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ROBERT BLOCH IL GUSTO DEL FUOCO (Firebug, 1961) 0 Mi chiamo Philip Dempster, e sto dormendo. Il sogno è rosso. È sempre rosso. A volte è rosso-dorato, come la prima vampata di uno zolfanello. A volte è blu e arancione ai margini, come un tizzone che si va spegnendo, ma il colore dominante è sempre il rosso. Rosso non si riferisce solo al colore, a volte è un'emozione e la sensazione del rosso. Bisogna sempre sapere cosa è rosso e cosa non lo è. I miei sogni sono rossi, sempre rossi. Mi chiamo Philip Dempster, e sto sognando. Nel sogno sto guidando l'auto in una strada buia. Molto lontano intravedo una luce. È l'unica luce che splenda al mondo, perché la mia auto non ha fanali: è un'automobile cieca, e io sono grato di avere gli occhi, perché, se non li avessi, allora anch'io sarei cieco in questo mondo, e devo tenere d'occhio quella luce in fondo alla strada... Guido da tanto tempo che mi duole la schiena. Mi fa male perché è tanto che sto al volante, con lo sguardo fisso su quella debole luce, lontana lontana, in fondo a quella strada buia. Mi bruciano anche gli occhi, ma in modo diverso. Mi sembra quasi che si siano trasformati in acqua come se fosse tanto che non li chiudo più, come se li avessi intenzionalmente tenuti aperti perché mi bruciassero. Ma so che non è così. Non voglio che nulla di me bruci. Dovrebbe essere un'illusione. Ma il sogno è reale, e così continuo a guidare. La luce si fa sempre più grande. Diventa sempre più grande, sempre più alla svelta. Pigio sui pedali e l'auto comincia a rallentare, ma mi sono sbagliato. Non sono così vicino alla luce. È strano, perché per un attimo la luce mi è sembrata una fiamma e infatti stavo per dire: "Sono così vicino al fuoco". Ma è solo una luce, su questo posso rassicurarvi. Non è una fiamma. Per niente. Solo una luce normale... mi credete, vero? Premo l'acceleratore e la vettura riparte, e subito mi accorgo che la luce non è poi così lontana come avevo creduto a prima vista. È solo un po' più avanti e un po' più in alto: di fatto posso dire che la luce è un edificio, davvero. È un edificio luminoso, brillante, un grande brillante casamento
piazzato nel bel mezzo di niente. Non capisco perché sia stato eretto proprio qui, ma poiché questa grande strada scura porta verso il nulla, e dietro quella casa luminosa c'è il nulla, so che devo fermarmi per chiedere dove sono. Mi chiamo Philip Dempster, e temo di essermi perso. Mi fermo un po' fuori strada e scendo dall'auto. Chiudo la portiera dietro di me. Solo la mia. Quella dell'altro lato è aperta, e questo mi turba, ma malgrado questo fatto lascio lo stesso l'auto e mi avvio. Vorrei tanto aver chiuso anche l'altra portiera. Perché è aperta, l'ho vista. E so che qualcuno potrebbe... potrebbe cosa? Cosa potrebbe fare chiunque? C'è forse qualcuno su questa strada questa notte di cui dovrei preoccuparmi? Continuo ad allontanarmi dall'auto e sono turbato, ma non posso più tornare indietro. Devo arrivare fino all'edificio e scoprire dove mi trovo. Sono convinto che sia una cosa molto importante. L'edificio sorge su un leggero declivio, con una pendenza lieve. Sto camminando in quella direzione, e come succedeva per la vicinanza e la lontananza dell'edificio quando stavo guidando, anche adesso che cammino si avvicina sempre più alla svelta. Sembra quasi che voglia inghiottirmi. È una sciocchezza, lo so, però è un pensiero spaventoso. Mi fermo, perché non voglio essere inghiottito da quell'edificio. Mi fermo. Ma i miei piedi non si fermano. Continuano a portarmi su lungo la collina verso l'edificio e questo apre la bocca e vedo file e file di luci simili a denti molto appuntiti che aspettano, aspettano, aspettano di inghiottirmi e allora dico ai miei piedi di fermarsi: "Per amor di Dio fermatevi, non portatemi fino a quella bocca, mi sentite?". Ma loro continuano a marciare trascinandomi sempre più su, e adesso anche il sentiero è luminoso, e si dirige diritto dentro la bocca dell'edificio e io non so più dire se sono grande o piccolo né cosa sta succedendo se non che comincio a gridare, e che non serve a niente. Perché l'urlo esce fuori come qualcosa di incorporeo, perché non ha suono. Sto marciando diritto dentro la bocca di quell'edificio e sto per... Dentro. Molto addentro nell'edificio, i cui muri sono umidi e caldi, come se fossero vivi. Quest'edificio potrebbe essere vivo; magari è una cosa pulsante, che respira, e che abbisogna di carne viva per continuare a respirare? Spero di no. Adesso sto camminando molto alla svelta, e oltre la curva che fanno queste mura bianche, umide, pulsanti e respiranti, riesco a sentire qualcuno che biascica suoni. Potebbe essere un linguaggio, ma è un rumore umido,
scivoloso, come le bollicine di sangue che scoppiettano in una bocca. Credo di capire cosa sta dicendo, ma sono parole senza senso. Come se fossero pronunciate sott'acqua, a grande profondità, e troppo lontane per poter avere un qualsiasi senso. Poi svolto l'angolo e vedo la cella. È molto grande, e ha sbarre lucenti, traslucide, come se risplendessero dall'interno. Le sbarre corrono su fino al bianco e splendente soffitto e giù fino a sprofondare nel bianco e splendente pavimento. E nella cella c'è... qualcosa... riesco a scorgerlo con difficoltà, ma mi sforzo di guardare, di vedere cos'è. All'improvviso lo vedo chiaramente. Si muove dietro le sbarre e posso vederlo bene. È una donna. Ma non è proprio una donna. Mi si secca di colpo la gola e mi sforzo di cacciarmi il pugno in bocca perché so che balbetterei come lei se non facessi così. Perché la donna è morta. È morta. I suoi arti sono abbrustoliti, come i rami bruciati di un albero morto. Però si muovono. Lei si muove. Esso si muove. Si sta avvicinando alle sbarre. Avanza lenta, strusciando. Sta cadendo a pezzi, come la carta bruciata, anche mentre la guardo avvicinarsi. Gli occhi sembrano sul punto di lasciare il mio cranio e io cerco d'indietreggiare, ma sono come radicato sul posto, col cesto fra le mani. Il cesto? Avevo un cesto, non è vero? È pieno di qualcosa. È un cesto molto grande e ne esce un odore che ricorda quello di cento inceneritori, di mille fornaci in cui siano stati fatti morire esseri umani, di un milione di pozzi colmi fino all'orlo di grasso umano e di carne putrefatta. Tengo il cesto fra le mani e, mentre quella creatura che una volta era una donna farfuglia e avanza strusciando stolidamente verso di me, pesco qualcosa dal suo contenuto e glielo getto. Lei cade in ginocchio e comincia a mordere quel che le ho lanciato. Alza lo sguardo e vedo che ha occhi neri, umidi pozzi di vacuità, mentre le labbra sono stirate all'indietro in una smorfia di dolore e di piacere, mentre dai denti le pende qualcosa che ricorda gli spaghetti. Ma non sono spaghetti, è un brandello di carne. Mi fa segno d'accostarmi. Non riesco a rifiutare. Sento che vengo trascinato verso di lei, verso quel viso che è ancora a malapena una faccia, con un buco pulsante nel posto dove un tempo c'era il naso, con le labbra squarciate e prive di vestigia umana. Dove una volta nasceva il suo sguardo adesso c'è uno spazio scuro e affamato. Mi sta facendo segno d'avvicinarla con un dito che è stato bruciato fino alla seconda falange. Muove
quel moncherino, e io mi avvicino. Non voglio accostarmi a lei... verso quelle braccia deformate e contorte che si tendono verso di me. Lei... lei sta... sta facendo boccuccia... Vuole che la baci! Urlo, e la gola mi si stringe al pensiero di dover baciare quel cadavere, ma le sue braccia superano le sbarre e mi circondano, mi attirano, mi fanno rialzare il viso verso il suo e mi trovo a guardare in quell'abisso nero e distrutto che erano i suoi occhi e la sua bocca. Non riesco a sopportarlo... impazzirò... per favore, aiutatemi, che qualcuno mi aiuti... salvatemi da questa cosa, da questa cosa morta, questa cosa che ha cominciato a sussurrare "Salvami... salvami... salvami..." Quelle labbra oscene mi raggiungono e io vengo completamente inghiottito dal male, dal sudiciume dalla morte e dal bruciore, dal calore delle ustioni, dalla follia, aiuto, bruciare, brucio, io brucio, brucio, io sto... Mi chiamo Philip Dempster, e faccio sogni orrendi. 1 Prima che si possa avere un'esplosione, occorre che qualcuno accenda la miccia. Quella sera me ne stavo seduto da Tracy's, assorto nei miei pensieri, quando entrò Cronin. Fu lui ad accendere la miccia per me. Quell'uomo grande e grosso si sedette sullo sgabello accanto al mio, ma non mi resi conto che era lui finché non mi diede una gomitata. — Ciao Phil — disse. — Come ti va? — Giù — risposi io vuotando il bicchiere. — Volevo dire il libro. — Quale? — Il romanzo sui culti. — Ah, quello? Così così, direi. Ne sto scrivendo un altro. — Sono contento di sentirtelo dire. — Io no. — Feci cenno al barista. — Non riesco a mandarlo avanti come vorrei. — Il barista mi guardò e io guardai Cronin. — Cosa prendi? Ordinò una birra: io il solito. — Allora è così. — Cronin annuì, più a se stesso che a me. — Qualcuno dei ragazzi mi aveva detto di averti visto ciondolare da queste parti. — Buon per loro. — Alzai il bicchiere. — Hai un bel mucchio selvaggio
di cronisti, Cronin. Sempre in giro a cercare soggetti. M'immagino il titolo: PROMETTENTE GIOVANE SCRITTORE BEVE FINO A SCOPPIARE. Cronin si strinse nelle spalle, poi ci mise sopra un bel sorriso. — E perché no? È la verità, no? — Bevo perché mi piace farlo — dissi, ed era una bugia. — Sono solo bloccato col nuovo libro, tutto qui. — E questa era la verità. — Ma posso smettere di bere quando voglio. — Non sapevo se era vero o falso, e questo mi seccava. — Detesto vederti in queste condizioni. — Fece spalluccia. — Sei un tipo brillante, tu. — E da come lo dici, quelli brillanti non bevono — risposi io. — Ed è qui che ti sbagli. Stai cercando di etichettare una personalità complessa. Nella tua mente mi hai schedato con l'etichetta "Brillante". Ma non ti sei mai reso conto che non sempre la gente è coerente? Uno non se ne va in giro costantemente "in carattere" come un attore che reciti un ruolo. A volte sono brillante, vero. E a volte sono un beone. A volte potrei battere il mondo, e a volte ho paura persino della mia ombra. Cronin scrollò la testa. — Non della tua ombra. Ti ho tenuto d'occhio. Andiamo, Phil, a me puoi dirlo. Cos'è che ti fa paura? Sorrisi rivolto al barista. — Senti, Mac — gli dissi. — Ti secca se mi sdraio sul tuo bancone? Il mio amico qui vuole psicanalizzarmi. — Dacci un taglio, Phil. Va bene, ho esagerato. — Così va meglio. Ma ricorda che uno può dare i numeri quando cominciano a fargli domande del genere, quando tutto quello che vuole è soltanto bere in santa pace. — Tu non stavi bevendo in santa pace — rispose Cronin. — E sono anche convinto che tu non voglia bere. — Adesso piantala, va bene? — Va bene. Non volevo mettere il naso nei tuoi affari. Non è per questo che sono venuto a cercarti, Phil. Senti, ti piacerebbe se ti assegnassi un incarico? — Sto già scrivendo un libro. — Ma hai appena detto che sei in difficoltà: e poi, questo non interferirebbe. Ti porterà via solo poche ore al giorno. Magari cambiare un po' ti servirà per superare questo blocco. — Che tipo d'incarico? — In linea coi tuoi interessi. Il mio editore vuole lanciarsi nei supplementi domenicali e ha deciso di spendere un po' di soldi. Così gli ho dato
l'idea di una serie di articoli settimanali sul racket locale dei culti religiosi. Cinque, sei articoli. Ti va? — È per questo che hai pensato a me, vero? — E chi altro? Sei uno di qui, e hai scritto un libro su questo soggetto, il che fa di te un'autorità. — Rallenta il passo — dissi. — Se hai intenzione di piantare qualche casino faresti meglio a metterci uno dei tuoi su questo lavoro: chiunque potrebbe farti un buon servizio. Io non sono dell'idea che tutti i culti siano degli imbrogli. Alcuni sono onesti. Me ne sono convinto quando ero sulla Costa a cercare materiale per il mio libro. Cronin annuì. — Lo so. E non voglio che tu distorca le notizie. Comunque, abbiamo fatto alcune ricerche d'archivio. Abbiamo selezionato cinque o sei organizzazioni che qui in città agiscono in modo alquanto sospetto. Sono queste quelle su cui voglio che lavori. E userò la matita blu solo se scriverai un libello. Agisci come meglio credi: il capo è convinto che sia per il bene pubblico. — E se sarà anche abbastanza scandaloso, aiuterà le vendite, vero? Cronin scrollò le spalle. — Può essere. Ma che mi dici? Sei servizi, ognuno di cinque-sei cartelle. Se ne hai bisogno, ti daremo anche un fotografo. Tutto quello che ti resta da fare è andare là, dare un'occhiata in giro, scrivere la tua storia. Non ti impegnerà più di quattro o cinque ore la settimana. — Che mi dici del compenso? — Il vecchio pensava centocinquanta. Ma l'ho convinto che il tuo nome ne vale almeno duecento. Con firma, naturalmente. Forse non era tutto il denaro del mondo, ma mi andavano bene duecento dollari la settimana per poche ore di lavoro. Mi cadevano proprio a puntino, visto che l'assegno dell'editore mi sarebbe arrivato fra due mesi. E poi, un cambiamento non poteva che aiutarmi a uscire dalla mia personale palude. Mi avrebbe aiutato a rompere quest'abitudine di starmene seduto a bere per poter dormire, dormire senza sogni, senza il sogno... — È un affare — risposi. — Quando partiamo? — Una settimana da domenica, se ce la fai a consegnare — rispose Cronin. — Pubblicheremo un annuncio domenica prossima. Oggi è lunedì. Vieni a trovarmi domattina e ti darò tutto il materiale che abbiamo raccolto. — Ottimamente. — Pensavo che fosse una cosa positiva, perché ancora non sapevo che aveva già acceso la miccia. — Che ne dici di un'altra bevu-
ta? Cronin spinse da parte il bicchiere. — Mi dispiace, ma ho ancora da fare. Ci vediamo domattina allora? — Certo. Non ti preoccupare. — Gli sorrisi. — Resterò solo il tempo di berne uno per il ritorno a casa. Non avevano ancora inventato il beveraggio che poteva aiutarmi ad affrontare la strada su cui m'ero avviato, ma a quel tempo ancora non lo sapevo. Appena Cronin se ne fu andato, feci cenno al barista e gli dissi: — Il solito. Mi diede il solito, e poi uscii. Era una serata umida e rabbrividii per il freddo alzandomi il colletto dell'impermeabile per proteggere almeno il collo. Avevo parcheggiato a circa mezzo isolato di distanza, per cui infilai le mani in tasca e mi avviai di buon passo lungo il marciapiede scivoloso. Le strade erano deserte: tutti quelli che avevano un po' di cervello erano in casa, in pantofole, sdraiati davanti a una bella televisione calda, intenti a sorseggiare una birra prima di mettere i ragazzi a nanna e di dividere il letto e le lenzuola con la propria metà migliore. Era un pensiero caldo e piacevole che mi faceva ricordare quando quello non era solo un pensiero per me. Ma era stato tanto tempo e tante bevute or sono. Mentre mi frugavo in una tasca umidiccia per cercare le chiavi dell'auto, mi dissi che stato carino da parte di Cronin pensare a me. Come offrire da bere a un beone. Il lavoro che mi offriva non mi aiutava a procedere col mio libro, ma se non altro avrei tirato avanti ancora un po'. E quel libro avrebbe raggiunto gli altri due che stavano collezionando polvere sulla mia scrivania. Salii in macchina e la vecchia Bessie si mise a tossire tornando a una vita impregnata d'acqua. Seguii il solito percorso fino al mio appartamento vuoto, pieno del mio solito disordine, dove avrei cercato di non guardare la macchina per scrivere. Come al solito, era lì che mi aspettava, e come al solito la evitai buttandole sopra la camicia mentre mi preparavo per andare a letto. Fumai la solita ultima sigaretta prima di compiere il solito gesto di spegnere la luce. E allora arrivò la solita tenebra, il solito sonnecchiare, il solito sogno. Succede così se non bevo abbastanza. Se non bevo abbastanza, sogno. Quando chiunque altro fa sogni in cui vola o è il capo mentre il capo fa il suo lavoro oppure che sta facendo all'amore con la ragazza o magari con la
nuova stenodattilo assunta la settimana scorsa. O magari uno sogna di trovarsi in una strada senza pantaloni addosso. Io non faccio sogni così. Non più. Arriva sempre puntuale il mio sogno, il solito sogno, quello che faccio sempre sin da quando sono tornato dalla Costa tutte le volte che vado a letto senza aver ingurgitato abbastanza da mettermi fuori combattimento. Come al solito, so sempre che è solo un sogno, ma la cosa non mi aiuta. Comincio a diventare sempre più caldo, e sento le vampate al viso mentre mi chino per vedere quell'altra faccia, la solita faccia che diventa, improvvisamente, sorprendentemente, shoccantemente, un'altra, insolita. E allora la vedo, vedo quella maschera bruciata con quelle due sfere cieche al posto degli occhi e che appaiono gonfiate, e urlo, e con le unghie lacero le lenzuola. Mi sveglio e cerco una sigaretta, ma non l'accendo. Resto lì a tremare a lungo, col desiderio di fumare ma senza osare farlo. Perché, dove c'è fumo c'è anche fuoco. E io sono spaventato a morte dal fuoco. 2 Verso le dieci del mattino successivo arrivai con la mia auto fino al Globe. Anche a quell'ora del mattino guidare sul lungolago ricorda un mortale gioco all'acchiapparella. Le budella mi si strizzavano com'erano solite fare tre anni fa e mi maledissi per essermi lasciato incastrare in qualcosa che non mi andava di fare, soldi o non soldi. Mi ero dimenticato che Cronìn riesce a far fare alla gente quello che vuole: ti prende in un momento di debolezza, dice la cosa giusta, e tu sei pronto a venderti l'anima per lui. Tutti i parcheggi davanti al Globe erano già occupati così girai sul retro e trovai un posto vicino al magazzino. Tony, l'addetto al montacarichi, quasi ebbe un'emorragia di gioia quando mi vide, facendomi sentire un brivido di nostalgia. Tre anni or sono, prima che decidessi di dedicarmi alla Letteratura con la "L" maiuscola, ero stato uno dei cronisti più in gamba di Cronin. Non era un brutto lavoro, e Cronin era un bravo capo, e non ho mai rimpianto quello che ho imparato da lui. Ci sono stati anche momenti in cui ho pensato di tornare indietro, e la felicità di Tony nel rivedermi mi ci fece ripensare. Per esattamente un secondo e sei decimi... Ed Cronin era nel suo ufficio, in attesa che arrivassi. Appena entrai prese un taccuino.
— Molto bene — disse. — Eccoti la lista. Mi consegnò un foglio pieno di nomi che lessi rapidamente. La Fratellanza Bianca Chiesa dell'Atomo Dorato Tabernacolo del Nuovo Regno Centro della Sapienza Casa della Verità Tempio della Fiamma Vivente — Troverai gli indirizzi nel taccuino — aggiunse. — Coi nomi dei vari capoccioni. Su alcuni abbiamo un po' di materiale, su altri niente. È questo il tuo lavoro: scavar fuori quello che manca. Annuii. — Fammi sapere se hai bisogno di un qualsiasi aiuto. Con un paio d'ore d'anticipo posso anche procurarti un fotografo. E vorrai anche una tessera stampa, immagino. La mia testa smise di annuire e cominciò a far segni negativi. — Quella gente schifa la stampa. Non sarebbe meglio se cominciassi con l'andare là e seguire le funzioni? Poi, quando mi sarò fatto un'idea generale, potrei tornare e cercare di ottenere un'intervista, perché così saprei di cosa sto parlando e cosa devo chiedere. — Vedi un po' tu. Prese nota su un foglio. — Farò pubblicare un box per annunciare la serie di articoli. E questo farà venire un bel mal di testa a quelli del Chronicle e alla redazione del Leader. — Potrebbe anche fargli venire qualche idea — dissi io. — Farò meglio a intervenire a più funzioni possibile prima che l'annuncio riveli i nostri piani. — Fai pure. Quello che m'interessa è una buona serie di articoli. Però, fai attenzione. — Che vuoi dire? — Be', alcuni di questi cultisti sono un po' fuori di testa. — Cronin guardò le sue note. — Hai una rivoltella? — Ehi, aspetta un momento! — Mi misi a ridere. — Questa è una metropoli del ventesimo secolo. Abbiamo anche la polizia, te lo ricordi? Si strinse nelle spalle. Continuava a non guardarmi direttamente. — Era solo un'idea — mormorò.
Mi appoggiai sulla scrivania. — Sei un giornalista professionista. Non ti interessano le idee, t'interessano i fatti. Perché allora tiri fuori questa stronzata della rivoltella? — Be'... — si mosse a disagio sulla sedia. — Quando ho mandato fuori due ragazzi per raccogliere un po' di dati preliminari, in un paio di posti sono incappati in tipi alquanto tosti. Quelli del Centro della Sapienza hanno conciato male uno di loro quando ha cominciato a fare domande. E dopo aver parlato con Peabody, che è il capetto della Fratellanza Bianca, un altro dei ragazzi ha ricevuto un paio di telefonate anonime in cui gli dicevano di tenere il naso fuori da certe faccende. E il branco della Fiamma Vivente non vuole nemmeno ammettere estranei alle sue adunate. Così... — Così hai messo in piedi un po' di teatrino a mio beneficio — lo interruppi io. — Non è così? Tirandomi fuori la storia della tessera stampa e del fotografo, ben sapendo che avrei rifiutato. E poi hai voluto me perché hai già tentato di fare il lavoro coi tuoi ragazzi e non ha funzionato. E così ti sono venuto in mente io, vero? Perché un estraneo potrebbe riuscire là dove gli altri hanno fallito. E poi perché tanto la voce ha già cominciato a girare e quelli stanno aspettando qualcuno che li vada a tampinare. Sono tutti eccitati, maturi per fare casino. Cosa ti aspetti per quei milleduecento dollari? Vuoi che vada là fuori e che mi faccia ammazzare? — No, senti, aspetta un momento... — Come vuoi — dissi. — Comunque, sono il tuo uomo. Perché mi servono quei soldi. — Presi il taccuino e mi avviai verso la porta. — Ci vediamo all'obitorio. Cronin aprì la bocca per dire qualcosa, ma non ne uscì una parola. Avevo già visto quell'espressione sul muso delle foche, allo zoo, in attesa che qualcuno gli gettasse un pesce. Sulla porta, mi voltai e gli sorrisi. — Scordati tutto — gli dissi. — Non sai capire gli scherzi? Stavo scherzando, dai. Poi uscii, sempre col sorriso stampato in faccia. Certo, stavo solo scherzando. Proprio un bello scherzo. La gente non viene più accoppata per un articolo di giornale, nemmeno da un cultista. Non in una città grande come questa. O lo fanno ancora? Mentre mi allontanavo in auto, mi ricordai alcune delle cose che avevo sentito dire sulla Costa. Voci, e qualcosa più di voci. Alcune di quelle fottute organizzazioni erano grossi affari per quelli che le guidavano, quelle erano imprese che rendevano milioni di dollari. C'è sempre qualche rischio quando qualcuno interferisce.
Smisi di sorridere. Dopo tutto, magari potevo prenderla un'arma. Però sapevo che non mi andava, anche se la cosa poteva essere pericolosa. Questo forse era il vero pericolo. Forse volevo che fosse pericoloso, forse volevo essere messo fuori combattimento. Avevo accettato quell'incarico perché avevo una pulsione di morte... Pazzesco. Ma forse avrei fatto meglio a fermarmi e vedermi con Schwarm e raccontargli tutto. Lui capiva. Archiviai quell'idea per un uso prossimo venturo, e ci impilai sopra un sacco di altre idee. Nessuno ha ancora inventato un nascondiglio migliore del buon vecchio cranio umano. Può tenersi nascosti e al sicuro un sacco di segreti. Ovviamente poi erano arrivati gli strizzacervelli che avevano adottato tattiche scassa-serrature, entrando nelle menti coi loro grimaldelli. Non puoi nascondergli niente, scoprono sempre tutto, e il sogno comincia a tornare indietro e torna, torna di nuovo, finché t'accorgi di cosa hai cercato di chiudere a chiave e di nasconderlo anche a te stesso. Finché vedi quella faccia abbrustolita... — Ehi, ma stai attento a dove vai! Sterzai di colpo mentre il ragazzino mi strillava dietro dal marciapiede. — Mi dispiace — dissi rimettendomi in carreggiata. Dovevo stare attento. Stare attento a dove stavo andando. Ma dove stavo andando? Non aveva senso stare a pensarci. Tranne nel senso più puramente superficiale. Adesso comunque stavo andando a pranzo. Più tardi avrei letto le note e fatto i miei piani. Scivolai in un parcheggio appena a sud del quartiere degli affari, e quindi scivolai nel Dinner Gong. Scivolai in un separé, mi feci scivolare un po' di cibo nello stomaco, poi cominciai a leggere il materiale che mi aveva dato Cronin. La prima della lista era La Fratellanza Bianca. Reverendo Amos Peabody. Rivendica divinità. Predice fine mondo. 1970. Controllare la precedente predizione di fine del mondo nel I960. Circa 200 seguaci. Trucchetti, come segnare i posseduti. Vive al Tabernacolo, S. Mason 149. Raduni tutti i martedì e mercoledì ore 20. Oggi era martedì. Non aveva senso andare avanti a leggere le altre cose adesso. Potevo studiarmi la Fratellanza Bianca e andare al loro raduno per questa stessa sera: magari più tardi avrei potuto vedere Peabody e togliermi dai piedi la prima delle storie.
Guardai l'orologio. Non erano neanche le tredici. Uscii dal Dinner Gong e diressi la mia Ford verso il Tribunale. Da lì andai agli uffici della Contea e da quel posto alla Biblioteca pubblica. Quando guardai di nuovo l'orologio, erano quasi le sette. Però avevo i miei appunti, un sacco di appunti. Potevo già scrivere l'articolo anche senza andare al raduno. Da quel che sembrava, Peabody era un operatore di tipo tradizionale. Ormai sapevo quante volte era stato sposato e quante volte era stato arrestato con l'accusa di praticare giochetti truffaldini. Sapevo quanto aveva guadagnato l'anno precedente, o almeno quanto aveva denunciato, e da dove proveniva. Sapevo come guidava il suo affare e a chi aveva rubato l'idea. Avevo già incontrato tanti di questi greggi sulla Costa, e parlato con tanti seguaci, e ormai sapevo com'erano. Erano questi in realtà quelli che m'interessavano, i seguaci, i credenti, i cercatori di meraviglie, gli affamati di miracoli. Fuggire. Oggigiorno tutti volevano fuggire. Alcuni trovavano la loro fuga nel televisore, altri in una siringa ipodermica, e inoltre la fuga continuava ancora a essere venduta in litri e quartini. Nessuno voleva più la realtà. La realtà era stata ridotta a una semplice quanto indigeribile ricetta: "Prendi un paio d'etti di atomi d'idrogeno, aggiungi un pizzico di cobalto, e agita il tutto". Era da questa semplice indicazione casalinga che tutti cercavano di fuggire. Era una cosa sicura come la morte e le tasse, e al giorno d'oggi ce ne sono tante di tutt'e due in giro. Così, inevitabilmente, molta gente sceglieva i culti. C'erano tanti tipi ai quali non bastava guardare gli sport per tv o avere soddisfazioni o distrazioni sostitutive. Sapevo già chi avrei trovato nelle file della Fratellanza Bianca. Ci sarebbe stata la casalinga sciatta e maleodorante, elevata alla cerchia delle Prescelte. Il piagnucolante farfuglione che veniva dalla campagna, e che aveva un posto nell'Esaltata Gerarchia e che aspettava con ansia il Giorno del Giudizio che livella sia il caporeparto sia il presidente. La ragazza occhialuta dai capelli mal curati, che era diventata la Sposa della Gloria. L'uomo anziano, il cui pentimento per i peccati del passato aumentava di pari passo con la sua impotenza, e che si gettava quei peccati dietro le spalle mentre cercava di acquisire punti in favore del Regno Sopravveniente.
Era questa la gente che Amos Peabody comandava e commendava allo Spirito Santo, il tutto sotto l'ala protettiva della legge, il tutto legalmente affidato a nome suo; un affare pulito, chiaro, libero da tasse, e che ogni giorno cresceva sempre di più. Date un titolo alle persone, fatele sentire importanti, dite loro che tutti sono condannati a bruciare tranne i Veri Credenti, che invece troveranno la loro torta in cielo. Amos Peabody aveva già la sua torta, qui e adesso. E forse non gli sarebbe piaciuto che un estraneo andasse a cacciare un dito nella torta. Comunque andai lo stesso in S. Mason 149, dove arrivai verso le sette e mezza. Era proprio come mi ero aspettato di trovarlo, un grosso edificio scalcinato a due piani che probabilmente una volta era stato un locale da ballo. Adesso il piano terreno era diventato la sede del tabernacolo, mentre il primo e il secondo ospitavano uffici e appartamenti. Aveva un'aria semplice e non pretenziosa, ma tutto questo era stato deliberatamente ricercato da Peabody. Mai spaventare i sempliciotti con un'entrata sfarzosa, non se stai lavorando con il trucchetto della "fine del mondo" e predichi la rinuncia a tutti i beni terreni. Molto probabilmente, la maggior parte di quei beotoni non ne sapevano quanto ne avevo imparato io in un solo pomeriggio. Certo non sapevano che il signor Peabody possedeva una tenuta di ottanta acri e che viveva in una villa di quattordici stanze. Sapevano che aveva due Cadillac e una stola d'ermellino perché quelli erano doni che gli avevano fatto loro con le sottoscrizioni: si dà sempre per scontato che un profeta si conceda qualche lusso. Ma non s'immaginavano quanti soldi aveva investito in terreni e in buoni fruttiferi, non pensando a quanto parlava Peabody della prossima fine del mondo. Stavo guardando l'edificio quando si accesero le luci. Mancava ancora mezz'ora, ma erano già pronti. Capannelli di persone si stavano già addensando all'entrata. Alcune persone anziane, un sorprendente numero di giovani, del tipo col capello tagliato corto, abiti di taglio classico e sorrisi smaglianti, gente che aveva certo seguito corsi di perfezionamento da qualche parte. Esteriormente, erano uguali, per taglio e taglia, ai giovani episcopaliani, ai metodisti o agli scientisti cristiani o ai Cavalieri di Colombo. Interiormente, la miscela doveva essere un poco diversa. Forse con un pizzico di colpevolezza in più. Personalità distorte che trovavano il proprio senso d'appartenenza in una distorta idea di religiosità... Guardai l'orologio. Dovevo tenermi pronto: mancava solo mezz'ora. Di colpo mi ricordai che non avevo mangiato più nulla dall'ora di pranzo.
Forse riuscivo a farmi un panino di corsa. Guardai lungo la strada e mi resi conto che non era stata una buona idea. Una volta usciti dalla pozza di luce giallastra che veniva dalla facciata ridipinta del tabernacolo, ci si trovava ben fuori da un quartiere-bene. Si vedevano edifici dall'aria spelacchiata, sporchi, finestre dai vetri macchiati da generazioni di mosche, negozi d'arredamento di seconda mano, una libreria che inalberava un cartello in cui si annunciava la vendita di settimanali e libri usati in inglese e spagnolo, un cinemino di periferia che reclamizzava il grande successo Los Niños Encantados. Un negozio di dolciumi ancora aperto con una coppia di ragazzotti con giubbotti di cuoio e capelli lunghi che bighellonavano lì davanti per far passare un tempo che non passava mai. Si levò un filo di vento e un vecchio giornale scese lungo la strada scivolando nella polvere; da mezzo isolato di distanza venne l'improvviso sbattere del coperchio di un bidone delle immondizie e il miagolio seccato di un gatto. L'aria odorava di pioggia: alzai lo sguardo e vidi le nuvole, gonfie e nere, che veleggiavano lentamente verso la luna. Una bella serata, mi dissi. Per un sacco di motivi. E tutti molto brutti. L'unica trattoria dei paraggi era chiusa, per cui mi decisi per un bar. In un posto come quello, le insegne al neon di quei posti dovrebbero brillare più vivaci proprio per via del contrasto. Infatti, eccola. Attraversai la strada e mi avviai verso il Joe's Place. Chissà perché nove di questi posti su dieci vengono identificati col nome del proprietario? Cosa succede nelle nostre vite in questi tempi che ci fa pensare che dobbiamo metterci su una base di confidenza col barista? Perché un corvo assomiglia a una scrivania? Lewis Carroll ne sapeva molto sul Paese delle Meraviglie, e scommetto che non era mai entrato in un bar in tutta la sua vita. Ma io non sono Lewis Carroll. Io sono Philip Dempster, e non vivo nel Paese delle Meraviglie. Entrai nel bar. Era uno di quei posti a conduzione mamma-e-papà, con Joe seduto dietro il banco a leggere la cronaca sportiva. Quando gli chiesi un panino disse "subito", e chiamò mamma. Lei stava nel retro, e quando ebbe preso l'ordine se ne tornò di là per affettare la mortadella di fegato. Mentre aspettavo ordinai una birra. Scoprii di essere anche assetato, così ne ordinai una seconda. Poi arrivò il panino con qualcosa che mamma definì caffè. Quella vecchia ragazza aveva una gran bella fantasia. Due sorsi, e la tazza era vuota. Allora chiesi un bicchierino: almeno così potevo credere a quello che leggevo sulle etichette.
Diedi un'altra occhiata al mio taccuino. Sembrava che fosse tutto a posto. Forse avrei fatto meglio a lasciarlo lì quando sarei andato alla Fratellanza Bianca. Volevo stare sul sicuro con quella roba. Non che mi aspettassi di trovarmi in qualche impiccio. Però, non si può mai dire. Non aveva senso correre dei rischi. Voglio dire, rischi come essere sbattuto fuori, o di essere strapazzato un po', o di... Ma cosa mi stava succedendo? Non avevo voglia di andarci? Non volevo guadagnarmi quei soldi? Dopo tutto, come aveva detto Cronin, quello era un servizio che dovevamo al pubblico. Mettere alla berlina un ciarlatano, salvare la gente dall'essere ingannata da un tipo come quello che non avrebbe esitato un momento a tagliarti la gola se... Va bene: era chiaro che non volevo andarci. Adesso lo sapevo. Avevo perso la spinta. È per questo che non riuscivo più a scrivere, è per questo che avevo paura persino della mia ombra. No, non della mia ombra. Avevo paura di qualcos'altro, e Cronin lo sapeva. Anch'io lo sapevo, eccome. Avevo paura, ed è per questo che bevevo. Anche adesso stavo bevendo. Le otto meno cinque: ne ordinai un altro. Due bicchierini e due birre in uno stomaco semivuoto: forse mi avrebbero fornito il coraggio di andare a fare quello che dovevo. Ma continuavo a sperare di non doverlo fare. A sperare che forse all'ultimo minuto sarebbe successo qualcosa che mi avrebbe salvato. Salvami, salvami cominciò a ripetere monotonamente quella voce nella mia mente. La conoscevo, e volevo dimenticarla. Forse un altro bicchierino mi avrebbe aiutato. Solo che non c'era più molto tempo. Stavo per alzarmi, pronto a pagare e a chiedere a Joe se poteva tenermi gli appunti per un paio d'ore. Fu allora che la porta si aprì. La porta si aprì, ed entrò la ragazza. Non era del tipo che frequentano posti del genere. E neanche di quelli che abitano in quei paraggi, e nemmeno in questo mondo. Lo so a cosa appartiene lei. Lei appartiene ai miei sogni, quelli che ero solito fare tanto, tantissimo tempo fa. Capelli color rame, lo stesso di un penny nuovo di zecca, di quelli che tieni in tasca come portafortuna. E anche lei aveva una taglia minuta, tascabile quasi. Un po' piccola, sì, ma dopo una sola occhiata non ci facevi più caso, perché era perfettamente proporzionata. Voglio dire che le linee del suo abito di lana nera si modellavano favolosamente sulla sua figura,
che la bianca curva di quella gola ti guidava irresistibilmente l'occhio giù fino alla delizia del... Sbattei gli occhi e scrollai la testa. Non era da me comportarmi così. Non avevo più pensato a una donna fin da quando ero tornato dalla Costa. E fino a quel momento, se qualcuno me l'avesse chiesto, gli avrei risposto che non avevo alcuna intenzione di pensarci di nuovo. Ma eccomi qui, e anche lei era qui. Perché? Perché s'è infilata in questo posticino da quattro soldi, cosa ci sta facendo da queste parti? Non era affar mio, lo so, ma la seguii con lo sguardo mentre si avvicinava al banco e ordinava da bere. Bourbon, con ghiaccio. Era chiaro che il barista non l'aveva mai vista. Lui versava, e io la fissavo. La fissai finché lei divenne consapevole del mio sguardo e si voltò a guardarmi a sua volta. Colsi un lampeggiare di occhi verdi. Distolse subito lo sguardo. Ma certo, perché no? Questa è vita vera. Nella vita reale nessuna ragazza dei tuoi sogni ti si avvicina e ti dice: "Lei dev'essere Philip Dempster. Ho sempre desiderato conoscerla". M'accorsi che mi guardava di nuovo, poi si voltò ancora. Era arrivato il momento di parlare al barista. Stava venendo verso di me, e io mi chinai sul bancone per dirgli... Sentii una mano sulla spalla. Mi voltai, e lei mi stava accanto. Mi stava accanto e sorrideva e mi stava dicendo: — Mi scusi, ma lei non è Philip Dempster? Lo sa, ho sempre desiderato conoscerla. 3 Non scordatevi la miccia. Stava bruciando, ma io non lo sapevo, non sapevo bene quanto velocemente può correre una scintilla. E anche se l'avessi saputo, le possibilità erano tali che non avrei potuto farci niente. Se avete mai visto una miccia bruciare, allora forse capirete perché. Succede che vi dimenticate del pericolo e restate fermi a fissare la favilla, la piccola luce rossa che si muove così graziosamente, velocemente, magicamente, consumando la propria strada. Uno la guarda, e gli sembra che sia viva. Inconsciamente, uno ci si identifica, e si trova ad augurarsi che continui a vivere, che non si spenga. E la scintilla avanza, e avanza, sempre più veloce, fino all'esplosione. In quel momento, comunque, ne ero inconsapevole. Sapevo solo che un sogno si stava realizzando. Uno di quelli buoni, il migliore. E il sogno disse: — Mi sembrava di averla riconosciuta, ma non ne ero
sicura. Assomiglia molto alla fotografia sulla sovraccoperta. Allora capii, e il sogno svanì. — E così ha letto il libro — dissi. — Ma certo. Ne abbiamo acquistate tre copie per la biblioteca. — Lei è una bibliotecaria? — Non più. Ma lo sono stata. Adesso lavoro come segretaria privata. — Mi guardò di sotto in su di tra le lunghe ciglia. — Ma non sono stata molto educata... voglio dire, venire qui da lei così senza nemmeno essermi presentata. — Voglio essere sincero — le risposi. — Amo questo tipo d'approccio. Non succede molto spesso: la gente non si ricorda i nomi degli scrittori. Lei ha fatto la bibliotecaria, dovrebbe saperlo. La gente parla e parla di un libro che ha letto. Gli chieda chi l'ha scritto, e non glielo sanno dire. — È proprio vero, signor Dempster. — Cosa sta bevendo, signorina...? — Bourbon. — Giusto. E il nome? — Diana Rideaux. — Me lo sillabò. — Francese? — Mio padre. Creola piuttosto, poiché sono nata a New Orleans. — Una città meravigliosa. Prima o poi ci dovrò andare. Ho sempre desiderato compiere uno studio esauriente sui vecchi culti vudu. Lei ne sa qualcosa? — No. Ho vissuto quassù per quasi tutta la vita. Guardai verso il bar e feci un cenno a Joe. — Due bourbon — ordinai. — Con ghiaccio. Joe ce li portò. Chiacchierammo un po'. Scoprii che era da quelle parti per far visita a una zia, che però era uscita. E lei si era scordata di mettersi il cappotto, e fuori faceva freddo mentre aspettava il bus, per cui era entrata a bere un bicchierino per scaldarsi un poco. Non era sua abitudine entrare in strani bar, e se era per quello in nessun bar, almeno sola, e sperava che non mi fossi fatto una brutta opinione di lei. L'assicurai di no, anzi, mi aveva fatto una buona impressione. Il che era quasi vero. Perché più la guardavo, e più mi piaceva. E poi lei cominciò a parlare del romanzo, e più ascoltavo, e più mi piaceva. Lanciai un'occhiata all'orologio: erano le otto e un quarto. S'accorse che stavo guardando l'ora e disse: — Ha un appuntamento e le sto facendo perdere tempo? — No, non esattamente. Non c'è altro posto in cui vorrei essere all'infuo-
ri di qui. — Anche questo era vero. Stavo cominciando a sentirmi accaldato. Parte era dovuto al liquore. Ma buona parte era dovuto alla sua presenza, alla vicinanza di quella nuvola ramata, calda e morbida e profumata. Era piacevolissimo starsene lì seduti, col bicchiere in mano, ad ascoltare una bella ragazza. Lo so che può apparire molto fatuo, ma l'occasione che avevo era quella che ogni uomo sogna, credetemi. Anche se molti potrebbero vergognarsi di ammetterlo. Cominciai a dirmi che dovevo darci un taglio. Magari potevo darle un appuntamento per un altro giorno. Dovevo andare a quel raduno. Ma, e anche se ne avessi perso pochi minuti? Probabilmente, era facile che non cominciassero al momento esatto. Le otto e mezza andavano bene lo stesso. Potevamo farci ancora un altro bicchierino. L'ordinammo, e la signorina Rideaux mi suggerì che potevamo trasferirci a un tavolino, perché nel frattempo erano arrivati diversi clienti abituali. Ci spostammo, e continuammo a chiacchierare. Quando guardai di nuovo l'orologio erano le nove meno un quarto. E avevamo appena ordinato un altro bicchierino. In realtà non c'era nessuna fretta, mi dissi. La Fratellanza Bianca avrebbe tenuto un'altra riunione la sera successiva. Ero ancora in tempo: solo che l'avrei fatto un po' più tardi. Quindi, perché andarmene proprio adesso quando tutto stava filando così liscio, sulle onde di un calmo mare di bourbon e profumo? Mi sentivo bene come non mi succedeva da mesi, meglio di quanto mi fossi mai realmente sentito. Era perfetto. Ci sono ragazze con le quali vi piace chiacchierare, altre con cui vi piace bere, il problema è che un tipo odia l'altro. E poi costa troppo portarsi fuori due ragazze alla volta, sempre che loro accettino. Il che non succede mai. Per questo ero felice, perché avevo quella combinazione tutta in una sola. Una che amava i libri e le libagioni. E che stimolava la libido. Proprio troppo bello per essere vero. È quello che avevo detto una volta a Margery. "Sei troppo buona per essere vera. Ammesso che tu sia vera." — Qualcosa che non va? — disse. Mi resi conto che la signorina Rideaux mi stava fissando. — Ho detto qualcosa che non va? — No. Perché? — Si stava accigliando. — Mi dispiace. Mi è venuto in mente qualcosa che... — Scommetto che aveva un appuntamento questa sera. — No, non un appuntamento. Un incarico.
— Un incarico? Cosa vuol dire? Le raccontai della Fratellanza Bianca. Mentre parlavo ordinammo un altro bicchierino, e poi un altro. Questo cos'era, il numero sette o il numero otto? Stavo perdendo il conto, ma poco importava. Nulla importava se non che stavo parlando con lei e lei mi stava ascoltando e si chinava verso di me e io potevo sentire il suo profumo e quello dei suoi capelli e fissare quegli occhi verdi, quegli smeraldi fumosi, no, sembravano più di giada, rame e giada... Ma questo non potevo dirglielo, ovvio. Ero invece molto brillante e molto analitico quando parlavo dei vari culti. Tutto è più brillante e più analitico dopo l'ottavo bicchiere, o era il decimo quello che stavano servendoci? In ogni caso le dissi tutto sulla Fratellanza Bianca, e lei si dimostrò molto interessata. Le dissi perché la gente si unisce a quelle congreghe, quali attrattive ci trova. Le dissi di alcune delle organizzazioni che erano esistite sulla Costa, del movimento Io sono e dell'Unione Umanitaria; le dissi di Arthur Bell e Riker, di Kullgren e dell'Uomo di Lemuria giù a Ojai. In dieci anni Bell era riuscito a raggranellare più di due milioni e mezzo di dollari. E l'affare degli Io sono si andava ingrandendo sempre più. — Hanno cominciato negli anni Trenta — le dissi. — I capi erano un tizio di nome Guy Ballard e sua moglie. Prima lui faceva l'attacchino. Poi ha scritto quel libro, I misteri svelati, con lo pseudonimo di Godfrey Ray King. L'ha mai letto? Lei fece cenno di no. Ecco una cosa da vedersi. Mi fece venir voglia di allungare la mano per toccarle i capelli. Ripresi a parlare. — Un bel giorno Ballard stava arrampicandosi sul monte Shasta quando incappò in San Germano, il Maestro Ascendente. San Germano diede a Ballard una bevanda di un qualcosa chiamato essenza elettronica e una pillola dello stesso prodotto: ricordi, questo prima delle prime pillole di vitamine. Doveva essere una miscela molto potente, perché tutt'attorno a lui scaturirono fiamme bianche alte una quindicina di metri che lo fecero levitare nello spazio. San Germano lo portò in un tour guidato attraverso Egitto, Sudamerica, India e il parco nazionale dello Yellowstone, mostrandogli la disposizione di antiche città colme di tesori da tempo sepolti. Gli spiegò che esistevano altri Maestri Ascendenti che vivevano in eterno in posti segreti della terra di cui dirigevano il destino. Adesso era arrivato il tempo di rivelare a tutti la verità, e Ballard era stato scelto per portare il messaggio al mondo. — Feci una pausa, sorseggiai il mio drink, le offrii una sigaretta. — No, grazie. Continui. È interessante.
— Sta per arrivare il meglio — dissi io. — Ballard tornò a casa e cominciò a scrivere il libro. Poiché glielo dettava San Germano gli ci vollero anni per terminarlo, ma non penso che il santo si sia mai preso i soldi delle provvigioni. Il denaro l'amministrava Ballard, e piuttosto bene. "Costruì un tempio, naturalmente, vendeva anelli col sigillo, e incisioni in ferro degli Esseri Cosmici. Aveva anche una pomata, e carte e libri e anche registrazioni fonografiche della 'musica delle sfere'. "Teneva anche corsi nel suo santuario, dalle sette di mattina fino a mezzanotte. Gli allievi apprendevano a cantare e a conoscere il segreto delle vibrazioni dei colori. Avevano comperato di tutto, compresa una macchina detta 'Fiamma in Azione' che veniva a costare un paio di centinaia di dollari." — Fantasie — disse lei. — Realtà — ribattei io. — È successo davvero, è tutto documentato. Vede, gli allievi stavano imparando le parole e i colori e le preghiere che avrebbero rimosso gli strati di Male dalla faccia della terra. San Germano e gli altri Maestri Ascendenti li aiutavano col Raggio Viola. Una volta rimossi i vari strati, tutti avrebbero potuto conseguire i propri desideri. Si poteva ottenere una "precipitazione" di qualsiasi cosa uno volesse. Tutto quello che c'era da fare era concentrarsi sull'oggetto finché non appariva. Se uno voleva una nuova lavatrice, la "precipitazione" gliel'avrebbe portata. "E poi c'erano altri vantaggi. Non era stato Ballard a predire la distruzione della California del Sud per il 1936 e loro l'avevano salvata all'ultimo minuto pregando San Germano? Non era stato lui ad affondare i sottomarini di Hitler inviati per far saltare il Canale di Panama? Non aveva offerto a tutti immortalità e ricchezza? Avrebbero ricevuto più di quanto davano." — E come se l'è cavata Ballard? — Non troppo male. Vede, il culto si era diffuso anche in altre città. A un certo punto aveva trecentomila fedeli. Se Ballard non fosse morto, e se sua moglie non fosse stata incarcerata per frode postale, il culto sarebbe cresciuto ancora e ancora. Comunque, quando molti anni or sono i federali fecero irruzione e controllarono i conti, stimarono che Ballard controllava qualcosa che superava i tre milioni di dollari. — Tre milioni... — Non male per un estratto elettronico. Che ne dice di un altro giro? Annuì. Bere non sembrava turbarla più di tanto, ma a me stava facendo
effetto. Quando bevo troppo non vengo colpito alla zona del cervello che controlla il linguaggio, ma la vista mi si aggroviglia. In quel momento lei non era altro che una macchia color rame. Non più lucida e brillante, ma velata e ondeggiante. Mi dissi che forse cominciavo ad aver bisogno di due vetri sul naso. Mi dissi anche che forse non dovevo più prendere quel che c'era nel vetro. Non era molto divertente, ma risi lo stesso. — Signor Dempster, c'è qualcosa che non va? — No, niente. Forse, un po' troppo estratto elettronico. Posso accompagnarla a casa? Lei mi fissò e io cercai di fissarla a mia volta. Credo di poter dire che stava scrollando la testa. — Non credo proprio. Ma se lei ha un'auto qui fuori, la porterò io a casa. — Mi dispiace. Non avrei dovuto prendere quell'ultimo drink. Ultimamente ho bevuto un po' troppo. Dovrò darci un taglio. — Mi alzai. — Crede di potercela fare? — La sua mano era sul mio braccio. — Certo che posso. — E lo feci. Uscii di lì facendo tutto da solo. Il posto era affollato, e nessuno badò a noi due. Lei andò avanti, e io seguii quella nuvola ramata. Nell'auto potei chiudere gli occhi. Le dissi dove abitavo e lei partì. Credo di aver dormito per un po', perché quando aprii gli occhi eravamo parcheggiati davanti a casa mia. Lei mi stava aprendo la portiera. — La lascia qui tutta la notte? — mi chiese. — Certo. Ho il permesso. — Allora me ne vado. — Sorrise, almeno credo che lo facesse. — E grazie per la divertente serata. Divertente, al diavolo. Ma come vive questa nuova generazione, mi chiesi. Io ero abituato che sono gli uomini ad accompagnare le donne a casa, o qualcosa del genere. E adesso era tutto ribaltato. Era lei che aveva portato me a casa. Bella roba. Phil Dempster incontra la ragazza dei suoi sogni e va a finire che si sbronza, ed è così pieno che non pensa nemmeno di chiederle di salire a... — Ehi — sbottai. — Dove sta andando? — A casa, direi. Abito a Fairhope. Non si preoccupi, c'è una fermata d'autobus qui all'angolo. — Sono confuso — gemetti. — Ho combinato un bel casino. — Non se ne rammarichi. Mi ha fatto piacere. — A me no. La prossima volta le prometto... — mi chinai in avanti. —
Posso telefonarle? — Certo. Mi trova sull'elenco. — Stia in casa domani sera. La chiamerò. — Ne sono contenta. Buonanotte. — Esitò un attimo. — È sicuro di farcela a salire le scale? — Certo. Sto bene. Io... Ma se n'era già andata. Sentii i tacchetti che si allontanavano e allora mi sporsi dal finestrino, ma era tutto una macchia confusa. Tutto era confuso e io stavo mentendo. Non stavo mentendo. Ero in un casino, tutto era un casino, quel bere e bere e bere, tutte le sere a causa di un sogno che non era reale. Quando qualcosa di reale mi attraversa la strada, non mi trova pronto: continuo a bere e la lascio andar via. Perché non mi ero limitato a parlare? Perché non avevo scoperto qualcosa che la riguardasse, invece di continuare a rantolare su tutti quei culti pazzeschi? Come che fosse, doveva pensare che sono un ubriacone senza speranze, il tipico scrittore sbronzo. Il classico tipo da cui è meglio stare alla larga. E poi, non mi aveva detto niente di lei. Faceva la segretaria privata, okay, ma dove? Viveva a Fairhope, aveva detto, ma a quale indirizzo? Magari viveva con qualcuno, e non l'avrei mai più trovata. E poi, non mi aveva dato il numero di telefono, vero? No, non me l'aveva dato. Aveva solo detto che potevo chiamarla l'indomani sera. Sono sull'elenco, aveva detto. Magari quello era un modo per prendere tempo, per tagliare la corda alla svelta. Perché non avevo pensato di farmi dare il numero e di scriverlo sul notes? Il notes... Mi frugai nelle tasche. Niente. Frugai nel sedile accanto al mio, ciancicai sul pavimento sotto i miei piedi. Poi mi ricordai. L'avevo lasciato alla taverna, nel separé. Ecco fatto. Dovevo riprenderlo. E alla svelta. Che sarebbe successo se qualcuno della Fratellanza Bianca si fosse infilato da Joe's dopo la riunione e avesse trovato i miei appunti? Dovevo riprenderli. E lei se n'era andata, avevo sentito il ruggito del bus cinque minuti prima. Nessuno che potesse guidare per me. Tardi. Nessun taxi in vista. Forse potevo salire in casa e telefonare per combinarne uno... No. A quell'ora, ci sarebbe voluta una buona mezz'ora. E più presto avrei messo le mani sul notes, meglio sarebbe stato. Potevo guidare da me. Stavo bene.
Per un po' la miccia sembra bruciare lentamente, ma poi comincia ad acquistare velocità... Scivolai dietro il volante, brancolai per accendere il motore. L'auto cominciò a fremere e palpitare, fremere e palpitare, poi strisciò in avanti e infine si gettò nella notte come un gatto che balza addosso alla preda. Un gatto ramato, con gli occhi verdi. La dea-gatto Bubastis. Questa è una buona idea: far rivivere il vecchio Pantheon egizio. Ma non l'aveva fatto qualcuno degli associati di Aleister Crowley? Lui era un adoratore del diavolo. Si faceva chiamare la Grande Bestia 666. E la gente gli credeva. E anche oggi la gente crede, tutti credono di sentire voci, tutti hanno visioni. Anch'io le avevo quando sognavo, e a nulla valeva chiudere gli occhi. Comunque adesso non puoi guidare con gli occhi chiusi... Mi trovai da qualche parte sulla Fuller Avenue. Una vocina mi stava sussurrando: "Non puoi farlo, Phil. Non puoi. Perché allora non ti fermi, fermi, fermi?" Era la mia voce, ma non volevo ascoltarla. Non volevo fermarmi. Dovevo farcela. Anche se non riuscivo a vedere quello che stavo facendo, dove stessi andando. C'era qualcosa di sbagliato in me, qualcosa di terribilmente sbagliato. Se ci fosse stato Schwarm, lui l'avrebbe saputo. Mi avrebbe detto cosa fare. Mi avrebbe ordinato di tornare a casa, e avrei obbedito. Oppure avrebbe detto di parcheggiare, uscire, e fare il resto della strada a piedi prima di investire qualcuno. Era così. Potevo scendere e camminare. Ancora pochi isolati da percorrere. Camminare è meglio. Prima di tutto non avrei ucciso nessuno, e non sarei riuscito ad ammazzare neanche me. Aveva cominciato a piovigginare ed ero confusamente consapevole della pioggia che mi batteva sul viso. Non mi ero preoccupato di abbottonarmi il cappotto per tenere lontano il freddo. Speravo che la pioggia mi avrebbe fatto tornare sobrio. Ma questo era un pensiero lontano lontano, perché in un senso più generale non me ne fregava nulla se fossi tornato sobrio o no. Né ora, né mai. Il marciapiede era scivoloso e una volta quasi caddi e vagamente pensai che dovevo stare attento se non volevo farmi male. O investire qualcuno e farci male tutt'e due... Non volevo far del male a nessuno, non volevo uccidere nessuno. E nemmeno volevo morire. Non volevo vedere nessuno che moriva. Ecco qui. Era questa la cosa più importante. Non vedere nessuno morire. Camminavo, con gli occhi chiusi. Con la mente chiusa. Mi limitavo a
camminare e poi pensai che forse dovevo salire. Cominciai a correre. Corsi lungo tutte quelle tenebre, perché tutto mi si stava chiarendo d'un colpo solo, era troppo chiaro, e troppo luminoso. Potevo vederci troppo bene. C'era stato un momento in cui mi ero fermato davanti a una porta e avevo tentato la maniglia. Era la taverna di Joe, era chiusa per caso? C'era stato un momento in cui ero andato da qualche altra parte camminando sempre a occhi chiusi, pregando per un altro momento di pace prima di aprirli di nuovo e scoprire cosa i miei sensi risvegliati stavano cercando di dirmi, prima che potessi vedere quello che stavo annusando, e sentendo. La miccia scoppietta con forza alla fine... Ma non era uno scoppiettio. Era un basso mormorio che si trasformò in un ruggito. Un ruggito per le mie orecchie, e uno spasmo per i miei polmoni. Era dietro di me, e io stavo correndo, stavo correndo fino all'angolo. All'angolo sorgeva qualcosa di rosso. Spalancai gli occhi il tempo di vederlo. Qualcosa di rosso, che brillava riflettendo la luce che proveniva dalle mie spalle. Ci sbattei contro, mi ci appoggiai. Tastai con le mani in su e in giù, sentendo prima dolore e poi caldo. Poi le mie mani trovarono, e sentii il suono. E il suono venne inghiottito dal ruggito, e il ruggito venne inghiottito dall'ululato. Crollai a terra, credevo di svenire ma invece no. Forse passò un minuto, forse cinque, magari dieci. E all'improvviso qualcuno mi stava scrollando, e io ero sveglio, ero sobrio. Ma come fa uno a essere sveglio e sobrio in un incubo? Non lo sapevo. Tutto quel che so è come mi hanno trovato, accovacciato all'angolo della strada vicino all'allarme per i pompieri, mentre il luogo di culto della Fratellanza Bianca veniva divorato dal fuoco alle mie spalle. 4 Stava appena cominciando a schiarire. Potevo vedere le prime avvisaglie dell'alba attraverso i vetri della finestra dell'ufficetto. Il capitano Dalton spinse nella mia direzione un bicchiere di carta colmo di caffè. Lo presi e ne bevetti un sorso. Aveva un sapore amaro, come di cenere. Per me, tutto sapeva di cenere, tutto aveva odore di fumo.
— Va bene, signor Dempster — disse poi. — Siamo pronti per la sua dichiarazione. — Ma le ho già detto tutto. E l'ho detto all'agente Henderson mentre stavamo venendo qui... — Questo è per l'inchiesta ufficiale. — La testa grigia del piccolo capo della Squadra Incendi Dolosi si voltò verso lo stenografo, che mi stava seduto accanto col blocco sulle ginocchia, facendogli segno col cannello della pipa. Mi stavo chiedendo cosa mai potesse convincere un uomo a fare un lavoro come quello: starsene lì seduto alle cinque del mattino a scrivere sotto dettatura. Mi chiesi se il capo della Squadra fosse autorizzato a fumare la pipa. Mi stavo chiedendo un sacco di cose. — Cerchi di ricordare tutti i dettagli, adesso. È una cosa seria. Annuii. Era una cosa seria, d'accordo. Seria come l'inferno. L'inferno rosso dell'olocausto, con pareti che crollano in un nugolo di scintille, tre allarmi che suonano, con le strade piene di gente. Avevano trovato il corpo di Peabody in una stanza al piano superiore, assieme ad altri tre: membri della Fratellanza Bianca che dormivano lì la notte. L'edificio era completamente bruciato. Bruciato fino alle fondamenta. Come fa qualcosa a bruciare fino alle fondamenta? Andiamo, sii serio, lo sai come fa. E sapevo anche che non si erano presi il disturbo di portarmi lì solo per farmi fare un giretto. Avevo già parlato con un investigatore e col capo dei pompieri. E se c'era la presenza della Incendi Dolosi, allora voleva dire che sospettavano... — Da dove devo cominciare? — chiesi. — Cominci dall'inizio di serata. Voglio una dichiarazione completa. E io cominciai. Chi ero, cosa stavo facendo. Gli riferii di Ed Cronin e dell'incarico. Gli dissi di essere entrato da Joe's. Gli dissi dell'incontro con Diana Rideaux e di quel che era successo. Del fatto che mi aveva portato fino a casa, e che io ero tornato per riprendere gli appunti. Gli dissi tutto delle mie azioni fisiche di quella notte. Non gli raccontai però quanto avevo bevuto, né in quale stato mi trovavo. Né gli dissi che avevo camminato tenendo gli occhi chiusi, né dove ero andato. In parte perché c'erano lunghi brandelli che non ricordavo, e in parte perché alcuni di questi non volevo farmeli tornare in mente. Di certe cose non volevo proprio parlarne. Era sufficiente dirgli che ero tornato alla taverna, l'avevo trovata chiusa, poi avevo visto le fiamme, sentito l'odore del fumo, e avevo suonato l'al-
larme. Ma era sufficiente? Quando ebbi finito, il capitano Dalton mi fissò. — Tutto qui? — chiese. — Tutto qui. Diede un'occhiata a un foglio. — Ci sono un paio di punti su cui potrebbe esserci utile — disse. — Secondo quanto ha scritto qui Henderson, lei non ha guidato fino alla taverna. Invece ha parcheggiato più in là, sulla Fuller, all'isolato 300. Perché? — Gliel'ho detto. Avevo bevuto un po' troppo, per cui pensai che l'aria fresca mi avrebbe giovato. Annuì. — E allora è andato diritto alla taverna e l'ha trovata chiusa. Adesso annuii io. — E cosa aveva intenzione di fare poi? Tornare a casa e telefonare alla taverna la mattina dopo? Annuii di nuovo. — Capisco. — Il capitano Dalton batté con la pipa sui suoi appunti. — È sicuro di avermi detto proprio tutto? — Ma certo. Che altro ci sarebbe? — È quello che le sto chiedendo. — Dalton si alzò. Era piccolo, ma in quel momento sembrava che torreggiasse su di me. — Perché se lei voleva andarsene diritto a casa sarebbe tornato verso la sua auto, vero? E la sua auto era nell'altra direzione, opposta a dove si trova la Fratellanza Bianca. E invece lei non è tornato indietro, è andato avanti. E dev'essere andato avanti perché l'abbiamo trovata all'angolo più lontano dopo che aveva messo in funzione l'allarme. — Ho visto le fiamme — dissi. — Sentito il fumo. Cominciò a fissarmi. — Che ora era? — Non ho pensato di guardare. Avevo bevuto, sa com'è. — No che non so com'è. Ma lo scopriremo. — Si voltò. — Vuole dirmi che ha messo subito in funzione l'allarme? — Ma sì. Non era quella la cosa da fare? Non mi rispose direttamente. Parlava rivolto al muro. — Se lei l'ha acceso al primo colpo, allora qualcuno è matto. — Cosa vuol dire? — L'allarme ha cominciato a suonare all'una e un quarto. È nelle registrazioni. Lei ha detto che è andato dalla taverna fino alla colonnina dell'allarme perché ha sentito odor di fumo e ha visto le fiamme. Giusto? — Sì.
— Quanto crede che ci voglia per andare dalla taverna fino alla colonnina dell'allarme? — Tre minuti. Forse meno. Mi stava fissando di nuovo. — Tre minuti, forse meno. — Adesso il cannello della pipa era indirizzato verso i miei occhi. — Quindi, secondo la sua storia, lei si sarebbe trovato davanti alla porta della taverna all'una e dieci. All'una e undici, o dodici, ha guardato lungo l'isolato e ha visto le fiamme. Dalla finestra davanti del primo piano, come ha detto. — Giusto. Si diresse verso una porta e l'aprì. Chiamò qualcuno che stava nell'altra stanza. — Mandatemi Shelby per qualche minuto. Entrò un agente seguito da un uomo occhialuto con una giacca di cuoio e un berretto da tassista. — Lei si chiama Shelby? — chiese il capitano. — Già, sono Vick Shelby. — Mi chiamo Dalton. Incendi Dolosi. Ho letto la sua dichiarazione. Il tassista spostò il peso dalla gamba destra alla sinistra. — E allora che c'è? C'ho detto quel che sapevo. Senta, io devo andare, devo tornare in... — Non c'è nulla che non vada. La lasceremo andare fra un attimo. Ma prima vorrei che lo ripetesse ancora una volta, così che possa sentirlo anch'io. Lei ha detto che stava scendendo lungo la Mason all'una e dieci? — Giusto. Son venuto giù da Claybourne ai dieci. Ci dico che lo ricordo perché lo stava dicendo la radio che c'ho su. Dovevo essere all'aeroporto all'una e mezza. Ho chiamato colla radio e c'ho detto che c'andavo io, e lo trovate segnato sul registratore che segna le chiamate. Come ho detto, l'una e mezza. Poi ho preso la Mason, come c'ho già detto. — Vediamo un po', allora. Claybourne si trova a più di un chilometro a nord del tempio della Fratellanza Bianca, giusto? — Quattordici isolati, con dentro anche la via dove sta PYMCA. — E quindi lei è passato accanto al tempio alla una e dodici, una e tredici, vero? — U-uh. — E quando è passato lì vicino ha visto le fiamme? — No. — Sentito odor di fumo? — No. — Vick Shelby spostò di nuovo il peso dalla gamba sinistra a quella destra. — C'ho già detto prima, se vedevo qualcosa non mi sarei fermato per dare l'allarme? Che cazzo vuole fare, vuole dire che sono stato
io che c'ho dato il fuoco a quel posto? — Certo che no. — Il capitano Dalton cercava di essere molto calmo e molto paziente: non aveva puntato neanche una volta la pipa contro Vick. — Ancora una cosa. Mentre lei transitava da quelle parti, le è capitato di vedere qualcuno che passeggiava, o che correva, sul marciapiede di sinistra, l'isolato dopo il tempio? — Manco un'anima — disse il tassista. — C'era nessuno lì in giro. — Non ha nemmeno visto un uomo davanti alla colonnina dell'allarme all'angolo? — Ho visto nessuno io. Dalton adesso mi stava indicando. — È sicuro allora di non aver visto quest'uomo? — Mai visto prima in vita mia. — Va bene, signor Shelby. Può andare adesso, e grazie infinite. Se avremo ancora bisogno di lei, ci faremo sentire. — Okay. E uscì. Aprì la porta ed era già fuori, libero come l'aria. Mentre io ero ancora lì seduto, col cannello della pipa puntato contro di me. — Lei non ha visto passare il taxi, vero? — Certo che no. Gliel'avrei detto se l'avessi visto. Le ho detto tutto quello che so. — Davvero? — Dalton si risedette. Notai che stava cominciando a sudare, ma non me ne preoccupai. Io ero già tutto zuppo. — Davvero? — ripeté Dalton. — Lei ha detto che è arrivato alla taverna all'una e dieci o subito dopo. Che ha disceso Walker Street attraversandola quando ha visto le fiamme alla una e dodici, una e tredici. Ma alla stessa ora il tassista non ha visto alcuna fiamma. Né ha visto lei, per soprammercato. — Non saprei cosa dire. Forse ero in un posto in ombra. Forse c'è stata una sorta d'esplosione e le fiamme sono scaturite all'improvviso. Non avrei aspettato un solo secondo prima di chiamarvi. — Non l'avrebbe fatto, signor Dempster? — Dica, cosa significa questo? Lei pensa che l'abbia appiccato io l'incendio? — Avevo lo stesso tono del tassista. — Non penso proprio niente. — Sospirò. — Non ho nemmeno detto che sia stato qualcuno ad appiccare il fuoco. Da quel che ne sappiamo, potrebbe trattarsi anche di combustione spontanea. Ma è nostro compito scoprirlo. Compito nostro, perché quel posto non era assicurato. Se la Compagnia
Nazionale delle Assicurazioni Antincendi fosse interessata in questo caso, allora sì che a quest'ora avrebbe dovuto rispondere a un sacco di domande. — Senta — dissi. — Le ho detto tutto quello che so. Le ho anche detto che non mi sentivo bene. Uno poi non può ricordarsi tutti i dettagli. Forse sono arrivato prima e ho gironzolato lì attorno. Però ho visto le fiamme, e ho acceso io l'allarme. E da quando è un crimine dare l'allarme per un incendio? — Mi alzai. — Da quando è un crimine parcheggiare l'auto e farsi un tratto di strada a piedi? Non ho dato fuoco a quel posto. Perché avrei dovuto? Non ci sono mai stato in quel posto. La giri come vuole, tutto questo non ha senso! — Nulla ha senso — disse Dalton. — Lei è uscito per andare a una riunione, ma non c'è andato. Ha incontrato una strana ragazza e c'è rimasto attaccato. Sa come si chiama ma non dove abita. L'ha portato lei a casa, ma poi lei è tornato perché aveva dimenticato gli appunti. Solo che non è tornato fino al posto. Ha parcheggiato la macchina a una certa distanza e ha proseguito a piedi. Afferma in più che tutto questo è avvenuto poco prima che scoppiasse l'incendio. Ma perché non poteva essere stato molto prima? Supponiamo che lei sia tornato prima, verso le dodici e mezza invece che all'una e dieci e che... — Perché? — Stavo quasi gridando. — Lei vuole che cambi la deposizione. Per quale motivo, che ragione ha? Tutti i crimini devono avere una motivazione. Dalton batté con la pipa sulla scrivania e scrollò la testa. — Questa è la parte più difficile — mormorò. Aveva un tono basso, riflessivo. — Incendio doloso, già. Abbiamo una profusione di motivi. Il più grosso di tutti, naturalmente, è l'assicurazione. Segue poi la vendetta: un impiegato licenziato incendia la ditta perché è incazzato col suo capo. C'è anche la gelosia, e a volte un incendio serve da copertura a un assassinio. Ci sono un sacco di motivi del genere. Non tutti appaiono essere motivi ragionevoli o razionali, ma possiamo capirli. Quelli che temiamo sono quelli d'altro tipo. I casi in cui non c'è motivo, in cui non c'è senso. L'incendiario non ha bisogno di motivi per appiccare il fuoco, o per lo meno, nessuno che sia razionale. Le voci gli dicono di farlo, oppure ama vedere le cose che bruciano, o vuole vedere arrivare i pompieri e magari gettarsi lui stesso nelle fiamme per fare l'eroe. Spesso un incendiario non si rende nemmeno conto di quello che sta facendo, è come se quell'esperienza venisse cancellata dalla sua consapevolezza. — Mi sembra pazzesco — dissi.
— È pazzesco. — Cominciò a caricare la pipa. — C'è anche un nome per questi casi: piromania. — Non può attaccarmela — sussurrai, e lo sussurrai perché ero spaventato. — Ha detto lei stesso che non sa ancora se è stato qualcuno ad appiccare il fuoco. Se non ha un crimine non può pensare a un criminale. E se vuole incastrarmi, voglio poter telefonare a un avvocato. Però le ho detto la verità. Può controllare con Ed Cronin, controllare con quella ragazza e... Si aprì la porta e apparve la testa dell'agente che aveva accompagnato il tassista. — È arrivata la ragazza — disse. Dalton gli lanciò un'occhiataccia, poi si alzò. — Sono subito da te — disse. Poi, rivolto a me: — Rimanga qui finché non torno. Scotty, tienilo d'occhio. Lo stenografo annuì. Rimasi seduto a osservare l'alba che si levava. La splendida, meravigliosa alba. Che si levava come un fuoco... Chiusi gli occhi. Piromania. A volte non ti rendi nemmeno conto di quello che hai fatto. Per quanto ho girato là attorno e dove sono stato? Bruciato. Quella maschera carbonizzata... Cosa stava sucedendo nell'altra stanza? Cosa stava chiedendo a Diana Rideaux, e cosa stava dicendogli lei? Non capii se era stato via cinque minuti o cinque ore. Quando tornò il sole mi batteva diritto negli occhi. C'era anche l'agente con lui. — Va bene, Dempster — disse. — Può tornarsene a casa, adesso. Ma rimanga in città nel caso che più tardi si abbia bisogno di lei. Mi alzai, annuii. — Dov'è la signorina Rideaux? — Se n'è appena andata. Ma è tutto a posto. La vostre storie combaciano. Secondo la sua dichiarazione, vi siete lasciati verso l'una. Buon per lei che l'abbiamo trovata. Avevo problemi a stare in piedi. Mi si erano addormentati i piedi. Il capitano Dalton mi si avvicinò. — Va tutto bene? — mi chiese. — Oh sì. Bene. — Mi spiace di averla inquisita a quel modo. Ma occorre essere molto prudenti in questo genere di lavoro. Ho visto cose molto strane. Ma non c'è nulla di peggio di un incendiario. — Capisco. — Provai a muovermi. L'agente mi mise una mano sotto il braccio. — Vuole uscire dal retro? — mi chiese. — Ci sono i giornalisti qui fuo-
ri. Annuii con gratitudine. — Chiedo a qualcuno della squadra di riportarla a casa — disse. — Dev'essere stata dura per lei. — Si ficcò una mano in tasca e ne pescò fuori un pacchetto di sigarette. — Tenga, ne vuole una? — No grazie — risposi. — Ho smesso di fumare. 5 Desideravo solo dormire, ma c'era ancora troppo da fare. La prima cosa fu prendere un taxi per recarmi alla taverna di Joe. Era aperta, e c'era anche Joe. E anche i miei appunti. — Li ho visti quando ho ritirato i bicchieri dopo che ve ne siete andati — disse lui. — Troppo tardi per chiamarla. Mi aspettavo che tornasse. — Grazie. — È venuto anche un agente a chiedermene notizia. Li ha guardati, credo, ma ha dato solo un'occhiata. Hanno qualcosa a che fare con l'incendio? — Non li ha letti? Joe fece cenno al bar affollato. — E chi ha il tempo di leggere con un lavoro come questo? E poi, non è roba mia. Ero più propenso a credere alla prima affermazione. Sembrava che non ci fosse più un posto libero. Anche in strada era così. Piena di traffico, piena di spettatori, piena di morbosi guardoni venuti a bearsi della vista delle rovine ancora fumanti. La gente è sempre affascinata dal fuoco. Perché? — Non sto scherzando — ripeté Joe. — Lei ha qualcosa a che fare con l'incendo? — Certo — risposi. — L'ho appiccato io. — Ahh... — Grazie per i miei appunti. Senta, non farebbe meglio a occuparsi dei suoi clienti adesso? — Ci sta pensando mammina. — Si chinò sul bancone. — L'ha visto che bruciava, eh? — No. Ero a casa. — Ragazzo, quello sì che è stato uno spettacolo! Fiamme alte un dieci metri. C'erano cinque autopompe, noi eravamo tenuti lontani, non volevano che andassimo più vicino. Io e ma' l'abbiamo visto allora dalla finestra del piano di sopra. Si sentiva un caldo a stare lassù.
Mi guardai attorno, alla ricerca di una via di scampo. — Sentito di Peabody, eh? Lui e altri tre ragazzi ci sono restati. Cavoli, dev'essere un brutto modo d'andarsene... Non era quello che volevo sentirmi dire. Dovevo fermarlo. — Lei conosceva Peabody? — gli chiesi. — Lui? Noo. Mai venuto qui. Mai preso manco una birra. Mai visto nessuno di quella banda qui intorno. Un mazzo di fanatici, se vuole saperlo. Davano tutti i loro soldi alla Fratellanza. Un grosso affare. Come fa la gente a essere così pazza? Scrollai la testa. Non sapevo come faceva la gente a diventare così. Ieri, forse, lo sapevo, ma oggi non ne ero più certo. Non sapevo più cosa voleva dire essere pazzi. Forse vuol dire che ti piace appiccare incendi, forse che ti piace guardarli, forse che hai paura del fuoco? Se è così, allora tutti sono pazzi. — Mi scusi — dissi — ma devo andare. Ho lasciato la macchina un po' lontano da qui. Aprì la bocca, ma io aprii la porta. E di nuovo mi avviai nella direzione sbagliata. Dovevo vedere prima di andarmene. La zona era ancora recintata e i pompieri erano ancora in bella evidenza: veicoli e uomini erano sparpagliati in tutta la zona. Lungo i marciapiedi e per alcuni isolati si allineavano molte auto in sosta, e lungo la recinzione si premeva una folla considerevole. C'erano poliziotti che andavano avanti e indietro ordinando alla gente di circolare, di fare posto. Ma sorridevano mentre lo dicevano, e la gente sorrideva di rimando. C'era un'aria di gaia festosità. Io non avvertivo niente del genere, però sentivo che c'era eccitazione e allegria. Mi feci largo a gomitate fino alla recinzione, e tutt'attorno a me vedevo gente che sorrideva e guardava. Anch'io guardai, ma non sorrisi. Il centro sventrato del tempio era ancora in piedi, anche se le due pareti più lontane erano cadute quasi per intero. Il tetto era scomparso, ma la parte frontale era ancora in piedi: finestre vuote come occhi ciechi, la porta aperta che sembrava una bocca bruciata dalla quale sgorgava un puzzo di ceneri decomposte. Brandelli di canniccio e di plastica bruciacchiati penzolavano davanti ai davanzali delle finestre vuote, simili ai capelli unti di un delinquente giovanile. Almeno metà della strada era ingombra delle macerie lasciate lì quando il tetto era crollato, e carte e sedie e libri semi-bruciati erano stati espulsi dall'edificio in
fiamme come polvere scopata via da una soglia. C'era qualcos'altro sulla strada che attirò il mio sguardo, e quasi ci rimisi il pranzo. Era stato un edificio molto vecchio e aveva fornito riparo a diverse piccole specie di animali, di quelli che s'ingegnano a vivere in simbiosi con l'umanità urbana. Ragni e altri insetti dovevano essere stati portati in alto come pezzettini di carta dall'aria arroventata. Poi una piccola armata di topi, brucianti e squittenti, era uscita al galoppo, e molti erano riusciti ad attraversare quasi tutta la strada. Cominciai a tremare. Gli esseri umani bruciano anch'essi con altrettanta facilità. E dovevano avere lo stesso aspetto... I pompieri stavano frugando fra le rovine, mentre altri stavano ritirando un serpente sputacchiante dalla finestra di una cantina. Era lì dove l'incendio aveva avuto vita, e gli uomini la morte. Una cosa gradita alla folla. Potevo leggerglielo in faccia. Potevo vedere apertamente quello che sentivano, avvertivo quello che pensavano segretamente. Alla folla piaceva. La Grande Bestia. La Grande Bestia che si nutre con una dieta di violenza, e che di quella si era cibata lungo tutti i secoli. Erano quelli i visi che si erano illuminati per i riflessi rossastri di Roma che bruciava. Quelle erano le facce che si infiammavano di gioia quando i martiri cristiani venivano bruciati come torce, quando le fascine prendevano fuoco sotto i piedi delle vittime di Torquemada. Nei loro occhi leggevo la corda, vedevo il palo del rogo, vi leggevo l'amore per il linciaggio e l'ardente desiderio di bruciare. Quella era la Folla, e per la Folla tutte le sofferenze sono uno spettacolo, tutte le distruzioni una delizia. Certo, si stavano dicendo quanto doveva essere stato terribile. Parlano sempre così, come vecchiette al seguito di un funerale. Ma le vecchie vanno ai funerali tutti i giorni, mentre la Folla va sulle scene dei disastri o dov'è avvenuta una violenza. Ed esulta. E festeggia le depravazioni. Essa è colma di orrori, non è così che l'ha definita Shakespeare? Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Una bestemmia? Forse, ma allora tutti stavano bestemmiando attorno a me. Ne sentivo i pensieri, i desideri oscuri. "Fortuna che non è capitato a me..." "Mi sarebbe piaciuto vederlo..." "Mi chiedo cosa si provi ad appiccare un incendio, a bruciare un posto così..." "Peccato che i vicini non se ne siano accorti subito, avrebbero avuto qualcosa da vedere..." Era sempre successo, e in tutto il mondo. Avevano incendiato la Biblioteca di Alessandria, e avevano bruciato Roma, Parigi, e Londra, e Atlanta.
Anche Chicago e San Francisco se n'erano andate fra le fiamme. E sempre la Folla era accorsa. La Folla corre per assaporare il fumo come fosse incenso, per vedere l'offerta che brucia e offrire adorazione a chissà quali oscuri dei della morte. Rimanevano fermi a osservare le fiamme che dardeggiavano color arancio e rosa e azzurro e bianco a sentirne il calore sul viso e a dire oooh e aaah quando crollava il tetto o un muro collassava. Stavano dalla parte del fuoco e mugugnavano contro i pompieri e guardavano senza pietà o simpatia quando uno di loro veniva portato fuori a braccia per liberarsi dal fumo che gli riempiva i polmoni. E non importava se si trattava dell'impersonale facciata della Banca Nazionale che veniva distrutta dalle lingue di fiamma o se era il negozietto di biancheria dello zio Harry. Non c'era pietà per i proprietari, né per le vittime. Solo un mare di occhi splendenti, fiammeggianti, quelli della Folla che adorava il suo antico dio. Io lo sapevo. Lo sapevo. Sotto le allegre affermazioni come: "Guardo sempre fuori dalla finestra quando sento passare l'autopompa" e "Non so proprio cosa succede a Tom, appena sente la sirena salta subito in macchina" e "Solo una cosa come il fuoco riesce a smuovermi", ecco, sotto tutti questi luoghi comuni, sotto tutte queste espressioni quotidiane c'è uno stimolo. Un fiammeggiante stimolo per un fatto fiammeggiante. Nel profondo, siamo tutti adoratori della fiamma. E ci sentiamo rivivere quando assistiamo a un sacrificio. Bei pensieri profondi di prima mattina, dopo una notte insonne. Mi scrollai e mi voltai per andare a cercare la mia auto. Era dove l'avevo lasciata. Avevo le chiavi in tasca, e i poliziotti non l'avevano rimossa. Guidai fino a casa; lungo la strada acquistai un po' di burro e una dozzina di uova. Feci colazione, mi sbarbai, mi lavai. Poi telefonai a Cronin. — Sono Dempster. Hai sentito di questa notte? — Se ne ho sentito?! Dio mio, ne siamo stati travolti! E tu dov'eri, perché non mi hai telefonato la notizia appena l'hai saputo? — Lo sai perché. Dovresti avere già parlato con Dalton. — Sì, certo. Bella roba. Per un attimo ho pensato che ci fossi coinvolto. Bella figura per il giornale sarebbe stata. — Ti ringrazio di tanta comprensione. — Lascia perdere il sarcasmo, Dempster. Ti ho già dato una possibilità, una di quelle grosse. Non possiamo tenere il tuo nome fuori da questa sto-
ria, perché sei stato tu a dare l'allarme. Però abbiamo tolto la parte che riguarda i sospetti su di te, né abbiamo detto perché ti trovavi da quelle parti con i tuoi appunti. — Pausa. — Ricevuto? — Ricevuto. Allora non vuoi le mie scuse per la reputazione del giornale. — Va' al diavolo. — Altra pausa. Quando riprese a parlare, era molto più calmo. — Sei sicuro di star bene, Phil? — Tutto a posto. Un po' stanco, tutto qui. Un'altra pausa. Poi: — Phil, sei sicuro che non hai altro da dirmi? — Abbastanza sicuro. Ho chiarito tutto col capitano Dalton, gli ho detto tutto quello che sapevo. — Va bene. Che piani hai adesso? — Buttarmi sul letto. Sono stanco. Ma mi terrò in contatto. — Ricordatelo. — Va bene. — Riappesi. E mi buttai sul letto, e il letto mi accolse a lenzuola aperte, e mi addormentai. E dormii senza sogni. Dormii fino all'imbrunire. Mi alzai, feci la doccia, pensai al pranzo. Era già dopo pranzo. Allora dovevo già chiamare... Doveva essere seduta accanto al telefono, in attesa. — Pronto. — Oh, è lei. Sta bene? — Sì, grazie. — L'ho chiamata questo pomeriggio dall'ufficio, ma non ha risposto nessuno. — Stavo dormendo. — Stanco? — Non più. Affamato. Ha già mangiato? — No. — Sarò lì fra un quarto d'ora. — Be'... — Sta facendo la ritrosa? — Facciamo venti minuti. Devo cambiarmi. Le concessi mezz'ora, dopo di che parcheggiai davanti a casa sua a Fairhope. Era una bifamiliare convertita in quattro appartamenti. La mia ragazza abitava in quello sul davanti. La mia ragazza? Be'... Ma sembrava proprio la mia ragazza quando mi ricevette sulla soglia.
Questa sera era vestita di verde per adeguarsi agli occhi e far risaltare i capelli. E faceva risaltare anche altre cose. Su di lei, e dentro di me. — Ha un bell'aspetto — disse. — Uno non direbbe che è passato attraverso... — fece una pausa mordendosi il labbro. — Mi dispiace. — Va tutto bene. — Pronto per un drink? Scossi la testa. — Niente alcol al momento. E neanche fumo. Ieri notte sembra avermi guarito da tutti i miei vizi. — Davvero? — Be', la maggior parte. Ma sono sempre pronto per mangiare. — Ottimo. Prendo il cappello. Dove andiamo? — Pensavo di andare allo Chateau. Le piace l'idea? — Avrebbe dovuto dirmelo prima. Non sono vestita adeguatamente... — Ma come no. Sta benissimo. Dopo essere stata trascinata giù dal letto a quel modo... sono spiacente d'averla coinvolta. — Ma io no. — Mi fissò fermamente, — Pensavano che avesse appiccato lei l'incendio, vero? — Sembrava proprio così. Ma il suo alibi ha sbloccato la situazione. È stato bello da parte sua. — Non c'è bisogno che mi ringrazi. Ho detto solo la verità. — Ma... — esitai. — Noi non ci siamo lasciati alla una. — Direi di sì. Doveva essere circa quell'ora quando ho preso l'autobus. Forse cinque o dieci minuti prima al massimo, non di più. E se gli avessi detto che era prima? — Ma non l'ha fatto. La una è un'ora eccezionale. Mi ha salvato la vita con quella storia. Tesoro, vorrei poterla abbracciare. E avanzai con la ferma intenzione di mettere in atto il mio proposito. Lei indietreggiò, con gli occhi sbarrati. — Phil — sussurrò. — Sta dicendo quello che penso? Ha appiccato lei quell'incendio? — Naturalmente no. — Non gradivo il fatto che fosse indietreggiata, però aveva cominciato a chiamarmi per nome. — E da come stanno le cose, non c'è nulla che indichi che sia un incendio doloso. — E invece sì — disse lei. — Non ha letto i giornali? A mezzogiorno il comandante dei pompieri ha rilasciato una dichiarazione. Hanno scoperto com'è cominciato. Qualcuno si dev'essere introdotto in cantina attraverso una finestra e ha versato una latta di kerosene sul mucchio del carbone e nella legnaia, e anche sulle scale. Ecco perché quegli uomini sono rimasti
intrappolati: le fiamme sono cominciate proprio sul pianerottolo. — Come fanno a dirlo? — Credo che abbiano trovato la latta vuota buttata sul carbone. O qualcosa del genere. C'è tutto scritto sul giornale. — Mi porse il Globe. — Lo legga mentre prendo il cappello. Lo lessi. Cronin aveva fatto un buon lavoro. Io venivo menzionato ma solo come un passante che aveva azionato l'allarme. La dichiarazione del tassista non veniva nemmeno citata. Anche Dalton non aveva molto rilievo nella faccenda. La storia era costruita sulle dichiarazioni del capo dei pompieri e di chi aveva diretto le operazioni. E tutti parlavano di incendio doloso. Si stavano interrogando diversi membri ed ex-associati della Fratellanza Bianca. Ovviamente il capo dei pompieri non si era sbilanciato affermando che si trattava di incendio doloso. La sua dichiarazione era piena di "indicazioni che ci fanno ritenere" e di "apparentemente" e di "sembra". Ma non c'erano più dubbi, comunque. E stavano investigando. Passai alla seconda pagina dove trovai la storia di Amos Peabody e della Fratellanza Bianca. C'era tutta la storia di quella setta, quella che avrei dovuto scrivere io. E adesso la mia opportunità se n'era andata. Andata in fumo. Ma questo non era molto importante. Quel che era importante era sapere com'era cominciato l'incendio. Doveva essere facile scivolare attraverso la finestra di una cantina e trovare una latta di kerosene abbandonata in qualche angolo. Quasi tutte le cantine contengono cose come quelle, e se non è kerosene allora è petrolio o liquido per sgrassare o vecchi stracci o carta straccia. Anche la legna va bene. Legna e giornali. Ci sono migliaia di modi per appiccare un incendio. E lo si può fare velocemente, molto velocemente. In una cantina, sulle scale o da qualsiasi altra parte, in cinque minuti o poco più. Cinque minuti o poco più sono un sacco di tempo. Il solo pensiero mi fece venir voglia di bere. Ma prima che potessi cedere all'impulso, Diana tornò nella stanza. Aveva il cappello in testa e la borsetta in mano. — Devo mettere il cappotto? — mi chiese. — No. È ancora abbastanza caldo. Sembra quasi estate. Vorrei tanto avere una decappottabile. — Così è già abbastanza lussuoso. — Mi sorrise. — Il Chateau: non ci sono mai stata. Come ha fatto a indovinare che ci volevo andare? — Telepatia.
Se fossi stato un telepate, avrei guidato per cento chilometri nella direzione opposta. Solo che non lo sono. Oh, era molto bello quando arrivammo, e il menu era superbo, il servizio eccezionale, il cibo superbo. Ma non riuscii a mangiare niente. Non dopo che li ebbi visti arrivare con gli spiedini. Gli spiedini serviti ai due abominevoli buongustai del tavolo accanto. Gli spiedini serviti fiammeggianti... — Che succede? Indicai. Lei fissò le fiamme, le fiamme rosse e azzure. Distolsi lo sguardo, guardai dall'altra parte, in tempo per vedere un altro cameriere che spingeva un carrello su cui fiammeggiavano alcune crêpes suzettes. — La disturba? Scrollai la testa. Volevo credere che fosse così. Ma cosa mi stava succedendo, stavo sviluppando un complesso di persecuzione? Forse era persino peggio. Forse era un complesso di colpa. Dovevo tener duro. Supponiamo che qualcuno si mettesse a suonare Fumo negli occhi. Avevo qualche motivo per saltare su e scappare? — Sto bene — balbettai. E dopo un momento lo stavo davvero, ma non avevo più voglia di mangiare. La bistecca era ottima, molto ben cotta, un po' bruciacchiata su un lato. È così che mi piacciono: bruciacchiate. Ma è vero? La cena stava trasformandosi in un'ordalia. E lei era lì davanti a me, che mi sorrideva, coi riccioli ramati che sembravano una fiamma vivente... Fermati! Mi costrinsi a parlare, a porle un sacco di domande a cui volevo che rispondesse. E lei rispondeva, ma per la maggior parte del tempo non ascoltavo quel che diceva. Ricordo solo che i suoi vivevano nell'Ohio, che lei era nata lì, che sua madre aveva divorziato e che poi si era risposata e che Diana si era trasferita qui per terminare gli studi. E adesso lavorava come segretaria per un qualche dottore. Fingevo di prestarle attenzione, fingevo di essere interessato. Solitamente lo sarei stato, ma questa non era una serata delle solite. Questa era fiamme rosse e fiamme azzurre e cercare di ricordare dov'ero stato alla una meno dieci, meno cinque, alla una, alla una e cinque, alla una e dieci... Non c'erano né polvere né sporcizia sui miei pantaloni, ma perché avrebbero dovuto esserci? Non aveva senso, perché io ho paura del fuoco, ho paura del fuoco... E poi stavamo bevendo il caffè e arrivò il cameriere e accese le candele
sul tavolo, e io balzai in piedi un po' troppo alla svelta. — Andiamo — dissi. Lei mi fissò, poi si alzò. Nell'uscire fece scivolare il suo braccio sotto il mio. — Povero Phil — disse. — Così sottosopra. Sei sicuro di non voler qualcosa da bere? — Appena uno. Ci fermammo al bar di fronte, e ne presi solo uno. Dopo soli cinque minuti eravamo già fuori. La sera era calda, ma sentivo la brezza che si levava dal lago. — Andiamo — le dissi. — Facciamo una passeggiata. Passeggiammo un pochino e parlammo pochissimo. Ci fermammo vicno al lago, ma non sulla spiaggia, in un posticino un poco rialzato che conoscevo. Dovemmo farci largo tra i cespugli per arrivarci, ma ce la facemmo. Avevo portato una coperta presa dall'auto. Era bello lì, e il buio era pieno di pace. Distesi la coperta e ci sedemmo. Al telefono le avevo chiesto di non essere contegnosa, ma la mia osservazione non era proprio necessaria. Non era il tipo da fare la sostenuta. Non era ritrosa e non era riservata. Non so cosa mi aspettassi quando la portai là. Era probabilmente la donna più attraente che avessi mai conosciuto, ma quella era solo la seconda volta che ci vedevamo, e io non sonò uno stallone di prima categoria. Forse pensavo che potevamo fermarci per un poco a parlare, e magari prenderci per mano e baciarci. L'avrei trovato soddisfacente. Ma lei non voleva né riposare né parlare. E fu la sua mano che cercò la mia, la sua bocca che cercò la mia, non come un'offerta ma come un assalto. La sua bocca era desiderio in azione, che forzava e si mescolava con la mia. La sua bocca si muoveva, le sue mani non stavano ferme, il suo corpo si muoveva, e allora capii che non sarebbe bastato solo questo a soddisfarmi. Cominciai a muovermi anch'io e lei di colpo si calmò, ma di questo me ne accorsi solo molto dopo. Molto, molto dopo, quando mi rialzai e, come d'abitudine, cominciai a frugare in tasca per cercare una sigaretta. — Pensavo che non fumassi più — mormorò lei. — Mi hai guarito — risposi. — Tu mi hai guarito, Diana. Di un sacco di cose. — Ne sono felice. Mi sdraiai al suo fianco. — Davvero? Ne sei sicura? Non ti ho offesa o... — Tu non puoi offendermi, Phil. Nessuno può farlo, tesoro. Non più. Tirai una boccata. La punta rossa della sigaretta brillava come un faro.
Un segnale d'avvertimento? Non sapevo proprio, ma non riuscii a trattenermi dal dire: — Che vuoi dire? C'è forse stato qualcuno che ha cercato di... Mi appoggiò la testa sul torace e rise contro il mio cuore. — Qualcuno? Phil, farò meglio a essere onesta con te. C'è stato un mucchio di uomini. Un mucchio. — Parlamene. — Perché dovrei? — Sai dannatamente bene perché. — No, non lo so. — Ma vuoi che lo dica, vero? — Dire cosa? — Che mi sono innamorato di te. — Lo sei? — Non te ne accorgi? Credi forse che... Stava ridendo di nuovo. — Certo che lo credo. Tutti gli uomini lo direbbero. Siete tutti uguali. Per voi esiste una sola cosa, pensate sempre a quella, e fareste qualsiasi cosa per averla. E dopo tagliate la corda. — Non sto scappando, Diana. Sono qui. E voglio restare qui, con te. — Tirai un'altra boccata, con lo sguardo fisso sulla brace. — E tu sei troppo cinica quando dici che tutti gli uomini sono uguali. Sai che non è vero, ammettilo. — Mio padre era diverso — mormorò lei. — Ma era l'unico. E cosa gliene è venuto? Mia madre sapeva cosa sentiva, ma non gliene importava. Se ne approfittava, lo imbrogliava. Quand'ero una ragazzina, lei era solita portarsi gli altri in casa. Non le importava se me ne accorgevo, se la vedevo. Neanche di lui si preoccupava. E quando incontrò l'uomo che voleva, allora chiese il divorzio. Lo ottenne e lo fece pagare a lui. E adesso sta ingannando il mio patrigno. Ma va tutto bene. Se lo merita. Una volta ha cercato di violentarmi, prima che me ne andassi. È per questo che sono venuta via. Sentivo la sua bocca che si muoveva contro il mio torace. — Aspetta — le dissi. — Ragiona. Io non sono così. Lo vedi da te. — È quello che dicono tutti — rispose lei. — Oh, non te la prendere, non voglio rimproverarti. Tu sei un uomo. Capisco come ti senti. Ma perché mia madre sente allo stesso modo? Come un maschio, voglio dire, sempre in caccia... D'improvviso il caldo della sera sembrò essere svanito e cominciai a
sentire freddo. Diana sembrava cambiare davanti ai miei occhi. Stava diventando un'estranea, si contorceva, si dissolveva, come in quel film che avevo visto una volta su un museo delle cere in cui era scoppiato un incendio e le statue di cera cominciavano a sciogliersi e i loro lineamenti assumevano forme mostruose. M'accorsi che stavo scivolando nel Sogno e mi sforzai di tornare alla realtà. — E tu non vorresti farlo? — No. Odio farlo. — Si mise a sedere. — Se non mi ci avessi costretta... — Costretta? — Tirai una lunga boccata dalla sigaretta. — Ma cosa stai dicendo? — Lo sai benissimo cosa sto dicendo, Phil. — No che non lo so. Tutto quello che so è che ti amo e che credevo che la pensassi allo stesso modo, perché ti sei comportata come se lo fossi. — È una bugia. Si era alzata, e allora mi alzai anch'io, buttando via la sigaretta, buttando via tutto perché non era una cosa ragionevole, non aveva alcun senso. — Toglimi quelle sudice mani di dosso! Adesso le mie mani erano sudice. Perché? Non le avevo fatto nulla di male, ma lei adesso mi odiava. Potevo vederlo dal bagliore dei suoi occhi. E stavano fiammeggiando fissi nei miei, perché l'avevo afferrata per le braccia e me l'ero tirata vicina. Si divincolò e allora l'afferrai per i polsi. Sembravano di ghiaccio. Tutto il suo corpo era rigido, gelato. Si era trasformata in ghiaccio. Lei era di ghiaccio e di colpo io ero fuoco. Ero di fuoco mentre con la bocca cercavo la sua, e i miei baci erano come una cascata di faville, le mie mani bruciavano, il mio corpo era in fiamme, consumavo il suo corpo fino al midollo. Fuoco, rabbia, passione: tutte vi fanno vedere rosso. Capelli di rame sulla coperta, fluttuanti, brucianti, splendenti. Il suo corpo era una fiamma bianca che si trasformava in uno scarlatto tremante. Il fuoco stava attecchendo sul ghiaccio e questo era folle perché il ghiaccio non brucia. Ma di colpo fu tutto pazzesco quando lei d'improvviso divenne rossa, e tutto attorno a noi divenne rosso. Era tutto pazzesco, ma era anche vero. Perché avevo alzato la testa, e stavo guardando il fuoco. Fuoco vero, fiamme vere. Il cespuglio stava bruciando! Il cespuglio in cui avevo gettato la sigaretta... Mi alzai e anche lei si alzò, e lei fissò prima me e poi le fiamme. Aveva gli occhi spalancati, e anche la bocca spalancata, e l'urlo le usciva contem-
poraneamente dalla bocca e dagli occhi. Le fiamme sembravano demoni danzanti che s'arrampicavano sul pendio. Lei si voltò e corse verso la spiaggia, poi s'allontanò lungo la riva. Io rimasi immobile, incapace di fare un movimento, gridando: — Diana! Ritorna! Aspetta... Lei non tornò né mi attese. Aggredii il cespuglio con la coperta, gettai sabbia sulle faville e poi pestai e calpestai e spezzai i ramoscelli infiammati con piedi divenuti frenetici. Poi il fuoco morì. Il fuoco era morto, e lei se n'era andata. Risalii il promontorio, ansimando, troppo spompato per poter gridare. E poi, non avrebbe avuto senso. Quando arrivai in cima alla salita, dove si trovava la macchina, lei era scomparsa. Accesi il motore, sterzai verso la strada. Pensavo che forse l'avrei incrociata, ma non fu così. Si era diretta da un'altra parte. Trovai una traccia e le girai attorno, mi diressi nell'altra direzione. Ero a poche centinaia di metri dalla strada principale. Non la vidi da nessuna parte lungo la strada. Doveva aver fatto l'autostop un po' più avanti. Si era fatta dare un passaggio fuori dalla mia vita. Di colpo non me ne importava più nulla. Che se ne vada. Diana Rideaux con le sue idee contorte sugli uomini e l'amore. Per fortuna me n'ero accorto in tempo. Non si può vivere con una persona con quelle idee in testa. Piena di impulsi pazzi, di nozioni folli. Ma cosa mi era venuto in mente di gettare a quel modo la sigaretta? Nel subconscio, ero consapevole di quello che stavo facendo? Stavo seguendo anch'io un impulso di follia, una nozione folle? Non si può vivere con una persona con quelle idee in testa. Come facevo a vivere con me stesso? Scacciai il pensiero in un canto, e mi accesi un'altra sigaretta. In realtà non volevo fumare ma mi sforzai di farlo, tanto per provare qualcosa. Per provare che era colpa della mia immaginazione, per dimostrare che poteva succedere a chiunque. I cespugli prendono fuoco tutti i giorni. Fumatori incuranti, che gettano fiammiferi e mozziconi. E forse vanno in giro ad autoaccusarsi di essere dei piromani a causa di un incidente come quello? Mentre guidavo, cominciai a sentirmi meglio. Tanto bene che accesi persino la radio. La musica era dolce, calmante. Almeno, era così all'inizio. Poi cominciò a strillare e strombettare e gridare. E mentre ascoltavo la riconobbi, la riconobbi e quasi strappavo il pulsante nel tentativo di farla tacere.
Ma perché, con tutta la musica che esiste, dovevano mettersi a suonare proprio La danza rituale del fuoco? 6 Quando arrivai a casa lo vidi fermo davanti al portone, e al primo momento pensai che fosse un clown, perché il viso era bianchissimo, gli occhi nerissimi, le labbra molto rosse. Poi, dopo aver parcheggiato e attraversato la strada gli passai accanto e sotto la luce capii che quell'ometto non era un pagliaccio. Le maschere della Commedia e della Tragedia sono stranamente simili. La faccia di quell'uomo era innaturalmente pallida, i suoi occhi erano profondamente incassati e cerchiati dai segni della fatica e della tensione. Le labbra erano rosse perché se le stava morsicando. Lo fissai mentre stavo infilando la chiave nella toppa, e anche lui mi fissò. — Sta cercando qualcuno? — gli chiesi. — Sto solo aspettando, Fratello. Entrai, mi avviai verso il mio appartamento. Poi finalmente capii, uscii dalla nebbia delle fantasticherie del fuoco e della paura giusto il tempo per capire cosa mi aveva detto. "Fratello." Quell'ometto era un cultista. La chiave era già nella serratura, ma la strappai fuori. Mi voltai e scesi le scale, diretto al portone. Ma il marciapiede era deserto. Quel tipo con le labbra insanguinate se n'era andato. Guardai lungo la strada in entrambe le direzioni. Nessuno in vista. Era scomparso Dio solo sapeva dove o perché. E poi, chi stava aspettando lì fuori? Risalii le scale a due gradini per volta. Tirai fuori la chiave, aprii la porta, accesi la luce. Solo allora mi permisi di tirare il fiato. Chiunque fosse, qualsiasi cosa volesse, non era stato in casa mia. Tutto era ancora in ordine. Casa mia era in ordine, ma io no. C'erano troppe cose che non capivo. Un incendio, poi un altro incendio. Una ragazza che aveva paura di me, e un altro che mi temeva, io stesso. E ora, l'ometto dal viso pallido, che stava aspettando davanti a casa mia. Ovviamente, poteva trattarsi solo di una coincidenza. Cose del genere succedono. Forse ero incappato nel lungo braccio delle coincidenze. Ma il lungo braccio delle coincidenze terminava con un artiglio, e io lo
sentivo mentre mi sfiorava la gola. Il tempio se n'era andato tra le fiamme e l'idea generale sembrava essere che non fosse colpa della lunga estate calda e asciutta. Qualcuno l'aveva appiccato: qualcuno aveva prestato una mano ad Amos Peabody per aiutarlo a ottenere la Ricompensa Finale, una cosa che, ne sono certo, Amos avrebbe volentieri rimandato a migliore occasione. E io ero qualcosa di più di un innocente passante. Primo, ero presente sulla scena. Secondo, dovevo scrivere una serie di articoli sui vari culti. Forse qualcuno non gradiva quell'idea. Forse, proprio in quel momento, qualcuno stava pensandomi come una gallina infilzata sullo spiedo. Non era molto divertente. Quando faccio friggere la pancetta, il grasso bollente riesce sempre a scottarmi. Ero solito fare quel vecchio giochetto di accendere i fiammiferi di legno con l'unghia del pollice, ma la capocchia del fiammifero mi strinava invariabilmente la mano. E quando fumavo, spesso una scintilla mi cadeva sui pantaloni, scavandovi un buco. Ho del risentimento contro la vita, pensai rabbrividendo. Prendo fuoco un po' troppo alla svelta... E questi non erano altro che pensieri ilari e felici. Presi il telefono e chiamai Schwarm. Avevo bisogno di lui, e subito. Certo, era molto tardi, ma Schwarm sarebbe accorso. Avrei potuto parlargli, ragionare con lui. Lui sapeva cosa dire. Schwarm lo sa sempre. Dottor Milton Schwarm. Lo definivano uno psichiatra, ed era così bravo che spesso il dipartimento di polizia lo chiamava per un consulto. Ma non riuscivo a pensare a lui come a uno strizzacervelli. Erano sei mesi che eravamo diventati amici. Sapeva qualcosa dei miei problemi, ma non ero ancora riuscito a raccontargli tutto. Non avevo voluto, perché era mio amico; non volevo trasformare la nostra amicizia in una relazione professionale. Ma adesso, pensai, ero pronto. Più che pronto. E mentre ascoltavo il suono del telefono, ero sempre più teso. Poi rispose una voce. — Pronto — dissi. — Sono Philip Dempster. C'è il dottor Schwarm per favore? — Mi dispiace, signor Dempster. È fuori città. — Oh. E quando tornerà? — Venerdì sera, credo. — Grazie. — Riagganciai. Sarebbe tornato venerdì sera e adesso era solo mercoledì. Due giorni. Potevano succedere troppe cose. Ma ora non stava per succedere niente. Avevo solo i nervi tesi perché
non avevo bevuto. È questo che succede quando sospendi l'erogazione dell'acqua di fuoco. Acqua di fuoco? Era così che la pensavo? Schwarm dovrebbe capirlo. Potevo dirglielo e lui poteva dirmelo. Ma non subito. Venerdì sera. Adesso dovevo dormire. E l'indomani c'era un lavoro da fare. La Chiesa dell'Atomo Dorato. Professor Ricardi. Mi trascinai fin sul divano, mi trascinai vicino il blocco degli appunti, lessi la storia del professor Ricardi e del suo Atomo Dorato. Era difficile concentrarsi perché continuavo a guardarmi dietro le spalle, continuavo a saltare in piedi appena sentivo un rumore proveniente da fuori. Probabilmente sonnecchiai. Sonnecchiai seduto sul divano. Mi svegliai che il sole era alto. Mercoledì notte era passata. Curiosamente, mi sentivo meglio. Una sbarbata e una doccia mi fecero sentire meglio. Quand'ebbi terminato di fare colazione ero completamente sveglio e pronto a tuffarmi nel lavoro. E mi tuffai nel lavoro. Fare ricerca è un lavoro lento ma premiante. Me ne staccai solo alle cinque dopo aver completato le mie ricerche. La prossima fermata sarebbe stata l'archivio del Globe, dove avrei scavato nella documentazione alla ricerca del professor Ricardi. Mi fermai un attimo per vedere Ed Cronin, ma se n'era andato, così cenai da solo. Questa volta mangiai in un ristorante. Questa sera non doveva essere una ripetizione di martedì sera. Guidai fino a Grace Boulevard dove arrivai in anticipo, e parcheggiai proprio di fronte alla Chiesa dell'Atomo Dorato. Non si trattava di un edificio riconvertito. Era una casa in mattoni, ben rifinita e moderna, in un quartiere residenziale, con una fiammeggiante insegna gialla al neon che diceva: CHIESA DELL'ATOMO DORATO. Rispettabile, mi dissi. Non si poteva dire lo stesso delle altre chiese dei dintorni. Probabilmente il sabato sera ballavano e giocavano a tombola e avevano magari anche salette per i giovani ed erano magari anche membri effettivi delle associazioni d'affari del circondario. Qualcosa nell'insegna mi fece esitare. Era troppo luminosa. Non volevo passarci sotto, e poi capii perché, e mi dissi "l'insegna fiammeggia, ma l'edificio non sta bruciando". Dopo di che mi decisi a entrare. L'ingresso era affollato. Erano tutti lì quella sera: i vedovi di mezz'età presi nelle spire del climaterio, i giovanotti pallidi che non ti guardano mai
negli occhi, l'uomo con le sopracciglia cespugliose che continua a borbottare tra sé e sé o con un compagno invisibile, la ragazza gozzuta, l'anziana signora coi capelli arancione. Conoscevo quei tipi. La confortevole classe media quando comincia ad avvertire le prime preoccupanti crepe e perde la fede nelle solite religioni. Salvezza è una parola che significa sempre di più per loro, e non hanno la pazienza di aspettarla per il dopo vita, la vogliono subito. E c'erano anche quelli che guardai con il solito dolore: gente che aveva altri dolori. Lo zoppo, l'handicappato, il cieco. Bastoni che battevano, grucce che sbattevano, carrozzine che scivolavano. Oltrepassai un tavolo pieno di libri e opuscoli. La chiave d'oro diceva il titolo stampato sulla copertina azzurro brillante del primo. La rivista si chiamava Scienza Atomica, e anche i più miseri opuscoli avevano caratteri che s'imponevano all'attenzione. Dietro il tavolo sedeva una donna grassa, che irradiava benevolenza e Sen-Sen. Accanto aveva una scatola di latta e una bottiglia semivuota di Coke. — Posso esserle utile? — mi chiese. Scrollai la testa e proseguii. Poco più avanti si scorgeva un altro tavolo. Questi era presieduto da un gentiluomo di una certa età con un auricolare. Davanti a sé aveva stesa una carta molto pacchiana, e accanto aveva una piramide di vasetti da mezzo etto, tutti con un'etichetta dorata che diceva CREMA VITALE. Lungo tutta l'estensione del tavolo c'era una sfilata di vasetti di vetro. Le etichette dorate li identificavano come contenenti CAPSULE D'ENERGIA ATOMICA. — Sì, signore? — disse l'anziano signore. Esitai un attimo, poi pescai in tasca. — Potrebbe darmi uno di quelli — dissi. — Quanto? — Sono sei dollari per la crema e cinque per le capsule — disse lui. Dissi qualcosa sottovoce che sperai che il suo auricolare non avrebbe colto. Però gli diedi i soldi. In seguito avrei fatto analizzare quella roba da un farmacista. Poi, ripensandoci, tornai indietro e acquistai una copia della Chiave d'oro per cinque dollari e due numeri di Scienza Atomica a cinquanta centesimi l'uno. Diciassette dollari per ricerche sul campo. Un buon affare per il professor Ricardi. Il professor Ricardi faceva tutto per bene. Lo scoprii quando uscii. L'ar-
redo della sua chiesa era abbastanza convenzionale: file di banchi ai lati della navata centrale, che portava al pulpito e all'altare. Il solito organo suonato dal solito organista, che suonava la solita musica. Dietro l'altare c'era il vessillo: un enorme sole che emetteva una corona di raggi dorati e traslucidi. Davanti all'altare c'era l'eminente professor Ricardi. Scintillava. Il suo abito era dorato, e anche i suoi capelli, e la barba, e gli anelli che portava alle dita lunghe e sottili, che alzava per invocare la benedizione sulla congregazione. Anche la sua voce era d'oro. Ed era dell'oro che stava parlando. Non di quello rozzo e grossolano delle ricchezze materiali, ma del vero oro dello Spirito. L'oro della natura. Lì esisteva un tesoro senza fine, profuso su tutti noi dall'Atomo Primevo che era l'Essere. Tutta l'esistenza promana dall'Atomo. L'Atomo è la fonte della creazione, il padre di tutto noi. Cos'è il mitico "Adamo" se non una lettura scorretta di "Atomo"? La Terra si era formata dall'energia atomica del sole. Il sole, l'Atomo Primitivo, è la fonte di tutta l'esistenza. L'energia solare governa la terra, e da essa possiamo spillare tutte le benedizioni se solo se ne possiede la chiave. E dolore e pena ricadano copiosi su quei malvagi che negano la verità, che cercano di imbrigliare l'Atomo per i loro scopi maledetti! E maledetti siano quelli che interferiscono con la Materia Primaria, quelli che dividono l'Atomo liberandone l'Essenza, perché essi porteranno depravazione e distruzione sulle loro teste. Meglio era convertirsi alla Chiesa prima che fosse troppo tardi, meglio apprendere la Verità e fortificarsi con la Scienza Atomica e con La chiave d'oro. Perché loro sarebbe stata la Giovinezza eterna, la Salute eterna, la Vita eterna: sì, e anche ricchezza e potere, per quelli che vogliono sciocchezze del genere. Per quanto riguardava il professor Ricardi, lui era al di sopra di queste bazzecole. Anni di lavoro in qualità di Scienziato Cosmico nei laboratori segreti del Tibet gli avevano dato un distacco sufficiente dopo che aveva scoperto quella brillante verità in quanto andava cercando. Per quarant'anni aveva vagato nella Selva dell'Errore prima di trovare la Via. Poi poche parole fortuite che si era lasciato sfuggire coi suoi gelosi colleghi avevano fatto scoprire anche a loro la Verità, il cui abuso li aveva
portati a costruire la Bomba Atomica. E ora, con tale potere nelle mani delle forze del Male, il professor Ricardi si era deciso a farsi avanti per guidare il mondo verso la Verità. Il tempo era poco, e ci sarebbe stata una corsa allo spasimo fra Distruzione e Costruzione. Ma lui era pronto. Il professor Ricardi aveva dedicato la sua esistenza eterna a diffondere il messaggio dell'Atomo Dorato, a dispensare La Sorgente Naturale della Vita - fatta di energia pura - sotto forma di CAPSULE D'ENERGIA ATOMICA e CREMA VITAMINICA. Questi presìdi preparati scientificamente per dare l'immortalità erano amplificati dalla Luce Interiore della Verità che riluceva nelle pagine di La chiave d'oro. Così parlò il professor Ricardi per oltre un'ora. Di tanto in tanto le sue asserzioni venivano sottolineate e accentuate da interventi organistici. Poi la luce s'attenuò e lui recitò una preghiera al Potere Atomico che Guida tutti gli esseri, e il coro si alzò e cantò. E il Potere s'infuse in Ricardi, alonandogli la testa dorata. E lui alzò le mani per accogliere in sé tutti quelli che credevano, tutti quelli che avvertivano l'Energia Atomica che fluiva da lui nei loro corpi per sanarli e salvarli. Impose loro di arrendersi al Potere, di permettere agli atomi feriti di ricombinarsi di nuovo in perfetta armonia. Era l'imbrogliatura finale. Quel livello miserino era tanto ovvio quanto i capelli e la barba sciacquati col perossido. L'organo si fece sentire come nell'introduzione di una telenovela, l'alone era un riflettore manovrato da un elettricista provetto. Ma il professor Ricardi stese le mani, e loro ci si tuffarono. Andarono all'altare, strisciando e strusciando e barcollando. Adesso tutti gli occhi erano fissi sull'altare, dove il professor Ricardi pregava per gli afflitti. Che gli sfilavano davanti uno alla volta. Tratteneva fra le sue le loro mani, li fissava negli occhi, e pregava. La folla guardava, e io guardavo la folla. C'era un grassone seduto alla mia sinistra. Fissava l'altare e tormentava l'ala del cappello mentre guardava. Sulla destra una ragazza cominciò a singhiozzare convulsamente. Il professor Ricardi li aveva catturati, li teneva nel palmo della mano. E la mano si stese, toccò la fronte di un vecchietto. Questi si fermò, la testa chinata per un attimo. Poi la testa balzò all'indietro e l'uomo si stirò, si stirò, e infine lasciò cadere le stampelle sul pavimento. Sentii gemiti e rantoli provenire da entrambi i lati.
Ricardi si stava chinando su una donna in carrozzella. E di nuovo premette le dita su quelle tempie. Di colpo la donna strillò e balzò in piedi. Si alzò e camminò, e dalla folla venne un suono antico. Ricardi indietreggiò, scosso e sorridente, mentre il tumulto cresceva. Di colpo intervenne l'organo, le luci splendettero, e sulla piattaforma apparve un accolito dai capelli grigi che fece una perorazione a favore di un'Offerta Libera. Alcuni inservienti s'affrettarono lungo i passaggi fra i banchi. Il grassone alla mia sinistra si frugò in tasca e ne tirò fuori un biglietto da dieci dollari. La ragazza sulla destra pescò tre dollari e un po' di spiccioli dalla borsetta. Nella sala risuonava il tintinnio delle monete, il tumulto delle lingue di quanti avevano avuto il privilegio di essere testimoni di quelle meraviglie. Avevo visto abbastanza. Mi alzai e cercai di farmi largo verso la piattaforma, verso l'uomo che aveva gettato via le stampelle e la donna che era sorta dalla carrozzella per camminare di nuovo. Ma la folla si accalcava e mi bloccava la strada, respirando e cianciando tutt'attorno a me. Mi aprii la strada attraverso le frasi, sfiorai corpi, avvertii l'eccitazione a ogni passo. E quando raggiunsi la piattaforma, sia l'uomo sia la donna se n'erano già andati. Anche Ricardi era scomparso. Cercai di cogliere lo sguardo dell'accolito dai capelli grigi, ma era circondato dagli inservienti. Stavano svuotando il loro raccolto in una cassa metallica. Mi voltai per rintracciare un possibile percorso lungo le file. Forse se n'erano usciti da una porta laterale. Forse ce la facevo ancora a raggiungerli se mi sbrigavo. La folla mi sbarrava il cammino ma io tirai diritto. Tirai diritto fino all'anticamera dove altri gruppi s'affollavano attorno ai tavoli, per acquistare La chiave d'oro e le CAPSULE D'ENERGIA ATOMICA. Continuavo a tentare di individuare le facce che cercavo. Colsi il movimento di una schiena che ballonzolava verso la porta di fronte. C'era qualcuno fermo laggiù, e anche da quella distanza capii che ero tenuto d'occhio. Mentre guardavo, l'ometto si voltò per fissarmi in volto, e allora lo riconobbi. Per un attimo vidi il viso esangue, gli occhi neri, le labbra rosse del clown. Poi scomparve nella via dietro di lui. Era stato lì tutta la sera a osservarmi. Perché? Ricardi e gli altri potevano aspettare. Prima, dovevo scoprire qualcosa su quel fatto. Lentamente mi scavai la strada, lottando per raggiungere la libertà rappresentata dalla porta che mi stava davanti.
L'avevo appena raggiunta quando una mano si protese per battermi sulla spalla. — Phil, aspetta un momento! Mi voltai, e vidi la sorridente faccia da luna piena del dottor Milton Schwarm. 7 Ci sedemmo nel ristorante in fondo alla via, davanti a due caffè. — Mi avevano detto che eri fuori città — gli dissi. — Non mi sarei mai aspettato di imbattermi in te proprio qui, e magari per lo stesso scopo. Lui scrollò il capo. — Non è per la stessa cosa. Tu sei qui per un servizio per il giornale. La mia invece è un'indagine professionale. Come ti avevo già detto, uno dei miei pazienti è stato membro della sezione dell'Atomo Dorato. È per questo che volevo dare un'occhiata a quest'organizzazione. E al professor Ricardi. Queste cosiddette cure sono un fenomeno interessante. E se riuscissi a trovare una buona scusa, mi piacerebbe intervistare l'uomo e la donna che abbiamo visto questa sera. Perfetti classici esempi di isteria... — Sbagliato — lo interruppi. — Erano complici. Un imbroglio, ne sono sicuro. Proprio come sono certo che il professor Ricardi non è un professore. — Come fai a esserne sicuro? Tirai fuori il taccuino. — Non sono venuto qui impreparato. Prima ho annusato un po' qui e un po' là. Vuoi sapere cos'ho scoperto? — Se non è un segreto... — Ne troverai la maggior parte sul Globe domenica prossima. I fatti posso anche raccontarteli adesso. — Forza allora. — Schwarm si chinò in avanti e prese in mano la tazza del caffè. Frugai fra gli appunti. — Il tuo amico professor Ricardi ha una storia molto usuale. Il suo vero nome è Joseph Edward Clutt. Nato a Spokane nel 1929. Il padre era idraulico. Joe faceva l'apprendista finché se ne andò via con un medico ambulante. "Arrivò in città nel 1951 e non venne accolto nell'esercito in quanto drogato. Nel 1956 venne citato quale convenuto in una causa di divorzio intentata dal signor Frederick Loodens contro sua moglie Agatha. Apparentemente, le aveva offerto molto più del consueto servizio da idraulico."
Schwarm mise giù la tazza. — Vuoi dire che nel '56 faceva ancora l'idraulico? Che mi dici di quei viaggi in Oriente e nel Tibet? Sogghignai. — Il posto più vicino all'Oriente in cui è arrivato Joe Clutt è una fumeria d'oppio di Frisco. — Vai avanti — disse Schwarm. — È interessante. Mi sono spesso chiesto come nasceva un culto. — Semplice. Poco dopo il divorzio, il primo marito della signora Loodens morì. Le lasciò un piccolo commercio di forniture farmaceutiche. Aveva un contratto governativo durante la guerra di Corea, ma navigava in brutte acque già nel 1958. "Il suo amante, Joe Clutt, ne prese il controllo. Fu lui che continuò la manifattura di quelle che da allora sono diventate le CAPSULE DI ENERGIA ATOMICA e la CREMA VITALE. Da lì è nata l'idea del culto." — Vuoi dire che quell'idraulico s'è inventato tutta questa procedura per vendere il suo prodotto? — Non del tutto. C'è un terzo personaggio implicato. Il loro commercialista, un certo Weatherbee. Sono quasi certo che le nozioni di base sono opera sua. È facile che abbia scritto lui La chiave d'oro e che abbia addestrato Joe Clutt nel suo nuovo ruolo. Ricorda che Clutt era stato in passato con un medico ambulante, e senza dubbio possiede una certa dose di magnetismo personale. O così pensava il fu signor Loodens. "Ma i cervelli erano Weatherbee e la signora Loodens. L'hanno convinto loro a tingersi i capelli, a cambiarsi nome, gli hanno insegnato le frasi giuste, e hanno investito soldi per stampare i libri e confezionare la mercanzia. "Hanno aperto quartier generali e probabilmente hanno usato i loro legami sociali e d'affari per fare propaganda e attirare i primi convertiti. E la cosa è diventata popolare. Stanno facendo una fortuna con le lezioni quotidiane, i corsi privati, le letture della personalità. I libri vengono venduti sia per corrispondenza sia tramite la stessa Chiesa. Pillole e creme seguono la stessa strada. Ma la percentuale maggiore di profitto dovrebbe venire dai contributi e dalle Offerte Libere. Ho appreso che hanno pianificato di aprire presto una filiale a Chicago." — Uno non crederebbe mai che la gente sia così ingenua — mormorò Schwarm. — Un'osservazione personale — s'affrettò a dire — non certo professionale. Sbuffai. — La gente non ci crede perché si sono convinti di qualcosa, i cultisti credono perché vogliono credere. Cinque anni or sono ho parteci-
pato a una pseudoseduta, e non l'ho mai dimenticato. Doveva esserci un paio di centinaia di cultisti nella sala. Un sacco di persone di mezza età ma anche molti giovani, teenager e coppie sposate che si erano trascinati dietro i figlioletti. Il medium era un piccoletto ossuto sulla cinquantina che abbisognava di una camicia pulita, di una rasata e di un buon bagno. Sua moglie era una grassa e sciatta vecchia megera che vendeva biglietti e dépliant e faceva il discorso d'apertura su come suo marito sarebbe caduto in trance e avrebbe comunicato con i Grandi dell'Aldilà. "Dopo questo il piccoletto ha chiuso gli occhi e ha cominciato a sudare, poi ha cominciato a tirar fuori dei suoni indistinti con voce acuta e cantilenante. Ho riconosciuto qualche parola in spagnolo, e sospetto che la maggior parte del resto fosse cinese. La moglie 'traduceva' dicendo che i Grandi era compiaciuti di essere chiamati da Oltre il Velo e davano alcune predizioni su cosa sarebbe accaduto in futuro e poi diedero risposte stereotipe a domande stereotipe del pubblico. Quella sceneggiata non avrebbe ingannato un ragazzino di dieci anni, ma la gente presente era letteralmente sull'orlo della sedia. Durante l'intervallo un mio amico fece qualche commento sprezzante e quasi ci linciarono. Quella gente non stava esattamente cercando la luce della verità." Schwarm s'accese una sigaretta. — Ma come fanno a farla franca? — chiese. — Che dicono le autorità? Non lo sanno che costui non è un professore e che sta portando avanti un'attività truffaldina travestita da religione? — Per favore — dissi. — Si suppone che tu sia uno psichiatra. La naiveté non ti tocca. Clutt è Ricardi, il cambio di nome è stato legalizzato tre anni fa. Ed è anche un professore, e se volesse potrebbe anche farsi chiamare dottore. Chiunque può avere una laurea in metafisica se ha voglia di scucire i soldi per una di quelle scuole per corrispondenza. E il tuo uso del termine "attività truffaldina religiosa" è discutibile. Come sai, tutti i culti e le sette sono tollerati purché i loro capi non indulgano nella lettura della mano. — Mi strinsi nelle spalle. — Tuttavia, il mio articolo potrebbe indurre qualcuno a pensare. — Forse. — Schwarm posò la sigaretta. Rimasi zitto a guardarla. Mi stavo abituando a guardare tutto quello che bruciava. — Ma da quando ti è nato questo interesse per le crociate? Pensavo che stessi scrivendo un altro libro. — L'ho messo da parte per qualche settimana. Mi ero stufato. — E per quale motivo?
Pose la domanda in tono casuale, ma conoscevo bene Schwarm per capire che era molto serio. Avevo l'opportunità di parlargli, di dirgli tutto. Di Diana, dell'incendio al tempio della Fratellanza Bianca, del fatto che avevo bevuto prima dell'incendio, del motivo per cui bevevo. Ma se mi spingevo così in avanti poi non potevo ritirarmi. Dietro il fuoco c'era l'alcol e dietro l'alcol il sogno, e dietro il sogno c'era qualcosa di cui non potevo parlare. Volevo, ma non potevo. A causa di quello che poteva dire. Era uno psichiatra, ed era in grado di dirmi cosa non funzionava, e io avevo paura di sentirglielo dire. Così mi limitai a scrollare la testa e a dire: — Penso di aver esaurito le idee. Troppa introspezione. Questo piccolo incarico mi offre la possibilità di tirarmene fuori, di sfuggirmi per un po'. — Sfuggirsi un po', eh? — Per favore. — Gli sorrisi. — Niente trucchetti professionali. — Scusami. Ma come sai, Phil, ogni volta che senti di avere un problema del quale vorresti parlarne... — Certo — lo interruppi. — Lo so. Grazie. — Guardai l'orologio. — Devo filarmela adesso. È tardi. Posso darti uno strappo? — No, ho la mia auto. — Si alzò, schiacciò la sigaretta nel posacenere. Alcune faville bruciavano ancora. Mi guardai attorno nel ristorante. Immaginiamo che una di quelle faville schizzi fuori dal posacenere atterrando sulla tenda che stava lì vicino? Se la tenda prendeva fuoco sarebbe bruciata velocemente, e le pareti erano di legno e anch'esse sarebbero bruciate, e tutto quel posto sarebbe stato divorato dalle fiamme, e... Schwarm si era già avviato, e allora spensi velocemente quelle faville. Era folle, ma non potevo farci nulla. E se mi avesse visto? Cosa potevo dirgli? "Sono un boyscout e questa è la settimana della Prevenzione degli Incendi"? Ma non mi vide, nessuno mi vide, e tutto filava liscio. Schwarm mi pagò il caffè, uscimmo, e ci salutammo sul marciapiede. — Chiamami per pranzare assieme uno di questi giorni — disse. — Per fare una chiacchierata. — Lo farò. L'osservai mentre saliva in macchina e se ne andava. Poi mi voltai e mi avviai verso il posto in cui avevo parcheggiato. A metà dell'isolato il marciapiede era buio, ma non troppo perché non potessi vedere la figura che stava appoggiata all'auto. E anche con quella scarsa luce vidi e riconobbi quella faccia bianca, la faccia del clown.
Quando mi vide si rizzò. — La stavo aspettando, Fratello — disse. — Già. Ho visto. — Volevo essere sicuro che fosse solo. — Alzò lo sguardo per incontrare il mio, coi denti che si protendevano oltre la labbra mordicchiate. — Lei è solo, non è vero? Annuii. Ero solo, e non mi piaceva. Solo su un marciapiede deserto con un fanatico che mi aveva aspettato. — Così va bene. Altrimenti non mi sarei fidato. Devo essere sicuro. — Sicuro di cosa? — Sicuro che fossi solo così che potesse uccidermi? Mi stava molto vicino, e all'improvviso tolse la mano di tasca. Non ne uscì sola. Colsi il barbaglio di una lama, e prima che riuscissi a muovermi la punta premeva contro il mio fianco. — Stia immobile — mormorò. — Devo esserne doppiamente certo. — Con la mano destra teneva il coltello contro il mio corpo. Con la sinistra mi aprì il cappotto. Quelle dita fredde mi strusciarono sul torace sbottonandomi la camicia. Alzai le mani e il coltello affondò. — Non ci si provi — mi sussurrò. — Non voglio farle del male, cerco il segno. Più pazzo di un pazzo. Era tutto folle, lui era matto, io ero... Un dito gelido mi fece accapponare la pelle mentre scostava i lembi della camicia. Per un attimo mi sbirciò il torace. L'altra mano mi premeva. — Bene — disse. — È come speravo. Non è uno di loro. Non c'è il marchio. — Che marchio? — Il marchio della bestia. Il marchio del Maligno. Lei non è uno di loro. Lei è puro. Allora mi aiuterà. — La sua mano mi lasciò. Riabbottonai camicia e cappotto. — Aiutarla come? E poi, lei chi è? — Io sono quello che è stato scelto. Scelto per la vendetta. Cosa può dire uno quando sente una cosa del genere? Non si può esordire con "Molto sensato", non quando la punta aguzza di un coltello è a distanza minima dal vostro stomaco. Mi limitai a guardar giù verso quella bianca faccia da clown, e attesi. — Lei mi aiuterà — ripeté. — Andiamo. — Fece segno con la testa verso l'auto. — Saliamo. Le dirò tutto mentre andiamo. — Dove dobbiamo andare? — chiesi, ma salii in auto mentre lui parlava, perché il coltello mi sospingeva.
— A distribuire avvertimenti. — Alla polizia? — Quelli sono nemici. E certo lei lo sa. Odiano la Fratellanza. — Fratellanza? Lei è della Fratellanza Bianca? È per questo che mi ha preso? — La Fratellanza è finita nel Fuoco del Furore. E lei lo sa. E il Fuoco del Furore consumerà tutto a meno che gli altri non vengano avvertiti per tempo. Una faccina da clown con coltello, che mi sussurrava nelle tenebre. Rabbrividii, mi accomodai sul sedile anteriore. I suoi occhi, e il suo coltello, mi seguirono. — Adesso dobbiamo andare. In fretta. Al 1902 di Benson Street. Quell'indirizzo non mi diceva niente, la Benson Street si trovava dall'altra parte della città, nei sobborghi. — Chi c'è là? — Quello che avvertiremo. Svolti, adesso. Guidai. Guidai, sperando di incappare in un'autopattuglia che ci fermasse per eccesso di velocità. Guidai, sperando in un guasto, in uno scoppio, in qualche bizzarro incidente, in qualsiasi cosa. Ma non c'era speranza. C'era solo la tenebra delle strade, la tenebra entro di me, e quell'ometto col coltellaccio. Lo scarrozzavo, ma era lui che mi guidava. Mi guidava nelle tenebre e...? — Più veloce — mormorò. — Potrebbe essere troppo tardi. Il Fuoco del Furore si muove velocemente per consumare il mondo, perché il Giorno del Giudizio è vicino... — Fuoco — dissi io. — Lei continua a parlare di fuoco. È stato lei a dar fuoco al tempio della Fratellanza? Il coltello mi morse il fianco, e io cominciai a sudare mentre aspettavo che la sua mano si muovesse, aspettavo che la macchina s'imbattesse in una buca. Ero a pochi centimetri dall'eternità, pochi centimetri di freddo acciaio. Ma il coltello non si mosse più. — Non voglio ucciderla, Fratello, perché la capisco. E lei non sa. — E allora perché non me lo racconta? — Tra pochi minuti, lo potrà sentire. Quando lo racconterò a lui. Voglio che ascoltiate tutt'e due. — È per questo che mi sta portando in questo posto anziché andarci da solo?
— Sì. Se andassi da solo, non mi ascolterebbe. Mi direbbe che sono tocco. Lo sa, Fratello, cosa vuol dire tocco? Avevo paura a dare una qualsiasi risposta. Guidai in silenzio, finché dall'Ammon Boulevard non svoltai in Benson Street. Adesso la voce mi strideva all'orecchio. — Tocco vuol dire matto. Ecco quel che vuol dire, Fratello. Matto nella testa. Erano soliti dirmelo quand'ero piccolo. Prima che mi unissi alla Fratellanza. Però il Reverendo sapeva che non ero tocco, e credeva nelle Voci. Ma certuni continuavano a chiamarmi così. Mi faceva impazzire. Mi faceva venir voglia di prendere il coltello e tagliar loro la lingua. Quelle lingue che mentivano e mentivano. Ero lì seduto, silenzioso e sudato, a guidare lungo la Benson guardando le case che si diradavano mentre ci avvicinavamo all'area collinosa dei sobborghi. Adesso stavamo salendo, e lui stava sussurrando. — Lo verrà a sapere in un attimo. E anche lui lo saprà. Saprà che non sono tocco, che sto dicendo la verità sul Fuoco del Furore. Deve saperlo, perché lui è il prossimo, il prossimo sulla lista... Gli alberi si stavano infittendo su entrambi i lati della strada, e l'isolato col numero 1900 era subito dopo quell'ultima stretta curva. L'affrontammo. Il 1902 era un grosso edificio sulla destra, un po' distante rispetto alla strada in salita. Mi ci diressi. — Eccoci arrivati — dissi. La casa era buia e silenziosa. Mentre scendevamo dall'auto ebbi l'illusione di vedere una debole luce che bruciava dietro una finestra del secondo piano. Arrivammo al portone d'ingresso. — Di chi devo chiedere? — borbottai. — Cosa devo dire? Piombare a questo modo a quest'ora della notte... — Parlerò io — disse l'ometto col coltello. — Solo, sbrighiamoci. Pigiai il campanello. Attesi. Suonai di nuovo. — Vede? — dissi voltandomi. — Non c'è nessuno. O forse dormono profondamente. L'ometto mi spinse da parte. Cominciò a battere sulla porta col manico del coltello. — Non serve — gli dissi. Mi voltai per andarmene. Allungò la mano per trattenermi. — Ci deve essere — disse. — Guardi la luce. Indietreggiai e guardai di nuovo la finestra. C'era una luce accesa, e brillava molto più di prima. Bruciava con troppa forza...
Mi voltai e vidi che anche lui aveva capito. Anche lui vedeva le fiamme, e anche lui sentiva l'odore del fumo. — Oltre l'angolo — dissi. — Corra a far scattare l'allarme. — Lei cos'ha intenzione di fare? — Voglio entrare. — Non... è troppo tardi... non serve. Resterà ucciso... Toccava a lui adesso tremare. Guardai quel faccino da clown e di colpo non ebbi più paura. Poiché non era più il momento di riflettere, allungai la mano e gli strappai il coltello. — Dove vuole andare con quello? — Adesso vedrà. — Non aveva senso cercare di forzare la porta. Mi diressi verso la porta-finestra oltre il porticato. Col manico del coltello colpii il vetro vicino alla maniglia. La finestra cedette. Ne uscì un'onda soffocante di calore misto a fumo. — Svelto! — urlai. — Vada ad accendere quell'allarme! Senza più aspettare, entrai nella stanza. Era buia, e il fumo mi aggredì occhi e narici. Non c'era nulla che potessi fare per gli occhi, ma cercai a tastoni un fazzoletto e me lo misi davanti a naso e bocca. Poi attraversai la stanza seguendo il muro. Quasi inciampai contro una lampada a stelo, e mi spellai il ginocchio contro un divano. Ma raggiunsi il corridoio, tastai per cercare un interruttore, poi mi resi conto che tanto non serviva. Il corridoio era illuminato a sufficienza, adesso. Potevo vedere le fiamme che danzavano al piano superiore: sembravano un faro che mi guidava. O che mi avvertiva. Il fumo era denso, pungente. Il puzzo era nauseante. E il fuoco era al piano superiore, e io non potevo salire le scale perché avevo paura del fuoco... Ma salii. Avevo paura del fuoco, ma avevo ancor più paura di me stesso. Dovevo andare. Forse la risposta era lassù, forse là avrei appreso il segreto. Salii i gradini a due alla volta. Quando svoltai l'angolo, il puzzo e il fumo e il calore sembrarono fondersi fino a formare una mano invisibile, una grande mano bruciante che cercava di respingermi. Mi girai a mezzo verso le scale, tossendo e rantolando. La mano mi stava spingendo in giù, e io volevo tanto ritirarmi. Ma l'incendio mi chiamava. Affrontai di nuovo quella mano, mi chinai, e riuscii a scivolare oltre quelle dita invisibili.
Mi trovavo sul pianerottolo, col fumo che mi si attorceva attorno. Le pareti erano ormai nere. La passatoia si stava consumando, e c'erano piccole lingue di fiamma che leccavano e mordicchiavano e masticavano. Altre lingue venivano dalla stanza in fondo al corridoio. E il fumo ne balzava fuori in una nube soffocante. Barcollai fino alla porta spalancata. Il calore aumentava e io riuscivo a vedere a malapena. Mi fermai sbattendo gli occhi, cercando di vedere dentro la stanza. Uno scoppio di fumo, uno scoppio di fiamme, un altro scoppio di fumo, ma tra l'uno e l'altro colsi qualche fugace visione: Visioni dell'Inferno. Qualcuno aveva appiccato il fuoco alle tende. Qualcuno aveva appiccato il fuoco ai panneggi. Qualcuno aveva strappato le lenzuola dal letto impilandole ai piedi dello stesso in un gran mucchio, perché bruciassero e si consumassero. C'erano anche alcuni abiti, che emanavano un puzzo soffocante, e ora stavano cominciando a bruciare più allegramente. Tra un attimo anche il letto avrebbe preso fuoco, e c'era qualcuno che aveva voluto che ciò avvenisse. Chiunque avesse appiccato l'incendio e ammucchiato la biancheria aveva anche lasciato un lenzuolo per un altro scopo. Il lenzuolo infatti era stato strappato in lunghi brandelli e usato per legare braccia e gambe dell'uomo che giaceva sul letto, e che vi giaceva a faccia in giù, col viso quasi invisibile a causa del fumo crescente. Non si stava dibattendo, non stava facendo alcun movimento. Potevo capire perché. Quel fumo era sufficiente a soffocare chiunque. Era stato tutto pianificato. Primo, l'asfissia, e pochi minuti dopo, l'incinerazione. Il calore mi stava insensibilizzando mani e fronte. La tappezzeria si era arricciata e stava bruciando, e il fuoco correva tutt'attorno alle pareti. Corsi verso il letto e con un calcio scostai il tappetino bruciacchiato. Mi chinai, afferrai le braccia legate dell'uomo. Non c'era tempo per liberargli mani e piedi. Dovevamo uscire di lì alla svelta. Mi rialzai, facendomelo ricadere sulla spalla. S'afflosciò come un sacco. Un sacco pesante, un fardello pesante da portarsi appresso attraverso quel corridoio avvolto nel fumo, lungo le scale incendiate. Tossivo, ansimavo, rantolavo. Brancolavo, vacillavo, quasi cadevo. Sussultai, tremai, fremetti quando un improvviso scoppio di fuoco scaturì come una lingua dalle tendine della finestra a metà delle scale bruciacchiandomi la tempia. Mi sembrava di sentire delle grida, e le sirene, ma non avevo modo d'as-
sicurarmene, non con tutti quegli scricchiolii e borbottii che mi seguivano lungo le scale. La stanza era proprio lì davanti a me, e oltre quella c'era la finestra, e oltre la finestra c'era l'aria. Era quella che volevo. Aria fresca, aria fredda, la possibilità di posare il mio fardello, la possibilità di potermi riposare anch'io per un attimo; riposare là dove ero al sicuro dalle fiamme. Ancora pochi passi, adesso. E adesso riuscivo a vedere la strada. Stavano arrivando le autopompe. Cercai di vedere il piccoletto con la faccia di clown, ma se n'era andato. Non importava. Quello che importava era che finalmente ero fuori, ero all'aperto. Ero salvo. Adesso potevo anche posarlo. E allora lo posai. Lo posai sulla schiena, così che potei vederlo in viso. E allora capii che non ero più salvo, non ero salvo dalle fiamme né da quello che si celava dietro di esse. Stavo guardando la faccia di Joseph Clutt, alias professor Ricardi; il viso violaceo e strangolato del capo spirituale dell'Atomo Dorato. Per un attimo rimasi immobile, poi quel viso cominciò a venirmi incontro. No, non si stava alzando, ero io che stavo cadendo. Cadendo nel fuoco e, oltre il fuoco, nelle tenebre. 8 Penso che sia stato Pitagora a ideare la teoria della ripetizione eterna, l'idea che le stesse cose accadono e riaccadono in continuazione. Mi chiedo cos'avrebbe pensato Pitagora se si fosse trovato seduto in quella stanzetta a guardar fuori dalla finestra in attesa dell'alba. In realtà, non mi stavo preoccupando di quello che avrebbe pensato. Speravo solo che lui, o anche qualcun altro, si trovasse lì al mio posto. Me ne stavo seduto lì proprio due giorni dopo la prima volta, e ascoltavo il capitano Dalton che diceva: — La vedo male. Deve ammetterlo. La vedo male. — Io non ammetto niente — risposi. — Le ho detto tutto quello che ne so. Perché non prendete quel tipo con la faccia bianca? E Schwarm? — Stiamo cercando il suo misterioso pazzerello — rispose Dalton. — E il dottor Schwarm è in viaggio per venire qui. Mi augurai che arrivasse presto. Ero stufo di avere quella pipa puntata contro di me. Dalton si sforzava di puntarmela contro anche quando abbassava lo sguardo per controllare i suoi appunti.
— Lei continua a insistere di non aver nulla a che fare col professor Ricardi — disse. — Io non insisto. Glielo sto solo dicendo. Non avevo mai visto quell'uomo fino all'adunata di questa sera. — E quel tipo bizzarro che pretende di aver visto... — Io non pretendo. L'ho visto, c'era, e mi ha puntato un coltello contro le costole. — Va bene. — Dalton si passò una mano fra i capelli. — Adesso devo parlare con l'avvocato di Ricardi, quel Weatherbee. E con la signora Loodens. Forse loro avranno da dire qualcosa di più sensato. Mi lasciò seduto nella stanzetta a chiedermi cosa, loro o chiunque altro, potessero dire che avesse un qualche senso. Abbastanza stranamente, non mi sentivo troppo male. Non in quel momento. Perché sapevo che quello era un incendio col quale non avevo a che fare, e quindi non me ne sentivo spaventato. O lo ero? Anche se sì, ero entrato e avevo cercato di salvare Ricardi. Mi ero comportato normalmente, e questo provava che sono normale. Forse. Ma qualcuno ne era responsabile. Da qualche parte doveva esserci un incendiario, un incendiario; una tigre, tigre, che brucia ardentemente... Che tipo di creatura si era legata a Ricardi, impastoiandolo in quel modo e abbandonandolo alle fiamme? Pensai a tutte le possibilità. Diana Rideaux ovviamente. Ma lei era ghiaccio, non fuoco. E poi la prima volta era stata con me, ed era con me la seconda volta alla spiaggia quando la mia sigaretta aveva incendiato il cespuglio. Poi era scappata. Una falena color rame che temeva le fiamme. Non era il tipo giusto d'animale. E che dire dell'uomo dal viso di clown? Avrebbe potuto appiccare lui il primo, certo, ma se era così perché aveva paura dei suoi "nemici"? E perché voleva avvertire Ricardi? Quel che è certo è che non aveva potuto legare Ricardi, appiccare il fuoco, mettersi alla mia ricerca, trovarmi e portarmi fin laggiù. Le fiamme non avrebbero atteso così tanto. E poi, anche per uno un po' matto, una tale attività aveva dell'incredibile. Eppure, sembrava sapere che Ricardi sarebbe stato il prossimo. Come poteva essere? E perché aveva fatto una connessione fra me e tutto quello? Da qualche parte, in qualche modo, doveva esserci un disegno. Dovevano trovarlo, farlo parlare. Non era lui l'incendiario, ma poteva sapere chi era. E dove c'è fumo, c'è... Entrò Schwarm.
— Andiamo — mi disse. — Usciamo di qui, Phil. — Hai parlato col capitano Dalton? — È tutto a posto. Gli ho detto che eri con me. Adesso è tutto chiarito. — Col cavolo che lo è. Mai visto un casino peggiore in tutta la mia vita. Lo sai cos'è successo? — Sì. — Mi tenne la porta aperta. — Ma ne parleremo più tardi. Questa volta avevano portato fin lì la mia auto. Firmai per ritirarla dal garage della polizia. Schwarm mi aspettava. — Posso darti un passaggio? — gli chiesi. — Fino allo studio. Ti potrai fermare per un minuto? — Sono abbastanza stanco. — Lo so. Ma penso che dovremo parlare di tutto questo. Tanto per dirne una, l'ho promesso al capitano Dalton. — Ti occupi di questo caso adesso? — Non ufficialmente. Come ben sai, di tanto in tanto mi chiamano per una consulenza. Quando succede qualcosa che implica dei sospetti di disordine mentale. — In altre parole, Dalton pensa che sono matto. È così? — No. Però... — Sei uno psichiatra schifoso — dissi. — Come minimo devi aver pensato a un modo per darmi soddisfazione, oltre che per prendermi in giro. Schwarm ridacchiò. — Forse. E comunque, è probabile che io sia un brav'uomo. Per lo meno, il mio approccio apparentemente mal condotto sta funzionando. Ho ottenuto che mi accompagnassi fin nel mio ufficio in modo che ti risentissi per quanto questo implicava. Giusto? — Hai vinto — risposi. Lo portai fino al Soames Building e parcheggiai nel posto a lui riservato. Era ancora mattino presto, e il suo studio era deserto. Nessuno alla reception, solo noi due. — Siediti e raccontami tutto — disse Schwarm. — Una sigaretta? — No, grazie. — Avevo difficoltà a parlare. Avevo la gola secca per la sete e anche per qualcos'altro. Paura. — È una cosa ufficiale? — chiesi. — Prenderò alcuni appunti, sì. Ma rispetterò le tue confidenze, Phil. — Certo. — Mi rilassai sulla poltrona. — Da dove dovrei cominciare? — Dall'inizio. — Vuoi dire la notte scorsa, o quella precedente? Penso che ti abbiano detto che ho dato l'allarme per l'incendio alla Fratellanza Bianca, vero? Annuì. — Sì. Se questo è l'inizio, comincia da qui. Tu sai bene da dove
cominciare. Lo sapevo, ma non volevo dirglielo. Non potevo dirglielo. Non dall'inizio almeno, né del sogno. E se gli avessi detto che brancolavo stordito, sarebbe piombato su quel fatto. "Sta' attento" ricordai a me stesso "devi stare molto attento." Così gli ripetei quello che avevo già detto a Dalton quando avevo fatto la mia deposizione. La storia dell'incontro con Diana Rideaux, il ritorno a casa, il ritorno alla taverna per riprendere gli appunti. Poi andai avanti di lì raccontandogli cos'era successo quando mi avevano prelevato e poi rilasciato. Prima che me ne rendessi conto, ero già alla parte in cui avevo rivisto Diana ed eravamo andati sulla spiaggia. Era troppo tardi per fermarmi. Dovevo raccontargli l'episodio, anche se mi ero accorto dell'errore. Gli dissi del mozzicone e dell'incendio del cespuglio. Continuai a guardarlo mentre raccontavo, ma la sua faccia non esprimeva niente. Prendeva appunti, d'accordo, ma questo era tutto. Per un attimo pensai di spiegargli come l'incendio del cespuglio fosse un incidente, ma mi trattenni in tempo. Se avessi protestato, avrei solo sollevato i suoi sospetti. Così tirai diritto fino all'ultima notte. Gli dissi del raduno della Chiesa dell'Atomo Dorato come se non ne avessimo già parlato dopo il nostro incontro, e poi ripresi dall'uscita dal ristorante e dall'incontro con l'ometto dalla faccia di clown. Gli dissi del viaggio, del fuoco, e di come avessi trovato il corpo di Ricardi. — Ecco tutto — dissi. — Hai intervistato la persona sbagliata, adesso lo sai, vero? Se avessimo qui quel tipo strano, potrebbe dirti lui quel che vuoi scoprire. — Forse. — Schwarm posò la matita. — Ma dobbiamo essere pratici. Il tuo piccolo amico non è qui, così dobbiamo lavorare con quanto abbiamo. — Non ho altro da aggiungere. Ho detto tutto. — Sei stato molto cooperativo, Phil. — Batté col dito sugli appunti. — Una storia rimarchevolmente dettagliata. Hai una buona memoria per i fatti. — Devo, poiché scrivo per vivere. — Mi sovviene che hai omesso di dettagliarmi un punto alquanto importante di questa storia. — Quale sarebbe? — Nel tuo racconto non mi hai mai detto come ti sentivi nei confronti di quanto succedeva. Non mi hai raccontato nessuna delle tue reazioni.
— Perché... — mi strinsi nelle spalle. — Pensavo che per te fossero i fatti ad avere importanza. I miei sentimenti non sono così importanti. — Be', ma per amor di curiosità... immaginiamo che mi racconti cosa stava succedendo nella tua mente in questi ultimi tre giorni. — Ero spaventato — dissi. — Spaventato a morte. E chi non lo sarebbe stato? Dai l'allarme e quelli ti acchiappano e ti accusano di essere un incendiario. Poi quel personaggio insolito che mi dà la caccia. Non è stato esattamente un picnic. E quella ragazza, e il modo in cui si comportava, si sarebbe detto che volevo violentarla. E subito dopo, l'incendio del cespuglio. Questa parte mi ha veramente disturbato. — Perché? Ero troppo avanti per fermarmi, adesso. — Perché mi sono chiesto se è stato davvero un incidente. Non è che non sappia nulla della tua attività, lo sai, vero? Ho sentito parlare di come lavora il subconscio. Quando ho gettato quel mozzicone, posso aver agito per un impulso occulto di dar vita a un incendio. In altre parole, l'aver visto quel primo incendio potrebbe aver scatenato in me la decisione di appiccarne uno anch'io. Forse, dentro di noi siamo tutti piromani potenziali. — È questo che vuoi credere? — Sei tu il dottore, sei tu che devi dirmelo. Schwarm sorrise. — Sei ancora convinto che potresti avere avuto l'impulso di incendiare il cespuglio? — Non più. — Vidi una via d'uscita, e mi ci infilai. — A causa dell'ultima notte. So di non aver nulla a che fare con la morte di Ricardi, e lo sai anche tu. E quando sono entrato per prenderlo, ero semplicemente spaventato. Avevo paura del fuoco. — Però sei entrato lo stesso. — Dovevo farlo. — Potevi aspettare i pompieri. — Uno non pensa in momenti come quello — risposi. — È il subconscio che agisce. — E così il tuo subconscio ti ha dettato di entrare in quell'edificio in fiamme. — Be'... — Nello stesso momento, consciamente, hai detto che temevi il fuoco. — Io... — Mi alzai di scatto. — Non serve, dottore. Non riesco a spiegarlo. Non posso dirti di più. — Va bene. Ti credo. Non puoi, ma forse questo tuo cosiddetto subcon-
scio può. Vuoi provarci? Dovetti annuire. Ma stavo cominciando a sudare. — Cosa vorresti fare, ipnotizzarmi? Vuoi che prenda una di quelle droghe scioglilingua? Schwarm sorrise. — Non essere melodrammatico, Phil. Di solito non uso questi metodi. E già che ci siamo, voglio fare appello alla tua istruzione. Questo tuo "subconscio" è un modello un po' troppo fuori moda. Secondo me, non c'è campo né entità, psichico o fisico, che possa essere identificato come una "mente subconscia". C'è solo la consapevolezza che riceve e identifica tutti i dati. Alcuni di questi sono spiacevoli. Allora vengono repressi quando non soppressi. Ma sono stati ricevuti, e rimangono lì, utilizzabili in un modo o nell'altro. A volte come una fantasia, a volte come un simbolo, comunque rimane sempre presente e disponibile per comunicare, anche se in forma distorta. Il contenuto di una fantasia è un indizio per la realtà. È un tentativo della mente di comunicare. Mi segui? — Non del tutto. — Devi. Andò a frugare nello schedario, ne tornò con un fascicolo enorme. — Che roba è? — Il metodo che uso per scoprire gli indizi. Ne avrai sentito parlare. Il test di Rorschach. Fogli con macchie d'inchiostro. Tu le guardi, e mi dici a cosa ti fanno pensare le macchie. Non è difficile. Aveva ragione. Non era difficile. Guardai le carte mentre lui le voltava una alla volta, e registrava le mie reazioni. Alcune carte erano rosse, altre rosse e arancione, altre rosse e arancione e blu e verde. Le passammo tutte una volta in sequenza. Poi di nuovo, con un ordine diverso. Poi una terza volta, in sequenza. Mi chiese la mia opinione. Gliela diedi. Non cercai di sfuggire o di barare. Schwarm prese degli appunti. Mise le carte da parte e si sedette comodo per leggerli. Di tanto in tanto si fermava su una mia dichiarazione che gli sollecitava una domanda. Risposi a tutte. Finalmente si rilassò e spinse da parte gli appunti. — Bene — dissi. — Qual è il verdetto? Sono un incendiario? Sorrise. — Hai risposto da solo a questa domanda tempo addietro. Non hai per caso detto che credi che forse nel profondo siamo tutti piromani potenziali? — Era un modo di dire, e lo sai bene. Non sono nemmeno sicuro di cosa voglia dire essere un piromane. — Nemmeno io. Discutiamone per un momento. Forse scopriremo qual-
cosa. — Va bene — dissi. Ma non volevo discuterne. Non volevo scoprire... qualcosa. Lasciai che cominciasse lui. — Prima di tutto, pensiamo al fuoco. Il fuoco, come sai, è un elementale. La scintilla della vita. Il fuoco del sole: caldo, luce, movimento. Lo conosciamo tutti, e ne siamo attratti. È per questo che il color rosso è così importante: il colore più primitivo, il più eccitante, il primo a essere percepito da un neonato. Rosso è il fuoco. — Anche il sangue — aggiunsi. — Giusto. E il sangue è vita, nel linguaggio simbolico che usiamo tutti. Allora il fuoco è sangue e il fuoco è vita, e il fuoco è anche qualcos'altro. È magia. "Troviamo la magia del fuoco in tutte le leggende di tutte le culture che conosciamo. I Parti lo adoravano, come aveva prescritto Zoroastro. Vesta e Agni erano deità del fuoco. Avrai sentito la storia di Prometeo, che ha rubato il dono del fuoco agli dèi: una cosa comune sia ai greci sia ad altre religioni. Anche la nostra Bibbia è piena di associazioni tra fuoco e soprannaturale. La storia di Mosè e del cespuglio ardente, la colonna di fuoco che ha guidato gli israeliani." — Le aureole — aggiunsi. — E gli angeli con le spade fiammeggianti. — Giusto. E il fuoco è sempre stato usato nei rapporti col soprannaturale. Pensa agli altari di fuoco, al fuoco acceso per i sacrifici, al rituale di bruciare gli eretici o le streghe sul rogo. Né dobbiamo scordare il concetto dominante delle fiamme dell'Inferno. Anche gli alchimisti medievali pensavano di poter trovare la pietra filosofale nell'acqua e nel fuoco mercuriale. Il fuoco è sempre stato misterioso, una fonte di vita e di creazione, e una fonte di morte e distruzione. È magico. Anche un bambino lo sa. Quando accendi un fuoco crei un nuovo mondo, e nello stesso tempo ne distruggi uno vecchio. Accendere un fuoco è semplice. Le nostre statistiche dicono che il settanta per cento di tutti i piromani ha un'intelligenza al di sotto della norma accettata. — Allora sai qualcosa sulla piromania? — Un poco. — Andò alla libreria, frugò qua e là, ne tornò con un volume che aprì ed esaminò. — La classificazione dell'Associazione Psichiatrica Americana lo mette sotto Psicastenia e Stati Compulsivi (002-X21) con manifestazioni sintomatiche, piromania (902). Ti dice qualcosa? — No. — Esitai. — Tranne che, da quel che mi hai detto, la maggior
parte degli incendiari sono imbecilli o deficienti che hanno una spinta ad appiccare incendi. Ma perché? E che mi dici di quel trenta per cento che ha un'intelligenza normale o superiore? Perché appiccano incendi anche loro? — È questo il problema, non è vero? — Non guardare me — dissi. — Non ho idee al riguardo. — Ne sei sicuro? — Aprì il blocco degli appunti. — Cosa significa per te la parola "fuoco"? Quali altre parole ti suggerisce? Vediamo adesso cosa associ alla parola "fuoco". — Be', parole e frasi, ovvio. Palla di fuoco. Il fuoco dell'inferno. Non c'è fumo senza fuoco. Il fuoco della creatività. Scintille di genialità. Giocare col fuoco. Mangiafuoco. Mi fai avvampare. Combattere il fuoco col fuoco. Numeri caldi. Reggere il moccolo. Vedere rosso. Amore ardente. Vecchia fiamma. La fiamma del peccato. Il fuoco della passione. Far fuoco e fiamme. La fiamma della libertà. Sprizzare fiamme dagli occhi. — Mi strinsi nelle spalle. — Basta così? — Basta sì. E ora, esaminiamo quello che mi hai appena detto. Cosa ti suggeriscono queste frasi? — Alcune di loro fanno riferimento a punizioni, non è vero? L'inferno e il magma ardente. Ribollire di rabbia. E molte hanno un significato erotico. — Esatto. Tutti noi usiamo frasi del genere nel parlare comune. Ma alcune persone pensano realmente in questi termini, e per loro frasi del genere hanno una connotazione reale. "Non deve sorprenderti se molti incendiari cominciano la loro carriera nella tarda adolescenza. È il periodo in cui il disadattamento sessuale può precipitare nella schizofrenia paranoide. Gelosia, rivalità, impotenza o frigidità, perversione e feticismo, tutto questo gioca un suo ruolo. Appiccare un incendio in certi casi serve a sciogliere una tensione. "Simbolicamente, come vedi, accendere un fuoco equivale a un atto sessuale. Può essere il sostituto di un incesto o di qualche altra esperienza sessuale proibita. È una cosa temuta quanto desiderata. Alcuni incendiari pensano di poter controllare il fuoco meglio di quanto non facciano con le loro emozioni. Altri sentono che il fuoco è uno strumento più potente di loro stessi. In tutti i casi, quello è il sollievo, temporaneo, dalla tensione. Ma poiché non risolve la situazione di base, l'atto deve essere ripetuto. È questo che crea il tuo incendiario." — Ma se uno lo sa, non potrebbe cercare aiuto? — Qui sta il punto. Molti piromani rifiutano di ammettere la verità, anche a se stessi. Alcuni agiscono in una trance amnesica. Altri sentono voci
che glielo ordinano. Hanno la sensazione che il fuoco sia stato acceso da qualcun altro, non da loro. E non si preoccupano del danno che fanno, si preoccupano di più di quello che le autorità pensano di loro. Per loro non è sbagliato distruggere, simbolicamente, l'amore o le persone amate. Perché tutti gli incendiari sono assassini potenziali, in grado di agire grazie a un impulso quando si vedono ostacolati. Avevo un giovane con tutti i sintomi classici: dall'enuresi ai tratti ciclotimici. E una componente di sadismo uretrale. Aveva l'abitudine di mordere le teste dei suoi topolini bianchi. — Affascinante — dissi. — Voglio dire, la parte dei topolini. Il resto è un po' troppo complicato per me. Non puoi dirmelo in parole povere? — Certo. Vedila in questo modo. La maggior parte dei piromani viene da famiglie povere. C'è sempre una brutta situazione familiare, famiglie distrutte, promiscuità sessuale da parte di uno o di tutt'e due i genitori. Il nostro piromane tipico - benché esiti a descrivere ogni caso come tipico - è un figlio sottomesso che adora la madre ma odia il padrino o qualsiasi uomo con cui lei s'accoppia, e che sospetta la madre di trasgressioni morali. "Tuttavia ha paura a ribellarsi apertamente, così scappa. Fugge nell'alcol, in uno sbagliato matrimonio giovanile. Spesso la situazione è complicata da sventurati difetti fisici o da deformazioni che gli fanno pensare di essere rifiutato o indesiderato. Esteriormente, tuttavia, il nostro incendiario è un conformista. "Non contesta mai apertamente le autorità. È un tipo gregario, cooperativo. Ma quando la situazione si fa intollerabile, allora fugge. Fugge dalla madre, da casa sua, dal lavoro, dall'esercito, da qualsiasi compromesso con una realtà che gli appare spiacevole. E il suo ragionamento è che non sia colpa sua. È di suo padre che lo puniva, che gli ha trasmesso quel difetto fisico, che maltrattava e abbandonava sua madre, che la violentava. Odia suo padre ma non osa sfidarlo apertamente nemmeno nei suoi pensieri. E allora fugge, fugge nella fantasia dove una voce diabolica, quella del padre, ovviamente camuffata, gli dice di appiccare il fuoco. O gli fornisce quei desideri che non può soddisfare apertamente, e che lui sostituisce con un incendio." — Voi strizzacervelli ci ficcate sempre dentro il sesso — dissi. Schwarm scollò la testa. — Non ci ficchiamo dentro niente. Cerchiamo semplicemente di scoprire quel che c'è già. E nella piromania il parallelo sessuale mi sembra ovvio. Tensione - la spinta per la gratificazione diventa iresistibile - poi esaltazione e infine liberazione. — Interessante — dissi. — Ma io come entro in tutto ciò? Mi hai fatto
alcuni test. Qual è il verdetto? Schwarm si accese un'altra sigaretta. — Supponiamo che tu mi abbia detto quel che pensi. Esitai un momento. — Non mi adeguo molto bene allo schema, vero? I miei genitori erano felici insieme e non c'è stato nulla di strano nella mia infanzia. Non sono più un adolescente, non ho difetti fisici, non sono né un conformista né, interiormente, un ribelle. E non mi sono mai eccitato nell'accendere fuochi o nel far scattare gli allarmi. Come ti ho già detto, il fuoco mi spaventa. Comunque, cosa indicano i test? — Proprio quello che mi hai detto. Non sei un piromane, anche se esiste sempre una minaccia potenziale. — Abbassò la testa, poi mi guardò. — Ma esiste una grande preoccupazione legata al fuoco. Quasi una pirofobia. E mi hai detto almeno una mezza dozzina di volte che il fuoco ti spaventa. Perché? — Non lo so. — C'è stato qualche incidente, tempo fa, in cui era implicato un incendio? — Non lo so. — Che mi dici dei tuoi sogni, Phil? Hai mai avuto qualche sogno su...? Si sentì il rumore di una porta che si apriva nell'altro ufficio. Erano arrivati i nostri. — Hai compagnia, dottore — dissi alzandomi. — Forse potremo parlarne ancora in un'altra occasione. — Bene. — Si alzò. — Phil, credo che potrei aiutarti se solo me lo permettessi. E anche tu potresti aiutarti. — Certo. — Mi avviai verso la porta. — Vuoi uscire dalla porta secondaria? — Mi indicò una seconda porta sulla sinistra. — Sto aspettando altre persone questa mattina. Dalton mi ha chiesto di dargli un'occhiata. — Molto bene. Grazie per esserti preso questo disturbo per me. — Sarai a casa se... se qualcuno volesse mettersi in contatto con te? — Non ho pianificato di lasciare la città, dottore — gli dissi. — Però di' al tuo amico Dalton che non deve preoccuparsi. Non voglio allontanarmi a causa dei... — Posai la mano sulla maniglia ed ero già quasi fuori prima di pronunciare l'ultima parola. La disse Schwarm per me. — I fuochi artificiali? — Esatto — dissi sogghignando. — Piromani di tutto il mondo, incendiate!
9 Arrivai a casa alle nove e dormii fino alle tre e mezza. Il sogno cominciò un paio di volte, ma in qualche modo riuscii sempre a svegliarmi prima che potesse continuare. Poi mi riaddormentavo. Quando mi alzai, mi sentivo meglio. Stavo terminando la doccia quando suonò il telefono. Sgocciolando, mi avviai per rispondere. — Pronto? — Phil? Ed Cronin. Dove diavolo sei stato? — Leggi i giornali. — Leggili tu i giornali! Comunque, cosa sta succedendo in questa città? Ti mando in giro per raccogliere quattro semplici storielle e tu mi atterri giusto nel bel mezzo della più grande storia locale che ci sia capitata negli ultimi tre anni. — Phil Dempster, reporter dello Star — dissi allora. — Mi hai chiamato perché vuoi il mio autografo? — Voglio il tuo rapporto — strillò Cronin — e subito! — Ma la storia è morta — gli dissi. — L'ha uccisa il fuoco. Ogni volta che esco per cercare di guadagnarmi onestamente qualche dollaro, qualcuno mi brucia i ponti davanti. — Cosa vuoi dire con la storia è morta? È più calda che mai! Hai trovato tu il corpo di Ricardi, no? È questo che vogliamo. Non pensare più ai culti. Un reporter del Globe, che lavora a un incarico speciale, si imbatte in... oh, dai che lo sai meglio di me. Leggi il giornale! — Hai pubblicato un resoconto del fatto? — Certo che sì. Ho utilizzato anche la tua fotografia che stava sul retro della copertina del libro. Le ho dato un bel risalto. Adesso vogliamo il seguito per il numero di domani. Dichiarazione esclusiva. Quanto ti ci vuole per mandarmi due o tre cartelle? Voglio mandarle all'Associated Press... — Ascolta, Cronin, sono molto occupato perché devo scriverti uno di quegli articoli. Sempre se non m'imbatterò in un culto che prende fuoco prima che possa cominciare. — Non preoccuparti per quella roba adesso. Questo è più importante. — Milleduecento dollari sono più importanti per me. — Va bene, ti sganceremo la grana, articoli o no. Quando avrò il mio articolo? Guardai l'orologio. — Ci sarai alle sei?
— Certo. — Allora ci vediamo. — Datti una pettinata. Ti scatteremo un'altra foto. — Tutto quello che vuoi. Vuoi che posi con un elmetto da pompiere? — Piantala e mettiti al lavoro. La smisi e mi misi al lavoro. Buttai giù un paio di cartelle sulla Chiesa dell'Atomo Dorato. Ci cacciai dentro il mio amichetto con la faccia da clown, e lo indicai come la figura chiave di tutto il mistero. Non era difficile da fare, perché stavo scrivendo la verità. Lui sapeva cosa stava succedendo, e perché. Io facevo solo da spalla. Ma perché? Non sapevo come rispondere, e nemmeno ci provai. Finii la mia storia, saltai in macchina e mi diressi verso il centro. Cronin mi stava aspettando sotto il grande orologio del suo ufficio. Buttai i fogli sulla scrivania e puntai il dito sull'orologio. — Quindici minuti d'anticipo — dissi. — Quant'è per l'urgenza? Grugnì e mi lanciò un giornale. — Leggi qui mentre io leggo la tua roba. Lo feci. Era proprio una storia. Secondo l'angolatura di Cronin io - o meglio il Globe - ero un eroe. E io - leggasi ancora il Globe - stavo per risolvere le misteriose morti per fuoco che stavano spargendo il terrore sulla città. "Terrore sulla città." Un buon affare. Ed è così che lui l'aveva scritta, facendo il gioco grosso. Metà della prima pagina era stata dedicata all'incendio. C'era la mia fotografia, quella di Dalton, quella di Ricardi. C'era una grossa storia su Ricardi in cui era stato usato molto del materiale che avevo nel mio taccuino: apparentemente il giornalista che aveva scavato fuori le notizie originali stava lavorando ancora al caso. Notai che veniva annunciata un'inchiesta per domenica, ovvero domattina. E la polizia stava cercando il mio piccolo amico. Ottimo. Questo significava che, dopotutto, Dalton aveva preso sul serio il mio rapporto. Di fatto, tutti la stavano prendendo molto seriamente. Forse Cronin non aveva esagerato l'angolazione terroristica. Uno dei suoi ficcanaso era stato in giro a raccogliere commenti dalle casalinghe che stavano acquistando serrature nei negozi di ferramenta, e dai padri di famiglia che stavano comperando munizioni per i fucili da caccia. La polizia stava rastrellando sospetti, e controllava tutti i piromani conosciuti o sospettati tali. Il caldo, e sussultai pensandoci, stava aumentando. — Abbastanza buono! — disse Cronin sbattendo giù i fogli. — Lascia-
melo solo ravvivare un po' e lo pubblico per domani. Adesso andiamo al piano di sopra e fatti fotografare. — Stai parlando sul serio? — Maledettamente sul serio. — Cominciammo ad arrampicarci. — Da adesso in poi, ti occupi tu di questa storia. Magari domani all'inchiesta potrai ricavarci qualche altro indizio. E magari qualcuno dei nostri ragazzi riuscirà a scoprire qualcosa. Tutto quello che troveremo lo passerò a te. Il vecchio vuole che spremiamo da questa storia tutto il buono che possiamo. E tu sei la connessione logica per tutto quello che è di rottura. — Compreso il mio collo. — Hai per caso paura? — Non io. Avevo paura la notte scorsa. Non stavo scherzando con quel piccolo pazzerello. Mi aveva ficcato un coltello nelle costole. — Pensi che abbia appiccato lui l'incendio? — Non quest'ultimo. Non avrebbe potuto, però potrebbe aver appiccato il primo. E sa tutto quello che c'è da sapere. Sta succedendo qualcosa, qualcosa connesso a tutti quei culti. — Il tuo compito è scoprire cosa. — Il mio compito — risposi — è di rimanere vivo. Cronin rimase zitto mentre il fotografo mi spingeva su una sedia, mi abbrustoliva coi suoi riflettori, e poi scattava tre foto in rapida successione. — Ecco fatto — mi disse. Mi alzai. Cronin mi mise un braccio attorno alle spalle. — Non puoi mollarmi, Phil. Non quando ci sei così dentro. — Un po' più dentro e mi troverò in una tomba. — Idiozie. Non ti sto chiedendo di buttarti allo sbaraglio. Solo di tenere gli occhi bene aperti. Se possiamo darti una mano in qualsiasi modo, facci sapere. Con roba di routine, d'accordo? Ma potrebbe esserci una possibilità di vincere il monte premi. — Scommetto che questo farà ancora più felice il capitano Dalton — dissi. — Voglio dire, sapere che uno dei suoi principali sospettati è diventato un investigatore. — Fregatene del capitano Dalton — disse Cronin. — Non ha niente contro di te, Phil. Credimi, mi sono dato da fare per scoprirlo. Senti, ti farà chiamare per l'inchiesta domattina. Dovrai esserci. E allora perché non guadagnarti un po' di soldi facili scrivendo su qualcosa? Se non salta fuori niente, scrivici una storia per domenica su quel tipetto. Va' a intervistare qualche medico, scopri tutto quel che puoi sui piromani.
Sogghignai. — Questo l'ho già fatto — dissi. — Va bene. Contattami subito dopo l'inchiesta di domattina. Ci saranno anche due dei miei, ma voglio il tuo punto di vista. — Lo farò. Lo lasciai nel corridoio e presi l'ascensore per scendere. Era tempo di andare a mangiare. Il Dinner Gong era affollato, ma riuscii a trovare un posticino dove potevo mangiare da solo. Soltanto che non ero solo. Di fianco a me si sedette una ragazza dai capelli color rame, e accanto a lei c'era un uomo dalla faccia bianca e dalle labbra sanguinanti. Accanto a lui c'era la fisionomia del professor Ricardi, ma non era più dorata, era sanguigna, chiazzata e infiammata. E mentre lo fissavo, quel viso cominciò a cambiare, a sciogliersi in un'altra maschera bruciacchiata e mutilata. Mi sforzai di distogliere lo sguardo e lo posai su un altro occupante. Il dottor Schwarm, credo. Il dottor Schwarm che sa che tutti quelli che hanno una paura morbosa del fuoco possono essere dei potenziali piromani, che sa che a volte un incendiario non ricorda quello che ha fatto. L'alcol lo fa esplodere, e allora girovaga stordito, e quando si alzano le fiamme lui non è consapevole di quello che succede. E se sogna il fuoco, e c'è un periodo precedente di cui non vuole parlare, allora forse... Sbattei gli occhi finché i pensieri scomparvero, le facce svanirono. Che sciocchezza. Non potevano starci quattro persone nel posto vuoto davanti a me. Assolutamente impossibile. Un pazzo, una ragazza nevrotica, un cultista morto e uno strizzacervelli. Che combinazione! Perché lasciavo che mi importunassero? Io ero solo. Completamente solo. Tuttavia, quel pensiero non mi tirava su. Ero tutto solo, ma da qualche parte in città c'era qualcun altro. Un uomo che non avevo mai incontrato, ma che mi conosceva. E adesso doveva sapere, perché aveva letto il giornale. Sapeva che ero pericoloso per i suoi piani, ed era abbastanza in gamba per mettersi in azione. Schwarm probabilmente aveva ragione quando affermava che la maggior parte degli incendiari sono adolescenti e subnormali. Ma quei due crimini non erano lavoro di un adolescente. E nemmeno il lavoro di un subnormale. Anormale era il termine più esatto. Quegli incendi erano stati appiccati per uno scopo. Che non era l'incendio doloso, ma l'omicidio. Anche questo l'aveva detto Schwarm. "Tutti gli incendiari sono potenziali assassini." E questo non era potenziale, ma era un assassino fattuale. Quest'uomo,
che sapeva di me. Che poteva anche essere sulle mie tracce, e che sapeva che ero solo. Non riuscii a finire di mangiare. Dovevo uscire di lì. Quando avviai il motore, dovetti lottare per tenere l'auto indirizzata verso casa. Era il momento di scappare, lontano da tutto quello. Non era quello che aveva detto anche Schwarm? Gli incendiari sono deboli, fuggono la realtà. E allora? Io lo ero o non lo ero? L'unico modo per scoprirlo era restare nei paraggi. E io volevo scoprirlo. Una parte di me voleva sapere. E così rimasi. Ma dovevo essere accorto, stare all'erta, essere sempre sicuro che Dalton e i poliziotti sapessero sempre dov'ero. Basta coi tentativi azzardati, basta col girovagare a notte fonda. Era di nuovo il crepuscolo, e questo aiutava. I lampioni si accesero diffondendo una luminosità rassicurante. File di candele meccaniche che mi guidavano verso casa. Il fuoco è pericoloso ma illumina, la luce ci protegge dalle tenebre. Il Potere delle Tenebre. Temiamo il fuoco, ma più del fuoco temiamo il buio. Perché? Rosso è luce, nero è morte. Svoltai e parcheggiai, poi attraversai la strada. Allora la vidi, che mi teneva d'occhio davanti all'entrata. Era un'auto molto grossa, ed era nera. Come l'ebano. Nera come la morte. Qualcuno mi stava aspettando. Erano trascorse solo poche ore, e già c'era qualcuno che mi aspettava. Che mi aspettava in un grande carro funebre. Mi fermai, esitante. Cercai di guardare nell'interno dell'auto con la coda dell'occhio, ma non ci riuscii. E, in realtà, nemmeno volevo. La curiosità non avrebbe ucciso quella gatta. La fronte cominciò a imperlarmisi di sudore e di colpo fui acutamente consapevole che ne sapevo più di chiunque altro sui culti, e che ero stato il primo ad apparire sulla scena di ben due omicidi. Forse avevo visto qualcosa che non avrei dovuto e la prima volta ero stato troppo ubriaco per capirlo, e troppo spaventato la seconda. Ma qualcun altro poteva sospettarlo. Qualcun altro poteva immaginarsi che ne sapessi più di quanto avessi detto, che la mia supposta conoscenza e l'autorità del capitano Dalton potevano essere un'accoppiata perfetta. Era arrivato il momento di voltare le spalle, tornare alla mia auto, salirci, andar via. Era chiaro che potevo essere seguito. Ma potevo sempre andare verso la stazione di polizia. Dalton mi avrebbe protetto. Valeva la pena
tentarci. Mi voltai, feci due passi. La portiera dell'auto si aprì dalla parte della strada. E la voce mi raggiunse. — Signor Dempster! Desidero parlare con lei. La voce era bassa e musicale. La voce di una donna. Mi guardai alle spalle e la luce del lampione stava creando un alone attorno a una testa bionda. — La prego, signor Dempster. Devo parlarle d'urgenza. Sono Agatha Loodens. Mi voltai e riattraversai di nuovo la strada per incontrare l'amante di Ricardi. 10 Agatha Loodens si sedette comoda sul mio divano con in mano un bicchiere. Le si intonava perfettamente: l'abito di maglina, i bottoni d'oro degli orecchini, i lunghi capelli biondi raccolti in un nodo che le ricadeva sul collo nudo. Guardai il contenuto del bicchiere e poi lei, e mi resi conto che i suoi capelli avevano lo stesso colore. — È a suo agio? — le chiesi. — Sì. — Sorrise. Aveva denti molto bianchi e molto regolari. Era tutto "molto" con lei. — Immagino che vorrà dirmi perché mai voleva vedermi. Rise. Una risata molto musicale. — È un uomo che va subito al sodo, signor Dempster. Avevo sperato che potessimo considerarla come una chiacchierata informale. — Pensava a una veglia? Dopo tutto, Joe è morto... — Per favore. — Non stava più ridendo. — Pensavo che di questo non avremmo parlato. — Invece io credevo che fosse venuta a parlarmi proprio di quello. — Non esattamente. — Si chinò in avanti per posare il bicchiere sul tavolino da caffè che separava il divano dalla mia sedia. — Ma... lei l'ha chiamato Joe. Come fa a conoscere il suo vero nome? — C'era sul giornale — risposi. — Tutto. Annuì. — Naturale. — Riprese di nuovo il bicchiere. Bevve, poi disse: — Per lo meno, quasi tutto. — Il motivo? — Speravo che me lo dicesse lei.
Mi alzai e mi avviai verso il tavolino dove tenevo i liquori per versarle un altro drink. — Questo non è un campo d'addestramento — le dissi. — Vada a fare i suoi giochetti da un'altra parte. — Questo è molto scortese. — Io sono un uomo scortese. Un uomo scortese, e anche stanco. Ne ho passate un bel po' in questi ultimi giorni. Ho subito tutti i controinterrogatori che è possibile subire. Polizia, giornalisti, uno psichiatra... — Oh, ma allora ha visto anche il dottor Schwarm. Le ha fatto per caso quei suoi piccoli bizzarri test? Annuii. — Mi ha fatto quei piccoli bizzarri test. Nel caso la riguardi, li ho passati con estrema facilità. — Tornai indietro, mi risedetti, mi chinai in avanti. — Il che significa, signora Loodens, che non sono un incendiario, se è questo ciò che voleva sapere. — Perché, io non ho mai considerato questa possibilità. Lei ha una mente molto sospettosa, signor Dempster. — Esatto. E poiché ne stiamo parlando, che mi dice di lei? Che ne ha ricavato dalle macchie d'inchiostro? Lei sorseggiò la bevanda, un sorso squisitamente delicato. — Io non ho visto né lampade né torce né tizzoni incendiati, se è questo che vuol dire. Temo che le mie reazioni siano puramente... femminili. Di fatto, credo di aver shoccato un pochino il nostro dottore. — Sorrise e si accomodò meglio. La gonna risalì di un bel po' lungo la gamba. In un altro momento ne sarei stato molto interessato. Cronologicamente, doveva avere uno o due anni più di me, ma era eccezionalmente ben conservata. Magari prendeva le CAPSULE D'ENERGIA ATOMICA e usava la CREMA VITALE. Mentre lo pensavo, mi sentii certo che era così. Mi sforzai di tornare all'argomento in oggetto. — Adesso che ci siamo fatte queste confidenze mediche, posso sapere cosa voleva chiedermi? Sta seguendo qualche traccia? — Forse. — Si chinò ancora in avanti. — Lei ha mai incontrato Amos Peabody? — No. — Sa qualcosa della sua società? — Dell'organizzazione religiosa? — Ho detto "società", signor Dempster. Siamo franchi, il suo era un racket, come quello di Joe. — Lo ammette?
— E perché no? — Si sistemò meglio un orecchino. — Non voglio insultare la sua intelligenza fingendo diversamente. La Chiesa dell'Atomo Dorato era un grosso simpatico affare. Ma adesso è tutto in crisi a causa di quel che è successo. Ed è questo che m'interessa. Cos'è accaduto, e perché. La fissai. — Immaginiamo che lo chieda al suo avvocato, il signor Weatherbee. Strinse gli occhi. — Perché l'ha detto? — Mi sembra ovvio che possa avere una sua teoria. Dopo tutto, non era vostro socio? — Lo era, fino al mese scorso. — Bevve un'altra sorsata. — O sa già anche questo? — Questa è nuova per me. — C'è stato un litigio lo scorso mese sui piani per il futuro. Weatherbee aveva alcune idee circa un'associazione con altre iniziative del genere, con Joe a capo di tutto. Ma Joe non si convinceva. Allora Don se n'è andato e noi abbiamo continuato da soli. Le presi il bicchiere per riempirlo di nuovo e parlai mentre le voltavo le spalle. — Molto interessante — dissi. — Eccovi lì, tutt'e tre, a fare un sacco di soldi col racket del culto in ascesa. E solo perché il suo piano viene rifiutato, Weatherbee se ne va. Molla una semplice, graziosa e sicura fonte di guadagno alla quale ha lavorato per anni. Che idealista! Mi strappò quasi il bicchiere di mano quando gliel'offrii. — Vuol fare il sarcastico? — Oh sì — risposi. — Come certi inglesi amano dire, ora farò qualche affermazione. Io affermo che il suo amico Joe, o il professor Ricardi per i suoi devoti seguaci, ha sbattuto fuori Weatherbee. Io asserisco che lui aveva scoperto che Weatherbee aveva altre idee. — E che tipo d'idee sarebbero state? — Le stesse che avrebbe qualsiasi persona che trascorresse troppo tempo a gironzolarle attorno! — Ma davvero! — Scoppiò a ridere. — Non sono mai stata così complimentosamente insultata in tutta la... — Non ci faccia caso. È vero? Agatha Loodens sospirò. — Sì. Don stava cominciando a farsi delle idee. E Joe minacciava di dargli una battuta. Annuii. — E questo sarebbe bastato a far fuggire Weatherbee lontano da venti o trentamila dollari all'anno? Per favore, signora Loodens. Devo far di nuovo un'altra affermazione. Penso che Joe sapesse qualcosa di Wea-
therbee, qualcosa che lui voleva tenere ben nascosto, e che l'abbia minacciato di parlare se non si toglieva dai piedi. Lei non rispose. Per me, era già una risposta sufficiente. — Qual era questo segreto che Weatherbee custodiva così gelosamente? — Non lo so. — Ricardi non gliel'ha mai detto, vero? — Mi accostai a lei, e Agatha Loodens mi fissò. C'erano minuscole pagliuzze dorate nelle sue pupille. — Adesso asserisco che il colpevole segreto di Weatherbee riguardava il suo ex marito, forse il modo in cui è deceduto. Lei si portò una mano alla bocca, e io capii che avevo fatto centro. — Weatherbee aveva avuto a che fare con la morte di suo marito. E lei e Ricardi lo sapevate. Ma lei non se ne curava, perché ne stavate beneficiando tutti. Finché Weatherbee s'è fatto ambizioso e ha cominciato a farle la corte. Ricardi l'ha minacciato e l'ha allontanato. Annuii a quanto avevo detto. — Adesso ha senso. Lei è venuta da me perché si sta chiedendo se può esserci Weatherbee dietro questi incendi. Si sta chiedendo se è stato lui a far fuori il suo amichetto. — Sì, è così. È questo il motivo. — E Weatherbee ha davvero ucciso suo marito? — Non lo so. Glielo giuro, non lo so. Joe sapeva, ma non mi ha mai voluto dire niente. Non voleva che mi ci trovassi immischiata anch'io. — E lei non è mai andata alla polizia. Non l'ha mai fatto perché questo avrebbe sconvolto il vostro affaruccio. Adesso capisco. — No, lei non capisce. Così come l'ha detto, io faccio la figura del criminale. Sospettare un uomo di essere l'assassino di mio marito e non fare niente al riguardo. Ma non era così semplice. Niente è mai così semplice. Amavo Joe, e se fossi andata alla polizia, cos'avrebbero potuto pensare? La risposta la conosce. Sarebbero riusciti a far apparire che anch'io avevo aiutato a pianificarne la morte. Weatherbee lo farebbe subito rilevare. Farebbe qualsiasi cosa per avere quel che vuole, qualsiasi. — Lui voleva lei — le dissi. — È per questo che pensa che abbia combinato di ammazzare Joe la notte scorsa? Annuì. — È per questo che volevo vederla. Per scoprire se lei ne sapeva qualcosa di più. Per vedere se Weatherbee si era messo in contatto con lei, nel caso ne sapesse qualcosa, minacciandola perché tenesse il segreto. — Supponiamo che sia andata così — risposi. — Cos'aveva pianificato di fare? Agatha Loodens si alzò. — Ho una scelta fra due metodi persuasivi —
disse. — Il primo era... questo. Aprì la borsetta. La mano entrò delicatamente e ne riemerse con una piccola rivoltella. — Metodo interessante — dissi io. — E qual era l'altra alternativa? Era altrettanto interessante? — Giudichi lei — mormorò. Fece tre passi avanti girando attorno al tavolino, poi si chinò su di me. Non dovevo nemmeno alzare le braccia per attirarla a me. Si fuse in braccio a me mentre lasciava cadere la borsetta sul pavimento. Si fuse come lava ardente. Il calore sgorgava dal suo corpo mentre lei fondeva la mia bocca con la sua. Dovevo giudicare io, vero? Be', la corte è in riunione. Fissai quelle pagliuzze dorate, poi scivolai da quelle fino al pavimento. La borsetta era rimasta dove l'aveva lasciata cadere, e dalla sua gola spalancata si protendevano una ventina di piccole lingue. Alcune erano rosse, altre nere, altre bianche, altre ancora verdi. La respinsi dalle mie ginocchia. — Mi scusi — dissi. — Ha perso qualcosa. — Mi chinai e presi una di quelle lingue. — Una scatola di fiammiferi, direi. — Ne presi una manata, poi un'altra. — Non sapevo che fumasse. — Non fumo. Io... io colleziono fiammiferi. È un hobby. Ne hai sentito parlare, vero? — Ho sentito parlare di un sacco di hobby. Mi strinse il braccio. — Ti prego, è la verità! Non penserai che ho qualcosa a che fare con... Squillò il telefono. Mi irrigidii. Lei balzò subito in piedi. — Non rispondere! — sussurrò, come se il telefono potesse sentirla. La respinsi. Mi fissò mentre attraversavo la stanza, prendevo il ricevitore. Sentì la mia voce, la sentì con le orecchie, con gli occhi, la bocca, con quel corpo intenso e intento. Mi fissò mentre deponevo il microfono, tornavo indietro. E le sue braccia mi cinsero di nuovo. — Chi era? Era Weatherbee? — Era il capitano Dalton. — Qualcosa che... — No. Solo un controllo. Il suo respiro spaventato fu rimpiazzato da un'inalazione più lenta, più languorosa. Le sue dita cominciarono a tracciare uno strano disegno sulle mie spalle. Alzò il viso. Stavo guardando fisso in quegli occhi dorati.
— Il capitano Dalton aveva un messaggio per me — mormorai. — Mi ha detto di fare il bravo ragazzo e di andare diritto a letto. Perché domattina dovrò essere sveglio presto ed essere vivace. Per partecipare all'inchiesta sulla morte del suo amante. Si allontanò di scatto, raccattò la borsetta. — Sono lieto di vedere che segue anche lei il suo consiglio — dissi. — Però c'è qualcos'altro da ricordare. Agatha Loodens aprì la porta così velocemente che non pensavo avesse colto le mie ultime parole. Ma le aveva sentite, perché la porta sbatté alle sue spalle nel momento stesso in cui le stavo pronunciando. — Le ragazzine come lei — dissi — non dovrebbero giocare coi fiammiferi. 11 Fu solo al mattino successivo che mi resi conto di quanto fossi stato sciocco. Io e la mia boccaccia. Avrei potuto tenerla chiusa, lasciarla a quello che le era più appropriato. Se la stava spassando, a quel che ricordavo. E se avessi continuato, forse avrei finito con lo scoprire un sacco di cose. Alcune avrebbero anche potuto essere molto piacevoli, e molte avrebbero potuto essere spiacevoli. Sia come sia, ora non sapevo niente. Poteva essere stata Agatha Loodens ad accendere quegli incendi? Poteva aver appiccato il primo come schermo, per far sì che si pensasse che qualcuno volesse distruggere i culti e i loro leader, e quindi distogliere da sé i sospetti quando avesse ucciso Ricardi? Con Weatherbee fuori gioco, e Ricardi morto, rimaneva lei a controllare la Chiesa dell'Atomo Dorato. Una struttura non più fiorente, ma perfettamente intatta. Una buona organizzazione. Ma avrebbe ucciso il suo amante? Forse. Quel che è certo è che la sera prima non aveva l'aria dolente. Però, senza più Ricardi, chi si sarebbe presentato come leader? Forse aveva pianificato di tenere per sé quel ruolo, era una cosa su cui meditare. Oppure poteva avere un altro candidato, già scelto, pronto di rincalzo. Era una possibilità. Immaginiamolo come un incendiario freddo, assolutamente e spietatamente motivato. Ci pensai mentre mi rasavo e mi preparavo la colazione e mi rendevo
presentabile per l'inchiesta. Pensai a un sacco di cose. C'era anche un'altra angolatura che faceva pensare, in cui era coinvolta la signora Loodens. Quelle scatole di fiammiferi. Immaginiamo che non avesse alcun piano particolare, semplicemente che avvertisse una coercizione. Una coercizione ad appiccare un incendio. Chiunque avesse ucciso Ricardi aveva scelto un metodo ripugnante. Se Agatha Loodens odiava il suo amante, l'aveva dimostrato col modo usato per distruggerlo. Mi chiesi che tipo di passato e di fantasie potesse avere. Cosa fa ardere le femmine incendiarie? Però, sempre secondo la sua storia, lei temeva il suo avvocato, Don Weatherbee. Lo temeva, e lo sospettava di essere la causa della morte del marito. Forse mi aveva detto la verità, o parte di essa. Ripercorsi la mia personale galleria di sospetti. Agatha Loodens, Weatherbee, l'uomo dalla faccia di clown o i suoi soci della Fratellanza Bianca, più quella vecchia figura familiare in tanti racconti e canzoni, vale a dire persona o persone sconosciute. Malgrado che il capitano Dalton e i suoi ragazzi lavorassero senza soste, in un certo senso potevo anticipare che l'inchiesta avrebbe appiccicato la colpa sull'ultimo della mia lista. Ovviamente, avevo ragione. Avevano predisposto uno scenario alquanto insolito. Dalton mi aveva mandato uno dei suoi autisti in uniforme blu, e rimasi molto sorpreso quando mi fece scendere al 1902 di Benson Street. Tenevano l'inchiesta nella casa di Ricardi! Il posto puzzava di fumo, ma al piano terra era intatto. Dopo un po', capii perché eravamo lì. Era tutta opera di un certo Kleber, un investigatore dell'Associazione Nazionale Assicurazioni contro gli Incendi. La casa di Ricardi era coperta da un'assicurazione. Sembrava che avesse trascorso diverso tempo in quel posto il giorno prima. Quando entrai, Dalton mi prese per un braccio e mi trascinò da Kleber. Era un tipo alto, dai capelli sale-e-pepe e con un'aria gradevolmente cocciuta. Mi chiese un resoconto completo di tutta la faccenda, e io gli dissi quel che sapevo. Ovviamente lui l'aveva già sentito da Dalton, ma voleva sentirselo dire da me. E più tardi lo sentì una terza volta, quando fui chiamato a testimoniare. Si era radunata abbastanza gente per sentire la mia testimonianza. Il comandante dei pompieri con molti dei suoi uomini, Dalton, un investigatore, certo Henderson, la donna di servizio a ore di Ricardi, oltre a molti altri
visi familiari. La polizia e la giuria sedevano in un angolo della stanza. Mentre venivo interrogato da Finch, il medico legale, potei vedere i miei amici che stavano seduti di fronte. C'era Schwarm, naturalmente, e vicino a lui il dottor Oakes, che viveva in quel quartiere e che si era precipitato verso di me quando ero uscito con Ricardi e che ne aveva constatata la morte. Alla sinistra di Schwarm c'era un ometto pelato, tozzo, vestito di tweed grigio. Pensai che potesse essere Don Weatherbee, e avevo ragione, me ne resi conto quando vidi come guardava Agatha Loodens. C'era anche lei, ovvio, e faceva saettare gli occhi. Prima su Weatherbee, poi su di me. Proprio una grande famiglia felice, se solo ci fosse stato anche l'ometto con la faccia da clown. Speravo molto che si facesse vedere, soprattutto quando Finch mi chiamò e cominciò a farmi domande. E più lo menzionavo e più depresso mi sentivo, specie quando guardai verso i giurati per vedere come la prendevano. Nessuna reazione apparente su quelle sei facce di pietra. Per la prima volta mi resi conto che la situazione poteva essere seria: quei sei cittadini impassibili avevano in mano il potere di indiziarmi di reato. Dissi a Finch tutto quello che sapevo. Schwarm mi sorrise, ma tutti gli altri visi erano freddi, in entrambi i lati della stanza. Il capitano Dalton e Kleber bisbigliavano di tanto in tanto con un altro tizio ben vestito che riconobbi vagamente come il Procuratore Distrettuale. Nemmeno quello mi piaceva. Quand'ebbi terminato, prestai un'attenzione particolare al resto della procedura. Venne chiamato Oakes, e lui e il medico legale si scambiarono un po' di termini latini per alcuni minuti, arrivando gravemente alla conclusione che Joseph Clutt, alias professor Ricardi, era legalmente deceduto, e che era legalmente morto in un incendio illegalmente appiccato. La donna di servizio a ore portò il suo contributo. Erano almeno tre giorni che non si recava a far le pulizie. Ci furono un po' di domande circa la disposizione di tappeti e lenzuola, ma nulla d'importante. Prima che venissi chiamato, diversi testimoni dell'Atomo Dorato avevano stabilito il fatto che Ricardi aveva lasciato il tempio subito dopo la riunione e che se n'era andato, solo, con la propria auto. Aveva annunciato la propria intenzione di andarsene subito a letto, perché temeva di stare covando un'influenza. A quanto pare, le CAPSULE DI ENERGIA ATOMI-
CA non contenevano antistaminici. Ma nessuno di loro aveva sentito o avvertito nulla di sospetto. Ricardi non aveva ricevuto messaggi, né telefonate, non era né agitato né sconvolto. E così la storia stava gradualmente prendendo forma, con un disegno di una certa coerenza. Ricardi era tornato a casa, io avevo scoperto il corpo, lui era stato dichiarato morto. Adesso toccava agli altri testimoni. Per primo, Weatherbee. Aveva una voce profonda, da tribunale, come un principe del foro, e un meraviglioso modo di usare quella voce per dire praticamente nulla. Vero, era stato socio del professor Ricardi in un'associazione professionale. Ma la loro associazione era terminata diversi mesi prima, e disse anche quando. Nessun dissenso: semplicemente la pressione del lavoro legale gli impediva di assumere ulteriori incombenze nei confronti della corporazione ecclesiale. Negò in modo perentorio di aver visto il professor Ricardi la sera della sua morte né in qualunque altro momento susseguente alla rottura della loro alleanza commerciale. La sera dell'incendio stava giocando a poker in casa di un amico. La testimonianza del capitano Dalton avrebbe confermato la sua asserzione. Il medico legale, violando la procedura, chiese conferma al capitano. L'ottenne. Poi toccò alla signora Loodens. Diede una buona rappresentazione. Questa mattina vestiva in nero, col viso ornato di lacrime. Era tutto così terribile, così veramente terribile. Non sapeva nulla di quella storia. E pensare che non era stata nemmeno alla chiesa per la riunione di quella sera! Era rimasta a casa sua, afflitta da un mal di testa terribile. E, naturalmente, aveva testimoni. La cameriera, e alcuni amici con cui aveva parlato al telefono all'ora dell'incendio. Il capitano Dalton lo sapeva. Sembrava proprio che il capitano, quando il medico legale si voltò verso di lui, lo sapesse. La signora Loodens uscì di scena. Colsi lo sguardo di Weatherbee che la fissava mentre tornava a sedersi, e lui se ne accorse. Forse fu dovuto a un guizzo della luce, ma per un attimo pensai che mi avesse strizzato l'occhio. Adesso toccava a Kleber. Una testimonianza da esperto, questa. Il fuoco era, fuor di dubbio, non accidentale. Chiunque avesse preso e legato Ricardi aveva anche deliberatamente appiccato l'incendio. Chiunque l'aveva colpito alla testa... Sbattei gli occhi. Come mi era sfuggita una cosa del genere? Ma a pensarci bene, era l'unico modo per spiegarsi il fatto che Ricardi fosse legato.
Prima qualcuno l'aveva stordito, ovvio. Seguii attentamente il racconto di Kleber, cercando di farmi strada fra i tecnicismi e concentrandomi sui quesiti che si poneva. Prima di tutto, come aveva fatto l'assassino a entrare in casa? Porte e finestre erano chiuse quando pompieri e polizia erano arrivati, tutte tranne la porta-finestra che io avevo detto di aver infranto per entrare. I giurati avevano fatto il giro della casa. Se la mia testimonianza era valida - e non mi piacque molto come disse quel se - significava una sola cosa. Ricardi aveva fatto entrare il suo assassino, l'aveva fatto entrare di propria volontà. Quel che seguiva erano semplici congetture. Ricardi era forse stato colpito al piano terra e il corpo trascinato fino alla stanza da letto? Oppure era qui che era stato assalito? Non c'erano prove né in un senso né nell'altro. Ma poteva essere importante stabilirlo. Più importante ancora, per quel che si proponeva quell'audizione, era l'indicazione della fretta. Era chiaro che il crimine era stato commesso da uno che aveva premura. Secondo lui, l'idea non era quella di commettere un omicidio. Il colpo alla testa non aveva ucciso Ricardi. Chiunque avesse in mente di uccidere Ricardi avrebbe continuato a colpirlo al capo finché non fosse morto. No, il motivo vero era l'incendio. Questi era stato improvvisato alla svelta e deliberatamente, oltre l'ombra di ogni ragionevole dubbio. La casa era interamente coperta dall'assicurazione, e beneficiaria ne era la corporazione. Kleber lasciava al giudizio della giuria l'assassinio e i possibili sospetti. Quel che lui voleva sottolineare era che si trattava di un chiaro caso di incendio doloso. Adesso capivo a cosa mirava. Incendio doloso significava frode intenzionale, e quindi niente pagamento del premio assicurativo. Molto pulito. E non ero solo io a essermene accorto. Gli occhi di Agatha Loodens erano sbarrati. Era ovvio che era lei la corporazione, e tutti lì lo sapevano. Poi toccò a Schwarm. Una testimonianza da esperto. Ascoltai, chiedendomi se avrebbe detto qualcosa che potesse inchiodare la Loodens. O me. Fece un lavoro splendido. Primo, la definizione medica di piromania. Poi un rapporto sull'esame da lui condotto sulla signora Loodens, Weatherbee, e il sottoscritto. In più, e questa fu una sorpresa, sulla donna delle pulizie. Era sua meditata opinione, quale psichiatra, che nessuno di noi fosse un piromane.
Kleber sogghignò. Chiaro caso di incendio doloso, allora. O almeno così pensava. Continuò a pensarlo mentre Schwarm continuava a parlare, calmo e determinato. Poi passò alle ipotesi che Kleber aveva espresso e le rivoltò come un guanto. Citò i soliti motivi alla base degli incendi dolosi, e poi li demolì uno per uno. Se fosse stato Weatherbee a uccidere Ricardi per vendetta, perché mai avrebbe dovuto abborracciare in quel modo l'incendio? Se voleva nascondere il crimine, doveva solo usare il materiale che aveva a portata di mano. Per esempio, nel seminterrato c'era un bel po' di petrolio, e con quello avrebbe potuto farci una bella fiammata che si sarebbe diffusa velocemente a tutto l'edificio. Inoltre, c'era il suo alibi. Anche per la signora Loodens si poteva dire che mirava all'assicurazione. Ma lei era già ricca di suo, e i ventimila dollari pagabili alla corporazione non avrebbero incrementato di molto i suoi beni. E anche se avesse agito per gelosia o per rabbia, avrebbe certamente appiccato un incendio che sarebbe divampato subito. E poi, anche lei aveva un alibi. Per quanto concerneva Philip Dempster - toccava a me, adesso - su di me non poteva esserci alcun motivo per sospettarmi. Non conoscevo Ricardi. Non ci guadagnavo nulla dalla sua morte. E la miglior prova della mia relazione era data dal fatto che qualcuno aveva dato l'allarme. E poiché nessuno si era fatto avanti per dire di essere stato lui, la logica diceva che la mia affermazione era esatta, e che era stato il mio misterioso cultista a chiamare i pompieri prima di eclissarsi. Certamente io non avrei potuto assalire Ricardi, appiccare un incendio del genere, poi correre fuori per avvertire i pompieri, tornare indietro di corsa e portare giù Ricardi. E poi Schwarm aveva trascorso con me parte della serata, e quindi sapeva che non avevo avuto il tempo di intraprendere una missione del genere. E così, anch'io avevo un alibi. No, quello non era il lavoro di chi appicca un incendio doloso. Quello, secondo lui, era il lavoro di un piromane. Tutto quanto Kleber aveva detto puntava in quella direzione. Gli elementi di "premura" dimostravano che il criminale non aveva agito per premeditazione. L'incendio era stato improvvisato, apparentemente sotto l'incalzare del momento: Nulla era stato pianificato, e con tutta probabilità l'intera serie di avvenimenti era spontanea. Era opinione del dottor Schwarm che l'assassino era anche un piromane, ancora uccel di bosco. Questo era tutto.
Seguirono ovviamente diverse testimonianze e discussioni, ma il medico legale Finch non ci cavò nulla di buono. Il verdetto fu veloce com'era nelle previsioni. Il professor Ricardi aveva incontrato la morte per mano di persona o persone sconosciute. Finale sorridente. Nessun applauso, ma molti di noi erano felici. Non certo il capitano Dalton, ovvio, e nemmeno il signor Kleber. Feci un cenno col capo ai cronisti del Globe che aveva mandato Cronin, e diedi un messaggio per lui a uno di loro in cui gli dicevo che avrebbe avuto la sua storia per quello stesso pomeriggio. Poi mi feci largo tra la gente alla ricerca di Schwarm. Stava parlando con la signora Loodens. Mi stavo avvicinando quando una mano mi si posò sul braccio. — Signor Dempster. Mi voltai. Di fianco a me c'era Weatherbee. — Mi chiedo se potrei scambiare due parole con lei. — Ma... sì, credo proprio di sì. — Allora, andiamocene da qui. Ho la macchina qui vicino. Gli permisi di trascinarmi via. Uscimmo assieme e mi lasciai scivolare nella sua nuova e luccicosa Lincoln. Mi venne di pensare che era una macchina appropriata per un avvocato. Anche Lincoln era stato un avvocato, ma se fosse stato ancora in vita dubito che avrebbe avuto la pratica occorrente a fargli acquistare un'auto come quella. Era solenne e scivolosa. Come Weatherbee. — Dove andiamo? — chiesi. — Pensavo che potevamo pranzare assieme. — Mi dispiace. Devo scrivere un articolo. Non potrebbe portarmi a casa, così parliamo lungo il tragitto? — Se preferisce così. — Si inserì nel traffico. — Così segue questo caso per il Globe, vero? Che ne pensa di questa faccenda? — Penso che Schwarm abbia ragione. È il lavoro di un incendiario. — Lo pensa anche la signora Loodens? — Come vuole che faccia a saperlo? — Non gliel'ha detto? Ieri sera era a casa sua. Non risposi. Sorrise sotto i baffi. — Le secca se le chiedo cosa voleva? — Non mi secca affatto. Voleva quello che vuole lei, informazioni. — Cos'ha detto di me? — Mi ha detto solo che avevate rotto i rapporti.
Ridacchiò. — L'avrei giurato. — L'auto accelerò e con essa i battiti del mio cuore. Mi sovvenne tardivamente che Weatherbee era molto più sospetto di tutti gli altri. E io mi ero consegnato a lui come un pacco di Natale nelle avide mani di una famiglia di bisognosi. Una volta che fossimo stati in un posto isolato mi sarei trovato nei titoli del giornale di domani. Come si fa a saltar fuori da un'auto in corsa? Aprire la porta e appallottolarsi perché così si rotola come una palla quando si tocca terra? Aprire il finestrino e strillare per chiamare un poliziotto? Oppure si poteva starsene seduto, come facevo io, e annegare nel sudore. Meglio annegare che bruciare... — Pensa che abbia ucciso io Ricardi? Non risposi. — Ma non sono stato io, amico. Era uno che se le cercava certe cose, solo che l'omicidio non è lavoro per me. — E qual è il suo lavoro, signor Weatherbee? È quello di spiare me e la signora Loodens? Adesso non rise. — Un'osservazione impietosa la sua, signor Dempster. Uno si potrebbe offendere per un'osservazione del genere. — Uno si può anche offendere a essere controinterrogato. Sospirò. — Un attimo fa lei ha fatto un apprezzamento indelicato su quello che potrebbe essere il mio lavoro. Ora glielo dico, e veda lei se vuole tenerselo per sé oppure no. Io lavoro nell'affare dei culti, signor Dempster. — Ma non avevate rotto lei e Ricardi? — È quello che abbiamo fatto. — E allora? — Ricardi non era l'unico a occuparsi di affari del genere qui in città. C'è il gruppo della Sapienza, e la banda del Nuovo Regno, e la Casa della Verità, e la Fratellanza Bianca. Non lo sa nessuno, ma capita che io sia l'avvocato di Dykes, della Casa della Verità. E il mese scorso, dopo la rottura con Ricardi, ero andato a trovare Amos Peabody. Era abbastanza sveglio l'amico. Gli dissi che avevo tirato fuori io Ricardi dalla fogna prendendolo per la collottola e che avevo avuto io l'idea dell'Atomo Dorato. Gli dissi che avrei potuto fare le stesse cose per la Fratellanza Bianca. Occorreva uscire dagli affaretti da pochi soldi alla volta e rendere più efficienti le sue azioni, passare in serie A. Per farla breve, l'ho convinto. Adesso posseggo il cinquanta per cento del Tempio della Fratellanza Bianca. Poi qualcuno ha ucciso Peabody e bruciato tutto. Adesso capisce perché sono
interessato? Annuii. — Comincio a capire. — Forse lei può capirci qualcosa, Dempster. Sono stati appiccati due incendi. E due leader di altrettanti culti sono morti. Cosa le suggerisce questo? — Che qualcuno vuole eliminare i capi dei vari culti. — Un'osservazione molto brillante. Forse riesce anche a capire il motivo. — Rivalità? — suggerii. Ci fermammo davanti a casa mia. — Vada dal primo della classe. — I suoi occhi si strinsero. — Meglio ancora, vada alla riunione di questa sera e veda Ogundu. — Ogundu? — Non lo conosce, vero? Anche lui è un leader religioso. Guida il Tempio della Fiamma Vivente. Non le suggerisce nulla questo nome? — Incendiario? — Incendiari, al plurale. Ognuno di quelli potrebbe aggirarsi dalle parti di quell'organizzazione tanto per eccitarsi. — Perché non esprime il suo giudizio al capitano Dalton? — Non sia ottuso. Se lo dico a Dalton, mi chiede qual è il mio interesse. Se glielo dico, lo sapranno i giornali. E il mio nome sarà sulla bocca di tutti. Niente da fare. — Ma anch'io sto lavorando per un giornale. — Lo so. Ed è anche uno di quelli in gamba. Lei potrà riuscire dove ha fallito la polizia. — Una buona mossa — dissi. — Darò un'occhiata. Ma se ne cavo una storia, non vedo come potrò tenere fuori il suo nome. — Be', ha un sacco di tempo per trovare il modo — disse Weatherbee. — Non voglio risultare legato a nessun affare che riguardi i culti. Tutto quello che voglio è un articolo su Ogundu e il suo tempio. — Legga i giornali — gli risposi. — Se ci vado stasera, ne caverò una storia. Probabilmente la leggerà lunedì. — Forse. Se glielo permetterò. — Che vuol dire? — Dempster, lei non lo sta facendo per il giornale. Lo sta facendo per me. Desidero che lei mi faccia un rapporto domani mattina, di persona. Se ci sarà qualcosa che potrà scrivere, glielo dirò. In caso contrario, dovrà tenere il becco chiuso.
— Supponiamo che non lo faccia. Non vorrà minacciarmi, vero? L'ha detto lei stesso che l'omicidio non è affar suo. Don Weatherbee sorrise. — Nessuna minaccia. Lei può fare tutto quello che le pare. Può anche andare adesso da Dalton e dirgli quello che le ho detto. Solo, io non glielo consiglio. Scesi dall'auto. — Posso chiederle perché no? — Sono contento che me l'abbia chiesto. — Riaccese il motore e chiuse la portiera. — Le ho detto che ero legato alla Fratellanza Bianca, vero? Be', il suo uomo misterioso mi suona come uno dei nostri ragazzi. Non lo conosco, anche se vorrei, perché potrebbe avere lui le risposte, ma ne conosco un paio che sono simili a lui. Cittadini probi, fedeli, timorati di Dio, ma un pochino fanatici. Pronti a farsi influenzare, se capisce quel che voglio dire. Credo che molti di loro girino col coltello, come quello che ha conosciuto lei. E se faccio arrivare fino a loro l'idea che lei è un nemico della Fratellanza, e che forse lei ha avuto qualcosa a che fare con l'incendio e la morte di Amos Peabody... Ridacchiò. — Nessuna minaccia, mi capisca. Solo qualcosa su cui meditare. Adesso vada, Dempster, e scriva una buona storia. La vedrò domani per quell'altra. Entrai nell'edificio, aprii la porta di casa. Mi ci volle un po', perché mi tremavano le mani e non riuscivo a tener ferma la chiave. 12 Non è facile raccontare queste cose, di come mi tremavano le mani, di quanto fossi spaventato. Non dopo che uno ha avuto una regolare dieta di giornali e film e telefilm in cui tutti agiscono come Investigatori Privati sbattendosene del pericolo. Me ne stavo seduto in casa, cercando di scrivere l'articolo sull'inchiesta per Cronin, e cominciai a pensare all'organizzazione. Un Investigatore Privato non avrebbe sbagliato un passo. Se un Investigatore Privato avesse strappato il coltello al mio amico con la faccia di clown, come sovrappiù gli avrebbe anche tirato una botta sulla testa, e probabilmente in tutto quel casino avrebbe spezzato anche un paio di polsi. Se un Investigatore Privato avesse avuto Agatha Loodens dove l'avevo avuta io l'altra sera, le sarebbe stato appiccicato finché non avesse avuto tutto quello che voleva, e con questo non voglio riferirmi alle sole informazioni.
Se un Investigatore Privato fosse stato minacciato da Weatherbee, avrebbe saputo cosa fare. Gli Investigatori Privati sanno sempre cosa fare. Possono essere fiaccati, pestati, sparati e torturati, ma non per questo demordono. Continuano a tirare diritto, notte e dì, senza dormire e con solo un po' di rye per tenersi su. Probabilmente intercettano qualche sorgente di energia cosmica, forse usano la CREMA VITALE. Qualunque cosa sia, sono sempre pronti sia per battersi con un fanatico sia per fare un match con una bionda. Per dirla tutta, loro conoscono già tutte le risposte. Devono essere in grado di risolvere un qualsiasi crimine in ventisei minuti netti per lasciare tutto il resto del tempo alla pubblicità. Un bell'affare. L'unico problema che avevo è che il mio nome è un semplice Phil Dempster. Non sono un Investigatore Privato, ma solo un cittadino privato. Non sapevo chi aveva appiccato quegli incendi, né chi avesse ucciso Peabody o Ricardi. Ed ero spaventato. Battei un po' di righe dell'articolo, poi telefonai a Schwarm. Ero proprio pronto per una lunga, piacevole chiacchierata. — Mi hai chiesto se avevo dei problemi personali — avrei detto. — Be', se hai un po' di tempo, forse potrei rispondere alla tua domanda. Questo è quello che gli avrei detto, quello che desideravo tanto dirgli. Ma non ricevetti risposta. Cercai il numero di casa sua, chiamai. Ne ricavai solo uno squillo nelle orecchie. Anche questo era meglio di niente, meglio del silenzio. Tenni in mano il ricevitore per un po', perché non volevo perdere quello squillo. Il silenzio mi stava logorando i nervi. Forse dovevo andare in un posto rumoroso. In un posto dove ci fosse gente intorno a me. Un posto in cui la signora Loodens e il cultista dalla faccia di clown e Don Weatherbee non potessero rintracciarmi. Un posto di cui gli assassini non sapessero nulla. Ci pensai per un po'. Poi pensai di chiamare il capitano Dalton. Una cosa sensata. Potevo dirgli che Weatherbee mi aveva minacciato. Mi avrebbe dato la protezione della polizia. E allora, nessuno avrebbe potuto toccarmi. Ma per quanto sarebbe durata? Per quanto la polizia poteva fornirmi gratis un guardaspalle, una settimana, dieci giorni? Immaginiamo che trovino alla svelta l'incendiario. Questo avrebbe posto fine alla mia protezione. E Weatherbee poteva aspettare. Era lui il pezzo grosso in città, aveva un ruolo, una reputazione. Avrebbe negato le minacce, magari mi avrebbe pure denunciato. E quando alla fine mi sarebbe successo qualcosa, chi avrebbe potuto provare niente? E qualcosa mi sarebbe successo, presto o tardi. Ne ero convinto. Wea-
therbee mi aveva avvertito, nel caso in cui mi fossi rivolto alla polizia. Questo aveva senso. E così non c'era nulla da fare se non continuare a scrivere e buttar giù le mie due cartelle sull'inchiesta. Feci quattro false partenze prima di imboccare la strada giusta, ed erano già le tre passate quando terminai. Nessuno m'interruppe. Nessuno venne a ficcarmi un coltello nelle costole o una pistola alla nuca. Mi misi in tasca l'articolo, chiusi la porta e guidai fino in centro. Mi fermai solo il tempo per un panino veloce, poi entrai nell'ufficio di Cronin. — Eccoti l'articolo sull'inchiesta. — Ottimo. — Lo lesse. Presi il giornale e lessi il resoconto del Globe. Tutta roba d'ordinaria amministrazione. Però notai anche che Dalton aveva fatto circolare una dichiarazione subito dopo l'inchiesta, e così anche il Procuratore Distrettuale. L'inchiesta era definita una formalità per assolvere i sospettati. La persona, o le persone, responsabili dei crimini sarebbero state arrestate ben presto dal Dipartimento. E così via. — Va molto bene — disse Cronin sventolando le mie paginette. — Speravo che saresti arrivato un po' prima. Il tuo amico Schwarm è giù al quartier generale a controllare il bottino della giornata. I ragazzi sono stati in giro coi loro retini a prendere farfalle. Ci sono un sacco di controlli incrociati da fare. — Magari stasera ci darò un'occhiata. — Faresti meglio. Vogliamo un'altra storia per lunedì, anche se loro cercheranno di beccare prima il loro uomo. — Pensi che ce la faranno? Inarcò le sopracciglia. — Chi può dirlo? Il novanta per cento di questi casi si risolvono perché qualcuno fa una soffiata alla polizia. Se la gente comune sapesse quante migliaia di delitti irrisolti sono stati commessi e quanti assassini girano liberi, ne rimarrebbe sorpresa. E sconvolta, anche. — Ne sono un po' spaventato anch'io. Mi guardò stringendo le palpebre. — Qualcuno ha cercato di farti pressione? — mi chiese. — No — dissi io lentamente. Ma non resistetti a buttare l'esca. — Solo che ci sono certe angolazioni che non capisco. La signora Loodens ha voluto parlarmi. E anche Don Weatherbee. — Ti hanno dato qualche informazione? Scrollai la testa. — Volevano chiedere, non dire. — Be', è un fatto naturale. Sono tutti un po' ansiosi in questo caso. — Si
alzò. — Phil, spero che accada presto qualcosa per chiarire quest'affare. Altrimenti, potrebbe peggiorare. — Che vorresti dire? — Ricordi lo scorso anno, quando hanno preso quel tizio che stava tagliando a pezzi la sua ragazza? — Miller, vero? — Giusto. Bene, nelle due settimane successive ci furono altri sei casi come quello. La gente giocava a fare il maniaco sessuale. Sono cose che si gonfiano come onde. Tutti i pervertiti e i pazzerelli della città leggono di queste cose e si fanno venire delle idee. — Pensi che ci saranno altri incendi, Ed? Annuì. — Lo so per certo. Comunque, ci sarebbero stati egualmente. — Parli sul serio? — Pubblichiamo la storia domani. Nei due giorni successivi alla morte di Ricardi i pompieri hanno dovuto rispondere a ventisei chiamate. La media normale è di otto. — Qualcosa di grosso? — No. Fortunatamente no. Ma si somigliano tutti, questo è il punto. Lavori di maniaci. Lavori di dilettanti. Carrozzine incendiate... vuote, grazie a Dio. Incendi nei vicoli, nei cortili, in posti in cui non ci dovrebbero essere fuochi. La maggior parte sono stati appiccati da ragazzi. — È quello che afferma Schwarm — gli dissi. — Molti incendiari sono adolescenti. — Lascia perdere la psicologia — borbottò Cronin. — Lasciala per gli articoli. Però sono preoccupato. C'è un vero incendiario ancora libero. Oltre al tuo piccolo amico col grosso coltello. Sorrisi mio malgrado. — Cosa c'è di così divertente? — mi chiese. — Niente. Sono solo contento di scoprire che non sono l'unico a essere spaventato da tutto ciò. Però non avrei mai creduto che la pensassi così. Cronin mi gratificò di un lungo sguardo. — Lo so — disse infine. — Lo sanno tutti quelli che lavorano nei giornali. Ci passano per le mani un sacco di storie, e non possiamo impicciarci di tutte. E cerchiamo di dare in maniera sfumata quelle di cui ci occupiamo. Ma finiamo con l'avere un punto di vista diverso da quello degli altri. Prima parlavo di omicidi irrisolti. Ma quella è solo una minima parte. Questa città, come tutte le città, tutte le comunità, è piena di segreti. I rapporti parlano di due milioni di aborti all'anno, ma chi sa quanti sono quelli tenuti segreti? Trentamila per-
sone scomparse, un centinaio al giorno, anno più anno meno. Scomparse, capisci, e nessuno ne ha più sentito parlare. È già abbastanza brutto così. "Il tuo amico col coltello non è quello che si dice una novità per noi. Ce ne sono almeno altri cinque milioni come lui, e almeno altrettanti che girano armati di rivoltella. E non sono professionisti del crimine, solo degli stronzi. Gente che ha bisogno di essere curata, di essere tolta dalla circolazione." S'avviò verso la finestra e si appoggiò al vetro sudicio. Un uomo grande e grosso che guardava pensierosamente la città che si stendeva sotto di lui. Se lavori per un giornale tanto quanto ha fatto Cronin, finisci col sentirti sposato con la tua città. Ne tracci il grafico dei progressi e di tanto in tanto ne prendi la temperatura e quando lei si ammala, anche tu stai male. E Cronin sapeva che adesso aveva in incubazione qualcosa di virulento e ne era preoccupato. Era un lato di quell'uomo che avevo sempre sospettato in lui e che lui mostrava raramente. — Se tu solo sapessi cosa sta succedendo laggiù — disse lentamente. — Se tu solo sapessi quanti cittadini hanno turbe psichiche. Il dottor Schwarm potrebbe magari avvicinarsi... non è lui quello che ha detto che, in un modo o nell'altro, una persona su tre ha bisogno di trattamento psichiatrico nel corso della sua esistenza? E quanti sono quelli attualmente in cura? Dannatamente pochi. E così abbiamo una città piena di fuori di testa. Gente che dorme con la rivoltella sotto il cuscino perché ha paura che qualcuno ce l'abbia con loro. Gente che si confeziona bombe in casa, che avvelena i cani, che tiene i bambini incatenati o le mogli chiuse su nell'attico. Violentatori. Squartatori. Gente che segue le donne con fruste e rasoi. Omosessuali. Le storie che ho sentito, le cose che ho visto negli ultimi dieci anni... a nessuno piace ripensarci, a nessuno piace crederci, ma sono tutte vere. La gente è immorale di natura. — La gente ha paura — intervenni io. — È questa la risposta. La paura la rende crudele. A volte ha paura di cose che non sono nemmeno vere. A volte ripone la fiducia in cose che non sono nemmeno reali. È per questo che segue tutti quei culti. — I culti! — disse Cronin, sputando quella parola. — Mi piacerebbe distruggerli tutti. Vorrei tanto poter calpestare ognuna di quelle mostruosità organizzate in ogni parte del mondo, tutte quelle attività illegali che prosperano incoraggiando il disadattamento. Da tutto quello che è accaduto ne è venuta fuori una sola cosa buona: la Fratellanza Bianca e l'Atomo Dorato adesso sono fuori causa. Magari è questo quello che ha in mente quell'in-
cendiario. Magari si è messo in testa di mandare in fumo tutti i centri cittadini di culto. Lo fissai. Stava tremando per la rabbia. — Mi sembri un pochino intollerante anche tu — gli dissi con calma. — Pensi davvero quello che dici? — Certo che sì. Io lo so cosa fanno. Per due anni mia moglie è stata impegolata con uno di quei maledetti centri di cura, e non c'è mai stato verso di farla ragionare. Finché non le è venuta una peritonite e quasi c'è morta. E comunque ha perso nostro figlio. E ha dilapidato una fortuna per quei ciarlatani. Odio quella feccia. — Bene. — Mi alzai. — Meglio che mi dia da fare. Cronin sospirò e si deterse stancamente la fronte madida. — Mi dispiace di essermi lasciato andare così — disse. — Non badarci troppo. È stata una settimana dura. — Certo. — Cercherai di scoprire qualcosa su quanto ha detto Schwarm su quei sospetti? — Lunedì avrò una storia per te — gli promisi. — Riguardati. Uscii. Uscii e andai a mangiare e ripensai a quanto" avevo sentito. Secondo Cronin, tutti sono fuori di testa, o potenzialmente su quella strada. E Cronin odiava i culti, voleva veder bruciare i loro templi. E mi aveva affidato l'incarico di smascherarli. Ma lui, dove si trovava durante gli incendi? Quali potenzialità aveva lui? Ma tutto questo era folle. Non poteva essere lui l'incendiario. Era solo una persona normale, ma apparteneva a quel terzo che aveva bisogno di trattamento psichiatrico o faceva parte degli altri due terzi? Mangiai al Dinner Gong, e il tost era bruciato. Bruciato. Entro un'ora dovevo trovarmi al Tempio della Fiamma Vivente. Non avevo voglia di andarci. Non avevo detto a Cronin che volevo andarci. Weatherbee non voleva che lo sapesse nessuno. Pensai al Tempio della Fiamma Vivente. Weatherbee mi aveva detto che era un luogo di ritrovo di incendiari, e la cosa mi sembrava logica. Naturale. Perché la polizia non ci aveva ancora fatto una perquisizione? Ma forse il mio prezioso taccuino mi avrebbe dato qualche informazione suppletiva. Avrei dovuto vedere un tipo che si chiamava Ogundu. Un nome dal suono straniero. Polacco, o russo, forse. Erano le sette. Avevo giusto il tempo di fare una corsa fino a casa, prendere il taccuino e mettermi in cammino. Su un cammino non poi così rose
e fiori. Guidai velocemente. Parcheggiai a due portoni di distanza dal mio e mi avviai verso casa. Un clacson suonò per richiamare la mia attenzione. — Signor Dempster! Mentre mi voltavo, riconobbi la voce. Riconobbi anche l'auto. Era lì di nuovo ad aspettarmi. — Salve — dissi. — Sempre incazzata? Lei scrollò la testa. Oggi i capelli biondi erano raccolti in una crocchia, e aveva dei pendenti come orecchini. — Mi invita a salire? — chiese. — Mi rincresce, ma ho un appuntamento. — Vorrei parlarle. — Mi aspetti qui. Devo andare a prendere una cosa. Scendo subito. Non mi ci vollero più di due minuti. Salii, presi il taccuino, scesi, mi avviai verso la sua auto. Lei mi aprì la portiera. Mi sedetti accanto a lei. Agatha Loodens sembrava essersi preparata per una grande serata. Non dissi nulla ma la guardai a lungo, e c'erano un sacco di cose da vedere, davvero. E non sto parlando né dei gioielli né dell'elaborata acconciatura, ma solo della sua ghiotta quanto pudica scollatura. Sembrava che lei fosse stata versata nel vestito da qualcuno che non aveva la mano ben salda. Neanche le mie mani erano molto salde, comunque. Le stavo seduto accanto, con lo sguardo fisso nella scollatura. — Avevo sperato di poter parlare con lei dopo l'inchiesta — mi stava dicendo. — Ma lei se n'è andato così alla svelta. Col signor Weatherbee. — Esatto. — Cosa voleva da lei? — Nulla. Abbiamo parlato un po' del caso. — Phil, le ripeto quello che le ho detto l'altra sera. Stia alla larga da quell'uomo. È pericoloso. — Fece una pausa. — Molto. — Sono molto accorto in questi giorni. — Feci una pausa anch'io. — Molto. — Poi smisi di guardare quell'ammirevole infossatura giusto il tempo di fissarla rapidamente negli occhi. — È per sapere questo che è venuta da me questa sera? — La prego. Non sto ficcanasando. Quando a mezzogiorno l'ho vista andarsene via con Don, mi sono sentita contrariata. — Perché? Temeva che mi dicesse qualcosa che non dovrei sapere? Strinse le labbra. — Lei per caso crede... — Non l'ho detto — dissi sorridendo. — Mi spiace aver parlato così. C'è
troppa gente che mi sta girando attorno in questi giorni. E tutti mi mettono in guardia, e nessuno fa un accidente di niente per me. — Ne è sicuro? Mi era molto vicina, e le sue labbra non erano più irrigidite. Erano rilasciate, e piene, e potevo vedere la punta della sua lingua, che ricordava un piccolo zerbino rosa con la scritta Benvenuto scritta sopra. — Non sono sicuro di niente — dissi. — Deve proprio andare a quell'appuntamento? — mormorò. — Sì. — Con Weatherbee? — No. Non devo vederlo questa sera. — Bene. Proprio oggi ho scoperto diverse cosette su di lui. Cose che lei dovrebbe essere interessato a conoscere. — Per esempio? — Si è messo con un altro culto. Con quella banda della Fratellanza Bianca. — Lo sapevo già. Me l'ha detto lui. — Ma c'è molto di più, Phil. Molto di più. Cose che non dirà mai. Ne sono sicura. Se solo mi ascoltasse, si lasciasse aiutare da me... — Lo faccia. — Mi sedetti meglio e mi spostai un poco. — Avrò finito con le mie faccenduole per le undici. Che ne dice di vederci per allora? Avremo tutto il tempo che vogliamo. Annuì. Poi si chinò verso di me e la sua bocca s'incontrò con la mia. Fu un incontro cordiale, e mi seccò doverlo interrompere, ma dovevo. — Ci vediamo alle undici. — Va bene. E... abbi cura di te. — Proprio a me lo dici. — Salutai sventolando la mano, e lei se ne andò. Attesi finché l'auto scomparve dietro la curva. Poi mi ricomposi e aprii il taccuino. C'era tutto quello che avevo raccolto sulla Fratellanza, sull'Atomo Dorato, sul Centro della Saggezza, sulla Casa della Verità, sul Tabernacolo del Nuovo Regno e poi... basta. Sfogliai di nuovo le pagine. Trovai l'intestazione sul Tempio della Fiamma Vivente con l'indirizzo e il nome Ogundu scritto sotto. Ma non c'era altro, nessuna nota, niente di niente. Apparentemente la gente di Cronin non aveva trovato niente. O forse sì? E qualcuno li aveva convinti a disfarsene? Mi strinsi nelle spalle. Le cose mi stavano sfuggendo dalle mani. Stavo
lasciando galoppare un po' troppo la fantasia. Mi ero immaginato Cronin come un incendiario, vedevo nemici nascosti dappertutto. Un uomo con un coltello e una torcia. Dovevo smetterla. E dovevo andare. Accesi il motore e mi avviai verso il 101 della South Sherburne Street dove sorge il Tempio della Fiamma Vivente. 13 Fu la mia sera delle sorprese. Non l'ambiente, quello no. Era il ghetto nero del South Side. Era una sera calda e afosa, e gli odori che venivano dai miseri e lerci ristoranti aderivano al marciapiede. C'era una mistura ricca per nasi delicati: prosciutto grasso e uova, fagioli con l'occhio, cime di rapa. I negozi di mobili non-sifa-credito-ma-pagherai-per-il-resto-della-tua-vita pieni zeppi di cose rivestite di colori rosso vivo, arancione e nero, c'erano poi gli inevitabili concessionari d'auto che vendevano lunghissime Lincoln nere, negozietti di terz'ordine con la solita combinazione di bar e vendita di confezioni di liquori a basso costo, una ex sala da ballo trasformata in sala da pattinaggio, e così via. Le placide facce nere che riempivano le strade erano sovrastate dalla sopraelevata che rombava sulle teste. Dal lago spirava un venticello freddo e, senza alcuna ragione al mondo, mi trovai a pensare che quella poteva essere una buona notte per morire. Solo e tenuto d'occhio, con la vita che mi sfuggiva via tranquillamente. Riuscivo persino a vedermi con la carne che cominciava a diventare sempre più rossa e carbonizzata, con gli occhi che... Cancellai tutto di colpo e parcheggiai proprio di fronte al piccolo edificio a due piani, intonacato di bianco, e rimasi in auto a studiarne l'aspetto. Somigliava alla maggior parte delle chiese che si trovano nei quartieri neri: una volta un negozio, convertito poi in una missione o in un tabernacolo, con le vetrine ora coperte da drappi pesanti. Sulla porta principale troneggiava un'insegna illuminata con la scritta: TEMPIO DELLA FIAMMA VIVENTE - SIETE I BENVENUTI. La sorpresa veniva dall'ingresso. Perché mentre stavo guardando ne vidi uscire una figura familiare. Riconobbi in quel profilo da pipa-in-bocca il capitano Dalton. Era seguito da due dei suoi uomini in borghese. Arrivarono fino a un'auto parcheggiata a poca distanza, salirono, se ne andarono. Allora erano andati a dare un'occhiata, dopo tutto! Forse la mia visita
non era più necessaria. Ma il dovere mi chiamava. Il dovere... e Don Weatherbee. Rimasi in macchina per un bel po'. Non erano ancora le otto. Avevo il tempo di guardare i primi arrivi. Forse ce n'era qualcuno che valeva la pena di vedere. Questo era quello che pensavo. Di fatto, sapevo chi stavo aspettando. Non che volessi vederlo, ma forse si sarebbe fatto vivo. La mia piccola apparizione con la faccia da clown. Stavano già arrivando per il raduno, e non avevo ancora visto l'ometto che stavo cercando. La maggior parte di quelle facce non erano nemmeno bianche. Un'altra sorpresa. In cosa mi stavo andando a infilare, in un Raduno Revivalista dei vecchi tempi? Scesi dall'auto e mi avviai. La gente continuava a entrare, e vidi che non tutti però erano neri. C'era un ometto con un braccio rattrappito che si tolse il cappello per salutarmi quando gli passai accanto; una ragazza magra, quasi rachitica, con capelli di un giallo pallido; un vecchio ubriacone con un occhio annullato da una macchia bianco-lattea; diversi ragazzini con la tipica uniforme composta da giacca di pelle e jeans; un avvinazzato con la barba lunga; una donna giovane, ben vestita e con un trucco pesante; tre beat, due coi capelli quasi a zero, e il terzo con una protuberanza tale da renderlo idrocefalo, per cui non aveva bisogno di tonsure speciali per richiamare l'attenzione. Uno strano assortimento. Ma doveva esserlo. Schwarm mi aveva parlato degli incendiari: adolescenti, persone fisicamente deformi, anormali e subnormali. Se poi questi erano davvero degli incendiari. Su questo, avevo solo la parola di Weatherbee. Le otto e mezza. Ora di entrare. Salii i gradini e aprii la porta. L'ingresso era piccolo. Impossibile compararlo con la grandiosità della Chiesa dell'Atomo Dorato. Nessuno a offrire garanzie di eterna giovinezza scritte o imbottigliate. Era una nicchia che immetteva direttamente nel Tempio. Nel Tempio c'erano numerose sedie pieghevoli sistemate in file davanti a una piccola piattaforma. Alle pareti erano appesi pesanti sai monacali: l'effetto generale era quello di una misera sala da aste. Solo la parete di fondo indicava lo scopo e l'attività di quell'organizzazione. C'erano diversi drappi neri e pesanti che scendevano dal soffitto fino al pavimento e che coprivano interamente la parete con quello che c'era dietro. Ricamato al centro, con fili color fiamma, c'era il vivido profilo di
un uccello fiammeggiante. Era un simbolo semplice ma sottilmente irresistibile, e riconobbi quello che rappresentava. Era la Fenice, l'uccello che risorge dalle proprie ceneri. L'uccello vibrò e si divise in due. I drappi erano stati aperti da un uomo che stava salendo sulla piattaforma. Era Ogundu, e rappresentava un'altra sorpresa. Dovevo aspettarmelo, però. Non poteva essere polacco o russo. Era invece un nero, magro e magnifico, nero come la notte e vestito con un mantello rosso come il fuoco. Si fermò in posa teatrale, con le mani levate, e la folla si alzò. Notai che si erano fatti vivi anche diversi diaconi. Uno era fermo nell'angolo opposto, pronto a spegnere la luce, e mi chiesi se per caso il Tempio non tenesse i suoi incontri nell'oscurità più assoluta. Ce n'erano anche altri due in piedi ai due lati della piattaforma. Stavano portando due candele che accostarono a due oggetti a forma di bacile posati su tripodi. Capii il perché. Quelli erano due bracieri. Ogundu abbassò le mani. — Accendete la Fiamma Vivente! — ordinò. Tutt'attorno a me si levò la risposta: — Accendete la Fiamma Vivente! — Era un canto, un rituale. Le candele s'inclinarono. La fiamma scoppiettò e il fuoco divampò, scoppiò fuori dal braciere e la sua luce invase il viso di Ogundu, lanciando ombre tremolanti sulla figura della Fenice. Ne ero affascinato. Avevo ammirato l'intonazione del professor Ricardi, la sua pulita rappresentazione in quell'auditorio fantastico con l'organo che dava il suo sostegno musicale. Aveva usato tutti i fronzoli e i trucchetti per eccitare il pubblico. Ma su di me non avevano fatto presa. Anche dopo aver subito l'intero trattamento ero rimasto un osservatore staccato, obiettivo. Ma qui era diverso. Sentii qualcosa che mi si arrampicava su lungo la gola. Sapevo quello che stava per succedere. Sapevo di essere seduto in uno squallido piccolo ex negozio in uno squallido piccolo quartiere, circondato da una folla di squallidi idioti. Sapevo anche che Ogundu era tanto falso quanto Ricardi: il suo color ebano era fasullo quanto l'oro dell'altro. Ma, malgrado tutto ciò, mi stava facendo qualcosa. Questo nero di poco conto con un costume teatrale preso in affitto aveva preso alcuni metri di velluto, un paio di candele, alcuni bracieri di seconda mano, aveva spento le luci, e aveva creato il Mistero.
Cos'aveva detto Schwarm? Qualcosa che sapevo già, qualcosa che tutti sanno. Il fuoco è magìa. Ogundu aveva portato il fuoco, ed era diventato Prometeo e Pitagora e Zoroastro e Mazda e Ahriman, tutti gli dèi e i diavoli e gli incantatori che si sono mai incarnati. La folla si agitava irrequieta mentre guardava le fiamme. Adesso lo sapevo perché erano qui. Il fuoco era l'esca. Il fuoco brucia, distrugge, crea, purifica: il fuoco è morte vivente e vita-che-muore. Ogundu cominciò a parlare. Aveva una profonda voce baritonale, la voce dell'evangelista, del profeta, di chi dice la verità. Voci così ci sono sempre state, come ci sono sempre stati uomini che accendono un altare fiammeggiante davanti al quale si radunano gli uomini per guardare, ascoltare, imparare. Imparare il segreto del Fuoco che è l'Essere, che è la Magìa. Questi sono i miei pensieri, ma sono anche le parole di Ogundu. Secondo il significato usuale del termine, non stava predicando. Non stava esortando né spiegando, non stava promettendo benefici o benedizioni, non vendeva la salvezza né offriva unguenti. Stava proclamando il vero Dio, la Fiamma Vivente. La Fiamma che gli uomini devono adorare se vogliono sfuggire alla distruzione. Il Fuoco è Vita. Il Fuoco è Morte. Ed è anche Inferno. Lo impareranno bene tutti quelli che non l'adoreranno. Tutti coloro che non si daranno alla Fiamma le verranno consegnati Dopo la Vita. Perché Mondo e Universo sono nati dalla Fiamma, e tutti ne facciamo parte. Questo è il grande segreto: non opporsi alla Verità. Cantava quelle parole antiche, mistiche. Le farfugliava. È sempre come se le farfugliassi quando te ne sovvieni, quando cerchi di metterle per iscritto. Ma quando le senti nell'oscurità davanti al fuoco che fiammeggia, un fuoco vero, che brucia davvero, allora qualcosa succede. Lo sapevo bene. Weatherbee aveva ragione, Schwarm aveva ragione, Cronin aveva ragione. Il mondo ne è pieno: è pieno di corpi contorti e menti contorte che si nutrono di fuoco. Potevo avvertirli accanto a me nel buio, ne coglievo lampi nei visi che brillavano alla luce della fiamma. È così che brillano le facce all'inferno. Tutt'attorno a me occhi rossi, denti rossi, mani rosse. E la voce che cantava, ansante, la passione che saliva nella stanza in uno con la fiamma, l'attesa spasmodica nel desiderio per la fiamma, uno struggimento bruciante, che si spargeva e cresceva... Dal nulla un pensiero strisciò nella mia mente, e mi ricordava una voce che gridava Salvami, salvami. La riconobbi e la risospinsi indietro, entro il sogno al quale apparteneva.
E la forzai di nuovo, seppellendola, e ricacciai tutto quello che nasceva dalle fiamme. Questo era solo un altro miserabile piccolo imbroglio per spillare quattrini. Tra un minuto avrebbero acceso le luci e sarebbero passati col vassoio per le offerte. Metti un po' di gente assieme, spegni la luce, accendi un fuoco e lascia che qualcuno parli usando parole da stregone con tono profondo, e otterrai una reazione. Non importa quanto sofisticato sia il gruppo, la reazione c'è sempre. Già, ma perché? È forse perché c'è davvero qualcosa che fa sì che buio e fuoco siano magici? È qualcosa di atavico che risale agli abitatori delle caverne che si radunavano accanto al fuoco che allontana buio e belve? Forse tutti noi abbiamo qualche retaggio nascosto dal tempo in cui ogni tempio custodiva un altare degli dèi e in cui i nemici venivano distrutti in un santo olocausto? Era una reazione istintiva? Qualsiasi cosa fosse, io la sentivo. Capivo perché gli altri venivano qui, sapevo perché il fuoco aveva un suo fascino. Avevo la gola secca, bruciante. Tenevo le braccia rigide tese lungo i fianchi, il mio cuore stava cominciando a pulsare al ritmo della voce risonante di Ogundu, al ritmo della fiamma che si alzava e si abbassava. Ecco com'era. È così che un incendiario si sente prima di... Mi ero mai sentito così? Nel passato, nei giorni scorsi, cinque giorni fa, quando il tabernacolo della Fratellanza Bianca era scomparso fra le fiamme? L'avevo già sentito? Era un pensiero pazzesco. Forse tutti i miei pensieri erano pazzeschi. Forse nessun altro lì intorno si sentiva come me. O forse non ero pazzo ma lo erano loro, ma se era così, allora era tutto ancora più folle. Riportai l'attenzione sul palco. Stava succedendo qualcosa di nuovo. I diaconi erano sulla piattaforma. Stavano portando una cassa lunga, un lungo, basso truogolo. Arrivava da dietro i tendaggi, e anche il braciere veniva dallo stesso posto. Un braciere di metallo con lunghi manici: fumante e sibilante com'era, ci volevano due uomini per trasportarlo. Ogundu adesso stava cantando qualcosa sulla fede. La folla rispose. Era come un inno senza musica, ma quale contrappunto aveva il sibilo del carbone ardente, del carbone vivente. I diaconi versarono il contenuto del braciere nel truogolo lungo e basso. L'avevano sistemato davanti alla piattaforma, e una nuvola di fumo si levò a velare il viso di Ogundu. Per un attimo mi sembrò di nuovo di essere a un Raduno Revivalista. Tutt'attorno a me crescevano gli strilli acuti delle donne nere, i grugniti af-
fermativi degli uomini. Avevo già sentito grida simili provenire da gente posseduta dallo Spirito. Possessione. Possessione demoniaca. Demone del fuoco. Mi ripetei che mi chiamavo Philip Dempster, che ero seduto in un negozio riadattato e che stavo guardando un furbone di cultista che stava facendo il suo spettacolo. Ma in qualche modo il messaggio non interessò la mia gola, le mani, i polmoni, il cuore. Il battito affannoso e la pulsazione, la rigidità e il rictus continuarono. E vidi che Ogundu si strappava di dosso la fiamma che l'avvolgeva togliendosi la tunica rossa e rimase rigido di fronte a noi, nudo fino alla cintola, illuminato dal fuoco. Si chinò e si tolse le scarpe. Chiuse gli occhi. I quattro diaconi cantavano e lui rispondeva. Qualcuno cominciò a battere con entrambi i piedi sul pavimento. In un attimo il battito aumentò d'intensità, un battito ritmico e misurato, più antico della stessa Stonehenge. Il pavimento ne vibrava, la fiamma palpitava. Anch'io vibravo e palpitavo a quel ritmo. Ogundu si portò, a piedi nudi, a un'estremità del contenitore. Si muoveva velocemente, con grazia felina, come una pantera nera. I suoi occhi erano come tizzoni. Uno dei diaconi gli porse una fiala, e lui ne sparse parte del contenuto nel lungo truogolo che aveva davanti a sé. Le braci sibilarono e sputacchiarono, sfrigolarono e si disseccarono mentre il fumo si levava più pesante. Ogundu era teso ad ascoltare il tamburellare che andava crescendo. Stette un attimo immobile, poi avanzò. Camminava lentamente adesso, camminava a piedi nudi sul letto di braci ardenti. Arrivò fino in fondo e tornò indietro. Avevo letto di cose del genere. Sapevo che lo facevano alcuni stregoni africani. Ma questo non rientrava nei casi di cui avevo letto. Qui non eravamo in Africa, e Ogundu non era uno stregone. Eravamo al 101 di South Sherburne Street, e io stavo guardando un uomo che camminava a piedi nudi sul fuoco. E adesso le luci si accesero come mi aspettavo, e i diaconi erano solo comuni uomini di colore con abiti poveri che giravano fra la folla con i vassoi. E qualcuno stava buttando della cenere sul fuoco, e poi acqua: le braci si stavano estinguendo, e la gente stava spingendo indietro le sedie per alzarsi. Lo spettacolo era finito.
Be', questa sera avevo visto qualcosa. Mi ricordai del vecchio libro di Seabrook, L'isola magica, in cui parlava di Haiti. Ricordavo il suo racconto di come i semplici, amichevoli, ignoranti contadini neri si riunivano, e di come il battito di un tamburo e l'invocazione del Serpente li trasformassero momentaneamente in una moltitudine magica, seguace del vudu. Seabrook aveva sentito l'invocazione di un Mistero. E io? Non lo sapevo. Ma una cosa la sapevo, questa volta non ci sarebbe stato alcun errore. Volevo vedere Ogundu, e volevo vederlo subito. Risalii il corridoio e arrivai fino alla piattaforma. Lì, uno dei diaconi mi sbarrò la strada. — Dove sta andando, signore? — Voglio vedere Ogundu. — Il Padre è stanco. — Sono del Globe. — Per la prima volta fui lieto che Cronin mi avesse dato il tesserino-stampa. Glielo sventolai sotto il naso ma lui non si diede la pena di leggerlo. — Aspetti, lo avverto. Come si chiama, signore? — Philip Dempster. Probabilmente lui sa chi sono. Sparì dietro i tendaggi. Non restò via a lungo. Quando riemerse di nuovo, stava sorridendo. — Passi qui dietro — mi disse. — La prima porta lungo il corridoio. Mi avviai. Dietro i tendaggi c'era una porta che si apriva su un corridoio. Trovai la prima porta, l'aprii. E così, era questo che c'era dietro la tenda nera del Mistero, era questo che si nascondeva dietro i portali sorvegliati dalla Fenice. Un comunissimo ufficetto ammobiliato con mobili di seconda mano. Me ne sentii contrariato. Contrariato per l'aspetto del posto, contrariato per l'aspetto del negro magro e di mezz'età seduto vicino alla scrivania intento a farsi un pediluvio in una bacinella sbocconcellata. Mi sorrise. — Bisogna tenerli un po' a mollo. Quella roba s'infilza. — Prese un mozzicone di sigaro da un posacenere. — Si segga — disse. — Le è piaciuto lo spettacolo? Spalancai la bocca. In quell'attimo una ragazza, una ragazza bianca, fece capolino dalla porta. Ogundu si voltò e le fece cenno con la mano. — Va tutto bene — le disse. — Non ho più bisogno di lei per questa sera.
Lei mi guardò, annuì e se ne andò. — La mia segretaria — disse Ogundu. — Bella ragazza, vero? — Oh sì — dissi io. — Bella ragazza. — Rimasi a fissare la porta, cercando di cogliere qualche barlume del corridoio. Ma Diana Rideaux era scomparsa. 14 Ogundu si asciugò i piedi. Fissavo quelle piante dal colorito così rosa: non presentavano il minimo segno di bruciatura. E non si vedeva neanche un callo. — Qual è il segreto? — gli chiesi. — Ha a che fare con tutta quella roba che si spalma addosso? Sorrise. — Parzialmente. E parte dipende dal tipo di carbone, che è molto poroso e quindi rilascia il calore più velocemente di quanto ne assorba. Ma la cosa più importante è sapere come camminare, e il non aver paura. Mai sentito parlare dei Marciatori Nigeriani? — Non mi dica che viene dalla Nigeria. Scrollò la testa. — Nato e cresciuto in questa città. Ma non c'è bisogno di andare in Africa per imparare qualche trucchetto. Ne conosco anche altri. Come mangiare il fuoco e prendere in mano attizzatoi roventi. Qui intorno piace tutto questo spettacolino pirotecnico. — Non ha paura che citi tutto questo nel mio articolo? — gli chiesi. Ogundu mordicchiò il sigaro. — Faccia pure. Non mi creerà nessun problema. E poi, ha appena visto l'ultimo spettacolo. — Vuole lasciare il Tempio? — Esatto. Appena possibile. — Dalton l'ha spaventata? — Mi ha detto di sospendere temporaneamente l'attività, se è questo che vuol dire. Mi ha detto che mi avrebbe scatenato dietro i Vigili del fuoco per violazione delle ordinanze. Ha detto che non posso fare tutto quel casino con le torce e col carbone ardente. L'ha messa giù molto dura. — Che piani ha adesso? — Tagliare la corda il più alla svelta possibile. E vendere questo posto per quello che ci potrò ricavare. — Allora non le importa di quello che scriverò? Si strinse nelle spalle. — Faccia come le pare. Quando il suo articolo sarà pubblicato, sarò già da un'altra parte. — Comiciò a infilarsi calze e
scarpe. — Se vuol sapere qualcosa sui trucchi che uso, avanti, chieda. — È bello da parte sua cooperare così. L'apprezzo molto. — Non ha senso aver paura, ecco come la vedo io. — Si allacciò una scarpa con studiata lentezza. — Quando sei in ballo, ti conviene ballare. Comunque, qui ho avuto tutto quello che potevo cavarne fuori. — Si rimise seduto, sorrise. — E adesso, signor Dempster, cosa vuol sapere? Gli restituii il sorriso, poi trassi un profondo sospiro. — Desidero sapere se nella sua congregazione c'è qualche incendiario. Il sorriso gli si sciolse come burro in una teglia arroventata. — E questo cos'ha a che fare col suo articolo? — Un sacco. Ormai non sono più molto interessato alla storia dei culti. È l'incendiario quello che voglio. — Lavora con la polizia? — No. Non ufficialmente. Lavoro per me stesso. Sono rimasto coinvolto già due volte. Non mi piacciono gli incendiari e non mi piacciono gli assassini. Voglio scoprire cosa c'è sotto tutto questo. — Anche il suo amico, il capitano Dalton. L'ha mandato qui lei, vero? — Mi creda, non ho nulla a che fare con la sua visita. Ma è naturale che sia venuto. Specie sapendo cosa lei fa in questo posto, con quel tipo di numero da circo che sembra fatta apposta per attirare tutti i potenziali piromani della città. — Le ho già detto che me ne sto andando. — Vero. Però non ha risposto alla mia domanda. — Non posso risponderle, signor Dempster. Perché non conosco la risposta. Lei crede che se uno dei miei seguaci fosse un incendiario verrebbe a dirmelo? — Fece una pausa. — Oppure crede che ne abbia addestrati un paio perché appicchino quegli incendi? È questo che pensa? — Io non penso niente. Aspetto solo di sentire cosa ne pensa lei. — Da quanto ne so, i miei sono puliti. Ma non deve prendere le mie parole per oro colato. Chieda al capitano Dalton. Quando è uscito da qui questa sera presto, aveva l'elenco completo di tutti quelli che ho nei miei schedari. Questo risponde alla sua domanda? — In parte — risposi. Mi chinai verso di lui. — Parlando dei suoi seguaci, forse mi potrà fornire qualche informazione. Capita che ce ne sia uno piccolo, sul metro e sessanta, che indossa un soprabito marrone? Quello di cui parlo è praticamente pelato. Ha la faccia molto pallida, grandi cerchi scuri sotto gli occhi, e ha l'abitudine di mordersi le labbra. Ha un'aria un po' da clown.
Ogundu scattò in piedi. Andò fino a un armadietto di metallo, lo aprì, ne tolse un oggetto che gettò sul piano della scrivania. Rimbalzò con rumore metallico prima di fermarsi. Mi trovai a guardare la rilucente forma di un coltello. L'avevo già visto prima, e ne avevo sentita la punta contro le costole. — Questo per caso gli appartiene? — chiese Ogundu. — Sì. Allora lo conosce. — L'ho visto ieri sera. Avevo lavorato fino a tardi, e verso le dieci ho deciso di uscire per bermi un caffè. Appena ho aperto la porta questo è arrivato sibilando verso di me. Si è infilato nella porta vicino al mio orecchio destro. È stato allora che ho visto il suo ometto. È scappato lungo il vicolo, ma non prima che gli avessi dato una bella occhiata. Chi è? — Non lo so — risposi. — Ma vorrei saperlo. L'ha raccontato alla polizia? Scrollò la testa. — Ho già abbastanza casini anche senza questo. È stato così per tutta la settimana, a partire dall'incendio alla Fratellanza Bianca. Qualcuno mi ha avvertito che c'è in giro uno che se la prende con noi dei culti. La mia segretaria si è spaventata a morte ma è riuscita a sfuggire a uno di loro. — La sua segretaria eh? Che mi dice di lei? — Non c'è nulla contro di lei. Si chiama Rideaux. Diana Rideaux. È con me da sei, sette mesi. Una ragazza bella e brava. L'ha vista prima. Annuii. — È anche lei una credente? — Vuol dire se è una seguace della Fiamma Vivente? No, è una con la testa sulle spalle. E poi come potrebbe dato che conosce tutti i trucchi? Perché me lo chiede? — Semplice curiosità. Dopo tutto, è alquanto insolito trovare un... un lavoro come questo, no? Ogundu sorrise di nuovo. — Capisco quel che vuol dire. Una ragazza bianca che lavora per un nero. Be', a questo posso rispondere. Sono cento dollari la settimana. Tutto qui. Ma Diana li vale, è una ragazza sensibile. O lo era, almeno fino alla settimana scorsa. Da allora vive con l'ossessione di essere seguita. Adesso che ci penso, mi sembra che mi abbia detto qualcosa su quel piccoletto col coltello. È successo giovedì, mi sembra. E io ne ho riso, anche. — Adesso però non ride più. — Giusto. Non sto ridendo, me ne sto andando. — Lei ha paura — mormorai.
— E va bene, ho paura. Qui avevo una buona organizzazione, piccola e senza problemi. E poi, di colpo succede tutto. E tutto di sbagliato. Incendi e omicidi e gente che ti tira i coltelli. Non so da cosa dipenda tutto questo e non voglio scoprirlo. Se vuole, scriva tutto questo nel suo giornale, dica che ho paura e che sto scappando. È vero, e non m'interessa che lo si sappia. — Però le piace l'idea, vero? Che la gente pensi che lei lascia la città perché ha paura, voglio dire. Invece di pensare che lei se ne va perché ne sa troppo. — Io non so niente — disse Ogundu. — Credo che farebbe bene a confidarsi. Forse potrei aiutarla. Lei non vuole che queste cose continuino ad accadere, vero? Innocenti che vengono uccisi, tutta una città in pericolo... — L'ho aiutata come ho potuto — rispose lui. — Adesso devo proprio congedarla. Sembrava essere un buon consiglio. Lo accolsi. — Buona notte — gli dissi. — Addio — rispose lui. Attraversai il tempio ormai deserto e uscii in strada. Non c'era l'ometto ad aspettarmi, né mi stava aspettando vicino alla macchina. Non mi avrebbe sorpreso molto trovarcelo. Era la mia notte delle sorprese, quella. Ma non era lui una delle mie sorprese. Tornai velocemente a casa, dove arrivai pochi minuti dopo le undici. Parcheggiai davanti al portone e mi guardai attorno per vedere se c'erano la signora Loodens e la sua auto. A quanto sembrava, non era ancora arrivata. Per esserne sicuro, salii le scale. La porta era chiusa e lei non era sul pianerottolo. Tornai di nuovo giù e aspettai nell'ingresso. I minuti strisciarono via uno dopo l'altro. Undici e un quarto, undici e mezza, undici e quaranta. Apparentemente era quella l'ultima sorpresa della serata. Per un qualche suo oscuro motivo, non era venuta all'appuntamento. Mi voltai per risalire la scala quando il taxi si fermò davanti al portone. Lo guardai depositare sul marciapiede la sorpresa finale della serata. Diana Rideaux attraversò il marciapiede, aprì la porta, e mi cadde fra le braccia. 15
Eravamo sdraiati sul divano. Era già passato un bel po' di tempo, e la signora Loodens non si era ancora mostrata. Non avevo messo un lumino per lei alla finestra. In realtà, non avevo acceso nessun'altra luce. — Ti senti meglio adesso? — sussurrai. — Oh sì. — Ma perché non me l'hai detto? — Cosa? Che lavoro per Ogundu? E come potevo dopo tutto quello che hai detto sui culti e sulla gente che li dirige? Mi vergognavo. — Si scostò un poco da me. — E mi vergogno anche adesso. Me l'attirai vicino. — Però sei venuta qui lo stesso. — Dovevo. Quando ti ho visto al Tempio, ho capito che dovevo farlo. Non avevo più paura. — Lo sai che non ti avrei mai fatto del male. — Sì. Sono stata pazza a pensare che... — A pensare cosa? Lei parlava solo per sussurri ora. — Pensavo che fossi tu l'incendiario. — A causa di tutto quel pasticcio con la sigaretta dell'altra sera? Ma quello è stato un incidente. — Lo so. — Sospirò. — Solo che, in quel momento, non ne ero certa. Poi ho letto sul giornale quello che diceva il professor Ricardi. — Ma avresti dovuto leggere anche del mio alibi, e di quello che è stato detto all'inchiesta. Mi si strinse addosso con forza. — Mi dispiace. È solo che ero così scombussolata... E poi, quando ho scoperto di essere seguita... — Chi ti seguiva? — Per favore, lascia perdere. Ogundu dice che mi immagino troppe cose. — Ma hai visto chi era? Poteva essere quell'ometto con la faccia pallida? — In realtà, non ho visto nessuno. — Mi si abbarbicò addosso e sospirò. — E poi, adesso non importa più nulla. Nessuno può farmi del male quando sono con te, non è vero Phil? Non sei arrabbiato con me, vero, mi hai perdonata adesso... — Non c'è nulla da perdonare. Non sei l'unica che ha avuto dei dubbi sulla mia storia. Anch'io sono andato in giro a sospettare di tutti. Compresa te, quando ti ho vista spuntare sulla porta dell'ufficio di Ogundu. — Le carezzai i capelli. — Ma adesso è tutto sistemato. Non m'importa un accidente per chi lavori finché sarai la mia ragazza.
— Io sono la tua ragazza, Phil. Lo sai, vero? — Sì. — E sto per lasciare Ogundu. — Buona idea. — Da quanto potevo capire, non le aveva ancora detto che stava per lasciare la città. E io non pensavo che quello fosse il luogo né il momento per accennargliene. Ma non riuscii a rinunciare a una piccola indagine. — Diana, quando ho parlato con Ogundu questa sera, gli ho chiesto cosa ne pensava degli incendi. Gli ho chiesto se pensava che qualcuno dei suoi seguaci potesse esserne coinvolto. Tu che conosci l'organizzazione, che ne pensi? Si rizzò a sedere, con aria pensosa. — Non ho mai visto nulla di sospetto. Arrivano agli incontri con aria alquanto eccitata, ma non è mai successo nulla che potesse farmi sospettare qualcosa. Anche alla marchiatura... — Quale marchiatura? Ogundu non me ne ha parlato. — Alcuni diaconi, quelli che appartengono al Circolo Interno, come lo chiamano loro, hanno un loro rituale. Portano il marchio della Fenice inciso a fuoco sulle braccia o sul torace. — Mi sembra un'usanza barbara. — La penso anch'io come te. Ma Ogundu dice che non è il caso di badarci: sono cose che si fanno nelle confraternite. Sono cose da creduloni, dice lui. Le strinsi la mano. — Ma dimmi, secondo te, che tipo di uomo è Ogundu? — Parlavo col tono più calmo possibile. — Che abitudini ha? Ha qualche debolezza o stravaganza? La sua mano tremava, si svincolò dalla mia. — Phil, è così allora? Credi che lui abbia potuto...? — Ma no, non lo so. — È come un incubo, vero? — sussurrò. — Da qualsiasi parte ti giri, c'è qualcosa che cerca di nascondersi. — Adesso non ti agitare — le dissi. La feci sdraiare di nuovo accanto a me. — Smetti di tremare. Non voglio farti del male. — Lo so. Ma quando penso a quello che è successo... Per favore, Phil, accendi la luce. — Paura del buio? — Chinai la testa, ma la sua bocca sfuggì la mia. — Hai paura di me? — Dovevo dirlo, sentire la sua risposta. Attesi. E la risposta arrivò, ma senza parole: solo un tremulo silenzio che era peggio di qualsiasi parola.
Sentivo il suo corpo contro il mio, le mie braccia che la cingevano come avevano già fatto poco prima. La tenevo come avevo tenuto il corpo di Ricardi quando l'avevo rivoltato per guardarlo in faccia. Come avevo tenuto quell'altro corpo in tutti i miei sogni, quando lo facevo voltare e lo vedevo in viso, e ne vedevo gli occhi protuberanti, la maschera abbrustolita. L'avevo vista nei miei sogni, e sapevo cos'era. Ma non potevo dirlo a Dalton, non potevo dirlo nemmeno a Schwarm. Avevo paura a dirlo persino a me stesso. È per questo che bevo, così posso dormire al riparo dal sogno: ma presto o tardi avrei dovuto confessarlo. Dovevo separare il sogno dalla realtà, distinguere dove uno terminava e l'altro cominciava. Ma non adesso. Non potevo affrontarlo subito. Non potevo affacciarmi su quella faccia. Bere era la cosa giusta, l'unica cosa giusta da fare. Sì, così dovevo fare. Adesso avevo lei fra le braccia e per un po' potevo tirare avanti e dimenticare, anche se per poco. — Basta! — protestò lei. Ma io non mi fermai, perché se mi fossi fermato avrei ricordato, ed era un fardello troppo pesante da portare. Pirofobia. Schwarm aveva indovinato, aveva indovinato la verità. Paura del fuoco. Paura di ricordare un incendio e una faccia. L'abbracciavo e la mia mano risalì fino allo scollo dell'abito e lei protestò di nuovo ma io non mi fermai, dovevo andare avanti, e allora... Si liberò un braccio e accese la lampada. La luce guizzò, come una fiamma. La tenevo fra le braccia e fissavo attonito quell'espressione carbonizzata che abitava i miei sogni. Cominciai a urlare. — Margery! Un attimo. Solo un istante, e poi fu tutto passato. La faccia era scomparsa. Fra le braccia tenevo Diana, che singhiozzava. Ma adesso potevo raccontarglielo, potevo dirle tutto. Dovevo dirglielo, perché adesso mi avrebbe creduto. — È accaduto quando ero sulla Costa — sussurrai. — Circa un anno fa. Stavo facendo ricerche per il mio libro quando ho incontrato questa ragazza. Si chiamava Margery Hunter. Era un'artista che viveva in uno di quei cottage che si trovano sulla spiaggia a sud di Long Beach. Familiarizzammo subito. Volevo sposarla, ma lei mi fece promettere di aspettare fino a quando il libro fosse terminato e accettato. "Terminai il libro e lo spedii all'editore. Mi tornò due mesi dopo con la
richiesta di alcuni ritocchi di poco conto: l'editore l'aveva accettato. Allora decidemmo di tenere una festa a casa sua, per celebrare e anche per annunciare il nostro fidanzamento. "Aveva un sacco di amici beat: artisti, musicisti, ubriaconi d'ogni tipo. Gente che credeva davvero in quel tipo di vita. Quando dicemmo loro la ragione di quella festa, decisero di fare una festa memorabile. Uno di loro procurò una mezza cassa di gin. Erano tutti su di giri, e ben presto scoppiarono le prime risse. "Margery a un certo punto svenne, e allora la facemmo sdraiare in camera da letto. Tutti noi andammo avanti a bere. Poco alla volta, la maggior parte degli ospiti se ne andò. Eravamo rimasti solo in quattro quando Oscar, Oscar Ringold, sai, il pittore, suggerì di andare a fare un tuffo. Un'idea che piacque a tutti, così partimmo per la spiaggia e ci mettemmo a nuotare. L'acqua ci fece smaltire la sbornia. Quando tornammo, eravamo tutti abbastanza lucidi. Fu allora che Oscar richiamò la nostra attenzione sulla luce che veniva dal cottage. "Immagino che avrai già capito il resto. Nessuno capì mai com'era scoppiato l'incendio, nessuno riuscì mai a scoprirlo. Qualcuno doveva aver gettato via un mozzicone di sigaretta. Un altro dei soliti incidenti, una di quelle cose di cui si legge ogni tanto sui giornali. "Solo che in quel momento non lo stavo leggendo: lo stavo vedendo. Dall'oceano soffiava un vento piuttosto forte, e l'incendio divampò alla svelta. Gli ci vollero solo pochi minuti. Quando arrivammo al cottage, quella costruzione piccola e fragile era già consumata a metà: il tetto prese fuoco in un attimo, e la porta crollò davanti ai nostri occhi. "Margery era dentro. Qualcuno corse fin sulla strada per fermare una macchina di passaggio. Oscar e un altro mi stavano tenendo, ma riuscii a liberarmi. Non era più possibile entrare dalla porta ma provai ad aprirmi un varco attraverso la finestra della stanza da letto. "E trovai Margery. Si era alzata, poveretta, e aveva cercato di fuggire, ma non c'era riuscita. Nessuno ce l'avrebbe fatta in mezzo a tutto quel calore. Quando la raggiunsi giaceva col viso sul pavimento: l'afferrai e la portai fuori di lì in meno di un minuto. Ma anche così avevo gli abiti in fiamme, capelli e sopracciglia erano scomparsi. Anche gli abiti di Margery erano bruciati, ma questo era ancora niente. "Lo scoprii appena l'ebbi portata fuori, dove tutto era luminoso come se fosse giorno. Le fiamme guizzavano tutt'attorno a me, e potevo vedere anche il minimo dettaglio. La rivoltai, e vidi quello che era successo alla sua
faccia, ridotta a una massa rossastra, macabra, dagli occhi gonfi e trasudanti... "Qualcosa accadde dentro di me quando vidi quella faccia. Mi hanno detto che sono rimasto sotto shock per due giorni: quando uscii dall'ospedale, era già tutto finito. Il cottage non c'era più, Margery non c'era più. Loro... l'hanno fatta cremare. Dopo l'inchiesta, ovviamente." — Sei stato incolpato? — Non c'era motivo per un'accusa. Eravamo tutti egualmente responsabili, o irresponsabili. Come dissero i giornali, era solo un tragico incidente. Ma io sapevo. Sapevo che poteva essere stata la mia sigaretta, capisci? Com'è successo sulla spiaggia l'altra sera. Avrei potuto benissimo essere stato io. E se tu avessi visto la sua faccia, e se l'avessi sentita... — Come, sentita? — sussurrò Diana. — Già. È questo il peggio. Non me lo ricordavo più finché non ho trovato il corpo di Ricardi. L'ho portato fuori e l'ho rivoltato a faccia in su. E mentre lo guardavo per un attimo mi sembrò di essere tornato a quel giorno, a guardare il viso di Margery e a sentire la sua voce che usciva, debole e lontana, da quella bocca bruciata, una voce che diceva "Salvami, salvami!" Tutto qui quello che disse. Perché subito dopo morì, fra le mie braccia. Mi alzai. Avevo la camicia inzuppata di sudore. — Capisci adesso perché ho paura? Perché bevo, perché anche l'altra sera stavo bevendo? Lo faccio perché non voglio sognare, perché vorrei dimenticare. Margery mi venne vicino e mi mise le braccia al collo e io fissai quella maschera disfatta, e mentre la guardavo quella si sciolse e mi resi conto che stavo abbracciando Diana. Con quell'incubo, anche tutto il resto si sciolse e svanì. — Adesso va tutto bene — sussurrai. E lo dicevo convinto. Andava tutto bene. Ero riuscito a raccontare quella storia. — Sei meglio di Schwarm — le dissi. — Non hai più paura adesso? — No. E tu? Scrollò là testa. — Solo perché non sapevo. Le sorrisi. — D'ora in poi, le cose andranno meglio. Vedrai. Suonò il telefono. Presi il ricevitore, risposi, ascoltai. — È solo? — disse la voce. Esitai un attimo. — Sì. Perché?
— Allora venga da me, subito. Ho appena avuto una visita. Il suo amico dalla faccia bianca. — È lì adesso? — È scappato come un pipistrello sputato dall'inferno. Ma non prima di avermi detto alcune cose. — Cosa le ha detto? — Quello che lei sta cercando di scoprire, Dempster. È per quello che è venuto da me. Per avvertirmi che ero il prossimo nella lista. E adesso so chi è. — E me lo dirà? — Quando arriverà qui da me. E allora potremo parlare della ricompensa. — Quale ricompensa? — Sul giornale ho letto qualcosa su una taglia di mille dollari. Mi farebbero comodo. — Chiamerò il mio amico Cronin. Lui... — Lei non chiamerà nessuno. Non voglio qui il suo amico Cronin. E non voglio neanche poliziotti che girano qui attorno. Devo scappare come un ladro. Devo prendere il volo delle sei, così è ora o mai più. — Sto arrivando. — Ottimo. L'aspetto. Ma non faccia scherzi, venga solo. — D'accordo. Riappesi. Diana era in piedi accanto a me. — Chi era? — Ogundu — le dissi. — Conosce l'identità dell'incendiario. — Cosa? Ma come...? — Il mio amico — dissi sorridendo. — Il mio socio faccia-di-clown. È andato da lui ad avvertirlo. Devo andare subito da lui, perché è pronto a lasciare la città. — Avvertirai la polizia? — Gli ho promesso di no. Il tuo capo è un uomo molto, molto spaventato. Mi mise una mano sul braccio. — Ma perché dirlo a te? E poi, perché credi alla storia di quell'ometto? — Direi che tutto fa capo alla taglia di mille dollari. È per questo che parla. E poi, quella storia sull'amico clown mi sembra convincente. Dopo tutto, sembrava sapere che lo spettacolino di Ricardi stava per finire. — Sì, ma... — Adesso basta — le dissi. — Devo sbrigarmi se voglio correre da O-
gundu. — Per favore, Phil, non rischiare. — Devo farlo. — Le sorrisi. — Ti lascerò a casa tua e andrò da solo. Se non tornerò entro mezz'ora, allora avverti la polizia. Ti va così? Lei scrollò la testa. — Vengo con te. — Non ne sarà felice. — Non preoccuparti per lui. Dopo tutto, era pronto ad andarsene senza dirmi niente, non è vero? L'avrei scoperto solo lunedì mattina. Non gli devo proprio niente. — E questo per te è un motivo per rischiare? — Allora ammetti che potrebbe essere pericoloso — disse lei sorridendo con aria di trionfo. — Un motivo in più per venire con te. D'ora in poi non ti ficcherai più in nessun pasticcio senza di me. Mi strinsi nelle spalle. — Va bene. Ma mi aspetterai fuori, in macchina. — Ne parleremo quando saremo arrivati. Su, andiamo. Fuori dalla porta, giù dalle scale. Era bello sentire il suo braccio sotto il mio, ma quando fummo nell'ingresso la lasciai andare e avanzai da solo. — Phil, che succede? — Niente. Voglio controllare. — Mi appiattii contro la parete e guardai fuori dalla porta a vetri per esplorare la strada. Mi era sembrato di scorgere qualcosa quando stavamo scendendo le scale, e adesso ne ebbi la certezza. Eccola là, parcheggiata vicino al marciapiede, la grossa, nuova, lustra Lincoln. — Andiamo — mormorai. — Svelta, usciamo dal retro! Si voltò e si avviò verso la porta posteriore. Diedi un'ultima occhiata per rassicurarmi che avevo visto giusto. Un ultimo sguardo, ma bastò. Vidi Weatherbee emergere dall'auto e partire in direzione della porta. Mi aveva visto? Infilò una mano in tasca, la tirò fuori. Mi scostai velocemente nella speranza di non farmi vedere, ma non mi ero mosso abbastanza in fretta. Si mise a correre. Mi guardai alle spalle: Diana stava già aprendo la porta posteriore all'altra estremità dell'ingresso. La vidi scomparire, e allora mi voltai per fronteggiare quei due, Weatherbee e la sua rivoltella. 16 — Dov'è lei? — chiese Weatherbee sventolando la rivoltella. — Chi?
— Lo sa di chi sto parlando. Comunque, cosa state cercando di fare voi due? — Niente — risposi. — Stavamo solo parlando. — Parlando! — Mi si fece più vicino. Potevo avvertire che aveva bevuto, ma la mano era salda come una roccia. — Al buio? — A lei che gliene importa? È la mia ragazza. — Oho, così è la sua ragazza adesso! Lei è uno che corre un po' troppo, Dempster. Ascolti un buon consiglio: rallenti un po'. — Rallenti lei un momento — mormorai. — Mi sembra un po' sconvolto. Sta per caso pensando che ero con la signora Loodens? — Pensando? So benissimo quello che sto dicendo. — L'ho vista alle sette, ma poi se n'è andata e non è più ritornata. La ragazza che era con me a casa mia era Diana Rideaux. — Me lo provi. — E come faccio? È sgattaiolata via dalla porta di servizio. — Andiamo a vedere. La pistola mi sollecitò verso l'uscita: ci venimmo a trovare, noi due soli, nell'area retrostante gli appartamenti. — Se n'è andata — dissi. — Non c'è nessuno qui ora. E mentre parlavo, mi resi conto che stavo dicendo la verità. Eravamo soli soletti, al buio, e non c'era nessuno che potesse aiutarmi. Il vento correva attraverso quell'area deserta. Avrebbe corso su tutta la città, facendo agitare le fiamme, suscitandole a nuova vita. Avrebbe soffiato anche attraverso il buco nel mio cranio appena lui avesse premuto il grilletto. Ma, per il momento, non l'aveva ancora fatto. — Spero per lei che mi abbia detto la verità — disse Weatherbee. — Non c'è nulla da guadagnare a proteggere una donna come la Loodens. Avrei dovuto decidermi a sistemarla quando ho saputo che fine ha fatto fare a suo marito. Strabuzzai gli occhi. — Ma lei mi ha detto... — Ma certo. Le ha detto che l'ho ucciso io. Via, non faccia l'ingenuo: perché avrei dovuto fare una cosa del genere? Cosa ci avrei guadagnato? È lei quella che eredita. — Può provarmi quello che sta dicendo? — Vuol dire indizi legali, prove? No, non posso. Se ne avessi, sarei già andato alla polizia. Ma aspetti e vedrà se adesso non l'inchioderò con questa storia degli incendi! — Ma non crederà che abbia appiccato lei quegli incendi! Perché mai
avrebbe dovuto distruggere il Tabernacolo della Fratellanza Bianca? — Perché sapeva che ero diventato il loro nuovo socio, e questo la spaventava. Aveva paura che avrei fatto terra bruciata per lei e per Ricardi. E così gli ha dato fuoco. Semplice. — E poi ha ucciso il suo uomo? Ma non ha senso. Weatherbee annuì lentamente, ma la rivoltella non si spostò di un millimetro. — Ho qualche notizia per lei — disse. — Ricardi stava meditando di vendere tutto a me. Il contratto era già pronto. Entro un paio di settimane avremmo annunciato la fusione con la Fratellanza Bianca. — E lei lo sapeva? — Lui dev'essersi lasciato sfuggire qualcosa. E allora lei gli ha dato il fatto suo. — Annuì di nuovo. — Così funziona, Dempster. Ha sentito le prove all'inchiesta. Nessuno è entrato di forza da Ricardi, è stato lui ad aprire la porta al suo assassino. E qual è la persona che più logicamente aveva accesso alla camera da letto di Ricardi? — Ma la cameriera di Anna ha detto che era a casa col mal di testa... — Per venti dollari, quella ragazza direbbe qualsiasi cosa. Lo fissai. — È sicuro che questo non sia un caso di gelosia? L'arma scattò verso l'alto e io trattenni il fiato. Vedevo il suo dito grassottello che si sbiancava attorno al grilletto. Ma poi si rilassò. Weatherbee sospirò. — Ha ragione. Sono geloso. L'ha vista com'è, può capirmi, vero? Però so che è coinvolta in questa storia, e la sto tenendo d'occhio. — Be', a quel che ne so questa sera non è tornata da me. Le ho detto la verità, ero con Diana Rideaux, la segretaria di Ogundu. — La segretaria di Ogundu? — La rivoltella si alzò di nuovo. — E perché non me l'ha detto prima? — Non me ne ha dato la possibilità. — Fissai la canna della rivoltella. — L'ho conosciuta l'altra sera, ma non sapevo che lavorava per Ogundu. L'ho rivista questa sera alla Fiamma Vivente, quando stavo parlando con lui. — Cosa le ha detto? — Che sta per lasciare la città. Spaventato dalla polizia, credo. — E la ragazza quanto sa? Dove stavate andando adesso? Esitai. La bocca di Weatherbee s'irrigidì. Anche il dito che aveva sul grilletto s'irrigidì. — E va bene — mormorai. — Ho ricevuto una telefonata da Ogundu.
Ha scoperto chi è l'incendiario. Stavo andando a parlare con lui prima che lasci la città. — E la ragazza che ruolo ha? — Le avevo detto di aspettarmi a casa sua. La rivoltella mi sollecitò. — Andiamo a vedere Ogundu. — Ma mi ha fatto promettere che ci sarei andato da solo... — Gli faremo una sorpresa, allora. Si sbrighi. Mi sbrigai. Attraversai quel tratto deserto con il vento in faccia e la rivoltella alla schiena. Arrivati alla macchina se la rimise in tasca, ma la mano era sempre vicina e pronta. La Lincoln si svegliò dal sonno. Era tardi, in giro non c'era traffico. Viaggiavamo nelle tenebre e nel silenzio, e arrivammo in un posto avvolto nelle tenebre e nel silenzio. Il Tempio della Fiamma Vivente si ergeva tetro e buio. Salimmo di corsa i gradini. In quel sudario di tenebre non riuscivo a vedere niente. Avrei potuto accendere un fiammifero, ma non volevo accendere alcun fiammifero. Weatherbee bussò. Non ricevemmo risposta. All'interno non c'era una luce, non si sentì alcun suono di passi. Il rumore del suo bussare s'intrecciò coi sospiri del vento. Ripensai a un'altra sera, quando mi ero trovato davanti alla casa di Ricardi chiedendo vanamente di esservi ammesso. Mi guardai attorno. Nemmeno una porta-finestra da sfondare. — Forse c'è un'entrata posteriore — disse Weatherbee. — Andiamo a cercarla. Scendemmo gli scalini, c'infilammo in un vicoletto stretto e maleodorante fra il Tempio e la casa vicina. — Vada avanti lei — mi disse. Mi avviai e lui mi seguì, con l'arma in mano. Avanzai a tentoni finché mi trovai a dover svoltare là dove la casa terminava. L'entrata posteriore era lì che ci aspettava. Afferrai la maniglia, provai a girarla. La porta si aprì silenziosamente. — Forza, andiamo — sussurrai. — Va tutto bene. Mi sforzai di guardare nelle tenebre, in attesa che anche lui svoltasse l'angolo. E poi arrivò. Girò attorno all'angolo molto, molto lentamente. Si teneva con una mano contro il muro, e la mano scivolò mentre lui cadeva al rallentatore. — Weatherbee!
Mi chinai sui contorni confusi di quel corpo sdraiato sul terreno. Allungai una mano e gli toccai la faccia. Era fredda. Spostai le dita fin sulla gola, e le ritirai bagnate e appiccicose. Rialzai la testa in tempo per vedere un oscuro lampo rompere le tenebre dello stretto passaggio. Si stava dirigendo verso di me, verso la mia gola indifesa... Scattai in piedi, mi tuffai verso la porta più velocemente che potei. Ne superai la soglia inciampando e gemendo, poi mi voltai e chiusi la porta cercando di bloccarla. Il nottolino scattò, inchiodandola. Doveva essere l'entrata del seminterrato. Mi guardai attorno per cercare un interruttore, poi decisi che era meglio non rischiare. Perché, dall'esterno, potevo sentire il rumore della maniglia che veniva scossa furiosamente, subito seguito dal suono di colpi furiosi scagliati contro i pannelli di legno. Mi voltai e mi avviai lungo il corridoio finché i miei piedi non incontrarono il primo scalino. Bene. Andava tutto bene quello che mi portava lontano da quella porta e dal coltello. Quella scala doveva portare in quella parte dell'edificio dove si trovava l'ufficio di Ogundu. Salii avvolto dalle tenebre, raggiunsi un pianerottolo. Avevo indovinato. Lungo il corridoio si vedeva una riga illuminata uscire da sotto una porta. Doveva essere l'ufficio di Ogundu, e mi sorpresi a pregare che mi avesse aspettato. Aprii la porta, e lui era lì. Era seduto e mi guardava sorridendo, calmo e tranquillo. — Phil, grazie a Dio sei arrivato! Girai su me stesso e chiusi la porta. Doveva essersi appiattita lì dietro per non farsi vedere. Mi corse tra le braccia. — Diana, cosa succede? Non riusciva a parlare: riusciva solo a indicare col dito. Mi liberai dal suo abbraccio e mi avvicinai a quell'uomo sorridente. Girai attorno alla sua sedia finché vidi la nuca del nero... o quello che ne era rimasto. Ogundu non aveva alcun motivo per sorridere. — Cos'è successo? — mormorai. Diana scrollò la testa. I suoi occhi evitavano i miei. Seguii il loro sguardo che terminava sulla sua mano: la mano destra, che reggeva una grossa calibro 38. Per un lungo momento la fissammo tutt'e due, poi lei mi parlò. La sua voce era solo un sussurro ma bastava a riempire la stanza, e la sua eco con-
tinuava a ripetersi, senza svanire mai completamente. — Sì, Phil. L'ho ucciso io. 17 Presi la rivoltella e la posai sulla scrivania. — È la sua? — sussurrai. Diana annuì. — La teneva pronta. — Pronta per cosa? — Per te. — Mi si avvicinò. — Ma non capisci? Avevo ragione quando ho pensato che poteva essere una trappola. Le rialzai il mento. — Ma cos'è successo? Racconta dall'inizio. — Venuta via da te, sono corsa subito qui. Avevo paura a tornare a casa sola ad aspettarti. Dovevo sapere subito. — Avresti dovuto aspettare. Oppure telefonare alla polizia. — È stato più forte di me, e ormai è fatta. Phil, non tormentarmi, è già abbastanza brutto pensare a cos'ho fatto... — Cominciò a piangere. L'abbracciai. Dopo un poco riuscì a proseguire. — Ho usato la mia chiave per entrare. Magari Ogundu era molto spaventato, ma non lo dimostrava. Si è limitato a chiedermi cosa ci facevo qui. Allora gli ho detto che venivo al posto tuo, perché avevi avuto un contrattempo. E che volevo io l'informazione che ti aveva promessa. — Te l'ha detta? Lei scrollò la testa. — Ha detto che non l'avrebbe detto a nessuno eccetto te. Che tu eri l'unico che meritava di saperlo. Gli ho chiesto cosa voleva dire ma non mi ha voluto rispondere: mi ha solo detto di andarmene. Gli ho risposto che non me ne sarei andata finché non avessi saputo. "Allora mi ha guardata e ha detto: 'Vuoi davvero dire quello che hai detto?'. Ha sorriso e ha abbassato lo sguardo e allora ho visto la latta di kerosene." Fece una pausa e anch'io guardai. C'era davvero una latta di kerosene in mezzo a un mucchio di cartacce. Qualcosa cominciò a serpeggiarmi lungo la schiena. Le parole di Diana servirono solo a farlo serpeggiare più alla svelta. — Ogundu ha tirato fuori la rivoltella e me l'ha puntata contro e ha continuato a parlare raccontandomi cos'aveva deciso di fare. Ti stava aspettando per ucciderti. Poi avrebbe appiccato il fuoco e telefonato alla polizia dicendo che ti aveva sorpreso e che ti aveva dovuto uccidere per difendersi. La polizia avrebbe avuto la sua soluzione del caso, e lui ne sarebbe u-
scito pulito. Ti odiava, Phil, a causa di quello che hai scritto. Penso che avesse deciso di sbarazzarsi di tutti i culti esistenti in città finché non ti sei interposto tu. "Ma, visto che non c'era riuscito, voleva continuare lo stesso col suo piano. E voleva anche me come vittima. Ha cominciato ad alzare l'arma ma sono riuscita ad afferrargli il polso e a fargli girare la mano. La rivoltella ha sparato, e lui è ricaduto sulla sedia. "Poi, sono rimasta qui a lungo, in attesa. Non so quanto tempo è passato. La cosa che ricordo subito dopo è un rumore di passi nel corridoio. Mi sono messa contro la parete, e sci entrato tu." — Tutto qui? — le chiesi. Lei annuì. — Ci sono alcune cose che non mi quadrano — le dissi. — La polizia ti farà un sacco di domande. Diana mi guardò con gli occhi sbarrati. — Ma... ma non vorrai telefonargli, vero? Annuii. — Cos'altro potrei fare? — Phil! — gridò fissandomi dolorosamente. — Phil, non... — Fingiamo che tu mi abbia detto la verità. Dovresti però sempre spiegarmi come hai fatto a piegare il polso di Ogundu in modo che si sparasse alla nuca. — Ma, forse si è girato... oh sì, adesso ricordo, per un attimo si è liberato e... Era pallida, con gli occhi sbarrati, e le parole le uscivano torrenzialmente. E lentamente io cominciavo a sentirmi male. Diventavo sempre più freddo. Qualcuna che avevo amato era morta. E adesso, un'altra che amavo stava morendo di nuovo. — Fermati, Diana! Era seduto su quella sedia quando l'hai ucciso. Non si è dibattuto. Non sapeva che gli saresti arrivata alle spalle, pronta a fargli schizzare via il cervello. Mi si avvicinò e mi mise le mani sulle spalle. — Tesoro, non sai proprio di cosa stai parlando... — Invece sì. Sto cominciando a capire un sacco di cose. — La presi per il davanti della camicetta. — Sei venuta qui per uccidere Ogundu. Perché l'ometto dalla faccia bianca gli aveva detto che sei tu l'incendiaria. — No! È impossibile. Lo sai anche tu che la prima volta ero con te... — Mi hai lasciato prima dell'una, e invece di andare a casa sei tornata al tabernacolo della Fratellanza. E quando mi hai fornito un alibi, in verità lo
stavi fornendo a te stessa. Tutto andava per il meglio, vero? La sua bocca si mosse per formulare parole, ma nessuna di esse prese forma. — Ma c'era una cosa che non avevi calcolato. Quell'ometto doveva averti vista. E probabilmente ha cominciato a seguirti. Ti ha vista il giorno successivo quando hai dato appuntamento a Ricardi. E so anche come hai fatto per ucciderlo. Gli hai promesso di andarlo a trovare a casa e l'hai fatto: non avrebbe mai negato l'ingresso nella sua camera da letto a una bella ragazza. E questo è stato il suo errore. L'hai fatto fuori, e poi hai dato fuoco alla stanza. Non dovevo neanche pensare, le parole mi uscivano da sole. Le parole, i fatti... — L'ometto lo sapeva. Ha scoperto che lavoravi qui e ha cominciato a girare qui attorno in attesa di poter parlare con Ogundu quando fosse stato solo. E quando l'ha fatto, Ogundu mi ha chiamato. "Ti sei spaventata a morte quando mi hai visto parlare con lui e sei subito corsa da me per cercar di sapere se avevo scoperto qualcosa. Poi, quando Ogundu ha telefonato, sei entrata in azione. L'hai ucciso con la sua stessa rivoltella e poi hai deciso di mettere in atto questo folle piano. Hai accumulato le cartacce, preso il kerosene dalla cantina..." Si raggelò. Fuoco gelido fra le mie braccia. — Cos'hai intenzione di fare? Mi scostai da lei. — Cosa voglio fare? Chiamare Dalton. — No! Vide che allungavo la mano, l'afferrò. Ma la tenevo sempre per la camicetta e, nella lotta che ne seguì, questa si lacerò. La camicetta si lacerò sul davanti e io vidi quello che non avevo visto nel buio dell'appartamento, quello che non avevo visto sulla spiaggia quando avevo cominciato ad aprirle il vestito e lei era scappata via. Vidi quello che avevo visto dipinto sui tendaggi, ciò di cui lei mi aveva parlato quando mi raccontava dei diaconi del Tempio e delle loro cerimonie. Era inciso a fuoco sul suo petto, una bruciatura rossa e profonda sotto i seni, la carne bianca era stata bruciata proprio come doveva esserlo stato nelle tenebre della sua mente. Il marchio della Fenice. Lo fissai, e questo fu il mio errore. Avrei dovuto fissare la sua mano, la mano che afferrava la rivoltella dalla scrivania, l'alzava e ne faceva cadere
la canna sul mio cranio. Caddi svenuto, freddo come un morto. 18 Non faceva più freddo, adesso. Era caldo e umido. Non appiccicoso come il sangue che mi scorreva sulla nuca. Quello che sentivo era un umidore strisciante che mi percorreva completamente. Potevo avvertirlo distintamente così come sentivo la compressione dei polsi mentre lei mi legava le mani dietro la schiena. Ero sempre sdraiato sulla schiena, ed ero anche tutto bagnato. Aprii gli occhi. Lei torreggiava sopra di me, sorridente. Sorrideva, e versava il kerosene. — Sveglio? — mi chiese. — Bene. Ne sono contenta. Volevo proprio che fossi sveglio, così potrai vedere. — Vedere? Diana, non voglio vedere un bel niente. Lasciami andare e... — No. Te ne starai proprio lì. Resterai lì e guarderai. Volevi sapere com'era, non è vero? Volevi sapere. Adesso te lo mostrerò. Le esalazioni si diffondevano, facendomi tossire. Tentai di muovere i polsi. Me li aveva legati con uno spago preso dalla scrivania, stringendo i nodi con quanta forza aveva. — Non ci provare — mi disse. — Non ti servirà. — Ammucchiò una pila di fogli e ci versò sopra il kerosene. — Ecco fatto. Dovrebbe bastare, non credi? — Ridacchiò. — Penserai che sono molto cattiva, vero? — Era accaduto qualcosa alla sua voce. Se avessi avuto gli occhi chiusi, avrei giurato che c'era una bambina che stava parlando. Ma non avevo gli occhi chiusi. Erano aperti, e la guardavo, lei lì sopra di me, una donna fatta, con quei capelli color rame che le ricadevano sulle spalle nude, e la livida marchiatura che risplendeva fra i suoi seni. — Mamma ha detto che sono stata cattiva. Quando ho acceso il fuoco in cantina mi ha presa e mi ha picchiata. Cercai di alzarmi in piedi. Mi si avvicinò e si inginocchiò accanto a me. — Non devi muoverti — mormorò. — Non devi fare il cattivello. — Ridacchiò di nuovo e mi colpì con la rivoltella. Quel lato della mia testa divenne insensibile. — Resta sdraiato, adesso. Resta sdraiato e guarda. Vuoi vedere tutto, non è vero? Anche come comincia, non è vero?
— Diana — gemetti. — Per l'amor di Dio... — Sì, certo, per l'amor di Dio. Vedi che capisci, non è vero? È lui che vuole che distrugga gli altari dell'abominazione, che ripulisca la terra di coloro che s'inginocchiano davanti alle immagini scolpite, e dai malvagi, quelli che peccano contro la carne e lo spirito... — Si era inginocchiata adesso, inginocchiata accanto alla pila di carta. In mano aveva una scatola di fiammiferi. Di colpo il suo tono cambiò di nuovo. La bambina non c'era più, la fanatica se n'era andata. La voce adesso era normale, intimamente vibrante. — Oh, Phil, non è eccitante? Aspetta e vedrai. Non puoi immaginarti quanto sia piacevole, come ti fa sentire completa e soddisfatta. È come dovresti sentire quando mi stringi. Solo che questo è un sentimento pulito, puro e buono, non come quell'altro. No. Non è come tu senti le cose. — Diana, fermati! — Oh sì, lo voglio fermare. Voglio fermare te. Tu, e anche tutti loro, quei vascelli di lussuria. È questo che sei anche tu, non è vero? Tu, e mia madre e i suoi uomini: è questo quello che pensate tutti voi! Stava tremando intimamente. I fiammiferi le caddero di mano e lei alzò le dita e si strappò il davanti della camicetta finendo di togliersela del tutto. — E allora guarda! Adesso hai le mani legate. Non puoi toccarmi. Nessuno può toccarmi. Dio mi ha detto di farlo. Ogundu non sapeva del marchio. Me l'ha detto Dio di farlo, per proteggermi dal male. E mi ha mandata qui per bruciare tutto il male. Per bruciare tutti i peccatori. Prese i fiammiferi. La stavo fissando mentre ne accendeva uno. La carta s'arricciò, prese fuoco. — Adesso non ne abbiamo più bisogno — disse. Si alzò, spense la luce. Le fiamme s'alzarono e s'ingrossarono, crearono ombre che danzavano sulle pareti. — Adesso puoi vedere, non è vero? — sussurrò. — Adesso puoi vederlo allargarsi. Allargarsi, e crescere. Anch'io resterò a guardare. Di solito scappo, ma questa volta resterò a guardare. Voglio vederlo divampare. La carta stava fiammeggiando. Fiamme rosse e blu, e adesso anche le tendine erano rosse e blu, e si sentiva già il calore. Il fuoco cominciò a correre sul pavimento nella mia direzione. Lei stava appoggiata alla parete e rideva. Io rotolai via, cercando scampo nell'angolo più lontano. Il fuoco mi seguiva, strisciando e divorando e strisciando in avanti di nuovo. — Sì — disse lei. — Voglio vederlo divampare. Voglio vedere te di-
vampare. Com'è bruciata quella ragazza, quella di cui mi hai raccontato. Lei era cattiva, e anche tu lo sei. Voglio vedere il castigo di Dio: è scritto nella Bibbia, lo sai? Di come i malvagi vengono gettati nelle fiamme. Adesso lo senti anche tu, Phil? Devi sentirlo, e lo sentirai presto! M'incuneai nell'angolo, cercando di sospingere lontana la scrivania. Il fuoco correva sul pavimento come qualcosa di vivo, come un'onda che cresce. Diana cominciò a tossire, ma anche i suoi occhi ondeggiavano. Potevo vedere il riflesso delle fiamme che ne punteggiava le pupille dilatate. — Brucia! Voglio vederti bruciare! Voglio vedere tutto ma mamma non vuole lasciarmi, dice che è una cosa malvagia, ma mamma adesso è morta. Dio l'ha uccisa, ha ucciso Lui la malvagia, e Mi ha detto che potevo guardare... Era orribile sentire quella voce che cambiava, ma guardarla era forse peggio. I lineamenti si formavano e si alteravano come quelli di una maschera di cera che si scioglie sotto l'effetto del calore: vedevo Diana, vedevo una bambina, vedevo una donna in estasi. Ecco com'era lei, ecco com'era un piromane, una metodologia e una follia che non hanno bisogno di spiegazioni per agire. La sentii urlare. Le fiamme erano alte, e potevo vedere tutto benissimo. Piegai la testa all'indietro, nel vano tentativo di vedere oltre il sipario di fuoco. Diana era in piedi contro la parete accanto alla porta. Questa adesso era aperta e c'era qualcuno sulla soglia, che stava entrando nella stanza. Vidi quel viso che conoscevo, una faccia bianca con riflessi rossastri che danzavano su quei lineamenti da clown. Ma lui non mi vide. Stava guardando lei. — Tu — disse iroso. — Tu hai bruciato il tabernacolo. Ti ho vista. Ho avvertito Ogundu questa sera, ma poi ho aspettato perché sapevo che saresti venuta. Lei s'abbassò e cercò di fuggire dalla porta. — Strega! — gridò lui. Lei scattò e attraversò la soglia come un lampo. Lui stava per gettarsi all'inseguimento ma subito si fermò. Quando lei gli passò accanto, il braccio di lui si alzò e ricadde. Lo sentii gridare di nuovo, e per un attimo non registrai le parole. Sembrava quasi una citazione biblica: — Tu non lascerai che una strega viva. Poi capii perché. Capii quando vidi Diana cadere in avanti col lungo col-
tello che le sbucava tra le scapole. La strega è morta... Cercai di alzarmi e quasi ce la facevo. La scrivania si rovesciò di schianto, e io le rotolai sopra. Era come trovarsi su un'isoletta in quel mare di fiamme, fiamme che adesso si levavano tutt'attorno a me, e il fumo mi si stava avventando addosso per intossicarmi. Da molto lontano sentii dei suoni, grida, spari. Mi sembrò di vedere l'ometto che cadeva, ma le fiamme s'alzarono e anch'io caddi. Cominciai a bruciare. 19 Mi lasciarono alzare solo tre giorni dopo. Anche se erano solo bruciature di primo grado, mi avevano bendato come una mummia. Quando Dalton venne a trovarmi, non potevo ancora parlare. Schwarm arrivò il quarto giorno, e per allora andava un po' meglio. — Ti trovo bene — disse subito. — Ancora un'altra settimana qui, e poi potrai andarti a riposare. Sei stato fortunato che abbiano trascinato fuori per tempo quella scrivania. Se Clark non avesse pensato di gettarti addosso il cappotto per smorzare le fiamme... — Lascia perdere Clark. Che ne è stato di quell'ometto? Hanno scoperto come si chiama? — Ma certo: John Schoober. Abbiamo trovato una pratica su di lui. Il tipico paranoico che... — Perché — mormorai — perché pensava a Diana come a una strega? Adesso però lo penso anch'io. Forse voi strizzacervelli avete qualcosa da imparare dai vecchi tempi. Quelli in cui si era soliti spiegare la follia come possessione demoniaca. Schwarm sorrise. Gli feci molte domande, rimisi a posto tutti i pezzi. Era stato l'ometto che aveva eliminato Weatherbee in quel vicoletto. Non aveva mentito dicendo che aveva avvertito Ogundu e poi era rimasto nei paraggi: quando ci aveva visti si era spaventato e aveva tagliato la gola a Weatherbee. Quando gli avevo chiuso la porta in faccia, aveva infranto una finestra della cantina ed era salito fin dov'eravamo noi. Aveva aspettato un bel po' fuori dalla porta - forse un po' troppo, per i miei gusti - finché aveva trovato coraggio a sufficienza per affrontare la strega. Nel frattempo qualche ragazzino aveva scoperto il corpo di Weatherbee.
Aveva avvertito un'auto di pattuglia, e i poliziotti erano arrivati nel momento in cui le fiamme cominciavano a essere visibili dalla strada. Avevano fatto irruzione dalla porta principale e avevano visto il piccoletto che accoltellava Diana. Poi il sergente Clark era entrato e mi aveva trascinato via dalle fiamme. Schwarm mi raccontò proprio tutto. Disse che avevano trovato anche alcune notizie interessanti su Diana Rideaux. Mi chiese di raccontargli tutto quello che sapevo, e io feci del mio meglio per ragguagliarlo. — Perfetto — esclamò quando terminai. — Tutto combacia. L'odio per la madre. Dio idealizzato come una figura paterna. Gli uomini visti come figure paterne, temuti e odiati, adatti solo per la distruzione. "Anche il profilo sessuale combacia. Frigida ma promiscua, col fuoco come simbolo, il fuoco che distrugge le passioni e il maschio che può provocarle. Il fuoco che allo stesso tempo purifica e preserva. Ha senso, sì sì." — Col cavolo che ne ha — gli risposi. — Era una strega. Gli raccontai della prima parte della serata, e poi gli dissi di Margery e dei miei sogni. — Be', almeno tu hai qualcosa per cui essere grato a questa storia, Phil. Non avrai mai più di questi sogni, vedrai. — Speriamo — risposi. Schwarm diceva il vero. Da allora, non ho più sognato di Margery. Adesso ho un sogno nuovo, che ha preso il posto di quello vecchio. Lo faccio tutte le volte che vado a letto senza prima aver preso qualcosa che mi metta fuori combattimento. Lo so che si tratta solo di un sogno, ma anche saperlo non mi aiuta. Comincio col sentirmi sempre più caldo, e riesco a sentire il calore che mi strina la pelle, e poi alzo lo sguardo e vedo quell'altra faccia. Vedo il viso di Diana tra le fiamme, la sento mentre urla. Poi mi sveglio e cerco una sigaretta, ma non l'accendo. Rimango seduto sul letto a tremare, a lungo, col desiderio di fumare ma senza osare farlo. Perché dove c'è fumo, c'è anche fuoco. E io ho paura del fuoco. Per lo meno, l'ho sempre avuta. Lo sa Dio se non ho avuto abbastanza motivi per averne paura, e questi sogni non fanno che peggiorare la situazione. Ma ultimamente ho cominciato a rifletterci su. Schwarm dice che l'unico modo per vincere una fobia è affrontarla. E c'è anche un altro modo. Il fuoco lo si combatte col fuoco...
Non che stia facendo qualcosa in proposito, cercate di capire. Però ci sto pensando. Immaginiamo che riesca a convincermi ad abituarmi al fuoco: dopo, ne avrei ancora paura? Non voglio parlare di incendi, dolosi o meno. Non ho intenzione di fare del male a qualcuno, per lo meno, non a chi non abbia già fatto del male a me. Ma se facessi esperimenti per vedere come funziona, magari giù nel seminterrato dove nessuno verrebbe a saperne nulla, allora tutto andrebbe bene, no? Voglio dire, potrei tenere dell'acqua a portata di mano e usarla prima che le cose mi sfuggano di mano. La mia idea è che adesso non ho proprio paura del fuoco in sé, ma solo delle cose che mi sono successe in collegamento col fuoco. Il fuoco. Non è una cosa di cui aver paura. Non se si riesce a controllarlo. Da come la vedo io, sta tutto qui il segreto: controllare il fuoco. Perché se uno controlla il fuoco, allora controlla qualsiasi cosa. Il fuoco è vita, e anche morte, ed è per questo che è così affascinante da osservare. Vederlo vivere e bruciare e morire. Forse, se tenterò un esperimento o due, i sogni svaniranno. E poi non c'è pericolo: ci starò molto attento. E se mi aiuterà a liberarmi dai sogni, avrò ottenuto quello che voglio. Immagino che questo sia il vero motivo per cui mi sono preso il disturbo di scrivere tutto quanto: perché la gente sappia che so quello che sto facendo e perché lo faccio. E così non ci sarà alcun motivo di fare stupidi discorsi su incendiari e cose simili. Perché è una cosa sensata, non trovate? Non è come se non sapessi la differenza fra sogno e realtà. Usando la logica, si sa sempre qual è la differenza. Si vive e si impara. Si vive e si brucia. A volte, sul tardi, questa frase mi scoppietta in testa quando meno me l'aspetto. È come una voce. Ma so che non è una voce. Vedete, ormai la conosco la differenza. So qual è la differenza fra sogno e realtà. E ho deciso di usare la realtà per combattere i sogni. Magari questa sera... FINE