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MARION ZIMMER BRADLEY, JULIAN MAY & ANDRE NORTON IL GIGLIO NERO (Black Trillium, 1990) A Uwe Luserke che ha piantato il seme del Giglio Nero. PROLOGO DA » CRONACHE DELLA PENISOLA «, A CURA DI LAMPIAR, IL GRANDE SAPIENTE DI LABORNOK Otto secoli erano passati da quando i guerrieri di Ruwenda avevano conquistato le desolate distese acquitrinose note con il nome di Palude Labirinto (anche se non le dominarono completamente, perché mai riuscirono a sottomettere i poco docili Oddling), ed ecco che storia e leggenda si trovarono improvvisamente a registrare uno di quei grandi avvenimenti che di tanto in tanto alterano gli equilibri del mondo. Le nazioni civilizzate della Penisola - e specialmente noi, confinanti del Labornok - guardavano all'umido altopiano di Ruwenda come a una sorta di fastidiosa e quantomai molesta pozza di acqua stagnante, che sembrava esistere con il solo scopo di essere una spina nel fianco per i popoli più ricchi di energie e spirito di progresso. In realtà, Ruwenda non era per niente un regno ben organizzato, e tutto questo era dovuto al fallito tentativo di imporre un'unica sovranità su quegli strani aborigeni che dimoravano entro i suoi pretesi confini. I re di Ruwenda facevano finta di ignorare l'esistenza di territori senza legge in cui prosperavano i cosiddetti Oddling, e questo spesso a scapito dei loro legittimi sudditi e con grave pericolo per la pace generale e il buon ordine del reame. Di queste tribù primitive, solo i piccoli Nyssomu, gli scaltri abitanti delle paludi, e gli scontrosi Uisgu, avevano stipulato accordi sia con la corona sia con i mercanti di Ruwenda che li trattavano apparentemente da eguali, sebbene mai fosse stato chiesto loro la benché minima promessa di fedeltà, perché si trattava comunque di nonumani, e quindi chiaramente di esseri destinati dalla Natura a servire i loro superiori. Difatti, alcuni gruppi di Nyssomu frequentavano abitualmente la famosa Cittadella di Ruwenda, e
alcuni dei meno rozzi venivano addirittura ammessi alla corte del re e utilizzati come servitori di rango superiore. Due altre tribù Oddling, i Vispi delle montagne e i semicivilizzati Wyvilo delle foreste pluviali meridionali, si comportavano in modo alquanto inospitale con il genere umano ma non disdegnavano di intrattenere commerci con i mercanti ruwendiani. D'altra parte c'erano però anche i misteriosi Glismak, la cui giungla confinava con quella dei Wyvilo e che avevano scarsissimi incontri con gli umani: erano dei selvaggi davvero perfidi che si compiacevano nel massacrare i loro vicini Oddling. L'ultima e più grande tribù Oddling, gli abominevoli Skritek, detti anche gli Affogatori, erano particolarmente numerosi, vivevano sparsi per tutto l'acquitrino, disseminati nelle vaste e malsane regioni paludose a sud della Cittadella e in quel territorio centro-settentrionale detto Inferno Spinoso. Quei demoni della Palude Labirinto erano sinistramente famosi per l'abitudine di tendere agguati alle carovane e perché attaccavano le fattorie degli umani o le grandi proprietà più isolate, dilettandosi ad affogare le loro vittime o a torturarle con indicibile brutalità prima di gettarle nelle sabbie mobili. Ma, nonostante ciò, nessuno dei re che si susseguirono sul trono del Ruwenda fece mai alcun tentativo di ripulire la regione da quella costante minaccia. Si sentiva spesso dire che l'aria malsana di quel territorio aveva contribuito a indebolire definitivamente sia le menti sia i corpi dei ruwendiani. I loro governanti erano troppo spensierati e totalmente inadatti a imporre una corretta disciplina feudale. Quando ascese al trono il dotto ma ostinato Krain III, la sua manifestamente scarsa lungimiranza nel trattare con le nazioni vicine fu un chiaro segnale che si avvicinava un tempo in cui si sarebbero dovuti applicare metodi più illuminati e progressisti a una situazione che si andava via via deteriorando, un quadro generale che ormai da anni preoccupava il nostro grande regno di Labornok. Sfortunatamente il Labornok era commercialmente legato a quegli inetti e inefficienti vicini, perché, avendo diboscato le foreste per creare spazi per l'agricoltura, ci occorreva ora il legname del Ruwenda, in quantità tali da soddisfare non solo il nostro prospero commercio marittimo ma anche sufficienti a migliorare e arredare i maestosi edifici di Derorguila. Inoltre, a causa di un ingrato capriccio della natura, gli impenetrabili declivi che i monti Ohogan disegnavano sul nostro versante erano virtualmente privi di minerali che avessero un minimo valore, mentre invece dalla loro parte esistevano ricchi filoni di oro e platino, nonché immensi depositi di svariati tipi di pietre preziose trasportate dai torrenti e depositate qua e là sulle
montagne. Metalli e pietre venivano di tanto in tanto raccolti dai Vispi, che li scambiavano con gli Uisgu per arrivare alla fine nelle mani degli umani ruwendiani. Altri beni di scambio provenienti da quel piccolo regno perverso comprendevano preziose erbe medicinali delle paludi e spezie da cucina, pellami di worram e febock, nonché certi curiosi manufatti che gli Oddling si procuravano fra le rovine di antiche città sepolte negli inaccessibili recessi della Palude Labirinto. Anche nei momenti migliori, le relazioni commerciali fra Labornok e Ruwenda erano comunque qualcosa di frustrante e, molto spesso, di pericoloso. Già parecchi dei nostri gloriosi sovrani, resi furiosi da qualche sfrontata insolenza dei ruwendiani, avevano consultato i loro generali nella speranza di ricavarne qualche schema per conquistare il piccolo regno. Ma è difficile invadere un territorio che ha sostanzialmente una sola porta d'accesso: lo stretto e ripido passo Vispir, incastonato fra le scoscese vette degli Ohogan e ben sorvegliato dalle postazioni ruwendiane. I prodi re labornoki che ci avevano provato non erano tornati indietro a raccontarlo. I sopravvissuti delle loro armate sconfitte narravano di raggelanti nebbie demoniache, trombe d'aria da cui occhi umani sembravano scrutarli, tempeste di neve e grandine assolutamente fuori stagione, valanghe mostruose, malattie fulminanti e tutto un vasto assortimento di calamità cui si poteva sfuggire solo ripiegando in tutta fretta. Era come se ci fossero delle forze soprannaturali dispiegate a difesa della regione contro gli invasori. Ma anche se fossero riusciti a conquistare i fortini e i posti di guardia disseminati lungo il passo, gli attaccanti avrebbero comunque trovato ad attenderli distese di umide paludi che costituivano un ancor più formidabile ostacolo. Tutto questo era risaputo da ogni Capo del Commercio labornoko. Quella libera e audace corporazione di mercanti, i cui membri si passavano di padre in figlio l'esclusiva di quelle conoscenze assieme a certi incantesimi difensivi, comprendeva gli unici cittadini del nostro regno a conoscenza del segreto cammino che conduceva al cuore di Ruwenda. Più di un generale labornoko, infuriato e deluso per non essere riuscito a ottenere qualche utile informazione o una mappa dettagliata dai reticenti Capi del Commercio, aveva sospettato che si fosse ricorso a qualche oscura magia per serrare le loro labbra durante gli interrogatori. Alla fine però la strada fu rivelata grazie all'abilità del potente Mago Orogastus, di cui saprete di più fra non molto. Tuttavia nei tempi antichi i Capi del Commercio conservarono gelosamente il loro segreto, e godettero non solo di un prosperoso monopolio ma anche di un considerevole potere politico.
Di solito le carovane erano piuttosto piccole, contavano non più di venti carri e una cinquantina di uomini, ed erano guidate da quattro Capi del Commercio. Dopo aver fornito le esatte parole d'ordine ai comandanti delle postazioni, i Capi del Commercio conducevano la carovana nella Palude Labirinto lungo una pista insidiosa e non segnata su alcuna mappa. Fra i piedi delle montagne e la Cittadella c'erano ben poche zone di solido terreno. La più vasta regione asciutta si trovava a est della via commerciale, ed era la Terra di Dylex; qui si trovavano terreni bonificati e canali di drenaggio che avevano favorito la nascita e la crescita di poderi ben coltivati, di pascoli, e di qualche cittadina. Tra queste la più grande era Virk, famosa per il taglio dei minerali ivi portati dagli Uisgu o dai Nyssomu e ricordata anche come centro non proprio secondario del commercio di gemme e metalli preziosi di Ruwenda. Infatti la gran parte di questo commercio si svolgeva nella Cittadella, la capitale di Ruwenda, appollaiata su un enorme cupolone roccioso nel bel mezzo della Palude Labirinto. Una volta arrivati alla Cittadella, i Capi del Commercio dovevano pagare la reale tassa di pedaggio (per potere ripartire toccava loro pagare anche una capricciosamente variabile tassa sul valore dei beni trattati all'ingrosso, e questa era una delle note più dolenti nelle relazioni fra Ruwenda e Labornok). A quel punto erano liberi di vendere le loro mercanzie nel grande mercato della Cittadella, e procedere poi all'acquisto di minerali e legname. Quest'ultimo era ottenuto dagli agenti ruwendiani che erano in contatto con i Wyvilo delle foreste. I Capi del Commercio che cercavano merci più esotiche proseguivano il loro viaggio per qualche centinaio di leghe ancora, seguendo con chiatte o barconi ruwendiani il corso del Basso Mutar fino alla sua confluenza con il Vispar, dove si trovava l'ormai vetusta città di Trevista con le sue leggendarie fiere mercantili. Quelle fiere erano tenute dagli Oddling delle paludi durante la stagione asciutta, dato che altrimenti i monsoni provenienti dal Mare Meridionale avrebbero reso impossibile attraversare i corsi d'acqua che solcavano le regioni paludose. Solo gli Oddling osavano avventurarsi attraverso la Palude Labirinto nella stagione delle piogge, utilizzando vie e metodi noti solo a loro e che erano il frutto di un'esperienza secolare. Trevista rimane uno dei più grandi misteri della nostra Penisola. È di un'età inimmaginabile, ed è così bella da togliere il fiato anche ora che si trova in uno stato di pressoché totale rovina. I suoi labirintici canali, i ponti fatiscenti e tutto ciò che rimane dei maestosi edifici di un tempo, è ricoperto da una profusione di fiori bellissimi e di stupendi rampicanti della giun-
gla. Restano comunque tracce a sufficienza dell'originale piano urbanistico da dimostrare che i suoi costruttori erano di gusti raffinati e possedevano un'abilità tecnologica di gran lunga superiore a quella delle più avanzate civiltà della Penisola. Gli esperti in tali materie sostengono che un tempo la maggior parte del Ruwenda era uno smisurato lago alimentato dai ghiacciai e disseminato di isole che ora altro non sono che le colline sovrastanti l'acquitrino. È risaputo che su parecchie di queste alture si possono trovare rovine di fortezze o resti di villaggi. Nemmeno gli Oddling sanno spiegarsi le antiche città e si limitano a dire che sono state costruite dagli Scomparsi e che esistevano già quando i loro antenati erano giunti in quella terra paludosa. La stessa Cittadella di Ruwenda, una vera montagna di intricati muri di pietra, bastioni, torri, maschi ed edifici comunicanti, risale alla più remota antichità e si dice che fosse la sede di qualche antico governante che al tempo dei tempi aveva sottomesso l'intera Penisola. Le rovine più isolate, accessibili solo agli aborigeni, erano la fonte dei beni di scambio più ambiti: antichi oggetti d'arte, piccoli e misteriosi meccanismi pagati cifre considerevoli non solo dai collezionisti di Labornok ma anche da studiosi dell'occulto che risiedevano nelle più lontane regioni del mondo conosciuto. Questo genere di commercio, per ragioni che verranno chiarite più avanti, ebbe un momento di stasi dopo che il principe Voltrik fu dichiarato erede al trono di Labornok e mise in moto una catena di eventi che ci avrebbe infine permesso la tanto sospirata conquista di quel piccolo e pestilenziale paese. Voltrik dovette attendere parecchio prima di poter cingere la corona, dato che suo zio, il re Sporikar, visse ben più a lungo dei canonici cento anni. Durante quell'attesa, Voltrik si distrasse pianificando la conquista di un'altra corona e facendo lunghi viaggi. Da una di queste spedizioni, precisamente nei territori a nord di Raktum, tornò con quel nuovo compagno che gli avrebbe dato un giorno la chiave per penetrare in Ruwenda, il Mago Orogastus. Voltrik era a quel tempo un trentottenne di straordinaria prestanza fisica, bello, massiccio, con una folta barba nera e un carattere imprevedibile e sconvolgente come il fragoroso rombare di un tuono. La sua prima moglie, la diletta principessa Janeel, morì mettendo al mondo l'unico figlio di Voltrik, Antar. La seconda sposa, Shonda, perì in circostanze misteriose durante una battuta di caccia, senza essere riuscita a concepire figli durante i dieci anni di matrimonio. La frivola principessa Narissa, sua terza moglie,
subì la punizione per alto tradimento dopo avere cercato di fuggire con uno scudiero: lei e il suo amante furono fatti rotolare insieme dentro un sacco pieno di spine, che venne infine gettato su un rogo. Il Mago Orogastus divenne il principale consigliere di Voltrik e impose ben presto rispetto e terrore in tutto il regno di Labornok. Fu lui che esortò l'erede alla corona ad attendere prima di prendere una quarta moglie e cercare di dominare la sua impazienza se desiderava veder realizzate le sue grandi ambizioni. (Prudentemente, il Mago non rivelò all'impetuoso principe che avrebbe dovuto aspettare altri diciassette anni prima che il vecchio, cadente re Sporikar si decidesse a morire.) Nel frattempo Orogastus stabilì la sua roccaforte fra gli impervi declivi del monte Brom, nella zona settentrionale dei monti Ohogan, dove si impegnò quasi esclusivamente a perfezionare le arti magiche. Tutti gli strani e antichi manufatti recuperati dai Capi del Commercio di Labornok finivano senza indugio nelle sue mani, dato che una visione l'aveva avvertito che si poteva ricavare un enorme potere da alcuni di quei curiosi strumenti. Più tardi Orogastus prese con sé come assistenti tre sinistri individui che divennero noti come le sue Voci. Lo servivano in qualità di accoliti e agenti, ed erano temuti quasi quanto il loro signore. Sul versante opposto dei picchi innevati dei monti Ohogan, ai piedi di quelle colline da cui si precipita il fiume Nothar allargando pian piano il suo corso, dimorava un altro praticante dell'occulto. Si trattava dell'Arcimaga Binah, detta anche la Bianca Signora, la quale aveva vissuto per innumerevoli anni fra le rovine di Noth, un'altra delle antiche città degli Scomparsi. Era poco più di una leggenda per gli abitanti umani di Ruwenda, che non avevano mai avuto il privilegio di vederla. Ma nonostante ciò ne invocavano regolarmente il nome durante i periodi più difficili e continuavano a riverirla da tempo immemorabile come il custode delle loro terre. Solo gli Oddling e i sovrani ruwendiani conoscevano la verità celata dietro la leggenda: erano infatti i benefici incantesimi di Binah a proteggere la Palude Labirinto da eventuali saccheggi e non le difficoltà del terreno, le fortificazioni umane, il tempo inclemente o la natura ostile. Ma il peso degli anni si fa sentire anche su coloro che esercitano il potere della magia, e così durante il regno di Krain III divenne per lei sempre più difficile tenere salde le arcane barriere che aveva posto a difesa di Ruwenda. E mentre il suo potere declinava, sempre più cresceva quello del malvagio Orogastus. E venne infine il tempo in cui la regina Kalanthe, dopo lunghi anni di
sterilità, fu pronta a dare alla luce un figlio. Ma le cose non stavano andando affatto bene e il re Krain, inginocchiato accanto alla moglie sofferente, si decise a evocare poteri da lungo tempo dimenticati, poteri a cui non aveva più fatto ricorso dalla sua fanciullezza. Quella notte le tenebre avvolgevano le grandi paludi come un tetro sudario, e da esse scaturì un volatile così immenso che, con le sue ali spiegate, avrebbe quasi potuto coprire il tetto della torre alta della Cittadella. Era sicuramente uno dei più maestosi avvoltoi che dimorano fra le inaccessibili balze rocciose degli Ohogan. Dalla sua possente schiena smontò l'Arcimaga Binah, e tutti quelli che erano di guardia o in servizio in quel momento nel palazzo reale alla sua vista si gettarono in ginocchio. All'apparenza sembrava solo una donna in età avanzata, avvolta in un mantello bianco bordato d'argento e cangiante al movimento in quel pallido azzurro che si coglie a volte fra i riflessi della neve; ma c'era qualcosa in lei che ammutoliva e rendeva impensabile tentare di fermarla mentre si affrettava verso il letto della sovrana. Coloro che si trovavano vicino alla loro stremata signora erano in lacrime, singhiozzavano e pregavano ad alta voce, dato che era ormai chiaro che Kalanthe sarebbe presto morta senza riuscire a dare alla luce la nuova vita che lottava dentro di lei. I meravigliosi capelli ramati della regina si erano scuriti e impiastricciati dal sudore del travaglio, e stringeva la mano del suo sposo con la stessa forza con cui una persona in procinto d'affogare avrebbe stretto la fune gettatale per salvarla. Nell'avvicinarsi, l'Arcimaga disse: «Calmati, Kalanthe. Andrà tutto bene. Guardami, figlia mia». La regina spalancò gli occhi e smise di lamentarsi. Il povero Krain voleva rimanere al fianco di sua moglie, ma un solo gesto dell'Arcimaga bastò a ridargli speranza e a convincerlo a farsi da parte, invitando anche i cortigiani e le damigelle della regina a fare spazio alla misteriosa visitatrice. La levatrice di corte, una Oddling di nome Immu, se ne stava in disparte reggendo un calice contenente una pozione di erbe che aveva inutilmente cercato di fare ingerire alla sovrana. L'Arcimaga Binah fece cenno alla piccola femmina non-umana di avvicinarsi, e dopo averle fatto alzare il calice rivelò agli astanti il suo straordinario potere. Tutti i presenti, e persino l'agonizzante regina, si lasciarono sfuggire grida di stupore quando Binah fece apparire una pianticella, un Giglio Nero - completa di radici, foglie e un singolo fiore tripartito - un arboscello delle paludi tanto leggendario quanto raro, e che nemmeno i raccoglitori più esperti potevano dire dove
crescesse e se ancora esistesse. Quella stessa pianta era raffigurata nello stemma della casa reale di Ruwenda che conservava fra i suoi gioielli più preziosi alcuni campioni di ambra al cui interno erano racchiusi dei minuscoli esemplari fossili del fiore, non più grandi della capocchia di uno spillo. Ma quel fiore non era certo piccolo: era grande quanto il palmo della mano dell'Arcimaga, e d'un nero così ricco e profondo da sembrare seta vellutata. Binah colse il fiore e lo lasciò cadere nella coppa, ma ripose la pianticella sotto il mantello. Attese per qualche secondo che il fiore si dissolvesse, poi prese il calice della levatrice Oddling e fece un cenno al re. Krain avanzò prontamente e sostenne la sua amata regina che bevve la pozione fino all'ultima goccia. Poi la sovrana si rilassò fra i guanciali, ma emise improvvisamente un alto grido, non di dolore questa volta bensì di trionfo, e Immu, la levatrice, esclamò: «Ce la fa!» Ed ecco che una dopo l'altra apparvero tre deliziose principessine; un grande prodigio questo, visto che i parti multipli non sono affatto comuni fra l'aristocrazia. Le neonate strillavano vigorosamente, e sebbene così piccole erano già perfettamente formate; ognuna differiva leggermente dalle altre per le fattezze e per il colorito. Mentre ogni principessa faceva il suo ingresso nel mondo e veniva distesa su un panno accanto alla madre, l'Arcimaga pronunciava un diverso nome e poneva sul piccolo petto un ciondolo stranamente lavorato in cui era incastonato un pezzo d'ambra contenente un bocciolo del Giglio Nero. «Haramis», disse alla prima bambina, con lo stesso tono di voce con cui si accoglie un caro amico o col quale una balia saluta per la prima volta il bimbo che le è stato affidato. «Kadiya», annunciò al mondo sorridendo alla seconda e infine «Anigel», chiamò l'ultima. Poi si rivolse ai regali genitori, che la stavano fissando pieni di meraviglia, e parlò loro con una tale nota di presagio nella voce quasi a volere imprimere profondamente le sue parole nella mente di tutti quelli che la stavano ascoltando. «Gli anni trascorrono a rapidi passi. Ciò che si trova in alto può cadere; ciò che si ama può essere perso; ciò che è nascosto, al momento giusto deve essere rivelato. Ma vi dico che, nonostante tutto, le cose andranno per il meglio. I miei giorni volgono al tramonto, ma farò comunque tutto quello che devo e posso fino a quando non calerà la notte. Un destino spaventoso
e un compito terribile attendono questi tre petali del Giglio Vivente, queste creature della vostra stirpe, Krain e Kalanthe, ma il loro tempo non è ancora giunto.» Prima che i sovrani potessero chiedere il significato di quell'ammonimento, l'Arcimaga Binah si voltò e uscì dalla stanza. Gli strepiti delle neonate e le necessarie incombenze che seguono un parto tennero occupate Immu e le damigelle della regina, mentre l'orgoglioso Krain procedeva ad annunciare al regno le gioiose notizie e proclamava l'inizio delle celebrazioni. I magici amuleti vennero appesi a catene d'oro e furono fatti sempre indossare dalle tre principesse, dormissero o fossero sveglie. Come aveva detto l'Arcimaga, il tempo trascorre rapido e con esso svaniscono anche i ricordi. Le tre principesse divennero splendide e forti fanciulle: dalle balie e dai genitori sentirono sovente ripetere la storia della strana scena accaduta alla loro nascita che, con l'andar del tempo, prese le forme di un racconto immaginario, e questo specialmente per quanto riguardava il funesto avvertimento dell'Arcimaga, dato che nulla turbava le loro esistenze mentre maturavano e crescevano, come la maggior parte dei giovani, più interessate al presente che al passato. La principessa Haramis era la favorita del suo dotto genitore. Fin da bambina dimostrò uno smisurato interesse per tutto il sapere che si può trovare nei libri e tempestò gli scrivani e i saggi di corte con domande che non si addicevano certo a una rappresentante femminile della famiglia reale. Scoprì anche la magia della musica, specialmente quella che si poteva ottenere dal flauto e dall'arpa. Passava infatti la maggior parte del suo tempo con Uzun, un musico Oddling famoso per le sue stupende ballate che l'avevano elevato al rango di musico di corte: le sue allegre melodie e i suoi saggi consigli potevano con un nonnulla trasformare gli stati d'animo più cupi negli umori più gioiosi. La principessa Kadiya si dimostrò già in tenera età amante degli animali e degli uccelli, specialmente di quelle bizzarre creature che popolano il folto delle paludi. La sua passione consisteva nel vivere all'aria aperta per esplorare i più selvaggi recessi del reame; come guida e maestro nelle materie riguardanti la storia naturale ebbe Jagun, un Oddling che si occupava degli animali di corte ed era anche Capocaccia della Cittadella. La principessa Anigel, graziosa e delicata come uno di quei fiori che tanto amava, era timida, sebbene assai portata al riso, e aveva un cuore così tenero che provava dolore per qualunque creatura che fosse malata o sofferente. Per la regina Kalanthe era un vero piacere averla accanto, anche per-
ché la giovane era molto ben disposta verso quelle incombenze domestiche e cerimoniali che le sue sorelle disdegnavano. La sua amica più cara era quella stessa Immu che era stata levatrice di corte e sua balia, e che ora era la speziale della Cittadella e preparava non solo pozioni e rimedi ma anche profumi, essenze per pasticceria e un'ottima birra. Arrivò infine il tempo in cui le tre principesse furono in età da matrimonio; erano infatti passati diciassette anni dalla loro nascita, diciassette anni durante i quali Ruwenda aveva come al solito prosperato a spese di Labornok. Su consiglio di Orogastus, il principe ereditario Voltrik chiese la mano di Haramis, primogenita ed erede legittima. Ma, con suo grande scorno, venne rifiutato, avendo il re Krain deciso che, in mancanza di un erede maschio, durante la prossima Festa delle Tre Lune avrebbe promesso la figlia maggiore in sposa al secondogenito del re Fiodelon di Var. Quel principe, di nome Fiomakai, avrebbe quindi diviso con Haramis il trono di Ruwenda in qualità di co-monarca. La nazione di Var, che si trovava a sud della foresta di Tassaleyo, sulle fertili pianure del Grande Mutar, aveva rapporti commerciali e diplomatici piuttosto sporadici con Ruwenda (pur essendo una rimarchevole avversaria di Labornok per quanto riguardava il commercio marittimo). Se mai si fosse riusciti a sottomettere i selvaggi Glismak, il Grande Mutar si sarebbe aperto alle flotte mercantili di Var, e il Labornok si sarebbe visto soffiare sotto il naso quel suo commercio nonostante tutto lucroso con il Ruwenda... E fu così che, proprio quando la storia della Penisola era giunta in una fase critica, il vecchio re Sporikar chiuse infine gli occhi al mondo e Voltrik divenne re di Labornok. Dietro incitamento di Orogastus, fresco di nomina come Gran Ministro di Stato, Voltrik convocò il suo ormai adulto figlio Antar e il comandante in capo delle forze labornoke, il generale Hamil, e disse loro di prepararsi per l'immediata invasione di Ruwenda. 1. La Cittadella era cinta d'assedio e la famiglia reale; alcuni cortigiani e i Compagni Fedeli, si erano assiepati su una vasta balconata del grande torrione per controllare le linee di difesa più esterne. Ancora una volta, da laggiù, giunse un accecante bagliore biancoazzurro, e dopo neanche un secondo le orecchie degli spettatori furono colpite da un fragoroso rombare di tuono. Il re Krain si lasciò sfuggire un gemito di disperazione. «Maledizione,
questa volta non c'è dubbio! Il Mago Orogastus è davvero riuscito a richiamare i fulmini da un cielo completamente terso, e quest'ultimo colpo ha aperto una breccia nella cinta più interna!» Centinaia di soldati di fanteria labornoki si gettarono con impeto attraverso la vasta apertura, seguiti a breve distanza dai cavalieri guidati dal brutale generale Hamil. Gli attaccanti schiacciarono i difensori della Cittadella con la stessa facilità con cui un uragano può schiantare un arbusto delle pianure. Poco dopo ci fu un terzo e altrettanto accecante lampo, e poi un quarto, e ad ogni colpo nuove orde nemiche si riversavano nel campo attraverso le brecce prodotte nella fortificazione. «È la fine», disse il re. «Se ha ceduto persino quel vecchio bastione con le sue spesse mura allora non c'è speranza che questo torrione possa reggere a lungo i colpi di Orogastus.» Si voltò verso uno dei Compagni Fedeli. «Lord Sotolain, portatemi l'armatura. E a voi, lord Manoparo, affido l'incolumità della nostra amata regina e delle principesse. Portatele nei più profondi recessi della fortezza, e lì, voi e i vostri cavalieri, le difenderete fino all'ultima goccia di sangue. Tutti gli altri si preparino a combattere al mio fianco.» La regina Kalanthe annuì semplicemente, ma la principessa Anigel scoppiò a piangere senza ritegno, e così pure fecero le damigelle lì raccolte. La principessa Haramis se ne stava immobile come un'accigliata figura di marmo, e solo i suoi grandi occhi blu e le corvine trecce risplendenti mitigavano il pallore del suo viso e il candore del bianco mantello che indossava. La principessa Kadiya, vestita con un completo da caccia in pelle di foggia piuttosto maschile, estrasse dal fodero il suo pugnale e lo brandì con aria minacciosa. «Sire, padre mio, lasciatemi combattere e cadere al vostro fianco! Piuttosto la morte, che fuggire con delle donnicciole piagnucolanti mentre quei bastardi conquistano il nostro amato paese!» La regina e i nobili rimasero a bocca aperta, e persino la principessa Anigel e le dame di corte smisero di lamentarsi tanto era il loro stupore. La principessa Haramis sorrise freddamente. «Penso, cara sorellina, che forse riponi un'eccessiva fiducia nella tua abilità di combattente. Quei furfanti non sono le docili prede che sei abituata a cacciare nella riserva, ma le valenti e agguerrite truppe del re Voltrik, protette oltretutto dagli incantesimi di uno stregone dal cuore più nero della notte!» «Dicono gli Oddling», ribatté Kadiya, «che un giorno una donna della casa reale di Ruwenda segnerà la rovina di Labornok uccidendone il mal-
vagio sovrano!» «E tu per caso ti sei nominata nostra salvatrice?» la schernì Haramis con un'amara risata. Ma poi le lacrime sgorgarono dai suoi occhi, risplendendole sul viso come ruscelli al disgelo. «Lascia perdere, stupida!» gridò. «Risparmiaci queste tue sciocche pose. Ma non vedi come stai tormentando la nostra povera madre?» La regina si erse orgogliosamente in tutta la persona. Anche lei, come Anigel, indossava il tipico abito disadorno che si usava portare a corte durante il giorno. Quello della ragazza era di un rosa pallido, ma quella mattina la sovrana aveva fatto preparare alle sue cameriere personali una veste e una cappa di un colore rosso come il sangue. «Il mio cuore trabocca di dolore e paura per la sorte di noi tutti», disse Kalanthe, «ma conosco il mio dovere. Kadiya, non riporre la tua fede nelle profezie degli Oddling. I nostri servitori Nyssomu sono fuggiti dalla Cittadella per cercare salvezza nella Palude Labirinto, lasciandoci qui a fronteggiare il nemico da soli. Per quanto riguarda le tue velleità di combattente...» e qui la regina si mise a tossire, a causa delle volute di fumo che si alzavano lungo le mura, prodotte dagli incendi causati dalle palle di fuoco scagliate dai magici marchingegni degli invasori, «...tu devi rimanere con noi, come si conviene al tuo rango e alla tua posizione». «Allora», proruppe Kadiya, «difenderò voi e le mie sorelle, dato che, se la profezia degli Oddling è nota anche al re Voltrik, questi non oserà lasciare viva nessuna delle donne della famiglia reale! Intendo vendere cara la mia vita, e mi unirò a lord Manoparo e ai Compagni Fedeli per farvi scudo... per morire, se questo è il mio destino.» «Oh, Kadi, non lo fare!» supplicò singhiozzando Anigel. «Dobbiamo nasconderci e pregare che la Bianca Signora venga a salvarci!» «La Bianca Signora è un mito!» le rispose Kadiya. «Possiamo salvarci solo con le nostre forze.» «Lei non è un mito», mormorò Anigel, a voce così bassa che le sue parole furono quasi sommerse dal clamore della battaglia che giungeva da sotto alle mura. «Forse no», concesse Haramis, «ma sembra davvero che abbia abdicato alla tutela di questa infelice nazione. Come avrebbero altrimenti potuto le schiere dei labornoki attraversare il passo e giungere impunite fino a qui?» «Silenzio, figlie mie!» disse il re. «Il nemico potrebbe attaccare il torrione da un momento all'altro, e io dovrò presto lasciarvi.» Condusse i familiari all'interno della camera da cui si affacciava la bal-
conata, gettò una triste occhiata al trambusto che vi era stato portato dai rudi militari e si rivolse infine con estrema severità alla sua secondogenita. «Kadiya, fai male a sgomentare tua madre e le tue sorelle con il tuo sconsiderato comportamento e con le assurde dicerie degli Oddling. Pensi che il re Voltrik avrebbe forse chiesto la mano di Haramis se avesse creduto a queste storielle di donne guerriere? È mio dovere, come signore di questo reame, difenderlo o perire nel tentativo. Ma è tuo dovere cercare di sopravvivere e confortare tua madre e le tue sorelle... e ti assicuro che il tuo fardello è di gran lunga più leggero di quello della nostra povera Haramis, che senza dubbio alla fine dovrà sottostare al volere di Voltrik.» A quelle parole seguì una nuova esplosione di lamenti e pianti da parte delle dame di corte, mentre anche i cavalieri si unirono al gran tumulto prorompendo in una serie di accorati «No, giammai!», tanto che le loro grida gli impedirono quasi di sentire una nuova scarica di piccole esplosioni e coprirono per un momento il clangore delle armi e le grida dei feriti e degli agonizzanti. «Calma! Calmatevi tutti quanti!» tuonò re Krain. Ma non c'era verso: egli non era mai stato un monarca autoritario e assoluto, di quelli che si impongono per la forza del loro carattere; aveva invece sempre incoraggiato i suoi sudditi a trattarlo come un padre o come un saggio consigliere. Erano trascorsi quattrocento anni di pace dalla fallita invasione del re Pribinik di Labornok. Crimini e conflitti interni quasi non esistevano, salvo qualche furto occasionale o rari omicidi a sfondo maniacale; i saccheggi stagionali da parte degli abominevoli Skritek costituivano, perlomeno per i cavalieri, una buona occasione per tenersi in forma. Durante un periodo di pace così esteso la scienza militare non aveva certo fatto progressi, anzi i Compagni Fedeli avevano praticamente dimenticato tutto quello che sapevano in fatto di tattica o strategia. I vari sovrani che si erano succeduti sul trono di Ruwenda lasciavano i sudditi liberi di comportarsi a loro piacimento, a condizione che prevalesse la giustizia e regnasse una generale tranquillità... e che naturalmente si riversassero nelle casse del tesoro le solite cospicue entrate. Il Ruwenda non aveva mai avuto un normale esercito permanente: i Compagni Fedeli costituivano una sorta di braccio armato del trono, uomini designati dal re per far rispettare il suo volere, e le postazioni e le fortificazioni situate sulle pendici montuose erano presidiate da gruppi di liberi cittadini della Terra di Dylex, ricompensati per il loro servizio con la completa esenzione dalle tasse. I signori dei castelli ruwendia-
ni e le loro consorti governavano i loro piccoli domini feudali con mano leggera, seguendo l'esempio del trono, e tutti quanti prosperavano in pace (eccetto i pigri, che non se lo meritavano). Il piccolo e isolato regno di Ruwenda sembrava davvero la più felice nazione di tutta la Penisola se non del mondo conosciuto... almeno fino a quando i magici incantesimi di Orogastus non permisero alle avide schiere di Labornok di violare il passo Vispir e individuare la pista segreta, che poi il re Voltrik e i suoi armati avevano seguito attraverso la Palude Labirinto per raggiungere così la Cittadella. Erano occorsi solo dieci giorni e l'armata di Voltrik era riuscita a evitare ogni ostacolo e non era stata tormentata da nessuna delle calamità naturali che avevano sconfitto il re Pribinik. Si diceva anzi che persino gli abominevoli Skritek si fossero alleati con lui! Sotto la guida del Mago Orogastus, le forze labornoke avevano rapidamente schiantato la resistenza delle fortificazioni montane ed erano poi penetrate nella Terra di Dylex, saccheggiandone le città e mettendo gli abitanti in fuga verso le remote regioni orientali, superando così, senza quasi incontrare intoppo alcuno, i baluardi più esterni della stessa Cittadella: la città-fortezza sarebbe presto caduta, e con essa tutto il regno di Ruwenda. Mentre i sovrani ruwendiani e i loro cortigiani discutevano e piangevano sulla loro sciagura, ci fu un altro tremendo lampo di luce seguito da un'assordante detonazione. Le spesse mura del torrione tremarono come una capanna di vimini sferzata da un monsone invernale. Per un breve istante, un silenzio sbigottito calò non solo sulla Cittadella ma anche sui campi vicini dove infuriava la battaglia. Poi, dal basso, giunse il terrificante ruggito di diecimila gole e il suono trionfante dei corni nemici. Fu subito chiaro che era stato divelto anche il massiccio portale dell'enorme struttura centrale e che le forze d'invasione si stavano riversando all'interno. Lord Sotolain si avvicinò al sovrano reggendo l'armatura e l'aiutò rapidamente a indossarla; Krain sospirò mentre sollevava la pesante spada del suo avo Karaborlo, ben sapendo, come lo sapevano i Compagni Fedeli, che l'avrebbe brandita con coraggio ma con pressoché totale inettitudine. Né la magnifica armatura di scintillante acciaio intarsiata di zaffiri, né lo splendido elmo con l'effigie reale in platino, potevano rendere re Krain qualcosa di diverso da quel che era: un tranquillo uomo di mezza età, grande di cuore e di mente ma irrimediabilmente inadatto al ruolo di condottiero. Una volta indossata l'armatura si accomiatò dalla sua famiglia. «Sono sempre stato uno studioso e non un combattente, ma non lo rimpiango. Per
molte generazioni la nostra amata terra ha conosciuto solo la pace. Siamo stati protetti, o almeno così ci hanno insegnato a credere, dall'Arcimaga Binah, colei che è anche conosciuta come la Bianca Signora, la Dama dei Fiori, la Guardiana, la Custode del Giglio Nero. Parecchi di noi, che sono ancora qui in questi giorni di disgrazia, l'hanno vista e sentita mentre si prodigava per far venire al mondo queste tre splendide principesse. L'Arcimaga ci disse che tutto sarebbe andato per il meglio, ma riferì anche in modo alquanto misterioso di un certo destino e di particolari compiti che attendevano queste mie tre figlie. Noi non abbiamo compreso il significato di quelle parole, e sicuramente parecchi, me compreso, le hanno ormai dimenticate. Ma cerchiamo di tenerne conto adesso, in modo da ricavarne una buona dose di forza nutrita dalla speranza: sinceramente, non saprei su quale altra cosa fare leva per sollevare il morale mio e di tutti noi.» Aprì le braccia fasciate di metallo e con molta delicatezza abbracciò e baciò la regina. Poi venne Haramis, l'unica a non avere ancora il viso rigato di lacrime, e fu quindi la volta di Kadiya, finalmente sottomessasi al volere paterno, e infine la tenera Anigel, che non riusciva a smettere di singhiozzare. Dopo avere salutato i suoi amici, Krain si rivolse ancora una volta e con solennità al venerabile lord Manoparo e agli altri quattro cavalieri cui era affidata l'incolumità delle donne, i quali in risposta alla sua esortazione si batterono il petto in segno di fedeltà ed estrassero le spade con fiero cipiglio. Poi il re si voltò e si allontanò dalla stanza a grandi passi, seguito dal suo scudiero Barnipo, che gli reggeva lo scudo, e da alcuni dei Compagni Fedeli. Era giunto per lui il tempo di andare incontro al suo destino, e nessuno di quelli rimasti nella stanza dubitò che non l'avrebbe certo incrociato. Mentre la notte scendeva su quel giorno di conquista, gli incendi appiccati alla Cittadella stavano ormai scemando e il loro fumo si mischiava con i miasmi provenienti dalla Palude Labirinto. La collina su cui sorgeva la capitale ruwendiana sembrava quasi un'isola che emerge da un oceano di nuvole. I cavalieri labornoki, guidati dal generale Hamil, che era uscito vittorioso dalla tenzone finale con i Compagni Fedeli ancora in vita, portarono lo sconfitto re Krain e il suo attendente davanti al re Voltrik, al principe ereditario Antar e al Mago Orogastus. Lì nella sala del trono c'era anche una sparuta rappresentanza di nobili ruwendiani prigionieri e trascinati in catene a testimoniare la definitiva disfatta del loro paese. Dietro il trono, su
cui si era già assiso Voltrik, era stato issato lo stendardo di Labornok, tre spade dorate incrociate su sfondo cremisi. Krain, in fin di vita, sanguinava abbondantemente da profonde ferite al braccio destro e all'addome, e dovette essere sostenuto da due cavalieri di Hamil mentre veniva condotto davanti al trono e fatto inginocchiare ai piedi di Voltrik. Uno dei due guardiani gettò per terra il suo scudo azzurro malamente segnato ma su cui ancora splendeva lo stemma del Giglio Nero, e l'altro vi buttò sopra la spada spezzata dell'ormai dimenticato Karaborlo. Fu lo stesso Hamil a togliergli l'elmo e a rimuovere il reale diadema di platino incastonato di ambra e zaffiri, per tenerlo poi alto sopra il capo affinché tutti potessero vederlo. Barnipo, lo scudiero di Krain, era incolume e privo di catene, ma tremava dietro il suo signore mentre era trattenuto dalla presa di lord Osorkon, un secondo comandante di Hamil, gigantesco cavaliere che indossava un'armatura nera ricoperta di sangue. «Ben trovato, mio regale fratello», disse Voltrik a Krain. La visiera rostrata del suo elmetto era alzata e sembrava quindi sorridere allo sconfitto monarca dalle fauci di un qualche fantastico sauro preistorico ricoperto di gemme. Alla luce delle torce l'armatura d'acciaio placcato d'oro di Voltrik risplendeva e brillava mentre il re se ne stava mollemente adagiato sul trono con le gambe disinvoltamente accavallate. «E ora hai per caso intenzione di sottometterti?» «Non sembra che mi resti molta scelta», rispose Krain con un filo di voce. «Ti sottometti quindi senza condizioni», domandò Voltrik, alzandosi di scatto e sventolando sotto il naso dello sconfitto il diadema che gli era appena stato tolto, «sapendo che solo giurando fedeltà salverai la vita ai nobili e ai comuni abitanti di questa sconfitta Cittadella?» «Mi arrenderò... se tu risparmierai anche la vita della mia regina e delle mie tre figlie.» Intervenne subito il Mago Orogastus con un tono di voce simile a un colpo di gong. «Questo è assolutamente fuori questione. Esse devono morire, e tu pure. E come atto di sottomissione dovrai dirci in quale remoto angolo di questo labirintico edificio si sono nascoste.» «Mai», replicò Krain. A quel punto osò farsi avanti il principe Antar. «Ma, Sire, non ci metteremo mica a combattere contro donne indifese!» «Devono morire», ripeté Orogastus deciso, e Voltrik annuì concedendo il suo assenso.
«Il tuo stregone le teme a causa di quelle ridicole profezie degli Oddling!» esclamò Krain. «Ma si tratta di una vera e propria sciocchezza, Voltrik, una fiaba per bambini! Solo fino a pochi mesi fa avresti preso la mia figlia maggiore, Haramis, come tua sposa, e ora...» «Ma tu hai disdegnato un'alleanza con Labornok», ribatté Voltrik soavemente, giocherellando distrattamente con il diadema, «e hai risposto alla mia educata richiesta con arrogante disprezzo.» «Il tatto non è mai stato una prerogativa di voi sdegnosi ruwendiani», interloquì il generale Hamil con un sogghigno, «e ora sarete ricompensati con la stessa moneta da voi coniata!» Il gruppetto di cavalieri e nobili labornoki lì riuniti scoppiò in una fragorosa risata, fino a quando il re Voltrik non alzò una mano per chiedere silenzio. «Ho completa fiducia nel potente Orogastus, che non solo è mio Grande Ministro di Stato ma anche Mago di Corte, e proprio lui ha previsto il disastro che sarebbe stato portato sul mio casato da una donna appartenente alla famiglia reale di Ruwenda... non qualche visionario cantastorie appartenente ai viscidi Oddling. Quindi, sia tua moglie sia le tue figlie dovranno morire, mio caro Krain, e la stessa sorte toccherà anche a te. Ma, se ti sottometterai umilmente e me le consegnerai, allora mi degnerò di concedervi una morte pietosa, con un unico colpo di spada, e risparmierò la vita a quelli fra i tuoi sudditi che giureranno fedeltà a Labornok.» Krain trovò la forza di alzare il viso ricoperto di lividi. «Mai mi sottometterò, e mai consegnerò le mie donne nelle tue mani.» Voltrik alzò alto il diadema, lo contorse fra le mani ancora coperte dall'armatura e lo lasciò cadere davanti al deposto sovrano. «Sai quale sarà la sorte della tua famiglia se non ti arrenderai? E quella dei tuoi cavalieri qui riuniti in catene?» Re Krain non rispose. L'ampia fronte di Voltrik si rabbuiò per l'ira e le sue dita tamburellarono impazienti su uno dei risplendenti cosciali dorati. Quando vide che il re di Ruwenda si trincerava in un ostinato silenzio, allora comandò: «Portate quattro destrieri!» Uno dei suoi capitani si affrettò a obbedire. Uno stupito mormorio giunse dai prigionieri, mentre il povero Barnipo sbiancava per la paura e si contorceva nella ferrea presa di Osorkon. «Ah! Ah!» sbottò il generale Hamil. «Questo giovane codardo conosce molto bene il tipo di morte che attende chiunque si prende gioco di Labornok. Ma guardate com'è bella pulita la sua armatura... un vero vigliacco,
senza dubbio! Sarebbe davvero opportuno sottoporlo per primo a questa piccola dimostrazione delle quantomai giuste punizioni che può infliggere Vostra Maestà.» «No! No!» gracchiò Barnipo. «Dio misericordioso e i Signori dell'Aria abbiano pietà di me!» Cercò di divincolarsi spasmodicamente fino a quando il torreggiante lord Osorkon non lo colpì in viso con il suo pugno nudo, e allora il giovane si lasciò andare a pianti e singhiozzi. In quel momento fece il suo ritorno il capitano insieme a quattro stallieri, che condussero nella spaziosa sala del trono altrettanti fronial da battaglia, enormi e ancora bardati di selle e finiture. Gli animali ruotavano furiosamente gli occhi iniettati di sangue, dimenavano le maestose corna ramificate, sbuffavano, si impennavano e pestavano fragorosamente sul pavimento di marmo gli zoccoli ferrati. «No!» implorò Barnipo. «Sì», disse re Voltrik tranquillamente. I suoi occhi incontrarono quelli di Krain. «Ti mostrerò, diletto fratello, quale ingrata sorte aspetta te e i tuoi se continuerai a sfidarmi.» E poi, rivolto al capitano: «Prendi quel pusillanime, legagli ogni arto al pomello della sella di ciascun animale e frustali in varie direzioni fino a quando non sarà stato completamente squartato». Barnipo emise una sorta di ululato di disperazione e si contorse convulsamente fra le possenti braccia di Osorkon, mentre i cavalieri ruwendiani presero a scagliare maledizioni contro Voltrik fino a quando non furono zittiti in malo modo dai loro carcerieri. Re Krain allora parlò. «Lasciate andare quel povero ragazzo, e infliggete piuttosto a me questa morte.» Il Mago Orogastus non si lasciò sfuggire l'occasione. «Lasceremo libero il ragazzo e ti concederemo una morte più onorevole di questa fine ignominiosa, se ci rivelerai dove sono nascoste le donne.» «No», rispose Krain. «Sire?» domandò a Voltrik il generale Hamil. Il sovrano labornoko si alzò lentamente in piedi. Il mantello ondeggiò sulle sue spalle, mentre l'armatura dorata ne rifletteva la colorazione rossovioletta. «Krain di Ruwenda, tu stesso hai scelto la tua morte. Legatelo saldamente alle bestie.» «Sire! Sire!» strillò il giovane. «Lasciate che tocchi a me! Perdonate la mia codardia!» «Barni, ti perdono con tutto il mio cuore», disse Krain. Gli staffieri presero il re, lo spogliarono dell'armatura e lo fecero giacere
supino nel bel mezzo dell'enorme sala del trono. Quando i suoi aguzzini iniziarono a legarlo con corregge di cuoio grezzo, le sue ferite si riaprirono e ben presto si formò sotto di lui una pozza di sangue. Durante tutta l'operazione la sua espressione rimase imperturbata, mentre invece i suoi fedeli avevano ripreso a gridare e il povero Barnipo continuava a piangere disperatamente chiedendo perdono. Quando tutto fu pronto, mentre i quattro fronial, sorta di grosse antilopi, scalpitavano emettendo versi agghiaccianti, tanto che ci vollero tre uomini ciascuno per tenerli al loro posto, il capitano si girò verso Voltrik in attesa di un suo comando. Ma proprio in quel momento Orogastus bisbigliò qualcosa all'orecchio del suo re, che annuì e fece cenno a lord Osorkon di liberare il giovane scudiero di re Krain e di lasciarlo avvicinare al trono. «Ragazzo», disse il Mago, fissando con il suo sguardo penetrante il terrorizzato Barnipo, «è in tuo potere risparmiare al tuo sovrano questa orrenda fine, nonché salvare la tua stessa vita e quella degli altri prigionieri.» Barnipo riuscì a malapena a replicare: «Io, mio signore?» con espressione stupefatta. «Sì», rispose Orogastus, «proprio tu.» Il mago era l'unico degli invasori a non portare un'armatura; indossava una semplice toga bianca e un nero mantello con il cappuccio. Teneva al collo una catena di platino a cui era appeso un pesante medaglione su cui era incisa una stella a molte punte. Gettò all'indietro il cappuccio, in modo da rivelare le sue fattezze, avvenenti e giovanili anche se i lunghi capelli erano candidi come la neve. Mentre si rivolgeva all'impaurito scudiero l'espressione del suo viso sembrava quantomai benevola. «Ascoltami attentamente, ragazzo. Fa' quel che ti dico e tu potrai ancora salvare la vita della tua regina e delle tre graziose principesse. Confesso di essere stupito per il coraggio che sta dimostrando il re Krain e penso che forse il mio grazioso sovrano dovrebbe in fin dei conti sposare la principessa Haramis, dato che la figlia deve aver sicuramente ereditato il valore del padre e lo passerà ovviamente ai suoi figli.» «Davvero, mio signore?» un bagliore di speranza accese il viso del giovane. «Certo, e affinché la principessa Haramis possa accettare di buon cuore il fidanzamento, mi sono permesso di suggerire a Sua Maestà di risparmiare le vite di tutte le donne della famiglia reale. L'unica e sola cosa che devi fare perché si possa arrivare a questa positiva conclusione della vicenda, è dirci dove si nascondono quelle graziose damigelle.»
Gli occhi del ragazzo dardeggiavano incerti dal mago al re. «E risparmierete anche la mia vita?» «Sulla mia corona», rispose Voltrik toccando il diadema regale che era stato posto sul suo spaventoso elmetto, «tu vivrai. Ma non indugiare, perché i fronial stanno diventando sempre più irrequieti.» «E il nostro amato sovrano?» «Deve morire», annunciò Orogastus, «perché questa è la nostra legge. Ma se parlerai, ti assicuro che la sua morte sarà rapida e indolore.» Le lacrime scorrevano copiose sul viso del povero Barnipo. «Sul vostro onore?» «Lo giuro sui Signori dell'Aria», rispose Orogastus con fare solenne. Barnipo inspirò profondamente. «Allora... sono nascoste in un locale segreto che si trova al piano della cappella nel grande torrione e si può raggiungere attraverso un passaggio nascosto nella galleria del coro, il quale si apre premendo la bugna centrale del grande Giglio inciso nel muro. Lord Manoparo e altri quattro Compagni Fedeli sono stati messi alla loro guardia.» I profondi occhi del mago lampeggiarono. «Ah!» esclamò. E re Voltrik e il generale Hamil gli fecero eco. «Avete giurato di non far loro del male!» gridò il giovane con labbra tremanti mentre sul viso gli si dipingeva un'espressione preoccupata. «Sui Signori dell'Aria...» «Un giuramento davvero formidabile», spiegò Orogastus noncurante, «ma solo per coloro che credono in queste mere fantasie.» «Ma anche voi avete giurato!» insisté il poveretto, rivolgendosi freneticamente al re Voltrik. «Sì, ma solo di risparmiare la tua spregevole vita», replicò il sovrano. «E lo farò, così che tu possa servire come svuotalatrine per il resto della tua miserabile esistenza.» Ciò detto percosse l'atterrito giovane con il suo guanto di metallo, e questi ruzzolò giù dalla scala del trono cadendo al suolo come morto. «Mio Sire», disse il generale Hamil, «lasciate che organizzi un drappello di uomini e che vada a scovare quella cagna e i suoi tre cuccioli.» «No», rispose Voltrik. «Io e mio figlio guideremo la ricerca. Voi vi occuperete di questa fetida marmaglia ruwendiana... e di quel fantoccio del loro capo.» Voltrik fece un cenno al principe Antar e scese dal trono. Chiamò un gruppo di venti cavalieri e tutti insieme si diressero verso la grande scali-
nata a spirale che li avrebbe portati alla cappella. Hamil, con i pugni guantati sui fianchi, sorvegliava la sala del trono insieme ai suoi scagnozzi. I prigionieri erano disposti tutt'intorno al perimetro del vasto locale, con esclusione del povero re Krain che si trovava ancora disteso in mezzo al pavimento di marmo e legato alle enormi bestie che continuavano a impennarsi. «Trattare con dei prigionieri in catene è proprio una noia», fece osservare Hamil a Osorkon con un sorrisetto. «È stata una giornata davvero faticosa, e ci meritiamo prima un po' di divertimento.» Si voltò verso gli stallieri e urlò: «Uomini! Schioccate quelle dannate fruste!» Barnipo approfittò dell'orrore che seguì per riprendersi rapidamente dal suo falso svenimento, eclissarsi non visto e correre il più veloce possibile verso una scala di servizio in modo da cercare di avvertire la regina e le principesse dell'imminente pericolo. 2. Barnipo si era precipitato giù dalle scale con tale impeto che ora si ritrovava senza fiato e con un dolore al petto simile a quello provocato da una pugnalata. Come se non bastasse, risentiva degli effetti della percossa inflittagli dal re Voltrik e la testa gli faceva così male da vederci doppio. Mentre arrancava barcollando sulla scaletta che conduceva alla galleria del coro, udì un clangore di armature e una perentoria esclamazione: «Di qua!» La cappella era immersa nella quasi totale oscurità, illuminata soltanto da alcune lampade votive. Ma quando Voltrik e i suoi cavalieri armati di torce si precipitarono attraverso il portale centrale, allora la navata si riempì di ombre e di bagliori sinistri. Colto dal panico, il povero scudiero inciampò e cadde battendo il capo. Gli venne meno quel po' di coraggio che era riuscito a raccogliere e sembrò che ancora una volta fosse destinato a mancare al suo dovere. «Bianca Signora!» singhiozzò affranto. «Aiutami. Aiuta la nostra povera regina e le principesse.» Un soffio di aria profumata gli riempì i polmoni congestionati mentre la vista gli si snebbiava di colpo. Sentiva ancora un forte dolore alla testa, ma perlomeno poteva muoversi di nuovo. Risalì la scala come un ragno e strisciò sull'impiantito scheggiato fino al muro che si trovava dietro i panchetti del coro. Era una parete intonacata, su cui spiccava un pannello con inci-
so il sigillo reale di Ruwenda: un Giglio Nero in campo azzurro, con una bugna dorata al centro. Barnipo si accostò e premette la bugna con entrambe le mani. Una porzione rettangolare di muro scivolò all'indietro, creando un piccolo varco attraverso cui sarebbe potuto passare a fatica un uomo. Non appena fu entrato ed ebbe richiuso l'apertura, lo stretto passaggio fu riempito dalle sagome del barbuto lord Manoparo e di due altri cavalieti ruwendiani, Korban e Wederal, che si erano precipitati lì da una stanza adiacente con le spade sguainate. «Fermi, fermi! Sono solo io!» gracchiò il giovane gettandosi in ginocchio. «Ma è Barni!» esclamò Manoparo rinfoderando l'arma e aiutando lo stravolto scudiero a mettersi in piedi. «Cosa diamine...» «Svelti, svelti! Se volete salvare le dame dovete sprangare immediatamente la porta esterna e bloccarne il meccanismo affinché il nemico non possa entrare.» Imprecando, Korban e Wederal si affrettarono a sistemare quattro grosse spranghe d'acciaio e distrussero il meccanismo di apertura del pannello a colpi di spada. Non appena completato il lavoro sentirono giungere dall'esterno una serie di possenti colpi, accompagnati da grida guerresche. Poi cadde un sinistro silenzio. «Devono essere andati a prendere un ariete», disse Wederal. «Molto più probabilmente il Mago!» ribatté Manoparo. «Svelti, torniamo dentro.» Trascinarono con loro lo scombussolato Barnipo nella stanza segreta, che era grande una decina di metri ed equipaggiata per un assedio: poteva contare su una spessa porta di legno rinforzata da barre di ferro che si poteva bloccare con tre enormi chiavistelli. I muri erano ricoperti di antichi arazzi e il pavimento di spessi tappeti e comode stuoie per riposare. Non c'erano finestre, solo due alte feritoie così strette che fra le sbarre sarebbe passato a mala pena un dito. La stanza era dotata di un tavolino e di un unico scanno su cui era seduta la regina Kalanthe, scortata in quel momento da lord Jalindo. Vicino al camino, poco più grande di un braciere, c'erano alcune ceste contenenti viveri e vari barilotti di acqua e vino. Il locale era illuminato dalla luce tremolante che proveniva da un vecchio, candelabro e da un paio di torce infisse nel muro. Lord Manoparo si inchinò alla regina, che sedeva pallida ma calma, circondata affettuosamente dalle tre figlie. Aveva indossato la grande corona di platino tempestata di scintillanti smeraldi, rubini e diamanti, e sormontata da una goccia d'ambra
grande quanto un uovo. Nel cuore dell'ambra era racchiuso un piccolo giglio nero fossilizzato. «Mia regina, il nemico ci ha scovati.» Manoparo indicò Barnipo, che se ne stava discosto a occhi bassi. «Questo scudiero ci ha avvertiti in tempo e abbiamo cercato di fare del nostro meglio per bloccare la porta. Ma probabilmente sono andati a chiamare il Mago affinché la schianti con la sua magia nera, e allora per noi sarà finita.» La piccola principessa Anigel lanciò un acuto grido di terrore, e sarebbe stata presa da una crisi isterica se sua sorella Kadiya non l'avesse schiaffeggiata e severamente ammonita di starsene tranquilla. Haramis accolse fra le braccia la sorella singhiozzante mentre la madre interrogava Barnipo. «Che ne è stato del mio regale marito?» Il giovane cadde in ginocchio mentre lacrime cocenti gli rigavano il viso. «Oh, mia signora, il nostro amato sovrano è morto e il povero regno di Ruwenda è perduto.» I quattro cavalieri gemettero affranti e le sfortunate fanciulle emisero grida di orrore. La regina Kalanthe inclinò il capo e domandò: «Come è caduto il mio signore?» «Ahimè!» esclamò il ragazzo. «Che Dio e i Signori dell'Aria possano perdonarmi, perché è stata tutta colpa mia.» E continuò a maledirsi finché lord Jalindo non gli mise una mano sulla spalla. «Suvvia, hai solo quindici anni e nessuno di noi può davvero credere che un giovane come te possa riuscire a causare la morte di un re. Raccontaci con calma e chiaramente quel che è successo.» E così fece. Quando descrisse l'orrenda e vergognosa esecuzione a cui era stato sottoposto il re Krain, la principessa Anigel crollò svenuta fra le braccia della sorella Haramis, mentre la principessa Kadiya esclamava con voce strozzata: «La pagheranno cara!» Ma la regina rimase immobile, fissando nel vuoto e tenendo in grembo la testa arruffata e insanguinata dello scudiero del suo defunto marito, il quale piangeva a dirotto con il cuore spezzato. «Non è stata colpa tua, povero Barni», cercò di consolarlo. «Il vile Orogastus ti ha ingannato. Non c'è niente di cui tu ti debba rimproverare. La colpa ricade solo su re Voltrik e sul suo malvagio consigliere, e su quel mostro di Hamil che ha dato l'ordine di straziare il mio adorato Krain.» «Pagheranno per questo», sussurrò Kadiya, ma nessuno la udì eccetto Haramis. Improvvisamente ci fu una fragorosa detonazione. I cavalieri estrassero
le loro spade e si frapposero fra le donne e la porta. La regina balzò in piedi, facendo così scivolare per terra Barnipo. «Una donna del nostro casato», disse Kalanthe mentre i suoi occhi sfolgoravano di determinazione. «Ecco ciò che teme il diabolico Voltrik! Quindi la profezia non è una semplice diceria degli Oddling, visto che dopo tutto la conferma il suo stesso oracolo!» Si voltò verso le figlie. Anche Anigel si era ripresa, e lo sguardo di tutte e tre era fisso sulla loro madre e regina. «Il Labornok cadrà per mano di una donna della nostra famiglia. Voi vivrete, figlie mie... e proverete che la profezia è esatta!» Ora il nemico stava colpendo violentemente la porta con asce e mazze ferrate, dato che, per paura di far crollare i muri, Orogastus non poteva usare il suo magico potere distruttivo in uno spazio così ristretto. La regina Kalanthe scostò uno degli arazzi fatti con uno di quegli antichi tessuti che ancora si trovavano nella Cittadella, e che erano sopravvissuti anche agli antichi fondatori di quella maestosa roccaforte secoli e secoli prima. Il vecchio drappo era scolorito dal tempo, ma quando la regina lo spinse da parte assunse una colorazione bluastra e, dentro o sopra di esso, si mossero delle ombre di cui però nessuno riuscì a distinguere la forma. Dietro quell'arazzo così straordinario era celato un semplice guardaroba, uno stretto armadio a muro sufficiente a contenere un singolo occupante. Kalanthe ne spalancò la porticina e ordinò: «Dentro, figlie mie!» Haramis si mosse rapidamente, trascinando con sé Anigel, il cui fragile corpo era ancora scosso dai singhiozzi. Kadiya si accorse di quanto angusto fosse quello spazio e allora sfoderando il pugnale disse: «Non importa. Rimarrò con te, madre mia...» «Dentro!» ordinò la sovrana, con un tono di voce che nessuna delle ragazze le aveva mai sentito. Kadiya rimase a bocca aperta, poi si diede da fare per spingere dentro meglio le altre due e cercare di infilarsi anch'essa nel guardaroba, la cui porta però non si richiuse completamente. «Un'ultima cosa», aggiunse la regina togliendosi la sua grande corona e passandola nelle mani di Haramis. «E ora pregate, mie dilette, e che possiamo incontrarci di nuovo in un mondo migliore.» Lasciò ricadere il polveroso arazzo, ma rimase quella piccola apertura da cui le tre principesse poterono osservare quel che seguì. La porta, ormai a pezzi, stava cedendo sotto i terribili colpi dei labornoki. A quel punto colpirono direttamente i cardini e l'intera struttura crollò permettendo ai contendenti di affrontarsi in quell'ultima sanguinosa mi-
schia. Il principe Antar, che indossava un'armatura smaltata di blu e un elmo alato, fu tra i primi a entrare. Ingaggiò un duello con lord Manoparo, e i due iniziarono a menarsi terribili fendenti a due mani; il cozzare delle lame produceva un suono simile al sordo rintocco di una campana. Altri cavalieri labornoki si precipitarono nel locale all'attacco degli altri quattro Compagni Fedeli, mentre re Voltrik e Orogastus se ne stettero in disparte. La regina era arretrata verso il fondo della stanza, il più lontano possibile da dov'erano nascoste le figlie, che riuscivano a vedere chiaramente sia lei sia la furiosa battaglia in corso. Lord Manoparo sferrò un possente colpo al capo del principe Antar che perse l'elmo a seguito dell'urto. Stranamente il suo viso non era stravolto dalla furia della battaglia, ma sembrava invece pieno di angoscia. Ciò non di meno, Antar si batteva con grande forza e abilità, e al momento opportuno colse lord Manoparo così scoperto da poter sollevare la sua grossa spada e calargliela sulla testa con una tale forza da spaccargliela in due dopo avergli sfondato l'elmo. Poi furono mortalmente feriti e disarmati anche Korban e Wederal. Il solo lord Jalindo continuò a combattere fino a quando non fu sopraffatto dalle preponderanti forze nemiche. Quando l'ultimo dei Compagni Fedeli cadde al suolo, i vincitori si accanirono sui ruwendiani facendone a pezzi i corpi già martoriati. Oh, l'orrore! La principessa Kadiya, con gli occhi brucianti, emise un ringhio sommesso mentre sentiva montare dentro di sé una rabbia impotente. Quei barbari spregevoli si stavano ora divertendo a smembrare i caduti, facendosi beffe delle loro strazianti grida di morte. La giovane si agitò e afferrò l'impugnatura della sua arma, con i muscoli tesi e pronti a scattare... «Ferma!» sibilò Haramis. «Per il Fiore, ferma dove sei! Ci vuoi fare ammazzare tutte quante?» Anigel aveva afferrato il suo amuleto e lo teneva premuto contro le labbra. «Pregate la Bianca Signora, guardiana della nostra terra!» «Prega che quei bruti non ci trovino», mormorò Haramis premendosi al cuore il suo amuleto. «Prega che qualcuno venga a salvarci», incalzò Anigel. Kadiya, pur tremando ancora di rabbia e di paura, allentò la presa sul pugnale e quasi senza volerlo si ritrovò a infilare la mano nell'apertura del farsetto. Il suo ciondolo era lì, sotto la camicia di seta, caldo contro il petto
fremente. «Prego di essere la prescelta», sussurrò, «colei che farà pagare a Voltrik, ad Antar, al generale Hamil e al Mago, le nefande azioni perpetrate in questo triste giorno!» «Prega anche di riuscire a mantenerti tranquilla», disse Haramis, «o la tua folle audacia ci sarà fatale. E smettila di agitarti, maledizione, o finiremo per ruzzolare tutte ai piedi di Voltrik.» «Zitta, zitta! Se no ci sentono», supplicò Anigel. Gli orrendi tonfi e le risa di scherno erano finalmente cessati, e lo stesso re Voltrik stava parlando in quel momento. Kadiya, pur controvoglia, emise una silenziosa preghiera, un modo questo per riassumere il suo autocontrollo. Sentiva ancora la rabbia bruciarle dentro, ma quell'oscura emozione fu piano piano coperta dalla consapevolezza che era meglio attendere tempi più favorevoli, come quando si lasciano andare le braci sotto le ceneri per poter poi riattizzare il fuoco. «Guardate!» sussurrò Anigel con voce tesa quasi inudibile dal terrore. «Nostra madre!» Il re Voltrik stava interrogando la regina, incalzandola ovviamente sulla sorte delle principesse. L'atmosfera della stanza si era fatta soffocante e fumosa, dato che nel trambusto era caduto il candelabro e aveva preso fuoco una stuoia. Il re si era tolto l'elmetto e i guanti di cotta, e dal modo in cui aggrottava la fronte e dal suo viso cupamente rabbuiato era evidente che la regina Kalanthe l'aveva sconfitto. La sovrana si erse in tutta la persona, mentre lo scarmigliato Barnipo si accucciava inebetito ai suoi piedi, e disse: «Non ti rivelerò mai dove sono le mie figlie». «Orogastus, costringila a parlare!» tuonò Voltrik. «O usa i tuoi poteri per scovare quelle mocciose!» «Mio sovrano, non posso forzare la sua volontà», rispose il Mago. «Questa donna non prova paura. E non riesco nemmeno a sentire dove si trovano le principesse... forse quest'antica fortezza è pervasa da qualche arcano incantesimo che blocca la mia Vista. Posseggo però uno strumento magico che potrebbe servire a questo scopo, qualunque ostacolo vi si frapponga, solo che è così grosso e pesante da non poter essere rimosso dalla mia dimora sull'impervio monte Brom.» «E allora dovremo usare qualche altro metodo per sciogliere la lingua di questa gentil dama.» Voltrik si avvicinò lentamente alla regina, con la spada snudata, e l'afferrò per il polso destro.
«Ne ho abbastanza, cagna schifosa! Dimmi immediatamente dove sono le ragazze o ti taglierò via una mano. E se ti ostinerai ancora a non rispondermi ti porterò via anche l'altra, per poi passare ai piedi e agli altri arti fino a quando non cederai, perché questo è il trattamento che i labornoki riservano ai nemici insolenti.» «Sire!» esclamò il principe Antar stupefatto. «Ma è una regina, e quella punizione è riservata solo agli schiavi ribelli...» «Silenzio!» esplose Voltrik. Ci fu un mormorio fra gli altri uomini, ma si sopì immediatamente non appena il re alzò la sua spada. «Allora, vuoi parlare o no, donna?» Poi accadde qualcosa di così repentino che né il principe né i cavalieri riuscirono ad afferrare, ma le principesse ebbero modo di vedere la scena svolgersi chiaramente sotto i loro sguardi attoniti. Barnipo, che sembrava semisvenuto, fu animato da un'improvvisa scossa di energia e si gettò sul re Voltrik come un cane rabbioso. Non avendo a disposizione alcuna arma, affondò i denti nella mano sinistra del re, quella con cui teneva la sovrana ruwendiana. Voltrik lanciò un ruggito di dolore e si tirò indietro con il ragazzo ancora attaccato a lui. Il re si mise a menare fendenti all'impazzata con la sua grande spada, e per pura sventura con uno di questi troncò di netto la gola di Kalanthe, che cadde al suolo esanime. Tutti i cavalieri labornoki si misero a urlare e cercarono di bloccare lo scatenato scudiero, stando però ben attenti a non essere colpiti per sbaglio dal loro sovrano. Barnipo cadde infine al suolo trafitto da una dozzina di colpi e, pur nel dolore, continuò a ridere come un ossesso fino a quando il re stesso non decapitò di netto l'audace ragazzo. Poi Voltrik diede sfogo a tutta la sua rabbia, imprecando in modo così abbietto che persino i suoi uomini indietreggiarono spaventati, perché la regina Kalanthe era morta senza aver rivelato il nascondiglio delle figlie. «E adesso cosa facciamo?» domandò il principe Antar. Gli rispose Orogastus: «Non possono essere lontane. Devono essersi sicuramente trovate con la madre fino a quando questo cane», e tirò un calcio al corpo di Barnipo, «non è riuscito a filarsela dalla sala del trono per avvertirle. Dobbiamo organizzare una capillare ricerca in tutta la fortezza». Dopo essersi calmato il re disse: «Orogastus ha ragione. Tu, Milotis, ti incaricherai di perlustrare immediatamente la cappella e le sue vicinanze insieme a questi cavalieri. Attento ai passaggi segreti, muri doppi, scale nascoste e roba del genere. Dopo di che controlla tutta la torre qua di so-
pra. Antar e Orogastus, venite con me. Formeremo delle squadre e perlustreremo questa fortezza da cima a fondo, dal più alto parapetto fino al sotterraneo più profondo». Poi il re iniziò a scagliare maledizioni all'anima del povero Barnipo, che gli aveva morso a sangue là mano facendogliela dolere in un modo incredibile. Orogastus gli fasciò la ferita, consigliandogli di fare molta attenzione perché i morsi umani possono spesso provocare delle brutte infezioni. «Ti possa marcire il braccio», sussurò Kadiya con inusuale ferocia, «e che il sangue avvelenato giunga infine al tuo cuore putrescente!» «E possano i Signori dell'Aria portare il povero Barni nel più alto dei cieli», sussurrò Haramis, «perché è grazie al suo coraggio che è stata risparmiata la tortura a nostra madre e noi abbiamo guadagnato un po' di tempo per cercare di salvare le nostre vite.» Il re, suo figlio e il Mago se ne andarono, e dopo una breve e infruttuosa ricerca di qualche passaggio nascosto anche sir Milotis e i suoi uomini abbandonarono il rifugio segreto per iniziare la perlustrazione della cappella. Kadiya disse: «Possiamo uscire adesso». E così fecero. Tutte tremanti e tenendosi strette, sgusciarono fuori dal guardaroba e si ritrovarono a fissare inorridite la carneficina che si era svolta nella stanza. In quel momento la dura realtà le colpì come un secchio d'acqua gelida in pieno viso. Anigel si aggrappò alla mano di Haramis e si morse il labbro inferiore fino a farlo sanguinare. Kadiya avanzò in mezzo ai corpi riversi e raggiunse quello di sua madre. «Sembra riposare in pace», si stupì la ragazza. «Gli occhi sono chiusi, e il suo aspetto così gentile...» Raccolse un nero mantello di seta che qualcuno aveva fatto cadere e stava per stenderlo sul corpo della regina quando intervenne Haramis: «Stupida! E se qualcuno di loro tornasse indietro e lo scoprisse?» Kadiya, afflitta, ammise: «Sorella, sei davvero più saggia di me». «Dammi quel mantello», le disse Haramis, «affinché vi avvolga la corona. La porterò con me... anche se ci sono ben poche probabilità che io possa mai indossarla.» Anigel si lasciò sfuggire un soffocato grido di paura. I suoi occhi di zaffiro si dilatarono a dismisura mentre indicava ammutolita un angolo della stanza dalla parte opposta della porta. Non c'erano corpi là, eppure videro muoversi una pila di cuscini. «State indietro», ordinò Kadiya estraendo il suo pugnale e facendosi avanti. Scostò i cuscini uno per uno con la punta della sua arma, fino a
quando non apparve un tappeto sotto cui si stava muovendo qualcosa. «Per il Fiore, una botola!» esclamò Haramis. «Svelta, Kadi, solleva quel tappeto.» «Oh, attenta», gridò Anigel. «Forse si tratta del nemico!» «Nemico un accidente!» sbottò una vocina stridente. «Cercate di sbrigarvi, ragazze, altrimenti ci taglieranno la ritirata.» Le tre principesse rimasero a bocca aperta, e quando Kadiya scostò il tappeto apparve al centro della botola una piccola creatura di sesso femminile, accuratamente vestita con un abito di fustagno, un grembiule di pelle e uno scialle verde pieghettato. Il suo viso era olivastro e piuttosto largo, come anche la bocca, e i meravigliosi occhi dorati sporgevano in modo molto poco umano sopra due piccole narici a fessura. Le strette orecchie a punta, ornate da campanellini d'argento, spuntavano fra le pieghe dei nastri di batista che tenevano insieme l'acconciatura. Le mani erano grosse e robuste, con due dita in avanti e i pollici all'indietro, ed erano macchiate e rovinate da molti anni passati a mescolare strani intrugli. «Immu!» gridò Anigel in un impeto di gioia e di sollievo. «La nostra cara Immu, venuta infine a salvarci. Pensavamo che anche tu fossi scappata con il resto degli Oddling...» «Ma che scappati e scappati! Sciocchezze!» Immu uscì dalla botola e si ritrovò infine nella stanza. Indicando drammaticamente il passaggio disse: «Giù dalla scaletta ragazze, io devo escogitare un sistema per mascherare la nostra via di fuga». Haramis e Anigel alzarono le lunghe sottane e si infilarono goffamente nella botola, mentre Kadiya vi si insinuava agilmente. Ma ecco che c'era una nuova sorpresa ad attenderle in quel disagevole passaggio a volta posto sotto l'apertura. «Uzun!» esclamò Haramis. «E Jagun, anche!» C'erano infatti due piccole figure in attesa. Si trattava di una coppia di rappresentanti maschili della stessa razza di Immu, i Nyssomu, i quali reggevano delle lanterne che emettevano bagliori verdastri a causa della presenza al loro interno dei luminosi vermi delle paludi. Jagun indossava un completo da caccia di pelle molto simile a quello di Kadiya, mentre il musico Uzun portava il solito blusotto marrone di velluto ricamato. Il suo berretto di broccato dorato si era sporcato con le appiccicose ragnatele che pendevano dall'angusto passaggio segreto. Kadiya abbracciò il suo piccolo mentore. «Jagun, non ci hai abbandonate!»
«Abbandonarvi?» esclamò indignato il Capocaccia. «Ci siamo solo nascosti ed era la cosa più prudente da fare. Solo voi umani siete abbastanza stupidi da restarvene immobili come togar ipnotizzati dal chiaro di luna mentre la morte vi viene incontro a passo di marcia!» «Era nostro dovere difendere con onore la Cittadella», rispose Kadiya accalorandosi. «Bene, guardate a cosa è servito il vostro onore», ribatté Uzun, il musico. «Se solo vi foste rifugiati nella Palude Labirinto, dalla nostra gente di Trevista, avremmo potuto proteggervi.» «E poi?» domandò Kadiya. «Poi...» Jagun si strinse nelle sue strette spalle. «Avreste potuto vivere con noi.» «Ma casa nostra è questa», protestò Anigel gentilmente. «E adesso è la loro», incalzò Immu con tono brusco. Aveva terminato di camuffare la botola e stava scendendo rapidamente dalla scaletta. Raccolse la sua lanterna e continuò: «C'è poco da fare, sono terribilmente determinati a eliminarvi, e anche noi faremo la stessa fine se ci prenderanno». «Ma siete venuti lo stesso a salvarci», disse Anigel sommessamente. Teneva stretto il suo prezioso amuleto. «La Bianca Signora ha risposto alle nostre preghiere.» «Sì, sì, è proprio vero!» Con grande riverenza Uzun si tracciò sopra il capo un mistico segno trilobato. «Come sapete, mie care principesse, non ho una grossa conoscenza in fatto di magia spicciola. Sono molto più versato nello studio degli strumenti musicali! Ma ieri mi sono deciso a scrutare le acque per cercare di capire se i nostri tre destini fossero legati a quelli degli esseri umani che abbiamo servito per così tanto tempo... e l'Arcimaga mi ha parlato.» «Arcimaga!» esclamò Haramis. «Questo è uno dei nomi della Bianca Signora.» «Calma, calma!» la sgridò Immu. «Silenzio, ragazze, lasciate che Uzun vi spieghi tutto, perché dobbiamo andarcene al più presto.» Haramis abbassò il capo mortificata. «Continua, amico Uzun.» «La Bianca Signora in realtà si chiama Binah. Arcimaga è il suo titolo, perché è un'incantatrice, la più potente maga della nostra Penisola.» «O forse lo era», intervenì Jagun tristemente. «È molto anziana e vicina alla morte, così ora i suoi poteri stanno diminuendo e non sembra essere più in grado di contrastare quelli del terribile Orogastus.» «Ci ha ordinato di portarvi da lei», concluse Uzun.
«Perché?» chiese Kadiya piuttosto aspra. «Se sta morendo, non può certo esserci di molto aiuto, e non mi sembra che questo sia il momento delle visite di cortesia.» Al che Haramis aggiunse: «Secondo me, faremmo meglio ad andare a Trevista. Lì possiamo attendere le piogge invernali, che arriveranno fra poche settimane. Forse più tardi potremo travestirci e unirci a qualche carovana, e magari raggiungere la costa per imbarcarci alla volta di Var. Il re Fiodelon ci offrirà sicuramente tutto il suo appoggio. Non ho più un regno da dividere con quel suo stupido figlio, ma posso cercare di fargli rispettare il contratto matrimoniale in modo da procurarci una nuova casa». Uzun parlò con semplice dignità. «Non so niente di tutto questo. Posso dirvi unicamente che l'Arcimaga ci ha dato l'incarico di portarvi da lei, proprio come tanti anni fa ci affidò quello di servire in questo castello attendendo un giorno di grande bisogno per tutti gli abitanti della Palude Labirinto.» «E quel giorno è oggi», sottolineò Immu, «o che io diventi una capra!» Serrò le sue grosse labbra, raddrizzò la testa e si mise in ascolto attentamente ruotando le orecchie, di modo che gli ornamenti emisero bagliori alla viva luce delle lampade. «Stanno lasciando la cappella», disse dopo un po'. «Ma ne verranno altri, sono sicura, magari persino quei tre lacchè del mago conosciuti come le sue Voci, quei sinistri individui che se la fanno con gli Skritek! Sarà meglio filarcela al più presto possibile.» «Haramis, figlia maggiore del re, tu verrai con me», disse Uzun. «Jagun e Immu condurranno invece le tue sorelle per un'altra via. Così ci ha comandato l'Arcimaga.» Per un attimo sembrò che Haramis volesse rifiutarsi. Abbandonare le sorelle? La sua mano corse al petto e richiuse le dita intorno a quell'amuleto che non l'aveva mai lasciata da quando era nata. «Ma non posso lasciarle! Sono la più vecchia, l'erede al trono... mi sento responsabile per la loro vita, e quando ce n'era bisogno sono sempre stata quella che ha deciso per tutte noi.» «Hara, facciamo quel che dice», la esortò Anigel. «Dobbiamo avere fiducia nella Bianca Signora.» «Non mi piace questa storia, sorelle», disse Kadiya corrucciando la fronte abbronzata. I suoi capelli, color ruggine come quelli della regina, erano tutti scarmigliati, e i riccioli che le scendevano intorno al viso ne incorniciavano il fiero cipiglio. «Se staremo insieme, la mia spada potrà offrirci una qualche protezione. Darei volentieri la mia vita per...»
«Ma quale vita e vita!» Immu era davvero esasperata. «Perché devi sempre essere così impulsiva? E perché poi dovrebbe essere Haramis a prendere le decisioni? Anigel non è così determinata come voi, eppure mostra davvero una grande saggezza! Diglielo, Uzun! Digli cos'altro ha detto l'Arcimaga.» «Volevo risparmiarvelo», ammise il musico timidamente, «per non spaventarvi. L'Arcimaga Binah vuole che la raggiungiate perché secondo lei non siete ancora pronte ad affrontare il vostro grande destino. Be', a dire la verità, in questo momento non sareste neanche in grado di riconoscerlo...» Haramis e Kadiya alzarono il capo con fare risentito, ma Uzun proseguì senza farci caso. «Voi tre, petali del Giglio Vivente, dovrete cercare di salvare questa terra dall'oppressione di re Voltrik e del suo consigliere Orogastus, ma potrete riuscirci solo se correggerete prima i vostri difetti e le vostre debolezze. Vi dirà l'Arcimaga come fare, quando sarete da lei.» Anigel prese per mano le sorelle. «Hara... Kadi.. vi prego!» Kadiya abbassò i fieri occhi scuri e annuì. Un istante dopo anche Haramis disse: «D'accordo». «Per il Fiore! È ora di andare!» esclamò Immu. Continuò: «Haramis, tu devi seguire Uzun. Anigel e Kadiya, voi verrete con me e Jagun». Ciò detto, la femmina Oddling spinse Anigel giù lungo lo stretto e polveroso passaggio, seguita a breve distanza dal Capocaccia, che conduceva innanzi a sé Kadiya. In pochi istanti la luce delle loro lanterne fu inghiottita dalle fitte tenebre. «E noi due partiremo insieme», disse Haramis al maestro di musica. «Mio vecchio amico, spero che la Bianca Signora abbia rafforzato quel po' di magia spicciola che ti compete, perché la tua abilità di flautista, per quanto eccelsa sia, non basterà certo a fermare i guerrieri di Labornok e il loro malvagio stregone.» «Principessa, sono anch'io molto spaventato al pensiero di quel che ci può aspettare», ammise Uzun. «Ma ripongo la mia più completa fiducia nell'Arcimaga, e così dovreste fare pure voi. La Bianca Signora ha ordinato di condurvi in cima all'Alta Torre.» La giovane impallidì per lo sgomento, e il suo viso, incorniciato dagli splendidi capelli corvini, assunse un aspetto quasi spettrale in quell'atmosfera così lugubre. «Ma saremo in trappola là sopra! Il Mago ci scoverà! Oh, perché non ho dato ascolto a Kadi?» «Presto», insisté Uzun, e corse avanti con la lanterna. Ad Haramis non restò altro da fare che seguirlo.
3. Kadiya, Anigel e i due Oddling si dileguarono attraverso gli oscuri e stretti passaggi ricavati fra le mura di pietra dell'enorme torrione, utilizzando talvolta delle porte segrete i cui meccanismi erano ricoperti dalla polvere dei secoli. Dopo avere disceso una ripida scalinata, giunsero infine in un camminamento situato dietro la sala del trono fornito di uno spioncino da cui si poteva controllare la situazione senza essere visti. Jagun diede un'occhiata alla stanza: era silenziosa e deserta. Poi guardò Immu e infine anche la principessa Kadiya, la quale emise un debole grido di dolore e colpì il muro con il suo piccolo pugno mentre scoppiava in un pianto sommesso. Pregarono la principessa Anigel di non guardare, temendo che una visione così orribile la facesse cadere priva di sensi, ma la giovane non volle sentir ragione. Accostato l'occhio alla feritoia poté quindi osservare i resti mutilati dei Compagni Fedeli e di re Krain: con grande stupore degli altri non si lasciò sfuggire neanche un lamento e si limitò a stringere forte il suo amuleto mentre chiudeva gli occhi su quella macabra scena. Dopo qualche istante sospirò amaramente e domandò: «Immu, tu sei vecchia e saggia. Dimmi, perché l'hanno fatto, quando nostro padre e i suoi cavalieri erano ormai in loro potere e assolutamente inoffensivi?» «Bambina mia, è una cosa davvero difficile da capire per una persona come te. Tu sei gentile e piena d'amore, e non hai conosciuto che amore e gentilezza nella vita. Ma ci sono individui cui la crudeltà fa provare un brivido oscuro, una sorta di equivoca sensazione di potere. Anime piccole e pavide essi stessi, si circondano di altri infelici che non mancherebbero comunque di riversare anche su di loro la crudeltà che li anima, e cadono facili prede della più vile delle lussurie... quella che trova piacere nel distruggere e far provare dolore ai propri simili. Il crudele assapora una sorta di folle esaltazione nel perpetrare le azioni più abiette e si sente veramente vivo solo distruggendo gli altri. Osa sfidare il Sommo Creatore restituendo a Lui le Sue creature. Si fa beffa dell'amore e abbraccia invece l'odio, l'unico sentimento che riesce a infiammare la sua anima fredda e stagnante. La sua vana depravazione non conosce pietà, né rimorso. Soltanto un desiderio insaziabile di sempre più efferate crudeltà, perché questo tipo di persone non ne sono mai appagate. È inutile rispondere con gentilezza alla loro crudeltà, un tale genere di malvagi non conoscono l'amore e lo scam-
biano solo per debolezza. Quindi, principessa, tu che sei così gentile e piena d'amore, dovrai trovare il modo di trattare con più fermezza con gentaglia di quella risma.» «Oh, non potrò mai», disse Anigel tremando, «nemmeno dopo aver visto quel che hanno fatto!» La principessa Kadiya gettò le braccia intorno alla sua amata sorella. «Non temere, cara Ani. Io farò in modo che i bruti ricevano quel che si meritano.» Poi Jagun le invitò a proseguire, e camminarono a lungo, scendendo sempre più in profondità nelle viscere della Cittadella, fino a quando quel percorso segreto non li condusse in un apparente vicolo cieco. Anigel fu colta dal panico e incominciò a piagnucolare, ma Immu la zittì mentre Jagun accostava al muro la lampada e lo tastava qua e là. Improvvisamente una sezione della parete si scostò e si riversò su di loro una luce di torce; le ragazze colsero un denso aroma di malto e seppero subito dove si trovavano. Si precipitarono attraverso file di barilotti e tra i grossi recipienti di rame con cui veniva preparata la birra, dato che quella era la distilleria della Cittadella! I fuochi però erano spenti e le tinozze in cui fermentava il mosto erano incustodite, perché gli addetti se l'erano data a gambe. Immu fece segno di seguirla nel deposito dei cereali, e qui le ragazze e i due Oddling dovettero aiutarla a spostare un cumulo di sacchi. Dietro, trovarono una vecchia porta di legno mezzo marcio, che cigolò e stridette con riluttanza prima di cedere all'attizzatoio con cui Jagun si era dato da fare per forzarla. La porta conduceva a una ripida scalinata scavata nella viva roccia e dai gradini resi pericolosamente scivolosi dall'acqua che sgocciolava dalle crepe della volta. Mentre scendevano, la debole luce delle lanterne si rifletteva a tratti nei rivoletti di sdrucciolevole fanghiglia. «Questa via conduce fino alle estreme profondità della Cittadella», spiegò Jagun, «e porta a quelle segrete, cisterne e canali di scolo che furono costruiti dagli Scomparsi e sai quali non si sono mai posati occhi ruwendiani.» In cima alle scale avevano notato la presenza di alcuni piccoli lingit, innocue creature che costruiscono fitte ragnatele con cui catturare gli insetti dei quali si nutrono, ma quando arrivarono in fondo si aprì davanti a loro una stanza piuttosto bassa da cui pendevano stalattiti sgocciolanti mota. Qui i lingit erano molto più grossi e armati di una dentatura per niente rassicurante. Le orribili creature avevano teso fra le stalattiti vere e proprie re-
ti, nere, appiccicose e così ampie da costringere Jagun e Kadiya a estrarre le loro lame per farsi strada. Anigel si ritrasse disgustata quando Immu dovette spostare a calci qualcuno degli indignati filatori che squittirono tentando anche di mordere gli intrusi alle caviglie. Una volta superato questo ostacolo, discesero un'altra rampa di scale rozzamente scolpite, mentre l'odore degli scoli putrescenti si faceva davvero insopportabile. Arrivarono infine davanti a un cancello arrugginito e socchiuso. Più oltre, dopo un breve corridoio alle cui pareti erano infissi dei reggitorce vuoti, si trovava un portale spalancato. Sul muro c'erano anche dei ganci che sostenevano mazzi di chiavi così attaccate dal verderame da sgretolarsi non appena Kadiya le toccò. Il pavimento era ricoperto di torbide pozze d'acqua che contribuirono a inzaccherarli da capo a piedi mentre correvano giù per il corridoio verso una strana luminescenza giallastra che ne rischiarava la parte finale. Entrarono in un vasto stanzone ad arcate, e le ragazze non poterono fare a meno di lanciare esclamazioni di meraviglia: si trattava di un braccio di una qualche antica prigione, su cui affacciavano una dozzina di celle in totale disfacimento e le cui pareti, soffitti e mura, erano striati di una sostanza viscida e risplendente. Piccole creature informi scivolavano languidamente su ogni superficie, lasciandosi dietro tracce luminescenti. «Sono lumaconi bavosi simili a quelli che si trovano nei recessi più remoti della Palude Labirinto», spiegò Jagun. «Oh, cielo!» gridò Anigel, indicando all'interno di una cella la cui porta si era schiantata sotto il peso degli anni. Legato al muro con catene ormai arrugginite, c'era uno scheletro, le cui orbite risplendevano sinistramente per la presenza di quella strana secrezione prodotta dalle creature strisciate nel suo teschio. «Che posto nauseante. Guardate! In quell'angolo ci sono strumenti di tortura arrugginiti. E quelle viscide cose striscianti... Si nascondono in ogni nicchia e fessura. Quel vecchio secchio ne è stracolmo. Oh! Ce n'è uno che mi sta salendo sulla scarpa!» Cercò invano di scrollarselo di dosso battendo il bordo della calzatura contro uno zoccolo di pietra, e poi scoppiò in lacrime scossa dall'orrore. Le venne in aiuto Immu, che infilzò la lumaca sulla punta dello stiletto che teneva nascosto sotto il grembiale e la scagliò lontano. Tirò fuori un fazzolettone e ripulì alla meglio il viso di Anigel, coperto di fango e lagrime, mormorandole parole di conforto. «Quanto ci manca ancora?» domandò Kadiya a Jagun. «La mia povera sorella indossa solo scarpine che non le danno molta protezione dall'acqua,
e le sue vesti sono ormai fradicie. Si prenderà qualche malanno!» «Troveremo un bell'ambiente riscaldato e vestiti asciutti», le rispose Jagun, «ma prima di lasciare questo posto mi sa che dovremo bagnarci ancora un bel po'... ascolta!» Si bloccarono tutti di colpo. Jagun si tolse il berretto da cacciatore per consentire un migliore ascolto alle grosse orecchie. Il suo volto divenne una maschera, con la pelle tirata sugli zigomi, gli occhi rifulgenti come globi di ambra e le labbra tanto tese da lasciare intravedere i canini così simili a zanne che gli umani di solito non notano, un ricordo di quando anche i pacifici Nyssomu erano stati un genere di cacciatori equipaggiati con qualcosa di più che lance e cerbottane. Le ragazze non udivano altro che l'incessante e monotono sgocciolio dell'acqua, ma Jagun disse: «Ci hanno seguiti! Senza dubbio hanno scovato le nostre tracce nella distilleria. Svelte, andiamo!» Si precipitò verso una bassa apertura che si trovava dall'altra parte della segreta e che conduceva a un'altra ripida tromba di scale. C'era una sorta di corrimano ad altezza di Oddling, davvero una buona cosa visto che i gradini erano così diabolicamente sdrucciolevoli. Le ragazze erano tanto preoccupate di non mettere un piede in fallo, da non notare che lasciavano dietro di sé una scia di impronte luminose, le quali però divennero sempre più evanescenti nel proseguire la discesa. Le traballanti lanterne degli Oddling non rivelarono niente di ciò che li aspettava più avanti fino a quando non giunsero in fondo. Si ritrovarono così in un ampio stanzone cavernoso, immersi fino alle caviglie nel fango e nell'acqua. Il locale era stracolmo di strani macchinari arrugginiti e sezioni di tubature semidistrutte, grandi come tronchi d'albero. I soliti lumaconi bavosi strisciavano quasi dappertutto, mentre qua e là svolazzavano spaventate delle creature simili a grossi pipistrelli. Jagun le condusse a una piattaforma circolare che si trovava nel centro del locale. Proprio nel bel mezzo c'era un buco nero di un paio di metri di diametro, circondato da una sorta di basso cordolo di pietra. In quell'istante giunsero da sopra un clangore ancora lontano di armature e un vociare indistinto. Anigel urlò di terrore. Jagun sbirciò nell'apertura, poi raccolse un sasso e ve lo lasciò cadere dentro. Dopo qualche istante si sentì un debole «splash». «Bene!» esclamò. «Temevo che la grande cisterna si fosse prosciugata a causa della stagione secca. Ma direi che va proprio bene e la nostra via di fuga è a portata di mano.» Fece un cenno a Kadiya. «Forza, mia coraggio-
sa fanciulla! In questa cisterna venivano conservate nell'antichità le riserve d'acqua della Cittadella, secoli e secoli prima che l'edificio conseguisse le sue attuali dimensioni. È alimentata da un condotto che porta al fiume Mutar, a nord dell'altura su cui sorge la fortificazione. L'Arcimaga ha ordinato a mio fratello Rapahun di condurre una barca a fondo piatto allo sbocco segreto del condotto. Tutto quel che ci resta da fare è un bel salto!» «Un salto?» ripeté Kadiya incredula. Jagun ficcò la lanterna nel suo tascapane, in modo da ripararla il più possibile dall'acqua. «Andrò per primo e aiuterò ognuna di voi quando si tufferà.» «Ma io non so nuotare!» piagnucolò Anigel. «Non preoccuparti piccola», la incoraggiò Immu. «Ti terremo su noi.» Il rumore prodotto dagli avanzanti labornoki si stava facendo più forte. «Non c'è tempo da perdere», disse Jagun. «Io vado!» Salutò con un allegro cenno della mano e si lasciò cadere oltre il bordo dell'imboccatura. Ci fu un tonfo lontano e subito dopo un cavernoso richiamo: «Su, forza, va tutto bene!» Kadiya fece un profondo respiro. «Che i Signori dell'Aria mi diano coraggio!» Afferrò il suo amuleto, si avvicinò al bordo del pozzo e saltò prima che il panico crescente le paralizzasse i muscoli. Si tuffò. Bianca Signora, aiutami! Oh, ti prego, fammi atterrare dolcemente... Ma che cosa succede? La paura si trasformò in stupore. Stava fluttuando. Teneva ancora stretto al petto il suo ciondolo protettivo. Una brezza leggera, che sembrava soffiare verso l'alto dalle tenebre, le disse che stava lentamente discendendo. Giù, giù, giù... e poi scivolò delicatamente nelle fredde acque sottostanti, affondando come un coltello nella sua guaina. Si ritrovò a galleggiare sospinta dalla forte mano di Jagun, fino a quando non toccò delle pietre squadrate. «C'è uno stretto passaggio», le disse l'Oddling. «Arrampicati e ti passerò la lanterna.» Ma la ragazza non si mosse. Confusa, reggendosi alla sponda, con l'acqua che le gocciolava negli occhi, sussurrò: «Jagun... vecchio amico mio... io non sono caduta, ma mi sono sentita ondeggiare nell'aria come un seme di salice trasportato dal vento!» «Cosa stai dicendo, ragazza?» La sua voce, solitamente gentile e timida,
si era fatta improvvisamente più aspra. «Ho stretto forte l'amuleto pregando di atterrare dolcemente... e così è stato! Gli stessi Signori dell'Aria mi hanno sostenuta.» «Dio uno e trino, ma questo non può essere!» «Credimi Jagun, ho fluttuato e poi mi sono delicatamente posata sull'acqua.» L'oscurità fu improvvisamente rischiarata quando l'anziano Oddling estrasse la lanterna e la posò sul bordo della vasca. Kadiya scorse il piccolo essere immerso accanto a lei in quella liquida oscurità: i suoi grandi occhi ancor più prominenti, le fattezze del viso distorte da un'espressione di intenta concentrazione e ansietà. «La profezia... ma adesso non c'è tempo!» brontolò. «Il mistero deve attendere fino a quando non saremo davvero al sicuro.» Alzò il capo e urlò alla principessa Anigel di tuffarsi. Le sue parole echeggiarono cupamente nell'oscurità circostante. Di sopra, Anigel udì il richiamo e si accostò titubante all'apertura, incoraggiata da Immu. «Salta!» incalzò la voce proveniente dal basso. «Salta, figlia del re. Non temere!» E poi venne la voce di Kadiya, stranamente esultante. «Salta, Ani! Tieni stretto il tuo amuleto e prega di cadere lentamente, e vedrai che accadrà davvero! L'amuleto è magico e noi possiamo comandarlo!» «Cosa?» Immu si sporse oltre l'orlo. «Principessa Kadiya! È accaduto davvero?» «Sì, sì, mia cara Immu! E pensare che non l'avevamo mai sospettato!... Salta Ani, e abbi fede nel dono della Bianca Signora!» Anigel strinse i denti, afferrò il ciondolo e incominciò a tremare così violentemente che Immu temette fosse in preda a una convulsione. «Non ci riesco! Ho paura! E se la magia non dovesse funzionare su di me?» Dalla scalinata provenivano ormai i bagliori rossastri prodotti dalle torce degli inseguitori. Il cozzare delle armature e delle armi si mescolava alle voci irate degli uomini che maledicevano i lumaconi bavosi. Qualcuno gridò: «Di qua! Di qua, principe Antar! Seguite le tracce luminose giù per le scale!» «Devi saltare!» la implorò Immu. «Mia cara Ani, fra un po' ci saranno addosso. Forza, dammi la mano e con l'altra tieni l'amuleto. Salteremo insieme.» La giovane fece un balzo indietro, gli occhi spalancati dal terrore. «No!
No!» La voce di Jagun giunse cavernosa dalle profondità. «Ma cosa state aspettando, stupide donne? Svelte! I cavalieri non oseranno seguirci, perché altrimenti affonderebbero sotto il peso della loro ferraglia. Giù! Giù!» «La principessa è spaventata a morte, non posso abbandonarla», gridò Immu di rimando. «E allora spingila, testona!» strillò Jagun. Immu si voltò verso la ragazza, tenendo alta la sua lanterna, ma questa si ritrasse scuotendo la testa disperatamente, la bocca spalancata in una smorfia di folle paura. La piccola Oddling la prese per un polso e la tirò verso l'imboccatura della cisterna, mentre la principessa cercava di divincolarsi. Scivolarono entrambe e "caddero sulla piattaforma ricoperta da uno strato di viscida melma, mettendosi poi a ululare e schiamazzare come due Skritek che si contendono una preda. Fu in quel momento che fecero la loro apparizione il principe Antar e i suoi uomini, i quali le immobilizzarono senza troppa fatica. Anigel e Immu, fradicie e piangenti, furono rimesse in piedi a viva forza. Se ne stavano a testa bassa in mezzo a due uomini armati, i quali reggevano alte le loro torce fumanti e si divertivano a sbeffeggiarle rudemente. Ma il principe Antar si avvicinò con espressione piuttosto tesa e disse: «Dove sono gli altri?» Immu gli fece una boccaccia tirando fuori la sua lunga lingua prensile. Uno dei cavalieri estrasse la sua spada e l'avrebbe sicuramente trucidata sul posto se non fosse intervenuto il principe: «Fermo, Rinutar!» L'uomo si fece da parte brontolando. Gentilmente, il principe Antar sollevò il viso inzaccherato di Anigel. Era senza espressione e con gli occhi offuscati, come morti. «Mia signora», le domandò, «si sono forse rifugiati in quel pozzo laggiù?» Anigel rispose con un filo di voce: «Sì, e ormai sono lontani, quindi uccideteci pure. Ma ricordate che ora mia sorella Kadiya possiede un grande potere magico e un giorno vendicherà le azioni ignominiose di cui oggi vi siete macchiati!» A sentir questo i cavalieri lì riuniti esplosero in furiose esclamazioni e si diedero a tempestare di domande la ragazza, che però non aprì più bocca. «Posso metterle a morte, mio principe?» domandò sir Rinutar. «No, devono essere interrogate per cercare di scoprire quale forza magica, se davvero c'è, si oppone al nostro dominio di Ruwenda.» «Lasciate almeno che sistemi questa sgualdrina Oddling», disse Rinutar
impaziente, rinfoderando la spada ed estraendo uno scintillante pugnale. «Sono sicuro che alla ragazza si scioglierà la lingua se la vedrà torturata sotto i suoi occhi.» «Oh, no! Vi prego, no...» La voce di Anigel si perse in un lamento e la giovane si accasciò al suolo priva di sensi. Il principe Antar si abbassò per sollevarla, e mentre teneva quel suo fragile corpo fra le braccia ne osservò il viso, pallido alla luce tremolante delle torce, e pensò che mai aveva visto una donna così bella, nonostante le condizioni in cui si trovava in quel momento. Si sentì sollevato al pensiero di non dovere ora prendere decisioni sulla sorte della megera Oddling, ma ancor più per avere evitato per il momento la morte di quell'amabile e indifesa creatura che poggiava il capo sul suo petto rivestito dall'armatura. «Non possiamo fare più niente qui», disse il principe. «È ormai chiaro che gli altri ci sono sfuggiti e che ci è impossibile seguirli. Dobbiamo abbandonare la caccia e portare le prigioniere al mio regale genitore. Sarà lui a decidere cosa farne.» I cavalieri ne convennero entusiasticamente, dato che quella gita fra le orrende viscere della Cittadella non era stata propriamente una scampagnata. Antar ordinò al suo secondo, sir Owanon, di legare Immu e caricarsela sulle spalle, mentre lui fece lo stesso con la principessa Anigel. Poi iniziarono la lunga e lenta risalita. 4. Haramis corse a testa bassa, seguendo i passi corti ma veloci del musico di corte, e quella fuga a perdifiato le disse cose riguardo al suo coraggio - o alla mancanza di esso - che lei non aveva mai neanche sospettato. Proseguirono utilizzando passaggi segreti e inerpicandosi per rampe di scale che divennero sempre più strette, ricoperte di polvere e tagliate da enormi ragnatele, luoghi in cui, le assicurò Uzun, nessuno aveva posto piede dai tempi in cui i primi ruwendiani avevano conquistato la Cittadella. Quel camminamento nascosto giunse infine al termine quando arrivarono all'alta torre, costruita dai ruwendiani dopo l'instaurarsi del loro dominio, e allora Haramis e Uzun furono costretti a venire allo scoperto slanciandosi su per l'ampia scalinata a spirale. L'illuminazione era assicurata da vaschette di olio contenenti stoppini accesi poggiate su una serie di mensole, e questo significava che i labornoki stavano già mettendo sottosopra la torre.
Haramis e Uzun avanzarono quindi con estrema cautela di piano in piano attraversando l'enorme biblioteca regia, dove la principessa aveva passato molte lunghe giornate di studio. I piani riservati alla biblioteca erano deserti e Haramis non riuscì a trattenere un'esclamazione indignata alla vista degli scaffali rovesciati e dei preziosi volumi ammassati alla rinfusa sul nudo pavimento. Ma niente era stato distrutto, e lei pensò che probabilmente Orogastus aveva ordinato che tutto fosse preservato da un eventuale scempio. «Anch'io», pensò, «lo avrei fatto, se fossi stata al suo posto.» Malgrado tutto, provò per lui un insopprimibile senso di ammirazione. In fin dei conti si trovavano davanti un uomo che aveva imparato a controllare le forze della natura e che era riuscito a orientarsi nell'intricata pista che attraverso la Palude Labirinto conduce alla Cittadella! Il regno di Ruwenda era caduto solo grazie ai suoi poteri, e Haramis rispettava le capacità altrui anche quando queste erano rivolte contro di lei. Era incuriosita da quel mago e, sempre tenendo dietro a Uzun, si chiese che razza di uomo fosse, se poi era davvero un uomo! Haramis e Uzun oltrepassarono cautamente un cancello di ferro che conduceva nell'anticamera del quindicesimo piano, dove erano custoditi i gioielli della corona. La principessa ebbe un soprassalto quando udì giungere dalla camera blindata dei rumori prodotti dai labornoki che erano stati mandati a cercarli, ma quando nessuno venne fuori per affrontarli allora proseguirono la loro prudente salita. Passarono il sedicesimo piano, dove erano conservati denaro fresco di conio e gemme grezze o già intagliate. Arrivarono al diciassettesimo piano, che era una specie di officinalaboratorio dove venivano riparati o fusi gli oggetti preziosi. Restavano solo due piani, come Haramis sapeva: al primo c'era un piccolo arsenale e all'ultimo un dormitorio per le guardie e gli altri addetti alla manutenzione della torre. Uzun si fermò a riprendere fiato, approfittandone per togliersi il berretto e detergersi la fronte dal sudore mentre Haramis lo osservava ansiosa. Quel piccolo Oddling era stato suo amico sin dall'infanzia, le piaceva e ne aveva fiducia, per quanto non fosse umano. Rispetto agli altri aborigeni, l'apparenza esteriore dei Nyssomu era sicuramente quella più vicina alle fattezze umane. Ma il loro sangue era di un bizzarro colore rosso scuro, le ossa avevano una forma ben strana e i loro cuori battevano dalla parte opposta del petto. Tutti loro affermavano di possedere la Vista, ed era accertato che ogni tanto potevano comunicare a distanza l'un l'altro utilizzando qualche forma di telepatia. Ma la maggior parte dei ruwendiani pensava a
loro come a esseri inferiori dato che non avevano una gran cultura ed erano a mala pena civilizzati, pur essendo però rapidissimi nell'apprendere le usanze umane; talvolta arrivavano addirittura a eccellere sui maestri nelle loro stesse arti e professioni. Quando era bambina, Haramis aveva pensato che i Nyssomu appartenessero al re suo padre come tutti gli altri animali di corte, e si era sentita stranamente turbata quando lui le aveva invece spiegato che quei piccoli aborigeni erano assolutamente liberi, avevano un'anima e dovevano essere trattati come persone... Dopo che Uzun si fu riposato, ripresero la loro furtiva salita. Avvicinandosi all'ultima rampa Uzun fece fermare per un attimo Haramis, mentre lui andava a sbirciare in avanscoperta che la strada fosse libera. La giovane era sempre più preoccupata riguardo a quel che avrebbero fatto una volta raggiunti i bastioni della torre. Quando Uzun diede un'occhiata furtiva oltre l'ultimo gradino, Haramis aggrottò la fronte e si strinse addosso il mantello. Un vento gelido soffiava attraverso le feritoie e appiattiva la fiamma dei lucignoli. Haramis si spaventò quando Uzun non le fece segno di seguirlo e strisciò invece indietro portandosi alle labbra serrate una delle sue tozze dita artigliate, mentre un lampo d'allerta saettò nei suoi grossi occhi gialli. Quando le fu vicino, sussurrò: «Principessa, c'è un solo cavaliere di guardia. Senza dubbio gli altri stanno ispezionando il resto di questo piano». «Oh, lo sapevo! Siamo intrappolati, con il nemico sopra e sotto di noi! Il piano della tua Bianca Signora è miseramente fallito.» «Zitta, zitta», supplicò l'Oddling. «Penso che ci possa essere un modo per passare, ma occorrerà tutto il tuo coraggio e la tua velocità. Puoi cercare in qualche modo di accorciare la tua lunga veste?» Haramis annuì con aria corrucciata, si tolse il mantello, vi appoggiò sopra con cura la corona e si raccolse le gonne fino alle ginocchia fissandole alla cintura ingioiellata. «E ora?» «Si può raggiungere il parapetto grazie a una scala a pioli vicina all'imboccatura delle scale, quattro o cinque metri da dove si trova quel cavaliere. È stato ferito a un braccio, che infatti è fasciato, ma l'altro, quello con cui regge la spada, sembra ancora in ottime condizioni. Appare tuttavia affaticato, e forse un po' stanco per l'inutile compito, che lo priva del tanto sospirato saccheggio e dei festeggiamenti.» «E gli impedisce di stuprare le donne della Cittadella», aggiunse Haramis amaramente. «Quello che sarà sicuramente il mio destino prima di venire crudelmente trucidata!»
Uzun la fissò con rimprovero. «Principessa, dovranno prima passare sul mio cadavere. Abbi fiducia nella Bianca Signora e ascolta il mio piano, te ne prego.» Haramis giocherellò nervosamente con l'amuleto, facendo scorrere più volte il pollice sopra la liscia superficie di quella goccia d'ambra che racchiudeva il piccolo bocciolo del fiore nero. Non dubito della tua dedizione, pensò, ma «passare sul tuo cadavere» non è così difficile per dei soldati armati. Non volendo ferire i sentimenti del piccolo Oddling, si limitò a dire: «Ti ascolto, Uzun». «Salterò fuori improvvisamente dalle scale e mi precipiterò verso di lui facendo finta di essere spaventato a morte; così attirerò tutta la sua attenzione.» «E fin qui, se sei spaventato come me, non dovrebbero esserci problemi.» «Mi metterò a fare capriole e a far uscire gli occhi dalle orbite.» Lei sapeva che questo era per lui un vero sacrificio; solo da piccola lo aveva visto qualche volta estroflettere gli occhi per far divertire lei o le sorelle. Comunque, già prima dei sei anni aveva appreso che nessun Nyssomu adulto avrebbe dimostrato una simile mancanza di controllo a meno di non essere impazzito. «Distrarrò quel mascalzone», continuò Uzun. «Nel frattempo tu dovrai schizzare su per la scala e spalancare la botola che conduce sul tetto. Io ti seguirò immediatamente, getteremo giù la scala a pioli e sprangheremo la botola.» «E poi? Anche se riuscissimo a sfuggire ai soldati - e ammettendo che il loro stregone non ci distrugga scagliandoci uno dei suoi maledetti lampi la cima di una torre non è luogo per sostenere un assedio. Certo, potremmo andare incontro a un'eroica fine per fame o per sete, ma ciò gioverebbe poco alla causa di Ruwenda!» «Non lo so cosa accadrà in seguito!» rispose Uzun. «Io mi limito a eseguire gli ordini della Bianca Signora! Oh, principessa, non potresti lasciare da parte per una volta il tuo continuo porre domande? Possono arrivare altri soldati in qualunque momento! Dammi solo qualche secondo per attirare la sua attenzione e poi seguimi il più rapidamente possibile.» Il piccolo e coraggioso Oddling sgambettò verso l'anticamera delle guardie. Haramis sentì la sentinella esplodere in una bestemmia e poi colse il tipico suono tintinnante che fa una grossa spada quando viene estratta. Ma
Uzun si mise a schiamazzare e saltellare come un indemoniato, e le maledizioni del soldato si trasformarono rapidamente in fragorose risate. Haramis avanzò allora cautamente e gettò un'occhiata oltre l'ultimo gradino per vedere a che punto fosse la messinscena di Uzun. L'abitualmente compassato musicista stava ora sbraitando davanti al nemico, mentre le sue lunghe orecchie svolazzavano come le ali di un pipistrello ubriaco e i suoi occhi schizzavano dentro e fuori dalle loro cavità. Continuava intanto a svolgere e arrotolare la sua lingua prensile, cercando di fischiettare in modo a dir poco comico una qualche astrusa scala musicale. Il cavaliere, piegato in due dalle risate, abbassò la spada, e Haramis si gettò come un fulmine su per la scala e in un attimo spalancò la botola. «Uzun! Forza, sali!» La giovane si inginocchiò sul tetto e afferrò saldamente la scala mentre il coraggioso Oddling si precipitava verso di lei e iniziava a salire sul primo piolo. Il soldato capì di essere stato ingannato, lanciò un grido d'allarme e si lanciò all'inseguimento di Uzun brandendo la spada. Haramis afferrò il polso di Uzun e lo issò accanto a sé. La spada, diretta contro la caviglia dell'Oddling, si conficcò nel piolo della scala. Insieme i due spinsero via con forza la scala, mentre il cavaliere tentava goffamente di estrarre la spada dal legno. Sbilanciato e intralciato dalla ingombrante armatura, l'uomo cadde con un terribile clangore di ferraglia. Si sentirono giungere delle grida dal piano di sotto, e proprio mentre Uzun stava richiudendo e sbarrando la botola, apparvero i primi rinforzi giunti a vedere cosa stesse succedendo. Lì in cima alla torre soffiava un forte vento che portava con sé l'inconfondibile odore delle paludi e brandelli di quella fitta nebbia che nascondeva in quel momento la Palude Labirinto e i più bassi contrafforti della vasta Cittadella. Sull'alta asta portabandiera della torre troneggiava ora lo stendardo rosso sangue del regno di Labornok. Sotto di loro ardevano ancora alcuni incendi di edifici situati nei bastioni più interni e il fuoco faceva ondeggiare misteriosi bagliori sotto la bruma. Il cielo era di un azzurro intenso, scintillante di stelle, e a ovest le Tre Lune muovevano verso la loro congiunzione, la cui fase avrebbe raggiunto la sua pienezza di lì a quattro settimane. Haramis avvampò d'ira nel rendersi conto di quanta paura e indignazione le incutesse la sua attuale condizione. Si erano cacciati in un vicolo cieco senza apparente via d'uscita. Le guardie stavano forzando la botola e fra non molto quell'ultima barriera avrebbe ceduto. Ma non si sarebbe lasciata catturare viva dai labornoki! Meglio lanciarsi nel vuoto...
La botola cedette e ne emerse urlando di trionfo un cavaliere che indossava una grottesca maschera di ferro. Haramis e Uzun si trovavano ormai sull'orlo del parapetto, e lei teneva stretto l'amuleto come quando da bambina faceva un brutto sogno. Solo che questo non era un sogno, era realtà! «Signori dell'Aria, proteggetemi!» «Bianca Signora, vieni in suo aiuto!» implorò Uzun. Tre uomini armati si scagliarono verso di loro con le armi alzate. Ma nello stesso istante vi fu un tremendo colpo d'aria e le stelle furono oscurate da due enormi forme che "calarono in picchiata sulla torre emettendo suoni terrificanti. Uno dei due esseri si scagliò direttamente contro il terzetto degli inseguitori. «I gipeti!» urlò uno dei cavalieri. «Attenti!» Ma un attimo dopo un'ala gigantesca spazzò via i tre uomini come se fossero stati bambole di pezza, scagliandoli oltre il parapetto. Le loro voci si confusero in un solo urlo che durò diversi secondi prima di cessare improvvisamente. I loro compagni, appena emersi dalla botola, fecero rapidamente marcia indietro per mettersi in salvo. Si udirono schianti, urla di rabbia e di dolore mentre parecchi di loro cadevano dalla scala. Altri labornoki erano rimasti sul tetto, ma nessuno osò avventurarsi verso i fuggitivi e i loro provvidenziali soccorritori. Più tardi avrebbero raccontato al re Voltrik e al suo Mago ciò che avevano visto: due gigantesche creature dai corpi candidi ma con le ali striate di nero si erano posate volteggiando sul tetto dell'alta torre, sollevando alte scintille mentre i loro artigli stridevano sulla pietra. Pallidi raggi di luna scintillavano nei loro occhi minacciosi e sugli acuminati becchi ricurvi. I due fuggiaschi erano montati in groppa agli enormi uccellacci, che avevano disteso le ali e si erano alzati in volo verso nord-ovest, in direzione dei distanti contrafforti dei monti Ohogan. 5. L'ignominia di quella ritirata rese ancor più furibonda Kadiya. Pensava con angoscia alla vergogna che avrebbe provato se li avessero catturati proprio lì, mentre stavano strisciando carponi lungo lo stretto e scivoloso condotto. Dato che i ruwendiani avevano costruito un nuovo sistema per rifornire d'acqua la Cittadella quella conduttura era caduta in disuso da centinaia di
anni e il canale non solo stava letteralmente andando a pezzi ma era pure ostruito da disgustosi detriti putrescenti. Jagun aveva attaccato al collo la lanterna, ma di tanto in tanto era costretto a fermarsi passando la lampada a Kadiya per scostare veri e propri cumuli di legname fradicio ed erbe delle paludi in stato di decomposizione. In alcuni punti si trovarono di fronte a tali grovigli di vegetazione che non poterono fare altro che appiattirsi il più possibile per cercare di aggirarli. I pantaloni di pelle di Kadiya si erano ormai strappati all'altezza delle ginocchia che si erano perciò riempite di graffi e sbucciature. La ragazza si ritrovò a mormorare espressioni che aveva sentito usare solo dagli stallieri, ma che mai aveva avuto motivo di usare lei stessa. «È ancora lontano il fiume?» domandò alla fine, ripulendosi le mani che erano piene di spine dato che aveva equamente diviso con Jagun il compito di ripulire il percorso. «Non molto. Se fosse stato giorno, avremmo già potuto scorgere la luce davanti a noi, che sarà vicina perché questi maledetti rovi non possono crescere nella totale oscurità. Stai particolarmente attenta adesso, questo posto è un ottimo nascondiglio per gradolik e vermi d'acqua.» Kadiya sputò disgustata un grumo di fanghiglia e di nuovo sentì dentro di sé divampare l'ira che aveva provata fin dalle prime avvisaglie dell'invasione. «Che possano le paludi eterne inghiottirli tutti! E possano le vipere di Viborn attaccarsi alle loro gole e ai loro polsi.» «Risparmia il fiato, figlia del re. Senza dubbio, quando sarà il momento, i Signori dell'Aria riserveranno agli invasori un fato che persino tu troverai adeguato!» «Io stessa intendo infligger loro quel fato!» rispose lei con ardore. Il Capocaccia l'afferrò per un polso in un modo che Kadiya riconobbe come un avvertimento di pericolo. Deglutì e rimase tranquilla. Ora sguazzavano, inciampavano e scivolavano sulla fanghiglia appiccicosa, coperta da una rete di rivoletti, finché raggiunsero una vecchia griglia arrugginita. Alcune delle pietre cui era stata fissata erano cadute, e i due poterono così aprirsi un passaggio. E, finalmente, furono all'aperto. Ancora una volta Jagun tese una mano a raccomandarle prudenza, poi si allontanò un po' dalla ragazza, avanzando a testa alta. Sembrava stesse ascoltando attentamente, usando anche il suo fiuto di cacciatore, per provare la sicurezza di quella piccola distesa di terra desolata e incolta. «I labornoki devono aver piazzato un avamposto non lontano da qui.»
Kadiya diede un'occhiata guardando sopra la spalla di Jagun, allungando il collo per vedere meglio. Fuoco e volute di fumo si alzavano in cielo. Per alimentare quelle fiamme vittoriose, coloro che avevano spezzato le difese della Cittadella dovevano aver strappato la tappezzeria dalle pareti e sfasciato tutti i mobili. Si udivano in lontananza urla e grida acute e lamentose, contro le quali Kadiya cercò di corazzarsi - sforzandosi di non pensare a ciò che ivi accadeva. «Possa io vivere abbastanza da aprire proprio in mezzo alle vostre sudicie gole nuove bocche con cui ridere!» La sua mano graffiata e sanguinante, scendendo lungo il petto e dirigendosi verso il pugnale che teneva alla cintura, toccò l'amuleto, scivolato fuori da uno strappo della camicia. Se esso aveva avuto il potere di farla fluttuare nella cisterna... bene, poteva avere qualcosa di più da offrire. Strinse l'ambra in una mano con tanta forza da farla quasi penetrare nella carne ferita. Volontà - volontà e forza - e tutte le parole cui poteva fare appello: «O Signori dell'Aria, voi che siete al comando del Dio uno e trino, che mi sia concesso il vostro potere, la vostra volontà affinché costoro siano annientati, proprio come hanno assassinato quelli che fidavano in voi. Ripagateli col sangue, o voi che conoscete le strade del cielo, assicuratemi un giusto tributo di sangue!» Brandendo l'amuleto come una spada, Kadiya lo puntò verso la luce dell'olocausto che si lasciava alle spalle. La sola risposta che ne ebbe fu un urlo nella notte, e una rauca richiesta di un altro barilotto. «Non ha funzionato!» constatò la ragazza serrando le labbra con forza. Stava quasi per scagliar via l'amuleto, ma le sue dita, strette intorno ad esso, non poterono allentare la presa. «No», disse l'Oddling con tranquillità, come per blandire un bambino troppo impaziente. «Ma ho usato la mia volontà, con molta più forza che non nella cisterna!» Aprì le dita a una a una per studiare ciò che teneva in mano. «O forse la magia funziona solo su di me? Mi potrà portare fino alla Bianca Signora? O portarci tutti e due...?» Jagun la guardò paziente. «Si può solo provare, figlia del re.» Ancora una volta le dita di Kadiya strinsero l'amuleto. «Per il potere che c'è in te, portaci ora da colei che ti ha creato - l'Arcimaga!» La notte si strinse scura intorno a loro. «O dono dell'Arcimaga, se per
caso c'è in te qualche magico potere, portami via.» Nessuna risposta. «Così! Allora ho sognato tutto?» chiese Kadiya alla notte. «Possibile che mi sia tanto ingannata, Jagun?» «Piccola cara, in verità non so cosa risponderti. Era troppo scuro là dentro. Può darsi che mi sia sbagliato sulla durata del tuo tuffo. Non ho dimestichezza con l'antica sapienza.» La giovane lasciò andare il ciondolo, che oscillò per un attimo in fondo alla catena. «Sembra che la magia ci abbia abbandonati, ammesso che ci abbia mai assistiti!» Emise un profondo sospiro. «Bene, per lo meno quei furfanti non potranno sperare di rintracciarci nella Palude Labirinto.» Kadiya era stata molte volte nelle paludi - ma solo lungo i sentieri ben tracciati degli Oddling. C'erano altri percorsi segreti, la conoscenza di alcuni dei quali era geloso retaggio di singoli clan familiari. La ragazza chinò la testa verso l'ombra ricurva di Jagun e chiese con viso arcigno: «Quei vermi non oseranno seguirci laggiù, non è vero?» Seminascosto dai cespugli, Jagun stava ora avanzando a tentoni nell'acqua vicino a un ammasso di pietre. «Il loro stregone è ricorso agli Skritek. Anche Pellan si è unito a loro.» «Pellan!» Che una delle guide - alle quali quasi fin dalla nascita era trasmessa la conoscenza dei sentieri segreti - dovesse tradirli, sembrava assolutamente impossibile. Ma solo due giorni prima, avrebbe ritenuto impossibile che Kadiya della Casa di Krain si ritrovasse a strisciare in quella melma appiccicosa. «Voltrik ha ciò che per alcuni è difficile rifiutare.» La voce di Jagun era fredda e dura mentre si raddrizzava, estraendo dal fango una grossa fune che affondava là dove l'acqua era più profonda. La tirò con cautela. «Il potere del re labornoko si fonda sulla ricchezza. E la ricchezza deriva dagli sforzi degli uomini. Quale re scava nelle montagne alla ricerca di metalli preziosi, impugna l'ascia per abbattere gli alberi, si procura dal popolo delle paludi rari e curiosi reperti? Sono quelli della stirpe di Pellan che accumulano queste ricchezze. Certo, Voltrik si appropria della maggior parte di esse. Ma può assicurare gli avanzi ai suoi servi, e anche quegli avanzi possono arricchire molti uomini. Andiamo, Lungimirante.» Era quello il nome che Kadiya era stata così orgogliosa di meritarsi sei mesi prima - un nome conferitole dagli abitanti delle paludi, un nome che implicava rispetto. «Lungimirante, ci aspetta un lungo cammino.» Ma la ragaz2a non stava ascoltando, ancora scossa al pensiero del tradi-
mento di Pellan. Lei lo conosceva - sorridente, gentile, le aveva anche fatto visitare una di quelle strane rovine. «Pensi davvero che Pellan abbia agito così per denaro, Jagun? O non piuttosto per paura? Egli ha parenti nelle pianure. Abbiamo visto come questo re assassino tratta i suoi oppositori. La paura è forse più potente della magia. Non si è arresa anche Anigel alla paura?» «Non giudicare così in fretta, figlia di re. Tua sorella non si è arresa di sua volontà. La paura può diventare così intensa da generare follia. E non gliene si può fare certo una colpa.» «È una debolezza», mormorò Kadiya. «La stessa debolezza che magari un giórno proverai anche tu, e forse conoscerai anche la vera paura. Non biasimare qualcuno di cui non hai mai portato il pesante fardello.» Jagun diede uno strattone alla fune e dai vapori emerse una tozza chiatta fornita di pertiche e con un remo a palella per vogare di coda. Sul pagliolo si scorgeva un grosso involto. «Che mio fratello sia benedetto!» disse Jagun. «Ha seguito alla perfezione le istruzioni dell'Arcimaga e adesso abbiamo un mezzo di fuga, cibo e vestiti.» Nella chiatta avrebbero potuto trovare posto quattro passeggeri e con una fitta di dolore Kadiya si rese conto che Anigel e Immu avrebbero dovuto viaggiare con loro. Ma adesso si trovavano sicuramente nelle mani del nemico. E Haramis? Kadiya ignorava. Quella notte era sola, e su di lei sarebbe inevitabilmente ricaduta la responsabilità della resistenza contro gli invasori. Si imbarcarono e Jagun montò la palella allo scalmo di poppa. La barca cominciò a muoversi sulla placida corrente che costeggiava la parte nordorientale della Cittadella. Per un momento le nebbie si diradarono e Kadiya colse di sfuggita il possente picco su cui si innalzava il castello e, sopra di esso, una o due stelle. La sua casa - nelle mani del nemico! E dov'erano le sue sorelle? Potevano essere già morte - o peggio. No! Si portò le mani alla testa, come per afferrare e strappar fuori le immagini che vi si andavano formando. Non doveva pensarci - non doveva! «Dove andiamo?» C'erano molti tipi di resistenza possibile. Lei avrebbe senz'altro compiuto la vendetta, ma non poteva abbattere re Voltrik da sola. Haramis, Anigel - se erano in vita - potevano unirsi a lei? Non aveva pronunciato quei nomi a voce alta, eppure Jagun rispose e la
fece ancora una volta trasalire, dicendole: «Anche le tue sorelle dovranno percorrere la loro strada. Noi adesso dobbiamo pensare solo al nostro cammino». «Dove andiamo?» domandò lei di nuovo. «Tu devi rispondere, Lungimirante.» «Come?» Aveva preso posto nella chiatta, lanciando ancora uno sguardo alla Cittadella. Gli incendi languivano. Eppure la palude le sembrava emanare un calore innaturale. Guardò in basso. Sotto il suo corsetto imbrattato di fango e lacero si scorgeva un pallido riflesso di luce. Vi batté sopra una mano: l'amuleto! Kadiya lo tirò fuori. Sembrava muoversi sul palmo della sua mano sudicia. Una scintilla luminosa puntava verso il cielo, quasi provenisse da una qualche strana candela. Il suo respiro si fece affannoso. Forse, dopo tutto, l'amuleto aveva una virtù magica! Ma la magia non funzionava certo a comando, lo aveva già sperimentato. L'acciaio in mano dava maggiore sicurezza. Orogastus, l'indovino di Voltrik, lui sì che riusciva a usare la magia a suo piacimento. Poteva perfino dare ordini al suo re, trattandolo come non fosse stato altro che uno strumento, un giocattolo. Strumento, giocattolo! Forse questo spiegava la storia della sua nascita e del dono dato dall'Arcimaga! Forse la magia era come tutto il resto - invecchiava, si arrugginiva, si indeboliva, si rompeva quando ci si rivolgeva a lei troppo tardi. La chiatta, manovrata da Jagun, cambiò bruscamente direzione, e Kadiya vide che la scintilla si muoveva come l'ago di una bussola. «Jagun, è una guida!» «Cos'è?» chiese l'Oddling con voce stanca. Aveva avvicinato la barca alla riva, ancorandola con una pietra fissata a una fune, e adesso stava cercando di sciogliere l'involto. Kadiya tese verso di lui la mano con l'amuleto e gli disse eccitata del cambiamento nella scintilla di luce. «Indica la direzione in cui si trova la dimora dell'Arcimaga, a Noth. È un'ottima cosa, perché conoscevo pochi percorsi che portassero da quelle parti. I Nyssomu non cacciano laggiù. Quel paese, la Palude Dorata, è territorio Uisgu.» Dall'involto aveva tirato fuori tuniche e calzoni intessuti di fili d'erba aromatica, tipici della sua gente. C'erano anche delle mantelline impermeabili di pelle di febock, adatte a resistere a piogge torrenziali, e sandali con
la suola di legno. Oltre ai vestiti, c'erano due piccole giare che, una volta aperte, emanarono un profumo di erbe scelte e triturate che in qualche modo smorzava i miasmi della palude. «Potrai pulire e asciugare i tuoi abiti di pelle più tardi, e ripararli, se mai fosse possibile. Ma per ora devi vestirti come un'abitante delle paludi.» Kadiya si tolse gli abiti, veramente malridotti, e si rivestì, spalmandosi sulla pelle e perfino sui capelli arruffati la crema della giara. Gli insetti potevano diventare una vera tortura senza quella protezione. Jagun prese da un gancio della sua cintura un altro strumento che poteva risultare utile e prudente avere con sé. Era un giochetto da cacciatori che Kadiya non aveva mai visto... un fischietto poco più grosso di una cannuccia. Lo portò alle labbra, e ne trasse un suono sottilissimo e atono, che però ricevette risposta. Il passaggio lungo un corso d'acqua della Palude poteva provocare un silenzio traditore, destinato a insospettire chiunque perlustrasse la zona. Kadiya non si era resa conto della quiete in cui erano immersi fino a quando il fischio di Jagun non aveva risvegliato i suoni della vita normale. Adesso udiva il ronzio degli insetti, suoni gorgheggianti e acuti di diversi animali, e il verso profondo di un gulbard intento alla caccia, così vicino che la ragazza poté scorgere il suo corpo di un soffice grigio-verde nascosto appena sotto il pelo di quell'acqua tenebrosa. Davanti a loro, tutto era immerso in una profonda oscurità. Proseguirono così lentamente risalendo il corso del largo fiume Mutar, tenendosi a debita distanza dalla troppo popolosa riva meridionale. Jagun cercò di essere particolarmente cauto quando passarono davanti alle banchine del grande mercato generale di Ruwenda, che si trovava sul margine più occidentale della collina, proprio dove il corso d'acqua terminava la sua circumnavigazione della Cittadella ed entrava finalmente in quell'area della Palude Labirinto nota come Palude Nera. Quella regione così boscosa si estendeva per parecchi chilometri quadrati fra la Cittadella e le rovine di Trevista, e derivava il suo nome dal fatto che la superficie era immersa nella più totale oscurità a causa di alberi così alti e così vicini da avere le ramificazioni inestricabilmente unite grazie a fogliosi viticci che contribuivano a creare una sorta di fitto baldacchino vegetale. Dopo poco il fiume si divise in una ragnatela di intricati canali senza un ben definito corso principale. In quell'angolo remoto della Palude Nera c'erano migliaia di isolette acquitrinose e un numero pressoché infinito di
grossi cumuli di fango, cosicché un comune viaggiatore umano si sarebbe ritrovato nell'impossibilità di individuare la sua strada persino alla luce del giorno e ancor meno di notte, o attraverso i densi banchi di nebbia che calavano in continuazione. Ma Jagun proseguiva remando fiducioso. Kadiya si accovacciò a prua, sgranocchiando ogni tanto un pezzo di radice di adop, il tubero che costituiva gran parte delle loro provviste. Lasciava la bocca secca e leggermente amara, ma era il nutrimento principale degli Oddling nei loro viaggi. Rosicchiando quelle radici le tornava alla mente la sua prima avventura con Jagun nel profondo delle paludi. Le erano tanto piaciute le strane piante e le forme animali che egli le aveva portato da vedere, che aveva cominciato a tormentarlo perché la portasse a visitare la Palude Labirinto. Suo padre le concesse con molta riluttanza il permesso e così per un'intera giornata lei aveva viaggiato attraverso un verde crepuscolo animato di creature e piante misteriose. Quell'avventura aveva cambiato l'intero corso della sua vita. Kadiya si era ripromessa allora di imparare a conoscere le vie e i percorsi della palude, e i suoi abitanti. Non era però mai stata là dove puntava adesso la scintilla dell'amuleto, verso le terre più remote e segrete. Davanti a loro, il paese dell'amichevole Nyssomu e dello schivo Uisgu si perdeva in quello dell'abominevole Skritek. Skritek! Già il loro aspetto suscitava un orrore da incubo. Sebbene fossero bipedi, i loro crani, posti sui corpi nerboruti e venosi, escludevano ogni somiglianza con umani o Oddling. Appiattita, con la parte anteriore allungata in un grugno in cui facevano bella mostra zanne verdastre delle dimensioni di un pugnale, la testa di uno Skritek sembrava essere stata disegnata dalla natura con il preciso scopo di dilaniare e uccidere. Gli occhi erano bulbosi, come quelli di tutti i popoli della palude, alti sulla testa e un po' spostati sui due lati, così da rendere più ampio il campo visivo. Ma gli occhi di quei mostri, differentemente da quelli degli altri Oddling, non erano dorati, bensì di un vivido colore arancio con striature cremisi. Il blu verdastro dei loro corpi si mimetizzava facilmente nella vegetazione della Palude, se non fosse stato per quegli occhi: erano soliti, quindi, attendere le loro prede standosene quasi sommersi nella fanghiglia, ricoperti di felci acquatiche, pronti a tirare le loro vittime sott'acqua. La maggior parte della gente li conosceva attraverso i racconti piuttosto macabri dei viaggiatori. Si diceva che gli Skritek nel loro paese, situato nelle zone più remote del territorio Oddling conosciuto, camminassero ar-
ditamente portando con loro lance e pugnali, sebbene le loro armi più micidiali fossero le zanne e gli artigli delle loro mani a tre dita. Quando si muovevano non producevano alcun rumore, e se ne poteva avvertire la presenza solo grazie al soffocante puzzo selvatico che esalavano. Si sapeva che usavano rotolarsi nel brago, dopo averci sminuzzato delle misture di erbe dall'odore molto forte, per coprire così il loro tanfo naturale. Nel loro territorio attaccavano all'improvviso, in un parossismo di bramosia di sangue che li portava o a divorare - talvolta ancora vive - le loro vittime dopo averle sbranate o a farle prigioniere per torturarle fino alla morte. «Hai parlato degli Skritek.» Kadiya, infreddolita, si stringeva le braccia intorno al corpo. «Ma che razza di potere potrebbe spingere questi mostri a obbedire a una volontà che non sia la loro?» Jagun rispose: «La volontà di colui la cui ombra oltrepassa anche quella del re che dovrebbe servire: Orogastus. Non sottovalutarlo giudicandolo un semplice indovino, uno che escogita piccoli trucchi. Non è uno che va in giro per le fiere leggendo il futuro in un po' di sabbia colorata. Ci sono persone che nascono con talenti speciali, e la maggior parte di esse non ne fa un cattivo uso. Vi sono però alcuni adepti che seguono un cammino più tenebroso nella ricerca di strane conoscenze, spendendo la vita intera per scoprire ciò che possa dar loro il potere - non quello della mano e della spada, ma piuttosto quello del pensiero e della volontà - sugli altri uomini. Ci sono molte storie su Orogastus, giunte fino alle nostre orecchie, nella Palude. Possiamo forse non considerare, in quanto frutto di esagerazione, una metà o anche due terzi di esse - ma quelle che rimangono sono più che sufficienti a farci rabbrividire! Il simile chiama il simile - può essere che gli Skritek riconoscano nello stregone del re una forza affine a quella che li muove. Forse non sono propriamente sue creature; ma la loro attuale alleanza è basata su una legge molto antica: se il tuo nemico è anche il mio, camminiamo insieme fin quando non è morto». Kadiya sospirò. «Jagun, a lungo sei stato il mio maestro e conosci ancora molte cose che io dovrei imparare. Mi sembra a volte di non essere cresciuta da quando, bambina, per assecondarmi mi portasti a visitare questi luoghi. La tua gente mi ha chiamato Lungimirante, ma solo per adularmi. Sì, posso vedere certe cose, ma per altre sono cieca!» «Sapere di essere ciechi vuol dire cominciare a vedere», rispose pacato Jagun. Stava dirigendo l'imbarcazione verso uno degli isolotti più grandi. Sopra le loro teste il cielo schiariva. L'alba non era lontana. «Il pericolo non minaccia solo il corpo, colpisce anche lo spirito.»
«Non capisco.» «Alcune persone, anche persone che tu ami o di cui hai fiducia, possono cercare di usarti, servirsi di te proprio come io ora utilizzo questa pertica.» «Servirsi di me?» Kadiya era incredula. «Se ci provassero dovrebbero assaggiare la mia lama d'acciaio.» «Combattere, sempre combattere», nella voce dell'Oddling risuonava una garbata ironia. «Mia piccola Lungimirante, tu sei in grado di scorgere un animaletto su un ramo a centinaia di metri di distanza, ma hai mai tentato di vedere l'interno, non l'esterno delle cose? Vedere se stessi è l'impresa più difficile. Adesso è quasi giorno e con la luce ci accamperemo. Scosta quei rami.» La ragazza obbedì e Jagun fece entrare l'imbarcazione in un'insenatura dell'isolotto verso cui aveva remato. Ma anche scendendo stremata a terra, Kadiya non rinunciava a porre le sue domande: «Tu mi insegnerai la saggezza», affermò con tono perentorio. «Non io», le rispose tristemente. «È un compito che toccherà all'Arcimaga?» chiese allora. E si capiva che per lei era diventata una sfida. «Neanche a lei. Cerca di capire: solo l'esperienza insegna la saggezza. Ognuno di noi la deve imparare alla sua maniera e nel suo tempo.» Prima che lei potesse pensare a una risposta, Jagun cominciò a guardarsi intorno. «Questa è buona e solida terra.» Batté sul terreno con un piede. «Possiamo accamparci qui, siamo al sicuro finché farà notte. Attizzeremo un fuoco. Un pelrik o un karuwok allo spiedo saranno sempre meglio delle radici di adop.» «Viaggeremo di notte?» Adesso ciò che Kadiya più desiderava era un letto di erba canaria - che lì, proprio in quella zona, cresceva con una certa abbondanza - dove potersi raggomitolare e dormire. «Sarà più sicuro, almeno finché non passiamo il corso superiore del fiume Mutar. Forse - se Voltrik è abbastanza intelligente - tenterà con i Nyssomu un approccio amichevole, almeno in apparenza. La maggior parte di noi sa pochissimo di quelli della vostra razza, Lungimirante. Ad alcuni di noi, gli umani sembrano tutti della stessa famiglia e siccome da lungo tempo siamo con voi ruwendiani in rapporti di fiducia, può darsi che qualche parola dei labornoki, che ci accarezzi per il verso giusto, ottenga l'effetto di tenerci lontani dalla verità fino a quando non sarà troppo tardi.» «Possiamo avvisare quelli del tuo popolo.» Kadiya fece una pausa nel suo energico lavoro per costruirsi il pagliericcio. «Forse altri ruwendiani
sconfitti sono fuggiti lungo il fiume: i Nyssomu di Trevista aiuterebbero sicuramente i fuggitivi.» Jagun aveva tirato fuori la giberna di piccole frecce, simili a spilli, della cerbottana ed esaminava a uno a uno i suoi proiettili. «Lungimirante, noi non possiamo osare di farci vedere lungo il Mutar. E manca poco alle Piogge Invernali, quando sarà impossibile viaggiare.» Jagun alzò lo sguardo e i suoi occhi erano circondati da un fitto reticolo di venuzze scure, gonfie per la stanchezza. Gocce di sudore gli solcavano il volto e le mani, rigando la crema repellente. «Dobbiamo raggiungere Noth. Si trova sulle colline ai piedi dei monti Ohogan, più di cento leghe a nord. Attraverso il territorio degli Skritek, entreremo nelle distese desolate della Palude Dorata. Avremo allora bisogno dell'aiuto degli Uisgu.» Jagun spianò con la mano un piccolo spazio di terreno e cominciò a disegnarci sopra. «Qui», disse, facendo con un'unghia una piccola tacca nella polvere, «siamo noi. Qui», e spostò verso nord la punta del dito, «si trova Noth, la nostra meta.» Kadiya aveva udito delle storie su Noth. In tutta la zona delle paludi si trovavano molte rovine, arroccate su isolotti di terraferma come quello dove stavano adesso. Alcuni di quei resti di epoche precedenti non erano così devastati dal tempo come la diroccata Trevista, e si diceva anzi che fossero ancora solidi come la Cittadella. Si vociferava di grandi tesori nascosti tra le rovine. Di tanto in tanto apparivano al mercato di Trevista strani ninnoli e misteriosi manufatti per i quali i mercanti aprivano animate contrattazioni. Molti erano portati dai timidi clan Uisgu che poi li affidavano per la vendita ai loro più arditi cugini Nyssomu. Kadiya aveva sentito di avventurieri umani che si erano spinti a nord e a ovest alla ricerca delle isole dimenticate e dei loro tesori. Uomini resi quasi pazzi dalle avversità e dalle privazioni del viaggio avevano fatto ritorno alla Cittadella, e uno di costoro aveva farneticato di una città, più grande di Trevista, ma ermeticamente chiusa e silenziosa, senza nessun uomo sugli spalti e priva di vie di accesso. Si trattava di Noth, o così almeno sosteneva quell'uomo. Solo degli spettri potevano essere a guardia di quella città, ma tutta Ruwenda sapeva che Noth apparteneva all'Arcimaga. Si diceva che la vecchia maga fosse di una razza più antica, risalente a un'epoca in cui le isole con le città erano disseminate su un grande lago. Secondo la storia raccontata e tramandata dalla gente appartenente alla stessa razza di Kadiya, l'Arcimaga era sempre esistita. Se non si era trattato sempre della stessa donna, alme-
no era una sua gemella, e poi un'altra, e un'altra ancora... Jagun scomparve ma fu di ritorno prima che lei avesse finito di preparare un pagliericcio per lui. Teneva penzoloni per la coda robusta e piatta un pelrik, e Kadiya si dimostrò una viaggiatrice in gamba procurandosi ramoscelli secchi e rami spezzati pronti a prender fuoco alla prima scintilla d'acciarino. Jagun scuoiò e ripulì la preda con il suo lungo coltello da cacciatore, sistemando gli spiedi di carne cruda vicino al fuoco per arrostirli. A tratti Kadiya si assopiva, sebbene il profumo della carne arrosto le facesse venire l'acquolina in bocca. Le sembrava di non essere mai stata così stanca - non rendendosi conto che gli orrori appena passati avevano avuto la loro parte nell'esaurire le sue energie. 6. La principessa Anigel non riprese conoscenza fino a quando coloro che l'avevano catturata non raggiunsero la fabbrica di birra. Qui i cavalieri labornoki si fermarono a riposare, esausti per la lunga risalita dalle viscere della Cittadella, seguita tra l'altro a una dura giornata di battaglia. Sir Rinutar propose al principe Antar una breve sosta per riprendere fiato e concedersi un assaggio della bionda bevanda, di cui si scorgevano barili e barili ammonticchiati un po' dappertutto. «Ben detto, Rin», disse sir Owanon, «perché questa vecchia megera Oddling pesa più di quanto non sembri e ho proprio la schiena a pezzi.» Lasciò cadere Immu su un mucchio di sacchi di frumento. La piccola Nyssomu gemette flebilmente, evitando di riaprire i grandi occhi dorati che teneva serrati ermeticamente. Il principe Antar però li mise in guardia. «Solo una rapida sosta, altrimenti re Voltrik e il suo consigliere si infuneranno se tarderemo troppo nel portargli queste due prigioniere da interrogare. Se qualcuno dei vostri uomini eccederà nel bere, vedrò che il mascalzone sia severamente punito.» Depose la principessa Anigel con estrema gentilezza e le accarezzò i capelli prima di unirsi ai suoi compagni nel breve rinfresco. Vennero stappati alcuni barilotti e la birra si riversò allegramente nei boccali, schiumando poi a terra alla fine di ogni mescita. «Si trattano proprio bene questi vigliacchi di ruwendiani», disse sir Rinutar ripulendosi i baffi dopo una lunga sorsata. «Questa birra è di gran lunga migliore della nostra.» Bevve di nuovo, avidamente, e dopo avere vuotato la coppa la porse di nuovo per un meritato rabbocco.
«Non c'è da meravigliarsi», borbottò Immu, «perché la nostra è invecchiata e con una buona gradazione, mentre la vostra non è che pipì di bambino.» «È davvero roba eccellente», disse un altro cavaliere, sir Penapat. «Perché non proviamo a farla così anche noi a Derorguila?» «I nostri birrai si lamentano sempre», disse sir Owanon, «perché secondo loro c'è di mezzo lo zampino delle streghe, che accusano di inacidire la birra, o di darle comunque uno strano sapore. Ho sentito che ne hanno messa una al rogo proprio poco prima che ci mettessimo in marcia. Era stata catturata mentre si nascondeva nel locale dei bollitori, dove stava chiaramente preparando chissà quale sabotaggio! Le donne non sanno un bel niente riguardo alla fabbricazione della birra.» «Palle di toro!» scattò Immu. La sua voce era ancora smorzata, perché l'avevano gettata bocconi, ma venne udita abbastanza chiaramente da suscitare le reazioni della soldataglia. «Oh, ma guarda guarda», si fece beffe sir Owanon sogghignando, «il mio fardello parla! E anche in modo insolente, per giunta!» «Dalle un bel calcio», suggerì Rinutar. La principessa Anigel si dibatté selvaggiamente, sebbene avesse anche lei le mani legate dietro la schiena, e gridò: «Non osare, ruffiano, e vergognati! Perché se pensi che la nostra birra sia così buona, puoi solo ringraziare Immu, dato che è lei a occuparsene qui nella Cittadella!» «Che menzogna!» ringhiò sir Rinutar. «Quale scarna megera Oddling potrebbe mai comprendere i misteri di una tale arte?» Indicò con foga i grossi pentoloni di rame, l'intrico di serpentine e il complicato sistema di tini e tubature che portavano il frumento maltizzato alle botti di fermentazione, da cui poi il mosto raffinato veniva trasferito agli enormi bollitori per l'ultima fase del processo. C'era un insieme di strette passerelle che correvano vicino agli imponenti recipienti e permettevano così agli addetti alla produzione di controllare le varie fasi di preparazione della bevanda. «Conosco perfettamente il modo in cui si fa la birra!» Immu, come la principessa, era riuscita a voltarsi e assunse un tono freddo e professionale. «E solo una grossa testa di cavolo potrebbe dare la colpa alle streghe perché la birra si è inacidita. Questo accade la maggior parte delle volte perché i bollitori, le tubature e i recipienti di fermentazione non sono stati adeguatamente ripuliti, e allora vi si formano fetide muffe che contaminano il sapore della bevanda.» «Stai dicendo il vero?» domandò il principe Antar con aria interessata.
«Potremmo forse lasciarti vivere, e vedere se sei capace di insegnare ai nostri birrai a produrre finalmente una birra come si deve.» «Questa sì che è una buona idea», affermò sir Owanon, ma altri lo fecero tacere a forza di schiamazzi e ne sorse così un'accalorata discussione mentre intanto venivano aperti altri barilotti e riempiti altri boccali! Ma furono ben presto interrotti dall'arrivo del generale Hamil insieme a un altro gruppo di armati. Erano anch'essi stanchi morti, e si unirono così ben volentieri ai loro camerati congratulandosi per la scoperta. Hamil si felicitò invece con Antar per la cattura della principessa Anigel, ma lo prese poi in disparte e gli parlò sottovoce. Anigel e Immu udirono però chiaramente le sue parole. «Mio principe, è successo qualcosa di terribile e portentoso. Milotis e i suoi uomini stavano ispezionando i piani superiori dell'alta torre quando si sono imbattuti nella principessa Haramis e nel suo compagno Oddling. Li hanno inseguiti fino alla terrazza e qui hanno trovato la giovane sull'orlo del parapetto mentre invocava i Signori dell'Aria tenendo stretto al petto un amuleto.» «È quel che avrei fatto anch'io nella sua posizione», disse il principe osservando di sottecchi la ragazza. «Ma poi sono arrivati due enormi gipeti», continuò Hamil, «e si sono portati via i fuggitivi caricandoseli in groppa!» Il principe lanciò un'imprecazione. «E Milotis ha davvero assistito a un simile prodigio?» «Sissignore. Ho comunicato la notizia al potente Orogastus, che è esploso di rabbia. Milotis e i suoi uomini sono stati messi a morte per ordine del re.» «Che sciocchezza», mormorò Antar, «Milotis è un valente capitano e come diamine avrebbe potuto contrastare una tale magia? Quello era un problema per Orogastus! Mi domando se non verrò condannato anch'io per essermi lasciato sfuggire una delle principesse.» Gli descrisse poi la fuga di Kadiya attraverso la cisterna, e ripeté l'affermazione di Anigel secondo cui ora sua sorella possedeva un grande potere magico. Il generale Hamil si piazzò allora di fronte alle due prigioniere, una figura terribile racchiusa in un'armatura rosso sangue decorata d'oro. Sul suo elmetto rosso erano montate delle corna fatte del prezioso metallo e la visiera era foggiata come un grosso teschio. «Principessa Anigel», domandò, «è vero che vostra sorella possiede dei poteri magici?»
Ma la povera fanciulla, terrorizzata, scoppiò in lacrime e si mise a tremare così violentemente che Immu non poté fare a meno di intervenire: «Ecco, guarda cosa hai combinato grosso caprone che non sei altro! Magia, magia, magia! È ridicolo quanto quella vostra storia delle streghe che rovinano la birra. Per il Fiore, non so perché quegli uccelli si siano posati proprio sulla torre, ma potete stare certi che non c'era di mezzo nessuna magia. Non sono forse le tre principesse il frutto di un parto trigemino? Se una di loro possedesse quindi poteri magici, lo stesso dovrebbe valere per le altre due. Ed ecco qui invece la povera Anigel in vostro potere». Antar incominciò a parlare gentilmente alla ragazza, anche se con una certa fermezza. «Quel che dice la vecchia Oddling ha un qualche senso», affermò aggrottando la fronte. «Ma sarà meglio lasciare la questione a Orogastus.» Il principe alzò la voce. «Compagni, adesso dobbiamo lasciare questo posto e tornare alla sala del trono con i nostri prigionieri.» Immu smise di sussurrare alla così turbata principessa e si rivolse al principe Antar con un tono di lusinga. «Mio Signore, abbiate pietà di questa sfortunata damigella. Prima di portarla con voi slegatela un momento e permettetele di 'liberarsi' dietro quella pila di sacchi, evitando che si umilii davanti a tutti e non corra il rischio di sporcarsi...» Anigel, vergognosa, stava a testa bassa, ma il generale Hamil ridacchiò e fece una battuta piuttosto volgare. Il principe invece si inginocchiò e sciolse i legacci con cui erano serrati i polsi della fanciulla, la quale lo ringraziò con aria afflitta e lo implorò di liberare anche la sua servitrice affinché la aiutasse con i vestiti. «Va bene, ma cercate di sbrigarvi», rispose Antar. Si assicurò che non vi fosse qualche scappatoia in quell'angolo dietro i sacchi e poi lasciò andare le due donne. «C'è un'altra cosa di cui vorrei parlare», disse Hamil. «La mano del re si è alquanto infiammata dopo che è stato morso da quel furfante di scudiero. Il dolore lo rende di pessimo umore, e sia il medico reale sia la Voce Verde del Mago gli hanno consigliato di mettersi a letto, applicarvi sopra un forte impiastro di erbe e bere un infuso caldo, in modo da evitare che la ferita marcisca e gli si avveleni il sangue.» «Ma Orogastus non può farci niente?» «Evidentemente no, sebbene abbia pronunciato un incantesimo sopra il pentolone in cui ribolliva l'impiastro. È d'accordo con la diagnosi del medico e del suo lacchè, e suggerisce anche lui riposo assoluto per il sovrano.
Quindi il compito di recuperare le due giovani fuggitive spetterà a noi!» «Ma gli uomini sono esausti. Abbiamo tutti bisogno di parecchi giorni per riprenderci prima di battere a tappeto la zona. Potremmo cercare intanto di mettere insieme delle informazioni, specialmente dagli Oddling. Se c'è qualcuno che può sapere dove sono scappate le principesse, si tratta sicuramente degli aborigeni delle paludi.» Hamil annuì. «Tutti gli Oddling se ne sono scappati dalla Cittadella, ma potremmo andare a Trevista, quella vecchia città in rovina dove si tiene la loro fiera. Quel voltagabbana di Pellan comanda una flotta di barche a fondo piatto con cui porta a Trevista i mercanti, e collaborerà sicuramente. Ci sono poi alcuni dei Capi Mercanti di Labornok che potrebbero consigliarci riguardo al tipo di pressioni da esercitare su quei nanerottoli per assicurarsene l'aiuto.» «Parlerò al mio regale padre e vedrò di sistemare la questione. Forse tu e io potremmo farci accompagnare a Trevista da Pellan insieme a un piccolo drappello di soldati, mentre il resto della truppa si riposa dalla battaglia. Noi stessi potremmo in fin dei conti schiacciare un pisolino di tanto in tanto lungo la navigazione...» «Davvero una splendida idea, mio principe.» Antar a quel punto aggrottò le sopracciglia e allungò il collo. «Ma dove sono finite quelle due?» Hamil si fece avanti per sbirciare oltre il mucchio di sacchi. «Sono sparite! Per le sacre budella di Zoto, sono sparite! Ma dove?» Iniziò a lanciare ordini su ordini, mentre i cavalieri si precipitavano a destra e a sinistra scandagliando ogni angolo del vasto locale, anche se non sembrava possibile che Immu e Anigel fossero passate inosservate davanti al principe Antar e al generale Hamil. Poi, quando c'era ormai un tale baccano che nessun uomo poteva sentire quel che stavano dicendo gli altri, il principe Antar vide che il rozzo Rinutar si stava avvicinando a grandi passi a un grosso tino di fermentazione, camminando su una di quelle strette passerelle che servivano ai controlli. L'uomo iniziò improvvisamente a barcollare aggrappandosi all'aria, ululando nello stesso tempo qualcuna delle sue imprecazioni che però questa volta nessuno avrebbe potuto udire. Rinutar perse definitivamente l'equilibrio e piombò con un grande tonfo in mezzo alla schiuma che galleggiava su quell'enorme quantità di mosto. Tutti gli uomini si fecero silenziosi per lo stupore, ma poi si misero a ridere fragorosamente all'indirizzo del loro sputacchiante compagno, che fu
ripescato poco dopo da qualche volenteroso. Il suo viso era scuro di rabbia, ma il resto dell'armatura era bianco di schiuma, e quando riuscirono infine ad issarlo fuori dal tino egli gridò: «Chi mi ha spinto?» «Nessuno ti ha spinto», disse il principe con aria disgustata, «testa dura di un ubriacone. Hai semplicemente inciampato.» «Ma neanche per idea», lo contraddisse Rinutar con fermezza. «Sono stato spinto, e oltretutto ho anche sentito una voce che diceva 'Fatti una bella bevuta' mentre cadevo.» Parecchi cavalieri accolsero la sua giustificazione con risate piene di scetticismo, ma il generale Hamil si scurì in viso aggrottando la fronte. Tuonò rabbiosamente: «Silenzio tutti quanti!» L'improvviso silenzio che seguì fu rotto soltanto dallo sgocciolio della birra e dall'ansimare degli uomini... e da passi veloci che corsero prima sulla passerella per precipitarsi poi verso la scala che conduceva al locale in cui venivano riempiti i barili. «Magia!» ululò Hamil. «Magia all'opera! Sono diventate invisibili! Giù al piano di sotto, tutti! Camminate piano, accidenti, e aguzzate le orecchie!» Anigel, stringendo l'amuleto, sussurrò ansiosamente a Immu: «Ci troveranno. Stiamo lasciando delle impronte bagnate!» «Da questa parte», sibilò la sua invisibile compagna, «al montavivande che fa arrivare i barili alle cucine.» Corsero verso il piccolo saliscendi, dotato di un contrappeso che avrebbe permesso loro di salire ai piani superiori azionando semplicemente una leva. Anigel vi si arrampicò sopra immediatamente, ma Immu disse: «Un attimo, principessa». Allora si poterono vedere le sue impronte bagnate cambiare direzione e avvicinarsi a un mucchio di barilotti pronti per essere riempiti. Mentre i cavalieri labornoki si precipitavano per le scale al seguito del loro comandante, la pila di barilotti incominciò a traballare, e i contenitori crollarono uno dietro l'altro addosso agli inseguitori. Barili piccoli e grossi rotolavano con gran frastuono giù per le scale mentre i cavalieri, ostacolati dalle armature, cercavano inutilmente di farsi da parte e si vedevano così precluso l'inseguimento. La principessa Anigel scoppiò a ridere e lasciò andare per un attimo l'amuleto, cosicché i labornoki poterono scorgere brevemente due figure sghignazzanti mentre scomparivano rapidamente dalla loro vista nel condotto destinato alle vivande.
«Ho pregato con tutto il cuore affinché il tuo piano funzionasse», disse Anigel, «ma ero così spaventata!» Immu sorrise nell'oscurità dell'ormai deserto corpo di guardia della Cittadella, dove si erano nascoste un attimo a riprendere fiato. «Ma non hai dubitato, e quella è stata la cosa importante. L'aver sentito che anche tua sorella Haramis è fuggita con l'aiuto dell'amuleto è servito a darti fiducia, a credere che anche il tuo avrebbe risposto ai tuoi comandi e ci avrebbe permesso di renderci invisibili. E così è stato, e ora non ci resta che alzare i tacchi e mettere quanta più strada possibile fra noi e gli inseguitori, che non tarderanno a organizzarsi.» Anigel si accasciò contro la parete a cui era appoggiata. «Abbi pietà amica mia, lasciami riposare ancora un attimo, perché se dovessi proseguire ora penso proprio che sverrei!» «Va bene, piccola mia.» Immu si tolse lo scialle e lo avvolse intorno alle spalle della ragazza. «Qui possiamo stare al sicuro ancora per un po'.» I labornoki pensavano che le fuggitive fossero ancora all'interno del torrione centrale, e il generale Hamil ne aveva quindi sbarrato tutte le porte. Ma Immu aveva sfruttato un'uscita segreta che si trovava nelle cucine e di cui pochi erano a conoscenza, se non i pigri sguatteri che ne approfittavano sempre per tagliare la corda. Quel passaggio conduceva a una cinta muraria che si trovava ben lontana dal grosso maschio e che avevano raggiunta attraversando invisibili un cortile in cui gruppi di soldati sonnecchiavano intorno a fuochi quasi spenti. Sebbene Anigel fosse esausta, non osava chiudere gli occhi, nel timore che il sonno cancellasse la benefica magia che aveva consentito loro di arrivare sane e salve al corpo di guardia. «Faccio ancora fatica a credere che siamo diventate davvero invisibili», mormorò. «Il talismano non mi ha salvato sul bordo della cisterna e... perché più tardi lo ha fatto?» «Alla cisterna eri disperata e terrorizzata. Alla fabbrica di birra, una disposizione d'animo più pratica e positiva ti aveva reso propensa ad accettare i miei consigli.» «In effetti ero colma d'ira», disse piano la principessa. «Mi disprezzavo per la mia codardia, che aveva provocato la nostra cattura. E sentivo una grande vergogna per lo stratagemma poco dignitoso che avevi usato per farci sciogliere da quei villani...» Immu ebbe un riso soffocato: «La tua ira ti ha schiarito il pensiero, fa-
cendoti superare il terrore che paralizzava la tua volontà. Hai finalmente avuto fiducia in me quando ti ho detto di rivolgerti al tuo amuleto magico. L'ira è un sentimento più utile della paura. Dovresti imparare a farne maggior uso, mia dolce amica. Nello stato in cui ti trovi adesso, le maniere dolci e delicate ti sono di scarso aiuto». «E la magia?» chiese Anigel con voce stanca. «Questo resta da vedere.» La principessa rimase immersa nei suoi pensieri per diversi minuti, poi chiese: «Allora... il tuo popolo fa uso corrente della magia?» «Oh no, è una cosa speciale, alla quale non bisogna ricorrere con leggerezza. A volte è disponibile, ma altre volte non lo è, e non risponde neanche alle invocazioni più disperate. I tuoi poveri genitori non godevano dell'aiuto della magia...» «Che crudeltà! Non ha senso che il re e la regina di Ruwenda muoiano e il paese venga conquistato mentre la magia protegge me e le mie sorelle!» «Calma, bambina mia, calma. La magia è un mistero, come tanta parte della vita. Può essere esercitata con scopi benefici o maligni, e non sempre sappiamo distinguerli, così come non possiamo comprendere veramente che cosa la magia è.» Anigel sospirò: «Forse l'Arcimaga ce lo dirà». Si rannicchiò appoggiandosi alla vecchia balia e finalmente i suoi occhi si chiusero; ma la principessa, anche nel sonno profondo, teneva stretto in mano il giglio racchiuso nell'ambra. Non si erano riposate per più di due ore quando udirono il suono dei corni e videro che i soldati stavano incominciando a svegliarsi brontolando e imprecando sommessamente. L'alba era vicina. Gli uomini erano in uno stato d'animo davvero pessimo, perché era stato loro proibito di razziare la Cittadella. Attizzarono i fuochi per scaldarsi un po' le ossa e preparare qualcosa per colazione utilizzando le razioni da campo, approfittandone intanto per fare i loro bisogni dove capitava. «Non guardare fuori, principessa», la ammonì Immu. «Quegli zoticoni svergognati!» «Oh, Immu, non me ne importa. Ciò che davvero mi preoccupa è il pensiero di quel che faremo ora. Come faremo ad arrivare alla dimora dell'Arcimaga?» «Jagun aveva pianificato accuratamente la nostra fuga. Suo fratello avrebbe dovuto portare una chiatta in un punto prestabilito, ma senza dubbio Jagun e Kadiya se ne saranno ormai andati, dandoci per disperse.»
Immu si accigliò pensierosa. «Dobbiamo trovare un altro modo per risalire il Mutar. Se riusciremo a raggiungere Trevista, la mia gente ci aiuterà a contattare gli Uisgu, nelle cui terre si trovano le rovine di Noth.» «Ma Trevista è così lontana, e c'è di mezzo pure la Palude Nera!» All'esterno del corpo di guardia si sentiva un gran frastuono di trombe e corni. Immu sbirciò fra le assi sbrecciate per vedere cosa stava succedendo. Un comandante delle forze d'invasione arrivò al piccolo galoppo con la sua scorta, e si fermò nel cortile a pochi metri di distanza da dove erano nascoste Immu e Anigel. Un sergente maggiore stava sovrintendendo alla distribuzione di provviste provenienti da una fila di carriaggi coperti. Il cavaliere disse: «La compagnia si muoverà fra un'ora. Marceremo giù per la collina dalla parte occidentale, verso il mercato di Ruwenda, e lì ci imbarcheremo per Trevista sulle chiatte. Mi raccomando, assicuratevi che venga caricata un'adeguata quantità di cibo e materiale, e foraggio per le bestie». Il sergente salutò rispettosamente mentre il cavaliere voltava il suo destriero da battaglia e guidava la sua scorta attraverso l'uscita che si trovava vicino al corpo di guardia e che conduceva ai bastioni più esterni. Immu emise una risatina soffocata. «Abbiamo risolto il problema! Proprio il nostro nemico ci farà il favore di portarci a Trevista, e senza neanche saperlo! Hai fame, mia piccola principessa?» «Sì, Immu. E sono anche molto stanca.» «Non puoi renderci invisibili mentre dormi, ma penso che riusciremo a trovare un buon angolo dove nasconderci dopo che avremo fatto colazione.» Spiegò alla ragazza il suo piano, e fu così che gli occhi della giovane presero a danzare allegramente e non poté fare a meno di abbracciare la sua amica Oddling. Poi Anigel strinse con forza il suo amuleto, che le fece scomparire, permettendo a lei e a Immu di dirigersi inosservate verso un carro che facesse al caso loro. 7. In alto, sopra le nebbie che avvolgevano la Palude Labirinto, volavano due maestosi gipeti, trasportando Haramis e Uzun verso le rovine di Noth. Quando il cuore della principessa Haramis rallentò il suo furioso martellare e i suoi sensi le dissero che si trattava di un'esperienza molto reale e non di un fantastico sogno, la giovane poté riprendere il dominio di se stessa. Era incolume e trasportata in volo nella notte da due possenti crea-
ture benigne la cui apparizione l'aveva salvata da morte certa. Tutto ciò era opera della magia dell'Arcimaga? Restava ancora qualche potere alla Bianca Signora, sebbene esso non fosse bastato a resistere a Orogastus e a prevenire l'invasione del Ruwenda? Le enormi ali dell'avvoltoio battevano l'aria con forza e regolarità, producendo una sorta di rombo sommesso e costante. La morbida schiena ammantata di candide piume era vasta e soffice come un grande letto coperto da una trapunta. Haramis affondava così profondamente nell'incavo dietro il grande collo striato di nero da non doversi quasi reggere al piumaggio. Dopo circa un'ora di volo il gipeto voltò il capo crestato per osservare il suo strano carico, ma i suoi occhi erano miti e l'adunco becco non sembrava celare alcun pericolo. Haramis, pur senza aver modo di sapere se l'animale la capisse o meno, provò a dirgli: «Ti porgo i miei più umili ringraziamenti per avere salvato me e il mio compagno». Forse c'era stato un piccolo cenno d'assenso, o forse no. Sta di fatto che comunque la possente creatura non si voltò più, continuando a volare instancabilmente verso nord-ovest. La ragazza salutò Uzun con la mano, non potendo di certo parlargli visto la distanza che separava i due gipeti. Sotto di loro non si vedeva che un'impenetrabile cortina di nuvole, mentre invece il cielo soprastante era affollato dalle familiari costellazioni: l'Arco, il Bricco, l'Albero di Ludu, il Grande Verme, la Corona del Nord. Corona... Teneva ancora appeso a tracolla, come un oscuro fagotto, il nero mantello di seta macchiato del sangue di sua madre. Lo prese, lo spiegò con cautela e ne fissò il contenuto fino a quando il dolore non rese confusa la sua visione. Almeno Voltrik non si è impadronito di questa, pensò con arcigno vigore, né lo farà finché avrò vita! Ha ucciso i miei genitori, ma io sono ancora viva, e Ruwenda è mia! Ricacciò indietro le lacrime, temendo che, se avesse cominciato a piangere, non sarebbe più riuscita a smettere. Adesso sono regina di Ruwenda, ed è mio dovere salvaguardare il paese e la sua gente, e sposarmi e crescere i miei figli affinché possano assumersi questa responsabilità quando io non ci sarò più. Aveva un groppo alla gola che le impediva quasi di respirare, ma era determinata. E tuttavia era anche intimorita. Ho sempre saputo che un giorno sarei stata regina, ma non mi aspettavo dovesse accadere così presto... e in circostanze simili! Spero che la Bianca Signora mi possa aiutare; avrò certo bisogno dell'aiuto di qualcuno!
C'era davvero un potere magico in quegli strani boccioli fossilizzati racchiusi nella corona e nel suo amuleto, o si era trattato solo di una sfacciata fortuna che aveva fatto capitare lì gli avvoltoi dell'Arcimaga proprio al momento opportuno? Dovrò fare qualche esperimento, pensò. Afferrò quindi l'amuleto attaccato alla catena che portava al collo, chiuse gli occhi e disse: «Portami subito alla dimora della Bianca Signora!» Ma non accadde assolutamente niente, e il gipeto continuò a volare imperturbabile. Tentò con una richiesta più semplice: «Portami qualche squisita pietanza, perché sto morendo di fame». Anche questa volta non accadde proprio niente, e il suo stomaco si contrasse dolorosamente. E va bene, niente magia! Ma che importa, tanto ormai siamo in salvo! Si sentì avvolgere da un profondo senso di depressione. Non c'era per lei alcun regno da guidare e nessuno sposo regale si sarebbe mai seduto al suo fianco. Haramis cercò di non abbattersi, di trovare un lato positivo nella situazione. Aveva sempre cordialmente detestato la pompa e il cerimoniale di corte, le interminabili riunioni ministeriali che suo padre aveva dovuto pazientemente sopportare, i noiosissimi banchetti e intrattenimenti a cui sua madre doveva sovrintendere, circondata da dozzine di cicalanti dame. C'era anche stato un lato più profondo della personalità della regina Kalanthe, la quale aveva scritto poesie e si era occupata attivamente delle vicende degli abitanti meno fortunati del regno di Ruwenda, sempre cercando di migliorarne le condizioni pur senza soffocarne le iniziative. Ma il ruolo di regina era un qualcosa di cui Haramis aveva sempre avuto paura. Rispettosa com'era, aveva ovviamente accettato quel suo naturale destino. Ma ora che si sentiva sollevata dai suoi obblighi... Si rannicchiò nel suo confortevole giaciglio, lasciando che il vento fischiasse sopra di lei mentre attendeva l'arrivo di un sonno ristoratore. Aveva riawolto la corona nel mantello di seta, legando poi il fardello alla sua alta cintura ingioiellata, in modo che non andasse perso. L'Arcimaga avrebbe saputo cosa farne. E cosa fare di lei. Chi era quella donna in realtà? Haramis non dubitava più che si trattasse di una persona reale e non di una leggenda. Anche i favolosi eventi che risalivano al giorno della sua nascita dovevano essere ritenuti veri, compresa quindi la sinistra profezia enunciata dall'Arcimaga. Se quella benedetta
Bianca Signora era davvero così prossima alla morte, come sarebbe stata in grado di fornire aiuto o consiglio? E perché tanto tempo prima aveva detto che tutto sarebbe andato per il meglio? Quei pensieri vorticavano frenetici nella testolina della graziosa principessa, la quale si ritrovò a rimuginare su un certo numero di modi con cui Ruwenda avrebbe potuto essere salvato... ed eccola entrare nella Cittadella alla testa dei valorosi guerrieri che aveva portato alla vittoria! Ma quelle erano soltanto sciocche fantasie. Aveva diciassette anni ed era senza dubbio intelligente, abbastanza colta ed erudita, ma di certo non era un condottiero. Se questa Arcimaga aveva scelto proprio lei come strumento perché il destino si realizzasse, forse la senilità le offuscava la ragione... Devo stare in guardia, pensò Haramis. Chissà in quali folli progetti ha intenzione di coinvolgermi quella vecchia donna! Ma sarò quantomai prudente, e prenderò le mie decisioni da sola. Adesso sono regina e la responsabilità è mia, indipendentemente da chi mi consiglia. Non devo sottomettermi docilmente al volere degli altri. Giglio o non giglio! Quando si svegliò stava ormai albeggiando, ma i due avvoltoi continuavano a volare imperterriti. I monti Ohogan coprivano ora una buona metà dell'orizzonte, e risaltavano le loro impervie cime di basalto e granito ammantate di neve al di sopra del limitare delle foreste. Il rosa pallido del sole donava in quel momento ai ghiacciai una falsa morbidezza. Haramis, osservandoli, sentì un tuffo al cuore. E se l'Arcimaga le avesse detto che il suo destino si trovava proprio lassù? Il sole cresceva nel cielo e la nebbia aveva finalmente abbandonato il territorio sottostante, passato ora da una impenetrabile giungla a un vasto oceano di alte erbe ondeggianti di colore giallastro, un qualcosa che lei non aveva mai avuto modo di osservare in nessun'altra parte della Palude Labirinto. La monotona pianura acquitrinosa era solo raramente interrotta da sparse aree di terreno asciutto. Quelle basse alture erano punteggiate di boscaglia e altra vegetazione, e suppose che fossero abitate dai misteriosi Uisgu, quella razza così simile ai Nyssomu che abitavano le regioni più settentrionali della Palude Labirinto. C'erano, come lei sapeva, aborigeni anche nelle regioni montuose, quelli conosciuti con il nome di Vispi, ma gli umani non avevano con loro alcun contatto. Più a est, dove la catena montuosa era interrotta dal passo Vispir,
gli uomini che vi erano stati posti di guardia avevano asserito che gli elusivi Vispi erano soliti apparire nelle notti di luna per danzare sulla candida neve appena caduta. E c'erano ovviamente anche orribili storie riguardanti gli Oddling delle montagne. Erano chiamati i demoni delle gelide nebbie, i loro occhi si potevano intravedere in mezzo a spaventosi turbini di ghiaccio, e coloro sui quali si posavano i loro sguardi nefasti erano condannati a morte. Ciò nonostante, nessuno dubitava che i Vispi fossero creature in carne e ossa e non esseri soprannaturali, visto che oltretutto non disdegnavano il commercio di gemme e metalli preziosi con gli Uisgu. Queste pregiate mercanzie giungevano così nei mercati degli umani grazie alla mediazione dei Nyssomu, e i Vispi ne richiedevano in cambio alcuni tipi di cibarie, robusti animali domestici come i fronial o i voluminial, tessuti di lana e poche altre derrate. Ma nessun essere umano poteva in realtà dire quale fosse l'aspetto di quelle creature, eccetto forse i membri delle sfortunate armate di Labornok che nell'antichità avevano osato violare il passo Vispir (se si doveva credere alle vecchie storie), perite per mano di quelli che erano i beniamini della Bianca Signora. Con l'avanzare del giorno la luce si faceva più intensa, e Haramis poteva vedere il sole riflesso come in uno specchio negli stagni e nei ruscelli che costellavano la Palude Dorata. La ragazza si sporgeva ogni tanto a osservare quel dedalo di piccoli corsi d'acqua, che costituivano presumibilmente il principale sistema di comunicazione degli Uisgu. Poi, dopo parecchie altre ore di volo durante le quali avevano seguito un grande fiume verso nord, il terreno iniziò ad alzarsi e la Palude Dorata terminò infine al limitare delle foreste ai piedi delle colline. I gipeti incominciarono la discesa volteggiando lentamente, sempre più in basso. Accanto al fiume c'erano delle rovine, seminascoste dai rampicanti e dagli alberi che spuntavano persino dai tetti crollati. Haramis, a differenza di sua sorella Kadiya, non aveva nessun desiderio di visitare un posto del genere e in linea di massima le interessavano tutt'al più i singolari manufatti che vi si potevano trovare. La giovane ne aveva posseduti alcuni, come ad esempio una piccola scatola sfaccettata che suonava diverse melodie eteree a seconda del lato su cui la si posava, uno strumento di scrittura che sembrava non esaurire mai l'inchiostro e uno strano braccialetto di qualche sconosciuto materiale, né osso, né legno, né qualunque altro minerale di cui fossero a conoscenza i saggi di Ruwenda. Gli Scomparsi avevano certamente posseduto un grande potere, ma i loro segreti erano andati perduti da lungo tempo. Se l'Arcimaga partecipava davvero di quelle antiche co-
noscenze, allora per Haramis c'era una vaga speranza di poter adempiere la profezia che aveva segnato il giorno della sua nascita. Si ritrovò a stringere automaticamente l'amuleto, pregando: «Mio Dio e Signori dell'Aria, fate che non venga catturata! Soprattutto, non lasciate che mi comporti sconsideratamente e poi fallisca nel mio intento. Non riuscirei proprio a sopportare il fallimento!» I due avvoltoi continuavano a veleggiare dolcemente verso il basso, avvicinandosi a una piccola struttura di pietra a forma di torre, quasi completamente sepolta nella fitta vegetazione. Le due maestose creature alate si posarono delicatamente su una specie di naturale tappeto erboso disseminato di multicolori fiori di campo, davanti a un ponte levatoio abbassato. C'era una dolce fragranza nell'aria, prodotta forse dalle vivide infiorescenze blu delle piante acquatiche che si trovavano nel fossato di cinta. Haramis scivolò dalla schiena dell'avvoltoio, gli si inchinò lentamente e disse: «I miei più fervidi ringraziamenti, prodigio dei cieli, per avere condotto me e il mio servitore in questa sicura oasi di pace». Quando alzò il capo, i due gipeti si erano già alzati in volo, elevando alti strepiti di saluto mentre scomparivano oltre le cime degli alberi. Uzun era al suo fianco, e costituiva una vista tristemente comica: avendo perso il cappello i lunghi capelli setosi erano tutti scompigliati dal vento e il suo solitamente impeccabile blusotto di velluto era macchiato e sgualcito. Ma la sua espressione restava indomita. «Eccoci qui», annunciò con voce stridente. «Entriamo, perché comunque il nostro arrivo è già stato annunciato dai nostri salvatori volanti.» Attraversarono lentamente la radura, diretti al ponte levatoio. L'edificio era ricoperto di muschio e ogni singola pietra era ombreggiata da piccole felci sfrangiate che spuntavano qua e là fra gli interstizi della muratura. C'erano anche pianticelle che crescevano sul tavolato del ponte. La principessa avanzò cautamente temendo che le assi fossero marcite, ma si rese presto conto che la struttura era sufficientemente solida. Non furono accolti da alcun inserviente, anzi sembrava addirittura che l'edificio fosse completamente disabitato. Ma Uzun avanzò con estrema sicurezza, mentre Haramis lo seguiva osservando meravigliata le strane incisioni che ornavano le colonne e le pareti, ammirando stupefatta gli splendidi mosaici che si intravedevano sotto il tappeto di muschio e licheni su cui posavano rispettosamente i piedi. Passarono vicino a una fontana zampillante e sotto un'arcata da cui pendevano lunghi rampicanti punteggiati di splendidi fiori variopinti.
Si fermarono infine davanti a un'alta porta di legno nero, perfettamente lucidata e senza traccia di muschio; i cardini, le finiture e il grosso chiavistello sembravano di oro massiccio. Al centro, la sagoma del Giglio Nero era stata intagliata e intarsiata con scintillanti filamenti di platino. «Questa è la camera dell'Arcimaga Binah», disse Uzun. «Ma solo tu vi puoi entrare.» Si inchinò ad Haramis e si fece da parte rispettosamente. La giovane esitò. «Ma... ma tu mi devi accompagnare!» «No, mia principessa. Io aspetterò qua fuori.» Haramis si eresse in tutta la sua statura e fece un profondo respiro. «Molto bene.» Cercando di contenere il tremore della mano, afferrò il chiavistello e spinse la porta, che si aprì con estrema facilità e le consentì di varcare la soglia. La stanza era calda e debolmente illuminata, visto che non c'erano finestre. Qua e là si intravedevano alcuni mobili, come armadi, credenze, tavoli e scaffali stracolmi di libri e di strane apparecchiature; c'erano anche sgabelli imbottiti, alcune poltrone, un paio di cassepanche e un enorme letto a baldacchino con degli scuri tendaggi. Sulla parete di fondo si apriva un grosso focolare in cui ardeva in quel momento un piccolo fuoco di torba e, proprio lì davanti c'era una tavola apparecchiata per una persona, con posate d'oro, bicchieri di cristallo e stoviglie di ceramica rifinita in oro; da una grossa zuppiera fumante arrivava un profumino davvero invitante. C'erano due sedie dagli alti schienali, una davanti al posto apparecchiato e l'altra dal lato opposto del tavolo e nel mezzo si trovava un piccolo scrigno di platino, disadorno e logorato dalle ingiurie del tempo. «Benvenuta, figlia mia», disse una voce dolce ma risoluta. «Ti stavo aspettando.» Haramis si guardò intorno e intravide una pallida figura muoversi nel grande letto. «Mia signora?» disse la ragazza, inchinandosi quasi automaticamente. «Vieni ad aiutarmi, così mi siederò con te mentre ti rifocilli.» Haramis domandò: «Ma tu sei l'Arcimaga Binah?» «Sì, sono io. Non aver paura, sono io che ho assistito alla tua nascita e ti ho convocata qui. Ho aspettato per così lungo tempo il tuo arrivo e quello delle tue sorelle; sono contenta che sei infine giunta sana e salva.» Haramis si sentì gelare il sangue. «Kadiya e Anigel... sono vive?» «Sì, sono vive. Ma non pensarci adesso, perché devono seguire le loro strade e tu la tua. Vieni, aiutami a vestirmi.» Haramis non riusciva a muoversi. Una grande paura si era impadronita
di lei. Ora si rendeva conto che volente o nolente stava per intraprendere una qualche terribile avventura. In quel letto giaceva una donna con meravigliosi, fluenti capelli bianchi; si alzò lentamente e fece cenno alla giovane di avvicinarsi. La pelle del suo viso era liscia e senza rughe, e solo i suoi occhi, circondati da uno scuro alone e tanto infossati da non permettere di distinguerne il colore, tradivano la sua età. Possedeva tuttavia uno sguardo magnetico da cui Haramis si sentì irresistibilmente attratta. Depose quindi la corona avvolta nel mantello di seta e si avvicinò timorosa al letto. Poi, improvvisamente, si sentì libera da ogni forma di panico, e le sembrò semplicemente che la persona che si trovava in quel giaciglio fosse soltanto una povera donna anziana bisognosa di aiuto. Haramis assistette l'Arcimaga e l'aiutò a indossare un lungo abito bianco le cui pieghettature scintillavano di un azzurro intenso, e un paio di graziose pantofole imbottite di pelliccia. Quando la donna fu in piedi, Haramis notò che era molto alta, e la vide dirigersi lentamente ma con agilità verso la tavola imbandita. «Ti prego, figlia mia, siediti anche tu e mangia», le disse dopo essersi accomodata elegantemente nella sua sedia all'altra estremità del tavolo. «Devi essere affamata dopo tutto quello che hai passato alla Cittadella e il tuo viaggio fin qui.» «Il mio compagno, il musico Uzun...», iniziò Haramis. «Se ne sta già occupando il mio dispensiere, Damatole, e non gli mancheranno cibo e riposo.» «Grazie mille», disse Haramis, «perché gli devo la vita e non vorrei che la sua scelta di rimanermi fedele dovesse costargli patimenti o sofferenze.» Poi si gettò sul cibo con il fiero appetito di chi è giovane e in buona salute, e con la voracità di chi non ha mangiato niente dal mattino precedente. C'era un volatile arrosto, una crema di verdure con erbe aromatiche molto saporita, tuberi al forno ricoperti di formaggio, un'insalata di crescione e un dolce alla frutta così squisito che lo divorò fino all'ultima briciola. Alla fine la giovane emise un profondo respiro e si rilassò contro l'alto schienale sorseggiando un eccellente vino rosato. L'Arcimaga sorrise amabilmente, ma la ragazza le rispose con un'espressione afflitta che ne tradiva l'imbarazzo e disse: «Non ho neanche pensato di lavarmi le mani prima di mettermi a tavola, e ho letteralmente trangugiato un pasto così raffinato come se fossi stata una serva maleducata. Chiedo scusa, mia signora, per una tale mancanza di buone maniere. Per fare ammenda vorrei sparec-
chiare la tavola e lavare i piatti, ma devo confessare che non sono per niente versata in queste mansioni da sguatteri». «Qui a Noth», le rispose l'Arcimaga, «fortunatamente non ci si deve preoccupare di queste banalità.» Fece un gesto, e la tavola fu immediatamente sgombra, eccetto che per la bottiglia di vino, il calice di Haramis e il misterioso cofanetto. «Quindi tu sei davvero una maga», mormorò a fior di labbra la ragazza. «Per questi trucchetti non c'è bisogno di una grande perizia», ammise Binah. «Sono i grandi incantesimi a trovarsi ormai oltre la portata dei miei poteri che lentamente stanno scemando.» «Dato che i tuoi avvoltoi ci hanno portati fin qua, immagino che tu sappia quel che è accaduto.» «Quei maestosi volatili non sono miei», la corresse la maga. «Sono creature libere che appartengono solo a se stesse. È comunque vero che sono stata io a ordinar loro di portarvi qui, dato che possono scegliere di obbedire ad alcuni dei loro amici. Riguardo alla tua domanda... sì, so cosa è accaduto. Ho visto tutto quanto, e ho pianto per la mia impotenza nel poterlo evitare o prevenire.» Haramis conservò un'espressione neutra. «Le tue arti magiche sono quindi insufficienti per strappare Ruwenda dalle grinfie di quell'assassino di Voltrik e dall'influsso del suo consigliere Orogastus?» «Sembrerebbe di sì... ma ti avverto di non sottovalutare Orogastus, figlia mia. Non è un imbroglione qualsiasi, come i maghi che puoi aver conosciuto tu, bensì un uomo di straordinario talento e di profonde conoscenze nel campo dell'occulto, un mago che non si limita a controllare le tempeste ma possiede la chiave di molti altri spaventosi incantesimi. Cerca il potere dovunque lo possa trovare, usandolo secondo la sua volontà e per i suoi scopi. In questo momento devo ammettere che può superarmi in ogni genere di magia, eccetto quella di vedere lontano, per la quale gli occorre lo specchio di ghiaccio che nasconde nella sua avita dimora fra i monti.» «Perciò non puoi aiutarmi a sconfiggere i nemici del Ruwenda?» «Non ho detto questo. Ma restaurare il casato di re Krain è una triplice impresa, che richiede la partecipazione di tutti e tre i petali del Giglio Vivente...» «Ti riferisci alle mie sorelle?» esclamò Haramis con aria scandalizzata e incredula. «Non credo che si possa sperare da loro una collaborazione molto costruttiva. Ho dovuto impedire a Kadiya di gettarsi sugli assassini di nostra madre armata solo di un coltello! E Anigel non sa far altro che star-
sene rincantucciata in un angolo a piangere.» «Ciononostante, la mia Vista mi assicura che tutte e tre dovrete adempiere alle missioni che vi aspettano, cercando innanzitutto di approfondire il vostro sapere e di avere il completo dominio di voi stesse, prima di tentare di spezzare quello di Labornok! E se una sola di voi fallirà, allora anche le altre andranno incontro allo stesso destino.» «Ma non è giusto!» protestò Haramis. «No», le rispose gentilmente l'Arcimaga, «ma è così che stanno le cose.» Haramis, sconsolata e di cattivo umore, prese fra le dita il suo amuleto. «Avevo pensato che questi ciondoli che ci hai donato tanti anni fa fossero magici, ma quando ho messo questo alla prova, è stato un vero fallimento.» «Possono assistervi solo in casi di pericolo mortale, e comunque i loro poteri sono limitati.» «È quel che ho scoperto», sospirò Haramis. «Insomma, la mia prima preghiera è stata esaudita, e la seconda e terza forse non erano così urgenti come avevo pensato in quel momento. Ma questo amuleto avrà un qualche ruolo nella missione che mi verrà assegnata?» «Non lo so proprio. Tu dovrai scoprirne i segreti, esattamente come dovrai svelare a te stessa il modo di imbrigliare quei difetti e quelle debolezze che potrebbero distoglierti dal tuo nobile destino. Ma una cosa so per certa: quando la tua preparazione preliminare sarà ultimata, allora riceverai un segno. Ti verrà accordato un nuovo talismano, il Cerchio dalle Tre Ali, e saprai in quell'istante che sarà giunto il momento di scendere in campo per la battaglia finale, per Ruwenda e per la tua stessa anima!» «E le mie sorelle?» «Avranno anch'esse del lavoro da compiere, e se realizzeranno le aspettative allora riceveranno pure loro dei talismani. I tre petali del Giglio si chiameranno finalmente l'un l'altro per potersi riunire, e da quell'unione verrà decisa la restaurazione del perduto equilibrio del mondo.» Haramis si lasciò andare nella sua sedia. «Ma devo iniziare proprio subito? Sono così stanca! E non vorrei mancare di rispetto, ma è talmente difficile credere a ciò che hai detto... e in un certo senso non riesco neanche a credere alla tua stessa esistenza!» «Ciò che credi, soprattutto in questo momento, non ha alcuna importanza, perché evidentemente sei frastornata dal dolore e dalla paura. Devi pregare per avere forza e coraggio, e soprattutto devi imparare ad avere fiducia in te stessa e nel Potere uno e trino che tutti ci ama e ci guida.»
Ad Haramis sfuggì una risatina ironica. «Mi farebbe più comodo un aiuto più concreto.» «Gli aborigeni ti aiuteranno nella tua ricerca per quanto è nelle loro capacità, sia le genti delle paludi che quelle delle foreste e delle montagne. Essi venerano il Giglio Nero, proprio come gli abitanti umani del regno di Ruwenda.» «Allora Uzun verrà con me? È anziano...» «Lui ti accompagnerà per una parte del lungo viaggio che stai per intraprendere. Il suo destino è nell'aiutarti a conseguire il tuo, ma le sfide più dure le dovrai affrontare da sola.» Haramis era persa nei suoi pensieri, teneva fra le dita il suo amuleto e fissava come ipnotizzata le fiamme che ardevano nel camino. «Puoi dirmi qualcosa di questa ricerca, che se ho ben capito è volta inizialmente a perfezionare il nostro carattere e la nostra natura?» «No, ma lo scoprirai da sola.» La giovane protestò: «Ma non puoi nemmeno fare qualcosa per aiutarmi a parte la cena, una raccomandazione e tanti auguri?» «Sì, c'è ancora qualcosa.» L'Arcimaga aprì il cofanetto di platino e vi immerse le mani. Si alzò in piedi estraendone piano piano, in qualche miracolosa maniera, una verde pianta molto più grande di quanto sarebbe riuscito a contenerne il piccolo scrigno. Si trattava di un giglio alto quasi quanto Haramis, con le radici scoperte, un fogliame straordinariamente lucente, baccelli colmi di semi e una miriade di fiori neri, vellutati e grandi quanto il palmo di una mano. La Bianca Signora depose la pianta sul tavolo. Haramis restò a bocca aperta per lo stupore, e poi disse: «Che meraviglia! Ed è viva, non un semplice piccolo bocciolo racchiuso in un pezzo di ambra!» «È l'ultima pianta vivente del Giglio Nero in tutto il mondo conosciuto.» «E grazie a lei noi tre potremo sconfiggere re Voltrik e Orogastus! Lo so, lo sento che è vero, Binah!» Anche Haramis era adesso in piedi, ogni segno di stanchezza completamente scomparso, totalmente affascinata dalla vista di quella stupefacente pianta i cui fiori avevano lo stesso colore corvino dei suoi capelli. La maga allungò una mano e strappò qualcosa da sotto una delle grandi foglie. Poi lo premette nel palmo della mano di Haramis e vi richiuse intorno le dita della fanciulla. Sollevò quindi la pianta, la rimise nel suo piccolo contenitore di platino e ne abbassò il coperchio.
Haramis sbatté le palpebre come se si fosse spenta una fonte di grande luce. «Ma... è tutto qui?» L'Arcimaga la prese per un braccio e la condusse alla porta da cui era entrata. «Quel che ti ho dato servirà a metterti sulla giusta strada. Terrò qui al sicuro per te la corona di Ruwenda. Nessun nemico la toccherà mai. Ricordati solo che è Orogastus il nostro grande nemico, e non re Voltrik. Egli è guidato dalle leggi della magia, quelle stesse leggi in base alle quali a ogni punto di forza deve corrispondere una qualche debolezza o vulnerabilità. Se riuscirai a scoprire le sue debolezze e vincerai le tue, allora ti aspetterà il trionfo! Non posso dirti nulla di più. Ora devi andare. Quando raggiungerai il tuo scopo e avrai ricevuto il Cerchio dalle Tre Ali, ritorna da me.» «Ma cos'è il Cerchio dalle Tre Ali?» chiese ansiosa Haramis. «Quando lo troverai, lo saprai», le assicurò Binah. «Addio.» La principessa si ritrovò improvvisamente sulla radura fiorita davanti alla torre, con accanto il piccolo Uzun rivestito a nuovo da capo a piedi. Si guardò addosso e scoprì che anche i suoi sporchi e stazzonati indumenti erano scomparsi, e indossava ora un comodo completo bianco di lana rifinita con pelliccia di febock albino, un pesante mantello foderato anch'esso di pelliccia e un paio di robusti stivali di pelle bianca. Lì a terra c'erano due zaini e due solidi bastoni da viaggio con puntali d'acciaio. «Sono pronto, principessa», disse Uzun. Le sorrise apertamente, e le sue guance rotondette arrossirono come lamponi. «La Bianca Signora mi ha donato un nuovo flauto, affinché io vi possa allietare con la mia musica durante il viaggio!» «Ma da che parte dobbiamo andare?» esclamò la ragazza torcendosi le mani per l'irritazione. Poi si ricordò che l'Arcimaga le aveva messo qualcosa in mano: aprì le dita e sul palmo apparve un baccello asciutto e risplendente di Giglio Nero. Senza pensarci, lo schiacciò. Al suo interno vi erano delle file di piccoli semi alati. Poi, sempre senza dedicarvi un pensiero consapevole, strappò un seme e lo gettò nell'aria. Con sua sorpresa, invece di seguire il vento, cominciò a veleggiare verso nord, in direzione delle montagne. Da quella parte sembrava esserci solo un acquitrino senza sentieri visibili. Ma poi Haramis aguzzò la vista, sempre seguendo il seme fluttuante nell'aria, e scorse una pista appena accennata, come se fosse stata battuta da qualche piccolo animale che si era avventurato attraverso ciuffi d'erba.
«E così», disse la giovane principessa, «suppongo che questa sia la miglior guida che possiamo aspettarci. Cosa ne dici, partiamo?» Sempre con gli occhi fissi sulla piccola macchia bianca fluttante, si issò lo zaino sulle spalle, raccolse il bastone e aprì la strada verso la palude, seguita da Uzun. 8. Era quasi metà pomeriggio, quando gli uomini posti di vedetta sulla chiatta di testa del convoglio annunciarono con alte grida che Trevista era ormai all'orizzonte. Pellan, che era stato incaricato di guidare quell'improvvisata flottiglia di labornoki, portò un piccolo corno dorato alle labbra ed emise un semplice richiamo a tre note. Immediatamente, i vogatori delle quattordici imbarcazioni alzarono i remi, e gli uomini dell'equipaggio disposti a prua e a poppa mollarano le ancore nelle basse acque limacciose. Pellan lanciò un altro richiamo più elaborato e diede ordine ai battellieri, stanchi e coperti di sudore, di godersi il meritato riposo. Si sentì giungere un urlo furioso dal ponte di prua, e poi una voce rauca e dal tono aspro scandì il nome di Pellan, infiorettandolo con colorite oscenità. Sebbene il percorso fosse stato completato senza incidenti e a tempo di record, il generale Hamil aveva sicuramente trovato come sempre qualcosa di cui lamentarsi. L'improvvisato capo-flottiglia fece un profondo sospiro, abbandonò la barra e si diresse verso prua attraversando la maleodorante coperta del barcone. A differenza delle altre imbarcazioni del convoglio, questa non trasportava approvvigionamenti e bestie da tiro. Erano state caricate a bordo le cavalcature dell'alta nobiltà (Dio solo sapeva cosa se ne sarebbero fatti, i conquistatori, di quei destrieri nella regione paludosa e senza piste che si stendeva intorno a Trevista), insieme con le loro pasture, nonché una pila di sacchi di pelle pieni di armi, lance e scudi, e un'accozzaglia di venti o trenta stallieri, soldati e lacchè di varie specie che se ne stavano a oziare bevendo, giocando a carte e lanciando pesanti battute ai poveri rematori. Pellan si fermò un attimo presso la piccola cabina di coperta che ospitava la cambusa e alcune sistemazioni di fortuna - le più distanti erano state requisite dal mago Orogastus e da due dei suoi malvagi attendenti - per ordinare ai mozzi di servire una robusta razione di vino agli esausti vogatori e di riservarne anche un goccio ai labornoki in modo da prevenire eventua-
li lagnanze. Poi passò oltre un gruppetto di sottufficiali che lo osservarono con sguardo torvo, in quanto quella sosta li aveva privati della piacevole brezza prodotta dalla navigazione, e arrivò infine alla parte anteriore della nave. Era stata eretta una tenda per fare ombra a quei privilegiati passeggeri, fra cui si trovavano il principe Antar con un drappello di suoi cavalieri, il generale Hamil e un manipolo di ufficiali di alto rango che si era portato dietro in quella missione esplorativa, e il Capo del Commercio Edzar, che era stato appena nominato portavoce delle forze di occupazione e avrebbe curato i rapporti con gli aborigeni. La maggior parte dei cavalieri più giovani se ne stavano appoggiati al parapetto, scrutando l'orizzonte nel vago tentativo di cogliere anche una fugace visione della leggendaria città degli Oddling. Senza le loro sgargianti armature non erano che una masnada di giovinastri vestiti con pantalonacci e bluse di un pesante tessuto macchiato qua e là di sudore. Anche i nobili e gli alti ufficiali erano vestiti alquanto semplicemente, ma si distinguevano dai cavalieri per la qualità e pulizia dei tessuti. Il robusto Capo del Commercio era invece agghindato come un cortigiano a un'udienza reale, e sopra una veste leggera portava una cotta verde-dorata con l'emblema della sua corporazione ricamato. «Perché ci siamo fermati?» domandò rudemente il generale Hamil. «Se quella davanti è Trevista, allora sarebbe meglio far fare un po' di esercizio ai tuoi rematori! Ti era stato ben detto che volevamo arrivarci il più in fretta possibile.» La flottiglia era ancorata proprio nel bel mezzo del Mutar, in un punto così largo che le imbarcazioni si trovavano a parecchi chilometri dalle sue rive. Pellan salutò con aria negligente l'accigliato ufficiale. «Dobbiamo seguire il protocollo dei Capi del Commercio e attendere qui l'arrivo della scorta Nyssomu che ci guiderà a Trevista.» «Protocollo?!» esclamò il comandante in capo dei labornoki. «Noi non siamo mica un branco di venditori ambulanti, noi siamo conquistatori... e non seguiremo altro protocollo che il nostro! Su le ancore, poltroni, e avanti tutta!» «Signore, non sarebbe davvero saggio. Non me la sento di prendermi la responsabilità per quel che potrebbe accadere.» Il traditore ruwendiano aveva una faccia scura e dall'aria dura come la vecchia pelle di cui erano fatti gli indumenti che indossava. La forte mascella era ricoperta dalla ispida barba bianca che gli era cresciuta durante quei tre giorni in cui ave-
vano risalito il corso del fiume, e il suo atteggiamento generale tendeva all'insolenza. «Quelli sono tipi piuttosto permalosi, e non c'è bisogno che le dica che reagirebbero molto male se avanzassimo verso Trevista per i fatti nostri...» «Il regno di Ruwenda è ormai nostro, e faremo quel che più ci pare e piace!» ruggì Hamil. Estrasse la sua spada. «E adesso muoviamoci, se non vuoi che faccia prendere aria a quel tuo pancione!» Pellan, per nulla spaventato dalla minaccia, si voltò verso il Capo del Commercio labornoko, che aveva piacevolmente intrattenuto il generale e i suoi compari con vecchie storie riguardanti le città nascoste degli Scomparsi: «Parlategli voi, mastro Edzar. Sembra proprio non voler capire la situazione...» La voce del barcaiolo si spense in una sorta di latrato quando Hamil lo afferrò per i capelli brizzolati sollevando intanto la spada. «Generale! Fermo, è un ordine!» Il principe Antar, che durante tutto il viaggio era stato afflitto da un frustrante senso di malinconia e scoraggiamento, si fece largo tra la folla di cavalieri in attesa dello spargimento di sangue e affrontò il vecchio e corpulento combattente. Hamil lasciò andare controvoglia il malcapitato, il quale ne approfittò per eclissarsi e lasciare il campo a mastro Edzar, che si fece avanti con un profondo inchino al principe. «Vostra altezza, lasciate che vi spieghi. Vi assicuro innanzitutto che il nostro nuovo alleato Pellan ha a cuore solo il miglior interesse per il Labornok.» «Lo spero per lui», borbottò Hamil, «o si ritroverà a far da pasto ai pesci lì sul fondo del Mutar!» La maggior parte dei cavalieri scoppiò a ridere, ma il principe fece cenno al Capo del Commercio di proseguire. «Lassù sorge Trevista», e mastro Edzar indicò davanti a sé verso un ammasso di basse collinette verdeggianti, vagamente indistinte nella foschia prodotta dal calore. «Si trova su un gruppo di isolette, proprio alla confluenza fra il Mutar e il fiume Vispar. Ma quello non è il genere di città con cui siamo familiari noi labornoki, e neanche i ruwendiani se è per questo, e la cosiddetta fiera di Trevista non è un avvenimento che ha sempre luogo nello stesso punto. In realtà, si sposta a seconda dell'umore dei Nyssomu locali, così che neanche le guide come il nostro prezioso amico Pellan possono dire per certo dove abbia luogo oggi.» Osorkon, il gigantesco braccio destro di Hamil, sbuffò con disprezzo. «Una città su un'isola... e voi non siete in grado di localizzarne lo schifoso
mercato...» «Trevista non sorge su una sola isola, lord Osorkon», Edzar indicò l'orizzonte con un ampio gesto della mano, «ma su tutte le isole!» La compagnia rimase a bocca aperta. «È... o era... la suprema realizzazione architettonica degli Scomparsi. Accanto a essa, la maestosa Cittadella ruwendiana non è che una semplice fortezza, un rifugio contro quel misterioso disastro che alla fine ha condannato quell'antica razza. Ognuna di quelle centinaia di isole è ricoperta di rovine, e sono collegate da un intricato dedalo di canali con sponde in muratura che affondano in profondità nel letto del fiume. Ci sono chiuse, alti ponti, enormi bacini commerciali ormai allo sfascio e ogni altro genere di strutture rivierasche, per non parlare degli imponenti ma derelitti edifici pubblici, delle fastose dimore private e delle grandi piazze, portici, centri commerciali e così via, tutti o quasi in rovina e completamente soffocati dalla densa vegetazione nelle aree in cui i Nyssomu si sono astenuti dall'impedirlo.» «Quanta parte della città è abitata dagli aborigeni?» chiese il principe. «Nessuno lo sa, vostra altezza. I Nyssomu sono piuttosto selvatici e disdegnano i contatti con gli umani. Noi commercianti veniamo guidati alla fiera, e lì ci vengono offerte da singoli individui quelle merci che secondo loro ci possono interessare.» Evitando lo sguardo di Hamil, aggiunse: «Se questa flottiglia si avvicinerà a Trevista senza un permesso ufficiale... noterete che non ho detto senza preavviso, perché loro sanno sempre quando stiamo arrivando!... è probabile che non un solo Nyssomu acconsentirà a mostrarsi. Troveremo il posto completamente deserto. E riguardo a un'eventuale idea di conquistare Trevista, sarebbe davvero una futile avventura. Il solo valore di quell'ammasso di rovine si trova nei beni di scambio, ed è per quello che dobbiamo coltivare il benvolere degli Oddling». «Ben detto, mastro Edzar.» Il principe lanciò un'occhiata significativa al suo generale. «E se riusciremo a guadagnarcene la fiducia, assicurandogli che il loro commercio continuerà indisturbato anche sotto il dominio di Labornok, pensate che collaboreranno?» «Si può sperare di sì, vostra altezza.» «Noi ci piazzeremo una dannata guarnigione a Trevista!» dichiarò Hamil. «Questo è l'ordine che ci ha dato il re Voltrik. E se quelle cimici di palude hanno cara la pellaccia, sarà meglio che evitino accuratamente di incontrare le fuggiasche!» «È chiaro», disse il principe con molta calma, «che la lealtà dei Nysso-
mu nei confronti delle principesse è più forte di quella che, a ben guardare, non hanno ancora avuto modo di sviluppare per noi... Dovremo quindi cercare di localizzare le ragazze utilizzando l'astuzia piuttosto che per mezzo di rozze manifestazioni di forza.» Il suo sguardo penetrante passò in rassegna l'assemblea lì riunita, per posarsi infine sulla faccia del generale Hamil. «Sono stato chiaro?» «Perfettamente», rispose Hamil a denti stretti, aggiungendo poi «mio principe» dopo una breve pausa. «In arrivo una piccola barca da Trevista!» annunciò una vedetta. La maggior parte dei cavalieri si precipitò nuovamente al parapetto per osservare l'avvicinarsi della strana imbarcazione. Non era infatti né spinta da remi né munita di una vela, eppure procedeva a grande velocità verso il convoglio, lasciando una spumeggiante scia nelle placide acque del fiume. Sembrava trasportare un solo occupante ed era ricoperta da prua a poppa con una profusione di fiori coloratissimi. «Ma come diamine fa a muoversi?» domandò un quantomai sorpreso sir Owanon. Pellan, che si era prudentemente allontanato dalla portata del generale Hamil e aveva in certo qual modo recuperato la sua dignità offesa, si azzardò a rispondere. «È trainata da un paio di rimorik, creature acquatiche che assomigliano a grossi pelrik. Sfortunatamente non si assoggettano a essere addomesticate dall'uomo, ma anche fra i Nyssomu non sono molti quelli che possiedono l'abilità di guidarli, perché è un'arte che devono imparare dai loro poco socievoli cugini Uisgu. Alcuni membri di questa tribù vengono regolarmente a Trevista, portando merci che arrivano dai recessi più settentrionali della Palude Labirinto.» Il principe Antar mise un braccio intorno alle spalle di Edzar e lo condusse in disparte, verso la cabina di coperta che si trovava a metà della chiatta. «Spiegatemi cosa intendevate dire con quella storia del mancato preavviso. Volete forse dire che gli Oddling di Trevista sono stati in grado di seguire tutto il corso del nostro viaggio?» Il Capo del Commercio si strinse nelle spalle. «Vostra altezza, loro riescono a comunicare l'un l'altro anche a distanza, usando un linguaggio senza parole, proprio come il Mago Orogastus ha insegnato a fare alle sue Voci.» La porta della cabina si aprì così di colpo che sia il principe sia mastro Edzar non poterono fare a meno di trasalire. L'alta figura del Mago si stagliò sulla soglia, il cappuccio così calato sulla fronte che la parte superiore
del suo viso era nascosta dall'ombra. Dietro di lui c'erano due altre figure incappucciate, la più tarchiata vestita in rosso, quella più alta in azzurro. «Mastro Edzar ha perfettamente ragione», affermò Orogastus. «I nonumani utilizzano una forma molto elementare di telepatia e in certe occasioni sono persino capaci di riuscire a percepire degli avvenimenti anche a grande distanza attraverso la Vista, sebbene il loro dominio su entrambi questi poteri sia di gran lunga inferiore al mio.» Il principe ordinò al Capo del Commercio di lasciarli soli, e quando l'uomo se ne fu andato si rivolse freddamente a Orogastus. «Grande Ministro, perché non me ne hai mai parlato prima?» «Non ce n'era bisogno. La questione era di nessuna conseguenza durante l'invasione e poi comunque non abbiamo mai avuto intenzione di fare guerra agli aborigeni. Al contrario... faremo buon uso di queste creature!» «Hai quindi un piano per guadagnare un'alleanza con questi piccoli Oddling, come abbiamo già fatto con gli Skritek? Il mio regale padre mi ha accennato qualcosa durante la marcia verso la Cittadella.» Antar si espresse con un tono piuttosto duro, un misto di deferenza e risentimento. Sebbene avesse già ventisette anni, né il re, né il suo Grande Ministro di Stato avevano ritenuto opportuno confidargli nessuno dei loro piani a lunga scadenza. «Quando i tempi saranno maturi, stringeremo alleanze politiche con alcune delle tribù.» Orogastus agitò la mano in aria, come per allontanare un insetto molesto. «Non si tratterà certo di questi miserabili Nyssomu, comunque. Ci possono tornare utili solo per le erbe, le spezie e qualche altro prodotto delle paludi che di solito commerciano. I manufatti antichi più interessanti li hanno ormai raccolti anni e anni fa, da Trevista e dalle vicine città abbandonate, e poi a causa dei loro stretti legami con il caduto regno ruwendiano... non penso che si sforzeranno molto per fornirci altre apparecchiature che possano avere un qualche valore! Comunque, in un modo o nell'altro intendo assicurarmi i servigi degli Oddling, affinché rastrellino anche le più remote parti della Palude Labirinto, dove so che sono nascoste certe straordinarie apparecchiature magiche degli Scomparsi. Quelle macchine, se utilizzate in modo conveniente, permetteranno al regno di Labornok di estendere il suo dominio non solo sull'intera Penisola, ma su tutto il mondo conosciuto!» Il principe sentì una stretta al cuore. Quindi ecco perché re Voltrik aveva nominato questo nuovo venuto suo Grande Ministro, anche se gli altri suoi consiglieri erano di avviso contrario! Ma il mago si stava semplicemente
prendendo gioco della credulità di Voltrik, oppure quel folle progetto aveva qualche solida base? Il volto di Antar mostrava un tollerante scetticismo. «Ah, sì? Labornok che domina tutto il mondo? Non mi meraviglia allora tutta la tua determinazione nel volerci far dichiarare guerra al Ruwenda! Finalmente sono anch'io a conoscenza di questi piani... Ma, senti, che razza di portentoso marchingegno stai cercando, e come ne sei venuto a conoscenza?» «Mio principe, sarà forse meglio discuterne un'altra volta. La barca di Trevista è quasi arrivata, e queste domande coinvolgono aspetti politici della massima importanza che sarebbe preferibile lasciare al re.» Un sussurro impercettibile giunse dalla figura in cremisi che si trovava alle sue spalle, e Orogastus annuì. «La Voce Rossa mi ricorda di informarvi che le condizioni del vostro regale padre sono in certo qual modo peggiorate. La mia Voce Verde, che ho lasciato al capezzale di sua maestà, ci ha inviato questa notizia poco tempo fa. Re Voltrik soffre per una febbre forte e persistente, e la ferita ha iniziato a suppurare umori malsani. Ho ordinato al mio aiutante di somministrargli il più potente rimedio di cui ho conoscenza, la Pastiglia Dorata. Questa cura dovrebbe alleviare le sofferenze di vostro padre nel giro di due o tre giorni.» Il principe aggrottò le sopracciglia. «Perché non gli è stata data prima questa pillola miracolosa?» «È un medicinale degli Scomparsi, mio principe, le cui scorte sono piuttosto limitate ed è comunque indicata solo per il trattamento di disturbi che mettono in pericolo la vita. Avevo sinceramente sperato che la ferita di re Voltrik avrebbe positivamente risposto alle abituali cure fornitegli dal medico di corte. Dato che non hanno funzionato, si è reso necessario passare a un intervento più drastico, quale appunto la Pastiglia Dorata.» «E questo rimedio lo guarirà di sicuro?» Il mago ebbe una impercettibile esitazione. «Non ha mai fallito, ma ho osato provarla solo cinque volte, tre su me stesso, una sulla Voce Azzurra e un'altra sulla principessa Shonda, la seconda moglie di vostro padre, quando le si infettò una ferita nel piede dovuta a un'unghia incarnata. Sfortunatamente la ferita del vostro regale genitore è di un tipo particolarmente pericoloso, ed ecco perché ho frequenti contatti con il mio assistente e tengo anche d'occhio sua maestà personalmente grazie alla mia Vista.» Il principe Antar aveva un'espressione accigliata e sembrava perso nei suoi pensieri. «Ricorderò il mio regale genitore nelle mie preghiere... e tu,
mago, cerca di raccomandare il nostro re con quanto più fervore puoi a qualsivoglia divinità di tua conoscenza, perché se Voltrik dovesse morire, il dolore di Labornok sarebbe profondo e chissà che fine farebbero i tuoi piani tanto audaci...» Antar si voltò bruscamente e se ne andò. La Voce Rossa sussurrò: «Potentissimo Maestro, quello lì sarà meno docile di suo padre». L'allampanata Voce Azzurra, che si trovava dietro la spalla destra del suo signore, mormorò a sua volta: «Sarà nostro piacere prenderci cura del problema...» «No», lo interruppe Orogastus fermamente. «Non ancora. Ma sono compiaciuto dal tuo zelo. Al momento opportuno ti sarà assegnato il compito di modificare il modo di pensare del principe Antar, e se i tuoi sforzi avranno successo ne sarai riccamente ricompensato.» 9. L'imbarcazione Nyssomu, procedendo a un'andatura più contenuta, condusse la flottiglia verso l'isola più lontana, evidentemente scelta quale loro destinazione. Lo stendardo rosso sangue di Labornok garriva alto sulla chiatta di testa, e su tutte le altre barche i cavalieri e i soldati avevano indossato armature ed elmetti per avere un aspetto più imponente nel loro ingresso a Trevista. «Peccato che questa volta non si vada nelle isole più interne», sottolineò allegramente mastro Edzar. «Lì sì che ci sono dei ponti davvero spettacolari, e anche rovine piuttosto interessanti di un osservatorio astronomico, con degli strani piedistalli rimasti dove una volta c'era probabilmente qualche sorta di misteriosa attrezzatura. Comunque, penso che troverete interessante anche quest'isola, e poi non si tratta di una gita turistica ma di un primo incontro con Frolotu la Saggia e i suoi colleghi.» «Questa Frolotu è quindi colei che governa Trevista?» domandò il principe Antar. Anche lui, i suoi uomini e gli alti ufficiali dell'esercito avevano indossato le armature. «Mio principe, il suo non è un ruolo di governo come lo intendiamo noi. Lei si limita a parlare in nome della sua gente e agisce come collegamento fra i Capi del Commercio e i Nyssomu. Possiamo comunque dire che la sua figura è quanto di più vicino a un'autorità centrale si sia concessa la città. È praticamente impossibile ingannarla... si dice che sappia leggere
nelle menti.» «Ed è proprio vero?» intervenne Orogastus facendosi avanti con i suoi due assistenti. Il commerciante si schiarì la gola nervosamente. «Non posso dirlo per certo, mio signore. Per esperienza personale, però, aggiungerò che possiede una straordinaria capacità di osservazione, una sorta di misterioso intuito nel comprendere le intenzioni e il carattere di chi le sta di fronte... se capite ciò che voglio dire...» «Vuoi forse dire», intervenne Antar quasi a prevenire una replica del Mago, «che sa distinguere un bugiardo da chi dice la verità?» «Quasi sicuramente, e... questo potrebbe essere di qualche difficoltà nelle negoziazioni, specialmente per quanto riguarda la ricerca delle principesse. Dovremo essere quanto più possibile pieni di tatto...» «All'inferno il tatto!» sbottò il generale Hamil. «Se gli Oddling si rifiuteranno di aiutarci nella ricerca, prenderemo degli ostaggi e li costringeremo a cooperare. Forse questa stessa grande Saggia gradirebbe provare la proverbiale ospitalità di lord Osorkon!» Puntuale, risuonò la risata sardonica del braccio destro di Hamil, che aveva nuovamente indossato la sua spaventosa armatura nera. «Sarà un vero piacere.» Edzar si strinse nelle spalle. «Se farete prigioniera Frolotu la Saggia, i Nyssomu si limiteranno a nominare un altro loro rappresentante per quella posizione, ed è molto probabile che l'intera tribù svanisca nel nulla ponendo termine per sempre ai commerci. Come ho cercato di spiegarvi, generale Hamil, le nostre possibilità nel trattare con queste peculiari creature sono molto limitate.» Hamil si voltò in direzione del mago. «E allora potresti usare la tua magia per forzarli a obbedire al nostro volere!» «Vedremo», rispose Orogastus con tono conciliante. «Dato che io sono al comando di questa spedizione», disse il principe Antar, «sia ben chiaro che sarò l'unico a negoziare con questa Frolotu la Saggia. L'invasione del Ruwenda è stata intrapresa con uno scopo principale, cioè porre fine alle vessazioni cui erano sottoposti i nostri commercianti e ratificare un accordo che ci assicuri una regolare fornitura di prodotti per noi vitali, quali legname e minerali. Parlo in nome del mio regale padre quando dico che non deve essere intrapresa nessuna iniziativa che possa mettere in pericolo le nostre relazioni commerciali con gli Oddling, e mi riferisco sia alla bramosa ricerca di misteriosi marchingegni da
parte del Gran Ministro di Stato sia, in particolar modo, alla maniacale insistenza con cui il nostro generale sta perseguitando quelle tre infelici ragazze. E voglio essere obbedito, chiaro?» «Certamente», rispose Orogastus sorridendo. Lo sguardo di Hamil dardeggiò da Antar, la cui scorta armata si era discretamente posta al suo fianco, al Mago, spalleggiato dai suoi due enigmatici attendenti. Alla fine, disse: «Sono un soldato che obbedisce agli ordini del suo sovrano, ed è vero che siete stato posto al comando di questa spedizione. Perciò farò come voi mi dite... a meno che lo stesso re Voltrik non comandi diversamente». Antar emise un impercettibile sospiro. «E tanto basta.» Si rilassò visibilmente, e così pure fecero i suoi cavalieri, poi tutti tornarono ai parapetti per non perdersi l'iniziale panorama di Trevista che si avvicinava sempre più. La barchetta del solitario Nyssomu stava ora guidando la processione in un canale che sembrava poco più di un ruscello nella fitta giungla che si stagliava davanti a loro come un'impenetrabile muraglia. C'erano giganteschi alberi di una specie a loro sconosciuta, con tronchi secolari che spingevano i rami a centinaia di metri di altezza. Si creava così una sorta di intricata cupola smeraldina che sembrava quasi proteggere il sottobosco, a sua volta folto e lussureggiante come in nessun'altra parte della Palude Labirinto. Sulle rive del canale erano ammassate strane piante dalle enormi foglie rosse e verdi costellate di spine giallastre. Dai lunghi rami che si protendevano sulle acque, scendevano liane e viticci tempestati da miriadi di fiori dai colori più sgargianti. L'umidità era opprimente, e l'aria satura di inebrianti fragranze ma anche dell'opprimente tanfo della putrefazione. Non appena le imbarcazioni fecero il loro ingresso nel canale, uccelli, insetti e altre creature della foresta esplosero in una cacofonia di suoni e quello strepito durò fino a quando l'Oddling che guidava il convoglio non si alzò in piedi ed emise un acuto richiamo melodioso. Improvvisamente cadde il silenzio, rotto soltanto dal ritmico affondare dei remi nelle acque limacciose. Il Capo del Commercio Edzar indicò in silenzio qualcosa innanzi a sé, proprio mentre la flottiglia affrontava lentamente un'ampia curva. In un primo momento gli uomini di Labornok non riuscirono a scorgere altro che una ininterrotta muraglia di verde, ma poi, scrutando con più attenzione nel nuovo ambiente che li circondava, incominciarono a distinguere un po' dappertutto confuse sagome di monumentali edifici sepolti
dalla rigogliosa vegetazione. Si trattava di case, anzi di palazzi, che facevano apparire le più signorili residenze di Derorguila come capanne di contadini. Erano costruite una accanto all'altra lungo le rive del corso d'acqua, splendide anche nella loro desolazione, e le fondamenta formavano le sponde del largo canale che stavano seguendo. Cavalieri e soldati si guardavano intorno con aria stupita e lanciavano esclamazioni di infantile stupore mentre passavano da una meraviglia all'altra. Era possibile individuare un po' dappertutto straordinari esempi di lavori in muratura decorati con elaborate incisioni, e molte facciate di quegli antichi edifici erano adorni di splendidi mosaici variopinti come i fiori tropicali che li circondavano. Quella stupefacente maestosità architettonica era inframmezzata qua e là da giardini grandi e piccoli di cui rimaneva oramai solo il ricordo, e da vaste spianate recintate da balaustre riccamente cesellate; non mancavano portici diroccati, di cui si potevano però ancora ammirare colonne e sontuose gallerie a cielo aperto, i cui pilastri decorati avevano parzialmente resistito alle ingiurie del tempo. Ruderi di misteriose sculture ed enormi urne infrante, erano quasi sommerse da grovigli di arbusti e rampicanti. Alberi e cespugli avevano ormai divelto e ricoperto con le loro imponenti radici vaste aree di variopinta pavimentazione, che un tempo doveva appartenere a chissà quali meravigliose piazze e camminamenti. Ma nessuno avrebbe osato affermare che la giungla si era impossessata di Trevista, perché l'antica metropoli emanava ancora un'aura di potere e di sofisticata bellezza appena intaccata dai secoli. La guida condusse il convoglio entro un canale laterale, e quasi immediatamente la vegetazione che mascherava le rovine assunse un aspetto differente. La maggior parte delle colossali strutture appariva ancora sopraffatta dal verde, ma alcune delle vie principali e di quelle trasversali erano state completamente ripulite dai detriti e dalla vegetazione. La flottiglia fu guidata verso la riva destra, dove una fontana perfettamente funzionante sorgeva al centro di un'ampia spianata. Una grande rampa di bassi scalini, conduceva direttamente dalla banchina alla piazza. In cima alla gradinata era in attesa un gruppo compatto di una ventina di Nyssomu. Non c'erano altri in vista. «Ma dov'è la fiera?» domandò il generale Hamil. «Per le sacre viscere di Zoto... allora dopo tutto gli Oddling se la sono battuta!» Il Capo del Commercio sussultò, e poi bisbigliò: «A bassa voce, per favore, mio generale! Frolotu la Saggia e la sua delegazione potrebbero offendersi».
«Mago», continuò imperterrito Hamil, «cerca di scoprire se questi viscidi esseri squamosi non ci stiano per caso tendendo un'imboscata!» «Ma stai tranquillo, imbecille!» lo rimbeccò (Drogastus. Con un gesto brusco ma inequivocabile richiamò a sé le due Voci, che si gettarono in ginocchio sul ponte della nave, con il corpo rivolto verso la piazza. Sia Hamil che il principe Antar avevano già visto Orogastus utilizzare gli assistenti per migliorare la sua Vista, ma i cavalieri, gli ufficiali e mastro Edzar, osservarono incuriositi il mago mentre prendeva posizione dietro ai due e poneva le mani sulle loro teste rasate dopo aver scostato i cappucci senza tante cerimonie. Anche lui era a capo scoperto, e la chioma bianca sembrava risplendere nel verde crepuscolo di quel tardo pomeriggio tropicale. Gli spettatori più vicini videro che le orbite dei due remissivi servitori si erano improvvisamente trasformate in vuote cavità oscure. Quando poi Orogastus riaprì gli occhi, rivelando due piccole stelle scintillanti sotto le scure sopracciglia, le espressioni di stupore degli astanti si trasformarono in un silenzio sbalordito. Alzò le mani e ruotò su se stesso lentamente, come se stesse in qualche misterioso modo esplorando l'intera regione circostante, la spianata e anche l'ammasso di costruzioni dall'altra parte del canale. Poi i suoi occhi si richiusero. I due accoliti sussultarono convulsamente, emisero un gemito strozzato e i loro occhi ripresero un aspetto normale. Anche il mago assunse l'espressione abituale e si calò di nuovo il cappuccio sulla fronte. «Ci sono circa quattrocento Nyssomu nascosti negli edifici dall'altra parte del canale», annunciò con molta calma. «Ci stanno osservando, e non hanno né paura né intenzioni ostili. Suggerisco di sbarcare e procedere con l'incontro. Non c'è pericolo.» Orogastus si chinò con noncuranza e fece rialzare gli inerti compari afferrandone il naso tra le dita e tirandoli su. I due ritornarono in posizione eretta ma sembrava stessero fluttuando nell'acqua, e se ne stavano lì immobili con la testa ciondoloni, la bocca aperta e gli occhi ancora serrati. Orogastus si voltò, si diresse verso la cabina e fece un cenno cui le due Voci, ancora semicomatose, risposero prontamente arrancandogli dietro. «Tutto a posto, si riprenderanno con un breve riposo», disse bruscamente il principe Antar ai suoi uomini, che erano in preda a un timore reverenziale. «Su, coraggio ora, e per l'amor di Dio cercate di tenere alti gli scudi e formate un decente picchetto d'onore quando sbarcheremo.» L'imbarcazione inviata per guidarli aveva già accostato alla banchina,
sufficientemente ampia da consentire l'attracco di tutte e quattordici le grosse barche a fondo piatto che costituivano il convoglio. Alcuni Nyssomu erano scesi per aiutare a legare le cime, e così Pellan si affrettò a condurre la chiatta di testa verso il centro della scalinata. Il principe Antar, preceduto dal Capo del Commercio, da lord Osorkon che reggeva lo stendardo di Labornok e dal generale Hamil con i suoi quatto luogotenenti, scese dalla passerella di sbarco e si fermò sulla banchina, mentre una ventina di cavalieri si disponeva dietro di lui in formazione da parata. I soldati semplici e i loro sottufficiali si allinearono invece lungo i parapetti delle chiatte, con le balestre ad armacollo. «I nostri saluti al popolo Nyssomu di Trevista!» declamò solennemente mastro Edzar, usando il linguaggio comunemente parlato da tutte le nazioni della Penisola. Ripeté poi il saluto in lingua Nyssomu e continuò così a tradurre per tutto il resto del discorso. «La grande nazione di Labornok, che ha pacificamente commerciato con il popolo Nyssomu di Trevista per oltre quattrocento anni grazie all'intermediazione del Ruwenda, è lieta di dichiarare che da ora in avanti condurrà i propri affari direttamente, senza più l'apporto di venali mediatori, di modo che entrambi i contraenti ne traggano un maggiore profitto!... A causa dei gravi e ripetuti insulti arrecati dagli arroganti e avidi rappresentanti del Ruwenda, la pazienza del nostro grande re Voltrik è stata provata al di là di ogni limite di sopportazione... Egli ha condotto un potente esercito verso sud, deciso a mettere in atto la vendetta del Labornok nei confronti dei vili ruwendiani, i quali si sono arresi senza condizioni tre giorni fa... Ora, Labornok e Ruwenda sono uniti in una sola grande nazione. Le carovane commerciali continueranno come prima a venire a Trevista. I Nyssomu possono gioirne insieme al Labornok, perché la scomparsa della ingiusta tassazione ruwendiana permetterà a entrambi di trarne profitto; pace e prosperità prevarranno fra tutte le persone di buona volontà!» Il Capo del Commercio allargò le braccia e i trombettieri dislocati su ogni imbarcazione esplosero all'unisono in una fanfara di alti squilli di tromba. Tutti i Nyssomu sbatterono le palpebre dei loro grossi occhi gialli, e quella fu l'unica reazione. Edzar si schiarì la voce e riprese: «Il nostro buon re Voltrik ha inviato qui il suo amato figlio, il principe ereditario Antar, investito dell'autorità del trono di Labornok. Nei prossimi giorni il principe discuterà con voi delle nuove relazioni fra le nostre genti, che saranno più strette e amichevoli che mai!... E ora il principe Antar desidera presentare i suoi omaggi all'illustre Frolotu la Saggia di Trevista».
Il Capo del Commercio si fece da parte inchinandosi rispettosamente al principe. Per un momento, il piccolo gruppo serrato di aborigeni in cima alla scalinata restò immobile, ma poi una di loro scese le scale e si avvicinò ad Antar. Il suo vestito era fatto con una specie di tessuto composto da lunghi steli d'erba disseccati e intrecciati, mentre colletto e polsini erano fermati da piccoli fiori di un vivido azzurro cielo. Il suo capo era cinto da una ghirlanda di quegli stessi fiori e in mano reggeva una semplice canna di bambù che puntò senza troppe cerimonie verso l'allibito principe di Labornok. «Antar di Labornok», disse lei utilizzando il linguaggio umano. La sua voce era musicale ma profonda. «Io sono Frolotu, scelta dal nostro popolo come sua rappresentante. È nostro costume essere franchi e schietti con gli umani, e così ti farò l'onore di rivolgermi a te senza artifizi. Abbiamo ascoltato il bel discorso del tuo Capo del Commercio, analizzandone il contenuto per cercare di separare il vero dal falso. Ora ti chiedo il permesso di rivolgerti alcune domande.» Il giunco era puntato fermamente verso il cuore del principe e questi scoprì che stava sudando copiosamente dentro la sua bella armatura da cerimonia. «Puoi fare le tue domande», disse con un filo di voce. «Il Labornok ha forse intenzione di nuocere ai Nyssomu?» «Dichiaro che non vi faremo alcun male.» «I vostri commercianti continueranno a pagare un giusto prezzo per le nostre mercanzie?» «Non mancheranno sicuramente di farlo.» «Cos'altro chiedete ai Nyssomu di Trevista oltre alla ripresa delle relazioni commerciali?» «Noi... noi desidereremmo stabilire qui una piccola colonia, una base da cui possano partire le esplorazioni della Palude Labirinto.» «Intendi acquartierare delle truppe armate, quindi?» «Sì. Questo è l'ordine di mio padre, affinché i fuggitivi ruwendiani, che sono nemici del nuovo regime, non possano arrecare danno al commercio.» Gli enormi occhi di Frolotu la Saggia erano pieni di tristezza, ma continuò a parlare senza tradire la minima emozione e senza che il suo bastoncino tremasse. «Quelli che tu chiami tuoi nemici, sono stati nostri amici per lungo tempo. Voi li avete conquistati grazie alla magia nera e a preponderanti forze militari. Avete crudelmente trucidato i sovrani di Ruwenda e la nobile schiera dei loro fedeli, la cui unica colpa era stata quella di
difendere il loro paese contro gli invasori. Ora state dando la caccia ai tre petali del Giglio Vivente, le principesse di Ruwenda, per potere uccidere anch'esse.» «Sì», rispose il principe, «ma queste sono faccende umane che non hanno niente a che vedere con voi. Non abbiamo intenzione di chiedere il vostro aiuto per trovare le principesse. Se ci ostacolerete, dovrete aspettarvi la nostra ira. Se non vi immischierete, vi garantisco che nessun cittadino di Labornok vi porterà danno e insulto. Pagheremo per l'alloggiamento, il vitto e le provviste per la nostra guarnigione, e ristabiliremo le usuali rotte commerciali non appena sarà possibile.» Frolotu la Saggia tracciò nell'aria il simbolo trilobato davanti al principe, rimase un attimo in silenzio e poi disse: «Antar di Labornok, tu hai detto la verità. I Nyssomu di Trevista accettano di riaprire la fiera e di condurre affari con i vostri Capi del Commercio alla nostra solita maniera. La fiera verrà tenuta su un'altra isola, la cui dislocazione vi sarà comunicata a tempo debito». «Grazie», disse il principe. «Vi permetteremo di stabilire qui una guarnigione, nell'area di questa piazza, che è chiamata Lusagira. Potrete utilizzare gli edifici circostanti che più vi aggradano e vicino alla fontana verrà tenuto un mercato dove potranno essere giornalmente acquistate a un giusto prezzo derrate alimentari e certe altre mercanzie.» «Ti ringrazio di nuovo.» Il piccolo essere elencò poi le restrizioni che sarebbero state applicate alla guarnigione. I soldati potevano navigare liberamente fra i canali di Trevista, ma era loro proibito di sbarcare, se non dietro invito dei Nyssomu. Nell'area che si trovava direttamente dall'altra parte del canale, proprio davanti a piazza Lusagira, dimoravano numerosi Nyssomu ed era quindi assolutamente vietata agli umani. D'altra parte, gli Oddling avrebbero dovuto avere libero accesso alla piazza durante le ore del giorno, sebbene gli umani avessero il diritto di non farli entrare nelle loro abitazioni. «Sono tutte condizioni accettabilissime», disse il principe Antar. «E ora, dato che il sole sta ormai tramontando, vi chiediamo il permesso di far sbarcare i nostri uomini affinché possano stabilire un accampamento per la notte.» «Possono scendere tutti a terra...», e Frolotu ruotò la sua canna di bambù, verso la destra del principe, indicando tre figure a bordo della chiatta di testa, «...tranne lui.»
Antar e i suoi compagni si voltarono verso Orogastus, che se ne stava con le sue Voci vicino alla cabina. Il Mago si inchinò con aria di scherno verso Frolotu. La piccola Nyssomu proseguì senza battere ciglio: «Devono lasciare questo luogo domani, e non farvi mai più ritorno, o sarà vanificato qualunque accordo raggiunto fra i nostri popoli.» Antar sospirò. Dal canale si stava alzando una nebbiolina leggera, ed egli si sentiva affamato e terribilmente a disagio in quella pesante armatura. «Va bene, Saggia Frolotu. C'è qualcos'altro?» La canna di bambù fu abbassata e tutta quell'aura di potere e irresistibile integrità che aveva circondato la figura incoronata di fiori, sembrò quasi dissolversi nel nulla lasciando solo una piccola femmina Nyssomu in lacrime e prossima a un collasso. «Non abbiamo nient'altro da dirci, principe. È tempo di lutto e afflizione per i Nyssomu, e i nostri cuori sono afflitti dal dolore. Ciò nonostante la mia gente vi porterà frutta fresca e carne affinché vi possiate rifocillare. Questo è un dono gratuito, come anche l'uso degli edifici. Forse ci incontreremo di nuovo alla Festa delle Tre Lune... se i Signori dell'Aria ci concederanno di vivere così a lungo.» Risalì le scale come un corridore esausto dopo avere partecipato a una lunga gara. Poi, sia lei che il resto dei Nyssomu attraversarono lentamente la vasta spianata, entrarono in un passaggio tra due edifici diroccati fittamente ricoperto di vegetazione, e scomparvero nelle prime ombre della sera. Più tardi, quella stessa notte, quando gli uomini si furono sistemati nelle loro tende e solo poche sentinelle erano rimaste sveglie a tenere accesi i fuochi, Antar uscì dal suo padiglione e iniziò a passeggiare inquieto lungo la banchina. Non c'era la minima brezza, l'aria era umida e attraversata dagli irritanti rumori della notte. Dall'altra parte del canale risplendevano qua e là piccole luci colorate che indicavano la presenza degli Oddling. Dalla cabina della chiatta su cui erano relegati Orogastus e i suoi due fedelissimi, scaturiva un chiarore verdastro, e Antar poteva udirne uscire anche un canto soffocato. Il principe fece una strana smorfia e si allontanò lungo il molo, superando a una a una le imbarcazioni deserte, fino ad arrivare all'ultima, sul cui ponte si trovava una sentinella debolmente illuminata dalla luce di una lanterna posata accanto ai suoi piedi. Dopo essersi identificato, il principe salì a bordo. «Allora, tutto tranquil-
lo sul canale?» «Sì, mio signore.» L'uomo accennò col capo in direzione delle luci che brillavano dall'altra parte del canale. «I piccoletti laggiù si danno da fare. Ogni tanto si intravede muoversi qualcosa. Un po' di tempo fa è passata a nuoto una grossa creatura con gli occhi risplendenti, e deve avere catturato qualche animale che si è messo a strillare in un modo pietoso. A parte questo, tutto bene.» Antar si sporse dal parapetto, fissò le nere acque del canale e poi focalizzò la sua attenzione sull'altra sponda. «Cosa ne pensi di questi Oddling? Sono una specie di animali intelligenti, come hanno sempre sostenuto i nostri saggi, o sono delle vere persone?» Il soldato si raschiò la gola e sputò. «Hanno un aspetto strano e sembrano creature ben diverse da noi, ma quella furbacchiona che ha parlato con voi, mio signore, sembrava piuttosto in gamba.» «Ah, di sicuro!» ammise Antar con una risatina sconsolata. «E non ho mai sentito di un non-umano che potesse piangere di dolore per la morte di un amico.» Antar si astenne dal rispondere a quel commento. «Sei stato scelto per far parte della guarnigione?» «No, domattina dovrò tornare alla Cittadella con il mago.» «E ne sei contento?» «Sarei stato più felice di muovere verso Derorguila, mio signore. Sono un uomo delle pianure, e non mi piacciono mica tanto le paludi. E poi queste enormi rovine mi fanno venire i brividi.» Antar rise di cuore. «Anche a me!» A testa bassa e con le braccia conserte, si diresse con aria pensierosa verso i carri ora vuoti che erano serviti a trasportare i loro rifornimenti. Ci sarebbe stato ben poco bisogno di mezzi di trasporto a ruote lì in quell'avamposto. Le strade che si dipartivano dalla piazza che era stata loro concessa, s'interrompevano nella giungla a un paio di chilometri di distanza. Il principe tirò oziosamente un calcio a una cesta e poi si piegò a raccogliere un pezzetto di stoffa rimasta impigliata a un chiodo che spuntava dalla sponda del carretto. Il tessuto luccicava stranamente alla debole luce della lanterna. Si trattava di un pezzo di seta rosa dall'aria molto costosa, sdrucito e chiazzato di fango. Mentre lo studiava, sentì insinuarsi nella sua mente una strana convinzione: lui aveva già visto e toccato prima quel materiale... e aveva tenuto fra le braccia la ragazza che indossava quel vestito!
Si trattava di lei, certo, quello era un pezzo del suo vestito! Ma come faceva a trovarsi lì? Impossibile! Era impossibile che la principessa Anigel si fosse nascosta proprio a bordo della chiatta, fra coloro i quali minacciavano la sua vita. E poi non avrebbe potuto certo evitare il lungimirante occhio di Orogastus... ma il Mago aveva ammesso che nonostante i suoi poteri magici non era capace di individuare il nascondiglio delle tre ragazze. Forse se n'era rimasta nascosta a bordo durante lo scarico delle attrezzature e delle mercanzie, e poi col favore delle tenebre... le imbarcazioni degli Oddling erano andate avanti e indietro tutta la sera attraverso il canale, trasportando cibi e bevande per gli ospiti indesiderati. Quindi la giovane adesso poteva essere proprio lì a Travista, magari nell'area che si erano riservati i Nyssomu dall'altra parte del canale... quella meravigliosa creatura dai capelli dorati, la cui esistenza minacciava il trono di suo padre. In nome di Dio, cosa avrebbe dovuto fare? Antar sospirò profondamente, ficcò il pezzo di stoffa dentro l'alta cintura, augurò la buonanotte al soldato e tornò all'accampamento. La misteriosa luce verde brillava ancora nella cabina di Orogastus, pulsando ritmicamente al suono del canto lamentoso. Il principe esitò un attimo, facendo scorrere fra le dita quella morbida stoffa. Si abbassò, raccolse una pietra e vi legò intorno il pezzo di tessuto. Poi scagliò il piccolo missile nel bel mezzo del corso d'acqua e se ne andò a dormire. 10. Kadiya si levò a sedere; alcuni fili d'erba le si erano attaccati alla pelle e ai capelli appiccicosi. Ansimava come qualcuno che crolla dopo aver fatto una lunga corsa. Si guardava intorno intontita e scombussolata, e per qualche istante fu incapace di capire dove si trovasse o cosa fosse capitato. Lì attorno c'era il calore prodotto dal fango della palude, e piccole chiazze di luce sui brevi tratti d'acqua che poteva intravedere attraverso la vegetazione lussureggiante. Nonostante il caldo rabbrividiva e se ne stava raggomitolata su se stessa. Era ancora lì... Si sforzò di respirare più lentamente, di liberarsi dallo stordimento che si era impadronito di lei. Cos'era? Nulla cui potesse dare un nome. Tuttavia si sentiva come se si trovasse sotto un gigantesco occhio, intrappolata e
senza aiuto. Dovette fare due tentativi prima di riuscire a esclamare con voce rauca: «Jagun!» Non lontano, qualcosa si agitò. Il Capocaccia Oddling era così sprofondato nel suo giaciglio fra l'erba che alzandosi sembrò emergere dal suolo stesso. Si copriva gli occhi per ripararsi dalla luce, ma in mano teneva sguainato il suo lungo pugnale. «Qualcuno», la voce di Kadiya tremò in modo tale che la fanciulla si vergognò dello stato in cui si trovava e fece uno sforzo per controllarsi, «qualcuno ci sta osservando.» Jagun si alzò in piedi, liberandosi dai fili d'erba. Alzando la testa per fiutare l'aria come un animale inseguito dai cacciatori le sue lunghe e strette narici si dilatarono. Girando su se stesso molto lentamente esaminò l'aria in ogni direzione. Anche la principessa si muoveva. Per la sua vista acuta era chiamata Lungimirante, ma in questo caso ella non notò altro che la solita palude. Ma in qualche modo (e ciò era più allarmante di ogni nemico visibile) la giovane era certa che ora il misterioso osservatore si fosse allontanato da loro... Magia? Di quale specie? Usata da chi? «Non c'è nessuno qui attorno», disse lentamente Jagun, guardando fissamente la fanciulla. «Hai sognato, principessa. Stai tranquilla: la palude è vigilata. Nulla potrà capitarci che io non saprò.» Sbadigliò. La giovane si distese di nuovo sull'erba, stringendo l'amuleto. Ascoltava con tutte le sue forze. Lì attorno la palude brulicava di vita, e nessuna di quelle creature sembrava aver motivo di temere qualcosa. Kadiya cercava di distinguere i suoni in modo da poterli identificare. I predatori che popolavano la palude di notte, cedevano il posto ad altri con lo spuntare del giorno. Ma il predatore sulle tracce della principessa aveva fallito il suo scopo. Kadiya disse sommessamente: «Jagun, credo che abbiano smesso di cercarci». Poi aprì la mano in modo che Jagun potesse vedere l'amuleto. «Il mio giglio d'ambra ci ha protetti... forse dalla vista magica di Orogastus!» Jagun rimase in piedi, ripulendosi dall'erba. «Lungimirante, non capisco queste cose», e indicò l'amuleto. «Ma credo che non dovremmo aspettare la notte per muoverci.» «Skritek?» Kadiya spostò lo sguardo verso la palude. Estraendo il pugnale, lasciò che l'amuleto dondolasse legato alla sua catena. Egli scosse la testa. «Se fossero Skritek lo saprei. Questo, posso solo in-
dovinarlo.» L'aria grave dell'Oddling la impressionò, facendola di nuovo sentire indifesa. «Orogastus ha i suoi seguaci.» Jagun era già occupato a calpestare il terreno soffice dove erano rimaste le tracce del bivacco. «Essi sono chiamati Voci, avendo ceduto la loro intera volontà alla sua, divenendo così solo estensioni, strumenti di lui stesso. È molto probabile che egli li abbia inviati nella palude dotandoli di tutte le armi che possano difendere Trevista.» «E mi seguono! Ma cosa fanno queste Voci, Jagun? Possono nascondersi in modo tale che tu, pur conoscendo bene la palude, non puoi individuarle?» «Lungimirante, ricordi come nell'ultima fiera vi fosse quella certa Ustrel, alla quale le persone rivolgevano domande riguardo a questioni che le tormentavano?» Sì, la principessa ricordava bene la vecchia così zoppa da avere bisogno di due stampelle per camminare. E Kadiya l'aveva vista accovacciata davanti a una grande foglia di drogo dai bordi arricciati, in cui aveva lasciato cadere alcune gocce d'acqua. Accovacciata dall'altro lato della foglia vi era un'altra femmina Oddling, che aspettava con ansia di udire il bisbiglio della veggente, ma questa parlò in un dialetto sconosciuto a Kadiya. «Tu dicesti che poteva leggere il destino nelle gocce d'acqua», mormorò Kadiya, «ma senz'altro si trattava di un inganno. Ciò è impossibile.» «Non del tutto, Lungimirante. Ognuno di noi è diverso dagli altri, non solo nel corpo ma anche nella mente, ed ecco perché alcuni sono capaci di imparare facilmente qualcosa che altri non possono afferrare senza grande fatica. Tu sei uguale alle tue sorelle, principessa? Io sono un cacciatore, talvolta un domatore. Queste sono le mie possibilità. Non intaglio il legno, non confeziono erbe né faccio commercio con i reperti delle rovine. Queste sono arti e abilità che io non posseggo. «Lo stesso accade per quanto riguarda le capacità della mente. Alcuni possono spingere lontano la loro vista, e sono in grado, per quanto in modo fugace e incerto, di osservare a distanza ciò che accade a un altro. Ustrel non è sempre in grado di farlo, e raramente vi riesce in modo chiaro. Ma vi sono state occasioni in cui ha previsto la verità. Orogastus è un uomo di grandi conoscenze, la maggior parte delle quali inaccessibili a noi. Se le sue Voci vengono bene istruite e se possiedono già qualche capacità, lui ne farà uso per estendere i propri sensi.» «Allora ci stanno cercando e continueranno a farlo! E le tue arti, in que-
sto caso, come ci consentirebbero di sfuggire?» disse Kadiya rabbrividendo. Poteva comprendere l'acciaio contro l'acciaio, e anche le crudeltà degli invasori, ma di fronte a tali poteri si sentiva invadere dallo scoraggiamento. Jagun scosse lentamente la testa. «Non è una cosa facile a farsi e richiede tempo e preparazione. Ed è anche spossante per un veggente. Può essere che sulle nostre tracce vi sia una Voce con una squadra di cercatori. Ma quanto più lontani saremo dalla Cittadella, tanto meno facile sarà trovarci.» Kadiya strinse lo scintillante amuleto d'ambra. «La magia attira la magia?» La fanciulla era quasi pronta a gettare nell'acqua quello che poteva diventare un oggetto nefasto. «Lungimirante, il tuo amuleto appartiene alla Luce, è il dono dell'Arcimaga. Non credo che potrebbe ingannarti. Tuttavia vorrei essere lontano da qui. Dobbiamo scegliere un percorso che giri attorno a Trevista. I labornoki rimarranno vicino al fiume. Né Pellan, né gli Skritek se sono con loro, conoscono il paese della Palude Nera, a parte le piste principali.» Sebbene fosse già stata molte volte a Trevista e si vantasse della propria eccellente memoria topografica, Kadiya rimase sbalordita quando, mentre il pomeriggio declinava, la barca di Jagun li condusse attraverso serpeggianti corsi d'acqua. Costeggiarono un'isoletta dove resti di mura distrutte occhieggiavano sopra la vegetazione palustre, composta da ammassi di canne e di erba resistente, carnosi rampicanti e alberi giganti. Vi erano rare chiazze di colore, fiori dai petali rigonfi e dall'aspetto sgradevole; Kadiya li riconobbe come le esche di cui certe piante carnivore si servivano per catturare incauti insetti. L'amuleto continuava a scintillare, guidandoli. Non si fermarono per mangiare, limitandosi a rosicchiare tuberi e frutti raccolti da Jagun. Nella notte incontrarono molte isole sormontate da rovine, e attorno a esse danzavano punti di luce velata che sorgevano dalla palude. Il chiarore dell'alba stava riapparendo quando deviarono per entrare in un'insenatura che Kadiya avrebbe giudicato troppo stretta per consentire il loro passaggio, giungendo infine in uno spazio aperto più simile a uno stagno che a un fiume. Kadiya sentiva come dei crampi alle gambe e si chiese se sarebbe riuscita a rimettersi in piedi. Anche Jagun era stanco. Spinse lentamente a riva la piccola barca, in un punto dove un albero con le radici divelte nel corso delle inondazioni monsoniche, si sporgeva nell'acqua. Sull'altro lato, alcune pietre allineate emergevano dalla superficie dello
stagno, creando un passaggio che conduceva all'intrico di vegetazione, simile a una giungla, visibile dalla riva. Arrivati a terra, Jagun spinse la barca vicino agli alberi e la ricoprì di canne. Kadiya aveva le gambe e la schiena indolenzite, ma si chinò ugualmente per raccogliere la più grande delle due borse da cacciatore. Se lei stessa era così stanca come doveva sentirsi Jagun? L'Oddling non tentò di aprirsi un varco attraverso la vegetazione, ma si limitò a scansarla con le braccia. Un nugolo di insetti si levò intorno a loro, e Jagun cominciò a menare con forza dei colpi verso il basso. Fra lui e Kadiya si trovava un oggetto che avrebbe potuto sembrare un rampicante, ma non aveva foglie e dava violente sferzate avanti e indietro, mentre dall'estremità tagliata gocciolava una sostanza giallastra che aveva l'aspetto putrescente dello scolo di una ferita infetta. Nell'aria si diffuse un odore dolciastro di putrefazione. L'altra estremità si era prontamente riparata in una tenebrosa cavità ricoperta di fitta vegetazione, e Kadiya avanzò rapida per sfuggire alla pianta carnivora. Sebbene gli arbusti fossero molto alti, gli alberi erano radi. Alla luce del mattino Kadiya e Jagun giunsero in un luogo in cui monconi di colonne formavano un cerchio sopra un pavimento di pietra scura. Kadiya lanciò un'esclamazione. Il luogo era deserto, ma proprio al centro si trovavano i resti di un fuoco che ardeva ancora sotto la cenere, e una leggera brezza ne trasmetteva l'odore, diffondendo folate di fumo oleoso. Sopra ciò che restava della legna da ardere era caduto un paletto più lungo e più grosso, ora carbonizzato nella parte centrale. Tuttavia, era ciò che si trovava conficcato alla sua estremità che fece rimanere Kadiya senza fiato. Fissato all'asta bruciacchiata e annerita vi era un teschio. «Jagun!» La mano del Capocaccia si levò in un gesto imperioso mentre si avvicinava per esaminare l'oggetto più da vicino. Il teschio era ricoperto da una sostanza untuosa e giallastra, ed era incrinato come se fosse stato trascinato attraverso alcune delle vie più fangose della Palude. «Skritek!» mormorò il Capocaccia. La palude era umida e scura anche se il sole non era ancora completamente scomparso; in quel momento Kadiya provò una sensazione di freddo che le arruffò i capelli come un vento tempestoso. «Un avvertimento.» Jagun girò intorno al fuoco come intorno a una trappola. «Ma... qui?» Kadiya si guardò intorno con apprensione. «Gli Skritek si avvicinano a
Trevista oppure», emise un profondo sospiro, «hanno combattuto qui?» Fu come se Jagun non l'avesse udita: balzò in avanti all'improvviso e raccolse ciò che sembrava uno spago di fibre intrecciate, del tipo usato per le piccole scialuppe. Poi lo afferrò saldamente e lo tese. «Uisgu!» Il Capocaccia rovesciò all'indietro la testa e dal profondo della gola risuonò per tre volte il grido di richiamo degli horik inermi che si rintanavano in quelle isolette. Poi, dopo un breve silenzio, emise un altro suono vibrante, alto e sottile, che Kadiya non aveva mai udito prima. Jagun ruotò lentamente su se stesso, il corpo teso come se ogni sua cellula fosse impegnata nello sforzo di udire la risposta. E la risposta giunse sotto forma di un singolo richiamo horik. Dal groviglio di vegetazione circostante avanzò lentamente un altro Oddling. A differenza di Jagun non indossava indumenti di fine tessuto Nyssomu, ma solo un corto gonnellino giallo-oro simile a un kilt, orlato di steli d'erba, e sopra la cintura era visibile l'impugnatura di un pugnale rivestita di corda rossa. In una mano stringeva una cerbottana. I suoi occhi sporgenti erano cerchiati con un colore rosso-bruno che li faceva sembrare ancora più grandi, e sul torace coperto di peli erano dipinti altri tre cerchi che si intersecavano in un punto centrale. Lanciò un'occhiata a Kadiya e poi si avvicinò al Capocaccia. Quando parlò, il suo accento era così strano che la principessa, abituata al solo linguaggio commerciale dei Nyssomu e ad alcune frasi cerimoniali insegnatele da Jagun, poteva capire soltanto una parola su tre o quattro. «...venuti... montato il palo... ucciso Unvis... ucciso.» Dicendo questa parola sollevò la cerbottana e l'agitò ferocemente. «Gli altri...» Si lanciò quindi in un discorso accalorato che Kadiya non riuscì in alcun modo a seguire, e infine tacque ansimante, mentre tracce di saliva gli si fermavano agli angoli della bocca. Jagun guardò Kadiya. «Ieri gli Skritek sono stati qui. Hanno catturato una donna del clan di Usos trascinandola con sé. Poi hanno piantato uno dei loro pali di confine, uccidendola per suggellare col sangue la loro impresa.» Jagun si voltò verso l'Uisgu e parlò di nuovo. L'altro rispose in poche parole. «Essi procedono... verso Trevista», disse Jagun. «Ho avvertito Usos del pericolo che ora incombe su tutti noi. Lui e alcuni mercanti del clan andranno a Trevista con alcuni oggetti delle rovine. Non appena saranno di ritorno diffonderanno l'allarme.»
L'Uisgu sparì così rapidamente che Kadiya batté le palpebre sorpresa. «Non potremmo andare con loro?» Jagun emise un piccolo suono stridulo che avrebbe potuto essere una risata. «Gli Uisgu viaggiano soltanto con quelli della loro gente, Lungimirante. È stato sempre così. Noi siamo dello stesso sangue», fece un cenno col capo, «ma il nostro ceppo è molto lontano dal loro. Non abbiamo mai mosso guerra contro di loro, né loro contro di noi. Ciò fu stabilito molto tempo fa, alle origini, quando governavano gli Scomparsi. Noi siamo Nyssomu e loro sono Uisgu, e così è sempre stato. Usos diffonderà il mio allarme, ma non ci permetterebbe di andare con lui.» «E tuttavia non siete nemici», rifletté Kadiya. «Principessa, nei tempi antichi noi Nyssomu eravamo, così dicono le leggende, i portavoce degli Scomparsi. Ora serviamo la Signora di Noth, la quale ci comandò di aiutare gli umani che si stabilirono nell'intricata Palude. Ma gli Uisgu hanno sempre temuto il vostro popolo. Fra loro solo pochi coraggiosi commerciano con noi quelle merci che a nostra volta vi vendiamo.» «Scopriranno presto che i labornoki non appartengono alla nostra specie», esclamò Kadiya. «Jagun, credo che Voltrik cercherà di dominare le Paludi con la stessa ferocia con cui domina ora la Cittadella. Gli Uisgu possono nascondersi tanto bene da non essere scoperti dagli Skritek?» Jagun scrollò le spalle. «Lungimirante, chi può dirlo? Ma ora dobbiamo fermarci, e poiché questo è un luogo profanato, dobbiamo cercare un altro posto per accamparci.» Lo trovarono più avanti lungo la sponda dello stagno. Lì non vi erano rovine degli Scomparsi e Jagun disse che avrebbero dovuto fare dei turni di guardia. Kadiya insistette per avere il primo turno, poiché il Capocaccia si era accollato la fatica di trascinare la barca fino a quel rifugio. Jagun si accoccolò immediatamente su un mucchio di foglie che aveva raccolto e si addormentò. Ma Kadiya si sedette a gambe incrociate, preparandosi con la massima attenzione a fare da sentinella. Sebbene fosse sprovvista della maggior parte dei sensi acuti posseduti dagli Oddling, essendo incapace di distinguere le tracce di odore diffuse nell'aria e sopraffatte dagli odori comuni della palude, e per quanto non potesse dare un nome ai suoni senza difficoltà, tuttavia la principessa aveva una certa esperienza della palude. Molte volte si alzò per perlustrare i dintorni del luogo ove si erano accampati. Cercò anche di pettinare con le dita i capelli arruffati ricoperti da
una pellicola di grasso per tener lontani gli insetti. In quel momento avrebbe potuto ben invidiare ai Nyssomu la loro calvizie e agli Uisgu il leggero pelame. Durante il suo secondo giro intorno al campo scorse in un cespuglio qualcosa di un verde più brillante, e un momento dopo stringeva fra le mani una pianta dalle grosse radici che le era nota. Ne sradicò altre cinque, pulì e divise accuratamente le loro radici e ne mise da parte metà per Jagun. Poi cominciò a mangiare. A differenza dei legnosi tuberi, le radici avevano un sapore pulito e aspro. Erano chiamate mafun, e venivano consumate anche alla Cittadella, dove erano considerate una squisitezza, sebbene non potessero venir ripiantate nei campi bonificati. Masticando Kadiya pensava agli Scomparsi. Fin dove poteva risalire la sua memoria, aveva udito discussioni e congetture che li riguardavano. Si riteneva che avessero governato quelle terre in età remota. Tutti i sapienti sostenevano che gli Scomparsi avevano posseduto vasti poteri. Poteri? Addentò l'ultima delle succose radici. La magia era potere! L'Arcimaga era davvero una degli Scomparsi sopravvissuta per secoli e secoli, osservando in solitudine i mutamenti della sua terra, mentre Noth si consumava lentamente intorno a lei? E chi era Orogastus? Aveva forse anche lui legami con gli Scomparsi? Kadiya incominciò a chiedersi quanto grande fosse questo suo mondo. Cosa c'era oltre la Penisola? A nord le pianure di Labornok conducevano al mare, e a sud vi erano i vasti territori boscosi di Var: ma la fanciulla aveva studiato pochi altri paesi, e ora invidiava Haramis, che aveva trascorso tanto tempo nella biblioteca della Cittadella, mentre lei aveva disdegnato i libri a vantaggio di una vita attiva, all'aria aperta. Gli Scomparsi avevano forse abbandonato Ruwenda per stabilire altrove la loro legge? Si diceva che Orogastus provenisse da una terra lontana, richiamato da Voltrik durante gli anni in cui l'invasione veniva preparata. Forse che lo stesso stregone apparteneva alla stirpe degli Scomparsi? Tuttavia, né le leggende né le informazioni ricavate dagli Oddling suggerivano che gli Scomparsi fossero artefici del male. Certamente l'Arcimaga non aveva mai tentato di dominare né gli Oddling né i ruwendiani. Kadiya alzò l'amuleto d'ambra. Scintillava costante, rassicurante, forse anche protettore, e indicava ancora fedelmente la via per Noth... dove forse tutte le domande avrebbero trovato una risposta. 11.
I semi del Giglio Nero condussero Haramis e Uzun attraverso i terreni acquitrinosi che salivano verso le propaggini dei monti Ohogan. I semi fluttuavano abbastanza lentamente da poter essere seguiti, e se per caso uno di loro inciampava, veniva rallentato dal fango o doveva comunque fermarsi per qualche altra ragione fisiologica, allora il seme-del-giorno veniva trasportato da una brezza più leggera o trattenuto da qualche ostacolo naturale che gli si parava davanti, e sembrava riprendere il suo volo regolare solo quando i due erano in condizione di ripartire. Era sempre il seme a determinare così dove e quando i due dovessero fermarsi per la notte, atterrando ogni sera nel luogo più adatto per accamparsi. O forse, pensava Haramis, i semi si scelgono i luoghi migliori per maturare. Se sopravvivo e torno qui l'anno prossimo, troverò forse delle piante di giglio a distanza di un giorno di marcia fra loro? I semi però non li lasciavano certo riposare troppo a lungo, e dopo parecchi giorni di lunghe marce verso ovest, Haramis iniziò a odiare quelle minuscole guide volanti. C'erano occasioni in cui si sarebbe volentieri fermata ad ammirare il paesaggio, o si sentiva particolarmente incuriosita da qualche tipo di pianta o di animale; ma il seme-del-giorno proseguiva inesorabile, e così lei e il suo fedele accompagnatore erano costretti a seguirlo. Un giorno, il secondo da quando avevano lasciato Noth, la giovane osò sfidare la loro magica guida. La pista che stavano seguendo attraverso quegli altipiani paludosi, li aveva portati a costeggiare una macchia dei più grossi e più sugosi lamponi che avesse mai visto in vita sua, e insistette quindi perché si fermassero a farne una scorpacciata ignorando il semino. Quando furono sazi, però, il seme non era ormai più in vista, e così Haramis ne estrasse un altro e lo gettò per aria. Ma non accadde proprio nulla e la giovane, presa dal panico, riprovò con un altro. Questa volta il seme partì con una tale velocità che dovettero praticamente corrergli dietro, e il povero vecchio Uzun fu costretto ad arrancare vacillando per chilometri e chilometri, lamentandosi in silenzio. Non rimproverò mai direttamente la ragazza, ma Haramis sapeva bene che doveva biasimare soltanto se stessa per lo sforzo a cui stava sottoponendo il suo amico Oddling. Afferrò allora il suo amuleto e, quasi senza fiato, gli si rivolse con inusuale umiltà: «Va bene, ho sbagliato! Non avrei dovuto provocare il seme! Abbi almeno pietà di Uzun se non ne hai per me! Rallenta, ti prego!» E fu così che la loro guida regolò il volo su una velocità più accettabile.
Ma Haramis non poteva fare a meno di provare un certo risentimento. L'Arcimaga non avrebbe potuto offrirle un modo più decoroso di proseguire la sua ricerca? Cos'era lei, una bambina o un cucciolo disobbediente da allettare con qualche fatuo richiamo? Le ricerche di cui aveva sentito parlare nelle leggende si svolgevano in un'atmosfera di dignitosa nobiltà. Ma lei sembrava destinata a coronare il suo grande destino arrancando su e giù per colline e valli inseguendo uno stupido batuffolo lanuginoso, tra fango, vesciche, morsi di insetti e un crescente disgusto per le nutrienti ma ormai stucchevoli razioni di cui li aveva riforniti l'Arcimaga. Le cibarie, comunque, non abbondavano, tanto che durante il quinto giorno di marcia, Haramis si accorse che, se non le avessero razionate, si sarebbero ben presto trovati in difficoltà. Raggiunsero un largo fiume, che secondo Uzun poteva essere il Vispir superiore, senza avere incontrato segno di aborigeni sulle basse colline ai piedi delle catene montuose. Al contrario, la regione sembrava deserta, e, secondo Uzun, sia le tribù Nyssomu che quelle Uisgu non si erano mai stanziate in un'area così lontana dai confini della Palude Labirinto. Sembrava quasi essere una regione cuscinetto, disabitata, una sorta di zona franca naturale fra le paludi e il territorio montuoso dei Vispi. Haramis si sedette su una roccia da cui poteva ammirare il torrente. Era quasi il tramonto, e come sempre in quel momento della giornata, il seme di turno si era posato al suolo indicando dove potevano accamparsi. Uzun aveva già raccolto dei pezzi di legna asciutta per il bivacco e si stava apprestando a preparare la cena, un compito che si sobbarcava mattina e sera, insistendo a servire la principessa con una tale deferenza come se si trovassero ancora nella Cittadella. «Uzun», chiamò Haramis e il piccolo musico corse da lei sorridendo. «Pensi che ci siano dei pesci in questo fiume?» «Direi di sì, mia principessa. Sicuramente dei garsu, e probabilmente anche altri di cui non conosco il nome.» «Ho trovato nel mio zaino alcune lenze con i rispettivi ami. Cosa ne diresti di farne buon uso per procurarci così la cena? Sono talmente stanca di carne secca e di quella specie di dolcetti supernutritivi. Inoltre le nostre scorte si stanno assottigliando e temo che non possiamo contare sulla speranza di trovare altri Oddling che ci aiutino in questa terra desolata.» Uzun non sembrò entusiasta dell'idea. «Manca poco più di un'ora al calar della notte, principessa. Se passerò il tempo pescando, come farò a preparare tutto il resto?» Le sorrise con aria di scusa. «Sono restio a confessarlo,
ma non ho mai pescato in vita mia, e probabilmente combinerei un gran pasticcio.» Haramis scoppiò a ridere. «Ma non dev'essere troppo difficile, visto che sanno pescare persino i bambini della Cittadella! Ho un'idea! Pescherò io, e tu invece di cucinare la solita roba raccoglierai delle bacche e della verdura fresca, tipo quel crescione che abbiamo visto poco più in là sulla strada da cui siamo arrivati. E vedrai che ci sono sicuramente anche dei funghi... che festa stasera!» Come sempre, Uzun la accontentò, e, dopo avere raccolto un altro po' di legna, trotterellò giù per il declivio lasciandola sola. Dev'essere facilissimo, si disse la principessa. Si prende un legno abbastanza lungo, vi si lega la lenza e poi all'altra estremità l'amo, e sull'amo si infilza l'esca... Ohoooo. Ma l'esca deve essere infilzata! E poi, dove la si può trovare? Si diede a frugare fra i detriti portati dalla corrente sulla riva del fiume e trovò un ramo abbastanza lungo da essere utilizzato come canna da pesca. Sotto un tronco mezzo marcio scovò un intrico di vermi, scintillanti nell'incombente crepuscolo. Facendosi coraggio (ebbe un conato di vomito, ma fortunatamente U'zun era troppo lontano per sentirla), riuscì ad assicurare all'amo una di quelle piccole disgustose creature, dopo che altre due le erano scivolate dalle dita tremanti. Poi si ripulì le mani, trovò una polla d'acqua profonda e tentò per la prima volta nella sua vita di catturare un pesce. Lenza ed esca furono travolti immediatamente dalla corrente, ed Haramis tirò verso di sé l'improvvisata canna da pesca solo per vedersela strappare via dalle impetuose acque. Molto bene, non era certo il tipo di problema che una persona intelligente non fosse in grado di risolvere. Ci pensò su e si ricordò di come i ragazzini della Cittadella usassero pesi e galleggianti per controllare la posizione dell'esca. Recuperò la lenza. Ovviamente il verme si era staccato e occorreva quindi rimpiazzarlo. Poco sopra l'amo legò un piccolo sasso, e ancor più su un pezzettino di legno asciutto. Quando provò nuovamente, dopo essersi sistemata in una posizione migliore, l'attrezzatura sembrò molto più stabile. Haramis sospirò, si sedette sulla riva e attese pazientemente. Dovrei cercare di avere queste iniziative più spesso. Mi sono comportata come una vera scervellata, lasciando che il povero Uzun si occupasse di me in tutto e per tutto come se stessimo facendo una scampagnata. È chiaro che da qui in avanti dovremo sfruttare ciò che ci può dare la natura e
conservare le razioni rimaste per eventuali emergenze. Solo i Signori dell'Aria sanno quanto durerà questa ricerca e dove ci porterà! Haramis gettò un'occhiata più a monte, dove si estendeva una landa punteggiata di sparsi alberi ma ricoperta da un fitto intrico di cespugli. La pista che avevano fin lì seguito proseguiva lungo la riva del fiume, e perciò l'implacabile seme quotidiano li avrebbe senza dubbio guidati verso le montagne. Le montagne... Facevano capolino oltre le scure colline. Se ne vedevano i fianchi impervi e le cime innevate... la terra dei misteriosi Vispi. Che il suo talismano fosse nascosto proprio là? Se così era, come avrebbero potuto sperare di trovarlo due sprovveduti come lei e Uzun? Per non parlare poi del ritorno a Noth, com'era stato loro ordinato dalla Bianca Signora. La Bianca Signora, che era malata, morente e forse anche un po' svanita... Tutto quel che potevano fare era seguire i semi, quelle piccole cose color marroncino da cui spuntavano filamenti setosi, e che non sembravano affatto magici a parte il loro assolutamente intenzionale lasciarsi trasportare dal vento. È lei che li spinge, pensò Haramis. Lei sa dove siamo e dove dobbiamo andare, e così guida i semi davanti a noi! E non mi ha detto quale sarebbe stato l'itinerario del viaggio perché sapeva che altrimenti sarei stata troppo spaventata e scoraggiata persino per iniziarlo... «Principessa! Ho portato le bacche e il crescione e un sacco di funghi dall'aspetto delizioso.» Haramis sobbalzò sorpresa. Persa nei suoi pensieri, non si era accorta dell'avvicinarsi di Uzun. Ci fu uno strattone e l'improvvisata canna da pesca quasi le sfuggì di mano. La tenne più saldamente, ma dall'altro capo del filo qualcosa tirava così forte da riuscire a trascinarla verso le acque. «Uzun! Aiutami! Un pesce!» E poi qualcosa di verde-argentato schizzò fuori dall'acqua per ricadere immediatamente con un grande spruzzo. L'Oddling mollò tutto e corse in suo aiuto, eccitato come un bambino. I due tirarono, lottarono, quasi caddero nel fiume, ma sempre il pesce opponeva una tale resistenza che furono davvero sul punto di arrendersi. Ma Haramis gridò: «No, non te ne andrai così facilmente, tu sei la nostra cena!» E proprio allora la povera creatura smise di dibattersi e poterono tirarla a riva. Si trattava di un magnifico garsu dalle squame scintillanti, lungo quanto una gamba della principessa. «Forse, principessa, non avevi neanche bisogno dell'amo», la stuzzicò
Uzun, «se puoi ordinare la cena all'acqua.» «Spero sia stata una semplice coincidenza», sorrise Haramis. «Mi sarebbe odioso pensare che la nostra cena era una creatura intelligente capace di comprendere il linguaggio umano - o peggio ancora, un principe incantato!» «Come nelle vecchie ballate?» chiese Uzun. «Non mi sembra probabile. È un comunissimo garsu, e sarà delizioso; ne resterà abbastanza per la colazione e anche per il pranzo. Oh, ben fatto, mia principessa. Ben fatto.» Si sorrisero, quindi Haramis osservò il grosso pesce e la sua gioia si trasformò in sconforto. «Ma... tu sai per caso cosa bisogna fare dopo, voglio dire per cucinarlo?» Sgomento, Uzun si limitò a scuotere il capo. Haramis emise un profondo sospiro. «Non importa. Alla conoscenza si arriva, per quanto ne so, attraverso prove ed errori.» Uzun appariva dubbioso. «Anche un po' di divina ispirazione non ci starebbe male», commentò. 12. Anigel fece un sogno straordinario, un sogno in cui accadeva qualcosa che a memoria d'uomo non era mai accaduta in tutta la storia della Penisola: non erano arrivate le grandi piogge. Invece delle abituali tempeste che investivano tutta la regione arrivando dal Mare Meridionale, inzuppando regolarmente due volte l'anno Zinora, Var, Labornok, Ruwenda, Raktum, e persino le isole di Engi, c'erano stati lunghi mesi limpidi e soleggiati, mentre un vento caldo e secco spazzava notte e giorno le ormai riarse terre della Penisola. Ovunque era morte e devastazione, ma il regno di Ruwenda, non disponendo di coste marine, era quello che soffriva i danni maggiori. Nel sogno, Anigel si trovava ancora alla Cittadella, e dalla finestra della sua camera osservava scorrere quello che era stato un tempo il possente Mutar, ora ridotto a un ruscelletto, proprio come il Virkar, lo Skrokar e il Bonorar. E questo aveva fatto sì che il lago Wum, da essi alimentato, si fosse completamente prosciugato, cosicché non c'era più modo di trasportare gli enormi tronchi d'albero dalla foresta di Tassaleyo alle segherie locali. Il commercio fluviale era ormai impossibile, le fattorie della Terra di Dylex erano state abbandonate a causa della siccità, e ovunque imperversavano bande di mostruosi Skritek affamati.
Vennero da lei i suoi genitori, insieme ai governanti delle altre cinque nazioni, e la pregarono di salvare le loro terre. Ma Anigel disse che non sapeva proprio cosa fare, e se ne andarono via ancor più disperati. Arrivò poi sua sorella Kadiya, annunciandole che il suolo acquitrinoso delle rigogliose paludi ruwendiane si era ormai inaridito; il foraggio era bruciato, mentre piante e arbusti erano così avvizziti da non dare né fiori né frutti. I funghi e ogni altro tipo di miceti erano appassiti, i verdi e nutrienti licheni si erano raggrinziti, e gli enormi alberi della foresta avevano lasciato cadere le foglie. «Prega!» la incitò Kadiya, e così lei fece, afferrando il suo amuleto con mani febbricitanti. Ma il caldo vento soffiava sempre più forte intorno alla Cittadella, e Kadi se ne andò via infuriata. Nel sogno Anigel vide lo straziante spettacolo di centinaia di cadaveri sparsi ovunque, formando pile di corpi pelle e ossa. Ed era colpa sua. Giunse anche Haramis, avvertendola che ora sarebbe toccato a tutti gli esseri umani della Penisola e agli aborigeni della Palude Labirinto e delle montagne. Sua sorella indicò fuori dalla finestra, in direzione nord, dove si diceva che vivessero la Bianca Signora e il Mago Nero. Solo loro due sarebbero sopravvissuti, la avvisò Haramis, se lei non si fosse decisa a chiamare la pioggia. Sarebbe arrivata la distruzione finale, non nella forma di quel costante vento caldo, ma come una spaventosa tempesta di fuoco scaturita dallo scontro finale fra l'Arcimaga Binah e Orogastus. Le fiamme avrebbero consumato tutto il mondo conosciuto a meno che lei, la piccola e impotente Anigel, non le avesse fermate. «Ma non posso!» si lamentò Anigel, mentre un terrore inaudito le straziava l'anima. «Ho provato, ma non so come fare! Il mio cuore sanguina, e sono così spaventata... ma proprio non ci riesco!» In quell'orribile sogno, i re e le regine della Penisola, nonché suo padre Krain e sua madre Kalanthe e la coraggiosa Kadiya e la colta Haramis, tutti la osservavano con sprezzante compatimento. Poi la lasciarono da sola nella sua stanza, prigioniera della propria infelicità. Pestò i pugni contro la porta, pianse, urlò, ma nessuno venne ad aprire. Allora guardò di nuovo fuori dalla finestra e vide un immenso muro di fiamme coprire tutto l'orizzonte, più alto della più alta torre della Cittadella. Le fiamme ruggirono rivolte proprio contro di lei, e Anigel si mise a urlare, a urlare... «Svegliati! Non piangere, piccola, va tutto bene!»
Le fiamme erano diventate infiorescenze vermiglie, sbocciate tra i viticci ondeggianti davanti ai suoi occhi; Anigel si dibatteva furiosamente in un'amaca appesa a dei robusti rampicanti. Si trovava in una vasta stanza dalle solide mura di pietra ricoperte di piante fiorite. Era stata Immu a parlare, mentre cercava di trattenerla affinché non cadesse per terra. «Un sogno, era solo un sogno», le disse con molta dolcezza l'anziana aborigena. «Sei al sicuro, piccola mia. Sei fra amici, qui a Trevista.» Cessarono infine i frenetici lamenti di Anigel, e la giovane scese dall'amaca per andarsi a sedere, ancora tremante, su una grossa pietra, mentre Immu le ripuliva il viso con una spugna e cercava di tranquillizzarla pettinandole i capelli. A bassa voce, la principessa disse: «Vorrei parlarti del mio sogno, Immu, anzi devo assolutamente raccontartelo». Immu insistette per portarle prima qualcosa da mangiare, anche se Anigel non aveva appetito. E poi aggiunse: «Porterò con me anche la mia migliore amica, a cui tra l'altro appartiene questa dimora. Se questo tuo sogno è davvero importante, allora lei è quella più adatta a interpretarlo, non io». La Oddling sparì dietro una cortina di licheni filamentosi che dissimulavano l'arco di una porta. Anigel fece un profondo respiro, serrò fra le mani congiunte il suo amuleto e si impose di stare calma. Si sentì immediatamente meglio. Osservò più attentamente il locale in cui si trovava. Sebbene il soffitto fosse crollato ormai da tempo immemorabile, il fogliame era così denso da costituire un riparo altrettanto efficiente, e anche abbastanza robusto da sostenere due amache. Le pareti erano quasi interamente ricoperte da splendidi gigli di un vivo color arancio, e quando guardò più da vicino si accorse che quei fiori erano insettivori. Che sistema intelligente per tenere la stanza libera dai parassiti! La notte precedente lei e Immu, non sapendo se l'amuleto le avrebbe rese ancora invisibili, erano emerse dal loro nascondiglio solo quando furono ben sicure che tutti i soldati se n'erano andati. Le due fuggitive avevano strisciato fino al limitare della banchina, proprio sotto la scalinata, e poi Immu aveva impiegato il linguaggio senza parole per comunicare la loro presenza e bisogno di aiuto ai suoi simili dall'altra parte del canale. Dopo qualche tempo un gruppo di imbarcazioni Nyssomu si era staccato dalla riva opposta per portare all'accampamento dei labornoki le provvigioni promesse da Frolotu la Saggia. Due dei barcaioli erano cugini di Immu, Sithun e Trezilun. Trovarono Anigel e la loro parente senza difficoltà, e insistettero nell'affermare che le due donne certamente non erano invisibili. Questo aveva confermato appieno i sospetti di Anigel. Mentre si
trovavano sul fiume, la giovane aveva pensato che probabilmente l'amuleto poteva offrire protezione solo quando chi lo portava si trovava in pericolo di vita. Il ciondolo infatti, nonostante le ripetute richieste della ragazza, si era rifiutato di recar loro il benché minimo conforto durante i tre spaventosi giorni di viaggio occorsi per arrivare a Trevista. «Comunque ora siete quasi al sicuro», le aveva tranquillizzate Trezilun aiutandole a salire sulla sua imbarcazione, una canoa ricavata da un tronco d'albero, lunga sette-otto metri e con estremità appuntite a cui erano attaccate delle lanterne. I bordi erano adorni di fiori ed entrambi i cugini portavano al collo ghirlande sgargianti. Durante tutto il tragitto attraverso il canale, Anigel rimase accucciata sull'umido fondo della barca, temendo che qualche nemico potesse avvistarla e dare quindi l'allarme. Sapeva perfettamente che Orogastus e i suoi due subalterni si trovavano a bordo della prima chiatta. Che cosa sarebbe successo se il mago fosse apparso sul ponte dell'imbarcazione e l'avesse scorta con i propri occhi? Ma non accadde niente del genere. Attraccarono senza problemi sulla riva dell'isola dove dimorava il grosso della tribù, una sorta di villaggio chiamato Karonagira; i due cugini le guidarono lungo strade pavimentate ma solo parzialmente liberate dalla vegetazione, così che sembrò loro di camminare attraverso una vasta e oscura serra tropicale. Altre piccole figure si muovevano fra le ombre create da quella sorta di fuochi fatui che costituivano l'illuminazione del villaggio, ma nessuna osò avvicinarsi ai nuovi venuti. Nessun chiarore giungeva invece dalle antiche strutture che torreggiavano indistinte intorno a loro, così meravigliosamente adorne di piante a fioritura notturna, che in un primo momento Anigel pensò si trattasse di un effetto artificiale. Quei Nyssomu di Trevista erano davvero dei fanatici dei fiori! Li indossavano, li usavano per adornare le imbarcazioni, ci vivevano in mezzo. Sithun e Trezilun lasciarono i loro passeggeri davanti a un edificio di pietra di modeste dimensioni, impreziosito da una sorta di giardinoveranda che si affacciava proprio sul canale. Apparentemente la casa era deserta, ma questo non sembrò preoccupare Immu. Sebbene fosse in grado di vedere abbastanza bene anche in quella fioca luce, si fece prestare la lanterna di Sithun di modo che la principessa non venisse spaventata da quella strana casa. Dopo avere individuato la camera degli ospiti, vi condusse a dormire l'esausta fanciulla... «E adesso inizia la vera avventura», disse una voce sommessa da dietro
le sue spalle. La principessa trasalì e lanciò un piccolo grido. Poi scoppiò a ridere quando si voltò e vide che chi aveva parlato era un'altra donna Nyssomu, anche più anziana di Immu; ovviamente era anch'essa agghindata di fiori, ma al collo non aveva una ghirlanda bensì una catena di platino a cui era attaccata una lente riccamente adorna. La piccola femmina Oddling scrutò attentamente Anigel attraverso la lente, di modo che la giovane vide grottescamente ingranditi i già vistosi occhi gialli. «Così tu sei la ragazza che fa dei sogni importanti.» Quella voce era stranamente familiare. Anigel l'aveva udita il giorno precedente mentre se ne stava nascosta sulla chiatta. «E tu sei Frolotu la Saggia! Non ti ho riconosciuta così vestita.» «Agli occhi degli umani», disse la donna gentilmente, «noi Nyssomu tendiamo a sembrare tutti uguali.» «Chiedo scusa per averti offesa, Frolotu. Ti ringrazio per l'aiuto che ci è stato accordato e per il rifugio che ci hai offerto questa notte.» «Ma a quanto pare hai avuto un sonno piuttosto agitato.» «Oh, sì! Ho fatto un sogno orribile!» esclamò la principessa. «Il peggior incubo di tutta la mia vita. Vuoi che lo racconti, affinché tu me lo possa spiegare?» I canini di Frolotu, simili a zanne, scintillarono mentre sorrideva. «Vedremo se sarà possibile. Andiamo sulla terrazza, dove Immu sta disponendo la tua colazione.» Anigel ebbe un attimo di esitazione. «Ti ringrazio, ma non ho fame. E poi stando all'aperto c'è il rischio che dall'altra parte del canale ci vedano. Pensa a cosa succederebbe se mi individuasse Orogastus o uno dei suoi due compari...» «Ci siamo allontanati, lasciandoci indietro diverse isole», disse l'anziana Oddling. «Per un po' starai abbastanza al sicuro. Ora siedi qui, mangia e raccontami di questo sogno.» Quando Anigel vide il cibo che Immu aveva preparato e disposto su un grazioso tavolino di pietra intagliata, si sentì sul punto di scoppiare in lacrime. Durante quei tre terribili giorni di viaggio si erano sostenute con le razioni su cui era riuscita a mettere le mani Immu: radici e frutta secca, e nient'altro da bere che acqua. L'amuleto aveva ignorato le sue preghiere per ottenere qualcosa di più commestibile. Qui a Trevista si era aspettata qualche disgustoso piatto Nyssomu, e invece c'era una sorpresa ad attenderla...
«Oh, Immu! Del vero cibo!» Mancavano il vasellame e le stoviglie certo, ma per il resto si trattava proprio della tipica colazione che era solita fare alla Cittadella: piccole frittelle di riso ricoperte di miele, un'omelette di uova di quaglia ripiena di funghi, salsicce piccanti alla brace, succo di ludu e una fumante teiera di darci. Le porzioni erano abbondanti, ma la principessa divorò tutto come un'affamata, quale effettivamente era, esprimendo a bocca piena la sua gratitudine mentre Immu faceva finta di essere offesa. «Ma guarda un po', vero cibo! Che ragazzina viziata... e suppongo che secondo te i Nyssomu si nutrano esclusivamente di radici, bacche e acqua di palude!» Anigel arrossì imbarazzata. «Credo proprio di non essermi mai preoccupata di cosa mangiassero gli Oddling delle Paludi. Immu, mi dispiace. Avrei dovuto interessarmi, come ha fatto Kadiya.» «Non preoccuparti, piccola mia.» Frolotu la Saggia la stava nuovamente osservando attraverso la lente e intanto sorrideva. «Sappiamo bene che non c'era malizia nel tuo cuore, ma solo la tipica disattenzione dei giovani.» «Ma dove hai trovato tutte queste buone cose?» domandò Anigel. «Domande, domande, sempre domande!» esclamò Immu. «Se proprio vuoi saperlo, sono state prelevate dalla scorta dei viveri dei nobili labornoki! Ho spedito Sithun e Trezilun ad alleggerirli di una discreta quantità di vivande, ben sapendo come avevi sofferto per la scarsa qualità delle razioni che abbiamo dovuto ingurgitare durante il viaggio. Ce ne sarà ancora per un po', ma sulla strada per Noth dovrai prima o poi adattare le preferenze del tuo raffinato stomachino e accontentarti di quel che ci offrirà la natura.» «Penso proprio che lo farò», disse la principessa fra una sorsata e l'altra di tè, «ma quando sarò veramente affamata! Dimmi, hai trovato un modo per farci arrivare alla dimora dell'Arcimaga?» «Sì, grazie a Frolotu. Fra gli Uisgu ha alcuni amici che hanno acconsentito a portarci a Noth con una delle loro imbarcazioni trainate dai rimorik.» La principessa saltò su dalla sedia, si inginocchiò ai piedi della Saggia e le baciò le tozze mani artigliate e rugose. «Grazie, cara signora! Grazie con tutto il mio cuore! Troverò un modo per ricompensare questa gentilezza.» La vecchia Oddling si schermì timidamente e aiutò Anigel a rialzarsi. «Su, su, bambina, la mia ricompensa sarà nella realizzazione del tuo destino.» «Tu... tu ne sai qualcosa?»
«Conosco solo le profezie che riguardano i tre petali del Giglio Vivente, che libereranno la nostra beneamata Palude Labirinto da un pericolo mortale. E sembra che tu sia una delle designate.» Anigel arrossì e voltò il capo con aria imbarazzata. «Vorrei che non fosse così. Io non sono coraggiosa o intelligente come le mie sorelle... e sono tanto spaventata! E il mio sogno significa sicuramente che fallirò.» Frolotu sorrise alla ragazza. «Oh, ma davvero? Cosa ne diresti di finire il tè e di raccontarcelo?» Si sedettero tutte e tre intorno al tavolo, e Anigel descrisse per filo e per segno tutto l'incubo, mentre Frolotu la Saggia giocherellava con la lente e ogni tanto scrutava la giovane attraverso di essa. Anigel era troppo timida per chiedere a cosa servisse quell'aggeggio o perché lo usasse al posto della canna di giunco che l'aveva aiutata a leggere il cuore del principe Antar. «Te lo dirò io il perché!» disse quella sorprendente vecchietta come leggendole nel pensiero. «Questa lente è una ennesima trovata degli Scomparsi e serve a mettere a fuoco i pensieri che attraversano la mente degli altri. Ma insegna anche molto a chi la usa, e così dopo un po' ogni tanto se ne può fare a meno. Se quel malvagio stregone l'avesse vista ieri, avrebbe fatto di tutto per prenderla nonostante un eventuale intervento del principe Antar. E così ho preferito utilizzare quella canna che hai visto, un oggetto a cui nessun umano avrebbe dato importanza.» «Adesso però la stai usando», disse Anigel. «Sì, bambina. Al mattino le facoltà degli anziani sono piuttosto limitate e così c'è bisogno di tutto l'aiuto possibile... Ma finisci di raccontare il sogno.» Anigel riferì tutto fino all'ultimo dettaglio, e rivivere una tale esperienza, seppur immaginaria, le provocò una così dolorosa sensazione di angoscia che divenne pallidissima e riuscì a mala pena a concludere il racconto. Quand'ebbe finito, la Saggia si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi mentre le grosse labbra tumide mormoravano parole silenziose. Anigel restò in attesa, divorata dalla paura. Tutt'intorno alla terrazza fiorita si diffondeva un concerto di suoni prodotti da insetti e uccelli, e piccoli pesci argentati saltavano fuori dalle acque del canale. Poi le palpebre di Frolotu si riaprirono con uno schiocco percettibile. «Sai cosa significa il sogno?» le chiese Anigel timidamente. «Naturalmente! Quel che però dovrebbe fare una saggia quando viene interpellata su una tale materia, sarebbe chiedere a chi ha fatto il sogno di analizzarlo prima da sé. O altrimenti il sapiente in questione potrebbe an-
che rifilare una interpretazione buona per tutti gli usi, con il sottinteso che la comprensione del sogno arriverà al momento giusto. Ma non ho intenzione di prendermi gioco di te, ragazza mia! Il tuo cammino è già abbastanza difficile, e la cosa più sensata da fare è parlarti chiaro: il tuo sogno significa che sei una codarda e che preferiresti di gran lunga evitare il tuo duro compito.» «Ma questo lo sapevo già!» si lamentò la principessa. «Zitta, ora ascolta la mia spiegazione. A volte i sogni ci vengono accordati dai Signori dell'Aria, ma questa è un'eventualità non molto comune. La maggior parte dei sogni giunge in realtà dai profondi recessi, dal nostro essere più segreto. E un sogno così importante e sconvolgente come questo può solo voler dire che il tuo essere segreto - la parte più importante di te, quella più vicina all'immagine di Dio - è terribilmente preoccupato per il modo in cui ti stai comportando. Allo stesso tempo ti ammonisce e ti incita a fare di meglio: essere fedele ai nobili istinti che ti animano e prevalere sull'egoismo e la codardia.» «Ma non so come!» «Ti sarà detto», le rispose con dolcezza Frolotu la Saggia. «Sei sulla strada giusta. L'ho visto con la lente. Ma ciò che conta adesso è che trovi la forza di andare avanti così, un giorno dopo l'altro, fiduciosa e determinata.» La povera principessa sembrava però dubbiosa. «Vista così, la faccenda mi sembra un po' troppo semplice.» Sia Frolotu che Immu scoppiarono in una lunga risata allegra. Dapprima Anigel ne fu ferita, poi adirata, e infine non poté che ridere con loro. «Sei riuscita a sfuggire alla morte grazie a molti prodigi e con l'aiuto di buoni amici.» Ora l'espressione di Frolotu si era fatta seria. «I prossimi passi che intraprenderai sono stati già chiaramente tracciati. Dovrai proseguire in modo risoluto, che tu sia spaventata o no. Non c'è da vergognarsi ad aver paura, principessa. È qualcosa che non possiamo evitare, ma nonostante ciò talvolta siamo obbligati ad andare avanti.» La principessa si osservava le mani, serrate con forza in grembo. «Io... io ci proverò.» «Bene.» Frolotu si alzò dal suo posto. «Gli Uisgu che abbiamo mandato a chiamare arriveranno stasera con l'imbarcazione, e prima del levare delle lune sarai già in viaggio per Noth. Se tutto andrà bene, dovresti riuscire a raggiungere la dimora della Bianca Signora in quattro giorni circa.» Anigel si sentì abbattuta al pensiero di riprendere così presto il viaggio,
ma, quando parlò, la sua voce aveva un timbro di salutare ironia. «Adesso mi piacerebbe davvero lasciarmi andare a un bel pianto liberatorio, lamentandomi per la morte dei miei genitori e per le sciagure che incombono su di me e sulla mia terra. Non potevo piangere sulla barca, perché avrei rischiato di rivelare la nostra presenza, ma ora non sembra che ne abbia il tempo. Forse questo è uno degli scopi dei sogni. Potrò rifugiarmi in quel mondo di ombre per piangere a dirotto, farmi piccola piccola e rifiutare il mio destino notte dopo notte, senza il minimo senso di colpa o di debolezza. Ma al risveglio sarò pronta a fare del mio meglio per... andare avanti così!» «Questo sì che è parlare!» esclamò Immu con gioia. Frolotu la Saggia sorrise con aria di approvazione. «Il tuo essere segreto desidera aiutarti. Affrontando in continuazione i tuoi incubi e le tue paure, imparerai sicuramente ad averne meno timore.» Sul viso di Anigel riaffiorò per un attimo una traccia del vecchio panico. Fece appello alla sua cara amica. «Ma tu resterai sempre con me, Immu, non è vero? Se fossi da sola... non penso che...» «Ti vorrò bene e ti aiuterò sempre, piccola mia», disse Immu abbracciando la fanciulla e baciandola teneramente sulle guance. «Naturalmente verrò con te a Noth e ti accompagnerò ovunque ti manderà la Bianca Signora. Ma verrà un giorno, come d'altronde accade a tutti quanti, in cui potrai fare affidamento solo su te stessa.» Anigel seppellì il viso nella spalla della vecchia balia. «Non troppo presto. Ti prego non troppo presto.» 13. Kadiya si svegliò al crepuscolo e il profumo di pesce alla brace risvegliò in lei un appetito quasi doloroso. Sembrava che Jagun si fosse arrischiato ad accendere un piccolo fuoco, e ora stava sorvegliando la cottura di una grande quantità di garsu, il più lungo dei quali difficilmente superava la mano della principessa. Kadiya avanzò lentamente attraverso la fitta boscaglia che proteggeva il campo e si diresse verso l'acqua. Si pulì il viso e le mani strofinandovi sopra alcune foglie. Desiderava ardentemente lo stagno di acqua calda che si trovava alla Cittadella, dove lei e le sorelle si erano trastullate e avevano imparato a nuotare, come pure le manciate di cristalli profumati da spargere sull'acqua per formarvi una soffice schiuma. Per quanto resistenti fosse-
ro gli indumenti Oddling, i suoi erano pieni di strappi, e il grasso col quale era costretta a ungersi emanava un odore rancido. Quanto ai suoi capelli lisci, poté soltanto raccoglierli indietro e fissarli con un robusto pezzetto di canna. Poi ritornò al campo e Jagun si affrettò a passarle un garsu allo spiedo, che la giovane mangiò con le mani leccandosi i polpastrelli. Mentre Kadiya mangiava, Jagun rimase silenzioso. Né fu più loquace mentre cercavano di cancellare nel modo migliore le tracce della loro sosta, o mentre ritornavano alla barca, che spinsero di nuovo nell'acqua. Kadiya lo persuase che avrebbe potuto dargli una mano nella navigazione e così l'Oddling mise da parte il remo sostituendolo con un palo. A Kadiya ne diede un altro identico. Questo esercizio non era nuovo per la giovane, ma le ci volle un po' di tempo per riuscire ad accordare la propria azione con gli sforzi di Jagun. E notò che una volta trovato il giusto ritmo l'esercizio aveva qualcosa di ipnotico. Immergere il palo, far forza, tirare fuori il palo e immergerlo di nuovo. Dal suo posto a prua Kadiya non perdeva di vista la piccola scintilla dell'amuleto. Di tanto in tanto si fermavano. Una volta fecero una sosta per sollevare dall'acqua le radici di certi gigli. Gli immensi fiori non erano ancora che germogli, sicché le loro radici erano ancora commestibili. Quelle radici e ciò che era rimasto dei garsu costituirono la loro cena. Fu una serata silenziosa. Kadiya provava un'apprensione costante. Neppure il movimento ipnotico dei pali le impediva di temere qualche invisibile, silenzioso attacco. Tra il suo popolo Jagun godeva di una posizione di prestigio come cacciatore, e la principessa poteva star sicura che egli avrebbe avvertito ogni pericolo naturale. Ma in questo caso si sarebbe trattato di attacchi provenienti dal mondo esterno, mentre ciò che ella temeva proveniva da un mondo interiore della cui esistenza non si era mai resa conto fino al momento in cui esso le si era manifestato per la prima volta. «Jagun!» La principessa parlò a voce molto bassa, non più alta del ronzio degli insetti che li circondavano. «Cosa abbiamo ancora davanti a noi?» Come rimpianse in quel momento di non aver prestato più attenzione alla grande mappa dai colori sbiaditi che ricopriva una delle pareti della sala del consiglio della Cittadella! «Ci stiamo dirigendo verso la Palude Dorata», rispose il Capocaccia. «Prima raggiungeremo Vurenha...»
«Dove risiede il tuo clan!» «Sì. Appartengo ai clan delle zone esterne. Al di là si estende ciò che soltanto pochi Antenati videro. Non posso sapere ciò che troveremo laggiù. Dovremo dipendere interamente dal tuo amuleto.» «Il paese degli Uisgu?» incalzò la fanciulla. «In parte, sì, ma anche le misteriose regioni degli Affogatori. Attorno ad esse aleggiano numerose leggende, ma non so quanto ci sia di vero. Per raggiungere Noth dobbiamo attraversare quelle regioni, perché seguendo un cammino più lungo potremmo essere scovati dai nostri inseguitori.» «Sei già stato a Noth, Jagun?» «Una volta. Fu quando tu eri ancora bambina. Non appena crediamo di essere diventati esperti nel nostro mestiere, noi cacciatori dobbiamo presentarci alla Signora, che può accordarci piena libertà all'interno della Palude. Fu allora che l'Arcimaga mi ordinò di andare alla corte di tuo padre, di servire in qualità di cacciatore e di attendere il difficile giorno che profetizzò, e che è appena passato. Dobbiamo anche informarla di ogni nostra nuova scoperta riguardante gli Scomparsi...» «Nuove scoperte?» Kadiya era incuriosita. «Allora vi sono nuove scoperte da fare, Jagun? Centinaia d'anni sonò trascorsi da quando il tuo popolo incominciò a viaggiare attraverso le paludi. Cosa ci può essere ancora da scoprire?» Per un momento Jagun non rispose, e quando infine parlò vi era una nota riluttante nella sua voce. «Lungimirante, gli Scomparsi hanno segreti inimmaginabili. Ogni antico manufatto diverso da quelli già scoperti deve essere portato alla Bianca Signora di Noth. Alcuni oggetti ella li trattiene, e noi capiamo che sono pericolosi e che mantenere tali segreti spetta alla sua autorità.» Era chiaro per Kadiya che egli non intendeva dire di più sull'argomento. Ma senz'altro, se aveva visto l'Arcimaga, avrebbe potuto fornirle qualche brandello di conoscenza per prepararla al suo incontro con lei. «Com'è Binah, Jagun? So che è potente nelle arti magiche, ma in che modo questo la rende diversa dagli altri? Dicono che Orogastus ha un corpo simile a quello di ogni altro uomo, ma che ha un aspetto regale ed è capace di guardare una persona in modo tale che questa non può negargli nulla. Ma il nemico appare sempre più possente nei racconti. Se Orogastus è realmente superiore ad ogni uomo... allora com'è l'Arcimaga?» «Figlia del re, è la Signora, la Custode. Conosce la vita e la morte, ma nessuna delle due la riguarda. Poiché la vita e la morte appartengono al de-
stino comune di tutti. È sempre la stessa da quando il mio popolo la vide per la prima volta. Ella non solleva la mano per impedire la morte, né infonde nuova vita. Piuttosto mantiene la bilancia nella giusta posizione e noi affrontiamo il passare del tempo conformemente alla nostra natura. Solo lei protegge le Paludi contro l'invasione, e ora la bilancia pende troppo da una parte e deve essere messa di nuovo in equilibrio. Un'impresa, figlia del re, per la quale tu sei nata...» Kadiya aveva immerso profondamente il palo nell'acqua. Lo ritrasse di scatto e si voltò verso Jagun. «Io sono nata...» La sua voce si alzò. «Voi tre, Lungimirante. Il tempo passa, e anche la pietra più resistente deve arrendersi allo scorrere degli anni. La Signora di Noth guarda avanti nel tempo. Così quando vede le nubi che si raccolgono nel cielo è suo dovere prepararsi contro le piogge invernali. Prima del giorno in cui nascesti, figlia del re, alcuni membri del mio popolo e alcuni Uisgu furono convocati a Noth. Furono avvertiti che le Tenebre si addensavano e che colei che in passato si era interposta fra noi e tutte le loro manifestazioni questa volta non sarebbe stata capace di elevare una barriera. Tuttavia ci promise questo: altri verranno e sapranno riequilibrare la bilancia.» Kadiya si morse un labbro. Ancora una volta un sentimento di rabbia divampò in lei. «Un avvertimento... ma avrebbe potuto avvertire noi!» «Lungimirante, questa è la prima volta, a memoria dei canti che tramandano la storia, che la Bianca Signora di Noth ha dovuto affrontare un simile potere. Esso potrebbe essere anche più grande di ogni altro da essa conosciuto. Tu vuoi il sangue di Voltrik per vendicare la tua stirpe... forse ciò è piccola cosa al confronto con quello che potrai pretendere prima della fine.» «Non ho poteri magici...» incominciò la giovane. «Guarda queste canne», replicò il Capocaccia accennando alla loro destra. «Puoi raccoglierne una, e senza grande sforzo puoi spezzarla. Raccogline tre, intrecciale, e avrai una corda che intrappolerà un harfut. Voi siete una e siete tre...» Kadiya diede un impaziente strattone al suo palo. «Haramis, Anigel e io saremmo la corda?» La giovane sorrise. «Ho paura che a caccia un laccio simile non ti servirebbe a molto!» La magia... lei non aveva poteri magici, e certamente la viziata Anigel non aveva mai mostrato alcun desiderio di giocare con una scienza dimen-
ticata. Magia! Non voleva pensare a essa come ad un'arma. L'avessero lasciata incontrare Voltrik con del vero acciaio stretto in pugno! Non sapeva come o quando, ma un giorno questo sarebbe accaduto. E allora non si sarebbe fatta influenzare dall'incerta magia! Erano pensieri che le venivano spesso alla mente durante quella lunga notte trascorsa viaggiando. Ma sempre si sforzava di respingerli concentrando la sua attenzione su tutto ciò che la circondava. Due volte si fermarono per riposarsi e mangiare al riparo di qualche isolotto. La giovane si massaggiava le braccia e le spalle doloranti, ma senza lamentarsi; in effetti lei e Jagun si scambiarono ben poche parole. Quella notte improvvisamente si sentì un alto sibilo. Kadiya, sebbene non ne avesse mai udito uno simile, rimase immobile. Si trovavano al riparo sotto i rami cadenti di una pianta acquatica. Sopra di loro risplendevano le Tre Lune, e d'un tratto il cielo fu solcato da una figura dalle grandi ali nere che suscitò in Kadiya un profondo sospiro di terrore. La cosa era certamente più grande della loro barca e per un istante le sue ali coprirono le stelle. La giovane non aveva idea di cosa potesse essere; non aveva mai udito descrizioni che si adattassero a quello che aveva visto. La cosa emise un alto grido e poi sparì, ma ancora Jagun non fece alcun movimento per uscire dal loro nascondiglio. La giovane lo udì fischiare molto debolmente, poi il Capocaccia bisbigliò: «Il voor... ed è a caccia!» Nella voce dell'Oddling si avvertiva tutto il timore di chi deve affrontare un nemico molto più potente di lui. «Il voor?» «Non è mai stato avvistato da queste parti, è una creatura che risiede nel cuore dell'ignoto.» Parlò come se si rivolgesse a se stesso. «Cosa lo porta in queste regioni? Se questa bestia si è spinta fin qui, deve esserci davvero qualcosa di tremendo che sta sconvolgendo il mondo e mettendo in agitazione gli esseri viventi.» Finalmente ripresero ancora una volta la navigazione, questa volta procedendo più lentamente. Kadiya si sforzava in ogni modo di mantenere la calma. Ancora una volta udirono il terribile grido, ma risuonò più a nord, nella direzione verso la quale si dirigevano. Al levar del sole si accamparono. Kadiya avrebbe voluto evitare le terre più alte verso le quali si spingeva Jagun, perché con buona probabilità esse contenevano un maggior numero di rovine, e la giovane non aveva dimenticato quel che avevano trovato nell'ultimo di tali luoghi. Ma Jagun fu risoluto.
Le indicò alcuni mulinelli che agitavano l'acqua oscura. «Sucbri... sicuramente una tana. Non è possibile trovarli vicino a nessun luogo in cui qualcuno si è accampato.» Sbarcarono sull'isola e Jagun sparì, con la cerbottana in mano. La giovane raccolse un po' del legname galleggiante trasportato dal fiume durante la stagione delle piogge, e preparò un fuoco facendo in modo che si vedesse il meno possibile. Sedendosi ad aspettare, aprì tutti i suoi sensi a ciò che la circondava. Gli odori della palude si mescolavano l'uno con l'altro. Sentì il profumo dei fiori, l'odore della putrefazione e anche tracce di muschio animale. Sebbene non possedesse le capacità di Jagun e degli altri cacciatori, Kadiya cercò di separare mentalmente l'uno dall'altro quei sottili miscugli di odori e di riconoscere e classificare meglio che poteva ciascuno di essi. E poi ascoltò. Vi era vita tutt'intorno a lei, e a mano a mano che il sole si alzava avvertiva suoni sempre più striduli. Riconobbe il ticchettio di un coleottero, e più lontano il cinguettio ancora assonnato degli uccelli. Vi era abbondanza di vita nella palude, e lei e la sua gente lì erano solo degli intrusi. Per essere capaci di conoscere e classificare anche solo superficialmente la vita della palude sarebbe stata necessaria una vita più lunga di quella accordata alla gente della sua razza. Kadiya prese l'amuleto e lo alzò verso il primo raggio di sole che raggiunse il campo. La piccola gemma al suo interno era saldamente fissata... ma alla sua estremità brillava la scintilla luminosa. Nero, il fiore era nero come nessun altro fiore conosciuto. Era il simbolo della sua casata... sebbene neppure la più antica delle leggende ne rivelasse la ragione. Sebbene non lo avesse udito arrivare, Jagun si trovò tutt'a un tratto vicino a lei. Aveva catturato un paio di karawok; dell'acqua sgocciolava ancora dalle loro bocche aperte. Teneva in mano la cerbottana e lanciò uno sguardo non verso la giovane ma dietro le proprie spalle, verso il sentiero su cui era passato. Kadiya avrebbe potuto contare fino a dieci mentre il Capocaccia rimaneva in quella posizione. Poi la linea tesa delle sue spalle si rilassò un poco. Ancora una volta il suo sguardo si spostò rapidamente da sinistra a destra ritornando infine alla via appena percorsa. Alla fine si sedette con un sospiro, lasciando cadere a terra i karawok senza neanche guardare la sua compagna, come se una così buona caccia non fosse per lui nulla di speciale. Dopo aver appoggiato su un ginocchio la cerbottana, Jagun staccò dalla
cintura qualcosa che, avvolto in una foglia, aveva l'aspetto di un grande fagotto informe. Lo aprì rapidamente. Kadiya indietreggiò senza fiato. Il fetore era fortissimo, quasi come se ciò che lo produceva le fosse stato scagliato direttamente in viso. La cosa aveva l'aspetto di un pezzo di gelatina solidificata di colore verde-giallo. «Una larva di Skritek.» Jagun si pulì le mani strofinandole con una manciata d'erba. «È molto giovane, ma letale a sufficienza.» Kadiya si limitava a guardare fissamente. Era inconcepibile che gli Skritek si fossero spinti tanto lontano verso sud per piantare un segnale di avvertimento! O addirittura che si fossero stanziati nelle vicinanze! Era una cosa impossibile... «Siamo nella zona di caccia del voor», continuò Jagun. «Si è nutrito... di questo.» «Quanto lontano può volare?» chiese la giovane. «Portando con sé una larva di grandi dimensioni? Non molto lontano dalla più vicina colonia di Skritek...» Kadiya considerò la minaccia nascosta in queste parole. «Allora gli Skritek si stanno muovendo verso sud?» Jagun raccolse il fagotto, avendo cura di non toccarne il contenuto. Si allontanò dal campo, scavò una buca con un ramo e vi mise la larva maleodorante, ricoprendola di terra. Quando ritornò vi era una nota sinistra nella sua voce. «Molti sentieri attraversano le Paludi, e la maggior parte di essi li conosciamo. Ma nessuno può conoscere la totalità di questo territorio. Vi sono luoghi in cui i fanghi mobili inghiottono ogni invasore, luoghi oltre i quali non possiamo andare. Ciò che si trova al di là...» Scrollò le spalle. Mangiarono, e in seguito Kadiya volle fare il primo turno di guardia, mentre Jagun si riposava. Per lei fu più difficile che mai rimanere sveglia, anche quando concentrò i suoi pensieri su quelle che sarebbero state le conseguenze di un deliberato cambiamento di territorio da parte degli Skritek. Quando Jagun la sostituì, la principessa cadde improvvisamente nel sonno profondo di chi ha spinto il suo corpo fino al limite estremo. Fu svegliata dal Capocaccia nel tardo pomeriggio: era andato di nuovo a caccia, e questa volta aveva con sé non solo alcune dolci radici di giglio ma anche dei pesci garsu, la cui sola vista le fece venire l'acquolina in bocca. Mangiarono lentamente, assaporando ogni boccone, e poi, affidandosi sempre alla scintilla dell'amuleto, lasciarono quel rifugio. Quella notte non videro il voor, né notarono segni che rivelassero sul lo-
ro sentiero la presenza di qualcos'altro oltre la vegetazione e i comuni abitanti della Palude. Ormai erano vicinissimi alla Palude Dorata, abbastanza vicini da intravedere i canneti scintillanti da cui la regione prendeva nome. Non appena la luce dell'alba li avvertì della necessità di nascondersi, riuscirono a trovare un rifugio molto diverso dai rozzi accampamenti ai quali si erano adattati nel loro viaggio. Infatti nell'aria risuonò un forte grido che suscitò la pronta risposta di Jagun. La riva del grande fiume poco profondo che percorrevano era interrotta in quel punto dalla foce di un torrentello, e verso di essa Jagun diresse subito la barca. Su entrambe le rive del torrente apparvero degli Oddling. I loro indumenti di tessuto indussero Kadiya a credere che fossero Nyssomu, ma quando parlarono a Jagun non impiegarono il linguaggio commerciale e la giovane riuscì a comprendere soltanto una o due parole. Jagun avvicinò la barca alla riva sinistra. Uno dei Nyssomu allungò con precauzione un passo all'interno della barca, afferrò il palo che Kadiya teneva fra le mani e con un gesto la invitò a restare seduta. Quindi con movimenti energici guidò la barca in avanti. Così Kadiya giunse a Vurenha, il solo vero villaggio Nyssomu che avesse mai visto. Coloro che avevano interessi commerciali a Trevista vivevano là nelle rovine. Ma qui non vi erano segni della storia di altre razze se non della loro. Le abitazioni sorrette da pali erano disseminate entro una vasta area acquitrinosa. Ognuna di esse era collocata al centro di una piattaforma posta a circa sei metri sopra la superficie. Ai due lati di ogni casa galleggiavano piccole barche simili a quella che li aveva condotti lì. Le pareti esterne di ogni casa erano fittamente ricoperte da piante rampicanti, e sembrava quasi che le foglie spuntassero dalle strutture stesse degli edifici. Le piante erano sovraccariche di pesanti baccelli dai colori che sfumavano dal giallo al rosso. Kadiya sapeva che da essi veniva ricavata una bevanda gradevole e nutriente. Lungo le rive del lago sul quale era stato edificato il villaggio vi erano appezzamenti di terreno coltivato, e recinti per due degli animali che i Nyssomu allevavano per cibarsene, i woth e i qubar, entrambi più grandi dei loro parenti allo stato brado che vivevano nelle Paludi. La barca venne portata vicino a una delle abitazioni. Intorno a ogni casa si vedevano figure di Nyssomu, ma i quattro che attendevano il loro arrivo erano più vecchi, e due di essi erano femmine. Sui loro visi erano stati dipinti disegni iridescenti e le loro vesti fatte di erbe intrecciate erano adorne di conchiglie e di pezzetti di un materiale luccicante che avrebbe potuto
provenire dalle rovine. La femmina più anziana e dall'aspetto più imponente si fece avanti per accoglierli. «Salute a te, Prima-della-casa.» Jagun parlò molto lentamente e questa volta Kadiya riuscì a comprendere ogni parola. «Che Coloro-che-nonnominiamo possano portare onore e prosperità a tutta la tribù e ai suoi amici e consanguinei.» La Nyssomu inclinò la testa con la stessa grazia che Kadiya aveva notato nella regina Kalanthe in occasione di un incontro con un'ambasciata ufficiale. «Vi offriamo un riparo sotto il nostro tetto, cacciatori», disse. Poi Jagun presentò Kadiya: «Prima-della-casa, questa è la figlia del re. Molte cose malvagie sono accadute nella nostra terra. La principessa è stata chiamata a consiglio dalla Bianca Signora di Noth.» Il maschio Nyssomu che aveva condotto lì la loro barca allungò una mano verso Kadiya aiutandola a salire sulla piattaforma per incontrare la femmina che Jagun aveva salutato con tanto rispetto. La principessa era stata educata alla cortesia e a rispettare le convenienze, ma in questo caso sarebbe stato necessario un abito da cerimonia per eseguire un inchino appropriato. Invece improvvisò un gesto che aveva visto fare a Trevista da una femmina Oddling. Unendo le palme delle mani inclinò la testa in avanti. «Io, Kadiya, figlia del re Krain, auguro ogni bene alla tribù.» Con suo sollievo la femmina Oddling replicò con un gesto che Kadiya conosceva, protendendo la mano col palmo rivolto verso l'alto. Anche Kadiya tese la sua mano. «Mettiti a tuo agio, figlia del re», disse la Prima-della-casa aprendo le labbra in quello che era un sorriso Oddling. Poi ritornò subito seria. «È vero, vi è la morte intorno a noi, e tutti ringraziano Coloro-che-nonnominiamo per averti permesso di giungere sana e salva fino a noi. Gli Affogatori percorrono le nostre terre.» Esitò prima di continuare. «Troppe cose nate dalle tenebre ci circondano. Ma sii benvenuta in questa tribù.» L'interno della casa nyssomu era diviso in una serie di camere che si affacciavano su un corridoio, e a Kadiya sembrò che ciascuna di esse fosse stata assegnata a un gruppo o famiglia particolare. Non vide alcun maschio, ma davanti ad ogni porta si trovavano una o più donne e ciascuna di loro al passaggio di Kadiya e della sua ospite chinava la testa. Poi raggiunsero la porta di una stanza e Kadiya scoprì che il lusso, sebbene non dello stesso genere al quale era abituata, anche lì non era del tutto sconosciuto.
Ad aspettarla trovò una vasca da bagno scolpita, che per il suo aspetto sembrava provenire da qualche rovina. Era piena di acqua limpida sulla quale galleggiavano petali di colore blu-violetto che riconobbe come mercanzia proveniente da Trevista. Sfregandoli tra le mani e strofinandoli sulla pelle non solo emanavano un profumo persistente ma si trasformavano in un sapone schiumoso. Kadiya si svestì con gioia ed entrò nella vasca. Si strofinò energicamente con i petali profumati e si lavò i capelli aggrovigliati e pieni di grasso. Oh, che gioia sentirsi di nuovo pulita! La Prima-della-casa si era seduta su una panca che attraversava la stanza, e altre sei femmine Nyssomu, vestite come lei e con modi altrettanto solenni, la affiancarono una dopo l'altra. Comunque, la loro presenza non suscitò in Kadiya alcun imbarazzo. Si provava in quel luogo una sensazione di calma e di pace che era come un balsamo steso sulla ferita infiammata del suo recente passato. Una giovane femmina portò a Kadiya una lunga veste fatta d'erbe finemente intrecciate. Quindi la Prima-della-casa si alzò indicando uno sgabello ricoperto da un cuscino. Mentre Kadiya si sedeva, un'altra giovane femmina portò un vassoio sul quale, fantasiosamente intagliate, erano disposti alcuni recipienti di corteccia essiccata. Quando tutti furono serviti ed ebbero in mano le loro coppe, la Primadella-casa inclinò leggermente la sua, sicché alcune gocce caddero sul pavimento. Le altre la imitarono, e così pure Kadiya, che cercava di essere rispettosa dell'etichetta in modo da ingraziarsi quella gente. In molte occasioni, alla Cittadella, si era dimostrata insofferente nei riguardi dei cerimoniali, e talvolta era stata tanto disattenta da meritarsi i rimproveri di sua madre; ma ora si rendeva conto di dover eseguire ogni gesto che sarebbe stato gradito ai Nyssomu. La Prima-della-casa bevve un piccolo sorso dalla sua coppa e poi la offrì alle altre. Kadiya seguì subito il suo esempio e quindi tutte si scambiarono le loro coppe, che furono vuotate. Una calda sensazione di rilassatezza si diffuse attraverso il suo corpo. «Siamo in presenza dei male», disse la Prima-della-casa rompendo il silenzio. «Quei sanguinari si avventurano al di fuori del loro territorio, e con loro vi è qualcun altro che non è del nostro paese e che può sbalordire le nostre menti. Abbiamo ricevuto messaggi dalla regione che si trova alla foce del fiume. Molti della nostra razza hanno abbandonato Trevista, poiché quel luogo ora è governato dai mercanti di morte. Abbiamo inviato un messaggio alla Bianca Signora di Noth. Ma finora non vi è stata rispo-
sta...» «Prima-della-casa», Kadiya si sporse in avanti, «quelli che hanno invaso Trevista hanno scarsa conoscenza delle Paludi. Ma sono comandati da qualcuno che conosce a fondo le arti magiche, e uno dei suoi servitori è adesso in marcia con gli Skritek. Tuttavia non credo che guerrieri abituati alle pianure di Labornok possano combattere nella Palude. La tua gente, che ne conosce ogni meandro, può sicuramente affrontarli e liberare questa parte della regione...» Ma la Prima-della-casa scosse lentamente la testa. «Figlia del re, non è nostra abitudine combattere contro coloro che penetrano nella nostra terra. Ci difendiamo, ma non arrechiamo la morte ad altri.» Kadiya si morse un labbro. Aveva intravisto così chiaramente la possibilità di attaccare il nemico avvalendosi di questi Nyssomu che, se solo lo avessero voluto, avrebbero potuto sfruttare contro di esso tutte le insidie del loro territorio! Nel suo intimo ardeva di rabbia. Ma cosa avrebbe potuto fare? Molte volte in passato l'impazienza l'aveva portata a commettere qualche follia; ma questa volta non poteva commettere errori. Sfiorò con le dita il suo amuleto. «La Signora di Noth», disse cautamente, «mi ha convocata. Essa è stata a lungo la Custode di questa terra, e forse da lei otterrò una risposta.» La femmina Nyssomu fece un cenno col capo in segno di approvazione. «È giusto, figlia del re. Essa è più grande di ogni creatura vivente, e dispone di molti strani poteri. Noi ti daremo tutto il nostro aiuto perché tu possa giungere a lei.» E Kadiya dovette accontentarsi di questo. 14. La melodia suonata dal flauto era Dorato tramonto sul lago, una delle favorite di Haramis, triste ballata di un barcaiolo lontano da casa e dalle persone che ama. Quando l'ultima squillante nota si perse echeggiando fra i pendii ghiacciati, la principessa disse: «Davvero meravigliosa, mio vecchio amico». «Avrei voluto continuare a suonare», le rispose Uzun con aria di scusa, «ma per qualche ragione sono a corto di fiato.» Si rannicchiò ancor più nel mantello di pelliccia, cercando di allungare i calzari fradici il più possibile vicino al misero fuocherello da campo. La notte si stava avvicinando rapidamente, portando con sé il vento gelido dei ghiacciai soprastanti, tagliente
sulla pelle come la lama di un rasoio. «Non preoccuparti, Uzun. Penso che se avessi suonato ancora un po' mi sarei messa a piangere dalla malinconia. Il barcaiolo della canzone per lo meno ha la speranza di potere un giorno tornare dalla sua famiglia, ma io non ho più una casa, e coloro che amavo sono morti.» «Ma non le tue sorelle, mia principessa.» Lo sguardo della giovane era perso oltre il nudo declivio roccioso al di là del torrente che più a valle sarebbe diventato l'impetuoso Vispar, e che avevano seguito sempre più in alto all'interno della catena montuosa degli Ohogan. Poi i suoi occhi si spostarono verso il maestoso monte Rotolo, la cui cima innevata rifletteva gli ultimi raggi rosati del sole al tramonto stagliandosi contro un cielo striato di candide nuvole sfilacciate. «Io prego che Kadiya e Anigel siano ancora in vita», disse Haramis, «ma tu sai bene quanto me che Kadiya, quando siamo partiti, si preparava a soccombere avventatamente di fronte alla schiacciante superiorità dei nemici. Quanto ad Anigel, non mi sorprenderebbe se fosse morta di paura!» Ricacciò indietro le lacrime che le sgorgarono improvvise. «Povere piccole stupide!» Cercò di concentrarsi sui problemi più immediati. «E le raggiungeremo presto anche noi, se questi miserabili semi ci faranno salire ancora di più su queste montagne. Non si riesce quasi a trovare legna per il fuoco, per non parlare di radici o bacche commestibili. Anche i pesci hanno abbandonato il fiume da quando le sue acque hanno incominciato a essere biancastre e con un sapore strano. Che cosa sono quei residui di polvere che si vedono galleggiare?» «Penso provengano dalle rocce», rispose Uzun. «Però, se fosse velenosa...» «Saremmo già morti», convenne Haramis. «Ma ad ogni modo non mi piace. E mi preoccupo per te, Uzun; non dovresti startene in questo gelo. Non è una buona cosa per te; il tuo corpo non è fatto per questo clima.» «Sto benissimo!» protestò Uzun. «Ho solo bisogno di riscaldarmi un po' e di riuscire ad asciugare i miei stivali.» «Ma domani saranno di nuovo fradici, quando riprenderemo ad arrancare in mezzo alla neve», osservò Haramis. «Il mio sangue è più caldo del tuo, Uzun, e io posso sopportarlo. Ma tu sei un Nyssomu, nato per vivere nel calore della Palude. Durante questa giornata ho visto il tuo viso diventare sempre più grigio per lo sforzo, e il tuo passo sempre più incerto e affaticato.» «Ti sto rallentando», mormorò lui con tono miserevole.
«Questo non conta, Dio sa che non ho nessuna fretta di morire congelata! Ma non penso proprio che le tue condizioni possano migliorare, anzi molto più probabilmente rischiano di peggiorare con l'aumentare del freddo.» Haramis si alzò dal giaciglio accanto al fuoco e si diede da fare per togliere a Uzun i suoi stivali. «Non si asciugheranno più se continui a tenerli ai piedi.» «No, no... sono io che devo servire te!» «Silenzio e tranquillo», gli ordinò con finta severità. Quand'ebbe compiuto l'operazione, tolse anche la protezione interna di erbe pigiate - isolanti quando asciutte, ma ridotte ora a un inutile ammasso putrescente appiccicato alle dita artigliate dell'Oddling - e gli fece calzare a mo' di calde ciabatte i suoi guanti foderati di pelo. Poi dispose gli stivali accanto al fuoco, di modo che li penetrasse il calore delle fiamme, e gli diede da bere dal pentolino di terracotta che usavano per preparare il tè di darci. L'anziano musico emise un profondo sospiro. «Mi sento molto meglio, ma non avresti dovuto umiliarti a questo modo...» Lei gli premette un dito sulle labbra, facendogli cenno di tacere. «Uzun, ho riflettuto attentamente su di una grave questione e sono giunta infine a una decisione per la quale non accetterò le tue eventuali rimostranze. Da qui in avanti desidero proseguire da sola, e voglio che tu torni indietro. Mi hai accompagnata fin dove ti è stato possibile, e non c'è niente di cui tu debba biasimarti.» «No! No!» gridò il fedele Oddling rovesciando il tè dappertutto. «Ti ho già detto che ormai è deciso», lo rimproverò Haramis. «Sappiamo bene che abbiamo quasi raggiunto quella parte dei monti in cui nessun essere vivente - a parte forse i mitici Occhi nel Turbine - può sopravvivere a lungo. Le scorte di cibo sono agli sgoccioli e non c'è speranza di incrementarle. Presto scompariranno persino quei piccoli arbusti contorti che ci hanno permesso di riscaldarci finora. Se il mio destino è così importante, come ha detto la Bianca Signora, allora si può presumere che i Signori dell'Aria mi proteggeranno e mi sosterranno in qualche modo mentre seguirò i semi di Giglio Nero fra quelle cime innevate. Ma tu, mio caro amico, devi tornare indietro. Questa è la mia ricerca, e dovrò portarla a termine da sola.» Uzun chinò il capo senza parlare. Si asciugò gli occhi con una manica e poi bevve un sorso della calda bevanda. «Se tornerai indietro ora», continuò Haramis, «una mezza giornata di
marcia in discesa dovrebbe essere sufficiente a portarti fuori dal ghiacciaio. E un giorno ancora di cammino basterà a farti raggiungere la fertile pianura del fiume Vispar, dove potrai nuovamente assaporare le prelibate carni dei garsu e le succose bacche che lì crescono così abbondanti. Ma quel che più conta, è che non dovrai affrontare le gelide notti di questi monti. Poi seguirai il corso del fiume fino a quando non incontrerai qualche amichevole gruppo di Uisgu, che ti condurranno a Trevista con le loro imbarcazioni e sarai di nuovo in mezzo alla tua gente.» «Ma come faccio a lasciarti qui da sola? L'Uno e Trino sa che non sono un grande esperto di vita all'aria aperta, ma tu - perdonami, principessa sei anche meno competente di me al riguardo!» «In questo momento non ho bisogno di particolari capacità o conoscenze per sopravvivere. Non ci sono pesci da pescare, né animaletti da catturare al laccio e nemmeno particolari piante o frutti di cui andare in cerca. Le vettovaglie che restano nel mio zaino mi eviteranno ancora per un po' di morire di fame, e ne so abbastanza da lasciare sedimentare l'acqua del fiume prima di berla. Riesco a superare le balze rocciose con sufficiente agilità e per qualche giorno ancora, fino a quando l'intero paesaggio non sarà sepolto nella profonda neve delle vette, non dovrebbe essere difficile trovare un riparo asciutto per la notte. E se per allora non avrò raggiunto il mio scopo... forse gli spiriti della montagna avranno pietà di me e mi porteranno in una di quelle favolose verdi vallate dove si narra che dimorino i Vispi, tra fonti termali e splendide fioriture, mentre le tormente di neve passano su di loro senza neanche sfiorarli.» Uzun, con un tono di voce basso e pensieroso, disse: «In realtà mi chiedevo se la Bianca Signora intendesse proprio farci giungere in un luogo così favoloso». «Tu cosa ne sai dei Vispi?» «Non si avventurano mai fuori dalle loro montagne. Commerciano con gli Uisgu in metalli rari e pietre preziose, e questi poi li passano ai Nyssomu, che sono in contatto con gli umani grazie alla fiera di Trevista o per mezzo dei piccoli mercanti di villaggio nelle Terre di Dylex. I Vispi ne ricavano principalmente animali domestici, in particolar modo quelli con folte pellicce, ma chiedono anche con insistenza sale, miele, e altri prodotti non facilmente reperibili in mezzo ai monti.» «Che aspetto hanno?» «Nessun Nyssomu è mai sopravvissuto per raccontarlo, perché le loro terre sono proibite al Popolo delle Paludi.»
«Anche perché morireste tutti di freddo prima di arrivarci», mormorò Haramis. Uzun continuò: «Gli Uisgu, il Popolo delle Praterie, dicono che i Vispi sono più alti ma più magri degli uomini. Sono sicuramente nostri simili, dato che partoriscono piccoli già formati e non larve come fanno le ripugnanti madri Skritek. Si dice che gli Occhi nel Turbine, quei guardiani dei passi di montagna che una volta ci aiutavano a tenere lontane le invasioni, appartengano a loro e servano la Bianca Signora». «Alcune guardie dei nostri avamposti montani hanno riferito di meravigliose danze dei Vispi sulla neve fresca», osservò Haramis. «Si dice anche che siano la più antica tribù fra le Genti, ma in realtà nessuno lo sa di preciso. I nostri cantastorie narrano delle loro vallate, sulle pendici dei monti Rotolo, Gidris e Brom. Si suppone che polle di acque termali e ruscelli fumanti contribuiscano a moderare il freddo e permettano lo sviluppo della vegetazione. E ci sono caverne di ghiaccio che si sciolgono lentamente, liberando gioielli e pepite d'oro e di platino. Pare che alcune di quelle grotte appartenessero agli Scomparsi, e solo molto raramente qualcuno dei loro incredibili strumenti magici è messo sul mercato dai Vispi.» «Davvero affascinante», mormorò Haramis. Attizzò il fuoco con il puntale d'acciaio del suo bastone, spingendo nelle braci i rametti solo parzialmente consumati dalle fiamme. Restò in silenzio per parecchi minuti, e poi si rivolse improvvisamente al suo fedele amico. «Uzun, cosa ne diresti di riprovare con la tua Vista?» «Per le tue sorelle?» «No, non per loro. Per vedere i Vispi.» Uzun rimase a bocca aperta. «Io... io potrei provare. Se sono davvero dei nostri, dovrebbero avere un'aura come ce l'hanno tutti gli altri esseri naturali.» La principessa gli indicò il bricco del tè, che conteneva sul fondo ancora un dito di liquido scuro. Uzun annuì silenziosamente e lo raccolse da terra reggendolo con entrambe le mani. Fece ruotare il tè agitando il contenitore sempre più velocemente. Mentre osservava il piccolo vortice il suo corpo si irrigidì, lo sguardo divenne fisso e sfuocato e la fronte madida di sudore. Haramis restò in attesa. Il bagliore rosato che aveva soffuso le vette innevate si era ormai trasformato in un grigiore indistinto, e il cielo era stato piano piano incupito da una nuvolaglia cirriforme proveniente da sud: le prime avvisaglie dei monsoni. A volte le tempeste giungevano con un cer-
to anticipo, e se così fosse stato allora lei era certamente condannata... «Movis», sussurrò Uzun. Haramis sentì un brivido di paura scorrerle lungo la schiena e si afferrò le spalle. «Hai visto qualcosa?» «Movis», ripeté Uzun. Mentre ritornava in sé, i suoi grandi occhi dorati fissarono quelli della fanciulla. Depose il bricco e disse: «Il nome della loro grande colonia è Movis e si trova lassù, verso ovest.» «Sei riuscito a vederla chiaramente?» domandò lei con il viso acceso dall'eccitazione. «Quanto dista da qui?» «Non sono in grado di dirlo, so solo che è laggiù, da qualche parte in quella direzione. I Vispi, se lo desiderano, sono capaci di eludere completamente qualsiasi ricerca. Ma ho fatto il tuo nome, presentandoti nel frattempo come petalo del Giglio Vivente; loro me ne hanno accordato una momentanea visione, un caldo rifugio sotto una cortina di nebbia gelata, e hanno detto che... che ti stanno aspettando.» Haramis sentì il cuore martellarle nel petto. La sua mano corse al caldo amuleto di ambra annidato sul suo seno. Movis! Un luogo reale, e non un qualche sogno febbricitante della morente Arcimaga! Quindi, dopotutto, non si trattava di una inutile passeggiata quella a cui la stavano guidando i semi, ma una vera ricerca. O almeno così sperava... Poi si rivolse a Uzun. «Mi hai servito come meglio non si poteva. Questa tua visione mi riempie di una nuova fiducia, scacciando dubbi e incertezze. Uzun, ti devo confessare che iniziavo davvero a pensare che la Bianca Signora fosse solo una stanca strega piena di vane illusioni e capace di mandarmi unicamente verso una morte certa.» «Movis però non è vicina», le disse il vecchio musico corrugando la fronte con aria preoccupata. «Non so dirti esattamente dove si trovi, ma occorrono di certo parecchi altri giorni di marcia su un terreno davvero infame.» «I semi mi guideranno», gli rispose lei sorridendo. «Troverò quel villaggio o qualunque altra cosa sia, non temere, e i Vispi che vi abitano mi aiuteranno nella ricerca del talismano.» «Sembrava volessero manifestarmi tutta la loro buona volontà», ammise Uzun. Dimenò i piedi, ancora infagottati nei guantoni di pelliccia di Haramis, e la preoccupazione svanì lentamente dal suo viso. «Forse, in fin dei conti, è destino che tutta questa storia finisca per il meglio.» Poi sbadigliò, precipitandosi a chiedere scusa alla principessa. Ma lei scoppiò a ridere. «Hai ragione, senza dubbio. E sebbene mi man-
cheranno sia il tuo caro viso che la tua musica, mi servirai meglio tornandotene indietro. Potrai cominciare a trasformare questo viaggio in una ballata da cantare quando sarò regina a Ruwenda. E per la verità, da come a volte ti sento parlare, sembra che tu abbia già cominciato a lavorarci.» «Va bene», sospirò lui. «Viaggerai certamente più spedita senza di me. Ti lascerò a cuor più leggero sapendo che l'Arcimaga ha comandato ai Vispi di assisterti. E mentre andrò verso sud, cercherò di sfruttare di tanto in tanto la mia Vista per rassicurarmi sulla tua incolumità.» «Lo so, lo so che mi penserai sempre», gli disse lei. Poi recuperò gli stivali e i calzini di feltro, ormai quasi asciutti. «Infilali in fondo al sacco, così finiranno di asciugarsi mentre riposi.» Lo aiutò a rannicchiarsi nel morbido sacco, e non fece neanche in tempo a preparare il suo che lo udì russare sonoramente. Poi, dopo avere ripulito un po' il campo, si diresse lentamente verso lo scrosciante torrente. La brina si era già formata sulle nude rocce, e nella penombra si vedevano scintillare debolmente le chiazze di neve fra le balze scoscese. Riempì quasi completamente il loro otre, rabbrividendo al tocco gelido del fiume Vispar. All'alba, quando si sarebbero svegliati, la fanghiglia grigiastra in sospensione nell'acqua si sarebbe depositata rendendola bevibile. Vide luccicare qualcosa ai suoi piedi: una piccola pozza d'acqua che rifletteva una singola stellina. Una situazione perfetta dove poter scrutare... Potrei forse esercitare anch'io una tale magia? Ma si tratta poi di vera magia o di una semplice capacità mentale, come il linguaggio senza parole usato dagli Oddling? Potrei vedere le mie sorelle...? Certo, potrebbero anche essere morte, ma sento che non è così. Naturalmente, anche se non riuscissi a vederle, ciò non proverebbe nulla. Supponiamo che l'Arcimaga abbia predisposto una qualche barriera intorno a noi tre, diciamo pure un incantesimo che ci tiene nascoste da occhi indiscreti, in modo da frustrare le iniziative di quei malvagi labornoki che vorrebbero ucciderci, come il vile Orogastus e i suoi assistenti. Ma se fossi io stessa a cercare di sapere dove si trovano le mie gemelle, il cui destino si dice inseparabilmente legato al mio, forse quelle barriere non mi fermerebbero... Provare non mi costa nulla. Si inginocchiò davanti alla piccola pozza d'acqua, facendo attenzione a non perdere di vista la luce della stella, e recitò una breve preghiera. Poi cercò di scacciare qualunque pensiero dalla mente, facendo in modo che la sua sola realtà fosse in quel momento racchiusa nel debole luccichio sull'acqua, e infine immaginò il viso di sua sorella Kadiya.
Kadi... Kadi... Sei viva? Lascia che ti veda! Un sorriso. Un ricco aroma di acqua profumata, bolle di sapone, una cascata di capelli fulvi e... Poi più niente. Haramis si accucciò sui calcagni. Per un momento, breve come un battito di ciglia, le era sembrato di cogliere una fugace immagine... ma non si era trattato di una vera visione di Kadiya, solo una vaga sensazione che traeva sicuramente origine dalla sua immaginazione, resa più acuta dall'impellente desiderio di avere notizie della sorella. Sospirò sconsolatamente. Be', non si aspettava certo di riuscirci. La Vista, era un talento degli Oddling e non degli umani, e Jei si era comportata da perfetta idiota, standosene ferma lì al freddo quando avrebbe invece potuto infilarsi al calduccio nel suo sacco, che era il luogo più adatto per queste fantasticherie. Sospirando, si incamminò con fatica su per la salita per raggiungere il suo giaciglio. 15. La barca Uisgu accelerò alla luce delle Tre Lune e Anigel si svegliò di soprassalto. Per la quarta notte di seguito aveva fatto quell'orribile sogno di siccità e di fuoco, e il suo corpo era rigido e madido di sudore per il terrore che l'aveva attanagliata. Maledetto sogno! Era così stupido continuare a rivivere di nuovo, continuamente, quel doloroso parto della sua immaginazione. Come sempre nei momenti di sconforto strinse fra le mani il suo prezioso amuleto. Lo sentì caldo e quasi vitale mentre si chiedeva perché il suo io più segreto le avesse mandato ancora una volta quel miserabile incubo. Lei sapeva cosa voleva dire! Ma non aveva forse preso coscienza delle sue debolezze e promesso con tutte le forze di essere coraggiosa? Perché allora quei fantasmi continuavano a tormentarla? Non era giusto! Decise di essere ancor più determinata, mettendo da parte quelle spaventose memorie della notte e concentrandosi solo sul presente più immediato. Stava navigando su un'imbarcazione appuntita a entrambe le estremità e lunga quasi quanto un barchino Nyssomu; gli Uisgu però, invece di intagliare un tronco, preferivano costruire i loro mezzi fluviali intrecciando strettamente dei fasci di cannicci, come per un grosso cesto, e rivestendone poi l'interno con una sostanza rigida. I due rimorik che trainavano l'imbarcazione erano creature affusolate, ricoperte di pelo e più grandi di un uomo; la testa però era completamente liscia, con enormi occhi neri, e le lar-
ghe zampe palmate erano dotate di artigli spaventosi. I lunghi corpi erano chiazzati di verde e l'unico verso che emettevano era un raggelante sibilo. Non amavano gli umani, e Anigel l'aveva ben capito provando a fare amicizia con loro. Le creature erano legate alla barca per mezzo di una doppia briglia attaccata alla prua, e i due nocchieri Uisgu, i cui nomi erano Lebb e Tirebb, controllavano quei loro corsieri subacquei grazie a delle redini che scorrevano dentro anelli sistemati ai lati della prua. Anigel era obbligata a trascorrere il tempo rintanata nella stretta poppa, in modo da non infastidire i rimorik con la sua presenza umana. Ogni sei o sette ore si fermavano in qualche villaggio Uisgu per sostituire le due bestie affaticate e permettere una breve sosta anche ai loro conducenti. Quella strana regione della Palude Dorata che avevano attraversato negli ultimi tre giorni, avvampava di calore nelle ore diurne. Ben poche specie animali native erano in vista, ad eccezione di fitti stormi di uccelli e sciami di grossi insetti dalle ali leggere come garza. Le rive del fiume erano disseminate di flessuosi giunchi sormontati da una sorta di pannocchie fiorite di colore giallo dorato e da alti steli d'erba dai bordi taglienti. All'inizio la loro barca aveva seguito uno stretto e sinuoso canale attraverso le fitte radure a nord di Trevista, girando e rigirando fino a quando Anigel aveva completamente perso il senso della direzione. Il secondo giorno di viaggio li aveva invece portati in una regione in cui la vegetazione era più bassa ma i corsi d'acqua molto meno distinguibili. I rimorik nuotavano semplicemente tirando dritto davanti a sé, attraverso quelle praterie sommerse, e l'imbarcazione frusciava su quel tappeto d'erba senza quasi toccare l'acqua. I punti di sosta erano solitamente situati su isolotti sopraelevati, densamente ricoperti di boscaglia e cespugli carichi di ogni sorta di fiori e frutta. Ed era proprio lì che gli schivi Uisgu fondavano le loro piccole comunità, sopravvivendo di pesce crudo, prodotti della natura e miton, una bevanda 'sacra' di colore scuro, sulla cui natura Immu evitò di pronunciarsi, proibendo ad Anigel di assaggiarla. A differenza dei Nyssomu, gli Uisgu non usavano il fuoco. Dimoravano infatti in capanne di giunchi intrecciati con lunghi e spessi steli d'erba, un po' come le loro imbarcazioni, montate su palafitte che li tenevano al sicuro dalle inondazioni nella stagione monsonica. Gli abitanti di quei villaggi erano più piccoli dei loro consanguinei Nyssomu, e non indossavano altro che gioielli d'oro incastonati di gemme, una merce che ottenevano commerciando con i Vispi delle montagne settentrionali, e una sorta di corto gonnellino di tessuto sgargiante. Anche i
loro occhi erano alquanto sporgenti, e venivano addirittura evidenziati disegnandovi intorno dei cerchi colorati; le donne indossavano anche un blusotto, mentre gli uomini esibivano orgogliosamente il petto dipinto con tre circonferenze colorate intersecantesi in un punto centrale. I loro corpi erano quasi interamente coperti da una corta peluria, lubrificata con una densa sostanza oleosa dal forte odore di muschio. Anigel ora non faceva più caso a quell'odore, ma al suo primo incontro con Lebb e Tirebb aveva dovuto controllare il proprio disgusto mentre scambiava con loro una viscida stretta di mano nell'abitazione di Frolotu la Saggia. Non c'era da meravigliarsi se certi gretti ruwendiani si riferivano a loro come ai Viscidi Diavoletti! I barcaioli e Immu potevano a malapena intendere i rispettivi dialetti, ma non c'era molto bisogno di conversare. I due Uisgu conoscevano bene l'ubicazione delle rovine di Noth, e avevano promesso di condurvi le loro passeggere il più in fretta possibile. Dopo il tramonto, quando le stelle sopra la prateria sembravano luccicare con un'intensità doppia del normale a causa dell'assenza di foschia, la Palude Dorata era attraversata da un concerto di suoni notturni completamente diversi da quelli del Basso Mutar o di Trevista. In quella vasta regione senza alberi non si sentiva il ruggire o l'ululare dei grossi mammiferi, ma l'atmosfera era soffusa da una cacofonia di rumori ritmici e sincopati, come il suono di centinaia di piccoli tamburi che eseguissero con differenti tonalità la stessa melodia. Era un concerto così ripetitivo e ipnotico che Anigel si sentì vincere nuovamente dal sonno. Niente sogni, niente sogni, pregò flebilmente lasciandosi catturare dall'oblio. Quando si svegliò stava ormai albeggiando e si erano fermati. Tre piccoli volti la stavano fissando affacciati dai bordi dell'imbarcazione, con espressioni insieme affascinate e atterrite. C'era una certa somiglianza con i Nyssomu, ma le lunghe orecchie puntute erano più grosse, come anche la micidiale dentatura, e sia la testa che il collo e le guance erano ricoperte da una foltissima peluria lucida d'olio. Ogni viso aveva i cerchi intorno agli occhi dipinti con diversi colori. La principessa lanciò un grido sorpreso e le tre facce scomparvero all'unisono dietro il parapetto. «Oh, mi dispiace», si scusò lei a bassa voce. «Non abbiate paura, piccoli Uisgu. So di apparire brutta e gigantesca ai vostri occhi, ma non ho intenzione di farvi del male.» Prima riapparve una testa, e poi anche le altre due. Non erano più grandi di quelle dei bambini umani. I tre giovanissimi Uisgu conversavano fra lo-
ro con un concitato cicaleccio, discutendo ovviamente sulla natura di quel mostro che avevano scovato addormentato in una barca sulla loro spiaggia. «Va tutto bene», li rassicurò Anigel. Mostrò loro l'amuleto tenendolo per la catenina, e subito sembrò essere tutto spiegato. I tre esplosero in una serie di trilli gioiosi, mostrando le loro ancor piccole zanne in una sorta di largo sorriso. Si arrampicarono faticosamente sulla murata e sarebbero persino saltati nella barca insieme a lei se Anigel non fosse scoppiata a ridere dicendo: «No, no. Sedete lì e aspettate un momento mentre mi vesto. Poi mi potrete accompagnare al vostro villaggio. Immagino che Immu, Lebb e Tirebb siano già andati a procurarsi dei nuovi rimorik, lasciandomi qui a poltrire!» Sgusciò fuori dal sacco di vimini e si tirò in piedi, indossando quindi sopra alla camicia il tipico abito di tessuto vegetale che le aveva donato Frolotu; all'inizio l'aveva portato con una certa riluttanza, ma si era ben presto dimostrato molto più fresco e funzionale dei suoi sporchi e logori abiti di corte, anche perché le lunghe maniche scampanate e il largo cappuccio erano una perfetta difesa contro il sole battente di quelle verdi distese senza alberi. Aveva anche sostituito le sue malandate scarpine con un paio di stivali di pelle dalle robuste suole di cuoio. Quell'abbigliamento da viaggio era completato da una solida cintura di fibre intrecciate, a cui era attaccata una piccola sacca contenente il suo fazzoletto, un pettine, un coltello e alcuni altri oggetti personali. Uno dei piccoli Uisgu, momentaneamente scomparso, tornò indietro tutto contento con una manciata di candidi fiori dall'aroma pungente. Anigel ringraziò la piccola creatura, e dopo avere intrecciato una ghirlanda se la mise sul capo. Poi scavalcò il parapetto e seguì il terzetto lungo uno stretto sentiero. Il villaggio si trovava a breve distanza e consisteva di cinque grosse capanne sistemate su palafitte, mentre a livello del terreno si trovava quella tipica tettoia sotto la quale gli Uisgu si incontravano abitualmente per socializzare, conferire, preparare e consumare i pasti durante la stagione asciutta. Immu e i due nocchieri stavano appunto facendo colazione sotto quel vasto riparo. Il capovillaggio accolse Anigel con un discorso dall'aria estremamente cortese ma per la fanciulla incomprensibile, e ordinò che fosse portato anche a lei del cibo. Si era ormai abituata a quei pezzetti di pesce lasciati marinare in un succo di frutta così acidulo che alla fine avevano la stessa consistenza e aspetto che se fossero stati bolliti. Si servì anche di sugose fette di melone e di
frutta secca, ma seguì le indicazioni di Immu rifiutando cortesemente la sacra bevanda miton. «Dicono che Noth si trova a poche ore da qui», le disse Immu dopo che la ragazza ebbe finito la sua colazione. «Pochi chilometri oltre il villaggio le acque diventano molto basse e termina quella parte sommersa della Palude Dorata in cui possono nuotare i rimorik. Dovremo tagliare verso il fiume Nothar, leggermente a est, e seguirne il corso fino alla dimora dell'Arcimaga. Gli Uisgu di solito non osano avvicinarvisi senza un preciso invito, ma ho spiegato loro chi sei e perché la Bianca Signora ti ha convocata al suo capezzale.» Il capotribù, che si distingueva dagli altri otto maschi adulti del villaggio per il suo collare d'oro e i suoi bracciali, e per il gonnellino fatto di scintillanti scaglie di pesce, si avvicinò alla principessa non appena Immu ebbe finito di parlare, e l'arringò per qualche minuto nella sua incomprensibile lingua. Anigel cercò di non ritrarsi quando le dita artigliate della piccola creatura alzarono delicatamente il prezioso ciondolo che portava appeso al collo per poterlo mostrare alla sua gente. Il piccolo gruppo di Uisgu proruppe in un basso mormorio di meraviglia, interrotto dal cicaleccio dei tre ragazzini i quali stavano senza dubbio dicendo agli anziani come avevano conosciuto la giovane umana. «Questi Uisgu che vivono nella regione più occidentale della Palude Labirinto si tengono in stretto contatto mentale con i loro simili», disse Immu alla principessa. «Il capotribù dice che tu non sei il solo petalo del Giglio Vivente in viaggio verso Noth. Ce n'è un altro, senza dubbio tua sorella Kadiya, che è sopravvissuto ai pericoli della Palude Nera. In questo momento lei e il suo compagno, e si tratta sicuramente di Jagun, si stanno avvicinando a un villaggio Nyssomu vicino alla confluenza del Nothar con il corso superiore del Mutar.» «Che meraviglia!» esclamò Anigel. «Potremo così attendere il suo arrivo a Noth!» L'espressione di Immu era alquanto dubbiosa. «Questo dovrà deciderlo l'Arcimaga.» Il capotribù parlò nuovamente, gesticolando questa volta in direzione nord e aggrottando la fronte; poi strofinò le palme delle mani sui fianchi, un gesto che indicava grande disapprovazione. «Per il Fiore!» mormorò Immu. «Dice che una terza persona che indossava il tuo stesso amuleto è partita da Noth una settimana fa, spostandosi verso nord in direzione delle vette innevate dei monti Ohogan. Dice anche
che quella persona è... è molto poco saggia nell'osare avventurarsi in un territorio il cui accesso è stato proibito a chiunque da parte dei Vispi, pena la morte!» «Sta sicuramente parlando di Haramis!» esclamò Anigel. «Ma vi si sarebbe diretta solo se ce l'avesse mandata la Bianca Signora! Come ha potuto...» «Zitta», la ammonì Immu. «Non dire altro.» Ringraziò brevemente tutti gli abitanti del villaggio, poi con un cenno fece capire a Lebb e Tirebb che era giunto il momento di ripartire. Erano già stati imbrigliati un paio di rimorik freschi e riposati. Il capotribù sbarrò loro educatamente la strada. Diede un brusco ordine e ricevette dalle mani di una femmina uno dei quei recipienti costituiti da una piccola zucca svuotata attraverso un'apertura che veniva poi chiusa con un tappo di legno; quella sorta di otre era macchiato di un rosso vivo e si trovava in una reticella di vimini per favorirne il trasporto, come se fosse qualcosa di molto delicato. Il piccolo Uisgu la porse solennemente alla principessa. «Si tratta forse di miton?» sussurrò la giovane rivolgendosi a Immu. «Sì, e questa volta devi accettarlo, perché si tratta di un dono speciale che solo raramente viene concesso a un non-Uisgu, tanto meno se umano. Ringrazia i Signori dell'Aria che i cortesi abitanti del villaggio non ti abbiano chiesto di bere insieme a loro...» Anigel inchinò il capo e ringraziò l'assemblea nella sua lingua, ma loro sembrarono capirla. Un'anziana Oddling raggrinzita trotterellò dietro di loro mentre si dirigevano verso la barca e, dopo avere attirato l'attenzione di Anigel toccandola delicatamente sulla spalla, le indicò ripetutamente la zucca con un sorriso incoraggiante. «Miton!» continuava a ripetere all'esterrefatta fanciulla. «Miton! Miton ka poru ti!» Immu le fece cenno di proseguire e dopo qualche istante si sistemarono nei loro posti di poppa, mentre i due Uisgu stavano già mollando le briglie dei loro destrieri acquatici. Allontanandosi dall'isola videro che gli abitanti del villaggio li stavano calorosamente salutando, mentre la matrona continuava a ripetere con voce gracchiante il solito ritornello: «Miton ka poru ti!» «Ma cosa vuole dire?» domandò Anigel. Teneva in grembo il recipiente che le era stato donato e osservava i curiosi nodi della reticella che lo conteneva.
«Significa: il miton dà forza e coraggio», le spiegò l'anziana Oddling con una certa riluttanza. «Ecco perché la chiamano una bevanda sacra.» «Fantastico!» esclamò la principessa illuminandosi con un sorriso. «Penso proprio che ne berrò subito un sorso, perché confesso che la prospettiva di incontrare finalmente la Bianca Signora mi fa tremare davvero le ginocchia.» Immu si voltò da un'altra parte e poi, come se parlasse fra sé, disse: «C'è come una specie di simbiosi fra i rimorik e gli Uisgu, un legame per cui ognuno aiuta e si prende cura dell'altro. Non si tratta di un rapporto fra padrone e animale domestico, ma di una vera amicizia che nasce dal profondo dei loro cuori. I rimorik sono forti e coraggiosi, mentre i piccoli Uisgu sono dotati di una grande intelligenza. Il loro legame è continuamente rinforzato per mezzo del miton, che entrambi bevono e... che contribuiscono in eguale misura a produrre per mezzo del loro sangue!» La principessa era rimasta immobile come una statua di sale e una mano le era corsa automaticamente all'amuleto. «Non so dire se quella bevanda dia davvero coraggio», concluse Immu. «La mia gente, i Nyssomu, considerano generalmente la cosa con un certo timore. Quei pochi di noi che hanno osato bere il miton, e cioè coloro che guidano i rimorik, sono diventati una razza a parte. Sicuramente c'è qualcosa di magico in quella miscela, ma secondo me sarebbe più saggio portarla con noi dall'Arcimaga e consultarla sui possibili effetti.» «Io... io lo farò sicuramente», disse la ragazza. Se ne stette a lungo seduta senza parlare, fissando prima la zucca e poi il panorama che veniva loro incontro, le torreggiami vette innevate sempre più grandi all'orizzonte. Dopo circa un'ora, Anigel si voltò sorridendo verso Immu. «Penso che solo i Signori dell'Aria sappiano se questo sacro miton serva o meno a infondere coraggio, certo che comunque è accaduta una cosa davvero strana... Anche solo stando qua seduta, reggendo in grembo quest'otre, ho superato la mia paura di incontrare la Bianca Signora. E per il momento questa è già una bella magia!» Le rovine di Noth, sebbene molto estese, non erano sfarzose come quelle di Trevista, e Anigel ne fu in certo qual modo delusa. L'imbarcazione Uisgu le condusse attraverso un'area di edifici di pietra in rovina e sommersi di vegetazione, fino a una specie di laguna ricoperta da ninfee carnivore, i cui enormi fiori giallastri erano ricolmi di insetti putrefatti. Attraccarono a un porticciolo sorprendentemente pulito. La spianata retrostante era in leg-
gero declivio e perfettamente curata come il giardino di una villa patrizia: l'erba era tagliata di fresco e le siepi potate in modo da riprodurre forme misteriose, tempestate da una miriade di fiori variopinti, mentre alcuni togar domestici vagavano qua e là brucando l'erbetta e, di tanto in tanto, qualche germoglio. In cima alla collinetta, una rustica scalinata di pietra conduceva a uno strano caseggiato, quale Anigel non ne aveva mai visto. Il tetto era costituito da uno spesso strato di erba secca e le bianche pareti intonacate erano inframmezzate da robuste travi di un legno molto scuro. C'era un camino di pietra da cui usciva un filo di fumo. Le finestre avevano una forma romboidale e ai davanzali erano state disposte delle cassette di fiori; c'erano anche imposte di legno che potevano essere chiuse per riparare i vetri piombati durante le giornate di tempesta. La porta principale spiccava proprio nel bel mezzo della facciata e in quel momento solo la parte inferiore era chiusa. Vicino alla porta era stata sistemata una panca su cui ora riposava un animaletto dal pelo arruffato, e proprio contro la parete c'era un piccolo filatoio con una cesta ricolma di gomitoli di lana. L'effetto complessivo di quella visione era così piacevole e inoffensivo dopo le austere rovine della città che Anigel si domandò ad alta voce se erano giunti davvero al posto giusto. Immu girò la domanda ai due nocchieri Uisgu, che sembravano stranamente ansiosi di sbarcare le loro passeggere e ritirarsi in buon ordine. Le due piccole creature annuirono vigorosamente, indicando al contempo la graziosa casetta sull'altura. Uno dei due gettò sulla banchina gli zaini di Immu e Anigel, e l'altro modulò il tipico fischio che segnalava la partenza ai due rimorik. «E grazie tante», commentò Immu con malcelata costernazione osservando la barca sfrecciare via a tutta velocità. «Cosa ne pensi di questa fuga?» Ma Anigel si era già avviata verso la scalinata attraversando il giardino. «Vieni, presto!» esclamò la fanciulla rivolgendosi alla sua anziana amica. «Non crederai a cosa ho trovato qui!» «Vieni vieni vieni», borbottò fra sé Immu, arrancando dietro la fanciulla con le sue corte gambe. Fra le acque e la casa erano disposti alcuni alberelli carichi di piccoli frutti sferici color arancio, che avevano loro impedito di vedere la pianta che Anigel stava ora osservando con stupita ammirazione. Si trattava di una pianta di Giglio Nero alta almeno un paio di metri e ricoperta di enormi fiori vellutati, neri come la notte.
Immu cadde in ginocchio e scoppiò a piangere. «Ma allora è vero! L'abbiamo trovata! Oh, sia resa grazia ai Signori dell'Aria!» La principessa si inginocchiò anch'essa per confortare la sua compagna, e un attimo più tardi si ritrovarono avvinghiate l'una all'altra, osservando a bocca aperta una indistinta figura apparsa improvvisamente dal nulla e soffusa dalla luce del sole che la colpiva spalle. «Signora?» osò domandare Immu con voce tremante. La sagoma si mosse e le due poterono finalmente vedere il viso di una donna molto vecchia e molto stanca, un viso così segnato e raggrinzito che le sue fattezze erano state quasi cancellate dal tempo, ad eccezione dei velati occhi azzurri profondamente infossati nelle orbite scure. Indossava un vestito bianco molto semplice e i suoi capelli candidi erano acconciati con una tela di batista. La mano che aveva allungato verso le due donne inginocchiate era emaciata, con nocche ingrossate e vene prominenti, e portava un solo grande anello di platino con incastonata una goccia d'ambra al cui interno risplendeva un piccolo giglio fossilizzato. «Io sono l'Arcimaga Binah», disse semplicemente. «Benvenute.» Anigel si rimise in piedi incespicando, mentre la povera Immu restò seduta a terra, paralizzata da un timore reverenziale. La giovane sentiva bruciare qualcosa all'altezza del petto ed estrasse l'amuleto da sotto la camicia, reggendolo per la catenina. L'ambra ardeva come un piccolo sole, pulsando al ritmo del suo cuore, e il bocciolo al suo interno si era parzialmente dischiuso. La vecchia donna sorrise e si voltò, facendo cenno ad Anigel di seguirla. L'Arcimaga procedeva con un doloroso passo strascicato, sostenendosi con un bastone argentato. La principessa la seguì senza più traccia di paura. Come si poteva essere spaventati da quella povera donna malata? «Oh, ne saresti sorpresa», le disse l'Arcimaga, come se le avesse letto nel pensiero con una una risatina che ricordava lo strusciare di foglie secche contro le pietre. «Ma tu non devi avere paura di me, piccola cara. Sono la tua madrina e ti voglio bene. Devi avere fiducia in me.» «Con tutto il mio cuore», affermò Anigel d'impulso. L'Arcimaga si fermò davanti all'alta pianta di giglio. «È l'unica del suo genere a crescere ancora nella nostra terra, e sebbene sembri forte e rigogliosa, sta morendo, proprio come me.» Anigel non riuscì a reprimere un grido di costernazione, ma la vecchia maga si portò un dito alle labbra. «Un altro tipo di Giglio prenderà il suo posto, se Dio lo vorrà. Figlia mia, sai di cosa sto parlando?»
«Sì», ammise la ragazza. «Ma io sono una persona dal carattere così debole... e potrei sconvolgere i tuoi grandi piani.» «Aspetta, aspetta», l'ammonì Binah. «È proprio questo il genere di elucubrazioni che rischiano di portare a quel fallimento che dobbiamo evitare! Devi coltivare l'amore e la serenità, che sono le vere vesti della regalità. Guarda come sono sereni questi fiori: accettano il nutrimento che arriva dalle foglie e dalle radici, si rivolgono sempre verso il sole e serbano i semi nel più profondo del cuore. E moriranno serenamente, sapendo che altrimenti quei semi non potranno essere liberi.» Anigel scosse il capo con aria perplessa. «Ti prego, mia signora... mi dispiace di apparirti così poco assennata. È quindi mio destino morire per il mio paese?» «Non lo so», le rispose l'Arcimaga. «Quel che mi è dato conoscere è che ti verrà affidato un compito che dovrai cercare di portare a termine. E riceverai anche un segno: un talismano, il quale ti indicherà che la battaglia finale per Ruwenda, e per la tua stessa anima, sta per iniziare! Tua sorella Haramis è già partita per la sua ricerca, e fra non molto anche Kadiya andrà incontro al suo destino. Ognuna di voi troverà il proprio talismano, e al momento giusto i tre petali del Giglio Vivente torneranno ancora una volta insieme. Più in là di così non mi è dato di vedere, e anche per me il vostro destino è avvolto nelle tenebre.» Anigel era diventata bianca come il gesso, ma fece di tutto per non tradire alcuna emozione. «Nella ricerca mi guiderà questo caro amuleto, donatomi il giorno della mia nascita?» domandò, tenendo sempre stretto fra le mani il suo prezioso ciondolo. «Certo, non temere, e così pure questo.» Così dicendo, l'Arcimaga recise una delle grandi foglie della pianta di Giglio Nero e la rivolse verso la fanciulla, indicandone la superficie con l'altra mano. «Questa foglia porta impressa la configurazione del nostro paese. Avvicinati! Le sue venature e nervature rappresentano la mappa di Ruwenda. Qui in cima c'è Noth, e la vena dorata che si diparte sinuosa da quel punto indica il corso d'acqua che dovrai seguire per localizzare il tuo talismano. Prima giù per il Nothar, e poi via lungo l'Alto Mutar fino al suo corso inferiore il Basso Mutar.» Anigel stava studiando la foglia con aria confusa. «Ma quella vena dorata prosegue verso il gambo! Vedi, qui è dove il Mutar curva intorno alla Cittadella e quel segno deve essere il lago Wum, e più oltre c'è il Grande Mutar, che scorre attraverso la regione dei Wyvilo e dei selvaggi Glismak!» Per un attimo negli occhi della ragazza balenò un lampo di terrore.
«Devo proprio andare là? Nell'oscura foresta di Tassaleyo?» «Pare di sì, piccola mia», le rispose l'Arcimaga. «Non lo sapevo nemmeno io fino a quando non ho strappato questa foglia.» L'anziana donna scosse il capo. «Un ben lungo cammino, bimba mia... ma seguirai sempre il corso della corrente, e quindi viaggerai più speditamente di quanto non hai fatto finora.» «E riguardo al mio compito...» «Ti sarà rivelato al più presto.» Il viso della donna fu attraversato per un attimo da uno spasmo di dolore che la fece addirittura barcollare. Immu, che era rimasta rispettosamente in disparte, si portò fulminea al suo fianco e la prese per un braccio. Anigel la prese per l'altro e insieme aiutarono l'Arcimaga a raggiungere la sua abitazione. La fecero poi sedere in una comoda sedia e le portarono un bicchiere d'acqua. «Non siate preoccupate, mie care», disse la Bianca Signora. «La mia ora deve ancora scoccare e non ho ultimato il mio compito. Sono solo molto, molto stanca.» Anigel esitò un attimo, ma poi estrasse dal suo zaino il piccolo recipiente di miton. «Mi è stata donata questa bevanda dagli Uisgu. Si dice che doni forza e coraggio...» «Questo regalo è stato fatto a te», disse Binah con un filo di voce. «Tienilo, ma usalo solo quando sarà davvero necessario.» «E cioè quando?» domandò Anigel. Ma la Bianca Signora aveva chiuso gli occhi e reclinato il capo sul petto. Il suo respiro era lento e rumoroso. «Puoi almeno dirmi dove troverò il mio talismano?» la supplicò la ragazza. «Alla... fine del gambo.» La voce era a malapena udibile. «Ma non mi hai detto di che tipo di talismano si tratta!» esclamò Anigel alla disperazione. L'Arcimaga emise un profondo respiro. «Ti prego!» La fanciulla era quasi in lacrime. «Dimmi solo che cosa dovrò cercare!» «Il Mostro dalle Tre Teste», sussurrò Binah prima di cadere profondamente addormentata. 16. La Voce Verde si fermò davanti alla porta della camera da letto di re Voltrik, e con un'affettata espressione di scusa aprì il piccolo tascapane che
teneva alla cintura. Ne estrasse quattro maschere, la cui strana foggia consentiva di coprire solo la parte inferiore del viso, e le porse ai suoi colleghi e a Orogastus, che fra tutti aveva l'espressione più accigliata. «Dovremo indossare queste, prima di avvicinarci a sua maestà», spiegò la Voce Verde. «La necrosi delle sue carni è avanzata a tal punto che il fetore eccede quello della più nauseabonda latrina, roba da far vomitare anche gli uomini più duri e far svenire i meno temprati. Le erbe aromatiche con cui ho preparato le maschere ci permetteranno di resistere per almeno mezz'ora alle pestilenziali esalazioni. Ti sarà sufficiente per i tuoi propositi, mio signore?» Il mago annuì senza battere ciglio. I suoi occhi erano di ghiaccio, e se anche temeva il compito cruciale che lo aspettava, non diede alcun segnale che potesse venire percepito dai poteri telepatici dei suoi accoliti. Il medico di corte - ubriaco, singhiozzante e terribilmente preoccupato di lasciarci la testa - aveva a malincuore espresso la sua diagnosi alla Voce Verde, mentre il mago e i suoi due attendenti erano ancora in viaggio: nonostante la somministrazione della Pastiglia Dorata, la cancrena aveva continuato a progredire fino a mettere in pericolo la vita stessa del re, e al medico era mancato il coraggio di sottoporre il sovrano all'unico rimedio che avrebbe potuto salvargli la vita. Quando queste ferali notizie furono trasmesse a Orogastus, i rematori vennero messi alla frusta per permettere alla barca di arrivare alla Cittadella in poche ore, a costo di sacrificare una mezza dozzina di vite umane. Ora lo stesso potente Orogastus avrebbe cercato di salvare il re, la cui morte poteva significare la rovina di tutte le sue ambizioni. «Aprite la porta», comandò il mago. La Voce Verde si inchinò e accondiscese al volere del suo padrone e signore. La camera da letto era quella appartenuta un giorno non lontano a re Krain, ma il suo nuovo occupante l'aveva fatta precipitosamente decorare nuovamente con il color cremisi di Labornok. In quel momento il vasto locale era quasi completamente avvolto nell'oscurità, dato che le uniche fonti di illuminazione erano rappresentate dalle braci che ardevano nel camino e da una singola candela sistemata su un tavolo dove si trovavano anche una bacinella, delle bende, e varie attrezzature mediche e pozioni con cui il medico di corte aveva inutilmente tentato di curare la mano del re. L'enorme letto si trovava su di una piattaforma collocata nel centro della stanza e circondata da sedie vuote. Le tende del baldacchino erano state tirate
indietro. Orogastus impartì secchi ordini con tono sommesso. «Voce Rossa, attizza il fuoco. Voce Verde, accendi quei due candelabri e portali vicino al letto, poi ripulisci il tavolo e spostalo di fianco al sovrano. Voce Azzurra, prepara lo strumento magico. Forse siamo arrivati appena in tempo.» Una sagoma imponente si agitò sotto le lenzuola emettendo dei gemiti. «Chi va là? Sei di nuovo tu, maledetto medicastro, venuto a tormentarmi con la tua imperizia? Vattene! Lasciami almeno morire in pace!» «Sono io, mio re», disse Orogastus. «E vengo a dirvi che non morirete.» Alzò il braccio sinistro del re con la massima cautela, ma nonostante ciò Voltrik lanciò un grido straziante. «Figlio di cagna! Lasciami stare! La tua pillola miracolosa mi ha aiutato solo per un giorno, e poi la sofferenza si è fatta anche peggiore di prima. Ah, Zoto abbi pietà... è colpa loro! Le principesse! Hanno lanciato una maledizione su di me! È la loro vendetta che mi si sta abbattendo addosso, uccidendomi fra mille tormenti!» «Sta delirando», disse Orogastus. Da sotto la tunica estrasse una piccola scatola di malachite e l'aprì. Al suo interno si trovavano sei minuscole sfere trasparenti che emettevano bagliori dorati alla luce delle candele. «Ne sono rimaste solo la metà», rifletté fra sé il Mago. Ne prese una e richiuse la scatola con estrema cautela. Porse quindi una coppa d'acqua a re Voltrik per aiutarlo a mandar giù la Pillola Dorata; il monarca deglutì rumorosamente e sembrò rilassarsi. Orogastus liberò la mano del re dal voluminoso bendaggio che l'avvolgeva e posò delicatamente l'intero braccio di Voltrik su un panno che aveva precedentemente steso sul tavolo. L'arto scottava al tatto, e striature rossastre si estendevano dal polso fino all'ascella. La mano era orrendamente gonfia, con le punte delle dita completamente nere, la carne putrida e ricoperta di croste nell'area del morso; il tanfo era così pungente che nemmeno le mascherine riuscivano a filtrare efficacemente. Il mago porse alla Voce Rossa i bendaggi affinché fossero bruciati, e diede brusche istruzioni agli altri due assistenti, i quali avevano già disposto sul tavolo il contenuto di una borsa di cuoio che aveva portato con sé. Orogastus affidò poi il braccio di Voltrik alla Voce Azzurra e a quella Verde, e avvicinò il suo viso a quello del malato: era scarno, accaldato e con gli occhi arrossati, e la sua barba folta e solitamente impeccabile era ora sporca e arruffata. «Cosa state facendo?» gridò il monarca alzandosi improvvisamente dai guanciali madidi. «Lasciate stare il mio braccio, voi luridi vermi! So bene
chi siete! Siete stati mandati dalle tre streghe ruwendiane per darmi il colpo di grazia!» «Guardami negli occhi», gli ordinò Orogastus. «Guarda nei miei occhi e trova sollievo alla tua sofferenza.» Il mago afferrò la testa del re con entrambe le mani e la voltò verso di sé in modo che i loro sguardi si incontrassero. Voltrik gemette pietosamente, e dopo avere esalato un profondo sospiro si lasciò andare all'indietro sui cuscini, privo di conoscenza. Orogastus volse la sua attenzione verso il tavolo, da cui raccolse un curioso aggeggio blu-argentato dalla forma cubica, ma con una sorta di cannello che fuoriusciva da una delle facce laterali. Su quella superiore si potevano scorgere anche file di protuberanze rosse e nere coperte da misteriose iscrizioni, e un riquadro più grande, grigio e senza alun simbolo. Il mago toccò alcune delle protuberanze, e il riquadro si illuminò improvvisamente e vi apparvero linee colorate intersecantesi. I tre assistenti rimasero a bocca aperta per lo stupore. Una delle protuberanze iniziò a lampeggiare e assunse una colorazione dorata. «Tenete il braccio perfettamente immobile, così», ordinò Orogastus, «e intonate il Canto della Guarigione. Ma mi raccomando, distogliete lo sguardo, perché questo strumento degli Scomparsi può accecare un uomo che ne osservi l'opera senza proteggersi la vista.» Il Mago sistemò l'apparecchio al di sotto del gomito di Voltrik, mentre le tre Voci iniziavano a cantare all'unisono. Poi si mise davanti agli occhi una strana maschera e premette infine la più grossa delle protuberanze di quello strumento misterioso. Subito dal cannello fuoriuscì un accecante raggio di luce biancazzurra, non più spesso di un filo di lino; Orogastus manipolò lentamente l'apparecchio affinché il raggio venisse in contatto con l'arto del sovrano: seguì un acre sfrigolio e si alzò un leggero sbuffo di fumo. Il mago proseguì nella sua opera e, quand'ebbe finito, Voltrik si ritrovò con la parte inferiore del braccio sinistro recisa dal resto dell'arto! Le tre Voci smisero di cantare al comando del loro signore. «È fatta.» Orogastus rimosse il visore e controllò il moncherino. Le arterie si erano cauterizzate, ma la carne era rossa, e i tronconi di due bianche ossa scintillavano vividamente. «Ottimo. La putrefazione mortale non è penetrata all'interno del braccio. Ora la Pastiglia Dorata potrà sortire il suo effetto senza doversela vedere anche con quel ricettacolo d'infezione che era ormai diventata la mano del re.» Il tenebroso consigliere di re Voltrik armeggiò con lo strumento degli
Scomparsi fino a quando non si spensero tutte le luci. «Voce Azzurra, avvolgi l'arto amputato in questi stracci e getta tutto nel fuoco facendo attenzione a non insudiciarti. Poi sistema con molta cautela il mio apparecchio dentro la sacca. Tu, Voce Rossa, ripulisci bene il tavolo e ciò che resta del braccio del sovrano con dell'acquavite forte. Fai anche un impacco alla fronte e alle tempie del re, e porta lenzuola e biancheria pulita. Voce Verde, disinfetta vicino al fuoco delle nuove bende e avvolgi il moncherino non troppo stretto, perché deve ancora spurgarsi prima di essere ricucito. Più tardi darò ulteriori istruzioni sia a voi che a quel cretino di medico, e dovrete eseguirle scrupolosamente.» «Il medico verrà quindi risparmiato, gran signore?» domandò la Voce Verde con aria sorpresa. «A meno che tu non desideri imboccare il sovrano, cambiargli le bende e svuotargli il pitale, povero stupido! E adesso prenditi cura del re.» Mentre le due Voci si affaccendavano intorno a Voltrik, Orogastus si diresse alla grande doppia finestra della camera da letto, scostò i pesanti tendaggi color cremisi e spalancò i battenti. Fuori il sole risplendeva allegramente e da nord spirava una dolce brezza. Il fetore si era quasi completamente dissipato e così Orogastus si tolse la mascherina. Il suo bel viso era pallido e preoccupato, e la mascella e le labbra tese acuivano quella sua espressione di profonda inquietudine. C'era mancato poco, ma ora, con le cure appropriate e una buona dose di assistenza morale, il re si sarebbe ripreso rapidamente. Ancora una volta il Mago si avvicinò al letto regale. «Voltrik... ascoltami!» Orogastus parlò con un voce bassa e determinata. «Ti sento», mormorò il re. «Sei stato molto vicino alla morte, mio signore, ma io sono riuscito dove tutti gli altri hanno fallito, e ora sei salvo! Certo, dovrai ancora sopportare molto dolore, ma nel giro di poche settimane sarai nuovamente nel pieno delle tue forze. Io, Orogastus, lo prometto solennemente.» «Grazie», sussurrò il sovrano con voce sofferente. I suoi occhi erano chiusi, ma perlomeno non era più così febbricitante. «Hai dovuto tagliare la mano?» «Sì, vostra maestà.» Il re emise un profondo sospiro. «E così sia. Almeno non ho perso quella che regge la spada, grazie a Zoto il Compassionevole... e grazie a te.» Si lamentò un po' mentre le Voci si affaccendavano a eseguire le istruzioni del loro oscuro signore. Lo stesso Orogastus rimboccò il copriletto sul petto di Voltrik, dopo di che il sovrano aprì gli occhi e parlò con voce ancor
debole ma dal timbro quasi normale. «Manda via i tuoi servitori. Desidero consultarmi con te su questioni di importanza vitale.» Orogastus si rivolse allora ai suoi seguaci. «Partirò fra un'ora per il mio rifugio sul monte Brom. Controllate quindi che la mia scorta sia ben armata e che ci vengano forniti i destrieri più forti e più veloci.» «Sì, potente Maestro.» I tre sgusciarono fuori e richiusero la porta. «Sei in partenza?...» Il re era sconcertato. «Non temete maestà, le mie Voci si prenderanno perfettamente cura di voi. Devo tornare alla mia torre fra i monti: al mio castello potrò consultare lo specchio di ghiaccio. Solo grazie a quel formidabile strumento riuscirò a spiare le mosse dei vostri nemici.» Voltrik sospirò rumorosamente. «E questo è proprio ciò di cui desideravo parlarti. Neanche a Trevista siete riusciti a ottenere qualche informazione riguardo alle tre fuggitive?» «No, nessuna. La rappresentante degli aborigeni si è nettamente rifiutata di cooperare alla ricerca. Ha anche detto che se avessimo cercato di farci aiutare con la forza, la Gente delle Paludi avrebbe smesso di commerciare con noi.» Il re si lasciò andare a una serie di maledizioni. «Dobbiamo trovare quelle principesse!» «I miei accoliti e io abbiamo utilizzato al massimo i nostri poteri occulti, esplorando non solo la città Oddling ma anche i più lontani recessi del Ruwenda; però è stato tutto inutile. C'è un potente incantesimo che ostacola la mia Vista, anche quando è amplificata con una congiunzione mentale. Si dice che le tre principesse indossino degli amuleti contenenti boccioli fossilizzati del Giglio Nero. Forse è quello che le protegge. Quella pianta è in qualche modo collegata a Binah, la strega che protegge il Ruwenda, ed è molto probabile che abbia incanalato proprio lì i pochi poteri rimastile in modo da difendere le sue protette.» «Pensi che il tuo specchio sarà in grado di dissolvere quel... quell'offuscamento?» «Senza dubbio. C'è in esso tutta la magia degli Scomparsi. Nessun incantesimo al mondo può confondere il suo occhio! Riesce a vedere tutto per migliaia di chilometri, fino agli estremi confini occidentali del continente, dove dimorano i barbari ricoperti di piume. Non temere, mio re. Localizzerò le principesse, ovunque si siano nascoste!» «E cosa farai dopo averle rintracciate? Potrebbero essersi messe nuova-
mente in fuga una volta che tu sia tornato nel Ruwenda per organizzare la caccia!» Orogastus scoppiò a ridere. «Mio re, non preoccupatevi! Quando avrò localizzato le tre ragazze, ne comunicherò la posizione alle mie Voci qui alla Cittadella. Invieremo subito delle truppe, e i miei assistenti le accompagneranno nella caccia. Io mi terrò in contatto con loro in modo da riferire di eventuali spostamenti, e alla fine il nemico subirà la sorte che si merita.» «Bene, molto bene.» Voltrik restò in silenzio per qualche istante, e poi disse: «Sono state le principesse a causare la putrefazione della mia ferita, non è vero?» «Una tale eventualità può essere causata dalla magia, ma anche dal normale corso degli eventi. In ogni caso, sire, starete presto benissimo. Sfortunatamente questo tipo di infezioni può essere curato solo con un intervento drastico.» Il re aveva chiuso nuovamente gli occhi. Una smorfia maligna aleggiava sulle sue pallide labbra. «Ma tu sei intervenuto giusto in tempo, e così il mio caro figliolo Antar dovrà fare a meno di quella corona che stava per finire fra le sue grinfie.» Orogastus mantenne un tono di voce neutrale. «Il principe ereditario Antar si è comportato con onore e dignità a Trevista, e mi ha pregato di porgervi i suoi più sinceri auguri per una vostra pronta guarigione.» «Hummpf! La Voce Verde mi ha trasmesso la visione che gli hanno inviato i suoi fratelli dell'incontro fra Antar e la vecchia Oddling. Quel dannato ragazzo si è piegato davanti a lei come un giunco durante un monsone!» Voltrik aprì gli occhi di colpo. «Cosa ne pensi, Mago? Mio figlio è leale?» «Lo scopriremo presto, mio sire, dato che il principe Antar guiderà sicuramente uno dei gruppi di ricerca che verranno mandati sulle tracce delle principesse.» 17. Il mattino seguente Haramis si svegliò con il sole negli occhi e la sensazione di qualcosa che non andava. Le ci volle qualche istante per concentrarsi a sufficienza da rendersi conto che ciò che la infastidiva era il silenzio. Siccome Uzun si alzava sempre prima di lei, generalmente Haramis si svegliava udendo il rumore dell'Oddling che camminava attorno al campo
canticchiando. Ma ormai era giorno pieno, non vi era un alito di vento, gli uccelli erano silenziosi e Uzun non faceva alcun rumore. Haramis si voltò a guardare il sacco del suo amico, ancora vicino al masso dove era stato collocato la notte precedente. A giudicare dalla sua forma, Uzun doveva essere ancora lì. Con riluttanza Haramis uscì dal suo sacco, notando che nonostante il sole splendente la temperatura era molto più bassa di quella della notte precedente. Socchiudendo gli occhi guardò il cielo terso, e si rese conto in ritardo che le nubi osservate il giorno prima indicavano l'arrivo imminente di una perturbazione. Camminò a quattro zampe verso Uzun e sollevò l'estremità del sacco per scoprirgli il viso: era immobile e privo di espressione; Haramis ebbe la certezza di osservare un cadavere. «Signori dell'Aria», bisbigliò inorridita. «Avrei dovuto rimandarlo indietro ieri... no, già da molti giorni!» Afferrò per le spalle il piccolo Oddling e lo scosse con violenza. «Per favore, Uzun, svegliati! Non essere morto! Per favore!» Il corpo dell'Oddling oscillò mollemente mentre Haramis lo scuoteva e ciò che restava delle facoltà razionali della principessa le ricordò che dopo la morte i corpi si irrigidiscono. Forse dopo tutto era vivo... Si tolse il guanto sinistro e appoggiò il palmo della mano sulla sua bocca. Le sembrò che passasse un'eternità prima di avvertire un debole respiro, e provò la stessa sensazione prima che l'Oddling respirasse una seconda volta. Uzun era vivo, ma era necessario portarlo al più presto in un luogo caldo. Lo avvolse di nuovo nel sacco, ritornò vicino al suo e si infilò gli stivali. Poi mise lo zaino e il bastone vicino al sacco di Uzun e lanciò un altro sguardo ansioso verso il cielo. Era certa che non sarebbe nevicato quel giorno, e con un po' di fortuna sarebbe riuscita a ritornare lì per la notte. Il suo zaino sarebbe rimasto al sicuro; probabilmente in quella zona non vi erano animali che potevano essere attirati da esso. Mise in spalla lo zaino di Uzun e sollevò il piccolo Oddling ancora infagottato. Dopo aver tolto quanta più neve possibile dal sacco dell'Oddling fece entrare il suo compagno così infagottato nell'altro sacco per dormire di cui si era servita lei stessa. Quel doppio riparo contro il freddo poteva essere utile, anche se era scomodo portare un fardello tanto ingombrante. Fortunatamente Uzun non era pesante, é il cammino era in discesa. Haramis si incamminò il più in fretta possibile. Riusciva a procedere molto velocemente, specie nei tratti in cui poteva lasciarsi scivolare a val-
le. Afferrava strettamente Uzun, e poi piantava i calcagni in modo da rallentare la discesa. A metà mattina erano fuori dai campi innevati, e a mezzogiorno avevano raggiunto il luogo in cui si erano accampati la notte precedente. Era un rifugio scavato nella roccia, asciutto, riparato dal vento e in quel momento era inondato dal sole di mezzogiorno. Le rocce stesse erano calde al tatto. Haramis mise a terra Uzun vicino alla parete posteriore e andò in cerca di legna per il fuoco. La notte precedente era stato Uzun a raccogliere la legna, ma Haramis ricordava in che direzione si era diretto, e ricordava pure che non aveva impiegato molto tempo a trovare quello che cercava. Quando ritornò, controllò di nuovo le condizioni di Uzun. Era ancora privo di coscienza, ma il suo respiro sembrava un po' più veloce, il che era buon segno. Dispose la legna per il fuoco molto vicino a lui, scaldò dell'acqua e preparò il tè. Quando il tè fu pronto, Uzun dormiva ancora. Sentendo il profumo della bevanda Haramis si rese conto che quel giorno non aveva mangiato né bevuto nulla. Allora bevve qualche sorso di tè e mangiò qualcosa che trovò nello zaino dell'Oddling. Non avrà bisogno di molto in questo viaggio verso sud. Arriverà in zone in cui è possibile trovare cibo. Poi, sentendosi più viva lei stessa, avvicinò la tazza al viso di Uzun, lo sorresse con una mano e gli versò con delicatezza un po' di tè fra le labbra. Con suo immenso sollievo, al contatto con la bevanda calda l'Oddling si mosse leggermente. «Per favore, Uzun», mormorò. «Inghiottito.» Il musico obbedì, e Haramis lo convinse a bere qualche altra sorsata, finché l'Oddling allontanò debolmente la tazza, mormorando: «Troppo stanco». «Anch'io sono stanca», rispose Haramis, rendendosi conto che era vero. Era esausta. Bevve il resto del tè, appoggiò la schiena alla parete di roccia e strinse in grembo il piccolo Oddling. Forse tenerlo stretto al suo corpo sarebbe stato utile; il suo sangue era caldo e il corpo avrebbe emanato almeno un po' di calore. E il sole che splendeva su di lei sembrava davvero propizio. Chiuse gli occhi ed espose il viso ai raggi benefici. «Principessa!» Il fagotto che stringeva a sé si dimenava freneticamente. «Cosa facciamo seduti qui?» Uzun girava la testa da una parte e dall'altra come se volesse orientarsi. «Dove siamo? Cos'è successo?» Haramis scosse la testa, cercando di schiarirsi la mente. Non era abituata a dormire durante il giorno - se non quando era malata -, e si sentiva inton-
tita, come se fosse stata narcotizzata o avvelenata. «Tè», bisbigliò, «voglio del tè.» Annaspò con la mano alla ricerca della tazza, e, dopo averla trovata, incominciò ad alzarsi in piedi. Dimenandosi, Uzun strisciò fuori dai due sacchi. «Ora lo preparo.» Afferrò la tazza che Haramis teneva in mano, aggiunse legna al fuoco e mise dell'acqua a bollire. Agli occhi assonnati di Haramis appariva perfettamente ristabilito. Allora il corpo degli Oddling poteva congelarsi e scongelarsi senza effetti nocivi? Sembrava incredibile. Ma almeno ora Uzun sarebbe stato capace di ritornare indietro da solo. Il musico le portò il tè, e Haramis lo sorseggiò lentamente, sentendo che un certo ordine si stava ristabilendo nella sua mente confusa. Bevve metà della tazza, poi la passò a Uzun perché la finisse. «Uzun», cominciò, ansiosa di comunicargli le convinzioni cui era giunta mentre scendeva dalla montagna, «credo davvero che abbiamo trascorso nella biblioteca e nel salone della musica una parte troppo grande della nostra vita. Abbiamo agito come una coppia di stupidi eroi... come se fossimo destinati al successo e perciò non avessimo bisogno di usare né il cervello né il buon senso. La Bianca Signora disse che avrei dovuto separarmi da te prima di giungere alla conclusione del mio viaggio, ma con questo non intendeva certo che avrei dovuto trascinarti in regioni dal clima freddo che il tuo corpo non può sopportare, lasciandoti morire congelato.» L'Oddling si guardò intorno attentamente. «Conosco questo luogo. Ma non è dove ci siamo fermati la notte scorsa, vero?» «No, non è quello», rispose Haramis. «Ci siamo fermati qui due notti fa. Alzandomi questa mattina ti ho trovato quasi congelato... in realtà all'inizio ho creduto che tu fossi morto! La tua pelle era fredda come l'aria, e il respiro così debole che mi ci è voluto un po' di tempo per essere sicura che fossi ancora vivo.» Il ricordo la fece rabbrividire. «Così ti ho preso in spalla, ti ho avvolto in tutti e due i sacchi, e ti ho portato fin quaggiù nella speranza che il tuo corpo si scongelasse e che tu sopravvivessi.» Emise un profondo sospiro. «Grazie al Dio Uno e Trino, la mia speranza si è avverata. Stai bene, vero?» aggiunse con ansia. Uzun apparve un po' scosso dal racconto della principessa, ma un attimo dopo accennò di sì col capo. «Mi sento abbastanza bene», disse. «Sono ancora un po' infreddolito, ma non è nulla di serio. Più tardi starò abbastanza bene per proseguire.» «Bene», disse Haramis. «Ora che sei fuori dai campi innevati dovresti essere capace di ritornare a Trevista da solo, mentre io continuerò il mio
viaggio.» Frugò nello zaino dell'Oddling cercando gli attrezzi per la pesca. «Per ora, rientra nel sacco e riposa. Io vado a vedere se riesco a catturare uno o due pesci per la cena. Se ne prendo abbastanza avremo entrambi cibo anche per domani.» «Ma mia principessa», protestò Uzun, «perderai almeno due giorni di tempo. E potresti anche allontanarti dai semi che ti guidano.» «I due giorni sono già stati persi, vecchio amico», sospirò Haramis, «anche se ripartissi immediatamente non potrei raggiungere prima dell'alba il luogo dove ci siamo accampati l'ultima notte... ammettendo poi che possa muovermi con la stessa rapidità di giorno come di notte, cosa della quale dubito molto. Ma domani non avrò bisogno di un altro seme... scendendo sono stata attenta al percorso che facevo, e potrò riprenderlo senza aiuti. E non sembra che stanotte debba nevicare, il che significa che potrò ritrovare le mie impronte. Dunque non preoccuparti per me, resta vicino al fuoco e riposa. Per il Dio Uno e Trino, Uzun, stavi per morire!» «Non pensi che sarei felice di morire al tuo servizio?» rispose Uzun in tono offeso. «Sono sicura che lo saresti stato», rispose Haramis con asprezza. «Questo è precisamente ciò che intendo quando dico che la nostra testa è piena dei ricordi delle antiche ballate. Ti assicuro che quando stai camminando a fatica sulla neve tenendo fra le braccia un amico d'infanzia che può morire perché è stato troppo stupido per accorgersi che il freddo poteva essergli dannoso, i tuoi pensieri non sono occupati a trovare distici rimati per un componimento sulla sua morte eroica. Sono stata stupida a non accorgermi di quanto tu soffrissi, e tu sei stato stupido a non dirmelo. La tua morte non sarebbe stata di alcun aiuto al Ruwenda, mentre mi avrebbe fatto impazzire per il dolore e il senso di colpa. La perdita di due giorni di viaggio è un piccolo prezzo da pagare per la tua vita. Forse», continuò pensierosa, «forse una regina talvolta è costretta a sacrificare la vita di un suo suddito, ma, per i Signori dell'Aria, se fossi costretta a questo, dovrei avere una buona ragione!» «Vorresti negarmi la possibilità di esserti fedele fino al punto da rinunciare alla vita?» replicò Uzun in tono risentito. «Niente affatto», lo rassicurò Haramis. «Semplicemente non credo che ora sia il momento adatto per morire al mio servizio. Dopo tutto, se tu morissi ora, chi sarebbe il mio primo musico quando otterrò di nuovo il trono... e chi insegnerà ai miei figli a suonare il flauto a becco?» Il viso di Uzun si rischiarò. «Molto bene, mia principessa, sarà come
vuoi. Ritornerò alla mia terra natale e aspetterò il tuo ritorno al trono e il mio ritorno al tuo servizio.» «Anch'io aspetto quel giorno con ansia», rispose Haramis sorridendo e stringendo delicatamente il sacco attorno all'Oddling. «Ora dormi, amico mio.» Uzun chiuse gli occhi, e Haramis gli mise una mano sulla fronte. Ora la sua pelle era certamente più calda; si stava rimettendo del tutto. Soffocando lacrime di sollievo si diresse verso il fiume in cerca di pesci. «Principessa, svegliati!» Uzun la scuoteva con insistenza. «Oggi nevicherà, devi partire al più presto possibile.» Haramis aprì gli occhi. Il cielo era oscurato da dense nuvole grigie che aspettavano soltanto il momento giusto per ricoprire di neve tutto il paesaggio. La giovane si mise a sedere con un gemito. Era ancora stanca a causa della fatica del giorno prima. Per trasportare Uzun aveva dovuto servirsi di muscoli che non aveva mai usato, e le braccia le dolevano terribilmente. Uzun si affaccendò attorno al fuoco per preparare il tè, e poi lo porse ad Haramis. «Principessa», chiese, «dov'è il tuo zaino?» Haramis bevve in fretta la sua razione di tè. «L'ho lasciato dove ci siamo accampati ieri... farei meglio ad andare a riprenderlo prima che la neve lo ricopra!» Si alzò in piedi, arrotolò in fretta il sacco e lo legò alla cintura. «E anche tu faresti meglio ad andartene di qui in fretta, Uzun: a meno di non voler rimanere intrappolato nella neve!» «È vero», assentì Uzun passandole un pezzo di pane. «Mangialo durante il viaggio, e che i Signori dell'Aria siano con te.» «E con te, amico mio.» Haramis abbracciò con forza il suo vecchio amico, riluttante a separarsi da lui, poi lo lasciò e si incamminò per il sentiero. Almeno non devo stare a guardare un seme fluttuante, e posso stare più attenta a dove metto i piedi, pensò. Se la neve tardasse... Percorse il cammino in salita a una buona andatura, perché portava un carico più leggero rispetto a quello che aveva la volta precedente e perché ora sapeva esattamente dove si stava dirigendo. Quando la neve cominciò a cadere Haramis era già a metà strada; e quando raggiunse il masso vicino al quale Uzun e lei si erano accampati due giorni prima, lo strato di neve che ricopriva lo zaino era alto soltanto una spanna. Liberò lo zaino dalla neve, mangiò qualche boccone di pane e si preparò uno spazio per dormire a ridosso del masso. Si stava facendo buio, ma poiché nevicava non pensò di accendere un fuoco, così strisciò dentro il sacco
infilandovi anche lo zaino e aspettò di prendere sonno. Ma i suoi nervi, che le avevano gridato per tutto il giorno in fretta, in fretta, in fretta, non si calmarono tanto facilmente. In tutta la sua vita Haramis non si era mai sentita così sola e afflitta, e improvvisamente si rese conto che adesso, per la prima volta, era sola. Prima dell'invasione aveva sempre avuto i suoi genitori, le sorelle, Uzun, e gli abitanti della Cittadella. Fino ad allora Uzun era rimasto sempre con lei, tranne nelle ore trascorse insieme all'Arcimaga. E mentre un tempo, a casa, aveva talvolta desiderato una maggiore solitudine, ora che aveva tutta la solitudine desiderabile non era affatto sicura di amarla. Oltre alla malinconia vi erano altre cose che la tormentavano. Fra queste la principale era Uzun. Pregò i Signori dell'Aria che l'Oddling potesse allontanarsi sano e salvo dalle montagne, ma ora che aveva tempo per pensare alla situazione e nient'altro da fare, molti interrogativi sorsero in lei. Perché Uzun non le aveva detto che non poteva proseguire finché quasi non era morto congelato? Perché l'Arcimaga non le aveva consigliato di abbandonare Uzun prima di raggiungere i campi innevati, invece di dirle semplicemente che il vecchio musico l'avrebbe lasciata prima di giungere al talismano? Uzun sarebbe potuto morire! Certamente l'errore era tanto loro quanto suo; il suo comportamento era stato ugualmente sbagliato, ma loro erano più vecchi. Non avrebbero dovuto essere più saggi di lei? Sono regina di Ruwenda, pensò con solennità, e la responsabilità è mia, ma ho ancora bisogno di consiglieri fidati... e quanta fiducia posso avere in ciascuno di loro? Uzun non sembra cosciente dei suoi limiti più di quanto Kadiya lo sia dei propri, o se lo è non li ammetterebbe senza grandi sforzi. Quanto all'Arcimaga, non si è resa conto di quanto Uzun sarebbe stato sensibile al freddo oppure non lo ha ritenuto tanto importante da preoccuparsi di lui? Anche i suoi amati genitori, se ne rendeva conto in ritardo, non conoscevano affatto la saggezza mondana e la diplomazia. Il bramoso interesse del Labornok nei confronti del Ruwenda era ben noto alla corte ruwendiana; e sebbene Haramis non volesse certamente sposare Voltrik, i suoi genitori avrebbero almeno potuto far finta di negoziare, o esprimere preoccupazione riguardo al grande divario di età fra Haramis e Voltrik, suggerendo invece un matrimonio con il figlio di quest'ultimo. Qual era il suo nome? Oh, sì, principe Antar. E se Ruwenda voleva un'alleanza con Var, un'idea che certamente aveva i suoi pregi, Haramis non era la sola figlia del re. Non le
riusciva proprio di immaginare Kadiya come sposa di qualcuno, ma Anigel sarebbe stata una moglie splendida in un'alleanza diplomatica. Era così amabile e remissiva che sarebbe andata d'accordo con chiunque. Se io, pur così stravolta, sono in grado di pensare queste cose, si chiese Haramis, perché non lo sono stati i miei genitori e i loro consiglieri? Si limitavano a sperare nell'aiuto della Bianca Signora? Ovviamente, decise, è necessario considerare le capacità e le intenzioni della gente quando si chiede loro un consiglio o quando si dipende da loro per un aiuto. Ma c'era ancora qualcuno che avrebbe potuto aiutarla? Si addormentò tentando di rispondere a questa domanda. 18. La principessa Anigel quasi svenne quando la Bianca Signora le rivelò la natura del talismano che avrebbe dovuto cercare: un Mostro dalle Tre Teste! Una tale prospettiva avrebbe scoraggiato persino l'audace Kadiya o la sempre sicura Haramis. Era addirittura ridicolo aspettarsi da lei la buona riuscita di una tale impresa. No, impossibile! Fra lacrime e tempestosi singhiozzi confidò le sue riflessioni a Immu (l'Arcimaga era comunque così profondamente addormentata che non sarebbe stato possibile svegliarla), ma l'anziana Nyssomu si limitò a consigliarle pazienza. «Ci sono diversi tipi di mostri», le disse Immu, «e non tutti sono come gli Skritek, con occhi fosforescenti, artigli acuminati e fauci spaventose, perché la parola può avere numerosi significati. Fino a quando non avrai contemplato il mostruoso talismano con i tuoi occhi, principessa, farai meglio a mettere da parte ogni giudizio frettoloso sulla pericolosità della tua missione.» Il buon senso di Immu contribuì a confortare un po' la principessa. Dato che la Bianca Signora era sprofondata nell'oblio dimenticandosi di fare gli onori di casa, le due ospiti si diedero da fare per mettersi a loro agio; si rinfrescarono, attinsero alla ben fornita dispensa per preparare una gustosa cenetta e se ne andarono finalmente a dormire, accomodandosi davanti al fuoco, una a ogni lato della poltrona della Bianca Signora, nel caso avesse avuto bisogno di aiuto durante la notte. Al loro risveglio l'Arcimaga era scomparsa. E così pure l'abitazione, lo splendido giardino così ben curato, la pianta di Giglio Nero, la scalinata e persino il molo a cui avevano attraccato.
Anigel e Immu si ritrovarono quindi nei loro sacchi sopra un'altura immersa nella giungla, sotto uno di quegli alberi dalle grosse foglie, il braddok, che i Nyssomu chiamano 'l'amico del viaggiatore' a causa del riparo che offre e dei suoi frutti succosi. Gli unici segnali che facevano capire loro di non trovarsi nel bel mezzo di una landa desolata erano le rovine di Noth, visibili oltre gli alberi dall'altra parte della laguna. A quella sconvolgente scoperta Anigel proruppe in esclamazioni di sconforto. Per un momento si chiese se il loro incontro con l'Arcimaga fosse stato solo un sogno. Ma poi trovò vicino al suo giaciglio una foglia dalle venature dorate che tracciavano un tortuoso percorso dalla punta allo stelo; e Immu, scrutando la riva del fiume lanciò un grido improvviso: «Guarda guarda guarda! La Bianca Signora ci ha lasciato un regalo!» Anigel, ancora tirando su col naso, si alzò e si diresse verso la laguna. Lì, fra alti giunchi e putrescenti fiori giallastri, si trovava una robusta imbarcazione. Non una di quelle fatte di cannicci, come l'agile lancia Uisgu che le aveva portate fino a Noth, ma una grande barca Nyssomu, ricavata da un tronco di albero kala. Solo una cosa la rendeva differente da quelle che di solito facevano la spola intorno alla Cittadella: oltre i soliti scalmi e sostegni montati all'interno dello scafo, a poppa si trovava un robusto supporto a cui era fissato un paio di tirelle, e sulla prua erano stati predisposti due anelli d'acciaio attraverso cui scorrevano due corregge di cuoio le cui estremità affondavano nelle acque limacciose. Anigel studiò per un attimo quell'equipaggiamento con aria pensierosa. «Non penserai mica che...» e poi lanciò un urlo quando due grosse teste ricoperte da una peluria chiazzata di verde spuntarono dall'acqua; il loro aspetto, già di per sé feroce, era reso ancor più minaccioso dai grandi occhi neri, dalla criniera irta e dalle enormi fauci spalancate in un sibilo ostile. «Rimorik!» esclamò Immu. «Oh, cara...» «Ma... ma non ci sono Uisgu per guidarli», balbettò la giovane. «Eppure sembra proprio che l'Arcimaga intenda farci utilizzare questo mezzo di trasporto estremamente efficiente.» Anigel si morse le labbra. Non riusciva a guardare Immu negli occhi. «Pensi di potertela cavare?» «No, principessa Anigel», le rispose l'anziana Oddling con aria solenne. «Queste bestie collaborano solo su basi puramente amichevoli con quelli che bevono il sacro miton.» Anigel si voltò tremante verso le due creature acquatiche. «Vi ha mandati l'Arcimaga per aiutarci?» domandò loro.
L'unica risposta fu un sibilo feroce. I rimorik si muovevano guizzando impazienti nell'acqua, mostrando i finimenti che li univano alla barca, la quale ondeggiava sensibilmente a causa delle onde da essi prodotte e strattonava la fune d'attracco. Anigel chiuse gli occhi. «Immu, non potresti bere tu il miton?» «No, bimba mia.» La voce della vecchia balia era gentile. «È un dono che gli Uisgu hanno fatto a te... e adesso ne abbiamo scoperto il motivo.» Immu lasciò lì una pensierosa Anigel e tornò indietro a raccogliere le loro cose, insieme a qualche frutto di braddok da aggiungere alle razioni da viaggio che avrebbero costituito la loro colazione. Al suo ritorno sistemò gli zaini nella barca e porse alla principessa il recipiente che conteneva il miton. Anigel lo prese senza fiatare. Il suo sguardo era perso nel vuoto e le guance ancora umide di lacrime. Rimosse il tappo e alzò la piccola zucca di modo che anche i rimorik la potessero vedere. «Devo bere io... non è vero?» I due bestioni chiusero le loro spaventose bocche e si lasciarono affondare piano piano nella laguna fino a quando fuori dal pelo dell'acqua rimasero solo i loro brutti musi e gli scuri occhi sospettosi. Osservavano Anigel, assolutamente immobili. Una delle sue mani corse automaticamente all'amuleto, mentre l'altra portava alle labbra esangui la sacra bevanda. Ne ingurgitò rapidamente un sorso... «Vedi, fratello, come ci teme la femmina umana.» «Ha ancor più paura del miton, eppure l'ha bevuto. Questi umani! Ci senti? Vuoi essere nostra amica?» «Sì», rispose Anigel in un sussurro. «Allora immergi due dita nel miton, entra nell'acqua e dividi la bevanda con noi.» La principessa, come rapita in una sorta di trance, rimboccò nella cintura il bordo della veste. La tiepida fanghiglia che copriva il fondo del fiume le scivolò attraverso le dita nude mentre avanzava nell'acqua fino all'altezza del ginocchio. Allungò la mano da cui sgocciolava un liquido brunastro. I due grossi animali chiazzati di verde le si avvicinarono lentamente, fermandosi poi nell'acqua bassa e spalancando le fauci scintillanti. Ne scaturirono lunghe lingue appuntite, simili a fruste, organi capaci di perforare come un giavellotto anche i più coriacei corpi squamati. Ad Anigel sembrava di osservare la scena dall'esterno, come se lei fosse solo lo spettatore
di un fantastico dramma, e la ragazza nell'acqua e i rimorik fossero semplicemente degli attori. Prima un dito e poi l'altro toccarono le temibili lingue, e mentre i due bestioni deglutivano quelle gocce le loro espressioni sembrarono cambiare, irradiando gentilezza invece di ferocia, e lei non provò più paura. Anigel richiuse la fiasca e la rimise nel tascapane, insieme alla foglia di Giglio Nero. Si sentiva girare la testa. Le sembrava che i colori tutt'intorno fossero divenuti più vividi e distinti; poteva anche percepire aromi che fino a quel momento erano passati del tutto inosservati, e sentiva una tale moltitudine di suoni così strani e amplificati da provare un momentaneo dolore alle orecchie. La leggera brezza le provocava la pelle d'oca e i suoi stessi indumenti le fecero provare un'improvvisa sensazione di fastidio e oppressione. D'altra parte, invece, si sentiva accarezzare le gambe da una piacevolissima corrente subacquea, e la mota in cui erano immersi i suoi piedi era morbida e rilassante. «Il miton ti cambierà.» «Il miton all'inizio ti renderà apprensiva, sovraccaricando i tuoi deboli sensi umani. Ma questo malessere passerà rapidamente, e ti sentirai più forte e coraggiosa, proprio come noi.» «Sì... mi sento già meglio.» «Molto bene, questo vuol dire che potremo davvero essere amici di un essere umano. Tu dividerai la tua intelligenza con noi, che ti renderemo partecipe della nostra audacia e resistenza fisica.» «Voi mi definite intelligente, ma io non mi sono mai ritenuta tale. Tuttavia cercherò di esserlo con l'aiuto del vostro coraggio, perché senza di esso la sola intelligenza non mi permetterebbe di adempiere alla mia ricerca.» «La Bianca Signora ci ha ordinato di aiutarti, e noi faremo del nostro meglio per assecondare il suo volere.» «Avete dei nomi?» «Non potresti pronunciarli, e quindi chiamaci solo amici.» «E cosa... cosa faremo adesso?» Nella sua mente Anigel sentì i due rimorik ridere, ma fu la vecchia Immu a risponderle. «Che cosa faremo? E tu dovresti essere quella intelligente...? Che burla! La foresta di Tassaleyo si trova a più di millecinquecento chilometri di distanza e non potremo certo iniziare il viaggio standocene qua a discutere. Quindi, cara fanciulla, cosa ne diresti di saltare su quella benedetta barca, acchiappare le redini e deciderti finalmente a partire?!»
I due rimorik sembravano conoscere esattamente la rotta da seguire, avendo colto dalla mente di Anigel il tracciato che appariva sulla foglia del Giglio Nero. Si slanciarono tranquilli giù per il fiume Nothar, dato che non c'era il rischio che i labornoki fossero arrivati fin da quelle parti. Di Kadiya non c'era traccia e nemmeno i rimorik seppero dirle che cosa fosse stato di lei. Quando giunsero al corso superiore del grande fiume, dell'Alto Mutar, dove il fiume era molto più ampio, Anigel diede istruzione alle bestie di rallentare e avanzare più cautamente, tenendosi abbastanza vicini alla riva in modo da diminuire la possibilità di venire avvistati da eventuali esploratori nemici. Videro infatti almeno una mezza dozzina di imbarcazioni piene di labornoki in ricognizione nelle acque a nord di Trevista, ma nessuna di loro sembrò notare i fuggitivi. Ogni sera cercavano un posto tranquillo in cui passare la notte. Anigel entrava nell'acqua bassa e liberava gli instancabili rimorik affinché potessero andare liberamente a procacciarsi la cena. Ma alcune delle prede che essi catturavano venivano portate indietro e divise con le loro nuove amiche, e così al mattino le due donne trovavano sempre qualche pesce e altre piccole creature acquatiche pronte per essere cucinate per colazione. Però prima che Anigel potesse bardare nuovamente le due bestie doveva bere il miton, e poi dividerlo con loro. Il quarto giorno di viaggio, la principessa si svegliò in quella strana oscurità che precede l'alba, quando gli animali notturni si sono finalmente zittiti e quelli che preferiscono la luce del giorno non sanno ancora decidersi a uscire dai loro nascondigli. Il bivacco era avvolto da una fitta nebbia e il fogliame degli alberi grondava umidità. La giovane era stata appunto svegliata da una grossa goccia che le era caduta sul viso, nonostante la sera prima avessero preparato una sorta di riparo capovolgendo l'imbarcazione. Il suo sonno era stato nuovamente privo di sogni. Se ne rimase tranquilla nel suo sacco, ascoltando l'irregolare picchiettio delle gocce di rugiada e il leggero russare della sua compagna. Teneva stretto l'amuleto, che emanava un rassicurante calore. Non c'erano stati sogni di fuoco e siccità, nemmeno uno da quando avevano passato quella notte accanto all'Arcimaga nella sua dimora incantata. Strano che non l'avesse notato prima... Che mi sia davvero liberata della mia codardia? si domandò. No, non poteva essere! Sapeva di avere ancora disperatamente paura, paura di venire catturata e uccisa dai soldati labornoki, paura della fitta foresta di Tassa-
leyo e dei feroci aborigeni che la infestavano, e soprattutto, più di ogni altra cosa, temeva lo spaventoso talismano di cui era alla ricerca: il Mostro a Tre Teste. Eppure l'incubo se n'era andato, quell'avvertimento del suo io più segreto. Che voleva dire? Pensò di chiederlo a Immu, ma la Oddling stava ancora dormendo sonoramente, mormorando qualcosa nel suo strano linguaggio, e la principessa non ebbe cuore di svegliarla. Anigel continuò a fantasticare fino a quando non fu vinta nuovamente dal sonno. Il Basso Mutar era da qualche giorno attraversato senza requie da decine di imbarcazioni cariche di truppe e rifornimenti. Sembrava quasi che i conquistatori avessero requisito l'intera flotta commerciale ruwendiana, per un proposito che Anigel e Immu non riuscivano a immaginare. L'avevano scampata per un pelo un pomeriggio in cui, uscendo da uno stretto gomito del fiume, si erano trovate improvvisamente di fronte un convoglio di chiatte di Labornok. Anigel afferrò l'amuleto supplicandolo di renderle invisibili, ma il ciondolo restò insensibile alle sue preghiere. Comunque, prima che si facesse prendere dal panico, i due rimorik cambiarono bruscamente direzione e riuscirono a condurre la barca dietro un enorme tronco alla deriva. Gli uomini di Labornok, mezzo accecati dal sole basso all'orizzonte, proseguirono placidamente nella loro navigazione. Nell'avvicinarsi alle regioni più popolose che si trovavano appena sopra la Cittadella, la principessa cercò di guidare i rimorik attraverso i meno frequentati canali secondari che riusciva a trovare, in modo da tenersi il più possibile alla larga dal nemico. La loro buona sorte sembrava quasi soprannaturale. Non potevano certo mantenere l'andatura tenuta da Trevista a Noth, dato che non c'era la possibilità di cambiare animali, ma riuscivano comunque a viaggiare a una discreta velocità; furono oltretutto risparmiate dai tipici pericoli naturali che minacciano frequentemente la vita di coloro che navigano in quel tratto del Basso Mutar che scorre nella Palude Nera, come ad esempio gli attacchi dei minigal giganti, che sembravano evidentemente intimoriti dalla presenza dei bellicosi rimorik. D'altronde anche la maggior parte delle altre creature acquatiche cercavano di evitare quei formidabili carnivori dalla verde pelliccia chiazzata. La prima vera avversità si verificò un giorno che erano accampate a pochi chilometri dalla Cittadella, mentre attendevano il calar delle tenebre per passare più tranquillamente intorno al poggio su cui essa sorgeva. Ani-
gel si accorse improvvisamente che la zucca contenente il miton era vuota. Il tappo si era allentato, e tutto il prezioso liquido era andato perduto. «Che disdetta!» si lamentò la principessa. «Ma guarda un po' se doveva succedere proprio qui, nella zona più infestata da truppe nemiche! Senza il miton i rimorik non ci permetteranno neanche di avvicinarci alla barca. Ti ricordi di quel mattino che mi sono dimenticata del rituale... mi hanno mostrato le zanne come se fossi una perfetta estranea! Oh, Immu, che possiamo fare? Se i rimorik non ci aiuteranno, non potremo mai raggiungere la Foresta di Tassaleyo!» «C'è solo una cosa da fare», disse Immu. «Devi produrre dell'altro miton.» «Ma come?» si crucciò la fanciulla. E poi i suoi grandi occhi azzurri si spalancarono quando si rese conto di ciò che avrebbe dovuto fare. «Ma non posso!» si lamentò. «Né a me stessa e tanto meno a loro!» «Posso aiutarti a prelevare il tuo sangue», le disse Immu. «Dopo la prima puntura non si sente neanche male. Ma ti dovrai arrangiare da sola con i tuoi cuccioloni... mi inghiottirebbero in un sol boccone se mi avvicinassi a loro con la mia lama.» Dopo una penosa esitazione, la principessa dovette sottostare a quell'inevitabile operazione. Immu raccolse alcune spesse foglie e le strizzò fino a raccoglierne il succo; poi incise una vena sul polso della ragazza con il suo tagliente pugnale. Anigel non emise un solo gemito. La vecchia Oddling lasciò sgocciolare piano piano sulla piccola ferita l'estratto delle foglie, che serviva a impedire la coagulazione del sangue, e così una grossa foglia concava di drogo ne fu subito piena. Quand'ebbe travasato il sangue della principessa nel contenitore del miton, le lavò l'incisione con acqua pura ricavata dalla rugiada e la fasciò stretta dopo averci pressato sopra un fiore dalle proprietà medicamentose. «Ecco qua!» disse Immu serrando con un nodo quel bendaggio fatto unicamente di prodotti vegetali. «Ma non ho idea di come convincerai i rimorik a donarti il loro sangue.» «Glielo chiederò!» propose Anigel candidamente. E subito le creature le dissero: «Porta una di quelle foglie piatte sulla barca.» In quel momento i due bestioni erano privi della bardatura da tiro, e sguazzavano intorno alla poppa della barca, parzialmente arenata. Quando Anigel raggiunse l'estremità a galla nell'acqua, i due animali le si fecero vicino. Uno dopo l'altro si alzarono, si morsero l'orlo delle artigliate pinne
anteriori e lasciarono scorrere il sangue nella foglia di drogo. Quando fu colma, uno dei due si allontanò per fare subito ritorno con una pianticella di palude ornata da un fiore rosso, strappato con le radici e tutto quanto. «Tritura un tubero di questa pianta e mischiala con il sangue. Questo basta per avere il miton. La Gente delle Paludi solitamente sottopone il liquido a un filtraggio, ma non è veramente necessario.» «Grazie, amici miei», disse loro Anigel. Seguì a puntino le istruzioni, e quand'ebbe finito la zucca era nuovamente piena di quella sacra bevanda dal sapore agrodolce. La giovane vi si era così abituata da non pensare più che potesse farle male, e quindi aveva finito per considerare del tutto normale la sensazione quasi di euforia che ne seguiva l'assimilazione, tanto che alla mattina non si sentiva mai realmente sveglia fino a quando non aveva celebrato il rito del miton insieme ai rimorik. Molto più tardi, mentre con il favore delle tenebre avevano quasi completato la circumnavigazione della collina su cui sorgeva la Cittadella e stavano per defilarsi attraverso le acque stagnanti che delimitavano la Palude Verde, Anigel pensò di chiedere a Immu se il miton avesse o no cambiato in qualche modo la sua personalità, come si diceva accadesse ai Nyssomu che lo bevevano. Immu le rispose: «Tu sei ancora la stessa cara persona che ho sempre amato, sebbene resa forse più matura e assennata dalle recenti traversie, e molto meno schizzinosa riguardo a ciò che mangi, a dove posi il capo alla notte e anche per quanto concerne i tuoi bisogni corporali. Sei anche diventata un demonio di barcaiola! Però non so dirti se per la tua gente tutto ciò può essere considerato un progresso». Anigel le parlò voltando leggermente il capo, stando però sempre attenta alla navigazione. «Da quando abbiamo lasciato Noth non ho più avuto incubi. Pensi che questo voglia forse dire che sono diventata coraggiosa?» «O coraggiosa o pazza», brontolò la vecchia balia con aria preoccupata. Si teneva ben salda all'imbarcazione mentre zigzagavano in mezzo a un fitto intrico di kala a nord della Grande Strada Rialzata. Per una volta non c'era la solita nebbiolina notturna, e le Tre Lune scintillavano attraverso i grossi rami ricoperti di muschio. «Ma guardati un po', principessa... stai reggendo le redini come un conciatore di volumnial veterano, mentre ci precipitiamo nell'oscurità più veloci di una banda di Skritek all'assalto! Ne è davvero passato di tempo da quando pensavi solo a qualche passo di danza o a imparare un nuovo punto di ricamo...»
«Eppure, cara Immu, mi sento ancora piena di paure.» «Ma naturalmente. E così pure io, ma per una buona ragione! Se non ti decidi a far rallentare queste dannate creature finiremo per schiantarci contro qualche tronco d'albero e diventare pasto per i pesci della palude!» Anigel tirò appena le briglie. «Non preoccuparti, queste formidabili creature riescono a vedere al buio. Non ci sono grossi pericoli qui... ma sento che però ci aspettano e non molto lontano...» «Può darsi che sia vero.» «Pensi che anche le mie sorelle siano alla ricerca dei loro talismani?» «Probabilmente.» «La Bianca Signora è stata crudele a separarci!» protestò improvvisamente Anigel ad alta voce. «Noi siamo nate insieme e abbiamo vissuto insieme tutta la nostra breve vita. Sarebbe stato molto più semplice lasciarci compiere insieme anche la nostra ricerca. Ci saremmo potute aiutare l'un l'altra!» «Senza dubbio», borbottò stancamente l'anziana donna Nyssomu. Abbassò lentamente il capo, le lunghe orecchie ripiegate all'indietro dalla forza del vento prodotto dalla corsa, piatte contro il vecchio abito di corte che insisteva a indossare. «Ma non vi sono certo mancati dei servitori fedeli.» La principessa si rimangiò una nuova lagnanza che le stava affiorando alle labbra. Era stata aiutata da parecchi aborigeni, per non parlare poi dei rimorik. Ma l'aiuto più costante e prezioso l'aveva senza dubbio ricevuto dalla fedele Immu, e che apprezzamento aveva mai riservato alla sua cara vecchia balia da quando si erano imbarcate in quella incredibile avventura? Aveva agito come se tutto le fosse dovuto, senza mai pensare a quanto doveva essere spaventata e stanca anche l'anziana Oddling. E adesso erano state entrambe sveglie per un giorno intero e buona parte della notte, dato che Immu si era rifiutata di schiacciare un pisolino sulla barca in movimento come le aveva suggerito Anigel. La principessa era sovraccarica di energia ed eccitazione, desiderosa di continuare, e gli infaticabili rimorik, sentendo l'urgenza, non facevano che assecondarla. Ma Immu era chiaramente esausta... «Cerchiamo un posto tranquillo dove fermarci», disse agli animali. «Sì, amica», le risposero i due. La barca rallentò, scivolando in un canale secondario mascherato da una fitta cortina di rampicanti tempestata di variopinti fiori notturni. Poco più in là trovarono una piccola altura che faceva al caso lóro. Quando la barca si arenò, Immu emise un leggero brontolio e alzò di scatto la testa spalancando gli occhi.
«Su, Immu», le disse Anigel dolcemente. «È ora di andare a nanna.» 19. Kadiya si rendeva conto che i Nyssomu li trattavano come ospiti cui si devono tutti gli onori, e la parte di lei educata alla pazienza, per quanto piccola essa fosse, le diceva che forse ciò era tutto quello che avrebbe potuto aspettarsi. Il secondo giorno dopo il loro arrivo al villaggio fece ancora un ultimo tentativo per ottenere che i Nyssomu combattessero al suo fianco. Dopo tutto, non si trattava soltanto del suo bisogno di raccogliere alleati; gli stessi abitanti del villaggio dovevano prepararsi al peggio... il probabile arrivo degli invasori labornoki. Chiese di incontrare di nuovo la Prima-della-casa, e cercò di contenere l'impeto con il quale era abituata a chiedere ciò che riteneva necessario. «Signora», disse mantenendo la voce su un tono umile e pacato, «gli umani che ora penetrano nel vostro territorio sono diversi da noi ruwendiani. Consentimi di parlarti con franchezza delle loro azioni.» La giovane strinse convulsamente le mani che teneva in grembo. Dovette deglutire due volte prima di lanciarsi nel terribile racconto della morte di suo padre. Le scene evocate dalle sue parole trasformarono il suo disgusto in rabbia. Era difficile decifrare le espressioni più sottili del volto degli Oddling. Kadiya prestò la massima attenzione ad ogni segno indicante che la Primadella-casa era stata colpita dal suo racconto esplicito e pieno di orrori. «Così trattarono il nostro popolo, sconfitto dopo una lotta leale», concluse. «Signora, il vostro popolo essi lo disprezzano ancora di più... cosa pensate che farebbero qui, se prendessero il vostro villaggio? Le paludi custodiscono i vostri segreti e sono i vostri baluardi di difesa. Ma i labornoki hanno con sé uno stregone contro il cui volere la protezione dell'Arcimaga potrebbe non essere sufficiente. Un conto è combattere per mezzo dell'onesto acciaio, spada contro spada. Lottare contro la magia nera senza armi adeguate vuol dire incontrare la disfatta prima ancora che i corni di battaglia abbiano suonato. Questa è la vostra terra, ed è del tutto sconosciuta agli invasori. Sembra che essi si siano già schierati al fianco degli Skritek..., ed è certo che siano di natura malvagia quanto loro. Ma possono essere contrastati grazie alla vostra conoscenza della palude. Io vi dico... anche se i vostri costumi vi impediscono di sostenere la nostra causa, proteggete voi stessi!»
La Prima-della-casa rimase assorta per un momento prima di rispondere, e in quell'istante Kadiya sentì un debole moto di speranza. Forse, dopo tutto, ciò che aveva raccontato aveva fatto breccia in quella femmina Nyssomu. Hamil avrebbe preso Trevista e avrebbe fatto appello agli Skritek; ma se i Nyssomu si fossero risvegliati e avessero usato come arma la loro stessa terra, allora ci sarebbe stata una possibilità... Ma quando la Prima-della-casa cominciò a parlare, le sue parole furono formali, e non vi era alcun calore in esse. «Figlia del re, è vero che il tuo popolo e noi delle Paludi abbiamo vissuto in armonia per molti anni. Fra i nostri popoli non vi è ricordo di alcuna atrocità simile a quelle di cui mi hai parlato. Essendo stato uccisi i tuoi genitori, è senz'altro legittimo che tu vada in cerca di aiuto per vendicarli. Ma per quanto amici siamo, vi è per noi un più antico patto di fedeltà che ci lega alla Signora di Noth. Essa ha convocato te e le tue sorelle. È probabile che abbia già preparato qualche piano d'azione. Ma non dubitare che noi stiamo in guardia. Prima che il tuo popolo venisse quaggiù, le paludi hanno già conosciuto la guerra...» Il suo sguardo era fisso oltre la ragazza, come se al di là delle spalle di Kadiya avesse scorto qualcosa di importante. «Molto tempo fa vi fu un massacro al di là di ogni descrizione. In che modo credi che questa terra sia diventata com'è ora: spezzata in molte parti, desolata, e piena di pericoli tali che per centinaia di anni non abbiamo osato avventurarci lungo certi cammini? Quella guerra non fu nostra, ma noi nascemmo da essa... e quando quelli che l'avevano fatta se ne andarono, fummo come neonati che avevano dinanzi a sé uno strano mondo, da trasformare nel loro mondo. Allora giurammo che una tale guerra non sarebbe più tornata fra noi Nyssomu. Noi dobbiamo le nostre vite alla Signora di Noth. Con essa abbiamo avuto una lunga pace. Se veniamo attaccati combattiamo, ma non portiamo guerra ad altri. A Noth troverai risposta alle tue domande, figlia del re.» Fu così che soltanto Kadiya e Jagun ripresero il loro viaggio, e a misura che avanzavano il paesaggio diventava più strano e più minaccioso. Nella foresta della Palude Nera la maggior parte della vegetazione palustre, ad eccezione dei fiori, mostrava varie sfumature di verde. Nella Palude Dorata crescevano alti canneti coronati dalle pannocchie gialle da cui prendeva nome la zona. Anche qui vi erano isolette che emergevano dalle acque verdi e schiumose ricoperte da fitti intrichi di piante grasse dalle foglie molto grandi, diverse da ogni altra. Erano di un colore giallo-bianco con striature rosse; simili di aspetto a ferite purulente, emanavano un fetore che
sembrava attirare gli insetti. A misura che Jagun e la principessa procedevano nel loro viaggio, quella lussureggiante vegetazione si faceva sempre più sinistra. Kadiya udì Jagun emettere un sibilo e si mantenne in equilibrio sulla barca mentre il Capocaccia si muoveva con precauzione. Dalla riva di un'isoletta stava avanzando verso di loro qualcosa che sembrava una foglia dall'aspetto ripugnante. Al villaggio Jagun aveva aggiunto al suo equipaggiamento una lancia con una corta impugnatura. Ora roteò il braccio e la lama penetrò all'estremità della foglia vagante, proiettandola in aria finché raggiunse la riva melmosa da cui era partita. Quando la foglia fu scagliata in aria, Kadiya vide zampette simili a frange che si muovevano invano alla ricerca di un punto d'appoggio. Infine la creatura andò a sbattere contro un tronco ricoperto di muschio e immediatamente aderì ad esso. «Snafì», disse Jagun. «Dobbiamo guardarcene. Le loro zampe artigliate iniettano veleno, e una volta che hanno fatto presa non possono essere staccate.» Kadiya era felice che, lasciando il villaggio Nyssomu, Jagun avesse deciso che ormai erano tanto lontani dalle piste conosciute da potersi arrischiare a viaggiare di giorno. Questa zona della palude doveva essere piena di pericolose trappole di ogni genere. Al suo petto l'amuleto emetteva la luce consueta ed era una stabile guida. La scintilla indicava che si muovevano nella giusta direzione. Kadiya seguiva il movimento ritmico dei pali, accordando il suo sforzo a quello di Jagun per ore intere, anche se ogni tanto si fermavano per riposare. Se lei doveva affrontare quei pericoli, pensò Kadiya, Haramis cosa aveva trovato contro cui combattere? E Anigel... La sua sorella più giovane era stata presa? In qualche modo Kadiya sentiva sempre più vivamente che entrambe le sorelle erano fuggite dalla Cittadella, e non erano prede inermi di re Voltrik. Durante il pomeriggio il cielo si era uniformemente coperto di nuvole ed era quasi giunto il tramonto quando Jagun ancorò la piccola barca a un robusto intrico di erbe. Le bizzarre luci prodotte dai gas della palude erano già visibili. Quella notte non tentarono di scendere dalla barca e mangiarono del cibo che avevano portato con sé. Poi Jagun disse: «Dormi». Dormi! Chi avrebbe potuto dormire lì, nell'oscurità, senza sapere quali minacce sarebbero potute arrivare da entrambe le rive? Ma a dispetto di se stessa si accorse che i suoi occhi erano già chiusi...
Ciò che seguì ebbe l'apparenza di una visione più che di un sogno. Kadiya vide una città, ma non Trevista, una città molto meno antica, dalle architetture di stile più gaio. Tuttavia nessuna sentinella camminava in cima ai muri di cinta né varcava la porta aperta, proprio davanti a lei. Era Noth? Kadiya desiderava ardentemente entrare... vi era attirata, invitata. Era una promessa. Poi la visione si dileguò in un sogno più profondo di cui una volta sveglia non ricordò nulla. Si svegliò all'alba, e vide che Jagun era già in piedi e stava frugando in uno dei sacchi del cibo. Poco più tardi ripresero il cammino verso la dimora dell'Arcimaga, e nel primo pomeriggio poterono gettare il primo sguardo su di essa. Non fu una città come quella sognata da Kadiya che sorse dinanzi ai loro occhi mentre si avvicinavano alla meta. Videro solo un'unica torre monolitica, che svettava a grande altezza sopra l'erba dorata. Kadiya la osservò fissamente mentre Jagun conduceva la piccola barca attraverso le ultime anse del fiume. Alla fine si avvicinarono non alla solita riva fangosa ma all'estremità di una zona ricoperta da blocchi di pietra. «Questa è Noth», disse Jagun. «Solo tu che sei stata convocata puoi andare oltre questo punto. Io ti aspetterò qui.» Il sentiero lastricato non era più largo della barchetta che li aveva condotti fin lì. Alla fine di esso si elevava la torre. Probabilmente era stata scolpita in un solo blocco di granito grande come una montagna e alto come uno dei magnifici alberi delle foreste meridionali. L'enorme portale d'ingresso era aperto. Sebbene la luce non riuscisse a diffondersi all'interno di quell'atrio cavernoso, non vi era nulla di minaccioso nell'aspetto esteriore della torre. Tuttavia, mentre avanzava risolutamente a grandi passi, rifiutandosi di rivelare il suo timore, Kadiya si sentiva come un bambino che deve rispondere di qualche disobbedienza. «Benvenuta, Kadiya.» La voce non echeggiò all'interno dello stretto atrio, né sembrò diversa da un comune saluto, ma la giovane avanzò tenendo una mano sull'impugnatura del pugnale e stringendo nell'altra l'amuleto, che pulsava emettendo calore fra le sue dita al ritmo di un uniforme battito cardiaco. Entrò nella stanza che si apriva davanti a lei. Vi era una sedia di aspetto solenne, con un alto schienale, simile a quelle usate dai suoi genitori in occasioni ufficiali. Lì sedeva la Signora che governava Noth (e forse altri luoghi ancora). Le sue mani dalle lunghe dita li-
sciavano sopra le ginocchia l'orlo di un mantello nero come una notte di tempesta. Su di esso vi erano simboli d'argento che si muovevano come le increspature sulla superficie di uno stagno in cui sono stati gettati dei sassi. A giudicare dalla sua statura, non era certamente di sangue Oddling. In effetti in piedi superava Kadiya di molte spanne. Il suo viso non era né vecchio né giovane, immune dai segni del tempo, ma i suoi occhi esprimevano al contempo stanchezza e volontà risoluta. «Kadiya!» La Signora chinò la testa, ma senza il calore che solitamente si accompagna alle espressioni di benvenuto. Kadiya riuscì a stento a trattenere la collera. Avrebbe voluto scagliare insieme la sua ira e il suo dolore contro quell'impassibile straniera, e ascoltare dalle sue stesse labbra perché mai le sue arti magiche avevano fallito. Non avrebbe potuto dominare in qualche modo i nemici del Ruwenda? Questa gloriosa Signora di Noth era tanto inferiore a Orogastus? La sua magia era fallita proprio quando sarebbe stata più utile che mai! Solo con uno sforzo la giovane riuscì a trattenersi dall'esprimere a voce queste severe considerazioni. Chinò invece la testa, chiazzata dal fango della palude. «Signora.» Avvertì che non vi era possibilità né di accusarla né di rimproverarla. Si sentiva emotivamente prigioniera, come se entrando nella torre i suoi polsi fossero stati legati da catene. «Vi è una fine per ogni cosa», continuò la voce inespressiva. Le mani quasi trasparenti avevano cessato di muoversi. «Il tempo è nostra creazione, e per ciò stesso varia. Cos'è un anno per chi vive sulle montagne? Cos'è il tempo che separa il tramonto dall'alba per un insetto che vive un solo giorno? Per ciascuno di noi - pianta, uccello, insetto, pietra, uomo o donna orgogliosi - il tempo porta con sé la distruzione. Così, per noi che siamo dotati di preveggenza, molto si può fare in quella che sembra una brevissima estensione di tempo.» Per la prima volta i suoi occhi non fissarono più quelli di Kadiya ma si mossero, come se la Signora si guardasse intorno sorpresa, non trovando più ciò che doveva essere là oppure credendo di vedere ciò che non vi doveva essere. «Sono stata la Custode qui. Sì, ho protetto ciò che appartiene alla Luce. Un tempo vi era una grande distesa d'acqua, adorna di isole, ognuna delle quali era una gemma di bellezza. E questo luogo era popolato. Da loro» - avvicinò le mani in modo da suggerire l'immagine di una barriera di protezione - «fui chiamata per un grande compito, poiché il male ven-
ne, e mutò di forma, e io lottai per costruire resistenti baluardi.» Sospirò. «Quel tempo di agitazioni e di pene passò. Poi vennero quelli che voi chiamate Oddling, e sebbene non fossero del mio stesso sangue fui per loro la Custode. Il passare del tempo divenne sempre più gravoso, sempre più lontano dalle cose che furono anticamente. Per ultimi arrivarono quelli della tua stirpe. Indagai le loro menti e i loro cuori e trovai che erano degni della Via della Luce; il mio tempo non era ancora trascorso...» «E poi venne Voltrik, la cui natura è uguale a quella degli Skritek!» Kadiya avvampò di collera. «Che ne fu della tua missione di Custode?» «Le Potenze delle Tenebre insorsero ancora una volta», la corresse l'Arcimaga. «Sempre la mia natura deve combattere contro di loro. Ma insieme agli invasori vi era qualcuno ben istruito nelle scienze più antiche.» Chinò leggermente la testa. «Questo può essere il suo tempo. Quando previdi i suoi progetti potei elevare soltanto una difesa. Tu sei una delle tre, e ciascuna di voi possiede una capacità non esercitata, un dono che vi è ancora sconosciuto. Alla fine sarete voi a sconfiggere i Poteri delle Tenebre... se potrete pagare il prezzo del tempo.» «E di che prezzo si tratta?» Kadiya sollevò il mento. Cercava ancora di combattere contro ogni segno esteriore che potesse indurre l'Arcimaga a crederla dominata dalla paura. «Trovare il tuo talismano... e usarlo in tempo.» «Talismano?» Kadiya sollevò in alto l'amuleto tenendolo sempre legato al collo. «Ma questo l'ho già avuto..., e dalle tue stesse mani, Signora, se la storia è vera.» «No, questa è stata soltanto la tua guida fin qui. Per trovare il talismano che ti darà potere dovrai usare la tua forza e la tua intelligenza. Hai sempre prediletto l'acciaio: esso è rapido e diretto, ma spesso è la via più pericolosa per ottenere la vittoria. Vi sono altri modi per vincere le battaglie.» L'Arcimaga si alzò dal suo trono e rimase in piedi. I suoi movimenti non erano ostacolati dall'età, erano piuttosto i movimenti risoluti di una persona che ha un compito da svolgere e che vuole portarlo a termine. Kadiya fece un passo indietro e insieme uscirono a grandi passi dalla torre di Noth. L'Arcimaga rovesciò all'indietro le pieghe del mantello, su cui scorrevano illuminate dalla luce del giorno le increspature d'argento. Teneva in mano una pianta, che Kadiya non sapeva dove avesse colto. Guardando il fiore che spuntava alla sua estremità Kadiya capì che era il favoloso Giglio Nero. L'Arcimaga prontamente spezzò lo stelo tre dita al di sopra delle radici filamentose simili a capelli.
«Ora questo sarà la tua guida... con il suo aiuto andrai in cerca dell'Occhio di Fuoco Trilobato.» Lanciò lo stelo nell'acqua vicino al luogo in cui si trovava la piccola barca, dove Jagun giaceva come addormentato. Kadiya lo osservò che cadeva e fendeva l'acqua come una freccia ben lanciata. Ma cos'era un Occhio di Fuoco Trilobato? L'Arcimaga doveva spiegarglielo! Kadiya era stanca di viaggiare attraverso le paludi, seguendo un magico bagliore fino alla dimora di una strega incompetente. Aveva bisogno di altre informazioni se doveva proseguire nella sua ricerca... E d'un tratto si trovò sola sul sentiero lastricato. Non c'era più nessuno accanto a lei ed ebbe l'intensa sensazione che se fosse tornata nella torre e l'avesse perlustrata da cima a fondo non avrebbe trovato alcuna traccia della Signora. Con rabbia e riluttanza ritornò alla barca. Jagun stava seduto, ma Kadiya guardò verso le acque oltre le sue spalle. Lì, fra le scure increspature prodotte dalle oscillazioni della barca, vide un filo di luce. Era di colore verde, ma di una sfumatura che non aveva mai osservato nella palude: questa era più chiara, più leggera, scintillante come una gemma, e tuttavia l'estremità del filo era nera, ed era visibile solo per la luce riflessa da esso in tutta la sua lunghezza. Quando la giovane entrò nella barca e afferrò il palo per la navigazione, quel bastoncino verde e nero si mosse. Non con la subitanea rapidità di qualcosa di vivo, ma lentamente, in modo da accordarsi al ritmo dei loro movimenti. Kadiya emise un sospiro profondo. «Abbiamo una nuova guida, Jagun, e una nuova ricerca da compiere. Andiamo.» 20. Un vento gelido spazzava lo stretto passo di montagna, portando già con sé alcuni fiocchi di nevischio. Il cielo di quel tardo pomeriggio era ancora parzialmente chiaro, ma una minacciosa nuvolaglia si era accumulata durante il giorno intorno ai più alti pinnacoli dei monti Ohogan. Prima di notte sarebbe sicuramente scoppiata una tempesta, avvisaglia di quei monsoni invernali che non avrebbero tardato ad arrivare entro un paio di settimane. Orogastus era indicibilmente affaticato dagli otto giorni di viaggio che erano occorsi per arrivare nelle vicinanze della sua dimora. Aveva lasciato la scorta armata nelle pianure, ai piedi dei primi contrafforti montani e ora, tutto solo, si stava finalmente avvicinando al suo rifugio segreto sul monte
Brom. Si strinse ancor di più nel mantello di pelliccia, rivolgendosi al contempo alla sua stanca cavalcatura e ai due fronial da soma che lo seguivano da tergo. «Forza! Più avanti troverete una stalla accogliente, fieno e acqua in abbondanza. Guardate, ve la posso far vedere!... Seguite il sentiero! Su, ancora un piccolo sforzo e ci siamo... dietro quella curva. Là! Là! Forza!» I tre fronial alzarono i testoni, e le punte dorate delle loro corna ramificate scintillarono agli ultimi bagliori del tramonto. Le narici si dilatarono, perché grazie alle arti del mago potevano già sentire l'odore del cibo che li attendeva nella roccaforte in cima a quell'ultima aspra salita. Ora erano infatti in vista di una bianca torre risplendente, fornita di merlature nere e decorazioni dello stesso colore tutt'intorno alle intelaiature delle finestre; quella straordinaria struttura era stata abilmente costruita al riparo di un fianco dell'imponente monte innevato che la sovrastava. Gli animali, rivitalizzati dalle loro percezioni sensoriali, aumentarono l'andatura, ansiosi di raggiungere al più presto il rifugio. Coprirono infatti al piccolo trotto le ultime centinaia di metri, ma dovettero fermarsi bruscamente davanti all'orlo del precipizio dove terminava la pista, sbuffando e ansando un po' per la fatica e un po' per la delusione. Davanti a loro si apriva infatti una fenditura impressionante, larga una cinquantina di metri e profonda almeno un chilometro, sul cui fondo scorreva un rumoreggiante torrente alimentato dai ghiacciai. La roccaforte del mago si trovava dalla parte opposta di quella gola, e sembrava assolutamente inaccessibile. Il cielo era ora completamente oscurato dalle nuvole e faceva davvero molto freddo. Orogastus estrasse dal tascapane un piccolo flauto d'argento e ne tirò fuori una nota alta e squillante che andò quasi persa nell'ululare del vento. All'improvviso le buie finestre della torre si illuminarono, e un forte chiarore si diffuse anche dalla porta d'entrata del poco distante corpo di guardia. Si udì poi una sorta di cupo brontolio, e nella parete a picco che si trovava proprio sotto la cancellata si dischiuse un'apertura da cui fuoriuscì uno stretto ponte che piano piano colmò il vuoto fra i due lembi della gola. Orogastus smontò dal suo destriero e bendò gli occhi a tutti e tre i fronial. Poi li condusse lungo quell'esile struttura, fornita solo di una bassa ringhiera; il ponticello non era più largo di un passo, e tremava violentemente sotto la sferza del vento. Un passo falso dell'uomo o degli animali li avrebbe spediti tutti quanti verso morte certa. Ma Orogastus fece uso dei suoi poteri per rendere più salda la struttura, e continuò a rassicurare i destrieri con tono fermo e pacato. Gli animali lo seguirono tranquilli, persino
quando la neve iniziò a turbinare furiosamente, e giunsero infine sani e salvi dall'altra parte del precipizio. Una volta entrati nel corpo di guardia, il mago sbarrò la porta e azionò un meccanismo che fece svanire nuovamente il ponte all'interno della montagna. Casa! Gettò da parte lo spesso mantello di pelliccia con un'esclamazione di sollievo. I fronial sbuffarono impazienti e pestarono gli zoccoli; il loro padrone rise e si diede da fare per togliere loro le bardature; levò quindi le selle e il carico, e condusse poi le fedeli creature lungo un corridoio munito di strane lampade che illuminavano senza fiamma, fino a una stalla ricavata nella roccia viva, ma ciò non di meno perfettamente asciutta ed equipaggiata con tutto quel che serviva a ristorare gli stanchi fronial. Mentre accudiva e nutriva gli animali, il mago borbottava di buonumore. Normalmente sarebbero stati i suoi fedeli discepoli ad accollarsi tali compiti, ma in quel momento le tre Voci si trovavano alla Cittadella per prendersi cura del re Voltrik in attesa di nuovi ordini dal loro maestro, e così lui avrebbe dovuto cavarsela da solo. Ma Orogastus sapeva perfettamente come comportarsi con le faccende domestiche, dato che i suoi tre accoliti erano stati reclutati solo una decina d'anni prima. Sino ad allora lui si era preso cura da solo di quell'incredibile rifugio, costruito dagli uomini di Voltrik sotto la sua direzione. Ora, mentre risaliva la sinuosa scalinata di pietra che portava ai suoi appartamenti, era contento che non ci fosse nessun altro con lui. Le ultime dieci settimane erano state le più ardue e stressanti di tutta la sua vita, prima con la morte del vecchio re e la salita al trono di Voltrik, poi con la preparazione dell'invasione e la lunga marcia nel Ruwenda. La vittoria in sé era stata paradossalmente facile, e il grande schema da lui architettato era stato guastato solamente dall'incidente subito dal re Voltrik e dalla fuga delle tre principesse. Tuttavia le Voci gli avevano assicurato che il sovrano si stava finalmente riprendendo, e se tutto avesse funzionato a dovere, il nascondiglio segreto delle ragazze non sarebbe rimasto tale ancora per molto. Si sarebbe occupato immediatamente di quella faccenda, rimandando le sue umane necessità fino a quando non avesse consultato lo Specchio di Ghiaccio. Entrò nelle sue stanze e lasciò le sporte piene di rifornimenti nella sala da pranzo, fermandovisi giusto il tempo di accendere un fuoco già predisposto nell'ampio camino. Poi corse in camera da letto per togliersi di dosso gli sporchi abiti da viaggio e indossare l'abito nero e argento con il cap-
puccio che usava portare durante la preparazione degli incantesimi più solenni. Non voleva perdere tempo con un bagno, e si limitò quindi a lavarsi sommariamente con una spugna, chiedendo scusa alle Potenze Oscure... anche se poi non poté fare a meno di sogghignare pensando che forse loro lo preferivano coperto di sudiciume! Le parti metalliche di quella veste da cerimonia erano gelide sulla pelle nuda, e lo fecero sussultare al punto che si dimenticò di recitare le abituali preghiere. I lunghi guanti di pelle e il copricapo tempestato di pietre luccicanti erano decisamente più caldi, ma evitò i sandali rituali e calzò invece un paio di stivali imbottiti di pelliccia prima di infilarsi nel lungo tunnel che conduceva all'interno della montagna, nella Caverna del Ghiaccio Nero. Il suo fiato era visibile nell'aria fredda e umida di quella galleria scavata nella roccia, e Orogastus camminò frettolosamente pregando che lo Specchio di Ghiaccio accondiscendesse rapidamente alla sua richiesta, senza ostacoli di sorta... gli strumenti magici degli Scomparsi erano imprevedibili. Anche se venivano puntualmente osservati tutti i rituali appropriati, la magia poteva essere capricciosa. Ma per favore, non stasera, quando era così stanco, affamato e infreddolito! Arrivò infine davanti a una massiccia porta ricoperta di brina, dove recitò il primo incantesimo: chiese perdono agli Scomparsi per osare disturbare la loro venerabile tranquillità, ammonendoli però fermamente di servirlo in nome delle Potenze Oscure. Poi aprì la porta. La Caverna del Ghiaccio Nero era nelle condizioni di sempre, proprio come quando l'aveva trovata - o meglio, quando vi era stato attirato! - durante una spedizione con l'allora principe ereditario Voltrik (solo successivamente Orogastus aveva ordinato la costruzione della fortezza, in modo da proteggere la caverna e consentirgli un sicuro e protetto accesso alle sue meraviglie). Si trattava di un vasto locale a volta, rozzamente ricavato dal granito venato di quarzo del monte Brom, le cui pareti erano costellate qua e là da infiltrazioni di ghiaccio nero. La pavimentazione era costituita da strane mattonelle di lucida ossidiana, e lo stesso materiale era stato utilizzato per costruire una miriade di nicchie e di piccole stanze, tutte fornite di porte. E proprio lì aveva originariamente trovato le fantastiche apparecchiature che gli avevano garantito l'influenza sul regno di Labornok. Molti di quegli scompartimenti erano equipaggiati con arcane serrature che non era stato in grado di aprire, ma gli altri, compresa la Stanza dello Specchio di Ghiaccio, gli avevano rivelato di buon grado i loro segreti.
Alzò le mani guantate e intonò ad alta voce: «Oh Potenze Oscure! Ancora una volta vi ringrazio per i vostri preziosi doni. Lasciate che possa farne uso senza pericolo». Detto ciò, fece scorrere una stretta porta di ossidiana ed entrò nella stanza dello Specchio. In realtà si trattava solo di un angusto bugigattolo, le cui pareti erano costituite da una massa grumosa di ghiaccio e brina che nascondeva efficacemente la misteriosa apparecchiatura situata dietro lo specchio. Orogastus, tremando per il freddo e l'apprensione, dato che ben sapeva che se lo specchio si fosse rifiutato di rispondere il suo grande piano per il dominio del mondo si sarebbe molto probabilmente arenato, recitò l'appropriato incantesimo: «Oh potente Specchio di Ghiaccio! Occhio degli Scomparsi che puoi vedere ovunque! Svegliati e asseconda la mia richiesta!» E restò in attesa. Inizialmente la grigia superficie rifletté solo la sua immagine: un uomo alto e robusto drappeggiato in nero e argento, incoronato con un diadema tempestato di stelle e una maschera d'argento che gli copriva la parte superiore del viso. Poi ci fu un debole bagliore al centro dello specchio... e si udì una voce, debole e stridula come quella di un morente, e dall'accento di certo non umano. «Sono pronto a rispondere. Poni la tua domanda, prego.» Orogastus era completamente immobile. Nonostante stesse quasi congelando, grosse gocce di sudore scendevano dalla sua fronte annebbiandogli la vista. Quello era il momento più critico. Se avesse posto la sua richiesta in modo non corretto, lo Specchio si sarebbe sentito insultato e per almeno un paio di giorni si sarebbe rifiutato di ascoltare ogni richiesta per riaversi così dall'offesa. Il mago rinnovò mentalmente le sue più fervide preghiere alle Potenze Oscure, e poi disse con tono neutro: «Visualizzare tre persone. Localizzarne la posizione attuale sulla mappa». Lo Specchio si illuminò, materializzando improvvisamente un vortice di ombre azzurre argentate al centro della sua superficie. «Richiesta convalidata. Nomi delle tre persone.» «Principessa Anigel di Ruwenda. Principessa Kadiya di Ruwenda. Principessa Haramis di Ruwenda.» Mentre parlava fu attento a formare un'immagine mentale di ciascuna delle ragazze. «Esplorazione avviata», annunciò lo Specchio. E Orogastus quasi svenne per il sollievo. Stava andando tutto bene... Infine lo Specchio rispose: «Soggetto uno: principessa Anigel di Ruwenda. Posizione: SA quattordici-due, LO settantuno-dieci su Grid Oma».
Parlò nel solito modo inintelligibile, ma subito dopo mostrò un elaboratissimo rilievo cartografico su cui lampeggiava una piccola luce all'altezza del fiume Mutar, sotto la Cittadella e a pochi chilometri dal lago Wum. Orogastus riuscì a trattenere eroicamente il suo entusiasmo. Una parola sbagliata o un movimento brusco potevano rischiare di compromettere tutto. Il mago si concentrò per cercare di memorizzare le indicazioni. Pochi istanti dopo la mappa scomparve e lo specchio fece apparire un ritratto a colori della ragazza, in movimento come se lei fosse proprio lì, viva all'interno di quel blocco di ghiaccio grigiastro. Anigel era seduta a prua di una imbarcazione, reggendo due corregge di cuoio che sembravano essere una sorta di redini. La barca era trainata sulle acque a velocità sostenuta. Dietro la fanciulla sedeva un'anziana Oddling, la quale si guardò alle spalle verso un tramonto infuocato, e disse: «Faremmo meglio a cercare un riparo per la notte, piccola mia. In quella laguna laggiù dovrebbe esserci una bella quantità di pesce per i rimorik». E poi l'immagine scomparve improvvisamente. «Soggetto due: principessa Kadiya di Ruwenda», disse lo Specchio sommessamente. «Posizione: MO ventinove-quattro, VI novantacinquecinque su Grid Oma.» La luce lampeggiante individuò la fuggitiva a ovest di una giungla infestata dagli Skritek e conosciuta come l'Inferno Spinoso. Orogastus soffocò un'esclamazione, poi osservò affascinato l'immagine di una ragazza inginocchiata ad accendere un fuoco da campo, mentre sullo sfondo si intravedeva un piccolo Uisgu intento a prendere qualcosa da una delle tipiche imbarcazioni del popolo. Kadiya disse: «Uffa, Jagun, non ho più fiato. Per favore, prova tu ad accendere queste dannate cortecce!» E poi quel bucolico quadretto si dissolse altrettanto rapidamente di com'era apparso. «Soggetto tre: principessa Haramis di Ruwenda. Posizione: PA quarantadue-tre, NO sedici-otto su Grid Oma.» La luce indicò il fianco del monte Rotolo, la seconda vetta più alta degli Ohogan, vicino alle sorgenti del Vispar e a pochi chilometri dal villaggio segreto dei Vispi. Il mago trattenne il fiato mentre appariva l'ultima immagine. Si trattava di una visione piuttosto cupa e indistinta, e ci mise un po' per capire che in quel momento sullo specchio era rappresentato l'interno di una caverna di ghiaccio affacciata sul fianco di un ghiacciaio immerso nella fioca luce del crepuscolo. Un'ombra si staccò dall'oscurità, e dopo qualche istante Orogastus riuscì a distinguere la figura di una giovane donna che sbirciava fuori
dall'apertura dell'antro, stringendosi addosso un candido mantello. Haramis disse: «Riuscirò a scamparla questa notte? Sono là fuori e mi stanno aspettando, gli Occhi nel Turbine, e i semi di giglio che mi hanno condotta fin qui sono ormai finiti tranne uno. È la fine. Non ho più cibo e la neve è così profonda che non riesco più ad andar avanti. A meno che i Vispi stessi non abbiano pietà di me e vengano a salvarmi, avrò fallito nella mia ricerca del Cerchio dalle Tre Ali». L'immagine scomparve. Seguì l'inevitabile conclusione del collegamento. «Fonte energetica Bahkup momentaneamente esaurita. Interruzione per ricarica.» E l'apparecchio si spense completamente. «Sia resa grazia a tutte le Potenze Oscure: Aysee Lyne, Inturnul Bataree e Bahkup», intonò Orogastus inchinandosi profondamente, «e al Grande Sistema quivi operante. Ora e sempre così sia.» Quindi uscì dalla stanza camminando umilmente all'indietro, richiuse la porta di ossidiana e volò nei suoi appartamenti. Più tardi, dopo essersi ben lavato e rifocillato, Orogastus consultò l'antico Libro delle Profezie della Penisola, mentre sedeva dinanzi allo scoppiettante fuoco che ardeva nel camino del suo studio e sorseggiava un delizioso liquore. Fuori, una tempesta di neve ululava selvaggia fra i bastioni della torre. Il Cerchio dalle Tre Ali... Sì, era citato in quel testo, insieme ad altri due oscuri simboli: l'Occhio di Fuoco Trilobato e il Mostro a Tre Teste. Il riferimento non era molto chiaro, ma sembrava che i tre fossero destinati a riunificarsi e produrre il precipitare di qualche evento determinante. «Può darsi», rifletté Orogastus, «che anche le altre due principesse siano alla ricerca dei loro talismani, proprio come sta facendo Haramis... e se poi, una volta trovati, siano destinate a riunirsi, provocando un effetto sinergico di tale potenza da sconfiggere il Labornok?» Osservò le fiamme con aria accigliata per qualche tempo prima di decidere il da farsi. Era necessario disporre al più presto di Kadiya e Anigel, ma per la principessa ereditaria Haramis si trattava di un'altra faccenda... Si raddrizzò sulla sedia, chiuse gli occhi e piazzò la punta delle dita sulle tempie. «Mie Voci!» intonò. «Ascoltatemi!» Nella sua mente presero forma tre figure, tre macchie colorate di rosso, di azzurro e di verde che assunsero piano piano l'aspetto dei suoi tre servi-
tori incappucciati. Non avevano occhi, ma le loro espressioni denotavano una malcelata impazienza. «Maestro! Ce l'hai fatta?» «Sì. Attenzione a quanto vi dirò! Questa è l'attuale posizione della principessa Anigel... ed ecco quella di Kadiya...» «Abbiamo ricevuto, potente Maestro. E la principessa Haramis?» «Ho trovato anche lei. Ma ascoltate! Il generale Hamil deve gettarsi immediatamente sulle tracce di Kadiya portando con sé almeno la metà dell'armata, perché la principessa si è avventurata in una regione molto pericolosa. Verrà accompagnato dalla Voce Rossa, che si consulterà con me a giorni alterni fino a quando la ragazza non sarà stata catturata.» «Sono pronto al tuo volere», disse la Voce Rossa. «La ricerca della principessa Anigel», continuò Orogastus, «verrà condotta dal principe Antar e dai suoi cavalieri di corte. La Voce Azzurra lo accompagnerà.» «Il principe e i suoi uomini sono ritornati quattro giorni fa da Trevista», disse la Voce Azzurra. «Non sarà difficile trovare Anigel se è davvero così vicina alla Cittadella.» «Niente è facile quando c'è di mezzo l'Arcimaga Binah», lo ammonì seccamente Orogastus. «Ricordatevi che le ragazze sono protette dagli ultimi sprazzi della sua magia... e se riusciranno a impossessarsi di certi potenti talismani conosciuti come l'Occhio di Fuoco Trilobato e il Mostro a Tre Teste, la loro forza magica ne sarà grandemente rafforzata. È essenziale per il nostro successo che le principesse vengano catturate e uccise, e che io entri in possesso dei talismani che loro cercano.» «Capiamo perfettamente», dissero le Voci. «Ci sono altre istruzioni per la Voce Azzurra», aggiunse il mago, «e riguardano il principe Antar.» «Credo di sapere già che cosa hai in mente, mio signore», e la Voce Azzurra emise una cupa risatina soffocata. «Sarebbe davvero triste se il principe dovesse perire in qualche malaugurato incidente proprio dopo avere adempiuto al suo dovere...» «Non deve esserci la benché minima traccia di un tuo coinvolgimento», lo ammonì Orogastus. La Voce Verde domandò: «E io devo forse unirmi alle forze che si metteranno alla caccia della principessa Haramis, maestro?» «No. Tu resterai con il re Voltrik, prendendotene cura affinché si ristabilisca completamente, e rassicurandolo quando ti verranno trasmessi rap-
porti di aggiornamento sui nostri progressi.» «Ma Haramis...» «Ho intenzione», lo interruppe il mago, «di prendermi personalmente cura della principessa Haramis.» 21. Haramis affidò al vento l'ultimo seme di Giglio Nero la mattina in cui vide apparire i ripidi pendii del monte Rotolo avvolti in una nebbiolina perlacea. Quando si era svegliata, le era sembrato che l'atmosfera fosse stranamente più calda. Le pareti del piccolo antro in cui aveva dormito così profondamente, rilucevano per lo scioglimento dei ghiacci, e il suo mantello imbottito di pelliccia, che aveva avvolto al suo sacco per dormire, era così fradicio da pesare almeno il doppio del solito e, non essendoci modo d'asciugarlo, era completamente inutilizzabile. Allora la principessa, usando il suo coltello, aveva tagliato un lato e il fondo del sacco impermeabile, ricavandone una grossolana cappa, rigida ma perfettamente adatta a difenderla dall'umidità. Dopo una colazione a base di acqua fredda, aveva quindi liberato l'ultimo seme e si era avventurata fuori dalla caverna per seguirlo arrancando nella neve fangosa che le arrivava alle caviglie. Il seme veleggiava languidamente a non più di un metro da lei, adattando la sua andatura all'incerto procedere della povera ragazza. Haramis non riusciva infatti a vedere più in là di quella distanza, avanzava a fatica appoggiandosi al suo bastone ferrato e si sentiva come stordita dall'aria rarefatta e dalla mancanza di cibo. Non faceva più neanche molta attenzione a dove metteva i piedi, perché la cosa principale per lei era mantenere il seme nel suo campo visivo. Inciampò e cadde parecchie volte, inzuppando sempre più i suoi abiti di lana, gli stivali e i guanti. Piano piano l'umidità penetrò anche attraverso la sua sommaria cappa, la quale divenne ben presto pesantissima. Dopo l'ennesima caduta decise di togliersi di dosso quella cosa ormai solo ingombrante. L'aria s'era fatta così calda che non ne aveva più bisogno. Il seme. Il seme alato. Solo quello riusciva a vedere, su quello soltanto doveva concentrare la sua mente. Andò avanti e avanti, sempre più in alto. A volte la neve le arrivava alle ginocchia, altre volte solo alle caviglie, ma era pur sempre greve e bagnata e le si attaccava alle calzature rendendole di piombo.
Passarono tre o quattro ore prima che le condizioni atmosferiche mutassero minacciosamente. Haramis era così intontita da non accorgersi che la bruma aveva perso ogni sfumatura perlacea per farsi di un grigio cupo, mentre la temperatura si era abbassata paurosamente. Mani e piedi della fanciulla avevano perso sensibilità, ma questo era niente in confronto agli spasmi del suo stomaco vuoto! Cominciò a nevicare. Haramis si fermò, dapprima incapace di capire cosa stesse accadendo. Semi? Che il mondo fosse ormai pieno di piccoli fluttuanti semi di giglio? E quale di essi era la sua magica guida? Quello... No... La nebbia si diradò e, nonostante l'intensificarsi della nevicata, la principessa riuscì nuovamente a scorgere lo scosceso dirupo su cui si stava inerpicando. Il vento aumentò scagliandole con forza sul viso i fiocchi di neve. Si rese conto di aver perso il bastone. E il seme? Scomparso. Scomparso come gli altri, ma non al termine della giornata e dopo averla condotta a un riparo sicuro, bensì lasciandola in balia delle forze della natura, pericolosamente vicina a un costone roccioso affilato come una lama e così spazzato dal vento da essere completamente privo di neve. L'ultimo seme di Giglio Nero si era dissolto nel nulla, e quella era la fine della sua ricerca... Il nevischio le sferzava il viso, offuscandole la vista, facendole formicolare naso e guance, intorpidendola. La pervase una sonnolenza mortale: la cosa che più desiderava al mondo, in quel momento, era dormire. Perché continuare a lottare? Ogni respiro le affondava nei polmoni come una lama e il cuore le batteva come se volesse sfondare la cassa toracica. Mani e piedi erano congelati. Voglio raggiungere la cima del crinale, si disse. Solo una ventina di passi, e vedrò il mio regno per un'ultima volta. Il vento tentò di farla recedere da quel suo proposito, e la respinse ululando senza posa, come una enorme creatura indignata che volesse impedirle di avanzare ponendole innanzi un muro invisibile. Piegata in due, un piede dopo l'altro, Haramis costrinse il suo corpo ad andare avanti, respingendo con le ultime forze quel mostro impietoso. Padre! Madre! Ho fallito, e presto mi riunirò a voi. Desideravo tanto realizzare il mio sogno! Credevo che la povera vecchia Arcimaga conoscesse davvero il mio destino, e che questa pazza ricerca potesse magicamente avere successo... ma a quanto pare neanche lei sapeva cosa mi stesse aspettando, e di magico qui non c'è proprio un bel niente. Non pensavo che do-
vesse finire così! Vento. Neve. Freddo. E il suo corpo che si ostinava a muoversi, al di là del dolore, ormai. Si tolse con i denti uno dei guantoni imbottiti, ormai ridotto a una rigida massa incrostata di ghiaccio, e infilò la mano gelida sotto la camicia per toccare l'amuleto un'ultima volta, per chiedergli ancora un briciolo di energia. Dammi la forza di arrivare fino in cima. Ancora pochi passi, i più duri, l'impresa più ardua che abbia mai compiuto nella mia breve esistenza... l'ultima cosa che farò... l'ultima cosa che desidero! Mio Dio, aiuta chi ha sempre creduto in te... ancora un passo... Fatto! Si trovava su uh costone roccioso appena spolverato di neve. Mentre si raddrizzava, il vento sembrò calare d'intensità e la tormenta di neve non sferzò più il suo povero viso. Dietro di lei l'aria era ancora intorbidita da un grigiore tempestoso, ma lì davanti il cielo era azzurro e l'atmosfera così tersa da permetterle di ammirare un radioso panorama di cime innevate che si spingevano lontano lontano verso ovest. Il crinale terminava bruscamente in un impressionante abisso che sembrava sprofondare all'infinito prima di dissolversi in un oceano di nebbia. «Eccomi», sussurrò la fanciulla. Si sentì sopraffare dalla vertigine, barcollò e fu lì lì per perdere i sensi. Ma la mano che stringeva l'amuleto non era più priva di sensibilità, anzi provava una dolorosa sensazione di calore che le diede lo stimolo necessario a non lasciarsi andare alla morte, ad aprire gli occhi un'ultima volta. Scorse così a pochi passi sulla sua destra un enorme vortice di neve, scintillante al sole come polvere di diamanti. Haramis cadde in ginocchio, fissandolo con aria indifesa. Il vortice turbinò pazzamente fino a trasformarsi in un gigantesco cono di fluido bianco che ruotava a gran velocità sulla punta. E dentro quell'incredibile apparizione si spalancarono gli Occhi. Occhi verdi, di ghiaccio, a decine, impassibili. «Sono qui venuta per il Cerchio dalle Tre Ali», mormorò la ragazza. «Noi siamo i suoi guardiani, venuti per incontrarti.» «Vi porgo i miei saluti», disse la principessa Haramis con dignità. Poi, senza più opporre resistenza, sprofondò nelle tenebre.
Seguì un lungo tempo di sogni, durante il quale soffrì un grande dolore poi lenito da un profondo e rasserenante sollievo. Gli Occhi nel Turbine popolarono ossessivamente questi sogni, solo che a volte erano una minaccia, mentre altre si dimostravano gentili e rassicuranti; in questo secondo caso appartenevano a esseri alti e aggraziati, avvolti in capi di abbigliamento fluttuanti e di color pastello, adorni di straordinarie quantità di gioielli, i quali si prendevano cura di lei e le sussurravano dolci parole con cui l'ammonivano a fare questo o quello, e lei obbediva come una bambina docile. Haramis chiese loro chi fossero ed essi le risposero che erano il Primo Popolo e che da tempi immemorabili erano stati i custodi del grande Scettro del Potere appartenuto agli Scomparsi. Chiese loro se quello Scettro fosse il talismano di cui lei era alla ricerca e le risposero: «In un certo senso sì, ma in un altro no, perché nelle ere oscure il Triplice fu diviso e le sue componenti sparse per evitare che cadessero nelle mani del male». Sempre sognando, la principessa chiese agli Occhi se erano loro i custodi del Cerchio dalle Tre Ali, il suo talismano. Dissero di sì, che esso costituiva una parte del Triplice, che lo conservavano al sicuro in una grotta di ghiaccio, e che le altre due parti erano state inviate in luoghi lontani dalla Bianca Signora, affinché fossero custodite fino al periglioso tempo in cui i suoi poteri si sarebbero affievoliti e ci sarebbe stato bisogno dello Scettro per restaurare l'equilibrio del mondo. Allora Haramis disse: «Le mie sorelle sono in cerca degli altri due talismani». «E così pure il malvagio di questa èra, il quale ti sta sorvegliando nella speranza che tu abbia successo nella tua ricerca...» Ad Haramis sembrò che un paio di quegli Occhi passasse dal verde ad un bianco risplendente, e quando vide il bellissimo viso di un uomo che le sorrideva, chiese: «È lui?» Le risposero di sì. Nel sogno quell'uomo sembrava avvicinarsi a lei, sorridente. Gli ricambiò il sorriso, e le disse: «Io non sono ciò che essi dicono io sia. Non fatti ingannare. Questi piccoli esseri riescono a comprendere solo una parte del grande tutto. Aspetta a giudicare finché mi avrai conosciuto veramente, e solo allora potrai decidere». «Sì. Farò così», disse la principessa. «Una regina deve saper decidere da sola.»
Haramis si svegliò. Si trovava su uno stretto letto circondato da cortine simili a garza, e anche la coperta e la camicia da notte erano fatte di qualche sottilissimo materiale; si meravigliò di trovarsi al caldo, fino a quando non si rese conto del calore emanato dal materasso che si trovava sotto di lei. «L'ipocausto riscalda la base del letto e i pavimenti», disse una voce gentile. «Attraverso i suoi condotti si dirama il calore proveniente dalle sorgenti termali, e in questo modo noi riscaldiamo le nostre case.» Le cortine furono scostate, e Haramis si trovò davanti una femmina aborigena di una razza a lei sconosciuta. Aveva un viso più aguzzo di quello dei familiari Nyssomu, e la bocca e il naso avevano un aspetto umanoide. I suoi grossi occhi, verdi anziché gialli, e le orecchie, che erano erette, emergevano da una folta massa di capelli ondulati color platino, un marchio che ne denotava l'indubbia appartenenza agli Oddling. Le mani avevano tre dita, ma gli artigli erano semplici vestigia di un tempo remoto e assomigliavano piuttosto a semplici unghie, se non fosse stato per lo spessore e la tendenza, in apparenza naturale, a terminare a punta. Sorridendo, la donna mostrò dei denti che non somigliavano affatto a zanne, ma erano piccoli e regolari. La principessa si ricordò di aver già udito in sogno il melodioso timbro di voce della femmina Vispi, ma solo dopo qualche tempo si rese conto che le sue labbra non si muovevano quando parlava. «Ma certo che no», sottolineò allegramente la voce. «Tu non capiresti la nostra lingua, e così noi utilizziamo il linguaggio senza parole! Il mio nome è Magira e ti porgo il nostro benvenuto, principessa Haramis del Giglio Nero. Ora scendi dal letto e lascia che ti aiuti a vestirti, perché ormai ti sei quasi ripresa e la nostra gente non vede l'ora di incontrarti prima che tu continui la tua ricerca.» «Ma tu riesci a comprendermi...» La fanciulla non aveva ancora completamente recuperato le sue facoltà mentali, e non era neanche sicura se si trattasse di sogno o realtà... forse fu proprio per questo che non si lasciò scoraggiare minimamente da quell'accenno a continuare la sua ricerca. «Mentre parli, la tua mente ripete i tuoi pensieri, principessa. Noi Vispi non abbiamo alcun problema nel comprenderti. Spero che questo abito ti piaccia. Lo troverai confortevole, e poi le rifiniture di pelliccia nera si addicono perfettamente ai tuoi capelli.» «Sì. Grazie. È molto bello.» Haramis lasciò che Magira l'agghindasse in un fluente abito blu fatto di
un tessuto lanuginoso, simile al velluto ma non così pesante, rifinito agli orli con ricami d'argento tempestati di zaffiri. Indossò anche degli stivali argentati e una cintura dello stesso materiale, a cui era attaccata una borsetta ricoperta di piccole gemme, mentre la donna Vispi le acconciava i capelli in due grosse trecce che legò insieme con un nastro uzzurro. «Il nostro sangue è molto caldo e per questo utilizziamo indumenti più leggeri di quelli che indosserebbe un essere umano con questo clima. Ti conviene mettere anche questo mantello di pelliccia e i guanti imbottiti, cosicché io ti possa condurre nella Sala del Consiglio di Movis, in un edificio non lontano da qui.» Haramis indossò obbediente gli splendidi guanti ingioiellati che la donna le aveva porto, mentre intanto Magira l'avvolgeva in uno stupefacente mantello costituito da un insieme di pellicce bianche e nere, e le tirava su il morbido cappuccio. La principessa seguì quindi la donna fuori dalla camera da letto e giù per una lunga rampa di scale di pietra illuminate da alte finestre; si ritrovarono in un piccolo vestibolo e poi finalmente all'aperto. «E così questa è Movis!» Haramis si fermò nel portico e contemplò la misteriosa città del Popolo delle Montagne. L'aria era intrisa di quella tipica luminescenza dorata che precede il tramonto. L'abitazione di Magira si trovava più in alto della maggior parte delle altre, e così la giovane principessa riuscì a vedere parecchie centinaia di case di pietra di ottima fattura, alcune anche di dimensioni ragguardevoli, e un certo numero di edifici considerevolmente più grandi raggruppati intorno a una piazza centrale. Si levavano ovunque volute di vapore, non solo dai tetti di ardesia ma anche dalle grate poste nell'acciottolato stradale e da piccole strutture a cassettone che si trovavano nei cortili interni o davanti a ogni casa. Il panorama era illuminato da una specie di luce diffusa e senza ombre, perché in realtà quel fondovalle non era direttamente illuminato dal sole. Sulla vallata in cui sorgeva Movis gravava una coltre di nuvole luminescenti, come una sorta di soffitto dorato sostenuto da centinaia di pilastri di bianco vapore. I pendii più bassi erano verdi e coltivati a terrazze, mentre le cime sovrastanti erano incappucciate di neve; c'era anche un imponente ghiacciaio da cui sorgeva una cascata simile a una lunga sciarpa bianca. «È stato predisposto un grande banchetto in tuo onore e sono tutti in attesa del tuo arrivo», disse Magira. «Siete molto gentili», rispose Haramis muovendosi rapida per tenere il passo della Vispi, che con le sue lunghe gambe avanzava leggera e veloce
in quel dedalo di strade, mentre gli abiti velati le fluttuavano intorno come pallide bandiere mosse dal vento. «Sono affamata; forse è l'aria.» «Principessa, anche se non te ne sei accorta, hai dormito per ben cinque giorni!» «Oh!» esclamò la fanciulla. «Durante tutto quel tempo i nostri medici si sono presi cura di te, guarendoti dal congelamento, dalle contusioni e dalle ferite riportate. Senza dubbio tra un sogno e l'altro ti sarai resa conto dell'assistenza che ti veniva prestata.» «Sì, ma c'era anche un'altra presenza...» Magira rallentò il passo, volse il suo sguardo di smeraldo verso Haramis e le parlò con tono inquieto e pensieroso. «Sappiamo che il malvagio ti ha parlato. Lui può individuare la tua presenza solo attraverso il suo specchio di ghiaccio, che però può utilizzare unicamente ad intervalli di due o più giorni, e inoltre sei protetta da un amuleto che impedisce la tua localizzazione da parte di menti mal disposte nei tuoi confronti.» «Ma si può rivolgere a me in sogno?» «Sapendo che ti trovavi qui, ha potuto farlo. Se fossi stata sveglia, naturalmente non avresti avuto alcun motivo per ascoltarlo.» Haramis si astenne dal parlare ulteriormente di Orogastus, come obbedendo a una curiosa richiesta che il mago aveva rivolto alla sua mente ancora annebbiata dalla spossatezza. Invece domandò alla sua accompagnatrice: «Dimmi, Magira, la tua gente riesce a essere autosufficiente in questa singolare vallata?» «Siamo in grado di garantirci raccolti pari a quelli che si ottengono in pianura, e alleviamo parecchi animali domestici che mandiamo al pascolo durante la stagione asciutta e ripariamo nelle caverne se piove o nevica. Lì si possono trovare numerosi tipi di funghi e licheni dall'alto potere nutritivo, e visto che sono anche luminescenti ti accorgerai che quella particolare dieta invernale fa sì che il nostro bestiame possieda corna, zoccoli e denti che brillano al buio!» «Dimmi, ottenete i vostri animali grazie al commercio?» «Sì, perché essi si riproducono molto lentamente fra i monti.» Haramis alzò una mano guantata, e le gemme che vi erano state applicate scintillarono alla luce del tramonto. «Commerciate solo in gioielli e metalli preziosi?» Magira scoppiò a ridere. «Mia cara principessa, ti assicuro che tanto basta, perché il piccolo popolo non fa che chiedere con insistenza questo
genere di ornamenti. In tempi lontani la nostra rete commerciale si estendeva dai monti Ohogan alla foresta di Tassaleyo, e i piccoli e riservati Uisgu operavano come intermediari fra noi e le altre razze. Questo schema commerciale è stato alterato dall'avvento degli esseri umani: i ruwendiani hanno potuto fornirci più animali e prodotti dolciari di quanti ne arrivassero abitualmente dal popolo, e così la razza dei Vispi ha prosperato senza problemi di vettovagliamento.» «Eppure proibite ancora agli altri di entrare nelle vostre terre.» Magira si strinse nelle spalle. «Le valli ricche di sorgenti termali sono poche e lontane, e la nostra vita è basata su precari equilibri. Noi Primo Popolo fummo fatti per questo habitat, che una volta si estendeva sulla maggior parte del mondo conosciuto. Col passare delle ere questo tipo di ambiente si restrinse sempre più e noi diminuimmo di numero, pur guadagnando in saggezza e cultura. Col tempo, altre razze diverse della nostra andarono a formare l'abominevole Ceppo Originario degli abitanti della Palude Labirinto. Ma le più alte montagne sono ancora nostre, e noi le proteggiamo interdicendone l'accesso grazie anche a qualche illusione spaventosa, come gli Occhi nel Turbine, e altri stratagemmi. E siccome siamo il Popolo del Giglio e obbediamo ai comandi della nostra beneamata Bianca Signora, che ama e protegge tutte le genti di questa terra, vigiliamo anche sul passo Vispir, che collega le nazioni di Labornok e Ruwenda...» Haramis si fermò e la affrontò con tono di rimprovero. «E dove eravate quando le armate di re Voltrik ci hanno invaso?» «Ahimè... la Bianca Signora non ci ha avvertiti per tempo dell'approssimarsi del nemico! I custodi del Passo sono arrivati in ritardo, e le loro illusioni sono state scoperte e annullate dai poteri del Mago. Egli ha ordinato ai soldati di ignorare quelle terrificanti visioni, colpendo nel frattempo le persone in carne e ossa che le stavano creando. Venuto a mancare l'apporto dei poteri dell'ormai indebolita Bianca Signora, gli abitanti del villaggio che si occupavano della protezione del Passo, circa trecento anime, sono stati massacrati dalle truppe di Labornok, guidate dal malvagio e dalle sue tre Voci.» «Mi dispiace», disse con sincerità la principessa. «Non lo sapevo. Alla Cittadella giungevano ben poche notizie sull'invasione, dato che le truppe nemiche procedevano con una tale, fatale velocità, da sopraffare la nostra gente prima ancora che si rendesse conto di quel che stava accadendo. Persino adesso non so che cosa ne è stato degli abitanti della regione di Dylex,
o delle isolate fortificazioni e proprietà terriere più a sud...» Avevano finalmente raggiunto un grande edificio dalle finestre illuminate, da cui proveniva una musica festosa. Quando Magira spalancò le porte, la principessa Haramis fu sbalordita dall'enorme folla lì riunita, molte centinaia di persone, alcune sedute intorno ai tavoli rotondi, altre intente a ballare in mezzo alla sala. All'estremità opposta del salone si trovava una larga piattaforma sulla quale era sistemato un monumentale desco a cui sedevano alcuni Vispi riccamente vestiti; sopra di loro campeggiava un enorme stendardo su cui era raffigurato un grande Giglio Nero orlato di risplendenti diamanti. Le rappresentanti femminili di Movis erano per la maggior parte vestite come Magira, con fluttuanti abiti color pastello e una profusione di gioielli. Gli uomini erano invece quasi tutti abbigliati con lunghe toghe azzurro cupo, mentre le mantelle e gli alti stivali erano di un bianco immacolato. Migliaia di lanterne pendevano dall'alto soffitto, irraggiando fasci di luce, riflessi e ampliati in un arcobaleno di fuoco dalle gemme che adornavano bracciali, collane e cinture dei festosi abitanti di Movis. Quando Magira scortò la sua ospite verso i dignitari seduti al tavolo più lontano, dalla folla si levò un clamore di benvenuto, e Haramis si sentì vacillare per la commozione, tanto che dovette appoggiarsi al braccio della sua compagna. Si trattava di un frastuono vocale ma anche mentale, qualcosa che non aveva mai provato e che la faceva sentire aggredita dall'esterno e dall'interno e anche se l'intenzione dei suoi festosi aggressori era amichevole, non poté fare a meno di gridare dal terrore, temendo quasi di spezzarsi sotto il peso di un tale entusiasmo. «Basta! Per favore, basta! Silenzio!» Costernazione. Silenzio, un silenzio palpabilmente colpevole. «Grazie a tutti», disse tremando di sollievo. «Apprezzo la vostra accoglienza, ma temo di non essermi ancora abituata alla vostra maniera di esprimerla.» Un maschio d'aspetto venerabile, i cui occhi non erano verdi ma di un bianco opaco, si alzò dal suo posto a capotavola e si rivolse ad Haramis. La ragazza si rese conto che l'uomo era cieco, ma capì anche che poteva vederla perfettamente. «Cara principessa, perdonaci! Non avevamo intenzione di spaventarti. Ci siamo lasciati trasportare dalla gioia per averti finalmente qui con noi. Ti porgo il nostro saluto a nome di tutti i Vispi. Io sono Carimpole, Har-
kener di Movis. Ti aspettiamo da lungo tempo, Petalo del Giglio Vivente. Sapevamo che i semi ti avrebbero portata alla nostra città... se fossi stata abbastanza forte da continuare a seguirli. Ti abbiamo osservata durante tutto il tuo periglioso viaggio, sin da quando hai lasciato Noth. Ti abbiamo vista soffrire per gli stenti, la fatica e lo scoraggiamento, ti abbiamo vista costretta a mandare via il tuo amico, e abbiamo danzato per te nella speranza di alleviare il peso che gravava sul tuo cuore. Ti abbiamo vista raggiungere la gelida regione delle nevi eterne, dove non hai potuto sfruttare la tua grande intelligenza e hai dovuto contare solo sulla tua forza d'animo e resistenza fisica. «E poi abbiamo temuto che tu stessi per crollare e ti fossi rassegnata al fallimento, come spesso succede a coloro che passano troppo tempo a pensare, disprezzando un corpo in apparenza incapace di sostenere il loro ardente spirito indomito. Abbiamo pregato per te in quel momento così cruciale, come anche la Bianca Signora, e da tutti noi hai ricevuto una sferzata di nuova energia che ti ha consentito di forzare il corpo a servire la mente. Sei quindi riuscita a raggiungere il nostro confine più interno... e a quel punto ci è stato permesso di prenderti in consegna.» Haramis udì un grande mormorio di menti che le si rivolgevano con delicatezza, complimentandosi con lei e augurandole ogni bene. La sua voce era a mala pena udibile: «Ma... ma allora vi era stato proibito di aiutarmi prima di allora?» «Sì, perché il viaggio stesso era per te un'esperienza cruciale, parte essenziale della tua ricerca.» «E ora... sono dunque arrivata alla fine? Mi darete il Cerchio dalle Tre Ali?» «Domani inizieremo a insegnarti come si comandano i grandi uccelli che voi umani chiamate gipeti o avvoltoi. Il tuo talismano si trova ad alcuni chilometri da qui, in una caverna di ghiaccio in vetta al monte Gidris. Un gipeto ti porterà là e ti riaccompagnerà indietro sana e salva. Quanto alla fine della tua ricerca, posso solo dirti che la semplice conquista del Cerchio dalle Tre Ali non significa niente. Dovrai essere tu a fornirgli energia, ma non sappiamo come.» «L'Arcimaga mi ha detto di ritornare da lei con il talismano, ma solo dopo che avrò imparato a dominarmi e sarò riuscita ad approfondire le mie conoscenze. Ha anche aggiunto che il mio destino è legato a quello delle mie sorelle, e che dobbiamo avere tutte e tre successo nella nostra impresa... o falliremo insieme! Dovrò aiutare Kadiya e Anigel?»
«Haramis del Giglio, non siamo certo noi a potertelo dire. È una decisione che dovrai prendere da sola.» «Io sono la sorella maggiore e ho sempre badato a loro. Secondo una profezia del Popolo delle Paludi, una donna di Ruwenda farà crollare il trono di Labornok. Sembra proprio che debba essere io quella donna, perché la corona di Ruwenda mi appartiene di diritto, ed è perciò mio compito liberare la nostra terra dall'usurpatore che l'ha conquistata!» «Il grande uccello ti porterà ovunque desideri. Ma non possiamo aiutarti in altro modo. Adesso che ti sei ripresa, non ci resta che festeggiare il tuo arrivo e cercare di affrettare la tua partenza. E ora che ne diresti di sedere qui al nostro tavolo? Per cinque giorni non hai ingerito che liquidi, e abbiamo quindi cercato di preparare dei piatti che potessero incontrare i tuoi gusti umani.» «Vi ringrazio infinitamente», disse Haramis, «e sono ben felice di potermi unire a voi.» L'Harkener batté le mani allegramente: «E allora che vengano serviti carni, verdura, paste, frutta, miele e vino dolce speziato! E forza con la musica, le danze e il divertimento, perché questo primo Petalo del Giglio Vivente è ormai vicino alla meta, e perciò il mondo intero è un passo più vicino a riconquistare l'equilibrio perduto... Siano rese grazie alla Bianca Signora, ai Signori dell'Aria, e soprattutto all'Uno e Trino!» La Sala del Consiglio fu scossa da applausi e grida festose, i portali si spalancarono per lasciar entrare uno stuolo di cuochi e camerieri che reggevano enormi vassoi e casseruole fumanti, e i musicisti ripresero a suonare mentre tutti i commensali pian piano prendevano posto ai numerosi tavoli. La principessa Haramis si tolse i guanti, slacciò la cappa e si sedette grata al posto che le aveva indicato l'Harkener Carimpole. Magira si sistemò accanto a lei. D'un tratto, per un momento, ad Haramis sembrò di delirare nuovamente, e le parve di poter persino vedere attraverso le pareti. Col calar delle tenebre le nuvole si erano abbassate, e stavano ora spolverando la vallata di candidi fiocchi di neve. Ma questi si scioglievano non appena raggiunto lo strato di aria calda che sovrastava i tetti delle abitazioni, trasformandosi in una pioggerella leggera che tamburellava insistente contro i vetri quasi a voler chiedere accesso. E, mischiata a quel picchiettio, si udiva vaga e indistinta una debole voce d'uomo che pronunciava e ripeteva il suo nome. Haramis riaprì gli occhi di scatto, e subito fu riavviluppata dalla lumino-
sità e dall'allegria che la circondavano. Non c'era altro che il cicaleccio dei Vispi e la loro musica - una musica strana, che le risuonava per metà nelle orecchie e per metà nel cervello. Qualcuno le porse un calice di vino spumeggiante, e Haramis ne bevve e cercò di sorridere per mascherare il profondo turbamento in lei suscitato da quella voce. 22. Nonostante l'improvvisa interruzione del collegamento, il Mago era più divertito che irato. «Sì, sì, goditela con i tuoi amici Vispi, piccola Haramis! Ma continuerò a chiamarti, ancora e ancora, e un giorno dovrai rispondermi.» Orogastus, al sicuro nel suo rifugio sul monte Brom, con la tempesta di neve che ancora imperversava tutt'intorno, iniziò a ricercare nella sua fornitissima biblioteca qualche altro indizio sulla natura dei tre misteriosi talismani. Il Libro delle Profezie della Penisola fu come sempre la sua principale fonte di informazioni. C'era un passaggio in cui venivano nominati i talismani e si accennava a una loro nuova unione, che avrebbe determinato lo scatenarsi di qualche portentoso evento. In un'altra profezia, una che già conosceva da lungo tempo (e che si era accertato di render nota anche a re Voltrik), i tre petali del Giglio Vivente erano designati piuttosto crudamente come gli 'sterminatori' del trono di Labornok; ma nel libro non c'era alcun cenno che potesse far pensare a un legame fra le principesse e i talismani. Il mago mise da parte l'antico volume e si diede a consultare la sua vasta collezione di studi e rapporti riguardanti nozioni mistiche e taumaturgiche. Ma non c'era niente al riguardo nei numerosi testi provenienti dal Labornok, e neanche ebbe miglior fortuna scartabellando fra relativamente pochi libri provenienti da Var e Raktum. Perfino la più antica fonte di sapere, l'atavica Enciclopedia dei Poteri Oscuri che si era portato dietro dalla sua terra d'origine di Tuzamen, si limitava a scarse, stuzzicanti allusioni su quel soggetto. Sotto l'intestazione TRIPLICE TALISMANO trovò solo un breve accenno: «Strumento di grande potenza, che si suppone sia stato affidato ai Vispi dagli Scomparsi in tempi ormai dimenticati». Sì! Ma a cosa diamine serviva? Continuò la sua ricerca consultando anche testi che non avevano a che
fare con la magia. E finalmente, in un insignificante, polveroso trattato di studi aborigeni edito nel principato dell'isola di Engi (...tra tutti i posti possibili!) trovò un riferimento al «grande Triplice Scettro del Potere che la razza dei Vispi, la più antica fra le genti Oddling, avrebbe protetto e difeso fino a quando non sarebbe stato ad essi richiesto al momento opportuno». Il libercolo affermava che la riapparizione dell'enigmatico oggetto era stata decretata dagli Scomparsi; a cosa sarebbe servito, nessuno lo sapeva, ma era certo che avrebbe scosso le fondamenta stesse del mondo! «E così abbiamo tre talismani e tre fanciulle che li stanno cercando», disse Orogastus fra sé, chiudendo il volumetto e alzandosi dal tavolo di lettura della biblioteca. Tenendo le mani dietro la schiena, si avviò con aria pensierosa verso la finestra e osservò la tormenta di neve che infuriava all'esterno. Non era del tutto fuori stagione, visto che entro una decina di giorni sarebbero dovuti arrivare i monsoni, e non la si poteva perciò attribuire con certezza alla magia... e ancor meno, in particolare, alle arti magiche di quegli esseri insignificanti ch'erano i Vispi - grandi amici dell'Arcimaga che, secondo i cantastorie, erano in grado di controllare parzialmente il clima. Ciò nonostante, quella tempesta di neve sottolineava l'urgenza del suo compito, la necessità di sconfiggere le principesse prima di rimanere intrappolato lì in mezzo ai monti durante le grandi bufere invernali. «Tre talismani, precedentemente uniti nella forma di uno scettro affidato ai Vispi, ma ora evidentemente diviso in tre parti che sono state disseminate in giro per il Ruwenda. E i cosiddetti tre petali del Giglio Vivente, le principesse, nel rimettere insieme i tre talismani scateneranno chissà quale misteriosa reazione...» Il mago si sentiva divorare da un frustrante senso di indecisione. Era chiaro che c'era in gioco molto di più della semplice sopravvivenza del Labornok e del suo sovrano: in realtà si trattava di realizzare la sua grande ambizione. Forse sarebbe stato meglio lasciar vivere le principesse fino a quando non avessero completato la loro ricerca, così da assicurarsi che i tre talismani passassero nelle sue mani... o era meglio seguire il suo primo istinto, che lo ammoniva di prevenire a tutti i costi il loro successo, dato che solo le tre fanciulle potevano potenziare il magico Tre-in-Uno? Più informazioni! Aveva bisogno di più informazioni prima di poter prendere una decisione definitiva. Orogastus si girò di scatto e si avvicinò al focolare, mentre i bagliori del fuoco coloravano i suoi candidi capelli di sinistre sfumature rossastre. Si
irrigidì, allargando le braccia e chiudendo momentaneamente gli occhi, e recitò una formula magica. Quando risollevò le palpebre, dai suoi occhi scaturirono stelle così sfavillanti da far impallidire le fiamme che ardevano nel camino. Poi il potente incantatore si rivolse alla sua Voce Verde, nella Cittadella di Ruwenda, comandandogli di setacciare l'enorme biblioteca in modo da ricavarne qualunque informazione relativa ai talismani, al Giglio Vivente o allo Scettro conservato dai Vispi. Nel far ciò avrebbe potuto farsi aiutare dai più validi assistenti che fosse riuscito a scovare fra i loro uomini. «Ma non portare nessun ruwendiano a conoscenza del tuo compito», lo ammonì Orogastus, «e vincola i tuoi aiutanti alla massima discrezione con un giuramento di fedeltà alla corona.» «Sarà fatto, mio potente signore.» «Ora dimmi come sta re Voltrik.» «È in continua ripresa», disse la Voce Verde. «Le notizie fornite dallo Specchio di Ghiaccio lo hanno oltremodo rallegrato. Si congratula con voi ed esprime la sua regale approvazione per il vostro operato, aggiungendo un personale augurio affinché il vostro zelo impareggiabile porti presto alla cattura delle fuggiasche. Re Voltrik ci ha ordinato di condurlo alla finestra della sua camera perché potesse dare la sua benedizione alle truppe che si stavano mettendo in viaggio sulle tracce delle principesse, e quel giorno stesso ha consumato il primo pasto completo.» «Molto bene. E ora fammi un rapporto riguardo all'occupazione e pacificazione del Ruwenda.» «La Cittadella e i suoi dintorni non danno problemi e vi regna la massima tranquillità. I commercianti ruwendiani e i proprietari terrieri, sebbene a malincuore, hanno promesso fedeltà al Labornok. Non esiste una resistenza organizzata. La maggior parte dei nobili delle zone più meridionali sono scappati nelle paludi, ma non costituiscono una seria minaccia. Quanto alla regione di Dylex, nei villaggi risparmiati dalle fiamme, sono state installate delle guarnigioni e, ad eccezione che nei remoti territori di Prok e Goyk, ovunque sono riprese le normali attività agricole e l'accumulo delle scorte alimentari. Potrebbero forse verificarsi delle carenze fra i locali durante il periodo delle piogge, ma anche in tal caso la nostra armata di occupazione non avrà problemi.» «Davvero soddisfacente. E per quanto riguarda le esportazioni?» «Il mercato di Trevista ha riaperto. Il commercio di medicinali, spezie, essenze e coloranti, è però ridotto a un quarto rispetto al periodo anteguer-
ra. I Capi del Commercio pensano che le cose miglioreranno con la prossima stagione. In realtà lo scambio di legname subisce sempre delle battute d'arresto durante le grandi piogge. La città di Tass, dove sono raccolti i prodotti della foresta, non è stata toccata dagli scontri armati, e i suoi artigiani e operai si sono arresi senza colpo ferire; c'è stato però qualche ritardo nella ripresa dei lavori, e così si sono accumulate grandi quantità di legname grezzo e lavorato. Per riprendere gli scambi a pieno ritmo basterà riattivare il flusso carovaniero dal Labornok, e questo avverrà sicuramente durante la stagione asciutta, in primavera.» Orogastus sospirò di sollievo. «Bene, molto bene. Sono davvero soddisfatto del tuo operato, mia Voce. Avrai mie notizie fra due giorni.» Il Mago lasciò che l'occhio della sua mente vagasse verso ovest, dove si soffermò a controllare i movimenti della grande flottiglia di imbarcazioni fluviali che il generale Hamil stava conducendo verso Trevista. Non fece uso dei suoi poteri per mettersi in comunicazione con la Voce Rossa, che aveva inviato al loro seguito. Ce ne sarebbe stato tempo e occasione quando si fossero spinti fino all'Inferno Spinoso. Prima di allora avrebbe avuto conferma dell'itinerario della principessa Kadiya, spiandone le mosse a giorni alterni grazie allo Specchio di Ghiaccio e riuscendo così a elaborare la migliore strategia per bloccarla. La Voce Azzurra aveva già riferito che, durante il primo giorno di ricerche, il principe Antar e le sue truppe non avevano trovato traccia della principessa Anigel. La cosa non sorprese affatto Orogastus. I sacri testi da lui consultati gli avevano rivelato l'inusuale natura del suo mezzo di trasporto... chiaramente una trovata dell'Arcimaga Binah. Grazie alla velocità con cui i rimorik trainavano la sua barca, Anigel era senza dubbio riuscita a mettere una bella distanza fra sé e i suoi nemici. Ora che erano passati i due giorni di intervallo richiesti dallo Specchio di Ghiaccio, sarebbe stato possibile rilevare la sua nuova posizione, e fors'anche dedurre dove si stava dirigendo per la ricerca del suo talismano. Dopo avere indossato gli indumenti rituali, il mago si diresse nuovamente verso la Caverna del Ghiaccio Nero e si rivolse ancora una volta a quel meraviglioso marchingegno: «Oh potenza degli Scomparsi, rispondi, Specchio, alle mie richieste!» Il grigiore della superficie iniziò a rischiararsi lentamente, così lentamente come una candela dallo stoppino pericolosamente corto. La voce non era che un rauco bisbiglio. «Pronto a rispondere... domanda... prego.»
Maledizione! La luce stava tremolando. Forse avrebbe dovuto lasciarlo riposare più a lungo dopo la prima e piuttosto intensa consultazione. Non c'era modo per rimediare, adesso. Avrebbe chiesto notizie di Anigel, lasciando perdere le altre due principesse. Dopo tutto erano ancora inaccessibili, mentre c'erano buone probabilità che Anigel fosse a portata di mano di Antar. «Visualizza una persona per tanto tempo quanto ti sia concesso dai Poteri Oscuri», intonò Orogastus. «E localizza la sua attuale posizione sulla mappa.» «Richiesta convalidata. Nome della persona.» La voce divenne meno stentata e lo schermo assunse un aspetto quasi normale. «Principessa Anigel di Ruwenda.» Orogastus visualizzò la ragazza nella propria mente, trattenendo il fiato. «Esplorazione attivata.» Si formò l'immagine della carta geografica. Non era così chiara e luminosa come la volta precedente, ma sarebbe andata bene lo stesso. Anigel si trovava sul lago Wum, vicinissima al confine occidentale della Palude Verde. Si stava sicuramente dirigendo verso la città di Tass, all'estremità inferiore del lago. Non c'era altro posto dove recarsi. Ma che strana destinazione! «Principessa Anigel di Ruwenda. Posizione: SA cinquantuno-due, LA ventidue-quattro su Grid Oma.» E poi giunse un'immagine dai colori sfocati, ma sufficientemente chiara. Si vedeva l'imbarcazione trainata dai rimorik muoversi a velocità moderata attraverso la fitta vegetazione che ricopriva la zona occidentale del lago, mentre la principessa e Immu venivano infastidite dalle piccole sanguisughe arboree che si lasciavano cadere dal fogliame soprastante per finire nella barca. «Se pensi che queste siano delle bestiacce», disse Immu alla ragazza disgustata, «aspetta fino a quando arriveremo alla foresta di Tassaleyo!» «Ah!» gridò Orogastus in un impeto di esultanza. «Proprio quel che volevo sapere!» Lo Specchio di Giaccio lo rimproverò immediatamente: «Comando errato. Riformulare il programma. Pausa di ricarica». E lo schermo si oscurò come per un attacco di cupo malumore. Ma l'esultanza di cui era preda il Mago, ormai lo rendeva intrepido. Aveva ottenuto l'indicazione che gli avrebbe permesso di catturare Anigel, e la sua voce rimbalzò da una parete all'altra della gelida caverna mentre
rendeva grazie alle Potenze Oscure. 23. La strana piccola radice guidò Kadiya e Jagun facendo loro ripercorrere un breve tratto del fiume Nothar, e poi deviò a sinistra per risalire un affluente senza nome. Si stavano dirigendo verso un territorio proibito: l'insidiosa, selvaggia regione chiamata Inferno Spinoso. Per poter vedere la loro minuscola guida dovevano mantenersi in zone del fiume non ricoperte dalla vegetazione e talvolta l'acqua diventava così bassa da costringerli a procedere a piedi, trascinando la barca. Affinché non li scorgessero navigando allo scoperto, Jagun, con l'abilità acquisita nella sua lunga esperienza sulle paludi, ammucchiava sulla barca grandi quantità di canne, così da darle l'aspetto di una massa di vegetazione alla deriva. Il primo giorno Kadiya e Jagun avvistarono per ben due volte dei gruppetti di Skritek, e furono perciò costretti a nascondersi, sdraiandosi fra le canne che ricoprivano la barca. Kadiya si tappò la bocca con una mano, in preda alla nausea. Molto le era stato detto a proposito delle repellenti creature che adesso osservava di nascosto, ma niente di ciò che aveva immaginato eguagliava la disgustosa realtà. Il primo gruppo che videro sembrava stesse cacciando, e in esso vi erano anche dei giovani. Qui, nel loro territorio, non ricorrevano sempre all'annegamento delle vittime; talvolta si avventuravano coraggiosamente a piedi in cerca di prede. Il gruppo si era diviso: alcuni Skritek si appostarono su una montagnetta di detriti, mentre gli altri avanzarono verso di loro calpestando la vegetazione con i piedi a tre dita e menando colpi all'impazzata con bastoni e rozze lance. Molte creature balzavano fuori dai loro nascondigli, fuggivano o tentavano di volare, mentre gli Skritek si procuravano un abbondante bottino. Non trasportarono le prede al campo, ma le divorarono immediatamente, alcune ancora vive, litigando fra di loro riguardo alle rispettive porzioni di cibo. Osservandoli, Kadiya deglutì nauseata e furiosa. Tuttavia si costrinse a guardare, poiché aveva imparato da Jagun che bisogna conoscere e ricordare le abitudini del proprio nemico, il suo modo di vivere, i suoi cibi, la sua maniera di dormire e così via. Mentre tentavano di non farsi vedere dalle malvagie creature della Palude, notarono che la loro piccola guida, quasi spinta da una sorta di istinto, cercava scampo sotto le canne che sporgevano dai fianchi della barca.
Era quasi calato il tramonto quando avvistarono il secondo gruppo di Skritek. Questi non emettevano urla gracchianti né percuotevano la vegetazione. Sembravano seguire qualche pista che Kadiya non poteva vedere dalla sua posizione. E insieme a loro vi era un essere umano! La giovane rimase senza fiato, e Jagun le si avvicinò rapidamente. Quello che camminava insieme agli Skritek era certamente un uomo, ma non un prigioniero. Era vestito di rosso da capo a piedi, e i suoi abiti erano ricoperti del fango della palude. In testa portava un cappuccio che gli arrivava fino alla bocca, coprendogli metà del volto. Aveva una spada fissata alla cintura e impugnava una piccola lancia. Parlò ai suoi mostruosi compagni emettendo una serie di rumori così gutturali che Kadiya si chiese come potesse riuscire a produrli. Sembrava che discutesse con uno degli Affogatori sulla direzione da prendere. Lui voleva andare da una parte, lo Skritek dall'altra. Alla fine l'uomo in rosso ebbe la meglio. Nei documenti storici, nelle leggende e nelle tradizioni dei Nyssomu e degli Uisgu, delle regioni bonificate e della Cittadella, non v'era notizia di tregue stipulate fra gli Skritek e una qualsiasi altra razza. Ora le affermazioni di Jagun si rivelavano giuste: per qualche ragione, Voltrik o Orogastus avevano arruolato questi mostri ponendoli al loro servizio. Tuttavia la loro inclinazione al tradimento era ben nota. Quello che camminava al loro fianco era certo un valoroso, anche se serviva una causa sanguinaria. La sua disinvoltura suggeriva che le sue armi non consistevano solo nella forza delle braccia o nel potere di persuasione delle parole. Deve essere una delle Voci! Kadiya rabbrividì. Con la mano strinse al petto l'amuleto. Nascondici, implorò in silenzio. Proteggici! Quanto alla preda che cercavano, Kadiya aveva ben pochi dubbi. Non sapeva dove si trovassero Haramis o Anigel, ma lei era qui. Quegli Skritek che fiutavano ogni impronta, accompagnati da uno dei servi di Orogastus, cercavano proprio lei. Era sbalorditivo che il seguace dello stregone non si fosse immediatamente accorto della sua presenza. Certamente Orogastus doveva avere altri mezzi di ricerca ben diversi da occhi e orecchie. E Kadiya quasi non credette ai propri occhi quando quelle creature spietate se ne andarono senza accorgersi di lei. Era difficile, vincere i poteri magici del Giglio Nero! Kadiya si sporse in avanti e guardò nell'acqua. La piccola radice era immobile come se si trovasse su una tavola. La giovane sollevò l'amuleto. Brillava intensamente, e la luce della radice sott'acqua sembrò pulsare in accordo con esso, ritornando in vita. Sebbene dapprima fosse puntata verso
la riva sulla quale correva il sentiero, ora la piccola guida cambiò posizione finché non fu parallela alla sponda opposta. Kadiya vide Jagun afferrare il remo, sentì la barca rispondere al suo tocco. Procedettero vicino alla riva del fiume, sempre attenti ad ogni movimento, e soffermandosi di tanto in tanto, mentre Jagun usava naso e orecchie per controllare ciò che li circondava. Si udiva soltanto il normale ronzio degli insetti, gli squittii degli abitanti della palude, i suoni naturali del giorno. Ma il loro rinato senso di sicurezza fu presto cancellato. Percorrendo il fiume si imbatterono infine in una barriera formata da un'isoletta che emergeva di parecchio dalla superficie dell'acqua. La piccola radice-guida puntò diritta verso una zona selvaggia e sinistra. Pochi passi sopra di loro si trovava un intrico formato dai neri scheletri di alberi putrefatti, che sosteneva qualcosa dall'aspetto simile a una rete di rampicanti. Il terreno ospitava formazioni vegetali rigonfie, sferiche, di colore blu-rossastro. Jagun indicò la più vicina. «Questi sono assassini che si nutrono del sudiciume di questo terreno. Evitali come fossero pugnali avvelenati, figlia del re.» Vi era un silenzio totale, quello di una terra che non avrebbe potuto o voluto ospitare alcuna forma di vita che non fosse malvagia. Ma la piccola radice-guida non mutò il suo percorso. Dovevano procedere in quella direzione. Una zaffata di putrefazione suscitò in Kadiya un conato di vomito. Non fu necessario che Jagun la avvertisse del pericolo. Fra gli alberi morti si avvertì un movimento, un suono sibilante... e videro una femmina Skritek. Non avanzava con intenzioni aggressive, ma piuttosto si trascinava barcollando appoggiata ad un bastone. Il suo corpo non era sottile e affusolato. Al contrario, la sua carne verdastra era gonfia, e il ventre le sporgeva in modo tale che la creatura appariva chiaramente sbilanciata in avanti. Si aggrappò a un albero putrefatto, ma il ramo contorto si spezzò, ed essa cadde a terra, in ginocchio. Nessuno sforzo sarebbe stato capace di farla rialzare, perciò strisciò fino a un tronco più resistente al quale si appoggiò per rimettersi in piedi. Il suo corpo si contorse. La sua bocca emise un grido rauco. Dalla parte inferiore del voluminoso ventre sporgente spuntò un oggetto biancastro che si dimenava come dotato di vita propria. Poi cadde al suolo e strisciò via. Fu seguito da un secondo, da un terzo, finché Kadiya poté contare dieci viscide larve bianchicce simili a vermi e grandi quanto la testa di un ne-
onato. La madre Skritek si accasciò contro il tronco che aveva abbracciato, e i piccoli, chiaramente in cerca di cibo, si accalcarono su colei che li aveva fatti nascere. Divorandola. Jagun strisciò accanto alla giovane. «Le larve sono voraci.» La sua voce era il più debole dei bisbigli. «E quella sventurata non aveva nulla per placare la sua nidiata.» Un paio dei piccoli esseri ripugnanti avevano già abbandonato la carcassa della femmina Skritek. Per quanto Kadiya poté vedere, non possedevano una vera e propria testa, ma soltanto una protuberanza nella parte anteriore del corpo. Quell'escrescenza oscillò per qualche istante, poi puntò in direzione della barca. Le larve incominciarono a strisciare verso l'acqua. Jagun si mosse con rapidità. La sua cerbottana era pronta, e il primo dardo penetrò a fondo nel corpo della prima larva, con rumore sordo. Un secondo dardo ne abbatté un'altra con la stessa facilità. Le larve caddero al suolo e restarono immobili. Jagun tirò fuori dal suo sacco da cacciatore una striscia di materiale trasparente e finemente intrecciato, come un velo da cerimonia. La divise in due parti e ne diede una a Kadiya, facendole segno di usarla seguendo il suo esempio, poi se l'avvolse intorno alla testa in modo da coprire gli occhi, il naso e la bocca e la fissò con un nodo. Prima di muoversi controllò il nodo di Kadiya e lo rafforzò. Le larve Skritek superstiti si stavano dirigendo verso la barca, le protuberanze anteriori sollevate come se seguissero l'odore della preda. Questa volta Jagun non mirò a loro ma ai bulbi di colore blu-rossastro che spuntavano tutt'intorno. Il primo ad essere colpito dal dardo esplose con violenza. Subito si diffuse una nube di polvere azzurrina, e poi un'altra e un'altra ancora, finché la riva fu invasa da una massa di spore densa come nebbia. Jagun spinse la barca in mezzo al fiume e la tenne ferma finché la nube si disperse. Al posto delle larve di Skritek, videro adesso molli grumi gelatinosi che affondavano nel terreno. Kadiya entrò nell'acqua e afferrò la piccola radice di giglio, che guizzò rapida nella sua mano e puntò diritto davanti a sé. Poi sfuggì alla presa di Kadiya e si librò in aria come se fosse stata lanciata. Non c'erano dubbi: si trovava sulla sponda maligna dove giaceva il cadavere della madre Skritek, e puntava verso la zona interna. La principessa guardò Jagun, che scrollò le spalle. Poi l'Oddling parlò con voce attutita dalla maschera improvvisata che
ancora indossava. «Là si estende l'Inferno Spinoso, Lungimirante. Sembra che non abbiamo scelta, dobbiamo entrarci.» Che non ci fosse scelta era evidente. Per quanto potessero deviare, non avrebbero potuto abbandonare la via indicata dai poteri magici dell'Arcimaga. Kadiya si avvicinò lentamente alla riva. La radice del giglio cominciò a muoversi in linea retta, ma facendo un'ampia deviazione attorno ai bulbi velenosi. «Cosa c'è là avanti?» domandò Kadiya mettendosi in spalla il secondo sacco da cacciatore. Jagun scosse la testa. «È una zona sconosciuta, figlia del re. Se la fortuna ci assiste, potremo raggiungere la terra degli Uisgu.» Kadiya avanzò con precauzione, aggirando un bulbo velenoso, evitando con cura di guardare in direzione dell'albero ai cui piedi giaceva la carcassa semispolpata della madre Skritek. «La fortuna?» La principessa fece una breve risata amara. «Nessuno può godere a lungo della sua benevolenza.» Raggiunsero un canale costeggiato da erbacce e ricoperto da una schiuma verdastra. Era attraversato da un albero caduto, e nel fango si notavano delle impronte indicanti che il tronco serviva abitualmente da ponte. Kadiya si fermò per raccogliere la radice di giglio, temendo che potesse scivolare in acqua e perdersi: era dura e tesa, e dalla sua estremità scaturiva qualcosa come un filo di fiamma nera; e, sebbene non vi fosse vento, la fiammella puntava nella direzione in cui avrebbero dovuto dirigersi: una zona selvaggia piena di felci spinose alte due volte un uomo. Viaggiarono per quattro ore. Poi finalmente Jagun disse: «Ci fermeremo qui per la notte». Il terreno cui la radice-guida li aveva condotti era situato leggermente al di sopra del livello del suolo circostante. Non vi erano felci spinose né globi avvelenati. Raggiunsero un terrapieno circondato da ispide erbacce dalle estremità appuntite come spade. Sebbene dopo aver lasciato Noth avessero visto ben pochi segni di rovine, era chiaro che quel luogo era opera dell'intelligenza e non della natura. Kadiya staccò dal terreno una zolla mista di terra e radici e al disotto osservò qualcosa che aveva l'aspetto di una pietra lavorata. Non si trattava del granito scuro con cui solitamente erano costruite le rovine, ma di un materiale molto più levigato, al punto che Kadiya si stupì che le zolle erbose avessero potuto mettervi radici. Sotto il sole del tramonto quel minerale emetteva una luminosità particolare. «Cos'è?» Kadiya attirò su di esso l'attenzione di Jagun. Poteva darsi che
la radice-guida li avesse portati in presenza di un oggetto lavorato di dimensioni così grandi che la giovane non riusciva a immaginarne il significato o l'uso. Dopo aver tolto con le mani un altro po' di terra, fu ovvio che la rovina non era certamente fatta di pietra. Sotto le sue dita imbrattate di fango Kadiya ne sentiva la superficie levigata. Jagun osservò la scoperta di Kadiya e volse rapidamente gli occhi altrove. «È degli Scomparsi.» Fece un piccolo gesto e osservò fissamente la radice di giglio. La fiammella nera, che aveva indicato loro la strada, brillò obliquamente per un istante e poi si raddrizzò e avvampò producendo un alone verdastro. Improvvisamente Kadiya avvertì che i suoi dubbi si dissipavano. Salì in cima al terrapieno e capì di trovarsi in equilibrio sul bordo di una sorta di bacino gigantesco. Il terreno ai lati cedette all'improvviso; in apparenza le piogge frequenti avevano rimosso terra e detriti dalla superficie dell'oggetto, che, per quanto poté vedere, non era intaccato né eroso. «Capocaccia, questa terra riserva molte sorprese. Forse dopo tutto la fortuna ci sorride perché sento...» Allargò le braccia ed emise un sospiro. Gli Scomparsi sembravano approvare la sua presenza in quel luogo, e perfino darle il benvenuto. Si rasserenò e il suo cuore divenne più leggero. Qui l'oscurità e i terrori che l'avevano oppressa sembravano piccoli e lontani. Non avvertiva più la fatica del viaggio, ma solo una crescente eccitazione ed era convinta che nulla sarebbe più stato in grado di ostacolarla. 24. Il principe Antar era stato inviato alla ricerca della principessa Anigel con una forza di spedizione di venti cavalieri e sessanta soldati, e con la Voce Azzurra, che l'avrebbe tenuto informato riguardo alla posizione della ragazza grazie ai frequenti contatti mentali con il suo malvagio signore. Gli uomini di Labornok erano partiti dalla Cittadella su tre larghe chiatte equipaggiate con piccole imbarcazioni d'appoggio. I possenti destrieri fronial dei cavalieri erano stati lasciati indietro per ordine del principe, una decisione che aveva sollevato un certo malcontento da parte di sir Rinutar e sir Karon e dei loro compagni, anche se non avrebbero comunque potuto dire come e dove sperassero di cavalcare quei bestioni nel bel mezzo della Palude Labirinto completamente priva di sentieri. Ogni chiatta aveva tre squadre di vogatori impegnati in doppi turni alternati, e così le imbarcazioni raggiunsero rapidamente il lago Wum seguendo le calme acque del
basso Mutar. Dopo la seconda fortunosa rilevazione di Orogastus, al piccolo contingente si era unito il Capo del Commercio, mastro Edzar, il quale vantava una vasta esperienza nel trattare con i fornitori di legname Wyvilo, gli aborigeni che popolavano la foresta di Tassaleyo e i suoi dintorni. Edzar aveva conferito con Orogastus grazie all'intermediazione della Voce Azzurra, e avevano così potuto delineare un piano d'azione che il Capo del Commercio definiva come assolutamente imbattibile. Ora i labornoki si stavano rapidamente avvicinando alla città di Tass, la sola apprezzabile comunità umana che si trovasse sul lago. In realtà quello che era il fulcro commerciale di Ruwenda per quanto riguardava il legname, non era che un malmesso agglomerato di banchine portuali, magazzini e baracche situate su un'isola circondata da tutti i lati da barriere di tronchi galleggianti che formavano delle specie di recinti adibiti allo stoccaggio del legname grezzo. Il Capo del Commercio Edzar spiegò ai cavalieri che parecchi di quei tronchi sarebbero stati trasportati, a mo' di grosse zattere, fino all'estremità superiore del lago, e che da lì le avrebbero poi fatte veleggiare verso nord sfruttando i venti favorevoli della stagione delle piogge. I legnami più pregiati e quelli già lavorati venivano invece inviati a nord per mezzo di chiatte, in qualunque momento dell'anno, per essere poi trasportati con i carri lungo la Rotta Commerciale durante la stagione asciutta. Gli uomini del principe, che se ne stavano al riparo di una tenda posta a copertura del ponte di prua della nave ammiraglia, erano mortalmente annoiati dal viaggio e dalle tirate del commerciante, essendoci ben poco altro da fare che bere e guardare il panorama, e non vedevano l'ora di iniziare nuovamente la caccia. La prima ricerca della principessa Anigel era stata condotta nei dintorni della collina su cui sorgeva la Cittadella, e si era risolta in un fiasco. Quegli uomini erano cavalieri, non marinai, e non avevano la minima idea di come si dovesse condurre una ricerca sull'acqua. Era stata improvvisata una forza di venti imbarcazioni ausiliarie, ognuna con un cavaliere al comando, tre armati e tre vogatori, le quali avevano vagato disordinatamente qua e là per la Palude Labirinto agli ordini dei loro inesperti capitani. C'erano state un bel po' di discussioni su chi avrebbe dovuto condurre le ricerche nelle aree limitrofe e chi in quelle più lontane, chi lungo i canali più sgombri e chi attraverso quelli ostruiti dalla vegetazione e infestati dai velenosissimi vermi acquatici e dai voraci milingal.
Persero parecchie ore zigzagando avanti e indietro per le zone meno impervie, lasciando così inesplorate quelle più difficili da battere, fino a quando il comandante della nave ammiraglia non aveva garbatamente suggerito al principe Antar che forse sarebbe stato meglio lasciar guidare le imbarcazioni dai barcaioli locali, offrendo una sostanziosa ricompensa a chi avesse localizzato per primo la fuggitiva. Venne allora finalmente condotto un più efficace rastrellamento, che però, purtroppo non diede alcun risultato. Ora, mentre il contingente si avvicinava a uno scenario che sicuramente prometteva più azione, Antar divenne cupo e irritabile, tanto che il rude sir Rinutar arrivò a confidare ad alcuni dei più intimi che il principe non sembrava troppo desideroso di cimentarsi nella missione affidatagli. Queste sue considerazioni furono udite dal franco e leale sir Penapat, che le respinse con fermezza, minacciando addirittura di spaccargli la testa se non le avesse ritrattate. Uno sconveniente degenerare della situazione fu evitato dall'intervento dello stesso Antar, che ristabilì l'ordine con l'aiuto del suo maresciallo, sir Owanon. Il principe si ritirò poi nella sua solitaria postazione di prua, dove nessuno osava disturbarlo, e lì rimase fino a quando non furono quasi giunti alla banchina d'attracco. Arrivati a quel punto, Antar ordinò al Capo del Commercio Edzar di spiegare ancora una volta le sue carte geografiche e ricapitolare il suo schema per i cavalieri lì riuniti, di modo che non ci fosse il benché minimo equivoco sul corso dell'azione. Edzar indossava ancora il suo tabarro verde rifinito in oro, ma aveva sostituito la toga arancione con una di vivida porpora, e al posto del copricapo a larghe tese ne aveva uno ancora più appariscente e ornato. «Mio signore, come voi ben potete vedere», iniziò, «tre grossi fiumi, compreso il Basso Mutar, alimentano il lago Wum. Ma c'è un solo emissario, il Grande Mutar che scorre attraverso la foresta di Tassaleyo ed è l'unico corridoio praticabile in quella distesa selvaggia. Se il potente Orogastus ha interpretato correttamente la sua visione, la principessa Anigel si sta dirigendo proprio verso la foresta, e per arrivarvi deve passare da qui.» Il suo dito era puntato in direzione dello sbocco meridionale del lago Wum, indicato sulla mappa come cascate di Tass. Si fece avanti la scarna e cupa Voce Azzurra. Generalmente si tratteneva presso la piccola cabina del capitano, dato che, proprio come un pipistrello, era infastidito dalla luce del sole; ma il loro avvicinarsi alla città di Tass
l'aveva convinto ad abbandonare la sua abituale postazione. «Mio prezioso Capo del Commercio, lo Specchio di Ghiaccio del mio grande maestro è in grado non solo di vedere ma anche di udire; la comunicazione dura solo un minuto, ma ciò nonostante, durante la sua seconda osservazione, il potente Orogastus è stato in grado di sentire chiaramente un'osservazione della serva della principessa Anigel, concernente il loro imminente avventurarsi nella foresta di Tassaleyo.» Il principe osservò la carta geografica della regione con aria accigliata. «Se la mancheremo alle cascate ci toccherà darle la caccia lungo il Grande Mutar. È ormai imminente la stagione delle piogge... e quali mezzi potremo mai utilizzare per spostarci laggiù?» «Potremmo sempre superare le cascate calando le nostre imbarcazioni d'appoggio con il montacarichi utilizzato per i tronchi», osservò Edzar, «ma in ogni caso i Wyvilo dispongono di una flottiglia delle loro veloci barche ormeggiate ai piedi del salto. Normalmente gli umani non ne fanno uso, i ruwendiani intendo dire, ma se sarà necessario inseguire la principessa giù per il Grande Mutar noi potremmo... convincere i Wyvilo a trasportarci». Sir Rinutar sogghignò beffardo. «Perbacco, ma come potrebbero rifiutarsi di dare una mano a dei bravi ragazzi come noi?» Aveva appena finito di affilare la lama della sua spada, che ora roteò abilmente in un morbido arco fino a puntarla contro il naso bulboso del Capo del Commercio. Edzar farfugliò un'esclamazione sconnessa, suscitando l'ilarità dei cavalieri. Allora la Voce Azzurra disse: «Sono stato autorizzato a ricorrere alle arti magiche se gli Oddling della foresta si dimostrassero recalcitranti a fornirci il loro aiuto. I miei mezzi di persuasione uniti a quelli di sir Rinutar non dovrebbero mancare di garantirci la volenterosa assistenza di cui potremmo avere bisogno. Ma ovviamente, se il piano di mastro Edzar avrà successo, cattureremo la principessa alle cascate». Sir Owanon, che era l'amico più stretto del principe Antar, oltre che suo secondo in comando, era un giovane arguto, il cui viso denotava una non comune intelligenza. Alzò un dito con espressione ammonitrice. «Ascoltate! È forse la cascata quella che stiamo sentendo?» «In vero, sì, mio signore», gli rispose il commerciante. «La cascata di Tass non si può superare con le imbarcazioni fluviali. Si tratta di un salto di quasi settanta metri, imponente, persino nella stagione asciutta. Sotto di essa il fiume Mutar scorre vasto e placido verso il mare. I taglialegna
Wyvilo non hanno quindi grossi problemi nel trasportare il loro legname controcorrente verso le cascate. È una visione davvero singolare quella che si para innanzi a chi osserva quei piccoli e strani esseri inumani appollaiati in lunghe file sugli enormi tronchi galleggianti, mentre pagaiano instancabili cantando i loro inni barbarici.» «E senza dubbio nel frattempo architettano pure qualche ingegnoso sistema per affettare le carni dello sfortunato umano che dovesse per caso incontrarli», aggiunse sir Karon con voce strascicata. Molti dei cavalieri scoppiarono in feroci risate. «Oh, no, mio signore!» protestò Edzar. «Nonostante il loro aspetto repellente, i Wyvilo sono... relativamente civilizzati. Voi vi riferite ai loro cugini, i Glismak, che vivono però molto più a sud. Quelli sì che hanno tendenze... cannibali.» «Per Zoto!» esclamò qualcuno. «Dovremo combattere dei mangiatori di uomini?» «Stolafat, potrai sempre tenerci i mantelli se la prospettiva ti spaventa», lo schernì Rinutar. «Basta con queste sciocchezze», intervenne il principe Antar. «Mastro Edzar, spiegateci nuovamente questo vostro piano che definite infallibile.» E poi, rivolto ai suoi uomini: «Fate attenzione e smettetela di punzecchiarvi!» Edzar dispiegò nuovamente la mappa, invitando tutti ad avvicinarsi. «Guardate qui. La città di Tass si trova su quest'isola, a poca distanza dalla riva orientale del lago. Il canale che si snoda a est è completamente bloccato da una barriera di tronchi galleggianti, ma nella parte ovest i tronchi sono molti di meno, dato che lì sorge una sorta di scogliera, le cosiddette Zanne di Munjuno, attraverso cui scorrono impetuose le acque prima di tuffarsi oltre l'orlo della cascata. La riva occidentale, in questo punto, è costituita da pareti a strapiombo assolutamente invalicabili, mentre quella orientale è ricoperta da una folta giungla attraversata solo dagli scivoli che vanno dal grande montacarichi in cima alla cascata fino a una insenatura dell'isola dove vengono raccolti i tronchi. E proprio su questo percorso prepareremo la nostra imboscata.» Edzar indicò prima la mappa e poi la riva orientale, che si trovava esattamente di fronte a loro, oltre il vasto labirinto di tronchi galleggianti. Il principe e i suoi uomini osservarono gli enormi carrelli da trasporto allineati lungo gli scivoli che si dipartivano verso la cascata; stranamente non si scorgevano né Oddling né animali da tiro, e l'intera riva sembrava deserta.
«La guerra ha interrotto la maggior parte delle attività commerciali della città di Tass», spiegò mastro Edzar. «I lavoratori ruwendiani che abitualmente si occupano della segheria situata sotto la cascata e che azionano il grande montacarichi e gli scivoli, non sono ancora tornati al lavoro. Lord Zontil, uno dei più fidati aiutanti del generale Hamil, è stato incaricato di predisporre qui un'adeguata guarnigione. Prevedibilmente, la situazione sarà sotto controllo per la fine delle piogge. Tutto il legname che vedete ora a mollo, verrà inviato allora verso l'estremità settentrionale del lago. E per la stagione asciutta primaverile, l'attività dovrebbe essere tornata alla normalità.» «Ehi, commerciante! Basta con queste chiacchiere da mercato!» - sir Rinutar scostò la mappa con un brusco gesto di impazienza - «Ci puoi garantire che la fuggitiva tenterà di raggiungere la foresta di Tassaleyo proprio utilizzando questa via?» Edzar si eresse, punto sul vivo: «Ma certo! Questa parte dell'altopiano di Ruwenda è delimitata da una estesa e ripidissima scarpata. In tempi ormai dimenticati gli Oddling avevano scavato uno stretto passaggio nel dirupo a est della cascata. Il grande montacarichi e la segheria sottostante, il cui funzionamento è permesso dall'energia fornita dalla caduta delle acque, furono costruiti dai primi abitanti umani del Ruwenda, i quali utilizzarono fondamenta lasciate, si dice, dagli Scomparsi. Non c'è altro modo di raggiungere il Grande Mutar dal lago Wum che utilizzando il montacarichi o quello stretto sentiero, e la principessa dovrà comunque seguire lo scivolo per arrivare all'uno o all'altro». Le tre grosse chiatte degli uomini di Labornok furono quindi ormeggiate al molo principale di Tass, anch'esso disertato da qualunque tipo di attività lavorativa. Lungo la banchina furono disposte guardie armate di tutto punto, mentre ruwendiani dagli sguardi cupi attendevano alle manovre di attracco. Un nobile labornokiano, agghindato con una elaborata armatura e circondato da alcuni ufficiali, attendeva impaziente il completamento delle manovre per poter infine salutare il principe. Ma Antar, chino sulla mappa, stava ancora dando istruzioni ai suoi uomini. «Ci spiegheremo lungo questo tratto, dividendo le nostre forze in tre squadre: Owanon guiderà la prima, Dodabilik la seconda, Rinutar la terza. Si disporranno nella zona d'arrivo del legname, a metà strada dallo scivolo, e cioè dove si diparte il sentiero e in cima al montacarichi.» «Non intendete guidare voi stesso una squadra, mio principe?» Il tono di sir Rinutar era velato da una nota di velenosa malizia.
«No», rispose Antar freddamente. «La Voce Azzurra ed io coordineremo l'azione da un punto favorevole, così egli potrà sfruttare i preziosi poteri che gli consentono la perlustrazione mentale a corto raggio della zona a lui circostante. E visto che Penapat non si è ancora ripreso dal morso del verme d'acqua, resterà anche lui con noi e si occuperà dell'organizzazione degli uomini addetti alle segnalazioni e delle staffette. Dobbiamo essere assolutamente certi», e a questo punto lo sguardo del principe incontrò quello della Voce Azzurra che gironzolava lì intorno, «che la principessa non ci scivoli nuovamente fra le dita.» Era da poco passato il mezzodì del loro terzo giorno al lago Wum, e il rombo continuo della cascata di Tass echeggiava ovunque come un tuono lontano, mentre il margine di quell'impressionante precipizio era perso in una vaporosa bruma luminescente. Anigel e Immu si erano avvicinate alla città di Tass con la massima cautela, e la loro barca si trovava ora nascosta sotto un salice piangente che sporgeva da una fenditura in fondo al precipizio della riva occidentale. Tutt'intorno a loro, enormi rocce emergevano dalle acque. Fra loro e l'isola, a poco più di duecento metri di distanza, si trovavano le cinque guglie acuminate delle Zanne di Munjuno, che delimitavano il punto di non ritorno verso le cascate. Una piccola imbarcazione poteva agevolmente affrontare la corrente a nord di quelle rocce e raggiungere senza incidenti le barriere di tronchi galleggianti e la riva opposta; ma passare a sud delle Zanne significava rimanere intrappolati nella rapida corrente e venire scaraventati a tutta forza verso le cateratte. «Quel che dobbiamo fare», disse Immu, disponendo davanti a sé i frugali cibi che avrebbero consumato sotto la fresca ombra del salice, «è attendere il calar delle tenebre e poi fare la breve traversata che ci porterà oltre le Zanne. Da quella riva si diparte un sentiero lungo neanche tre chilometri, e noi lo seguiremo fino a incrociare uno scosceso camminamento che conduce giù alla segheria ai piedi della cascata, dove ci procureremo un'altra imbarcazione.» «Ma... e i rimorik?» esclamò Anigel sgomenta. «Ma ma ma! Noi lasceremo libere quelle servizievoli creature, di modo che possano ritornare nelle loro acque natie. Cosa pensavi, di poterle tenere con te per sempre, come animali domestici?» Anigel abbassò il capo. «In verità non ci avevo affatto pensato.» Immu cercò di rincuorarla battendole affettuosamente sulle spalle. «Non
preoccuparti. Le acque del Grande Mutar sono piuttosto basse, a parte il corso principale. Volendo, potremmo anche costruirci una zattera con dei tronchi e guidarla lungo la corrente con delle pertiche... così lasceremmo indietro almeno una delle tue grandi paure. Le truppe di Labornok non penseranno mai di cercarci nella regione di Tassaleyo. Con un po' di fortuna, i Wyvilo rispetteranno il tuo amuleto proprio come hanno fatto gli Uisgu, e ti aiuteranno a proseguire la ricerca.» Anigel smise per un attimo di masticare il suo magro pasto a base di radici secche. «Lo pensi davvero, o lo dici solo per rassicurarmi? Ho sentito dire che sono molto ostili verso gli esseri umani, e che il loro aspetto è addirittura spaventoso.» «Sicuramente non è certo il tipo di creature che uno inviterebbe a un ballo di corte», concesse Immu. «Alcuni Nyssomu raccontano che eoni ed eoni fa, vari membri della nostra razza furono rapiti dagli Skritek e costretti a unirsi a loro; da quell'unione sono scaturiti sia i Wyvilo che i loro più primitivi vicini, i Glismak.» «Qual è dunque il loro aspetto?» domandò Anigel leccandosi le dita. «Io non ne ho mai visto uno, ma si dice che combinino in loro le fattezze degli Skritek con quelle dei Nyssomu o degli Uisgu.» «Uaag!» commentò la giovane. «Qualunque sia il loro aspetto», continuò Immu con tono di rimprovero, «anche i Wyvilo sono sottomessi alla Bianca Signora e riveriscono il Giglio Nero, e perciò possiamo giustamente sperare che ci accolgano con gentilezza e buona disposizione.» «Questi Glismak... sono davvero così feroci...?» Immu sospirò. «Come gli Skritek, che sono da considerare i più malvagi abitatori della Palude Labirinto, così anche i Glismak odiano tutti gli esseri viventi tranne se stessi. Dobbiamo pregare che il tuo talismano...» «Guarda!» la interruppe Anigel indicando verso la distesa d'acqua. «Oh, guarda! Un'intera flotta di imbarcazioni sta arrivando da dietro l'isola... e quella di testa regge lo stendardo di Labornok!» Immu si riparò gli occhi con la mano e sbirciò attraverso il bagliore accecante prodotto dal riflesso del sole sulle acque. Non c'era un alito di vento e il caldo era opprimente. «Ne sei sicura?» «Altroché! Il miton, tra l'altro, affina le percezioni sensoriali.» Si ritrasse fra le fronde, mentre rabbia e disappunto le arrossavano il viso. «Si tratta sicuramente di un contingente inviato a cercarmi, e si sta dirigendo proprio verso la riva orientale.»
«Per il Fiore!» borbottò Immu. «Ci stanno tagliando fuori. Se solo fossimo arrivate prima...» «Non c'è dunque altra via per scendere al Grande Mutar?» domandò Anigel lamentosamente. Immu distorse il viso in una smorfia mentre spremeva le meningi. «Giù giù giù. Conosco una sola via.» Ma poi la sua espressione cambiò all'improvviso e afferrò la ragazza con una delle sue piccole ma robuste mani artigliate, mentre con l'altra indicava oltre il bordo della barca. «Ma forse loro ne conoscono un'altra.» «I rimorik?» sussurrò Anigel. «Perché non tentare?» la esortò Immu. La principessa si sporse fuori bordo. I finimenti delle bardature delle due creature acquatiche erano stati allungati durante la traversata del lago, e lì l'acqua era piuttosto profonda. I rimorik erano quindi fuori vista, essendosi inabissati il più possibile per cercare un po' di refrigerio. «Amici miei. Devo chiedervi una cosa molto importante.» Apparve prima una scura sagoma, poi anche l'altra. I due testoni levigati emersero dalle acque, e gli animali scoprirono le zanne in una smorfia che Anigel un tempo aveva creduto feroce, ma che ora ben sapeva essere solo una sorta di sorriso. «Amica umana, chiedi pure.» «Sapete dove ci troviamo ora?» «Certamente. Vicino al margine delle Grandi-Acque-Bianche-Cadenti. Hai qualche altra domanda?» «C'è modo di scendere giù fino al fiume, al Grande Mutar?» «Sì. C'è una via che porta dalla Grande-Acqua-Piatta fino all'Acqua che scorre verso il Mare.» «Immu!» gridò la principessa. «Dicono che c'è una via!» «Chiedigli se possono portarci.» La voce di Immu era tesa, aspra. «Potete condurci giù con la barca?» «Se lo desideri.» «Ci sono degli esseri umani malvagi che stanno solcando con le loro barche le acque intorno all'isola. Potete guidarci al Mutar senza che ci acciuffino?» «Oh, sì. Volete andare subito? Se così è, dobbiamo prima dividere il miton.» «Hanno detto di sì!» esclamò Anigel, raggiante di gioia. «Vogliono sapere se desideriamo andarci ora! Oh, è meraviglioso. Cosa devo dirgli,
Immu?» I grandi occhi gialli della Oddling ammiccarono lentamente. Il suo sguardo era fisso sulla dolce creatura umana che tanto amava, notando forse per la prima volta come quella pelle prima tanto delicata fosse ora riarsa dal sole e ricoperta da punture di insetti, e come quei capelli un tempo definiti «fili d'oro» fossero diventati una massa informe simile a paglia sporca, mentre gli occhi azzurri, che non molto tempo prima balenavano spesso di paura, scintillavano adesso di un ardore pieno di energia vitale... «Mia cara fanciulla, ma naturalmente devi dirgli di portarci là al più presto.» Detto ciò, Immu risistemò le provviste negli zaini e li legò a una traversina di poppa della loro barca. Anigel aveva intanto bevuto qualche goccia di miton, per dividerlo poi con i rimorik. «Ora possiamo partire. Prendi posto, Immu.» La principessa ritornò alla sua postazione di prua, raccolse le redini dopo averle saldamente avvolte intorno alle piccole mani ormai ruvide come quelle di un barcaiolo Uisgu, e lanciò un vivace comando mentale: «Forza, amici miei, andiamo!» Le due poderose creature si immersero e sospinsero l'imbarcazione verso il lago aperto con l'impeto delle robuste ali natatorie artigliate. Tracciando una lunga scia ricurva, nuotando con prodigioso vigore, curvarono poi verso sud, in modo da passare proprio in mezzo alle Zanne di Munjuno, verso lo spumeggiante orlo della cascata scrosciante. Il principe Antar, appoggiato a una balaustra di pietra, osservava i suoi cavalieri e i soldati mentre sbarcavano dalle chiatte e incominciavano a disporsi lungo i punti d'osservazione prefissati durante il conciliabolo mattutino. Lui, la Voce Azzurra e lo zoppicante sir Penapat avevano preso posizione sul tetto della più alta costruzione di Tass, un faro di una ventina di metri di altezza che si trovava nella parte occidentale della piccola isola. A causa dell'intensa canicola, il principe e il suo cavaliere si erano liberati degli indumenti più pesanti, e osservavano la scena dal parapetto esterno del faro, mentre la emaciata Voce Azzurra, ancora avvolta nel pesante mantello e col cappuccio calato sugli occhi, sedeva su uno sgabello accanto alla grande lanterna ora spenta e sorvegliava lo spiegamento delle forze con il suo occhio mentale. «Non mi piacerebbe proprio vivere qui», osservò Penapat. «E perché no, Pen?» Antar stava ora oziosamente scrutando i tetti sottostanti, da cui si levavano sparuti pennacchi di fumo. Lord Zontil gli aveva
detto che la maggior parte della popolazione di Tass abbandonava la città durante la stagione delle piogge, a eccezione degli addetti alla guida delle zattere composte dai tronchi di legno. La guerra aveva semplicemente fatto sì che l'esodo venisse anticipato di qualche tempo. «Troppo rumore», dichiarò l'omaccione. «La cascata. Mi fa venire il mal di denti.» «Il mal di denti?...» «Ma non lo sentite, mio principe? Un suono così profondo lo si può solo definire come un fragore ossessivo. Si diffonde nelle rocce e fa tremare la struttura stessa del faro, e pure il mio corpo, e mi fa venire il mal di denti!» Antar proruppe in un'allegra risata, che però gli si spense in gola quando colse un fugace bagliore sulle acque del lago. «Mio Dio!» esalò. «Pen, dai un'occhiata là. Vedi anche tu quel che vedo io?» «Una piccola barca», affermò Penapat. L'espressione del massiccio cavaliere era vagamente perplessa. «Non dovrebbero avventurarsi oltre quelle rocce. Il mercante ha detto che lì c'è una corrente fortissima, che può trascinare qualunque imbarcazione verso le cascate.» «Voce Azzurra!» ruggì il principe. «Vieni qua, svelto!» La Voce Azzurra si alzò dalla sua postazione con evidente riluttanza, solo per essere trascinata poco cerimoniosamente da Antar verso la balaustra del faro. Il principe puntò un dito in direzione del minuscolo guscio di noce. «Quella barca! Chi c'è lassù?» domandò con voce concitata. La Voce Azzurra increspò le labbra. «Principe, mi avete destato dalla mia trance. È estremamente pericoloso...» La forte mano di Antar si serrò sul braccio dello scarno individuo. «La barca, cialtrone! Svelto!» Le orbite del chiaroveggente divennero improvvisamente nere e vuote. Le sue labbra sottili tremarono percettibilmente. «Mio signore... io... io non so dirvi chi ci sia a bordo.» La piccola barca, muovendosi a una velocità sorprendente, si trovava ora ben al di là delle rocce. Si distinguevano due figure, una a prua in rigida posa eretta, e l'altra accoccolata a poppa. Si era alzata una brezza leggera e la nebulosa cortina di foschia che aveva fino a quel momento avvolto il margine della cateratta si era un po' sollevata. Dal faro si poteva ora scorgere chiaramente una sottile linea nero-azzurra orlata di bianca spuma sul limitare del fatale precipizio. Più oltre, soltanto il vuoto cielo azzurro, e, ancor più lontane, le verdi cime di alberi soffusi dalla foschia. Mentre Antar osservava la folle corsa, gli sembrò per un momento di
scorgere due forme scure che precedevano la barca inarcandosi nella bianca spuma che delimitava il confine dell'abisso. Poi il sottile vascello restò per un lungo istante in bilico sul precipizio, la prua a mezz'aria e la poppa ancora sostenuta dalle acque, prima di inclinarsi verso il basso e scomparire definitivamente dalla vista. 25. Il maestoso gipeto volò instancabile sopra i picchi innevati e i ghiacciai eterni degli alti monti Ohogan, a una tale altezza che l'aria tersa e rarefatta toglieva quasi il fiato alla principessa Haramis. Si sentì già stordita non appena ebbero lasciato Movis, e fu contenta di potersi rannicchiare fra le folte piume della possente schiena del rapace, avvolgendosi strettamente nel suo mantello e lasciandosi andare a un sonno ristoratore. Fu così che non si accorse nemmeno del loro passaggio sopra il monte Rotolo e del lento ma graduale approssimarsi al torreggiante monte Gidris, avvolto in una spessa cortina di nubi. Le forti ali del gipeto battevano l'aria ora dopo ora, ma al calar della sera il solenne volatile non aveva ancora raggiunto il suo obiettivo. Haramis si svegliò quando stavano ormai scendendo attraverso una spessa nevicata. Come le avevano insegnato i Vispi, prima cercò di visualizzare mentalmente una chiara immagine dello straordinario testone bianco e nero della creatura, con quei suoi grandi occhi scintillanti e l'acuminato becco bordato di un'affilata dentatura. Poi la sua mente pronunciò il nome del volatile: «Hiluro!» «Ti sento, Haramis.» Udì la risposta in un angolo della sua mente che Magira le aveva pazientemente insegnato a utilizzare. Era stata una strana esperienza imparare il linguaggio senza parole; i suoi primi tentativi erano stati dei fallimenti completi. Poi, quasi per caso, era riuscita a indirizzare un messaggio a Magira. Dopo diversi altri successi piuttosto casuali, era riuscita a comprendere i meccanismi di ciò che faceva inconsapevolmente, e allora il processo divenne semplice, quasi automatico. Si trattava soltanto di rendere «aperta» quella parte della mente dopo aver chiamato mentalmente la persona desiderata. Quando Haramis ebbe imparato a indirizzare i suoi messaggi, Magira le presentò il gipeto che sarebbe stato allo stesso tempo suo destriero volante e compagno d'avventura negli ultimi giorni della ricerca.
Il grande uccello aveva planato delicatamente, atterrando infine sul tetto di ardesia a un semplice richiamo di Magira. La sua apertura alare era ampia quanto la casa, e i giganteschi artigli neri avrebbero potuto ghermire persino un cavaliere completo d'armatura, con la stessa facilità con cui un altro rapace sarebbe riuscito ad afferrare un agnello. Ma nonostante il suo aspetto così feroce, il colossale volatile si accostò a Magira con palese affetto. «Ti svelerò ora uno dei più grandi segreti del Popolo delle Montagne», aveva detto Magira alla principessa, accarezzando il capo del gipeto, che l'aveva abbassato per lasciarsi coccolare. «Tu sai che noi siamo stati generati, anzi creati, apposta per queste terre circondate da ghiaccio e neve... ma così pure lo furono queste creature! Quando gli Scomparsi rimodellarono le abominevoli carni del Ceppo Originario in coloro che furono definiti il Primo Popolo, generarono allo stesso tempo anche il voor, che voi umani chiamate gipeto, e che deriva da una specie più piccola di volatili. Il Popolo e i voor videro contemporaneamente la luce nel loro nuovo mondo, perché gli Scomparsi ben sapevano che i Vispi avrebbero avuto bisogno di aiuto per spostarsi in quelle terre strette nella morsa dei ghiacci. Le nostre città sono poche e separate da grandi distanze, ma con l'aiuto di questi amici possiamo attraversare nella massima tranquillità e sicurezza le lunghe e perigliose leghe che le dividono. Come d'altronde avrai modo di constatare anche tu nel prosieguo della tua ricerca.» Il gipeto, atterrando con la massima padronanza nonostante l'accecante nevicata che fioccava spinta dall'impetuoso vento delle montagne, beccò con forza il fianco ghiacciato della parete montuosa, che si sbriciolò rivelando un'apertura buia. «Si tratta forse del luogo in cui è nascosto il mio Cerchio dalle Tre Ali?» domandò la fanciulla. «No, è solo un rifugio per la notte. Abbiamo entrambe bisogno di cibo e riposo, e qui starai al sicuro mentre io vado a caccia. Sarò presto di ritorno.» Hiluro si alzò in volo. Haramis estrasse il suo amuleto da sotto il corsetto e vide che risplendeva come una lanterna. Tenendolo alto innanzi a sé, entrò nella caverna camminando sui frammenti di ghiaccio. Si trattava di una grotta di vaste dimensioni, quasi completamente asciutta sebbene raffiche di vento vi facessero penetrare mulinelli di neve. Le pareti nere erano venate di bianche striature di quarzo inframezzate da un altro materiale che rifletteva i caldi riflessi luminosi dell'amuleto. Ha-
ramis si rese conto che stava contemplando un favoloso filone d'oro. La giovane appoggiò a terra lo zaino e vagò per qualche tempo qua e là alla luce emanata dall'amuleto, rinvenendo ovunque sedimentazioni di metalli preziosi e talvolta anche pepite d'oro sparse sul terreno. Ma fu solo nei recessi più lontani dell'antro che fece la scoperta più interessante. Mentre passava vicino a uno scabro anfratto roccioso, la luce dorata dell'amuleto si riflesse momentaneamente su qualcosa di scuro ma rilucente, e quando lei si avvicinò per vedere meglio di cosa si trattasse, scoprì una parete di ghiaccio nero perfettamente liscia, in cui si poteva vedere riflessa mentre reggeva il suo luminoso amuleto. Uno specchio di ghiaccio... Non era forse la stessa cosa che si diceva veniva utilizzata dal Mago Orogastus per scrutare gli angoli più remoti del mondo conosciuto? Pose questa domanda alla sua immagine riflessa dalla scura superficie, una splendida fanciulla alta e dal viso pallido incorniciato da una massa di serici capelli corvini e circondato dal candido alone della pelliccia che orlava il cappuccio del suo mantello. L'amuleto le risplendeva all'altezza della gola e i suoi riflessi richiamavano irresistibilmente i suoi occhi ogni volta che tentava di distogliere lo sguardo. Era come affascinata dal bagliore dorato emesso dall'amuleto, e ad un certo punto sembrò quasi che la sua visione vacillasse, trasformando l'immagine riflessa nel ghiaccio in quella di qualcun altro: un uomo, abbigliato in una strana veste rifinita d'argento e come incoronato da un vistoso copricapo simile a una grande stella d'argento. Un uomo che le sorrideva e le tendeva la mano, offrendole di mostrarle i suoi segreti, di condividere il suo sapere, la sua magia... «Haramis!» «Orogastus», sussurrò la fanciulla, pietrificata dall'improvvisa comprensione, dalla paura. E sembrò quasi che l'uomo le si avvicinasse, attraverso lo specchio di ghiaccio nero... «Haramis!» Quel richiamo mentale era però qualcosa di inumano, familiare, urgente. «Hiluro?...» «Haramis, torna indietro. Adesso!» Vide il proprio volto riflesso nel ghiaccio. Sentì un gelo improvviso pervaderla fino alle ossa, si voltò di scatto e corse indietro da Hiluro, per rassicurarlo, mentre ancora le risuonava nella mente quell'impellente richia-
mo telepatico. 26. Jagun non tentò nemmeno di accendere un fuoco, ma rimase immobile, le braccia distese lungo i fianchi. Sembrava qualcuno che, raggiunta la meta del suo viaggio, non avesse trovato che un muro invalicabile. Kadiya lo osservò con apprensione. Quello era uno Jagun che non aveva mai visto prima. Stava per chiedergli cosa succedesse quando il Capocaccia si voltò all'improvviso e si arrampicò per raggiungerla sul bordo di quella sorta di bacino. Poi l'Oddling percorse lentamente il ciglio della rupe, ma senza guardare il sentiero che stava seguendo; teneva invece alto il capo, volgendolo lentamente da una parte e dall'altra, mentre la tensione del suo corpo esprimeva il bisogno di udire, di vedere, di conoscere. Infine, completato il giro, ritornò al punto da cui era partito avvicinandosi di nuovo a Kadiya, che gli chiese: «Che c'è, Jagun?» Per un istante pensò che non le avrebbe risposto. Poi il Capocaccia alzò la testa e la guardò dritto negli occhi. «Lungimirante, per noi tutti esistono cose oscure. Questa è una terra misteriosa per me quanto per te. Ma ora siamo giunti in un luogo ancora più misterioso.» «Vi è qualcosa da temere?» chiese la giovane. «Non lo so.» Afferrò lo zaino e vi rovistò in fretta prendendovi del cibo, alcuni biscotti secchi e due piccoli pesci affumicati, così fragili da spezzarsi al minimo tocco. Kadiya si chiedeva ancora perché il compagno non avesse acceso il fuoco, ma la cautela le impedì di fare domande. Sebbene in quella regione impregnata d'acqua le notti tendessero a essere fredde e umide, Kadiya non aveva freddo. Era come se il bacino diffondesse ancora attorno a loro un po' del calore del sole. Kadiya avvertì tutto il peso di quella giornata, e, sebbene la sensazione di fatica fosse interrotta dal pensiero delle larve e dei bulbi avvelenati che avevano superato, non aveva in sé abbastanza energia per sentirsi allarmata. La sensazione di sicurezza che l'aveva pervasa quando si era arrampicata qui per la prima volta era come un caldo mantello che prometteva un sonno senza paure. Dormì o rimase sveglia? Non avrebbe potuto dirlo. Mentre la notte s'incupiva e la nebbia si diffondeva su di loro, Kadiya rimase quieta.
Aveva piantato nel terreno la loro piccola radice-guida, tenendola vicino al viso e con l'estremità nera puntata verso l'alto. La radice non emetteva alcuna fiamma, ma il buio non era totale. Dapprima notò uno scintillio avvertibile soltanto con la coda dell'occhio. Se si voltava all'improvviso, esso scompariva o si spostava fuori dal suo campo visivo, così da sembrare solo una suggestione. Le cose andarono avanti in questo modo per un certo tempo. Poi gli scintillii si intensificarono. Erano alti almeno quanto Jagun, pilastri sottili in cui turbinavano colori vaghi, così pallidi da essere pressoché indistinguibili l'uno dall'altro. Dapprima rimasero immobili, senza formare alcuna figura riconoscibile; poi incominciarono a ondeggiare e diffondersi. Kadiya non capiva perché si muovessero in quel modo, ma era sicura che stessero tracciando una complicata figura il cui centro erano lei stessa e Jagun. Tuttavia non provava timore. Infine dei pilastri luminosi non restò che una leggera nebbiolina che volteggiava presso l'altro versante del bacino. La nebbiolina risplendette, e al suo interno Kadiya vide una bella città... la stessa città che aveva sognato prima di raggiungere Noth! Sembrava anche che un tempo avesse visitato quella città, trovandovi gioia e felicità. Kadiya non desiderò altro che andare alla sua ricerca. Da qualche luogo si diffondeva un canto, una musica diversa da tutte quelle che un bardo ruwendiano avrebbe potuto ricavare dalla sua arpa, e che suscitò in Kadiya una nuova brama. Poi la visione svanì. Kadiya si alzò, improvvisamente infreddolita, e portò le mani all'amuleto. La sensazione di essere protetta e aiutata era scomparsa. Al suo posto ebbe una vivida immagine mentale della terribile regione attraversata per giungere in quel luogo... e si rese conto che era già l'alba. Avvertì un movimento vicino a sé. Jagun, con un'espressione cupa ancora dipinta sul viso, era già pronto a riprendere il cammino. Fece un cenno a Kadiya, che si alzò, prese con sé la radice, mise in spalla lo zaino e si preparò a ripartire. I due viaggiatori, sul terrapieno che cingeva il grande bacino, guardarono attorno a sé. La nebbia della palude vagava qua e là turbinando, e non c'era traccia del sole nascente che l'avrebbe spazzata via. Nella mano di Kadiya la radice di giglio riprese vita, le scivolò fra le dita e cominciò a scendere dal versante opposto a quello da cui erano saliti il giorno precedente. «Andiamo.» La voce di Jagun era inespressiva come il suo viso, e non accennò alla colazione. Invece si mosse in direzione delle gigantesche felci
spinose e di quei tondeggianti orrori che spuntavano fra esse. Avanzarono a fatica, procedendo a zigzag per evitare i bulbi velenosi. Dopo qualche tempo arrivarono ad uno spiazzo ricoperto da una densa schiuma gialla. Non vi erano alberi, ma solo una serie di protuberanze cilindriche, simili a torri di argilla in miniatura, erette su qualcosa che sembrava una distesa pianeggiante. Jagun la avvertì che si trattava di sabbie mobili. Un solo passo falso, e sarebbero stati inghiottiti per sempre. L'Oddling frugò nel suo sacco da cacciatore e tirò fuori un piccolo involto che conteneva quattro oggetti ripiegati di forma piatta e ovale. Una volta liberati dai loro legacci, gli oggetti si aprirono, acquistarono spessore a contatto dell'aria umida e diventarono simili a foglie a forma di barchette arricciate alle estremità. I cacciatori le chiamavano «pinne». Kadiya le aveva già usate, sempre con cautela, e soltanto in compagnia di Jagun. Sedutasi su un sasso tondeggiante la giovane si legò strettamente le «pinne» alle caviglie. Batté i piedi a terra per assicurarsi che i nodi fossero resistenti, e poi seguì Jagun, avendo cura di ricalcare i suoi passi. La piccola radice-guida stava già scivolando su quel terreno insidioso. I due compagni cominciarono a muoversi con rapidità su quel terreno che Kadiya sentiva cedevole sotto i suoi piedi. Stavano fiancheggiando le protuberanze cilindriche, ciascuna delle quali era più alta di lei o di Jagun. La nebbia era così fitta che la giovane poté avere soltanto una visione molto vaga della sponda dell'Inferno Spinoso dalla quale si erano allontanati. A volte diventavano invisibili anche i rozzi pilastri. A misura che avanzavano, Kadiya si rese conto che il loro modo di procedere si faceva sempre più sicuro. Improvvisamente un grande velo di nebbia si levò, come se fosse stato deliberatamente disteso su qualcosa, e poi svanì. E videro l'ultimo pilastro. Ma non era un pilastro. Scaglie di fango tanto solide da sembrare cotte si erano staccate, e ciò che restava era chiaramente una figura... ma non una figura mostruosa. Non era stata fatta per rappresentare un Oddling. Le proporzioni erano umane come quelle di Kadiya, anche se la figura rappresentata era maschile. Non indossava altro indumento che un elaborato elmo-corona e due fasce che, partendo dalle spalle, si incrociavano sul petto e si allacciavano in vita con una cintura. Il corpo color avorio brillava come se fosse stato accuratamente lucidato. Le fasce e la cintura erano ricoperte da scaglie i cui colori svariavano dalla più chiara alla più scura tonalità del verde, dell'oro e del blu. Il loro sguardo fu attratto da ciò che la figura stringeva fra le mani prote-
se. Kadiya aveva visto molte atrocità negli ultimi giorni. Ma la testa mozzata che la figura teneva fra le mani era così estranea al sentimento suscitato dal resto della statua che la giovane trasalì per il terrore e il disgusto. QueDa non era la testa di uno Skritek né di un Oddling. Nonostante il cranio calvo e troppo bombato, avrebbe potuto essere la testa di un essere umano proprio come lei! Avanzò un poco, per vedere meglio il volto della statua, aspettandosi in qualche modo di riconoscere l'espressione feroce vista sul viso dei labornoki sguazzanti nel sangue alla Cittadella. Ma il volto della statua era calmo, pieno di forza e di serenità. La figura poteva essere stata un terribile segnale di avvertimento per i nemici, o un monumento a qualche vittoria; ma più Kadiya osservava quegli occhi - che sembravano fissare un qualche punto alla destra della giovane, essendo la testa leggermente voltata -, più era sicura di avere davanti un'antica sentinella, qualcosa che doveva valere da ammonimento per ogni epoca futura. Gli occhi della statua non erano semplici incavature. Al contrario, le cavità contenevano una pietra nera, e in ciascuna di esse, come nel cuore del Giglio Nero, vi era un frammento color oro. «I sindona!» Jagun fece un balzo indietro allontanandosi dalla statua. «Siamo sulla Via Proibita!» Il suo viso esprimeva un rispetto pervaso di timore. Gli occhi di Kadiya non abbandonarono quelli della statua. «Chi?» Jagun non le rispose. Invece si chinò e raccolse uno dei pezzi di fango cotto che erano stati chiaramente raschiati via dalla superficie della statua. «Questo è stato fatto non molto tempo fa. Ma... non dagli Skritek. Non avrebbero osato mettergli addosso i loro artigli. Da chi, allora?» «Per favore dimmi cosa rappresenta questa statua?» Kadiya alzò la voce. Jagun la guardò di sottecchi. «Le sentinelle degli Scomparsi... quelli che potevano comandare a cielo e terra...» Mentre afferrava un braccio di Kadiya la sua voce venne meno. «Guarda!» Per terra, su una scaglia di quel fango durissimo, c'era la piccola radice di giglio. La sua fiammella brillava, puntando non nella direzione in cui stavano viaggiando ma in quella verso la quale guardavano gli occhi della statua. Jagun immerse la punta della lancia nella fanghiglia gialla: penetrò per una lunghezza pari circa a quella di un dito e poi incontrò resistenza, sebbene la superficie non sembrasse diversa da quella del pantano che a-
vevano attraversato con tanta cautela. Kadiya osservò il Capocaccia incamminarsi, scandagliando il terreno davanti a sé con la lancia. La piccola radice tremolava come se avesse voluto prendere il cammino seguito da Jagun ma non volesse lasciare indietro Kadiya. Magia... tutto era magia! La sua vecchia insofferenza riapparve all'improvviso. Ma fin lì la guida non li aveva ingannati. Pur arretrando nel suo intimo, la principessa si incamminò a grandi passi dietro il Capocaccia. Le sue «pinne» affondarono leggermente sotto il suo peso, e la piccola radice scattò in avanti come un segugio finalmente sguinzagliato. Qua e là la fanghiglia giallastra era interrotta da quello che una volta avrebbe potuto essere un selciato. Lo strato di mota pian piano si assottigliava, e alla fine arrivarono in un luogo ricoperto da un tappeto erboso simile a quello che cresceva nelle regioni bonificate nord-orientali. Qua e là spuntavano chiazze di vegetazione spinosa, e Kadiya si punse diverse volte quando si chinò per raccogliere la piccola radice. Aveva schiena e gambe rigide e indolenzite, perché, senza accorgersene, era rimasta in tensione lungo tutto il percorso attraverso la fanghiglia. Ora inciampò due volte e cadde sulle ginocchia. Jagun le fu accanto immediatamente, bottiglia dell'acqua alla mano. Kadiya bevve, grata, e si distese a riposare tra i ciuffi d'erba. In meno di un minuto si addormentò. Quando la luce la svegliò, aprì gli occhi confusa. Aveva sognato di trovarsi nella sua camera nella torre delle dame alla Cittadella. Ma qui non c'era un tetto sopra di lei. Si sedette lamentandosi per il mal di schiena. La zona erbosa dove si trovava era circondata da alberi con tronchi levigati di un colore bronzo verdastro, e foglie bluastre orlate di verde frusciavano alla brezza. Era sola, sebbene il sacco da cacciatore di Jagun fosse lì accanto. Un uccello blabat si appollaiò su un rovo e strappò una bacca di un rosso brillante senza badare a Kadiya, che in quel momento si stava stirando, toccandosi la punta dei piedi con le mani. La radice di giglio era piantata vicino al punto in cui Kadiya aveva poggiato la tuta durante il sonno, e stava vibrando. «Nee... ne... ne...» La giovane riconobbe immediatamente quel suono. I Nyssomu non erano disinvolti nel parlare e si esprimevano a bassa voce, ma a volte intonavano un canto sommesso che manifestava la loro gioia. Jagun aveva staccato da un cespuglio di rovo un ramo ricoperto di frutti scarlatti di forma ovale, maturi al punto da scoppiare. Kadiya ne mangiò uno, e ne prese un altro prima di chiedere a Jagun:
«Dove siamo?» Jagun stava sbucciando con attenzione una parte del suo bottino, un lungo pezzo di canna da zucchero. Scrollò le spalle, indicando che non lo sapeva. La giovane era così abituata ad attribuirgli una perfetta conoscenza di tutta la Palude da non ruscire a credere che si fossero perduti. L'Oddling masticò un pezzetto di canna e sputò il midollo ormai privo di succo zuccherino. «Ci troviamo al di fuori di tutte le piste che conosco, Lungimirante. So solo che qui sotto c'è della pietra.» Dette un colpo a terra con la punta della canna. «E quella», accennò alla piccola radice-guida, «ci ha portato fin qui.» «Altre rovine.» Mettendo da parte il suo pezzo di canna, Jagun col coltello staccò dal suolo una piccola zolla erbosa. In effetti, là sotto si trovava una scura superficie di pietra. «Una strada. Ecco cos'è questa.» Fece un gesto con la mano, indicando davanti a sé un'apertura fra gli alberi. «Una strada costuita dai sindona?» Jagun non la guardò. Fissava invece la buca che aveva scavato, come se avesse commesso un grave sbaglio. Poi il Capocaccia parlò in modo esitante e facendo molte pause, come se informasse Kadiya con molta riluttanza. «Gli Scomparsi, e le loro sentinelle, i sindona, un tempo governavano le acque e le isole. Noi eravamo una loro creazione, modellati dalle loro menti e dalle loro mani. I Poteri delle Tenebre insorsero, e vi fu morte in questa terra. Ma, prima di andarsene, gli antichi ci radunarono per dirci che eravamo liberi. Ci richiesero soltanto certi giuramenti...» Jagun guardava il coltello girandolo e rigirandolo fra le mani. «I sindona rimangono a sorvegliare ciò che è stato lasciato dagli Scomparsi. Vi erano certe cose... e certe conoscenze che non poterono portar via con sé ma che non furono capaci di distruggere. Questa strada», accennò alle file di sentinelle ricoperte di fango, «conduce a uno dei luoghi proibiti.» Ricoprì di terra la buca che aveva scavato. «Figlia del re, tuo padre aveva i suoi Compagni Fedeli che dovevano servirlo al prezzo della loro stessa vita. Noi del Popolo dobbiamo fedeltà ad altri, ma i nostri giuramenti ci impegnano altrettanto solennemente. Ora, Lungimirante, io ho spezzato quel voto! Là, attraverso quegli alberi, corre la Via Proibita. La scorsa notte ho intonato il Grande Richiamo. Non c'è stata risposta. Non posso co-
municare con nessun perlustratore del Popolo. Ho superato la barriera fissata per quelli della mia razza. Quella procede», indicò la radice-guida con la punta del coltello, «e tu devi seguirla. Io non so se sarò in grado di accompagnarti. Credevo che ci stessimo dirigendo verso gli Uisgu, e invece siamo qui. E qualcuno ha reso visibile il Capo delle Sentinelle... Lamaril, la possente figura che neppure gli Skritek oserebbero affrontare... No, il mio richiamo non ha ottenuto risposta. Ma là», fece oscillare di nuovo il coltello, che anche sotto quel pallido sole emise un luccichio sinistro, «un fuoco ha brillato durante la notte. Là fra quegli alberi, lungo la Via Proibita...» Kadiya era sbigottita. «Io dormivo...» Per la prima volta Jagun sembrò meno severo. «Lungimirante, hai dormito per metà giornata, e per tutta la notte seguente. Questo è il secondo giorno.» La giovane aggrottò la fronte. «Avresti dovuto svegliarmi.» «No. Non so cosa si trovi davanti a noi, salvo forse che vi possono essere pericoli peggiori di tutti quelli già affrontati. Nessun cacciatore vorrebbe imbattersi in uno Skritek lungo la Via Proibita. Devi affrontare il futuro armata di ogni possibile energia della mente e del corpo. Così ti ho lasciato dormire.» «Quel fuoco che hai visto...» Jagun prese un aspetto severo. «I fuochi usati dalla nostra gente sono piccoli. Quello che ho visto era grande. Solo in molti avrebbero potuto alimentarlo.» «Gli uomini di Voltrik?» «Se così è, ci aspettano là dove quella vorrà condurci», rispose Jagun indicando la piccola radice. I due si incamminarono in silenzio, ma era chiaro che Jagun diventava sempre più agitato. Anche Kadiya era innervosita. Si sentì quasi tentata di spezzare in due la piccola guida. Ma non poteva. Era stata presa in trappola dai poteri magici dell'Arcimaga e dalla ricerca del talismano, il misterioso Occhio di Fuoco Trilobato, e non poteva opporsi a tutto ciò. All'improvviso Jagun emise un grido e allungò una mano per prendere il suo sacco da cacciatore. Tirò fuori un bracciale d'oro con incastonate alcune pietre rosse. Kadiya l'aveva visto altre due volte soltanto: la prima quando Jagun si era recato alla Cittadella per essere ricevuto ufficialmente da suo padre; e un'altra volta quando il Capocaccia lo aveva indossato in occasione di una cerimonia in cui il suo popolo cantava degli inni. Jagun
doveva aver ricevuto l'oggetto sacro al villaggio Nyssomu. Ora lo rigirava fra le mani mormorando e accarezzando con le dita la superficie liscia. Poi lo afferrò saldamente, mentre i muscoli tesi delle sue spalle rivelavano lo sforzo che stava compiendo. Il suo volto era una maschera di terrore. Il bracciale si spezzò. Jagun lanciò lontano i due frammenti. Uno spaventoso suono gorgogliante uscì dalle sue labbra. Kadiya aveva già udito quel suono, sempre in occasione della morte di qualcuno del suo clan, mentre il cadavere veniva condotto su una zattera fino al luogo segreto della sepoltura. «Jagun?» trovò infine il coraggio di mormorare. Il volto del Capocaccia si irrigidì. La giovane non aveva mai visto una simile freddezza nella sua espressione. «Jagun è morto», rispose con voce incolore. «Egli non sarà più nominato. Sono uno spergiuro, un reietto del mio Popolo, uno che non può Parlare e al quale più nessuno Parlerà. Abbiamo rotto il silenzio proibito. La Signora di Noth ha il diritto di toglierci la vita.» «Mentre seguiamo la sua stessa guida?» chiese Kadiya furibonda. Jagun giudicava forse lei colpevole? L'amuleto al suo petto si riscaldò. «Me ne vado!» gridò. Ma un istante dopo inciampò e si mantenne in equilibrio con sforzo. Il sentimento che la dominava era così forte che, pur volendo gridare, non riuscì a emettere neppure un suono. In quel momento provò una sensazione di paura tanto schiacciante da scuoterla in tutto il corpo. Paura di che cosa? chiese a se stessa. Si aggrappò a un cespuglio per reggersi in piedi. Come sempre, la paura risvegliava in lei la collera. Si guardò intorno con il pugnale sguainato. Lì vicino, Jagun era disteso sul tappeto erboso che ricopriva l'antica strada. Kadiya gli toccò il torace e notò che respirava con brevi rantoli affannosi. «Jagun!» Gli si inginocchiò accanto. Le labbra dell'Oddling si aprirono e una goccia di saliva gli scese da un angolo della bocca. «Indietro!» Parlò con un filo di voce. Allargò le braccia con un gesto convulso cercando di rimettersi in piedi. «Riportami... indietro!» Kadiya rimise nel fodero il pugnale e afferrò il Capocaccia per le spalle. Impiegando tutta la sua forza lo trascinò per una cinquantina di metri, lontano da quell'antica strada che la radice-guida la incitava a seguire. La radice si era fermata, ma vibrava come se volesse chiamarla. La paura di Kadiya era svanita, come se fosse stata abbattuta una porta. La giova-
ne guardò l'amuleto. Scintillava ed emetteva calore, ma non come se annunciasse un pericolo. Al contrario, sembrava volesse incoraggiarla. Il vento si levò, facendo stormire gli alberi. Jagun tossì e si mise a sedere. «Una barriera...» ansimò. «Non posso procedere lungo la Via.» La sua testa si piegò in avanti. Il suo viso aveva un'espressione assente. Si trovava di fronte a qualcosa che non era in grado di combattere, e non gli era rimasta alcuna arma. «Lungimirante...» La sua voce era addolorata. «È proibito... tu sola puoi andare avanti. Ma giuro che se esiste una via ti raggiungerò. Lo scoprirò!» «Io...» Kadiya si sentiva le labbra gelide. «Jagun... stai attento.» Il Capocaccia alzò le braccia in un gesto di rassicurazione e di incoraggiamento. Poi si voltò e si allontanò lentamente, e dopo un po' si mise in punta di piedi e agitò le braccia in segno di saluto. Kadiya immaginò che Jagun avrebbe dovuto vagare a lungo prima di scoprire se vi fosse una via oltre a quella che li aveva separati. Vi fu un movimento fra l'erba. La piccola radice si muoveva avanti e indietro come esasperata, incitando Kadiya all'azione. La giovane prese in spalla il sacco da cacciatore di Jagun e con lenta riluttanza seguì la radice-guida che si inoltrava fra gli alberi. Fu colpita da folate d'aria di un odore nauseabondo, un fetore che non era né quello degli Skritek né quello della palude. Per due volte si voltò indietro sperando di avvistare Jagun, ma ormai il Capocaccia si era allontanato. Tuttavia vi era qualcosa ai piedi di uno degli alberi, qualcosa di simile a un debole luccichio. Si chinò per raccogliere una freccia ben costruita; l'asta e la frangia erano di un colore simile a quello del sangue raggrumato. Aveva già visto frecce come quella, sì... e durante l'assedio alla Cittadella aveva aiutato a raccogliere quelle che non erano state danneggiate per riempire le faretre degli arcieri. Quella freccia apparteneva agli invasori! Come era arrivata fin lì? E perché giaceva così in equilibrio... come se, al pari della radice, fosse anch'essa una guida? Stava per gettarla lontano, ma poi i suoi pensieri si schiarirono e un istante dopo la rimise al suo posto, ma con la punta rivolta nella direzione opposta. Come erano riusciti i labornóki a superare la barriera che aveva sconfitto Jagun? L'amuleto era stato la sua chiave per passare - ma da cosa erano stati aiutati gli uomini di Hamil che portavano con sé soltanto le armi già tante volte lordate di sangue? Era opera, ancora una volta, della magia nera
di Orogastus? Dopo qualche passo, l'impronta di una scarpa impressa nella terra umida. E più in là... Kadiya dovette dominare la nausea alla vista del cadavere di uno Skritek che giaceva su di un fianco, come se il suo corpo fosse stato allontanato dal sentiero con un calcio. La creatura non portava segni di ferite e non vi erano pozze di sangue. Si volse in avanti con risolutezza e continuò a camminare, ostinatamente attenta a tutto ciò che la circondava. Poi un nuovo odore disgustoso si diffuse nell'aria. La giovane guardò alla sua destra. Un Oddling, che per la sua pelle spessa non poteva essere che un Uisgu, era legato a un albero. Questa volta il modo in cui era sopravvenuta la morte era evidente, e non era stata una morte tranquilla. Non lontano dalla prima vittima Uisgu, vide un certo disordine sul terreno, e sentì un forte odore di legno bruciato. Diversi cespugli erano stati strappati, e il manto erboso era rovinato. Lì Kadiya vide un altro Oddling che era stato torturato. Non osava avvicinarsi ma fu costretta a farlo quando da quel corpo le giunse un debole grido. Il volto dell'Uisgu era deturpato ed egli fissò Kadiya tentando di alzare una mano deforme. Ancora una volta Kadiya chiamò a soccorso la collera. «Chi ha fatto ciò?» La giovane esitò... come avrebbe potuto curare quelle terribili ferite? Non aveva niente... La mano dell'Uisgu si mosse. La sua bocca, rovinata dalle ferite non avrebbe probabilmente più potuto pronunciare una parola. Con enorme sforzo l'Oddling fece un gesto in direzione del pugnale di Kadiya. Alla fine la giovane riuscì a capire il significato di quella supplica. Il cuore di Kadiya martellava all'impazzata. Era sempre stata affascinata dalle armi, e un paio di volte aveva tirato di scherma quando era riuscita a mettere di buon umore il Maestro d'Armi, convincendolo a insegnarle qualcosa. Da Jagun aveva appreso l'arte di usare il pugnale come gli Oddling... ma a questo non era preparata. Ancora una volta quel debole grido, quel piccolo gesto... Kadiya strinse le labbra e impugnò con entrambe le mani l'elsa del pugnale. Qualcosa le ritornò alla mente, certe parole pronunciate da Jagun quando aveva trovato un fronial così intrappolato nelle spire di una pianta carnivora da non poter più essere liberato. «Riposa in pace...» Immerse il pugnale e lo sentì penetrare nella carne viva. Poi deglutì e deglutì di nuovo. Si rimise in cammino barcollando: desiderava solo essere lontana da lì,
libera. Tuttavia gettando uno sguardo ai suoi piedi vide la radice-guida strisciare diritto dinanzi a lei. C'era il pericolo, là davanti, e Kadiya lo sapeva, ma sapeva anche di essere impreparata ad affrontarlo quanto lo era stato il presidio della Cittadella di fronte all'invasione. Una strana foschia si addensava fra gli alberi dinanzi a lei, diradandosi a tratti fino a diventare una lingua di nebbia. La piccola radice avanzava sicura; e Kadiya trasalì vedendo la sua punta sollevarsi, brillare di un verde vivo e poi ruotare a sinistra, puntando in mezzo a due grandi alberi simili ad altri già incontrati. Si udì un fischio sottile e acuto. Qualcosa colpì il tronco dell'albero che si trovava proprio davanti a lei, e Kadiya istintivamente fece un balzo. Una spirale di fumo denso e oleoso si levò in aria; la giovane si gettò a terra e riuscì a trovare riparo nascondendosi fra i rami di un grande roveto. Di nuovo udì quel fischio, seguito da quella che avrebbe potuto essere una risposta smorzata. Kadiya era caduta bocconi, impacciata com'era dal sacco di Jagun, che si era impigliato in un ramo. Cercò freneticamente di liberarsi. Il fumo le arrivò diritto sul viso; allora si sentì soffocare e tossì, ma senza trarne sollievo. Ma proprio quei colpi di tosse furono la sua salvezza. Mentre si dibatteva, i rovi cedettero e Kadiya cadde in avanti dentro una specie di cavità oscura. Allungando una mano non incontrò né rami né alberi, ma una superficie di pietra. Quando il richiamo risuonò per la terza volta dietro di lei, Kadiya si rintanò ancora più profondamente nell'oscurità. Era travolta dal panico, e una parte di lei temeva che quella in cui si stava inoltrando fosse in realtà una trappola; tuttavia continuò a strisciare in avanti. A ogni istante si aspettava che i suoi inseguitori la prendessero, la afferrassero per le caviglie e la tirassero fuori dal suo nascondiglio, proprio come i sucbri venivano strappati dalla loro conchiglia da una mano esperta. Ma ancora continuava ad avanzare, finché le sue mani non incontrarono che il vuoto e sprofondò giù, sempre più giù... Si trovò circondata dall'acqua e dalla luce. Ma non dal torbido liquido sudicio che riempiva gli stagni della palude. Era acqua limpida come cristallo, tranne che vicino a lei, dove galleggiavano tracce del terriccio che le si era appiccicato addosso durante la fuga. Sebbene il sacco di Jagun la tirasse a fondo Kadiya rifiutò di sbarazzarsene, e cominciò invece a spingersi in avanti con i piedi per raggiungere la superficie. Un bagliore verde attirò il suo sguardo. Allora non aveva perso la sua guida! La radice era nell'acqua davanti a lei.
Intorno a quello stagno c'era un muro, e lei vi si arrampicò. Percorse lentamente, carponi, un pavimento ricoperto da un mosaico d'un azzurro metallico. Non vi erano erbacce, nulla che insudiciasse lo stagno e le sue limpide acque. Dinanzi a lei vi era una gradinata, fiancheggiata da statue. Kadiya si rimise in piedi. Per prima cosa la colpì il completo silenzio di quel luogo. Dopo che fu uscita dall'acqua, la liscia superficie dello stagno tornò perfettamente calma. Kadiya osò osservare più da vicino la gradinata. Non vi era traccia di vegetazione... soltanto la fila di statue che Jagun aveva chiamato sindona. Un'arcana luce diffusa faceva sì che gli ornamenti delle statue immobili emettessero uno scintillio abbagliante. Non tutti gli immoti, attenti sindona erano maschi, anche se le figure rappresentate erano vestite allo stesso modo. Emanava da esse un tale senso di vita che la giovane non sarebbe stata sorpresa nel vederle muoversi e parlare... forse per proibirle di entrare, forse per darle il benvenuto. Kadiya diede uno sguardo al proprio corpo ammaccato e graffiato, e ai laceri indumenti Nyssomu, che non avevano resistito troppo bene alla lotta contro quelle regioni selvagge. Stranamente, si sentì rigenerata, più forte. Voleva affrettarsi a visitare quel luogo di cui nessuna leggenda o racconto di viaggiatore aveva parlato. In cima alla scalinata Kadiya si fermò davanti ad una delle statue. Era più alta di lei... forse a grandezza naturale per la razza del suo artefice. Osservò da vicino il volto ricoperto dall'ombra proiettata dall'elmo. «Chi sei?» Le sue parole sembrarono brusche, troppo esigenti per questo luogo di silenzio e di bellezza. E come avrebbe potuto aspettarsi una risposta da parte della silenziosa sentinella? Naturalmente non avrebbe potuto esservi risposta. Tuttavia fu certa di udire uno strano suono, come se una spessa coltre, che fino allora aveva attutito ogni rumore, fosse stata rimossa. Risuonò una nota cristallina, simile al rintocco di minuscole campane. Gli uccelli presero a cinguettare, e la brezza diffuse intorno a lei un profumo che la liberò completamente dall'angoscia che l'aveva spinta a cercare un rifugio. Proseguì le sue esplorazioni. Più avanti vi era un'altra scalinata ancora più grande, ma senza le statue delle sentinelle; conduceva a un vasto parco che sarebbe stato inimmaginabile per chiunque fosse nato nella regione delle paludi attorno a Ruwenda. Frutti maturi di specie sconosciute erano sospesi ai fiori stessi che li avevano generati. Il cielo spendeva limpido. Il
giardino appariva così incantato, così penetrato di magia, che Kadiya non osò avventurarvisi. Sul gradino più alto della seconda scalinata giaceva la piccola radice-guida; la sua punta scintillava come se fosse stata di smeraldo. Kadiya batté le palpebre, sorpresa. Non era più sola. La creatura che stava attraversando il giardino, diretta verso di lei, apparteneva chiaramente alla razza rappresentata dalle statue, anche se l'elmo e la cintura erano stati sostituiti da un indumento di un tessuto simile a garza. Una donna... ma lo era davvero? Kadiya non avrebbe potuto dirlo. Ma sapeva di trovarsi in presenza di qualcuno davanti a cui l'Arcimaga stessa si sarebbe inchinata, e perciò anche la principessa si inginocchiò. «Figlia del Triplice, che ha fatto il tuo popolo per rompere l'equilibrio della grande bilancia del mondo? Per far sì che la morte e il dolore siano giunti fin qui... fino all'ultima fortezza?» Kadiya comprese che quella non era realmente un'accusa... la creatura voleva soltanto conoscere la verità. La giovane si rialzò lentamente. «In primo luogo», rispose, cercando di parlare con la stessa disinvoltura della sua interlocutrice, «io sono la figlia del re Krain di Ruwenda. Quelli di Labornok, comandati da Voltrik, facendo uso della perfidia e della forza delle armi, e soprattutto delle arti di uno stregone malvagio, hanno devastato il mio paese. Con l'aiuto del cacciatore Nyssomu Jagun sono fuggita dalla Cittadella dopo la sua capitolazione. Poi sono riuscita a giungere fino all'Arcimaga, a Noth, e mi è stata data questa.» Kadiya raccolse la radice e la sollevò. «L'Arcimaga mi ha anche affidato un solenne compito... la ricerca di un talismano. È stato predetto che solo grazie a una donna del mio casato potrà essere ristabilita la giustizia per Ruwenda. L'Arcimaga ha definito me e le mie sorelle petali del Giglio Vivente. Noi siamo in tre... anche se non sono certa che le altre vivano ancora. E questa piccola radice mi ha condotta fin qui.» «L'Arcimaga di Noth», disse lentamente la creatura. «Da molti anni non inviava qualcuno qui, nel Luogo del Sapere. E se ora lo ha fatto, ciò significa che su questa terra si sono addensate le tenebre. Secondo le più antiche consuetudini la vita deve essere così...» La sconosciuta distese una mano in posizione orizzontale, e vi mise sotto l'altra verticalmente. «I Poteri delle Tenebre hanno rotto l'equilibrio. Già una volta ciò accadde, e vi fu una violenta battaglia, e la terra ne fu sconvolta. La terraferma divenne acqua, le acque divennero terraferma, e il Ghiaccio Vincitore ricoprì tutto
col suo manto.» «Come sono riusciti quei sanguinari a trovare la strada per questo luogo», chiese Kadiya, «e a superare la barriera che ha respinto il Nyssomu?» «Figlia del re, una volta aperta la più piccola breccia in un muro, esso può franare trasformandosi in un mucchio di pietre. Lo stregone tuo nemico di cui hai parlato è capace di molte cose, e molte ne conosce. Egli ha assicurato una certa protezione ai suoi seguaci, che hanno agito come chiavi capaci di aprire le nostre antiche barriere. Figlia del re», la donna accennò alla radice che Kadiya teneva ancora in mano, «concludi qui il tuo viaggio. Se l'Arcimaga di Noth ti ha scelta, dovrai combattere. Se sarai sola o no, dipenderà dalle tue stesse azioni.» «Non è possibile trovare scampo qui, nel Luogo del Sapere?» «Non da ciò che incombe su di noi... io stessa infatti sono chiamata in causa dalla minaccia dei Poteri delle Tenebre.» La sconosciuta alzò la testa come per ascoltare qualcosa. «E tuttavia essi non possiedono tutto il potere che credono di avere. La via segreta che ti ha condotto qui è chiusa, e così essi sono costretti a cercare qua e là alla cieca con i loro Skritek. Ma le antiche difese resistono ancora.» «Che cosa cercano?» «Quello che credono sia un tesoro, figlia del re. Ma ciò che bramano gli Skritek e i labornoki non è ciò che spinge all'azione il loro capo. Egli cerca ciò che è proibito, e i suoi seguaci sono molto stanchi, e vorrebbero ritornare alla Cittadella anche senza averlo trovato.» «E cosa sai del talismano che cerco?» gridò Kadiya, lasciando cadere a terra la radice di giglio, che rimase immobile. Il suo colore era diventato più pallido. «Dov'è l'Occhio di Fuoco Trilobato che l'Arcimaga mi ha ordinato di trovare?» «Guarda dentro di te, figlia del re... apri il tuo cuore e la tua mente.» Lo sguardo di Kadiya era sgomento. «Io non ho alcun talismano magico! Non ho armi! Neppure una spada...» «Eppure sì, figlia del re.» C'era un tono gelido, che dava i brividi, in quella risposta. «Guarda in te stessa e vedrai!» E la creatura scomparve. Kadiya cadde in ginocchio. Più nulla la affascinava in quel giardino meraviglioso. Era stremata, perduta. Le restava soltanto la radice del Giglio Nero, che pareva avvizita. Magia! Picchiò i pugni sul pavimento, finché il dolore ebbe la meglio sulla rabbia che la divorava. Guardare in se stessa, guardare in se stessa! In
lei c'era soltanto furore! Chinandosi in avanti afferrò la radice che si era presa gioco di lei e l'aveva condotta in quel luogo inutile, e cercò di spezzarla. Invano. Una di tre. Come scaturita dal nulla, la frase le risuonò nelle orecchie. Kadiya alzò rapidamente gli occhi. Era forse ritornata la donna-sentinella? No, davanti a lei c'erano soltanto lo stupido giardino e l'inutile radice-guida. Afferrò la radice e la scagliò lontano con tutte le sue forze: attraversò l'aria con la precisione di una delle frecce di Jagun, e poi virò per tornare ad atterrare proprio di fronte a Kadiya, dove rimase, in posizione verticale, vibrando leggermente. La giovane balzò in piedi, fremendo per il desiderio di distruggerla. Ma si bloccò. Davanti ai suoi occhi la radice stava diventando più grossa, più alta, più grande. In preda allo stupore Kadiya si rannicchiò a terra, senza distogliere lo sguardo. Vicino all'estremità della radice spuntarono due steli più piccoli. Sotto di essi il gambo si ingrossò ancor più, formando un tozzo cilindro scuro. E proprio in cima germogliò... o così parve, poiché spuntarono tre sfere strettamente congiunte. Kadiya guardava sbalordita, stentando a credere ai propri occhi. Vi fu un movimento in ciascuna sfera, una spaccatura che si apriva nel loro rivestimento nero. E apparvero... Tre occhi. Uno era un occhio della gente del Popolo, di colore giallo-verde. L'altro era bruno... e se Kadiya avesse guardato in uno specchio ne avrebbe visto due simili sul proprio stesso viso. Il terzo era di un blu argenteo, con una pupilla straordinariamente grande, nel profondo della quale brillava una dorata scintilla di fuoco. Sul suo petto l'amuleto scottava. Prima che potesse afferrarlo, l'amuleto del Giglio sobbalzò come se fosse una cosa viva, la catena d'oro attorno al collo di Kadiya si spezzò, e l'amuleto volò verso l'Occhio Trilobato fissandosi nel punto in cui si univano le tre sfere. I tre occhi si richiusero, lasciando in vista soltanto tre inespressivi globi neri. La giovane afferrò lo stelo proprio sotto i globi, e con la certezza di fare ciò che andava fatto, dette uno strattone. Ciò che estrasse dalla terra non erano le radici della pianta, ma una spada scintillante! E l'impugnatura si adattava così bene alla mano di Kadiya che sembrava essere stata forgiata apposta. La giovane strinse fra le dita le tre sfere dell'elsa.
«L'Occhio di Fuoco Trilobato.» Era sopraffatta dalla felicità. Ma poi notò che la lama della spada scintillante era smussata, senza punta! «Signori dell'Aria, che spada è questa? Come potrò usarla contro i miei nemici?» Una voce sommessa, poco più di un sospiro nel suo orecchio, disse: «Imparerai». 27. «Cosa fate?» strillò Anigel ai rimorik lanciati a tutta velocità. «Non possiamo andare da questa parte... ci uccideremo!» Ma i due animali non risposero e anzi aumentarono l'andatura, così che la piccola imbarcazione fendette le acque saettando, e alla principessa non restò altro da fare che piantare ancor più saldamente i piedi sul tramezzo di prua e aggrapparsi alle redini. La sua mente si rifiutava di accettare la possibilità che, dopo averla portata fin lì, quelle fedeli creature avessero improvvisamente deciso di far precipitare lei e Immu da quella terribile cascata. Vide avvicinarsi velocemente il margine del precipizio. Non riusciva più ad emettere un suono, era incapace di formare nella sua mente un singolo pensiero coerente da inviare ai rimorik per distoglierli da quella follia suicida. Perfino l'amuleto era fuori dalla sua portata, perché le briglie che teneva fra le mani e arrotolate intorno ai polsi erano così strette che non avrebbe potuto mollarle neanche volendo. Non pensò affatto a Immu, convinta com'era che si stesse avvicinando la propria stessa fine. Il suono della cascata divenne un fragore assordante, e la fanciulla si ritrovò i vestiti e i capelli infradiciati dalle goccioline d'acqua che ricadevano ovunque. I suoi occhi erano inchiodati sull'orlo dell'abisso, dove la corrente del lago passava dal nero-azzurro a un magnifico arcobaleno di azzurro, acquamarina, verde e infine bianco. Ormai in procinto di precipitare nel vuoto, la barca rallentò all'improvviso, e Anigel poté mollare le redini e aggrapparsi alle fiancate. Restò a bocca aperta quando i due rimorik balzarono fuori dalle acque, producendo una pioggerellina di spruzzi dai riflessi di diamante, per rituffarsi poi fuori della sua vista. La prua della barca rimase sospesa a mezz'aria, e per un istante la povera principessa fu in grado di guardar giù, oltre il tumulto di schiuma biancastra che era il fronte della cascata, e vide una vasta polla azzurra sulle cui rive si distinguevano alcuni piccoli edifici. Da quello specchio d'acqua si dipartiva un largo fiume il cui corso era arricchito da numerosi canali, e si
snodava poi come un nastro d'argento soffuso dai raggi solari attraverso la vasta distesa verdeggiante della foresta di Tassaleyo, fino a perdersi in lontananza in una bruma purpurea. Scorse nitidamente quel panorama affascinante grazie a una vista resa più acuta dal miton, e al contempo le sembrò di sentire nella mente Immu e i due rimorik che le ripetevano: «Fidati!» E poi la barca si inclinò in avanti e tutto intorno a lei si confuse in un denso vapore acqueo e in decine di arcobaleni ruotanti, e Anigel precipitò in un dirompente mondo bianco che presto si dissolse in un vacuo nulla. In quel nuovo sogno sua madre, la regina Kalanthe, stava camminando rapidamente lungo un sentiero che si snodava in un paesaggio per niente familiare, ma che Anigel identificò in qualche modo come una foresta riarsa; Kalanthe indossava gli abiti di gala e la corona. Anigel si trovava parecchio indietro, e correva per cercare di raggiungerla, gridandole disperatamente di fermarsi; ma Kalanthe sembrava non udirla. Non c'era altro da fare che sforzarsi di correre ancor più velocemente, e Anigel si impegnò al massimo, con il cuore che le martellava nel petto, i polmoni che le bruciavano e le gambe che le facevano così male che avrebbe gridato a ogni passo se ne avesse avuto il fiato. Si sentiva talmente spossata che avrebbe volentieri lasciato perdere l'inseguimento, gettandosi per terra nella più cupa disperazione e lasciando che la regina se ne andasse; invece tenne duro e si slanciò in avanti con rinnovata energia. Poi avvenne il miracolo: sua madre si fermò, si voltò, e attese sorridente che la ragazza barcollasse stremata verso di lei, accogliendola saldamente quando Anigel crollò piangendo fra le sue braccia. «Piccola mia», disse Kalanthe. «Temevo che neanche tu saresti venuta. Sai, le tue sorelle hanno preso altre strade. Ma ora andrà tutto bene, non appena sarai pronta.» Poi la regina condusse Anigel a un vicino ruscello, aprì una piccola borsa di velluto e ne tirò fuori un pezzo di sapone, un panno morbido e un pettine d'avorio. «Dobbiamo darti una rinfrescata», disse Kalanthe, «acconciare i tuoi capelli e trovare delle ricche vesti, così che i tuoi sudditi ti possano riconoscere.» La regina inumidì il panno e lo strofinò sul viso di Anigel per toglierle sudore e polvere, e strofinò sempre più forte fino a quando la fanciulla sentì bruciare la pelle e lanciò un grido... Si svegliò.
Era sdraiata su un terreno morbido ricoperto da uno spesso strato di muschio, vicino alla riva di un fiume. Una piccola creatura dalla pelliccia gialla a strisce, il muso appuntito e grandi occhi neri, le stava leccando il viso con la lingua ruvida. Quando la fanciulla emise un grido di sorpresa, il piccolo essere lanciò uno squittio allarmato e si rifugiò precipitosamente nel fitto sottobosco. Un uccellino bianco a lei sconosciuto cinguettava sul ramo più basso dell'albero sotto cui era sdraiata, tessendo un melodioso contrappunto al rombo della cascata. Il fiume si trovava a pochi metri di distanza: numerosi piccoli canali s'immettevano nel corpo principale, largo e sinuoso, disseminato ovunque da basse isolette e cumuli fangosi ricoperti da detriti naturali. Sono viva! Realizzò quella meravigliosa scoperta con una certa lentezza, e mosse prima le braccia, poi le gambe e persino le dita prima di mettersi a sedere. I suoi abiti di tessuto vegetale erano a brandelli, e così pure il camicione di lino che portava sotto di essi. I piedi erano però ancora calzati nei robusti sandali di cuoio, mentre gli alti stivali erano quasi completamente stracciati. Indossava ancora la cintura, con attaccata la piccola borsa in cui teneva i suoi pochi effetti personali, e l'amuleto le era fortunatamente rimasto appeso al collo. La sua pelle era incrostata di fango ma abbastanza asciutta, la qual cosa significava che doveva trovarsi sulla riva già da qualche tempo. Ma non ricordava affatto come ci fosse arrivata. Camminando cautamente sopra putrescenti pezzi di legno portati a riva dalla corrente, si diresse verso la sponda del fiume. Lì, dal limitare delle acque poté godere di una chiara visuale di ciò che si trovava a monte. L'intero orizzonte settentrionale era delineato da un'alta parete verdeggiante che si elevava dalla densa foresta ed era divisa in due da una larga striscia d'argento, la cascata. Sembrava lontana almeno cinque o sei chilometri. Non era visibile la grande polla blu che si trovava ai suoi piedi, e nemmeno la serie di bassi edifici di cui aveva avuto una fugace visione prima di oltrepassare l'orlo del baratro. C'era solo quel fiume ampio e basso, suddiviso in decine di canali che si intersecavano tra loro e, su entrambe le rive, una fitta foresta dal fogliame di un vivido verde-azzurro, così diverso per colore e forma da quello che si trovava normalmente nelle giungle della Palude Labirinto. Persino l'odore che aleggiava nell'aria era diverso, più acuto, fragrante di resina, frammisto al profumo di fiori sconosciuti. «Sono viva», disse Anigel stupefatta. Alzò al cielo le braccia ricoperte di graffi e fango e gridò con quanto fiato aveva in gola: «Viva!»
In quello stesso istante si sentì affliggere da un improvviso senso di colpa. Immu! Dov'era Immu? E i suoi due leali amici rimorik? Osservò a lungo il fiume, ma riuscì a vedere solo uccelli vermigli dalle lunghe zampe e con il becco appuntito che sguazzavano nell'acqua bassa. Per un momento si sentì sopraffare dal panico. Era viva, sì, ma tutta sola nella foresta di Tassaleyo e senza la minima idea di cosa fare. Doveva forse lanciare dei richiami? E se per caso i soldati di Labornok erano sulle sue tracce e l'avessero sentita? Non c'era posto dove rifugiarsi, nessun sentiero lungo la riva, solo quella piccola radura ricoperta da detriti vegetali e circondata da una densa macchia che si trasformava poi in fitta boscaglia. Forse Immu e i rimorik erano morti... Fu colpita da un terribile pensiero. Si ricordò dello strano, quasi rassegnato atteggiamento di Immu quando stavano rimettendo in ordine gli zaini dopo il loro pasto frugale vicino alla riva del lago. La sua cara amica aveva legato poi gli zaini alle traverse della loro imbarcazione! Non l'aveva mai fatto prima. Sapeva forse che i rimorik avrebbero scelto quella pazzesca via di fuga? «Che sia rimasta con me fino all'ultimo in un estremo sacrificio d'amore», si domandò Anigel in un sussurro, «sperando che io sarei riuscita a sopravvivere a quel folle salto, dato che mi era stata data la forza dei rimorik dal miton... ma ben sapendo che lei sarebbe sicuramente morta?» Sentì una dolorosa stretta al cuore. Oh, Immu. Cara, vecchia amica mia. Ma non doveva lasciarsi andare al pianto e alla disperazione! Doveva trovare la forza di andare avanti... Perché non bere una sorsata del sacro miton per recuperare le forze, e tentare poi di richiamare i rimorik? Trovò una roccia ricoperta di muschio, si sedette ed estrasse dal suo tascapane la fiasca scarlatta che conteneva la bevanda utilizzata dai barcaioli Uisgu. Ne rimosse il tappo e, portandola alle labbra, chiuse gli occhi e recitò una silenziosa preghiera. Poi la sua mente lanciò un chiaro richiamo: «Amici!» Si udì un tonfo improvviso. Riaprì gli occhi, e, a pochi passi di distanza, vide due grosse teste levigate emergere dal corso principale del fiume. Si alzò e attese impaziente che i due fedeli animali si trascinassero nella corrente, mentre i loro corpi lucenti si infangavano sempre più a ogni goffa spinta delle loro pinne. Finalmente la coppia di possenti nuotatori, così poco adatti alle acque basse, la raggiunsero e si fermarono in una secca a pochi metri di distanza, osser-
vandola gravemente con i loro occhi neri. «Amica umana, abbiamo cercato ovunque la tua piccola amica del Popolo delle Paludi.» «Immu... l'avete trovata?» «No. Ci siamo spinti anche molto lontano, ma la Grande Acqua Che Scorre Al Mare è molto vasta e ci sono tanti canali in cui potrebbe essere finito il corpo della tua amica.» Anigel impallidì e si premette una mano sulla bocca per soffocare un grido. «Il corpo!... Non pensate che sia riuscita a sopravvivere alla cascata?» «Abbiamo cercato e non l'abbiamo trovata. Ora è tempo di andare. I tuoi nemici umani stanno scendendo quaggiù, e ti cattureranno presto se non ti porteremo via.» Per un momento fu tentata di ordinare ai rimorik di riprendere le ricerche di Immu, ma poi le sorse nella mente l'immagine della sua vecchia balia che le scuoteva sotto il naso un dito artigliato con aria di rimprovero. Il sacrificio di Immu non andava sprecato! Non era morta per sottostare ai capricci di una ragazzina: il suo gesto era stato diretto a mostrare tutto il suo affettuoso sostegno a una principessa impegnata in una quantomai vitale ricerca, a una nobile fanciulla che non avrebbe mai dovuto rifiutarsi di affrontare anche le peggiori tragedie o i più spaventosi pericoli. Immu aveva incontrato con coraggio il suo destino. Toccava ora ad Anigel tirare avanti senza tentennamenti, soprattutto adesso che era così vicina al suo talismano. «Avete trovato la barca?» domandò ai rimorik. «È andata distrutta. Abbiamo trovato lo zaino della tua amica, ma non il tuo. Abbiamo preso una barca che appartiene al Popolo delle Foreste. È nascosta laggiù.» I due animali sguazzarono e ondeggiarono per una ventina di metri lungo il corso della corrente, prima di tuffarsi nelle acque più alte di uno stretto affluente. Ad Anigel non rimaneva altro da fare che avanzare a guado nel fiume per seguirli. Il fondale era soffice e tenace come colla, e lei non osava fermarsi per tema di affondarvi e rimanere intrappolata. Avanzò con fretta frenetica, sollevando alti spruzzi, ma infine riuscì a raggiungere i due rimorik mentre spingevano fuori dal piccolo affluente una strana imbarcazione piuttosto grande, che mandarono avanti a colpi di muso fino ad un punto in cui l'acqua arrivava all'altezza dei fianchi di Anigel. Era lunga almeno un paio di volte quella su cui aveva navigato fino allo-
ra, ma le fiancate erano decisamente più strette. La sua struttura era di un colore biancastro che faceva pensare fosse stata costruita con pezzi di ossa o legno-avorio tenuti insieme da tendini disseccati. La chiglia era traslucida, dura ma elastica, come se fosse fatta di qualche tipo di vetro opaco e flessibile. Alcuni pezzi di quello strano materiale erano uniti insieme a costituire una sorta di grazioso mosaico, le cui congiunzioni erano imbrattate da una specie di resina impermeabile. La sua linea di navigazione era alta sul pelo dell'acqua e quindi quella pregevole imbarcazione doveva essere anche molto leggera. Anigel vi saltò sopra. Sul fondo c'era lo zaino inzuppato di Immu. «Non ci sono redini, amici miei. E sembra che voi abbiate perso i finimenti. Come farò a guidarvi?» Sogghignarono. «Questa barca non ha bisogno di essere tirata. Si manovra tanto agilmente quanto un guscio di noce. Noi nuoteremo ai suoi fianchi, sospingendola, e tu ci comunicherai in che direzione andare.» La principessa si sistemò su un tramezzo, aprì il piccolo tascapane e ne estrasse l'ancor fresca foglia di Giglio Nero. Per la prima volta notò che la sezione superiore della venatura dorata, quella che rappresentava il viaggio già effettuato, stava incominciando a sbiadire in un colore brunastro. Sotto una larga macchia che rappresentava il lago Wum, la vena dorata si contorceva e cambiava direzione per una distanza pari alla lunghezza del mignolo di Anigel prima di entrare nel corto gambo ricurvo della foglia. «C'è ancora un bel percorso da coprire», disse agli animali nel loro linguaggio senza parole, «ma sembra che si snodi tutto lungo il fiume Mutar. Suppongo che dovremo semplicemente proseguire il più in fretta possibile, in modo da tenerci alla larga dagli inseguitori, e prima o poi riceverò sicuramente qualche segnale magico.» «Vuoi che ti portiamo dal Popolo della Foresta che vive qui sul fiume?» «Perché...» esitò Anigel. «Non ci avevo ancora pensato. Forse voi mi potreste consigliare. Si tratta dei Wyvilo, immagino. C'è qualche loro villaggio da queste parti?» «C'è un solo luogo in cui vivono. Ti porteremo là.» «Molto bene», disse la principessa. Emettendo sbuffi e grugniti per lo sforzo di muoversi fuori dal loro elemento naturale, i due rimorik riuscirono a sospingere l'imbarcazione da una secca fangosa all'altra, sfruttando i canali secondari non appena ne avevano l'occasione, finché finalmente raggiunsero il canale principale. Lì giunte le due creature sguazzarono felici per qualche minuto nell'acqua,
scura ma pulita, e poi si accostarono ai fianchi della barca per riprendere il viaggio, e, senza bisogno di incitamenti da parte di Anigel, la sospinsero a gran velocità. Doveva essere ormai pomeriggio inoltrato, rifletté la fanciulla. Dopo avere aperto lo zaino di Immu, ne estrasse il contenuto affinché si asciugasse. Si trattava del sacco in cui dormire e di alcuni capi di abbigliamento: fortunatamente Anigel era piuttosto minuta, e sarebbe stata quindi in grado di utilizzarli. C'era un soffice cappello di paglia a tese larghe, una mantella impermeabile di pelle lavorata e un paio di stivaletti. Le scorte di radici si erano assottigliate, e perciò dispose con molta cautela al sole quelle rimaste per farle asciugare. La frutta era finita già da parecchio tempo, e da allora lei e Immu erano sopravvissute mangiando quasi esclusivamente noci e bacche selvatiche, e grazie alla benevolenza dei rimorik che dividevano sempre con loro le prede catturate. Doveva stare molto attenta nell'assaggiare vegetali sconosciuti ma di aspetto commestibile, perché la maggior parte di quelli più allettanti erano stati designati da Immu come mortalmente velenosi. Grazie all'intercessione dei Signori dell'Aria e all'attrezzatura da cucina di Immu, riutilizzabile non appena l'acciarino si fosse asciugato, sarebbe stata in grado di cucinare il pesce invece di doverlo mangiare crudo. Il resto del piccolo tesoro di Anigel consisteva nel suo coltello e negli altri oggetti conservati nel tascapane: un pettine, un fazzoletto che risciacquava ogni giorno, una tazza e una scheggia di sapone. «Le mie ricchezze, i miei vestiti regali e le mie squisite pietanze», dichiarò osservando le povere cose disposte sul fondo della barca. «E due leali sostegni al mio fianco. Cosa potrebbe chiedere di più una principessa?» Sospirando, si sistemò alla meglio nello spazio di poppa e calò il cappello di paglia sulla fronte. «Amici miei, penso che dormirò.» «Ci sembra un'ottima idea.» Da quando avevano lasciato Noth era la prima volta che Anigel era libera dal compito di governare l'imbarcazione, e ne approfittò per abbandonarsi a un ristoratore sonno senza sogni, troppo stanca persino per piangere la cara Immu. Si svegliò ore più tardi, quando i rimorik spinsero l'imbarcazione su uno stretto isolotto dove l'erba cresceva su una sabbia morbida e pulita anziché nel fango. La sera era molto calda, ma quella piccola oasi poteva contare su una fresca brezza che serviva oltretutto a tenere alla larga i fastidiosi insetti notturni. Il letto del Grande Mutar si era allargato al punto che non si riusciva quasi a scorgerne le rive, e la foresta che le ricopriva era persa in una foschia lattiginosa. Giunse da lontano il tonante ri-
chiamo di qualche grosso animale, ma Anigel era sicura che i suoi amici le avessero scelto un posto sicuro dove passare la notte. Sull'isola cresceva un piccolo cespuglio di braddok carico di frutti. La giovane si congratulò con i rimorik per la loro scelta oculata, e questi scopersero le zanne allegramente prima di tuffarsi nelle acque alla caccia del loro pasto serale. Anigel mangiò alcuni di quei dolci frutti sugosi e, dopo avere sistemato il suo giaciglio sotto il cosiddetto «amico del viaggiatore», vi si rannicchiò sbadigliando. Ancora una volta il suo sonno fu privo di sogni. Le truppe del principe Antar passarono tutta la giornata seguente scandagliando la polla ai piedi della cascata di Tass, ma non ebbero la fortuna di rinvenire i corpi della principessa Anigel e della sua compagna. I resti della loro imbarcazione furono recuperati nei pressi della segheria, ed i cavalieri si trovarono concordi nell'affermare che nessuno sarebbe potuto sopravvivere a un simile tuffo nel vuoto. Ma la loro opinione aveva poca importanza. Una decisione riguardo al prosieguo della caccia spettava solo al Mago Orogastus. L'indomani la Voce Azzurra avrebbe conferito telepaticamente con il suo maestro, il quale poteva contare sulle informazioni di prima mano concesse dal magico specchio che tutto vedeva. Gli inseguitori di Labornok si accamparono sulle rive del grande stagno, cavalieri, soldati e le ciurme delle chiatte, utilizzate anch'esse per la ricerca dei corpi delle due donne. La truppa, seduta quella sera tutta insieme intorno ai falò (il sinistro coro di schiamazzi e versi notturni che giungevano dalla foresta retrostante la segheria faceva sì che nessuno si allontanasse troppo dal fuoco), era in uno stato di euforia a stento repressa. Con la principessa sicuramente morta, non potevano che aspettarsi un immediato ritorno agli agi della Cittadella. La maggior parte dei cavalieri era invece delusa, e vedeva frustrata ogni velleità di raccogliere gloria lungo la strada. A quel punto sembrava poco probabile che dovessero proseguire lungo il Mutar alla ricerca del misterioso talismano su cui il mago aveva posto gli occhi. Contrariamente alle loro aspettative, erano state rinvenute lì solo tre imbarcazioni Wyvilo, e non c'erano aborigeni che potessero far loro da guida. Il Capo del Commercio Edzar temeva che gli Oddling delle foreste si fossero ritirati nel grande villaggio di Let quando l'invasione dei labornoki aveva momentaneamente bloccato il commercio di legname. C'erano poche speranze che avessero intenzione di risalire il fiume prima della suc-
cessiva stagione asciutta. Quella notte il principe Antar si rintanò nel suo padiglione, rifiutando persino le calorose proposte di bisboccia del suo amico sir Owanon. Il suo dolore per l'apparente morte della principessa Anigel era ormai di dominio pubblico, avendo l'ingenuo sir Penapat spifferato a tutti i suoi commilitoni di come il principe fosse scoppiato a piangere alla vista dell'imbarcazione inghiottita dal baratro. Il mattino seguente la Voce Azzurra fu mentalmente messa in allerta da Orogastus, e si ritirò nella sua piccola tenda per un colloquio telepatico. Nel frattempo anche Antar attendeva come tutti le nuove direttive, e ne approfittò per recarsi con sir Owanon a studiare più da vicino il sistema idraulico che forniva energia meccanica alla segheria e il meccanismo che consentiva l'azionamento del montacarichi con cui erano scesi giù dalla scarpata. «Questo montacarichi è stato costruito con singolare maestria», fece notare il principe, allungando il collo per osservare meglio i cavi d'acciaio intrecciati che reggevano la struttura. «Basta caricare un singolo tronco gigantesco o un gruppo di tronchi più piccoli sulla piattaforma. L'enorme contrappeso e il sistema di pulegge assicurano che gli animali da tiro là in cima siano in grado di sollevare anche i carichi più pesanti senza grande sforzo.» «Ingegnosi, questi ruwendiani», disse Owanon. «Comunque anche noi abbiamo macchinari simili nei cantieri navali di Derorguila, anche se non così grandi.» Antar continuò a voce più bassa. «Per quanto grandi siano, ci consentirebbero a mala pena di portar giù le grosse chiatte su cui abbiamo navigato fino al lago, e comunque non riusciremmo certo a trascinarle lungo gli scivoli! Potremmo sempre far calare le lance, ma sono sicuramente un mezzo inadeguato per trasportare lungo il Grande Mutar tutte le nostre forze e i rifornimenti necessari.» Owanon annuì. «Sono d'accordo. Effettivamente ci troviamo in una situazione di stallo.» «Questo è ciò che ho ordinato di riferire al Mago. Non ho intenzione di gettarmi alla cieca nella foresta di Tassaleyo solo per assecondare le sue mire su questo magico talismano così avidamente agognato. Avrò bisogno del tuo appoggio e di quello di Dodalik nell'eventualità che debba rifiutarmi di guidare più oltre la nostra spedizione.» «Non c'è neanche bisogno di dirlo, mio principe.»
L'espressione di Antar si fece improvvisamente cupa. «Temo che il Mago userà il fallimento della mia missione per screditarmi agli occhi di mio padre. Quel viscido incantatore sa bene che non è nel mio carattere tormentare ragazze indifese. E poi c'è l'episodio di ieri al faro...» Owanon mantenne un silenzio discreto. Il principe guardò negli occhi l'amico con una espressione che era insieme di tristezza e autocommiserazione. «Owan, oramai lo sanno tutti che sono innamorato di lei, non è vero?» «Ebbene sì, mio principe. Ma questo non modifica l'opinione che hanno di voi i nostri uomini migliori. Non si può certo rispondere delle inclinazioni del cuore... e voi, in ogni caso, avete osservato scrupolosamente gli ordini di re Voltrik. Nessuno potrebbe dire che vi siete sottratto alle vostre responsabilità.» «Orogastus sì!» replicò Antar amaramente. «Mi ha sempre odiato e invidiato, riuscendo addirittura a convincere il re che non sono abbastanza maturo per affrontare i grandi problemi di stato. Quella dannata invasione... le mostruose crudeltà cui abbiamo sottoposto gli sconfitti ruwendiani... e tutto per volere di quel malvagio individuo! Ha trasformato mio padre in una sua creatura, giocando con le sue paure ed incoraggiandone gli istinti più bassi.» Di nuovo Owanon si astenne da ogni commento. «Re Voltrik non è stato sempre un uomo crudele», continuò il principe. «Quand'ero un ragazzino e la mia cara matrigna Shonda era ancora viva, egli era un nobile principe, un padre e marito amorevole, una persona dal carattere passionale. Solo dopo l'arrivo di Orogastus il suo spirito è divenuto così amaro e corrotto. Ha dovuto attendere troppo a lungo per salire sul trono, e la sfortunata Shonda era sterile, così il mago incoraggiò e si rese complice di ogni malevola e stravagante ambizione che carpiva dalla mente di mio padre.» «Mio principe», disse Owanon gentilmente, «queste sono tristi vicende di cui tutti sono a conoscenza. Ma il vostro regale padre non sopporta alcuna critica rivolta a Orogastus... e lui è il re.» «Sì», sospirò Antar. «Solo che qualche volta, come quando mi viene in mente la terribile scena in cui lo vidi strappare il diadema dal capo del morente re Sporikar o la gioia con cui pregustava il bagno di sangue a cui avremmo sottoposto il Ruwenda, temo che il mago l'abbia condotto alla follia. Ma naturalmente sarebbe alto tradimento insinuare una tale idea.» Il viso di Owanon era tetro. «Non siete certo il solo a pensarla così. Ma
temo che le cose debbano peggiorare prima che si possa intervenire.» In quell'istante scorse un uomo che correva verso di loro, e fece cenno al principe di interrompere lì la loro conversazione. Si trattava di Rinutar, che accorreva sferragliando, il viso acceso da un ghigno malizioso. «Mio principe! Sono giunte straordinarie notizie! Lord Orogastus è riuscito a stabilire che la principessa Anigel è ancora viva. Si è rimessa in viaggio lungo il Grande Mutar. Vi è stato ordinato di seguirla, ma solo con il vostro corpo scelto di cavalieri e un servitore per ognuno. E... qui arriva la parte più strana! Il Mago non ordina più che alla ragazza venga impedita la sua Ricerca e che sia uccisa! Al contrario, bisogna lasciarle la massima libertà d'azione! E solo dopo che avrà messo al sicuro il talismano potremo catturarla e metterla a morte.» Antar fissava il cavaliere con aria stupefatta. «È viva», sussurrò. «Così dice lo Specchio di Ghiaccio.» Il sorrisetto sulle labbra di Rinutar era a dir poco insolente. «Immaginavo che sareste stato contento... di avere un'altra possibilità con lei.» 28. «Ecco la caverna di ghiaccio che cerchi», annunciò il gipeto ad Haramis. Quel mattino la tempesta di neve era cessata, il cielo era terso e i raggi del sole si riflettevano con tale intensità sulla parete sud del monte Gidris, spolverata di neve fresca, che la principessa Haramis era quasi accecata dal riverbero. Anche riparandosi gli occhi con la mano guantata non riusciva a scorgere il punto indicatole dal suo fedele destriero volante. Ma Hiluro scese lentamente a spirale, sempre più giù, fino a quando ciò che era stato solo un indistinto bagliore assunse i contorni netti della sommità del monte, dove si estendeva un enorme ghiacciaio. Quel fiume di ghiaccio si tuffava oltre un ripido precipizio prima di iniziare la sua gentile discesa verso il bacino ruwendiano, spezzettandosi in una massa di titanici blocchi parzialmente sepolti dalla neve. I baratri e le spaccature risplendevano con centinaia di vivide sfumature azzurrognole... ma in mezzo a quell'abbacinante radiosità spiccava un inatteso scintillio dorato. Mentre l'enorme volatile vi si avvicinava, Haramis vide che si trattava di una guglia rocciosa di colore latteo, variegata di venature. Ma ciò che da lontano sembrava una fragile struttura appuntita, si rivelò essere una consi-
stente formazione rocciosa alta almeno un'ottantina di metri e larga sei o sette, apparentemente composta di quarzo bianco con scintillanti inclusioni di metallo prezioso. Il ghiacciaio l'aveva talmente erosa durante i secoli, che ora assomigliava a un'esile torre impegnata nell'immane sforzo di rimanere saldamente ritta in quel caotico mare gelato. A metà altezza della guglia si apriva un varco, e appena sotto di esso c'era un'angusta sporgenza rocciosa. «Posso solo librarmi mentre tu scendi», disse Hiluro ad Haramis. «Non c'è spazio sufficiente perché riesca a posarmi.» L'enorme volatile bianco e nero scese verso la stretta piattaforma prospiciente l'imbocco della caverna, che era alta due volte la principessa ma sembrava più angusta a causa dei lunghi ghiaccioli che pendevano dalla volta come zanne di diamante. Il terreno della piccola sporgenza era quasi tutto ricoperto da uno scivoloso strato di ghiaccio, nel quale erano incastonate pepite d'oro e pezzi di roccia bianca. Haramis toccò il suo amuleto, intonando una muta preghiera, e circondò il collo piumato di Hiluro con le esili braccia. Quando le sue mani si incontrarono, strinse le dita più forte che poté e si lasciò andare chiudendo gli occhi, allungandosi sulla punta dei piedi. Sentiva non solo il penetrante sibilo del vento che infuriava intorno a loro, ma anche un brontolio tuonante, e misto ad esso un soprannaturale insieme di basse note musicali, come se qualcuno suonasse un gigantesco violino. I suoi piedi toccarono una superficie solida, e Haramis seguì a puntino le istruzioni del maestoso volatile, non senza avere fatto un profondo respiro per cercare di rilassarsi. Quando la creatura glielo ordinò, lasciò andare la presa intorno al possente collo piumato. Aprendo gli occhi, vide l'enorme sagoma di Hiluro slanciarsi verso l'alto, mentre lei riprendeva fiato, carponi davanti alla precaria entrata della sua meta finale: una caverna di ghiacci scintillanti con un'entrata incorniciata d'oro... O almeno così sembrava. Haramis si guardò intorno, sopraffatta dallo stupore. Quella straordinaria guglia rocciosa emergente dal bianco mare sottostante vibrava come un diapason a causa del costante scorrere dei ghiacci, riempiendo l'aria d'un immenso suono musicale. Per quanti anni quella struttura di quarzo venata d'oro aveva sopportato l'incessante pressione che ne aveva diminuito la massa strato dopo strato, fino a ridurla a un esile pinnacolo? Vista da vicino quella solitaria vedetta rocciosa sembrava incredibilmente fragile, e le pareti della caverna in essa racchiusa erano così sottili da lasciar filtrare la
luce del sole come attraverso una rozza lastra di vetro. L'entrata, circondata da informi masse di metallo prezioso, era parzialmente ostruita da stalattiti di ghiaccio che iniziavano a sciogliersi sotto la sferza del sole. Haramis penetrò cautamente nel traslucido interno dell'antro piegandosi leggermente sulle ginocchia. Le pareti e la volta erano percorse da venature di ghiaccio nero. Un fioco scintillio dietro lo strato di ghiaccio sul fondo della grotta attrasse la sua attenzione. Si avvicinò, sentendo che l'amuleto del giglio che portava al collo diventava sempre più caldo, come per comunicarle qualcosa. L'oggetto scintillante era forse il talismano a lei destinato? Si avvicinò alla scura massa di ghiaccio e a ciò che risplendeva sotto di essa. Non poteva ancora distinguere con chiarezza, ma il calore dell'amuleto contro la pelle diventava sempre più intenso. Poteva essere che il suo talismano fosse intrappolato nel ghiaccio? E in tal caso, come avrebbe potuto tirarlo fuori? Si fece ancora più vicina al misterioso bagliore. Il giglio d'ambra scottava sulla sua pelle. Si tolse i guanti e, sollevando con un dito la catena dell'amuleto, lo estrasse da sotto la tunica. Il fiore lampeggiò come se avesse preso fuoco; l'amuleto era così caldo che la giovane poteva a stento toccarlo. Si sfilò con prudenza la catena dalla testa e fece penzolare l'amuleto davanti ai suoi occhi. Ma invece di rimanere perpendicolare, esso tendeva ad allontanarsi da lei, attratto dal misterioso bagliore. La luce sfavillante del giglio nella goccia d'ambra fece risplendere un'intera sezione della parete di un'intensa luminosità dorata. Il riverbero abbagliante le riempì gli occhi di un grande chiarore dorato circoscritto da un luminoso alone azzurro. L'amuleto la trascinò, obbligandola ad avvicinarsi alla parete. Emanava adesso un calore talmente forte che Haramis fu costretta ad allontanare la testa. Con la coda dell'occhio, in quel piccolo angolo del suo campo visivo non abbagliato dalla luce intensa, scorse un sottile rivolo d'acqua scorrere lungo la parete. L'amuleto stava sciogliendo il ghiaccio! In mezzo all'oro scoccò un improvviso lampo argenteo: fondendosi, il ghiaccio aveva liberato qualcosa. L'amuleto si stava raffreddando e mentre il suo bagliore si affievoliva, ricadde sui vestiti di Haramis. La giovane si chinò rapida a raccogliere l'oggetto scaturito dal ghiaccio per evitare che si ricongelasse nel pantano formatosi sul suolo della caverna. Prima che i suoi occhi potessero metterlo a fuoco, Haramis ne avvertì il peso. Attese pazientemente che la vista le si schiarisse. Gli occhi le dolevano,
e dovette resistere all'impulso di strofinarseli. Ma anche attraverso la sofferenza, profondo nel suo cuore fioriva un grande senso di lucidità. Per un istante comprese il disegno ideale del mondo, e il posto che lei vi occupava. Sapeva tutto, aveva potere su tutto, comandava tutto. Era diventata ciò che aveva sempre saputo di poter essere... ma durò appena un momento. E poi quella sensazione ultraterrena si dissolse nel nulla. Era sempre nella caverna, illuminata adesso solo indirettamente dalla luce del sole, e la vista le era tornata normale. Reggeva una bacchetta di metallo bianco, lunga all'incirca la metà di un avambraccio. A un'estremità c'era un piccolo anello per poterla assicurare a una catena, mentre all'altra ce n'era uno molto più grande, tanto che avrebbe potuto farvi passare attraverso i pugni chiusi. In cima a quel grosso cerchio c'era una sorta di escrescenza che lei inizialmente pensò essere un fiore dello stesso metallo bianco; ma osservandola meglio si accorse che quelli che aveva scambiato per petali erano invece tre piccole ali in posizione eretta. Il Cerchio dalle Tre Ali. Il suo talismano. Finalmente. «Allora saprai che la battaglia finale per il Ruwenda, e per la tua stessa anima, sarà imminente.» Le parole dell'Arcimaga sembrarono riecheggiare nella caverna di cristallo e oro, e, sobbalzando, Haramis gridò: «Chi è là?» Ma subito si rese conto d'essere sola, e la sua mente tornò alla sensazione di incredibile potere che l'aveva pervasa quando il talismano era stato liberato dalla sua prigione di ghiaccio. L'amuleto e il talismano mandarono un improvviso, intenso bagliore. Istintivamente, Haramis li lasciò cadere e alzò le mani a proteggersi gli occhi. Ma anche così, continuava a scorgere l'irradiarsi di quella luce. Riabbassò le mani soltanto quando la luce si affievolì. La sua vista era un po' confusa, ma stavolta non era rimasta completamente abbagliata. Si inginocchiò rapida per cercare l'amuleto e il talismano, sperando che non si fossero congelati a contatto con il suolo. «Pensano che io sia indegna di loro?» si chiese ansiosamente. Con suo grande sollievo non erano rimasti imprigionati nel terreno gelato. Ma adesso si erano fusi insieme, e l'amuleto del giglio si era incastrato fra le ali della bacchetta. Era una fonte di potere. Di magia... Sì, era magico! «E come apprenderò a utilizzare questo potere?» Il suo sguardo era fisso
sulle tre ali. «La Bianca Signora ha detto che c'erano altri due talismani per le mie sorelle, e che se tutte noi avessimo avuto successo nella nostra ricerca, allora i giusti equilibri sarebbero stati ristabiliti. Ma questa informazione non mi è di grande aiuto.» All'interno del grande cerchio argentato, sotto le ali, sembrarono fluttuare vapori perlacei. Quasi in sogno, Haramis ordinò al talismano: «Fammi vedere se anche le mie sorelle hanno portato a termine il loro compito!» E fu così che vide Kadiya. Sua sorella si trovava in mezzo a una grande folla di Oddling, probabilmente Uisgu a giudicare dalla loro bassa statura, e stringeva un oggetto scintillante simile alla Spada della Misericordia, una lama senza la punta e con un'elsa che ricordava tre piccoli frutti neri congiunti. Il Popolo la stava acclamando con entusiasmo. «Sì», mormorò Haramis. «Di tutte noi, tu eri sicuramente quella che non avrebbe fallito. Mia povera piccola Anigel... Dove sei ora, mia tenera sorellina?» Dal Cerchio scomparve l'immagine di Kadiya, e al suo posto se ne formò un'altra, dapprima irriconoscibile... Haramis rimase a bocca aperta. Anigel! I capelli d'oro ondeggianti al vento, il viso non più paffuto e dolcemente pallido ma smunto, arrossato ed esultante. Gli occhi di zaffiro saettavano vigili qua e là, con una intensità vitale che Haramis non avrebbe mai sospettato in sua sorella. Anigel, vestita di cenci inzaccherati, in piedi sulla prua di una strana imbarcazione che solcava a gran velocità le acque di un largo fiume. E, come se non bastasse, era lei a guidare quella barca! Le sue mani, un tempo così fragili, reggevano ora con sicurezza un paio di redini che sembravano trattenere due invisibili creature acquatiche... «Impossibile!» esclamò Haramis. La visione scomparve. Haramis fissava attonita il Cerchio dalle Tre Ali. «Sono visioni autentiche? Posso davvero comandare così facilmente il mio talismano?» Una terza visione: l'Arcimaga, vecchia, adagiata in un letto, con un aspetto decisamente indebolito rispetto all'ultima volta che l'aveva vista; gli occhi erano chiusi e la pelle cerea, le guance mortalmente scavate; sebbene le sue labbra raggrinzite non si fossero mosse, ad Haramis parve di sentirla dire: «Tutte e tre voi dovete portare a termine i compiti che vi sono stati affidati, badando soprattutto ad approfondire la conoscenza di voi stesse, prima che il Ruwenda possa liberarsi dal giogo di Labornok e l'equilibrio del mondo sia ristabilito».
«Ma è assurdo!» protestò Haramis. «La regina di Ruwenda sono io; è la mia missione. Secondo la profezia, una sola donna farà crollare il regno di Voltrik, non tre insieme!» La morente Arcimaga aprì gli occhi imperscrutabili. Le sue labbra erano ancora immobili. «Ma io ti ho anche detto che non era Voltrik il tuo più grande nemico...» La visione dell'Arcimaga scomparve. Qualcosa guizzò nello specchio di ghiaccio sulla parete dove prima era incastrato il talismano. Haramis alzò lo sguardo, e vide il volto sorridente di un uomo dai capelli bianchi. Era d'età indefinibile, perché il passare degli anni non aveva lasciato segni su quei lineamenti delicati. Indossava un abito nero e argento, e sedeva ad un tavolo su cui erano disposte parecchie strane apparecchiature, un grande libro e una tavoletta mezza coperta da uno scritto. In una mano teneva uno stilo, e nell'altra un frutto di ladu mangiato per metà. Fu quel particolare così innocente e domestico, certo non quello che ci si aspetta da un diavolo incarnato, a far sì che Haramis rispondesse al suo sorriso. «Principessa Haramis.» La sua voce era chiara come se si trovasse proprio accanto a lei. «Benvenuta nella nostra compagnia.» «Di quale associazione si tratta?» ribatté lei, serrando le labbra. «Quella degli assassini di Labornok? Orogastus, a differenza di te, io sono selettiva nello scegliere le mie compagnie!» Il Mago rise di gusto, appoggiando penna e frutto sul tavolo. «Sei davvero dotata di uno spirito inusuale, mia signora. Devo ammettere che il re Voltrik, il generale Hamil e la gente della loro risma non sono certo il tipo di compagnia che mi sarei scelto... ma non avevo alternative.» «Ma davvero?» chiese Haramis. Orogastus continuò amabilmente, come se niente fosse. «La compagnia nella quale ho salutato il tuo ingresso è quella dei signori della magia. Gli uomini e le donne a cui anche le stelle si inchinano... e ti confesso che in questi giorni il nostro numero è alquanto ridotto, anzi consiste solamente di te, me e Binah, colei che tu chiami Arcimaga. E temo che fra non molto resteremo solo tu ed io.» «Stai forse pensando di uccidere la povera Bianca Signora, ora che è troppo debole per potersi difendere?» gli domandò Haramis freddamente. «Mia cara fanciulla, ma certo che no! Non sono un pazzo omicida come tu sembri credere. La vecchiaia e la morte sono i nemici che insidiano Binah.» Sembrò farsi triste e pensoso. «E temo che sia un destino comune.
Una trentina d'anni fa erano rimaste al mondo solo due persone dotate di potere: il mio mentore, Bondanus, e Binah. Bondanus passò a me i suoi poteri. Binah, contro ogni logica, vorrebbe diluirli trasmettendoli a tre persone.» «In modo da salvare il Ruwenda!» gridò Haramis. «Ruwenda...» Il Mago scosse il capo con aria di gentile ironia. «Il tuo talismano può fare molto di più che liberare il Ruwenda! La vista di Binah, come la sua vita, si sta affievolendo. Lei non sa realmente quale potere possa comandare il Triplice Talismano! Ma tu, Haramis, hai davanti a te secoli per studiare come utilizzarlo.» «Secoli?» Haramis batté le palpebre. Non ci ave/a mai pensato. L'uso della magia prolunga la vita - e così tanto? «Secoli», ripeté Orogastus con fermezza. «Sempre che, è chiaro, tu non ti uccida accidentalmente con esso.» E indicò il talismano che la giovane teneva in mano. «Stupida!» si disse Haramis. «Te ne stai lì, tenendolo in piena vista. Evidentemente lo conosce bene. Ma come? Quanto ne sa realmente? L'Arcimaga non sembra in grado di insegnarmi nulla in proposito, e io non ho tempo di scoprirne l'uso per prove ed errori successivi - non se voglio salvare il mio regno e le mie sorelle.» «Il Cerchio dalle Tre Ali.» Orogastus stava sorridendo. «Sono felice che tu l'abbia trovato. Ho molti libri che ne parlano, e ho sempre desiderato vederlo.» «Hai libri su di esso?» chiese Haramis. «Vorrei che se ne andasse e mi lasciasse studiare nella sua biblioteca!» Poi, rivolgendosi al Mago: «Che cosa dicono?» «Moltissimo. Fin troppo, ho paura, per potertelo spiegare tutto adesso: tu saresti ridotta a un pezzo di ghiaccio prima che io abbia avuto il tempo di dirtene un sesto.» Le fece un cenno perché si guardasse intorno. «Eri così assorbita nella nostra piacevole conversazione che non ti rendevi conto del passare del tempo.» Haramis diede un'occhiata intorno. Aveva ragione; il sole era basso nel cielo e la grotta si faceva sempre più scura e fredda. Tornò a guardare verso lo specchio. Orogastus indossava abiti leggeri ed era in un ambiente luminoso. Le rivolse un gesto di invito. «Vieni nella mia casa, Haramis, nella mia torre sulla montagna, così che possa insegnarti a usare il talismano. Mi piacerebbe avere compagnia, quassù. Il monte Brom è fuori mano, e pochi
mi vengono a trovare.» «Tu non vuoi la mia compagnia», disse Haramis, fissandolo negli occhi. «Vuoi solo il talismano.» Con sua sorpresa, Orogastus si mise a ridere. «Dimenticavo che per te quell'oggetto è una novità. Nessuno può portarti via il talismano. È vincolato a te, e chi tentasse di strappartelo andrebbe incontro alla morte. Ma tu non sai affatto come usarlo. Lo utilizzi soltanto per scrutare lontano!» Sorrise. «Qualsiasi prestigiatore Oddling può fare lo stesso con una semplice foglia piena d'acqua... No, Haramis, tu non ne comprendi il valore. Ma io te lo insegnerò. Ho una grande biblioteca e innumerevoli strumenti magici degli Scomparsi. Ti chiedo soltanto il piacere di poterli condividere con te. Hai fama di studiosa - non conosci la gioia che nasce dalla ricerca della conoscenza? La squisita soddisfazione che si prova quando ciò che era oscuro viene improvvisamente ricondotto a un disegno logico e infine compreso?» «Sì.» Haramis si sorprese a compiere un cenno di approvazione. «So cosa vuoi dire.» «Allora vieni al monte Brom», la invitò Orogastus. «Con il talismano puoi chiamare il gipeto e farti portare alla mia torre, sarai qui in tempo per la cena.» «Allora non sa che Hiluro è qui», pensò Haramis. «Perlomeno non è onnisciente.» Il volto di Orogastus si fece grave. «Giuro per i poteri che abbiamo in comune che non cercherò di prenderti il talismano con la forza, né di causare alcun danno alla tua persona. Possano i miei poteri abbandonarmi per sempre se verrò meno a questa solenne promessa.» E si portò la mano sul cuore. «Così sia», mormorò in modo automatico Haramis; era la formula resale familiare da tutti i giuramenti cui aveva assistito. Lo specchio di ghiaccio si oscurò. «Be', e adesso?» si domandò. «Vado da lui, vado dall'Arcimaga, resto qui o intraprendo un altro pellegrinaggio per vedere cosa posso fare con le mie forze?» Nessuna delle ultime due alternative la attraeva in modo particolare. Oltre tutto, l'Arcimaga non le aveva ordinato precisamente di tornare subito. «Quando raggiungerai la meta del Cerchio dalle Tre Ali, torna da me», le aveva detto. Intendeva semplicemente il possesso fisico del talismano o la capacità di utilizzarlo faceva parte dello scopo da raggiungere?
«Visto che, quando mi ha parlato poco fa, Binah non mi ha ordinato di tornare, forse intendeva che devo imparare a usare il talismano, e forse è tempo che mi confronti con Orogastus.» Indubbiamente il mago era pericoloso, ma almeno nella sua torre avrebbe trovato cibo e calore. «L'Arcimaga mi ha detto che avrei scoperto il suo punto debole», pensò Haramis. «Probabilmente fa parte del mio destino, e sarà un piacevole cambiamento trovarmi in un ambiente confortevole!... E se sul monte Brom avessi dei problemi, potrò sempre chiedere a Hiluro di portarmi via.» Improvvisamente si accorse che la roccia vibrava con crescente intensità e che dall'esterno della grotta giungevano dei rumori. La bassa nota rimbombante provocata dallo spostamento dei ghiacci si fondeva con le alte grida del gipeto, che cercava di avvisarla di qualcosa. «Haramis! Vieni fuori! Pericolo! Un grande pericolo!» La giovane infilò il piccolo anello del talismano nella catena che aveva messo al collo, assicurò poi la bacchetta sotto il corsetto e si affrettò verso l'uscita della grotta. I ghiaccioli si erano frantumati e l'intera cavità stava ora beccheggiando e rollando come una barchetta su un mare in tempesta. La principessa Haramis alzò le braccia. E subito una grande sagoma bianconera oscurò il sole mentre le si avvicinava a strapparla da quella stretta balza rocciosa su cui l'aveva prima depositata. Vi fu un breve lampo dorato, seguito da un'esplosione di scintillanti arcobaleni, mentre l'intera caverna di ghiaccio collassava su se stessa, e poi rimase soltanto l'azzurro violaceo di un cielo incontaminato. Il gipeto si lasciò veleggiare lentamente, alzò le possenti zampe artigliate e aiutò Haramis a rifugiarsi nell'accogliente incavo della morbida schiena piumata. La giovane arrischiò una rapida occhiata al luogo in cui sino a pochi istanti prima si trovava la guglia di quarzo. Adesso, soltanto un cumulo di rocce appena meno bianche del ghiaccio rompeva l'uniformità della superficie gelida, e soltanto radi frammenti dorati rifulgevano nel tramonto. 29. Kadiya trascorse la notte fra i sindona che fiancheggiavano la scalinata. Per cibarsi aveva liberamente attinto ai doni offerti dal giardino, ma sentiva che attardarsi in quel luogo era sbagliato. La sentinella vivente non era
più riapparsa. Senza aspettarsi di vederla tornare, Kadiya si sdraiò a terra con una mano stretta saldamente all'amuleto. Molte volte prese sonno per poi risvegliarsi e riaddormentarsi ancora. La giovane aveva già avuto prove che gli invasori erano riusciti a trovare una via per penetrare nella terra proibita. E poi c'era Jagun... sarebbe stato catturato da qualche gruppo di esploratori nemici finendo come quell'Uisgu superstite che le aveva implorato una morte pietosa? Dove sarebbe andata ora? Ritornare sui propri passi... per affrontare gli inseguitori che forse l'aspettavano per ucciderla? Sarebbe stata vera e propria stupidità. Tuttavia non aveva una guida, e vagabondare in quel giardino non le sarebbe stato di aiuto. Alla sua destra si elevava un'alta muraglia. L'avrebbe seguita. L'ultima notte aveva svuotato e fatto asciugare la sacca da cacciatore di Jagun, logorata dall'uso. Fu costretta a eliminare un gran numero di provviste, perché quando aveva tirato fuori il sacco dallo stagno erano ormai inzuppate d'acqua. Nel giardino aveva raccolto tuberi commestibili; con i fili d'erba aveva intrecciato una reticella per portare i frutti, e aveva riempito di nuovo la borraccia. Non c'era più nulla che la trattenesse lì, tuttavia Kadiya si voltò ancora una volta a guardare il giardino. Per quanto quel luogo fosse proibito, in esso vi era qualcosa che le era amico... che era sembrato darle il benvenuto anche a dispetto del freddo comportamento della sentinella. Kadiya sospirò e prese in spalla lo zaino. Per il suo talismano aveva escogitato una custodia temporanea che appese a una spalla. Il suo peso la rassicurava: almeno aveva portato a termine una parte della sua ricerca. Una spada... quando avrebbe avuto bisogno di un'intera armata! Camminò seguendo i sentieri che costeggiavano l'alta muraglia; e infine giunse davanti a una grande porta, oltre la quale vide un'ampia distesa di terreno alberato, e, più oltre ancora, una città scintillante. Intimidita, varcò la porta e si avvicinò alla città. Le abitazioni silenziose erano quasi soffocate dal fogliame, e le vie erano ricoperte da erbacce e rampicanti. Tuttavia, sotto l'assalto della vegetazione non vi era segno di rovina e di decadenza. I muri che si intravedevano attraverso quei trasandati drappeggi non erano di pietra, ne era certa, ma piuttosto di quella materia particolare di cui era fatto il grande bacino sul quale lei e Jagun avevano trascorso una notte. Kadiya si rese conto all'improvviso di trovarsi nella città che le era apparsa in sogno, circondata da alte muraglie di protezione. La giovane rag-
giunse un'ampia via e la percorse, piena di meraviglia. Gli edifici erano ben proporzionati, e intorno a porte e finestre vi erano misteriosi altorilievi. Percorrendo quella strada arrivò infine a una porta alta quasi quanto un edificio di tre piani. Era socchiusa, e varcandola Kadiya venne a trovarsi in un mondo del tutto diverso, dove ancora una volta la palude dominava... sebbene fossero ancora visibili le consunte rovine di una strada. Qui il tempo aveva vinto tutto ciò che, all'interno della città, era invece rimasto intatto. Ma per fortuna quella strada non era stata completamente cancellata e sembrava abbastanza solida da poterci camminare sopra, nonostante fosse immersa in una sinistra schiuma giallastra. La ragazza si fermò per tagliare un robusto ramo da un cespuglio e lo usò per saggiare la resistenza del terreno prima di appoggiarvi il suo peso. Si era già inoltrata in quella regione paludosa quando si voltò per guardare alle sue spalle... e scosse la testa, incapace di credere ai propri occhi. Davanti a lei vi erano soltanto rovine. Anche la muraglia che circondava la città era crollata, e appariva ricoperta da una lussureggiante vegetazione selvaggia. Illusione! Ma qual era l'illusione... il giardino misterioso e la città del sogno, o ciò che vedeva ora? Tutto quello che le era capitato era stato forse un incantesimo? Eppure, sulle spalle sentiva il peso rassicurante del talismano e, sollevando una mano poté toccare i pomi dell'Occhio di Fuoco Trilobato. Continuò a camminare per un tempo che le sembrò di molte ore, non vedendo nulla di insolito e udendo soltanto i comuni suoni della palude. A giudicare dalla luce del sole, che qui appariva sempre attenuata da una specie di foschia, era mezzogiorno o poco più tardi. Davanti a lei vi erano boschetti di felci spinose e alti cespugli di rovo. E fu allora che lo udì... lo stridio caratteristico di un coleottero, intonato tre volte secondo un ritmo familiare. Jagun! Possibile? Fra i cespugli ci fu un leggero movimento, e apparve il volto del suo caro vecchio amico, illuminato da un largo sorriso. Un livido scuro gli gonfiava un occhio. Era chiaro che aveva passato brutti momenti, perché si muoveva con difficoltà e attorno alla parte superiore di un braccio, vicino alla spalla, aveva fissato con dei legacci di canna uno strato di foglie frantumate. Jagun non perdette tempo in saluti: «Sono qui... gli Skritek e i soldati». Kadiya ripensò agli Oddling che tanto l'avevano impietosita mentre percorreva l'altro sentiero... e anche al falò e alla freccia che doveva indicare
la strada... a qualcuno. «Ho visto segni indicanti che il nemico è molto vicino.» Il volto di Jagun era una maschera, e la sua attenzione non era rivolta a Kadiya, ma piuttosto ripiegata sui propri pensieri. «La Festa delle Tre Lune si avvicina», bisbigliò, «e le tenebre si addensano! Ma presto vi sarà fuoco in abbondanza, e potrà essere spento solo col sangue...» La Festa delle Tre Lune. Alla Cittadella l'avevano sempre celebrata con banchetti, e i bardi avevano intonato strani canti antichi, mentre sul fiume veniva abbandonata alla deriva una zattera ricoperta di fiori e illuminata da candelabri a tre bracci. Vi era stato un tempo in cui la minaccia del male veniva respinta dalla volontà di tutti. E quando i tre corpi celesti risplendevano alti nel cielo, congiunti in mistica unione, sotto il loro fulgore gli uomini gioivano e intonavano canti. Ma cosa voleva dire Jagun? Prevedeva che nel periodo dell'antica celebrazione si sarebbe combattuta una grande battaglia? Una battaglia nella quale lei avrebbe potuto usare il talismano per liberare il Ruwenda? Prima che la giovane potesse interrogarlo, Jagun disse: «Gli Skritek, e con loro la Voce dello stregone e un gruppo di soldati umani, hanno attaccato un villaggio Uisgu. Hanno usato il fuoco e la magia. Quelli del Popolo che sono ancora loro prigionieri saranno presto divorati dagli Skritek». «Cercano me!» gridò Kadiya. «È per questo che tormentano i poveri Uisgu!» «La tua cattura sarebbe stata un grande trionfo. Ma qualcosa di più ambizioso li muove.» Si voltò accennando col capo al luogo in cui la città del giardino era nascosta dal miraggio. «Tu sei stata là. Hai anche portato a termine la tua ricerca?» Senza parlare Kadiya portò una mano dietro la schiena e afferrò il talismano tenendolo sollevato perché Jagun potesse osservarlo. Sebbene Kadiya conoscesse Jagun fin da quando, bambina, aveva cominciato a muovere i primi passi, la giovane non aveva mai visto una tale espressione di gioia e di esaltazione sul suo viso. Il Capocaccia allungò una mano come per toccare l'arma, ma poi la ritrasse. I globi neri sull'impugnatura rimasero chiusi, opachi, ma la lama attirò tutta la debole luce del sole. Kadiya tese la spada verso Jagun, le cui guance erano solcate dalle lacrime. Egli si inginocchiò davanti alla principessa. «Il talismano! Oh, Lungimirante... l'hai trovato!» «È usanza del mio popolo», disse lentamente Kadiya, «considerare una
spada con la punta spezzata come simbolo di clemenza.» La giovane scosse la testa. «Ad alcuni non concederò clemenza. Ma a te...» La giovane esitò e poi sfiorò con la spada la testa di Jagun, e da una ancora ignota parte di se stessa si levarono parole di assoluzione: «Mio caro amico, rallegrati. Riprendi il tuo nome! Rimetti il sacro bracciale dei Nyssomu. Non hai spezzato alcun giuramento... hai solo seguito il naturale corso delle cose. Che tu sia libero dal peso che grava sulla tua anima». Allora Jagun fece qualcosa che Kadiya non aveva mai visto. Quando il Capocaccia era giunto per la prima volta alla Cittadella e aveva parlato a suo padre, il re Krain, egli aveva salutato il monarca alzando entrambe le mani nello stesso gesto che Kadiya gli aveva visto compiere dinanzi alla Prima-della-casa nel villaggio Nyssomu dove si erano fermati. Ma questa volta l'Oddling si genuflesse fino a toccare il suolo con le braccia e la fronte. «Che ogni servizio ti sia dovuto, Portatrice di Luce e di Speranza e Protettrice... progenie degli Scomparsi!» Confusa, Kadiya sollevò il talismano. Era come se un'eco lontana avesse riflesso il suono delle sue parole. Tuttavia, qualcosa in lei ancora esitava, e desiderava soltanto conficcare di nuovo la spada magica nel terreno, e farla ridiventare ciò che era stata... la radice del Giglio Nero. «Jagun, non capisco cosa vuoi dire...» Il vecchio e robusto Capocaccia si alzò in punta di piedi per guardarla diritto negli occhi. «Signora degli Occhi, tu saprai tutto. E tutti dovranno servirti.» «Io non so come usare questo talismano», protestò Kadiya. Non si era mai sentita tanto smarrita. Anche la collera, da cui aveva sempre attinto forza, era venuta a mancarle. «La conoscenza arriverà. Ora devi accingerti alla vera opera alla quale sei stata destinata.» Kadiya emise un profondo sospiro, poi rimise il talismano nel fodero improvvisato. «Molto bene. Questi Uisgu, prede di un nemico così sanguinario», disse bruscamente, «dove sono?» «Nei pressi dell'Alto Mutar. Li ho uditi intonare il Richiamo, ma sarebbe passato troppo tempo prima che altri del Popolo potessero rispondere. Con gli Skritek», le sue labbra si allargarono, mostrando le piccole zanne acuminate così diverse dai denti di Kadiya, «non è facile trattare. Dobbiamo ripagarli col sangue... e la carne...»
Kadiya deglutì. Tuttavia chiese, risoluta: «Vi è qualche modo per aiutare i prigionieri Uisgu?» «Lungimirante, in passato avrei detto che una cosa simile è impossibile. Ma per te la Via Proibita si è aperta, e porti con te ciò che è Triplice. Vedremo.» «Allora andiamo», disse la giovane. Non seguirono più la strada, ma imboccarono un tortuoso sentiero che attraversava le terre accidentate dell'Inferno Spinoso. All'imbrunire cercarono un posto per accamparsi, perché non potevano seguire il sentiero durante la notte. Ma prima che si fossero coricati la brezza diffuse fino a loro le tracce di un fetore familiare e terrificante. Gli Skritek erano vicini! Per mascherare l'odore dei loro corpi, Jagun e Kadiya li strofinarono con foglie di un odore particolarmente acre. Poi, ventre a terra, strisciarono nel fogliame. Poco più tardi, acquattati spalla contro spalla e nascosti sotto gli steli simili a tronchi delle felci giganti, osservavano quel che accadeva in una radura davanti a loro. In certo modo si trattava di un accampamento dov'erano raccolti pochi uomini vestiti di logore armature: labornoki. Nello spazio che li separava da Jagun e Kadiya, diverse lance erano state piantate nel terreno e unite mediante rampicanti attorcigliati, in modo da formare un recinto. Un recinto pieno di prigionieri. Nessuno di loro era maschio. Circa una dozzina di femmine Oddling sedevano sole o in piccoli gruppi dentro quella specie di gabbia. Due di loro avevano in braccio dei bambini. Erano immerse in una tale atmosfera di disperazione e paura che Kadiya si sentì stringere il cuore. La sua mano cercò la spada-talismano e la estrasse furtivamente dal fodero. Si udì un flebile lamento, e una delle donne subito mise la mano sulla bocca di un bambino. Quattro Skritek montavano la guardia agli angoli del recinto. Uno di essi alzò la testa dalla lunga mascella e gridò a squarciagola, quindi puntò con la lancia verso la femmina Uisgu. Kadiya abbassò la spada mantenendo però la mano sinistra sull'impugnatura, mentre la destra raggiunse il fodero del pugnale. Vi era un modo di lanciare il pugnale che Kadiya aveva imparato soltanto la stagione precedente osservando un giocoliere a una fiera; la giovane si era impadronita della tecnica dopo molti esercizi. Era sicura che sarebbe stata capace di colpire alla gola lo Skritek più vicino. Oh, se avesse avuto alle spalle tre o quattro arcieri! Ma non li aveva... e fu costretta a controllarsi. Lo Skritek rise, e sembrò
invitare anche i suoi compagni a puntare le loro lance contro la donna Uisgu e il suo bambino. Kadiya afferrò il braccio di Jagun. Non avrebbe potuto fare qualcosa? Jagun aprì per un istante la sua mano sinistra, e Kadiya vide sul suo palmo una piccola massa verdastra che il Capocaccia trattava con la massima cura. Era un aworik, uno strano fungo difficile da trovare ma molto utile a chiunque fosse inseguito da uno dei grandi predatori della palude. Ma fu il nemico a muoversi per primo. Due soldati umani sbucarono fuori dalle felci spinose trascinando un Uisgu maschio. Lo Skritek che minacciava la madre esitò, poi abbassò la lancia. Mentre l'attenzione degli invasori si concentrava sul nuovo prigioniero, Jagun tirò fuori la cerbottana. Dopo essersi alzato su un ginocchio, scagliò l'aworik con tutta la forza dei suoi polmoni, mirando a un punto fra i soldati umani e il recinto dei prigionieri. Cadendo al suolo il fragile fungo andò in mille pezzi, diffondendo nell'aria una miriade di spore affilate come rasoi. Tutti i prigionieri Uisgu si gettarono a terra proteggendosi gli occhi. Ma gli Skritek e i labornoki furono colti di sorpresa. Quelli che non furono accecati caddero in preda alla frenesia a misura che le sottili lame degli aworik penetravano nelle parti vulnerabili dei loro corpi. Jagun aveva già pronta la sua cerbottana, e Kadiya udì sibilare il primo dardo avvelenato anche se non lo vide nel suo rapidissimo volo. Uno degli Skritek cadde a terra. Kadiya balzò in piedi con il talismano in una mano e il pugnale pronto nell'altra. Lo Skritek più vicino a lei, privo della vista, barcollava facendo ondeggiare la lancia. La giovane gli conficcò il pugnale in gola, e l'arma penetrò nella soffice carne del mostro che cadde a terra agitando le braccia negli spasimi dell'agonia. Altri due Skritek furono abbattuti dai dardi avvelenati di Jagun. Un soldato con il volto lordo di sangue si avvicinò a loro impugnando una corta spada, ma Kadiya era pronta ad affrontarlo con il suo talismano-spada sguainato, come un esperto membro dell'ordine dei Compagni Fedeli. Roteò la spada e sentì una scossa in tutto il corpo mentre il talismano recideva la gola dell'uomo, che cadde, soffocato dal suo stesso sangue. Per un momento la giovane rimase sbigottita, incapace di credere di essere stata tanto abile nell'uso della spada magica. Si udirono urla e strepiti. I dardi di Jagun stavano abbattendo gli altri soldati labornoki. Gli Skritek morenti gridavano e percuotevano il suolo con le braccia, scavando nella terra con gli artigli. Kadiya sollevò un'altra volta la spada abbattendo con la lama smussata l'intreccio di rampicanti
che formava le pareti del recinto, e quel viluppo si spezzò come fosse stato non reciso, ma liquefatto. «Fuori!» gridò Kadiya alle femmine Uisgu, molte delle quali erano già balzate in piedi. La giovane puntò la spada. «Correte! Tra le felci!» Le donne Uisgu si precipitarono tra gli arbusti spinosi con Kadiya alle calcagna, pronta a respingere ogni attacco degli Skritek e dei soldati. Jagun la seguì, dopo aver estratto il pugnale di Kadiya dalla carne del mostro che la giovane aveva ucciso. Kadiya e le donne Uisgu raggiunsero un grande fiume, senza dubbio il Mutar Superiore, dove una zattera galleggiava vicino a una grande chiatta, simile a quelle usate dai mercanti. Là vi erano quattro soldati, che apparivano allarmati dai clamori che avevano udito, e un solo Skritek, che stava uscendo proprio allora dall'acqua con un pesce tra le fauci. «Jagun!» Kadiya avvertì il pericolo in un istante. Avevano bisogno del cacciatore e dei suoi dardi avvelenati. Lei sola non avrebbe potuto tener testa a ciò che avevano davanti. Ma Jagun era rimasto indietro, per accertarsi che non fossero inseguiti. I soldati labornoki, con le spade sguainate, stavano avanzando per circondare i fuggiaschi. Le femmine Oddling gridavano di terrore vedendo l'enorme Skritek avventarsi su di loro. La giovane avvertì nella sua mano un improvviso calore, tanto che fu costretta ad abbandonare l'impugnatura della spada-talismano e a tenerla per la lama smussata. I tre occhi sul pomo erano aperti, e guardavano il più vicino dei soldati labornoki. Questi emise un rauco grido, barcollò lasciando cadere la sua arma e portò le mani agli occhi. Kadiya non si rese conto di ciò che era accaduto, e poté solo tentare di immaginarlo. Puntò il talismano verso un altro soldato. Questi gridò e inciampò sul corpo del compagno accecato, che si girò rapidamente roteando la spada e inferendo un colpo mortale a un altro compagno labornoko. Kadiya puntò la spada verso l'ultimo uomo. Ma questi aveva visto ciò che era accaduto agli altri, e si abbassò all'improvviso, scagliandosi in avanti per afferrare Kadiya. Poi gridò e barcollò. Uno dei dardi avvelenati di Jagun gli sporgeva dalla parte posteriore del collo. Quando lo Skritek venne colpito da un altro dardo si udì un terribile tonfo proveniente dal fiume. Mentre Jagun sopraggiungeva di corsa, i due ciechi soldati sopravvissuti continuavano a colpirsi l'un l'altro come impazziti. Jagun gridò di salire sulla zattera. Poi spezzò la cima d'ormeggio con il pugnale di Kadiya e lo gettò a bordo. Due donne Uisgu avevano raccolto le
spade dei soldati, e altre approntavano i pali per la navigazione. «In fretta», gridò Jagun. «Arrivano altri Skritek! Andiamocene!» Kadiya si affrettò ad aiutare le donne ferite a salire a bordo. I pali toccarono il fondo e la zattera cominciò a muoversi. Una delle donne prese a intonare uno dei monotoni canti della gente dei fiumi, e altre che lavoravano ai pali risposero con movimenti accelerati. Poi furono presi dall'impetuosa corrente. «Jagun!» gridò la principessa. Ma il Capocaccia si limitò a scuotere la testa, e si voltò per affrontare cinque Skritek sbucati urlando dalle felci. Impotente, Kadiya lo vide puntare la cerbottana contro quei mostri... poi la zattera seguì una svolta del fiume, e il piccolo, valoroso Jagun scomparve alla vista. Le sole armi che avevano erano le due spade, il pugnale di Kadiya e il talismano. Le femmine Uisgu non avevano indosso altro che il loro pelo sudicio. Erano in tutto undici, tutte stremate, e con in più due piccolissimi bambini. Quattro delle aborigene indossavano delle fasce di foglie sporche di sangue, e mentre molte altre si curavano le ferite provocate dalle spore di aworik o le contusioni inferte loro dai nemici. «Signora?» Kadiya era addolorata per la scomparsa di Jagun, ma si girò a guardare chi la chiamava. Una delle donne Uisgu si era seduta vicino a lei. «Sono Nessak di Dezaras, un tempo Prima-della-casa e Portavoce della Legge. Anche loro», indicò le altre con un braccio, «sono del villaggio di Dezaras. Mentre eravamo in viaggio, la sventura è piombata su di noi. I soldati umani hanno consegnato i nostri uomini agli Skritek, costringendoci ad assistere a quell'orrido spettacolo. Questi invasori, Potente Signora, sono alla ricerca di segreti che noi non conosciamo. Infatti per giuramento non possiamo entrare nel luogo proibito degli Scomparsi... quel luogo che è rimasto sempre sbarrato. Non potendo parlare di ciò che non conoscevamo, l'umano che comandava su tutti, vestito di rosso, ordinò che fossimo fatte prigioniere fino all'arrivo di altri umani che sono con gli Skritek e cercano di sollevare le Tenebre contro la Luce. Quell'uomo se ne andò per il fiume poco prima che voi veniste a salvarci... Ora siamo per sempre tue serve, Signora, e vi ringraziamo di averci liberate. Ci dirai chi sei e da dove vieni?» «Sono figlia di colui che fu il re Krain... e il mio nome è Kadiya. Questi servi del male hanno preso la nostra terra. Mio padre è morto per la loro
crudeltà, come tutti coloro che gli erano fedeli. E così pure mia madre.» Trattenne il respiro, gettando uno sguardo al talismano. Se solo lo avesse avuto quando i labornoki avevano invaso la Cittadella! Se esso aveva sconfitto quei soldati..., come avrebbe reagito di fronte a Voltrik in persona? «Vi fu una profezia», continuò la principessa, accarezzando gli occhi chiusi sul pomo della spada, «secondo la quale una donna della mia casata avrebbe sconfitto questi malvagi. Le mie due sorelle ed io, per ordine dell'Arcimaga Binah, che voi chiamate la Bianca Signora, abbiamo viaggiato a lungo alla ricerca di ciò che può vendicare la nostra stirpe.» Per la prima volta da molti giorni Kadiya pensò ad Anigel e ad Haramis. Cosa era loro capitato? Erano forse morte, e lei era la sola rimasta a vendicare col sangue la loro casata? «Anigel... Haramis...» Pronunciò ad alta voce i loro nomi come se le stesse chiamando. Avvertì un movimento sotto la sua mano. Staccò il palmo dal pomo della spada. Due degli occhi erano aperti! Occhi? No, non questa volta, Vide invece due minuscole immagini... visioni! Vi era Haramis, con in mano il Giglio Nero interamente aperto. E vicino a lei Anigel, che teneva sul palmo della mano un Giglio analogo. Kadiya non dubitò più che le sorelle fossero vive, e che in qualche luogo attendessero lei e il momento del loro incontro. Proprio in quel momento le palpebre si chiusero, e Kadiya ebbe di nuovo davanti a sé gli opachi globi del pomo. La giovane sospirò. «Signora», disse gravemente la donna Uisgu, «è chiaro che tu sei la Portatrice della Luce e della Speranza... la Signora degli Occhi che è della stirpe degli Scomparsi.» Kadiya scosse la testa con veemenza. «No, Portavoce della Legge, non rivendico la parentela con i grandi di un tempo, anche se questo», indicò il talismano, «potrebbe ben provenire dalla loro epoca remota. Non so come io possa portare la luce o la speranza. Tutto ciò di cui sono sicura è che devo sconfiggere il re Voltrik e il suo stregone Orogastus, anche se dovessi farlo da sola.» «Signora», disse sommessamente Nessak, «non sei sola. I malvagi che ci hanno prese hanno spezzato il grande giuramento meritando la punizione. Tu sei entrata nel Luogo del Sapere e hai superato illesa i guardiani, i sindona. Tu sei stata inviata a noi. Tu sei la Signora degli Occhi... colei che da lungo tempo attendiamo. Perciò gli Uisgu si leveranno in tuo aiuto, anche se la guerra ci è stata sempre proibita. Le Tenebre percorrono la nostra
terra, il grande equilibrio è stato distrutto, e nessuno può sottrarsi alla battaglia! Quando raggiungeremo Dezaras, il Richiamo verrà intonato e il Popolo degli Uisgu marcerà al tuo fianco.» Kadiya trattenne il respiro. Ciò che lei stessa aveva suggerito a Jagun, e che, le era stato detto, non sarebbe mai potuto accadere, ora sarebbe diventato realtà. Se gli Oddling avessero combattuto, la stessa Palude Labirinto sarebbe diventata un'arma contro gli invasori. La sua volontà si rafforzò. Sarebbe stata guerra, e, se fosse riuscita a impadronirsi del segreto del suo talismano, sarebbe stata una guerra vittoriosa... Strinse i pugni. Tempo... non aveva soltanto bisogno di tempo, ma anche di conoscenza. Kadiya pregò che i suoi nuovi alleati potessero in qualche modo trasmettergliela. 30. I rimorik proseguirono la loro instancabile corsa giù per il fiume spingendo la barca di Anigel per altri tre giorni. A volte il canale principale curvava verso l'una o l'altra delle rive, permettendo così alla fanciulla di osservare più da vicino gli strani alberi che le ricoprivano. Alcuni erano altissimi, con flessuosi rami che si piegavano verso l'alto come le braccia sinuose di un ballerino. Altri avevano tronchi bizzarramente corrugati, come se fossero costituiti da migliaia di anelli impilati uno sull'altro, e inclinazioni tali da far pensare che sfidassero le leggi della gravità. C'erano poi alberi massicci e tarchiati, simili a giganteschi tuberi larghi alla base e appuntiti in cima, le cui uniche ramificazioni erano costituite da piccoli rametti con foglioline tremule. Qua e là si scorgevano boschetti di splendidi gonda, molto più grandi di tutti quelli che crescevano nel resto della Palude Labirinto, e il cui pregiato legname era richiestissimo per le costruzioni. I loro tronchi sembravano colonne, ognuno più largo della porta principale della Cittadella, e i rami degli alberi vicini si toccavano a formare delle specie di alti pergolati verdeggianti, rischiarati dai raggi del sole basso all'orizzonte. Ma c'erano anche alberi così tempestati di fiori arancione e scarlatti da sembrare in fiamme. Altri, però, erano sgraziati, con un fogliame misero e dall'aria malaticcia, e il cavo dei tronchi ospitava rumorose colonie di pipistrelli canori. Insomma, c'era una tale varietà di alberi che Anigel si sentì sopraffare, e fu contenta quando il corso principale del fiume li riportò lontano dalle rive. Era chiaro che durante la stagione delle piogge il vasto e ora quasi a-
sciutto letto del Grande Mutar si sarebbe trasformato in un possente corso d'acqua dall'impressionante portata. Ora invece le acque erano basse, e gli innumerevoli canali erano spesso così ostruiti da detriti naturali misti a fango da formare degli isolotti che venivano utilizzati come base da stormi di volatili che abitavano stagionalmente in quella regione e si nutrivano nelle secche. Quando la barca si avvicinava troppo alle loro postazioni, si alzavano in volo sollevando alte strida. Di tanto in tanto si vedeva anche qualche animale, come i grassi quadrupedi grigi che brucavano le piante acquatiche o gli agili carnivori mangiatori di pesce che venivano sempre salutati dai rimorik come se fossero loro parenti, e una gran quantità di piccole creature inoffensive dalla pelliccia striata di giallo, simili a quella che aveva svegliato Anigel nella foresta di Tassaleyo, che sciamavano sulla vegetazione a riva e sugli isolotti. Ma nessuna persona in vista. Anigel ne chiese ragione ai suoi amici, i quali le dissero che i Wyvilo vivevano ormai da anni in un unico grande villaggio. Cercavano la sicurezza nel numero, a differenza di certi pesci o uccelli, dato che erano incessantemente cacciati dai loro cugini Glismak, che dimoravano a valle e all'interno della foresta. Tempo addietro, le dissero i rimorik, i Wyvilo non risiedevano in dimore permanenti e preferivano invece vivere in piccoli nuclei familiari. Riuscivano ad evitare abbastanza facilmente i loro goffi nemici non dormendo mai due notti di seguito nello stesso posto. Ma quando i Wyvilo iniziarono a commerciare con gli umani, si ritrovarono ad accumulare numerosi oggetti e non furono più in grado di condurre quella vita nomade. Divennero sempre più ricchi, ma al tempo stesso sempre più minacciati dagli invidiosi Glismak. «Ma non ritornarono mai più al loro originario modo di vita. Un tale passo sarebbe stato per loro peggiore che la morte. Noi non riusciamo proprio a capirli.» «Ma io sì», disse la principessa ai rimorik. «Anche gli umani hanno avuto una storia simile. C'è qualcosa che spinge certe persone a cercare di far sempre meglio, a imparare di più, a sforzarsi per creare condizioni di vita migliori... a salire più in alto. Non tutti si comportano in questo modo, ma sembra esserci uno stimolo che si passa di genitore in figlio. Non è certo una cattiva cosa. È davvero un gran mistero l'esistenza di una tale energia che porta gli esseri viventi, e mi riferisco specialmente a quelli senzienti, a crescere in modo sempre più complesso, magari proprio quando sem-
brerebbero più stanchi delle pressioni esterne e desiderosi di tornare a una maggiore semplicità... come un fuoco diventa cenere. Fra di noi si sa, per esempio, che diventando vecchi ci si sente più stanchi e si tende a essere meno propensi a tuffarsi in questa corsa. Ma c'è sempre qualche giovane desideroso di andare ancora più avanti, alla ricerca di nuove soluzioni che consentano di vivere sempre meglio.» «Il Popolo e gli Umani sono quindi molto affini.» «Io... io penso di sì. Ma non lo so di sicuro. Gli aborigeni locali, coloro i quali vengono chiamati il Popolo, pare che appartengano veramente a questo mondo - o almeno così dicono i nostri grandi saggi - ma noi umani no.» I rimorik scoppiarono a ridere. «Oh, sì! Altroché se vi appartenete.» Anigel li rimproverò. «Ehi, non sono mica una scolaretta ora, ma a tempo debito fui istruita dai migliori insegnanti del nostro regno! Mia sorella Haramis, che è molto intelligente, mi ha assicurato che è la verità. E questa non è solamente una convinzione ruwendiana, ma anche degli altri umani.» «Gli Umani hanno abitato questo mondo prima del Popolo delle Paludi, di quello delle Foreste e di quello delle Montagne. Solo i grandi Affogatori hanno abitato questo mondo prima di loro.» Anigel si mostrò piuttosto scettica. «Come fate a saperlo? Voi siete solo degli animali!» Ma i rimorik risero nuovamente, e lasciarono cadere il discorso. Alcuni istanti più tardi Anigel colse una prima fugace apparizione del villaggio wyvilo, e non poté più darsi pena a riflettere sui grandi misteri della creazione. I Wyvilo naturalmente sapevano che lei stava arrivando. Una flotta di più di trenta agili canoe traslucide si staccò dalla riva e si diresse verso di lei. Ogni imbarcazione portava a bordo una dozzina di vogatori, diretti da un timoniere che se ne stava impettito a prua, gesticolando in direzione della sua ciurma. «Penso che faremmo meglio a fermarci», disse inquieta Anigel ai rimorik. «Per il Fiore, quanti sono! Cosa... cosa ne direste di tirar fuori la testa dall'acqua e assumere un atteggiamento... come dire, protettivo?» Per tutta risposta si sentirono un paio di tonfi seguiti da spruzzi d'acqua, e i due rimorik, dopo averle rivolto quello che ormai Anigel aveva decifrato come un largo sorriso, spostarono la loro attenzione sulla piccola flottiglia che stava sopraggiungendo.
Il villaggio dei Wyvilo copriva una vasta area appositamente disboscata, e in seguito la principessa apprese che si trattava in realtà di un'isola circondata da canali approfonditi artificialmente. La linea costiera era disseminata di piccoli bacini portuali e moli a cui era attraccato un gran numero di quelle loro leggere e scintillanti imbarcazioni per la cui realizzazione, secondo quanto le avevano detto i rimorik, veniva opportunamente utilizzata la membrana della vescica natatoria di certi giganteschi pesci che vivevano lì nel fiume. Le case, tutte su palafitte, erano bellissime e costruite ovviamente in legno pregiato; erano circondate da ampie balconate, in quel momento affollate di spettatori. La maggior parte delle costruzioni erano collegate con ponticelli dall'aria piuttosto traballante. Una parte dell'abitato era stata evidentemente preda di un recente incendio, ma si stavano già abbattendo le strutture annerite e al loro posto ne venivano innalzate di nuove. Stranamente, i Wyvilo non avevano lasciato alberi all'interno del villaggio, anche se qua e là si scorgevano macchie di arbusti e curatissimi giardinetti, e su molti dei tetti ricoperti di muschio crescevano fiori coloratissimi. Quando la canoa di testa dei Wyvilo giunse a una quindicina di metri da quella di Anigel, adesso ferma in mezzo al fiume, il timoniere diede l'alt e anche le altre imbarcazioni si arrestarono, una di fianco all'altra a formare una compatta fila di canoe stracolme di Oddling dall'aria stupefatta. Il loro aspetto fisico era molto diverso da quello a cui era abituata Anigel. Erano più alti dei Nyssomu e degli Uisgu che abitavano nelle paludi del nord, e la loro struttura era quasi simile a quella di un adulto umano ben piantato. Avevano teste allungate, non rotonde, con nasi adunchi e prominenti. Gli occhi, grandi e gialli, erano invece inconfondibilmente da aborigeni, le pupille erano verticali, come quelle degli Skritek. Le bocche aperte per lo stupore rivelavano una formidabile dentatura. La loro pelle era in parte ricoperta di peluria e in parte rivestita da placche cutanee simili a scure squame luccicanti. A quanto sembrava, il Popolo delle Foreste amava indossare corte vesti dai colori sgargianti e ricoprirsi con una incredibile profusione di gioielli e ninnoli di vario tipo in oro e platino, spesso ancor più impreziositi da scintillanti gemme dai più svariati riflessi. Ma andavano molto di moda anche i manufatti umani, come lunghe collane di vetro blu che molti di loro portavano avvolte al collo in parecchi giri; Anigel vide che uno di loro ostentava perfino una rilucente corazza d'acciaio da cavaliere ruwendiano, mentre un altro indossava sulle spalle massicce uno scialle da donna in seta.
Mentre le imbarcazioni si stavano avvicinando, la fanciulla si era pettinata con molta calma e si era avvolta intorno la cappa di pelle di Immu per nascondere il suo misero abbigliamento. Quando tutte le barche furono finalmente ferme, si alzò in piedi e con espressione solenne alzò entrambe le braccia. Il mantello le cadde così dalle spalle, rivelando agli astanti il ciondolo di ambra che le scintillava sul petto. I Wyvilo assiepati sulle barche emisero un basso mormorio di meraviglia, seguito da esclamazioni nel loro tipico linguaggio gutturale quando riuscivano a godere di una miglior visuale sporgendosi a rischio di finire fuoribordo. «Sono venuta in amicizia», disse Anigel. «Sono in cerca di un talismano magico chiamato il Mostro a Tre Teste.» Il Popolo delle Foreste si fece d'un tratto silenzioso. Di nuovo le bocche si spalancarono e gli occhi dorati si sporsero per lo stupore. Anigel attese un attimo e poi continuò: «C'è qualcuno fra voi che è in grado di comunicare con me?» Uno dei timonieri dall'abbigliamento più elaborato fece un brusco gesto verso i suoi uomini. La canoa uscì dalla fila e si avvicinò a quella della principessa. «Io posso», declamò nella lingua della Penisola. La sua voce era aspra e quasi inintelligibile, e le sue folte sopracciglia si corrugarono in un fiero cipiglio. Indossava un girocollo in oro battuto tempestato di gemme multicolori, un bel cappello ruwendiano di broccato color crema, con una spilla di brillanti e un pennacchio di piume rosse, la stessa tinta del corto abito che racchiudeva la sua possente struttura fisica. «Io sono Sasstu-Cha, Portavoce di Let», gracchiò. «E tu chi sei? E perché cerchi l'aiuto dei Wyvilo?» «Io sono la principessa Anigel di Ruwenda. Saprai probabilmente che la mia nazione è stata conquistata da nemici umani provenienti da nord.» Alzò l'amuleto mentre continuava a parlare. «La custode della nostra terra, la Bianca Signora, mi ha mandata in cerca di un talismano che libererà la mia gente dal giogo dei conquistatori. Hai mai sentito parlare di questo Mostro a Tre Teste?» Il Portavoce esitò un attimo. «Sappiamo cos'è. Ma non è un talismano. Bisogna seguire il fiume per una mezza giornata e poi risalire il suo affluente Kovuko per parecchie altre ore di navigazione... nella terra dei Glismak.» La principessa trattenne il fiato in modo così evidente da suscitare qual-
che risolino da parte dei Wyvilo. «Potete fornirmi una guida che mi accompagni là?» domandò. «No», fu la secca risposta del Portavoce. Anigel brandì l'amuleto. «Ve lo ordino! Per il Fiore!» La folla dei Wyvilo emise una sorta di lamentoso sospiro. Disperatamente, Anigel estrasse dal tascapane la foglia di Giglio Nero e la agitò verso di loro. Il Popolo delle Foreste questa volta lanciò grida piene di paura. «Ma io devo andare là! Aiutatemi», li supplicò la fanciulla. «Se risalirai il Kovuko, andrai incontro alla morte», disse Sasstu-Cha. «Gli alberi di quella regione sono voraci quando i Glismak stessi. Nessuno di noi oserebbe portarti là. Se anche non fosse un luogo proibito dal Dio del Cielo, noi non potremmo andarvi. Quattro soli fa i Glismak hanno attaccato Let e bruciato molte delle nostre case, come sempre alla fine della stagione secca, sapendo che abbiamo messo da parte parecchia mercanzia grazie ai nostri commerci con gli Umani. Torneranno presto all'attacco. Tutti i Wyvilo devono rimanere a difendere le loro dimore. Nemmeno il sacro Giglio Nero può distoglierci da questo compito.» Anigel si erse in tutta la persona e trasse un profondo respiro. «Molto bene. Allora io e i miei amici rimorik andremo da soli! Sareste almeno così gentili da fornirci le necessarie indicazioni, affinché possiamo raggiungere il più rapidamente possibile questo Kovuko?» «Sì, volentieri. E ti daremo anche cibo e vestiti umani, se lo desideri.» «Ve ne sarei grata. Anzi, ci sarebbe anche un'altra richiesta che vorrei farvi. Dopo di me verranno altri umani, i miei nemici. Vi pregherei di non dir loro dove sono andata.» «Non preoccuparti», le rispose Sasstu-Cha. Ciò detto, rivolse un gesto imperioso ai vogatori perché si preparassero a remare. «Ora, principessa Anigel di Ruwenda, ti chiedo cortesemente di seguirci. Accetta per stanotte la precaria ospitalità che ti possiamo offrire qui a Let, così che tu possa ripartire più riposata. E se poi riuscirai a trovare il magico talismano che dovrebbe portare alla liberazione del tuo popolo... allora non pensare solo ad esso, ma riserva un piccolo pensiero anche per noi.» 31. Gli Uisgu erano dotati di una straordinaria sensibilità per l'ambiente della palude ed erano in grado di avvertire il più piccolo cambiamento nella
vita intorno a loro. Era il tramonto quando le addette alle manovre con le pertiche (cambiate molte volte nel corso del loro viaggio giù per il fiume) improvvisamente si fermarono. Kadiya le vide riunirsi e confabulare sottovoce nel loro dialetto. Nessak, che conosceva il linguaggio commerciale, si avvicinò a Kadiya. «Signora, ci sono altri nemici davanti a noi. La maggior parte si sono accampati laggiù dove il fiume fa gomito. Dobbiamo trovare il modo di aggirarli se non vogliamo concedergli il maligno piacere di catturarci.» Kadiya assentì. Doveva affidarsi alla loro conoscenza delle piste e dei corsi d'acqua della regione, come prima si era dovuta affidare alla competenza di Jagun. Jagun... le rimaneva di lui un doloroso ricordo. A dispetto di tutte le loro speranze, non era riapparso lungo il Mutar, né le donne Uisgu avevano captato alcun messaggio da parte sua. Ma la principessa continuava a rifiutare il pensiero che fosse morto. «Abbiamo modo di aggirarli?» chiese Kadiya. Ancora una volta le nebbie si stavano addensando, coprendo ora una parte ora l'altra del fiume e degli argini. Da quando erano fuggiti non avevano più incontrato segni di rovine. Nessak scosse lentamente la testa. «Signora, quegli umani malvagi hanno con loro gli Skritek, ma è anche vero che sono molto stanchi e ci sono in agguato altri pericoli. Questo è territorio di caccia per i looru. Così...» fece un piccolo movimento con la mano, «quando farà scuro non dovremo nasconderci soltanto dagli umani e dagli Affogatori.» I looru! Kadiya aveva sentito parlare di quei selvaggi volatili notturni fin da quando era piccola. Ricorrevano a loro le bambinaie per spaventare i bambini che indugiavano fuori casa dopo il tramonto. Ma, da quando erano fuggiti in quel territorio, Jagun non ne aveva mai parlato. Aveva visto in passato pelli conciate ricavate dalle loro ali in vendita al mercato di Trevista, ma le aveva considerate niente più che una curiosità - in cui, del resto, si era imbattuta soltanto una volta. Adesso osservava il cielo che si oscurava. I looru erano vampiri che, una volta attaccatisi a un uomo o a un animale, ne succhiavano il sangue fino all'ultima goccia, e con le loro zampe artigliavano a morte qualsiasi preda capitasse nel loro raggio d'azione. «Signora!» Una delle Uisgu a prua della chiatta la chiamò a voce bassa. «Garda là!» Dall'inizio della loro fuga, il fiume aveva fatto diverse curve e si era
suddiviso in più di un canale. Adesso sembrava riassumere un corso lineare, e sull'argine sinistro si vedeva un bagliore provocato da un fuoco o da un qualche segnale luminoso, e che comunque non si era prodotto spontaneamente nella vegetazione della palude. Nello stesso momento udirono le note di ciò che poteva essere soltanto una tromba di guerra che chiamava a raccolta, e poi grida di uomini e un forte e incessante ronzio. Le donne Uisgu diressero l'imbarcazione sulla sponda opposta lavorando energicamente con le pertiche. «I nostri nemici stanno subendo un attacco!» disse Nessak alzando il tono di voce. «Forse sono i looru, signora.» «Se sono così incoscienti da illuminare l'accampamento per facilitare quei predatori», commentò Kadiya, «vuol dire proprio che si muovono con un'ingenuità infantile in questi luoghi. Gli Skritek avrebbero dovuto avvisarli...» Nessak emise un suono simile a un'amara risata. «Signora, questi uomini provenienti da terre lontane non ascoltano certo i barbugliamenti degli Affogatori. Per loro l'avvertimento di un abitante delle paludi non è da prendere sul serio. Non hanno buon senso, la sola cosa di cui sentono bisogno è versare sangue per soddisfare i loro padroni.» «Se i looru li attaccano adesso», disse Kadiya, esprimendo i suoi concitati pensieri, «forse riusciamo a passare, non è vero?» Nessak rispose pensierosa: «Potrebbe esserci una possibilità, signora. Non resta che provare...» Approdarono sulla sponda sinistra. Kadiya e molte altre cominciarono velocemente a tagliare grandi quantità di canne e le passarono, raccolte in fascine, alle compagne che intanto cercavano di dare alla chiatta l'aspetto di una di quelle masse galleggianti di vegetazione che spesso si vedevano alla deriva lungo i fiumi. L'unico ostacolo erano le dimensioni dell'imbarcazione che stavano cercando di mimetizzare. Simili isolotti galleggianti avevano di solito una grandezza che era di un quarto rispetto a quella della piattaforma di tronchi su cui avevano trovato rifugio. Preparata la chiatta come meglio potevano, due Uisgu, spingendo sulle pertiche, la riportarono nella corrente, che in quel punto però era più debole, così che l'imbarcazione cominciò a scivolare con una lentezza torturante. Il fuoco nell'accampamento nemico emanava di una luce sempre più intensa. Le Uisgu giacevano supine sulla zattera, coperte dalle canne, ma scrutavano l'altra riva con occhi ansiosi. Sembrava che gli invasori avessero imparato qualcosa nel corso delle
precedenti battaglie con i looru, in quanto un buon numero di uomini era munito di torce, e ciascuno di loro era affiancato da un compagno armato di una spada o un giavellotto. Molte delle bestie si stavano ora dibattendo al suolo. Uno Skritek picchiò sulla testa di uno di quegli alati predatori e un uomo con una fasciatura sporca di sangue intorno a una gamba brandì la spada come un coltello da caccia per inchiodarne al terreno un altro che sbatteva convulsamente le ali. Non c'era più molto orgoglio e sicurezza adesso nel portamento dei soldati labornoki. Le armature erano arrugginite, le piume sugli elmetti inzaccherate, gli abiti sudici. Molti erano bendati, e i volti e le zone di pelle scoperta di quasi tutti loro erano gonfi e arrossati per le numerose punture d'insetti. Sotto un albero con una rozza tettoia applicata intorno al tronco giacevano i cadaveri di almeno quattro soldati. Era evidente che tutto l'accampamento - perché non si trattava di un gruppetto di esploratori in ricognizione - era vittima di un attacco simultaneo e organizzato. Kadiya fece forza con la sua pertica sull'argine sinistro, nel tentativo di far acquistare velocità alla zattera. Altre donne Uisgu seguirono il suo esempio. Ma l'imbarcazione continuò a muoversi con estrema lentezza. Per i looru la battaglia si stava rivelando più pericolosa e difficile del previsto. Lo sciame si allontanò con brusche virate quando uno di loro prese fuoco colpito da una torcia ben diretta. Bruciando, l'animale emise alte strida e poi si gettò sui suoi nemici, determinato a vendicarsi. Con gli artigli agganciò per le mascelle un uomo, facendogli cadere l'elmo. Il soldato lanciò un ultimo grido di terrore mentre il looru si tuffava a capofitto sul terreno, seppellendo la preda umana sotto il suo corpo in fiamme. Kadiya si rese conto che le loro possibilità di passare inosservati erano aumentate. Nessuno dei combattenti si trovava vicino al fiume e, sebbene il grande falò e le torce illuminassero le acque tenebrose, sembrava che nessuno dei labornoki o degli Skritek stesse guardando nella loro direzione. Ma aveva sperato troppo presto. Improvvisamente la chiatta vibrò e prese a dirigersi verso la riva destra. Kadiya cercò di contrastare con la sua pertica quello che all'inizio pensava fosse uno scherzo della corrente. Poi, quando stavano quasi per toccare terra, la mimetizzazione che copriva la chiatta si sollevò. Udì strillare una delle femmine Uisgu mentre un grande braccio squamoso usciva dall'acqua per afferrare le canne ammucchiate sopra di loro.
Nello stesso momento la pertica le fu strappata di mano, e la lasciò giusto in tempo per evitare di essere trascinata fuori bordo. La zattera si muoveva ora decisamente verso la zona in cui si combatteva. «Affogatori!» mormorò Nessak quasi soffocata dal panico. «Sotto - ci stanno trainando!» Non c'era modo di organizzare una difesa contro creature così avvezze all'acqua da potervi restare nascoste in apnea per lungo tempo. Né le donne osavano gettarsi fuoribordo e fuggire a nuoto, poiché quei predatori avrebbero avuto troppo buon gioco ad afferrarle e trascinarle in un batter d'occhio sott'acqua. Kadiya capì cos'era successo. Molti di quei demoni della palude si erano rifugiati in acqua al momento dell'attacco dei looru, lasciando gli uomini a combattere. Ce ne doveva essere un buon numero adesso, nel fiume, a giudicare dalla velocità con cui le trainavano verso riva. La confusione dell'accampamento stava diminuendo. Altri looru erano rimasti sul terreno, e i volatili predatori si erano allontanati per organizzare un nuovo attacco. Scrutando l'accampamento nemico Kadiya vide, nella piena luce del falò, una figura vestita di rosso e incappucciata. Non poteva essere altri che la Voce di Orogastus, che tanto a lungo le aveva dato la caccia. In una mano reggeva un bastone che sollevò verticalmente, conficcandone poi la punta inferiore nel terreno. Si fece avanti un soldato per aiutarlo nell'operazione. All'estremità superiore, ben sopra il livello del falò, era posta una piastra circolare. La Voce indietreggiò, e dalla sua mano si proiettò un raggio di luce che colpì la piastra. Ci fu una piccola esplosione. Si levarono fiamme giallo-arancioni dal bordo della piastra, che cominciò a ruotare con un suono acuto che faceva dolere i timpani. Lo sciame di volatili emise strida di terrore. Tutti insieme si alzarono nel cielo notturno e un attimo più tardi erano già scomparsi. Il vorticoso fuoco d'artificio fiammeggiò e stridette per qualche minuto ancora, poi rallentò in una pioggia di scintille e morì. L'uomo vestito di rosso si avvicinò alla riva per osservare la zattera che si stava avvicinando. Kadiya non lo udì emettere alcun richiamo ma immediatamente si riunirono intorno a lui molti uomini dai mantelli laceri e con le insegne di comando così malridotte da risultare quasi irriconoscibili. Furono urlati degli ordini e dalla scena della recente battaglia accorsero gruppi di soldati. Kadiya vide un malconcio manipolo di arcieri pronti con le loro frecce. Ma un ufficiale in pomposa armatura rosso sangue alzò il
braccio ed essi non fecero partire i dardi. Nessuna delle Uisgu era uscita dai nascondigli, ma Kadiya non aveva dubbi che quelli a riva sapessero tutto. Uscendo dall'acqua e dando degli scossoni alla grande zattera, gli Skritek ghignavano con aria di trionfo, mentre i loro grandi occhi riflettevano il bagliore rosso del fuoco e delle torce. L'ufficiale, che adesso Kadiya aveva riconosciuto essere il generale Hamil, si rivolse alla Voce Rossa. Subito l'accolito di Orogastus gridò nel linguaggio commerciale: «A terra, feccia della palude! O lasceremo che questi nostri alleati facciano di voi ciò che vogliono!» Fece un piccolo gesto agli Skritek in attesa. Le canne si mossero mentre le donne Uisgu scivolavano fuori. Ma Kadiya non le seguì subito. Strinse il talismano. Doveva sicuramente esserci almeno una possibilità... Gli Skritek afferravano le Uisgu scagliandole con violenza sulla riva. La Voce però non sembrava interessarsi a loro. Fissava accigliato il luogo dove Kadiya giaceva ancora nascosta. Il talismano, a quanto pareva, le stava ancora, in qualche modo, facendo scudo. La Voce disse qualcosa al generale Hamil e l'ufficiale si voltò. Una delle donne Uisgu, che aveva in braccio un bambino, era inciampata e caduta ai suoi piedi mentre gli Skritek spintonavano malamente le prigioniere a riva. Hamil si chinò e tirò su per un braccio il bambino urlante, strappandolo alla madre; quindi lo gettò a uno Skritek. Il mostro ruggì di piacere prendendo al volo quel regalo. Kadiya saltò fuori dalla mimetizzazione di cespugli con il talismano stretto in mano. «No!» gridò. «Prendetela!» urlò Hamil. Prima che lei potesse fare un movimento, gli artigli degli Skritek, che si erano arrampicati su dal fiume, si chiusero su di lei, torcendole dolorosamente le braccia dietro la schiena e trascinandola quindi fuori dalla zattera, sulla riva. Il talismano era caduto nel fango; ma quando un altro Skritek si chinò a raccoglierlo, guaì e saltò indietro, mentre intorno all'elsa, diventata incandescente, si sollevavano riccioli di fumo. Gettata davanti al generale e alla Voce, Kadiya era irrigidita dalla rabbia impotente. L'elmo di Hamil era sollevato, e ora il generale assomigliava ben poco allo splendido uomo da lei visto alla Cittadella. Le mascelle e le guance, ispide di barba, erano coperte di morsicature, alcune delle quali gonfie in modo impressionante. Una accanto all'occhio sinistro aveva provocato un abbassamento della palpebra che doveva renderlo quasi cieco da quel lato. Ma il suo sorriso si stava trasformando in riso aperto.
«Bene, Voce», disse al compagno. «Finalmente qualcosa che ci ripaga di tutto il tempo perso a esplorare questa maledetta palude. La principessa Kadiya! È stata una notte davvero fortunata!» Conficcandole crudelmente le unghie nelle guance, le strinse il viso con una mano e glielo sollevò. «Rifiuto delle paludi», disse il generale con autentico piacere. «Un po' lontana dalle tue sete e dai tuoi ninnoli adesso, vero? Ecco come si è trasformata la nostra principessa, braccata e vestita di sudici stracci in mezzo alla palude!» Lasciò la presa e la colpì con uno schiaffo così forte e bruciante che la giovane non poté trattenere le lacrime. Hamil sbuffò sprezzante. «Asciugati le lacrime, ragazza. Non c'è misericordia per quelli della tua casata.» E, guardando la Voce Rossa, aggiunse con sarcasmo: «Così le donne del sangue di Krain dovrebbero abbattere il grande Labornok?» La sua mano pesante ricadde ancora su di lei, questa volta sulle spalle, e la trascinò di fronte al beniamino di Orogastus. «Questa, questa sarebbe quella che il tuo grande signore considera come la morte per noi? C'è proprio da ridere!» La Voce non stava guardando Kadiya, bensì il talismano che giaceva lì vicino. Si chinò per raccoglierlo ma subito balzò indietro con uno sguardo torvo. «Di cosa hai paura Voce?» Hamil era allegro. «È il talismano! Quella cianfrusaglia magica tanto bramata dal tuo padrone. Prendilo, uomo. Che cosa aspetti?» La Voce Rossa si irrigidì. Sembrò diventare più alto e più robusto. Dai fori per gli occhi della sua maschera brillarono bianchi raggi abbaglianti, tanto che perfino il generale Hamil si unì ai suoi uomini in un'esclamazione di paura. «Hamil!» Quasi portata dalla brezza notturna, risuonò una voce nuova, una voce che Kadiya aveva già udito. Era l'accolito a parlare, ma i toni erano quelli di Orogastus. «Ti sei comportato bene, meglio di quanto potresti pensare. Ma devi fare molta attenzione. L'oggetto che ti sta di fronte è vincolato alla tua prigioniera. Né tu né alcun altro che non possieda l'antico sapere può maneggiarlo, soltanto lei. Mia Voce Rossa, obbedisci! Fa' in modo che la principessa Kadiya riporti il talismano alla Cittadella, ma assicurati che non lo utilizzi.» La Voce Rossa crollò. I suoi occhi erano tornati scuri, e mormorò: «Sì, mio signore». Hamil sputò rumorosamente, colpendo il fango appena oltre l'elsa del ta-
lismano. «Così lei e quella mazza sono legate da un vincolo magico. Be', Voce, come intendi risolvere il problema? È un lavoretto per il tuo padrone?» L'accolito del Mago tirò fuori un pezzo di corda, non intessuta di fibre vegetali, ma con strane macchie colorate, quasi fosse stata ricavata dalla pelle di qualche piccolo rettile delle paludi. Sotto lo sguardo di Kadiya, annodò un'estremità in una sorta di cappio. Quindi, con i movimenti accurati e precisi di un pescatore che si accinge a catturare un qualche diffidente abitatore di uno stagno, fece passare con grande pazienza l'anello intorno al pomo del talismano, dando uno strappo quando l'ebbe agganciato. Assicuratosi che il cappio avesse fatto presa, tirò su la striscia di pelle, sollevando dal terreno la spada spuntata. Mentre essa penzolava davanti a lui, Hamil non si fece scrupolo di avvicinarsi per toccarla, ma la Voce la allontanò da lui. «Generale, il talismano è realmente vincolato. Appoggiandoci la mano si corre il rischio di restare intrappolati.» Il generale sbuffò di disprezzo. «Hai sentito gli ordini del mio Maestro», continuò la Voce. «È un oggetto di grande potere ed egli vuole impadronirsene. Ma siccome è vincolato alla principessa Kadiya, vuole anche lei.» Hamil sbirciò preoccupato la ragazza. «E se lei escogita qualcosa per usarlo, quel maledetto talismano?» Attraverso i fori della maschera la Voce stava scrutando attentamente Kadiya. «Generale, non sappiamo che cosa possa fare questa ragazza. Ma il mio Signore mi ha dato un mezzo per sottometterla.» All'estremità inferiore della corda maculata, la spada ondeggiava ipnoticamente avanti e indietro. Con la mano libera, la Voce Rossa estrasse dalla veste un piccolo oggetto bianco e con esso toccò la fronte di Kadiya. Kadiya gridò e poi la sua voce si spense. Fu come se la colpisse il freddo pungente del ghiaccio, facendola rabbrividire fino al midollo. Il gelo si diffuse nel suo corpo, dalla testa fino ai piedi. Tentò di muoversi, ma il suo corpo non rispondeva. La Voce annuì. «Così va bene. Per un po', Generale, la ragazza sarà innocua - ma non è una soluzione definitiva. È uno strumento che funziona solo una volta, e ne ho solo uno con me. C'è un altro modo per costringerla a obbedirci. Ciò che è legato può venir sciolto - con la volontà. Ma per rompere la determinazione di un individuo ci vuole tempo. Dobbiamo lasciarla con il suo talismano fino a quando non saremo in posizione tale da
poterlo accettare liberamente da lei.» «Accettare liberamente?» Hamil lo fissò e poi scoppiò a ridere. «Oh sì, si può, si può senz'altro!» Seguì una raffica di ordini. Kadiya venne legata come un'inerte balla di merci, con il talismano annodato dietro la schiena. Poi furono infilati dei pali sotto le corde e due soldati la sollevarono e trasportarono come un trofeo di caccia. Le Uisgu della zattera erano state ancora una volta ammucchiate e legate insieme, con cappi al collo che le vincolavano fra loro a due a due. Sembrava però che i soldati non avessero intenzione di proseguire quella notte. Forse ritenevano una follia abbandonare il loro fuoco dopo aver respinto un attacco dei looru. C'erano due robusti alberi in mezzo alle felci e ad essi furono assicurate le corde che tenevano legate per il collo le prigioniere. Gli Skritek si accovacciarono lì vicino, borbottando fra loro e lanciando alle Uisgu bieche occhiate nelle quali ardeva la loro brama di divorarsele. I pensieri di Kadiya si succedevano con pigrizia. La sua mente si muoveva indolente come un viaggiatore che con fatica attraversi una distesa innevata. Spostò la sua attenzione sul generale Hamil. Era uno strumento perfetto per re Voltrik. Emanava un senso di malvagità, non la lugubre tenebrosità della Voce e del suo maestro, ma piuttosto una brutalità che era in un certo senso peggiore, in quanto completamente umana. Era tuttavia più probabile che lei riuscisse a influenzare lui, e non il fantoccio del Mago... Tentò di ricorrere alla collera, come aveva fatto tante altre volte, per destarsi da quel gelo mortale. Ma era in trappola. Neanche il talismano, al quale era stata con tanta cura legata, le trasmetteva calore. Chiuse gli occhi cercando di imporre chiarezza al suo pensiero, ma i nervi congelati sembravano spingerla soltanto alla resa. Poi sentì un fruscio accanto a lei, e si rese conto che da qualche tempo non udiva il borbottio degli Skritek. Aprì gli occhi sentendo sul viso un fiato reso pesante dall'acquavite. Una mano ruvida e dura le serrò la bocca e un'altra le afferrò i capelli. «Principessa!» udì sussurrare. «Che mi dici del tesoro che hai visto nelle rovine della palude? Dov'è quella megera delle antiche leggende che gioca con la magia e si dice abbia messo insieme i più potenti strumenti degli Scomparsi? Orogastus vorrebbe prendersi tutto lui. Ah, ne so parecchie, io! Più di Voltrik, che potrebbe ormai essere morto, con quello sciocco di suo figlio. Ma lo stregone è lontano nella sua torre, e quella sua Voce è so-
lo uno stupido incapace quando non è posseduto dallo spirito del suo Maestro. Dimmi i segreti che hai appreso! Guadagnati una morte decorosa, figlia del re. Solo io te la posso concedere.» Hamil! Quell'uomo stava cercando di fare gioco a parte, lavorando per proprio esclusivo vantaggio... La bocca di Kadiya era libera, ma la mano dell'uomo continuava a restare dolorosamente impigliata fra i suoi capelli. Curiosamente, sembrava che le brutali minacce del generale avessero fatto breccia nel gelido incantesimo che la rendeva impotente. Dunque non regnava più l'armonia fra i nemici. Come poteva approfittarne? Era così difficile pensare con chiarezza. «Allora preferisci affrontare gli Skritek, strisciante creatura di fango? Bene, domattina organizzeremo un bello spettacolo, tutto per te.» Bruscamente lasciò la presa e se ne andò dirigendosi verso la sua tenda montata non lontano da lì. Per un uomo della sua stazza si muoveva silenziosamente. Subito dopo la principessa vide muoversi un'altra ombra, che però si mantenne a una certa distanza. Le giunse un sibilante sussurro: «E così Hamil pensa di poter sfidare il Maestro! Come se lui o re Voltrik o il principe Antar importassero qualcosa, una volta invaso questo paese. L'unica cosa importante è ciò che tu porti con te, ragazza! Orogastus, se tu fossi disposta a incontrarlo, sarebbe lieto di lasciarti compiere la tua vendetta di sangue sul re labornoko». La Voce Rossa si fece più vicina, appoggiando la mano sulla spalla della giovane, molto vicino al pomo del talismano. «Io ti aiuterò. Posso liberarti dall'incantesimo che ti tiene bloccata nel gelo. Possiamo essere lontani da qui prima che sia mattina e Hamil possa attuare tutte le minacce di cui si è riempito la bocca. Ma devi legare a me il talismano.» Impegnandosi con tutte le forze, Kadiya riuscì con affanno a mormorare: «Non sono pazza, servo fedele di un padrone pazzo!» «Pazzo? Ah no, principessa. Troverai in Orogastus un ottimo amico. Tua sorella Haramis è già sua ospite e sta apprendendo da lui cose tanto meravigliose che la vostra Arcimaga non si è mai nemmeno sognata che potessero esistere. Haramis ha gusto e talento per questo genere di insegnamenti e vede già le cose con gli occhi del Maestro. Tu puoi unirti a lei. Il mio Maestro non ha niente in contrario a che voi abbattiate re Voltrik e Hamil. Hanno cominciato a stancarlo. Tu puoi essere regina, se lo desideri, governante di due paesi, mentre tua sorella avrà un trono taumaturgico esteso fino alle stelle.» Le parole della Voce erano velenosamente insidiose. Che Orogastus si
fosse stancato degli alleati labornoki era comprensibile. Ed era anche plausibile che pensasse di sfruttare lei e il suo prestigio di principessa reale, per governare insieme il Ruwenda e il Labornok. Certo mentiva dicendo che Haramis si era piegata a Orogastus. Comunque lei poteva temporeggiare. «Io... io non posso darti niente... così legata», fece osservare Kadiya. La Voce emise una specie di nitrito. «Principessa, tu puoi dare ordini al tuo talismano anche se sei legata. Libera con le parole e il pensiero ciò che hai con te e subito dopo io libererò te.» Naturalmente non gli credette. Ma c'era così poco tempo per pensare e i suoi pensieri erano ancora tanto impacciati e pigri... Poi ricordò - ricordò una lama sbocciata da una radice. Sì, lei recava con sé una spada magica, ma quella spada era radicata in qualcosa d'altro - e questo il seguace di Orogastus lo ignorava. «Ti concedo... il permesso di prenderlo.» Si scoprì a pronunciare parole che non pensava affatto. «Conficca l'estremità spuntata della lama nel terreno.» Poteva sentire il respiro affannoso della Voce. Che si fidasse di lei era davvero strano, ma adesso non aveva tempo di pensarci. Il talismano le venne tolto dalle spalle: non emanava bagliori e appariva privo di vita. La Voce Rossa si era alzata in piedi. Lo vide piantare la lama nel suolo, come gli aveva detto. Poi si irradiò una luce, la lama si assottigliò fino a sembrare uno stelo, ma i tre lobi rimasero gli stessi. Udì la propria voce sussurrare con fierezza: «Sii, o talismano vivente, o radice del Giglio Nero, l'emblema e la forza della nostra casata, come sei sempre stato». Al suo ordine le sfere si aprirono. I tre occhi erano vivi. Si girarono verso la Voce che si era irrigidita. Per un momento le sue pupille mandarono bagliori incandescenti, rivelando che lo stregone lontano stava cercando di entrare in lui. Ma Orogastus non fu abbastanza veloce. Un occhio del talismano proiettò una luce bianca, e ad essa si aggiunse un raggio verde dall'occhio Oddling e un dardo dorato da quello umano. E la Voce bruciò, contorcendosi mentre il magico fulgore la avvolgeva. Una colonna di fiamme tricolori si intrecciò intorno al servitore di Orogastus. Non ebbe nemmeno il tempo di gridare. Il fuoco scomparve con la stessa rapidità con la quale si era manifestato, lasciando un mucchietto di ceneri fumanti. Dove prima sorgeva l'Occhio di Fuoco Trilobato, c'era ora soltanto il ta-
lismano, opaco e senza vita. 32. In tutta la sua vita il principe Antar non aveva mai trascorso giorni e notti così miserabili come quelli sul Grande Mutar. Il sole arrostiva inesorabilmente lui e i suoi compagni, facendoli sentire come togar prigionieri delle loro armature. Avevano preso solo sette delle loro imbarcazioni di legno (ritenendo quelle dei Wyvilo troppo fragili e facili a rovesciarsi), caricandole all'inverosimile delle armi e degli approvvigionamenti necessari ai quarantatré uomini che componevano la spedizione. I labornoki pagarono la loro inesperienza scegliendo quasi sempre di accamparsi sulle rive principali del fiume, quelle insomma più calde, fangose e infestate da viscide sanguisughe, zanzare e altri implacabili insetti e da certi piccoli vermi gialli abilissimi nell'infilarsi nei sacchi delle scorte alimentari. I pasti preparati da quei pochi soldati che avevano una qualche idea di come si facesse a cucinare, erano in genere o bruciacchiati o troppo crudi. Un paio di uomini si erano anche gravemente ammalati per avere dato un morso a dei frutti velenosi. I cavalieri, privati dei loro confortevoli padiglioni attrezzati con comodissimi letti, troppo grandi per essere trasportati su quelle barche, furono costretti a dormire per terra come la truppa, coperti solo dai loro mantelli. E infine, quando quella forza ormai allo stremo riuscì a raggiungere l'attraente villaggio Wyvilo di Let, che nelle condizioni in cui erano sembrò loro invitante quanto il palazzo reale di Derorguila, i detestabili Oddling negarono il permesso d'attracco. I Wyvilo vennero incontro ai guerrieri di Labornok a metà fiume, e non si lasciarono per niente impressionare dalle ricompense che il principe promise loro in cambio di aiuto. Il portavoce dichiarò che gli abitanti del villaggio non avevano tempo da dedicare a eventuali ospiti, dato che si aspettavano in qualunque momento un attacco dei loro nemici Glismak. Gli umani dovevano andarsene, e siccome era probabile un assedio, non avrebbero potuto fornir loro rifornimenti d'alcun tipo, e men che meno delle guide. Sir Rinutar si assunse allora il compito di arringare la piccola rappresentanza del Popolo delle Foreste lì riunita, minacciandoli di scatenare su di loro la furia del potente Orogastus se non avessero accondisceso alle richieste di Labornok.
Sir Karon, degno compare di Rinutar e fornito quindi della sua stessa arroganza, si alzò spavaldamente in piedi estraendo la spada dal fodero e sfidando a singoiar tenzone il Portavoce Sasstu-Cha. A quel punto gli apparentemente disarmati aborigeni tirarono fuori delle piccole catapulte e si misero a bombardare i disorientati labornoki con precise bordate di pietrisco. Il principe e la maggior parte dei suoi cavalieri, essendo protetti dalle armature, non subirono gravi danni (sebbene lo sfortunato sir Penapat rischiasse di perdere un occhio); ma i ventuno soldati, forzatamente costretti a trasformarsi in rematori, si erano tolti le ingombranti armature, che oltretutto li facevano scoppiare dal caldo, e subirono perciò numerose contusioni e ammaccature. Sir Karon fu sorpreso in cattivo equilibrio quando venne scagliata la prima gragnuola di colpi, e così fece rollare su e giù l'imbarcazione fino a quando non si capovolse con un tonfo terribile. Il valente guerriero, appesantito dall'armatura, svanì nelle acque brandendo ancora alta la sua spada, e nessuno lo rivide mai più; la stessa ingloriosa fine fece anche il suo compagno d'arme sir Bidrik, mentre la Voce Azzurra, anch'essa sulla barca capovolta, riuscì in qualche modo a raggiungere l'imbarcazione del principe e fu tratta a bordo da sir Owanon. Gli altri tre occupanti, soldati per forza di cosa costretti a improvvisarsi barcaioli, non sapevano nuotare, ma riuscirono ad aggrapparsi allo scafo trascinato dalla corrente e furono poi salvati più tardi dai loro compagni. I Wyvilo avevano osservato lo spettacolo flemmaticamente, pronti a riprendere il tiro a bersaglio. «Andatevene», ordinò nuovamente il Portavoce Sasstu-Cha. «Non vi faremo alcun male se ve ne andrete immediatamente.» Il principe Antar sussurrò alla gocciolante Voce Azzurra: «Si può forse utilizzare qualche magia per cercare di costringerli ad assecondare il vostro volere?» «No, mio signore.» La Voce stava tranquillamente torcendo il fondo della sua tunica per asciugarla. «Gli strumenti magici che avrei potuto usare si trovano ora sul fondo del fiume.» «Splendido», sospirò Antar. E poi, rivolto ai vogatori: «Forza, togliamoci da qui!» E fu così che gli inseguitori della principessa Anigel furono ignominiosamente costretti a proseguire lungo il fiume, fino a quando non fu quasi scuro e il principe non stimò sufficientemente sicura la distanza che ave-
vano messo fra loro e il villaggio di quei terribili Oddling. Si accamparono in un'accogliente insenatura discosta dal canale principale, finalmente all'asciutto e con una morbida sabbiolina su cui dormire e accendere un fuoco. C'erano sette soldati così malamente contusi da essere inutilizzabili per un'eventuale battaglia e persino per remare. Vennero quindi esentati dai servizi. «Domani», disse loro il principe Antar, «voi e altri due feriti meno gravi prenderete una barca e tornerete indietro, a Tass. Dite ai comandanti delle chiatte e al Capo del Commercio che devono assolutamente attendere il nostro ritorno, pena la morte, anche se non saremo ancora arrivati per l'inizio della stagione delle piogge.» Ci fu un gran mormorare al riguardo fra i cavalieri e gli altri uomini, ma il principe non vi prestò attenzione. Mandò poi a chiamare la Voce Azzurra. «Mettiti in contatto con il tuo oscuro signore, affinché localizzi per noi la principessa Anigel e si possa sapere dove diavolo dirigerci domani. Digli anche d'informare mio padre, il re Voltrik, che continuerò a eseguire i suoi ordini senza esitazione alcuna, e quelli del suo Gran Ministro di Stato.» Detto ciò, Antar se ne andò a passeggiare da solo sulla riva illuminata dal chiaro di luna. Gli altri uomini si diedero melanconicamente a sbrigare le loro faccende, mentre la Voce Azzurra si appartava in un boschetto e cadeva in trance per poter comunicare con Orogastus. «Potente Maestro, ascoltami!» «Io, Orogastus, ti sento, mia Voce.» «Ahimè, mio signore, la nostra spedizione ha subito una grave battuta d'arresto al villaggio Wyvilo di Let. Gli Oddling ci hanno colti di sorpresa con una pioggia di missili di selce, provocando così seppur indirettamente il rovesciamento della barca su cui mi trovavo. Tutto l'equipaggiamento magico è andato perso, e i cavalieri Karon e Bidrik sono affogati a causa del peso delle loro armature. Inoltre, sette soldati sono stati feriti così seriamente da dover essere rimandati a Tass sotto la guida di altri due, feriti meno gravemente: e poi c'è sir Penapat, che ha un occhio gonfio come un cocomero a causa di una di quelle pietre.» Orogastus assorbì con calma le brutte nuove. «Il principe e gli altri cavalieri sono in buone condizioni?» «Sì, mio grande signore. E anche dodici soldati, sebbene siano leggermente feriti e continuino a lamentarsi.» «Ho localizzato la principessa Anigel. È accampata all'inizio di un pic-
colo affluente poco più giù di dove vi trovate voi, e intende risalirlo domani, viaggiando poi a piedi quando non potrà più utilizzare la sua imbarcazione. Se cavalieri e soldati remeranno di buona lena, vi ci vorranno circa cinque ore per arrivare a quel fiumiciattolo. Devi ordinare al principe Antar di partire all'alba e gettarsi all'inseguimento a tutta velocità... ma fa' attenzione che non le venga torto un capello fino a quando non si sarà assicurata il talismano, che ormai dovrebbe essere molto vicino.» «Trasmetterò immediatamente i vostri ordini al principe, Maestro.» «Digli anche che il suo regale padre sta molto meglio, e si è quasi completamente ripreso. Ed inoltre il generale Hamil ha catturato la principessa Kadiya e fra breve riuscirà a strapparle anche il talismano, l'Occhio di Fuoco Trilobato.» «Maestro...» balbettò la Voce. «Questa sera, mentre ci stavamo accampando, mi sono sentito improvvisamente assalire da un profondo turbamento mentale. Ho... ho avuto come il presentimento che il mio Fratello Rosso, il quale accompagna il generale Hamil, avesse incontrato qualche terribile sciagura.» «Mia Voce Azzurra, devi essere forte. Tuo fratello è perito durante il compimento del suo dovere.» «Oh, no!» «Le Potenze Oscure riceveranno le sue energie vitali e le amplificheranno. Voi due Voci rimaste vi dividerete così una ricompensa terrena maggiore, quando la mia grande ambizione verrà finalmente soddisfatta... Ma ricordati ora anche di quell'altra faccenda che riguarda il principe Antar, e vedi di portarla a compimento in modo soddisfacente.» «Attendo solo il momento giusto, Potente Maestro. Il prode sir Rinutar, che so starvi molto a cuore, non mancherà di assecondare i progetti di cui lo renderemo partecipe dopo l'eliminazione dello smidollato rampollo, e ci condurrà indietro al sicuro una volta che avremo messo le mani sul talismano.» La comunicazione mentale di Orogastus perse ogni umanità e assunse un tono di fredda determinazione. «Mia Voce, il talismano di Anigel non deve assolutamente andare perso.» «Capisco perfettamente, mio signore.» «Il talismano di Kadiya è praticamente al sicuro, e anche quello di Haramis sarà presto mio... forse prima che questa notte sia trascorsa! Ma questi due possono essere resi pienamente attivi solo dalla contemporanea presenza del terzo, quello che tu mi dovrai portare.»
«A costo della mia vita», giurò la Voce Azzurra, «lo deporrò ai vostri piedi! E se tutto andrà bene, il principe Antar domani non vedrà calare il sole.» «Bravo, sono felice di sentirti così determinato. A presto, mia Voce Azzurra.» Il servitore di Orogastus fece ritorno al campo, dove i cuochi di turno stavano preparando uno stufato di carne secca e verdure guarnite con grasso animale. L'odore non era molto invitante... La Voce Azzurra si avvicinò al principe con aria spavalda. L'espressione preoccupata di Antar svanì all'istante, e il giovane parve addirittura fin troppo ansioso. «Allora?» «Vostra Altezza, la principessa fuggitiva si trova a sole otto ore da noi. È ormai vicina al completamento della sua ricerca, e forse domani, al più tardi il giorno successivo, riusciremo a catturarla.» E poi la Voce continuò riferendogli del miglioramento di re Voltrik e su come il Mago si fosse quasi assicurato gli altri due talismani. Non menzionò la morte del suo camerata, la Voce Rossa. Il principe ascoltò in silenzio, e poi se ne andò senza una parola a dividere la cena con i suoi uomini. Quella notte la foresta di Tassaleyo fu colpita da un temporale di inaudita violenza, prima avvisaglia di quella stagione delle piogge che sarebbe ufficialmente iniziata di lì a sei giorni, dopo la Festa delle Tre Lune. Gli uomini di Labornok furono destati dal sonno e si affrettarono a cercare rifugio sotto le barche capovolte. Ma ancora una volta furono traditi dalla loro inesperienza di vita primitiva. La spiaggetta sabbiosa, che era sembrata così piacevole poche ore prima, fu inondata da una repentina piena del Grande Mutar. Lo scombinato plotone dovette quindi capovolgere di nuovo le imbarcazioni sotto la sferza degli elementi; bestemmiando e brontolando vi caricarono su armi e bagagli, remando poi verso un folto d'alberi ormai sommerso sotto cui passarono il resto della notte. Fu quindi una notte infame, sotto la pioggia battente, con i mantelli sempre più infradiciati e resi quasi inutili dalla violenza del vento; cercarono di sonnecchiare a tratti, ma i loro tentativi venivano frustrati dalla continua necessità di svuotare il fondo delle barche dall'acqua che vi si accumulava. Anche il principe Antar era inzuppato e nello stesso stato pietoso in cui si trovava l'ultimo della truppa. Ma nonostante ciò non pensava al suo disagio, e rimase sveglio per ore, preoccupandosi per come se la stesse cavando la povera principessa Anigel in quella interminabile notte di tregen-
da. «Amica», la chiamarono i rimorik. «Amica, svegliati. È l'alba, e ci avevi chiesto di chiamarti quando spuntava il sole. Svegliati, dunque!» La fanciulla si stiracchiò e sbadigliò all'interno del tronco cavo in cui aveva trovato provvidenziale rifugio. Era sdraiata su uno strato soffice e asciutto di segatura, il prodotto dell'incessante lavoro dei vermi-carpentieri che ancora si stavano infaticabilmente dando da fare intorno a lei, nel tentativo di ridurre quel gigante delle foreste a un ammasso di polvere. I capelli e il completo che le avevano donato i Wyvilo erano imbrattati dai residui legnosi, ma era certamente un piccolo prezzo da pagare per aver trovato rifugio durante la tempesta. Aveva sognato di nuovo, ma i ricordi della notte erano svaniti al richiamo dei suoi fedeli compagni. Aveva pregato gli animali di svegliarla presto, sapendo che mancava ormai poco al compimento della sua ricerca. Durante la notte, destatasi improvvisamente per lo scoppio di un tuono di inaudita violenza, aveva visto che il suo amuleto brillava nell'oscurità come un piccolo sole, e il tenero bocciolo nero che si trovava al suo interno era quasi completamente dischiuso. Passò il pettine fra i capelli per cercare di eliminare almeno il grosso di quell'infarinatura legnosa, e poi estrasse la fiasca del miton dalla piccola borsa che portava appesa alla cintura. La foglia di Giglio Nero che vi si celava non sembrava più tanto fresca e verde: la parte superiore si stava avvizzendo dove le venature avevano assunto una colorazione brunastra, e solo la base pareva ancora animata dai succhi vitali. «Abbiamo un pesce per te, amica. Esci a vedere.» Dopo aver raccolto le sue cose, si inginocchiò e sgusciò fuori dalla stretta apertura nel tronco. I due rimorik si trovavano vicino alla barca, tirata parzialmente in secca quando era approdata a quella riva il giorno precedente. Le due creature avevano adagiato sul muschio un grosso pescewinju. Brandelli di foschia si insinuavano ancora fra i rami degli alberi circostanti, e il sottobosco sgocciolava copiosamente benché la pioggia fosse ormai cessata. Il cielo sembrava terso e gli uccellini bianchi cinguettavano il loro buongiorno all'alba. Il torrente era più alto di quando vi erano penetrati la sera prima. Questo era un vero colpo di fortuna, perché significava che avrebbero potuto navigarlo più a lungo del previsto. «Grazie, miei cari amici», disse Anigel, «ma penso che mangerò solo un po' del cibo che mi hanno dato i Wyvilo e qualche bacca di quegli arbusti.
Ci vorrebbe troppo tempo per attizzare un fuoco con questa umidità, e preferirei partire al più presto.» «Questa è una buona idea», disse uno dei rimorik. Il secondo disse: «Sappiamo che i tuoi nemici si stanno avvicinando rapidamente lungo la Grande Acqua che scorre verso il Mare. I nostri compagni ci hanno detto che gli umani sono molto bagnati e molto arrabbiati, e ancor più ansiosi di catturarti». Anigel sospirò. «Per qualche strana ragione, trovo difficile prendermela più di tanto con loro. E non sono più nemmeno spaventata dal Mostro a Tre Teste! Ma non penso che questo abbia niente a che vedere con il coraggio. Sono solo mortalmente stufa di questa benedetta ricerca, e terribilmente ansiosa di portarla a termine. Quando avrò nelle mie mani il talismano... penso che allora forse inizierò a preoccuparmi di come mettermi in salvo dai miei nemici e ricongiungermi finalmente alle mie sorelle.» Le creature afferrarono l'imbarcazione con le loro possenti mascelle e la spinsero in acqua. «Dividi il miton con noi, e partiremo senza indugio.» Anigel eseguì il rituale e salì sull'imbarcazione. Iniziarono quindi a risalire quel fiumiciattolo che i Wyvilo chiamavano Kovuko; lentamente il sole si alzò verso il cielo e il denso fogliame della foresta di Tassaleyo prese ad evaporare. L'atmosfera si fece sempre più umida e afosa, tanto che Anigel si disfece della maggior parte dei suoi indumenti, salvo il camicione nuovo che indossava sotto la tunica da cacciatore e il cappello a larghe tese di Immu. Era rimasta molto sorpresa nel constatare che le abitazioni del Popolo delle Foreste erano riccamente arredate con lussuosi pezzi di mobilio di chiara fattura umana. I modesti Nyssomu di Trevista possedevano oggetti e vestiti per la maggior parte prodotti da loro; ma durante la sua breve visita a Let si era accorta che l'intero villaggio era stipato di ogni tipo di manufatto di origine ruwendiana o labornoka: bricchi di ferro e posate d'argento, stravaganti lampade a olio e candelabri dorati, costosi divani di cuoio, tappezzerie e dipinti, attrezzature da cucina, animali di stoffa per i più piccoli, arpe e mandolini e cornamuse, cuscini di satin, porcellane e articoli di vetro, carte da gioco, giochi da tavolo, e ogni sorta di gingilli decorativi e altre cianfrusaglie che gli artigiani della regione di Dylex avessero mai inventato. Il Portavoce Sasstu-Cha e sua moglie possedevano persino un semicupio di rame del quale erano smoderatamente orgogliosi. Anigel vi si era immersa voluttuosamente, lavandosi con un delizioso sapone pro-
fumato. Gli abiti nuovi che indossava facevano parte del corredo dei figli del Portavoce, che a dir poco adoravano certi capi di abbigliamento umani. Una volta che si fu abituata a quelle brutte facce dall'aria perennemente minacciosa e ai loro modi bruschi, Anigel iniziò ad apprezzare i Wyvilo. Era un popolo sincero e deciso, che lavorava duramente durante la stagione asciutta e combatteva una guerra senza fine contro i cugini poveri Glismak durante il periodo delle Grandi Piogge. Il Portavoce le confidò tristemente che i commercianti umani avevano posto l'embargo su un solo genere di mercanzia: nessun tipo di arma era più data in cambio dei loro prodotti. «Sia i ruwendiani sia i labornoki hanno deciso l'applicazione di una tale politica in base a interessi puramente personali», le aveva detto SasstuCha. «Difatti, se noi avessimo delle armi moderne, come per esempio spade e punte di lancia in acciaio o delle potenti balestre, saremmo capaci di sconfiggere i Glismak una volta per tutte ed estendere il nostro dominio nell'intera regione del Grande Mutar e fino alla terra di Var, così da poter vendere il nostro legname agli agenti di re Fiodelon in un modo più facile e profittevole.» Anigel non aveva davvero saputo cosa dirgli. «Non mi sembra corretto negare alla tua gente i mezzi con cui difendersi, ma d'altra parte il mio piccolo regno vanta dei diritti sulla regione più settentrionale di Tassaleyo, e dipende dall'esportazione del legname per sostenere la sua economia. Deve esserci sicuramente il modo di trovare un compromesso, affinché sia i Wyvilo che i ruwendiani possano finalmente sentirsi al sicuro da sorprese e prosperare in tranquillità.» «Se un modo c'è, solo voi ruwendiani lo potete trovare.» «Ma noi non governiamo più, il Labornok ci ha completamente annientati!» «Ne sei così sicura? E allora a cosa dovrebbe servire il talismano? Non lo stai forse cercando per riscattare il tuo popolo dalla dominazione straniera?» «Il Mostro a Tre Teste?» Anigel fece una breve e secca risata. «Pensi davvero che io riuscirò a sottomettere una tal cosa e piegarla al mio volere perché mi aiuti a sconfiggere il nemico?» «No», aveva detto Sasstu-Cha. «No di certo se la tua ricerca terminerà con il Mostro a Tre Teste che noi conosciamo.» Si rifiutò recisamente di descrivere ciò a cui Anigel stava andando incontro. Ma prima che lei partisse da Let, lui le aveva detto: «Presto sarà il
tempo della Festa delle Tre Lune. Avrai notato, quando si levano in cielo la sera, che i loro globi luminosi sono sempre più vicini, pronti a fondersi in quella congiunzione astrale che si verifica solo una volta in migliaia d'anni. E se questo deve verificarsi proprio quest'anno, allora vuol dire che avverrà sicuramente un qualche grande miracolo. E potrebbe riguardare proprio te, Petalo del Giglio Vivente...» Mentre l'imbarcazione di Anigel si addentrava nello stretto canale fluviale conosciuto con il nome di Kovuko, l'aspetto della foresta che scorreva su entrambe le rive iniziò piano piano a cambiare, assumendo una configurazione da climi più asciutti e con un sottobosco molto più rado che in precedenza. Qui crescevano ancora quegli altissimi alberi simili a colonne, ma ce n'erano anche altri dall'aspetto inusuale. Erano alti circa tre volte un essere umano, erbacei piuttosto che legnosi, e all'altezza della base cresceva una rosetta di spesse foglie variegate di color porpora o oro. Dal centro di quella rosetta spuntava un robusto tronco polposo costellato di corti rami ricoperti di foglie più piccole, ma carichi di fiori rosa o color magenta e grappoli di frutti dal profumo delizioso. In cima al tronco svettava un fitto pennacchio di larghe foglie curvate verso il basso a formare quasi una sorta di calice. L'aspetto di quegli alberi era decisamente esotico, ma non per questo meno attraente degli altri. Sembravano giganteschi calici con gambi elaboratamente adornati di gioielli. Anigel ne era addirittura affascinata, al punto che propose una sosta per raccogliere alcuni dei loro frutti. «No, amica cara. Sarebbe il tuo ultimo pasto!» «Oh! Volete dire che sono velenosi?» «No, sono deliziosi, ma l'albero li usa per attirare le sue vittime.» Con un brivido di paura, Anigel si ricordò le parole del Portavoce Sasstu-Cha: «Gli alberi di quella zona sono voraci quanto i Glismak stessi...» «Mi... mi mangerebbero?» «E anche noi, amica! O qualunque altra creatura abbastanza stupida da toccare quelle offerte tentatrici che ciondolano dai loro tronchi.» Continuarono a risalire il torrentello, che diventava però sempre più stretto e ostruito da rocce affioranti. C'erano sempre meno alberi «normali» a forma di colonna, e sempre più «calici», insieme con molti altri alberi e arbusti dall'aspetto sinistro. Le rive si alzarono piano piano, e si ritrovarono così a percorrere un canyon soffuso da una densa umidità. Stranamente, non si udiva alcun canto di uccelli, e Anigel non ebbe modo di ve-
dere alcun animale. La foresta era tranquilla, e il silenzio incombente era mitigato solo dal suono prodotto dallo scorrere delle acque, anche se tutto ad un tratto si udì un grido lontano, che fu però bruscamente interrotto. Il sole era quasi allo zenit quando i due rimorik spinsero faticosamente la barca oltre un tratto ingombro di grossi massi affioranti; da più di un'ora ormai avanzavano sempre più lentamente, dimenandosi e incurvandosi in acque troppo basse per permettere loro di nuotare, mentre intanto le rive si facevano oltremodo ripide e l'intera regione assumeva un aspetto desolato e roccioso. Infine, le due grosse creature volsero gli occhi scuri verso la principessa e lei capì immediatamente che era giunto il momento tanto temuto. «Amica, non possiamo portarti più in là.» «Sì, me ne rendo conto.» Indossò lentamente gli indumenti che le avevano donato gli amichevoli Wyvilo, e dopo avere controllato scorte e bagagli decise di lasciare indietro la mantella da pioggia di Immu. La lunga tunica azzurra di pelle e gli stivali del medesimo colore erano sufficientemente impermeabili, e non le importava di bagnarsi il viso o le mani; si assicurò alla vita una grossa cintura adornata a cui agganciò poi il piccolo tascapane e il pugnale, sperando però che non dovesse mai servirle per difendersi. Dopo essersi messa sulle spalle lo zaino, si rivolse ai due fedeli rimorik: «Miei cari amici, che cosa farete ora? Le vostre acque abituali sono così lontane che non vedo come vi tornerete. E tutto questo per aiutarmi... riuscirete a ricominciare una nuova vita in questa foresta?» «Non c'è nessuno della nostra specie da queste parti. Solo parenti lontani. Ma non importa. Ti aspetteremo qui con la barca fino a quando non avrai completato la tua ricerca. E poi ritorneremo insieme alla nostra terra.» Gli occhi di Anigel si velarono di lacrime, e incespicando avanzò nel torrente per baciare le grosse, umide teste luccicanti sotto il sole. Poi tutti e tre divisero ancora una volta il miton. E di nuovo, in distanza, si sentì un grido lancinante, che echeggiò sinistro fra le pareti del canyon. Anigel fece finta di non sentirlo, e prese a salire lungo un sentiero a malapena visibile che costeggiava la riva e conduceva in alto, verso le rapide. Si voltò, alzò il braccio per un ultimo saluto ai suoi amici, e fu sola nella foresta. 33.
Haramis era tormentata dal più terribile mal di testa da cui fosse mai stata colpita in vita sua, e si lamentò pietosamente mentre si metteva a sedere completamente nuda nel grande letto in cui si trovava. Si afferrò il capo dolente con entrambe le mani, maledicendosi per la propria stupidità mentre cercava di ricordare esattamente che cosa era accaduto la notte precedente. Ma si sentì sopraffare dal dolore e dalla nausea. Che le avesse lanciato un incantesimo, minando la sua volontà, ingannandola, irretendola? «E sono cascata nella sua trappola come un insetto nella tela del ragno! Sono stata incauta come solo Kadiya avrebbe potuto essere, e anche più ingenua della stessa Anigel! Oh, come mi duole la testa.» Aveva la vista leggermente annebbiata, ma cercò comunque di dare un'occhiata alla sua prigione. Un muro della stanza era di solida pietra, ricoperto qua e là da pregevoli arazzi; c'erano due finestrelle attraverso le quali penetrava la grigia luce del giorno e poteva osservare la fitta neve che stava cadendo. Le altre pareti erano rivestite da ricchi pannelli di legno, con dipinti raffiguranti strani paesaggi e candelabri a muro dorati. C'era anche un piccolo camino incorniciato da piastrelle colorate, fornito di alari di strana foggia e dove ardeva uno scoppiettante fuocherello. Ma fu sorpresa dal constatare che arrivava aria calda anche da una piccola griglia posta nella parete accanto al letto. E poi vide la porta. Era fatta di robusto legno di gonda, intagliata con un disegno che rappresentava delle stelle e tenuta insieme da spesse barre di ferro; neanche a dirlo, la serratura aveva un aspetto a dir poco massiccio. Era chiusa dentro! Intrappolata! Come era accaduto? Il letto a baldacchino, con la spessa trapunta, le morbide lenzuola, i tendaggi di broccato... Si ricordò che Orogastus l'aveva condotta al letto quando i suoi sensi incominciarono a vacillare, dopo che se ne erano rimasti seduti a lungo davanti al camino conversando e bevendo una tazza dopo l'altra di brandy riscaldato. Lui si era messo a ridere chiudendo la porta, e dopo lo scatto della serratura, per qualche strana ragione, lei era scoppiata a piangere. Poi, mentre se ne stava lì sul bordo del letto, si era sentita sopraffare da una sensazione di vertigine, e con le ultime forze era riuscita a togliersi i vestiti di dosso prima di piombare nel buio più assoluto. Veleno. Aveva tentato di avvelenarla per rubarle...
Abbassò lo sguardo sul suo seno, e lì, ancora attaccata alla catena dorata, c'era la bacchetta. Il talismano. Il Cerchio dalle Tre Ali. «Oh, siano ringraziati i Signori dell'Aria...» Sentì bussare alla porta. «Vattene via», mugolò. «Non vuoi neanche lasciarmi morire in pace?» «Haramis, non stai morendo», disse Orogastus con calma. «Apri la porta.» «Ma sei tu stesso che mi hai chiusa dentro, furfante!» «Haramis, per favore, guarda sul tavolo davanti al camino.» Si alzò piano piano, per evitare che la testa le martellasse furiosamente con l'aumentare della pressione, e scivolò fuori dal letto. Sul tappeto davanti a lei c'erano un paio di ciabatte di pelliccia nere, e accuratamente ripiegata su una sedia si trovava una pesante vestaglia trapuntata di velluto. Dopo averla indossata, Haramis si diresse lentamente verso il fuoco. E lì effettivamente c'era un grazioso tavolino con una sedia ricoperta di pelle rossa, e sul ripiano era stato sistemato un vassoio che conteneva un cestino ricolmo di invitanti panini al latte e numerose vaschette di cristallo con diversi tipi di marmellata. Ma c'era anche un'alta brocca d'argento, dal cui beccuccio fuoriusciva un filo di vapore dal profumo delizioso e appoggiata su un tovagliolo di lino, c'era anche una grossa chiave di ottone. «Ti prego, lasciami entrare», chiese il Mago. «Sono davvero dispiaciuto che tu stia soffrendo. Ti giuro che non voglio farti del male.» Stava forse mentendo? Ma importava qualcosa? Qualunque cosa potesse farle, non poteva farla sentir peggio di quanto già si sentisse. Raccolse la chiave, barcollò verso la porta, e dopo qualche maldestro tentativo riuscì infine ad aprirla. Orogastus, alto e vestito tutto in bianco, entrò appena in tempo per sorreggerla fra le sue forti braccia e condurla alla sedia di fronte al camino. «Tu avresti potuto aprirla tranquillamente», borbottò lei con tono vagamente accusatorio. «Non negarlo! E non avresti neanche dovuto abbatterla con i tuoi fulmini. Quale serratura può resistere a un mago? Tu o qualcuno dei tuoi demoniaci servitori siete già entrati nella stanza, visto che il fuoco è stato accesso e la tavola apparecchiata!» Orogastus stava versando una tazza di quel liquido fumante. Era tè di darci, e bastò il suo semplice profumo a farla sentire un po' meglio. «Non c'è nessuno ad aiutarmi in questo posto. E io non sono entrato nella stanza, sebbene abbia provocato l'accensione del fuoco e l'apparizione della colazione. È stata quella che definirei una magia necessaria.» La sua
profonda voce aveva un tono estremamente allegro. «E devo ammettere che sarebbe stato davvero facile per me forzare la serratura, ma sarebbe stato un modo antipatico di trattare un ospite. Adesso bevi il tuo tè e gusta la tua colazione. Ti assicuro che dopo ti sentirai meglio. E se sentirai di potermi perdonare, torna nella mia biblioteca nella torre principale e riprenderemo la conversazione interrotta stanotte.» Lei lo osservò con un crescente senso di inquietudine. «E se non volessi gradire ulteriormente la tua ospitalità?» Lui chinò il capo, nascondendo il volto. «Il tuo gipeto dorme proprio in cima a questa torre. Arriverà non appena lo chiamerai. Nella stanza che si trova dall'altra parte del corridoio c'è una balconata, coperta di neve e ghiaccio, è vero, ma con spazio sufficiente affinché tu possa montare il tuo destriero volante e raggiungere la destinazione a te più gradita... Se questo è davvero ciò che vuoi fare.» Uscì richiudendo delicatamente la porta. Haramis si alzò da tavola e di diresse a una delle finestre. Invece di una furiosa nevicata, poté vedere lo scuro baratro che spaccava in due il fianco del monte Brom e isolava la torre di Orogastus dalla curiosità di visitatori importuni. Ma lui come diamine era riuscito ad arrivare fin lì? Sicuramente non sapeva volare! E di cosa avevano parlato la notte precedente? Haramis ricordava chiaramente di essere giunta alla torre la sera precedente, e che Orogastus l'aspettava sulla soglia dell'entrata principale, come un'ospite da lungo tempo attesa. Era stato gentile e niente affatto arrogante, dando l'impressione di essere il signore di qualche inusuale maniero piuttosto che un terribile Mago. I suoi capelli, bianchi e risplendenti come nuvole estive, erano lunghi quanto bastava a incorniciare un bel viso maturo, ma certo non sciupato. Quegli occhi che in sogno o nelle sue fantasie le erano parsi stelle funeste, le sembravano ora del colore di un profondissimo mare. Era abbigliato informalmente ma da lui emanava un'aura di nobiltà e di eleganza: indossava una veste da camera ricamata in argento, una corta tunica abbellita da una cintura, pantaloni attillati e morbide scarpe di camoscio di un bianco immacolato. Intorno al collo portava una catena di platino con un grande medaglione su cui era incisa una stella dai molti raggi. Aveva interpretato la parte del perfetto anfitrione, mostrandole persino certe parti della torre come il solarium, la cucina, le stalle, una sala per l'ascolto della musica (questa fu per lei una vera sorpresa), il laboratorio di alchimia, la grande biblioteca, e finalmente il suo accogliente studio. Lì ardeva un fuocherello allegramente scoppiettante, il quale contribuì a scac-
ciare dalla sua mente il pensiero della tempesta di neve che ululava all'esterno di quella accogliente dimora. Il pavimento era coperto con ampie pelli, e la tavola a lume di candela era imbandita per due. Orogastus le aveva preparato con le sue mani una cena molto semplice. E poi si erano seduti insieme sul tappeto davanti al camino, sorseggiando uno squisito liquore... «Che cosa gli avrò detto?» si domandò Haramis. Ma proprio non se lo ricordava. Una piccola porta che non aveva notato in precedenza la condusse all'adiacente sala da bagno, un locale così intelligentemente adattato e sontuosamente arredato che lei si trovò istintivamente a pensare che fosse un'opera di magia. Non appena vi entrò si accesero delle luci senza fiamma contenute in eleganti strutture di cristallo. Sia le pareti che il pavimento erano rivestiti di mattonelle verde pallido, calde al tatto (riscaldate da un ipocausto, pensò lei). C'era un alto specchio con la cornice dorata e una tavola da toeletta con pettini, spazzole, altri utensili di squisita fattura e parecchi barattoli di cosmetici. L'acqua calda e fredda proveniva da grossi rubinetti dorati, e si riversava in una vasca da bagno così grande che ci avrebbe quasi potuto nuotare. Su un tavolino vicino alla vasca si trovava una pila di morbidi asciugamani, alcune bottiglie di schiuma e sali da bagno dalle essenze più fragranti, e un contenitore di talco in polvere. C'era anche un gabinetto speciale, munito di acqua corrente, un lusso esotico di cui aveva sentito parlare ma che non aveva mai avuto il piacere di sperimentare. Haramis si immerse con grande piacere nell'acqua calda, badando bene a tenere il talismano assicurato alla catena che portava intorno al collo. Circa un'ora più tardi Haramis raggiunse Orogastus nella biblioteca, indossando gli abiti da cavallerizza che le avevano dato i Vispi e con i capelli neri pettinati in una treccia che le scendeva dietro la schiena. Lo trovò intento allo studio di un librone rilegato in pelle e scritto con una calligrafia quasi incomprensibile; di tanto in tanto tracciava un appunto su una strana tavoletta luminosa su cui scriveva con uno stilo particolare. Quando la fanciulla gli si avvicinò, lui inserì fra le pagine un segnalibro sfrangiato di pelle e richiuse il volume. Toccò poi la tavoletta in un angolo con un dito, la luce scomparve e così pure ciò che vi era scritto sopra. «No, ti prego, non interrompere il tuo lavoro per colpa mia», disse lei in tono cortese. «Se vuoi continuare, sarò ben contenta di dare un'occhiata ai tuoi libri più rari...»
«La tua vocazione di studiosa è ben nota in tutta la Penisola, mia signora. È questa una delle ragioni per cui re Voltrik ti ha chiesta in sposa.» Haramis fece una risatina. «Una delle ragioni, ma guarda guarda!» e poi si chinò per esaminare da vicino la tavoletta su cui aveva visto scrivere il Mago. «Che cos'è? Ho notato che i tuoi appunti sono misteriosamente scomparsi.» La sua espressione era assolutamente neutra. «È uno strumento degli Scomparsi, e come tale è ovviamente magico.» «Non ne sono tanto sicura», disse lei con lentezza. «Non sembrerebbe magia», pensò. Orogastus la stava osservando con aria sospettosa e pertanto cambiò rapidamente argomento. «Mi hai detto che ne hai parecchie, di queste cose.» «Sì.» La giovane prese in mano la tavoletta con aria noncurante. «Fammi vedere come funziona.» «Un'altra volta», le disse lui affabilmente, e cercò di togliergliela dalle mani. Ma Haramis mantenne ben salda la presa e la strattonò verso di sé mandandola così a colpire leggermente il talismano che le pendeva sul petto. Crepitò una scintilla fra la bacchetta e la tavoletta, e il bagliore di quest'ultima improvvisamente scomparve. Haramis la lasciò subito cadere. «Oh no», pensò imbarazzata, «non volevo romperla, ma ci crederà? E gliene importerà delle mie scuse?» Orogastus sembrava controllarsi a fatica. Haramis indietreggiò nervosamente, allontanandosi da lui, e rimise il Cerchio Trialato nel corsetto. Egli raccolte la tavoletta premendola con le dita in diversi punti, ma il bagliore non si riaccese. «È morta», disse a denti stretti, alzando gli occhi per osservare la giovane. A quelle parole Haramis, che stava pensando a una scusa per il danno inavvertitamente arrecato, perse la calma. I suoi occhi scintillarono e la voce si fece sferzante. «Morta?» sbottò. «Quell'aggeggio non è mai stato vivo! I miei genitori sono morti - assassinati su tua istigazione!» Il Mago non replicò. La principessa si voltò di scatto e si diresse verso la grande vetrata della biblioteca. La folle danza dei fiocchi di neve sospinti dal vento rifletteva il turbinio di pensieri e sensazioni improvvisamente scoppiato nella sua mente. Da quando la Cittadella era caduta non aveva più avuto molto tempo per ricordare gli avvenimenti di quella giornata, e del resto preferiva, per quanto possibile, non pensarci. Ma adesso, improvvisamente, la memoria
si era risvegliata: l'assassinio di suo padre raccontato dallo scudiero, la vista di sua madre, sanguinante e morente... Le lacrime cominciarono a rigare le guance di Haramis. «Haramis...» Ma la ragazza lo interruppe senza tanti riguardi. «Che idiota sono stata! Mi hai adescata con le tue nere arti magiche, e siccome sono giovane e sventata sei riuscito a sopire le mie paure e a farmi dimenticare chi in realtà tu sia. E soprattutto chi sono io!» Mentre lei dava sfogo alla sua rabbia, lui le si accostò, e quando la fanciulla ebbe finito di dar libero corso alla sua angoscia, le mise una mano sulla spalla e la fece voltare delicatamente. Parlò con un tono di voce vellutato e quasi venato di tristezza, mentre in quel vortice imperscrutabile che erano i suoi occhi apparivano minuscoli riflessi d'argento. «Ti ricordi anche di quando ho baciato il palmo della tua mano, confessandoti quanto ti ho amata fin dalla prima volta che lo squallido re Voltrik mi ha mostrato un tuo ritratto? E ricordi di quando ti ho ripetuto che ho visto in te colei che era destinata a dividere con me il grande potere?» «Tu sei il nemico dell'Arcimaga, colei che ha protetto per anni e anni il nostro regno dalle invasioni. Osa negarlo! Tu sei responsabile della distruzione del grande equilibrio del mondo, quello che adora i Poteri Oscuri! Vuoi solo rubare il mio talismano e quelli delle mie sorelle...» E lui la baciò. Per un attimo Haramis restò rigida fra le sue braccia. Ma le labbra di lui erano dolci e il loro calore le si trasmise a tutto il corpo. Fu presa da vertigini, come se ogni cosa intorno a lei turbinasse follemente e lui fosse la sola cosa ben salda nella stanza. Lo abbracciò, aggrappandoglisi stretta. Il talismano, che si trovava fra i loro due corpi, agì come il conduttore di un flusso di energia sconosciuta, che passò prima da lui a lei, per poi continuare ad andare avanti e indietro con crescente intensità fino a che le sue labbra e l'intero corpo non le sembrarono in procinto di esplodere in fiamme. Nella sua mente udì la voce di lui: «Noi siamo entrambi in grado di esercitare la magia, Haramis, nati per comandare le stelle! Coloro i quali dicono che io sono malvagio mentono. Non è vero. Io cerco la saggezza, la verità, e il potere e la gioia che vengono con loro. Ascoltami! Lascia che ti spieghi perché sono morti i tuoi poveri genitori, perché ho dovuto sopportare di aiutare re Voltrik a portare a compimento la sua conquista, perché tu e le tue sorelle siete state perseguitate. Lascia che ti mostri la reale im-
portanza dei tre talismani e dello Scettro del Potere Trilobato! E poi sarai davvero in grado di decidere, di chiarire la tua mente, così simile alla mia. Ti ho chiamata da lontano, e tu sei venuta a me, liberamente! Questo lo sai bene, non ti ho costretta in alcun modo! Sai anche che ti amo. E allora lasciati andare, amami! Amami Haramis, ora...» Haramis si mosse, alzò la testa e si liberò delicatamente dall'abbraccio di Orogastus. Si sentiva strana, con la mente confusa. «Che cosa mi hai fatto?» «Haramis, tu mi ami. Me lo dice il tuo corpo, anche se il tuo cuore cerca di negarlo...» «No! No...» Ma la fanciulla era di nuovo aggrappata a lui, e di nuovo lo desiderava. «Ho freddo. Ho così freddo.» La neve sferzava impetuosa i vetri delle finestre, cercando di penetrare all'interno, di raggiungerla, di ricoprirla con il suo candore in modo da raffreddare le ultime braci ardenti che ancora bruciavano dentro di lei. Vide la Bianca Signora, morente nella sua solitaria dimora. E vide se stessa, riflessa in uno specchio di ghiaccio nero. Vide lui. «Andiamo nel tuo studio», sussurrò infine. «Là è molto più caldo che qui. Ho... ho deciso di ascoltare quel che hai da dirmi.» Ma quella notte, sola nella sua stanza, ricordò i suoi genitori e pianse fino ad addormentarsi. 34. Anigel camminava con passo lento ma regolare, risalendo gradualmente il pendio che fiancheggiava il corso d'acqua, sempre più stretto all'avvicinarsi delle rapide. Dopo qualche tempo fu colpita dal constatare improvvisamente che stava attraversando proprio quella regione boscosa di cui aveva sognato dopo il tuffo dalla cascata di Tass. E... sì! Aveva fatto lo stesso sogno anche l'altra notte, solo che se n'era dimenticata: la foresta in cui sua madre la regina, indossando i suoi abiti più sfarzosi e la corona, si allontanava da lei, e lei le correva dietro con tutte le sue forze cercando di raggiungerla. Ora, nella realtà, non c'era la regina. La sua povera madre era morta. E la corona l'aveva Haramis, erede al trono... ammesso che fosse ancora viva. La salita divenne sempre più ripida, e Anigel sentì il cuore martellarle
nel petto per lo sforzo. Grazie a Dio quei terribili alberi a forma di calice non erano più così frequenti. Ora però ce n'erano molti di un altro tipo, dall'aspetto ancor più orribile, tanto che lei fu ben attenta a non toccarli e neanche ad avvicinarvisi. Erano alti e robusti, incoronati da una impressionante selva di fogliame sottilissimo e dal colore verde intenso. I loro tronchi levigati erano forniti qua e là di strette aperture ovoidali lunghe poco più di un metro, come bocche disposte in senso verticale, dotate di lucenti aculei verdi a mo' di dentatura; continuavano ad aprirsi e chiudersi come se l'albero stesse respirando. Il movimento era accompagnato da un suono delicato, simile al mormorio della brezza o ad una musica fredda e dissonante. Capì subito che si trattava di alberi carnivori. Quelle grosse bocche scure erano proprio in attesa di una preda, e infatti si aprivano e chiudevano e sussurravano le loro melodie solo quando lei passava. La sentivano. La volevano. «Signori dell'Aria, che cose terribili!» e tenne stretto il suo amuleto mentre la paura l'afferrava ancora una volta come una mano gelida che la ghermisse alla gola. E poi fu assalita da una nuova e terribile constatazione, e incominciò a tremare con una tale violenza da essere incapace di fare ancora un passo. Dov'era finito il sentiero? Era scomparso! Sotto i suoi piedi c'era solo uno strato di vegetazione mai sfiorata da piedi umani. Da quanto tempo aveva abbandonato la pista? Non ne aveva idea. Si era solamente preoccupata di seguire il torrentello. Era paralizzata dalla paura, con la pelle d'oca. Non sapeva da che parte andare ed era circondata da quegli alberi mostruosi. «Bianca Signora!» gridò impulsivamente con quanto fiato aveva in gola. «Ti prego, aiutami!» L'amuleto che teneva stretto in mano era diventato molto caldo. Quando infine lo lasciò andare, vide che l'ambra emetteva una tale vivida luminosità da essere distinguibile persino alla piena luce del sole. Tutt'intorno a lei gli alberi continuavano a mormorare e a lamentarsi, quasi coprendo con i loro sussurri il rumore prodotto dallo scorrere delle acque del ruscello. «La foglia. Lancia la foglia.» «Cosa? Che cosa hai detto?» Si girò di scatto a destra e sinistra, cercando di scorgere chi aveva parlato. Ma non c'era nessuno in vista. «Signora... sei proprio tu?» «La foglia del Giglio Nero. Gettala in aria. Lasciati guidare.»
Le tremavano tanto le mani che fece fatica persino ad aprire il tascapane. Il cielo era coperto da una spessa nuvolaglia che aveva gettato sul canyon una cupa oscurità. Si sentì raggelare. La foglia... Scricchiolò screpolandosi mentre la tirava fuori. La grossa foglia era ormai completamente secca, bruno-grigiastra anziché verde. Solo in cima allo stelo risplendeva un debolissimo barlume dorato. «Lanciala...» Anigel si alzò in punta di piedi e gettò la foglia per aria. Non c'era un filo di vento, eppure essa prese a veleggiare piano, dirigendosi verso la riva del torrente. Anigel la seguì come camminando nel sonno. La foglia acquistò velocità, e lei iniziò a correrle dietro sulla collinetta. Il sottobosco era sempre più fitto e sempre più scuro. C'era solo quel tenue bagliore dorato che danzava nell'aria e la sospingeva avanti. Arrivò in una radura. Si trattava della fine del canyon, circondata da alte rocce ricoperte da uno spesso strato di muschio. La sorgente del torrentello era costituita da un getto d'acqua che precipitava verso il basso da una tremenda altezza, avvolgendo lo spazio aperto in cui si trovava Anigel in una pioggerella sottile. E vicino a quella cascatella cresceva un albero, l'albero più immenso che lei avesse mai visto. In confronto, gli altri giganti della foresta erano insignificanti. Delle pagliuzze. Trenta uomini messi l'uno fianco all'altro avrebbero a mala pena dato l'idea delle dimensioni del suo tronco. Era della stessa specie di quelli carnivori che aveva visto poc'anzi, ma dotato di una singola «bocca» situata fra i sostegni di due grosse radici e grande quanto quelle che si aprivano nel tronco dei suoi simili più piccoli. La principessa Anigel rimase ad osservarlo paralizzata dalla meraviglia, dimentica delle sue paure. Risalì con lo sguardo l'incredibile colonna vegetale e si rese conto che era più alta persino del dirupo da cui si tuffava la cascatella. E invece di una sola folta chioma fronzuta, l'albero ne aveva tre. Anigel si avvicinò, tenendo sempre d'occhio quella bocca irta di aculei che continuava ad aprirsi e chiudersi sempre più velocemente. Il respiro esalato da quel mostro vegetale produceva una sorta di profondo ruggito, così basso però che sarebbe sfuggito ad un udito meno acuto di quello della fanciulla. Dentro la bocca il buio non era completo come nel caso degli esemplari più piccoli, ma si scorgeva invece un vivido bagliore dorato come quello emesso dal suo amuleto. Il Mostro dalle Tre Teste deteneva quindi il suo talismano! E il suo respiro divenne sempre più veloce, perché aveva paura...
«Di me», disse la principessa Anigel. «Ha paura di me!» E come per miracolo seppe che cosa doveva fare. Ai piedi della cascatella si trovavano delle pile di legname, resti di alberi spazzati via durante la stagione delle inondazioni. Raccolse un grosso ceppo, lungo quanto un braccio ma molto più spesso, e si avviò direttamente verso la spaventosa bocca spalancata. Il bagliore nella cavità si intensificò e l'amuleto parve quasi avvampare. Anigel si fermò a un passo dal tronco, tenendo il ciocco con entrambe le mani innanzi a sé, e si diede a studiare il ritmo di apertura e chiusura della bocca. Poi, con un movimento repentino, infilò le braccia fra le fauci spinose. La bocca cercò di inghiottire il legno, ma non vi riuscì. La coraggiosa fanciulla aveva infatti puntellato il ceppo fra le pareti della cavità, costringendola a rimanere aperta. L'albero emise un possente ruggito. Ma Anigel sapeva che si trattava di un'espressione di paura, non di furia. Aveva lasciato andare il tozzo pezzo di legno, e ora l'albero tentava di frantumarlo con uno sforzo delle sue mascelle. Il ciocco si piegò e iniziò a spaccarsi, ma per un momento ancora la bocca sarebbe rimasta aperta... Abbastanza a lungo da permettere ad Anigel di allungare la mano, afferrare l'oggetto che si trovava al suo interno e ritrarsi prima che il legno si schiantasse con fragore e la bocca si richiudesse per rimanere poi serrata. Anigel teneva in mano un diadema, una tiara di metallo argentato a forma di C, con sei piccole cuspidi e tre più grandi. Era un oggetto davvero insolito e splendidamente elaborato, con incisioni che rappresentavano fiori e conchiglie, e fra ognuna delle punte più grandi c'era un grottesco viso stilizzato. Sotto una di quelle facce mostruose c'era un piccolo incavo, e lei sapeva già che cosa avrebbe dovuto contenere. Anigel si sedette su una roccia vicino al corso d'acqua, si levò il cappello e poi tolse dalla catena che portava al collo il piccolo pezzo d'ambra incastonato nell'oro. Si adattò perfettamente nella piccola cavità sul davanti del diadema, e una volta che fu sistemato non poté più essere rimosso. Il bocciolo fossilizzato che si trovava all'interno dell'amuleto era completamente aperto, salvo per una minima arricciatura sul bordo dei petali. La principessa indossò la tiara e ritornò sui suoi passi, piazzandosi proprio davanti all'albero. Era silenzioso, con la bocca ancora strettamente serrata. «Ora il talismano è mio», gli disse Anigel. «Hai ben custodito questo
piccolo tesoro, ma sono io colei cui era destinato. Non devi avere paura. Ti lascerò in pace.» E ciò detto, si voltò e andò via. Stranamente, i suoi occhi si riempirono di lacrime. Si sentiva come un peso sul cuore e la sensazione che qualcos'altro, qualcosa di terribile, stesse per accadere. Pensò: ho il mio talismano, ma è solo uno dei tre. Cosa sarà accaduto alle mie sorelle? Istantaneamente, l'albero, la cascata e l'intera radura scomparvero. Ebbe la fugace visione di un altro luogo, di una scena che si stava svolgendo in una palude soffocata da felci gigantesche. Kadiya. Sua sorella se ne stava rannicchiata in mezzo a una turba di uomini armati, cavalieri di Labornok, piangendo e gridando urla di sfida. Non portava al collo l'amuleto, ma stringeva invece al petto qualcosa simile a una spada con il pomello dell'elsa che scintillava di una luce ambrata. E sullo sfondo si intravedeva un enorme essere dall'aspetto abominevole, con gli occhi che emettevano bagliori arancione e i denti coperti di sangue, che reggeva fra le mani il corpo senza testa di un piccolo Oddling... Prima ancora che Anigel potesse emettere un grido di orrore, la sconvolgente visione scomparve, e al suo posto vide invece un accogliente locale con ricchi arazzi alle pareti e tappeti di pelliccia sul pavimento, e un robusto tavolo di legno ingombro di pile di antichi testi rilegati in pelle. Davanti al camino erano disposti alcuni cuscini sui quali se ne stava mollemente adagiato un bellissimo uomo con i capelli bianchi come la neve, che indossava un lungo abito nero e argento; accanto a lui si trovava una graziosa fanciulla dai capelli scuri. Lui le baciava il palmo della mano sinistra. Nell'altra mano la ragazza teneva una bacchetta di un metallo risplendente; nel pomo dell'impugnatura riluceva un amuleto che lei ben conosceva, mentre l'altra estremità era fornita di un cerchio d'argento sormontato da tre piccole ali ripiegate. Quella giovane donna era Haramis... «No! No!» Anigel si strappò il diadema dalla fronte e lo scagliò al suolo sullo spesso strato di muschio che ricopriva il terreno. No... quelle visioni erano false! La coraggiosa Kadiya nelle mani dei labornoki, minacciata da un orrendo Skritek? La saggia Haramis in intimità col malvagio Orogastus? Mai! Mai! E se loro due erano ormai fuori gioco, chi sarebbe dunque stata la donna della profezia, colei che avrebbe dovuto distruggere Labornok e restaurare la supremazia di Ruwenda? Lei stessa? Ridicolo! Era uno scherzo, solo
uno scherzo crudele! Si gettò a terra e si mise a singhiozzare come se le si stesse spezzando il cuore, rannicchiandosi il più lontano possibile dal diadema, come se fosse davvero orribile quanto il suo nome lasciava immaginare. Così quello era il suo talismano! La fine della sua lunga ricerca, il compimento del solenne volere della Bianca Signora! Un creatore di false immagini, un portatore di incubi peggiori di quelli che il suo io più codardo avrebbe mai potuto inventare. Una mostruosità, nient'altro che una mostruosità. ...Ma nel suo sogno la regina Kalanthe aveva detto che le sue sorelle avevano preso altre strade. Era lei, Anigel, che stava per essere lavata e preparata per... per che cosa? Piano piano i suoi singhiozzi cessarono, il respiro divenne più lento e regolare, e la fanciulla cadde infine addormentata. Si svegliò improvvisamente un'ora più tardi. C'era stato un suono? Forse una di quelle grida misteriose? Non ne era sicura. In ogni caso si sentiva molto meglio. Si sciacquò il viso nel ruscello, e dopo essersi lavata le mani mangiò persino un boccone. Raccolse infine il diadema e lo studiò a lungo. Sembrava quasi che i tre visi grotteschi che vi erano incisi le sorridessero furtivamente. È un simbolo, decise, e anche un misterioso strumento. Una cosa di sicuro la può fare, ed è quella di creare delle visioni. Non saprei dire però se si tratta della materializzazione delle mie paure o di cose che stanno realmente accadendo. Ma lo scoprirò. Se lo depose saldamente sul capo, e indossò anche il cappello di Immu. Dopo qualche istante riprese la strada da cui era arrivata. «Mio principe, le imbarcazioni non possono proseguire.» Il sergente che aveva guidato la barca di testa su per il Kovuko, annunciò ad alta voce la brutta notizia, mentre piano piano sopraggiungevano anche le altre barche, arrestandosi in una polla sottostante un tratto di acque bassissime e disseminate di rocce affioranti. Antar, i suoi cavalieri e la Voce Azzurra, si riunirono per fare il punto della situazione, mentre i soldati-vogatori, a dir poco esausti, si rinfrescavano sguazzando nel torrente, anche se alcuni preferivano starsene a consumare le magre razioni sotto strani alberi a forma di calice. Nessuno dei labornoki conosceva la vera natura di quegli alberi, ma avendo ben imparato la lezione di evitare frutti sconosciuti, si guardarono dal prendere in considerazione quelle pur invitanti offerte.
«Da qui dobbiamo proseguire a piedi», disse Antar. «Ma dato che il caldo è così opprimente, suggerirei di toglierci le armature, fatta eccezione per gli elmi, le placche pettorali e quelle posteriori...» «Mio principe!» gridò il sergente dalla parte opposta del corso d'acqua. «Penso di avere trovato le tracce della fuggitiva!» Arrivarono tutti di corsa sollevando alti schizzi d'acqua, e lì, sotto le grandi fronde incurvate di una macchia di felci da foraggio, essi trovarono una di quelle strane imbarcazioni utilizzate dai Wyvilo. Sul fondo giaceva una mantella impermeabile accuratamente ripiegata, di chiara fattura Nyssomu. «Questa cappa è di quelle che vengono indossate a Trevista», disse il sergente. «Ricordo molto bene questo tipo di decorazioni stampate vicino al cappuccio. Ci furono offerte in vendita nel mercato di piazza Lusagira. Forse appartiene alla principessa.» La Voce Azzurra si fece largo attraverso la folla di cavalieri. «Datela a me. La sottoporrò a un esame.» Tenendo stretto l'indumento in una delle mani ossute, gettò indietro il cappuccio e chiuse gli occhi. «Poteri Oscuri, ascoltatemi! Rivelate a colui che vi supplica umilmente chi ha indossato questa mantella.» Se la portò al naso, e dopo un profondo respiro intonò con voce differente: «È stata indossata da Immu, servitrice della famiglia reale di Ruwenda, e da Anigel, principessa di Ruwenda». «Per le budella di Zoto!» esclamò eccitato sir Rinutar. «Finalmente una chiara traccia di quella cagna! Incominciavo a pensare che stessimo dando la caccia a un fantasma.» La Voce Azzurra riaprì gli occhi, tirò il cappuccio sul cranio rasato, e gettò la mantella nella canoa. «La principessa l'aveva addosso non più di due ore fa. Le siamo ormai alle calcagna! Ci conviene muoverci immediatamente senza perdere altro tempo.» «Molto bene», disse il principe. «Sergente, riunite gli uomini. E voi, miei compagni, preparatevi a...» Un grido da gelare il sangue giunse dal folto degli alberi-calice dall'altra parte del torrente. Il principe imprecò, voltandosi di scatto. Un soldato correva verso la riva, urlando e bestemmiando a più non posso. Il sergente corse a vedere cosa fosse accaduto, seguito a ruota dai nobili cavalieri. «Ha mangiato il povero vecchio Gomi!» dichiarò il soldato, gli occhi spalancati in un'espressione di orrore. «Se l'è inghiottito come niente fosse!»
Tutti quanti si misero a urlare e imprecare, ma il sergente richiamò solo due dei soldati affinché prendessero le armi, e poi disse al principe: «Lasciate che vada a vedere». Ritornò dopo pochi minuti con un'espressione turbata sul viso, e fece il suo rapporto: «Si tratta di uno di quegli alberi dalla strana forma di coppa, mio principe. Il soldato Gomladik gli si è avvicinato per fare i suoi bisogni contro al tronco, e, secondo quanto riferito dai testimoni, dalla cima dell'albero sono spuntati quattro lunghi tentacoli, l'hanno afferrato e sollevato di peso verso l'alto». Il principe Antar e i cavalieri accompagnarono dunque il sergente verso il folto della macchia, dove si trovavano gli alberi-calice. Ma ad uno di essi montavano la guardia due soldati, e la corona di foglie che lo sovrastava si era richiusa assumendo la forma di una grossa palla. Dagli interstizi filtravano però scuri rivoli di sangue, che scorrevano lungo il tronco, imbrattando ie foglie alla base dell'albero. Rimasero tutti come paralizzati ad osservare quell'incredibile spettacolo con un misto di orrore e ripulsa. Ma prima che qualcuno potesse proferire una parola, si udirono altre grida provenire dal gruppo di uomini rimasto sulla riva del torrente. «Allarme! Allarme! Nativi ostili in avvicinamento!» Il povero Gomladik fu dimenticato. Antar, sir Owanon e il sergente, condussero in fretta il drappello verso il corso d'acqua, lanciando ordini a destra e sinistra. Dopo pochi istanti i soldati furono impegnati a trarre in secca le imbarcazioni e ad accatastarle in modo da allestire barricate di fortuna. I cavalieri si misero in testa gli elmi ed estrassero le spade, mentre i soldati cercavano di indossare qualche protezione e preparavano le loro balestre. La riva del torrente era disseminata di sacchi di provviste, indumenti e vari pezzi di equipaggiamento, mentre alcune cose venivano trascinate via lentamente dalla corrente. E poi fu tutto molto tranquillo. «Un momento... un momento.» Il compare di Orogastus se ne stava accovacciato dietro a una barca capovolta, stretto fra sir Rinutar e un soldato, in un atteggiamento congeniale al cadere in trance. All'improvviso sembrò come pietrificarsi, le orbite degli occhi si svuotarono e disse: «Sì, li vedo! Dall'altra parte del torrente, nascosti fra gli alberi assassini. Ce ne sono venti.... quaranta... che le Potenze Oscure ci proteggano, sono tanti che non riesco nemmeno a contarli! E non sono i Wyvilo, mio principe. Questi aborigeni sono più grossi e hanno un aspetto ancora più terrificante... si trat-
ta senza dubbio dei cannibali Glismak!» «Va bene, basta», lo interruppe Antar. E poi rivolto agli altri: «Coraggio, uomini. Sono degli Oddling selvaggi, e nonostante il loro aspetto possa essere orribile, sono sicuramente inferiori a noi. Possiamo e dobbiamo farcela!» «Là», indicò Owanon con molta calma. «Ecco là i primi.» Sei esseri si avvicinarono furtivi attraverso il fitto sottobosco di felci e si fermarono con aria indecisa sulla riva opposta, a poche decine di metri di distanza. Il loro aspetto era molto meno umanoide di quello dei Wyvilo, erano più alti di un uomo e portavano con sé lunghe lance dalle punte di selce lavorata. Non indossavano indumenti, ma alcuni erano adorni di gioielli, e tutti avevano i fianchi cinti da robuste cinture a cui erano attaccate mazze e altri attrezzi da battaglia. Le teste erano in realtà dei veri grugni, in cui facevano bella mostra i denti grossi e affilati, specialmente due zanne sporgenti in fuori. Avevano occhi di brace infossati e difesi intorno alle orbite da scintillanti placche epidermiche; queste straordinarie difese naturali rivestivano anche il cranio e si estendevano giù per le spalle, la schiena e la parte superiore delle braccia. Sia le mani, dotate ovviamente di tre dita, sia i piedi, erano palmati e dotati di artigli formidabili. L'addome era invece protetto solo da poche placche sparse, e tanto questo che gli arti e la faccia erano ricoperti da una spessa pelliccia color ruggine. Qualche ciuffo di pelo cresceva intorno ai margini delle placche, che erano per ogni individuo di un colore e disegno leggermente diverso. In verità, i Glismak erano in certo qual modo dotati di una bellezza selvaggia, ed emanavano un'aria di suprema fiducia in se stessi. Uno dei sei si fece avanti e iniziò a gracchiare qualcosa di assolutamente incomprensibile, agitando al contempo la lancia. Quand'ebbe finito, scagliò l'arma con tutte le sue forze e questa si infisse profondamente nello spesso legname dell'imbarcazione dietro cui si era riparato il principe. Gli altri cinque Glismak piegarono indietro le braccia. «Uomini alle balestre», ordinò Antar, «mollare i dardi!» Una grandinata di frecce di ferro sorvolò il corso d'acqua e abbatté cinque Glismak, che caddero lanciando orrende grida. Il sesto emise una sorta di ululato a cui ne fecero eco centinaia di altri dalla foresta circostante, e si diresse verso le acque. I suoi compagni sbucarono dal fitto di alberi-calice che crescevano alle sue spalle, esplodendo in terrificanti grida di guerra mentre scagliavano le loro lance e brandivano le altre armi che avevano a disposizione.
In pochi secondi la piccola forza di spedizione di Labornok venne sgominata dalla preponderante orda nemica. Le balestre divennero inutili a così breve distanza, e i soldati dovettero quindi combattere con corte spade o pugnali, mentre i cavalieri cercavano di tenere a distanza i selvaggi con i loro spadoni a due mani, fendendo e squartando fino a quando furono sopraffatti dalla semplice pressione di tutti quei corpi che si abbattevano su di loro. Il sergente riuscì a sbudellare un paio di quei mostri prima che un terzo lo sorprendesse alle spalle con le fauci spalancate e gli inferisse un morso fatale sul collo. I pochi soldati che non furono uccisi nei primi minuti, si lanciarono in una fuga precipitosa, ma solo per essere poi raggiunti senza fatica da quei bruti dalle lunghe gambe, che li sbranarono con i possenti artigli. I caduti furono immediatamente squartati per gli altri, e nel bel mezzo della battaglia iniziò un diabolico festino. Gli strani ululati dei Glismak coprivano le sempre meno frequenti grida di morte dei combattenti labornoki. Il principe Antar e i suoi cavalieri furono tutti catturati, ma molto stranamente non vennero né mutilati né privati delle loro armature; i mostri selvaggi si limitarono a portar via le loro armi, per poi trascinarli per i piedi e per le mani con delle funi grezze, e ammucchiarli in una grande pila insanguinata dopo averli sollevati e gettati per aria come bambole di pezza. Decine e decine di vittoriosi Glismak si misero quindi a danzare e cantare davanti a quel cumulo di derelitti esseri umani che, definitivamente vinti dalla disperazione, iniziarono a recitare le loro ultime preghiere. Altri cannibali si diedero invece da fare per raccogliere legna secca e farne una grossa catasta su cui gettarono poi anche le imbarcazioni dei loro sfortunati avversari prima di prepararsi ad accendere il fuoco. Era evidente che il passo successivo del festeggiamento riguardava aspetti propriamente culinari... «Che Dio abbia pietà di noi», gemette il principe Antar, che giaceva in cima a un mucchio disordinato di prigionieri, «e che possa dannare il Mago Orogastus, che ci ha condannati a una sì ignobile morte, al più profondo dei gironi infernali!» Il cantare e ululare dei Glismak si spense bruscamente. Le danze s'interruppero. Quelli che già stavano gustando un antipasto di carne cruda desistettero improvvisamente dal loro macabro banchetto, bloccati dalla sorpresa. Ogni selvaggio era ora immobile, senza eccezioni, e osservava a bocca aperta qualcosa che stava apparentemente discendendo lungo la riva
del torrente. Antar, immobilizzato dalle rozze funi dei feroci Glismak, si dimenò per cercare di riuscire a vedere chi stava sopraggiungendo. Una donna. Era immobile a poche decine di metri dall'ammasso di cavalieri, a portata di mano del selvaggio più vicino. Indossava un completo da caccia color cielo e recava uno zaino sulle spalle; in una mano teneva un cappello di paglia a falde larghe e nell'altra reggeva a mo' di bastone un lungo ramo. I suoi capelli avevano il colore del grano maturo e le ricadevano sulle spalle in onde scintillanti. Sul suo capo era posto un diadema dalla foggia insolita, di un risplendente metallo bianco e con incastonato un pezzo d'ambra nella parte anteriore. Il suo viso era una maschera di orrore e di sdegno, mentre grosse lacrime le scendevano lungo le guance. Il principe Antar sentì il cuore balzargli in petto. Conosceva quel viso, il più bello che avesse mai visto, il solo che avesse mai amato. Era la principessa Anigel in persona, giunta per sua sfortuna sulla scena di una mostruosa carneficina, e ora quei selvaggi le sarebbero sicuramente saltati addosso... Ma a quanto pareva non ne avevano la benché minima intenzione. Si ritrassero invece spaventati mentre la ragazza avanzava fra quei mostri imbrattati di sangue; qualcuno di loro emise bassi grugniti e altri si misero persino a piagnucolare. La fanciulla osservò con pietà i resti umani sparsi qua e la, pezzi di vesti fatti a brandelli e posò infine gli occhi su quell'ammasso di cavalieri pietrificati nella contemplazione della sua bellezza e dell'audacia che comportava quella rischiosissima apparizione. «Che cosa avete fatto?» domandò con voce ferma, sebbene le lacrime ancora rigassero il suo viso. Si udì qualche sparso brontolio da parte dei Glismak, e dei sibili di disagio. Si fece avanti un individuo fra quelli che si erano scatenati nelle danze fino a pochi istanti prima. Era decisamente più alto degli altri, la sua cintura era guarnita con borchie dorate e pure il fodero del suo pugnale di selce era d'oro massiccio. Le squame che ricoprivano il suo corpo erano adornate con disegni di colore verde, giallo e scarlatto. Il capo dei Glismak indicò la tiara di Anigel con uno dei suoi artigli insanguinati e ruggì un'espressione di sfida nel suo misterioso linguaggio. «Ho tutto il diritto di indossarlo», disse la principessa intrepidamente. Lasciò cadere il cappello e si deterse le lacrime dagli occhi con il dorso della mano. «E dico che avete fatto una cosa davvero malvagia. Questi
uomini erano miei nemici, e non vostri. Non vi avevano fatto alcun male, eppure voi li avete massacrati e ne avete mangiato le carni come se foste delle bestie! Ma voi non siete bestie, siete persone che dovrebbero servire l'Uno e Trino, e ciò che avete fatto è a dir poco perverso.» Il capo Glismak scoppiò in un verso terribile, che poteva essere solamente una oscena risata. Poi alzò le mani artigliate, aprì la mostruosa bocca così che la spaventosa dentatura di cui era dotato scintillò minacciosamente nella spettrale luce del tramonto, e avanzò verso la fanciulla indifesa. Anigel puntò verso di lui il suo bastone e disse con molta calma: «Signori dell'Aria, difendetemi». Dal cielo coperto di nubi minacciose scaturì un accecante fulmine bluastro, e il tuono che lo seguì fu così assordante che i cavalieri persero quasi conoscenza. Quando i prigionieri si rimisero in sesto, videro che la principessa era incolume e osservava ad occhi spalancati le ceneri fumanti di quello che era stato un valoroso capo Glismak. L'intera orda dei cannibali cadde in ginocchio, prostrando a terra la faccia per lo stupore e soprattutto per la paura. «Andatevene!» ordinò Anigel con un tono di voce chiaro e forte. «Andatevene e non tornate mai più.» Una o due teste si alzarono dal suolo con espressione feroce, ma dopo una breve esitazione si rialzarono tutti e se la diedero precipitosamente a gambe ululando a più non posso. Attraversarono il corso d'acqua e si lanciarono nella foresta, scomparendo ben presto alla vista. La principessa osservò nuovamente la carcassa che si trovava ai suoi piedi, e si sentì nuovamente pervadere da una sensazione di stupore ma anche di paura. Antar gridò: «Principessa Anigel! Siamo ancora vivi. Per favore, liberateci». Il richiamo la riportò indietro da quell'attimo di smarrimento, e dopo essere corsa verso i prigionieri tagliò le funi che li immobilizzavano. I cavalieri si rimisero in piedi lentamente, e quelli che non erano feriti aiutarono gli altri a liberarsi delle armature e li accompagnarono verso il fiume. Il principe Antar, dopo essersi reso utile come poteva, andò da Anigel e si inginocchiò davanti a lei. «Principessa, non ho una spada da consegnarvi come simbolo della nostra sconfitta. Quindi io, Antar, erede al trono di Labornok, consegno nelle vostre mani il mio corpo e la mia anima. Non posso essere vostro nemico. Siete nobile e buona, e coloro i quali mi hanno ordinato di catturarvi e uc-
cidervi non sono che dei malvagi. Se vorrete arrostirmi come avete fatto con quel bruto fatelo, sarebbe la mia giusta punizione! Ma se mi concederete la grazia di risparmiarmi, allora vi servirò fedelmente come uno schiavo per il resto dei miei giorni.» «Anch'io», disse sir Owanon, che era appena comparso vicino ai due e si era subito inginocchiato davanti alla principessa. «E io pure», gemette sir Penapat, a cui stavano lavando le ferite. Molti altri cavalieri fecero loro eco, e quelli che non erano fisicamente impediti si gettarono anch'essi in ginocchio, fino a che rimasero in disparte solo sir Rinutar e due dei suoi seguaci, Onbogar e Turat. Improvvisamente la massa di felci che aveva nascosto la canoa di Anigel fu spinta da parte, e lì, tranquillamente seduto, apparve la Voce Azzurra, che smontò dall'imbarcazione, guadò il torrente e si avvicinò alla principessa con un sorriso accattivante sulle labbra. «Grande e potente signora», declamò esibendosi in un profondo inchino, «io sono schiavo di un altro maestro che mi ha legato a lui per l'eternità. Ma ti giuro sul suo onore che farò del mio meglio per onorarti e seguirti, e porrò i miei poveri poteri ai tuoi ordini se avrai la grazia di accettarmi.» Mentre parlava, si voltò verso sir Rinutar e i loro occhi si incontrarono per un istante. «E forse anche quei tre coraggiosi cavalieri, che sembrano così restii a recedere dal loro giuramento di fedeltà a Labornok, si uniranno a me nel chiedervi un armistizio. Siamo tutti esseri umani, in fin dei conti, assediati in questa terra misteriosa, e non dovremmo litigare fra noi mentre siamo minacciati da un così terribile nemico.» «Sì», borbottò sir Rinutar, «vi chiedo un armistizio, come anche i miei uomini.» Anigel fissò per un momento la Voce Azzurra, e dopo avere silenziosamente studiato anche gli altri tre uomini, disse: «Molto bene. Alzatevi, principe... e anche voi altri che ora mi considerate la vostra Signora. Fra poche ore cadrà la notte. Non abbiamo più niente da temere dai Glismak, ma non possiamo certo accamparci in un tale luogo di carneficina. Conferirò con il principe e decideremo cosa è meglio fare. Nel frattempo, raccogliete ciò che è rimasto delle vostre armi e provviste, e rimuovete le imbarcazioni. Ma non togliete il resto del legname, anzi disponetevi sopra i miseri resti dei vostri compagni d'arme. Prima di lasciare questa infausta radura daremo fuoco alla pira per onorare la memoria dei caduti». Le sue parole furono accolte con un mormorio di approvazione. Fece cenno al principe Antar affinché la seguisse mentre si dirigeva verso la ri-
va del torrente, e quando furono fuori portata d'orecchio degli altri disse: «Non ci si può fidare di quello alto vestito d'azzurro». «Lo so. È una delle Voci dell'abominevole Mago Orogastus. Dovremo tenerlo d'occhio mentre torniamo indietro... immagino che abbiate intenzione di ritornare nel Ruwenda, non è vero, mia signora?» «A tempo debito», rispose lei. I suoi profondi occhi azzurri erano solenni, le nere pupille dilatate nella penombra. «Ma prima ho un altro dovere da assolvere. L'orda Glismak si recherà sicuramente al villaggio Wyvilo di Let per metterlo a ferro e fuoco. Vi hanno sorpreso proprio mentre vi si stavano recando. Dobbiamo correre là immediatamente, per avvisare il Popolo delle Foreste e aiutarli per quanto ci è possibile.» «Senza dubbio!» le rispose il principe con gli occhi risplendenti d'ammirazione. «Noi cavalieri vi scorteremo a spada tratta mentre scatenerete i fulmini sui malvagi Glismak!» Anigel arretrò con un sussultò di orrore. «No!» «Ma allora come potremo salvare i Wyvilo, mia signora? Siamo solo in sedici, venti contando anche i tre che non si sono sottomessi a voi e il servo di Orogastus... e alcuni di noi sono feriti. I Glismak si contano a centinaia. Pensate forse che possiamo contrastare una tale forza senza i vostri poteri magici?» «Non sapevo che il talismano potesse uccidere», sussurrò lei. E i suoi occhi di riempirono di terrore. «Non lo sapevo...» Antar le strinse la mano. La giovane riprese a piangere di nuovo. Il principe osservò per un istante quella graziosa mano ora ricoperta di calli e abrasioni, e se la portò alle labbra. «Non abbiate paura, principessa. Durante lo spostamento verso Let potrete provare a capire di quali poteri è dotato quel magico strumento, e troverete forse un sistema di difesa meno violento.» Anigel si scostò impaziente, pensando ancora una volta solo al compito che l'attendeva. «Stanotte ci riposeremo, ma domani viaggeremo anche fino a notte fonda, in modo da raggiungere Let prima dei Glismak.» «Di notte?» Antar era perplesso e imbarazzato. «Mia signora, non siamo molto pratici di navigazione, e difficilmente riusciremo a dirigere le barche sul Grande Mutar alla sola luce delle Tre Lune... e poi potrebbe scatenarsi un'altra tempesta.» Anigel incurvò le labbra in un pallido sorriso. «Avremo al nostro servizio delle guide eccellenti.» Sempre sorridendo, avanzò di qualche passo verso le acque del torrente,
e chiamò: «Amici!» 35. Hamil si avvicinò a grandi passi a Kadiya, accompagnato da due soldati che portavano in mano una torcia. Afferrandola di nuovo per i capelli la fece inginocchiare davanti a sé. Rideva, e Kadiya sentì altre risate unirsi alla sua. «Ora sì che dimostri l'atteggiamento adeguato, figlia di Krain... umilmente... in ginocchio. Che diavolo è successo qui?» I suoi occhi saettavano qua e là... verso la spada in posizione verticale e verso quel detestabile cumulo annerito. La mano carbonizzata di uno scheletro sembrava puntata verso il potente oggetto che l'uomo, da vivo, aveva così ardentemente desiderato. Dopo un lungo momento di silenzio Hamil rise di nuovo, ma con minore sicurezza. Si erano raccolti molti uomini armati, ma tutti evitavano con cura la cosa che si trovava sul terreno. «Così, la Voce diceva la verità, eppure ha voluto rischiare, neanche avesse dimenticato le sue parole e i suoi consigli di prudenza! È andata in questo modo, cagna?» Il generale, afferrata Kadiya per i capelli, la scrollò avanti e indietro provocandole un acuto dolore. «Ha cercato di prendere il talismano, ma esso era legato a te, e così lo ha ucciso.» Hamil abbandonò la presa sulla capigliatura di Kadiya e incominciò a massaggiarsi il labbro inferiore con un dito. La ragazza ne aveva sentite abbastanza su di lui per sapere che, per quanto brutale, era più astuto e perspicace di quanto apparisse. Alcuni degli uomini che erano disposti in circolo indietreggiarono per far avanzare un altro ufficiale, un uomo corpulento. Un tempo quell'uomo aveva indossato un mantello riccamente decorato, come quello di Hamil, ma adesso non portava elmetto e la sua testa era avvolta in una sudicia benda. Una corta barba grigia gli ricopriva le guance e il mento. «E ora, mio generale?» Vi era una certa asprezza nella sua voce, a indicare che potevano essere compagni di battaglia, ma non fratelli d'arme. Hamil non aveva ancora risposto quando una voce fra le truppe gridò: «Leghiamo la strega alla spada, e buttiamo tutt'e due nella palude!» La proposta suscitò un generale mormorio di assenso. Poi un altro soldato diede un diverso consiglio: «Gettiamola agli Skritek!»
Il consenso provocato da queste parole fu anche più unanime. L'assembramento di uomini si era un po' allontanato da Kadiya; le sue frange più esterne erano immerse nell'oscurità, dove la luce delle torce e del falò non poteva arrivare facilmente. Si sarebbe detto che l'importanza di quel cadavere carbonizzato stesse aumentando e la sua presenza stesse facendosi più ingombrante e intollerabile. Hamil percorse l'assemblea con uno sguardo furioso, evidentemente fin troppo noto ai suoi uomini, poiché il mormorio cessò come se una porta fosse stata sbattuta all'improvviso. Poi si voltò verso l'ufficiale corpulento. «Adesso, Osorkon? Diamine, obbediamo agli ordini. Sempre obbediamo a degli ordini! Siamo venuti per trovare questa.» Di nuovo afferrò Kadiya per i capelli con forza sufficiente a farla barcollare. «Bene, l'abbiamo trovata. Abbiamo anche qualcos'altro...» Accennò al talismano. «Se re Voltrik ricompensa tanto bene chi gli porterà una di queste sgualdrine regali, che dono elargirà a coloro che potranno mostrargli un tesoro che il nostro Grande Ministro di Stato desidera tanto possedere?» «Un tesoro», Osorkon sottolineò con forza la parola, «che ha già annientato qualcuno che ne conosceva i pericoli molto di più di noi.» «Sì.» Hamil si passò la punta della lingua sulle labbra carnose. Sollevò Kadiya in modo da non dover abbassare troppo lo sguardo per fissarla negli occhi. «Credo che ora sarai più sincera con noi. Conosciamo bene come trattare la gente tutta coraggio e zelo; sappiamo come piegarla e obbligarla a obbedirci, anche se le ordiniamo di uccidere qualcuno che è vicino al loro cuore.» Fece schioccare le dita, e di nuovo la folla si aprì per lasciar passare uno Skritek che avanzava goffamente in risposta ad Hamil. «Pellan!» La voce di Hamil risuonò come un ordine. Dalle linee posteriori della truppa avanzò barcollando una figura scheletrica. Kadiya, che aveva visto il mercante-guida all'epoca della sua vita agiata e onorata insieme ai suoi compagni, dapprima non riuscì a riconoscerlo. Era un relitto umano che cadde a terra in ginocchio piuttosto che fare un formale inchino, e che guardò in su verso il generale con un volto simile a quello di un morto. Hamil si protese in avanti per osservare con attenzione il talismano. Poi fece un cenno col capo come se avesse appena ricevuto una risposta desiderata. «È ancora lì...» Nonostante la trasformazione subita dalla spada, il fodero di pelle di serpente ideato dalla Voce era ancora saldamente avvolto intorno ad essa. «Pellan, di' a questo stupido animale di rimettere la spada sulla schiena
della ragazza, fissandola solo con la corda.» L'uomo deglutì come se trovasse difficile parlare. Poi emise una serie di suoni gutturali. Lo Skritek lo guardò, poi guardò la spada e quindi Hamil. La mascella irta di zanne si aprì e la creatura rispose nel suo linguaggio simile a un borbottio. Sotto la sporcizia depositatavi dalla palude, il viso di Pellan era bianco. Kadiya lo vide stringere le mani tremanti. «Allora?» disse Hamil dopo un lungo momento di silenzio. «Signor generale... non la toccherà.» La guida accennò alla spada. «Dice che appartiene agli Scomparsi e che possiede la loro forza.» «Davvero?» L'espressione di Hamil non mutò. Afferrò il fodero di pelle di serpente, liberando la spada dal terreno. Poi ruotò lentamente su se stesso guardandosi attorno, come per assicurarsi che tutti si rendessero conto di ciò che stava facendo. «Gli Scomparsi», commentò. «Ne abbiamo sentite molte su questi Scomparsi da quando abbiamo cominciato a muoverci in questa palude. Guardate, tutti! Uno che porta su di sé l'emblema del grande Labornok deve aver paura delle leggende?» Osorkon tossì. «E che dire di lui?» Indicò i resti carbonizzati. «Si direbbe che certe volte le leggende abbiano ragione.» Hamil non batté ciglio, ma Kadiya fu sicura che in quel momento il generale non provava alcuna simpatia per il suo immediato subalterno. Pur notando il lento ritrarsi dei soldati, la giovane era conscia che il gesto del generale aveva eliminato un po' della loro soggezione ispirata dalla paura. «Quell'uomo», Hamil accennò alle ceneri, «aveva già avuto a che fare con simili giocattoli magici. Forse quelli del suo maestro sono innocui, ma questo è di origine diversa. Un uomo che maneggia certe armi senza mai ferirsi diviene incauto. Penso che questa Voce abbia avuto troppa fiducia in se stessa.» Il generale si riavvicinò a Kadiya. Le calò sulla spalla una mano pesante e prese a scuoterla fino a farla quasi cadere di nuovo a terra. Ma la giovane riuscì a mantenersi in piedi quando sentì che la spada le veniva ancora una volta assicurata dietro la schiena. Hamil si era già volto altrove. Chiamò con un cenno un soldato che stava accanto al più vicino degli uomini con la torcia. Allungò la mano puntandola verso lo Skritek che si era rifiutato di eseguire il suo ordine. «Non abbiamo bisogno di lui», commentò. Lo Skritek si mise a gridare accucciandosi a terra. Una terribile ascia a
due teste apparve nel pugno ricoperto di squame. Al grido di sfida della creatura ne risposero molti altri della stessa specie. Il soldato scelto da Hamil fece un balzo in avanti, sollevando la spada. Sembrava che non fosse la prima volta che i labornoki dovessero affrontare uno dei loro sgradevoli alleati. L'ascia scagliata dallo Skritek si mosse con tanta forza e rapidità da sembrare solo un lampo nella luce incerta. Ma il soldato si era già lanciato all'attacco. La sua spada guizzò, e vi fu uno spruzzo di sangue di colore scuro. Lo Skritek gettò indietro la testa emettendo un grido da spezzare i timpani, e con la gamba sinistra a metà troncata. Gli artigli affilati erano pronti a colpire. Con una zampa, più per caso che intenzionalmente, riuscì a ghermire una maglia della corazza del soldato all'altezza della spalla, e lo trascinò a terra. I suoi compagni non aspettarono di udire il suo grido di dolore e di terrore per estrarre le armi, né gli altri Skritek tardarono a unirsi alla lotta. Labornoki e Skritek combattevano e morivano mentre la battaglia infuriava intorno al falò. Uno dei soldati liberò Hamil dagli artigli di uno Skritek conficcando la punta infuocata di una torcia nelle fauci semiaperte del mostro. La mischia fu feroce ma breve, poiché gli Skritek si dispersero nella palude notturna, lasciando a terra tre morti e due feriti. Quattro soldati giacevano immobili, e molti altri erano ricoperti di tagli e ferite. All'inizio della lotta Osorkon aveva afferrato Kadiya trascinandola fino alla tenda di Hamil, che per metà crollò a terra a causa del cedimento di un tirante. Osorkon non aveva tentato di unirsi alla lotta, limitandosi ad osservare quanto accadeva. Quando tutto fu calmo, guardò Hamil con aria meditabonda. Tuttavia aspettò a parlare fino a che il generale, togliendo le tracce di sangue dalla sua spada con una manciata di foglie, si fu avvicinato tanto che forse soltanto Kadiya sarebbe stata in grado di udire le sue parole. «I nostri alleati devono aver avuto dei ripensamenti», osservò sarcasticamente Osorkon. «Quell'ipocrita», accennò a Pellan, che si era raggomitolato cercando protezione in fondo alla tenda, «ti ha fatto da guida lungo il fiume fino all'ultimo punto che conosceva, tre o quattro giorni fa. Da allora in poi siamo stati guidati dai mostri.» Accennò all'area in cui si trovavano le donne Uisgu, legate strettamente con una fune. «Intorno a noi la palude freme, e da due giorni il nostro gruppo avanzato di perlustrazione non ci invia messaggi. Io dico di ritornare indietro ora, dal momento che abbiamo raggiunto il nostro obiettivo, e che tu hai la ragazza e ciò che por-
ta con sé.» Hamil si fece cupo: «Vi è un altro tesoro che deve essere trovato». «E cosa accadrà se gli Oddling si sollevano? Abbiamo fatto prigionieri gli Uisgu, e il nostro modo di trattarli è stato sufficiente a volgere tutta la loro razza contro di noi. E ora ci siamo inimicati gli Skritek. Saremmo folli a dipendere da guide che hanno buone ragioni per odiarci.» «Gli Oddling, viscidi demoni! Hanno mai preso le armi? No! Sono fiacchi codardi, deboli come togar da cortile. Gli Uisgu insorgere...? Impossibile! Non possono e non vogliono combattere. Non è così, verme?» Hamil pungolò Pellan con la punta del piede. «Non ci avevi forse detto fin dall'inizio che sono dei codardi?» Pellan sollevò la testa e anche l'esile braccio, come per parare un colpo. «Finora è sempre stato vero, signor generale. Combatteranno gli Skritek, ma solo se quei demoni li attaccheranno. Fra loro non c'è mai stato alcun attrito, né hanno mai sollevato le armi contro gli umani entrati nella palude. Ho udito che un antico giuramento proibisce loro di combattere, e che essi lo rispettano.» Hamil sbuffò. «Questa ragazza è ruscita a percorrere l'Inferno Spinoso, e gli Uisgu l'hanno aiutata, altrimenti non sarebbe stata capace di arrivare fin qui. Con lei e con loro», indicò gli altri prigionieri, «insieme a noi, gli Uisgu non ci ostacoleranno.» La mattina successiva abbandonarono il campo e incominciarono a marciare controcorrente, seguendo un incerto sentiero. Il generale Hamil non parlò più a Kadiya, ma la teneva sempre vicina, anche quando ascoltava le informazioni riportate dagli esploratori. Così Kadiya seppe che i labornoki non viaggiavano soli. Qualcosa - o qualcuno - si muovava furtivamente insieme a loro, sebbene gli uomini non fossero mai in grado di osservarlo da vicino. Erano forse seguiti da abitatori della palude che infine si erano sollevati per vendicare il massacro del loro popolo? Poteva sperarlo? Kadiya uscì dal suo stordimento quando udì un soldato molto preoccupato e ricoperto di fango che disse: «Era Gam. Lo giurerei sullo Scudo di Zoto! Proprio la sua testa che pendeva da un palo piantato in un campo di felci. Nessun segno dei mostri. Solo qualche piccola e confusa impronta nel fango... e questa.» Mostrò qualcosa che Kadiya riconobbe come una freccia... molto più lunga di quelle usate dai Nyssomu. Inoltre sull'asta erano dipinte due sottili strisce colorate, una azzurra e l'altra gialla, e quelle le aveva già viste. Ja-
gun! O almeno il simbolo da lui usato come cacciatore. «Gam», ripeté Hamil. Con le unghie sporche di fango si grattò la mascella ricoperta di una corta barba. «L'ho visto abbattere i pirati dell'ovest... due di essi con un solo colpo. Bene, sono sicuro che ha venduto cara la pelle. È stato ucciso dagli Skritek?» «La freccia non è degli Skritek.» Osorkon si era fatto dare la freccia dall'esploratore. «Non fabbricano armi così raffinate.» «Cos'ha da dire la nostra principessa?» chiese Hamil a Kadiya. I portatori avevano appoggiato a terra la ragazza, sempre legata come una balla di merce. «Hai forse qualche altro amico che ti aiuta nelle tue faccende?» Teneva sospesa a mezz'aria una mano, pronto a schiaffeggiarla. La risposta di Kadiya conteneva una parte di verità... «Io... non l'ho mai vista prima d'ora... né altre simili a questa.» Osorkon non lasciò al generale il tempo di cavarle un'altra risposta. «La ragazza può servire come esca, se hanno altre armi da usare. Non perdiamo tempo a maltrattarla. Cerchiamo di raggiungere un terreno solido prima di combattere. Non possiamo reagire finché ci dibattiamo in questo pantano infernale.» All'improvviso un grido risuonò in qualche punto davanti a loro. Hamil afferrò immediatamente la spada e i soldati si radunarono intorno al loro comandante. «Skritek!» gridò l'esploratore. «E da come gridano si direbbe che stiano inseguendo qualche povero diavolo!» «Muoviamoci!» ordinò Hamil. «Serriamo le file! Avanti c'è un terreno più alto, e abbiamo bisogno di camminare sul solido.» Il grido degli Skritek risuonò ancora una volta. A Kadiya ronzavano le orecchie e quando i portatori si misero a correre perse quasi conoscenza per le scosse. Le sue braccia avevano perso ogni sensibilità per essere state legate troppo a lungo. Anche se fosse stata libera e avesse avuto in mano il talismano, non sarebbe stata sicura di essere in grado di usarlo. Tuttavia, sotto la sofferenza, la sensazione di essere indifesa... e sì, la paura, la giovane si aggrappò con tenacia alla collera che l'aveva salvata in tante occasioni. Ci doveva essere un modo per reagire! Se solo quella strana paralisi fosse scomparsa... Avanzarono di corsa, basandosi sulle informazioni degli esploratori. Il terreno si era fatto secco e quasi completamente spoglio, acquistando al contempo l'aspetto sinistro di quella zona che Kadiya aveva attraversato insieme a Jagun. Qua e là era ricoperto da reticoli di grigiastre piante gras-
se, le cui foglie simili a germogli avvizziti erano circondate da nugoli d'insetti. Se calpestate, emanavano un odore di putrefazione. Infine arrivarono dinanzi a un edificio. Non era di pietra... ma piuttosto di quel materiale levigato di cui era fatta il grande bacino sul quale si era accampata con Jagun e che aveva notato anche nel luogo in cui aveva ottenuto il talismano. In una parete si apriva una porta, ad ogni lato della quale vi era una grande statua del tutto simile alle sentinelle che sorvegliavano la Via Proibita. Ogni sindona teneva in mano una spada. Kadiya sbatté gli occhi piena di sorpresa. Le spade... erano senza punta, proprio come quella legata alle sue spalle. Le lame erano protese in avanti, e si incrociavano come per impedire l'ingresso. Hamil si fermò per osservare ciò che si trovava davanti a loro. Vi era una nota impaziente nella sua voce. «Per Zoto... proprio quello che speravo di trovare! Una fortezza degli Scomparsi, e probabilmente piena di tesori! Capitano Loskar, vai a fare il solletico a quelle.» Accennò alle statue. «Voi altri restate pronti con le vostre frecce.» Il fatto che fosse prontamente obbedito nonostante tutti i recenti disastri dimostrava la misura del potere che Hamil esercitava sui suoi soldati. Un giovane ufficiale sollevò la spada e toccò il punto in cui le spade delle sentinelle si incrociavano. Il metallo risuonò con un aspro clangore. L'arma sfuggì dalla mano di Loskar, e il giovane emise un grido d'agonia afferrandosi il braccio destro e cadendo a terra in ginocchio. «Le frecce... forza!» gridò Hamil. Si udì alto il sibilo delle frecce dei labornoki, intese a intimorire oltre che a uccidere. Esse penetrarono nella porta alle spalle delle sentinelle. Dentro era buio, e non vi fu risposta all'attacco ordinato da Hamil. Il generale chiamò gli uomini che portavano Kadiya: «Wunit! Vor! Spingetela sotto le spade delle statue!» I soldati scagliarono Kadiya, ancora legata ai pali su cui era trasportata, attraverso il portale d'ingresso. Visto che le sentinelle rimanevano immobili, Wunit e una dozzina di uomini si chinarono ed entrarono. «Non c'è pericolo, mio generale!» gridò Wunit. «Abbiamo bisogno di torce!» Le torce furono immediatamente accese e portate. Nell'interno dell'edificio non vi era nulla, tranne una porta alla fine di uno stretto corridoio. Sopra di essa era scolpito un grande giglio. «Aspettate... sto arrivando», disse Hamil. Tenendo in mano una torcia, si chinò ed entrò.
Immediatamente tutte le torce dei labornoki si spensero. Si udirono grida, rumori di corpi che si dibattevano, e poi vi fu completo silenzio. Kadiya giaceva col viso a terra, incapace di rialzarsi. Nessun raggio di luce penetrava in quel luogo. La porta esterna avrebbe potuto essere coperta da una tenda, anche se varcandola non aveva notato nulla di simile. La giovane respirò affannosamente. Abbastanza curiosamente, là paralisi che l'aveva afferrata tanto tenacemente sembrava sul punto di dissolversi, e la ragazza si dibatté come un pesce fuor d'acqua, tentando di rialzarsi. L'oscurità attorno a lei era densa e compatta, ma la paura che l'aveva accompagnata dal momento in cui era stata fatta prigioniera stava diminuendo. Kadiya si contorse violentemente. Improvvisamente le sue braccia si districarono dalla stretta dei lacci, e il talismano giacque libero sotto il suo corpo. La giovane strappò il resto dei lacci che le imprigionavano le gambe. Il pavimento era pulito e privo di ogni traccia del mondo esterno. Era però instabile, e ora si inclinava sempre di più. Kadiya cominciò a scivolare, e per mantenersi in piedi fu dapprima costretta a usare le braccia indolenzite. Poi incominciò a cadere sempre più velocemente urtando infine contro una barriera che non riuscì a vedere, ma soltanto per cambiare direzione e urtare ancora contro qualcos'altro. Stordita, si aggrappò alla spada magica... finché incontrò un'ultima barriera, volò per aria e cadde priva di sensi su una superficie orizzontale. Fu risvegliata dalla punta di una scarpa che le toccava un fianco. Kadiya batté più volte le palpebre. Non era più circondata dall'oscurità. Si trovava in una grande stanza, debolmente rischiarata da una luce di cui non si scorgeva la fonte. «È una ragazza forte, generale.» Tre uomini formavano uno stretto triangolo intorno a lei. Uno era Hamil, gli altri due Wunit e Vor. Gli altri soldati stavano lì attorno con espressioni accigliate. Kadiya notò che i labornoki erano contusi e che cercavano di nascondere la loro paura. Alzò la testa. Sebbene avesse ancora forza nelle braccia, la sua mano non fu capace di afferrare l'impugnatura del talismano che ricopriva in parte col suo corpo. «Credi che conosca la via per uscire di qui, signore?» chiese Vor. «Può essere», rispose Hamil. «In ogni caso possiamo usarla come esca per queste dannate trappole mentre perlustriamo il posto. Fatela alzare.» Nessuno la toccò. Kadiya afferrò il talismano e lentamente si alzò in piedi, con la testa che le doleva per i colpi ricevuti. Si chiese perché quegli
uomini non avessero cercato di toglierle la spada, e allora ricordò che avevano buone ragioni per temere di toccare quella terribile arma. La luce grigia illuminava una specie di cortile interno. Davanti a loro vi era una fontana. Oltre la fontana, una scalinata. Kadiya si avvicinò, ma subito fu circondata dall'oscurità e non poté vedere dove conducevano i gradini. Su ogni gradino vi era un'impronta di colore rosso vivo. Hamil non mostrò esitazioni. «Saliamo!» ordinò. Mise con decisione il piede sulla prima impronta, e cominciò a tremare violentemente come qualcuno ammalato di malaria. Bianco in viso barcollò all'indietro, sguainò la spada e la agitò davanti a Kadiya. «Magia!» disse con voce rauca. «Lasciamo che sia lei a condurci.» La spinse in avanti, in modo che fosse il piede della ragazza a toccare l'impronta impressa sul gradino successivo. Per il Giglio, Kadiya fu sul punto di gridare dal dolore! Avvertì per tutto il corpo una sensazione simile a quella causata da una fiamma. Poi anche il talismano sembrò assorbire quel calore bruciante, ma Kadiya non poté allontanarlo da sé. Udì Hamil emettere un grido di sorpresa. Kadiya aveva raggiunto il quinto gradino; l'impronta successiva svanì all'improvviso. Al suo posto vi era un cerchio d'argento con al centro un giglio nero. Hamil rimase impietrito dalla sorpresa. Kadiya era libera, completamente guarita dalle sue ferite e dall'incantesimo, e su ogni gradino davanti a lei si trovava impresso il medesimo simbolo incoraggiante. Man mano che saliva sentiva nascere in sé una nuova forza. Ribolliva di collera. Le sarebbe bastato voltarsi e avrebbe potuto ucciderli tutti! No, sarebbe stata la reazione di un folle. Era sorvegliata da uomini armati, alcuni con arco e frecce. Lei invece aveva solo il talismano, e ancora non sapeva come utilizzarlo al meglio. In un momento raggiunse una grande stanza in cima alle scale. Ogni parete era attraversata da una rete di luce rossa. Al centro vi era un unico blocco di quel levigato materiale da costruzione, e lì soltanto poté vedere qualcosa di un altro colore. Infatti, come se si levasse da un letto di terra ben curata, c'era davanti a lei l'immagine di una grande pianta scolpita in un metallo argenteo. Una pianta di giglio. Lo stelo terminava con un solo grande bocciolo completamente chiuso. Hamil l'aveva seguita con cautela insieme ai suoi uomini. Ora avanzò per osservare la pianta, una mano sull'impugnatura della spada. Avrebbe potuto trovarsi nel cuore del territorio nemico con il suo esercito ridotto a
pezzi, e tuttavia nulla avrebbe rivelato in lui incertezze o timore. Fissò negli occhi Kadiya, ferma davanti a lui, una mano stretta sul talismano. «Non andremo oltre», disse con calma la giovane. Il generale si voltò gettando uno sguardo alle sue spalle. Non parlò, ma Wunit e Vor vennero avanti mettendosi al suo fianco con le spade sguainate. «Ho udito», Hamil parlò a bassa voce e con un tono pieno di odio, «che il sangue è potere. Questo è certamente un luogo di potere.» Diede un ordine: «Spingetela su quell'altare!» La pungolarono con le loro spade, spingendola contro la pietra da cui si elevava il Fiore. «Io», la voce di Hamil risuonò alta, «sono un uomo di sangue. Ho imparato a pagare col sangue quello che voglio. Quando morirai, principessa, non sarai più legata a quel magico talismano. Orogastus non ha più potere qui. Ma io sì! E intendo troncare la mano con cui stringi il talismano, e quando tutto il tuo sangue sarà versato, lo prenderò per me.» Il generale fece roteare la spada. Su Kadiya incombeva il Fiore gigantesco che sotto gli occhi della giovane parve vibrare e sbocciare violentemente. Era un fiore o qualcos'altro... come la sentinella? Non poté esserne sicura, poiché attorno a esso si diffuse un'abbagliante luce verde. Anche la punta smussata del talismano emise una luce verde, condividendo la potenza del Fiore. Notando la luce che pulsava intorno a lei, Kadiya si rese conto che qualche mutamento doveva essere avvenuto sull'altare. Infatti Wunit, Vor e i soldati si erano precipitati giù dalle scale, i volti agghiacciati dal terrore. Hamil era nero dalla rabbia. Attaccò Kadiya. A dispetto dell'inesperienza della giovane, il talismano rispose, bloccando la spada del generale. Le sembrò che il tempo procedesse irregolarmente, prima veloce come un mulinello di vento, poi come se i movimenti di entrambi fossero rallentati da corazze di piombo. Ogni volta che Hamil tentò di colpirla, Kadiya parò il colpo. Il generale era tre volte più grande di lei, ma non riuscì a buttarla a terra né ad abbattere l'invincibile guardia del talismano. L'uomo gridò come un animale gettando indietro la testa. Poi, con grande stupore della giovane, si voltò e fuggì scendendo a precipizio la scala. Kadiya tentò di reggersi in piedi appoggiandosi all'altare. Sopra di lei un immenso Giglio Nero era fiorito all'estremità dello stelo d'argento. La giovane osò alzare lo sguardo. Sollevò il talismano e vide che i tre occhi sul pomo si erano aperti, e fissavano tre altri occhi più grandi posti al centro
del fiore sull'altare. Sembrava che in quella strana stanza fosse stata aperta una finestra da cui filtrasse la piena luce del sole. Gli occhi fiammeggiavano. Sembravano penetrare nelle profondità della sua anima. Lei stessa non aveva più alcuna importanza. Non esisteva più Kadiya di Ruwenda... soltanto la Signora degli Occhi. E poi il bagliore scomparve. La colonna di luce sull'altare brillò ancora per un istante, e svanì. Non c'era più alcun Giglio Nero. La stanza era deserta, a parte Kadiya e il suo talismano, ridiventato opaco. Le pareti avevano un colore sbiadito, tutto era grigio. La ragazza si voltò, dirigendosi verso le scale. Scese e trovò una porta aperta. Dall'esterno provenivano grida umane e non umane, e fragore d'armi. Completamente rigenerata nello spirito e nel corpo, si precipitò fuori e sì trovò nel bel mezzo di una battaglia. I labornoki cadevano a terra colpiti da frecce avvelenate che si conficcavano in ogni punto non protetto dei loro corpi. Dalla boscaglia irruppero centinaia di Uisgu, che schivavano le frecce grazie a una curiosa andatura danzante e saltellante. Vi erano anche degli Skritek, che combattevano contro gli Oddling. Hamil, sulle spalle il mantello ridotto a brandelli, era impegnato contro tre minuscoli Uisgu armati di lance. Il generale tentava di abbattere gli Oddling con la sua spada, ma Kadiya, piena di nuova energia, balzò in avanti per affrontarlo. In futuro la giovane avrebbe sempre giurato che in quel momento era posseduta da qualche spirito. Il talismano le stava quasi sfuggendo di mano quando, afferrando la lama smussata, la fece roteare col pomo rivolto verso l'alto proprio mentre Hamil stava per colpirla. «Uomo di sangue», trovò la forza di gridare, «ti eri votato al sangue e eccoti accontentato!» Hamil si contorse. Abbandonò la spada portando le mani alla gola. I suoi occhi fiammeggiavano; fiamme uscivano dalla sua bocca e percorrevano il suo corpo. Emise un grido di dolore che fece rabbrividire Kadiya. L'Occhio di Fuoco Trilobato lo fissava circonfuso di tutto il suo potere, e Hamil cadde pesantemente a terra. Come era accaduto alla Voce, di lui non restava che cenere. Dal pomo del talismano si sprigionò un'altra grande lingua di fuoco, che si suddivise in lingue più sottili e attaccò gli Skritek, che caddero come i soldati labornoki. La fiamma svanì. «Signora degli Occhi...»
Kadiya guardò la massa dei guerrieri Oddling, giubilanti. «Jagun!» Quel nome sembrò provenire dalle lontane profondità della sua memoria, parte di un altro tempo. «Sei salvo!» Ma in quel momento un'altra voce parlò, una voce che fece cessare anche i lamenti dei feriti. «Sorella!» Kadiya si voltò verso i sindona ai lati della porta. Sopra le loro nobili teste era apparso un mobile cerchio argentato, e al suo interno sorrideva un volto familiare. «Bianca Signora! Ho... ho fatto ciò che dovevo?» «Non ancora.» Kadiya emise un sospiro molto simile a un singhiozzo. «Che devo fare, allora? Devo portarlo» - sollevò il talismano - «sino alla fine?» «Così è», rispose pacatamente la Voce. «Io sono ciò per cui sono stata creata...» In parte era una supplica. «È così.» Aveva ancora tante cose da imparare! «Cosa c'è davanti a me?» Non vi fu risposta. La visione si dissolse, e il viso graffiato e ferito di Kadiya si coprì di lacrime. Le era stato permesso di gettare uno sguardo su qualcosa che si trovava al di là delle sue capacità di comprensione, ma il suo dovere adesso era continuare a cercare perché la sua sete di conoscenza non poteva ancora dirsi appagata. Si voltò a guardare il campo di battaglia. Gli Uisgu sorridevano, e Jagun era fra loro. Sollevarono le piccole mani in segno di saluto. Avevano abbandonato le antiche abitudini; avevano radunato il clan e le tribù in vista di un unico fine. Guidarli come un'unica forza doveva essere adesso la sua missione. 36. Dopo che fu presentato ai rimorik e reso edotto delle loro straordinarie capacità, il principe Antar decise che la loro piccola brigata avrebbe viaggiato più speditamente se avessero preso solo un paio di barche di legno e la canoa di Anigel, con un minimo di approvvigionamenti. Prima che tutti potessero godersi un meritato, anche se pur breve riposo, venne preparata una nuova serie di finimenti e briglie per i rimorik, tagliando strisce di cuoio dalle mantelle militari; poi furono predisposti dei fori negli scafi, di modo che le imbarcazioni potessero essere unite insieme. E infine, dopo
sole cinque ore di sonno, la piccola flottiglia salpò. Dato che i rimorik sapevano benissimo qual era la loro destinazione, non ci fu bisogno delle redini. Riuscirono a trainare a gran velocità le tre barche allineate anche se si trovavano ancora nello stretto affluente, e in sole tre ore raggiunsero il Grande Mutar. Una volta nel fiume, quelle instancabili creature furono in grado di imprimere al convoglio una velocità anche superiore, mentre intanto persino i cavalieri si davano da fare ai remi. Chiudeva la fila la leggera canoa di Anigel, collegata alle altre due barche; su di essa si trovavano il principe Antar, sir Penapat gravemente ferito e la Voce Azzurra, dimostratosi, forse di proposito, un rematore assolutamente inefficiente. D'altronde l'averlo a bordo permetteva ad Antar e Anigel di tenerlo d'occhio; comunque, l'accolito del mago si comportò molto bene, rimanendo a poppa per accudire il febbricitante sir Penapat mentre i due giovani rimasero a a prua conversando per ore e ore. I rimorik viaggiavano a una tale velocità che gli umani si ritrovarono in vista di Let al calar della sera di quello stesso giorno, a poche ore dallo scoppiare di una seconda grande tempesta. Ma qualcuno li aveva preceduti. «Signori dell'Aria... no!» gridò Anigel scorgendo le grandi volute di fumo che si stagliavano a breve distanza e quasi si confondevano con la cupa nuvolaglia che incombeva sulla regione. Le barche si muovevano ancora a una tale velocità che non osò alzarsi in piedi. «Voce, usa il tuo potere per vedere a che punto è la situazione», ordinò il principe, «e dicci che cosa è successo.» Anigel impallidì e quando parlò fu quasi in un sussurro. «Aspetta, lascia che provi io.» La Voce Azzurra la fissò con aria stupita mentre lei chiudeva gli occhi e sedeva immobile come una roccia. Il suo viso non assunse infatti quella repellente espressione con le orbite vuote che accompagnava le trance degli accoliti di Orogastus. Dopo qualche minuto disse: «I Glismak hanno attaccato il villaggio circa un'ora fa, arrivando via terra. Non so dirvi se si tratta della stessa orda in cui vi siete imbattuti voi. Sembra tuttavia che ce ne siano almeno tre volte tanti di quelli che abbiamo visto su al Kovuko... Hanno dato fuoco a parecchi edifici... Ho visto il Portavoce Sasstu-Cha e cercherò di raggiungerlo telepaticamente...» Il principe e la Voce Azzurra restarono in attesa. Sir Penapat disse con ardore: «Se ci sarà da combattere, potete contare su di me! Anche senza un occhio, senza una gamba e senza un braccio, sono comunque in grado di
battere chiunque! Voi mi conoscete, mio principe». «Lo so che posso sempre contare su di te, Peni.» L'espressione del suo viso era piena di rammarico. «Ma temo che nessuno di noi sarà in grado di fare gran che se i selvaggi hanno già messo a ferro e fuoco Let.» La principessa Anigel riaprì gli occhi. «Il Portavoce ci ringrazia per i nostri altruistici propositi», disse con voce atona, «ma la battaglia si sta ora svolgendo corpo a corpo, e quasi un terzo degli edifici è ormai in fiamme. Mi ha detto che stanno per capitolare, come fanno di solito quando sono prossimi all'essere sopraffatti, e pagheranno una pesante indennità in beni di consumo agli invasori, in modo che li lascino in pace per qualche settimana.» «Ma principessa», protestò la Voce Azzurra con un leggero tono di rimprovero. «Voi avreste il potere di salvarli, se solo voleste!» «Silenzio tu, lurido mascalzone!» sibilò il principe. «Come osi rivolgerti alla principessa con tanta presunzione?» Anigel fissava la Voce Azzurra con gli occhi spalancati e le labbra strette fra i piccoli denti bianchi, considerandolo alla stregua di un velenoso serpente acquatico appena balzato nalla barca. Ma un istante più tardi disse: «Ha ragione. Potrei salvare i poveri Wyvilo, se solo avessi il coraggio di scatenare la forza devastante del mio talismano. Se riuscissi a far riaffiorare premeditatamente quello stesso odio e ripulsa e desiderio di distruzione che avevo inavvertitamente focalizzato sul capo Glismak». «E allora fallo», la incalzò la Voce Azzurra, «e salva i tuoi amici!» «Io... io non ne ho il coraggio», e scoppiò a piangere. La Voce Azzurra si strinse nelle spalle e sorrise. «Sono soltanto Oddling.» «Sono creature razionali che purtroppo non conoscono il bene!» urlò lei. «I Glismak sono come bambini malvagi, che vanno puniti perché imparino a comportarsi civilmente... ma non è certo uccidendoli che si può insegnare loro qualcosa!» «Mentre cavilli su questi aspetti filosofici e ti nascondi dietro le lacrime, i tuoi amici stanno morendo.» «Non posso evitarlo!» «Oh, sì che puoi.» Anigel gridò con quanto fiato aveva in gola: «Non posso! Non so proprio come fare, il mio cuore soffre e sono terribilmente spaventata, ma proprio non posso...» Si morse le labbra come per punirsi dall'aver pronunciato una inaudita
bestemmia, e sembrava così terrorizzata e disperata che Antar stava quasi per scagliarsi sulla melliflua Voce Azzurra. Ma prima che potesse scattare, il viso della principessa cambiò nuovamente espressione e lei, con molta calma, disse: «Principe Antar, se andrò, verrete con me?» «A Let? Ora?» Ma vedendola assolutamente seria nel suo proposito, si ricompose e disse: «Mia dolce signora, vi accompagnerei anche alle porte dell'inferno se solo me lo chiedeste». Anigel annuì, e poi, con una strana voce soave, disse: «Amici miei, fermatevi.» Il piccolo convoglio rallentò, si fermò e iniziò a rollare nella corrente, perché già spirava una brezza foriera di tempesta e il nero cielo che si erano lasciati alle spalle era squarciato di tanto in tanto da impressionanti lampi che si scaricavano sempre più vicini. Si incominciava a sentire anche un cupo rombo di tuoni. Mezzo chilometro più avanti, sulla loro destra, sorgeva Let, da cui si levavano scure colonne di fumo che poco più in alto si fondevano a formare un nero tetto fuligginoso sopra il villaggio. «Sir Owanon!» ordinò Anigel al prode cavaliere che si trovava sulla barca di testa. «Tagliate le tirelle che vi collegano ai rimorik.» Mentre lui si affrettava a obbedire, Anigel recise le funi che univano la sua canoa con la seconda imbarcazione. «Amici miei, venite qua affinché possa imbrigliarvi alla mia barca.» «Stiamo arrivando.» Il principe Antar e gli altri non avevano ancora capito che cosa avesse intenzione di fare, ma mentre distribuiva ordini a destra e a manca il suo intento divenne chiaro. «Voi, uomini!» disse rivolta ai cavalieri della seconda imbarcazione. «Staccatevi da sir Owanon e venite a prendere a bordo sir Penapat e la Voce Azzurra. E voi, sir Owanon, portatemi le tirelle dei rimorik.» Si diedero tutti da fare con la massima solerzia, e una volta che la fanciulla ebbe in mano le tirelle utilizzò il suo pugnale per aprire due fori nella parte superiore della prua della canoa e, dopo avervi fatto passare le due cinghie, le assicurò con dei robusti nodi. Quando prese in mano le lunghe redini legate alla bardatura delle due creature acquatiche, essi dissero: «Dividiamo il miton, e saremo pronti». Anigel estrasse la fiasca scarlatta dal suo tascapane, e ne bevve una lunga sorsata. I rimorik leccarono le sue dita, mentre intanto il principe Antar osservava la scena con stupore. Sir Penapat era stato trasferito sulla seconda barca, ma la Voce Azzurra
se ne stava ancora rannicchiato nella canoa di Anigel. Poi si alzò di scatto, e con un gesto repentino sospinse l'imbarcazione lontana dalle altre due su cui si trovavano i cavalieri. «Rimarrò anch'io con voi, principessa!» urlò la Voce. «Potrei esservi di aiuto!» «Fuori da questa barca», gridò il principe Antar, «uccellaccio di malaugurio!» E si diresse barcollando verso poppa, con tanta foga da far rollare il leggero battello Wyvilo fin quasi a imbarcare acqua. Ma ormai era troppo tardi, e la crescente forza del vento stava allontanando sempre più gli scafi l'uno dall'altro. «Voi rifugiatevi sulla riva opposta», urlò Anigel a sir Owanon. «Non dobbiamo farci cogliere sul fiume quando si scatenerà la tempesta. Se non saremo di ritorno per domani, fate quel che potete per mettervi in salvo. Addio!» E diede ordine ai rimorik di lanciarsi in avanti a tutta velocità, così che le altre due imbarcazioni li persero ben presto di vista. Quello scatto improvviso aveva fatto finire Antar lungo disteso sul fondo dello scafo. Per un momento, dato che temeva un capovolgimento e con l'armatura addosso sarebbe affondato come un sasso, si tenne attaccato a una paratia, osservando affascinato Anigel che se ne stava in piedi a prua reggendo le redini con maestria. Fendettero le acque burrascose come una freccia scagliata a pelo d'acqua, a una velocità che non avrebbe mai pensato raggiungibile su un fiume. La Voce Azzurra si era fatto piccolo piccolo, calcandosi il cappuccio sugli occhi. Antar, a quel punto, non avrebbe neanche potuto gettarlo fuori bordo, e così il principe, borbottando fra sé, cercò di sistemarsi il più comodamente possibile e di far sbollire la rabbia. La principessa era troppo impegnata a guidare per prestare attenzione all'uno o all'altro. Ma non era solo la presenza della Voce Azzurra a rendere il giovane di un umore così nero; in realtà era anche indispettito per il modo in cui l'adorabile Anigel aveva messo in riga lui e tutti gli altri. Non che questo facesse vacillare neanche per un istante la sua devozione alla fanciulla, in quanto era più determinato che mai a dare persino la vita per lei, solo che in quel momento colei che era sembrata quasi patetica là nelle segrete della Cittadella, così meravigliosa e condannata da un destino funesto mentre piombava giù dalle cateratte, così giovane e vulnerabile quando pochi minuti prima si era trovata a dirimere il dissidio che le dilaniava l'anima, ora invece era l'immagine di una regina in armi portatrice di vendetta. E c'era un qualcosa nel profondo di Antar che lo faceva guardare con sospetto a
quel mutamento, facendoglielo persino temere... Anigel teneva gli occhi fermamente serrati, e il principe fu certo che lei stava studiando la visione del massacro in atto a Let, avvisando nel frattempo i Wyvilo che era in arrivo per portar loro soccorso. Eppure, com'era bella! Così piena di grazia, persino in quegli abiti così mascolini, con i capelli al vento e il diadema risplendente sulla fronte. Si stagliava contro il cielo al tramonto, dove le fiamme del villaggio coloravano di bagliori cremisi le nubi spinte dal vento. Il principe Antar sentì il sangue scorrergli più veloce nel sangue, e desiderò di poter morire per amore suo. Che ne sarebbe stato della leggiadra principessa... e di lui? Si era ribellato a suo padre, aveva smascherato la malvagità dei propositi di Labornok e legato il suo destino a quello della fanciulla amata, che aveva giurato di liberare il suo paese. Ma era davvero un proposito realistico, sia pure con l'aiuto del suo talismano magico? Anche Orogastus poteva comandare i fulmini, e la Voce Azzurra aveva assicurato che ora il mago era in possesso del talismano di una delle sorelle, e presto avrebbe avuto anche l'altro. Era sicuramente nelle intenzioni di Anigel ritornare alla Cittadella, ma una tale linea d'azione era inevitabilmente destinata al fallimento: là infatti, era ancora accampata più della metà della forza di invasione di Labornok, e il resto dell'armata, che aveva accompagnato Hamil nella caccia alla principessa Kadiya, sarebbe presto ritornata dalle paludi. Che possibilità aveva Anigel, pur dotata dei suoi nuovi poteri, di sconfiggere il preponderante esercito nemico e le Potenze Oscure di Orogastus? Il re Voltrik si era ormai ripreso, ed era più convinto che mai che le tre principesse dovessero morire. Senza dubbio non si sarebbe preoccupato per la defezione di un figlio per il quale nutriva poco più che compassione e disprezzo, per non dire di come ne sarebbe stato felice il meschino stregone! Anzi, forse Orogastus avrebbe persino avuto buon gioco nel manovrare l'irretito sovrano fino a farsi nominare suo erede al trono! Chissà che non fosse stato proprio quello il suo scopo sin dall'inizio... Con Orogastus al potere e il Labornok lanciato alla conquista dell'intera Penisola, dove avrebbero potuto rifugiarsi lui e Anigel? Probabilmente loro due e i pochi fedelissimi compagni rimasti al loro fianco sarebbero stati costretti a fuggire in qualche terra lontana, dove... Un movimento. Antar si riscosse da quelle cupe riflessioni, solo per vedere che la Voce Azzurra aveva lasciato il suo cantuccio a poppa e stava strisciando verso di
lui. «Che cosa vuoi?» domandò il principe con aria truculenta. Un colpo di vento improvviso gli strappò le parole di bocca. «Solo parlarti per un momento, mio principe. Ho appena finito di conferire telepaticamente con il mio potente maestro, e lui mi ha chiesto di passarvi un messaggio della massima importanza.» «Ne ho avuto abbastanza delle menzogne del tuo losco compare! Torna indietro... vattene!» Ma la Voce Azzurra continuò ad avanzare fermamente, il viso spettrale solcato da un sorrisetto così falso che il principe dapprincipio ne fu infuriato, e poi allarmato. Prima ancora che potesse reagire ed estrarre la spada, il vile servo di Orogastus gli fu addosso, balzando come un felino sulla sua preda, incurante della solida armatura azzurra di cui era rivestito il principe. In una mano aveva un lungo pugnale affilato, che tentò di infilzare nella gorgiera di placche mobili che difendeva il collo di Antar. La lama penetrò in quel piccolo spazio, ma un repentino spostamento dell'agile principe fece sì che gli venisse solamente scalfita la pelle prima che riuscisse ad afferrare il polso della Voce Azzurra in modo da fargli ritrarre l'arma. I due uomini si misero quindi a lottare selvaggiamente sul fondo dello scafo. La principessa Anigel bloccò immediatamente i rimorik. Osservò con inquietudine i due combattenti, reggendosi saldamente alla frisata mentre la canoa rollava e beccheggiava ai limiti del rovesciamento. Non poteva richiamare un fulmine sul malvagio emissario di Orogastus, se no sarebbero affondati tutti quanti, e non le restò perciò che invocare la Bianca Signora. Ma nulla accadde. La Voce Azzurra era incredibilmente forte, partecipando in qualche misterioso modo dei demoniaci poteri del suo signore e padrone. Antar, reso goffo nel corpo a corpo dalla ingombrante armatura, era ormai supino, e la Voce Azzurra lo schiacciava a terra immobilizzandolo con le ginocchia. Il principe lo teneva per i polsi, ma la lama che il malvagio stringeva fra le mani ossute era sempre più vicina alla feritoia aperta del suo elmetto. Anigel si strappò la tiara dal capo e gridò: «No! Non lo uccidere! Ti darò il talismano!» La Voce Azzurra alzò la testa rasata verso la principessa. Un lungo sfregio che andava da un orecchio a metà della fronte sanguinava copiosamente, rendendo ancor più repellente il suo scarno viso. I suoi occhi brucianti incontrarono quelli della fanciulla, e lui le parlò digrignando i denti per lo
sforzo. La punta del pugnale era ormai a pochi centimetri dall'occhio destro di Antar. «Mettimi il diadema sulla testa!» La sua voce era quella del malvagio Orogastus. «No!» urlò il principe Antar. «Ci ucciderà entrambi!» Ma Anigel si stava ormai sporgendo verso di lui, con il diadema nella mano tesa, mentre la canoa rollava su e giù come impazzita e iniziavano a cadere le prime grosse gocce di pioggia. Ai lati dell'imbarcazione spuntarono i due rimorik. I corpi levigati emersero lentamente, e le fauci spaventose erano così spalancate da poter racchiudere la testa di un uomo. Le lunghe lingue acuminate si srotolarono come fruste, e con la stessa delicatezza che sapevano mostrare nel succhiare il miton dalle morbide dita della loro amica, si avvinghiarono agli avambracci della Voce Azzurra. L'uomo lanciò un urlo raccapricciante. Non c'era scampo a quella presa. Anigel si fece da parte, sempre reggendo la tiara. Antar lasciò andare la presa ai polsi della Voce e nello stesso tempo le due creature si misero a nuotare verso la poppa, con i possenti corpi mezzo fuori dall'acqua. Il malcapitato strillò come un folle mentre il suo corpo veniva prima trascinato sopra quello del principe e poi scaraventato fuori bordo. Scomparve nelle scure acque del fiume, e le due grosse creature acquatiche si tuffarono dietro di lui. Qualche minuto più tardi due testone sogghignanti emersero davanti alla prua, vicino alla principessa Anigel. Un piccolo lembo di stoffa azzurra penzolava dalle zanne di uno dei rimorik. «Oh, amici miei...» «Presto, afferra le briglie. La tempesta è quasi su di noi. Affonderete se non ti porteremo in fretta a riva.» «Siete ferito?» chiese con ansia la fanciulla al principe. «Vedo che c'è del sangue sull'armatura...» «Oh, solo un graffio. Ancora una volta mi avete salvato la vita, mia dolce signora, e...» «E allora a Let!» gridò Anigel riafferrando le redini. E non ci fu più tempo per i convenevoli, mentre partivano a tutta velocità sollevando una scia spumeggiante, con il povero Antar che ancora una volta si reggeva disperatamente per non finire fuori bordo. 37.
Quando la Voce Azzurra morì, Orogastus emise un profondo gemito e uscì dalla trance madido di sudore; si lasciò sprofondare in una grande poltrona dello studio, da cui aveva contemplato il fallimento del suo piano. «È colpa mia! Non ho che me stesso da rimproverare! E ora sono due i talismani fuori dalla mia portata.» E se le conclusioni che aveva tratto dopo la sua ricerca riguardo al significato della Festa delle Tre Lune erano esatte, allora gli rimanevano solo tre giorni e quattro notti per tentare di salvare il suo grande progetto. Essendo stato in contatto telepatico con la Voce Azzurra, Orogastus fu in grado di osservare con l'occhio della mente la tremenda zuffa fra il principe Antar e il suo servitore. La barca sembrava condotta da una persona invisibile, dato che la principessa era ancora schermata dall'amuleto incastonato nel talismano. La Voce Azzurra avrebbe voluto attendere l'arrivo a terra per attaccare il principe, ma al mago era sembrato che ci fossero più probabilità di successo se l'avesse invece assalito mentre si trovavano sul fiume in balia degli elementi, senza che ci fossero Wyvilo o cavalieri pronti ad avvisarlo o a venirgli in aiuto. Orogastus non aveva detto al suo assistente che se fosse accaduto il peggio e la canoa si fosse rovesciata, Antar sarebbe morto con la Voce Azzurra, trascinati entrambi a fondo dalla pesante armatura del principe, mentre i rimorik avrebbero sicuramente tratto in salvo Anigel e il talismano. Ma ora il sicario di Orogastus era morto e il principe Antar era vivo e vegeto, così rincitnillito per la principessa da gettarsi anima e corpo ad assecondare la causa della giovane, e pronto magari anche a convincere altri labornoki a seguirlo! Da vivo poteva davvero rappresentare un pericoloso ostacolo alle ambizioni del mago... Orogastus pensava furiosamente, e, incapace di stare fermo più a lungo, si alzò e incominciò ad andare avanti e indietro per lo studio. Aveva smesso di nevicare e quelle dannate Tre Lune riversavano il loro chiarore sulle ripide pareti del monte Brom, creando un argenteo panorama la cui vista incantevole toglieva il fiato. La principessa Haramis si era già ritirata per la notte. Sembrava avere accettato la sua spiegazione riguardo all'invasione del regno di Labornok, e il mago era stato così scaltro da averle fatto credere che le atrocità perpetrate dagli invasori fossero il frutto della malvagità di re Voltrik e del generale Hamil, mentre lui era solo un alleato quantomai recalcitrante e av-
verso a simili orrori. Era riuscito a spiegare e giustificare quasi tutto. Fortunatamente Haramis non aveva pensato di utilizzare i suoi poteri per «vedere» Kadiya durante lo spaventoso faccia a faccia con il defunto generale Hamil, anche se a quel punto Orogastus era pressoché certo che nulla avrebbe potuto incrinare il suo rapporto con la fanciulla... perché, che Haramis lo ammettesse o no, era ormai innamorata di lui! Era un tipo di emozione che il mago era poco incline ad analizzare, ed era comunque impossibile che lui si innamorasse di lei!... Eppure, un piccolo diavoletto in fondo alla sua anima lo avvertiva di stare in guardia. Non aveva mentito ad Haramis quando le aveva detto che anche lui era vergine, e l'estasi provata durante quell'esperienza non era certo stata simulata. Per il resto si era trattato di un bell'insieme di menzogne, naturalmente, una parte che doveva necessariamente recitare se voleva mettere le mani su tutti e tre i talismani. Ma doveva fare molta attenzione. La sua mente era invulnerabile al fascino della fanciulla, ma il suo cuore no! La breve gioia provata nell'unirsi a lei era qualcosa che superava di gran lunga ogni altra consimile sensazione. E questo lo aveva però spaventato non poco... Il coinvolgimento sessuale era qualcosa di tradizionalmente proibito a coloro i quali avevano a che fare con grandi poteri magici, e a ragion veduta. Rischiavano infatti di essere distratti dai loro scopi principali, di vedere accecata la propria obiettività, indebolita la volontà, prosciugate quelle energie che dovevano essere tesaurizzate e concentrate per diventare davvero potenti... Ma lui aveva bisogno di lei, e non solo per il talismano! Haramis era la partner ideale che aveva cercato per anni e anni, infinitamente superiore a quei meri lacchè delle Voci. Lei possedeva la chiave che gli avrebbe permesso non solo di penetrare i segreti degli Scomparsi, ma di mettere le mani su quello Scettro del Potere che persino loro avevano temuto. E così avrebbe usato Haramis, avrebbe diviso con lei il sapere, ne avrebbe persino tratto piacere. Ma doveva stare attento a non innamorarsene. Domani avrebbe stuzzicato la fantasia della principessa mostrandole qualcuno dei suoi antichi strumenti magici, muovendola poi a compassione con un racconto ben congegnato della sua vita. E dopo avrebbe nuovamente innescato la sua passione! Era solo una questione di tempo. E se nonostante ciò lei non fosse ancora crollata, come d'altronde ci si poteva aspettare da una giovane così determinata, allora avrebbe allentato un po' la presa, per stringerla poi nuovamente e una volta per tutte nel momento cru-
ciale... Orogastus smise di andare avanti e indietro, e si rilassò sorridendo compiaciuto. Tornò di nuovo alla poltrona e si immerse nella trance per poter comunicare con l'ultimo rimasto dei suoi accoliti, ancora alla Cittadella. «Mia Voce Verde!» «Ti sento, potente maestro.» «Hai scovato qualche nuova informazione nella biblioteca della Cittadella?» «Parecchi riferimenti che possono rivestire una certa importanza, mio signore. Un'antica storia di Ruwenda parla di una credenza fra i primi umani ivi stanziatisi, i quali asserivano di vivere nell'Era del Giglio. E la fine di quell'era e l'inizio di una nuova sarebbero stati segnati da un grande disastro, e un evento cruciale si sarebbe verificato durante la Festa delle Tre Lune, quando si sarebbe manifestato un Giglio dei Cieli... si potrebbe dunque pensare al verificarsi di qualche insolito evento astronomico.» «Senza dubbio. Ciò che mi riferisci è molto interessante e conferma una delle mie teorie. Vai avanti.» «C'è un altro libro in cui vengono descritte alcune pratiche magiche degli Uisgu, e viene riportata una rozza traduzione di un certo canto che vi vorrei citare Uno, due, tre: tre in uno. Uno la Corona del Deforme, che porta saggezza ed esalta il pensiero. Due la Spada degli Occhi, e con essa giustizia e misericordia. Tre la Bacchetta delle Ali, chiave unificatrice. Tre, due, uno: uno in tre. Vieni, Giglio. Vieni, o Potente. A quanto pare, gli Uisgu recitano questa tiritera ogni anno alla loro Festa delle Tre Lune, senza però conoscerne l'esatto significato.» «Non faccio fatica a immaginarlo», disse Orogastus quasi tra sé. «Ben fatto, mia Voce! Ancora una volta hai raccolto preziose informazioni che confermano i risultati delle mie ricerche. E c'è dell'altro?» «Sì, maestro, purtroppo ho scoperto anche un infausto presagio.» «Dimmi pure.»
«Riguarda il cosiddetto Scettro Trilobato del Potere, che dovrebbe appunto essere costituito da una combinazione dei tre talismani. Proprio stamani mi sono imbattuto in una antichissima pergamena scritta in tuzameni, la lingua del vostro paese natio.» «Davvero insolito, perché ben pochi abitanti della Penisola sanno dell'esistenza di quel lontano paese. Vai avanti.» «La maggior parte del documento è indecifrabile, ma è ancora leggibile una parte in cui viene menzionato il cosiddetto Grande Scettro. Dice: 'Il Grande Scettro che fu rotto e venne nascosto da Coloro-Che-AndaronoVia riapparirà e scuoterà le radici stesse del mondo, facendo ritornare nuovo il vecchio e provocando la caduta di una grande stella'.» «Capisco», disse Orogastus, e rimase in silenzio per un po' prima di aggiungere quasi allegramente: «Ci sono milioni di stelle nel cielo, mia Voce». «Sì, potente Maestro.» «Come ha reagito re Voltrik alle notizie riguardo la perfidia di suo figlio?» «Si è infuriato terribilmente quando ha saputo che il principe Antar aveva offerto la sua spada e il suo cuore alla principessa Anigel, ma non ha voluto sentir ragione riguardo al ripudiarlo immediatamente, come da voi giustamente suggerito. Antar è molto popolare fra i soldati per il buon carattere e la prestanza fisica, e gode dell'appoggio dei nobili imparentati con la sua defunta madre. Sua Maestà ha preferito posporre la deposizione del principe fino al momento in cui faranno ritorno alla Cittadella il generale Hamil e la sua cospicua forza di spedizione, che comprende una grande percentuale di ufficiali fedeli al trono.» «Il nostro re ha agito saggiamente», disse Orogastus. E poi aggiunse, rivolto a se stesso: più saggiamente di me stesso, risparmiandomi così un altro errore grossolano! Potenze Oscure, che cosa mi ha preso per sbagliare in modo così marchiano i miei calcoli? Ma le Potenze non fecero nulla per illuminarlo al riguardo... Poi, rivolto alla Voce, disse: «Temo che ora dovrai dare al re qualche altra brutta notizia. Hamil è morto. La sua armata però è quasi intatta, e si trova ora al comando di lord Osorkon. Non è necessario che tu fornisca a Voltrik troppi dettagli, digli semplicemente che la situazione al momento non è ancora molto chiara. Resta però il fatto che la missione di catturare la principessa Kadiya e mettere le mani sul suo talismano è sfortunatamente fallita, come pure quella ordita contro la principessa Anigel.»
«Maestro...!» «E sia la mia Voce Rossa che quella Azzurra sono morte.» «Potrei sapere come sono morti i miei amati fratelli e il generale Hamil?» «Puoi dire a re Voltrik che Hamil e la Voce Rossa sono periti durante un abborracciato tentativo di costringere Kadiya a consegnare il suo talismano. Lo strumento era magicamente legato a lei, e ha ucciso i due quando hanno tentato di impossessarsene. Devi dire al re che la principessa è fuggita, assicurandogli però che si è rifugiata nelle più remote paludi e non costituirà mai più un pericolo per il Labornok.» «E posso anche dire a Sua Maestà del fato occorso alla Voce Azzurra?» «No, non dirgli niente. Per tua informazione, la Voce Azzurra ha tentato di sopraffare il principe Antar mentre i due si trovavano su una barca. Ma l'assalto è fallito, e tuo fratello è affogato.» «Ahimè! Era il più coraggioso di noi, e anche il più astuto manipolatore...» «Ma tu sei il più intelligente, mia Voce Verde, e proprio a te spetta ora il compito più delicato: far sì che re Voltrik eviti di intraprendere qualche iniziativa irrimediabilmente stupida fino a quando non avrò fatto ritorno alla Cittadella. Anche lord Osorkon sta cercando di tornarvi il più in fretta possibile con le sue forze, anche sfruttando l'impeto delle acque del fiume, ingrossato dalle tempeste che si sono già scatenate nelle zone montuose, e potrebbe così arrivare entro tre giorni. Riferiscilo al sovrano.» «I venti monsonici hanno già portato le prime piogge anche qui nella regione della Cittadella, maestro. Presto le vie d'acqua e di terra di questo miserabile regno saranno quasi del tutto inutilizzabili. A seguito di una certa inquietudine fra i ruwendiani delle regioni periferiche, re Voltrik ha deciso che l'intera forza di invasione resterà qui durante la stagione delle piogge. Lui e il suo seguito hanno già steso dei piani che prevedono l'installarsi di una metà dell'armata nei vari castelli e villaggi ruwendiani, mentre l'altra metà si stabilirà sulla collina della Cittadella.» «Questa è una saggia idea.» Ecco un'altra eventualità che avrei dovuto prevedere io stesso e suggerire al re! si disse Orogastus, e aggiunse: «Desidero che tu continui a sottolineare e deplorare il tradimento del principe Antar con re Voltrik, in ogni occasione possibile. Fai pressioni affinché Sua Maestà ripudi il principe non appena arriveranno gli ufficiali di provata lealtà alla corona. È inutile che ti ricordi che se dovesse succedere qualcosa a re Voltrik, i miei piani verrebbero inevitabilmente messi a grave re-
pentaglio». «Lo so, maestro, e farò del mio meglio per convincere il re a seguire la vostra linea d'azione. Ma Voltrik si fa ogni giorno più agitato al pensiero dell'imminente Festa delle Tre Lune. Sicuramente i servitori ruwendiani qui alla Cittadella devono averlo scaltramente informato delle terribili profezie che riguardano quell'evento. Vorrebbe tornare a casa...» «Giammai! Non deve lasciare la Cittadella! Sarebbe sicuramente colto dalle Grandi Piogge sulla strada del ritorno!» «Maestro, gliel'ho detto, ma lui pensa che la Cittadella sia un luogo di cattivi presagi, essendo così antica e pervasa dalle magie ruwendiane...» «Che sciocchezze! Rassicuralo. Sa benissimo che le mie Potenze Oscure, quelle che l'hanno portato alla vittoria, sono di gran lunga superiori! E io sarò con lui prima della congiunzione delle Tre Lune.» «Maestro! Ma come? Anche quando le condizioni atmosferiche non sono avverse ci vogliono almeno otto giorni di viaggio dalla vostra torre alla Cittadella.» «Non preoccuparti, ce la farò. Attendi con fiducia il mio arrivo prima della Festa, e avvisa re Voltrik che sto arrivando e che alla fine andrà tutto bene.» «Potente maestro, l'adulerò e lo rassicurerò sull'irrilevanza degli ultimi sfortunati eventi, e vedrete che sarà quantomai ansioso di poter nuovamente seguire i vostri preziosi consigli.» «Eccellente. Addio, mia Voce Verde.» «Addio, maestro.» Quando la visione del suo accolito svanì, il Mago sedette per qualche tempo tenendosi il capo fra le mani. Poi sembrò ritornare in se stesso, e una torva espressione gli indurì i lineamenti. «Andrà tutto bene. Prima di tutto consulterò lo Specchio di Ghiaccio per vedere cosa sta combinando quella dannata principessa Kadiya e poi mi occuperò di Haramis.» La sera successiva, nel ritornare in camera dopo avere consumato la cena in compagnia di Orogastus, Haramis trovò ad attenderla un regalo, un largo pacco piatto avvolto in un tessuto nero e legato con uno spago d'argento, insieme con una nota del Mago. Mia adorata Haramis, domani vorrei mostrarti il mio strumento magico più prezioso,
quello Specchio di Ghiaccio con cui posso scrutare i più lontani recessi del mondo. Non l'ho mai fatto vedere a nessun altro essere umano. Al fine di non offendere le Potenze Oscure che ne permettono il funzionamento, ti chiedo di accompagnarmi indossando gli abiti che troverai in questo pacco, e che ho preparato io stesso appositamente per te nella speranza che tu voglia accettare di dividere con me il piacere di questi occulti misteri, accordando così un po' di stima e affetto a colui il quale li pone ai tuoi piedi insieme al suo stesso cuore. Mia amata principessa, se deciderai invece di partire domani, allora perdona l'ardire di questa nota e la stupidità di uno che è rimasto solo per così tanto tempo in tua attesa, senza avere mai conosciuto fino a questo momento il significato della parola Amore. Sono e sarò sempre tuo, con il più profondo rispetto, OROGASTUS Pensa forse di avermi stregata e che io sia pronta a porgergli il mio cuore su un piatto d'argento, si disse Haramis, contrariata dal tono esageratamente intimo della lettera. Sono forse una di quelle contadinelle pronte a diventar schiave del primo uomo che le tocca? O crede di avermi abbagliata e conquistata con gli strumenti antichi che ha raccolto? Haramis riconsiderò le cose che le aveva fino a quel momento mostrato. Chi può sapere di cosa sono capaci quelle vecchie macchine? A mio avviso non hanno per niente l'aspetto di innocui giocattoli... e particolarmente quella che a lui interessa così tanto, quella che sembra una sorta di balestra, ha un'aria talmente sinistra... Comunque, non sembra il malvagio furfante che avevo creduto. Poveretto, con un'infanzia così infelice! Naturalmente il suo incoraggiamento all'invasione di re Voltrik è stato davvero imperdonabile, ma probabilmente non avrebbe potuto opporsi direttamente alla follia del monarca senza rischiare di essere scacciato dal Labornok. E ben sapeva che il suo destino non si trovava nel lontano Tuzameni, bensì fra queste montagne, a cui fu chiamato dalla Caverna del Ghiaccio Nero. Se mi fossi trovata nella sua posizione, sarei stata capace di comportarmi in modo più intelligente e moralmente irreprensibile? Avrei avuto la forza di rinunciare a diventare mago di corte di un governante corrotto, se questo avesse significato rinunciare al richiamo del mio grande destino?
Aprì il pacco ed esaminò quelle particolari vesti che permettevano di essere considerati accettabili dalle Potenze Oscure. Dopo avere visto e toccato gli indumenti, non poté resistere alla tentazione di indossarli, giusto per vedere come le stavano. C'era una sottoveste di un qualche materiale nero che sembrava pelle scamosciata ed era foderata di pelliccia, con un paio di alti stivali in tinta. Sopra bisognava portare una specie di toga di maglia argentata, con pannelli di un nero materiale scintillante e scivoloso, molto freddo al tatto. C'era pure un ampio mantello fatto dello stesso tessuto nero, foderato d'argento e munito di un elaborato fermaglio; sulla parte posteriore era rappresentata la solita stella che aveva visto incisa sul medaglione del mago. Si decise infine a indossare anche una sorta di maschera d'argento che aveva rigirato a lungo fra le mani. Aderiva strettamente alla fronte e sotto il mento, lasciando però libera la parte inferiore del viso. Intorno al suo perimetro, incominciando appena sopra le spalle, fuoriuscivano dei raggi appuntiti che le circondavano il capo come se il suo viso si trovasse al centro di una stella scintillante, lasciando liberi i capelli corvini di ricaderle all'indietro. La maschera non era fatta di metallo, ma di un materiale più morbido, simile a pelle argentata. Anche i lunghi guanti erano dello stesso colore e materiale. Non appena fu completamente vestita, Haramis provò un improvviso desiderio di strapparsi tutto di dosso, fuggire dalla stanza e raggiungere il suo corsiero volante perché la portasse lontano da lì. Il talismano, appeso come sempre alla catena che portava intorno al collo, era diventato freddo come ghiaccio, e il pezzetto d'ambra in esso incastonato non emetteva il minimo bagliore. Ma cosa sto facendo? si domandò. Questo costume è così strano. Gli strumenti che mi ha mostrato finora non sono magici - ne sono sicura - ma in questi abiti c'è qualcosa... Forse esistono davvero le Potenze Oscure di cui parla? Naturalmente lui ci crede, e qualcosa, di qualunque cosa si tratti, gli dà delle capacità fuori del comune. Per mezzo loro potrebbe un giorno essere davvero in grado di governare il mondo intero, e d'altronde questa è la sua vera ambizione... È forse per questo che sono così attratta da lui? Ha in mano il potere, qualunque ne sia la fonte. Ma di che potere si tratta? È qualcosa che posso imparare e usare? Si sentì percorrere da un brivido di paura. Alzò allora il Cerchio dalle Tre Ali davanti al viso, fissò lo sguardo nell'area al centro del talismano e
gridò: «Bianca Signora! Rispondimi!» Per un lungo tempo non accadde nulla. Poi le venne in mente di togliersi i lunghi guanti argentati, e allora sentì la bacchetta diventare subito più calda fra le sue mani nude e l'ambra iniziò a pulsare con un debole bagliore quando si decise a chiamare l'Arcimaga con un tono di voce meno imperioso. Piano piano si raccolse una nebbiolina perlacea all'interno del Cerchio, e poi apparve il viso devastato di Binah. L'anziana maga era adagiata su un grande cuscino, e stava visibilmente soffrendo. I suoi occhi, cupe fessure velate di lacrime, osservarono con tristezza la principessa così abbigliata. «Così presto?» La voce era debole come uno zefiro che spira in un campo di fiori. «Ti ha vinta così facilmente?... Ma no, ti ho mal giudicata, mia cara bambina. Vedo che non ti ha ancora convinta a seguire la sua strada.» «Certo che no!» L'ansia di Haramis per le condizioni della Bianca Signora si era trasformata in palese irritazione. Il tono dell'Arcimaga era quello di un adulto che sgrida un bambino disobbediente. Ma Haramis non aveva invocato la maga perché si sentiva in colpa. Non aveva fatto niente di male, e non provava affatto vergogna! «Sono venuta qui perché sono stata invitata», disse la principessa con fredda cortesia, «e perché volevo scoprire la verità su Orogastus. Sono venuta a vedere da me stessa chi era - e a cercare il suo punto debole, come tu mi avevi ordinato!» «Indubbiamente tale conoscenza può rivelarsi utile», disse gentilmente l'Arcimaga, «ma ti sembra saggio restare sotto il suo tetto?» «Non sono in pericolo», la interruppe Haramis con veemenza. «Il mio gipeto è libero di portami via in qualunque momento. Orogastus non può rubarmi il talismano, e mi tratta con estrema cortesia...» «Molto più che cortesia.» Haramis arrossì sotto la maschera d'argento. «Sì», ammise. «Bambina mia, mi sembra di capire che tu sia ammaliata, affascinata sia dall'uomo che dal potere ch'egli detiene. Tu pensi di conoscere un grande segreto che riguarda gli strumenti degli Scomparsi, qualcosa che lui non sospetta e che lo potrebbe rendere vulnerabile.» «Sì», disse la fanciulla. «Ed è per questo, del resto, che sono venuta qui, alla ricerca della conoscenza. C'è molto da imparare qui. E più cose imparo, più domande mi sorgono sul Ruwenda e la sua magia. Ma sto imparando e tutto andrà bene, ne sono certa.» «Sì, andrà tutto bene... Ma dovrai venire presto da me e ascoltare la mia
visione. Essa differisce grandemente dalla sua, e a parecchi può certo apparire meno gloriosa. Ma devi decidere con la tua testa. Fra la mia strada e quella di Orogastus e dei suoi simili c'è un abisso. Devi conoscerle entrambe prima di decidere quale seguire.» «Sì», acconsentì Haramis. «Verrò presto da te.» «Non attendere troppo a lungo.» L'anziano viso scomparve dal Cerchio. Haramis lasciò andare il talismano, il quale ciondolò attaccato alla catena. Poi si recò davanti al grande specchio della sala da bagno, e fissò affascinata l'immagine così poco familiare che vi vedeva riflessa. Nero e argento. Uno sguardo indecifrabile, una figura alta e imponente. E, sì, bisognava ammetterlo, che incuteva anche timore. Ho due grandi nemici. Uno è Orogastus, di cui sono innamorata, e l'altro... sono io stessa! Si voltò di scatto e iniziò a togliersi di dosso le vesti scure. Ma dentro di sé sapeva che le avrebbe indossate di nuovo l'indomani, quando l'avrebbe accompagnato nella Caverna del Ghiaccio Nero. 38. Essendo stati avvisati dell'imminente arrivo della barca attraverso il linguaggio senza parole, il Portavoce Sasstu-Cha e una delegazione di anziani del villaggio accolse la principessa Anigel e il principe Antar presso un attracco non molto distante dalla scena dei combattimenti. I Wyvilo condussero i due umani al riparo di un magazzino poco lontano, dato che la pioggia aveva iniziato a cadere a torrenti. «Per lo meno spegnerà gli incendi», rimarcò il Portavoce di Let, «anche se non farà certo desistere i Glismak dal loro intento. Abbiamo già ricevuto una loro deputazione con una richiesta di riscatto. E ci siamo detti disposti al pagamento. Principessa Anigel, temo che tu sia arrivata troppo tardi.» Lei non parlò, restando seduta con aria stanca e sfiduciata su una balla di merce, senza neanche la forza di togliersi il cappello di Immu e la cappa impermeabile che aveva indossato quando avevano preso terra. Dato che la ragazza sembrava apparentemente incapace di decidere il da farsi, si fece allora avanti il principe. «Forse ti ricordi di me. Io sono Antar, principe ereditario di Labornok, colui che tu stesso hai scacciato qualche giorno fa dal tuo villaggio. Mi
trovo ora al servizio di questa grande signora, la quale mi ha salvato la vita per ben due volte, e così pure lo sono quelli dei miei uomini che sono ancora vivi. Siamo venuti qui rischiando la vita per potervi essere di aiuto. Prima di decidere di arrendervi, dovete lasciarci spiegare quale tipo di assistenza siamo pronti ad offrirvi.» «Dimmi pure», disse Sasstu-Cha con la sua bassa voce inumana. «Ma devi sapere che i Glismak che ci hanno attaccato sono più di un migliaio, e che quasi un terzo dei nostri combattenti è stato fatto prigioniero, e parecchi di essi sono stati già mangiati. Al calar delle tenebre non saremo più in grado di opporre alcuna resistenza.» «Questo non sarà necessario», disse Antar. Prese Anigel per una mano e la pregò gentilmente di alzarsi. Poi le slacciò la mantella e gliela tolse insieme al cappello. Alla vista del talismano i Wyvilo rimasero a bocca aperta, come paralizzati dallo stupore, e un anziano particolarmente attempato scoppiò addirittura a piangere. «Il Mostro a Tre Teste!» esclamò quando si fu ripreso, esprimendosi anche lui nel linguaggio degli umani. «Sia resa grazia al Fiore, è riuscita a strapparlo all'albero!» «E grazie a esso», aggiunse il principe, «ha incenerito il capo di una spaventosa orda di Glismak, chiamando a sé i fulmini del cielo.» Sasstu-Cha chiese ad Anigel: «Ma è proprio vero?» «Sì», rispose lei con un filo di voce. Ma una nuova luce stava iniziando a risplendere nei suoi occhi, mentre sentiva una nuova energia scorrerle nel corpo. L'ambra contenente il piccolo fiore di Giglio risplendeva ora nel bianco metallo del diadema, e il nero bocciuolo era completamente dischiuso. «Ridurrai quindi in cenere quegli orrendi cannibali?» domandò ansiosamente l'anziano con il viso rigato di lacrime. «Portatemi dai Glismak», rispose Anigel, «e vedrete che cosa farò.» Una enorme flotta di rozze canoe Glismak si era assiepata dall'altra parte del villaggio, presso uno stretto canale che divideva Let dalla terraferma, e stazionava lì in attesa di ricevere il bottino. Quando Anigel arrivò colà, erano già state ammassate sulla riva montagne di sacchi di cibarie e altre ricchezze assortite, che in quel momento venivano ispezionate dal capo Glismak Hak-Sa-Omu e dai suoi sottoposti. Un centinaio circa di Glismak pesantemente armati si era radunato sul
molo; avevano le zanne insanguinate e sogghignavano scioccamente sotto la pioggia incessante. Un piccolo gruppo dei vincitori stava intanto setacciando le stradine adiacenti, alla ricerca di qualche corpo mezzo arrostito che avrebbero reclamato come parte del bottino di guerra. Altri manovravano le canoe, mentre il grosso dell'armata era raggruppato sulla terraferma, in attesa di dividersi il frutto della razzia. Il Portavoce Sasstu-Cha si rivolse al capo Glismak nel dialetto aborigeno. Ci fu un breve scambio di battute in tono aspro, ma poi fu fatto cenno ad Anigel di farsi avanti. La fanciulla si tolse il cappello e l'ambra incastonata nella tiara illuminò la banchina sferzata dalla pioggia come un faro di segnalazione. Alla vista del talismano tutti i Glismak scoppiarono in un assordante ululato di sfida. «Fate silenzio!» ordinò Anigel. E persino quel popolo così indomito e feroce si zittì. Poi lei iniziò ad arringarli nella sua stessa lingua, ma Antar non dubitò che le sue parole fossero ben comprensibili a tutti quelli che erano lì riuniti. La principessa disse: «Voi sapete chi sono. I vostri fratelli della valle del Kovuko vi avranno sicuramente avvertiti con il linguaggio senza parole, e quindi siete a conoscenza di ciò che ho fatto. Il talismano ora è mio, e siccome anche voi fate parte del Popolo del Fiore non vi sarà difficile giungere alla conclusione che io devo essere uno dei tre Petali del Giglio Vivente. E infatti lo sono, e come tale intendo portare la pace in tutto il paese». Le sue parole vennero accolte da un grande coro di sibili e ruggiti, ma quando alzò il braccio e un impressionante fulmine squarciò l'oscurità sovrastante, seguito da un fragoroso rombo di tuono, allora tutti i Glismak si zittirono di colpo. «Voi Glismak siete molto poveri. I vostri cugini Wyvilo sono molto ricchi. Voi li derubate e uccidete perché siete abituati a comportarvi così da tempi immemorabili, e ne mangiate pure le carni perché questa è la tradizione che vi è stata tramandata dai vostri crudeli antenati. Ma io vi dico che è ora che la smettiate! È giunta l'alba di un nuovo giorno, e le vecchie abitudini devono morire per non tornare mai più...» Mentre la osservava e ascoltava, Antar provò un improvviso brivido di terrore. Quell'esile e amabile fanciulla stava cambiando sotto i suoi occhi! Gli abiti di Anigel si dissolsero e lei si ritrovò avvolta in uno scintillante viluppo di fulmini rossi, azzurri e di un bianco abbagliante. La sua altezza superava quella degli adiacenti magazzini; torreggiava nel cielo tempesto-
so, con le braccia aperte, i capelli in fiamme, l'ambra del diadema incandescente come un piccolo sole, la sua voce come il suono di mille trombe. «Voglio pace fra i Glismak e i Wyvilo! Pace fra la vostra razza e gli esseri umani! I beni del mondo verranno divisi fra tutti. I figli dei Glismak non dovranno più fare della guerra una professione, come i loro padri, ma impareranno invece un onesto lavoro. Nessuno ucciderà più i propri simili, se non vorrà provare il peso della mia ira, e guai a chi oserà cibarsi della carne del proprio fratello!» E mentre l'apparizione continuava a crescere e crescere, i Glismak urlavano sempre più forte, terrorizzati in un modo che mai si sarebbe ritenuto possibile per creature di quella fierezza. Quelli che si trovavano nelle barche si coprirono gli occhi facendosi piccini piccini, mentre quelli radunati sul molo e sulla riva opposta caddero in ginocchio con la faccia per terra. Solamente il capo, Hak-Sa-Omu, stava ancora eretto, con gli occhi fuori dalle orbite e la poderosa mascella spalancata per lo stupore e il terrore. «Le mercanzie accumulate su questa banchina non verranno prese!» dichiarò Anigel. «I Glismak si ritireranno a mani vuote nelle loro dimore, meditando sulle mie parole fino a quando non verrà la stagione asciutta. Se un qualunque corpo di spedizione Glismak oserà emergere dalla foresta con intenti bellicosi, saremo costretti a scagliare su di esso la nostra ira funesta...», tre tuoni assordanti squarciarono l'aria in rapida successione, «e coloro che mi deluderanno non vivranno abbastanza per godere di tutte le buone cose che verranno concesse a quei Glismak che obbediranno ai miei comandi!» Ora la principessa aveva un aspetto gigantesco, torreggiava su tutti, aveva tre teste, e ognuna di esse era incoronata con un nero Giglio. «Ora ci rivolgiamo ad Hak-Sa-Omu, capo dei Glismak! Mi ascolti, perfido assassino di innocenti?» Il Glismak riuscì a malapena ad emettere una sorta di incomprensibile piagnucolio. Il principe Antar notò che quello che era da tutti considerato un valoroso guerriero stava ora tremando dalla testa ai piedi. «Porterai via la tua gente e farai come vi è stato ordinato?» La flebile risposta non poteva che essere affermativa. «Attenderete in pace il mio ritorno?» Di nuovo un cenno affermativo. «Bene! E adesso andate!» Ci fu un'ultima detonazione che accecò e assordò tutti gli astanti, e poi l'apparizione scomparve e così pure Anigel.
Hak-Sa-Omu lanciò un secco ordine, e in un baleno lui e i suoi guerrieri si imbarcarono sulle canoe, remando a più non posso per raggiungere il più in fretta possibile la riva opposta, e quando si furono riuniti ai loro compagni seguì un fuggi fuggi generale nella foresta. Da dietro una pila di legname sbucò allora la principessa Anigel, nuovamente vestita con il completo da caccia e con i biondi capelli infradiciati che le si erano in parte appiccicati alle guance. Sorrise agli anziani Wyvilo e al principe, il quale la salutò con un alto grido di gioia. «Potente Signora», esclamò il Portavoce inchinandosi profondamente, «sei davvero riuscita a salvarci come avevi detto che avresti fatto! Perdona questo miserabile per avere dubitato di te.» «Ce l'hai fatta!» aggiunse Antar. «E senza uccidere nessuno di loro!» «Che stupida sono stata a non pensarci prima», disse lei con molta calma. «I Glismak sono come bambini, e con i bambini non ci si mette a discutere o usare blandizie, specialmente quando sono di un umore così ostinato e feroce. Purtroppo l'unica cosa da fare in tali circostanze è cercare di spaventarli in modo da costringerli a comportarsi come si deve. Poi, si può anche provare a ragionare con loro ed educarli.» «È proprio così», disse Sasstu-Cha annuendo con il capo. «Tutti i genitori lo sanno.» «Non avrei potuto ucciderli», ammise Anigel abbassando la voce, così che solo Antar e il Portavoce potessero sentirla. «E fortunatamente non è stato necessario. Sembra che tutti i tipi di pensiero possano essere resi manifesti attraverso il talismano, e così mentre i Glismak scappavano ho detto loro che sarebbero stati il mio popolo e che li avrei amati.» «E pure noi lo saremo», disse il Portavoce. «E a nome di tutti gli abitanti di Let dichiaro a te, principessa conquistatrice, che noi ora ti siamo debitori, e il nostro onore chiede che ti ripaghiamo per lo straordinario miracolo che hai compiuto questa sera.» Tutti gli altri Wyvilo lì raccolti unirono le loro voci a quella di SasstuCha, perché anche coloro i quali non comprendevano la lingua della principessa avevano in qualche modo capito ciò che era stato detto. Anigel abbassò gli occhi per un momento. La pioggia continuava a cadere, ma meno insistente di prima, e verso sud-ovest il cielo era già terso e stellato. Ci sarebbe stato ancora qualche giorno di bel tempo prima della Festa delle Tre Lune. «Amici cari», disse la principessa, «i vostri nemici Glismak erano come bambini troppo cresciuti, ma ora io devo affrontare avversari completa-
mente maturi, non solo ben addestrati alla guerra ma anche in grado di sfruttare demoniaci incantesimi. Non si ritireranno davanti a qualche orrorifica illusione ottica, e men che meno si faranno commuovere da una mia professione d'amore. La Bianca Signora, che noi tutti riveriamo, mi ha spinta a intraprendere la mia ricerca. Tanto tempo fa, il giorno della mia nascita e di quella delle mie due sorelle, l'Arcimaga disse che noi tre petali del Giglio Vivente avremmo dovuto affrontare un terribile destino. Ma disse anche che tutto sarebbe andato bene. Durante la mia ricerca non sono mai riuscita a credere che sarebbe davvero finita così, ma ora mi sento pronta ad avere piena fiducia in quelle parole di speranza.» Prese Antar per mano e lo tirò vicino a sé. «Ecco l'uomo che sarà il prossimo re di Labornok. Egli è retto e buono. Ma ora nella Cittadella siede suo padre, il malvagio Voltrik. Domani all'alba partirò alla volta della Cittadella, e lì scaccerò l'usurpatore dal trono ruwendiano! Sasstu-Cha, se tu e la tua gente volete davvero ripagarmi, allora venite con me e aiutatemi a riguadagnare il mio regno.» «Principessa, ci sono ancora cinquecento guerrieri sopravvissuti, ed essi verranno con te ovunque li guiderai. Il nostro capo militare, LummomuKo, è rimasto leggermente ferito e ora è sottoposto a cure esperte. Ma domani sarà felice di unirsi a te. Tutto ciò che desideri da noi, lo avrai.» «Il principe Antar guiderà coloro che vorranno seguirmi», disse Anigel. «Io ringrazio te e il tuo popolo con tutto il cuore per esservi uniti alla mia causa. Ma devo sinceramente avvertirvi che i miei nemici sono molto, molto potenti...» «E così pure il talismano che indossi», replicò Sasstu-Cha. La principessa sospirò. Tolse il diadema dal capo e lo infilò in una tasca interna della tunica. «Per il resto della notte lo lascerò riposare. E così pure dovrò fare io, perché sono stanca oltre ogni dire.» «Principessa, sia tu che il principe Antar mi onorerete accettando la mia ospitalità», disse subito il Portavoce. E gli altri anziani Wyvilo sorrisero e si inchinarono, e con molti gesti e parole esortarono Anigel e Antar a seguirli. Così percorsero una strada fiancheggiata di rovine annerite e ancora fumanti, per arrivare infine in quella parte del villaggio che non era stata devastata dagli assalitori. Dopo qualche tempo anche le ultime nubi furono sospinte via dal vento, e le Tre Lune poterono inondare con il loro chiarore quell'ormai tranquillo angolo di mondo mentre si riflettevano nelle placide acque del fiume.
Anigel si trovava da sola nella stanza della figlia maggiore di SasstuCha, la quale era stata ben contenta di cedere il suo letto alla" salvatrice di Let, ma mentre si spogliava ebbe la netta sensazione che qualcuno la stesse osservando. Si diresse allora alla finestra, e controllò nell'armadio e persino sotto il letto, ma non c'era proprio nessuno. Solo allora si accorse che la luce del talismano palpitava sotto la pila di indumenti che vi aveva gettato sopra. Benché di malavoglia, raccolse il diadema, anche se non aveva alcun desiderio di indossarlo. Non ne aveva forse combinate abbastanza per un solo giorno? E se le fosse apparsa qualche altra terrificante visione, rovinandole il sonno di cui aveva così disperatamente bisogno? «Mettilo.» «Oh... oh, sembra uno di quegli inviti che non si possono rifiutare», disse con tono petulante. Si sedette quindi sul bordo del meraviglioso letto in stile ruwendiano e si piazzò la tiara sulla bionda chioma ancora un po' umidiccia. «Kadi!» gridò immediatamente. E quasi svenne per la felicità, perché quella visione le mostrava proprio la sua adorata sorellina, con gli occhi che danzavano di gioia e un grande sorriso sul viso un po' sporco. Sedeva davanti a un fuoco da campo, con un grande numero di Uisgu sorridenti radunati tutt'intorno, e teneva in grembo una cosa risplendente somigliante a una specie di spada spuntata con l'elsa che terminava con tre scure palle congiunte, e al loro centro si trovava uno scintillante pezzo d'ambra che anche lei ben conosceva. «Era anche ora che ti decidessi a rispondermi!» le disse Kadiya con un finto tono di severità. «Sei stata così coinvolta dal tuo spettacolino orrorifico da non prestare attenzione ai miei messaggi telepatici?» «Kadi! Kadi!» Anigel piangeva e rideva allo stesso tempo. «Sei sana e salva!» Sua sorella brandì allora quella cosa risplendente e disse: «Grazie all'Occhio di Fuoco Trilobato, il mio talismano». «Ti ho vista...» Anigel esitò un istante. «Il mio talismano mi ha accordato una visione in cui tu apparivi davanti al generale Hamil, e c'era anche un orrendo Skritek che teneva fra le sue grinfie un povero Uisgu.» Il volto di Kadiya si fece improvvisamente serio. «Sono stata catturata da una banda di esploratori della compagnia di Hamil, poco tempo dopo che mi ero assicurata il talismano. Non avevo idea di cosa questa», sollevò la spada, «fosse capace di fare. La Voce Rossa lo imparò per prima a sue
spese, restandone uccisa. Dopo di che nessuno osò più tentare di portarmela via con la forza. Hamil cercò di obbligarmi a consegnargliela di mia spontanea volontà, ricattandomi con le minacce alle donne Uisgu che erano con me.» «Oh, Kadi... che mostruosità!» Kadiya aveva un'aria accigliata, adesso. «Non c'è pietà nella guerra che combattiamo adesso, sorella mia. Non l'hai imparato da te? C'è potere in questa.» Lanciò uno sguardo alla spada spuntata che impugnava. «Ma il potere è un fardello e va usato con parsimonia, Anigel, e soltanto con la mente sgombra e purificata. Anche la collera può servire, ma va controllata: questo, fra le altre cose, mi suggerisce la saggezza che mi sono conquistata.» «Il talismano», sussurrò Anigel. «Ti ha cambiata, proprio come il mio mi ha trasformata da una vigliacca piagnucolosa qual ero...» «Il mio talismano mi ha dato un potere che devo imparare a temperare con la giustizia. Hamil e quegli Skritek che erano le sue armi mostruose sono stati giudicati, e non incroceranno più il nostro cammino. Perché anche una Spada di Misericordia come questa può dispensare morte.» «Io... anch'io ho usato il mio talismano per uccidere. Ma solo una volta, e per caso. Non riuscirei assolutamente a farlo di nuovo.» «Io invece sì», disse la principessa Kadiya con molta calma, «se fosse nuovamente necessario. E può darsi che lo sarà molto presto. Una parte delle forze di Hamil si sta dirigendo verso la Cittadella. Ma nel frattempo gli Uisgu e i Nyssomu si stanno riunendo. Hanno formato un piccolo esercito che cresce di ora in ora, e mi hanno chiesto di guidarli. Possa il talismano rendermi capace di servirli come loro servono noi.» «Pensi che ci aiuteranno a riconquistare il nostro regno?» «È ciò che hanno detto. Gli Uisgu sembrano così timidi e fragili quando li si incontra alla fiera di Trevista, ma in realtà sono davvero coraggiosi e molto più forti di quanto non sembri. E riescono a spostarsi molto velocemente sulle acque con delle imbarcazioni tirate da una specie di pelrik giganti...» Anigel scoppiò a ridere. «Lo so. Sono diventata io stessa una sorella di sangue di quelle creature e guido le loro barche.» Kadiya sorrise. «Ah, cosa mi tocca sentire! Domani quindi partirai con la tua piccola armata verso la Cittadella... e il tuo principesco corteggiatore sarà il tuo nuovo generale!» Anigel arrossì e disse con tono piccato: «Non è il mio corteggiatore! È
solo un giovane nobile e leale che si è dichiarato mio schiavo per sempre». Kadiya non rispose, ma si limitò a sorridere. L'attenzione di Anigel si focalizzò poi su questioni molto più importanti. «Kadi, oltre alla visione che ti mostrava nelle mani del nemico, ne ho avuta un'altra parimenti inquietante. Il talismano mi ha fatto vedere Haramis in compagnia di Orogastus, e lei sembrava letteralmente stregata da quel malvagio!» Kadiya si fece improvvisamente seria. «C'è qualcosa di più che un incantesimo al lavoro fra quei due... Ani, anch'io ho avuto una visione di Haramis, e temo proprio che nostra sorella si sia innamorata di quel dannato stregone. O forse è attratta dal potere che lui si è offerto di dividere con lei.» «Non è possibile!» «Sì, eccome», affermò Kadiya, scura in viso. «Stanotte, dopo avere lasciato l'accampamento dei labornoki, ho parlato nel linguaggio senza parole con la Bianca Signora per mezzo del talismano. L'Arcimaga è ormai prossima alla fine e desidererebbe che Haramis l'assistesse negli ultimi momenti, ma nostra sorella è determinata a rimanere accanto a Orogastus. Ho cercato di mettermi in contatto con Hara, ma lei non mi ha neanche risposto. Forse potresti tentare tu, ma non sorprenderti se si rifiuterà di. parlare anche con te. Le persone profondamente innamorate hanno posto nella loro mente solo per una persona.» «Ma è terribile! La povera Bianca Signora! E nostra sorella. Se è stata sedotta da Orogastus, allora il suo talismano potrebbe essere sotto il controllo di lui. Che cosa possiamo fare?» «Assolutamente niente. L'Arcimaga ha portato a compimento lo scopo che si era prefissa. Noi tre ora abbiamo i nostri talismani. Ma siamo spiriti liberi, tu, io e Haramis, e dobbiamo fare le nostre scelte da sole.» Anigel, con la voce tremante per il cattivo presagio che sentiva crescere dentro di sé, disse: «Tu... tu sai che tutti e tre i talismani devono unirsi insieme affinché si dispieghi appieno il loro potere magico. Ma potenzialmente possono essere usati non solo per compiere il bene... ma anche il male!» «Sì. Così ho appreso da una persona che ho incontrato nella mia ricerca un servitore degli Scomparsi, credo.» «Degli Scomparsi? Ma come...» «È una lunga storia che ti racconterò un'altra volta. Riposa ora, mia coraggiosa sorellina, e così pure farò io. Ci incontreremo presto alla Cittadel-
la.» Dopo che la visione di Kadiya fu scomparsa, Anigel tentò di mettersi in contatto telepatico con Haramis. Ebbe una visione di sua sorella addormentata; ma, come aveva predetto Kadiya, Haramis non udì il suo richiamo mentale, essendo totalmente rapita in un sogno che aveva come protagonista Orogastus. Infine Anigel si tolse il diadema, e così la sua luce si abbassò di intensità. «Ora penso che non riuscirò proprio a chiudere occhio», si disse. Ma poi le venne in mente di toccare la tiara argentata e di chiedere che le concedesse un po' di riposo, e un istante più tardi si assopì senza quasi accorgersene. Il mattino seguente, lei e Antar e una grande flotta di guerrieri Wyvilo, andarono a unirsi al gruppo di cavalieri accampato dall'altra parte del fiume. Poi, senza altri indugi, si accinsero a risalire il Grande Mutar per giungere al più presto alla cascata di Tass. Quando vi arrivarono, scoprirono però che il resto dei labornoki aveva abbandonato il campo, ignorando gli ordini ricevuti dal principe. Mentre Anigel, Antar e i loro fedeli compagni si fermavano ai piedi della cascata per decidere il da farsi, una terza grande tempesta iniziò a profilarsi all'orizzonte. La principessa utilizzò il suo talismano per evocare una visione della città di Tass, ma solo per scoprire che era quasi completamente deserta. Tutte le chiatte con cui era giunto il corpo di spedizione del principe erano state fatte salpare alla volta della Cittadella per anticipare l'arrivo degli imminenti monsoni. Non ci sarebbero stati nemici ad attenderli in cima alla cascata, ma neanche imbarcazioni sufficientemente grandi da poter trasportare l'armata Wyvilo alla Cittadella. «Saliremo con il montacarichi per il legname», disse il principe Antar. «Facendo parecchi viaggi riusciremo a trasportare su tutte le canoe. Poi attenderemo la fine della tempesta e potremo attraversare senza difficoltà il lago Wum per raggiungere l'imbocco del Basso Mutar e...» «No, principe.» Si fece avanti il capo militare Wyvilo, quello che si chiamava Lummomu-Ko. «C'è un modo migliore per raggiungere il lago. E non dovremo neanche attendere la fine della tempesta.» Spiegò quindi ad Antar quel che aveva in mente. Pur essendo coraggioso, il principe Antar impallidì. «È davvero possibile una cosa simile?» domandò la principessa Anigel, anche lei impaurita al pensiero di ciò che aveva loro prospettato Lummo-
mu-Ko. «Persino gli umani l'hanno fatto», li incoraggiò lui. «Naturalmente incontreremo dei pericoli, ma se tutto andrà bene riusciremo a raggiungere la Cittadella in poche ore.» «E allora ci proveremo!» decise il principe. Le prime grosse gocce iniziarono ad abbattersi sulla piccola armata, ma i Wyvilo, che si trovavano egualmente a loro agio sia sotto il sole cocente che sotto la pioggia scrosciante, non ci fecero molto caso. La principessa Anigel chiamò a sé i cavalieri e disse loro: «Miei amici umani, toglietevi pure le armature perché per qualche tempo non ne avrete bisogno. Poi preparatevi a partire. Ci dirigeremo verso la Cittadella, e una volta giunti nelle sue vicinanze vedremo di trovare un buon nascondiglio nel folto delle paludi. Da lì chiameremo a raccolta tutti i nobili sfuggiti al massacro e il popolo di Ruwenda nascosto nelle paludi, in modo che si uniscano a noi nella riconquista del paese. Anche mia sorella Kadiya si sta affrettando verso la Cittadella insieme a una grossa armata di combattenti Uisgu. Se Dio vorrà, saremo pronti a impegnare il nemico in battaglia per la Festa delle Tre Lune». Anigel indossò il cappello a larghe tese di Immu per evitare che la pioggia le sferzasse gli occhi, e fu la prima a salire sul montacarichi. Un po' più tardi, quello stesso giorno, una povera creatura mezzo morta di fame raggiunse Let nel bel mezzo della tempesta e fece appena in tempo ad arenarsi con la sua malconcia zattera di fortuna prima di perdere i sensi. Gli abitanti del villaggio si avvidero che si trattava di una loro simile, e si precipitarono a soccorrerla. Il giorno seguente, quando rinvenne, la stremata creatura chiese subito se avessero notizie di una certa principessa Anigel. Gli ignari Wyvilo rimasero stupefatti, ma non esitarono a risponderle. «La grande principessa Anigel è sulla strada per la Cittadella, e reca con sé il suo talismano magico e un nostro piccolo esercito ai suoi ordini. I nostri guerrieri ci hanno avvisati telepaticamente che stanno per veleggiare sul lago sulle ali della tempesta, sorretti da zattere di legno munite di ampie vele con cui cattureranno la forza dei venti... ma perché un essere miserabile come te dovrebbe interessarsi della sorte della Grande Signora?» «Miserabile miserabile miserabile!» sbraitò Immu. «Perché lei ha bisogno di me, ecco perché!» E scatenò un tale scompiglio che alla fine furono d'accordo nel lasciarle prendere una canoa quando la tempesta si fosse un po' calmata, con tre
giovani ma forti Wyvilo che avrebbero remato al suo servizio. E così Immu partì all'inseguimento della sua amata principessa. 39. Orogastus e Haramis si recarono insieme alla caverna del Ghiaccio Nero. Lei era ansiosa di sapere se lo Specchio di Ghiaccio tanto vantato dal mago fosse davvero magico, o solo, come sospettava, un altro congegno antico. Mentre si trovavano fuori dal portale incrostato di brina e lui stava per recitare le parole magiche che servivano a ingraziarsi il favore delle Potenze Oscure, gli capitò di gettare un'occhiata alla fanciulla, e vide che aveva gli occhi scintillanti e le labbra dischiuse in un sorriso che lasciava trasparire quanto pregustasse quel momento. Orogastus pensò che Haramis non gli era mai sembrata così bella ed eccitante come adesso, incoronata come una Regina delle Stelle e vestita in quello stesso nero e argento che simboleggiavano la sua devozione alle Potenze Oscure. Non poté fare a meno di prendere quel meraviglioso viso fra le mani guantate e suggellare la loro unione con un bacio sulle labbra. Dopo quel breve ma intenso momento di estasi le loro labbra si divisero, seppur a malincuore. Il Mago sospirò. «Spero che le Potenze non se ne abbiano a male, ma la tua vista, così amabile e misteriosa e così vicina a me... Haramis, resta con me!» la pregò lui fissandola intensamente negli occhi e stringendole le spalle con forza. «Lo so che la Bianca Signora ti ha chiamata, cercando di strapparti a me con le stesse vecchie bugie e mezze verità che continua a usare per piegare la tua volontà alla sua...» «Se non fosse stato per lei, io non sarei neanche nata. Devo ascoltare le sue ultime parole pronunciate sul letto di morte! È lei che mi ha donato il mio prezioso amuleto e che mi ha spinta a intraprendere la mia ricerca. Sono sicura che è stata lei a guidarmi a proteggermi quando sarei miseramente perita fra i monti. Non posso ignorare il suo richiamo. Se mi ami veramente, e soprattutto se mi hai detto la verità, non hai niente da temere.» «Ti impedisce di cingere la corona del Ruwenda!» «No. La conserva per me. E con essa o senza essa, io sono regina del Ruwenda - poco importa a chi obbediscano i soldati che occupano la Cittadella!» E lo fissò dritto negli occhi con aria di sfida. «Ah! Allora c'è ancora qualche speranza anche per me! Finora hai visto solo una minima parte di ciò di cui sono capace, e nemmeno Binah si im-
magina di quali meraviglie posso disporre. Se lo desideri, potrai dividerle tutte con me», sospirò Orogastus. «Ma perché indugiamo qui al freddo? Lo Specchio di Ghiaccio ci attende.» Detto ciò, iniziò la sua solenne invocazione delle Potenze Oscure, supplicando quelle divinità che Haramis riteneva inesistenti, affinché li considerassero entrambi degni di accedere al loro cospetto. Povero illuso! Ma la giovane non si lasciò scappare neanche un sorrisetto. Che credesse pure nella loro magia, mentre lei continuava a valutare la sua sincerità. Era sempre più convinta che molti degli straordinari poteri di Orogastus non avessero niente a che fare con la magia. Ma anche così, egli faceva uso di quei poteri. Possono essere neutralizzati dalla mia magia? si chiese, ricordando la tavoletta «magica». È senz'altro possibile, ma è meglio che non faccia esperimenti con il suo prezioso Specchio di Ghiaccio, mi ucciderebbe sicuramente se glielo danneggiassi. No, mi limiterò a osservare e imparare. Haramis non dovette comunque fingere lo stupore che la colse quando entrarono nel locale dello Specchio e il Mago richiamò il misterioso genio che in esso risiedeva. Orogastus propose di visualizzare le sue due sorelle, e lei fu subito d'accordo, sentendosi un po' in colpa per non averle contattate lei stessa con il suo talismano. Ma dopo averle «viste» quel primo giorno e avere constatato che stavano bene, le sue più immediate preoccupazioni avevano fatto sì che quasi si scordasse di loro... Poi, essendo stata avvertita di fare silenzio, attese che Orogastus intonasse la sua richiesta e che lo Specchio (chiaramente una macchina, e per la verità neanche in buone condizioni) rispondesse con una inintelligibile tiritera e mostrasse infine una carta geografica e una sorprendente immagine a colori di Kadiya, seguita da quella di Anigel. Entrambe le sorelle stavano viaggiando via fiume, sotto una pioggia scrosciante, e nessuna di loro parlò, sebbene lo specchio diffondesse i naturali rumori di fondo che accompagnavano ogni visione. Kadiya si trovava ormai poco sopra Trevista, e stava percorrendo il corso superiore del grande fiume, l'Alto Mutar, con un cospicuo numero di Uisgu armati di tutto punto; sua sorella si trovava in testa alla flottiglia, su un'imbarcazione di bambù trainata a tutta velocità da due grossi animali acquatici. Indossava la stessa armatura a scaglie dorate degli Oddling, e invece del suo solito pugnale aveva al fianco quella strana spada spuntata. La visione di Anigel fu invece più allarmante, perché sul lago Wum si era scatenata una terribile burrasca proprio mentre lei lo stava attraversan-
do diretta verso nord. Lo specchio mostrò una solida zattera formata da grossi tronchi tenuti insieme da robuste funi; era equipaggiata con un tozzo albero da cui si tendeva una larga vela quadrata, che raccoglieva la spaventosa forza del vento sospingendo l'imbarcazione contro ondate gigantesche. In mezzo al ponte c'era una piccola cabina, poco più grande di uno scatolone aperto, e in essa scorse Anigel, tranquillamente rannicchiata e con in testa il suo talismano a forma di diadema. Lungo il perimetro della zattera erano stati fissati dei corrimano, e molte funi erano state collegate da questi all'albero in modo che potessero reggervisi i numerosi passeggeri. Alcuni erano esseri umani completamente fradici che non riuscivano a reggersi in piedi, mentre gli altri erano alti Oddling dall'aspetto formidabile che sembravano godersi al massimo quella folle cavalcata sulle onde in tempesta. Haramis fu ben attenta a non chiedere niente fino a quando lo schermo non si spense, sebbene la sua mente brulicasse di domande. Le mappe avevano chiaramente mostrato che le sue sorelle erano dirette alla Cittadella, e che erano riuscite a sfruttare finalmente a pieno i poteri dei loro talismani. Stavano seguendo le istruzioni della Bianca Signora o agivano di propria iniziativa? Avevano forse intenzione di attaccare le soverchiami forze di re Voltrik con quella sparuta accozzaglia di aborigeni? Che i talismani fossero così potenti da lasciar loro pensare che avrebbero potuto avere successo in quella folle impresa? Sembrò quasi che Orogastus riuscisse a leggerle nella mente. «Le tue sorelle», disse dopo che lo Specchio di Ghiaccio si fu spento, «hanno entrambe utilizzato i loro talismani come strumenti di morte.» Haramis, a dir poco scioccata, non poté far altro che fissarlo con espressione attonita. Poi lui la condusse fuori dal locale e dentro il tunnel che conduceva alla torre. «Kadiya e Anigel pensano erroneamente di riuscire a liberare il regno di Ruwenda usando i talismani come armi magiche, con l'aiuto dei loro amici Oddling e del principe Antar, che ha abbandonato suo padre per unirsi alla causa della sua amata principessa. Lei gli ha salvato la vita quando si trovavano nella foresta di Tassaleyo, e ora lui ne è irrimediabilmente soggiogato. Naturalmente nessuna delle due principesse ha la benché minima possibilità di successo contro re Voltrik. Non sono ancora in grado di comprendere pienamente il funzionamento dei talismani e nemmeno i loro limiti; senza dubbio credono che basti brandire quegli strumenti magici davanti alle porte della Cittadella per far sì che i loro nemici cadano morti sul
colpo... ma non accadrà certo una cosa del genere, anche perché Voltrik è protetto dai miei potenti incantesimi grazie alla presenza della mia fidata Voce Verde.» «Oh, che stupide!» si lamentò Haramis. «Non posso credere che l'Arcimaga abbia ordinato loro di attaccare la Cittadella. Certo agiscono di loro iniziativa!» «I talismani in loro possesso non sono fatti per essere usati singolarmente, e questo è stato chiaramente confermato dalle mie ricerche in merito. Gli Scomparsi usavano i tre strumenti come uno solo, il Grande Scettro del Potere, per mantenere il grande equilibrio del mondo. Ora è compito tuo, Haramis, riunire nuovamente insieme i Tre in Uno. Utilizzandolo correttamente, potrai governare su un mondo rinato in una nuova pace e prosperità.» «Io? Governare il mondo?» e scoppiò a ridere. Ma le parole del mago, se pure respinte già mentre egli le pronunciava, le echeggiarono nella mente, mentre si chiedeva quale fosse il grande schema che l'Arcimaga aveva architettato e che adesso era pronta a rivelare. Non appena potrò, andrò dall'Arcimaga, decise. Mentre si affrettavano lungo il gelido camminamento gettò un'occhiata di sfuggita al mago, e vide che aveva le labbra serrate in un'espressione tesa e pensierosa. Di sicuro non aveva parlato con leggerezza. Lui credeva in ciò che le aveva detto e lei avrebbe dovuto considerare con la massima serietà quelle parole. Doveva andare immediatamente dall'Arcimaga e chiederle cosa rappresentasse veramente quello Scettro del Potere. Ma... e le sue sorelle? Se già non ne era al corrente, Voltrik avrebbe comunque appreso ben presto dal mago della loro avanzata verso la Cittadella, e non avrebbe certo indugiato a scatenare il suo esercito, e senza dubbio anche la Voce Verde. «Orogastus, pensi forse di poter persuadere re Voltrik à trattenere le sue truppe fino a quando non avrò cercato di convincere le mie sorelle a desistere dal loro insano tentativo?» «Se si ritireranno immediatamente nel più profondo delle paludi, non correranno alcun pericolo. Durante la stagione delle piogge sarebbe praticamente impossibile per Voltrik allestire un corpo di spedizione che desse loro la caccia. Ma pensi davvero che ti daranno ascolto?» «L'hanno sempre fatto, ma adesso che hanno i talismani...» la voce di Haramis svanì in una silenziosa ansietà. «Posso ordinare alla mia Voce Verde di non colpire le tue sorelle con i
fulmini o con le nostre altre armi occulte. Ma non c'è modo di fermare re Voltrik se decidesse di scatenarsi contro di loro e quella marmaglia di Oddling. I talismani non li proteggeranno. Se io mi trovassi lì, alla Cittadella, forse riuscirei a convincerlo. Ma da qui, avendo come tramite la Voce Verde, non c'è alcuna possibilità.» Arrivarono alla fine del tunnel ed entrarono nella torre, dove furono accolti dal tepore che scaturiva dalle misteriose griglie sistemate nei muri e sul pavimento. Haramis si fermò nel piccolo atrio e prese Orogastus per le mani. «C'è ancora tempo, sia per noi che per le mie sorelle. Non so quali piani tu abbia ora per re Voltrik, e non voglio neanche saperli fino a quando non avrò preso una decisione riguardo a noi due. Ma se io volassi immediatamente dall'Arcimaga e poi decidessi, ti andrebbe di incontrarmi alla Cittadella per ricevere la mia risposta? E intanto non potresti provare a convincere re Voltrik a non attaccare Anigel e Kadiya? Io posso farle desistere! Ma devo prima sapere quali sono le intenzioni dell'Arcimaga...» «Lascia che sia io a guidarti! Ho già un piano...» «No!» e dopo avere gettato via la maschera d'argento se ne stette lì, pallida e tremante, immobile e risoluta mentre lui l'abbracciava e baciava sulla fronte. «Mia adorata, fai quel che ti senti», le disse infine. «Ma c'è comunque un serio impedimento nella tua oculata strategia. Io non ho modo di raggiungere così rapidamente la Cittadella, a meno che tu non possa ordinare ai tuoi gipeti...» «Io... io chiederò a Hiluro di convocare immediatamente uno dei suoi simili, al quale ordinerò di portarti subito alla Cittadella.» Orogastus la tenne stretta ancora più forte. «Farai questo per me? Ti fidi sino a tal punto?» Il volto della fanciulla era rigato di lacrime. «Non ho cercato di comprenderti attraverso il mio talismano, Orogastus. Tu non sei uno strumento magico, qualcosa che si può decifrare così facilmente! Tu sei un uomo, un uomo che ha cercato di tenere nascosto il suo cuore per tanto, tanto tempo... e forse hai costruito intorno ad esso una barriera così inaccessibile che ora non sai più nemmeno cosa si trovi oltre quelle difese. Penso che nemmeno tu sappia che strada prendere, anche se sono sicura che mi ami quanto io amo te. E, proprio come me, dovrai fare una scelta.» «Sì», ammise lui. Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e non ebbe il coraggio di guardarla negli occhi.
«Il gipeto verrà a prenderti», continuò la principessa, «e ci incontreremo alla Cittadella poco prima della Festa delle Tre Lune. Aspettami.» E se ne andò, lasciandolo solo con una maschera d'argento che lo fissava da terra con occhi vacui. 40. Quando si fu finalmente conclusa la tempestosa traversata del lago Wum, i Wyvilo ormeggiarono le zattere fra le boscose isolette disseminate nell'immenso delta del Basso Mutar. Lì vennero subito raggiunti da una flotta di un centinaio di imbarcazioni dei piccoli Nyssomu, che si affrettarono a porgere i loro omaggi alla principessa Anigel con grande deferenza. Il Popolo delle Paludi traghettò quindi lei, i cavalieri e i guerrieri Wyvilo fino a una grande altura sconosciuta agli umani, utilizzando quei segreti canali secondari che si distendevano sulla Palude Verde come una vera ragnatela. Quella località, che sarebbe diventata il punto di raccolta dell'armata di Anigel, era situata a pochi chilometri da un castello sul fiume Skrokar che era appartenuto al defunto lord Manoparo dei Compagni Fedeli. Il maniero era statp catturato e occupato dalle truppe di Labornok, ma gli altri edifici e dependances che si trovavano sulla proprietà ospitavano ancora la vasta famiglia di Manoparo e la maggior parte dei suoi servitori e dipendenti. La signora del castello, lady Ellinis, era stata avvisata dai Nyssomu locali dell'arrivo di Anigel. Al calar delle tenebre fu condotta all'isolata altura su cui si era accampata la forza di Anigel, e accolse la principessa con molte lacrime e un misurato entusiasmo. Lady Ellinis era una dama dai capelli precocemente ingrigiti, i cui fini lineamenti erano stati profondamente segnati dal dolore. Oltre al marito, anche due dei suoi figli erano morti durante la vana difesa della Cittadella. Si sedette con Anigel sotto un riparo che gli industriosi Wyvilo avevano predisposto in un folto di alberi gonda, e le due donne discussero il piano di Anigel, che prevedeva l'assedio della roccaforte da parte sua e della sorella Kadiya, la quale sarebbe giunta al più presto con un cospicuo contingente di Uisgu. «Sono sorpresa che vogliate tentare una tale impresa a così breve distanza dalla nostra capitolazione», disse Ellinis. «È vero che le forze di Voltrik non si sono ancora completamente trincerate e che la sua armata al momento è divisa in due tronconi, e d'altronde si trovano su un terreno a loro
poco familiare, con la stagione delle piogge alle porte. Ma...! Voi ragazze siete così giovani, e soprattutto così inesperte dell'arte militare! E sebbene possiate contare sicuramente sull'aiuto di qualche nobile e di qualche proprietario terriero, il vostro esercito è per la maggior parte costituito da Oddling. Mia cara principessa Anigel, io desidero più di ogni altra cosa al mondo che abbiate successo, ma gli uomini di Labornok sono dei ben degni combattenti, e avete ben poche probabilità di spuntarla contro di loro.» Anigel si limitò a toccare il suo diadema, in cui ardeva costantemente il pezzetto d'ambra che aveva costituito il suo amuleto. «Non so dirvi perché, ma sono convinta che la vittoria ci arriderà! Forse è questo talismano a infondermi una tale fiducia nel tentare un'impresa così audace. Tutto quello che posso dirvi, cara Ellinis, è che mi sono sentita irresistibilmente spinta a venire qui ora, mentre le Tre Lune stanno per congiungersi, e ad impegnare in battaglia i labornoki che tengono la Cittadella. E anche mia sorella Kadiya è dello stesso avviso.» Lady Ellinis si avvolse ancor più strettamente nel pesante mantello. Un piccolo braciere ardeva sotto il riparo e Anigel stava preparando un tè caldo che tenesse lontana la penetrante umidità della notte. «Sono stata molto sorpresa nel sapere che stavate risalendo il lago Wum verso nord», disse Ellinis. «Mi ha segretamente avvertita un Nyssomu. Naturalmente gli Oddling possono comunicare fra loro con il linguaggio senza parole, e suppongo quindi che a questo punto abbiano diffuso la notizia in tutta la Palude Labirinto...» «Sì, a tutto il Popolo», annuì Anigel solennemente. «I miei alleati Wyvilo finora non hanno mai avuto molto a che fare con i loro cugini Uisgu o Nyssomu, ma la conquista del nostro paese si è dimostrata un disastro non solo per gli umani del Ruwenda ma anche per tutti gli aborigeni che lo popolano. E così i Wyvilo hanno messo da parte i loro antichi costumi, e persino i pacifici Nyssomu non vedono l'ora di unirsi a noi per contribuire alla lotta di liberazione.» Aveva smesso di piovere, e una spessa nebbia notturna celava l'attività dei Wyvilo, che stavano costruendo altri ripari di bambù e sterpaglia per se stessi e per quelli che sarebbero ben presto giunti a dare man forte. Come tutti i loro simili, anch'essi vedevano perfettamente al buio, e poterono perciò proseguire efficientemente la loro opera come se si trovassero in pieno giorno. Lady Ellinis scorse un alto tagliatore d'ascia Wyvilo e rabbrividì. «Non avevo mai visto prima d'ora gli Oddling della foresta di Tassaleyo, e devo
confessare che il loro aspetto è piuttosto inquietante. Non sono spaventosi come gli Skritek, questo no, e sembrano anche piuttosto civilizzati, ma ciò nonostante mi chiedo come facciate ad avere così fiducia in loro.» Anigel sorrise tranquillamente. «Le loro facce sono terrificanti, ma i loro cuori sono nobili e riveriscono il Giglio Nero proprio come i loro simili più piccoli. Grazie ai Wyvilo siamo stati in grado di contattare i Nyssomu affinché avvertissero le sparse bande di liberi ruwendiani, che ora si stanno precipitando qui da tutte le parti per unirsi al mio esercito.» «Anche la mia gente e i miei tre figli superstiti sono al vostro comando», disse Ellinis, «e saremo felici di fornirvi quante più vettovaglie riusciremo a nascondere al nemico. Ma ci sono già qui almeno cinquecento Oddling, e a quanto pare dovrebbero giungere almeno tre o quattro volte altrettanti umani e Nyssomu nei prossimi due giorni. Non penso che riusciremo a sostentare una tale moltitudine per più di qualche giorno.» «Non resteremo qui molto a lungo. Se non raggiungeremo il nostro scopo durante la Festa delle Tre Lune, dovremo ritirarci», confessò Anigel. «Ma sento che ce la faremo, e la vittoria sarà nostra!» La principessa ora era in piedi, il viso contratto in un'espressione austera e determinata. Lady Ellinis pensò meravigliata a come era cambiata quella timida ragazzina che aveva visto solo poche settimane prima al ballo di corte e che rideva come una sciocca non appena veniva invitata a ballare da qualche cavaliere. Quella Anigel non era che un grazioso elemento decorativo, preoccupata unicamente dei pettegolezzi di corte e di vestire bene per far bella figura con le altre ragazze. Questa nuova Anigel faceva invece quasi paura per quanto si era consacrata alla causa di liberazione, ed Ellinis non sapeva proprio come prenderla. La principessa versò il tè per la sua ospite senza neanche una traccia della sua vecchia volubilità, graziosa e sicura come se quel vaso di terracotta scrostata fosse una teiera d'argento, e quel riparo di fortuna niente di meno che il solarium della regina alla Cittadella. Poco alla volta Ellinis si sentì abbandonare dalla diffidenza e incominciò a pensare che forse dopo tutto quell'impresa pazzesca poteva anche non essere senza speranza. «Questo principe Antar», disse l'anziana donna abbassando il tono di voce. «Quando me l'avete presentato, ho capito immediatamente che quel giovane è profondamente innamorato di voi. Ciò nonostante credo sia mio dovere mettervi in guardia dal riporre in lui tanta fiducia.» Anigel annuì e si sedette di nuovo, senza però tradire la minima emozione. «Mi ha giurato fedeltà, come pure la maggior parte dei suoi uomini.
Ma ce ne sono tre che si sono momentaneamente rifiutati di dare la loro parola d'onore, e sarà quindi bene tenerli d'occhio ed escluderli dal nostro concilio di guerra.» «Ma dopo tutto Antar e i suoi uomini sono cavalieri di Labornok!» «Cara Ellinis, non sono più così ingenua e sempliciotta com'ero una volta, e so bene che il principe Antar deve ancora dimostrarmi appieno la sua fedeltà. Tu dici che mi ama, è forse vero, ma io nutro per lui solo un certo rispetto, che non mi impedisce di essere tuttavia molto cauta e circospetta.» «Molto bene!» esclamò Ellinis risolutamente. «Ma bene o male devo avere fiducia in lui quando si tratta di faccende militari, perché io non so un bel niente di strategia e combattimento. Se ne usciremo vittoriosi, sarà anche grazie alla sua guida militare. Non so cosa ci sia in fondo al suo cuore, ma sono convinta che è valente e generoso, e che deplora sinceramente la crudeltà di suo padre, il re Voltrik. Mi ha detto che fra la sua gente ce ne sono molti altri che la pensano allo stesso modo, e può darsi che attraverso di lui riusciremo a spezzare e dividere l'unità del nostro nemico.» «Pregherò che tu abbia ragione.» Parlarono ancora un po', e poi fu tempo che Ellinis tornasse alla sua dimora. La donna baciò Anigel, un gesto che la fanciulla ovviamente si aspettava, ma quando poi si inchinò profondamente nell'accomiatarsi insieme al suo servitore e alla guida Nyssomu, allora la principessa rimase alquanto sorpresa. Non appena Ellinis se ne fu andata arrivò il principe Antar, a cui Anigel fece notare: «Mai prima d'ora mi aveva mostrato una tale deferenza. Anzi, essendo una donna molto seria, raramente mi aveva prestato attenzione del tutto!» «Peggio per lei», disse il principe sorridendo. «Ma sono venuto per avvertirvi che il campo sta rapidamente crescendo, e che ora c'è riparo sufficiente per tutti se dovesse ricominciare a piovere.» Poi la sua espressione si fece preoccupata. «Il capo militare Lummomu-Ko teme che i Nyssomu, benché oltremodo volenterosi, siano ben scarsi come combattenti. Sono così piccoli, e l'unica arma che la maggior parte di loro sa usare con una certa facilità è la cerbottana. Durante un assalto frontale sarebbero praticamente inutili. Possiamo utilizzarli solo nelle scaramucce e durante azioni di sorpresa.» «E allora ingegnatevi affinché siano pronti a combattere in questo mo-
do», disse Anigel serenamente. «Avete qualche idea di quanti sono gli umani che potrebbero seguirci?» «Con un po' di fortuna, sette o ottocento ruwendiani liberi ci raggiungeranno qui o si uniranno a noi al fiume sotto la Cittadella durante la Festa delle Tre Lune, insieme con alcuni nobili e altri combattenti delle proprietà terriere meridionali, i quali non ci hanno mai impegnati in battaglia... cioè, voglio dire, non hanno mai impegnato i vostri nemici durante la recente invasione.» «Molto bene. Ora, se solo arrivassero in tempo il conte Goyk e gli altri signori della lontana regione di Dylex...» ma si interruppe, distogliendo improvvisamente lo sguardo con una cupa espressione di stizza. Antar, che non aveva mai sentito parlare del conte Goyk e non ne conosceva la fondamentale importanza nel piano di Anigel, capì che la giovane non osava ancora fidarsi completamente di lui. Cadde lentamente in ginocchio. «Mia signora, se questo è il vostro desiderio, io non parlerò del conte ai miei leali compagni. Vi scongiuro di avere fiducia in noi, ma se non ve la sentite, allora forse sarebbe meglio mettere agli arresti sia me che i miei cavalieri. Sarete quindi libera da ogni preoccupazione provocata dalla nostra presenza.» «Io ho fiducia in voi», replicò Anigel con tono infelice, «e nella maggior parte dei vostri cavalieri. Sono sir Rinutar e i suoi compari Turat e Onbogar che temo possano tradirci. Sappiamo bene che hanno chiesto una tregua, ma ho paura che sia stato un grave errore portarli con noi in questo accampamento segreto. Avremmo dovuto lasciarli sulla riva del lago, come ci aveva consigliato Lummomu-Ko.» Il principe inchinò il capo. «Forse. Ma abbandonati nel mezzo della tempesta, in una palude piena di pericoli sconosciuti... sarebbero sicuramente morti prima di trovare la strada per un avamposto ospitale. Come d'altronde anche voi avete ammesso...» «Certo non mi andrebbe di doverli condannare a morte! Ma neanche posso permettere che ci tradiscano in favore del malvagio re Voltrik.» Sempre in ginocchio, Antar si permise di prenderle la mano. Era fredda come un pezzo di ghiaccio. «Non preoccupatevi. Se quei tre tenteranno di lasciare il campo, dovranno fare i conti con me e con i miei quindici cavalieri. Li terremo d'occhio, e poi comunque qui non c'è nessuno disposto ad aiutarli a fuggire. Non temete.» Anigel sospirò e volse di nuovo lo sguardo verso di lui. «Immagino che
abbiate ragione. Sono tesa come una corda di balestra, rosa dall'ansia per ciò che potrà accadere nei prossimi tre giorni. Quel conte di Goyk che ho inavvertitamente citato, detiene il feudo più distante di Ruwenda, lontano a nord-est della regione di Dylex, ai piedi dei monti Ohogan. Né lui né il conte di Prok o gli altri signori delle proprietà orientali sono mai stati sottomessi da voi labornoki.» «Lo so. E quanto avremmo fatto subito dopo le piogge invernali. Occupare quella regione e anche il Sud.» «Quando i Wyvilo hanno accolto la mia richiesta di aiuto, ho subito chiesto loro di utilizzare il linguaggio senza parole per scoprire quali umani non erano ancora stati conquistati. Attraverso i Nyssomu sono poi riuscita a mettermi in contatto con quelli che sono scappati dalla Cittadella e anche con alcuni nobili delle proprietà presidiate da una guarnigione, come lady Ellinis, e con altri feudi liberi del Sud. Questo lo sapete già. Ma i miei amici Wyvilo hanno raggiunto telepaticamente anche i Vispi, gli aborigeni delle più alte montagne, e questi ci hanno detto che le contee di Goyk e Prok erano ancora libere.» Lui annuì. «Capisco. E poi naturalmente gli Oddling delle montagne hanno avvertito quei nobili affinché venissero in vostro aiuto.» «Il conte di Goyk è un vero testone. Dapprincipio non volle credere a ciò che gli riferivano quelle creature inumane, e cioè che io e mia sorella Kadiya avremmo attaccato la Cittadella. Ma poi ho parlato io stessa con i Vispi utilizzando il linguaggio senza parole, confidando loro certi segreti familiari di cui solo i membri della famiglia regale sono a conoscenza, e così alla fine sono riusciti a convincerlo. Quando noi e i Wyvilo abbiamo lasciato il villaggio di Let, duemila cavalieri e soldati di Goyk e Prok sono salpati dalle loro terre remote su velocissime imbarcazioni fluviali. La strada è lunga, ma i corsi d'acqua ormai si sono gonfiati e così ieri hanno già raggiunto il castello di Bonor, a circa trecento chilometri da qui. Se tutto andrà bene, arriveranno giusto in tempo per darci un aiuto determinante.» Gli occhi di Antar risplendevano di gioia. «Di bene in meglio! Oh, mia signora, avete sollevato il mio cuore! La nostra posizione non sembra più così disperata. Sì, siamo ancora in inferiorità numerica, ma perlomeno possiamo contare su un gran numero di valorosi combattenti umani di provata esperienza!» E le baciò la mano in un trasporto di gioia. Anigel si irrigidì. Poi, notando il suo sgomento, si affrettò a sorridergli. «Il mio contatto vi provoca dunque una tale ripulsa?» domandò lui tri-
stemente. «Ma no, neanche per idea. Ero solo... come dire, sorpresa. Ci sono tante cose che mi passano per la mente in questi giorni...» Sembrava così piccola e confusa, quella giovane donna incoronata di magia, scomodamente appollaiata su una roccia ricoperta di muschio e confortata solo dal misero tepore di un braciere, che Antar si sentì il cuore gonfio di pietà e amore, e dovette alzarsi in piedi e voltare il viso affinché lei non vedesse le lacrime sgorgargli dagli occhi. «Sì, mia signora. Avete tante cose a cui pensare, forse persino troppe per una creatura così giovane e sensibile come voi...» «Ce la farò», disse Anigel piuttosto bruscamente. Il giovane si voltò di nuovo verso di lei. «Se vi ho offesa l'ho fatto involontariamente, e vi prego umilmente di perdonarmi.» «E io accetto le vostre scuse.» Per un istante i loro occhi si incontrarono, ma poi lei volse il capo improvvisamente e sembrò richiudersi in sé. Quel fugace rapporto che sembrava essersi per un momento creato fra di loro morì sul nascere. Ma aveva davvero visto qualcosa nei suoi occhi o si era trattato di uno scherzo del suo cuore innamorato? Antar avrebbe voluto professare in quello stesso momento la sua adorazione, ma lei teneva gli occhi fissi in distanza e sembrava persa in un sogno, un dito alzato verso il diadema argentato. «Vi auguro la buonanotte, allora», disse il principe. Ma Anigel non rispose. Era impegnata ad ascoltare una visione di sua sorella, improvvisamente apparsale nella mente. «Che cosa ti ha detto Haramis?» «Ani, hai capito benissimo, mi ha detto di lasciar perdere... anzi me l'ha ordinato! Come se fossi ancora una bambina capricciosa che si rifiuta di abbandonare i giochi per andare a cena!» «Ma ti ha almeno fornito una ragione valida?» «Teme che Voltrik sappia che siamo sulla strada, e che manderà quindi le sue truppe a schiacciarci. Ma questo è ridicolo! I Nyssomu verrebbero subito a sapere se un grosso contingente di labornoki fosse in procinto di lasciare la Cittadella. Sarebbero in grado di avvertirci, e noi potremmo facilmente nasconderci nei recessi delle zone paludose, dove non ci troverebbero mai e poi mai. E naturalmente gliel'ho fatto notare. Ma non ha voluto sentir ragione e ha iniziato a sbraitare giurando sul suo amuleto e tali-
smano che mi stavo cacciando in un grosso guaio e che avrei rovinato un qualche grande programma. Quando le ho chiesto se quel fantomatico programma fosse suo o di Orogastus, è diventata ancor più petulante e insistente.» «Che sia preda di qualche oscuro incantesimo del malvagio stregone?» «Chi può dirlo?» le rispose Kadiya. «Si è fatta forse sentire anche da te con queste sciocchezze?» «No, ma d'altronde io sono stata così occupata in questi giorni da non avere quasi mai il tempo di tirare il fiato.» «Se tenterà di mettersi in contatto con te, non risponderle!» «Kadi!» «Sì, Ani, proprio così! E in ogni caso non dirle altro dei nostri piani. Alla fine si è decisa ad andare dall'Arcimaga, nella speranza di sentire da lei la sua versione del nostro destino e lo scopo dei nostri talismani. Forse la nostra sorellina innamorata recupererà a Noth un po' della sua sanità mentale! Ma non ci faccio troppo affidamento. Non le parlare più! Non deve sapere altro dei nostri piani fino a quando finalmente non ci incontreremo e potremo chiarire a viva voce i nostri diversi punti di vista.» «Va bene, direi che questa è una richiesta ragionevole.» «Mi ha anche detto che il mago arriverà domani alla Cittadella.» «Cosa? Ma si trovava là sui monti insieme ad Hara!» «Sì, ma lei ha avuto la bella pensata di fornirgli uno dei suoi corsieri volanti! Quando l'ho rimproverata, anzi quando le ho fatto le mie rimostranze, ha insistito dicendo che l'aveva fatto nel nostro comune interesse.» «Quindi adesso dovremo vedercela anche con gli incantesimi di quel bruto oltre che con le preponderanti forze di Voltrik! Oh, Kadi...» «Ehi, non perderti d'animo. Haramis sembra credere che in realtà Orogastus non abbia alcun potere magico, e che la sua taumaturgia sia più che altro basata sull'utilizzazione di alcuni favolosi macchinari degli Scomparsi! I lampi, la pioggia di fuoco e la grandinata di proiettili d'acciaio che ha distrutto i fortini, gli scoppi assordanti che hanno afflitto i borghi del Dylex e gettato nel panico i destrieri da combattimento dei nostri cavalieri... sono tutti degli stratagemmi meccanici e non miracoli della magia! Se Hara ha detto la verità.» «Kadi, ma io proprio non capisco. Deve esserci della magia! Il nostro Giglio Nero... i nostri talismani... e la stessa Arcimaga! La magia pervade il mondo intero!» «Non crucciarti, Ani. La sola cosa che conta è che non dobbiamo per-
mettere a nostra sorella di fermarci. Quindi non badare ai suoi folli ammonimenti. Io sto precedendo di gran lunga Osorkon e la sua armata, ho più di tremila Uisgu al mio seguito e ho elaborato un piano per penetrare nella Cittadella evitando una battaglia in campo aperto, che ci vedrebbe sicuramente soccombere alla cavalleria di Voltrik.» «Oh, dimmi!» «Così che tu lo vada a spifferare al tuo spasimante? Eh, no! Lo verrai a sapere quando i nostri eserciti si incontreranno alla Vigilia delle Tre Lune.» «Kadiya, sbagli a giudicarmi in questo modo, e anche Antar...» «Spero proprio di sì, come spero di aver giudicato male nostra sorella! Nel frattempo abbi cura di te e ricordati che ci incontreremo in questo posto che ti sto mostrando... Allora sì che potremo organizzare per re Voltrik e il mago Orogastus una celebrazione molto, molto speciale della Festa delle Tre Lune!» 41. Quando Hiluro cominciò a scendere verso Noth la luce del giorno stava diffondendosi rapidamente. Haramis si era addormentata per il gran piangere, e aveva sognato di conversare con una scandalizzata Kadiya, che esprimeva disapprovazione per i suoi rapporti con Orogastus. Senza dubbio Kadiya avrebbe cercato di pugnalarlo non ottenendo altro che di essere colpita da un fulmine - come si permetteva di giudicare sconsiderata la condotta di Haramis! Quando fu svegliata dalla luce del sole Haramis ebbe la sensazione che la sua mente fosse orribilmente annebbiata. Si sentiva rigida in ogni muscolo, ma la sua posizione in groppa a Hiluro non la incoraggiava a compiere molti movimenti, così non vedeva l'ora di giungere a terra. Quando l'uccello cominciò a girare attorno alla piccola torre di pietra in cui viveva l'Arcimaga, Haramis abbassò lo sguardo perplessa. L'ultima volta che aveva visto quel luogo, esso era ricoperto di vegetazione e circondato da un prato cosparso di fiori di campo. Ora soltanto pochi rami scheletrici aderivano alla torre, e al posto del prato vide un terreno di colore scuro disseminato di erbacce appuntite. Il fossato era basso, e la poca acqua rimastavi era ricoperta da una schiuma maleodorante. «Cos'è accaduto qui?» gridò Haramis. Hiluro dette un leggero strattone, e per un istante la giovane pensò che stesse per risponderle, ma invece ri-
mase silenzioso. È possibile che i soldati di Voltrik si siano spinti così lontano? si chiese Haramis. No, avrebbero provocato una devastazione di un genere diverso. Avrebbero bruciato e distrutto, mentre qui sembra che ogni cosa sia semplicemente morta. Ma non vi è alcuna ragione naturale che giustifichi una simile siccità, non in questa stagione! La giovane pensò al gran numero di giardinieri che lavoravano alla Cittadella. Forse con la morte dell'Arcimaga i suoi pochi servitori - e Haramis l'aveva udita menzionarne solo uno, il suo maggiordomo - non avevano avuto tempo per occuparsi delle piante. Ma anche in questo caso, non sarebbe comprensibile una simile desolazione. Il gipeto toccò terra all'estremità del ponte levatoio, e Haramis scese chiedendosi con ansia che cosa avrebbe trovato nella torre. L'Arcimaga era già morta? La scorsa notte aveva ancora abbastanza forza da parlarmi, pensò Haramis. Pervasa da una sensazione di urgenza, la giovane attraversò di corsa il ponte levatoio. Percorse un pavimento a mosaico ricoperto quasi del tutto di muschio ormai secco, superò la fontana senz'acqua, e attraversò il giardino, ora un arido terreno disseminato di fiori morti, le cui radici aderivano ancora alla terra che aveva cessato di nutrirli. Quando raggiunse la scura porta di legno che conduceva alla camera dell'Arcimaga, non fu sorpresa di trovarla socchiusa. La stanza era oppressa da un'atmosfera soffocante, e un Oddling - un Nyssomu che non aveva mai visto prima d'ora - era inginocchiato davanti al fuoco e vi aggiungeva altra legna. Quando scorse accanto a sé l'ombra di Haramis, proiettata dal sole che sorgeva alle sue spalle, l'Oddling si voltò per guardarla. «Principessa Haramis», disse. «Benvenuta a Noth... lei disse che saresti arrivata in tempo.» Accennò con il capo verso il letto. «Salve... Tu devi essere Damatole», disse Haramis. L'Arcimaga aveva menzionato il suo nome soltanto una volta nel corso del loro ultimo incontro, ma ad Haramis era sempre stato raccomandato di ricordare il nome, il viso e le principali caratteristiche di chiunque avesse sentito parlare o avesse incontrato di persona. I suoi genitori avevano considerato questo atteggiamento come una parte importante dell'educazione regale. «Sì, mia signora.» Il piccolo maggiordomo si inchinò. «È mio onore servire la Dama Binah... e te. In questo momento sta dormendo, ma presto sarà sveglia. Gradiresti un po' di tè?» «Sì», disse Haramis, «lo gradirei davvero. Grazie, Damatole.» L'Oddling
si allontanò in fretta dalla stanza, e Haramis prese uno degli sgabelli imbottiti e lo portò delicatamente accanto al letto dell'Arcimaga. Una volta sedutasi, si mise a studiare attentamente la donna che dormiva davanti a lei. Binah aveva un aspetto ancora peggiore dell'ultima visione che ne aveva avuto. Il suo viso era secco e scavato. Si svegliò proprio mentre Damatole entrava nella stanza con il tè. «Haramis», disse lentamente. «Sei venuta.» «Naturalmente, sono venuta», rispose Haramis. «Tu mi hai chiamata. Inoltre avevo bisogno di altre informazioni sul modo di usare i talismani. Disgraziatamente il solo fatto di aver trovato il Cerchio delle Tre Ali non mi ha insegnato automaticamente come usarlo. La biblioteca di Orogastus conteneva alcune informazioni su di esso... incluso un libro secondo il quale tutti e tre i talismani avrebbero dovuto congiungersi per formare uno scettro...» «Non ancora», la interruppe l'Arcimaga. «Non sei ancora pronta per controllare quel potere. Ciò richiede una saggezza maggiore della tua... di gran lunga maggiore.» «Dove dovrei apprendere questa grande saggezza?» chiese Haramis con asprezza e impazienza. «Dovrei cercare qua e là nella palude mentre l'armata di Voltrik saccheggia il mio regno? O dovrei forse cercarla nelle mie sorelle... che usano i loro talismani per uccidere?» L'Arcimaga sembrò addolorata. «Nessuna di loro possiede ancora la saggezza», sospirò, mentre la sua voce si spegneva nel silenzio. Attese a lungo prima di parlare di nuovo, e la sua domanda suonò sgradita. «Perché ti sei trattenuta così a lungo da Orogastus?» Haramis aggrottò le sopracciglia, cercando di trovare le giuste parole di spiegazione. «Cercavo di indagare la sua natura... tu stessa mi comandasti di trovare i suoi punti deboli. È strano; egli sembra credere che i manufatti degli Scomparsi siano magici... l'ha detto davvero! È rimasto sconvolto quando ne ho rotto uno... disse che l'oggetto era morto. Ma gli oggetti non sono vivi, o forse lo sono?» «No», rispose la Dama. «E tu credi che i suoi strumenti siano magici?» «No», disse Haramis. «Non riesco a spiegarlo con precisione, ma non sembrano magici. Ma, magici o meno, gli danno potere, e questo potere, qualunque esso sia, può essere usato per compiere gravi danni. E finché questo potere esiste, voglio sapere come funziona!» «Così sei andata da Orogastus per imparare l'uso del potere? È stato saggio?»
«Che cosa è saggio?» ribatté Haramis in tono tagliente. «Tu stai qui a letto mentre la mia casa è saccheggiata e i miei genitori vengono orribilmente uccisi e centinaia di Vispi trucidati perché li hai fatti insorgere in ritardo contro un nemico più forte di loro. È saggezza questa? E in questo caso, è essa un bene?» «So che sei confusa e addolorata, Haramis», rispose gentilmente la Dama, «ma devi imparare a guardare al di là del presente e a vedere il disegno più generale degli avvenimenti.» «Questo», ribatté Haramis, «è esattamente ciò che ha detto Orogastus. Come se i miei genitori non fossero nulla, e la loro morte non avesse importanza...» Si rese conto che stava gridando di nuovo, ferita, incollerita e sola. E ora anche tu morirai, pensò con disperazione, e io rimarrò sola col mio regno occupato da soldati nemici, le mie sorelle chissà dove, e re Voltrik che cerca di uccidere me e loro. E non so cosa fare, e nessun altro sembra saperlo! «Ho sorvegliato Ruwenda per lungo tempo», disse Binali sommessamente, «molto più a lungo di quanto tu immagini. Ho amato quella terra e il suo Popolo, e l'ho protetto aiutandolo a crescere come doveva. È stata una grande opera, e l'ho compiuta con gioia. Ma ora il mio tempo sta per finire, e il tuo sta per incominciare.» Voltò la testa per incontrare lo sguardo di Haramis. «Hai detto che Orogastus ti ha invitata ad andare da lui. Dimmi, Haramis, perché ha invitato te e non le tue sorelle?» Haramis la fissò sbigottita. «Non lo so... non me lo sono mai chiesto.» «E ora che conosci la domanda, qual è la risposta?» Haramis aggrottò le sopracciglia, cercando di ricordare esattamente come Orogastus aveva formulato il suo invito, e quel che le aveva chiesto mentre era con lui. «Penso che si senta solo», disse lentamente Haramis. «Ha parlato della mia reputazione di dotta, e del suo desiderio di comunicarmi le sue conoscenze... Credo che stia cercando qualcuno come lui, qualcuno in grado di usare la magia e che possa capire ciò di cui lui parla.» «E tu sei come lui?» chiese sommessamente l'Arcimaga. «In qualche modo sì», ammise Haramis. «Non voglio distruggere nessuno con un fulmine, o invadere la terra di qualcuno, o uccidere... ma posso capire il desiderio di conoscere, di comprendere il mondo...» «...di vedere l'ordine della vita intorno a te?» «Sì», disse Haramis, «precisamente.» «E quando possiederai questa conoscenza, cosa farai con essa?»
«Cosa intendi?» chiese Haramis. «La useresti per ferire e distruggere, per manipolare e piegare gli altri alla tua volontà?» «Certo che no!» ribatté Haramis indignata. «Questo è sbagliato. Gli uomini devono essere liberi di fare le loro scelte, non devono essere usati come pupazzi per il divertimento di quelli che sono più forti o più intelligenti di loro. Ma perché dovrei fare qualcosa con la conoscenza? Perché non potrei semplicemente studiare e godere dei suoi doni? Perché dovrei utilizzare il sapere?» «Perché tu sei quella che sei, e la tua natura è manifesta. Io posso vederla, Orogastus può vederla, e chiunque altro conosca la magia può vederla.» La voce dell'Arcimaga si fece più alta. «Haramis, tu comprendi le parole. Molti non capiscono che le parole sono importanti, che dire una cosa equivale a darle per lo meno un'ombra di esistenza... e nominarla nel modo adeguato equivale a darle vita. Tu senti, ascolti e ricordi, e questo è un dono raro. Senza di esso non potresti comprendere la magia, gran parte di essa ti sarebbe letteralmente inconcepibile. Kadiya possiede grande ardore e determinazione, e Anigel è dotata di compassione e possiede un cuore amabile, ma questi doni, sebbene grandi nel loro ordine, non sono ciò che è indispensabile per il pieno uso della magia. La tua passione è la conoscenza, Haramis, ed essa, insieme al sangue regale di Ruwenda, farà di te una maga. Se non cerchi di fare uso delle tua capacità, tu - ed esse - verrete usate da uomini come Orogastus.» «È per questo che mi sento una pedina in una partita fra te e Orogastus?» chiese Haramis. Gli occhi dell'Arcimaga fiammeggiarono, come se tutta la vita del corpo della vecchia donna fosse concentrata in essi. «Ti senti come una pedina perché lo sei stata, Haramis. Ma hai raggiunto l'ultima mossa, dove puoi scegliere cosa vorrai diventare.» «Una regina, naturalmente», disse Haramis sorpresa. «Non è forse una scelta già stabilita per me da molto tempo?» «No», disse sommessamente l'Arcimaga, quasi bisbigliando, «questa scelta non sarà realtà finché non sarà una tua scelta. La cosa importante è che il mondo ritorni di nuovo in una condizione di equilibrio, il che potrà avvenire soltanto se tu e le tue sorelle troverete il vostro equilibrio. La corona potrebbe anche non essere il tuo destino.» «Cosa intendi dire?» chiese Haramis inorridita. «Lascerò il regno a Voltrik? Sarò uccisa? O qualcosa è forse accaduto alla corona? L'ho lasciata a
te in custodia... ho sbagliato?» «Niente affatto.» La voce dell'Arcimaga era molto debole, ma ancora udibile. «La corona si trova qui, al sicuro.» Si voltò verso il camino acceso. «Damatole.» Haramis non avrebbe pensato che l'Oddling potesse udire quel bisbiglio, e tuttavia egli accorse accanto a Binah. «Il momento è venuto», bisbigliò la vecchia donna. Egli annuì, si diresse verso un armadio situato sulla parete opposta e vi prese un involto bianco, che portò all'Arcimaga. Essa allungò lentamente una mano, afferrò una piega della stoffa e la tese verso Haramis. Quando l'involto cominciò a scivolare giù dal letto Haramis lo afferrò. Esso si aprì fra le sue braccia, e Haramis vide con sorpresa che si trattava del mantello dell'Arcimaga. «Indossalo, Haramis», ordinò Binah con un bisbiglio. «È tuo, ora.» «Vuoi dire che io sto per diventare Arcimaga?» chiese Haramis stupefatta. Non voglio questo compito, pensò sgomenta. È già abbastanza difficile essere regina... e per questo almeno sono stata preparata. Ma essere la nuova Arcimaga... non può chiedermi questo! «Ne hai la capacità», sussurrò Binah, «ma deve essere una tua scelta. Ti do il mio amore e la mia benedizione, e un ultimo avvertimento. Ricorda che il confine tra la sicurezza di sé e la presunzione è sottile e può essere facilmente varcato. Mantieni sempre il controllo di te stessa. Agisci con saggezza.» Quindi emise un rantolo e si immobilizzò. Haramis la fissò in preda alla più violenta emozione. Non può accadere questo, pensò. Sto sognando. Sono nel mio letto nella torre di Orogastus e sto avendo un incubo, ho letto troppi libri di magia, io... Haramis si rese conto che Damatole stava parlandole. «Bianca Signora?» Haramis si voltò lentamente verso di lui. «Che c'è, Damatole?» «Quali sono i tuoi ordini, Signora?» Ordini? Pensa che io sia la nuova Arcimaga. Perché, oh, perché mi sono alzata dal mio letto stamattina... ieri mattina... quando è stato? Doveva dirgli qualcosa; dopo tutto, l'Oddling cercava solo di fare il suo lavoro. Disgraziatamente, non le venne in mente nulla. «Vi porto la colazione e dell'acqua per lavarvi», suggerì Damatole. «Dovete essere affamata.» Affamata. Sì, ora che lo aveva detto, era affamata. «Grazie, Damatole», disse Haramis con espressione assente, «sarebbe molto piacevole.»
Damatole le servì una colazione semplice, poi la condusse in una stanza dove c'era un confortevole giaciglio, sul quale la ragazza si stese e si addormentò. Quando si svegliò era pomeriggio e su un tavolino lì accanto era pronto per lei un piccolo pasto. Haramis mangiò con gusto e poi andò in cerca di Damatole. Lo trovò nella stanza dell'Arcimaga, ma rimase sorpresa vedendo che il letto era vuoto. «Hai già seppellito il corpo, Damatole?» chiese. «Avrei voluto aiutarti.» «Non c'è corpo», rispose egli. «Non ricordi?... No, evidentemente. La carne che un tempo racchiudeva lo spirito di Binah è tornata alla polvere, come farà anche questo luogo, quando tu sarai partita.» Haramis guardò il letto più da vicino. Sì, sul guanciale dove prima poggiava la testa di Binah c'era della polvere. «Dov'è la corona di Ruwenda?» Damatole aprì una credenza sulla parete e ne estrasse un involto di tela bianca, che porse ad Haramis. Apertolo, la principessa constatò con sollievo che la corona non aveva subito danni. Se dovessi lasciarla qui, si tramuterebbe anch'essa in polvere? si chiese. «Ti darò una borsa per trasportarla», le disse Damatole, correndo fuori della stanza senza aspettare la risposta. Haramis cercò di pensare che cosa avrebbe dovuto fare adesso. Ma quando Damatole fu di ritorno con una sacca di cuoio, non aveva ancora deciso. Ma dato che, comunque, egli stava evidentemente aspettando che lei se ne andasse, chiamò il gipeto. Poi si rese conto che non era la sola senza una casa. «Damatole, hai un posto dove andare?» L'Oddling annuì. «La mia gente mi porterà via. È stabilito. Resta solo un'ultima cosa.» Raccolse il mantello dell'Arcimaga, che giaceva ancora sullo sgabello dove l'aveva lasciato Haramis, e lo mise nella sacca con la corona. «Perché me lo hai dato?» gli chiese la giovane mentre lasciavano l'edificio. Ma formulando la domanda temeva di conoscere già la risposta. «Perché è tuo, Bianca Signora», rispose lui. «E ora non mi resta che salutarti.» Un vento che si stava facendo più intenso le spinse indietro i capelli. Guardò le nubi che si stavano ammassando in cielo e si chiese se avrebbe piovuto all'indomani, alla Vigilia delle Tre Lune. Hiluro sbucò dalle nuvole e le atterrò accanto. «Dove desideri andare, Bianca Signora?» «Non chiamarmi così», disse Haramis a bassa voce. «Non ancora.»
Montò sulla groppa del gipeto, tenendo ben stretta la sacca con la corona e il mantello, e Hiluro spiccò il volo verso il cielo minaccioso. 42. Re Voltrik e la Voce Verde attendevano appoggiati al parapetto della Torre Alta della Cittadella, con le scure nubi che sembravano fluttuare a soli pochi metri dalle loro teste, nascondendo lo stendardo di Labornok che garriva al vento in cima al suo alto sostegno. Sotto di loro, la vasta fortezza e le dipendenze e i cortili interni erano stranamente silenziosi, sebbene fosse solo metà pomeriggio e di solito a quell'ora fervessero ancora le attività a cui erano preposti i diversi lavoranti che si occupavano della manutenzione dell'imponente roccaforte. Ma quel giorno l'inquietante silenzio che incombeva sulla Cittadella era rotto soltanto dal regolare clangore del maglio di un fabbro, che riecheggiava come io stonato rintocco di una campana foriera di cattivi presagi. Re Voltrik non poté fare a meno di rabbrividire. «È forse la vigilia di quella maledetta festa», domandò alla Voce Verde, «che ha fatto sì che questi scansafatiche di ruwendiani non siano venuti a lavorare in così gran numero? Più della metà del personale occupato qui alla Cittadella oggi ha affermato di essere stato colpito da una febbre malarica che gli ha impedito di alzarsi dal letto... e comunque anche quelli che dovrebbero essere al lavoro se ne stanno nascosti o se ne vanno in giro come se non riuscissero neanche a stare in piedi.» «C'è qualcosa nell'aria», ammise la Voce. «Di sicuro sta per scoppiare un'altra grande tempesta e...» «Non è questo quel che volevo dire», lo interruppe bruscamente Voltrik. «C'è qualcosa che bolle in pentola, e penso che tu sappia di cosa si tratta, solo che hai paura di dirmelo!» La Voce Verde abbassò il capo incappucciato in atto di sottomissione. «Il mio potente Maestro è in arrivo, vostra maestà, e sarà lui a tranquillizzarvi rispondendo alle vostre domande.» Il re borbottò un'imprecazione e scoppiò in una risatina beffarda. Poi si voltò di scatto per non avere più di fronte quell'odioso ciarlatano, e il suo sguardo vagò sulle immense distese paludose che si allargavano verso nord. La strana luce di quel momento faceva apparire il verde lussureggiante della giungla particolarmente intenso, e anche i tipici odori della regione sembrano più acuti del solito.
«Vorrei proprio sapere come starmene tranquillo in questa situazione!» ringhiò Voltrik. «Perché diamine il mago ti ha ordinato di richiamare quasi tutte le nostre truppe alla Cittadella e di tenerle pronte in assetto di battaglia?» «Una semplice precauzione...» «Bugiardo!» sbottò il monarca. «Bugiardi tutti e due, traditori conniventi!» Poi si girò di scatto e afferrò la Voce Verde per una spalla. Anche con una mano sola, era ancora capace di scuotere l'assistente di Orogastus fino a fargli tremare le budella. «Stanno venendo per me, quelle tre streghe maledette! Non è vero? A quest'ora avrei potuto già essere al sicuro a Derorguila, ma tu e il tuo padrone mi avete assicurato che sarebbe andato tutto bene, che le cagne erano state catturate e che i loro talismani erano in mano nostra. Bugiardi! E adesso stanno venendo qua per distruggermi proprio come dice la profezia!» «Ma no, re Voltrik...» «Sì, sono qui in trappola!» ululò il sovrano. «Che Zoto abbia pietà di me! Con i soldati inviperiti perché molto probabilmente dovranno passare la stagione delle piogge in questo fetido buco d'inferno, e i cavalieri così rammolliti dall'inazione da passare quasi tutto il loro tempo mezzi sbronzi nel letto di queste dannate contadine ruwendiane... e al mio servizio mi ritrovo solo una masnada di vigliacchi e imbecilli e imbroglioni traditori che aspettano unicamente di potermi strappare il mio regno una volta che quelle tre demoniache sgualdrine mi abbiano sistemato a dovere!» La Voce Verde cadde in ginocchio e strinse convulsamente le mani in un gesto di supplica. «Non è così! Non è così! Il mio maestro vi spiegherà tutto non appena sarà arrivato.» «Se arriverà!» ruggì l'irato Voltrik. Poi estrasse la sua spada a lama corta e colpì di piatto il naso della Voce. «E se non arriverà, allora questa tua oscena testa rasata volerà giù dalla Torre, e io domani all'alba fuggirò da questo nero pozzo d'iniquità! Meglio correre i pericoli delle piogge che aspettare qui la morte come un pollo nella stia.» Il re tirò un potente calcio al servitore del mago, che si ritrovò lungo disteso sulla schiena. E poi si sentì uno strillo, acuto come una tromba d'ottone. Voltrik, giustamente allarmato, guardò freneticamente in tutte le direzioni fuorché in quella giusta, e così fece un balzo indietro per la sorpresa quando un gigantesco uccello bianco e nero scaturì all'improvviso dalle nuvole emettendo un altro di quegli stridi assordanti, e veleggiò lenta-
mente verso il basso fino ad atterrare sul terrazzo della torre. Dalla groppa della creatura spuntò Orogastus, il quale fissò con un sorrisetto l'ancor sconvolto sovrano e inchinò leggermente il capo. «Salute a voi, vostra altezza», disse poi quando il re si fu ripreso. «Eccomi qui, proprio come vi avevo promesso, pronto a consegnarvi i vostri nemici su un piatto d'argento.» «Per le budella di Zoto! È... è una di quelle bestie che servono l'Arcimaga! E ora sono al tuo servizio...?» Orogastus scivolò dalla schiena del gipeto, a cui rivolse un breve discorso di ringraziamento. La creatura ruotò a malapena verso di lui i suoi occhi fieri e poi balzò verso le nuvole con un solo potente colpo d'ali. «L'Arcimaga», disse Orogastus con malcelata soddisfazione, «è morta. E il suo successore non è altri che la principessa Haramis, quella che oppose uno sdegnoso rifiuto alla vostra cortese proposta di fidanzamento, e che ora si trova in mio completo potere... sebbene lei stessa non l'abbia ancora pienamente realizzato.» «Per i dieci inferni!» esclamò Voltrik rinfoderando la spada con una smorfia di sollievo. «E le altre due cagne regali?» Orogastus si diresse verso il parapetto più settentrionale della torre e, dopo essersi seduto su un gradino, abbassò il capo e nascose il viso con il cappuccio del suo nero mantello. Rapidamente, usando il linguaggio senza parole, impartì alcuni ordini al suo accolito. La Voce Verde si rimise a fatica in piedi e si dileguò subito giù per la scala a pioli che portava alla botola. Il mago allora tirò indietro il cappuccio esibendo uno di quegli affabili sorrisi che esternavano tutta la sua sicurezza e autocontrollo, e che avevano irresistibilmente stregato il debole Voltrik quando si erano incontrati per la prima volta diciotto anni prima. «Sono in arrivo anche le altre principesse», disse Orogastus. «Kadiya conduce un'indisciplinata masnada di nanerottoli armati con cerbottane e lance dalla punta di selce. Mentre la formidabile armata di Anigel consiste in poche centinaia di Oddling delle Foreste, spaventosi solo nell'aspetto, qualche Nyssomu dal cuore di gelatina, un'accozzaglia di ridicoli partigiani ruwendiani e... e naturalmente vostro figlio, il traditore, con poco più di una dozzina dei suoi miserabili ufficiali voltagabbana.» «Ma le principesse possono contare sui loro talismani!» Orogastus annuì con aria saggia. «Sì, ma non sanno come usarli correttamente. Senza dubbio pensano che basti ordinare loro di distruggerci. Ma
vi giuro sulla mia anima mortale che non è questo il modo in cui far funzionare quegli strumenti magici. Sono armi molto ingegnose, e vanno utilizzate con la dovuta perizia. Le tre principesse sono ancora delle sciocche ragazzine con molto entusiasmo ma poco cervello, e non sono in grado di capire queste cose.» Voltrik si sedette accanto al mago, tormentandosi i baffi con aria preoccupata. Fece un ampio gesto verso la Palude Labirinto, ormai quasi completamente avvolta nella nebbia. «Non possiamo certo attaccarle in mezzo a quel dannato pantano, con le piogge ormai imminenti. Non riusciremmo mai a raggiungerle nelle paludi, nemmeno con l'aiuto di quegli abominevoli Affogatori.» «No», ammise Orogastus. «Ed è proprio per questa ragione che sono state incoraggiate a venire qui alla Cittadella, dove le nostre forze sono sicuramente superiori e i miei straordinari incantesimi porranno fine una volta per tutte alle loro velleità di riconquista del Ruwenda!» Voltrik si illuminò di gioia. «Le polverizzerai con i tuoi fulmini? E userai anche quelle altre magie con cui hai aperto la strada alla nostra invasione?» «Come ho già detto, vi porterò le teste di Anigel e Kadiya su un vassoio d'argento. Haramis, che è una mia creatura, vi servirà anima e corpo.» Voltrik rise nervosamente. «Non mi dispiacerebbe se... se tu potessi costringerla a sottomettersi con la tua magia. Mi sono sempre piaciute così alte, e magari ne verrebbe fuori qualche bell'erede!» «Sire, ci sarà una battaglia.» Orogastus parlò con tono quasi indifferente. «Avrà luogo fra due giorni, senza dubbio durante la Festa delle Tre Lune.» Voltrik scattò in piedi, con gli occhi scintillanti e la voce tonante di enfasi. «Molto bene! Dannazione, è proprio quello che ci vuole per ridarci la carica! È quasi un mese che i nostri valorosi soldati si rammolliscono il cervello nell'ozio... Hai già elaborato qualche strategia per lo scontro?» «Ma certamente, vostra altezza.» Anche Orogastus si alzò in piedi. «E questa volta non ci sono dubbi che le intrappoleremo. Fremo per il desiderio di mettere i miei immensi poteri al vostro servizio. Gli uomini qui alla Cittadella sono pronti, e lord Osorkon non tarderà ad arrivare con altri cinquemila soldati... E non abbiate paura dei fantomatici poteri delle principesse e dei loro talismani, perché noi abbiamo questa!» E da sotto il mantello estrasse una sacca di pelle che conteneva una scatola di legno intagliata con teschi e altri simboli di morte. Una volta aperto, il contenitore rivelò una sfera verde opaco grande quanto un pugno umano,
adagiata su velluto imbottito e sagomato su misura. «Questa è un'arma più mortale di tutte le altre messe insieme. È stato il secondo regalo lasciatomi dal mio maestro Bondanus...» «Quello che ti ha dato le pastiglie dorate?» «Sì. Quello era un dono di vita, ma questo porta una morte atroce. Deve essere usato solo in casi estremi, perché il suo flagello colpisce tutti quanti quelli che, amici o nemici, si trovino a livello del terreno nel raggio di un chilometro. Se saremo costretti a utilizzarlo, qualora non vi fosse altro modo di uccidere le principesse, mi assumerò io stesso l'incarico di scatenarne la devastante potenza.» Re Voltrik era sbiancato e non riusciva a distogliere lo sguardo da quella cosa dall'apparenza così innocua. «Come... come si chiama? E come funziona?» «È conosciuta come l'Effluvio Funesto, ed è un'arma antica quanto gli Scomparsi: fu utilizzata contro di loro dagli antenati del mio maestro durante la grande lotta per il dominio del mondo. La sfera è di vetro. Quando viene infranta, libera vapori mortali che uccidono con un solo respiro. Sarò pronto ad usarla anche se porterà inevitabilmente la morte di molti dei nostri uomini, oltre che lo sterminio del nemico, in modo da assicurarci la vittoria ad ogni costo. Voi non avrete nulla da temere, sire, fino a quando resterete ai piani superiori della fortezza. I suoi vapori sono molto pesanti e non si alzano che di pochi metri.» Orogastus richiuse la scatola e la ripose nella sacca, per celarla poi di nuovo sotto il mantello. «Non credo comunque che ne avremo bisogno. Ve l'ho mostrata solo per provarvi che non c'è modo che le principesse possano vincere. Noi siamo invincibili!» Il sovrano di Labornok era grigio in viso, ma quando il mago lo fissò intensamente con occhi che sembrarono diventare brillanti come stelle, si sentì pervadere da rinnovata fiducia e tutte le sue paure svanirono come d'incanto. «Voi mi credete, maestà, non è vero?» gli domandò Orogastus con voce suadente. «Sì», rispose Voltrik con un tremulo sussurro. «Sì.» La principessa Anigel, sapendo che le sue truppe avrebbero dovuto abbandonare l'accampamento segreto sul fiume Skrokar per attraversare una cinquantina di chilometri di palude in modo da raggiungere Kadiya a nord della Cittadella, implorò il suo talismano affinché celasse tutti loro dalla magica «vista» del nemico. La bruma mattutina si trasformò in un opaco
miasma che accecò gli umani ma non diede alcun fastidio agli Oddling. La principessa ritenne una tale manifestazione la risposta alle sue preghiere, e così salparono senz'altro indugio. La flotta Nyssomu condusse senza incidenti il piccolo esercito oltre il castello del defunto lord Manoparo, alla confluenza fra lo Skrokar e il Mutar. Poi risalirono il grande fiume, sfruttando il più possibile i canali secondari che lo intersecavano sulla riva settentrionale, fino a quando non svoltarono bruscamente sulla destra e iniziarono a seguire un piccolo corso d'acqua contorto e ingombro di detriti. E finalmente al calar della sera giunsero al punto d'incontro fissato da sua sorella. Si trattava di una grande altura, illuminata soltanto dallo spettrale chiarore verdastro emesso da lanterne ricolme di iridescenti vermi di palude. L'imbarcazione di Anigel fu accolta sulla riva da un capo Uisgu con grandi cerchi rossi dipinti intorno agli occhi e un completo di scaglie di pesce dorate, il quale disse che avrebbe condotto lei, il principe Antar e gli altri cavalieri labornoki nel luogo in cui li attendeva la principessa Kadiya. Sbarcarono alla debole luce delle lanterne, e seguirono un sentiero fino a una semplice tenda sotto cui erano riuniti Kadiya e i suoi capi-battaglia Uisgu. Erano intenti allo studio di un disegno del torrione della Cittadella che Jagun, il Capocaccia, aveva dispiegato su un rozzo tavolaccio. C'erano delle donne, perché avevano tutti pari dignità. Ma non si vedevano lunghe gonne riacamate. Tutti i presenti portavano calzoni di fili d'erba intrecciati e tuniche ricoperte di scaglie che scendevano fino alle cosce, non dissimili da loriche a maglia. Avevano anche degli elmi, alcuni foggiati con metallo delle rovine. I capelli di Kadiya erano raccolti in trecce sotto l'elmo. Se non fosse stato per la statura, la giovane sarebbe potuta sembrare uno dei soldati. Quando la bionda Anigel si avvide della presenza di sua sorella, dimenticò la missione che l'aveva guidata durante le ultime terribili settimane e scoppiò a piangere correndo a braccia aperte verso di lei. Ma Kadiya le restituì il caloroso abbraccio in modo alquanto esitante, e i suoi occhi scuri non abbandonarono per un attimo il volto di Antar, rimasto all'entrata del riparo insieme ai suoi uomini. Il principe osservava perplesso Anigel e la sorella. «Cosa c'è che non va?» esclamò Anigel. «Siamo ancora una volta insieme, e vive!» «Sì, io sono viva», rispose Kadiya imperturbabile. «Ma quelli chi sono, sorella? Che patto ti lega a loro? Non puoi avere fiducia in chi ha versato il
sangue della nostra famiglia.» E poi, fissando il principe: «Hai dimenticato così facilmente chi è stato a dilaniare il nostro mondo?» Anigel lanciò un grido disperato, come se Kadiya le avesse puntato contro un'arma. «No, non devi sospettare di Antar o averne paura! Te lo giuro sulla mia vita! Sul mio talismano!» E dicendo ciò si tolse dal capo il diadema argentato, la cui ambra aveva iniziato a pulsare luminosa mentre si avvicinava a sua sorella, e lo tenne innanzi a sé. «Vostra altezza, per che cosa dobbiamo giurare affinché tu possa credere alla nostra sincerità?» Lentamente, Kadiya estrasse dal fodero anche il suo talismano. Lo voltò, e reggendolo per la lama smussata lo volse verso Anigel e Antar. I Tre Occhi si aprirono e tutti i presenti mormorarono di stupore e paura. «Voltati, sorella», ordinò Kadiya, «e lasciamo che vengano giudicati dai nostri talismani.» Anigel, abbattuta, fece ciò che le era stato ordinato. «O Signori dell'Aria, grandi servitori di' Dio», intonò Kadiya, «rivelateci quali fra questi cavalieri ci garantiranno la loro lealtà, e quali sono invece pronti a tradirci, e a quest'ultimi riservate la medesima sorte che avrebbero serbato a noi.» Ci fu un silenzioso scoppio di luce bianco-blu. Il principe Antar e i suoi quindici leali compagni indietreggiarono barcollando, le bocche spalancate in un'espressione di terrore... sul nudo terreno giacevano immobili due altri cavalieri. Dopo qualche istante sir Owanon si chinò su di loro. Scuotendo la testa, disse: «Sia Onbogar che Turat sono morti stecchiti». Anigel gridò per l'orrore. Ma il principe Antar domandò agli altri: «E Rinutar dov'è?» Non si trovava più fra loro, e nessuno l'aveva più visto da quando erano sbarcati. Antar avrebbe voluto mandare i suoi uomini sulle sue tracce, ma la principessa Anigel ordinò loro di fermarsi. «Lo troverò io», disse tranquillamente. Si rimise in testa la tiara e il suo sguardo sembrò attraversare tutti gli astanti, proiettandosi verso la Cittadella. «Ha rubato una barca e si trova in mezzo al fiume.» «Uccidilo!» sbottò impulsivamente sir Penapat. «Altrimenti lancerà l'allarme!» «Non ce n'è bisogno», disse una nuova voce. E questa volta fu il turno di Kadiya e Anigel di rimanere pietrificate e a
bocca aperta per lo stupore, perché era stata la principessa Haramis a parlare, facendosi largo fra la folla di cavalieri in armatura per mettersi infine di fronte alle sue sorelle. Indossava il mantello bianco dell'Arcimaga e teneva sotto il braccio la corona. «Haramis!» esclamarono all'unisono. «Kadiya! Anigel!» Haramis abbracciò le sorelle, poi disse: «Potete pure lasciar andare Rinutar. Re Voltrik e Orogastus sanno già che vi trovate qui e che intendete attaccare domani al calar della sera, quando inizierà la Festa». Tutti loro, Uisgu e labornoki, Kadiya e Anigel, e persino il risoluto Jagun, incominciarono a parlare contemporaneamente. Haramis alzò il suo talismano. L'ambra in esso incastonata iniziò a pulsare di luce dorata in sincronia con quella degli altri talismani. Cadde il silenzio. Haramis disse: «Sorelle, so che avete portato con voi un gran numero di seguaci, e ho visto molte altre barche piene di Uisgu che si stanno avvicinando a questo luogo, come d'altronde sta arrivando da nord anche una grande flotta di ruwendiani armati di tutto punto. Ma se attaccherete la Cittadella, tutti questi amici fedeli moriranno, perché il vostro tentativo è destinato al fallimento». «Chi te l'ha detto?» domandò Kadiya con veemenza. «Il tuo adorato stregone?» Haramis arrossì e abbassò gli occhi. «No. L'ho capito da me. I vostri aborigeni sono equipaggiati con armi troppo leggere, e il conte Palundo giungerà probabilmente troppo tardi... e se anche ce la facesse ad arrivare in tempo, si troverebbe di fronte i cinquemila uomini con cui Osorkon sta per arrivare dal fiume. L'altra metà dell'armata di Voltrik è già stata allertata, pronta a respingere qualunque assalto possiate avere architettato. I grandi portali della Cittadella sono stati riparati...» «Forse», disse Kadiya con una smorfia, «abbiamo il mezzo di aprirli, e di sconfiggere il tuo tenero prestigiatore!» «In questo modo mettete in gioco la vita di molti», dichiarò Haramis. «Forse ignorate che non potete più contare sull'assistenza dell'Arcimaga.» «Perché no?» chiese Kadiya. «Ci ha sempre aiutate. Vuoi dire che intenderebbe aiutare Orogastus in questa battaglia?» «No», rispose Haramis con voce stanca. «Voglio dire che l'Arcimaga è morta.» Anigel emise un grido di sconcerto, mentre Kadiya chiedeva incollerita:
«Come lo sai?» «Lo so perché c'ero», disse Haramis, e quasi si sentì soverchiare dal dolore. Non aveva ancora pianto per l'Arcimaga, ma non osava lasciarsi andare proprio adesso. Cercò di mantenere ferma la voce. «Orogastus vi sta attendendo al varco con tutto il suo arcano armamentario! E ha pure chiamato alla Cittadella le bande di Skritek locali della Palude Verde, che si divertiranno a torturarvi prima di divorare quante più persone potranno! Credete davvero di potere affrontare tutti quei nemici, e in più le armi di Orogastus?» Ci fu un momento di silenzio che ad Haramis parve lunghissimo. «Sarete tutti massacrati», aggiunse con calma. «Ritiratevi, vi prego. Non possono seguirvi nelle paludi in questa stagione.» «No!» urlò Kadiya picchiando il pugno sul tavolo. «Orogastus ti ha stregata! È evidente che hai usurpato il mantello dell'Arcimaga.» «Davvero pensi che io volessi prendere il suo posto?» chiese Haramis. E tutta la sua fatica, tutto il suo dolore per l'Arcimaga minacciarono di schiacciarla ancora una volta. «Sì, lo penso», dichiarò Kadiya. «Sei sempre stata avida di potere. Non puoi tollerare che Anigel e io si abbia un piano migliore del tuo.» Quel sospetto ingiusto colpì profondamente Haramis, che si sentì quasi venir meno. Kadiya la fissava furiosa, ma Anigel si rese conto del dolore dipinto sul viso di Haramis. «Penso che tu sia ingiusta Kady», disse. «Sentiamo almeno qual è il suo piano.» Kadiya fissò entrambe le sorelle e disse: «E per la corona, Haramis? Che cosa prevede il tuo piano? Tu e Orogastus vi spartirete i regni di Ruwenda e Labornok, dopo aver sistemato Voltrik?» «Certo che no! Kadiya, non capisci.» Haramis era quasi disperata. Come poteva convincere le sorelle? Improvvisamente il piccolo Jagun disse: «Che siano i talismani a mettere alla prova Haramis, come hanno fatto con il principe Antar e i suoi uomini». Haramis si alzò. «Come volete. Ma se i vostri talismani sono come il mio, sorelle, fate attenzione a come conducete la prova. Perché non ho dubbi che il mio talismano, come i vostri, sia capace di uccidere.» «D'accordo», disse Kadiya, mentre Anigel osservava alternativamente le sorelle in preda a evidente angoscia. I loro pensieri erano facilmente intelligibili anche per i cavalieri labornoki e gli Uisgu.
«Mia cara Haramis», disse Anigel affranta, «noi vorremmo avere fiducia in te, ma ti abbiamo vista in dolce compagnia di Orogastus.» Gli occhi di Anigel erano pieni di lacrime, ma la sua voce era ferma. «Non ci resta altro che chiederti se ci lascerai metterti alla prova.» Haramis osservò la sorella con espressione stupefatta. Tutti i presenti nella tenda trattenero il fiato, e in quella totale immobilità poterono sentire il picchiettio delle prime gocce di pioggia della nuova tempesta e il quieto mormorio delle voci nell'accampamento. Era arrivato un altro gruppo di reclute. Haramis disse con calma: «Io non ti ho chiesto di metterti alla prova, anche se tu hai portato qui il tuo principe». Anigel arrossì, mentre la sorella continuava. «Come volete.» Prese il suo talismano e lo tenne innanzi al viso. «Allora, mettetemi alla prova.» A quel punto tutti i cavalieri di Antar e gli Uisgu lasciarono la tenda di gran carriera. Ma il principe e Jagun rimasero, e il piccolo cacciatore Nyssomu tracciò il segno del Giglio Nero davanti a ognuna della sorelle. Haramis gli porse la corona, che lui accettò con grande reverenza per poi inginocchiarsi in un angolo a testa bassa. Kadiya e Anigel si disposero nuovamente fianco a fianco, con i talismani davanti a loro. Ma questa volta fu la più giovane a parlare: «Venerati Signori dell'Aria, abbiate pietà di noi tre. Mostrateci chiaramente se rischiamo di essere di intralcio al grande equilibrio del mondo». I tre talismani si accesero all'unisono di un bagliore rossastro, colmando la tenda di una vivida lucentezza sanguigna. Le tre principesse erano immobili come statue, con gli occhi spalancati e le labbra leggermente dischiuse. Poi la tiara, la bacchetta e la spada spuntata assunsero un aspetto spettrale; si staccarono dalle mani delle loro proprietarie, raggiunsero un punto a metà strada fra di loro... e i tre talismani si fusero per incanto. Il fusto della bacchetta scivolò nel pomello Trilobato e il diadema cinse il Cerchio racchiudendolo, dopo di che le tre Ali congiunte, con l'ambra al centro, si trovarono sospese in anelli concentrici. E una voce misteriosa parlò. «In questo Scettro del Potere è potenzialmente racchiuso un permanente equilibrio del mondo, come d'altronde anche la sua virtuale distruzione. Appartiene a Tre, ma Una sola può governarlo, non senza il consenso delle altre. Riflettete prima di utilizzarlo, e ricordate che persino i suoi creatori alla fine ebbero paura di usarlo...» Il vivido chiarore rossastro si dissolse lentamente, e ognuna delle princi-
pesse si ritrovò di nuovo in mano il proprio talismano. Dopo qualche minuto il principe Antar si decise a parlare: «Vi hanno dunque dato una risposta, i tre talismani?» Haramis lo fissò incredula e Anigel si volse verso di lui come se fosse appena uscita da un sogno. «Non hai visto e sentito niente?» «No, mia graziosa signora, a parte la vostra stessa invocazione.» Le tre sorelle si scambiarono delle rapide occhiate, e senza neanche pensarci si lanciarono in un triplice abbraccio. «Allora sono stata assolta», sussurrò Haramis. «O almeno così pare...» «Ma certo!» esclamò Kadiya vivacemente. «Ma ciò nonostante attaccheremo comunque la Cittadella.» Haramis fece un cenno verso Anigel: «Siete entrambe d'accordo?» «Sì», rispose lei. «E se non vuoi unirti a noi, sorella cara, cerca almeno di non ostacolarci e di non aiutare i nostri nemici.» «Vi giuro che non lo farò», disse Haramis. «Ma dovete lasciarmi andare via. Voglio raggiungere la Cittadella e una volta là... non so che cosa farò, ma so che devo andarvi.» Il piccolo Jagun sbucò dal suo angolino reggendo la corona. «Se lo desiderate, principessa Haramis, vi ci porterò io con una barca.» «Ti ringrazio», disse Haramis. «Ma prima ch'io parta», aggiunse rivolta alle sorelle, «voglio dirvi qualcosa che ho appreso stando con Orogastus. Molta della sua cosiddetta 'magia' deriva da congegni degli Scomparsi, che forse possono essere neutralizzati dai vostri talismani. Quando il mio talismano toccò uno di quei congegni, lo mise fuori uso. Può darsi che funzioni anche con i vostri.» Abbracciò le sorelle. «Kadiya e Anigel, state attente - e che i Signori dell'Aria vi proteggano!» Prese la corona dalle mani di Jagun e salutò di nuovo le sorelle, senza però abbracciarle. Poi si avvolse più strettamente nel suo bianco mantello e uscì dalla tenda con il cacciatore Nyssomu. Con Anigel e Kadiya rimase soltanto Antar. Risuonò un brontolio di tuoni e la pioggia prese a scrosciare con più veemenza. Kadiya lanciò una severa occhiata al giovane nell'armatura azzurra e gli chiese: «Davvero non hai visto niente? Neanche la luce rossa o la fusione dei talismani? E non hai sentito una voce soprannaturale?» «No, mia principessa», rispose Antar. «La visione era solo per noi, Kadi», intervenne Anigel. «E soprattutto, io penso, per la povera Haramis.» «Povera?» esclamò Kadiya con aria di scherno. «Povere noi, che stiamo
per affrontare la battaglia! Lei, con la corona e il mantello, ha semplicemente scelto di osservare lo spettacolo dall'esterno.» «Se riusciremo a vincere senza utilizzare lo Scettro, allora lei sarà stata davvero la più fortunata. Ma se dovessimo averne bisogno...» Kadiya raddrizzò le spalle e afferrò saldamente l'elsa del suo talismano. «Non sarà necessario.» E poi, con tono piuttosto brusco, invitò il principe Antar a richiamare i suoi cavalieri e i Capi del Popolo, così che potesse spiegare a tutti loro il piano d'attacco. 43. Quella notte Haramis dormì al riparo di un albero, in un piccolo parco accanto all'imbarcadero della Cittadella. Disse al talismano di nasconderla alla vista di chiunque, e la nebbia effettivamente la celò alle poche guardie di servizio ai moli. Al mattino il temporale era ormai cessato, ma persisteva una spessa bruma che avvolgeva tutto in un'atmosfera ovattata: gli unici suoni consistevano in qualche pigolio o squittio isolato prodotto da uccellini e animaletti del bosco, e dal lento sgocciolio dal fogliame degli alberi. Haramis scoprì che le guardie si erano ritirate nella Cittadella e che era quindi completamente sola, una situazione a lei particolarmente favorevole. La strada che partiva dal punto di approdo conduceva direttamente al cancello principale della fortezza, e lei sapeva che una parte almeno del folle piano delle sue sorelle contemplava un prevedibilissimo attacco in questa direzione. Sedette in tranquilla meditazione, pregando di poter ricevere qualche indicazione. Era difficile; altri pensieri si insinuavano, preoccupazione per le sorelle, dolore per la perdita dei genitori e della Bianca Signora, collera per le accuse di Kadiya, secondo la quale lei aveva usurpato le vesti dell'Arcimaga - nemmeno volevo! non c'era nessun altro? E poi Kadiya pensava forse di poter essere lei Arcimaga? Come se il suo pensiero l'avesse evocata, Haramis scorse l'immagine sottile di Binah, con il mantello di un bianco abbagliante e il cappuccio che le nascondeva il volto. Ma le mani che si alzavano lentamente per spingere indietro il cappuccio erano giovani e senza rughe e Haramis fu improvvisamente colta dal terrore. Come sarebbe stato il suo volto? Sarebbe stato quello di Kadiya - o di qualche orribile demone? No, era semplicemente il volto di Binah, ma trasformato: radioso e non
più vecchio. Era come se la parte mortale si fosse staccata da lei e la parte rimasta fosse pura essenza spirituale. «Signora.» Haramis chinò la testa. Una mano sembrò carezzarle i capelli e una chiara voce musicale che era ancora in qualche modo quella di Binah disse, «Che c'è, figlia mia?» «Le mie sorelle», rispose Haramis in tono miserevole. «Pensano che io sia innamorata di Orogastus, che mi abbia stregata, e Kadiya mi accusa apertamente di aver usurpato il tuo mantello!» «Ma tu sai che non è vero», disse gentile la voce. «A tempo debito se ne renderanno conto anche loro.» «Kadiya ha detto che sono avida di potere.» «E pensa che è per questo che porti il mantello.» Non era una domanda. «Io te l'ho dato, Haramis, ma non posso forzarti a indossarlo. È un fardello, e altre persone, anche coloro che ti amano, non capiranno mai perché tu lo faccia. È un dovere che si compie di propria volontà, non per obbedire a un ordine o per attendere gli elogi del mondo. «È un compito degno di essere portato a termine», continuò Binah. «È sempre lì in attesa della persona chiamata a eseguirlo. Qualcuno deve prendersi cura del Ruwenda, deve fare in modo che questa nazione possa crescere com'è nella sua natura - o almeno che possa sopravvivere fino a quando qualcuno più forte non si sobbarchi il fardello. C'è una grande gioia in questo lavoro: vedere la bellezza del modello e sapere che i tuoi sforzi contribuiscono a mantenerlo, udire la voce della terra e del Popolo, sentire il ciclo delle stagioni e il più vasto ciclo delle età...» La voce di Binah tacque, ma in quel silenzio ad Haramis parve di udire e sentire il Ruwenda come mai le era riuscito prima. La terra sembrava avere un polso, un battito cardiaco e Haramis sentiva il proprio cuore che tentava di mettersi all'unisono con quel ritmo. Le sembrava che ci fosse un suono in quella pulsazione, un suono che poteva quasi udire e comprendere - se solo avesse potuto stendersi e ascoltare veramente... Rimase seduta, come ipnotizzata, per lungo tempo, solo oscuramente consapevole della scomparsa di Binah. Poi apparve davanti a lei un vassoio metallico, che mani invisibili le posarono in grembo. Su esso c'erano quattro cuori, in apparenza umani, e una brocca di acqua di mare. Lavali, ordinò la voce. Ad Haramis, immersa in uno stato quasi onirico, sembrò una richiesta ragionevole. Raccolse il primo cuore. Stava comodamente nella sua mano e pulsava delicatamente di vita e di calore. Vi versò sopra l'acqua salata e, quando finì, lo consegnò
alla mano invisibile. Ripeté l'operazione con il secondo e il terzo cuore, che sembravano identici al primo. Ma quando prese in mano il quarto sentì che era diverso, strano. Qualcosa le pungeva il palmo e quindi rigirò il cuore. Con sua grande sorpresa, vide che si trattava di un congegno e non era affatto un cuore umano, bensì una semplice ricostruzione. Fece per prendere la brocca dell'acqua, ma la mano invisibile la bloccò. «No», disse tristemente la voce, «questo non si può lavare. Ha rinunciato alla sua umanità.» Il cuore meccanico le fu tolto di mano. «Non capisco», pensò Haramis. «Devi poter sopportare la verità», disse la voce. Haramis non capì neanche questo. Poi si lasciò andare a un ristoratore sonno senza sogni. Quando si svegliò era quasi l'imbrunire. Usando il Cerchio dalle Tre Ali, osservò i preparativi che stavano fervendo alla Cittadella, con i soldati che prendevano posizione per difendere la fortezza dagli assalti nemici, l'andirivieni di cavalieri e ufficiali che riferivano al re il procedere delle operazioni. Poi vide anche Orogastus e la Voce Verde impegnati a preparare i congegni di guerra degli Scomparsi: due macchine che richiamavano i fulmini dal cielo, una che emetteva un suono così devastante da assordare e far sanguinare le orecchie di quelli che non le avevano appositamente protette; e poi due aggeggi che scagliavano una pioggia di proiettili mortali e uno che emetteva grandi gocce di fuoco, e un altro che sparava aculei avvelenati. Ma mentre Haramis osservava inorridita, le sembrò che una vocina le sussurrasse che quei macchinari erano pensati più per azioni di offesa che di difesa, e avrebbero anche potuto risultare estremamente pericolosi per chi tentava di usarli all'interno dei bastioni... Si chiese che cosa avessero intenzione di fare Anigel e Kadiya. Le fortificazioni esterne e le mura interne della Cittadella non potevano essere scalate, perché erano troppo ripide e fornite di feritoie da cui potevano tranquillamente difendersi i balestrieri o chiunque utilizzasse le armi del mago; e sebbene i talismani delle sorelle fossero in grado di offrire un valido schermo contro la Vista soprannaturale di Orogastus, era sicura che gli invasori sarebbero stati perfettamente visibili agli occhi dei difensori labornoki. I portali d'entrata alla fortezza erano appena stati riparati, ed erano comunque troppo massicci per essere abbattuti con dei comuni arieti. Pensavano forse le sue sorelle di utilizzare i talismani per aprirsi una breccia? Appoggiandosi la bacchetta al cuore, Haramis si chiese: Che sia possibile? E una risposta si formò nella sua mente...
«No.» Provò un tuffo al cuore. Cercherò di aiutarle il più possibile, ma non voglio interferire, si disse. E neppure offrirò consigli indesiderati. Stanno seguendo il loro destino - e io ho scelto il mio. E si sentì pervadere da una grande tranquillità. Pacificamente seduta sotto l'albero avvolto dalla nebbiolina serale, ebbe nuovamente la sensazione di essere radicata nel centro stesso del mondo, di conoscere esattamente il suo ruolo nel grande disegno. Sono diventata ciò che ho sempre saputo avrei potuto essere. Ma il prezzo di tutto questo sarà forse la morte delle mie care sorelle? Alzò il Cerchio e chiese semplicemente di vederle. E quando giunse la visione, passò ore e ore ad osservarle, sempre più meravigliata. La maggior parte dell'esercito di Anigel e Kadiya, posto sotto il comando degli umani ruwendiani e dei leali cavalieri di Antar, prese posizione nelle paludi dall'altra parte del fiume proprio davanti all'imbarcadero, a cinque chilometri circa sotto la fortezza stessa. Dal momento che venivano così a trovarsi proprio di fronte a lei, si mise attentamente in ascolto e scrutò al di là del fiume per vedere se risultavano percepibili ai normali sensi umani. Soddisfatta che non fossero ancora in vista, riprese a osservare il Cerchio. A parte questo corpo principale di attaccanti, alcune centinaia dei migliori combattenti Uisgu e Wyvilo avevano risalito il Mutar alla guida delle due sorelle e del principe Antar, raggiungendo infine quel luogo in cui avevano il loro sbocco gli antichi condotti idrici. Essendosi assicurato una perfetta copertura dalla Vista del nemico grazie ai talismani delle principesse, questo gruppo era quindi scomparso all'interno della cisterna. «Per il Fiore!» mormorò Haramis con ammirazione. «Se Kadi e Ani riuscissero ad aprire le pòrte della Cittadella, avrebbero forse una possibilità di vittoria!» Più tardi, quando le Tre Lune furono alte nel cielo, benché rese invisibili dalla nebbia, la Festa ebbe il suo inizio ufficiale; Haramis completò la sua piccola cerimonia personale e mangiò qualcosa dalla sacca delle provviste che le aveva lasciato Jagun. Poi chiese al talismano dove fossero i rinforzi dell'esercito labornoko. Il Cerchio le mostrò una flotta di oltre un centinaio di chiatte che percorrevano di gran carriera il fiume con tutta la velocità che riuscivano ad imprimere i vogatori. Anche se le sue sorelle fossero riuscite a penetrare nella fortezza e ad aprire le porte, sarebbero state sopraf-
fatte all'arrivo di questo secondo gruppo di armati di tutto punto. Mentre l'immagine nel Cerchio scompariva, Haramis si deterse dagli occhi lacrime non versate. Che sia! Il destino delle sue sorelle sarebbe stato quel che doveva essere, e lei ora doveva pensare a se stessa. Richiamò una visione di Orogastus. «Ho fatto la mia scelta», disse. Il mago la osservava senza tradire alcuna espressione. «E vorresti farmi l'onore di rendermi partecipe faccia a faccia di questa decisione? Mi dispiace di non poter venire io da te, ma il gipeto a cui hai ordinato di portarmi qui è scomparso subito dopo avere completato la sua missione.» «D'accordo», disse la principessa, «ci troviamo alla Grande Torre.» «Posso chiederti di incontrarmi nel solarium fra un'ora, e cioè a mezzanotte?» domandò Orogastus. «Tu saprai, naturalmente, che nessuno di noi può farti del male adesso che hai il completo dominio del tuo talismano.» «Sì, lo so», disse semplicemente Haramis. «Verrò.» «Arrivederci, allora», disse Orogastus, e il suo bel viso si addolcì in un sorriso. «E non commettere imprudenze, Haramis, mia adorata.» La sua immagine scomparve dal Cerchio. Haramis allora iniziò a raccogliere le sue cose alla debole luce dorata dell'ambra incastonata nel talismano. La nebbia si stava alzando, e un soffio di vento gelido scosse le lunghe fronde degli alberi del parco. Fra i giunchi e gli arbusti che crescevano sulla riva del fiume c'era qualche creatura che sguazzava e annaspava a tentoni, ma Haramis non ci fece molto caso. Però, mentre si stava preparando a chiamare il gipeto, fra i cespugli fecero capolino due grossi occhi dorati che si spalancarono a dismisura posandosi su di lei. «Principessa!» sibilò una voce a lei familiare. «Per il Fiore... Immu!» Haramis lasciò cadere a terra la borsa in cui aveva riposto la corona e il mantello dell'Arcimaga, e corse ad abbracciare la vecchia balia Nyssomu. «Immu, ma cosa ci fai tu qui?» La piccola creatura aggrottò le sopracciglia e mostrò le piccole zanne. «Cosa faccio cosa faccio... È una lunga storia, ne parleremo un'altra volta. Adesso non vedo l'ora di incontrare la mia cara principessa Anigel, ma sono preoccupatissima perché è tutto il giorno che cerco di 'vederla' ma la mia Vista si è rifiutata di mostrarmela!» Haramis annuì. «È la magia del suo talismano che la nasconde alla Vista dei nemici... e anche a quella degli amici, a quanto pare.» «Quando sono arrivata alla collina della Cittadella ti ho vista seduta qui
nel parco, e non potevo quasi credere ai miei occhi! Sai dove si trovi la mia principessa? Lei ha bisogno di me!» «Sì, lo so. Ma non credo che in questo momento abbia bisogno dei tuoi buoni uffici, Immu, perché lei e Kadiya stanno conducendo un contingente armato all'interno della fortezza per attaccare re Voltrik.» «Signori dell'Aria!» gemette Immu, e i suoi occhi ebbero un lampo improvviso. «Ma è proprio in un'impresa del genere che le occorre più che mai il mio aiuto! Dimmi come posso raggiungerla!» Haramis sorrise. «Hai una barca?» «Sì, una piccola imbarcazione a remi.» La principessa raccolse le sue cose. «Allora te la mostrerò.» Si imbarcarono, e Immu remò fra gli oscuri canali secondari del Mutar seguendo le indicazioni di Haramis. Dopo una mezz'ora arrivarono ad una stretta striscia di fango la cui vegetazione era stata quasi completamente sommersa dalla piena. All'interno iniziava il declivio della collina, alla cui base era stato ricavato una specie di argine fittamente ricoperto di alte felci spinose. La fanghiglia era tutta smossa e tempestata da una gran quantità di impronte. «Qui?» Immu era incredula. «Hanno preso terra qui? Ma siamo a quasi dieci chilometri dalla Cittadella, e la strada è tutta in salita e allo scoperto! E poi le tracce spariscono...» «Immu, si sono infilati negli antichi condotti della cisterna. Quella attraverso cui sono scappati Kadiya e Jagun. Le mie sorelle confidavano di poter schermare le loro forze dalla Vista di Orogastus quanto bastava per poter raggiungere i livelli più bassi della fortezza. Da lì tenteranno di aprire la porta principale e quella di Victualer.» Immu si stava arrotolando l'orlo dell'abito con espressione arcigna. «Come hanno fatto a risalire la colonna della cisterna?» «Hanno lanciato una fune con un rampino d'acciaio, e poi è salito un Uisgu che ha assicurato molte altre scale di corda per gli altri.» «Ti prego, cerca di avvistarli per me! Dimmi se la principessa Anigel è ancora sana e salva!» «No, non invocherò i Signori dell'Aria affinché si schierino al loro fianco.» «E va bene, come vuoi!» esclamò la piccola vecchia balia. «Ma io li seguirò!» E dopo essere saltata giù dalla barca sguazzò di corsa attraverso lo stretto tratto fangoso. Haramis la perse di vista quando raggiunse le alte felci, sospirò e si mise
ai remi. C'erano pattuglie di soldati labornoki che montavano di guardia alla collina, e presto o tardi avrebbero sicuramente scoperto quell'entrata e avrebbero lanciato l'allarme. Potrei far crollare l'argine, pensò, seppellendo così l'entrata del tunnel. Alzò il talismano. Le Tre Ali si dispiegarono all'interno del Cerchio, e il pezzetto d'ambra posto alla loro congiunzione iniziò a risplendere vividamente. «Che la terra si liquefi e scorra il fango», intonò Haramis, «in modo da nascondere questo luogo ad occhi ostili.» Si sentì un basso brontolio. L'argine scosceso sembrò incresparsi nella nebbia e poi crollò su se stesso coprendo l'entrata del tunnel. Dove prima c'era l'argine e il folto di felci, non rimaneva che una massa di fango scintillante costellata di piccoli massi rocciosi. La barca ondeggiava ancora leggermente sulle acque, da cui si levavano spire di vapore simili a spettrali serpenti. In lontananza sentì lo scalpitare dei pesanti zoccoli dei fronial. La cavalleria labornoka stava pattugliando la strada che portava al Mercato di Ruwenda. Si sentì anche un debole squillo di tromba, e un altro più vicino in risposta. Nella mente di Haramis una voce sembrava dirle: «Il potere è dentro di te. E questo è il più grande pericolo...» Si allontanò remando fra i placidi canali che costeggiavano la base della collina, fino a quando si trovò a una buona distanza dalla cisterna, e allora si accostò nuovamente alla riva. Legando il suo tascapane alla cintura chiamò: Hiluro! Il gigantesco volatile non apparve subito, ma Haramis non se ne preoccupò. Si sedette su una roccia e osservò la distante Cittadella, finalmente emersa dalla nebbia che ora si stava lentamente dissolvendo. Erano state poste delle grandi lanterne sulle torrette, ma probabilmente erano stati anche accesi dei falò nei cortili interni della fortezza, perché sia il grande maschio che le strutture adiacenti erano vividamente illuminate. Sul pennone della Torre Alta sventolava la bandiera rosso sangue del Labornok, con tre spade d'oro incrociate sullo sfondo. E anche quella era illuminata da fuochi accesi sul terrazzo. Era come se Voltrik stesse dicendo: eccomi qua! Venite a riprendervi il vostro castello se ne avete il coraggio! «Fa' che vincano!» supplicò Haramis afferrando il suo talismano. «Ti prego, fa' che vincano!» «Haramis.» La giovane udì la voce familiare del gipeto. «Ho visto una
cosa terribile.» Hiluro atterrò delicatamente come una nera nuvola di piume, e si affrettò immediatamente verso di lei. «Che succede?» «Salta in groppa e te lo farò vedere subito.» In pochi istanti furono in volo lungo il perimetro esterno della collina su cui sorgeva la Cittadella, per poi raggiungere la zona in cui la fitta Palude Verde incontrava il fiume Mutar poco oltre il Mercato di Ruwenda. Era un'area disabitata, prevalentemente costituita da nuda roccia con solo pochi sparsi ciuffi di vegetazione. Il cielo si stava rapidamente schiarendo, e anche la nebbiolina che di solito indugiava all'altezza del terreno era stata spazzata via. Le Tre Lune erano ancora velate, ma c'era abbastanza luce da lasciar scorgere ad Haramis la miriade di ombre scure che stavano emergendo su diverse colonne dalla Palude Labirinto, per poi convergere in una singola massa e puntare verso la Cittadella, a poco più di dieci chilometri di distanza. «Ma di cosa può trattarsi? Di sicuro il secondo troncone dell'armata labornoka non può ancora essere arrivato...» «Sono Skritek, richiamati dal mago», disse il gipeto. «Oh, Dio Trino! Ma certo!» Hiluro discese a spirale, veleggiando a pochi metri dal terreno in modo che Haramis poté chiaramente vedere quella feccia della Palude Labirinto mentre mugugnava e sibilava impotente contro il grande uccello che passava sopra le loro teste. «Non posso lasciare che divorino i camerati delle mie sorelle», pensò Haramis sgomenta. «Cosa devo fare?» Udì una voce che diceva con calma: «Tu sei la Signora di tutto il Popolo». «Che significa?» «Gli Skritek fanno parte del Popolo.» E allora capì, e seppe cosa doveva fare. Disse semplicemente: «Atterra, Hiluro, proprio davanti a loro». Il gipeto virò e tornò indietro, per poi lasciare Haramis su un masso ricoperto di muschio che si trovava un centinaio di metri davanti ai mostri in marcia; prese quindi posizione dietro di lei, con le grandi ali spiegate. La principessa indossò il mantello dell'Arcimaga e restò tranquillamente in attesa. La visione notturna degli Skritek permise loro di scorgerla immediatamente, e si gettarono in avanti ululando e sibilando, con una tal foga che lei fu certa che l'avrebbero calpestata.
Invece si fermarono a pochi passi di distanza, e si zittirono di botto quando lei alzò il talismano e comunicò con loro nel linguaggio senza parole: «Chi comanda fra voi?» Si fecero avanti, strascicando i piedi, una decina di quei bruti ricoperti di scaglie. Dalle loro fauci sgocciolava una saliva densa e puzzolente, e continuavano ad aprire e chiudere gli artigli. Haramis si rese conto che i loro già lenti cervelli erano in uno stato di completa confusione mentale. Lei disse: «Sapete chi sono?» «Tu eri morta! Ce l'ha detto lui. Lo sapevamo!» «Io sono sempre viva, qui nel mio paese. E tutti gli appartenenti al Popolo sono miei figli e mi obbediscono. Ma voi non avete obbedito. Avete seguito il mago e siete scesi in guerra, una cosa che vi era stata assolutamente proibita!» «Tu non ci hai parlato! Hai perso il tuo potere! Egli ce l'ha provato quando ci ha chiamati e tu non hai impedito la nostra partenza!» «Vi parlo ora. Mi sentite?» «Sì, Bianca Signora.» E ognuno degli Skritek lì presenti cadde a terra con la faccia al suolo, in un estremo gesto di deferenza penitenziale. Haramis disse ai mostri: «Prima vi era stato permesso di aiutare gli umani invasori, ma ora non vi è più concesso. Avete capito?» «Sì, Bianca Signora.» La risposta incluse anche qualche borbottio di malcontento, ma ciò nonostante era sostanzialmente sincera. «Prima di ritornare nelle Paludi, porterete a compimento una missione per me». «Siamo ai tuoi ordini, Bianca Signora.» E allora lei spiegò loro attentamente che cosa avrebbero dovuto fare, assicurandosi che si ficcassero bene in testa che non si sarebbero dovuti abbandonare a crudeltà gratuite. Sebbene questo veto suscitasse qualche disappunto, gli Skritek furono comunque soddisfatti alla prospettiva di assicurarsi anche un po' di divertimento, e accettarono di fare esattamente ciò che era stato loro richiesto. Dopo di che Haramis impartì loro la sua benedizione, montò in groppa al gipeto e volò verso la Cittadella per incontrare Orogastus. 44. Re Voltrik non era uno stupido, e si era già da tempo accorto quale mi-
naccia per la difesa costituisse il vecchio tunnel della cisterna. Ma gli ingegneri labornoki non avevano voglia di metterci le mani, e nemmeno di escogitare qualcosa per ostruire i condotti stessi, perché era tutto quanto in qualche modo connesso con gli acquedotti principali della Cittadella. Per quasi due settimane, però, il sovrano aveva appostato delle sentinelle all'imbocco della cisterna e disposto uomini lungo la serie di scale che ad essa conducevano, affinché potesse essere immediatamente passata parola se qualche invasore ruwendiano avesse tentato di accedere alla fortificazione attraverso quel passaggio sotterraneo. Ma le lunghe scalinate e i vari camminamenti, oltre ad essere malsani e tetri, erano anche infestati dai soliti viscidi lumaconi e da centinaia di svolazzanti animali notturni i cui continui strepiti e schiamazzi facevano diventare isterici gli uomini di guardia. E così, col passare dei giorni senza che alcun intruso umano facesse la sua comparsa (ma durante i quali furono percepite delle presenze spettrali che sembravano spiare i labornoki dalla maleodorante oscurità incombente nei locali in cui si trovavano le decrepite macchine per il pompaggio dell'acqua), le squadre di sorveglianza assegnate alla cisterna si erano piano piano ritratte ai livelli superiori dei sotterranei. E qui i soldati, con la connivenza dei loro ormai stufi sottufficiali, passavano il tempo bevendo birra di contrabbando, giocando a carte e dormendo sui vecchi tavoli di tortura. Il fato volle che, proprio nel momento in cui il primo invasore assicurava con un lancio calibratissimo il suo rampino di ferro al bordo della cisterna, un soldato labornoko fosse pescato a barare al gioco dai suoi indignatissimi compagni: ne nacque una furibonda gazzarra che coprì a sufficienza il suono prodotto dallo snodarsi della scala di corda. Quando la furiosa discussione calò finalmente d'intensità, quasi una quarantina di Oddling al comando del principe Antar si era già arrampicata nel locale della cisterna e si stava insinuando su per le strette scale che da essa si dipartivano. Il principe stesso, con indosso la sua sfarzosa armatura, entrò nelle segrete e incominciò a rimproverare gli stupefatti soldati perché stavano perdendo tempo con le carte invece di espletare i loro doveri. Gli uomini rimasero a dir poco sorpresi nel vedere il figlio del re piombare lì dal nulla come una furia, e, ignorando il suo supposto tradimento, se ne stettero buoni buoni mentre lui inveiva contro di loro. Quando poi anche i fieri Wyvilo e i guerrieri Uisgu si precipitarono nel vasto locale furono colti ancor più di sorpresa e non riuscirono ad opporre la benché minima resisten-
za, cosicché furono in breve sopraffatti, legati e rinchiusi nelle celle senza tanti complimenti. Occorreva ovviamente un po' di tempo perché i trecento e più invasori raggiungessero il piano terreno del maschio, da cui poi avrebbero guadagnato combattendo la via per le porte della Cittadella, e così le principesse e i loro luogotenenti ne approfittarono per fare il punto della situazione. Da un sergente che era stato catturato vennero a sapere che le sentinelle disposte all'esterno effettuavano un cambio della guardia ogni ora. «Dobbiamo salire le scale prima di allora», sostenne la principessa Kadiya. «In questo modo potremo eliminarli uno per uno, facendo bene attenzione che non diano l'allarme. Un solo grido, e saremo spacciati!» Intervenne un capo battaglia Uisgu di nome Prebb: «Prenderò due dei miei, avanzeremo silenziosi come la nebbia delle paludi e useremo le nostre cerbottane per sistemarli senza il minimo rumore». «Ma se per caso vi vedesse anche una sola guardia...» Il principe Antar era dubbioso. «Sapete bene che la magia delle principesse ci ha protetti finora dalla Vista del mago, ma i comuni mortali possono vederci tranquillamente.» «Mi occuperò io delle guardie!» disse Anigel. «Il mio talismano può rendermi invisibile, come quando mi trovavo in pericolo mortale, così il nemico non avrà la benché minima possibilità di lanciare un segnale di allarme». Atterrito, Antar tentò di dissuaderla, come d'altronde provarono a fare anche tutti gli altri. Ma lei era determinata ad assumersi quel rischioso compito, sicura com'era della sua capacità di portarlo a termine con successo. Kadiya, avvolta da capo a piedi in una cotta dorata il cui splendore era a mala pena offuscato dal fango che la chiazzava, si fece avanti e prese fra le sue le mani della sorellina. «Hai ragione, Ani. È una missione fatta apposta per te, e nessuno di noi può negarti ciò che il tuo coraggio domanda così imperiosamente. Buona fortuna, sorella mia, e che il male non possa neanche sfiorarti! Sono stati tempi bui per noi, ed è davvero il momento di tornare in piena luce.» Prebb prese una bandoliera piena di piccoli dardi e la drappeggiò intorno alle spalle di Anigel. «Se lasci il dardo dove colpisce, l'uomo muore. Se lo togli subito, si fa solo una lunga dormita. Ma attenta a non pungerti tu stessa, principessa.» «Ho capito», disse Anigel irradiando una calma quasi innaturale. «Ad ogni sentinella abbattuta», disse Kadiya, «lanciami un messaggio
telepatico. Noi ti seguiremo passo passo senza che alcun rumore tradisca i nostri movimenti.» «Mia principessa!» la implorò Antar. «Vi scongiuro...» «No.» Si avvicinò a lui e lo baciò delicatamente sulle labbra, leggera come un tocco di farfalla. Ma quel tenero gesto bastò ad accendere il cuore del principe come un tizzone ravvivato da un soffio di vento e lo paralizzò al punto che, quando riuscì a dar voce alla sua gioia, Anigel se n'era ormai andata. Gli Oddling sorridevano dandosi di gomito, e Kadiya gli suggerì piuttosto bruscamente che avrebbero fatto meglio ad andare a controllare come andavano le cose giù nella cisterna. L'unica preghiera e comando di Anigel fu un rapido sussurro: «Signori dell'Aria, proteggetemi». E poi iniziò a risalire la lunga scalinata. Dopo un centinaio di gradini si imbatté nella prima guardia, seduta sui gradini con a fianco una lanterna e la balestra oziosamente appoggiata su una spalla. Era un bel giovane robusto, e fischiettava distrattamente mentre scommetteva fra sé su quale dei due lingit che stavano strisciando sul muro sarebbe arrivato per primo al soffitto. Anigel arrivò silenziosamente a pochi passi da lui e alzò la cerbottana con mani tremanti. Dove avrebbe dovuto colpirlo? Il soldato indossava una casacca di cuoio sotto la cotta, e il suo collo era protetto da placche di metallo che si dipartivano dall'elmo. La fanciulla si disse: cadrà, e sia che cada su di me o sul dardo, non riuscirò ad estrarlo e lui morirà! Oh, non potrei sopportarlo, perché sembra così giovane e coraggioso e sicuramente sua madre l'aspetta a casa... È un tuo nemico mortale, sembrò sussurrarle una vocina insistente, che non ci penserebbe due volte a violentarti e farti a pezzi se solo potesse vederti. Forse non è poi così malvagio, ma non esiterà a obbedire agli ordini datigli da qualcuno che malvagio lo è realmente. E coloro i quali scelgono il ruolo di combattenti devono anche essere pronti a sopportarne il destino. Anigel si sentì tremare le gambe, e si rese conto per la prima volta che anche lei aveva scelto quella strada, nonostante avesse cercato in ogni modo di convincersi che l'avrebbe fatto senza spargimenti di sangue. E se dovessi ucciderlo a sangue freddo... ci riuscirei? Fece un profondo respiro e conficcò il dardo nel dorso di una mano del soldato. Lo estrasse istantaneamente, e dopo averlo gettato via si ritrasse di un passo da lui. Questi emise un querulo mormorio, e dopo avere roteato gli occhi all'indietro si afflosciò su se stesso lasciando andare la balestra.
Però respirava ancora, e, dopo essersene accertata, Anigel comunicò con Kadiya telepaticamente. Poi proseguì su per le scale, verso un'altra sentinella, con il cuore che le batteva all'impazzata e il corpo pervaso di uno straordinario vigore che quasi la faceva vergognare di se stessa. Fatica e paura l'abbandonarono come un sogno all'alba. Quello spaventoso passaggio attraverso il condotto fangoso e la vertiginosa salita sulla traballante scala di corda erano ormai dimenticati. Ora era nella Cittadella, a casa, pronta come non mai a combattere contro quelli che l'avevano saccheggiata... E piano piano spedì nel mondo dei sogni ben diciotto guardie labornoke, fino a raggiungere l'entrata del locale in cui Immu aveva distillato birra per tanti anni. Si mise in ascolto (senza pensare neanche a utilizzare la sua Vista per vedere cosa ci fosse oltre) e non sentendo alcun rumore scivolò all'interno... E si trovò faccia a faccia con la Voce Verde. Naturalmente lui non la vide ma scorse la porta aprirsi e sentì una zaffata di aria umida e stantia che proveniva indubbiamente dai sotterranei. Si lasciò sfuggire una colorita espressione di disappunto, ma subito dopo fece una strana risatina e disse: «Ma sì, vieni avanti lurido rifiuto delle paludi, e beccati quel che ti meriti! Forse non possiamo vederti, ma grazie al mio sommo maestro siamo riusciti a sentirti, e una volta che la tua avanguardia avrà raggiunto l'ultimo gradino delle scale... allora verrete giustamente puniti per la vostra sconsiderata temerarietà!» La Voce Verde era senza cappuccio, e così Anigel vide che le sue orecchie erano coperte con due oggetti simili a piccoli cappucci collegati fra loro da una sottile banda che stringeva il cranio rasato del servo di Orogastus. Ma la principessa non prestò alcuna attenzione a quegli strumenti magici, e si concentrò invece su una macchina che due soldati ben piantati stavano sistemando nel locale. Si trattava di un pesante scatolone grigio dagli angoli arrotondati e guarnito da complessi ornamenti sulla parte posteriore e superiore; dal davanti usciva un lungo e sottile cilindro di vetro al quale erano attaccati diversi anelli e bastoncini, e aveva in punta uno strano aggeggio dorato. Quella scatola era collegata con un'altra più grande per mezzo di un cordone fatto di uno scintillante materiale nero, e il secondo strumento magico era stato piazzato su alcuni sacchi di granaglie a pochi metri di distanza.
«State attenti, stupidi!» disse la Voce a uno dei soldati, che aveva barcollato per lo sforzo rischiando di far cadere lo scatolone. «Questo e un altro ancora sono gli unici generatori di lampi ancora funzionanti, e se per caso lo danneggerete il mio grande maestro vi toglierà la pelle di dosso prima di gettarvi in un calderone di olio bollente!» Anigel represse un moto di orrore. I lampi di Orogastus erano quindi provocati da semplici macchine? E ora la Voce Verde si preparava a scaraventarne l'immane potenza contro sua sorella e i suoi armati... E contro il principe Antar. Agendo con rapidità insospettabile, Anigel colpì in successione entrambi i soldati, che si accasciarono, dopo aver però appoggiato a terra delicatamente quel misterioso strumento di morte. Mentre i dardi tintinnavano al suolo accanto a loro, la Voce Verde si allarmò. Uso com'era alla magia, aveva probabilmente percepito l'invisibile presenza di qualcuno, e si stava ora precipitando verso l'apparecchiatura posta sul mucchio di sacchi. Anigel corse subito dietro di lui, e gli si gettò addosso. Mentre questi cercava di muovere una protuberanza che si trovava sulla scatola più grossa, la fanciulla estrasse lestamente un dardo dalla bandoliera e glielo conficcò con forza nel collo. La Voce Verde crollò immediatamente a terra, inerte come uno dei sacchi che formavano quell'improvvisata barricata. Lo strano copricapo scivolò via dalla sua testa rasata, e Anigel si rimise lentamente in piedi. Non riusciva a distogliere lo sguardo dalla piccola freccia, e quando la sua mano fece per allungarsi ad estrarla, ricadde subito indietro. Le sembrò di udire nuovamente delle parole sentite tanto, tanto tempo prima... o forse si trattava solo di quattro settimane prima? quando lei e Kadiya e Immu e Jagun avevano osservato attoniti un trono ricoperto di sangue, e lei, nella sua ingenuità, aveva domandato una spiegazione alla malignità umana: ma le persone d'animo gentile non possono rispondere gentilmente a coloro i quali perseguono il male, perché questi non sanno che cosa sia l'amore e lo ritengono semplicemente un segno di debolezza e «per questa ragione tu, che sei una gentile principessa piena d'amore, dovrai comportarti ancor più duramente con i malvagi...» «E tu sei la Voce di Orogastus», sussurrò lei. E rimase a fissarlo con aria abbattuta fino a quando Kadiya e gli altri non sciamarono all'interno del vasto locale in cui veniva prodotta la birra, e per allora la Voce Verde era ormai morta. Quindi Anigel ordinò al possente capo Wyvilo Lummomu-Ko di fare a
pezzi quel macchinario con la sua pesante ascia. Fatto ciò, la piccola armata si diresse compatta verso il piano terreno della Cittadella, e la vera battaglia finalmente ebbe inizio. In tempo di pace le gigantesche chiatte utilizzate dai commercianti erano manovrate da ciurme di liberi vogatori ruwendiani, orgogliosi della loro forza e perizia, che si guadagnavano cospicue paghe andando su e giù per il fiume il più velocemente possibile. Ma dopo la conquista, la maggior parte dei barcaioli più esperti era fuggita nella Palude Labirinto, e i labornoki erano stati costretti a prendere come schiavi quelli che erano rimasti, aggiungendo poi degli inesperti ruwendiani per riempire gli scranni vuoti. Erano legati agli scalmi, nutriti malamente, e frustati senza pietà se solo davano l'impressione di battere la fiacca. Ma nonostante tutto, anche la migliore di queste ciurme era comunque inferiore a quelle composte da uomini liberi, come avevano avuto modo di constatare anche il generale Hamil e lord Osorkon durante la loro sventurata spedizione sul Mutar. Ora che Osorkon desiderava ritornare il più velocemente possibile alla Cittadella (avendo saputo da una conversazione con la defunta Voce Rossa che un qualche serio colpo di mano era stato architettato per la Festa delle Tre Lune), la consistente flotta di imbarcazioni sembrava avanzare poco più rapidamente della corrente. Un impressionante numero di vogatori era perito sotto la sferza degli invasori, e il resto di loro era così esausto che nessun'altra efferatezza avrebbe comunque potuto incrementare la loro velocità. Osorkon chiamò il comandante dell'ammiraglia per cercare di capire se si potesse trovare un qualche rimedio, ma Pellan si strinse nelle spalle e disse: «Mio generale, i rematori sono ormai stremati e vicini al collasso. Niente e nessuno potranno farci andare più veloci, a meno che non vi decidiate ad accogliere il suggerimento che vi avevo dato in precedenza e sostituiate gli schiavi con i soldati». «Accidenti a te, Pellan, se ci fermeremo per effettuare il cambio, perderemo ancor più tempo, e poi i miei uomini non sanno un bel niente di barche e remi!» «Che posso dirvi?» L'esperto barcaiolo si strinse nuovamente nelle spalle e il suo viso fu solcato da un'espressione fatalistica. «La piena già ci fornisce una buona spinta, non ci resta altro da fare che lasciarci trasportare...» Osorkon serrò la mascella con aria irata, ma non si lasciò sfuggire un
fiato. Era meno impetuoso del defunto Hamil, e comunque sapeva che Pellan aveva detto il vero. La flotta alla fine avrebbe raggiunto la Cittadella anche se tutti i rematori fossero crollati per la fatica. Gettò un'occhiata al cielo, verso quelle luminescenti macchie di luce che indicavano la posizione delle Tre Lune, velate dalle nuvole. Era quasi mezzanotte, e la festa era già iniziata dal tramonto. Chissà a quali oscure magie avrebbero fatto ricorso quella strega della principessa Kadiya e la sua marmaglia di Uisgu! Osorkon voltò le spalle a Pellan, e fatto qualche passo si fermò davanti alla frisata di prua con le mani dietro la schiena. Indossava un caldo mantello per proteggersi contro il freddo e l'umidità della sera, ma non aveva ancora vestito la sua armatura da battaglia. «Che cos'è quel bagliore rossastro là in lontananza, uomo del fiume? Ci stiamo forse finalmente avvicinando alla nostra meta?» «Sì, mio generale. Il porto commerciale del Mercato di Ruwenda si trova ormai a pochi chilometri. Ma voi ci avete ordinato di procedere fino agli attracchi della Cittadella stessa, e si tratta quindi di un'altra quindicina di chilometri via fiume...» «Sì, sì, lo so. Quanto ci vuole per arrivare?» «Meno di un'ora.» Pellan si diede ad osservare il fiume innanzi a loro con un cannocchiale d'ottone. «Strano, la superficie delle acque lì davanti è piuttosto turbolenta. Si potrebbe quasi pensare che i giganteschi pesci milligan stiano deponendo le uova, ma non è questo il periodo giusto dell'anno.» Osorkon si mise subito allerta. «Si tratta forse di imbarcazioni nemiche?» «No, niente del genere. C'è abbastanza luce per vedere chiaramente... E adesso lo stesso tipo di fermento sta affliggendo le acque a babordo e... Per il Sacro Fiore! Indietro! Indietro!» La calma della notte fu scossa da una serie di tonfi tremendi e da ruggiti così orribili da far rizzare in testa i capelli. Osorkon vide emergere da dietro la frisata un'enorme testa con scintillanti occhi color arancio, e una bocca di dimensioni inusitate e costellata di denti simili ad affilati coltelli. Un'orrenda zaffata di fetore proveniente dalle sue viscere lo investì con un impatto quasi fisico. «Skritek!» urlò Pellan con quanto fiato aveva in gola. E fu l'ultima parola che riuscì a pronunciare. Il mostro saltò agilmente a bordo, ghermì il barcaiolo fra i suoi poderosi artigli e gli staccò la testa con un solo morso! Vedendo ciò che aveva combinato uno dei suoi supposti alleati, Osorkon
si sentì invadere contemporaneamente da un senso di rabbia e di paura. Ma ancor peggio, l'intero perimetro dell'imbarcazione era preso d'assalto da orde di Skritek, i cui ruggiti di eccitazione si mischiavano alle grida di terrore degli umani. «Fermi!» urlò Osorkon. «Basta, razza di dannati cannibali, noi siamo labornoki! Vostri alleati! Vostri amici!» Il gigantesco Skritek che aveva decapitato Pellan sembrò momentaneamente confuso, come se si fosse appena ricordato di qualcosa di molto importante che gli era apparentemente scappato di mente. Ululò una frase nel suo linguaggio gutturale, ottenendo in risposta una serie di ringhi e manifestazioni di disappunto da parte dei suoi compagni. Poi lasciò cadere a terra il corpo insanguinato di Pellan, afferrò lord Osorkon con particolare attenzione e lo gettò fuori bordo. L'ufficiale riemerse quasi subito, tossendo e sputacchiando, ma si aggrappò prontamente ad un grosso remo alla deriva. Poté quindi osservare con immenso stupore la scena che si svolse sotto i suoi occhi, con gli Skritek che afferravano e gettavano nelle scure acque limacciose ogni singolo labornoko. Vennero risparmiati solo gli uomini ancora incatenati. Alcuni mostri si provarono a mordicchiare le loro sventurate vittime, ma furono subito rimbrottati aspramente dai loro compagni e dovettero infine desistere dall'abituale festino che coronava le loro imprese. Quando tutti i cinquemila invasori del Labornok furono a mollo nel Mutar, uno Skritek molto alto e addobbato da una preziosa cintura d'oro adorna di gemme multicolori strappò dal supporto lo stendardo labornoko e lo fece a pezzi con gli artigli taglienti. Tutti gli altri Skritek esplosero in orrende risate gutturali e si tuffarono allegramente nel fiume guadagnando ben presto a nuoto la riva. Quando furono ben distanti, Osorkon lanciò un richiamo e poi urlò: «Cavalieri! Soldati! C'è qualcuno ancora in vita?» Gli fece eco qualche sparso, distante grido di risposta, e si levò un buon numero di oscene imprecazioni. «Risalite sulle barche, uomini!» ordinò allora Osorkon, ma, mentre parlava, i vogatori ruwendiani ancora legati ai loro posti iniziarono a passarsi parola sotto coperta, realizzando finalmente ciò che era accaduto. E allora i remi ripresero a fendere le acque con grande alacrità, e le imbarcazioni cercarono di allontanarsi a tutta velocità dall'armata galleggiante! Lord Osorkon nuotò impetuosamente verso la chiatta più vicina, e riuscì in qualche modo ad aggrapparsi alla fiancata. Imprecando selvaggiamente
poté infine salire a bordo, insieme con una dozzina dei suoi che lo avevano imitato. Riuscirono a riguadagnare rapidamente il controllo della situazione, ma solo quattro barconi su centoventi furono alla fine riconquistate dai labornoki, mentre gli altri svanirono rapidamente nella notte. Vennero recuperati quanti più uomini fu possibile far salire a bordo, e dopo qualche tempo le quattro chiatte fecero il loro ingresso nel porticciolo commerciale di Ruwenda. Osorkon e i suoi furono accolti dal capitano del porto e dall'ufficiale della guardia. «Fronial!» ruggì Osorkon. «Quanti più fronial potete procurarci per raggiungere la Cittadella, o ne risponderete con la vita!» Venne rapidamente riunito un consistente branco di quei possenti destrieri, ed i cavalieri si gettarono al galoppo lungo il sentiero che conduceva alla Cittadella. Dei cinquemila uomini che avevano lasciato Trevista per unirsi ai loro compagni rimasti nella fortezza, ne rimanevano appena settantadue. 45. Haramis volò fino alla Torre Alta della Cittadella e lì si fermò. Scendendo abbracciò il testone del grande uccello e disse: «Non so se ci incontreremo di nuovo, amico mio, ma mentre solcherai i cieli ricordati che la mia benedizione sarà sempre con te. Sei stato davvero un compagno leale e prezioso», Il gigantesco volatile inchinò il capo quasi fino a terra. «Sarò sempre al tuo servizio, Bianca Signora.» E poi spiccò un balzo verso l'alto, verso un cielo cupo in cui si rincorrevano minacciosi nuvoloni che oscuravano la magica visione delle Tre Lune. Haramis sollevò il coperchio della botola, notando che era stato riparato, e scese le scale. C'erano solo poche guardie al piano in cui veniva conservato il tesoro, ma non sembrarono notarla mentre passava accanto a loro. Un numero più consistente di uomini pattugliava invece i corridoi che portavano ai piani mezzani del grande maschio, e qui si imbatté in un gruppo di cinque cavalieri che osservavano pensierosi il fiume da una finestra sovrastante il grande corso d'acqua. Ma neanche loro diedero segno di averla vista. Mi sento come un fantasma venuto a infestare la sua antica dimora, pensò. Che Orogastus abbia ordinato a tutti di ignorarmi completamente, o è il talismano che mi rende invisibile?
Devo ridurmi ad essere soltanto uno spettatore in questo conflitto, standomene quietamente in disparte come ha sempre fatto l'Arcimaga? Qual è il mio ruolo nel compimento della profezia? E raggiunse finalmente il solarium, che era stato preparato per accoglierla. Un fuoco scoppiettante ardeva nel camino, le candele erano state tutte accese e vicino all'ampia finestra della balconata si trovavano una comoda poltrona e un tavolino con una fiasca di cristallo piena di un liquore ambrato e due calici della medesima pregevole fattura. Diede un'occhiata fuori dalla vetrata e scorse migliaia di soldati, ordinatamente disposti in attesa di un attacco nemico, che venivano passati in rassegna da alcuni cavalieri dalle scintillanti armature. Qua e là ardevano dei falò, i cui bagliori venivano riflessi dal luccicante metallo, e a intervalli regolari erano state erette barricate che sarebbero servite a contenere le truppe avversarie se fossero riuscite a penetrare la cinta muraria esterna. Nei pressi dell'entrata principale era stata disposta una strana macchina intorno a cui si stavano affaccendando degli inservienti infagottati in lunghi mantelli neri, tutti fedeli servitori del mago. Su un'alta piattaforma massiccia che fiancheggiava l'entrata del maschio erano state invece piazzate altre quattro macchine e gli uomini a esse addetti. Lungo i camminamenti delle mura interne ed esterne erano assiepati centinaia di balestrieri, mentre sui bastioni principali erano già pronte le catapulte e consistenti cumuli di grosse pietre che sarebbero state scagliate contro gli sventurati assalitori. Il grande portale della Cittadella era bloccato da un ammasso di pietrisco che giungeva fino all'altezza delle robustissime stanghe centrali. «Senza speranza», sospirò Haramis. «Senza speranza.» E si voltò proprio mentre Orogastus entrava nella stanza. Il mago era avvolto nel suo abito nero e argento e portava in testa il copricapo trapuntato di stelle. Ma la sua maschera era diversa da quella che indossava abitualmente quando invocava le Potenze Oscure: l'intero suo viso era nascosto, e persino gli occhi erano coperti da vetri scuri. Il suo aspetto era così minaccioso che la fanciulla sussultò e rimase a bocca aperta. Immobili, si fissarono negli occhi senza batter ciglio. Da qualche profondo, remoto recesso della torre giunse un suono soffocato che Haramis non riuscì a distinguere. Orogastus slacciò la maschera e se la tolse, gettandola poi insieme ai guanti argentati su una delle poltrone davanti al focolare. «Hai fatto dunque la tua scelta», disse lui lentamente, «e non hai scelto
me.» «No.» «Ho scelto la mia strada da lungo tempo», riprese Orogastus, «e non posso tornare indietro.» «Lo so.» Orogastus estrasse da una tasca del suo mantello una piccola scatola di legno che recava sinistre incisioni. La scatola conteneva una minuscola sfera verde. Haramis la fissò senza capire. Aveva la vaga sensazione che i rumori levatisi poco prima stessero diventando più forti. Erano le grida e il tumulto di una battaglia in corso da qualche parte nelle zone più basse della Cittadella. «È chiamata Effluvio Funesto.» Orogastus mise via la scatoletta e l'espressione del suo viso divenne repentinamente seria e implacabile. «Se scaglierò a terra quest'arma, i vapori che ne scaturiranno porteranno morte certa a chiunque si troverà qui nella Cittadella. Avverti Kadiya e Anigel affinché ci consegnino i loro talismani.» Orogastus afferrò la fanciulla e la baciò quasi con ferocia. Poi indossò nuovamente la maschera e i guanti e se ne uscì sbattendo la porta. «No», bisbigliò Haramis. «No!» Infine si decise a non perdere più tempo, e chiese al suo talismano di mostrarle Kadiya e Anigel e la loro forza di invasione. Il Cerchio questa volta non emise la nebbiolina perlacea, e sembrò invece risplendere ed espandersi fin quasi ad inghiottirla dentro di sé... Le parve di librarsi vicino all'alto soffitto della cucina del maschio, dove una massa di Wyvilo guidati dal principe Antar stava cercando di farsi strada attraverso uno stuolo di soldati e cavalieri di Labornok. Quei fieri rappresentanti del Popolo delle Foreste roteavano implacabili le micidiali asce bipenne, creando varchi fra le file nemiche sempre più sparute e demoralizzate. Si gettavano allora all'attacco i piccoli Uisgu con gli occhi cerchiati di rosso e le armature di scaglie dorate. Quei guerrieri in miniatura arrivavano gridando selvaggiamente e scagliando con incredibile precisione i loro micidiali dardi avvelenati. Gli invasori passarono rapidamente dalle cucine semidemolite ai locali in cui si trovavano i forni per la panificazione, per raggiungere poi le lavanderie e sbucare infine in uno dei cortili delle cinte più interne. Qui trovarono ad attenderli il corpo principale dei difensori, armi in pugno ed espressioni feroci sul viso. Dapprincipio Haramis non riuscì a trovare le sue sorelle, ma vide ben
presto Kadiya, una figura ricoperta da una cotta dorata e leggermente più alta degli Uisgu, che incitava i piccoli guerrieri e teneva alto innanzi a sé il suo talismano. E poi Haramis scorse Anigel, vestita di un completo da caccia di pelle azzurra che sembrava brillare nella luce incerta, e con accanto un bel principe dall'armatura azzurra. Quando qualche nemico tentava di assalire Antar alle spalle, lei lo ricacciava indietro pungolandolo con il suo pugnale, e lo sventurato labornoko se la dava immediatamente a gambe levate. «Ma certo, Anigel per loro è invisibile!» comprese Haramis. «Ecco perché può attaccare impunemente quei bruti. E anche Kadiya dev'essere in qualche modo protetta dal suo talismano. Sembra proprio che stiano avendo la meglio!» Ed era vero. Ma quando emersero in campo aperto, il vantaggio passò rapidamente agli avversari. La piccola forza d'assalto delle principesse si trovò improvvisamente sopravanzata di almeno quindici a uno; come se non bastasse, i servitori del mago iniziarono in quel momento ad utilizzare anche i loro infernali strumenti, e così i ruwendiani e i loro alleati Oddling si ritrovarono pigiati nell'area antistante l'uscita delle lavanderie. Haramis uscì dalla sua trance e corse alla balconata, da dove poteva vedere con i suoi stessi occhi la feroce tenzone in atto poco più in basso. Si mise immediatamente in contatto con le sorelle attraverso il proprio talismano: «Kadiya! La macchina dei lampi si trova su quella piattaforma vicino al portale principale! Distruggetela!... Anzi, usatela per demolire la porta e abbattere quel cumulo di pietrisco che i labornoki vi hanno eretto contro per bloccare l'accesso alla Cittadella!» Kadiya non rispose, ma Haramis vide una solitaria figura rivestita d'oro staccarsi di gran carriera dalla massa di Uisgu, e sgattaiolare attraverso i nemici vocianti, mentre i bagliori dei falò si riflettevano sulla sua armatura. «Anigel! Vicino all'entrata principale del maschio ci sono quattro piattaforme di legno...» Ma prima che potesse finire, i servitori di Orogastus iniziarono a far fuoco con le loro armi micidiali. Da due delle macchine partirono palle di fuoco bianco-dorate, che si schiantarono in mezzo alle schiere degli assalitori infliggendo orribili bruciature a destra e a manca. Dagli altri due strumenti di morte si levarono invece vere e proprie grandinate di proiettili metallici, che provocarono ferite mortali ed orrende mutilazioni fra gli sventurati che ne rimasero colpiti.
«Sì, Haramis, le vedo! Vado!» «Anigel!» gemette Haramis, e si morse un labbro nervosamente. «Stai attenta! Anche se non possono vederti...» Ma proprio in quell'istante Haramis barcollò e fu quasi accecata da un tremendo lampo di luce, e la spaventosa esplosione che ne seguì fece tremare persino il grande maschio. Quando la visuale si schiarì, alzò il suo talismano per cercare di vedere cosa stava accadendo oltre la cortina di tenebra e fumo. Fu sorpresa nel constatare che quasi tutto il portale era stato fatto a pezzi dall'impatto del fulmine creato dalla terribile macchina di Orogastus. Ma ciò che era ancor più incredibile, era che quell'immane flusso di energia distruttiva aveva proseguito il suo percorso in linea retta, andando a demolire anche la porta più esterna e quella del barbacane. E Kadiya... «Oh, mio Dio, abbi pietà di lei!» esclamò Haramis. In cima alla piattaforma non rimaneva che un ammasso contorto di metallo fumante, e vicino ad esso si trovavano i corpi carbonizzati di quelli che erano stati gli inservienti al pezzo. A terra fra loro c'era anche una piccola figura umana rivestita d'oro, immobile e con una spada spuntata saldamente serrata fra le mani. «Kadiya deve aver distrutto la macchina con il suo talismano», pensò Haramis, «ma non avevo pensato che avrebbe potuto ferirsi! Devo avvertire Anigel... Ah, la stupida!» Quell'esclamazione telepatica che le risuonò nella mente, Haramis se ne rese conto, non poteva giungere da altri che Orogastus. «Ha utilizzato in un solo colpo tutta la forza distruttiva della macchina! Le barriere sono crollate e il nemico sta già attraversando il fiume!» Haramis lo vide, proprio sotto di lei. Il mago si trovava su un piccolo parapetto poco sopra l'entrata del maschio, e con voce amplificata da qualche sorta di magia stava incitando gli esterrefatti guerrieri di Labornok, ancor scossi dall'immane esplosione di tuoni e fulmini. «Forza, uomini! All'assalto!» In quell'istante fece la sua comparsa alla balaustra anche re Voltrik, nella sua sfavillante armatura dorata e con indosso un terribile elmo cornuto. Il sovrano alzò la lunga spada al cielo, e a quella vista le sue truppe levarono alte grida di giubilo e si gettarono di nuovo nella mischia. Ma all'improvviso si udì il richiamo del principe Antar, abbastanza forte da riecheggiare in ogni angolo del vasto cortile.
«Uomini di Labornok, non ascoltate quel demone! Sono Antar, il vostro principe! E vi dico che Orogastus ha stregato mio padre e l'ha trasformato in un docile strumento della sua cupidigia!» Un brontolio feroce si alzò da migliaia di gole. «Silenzio, traditore!» ruggì Orogastus. Ma alcune voci risuonavano: «Ha ragione! Il principe ha ragione! Guardate come se ne sta lì il re!» E un altro disse: «Perché il sovrano non è qui fra noi, a guidarci?» E ancora: «Fatti avanti Voltrik! Di' qualcosa!» E a queste si unirono tante altre voci, finché Orogastus non alzò entrambe le mani e i suoi occhi scintillarono come stelle. Cadde un silenzio improvviso. Il re Voltrik si rese conto che avrebbe dovuto parlare. Ma cosa avrebbe potuto dire? Il suo coraggio era ridotto a brandelli, la sua grande ambizione si era dileguata come un vano sogno. La realtà era l'armata ruwendiana che irrompeva nella Cittadella a dispetto di tutta la magia di Orogastus. La realtà erano le voci dei suoi uomini, dalle quali si capiva che la loro fedeltà era sempre più traballante. La realtà era il suo detestato figlio Antar che lo sfidava apertamente. La realtà, soprattutto, era il fallimento di Orogastus, che non era riuscito a distruggere le tre principesse-maghe, una delle quali era destinata a distruggere lui... «Soldati di Labornok, continuate a combattere! Combattete, dico!» Ma la voce del re sembrava più un lamentoso gracidio che uno squillante comando. «È il mio spregevole figlio che è vittima di un incantesimo. Distruggete il rinnegato!» Ma non ottenne l'effetto sperato, perché le sue parole, ben lungi dall'incoraggiare soldati e cavalieri, provocarono invece un ulteriore scoppio di clamori indistinti, e il principe Antar ne approfittò per incalzare vieppiù gli astanti: «A me, figli di Labornok! Ribellatevi all'oscuro potere del mago e unitevi a me!» La battaglia ricominciò più furiosa di prima, e nonostante le roboanti ammonizioni di Orogastus parecchi labornoki si strapparono di dosso le loro insegne scarlatte e si schierarono a fianco di Antar e delle sue ormai decimate forze d'assalto. Nella grande confusione che ne seguì, quasi nessuno, e men che meno l'adirato Orogastus, si accorse che gli uomini in nero che avrebbero dovuto azionare le micidiali macchine che sputavano proiettili di metallo erano caduti a terra privi di sensi. Solo Haramis, a bocca aperta per la imprevedibile temerarietà della sua sorellina, vide Anigel spingere quei terribili
strumenti di morte verso il bordo della piattaforma e mandarli a schiantarsi contro le rocce sottostanti. Quando Orogastus si accorse di ciò che stava accadendo, intimò a un gruppo di fedelissimi di andare a difendere la seconda piattaforma a costo della vita. Ma gli uomini si avvidero che gli sgherri del mago erano stati sorpresi da qualche misteriosa magia, quella stessa magia che era ancora all'opera e faceva sì che esseri invisibili gettassero loro addosso una pioggia di pietre, legname e oggetti di vario genere. E così nessuno osò muoversi, ed Anigel ebbe modo di raggiungere l'altra piattaforma e finire di distruggere le preziose armi che il mago aveva usurpato agli Scomparsi. «Ben fatto!» si congratulò Haramis con sua sorella. «Ma ora dobbiamo aiutare Kadiya.» Anigel era esultante. «Non è stato straordinario, il modo in cui è riuscita a scagliare il fulmine? Il mio talismano mi mostra una visione delle nostre truppe che stanno attraccando all'imbarcadero della Cittadella, e non avranno certo problemi a penetrare all'interno attraverso la breccia che Kadi è stata in grado di creare!» «Anigel, Kadiya è ferita. Vai da lei. Io sto venendo giù a darvi manforte.» Haramis afferrò la corona di Ruwenda e il mantello dell'Arcimaga, e corse ad aiutare le sorelle. «Là! Là, mio sire... non la vedete?» Orogastus indicò un punto all'altezza della barricata che si trovava proprio davanti all'entrata principale della Cittadella. Re Voltrik strizzò gli occhi e finalmente disse: «Sì, la vedo! Indossa una specie di armatura dorata, non è vero?» «Esatto! È stata tramortita dallo scoppio del fulmine, e quindi ora non può comandare il talismano! La principessa Kadiya non è più invisibile... e non è più protetta dal suo potere! Maestà, affrettatevi a cogliere quest'occasione per eliminarla definitivamente, o verrà presto tratta in salvo dai suoi!» «I... io?» balbettò il re. «Andare laggiù?» «Avete forse paura di una ragazza svenuta?» La voce del mago divenne vellutata, suadente. «Non ci sono nemici in vista accanto a lei, in questo momento, solo le vostre stesse truppe... che sono troppo codarde per osare persino toccarla. Ma voi potete tranquillamente sistemarla una volta per tutte! La vostra grande nemica, la donna della profezia! È lei che ha truci-
dato il generale Hamil, messo in rotta una buona metà del nostro esercito e istigato questa battaglia. Ma non ha ancora vinto! Abbiamo cinquemila uomini in arrivo per contrastare quella marmaglia, e la femmina che li comanda è alla portata della vostra spada!» «Questo è vero», disse Voltrik cercando di assumere un portamento più marziale. «E ora la sua magia non potrà esserle d'aiuto!» «Andate, mio sire, e uccidetela! Poi ordinate agli uomini di avanzare verso il barbacane della Cittadella. Bisognerà colpire gli invasori quando tenteranno di avvicinarsi attraverso le brecce provocate dal fulmine.» «Quella dannata strega deve morire!» urlò re Voltrik. «E mentre le taglierò la testa, tu dovrai annunciare a tutti il mio gesto con quella tua voce di tuono!» Orogastus si sporse dal parapetto e proclamò: «Uomini di Labornok! Il vostro sovrano sta arrivando per condurvi alla vittoria! Tenetevi pronti per lo scontro finale con il nemico!» Dal basso giunsero urla di gioia. «Sai, penso proprio che le cose si stiano mettendo bene per noi.» Il re sogghignò trucemente rivolto verso il mago. «La maggior parte di quei topi di fogna che sono arrivati dalle segrete sembra ormai fuori gioco.» «Mio re, mentre voi esitate, quel traditore di vostro figlio sta cercando di riorganizzare l'attacco. Andate, orsù dunque! Uccidete prima Kadiya, e poi guidate i vostri uomini alla vittoria!» «Sì, alla vittoria!» ruggì re Voltrik abbassando la visiera del suo spaventoso elmo irto di zanne metalliche. «Andate», disse Orogastus con voce stanca. «Andate!» Quando il monarca si decise infine a precipitarsi giù per le scale, il mago emise un profondo sospiro. Dopo essersi tolto un guanto, infilò la mano sotto il mantello e toccò la scatoletta di legno contenente la piccola sfera fatale, elevando al contempo una muta preghiera alle Potenze Oscure. Sarebbe riuscito Voltrik ad uccidere Kadiya? O il suo talismano avrebbe riservato al re lo stesso trattamento che aveva inflitto ad Hamil e alla Voce Rossa? Valeva comunque la pena di tentare. Ma se in qualche modo avesse avuto successo, allora dopo tutto non sarebbe stato necessario spazzare via tutti... Orogastus allargò le braccia sorvegliando l'avanzare del nemico, le cui schiere erano state appena rinvigorite dall'arrivo delle brigate ruwendiane del conte Palundo. Poi setacciò con la Vista ogni anfratto della Cittadella per cercare di scoprire che fine avessero fatto le altre due principesse.
Ma non scovò né Anigel né Haramis, e vide soltanto una piccola, vecchia Oddling che stava cercando di farsi strada in mezzo al tumulto e alla carneficina in atto sui bastioni della Cittadella, come se fosse alla disperata ricerca di qualcuno... 46. Immu piombò infine sulla scena della battaglia, e tossendo a causa del fumo iniziò ad aggirarsi qua e là in quella confusione di corpi straziati, cozzare di lame e rotte grida che accompagnavano i furiosi combattimenti corpo a corpo. «Anigel!» gridava. «Principessa, dove siete?» Ma quando chiedeva notizie di lei ai Wyvilo o agli Uisgu feriti, nessuno di quelli che avevano la forza di rispondere lo sapevano, perché ignoravano che la principessa Anigel combatteva invisibile fra di loro. Immu vide il sovrano di Labornok uscire furtivamente dal maschio, chiamare a sé un gruppo di cavalieri, e dirigersi proprio verso di lei. La battaglia conobbe un improvviso momento di tregua. Seguendo gli ordini di Orogastus e dei loro comandanti, la maggior parte dei guerrieri di Labornok si precipitò verso il barbacane e le rovine del portale, raggruppandosi così in modo da opporre una valida resistenza alle forze d'invasione in arrivo dal fiume. Ma il re sembrava avere in mente un altro obiettivo. «La strega!» urlò Voltrik. «Con me, uomini! Devo uccidere la strega!» Al suo fianco c'erano lord Osorkon, arrivato giusto in tempo per lo scontro finale, e sir Rinutar, il quale era giunto alla Cittadella la notte precedente portando notizie degli invasori, e due altri cavalieri di nome Lotharon e Simbalik. Il re e i quattro si fecero strada fra la massa di difensori in movimento, alzando le visiere per poter meglio vedere in quel caos denso di fumo, e iniziarono ad arrancare verso il corpo esanime della principessa. Anche Immu finalmente la vide, e con tutta l'agilità permessa dalle sue stanche ossa si diede da fare per salire su quella sorta di piattaformabarricata dalla parte opposta di Voltrik, e correre poi verso la povera Kadiya. Mani invisibili stavano liberando il capo della fanciulla dal cappuccio di cotta dorata, e Immu sentì una tremula voce chiamare: «Kadi! Ti prego, Kadi, svegliati!» E la donna esclamò: «Anigel! Sei proprio tu?»
La bionda principessa apparve improvvisamente quando si tolse il diadema. «Immu, svelta! Kadi respira, ma temo sia ferita piuttosto gravemente.» «Ce ne sono ben due!» sbottò una rauca voce dal tono più spaventato che incollerito. «Grande Zoto, due di quelle streghe in un colpo solo!» Re Voltrik e i quattro cavalieri raggiunsero la cima della struttura proprio in quel momento, gettando a terra la povera Immu. Il monarca di Labornok afferrò la principessa Anigel per i capelli, strappandola a viva forza dal fianco della sorella, e le puntò il pugnale alla gola. Nel trambusto la tiara della fanciulla cadde a terra con un tonfo sordo e il bagliore dell'ambra si smorzò all'istante. Simbalik e Lotharon raccolsero di peso Kadiya, e quello strano oggetto dalla forma di spada smussata scivolò a terra dalle sue dita rilassate. Anche in questo caso l'ambra si spense completamente. Gli occhi della principessa ferita si aprirono lentamente e incontrarono quelli della sorella. «Uomini di Labornok!» declamò re Voltrik in un eccesso di esaltazione. «Due delle principesse che minacciavano il trono sono ora nelle mie mani!» Dal parapetto che si trovava sopra l'entrata del maschio tuonò la voce di Orogastus: «Viva Voltrik il re conquistatore! Mostraci ciò che spetta a chi si oppone al tuo volere!» Durante quel parapiglia, Immu era riuscita a strisciare inosservata verso il diadema di Anigel, che era caduto per terra, e prima che qualcuno potesse fermarla era riuscita a piazzarlo in mano alla sua adorata principessa. I due uomini l'afferrarono rudemente, e stavano per gettarla di sotto quando Anigel, pur con la spada di Voltrik ancora alla gola, gridò: «Fatele del male, e sarete uomini morti!» L'ambra del diadema prese ad ardere nuovamente come un tizzone, e i due che trattenevano la vecchia balia si immobilizzarono. Ma re Voltrik li incalzò freneticamente: «L'altro talismano! Svelti, prendete la spada!» «No!» urlò Osorkon con voce rotta, ben consapevole del pericolo che risiedeva in un tale gesto. Ma Rinutar aveva già mollato Immu e si stava abbassando per raccogliere lo strano oggetto. Ma un istante prima che il cavaliere lo afferrasse, la mano di Kadiya si tese a toccare l'elsa. I Tre Occhi si spalancarono, e i loro raggi investirono in pieno lo sventurato cavaliere. La sua armatura divenne incandescente, e Rinutar non ebbe nemmeno il tempo di emettere un solo grido prima che le sue carni si liquefacessero
come neve al sole. Mentre Voltrik e gli altri urlavano per l'orrore e per la paura, Rinutar si contorse negli spasmi di quella morte orrenda e piombò giù dalla piattaforma come una meteora umana. Fra gli astanti si scatenò un pandemonio indescrivibile, ma Voltrik ebbe la presenza di spirito di tenere ben stretta la principessa, avvicinando ancor più la punta del suo pugnale alla gola della fanciulla. Anigel voltò il capo quel tanto che le bastò per fissarlo negli occhi. «Lasciaci andare, ormai sei sconfitto! Arrenditi e implora la nostra clemenza!» Voltrik esplose in una risata isterica. «Neanche per sogno, strega immonda! Prima ucciderò tua sorella, e poi verrà anche il tuo turno!» «Mio sire!» Lord Osorkon fissava il talismano a forma di spada con il viso distorto dal terrore. «Guardate, si muove!» Voltrik e i suoi rimasero a bocca aperta ad osservare l'Occhio di Fuoco Trilobato mentre si alzava lentamente dal suolo, fermandosi a circa un metro d'altezza. La principessa sembrava assolutamente imperturbata da quella vista. Aprì la mano e il diadema fluttuò verso la lama spuntata dell'altro talismano. «No!» Quel tonante grido di disperazione arrivava da Orogastus, ancora sul parapetto soprastante. Ma era troppo tardi. La principessa Haramis divenne lentamente visibile, proprio in mezzo alle sue due sorelle. La corona di Ruwenda risplendeva alla luce delle fiamme e il mantello dell'Arcimaga fluttuò mosso dalla brezza notturna. Tolse il talismano dalla catena che portava al collo dal giorno della sua nascita, e fece scivolare la bacchetta in una scanalatura della lama della spada, in modo che il Cerchio dalle Tre Ali formasse un meridiano e un equatore con il Mostro dalle Tre Teste. Dentro a quello spazio sferico si aprirono le piccole ali, e al suo centro risplendette un grande Giglio Nero avvolto nella sua prigione di ambra. Orogastus alzò verso il cielo qualcosa che brillava di uno strano colore verdastro, e poi la scagliò con tutte le forze contro la pavimentazione di pietra del cortile. Ma Haramis puntò lo Scettro del Potere contro la sfera in caduta, e questa si dissolse nel nulla in una nuvoletta di bianco vapore. Poi si voltò verso i due cavalieri che ancora trattenevano Kadiya, i cui scuri occhi di ebano erano ora nuovamente aperti mentre lei tendeva i muscoli per liberarsi. «Lasciatela andare», ordinò Haramis, ma i due uomini esitarono, sapendo che nelle loro mani si trovava un prezioso oggetto di scambio.
«Liberatela, stupidi!» urlò Osorkon. «No!» gli fece eco re Voltrik. «Ve lo proibisco!» Vedendo che i due soldati non mollavano la presa, Haramis si mosse deliberatamente anche se con una certa riluttanza, e puntò lo Scettro prima contro Lotharon e poi verso Simbalik. Questa volta le armature non presero fuoco, ma da entrambe le visiere aperte degli elmi scaturì per un breve istante un fulgore bianco-bluastro, e quando tutto finì quei vuoti involucri di metallo si schiantarono a pezzi sul legno della piattaforma. Voltrik emise una sorta di rantolo raccapricciante, e lasciò andare sia la principessa che la spada mentre si gettava in ginocchio ai suoi piedi. «Pietà! Mia signora, abbiate pietà di me!» Haramis, con molta calma, puntò lo Scettro verso di lui. «Che ti sia concessa tanta pietà quanta ne hai dispensata ai tuoi simili, e che la profezia finalmente si compia!» Lo sguardo fisso nel vuoto, il sovrano si tolse lentamente il mostruoso copricapo da battaglia. Abbassò la testa, e mentre la moltitudine osservava la scena, la spada stessa di Voltrik si alzò e la punta della lama si conficcò alla base del suo cranio, inchiodandolo alle assi di legno. Da ogni dove si levò un basso mormorio. Lord Osorkon lasciò cadere la spada ai piedi di Haramis e si inginocchiò a capo scoperto. Per tutto il cortile si sentì un gran clangore di metallo, mentre tutti gli uomini di Labornok gettavano a terra le armi e attendevano ammutoliti. Haramis guardò verso la balconata, fissando Orogastus dritto negli occhi. Il mago si era tolto la maschera, e i lunghi capelli bianchi erano mossi dal vento. Il cielo era sgombro di nuvole, e le Tre Lune risplendevano nella loro stretta congiunzione a metà strada fra lo zenith e l'orizzonte occidentale. Sembravano quasi toccarsi e formare un singolo globo con tre lobi. Haramis alzò lo Scettro per salutare il Cielo del Giglio. «E ora», disse dopo una breve pausa, «che le nostre vite vengano giudicate, insieme ai diversi modi in cui ti abbiamo servito. Abbiamo dunque compiuto ciò che desideravi? Siamo Tre ed anche Una, proprio come Te? Tengo ora in mano il Potere, ma solo grazie alla tua volontà e a quella delle mie sorelle. Abbiamo agito rettamente al fine di restaurare l'antico equilibrio del mondo? Giudicaci! E che anch'egli venga infine giudicato.» Si udì un rombo impressionante, e un tremito che sembrava nascere dalle profondità stesse della collina su cui sorgeva la Cittadella. Orogastus si
aggrappò al parapetto della balconata con entrambe le mani, serrò le mascelle e i suoi occhi brillarono nuovamente del terribile fulgore della magia. Gli astanti lanciarono urla di paura. Il principe Antar, quasi apparendo dal nulla, prese fra le braccia la principessa Anigel. La piccola Immu si trovava accanto a Kadiya, ed erano entrambe immobili. «Haramis!» tuonò Orogastus con una voce che sembrava amplificata da qualche congegno magico. «Posso ancora distruggervi! Posso ancora richiamare le Potenze Oscure e far muovere là terra stessa!» Non sta funzionando, si rese conto Haramis. Lo Scettro ha bisogno di tutte e tre noi. «Kadiya, Anigel», chiamò con ansia, «aiutatemi! Afferrate lo Scettro e concentratevi!» Sentì che le sorelle si strigevano a lei e le loro mani si univano alla sua sullo Scettro. E il potere in esso racchiuso avvampò in tutta la sua pienezza di vita. Legò tutti insieme: Haramis, Kadiya e Anigel da una parte, Orogastus dall'altra. Il suo bagliore accecava gli occhi, anche se le palpebre rimanevano serrate; ma Haramis si rese conto di poter in qualche modo vedere. Kadiya e Anigel erano al suo fianco, così vicine da sembrare parte di lei, e Orogastus stava loro di fronte, all'altra estremità dello Scettro. E nel luminoso potere che li teneva in pugno ogni illusione fu ridotta in cenere e videro se stesse e gli altri per come veramente erano. Fu terrificante. Haramis si scoprì lucidamente consapevole di tutte le volte che aveva ferito qualcuno, anche in modo inconsapevole, di tutte le volte che aveva guardato con disprezzo, quasi fossero creature inferiori, le sorelle, specialmente in contrasto con la bellezza e la forza che adesso vedeva in loro. E sentiva che le sorelle erano colte dalle medesime emozioni: rimpianto per le manchevolezze e gli errori del passato, terrore per ciò che scorgevano adesso osservandosi fra loro. Ma intorno e attraverso i pensieri e i ricordi scorreva l'amore che le legava. Haramis lo capì, e si rese conto che anche le sorelle lo avevano capito: in un certo modo, tutt'e tre formavano una sola entità, le loro forze e le loro mancanze erano complementari ed eliminavano così gli eventuali punti deboli. A dispetto delle loro differenze, o forse proprio in ragione di esse, loro tre erano una sola persona, ed erano il Ruwenda. Dev'essere questo che Binah intendeva per equilibrio. Anche Orogastus era diventato intelligibile per Haramis, ma la sensazione che ne ricavava era del tutto diversa. Il senso d'intimità avvertito quando si trovava fra le sue braccia era scomparso; ora intuiva soltanto l'isola-
mento di lui - totale e terrificante. Egli non aveva alcun legame con Ruwenda, né con alcun'altra terra, né tantomeno con alcun Popolo, e - nonostante quello che c'era stato fra loro - non aveva alcun legame nemmeno con Haramis. Chiuso in se stesso, sembrava evocare orrori tali che le principesse potevano soltanto oscuramente intuire. Haramis soffriva per lui e sentiva che anche Anigel stava provando della compassione; ma Orogastus non era consapevole di altro al di fuori di se stesso. Quel se stesso che doveva attirargli odio e sofferenze insopportabili. Haramis puntò lo Scettro. «Giudicaci», sussurrò, «e giudicalo...» Lo Scettro avvampò ancora una volta, e tutti ne furono accecati. Le urla e il panico raddoppiarono d'intensità, e passarono parecchi minuti prima che l'enorme folla realizzasse che il mago Orogastus era scomparso. Tutto ciò che rimaneva di lui era una grande macchia nera, come di fuliggine, stampata contro il muro del maschio dove si era trovato fino a pochi momenti prima; e su di essa, ben visibile, la bianca silhouette del corpo. Quell'anno, per la prima volta nella storia, la Festa delle Tre Lune fu celebrata con tre giorni di ritardo, essendo stata posposta in modo che i feriti potessero essere assistiti e i defunti preparati per il riposo eterno. Ma la terza sera dopo la grande battaglia, quando le Tre Lune congiunte si alzarono alte sulla Palude Labirinto, tutto il Popolo e tutti gli umani di Labornok e Ruwenda si unirono nuovamente nel grande cortile interno dell'antica Cittadella. Davanti marciarono gli Uisgu, guidati da Kadiya, reggendo torce a tre bracci e intonando le loro antiche canzoni celebrative; poi vennero i Nyssomu, condotti da Jagun e Immu, e i Wyvilo sopravvissuti, con in testa Lummomu-Ko. Toccò quindi agli umani di Labornok, con il loro nuovo re, Antar, che avanzò senza armatura e con un mazzo di fiori fra le mani, e infine sfilò l'esercito dei liberi ruwendiani capitanati dal fiero conte Palundo, al quale si erano uniti tutti quei soldati e cavalieri avvertiti grazie all'aiuto degli Oddling e del loro linguaggio senza parole. Haramis, avvolta nel suo manto e cinta con la corona di Ruwenda, reggeva fra le mani il grande Scettro del Potere. Porse il suo benvenuto alla moltitudine lì riunita, e poi si fece avanti il principe Antar, che si inginocchiò ai suoi piedi e offrì formalmente la capitolazione del suo regno. Ma Haramis disse: «Alzati, re Antar, perché non posso accettare la tua
resa». Poi si tolse dal capo la grande corona e la tenne alta perché tutti potessero vederla. «Io, l'erede al trono, rinuncio a questa corona. Faccio appello alla principessa Kadiya, affinché la accetti ora che io ho liberamente abbracciato un nuovo ruolo, quello di Arcimaga.» Kadiya si trovava alla testa di una vasta moltitudine di aborigeni. Disse: «Anch'io rinuncio alla corona, perché il mio destino non è quello di guidare gli umani, ma di essere un vero capo e soprattutto una vera amica per quelli del Popolo, che mi hanno supplicato di restare con loro. Chiedo a mia sorella Anigel di accettare il ruolo di regina che ha così ampiamente dimostrato di meritare». Anigel se ne stava con gli occhi chiusi, e le sembrava di rivivere nuovamente quel sogno in cui correva nella foresta dietro sua madre... ma questa volta era riuscita a raggiungere la regina Kalanthe, e non provava più una soffocante apprensione mentre questa la lavava, la vestiva e la pettinava. Ciò che l'attendeva così apertamente, era stato suo sin dall'inizio. E lei ora ben sapeva che, delle tre, era lei quella che meglio si prestava ad indossare la corona, e aveva solo bisogno di un altro po' di coraggio per trovare la forza di ammetterlo. Aprì gli occhi. Indossava un abito semplicissimo, azzurro come un cielo serale nella Palude Labirinto. Si diresse verso Haramis e le si inginocchiò davanti, tenendo però la testa ben levata. Quando le fu posata sulla testa la grande corona con smeraldi, rubini e grosse gocce d'ambra, si rialzò e, dopo essersi voltata lentamente verso la folla, tracciò nell'aria il segno trilobato. Antar le si inginocchiò davanti. «Accetterete ora la mia resa, grande regina?» «Ma è già mia», disse lei sorridendo, «insieme, spero, con il tuo cuore. E siccome io sono una regina che non se la sente di governare senza un re al suo fianco, propongo che noi si regni congiuntamente sulle nostre nazioni, come marito e moglie, in pace perpetua.» Poi Anigel gli prese le mani e lo fece alzare in piedi al suo fianco. «Genti di Ruwenda», disse quindi, «ecco il vostro nuovo sovrano!» E lui aggiunse: «Uomini e donne del Labornok, ecco la vostra regina!» Si scatenò un vero tripudio di grida, fischi e applausi di gioia, e il Popolo intonò nuovamente i suoi inni, mentre grandi quantità di cibo e bevande venivano servite su enormi vassoi e incominciava la vera celebrazione della Festa delle Tre Lune. I tre petali del Giglio Vivente si abbracciarono, poi Haramis prese lo Scettro del Potere e lo divise solennemente. La spada smussata, con i suoi
Occhi chiusi in un sonno senza tempo, fu data a Kadiya, la quale la sistemò nel fodero che portava al fianco e l'assicurò al suo posto con un laccio di cuoio. Il diadema d'argento con i tre visi grotteschi fu fatto scivolare da Anigel all'interno della corona di Ruwenda, che pose poi nuovamente sulla chioma dorata. Haramis agganciò invece la bacchetta alla catena che portava ancora intorno al collo, e osservò per un lungo istante le tre piccole Ali ripiegate e il bagliore dell'ambra, che risplendeva ora solo debolmente. «Eravamo Una cosa sola», disse, «e ora siamo di nuovo Tre. Voglia Dio che l'equilibrio sia stato restaurato e che non si debba più utilizzare il grande Scettro del Potere!» «Per il Fiore», brontolò Kadiya, «speriamo davvero che non accada! Pace, pace è ciò di cui noi tutte abbiamo bisogno... perché pensate un po' a quante cose dobbiamo ancora imparare! Ani se la deve vedere con le noiose incombenze di stato, Hara con la magia e io... io intendo tornare in un certo Luogo del Sapere e porre qualche domanda molto importante alla Maestra che ivi risiede. Ci sono parecchi problemi da risolvere, questioni che riguardano le future relazioni fra il Popolo e il genere umano, e sospetto che ci vorrà un po' di tempo per chiarirle!» Anigel domandò ad Haramis: «Hai dunque intenzione di richiamare il tuo gipeto dopo la festa e di volare a Noth per vivere là come la vecchia Bianca Signora?» Haramis distolse lo sguardo, e per un momento lo posò sulla grande macchia nera rimasta impressa sulla parete del grande maschio. «No. Quel posto è caduto a pezzi quando è morta Binah. Andrò da un'altra parte, ancor più lontano... sui monti Ohogan...» Antar si unì alle tre donne, sorridendo con aria di scusa mentre diceva ad Anigel che le assemblee congiunte dei loro sudditi volevano che i due monarchi dessero inizio alle danze celebrative. Mano nella mano, Anigel e Antar raggiunsero il centro della corte e i musicisti iniziarono a suonare. Il vecchio musico Uzun stava risalendo la collina della Cittadella, e quando udì il suono delle celebrazioni cercò di affrettare il passo delle sue stanche gambe. Non poteva quasi credere alle sue orecchie! Quelli erano proprio i canti delle Tre Lune! Ma la festa non si era forse tenuta tre giorni prima, quando lui e gli altri con cui viaggiava si erano dovuti fermare lungo il fiume per riparare la barca? Si era perso la grande battaglia e la vittoria, e non aveva visto la cara principessa Haramis dare il fatto suo a quel
furfante di Orogastus!... Oppure era stato lo stregone ad avere la meglio? Oh, se solo non fosse stato così inetto nell'uso del linguaggio senza parole! Quelli che sentiva erano certamente i tipici inni della Festa, e il suono dei canti e delle risa portato dalla brezza quasi copriva i richiami delle creature della palude. Che miracolo! Nonostante tutto, sarebbe arrivato in tempo... Con la coda dell'occhio scorse qualcosa illuminato dai raggi lunari in una piccola radura sulla destra. Si avvicinò per dare un'occhiata. Il terreno era ancora umido per la pioggia, caduta copiosa nei giorni precedenti, e numerose pianticelle sembravano essere spuntate proprio quella notte. Ma si trattava di qualcosa di ben diverso dalla solita vegetazione che cresceva sulla collina della Cittadella. Qualcosa che solo a fatica si poteva credere reale... qualcosa di magico... Una miriade di piccole piante stava venendo alla luce in un luogo che una volta aveva ospitato solo erba e carici. Piante con vellutati fiorellini neri tripartiti. Il musico Uzun colse uno di quei Gigli Neri e lo tenne alto alla luce lunare. Sì! Non c'era dubbio. Quello spiazzo ne era pieno! Erano dappertutto... Ridendo come un matto, raccolse quanti più fiori poté e si mise a correre verso la fortezza per portare a tutti la buona novella. Erano migliaia e migliaia, e altrettanti stavano pian piano schiudendo i loro petali alla luce delle Tre Lune. FINE