho visto i guerrieri: quant'è numerosa la schiera che siete riusciti a radunare?» «Sono oltre quattromila uomini. Indossano tutti un travestimento simile, come ha ordinato Sua Maestà Imperiale, e sono bene armati. Ma anche così, non possiamo sperare di avere la meglio sulla Guardia Imperiale, a meno che...» «A meno che non ci aiuti una magia potente», concluse Orogastus sottovoce. «E così sarà.» Un altro nobile, alto e dall'aspetto florido, si fece avanti per parlare apertamente. «Abbiamo fatto tutto quello che ci hai chiesto, anche se non sapevamo nulla del piano di battaglia, per la devozione che portiamo all'imperatrice. Ma è venuto il momento che tu ti confidi con noi, stregone. Prima di andare oltre devi illustrare la tua strategia e dimostrarci la capacità offensiva delle armi della Società della Stella.» Fu la stessa Naelore a rispondergli. «Non preoccuparti, Lucaibo. Non appena il carico prelevato dalla nave di Dasinzin arriverà qui, vedrai coi tuoi occhi che genere di fantastiche armi abbiamo raccolto. C'è di più: ne
maneggerai una anche tu... come il resto di voi signori, e tutti i soldati che riusciremo a equipaggiare in tal modo.» Eccitati, i Sobraniani cominciarono a parlare tutti assieme, ma s'interruppero non appena Naelore alzò la mano. «Amici», disse, «fate silenzio ancora per qualche istante. Entriamo in casa di Dasinzin e il Maestro della Stella vi dirà tutto.» Dai nobili salì un borbottio di approvazione. Dasinzin s'inchinò davanti all'arciduchessa e le offrì il braccio per condurla all'interno. Anigel era ancora seduta sul fronial di Naelore, gli occhi bassi e i polsi incrociati e legati che appoggiavano sull'arcione posteriore della sella. Il lacchè che reggeva le redini dell'animale si rivolse allo stregone con una certa diffidenza: «Signore, che ne facciamo della prigioniera?» Orogastus studiò Anigel per un momento, poi ordinò che fosse condotta dalla padrona di casa e che le venisse dato modo di riposarsi e rinfrescarsi. «Di' alla tua signora che il Maestro della Stella le ordina di sorvegliare e proteggere questa donna come se da lei dipendesse la sua stessa vita. Perché, in verità, è proprio così che stanno le cose.» Avvicinandosi sempre più al parco di Brandoba, il principe Tolivar scoprì che l'invisibilità era inutile in mezzo alla folla, proprio come nella nebbiosa foresta vicino al fiume. Incapace di spostare gentilmente di lato le persone con la magia, forse perché distratto da quel pandemonio, doveva far ricorso a spinte e gomitate come tutti gli altri. Lo spazio «vuoto» occupato dal suo corpo invisibile ma solido dava pericolosamente nell'occhio, perciò si arrampicò su uno degli alberi addobbati che fiancheggiavano la strada, e quando grazie al fogliame fu sufficientemente nascosto allo sguardo della moltitudine in continuo aumento, ritornò visibile. «Talismano», disse, «mi serve un costume da volatile. Niente di straordinario. Uno come quello che indossa quel ragazzo là andrà benissimo.» Indicò un adolescente abbigliato con una semplice cappa di penne marrone con cappuccio e becco, e allo stesso tempo s'immaginò vestito così. E così fu. Il sacco che conteneva lo scrigno era ancora legato alla schiena, ma il diadema-talismano era nascosto sotto il copricapo del costume. Soddisfatto, scese dall'albero e proseguì il cammino. Non si era aspettato che Brandoba fosse tanto grande, né tanto ricca. Dopotutto le genti erano barbariche, e nutrivano sospetti nei confronti dei forestieri oltre a un'incrollabile fiducia nella propria superiorità e autosufficienza. Sobrania e le tribù alleate non avevano università né letteratura, e
neppure tradizione nelle belle arti o nella musica classica. Praticavano la schiavitù, opprimevano il Popolo locale e indulgevano in sport disgustosamente cruenti. Soltanto i manufatti con penne e piume erano abbastanza originali da poter essere commercializzati all'estero; il resto dei traffici con le più civilizzate nazioni dell'Est si basava sulla vendita di materie prime e di alcune spezie. La «cultura» sobraniana era derisa dagli stati vicini in quanto considerata un guazzabuglio d'imprestiti: musica e teatro da Var, arte e architettura da Galanar e dalle repubbliche, abbigliamento stravagante e artigianato dei gioielli da Zinora. L'impero aveva imitato la tecnologia cantieristica navale di Raktum ed Engi, e la corretta costruzione di armi e altre scienze militari da Labornok. D'altra parte, pensò il principe Tolivar guardando gli edifici scintillanti e i cittadini in massima parte ben vestiti che lo circondavano, almeno i Sobraniani di Brandoba non se la cavavano proprio niente male. Così come non aveva fatto male Orogastus a scegliere la prospera capitale barbara per la prima prodezza che avrebbe dato il via alla conquista del mondo. E lo stregone si era offerto di dividere tutto con lui... Tolivar si chiedeva se non era stato pazzo a rifiutare. Chissà se c'era la possibilità che Orogastus gli consentisse di cambiare idea? Sfiorò il diadema nascosto e per un attimo valutò l'ipotesi di fargli davvero quella domanda, ma poi gli tornò alla mente il ricordo della madre, calma e indomita davanti alla spada di Naelore, quindi abbassò la mano traditrice e si affrettò verso il centro della città. Quando, dopo parecchio tempo, raggiunse il parco, mancava solo mezz'ora a mezzanotte. Di nuovo il principe si arrampicò su un albero, questa volta per osservare la configurazione del terreno. Sotto di lui si estendeva un mare di gente che riempiva un immenso spazio rettangolare punteggiato qui e là di gruppi di piante ornamentali. Su tre lati l'area era circondata da viali, che venivano tenuti aperti per il passaggio di carrozze e destrieri della nobiltà da cordoni di soldati imperiali, armati di tozze aste di legno dalla punta ferrata. I viali erano costeggiati da file di edifici pubblici molto decorati e da grandi abitazioni, protette dalla folla eccitata da mura di pietra. Sul lato orientale del parco si trovava invece il palazzo imperiale. Era una struttura irregolare, illuminata all'esterno da un numero incalcolabile di vasi-luce, il cui stile architettonico era un misto di efficiente fortificazione e incredibile pacchianeria. La facciata principale era in marmo bianco e diaspro scarlatto, con alte colonne a spirale di malachite verde. Addossate al corpo centrale col colonnato c'erano torri merlate e innumerevoli
ali, tutte collegate da arcate e contrafforti. Ogni angolo dell'immenso tetto era decorato da grondaie con doccioni, anch'essi dorati come le tegole e la grande rotonda del maschio interno. Dalla cupola luccicante s'innalzava un pinnacolo di diaspro rosso sormontato da un uccello d'oro con le ali spiegate. L'intera composizione era decorata con scudi smaltati multicolori, fregi dipinti, cornici intagliate in modo fantasioso e nicchie che ospitavano statue. C'erano centinaia di finestre col telaio dorato, tutte illuminate da mille candele. I giardini del palazzo erano circondati da spessi muri alti una decina di ell, decorati in cima con spunzoni, cesti-lume e pennoni con issati gli stendardi festivi verde e oro. Un cancello di ferro dorato, ben serrato e presidiato da soldati in eleganti armature da parata, chiudeva la grande scalinata che conduceva al vestibolo d'ingresso del palazzo. A fiancheggiare il cancello, due guardiole gemelle in pietra addobbate con bandiere, e davanti a esso un ampio cortile circondato da altri militari. Sul lato occidentale del parco, dove si trovava Tolivar appollaiato sull'albero, c'erano anche un gazebo per l'orchestra (da cui gli Ottoni Imperiali facevano risuonare travolgenti motivi popolari okamisi e varoniani), una serra in vetro che ospitava uccelli rari e un tempio dedicato alla dea nazionale, Matura. La sezione curva del Viale dell'Ovest di fronte all'edificio sacro, delimitata con funi e circondata da guardie con picche e spade sguainate, conteneva i materiali pirotecnici che di lì a poco sarebbero stati accesi per lo spettacolo di fuochi artificiali. Tolivar toccò il diadema e mormorò: «Mostrami la Fontana del Griss Dorato dove devo incontrare Orogastus». Una voce nella sua testa rispose: Là. E nello stesso istante il suo occhio mentale colse qualcosa di luccicante in mezzo alla folla, vicino al lato opposto dell'ampia area all'aperto situata tra due boschetti in miniatura. Si trattava di un alto getto d'acqua che saliva dal centro di un bacino ornamentale, circondato da statue coperte di lamine d'oro raffiguranti uccelli acquatici che emettevano spruzzi di minore intensità, da cui il vento, spargendo schizzi all'intorno, teneva distanti le persone. La parte più lontana rispetto a Tolivar e adiacente al cortile del palazzo era quella più bagnata, e tra i coraggiosi che stazionavano in quella zona si notava un numero insolitamente alto di costumi da merlo nero. «È lì che starà lo stregone», disse tra sé il principe. Allontanò la visione, scese dall'albero e cominciò a spostarsi il più in fretta possibile. Approfittò della bassa statura per infilarsi tra la folla, ignorando strilli e maledizioni
mentre si faceva largo coi gomiti, calpestava piedi e prendeva a calci stinchi. «Ahi!» gridò un'infuriata voce maschile. «Dannato moccioso! Te la faccio vedere io!» Delle mani forti afferrarono Tolivar per le spalle, scuotendolo fino a fargli battere i denti. In preda al panico, stava per fare ricorso al talismano, quando ebbe modo di guardare bene in viso l'uomo massiccio che l'aveva catturato e che nel trambusto aveva perso il copricapo. Aveva una faccia larga, decisamente brutta, con un occhio bendato e l'altro acceso per la rabbia. Il proprietario di quel volto era ben noto a Tolivar, che per lo stupore smise di agitarsi ed esclamò: «Cosa ci fai qui?» «Probabilmente quello che ci fai tu», ribatté re Ledavardis. 25 In precedenza, il re e l'arciduca Gyorgibo erano rimasti intrappolati nella calca in una delle grandi piazze commerciali, circa un quarto di lega a nord del parco. I negozi eleganti erano chiusi con serrande di metallo, ma i chioschi di cibo e liquori, oltre che di articoli creati apposta per la festa, erano aperti e facevano affari d'oro. Al centro della zona del mercato c'era una piattaforma dove un gruppo musicale suonava arie spensierate con trombe, cornamuse, flauti a becco e tamburi. A causa dello spazio ristretto, chi voleva ballare poteva solamente saltellare sbattendo le ali del costume. Un quadrante d'orologio illuminato, montato sulla facciata di un grande istituto di credito, indicava un'ora e mezzo alla mezzanotte. «Così non va, Ledo», disse l'arciduca al Re Pirata. «La folla sta diventando talmente fitta che riusciamo a stento a muoverci.» «Ma la scintilla dell'amuleto punta in quella direzione! Dio solo sa perché quei malfattori hanno portato la regina qui in centro, ma non c'è dubbio che le cose stiano così. Guarda da te, Gyor.» Il Sobraniano diede un'occhiata al ciondolo con l'ambra del giglio che gli era stato messo sotto il naso. «Sì, sì, lo so. Ma ascoltami: il viale dall'altra parte del mercato è pieno di gente diretta al parco. Non riusciremo mai ad andare in quella direzione. Dobbiamo trovare un'altra strada.» Gyorgibo e Ledavardis avevano lasciato gli altri governanti al casino di caccia imperiale dove li aveva gentilmente condotti l'amuleto della regina Anigel, recuperato nel bosco. Gli ostaggi in fuga avevano trovato il luogo deserto, e per alcune preziosissime ore il re e l'arciduca avevano dormito come ghiri. Svegliatisi poco prima dell'alba, avevano diviso il sostanzioso
pasto che la regina Jiri e il duumviro Ga-Bondies avevano racimolato in dispensa. Dopo aver tagliato il nido di vart di capelli arruffati, essersi rasato e vestito con abiti puliti, Gyorgibo era irriconoscibile. I due giovani avevano salutato i compagni, ammonendoli di non allontanarsi dall'edificio, ed erano partiti al galoppo verso Brandoba seguendo un tortuoso sentiero familiare all'arciduca. Il viaggio aveva richiesto tutto il giorno e parte della sera, e senza accorgersene avevano rischiato d'imbattersi nella retroguardia della Società della Stella. Prima di oltrepassare la Porta dei Raccoglitori, i due avevano abbandonato i fronial per timore di attirare un'indesiderata attenzione. Entrati a Brandoba avevano acquistato un paio di costumi da poco prezzo, usando il denaro reperito tra gli effetti personali del defunto Tazor, e piano piano avevano seguito le tracce della regina Anigel grazie alla luce guida all'interno dell'ambra del giglio, finché procedere ulteriormente in mezzo alla calca era sembrato impossibile. «Come facciamo a trovare un'altra strada», brontolò Ledavardis, «se il Fiore magico non ci trasforma in uccelli veri in modo che possiamo volarcene via?» «Seguimi», ordinò l'arciduca. Aprì il chiavistello di un cancelletto che chiudeva uno stretto passaggio tra due edifici, poi scivolò in una stradina dritta come una freccia e tanto angusta da consentire l'accesso a una sola persona per volta. Era molto buia, con un profondo canale di scolo nel mezzo e decisamente in pendenza. La puzza mefitica rivelò che il canale era una fogna a cielo aperto, che raccoglieva le acque nere di scarico degli edifici su ambo i lati. «Puah!» strillò Ledavardis. «Dove diavolo stiamo andando? Questa direzione è esattamente opposta a quella indicata dall'ambra del giglio!» Ma il Sobraniano continuava a correre senza dare spiegazioni, e dopo un po' giunsero a un piccolo canale nero come l'inchiostro coperto di detriti galleggianti. Sullo stretto marciapiede accanto al sinistro torrentello si affacciavano muri privi di finestre, con delle porte piuttosto distanziate. «Questo è uno dei molti piccoli canali che trasportano i rifiuti della città scaricandoli nella parte bassa del fiume Dob e nel mare», spiegò Gyorgibo. «Ogni mattina all'alba sono percorsi da chiatte-pattumiera, e gli spazzini municipali svuotano i bidoni lasciati sulla banchina.» Indicò a monte, dove il cielo era più luminoso. «Se andiamo da quella parte, finiamo di sicuro in una delle grandi fognature che servono il palazzo. Quando Denombo e io eravamo piccoli, usavamo i tunnel per sfuggire ai precettori e andare in gi-
ro per la città in incognito.» L'arciduca si mosse rapido lungo lo scivoloso marciapiede lastricato, arrivando infine a un muro massiccio. A livello dell'acqua c'era un'apertura circolare larga il doppio della sua altezza, sbarrata da una pesante grata metallica. «Il muro fa parte del perimetro nord del palazzo. Ovviamente la grata del sistema fognario è chiusa. Una volta Deno e io avevamo le chiavi... ma tu hai qualcosa di meglio!» Re Ledavardis annuì e sfiorò la griglia con la goccia d'ambra del giglio. Si udì uno schiocco, le sbarre si aprirono e Gyorgibo si avviò per primo nella fetida oscurità. L'amuleto di Anigel, sempre servizievole, s'illuminò come una minuscola lanterna. «Appena sopra il liquame c'è una cornice abbastanza ampia. Stanimi vicino e per amor del cielo non cadere in quella porcheria. Non dobbiamo andare molto lontano. Poco più in là c'è una diramazione che serve a scaricare l'acqua proveniente dai boschetti e dalle fontane del parco.» Si trascinarono avanti, poi finalmente svoltarono a destra in un tunnel più piccolo. Per fortuna l'acqua che scorreva lì era pulita, di colore appena un po' grigiastro, perché non c'erano cornici e dovettero guadare bagnandosi fino alla caviglia. Con sorpresa del Re Pirata, quel condotto era leggermente illuminato da griglie d'aerazione ben distribuite. Dopo un centinaio di ell, divenne evidente che si trovavano proprio sotto il parco. Il rumore della folla penetrava sottoterra come un rombo di tuono. «Penso sia meglio risalire in questo punto», disse Gyorgibo indicando dei pioli di ferro che portavano a una grata. «Dovremmo uscire in uno dei boschetti.» Salì, una mano sopra l'altra, e sollevò la griglia in cima. Quando Ledavardis emerse dopo di lui, vide che si trovavano all'interno di una sorta di bosco in miniatura, con alberi e cespugli, uno dei numerosi miniparchi che punteggiavano la grande spianata, separato dalle zone aperte del parco centrale da un recinto di ferro battuto. All'intorno, le persone erano pigiate spalla a spalla, in attesa che avesse inizio lo spettacolo. Il frastuono era assordante. Il Re Pirata estrasse l'ambra del giglio e l'esaminò. Notando che la luce direzionale nel suo interno si era fatta particolarmente brillante, si rivolse all'amuleto. «La tua padrona è qui nelle vicinanze?» La scintilla in cima al raggio luminoso cominciò a lampeggiare veloce. Ledavardis emise un grido di trionfo e strillò nell'orecchio dell'arciduca: «La regina Anigel è da qualche parte in quella direzione, vicino alla fontana grande!»
Gyorgibo scosse il capo perplesso. «Incredibile! Non riesco a immaginare perché, tra tutti i luoghi possibili, gli Uomini della Stella avrebbero scelto di portarla proprio qui.» «Non importa. Andiamo!» I due uomini riuscivano a penetrare il muro di folla solo a viva forza, e avanzavano con lentezza esasperante. L'orologio su uno degli edifici pubblici indicava che era quasi mezzanotte. E proprio in quel momento un monellaccio in costume che procedeva nella stessa direzione pestò con furia il piede di Ledavardis, assestandogli allo stesso tempo una gomitata nello stomaco e un calcio negli stinchi per buona misura, al che il re afferrò il bambino e lottò con lui, gridando: «Dannato moccioso! Te la faccio vedere io!» Il copricapo piumato di entrambi cadde mentre ruzzolavano sul malridotto tappeto erboso. Riconoscendolo, il ragazzino spalancò gli occhi e smise di agitarsi, e anche Ledavardis vide che aveva acchiappato nient'altri che Tolivar, principe di Laboruwenda. Per di più, il ragazzino aveva sulla fronte uno strano diadema che doveva essere il mitico talismano della regina Anigel, il Mostro a Tre Teste. «Cosa ci fai qui?» esclamò Tolivar. «Probabilmente quello che ci fai tu», ribatté il re. Lui e il bambino erano carponi sul prato schiacciato da migliaia di piedi, circondati da una selva di gambe. Nessuno, tra la folla, prestava loro attenzione. «La mia reale madre...» cominciò il principe. «È qui nel parco da qualche parte», lo interruppe secco Ledavardis, «e tu farai meglio a lasciare a me il compito di salvarla.» «Ma non capisci», piagnucolò Tolivar. «Orogastus e la malvagia Donna della Stella, Naelore, hanno preso la mamma e hanno minacciato di ucciderla se non cedo loro questo talismano. Mi è stato ordinato d'incontrare lo stregone vicino alla fontana, durante i fuochi artificiali.» «Ti ha detto esattamente dove?» chiese il re. «No, ha detto che mi avrebbe trovato lui. Una volta consegnato il riscatto, mi ridarà mia madre.» Ledavardis ci mise poco a rispondere. «Ne dubito! È molto più probabile che lo stregone intenda farvi prigionieri entrambi. La regina Anigel vale troppo come ostaggio per lasciarla libera. Che ne pensi, Gyor?» L'arciduca si accovacciò accanto a loro e disse: «La penso proprio come te». «Perché non usi il diadema per liberare la regina?» chiese il re a Tolivar.
«Come mago non sono abbastanza bravo», rispose triste il ragazzo. «Speravo di rendermi invisibile e di salvarla, ma il talismano ha detto che Orogastus riuscirebbe a vedermi lo stesso.» La disperazione fece salire le lacrime agli occhi del giovane principe. «Oh, ti prego, re Ledo! Non interferire. Sono l'unico che può salvare la mamma. Anche se gli Uomini della Stella catturassero tutti e due, almeno sarebbe viva!» Dal gazebo per la banda si udì un acuto squillo di trombe, a cui rispose immediatamente un'altra fanfara proveniente dal palazzo sul lato opposto del parco. Dalla folla salì una sorta di boato. «È l'imperatore», disse Gyorgibo, «che esce per dare il via allo spettacolo.» Si rimisero in piedi tutti e tre, così poterono scorgere una doppia fila di portatori di torce che usciva dall'ingresso principale del palazzo e scendeva la scalinata. Erano accompagnati da valletti che reggevano un trono portatile e molti sgabelli d'oro, guardie imperiali in alta uniforme e una processione di cortigiani che indossavano splendidi abiti da uccelli. L'imperatore comparve per ultimo, con una luminosa veste d'iridescenti penne di vitt bianche e un elmo-corona di platino con visiera a becco interamente coperta di diamanti. Le trombe squillarono di nuovo, e la folla rispose scandendo il nome di Denombo. La scalinata del palazzo era così alta che i membri della corte imperiale erano chiaramente visibili al di sopra dei cancelli. Scesero fino a una sorta di terrazza che divideva i gradini in due rampe. Lì venne posto il trono, fiancheggiato dagli sgabelli per l'alta nobiltà. L'imperatore sollevò le braccia e le maniche dell'abito parvero trasformarsi in grandi ah lucenti. Di colpo, cadde il silenzio. L'uomo declamò: «Che i deh proclamino la gloria della dea Manata... e del suo leale servitore, Denombo!» Nel parco rimbombò una detonazione simile a un tuono. Sei razzi vennero sparati dall'area di fronte al tempio e salirono altissimi nel cielo nuvoloso lasciando una scia sfavillante. Raggiunto il vertice della traiettoria esplosero in un arcuato baldacchino di stelle d'oro e verdi. La folla riunita proruppe in una tumultuosa ovazione, dopo di che le trombe e i flauti sotto il gazebo presero a intonare melodie vivaci e tutti si misero tranquilli a guardare lo spettacolo. «Ho un'idea.» L'arciduca si chinò a parlare all'orecchio di Ledavardis e per qualche minuto i due uomini conversarono senza che il principe potesse sentirli.
Infine il Re dei Pirati disse: «Tolo, vedi quel boschetto? Quel piccolo parco recintato a sinistra della fontana?» Il ragazzino annuì e Ledavardis gli spiegò il piano e quello che lui, Tolivar, doveva fare per contribuire alla riuscita. Dal viso del principe defluì tutto il sangue. «Se falliamo, la mamma potrebbe essere uccisa comunque!» «Allo stregone la regina Anigel serve viva», gli disse brusco Ledavardis. «Non ha mai avuto intenzione di trucidarla, voleva solo spaventarti perché gli consegnassi il talismano. Guarda qui!» Il re estrasse l'ambra del giglio da dove l'aveva nascosta e raccontò a Tolivar come avesse guidato lui e Gyorgibo nelle ricerche. «Il Sacro Fiore continuerà a proteggere tua madre come ha sempre fatto da quando è nata. Devi crederci, Tolo. Adesso va'. Ma prima, dammi quello.» E il re indicò il sacco di rete che il principe portava appeso alla cintura. La regina Jiri entrò nel grande salone del casino di caccia dove Widd, Hakit Botal, Prigo e Ga-Bondies erano seduti a bere vino brulé davanti al camino acceso. «Amici miei, abbiamo un problema. Dopo avere aiutato la principessa Raviya a ritirarsi al piano di sopra, sono uscita sul balcone per prendere una boccata d'aria e ho visto qualcosa che mi preoccupa molto.» Il presidente Hakit Botal emise un enfatico sospiro annoiato. «Non un altro gruppo di mostri della foresta che si aggirano annusando intorno alla scuderia dei fronial! Ti assicuro, maestà, che le bestie selvatiche non hanno modo di entrare a divorare le cavalcature, proprio come non possono fare del male a noi qui dentro. Gli edifici sono molto solidi.» «Non mi preoccupo che gli animali feroci mangino noi o i fronial», replicò seccata la regina. «Venite a vedere coi vostri occhi cosa sta succedendo, poi traetene le dovute conclusioni.» Girò sui tacchi e prese a salire la rustica scala aperta che portava al piano superiore. I quattro uomini la seguirono riluttanti. Alla fine del corridoio aprì la porta-finestra che dava sulla balconata. Gli altri uscirono nell'oscurità dopo di lei. Era una serata umida e fredda, con la luce delle Lune che spuntava a intermittenza dalle nuvole scure. «Cosa ne pensate?» Jiri indicò un'interruzione nella fitta boscaglia, da cui si vedeva il fronte seghettato della catena dei monti Collum stagliarsi contro una grande macchia rosata e luminosa nel cielo. «È un tramonto particolarmente cupo», azzardò il principe Widd.
Ma Jiri lo interruppe. «Quelle montagne sono a est.» «Non può essere uno strano sorgere delle Lune», intervenne pensoso il duumviro Prigo, «dato che sono tutte ben alte nel cielo, benché parzialmente nascoste dalle nubi. Supponi si tratti di un incendio nella foresta?» «Non c'è fumo», rispose la regina. «All'inizio pensavo potesse indicare l'arrivo di un grande temporale e che la luminosità fosse data dai fulmini lontani. Ma il vento soffia dall'altra parte, e anche se l'intensità del colore varia, la luce è troppo costante per essere data dai lampi.» «C-credi che po-possa trattarsi di m-magia?» balbettò impaurito GaBondies. «Orogastus che assedia la capitale di Sobrania con del f-fuoco soprannaturale?» «Imbecille», sbottò Hakit Botal. «Brandoba è a ovest, nella direzione opposta.» «La luminosità potrebbe comunque essere magica», intervenne il principe Widd. «Capisco perché Jiri provi disagio.» «Ma c'è anche altro», continuò l'autorevole regina. «Ascoltate!» Per un attimo piegarono tutti il capo in silenzio, poi Prigo annunciò: «Non sento nient'altro che il rumore del grande fiume, e sembra più placido del solito». «Le creature della foresta sono silenziose», spiegò la regina, «e questo di certo non è normale.» «Mmm. Nessuno strido di uccelli», commentò il presidente, la voce per la prima volta velata di preoccupazione. «Sì... è strano. Qualcosa deve averli spaventati.» «Ma cosa?» bisbigliò Ga-Bondies. «Non lo so», ammise Jiri. «Ma c'è un ulteriore sviluppo ancora più misterioso su cui vorrei richiamare la vostra attenzione. Si vede meglio andando un po' più in là.» Strascicando i piedi, gli uomini andarono con lei in un punto del balcone da cui il rumore del fiume Dob nel suo canyon era più forte. La regina ordinò di guardare in basso, ma non riuscivano a vedere quasi nulla, dato che le Tre Lune erano momentaneamente nascoste. Dopo qualche minuto, però, le nuvole si aprirono e ai governanti si mostrò una scena stupefacente illuminata dalla luce argentea. Il canyon del Dob non era più profondo duecento ell come la mattina: una distesa di liquido chiaro lo riempiva fino a metà e su di esso galleggiavano innumerevoli alberi sradicati. I detriti si spostavano verso valle con una lentezza incredibile, e ci volle qualche tempo perché gli uomini si ren-
dessero conto che l'acqua si era addensata fino a raggiungere quasi la consistenza di una pastella. «È fango!» esclamò stupito il principe Widd. «Uno stupefacente corso di fango grigio che scende da quelle montagne. Cosa diamine significa?» «Secondo me», replicò la regina Jiri, «significa che dobbiamo montare in sella e andarcene da qui come se avessimo alle calcagna tutti i diavoli dei dieci inferni.» 26 Una volta iniziato lo spettacolo di fuochi artificiali, con la gente immobile impegnata a guardare verso il cielo, scivolare tra la folla divenne molto più semplice. Tolivar raggiunse la Fontana del Griss Dorato, circondata da parecchie persone. Poi, seguendo le istruzioni dategli da Ledavardis, cominciò a muoversi molto lentamente attorno all'ampio bacino ornamentale, spostandosi verso il lato di nordest, dove gli schizzi d'acqua avevano dissuaso dal fermarsi numerosi spettatori. Giglio Nero! pregava il ragazzino. Non permettere che Orogastus o Naelore mi trovino in questo momento! La zona di ciottoli bagnati era larga una ventina di ell. I più vicini lampioni che reggevano i cesti-lume erano ancora più a est, accanto alle guardiole che fiancheggiavano il cancello del palazzo, a circa altri trenta ell abbondanti, e l'unica fonte d'illuminazione utile veniva dai giochi pirotecnici. A nord c'era il boschetto recintato, fitto di piante e cespugli in fiore. Tolivar evitò gli spruzzi, lo sguardo vagante qua e là alla preoccupata ricerca degli Uomini della Stella in mezzo alla folla diradata. Ma tutto quello che riusciva a vedere erano persone in costume: travestimenti elaborati, modesti, comici, spaventosi. Gli uccelli umani facevano «Oooh!» e «Aaah!» ogni volta che esplodeva un razzo, e per le combinazioni particolarmente riuscite c'erano ovazioni, applausi, fischi e schiamazzi. Larga parte della folla sembrava ben fornita di alcolici; il selciato era ingombro di boccali e brocche, e ogni tanto si poteva inciampare in qualche ubriaco a terra privo di sensi. Quando raggiunse la recinzione del boschetto, il principe fece un gran sospiro di sollievo. La sua maggiore paura era stata di venire intercettato troppo presto. Lì accanto, a sfidare le intermittenti ondate di spruzzi, c'era solo un piccolo gruppo di persone in costume. Sulla scalinata del palazzo, l'imperatore Denombo e la sua luccicante corte si godevano lo spettacolo
mentre la banda continuava a suonare e l'entusiasmo dei cittadini convenuti si faceva sempre più sfrenato. Adesso il principe sentiva con maggiore intensità il peso dello scrigno stellato sulle spalle e la pressione del diadema sulla fronte. Il suo organismo stava anche reagendo allo sforzo fisico compiuto per raggiungere il centro città dal porto, perciò si lasciò cadere sul selciato bagnato, la schiena appoggiata alla bassa ringhiera di ferro battuto. Chiuse gli occhi. «Oh, talismano!» sussurrò desolato. «Sei ancora mio?» Sì. «Non c'è modo di tenerti e allo stesso tempo salvare la mia povera mamma?» La domanda non è pertinente. «Lo so. Ma dovevo chiedertelo.» Qualcuno chiamò: «Tolo!» Aprì gli occhi e davanti a sé, stagliata contro il cielo scoppiettante, vide un'alta figura vestita da merlo nero. Prima che il principe potesse parlare, l'uomo in costume scostò il cappuccio, rivelando il maestoso elmo raggiato della Società della Stella. I suoi occhi erano due candidi fari gemelli. «Alzati», disse Orogastus. «L'ora è giunta.» Muovendosi il più lentamente possibile, Tolivar si rimise in piedi e affrontò lo stregone. Per la regina Anigel la breve passeggiata dal palazzo di Dasinzin alla Fontana del Griss Dorato rappresentò un momento di particolare distacco, al di là della tristezza e della disperazione, con la caleidoscopica bellezza dei fuochi d'artificio che riempivano il cielo. Le avevano slegato i polsi, ma era tenuta saldamente per le braccia da due taciturni Uomini della Stella di nome Zanagra e Gavinno, le cui cappe nere nascondevano le mortali armi antiche che portavano al fianco. La spinsero dietro Orogastus, che faceva strada grazie alla magia, e la folla festante non parve nemmeno notare il loro passaggio. Pochi minuti e avrebbero raggiunto la fontana, dove il povero Tolivar avrebbe consegnato allo stregone sia il diadema sia l'importantissimo scrigno stellato, credendo in quel modo di assicurarle la libertà. Ma adesso lei era certa che Orogastus non l'avrebbe mai lasciata andare, così come non avrebbe rilasciato gli altri ostaggi che il suo complice Tazor teneva segregati da qualche parte nella Foresta di Lirda. La verità le si era palesata mentre sedeva come intontita nella cucina di Dasinzin, prigioniera piena di
vergogna sorvegliata dalle terrorizzate donne sobraniane. Lei e gli altri capi di Stato non erano stati rapiti per assicurare una qualche nebulosa «collaborazione» da parte delle rispettive nazioni. Fin dall'inizio Orogastus aveva un solo obiettivo: esercitare una pressione irresistibile su Haramis, per costringere l'Arcimaga a consegnare il proprio talismano in cambio della loro vita. E la stessa terribile decisione adesso doveva essere affrontata anche da Kadiya. Triuno Dio del Fiore, pregò, da' alle mie sorelle la forza di tenere duro e lasciarci morire... Quando raggiunsero la fontana sentì gli spruzzi d'acqua mescolarsi alle lacrime che le scendevano piano sul viso. L'alto getto centrale si spostava da una parte all'altra in modo strano, senza seguire la direzione del vento, e l'acqua che precipitava sulle decorazioni dorate e nel bacino era opaca, come mista a latte. Orogastus sfiorò la sua Stella, annuì soddisfatto e disse: «Ecco il ragazzo. Seduto vicino all'inferriata di quel parchetto sulla sinistra. Tenete la regina qui, in mezzo alla folla, finché non vi chiamo». Anigel avrebbe voluto gridare un avvertimento, ma sentì la mano guantata di Zanagra posarsi sulla sua bocca e la pressione di un pugnale contro il ventre. «Sta' zitta», sibilò l'Uomo della Stella, «altrimenti i tuoi bambini moriranno, anche se la magia del Maestro farà sì che tu continui a vivere.» Smise di lottare. Se solo non le avessero tolto l'ambra del giglio! Ma senza l'amuleto e il suo Sacro Fiore era svuotata di tutta l'energia. Vide Tolivar alzarsi e affrontare Orogastus, ma non poté udire le loro parole, coperte dalle esplosioni dei razzi. Poi lo stregone fece un cenno. Con indosso ancora il costume bianco e grigio da griss, Anigel venne condotta verso il piccolo insieme di piante ornamentali dove era in attesa suo figlio. Si era tolto il cappuccio del costume, e così il Mostro a Tre Teste era chiaramente visibile. Sembrava splendere tra i suoi capelli biondi di una lieve, argentea luce propria. «Mamma», disse con voce tesa. «Ti hanno fatto del male?» «In verità, no», rispose lei. «Solo il mio cuore è ferito... dalla triste scoperta che tu sei stato segretamente in possesso del mio talismano per quattro lunghi anni...» Ma Orogastus l'interruppe. «Regina, basta!» E al ragazzo: «Tolo, dammi lo scrigno stellato». Il cielo era pieno di enormi fiori di luce viola, blu e verde, intersecati da
fiammate improvvise che salivano alte a tracciare strisce bianche e oro. La musica raggiunse fiorettature da gran finale e l'imperatore sulle scale del palazzo, a una cinquantina di ell, si alzò dal trono e protese le braccia. La folla cominciò a intonare: «Denombo! Denombo! Denombo!» Il principe Tolivar sciolse la fune che teneva legato il sacco alla sua schiena e ne estrasse una scatola lunga e stretta con la Stella sul coperchio. «Aprila», ordinò il mago, «e mettici dentro il diadema.» La mascella del ragazzo si serrò. «No, finché non avrai liberato mia madre!» Orogastus alzò la mano in un gesto molto composto. Sei uomini vestiti di penne nere, con armi degli Scomparsi che spuntavano di sotto i mantelli, emersero dalla folla ignara. Si misero a fianco dei due Uomini della Stella che avevano in carico la regina e formarono uno stretto semicerchio attorno a Tolivar e allo stregone. Per la prima volta il principe notò quanti partecipanti alla festa nell'area accanto al palazzo indossassero costumi neri. Ma certo! Dovevano essere scagnozzi di Orogastus. Il ragazzo posò le dita sui lati del diadema. «Ti ordino di liberare la regina!» Per un attimo non accadde nulla, poi Orogastus sorrise con aria di sufficienza e agitò la mano. I due Uomini della Stella lasciarono la regina Anigel che, piangendo, allungò le braccia verso Tolivar. Lui si precipitò dalla madre, e i due restarono stretti finché una voce tonante disse: «Il talismano! Subito!» Orogastus e gli Uomini della Stella erano fianco a fianco, e gli occhi di tutti e tre splendevano di una forza maligna. Anigel barcollò e cadde in ginocchio, lamentandosi e portando le mani al ventre. «Non devi farlo, Tolo!» urlò. «Userà il talismano per conquistare il mondo! Resistigli, mio caro figlio! Non ti curare di me. Non può strapparti il diadema con la forza... aah!» Al grido di dolore della regina il ragazzo strillò: «Lasciatela stare!» Si tolse il talismano e lo fece cadere nello scrigno aperto. Ci fu un breve lampo, appena percepibile nel colorato bombardamento dei fuochi artificiali. «No! Oh, no», mormorò Anigel. «Finalmente!» Orogastus si chinò rapido ad afferrare la scatola, mentre il principe faceva rialzare la regina e la trascinava contro la recinzione, dove c'era un fitto gruppo di arbusti gocciolanti. Il Maestro della Stella si levò il copricapo raggiato e lo passò a Gavinno, lasciando la testa scoperta coi lunghi capelli bianchi che svolazzavano nel vento umido. Quindi co-
minciò a premere le pietre preziose all'interno dello scrigno, legando a sé il diadema. All'improvviso, non meno di una dozzina di piccoli oggetti tondeggianti volarono fuori dei cespugli e s'infransero sul selciato, rilasciando una nuvola di coriandoli luminosi e di spore fungine per nulla ostacolate dalla nube. L'urlo di rabbia di Orogastus fu interrotto da un poderoso starnuto. La regina Anigel si sentì sollevare oltre la ringhiera, e mentre i rami le graffiavano il viso, stupefatta, prese a gemere e a divincolarsi. «No!» disse una voce aspra. «Siamo amici. Trattieni il fiato!» Udì violenti starnuti e maledizioni degli Uomini della Stella e dei guerrieri in nero, poi il suo salvatore le strinse dolorosamente le spalle per infilarla a testa in giù in un'apertura nel terreno. Altre mani l'afferrarono, spingendola in una sorta di condotto verticale. Venne scaraventata in spalla a un secondo uomo e i due scivolarono nel buio atterrando nell'acqua bassa con un sonoro ciac. Alla debole luce che proveniva dall'alto poté vedere Tolivar scendere veloce dei pioli di ferro infissi in un alto pozzo d'aerazione. L'uomo che la reggeva gridò: «Sbrigati! Fa' saltare il pozzo e bloccalo prima che gli Uomini della Stella si riprendano!» «Toglietevi di mezzo!» strillò la persona in alto, che scese a precipizio la scaletta. Anigel venne trascinata nell'acqua nel buio più assoluto, e udì suo figlio mormorare parole rincuoranti da qualche parte vicino a lei. Poi su un abbagliante scoppio di luce rossa si stagliò una figura robusta e deforme con qualcosa tra le braccia. Udì il rumore di muri che crollavano. Alcune delle pietre erano bollenti e sfrigolavano al contatto con l'acqua, e il tunnel si riempì di una polvere fastidiosa. «Muovetevi!» strillò l'ombra gobba. Sollevò la cosa che teneva in mano e produsse un'altra esplosione, quindi schizzò via per evitare la nuova valanga di sassi. Istintivamente la regina si mise sulla testa il cappuccio del costume fradicio, per cercare di respirare meglio, e avanzò carponi nell'acqua e in mezzo ai sedimenti fangosi. Il languore mortale che le aveva ottenebrato i sensi era stato sostituito da un'incredula eccitazione. Aveva riconosciuto il robusto fisico deforme del giovane re di Raktum. «Ledo?... Sei tu? Oh, siano ringraziati i Signori dell'Aria!» «Ciao, Prescelta Suocera. E sia ringraziato anche il qui presente arciduca Gyor, che si ricordava di questo intrico di tunnel, oltre al tuo Giglio Nero che ci ha portati dritti da te, e anche il giovane Tolo... che aveva le uova starnutatorie!»
Fu aiutata ad alzarsi e si accorse che un bagliore dorato, visibile attraverso il tessuto piumato del cappuccio, aveva sconfitto l'oscurità. L'aria si era miracolosamente ripulita. Anigel si tolse il costume da griss completamente zuppo e vide che si trovava in un tunnel a volta in cui scorreva dell'acqua. Tolivar e i due uomini, anch'essi fradici, le facevano grandi sorrisi. Quando re Ledavardis, riposta l'antica arma, si levò dal collo la lucente goccia di ambra del giglio per metterla a lei, Anigel emise un grido di gioia. «È meglio non restare qui», disse Gyorgibo. «Non ci vorrà molto perché gli Uomini della Stella scoprano che nel parco ci sono altre aperture che conducono a questo tunnel. C'inseguiranno. Mentre scappiamo dobbiamo bloccare il passaggio dietro di noi, e sperare che non ci taglino la strada.» «Ma dove possiamo andare?» chiese il principe Tolivar, la gioia trasformata in panico. «Guardate!» gridò Anigel. «L'ambra!» Il ciondolo lampeggiava veloce e al suo centro il Fiore era diviso da una striscia con l'apice luminoso. «Punta in direzione del palazzo di mio fratello», disse Gyorgibo, «l'unico luogo dove potremo trovare rifugio. Corriamo!» Impegnato com'era con lo scrigno stellato e il suo prezioso contenuto, che istintivamente si era stretto al petto, in prima battuta Orogastus riuscì a pensare solo a proteggere il Mostro a Tre Teste. L'aveva vincolato a sé nel momento in cui quelle diaboliche uova erano scoppiate, e anche se si era piegato in due in preda a un inevitabile parossismo, era riuscito a estrarre il diadema e a porselo saldamente in fronte. Adesso sotto la testa centrale del Mostro splendeva una miniatura della Stella. «Talismano!» disse boccheggiando. «Fa' sparire queste dannate spore! Cura me e i miei uomini dagli accessi di starnuti! Mi hai sentito?» Sì. È fatto. Occhi e narici liberati, si precipitò verso il boschetto e scostò i cespugli, rivelando un grande buco tra gli alberi con accanto una griglia di ferro divelta. Stava per dare ordini agli Uomini della Società, quando udì delle voci dal sottosuolo: «... fa' saltare il pozzo... toglietevi di mezzo...» «Attenti!» gridò lo stregone, ricadendo all'indietro contro uno dei soldati. Teneva ancora stretto lo scrigno. «Hanno armi magiche!» Un attimo dopo dal buco uscì un lampo di luce rossa, insieme a un rombo assordante e a un pennacchio di polvere. Seguì una seconda esplosione. Imprecando,
Orogastus ripulì l'aria col talismano, per scoprire così che l'ingresso nel terreno era stato bloccato dalle macerie. «Talismano, mostrami la regina Anigel!» La richiesta non è pertinente. «Perché non me la puoi mostrare?» sbottò infuriato. È schermata dal Giglio Nero. «Non è possibile!» gemette lo stregone. «A meno che...» Richiese una Vista del principe Tolivar, ma il ragazzo era schermato dalla vicinanza della madre, come i salvatori di Anigel. «Allora mostrami la pianta del sistema fognario sotto questo parco, e la posizione di questo pozzo crollato.» Questa volta il diadema obbedì, e nella mente dello stregone comparve un chiaro diagramma dei tunnel, con una lucina intermittente a indicare dov'erano scesi la regina e il principe. «Mostrami le aperture più vicine a questa!» Altre due luci presero a lampeggiare e il cuore gli si riempì di speranza vedendo che una era proprio dietro di lui, accanto alla fontana, mentre l'altra era a una ventina di ell oltre il boschetto, al di là del viale isolato dal cordone di militari, che fiancheggiava il parco centrale. Prima che potesse ordinare agli uomini di prendere posizione ci fu una terza fiammata rossa in un tombino per le acque piovane, visibile a stento per via della folla in fila lungo la strada. I fuggiaschi stavano bloccando i punti d'accesso a mano a mano che avanzavano. Ma poteva intrappolarli facilmente, bastava studiare ancora un po' la mappa delle fognature... «Maestro! Il cancello principale del palazzo si sta aprendo. Comincia la Cerimonia imperiale dei Doni Augurali!» Orogastus gemette di nuovo. Udiva trombe e tamburi. Non c'era tempo da perdere. L'esercito era pronto ad avanzare, e Naelore e il suo gruppo di nobili si aspettavano che l'attacco avesse successo. Afferrò la Stella e comunicò a distanza coi suoi uomini che comandavano i guerrieri partigiani: «Preparatevi ad assaltare il palazzo non appena darò l'ordine». 27 «Che diavolo è stato?» gridò Sainlat. «Avrei giurato di sentire il marciapiede muoversi... ma con questa maledetta folla che fa un tale chiasso, non posso esserne certo.» «Sono solo gli scoppi dei fuochi d'artificio», gli strillò di rimando Melpotis. Edinar rise. «Oppure sono i tuoi piedoni che frantumano il selciato!»
I quattro Compagni Fedeli avanzavano tra la massa di gente in festa sul lato meridionale del parco, con Kadiya nel mezzo a fendere la calca grazie al proprio talismano. La donna si era tolta il copricapo per vedere meglio e Sainlat aveva perso il becco appuntito che portava sul naso, ma per il resto i loro travestimenti erano ancora intatti: Kadiya in piume porpora, Edinar in rosso, Melpotis e Kalepo in blu acciaio, e il voluminoso Sainlat avvolto in rosa pothi. Il talismano di Kadiya, con l'ambra del giglio incastonata nell'elsa, li aveva guidati direttamente dal porto al portale delle udienze nell'ala sud del palazzo, attraverso cui di solito i visitatori venivano ammessi nella sala di ricevimento dell'imperatore. Ma una volta giunti là la situazione si era fatta piena di ostacoli. Non potendo certo ucciderlo, perché l'ipotesi non era tra le opzioni contemplate, l'Occhio di Fuoco Trilobato non aveva modo di obbligare il portiere imperiale a farli entrare. L'uomo era stato inflessibile: Denombo non avrebbe visto nessuno quella sera, neppure un emissario del re e della regina di Laboruwenda. A Kadiya fu quindi detto di tornare l'indomani. Ma allora sarebbe stato troppo tardi. «Accanto a quella fontana con gli uccelli dorati la folla è più rada», fece notare Kalepo. «Arrivati in quel punto dovremmo poterci avvicinare al cancello del palazzo piuttosto facilmente. Ma non vedo come potremmo avere maggior fortuna lì rispetto che al portale dei visitatori. È evidente che l'imperatore e la corte non vogliono essere disturbati durante il grande spettacolo.» «Avresti dovuto colpire quell'insolente lacchè di palazzo col fuoco magico del tuo talismano quando ci ha negato il permesso di entrare», brontolò Sainlat. «O fare un buco nel muro perimetrale.» «No», replicò Kadiya. «Vi ho spiegato che la riuscita della nostra impresa dipende dalla benevolenza di Denombo. E non credo che ci avrebbe ricevuti con gentilezza dando credito ai nostri avvertimenti, se avessimo fatto irruzione nel palazzo con la forza o avessimo ferito i suoi domestici. Quell'uomo è terrorizzato dalla magia. Se solo mi riuscisse di pensare a uno stratagemma che...» «Agh!» All'improvviso Sainlat si era ritrovato incapace di muoversi. «Questo maledetto costume! La coda si è di nuovo impigliata in qualcosa. Aiutatemi!» «Aiutate me!» strillò indignata una corpulenta signora che era rimasta attaccata alla parte posteriore di Sainlat e veniva trascinata dal cavaliere.
«Questo tontolone sta rovinando il mio magnifico abito!» Ridacchiando, gli altri Compagni liberarono il loro amico vestito di rosa dalla signora, le cui piume arancioni erano decorate con ingombranti falpalà di retina d'oro disseminati di grandi stelle scintillanti dalle punte aguzze. L'ingombrante coda a ventaglio del massiccio cavaliere era stata una scocciatura per tutta la sera, e quando l'ebbero districata Sainlat chiese che venisse immediatamente tagliata e gettata via. Dovettero aspettare di essere vicini alla fontana per avere lo spazio sufficiente per farlo perché, nonostante la magia di Kadiya, la gente continuava a dare spintoni. Raggiunto un angolino formato dalla cimasa dell'elaborato bacino dorato, Melpotis estrasse il pugnale e cominciò a tagliare l'appendice dal manto di Sainlat. Veli di spruzzi sottili provenienti dalla fontana piovevano dolcemente su di loro, la musica degli Ottoni Imperiali salì verso un crescendo finale e il momento culminante dello spettacolo di fuochi artificiali riempì il cielo d'intrecci di fiamme colorate. La coda era stata fissata molto bene, e ci volle qualche minuto per portare a termine l'amputazione senza distruggere il costume. Kadiya decise di contattare il suo amico Nyssomu rimasto sulla barca Cadoon per chiedergli notizie della misteriosa trireme. «Talismano, voglio comunicare mentalmente con Jagun.» Non può parlarti a distanza perché giace in un sonno incantato. «Cosa?» esclamò stupita. «Liberalo subito!» La richiesta non è pertinente. «Perché?» Non posso sciogliere l'incantesimo creato da un altro talismano. Kadiya si colpì la fronte per la rabbia derivata dall'aver compreso. «Tolo! Oh, quel miserabile marmocchio!» Ignorando le stupefatte domande dei Compagni, che non erano in grado di udire le parole del talismano, gli ordinò di mostrarle ogni parte del vascello aborigeno. Il magico strumento obbedì, invece di rifiutarsi come avrebbe fatto se Tolivar e il suo diadema schermante fossero stati a bordo. Il principe se n'era andato e lei non aveva modo di trovarlo neanche col talismano. Una massa sospetta coperta da un'incerata proprio in mezzo al ponte della barca si rivelò essere formata da Jagun e Critch che russavano tranquilli. Allargando la visione magica per controllare il porto, vide che adesso la trireme era ormeggiata a uno dei grandi moli commerciali. A bordo del vascello o nelle sue vicinanze, nessun segno di attività insolite. «Il carico della nave è stato portato a terra?» chiese al talismano.
Sì «Di cosa si trattava?» La domanda non è pertinente. Mentre Kadiya poneva altre domande urgenti all'Occhio di Fuoco, ricevendone ben poche risposte utili, Kalepo e Melpotis si occupavano di Sainlat e il giovane Edinar girava attorno alla fontana, per evitare il grosso degli spruzzi e avere una visuale migliore dell'imperatore Denombo. Evidentemente lo spettacolo pirotecnico era appena terminato e dietro il cancello principale del palazzo, a sinistra della grande scalinata, sembrava stesse accadendo qualcosa di curioso. Erano apparsi dei tiri di volumnial, che trainavano grandi carri a quattro ruote sormontati da strutture insolite e sgargianti. Un direttore dei carri stava organizzando le cose in modo che si formasse un corteo... e le guardie stavano aprendo lentamente il grande cancello dorato di fronte alla scalinata del palazzo! Edinar raggiunse un gruppetto di una decina di persone in festa che, come lui, indossavano un costume rosso. «Ehi! Che succede adesso?» le apostrofò allegro, mentre risuonava una squillante fanfara e i tamburi cominciavano a rullare. Solo uno degli uomini fece caso a lui, e quando si voltò il giovane Compagno Fedele colse il luccichio di un'armatura sotto il mantello di piume scarlatte. «Torna al tuo posto, stupido!» gli gridò. «È la Cerimonia dei Doni, e l'ordine di colpire può essere dato da un momento all'altro!» Edinar si affrettò a tornare dietro la cortina di spruzzi, il cuore in tumulto e un blocco gelato alla bocca dello stomaco. Fino a quell'attimo di terribile illuminazione, non si era accorto di quanti altri uomini vestiti di rosso si fossero riuniti attorno alla fontana. In quel momento notò che ce n'erano dappertutto, a decine, forse a centinaia, divisi in gruppetti ansiosi in mezzo ai normali cittadini in festa con gli occhi fissi su Denombo e i suoi cortigiani. Mischiati agli uccelli rossi ce n'erano altri vestiti di nero, che si muovevano furtivi con aria risoluta. «Lady Kadiya!» gemette Edinar, e si affrettò a raccontarle quanto aveva scoperto. Lei e gli altri si erano già accorti dell'apertura del cancello, e stavano discutendo dell'opportunità di varcarlo rendendosi invisibili. In quello stesso istante l'imperatore pronunciò qualche parola altisonante, i tamburi passarono a un rat-a-tat-a-bum ricco di tensione e i carri trainati dai volumnial cominciarono a uscire dal cancello, svoltando a destra sul viale che girava attorno al parco. Dalla folla salirono fischi e ovazioni. Su ogni carro da parata, fiancheggiato da tamburini e trombettieri, c'era u-
n'enorme sagoma in vimini di un diverso uccello fantastico, decorata con piume, fronzoli luccicanti e «gioielli» di vetro. Sul retro, quattro ragazze poco vestite reggevano dei cesti dorati da cui prendevano i regalini da lanciare alla gente su ambo i lati. Adesso all'imperatore Denombo e alla sua corte venivano offerti rinfreschi da servitori che si genuflettevano, mentre i gruppetti sparsi di uccelli rossi si fondevano in un'unica massa capitanata da quelli col costume nero. Dopo aver ascoltato le notizie di Edinar, Kadiya si guardò attorno, perplessa. Le persone qualunque venivano spinte bruscamente da parte mentre un numero sempre maggiore di uomini in nero o in rosso si riuniva sul selciato tra la fontana e i cancelli ora aperti del palazzo. Un soffio di vento scostò il lembo del mantello di un uccello rosso, e Kadiya vide che portava con sé uno strumento di foggia strana. E anche gli altri, che tenevano le mani nascoste sotto le cappe, parevano carichi. «Dio Triuno!» esclamò, arrivando finalmente a capire. «Hanno le armi degli Scomparsi! È un attacco al palazzo, proprio come temevo.» «Cosa dobbiamo fare?» chiese Melpotis disperato. «Dobbiamo tentare di avvicinare Denombo ora, anche da invisibili? Potrebbe pensare che siamo assassini!» Kadiya era paralizzata dall'indecisione. Denombo era troppo lontano perché potessero raggiungerlo, visto che il luogo pullulava di Uomini della Stella; da un momento all'altro sarebbe cominciata una battaglia campale... e da qualche parte in mezzo alla folla c'era il giovane principe Tolivar, col prezioso Mostro a Tre Teste. La sfilata dei carri dei Doni aveva completato l'attraversamento della strada davanti al palazzo e stava svoltando nel viale che costeggiava il lato nord del parco. I musicisti al seguito continuavano a suonare, e le signorine continuavano a distribuire doni con imperiale munificenza. Soltanto una piccola parte della gente aveva già compreso che stava accadendo qualcosa d'insolito, mentre gli altri, ignari, accorrevano lungo i cordoni posti sul viale nella speranza di afferrare un regalo al passaggio dei carri. «Guardate il getto della fontana!» gridò stupefatto Kalepo. L'alto pennacchio d'acqua sopra di loro stava ondeggiando paurosamente da una parte all'altra, mentre allo stesso tempo una distinta vibrazione pareva muovere il terreno sotto i piedi. «È un terremoto», disse Kadiya ancora distratta, «ma di piccole proporzioni, niente di cui preoccuparsi...» «Naelore!» Il grido proveniva da voci tutto attorno a loro, e venne ripre-
so da sempre più gole finché il nome riecheggiò da un lato all'altro del parco, sommergendo la musica. «Naelore! Naelore!» L'assalto ebbe inizio. I guerrieri in costume più vicini ai cancelli avanzarono in formazione compatta e schiacciarono le guardie imperiali di fronte alla grande scalinata. Un'altra forza d'invasori spuntò dal gruppo centrale di persone in festa e caricò verso il palazzo, dividendosi in due colonne per superare la fontana e quindi riunirsi all'avanguardia. Questi uomini erano armati di spade a due lame, e abbattevano chiunque si parasse loro davanti. Kadiya e i quattro cavalieri si stiparono nella piccola zona sicura che avevano occupato mentre l'esercito di Orogastus li superava di corsa, riversandosi oltre i cancelli come un'ondata di sangue striato di nero. Scoppi di luci multicolori, simili a fuochi d'artificio puntati troppo in basso, cominciarono a esplodere lungo la facciata del palazzo. Gli attaccanti stavano facendo ricorso alle armi degli Scomparsi. Un'altra scarica di fucileria dal centro della scalinata indicò lo scontro tra gli uomini dello stregone e i guerrieri imperiali che si erano raccolti a circondare l'imperatore e la corte. Ci volle ancora qualche minuto prima che la massa confusa si accorgesse che qualcosa stava andando davvero molto male durante la festa. Tutto quello a cui la gente riuscì a pensare fu scappare via. Il cordone di truppe imperiali lungo il Viale del Nord vacillò e si divise, così gli astanti invasero la zona transitabile bloccando la sfilata dei carri. Come un animale irrazionale e urlante, la folla impaurita tentò di fuggire dal parco, accalcandosi e litigando mentre correva verso strade laterali. «Signora, la nostra missione è fallita!» gridò Sainlat. «Siamo solo cinque contro migliaia...» Kadiya era immobile, gli occhi vitrei, le mani strette al talismano. Tolo! disse senza parlare. Tolo! Per l'amor di Dio, dimmi dove sei! «Gli uomini dello stregone hanno sopraffatto Denombo e i suoi difensori!» esclamò Melpotis. «Signori dell'Aria, abbiate pietà di loro.» «E di noi», aggiunse torvo Edinar. «Dobbiamo andarcene di qui!» Ma Kadiya ignorava il tumulto e i suoi Compagni. La Vista magica le aveva già mostrato l'imperatore afferrato dagli Uomini della Stella, e adesso cominciò a porre domande dolorose a se stessa e all'Occhio di Fuoco Trilobato: Dove può essere il ragazzo? Perché ha violato la solenne promessa che mi aveva fatto e ha usato la magia del talismano? Non posso credere che Tolo abbia fatto un incantesimo a Jagun e a Critch semplice-
mente per indulgere a una scappatella infantile. È avventato, ma non così disobbediente. Sacro Fiore... potrebbe avere avuto qualche altra ragione per lasciare la barca? Ma la spada magica, che non leggeva la mente, rispondeva sempre: La domanda non è pertinente. Poi capì. Se fosse merito del talismano, del Giglio Nero o del suo istinto non avrebbe saputo dirlo, ma di colpo fu certa che il principe Tolivar era sceso a terra nella speranza di salvare sua madre. Kadiya si rivolse al talismano ad alta voce: «Occhio di Fuoco, mia sorella Anigel si trova a Brandoba?» Sì. «Dove?» In un tunnel fognario sotto il palazzo imperiale. Kadiya emise un grido di gioia. «Cosa sta facendo in un luogo simile? E... è forse prigioniera?» Sta scappando da Orogastus. Non è prigioniera. «Lo stregone la sta inseguendo sottoterra? Corre il rischio di essere catturata?» Orogastus non la insegue. Al momento, non corre il rischio di essere catturata. La situazione potrebbe cambiare quando uscirà dal tunnel. «Questo è incredibile! E dove sta andando Anigel?» Va dall'imperatore Denombo. Kadiya raccontò ai cavalieri cosa aveva detto il talismano, e questi presero ad agitarsi, parlando tutti insieme, implorandola di comunicare a distanza con la regina per spingerla ad allontanarsi dal pericolo incombente. L'avanguardia degli invasori si stava riversando oltre l'ingresso principale del palazzo, mentre tra la gente nel parco si era sparso un vero e proprio panico. Ma adesso Kadiya si preoccupava solo della sicurezza della sorella. «Riunitevi accanto a me», ordinò ai Compagni Fedeli. «Devo parlare con la regina Anigel, che senza dubbio sarà impaurita e turbata, quindi risulterà molto difficile catturare la sua attenzione senza un secondo talismano.» Si accovacciò a terra mentre i quattro cavalieri allargavano sopra di lei le cappe piumate in una sorta di misero riparo, poi fissò l'Occhio marrone, aperto, della spada scura. «Talismano, consentimi di scrutare mia sorella Anigel», pregò, «e fammi anche parlare con lei, in modo che io possa salvarle la vita. Te lo chiedo in nome del Triuno e del Giglio Nero.» Per un momento pensò di aver fallito, poi il rumore e la confusione at-
torno a lei cessarono, come fosse stata chiusa una porta. Scorse un tunnel illuminato dal bagliore dorato dell'ambra del giglio, una costruzione di blocchi di granito coperti di muffa luccicante, dove scorreva un rivolo d'acqua grigiastra e l'aria era stranamente piena di vortici di polvere. Pietrificato, la bocca spalancata per lo shock, ecco re Ledavardis di Raktum che reggeva Anigel tra le braccia possenti. Un altro uomo, coi capelli rossi e l'espressione altrettanto stupefatta, era dietro il re. Al suo fianco, il principe Tolivar. «Signora degli Occhi!» gracchiò il pirata. «Che ci fai qui?» Anigel fece un sorriso tremante. «Cara Kadi! Sei venuta a unirti a noi nel giro turistico delle fogne di Brandoba?... Mettimi giù, Ledo.» A quel punto Kadiya si rese conto di avere avuto un successo superiore alle aspettative più esagerate. Non solo era riuscita a scrutare la regina e i suoi compagni e a parlare loro, ma anch'essi vedevano la sua immagine in una Proiezione magica. «Come sei arrivata laggiù?» domandò alla sorella. «Sei forse ferita?» «Ledo e il suo amico mi hanno letteralmente strappata dalle grinfie di Orogastus», rispose Anigel. «Sto bene, tranne per una caviglia slogata durante il salvataggio che mi rende difficile camminare.» «Vederti è un vero piacere, Signora», intervenne Ledavardis. «... e anche vedere il tuo potente talismano.» «Non sono tra voi in carne e ossa», spiegò dispiaciuta Kadiya. «Sono solo una forma illusoria del mio vero corpo, che al momento è nel parco accanto alla fontana dorata. Vi porto notizie molto brutte. Orogastus e il suo esercito hanno assaltato il palazzo imperiale. Dovete tornare subito indietro...» «Non possiamo», replicò pacato l'uomo dai capelli rossi. Appoggiata sulla spalla portava un'arma degli Scomparsi. «Per impedire che c'inseguissero abbiamo fatto saltare il tunnel dietro di noi in vari punti, grazie al lampo magico di questo utile strumento. Ci è impossibile tornare sui nostri passi.» «Entro pochi minuti il palazzo sarà in mano ai guerrieri dello stregone e agli Uomini della Stella», disse Kadiya. «L'imperatore è già stato fatto prigioniero.» «Povero Denombo!» L'uomo chinò il capo. «Senza dubbio mia sorella lo ucciderà. Che Matuta gli doni la pace eterna.» «Questo è Gyor, fratello minore dell'imperatore», spiegò Anigel a Kadiya. «Da bambini giocavano nei condotti fognari, e venendo da questa parte
speravamo di avvisare Denombo del piano dello stregone.» «La sorella di cui parla Gyor», aggiunse Ledavardis, «è l'arciduchessa Naelore, membro della Società della Stella e donna veramente diabolica, che ha cospirato con Orogastus per impadronirsi del trono.» «Non c'è modo di uscire dalle fognature», chiese Kadiya, «senza passare per il palazzo?» L'arciduca sollevò il viso rigato di lacrime. «Questo è un canale per le acque piovane, non una vera fognatura. I fori di aerazione nella parte davanti a noi servono i giardini pensili e i pluviali dei tetti del palazzo. Ma una volta sotto l'ala nord, possiamo infilarci in un altro condotto. Si tratta di un tunnel nauseabondo e fetido che non ho mai esplorato, ma so che alla fine sbocca in un canale che si riversa nel fiume Dob. Purtroppo, a parte quelle all'interno del palazzo, non ci sono altre uscite prima di raggiungere il canale, a circa mezza lega dalle mura fortificate.» «Allora dovrete continuare fino là», decise Kadiya. «Anche i miei uomini e io, guidati dal talismano, troveremo il modo di entrare nel sistema fognario e alla fine c'incontreremo. Trovate un posto sicuro e aspettateci. Insieme escogiteremo un sistema per percorrere il fiume sino al mare. Dio solo sa cosa accadrà allora. Avevamo a nostra disposizione una barca aborigena, ma il capitano sta dormendo un sonno incantato...» Si erano dimenticati tutti di Tolivar, che intervenne dicendo: «Jagun e Critch si sveglieranno dal mio incantesimo alle prime luci dell'alba, zia Kadi. Quindi potrai far venire la barca e saremo in grado di salpare mettendoci in salvo». L'immagine di Kadiya squadrò in silenzio il ragazzo per un momento. Poi chiese: «Tolo, dov'è il tuo talismano?» Fu la regina Anigel a rispondere con voce squillante. «Il mio amato figlio l'ha consegnato in cambio della mia vita, e di quella dei suoi fratellini non ancora nati! Adesso il Mostro a Tre Teste ce l'ha Orogastus, ma non ci servirà a nulla piangerci sopra, quindi non parliamone più.» «D'accordo», disse a denti stretti la Signora degli Occhi. «Non oso restare più a lungo. Che il Sacro Fiore vi protegga e vi guidi fino al momento in cui ci riincontreremo.» La Proiezione scomparve. Kadiya fece ai Compagni Fedeli un resoconto di quanto aveva appreso nel tunnel. I quattro si rallegrarono che sia la regina Anigel sia il principe Tolivar fossero salvi, e si dichiararono pronti a farsi largo a forza per usci-
re dal parco a fianco di Kadiya e del suo Occhio di Fuoco Trilobato. «Ormai ci sono solo i poveri cittadini di Brandoba a sbarrarci la strada», li sgridò la donna, «non gli scagnozzi di Orogastus. Guardatevi attorno: quasi tutti quelli vestiti di rosso o di nero hanno preso parte all'assalto al palazzo. La folla infuriata che ci circonda è formata da persone comuni.» Si accucciò di nuovo, reggendo il talismano. Intorno a loro, la notte era piena di grida e di terribili rimbombi; la gente si calpestava nel tentativo di fuggire. «Dobbiamo entrare nel sistema fognario come hanno fatto Anigel e i suoi compagni, e spostarci sottoterra verso un certo canale che sfocia nel fiume Dob. È là che ci aspettano Anigel e gli altri. Lasciatemi chiedere all'Occhio di Fuoco come fare.» I cavalieri attesero preoccupati che Kadiya mormorasse le sue richieste e ascoltasse risposte non udibili dalle loro orecchie. Ma quando la donna risollevò il viso, l'espressione era cupa. «Le sezioni di tunnel più vicine a noi sono state fatte crollare deliberatamente dai salvatori di Anigel per evitare gli Uomini della Stella. Per aggirare gli ostacoli dovremo prendere il Viale del Nord, laggiù, e seguirlo per due isolati. Accederemo al pozzo di drenaggio sollevando una grata posta nel giardino di uno dei palazzi.» «Questo significa infilarsi proprio in mezzo ai tumulti», ammonì Melpotis. «Potrebbe non essere possibile spostare la gente con delicatezza, come abbiamo fatto prima. Non sapranno dove andare.» «Se solo fossi una maga più esperta», si lamentò Kadiya. «Signora», riprese implacabile Melpotis, «dovrai aprirci la strada col fuoco del tuo talismano. Non c'è altro modo per avanzare in mezzo a quella folle mischia.» «Non posso uccidere persone innocenti!» gridò lei. Sainlat si espresse con un'imprecazione disperata e si strappò di dosso il ridicolo costume rosa, calpestandolo con maligna soddisfazione. Poi estrasse la spada. «Non possiamo starcene qui a meditare! Per quanto mi riguarda sono pronto ad aprire la strada verso il tunnel.» «Anch'io», disse Melpotis, togliendosi pure lui il travestimento e indossando l'elmo. «Ci sono!» Il giovane volto glabro di Edinar si era illuminato. «Signora, ordina al tuo talismano di far cadere in un sonno incantato quelli che c'impediscono di passare, come il principe Tolivar ha fatto con Jagun e il Cadoon! Finiranno a terra e noi potremo superarli senza fatica.» Kadiya era scettica. «Non ho mai fatto una cosa del genere, ma lasciatemi provare.»
Di nuovo, come durante l'inattesa Proiezione, Kadiya usò tutte le proprie forze per ottenere una più tranquilla disposizione d'animo. Quando dal palazzo si udì una forte esplosione e da molte finestre dei piani alti si videro fiamme che provocarono un boato di paura nella folla, Kadiya trasalì. Poi però divenne insensibile, concentrandosi su un singolo patetico cittadino avvolto in piume malconce che sedeva piangendo e farfugliando sul bordo della fontana a qualche ell da lei. Dormi e svegliati soltanto all'alba, gli disse, reggendo alto il talismano e allo stesso tempo chiudendo gli occhi per visualizzarlo serenamente assopito. Quando riaprì gli occhi, l'uomo giaceva prono in una pozzanghera di acqua grigia con un lieve sorriso dipinto sul volto. «Ce l'ho fatta!» esultò. Tentò ancora, scegliendo un paio di Brandobiani rissosi che se le davano di santa ragione con inutile ferocia. Li immaginò entrambi, questa volta tenendo gli occhi aperti, mentre si afflosciavano privi di sensi sull'acciottolato umido e pronunciò di nuovo l'incantesimo. I due si piegarono dolcemente su se stessi, come bambini in partenza per il regno dei sogni. «Compagni», disse Kadiya facendo un respiro profondo, «siamo pronti a riprendere la nostra rischiosa avventura.» Si levò il costume, rivelando la corazza di maglia a scaglie decorata con l'Occhio Trilobato, e indossò l'elmo che aveva portato in una borsa stretta alla vita. Quindi sollevò il talismano. La goccia d'ambra del giglio inserita tra i lobi brillava di una luce calda. «Statemi vicini», ordinò ai cavalieri. «Cercherò di fare un vuoto abbastanza ampio da consentirci di non calpestare i dormienti.» Si misero in marcia sotto l'acqua scrosciante della fontana verso lo stesso boschetto dove Anigel e Tolivar erano scesi sottoterra, infilandosi tra le frange di folla senza troppa fatica, almeno all'inizio. Kadiya oscillava il talismano avanti e indietro, avanti e indietro, fissando lo sguardo su ognuna delle persone che ostruivano il passaggio solo per una frazione di secondo. Rivoltosi che stavano gridando istericamente o menando le mani in preda a una rabbia demenziale cominciarono a barcollare e a cadere al suolo. Quanti restavano in piedi, non toccati dalla magia, si ritraevano terrorizzati mentre gli altri attorno a loro stramazzavano. Qualcuno gridò: «Una strega!» Si propagò un lamento generale, punteggiato da altri strilli: «Stregoneria! Attenzione!» Alla vista di Kadiya la folla indietreggiava, lottando furiosamente per allontanarsi, credendo che i caduti fossero stati uccisi con la magia.
Kadiya e i Compagni avanzavano, passando sui corpi. La donna usava ogni briciola di concentrazione per provocare il sonno incantato, confidando nei cavalieri per seguire la direzione giusta. Superato il piccolo gruppo di alberi si diressero verso il viale, dove la folla era ancora più compatta e di umore peggiore. I carri dei doni erano stati rovesciati, scatenando il terrore degli animali da traino. Dei saccheggiatori avevano afferrato i forzieri dei doni imperiali e adesso si contendevano il possesso delle scatole, sparpagliando da tutte le parti gli omaggi colorati mentre si prendevano a pugni. Una delle ragazze che distribuivano i regali giaceva a terra immobile e coperta di sangue nel punto in cui un volumnial imbizzarrito l'aveva calpestata. Adesso sul marciapiede si vedevano molte persone ferite e morte, ma Kadiya e i suoi cavalieri potevano solo continuare a procedere lungo il viale in subbuglio, lasciandosi dietro corpi privi di sensi e difendendosi dall'occasionale attacco di qualche squilibrato. Adesso l'edificio che era il loro traguardo si trovava a una trentina di ell, appena oltre una strada laterale invasa da una moltitudine urlante. Paradossalmente, quanti erano nelle vie minori cercavano ancora di andare verso il parco, invece di scappare, dato che non c'erano evidenti indizi degli sviluppi anomali. Mentre Kadiya e i Compagni tentavano di fronteggiare quella massa di umanità, la loro manovra fin là riuscita cominciò a essere intralciata dal numero troppo ingente di persone. Per quanti cadevano addormentati, altri si facevano avanti a prenderne il posto. L'inesorabile pressione della folla che avanzava stava rendendo impossibile a Kadiya l'uso della magia. Il giustificato timore che i dormienti sarebbero stati calpestati a morte cancellò la sua concentrazione. Edinar e Sainlat, alla sua destra, soggetti agli attacchi più violenti, scoprirono che persino le loro spade non servivano a fendere la marea umana. Non potevano più proseguire. Impotenti, furono trascinati indietro nel viale, verso il parco. Da nord, lungo la strada laterale piena di gente all'inverosimile, provenivano acuti cinguettìi e ronzii delle armi antiche, intensi lampi di luce colorata e grida di dolore delle vittime di ustioni. Kadiya sapeva che da quella direzione stava avanzando una nuova schiera d'invasori che spingeva avanti a sé una folla isterica e si faceva largo liberandosi di chi osava indugiare con efferata efficienza. «Uomini della Stella!» ululò Edinar all'orecchio di Kadiya. «E altre canaglie in rosso, a dorso di fronial! Rivolgi la luce mortale del tuo talismano
contro di loro...» Le parole del giovane cavaliere terminarono in un urlo, mentre veniva strappato via dal fianco di Kadiya e scompariva in un'ondata di corpi scuri. Un istante dopo spariva anche Sainlat, e i fratelli Kalepo e Melpotis incespicavano e venivano risucchiati sotto i suoi piedi. «Talismano!» gridò Kadiya con una supplica disperata. «Aiuto!» Reggeva alta la spada spezzata, ma nello stesso tempo si sentì cadere. L'Occhio di Fuoco Trilobato le sfuggì di mano. Vide un accecante bagliore verde e udì qualcuno strillare. Sballottata e spinta come una foglia in un torrente, venne stordita e perse i sensi prima di colpire il marciapiede lastricato. Rinvenne, semisoffocata da un grande peso e incapace di muoversi. L'impetuoso frastuono del tumulto si era affievolito e gli unici suoni che udiva nelle vicinanze erano gemiti, pianti, deboli richieste d'aiuto, nitriti di fronial e grugniti e maledizioni di uomini che lavoravano con foga. Le stavano levando di dosso dei cadaveri. Le pulsava un ginocchio ma l'armatura - o la magia del talismano - sembrava averla salvata da infortuni peggiori. Portava ancora l'elmo e giaceva a faccia in giù su qualcosa. O qualcuno. «Compagni!» riuscì a dire boccheggiando. «Sono io, Kadiya. Come state?» «Adesso i tuoi guerrieri non ti possono aiutare», disse una tonante voce di donna. Prima che Kadiya potesse emettere un altro suono, venne spostato l'ultimo corpo e delle mani guantate l'afferrarono e la misero in piedi con violenza. La vista offuscata da un capogiro, il ginocchio che doleva come una pugnalata, se due soldati sobraniani non l'avessero tenuta stretta sarebbe di certo caduta. Sollevò piano la testa. La vista le si schiarì e vide che la maggior parte della folla si era allontanata dal viale, lasciandosi dietro pile di corpi laceri e contusi. Era circondata da uno squadrone di fronial, tutti bardati di prezioso damasco, che si aggiravano nervosamente in mezzo al carnaio. I cavalieri erano coperti dalla testa ai piedi da splendide armature di stile barbarico, e tutti portavano una cappa di piume scarlatte. Il loro capo, che fissava dall'alto in basso Kadiya con un sorriso crudele, era una donna che indossava una magnifica corona a forma di uccello. La sua armatura era nera e argento, e appesa al collo aveva una Stella di plati-
no. «Incatena la strega, Lucaibo», disse, «poi metti al sicuro il talismano. Agisci esattamente come ti ho spiegato, se non vuoi fare la fine di Kiforo, Tedge e quegli altri sfortunati valorosi.» Uno dei carcerieri di Kadiya le legò polsi e caviglie mentre l'altro la teneva. Poi l'uomo chiamato Lucaibo le sganciò il fodero della spada e lo mise a terra. Abbassando lo sguardo, Kadiya vide che l'Occhio di Fuoco Trilobato si trovava poco distante sul selciato sporco di sangue. L'ambra nell'elsa era opaca. Attorno al talismano giacevano un uomo corpulento, morto, con gli occhi spalancati, e cinque involucri inceneriti che un tempo erano stati esseri umani. Ovviamente delle persone ostili avevano tentato di sollevare la spada magica e come bel risultato erano perite. Ma il corpo non bruciato... Una fitta di dolore attraversò Kadiya quando si rese conto che si trattava di Sainlat. Il cavaliere non era morto calpestato: una spada sobraniana a due lame gli era stata infilata verticalmente in gola. «Passa serenamente nell'aldilà, caro Compagno», mormorò la donna, sentendo le lacrime scenderle lungo le guance. Quasi non fece caso a Lucaibo che usava lo stivale rivestito d'acciaio per far scivolare il fodero sulla lama smussata del talismano, inguauiandola senza danni. L'uomo sollevò quindi l'Occhio di Fuoco e lo fissò alla schiena di Kadiya, avvolgendole attorno parecchi giri di corda per buona misura e bloccandole del tutto la parte superiore delle braccia. «Adesso mettetela in sella», disse la donna con la corona, «e andiamo a palazzo, dove tutto è pronto.» «Dove sono i miei altri tre cavalieri?» domandò a bassa voce Kadiya. «E chi sei tu?» «I tuoi scagnozzi sono morti, strega, schiacciati dalla folla. Io sono l'imperatrice Naelore. Sarà tuo privilegio vedermi salire al trono... dopo che avrò consegnato il tuo talismano a Orogastus.» 28 L'Arcimago del Firmamento aveva sistemato Haramis in un appartamento bello e comodo accanto alla sua enorme biblioteca, spingendola a farne liberamente uso. Le aveva anche fatto conoscere i diversi tipi di Sindona che avrebbero provveduto alle sue necessità - portatori, messaggeri, camerieri, consolatori e sentinelle - e mostrato i viadotti fissi che le avrebbero consentito di spostarsi da una Luna all'altra. Poi, dicendo che sa-
rebbe tornato da lei quando i tempi fossero stati maturi, si era allontanato rapidamente in direzione del proprio studio. «Maturi per cosa?» aveva chiesto Haramis, correndogli dietro, ma il vecchio si era limitato a ridacchiare e le aveva chiuso la porta in faccia. Quando era entrata, grazie all'ambra del giglio posta sul suo altrimenti inutile talismano, Denby non c'era. A quanto pareva aveva usato il viadotto di quella stanza per recarsi a una destinazione sconosciuta, e il portale magico aveva rifiutato di attivarsi quando lei gli aveva parlato. Ovviamente, l'ambra non considerava l'ingresso del viadotto una vera porta. Fremente per la frustrazione, Haramis si era recata in biblioteca e l'aveva setacciata in cerca di un indizio che la mettesse in grado di fuggire. Passarono tre giorni, ma non trovò nessuna informazione utile riguardo al funzionamento dei viadotti. Tuttavia un antico testo di consultazione, oltre al diagramma schematico dello Scettro che le aveva dato l'Uomo Scuro, sembrò confermare quanto sostenuto da Orogastus: i tre talismani, riuniti e usati correttamente, potevano restituire il mondo al suo stato originale preglaciazione. Purtroppo il riequilibrio del pianeta avrebbe prodotto tali spaventosi cambiamenti nel clima e nelle caratteristiche geomorfiche della superficie continentale che la civiltà sarebbe senz'altro crollata... a meno che qualcuno disciplinasse la popolazione terrorizzata con volontà di ferro e magia invincibile. Un tiranno... come Orogastus. Dopo la terribile conferma, Haramis si recò di nuovo sulla Luna della Morte, e si lamentò a gran voce con gli Scomparsi che dormivano nel limbo: «Davvero non c'è altra speranza? Dev'esserci un'alternativa tra il Ghiaccio Vincitore e lo spietato regime della Società della Stella!» Le belle forme fluttuanti nelle bolle dorate non evocarono espedienti diversi, e lo stesso dicasi per le accorate preghiere al Giglio Nero. Persino la saggezza e il buonsenso sembravano averla abbandonata, lasciando solo un vuoto disperante. «Se almeno potessi tornare alla mia terra, al suolo che alimenta la mia magia personale! Finché resto prigioniera qui non ho modo di dare forma diversa all'orribile destino decretato da Denby.» O invece sì? Dopotutto lo Scuro Signore del Firmamento era un Arcimago, legato alla solennità di quell'ufficio quanto lei. Nessuno dei due poteva fare deliberatamente del male a una persona pensante... Per lungo tempo meditò su una certa idea, il cui successo dipendeva dal
riuscire a catturare l'attenzione del vecchio matto. E sembrava esserci soltanto una speranza di farlo. Si recò alla Grotta della Memoria nella Luna Giardino, e si sedette sulla panchina di fronte allo scintillante globo del mondo, pregando in silenzio. Molte ore dopo apparve un Sindona consolatore, un essere con forma di donna vestito di una tunica dorata, il cui corpo liscio e duro come avorio era però miracolosamente in grado di muoversi con la grazia di un essere umano. La statua vivente era gentile e premurosa, ed esortò Haramis a tornare nel suo appartamento, partecipare alla cena e andare a dormire. Lei, però, rifiutò. «Se davvero vuoi consolarmi», disse al Sindona, «di' a Denby di lasciarmi allontanare da queste Lune. Di lasciarmi tornare alla terra per poter riprendere i miei doveri guidando la gente che là vive. Altrimenti rimarrò qui in questa grotta, senza mangiare né bere, finché non passerò serenamente nell'aldilà. E la colpa della mia morte ricadrà su Denby, per avermi tenuta ingiustamente prigioniera.» Il consolatore chinò la testa dall'acconciatura dorata. «Riferirò ciò che hai detto all'Arcimago del Firmamento.» E si allontanò attraverso un viadotto in fondo alla piccola caverna, che Haramis non aveva notato prima. Continuò la veglia per altri tre giorni, sempre più debole a causa del digiuno e in preda a una sete terribile. Infine, mentre giaceva prona sul pavimento muscoso della grotta, udì l'Uomo Scuro chiamarla per nome con tono di rimprovero. Lei sollevò il capo e parlò in un debole sussurro. «Sei venuto troppo presto, Uomo Scuro. Non sono ancora morta, e il talismano che desideri tanto ardentemente è ancora legato a me.» «Cosa vuoi dire, mia cara?» La voce di Denby tremava di innocenza offesa. Haramis si sollevò mettendosi a sedere. «Non possiamo essere onesti l'uno con l'altra? È evidente che intendi tenermi prigioniera finché non ti consegno il Cerchio dalle Tre ali... o finché non muoio e il vincolo che ha con la mia anima si dissolve. Per quale altro motivo mi avresti portata qui?» Le labbra violacee dell'uomo si contorsero in un sorrisetto furbo. «Forse per renderti più informata... forse per insegnarti un paio di cosette sul modo di salvare il mondo! Per un pazzo non è facile neppure conoscere le proprie motivazioni.» Haramis distolse ostentatamente lo sguardo, come da uno spettacolo rivoltante. «Io credo che tu non sia affatto pazzo. Sei solo vecchio e mor-
talmente stanco, oltre che perversamente deciso a vedere la fine del gioco atroce che tu e i tuoi colleghi Arcimaghi avete iniziato tanto tempo fa.» «Perché dici questo?» «Nella tua biblioteca ho trovato il resoconto... quello che ha letto anche Orogastus. Per dodicimila anni avete manipolato il destino del Popolo e dell'umanità, tentando invano di porre rimedio al disastro che avevate causato durante la guerra degli incantesimi. Magari all'inizio avevi in mente gli interessi del mondo, ma credo che poi tu sia diventato impaziente. La tua ingerenza si è fatta più incauta e capricciosa, col risultato che l'iniziale disequilibrio del mondo - che stava lentamente sistemandosi - è peggiorato in modo drastico. E adesso il pianeta è condannato a essere interamente ricoperto dai ghiacci, e la responsabilità è del tuo arrogante tentativo di riparazione.» L'Uomo Scuro rispose con calma. «Hai ragione in tutto, tranne che per l'ultima affermazione.» Con fatica lei si alzò per affrontarlo. «Binah e Iriane non avevano capito che eri tu la ragione del recente deterioramento del mondo. Le due Arcimaghe erano davvero altruiste e benevole. Secondo il loro piano, i Tre Petali del Giglio Vivente avrebbero riesumato lo Scettro del Potere e dato inizio a una grande guarigione. Credevano che le calamità naturali implicite nel ristabilimento dell'equilibrio perduto sarebbero state ridotte dall'amorevole influsso del Fiore.» Denby fece un gesto brusco. «Sembrava uno schema che valesse la pena tentare.» «Ma tu hai soltanto finto di essere d'accordo con loro», lo accusò Haramis. «Avevi già dato vita a una soluzione più rapida e drastica... e il suo nome è Orogastus! Hai abbracciato la filosofia oscura della Stella che avrebbe obbligato le anime libere a inchinarsi davanti a un despota, presumibilmente per il loro bene.» «Se si dovesse aspettare il Triuno», replicò gelido il vecchio, «potrebbe trattarsi di un'attesa infinita. Ho aspettato dodicimila anni. Non posso procrastinare oltre.» Haramis lo fissò: aveva capito. «Tu stai morendo!» «Sì. E prima di andarmene vedrò ristabilito l'equilibrio o la fine di tutto! Tu e le tue preziose sorelle siete servite al mio scopo di ritrovare i pezzi dello Scettro del Potere. Potente come sono, non ero in grado di farlo. I talismani erano stati nascosti dai Sindona, in modo che nessun uomo potesse mai più usarli come arma di offesa. Fui alquanto sorpreso quando la magia
del Fiore vi condusse alle tre parti. Avevo previsto che Orogastus usasse il Fulcro della Società della Stella per ritrovare il talismano, e invece il Fulcro l'ho dovuto usare io per salvare lui da voi.» «Ci siamo solo difese dalla sua magia malvagia...» «Basta con queste ciance! Perché dovrei giustificarmi con una giovane parvenue? Tu e le tue sorelle siete codarde come l'originale Collegio degli Arcimaghi. La loro soluzione al primo squilibrio del mondo era di ordinare alla gente di scappare nel firmamento esterno! Dato che anche voi avete paura di usare lo Scettro, anche voi siete irrilevanti. A questo punto, conta solo Orogastus.» «Le mie sorelle e io non comprendevamo appieno la natura del nostro destino né quella del talismano. Col tempo avremmo anche potuto vedere che lo Scettro è l'unica speranza del mondo, e trovare un modo sicuro di usarlo.» «Tempo!» abbaiò sprezzante il vecchio. «Ma non c'è tempo! Adesso Orogastus ha l'Occhio di Fuoco e il Mostro a Tre Teste. Deve avere subito anche la terza parte dello Scettro... e lo deve usare. I terremoti che preannunciano la fine sono già cominciati. Ben presto la crosta continentale si frantumerà in migliaia di punti. Nuovi vulcani erutteranno polvere, oscurando il sole e avvelenando per sempre il mare gelato. Soltanto il Ghiacciaio Eterno resisterà!» Fatta questa terribile dichiarazione, esitò, quasi sopraffatto da una profonda stanchezza. Agitò debolmente una mano nodosa e due Sentinelle del Pronunciamento Finale apparvero dal viadotto interno alla grotta. Le statue viventi con gli elmi-corona e le cinture di lucenti scaglie blu e verdi erano fianco a fianco, serene eppure micidiali, coi teschi dorati sotto il braccio sinistro. «Haramis», mormorò Denby, «dammi il Cerchio dalle Tre Ali. Ordinagli di stare nelle mie mani, inoffensivo, e ti libererò subito, in modo che tu possa salvare le tue sorelle Anigel e Kadiya. Se ti rifiuti andranno entrambe incontro a una morte atroce.» La donna si rimise in piedi, toccando l'ambra del giglio del talismano che portava al collo. «No. Penso che tu stia bluffando.» «Ah, sì? Prova un po' a guardare.» Si avvicinò al mappamondo e lo sfiorò. I tratti geografici scomparvero e il globo divenne una grande sfera da cristalloscopia, piena di vapori perlacei. La foschia si addensò in immagini e Haramis vide una lugubre camera contenente molti strumenti di tortura. Incatenata alla parete e seduta su un mucchio di paglia c'era Kadiya, il viso inespressivo per la disperazione.
Stava fissando un gruppo di guardie capitanate da un Uomo della Stella che ridevano mentre trascinavano quattro prigionieri privi di sensi. Uno era un individuo dai capelli rossi che Haramis non conosceva, un altro era re Ledavardis di Raktum, il terzo era il principe Tolivar e l'ultimo... era la regina Anigel, i cui abiti erano sporchi e laceri. Il furfante che portava la Stella lasciò cadere la regina sulla paglia con malagrazia, e cominciò a stringerle attorno ai polsi delle manette arrugginite. Haramis emise un grido di orrore, e la visione scomparve all'istante. «Sono a Sobrania», disse impassibile Denby, «prigionieri della nuova imperatrice, Naelore, che è salita al trono del paese dopo avere personalmente decapitato il fratello Denombo. Devi sapere che domani mattina le tue sorelle e i loro compagni saranno torturati a morte... a meno che Orogastus abbia il tuo talismano alle prime luci dell'alba.» «Lui... lui non farebbe mai una cosa simile!» asserì Haramis. «Nemmeno per il Cerchio dalle Tre Ali.» «Forse no», ammise l'Arcimago del Firmamento. «Ma ti assicuro che quel tesoro di Naelore lo farà con entusiasmo, adesso che una voce magica le ha messo in testa l'idea. L'imperatrice è molto contrariata perché Orogastus non ha assistito alla sua incoronazione né ha partecipato al consolidamento del suo potere dopo il colpo di stato. Si è rinchiuso invece in una stanza del palazzo imperiale coi due talismani. Il suo scopo è familiarizzare di nuovo col loro funzionamento... in modo da riuscire a trovarti.» «Trovare me?» «Proprio così.» «Per... per obbligarmi a consegnargli il mio talismano?» «Magari! Quell'imbecille vorrebbe semplicemente dirti paroline dolci a distanza, per continuare gli inutili tentativi di convertirti al suo modo di vedere le cose attraverso la logica. E l'amore.» Denby sbuffò con aria derisoria. «Puah! È una tale delusione! Uno sciocco sentimentale che deve essere pungolato a riprendere un corretto modo di agire. Ci penserà l'imperatrice Naelore... col mio aiuto.» «Io... io non capisco.» Il vecchio fu preda di una risata travolgente, e solo quando l'ilarità lasciò il posto a convulsioni di tosse riuscì a recuperare il controllo di sé. «Oh, è così deliziosamente ironico! Naelore ha una passione non corrisposta per Orogastus, proprio come lui per te, mia cara! L'imperatrice ha già fatto dono al suo amato stregone del talismano di Kadiya. Povera donna: era tanto mortificata per la sua reazione distaccata. Adesso pensa che, se riuscisse a
consegnargli anche il tuo talismano, Orogastus le sarebbe più grato. Soprattutto se tale gratitudine fosse la condizione per concedergli il dono... come le ha suggerito all'orecchio la voce misteriosa.» «Vile manipolatore!» gridò Haramis schifata. «Devi proprio trattare tutti come pedine su una scacchiera?» «Evidentemente sì. Ed è molto noioso.» Allungò la mano bruna. «Il Cerchio. Dammelo subito o assumiti la responsabilità della vittoria finale del Ghiaccio.» «Prepotente arrogante!» urlò la donna. «Non credo che Orogastus sia l'unica speranza del mondo... e penso che anche tu abbia dei dubbi. Sei così orgoglioso e consumato dal senso di colpa che ti rifiuti di prendere in considerazione soluzioni diverse dalla tua!» «Dammi il Cerchio», ripeté il vecchio, «oppure ordinerò alle sentinelle di prendertelo. Come ben sai, possono uccidere.» «Violeresti il giuramento di Arcimago?» gli chiese ferma, conoscendo già la risposta. «Non essere sciocca», le disse. «Farei qualunque cosa fosse necessaria.» All'improvviso, Haramis si avventò contro il vecchio a braccia tese, dandogli una forte spinta che lo mandò a barcollare contro le sentinelle, con un gridolino sorpreso. Prima che potesse fare qualcosa per fermarla, si precipitò verso il fondo della grotta e disse: «Sistema viadotto, attivati!» Fece un passo nel cerchio nero e scomparve. «Non puoi sfidarmi!» strillò Denby. «Non come ha fatto lei!» Zoppicò fino al viadotto ed entrò, ordinando ai due Sindona di seguirlo. Aveva programmato quel portale magico in modo che lo sbocco fosse nel suo studio nella Luna dell'Uomo Scuro. Quando emerse vide Haramis che si avviava a grandi passi verso la porta rotonda accanto alla grande finestra di osservazione. Era la stessa a cui le aveva ordinato di fare attenzione appena si erano incontrati, sei giorni prima. Gridò: «Fermati!» «La mia ambra del giglio può aprire qualunque serratura», disse l'Arcimaga voltandosi a guardarlo in faccia. «Persino questa.» Sollevò la bacchetta e la goccia dorata in mezzo alle ali baluginò in risposta. «Non farlo!» mugolò l'Uomo Scuro, pietrificato tra le due sentinelle. «Quel portello è un vestigio dei Giorni della Scomparsa e adesso conduce direttamente nel vuoto privo d'aria tra le Lune. Se lo apri moriremo entrambi, e il talismano andrà perduto per sempre!» «E allora così sia», replicò Haramis. «Almeno il tuo diabolico gioco finirà. Lasciamo che il mondo incontri il destino che vuole il Tritino, quale
che sia... non uno imposto da te.» «Fermatela!» disse con voce stridula Denby alle sentinelle. Prima che Haramis potesse ordinare alla porta di aprirsi, i Sindona sollevarono rapidi il braccio destro, le dita puntate proprio contro di lei. Vide i due raggi di luce quasi impercettibili che erano stati scagliati bloccarsi a una spanna da lei e riflettersi all'indietro quando fu la sua ambra del giglio a lampeggiare. Un'esplosione clamorosa scosse la stanza. Accecata e in preda alla tosse per la subitanea nuvola di polvere, si appoggiò al portello chiuso, portandosi le mani al volto in un istintivo gesto di protezione. Si era aspettata una morte immediata; le sentinelle avrebbero dovuto ridurre il suo corpo in cenere, lasciando intatto soltanto il cranio. E invece udì un gran sbattere e sferragliare, come se una terribile grandinata avesse colpito la stanza. Infine ci fu silenzio, spezzato solo da un debole gemito gorgogliante. Abbassò le mani e attraverso la polvere vide che lo studio era in rovina, a eccezione della piccola area attorno a lei. Le poltrone di pelle erano state fatte a brandelli, la scrivania, il tavolo e le credenze ridotti a legna per il camino, le librerie rovesciate e fracassate, gli antichi strumenti scientifici trasformati in metallo contorto e informe. Sul pavimento c'erano alte pile di frammenti color avorio, mischiati a tesserine da mosaico verdi e blu. Un unico teschio dorato intatto le era rotolato accanto ai piedi. Lui giaceva semisepolto dalle macerie e sanguinava da un centinaio di ferite. Haramis gli si avvicinò e s'inginocchiò sollevandogli la testa. In quella maschera di sangue coagulato e polvere non restavano tratti somatici riconoscibili, tranne la bocca. «Chiamerò un consolatore», cominciò la donna, «uno dei Sindona guaritori...» «Troppo tardi.» Le parole si capivano a stento. «Il Giglio Nero... avrei dovuto saperlo... più antico del Collegio, più della Stella... Tre Petali a gestirlo e l'Arcimago del Cielo a guidarlo, se lo vuoi, Haramis... l'amore è permesso, la devozione no... volevo solo salvarlo... il povero mondo.» «Lo so.» Lo cullò tra le braccia. La goccia d'ambra brillava come non mai. «Dimmi come faccio a tornare.» «Il viadotto di... Nerenyi.» Le quattro parole vennero pronunciate con l'ultimo respiro. Poi Denby Varcour, ultimo eroe degli Scomparsi e Arcimago del Firmamento, passò serenamente nell'aldilà. Chiamò uno dei Sindona consolatori perché la guarisse dagli effetti del
digiuno. La terapia fu necessariamente incompleta, perché quello di cui aveva più bisogno era un bel sonno ristoratore, poi però fu in grado di mangiare e bere, quindi d'indossare la tunica bianca, i pantaloni e il mantello del suo ufficio per prepararsi a partire. Quando lasciò l'appartamento si stupì molto trovando ad attenderla nel vestibolo una folla di statue viventi. C'erano diciassette camerieri, dodici portatori, cinque messaggeri, un altro consolatore e ventidue sentinelle. «Questi servitori sono pronti», disse il consolatore che l'aveva curata, «a obbedirti senza discutere, ora che l'Arcimago del Firmamento non è più.» «Potete mostrarmi il funzionamento del sistema di trasporto dei viadotti», chiese Haramis, «in modo che possa scegliere la destinazione subito dopo essere entrata?» Si fece avanti uno dei Sindona messaggeri. «Posso farlo subito, Arcimaga, sempre a patto che tu usi uno dei viadotti programmabili. Alcuni sistemi hanno un percorso fisso. Ti ci vorranno all'incirca venti ore di studio per apprendere il processo di programmazione.» «Così tanto?» esclamò sgomenta. «Ma io devo salvare le mie povere sorelle e gli altri prima che sul regno di Sobrania si levi il sole!» «Il viadotto nella stanza di Nerenyi Daral è uno di quelli fissi», disse il messaggero. «Ti trasporterà nel luogo in cui desideri andare. Basta che ci entri. Inoltre, se mi porti con te in viaggio, sarò in grado di riprogrammare altri viadotti secondo i tuoi ordini.» «Sia resa lode al Fiore!» Haramis emise un profondo sospiro di sollievo e meditò per un istante, quindi disse: «Tutti voi, tranne questo messaggero, aspettate qui finché non vi ordino di assistermi». I volti sorridenti annuirono con grazia. «Tu», disse al Sindona prescelto, «conducimi subito al viadotto di Nerenyi Daral.» 29 Il portale magico si apriva in un boschetto. Quando Haramis emerse all'aperto, seguita dal messaggero, trovò una strada di terra battuta parallela a una scogliera sul mare. Le Tre Lune brillavano alte nel cielo, incorniciate da nuvole che correvano veloci, mentre un vento vivace che soffiava verso terra portava le prime gocce di pioggia. Al largo, si scorgevano brevi lampi e si udiva un debole rombo di tuono. La zona pareva brulla e desolata, tranne che per la presenza di una piccola villa buia costruita in pietra bianca e situata su un promontorio al di là della strada. Sotto la casa, da ambo i
lati, c'erano spiagge di ciottoli battute da onde stranamente luminescenti e fiacche. «Dove ci troviamo, per la precisione?» chiese Haramis al Cerchio dalle Tre Ali. Il messaggero Sindona sapeva solo che lo sbocco del viadotto era a Sobrania. Questa è la ex residenza dell'imperatrice Naelore, rispose il talismano. Si trova tre leghe e un quarto a sud della capitale Brandoba. «Ci abita qualcuno?» È stata abbandonata due anni fa, quando Naelore e Tazor, il suo cerimoniere, si sono uniti alla Società della Stella. Haramis annuì soddisfatta e disse al Sindona che le stava al fianco: «Allora ne prenderemo possesso». Ordinando al talismano di schermare la casa alla Vista di Orogastus o di qualunque altro nemico, aprì la porta ed entrò. Il luogo odorava di muffa, era squallido e vi restavano soltanto pochi semplici mobili. Il salotto dava sul mare e da un lato, risalendo la costa con lo sguardo, si godeva il panorama di Brandoba. In molte parti della città sembrava fossero scoppiati degli incendi, perché le nubi che la sovrastavano erano screziate da minacciosi lampi arancioni e cremisi. A est, nel cielo, c'era anche uno strano baluginio rosso intermittente troppo irregolare per essere la luce dell'alba. Haramis studiò la scena per alcuni minuti, dolorosamente perplessa, quindi sollevò il talismano. «Perché Brandoba sta bruciando?» Durante la sommossa che ha accompagnato l'invasione di Orogastus sono scoppiati alcuni incendi. Pose altre domande al Cerchio, fino a ottenere un quadro completo del riuscito colpo di stato e del modo in cui Kadiya, Anigel e gli altri erano stati catturati. Adesso mancavano tre ore all'aurora. La capitale era sotto il controllo dei lealisti di Naelore e della Società della Stella. Denombo, i suoi nobili e la maggior parte della guardia imperiale erano stati trucidati, e molte persone comuni erano morte nei tumulti, ormai quasi del tutto sedati. Non esisteva un'opposizione organizzata ai conquistatori. La nuova imperatrice era stata incoronata in tutta fretta, e re subordinati e capi tribali di Sobrania che si trovavano in città per la Festa degli Uccelli inciampavano uno sull'altro per l'impazienza di acclamarla. Le terribili notizie non sorpresero Haramis, che non tentò di vedere Orogastus, memore dell'ultima volta in cui era stato in possesso di due talismani, anni prima, durante la guerra di Derorguila, quando riusciva a scoprire dov'era ogni qualvolta lei richiedeva una sua Vista. Il tempo del loro
confronto non era ancora venuto. Quando cercò di scoprire il luogo esatto in cui erano tenute le sue sorelle, Haramis venne frustrata dalla magia della Stella che copriva ancora il palazzo imperiale, come la prima volta che aveva provato ad avvisare Denombo del pericolo rappresentato dalla Società. Purtroppo dentro le mura del palazzo o nelle vicinanze non c'era nessun viadotto comodo che si potesse usare, quindi al Sindona non sarebbe stato possibile aiutarla a salvare i prigionieri. Avrebbe dovuto trasportarsi fisicamente nell'edificio per liberare le sorelle e i loro compagni. Portarli via sarebbe stato possibile, ma avrebbe implicato una sollecitazione totale della sua magia, e se Orogastus l'avesse scoperta, sarebbe senza dubbio riuscito a bloccarla grazie ai due talismani. In ogni caso, sembrava non esserci alternativa. Quasi distrattamente, Haramis interrogò il Cerchio dalle Tre Ali riguardo alla misteriosa luminosità che si scorgeva lontano nel cielo, a est. La risposta la stupì. È il riflesso della lava rovente che esce da alcuni crateri nei monti Collum, a oltre cento leghe da qui. Le cime sono di origine vulcanica, con spessi strati di cenere sui fianchi, prima coperti di neve e ghiaccio. Il calore della lava che trabocca ha sciolto il ghiaccio e creato immensi fiumi di fango, il cui volume cresce col passare delle ore. «La... la corrente raggiungerà Brandoba?» mormorò sgomenta Haramis. Procede seguendo il letto dei fiumi locali. Il fiume Dob, che divide la città, rappresenta uno dei condotti principali. Alla fine il fango riempirà il catino in cui si trova Brandoba, che verrà sommersa da oltre cinquanta ell di melma. «Quanto...?» Meno di quattro ore. «Buon Dio! E Orogastus sa cosa sta accadendo?» No. «Mostrami il fiume di fango che minaccia la città.» Chiuse gli occhi e vide una vallata boscosa illuminata dalla luce delle Lune. Molti alberi vacillavano e precipitavano nella viscosa onda grigia che turbinava attorno ai loro tronchi. Un albero in particolare colpì la sua attenzione, uno enorme coi rami inferiori del diametro di un paio di ell. Benché il suo tronco fosse immerso nel fango, resisteva, mentre le piante più piccole accanto a lui venivano spazzate via. Aggrappate ai rami superiori, c'erano delle persone.
«Sacro Fiore», sussurrò l'Arcimaga, chiedendosi chi potessero essere le vittime dell'inondazione. Concentrando la Vista su di loro, si accorse subito che si trattava della principessa Raviya e del principe Widd di Engi, della regina Jiri di Galanar, del presidente di Okamis, Hakit Botal, e dei duumviri di Imlit, Prigo e Ga-Bondies. Proprio mentre li guardava, il grande albero che dava loro rifugio sussultò e s'inclinò: le radici erano ormai minate dal fango. Haramis lasciò cadere il talismano e si mise a sedere fissando lo sguardo fuori della finestra della villa. Se avesse usato la magia per trasportare in salvo i governanti in pericolo, forse non avrebbe più avuto abbastanza forza per salvare le sue sorelle. Ma l'albero sarebbe crollato da un momento all'altro, mentre Ani e Kadi erano al sicuro almeno fino all'alba... Accompagnando la sua decisione con un profondo sospiro, scomparve come la fiamma di una candela che si spegne. La visione cristallina che indicava il trasporto magico si oscurò per trasformarsi in rami frondosi sferzati dal forte vento. Haramis si ritrovò a volteggiare a mezz'aria accanto all'albero. Sollevò le braccia e il suo mantello da Arcimaga diventò luminoso come neve baciata dal sole, di un bianco lucente con brillanti sfumature azzurre. Dentro il talismano l'ambra del giglio era una stella dorata in miniatura, tenuta alta come un faro. «Amici miei!» La voce dell'Arcimaga aveva il suono di una grande campana. «Sono venuta a salvarvi.» I capi di Stato gridarono per il sollievo e tutti, tranne Ga-Bondies che cominciò a balbettare in modo incoerente, presero a porle domande. «Non c'è tempo di spiegare», disse Haramis. «Devo portarvi via e poi andare a Brandoba, per fare quello che posso per impedire l'imminente catastrofe.» «Che Dio ti aiuti», commentò la regina Jiri dal suo ramo. «Il fango si dirige dritto in città. Abbiamo cercato di allontanarcene tenendoci sulla sinistra mentre ancora eravamo in sella ai fronial, ma un altro grande canale pieno di melma ci ha tagliato la strada.» La principessa Raviya saltò su a dire: «Ci porterai via di qui con la magia, cara?» «Sì», rispose Haramis. «Due per volta. Tu e Widd sarete i primi. Venite qui e state vicini, in modo che possa coprirvi col mio mantello.» L'anziana coppia si mise faticosamente in piedi su uno dei rami più larghi, compito doppiamente pericoloso dato che il vento soffiava in modo
violento e l'albero continuava a oscillare e a incurvarsi. Haramis si accostò, abbracciò il principe e la principessa, e i tre scomparvero. Dopo pochi minuti, l'Arcimaga riapparve da sola. La sua aura occulta era leggermente sbiadita e il viso era teso per il grande sforzo. «Adesso Jiri e Ga-Bondies», ordinò. «Dove ci porti?» domandò nervoso il robusto duumviro. «In una villa sul mare, a sud di Brandoba. È il massimo che posso fare per il momento Trasportare altre persone riduce moltissimo i miei poteri magici.» Mise le braccia attorno alle due ampie figure e scomparve di nuovo. Questa volta impiegò molto più tempo a ritornare, e quando riapparve fluttuava col capo chino, pregando di avere forza sufficiente, mentre il forte vento le gonfiava il mantello e l'albero continuava a sprofondare. I due uomini rimasti, timorosi di muoversi, erano uno accanto all'altro su un ramo a meno di un ell dal fiume intorbidato. «Sei sicura di farcela, Arcimaga?» chiese urlando Prigo. «No», ammise. «E se vacillo a metà strada c'è la possibilità che moriamo tutti e tre finendo in uno sconosciuto regno di oscurità.» L'albero diede un furioso scossone: alla fine le radici avevano ceduto. Cominciò a rovesciarsi e a scivolare via, mentre il flusso grigio ricopriva i piedi degli uomini. «Prendici con te», gridò Hakit Botal. «Qualunque morte è preferibile all'affogamento nel fango!» Haramis li afferrò come un voor che scenda in picchiata sulla preda. «Talismano! Trasportaci alla villa sul mare.» Lo scampanellio che indicava l'inizio del viaggio magico si fece udire, ma era discordante e stonato. La mente dell'Arcimaga tentò di costruire l'immagine cristallina della destinazione, ma la rappresentazione magica tremolava, assumendo una fluidità sinistra, per poi sciogliersi in qualcosa d'informe. Per parecchi secondi Haramis e i suoi passeggeri rimasero sospesi in una pozza di brillantezza prismatica. I polmoni non riuscivano a introdurre aria e il suono dei campanelli s'intensificò fino a risultare estremamente doloroso. Prigo e Hakit sentirono le braccia di Haramis indebolirsi. La visione arcana si affievolì. Cominciarono a scivolare via dalla sua presa, soffocando, in un abisso pieno di rumori che stritolavano il cervello. Sacro Fiore, sii la mia protezione e la mia forza! Luce! Un'abitazione fatta di arcobaleni, che sorgeva su un enorme diamante sfaccettato... e lentamente mutava, diventando normale, diventando
reale. Finalmente i due governanti disperati poterono respirare. Sentirono l'odore delle alghe, percepirono la pioggia sul viso, videro i muri di pietra bagnata della villa luccicare nel buio ventoso. I loro stivali toccarono un suolo compatto e furono in salvo, ma dovettero sorreggersi a vicenda per evitare di cadere. La porta dell'edificio si aprì. Sulla soglia si stagliava una figura alta, che un lampo di luce mostrò non essere umana, una statua d'avorio e oro di forme femminili squisitamente modellate, che per di più si muoveva. Mentre Prigo e Hakit Botal, confusi, tremavano, l'essere uscì sotto la pioggia, si chinò e prese tra le braccia lucenti l'Arcimaga priva di sensi. «Siete feriti?» domandò il consolatore ai funzionari, che scossero il capo senza proferire parola. La statua vivente trasportò il proprio carico all'interno aggiungendo: «Entrate. Per voi c'è da mangiare e da bere, oltre a vestiti asciutti. Non abbiate paura. Sono un Sindona, uno dei servitori della Bianca Signora». «Si... si riprenderà, vero?» chiese timidamente Prigo, entrando a sua volta in casa. «Si sveglierà tra breve e continuerà il suo lavoro», rispose il consolatore. «Quanto al resto, non posso dire.» Amore mio... parlami! I talismani mi hanno detto che non sei più nella Luna dell'Uomo Scuro, ma non mi danno dettagli riguardo al luogo in cui ti trovi, rivelando solo che sei a Sohrania. So che Denby è morto. So che hai tu il Cerchio dalle Tre Ali. Stai bene? Quel folle ti ha per caso fatto del male tentando di strapparti il talismano? Haramis, dimmi almeno una parola! Basta che mi parli a distanza, io ti vedrò e verrò da te. Non possiamo aspettare oltre. Il terreno sotto il palazzo trema e non riesco a fermarlo con la magia. Non so se questi piccoli terremoti preannunziano l'inizio della catastrofe finale. I talismani in mio possesso rifiutano di parlarne. Se sai la verità, comunicala anche a me! Conosci le parole dell'antico incantesimo: la Bacchetta delle Ali, il tuo talismano, è chiave e unificatrice dello Scettro. Senza di essa l'Occhio di Fuoco e il Mostro a Tre Teste sono inutili. Io sono inutile. Vieni da me, qui nel palazzo dei Barbari Piumati... o lascia che venga io da te! Dobbiamo riunire lo Scettro del Potere e usarlo prima che sia trop-
po tardi. Haramis! Haramis, mio unico amore... parla. «L'alba... ditemi che non è ancora l'alba!» Si sollevò a fatica sul pagliericcio improvvisato. Al suo fianco era inginocchiata la regina Jiri, che le rinfrescava la fronte con un panno umido. Accanto a lei l'impassibile Sindona consolatore, con in mano un catino d'acqua. Il cielo visibile dalla finestra della villa era pieno di nuvole color malva pallido. «Verranno uccisi all'alba!» gridò Haramis. «Lasciatemi alzare...» «Con calma, cara!» disse la regina di Galanar cingendola col braccio. «Manca ancora mezz'ora al levar del sole. Questa... questo tuo strano servitore ci ha raccontato del destino che incombe sulle tue sorelle. Ha detto anche che dovevi dormire il più a lungo possibile per recuperare le forze e avere qualche possibilità di salvarle.» L'Arcimaga si rilassò. «Mezz'ora. Sì... sarà sufficiente.» Piano piano si mise a sedere, dicendo al consolatore: «Portami il mantello». Quando il Sindona ebbe lasciato la stanza, Haramis accettò un po' del vino che le offriva Jiri. «Dove sono gli altri governanti?» «Una seconda statua-persona li ha portati via attraverso un viadotto dall'altra parte della strada», spiegò la regina, «dicendo che li avrebbe riaccompagnati sani e salvi nei rispettivi paesi. Io ho deciso di rimanere con te, anche se la statua-infermiera ha cercato d'impedirmelo. Sostiene che quando il fiume di fango raggiungerà Brandoba ci sarà un fortissimo terremoto e un'ondata di marea spazzerà via la villa... insieme con le parti della città non ancora sepolte dal fango. È vero?» Haramis si passò una mano tremante sulla fronte. «Quei terribili eventi si verificheranno... a meno che io riesca a evitarlo.» Jiri sedette sui talloni e fissò calma l'Arcimaga. «Lo puoi fare?» Devo dirglielo? si chiedeva Haramis. Devo comunicarle che non soltanto Brandoba ma l'intero mondo è sull'orlo della distruzione? Le dita scivolarono sul talismano che aveva al collo. Le ali del Cerchio erano aperte e la goccia d'ambra col Giglio Nero fossile pulsava a tempo coi battiti del suo cuore. Sacro Fiore, non puoi consigliarmi? Se consegno a Orogastus la terza parte dello Scettro, potrebbe riuscire a evitare lo squilibrio definitivo. Di sicuro può deviare il corso di quel fiume mortale. Il mio destino è dunque di arrendermi alla Stella? Giglio Nero, è questo che devo fare? Ma il Fiore racchiuso nell'ambra restava silenzioso, come sempre, e lei
aveva paura a porre la domanda al talismano. Gli occhi traboccanti, Haramis cercò conforto nella donna più matura che le stava vicina. I lineamenti materni della regina di Galanar mostravano un sorriso malinconico che tuttavia rifletteva comunque una speranza invincibile. Visto attraverso il velo di lacrime, quel sorriso ricordò a Haramis un'altra donna, morta da tempo, che aveva conferito a lei e alle sue sorelle gli amuleti magici, che le aveva mandate a cercare i talismani e che infine proprio a lei aveva affidato il suo prezioso mantello. Figlia del Triplice, non ti scoraggiare. «Binah?» mormorò incredula Haramis. La Bianca Signora che era stata madrina dei Tre Petali del Giglio Vivente disse: Gli anni vengono e vanno rapidi. Ciò che è in alto può cadere, ciò che è desiderato può essere perduto, ciò che è nascosto deve, a tempo debito, essere svelato. E tuttavia ti dico che andrà tutto bene. Credimi, Figlia! Ricorda le ultime parole dell'Arcimago del Firmamento. Ricorda... Haramis ricacciò indietro le lacrime. Adesso la regina Jiri la fissava con aria preoccupata. Il Sindona consolatore, che reggeva tra le mani d'avorio il suo candido mantello scintillante, domandò: «Arcimaga, ti senti bene?» «Sì», rispose. «Aiutatemi ad alzarmi.» Jiri e il Sindona la sollevarono. Haramis indossò il mantello e disse alla statua vivente: «Riporta subito questa buona amica nel suo regno di Galanar». Quindi baciò Jiri sulla guancia. «Carissima, qualunque cosa mi accada, puoi essere certa che il tuo popolo avrà presto un gran bisogno del tuo coraggio e della tua saggezza. Non l'abbandonare. Se il Triuno vorrà, giungerò in tuo aiuto il prima possibile. Addio.» Stringendo il talismano, Haramis scomparve. «Cosa intendeva dire?» chiese Jiri al Sindona. «Intendeva dire che sul mondo è calato il giorno del Giglio Celeste», replicò la statua vivente, «ma solo i Signori dell'Aria sanno a cosa porterà questa fioritura. Vieni con me, regina. Ti riaccompagno a casa dalla tua famiglia e dai tuoi leali sudditi. Ciò che è nascosto a tempo debito sarà svelato.» 30 Clangori e schiocchi in lontananza annunciavano l'apertura della porta esterna delle prigioni imperiali. La regina Anigel si stiracchiò, aprendo gli occhi con un lieve sbadiglio. «Ah, cari amici... è già l'alba?»
«Temo di sì», le rispose con dolcezza re Ledavardis. Erano ai ferri tutti in fila, appoggiati contro il muro su mucchi di paglia puzzolente. In alto, quasi al soffitto della camera di tortura, c'erano delle strette feritoie attraverso cui potevano scorgere delle nuvole di un opaco color porpora. Anigel si mise a sedere e cominciò a spazzolare e sistemare alla meno peggio i vestiti strappati. «Allora dobbiamo fare del nostro meglio per morire bene... mi dispiace soltanto che a Kadi e a me abbiano tolto l'ambra del giglio: il Sacro Fiore avrebbe potuto rafforzare il mio fragile coraggio.» «Per non parlare dell'apertura di manette e ceppi vari», aggiunse amara Kadiya. «Be', dobbiamo trarre conforto dal fatto che non subiremo il nostro destino invano.» Gli occhi azzurri di Anigel sembravano rapiti da qualche consolante visione interiore. «Tutti dobbiamo passare serenamente nell'aldilà, prima o poi. Ma solo a pochi fortunati è concesso di morire per difendere un mondo. Che i Signori dell'Aria giungano a prenderci in fretta.» Il re e l'arciduca Gyorgibo assentirono, come Kadiya. Ma a differenza della regina, che era calma al punto di sembrare in trance, gli altri non riuscivano a levare gli occhi dalla diabolica serie di strumenti in bella mostra sul muro di fronte, né dalla lastra di granito macchiata e bucherellata che si trovava al centro della stanza. Era lunga oltre tre ell, inclinata, e nella parte inferiore erano infisse manette per bloccare polsi e caviglie; appena dietro l'altra estremità si trovava una grande struttura di mattoni che somigliava a una fornace. Un mantice, azionato da un sistema d'ingranaggi di legno che Gyorgibo aveva detto essere in connessione con un mulino a vento, aveva pompato aria nel fornello per tutta la notte, tenendolo acceso, e di quando in quando un servo coperto di fuliggine aveva smosso il carbone all'interno per aggiungerne altro e alimentare il fuoco. Da due massicce catene pendeva un oggetto sepolto sotto lo strato di carbone. Formando una V al contrario, le catene si riunivano in una sola che a sua volta pendeva da una sorta di carrucola posta su di una spranga di ferro orizzontale sistemata molto in alto. Gyorgibo si era ostinatamente rifiutato di rivelare cosa potesse essere nascosto nel fuoco. Adesso si udivano delle voci che si avvicinavano, e una fragorosa risata femminile riecheggiò lungo il corridoio a volta all'esterno delle segrete. «La mia imperiale sorella viene a far da supervisore al nostro tormento finale», disse l'arciduca. «Sembra di ottimo umore.» «Che buon pro le faccia», ringhiò Kadiya. «È probabile che l'Arcimaga Haramis sia ancora trattenuta dall'Uomo della Luna e non sappia nulla del-
la nostra situazione. Vorrei tanto vedere la faccia di Naelore quando scoprirà di avere sprecato la vita di ostaggi d'importanza cruciale per un bel niente.» «Io ne farei volentieri a meno», sospirò re Ledavardis. Si rivolse ad Anigel: «Sembra che non diventerò tuo genero, cara regina. Posso almeno chiederti ora la tua benedizione e il perdono per il dolore che ho inflitto alla tua famiglia e al tuo regno tanto tempo fa?» «Te li concedo volentieri. E... ho cambiato opinione su di te, Ledo. Se il nostro destino fosse stato diverso, ti avrei dato con piacere mia figlia, Janeel, in sposa.» Il principe Tolivar, che era stato incatenato tra Anigel e il re da un guardiano compassionevole, era rimasto così silenzioso che gli adulti pensavano stesse dormendo. Invece, disse a Ledavardis: «E io sarei stato orgoglioso di diventare tuo fratello. Il modo in cui hai salvato la mamma e me è stato... leggendario!» «Tu pure ti sei confrontato con lo stregone con molto coraggio, Tolo.» Il re strinse a pugno la mano destra, escludendo il mignolo, che allungò verso il ragazzo tenendolo a forma di uncino. «Unisci quindi il tuo dito al mio! Forza, adesso, non esitare! Ho un regalo d'addio per te... Tolivar di Laboruwenda, io ti nomino Corsaro di Raktum, e qui dichiaro che sei mio fratello e compagno di bordo d'alto mare!... Ecco. Adesso siamo legati per sempre.» Paura e gioia si alternavano sul viso di Tolivar, mentre fissava le due dita unite. «Sono un vero pirata?» «Se mai ce n'è stato uno! Ricorda solo che ormai noi raktumiani ci siamo ravveduti, e il titolo è soltanto onorifico.» «Io... io cercherò di morire con onore sotto tortura», gli disse col tremito nella voce. «Ma se faccio tanto rumore, ti prego di non ritenerlo un'onta.» «I pirati non soffrono mai in silenzio! Fa' tutto il rumore che vuoi, figliolo... e io strillerò anche più forte, perché sono il Re dei Pirati!» La porta listata di ferro si spalancò, e quattro uomini nudi fino alla cintola e con un cappuccio di pelle nera in testa entrarono a passo di carica. Erano seguiti dall'imperatrice Naelore, vestita con un abito di velluto marrone-rossiccio con decorazioni di pelliccia di diksu blu argentata. Sui capelli raccolti portava un semplice diadema di platino, e appesa al collo la Stella di Nerenyi Daral. «Buongiorno», esordì. Quando nessuno rispose, scosse il capo con un sorriso acido. «Avrete presto modo d'imparare l'educazione! A meno che
una certa Arcimaga non decida che la vostra vita vale più del suo talismano.» Annuì ai torturatori. «Preparate.» Gli uomini si misero al lavoro con molta efficienza. Uno prese l'attizzatoio per il fuoco, due cominciarono a far girare una manovella posta dietro la fornace e il quarto controllò le manette sulla macabra lastra di pietra. L'imperatrice assunse una posa drammatica, mani al cielo, e gridò al vento: «Haramis, Arcimaga della Terra! So che puoi vederci e sentirci. Anch'io ho degli amici segreti nel regno della magia! Uno di loro, parlandomi all'orecchio di nascosto, mi ha rivelato come ottenere il Cerchio dalle Tre Ali. Coraggio, Arcimaga! Umiliati davanti a me, consegna il talismano, e questi prigionieri verranno risparmiati. Ignorami e subiranno una morte terribile». I torturatori usarono l'argano per estrarre qualcosa dai carboni ardenti. Lentamente emerse un fusto di ferro incandescente, lungo più o meno un ell e del diametro di un paio di spanne. Era attraversato da una barra orizzontale, alle cui estremità erano posti due anelli che permettevano di ancorare il tutto alle catene. Quando il cilindro fu issato sopra la lastra e si fu un poco raffreddato, i prigionieri poterono vedere che si trattava di una specie di rullo. La superficie infuocata era coperta da una miriade di spunzoni appuntiti. «Sacre Anche di Heldo!» mormorò atterrito Ledavardis. Gli altri, tranne Gyorgibo che aveva sempre saputo cosa aspettarsi, erano troppo sconvolti per aprire bocca. «Haramis!» Naelore sollevò la Stella. «Non indugiare! È l'alba. Il termine che ti avevo dato è giunto.» Non accadde nulla. «Imperatrice», disse Kadiya, «il Maestro della Stella sa di questa tortura e l'approva?» «Taci, strega!» ordinò Naelore. Ma Kadiya insisteva. «Ti ho spiegato l'altra sera che mia sorella Haramis è in visita alle Tre Lune, quindi non può rispondere al tuo richiamo magico. Io stessa non sono stata in grado di comunicare con lei a distanza, nemmeno usando due talismani. Questa tua tattica è inutile.» «Sorella, perché fai questo?» supplicò Gyorgibo. «Uccidimi, se devi, ma gli altri non ti hanno fatto nulla di male.» «Lei sì!» replicò furiosa l'imperatrice. «L'altezzosa Bianca Signora! E se è viva, udrà le loro grida, che stia dall'Uomo della Luna o si nasconda nell'ultimo dei dieci inferni.» E di nuovo si rivolse a Haramis ad alta voce,
con un tono che si faceva sempre più rabbioso e delirante. L'arciduca scosse il capo. «Giocare con la magia le ha fatto perdere la ragione.» «No», disse con tristezza Anigel. «Quello che l'affligge è un altro tipo di pazzia.» «Silenzio!» ruggì Naelore. «O vi farò strappare la lingua!» I prigionieri tacquero. «Maestà Imperiale», disse uno degli uomini incappucciati, «è tutto pronto.» Le sopracciglia dell'imperatrice erano imperlate di sudore e il viso era arrossato. Cominciò ad andare avanti e indietro davanti ai cinque incatenati, torcendo la Stella che portava al collo con la mano irrequieta. «Chi sarà il primo a sentire l'ardente carezza del rullo? Il brutto e temerario Re Pirata? No, non credo. La Bianca Signora non lo ama abbastanza. Perché dovrebbe consegnare il talismano in cambio della vita di un bandito dei mari gobbo e con un occhio solo? E per lo stesso motivo non sceglierò neppure te, mio inutile fratellino, anche se la tua agonia mi darebbe il più grande dei piaceri.» Fece una risatina frivola. Il volto di Gyorgibo era diventato una maschera di pietra e lui non si degnò di rispondere. L'imperatrice si fermò davanti ad Anigel. «Che debba forse essere questa regina triste e sudicia? Povera creatura patetica! Ah... ma ti sei slogata una caviglia tentando di scappare, vero? E mentre i miei lord ti portavano qui sei svenuta per quell'insignificante doloretto. Temo che sotto tortura moriresti con sconveniente rapidità, magari addirittura prima che l'Arcimaga si accorga delle tue grida.» «Prova con me, figlia di uno Skritek», sibilò Kadiya, dando uno strattone alle catene. Naelore finse di prendere in considerazione la proposta. «La strega coraggiosa che avrebbe impedito l'invasione privandomi del mio trono! Ma quando ho dato il tuo talismano al Maestro della Stella hai pianto. Hai strillato come un cucciolo di snithe preso a frustate! Penso che mi piacerebbe vederti piangere di nuovo e sentirti implorare la mia clemenza», disse facendo un passo avanti e afferrando il principe Tolivar per i capelli, «mentre questo marmocchio traditore viene finalmente punito per aver peccato contro di voi in modo tanto deplorevole.» «L'abbiamo perdonato tutti!» gridò Kadiya. Ma Naelore fece un cenno perentorio e due torturatori andarono a slegare Tolivar e lo trascinarono fino alla, lunga lastra di granito senza che il
bambino emettesse un lamento. Gli uomini incappucciati presero ad agitarsi, perché avevano difficoltà ad adattare i ceppi al corpo piccolo e magro del prinicpe, ma poi il ragazzino venne immobilizzato contro la parte bassa della lastra inclinata. L'imperatrice si avvicinò a spostare un ricciolo biondo scivolato sugli occhi di Tolivar. «Devi poter vedere, bambino coraggioso», tubò. Poi gridò rivolta al soffitto: «E anche l'Arcimaga deve vedere! Guardalo in viso, Bianca Signora, mentre il rullo infuocato lo brucia e lo stritola dalla testa ai piedi». Schioccò le dita. Due dei torturatori si chinarono di nuovo sulla manovella, questa volta per svolgere la catena. Gli altri tirarono una grossa fune che fece avanzare il blocco scorrevole e il paranco, cosicché il pesante cilindro incandescente scese esattamente sulla parte superiore della lastra, a meno di un ell e mezzo dai piedi del principe. Il fusto chiodato toccò la superficie di pietra e per l'inclinazione cominciò a muoversi con angosciosa lentezza verso il bambino, stridendo in modo spaventoso. Gli uomini alla manovella smisero di girarla e si allontanarono, in attesa, mentre quelli alla fune controllavano il progredire del rullo, perché non facesse il suo lavoro troppo in fretta. «Haramis!» gridò Naelore. Era all'estremità opposta della lastra, appena dietro la testa di Tolivar. «Stai guardando?» Il pavimento lastricato della camera dei supplizi tremò. «Terremoto!» gridò Ledavardis, ma nessuno gli badò, tantomeno l'imperatrice, che teneva gli occhi puntati sul rullo che avanzava e le mani strette al bordo del letto di tortura di pietra. Il cilindro di fuoco appeso alla catena venne sballottato in qua e in là mentre la stanza oscillava, ma Naelore si limitò a mantenere l'equilibrio, aspettando. Le punte metalliche graffiarono la pietra, spargendo scintille in tutte le direzioni, mentre i quattro torturatori tiravano tutti assieme la corda e rimettevano in posizione il rullo fumante. Che continuò a procedere verso il principe Tolivar. Ci fu un'altra scossa, più violenta della prima. Gli uomini incappucciati inveirono, barcollarono l'uno contro l'altro e sobbalzarono, cercando di aggrapparsi con forza alla fune e allo stesso tempo di schivare i pezzi di carbone infuocato che sgorgavano dalla fornace infranta in un'ondata incandescente. Una crepa enorme squarciò il muro di fronte ai prigionieri incatenati, e gli strumenti di tortura lì appesi caddero al suolo con grande fragore. Da sotto la stanza si udì un profondo e cre-
scente brontolio, intervallato da scricchiolii e da arcani suoni lamentosi. Il cilindro chiodato prese ad accelerare lungo la lastra. I quattro uomini mollarono la fune e si precipitarono fuori delle segrete nonostante le grida furibonde dell'imperatrice. Tolivar sentì il calore bruciacchiargli la suola degli stivali, e dalle sue labbra scaturì un gemito simile a quello di un bambino molto piccolo e terrorizzato. Sopra di lui apparve una figura di un bianco abbagliante, e vide l'Arcimaga Haramis puntare il proprio talismano. I ceppi si aprirono e il suo corpo impotente levitò, spostandosi di lato mentre il rullo di fuoco, non più trattenuto, passava rapido sopra il punto in cui si era trovata la sua testa. Superata la lastra, rimase a ondeggiare appeso alle catene come un pendolo luminoso. L'imperatrice Naelore cercò di allontanarsi dalla traiettoria, troppo spaventata per pensare di fare appello alla magia della Stella. Venne colpita in pieno viso. Tolivar, che adesso invocava a gran voce la madre, si sentì posare a terra. Sotto il cilindro incandescente c'era qualcosa che si contorceva, si agitava e non trovava pace. Il ragazzo sentì lo stomaco in gola mentre un terribile odore di stoffa bruciata e carne ustionata gli riempiva le narici. Cadde in ginocchio, vomitando, poi quando udì l'Arcimaga che lo chiamava cercò di ricomporsi. La zia aveva liberato gli altri prigionieri e li conduceva verso la porta. «Tolo! Sbrigati!» Quando il ragazzo esitò, spinto irresistibilmente a guardare l'orrore che avrebbe potuto patire lui stesso, Haramis veleggiò da lui e gli strinse le mani. Molto più sopra, qualcosa si schiantò con una detonazione simile a un tuono e il soffitto a volta della camera di tortura cominciò a crollare. Il principe volò al di soprav del lastricato, attraverso la porta e nel corridoio, trascinato dal lucente mantello bianco. Quando toccò di nuovo terra, il pavimento sotto i suoi piedi era solido. Le scosse sembravano essere finite e i muri del corridoio tenevano bene. Quasi tutte le fiaccole appese alle pareti erano cadute, ma baluginavano ancora nell'aria piena di polvere. La regina Anigel strinse Tolivar in un gioioso abbraccio, mentre gli altri tossivano e lanciavano esclamazioni di sollievo. Quando tutti ebbero ripreso a respirare normalmente, Haramis disse: «Sorelle, ho qualcosa per voi, che ho preso a chi vi aveva catturate». In ogni mano teneva una goccia luccicante di ambra del giglio, appesa a un semplice laccio di cuoio. Anigel e Kadiya presero i loro amuleti, li baciarono e se li misero al collo.
Dalla camera di tortura crollata non provenivano suoni, ma dall'altra direzione si udivano delle deboli grida. «Dobbiamo andare subito all'aperto», disse in tono incalzante Ledavardis, che ricordava anche troppo bene il terremoto che aveva accompagnato l'assedio di Derorguila. «Se ci sarà un'altra scossa, il palazzo potrebbe crollarci addosso.» «Puoi portarci fuori con la magia?» chiese Kadiya all'Arcimaga. «Mi dispiace, richiederebbe troppe energie e le mie si sono esaurite prima, quando ho salvato gli altri regnanti rapiti da...» «Sono in salvo?» esclamò Anigel. «Oh, Hara! Grazie a Dio!» «Allora non possiamo fare altro che correre», concluse Kadiya. «Per di qui», disse Gyorgibo. «Salite le scale. Possiamo attraversare gli alloggi della Guardia Imperiale, passare per il transetto nord della grande rotonda e da lì fuggire in uno dei cortili-giardino.» «Sono ancora in grado di difenderci bene», aggiunse Haramis. «È solo il trasporto magico che è temporaneamente al di sopra delle mie possibilità.» «Ani, riesci a camminare?» domandò Kadiya alla regina. «Il Sacro Fiore ha curato la mia piccola ferita. Sono di nuovo in forma... e così piena di gioia che fatico a non scoppiare in lacrime!» «Cerca di evitarlo», bofonchiò la Signora degli Occhi, «almeno finché non saremo là fuori al sicuro. Allora potrai piangere quanto vuoi... e io potrei anche decidere di unirmi a te!» Salirono di corsa le strette scale che portavano all'anticamera degli alloggi militari, molto danneggiati. Parecchie travi del tetto erano cadute e parte di un lungo muro era in pezzi, quindi procedettero con cautela tra i detriti. Il luogo era completamente deserto tranne che per un unico membro della Guardia Imperiale, un tipo brizzolato con la mezza armatura coperto di polvere, che sedeva in mezzo a un mucchio di pietre da costruzione tenendosi una gamba. «Sono scappati tutti», gracchiò quando Haramis e Gyorgibo lo trovarono. «Mi è caduto addosso quel muro. I miei amici devono aver pensato che fossi morto. Ai torturatori che sono passati di corsa qualche minuto fa non importava un accidente, perciò eccomi ancora qui con una gamba rotta.» L'Arcimaga si chinò e gli sfiorò l'arto col talismano. La guardia imprecò stupefatta e cominciò a tastare e a picchiettare il punto in cui era stata ferita. «Benedetta Matuta! L'hai aggiustata, maga!» Saltò in piedi, poi la fissò improvvisamente confuso. «Ma se sei una di loro... dov'è la tua Stella?» «Non ne ha bisogno», disse una pacata voce maschile.
Haramis si alzò e si voltò lentamente. Orogastus era sulla soglia dell'anticamera distrutta. Indossava gli abiti neri e argento della Società e il medaglione, ma non portava la minacciosa maschera della stella. Aveva il volto corrugato e teso, i lunghi capelli bianchi sciolti e in fronte sfoggiava il Mostro a Tre Teste. Un fodero sul fianco conteneva l'Occhio di Fuoco e la mano del mago era posata sull'elsa trilobata. «Lasciaci!» ordinò alla guardia fattasi piccola per la paura, che se ne andò immediatamente. «Dunque ci hai trovati, Orogastus», disse Haramis. «Pensavo che sarebbe accaduto.» «Ho saputo della tua presenza non appena ti sei materializzata nella stanza delle torture. Ti cercavo da ore.» «Allora sai che Naelore è morta.» Le labbra ben disegnate dell'uomo si strinsero. «Quella pazza! Credimi: non sapevo cosa stesse tramando. Suppongo sperasse di costringerti a consegnare il tuo talismano.» «Aveva intenzione di donarlo a te», gli disse Haramis, «e conquistarsi così il tuo amore.» Lui fece un gesto esasperato. «Amore? Amare lei? Una vera assurdità! La sola cosa a cui ho pensato, da quando ho legato a me i due talismani, è stato trovarti.» «In modo da esercitare su di me la tua forma di coercizione? E tuttavia... sono sollevata di sapere che non avevi dato la tua approvazione alla tortura.» «L'uomo che avrebbe fatto una cosa simile non esiste più, Haramis. Non riesci proprio a crederci?» Lo stregone andò verso di lei tendendo le braccia. «Perché non vuoi capire...» «Ti capisco benissimo, proprio come comprendevo quell'orgoglioso sciagurato, Denby Varcour, a cui si deve la tua creazione! Siete entrambi dei manipolatori delle emozioni e delle azioni umane, consumati dall'arroganza e dalla vanagloria!» Le braccia dello stregone ricaddero lungo i fianchi, e l'espressione dolce del suo viso divenne desolata. «Il mio amore per te è sincero e non ho paura di dichiararlo pubblicamente. E anche tu mi ami... eppure tutto ciò che sai fare è oltraggiarmi, senza darmi l'opportunità di spiegare.» Kadiya li interruppe bruscamente. «Questa tenera riunione e le reciproche recriminazioni devono aspettare. Ti sarai reso conto anche tu che può esserci un nuovo terremoto da un momento all'altro. La città stessa potreb-
be venire devastata! Devi fare qualcosa.» I pallidi occhi di Orogastus le lanciarono uno sguardo sbieco. «Non sono in grado di controllare i movimenti della terra coi miei talismani. Ci ho provato prima, quando le scosse erano più leggere, ma senza successo.» «E perché i terremoti sono solo un sintomo del grande squilibrio del mondo», spiegò Haramis, «come il colossale fiume di fango che sta scendendo velocissimo dalla montagna.» «Quale fiume di fango?» Lo stregone, Kadiya, Ledavardis e Gyorgibo avevano parlato all'unisono. Anigel e Tolivar si erano limitati a restare a bocca aperta. Haramis sollevò il suo talismano. «Brandoba si trova proprio sulla sua strada. Guardate!» Metà della stanza in rovina parve dissolversi, e a tutti sembrò di trovarsi su un precipizio a picco sulla Foresta di Lirda. Il cielo mattutino era invisibile per le nubi minacciose che oscuravano la cima delle boscose colline pedemontane come una tenda abbassata. Sotto quel tendaggio, riempiendo la valle del fiume Dob quasi fosse una mangiatoia verde, avanzava una massa ribollente che da lontano aveva l'aspetto di una minestra d'avena grigia. «Poteri Oscuri, proteggeteci!» mormorò Orogastus. «Non avevo idea... Talismani! Quanto dista da Brandoba il fronte dell'inondazione?» Sei leghe. «Sarà qui in meno di mezz'ora», disse sicura Haramis. «E quando arriverà, seppellirà la capitale.» Brandì di nuovo il talismano e la visione scomparve. Gyorgibo gemette. «La mia povera gente. Il mio povero paese.» Re Ledavardis gli scoccò un'occhiata piena di comprensione. «Già... adesso sei tu l'imperatore.» «Imperatore dell'oblio!» Con le mani sui fianchi, guardava torvo sia Orogastus sia Haramis. «Che succede adesso? Trasporterai i tuoi Uomini della Società in un luogo sicuro, Maestro della Stella? E altrettanto farà l'Arcimaga, salvando quelli che ama e lasciando Sobrania e i suoi spregevoli barbari in balia del fango?» «È questo che faremo?» domandò Orogastus a Haramis. Lo sguardo dell'Arcimaga passò rapido sulle sorelle e sugli altri presenti, che aspettavano in preoccupato silenzio. Era meglio raccontare tutta la verità della situazione che stavano vivendo? Avrebbero dovuto essere messi al corrente presto, ma forse non subito. Non se c'era anche solo un briciolo
di speranza, non importava quanto piccolo. «Orogastus e io dobbiamo parlarne in privato», disse quindi. «Vi prego di scusarci.» Fece cenno allo stregone di seguirla e si spostò fuori portata d'orecchi, se non d'occhi. «Dobbiamo separarci per sempre, allora?» le domandò lui. «La mia avventura qui a Sobrania è finita. Dovrò ricominciare daccapo da qualche altra parte, sempre ammesso che ciò sia possibile. Tu avrai il tuo talismano e io i miei. Divisi, non sono invincibili, solo straordinari... soprattutto dato che io sono così inesperto nell'utilizzo dei miei. Immagino che adesso tu possa anche accedere ai viadotti.» Lei annuì. «Perciò possiamo spostarci come vogliamo, basta che gli sbocchi non siano ostruiti. Devi solo riunire i tuoi amici, e a quel punto non ci sarà più nulla a trattenerti in questo paese condannato. Gli Uomini della Società e io possiamo andare nella mia vecchia casa di Tuzamen. Se prometti di non attaccarmi quando sarò là, ti dirò come liberare l'Arcimaga Iriane dalla prigione di ghiaccio blu. Dopo di che, noi due potremo aspettare la discesa finale del mondo nel silenzio di gelo - tu nel tuo studio privato e io nel mio - coi nostri clienti e subordinati sempre all'oscuro. Sino alla fine. È questo che vuoi fare, Haramis? Scappare?» «Non c'è un posto dove andare, neanche volendo», replicò la donna. «Che vuoi dire?» «L'Arcimago del Cielo, il più geniale professionista della magia mai esistito, mi ha detto che il grande squilibrio culmina e inizia adesso. Questa catastrofe sobraniana, per quanto terribile, segna soltanto il principio di una miriade di eventi simili che interesseranno immediatamente tutte le nazioni del mondo. Per noi non c'è scampo da nessuna parte, Orogastus, nessun rifugio sicuro. D'ora in avanti la situazione continuerà a precipitare fino al momento in cui il nostro pianeta sarà interamente ricoperto dal Ghiaccio Eterno.» «Allora è così! Non ne ero certo...» «Denby Varcour era convinto che solo un singolo despota, grazie al Triplice Scettro del Potere, avrebbe potuto evitare la distruzione planetaria. Mi ha chiesto di consegnargli il mio talismano in modo che potesse darlo a te. Ho rifiutato.» «E continui a rifiutare», asserì lo stregone. «Sì.» «Preferisci che il mondo venga annientato piuttosto che vederlo salvo e
sottomesso a me?» «Preferirei vederlo salvo... in un altro modo.» Prese un respiro profondo. «Daresti tu a me i due talismani, cosicché io possa assemblare lo Scettro e tentare di risolvere le cose senza assoggettare nessuno?» «Mai!» rispose Orogastus. «So già che sarebbe inutile. La risoluzione, cioè la guarigione del mondo, consiste in un processo terribile. Le persone semplici di questo mondo e i loro ingenui governanti non saprebbero come sopravvivere. Persuaderli con le buone non servirebbe. Impazzirebbero per la paura.» «A questo penso di avere trovato una soluzione.» «E allora spiegami!» L'afferrò per le spalle, ma lei si allontanò, scuotendo il capo, e lui non tentò di trattenerla. «Una volta», gli ricordò, «mi avevi promesso di consentirmi di usare lo Scettro.» «Solo se...» S'interruppe, incapace di pronunciare quelle parole. «Nei suoi ultimi istanti di vita», riprese Haramis, «Denby Varcour ha cambiato idea riguardo al proprio tirannico progetto. Morendo, ha invocato il Giglio Nero, parlando del Fiore con ironia ma anche con una strana rassegnazione. Poi mi ha detto: 'L'amore è permesso, la devozione no'.» «Quel dannato enigma!» gridò Orogastus. «L'hai citato nella tua Torre quando mi hai respinto... Dunque, dimmi, qual è la differenza?» «Nel primo caso», spiegò la Bianca Signora, «gli amanti restano fedeli a se stessi. Si uniscono senza perdersi, senza sottomissioni. Nessuno dei due viene sminuito, anzi, insieme prosperano e progrediscono.» Fece una pausa, abbassando gli occhi: quegli occhi di colore identico a quelli di lui. «Io ti amo, ma la Stella esige l'egemonia sui suoi devoti. Il Fiore no.» Restò davanti a lei, serio, le lunghe dita di una mano a sfiorare il medaglione che portava al collo. «Devo fare ciò per cui sono nato. Denby non conta. Ha fatto la sua parte quando mi ha lasciato scoprire la verità sul mio ruolo, consentendomi di abbandonare le sciocche convinzioni di gioventù per concentrarmi sulla sola e unica ragione per cui sono venuto al mondo. Non rinuncerò al mio destino per niente e per nessuno. Haramis, mia diletta Haramis!... tu devi capire.» Lei sorrise in modo vago. «Capisco. Ma forse la vera comprensione deve ancora farsi strada dentro di te. Denby mi ha detto anche: 'Tre Petali a gestirlo e l'Arcimago del Cielo a guidarlo'... se lo voglio.» Orogastus era stupefatto, quasi rideva per l'audacia di quelle parole. «Tu? Se tu lo vuoi? Che significa? Credi che il vecchio stesse passando a
te e alle tue sorelle la responsabilità dello Scettro degli Scomparsi?» «Può essere. Binah e Iriane erano convinte che saremmo state in grado di usarlo. Io non ne sono mai stata sicura, e forse proprio questa mia esitazione ha convinto Denby a suggerire una quarta persona, che sarebbe stata la nostra guida.» «L'Arcimago del Cielo è morto», disse rabbioso Orogastus. «Come può contribuire all'esercizio di quel potere? Denby Varcour era pazzo, e delirava anche alla fine.» «C'è un'altra fonte autorevole che sostiene che i Tre Petali del Giglio Vivente debbano usare lo Scettro insieme: un'antica cantilena recitata da Denby: «Uno, due, tre: tre in uno. Uno la Corona degli Illegittimi, dono di saggezza, amplificatrice di pensieri. Due la Spada degli Occhi, distributrice di giustizia e misericordia. Tre la Bacchetta delle Ali, chiave e unificatrice. Tre, due, uno: uno in tre. Vieni, Giglio. Vieni, Onnipotente. «Aveva ripetuto questa filastrocca per prendermi in giro, ma l'avevo già sentita prima, dal Popolo Uisgu della nostra Palude Labirinto. Secondo gli aborigeni risale alla fondazione della loro razza.» Orogastus scosse il capo. «Non ha senso. È solo un vaniloquio mistico.» «Dato che il mio Cerchio dalle Tre Ali è il primo elemento dello Scettro, la chiave, sarei io a dover comandare... non come Arcimaga, ma come una delle Tre insieme con le mie sorelle. Se spettasse a me scegliere, vorrei che il Giglio Vivente fosse rafforzato e guidato da un amico coraggioso, sia durante l'azione sia in seguito, per porre rimedio alle terribili conseguenze della cura del mondo. Ma noi Tre non potremmo mai essere guidate da un Uomo della Stella.» «Non hai fatto altro che prendermi in giro, Haramis!» Questa volta nella voce dello stregone non c'era rabbia, solo disperazione. «Senza la Stella io non sono nulla! Tu e il tuo Fiore mi sminuireste, richiederesti devozione rifiutandoti però di sottometterti a tua volta.» Lei gli prese la mano e la portò sul Cerchio dalle Tre Ali che aveva sul petto. Orogastus s'irrigidì, ancora timoroso e recalcitrante, quindi Haramis
ripeté: «Io ti amo. E non ti farei mai del male né penserei di sminuire il nuovo Arcimago del Firmamento». «Il nuovo...» «Spetta a me ora attribuire quell'ufficio. Sono l'ultimo membro attivo del Collegio, e sono certa che Iriane sarebbe d'accordo. Lo stesso dicasi, credo, per gli Scomparsi addormentati. Noi siamo come loro, tu e io.» «Haramis... ma è possibile una cosa simile?» «Dipende da te, suppongo. Dal tuo amore.» Gli strinse le dita attorno al Fiore. Lui sentì le minuscole ali del talismano aprirsi, e all'interno qualcosa al cui contatto gli s'incendiarono le vene. Perso momentaneamente l'equilibrio, si aggrappò a lei per non cadere. «Ma certo che ti amo! Ah, Haramis, ti amo più della mia stessa vita! Più di...» La sua voce si spense in un debole lamento. Si riprese e l'abbraccio quasi forsennato si ridusse d'intensità, diventando riverente e dando forza a entrambi. Quando infine si separarono, Haramis gli mormorò: «Il diadema!» Perplesso, le sopracciglia aggrottate, Orogastus se lo tolse e lo studiò. La testa di mostro centrale, che fino a poco prima era sormontata da una minuscola riproduzione della Stella, adesso aveva un nuovo blasone, quello con tre falci di luna. Lo stesso che spiccava sull'Occhio di Fuoco Trilobato. La catena che Orogastus aveva al collo si era spezzata, e la Stella giaceva sul pavimento coperto di detriti. Una nuova scossa fece tremare il palazzo. Anigel e Kadiya lasciarono gli altri e si avvicinarono. «Hara», disse la regina, «devi decidere subito quello che dobbiamo fare.» Insieme, Haramis e Orogastus glielo spiegarono. 31 In cima alla cupola dorata del palazzo c'era un alto pinnacolo di diaspro rosso, al cui interno si trovava una stretta scala a chiocciola che portava all'enorme statua d'oro raffigurante un uccello posta al di sopra. Le tre sorelle e Orogastus andarono sulla piccola piattaforma alla sommità della guglia e alzarono lo sguardo verso la figura dalle ali spiegate. «Che strano, è un voor!» commentò sorpresa Kadiya. «L'uccello creato dagli Scomparsi perché fosse compagno e aiuto dei Vispi. Pensavo che in questa parte del mondo fosse estinto.» «È così», replicò Orogastus. «Ed è proprio per questo che è considerato
sacro.» «Molto appropriato», commentò Haramis. Poi chiese allo stregone di portare tutti e quattro sul dorso della statua. Lui sollevò la spada spezzata e la tenne alta, pronunciando l'ordine. I tre lobi divennero occhi, e dalle bocche spalancate dei mostri sul diadema uscirono raggi di luce bianca, verde e dorata. Vennero trasportati nell'aria piena di nuvole, da cui cadeva una leggera pioggerella, e atterrarono sull'ampia superficie di pietra coperta di lamine d'oro. «Adesso dobbiamo assemblare lo Scettro», disse Haramis. Ordinò alla sua ambra del giglio di lasciare il nido tra le ali e, dopo aver tolto la bacchetta col Cerchio, l'appese alla catena che aveva al collo. Per un attimo la statua gigantesca tremò sotto i loro piedi. S'irrigidirono, ma non persero l'equilibrio. Il volatile ondeggiava lentamente. Molto più in basso, c'erano zone della città ancora in fiamme e in parecchie aree gli edifici erano crollati; ma la maggior parte della devastata Brandoba era nascosta ai loro occhi da fumo e foschia e non poterono avere un'idea dei danni. «Di' ai tuoi talismani che noi tre Petali del Giglio Vivente possiamo toccarli liberamente», disse Haramis a Orogastus. Lui lo fece, i denti stretti in una smorfia, poi porse il diadema con la mano destra e la spada con la sinistra, perché Anigel e Kadiya gli stavano a fianco. All'ordine dell'Arcimaga, le due donne posarono le mani sui talismani che un tempo erano stati loro. Gli amuleti che avevano al collo risplendettero di luce dorata, e dall'ambra sul petto di Haramis giunse un lampeggiare in risposta. Haramis inserì la bacchetta in una scanalatura nella lama della spada, quindi guidò il Mostro a Tre Teste all'interno del Cerchio, in modo che si intersecassero come un meridiano e l'equatore. Le ali in cima al Cerchio si aprirono e divennero molto più grandi, mentre al loro interno splendeva un enorme Giglio Nero incassato in un pezzo d'ambra luminoso grande come un pugno. Haramis prese lo Scettro riunito e lo sollevò, mentre gli altri le si stringevano attorno, appoggiando una mano sulle sue. «Vieni, Giglio», disse l'Arcimaga della Terra. «Vieni, Onnipotente.» Lo Scettro parve prendere fuoco con una fiammata gialla. Le sue parti non erano più scure o argentee: erano d'oro scintillante. Kadiya, Anigel e Orogastus sentirono un meraviglioso calore espandersi dalla punta delle dita, scendere nelle braccia e raggiungere il cuore. «Scettro!» La voce di Haramis era esultante, e gli altri sapevano che an-
che lei percepiva il calore magico. «Trasportaci in cielo, in alto sopra questo luogo. E scaccia tutte le nubi, in modo che possiamo vedere con chiarezza.» L'uccello dorato non prese vita. Non videro le ali battere, non ebbero la sensazione di muoversi, non sentirono nemmeno folate di vento, eppure all'improvviso si ritrovarono a volare in alto sotto una distesa di limpida aria azzurra. Sempre sul dorso della statua, si fermarono. Il sole dell'alba era sospeso sulla catena dei monti Collum, che fumava in modo sinistro e minaccioso. Dalle terre alte si riversavano fiumi di fango che seguivano diversi corsi e scendevano serpeggiando nella foresta, con l'alveo di portata maggiore che andava a lambire la periferia della città alle Cateratte del fiume Dob. La stessa grande Brandoba, che giaceva ferita entro le proprie mura, bruciava senza fiamma come un falò calpestato. Il porto principale ospitava ancora molte navi e le acque erano di un turgido grigio vicino alla costa e di un luminoso azzurro acquamarina nelle profondità dell'estuario. A ovest, le Tre Lune erano basse all'orizzonte, pronte a tramontare. Il fumo nell'aria le aveva tinte di arancione grigiastro. «Ora facciamo ricorso al tuo vero e pieno potenziale magico», disse Haramis allo Scettro. «Attingi alle inesauribili fonti di vigore di questo mondo, alle piante, agli animali e a tutte le sue genti. Allontana il fiume di fango che minaccia Brandoba, calma l'inquieta terra sottostante e, se il Triuno vuole, ridona interezza alle parti distrutte della città. Compi tutto questo senza che si perda una sola vita aborigena o umana.» La luminosità dello Scettro s'intensificò, sino a farlo diventare quasi gemello del globo solare a est. Le quattro persone che lo reggevano trasalirono per il potere radiante che ne scaturiva, distogliendo gli occhi e chiudendoli. Un frastuono terribile colpì le loro orecchie con stridore e tuoni, ma la presa sull'elsa rimase salda, come la posizione sul dorso dell'uccello d'oro che si librava miracolosamente in aria. Quando il rumore diminuì un po', tutti tranne Haramis levarono la mano dallo Scettro, e osarono guardare in basso. Attorno al perimetro della città, dove prima erano le mura, si stava sollevando un alto terrapieno. Spinte dal sottosuolo, terra e roccia stavano creando una diga che avrebbe spostato il corso del fango a nord, dove avrebbe incontrato un'altra vallata fluviale per poi defluire in mare senza causare danni. Altri sommovimenti terrestri, simili alla creazione di una tana sotterranea da parte di un animale gigantesco, trasformavano colline in vallate e alteravano il corso di fiumi minori. Il terreno si alzava e si ab-
bassava come un tappeto scosso alla finestra, con l'accompagnamento di possenti brontolii. Poi tutto si fermò. Proprio sotto di loro, la città parve scintillare. Il fumo che l'aveva avvolta sparì. «Adesso mostraci un'immagine più ravvicinata di Brandoba», comandò Haramis. Sembrò loro di scendere a capofitto, sempre ben saldi, finché fluttuarono sul parco e sul palazzo. Il palazzo imperiale e gli edifici circostanti erano tutti integri e splendevano nel sole. Strade e viali non erano più ostruiti dalle macerie. I corpi dei morti e feriti durante la sommossa e il terremoto, però, erano ancora lì. «Scettro», bisbigliò Haramis, «puoi rimettere in salute le persone colpite?» I morti no. Soltanto i vivi possono ristabilirsi se sfiorati a uno a uno dalle mie parti. «Non c'è tempo per questo», intervenne Orogastus. «Se non riusciamo a correggere lo squilibrio più grande, quelli che sono morti saranno stati fortunati.» «Ha ragione», disse Kadiya con riluttante rispetto. «E i feriti possiamo aiutarli dopo», aggiunse Anigel. «Se ne saremo in grado.» «Va bene.» Haramis si rivolse allo Scettro: «Fa' che il nostro voor dorato ci porti più in alto». Poi: «Più in alto!... Ancora più in alto, e mantienici al sicuro!» Erano saliti a un'altezza tale che il cielo era diventato blu indaco, e si vedevano le stelle, insieme col sole e con le Lune. Non avvertivano né freddo né difficoltà di respirazione. Il mondo-continente, col bianco e luminoso Ghiacciaio Eterno, bello e fatale, giaceva curvo su un mare azzurro striato di nuvole. Misteriosamente, sulla terra di nuvole non ce n'erano. «Se lo Scettro fallisce il tentativo di riequilibrare il mondo», disse Orogastus a Haramis, «potremmo morire quassù quando il nostro destriero dorato precipiterà dal cielo. Ciò nondimeno, hai scelto un luogo molto adatto per tentare la magia... da qui sapremo subito se il mondo è guarito e il ghiaccio sconfitto.» Era davanti a lei, con accanto Anigel e Kadiya, e l'Arcimaga gli sorrise. «Che riusciamo oppure no», gli disse, «sono felice che alla fine il Fiore abbia benedetto il nostro amore.» «Ti sposerei», replicò lui. «Vivrei e lavorerei con te per sempre, se fosse possibile.»
«Lo desidero con tutto il cuore e con tutta l'anima, mio amato, ma non è il momento per queste cose.» «Tuttavia, volevo che lo sapessi.» Haramis annuì. Dietro Orogastus, le Tre Lune strettamente raggruppate erano sospese sull'orizzonte occidentale. Ordinò agli altri di appoggiare di nuovo la mano sulle sue, sollevò lo Scettro e gli parlò. «Adesso compi l'azione per cui sei stato creato! Appaga le speranze di quanti sono morti da tempo, di coloro che hanno fatto sì che noi nascessimo. Appaga anche le nostre speranze, ora che finalmente ci siamo decisi a usarti, e guarisci il nostro mondo ferito secondo i tempi di Dio. Sconfiggi lo squilibrio che ci condannerebbe per favorire il Ghiaccio Vincitore. Raduna tutto ciò che di magico, di bello e di vero c'è nei nostri cuori e nella terra sotto di noi. Fallo ora!... Vieni, Giglio! Vieni, Onnipotente!» Questa volta non ci fu nessuna tempesta di luce e rumore, solo un mormorio, come il sospiro delle stelle che risuonò e si affievolì fino al silenzio. La sensazione di tensione magica che aveva pervaso lo Scettro si prosciugò e la sua luminescenza scomparve mentre le tre ali si richiudevano sul grande blocco d'ambra e riprendevano le dimensioni normali. Lo Scettro era svuotato. I tre occhi sul pomo erano chiusi e le mostruose facce intagliate opache e prive di vita. Nello stesso istante, nel profondo blu del cielo occidentale era apparsa un'altra fonte di luce. Haramis sgranò gli occhi per lo stupore, e gli altri tre, vedendo la sua espressione, tolsero la mano dallo Scettro ormai esaurito e si voltarono per vedere cos'era accaduto. Le Tre Lune nella loro stretta congiunzione avevano cambiato colore, passando da un ocra pallido a un argento puro e fulgente. Dai globi si dipartivano tre enormi petali di una vibrante luminosità e coi colori dell'arcobaleno. Quello centrale si estendeva quasi fino allo zenith, mentre gli altri due sembravano abbracciare l'orizzonte. «Buon Dio», mormorò Anigel. «Cos'è?» «Un Giglio Celeste», rispose Kadiya. «Ma è tutto qui?» sbottò Orogastus. «Abbiamo chiesto», disse Haramis, «che la guarigione si svolgesse secondo i tempi di Dio... Guardate giù, la calotta di ghiaccio.» Lo fecero e da ogni punto della superficie lucente videro salire innumerevoli minuscoli sbuffi di nubi che si allargarono sotto i loro occhi, formando un vasto manto che nascondeva la parte interna del continente. La
massa si allungò, preda dei forti venti, e cominciò a spostarsi lentamente verso est. «Cosa sta succedendo?» chiese Anigel. «Non ne sono del tutto certa», replicò Haramis, «ma credo... che il ghiaccio stia cominciando a sciogliersi.» Si rivolse quindi allo Scettro: «Sei in grado di riportarci sani e salvi nel palazzo imperiale di Brandoba?» Sì, anche se procederemo con maggiore lentezza. Iniziarono la discesa. Il dorso della statua-uccello era ampio quasi come il pavimento di una villetta. Curiosi, Orogastus, Anigel e Kadiya osservavano il mondo sottostante, mentre Haramis, emotivamente esausta, sedeva tranquilla nel centro. «Forse», disse Orogastus quando scesero ulteriormente e poterono osservare meglio i margini della calotta, «il fuoco interno al mondo, che durante lo squilibrio sarebbe emerso dalla bocca dei vulcani, adesso si è concentrato con più moderazione sotto il ghiacciaio continentale. Quei pennacchi di vapore... diventeranno nuvole di pioggia. Anche se rovesciassero la maggior parte dell'acqua che contengono in mare, nelle terre dell'Est ci saranno forti burrasche e alluvioni. Soprattutto nel mio vecchio paese, Tuzamen, e a Raktum.» «Povero Ledo», commentò Kadiya. «Comunque la sua nazione possiede una pletora di navi, e nella parte occidentale del mondo ci sono molte terre disabitate che i pirati possono colonizzare. Quanto a Tuzamen, è una zona scarsamente popolata e marginale, quindi non credo che gli abitanti saranno troppo tristi di lasciarla.» «E magari le conseguenze non saranno poi così terribili», aggiunse Anigel. «Il livello del mare salirà», ribatté Orogastus scuotendo il capo. «Piano piano invaderà le città costiere di tutte le nazioni del mondo, oltre a sommergere le isole poco elevate. Una grande massa di uomini e di gente del Popolo sarà costretta a lasciare la propria casa. I fiumi cambieranno il loro corso, inondando le vecchie terre da pascolo e coltivazione. Enormi laghi rinasceranno nel punto in cui si trovavano prima della venuta del Ghiaccio Vincitore. La tua Palude Labirinto, regina Anigel, un tempo era proprio uno di quei laghi.» «Oh!» disse la regina. «Oh...» «Quando le terre interne non saranno più oppresse dal peso del ghiaccio, emergeranno nuove montagne», continuò Orogastus. «Questo muterà l'al-
ternarsi delle stagioni. Per la gente saranno tempi spaventosi, forse addirittura un Periodo Buio, anche se spiegheremo loro cosa sta succedendo e che è un cambiamento positivo. Una dittatura universale avrebbe potuto tenere sotto controllo le genti e dirigere la ricostruzione. Senza di essa... chi può dirlo?» «Io sono sicura», disse convinta Anigel, «che tu, Hara e Iriane farete del vostro meglio.» «Potremmo trovare i nostri talenti troppo limitati per un simile compito», commentò lo stregone con un sospiro. «Ci saranno altri ad aiutarci», intervenne all'improvviso Haramis. Si voltarono a guardarla stupiti. Intanto l'uccello dorato scendeva a piombo su Brandoba, ma com'era già accaduto in precedenza, i quattro non avevano la sensazione di sfrecciare nell'aria. «Quali altri?» chiese Kadiya. «Intendi i Sindona? Ma non ne sono rimasti molti.» «In una delle Tre Lune», spiegò Haramis, «quasi un milione di persone dorme un sonno incantato. Sono quelli che non sono riusciti a Scomparire, i nostri antenati, appartenenti a una civiltà molto più avanzata della nostra. Denby Varcour non ha mai avuto il coraggio di liberarli perché il loro numero e le loro capacità superiori avrebbero distrutto in modo irreparabile il nostro semplice stile di vita. Sapeva che sarebbe stato ingiusto e crudele risvegliarli in un mondo come questo. Dopotutto, era stata la loro guerra a provocare lo squilibrio. «Ma Denby non ha mai perso la speranza che un giorno sarebbe riuscito a riparare ai danni fatti. Sapeva che nel periodo successivo allo scioglimento del Ghiacciaio Eterno - se mai ci fosse stato - quei geni dormienti sarebbero stati in grado di fornirci un aiuto inestimabile per guarire la terra e il mare. E così faranno, guidati da un nuovo Arcimago del Firmamento, da una vecchia Arcimaga del Mare e da un'Arcimaga della Terra che al momento è stanca morta, ma che spera di sentirsi molto meglio domani.» «Sì!» gridò festante Orogastus, prendendola tra le braccia. Il voor dorato toccò la cima del pinnacolo sulla cupola del palazzo e tornò a essere solido e fermo come sempre. Anigel e Kadiya scivolarono giù dal suo dorso e trovarono re Ledavardis, l'imperatore Gyorgibo e il principe Tolivar che si erano arrampicati lassù ad aspettarli. «Mamma!» urlò il bambino. «Non crederai a quello che è successo!» «Sì, che ci crederò», ribatté Anigel accarezzandogli affettuosamente la guancia. «Si sono verificate delle meraviglie e ci sarà ancora molto dolore,
ma alla fine andrà tutto bene.» Si sfiorò il ventre e sentì un lieve tremito. I suoi tre bambini sarebbero nati in un mondo davvero strano, dove magia e scienza potevano essere alleate. Erano destinati a fare i principi... o sarebbero diventati qualcos'altro? Be', questo era nelle mani dei Signori dell'Aria. Appoggiandosi al braccio di Ledavardis, iniziò la lunga discesa. Kadiya lanciò un'occhiata divertita ai due ancora in groppa al voor. «Penso sia meglio lasciarli ai loro giochi di prestigio», disse al nuovo imperatore. «Devo trovare i miei amici aborigeni, Jagun e Critch, che erano stati lasciati a bordo di una barchetta nel porto di Brandoba. Credi di potermi prestare un fronial?» Gyorgibo s'inchinò agitando le maniche lacere e sporche. «Signora degli Occhi, ti condurrò io personalmente a bordo della carrozza imperiale... se qualcuno nelle scuderie mi riconosce.» «In caso contrario», replicò la donna in tono cameratesco, «vuol dire che lo ruberemo, quel dannato mezzo di trasporto!» Quando se ne furono andati tutti, Orogastus aiutò Haramis a smontare. L'Arcimaga teneva ancora in mano lo Scettro, mentre se ne stavano là insieme a guardare la città. «Ci saranno molte persone ferite di cui occuparsi.» «Possiamo far venire i Sindona dal Luogo della Conoscenza e dalle Lune», suggerì Orogastus. «Possono prendere il viadotto che porta alla villa, e tu puoi usare lo Scettro per trasportarli qui...» «No, amore», gli disse Haramis. «Lascia che i Sindona vengano a piedi a svolgere la loro utile opera a Brandoba. Lo Scettro dev'essere smontato qui e subito, per non essere usato mai più.» Lui chinò la testa, mortificato. «Ovviamente hai ragione. E tu devi assumerti la responsabilità dei tre talismani.» Mentre smontava lo strumento magico e riponeva la sua ambra tra le ali ora vuote del Cerchio, Haramis disse: «Avrei un'idea migliore». Gli diede il diadema. «Tienilo tu il Mostro, Arcimago del Firmamento.» Un sorriso birichino le sfiorò le labbra. «Per più di un motivo!» «Grazie.» «Vincoleremo l'Occhio di Fuoco Trilobato a Iriane. È una persona talmente affabile che potrebbe essere necessario ricordare alla gente - e ai Non Scomparsi - la sua autorità.» Orogastus indossò il diadema. «Andrò a prendere lo scrigno stellato. Spero che la Signora Azzurra mi perdonerà per averla bloccata nel ghiac-
cio, e per il modo vergognoso in cui i miei Uomini della Stella hanno trattato il suo Popolo delle Onde.» «Ci recheremo alle Isole Cave insieme, libereremo Iriane e le racconteremo tutto. Penso che vorrà tornare qui per fare da guida ai Sindona, oltre che per usare il suo nuovo talismano per contribuire alla guarigione. Tu e io ci divideremo quel lavoro... ma per prima cosa dobbiamo andare sulle Lune.» «Per dare il via al risveglio?» Gli sorrise. «Tra le altre cose.» Lui la prese per mano e, fianco a fianco, fissarono lo sguardo a ovest. Il Giglio Celeste stava tramontando, ma Haramis non aveva dubbi che sarebbe sorto di nuovo il giorno dopo, e tutti i giorni successivi finché la sua grande opera non fosse stata compiuta. FINE