TAMI HOAG LA PROVA DEL FUOCO (Ashes To Ashes, 1999) Ringraziamenti La mia più viva riconoscenza va innanzitutto e soprat...
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TAMI HOAG LA PROVA DEL FUOCO (Ashes To Ashes, 1999) Ringraziamenti La mia più viva riconoscenza va innanzitutto e soprattutto all'agente speciale dell'FBI Larry Brubaker, per avermi dedicato con generosità tanto del suo tempo e della sua esperienza di consulente. Tengo comunque a precisare una volta per tutte che non è stato lui a servirmi da modello per il personaggio di Vince Walsh. (Scusami, Bru!) Inoltre vorrei far presente che, fra la stesura iniziale del libro e la sua conclusione, sono intervenuti numerosi cambiamenti nella struttura dell'unità dell'FBI che in passato - e quindi in questa storia - era nota con il nome di CASKU (Child Abduction Serial Killer Unit), Unità investigativa per rapimenti di minori e serial killer. Gli agenti che facevano parte di questa unità sono entrati ora nel NCAVC (National Center for the Analysis of Violent Crime), Centro nazionale per l'analisi dei crimini violenti, e non lavorano più nei locali della sede dell'FBI a Quantico, a diciotto metri sotto il livello del suolo, ma sono letteralmente sotto gli occhi del pubblico, visto che ora occupano una nuova sede dotata di finestre; per gli scrittori non è altrettanto interessante, ma gli agenti l'apprezzano certamente. Desidero inoltre esprimere la mia sincera gratitudine ai tutori della legge e ai professionisti dei servizi legali elencati di seguito, per avermi dedicato il loro tempo rispondendo a numerose domande (come sempre, ho fatto del mio meglio per conferire un sapore di autenticità alle attività descritte in questo libro e qualunque errore io abbia commesso, o qualunque libertà mi sia presa in nome delle esigenze narrative, si deve unicamente a me): Frances James, servizio di protezione vittime e testimoni, contea di Hennepin; Donna Dunn, servizi di assistenza alle vittime, contea di Olmsted; Bernie Martinson, sergente della polizia di Minneapolis; Roger Wheeler, agente speciale incaricato, FBI; Dale Barsness, tenente della polizia di Minneapolis; John Reed, agente investigativo dell'ufficio dello sceriffo, contea di Hennepin. Andi Sisco: mille grazie per avermi procurato tanti contatti! Sei una stel-
la. Diva Karyn, alias Elizabeth Grayson: un ringraziamento speciale per alcuni suggerimenti ispirati di cui mi sono avvalsa, tra gli altri quello relativo a un feticcio particolarmente macabro. Chi lo dice che gli scrittori di thriller debbano avere l'esclusiva delle idee orripilanti? Eileen Dreyer, autrice di Brain Dead: grazie per il consueto sostegno, non solo tecnico. Diva Bush, alias Kim Cates: come sopra. E un ringraziamento speciale a te, Rocket, per il sostegno, la comprensione, l'incoraggiamento e, ogni tanto, qualche meritato calcio nel sedere. Mal comune, mezzo gaudio. 1 Assassini si nasce. A volte si diventa. E a volte il desiderio di uccidere affonda le proprie aggrovigliate radici in un'infanzia infelice e in un'adolescenza a rischio, per cui nessuno potrà mai capire se si tratta di un impulso innato oppure indotto. Lui solleva il corpo dal bagagliaio della Blazer come se fosse un vecchio tappeto arrotolato, pronto per essere gettato fra i rifiuti. La suola degli stivali fruscia sull'asfalto dell'area di parcheggio prima di posarsi sull'erba secca e sul terriccio compatto, in un silenzio quasi assoluto. La notte di novembre è mite, per il clima di Minneapolis. Un mulinello di vento solleva da terra alcune foglie secche. Dai rami nudi degli alberi che oscillano al vento si sprigiona un crepitio secco, quasi fossero sacchi d'ossa. Lui sa di rientrare nella terza categoria di assassini. Ha dedicato ore, giorni, mesi, anni, a studiare l'impulso coatto che lo assale, e le sue origini. Sa di che cosa si tratta e accetta la verità senza cercare alibi. Non ha mai conosciuto sensi di colpa o rimorsi. Ritiene che la coscienza, le regole, le leggi, non abbiano alcuno scopo pratico per l'individuo, anzi possano soltanto limitare le potenzialità umane. «L'uomo entra nel mondo etico per paura e non attraverso l'amore», ha detto Paul Ricoeur, La simbolica del male. Il suo vero sé riconosce soltanto il proprio codice personale: dominio, manipolazione, controllo. Una scheggia di luna, pallida oltre il groviglio di rami, spande sulla scena un fioco chiarore. Lui dispone il corpo nel modo che più lo appaga e traccia sulla parte superiore sinistra del torace due X che s'intersecano.
Con la sensazione di compiere una cerimonia, versa il liquido infiammabile. Estrema unzione. Il simbolismo del male. Il suo vero sé accoglie il concetto del male come potere. Combustibile per il fuoco interiore. «Cenere alla cenere.» I suoni sono chiari e precisi, ingigantiti dall'eccitazione. Lo sfregamento del fiammifero, il sibilo nel momento in cui si accende, il fruscio della fiamma che divampa e consuma. Mentre il fuoco si propaga, nella sua memoria riecheggiano i suoni precedenti, di paura e di dolore. Ricorda il tremito nella voce della donna mentre lo implorava per avere salva la vita, il timbro e la qualità unica e inconfondibile di ogni grido lanciato mentre la torturava. La musica squisita della vita e della morte. Per un istante fugace, ma splendido, si concede il lusso di ammirare il quadro drammatico che ha creato. Si permette di gustare il calore delle fiamme che gli lambiscono il viso, simili alle fiamme del desiderio. Chiude gli occhi e ascolta lo sfrigolio e il sibilo, aspira a fondo l'odore delle carni carbonizzate. Euforico, esaltato, eccitato, estrae dai pantaloni il pene eretto, manipolandolo con forza. Arriva quasi al culmine, ma fa attenzione a non eiaculare. Si riserva per il momento in cui potrà celebrare in piena regola. La meta è già in vista. Sta seguendo un piano preparato con cura meticolosa, da realizzare alla perfezione. Il suo nome vivrà per sempre in un alone di infamia, insieme con quello di tutti i grandi: Bundy, Kemper, lo strangolatore di Boston, il killer di Green River. La stampa gli ha già trovato un nome: il Crematore. Questo lo fa sorridere, lo rende fiero. Accende un altro fiammifero e lo tiene per un attimo sospeso di fronte a sé, osservando la fiamma, amandone le ondulazioni sinuose e sensuali. Lo accosta al viso, apre la bocca e lo mangia. Poi si volta e se ne va, pensando già alla prossima volta. Un cadavere... L'immagine le era rimasta profondamente impressa nella memoria, stampata sulla retina, tanto che le sembrava di rivederla ogni volta che batteva le ciglia per respingere le lacrime. Il corpo che si torceva in una lenta agonia, tentando di sfuggire a quel destino orribile. L'arancio delle fiamme come sfondo di una visione da incubo. Un rogo... Lei correva, con i polmoni riarsi, i muscoli delle gambe doloranti, gli
occhi infiammati, la gola secca. Forse era il suo corpo quello che ardeva e a dirglielo era la sua anima che tentava di sfuggire alle fiamme dell'inferno. Era là che sarebbe finita, glielo avevano ripetuto tante volte. Poco lontano, udì l'ululato di una sirena e vide il frenetico lampeggiare delle luci rosse e azzurre sullo sfondo buio della notte. Continuò a correre verso la strada, singhiozzando e incespicando. Batté il ginocchio destro sul terreno gelato, ma impose ai suoi piedi di proseguire la corsa. Scappa scappa scappa scappa scappa scappa... «Alt! Polizia!» L'autopattuglia oscillava ancora sulle sospensioni, ferma accanto al marciapiede. Lo sportello era aperto. L'agente era sul viale, con la pistola in pugno, puntata contro di lei. «Aiutatemi!» ansimò, con la vista offuscata dalle lacrime. Le gambe cedettero sotto il peso del corpo, il peso della paura e il peso del cuore che le martellava nel petto come un enorme oggetto gonfio. Il poliziotto la raggiunse un attimo dopo, rinfoderando la pistola e inginocchiandosi per aiutarla. Doveva essere un novellino, pensò lei. Conosceva ragazzi di quattordici anni che avevano maggiore fiuto per il pericolo. Avrebbe potuto disarmarlo facilmente. L'agente l'aiutò a mettersi seduta, prendendola per le spalle. Altre sirene ululavano in lontananza. «Che cosa è successo? Come sta?» le domandò. Aveva un viso d'angelo. «L'ho visto», rispose lei, senza fiato, tremando, con la bile che minacciava di salirle in gola. «Ero lì. Oh, Cristo! Oh... merda, l'ho visto!» «Visto chi?» «Il Crematore.» 2 Perché mai devo trovarmi sempre nel posto sbagliato nel momento sbagliato? mormorò fra sé Kate Conlan. Era il primo giorno che tornava al lavoro dopo quella che in senso tecnico si poteva definire una vacanza - un viaggio a Las Vegas per vedere i genitori, sospinta dal senso di colpa - e già era in ritardo, aveva mal di testa e moriva dalla voglia di strangolare un certo sergente della Buoncostume che aveva brutalizzato una delle sue assistite, mettendola nei guai con il procuratore. E, come se non bastasse, il tacco a spillo di una delle scarpe di camoscio alla moda, nuove di zecca, minacciava di staccarsi,
grazie alle scale del parcheggio della Quarta Avenue. E ora anche questo: un tipo sospetto. Sembrava che nessun altro lo avesse notato, mentre si aggirava ai margini del vasto atrio del Centro governativo della contea di Hennepin come un gatto con il pelo ritto. Kate calcolò che doveva avere fra i trenta e i quarant'anni ed era di corporatura media o snella, alto una spanna più di lei, che era sul metro e settantacinque. Sembrava teso come una corda di violino. Era probabile che avesse subito di recente qualche choc personale o emotivo, come perdere il lavoro, oppure la fidanzata. Doveva essere divorziato o separato, in ogni caso viveva da solo, ma non per questo era un senzatetto, visto che gli abiti erano gualciti, ma non di seconda mano, e le scarpe di buona qualità; fin troppo, per un vagabondo. Sudava come un obeso nella sauna, eppure non si toglieva il soprabito, mentre girava intorno alla nuova scultura che ingombrava l'atrio: un monumento simbolico piuttosto pretenzioso, ricavato da armi da fuoco fuse con la fiamma ossidrica. Borbottava fra sé, con una mano sospesa sul davanti della giacca di tela pesante. Una giacca da cacciatore. La tensione emotiva gli tirava i muscoli del viso. Kate si sfilò la scarpa con il tacco ballerino, lasciò l'altra sul pavimento, senza mai distogliere lo sguardo dall'uomo. Prese il cellulare dalla borsetta. Nello stesso istante, il tipo sospetto attirò l'attenzione della donna che lavorava allo sportello delle informazioni, a poco più di cinque metri di distanza. Dannazione. Kate si raddrizzò lentamente, pestando freneticamente i tasti del telefonino. La guardia più vicina si trovava all'altro capo di quell'atrio enorme. L'addetta alle informazioni si avvicinò all'uomo piegando di lato la testa, come se la massa di capelli color platino simili a zucchero filato fosse troppo pesante per lei. Dannazione. Il telefono squillò una, due volte. Kate cominciò lentamente ad avanzare, con il cellulare in una mano e la scarpa nell'altra. «Posso esserle utile, signore?» chiese l'addetta alle informazioni, mentre lei era ancora a tre metri di distanza. L'uomo si girò di scatto. «Posso esserle utile?» ripeté la donna. ... quarto squillo... Una portoricana con un figlioletto al seguito passò fra Kate e il tipo so-
spetto, che sembrava scosso da un tremito, forse per contenere la rabbia, o la disperazione, o qualunque fosse l'emozione che lo sosteneva o lo divorava vivo. ...quinto squillo. «Ufficio della procura della contea di Hennepin...» «Dannazione!» La posa era inconfondibile: piedi piantati sul pavimento, mano sotto la giacca, occhi dilatati. «A terra!» gridò Kate, lasciando cadere il cellulare. L'addetta alle informazioni rimase paralizzata. «Qualcuno deve pagare!» gridò l'uomo, lanciandosi sulla donna e afferrandole il braccio con la mano libera. L'attirò a sé con uno strattone, puntandole addosso la pistola. La detonazione risuonò ingigantita nell'enorme spazio dell'atrio, assordando e coprendo le urla di panico suscitate dallo sparo. Ora tutti si erano accorti di lui. Kate lo investì alle spalle, sferrandogli un colpo alla tempia con il tacco della scarpa. Lui lanciò un grido di sorpresa, poi reagì assestandole con il braccio destro una gomitata che la raggiunse alle costole. L'addetta alle informazioni continuava a urlare. A un tratto perse l'equilibrio, o i sensi, e il tonfo del suo corpo che cadeva fece scattare all'indietro l'aggressore. Posò un ginocchio a terra, imprecando e sparando un altro colpo, che rimbalzò sul pavimento per finire chissà dove. Kate, aggrappata con la mano sinistra al bavero della sua giacca, cadde insieme con lui. Non poteva mollarlo. Qualunque fosse la bestia che era intrappolata in lui, ormai si era scatenata. Le calze di nylon non le consentivano di fare presa sul pavimento levigato puntando i piedi, così fu costretta ad annaspare per restare avvinghiata all'uomo che cercava di rialzarsi. Sferrò un altro colpo di tacco, centrandogli l'orecchio, e lui si contorse nel tentativo di assestare una sventola all'indietro con la mano armata di pistola. Kate lo afferrò per il braccio e glielo stava torcendo verso l'alto, fin troppo consapevole che sopra di lei c'erano oltre venti piani di uffici e aule giudiziarie, quando sentì partire un altro colpo. Mentre lottavano per accaparrarsi il controllo della pistola, lo agganciò con una gamba, proiettando tutto il proprio peso contro di lui, e a un tratto precipitarono, rotolando l'uno sopra l'altra, lungo i taglienti gradini di metallo della scala mobile, fino al livello della strada, dove furono accolti da una raffica di urla: «Fermi! Polizia!» Kate, con gli occhi velati da lacrime di dolore, alzò la testa a guardare
quei volti contratti, e mormorò: «Era ora!» «Ehi, guardate!» esclamò uno dei viceprocuratori dal suo ufficio, vedendola arrivare. «C'è l'ispettore Callaghan in gonnella!» «Molto spiritoso, Logan», ribatté Kate, passando nel corridoio diretta verso lo studio del procuratore della contea. Aveva il fianco e la schiena indolenziti. Invece di farsi portare al pronto soccorso, si era rifugiata zoppicando nella toilette delle signore, dove aveva ravviato all'indietro la folta chioma rosso oro, raccogliendola in una coda di cavallo, si era lavata di dosso il sangue e aveva gettato nel cestino le scarpe, ormai rovinate, poi si era avviata verso l'ufficio. Non aveva lesioni che richiedessero una radiografia o qualche punto di sutura, e ormai metà della mattina se n'era già andata. Ecco qual era la ricompensa per aver voluto fare l'eroina: per dormire avrebbe dovuto ricorrere a un'aspirina e a un gin ghiacciato, più un bel bagno caldo, anziché ad analgesici veri. Sapeva già che se ne sarebbe pentita. Le passò per la mente che ormai era troppo vecchia per bloccare un folle e farlo rotolare giù dalla scala mobile, ma non voleva ammettere che quarantadue anni fossero troppi per qualunque iniziativa. Inoltre erano solo cinque anni che era cominciata quella che definiva la «seconda maturità». La sua seconda carriera, il secondo tentativo di raggiungere stabilità e ordine. Da quando era tornata dall'infernale pandemonio di Las Vegas, desiderava solo riprendere la vita quieta, normale e relativamente sana che si era creata. Alla pace e alla tranquillità, all'ormai familiare lavoro con il servizio di protezione vittime e testimoni, al corso di cucina nel quale era decisa a riuscire a tutti i costi. E invece no, era toccato a lei individuare quel tipo sospetto. Toccava sempre a lei. Fu il procuratore della contea in persona, avvertito dalla segretaria, ad aprirle la porta dell'ufficio. Ted Sabin, alto e attraente, aveva un'aria di comando e folti capelli grigi con l'attaccatura a V sulla fronte, che portava pettinati all'indietro. Un tempo era stato anche lui un procuratore d'assalto, ma ormai si occupava soltanto di qualche caso ad alto livello. Sovrintendeva a un ufficio molto attivo, affollato di procuratori che tentavano di destreggiarsi nel miglior modo possibile con il carico di lavoro sempre più pressante sfornato dal sistema giudiziario della contea di Hennepin. Le ore dei pasti lo trova-
vano in perenne movimento nelle alte sfere di Minneapolis, a caccia di contatti e di popolarità. Era risaputo che puntava a un seggio nel Senato degli Stati Uniti. «Entra, Kate», la invitò, posandole una mano sulla spalla per guidarla verso una sedia. «Come stai? Mi hanno appena informato di quello che è accaduto stamattina all'ingresso. Mio Dio, avresti potuto restare uccisa. Che coraggio!» «Ma no!» protestò Kate, tentando di sottrarsi a quel contatto. Nell'accomodarsi sulla sedia riservata ai visitatori, sentì lo sguardo di Sabin posarsi sulle sue gambe nude. Tentò con discrezione di tirare giù l'orlo della gonna nera, rammaricandosi di non aver trovato il collant di riserva che credeva di avere nel cassetto della scrivania. «È stata una reazione istintiva, tutto qui. Come sta la signora Sabin?» «Bene, grazie.» La risposta fu automatica. «Una reazione istintiva? Come ti hanno insegnato al Bureau?» Era ossessionato dal fatto che lei era stata un agente federale, in quella che ormai Kate considerava una vita precedente. Le riusciva facile immaginare le fantasie oscene che dovevano prendere forma nella sua mente. Giochi da dominatrice, pelle nera, manette, sculacciate. Che schifo, pensò. Dedicò la sua attenzione al diretto superiore, il direttore dell'Unità servizi legali, che si era seduto accanto a lei. Rob Marshall era l'esatto contrario di Sabin: grassoccio, brusco, trasandato. Aveva una testa sferica come una zucca, sormontata da una peluria rada, tagliata così corta da somigliare più a una patina di ruggine che a una vera capigliatura. Il viso era congestionato e deturpato da vecchie cicatrici di acne, il naso troppo corto. Era il suo capo da diciotto mesi, ossia da quando si era trasferito a Minneapolis da Madison, nel Wisconsin, dove aveva occupato una posizione analoga. Da allora avevano tentato senza troppo successo di trovare un equilibrio fra personalità e stili di lavoro diversi. In tutta franchezza, Kate lo trovava odioso. Rob era un mollusco senza spina dorsale, con una spiccata tendenza al servilismo e all'adulazione. Lui, di contro, la riteneva autoritaria, saccente e impertinente. Kate lo considerava un complimento, ma cercava di rammentare a se stessa che la sollecitudine di Rob per le vittime compensava i suoi difetti. Oltre ad assolvere ai suoi doveri amministrativi, lui partecipava spesso ai colloqui con le vittime e dedicava parte del suo tempo a un gruppo di sostegno. In quel momento la stava scrutando con gli occhi ingigantiti da un paio di lenti senza montatura. «Avresti potuto restare uccisa. Perché non hai
chiamato la sicurezza?» «Non c'era tempo.» «Istinto, Rob!» esclamò Sabin. «Noi non possiamo neanche minimamente capire quel tipo di istinto affilato come un rasoio che per le persone con il passato di Kate e diventato quasi una seconda natura.» Kate si astenne dal rammentargli per l'ennesima volta che aveva trascorso la maggior parte dei suoi anni di servizio all'FBI seduta dietro un scrivania dell'Unità di scienze comportamentali, nel VICAP (Violent Criminal Apprehension Program), il Programma di analisi del crimine violento. «Il sindaco ti assegnerà una ricompensa», aggiunse Sabin con entusiasmo, sapendo che nella foto sarebbe comparso anche lui. «Preferirei di no. Non mi pare opportuno, per una persona che svolge il mio lavoro. Non sembra anche a te, Rob?» «Penso che Kate abbia ragione», confermò lui, con un sorriso ossequioso. «Tutto considerato, non è il caso che appaia sui giornali.» «Già, penso di no», ammise Sabin, deluso. «In ogni caso, non è per questo che ti abbiamo convocata, Kate. Dobbiamo assegnarti una testimone.» «Come mai tutte queste cerimonie?» Di solito l'assegnazione dei clienti era automatica. Lei collaborava con sei viceprocuratori e accettava tutti gli incarichi che le venivano affidati, a parte gli omicidi. In quel caso era Rob in persona ad affidarglielo, ma questo non comportava altro che una telefonata o una visita nel suo ufficio. Non richiedeva mai l'intervento di Sabin. «Hai sentito parlare delle due prostitute uccise l'autunno scorso?» le chiese ora. «Quelle il cui corpo è stato dato alle fiamme?» «Sì, certo.» «C'è stato un altro caso. Ieri sera.» Kate spostò lo sguardo dall'uno all'altro. Alle spalle di Sabin, oltre venti piani più sotto, scorse il centro di Minneapolis. «Sì, ma questa volta non era una prostituta», osservò. «Come fai a saperlo?» Perché se lo fosse non saresti qui a sprecare tempo prezioso, pensò. A voce alta disse: «Ho tirato a indovinare». «Non è che ti hanno fatto una soffiata?» «Soffiata?» Come se fosse un film poliziesco. «No, non sapevo nemmeno che ci fosse stato un delitto.» «C'è la probabilità che la vittima sia Jillian Bondurant, la figlia di Peter Bondurant.»
«Oh», mormorò Kate, colpita. Oh, no, stavolta non era l'ennesima prostituta uccisa. Non aveva importanza che anche le altre due vittime avessero un padre: il punto era che in questo caso si trattava di un uomo importante. Rob si dimenò sulla sedia. «Vicino al corpo c'era la patente di guida.» «E la sua scomparsa è stata confermata?» «Ha cenato a casa del padre venerdì scorso, e da allora nessuno l'ha più vista.» «Questo non significa che sia lei.» «No, ma è andata così anche per le altre due», ribatté Sabin. «Il documento lasciato vicino al corpo di ogni prostituta corrispondeva alla sua identità.» Nella mente di Kate saettarono centinaia di domande, interrogativi che riguardavano la scena del delitto, i particolari divulgati sugli altri due delitti e quelli che invece erano stati taciuti. Era la prima volta, per esempio, che sentiva parlare di documenti lasciati sulla scena. Che senso aveva? Perché bruciare il corpo al punto da renderlo irriconoscibile e poi lasciare un documento della vittima proprio lì accanto? «Presumo che lo si possa appurare dalle impronte dentarie.» I due uomini si scambiarono un'occhiata. «Temo che sia impossibile», rispose Rob in tono circospetto. «Abbiamo soltanto il corpo.» «Oh, mio Dio.» Kate si sentì scuotere da un brivido. «Le altre non erano state decapitate. O, almeno, non ho sentito dire niente di simile.» «No, è vero», confermò Rob. «Allora, Kate, che ne pensi? Tu hai esperienza di casi del genere.» «È evidente che siamo di fronte a un crescendo di violenza. Questo potrebbe significare che mira a qualcosa di grosso. Le altre avevano subito mutilazioni sessuali, giusto?» «Negli altri due casi, la causa accertata della morte era lo strangolamento per mezzo di una cordicella», rispose Sabin. «Senza dubbio non c'è bisogno di dirti, Kate, che, per quanto lo strangolamento sia già un metodo abbastanza violento per dare la morte, la decapitazione getterà nel panico la città intera, soprattutto se la vittima è una giovane donna onesta e rispettosa della legge. Mio Dio, la figlia di uno degli uomini più in vista della città. Dobbiamo trovare questo assassino alla svelta, e possiamo farlo. Abbiamo una testimone.» «Ed è a questo punto che entro in scena io», commentò Kate. «Chi è la donna?»
«Si chiama Angie DiMarco», spiegò Rob. «È uscita di corsa dal parco proprio mentre arrivava la prima autopattuglia.» «Chi ha chiamato la polizia?» «Una telefonata anonima partita da un cellulare, per quanto mi risulta», rispose Sabin. «Peter Bondurant è amico del sindaco. Lo conosco anch'io. È fuori di sé per il dolore al pensiero che la vittima possa essere Jillian e vuole che il caso sia risolto al più presto. Mentre parliamo, si sta mettendo insieme una task force. Sono stati convocati i tuoi vecchi amici del Bureau, che manderanno qualcuno dell'ISU, l'Unità investigativa di supporto. È chiaro che abbiamo per le mani un serial killer.» Più un uomo d'affari influente che ti alita sul collo, si disse lei. Il telefono sulla scrivania lampeggiò senza squillare, come la console del centralino di una maratona di beneficenza tipo Telethon. «Ecco perché abbiamo convocato te, Kate», intervenne Rob. «Non possiamo aspettare che arrestino il presunto colpevole per assegnare a qualcuno l'incarico di occuparsi della testimone. È l'unico legame che abbiamo con l'assassino. Vogliamo affiancarle subito qualcuno dell'unità che l'assista durante i colloqui con la polizia e le faccia capire che non deve parlare con la stampa. Qualcuno che si occupi dei contatti fra lei e l'ufficio del procuratore della contea. Qualcuno che la tenga d'occhio.» «Ho l'impressione che vi serva una baby-sitter, ma io ho altri casi da seguire.» «Ti toglieremo una parte del carico di lavoro.» «Non Willis», precisò lei, facendo una smorfia. «Anche se Dio solo sa quanto mi farebbe piacere scaricarlo. E neppure Melanie Hessler. Non se ne parla nemmeno.» «La Hessler potrei prenderla io», insistette Rob. «Ho partecipato alla riunione iniziale e il caso mi è familiare.» «No.» «Ho lavorato con un'infinità di vittime di stupri.» «No», ribadì Kate, come se fosse lei il capo e la decisione spettasse a lei. Sabin sembrava irritato. «Di che cosa si tratta?» «Melanie Hessler. È stata violentata da due uomini nel vicolo dietro la libreria per adulti dove lavora, in pieno centro», spiegò Kate. «È molto fragile e l'idea del processo la terrorizza. Non accetterebbe di essere abbandonata, tanto meno per essere affidata a un uomo. Ha bisogno di me e non intendo tradire la sua fiducia.» «Bene», dichiarò Sabin, spazientito. «Ma questo caso deve avere la prio-
rità assoluta. Non m'importa chi se ne occupa, ma voglio mettere fine alle attività di questo psicopatico, e subito.» Finché il telegiornale delle sei era disposto a dedicare alla vittima più di un minuto e mezzo di tempo. Kate avrebbe voluto sapere quante prostitute ci sarebbero volute per indurre Ted Sabin a raggiungere quel livello di impazienza, ma tenne la domanda per sé e annuì, cercando di ignorare la sensazione di terrore che le gravava lo stomaco come un peso di piombo. Era solo un'altra testimone, disse a se stessa. Un altro caso come tanti. Si tornava al solito intreccio emotivo proprio del suo lavoro. Eh, no, La morte della figlia di un miliardario, un caso pieno di politici, un serial killer e qualcuno in arrivo da Quantico. Qualcuno dell''ISU. Poteva solo sperare che fosse qualcuno che non ne faceva parte cinque anni prima, ma sapeva che la speranza era uno scudo piuttosto inconsistente. Tutt'a un tratto, Las Vegas non le parve più tanto infernale. 3 «È successo di notte. Era buio. Che cosa può aver visto?» domandò Kate. Stavano percorrendo tutti e tre il passaggio sotterraneo che correva sotto la Quinta Strada collegando il centro governativo alla deprimente mostruosità di pietra in stile gotico che ospitava gli uffici dell'amministrazione municipale e il dipartimento di polizia di Minneapolis. «Agli agenti ha detto di averlo visto», rispose Rob. «Dobbiamo augurarci che lo abbia visto abbastanza bene da identificarlo.» «Vorrei ottenere un identikit in tempo per la conferenza stampa», disse Sabin. Kate serrò i denti. Oh, sì, quel caso sarebbe stato una vera pacchia. «Un buon identikit richiede tempo. Vale la pena di aspettare e averlo come si deve.» «Sì, certo, ma prima si ottiene una descrizione e si fa circolare un ritratto, meglio è.» «Faremo tutto il possibile perché la situazione si risolva in fretta», gli assicurò Rob. Kate gli lanciò un'occhiata truce. Il municipio era stato, un tempo, la sede del tribunale della contea di Hennepin, costruito dunque con criteri di sobria imponenza per impressionare i visitatori. L'ingresso sulla Quarta Strada, che Kate aveva occasione di usare di rado, era maestoso come quello di una reggia, con una grandio-
sa doppia scalinata di marmo, incredibili vetrate colorate e una scultura enorme, dedicata al Padre delle Acque, il Mississippi. Il corpo principale dell'edificio le aveva sempre ricordato un vecchio ospedale, con i pavimenti di piastrelle e lo zoccolo di marmo bianco. La divisione indagini criminali della polizia era stata relegata in una tetra conigliera di locali in fondo a un corridoio cavernoso, perché nella sede abituale erano in corso i lavori di ristrutturazione. L'area per il pubblico era suddivisa da tramezzi, c'erano faldoni e scatole di cartone accatastati dappertutto, mentre vecchi classificatori metallici dall'aria malconcia erano stipati in tutti gli angoli disponibili. Affisso con le puntine alla parete vicino alla porta dello stanzino per le scope riconvertito in ufficio per la Buoncostume, c'era un cartello che annunciava: VEGLIA DEL RINGRAZIAMENTO! 27 NOVEMBRE DA PATRICK'S ORE 16.00 Sabin salutò con un cenno vago la segretaria all'ingresso, svoltando a destra verso gli uffici della Omicidi, un guazzabuglio di squallide scrivanie metalliche color gesso sporco, dove appunti, fotografie e vignette umoristiche erano fissati con le puntine o il nastro adesivo su pareti e armadietti. Un avviso di fianco alla porta ammoniva: OMICIDI - TENERE LE ARMI SOTTOCHIAVE! Vedendoli arrivare, Sam Kovac, con la cornetta del telefono incollato all'orecchio, li invitò con un cenno ad avvicinarsi. Autentico veterano della polizia, con ventidue anni di servizio all'attivo, aveva l'aspetto classico dello sbirro, con tanto di baffi e capelli tagliati alla bell'e meglio, di un color sabbia spruzzato d'argento. «Sì, mi rendo conto che esci con la sorella della mia seconda moglie, Sid.» Da una scatola sulla scrivania estrasse un pacchetto nuovo di sigarette, armeggiando con l'involucro di cellofan. Si era tolto la giacca del completo marrone tutto gualcito, allentando il nodo della cravatta. «Questo però non li autorizza a ottenere informazioni riservate sul delitto. Tutto quello che puoi sperare di ottenere è la mia comprensione. Ah, sì, ti ha detto così? E perché pensi che io l'abbia lasciata? Ah. Davvero?» Addentò la linguetta dell'involucro, strappandola con i denti. «Lo senti, Sid? È il suono che farò aprendoti una nuova asola, se pubblicherai una so-
la parola sull'argomento. Mi capisci? Se vuoi delle informazioni, vieni alla conferenza stampa come tutti gli altri. Ah, sì? Bene, altrettanto a te.» Riagganciò violentemente il ricevitore, voltandosi a guardare il procuratore della contea con un cipiglio truce. Aveva gli occhi marroni screziati di verde come la corteccia di un tronco, ma iniettati di sangue, duri e scintillanti di intelligenza. «Dannati giornalisti!» «Hanno il nome di Bondurant?» s'informò Sabin. «Certo che ce l'hanno.» Kovac estrasse una sigaretta dal pacchetto, lasciandola pendere dalle labbra mentre frugava tra le cianfrusaglie che ingombravano il piano della scrivania. «Sono piombati tutti su questa storia come mosche sulla merda», sbottò, lanciando un'occhiata alle spalle di Sabin. «Salve, Kate... Cristo, che cosa ti è successo?» «È una storia lunga. Sono sicuro che la sentirai raccontare stasera, da Patrick's. Dov'è la nostra testimone?» «Più avanti, in fondo al corridoio.» «Sta già lavorando con il disegnatore?» volle sapere Sabin. Kovac sbuffò. «Quella per ora non lavora. La nostra cittadina esemplare non è esattamente entusiasta di trovarsi al centro dell'attenzione, qui dentro.» Rob Marshall parve allarmato. «Non ci darà problemi, vero?» Lanciò a Sabin il solito sorriso da leccapiedi. «Immagino che sia semplicemente scossa. Kate la calmerà.» «Che idea ti sei fatta della testimone, detective?» domandò Sabin. Kovac afferrò un accendino Bic e un fascicolo straripante di fogli in disordine, poi si avviò verso la porta. Pur avendo un'aria cinica e stanca, era un tipo alto e vigoroso, che badava ai fatti più che alle apparenze. I pantaloni marroni, troppo lunghi, formavano delle borse alle ginocchia e si afflosciavano sulle scarpe scalcagnate. «Oh, è un fiorellino», rispose con sarcasmo. «Ci presenta una patente di guida di un altro Stato, che dev'essere rubata. Dice di abitare in un appartamento nella zona di Phillips, ma non ha la chiave e non sa dirci chi ce l'abbia. Se non ha la fedina penale sporca, giuro che mi faccio radere il culo e me lo tingo di blu.» «Quindi hai controllato i suoi dati al computer? E poi?» Kate si sforzò di stargli dietro, in modo da lasciarsi alle spalle Sabin e Rob. Aveva imparato da tempo a coltivare l'amicizia dei poliziotti che lavoravano ai suoi casi. Era un vantaggio averli come alleati, anziché come avversari. Inoltre ap-
prezzava quelli in gamba come Kovac, che svolgevano un lavoro difficile senza ottenere troppo credito e senza ricevere uno stipendio adeguato, per la semplice e antiquata ragione che credevano nella propria professione. In quei cinque anni, fra lei e Kovac si era stabilito un buon rapporto. «Ho provato a controllare il nome che usa oggi», precisò lui, «ma quel dannato computer è fuori uso. Che bella giornata! E pensare che stanotte dovrei essere di turno. A quest'ora dovrei essere già a letto, come gli altri della mia squadra. Odio questo merdoso concetto di squadra. Datemi un compagno e lasciatemi in pace. Capisci che cosa intendo? Ho una mezza idea di farmi trasferire alla Buoncostume.» «Per voltare le spalle alla fama e agli onori?» lo stuzzicò Kate, pungolandolo con il gomito. Lui la guardò in tralice, chinando la testa con aria da cospiratore. I suoi occhi scintillarono di umorismo. «Lo sai, testa rossa, a me piacciono i delitti alla buona, senza tante complicazioni.» «L'ho sentito dire, Sam», scherzò lei, sapendo che Kovac era il miglior investigatore della polizia cittadina, un tipo tutto d'un pezzo che amava il suo lavoro, anche se ne odiava il lato politico. Lui scoppiò in una risata sommessa, aprendo la porta di una stanzetta dalla quale se ne vedeva un'altra attraverso il vetro offuscato di un finto specchio. Dall'altra parte del vetro, Nikki Liska, una donna poliziotto, era appoggiata alla parete, impegnata in un duello di sguardi con la ragazza seduta dalla parte opposta del tavolo con il piano di formica. Brutto segno. La situazione era già diventata conflittuale. Il tavolo era ingombro di lattine di bibite, bicchieri da caffè in plastica, briciole e avanzi di ciambelle. La sensazione di terrore che attanagliava la gola di Kate aumentò, mentre guardava oltre il vetro. Calcolò che la ragazza doveva avere quindici o sedici anni. Pallida e magra, aveva il nasino all'insù e la bocca turgida e matura di una squillo d'alto bordo. Il viso era un ovale allungato, con il mento un po' troppo sottile, per cui aveva un'aria di sfida anche senza volerlo. Gli occhi a mandorla avevano un taglio esotico, da slava, ma lo sguardo denunciava almeno vent'anni in più della sua età. «È una ragazzina», osservò Kate, lanciando a Rob un'occhiata furiosa. «Non mi occupo di ragazzine, lo sai.» «Stavolta dovrai farlo, Kate.» «E perché?» ribatté lei. «Avete a disposizione un'intera sezione minorenni. Dio sa se non si occupano regolarmente anche di omicidi.» «Questa volta è diverso. Qui non abbiamo a che fare con una banda di
teppistelli», ribatté Rob, relegando alcuni dei crimini più violenti della città nella stessa categoria del taccheggio e delle infrazioni al codice stradale. «Abbiamo a che fare con un serial killer.» Anche in una professione che affrontava l'omicidio come una questione di routine, la definizione «serial killer» toccava un tasto delicato. Kate si domandò se il loro assassino era consapevole di esserlo, o addirittura ne gioiva, oppure era troppo assorto nel suo piccolo mondo di caccia e uccisione. Ne aveva visti di ogni tipo, ma tutte le vittime finivano allo stesso modo: morte. Voltando le spalle al suo capo, guardò di nuovo la ragazza che aveva incrociato la strada di quell'ultimo predatore. Angie DiMarco fissava con rabbia lo specchio, sprigionando ondate invisibili di risentimento. Raccolse dal tavolo una grossa penna nera, togliendo il cappuccio con una mossa studiata e passandola lentamente sul turgido labbro inferiore, in un gesto che apparve insieme languido e spazientito. Sabin mostrava il profilo a Kate, come se posasse per l'incisione di una banconota. «Tu hai già affrontato questo genere di casi con il Bureau, quindi possiedi una griglia di riferimento. Sai che cosa aspettarti dalle indagini e dai media. Può darsi addirittura che tu conosca l'agente inviato dall'ISU. Questo potrebbe rivelarsi utile. Ci servono tutti i vantaggi che riusciremo a procurarci.» «Io studiavo le vittime. Mi occupavo dei morti.» Non le piaceva quella sensazione di angoscia che sentiva montarle dentro. Non le piaceva provare quell'emozione e non aveva voglia di analizzarne l'origine. «C'è una bella differenza fra lavorare con un morto o con una ragazzina. L'ultima volta che ho chiesto informazioni, erano più disposti i morti a collaborare che le adolescenti.» «Tu lavori al patrocinio dei testimoni», le fece notare Rob, mentre la sua voce assumeva un tono petulante. «E la ragazza è una testimone.» Kovac, che durante quello scambio di battute era rimasto appoggiato alla parete, le rivolse un sorriso caloroso. «Non si possono scegliere né i parenti né i testimoni, testa rossa. Certo, avrei preferito che ieri notte fosse stata Madre Teresa di Calcutta a uscire di corsa dal parco.» «Neanche per sogno», ribatté Kate. «La difesa avrebbe sostenuto che soffriva di cataratta e Alzheimer, senza contare che chiunque sia convinto che si può tornare dal regno dei morti tre giorni dopo il decesso è considerato un testimone poco credibile.» I baffi di Kovac fremettero. «Avvocati da strapazzo.»
Rob sembrava perplesso. «Madre Teresa è morta.» Kate e Kovac alzarono gli occhi al cielo, all'unisono. Sabin si schiarì la gola, controllando con intenzione l'orologio. «Dobbiamo darci una mossa. Voglio sentire quello che la ragazza ha da dirci.» Kate inarcò un sopracciglio. «E pensa che glielo dirà? Non esce abbastanza spesso dal suo ufficio, Sabin» «Dovrà dircelo, per il suo bene», replicò lui in tono minaccioso, avviandosi alla porta. Kate guardò oltre il vetro per l'ultima volta, incontrando gli occhi della testimone, anche se sapeva che la ragazza non poteva vederla. Un'adolescente. Cristo, tanto valeva che le assegnassero un marziano. Lei non era la madre di nessuno. Guardando quel volto pallido, vi lesse ira e sfida, insieme con un'esperienza del mondo che nessuna ragazzina della sua età avrebbe dovuto avere. E anche paura. Sepolta sotto tutto il resto, custodita gelosamente come un segreto, c'era la paura. Kate non poteva permettersi di capire che cosa dentro di lei le permettesse di riconoscere quella paura. Nella stanza degli interrogatori, Angie DiMarco lanciò una rapida occhiata a Liska, che stava controllando l'orologio, poi riportò lo sguardo sul finto specchio e infilò furtivamente la penna nello scollo del maglione. «Una bambina», mormorò Kate mentre Sabin e Rob Marshall uscivano nel corridoio, precedendola. «Io non sono mai stata una brava bambina.» «È la situazione ideale», commentò Kovac, tenendole aperto il battente. «Neppure lei lo è.» Quando entrarono nella stanza degli interrogatori, Nikki Liska, piccola di statura, bionda e atletica, con un taglio di capelli maschile, si scostò dalla parete accogliendoli con un sorriso stanco. Sembrava una fatina imbottita di steroidi, o almeno così aveva dichiarato Kovac quando l'aveva soprannominata Campanellino, ispirandosi a Peter Pan. «Benvenuti nel parco dei divertimenti», commentò. «Qualcuno vuole un caffè?» «Uno per me, decaffeinato, e uno per la nostra amica al tavolo, Nikki, per favore», rispose Kate a bassa voce, senza mai staccare gli occhi dalla ragazza, nel tentativo di individuare una strategia. Kovac si accasciò su una sedia, appoggiando un braccio sul tavolo e raccogliendo con le dita a spatola le briciole di cioccolata sparse come escrementi di topo sul piano del tavolo.
«Kate, questa è Angie DiMarco», disse in tono svogliato. «Angie, questa è Kate Conlan, del servizio di protezione vittime e testimoni. Sarà assegnata al tuo caso.» «Io non sono un caso», obiettò la ragazza. «E gli altri chi sono?» «Il procuratore della contea, Ted Sabini, e Rob Marshall, della protezione vittime e testimoni.» Kovac indicò prima l'uno e poi l'altro, mentre gli uomini prendevano posto intorno al tavolo, di fronte alla preziosa testimone. Sabin le rivolse la sua più collaudata espressione da rubacuori. «Siamo molto interessati a quello che hai da dirci, Angie. Questo assassino al quale diamo la caccia è un uomo pericoloso.» «Ma non mi dica!» La ragazza si rivolse di nuovo a Kovac. Il suo sguardo rabbioso si fermò sulle sue labbra. «Posso avere una sigaretta?» Lui si tolse la sua di bocca, fissandola. «Diamine, non posso fumare nemmeno io», confessò. «È un edificio a prova di fumo. Stavo appunto uscendo per tirare qualche boccata.» «Che strazio. Sono rimasta chiusa in questa fottuta stanza per mezza nottata e non posso neppure avere una fottuta sigaretta.» Appoggiandosi allo schienale, incrociò le braccia sul petto. I capelli castani e unti, con la riga al centro, le arrivavano alle spalle. Portava troppo mascara, che si era sciolto intorno agli occhi, e uno sbiadito giubbotto di jeans Calvin Klein che un tempo era appartenuto a un tale di nome Rick; il nome era scritto con l'inchiostro indelebile sul taschino sinistro. Se lo teneva addosso anche se nella stanza faceva caldo. O per motivi di sicurezza o per nascondere i segni dell'ago, rifletté Kate. «Per amor del cielo, Sam, dalle una sigaretta!» esclamò, rimboccandosi le maniche del maglione e occupando la sedia libera dallo stesso lato del tavolo dov'era seduta la ragazza. «E danne una anche a me, già che ci siamo. Se quei nazisti della lega antifumo ci beccano, finiremo dentro insieme. Che cosa possono farci? Invitarci a lasciare questa fogna?» Con la coda dell'occhio osservò la ragazza, mentre Kovac scrollava il pacchetto per estrarre altre due sigarette. Angie aveva le unghie rosicchiate fino alla carne viva e laccate di un azzurro ghiaccio metallico. Quando allungò la mano, Kate notò che tremava. Portava un assortimento di anellini d'argento da quattro soldi e aveva due rudimentali tatuaggi fatti a penna che spiccavano come macchie sulla pelle chiara: una croce vicino al pollice e la lettera A con una linea orizzontale quasi all'estremità. Al polso, invece, si notava un lavoro professionale, un delicato braccialetto di spine in
inchiostro blu. «Sei rimasta qui tutta la notte, Angie?» le domandò, aspirando una boccata di fumo dal sapore schifoso. Non riusciva a immaginare per quale motivo avesse preso quel vizio, ai tempi del college. Il prezzo dell'essere «un tipo giusto», pensò. E adesso era il prezzo che doveva pagare per stabilire un contatto. «Sì», rispose Angie, soffiando una boccata di fumo verso il soffitto. «E non vogliono nemmeno procurarmi un avvocato.» «Ma non hai bisogno di un avvocato, Angie», ribatté Kovac in tono cordiale. «Non sei sotto accusa.» «Allora come mai non posso andarmene da questo buco merdoso?» «Abbiamo parecchi problemi da risolvere. Per esempio, la questione del documento.» «Ve l'ho dato, il documento.» Lui lo prese dal fascicolo per consegnarlo a Kate, inarcando le sopracciglia in modo espressivo. «Hai ventun anni», lesse lei senza battere ciglio, scuotendo la cenere in un bicchiere di carta abbandonato, con un fondo di caffè untuoso. «È quello che c'è scritto.» «E dice che sei di Milwaukee...» «Lo ero. Me ne sono andata.» «Non hai parenti, laggiù?» «Sono morti.» «Mi dispiace.» «Ne dubito.» «Hai parenti qui? Zie, zii, cugini, qualche fenomeno da baraccone imparentato alla lontana? Qualcuno che potremmo chiamare per aiutarti ad affrontare tutto questo?» «No. Sono orfana, purtroppo.» Sbottò in una risata sarcastica. «Creda a me, non ho bisogno di una famiglia.» «Tu non hai un indirizzo fisso, Angie», intervenne Kovac. «Devi renderti conto di quanto è successo. Sei la sola che possa identificare un assassino. Dobbiamo sapere dove vivi.» Lei roteò gli occhi come soltanto le ragazzine sanno fare, esprimendo incredulità e impazienza nello stesso tempo. «Ve l'ho dato, il mio indirizzo.» «Mi hai dato l'indirizzo di un appartamento del quale non hai le chiavi, e per giunta non sai dirmi il nome della persona che ci abita.»
«Gliel'ho detto!» Si alzò dalla sedia per allontanarsi da Kovac, spargendo sul pavimento la cenere della sigaretta. Il golfino azzurro che portava sotto il giubbotto era stato tagliato o si era ristretto, lasciando scoperto un piercing all'ombelico e un altro tatuaggio: tre gocce di sangue che cadevano verso la cintola dei jeans sporchi. «Si chiama Molly», disse alla fine. «L'ho conosciuta a una festa e mi ha detto che potevo stare da lei finché non mi sistemavo.» Kate notò un accenno di tremito nella voce della ragazza, il linguaggio difensivo del corpo nel modo in cui si raccoglieva in se stessa, allontanandosi da loro. All'altro capo della stanza, la porta si aprì ed entrò Liska con il caffè. «Angie, nessuno vuole tenerti rinchiusa qui», disse Kate. «La nostra prima preoccupazione è la tua sicurezza.» La ragazza si girò di scatto, con gli occhi incupiti che scintillavano di collera. «La vostra preoccupazione è farmi testimoniare contro questo psicopatico di Crematore. Credete che sia un'idiota? Lui mi troverà e ucciderà anche me!» «La tua collaborazione è indispensabile, Angie», disse Sabin con il tono di chi è abituato a comandare. «Sei la nostra unica testimone. Quest'uomo ha già ucciso tre donne, per quanto ne sappiamo.» Kate gli lanciò un'occhiata velenosa. «Parte del mio lavoro consiste nel fare in modo che tu sia al sicuro, Angie», le spiegò, continuando a usare un tono calmo. «Se hai bisogno di un posto in cui stare, possiamo provvedere noi. Hai un lavoro?» «No», rispose lei, voltando di nuovo le spalle. «Lo sto cercando», aggiunse, quasi sulla difensiva. Gravitava intorno all'angolo della stanza dov'era stato abbandonato uno zainetto sporco. Kate era pronta a scommettere che lì dentro c'era tutto quello che la ragazza possedeva. «È dura arrivare in una città sconosciuta», riprese Kate a bassa voce. «Non sai orientarti, non hai contatti. È difficile sistemarsi e cominciare a vivere.» La ragazza abbassò la testa, mordicchiandosi l'unghia del pollice, mentre i capelli le spiovevano sul viso, nascondendolo. «Ci vogliono soldi per sistemarsi», continuò Kate. «Soldi per mangiare, soldi per trovare un posto dove vivere, soldi per i vestiti. Soldi per tutto.» «Me la cavo.» Kate poteva immaginare come. Sapeva come andavano le cose per i ragazzi che vivevano sulla strada. Facevano il necessario per sopravvivere.
Mendicavano, rubavano, spacciavano qualche dose. Adottavano qualche espediente. Non mancavano mai relitti umani e depravati più che disposti ad approfittare dei ragazzi senza casa e senza prospettive. Liska posò sul tavolo i bicchieri di plastica pieni di caffè ancora fumante, chinandosi a mormorare all'orecchio di Kovac: «Elwood ha rintracciato l'amministratore dell'edificio. Dice che l'appartamento è sfitto e, se questa ragazza ci vive, vuole un deposito di cinquecento dollari, altrimenti presenterà una denuncia per violazione di domicilio». «Che tipo umanitario.» Kate assimilò quelle notizie, continuando a tenere d'occhio Angie. «La vita è già abbastanza difficile anche senza diventare testimone di un omicidio.» Sempre a testa bassa, la ragazza tirò su con il naso, portandosi la sigaretta alle labbra. «Io non l'ho visto mentre la uccideva.» «Che cosa hai visto?» incalzò Sabin. «Dobbiamo saperlo. Ogni minuto che passa è vitale per le indagini. Quest'uomo è un serial killer.» «Penso che questo lo sappiano tutti», osservò Kate con una nota tagliente nella voce. «Non c'è bisogno che lei ce lo rammenti ogni cinque minuti.» «A quanto pare, Angie non ha ancora deciso se collaborare o no», ribatté lui. «Mi sembra importante farle capire la gravità della situazione.» «Ha visto qualcuno dare alle fiamme un corpo umano. Credo che si renda conto perfettamente della gravità della situazione.» Con la coda dell'occhio, notò che era riuscita ad attirare l'attenzione della ragazza. Forse avrebbero potuto diventare amiche e vivere insieme per strada, se Sabin l'avesse licenziata per avere messo in discussione la sua autorità in pubblico. Che cosa le saltava in testa? Tra l'altro, non voleva nemmeno che le scaricassero addosso il caso. «Che cosa facevi nel parco a quell'ora di notte, Angie?» domandò Rob, asciugandosi la fronte con il fazzoletto. La ragazza lo squadrò. «Badavo ai fattacci miei.» «Puoi toglierti la giacca, se vuoi», suggerì lui, con un sorriso fragile. «Ma non voglio.» Lui serrò le mascelle, mentre il sorriso si tramutava in una smorfia. «E va bene. Se vuoi tenerla, niente da dire. Solo che qui dentro fa caldo. Perché non ci spieghi a modo tuo che cosa facevi ieri sera nel parco, Angie?» Lei lo fissò con uno sguardo velenoso. «Ti direi di baciarmi il culo, ma sei così brutto che fai schifo. Ti farei pagare in anticipo.»
Il viso di Rob arrossì all'istante, come se avesse uno sfogo. Risuonò il segnale di un cercapersone e tutti i presenti, tranne Angie, controllarono il proprio. Sabin si accigliò, vedendo il messaggio sul display, poi controllò l'orologio. «Hai visto bene l'uomo, Angie?» domandò Rob con voce tesa. «Potresti esserci di grande aiuto, in questo caso. So che hai vissuto un'esperienza terribile...» «Tu non sai un cazzo», scattò la ragazza. Una vena si gonfiò sulla tempia sinistra di Rob, mentre il sudore gli imperlava la fronte. «È per questo che te lo chiediamo, ragazzina», replicò Kate con calma, espirando un'altra boccata di fumo. Come se avesse tutto il tempo del mondo. «Lo hai guardato bene?» Angie la studiò per un attimo, lasciando che quell'istante di silenzio si prolungasse, poi spostò lo sguardo da Sabin a Liska a Kovac, prima di riportarlo su Rob Marshall. Valutando. Riflettendo. «L'ho visto alla luce delle fiamme», rispose infine, abbassando lo sguardo a terra. «Ha dato fuoco al corpo e ha detto: 'Cenere alla cenere'.» «Lo riconosceresti, se lo vedessi di nuovo?» chiese Sabin. «Certo», mormorò lei, portandosi la sigaretta alle labbra per un ultimo tiro. L'estremità accesa rosseggiò come una brace infernale sullo sfondo bianco del viso. Quando parlò di nuovo, le parole erano miste a volute di fumo. «È il demonio.» «Che cosa le è preso?» Kate partì all'attacco non appena uscirono dalla stanza degli interrogatori. Sabin si girò ad affrontarla con un'espressione furiosa. «Stavo per farti la stessa domanda, Kate. Ci serve la collaborazione di questa ragazza.» «E lei pensa di ottenerla piombandole addosso come una valanga? Nel caso non lo abbia notato, non era molto propensa a rispondere.» «Come poteva rispondere, se tu t'intromettevi ogni volta che tentavo di fare dei progressi?» «La forza genera resistenza. Ed è mio compito intromettermi: non a caso sono incaricata di proteggere vittime e testimoni», insistette lei, rendendosi conto che in quel modo si attirava la collera di un uomo molto influente. Lui aveva l'autorità di toglierle il caso. Magari fossi tanto fortunata, si disse. Quell'indagine aveva già tutte le premesse per diventare una grana di prima categoria.
«È stato lei a coinvolgermi in questa storia», aggiunse. «Vuole che diventi amica di questa ragazza, non ricorda? Sarà già un lavoro abbastanza difficile senza che lei ci presenti come un gruppo d'assalto. La ragazza dev'essere disponibile a dirci quello che ha visto. Deve convincersi che ci prenderemo cura di lei. La ritiene tanto ingenua da credere che lei non le estorcerà quello che può darci per poi abbandonarla al suo destino? Come pensa che possa finire una ragazzina come Angie, in un circo come questo?» «Tu non volevi questo caso perché si tratta di una ragazzina», protestò Sabin, irritato. «E ora, tutt'a un tratto, sei diventata un'autorità in materia.» «Lei mi ha voluto per la mia esperienza, per la griglia di riferimento che avevo a disposizione», gli rammentò Kate. «Quindi deve avere fiducia nella mia capacità di svolgere il lavoro. So come si intervista un testimone.» Sabin la ignorò, rivolgendosi a Kovac. «Hai detto che la ragazza è stata fermata mentre fuggiva dalla scena del delitto?» «Non esattamente.» «Sì, va bene, usciva di corsa dal parco quando è arrivata la prima autopattuglia», si corresse Sabin, spazientito. «Fuggiva lontano da un corpo in fiamme. Questo fa di lei un sospetto. Scuotetela, intimoritela, minacciatela. Fatele sputare la verità. Non m'importa come. Fra due minuti ho una riunione con il capo della polizia e il sindaco. La conferenza stampa è fissata per le cinque. Per allora voglio una descrizione dell'assassino.» Si allontanò, assestandosi la giacca e scrollando le spalle come un pugile appena reduce da cinque riprese. Kate guardò Kovac, che fece una smorfia. «Ora vedi che razza di stronzate devo mandare giù?» le disse. «Tu?» Kate sbuffò. «Per quanto riguarda me, potrebbe licenziarmi in tronco. E d'altra parte me ne infischio se sta andando a un convegno d'amore con Janet Reno, il ministro della Giustizia. Il potere non gli dà il diritto di molestare un testimone, né a te di farlo per lui. Se ti saltasse in testa di passeggiare su questa ragazzina con gli stivali chiodati, ti renderei la vita un inferno, Sam.» Kovac fece una smorfia. «Cristo, Kate, il gran capo mi ha appena ordinato di scaraventarla in gattabuia. Che cosa devo fare? Fargli marameo? A Natale mi strizzerà i cojones nello schiaccianoci.» «E io li userò per giocarci a tennis.» «Mi spiace, Kate, ma Sabin ti è superiore di grado. Può castrare non solo me, ma anche la mia pensione. Cerca di prenderla dal lato migliore: la
gabbia sarà come il Club Med, per questa ragazzina.» Kate si girò verso il suo superiore in cerca di appoggio. Rob spostò il peso del corpo da un piede all'altro. «Si tratta di circostanze straordinarie, Kate.» «Me ne rendo conto, ma so che, se questa ragazza avesse visto quel pazzo appiccare il fuoco a una prostituta qualsiasi, ora non ci sarebbe nessuna conferenza stampa e Ted Sabin non conoscerebbe neppure il suo nome. Questo non cambia ciò che lei ha visto, Rob. Non cambia la sua natura o il modo in cui è necessario prenderla. Si aspetta di essere trattata male, e questo le offre una buona scusa per non collaborare.» «Credevo che non volessi questo caso.» «Infatti non lo voglio», ribatté Kate in tono piatto. «Ma se ci sono dentro, vado fino in fondo. Lasciatemi fare il mio lavoro, oppure assegnatemene un altro. Non intendo comportarmi come una marionetta e non intendo farmi legare le mani. Neanche da sua altezza.» Era un bluff. Forse non aveva desiderato quell'incarico, ma era la migliore nel suo campo, o almeno così pensava Ted Sabin, con la sua ossessione per il passato di Kate come agente dell'FBI. Per quanto la disgustasse, sapeva che questo le assicurava un certo potere di contrattazione con lui, e quindi con Rob. Il vero problema era un altro: quanto le sarebbe costato? E per quale motivo ci teneva tanto da pagare quel prezzo? Avrebbe dovuto tagliare corto e andarsene. Se avesse avuto un briciolo di buon senso. Se non avesse visto oltre la corazza di Angie DiMarco, avvertendo la sua paura. «Che cosa farà Sabin?» domandò a Rob. «Ci taglierà la testa e ci darà fuoco?» «Non ci trovo niente di divertente.» «Non voleva esserlo. Cerca di avere un po' di spina dorsale e di tenergli testa, per amor di Dio.» Rob sospirò. «Cercherò di parlargli per vedere che cosa posso ottenere. Forse la ragazza riuscirà a comporre un identikit in base alle foto segnaletiche prima delle cinque», concluse, senza nutrire eccessive speranze. «Tu devi avere ancora qualche contatto nel Wisconsin», gli ricordò Kate. «Forse puoi scovare qualcosa sul suo conto, scoprire chi è realmente.» «Farò qualche telefonata. C'è altro?» le chiese in tono significativo. Kate fece l'ingenua. Si rendeva perfettamente conto di avere la tendenza a condurre la danza, e non se ne scusava, almeno non con il suo capo. Lui non le forniva mai ispirazioni da seguire.
Rob si allontanò con l'aria dello sconfitto. «Sempre un uomo d'azione, il tuo capo», osservò asciutto Kovac. «Ho l'impressione che Sabin tenga i suoi cojones in un barattolo nell'armadietto delle medicine.» «Be', non vorrei che aggiungesse alla collezione anche i miei. Vedi se riesci a cavare qualcosa da quella ragazza, a parte bugie e sarcasmo, prima delle cinque.» Strinse la spalla di Kate in segno di congratulazioni e conforto. «La strada è lunga, testa rossa. Il caso è tutto tuo.» Kate si accigliò, guardandolo allontanarsi verso la toilette e si chiese di nuovo: Perché devo trovarmi sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato? 4 L'agente speciale John Quinn si allontanò dalla pista di atterraggio per entrare nell'aeroporto di Minneapolis-St. Paul. Grigio e spoglio, come tutti gli aeroporti, offriva un solo fremito di emozione che riscattasse l'atmosfera di tetraggine e stanchezza: l'esultanza di una famiglia che dava il benvenuto a un ragazzo con i capelli a spazzola e l'uniforme azzurra dell'aviazione militare. Lui provò una breve fitta di invidia, una sensazione che gli parve vecchia quanto lui: quarantaquattro anni. La sua famiglia era sempre stata incline alla competizione, anziché ai festeggiamenti. Erano anni che non vedeva i parenti. Troppo impegnati, troppo distanti, troppo distaccati. Avvistò l'agente locale, fermo accanto al cancello. Vince Walsh. Stando al suo fascicolo, aveva cinquantadue anni e una solida carriera alle spalle. Sarebbe andato in pensione a giugno. Aveva l'aria di un ultrasessantenne malandato, di un uomo che aveva condotto una vita troppo stressante e non vedeva altra via d'uscita che un infarto, di un uomo che avrebbe preferito fare qualunque altra cosa, anziché andare a prendere un cacciatore dai bollenti spiriti in arrivo da Quantico. Quinn cercò di atteggiare il viso a un'espressione sorridente, apprestandosi a reagire di conseguenza: mostrarsi pronto alle scuse, non aggressivo, non minaccioso, con un tocco appena di cordialità, ma senza eccessive familiarità. Le spalle gli ciondolavano per la stanchezza; non si curò di raddrizzarle. «Sei Walsh?» «Immagino che tu sia Quinn», ribatté l'altro, mentre lui stava già per estrarre la tessera di riconoscimento dal taschino interno della giacca. «Hai
bagagli?» «Soltanto quelli che vedi.» Un porta-abiti gonfio che superava le dimensioni del bagaglio a mano consentito e una valigetta appesantita da un computer portatile e da un fascio di scartoffie. Walsh non si offrì di prendere né l'uno né l'altra. «Grazie del passaggio», disse Quinn, mentre si avviavano attraverso la sala degli arrivi. «Per me è il modo più rapido di entrare subito in gioco, risparmiandomi la noia di girovagare in macchina per un'ora senza sapere dove andare.» «Bene.» Bene. Non era un grande inizio, ma era pur sempre qualcosa. Si sarebbe lavorato il collega durante il tragitto. L'importante era mettersi subito al lavoro. Il caso aveva la priorità. Sempre il caso. Un caso dopo l'altro, sopra l'altro, uno via l'altro. La stanchezza si fece sentire con un fremito lungo, che si ripercosse nello stomaco. Proseguirono in silenzio fino al terminal principale, salirono di un piano con l'ascensore e attraversarono la strada per raggiungere la rampa del parcheggio dove Walsh aveva lasciato la Taurus in sosta vietata, in un posto riservato agli handicappati. Quinn scaricò la sua roba nel bagagliaio e si predispose alla corsa verso l'autostrada. L'interno dell'auto era impregnato di fumo, che aveva conferito alla tappezzeria beige lo stesso colore grigiastro della carnagione del conducente. Appena raggiunsero la statale cinque, Walsh allungò la mano verso un pacchetto di Chesterfield. «Ti dispiace?» Fece scattare l'accendino senza attendere la risposta. Quinn abbassò il finestrino di un dito. «L'auto è tua.» «Ancora per sette mesi.» Quinn accese la sigaretta e aspirò una boccata di catrame e nicotina, soffocando un colpo di tosse. «Cristo, non riesco a liberarmi di questa dannata bronchite.» «Colpa del clima», commentò Quinn, in tono comprensivo. O di un cancro al polmone. Il cielo grigio sembrava pesare su Minneapolis come un'incudine. Pioggia fitta e temperatura a sei gradi. Ogni forma di vegetazione era in letargo o si era estinta, e così sarebbe rimasta fino alla primavera, che a quella latitudine sospettava ci avrebbe messo molto ad arrivare. Se non altro in Virginia si cominciava a vedere qualche segno di vita fin da marzo. «Potrebbe essere peggio», commentò Walsh. «Potremmo trovarci in una tormenta di neve. Qualche anno fa, ne abbiamo avuta una il giorno di O-
gnissanti. Che disastro! Quell'inverno saranno caduti almeno tre metri di neve, e fino a maggio non si è sciolta. Come odio questo posto.» Quinn non gli domandò perché restava. Non aveva voglia di sentire la solita litania contro il Bureau o le solite lamentele dell'uomo intrappolato in un matrimonio infelice, con i parenti acquisiti che vivevano nei dintorni, o qualunque altra ragione per cui un tipo come Walsh poteva odiare la sua vita. Anche lui aveva i suoi problemi, che Vince Walsh non era certo disposto a sentirsi raccontare. «Non esiste un luogo ideale, Vince.» «Sì, ma Scottsdale ci si avvicina abbastanza. Non voglio avere freddo mai più, finché campo. Appena arriva giugno, me ne vado. Lontano da qui, da questo lavoro ingrato.» Lanciò un'occhiata sospettosa a Quinn, come se lo considerasse un burocrate del Bureau capace di attaccarsi al telefono, appena rimasto solo, per chiamare l'agente speciale incaricato. «È un lavoro che ti logora», commentò Quinn. «Quello che mi fa dannare è la politica», aggiunse, individuando con precisione infallibile il tasto dolente. «Lavorando sul campo, ti attiri fastidi da tutt'e due le parti, la polizia locale più il Bureau.» «Eccome. Quanto vorrei essermela filata per sempre, ieri! Questo caso non sarà altro che una serie di calci nel sedere.» «È già cominciato?» «Tu sei qui, no?» Poi Walsh prese una cartella dal sedile in mezzo a loro, tendendola verso di lui. «Le foto della scena del delitto. Divertiti.» Quinn afferrò il plico senza staccare gli occhi scuri da Walsh. «La mia presenza qui è un problema per te, Vince?» domandò apertamente, mitigando il tono della domanda con un'espressione che in parte era il tipico sorriso da compagnone, in parte un'aria perplessa assolutamente finta. Si era trovato fin troppe volte in quella situazione e conosceva tutte le possibili reazioni al suo arrivo: sincero benvenuto, benvenuto ipocrita, aperta irritazione, totale ostilità. Walsh era un esempio della categoria numero tre, pronto a dire esattamente ciò che pensava. «No, certo», rispose alla fine. «Se non inchiodiamo al più presto questo sacco di merda, finiremo per andare tutti in giro con un bersaglio dipinto sulla schiena. Per me non è un problema avere a che fare con qualcuno superiore a me.» «È sempre il tuo caso. Io sono qui come supporto.» «Che buffo, ho detto la stessa cosa al tenente della Omicidi.»
Quinn non replicò, cominciando già a tratteggiare dentro di sé una strategia di squadra. A quanto pareva, avrebbe potuto vedersi costretto a scavalcare Walsh, anche se era improbabile che il vice dell'agente speciale incaricato avesse assegnato quel caso a qualcuno di livello meno che eccellente. Se Peter Bondurant era in grado di far scattare sull'attenti i pezzi grossi di Washington, i locali non avrebbero certo assunto un atteggiamento antagonistico. Secondo i fax, Walsh aveva un curriculum solido, che risaliva a parecchi anni addietro; troppi, forse, con troppi casi, troppi giochi politici alle spalle. Quinn si era già fatto un quadro della situazione locale. Le vittime erano arrivate a tre, il minimo indispensabile per sospettare omicidi seriali. Normalmente, a quello stadio sarebbe stato consultato soltanto al telefono, ammesso che lo facessero. In base alla sua esperienza, di solito la polizia locale cercava di risolvere da sé quei delitti, finché non si trovava di fronte a un numero di cadaveri leggermente superiore. E ormai, con ottantacinque casi alle spalle, lui aveva imparato a stabilire delle priorità di merito. Accadeva di rado che un caso da tre omicidi richiedesse un viaggio. La sua presenza sul posto sembrava superflua e questo contribuiva a peggiorare la frustrazione e la stanchezza che provava. Chiuse gli occhi per un attimo, riportando sotto controllo le emozioni. «Il vostro Bondurant ha amici nelle alte sfere», osservò. «Qual è la sua storia?» «In sostanza è il solito pezzo da novanta. È proprietario di una società di computer che si è aggiudicata molti contratti per la Difesa, la Paragon. Ha scatenato un putiferio annunciando la sua intenzione di trasferirsi in un altro Stato, così il governatore e tutti gli altri politicanti locali fanno la fila per leccargli il culo. Si dice che valga un miliardo di dollari, se non più.» «Lo hai conosciuto?» «No. Per farti convocare non si è scomodato a venire nel nostro ufficio. Ho sentito dire che è andato dritto al vertice.» E nel giro di poche ore l'FBI aveva imbarcato Quinn su un aereo per Minneapolis, senza badare alla solita regola di assegnare i casi in base a criteri regionali, senza tenere conto di quelli che stava già seguendo, senza nessuna delle solite complicazioni burocratiche per l'autorizzazione della missione. Si domandò amareggiato se Bondurant avesse chiesto esplicitamente di lui. Nell'ultimo anno si era trovato spesso alla ribalta, non certo per sua scelta. La stampa amava la sua immagine, perché corrispondeva al profilo
di un agente speciale dell'ISU: atletico, mascella squadrata, bruno, espressione intensa. Faceva un bell'effetto, rendeva bene in televisione. In un film, il suo ruolo sarebbe toccato a George Clooney. A volte quel fatto era utile, a volte divertente, ma negli ultimi tempi era diventato sempre più fastidioso. «Non ha perso tempo», riprese Walsh. «La ragazza non è ancora fredda. In effetti non si sa nemmeno se è davvero sua figlia... dal momento che la testa è scomparsa. Ma sai com'è, la gente che ha soldi non va in giro a sbattersi. Non è costretta a farlo.» «A che punto siamo con l'identificazione della vittima?» «Hanno il suo documento. Stanno cercando di rilevare le impronte digitali, ma le mani sono quasi completamente bruciate, a quanto mi dicono. Il patologo ha richiesto i dati clinici di Jillian in cerca di segni o fratture riconoscibili, per vedere se qualcosa corrisponde. Sappiamo che il corpo è della statura e della taglia giuste. Sappiamo che Jillian Bondurant aveva cenato con il padre venerdì sera. È uscita da casa sua intorno a mezzanotte e da allora nessuno l'ha più vista.» «E la sua auto?» «Nessuno l'ha ancora trovata. L'autopsia è stata fissata per questa sera. Magari avranno fortuna e riusciranno a identificare il contenuto dello stomaco con il pasto che Jillian e suo padre hanno consumato quella sera, ma ne dubito. Lo psicopatico avrebbe dovuto ucciderla quasi subito, ma non è così che agisce. «La conferenza stampa è per le cinque... non che i giornalisti stiano ad aspettare con le mani in mano», proseguì. «Sono già tutti piombati come falchi sulla storia. Hanno anche affibbiato un soprannome a questo bastardo. Lo chiamano il Crematore. Simpatico, no?» «Mi dicono che ci sarebbe qualche parallelo con alcuni omicidi di qualche anno fa. Esistono dei nessi?» «Gli omicidi di Wirth Park. Nessi veri e propri, no, piuttosto un paio di somiglianze. Quella volta le vittime erano donne di colore, più un travestito asiatico che rimase ucciso per sbaglio. Prostitute, o presunte tali... e le prime due vittime di questo tizio erano prostitute. Ma c'è sempre qualcuno che uccide prostitute: sono un bersaglio facile. Quelle erano quasi tutte nere, mentre stavolta sono bianche. Già questo farebbe pensare a un assassino diverso, no?» «Sì, in genere i serial killer a sfondo sessuale si attengono a un solo gruppo etnico.»
«In ogni caso, per uno degli omicidi di Wirth Park ottennero una condanna e chiusero le indagini sugli altri. Avevano il loro assassino, solo che le prove materiali non erano sufficienti per incriminarlo anche negli altri casi. Inoltre, quante condanne a vita può scontare, un solo colpevole? «Stamattina ho parlato con un agente della Omicidi», proseguì Walsh, schiacciando il mozzicone della sigaretta nel portacenere. «Dice che non ci sono dubbi sul fatto che si tratta di un altro. Ma, a dire la verità, io non ne so molto più di te. Fino a questa mattina non avevano altro che due prostitute morte. Ho letto di loro sul giornale, proprio come tutti gli altri. Quello che so per certo è che quell'altro tizio non ha mai tagliato la testa a nessuno.» Quinn guardò fuori dal finestrino, scrutando il grigiore e la pioggia, gli alberi spogli per l'inverno, neri e squallidi come se fossero carbonizzati, provando un moto di simpatia per quelle vittime senza nome e senza volto che non erano abbastanza importanti da meritarsi qualcosa di diverso da un cartellino all'obitorio. Sospirando, si massaggiò la fronte per scacciare il dolore sordo che si era impiantato stabilmente nei lobi frontali della sua testa. Era troppo stanco per quel tipo di diplomazia che era indispensabile agli inizi di un nuovo caso. «Vuoi passare prima in albergo, o andare direttamente in ufficio?» chiese Walsh. Come se quello che lui voleva contasse qualcosa. Quello che voleva nella vita era scomparso dal suo orizzonte molto tempo prima. «Devo andare sulla scena del delitto», rispose, sentendo pesargli sulle gambe come una lastra d'acciaio la cartella piena di fotografie, ancora chiusa. «Ho bisogno di vedere dove l'ha lasciata.» Il parco aveva l'aspetto di un campeggio il giorno dopo un raduno di boy-scout. Il terreno annerito dal fuoco, il nastro giallo teso da un albero all'altro come un festone per tenere lontani dalla zona i curiosi, l'erba secca schiacciata, con le foglie sprofondate nel terreno come sagome di carta bagnata. I bicchieri da caffè di carta erano traboccati dal cestino per i rifiuti che si trovava poco lontano dal sentiero asfaltato sul fianco della collina, sparpagliandosi sul terreno. Walsh parcheggiò la macchina, poi scesero, restando sulla superficie asfaltata, mentre Quinn scrutava l'intera zona, da nord a sud. La scena del delitto era leggermente più in basso, in una lieve depressione del terreno che aveva fornito una copertura eccellente. Il parco era punteggiato di al-
beri, tanto perenni quanto a foglie caduche. Nel cuore della notte doveva formare un piccolo mondo a parte. Le residenze più vicine, graziose villette unifamigliari destinate alla classe media, erano distanti, e i grattacieli del centro di Minneapolis sorgevano alcuni chilometri più a nord. Persino la piccola area di servizio nella quale avevano parcheggiato era mimetizzata dagli alberi e da una fila di piante che in primavera dovevano essere lillà in fiore, destinati a mascherare un piccolo capanno per gli attrezzi e i veicoli destinati alla manutenzione del parco che andavano e venivano a seconda delle esigenze. Il soggetto probabilmente aveva parcheggiato in quel punto e trasportato il corpo giù per la collina, verso il luogo prescelto per la piccola cerimonia. Quinn alzò la testa per scrutare il lampione ai vapori di sodio che doveva illuminare il capanno degli attrezzi. Il vetro della lampada era rotto, ma in giro non si vedevano frammenti. «Si sa da quanto tempo è spenta quella luce?» Walsh alzò la testa, sbattendo le palpebre e facendo una smorfia per la pioggia. «Dovrai chiederlo ai poliziotti.» Un paio di giorni, scommise con se stesso Quinn. Non abbastanza perché il servizio parchi avesse il tempo di riparare il lampione. Se il danno era opera del loro uomo, che si preparava a rispondere al richiamo di mezzanotte... Se era venuto lì in anticipo, frantumando il lampione, asportando le schegge di vetro per evitare che l'atto di vandalismo fosse scoperto e ridurre le probabilità che la luce di sicurezza fosse rapidamente sostituita... Se tutto questo era vero, avevano a che fare con un alto grado di programmazione e premeditazione. E di esperienza. Il modus operandi era un comportamento acquisito. Un criminale imparava per esperienza che cosa fare o non fare nel commettere un delitto, migliorando e affinando i propri metodi con il tempo e la ripetizione. Ignorando la pioggia che gli tamburellava sulla testa scoperta, Quinn insaccò le spalle nel trench prima di avviarsi lungo la discesa, cosciente del fatto che l'assassino doveva avere percorso quel tratto portando fra le braccia un cadavere. Era una discreta distanza, cinquanta o sessanta metri. I tecnici della Scientifica dovevano aver preso le misure esatte. Ci voleva una certa forza per trasportare un peso morto a quella distanza. L'ora della morte doveva aver condizionato anche il modo usato per trasportarlo. Caricarselo in spalla sarebbe stato più facile, a patto che non si fosse ancora instaurato il rigor mortis, oppure fosse già finito. Se l'assassino era riuscito a portare la vittima in spalla, la sua taglia poteva rivelarsi piuttosto variabi-
le; anche un uomo di statura relativamente bassa avrebbe potuto farcela. Se invece aveva dovuto trasportarla in braccio, doveva essere molto più alto. Quinn sperava che dopo l'autopsia avrebbero avuto maggiori elementi. «Qual è l'area coperta dai tecnici della Scientifica?» domandò, e le parole gli uscirono di bocca miste a nuvolette di vapore. Walsh era rimasto indietro, squassato dalla tosse. «Tutta. Tutto questo settore del parco, compresa l'area di parcheggio e il deposito degli attrezzi. La Omicidi ha convocato i tecnici della sua squadra e anche il laboratorio mobile del BCA (Bureau of Criminal Apprehension), l'unità investigativa speciale della polizia di Minneapolis. Sono stati molto accurati.» «Quando ha cominciato a piovere?» «Questa mattina.» «Merda», brontolò Quinn. «Ieri sera il terreno era compatto o soffice?» «Duro come una roccia. Non sono riusciti a rilevare impronte di scarpe. Hanno raccolto dei rifiuti, pezzetti di carta e mozziconi di sigaretta, cose del genere. Ma questo, d'altronde, è un parco pubblico. Quella roba può averla lasciata chiunque.» «C'è qualcosa di particolare rimasto sulla scena degli altri due delitti?» «La patente delle vittime. A parte quello, niente, che io sappia.» «Chi si occupa delle analisi di laboratorio?» «Il BCA. Hanno delle attrezzature eccellenti.» «L'ho sentito dire.» «Sono stati informati che possono mettersi in contatto con l'FBI, se dovessero avere bisogno di aiuto, o chiarimenti, o altro.» Quinn si fermò a breve distanza dal tratto di terreno bruciato dov'era stato abbandonato il corpo, sentendosi serrare il petto in una morsa tenace di oppressione, come gli accadeva sempre sulla scena di un delitto. Non aveva mai cercato di capire se quella sensazione fosse qualcosa di misterioso e romantico, come l'idea che il male continuasse ad aleggiare sul posto, oppure una reazione puramente psicologica, per esempio una proiezione del senso di colpa. Quella sensazione faceva parte di lui, punto e basta. Immaginava di doverla accogliere come una prova della propria umanità. Dopo tutti i cadaveri che aveva visto, non era ancora diventato un cinico incallito. D'altra parte, forse per lui sarebbe stato meglio se lo fosse diventato. Per la prima volta aprì la cartella che Walsh gli aveva dato, per guardare le foto che qualcuno era stato tanto previdente da infilare in involucri protettivi di plastica. Il quadro che si offrì ai suoi occhi avrebbe fatto inorridi-
re un profano. Vicino al corpo erano stati disposti dei fari portatili a luce alogena per illuminare tanto la notte quanto il cadavere, assicurando alle foto una qualità curiosamente artistica, come del resto era accaduto per le carni carbonizzate, gli abiti fusi dal calore dell'incendio. Colore contro assenza di colore; la straordinaria vibrazione di un triangolo di gonna rossa, rimasto intatto, contro la macabra realtà della morte violenta di chi la portava. «Anche le altre erano vestite?» «Non lo so.» «Dovrò vedere anche quelle foto. Dovrò vedere ogni cosa. Hai la mia lista?» «L'ho spedita via fax alla Omicidi. Gli agenti cercheranno di mettere insieme tutto il materiale per la riunione della task force. Che spettacolo, vero?» Walsh accennò alla foto. «Sufficiente a farti passare la voglia di un barbecue.» Quinn si astenne dal fare commenti, mentre osservava ancora la foto. A causa del calore delle fiamme, muscoli e tendini degli arti si erano contratti, stirando braccia e gambe della vittima in quella che in gergo tecnico era nota come posizione pugilistica: una posa che suggeriva il movimento. L'idea era resa ancor più macabra dall'assenza della testa. Surreale, pensò. Il suo cervello voleva credere di avere sotto gli occhi un manichino scartato, qualcosa che fosse stato sottratto in ritardo all'inceneritore dei grandi magazzini Macy's. Invece sapeva che un tempo quello che stava guardando era stato un corpo di carne e ossa, non un manichino di plastica, e tre giorni prima quella ragazza era viva e camminava. Aveva mangiato, ascoltato musica, parlato con gli amici, si era occupata delle noiose minuzie della vita di ogni giorno, senza immaginare che la sua stava per finire. Il corpo era stato disposto con i piedi rivolti verso il centrocittà, cosa che Quinn avrebbe trovato più significativa se anche la testa fosse stata posata o sepolta nei dintorni. Uno dei casi più terribili che aveva studiato anni prima aveva comportato la decapitazione di due vittime. L'assassino, Ed Kemper, aveva seppellito le teste nel cortile sul retro della casa di famiglia, sotto la finestra della stanza da letto di sua madre. Un morboso scherzo famigliare, aveva ammesso in seguito. La madre, che aveva abusato emotivamente di lui fin da quando era piccolo, aveva «sempre voluto che tutti alzassero gli occhi verso di lei, quando le parlavano». Invece in questo caso la testa della vittima non era stata ritrovata e il ter-
reno era troppo duro perché l'assassino l'avesse sepolta nelle vicinanze. «Circolano parecchie teorie sul motivo per cui le brucia», disse Walsh. Si dondolò per un attimo sulla punta dei piedi, tentando inutilmente di combattere il gelo che gli penetrava nelle ossa. «C'è chi dice che lo fa per imitare gli assassini di Wirth Park. Altri pensano che si tratti di un fatto simbolico. Tutte le puttane del mondo dovrebbero bruciare all'inferno, o qualcosa del genere. Qualcuno crede che voglia ostacolare gli esami della Scientifica e nello stesso tempo confondere le acque sull'identità della vittima.» «Allora perché lasciare un documento d'identità, se non vuole che siano identificate?» ribatté Quinn. «E ora ha tolto la testa a questa. È già abbastanza difficile riconoscerla: non c'era bisogno di bruciarla. Eppure lascia la patente di guida.» «Quindi ritieni che cerchi di eliminare le tracce?» «Può darsi. Quale sostanza usa come combustibile?» «Alcol. Una specie di vodka ad alta gradazione, o qualcosa di simile.» «Allora è più probabile che il fuoco sia per lui una specie di firma, anziché un elemento del suo modus operandi», osservò Quinn. «Potrebbe cercare di eliminare le tracce, ma, se fosse solo questo, perché non usare della semplice benzina? È a buon mercato ed è facile procurarsela senza farsi notare, o quasi. Se sceglie l'alcol, è per un motivo emozionale, anziché pratico. Fa parte del rimale, della sua fantasia.» «O forse è un forte bevitore.» «No, per un bevitore questo sarebbe un vero e proprio spreco. Può darsi che beva prima di assalire la vittima, ma non è un bevitore. Un alcolizzato commetterebbe degli errori, e mi pare che il nostro uomo finora non ne abbia fatti.» O, almeno, non erano stati notati. Ripensò di nuovo alle due prostitute che avevano preceduto quella donna nella morte, chiedendosi chi avesse indagato sul loro caso, se un poliziotto in gamba o uno scalzacani. Ogni dipartimento aveva gli uni e gli altri. Aveva visto degli agenti condurre un'indagine come sonnambuli, se convinti che la vittima non meritasse il loro tempo, e aveva visto dei veterani crollare e scoppiare in lacrime per la morte violenta di qualcuno che la maggior parte dei cittadini onesti che pagavano le tasse non avrebbe voluto avere vicino in autobus. Chiuse la cartellina. La pioggia gli rigava la fronte, gocciolando dalla punta del naso. «Non è qui che ha lasciato le altre, vero?»
«No. Una è stata trovata nel Minnehaha Park e l'altra nel Powderhorn Park. In zone diverse della città.» Avrebbe dovuto controllare le carte topografiche, per vedere dove si trovava ognuno di quei parchi, dove l'uomo avesse prelevato ognuna delle vittime, in modo da individuare tanto il terreno di caccia quanto la zona in cui uccidere e/o abbandonare i cadaveri. Il centro operativo della task force doveva essere dotato di mappe, fissate alla parete e costellate di spilli con la capocchia rossa. Era il metodo standard. Non c'era neanche bisogno di chiederlo. La sua mente era già affollata di mappe irte di spilli. Cacce all'uomo che si svolgevano in collaborazione fra le varie squadre, centri operativi che si assomigliavano tutti e avevano persino lo stesso odore, e agenti di polizia che tendevano ad avere lo stesso aspetto e lo stesso modo di parlare, e odore di sigarette e acqua di colonia a buon mercato. Non riusciva più a distinguere le città, ma ricordava ancora tutte le vittime, dalla prima all'ultima. Si sentì sopraffare di nuovo dalla spossatezza, senza altri desideri che quello che stendersi lì, dove si trovava. «Andiamo», disse. «Ho visto abbastanza, per ora.» Aveva visto abbastanza, punto. E dovette farsi forza per muoversi e seguire Vince Walsh fino alla macchina. 5 La tensione che si avvertiva nella sala delle riunioni del sindaco era elettrica. Cupa eccitazione, ansia, giochi di potere latenti. C'era sempre chi considerava l'assassinio una tragedia e chi un'occasione per fare camera. La prossima ora sarebbe servita a distinguere gli uni dagli altri e a intuire la forza gerarchica delle personalità coinvolte. In quell'ora di tempo, Quinn avrebbe dovuto decifrare il carattere dei presenti, decidere in quale modo affrontarli e inserirli nel proprio piano d'azione. Si erse in tutta la sua statura, raddrizzò le spalle indolenzite, sollevò il mento e fece il suo ingresso. Era arrivato il momento di dare inizio allo spettacolo. Quando entrò dalla porta, tutti voltarono la testa. A bordo dell'aereo aveva imparato a memoria i nomi di alcuni dei personaggi principali, scorrendo i fax arrivati in ufficio prima della sua partenza dalla Virginia. Ora tentò di ricordarli, distinguendoli dalle centinaia di altri che aveva conosciuto in altre riunioni analoghe in tutto il paese. Il sindaco di Minneapolis si staccò dalla folla dei presenti per andargli
incontro con aria decisa, seguito da una scia di politicanti di minor conto. Grace Noble sembrava l'incarnazione di una valchiria del melodramma: di poco sopra la cinquantina, era massiccia come un tronco d'albero, con un casco di capelli biondi e rigidi come stoppie. Non avendo un labbro superiore degno di questo nome, aveva rimediato disegnandolo con cura e dipingendolo con un rossetto rosso intonato all'abbigliamento. «Agente speciale Quinn», esclamò, tendendo la mano larga e rugosa, con le unghie laccate di rosso. «Ho letto tutto di lei. Appena ho saputo dal direttore del suo arrivo, ho spedito Cynthia in biblioteca a cercare tutti gli articoli che riusciva a trovare sul suo conto.» Lui le rivolse il sorriso che era stato definito alla top gun: fiducioso, trionfante, affascinante, ma con un inconfondibile scintillio d'acciaio. «Sindaco Noble, dovrei raccomandarle di non credere a tutto quello che legge, ma trovo utile far credere al prossimo di riuscire a leggere nel pensiero.» «Sono certa che non dovrà leggere nel pensiero per sapere quanto le siamo grati per la sua presenza qui.» «Farò tutto il possibile per rendermi utile. Mi ha detto di aver parlato con il direttore?» Grace Noble gli batté la mano sul braccio con aria materna. «No, caro. È stato Peter a parlare con lui. Peter Bondurant. Si dà il caso che siano vecchi amici.» «Il signor Bondurant è qui?» «No, non se la sentiva di affrontare la stampa. Non ancora. Non senza sapere...» Le sue spalle s'incurvarono per un attimo, sotto il peso di quell'angoscia. «Mio Dio, non so che cosa ne sarà di lui, se è davvero Jillie...» Al suo fianco si materializzò un afroamericano di bassa statura, con la stazza di un sollevatore di pesi e un completo grigio su misura, gli occhi fissi su Quinn. «Dick Greer, capo della polizia», si presentò in tono brusco, tendendo la mano. «Lieto di averla a bordo, John. Siamo pronti a inchiodare quel bastardo.» Come se lui c'entrasse qualcosa. Nel dipartimento di polizia di una metropoli, il capo era un amministratore e un politico, un portavoce, un teorico. Quinn ascoltò la lista di nomi e cariche, mentre avvenivano le presentazioni. Salutò tutti con una vigorosa stretta di mano, restando sulle sue. Gli abitanti del Midwest tendevano a essere riservati e non apprezzavano molto chi non lo era. Nel nordest, Quinn avrebbe fatto trasparire di più la sua
tempra d'acciaio, mentre sulla costa del Pacifico avrebbe sfoderato tutto il suo fascino, trasformandosi in un campione di affabilità e cooperazione. Un cavallo diverso per ogni corsa, avrebbe detto il suo vecchio. Ma qual era il vero John Quinn? Non lo sapeva più nemmeno lui. «... e mio marito, Edwyn Noble», concluse Grace. «Sono qui in veste professionale, agente Quinn», precisò subito Edwyn Noble. «Peter Bondurant è un cliente, oltre che un amico.» L'attenzione di Quinn si concentrò sull'uomo che aveva di fronte. Noble sfiorava i due metri di altezza ed era quasi scheletrico, tutto nervi e tendini, con un sorriso squadrato e troppo ampio per la sua faccia. Sembrava leggermente più giovane della moglie e i capelli bianchi erano limitati a due ciocche sulle tempie, come due bandiere. «Il signor Bondurant ha inviato in rappresentanza il suo avvocato?» gli domandò. «Io sono il consulente legale di Peter, sì. Sono qui per suo conto.» «Come mai?» «Lo choc è stato terribile.» «Ne sono certo. Il signor Bondurant ha già reso la sua deposizione alla polizia?» Noble si ritrasse, quasi spiazzato fisicamente da quella domanda. «Una deposizione in merito a che cosa?» Quinn reagì con noncuranza. «Le solite cose. Quando ha visto per l'ultima volta la figlia. Qual era il suo stato d'animo in quel momento. Che tipo di rapporto c'era fra loro.» Gli zigomi sporgenti dell'avvocato si colorirono. «Sta forse insinuando che il mio cliente possa essere sospettato per la morte della figlia?» ribatté in tono aspro ma sommesso, scrutando la sala in cerca di potenziali curiosi intenti ad ascoltare. «Niente affatto», rispose Quinn con aria innocente. «Mi spiace se sono stato frainteso. Per avere un quadro chiaro, ci occorre il maggior numero possibile di tessere del rompicapo, tutto qui. Lei sarà senz'altro d'accordo con me.» Noble assunse un'espressione afflitta. In base all'esperienza di Quinn, i genitori della vittima di un omicidio tendevano ad accamparsi davanti al dipartimento di polizia, pretendendo risposte e stando sempre fra i piedi degli investigatori. Dopo la descrizione che Walsh gli aveva fatto di Bondurant, Quinn si era aspettato di vederlo imperversare per la città come un toro inferocito. Invece Peter Bondurant
era rimasto in disparte, prendendo contatti con il direttore dell'FBI, inviando il suo avvocato e restando a casa. «Peter Bondurant è uno dei migliori uomini che io conosca», dichiarò Noble. «Sono certa che l'agente Quinn non intendeva dire nulla di diverso, Edwyn», intervenne il sindaco, battendo la mano sul braccio del marito. L'attenzione dell'avvocato rimase concentrata su Quinn. «A Peter è stato assicurato che lei era l'ideale per questo lavoro.» «Sono molto bravo nel mio lavoro, avvocato Noble, e uno dei motivi per cui sono bravo è che non ho paura di farlo. Sono certo che il Bondurant sarà lieto di saperlo.» Non calcò ulteriormente la mano, perché non intendeva inimicarsi i collaboratori di Bondurant. Se offendeva un uomo come quello, si sarebbe beccato come minimo una convocazione dall'Ufficio responsabilità professionali dell'FBI. D'altro canto, dopo che Peter Bondurant lo aveva fatto correre fin lì come un cane al guinzaglio, ci teneva a mettere bene in chiaro che non intendeva lasciarsi manipolare. «Su, il tempo comincia a stringere. Prendiamo posto e cominciamo», annunciò il sindaco, guidando gli uomini verso il tavolo predisposto per la riunione come una maestra con un branco di scolaretti della prima elementare. Rimase in piedi a capotavola, mentre tutti rientravano nei ranghi, e stava prendendo fiato per cominciare quando la porta si aprì di nuovo ed entrarono quattro persone. «Ted, stavamo per cominciare senza di te.» Il viso molliccio del sindaco s'increspò in un'espressione di disappunto per la sua scarsa puntualità. «Abbiamo avuto qualche complicazione.» L'uomo attraversò la sala, puntando direttamente verso Quinn. «Agente speciale Quinn, sono Ted Sabin, procuratore della contea di Hennepin. Lieto di fare la sua conoscenza.» Quinn si alzò, accorgendosi di vacillare, con lo sguardo fisso al di là delle spalle dell'uomo, verso la donna che lo seguiva con aria riluttante. Mormorando una risposta adeguata, strinse la mano del procuratore Sabin. Un poliziotto con i baffi si avvicinò, presentandosi come Kovac, un nome che ridestava nella sua mente un'eco, sia pure vaga. Il tizio corpulento che era con loro si presentò a sua volta, mormorando che una volta aveva sentito parlare Quinn, da qualche parte. «... E questa è Kate Conlan, del servizio di protezione vittime e testimo-
ni», aggiunse Sabin. «Forse...» «Ci conosciamo già», risposero all'unisono. Per un attimo, Kate guardò negli occhi Quinn, perché le sembrava importante farlo, riconoscerlo, ammettere la sua presenza, ma senza reagire. Poi distolse subito lo sguardo, soffocando l'impulso di sospirare, imprecare o uscire dalla sala. Non poteva dire di essere sorpresa di vederlo. Gli agenti assegnati alla CASKU (Child Abduction Serial Killer Unit), l'Unità investigativa per i rapimenti di minori e i serial killer, erano soltanto diciotto, e in quel momento Quinn era il loro uomo da copertina; inoltre gli omicidi a sfondo sessuale erano la sua specialità. Le probabilità non erano a favore di Kate, e quel giorno la sua fortuna era pari a zero. Che diamine, avrebbe dovuto addirittura aspettarsi di vederlo lì, e invece non lo aveva fatto. «Avete lavorato insieme?» domandò Sabin, incerto se rallegrarsi o dispiacersi. Per due o tre secondi regnò un silenzio imbarazzato, poi Kate sprofondò in una poltroncina. «Be'... sì», rispose. «Ma è passato tanto tempo.» Quinn la fissò. Nessuno lo coglieva di sorpresa, mai. Aveva impiegato una vita a raggiungere quel livello di autocontrollo. Abbassò la testa e si schiarì la gola. «Già. La tua mancanza si fa sentire, Kate.» Da chi, avrebbe voluto chiedergli, invece replicò: «Ne dubito. L'FBI è come l'esercito cinese, gli agenti potrebbero gettarsi in mare a ondate successive per un anno e ci sarebbero ancora effettivi sufficienti a riempire i ranghi». Ignara del disagio che regnava all'altro capo del tavolo, Grace Noble richiamò all'ordine i presenti. La conferenza stampa doveva cominciare fra meno di un'ora. I politici dovevano tirare le fila della situazione, stabilire chi avrebbe parlato per primo, quale posto spettava a ciascuno, chi avrebbe detto che cosa. Intanto i poliziotti si lisciavano i baffi e tamburellavano con le dita sul tavolo, spazientiti dai preliminari formali. «Ci serve una dichiarazione forte», affermò il capo Greer. «Facciamo capire a questo bastardo che non troveremo pace finché non lo avremo catturato. Facciamogli capire fin dall'inizio che abbiamo con noi il massimo esperto di profili criminali dell'FBI, che abbiamo a disposizione le risorse combinate di ben quattro agenzie che lavoreranno a questo caso giorno e notte.» Edwyn Noble annuì. «Il signor Bondurant offrirà una ricompensa di centocinquantamila dollari a chiunque fornisca informazioni utili per l'arre-
sto.» Quinn si alzò, distogliendo l'attenzione da Kate. «Per la verità, capo, vi sconsiglio tutto questo, almeno per ora.» Greer contrasse il viso, Noble lo fissò con ira. L'espressione collettiva dei politici seduti al tavolo rispecchiava una grande perplessità. «Non ho ancora avuto l'opportunità di esaminare a fondo il caso», cominciò a spiegare Quinn, «e questa è già una ragione sufficiente per non premere il pedale a fondo. Dobbiamo cercare di capire che tipo può essere questo killer, come funziona la sua mente. Dare una prova di forza alla cieca proprio in questo momento potrebbe essere una mossa nella direzione sbagliata.» «E su che cosa si basa questa valutazione?» chiese Greer, con le spalle massicce tese sotto il peso del fardello che era costretto a portare. «Lo ha detto lei stesso, non ha ancora esaminato il caso.» «Ci troviamo di fronte a un assassino che inscena uno spettacolo. Ho visto le foto dell'ultimo delitto. Ha portato il corpo in un luogo pubblico, allo scopo di provocare uno choc. Ha attirato l'attenzione sul posto appiccando un incendio. Questo probabilmente significa che vuole un pubblico e, se è questo che vuole, dobbiamo fare attenzione al modo in cui glielo offriremo. «Il mio consiglio è di tenerci sul vago, per oggi. Minimizzate questa conferenza stampa, assicurando all'opinione pubblica che state facendo di tutto per identificare e arrestare l'assassino, ma senza entrare nei dettagli. Limitate al minimo il numero di presenze sulla tribuna degli oratori: il capo Greer, il sindaco, il procuratore Sabin e basta. Non precisate la composizione della task force. Non parlate del signor Bondurant. Non sollevate l'argomento dell'FBI. Non fate il mio nome e non rispondete alle domande.» Com'era prevedibile, tutti i presenti insorsero. Quinn sapeva per esperienza che alcuni di loro si aspettavano che lui cercasse di avere per sé tutti i riflettori: il divo dell'FBI che tentava di accaparrarsi i titoli in prima pagina. E senza dubbio alcuni di loro intendevano esibirlo come un trofeo alla conferenza stampa: nessuno di loro si aspettava che volesse ridimensionare il proprio ruolo. «In questa fase non è il caso di creare una situazione di antagonismo in cui l'assassino possa vedermi come una sfida diretta contro di lui», spiegò. «Io resterò dietro le quinte il più possibile, senza espormi con la stampa fin quando potrò o fin quando non riterrò opportuno fare altrimenti.»
I politici si mostrarono delusi e risentiti. «La popolazione di questa città potrebbe lasciarsi prendere dal panico», disse il capo della polizia. «Abbiamo già tre vittime, una delle quali decapitata. I telefoni del mio ufficio squillano in continuazione. È necessario fare una dichiarazione. La gente vuole sapere che daremo la caccia a questa belva umana con tutti i mezzi a nostra disposizione.» Il sindaco annuì. «Sono propensa a dare ragione a Dick. In città sono previsti convegni di uomini d'affari, ci sono turisti in arrivo, per i concerti, per le spese natalizie...» «È stata già abbastanza grave la notizia dell'omicidio di due prostitute», aggiunse un addetto stampa. «Ora è morta la figlia di un cittadino molto influente. La gente comincia a pensare che, se è successo a lei, potrebbe succedere a chiunque. Notizie come queste creano un clima di terrore.» «Se darete a quest'uomo una sensazione di potere e di importanza, la città avrà ottime ragioni per cadere in preda al panico», dichiarò chiaro e tondo Quinn. «Non è altrettanto probabile che minimizzare il caso di fronte ai media possa mandarlo su tutte le furie e spingerlo a commettere altri delitti per attirare più attenzione su di sé?» replicò Green «Come fa a sapere se uscire allo scoperto con un'offensiva forte non possa servire a spaventarlo e indurlo a tradirsi?» «Non lo so. Non so che cosa potrebbe fare, e non lo sapete neppure voi. Ci serve tempo per cercare di capirlo. Finora sappiamo soltanto che ha assassinato tre donne, diventando sempre più audace e arrogante. Non si spaventerà facilmente, questo ve lo posso assicurare. Forse alla fine riusciremo a coinvolgerlo nelle indagini - è certo che ci sta osservando - ma dobbiamo mantenere un controllo ferreo e lasciare aperte varie opzioni.» Si rivolse a Edwyn Noble. «Inoltre la ricompensa è troppo elevata. Vi suggerirei di ridurla a non più di cinquantamila dollari, per cominciare.» «Con tutto il dovuto rispetto, agente Quinn», rispose l'avvocato in tono teso, «la decisione spetta al signor Bondurant.» «Infatti, e sono certo che attribuisce un valore incalcolabile a ogni informazione che riguardi l'assassinio di sua figlia. Il mio ragionamento è questo, avvocato Noble: la gente si farà avanti per una ricompensa di gran lunga inferiore a centocinquantamila dollari. Una somma così elevata non farà che attirare una fiumana di mitomani e opportunisti in cerca di denaro, disposti a vendersi anche la madre. Cominciate con cinquantamila. In seguito vedremo se aumentare la somma, come mossa strategica.»
Noble si lasciò sfuggire un sospiro misurato, scostando la sedia dal tavolo. «Dovrò parlarne con Peter», annunciò, dirigendosi verso un tavolino con un telefono, contro una parete della sala. «Abbiamo tutti i giornalisti di Minneapolis e St. Louis accampati sui gradini del municipio», fece notare il sindaco. «Si aspettano qualcosa di più di un semplice comunicato stampa.» «Questo è un problema loro», ribatté Quinn. «Dovete considerarli come strumenti, anziché come ospiti. Non hanno diritto a conoscere i dettagli di un'indagine in corso. Avete indetto una conferenza stampa, ma non avete promesso niente.» L'espressione del sindaco faceva capire che non era proprio così. «O no?» Grace Noble guardò Sabin. «Avevamo sperato in un identikit...» Sabin fulminò con gli occhi Kate. «La nostra testimone non è troppo disposta a collaborare.» «La nostra testimone è una ragazzina spaventata che ha visto uno psicopatico dare fuoco a un cadavere senza testa», intervenne Kate in tono brusco. «L'ultima cosa che le viene in mente è adattarsi alla vostra tabella... signore.» «Ha visto bene l'uomo?» chiese Quinn. Kate allargò le braccia. «Dice di averlo visto, ma è stanca, spaventata, furiosa - e a ragione - per il trattamento che le è stato riservato. Questi fattori non contribuiscono a ispirarle il desiderio di collaborare.» Sabin si accinse a replicare, ma Quinn bloccò la discussione. «La sostanza è che non abbiamo un identikit.» «No», confermò Kate. «Allora non sollevate neppure l'argomento», suggerì Quinn, rivolgendosi di nuovo al sindaco. «Deviate la loro attenzione su qualcos'altro. Fornite loro una fotografia di Jillian Bondurant e una della sua macchina, lanciando un appello alla cittadinanza affinché comunichi se l'una o l'altra sono state viste, e dove, dopo venerdì sera. Non parlate della testimone. Il vostro primo pensiero, in questo caso, dev'essere il modo in cui le vostre azioni e reazioni saranno percepite dall'assassino, non dai media.» Grace Noble inspirò a fondo prima di parlare. «Agente Quinn...» «Di solito non intervengo in un caso quando è ancora nella fase iniziale», la interruppe lui, accorgendosi che il suo autocontrollo cominciava a mostrare vistose incrinature. «Ma visto che sono qui, voglio fare tutto il possibile per aiutarvi ad alleggerire la situazione e condurre l'indagine a
una conclusione rapida e soddisfacente. Questo significa anche consigliarvi in merito alle strategie preventive di indagine e al modo migliore di affrontare la stampa. Non siete tenuti ad ascoltarmi, ma non dimenticate che attingo a un patrimonio di esperienze precedenti. Il direttore dell'FBI in persona mi ha scelto per questo caso. Forse potreste riflettere sui motivi per cui lo ha fatto, prima di ignorare i miei suggerimenti.» Kate lo guardò mentre si allontanava di due passi dal tavolo e dalla discussione, fingendo di guardare fuori della finestra. Una sottile minaccia. Aveva affermato la propria importanza e ora li sfidava a metterla in discussione; di più, aveva chiamato in causa il direttore dell'FBI a conferma della propria posizione, e indirettamente li sfidava a mettere in discussione quest'ultimo. Sempre il solito, Quinn. Lei lo conosceva bene, almeno per quanto era possibile conoscerlo. Era un asso della manipolazione, capace di leggere nella mente del prossimo in un batter d'occhio, cambiando colore come un camaleonte. Era brillante, astuto, se necessario anche spietato. Chi fosse, dietro tutte quelle maschere e quelle strategie sul filo del rasoio... ebbene, Kate si domandava se lo sapesse almeno lui. Dal canto suo, un tempo aveva creduto di saperlo. Fisicamente, era piuttosto cambiato, in quei cinque anni. I capelli folti e scuri erano spruzzati di bianco e tagliati corti, quasi alla militare. Sembrava più snello, smagrito dal lavoro. Elegante come sempre, indossava un costoso abito di fattura italiana, ma la giacca gli pendeva un po' dalle spalle larghe e i pantaloni erano un po' troppo ampi. L'effetto, tuttavia, era di una ricercata eleganza, anziché suggerire un calo di forma fisica. Le fattezze del viso erano spigolose, gli occhi segnati da cerchi scuri, e intorno a lui s'irradiava nell'aria un alone di impazienza, ma Kate non avrebbe saputo dire se fosse reale o studiata per l'occasione. Sabin si girò improvvisamente verso di lei. «Ebbene, che ne pensi, Kate?» «Io?» «Hai lavorato nella stessa unità dell'agente speciale Quinn. Qual è il tuo parere?» Sentì su di sé gli occhi di Quinn, come di tutti gli altri presenti. «No, io qui mi occupo soltanto di proteggere la testimone. L'esperto è John.» «No, ha ragione lui, Kate», intervenne Quinn. «Hai fatto parte della vecchia Unità di scienze comportamentali. Hai più esperienza di questi casi di chiunque altro, qui dentro. Qual è la tua opinione?»
Kate lo fissò, sapendo che dai suoi occhi doveva trasparire il risentimento. «In merito a questo caso, non ho basi per esprimere un'opinione», cominciò in tono riluttante. «D'altra parte conosco bene le qualifiche e l'esperienza dell'agente speciale Quinn. Personalmente, ritengo che non seguire i suoi consigli sarebbe un errore.» Quinn guardò il sindaco e il capo della polizia. «Non si può suonare l'allarme e poi soffocarlo», disse a bassa voce. «Se divulgate troppe informazioni adesso, non potrete più rimangiarvele. Se necessario, convocherete un'altra conferenza stampa domani. Lasciate alla task force il tempo di mettere insieme le proprie risorse e avviare il lavoro.» Edwyn Noble tornò verso di loro con aria seria, dopo aver concluso la telefonata. «Il signor Bondurant dice che seguirà tutti i suggerimenti dell'agente Quinn. Fisseremo la ricompensa a cinquantamila dollari.» La riunione fu aggiornata alle cinque meno dieci. I politici si trasferirono nello studio del sindaco per le ultime consultazioni prima di affrontare la stampa. I poliziotti si riunirono all'altro capo della sala per discutere dell'organizzazione della task force. «Sabin non è affatto contento di te, Kate», osservò Rob in tono da cospiratore, come se qualcuno fra i presenti fosse intento a origliare. «Se gli dicessi di baciarmi il culo, tempo un attimo e sarebbe in ginocchio.» Rob arrossì. «Kate...» «È stato lui a trascinarmi in questa storia, quindi può benissimo farne le spese», aggiunse lei, avviandosi verso la porta. «Ora vado a controllare Angie, per vedere se ha trovato qualcosa nelle foto segnaletiche. Tu vai alla conferenza stampa?» «Sì.» Bene. Lei aveva una testimone a cui far spiccare il volo, mentre tutti guardavano dall'altra parte. Il primo problema era dove portarla. Il suo posto sarebbe stato un istituto di accoglienza per i minori, ma non erano ancora riusciti a dimostrare che fosse minorenne. Dalla parte opposta della sala, Quinn si girò a guardarla, distraendosi dalla conversazione con il tenente della Omicidi. Nello stesso istante, il cercapersone di Rob Marshall suonò e lui si allontanò scusandosi per andare a telefonare. Kate non aspettava altro. Si era appena diretta verso la porta, quando Quinn la raggiunse. «Kate.»
Lo guardò con rabbia, sottraendo di scatto il braccio che lui stava per afferrarle. «Grazie dell'aiuto», le disse lui sottovoce, abbassando la testa in modo da assumere un'aria fanciullesca e contrita, mentre non era né l'uno né V altro. «Certo, come no! Mi riparerai tu dai colpi, quando entrerai qui ordinando di sfidare questo figlio di puttana per metterlo in trappola?» Lui la guardò con aria innocente. «Non capisco che cosa intendi, Kate. Sai bene quanto me come in una situazione di questo tipo sia importante prevenire le reazioni dell'assassino, quando è il momento giusto.» «Non tentare i tuoi giochetti mentali con me, John», gli sussurrò con amarezza. «Non l'ho fatto per aiutarti. Non ti ho offerto un avallo. Sei stato tu ad approfittarne, e non mi piace. Credi di poter manipolare le persone come pedine su una scacchiera.» «Il fine giustifica i mezzi.» «Ed è sempre così, vero?» «Lo sai anche tu che ho ragione.» «È strano, ma questo non ti rende migliore ai miei occhi.» Fece un passo indietro verso la porta. «Scusami, ma ho qualcosa di più importante a cui pensare. Se vuoi fare i tuoi soliti giochi di potere, lasciami fuori, grazie tante.» «È stato bello rivederti, Kate», mormorò Quinn mentre lei si allontanava, con i folti capelli d'oro rosso che ondeggiavano sulla schiena. Soltanto dopo si rese conto che lei aveva un brutto livido sulla guancia e un labbro spaccato. L'aveva vista così come la ricordava: come l'ex moglie di un amico... come l'unica donna che avesse davvero amato in vita sua. 6 La folla è enorme. Le Città Gemelle, Minneapolis e St. Louis, possono vantare giornalisti in abbondanza: due grandi quotidiani, mezza dozzina di reti televisive, stazioni radio troppo numerose per tenerne il conto. E la storia ha fatto affluire anche cronisti di altre città. Lui ha attirato la loro attenzione, e gode del senso di onnipotenza che questo gli procura. Lo eccitano soprattutto i suoni: le voci incalzanti e colleriche, lo scalpiccio dei piedi, il ronzio del motorino elettrico delle telecamere. Rimpiange di aver aspettato tanto per imporsi all'attenzione del pubbli-
co. I primi delitti che ha commesso erano privati, segreti, distanti nel tempo e nello spazio, con i corpi sepolti in fosse poco profonde. Così, invece, è molto meglio. I giornalisti si contendono le posizioni migliori. Operatori e fotografi si schierano lungo il perimetro della folla, mentre lui resta al di fuori del gruppo della stampa, insieme con gli altri spettatori. Il sindaco sale sul podio. La donna fa da portavoce all'indignazione collettiva della comunità contro quegli insensati atti di violenza. Il procuratore della contea ripete a pappagallo le osservazioni del sindaco, minacciando castighi.Il capo della polizia accenna alla creazione di una task force. Non rispondono alle domande, anche se i giornalisti invocano a gran voce che venga confermata l'identità della vittima e illustrati i dettagli più macabri del delitto. Sparano domande, gridano la parola «decapitazione». Si parla di un testimone. L'idea che qualcuno abbia visto da vicino lo eccita. È convinto che chiunque assista ai suoi atti debba sentirsi eccitato come lui; eccitato in modo inverosimile, come accadeva a lui da bambino, chiuso nell'armadio ad ascoltare la madre che faceva sesso con uomini sconosciuti. Un'eccitazione che istintivamente aveva riconosciuto come una cosa proibita, ma al tempo stesso irrefrenabile. Domande e ancora domande da parte dei media. Nessuna risposta. Nessun commento. Vede John Quinn, in disparte, insieme con un gruppo di poliziotti, e prova un impeto di orgoglio. La fama e le teorie di Quinn gli sono familiari. Lo ha visto in televisione, ha letto articoli su di lui. Per affrontare il Crematore, l'FBI ha mandato il migliore dei suoi uomini. Desidera che l'agente salga sul podio, vorrebbe sentire la sua voce e le sue opinioni, ma Quinn non si muove. Poi il sindaco e gli altri si allontanano dal podio, circondati da poliziotti in divisa. La conferenza stampa è finita. Si sente schiacciato dalla delusione. Si aspettava di più, voleva di più. Poi, con un sussulto, si rende conto che stava per reagire, che per un attimo ha permesso alle sue emozioni di dipendere dalle decisioni altrui. Un comportamento inaccettabile. Lui non reagisce, ma previene le azioni degli altri. I giornalisti si arrendono, affrettandosi a uscire. Articoli da scrivere, fonti da spremere. La piccola folla di cui fa parte si disperde. Lui si avvia insieme con loro, un volto fra i tanti.
«Forza, ragazzina. Andiamo via di qui.» Angie alzò la testa dagli album di foto segnaletiche sparsi sul tavolo con un'espressione diffidente, il viso seminascosto dai capelli unti. Mentre si alzava dalla sedia, il suo sguardo saettò da Kate a Liska, come se si aspettasse che la donna poliziotto estraesse la pistola per impedirle la fuga. L'attenzione di Liska era invece tutta per Kate. «Ha ottenuto l'autorizzazione? Dov'è Kovac?» Kate la guardò negli occhi. «Sì... Quanto a Kovac, è stato trattenuto dal tenente alla conferenza stampa. Stanno parlando della task force.» Il fine giustifica i mezzi. Pensò a Quinn. Se non altro, il suo era un fine nobile, non una manipolazione egoistica. Razionalizzazione: il segreto per avere una coscienza pulita. Kate controllò con la coda dell'occhio la sua assistita, accorgendosi che stava intascando un accendino Bic lasciato sul tavolo da qualcuno. Cristo. Una ragazzina, e per giunta cleptomane. «Questo mi sembra un buon momento per filarcela.» «Ci provi adesso, finché può», convenne Liska. «Oggi è una preda succosa per due buone ragioni. Ho sentito parlare del folle atto di eroismo che ha compiuto stamattina nella sede amministrativa della contea. Se i giornalisti non la inseguono per una cosa, lo faranno per l'altra.» «La mia vita è già troppo eccitante.» «Dove mi porti?» chiese Angie sulla porta, mettendosi lo zainetto in spalla. «A cena. Ho una fame che non ci vedo, e tu hai l'aria di digiunare da parecchio tempo.» «Ma il tuo capo ha detto...» «Che vada a farsi fottere. Vorrei tanto che qualcuno chiudesse Ted Sabin in una stanza per un giorno o due. Forse comincerebbe a provare un po' di comprensione per il prossimo. Andiamo.» Angie lanciò ancora un'occhiata a Liska, poi uscì, sistemandosi lo zaino sulle spalle mentre rincorreva Kate. «Ti metterai nei guai?» «Perché, te ne importa?» «Se ti licenziano, non è un problema mio.» «Ecco qual è lo spirito giusto. Ascolta, dobbiamo salire nel mio ufficio. Se un giornalista dovesse fermarmi lungo la strada, fa' un favore a tutt'e due fingendo di non essere con me. Non voglio che la stampa faccia due
più due, e tu non vorrai far sapere chi sei. Fidati di me, almeno in questo.» Angie le scoccò un'occhiata maliziosa. «Non potrei apparire su Hard Copy? Ho sentito dire che pagano bene.» «Tu manda a puttane questo caso per Sabin, e vedrai che ti farà apparire su I criminali più ricercati d'America. Sempre che il nostro cordiale vicino di casa serial killer non ti faccia finire prima su Misteri insoluti. Ragazzina, anche se non vuoi ascoltare gli altri consigli che ti darò, ascolta questo: tu non vuoi apparire in televisione, non vuoi che la tua foto sia stampata su un giornale.» «Stai cercando di spaventarmi?» «Ti sto dicendo le cose come stanno», ribatté Kate mentre imboccavano il passaggio sotterraneo che conduceva al centro governativo. Inalberò l'espressione che segnalava: «Non-mi-scocciate» e camminò più in fretta che poteva, tenuto conto dei dolori e dei muscoli irrigiditi dall'incontro di lotta di quella mattina, che cominciavano a farsi sentire Il tempo scorreva in fretta. Se i politici seguivano il consiglio di John e riuscivano a controllarsi, la conferenza stampa sarebbe finita presto. Alcuni giornalisti avrebbero tallonato il capo Greer, ma gli altri si sarebbero divisi fra il sindaco e Ted Sabin, e fra poco il passaggio sarebbe stato affollato. Invece la fortuna le arrise, almeno per una volta, quel giorno. Soltanto tre persone cercarono di intercettarla lungo il cammino fino al ventunesimo piano, ognuna facendo un commento spiritoso sull'eroismo di cui aveva dato prova quella mattina. Lei liquidò tutti con un'occhiata ironica e una battuta, senza mai rallentare. «Di che si tratta?» domandò Angie quando raggiunsero l'ascensore, arrendendosi alla curiosità. «Niente di speciale.» «Quello lì ti ha chiamata Terminator. Che cosa hai fatto? Hai ammazzato qualcuno?» La domanda fu accompagnata da un'occhiata in cui incredulità e stanchezza si mescolavano a un barlume di riluttante ammirazione. «Niente di così drammatico. Non che oggi non sia stata tentata di farlo.» Kate batté il codice di accesso sul pannello di sicurezza accanto alla porta della sezione servizi legali. Poi aprì la porta chiusa a chiave del suo ufficio, facendo cenno ad Angie di entrare. «Non sei tenuta a portarmi da nessuna parte, sai?» disse la ragazza, lasciandosi cadere sull'unica sedia a disposizione dei visitatori. «So badare a me stessa. Questo è un paese libero, e io non sono una criminale... e neppure una bambina», aggiunse in ritardo.
«Cerchiamo di non sfiorare neanche l'argomento, per ora», suggerì Kate, scorrendo rapidamente la posta inevasa. «Lo sai qual è la situazione, Angie. Ti serve un posto sicuro dove stare.» «Posso andare dalla mia amica Michelle...» «Credevo che si chiamasse Molly.» Angie serrò le labbra, socchiudendo gli occhi. «Non azzardarti a rifilarmi stronzate», l'ammonì Kate, per quel che poteva servire. «Non esiste nessuna amica e tu non hai un posto dove vivere nel quartiere di Phillips. È stato un colpo di genio, comunque, scegliere una zona così malfamata. Chi sosterrebbe di abitare lì, se non fosse vero?» «Mi stai dando della bugiarda?» «Penso che tu abbia le tue priorità», ribatté Kate con calma, tutta presa da un appunto che diceva: «Parlato c/Sabin. Test. a Phoenix House R.M.». L'autorizzazione a trasferire Angie. Strano che Rob non avesse accennato a quella decisione, nello studio del sindaco. La grafia era di una segretaria, e non era indicata l'ora. Probabilmente la decisione era arrivata poco prima della conferenza stampa. Quindi era ricorsa a tutti quei sotterfugi per niente. «Priorità che probabilmente contemplano l'intenzione di evitare sia il carcere, sia il riformatorio.» «Non sono una...» «Risparmiami.» Premette il pulsante della segreteria telefonica per ascoltare le voci di coloro che avevano tentato di raggiungerla nel pomeriggio. Fra gli altri c'era anche David Wìllis, un tipo ansioso che era stato vittima di un'aggressione in un supermercato ed era il cliente che in quel momento le dava più grattacapi. «Kate.» La roca voce maschile che uscì dall'apparecchio la fece sussultare. «Parla Quinn... ehm, John. Io... alloggio al Radisson.» Come se si aspettasse di essere richiamato. «E questo chi è?» chiese Angie. «Il tuo fidanzato?» «No, no», rispose Kate, affrettandosi a recuperare la compostezza. «Usciamo di qui. Muoio di fame.» Inspirò a fondo, espirando mentre si alzava, con la sensazione di essere stata colta alla sprovvista, cosa che aveva sempre evitato come la peste. Un'altra voce da aggiungere alla lunga lista di colpe di Quinn. Non poteva lasciarsi sconvolgere da lui. Così com'era venuto, se ne sarebbe andato. Un paio di giorni al massimo, calcolò.
Non aveva alcun motivo per restare, e non sarebbe rimasto a lungo. Lei non era obbligata ad avere contatti con lui durante il suo soggiorno a Minneapolis, visto che non lavorava più per l'FBI e non faceva parte della task force. Quinn non aveva alcun potere su di lei. Santo cielo, Kate, si direbbe che tu abbia paura di lui, pensò disgustata mentre usciva dal parcheggio con il suo Toyota 4Runner, sbucando sulla Quarta Avenue. Quinn era acqua passata, e lei una donna adulta, non un'adolescente che aveva rotto un filarino con il ragazzo più figo della classe e non poteva sopportare di incontrarlo faccia a faccia durante la ricreazione. «Dove andiamo?» chiese Angie, sintonizzando la radio su una stazione che trasmetteva rock alternativo. Alanis Morissette che gemeva lamentandosi del suo ex ragazzo con un sottofondo di bongos. «In Uptown. Che cosa ti va di mangiare? Ho idea che non ti farebbe male un po' di grassi e di colesterolo. Costate? Pizza? Hamburger? Pasta?» Angie rispose con la sdegnosa scrollata di spalle che, da che mondo è mondo, induce i genitori di adolescenti a soppesare i pro e i contro della decisione di sopprimerli. «Quello che ti pare, purché ci sia un bar. Ho bisogno di bere qualcosa.» «Non esagerare, ragazzina.» «Cosa? Ho una patente di guida perfettamente valida.» Si stravaccò sul sedile, appoggiando i piedi contro il parabrezza. «Posso scroccarti una sigaretta?» «Non ne ho. Ho smesso di fumare.» «Da quando?» «Dal 1981, anche se ogni tanto ci ricasco. Togli i piedi dal mio parabrezza.» La ragazzina sospirò, mettendosi di traverso sul sedile. «Perché mi porti a cena? Io non ti piaccio. Non preferiresti tornare a casa da tuo marito?» «Sono divorziata.» «Dal tizio della segreteria telefonica? Quinn?» «No. E non sono affari tuoi.» «Non hai figli?» Un attimo di silenzio prima di rispondere. Kate si domandò se sarebbe mai riuscita a superare quell'esitazione, o il senso di colpa che la generava. «Ho un gatto.» «Allora vivi ad Uptown?» Kate la guardò in tralice, distogliendo per un attimo gli occhi dal traffico intenso dell'ora di punta. «Parliamo un po' di te. Chi è Rick?»
«Chi?» «Rick... il nome sul giubbotto.» «Era tutto compreso.» Traduzione: era il nome del tizio al quale lo aveva rubato. «Da quanto tempo vivi a Minneapolis?» «Da un po'.» «Quanti anni avevi, quando sono morti i tuoi?» «Tredici.» «E da quanto tempo sei sola?» La ragazzina le lanciò un'occhiata furiosa. «Otto anni. Se credi di farmi cadere in trappola, ti sbagli..» «Ci ho provato. E cosa è successo ai tuoi? Un incidente?» «Sì», rispose piano Angie, con gli occhi fissi davanti a sé. «Un incidente.» Là sotto, chissà dove, c'era una storia, pensò Kate mentre si destreggiava nel traffico dell'incrocio che immetteva dalla 94 su Hennepin Avenue. Forse poteva intuire alcuni degli ingredienti chiave: alcol, maltrattamenti, una serie di drammi e di crisi fatali. Quasi tutti i ragazzi che finivano sulla strada avevano vissuto una variante di quella storia, come tutti i detenuti. La famiglia era un terreno di coltura fertile per i batteri psicologici che tarpavano la mente e divoravano la speranza. Eppure, lei conosceva tanti tutori della legge e assistenti sociali che avevano alle spalle la stessa situazione, persone che avevano raggiunto lo stesso bivio, ma avevano imboccato una strada anziché l'altra. Involontariamente, pensò di nuovo a Quinn. La pioggia si era infittita, tramutandosi in una nebbia deprimente. I marciapiedi erano deserti. Contrariamente a quanto suggeriva il nome, che significava «periferia», Uptown si trovava poco più a sud del centro di Minneapolis. Era un'area ristrutturata di recente e piena di negozi, ristoranti, caffè, gallerie d'arte, cinema, che ruotava intorno all'incrocio fra la Strada al Lago e Hennepin. A un tiro di schioppo - ma separato da un mondo intero - sorgeva un quartiere difficile come Whittier, che negli ultimi anni era diventato territorio di bande nere, teatro di sparatorie per la strada e raid di drogati. Uptown era delimitato a ovest dal lago Calhoun e dal Lago delle Isole, e attualmente era abitato da yuppies e personaggi in vista. La casa nella quale Kate era cresciuta, e che ora le apparteneva, si trovava a due isolati appena dal lago Calhoun, dato che i genitori avevano acquistato quella solida
costruzione in stile prateria prima che la zona diventasse alla moda. Come locale scelse La Loon, un pub distante dalla zona più animata di Piazza Calhoun. Non era in vena di affrontare chiasso o folla, sapendo che la sua compagna di tavola avrebbe potuto sfruttarli come scudo protettivo. Il solo fatto che fosse un'adolescente rappresentava già una barriera notevole. L'interno del locale era caldo e semibuio, tutto legno e ottone, con un lungo bancone all'antica e pochi clienti. Kate scartò un séparé e optò invece per un tavolo d'angolo, dove occupò la sedia interna per poter tenere d'occhio tutta la sala. Il posto dei paranoici. Angie DiMarco aveva già assimilato quell'atteggiamento e, invece di sedersi di fronte a Kate, con le spalle rivolte alla sala, preferì una sedia di lato, addossata alla parete, in modo da poter vedere chiunque si avvicinasse al tavolo. La cameriera portò i menu e chiese che cosa volessero bere. Kate avrebbe voluto un gin doppio, ma si accontentò di uno chardonnay; Angie ordinò rum e Coca-Cola. La cameriera guardò Kate, che alzò le spalle. «Ha la patente.» Mentre la cameriera si allontanava, sul viso di Angie balenò un'espressione sorniona di trionfo. «Pensavo che non volessi farmi bere.» «Che diavolo», ribatté Kate, pescando dalla borsetta un flacone di cachet. «Non sarà certo questo a corromperti.» Era chiaro che Angie si era aspettata uno scontro. Si appoggiò allo schienale della sedia, piuttosto perplessa e leggermente delusa. «Tu non somigli a nessuna delle assistenti sociali che ho conosciuto.» «Quante ne hai conosciute?» «Parecchie. Alcune erano puttane, altre così sdolcinate da farti venire voglia di vomitare.» «Be', ci sarebbe un sacco di gente pronta a dirti che ho un po' dell'una e un po' dell'altra categoria.» «Eppure sei diversa. Non so», aggiunse Angie, sforzandosi di trovare la definizione giusta. «È come se ne avessi viste tante, o qualcosa del genere.» «Diciamo che non ho scelto questo lavoro passando per la via normale.» «E questo che cosa vuol dire?» «Vuol dire che non me la prendo per le sciocchezze e non mi lascio mettere i piedi in testa.» «Se è vero, chi è stato a pestarti?» «Ho trasceso i limiti del dovere», rispose Kate, mandando giù il cachet
con l'aiuto di un bicchiere d'acqua. «E poi dovresti vedere com'è ridotto l'altro. Allora, c'era qualche faccia familiare fra quelle foto segnaletiche?» Angie cambiò subito umore, storcendo la bocca imbronciata e abbassando gli occhi sul tavolo. «No, altrimenti lo avrei detto.» «Davvero?» mormorò Kate, guadagnandosi un'occhiata risentita. «Domattina vorranno farti lavorare con il disegnatore. Come pensi che andrà? Lo hai visto abbastanza bene da descriverlo?» «L'ho visto alla luce del fuoco.» «Quanto eri lontana?» «Non lo so. Non molto. Stavo tagliando per il parco e dovevo fare pipì, così mi sono rannicchiata dietro i cespugli. E poi lui è venuto giù dalla collina... e portava quel...» S'irrigidì in volto, mordendosi le labbra e abbassando la testa, nell'evidente speranza che i capelli nascondessero le emozioni che erano affiorate in superficie. Kate attese con pazienza, intuendo la sua crescente tensione. Anche per una ragazza di strada come Angie, vedere quello spettacolo doveva essere stato uno choc terrificante. E voglio essere presente quando la povera ragazzina crollerà, pensò, sempre turbata da quell'aspetto del suo lavoro. Il sistema avrebbe dovuto proteggere le vittime, ma spesso finiva per ferirle di nuovo, e anche chi era destinato a patrocinare la loro causa restava coinvolto, perché dipendeva proprio da quel sistema che in teoria avrebbe dovuto difendere il cittadino stritolato negli ingranaggi della macchina della giustizia. La cameriera tornò con i drink e Kate ordinò per tutt'e due cheeseburger con patatine fritte. «Io... io non sapevo che cosa trasportava», bisbigliò Angie quando la cameriera si fu allontanata. «Sapevo soltanto che stava arrivando qualcuno e dovevo nascondermi.» «Il parco di notte è un posto che fa paura, mi sembra», osservò Kate a bassa voce. «A nessuno sorride l'idea di trovarsi lì nel cuore della notte. Tu che cosa ci facevi, Angie?» «Te l'ho detto, stavo soltanto passando.» «Per andare dove, a quell'ora di notte?» La ragazza si chinò sul bicchiere di rum e Coca-Cola, succhiando una lunga sorsata dalla cannuccia. «Angie, sono una donna adulta. Ho visto cose che sembrerebbero incredibili persino a te», osservò" Kate. «Niente di quello che dirai potrà sconvolgermi.» Lei rispose con una breve risata amara, lanciando un'occhiata al televiso-
re sospeso all'estremità del banco. «A nessuno importa se stavi violando la legge, Angie. L'omicidio cancella tutto il resto: furto, prostituzione, caccia di frodo agli scoiattoli... che del resto, personalmente, considero un servizio reso alla comunità», commentò. «Il mese scorso ho trovato uno scoiattolo in soffitta. Che schifo! Non sono altro che ratti con la coda pelosa.» Nessuna reazione. Neanche un sorriso. Neppure un'ombra di indignazione infantile contro quel cinico disprezzo per la vita animale. «Non sto cercando di fregarli, Angie. Te lo dico in veste di assistente che ha il compito di proteggerti. Prima ti liberi di tutto quello che è successo ieri sera, meglio è per tutti... te compresa. Il procuratore della contea è fuori di sé per questo caso. Ha tentato di convincere il sergente Kovac a trattarti come una persona sospetta.» Negli occhi della ragazza spuntò un'espressione allarmata. «Che vada a farsi fottere! Io non ho fatto niente.» «Kovac ti crede, ed è per questo che ora non sei rinchiusa in una cella. Per questo, e perché io non lo permetterei mai. Ma si tratta di una faccenda seria, Angie. Questo assassino è il nemico pubblico numero uno, e tu sei la sola persona che lo abbia visto e sia sopravvissuta per raccontarlo.» Con i gomiti sul tavolo, la ragazza si prese il viso fra le mani, mormorando fra le dita: «Cristo, che strazio!» «Hai tutto il diritto di pensarlo, tesoro», riprese Kate con dolcezza. «Ma la situazione è questa, chiara e semplice. Questo pazzoide continuerà a uccidere finché qualcuno non lo fermerà. Forse tu puoi aiutarci a farlo.» Attese, trattenendo il respiro, cercando di esercitare la propria volontà su quella povera bambina per spingerla a decidere. Fra le dita di Angie, poteva vedere il suo viso arrossato dallo sforzo di dominare le emozioni. Poteva vedere la tensione delle spalle sottili, percepire l'ansia e l'aspettativa che permeavano l'aria intorno a lei. Ma era destino che in quella situazione nulla fosse chiaro e semplice, pensò Kate, quando il suo cercapersone cominciò a squillare nella borsetta. L'occasione era sfumata. Imprecando dentro di sé, frugò nella borsa. «Pensaci, Angie», disse. «Dipende tutto da te e io sono qui per aiutarti.» Quindi, per la proprietà transitiva, tutto dipende da me, rifletté. 7 «Che fine ha fatto la mia testimone, testa rossa?» Kovac si appoggiò alla
parete della sala delle autopsie, tenendo il ricevitore incastrato fra la spalla e l'orecchio e infilandosi al contempo una mano sotto il camice da chirurgo che portava per proteggere i vestiti, prendendo dalla tasca della giacca un piccolo flacone di pomata al mentolo e applicandosene una dose generosa intorno alle narici. «Mi è sembrato giusto trattarla come un essere umano e offrirle un vero pasto, invece delle porcherie che voialtri comprate allo spaccio della polizia.» «Ma come, non ti piacciono le ciambelle? Che razza di americana sei?» «Una che ha almeno una vaga idea del concetto di libertà civili.» «E va bene, ho capito.» Si turò con un dito l'orecchio libero per non sentire, in sottofondo, lo stridio di una sega per le ossa che veniva affilata sulla mola. «Se me lo chiede Sabin, gli dirò che me l'hai soffiata sotto il naso prima che potessi scaraventarla in gattabuia... il che è vero.» «Non preoccuparti per Sabin. Ho un appunto con la sua autorizzazione.» «Con la sua foto mentre lo firma? E l'autentica di un notaio?» «Mio Dio, sei un paranoico all'ultimo stadio!» «Come credi che abbia resistito finora in questo posto?» «Non certo leccando il culo e obbedendo agli ordini.» Kovac non poté fare a meno di ridere. Kate diceva sempre pane al pane e vino al vino, e aveva ragione. Lui trattava i casi come meglio credeva, senza mirare alla pubblicità o a una promozione. «E dove porterai il nostro angioletto, dopo la cena di gala?» «Alla Phoenix House, pare. Il suo posto sarebbe un istituto di accoglienza per i minori, ma così vanno le cose. Devo pure portarla da qualche parte e, stando al suo documento d'identità, è un'adulta. Le hai fatto fare una foto?» «Sì, e la mostrerò nella sezione minorenni, per vedere se qualcuno la conosce. Ne darò una copia anche all'Antidroga.» «Farò lo stesso anch'io, se me ne farai avere una copia.» «Senz'altro. Tienimi aggiornato. Voglio mantenere i contatti con quella ragazzina.» Alzò la voce per sovrastare lo scroscio dell'acqua in un lavabo di acciaio inossidabile. «Devo andare. Il dottor Morte sta per sezionare quella povera creatura carbonizzata.» Guardò verso l'altro capo della sala, dove Quinn stava discutendo con l'anatomopatologa incaricata dell'autopsia e con Hamill, l'agente dell'unità speciale di Minneapolis. «A proposito, che cosa c'è fra te e il superman di Quantico?» All'altro capo del filo ci fu un'esitazione quasi impercettibile. «Che vuoi
dire?» «Come sarebbe, che vuoi dire? Che cosa c'è sotto? Qual è la storia? Qual è l'antefatto?» Un'altra pausa, appena una frazione di secondo. «Lo conosco, tutto qui. Io lavoravo alle ricerche per l'Unità di scienze comportamentali, e la nostra strada s'incrociava spesso con quella dell'ISU. E lui ai tempi era amico di Steven... il mio ex marito.» Lo disse con disinvoltura, alla fine, come per fargli credere che si trattasse di un particolare irrilevante. Kovac archiviò il tutto per rifletterci in seguito. Era amico di Steven. C'era sotto dell'altro, decise, mentre Liska gli veniva incontro, staccandosi dal piccolo gruppo raccolto intorno al cadavere con aria spazientita e nauseata. Kovac fornì a Kate il numero del suo cercapersone, raccomandandole di chiamare, e attaccò. «Siamo pronti per dare il via alle danze», annunciò Liska. Nella sala c'erano tre tavoli per le autopsie, di cui erano occupati soltanto i due alle estremità. Su ciascuno dei tavoli era sospesa una bilancia, di quelle usate al supermercato per pesare l'uva e i peperoni; qui invece servivano a pesare cuore e cervello. «Volevi che dessi inizio alla festa senza di te?» domandò la patologa, inarcando appena un sopracciglio. Stando ai suoi collaboratori, Maggie Stone aveva qualche rotella fuori posto. Sospettava di tutto e di tutti, quando il clima lo permetteva girava in sella a una grossa moto Harley Hog e si portava sempre dietro un'arma. Nel suo campo, però, era la migliore. Chi l'aveva conosciuta in tempi più pacifici sosteneva che la tinta naturale dei suoi capelli era color topo. Sam non era mai stato bravo a ricordare certi dettagli, ed era uno dei tanti motivi per cui aveva divorziato due volte; eppure anche lui si era accorto che la dottoressa Stone, superata da tempo la boa dei quaranta, era passata di recente dal TOSSO fuoco al biondo platino. I capelli erano cortissimi, pettinati in modo da dare l'impressione che sì fosse appena alzata dal letto e avesse preso uno spavento. La dottoressa Stone lo fissò mentre si applicava al collo del pesante camice il minuscolo microfono a clip. Aveva gli occhi di un verde trasparente, quasi etereo. «Devi prendere questo bastardo», gli ordinò, puntandogli contro un bisturi come per dire che, se non lo avesse fatto, lei avrebbe potuto usarlo su di lui. Poi dedicò la sua attenzione al corpo carbonizzato che giaceva sul tavolo di acciaio inossidabile, contratto in una posizione da mantide reli-
giosa. «Bene, Lars, vediamo se ci riesce di raddrizzarla un po'.» Si spostò a un'estremità del tavolo e tenne fermo il corpo con una presa solida ma delicata, mentre il suo assistente, uno svedese muscoloso, lo prendeva per le caviglie; insieme, cominciarono lentamente a tirare. Il suono che si udì somigliava allo schiocco prodotto dalle ali di pollo fritte quando si spezzano. Liska si voltò, portandosi una mano alla bocca, Kovac invece tenne duro. Dalla parte opposta del tavolo, Quinn aveva un'espressione granitica, con gli occhi fissi sul cadavere che doveva ancora svelare tanti segreti. Hamill, uno degli agenti dell'unità speciale di Minneapolis assegnati alla task force, alzò la testa per guardare il soffitto. La dottoressa Stone si allontanò dal tavolo per prendere una tabella con un grafico. «Dottoressa Maggie Stone», disse sottovoce, rivolta al microfono del registratore, anche se dava l'impressione di parlare alla vittima. «Caso numero 11-7820, senza nome. Sesso femminile, razza caucasica. La testa è stata staccata dal corpo e attualmente è mancante. Lunghezza del corpo 140 centimetri, peso 55 chili.» Le misure e il peso erano stati rilevati in precedenza, così com'era stata eseguita una serie completa di radiografie e di foto, e la dottoressa Stone aveva esaminato accuratamente il cadavere con un laser per illuminare e prelevare eventuali tracce che si potessero utilizzare come elementi di prova. Ora lo riesaminò a occhio nudo, descrivendo in modo particolareggiato tutto ciò che vedeva, ogni ferita, ogni segno. Per prima cosa, prese nota del «grave trauma» inferto al collo della vittima, ipotizzando che il danno fosse stato prodotto da un coltello con la lama seghettata. «Dopo la morte?» chiese Quinn. La dottoressa fissò la ferita aperta come se tentasse di scrutare il cuore della donna morta. «Sì», rispose infine. Più in basso, sempre sulla gola, c'erano parecchi indizi di una legatura: non un solo solco rosso, ma più di uno, da cui si poteva dedurre che la corda era stata allentata e poi stretta più volte nel corso del supplizio inflitto alla vittima. Probabilmente la causa della morte era appunto l'asfissia dovuta allo strangolamento prodotto dalla legatura, ma sarebbe stato difficile provarlo a causa della decapitazione. Infatti l'indizio più sicuro della morte per strangolamento era la frattura dell'osso ioide che si trova alla base della
lingua, nella parte superiore della trachea, cioè al di sopra della linea di decapitazione. Inoltre non c'era modo di controllare gli occhi in cerca dei segni dell'emorragia petecchiale, un altro segno certo di strangolamento. «Ha giocato in quel modo anche con le altre?» domandò Quinn, riferendosi ai segni multipli di legatura sulla gola. La Stone annuì, passando a esaminare il resto del corpo. «I danni causati dal fuoco erano più o meno gli stessi anche sugli altri corpi?» «Sì.» «E anche le altre erano vestite?» «Sì. Riteniamo che le abbia rivestite dopo averle uccise. Sui corpi ci sono ferite che non corrispondono ai danni subiti dagli abiti... quelli che non sono stati distrutti dal fuoco, almeno.» «E non indossano i loro vestiti», precisò Kovac, «ma altri, scelti dal killer per loro. Sempre tessuti sintetici. Il fuoco scioglie i tessuti e confonde le tracce rimaste sul corpo.» Quel dettaglio aveva senza dubbio altri significati per gli strizzacervelli, pensò con una punta di impazienza. Per quanto riconoscesse l'utilità dei profili dell'assassino tracciati dagli psichiatri, il piedipiatti che era in lui manteneva ancora qualche riserva sull'eccessivo credito che costoro a volte attribuivano a quei mostri. Talvolta gli assassini facevano qualcosa per il puro gusto di farla. In qualche caso per semplice curiosità, o malvagità, o perché sapevano che avrebbe ostacolato le indagini. «Sarà possibile rilevare le impronte?» domandò. «No», rispose la Stone, esaminando il dorso della mano sinistra. Lo strato superiore di pelle era diventato di un color avorio sporco e si stava esfoliando, mentre lo strato inferiore era rosso. Le ossa bianche delle nocche scintillavano nei punti in cui la pelle si era staccata del tutto, distrutta dalle fiamme. «Non chiare, almeno», aggiunse la dottoressa. «La mia idea è che abbia sistemato il corpo con le mani incrociate sul petto o sullo stomaco. Il fuoco ha sciolto all'istante la camicetta e la poltiglia risultante si è fusa con i polpastrelli prima che i tendini del braccio cominciassero a contrarsi, allontanando le mani dal corpo.» «Esiste qualche possibilità di separare i residui di tessuto dai polpastrelli?» chiese Quinn. «Il tessuto stesso potrebbe riportare l'impronta delle creste.» «Qui non abbiamo le attrezzature necessarie», rispose la Stone. «Forse
voialtri a Washington sareste in grado di provarci. Noi possiamo dissezionare le mani, spedirvele.» «Chiederò a Walsh di telefonare.» Walsh, che tossiva come un tubercolotico, aveva chiesto di essere esentato dall'assistere all'autopsia. Del resto non c'era bisogno che ci fossero tutti i membri della task force: sarebbero stati informati dei risultati nella riunione del giorno dopo, oltre ad avere accesso ai rapporti e alle foto. La Stone continuò a esaminare metodicamente il resto del corpo. «Tracce di legatura sulle caviglie, destra e sinistra», riferì, spostando con delicatezza, quasi con affetto, il collo del piede della vittima con le mani piccole e protette dai guanti. Quello era l'unico modo in cui tradiva la sua emozione durante le autopsie. Kovac notò l'aspetto delle piaghe prodotte dai legacci intorno alle caviglie della vittima, cercando con tutte le sue forze di non pensare alla donna legata a un letto nella camera degli orrori del maniaco, mentre lottava così disperatamente per liberarsi dalle corde usate per legarla da farle penetrare in profondità nelle sue carni. «Le fibre sono state già inviate al laboratorio dell'unità speciale di Minneapolis», spiegò la Stone. «Sembrano simili alle altre: una corda di polipropilene bianco», precisò, rivolta a Quinn e Hamill. «Eccezionalmente resistente. La si può acquistare in qualsiasi negozio di forniture per uffici. La contea ne acquista ogni mese in quantità industriale. È impossibile rintracciarne l'origine. «Profonde lacerazioni a forma di doppia X sulla pianta di entrambi i piedi», aggiunse, continuando l'esame. Dopo aver misurato e catalogato i tagli, descrisse le tracce di ustioni prodotte apparentemente da sigarette accese sui polpastrelli di tutte le dita dei piedi. «Tortura o tentativo di mascherare l'identità della vittima?» si chiese a voce alta Hamill. «O entrambi», disse Liska. «Si direbbe che le ustioni siano state fatte mentre la vittima era ancora viva», aggiunse la Stone. «Bastardo maniaco», mormorò Kovac. «Così, anche se si fosse liberata, non sarebbe potuta fuggire», commentò Quinn. «Qualche anno fa, in Canada, c'è stato un caso in cui alla vittima erano stati tagliati i tendini di Achille per lo stesso motivo. Le altre avevano ferite simili?» «Erano state torturate in vari modi», rispose la Stone. «Non esattamente
identici. Posso farle avere una copia dei rapporti.» «A questo hanno già provveduto, grazie.» Non c'era speranza di rimuovere gli indumenti della vittima senza asportare anche la pelle. La Stone e il suo assistente cominciarono il paziente lavoro necessario per tagliare e staccare, prelevando delicatamente con il forcipe le fibre sciolte. Kovac si sentì attanagliare dall'ansia mentre il lato sinistro del torace veniva liberato dalla camicetta distrutta, unita a uno strato di epidermide. La Stone lo guardò, al di sopra del corpo. «Eccolo qui.» «Che cosa?» domandò Quinn, spostandosi all'estremità del tavolo. Kovac gli si accostò, osservando il lavoro dell'assassino. «Il dettaglio che siamo riusciti a tenere nascosto ai giornalisti. Questo schema di ferite da taglio... vede?» Un insieme di otto segni, lunghi da un centimetro e mezzo a tre centimetri, incisi nel petto della vittima in prossimità del cuore. «Lo avevano anche le prime due», spiegò Kovac a Quinn. «Sono state strangolate, e i tagli sono stati praticati dopo la morte.» «Secondo lo stesso disegno?» «Sì. Sembra una stella, vede?» Tenendo la mano a una decina di centimetri dal corpo, disegnò nell'aria lo schema, usando l'indice. «I tagli più lunghi formano una X, e quelli più brevi ne formano un'altra.» «Ci sono altre somiglianze», annunciò la Stone. «Vedete qui? Amputazione dei capezzoli e dell'areola.» «Dopo la morte?» chiese Quinn. «No.» La Stone si rivolse all'assistente. «Voltiamo il corpo, Lars. Vediamo che cosa c'è sull'altro lato.» Il corpo era stato disposto in posizione supina prima di essere dato alle fiamme, quindi i danni prodotti dal fuoco erano limitati alla parte frontale. La dottoressa Stone rimosse i resti degli abiti rimasti intatti, infilandoli nei sacchetti di plastica per spedirli al laboratorio. Un frammento di gonna di spandex rosso. Un lembo di camicetta color verde pallido. Niente biancheria. Già, mormorò fra sé la Stone, prima di guardare Kovac. «Manca una porzione di tessuti dalla natica destra.» «Lo ha fatto anche alle altre?» volle sapere Quinn. «Sì. Alla prima vittima ha asportato un lembo del seno destro. Alla seconda, una parte della natica destra, come qui.»
«Per eliminare il segno di un morso?» ipotizzò Hamill. «Può darsi», ammise Quinn. «Di sicuro i morsi non sono insoliti, in questo genere di assassini. I tessuti presentano ematomi? Quando questi killer affondano i denti, non lo fanno in modo scherzoso.» La Stone prese un righello per misurare con precisione le ferite. «Se c'era un ematoma, lo ha asportato. Ha prelevato una porzione consistente di muscolo.» «Cristo», mormorò Kovac, disgustato, mentre fissava il riquadro di un rosso cupo e scintillante sul corpo della vittima, da cui le carni erano state asportate con estrema precisione, usando un coltello piccolo e affilato. «Chi crede di essere? Hannibal Lecter, il Cannibale?» Quinn lo guardò. «Ognuno ha il suo eroe.» Il caso numero 11-7820, senza nome, sesso femminile, razza caucasica, non aveva alcun motivo organico per morire. Era sana in tutti i sensi; ben nutrita, sovrappeso di quattro o cinque chili come la maggior parte degli esseri umani. Tuttavia la dottoressa Stone non era stata in grado di stabilire quale fosse stato il suo ultimo pasto. Se era Jillian Bondurant, prima di morire aveva digerito da tempo la cena consumata con il padre. Il corpo non presentava segni di malattie o difetti naturali. La Stone ne aveva valutato l'età fra i venti e i venticinque anni. Una giovane donna che aveva quasi tutta la vita davanti a sé... finché non si era imbattuta nell'uomo sbagliato. Questo assassino sceglieva di rado una vittima che fosse pronta a morire. Quinn ripensò a questo, mentre aspettava sull'asfalto bagnato della rampa che dava accesso al garage dell'obitorio. Il freddo umido della notte gli serpeggiava nei muscoli, insinuandosi sotto i vestiti. La nebbia aleggiava sulla città come un sottile sudario bianco. «Spero che lei non ci tenga troppo al vestito che indossa», osservò Kovac raggiungendolo, intento a pescare una sigaretta da un pacchetto di Salem al mentolo. Quinn abbassò gli occhi sul proprio abito, ben sapendo che il fetore nauseante della morte violenta ne aveva permeato ogni fibra. «Incerti del mestiere. Non ho avuto il tempo di cambiarmi.» «Io neppure. Era una cosa che mandava in bestia le mie mogli.» «Mogli... al plurale?» «Una dopo l'altra, non in contemporanea. Due. Sa com'è, il lavoro e il resto... Lei è sposato?» Quinn scosse la testa.
«Divorziato?» «Una volta, tanto tempo fa.» Tanto che quel breve tentativo di matrimonio sembrava più un brutto sogno quasi dimenticato che un ricordo. Rievocarlo era come dare un calcio a un mucchio di cenere... sensazioni di frustrazione, fallimento e rimpianto che erano ormai fredde. Sensazioni che si ridestavano quando pensava a Kate. «Capita a tutti», commentò Kovac. «È il lavoro.» Gli offrì una sigaretta, ma Quinn rifiutò. «Dio, devo togliermi di bocca quell'odore.» Kovac si riempì i polmoni, assorbendo tutto il catrame e la nicotina che poteva prima di espirare il fumo, assaporandolo bene con la lingua. «Allora, secondo lei, quella è Jillian Bondurant?» «Può darsi, ma c'è ancora una possibilità che non sia così. L'assassino si è dato molto da fare per impedirci di rilevare le impronte.» «Ma ha lasciato sul posto il documento della Bondurant. Quindi è possibile che l'abbia scelta per caso, poi, avendo capito chi era, ha deciso di trattenerla, per chiedere un riscatto», ipotizzò Kovac. «Nel frattempo cattura un'altra donna e la uccide, lasciando vicino al corpo il documento della Bondurant per far capire che cosa potrebbe succedere se paparino non sganciasse i soldi.» Socchiuse gli occhi come se soppesasse ogni aspetto della teoria, per vedere se reggeva. «Non ci sono state richieste di riscatto, che si sappia, e la ragazza è scomparsa da venerdì. Comunque, chissà... Lei però non pensa che sia andata così.» «Non ho mai visto casi del genere, tutto qui», rispose Quinn. «Di norma, in questo tipo di delitti abbiamo a che fare con un killer che ha una sola cosa in mente: realizzare la sua fantasia. Il denaro non c'entra affatto... di solito.» Si girò verso Kovac, sapendo che era lui il componente della task force del quale doveva conquistarsi la fiducia. Kovac era a capo dell'indagine. La sua conoscenza dei casi, della città e del tipo di criminali che vivevano nel suo sottobosco aveva un valore incalcolabile. Il guaio era che Quinn non pensava di avere l'energia necessaria per recitare il ruolo del poliziotto solidale con i colleghi, così decise di attenersi alla verità, almeno in parte. «Il problema del profilo è che si tratta di uno strumento preventivo, basato sull'uso reattivo di informazioni estrapolate da fatti precedenti, ma dal punto di vista scientifico, non è esatto. Ogni caso potrebbe potenzialmente
presentare qualche aspetto che non abbiamo mai riscontrato in precedenza.» «Mi risulta però che lei sia piuttosto in gamba», ammise il poliziotto. «Ha inchiodato quell'infanticida in Colorado, ricostruendone il profilo al punto da ipotizzare persino che balbettasse.» «A volte tutte le tessere del puzzle quadrano. Quanto ci vorrà per mettere le mani sulla cartella medica di Jillian Bondurant per la comparazione con il cadavere?» «Dovrei cambiarmi il nome in Murphy. La legge di Murphy: al mondo non esiste niente di facile. Ora salta fuori che la maggior parte dei dati medici che la riguardano si trova in Francia», esclamò Kovac, come se la Francia fosse un oscuro pianeta di un'altra galassia. «Undici anni fa, la madre ha divorziato da Peter Bondurant per sposare un tizio che possiede un'impresa di costruzioni internazionale. Vivevano in Francia. La madre è morta, mentre il patrigno vive ancora lì. Jillian è tornata negli Stati Uniti da un paio di anni, per iscriversi all'università del Minnesota.» «Il Bureau può facilitare la consegna dei documenti tramite il rappresentante legale dell'ufficio di Parigi.» «Lo so, se ne sta già occupando Walsh. Nel frattempo cercheremo di parlare con qualcuno che conoscesse bene Jillian, per scoprire se aveva qualche neo, oppure cicatrici, voglie, tatuaggi. Ci faremo consegnare delle foto. Non abbiamo ancora identificato eventuali amici intimi. Non aveva un ragazzo fisso. Mi pare di capire che non fosse esattamente una farfallina.» «E il padre?» «È troppo sconvolto per parlare con noi.» Kovac fece una smorfia. «'Troppo sconvolto'... ecco che cosa dice il suo avvocato. Io, se pensassi che qualcuno ha fatto fuori mia figlia, sarei sconvolto, certo, ma mi aggrapperei ai poliziotti. Vivrei nelle loro tasche, facendo tutto quello che posso per inchiodare quel figlio di puttana.» Fissò Quinn, inarcando un sopracciglio. «E lei no?» «Rovescerei il mondo intero, scrollandolo per i piedi.» «Giusto. Ora senta questa: vado a casa di Bondurant per annunciare che potrebbe trattarsi di Jillian. Lui mi dà un'occhiata che mi fa venire voglia di spaccargli la testa con una mazza da baseball. 'Oh, mio Dio. Oh, mio Dio', dice, e ho l'impressione che stia per vomitare, quindi non ci bado troppo quando si scusa ed esce dalla stanza. Invece quel figlio di puttana va a chiamare subito il suo avvocato e non esce più dallo studio. Così pas-
so un'ora intera a parlare con Bondurant tramite Edwyn Noble.» «E Noble che cosa le ha detto?» «Che Jillian aveva cenato a casa venerdì sera e che da allora lui non l'aveva più rivista. Se n'era andata verso mezzanotte. Un vicino conferma. Proprio in quel momento la coppia che abita di fronte stava tornando a casa da un party. La Saab di Jillian si è incrociata con la loro a mezzanotte meno dieci. «Peter Bondurant è ricco da fare schifo», brontolò. «La mia solita fortuna. Quando questa faccenda sarà finita, io compilerò multe per sosta vietata.» Finì la sigaretta, lasciandola cadere sull'asfalto e schiacciando il mozzicone con la punta della scarpa. «Peccato che i test sul DNA richiedano da sei a otto settimane. Sono troppe.» «State controllando le denunce di scomparsa?» «Minnesota, Wisconsin, Iowa, Dakota del Nord e del Sud. Abbiamo chiamato persino il Canada. Finora nessun riscontro. Chissà, forse salterà fuori la testa», concluse con ottimismo, come se sperasse di ritrovare un paio di occhiali da sole o un portafogli. «Forse.» «Bene, per oggi basta. Sto morendo di fame», disse bruscamente. «Conosco un posto dove fanno ottimi piatti messicani da asporto, tanto piccanti da toglierti di bocca il sapore dell'autopsia. Ci passeremo andando verso il suo albergo.» Si allontanarono dalla rampa mentre arrivava un'ambulanza, senza luci né sirena. Un altro cliente. Kovac prese di tasca le chiavi, guardando con la coda dell'occhio Quinn. «E così, lei conosceva già la nostra Kate.» «Sì.» Quinn fissava la nebbia, chiedendosi dove lei potesse essere quella notte. Chiedendosi se stesse pensando a lui. «In un'altra vita.» 8 Kate si adagiò nella vecchia vasca da bagno con le zampe ad artiglio, cercando di allentare la tensione che si era accumulata durante il giorno nel suo corpo dolorante e immaginandola mentre si dissolveva in aria insieme con il vapore dell'acqua calda all'aroma di lavanda. Sul vassoio di filo metallico posato sulla vasca davanti a lei c'era un bicchiere di gin e acqua tonica adeguato a un lunedì nero come quello. Bevve una sorsata generosa,
si distese nell'acqua e chiuse gli occhi. I medici disapprovavano il ricorso all'alcol come risposta allo stress, sostenendo che portava all'etilismo e alla rovina. Kate pensava che, se mai aveva corso il rischio di diventare un'alcolizzata, era stato anni prima. Cinque, per l'esattezza. Non era successo, così al momento beveva gin, pregustando il piacevole stordimento che le avrebbe procurato. Per una frazione di secondo le passarono davanti agli occhi i volti che appartenevano al periodo peggiore della sua vita: quello di Steven la cui espressione cambiava nel corso di quell'anno terribile, da distante a gelida, furiosa, amareggiata; quello del medico, logorato e anestetizzato da troppe tragedie; il visino dolce di sua figlia, scomparsa in un batter d'occhio così com'era venuta al mondo. Il volto di Quinn, intenso, compassionevole, appassionato... iroso, distaccato, indifferente, ormai un ricordo. Non cessava mai di stupirla quella brutale repentinità del dolore che assaliva a tradimento, sbucando dalla cortina ovattata del tempo. Una parte di lei desiderava ardentemente che si attutisse, mentre un'altra sperava che questo non accadesse mai. Il ciclo infinito del senso di colpa: la necessità di sfuggirvi e la necessità altrettanto disperata di aggrapparvisi. Se non altro era riuscita a ottenere la guarigione superficiale di quelle vecchie ferite per rifarsi una vita, e onestamente era il massimo che chiunque potesse sperare. Ma com'era facile lacerare quel tessuto cicatriziale! Com'era umiliante accorgersi che, in realtà, non aveva superato il dolore legato al ricordo di John Quinn. Si sentiva un'idiota, una bambina, costretta a dare la colpa all'elemento sorpresa. Domani avrebbe fatto di meglio, avrebbe avuto la mente lucida e sarebbe riuscita a concentrarsi, senza lasciarsi sorprendere. Kate Conlan era sempre stata una donna sensata, fatta eccezione per pochi brevi mesi, durante l'anno più terribile della sua vita. A poco a poco lei e Steven si erano estraniati l'uno dall'altra. Una situazione accettabile, se tutto il resto fosse rimasto com'era. Poi Emily era stata colpita da un morbo influenzale particolarmente virulento, e in pochi giorni quella dolce e solare bambina se n'era andata. Steven ne aveva addossato la colpa a Kate, convinto che lei avrebbe dovuto accorgersi prima della gravità della malattia, e Kate si era convinta che la colpa fosse davvero sua, nonostante le assicurazioni dei medici che non era così, che lei non avrebbe potuto capirlo. Aveva tanto bisogno di qualcuno che la tenesse stretta, che le offrisse conforto, sostegno e assoluzione... Tirando verso di sé un lembo dell'asciugamano appeso dietro di lei, si
asciugò gli occhi, si soffiò il naso e bevve un altro sorso di gin. Il passato era al di fuori del suo controllo; poteva almeno illudersi di controllare il presente. Sì sforzò di pensare alla sua cliente. Che definizione idiota: cliente. Sottintendeva che l'avesse scelta e assunta di sua spontanea volontà, mentre Angie DiMarco non avrebbe fatto né l'una né l'altra cosa. Che rompicapo, quella ragazzina. Kate aveva troppa esperienza del mondo reale per credere che sotto quell'apparenza si nascondesse un cuore d'oro. Era più probabile che ci fosse qualcosa di contorto, frutto di una vita che quella creatura era stata meno generosa che con un gatto randagio. Non spettava a lei, per la verità, scoprire chi fosse davvero Angie DiMarco, o per quale motivo la sua personalità fosse così tristemente deviata; ma più sapeva di un cliente, più era in grado di capirlo, di agire e reagire di conseguenza. Di manipolarlo, per ottenere quello che Sabin voleva dalla sua testimonianza. Svuotò la vasca, si asciugò, si avvolse in un soffice accappatoio di spugna e portò con sé il bicchiere fino al piccolo scrittoio antico che teneva in camera da letto. Le tonalità pesca e verde cupo che aveva scelto davano alla stanza un'atmosfera calda e accogliente. Thor, il gatto norvegese della foresta che spadroneggiava in casa, prediligeva il letto di Kate e troneggiava in tutto il suo splendore proprio al centro della trapunta imbottita di piuma d'oca, fissandola con l'aria di annoiata superbia di un membro della Casa reale. Kate si rannicchiò sulla sedia, ripiegando una gamba sotto di sé, prese un foglio di carta da uno degli scomparti dello scrittoio e cominciò a scrivere. Angie DiMarco. Nome? Probabilmente falso. Appartiene a una donna del Wisconsin. Incaricare qualcuno di controllare il registro automobilistico del Wisconsin. Famigliari morti: in senso figurato o letterale? Abusi? Possibili. Di natura sessuale? Molto probabile. Tatuaggi: multipli, professionali e non. Significato? Significato dei singoli disegni? Piercing: moda, o qualcosa di più?
Comportamenti compulsivi: Rosicchiarsi le unghie. Fumo. Alcol: Quanto? Con quale frequenza? Droghe? Probabile. Magra, pallida, trascurata. Ma il suo comportamento sembra troppo forzato. Poteva tracciare soltanto un quadro approssimativo della personalità di Angie, perché avevano trascorso insieme troppo poco tempo, e sempre sotto l'effetto del forte stress legato alla situazione. Per fortuna la donna che gestiva Phoenix House era abituata a una vasta gamma di comportamenti negativi. Nell'istituto erano alloggiate donne che avevano scelto, o erano state costrette a subire, alcune delle forme di vita meno accettabili, e ora volevano uscirne. Angie non aveva apprezzato quella sistemazione e si era scagliata contro Kate con una violenza che le era parsa sproporzionata. «E se non volessi stare qui?» «Angie, non hai altro posto in cui andare.» «Tu questo non lo sai.» «Ora non ricominciamo», aveva replicato Kate, con un sospiro spazientito. Durante quello scambio di battute Toni Urskine, la direttrice del Phoenix, era rimasta sulla soglia, osservandole con un'espressione corrucciata. Poi le aveva lasciate sole nello studio, una stanzetta con le pareti rivestite di compensato, arredata con mobili di scarto. «Non hai un domicilio fisso», le aveva ricordato Kate. «Mi dici che i tuoi parenti sono tutti morti. Non hai saputo indicare una sola persona disposta ad accoglierti. Hai bisogno di un posto in cui stare: quattro pareti, un letto e un bagno. Che problema c'è?» Angie aveva sferrato un colpo su un cuscino macchiato appoggiato a un divanetto a quadri logorato dall'uso. «È un porcile, ecco qual è il problema.» «Oh, scusami tanto, non sapevo che vivessi all'Hilton. Il tuo falso indirizzo non era una casa come questa?» «Se ti piace tanto, perché non ci stai tu?» «Io non sono tenuta a stare qui. Non sono una testimone senza fissa dimora.» «E io non voglio esserlo!» aveva gridato la ragazza, con gli occhi scintillanti come cristalli, pieni di lacrime che all'improvviso le avevano rigato le guance. Voltando le spalle a Kate, si era coperta gli occhi con le mani,
rannicchiandosi su se stessa come un riccio. «No, no, no», aveva mugolato piano. «Non ora...» Quel brusco cedimento all'emozione aveva colto alla sprovvista Kate. Era quello che voleva, no? Che la corazza s'incrinasse. E ora che c'era, non sapeva bene che cosa fare. Non si era aspettata che Angie crollasse proprio in quel momento. Esitando, si era avvicinata alla ragazza, sentendosi a disagio, in colpa. «Angie...» «No», sussurrava la ragazza, più a se stessa che a Kate. «Non ora. Ti prego, ti prego...» «Non devi sentirti in imbarazzo, Angie», le aveva detto con dolcezza Kate, restandole vicino, sia pure senza tentare di toccarla. «Hai avuto una giornata infernale. Piangerei anch'io. Anzi, piangerò dopo.» «Perché non p-p-posso s-s-stare da te?» La domanda era arrivata come un fulmine a ciel sereno, lasciando Kate stordita. Era come se quella ragazza non fosse mai stata via da casa, come se non si fosse mai trovata fra estranei. Era probabile che vivesse sulla strada da chissà quanto tempo, facendo Dio sa cosa per sopravvivere, e ora, tutt'a un tratto, mostrava una simile dipendenza. Non aveva senso. Ma prima che Kate potesse reagire, Angie aveva scosso leggermente la testa, asciugandosi le lacrime dal viso con la manica del giubbotto e prendendo fiato. In un baleno, quello spiraglio si era richiuso e la maschera d'acciaio era tornata al suo posto. «Non farci caso. Come se te ne fregasse qualcosa di quello che mi succede.» «Certo che me ne importa, Angie, altrimenti non farei questo lavoro.» «Sì, giusto. Il tuo lavoro.» «Ascolta», le aveva detto Kate, troppo sfinita per discutere, «è sempre meglio che dormire in una scatola di cartone. Lascia passare almeno un paio di giorni. Se l'idea di stare qui ti fa orrore, vedrò di trovarti un'altra sistemazione. Hai il numero del mio cellulare: chiamami, se ti serve qualcosa o se hai bisogno di parlare con qualcuno. In qualsiasi momento. Dico sul serio, io sono dalla tua parte. Verrò a prenderti domattina.» Angie non aveva risposto, restando immobile con un'aria imbronciata, stretta nel giubbotto di jeans troppo grande, che apparteneva a qualcun altro. «Cerca di dormire un po', ragazzina», le aveva raccomandato Kate. Uscendo, l'aveva lasciata in piedi nella stanza, con lo sguardo fisso fuori
della finestra, sulle luci della casa accanto. Quella scena struggente aveva ridestato in Kate un senso di compassione. L'immagine di un'adolescente che spiava dalla finestra la vita di una famiglia. Una bambina senza nessuno. «Ecco perché non voglio lavorare con gli adolescenti», disse ora, rivolta al gatto. «Non farebbero che rovinare la mia reputazione di dura.» Thor si lasciò sfuggire un verso gutturale, rotolandosi sulla schiena per farsi accarezzare la pancia pelosa. Lei lo accontentò, godendo di quel contatto con un essere vivente che l'apprezzava e l'amava, a modo suo. E pensò ad Angie DiMarco, sveglia a letto, in una casa piena di estranei. Entrando nella sua stanza al Radisson Plaza Hotel, Quinn fu accolto dalla spia lampeggiante della segreteria telefonica. Gettò il sacchetto con i cibi messicani nel cestino dei rifiuti sotto la scrivania, chiamò il servizio in camera e ordinò una zuppa di riso con un sandwich al tacchino, che probabilmente non avrebbe mangiato. Il suo stomaco non reggeva più la cucina messicana. Si spogliò, ficcando tutto ciò che indossava in un sacchetto di plastica della lavanderia, poi lo chiuse, sistemandolo vicino alla porta. Qualcuno, giù in lavanderia, avrebbe avuto una brutta sorpresa. L'acqua della doccia scrosciava con la violenza di una grandinata di proiettili. La fece scorrere più calda che poteva, insaponando e sfregando i capelli e il corpo, lasciandola scorrere prima sulle spalle, per sciogliere i nodi della tensione, poi sul viso e sul petto. Nella mente gli scorrevano alla rinfusa le immagini della giornata: la riunione, l'avvocato di Bondurant, la corsa all'aeroporto, il nastro giallo sulla scena del delitto che schioccava al vento, urtando i tronchi massicci degli aceri, Kate. Kate. Cinque anni sono lunghi. In cinque anni lei si era creata una nuova carriera, una nuova vita; e se lo meritava, dopo tutto quello che era andato storto in Virginia. E lui che cosa aveva costruito, in cinque anni, a parte la sua reputazione? Niente. Possedeva una casa in città, una Porsche e un armadio pieno di vestiti firmati dai migliori stilisti. Metteva da parte il resto dei suoi guadagni, in vista di un pensionamento che probabilmente si sarebbe concluso con un blocco delle coronarie due mesi dopo l'addio al Bureau, visto che non aveva altro nella vita. A meno che il lavoro non lo uccidesse prima. Chiuse il rubinetto dell'acqua, uscendo dalla doccia per asciugarsi. Aveva un corpo atletico, solido, dai muscoli ben modellati, più snello di un
tempo, al contrario di quanto succedeva alla maggior parte degli uomini, una volta superata la quarantina. Non riusciva a ricordare quando era passato dall'apprezzamento per i piaceri della tavola all'indifferenza. Una volta si era considerato un buon cuoco, mentre ora mangiava soltanto per necessità. L'aroma di grasso e spezie del cibo messicano che aveva scartato permeava la camera da letto. Un odore preferibile a quello di un cadavere carbonizzato, anche se sapeva per esperienza che non sarebbe stato altrettanto gradito una volta diventato stantio, quando lui si sarebbe svegliato alle tre di notte. L'idea evocò una serie di ricordi sgradevoli di altre stanze d'albergo in altre città, di altre cene acquistate per scacciare il sapore della morte. Di altre occasioni in cui si era svegliato in un letto estraneo, nel cuore della notte, sudando a profusione per colpa degli incubi, con il cuore che batteva all'impazzata. Il panico lo colpì con la violenza di una mazzata, costringendolo a sedersi sulla sponda del letto, vestito solo di un paio di pantaloni di felpa e una T-shirt grigia con il logo dell'Accademia dell'FBI. Si prese per un attimo la testa fra le mani, temendo l'insorgere di un attacco: il senso di vuoto; le vertigini; il tremito che partiva dal centro del suo essere, scuotendolo tutto, propagandosi alle braccia e alle gambe; la sensazione che non fosse rimasto nulla di ciò che era realmente; la paura di non riconoscere la differenza. Imprecando contro se stesso, cercò di trovare in se stesso la forza per respingere la crisi, come aveva fatto ormai più volte, nel corso dell'ultimo anno. O forse erano già due anni? Lui misurava il tempo in base ai casi, i casi in base al numero dei cadaveri. Accese il televisore per soffocare la voce della paura nella sua testa, poi controllò i messaggi della segreteria telefonica. C'erano sette chiamate relative ad altri casi precedenti che aveva portato con sé. «Agente speciale Quinn, parla Edwyn Noble...» «E come si è procurato questo numero?» disse lui a voce alta, mentre ascoltava il messaggio. Non era entusiasta del ruolo di Noble in quell'indagine. Il suo rapporto coniugale con il sindaco gli consentiva di occupare una posizione privilegiata che nessun altro legale in città poteva avere; essere l'avvocato di Peter Bondurant gli spalancava altre porte. «La chiamo per conto del signor Bondurant. Peter gradirebbe molto parlarle domani mattina, se possibile. Mi richiami stasera, per favore.»
Dopo l'indicazione del numero, una seducente voce registrata informò Quinn che non c'erano altri messaggi. Lui riattaccò, senza la minima intenzione di richiamare Noble. Meglio lasciarlo cuocere nel suo brodo. Se aveva elementi utili per il caso, poteva chiamare Kovac o Fowler, il tenente della Omicidi. Lui non intendeva richiamare nessuno; prima di tutto voleva cenare. Estrasse dalla valigetta i fascicoli relativi ai primi due omicidi, accatastandoli sulla scrivania. Aveva messo bene in chiaro che non voleva informazioni sui possibili sospetti, ammesso che ce ne fossero, e infatti non erano state incluse. Non poteva permettere che le congetture di qualcun altro su un possibile sospetto offuscassero il suo giudizio oppure orientassero la sua analisi nell'una o nell'altra direzione. Era uno dei tanti motivi per cui avrebbe preferito mettere insieme il profilo restando nel suo ufficio di Quantico. Qui era troppo vicino; il caso era tutt'intorno a lui. Le personalità coinvolte potevano scatenare reazioni che non avrebbe avuto, se si fosse limitato a esaminare un insieme di aggettivi e di fatti. C'erano troppi input superflui, troppe distrazioni. Troppe distrazioni... come Kate. Che non lo aveva chiamato, e in realtà non aveva motivo per farlo. Se non il fatto che una volta avevano condiviso qualcosa di speciale, anche se poi si erano allontanati, lasciandolo morire. Nella vita di Quinn non c'era nulla che avesse il potere di turbarlo come l'irrevocabilità del passato. L'unico rimedio che aveva trovato era tentare di controllare il presente, il che significava immergersi nel caso attuale. Concentrarsi con intensità sul presente e mantenere il controllo della propria lucidità mentale. E quando le notti diventavano interminabili, come accadeva sempre, e nella sua mente balenava una ridda di dettagli di centinaia di omicidi, si accorgeva di perdere la presa su entrambi. Angie si sedette su uno dei due letti gemelli, piccoli e duri, appoggiando la schiena all'angolo, in modo da sentire le sporgenze dell'intonaco a buccia d'arancio penetrarle nella pelle attraverso la camicia di flanella che aveva scelto per dormire. Teneva le ginocchia ripiegate sotto il mento, con le braccia allacciate intorno alle gambe. La porta era chiusa, lei era sola. L'unica luce che filtrava dalla finestra era quella di un lontano lampione. Phoenix House era una casa per donne «che vogliono rinascere». Così diceva il cartello nel prato all'ingresso. Era una vecchia costruzione, grande e irregolare, con le porte cigolanti e pochi fronzoli. Kate l'aveva portata
lì, scaricandola in mezzo a ex prostitute, ex drogate e donne che tentavano di sfuggire a compagni maneschi. Angie ne aveva viste alcune intente a guardare la TV in un grande soggiorno pieno di mobili da quattro soldi e aveva pensato a quanto dovevano essere stupide. Una cosa aveva imparato nella vita ed era che puoi sfuggire alle circostanze, ma mai a quello che sei. La tua realtà personale era come un'ombra che ti seguiva sempre. Non potevi rinnegarla, né cambiarla, e neppure liberartene. E ora sentiva incombere su di sé la sua ombra, nera e gelida. Tremava, con gli occhi pieni di lacrime. Aveva lottato per respingerla tutto il giorno, tutta la notte. Aveva creduto che stesse per inghiottirla proprio davanti a Kate: un'idea che ingigantiva il suo panico. Non poteva permettersi di perdere il controllo davanti a nessuno, perché allora avrebbero capito che era pazza, bacata. L'avrebbero rinchiusa in manicomio, e sarebbe rimasta sola. Come lo era in quel momento. Il tremito cominciava al centro del suo essere, poi si espandeva sempre più, trasformandosi in una bizzarra sensazione di vuoto. Nello stesso tempo lei sentiva la sua coscienza rimpicciolire sempre più, fino ad avere l'impressione che il suo corpo fosse soltanto un guscio e lei un esserino minuscolo chiuso lì dentro, con il rischio di precipitare in un abisso buio dal quale non sarebbe mai potuta risalire. Una sensazione da lei chiamata il Cerchio. Era un vecchio nemico, ma, per quanto lei lo conoscesse bene, non perdeva mai il potere di atterrirla. Angie sapeva che, se non l'avesse combattuto, avrebbe rischiato di perdere il controllo, e il controllo era tutto. Se non si fosse difesa, avrebbe potuto smarrire blocchi interi di tempo. O addirittura se stessa, e allora che cosa sarebbe successo? Quella sensazione l'assalì in quel momento, e lei cominciò a piangere. In silenzio, sempre in silenzio. Non poteva permettersi di essere ascoltata, non poteva far capire quanto fosse atterrita. Spalancò la bocca, ma continuando a soffocare i singhiozzi finché la gola cominciò a farle male. Schiacciò il viso contro le ginocchia, serrando gli occhi con tutte le sue forze. Dentro di sé rivedeva il cadavere che bruciava. Lei fuggiva, correndo all'impazzata, ma senza arrivare da nessuna parte. Nella sua mente, quel cadavere divenne lei, ma non poteva sentire le fiamme. Avrebbe accolto volentieri il dolore, ma non riusciva a evocarlo con la sola forza della mente. E intanto le pareva di diventare sempre più piccola, dentro il guscio del
suo corpo. Basta! Basta! Basta! Si pizzicò la coscia con forza, affondando nella carne le unghie mangiucchiate. Eppure continuava a sentirsi risucchiare nel Cerchio. Lo sai che cosa devi fare. La Voce si snodò nella sua mente come un nastro nero. Lei rabbrividì nel sentirla. Era intrecciata alle parti vitali del suo essere, una strana matrice di paura e necessità. Lo sai che cosa devi fare. Con ansia frenetica attirò a sé lo zainetto, armeggiando con la chiusura lampo, e frugò in una tasca interna alla ricerca di quello che le serviva. Le sue dita si chiusero sulla taglierina, dissimulata sotto l'aspetto di una chiave di plastica. Tremando e soffocando i singhiozzi, strisciò verso un cuneo di luce che raggiungeva il letto, rimboccando la manica sinistra della camicia di flanella fino a scoprire il braccio pallido e gracile, segnato da cicatrici sottili e parallele, che si susseguivano lungo le sue braccia come i paletti di uno steccato. La lama emerse come una lingua di serpente e lei l'accostò a un tratto di pelle morbida vicino al gomito. Il dolore fu intenso e dolce, come un corto circuito capace di bloccare il panico che le aveva elettrizzato il cervello. Il sangue sbocciò dal taglio come una perla nera e lucente al chiaro di luna. Angie lo fissò ipnotizzata, sentendosi pervadere da un senso di calma. Controllo. Nella vita il controllo era tutto. Dolore e controllo. Lei aveva imparato la lezione tanto, tanto tempo prima. «Sto pensando di cambiare nome», dice lui. «Che ne pensi di Elvis? Elvis Nagel.» La sua compagna non dice niente. Lui prende un paio di mutandine dalla pila nella scatola, accostandole al viso, affondando il naso nel tessuto per annusarne a fondo la fragranza. Gradevole. L'odore per lui non è altrettanto stimolante del suono, e tuttavia... «Non ci sei arrivata? È un anagramma: Elvis Nagel, Evil's Angel... l'angelo del male!» In sottofondo si sentono tre televisori che trasmettono videocassette del telegiornale delle sei sulle stazioni locali. Le voci si mescolano in una cacofonia stimolante. Il filo comune che le unisce tutte è l'urgenza, e l'urgenza genera paura. La paura lo eccita. Lui ne ama soprattutto il suono. La tensione fremente che si avverte in fondo a una voce controllata. I cam-
biamenti irregolari di timbro e tonalità nella voce di una persona chiaramente spaventata. Su due schermi appare il sindaco. Quella brutta vacca. La guarda parlare, chiedendosi che cosa proverebbe a tagliarle via le labbra mentre è ancora viva, e magari costringerla a mangiarle. La fantasia lo eccita, come tutte le sue fantasie. Alza il volume dei televisori, poi si dirige verso l'impianto stereo inserito nella libreria, sceglie una cassetta e la inserisce nell'apparecchio. Resta fermo al centro del locale nel seminterrato, fissando gli schermi televisivi, i volti preoccupati dei commentatori televisivi e le facce della gente ripresa da diverse angolazioni durante la conferenza stampa, e si lascia sommergere dai suoni. Nello stesso tempo, dagli altoparlanti dello stereo sgorga la voce della paura allo stato puro, senza abbellimenti, che implora, prega Dio, invoca la morte. Il suo trionfo. Resta immobile al centro di quella cascata di suoni. Il regista di quell'opera macabra. L'eccitazione aumenta dentro di lui, un'eccitazione sessuale enorme, ardente, in continua espansione, che crea un crescendo ed esige soddisfazione. Lui guarda la sua compagna di quella sera, riflettendo, ma riesce a controllare quell'impulso. Il controllo è tutto. Il controllo è potere. L'azione è lui, e loro sono la reazione. Vuole vedere la paura sul loro volto, sentirla nella loro voce... la polizia, la task force, John Quinn. Specialmente Quinn, che non si è neppure scomodato a prendere la parola alla conferenza stampa, come se volesse fargli credere che non merita la sua attenzione personale. Lui otterrà l'attenzione di Quinn, otterrà il loro rispetto. Otterrà tutto quello che vuole, perché ha il controllo. Abbassa l'audio dei televisori finché si riduce a un mormorio sommesso, ma senza spegnerlo, perché non vuole ripiombare nel silenzio. Detesta il silenzio. «Io esco», annuncia. «Ne ho abbastanza di te. Mi annoi.» Si dirige verso il manichino con il quale ha giocato, provando varie combinazioni con i vestiti delle sue vittime. Si protende in avanti per baciarlo, infilando la lingua nella bocca aperta. Poi toglie dalle spalle del manichino la testa della sua ultima vittima, la ripone in un sacchetto di plastica e la sistema con cura sul ripiano del frigorifero nel locale della lavanderia. La notte è avvolta in una cappa di nebbia e di umidità, le strade bagnate scintillano nere alla luce dei lampioni. Una notte che ricorda Jack lo Squar-
tatore. Una notte fatta per la caccia. 9 «Se i giornalisti ci trovano qui, mi mangio le mutande», dichiarò Kovac, girando su se stesso al centro della stanza. Una delle pareti era tappezzata con un montaggio di donne nude impegnate in varie attività erotiche, le altre tre di una scadente carta da parati rossa che sembrava velluto divorato dalle tarme. «Qualcosa mi dice che qui avrebbe potuto ottenere la stessa prestazione», osservò Quinn in tono brusco. Annusò l'aria, riconoscendo l'odore di topi, profumo scadente e biancheria umida. «A un prezzo conveniente.» «Molto spiritoso. Questo ambiente confortevole è un omaggio del detective Chunk Adler, dell'ufficio dello sceriffo della contea di Hennepin. Chunk, gli applausi sono tutti per te.» Adler, un blocco di muscoli con la pelle d'ebano e un casco di riccioli grigio acciaio aderenti alla calotta cranica, rivolse alla compagnia un sorriso imbarazzato e un cenno di saluto. «Mia sorella lavora per la Norwest Banks, che è entrata in possesso dell'edificio dopo che la Buoncostume aveva chiuso il locale, l'estate scorsa. La posizione è perfetta, il prezzo è giusto - vale a dire gratis - e la stampa ha perso ogni interesse per questo posto, da quando le prostitute si sono trasferite. Nessuno potrà sospettare che ci riuniamo qui.» E quello era l'essenziale, pensò Quinn seguendo Kovac. A mano a mano che avanzava lungo lo stretto corridoio, il sergente accese le luci in altre quattro stanze più piccole, due per parte. Era essenziale che la task force potesse svolgere il proprio lavoro senza interruzioni o distrazioni, e senza dover subire l'assedio dei cronisti. In un posto in cui poter affrontare il caso contenendo al minimo la fuga di notizie. «Lo adoro!» esclamò Kovac, tornando nel salottino all'ingresso. «Accampiamoci qui.» Liska arricciò il naso. «Possiamo annaffiarlo con il lisoformio, prima?» «Certo, Tinks. Puoi arredare a nuovo tutte le stanze, mentre noialtri ci occupiamo di risolvere quei delitti.» «Oh, va' al diavolo, Kojak.» Nel vicolo sul retro erano parcheggiati due furgoni del dipartimento di polizia privi di contrassegni, carichi di mobili e attrezzature necessarie. Il tutto fu trasportato nell'ex salone di massaggi Loving Touch, insieme con
casse di materiale di cancelleria, una macchina per il caffè e, soprattutto, le scatole contenenti i fascicoli sui tre omicidi attribuiti al killer che gli agenti fra loro chiamavano Smokey Joe, per la sua abitudine di dare fuoco al corpo delle vittime. Quinn lavorò insieme con gli altri, come uno di loro, cercando di inserirsi nel loro gruppo come un giocatore di baseball appena trasferito in una nuova squadra. In breve tempo, il Loving Touch si trasformò da bordello a centro operativo di guerra tattica. Alle nove si riunì l'intera task force: sei agenti del dipartimento di polizia di Minneapolis, tre dell'ufficio dello sceriffo, due del BCA, più Quinn e Walsh, che sembrava in preda a un attacco di malaria. Kovac li aggiornò in poche parole sui tre omicidi, concludendo con i dati ricavati dall'autopsia dell'ultima vittima non ancora identificata, completati dalle fotografie che erano state inviate alla Scientifica per le elaborazioni e gli ingrandimenti. «Oggi avremo alcuni risultati preliminari delle analisi di laboratorio», aggiunse, distribuendo ai presenti quelle macabre immagini. «Abbiamo un gruppo sanguigno, 0 positivo, che guarda caso coincide con quello di Jillian Bondurant... e di milioni di altre persone. «Devo attirare la vostra attenzione sulle fotografie che mostrano come siano state asportate dal corpo intere zone di tessuto. Anche le prime due vittime presentavano ferite simili. La nostra ipotesi è che il killer intendesse far sparire i segni dei morsi, ma forse in quest'ultimo caso potrebbe aver asportato tutti i segni di riconoscimento tali da dimostrare o smentire l'identità della vittima: cicatrici, nei, eccetera.» «Tatuaggi», suggerì qualcuno. «Il padre di Jillian Bondurant ritiene che la figlia non avesse tatuaggi. Secondo il suo avvocato, non è stato in grado di indicare alcun segno di riconoscimento. Jillian ha vissuto lontano da lui per molti anni, quindi immagino che non sia un fatto sorprendente. Stiamo cercando di trovare delle foto in cui compaia in costume da bagno, ma finora non abbiamo avuto fortuna. «Procediamo in base alla tesi che la vittima sia Jillian Bondurant», aggiunse, «ma restando aperti ad altre possibilità. Abbiamo ricevuto alcune chiamate sulla linea calda, persone che sostengono di averla vista dopo venerdì, ma finora nessuna ha fornito dati certi.» «Intendete prendere in considerazione l'ipotesi del rapimento?» chiese Mary Moss, del Bureau of Criminal Apprehension. Aveva l'aria di una ca-
salinga di periferia, con il golf a collo alto e la giacca di tweed, il viso ovale divorato da occhiali enormi. «Non è stata fatta alcuna richiesta di riscatto, che ci risulti», rispose Kovac, «ma questa possibilità non è esclusa.» «Certo, papà Bondurant non si è buttato a pesce sulla tesi del rapimento», osservò Adler. «C'è qualcun altro che lo trova strano, a parte me?» «Ha sentito parlare della patente trovata vicino al corpo ed è disposto a pensare che il cadavere sia suo», suggerì Hammill. Adler allargò le braccia, con le mani grosse come guantoni da baseball. «Ripeto: c'è qualcuno che lo trova strano, oltre a me? Chi è disposto a credere che la propria figlia sia la vittima decapitata di un maniaco omicida? Un uomo ricco come Bondurant non dovrebbe pensare al rapimento, prima che all'omicidio?» «È disposto a parlare?» chiese Elwood. «Non con me», rispose Kovac. «Anche questo non mi piace.» «Il suo avvocato mi ha telefonato ieri sera, lasciando un messaggio», intervenne Quinn. «Bondurant vuole vedermi stamattina.» Kovac si tirò indietro, stupito. «Sul serio? E lei che cosa ha risposto?» «Niente. L'ho lasciato in sospeso per tutta la notte. Non ho un particolare desiderio di incontrarlo, in questa fase del gioco, ma se può aiutarvi a infilare un piede nella porta...» Kovac gli rivolse un sorriso da squalo. «Le servirà un passaggio per andare a casa di Bondurant, non è vero, John?» «Ho il tempo di telefonare alla mia assicurazione per aumentare la polizza sulla vita?» Tutti i presenti risero. Kovac fece una smorfia. «Ieri sera mi ha dato un passaggio, all'uscita dall'obitorio», spiegò Quinn. «Credevo di ritrovarmi anch'io in uno di quei sacchi neri per i cadaveri.» «Eppure l'ho riportata in albergo tutto d'un pezzo.» «Per la verità, credo che la mia milza sia rimasta dalle parti di Marquette. Forse possiamo passare a recuperarla, lungo la strada.» «È qui da un giorno appena e ti ha già preso le misure, Sam», commentò Liska. Kovac alzò una mano. «Okay, okay, adesso torniamo alle questioni serie. Torniamo ai possibili segni di morsi. Abbiamo inserito questo elemento nel database quando stavamo indagando sul primo omicidio, in cerca di
qualche pregiudicato residente nel territorio urbano - assassino o maniaco sessuale - che avesse precedenti di morsi o cannibalismo ai danni delle vittime, e abbiamo ricavato una lista. Abbiamo controllato anche con il VICAP, ottenendo un'altra lista.» Sollevò un fascio di stampati di computer. «Quanto tempo ci vorrà perché possiamo confermare o smentire che si tratta della Bondurant?» Gary «Charm» Yurek, del dipartimento di polizia, era stato nominato portavoce della task force per i media, ai quali doveva fornire ogni giorno la versione ufficiale. Aveva un viso degno di un divo delle soap operas televisive, e la gente tendeva a lasciarsi incantare dalla perfezione del suo sorriso, trascurando il fatto che in realtà non aveva detto niente. A quel punto Kovac guardò Walsh. «Vince, si sa qualcosa della cartella sanitaria della ragazza?» «L'ufficio di Parigi se ne sta occupando. Hanno cercato di mettersi in contatto con il patrigno, ma è impegnato in un giro dei suoi cantieri edilizi in Ungheria e in Slovacchia.» «Per quanto ne sappiamo, da quando è tornata negli Stati Uniti era il ritratto della salute», aggiunse Liska. «Non aveva ferite gravi né malattie serie, niente che richiedesse una radiografia, a parte i denti.» «Tagliandole la testa, ci ha messo in un mare di guai», si lamentò Elwood. «Ti è venuta qualche idea in merito, John?» domandò Kovac. «Può darsi che intendesse ostacolare le indagini. Può darsi che il corpo non sia di Jillian Bondurant e che lui voglia inviare una specie di messaggio, o fare un gioco», suggerì Quinn. «Forse conosceva la vittima, chiunque sia, e l'ha decapitata per spersonalizzarla. Oppure la decapitazione potrebbe essere il nuovo passo in un'escalation delle sue fantasie di violenza e nel modo di realizzarle. È possibile che abbia conservato la testa come un trofeo, usandola per mettere in atto le sue fantasie sessuali.» Tippen, un agente dell'ufficio dello sceriffo, si accigliò. «Questo non ci aiuta esattamente a restringere il campo.» «Non so ancora abbastanza di lui», ribatté Quinn con calma. «E che cosa sa?» «Soltanto gli elementi essenziali.» «E sarebbero?» Lui guardò Kovac, che lo invitò con un cenno a capotavola. «Voglio che sia ben chiaro che questa non è l'analisi completa. Ieri sera ho dato rapidamente una scorsa ai rapporti, ma ci vuole ben più di un paio d'ore per
costruire un profilo solido e accurato.» «Bene, ora che si è parato il culo», replicò spazientito Tippen, «vuole dirci chi pensa che stiamo cercando?» Quinn tenne a freno la collera. Non era una novità che nel gruppo ci fosse uno scettico; aveva imparato da tempo come prenderli, come convertirli a poco a poco, ricorrendo alla logica e al senso pratico. «Il vostro soggetto è un maschio, bianco, probabilmente di età compresa fra i trenta e i trentacinque anni. In genere i serial killer di tipo sadico-sessuale cercano le proprie vittime nel loro stesso gruppo etnico.» Indicando gli ingrandimenti delle ferite ricavati dalle foto, aggiunse: «Si nota uno schema molto specifico, ripetuto fedelmente su ogni vittima. Ha dedicato molto tempo a perfezionare questa fantasia. Quando lo acciufferete, troverete una collezione di materiale pornografico sadomaso. È molto tempo che coltiva queste abitudini. La complessità dei delitti e l'attenzione a non lasciare prove materiali utilizzabili suggeriscono maturità ed esperienza. Potrebbe avere un lungo passato di reati sessuali; in ogni caso, che abbia precedenti penali o no, asseconda queste tendenze fin da quando era adolescente, o al massimo aveva una ventina d'anni. «È probabile che abbia cominciato facendo il guardone o rubando oggetti che gli servivano da feticci, per esempio capi di biancheria femminile e così via. Può darsi che questo rientri ancora nelle sue fantasie. Non sappiamo che cosa faccia con gli abiti delle vittime. I vestiti che mette addosso alle donne dopo averle uccise sono quelli che ha scelto per loro dalla sua riserva personale.» «Pensi che da piccolo giocasse con le Barbie?» chiese Tippen all'agente Adler. «Se lo faceva, potete scommettere che finivano mutilate», replicò Quinn. «Cristo, stavo scherzando.» «Non è uno scherzo, detective. Le fantasie aberranti possono cominciare a presentarsi intorno ai cinque o sei anni di età, specialmente in una casa in cui si praticano abusi sessuali o un'aperta promiscuità sessuale... il che in questo caso è quasi certo. «Con ogni probabilità ha commesso altri delitti in passato, prima di questi, e l'ha fatta franca. L'essere sfuggito all'arresto lo farà sentire audace, invulnerabile. Il fatto di lasciare i cadaveri in un'area pubblica, con il rischio che qualcuno lo veda e la certezza i corpi vengano ritrovati, suggerisce amore per il pericolo e arroganza. Inoltre fa pensare che sia un tipo di assassino attratto dall'indagine. Desidera essere al centro dell'attenzione,
guarda il telegiornale, ritaglia articoli dai quotidiani.» «Quindi il capo Greer aveva ragione, ieri, quando ha detto che dovremmo fare una dichiarazione rivolta a questo maniaco», osservò Kovac. «Può farla benissimo oggi o domani, quando saremo pronti a fare una mossa.» «Così la farà passare per un'idea sua», borbottò Tippen. «Sarò lieto se vorrà dare lei dei suggerimenti ai suoi superiori detective», replico Qinnn. «Me ne infischio di chi si prenderà il merito. Io non voglio il nome sui giornali, non voglio apparire in televisione. Anzi, preferirei fare questo lavoro nel mio ufficio di Quantico, diciotto metri sotto il livello del suolo. Il mio obiettivo qui è uno solo: aiutarvi a inchiodare questo figlio di puttana e toglierlo dalla circolazione ora e per sempre, amen.» Tippen abbassò gli occhi sul blocco per gli appunti, restando fedele alle sue convinzioni. «In ogni modo», riprese Quinn, infilando le mani in tasca e lasciando capire a Tippen che non aveva la minima intenzione di andarsene e non si curava troppo delle sue opinioni, «dobbiamo studiare bene in quale modo coinvolgerlo. Suggerirei di cominciare da un incontro pubblico con la cittadinanza, preceduto da una buona propaganda e organizzata in un posto centrale, vicino ai luoghi in cui sono stati abbandonati i cadaveri. Dovreste chiedere l'aiuto e la partecipazione della comunità. Si tratterà di una manifestazione non aggressiva, non minacciosa, alla quale lui potrà partecipare, protetto dall'anonimato. «Non sarà facile trarlo in inganno, a meno che l'arroganza non gli prenda la mano. È un killer organizzato, dotato di un'intelligenza superiore alla media. Ha un lavoro, ma forse non all'altezza delle sue capacità. Conosce l'organizzazione dei parchi cittadini, quindi, se non lo avete già fatto, dovreste controllare gli elenchi del personale, per vedere se qualcuno dei dipendenti ha precedenti penali.» «Lo stiamo già facendo», gli assicurò Kovac. «Come può sostenere che ha un lavoro?» lo sfidò Tippen. «Come fa a sapere che non è un vagabondo, che ha familiarità con i parchi perché ci vive?» «Non è un vagabondo», affermò Quinn con sicurezza. «Ha una casa. La scena del delitto non è quella in cui avviene la morte delle vittime. Le donne sono state rapite, portate da qualche parte e tenute prigioniere. L'assassino ha bisogno di privacy, di un posto dove poter torturare le vittime senza preoccuparsi che qualcuno possa sentirlo.
«Inoltre è possibile che abbia più di un mezzo per spostarsi. Probabilmente possiede un fuoristrada o un furgoncino. Un modello base, vecchiotto, di colore scuro, quasi certamente ben tenuto. Qualcosa di adatto a trasportare i corpi, un automezzo che non sembri fuori posto nell'area di servizio di un parco cittadino. Ma potrebbe non essere quello che usa per prelevare le donne, perché un veicolo di grandi dimensioni sarebbe vistoso e resterebbe impresso nella memoria dei testimoni.» «Come può dire che svolge un lavoro inferiore alle sue capacità?» chiese Frank Hamill. «Perché è la norma, in questa categoria di serial killer. Ha un posto di lavoro perché è necessario averlo, ma le sue energie, i suoi talenti, sono riservati al suo hobby. Passa molto tempo a fantasticare. Vive per il prossimo delitto. L'amministratore delegato di una grande impresa non avrebbe tanto tempo a disposizione.» «Anche se sono quasi tutti psicopatici», disse qualcuno in tono scherzoso. Quinn si concesse un sorriso da squalo. «Dobbiamo rallegrarci del fatto che alcuni di loro amano il proprio lavoro.» «Che altro?» domandò Liska. «Ha qualche idea sul suo aspetto?» «Non ne sono troppo sicuro a causa del carattere contraddittorio delle vittime.» «Le prostitute badano ai soldi, non al fascino», commentò Elwood. «E se tutt'e tre le vittime fossero prostitute, direi che dobbiamo cercare un uomo non attraente, forse con qualche problema, come la balbuzie o una cicatrice, qualcosa che gli crea dei problemi con le donne. Ma se la terza vittima è la figlia di un miliardario?» Quinn inarcò un sopracciglio. «Chissà, potrebbe essersi cacciata in una situazione scabrosa.» «C'è qualche motivo per ritenere che fosse coinvolta nella prostituzione?» chiese Quinn. «A prima vista non si direbbe che abbia molto in comune con le prime due vittime.» «Non ha precedenti», osservò Liska. «Ma suo padre è Peter Bondurant.» «Mi servono altri dati su tutt'e tre le vittime», disse Quinn. «Se esiste un elemento comune fra loro, può costituire un punto di partenza privilegiato per individuare un sospetto.» «Due prostitute e la figlia di un miliardario: che cosa possono avere in comune?» domandò Yurek. «La droga», suggerì Liska. «Un uomo», propose Mary Moss.
Kovac assentì. «Voi due volete occuparvi di questa prospettiva?» Le donne annuirono. «Ma forse quel tale si è limitato ad agguantarle alle spalle», osservò Tippen. «Forse non aveva bisogno di attirarle. Forse le ha scelte perché si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato.» «È possibile, ma ho l'impressione che non sia così», rispose Quinn. «Tutto è filato troppo liscio. Queste donne sono letteralmente svanite nel nulla. Nessuno ha notato una colluttazione. Nessuno ha sentito gridare. La logica mi dice che lo hanno seguito di loro spontanea volontà.» «Allora dov'è l'auto di Jillian Bondurant?» chiese Adler. La Saab rossa non era stata ancora localizzata. «Forse è stata lei a prenderlo a bordo», disse Liska. «Forse la macchina ce l'ha ancora lui.» «Allora stiamo cercando un assassino con un garage a tre posti?» ribatté Adler. «Diamine, ho sbagliato lavoro.» «Se vuoi cominciare a massacrare ex mogli per vivere, Chunk, dovresti riempire il tuo garage di Porsche», rispose Kovac ridendo. Liska gli affibbiò un pugno sul braccio. «Ehi, sono un'ex moglie anch'io!» Quinn bevve un sorso di caffè, mentre le battute rimbalzavano nel gruppo. Per i poliziotti l'umorismo era una valvola di sicurezza, che permetteva loro di allentare la tensione alimentata dal lavoro. I componenti di quella squadra erano all'inizio di una prova che sarebbe stata indubbiamente lunga e sgradevole; avevano bisogno di scambiarsi una battuta ogni volta che era possibile. Quanto migliori fossero stati i loro rapporti come gruppo, tanto migliore sarebbe risultata l'indagine. «Dal punto di vista fisico», riprese, «probabilmente sarà di statura e corporatura medie, abbastanza forte da trasportare un cadavere, ma non tanto da apparire minaccioso quando avvicina le vittime. Questo è il massimo che posso darvi, per ora.» «Come? Non è capace di chiudere gli occhi e di evocare la sua immagine psichica, o qualcosa del genere?» esclamò Adler, scherzando solo in parte. «Mi spiace, detective», rispose lui con un sorriso e un'alzata di spalle. «Se avessi doti paranormali, mi guadagnerei da vivere puntando alle corse. Non ho una sola cellula paranormale in tutto il corpo.» «Se fosse alla TV, l'avrebbe.» «Se fossimo alla TV, avremmo risolto questi delitti in un'ora», ribatté
Elwood. «È colpa della TV se l'opinione pubblica si spazientisce quando un'indagine dura più di due giorni. Tutta la contea vive incollata al televisore.» «A proposito di televisione», disse Hamill, tenendo sollevata una videocassetta. «Ho qui il nastro della conferenza stampa.» C'era un televisore con videoregistratore incorporato, sistemato su un carrello metallico vicino a un'estremità del tavolo. Hamill inserì la cassetta e si accinsero tutti a guardare. Su richiesta di Quinn, agli operatori delle locali stazioni televisive si era mescolato un agente delle operazioni speciali di Minneapolis, con l'incarico di riprendere non la conferenza in sé, ma gli spettatori che vi avevano assistito. Si sentivano in sottofondo le voci del sindaco, del capo Greer e del procuratore della contea, mentre la telecamera scandagliava i volti dei cronisti, degli agenti di polizia e dei fotografi. Quinn fissava lo schermo, attento a cogliere le minime sfumature di espressione, uno scintillio malizioso negli occhi, un'ombra infinitesimale di compiacimento in un sorriso. La sua attenzione era tutta rivolta alle persone che si trovavano ai margini della folla, a quelli che sembravano capitati lì per caso o per pura coincidenza. Cercava quel qualcosa di intangibile, quasi impercettibile, che mette sull'avviso l'istinto dell'investigatore. La consapevolezza che il loro assassino poteva trovarsi lì, in mezzo agli spettatori ignari, che lui stesso poteva aver fissato negli occhi un killer senza saperlo, gli ispirava un profondo senso di frustrazione. Il loro uomo non si sarebbe fatto notare, non sarebbe apparso nervoso. Aveva ucciso almeno tre donne senza farsi sorprendere. La polizia non aveva indizi utili, quindi lui non aveva niente da temere, e lo sapeva. «Be'», commentò asciutto Tippen, «non vedo nessuno con una testa di troppo.» «Potremmo averlo sotto gli occhi senza saperlo», concluse Kovac, premendo il pulsante del telecomando per spegnere l'apparecchio. «Ma se troveremo un possibile sospetto, potremo sempre ricontrollare il video.» «Che ne pensi, Sam, oggi avremo l'identikit dalla testimone?» domandò Adler. «Lo spero proprio. A questo proposito ho già ricevuto delle telefonate dal capo e da Sabin», rispose Kovac. «Nel frattempo dobbiamo assegnare gli incarichi e metterci al lavoro, prima che Smokey Joe decida di accendere un altro fuoco.»
La casa di Peter Bondurant era una vasta residenza in stile Tudor, che godeva di una privilegiata vista panoramica del Lago delle Isole, al di là dell'imponente cancellata di ferro. Il prato era punteggiato di alberi alti, dai rami nudi. Benché sorgesse a qualche chilometro dal cuore di Minneapolis, tradiva con discrezione i segni della paranoia cittadina, sotto forma di contrassegni bianchi e blu della società di vigilanza affissi lungo la recinzione e sul cancello chiuso. Kovac imboccò il viale di accesso a velocità troppo alta e dovette frenare, fermando bruscamente l'auto vicino al pannello del citofono. Il suo sguardo corse alle spalle di Quinn, verso i furgoni delle stazioni televisive parcheggiati ai lati della strada. Gli occupanti ricambiarono la sua occhiata. «Avvoltoi schifosi.» Una voce scaturì crepitando dall'altoparlante. «Sì?» «John Quinn, FBI», rispose Kovac in tono drammatico, lanciando un'occhiata comica a Quinn. Il cancello si aprì, richiudendosi alle loro spalle. Vicino alla casa era parcheggiata una Lincoln Continental nera lucidata a specchio. Kovac si affiancò a quell'auto di lusso con la sua Caprice marrone sporco, girando la chiave. Il motore continuò a tossicchiare in modo patetico per mezzo minuto. «Che pezzo di ferraglia», brontolò lui, scavando in una pila di cianfrusaglie che teneva alla rinfusa sul sedile, prima di scovare un registratore con una minicassetta, che porse a Quinn. «Nel caso non voglia parlare con me... In base alla legge del Minnesota, per registrare una conversazione è sufficiente il consenso di una sola delle parti interessate.» «Strana legge, per uno Stato pieno di democratici.» «Siamo pratici. Abbiamo un assassino da catturare. Forse Bondurant sa qualcosa senza rendersene conto, o forse dirà qualcosa che non farà squillare un campanello nella sua mente solo perché lei non è di qui.» Quinn infilò il registratore nella tasca interna della giacca. «Il fine giustifica i mezzi.» «E lei lo sa.» «Meglio di chiunque altro.» «Non le pesa?» domandò Kovac mentre scendevano dalla macchina. «Cercare di catturare serial killer e rapitori di bambini ventiquattr'ore al giorno, sette giorni su sette? Io penso che non ce la farei. Almeno alcuni dei morti che mi ritrovo per le mani meritavano la fine che hanno fatto.
Come riesce a resistere?» Non ci riesco. La risposta fu automatica, e fu automaticamente scartata. Non ci riusciva, non c'era mai riuscito. Si limitava a ficcare tutto nel grande pozzo buio che c'era dentro di lui, sperando che il pozzo non traboccasse. «Mi concentro sulla colonna vincente», rispose invece. «Io bevo», confessò Kovac in tono amabile. «Fumo e bevo.» Quinn accennò un sorriso. «E va a donne?» «No, ho smesso. È una cattiva abitudine.» Venne ad aprire Edwyn Noble, che rimase di ghiaccio nel vedere Kovac. «Agente speciale Quinn», cominciò mentre gli passavano davanti per entrare nel vestibolo con le pareti di mogano intarsiato. Dal soffitto del primo piano pendeva un massiccio lampadario di ferro battuto. «Non mi pare che lei avesse accennato al sergente Kovac, quando ha telefonato.» Quinn ostentò un'espressione innocente. «Ah, no? Be', Sam si è offerto di accompagnarmi e io non conosco la città, quindi...» «In ogni caso desideravo anch'io parlare con il signor Bondurant», aggiunse Kovac con disinvoltura, osservando perplesso le opere d'arte esposte nell'atrio, con le mani in tasca come se avesse paura di rompere qualcosa. Le orecchie dell'avvocato si arrossarono. «Sergente, Peter ha appena perduto la sua unica figlia. Gradirebbe avere un po' di tempo per riprendersi, prima di sottoporsi a un interrogatorio.» «Interrogatorio?» Kovac inarcò le sopracciglia, distogliendo lo sguardo da una statuetta che rappresentava un cavallo da corsa e scambiando un'occhiata con Quinn. «Come un sospetto? Perché, forse il signor Bondurant pensa che lo consideriamo un sospetto? Non so proprio come possa essergli venuta un'idea del genere. E lei, avvocato Noble?» Sugli zigomi di Noble apparvero due pomelli rossi. «Colloquio, dichiarazione, lo chiami come preferisce.» «Preferisco definirla una conversazione, ma faccia pure come vuole.» «Quello che voglio», disse una voce sommessa che proveniva da una porta ad arco, «è riavere mia figlia.» L'uomo che avanzò nell'atrio in penombra era alto poco meno di un metro e settanta, di taglia snella, con un'aria impeccabile anche in calzoni sportivi e maglione. I capelli scuri erano tagliati tanto corti da assomigliare a una cotta di maglia di ferro. Fissò Quinn con occhi seri dietro le lenti piccole e ovali, con la montatura di metallo.
«È quello che vogliamo tutti, signor Bondurant», disse Quinn. «E forse è ancora possibile che questo avvenga, ma ci serve tutto l'aiuto possibile.» «Lei pensa che Jillian possa essere ancora viva?» «Non siamo ancora arrivati a una conclusione definitiva», rispose Kovac. «Finché non saremo in grado di identificare la vittima con certezza, esiste la possibilità che non si tratti di sua figlia.» Bondurant scosse la testa. «No, non ci credo. Jillie è morta.» «Come lo sa?» domandò Quinn. L'espressione di Bondurant era cupa, tormentata, sconfitta. Il suo sguardo deviò sulla sinistra di Quinn. «Perché era mia figlia», rispose infine. «Non so spiegarlo meglio. È una sensazione... come un peso sullo stomaco, quasi che una parte di me sia morta con lei. Se n'è andata. «Lei ha figli, agente Quinn?» «No, ma conosco fin troppi genitori che hanno perso un figlio. È una situazione terribile. Se fossi in lei, non avrei fretta di unirmi a loro.» Bondurant abbassò gli occhi, lasciandosi sfuggire un sospiro. «Venga nel mio studio, agente Quinn», disse poi, prima di rivolgersi a Kovac serrando le labbra. «Edwyn, perché non ci aspetti in soggiorno insieme con il sergente?» Kovac si lasciò sfuggire un'esclamazione di disappunto. Il viso dell'avvocato s'irrigidì per l'ansia. «Forse dovrei venire anch'io, Peter...» «No. Prega Helen di preparare il caffè.» Bondurant si volse e uscì. Quinn lo seguì, chiedendosi quale fosse la sua strategia. Non intendeva parlare con la polizia, ma escludeva il suo avvocato da una conversazione con un agente dell'FBI. Tutto ciò non aveva senso, se il suo intento principale era proteggere se stesso. D'altra parte, qualunque dichiarazione incriminante avesse rilasciato in assenza del suo legale non sarebbe stata utilizzabile in aula, registrata o no. «Mi risulta che avete una testimone. È in grado di identificare il responsabile?» «Non sono autorizzato a discutere di questo», rispose Quinn. «Vorrei parlare di lei e di sua figlia. Perdoni la franchezza, ma la scarsa disponibilità a collaborare con la polizia che ha mostrato finora risulta quanto meno sconcertante.» «Lei ritiene che io non reagisca nella maniera tipica di un genitore al quale è stata uccisa una figlia? Esiste una reazione tipica?»
«Tipica forse non è la parola adatta. Alcune reazioni sono più comuni di altre.» «Non so nulla che sia pertinente al caso, quindi non ho altro da dire alla polizia. Uno sconosciuto ha rapito e assassinato mia figlia. Come ci si può aspettare che io abbia delle informazioni rilevanti in merito a un atto così insensato?» Bondurant lo precedette in un ufficio spazioso, chiudendosi la porta alle spalle. La stanza era dominata da un'imponente scrivania di mogano a forma di U, con un'ala dedicata al computer e una alle scartoffie. La sezione centrale era meticolosamente ordinata, con il sottomano immacolato, ogni penna e fermaglio al suo posto. «Si tolga pure il soprabito, agente Quinn. Si accomodi.» Con la mano magra, indicò un paio di sedie di cuoio color sangue di bue, mentre, dal canto suo, faceva il giro della scrivania per prendere posto su una specie di trono dallo schienale alto. Per evidenziare la propria autorità, pensò Quinn, togliendosi il soprabito, per rimettermi al mio posto. Sedendosi, notò subito che la sedia era un po' troppo bassa, quel tanto che bastava per ispirare al suo occupante una vaga sensazione di inferiorità. «Un maniaco ha ucciso mia figlia», ribadì Bondurant, in tono calmo. «Non posso davvero preoccuparmi di quello che pensano gli altri del mio comportamento. Inoltre, sto collaborando alle indagini, visto che l'ho fatta venire qui.» Un altro discreto accenno agli equilibri di potere. «Ed è disposto a parlare con me?» «Secondo Bob Brewster, lei è il migliore.» «Ringrazi il direttore da parte mia, la prossima volta che lo vede. Non mi capita di incontrarlo tanto spesso», replicò Quinn, mostrandosi volutamente indifferente all'implicita familiarità che il suo interlocutore aveva con il capo dell'FBI. «Dice che questo tipo di omicidio è la sua specialità.» «Sì, ma io non sono in vendita, signor Bondurant. Voglio che questo punto sia ben chiaro. Farò tutto il possibile per costruire un profilo e fornire la mia consulenza per quanto riguarda le tecniche investigative. Se verrà fermato un sospetto, proporrò una strategia per il colloquio. In caso di processo, sono pronto a deporre come testimone esperto, mettendo a disposizione dell'accusa la mia esperienza in merito all'interrogatorio dei testi. Farò il mio lavoro, e lo farò bene, ma non lavoro per lei, signor Bondurant.»
L'altro accolse quelle informazioni con un'espressione impassibile, il viso ossuto e severo. Una maschera indecifrabile. «Voglio che l'assassino di Jillian sia arrestato. Tratterò con lei perché è il migliore, e perché mi è stato detto che posso fidarmi della sua riservatezza.» «Riservatezza? Che cosa intende?» «Con i media. Io sono un personaggio pubblico. Detesto l'idea che milioni di estranei conoscano i dettagli più intimi della morte di mia figlia. Penso che la fine di una vita debba essere un fatto molto privato e personale.» «Dovrebbe essere così. È il particolare che questa vita le è stata tolta con la violenza che non si può tacere... per il bene di tutti.» «Quello che temo realmente, per essere sincero, non è tanto che gli estranei sappiano della fine di Jillie, quanto il loro desiderio insaziabile di sviscerare la sua vita. E la mia, ovviamente.» Quinn si spostò sulla sedia, accavallando le gambe e abbozzando un sorriso comprensivo. «Questo è comprensibile. La stampa la tormenta? Ho visto che i giornalisti si sono accampati qua fuori.» «Mi rifiuto di avere a che fare con loro. Ho incaricato il responsabile dei rapporti con i media della mia impresa, la Paragon, di occuparsene. L'aspetto che più mi manda in collera è la loro convinzione di essere nel giusto. Poiché sono un uomo ricco e in vista, pensano di avere il diritto di intromettersi nel mio dolore. Lei crede che la stampa e la televisione abbiano parcheggiato i loro furgoni davanti alla casa dei genitori delle due prostitute che questo maniaco ha ucciso? Le posso assicurare di no.» «Viviamo in una società drogata di sensazionalismo», ammise Quinn. «C'è chi fa notizia e chi no. Non so bene quale delle due situazioni sia la peggiore. Le posso garantire che i genitori delle prime due vittime se ne stanno chiusi in casa a chiedersi come mai i furgoni della stampa e della televisione non siano parcheggiati di fronte.» «Lei crede che vogliano far conoscere al pubblico il loro fallimento come genitori?» chiese Bondurant, con la voce incupita dalla collera. «Pensa che siano contenti di far sapere a tutti i motivi per cui le loro figlie sono diventate sgualdrine e drogate?» Senso di colpa e accusa. In quale misura, si chiese Quinn, erano una proiezione del suo dolore? «A proposito della testimone», riprese Bondurant, un po' scosso al pensiero di essere stato sul punto di rivelare qualcosa di sé, «lei ritiene che sa-
rà in grado di identificare l'assassino? Non mi sembra molto affidabile.» «Non lo so», rispose Quinn, ben sapendo da dove l'altro avesse attinto quelle informazioni. Kovac avrebbe dovuto fare del suo meglio per tappare la falla. La famiglia della vittima aveva diritto a certe concessioni, ma l'indagine doveva restare il più possibile segreta. Peter Bondurant non poteva avere accesso completo alle notizie, tanto più che non era stato ancora scartato come possibile sospetto. «Be'... me lo auguro», mormorò Bondurant. Il suo sguardo era rivolto alla parete punteggiata da una serie di fotografie in cornice, che per lo più ritraevano il padrone di casa in compagnia di uomini: soci in affari, rivali o alti funzionari, immaginò Quinn. Fra gli altri riconobbe Bob Brewster, poi scoprì che cosa avesse attirato l'attenzione di Bondurant: un piccolo gruppo di foto nell'angolo in basso a sinistra. Alzatosi dalla sedia, si avvicinò alla parete per guardare meglio: Jillian, in vari momenti della sua vita. La riconobbe grazie alla foto che era stata inserita nel fascicolo. Un'immagine, in particolare, colpì la sua attenzione: una giovane donna che appariva a disagio in un abito nero molto castigato, con un colletto rotondo alla Peter Pan e polsini bianchi. Aveva i capelli tagliati cortissimi, in una foggia maschile, e ossigenati, in netto contrasto con le radici e le sopracciglia scure. A un orecchio portava una mezza dozzina di orecchini e aveva un minuscolo rubino incastonato nel naso. Non somigliava affatto al padre. Aveva un corpo e un viso più morbidi e rotondi, con gli occhi enormi e malinconici, di cui l'obiettivo aveva colto la vulnerabilità. «Una ragazza graziosa», mormorò Quinn automaticamente. Non aveva importanza che non fosse completamente vero. Quell'osservazione mirava a uno scopo che non era l'adulazione. «Doveva sentirsi molto legata a lei, se è tornata dall'Europa per frequentare qui l'università.» «Il nostro era un rapporto complicato. Eravamo molto legati quando lei era piccola. Al momento del mio divorzio da sua madre, Jillie era in un'età vulnerabile. Per lei fu molto difficile sopportare l'antagonismo fra Sophie e me. Poi arrivò Serge, l'ultimo marito di Sophie. E la malattia di Sophie, la sua depressione.. entrava e usciva dalle cliniche.» Rimase a lungo in silenzio e Quinn sentì il peso di tutto quello che taceva. Qual era stata la causa del divorzio? Che cosa aveva provocato la malattia mentale di Sophie? Il fastidio nella voce di Bondurant quando parlava del nuovo marito era semplice amarezza nei confronti di un rivale o qualcosa di più?
«Quali studi seguiva, all'università?» domandò, sapendo che non era il caso di cercare direttamente le altre risposte che voleva da lui. Peter Bondurant non era disposto a rivelare facilmente i suoi segreti, ammesso che lo facesse. «Psicologia», rispose con una punta quasi infinitesimale di sarcasmo, fissando la foto della figlia. «La vedeva spesso?» «Ogni venerdì. Veniva qui a cena.» «Quante persone ne erano al corrente?» «Non so. La mia governante, il mio assistente personale, pochi amici intimi. Qualche amico di Jillian, immagino.» «Qui in casa ci sono altre persone di servizio, oltre alla governante?» «Helen lavora a tempo pieno. Una volta la settimana c'è una ragazza che l'aiuta per le pulizie, poi c'è una squadra di tre giardinieri che vengono ogni settimana. Nessun altro. Preferisco salvaguardare la mia privacy che tenere in casa molte persone di servizio. Non ho grandi esigenze.» «In genere il venerdì sera è il momento più caldo della settimana per gli studenti della città. Jillian non frequentava i locali da ballo?» «No. Aveva superato quella fase.» «Aveva molti amici?» «Che io sappia, no. Era una persona molto riservata. L'unica alla quale accennasse con una certa frequenza era una certa Michelle, che fa la cameriera in un caffè. Non l'ho mai incontrata.» «Aveva un fidanzato?» «No», rispose Bondurant, voltandosi. «A lei non interessavano i ragazzi. Non voleva relazioni temporanee. Aveva sofferto troppo...» La bocca dalle labbra sottili fremette appena, mentre gli occhi tradivano un dolore profondo. Era il massimo di emozione che avesse mostrato fino a quel momento. «Aveva tutta la vita davanti a sé», mormorò. Quinn gli si accostò, parlando a voce bassa, la voce malinconica dell'esperienza e della comprensione. «È questa la difficoltà maggiore da superare quando muore una persona giovane... specie quando viene assassinata. I sogni incompiuti, il potenziale non ancora realizzato. Coloro che le erano più vicini, famigliari e amici, credevano di avere tanto tempo per rimediare agli errori, tanto tempo per dirle che l'amavano. E tutt'a un tratto quel tempo non c'è più.» Vide i muscoli del viso di Bondurant irrigidirsi per resistere al dolore. «Almeno avete trascorso insieme quell'ultima serata», mormorò. «Questo
dovrebbe esserle di conforto.» Oppure rappresentare l'amaro ricordo, destinato a durare per sempre, di tutti i problemi rimasti insoluti fra padre e figlia. A Quinn pareva quasi di sentire il rammarico aleggiare nell'aria. «Com'era, quella sera?» domandò a bassa voce. «Sembrava di buon umore o no?» «Era...» Bondurant deglutì a fatica, cercando la parola giusta. «... come sempre. Jillian passava continuamente dall'euforia alla tristezza. Era instabile psicologicamente.» La figlia di una donna che entrava e usciva dalle cliniche psichiatriche. «Non le ha fatto capire che qualcosa la tormentava, che era preoccupata per qualche motivo?» «No.» «Avete discusso di qualcosa in particolare, o bisticciato per...» L'esplosione di Bondurant fu improvvisa, violenta e inattesa. «Mio Dio, se avessi supposto che c'era qualcosa che non andava, se avessi pensato che stava per succedere qualcosa, non crede che le avrei impedito di andarsene? Non crede che l'avrei tenuta qui?» «Ne sono certo», replicò piano Quinn, in tono compassionevole e rassicurante. «Di che cosa avere parlato, quella sera?» chiese con delicatezza a Bondurant, che cercava visibilmente di ricomporsi. «Delle solite cose», rispose spazientito. «Le sue lezioni, il mio lavoro. Nulla di particolare.» «La sua terapia?» «No, lei...» S'irrigidì, prima di voltarsi a guardare con rabbia Quinn. «Dobbiamo conoscere questi dettagli, signor Bondurant», disse lui, senza scusarsi. «Per ogni vittima dobbiamo prendere in considerazione la possibilità che una parte della loro vita sia in relazione con la loro morte. Può trattarsi di qualcosa che le sembra irrilevante, eppure a volte è sufficiente, perché è tutto ciò che abbiamo. «Capisce che cosa intendo dire? Faremo il possibile per tenere riservati i dettagli, ma, se vuole che questo assassino sia preso, deve collaborare con noi.» La spiegazione non servì a mitigare l'ira di Bondurant, che si girò bruscamente verso la scrivania, estraendo un cartoncino dall'indirizzario girevole. «Il dottor Lucas Brandt. Non devo certo spiegarle che tutto ciò che Jillian riferiva a Lucas in qualità di paziente è strettamente confidenziale.» «E tutto quello che riferiva a lei come padre?»
La collera di Bondurant divampò ancora in una breve fiammata, scardinando il suo rigido autocontrollo. «Se sapessi qualcosa, qualunque cosa, che possa condurvi all'assassino di mia figlia, non crede che glielo direi?» Quinn restò in silenzio, con lo sguardo fisso sul viso di Peter Bondurant, sulla vena pulsante che gli solcava la fronte come un fulmine. Gli sfilò dalle dita il cartoncino. «Lo spero, signor Bondurant», disse infine. «La vita di un'altra giovane donna può dipendere da questo.» «Che cosa ne ha ricavato?» chiese Kovac, mentre si allontanavano dalla casa. Quinn guardò lungo il viale d'accesso, oltre il cancello dov'erano appostati due cameramen della televisione con l'occhio accostato all'obiettivo. Il suo periodo di anonimato era agli sgoccioli. «Una brutta sensazione.» «Quella ce l'ho fin dall'inizio. Lo sa che cosa può fare un uomo come Bondurant alla carriera di qualcuno?» «La mia domanda è perché dovrebbe volerlo fare?» «Perché è ricco e soffre. Vuole che sia qualcun altro a soffrire. Vuole che sia qualcun altro a pagare. Magari, se riesce a rendere infelice qualcuno, non sentirà tanto il proprio dolore. Sa una cosa?» aggiunse, con il solito tono distratto. «La gente è matta. Insomma, che cosa ha detto? Perché non vuole parlare con noi della polizia locale?» «Non si fida.» Kovac si drizzò di scatto, offeso. «Be', che vada a farsi fottere!» «Ha un terrore paranoico che i dettagli vengano forniti ai media.» «Quali dettagli? Che cos'ha da nascondere?» «Tocca a lei scoprirlo, Sherlock. Comunque ho un punto di partenza.» Salirono a bordo della Caprice. Quinn tirò fuori dalla tasca del cappotto il registratore, posandolo sul sedile in mezzo a loro, con il cartoncino sopra. Kovac prese il cartoncino. «Uno strizzacervelli. Che cosa le avevo detto? La gente è matta. Soprattutto i ricchi: sono i soli che possono permettersi di fare qualcosa per rimediare. Per loro è come un hobby.» «La stampa ha mai accennato al fatto che le due prime vittime fossero tossicodipendenti?» «No. Una lo era, ma lo abbiamo tenuto nascosto. Era Lila White. 'Lily', la prima vittima. Per qualche tempo aveva fatto uso di droga, ma poi si era disintossicata. Aveva seguito uno dei programmi della contea e per qual-
che tempo era vissuta in una di quelle istituzioni in cui si riabilitano le prostitute... solo che quella parte non ha funzionato, a quanto pare. Comunque, la pista della droga non si è rivelata promettente. Perché?» «Bondurant ha fatto un accenno. Può anche darsi che fosse una congettura da parte sua, ma non credo. Mi è parso che sapesse qualcosa di preciso sul conto delle altre vittime, oppure di Jillian.» «Se la ragazza faceva uso di qualche droga, gli esami tossicologici lo riveleranno. Ho controllato il suo appartamento in città, e non ho trovato nulla di più forte di un'aspirina.» «Se si drogava, forse potreste scovare un collegamento con le altre vittime.» E di lì seguire una possibile traccia che li avrebbe portati a uno spacciatore o a un altro drogato che poteva trasformarsi in sospetto. Sul viso di Kovac aleggiò il sorriso rapace del cacciatore che fiuta una pista fresca. «Darò incarico a Liska e Moss di dare un'occhiata in giro. Ora andiamo a vedere che cosa ha da dirci il nostro Sigmund Froid... sul prezzo delle rotelle andate fuori posto.» Batté il cartoncino sul volante. «Il suo studio si trova sulla sponda opposta del lago.» 10 «Allora, che ne pensi di Quinn?» chiese Liska. Mary Moss era seduta al posto del passeggero, guardando dal finestrino il Mississippi. «Dicono che sia un asso, destinato a entrare nella leggenda.» «Non avevi mai lavorato con lui?» «No. Di solito è Roger Emerson che viene mandato in trasferta da Quantico. D'altronde di solito la vittima non è la figlia di un magnate miliardario che conosce i pezzi grossi di Washington. «A me è piaciuto il modo in cui ha trattato Tippen», continuò Moss. «Senza atteggiamenti arroganti, del tipo: 'Io sono un agente federale e tu un piedipiatti di provincia'. Penso che sappia inquadrare in fretta la gente, e probabilmente ha un cervellone da far paura. Tu che ne pensi?» Liska le rivolse un sorriso arrapato. «Ha un bel culo.» «Santo cielo, io mi preoccupavo di mantenere un atteggiamento serio e professionale e tu gli guardavi il sedere!» «Be', non quando parlava. Dai, Mary, è un vero bocconcino, ammettilo. Non ti piacerebbe assaggiarlo, se ti capitasse l'occasione?» Moss arrossì. «Non farmi certe domande. Io sono una donna matura e
sposata. Anzi, sono una donna matura, sposata e cattolica!» «Finché in questa descrizione non rientra la parola 'morta', hai sempre gli occhi per guardare.» «Ha un bel culo», ammise Moss sottovoce, sforzandosi di trattenere una risatina. Poi puntò un dito oltre il parabrezza. «Ci siamo. Edgewater.» Le case del complesso residenziale di Edgewater erano un gruppo di edifici tutti in stile, progettati per richiamare alla mente un villaggio di pescatori del New England: rivestimenti esterni in assicelle di legno grigio con finiture bianche, tetti in scandole di cedro, finestre a riquadri regolari. Le varie unità abitative erano disposte a gruppi, come funghi selvatici e collegate da sentieri tortuosi inseriti ad arte nel paesaggio. Tutte le case guardavano verso il fiume. «Ho la chiave della casa di Jillian», disse Liska, guidando verso l'entrata del complesso, «ma ho pensato bene di interpellare il custode. Ha detto di averla vista uscire venerdì pomeriggio. Immagino che non sarà male parlargli di nuovo.» Parcheggiò vicino alla prima casa, poi lei e Moss mostrarono la tessera all'uomo che le aspettava sul gradino del portico. Liska pensò che Gil Vanlees doveva avere circa trentacinque anni. Era biondo, con un paio di baffetti radi, alto circa un metro e ottanta ma piuttosto molliccio. Portava un giaccone aperto sulla divisa azzurra da guardia giurata e aveva la classica aria del ragazzo che al liceo faceva sport e poi si era impigrito. «E così lei è una donna poliziotto?» domandò fissando Liska con gli occhi piuttosto piccoli che scintillavano di un'eccitazione quasi sessuale. Uno degli occhi era blu, mentre l'altro aveva il colore torbido di un topazio scuro. Liska gli sorrise. «Esatto. E lei, oltre a lavorare come guardia giurata, fa il custode in questo complesso?» «Sì. Vede, mia moglie - per la verità siamo separati - lavora per la società che lo gestisce ed è per questo che abbiamo avuto la casa, altrimenti, me lo lasci dire, con i prezzi che girano da queste parti... Così sono una specie di supervisore, anche se non vivo più qui.» «La casa della signorina Bondurant è da questa parte?» domandò Moss, accennando al fiume. Vanlees la squadrò socchiudendo gli occhi, che sembrarono ancora più piccoli. «Ho già parlato con alcuni investigatori, ieri.» Come se diffidasse di lei, con quell'aria insignificante da madre di famiglia, non da dura come Liska.
«Sì, certo, stiamo completando le indagini», intervenne Liska con disinvoltura. «Sa com'è.» Certe persone erano più disposte a collaborare quando si sentivano coinvolte. Vanlees estrasse un mazzo di chiavi dalla tasca della giacca, guidandole lungo il marciapiede. «Una volta ho fatto domanda per entrare nella polizia», le confidò. «Ma in quel periodo c'era un blocco delle assunzioni. Questioni di budget, sa.» «Oh, peccato», rispose Liska, facendo del suo meglio per imitare il personaggio interpretato da Frances McDormand in Fargo. «Sa, abbiamo sempre bisogno di elementi in gamba, ma con questi problemi di bilancio è dura...» «Me la sarei cavata bene.» Il suo tono fu inasprito da un'antica amarezza, come una vecchia macchia che non si riusciva a cancellare. «E così, Gil, lei conosceva questa Bondurant?» «Oh, certo, la vedevo in giro. Non parlava granché. Un tipo non troppo cordiale. È morta, non è così? Al telegiornale non vogliono dirlo chiaro, ma è lei, vero?» «Ci sono ancora delle domande senza risposta.» «Ho sentito dire che avete una testimone. Di che cosa, mi domando. Voglio dire, l'hanno visto mentre la uccideva o cosa? Questo sì che sarebbe forte, eh?» «Su questo non posso dire niente, capisce?» rispose Liska in tono di scusa. «Mi piacerebbe, visto che lei lavora in un campo affine e così via, ma lo sa come vanno queste cose.» Vanlees annuì, assumendo un'aria d'importanza. «L'ha vista venerdì?» chiese Moss. «Jillian Bondurant?» «Sì, verso le tre. Io ero qui, a lavorare sul tritarifiuti. Mia moglie ci ha ficcato dentro del sedano. Che disastro. La piccola Miss Secchiona del college. C'era da pensare che avesse un po' più di cervello.» «Jillian Bondurant?» lo sollecitò Mary Moss. Lui socchiuse di nuovo gli occhi di colore diverso. «Stavo guardando fuori dalla finestra della cucina e l'ho vista uscire.» «Da sola?» «Sì.» «E quella è stata l'ultima volta che l'ha vista?» «Sì.» L'uomo si rivolse di nuovo a Liska. «Quello psicopatico l'ha bruciata, vero? Il Crematore. Cristo, che schifo», esclamò, anche se nei suoi occhi brillava una punta di morbosità. «Vi serve aiuto, qui?» aggiunse in
tono più serio, girando la chiave nella serratura. «No, grazie, Gil. Sa com'è, il regolamento...» Liska si girò verso di lui, sbarrandogli l'accesso alla casa. «Ha mai visto la signorina Bondurant in compagnia di qualcuno? Amici? Un ragazzo?» «Ogni tanto vedevo il padre. Per la verità il proprietario è lui. Nessun ragazzo. Qualche volta una ragazza. Un'amica, voglio dire. Non l'amica... o, almeno, non credo.» «Una ragazza in particolare? Sa come si chiama?» «No, anche lei non era troppo cordiale. Aveva un'aria cattiva. Quasi come le ragazze delle bande di motociclisti, ma non proprio. Comunque non le ho mai rivolto la parola. Lei... la signorina Bondurant, voglio dire, in genere era sola, apriva raramente bocca. In realtà questo non era un posto per lei. Qui non ci sono molti studenti, e poi lei si vestiva in modo strano. Anfibi, vestiti neri e tutto il resto.» «Le è mai sembrata fuori di testa?» «Come se fosse drogata, intende dire? No. Perché, si drogava?» «Devo semplicemente valutare tutte le possibilità, sa, altrimenti il tenente...» Lasciò l'allusione in sospeso, poi lo ringraziò per l'aiuto e gli diede il suo biglietto da visita, pregandolo di chiamarla se gli fosse venuto in mente qualcosa che poteva rivelarsi utile per le indagini. «Cristo, ci vorrebbe una doccia», mormorò rabbrividendo, dopo aver chiuso la porta. «Ma come, non ti piaceva?» ribatté Moss, imitando il suo accento. Liska fece una smorfia, colpita dalla strana combinazione di odori che aleggiava nell'aria: deodorante per ambienti e fumo di sigarette ormai stantio. «Be', l'ho fatto parlare, no?» Rimase immobile, con gli occhi fissi sulla porta e un'espressione seria. «Te lo giuro, questi poliziotti mancati mi fanno venire i brividi. Hanno sempre una fissazione per l'autorità, un bisogno di potere e di controllo, e un'immagine di sé molto scarsa. Il più delle volte, poi, provano rancore per le donne. Ehi!» S'illuminò di nuovo. «Dovrò sottoporre questa teoria all'attenzione dell'agente speciale.» «Sfacciata.» «Preferirei sentirmi definire opportunista.» Il soggiorno di Jillian Bondurant si affacciava sul fiume. I mobili sembravano nuovi. In un angolo c'erano una scrivania e alcune librerie piene di libri di testo, quaderni e tutto ciò che riguardava gli studi di Jillian, il tutto in ordine perfetto. La cucina, visibile dalla stanza, era immacolata.
«Dovremo scoprire se aveva una persona di servizio.» «Non ha per niente l'aria del solito alloggio da studentessa in bolletta», commentò Liska. «Del resto credo che in questa ragazza non ci fosse niente di normale. Deve avere trascorso un'infanzia molto atipica, girando come una trottola per tutta l'Europa.» «Eppure è tornata qui a studiare. Come si spiega? Poteva andare dovunque, alla Sorbona, a Oxford, a Harvard, in California. Avrebbe potuto scegliere un bel posto caldo, con il sole, o una località esotica. Perché venire qui?» «Per stare vicina a papà.» Mary Moss si aggirò per la stanza, facendo vagare lo sguardo in cerca di qualcosa che fornisse elementi di giudizio sulla vittima. «Questo posso capirlo. Eppure... Mia figlia Beth e io abbiamo uno splendido rapporto, ma lei, non appena ha preso il diploma, ha voluto volare via dal nido.» «Dov'è andata?» «All'università del Wisconsin, a Madison. Mio marito non è Peter Bondurant, e lei ha dovuto scegliere un ateneo in cui le riconoscessero i titoli.» «Se il mio vecchio avesse un miliardo di dollari e mi offrisse un posto così, anch'io vorrei trascorrere del tempo con lui. Forse potrei farmi adottare da Bondurant.» «Chi è già venuto qui?» «Un paio di agenti in uniforme. Li hanno mandati dopo il ritrovamento del corpo con la patente di Jillian vicino, tanto per controllare che non fosse qui, magari priva di sensi. Poi Sam, accompagnato da Elwood. Hanno interrogato i vicini, ma nessuno sapeva niente. Hanno preso l'agenda telefonica, le ricevute delle carte di credito, le bollette del telefono e qualche altra cosa, ma senza ricavarne niente di speciale. Bisogna dire che, se aveva l'abitudine di drogarsi, i tecnici della Scientifica avrebbero trovato qualcosa.» «Forse teneva tutto nella borsetta.» «Correndo il rischio di perdere la sua riserva per colpa di uno scippatore? Non credo. E poi questa casa è troppo pulita per essere quella di una drogata.» Al primo piano c'erano due camere da letto con bagno. La stanza di Jillian era ordinata in modo quasi inverosimile, come il resto della casa. Il letto matrimoniale era stato disfatto dai tecnici della Scientifica, che avevano portato le lenzuola in laboratorio per analizzarle in cerca di tracce di sangue o liquido seminale. Non c'erano abiti appesi alle sedie o gettati sul
pavimento, né cassetti socchiusi da cui sporgessero capi di biancheria, né pile di scarpe in disordine, niente che ricordasse a Liska la sua stanza, che lei non aveva mai tempo o voglia di pulire a fondo. Non c'erano foto del fidanzato infilate nella cornice dello specchio sopra il cassettone di quercia, e neanche foto di famigliari. Liska apri i cassetti dei comodini ai lati del letto. Né preservativi né diaframma. Un posacenere pulito e una bustina di fiammiferi del caffè D'Cup. Nella stanza non c'era nulla che fornisse qualche informazione personale sulla persona che la occupava, e questo suggerì a Liska due possibilità: o Jillian Bondurant era un caso terminale di repressione, oppure qualcuno aveva pulito accuratamente la casa dopo la sua scomparsa, facendo scomparire ogni traccia. Sigarette e odore di fumo, eppure tutti i posacenere della casa erano puliti. Vanlees aveva una chiave. Chi altri poteva aggiungere alla lista? Peter Bondurant. L'amica di Jillian dall'aria cattiva? L'assassino. Ora l'assassino aveva le chiavi di Jillian, il suo indirizzo, la sua auto, le sue carte di credito. Kovac aveva segnalato subito il numero delle carte, per ricostruire qualunque attività successiva alla scomparsa della ragazza, venerdì sera. Finora niente. Tutti i poliziotti dell'area metropolitana avevano ricevuto la descrizione e la targa della Saab rossa. Ancora niente. Il bagno della stanza padronale era pulito. Lilla e verde giada, con tanto di saponette decorative che non erano destinate all'uso. Lo shampoo sul ripiano della vasca era di Paul Mitchell, con un adesivo di un parrucchiere del centro commerciale di Dinkydale. Una possibile fonte di informazioni, se Jillian fosse stata il tipo da confessarsi con il parrucchiere. Nell'armadietto delle medicine e sotto il lavandino non c'era niente di interessante. La seconda camera da letto era più piccola, e anche lì il letto era stato disfatto dagli agenti. Nell'armadio erano appesi dei vestiti estivi, scacciati dalla stanza principale dal repentino arrivo di un altro rigido inverno del Minnesota. Nei cassetti del comò c'erano dei capi di biancheria scompagnati: alcune paia di mutandine nere, di seta, taglia quarantadue; un reggiseno di pizzo nero con l'etichetta di Frederick's di Hollywood, ormai logorato dai lavaggi, misura 34B; un paio di gambaletti neri di qualità scadente, con un buco sul tallone, taglia piccola. Quegli articoli non erano ordinatamente ripiegati e Liska ebbe l'impressione che non appartenessero a Jillian Bondurant. L'amica? Non erano sufficienti a indicare una permanenza stabile. Il fat-
to che la seconda stanza da letto fosse stata usata faceva scartare l'idea dell'amante. Liska tornò nell'altra stanza a controllare di nuovo i cassetti. «Hai trovato qualcosa?» le chiese Moss, entrando nella camera da letto. «Questo posto mi fa venire i brividi. O la ragazza era un caso clinico di maniaca dell'ordine, oppure dev'essere passata di qui una fauna domestica. Lei è scomparsa venerdì, quindi l'assassino ha avuto in mano le chiavi per due giorni buoni.» «Ma nessuno ha riferito di aver notato nei paraggi una persona sconosciuta o sospetta.» «Quindi forse l'assassino non era una persona sconosciuta o sospetta. Mi domando se non sia il caso di lasciare qui qualche agente a tenere d'occhio la casa per un paio di giorni», rifletté Liska. «Forse tornerà.» «È più probabile che sia già venuto e andato. Correrebbe un grosso rischio a tornare dopo il ritrovamento del corpo.» «Ha corso un grosso rischio anche ad appiccare il fuoco al cadavere nel parco.» Liska estrasse il cellulare dalla tasca del cappotto per chiamare Kovac, poi ascoltò spazientita gli squilli che rimanevano senza risposta. Alla fine si diede per vinta. «Sam deve averlo lasciato di nuovo in macchina. Quel telefono dovrebbe portarlo appeso al collo. Comunque hai ragione tu, probabilmente. Se Smokey Joe avesse dovuto per qualche motivo venire qui, lo avrebbe fatto dopo averla uccisa, ma prima che fosse scoperto il corpo. E, se ci è già stato, può darsi che a quest'ora stiano già controllando le sue impronte.» «Magari fossimo tanto fortunati.» «Nella seconda stanza da letto ho trovato dei vestiti che probabilmente appartengono a un'amica, più il nome del parrucchiere di Jillian e una bustina di fiammiferi di un caffè.» «D'Cup?» chiese Moss. «Ne ho trovata una anch'io.» Uscirono dalla casa, chiudendo la porta a chiave. Il vento che soffiava dal fiume portava con sé un odore di foglie marce e il frastuono metallico del traffico cittadino. Tornarono verso la loro auto, lamentandosi già dell'interminabile inverno che era appena cominciato. L'inverno nel Minnesota era sempre troppo lungo. Mentre uscivano in retromarcia dal parcheggio, Gil Vanlees rimase fermo a guardarle con un'espressione vacua, finché Liska non lo salutò con la mano.
«Perché non ci riproviamo, Angie?» disse con gentilezza il disegnatore della polizia. Si chiamava Oscar, e aveva una voce dolce e sciropposa come la salsa al caramello. Kate lo aveva visto ipnotizzare i testimoni con quella voce, ma Angie DiMarco non era tipo da lasciarsi ipnotizzare. Kate era rimasta alle spalle della ragazza, distante un paio di metri da lei, vicino alla porta, per evitare che la sua impazienza amplificasse il nervosismo di Angie, che si dimenava sulla sedia come una bambina nella sala d'aspetto del pediatra, infelice, irrequieta e ostile. Dava l'impressione di non aver dormito bene, anche se aveva approfittato dei servizi igienici del Phoenix per fare la doccia. I capelli castani le spiovevano ancora sulle spalle molli e dritti, ma almeno erano puliti. Indossava lo stesso giubbotto del giorno prima, con un maglione e i soliti jeans sporchi. «Voglio che tu chiuda gli occhi», le disse il disegnatore. «Tira un bel respiro profondo e poi lascialo uscire...» Angie sbuffò, spazientita. «... lentamente...» Kate doveva riconoscergli una pazienza infinita. Lei, personalmente, provava l'impulso irresistibile di prendere a schiaffi qualcuno, chiunque. D'altro canto Oscar non aveva avuto il piacere di andare a prendere Angie al Phoenix, dove Toni Urskine aveva sfogato ancora una volta su Kate la sua ira frustrata nei confronti del Crematore. Fortuna che amo questo lavoro, altrimenti lo odierei. «Tu sei nel parco, ma al sicuro», continuò Oscar in tono gentile. «Il pericolo è passato, Angie. Ora lui non può più farti del male. Apri la mente e guarda il suo viso. Guardalo bene, a lungo.» Kate si spostò lentamente, sedendosi a pochi passi dalla sua testimone. Intercettò lo sguardo fisso di Angie e si girò dalla parte opposta, scoprendo che anche Oscar la fissava, con gli occhi miti che scintillavano come onice levigato in un viso sommerso dai peli: barba e baffi, più una folta criniera di capelli sciolti sulle spalle robuste. «Se non guardi, non puoi vedere, Angie», l'ammonì. «Forse non voglio vedere», ribatté la ragazzina in tono di sfida. Oscar sembrava triste per lei. «Qui non può nuocerti, Angie. E non devi fare altro che guardarlo in faccia. Non devi guardare nella sua mente o nel suo cuore. Tutto quello che devi fare è guardarlo in faccia.» Nel suo lavoro, Oscar aveva aiutato innumerevoli testimoni, che temevano tutti le stesse cose: la vendetta del criminale, in un futuro imprecisa-
to, e l'angoscia più immediata di rivivere il delitto, più e più volte. Kate sapeva che il ricordo di un incubo poteva scatenare lo stesso stress psicologico di un evento reale. Per quanto il genere umano si fosse evoluto, la mente stentava ancora a distinguere fra realtà materiale e percezione della realtà. Il silenzio si protrasse. Oscar guardò Kate. «Angie, mi avevi detto che lo avresti fatto», le rammentò lei. «Be', forse ho cambiato idea. Voglio dire, che cosa ci guadagno?» «Una vita tranquilla e la soddisfazione di avere tolto dalla circolazione un assassino.» «No, dico sul serio», ribatté Angie, assumendo tutt'a un tratto un tono pratico. «Che cosa ci guadagno? Ho sentito dire che c'è una ricompensa. Tu non hai mai parlato di una ricompensa.» «Non ho avuto il tempo di accennartelo.» «Be', trovalo. Perché, se devo proprio farlo, voglio ricavarne qualcosa. Me lo merito.» «Questo resta da vedere», obiettò Kate. «Finora non ci hai dato un bel niente. Per quanto riguarda la ricompensa, controllerò. Nel frattempo, sei una testimone. Tu puoi aiutare noi, e noi possiamo aiutare te. Forse ritieni che la tua memoria non sia abbastanza buona. Se si tratta di questo, niente da dire. I poliziotti hanno montagne di album di foto segnaletiche. Magari puoi cercarlo lì.» «E magari posso andarmene.» Si alzò con tanta violenza che le gambe della sedia raschiarono il pavimento. Kate fu tentata di strozzarla. Ecco perché non voleva lavorare con gli adolescenti: aveva una soglia di tolleranza troppo bassa nei confronti del melodramma e delle stronzate. Osservò Angie, tentando di escogitare una strategia. Se lei avesse voluto andarsene sul serio, lo avrebbe fatto; nessuno le sbarrava la strada. Quello che voleva era fare una scenata e mettere tutti in ansia, in modo che la pregassero di restare. Per quanto riguardava Kate, non aveva la minima intenzione di pregarla: non si sognava nemmeno di partecipare a un gioco che non aveva la possibilità di controllare. D'altronde, se lei avesse chiesto di vedere le carte, per svelare il bluff, e Angie se ne fosse andata, sapeva che non avrebbe potuto fare altro che seguirla fuori della porta. Sabin avrebbe gettato la sua carriera nel tritarifiuti, se lei si fosse lasciata sfuggire la pupilla dei suoi occhi, l'unica testimone. Kate era già alla seconda carriera della sua vita. Quante altre poteva spera-
re di averne in sorte? Si alzò lentamente, appoggiandosi a braccia conserte allo stipite della porta. «Sai, Angie, devo pensare che ci fosse un preciso motivo quando ci hai detto di aver visto quell'uomo, all'inizio. Non eri tenuta a farlo. Non sapevi niente della ricompensa. Avresti potuto mentire e dirci che se n'era già andato quando tu avevi trovato il corpo. Come avremmo potuto sapere che non era così? Dobbiamo accettare la tua parola a proposito di quello che hai o non hai visto. Quindi basta con le stronzate, d'accordo? Non mi piace essere menata per il naso quando sono dalla tua parte. Ci sono soltanto io fra te e il procuratore della contea che vuole sbatterti in gattabuia e considerarti persona sospetta.» Angie serrò la mascella in un'espressione ostinata. «Non minacciarmi.» «Questa non è una minaccia. Cerco di essere leale con te, perché penso che sia quello che vuoi. A te non piace essere infinocchiata e raggirata più di quanto piaccia a me, e questo lo rispetto. Che ne diresti di ricambiare il favore?» La ragazzina si mordicchiò l'unghia del pollice, già consumata fino alla carne viva, facendo ricadere i capelli in modo da nascondere il viso, ma Kate si accorse che stava cercando di frenare le lacrime e provò un breve moto di simpatia. L'altalena emotiva di Angie l'avrebbe spinta a prendere un ansiolitico, prima o poi. «Mi devi considerare una vera piaga», disse infine Angie, con la bocca tumida increspata da un accenno di rammarico. «Sì, ma non lo considero un difetto imperdonabile o irreversibile. E so che hai le tue ragioni. Ma se non cerchi di realizzare un identikit dell'assassino avrai ben altro da temere», rispose Kate. «Ora come ora sei l'unica che sappia che aspetto ha. Sarebbe meglio se lo sapessero anche duecento poliziotti.» «Che cosa succede se non lo faccio?» «Non avrai la ricompensa. A parte questo, non so. Al momento sei una potenziale testimone. Se decidi che non è così, la questione non è più di mia competenza. Il procuratore potrebbe scegliere il gioco duro, oppure lasciarti andare. In un modo o nell'altro, mi taglierà fuori.» «Probabilmente ti farebbe un piacere.» «Non ho scelto questo lavoro perché pensavo che fosse semplice e piacevole. Non voglio che affronti tutto questo da sola, Angie. E credo che non lo voglia nemmeno tu.»
Sola. Quella parola fece venire la pelle d'oca ad Angie. Era come un vuoto costante, al centro del suo essere. Ricordò la sensazione che ingigantiva dentro di lei, come la sera prima, respingendo la sua coscienza in un angolino sempre più piccolo della mente. Era quello che più temeva al mondo, e anche oltre. Più del dolore fisico. Più di un assassino. Ti lasceremo sola. Che ne dici, ti piacerebbe, mocciosa? Potresti restare sola per sempre. Resta lì seduta e pensaci, forse non torneremo più. Fremette al ricordo della porta che si chiudeva, delle tenebre dentro l'armadio, del senso di solitudine che la inghiottiva. Lo sentiva salire dentro di sé come uno spettro nero, serrandole la gola come una mano invisibile, e provò l'impulso di piangere, ma sapeva di non poterlo fare. Non lì. Non in quel momento. Il cuore cominciò a batterle sempre più forte e più veloce. «Avanti, ragazzina», le disse Kate con gentilezza, accennando a Oscar. «Provaci. Non si può dire che tu abbia di meglio da fare. Ora vado a telefonare per informarmi di quella ricompensa.» La storia della mia vita, pensò Angie. Fa' quello che voglio, altrimenti ti lascio. Fa ' quello che voglio, altrimenti ti faccio male. Scelte che non erano scelte. «D'accordo», mormorò, tornando a sedersi per dare le indicazioni necessarie a tracciare un ritratto del male. 11 L'edificio che ospitava lo studio del dottor Lucas Brandt, altri due psicoterapeuti e due psichiatri, era una bella casa di mattoni in stile georgiano. Probabilmente i pazienti che lo frequentavano avevano l'impressione di andare a prendere il tè delle cinque, anziché a svelare i propri segreti più intimi, sciorinando la biancheria sporca della loro psiche. Lo studio di Lucas Brandt era al primo piano. Quinn e Kovac furono lasciati ad attendere dieci minuti nel corridoio mentre lui concludeva la seduta con un paziente. Nell'aria aleggiava, sommessa come un sussurro, la musica del Terzo concerto brandeburghese di Bach. Mentre Quinn ammirava il panorama dei laghi dalla finestra palladiana, Kovac camminava su e giù, esaminando i mobili. «Pezzi d'antiquariato autentici. Che classe. Come mai i pazzi ricchi sono tanto raffinati, mentre quelli che mi tocca sbattere in galera vogliono pisciarmi sulle scarpe?» «È tutto un problema di repressione.»
«Cosa?» «Le qualità sociali nascono e si consolidano con la repressione. Anche i pazzi ricchi vorrebbero pisciarle sulle scarpe», aggiunse Quinn sorridendo, «ma le buone maniere glielo impediscono.» Kovac ridacchiò. «Lei mi è simpatico, Quinn. Dovrò trovarle un soprannome.» Lo squadrò, osservando il completo dal taglio perfetto, e dopo un attimo di riflessione annuì. «GQ. Sì, mi piace. GQ, come la rivista. G come G-man, e Q come Quinn.» Sembrava enormemente compiaciuto. «Sì, mi piace.» Non chiese a Quinn che cosa ne pensasse lui. La porta dello studio di Brandt si aprì e la segretaria li invitò a entrare. Il paziente, se ce n'era stato davvero uno, doveva essere uscito dalla porta della seconda stanza. Vedendoli, Lucas si alzò, e Kovac fu assalito dalla sgradevole certezza di conoscerlo. Brandt. Quel nome aveva fatto scattare un campanello nella sua mente, ma non aveva collegato il Brandt del suo ricordo all'autore di Nevrosi dei personaggi ricchi e famosi. Durante le presentazioni, si aspettava che anche l'altro lo riconoscesse, ma non fu così, il che contribuì ad acuire il suo malumore. L'espressione di Brandt era seria, intonata alle circostanze. Biondo e attraente, con il naso aquilino e gli occhi azzurri, era di statura media e portava una camicia azzurra stirata in modo impeccabile e completata da una cravatta di seta alla moda. Dall'attaccapanni nell'angolo pendeva una giacca grigio acciaio. Kovac lisciò con la mano la sua cravatta di J.C. Penney. «Dottor Brandt, l'ho già vista in tribunale.» «Sì, è probabile. Psicologia forense... un'attività collaterale che ho coltivato agli inizi della mia carriera», spiegò, rivolto a Quinn. «A quell'epoca avevo bisogno di denaro», confessò con un sorrisetto complice, alludendo in modo scherzoso al fatto che ora non ne aveva più bisogno. «Ho scoperto che quel lavoro mi piaceva e così ho continuato. Rappresenta un buon diversivo dalla pratica di tutti i giorni. Anzi, proprio questo pomeriggio devo presentarmi in aula», aggiunse. «E prima ho un appuntamento per il pranzo. Quindi, anche se detesto sembrare scortese, signori, possiamo venire al punto?» «Si tratta solo di qualche rapida domanda», disse Kovac, prendendo in mano il piccolo rastrello di legno che completava il giardino zen sul mobile vicino alla finestra e spostando lo sguardo dal rastrellino alla cassetta di sabbia, come se pensasse che serviva a pulire la lettiera di un gatto. «Voi sapete che non posso darvi un grande aiuto per le indagini. Jillian
era una mia paziente e ho le mani legate dal segreto professionale.» «La sua paziente è morta», disse brusco Kovac. Prese dalla sabbia una pietra nera e liscia, appoggiandosi con le spalle al mobile mentre rigirava il sasso fra le dita. Un uomo che si mette a suo agio, senza fretta. «Non credo che le esigenze di privacy siano le stesse di prima.» Brandt sembrava quasi divertito. «A quanto pare, lei non riesce a decidersi, detective. Jillian è morta o no? A Peter ha dato a intendere che potrebbe essere ancora viva. Ma, se è viva, ha ancora diritto alla sua privacy.» «Vi sono forti probabilità che il cadavere trovato sia quello di Jillian Bondurant, ma questa non è una certezza», disse Quinn, intervenendo nella conversazione in tono diplomatico. «In ogni caso, la nostra è una lotta contro il tempo, dottor Brandt. L'assassino colpirà ancora, questo è certo. E non credo che ci farà attendere molto. Più riusciamo a scoprire sul conto delle sue vittime, più ci avvicineremo a lui per fermarlo.» «Conosco le sue teorie, agente Quinn, e ho letto alcuni dei suoi articoli. Anzi, credo di avere nella libreria il manuale al quale lei ha collaborato. Molto ricco di intuizioni. Conosci la vittima e conoscerai l'assassino.» «Non si tratta solo di questo. Le prime due vittime erano persone ad alto rischio, mentre Jillian non sembra rientrare nello schema.» Brandt si sedette sull'orlo della scrivania. «Sì, capisco, la deviazione dallo schema. Questo ne fa il perno logico del rompicapo. Lei crede che uccidendo Jillian, l'assassino abbia detto di sé più che uccidendo le altre due. Ma se quella povera ragazza si fosse soltanto trovata al posto sbagliato nel momento sbagliato? Se lui non avesse scelto le prime due perché erano prostitute? Forse la scelta delle vittime è legata unicamente alla situazione.» «No», rispose Quinn, osservando la curiosa scintilla di sfida che brillava negli occhi di Brandt. «Nel repertorio di questo individuo non ci sono elementi casuali. Ha scelto ognuna di queste donne per una ragione ben precisa, solo che nel caso di Jillian questa ragione dovrebbe essere più evidente. Da quanto tempo l'aveva in cura?» «Due anni.» «E com'era arrivata da lei? Per consiglio di qualcuno?» «Grazie al golf. Peter e io siamo soci del circolo di Minikahda. Un posto eccellente per stabilire contatti», confessò con un sorriso. «Peccato che la stagione sia finita.» «Già», commentò Kovac con voce strascicata, «a pensarci bene, è dav-
vero seccante che il killer si sia messo al lavoro in novembre.» Brandt gli scoccò un'occhiata pungente. «Non è quello che intendevo, detective. Comunque, visto che mi ci fa pensare, è un peccato che non lo abbiate arrestato quest'estate. Ora non dovremmo sostenere questa conversazione. «Comunque», riprese, tornando a rivolgersi a Quinn, «conosco Peter da anni.» «Non mi è sembrato un tipo molto mondano.» «E infatti non lo è. Il golf per lui è una faccenda seria. Per Peter, tutto è serio. È un uomo fortemente motivato.» «E questo che riflessi aveva sui rapporti con Jillian?» «Ah!» Brandt alzò un dito e scosse la testa, pur continuando a sorridere. «Questo oltrepassa i limiti, agente Quinn.» Lui ne prese atto con un cenno del capo. «Quando è stata l'ultima volta in cui ha parlato con Jillian?» domandò Kovac. «Abbiamo avuto una seduta venerdì. Tutti i venerdì alle quattro.» «E poi andava a cena dal padre?» «Sì. Peter e Jillian lavoravano con molto impegno per migliorare il loro rapporto. Erano rimasti separati a lungo, avevano molte emozioni da elaborare riguardo al passato.» «Per esempio?» Brandt si limitò a fissarlo. «E va bene. Che ne dice di un parere generico, diciamo, sulle origini dei problemi di Jillian? Ci esponga le sue impressioni.» «Mi spiace, no.» Kovac si lasciò sfuggire un lieve sospiro. «Senta, può rispondere ad alcune semplici domande senza violare la fiducia di nessuno. Per esempio, se prendeva dei farmaci o no. Abbiamo bisogno di saperlo per gli esami tossicologici.» «Prozac, per cercare di controllare gli sbalzi di umore.» «Sindrome maniaco-depressiva?» chiese Quinn. Il medico lo guardò senza rispondere. «Aveva problemi di droga, che lei sappia?» tentò Kovac. «No comment.» «Aveva problemi sessuali?» Nessuna risposta. «Ha mai parlato di abusi?»
Silenzio. Kovac sentiva che la sua calma cominciava a sgretolarsi come un vecchio tappo di sughero. «Lei conosce questa ragazza da due anni. Conosce suo padre. Lui la considera un amico. Potrebbe fornirci qualche orientamento sull'omicidio. E invece ci fa perdere tempo con questo giochetto: acqua, fuoco, fuochino...» Quinn si schiarì la gola con discrezione. «Lei conosce le regole, Sam.» «Be', al diavolo le regole!» ruggì Kovac, facendo cadere dal tavolino un libro di fotografie di Mapplethorpe. «Se fossi un avvocato difensore che sventola un rotolo di banconote, scommetto che una scappatoia riuscirebbe a trovarla.» «Mi ritengo offeso, detective.» «Oh, mi spiace tanto di aver offeso i suoi sentimenti. Dottore, questa ragazza è stata torturata. Qualcuno le ha tagliato la testa per tenersela come ricordo. Se avessi conosciuto questa ragazza, penso che ci terrei a sapere chi è stato a farle questo. E se potessi contribuire alla cattura di quel bastardo maniaco, lo farei, mentre lei si preoccupa della sua posizione sociale, invece di pensare a Jillian Bondurant. Mi domando se il padre se ne rende conto.» Sentendo trillare il cercapersone, scoppiò in una risata aspra. «Ma che dico? Peter Bondurant non vuole nemmeno credere che sua figlia possa essere ancora viva. Probabilmente voi due siete degni l'uno dell'altro.» Il cercapersone suonò di nuovo e lui imprecò, leggendo il display. Poi uscì dallo studio, lasciando a Quinn il compito di rimettere insieme i cocci. Brandt riuscì a mostrarsi divertito dallo sfogo di Kovac. «Devo dire che ha fatto presto. In genere il poliziotto medio impiega un po' di più a perdere la calma con me.» «Il sergente Kovac è sotto pressione per via di questi delitti», replicò Quinn, avvicinandosi al mobile con il giardino zen. «Le chiedo scusa per il suo comportamento.» Le pietre nella cassetta erano state disposte in modo da formare una X, con la sabbia rastrellata intorno in forme sinuose. Gli balenarono alla mente le lacerazioni sui piedi della vittima - una doppia X - e le pugnalate sul petto: due X che s'intersecavano. «Questo schema ha qualche significato?» domandò in tono distratto. «Non per me», rispose Brandt. «Sono i miei pazienti a giocarci. Ho scoperto che ne calma alcuni, incoraggiando il fluire del pensiero e della comunicazione.
«Non deve scusarsi per Kovac», continuò, chinandosi a raccogliere il libro di Mapplethorpe. «Ho molta esperienza di rapporti con la polizia. Per loro è tutto semplice: o bianco o nero. A quanto sembra, non si rendono conto che a volte trovo anch'io frustranti i limiti imposti dall'etica professionale, ma d'altronde sono quelli che sono. Lei mi capisce.» «Io capisco la sua posizione, ma spero che lei comprenda la mia», replicò Quinn, con molta cautela. «Non sono un poliziotto. Per quanto il nostro fine ultimo sia lo stesso, il sergente Kovac e io abbiamo priorità diverse. Il mio profilo non richiede necessariamente prove ammissibili in aula. Io cerco impressioni, sensazioni, reazioni istintive, dettagli che altri giudicherebbero insignificanti. Sam cerca un coltello insanguinato con le impronte digitali. Capisce ciò che intendo?» Brandt annuì lentamente, senza staccare gli occhi da Quinn. «Sì, credo di sì. Dovrò rifletterci. Ma nello stesso tempo lei deve tenere conto del fatto che i problemi che hanno portato Jillian da me potrebbero non avere nulla a che vedere con la sua morte. È possibile che l'assassino non sapesse niente di lei.» «Ed è anche possibile che sapesse quell'unica cosa che ha fatto scattare il suo impulso omicida», ribatté Quinn. Estrasse un biglietto da visita da un astuccio sottile che teneva nel taschino della giacca, porgendolo poi a Brandt. «Questo è il numero della mia linea diretta nell'ufficio del Bureau qui in città. Spero di avere sue notizie.» Brandt mise da parte il biglietto per stringergli la mano. «Anche tenuto il debito conto delle circostanze, è stato un piacere conoscerla. Devo ammettere che sono stato io a suggerire il suo nome a Peter, quando mi ha detto che voleva telefonare al suo direttore.» «Non sono troppo sicuro di essergliene grato, dottor Brandt.» Uscì dall'ufficio passando attraverso la sala d'aspetto. Si chiedeva come doveva sentirsi Jillian a venire in quel posto, a confidarsi con uno dei tirapiedi del padre. Era stata una sua scelta, o una condizione per ottenere l'aiuto di Peter? Era venuta ogni settimana per due anni, e soltanto Dio e Lucas Brandt sapevano perché. Più Bondurant, molto probabilmente. Kovac lo aspettava nel salottino al pianterreno, fissando perplesso un quadro astratto con una donna che aveva tre occhi e i seni che spuntavano ai lati della testa. «Cristo, è più brutta della madre della mia seconda moglie! Pensa che l'abbiano appeso qui per confondere ancora un po' le idee ai matti che entrano ed escono?»
«Quello è un test di Rorschach», ribatté Quinn. «Serve a scartare chi pensa di vedere una donna con tre occhi e i seni che spuntano ai lati della testa.» Kovac si accigliò, lanciando un'altra occhiata al quadro, prima di uscire. «Basta una telefonata di Brandt, e mi ritrovo con il sedere per terra», brontolò scendendo i gradini dell'ingresso. «Mi pare quasi di sentire il tenente: 'Che diavolo avevi in testa, Kovac?' Cristo, probabilmente Brandt aizzerà contro di me anche il capo della polizia. Greer salirà su una scala, mi staccherà la testa e si sporgerà a gridare nel buco: 'Che diavolo avevi in testa, Kovac? Trenta giorni senza paga!'» Scosse il capo. «Che diavolo mi è venuto in mente? «Non lo so. Perché ho perso così le staffe? «Perché odio quel tizio, ecco perché.» «Davvero? Io credevo che stessimo giocando a poliziotto buono, poliziotto cattivo.» Kovac lo fissò al di sopra del tettuccio della Caprice. «Non sono così bravo come attore. Le sembro Harrison Ford?» «Be', forse, senza baffi...» Salirono in macchina, e la risata di Kovac si spense, mentre lui scuoteva la testa. «Non so proprio che cosa ci sia da ridere. Non mi capita spesso di perdere la calma a quel modo. Brandt mi fa vedere rosso, tutto qui. Mi prenderei a calci perché non ho collegato il nome finché non me lo sono trovato davanti. È solo che non me l'aspettavo...» «Lo ha conosciuto in aula?» chiese Quinn. «Sì. Otto o nove anni fa, testimoniò per la difesa in un caso di omicidio al quale avevo lavorato. Carl Borchard, diciannove anni, aveva ucciso la sua ragazza, strangolandola, perché lei aveva deciso di lasciarlo. E Brandt se ne arriva con la storia lacrimevole che la madre di Borchard lo aveva abbandonato e lo choc gli aveva fatto perdere il controllo. Spiega alla giuria che dovremmo compatire Carl, perché non intendeva fare quello che ha fatto ed è tanto pentito. Non è un vero assassino. È stato un delitto passionale. Lui non è un pericolo per la società, e tante belle storie.» «E non era così?» «Carl Borchard era un piccolo stronzo piagnucoloso e antisociale con una sfilza di precedenti che la pubblica accusa non aveva avuto il permesso di produrre in aula. Aveva alle spalle una lunga serie di aggressioni ai danni di donne. Brandt lo sapeva quanto noi, ma non era sul nostro libro paga.»
«Borchard fu assolto.» «Fu ritenuto colpevole di omicidio colposo. Era la prima condanna dopo la maggiore età, perciò, fra riduzioni di pena, detenzione precedente e così via, fece solo una capatina in carcere, dopodiché lo mandarono in un istituto di riabilitazione. Mentre era lì, violentò una donna del quartiere e le spaccò la testa con un martello. Grazie tante, dottor Brandt.» Quinn assimilò quelle informazioni in silenzio. La sensazione che si stesse lasciando coinvolgere troppo da quel caso tornò a farsi sentire. Lui non voleva sapere niente sul conto di Lucas Brandt; voleva soltanto ottenere da lui gli indizi che poteva dargli. Avrebbe voluto rinchiudersi nell'ufficio che gli era stato assegnato in centro, nell'edificio di Washington Avenue. Ma era destino che le cose non andassero così. «Io so qualcos'altro sul conto del suo dottor Brandt», disse a Kovac, mentre metteva in moto. «Che cosa?» «Ha assistito alla conferenza stampa di ieri, in fondo alla sala.» «Eccolo.» Kovac premette il tasto del fermo immagine sul telecomando e il videoregistratore bloccò il nastro. Brandt era lì, di fianco al settore della stampa, in mezzo a un gruppo di persone in abito scuro. Un muscolo alla base del diaframma di Kovac si contrasse come un pugno. Rimise in moto l'apparecchio e guardò lo psicologo mentre chinava la testa per dire qualcosa all'uomo che gli stava vicino. Fermò di nuovo l'immagine. «Chi è quello?» Yurek piegò la testa di lato per vedere meglio. «Kellerman, il difensore d'ufficio.» «Ah, sì, il Verme. Contattalo. Verifica se Brandt e lui erano insieme», ordinò Kovac. «Scopri se Brandt aveva un motivo legittimo per essere presente.» Adler lo guardò, interdetto. «Lo consideri un sospetto?» «Lo considero un bastardo.» «Se questo fosse contro la legge, le carceri sarebbero piene di avvocati.» «Stamattina mi ha menato per il naso», si lamentò Kovac. «Lui e Bondurant sono troppo pappa e ciccia, e anche Bondurant ci sta menando per il naso.» «Ma è il padre della vittima», gli fece notare Adler. «Il ricco padre della vittima», aggiunse Tippen.
«Il ricco e potente padre della vittima», rammentò a tutti Yurek, l'addetto alle pubbliche relazioni. Kovac lo squadrò. «È oggetto di un'indagine su un caso di omicidio. Devo condurre questa indagine come tutte le altre, il che significa che controlleremo tutti. Si passano sempre al microscopio i famigliari. Voglio tenere un po' sotto pressione Brandt, fargli capire che non siamo soltanto un branco di cani ammaestrati che Peter Bondurant può far saltare a comando.» «Sento odore di guai, Kojak», replicò Yurek. «Questo è un caso di omicidio, bello. Vuoi chiedere consiglio alla posta del cuore?» «Voglio uscirne con la carriera intatta.» «Il tuo mestiere è indagare, e Brandt era in contatto con Jillian Bondurant. L'ha vista venerdì. La vedeva tutti i venerdì. Sa tutto quello che ci occorre sapere sul conto di questa vittima. Se ci nasconde delle informazioni, abbiamo il diritto di spremerlo un po'. «E poi c'è Bondurant», continuò Kovac, suscitando un altro coro di gemiti. «Non vuole parlare con noi, e questo non mi va giù. Ha detto a Quinn che era preoccupato per la sua privacy. Non capisco proprio perché», aggiunse con un sorriso malizioso, tirando fuori dalla tasca il miniregistratore. I cinque membri della task force che erano presenti si affollarono intorno a lui per ascoltare il nastro. Liska e Moss erano ancora fuori, a indagare il passato della vittima, mentre i federali erano tornati all'ufficio dell'FBI. Walsh era impegnato a controllare la lista fornita dal VICAP di delitti simili commessi in altre parti della nazione. Doveva chiamare gli agenti responsabili degli altri uffici locali e rivolgersi ai contatti che aveva in varie agenzie affiliate al programma dell'Accademia dell'FBI, che offriva corsi di addestramento professionale ai tutori della legge esterni al Bureau. Quinn, dal canto suo, si era chiuso in ufficio per lavorare al profilo di Smokey Joe. Il nastro finì e il registratore si spense con uno forte scatto. Kovac scrutò uno dopo l'altro i componenti della squadra. Facce di sbirri, indurite da uno scetticismo innato e attentamente coltivato. «Quel ragazzo bianco nasconde qualcosa», sentenziò infine Adler. «Non so se c'entri con il delitto», convenne Kovac. «Ma direi che ci nasconde senz'altro qualcosa a proposito di venerdì sera. Voglio ricontrollare i vicini e parlare con la governante.»
«Quella sera non era in casa», gli fece notare Elwood. «Non importa. Conosceva la ragazza e conosce il suo datore di lavoro.» Yurek gemette, prendendosi la testa fra le mani. «Che problema c'è, bello?» gli disse Tippen. «Devi solo dichiarare ai giornalisti che per ora non abbiamo commenti da fare.» «Sì, sulle reti nazionali. I grossi nomi hanno fiutato la pista e sono arrivati di corsa. Quelli della TV mi telefonano in continuazione. Già da sé Bondurant fa notizia, ma Bondurant più un cadavere decapitato e carbonizzato che potrebbe essere quello di sua figlia è roba da costruirci su programmi in prima serata e far salire gli ascolti alle stelle. Se punti troppo in direzione di Peter Bondurant e la stampa mangia la foglia, quello ci fa saltare, te lo dico io. Sprofonderemo in un mare di querele e sospensioni.» «A Bondurant e Brandt ci penso io», disse Kovac, sapendo che avrebbe dovuto fare molto meglio di quella mattina. «Ne subirò io le conseguenze, ma mi serve qualcuno che verifichi la situazione generale, parlando con i loro amici, conoscenti e così via. Chunk, tu e Hamill potreste controllare la Paragon? Per esempio avvicinando i dipendenti insoddisfatti?» «Abbiamo già un appuntamento: ci aspettano fra mezz'ora.» «Non potremmo cercare qualcuno che ha conosciuto la ragazza in Francia?» suggerì Tippen. «Magari i federali potrebbero scovare qualcosa laggiù, aiutarci a scavare nel suo passato. La ragazza era sconvolta per qualche ragione. Forse un'amica può sapere se questa ragione ha un nome.» «Chiama Walsh e vedi che cosa può fare. Chiedigli se ha notizie di quei dati clinici. Elwood, hai saputo qualcosa dal Wisconsin su quella patente che la nostra testimone si porta dietro?» «Nessuna denuncia di scomparsa, nessun mandato di arresto. Ho chiamato l'ufficio informazioni per chiedere il numero telefonico, ma non ne ha. Mi sono messo in contatto con l'ufficio postale: mi hanno riferito che si è trasferita senza lasciare un recapito. A questo punto sono fuori gioco.» «Ci ha fornito un identikit?» chiese Yurek. «Questa mattina Kate Conlan l'ha portata a lavorare con Oscar», rispose Kovac, alzandosi. «Ora vado a vedere i risultati. Non ci resta che pregare Dio che abbia una memoria da Polaroid. Uno spiraglio in questo senso ci salverebbe tutti, ora.» «Mi serviranno al più presto le copie per la stampa», disse Yurek. «Te le farò avere. A che ora devi presentarti per la puntata di I criminali più ricercati d'America?» «Alle cinque.»
Kovac controllò l'orologio. Il tempo scorreva a rotta di collo e ancora non avevano in mano granché. Era quello il problema di far decollare un'indagine così complessa: il tempo era essenziale. Tutti i poliziotti sapevano che, trascorse le prime quarantotto ore, le probabilità di risolvere un caso diminuivano in modo drastico. D'altronde la mole di informazioni che si dovevano raccogliere, confrontare, interpretare e tradurre in azione all'inizio di un'indagine su un caso di omicidio plurimo era impressionante, e a volte proprio il tassello che veniva ignorato si rivelava la chiave per risolvere il mistero. Il suo cercapersone trillò. Il display indicava il numero del tenente. «Chi può, torni qui per la riunione alle quattro», esclamò, prendendo il cappotto dallo schienale della sedia. «Se siete fuori, chiamatemi sul cellulare per fare rapporto. Io devo andare.» «Non mi è sembrata molto sicura di sé, Sam», disse Oscar, guidandolo verso un tavolo inclinato da disegnatore in un ufficio angusto e ingombro di cianfrusaglie. «Ho cercato di aiutarla a orientarsi con la massima delicatezza possibile, ma opponeva resistenza.» «Nel senso che mentiva o nel senso che aveva paura?» «Aveva paura. E, come sai, la paura può scatenare la prevaricazione.» «Hai consultato di nuovo il dizionario, vero, Oscar?» Un sorriso beato fece capolino nella foresta di peli che copriva il viso del disegnatore. «L'istruzione è la sorgente che disseta l'anima.» «Sì, e tu ci annegherai», esclamò Kovac spazientito. «Allora, vediamo il capolavoro.» «Lo considero un'opera ancora incompiuta.» Sollevò il foglio protettivo opaco, scoprendo lo schizzo a matita promesso agli abitanti delle Città Gemelle dai massimi funzionari cittadini, elettivi e non. Il sospetto indossava una giacca imbottita di colore scuro - che nascondeva la taglia - sopra una felpa con il cappuccio alzato che non lasciava vedere il colore dei capelli. Un paio di occhiali da aviatore oscurava la forma degli occhi. Il naso era anonimo, il viso di medie dimensioni. La bocca era nascosta in parte dai baffi. Kovac si sentì salire lo stomaco in gola. «Ma questo sembra Unabomber!» scattò, girandosi verso Oscar. «Che diavolo dovrei farmene?» «Via, Sam, ti avevo detto che era un'opera incompiuta.» «Ma porta gli occhiali da sole! Cazzo, era mezzanotte, e lei gli mette degli occhiali da sole!» sbraitò Sam. «Maledizione, potrebbe essere chiun-
que! Potrei essere io, Cristo santo!» «Spero di poter lavorare ancora un po' con Angie», disse il disegnatore, per nulla scosso dall'ira di Kovac. «Lei non è convinta di ricordare i dettagli, ma io credo di sì. Deve soltanto rilassarsi, e la chiarezza trionferà. Prima o poi.» «Io non ho un poi, Oscar! Ho una dannata conferenza stampa alle cinque!» Sbuffando, girò in tondo nello stanzino del disegnatore. Cristo, gli sembrava di essere Sabin, che pretendeva le prove all'istante. Si era ripetuto per tutto il giorno che non doveva fare affidamento su quella ladruncola bugiarda che doveva considerare una testimone, ma sotto la corazza di cinismo in lui resisteva ancora un ottimista. Incredibile! «Ora sto lavorando a una versione senza baffi», gli disse Oscar. «Aveva qualche dubbio sui baffi.» «Come può avere dei dubbi sui baffi? O li aveva, oppure no, cazzo! Non lo distribuirò subito, tutto qui», aggiunse poi, rivolto soprattutto a se stesso. «Tireremo in lungo, e domani riporteremo qui la ragazza per cercare di ottenere maggiori dettagli.» Con la coda dell'occhio, vide Oscar accasciarsi leggermente e interruppe il suo andirivieni per guardarlo dritto negli occhi. «Possiamo farlo, non è vero, Oscar?» «Sarò lieto di lavorare di nuovo con Angie, domani. Non chiedo altro che aiutarla a sbloccare il flusso dei ricordi. Affrontare la memoria è il primo passo per neutralizzarne il potere negativo. Quanto al resto, dovrai parlarne con Greer. Il capo è venuto qui un'ora fa a ritirarne una copia.» «Sam, lo ha visto in faccia per due minuti alla luce di un cadavere in fiamme», protestò Kate, precedendolo all'interno del suo ufficio. «Ha visto in faccia un assassino in piena luce. Andiamo, testa rossa, non credi che i dettagli dovrebbero essere impressi a fuoco, per così dire, nella sua memoria?» «Credo che la sua memoria registrerebbe un netto miglioramento se noi proponessimo una piccola ricompensa in contanti», replicò in tono asciutto. «Cosa?» «Ha saputo della somma offerta da Bondurant e ne vuole una parte. Puoi biasimarla, Sam? La ragazza non ha nessuno. Vive per strada, facendo Dio sa che cosa per sopravvivere.» «Le hai spiegato che la ricompensa è vincolata alla condanna? Non pos-
siamo condannare qualcuno che non abbiamo ancora arrestato e non possiamo arrestare nessuno se non abbiamo almeno un'idea del suo aspetto!» «Lo so. Non devi fare la predica a me, sai? E neppure ad Angie, ti avverto. È arrivata al limite, Sam. Potremmo perderla, in senso figurato e letterale. Se pensi che ora la tua vita sia un inferno, pensa che cosa potrebbe succedere se la tua unica testimone se la svignasse.» «Che stai dicendo? Secondo te, dovremmo metterle qualcuno alle calcagna?» «Qualcuno che non sia riconoscibile, che sia discreto e si tenga a distanza. Se metti un agente in uniforme sul marciapiede davanti a Phoenix House, non farai che peggiorare le cose. Lei pensa già che la trattiamo come una criminale.» «Fantastico. E che altro vorrebbe, sua altezza?» «Non te la prendere con me. Sono dalla tua parte. E smettila di andare su e giù, ti verranno le vertigini. In ogni caso, le fai venire a me.» Kovac espirò a fondo, appoggiandosi con la schiena alla parete di fronte a Kate. «Sapevi che cosa potevi aspettarti da questa ragazza, Sam. Come mai ne sei tanto sorpreso?» «Ho un brutto presentimento, Kate», ammise Kovac. «Il fatto è che ho bisogno di qualcosa per mettere in moto l'indagine, altrimenti dovrò andare a ripulire qualche pozzo nero. Mi cullavo nella speranza di poterne fare a meno, credo.» «Lascia in sospeso l'identikit per un giorno. Domani la metterò di nuovo al lavoro. Vedrò se Oscar riesce a esercitare i suoi poteri magici per tirarne fuori qualcosa.» «Non credo di poterlo fare. Il grande capo ha messo le mani sul disegno prima di me. Vorrà presentarlo personalmente alla conferenza stampa. «Dannati papaveri», brontolò. «In un caso come questo sono peggio dei bambini. Tutti vogliono prendersi il merito, tutti smaniano affinché la loro faccia appaia in televisione, tutti cercano di darsi arie d'importanza... come se avessero qualcosa a che fare con le indagini, a parte intralciare il lavoro dei poliziotti veri.» «È proprio questo che ti brucia, Sam», gli fece notare Kate. «Non è la faccenda dell'identikit, ma la tua resistenza naturale a lavorare sotto la supervisione di altri. Qual è la cosa peggiore che potrebbe accadere, se l'identikit viene diffuso senza che sia del tutto esatto?» «Non lo so, Kate. Questo tizio arrostisce le donne e le decapita. Qual è la
cosa peggiore che potrebbe accadere?» «L'assassino non se la prenderà a male», rifletté Kate. «È più probabile che si diverta, che pensi di avervi battuti di nuovo in astuzia.» «E allora si sentirà ancora più invincibile e ne farà fuori un'altra! Magnifico!» «Non essere così pessimista. Puoi sfruttare questo elemento a tuo vantaggio. Chiedi consiglio a Quinn. Inoltre, se il disegno è preciso almeno in parte, potresti ottenere qualche risultato. Sai bene quanto me che la fortuna gioca un ruolo essenziale in un'indagine come questa.» «Certo», ammise Kovac, allontanandosi a malincuore dalla parete. «E ora dov'è la nostra beniamina?» «L'ho fatta accompagnare al Phoenix. Non ne è troppa entusiasta.» «Che disdetta!» «A chi lo dici», ribatté Kate. «Vuole una camera d'albergo o un appartamento o qualcosa del genere. Io invece voglio che stia in compagnia. L'isolamento non servirà a farla parlare di più. Inoltre vorrei che qualcuno la tenesse d'occhio. Avete esaminato lo zainetto che si porta sempre dietro?» «Lo ha controllato Liska. Angie era molto agitata, ma non possiamo dimenticare che si è allontanata di corsa da un corpo senza testa. Bisognava escludere il rischio che le venisse una crisi di pazzia e ci accoltellasse. Avrebbe dovuto pensarci l'agente in divisa che l'ha fermata, ma era sconvolto all'idea che Smokey Joe fosse nei paraggi.» «Nikki ha trovato qualcosa?» Lui si morse le labbra e scosse la testa. «A che cosa pensavi? Droga?» «Non so. Forse Il suo comportamento è estremamente instabile. Ogni tanto mi pare che in lei ci sia qualcosa che non va, poi mi dico: Santo cielo, pensa a quello che ha passato. Forse, tutto considerato, è un tipo piuttosto quadrato e lucido.» «O forse ha bisogno di una dose», rifletté Kovac, avviandosi verso la porta. «Forse è proprio questo che stava facendo in quel parco a mezzanotte. Sentirò alcuni uomini della Narcotici. Cercherò di appurare se la conoscono. Non abbiamo ancora nessun elemento su di lei. Dal Wisconsin non abbiamo ottenuto niente.» «Io ho parlato con Susan Frye, della sezione minorile», disse Kate. «È una vita che lavora in questo campo e ha una grande rete di informatori. Rob sta controllando i suoi contatti nel Wisconsin. Nel frattempo Angie ha bisogno di un incoraggiamento. Una piccola dimostrazione di apprezzamento. Non potresti versarle una piccola somma dal fondo destinato agli
informatori?» «Vedrò che cosa si può fare.» Un altro problema da aggiungere a una lista già lunga. Povero diavolo, pensò Kate. Quel giorno le rughe sul suo viso sembravano più profonde del solito. «Ascolta, lascia perdere», gli disse, mentre stava per uscire. «I soldi posso farli sganciare al tuo tenente. Tu hai ben altro da fare.» 12 Il traffico lo irrita. Imbocca la Trentacinquesima Ovest in direzione sud per uscire dal centro cittadino risparmiandosi i semafori e le noiose svolte a destra e a sinistra del percorso alternativo. Le continue soste lo esasperano al punto che gli viene voglia di abbandonare la macchina e proseguire a piedi sul ciglio della strada, trascinando fuori dalle vetture qualche automobilista scelto a caso e sfondandogli il cranio con un cric. Lo diverte l'idea che probabilmente anche altri accarezzano la stessa fantasia, senza immaginare che l'uomo a bordo della berlina scura dietro di loro, accanto a loro, davanti a loro, potrebbe metterla in pratica senza battere ciglio. «Probabilmente il fattore essenziale nello sviluppo di uno stupratore o di un assassino seriale è il ruolo svolto dalla fantasia», così dice John Douglas in Mindhunter. Simili fantasie non lo hanno mai turbato, né da bambino, quando si chiedeva quale effetto gli avrebbe fatto veder morire una creatura viva, che cosa avrebbe provato a stringere fra le mani la gola di un gatto o del bambino che viveva un isolato più in là ed esercitare il potere di vita o di morte in senso letterale; né da adolescente, quando fantasticava di tagliare i capezzoli alla madre, o di strapparle la laringe e tempestarla di martellate, o di asportarle l'utero per bruciarlo nella caldaia. Sa che per gli assassini come lui questi pensieri sono un aspetto costante delle attività interne di elaborazione, oltre che cognitive. Per lui, in sostanza, sono naturali, e quindi non devianti. Imbocca l'uscita sulla Trentaseiesima e prosegue su strade secondarie alberate per raggiungere il lago Calhoun. In parte divertito, in parte frustrato, ripensa alla conferenza stampa che si è tenuta nel pomeriggio. La polizia aveva un identikit: è questo che lo ha divertito. Lui era lì, in mezzo alla folla, quando il capo Greer ha mostrato il disegno che avrebbe dovuto ritrarlo con tanta fedeltà che i passanti lo avrebbe riconosciuto immediatamente. Eppure alla fine della conferenza tutti quei giornalisti gli erano pas-
sati accanto senza notarlo. La fonte della sua frustrazione, invece, è John Quinn. Non si è fatto neanche vedere alla conferenza, non ha rilasciato nessuna dichiarazione ufficiale, e questo gli sembra un affronto deliberato. Quinn è troppo immerso a fare deduzioni e congetture; probabilmente concentra tutta la sua attenzione sulle vittime, chi erano e cosa facevano, chiedendosi per quale motivo siano state scelte. «In un certo senso è la vittima che forgia e modella il criminale... Per conoscere l'uno, dobbiamo fare conoscenza con il suo partner complementare», scrive Hans van Hentig. Ne è convinto anche Quinn. Il libro di Quinn sull'omicidio a sfondo sessuale si trova nella sua libreria, insieme con tanti altri. Seductions of Crime di Katz, Inside the Criminal Mind di Samenow, Without Conscience di Hare, Sexual Homicide: Patterns and Motives di Ressler, Burgess e Douglas. Li ha studiati tutti, e non solo quelli: un viaggio per esplorare se stesso. Raggiunge l'isolato dove abita. A causa della conformazione dei laghi in quella parte della città, le strade che li costeggiano hanno spesso un tracciato irregolare. Questa, per esempio, descrive una curva che assegna a ogni casa un tratto di terreno più grande del normale. Lui parcheggia su quello di cemento davanti al garage, poi scende. La notte ha inghiottito l'ultimo barlume di luce. Il vento che soffia da ovest porta con sé l'odore di escrementi di cane. Il puzzo gli giunge alle narici una frazione di secondo prima che alle orecchie gli arrivino i furiosi latrati di un cane di taglia piccola. Dall'oscurità del cortile vicino si materializza, velocissimo, il bichon frisé della signora Vetter, una creaturina che somiglia a un insieme di pompon bianchi legati fra loro. Il cane arriva a un metro e mezzo da lui, poi si ferma e gli tiene testa, abbaiando e ringhiando come uno scoiattolo rabido. Quei latrati scatenano all'istante la sua collera. Lui odia quel cane, soprattutto ora, perché ha riattizzato il malumore causato dall'ingorgo stradale. Avrebbe voglia di prenderlo violentamente a calci. Riesce a immaginare quel botolo che lancia frenetici uggiolii e infine penzola inerte quando lui lo afferra per la gola e gli schiaccia la trachea. «Bitsy!» grida la signora Vetter dalla soglia di casa. «Bitsy, piccolina mia, vieni qui!» Yvonne Vetter è una vedova settantenne, sgradevole, con la faccia rotonda che sprizza acidità e la voce stridula. Lui la odia in modo viscerale e pensa di ucciderla ogni volta che la vede, ma qualcosa di altrettanto pro-
fondo e primordiale glielo impedisce. Si rifiuta di approfondire la natura di quella sensazione e va ancora più in collera immaginando che cosa ne potrebbe dedurre John Quinn. «Bitsy, vieni qui!» Il cane ringhia contro di lui, poi si volta per correre su e giù davanti al garage, fermandosi a fare pipì agli angoli dell'edificio. «Bit-sy!» La testa gli comincia a pulsare, mentre un fiotto caldo gli inonda il cervello, espandendosi in tutto il corpo. Se ora Yvonne Vetter dovesse attraversare il prato, lui la ucciderà. L'agguanterà per il collo, soffocando le sue grida con i giornali che ha in mano, la trascinerà in garage, le sbatterà la testa contro il muro per farle perdere i sensi, poi ucciderà per primo il cane, in modo da far tacere quell'infernale bestiaccia. Poi finalmente lascerà libero sfogo alla sua collera e ucciderà Yvonne Vetter in modo da saziare quella fame crudele che si annida in fondo al suo essere. Lei comincia a scendere i gradini dell'ingresso di casa sua. I muscoli del dorso e delle spalle si tendono, il cuore accelera i battiti. «Bit-sy! Vieni qui subito!» Si riempie i polmoni d'aria, flettendo le dita sul margine dei giornali. Il cane abbaia contro di lui ancora una volta, poi raggiunge in un baleno la padrona. A cinque metri di distanza, la signora Vetter si china a prendere in braccio la cagnetta, come se fosse un bambino. L'occasione svanisce, come una canzone che non viene cantata. «È molto eccitata, stasera», osserva lui sorridendo. «Fa così quando resta troppo tempo in casa. E poi non ha simpatia per lei», risponde la signora Vetter, sulla difensiva, riportando dentro il cane. «Cagna fottuta», sussurra lui. Trema ancora di collera, come un diapason che continua a vibrare a lungo dopo che è stato colpito. Entra nel garage, dove sono parcheggiate la Blazer e la Saab rossa, ed entra in casa dalla porta di servizio, ansioso di leggere sui quotidiani gli articoli sul Crematore. Ritaglierà tutti quelli che riguardano le indagini, fotocopiandoli, perché la carta di giornale è scadente e non resiste al tempo. Ha registrato su videocassetta i notiziari serali della rete nazionale e della stazione locale e pregusta il momento in cui li guarderà per prendere nota di ogni accenno al Crematore. Quel nome lo diverte. Gli sembra preso da un fumetto. Evoca immagini di criminali di guerra nazisti o mostri del cinema di serie B. La sostanza di cui sono fatti gli incubi.
È lui la sostanza di cui sono fatti gli incubi. E, come tutte le creature degli incubi infantili, scende nel seminterrato. Quello è il suo spazio privato, il suo rifugio ideale. Il locale principale è attrezzato come uno studio di registrazione amatoriale, con le pareti e il soffitto rivestiti di piastrelle fonoassorbenti e sul pavimento una moquette a pelo raso color ardesia. Lui ama il soffitto basso, l'assenza di luce naturale, la sensazione di essere sottoterra, circondato da massicce pareti di cemento. Un mondo tutto per lui, sicuro e protetto, come quando era bambino. Percorre il corridoio per entrare nella sala giochi, tenendo i giornali sollevati davanti a sé in modo da ammirare i titoli. «Sì, sono famoso», dice sorridendo. «Ma non temere. Presto diventerai famosa anche tu. Non c'è niente di meglio.» Si gira verso il tavolo da biliardo, sollevando i giornali in modo che la donna nuda, legata al tavolo con le braccia e le gambe divaricate, possa guardare i titoli, se ne ha voglia. Invece fissa lui, con gli occhi vitrei di terrore e di lacrime. I suoni che emette non sono parole, ma le espressioni più elementari dell'emozione più elementare: la paura. Quei suoni lo fanno fremere come una scossa elettrica, rivitalizzandolo. La paura che la donna prova gli consente di controllarla. Il controllo è potere, e il potere è il supremo afrodisiaco. «Presto entrerai a far parte di questo titolo», le promette, facendo scorrere un dito sotto il titolo cubitale sulla prima pagina dello Star Tribune: «Cenere alla cenere». Il giorno lasciò il posto alla sera, poi alla notte. L'unico indizio del trascorrere del tempo era l'orologio, che Quinn controllava di rado. L'ufficio che gli avevano assegnato non aveva finestre, ma soltanto quattro pareti che durante il giorno lui aveva ricoperto di foglietti di appunti, spesso tenendo il ricevitore del telefono incuneato fra l'orecchio e la spalla per seguire il caso Blacksburg, il cui indagato sembrava sul punto di confessare. Avrebbe dovuto trovarsi sul posto. La sua smania di controllo lo induceva a ritenere che gli fosse possibile prevenire tutti gli errori, anche se sapeva che non era vero. Aveva bisogno di spazio attorno a sé, di isolamento. Ormai si era sparsa la voce che John Quinn era stato convocato per risolvere il caso del Crematore. Era solo questione di ore, poi anche lui sarebbe stato costretto ad affrontare i media. Dannazione, avrebbe voluto avere più tempo. Sarebbe stato necessario
concentrarsi e immergersi nel lavoro, ma gli pareva di non farcela. Era sfinito, l'ulcera lo tormentava. Aveva fame e sapeva che il cervello per funzionare aveva bisogno di carburante, ma non voleva perdere tempo uscendo. C'erano troppe informazioni e l'eccesso di caffeina gli faceva ronzare la testa. E poi sentiva vibrare in fondo al proprio essere una sensazione familiare di irrequietezza, il senso di urgenza che accompagnava ogni indagine sul posto, complicata stavolta dallo sfinimento e dall'intrusione di frammenti di ricordi che affioravano dal passato. In più c'era un'emozione che negli ultimi tempi s'insinuava in lui sempre più spesso: la paura. Paura di non risolvere il caso abbastanza in fretta, paura di fallire, paura che la pressione della stanchezza finisse improvvisamente per schiacciarlo. Provando il bisogno di muoversi per sfuggire alle emozioni, cominciò a camminare avanti e indietro fra le pareti di appunti, controllandoli al volo. Il punto essenziale era ottenere il controllo della situazione. Se fosse entrato in scena con una strategia ben delineata, avrebbe avuto tutti i vantaggi dalla sua. Era un metodo che non valeva soltanto per quel caso. Era così che lui regolava tutta la propria vita: in ogni campo, anche nelle amicizie, il segreto era il controllo. Gli tornò alla mente Kate, quasi per sfidarlo. Quante volte, nel corso degli anni, lui aveva rievocato quello che era accaduto fra loro, rivedendo le proprie azioni e reazioni per ottenere un risultato diverso? Più di quante fosse disposto ad ammettere. Controllo e strategia erano le sue parole d'ordine, ma nel caso di Kate non aveva saputo applicare né l'uno né l'altra. Un momento prima erano conoscenti, amici, un attimo dopo amanti. Senza il tempo di riflettere, troppo coinvolti nel presente per avere il senso della prospettiva, travolti da una passione più forte di entrambi. E poi era finita, lei se n'era andata e... niente. Nient'altro che rimpianti. Lui li aveva lasciati sedimentare, nella certezza che alla fine entrambi avrebbero riconosciuto che era stato meglio così. Ed era vero, almeno per Kate. Si era rifatta una vita. Aveva una nuova carriera, amici, una casa. Lui avrebbe dovuto avere il buon senso di tenersi in disparte, di lasciarla in pace, ma la tentazione di una seconda opportunità lo attirava come un cenno di invito e un sorriso seducente. E la forza di tutti quei rimpianti lo induceva a farsi tentare. Pensava che cinque anni fossero tanti per i rimpianti, eppure ne aveva coltivati altri anche più a lungo. Casi insoluti, processi perduti, un killer di bambini che gli era sfuggito. Il matrimonio fallito, la morte della madre,
l'alcolismo del padre. Forse non sarebbe mai riuscito a liberarsene; per questo, forse, si sentiva così vuoto dentro. Non c'era più spazio per nient'altro che non fossero i residui del passato. Imprecò sottovoce, disgustato. Era suo compito scavare nella mente di un criminale, non nella propria. Si diresse verso il tratto di parete sul quale aveva fissato con lo scotch brevi appunti relativi alle vittime del Crematore. Più in alto c'erano le fotografie delle tre donne. Sulla scrivania era aperto un raccoglitore ad anelli, pieno di pagine e pagine di rapporti ben dattiloscritti, mappe, disegni in scala e fotografie delle scene del delitto, protocolli di autopsie: la bibbia portatile che riguardava il caso. Ma Quinn trovava utile esporre i dati essenziali in modo più lineare: di qui gli appunti sulla parete e le fotografie di tre donne sorridenti, ormai scomparse, private con violenza della loro dignità. Tre donne bianche, tutte di età compresa fra i ventuno e i ventitré anni. La statura variava da un metro e sessantacinque a uno e settantacinque. La corporatura andava da quella massiccia di Lila White a quella minuta di Fawn Pierce, mentre la terza vittima, senza nome, forse Jillian Bondurant, era di taglia media. Due prostitute e una studentessa del college. Vivevano in zone diverse della città. Le prostitute lavoravano di solito in quartieri diversi, nessuno dei quali frequentati da Jillian Bondurant. Lila e Fawn potevano essersi incontrate per caso, ma era estremamente improbabile che Jillian frequentasse gli stessi locali. Aveva preso in considerazione la pista della droga, ma per ora non aveva elementi che la confermassero. Lila White si era disintossicata oltre un anno prima, seguendo un programma della contea. Fawn Pierce non aveva fama di essere una tossica, anche se era risaputo che aveva un debole per la vodka a buon mercato. E Jillian? Nella sua casa e nel suo corpo non erano state riscontrate tracce di droga e non aveva precedenti di quel genere. «Pensa che siano contenti di far sapere a tutti i motivi per cui le loro figlie sono diventate sgualdrine e drogate?» Gli sembrava ancora di sentire l'amarezza nella voce di Peter Bondurant. Da dove scaturiva? Jillian era la tessera che non si inseriva nel puzzle di quei delitti. Era lei che mandava in tilt il profilo. L'assassino di prostitute rappresentava una categoria ben precisa e molto diffusa. Le prostitute erano soggetti ad alto rischio, molto esposte a una fine violenta. In genere i loro assassini erano
maschi bianchi, socialmente emarginati, con un lavoro insoddisfacente e una storia di esperienze umilianti con le donne, contro le quali cercavano di rivalersi. A meno che Jillian non conducesse una doppia vita come prostituta. Non era inverosimile, pensò, ma fino a quel momento non c'erano indizi in tal senso. Jillian aveva avuto un solo ragazzo. «A lei non interessavano i ragazzi. Non voleva relazioni temporanee. Aveva sofferto troppo...» Per quale motivo? Il divorzio dei genitori? La malattia della madre? Un patrigno in un paese straniero? Che altro? Qualcosa di più profondo, di più oscuro? In ogni caso era qualcosa che l'aveva spinta ad andare in analisi da Lucas Brandt. «...lei deve tenere conto del fatto che i problemi che hanno portato Jillian da me potrebbero non avere nulla a che vedere con la sua morte. È possibile che l'assassino non sapesse niente di lei.» «E io invece scommetto di sì, dottor Brandt», mormorò, fissando la foto della ragazza. Era una sensazione viscerale. La chiave del caso era Jillian. Nella sua vita c'era qualcosa che l'aveva messa sulla strada dell'assassino. E, se fossero riusciti a scoprire di che cosa si trattava, forse avrebbero avuto una speranza di catturare quel figlio di puttana. Tornando alla scrivania, sfogliò le pagine del raccoglitore fino alla sezione che conteneva le fotografie: stampe a colori diciotto per ventiquattro, tutte ordinatamente etichettate per argomento. Comprendevano anche le foto scattate durante l'autopsia, immagini riprese a distanza ravvicinata delle ferite. Quelle inflitte prima della morte erano indizi di sadismo sessuale, mentre quelle inflitte dopo la morte erano legate più al feticismo che al sadismo, intrinseche alle fantasie dell'assassino. Fantasie sofisticate. Fantasie che coltivava da molto, molto tempo. Sfogliò lentamente i primi piani delle ferite, esaminando tutti i segni lasciati dall'assassino e soffermandosi in particolare sulle pugnalate inferte al petto delle vittime. Otto tagli riuniti a formare un gruppo; ferite più lunghe alternate ad altre brevi, in un disegno ben preciso. Di tutti gli aspetti macabri dei tre delitti, era quello che lo preoccupava di più. Più del rogo finale. Dare alle fiamme il cadavere sembrava più che altro un gesto dimostrativo, una dichiarazione pubblica. Cenere alla cenere. Un funerale simbolico, la fine del suo rapporto con le vittime. Quelle pugnalate, invece, avevano un significato più intimo, più personale. Quale?
La testa di Quinn si riempì di una cacofonia di voci: Bondurant, Brandt, l'anatomopatologa, Kovac; poliziotti, coroner, esperti, agenti che avevano collaborato a centinaia di altri casi. Tutti con un parere da esprimere, una domanda da fare, una lagnanza da esporre, a voce così alta che lui non riusciva più a sentire la propria. E la stanchezza sembrava contribuire a ingigantire il frastuono, finché provò il desiderio di pregare qualcuno che lo facesse tacere. Il sistema era sovraccarico e soltanto lui poteva spegnere l'interruttore; ma era proprio quella l'idea più spaventosa, che lui solo potesse modificare le cose. Non lo faceva perché, per quanto terribile fosse quella situazione, l'alternativa lo atterriva ancora di più: senza il suo lavoro, John Quinn non esisteva. Dentro di lui cominciò un lieve tremito, che pian piano si trasmise alle braccia. Lottò per combatterlo, detestandolo, irrigidendo bicipiti e tricipiti, tentando di soffocare la debolezza, respingendola in fondo. Serrando gli occhi, si stese sul pavimento e cominciò le flessioni. Dieci, venti, trenta, e poi ancora, finché ebbe l'impressione che le braccia stessero per esplodere, incapaci di contenere la tensione dei muscoli, finché il bruciore soffocò il frastuono nella sua testa, spegnendolo, e riuscì a sentire soltanto il battito furioso del cuore. Allora si alzò a fatica, ansimando, accaldato e fradicio di sudore. Si concentrò sulla foto che aveva sotto gli occhi, senza vedere le carni lacerate, il sangue o il cadavere: vedeva soltanto lo schema della ferita. Una X sopra un'altra X. «Un segno di croce sul cuore», mormorò, ripercorrendo le linee con la punta del dito. «Che io possa morire.» «Un serial killer si aggira per le strade di Minneapolis. Oggi, la polizia locale ha diffuso un identikit dell'uomo che potrebbe aver ucciso tre donne in modo brutale e di questo parleremo in apertura del giornale di stasera...» Le ospiti del Phoenix erano sedute in soggiorno, su un assortimento di sedie e divani spaiati, concentrate sul giornalista dalle spalle larghe e dalla mascella prominente che conduceva il telegiornale di Channel Eleven. Furono trasmesse alcune scene della conferenza stampa di quel pomeriggio, con il capo della polizia che mostrava l'identikit del Crematore, poi il disegno riempì tutto lo schermo. Angie guardava dalla soglia, osservando le donne. Ce n'erano due non molto più anziane di lei, mentre quattro erano sulla ventina. Una era più vecchia, grassa e brutta: indossava un top senza maniche, perché la caldaia
dell'impianto di riscaldamento era andata in tilt e l'aria nella casa era calda e asciutta come nel deserto. Quando sullo schermo apparvero le fotografie delle vittime, una rossa con l'aria macilenta, pallida e livida dei drogati, cominciò a piangere. Le altre fecero finta di niente, ma Toni Urskine, che dirigeva la casa, si sedette sul bracciolo della poltrona della ragazza in lacrime, chinandosi a sfiorarle una spalla. «Va tutto bene», le disse con dolcezza. «Piangi pure. Lo so che Fawn era una tua amica, Rita.» La rossa sollevò i piedi nudi e ossuti, appoggiandoli sul sedile della poltrona e affondando la testa fra le ginocchia, in preda ai singhiozzi. «Perché doveva ucciderla in quel modo? Lei non faceva del male a nessuno!» «È inutile cercare un senso», disse un'altra. «Poteva toccare a una qualunque di noi.» Era una verità evidente per tutte, anche quelle che tentavano di negarla. Angie si allontanò dalla porta, incamminandosi in silenzio nel corridoio. Non le piaceva quando la gente cominciava a parlare dei delitti del Crematore. Teoricamente le donne di Phoenix House non sapevano chi lei fosse, o che fosse coinvolta nel caso, ma Angie aveva sempre la sensazione che, solo guardandola, potessero capire che era lei la testimone misteriosa. Non voleva che lo sapessero. Avrebbe voluto che non fosse vero. I suoi occhi si riempirono improvvisamente di lacrime e lei si affrettò a sfregarli con le mani. Non doveva tradire le proprie emozioni. Se avesse fatto capire quello che provava, qualcuno avrebbe visto in lei una debolezza, o una necessità, oppure la follia che la risucchiava nel Cerchio e la costringeva a infliggersi quei tagli. Nessuno avrebbe capito che la lama serviva a recidere il cordone ombelicale della follia. «Va tutto bene?» Sorpresa, Angie si girò di scatto, fissando l'uomo fermo sulla soglia della cantina. Fra i trenta e i quaranta, attraente, vestito con un paio di pantaloni di tela beige e una polo di Ralph Lauren, stava lavorando attorno alla caldaia. Assomigliava vagamente a Toni Urskine. Aveva il viso rigato di sudore e di polvere e stringeva uno straccio grigio fra le mani, sporche di grasso e di qualcosa che aveva il colore del sangue. Abbassò gli occhi, seguendo la direzione dello sguardo di Angie, poi rialzò la testa con un sorriso imbarazzato. «Quella vecchia caldaia», disse, a mo' di spiegazione. «La mando avanti con la forza di volontà e qualche
elastico. Mi chiamo Greggory Urskine», aggiunse, tendendo la mano. «Si è tagliato», disse Angie, senza stringerla, con gli occhi fissi sulla macchia di sangue che spiccava sul palmo. Urskine la guardò a sua volta, sfregandola con lo straccio e lasciandosi sfuggire una risatina nervosa, come fanno a volte le persone che cercano di fare buona impressione. Angie lo fissò. Somigliava un po' a Kurt Russell, pensò: mascella quadrata e naso piccolo, capelli arruffati color sabbia. Portava un paio di occhiali con una sottile montatura d'argento. Quella mattina si era tagliato il labbro superiore, facendosi la barba. «Non hai caldo con quel giubbotto?» le domandò. Angie non rispose. Sudava come in una sauna, ma le maniche del maglione erano troppo corte e non coprivano tutte le cicatrici sulle braccia. Non poteva fare a meno del giubbotto. Se avesse ricevuto i soldi da Kate, sarebbe andata a comprarsi dei vestiti, magari qualcosa di nuovo, anziché roba usata. «Io sono il marito di Toni... e il suo tuttofare», spiegò Urskine. Socchiuse gli occhi. «E tu devi essere Angie.» Lei si limitò a fissarlo. «Non lo dirò a nessuno», aggiunse lui in tono confidenziale. «Il tuo segreto è al sicuro, con me.» Sembrava che si prendesse gioco di lei. Angie decise che, bello o no. non le piaceva. C'era qualcosa che la turbava in quegli occhi, dietro le costose lenti firmate; come se la guardasse dall'alto in basso. Si domandò se aveva mai pagato una donna per portarsela a letto. La moglie sembrava quel tipo di donna che considera il sesso qualcosa di sporco. La sua missione nella vita era salvare le donne che erano costrette a farlo per vivere. «Siamo tutti molto preoccupati per questo caso», continuò lui in tono serio. «La prima vittima, Lila White, è stata qui per qualche tempo. Toni l'ha presa male. Lei ama questa casa ed è sinceramente affezionata alle donne che vi vengono ospitate. Sgobba come un negro per la causa.» «E lei che cosa fa?» Di nuovo quel sorriso rapido, quella risatina nervosa. «Lavoro come ingegnere alla Honeywell. Ora ho preso un periodo di ferie per aiutare mia moglie a rimettere in sesto la casa prima dell'inverno... e completare la mia tesi di dottorato.» Scoppiò a ridere, come se fosse una specie di scherzo. Guardava lo stomaco di Angie, lasciato scoperto dalla maglia troppo corta, così da mettere in mostra l'anellino all'ombelico e i tatuaggi. Lei spostò il peso del corpo
sull'anca, scoprendo un'altra striscia di pelle, e si domandò se per caso lui la desiderasse. Lui la guardò di nuovo negli occhi. «E così, grazie a te hanno buone probabilità di prenderlo», osservò. «Lo hai proprio visto.» «Nessuno deve saperlo», rispose brusca Angie. «Non posso nemmeno parlarne.» Fine della conversazione. Ignorò i convenevoli di commiato e si allontanò da lui per salire le scale, ma sentì gli occhi di Greggory Urskine fissi su di sé. Non rivelare i tuoi segreti, Angie. Sono tutto ciò che ti rende speciale. Speciale. Lei voleva essere speciale. Non voleva restare sola. Anche se in quella casa c'erano tante altre persone, non ne sentiva nessuna solidale e partecipe, lei era un'estranea. Non apparteneva a quella casa. Era stata scaricata lì come un cucciolo indesiderato. Fottuti sbirri. Volevano qualcosa da lei, ma senza darle niente in cambio. Se ne infischiavano di lei, non si preoccupavano di sapere che cosa poteva volere da loro. Almeno Kate era abbastanza onesta, pensò, camminando avanti e indietro nella stanza che divideva con una delle donne. Ma non poteva dimenticare che era pur sempre una di loro. Era compito di Kate Conlan tentare di aprire una falla nelle sue difese, in modo che i poliziotti e il procuratore della contea potessero ottenere ciò che volevano. E quella sarebbe stata la fine. Non era una vera amica. Angie poteva contare gli amici che aveva sulle dita di una mano sola, e neppure su tutte. In quel momento avrebbe voluto avere un amico. Non voleva restare lì. Voleva trovare un posto in cui sentirsi a casa. Pensò alla donna data alle fiamme nel parco, pensò alla casa da dove veniva, e si domandò che cosa sarebbe successo se lei avesse preso il posto di quella donna. Sarebbe stata la figlia di un uomo ricco. Avrebbe avuto un padre, una dimora e tanto denaro. Una volta aveva avuto un padre: la prova erano le cicatrici. Aveva avuto una dimora: le sembrava ancora di sentire l'odore di unto in cucina, ricordava ancora i grandi armadi a muro scuri, con le ante che venivano chiuse a chiave dall'esterno. Denaro, invece, non ne aveva mai avuto. Andò a letto vestita, aspettando che la casa diventasse silenziosa e la sua compagna di stanza cominciasse a russare. Poi sgattaiolò dalla stanza, scese le scale e uscì all'aperto attraverso la porta di servizio. Era una notte ventosa. Le strade erano deserte, a parte qualche auto che passava ogni tanto in una delle grandi arterie dirette a nord e a sud. Angie
puntò a ovest, nervosa e spaventata. Aveva la sensazione che qualcuno la tenesse sempre d'occhio, ma quando si guardò alle spalle non vide nessuno. Il Cerchio le dava la caccia, come un'ombra. Se continuava a camminare, se aveva uno scopo e si concentrava sull'obiettivo, forse non l'avrebbe raggiunta. Le case lungo la strada erano immerse nell'oscurità. I rami degli alberi frusciavano al vento. Quando raggiunse il lago, era nero e lucente come una chiazza di petrolio. La gente del quartiere avrebbe chiamato la polizia, se avesse visto qualcuno andare in giro a piedi a quell'ora di notte. Riconobbe la casa grazie alle immagini del telegiornale. Deviò per risalire la collina sul retro della proprietà, restando al riparo degli alberi. Per tre quarti dell'anno le siepi nascondevano la casa, ma in quella stagione erano spoglie, e lei poteva vedere al di là della filigrana di rami sottili. C'era una luce accesa, in una stanza con le porte-finestre a riquadri che davano sulla veranda. Angie rimase accanto alla cancellata, attenta a non toccarla, fissando il giardino sul retro della casa di Peter Bondurant. Guardava oltre la piscina, le panchine di pietra, i tavoli e le sedie di ferro battuto che non erano stati ancora riposti per l'inverno. Osservava la luce ambrata alla finestra e la figura di un uomo seduto alla scrivania, chiedendosi se si sentiva solo come lei. Si domandava se il denaro gli desse conforto, in quel momento. Peter si alzò dalla scrivania e prese a camminare nello studio, teso e irrequieto. Non riusciva a dormire, ma si rifiutava di prendere le pillole che il medico gli aveva prescritto e fatto recapitare a casa. L'incubo era vivo nella sua mente: l'arancione brillante delle fiamme, l'odore. Quando chiudeva gli occhi aveva l'impressione di vederle materialmente, di sentirne il calore. Gli sembrava di scorgere il viso di Jillian: lo choc, la vergogna, il crepacuore. Il suo viso che fluttuava libero, con la base del collo sanguinante, recisa in modo irregolare.Se la sua mente si riempiva di immagini come quelle quando era sveglio, che cosa avrebbe visto se cedeva al sonno? Avvicinandosi alle porte-finestra, guardò la notte buia e gelida che regnava fuori, e immaginò quegli occhi che lo fissavano di rimando. Jillian. Era come se ne avvertisse la presenza. Il suo peso gli schiacciava il petto, come se lo avesse abbracciato. Persino dopo la morte voleva toccarlo, aggrapparsi a lui, alla ricerca disperata di un amore il cui significato per lei
era distorto e deviato. Dentro di lui si destò una strana e oscura eccitazione, seguita dal disgusto, dalla vergogna e dal senso di colpa. Con un grido simile a un ruggito animalesco, si allontanò dalla finestra e in un balzo raggiunse la scrivania, spazzando via tutto dalla superficie ben ordinata. Penne, indirizzario, fermacarte, fascicoli, agenda. Dal telefono si sprigionò un lieve trillo di protesta. La lampada da tavolo cadde sul pavimento e la lampadina esplose con uno schiocco sonoro, lasciando la stanza immersa nell'oscurità. Quel lampo finale s'impresse negli occhi di Peter come due flash color arancio. Fiamme alle quali non poteva sfuggire. L'emozione sembrava un sasso conficcato in gola, duro e frastagliato. Gli uscì dalla gola un verso aspro e roco, mentre cercava a tentoni, nel buio, la lampada a terra, inciampando negli oggetti che aveva fatto volare via dal tavolo. Una volta accesa la luce, ridivenne più calmo e cominciò a raccogliere tutto, rimettendo in ordine. Nel prendere l'agenda, la trovò aperta a venerdì. «Jillian: cena», scritto con la sua grafia nitida e precisa. Sembrava tutto così semplice, così innocente. Ma con Jillie non c'era niente di semplice o di innocente, per quanto lei si sforzasse. Squillò il telefono, strappandolo a quei ricordi oscuri. «Peter Bondurant», rispose, come se fosse un orario normale. In fondo alla mente, stava cercando di ricordare se aspettava una telefonata da oltre oceano. «Caro papà», disse una voce sommessa e seducente. «Conosco tutti i tuoi segreti.» 13 «Se saremo costretti a diffondere un altro identikit, faremo la figura degli idioti», protestò Sabin, camminando irrequieto dietro la sua scrivania. Faceva il broncio come un bambino capriccioso, in strano contrasto con il suo aspetto raffinato. In vista della conferenza stampa, aveva indossato un completo grigio peltro con una cravatta più scura di due tonalità e la camicia celeste. «Non capisco in quale modo possa ripercuotersi negativamente sul suo ufficio, Ted», osservò Kate. «È stato Greer a prendere l'iniziativa.» «E so di chi è la colpa.» «Non può biasimare la testimone», ribatté Kate, sapendo bene che in re-
altà intendeva biasimare lei. «Mi dicono che non si è mostrata molto incline a collaborare», disse Edwyn Noble, intervenendo nella discussione. Kate aveva sulla punta della lingua una mezza dozzina di osservazioni pungenti, non ultima: «E lei che diavolo ci fa, qui?» Ma naturalmente sapeva benissimo che cosa ci faceva. La sua presenza sconfinava quasi nella scorrettezza, ma lei aveva già rimuginato su quell'argomento e sapeva quale sarebbe stata la risposta. L'ufficio del procuratore della contea si occupava di assistere vittime e testimoni. Peter Bondurant era il parente prossimo di una vittima, ammesso che la donna morta fosse sua figlia, quindi aveva diritto a tenersi informato sull'andamento del caso. E poiché Edwyn Noble era il rappresentante di Bondurant... Lo guardò come se fosse un escremento di cane rimasto appiccicato alla suola della sua scarpa. «Eh, sì, capita spesso di incontrare qualcuno del genere.» L'insinuazione colse nel segno: Noble si drizzò sulla sedia troppo piccola per lui, sprizzando dagli occhi una gelida collera. Rob Marshall s'intromise per fare da paciere, con il solito sorriso da leccapiedi sul faccione da luna piena. «Quello che voleva dire Kate è che non è insolito che i testimoni di un crimine tanto brutale diventino un po' riluttanti.» «Non è riluttante ad accettare la ricompensa, però», commentò Sabin sbuffando. «La ricompensa è vincolata alla condanna», obiettò Noble, come se il suo cliente avesse bisogno di tempo per mettere insieme la somma; come se sperasse quasi di risparmiarsela del tutto. «Questo ufficio non compra i testimoni», proclamò Sabin. «Ti avevo pregata di occupartene, Kate.» La faceva sembrare quasi un sicario prezzolato. «E infatti me ne sto occupando.» «Allora come mai non ha trascorso in carcere la notte di lunedì? Avevo detto a Kovac di trattarla come una persona sospetta, di spaventarla un po'.» «Ma se è stato lei...» cominciò Kate, sconcertata. Rob le lanciò un'occhiata. «Possiamo sempre ricorrere a quell'espediente. Il tentativo con il Phoenix è stato fatto per ammorbidirla un po', darle l'impressione che Kate fosse dalla sua parte. Sono sicuro che avevi questo in mente, vero, Kate?»
Lei fisso a bocca aperta il suo capo, perplessa e furiosa. Sabin rimase imbronciato. «E ora questo fiasco dell'identikit.» «Non è un fiasco. Ieri nessuno avrebbe dovuto vedere il disegno», obiettò Kate, voltando le spalle a Rob per non saltargli alla gola. «Ted, se mette sotto pressione questa ragazzina, lei se ne andrà. Se fa il duro, le verrà un attacco di amnesia, glielo garantisco. Sappiamo bene entrambi che non ci sono pretesti per trattenerla in relazione all'omicidio.» «È una vagabonda, e questo è contro la legge.» «Oh, sì. Chissà che bell'effetto farà sui giornali: 'Testimone adolescente accusata di vagabondaggio'!» In quel momento sarebbe bastato provocare ancora un po' Sabin e lui le avrebbe assegnato un nuovo incarico. Avrebbe potuto confessare di essere assolutamente incapace di gestire quella testimone, liberandosi del peso che Angie DiMarco rappresentava per lei. Ma nel momento stesso in cui lo pensò, Kate si vide lasciare la ragazzina in balia di quel branco di lupi e non se la sentì di farlo. Era ancora troppo fresco il ricordo di Angie con le lacrime agli occhi, in quella stanzetta del Phoenix, mentre le chiedeva per quale motivo non poteva stare a casa sua. Cercò di calmarsi e si alzò, spianando con discrezione le grinze della gonna. «Farò del mio meglio per indurre la ragazza a dire la verità. So che questo è l'obiettivo di tutti. La prego, Ted, mi conceda la possibilità di lavorare a modo mio.» Sarebbe stata pronta persino a lanciargli un'occhiata ingenua e colma di speranza, se questo fosse bastato a fargli cambiare umore. «Non è la solita ragazzina della porta accanto», continuò. «Ha avuto un'esistenza difficile, che l'ha resa dura, ma penso che voglia comportarsi nel modo giusto, in questo caso. Non giova a nessuno perdere la pazienza nell'attuale fase del gioco. Se vuole una conferma al mio parere, chieda a Quinn. Lui ne sa quanto me su come si trattano i testimoni in questo genere di casi», aggiunse infine, pensando che John le doveva un favore. Come minimo. Noble si schiarì la gola. «Che ne dice dell'ipnosi? Pensa di provarci?» Kate scosse la testa. «Non si presterà mai. L'ipnosi richiede fiducia, e la ragazza non ne ha: Oscar è così suadente che riesce a calmarla.» «Detesto fare l'avvocato del diavolo», disse Noble, «ma come facciamo a sapere che la ragazza ha visto qualcosa? Mi dà l'impressione che sia disposta a fare di tutto per denaro. Forse il suo unico intento è ottenere la ricompensa.»
«E come poteva prefiggersi di ottenerla prima ancora di sapere della sua esistenza?» obiettò Kate. «Se così fosse, sarebbe ancora più preziosa come testimone, perché dovrebbe avere delle doti paranormali. Dopo i primi due omicidi non era stata offerta nessuna ricompensa.» Controllando l'orologio, imprecò sottovoce. «Temo che dovrete scusarmi. Fra pochi minuti c'è un'udienza alla quale devo partecipare, e probabilmente la vittima si sta già angustiando perché non sono presente.» Ted Sabin aveva fatto il giro della scrivania, con le braccia conserte e un'espressione severa. Kate riconobbe la posa dal profilo che gli aveva dedicato un anno prima il Minnesota Monthly. «Va bene, ti concederò dell'altro tempo, Kate. Ma ci servono dei risultati, e alla svelta.» «Questo pomeriggio riprenderà a lavorare con Oscar», gli assicurò lei, avviandosi alla porta. Sabin si allontanò dalla scrivania per accompagnarla, posandole la mano sulla schiena, fra le scapole. «Concluderai l'udienza in tempo per stare con lei?» «Sì.» «Magari potremmo invitare l'agente Quinn a partecipare a questa seduta con Oscar e la ragazza.» «Non ne vedo l'utilità.» «Hai ragione tu, Kate. Questa non è una testimone qualsiasi. E, come hai detto, Quinn ha molta esperienza. Potrebbe essere in grado di captare qualcosa, di suggerire una strategia. Lo chiamerò.» Kate uscì e subito dopo si appoggiò con il dorso alla porta chiusa. «Quando imparerò a tenere la bocca chiusa!» «Kate...» disse Rob Marshall a voce bassa, sgattaiolando nel corridoio dietro di lei. Kate gli si rivoltò contro. «Lurido verme», lo accusò in un sussurro aspro. «Sei stato tu ad autorizzarmi a portare Angie a Phoenix House, e ora te ne stai lì impalato e dai a Sabin l'impressione che sia stata tutta opera mia! Credevo che avessi ottenuto il suo assenso. È quello che ho detto anche a Kovac. E dire che l'ho accusato di essere paranoico perché non ci credeva.» «Ho abbordato l'argomento del Phoenix...» «Ma lui non c'è stato.» «Non ha detto di no.» «Be', di sicuro non ha detto di sì.» «Aveva altro per la testa. Sapevo che avresti preferito portarla lì, Kate.»
«Ora non scaricare la responsabilità su di me. Hai preso l'iniziativa, una volta tanto. Non potresti almeno fartene carico?» «Kate, ti passa mai per la mente che sono il tuo superiore?» Lei respinse la risposta brusca che aveva sulla punta della lingua e fece appello a quel poco di rispetto che poteva dimostrargli. «Scusami, ma sono in collera.» «E io sono il capo. Sono io il responsabile.» Kate sentì la frustrazione nella sua voce. «Non invidio il tuo lavoro», ribatté asciutta. «Dovrei affrontarti sul serio a muso duro, così mi toglieresti questo peso dalle spalle. Ma non voglio scaricarlo», ammise. «Dev'essere il mio masochismo svedese.» «Tu sei esattamente la persona che voglio vicino a questa testimone, Kate», replicò lui. «E ora chi è il masochista?» «Mi spiace. È solo che non mi va di sentirmi come una pedina.» «Concentrati sul risultato. Abbiamo ottenuto quello che volevamo.» «Non sono contraria a cospirare, lo sai», ammise lei, pur essendo ancora stizzita. Il lunedì sera era più che disposta a strappare Angie dalle grinfie di Sabin e non si sarebbe mai sognata di inserire Rob Marshall nel suo piano. Era questo che le scottava, in realtà: che Rob l'avesse battuta sul tempo. Non avrebbe mai ammesso che lui era più intelligente, o più astuto, o superiore a lei in qualche modo. Un atteggiamento davvero spinoso, nei confronti del proprio superiore. «Hai saputo qualcosa dai tuoi amici del Wisconsin?» gli domandò. «Ancora niente.» «Sarebbe bello sapere chi è questa ragazzina. Mi sembra di lavorare con una benda sugli occhi.» «Mi sono procurato la videocassetta dell'interrogatorio di Angie», disse Rob. «Pensavo che fosse utile riunirsi per esaminarla. Magari potremmo invitare anche Quinn. Mi piacerebbe conoscere la sua opinione.» «Sì, perché no?» rispose Kate, rassegnata. «Fammi sapere quando organizzi la seduta. Io devo presentarmi in aula.» Certi giorni sembrava che la soluzione migliore fosse restare a casa e darsi una martellata su un dito. Quello almeno era un dolore dal quale poteva riprendersi facilmente; John Quinn era tutta un'altra faccenda. «Avevo paura che non venisse», esclamò David Willis, in tono quasi di accusa, precipitandosi verso Kate. «Chiedo scusa per il ritardo, signor Willis. Ero impegnata in una riunio-
ne con il procuratore della contea.» «Riguardo al mio caso?» «No. Per il suo caso è già tutto predisposto.» «Dovrò deporre, non è vero?» «Non oggi, signor Willis.» Kate lo guidò verso l'aula. «Si tratta soltanto di un'udienza preliminare. L'avvocato Merced presenterà prove sufficienti per rinviare a giudizio il signor Zubek.» «E non mi chiamerà a deporre all'improvviso, o qualcosa del genere?» Di colpo Kate si rese conto che in quel momento David Willis aveva lo stesso aspetto che doveva avere al liceo, negli anni settanta: un taglio di capelli antiquato, da militare, occhiali dalla montatura pesante e pantaloni di una strana tonalità di verde, con la cintura un po' troppo alta. Probabilmente era stato maltrattato e aggredito dai compagni per tutta la vita. Per l'occasione si era messo gli occhiali con la montatura nera che si erano rotti nel corso dell'aggressione subita e adesso erano riparati in due punti con il nastro adesivo. Aveva il polso sinistro ingessato e portava un collare ortopedico che somigliava al collo alto di un maglione bianco. «Le deposizioni a sorpresa si vedono soltanto in Matlock», gli spiegò Kate. «Perché non sono pronto per farlo, sa?» «Sì, ce ne rendiamo conto, signor Willis.» Anche perché nel corso della settimana precedente aveva telefonato ogni giorno per rammentarlo a tutti: Kate, Ken Merced, la segretaria di Ken, l'addetta alla ricezione dei servizi legali. L'avvocato Merced si avvicinò con aria cordiale. «È tutto a posto, signor Willis. Non ci vorrà molto.» «È sicuro che non dovrò testimoniare?» «Non oggi.» Willis si lasciò sfuggire un sospiro tremulo. «Perché non sono pronto.» «No», replicò l'avvocato, tornando al suo tavolo. «Nessuno di noi lo è.» Kate si appoggiò allo schienale della sedia, cercando di rilassarsi. «In fondo sei sempre stata un cuore tenero.» Il mormorio sommesso le arrivò da dietro la spalla destra, il fiato le accarezzò la pelle sensibile del collo. Kate si girò di scatto, accigliata. Quinn era proteso in avanti, con i gomiti appoggiati alle ginocchia, gli occhi scuri scintillanti e il solito sorriso studiato da ragazzino sorpreso con la mano nel barattolo dei biscotti. «Devo parlarti», le disse sottovoce.
«Puoi chiamarmi in ufficio.» «È vero. Ma non rispondi ai miei messaggi.» «Sono molto occupata.» «Lo vedo.» «Non prendermi in giro.» David Willis si aggrappò al suo braccio, costringendola a voltarsi. La porta laterale dell'aula si era aperta e O.T. Zubek entrò con il suo legale, seguito da un vicesceriffo. Zubek aveva l'aspetto di un estintore umano, tarchiato, con le braccia tozze e la pancia sporgente. Squadrò Willis con aria corrucciata: sembrava la caricatura di un cattivo dei fumetti, Bluto, l'antagonista di Braccio di Ferro. Willis lo fissò per un attimo, sgranando gli occhi, poi si girò verso Kate. «Ha visto? Mi ha minacciato! È stato un contatto visivo minaccioso. L'ho percepito come una minaccia. Come mai non è in manette?» «Cerchi di stare calmo, signor Willis, altrimenti il giudice la farà uscire dall'aula.» «Non sono io il criminale, qui!» «Lo sanno tutti.» Il giudice entrò in aula ed ebbe inizio l'udienza preliminare. Merced chiamò a deporre il primo testimone, un addetto al rifornimento delle macchine distributrici di bevande in un punto vendita 7-Eleven della zona metropolitana di St. Louis-Minneapolis. L'uomo dichiarò di aver sentito Willis discutere con Zubek a proposito della consegna di un carico di merendine, e poi di aver visto i due venire alle mani, dopodiché Zubek aveva colpito più volte Willis. «E ha sentito chi avrebbe dato inizio a questa presunta discussione?» gli domandò l'avvocato difensore nel corso del controinterrogatorio. «No.» «Quindi, per quanto ne sa, potrebbe essere stato Willis, il querelante, a provocare la lite.» «Obiezione. Si chiede al teste di esporre delle congetture.» «Ritiro la domanda. E ha visto chi ha sferrato il primo pugno in questa cosiddetta aggressione?» «No.» «Potrebbe essere stato Willis?» L'uomo a fianco di Kate fremette di rabbia. «Non sono stato io!» «Shhh!» Merced sospirò. «Vostro onore...»
Il giudice fissò con un cipiglio severo l'avvocato difensore. «Avvocato Krupke, questa è l'udienza preliminare, non il processo. Alla corte interessa di più ascoltare quello che i testimoni hanno visto, anziché quello che non hanno visto.» Il secondo testimone di Merced confermò la versione del primo, mentre Willis fremeva di nervosismo e prendeva laboriosamente appunti con una scrittura minuscola in stampatello che la diceva lunga sui preoccupanti meccanismi interni della sua mente. Merced presentò come prova la cassetta registrata dalle telecamere di controllo che mostrava gran parte della colluttazione, dopodiché dichiarò concluso il caso. Krupke non aveva testimoni e non presentò alcuna difesa. «Non contestiamo che abbia avuto luogo un alterco, vostro onore.» «Allora perché mi fa perdere tempo con questa udienza, avvocato Krupke?» «Volevamo dimostrare che forse i fatti non si sono svolti esattamente come sostiene il querelante.» «È una menzogna!» gridò Willis. Il giudice batté il martelletto e l'ufficiale giudiziario guardò con aria severa Willis, ma senza muoversi. Kate serrò il braccio del suo cliente in una morsa d'acciaio, bisbigliando furiosamente: «Silenzio, signor Willis!» «Le suggerisco di dare ascolto alla sua patrocinatrice, signor Willis», disse il giudice. «Verrà anche per lei il momento di parlare.» «Oggi?» «No!» tuonò il giudice che allargò le braccia in un gesto di impotenza. Finalmente fu fissata la data del processo e l'udienza si concluse. Kate tirò un sospiro di sollievo e, mentre l'avvocato Merced si alzava dal tavolo per raccogliere la sua documentazione, si protese oltre la balaustra per sussurrargli: «Non puoi affidarlo alla polizia, Ken? Preferirei farmi cavare gli occhi che assistere quest'uomo in un processo». «Cristo, io pagherei Zubek per farlo dichiarare colpevole, se non rischiassi di farmi radiare dall'albo!» Willis si guardò attorno come se si fosse appena risvegliato da un pisolino e non avesse idea di dove si trovava. «È finita?» «È finita, signor Willis», rispose Kate, sorridendo. «Gliel'avevo detto che non ci sarebbe voluto molto.» «Ma... ma...» Puntò il braccio ingessato in direzione di Zubek. «Mi hanno dato del bugiardo! Non posso difendermi?»
Zubek si protese oltre la balaustra, sogghignando. «Chiunque può vedere come te la cavi bene, Willis.» «Ora dobbiamo andare», suggerì Kate, porgendo a Willis la sua valigetta, che pesava una tonnellata. Il suo cliente si destreggiò fra valigetta, penna e taccuino per gli appunti, mentre Kate lo trascinava verso il corridoio centrale dell'aula, pensando soprattutto a cosa fare con Quinn, che si era già spostato nel passaggio centrale, indietreggiando verso la porta con lo sguardo fisso su di lei. Sabin doveva averlo chiamato non appena lei era uscita dal suo ufficio. «Ma non capisco», protestava Willis in tono petulante. «Non doveva essere così! Lui mi ha colpito. Mi ha colpito, e ora mi ha dato del bugiardo!» Zubek incassò la testa fra le spalle, come un pugile, facendo la faccia di Bluto. «Frocetto.» Kate vide la reazione di Willis nello stesso istante in cui un grido di guerra scaturiva dalla gola dell'uomo. Girò di scatto su se stessa, mentre Willis si gettava su Zubek, sferrandogli un colpo con la valigetta che lo prese alla tempia con la violenza di una padella di ferro, scaraventandolo sul tavolo della difesa. Le serrature si aprirono e il contenuto della valigetta schizzò fuori. Kate si lanciò su Willis mentre lui tirava indietro il braccio per vibrare un altro colpo, lo afferrò alle spalle e precipitarono a capofitto oltre la balaustra, su un mare di tavoli, sedie e gente in fuga. Zubek squittiva come un maiale infilzato sullo spiedo. Il giudice sbraitava con l'ufficiale giudiziario, e lui a sua volta sbraitava con Krupke, impegnato a sbraitare con Willis, tentando di prenderlo a calci. Con la punta della scarpa colpì alla coscia Kate, che imprecò e ricambiò il calcio, inchiodando Willis. Passò un'eternità prima che fosse ristabilito l'ordine e qualcuno la liberasse da Willis. Si mise lentamente a sedere, lanciando una sfilza di imprecazioni. Quinn si accovacciò davanti a lei, allungando una mano per sfiorarle una ciocca di capelli rosso oro dietro l'orecchio. «Dovresti proprio tornare all'FBI, Kate. Questo lavoro sarà la tua morte.» «Non azzardarti a fare dello spirito a mie spese», scattò Kate, ispezionando i danni a se stessa e ai suoi vestiti. Quinn si appoggiò all'orlo della scrivania, osservandola mentre controllava un buco nelle calze abbastanza grande per farci passare il pugno. «Questo è il secondo paio di calze buone, questa settimana! Dovrò rinunciare alle gonne.»
«E tutti gli uomini che lavorano qui porteranno il lutto», ribatté Quinn, alzando subito le braccia in segno di resa quando lei gli lanciò un'altra occhiata micidiale. «Ehi, hai sempre avuto delle belle gambe, Kate, non puoi negarlo.» «L'argomento è inopportuno e irrilevante.» «La correttezza proibisce forse a due vecchi amici di scambiarsi complimenti?» Lei si raddrizzò lentamente sulla sedia, dimenticando le calze rovinate. «Ed è questo che siamo? Vecchi amici?» Quinn ridivenne serio. Non poteva guardarla negli occhi e fare dello spirito di bassa lega sul passato che avevano alle spalle che, anzi, era ancora vivo fra loro. L'imbarazzo divenne palpabile. «Non ci siamo separati in armonia, mi sembra.» «No, è vero.» Lui si allontanò dalla scrivania, fingendo di interessarsi agli avvisi e alle vignette che lei aveva fissato con le puntine alla bacheca. «Ma è stato tanto tempo fa.» E questo che cosa vuol dire, si chiese Kate, che sarebbe acqua passata? Anche se una parte di lei voleva rispondere di sì, ce n'era un'altra che teneva stretti in pugno quegli amari ricordi. Per lei, niente era dimenticato. L'idea che per lui fosse diverso, la turbò profondamente. La fece sentire debole, una parola che odiava. Quinn la studiò con la coda dell'occhio. «Cinque anni sono lunghi per serbare rancore.» «Io non ti serbo rancore.» Scoppiò a ridere. «E come! Non ritelefoni mai, non vuoi conversare con me, mi volti le spalle appena mi vedi.» «Da quando sei qui, ti avrò visto... quante volte? Due? La prima volta mi hai usato per avere la meglio sui tuoi interlocutori, la seconda volta ti sei preso gioco del mio lavoro...» «Non del tuo lavoro», precisò lui, «ma del tuo cliente.» «Oh, ma allora è tutto diverso», ribatté lei con sarcasmo. «Quello che faccio qui è importante, John. Forse non come quello che fai tu, ma è importante.» «Non lo discuto, Kate.» «No? Se non ricordo male, quando ho deciso di lasciare il Bureau, mi hai detto che stavo gettando via la mia vita.» Quel ricordo riaprì una vecchia ferita e negli occhi scuri di lui si riaccese la frustrazione di un tempo. «Hai gettato via una carriera d'oro. Quanti anni
di servizio avevi? Quattordici, quindici? Eri un elemento di importanza vitale. Eri un buon agente, Kate, e...» «E sono ancora più brava a patrocinare i miei clienti. Mi occupo di persone ancora vive. Cerco di risolvere i loro problemi uno alla volta, di aiutarli a superare un periodo difficile, ad acquistare maggiore fiducia in se stessi, a prendere delle iniziative per cambiare la loro vita. Non ti sembra importante?» «Non sono contrario al lavoro che fai», protestò Quinn. «Ero contrario alla tua decisione di lasciare il Bureau. Sono due questioni distinte. Hai permesso a Steven di allontanarti...» «No!» «Un corno! Lui voleva punirti...» «E io non gliel'ho permesso.» «Sei fuggita. Gli hai lasciato il campo libero.» «Non ha vinto lui», ritorse Kate. «La sua vittoria sarebbe stata distruggere la mia carriera un po' alla volta. E io avrei dovuto resistere duro solo per dimostrargli quanto ero dura? Che cosa avrei dovuto fare, trasferirmi e poi trasferirmi ancora finché non avesse esaurito la rete dei suoi contatti? Finché non fossi finita nell'ufficio locale di Gallup, nel Nuovo Messico, a contare i serpenti e le tarantole che attraversavano la strada?» «Avresti potuto batterti con lui, Kate», insistette Quinn. «Ti avrei aiutato.» Lei incrociò le braccia, inarcando un sopracciglio. «Ma davvero? Eppure, se non ricordo male, non hai voluto avere più niente a che fare con me, dopo quel piccolo incidente con l'ufficio Responsabilità professionali.» «Questo non c'entrava niente», ribatté lui, furioso. «L'ufficio non mi faceva nessuna paura. Steven e i suoi squallidi burocrati da quattro soldi non mi facevano paura. Avevo le mani legate. Stavo trattando qualcosa come settantacinque casi, fra cui il 'Cannibale di Cleveland'...» «Oh, so tutto, John», esclamò in tono caustico. «Il grande Quinn, che porta sulle spalle da solo il peso del mondo criminale.» «Che vorresti dire? Ho un lavoro e lo faccio.» E al diavolo il resto del mondo, pensò Kate, me compresa. Ma non lo disse. Ormai, a che serviva? Non aveva senso discutere del fatto che per Quinn il lavoro era tutto. Per farla breve, la loro storia aveva dato il colpo di grazia a un matrimonio che era già fallito, e le ritorsioni del marito l'avevano costretta a rinunciare alla sua carriera, mentre Quinn era uscito illeso dal disastro per torna-
re al suo primo amore: il lavoro. Al momento cruciale si era tirato indietro, lasciandola cadere. Quando se n'era andata, non le aveva chiesto di restare. In quei cinque anni non le aveva telefonato neppure una volta. Non che lei lo desiderasse. La discussione li aveva avvicinati, un passo alla volta. Ormai Quinn era tanto vicino che lei sentì la fragranza di un raffinato dopobarba. Avvertiva la tensione nel suo corpo, e frammenti di mille ricordi che aveva accantonato affiorarono tumultuosi. La forza delle sue braccia, il calore del suo corpo... L'errore era stato avere bisogno di lui. E ora non ne aveva bisogno. Si allontanò, sedendosi di nuovo dietro la scrivania e tentando di convincersi che la loro discussione non significava niente. «Ho anch'io un lavoro da fare», disse con un'occhiata significativa all'orologio. «Immagino che tu sia venuto per questo. Ti ha chiamato Sabin?» «Vuole che partecipi alle sedute con te e la testimone, quando si rimetterà al lavoro sull'identikit.» «A me non importa che cosa vuole lui», replicò ostinata Kate. «Io qui non ti voglio. La ragazza è appesa a un filo.» «Non c'è bisogno che sappia della mia presenza. Resterò in un angolo, silenzioso come un topolino.» Per poco Kate non scoppiò a ridere. Già, chi avrebbe notato Quinn? Uno e ottanta di altezza di mascolinità bruna e attraente, confezionata in un vestito italiano. No, una ragazza come Angie non lo avrebbe notato affatto. «Mi piacerebbe farmi un'idea di questa ragazza», disse Quinn. «Qual è la tua opinione su di lei? È una testimone credibile?» «È una sgualdrinella che dice oscenità, mente e ricatta», rispose apertamente Kate. «Probabilmente è scappata di casa. Potrebbe avere da sedici a quarantadue anni. Ha subito dei duri colpi, è sola ed è spaventata a morte.» «La classica figlia americana», commentò asciutto Quinn. «Secondo te, ha visto davvero Smokey Joe?» Kate rifletté per un istante, soppesando tutto ciò che Angie era e non era. Qualunque cosa la ragazza sperasse di guadagnare in termini di ricompensa, per quanto potesse aver mentito, la visione del volto del male era reale. Kate sentiva che era vero: la tensione che avvertiva in quella ragazza ogni volta che doveva raccontare la storia era praticamente impossibile da simulare in modo convincente. «Sì, credo di sì.» «Ma non è disposta a rivelare quello che ha visto?» «Ha paura della vendetta del killer, e forse anche dei poliziotti. Non vuo-
le dirci che cosa ha visto in quel parco a mezzanotte.» «Ipotesi?» «Forse spacciava. Oppure può darsi che abbia giocato un tiro a qualcuno nei paraggi e stava attraversando il parco per tornare all'alloggio che aveva in quel momento.» «Ma non ha precedenti?» «Non che io sappia. Stiamo facendo vedere la sua foto alla Buoncostume, alla Narcotici e all'Antidroga. Ancora nessun risultato.» «La donna del mistero.» «Di certo non è Heidi.» «Peccato che non possiate rilevarle le impronte.» Kate fece una smorfia. «Le avremmo, se lasciassi fare a Sabin. Voleva che Kovac l'arrestasse lunedì e la tenesse in gattabuia per una notte, in modo da metterle in corpo il timor di Dio.» «Avrebbe potuto funzionare.» «Che ci provi, dovrà passare sul mio cadavere.» Quinn non poté fare a meno di sorridere nel sentire la nota d'acciaio nella sua voce, il fuoco nei suoi occhi. Era chiaro che si sentiva protettiva nei confronti della sua cliente, che fosse o no una sgualdrinella bugiarda e astuta. Kovac gli aveva detto che Kate, pur essendo una professionista, proteggeva le vittime e i testimoni come se fossero suoi famigliari. Una scelta di parole interessante. In cinque anni non si era risposata. Sugli scaffali dietro la scrivania non c'era la foto di un uomo; c'era invece, racchiuso in una delicata cornice di filigrana d'argento, un minuscolo ritratto della figlia che aveva perduto. Rintanato in un angolo, lontano dalle scartoffie, lontano dallo sguardo distratto dei visitatori, quasi nascosto persino al suo stesso sguardo, il visino angelico della bambina la cui morte le pesava sulla coscienza come un masso. Il dolore per la morte di Emily aveva rischiato di schiacciarla. Non aveva potuto neppure rivolgersi al marito, perché Stephen Waterston si era affrettato a scaricare il proprio senso di colpa su di lei. E così aveva chiesto aiuto a un amico... «E se ti azzardi a dire a Sabin che avrebbe potuto funzionare», aggiunse lei, «il cadavere in questione sarà il tuo. Ti ho detto che in questa faccenda devi affidarti a me, John, e sarà bene che tu lo faccia. Mi devi un favore.» «Sì», rispose lui piano, sentendo riaffiorare i vecchi ricordi. «Uno come minimo.»
14 Il caffè D'Cup, situato nella zona di Lowry Hill, poco più a sud dell'intrico di autostrade che circondano il centro di Minneapolis, rientrava in quel genere di locali di tendenza abbastanza originali da attirare gli artisti, ma tanto puliti da piacere ai clienti del vicino teatro Gothic e del Walker Art Center. Entrando, Liska aspirò a pieni polmoni il ricco aroma esotico dei caffè d'importazione. Lei e Moss si erano divise i compiti, quel giorno, visto che le loro ricerche dovevano coprire un'area il più vasta possibile. Mary, con la sua esperienza ventennale di madre, si era assunta l'incarico poco invidiabile di parlare con i famigliari delle prime due vittime, mentre Liska aveva accettato volentieri di incontrare una delle pochissime amiche di Jillian Bondurant, Michelle Fine. Michelle lavorava come cameriera al D'Cup, oltre a cantare e suonare occasionalmente la chitarra sul piccolo palcoscenico incuneato in un angolo, vicino alla vetrata che dava sulla strada. Ai tavoli vicini erano seduti tre clienti, che si godevano un pallido raggio di sole filtrato dalle nuvole dopo tre giorni di grigiore autunnale. Liska si diresse al banco, dove un fusto dall'aria italiana, con un codino di capelli neri e ondulati, stava versando del caffè macinato nel filtro di una macchina da espresso. Alzando la testa, la guardò con gli occhi dello stesso colore del cioccolato fondente, e lei si sentì le ginocchia molli. «Sto cercando Michelle.» Lui annuì, inserendo nella macchina il filtro e facendo ruotare la manopola. «Chell!» La ragazza si fece avanti dalla porta ad arco che dava sul retro, portando un vassoio carico di tazze da caffè pulite, grandi quanto piatti fondi da minestra. Era alta e magra, con un viso stretto e ossuto segnato da cicatrici che Liska attribuì a un vecchio incidente d'auto. Una, ricurva, scendeva dall'angolo della larga bocca, mentre un'altra, simile a un verme corto e piatto, deturpava uno degli zigomi alti. I capelli scuri, ravviati all'indietro e legati sulla nuca, avevano una lucentezza innaturale. Liska mostrò con discrezione il distintivo. «Grazie per aver accettato di incontrarmi, Michelle. Possiamo sederci?» Michelle Fine posò il vassoio e prese la borsetta sotto il banco. «Le dispiace se fumo?»
«No.» «Non riesco a smettere», disse la ragazza, con una voce rugginosa come i cardini di un vecchio garage. La guidò verso un tavolo nella saletta per fumatori. «Tutta questa faccenda di Jillie... ho i nervi scossi.» Quando estrasse una sigaretta lunga e sottile da un modesto astuccio di vinile verde, le tremavano leggermente le dita. Il dorso della mano destra era deturpato da un tratto di pelle rossastra e segnata da piccole cicatrici rotonde. Intorno alla cicatrice era tatuato un serpente dal disegno elegante e intricato che si avvolgeva intorno al polso, appoggiando sul dorso della mano la testa, con una piccola mela rossa in bocca. «Si direbbe una brutta ustione», osservò Liska, indicando la cicatrice con la penna mentre apriva il taccuino. Michelle tese la mano in fuori, come per ammirarla. «Un incendio», rispose con indifferenza. «Quando ero piccola.» Fece scattare l'accendino e fissò la fiamma, accigliandosi per un attimo. «Un dolore d'inferno.» «Lo credo.» «Allora, di che si tratta?» esclamò la ragazza, riscuotendosi dai vecchi ricordi. «Nessuno vuole riconoscere che Jillie è morta, ma si tratta di lei, non è vero? Peter Bondurant ha promesso una ricompensa. Per quale motivo dovrebbe farlo, se non fosse Jillie? Perché nessuno vuole ammettere che è lei?» «Purtroppo non posso commentare la notizia. Da quanto tempo conosce Jillian?» «Da un anno circa. Lei viene qui ogni venerdì, o prima o dopo la seduta con lo strizzacervelli. Abbiamo fatto conoscenza.» Tirò una boccata profonda, espirando attraverso i denti separati da una larga fessura. Aveva gli occhi color nocciola, troppo piccoli e truccati con un tratto pesante di matita nera, le ciglia corte cariche di mascara. Uno sguardo cattivo, lo aveva definito Vanlee. Nikki pensò che «duro» fosse una definizione più appropriata. «E quando l'ha vista per l'ultima volta?» «Venerdì scorso. Si è fermata qui lungo la strada per andare dal vampiro psichico.» «Lei non approva il dottor Brandt? Lo conosce?» «So che è una sanguisuga avida di soldi che se ne infischia di aiutare chiunque, tranne se stesso. Io non facevo che ripeterle di mollarlo e di scegliere una donna come psicoterapeuta. Quell'uomo era l'ultima cosa di cui
aveva bisogno: a lui interessava soltanto infilare la mano nella tasca di papà.» «Sa per quale motivo andava da lui?», «Depressione. Problemi insoluti a causa del divorzio dei genitori e poi screzi con la madre e il patrigno. Le solite stronzate famigliari, giusto?» «Sono lieta di poter dire che non me ne intendo. Le ha mai raccontato qualcosa di specifico?» «No.» Mente, pensò Nikki. «Ha mai fatto uso di droga, che lei sappia?» «Niente di serio.» «E questo che cosa vuol dire?» «Un po' di erba ogni tanto, quando era tesa.» «Da chi la comprava?» L'espressione di Michelle s'indurì, facendo apparire le cicatrici più scure e lucenti. «Da qualche amico.» Cioè da lei, pensò Liska. Allargò le braccia. «Senta, a me non interessa mettere nei guai qualcuno per un po' di erba. Voglio soltanto sapere se Jillian poteva avere qualche nemico.» «No. E poi non si faceva quasi mai. Non come quando viveva in Europa. Allora aveva provato di tutto... sesso, droga, alcol. Ma quando era venuta qui aveva mollato tutto.» «Così, da un momento all'altro? Viene qui e comincia a vivere come una monaca?» Michelle alzò le spalle, spegnendo la sigaretta. «Aveva tentato di uccidersi. Immagino che questo cambi una persona.» «In Francia? Aveva tentato di uccidersi?» «Così mi ha detto. Il patrigno l'ha rinchiusa per qualche tempo in un ospedale psichiatrico. Buffo, visto che rischiava di impazzire per causa sua.» «Come mai?» «Se la scopava. Per un po' di tempo Jillie ha creduto addirittura che fosse innamorato. Voleva che divorziasse dalla madre per sposare lei.» Riferì quella notizia in modo quasi distratto, come se nel suo mondo un comportamento del genere fosse normale. «Alla fine ha preso una manciata di pillole, e il patrigno l'ha fatta rinchiudere. Quando è uscita, è venuta a vivere qui.» Liska annotò quelle notizie in una stenografia personale che lei sola era in grado di leggere. Aveva scovato un filone aurifero. Kovac ci sarebbe
andato a nozze. «Il patrigno è mai venuto qui per vederla?» «No. Credo che il tentativo di suicidio lo avesse spaventato. Jillie diceva che non era mai andato a trovarla neanche in clinica.» «Di che umore era, venerdì?» «Non lo so. Un po' tesa, direi. Il locale era affollato e non abbiamo avuto il tempo di parlare. Le ho detto che l'avrei chiamata sabato.» «E lo ha fatto?» «Sì. C'era la segreteria telefonica. Ho lasciato un messaggio, ma lei non mi ha mai richiamato.» Guardò oltre il vetro, senza vedere niente. Le lacrime cominciarono a scorrerle da quegli occhi dallo sguardo cattivo, e lei serrò le labbra. «Ho pensato soltanto che fosse rimasta a casa del padre», mormorò con la gola stretta. «Ho pensato di riprovare domenica, ma poi... non l'ho fatto.» «Che cosa ha fatto, domenica?» «Niente. Ho dormito fino a tardi. Ho fatto una passeggiata sui laghi. Niente di speciale.» «E il resto del weekend?» insistette Liska. «Che cosa ha fatto venerdì sera, dopo il lavoro?» «Perché?» Il tono divenne subito diffidente, teso, con una punta di panico. «È solo routine. Dobbiamo stabilire dove si trovavano i famigliari e gli amici di Jillian, nel caso abbia tentato di mettersi in contatto con loro.» «Non lo ha fatto.» «Quindi lei era in casa?» «Sono andata al cinema, all'ultimo spettacolo, ma ho la segreteria telefonica. Lei mi avrebbe lasciato un messaggio.» «È mai stata in casa di Jillian?» Michelle tirò su con il naso, asciugandosi gli occhi con la mano, poi inspirò avidamente un'altra boccata di fumo. Le tremava la mano. «Sì, qualche volta. Abbiamo composto della musica insieme. Jillie non vuole esibirsi, ma è brava.» Parlando dell'amica, oscillava dal passato al presente. È sempre un passaggio difficile, dopo la morte di qualcuno. «Nella seconda camera da letto abbiamo trovato dei vestiti che non sembravano suoi.» «È roba mia. Lei abita lontano, vicino al fiume. A volte lavoravamo fino a tardi su una canzone, e così mi trattenevo per la notte.» «Ha una chiave della casa?» «No. Perché dovrei? Non abitavo lì.»
«Come teneva la casa?» «Che differenza fa?» «Era ordinata? Trascurata?» Michelle si dimenò sulla sedia, spazientita da quelle domande che non capiva. «Molto disordinata. Lasciava la roba dappertutto... vestiti, dischi, portacenere. Ma che importanza ha? È morta.» «Chissà, forse ha lasciato la città per qualche giorno», ribatté Liska. «Non lo sappiamo. E lei lo sa?» «No.» «Conosce qualcuno che potrebbe voler male a Jillian?» La ragazza scosse la testa. «Ha un ragazzo? Un ex? Qualcuno che fosse interessato a lei?» «No.» «E lei? Ha un ragazzo?» «No», rispose, guardando il mozzicone che fumava nel posacenere. «Perché dovrei averlo?» «Jillian le ha mai parlato di un uomo che la importunava? Che la spiava, forse? Che cercava di attaccare discorso con lei?» Stavolta la risata di Michelle fu amara. «Lo sa come sono gli uomini. Sempre lì a guardare. Pensano tutti di provarci. Chi bada ai perdenti?» «E i rapporti con il padre? Vanno d'accordo?» Michelle fece una smorfia. «Lei lo adora, non so perché.» «A lei non piace?» «Non l'ho mai conosciuto. Ma lui la controlla, no? Le ha offerto la casa in città, le paga gli studi, sceglie lo psicoterapeuta, paga la terapia. L'invita a cena ogni venerdì. Le ha regalato l'auto.» A Liska sembrava una situazione ideale. Forse avrebbe potuto farsi adottare da Bondurant. Lasciò cadere l'argomento. Cominciava a pensare che Michelle detestasse tutti gli uomini. «Lei sa per caso se Jillian avesse qualche segno caratteristico sul corpo: nei, cicatrici, tatuaggi?» Michelle Fine le lanciò un'occhiataccia. «Come faccio a saperlo? Non eravamo amanti.» «Niente di evidente, quindi. Non aveva cicatrici sul braccio, o un serpente tatuato intorno al polso.» «Che io sappia, no.» «Se dovesse visitare l'appartamento di Jillian, si accorgerebbe della mancanza di qualcosa? Per esempio, se avesse messo dei vestiti in una va-
ligia per partire?» «Credo di sì.» «Bene. Vediamo se è possibile fare un salto laggiù.» Mentre Michelle chiedeva un'ora di permesso al suo datore di lavoro, Liska uscì dal caffè per chiamare Kovac con il cellulare. L'aria era rigida, con una brezza sostenuta, come accadeva spesso nel mese di novembre. Una pallida imitazione delle giornate trionfali tra la fine di settembre e i primi di ottobre, che fanno del Minnesota un a regione senza rivali per chi apprezza il maturo splendore dell'autunno. «Pronto», le ringhiò all'orecchio una voce roca. «Che cos'hai per me?» «Una domanda. Lunedì, controllando la casa di città di Jillian, avete prelevato un nastro dalla segreteria telefonica?» «Era digitale. Nessun messaggio.» «Questa sua amica dice di averla chiamata sabato, lasciando un messaggio. Chi lo ha cancellato?» «Oh, un mistero. Io detesto i misteri. C'è altro?» «Oh, sì.» Liska guardò verso il caffè, oltre la vetrata. «Una storia da far invidia a Shakespeare.» La serratura della porta della casa di città di Jillian Edgewater era stata cambiata e la polizia aveva una chiave nuova di zecca. Liska la usò per aprire. Entrò in camera da letto insieme con Michelle Fine, osservandola mentre esaminava gli armadi, soffermandosi ogni tanto su qualcosa che ridestava in lei un ricordo. «Com'è strano», osservò la ragazza, guardandosi attorno, «vedere la casa così pulita.» «Jillian non ricorreva a una ditta di pulizie?» «No. Una volta il padre aveva tentato di pagarle una cameriera, ma lei aveva detto di no. Non voleva che qualcuno curiosasse nella sua roba. «Mi sembra che non manchi niente», disse alla fine. Ferma davanti al cassettone di Jillian, lasciò vagare lo sguardo sui pochi oggetti che vi erano disposti: un portagioie di mogano, dei candelieri spaiati con candele profumate, una stamina di porcellana che rappresentava una donna elegante in un abito lungo blu. Sfiorò delicatamente la figulina, con un'espressione malinconica. Mentre lei ritirava dalla stanza degli ospiti i pochi capi di vestiario che le appartenevano, Liska scese al piano inferiore per osservare il soggiorno,
vedendolo con occhi diversi dopo aver conosciuto l'amica di Jillian. Sarebbe dovuto essere in disordine, invece non lo era. Non le era mai capitato che un assassino che offrisse un servizio di pulizia, eppure qualcuno aveva ripulito la casa e non si era limitato a cancellare le impronte, ma aveva rimesso tutto in ordine, piegando e riponendo i vestiti, lavando i piatti. I suoi pensieri corsero di nuovo all'amicizia fra Michelle Fine e Jillian Bondurant. Dovevano formare una coppia male assortita: la figlia di un milionario e la cameriera di un caffè. Se Peter Bondurant avesse ricevuto una richiesta di riscatto, quel rapporto sarebbe stato esaminato al microscopio; anche senza, il sospetto balenò nella mente di Liska, per abitudine. Fu soppesato e scartato. Michelle Fine stava collaborando in pieno. Nulla di quanto aveva detto o fatto appariva stonato. Il suo dolore sembrava sincero ed era venato di collera, sollievo e senso di colpa, tutte emozioni che Liska aveva notato più di una volta nelle persone vicine alla vittima di un omicidio. In ogni caso, si riservava di controllare al computer il nome di Michelle Fine, per vedere se saltava fuori qualcosa. Attraversò il soggiorno, diretta verso la tastiera elettronica. Jillian scriveva musica, ma era troppo timida per esibirsi. Quello era il genere di dettaglio che faceva di lei una persona reale, ben più del sapere che era la figlia di Peter Bondurant. Lo spartito sistemato sul leggio era musica classica. Un'altra contraddizione nell'immagine di Jillian. Liska sollevò il sedile imbottito dello sgabello, dando un'occhiata agli altri: folk, rock, musica alternativa, New Age... «Ferma lì!» Il suo primo impulso fu di afferrare la pistola, ma si controllò, restando immobile vicino allo strumento e respirando attraverso la bocca. Girò lentamente la testa e si sentì inondare dal sollievo, mentre in lei si destava la collera. «Sono io, signor Vanlees, l'agente Liska», disse raddrizzandosi. «Per favore, metta giù la pistola.» Vanlees era fermo sulla porta, con la divisa del servizio di sicurezza e una Colt Python stretta in pugno. Liska ebbe la tentazione di strappargli la pistola e sferrargli un colpo con il calcio. L'uomo la guardò e abbassò l'arma, accennando un sorriso imbarazzato. «Oh, mi scusi, detective. Non sapevo che fosse lei. Quando ho visto che c'era qualcuno in casa, ho pensato al peggio. Sa, quelli della stampa scan-
dalistica sono venuti a curiosare.» «E non ha riconosciuto la mia auto?» ribatté Liska. «Eh, pare di no. Mi dispiace.» Un corno, pensò lei. I poliziotti mancati come Vanlees prendevano nota di tutto quello che facevano gli agenti incontrati nel mondo reale. Era pronta a scommettere che avesse annotato il suo numero di targa e riconosciuto senz'altro la marca e il modello. Quella piccola scena era destinata a impressionarla. Gil Vanlees, un uomo d'azione. Sempre all'erta, sempre vigile, sempre attento. Che Dio ci protegga. Scosse la testa. «La sua è un'arma potente, Gil», osservò avvicinandosi a lui. «Immagino che abbia l'autorizzazione per portarla, vero?» Gli occhi di Vanlees divennero gelidi, il sorriso svanì. Non gli piaceva essere ripreso da lei. Non voleva sentirsi rammentare che l'uniforme che portava non era quella vera. Infilò nella cintura la Colt Python. «Sì, ce l'ho.» Liska s'impose di sorridergli. «Non è una buona idea sorprendere qualcuno alle spalle, Gil. Non si sa mai che cosa potrebbe succedere. Oggigiorno hanno tutti i riflessi troppo pronti e potrebbe capitarle di far fuori qualcuno qualcuno. Sarebbe un cattivo affare per tutt'e due, sa?» Ora Gil si rifiutava di ricambiare il suo sguardo, come un bambino rimproverato per aver giocato con gli attrezzi del padre. «Ha detto che i giornalisti sono venuti a curiosare? Ma nessuno è entrato in casa, vero?» Ora lui era distratto e accigliato. Liska lanciò un'occhiata alle sue spalle e vide Michelle Pine sugli ultimi gradini della scala, con un mucchio di vestiti neri stretti al petto. Sembrava offesa dalla presenza dell'uomo. «Signor Vanlees?» lo sollecitò Liska, voltandosi. «Che lei sappia, in casa non è entrato nessuno, giusto?» «Giusto.» Lui indietreggiò di un passo verso la porta, con la mano sul calcio della Python e lo sguardo fisso su Michelle. «Devo andare», disse con aria truce. «Stavo semplicemente tenendo d'occhio la situazione, tutto qui.» Liska lo seguì fuori della porta. «Ehi, Gil, mi scusi se prima sono scattata in quel modo. Mi ha colto di sorpresa, capisce.» Stavolta Vanlees non abboccò. Lei aveva dubitato del suo onore, messo in discussione la sua condizione di pari grado, ferito il suo amor proprio. Il rapporto che Liska era riuscita a costruire due giorni prima traballava dalle fondamenta; si era aspettata che reggesse meglio, e la sua fragilità le ap-
parve un segno rivelatore. Ecco un altro punto da sottoporre a Quinn: l'immagine che Vanlees aveva di sé. L'uomo la guardò appena, imbronciato. «Certo, nessun problema.» «Mi fa piacere che tenga d'occhio la situazione. Ha sentito parlare dell'assemblea cittadina di stasera, vero? Potrebbe farci un salto, se le capita.» Liska lo guardò mentre si allontanava, ponendosi mille interrogativi. Da lontano Vanlees aveva l'aria di un poliziotto, con la divisa blu e nera del servizio di sorveglianza. Sarebbe stato facile per un uomo in uniforme indurre una donna a fermarsi a parlare con lui. Tutt'e tre le vittime di Smokey Joe erano scomparse senza che fosse segnalato un grido, o un'attività sospetta nella zona. D'altra parte, nessuno aveva detto di aver visto un uomo in uniforme nelle vicinanze. «Sono pronta.» Trasalì leggermente nel sentire la voce di Michelle Fine e, voltatasi, la vide in piedi sulla soglia, con i vestiti ficcati alla rinfusa in un sacchetto di plastica. «Bene, la riaccompagno.» Chiuse a chiave la porta, mentre la ragazza l'aspettava ai piedi dei gradini d'ingresso. Vanlees era scomparso oltre la curva del vialetto, ma non dalla mente di Liska. «Lo conosce?» domandò mentre salivano in macchina. «Non di persona», rispose Michelle, stringendo al petto il sacchetto dei vestiti come se fosse un neonato. «Come ho detto prima, chi bada ai perdenti?» Nessuno, pensò Liska accendendo il motore. E mentre nessuno presta loro attenzione, i perdenti possono rimuginare e fantasticare e immaginare di vendicarsi su tutte le donne che non li vogliono e non sono disposte ad amarli. 15 «Allora, John, che ne pensa?» chiese Sabin. «La ragazza ci nasconde qualcosa?» Erano seduti intorno a un tavolo da riunione negli uffici del procuratore della contea: Quinn, Sabin, Kate e Marshall. Quinn guardò Kate, seduta di fronte a lui con la mascella tesa e gli occhi lampeggianti, minacciando una reazione violenta se lui avesse fatto un passo falso. L'ennesimo campo minato da attraversare. Tenne gli occhi fissi nei suoi.
«Sì.» Vide il fuoco divampare nello sguardo di Kate. «Perché ha paura. Probabilmente pensa che l'assassino in qualche modo sappia quello che fa lei, come se potesse vederla mentre parla con la polizia o lo descrive al disegnatore. È un fenomeno comune, non è vero, Kate?» «Sì.» Ora il fuoco si era ridotto a uno strato di brace, pronto a esplodere di nuovo. Quinn era felice che lei provasse ancora sentimenti così forti nei suoi confronti. Le emozioni negative sono pur sempre emozioni. Il vero nemico era l'indifferenza. «La sensazione che il male sia onnisciente», commentò Marshall. «L'ho riscontrato più volte. È affascinante. La provano anche le vittime più razionali ed equilibrate.» Azionò il telecomando del videoregistratore, riavvolgendo il nastro fino al principio dell'interrogatorio iniziale, appena un'ora dopo che Angie DiMarco era stata fermata. Lo avevano già esaminato: fermando l'immagine nei punti più significativi, Marshall e Sabin si erano girati ogni volta a fissare Quinn, in attesa di una rivelazione, come discepoli seduti ai piedi di Cristo. «Qui si vede chiaramente che è terrorizzata», disse Marshall, ripetendo con autorevolezza quello che Quinn aveva già detto la prima volta che lo avevano visionato. «Ha perfettamente ragione, John.» John. Il mio amico, il mio collega. Quella familiarità irritava Quinn, anche se faceva di tutto per instaurarla. Era stanco di sentire persone che fingevano di conoscerlo, e ancora più stanco di vederle così impressionate da lui. Si domandò quanto sarebbe rimasto impressionato Rob Marshall se avesse saputo che il più delle volte lui si svegliava nel cuore della notte, tremando, perché non riusciva più a reggere alla tensione. Sabin, invece, sembrava dispiaciuto, come se avesse sperato in un pretesto per mettere la ragazza in carcere. «Forse dietro le sbarre si sentirebbe più sicura.» «Angie non ha fatto niente di male», scattò Kate. «Non era tenuta ad ammettere di aver visto il maniaco. Ha bisogno di aiuto, non di minacce.» Il collo del procuratore cominciò ad arrossarsi. «È preferibile non creare una situazione di conflitto, Ted», affermò con calma Quinn. «È la ragazza a crearla», obiettò Sabin. «Mi ha fatto subito una cattiva impressione. Avremmo dovuto vedere il bluff fin dall'inizio, farle capire che non siamo disposti a lasciarci menare per il naso.» «Io penso che abbiate gestito la situazione in modo perfetto», ribatté
Quinn. «Una ragazzina come Angie non ha fiducia nel sistema. Dovevate affiancarle un'amica, e Kate è stata la scelta ideale. È sincera, schietta, non si dà arie e non è ipocrita. Lasciatela alle sue cure. Con le minacce non caverete niente da quella ragazza. Le minacce se le aspetta, non fanno altro che rimbalzarle addosso.» «Se non ci fornisce qualche elemento da utilizzare, non ci sarà niente da curare», gli fece notare Sabin. «Se non ci dà qualcosa, non ha senso sprecare per lei le risorse della contea.» «Che ne pensa di questo, John?» domandò Marshall, puntando il telecomando verso lo schermo. Era tornato all'inizio del nastro. «L'uso dei pronomi personali: 'Non lo conosco. È una specie di maniaco'. Pensa che potrebbe essere significativo?» Quinn si lasciò sfuggire un sospiro spazientito. «E in quale altro modo potrebbe definirlo?» Marshall mise il broncio. «Ho seguito dei corsi di psicolinguistica. L'uso del linguaggio può essere molto significativo.» «Sono d'accordo», rispose Quinn, con maggiore tatto. «Ma si corre il rischio di esasperare troppo l'analisi. Penso che con questa ragazza la soluzione migliore sia tirarsi indietro e lasciar fare a Kate.» «Dannazione, ci serve un elemento nuovo», disse Sabin, quasi fra sé. «Oggi non ha aggiunto quasi niente all'identikit. Il ritratto che ci ha dato potrebbe corrispondere a chiunque.» «Potrebbe essere il massimo che la mente le consente di vedere», osservò Kate. «Che cosa vuole che faccia, Ted? Che inventi qualcosa, in modo da farci credere che ce la sta mettendo tutta?» «Sono certo che nessuno voglia suggerire questo», ribatté Marshall con disapprovazione. «Era solo una battuta per illustrare il mio punto di vista, Rob.» «In ogni caso è un elemento prezioso per le indagini», dichiarò Quinn. «Possiamo usarla come una minaccia, far trapelare indiscrezioni alla stampa, come se lei ci avesse detto più di quanto ha fatto in realtà. Possiamo servirci di lei in tanti modi.» «La mia paura, è che ci abbia mentito su tutta la linea», ammise Sabin, contagiato dallo scetticismo di Edwyn Noble. Kate si sforzò di non reagire con stizza. «Abbiamo già esaminato quest'aspetto della questione. Non ha senso. Se volesse soltanto il denaro, domenica sera sarebbe uscita alla chetichella dal parco e non avrebbe detto una parola finché non fosse stata offerta la ricompensa.»
«E si farebbe in quattro per fornirci dettagli», aggiunse Quinn. «L'esperienza mi insegna che l'avidità cancella la paura.» «E se fosse coinvolta in qualche modo?» suggerì Marshall. «E cercasse di allontanarci dalla pista o di ottenere informazioni riservate...» Kate lo fulminò con lo sguardo. «Non essere assurdo. Se fosse legata a questo pazzoide, ci fornirebbe un ritratto dettagliato di un fantasma al quale dare la caccia. E non conosce nessun dettaglio che il Crematore non possa leggere sul giornale.» Marshall abbassò gli occhi sul tavolo, con i lobi delle orecchie arrossati. «È una ragazzina spaventata e piena di problemi», conclude Kate alzandosi. «E io devo tornare da lei prima che appicchi il fuoco al mio ufficio.» «Abbiamo finito, qui?» domandò Marshall. «Io credo di sì. Kate ha parlato.» Lei lo fissò con aperta avversione prima di uscire. Sabin la seguì con gli occhi - fissi sul sedere di Kate, pensò Quinn - e quando fu uscita esclamò: «Era così bellicosa anche al Bureau?» «Anche di più», rispose Quinn, seguendola fuori. «Come, te ne vai anche tu?» esclamò Kate nel vederlo. «Non vuoi restare a farti adulare da Rob? E quello che sa fare meglio.» «Non hai molta stima del tuo capo. Non che sia una novità.» «Neanche tu ne hai una grande stima», ribatté Kate, lanciando un'occhiata indietro. «Rob Marshall è un viscido e ossequioso leccapiedi, ma, in tutta onestà, crede sinceramente nel nostro lavoro e si sforza di farlo con imparzialità.» Lasciandosi sfuggire un sospiro, si girò per fronteggiarlo. «Grazie per avermi spalleggiato.» Quinn fece una smorfia. «Ti urta davvero tanto, Kate?» «Mi dispiace, ma io non sono come te. Detesto i giochi di potere che accompagnano un caso del genere. Non intendevo chiedere il tuo aiuto. Ma immagino che il minimo che io possa fare sia mostrare una sincera gratitudine.» «Non è necessario. Non ho fatto altro che dire la verità. Sabin voleva un altro parere e lo ha avuto. Dovresti esserne felice.» «Non avevo bisogno di sentirmi dire da te che avevo ragione. Quanto alla felicità, in questo caso non ce n'è davvero.» «Tanto più che sono qui io.» «Non intendo continuare questa conversazione.» «Mi dispiace, Kate», le disse lui a bassa voce, posandole una mano sul braccio. «Non ho intenzione di litigare con te, sul serio.»
Le stava troppo vicino, con gli occhi scuri troppo grandi, le ciglia lunghe e folte, quasi femminili in un viso così rude e virile. Quel genere di viso che fa palpitare il cuore di qualsiasi donna. Prendendo fiato, Kate sentì qualcosa tendersi dentro di lei. La nocca del pollice di lui le sfiorava il seno, e si resero conto entrambi di quel contatto nello stesso istante. «Kate, io...» Il cercapersone di Quinn squillò e lui imprecò sottovoce, lasciandola andare. Kate si ritrasse, appoggiando l'anca alla balaustra dell'atrio, incrociando le braccia sul petto e cercando di ignorare le sensazioni ridestate da quel fugace contatto. Lo guardò controllare il display e prendere dalla tasca un minuscolo cellulare. La luce del giorno che entrava dall'estremità meridionale dell'atrio metteva in rilievo i fili bianchi fra i suoi capelli cortissimi. Suo malgrado, Kate si domandò se c'era una donna, laggiù in Virginia, che si preoccupava della sua salute e del livello di stress che era costretto ad affrontare. Chiudendo di scatto il cellulare dopo la telefonata, lui si lasciò sfuggire un sospiro, passandosi distrattamente una mano sullo stomaco. «Qual è il tuo carico di lavoro, in questo periodo?» gli domandò Kate. «Il solito», rispose con una spallucciata. Vale a dire superiore a quello di qualsiasi altro elemento dell'unità, superiore a quello che chiunque poteva umanamente sopportare, a meno di rinunciare a ogni altro aspetto della vita. C'erano stati momenti in cui lei aveva etichettato la sua ossessione con il termine di ambizione, e altri in cui era riuscita a vedere oltre la superficie, rendendosi conto che era sull'orlo di un abisso interiore, profondo e oscuro. Riflessioni pericolose, perché la reazione istintiva era il desiderio di tirarlo indietro, per evitare che precipitasse. La vita era sua. Lei non lo voleva neppure lì, vicino a sé. «Devo tornare da Angie», annunciò. «Non sarà felice di essere stata lasciata da sola. Non so neppure perché me la prendo tanto a cuore», aggiunse brontolando. «Le sfide ti sono sempre piaciute.» «Dovrei farmi visitare da uno strizzacervelli.» «In questo non posso aiutarti, ma che ne dici di cenare insieme?» Kate per poco non scoppiò a ridere, più incredula che divertita. Che ne dici di cenare insieme? Due minuti prima si stavano accapigliando. Li dividevano cinque anni, oltre a un pesante bagaglio di emozioni, eppure... eppure cosa? Lui l'ha superata e io no? «Non credo. Comunque grazie.»
«Potremo parlare del caso», disse lui, facendo marcia indietro. «Ho qualche idea che mi piacerebbe sottoporli.» «Non è compito mio. Non faccio più parte dell'ISU», gli rammentò, dirigendosi verso la sezione riservata al servizio di protezione vittime e testimoni. Batté rapidamente il codice di accesso sul pannello vicino alla porta. «Tu eri un'esperta nel campo», le rammentò Quinn. «Si tratta di analizzare la vittima...» «Ti ringrazio di avermi aiutata con Sabin», tagliò corto lei, quando la serratura scattò, permettendole di girare la maniglia. «Ora devo tornare nel mio ufficio, prima che la testimone mi rubi tutte le penne.» Angie si aggirava nell'ufficio di Kate, irrequieta, curiosa, nervosa. Kate era insoddisfatta dell'identikit. Non aveva quasi aperto bocca, mentre tornavano dal dipartimento di polizia. La ragazza si sentiva assalire dal senso di colpa, come se mille aghi minuscoli la pungessero. Kate stava tentando di aiutarla, ma lei doveva badare a se stessa. Le due cose non andavano necessariamente di pari passo. Come poteva sapere che cosa era giusto? Sei una buona a nulla! Non ne fai mai una giusta! «Ci sto provando», sussurrò. Stupida sgualdrinella. Non ascolti mai. «Ci sto provando.» Spaventata, ecco che cos'era, ma non avrebbe mai pronunciato quella parola, neppure mentalmente. La Voce si nutriva della sua paura. La paura alimentava la Voce. Poteva sentire quelle due forze che ingigantivano dentro di lei. Te lo do io qualcosa di cui avere paura. Si tappò le orecchie con le mani, come se potesse escludere le voci che echeggiavano solo nella sua mente. Per qualche istante si dondolò, tenendo gli occhi spalancati, perché se li avesse chiusi avrebbe visto immagini che non voleva rivedere. Il suo passato era come un brutto film che veniva proiettato all'infinito nella sua mente, sempre lì, pronto a far emergere emozioni che era meglio lasciare sepolte. Odio e amore, rabbia e dipendenza. Odio e amore, odio e amore, odioeamore... per lei erano una parola sola. Sentimenti così aggrovigliati da essere inseparabili, come le membra di due animali allacciati in una lotta. La paura cominciò a ingigantire. Il Cerchio si avvicinava. Hai paura di tutto, non è vero, piccola sgualdrinella pazza?
Tremando, lei fissò i volantini fissati alla bacheca di Kate, leggendo i titoli per concentrarsi su qualcosa prima che il Cerchio potesse inghiottirla. Poi i titoli divennero sfocati e lei si sedette, ansimando leggermente. Perché diavolo ci metteva tanto, Kate? Era uscita senza dare spiegazioni, dicendo che sarebbe tornata dopo qualche minuto. Ma quanti minuti erano passati? Angie cercò un orologio, lo trovò, ma non riuscì a ricordare che ore fossero, quando Kate l'aveva lasciata sola. Non aveva guardato l'orologio, allora? Perché non riusciva a ricordare? Perché sei una stupida, ecco perché. Stupida e pazza. Cominciò a rabbrividire. Aveva l'impressione che la gola le si chiudesse. In quella stanzetta non c'era aria. Le pareti si chiudevano su di lei. Con le lacrime agli occhi, tentò di deglutire. Il Cerchio si avvicinava. Lo sentiva arrivare, avvertiva la differenza nella pressione dell'aria intorno a sé. Avrebbe voluto fuggire, ma non c'era modo di fuggire al Cerchio o alla Voce. Allora fa' qualcosa. Fermalo, Angel. Sai come devi fare. Si rimboccò freneticamente le maniche del giubbotto e del maglione, graffiando le linee bianche delle cicatrici con una delle unghie smangiucchiate, fino ad arrossarle. Avrebbe voluto raggiungere il taglio che si era fatta il giorno prima per riaprirlo, ma non riusciva a tirare su le maniche e non osava togliersi il giubbotto, nel timore che entrasse qualcuno proprio in quel momento. Kate le aveva detto di aspettare, perché sarebbe tornata nel giro di pochi minuti. Intanto i minuti passavano. Allora saprà fino a che punto sei pazza, Angel. Il Cerchio si avvicinava... Sai che cosa fare. Ma Kate stava tornando. Fallo. Cominciò il tremito. Fallo. Il Cerchio si avvicinava... Fallo! Non aveva il coraggio di prendere il taglierino dallo zainetto. Come avrebbe fatto a spiegarne la presenza? Poteva ficcarselo in tasca... Si sentiva attanagliare dal panico. Lo sentiva insinuarsi nella sua mente, incrinarla, ma proprio allora lo sguardo le cadde sulla vaschetta piena di fermagli sulla scrivania di Kate. Senza esitare, ne prese uno e lo raddrizzò, tastandone l'estremità con il
polpastrello. Non era affilato come la lama di rasoio. Le avrebbe fatto più male. Vigliacca. Fallo! «Ti odio», mormorò, lottando per respingere le lacrime. «Ti odio. Ti odio.» Fallo! Fallo! «Basta! Basta! Basta!» sussurrò, mentre la pressione aumentava nella sua testa fino a darle l'impressione che potesse scoppiare. Passò l'estremità metallica su una vecchia cicatrice che aveva sul polso, dove la pelle era bianca e sottile come un foglio di carta velina. Si fece un taglio in direzione parallela a una vena sottile e azzurrina, e con gli occhi velati dalle lacrime attese di vedere il sangue. Denso e rosso, una sottile linea liquida. Il dolore fu intenso e soave, il sollievo immediato. La pressione si allentò. Poteva respirare di nuovo. Poteva pensare. Guardò per un attimo il nastro scarlatto, mentre una parte perduta di lei, giù in fondo, avrebbe voluto piangere. Ma la sensazione dominante era sollievo. Mise da parte il fermaglio metallico e si asciugò il sangue con l'orlo del maglione. La linea rossa spuntò di nuovo, assicurandole un'altra ondata di calma. La fissò a lungo, poi accostò il polso alle labbra e leccò lentamente. Provò un senso di appagamento quasi sensuale. Aveva sconfitto il demone e lo aveva consumato. Passò la lingua sul taglio, assorbendo le ultime gocce di sangue. Ancora stordita e tremante, riabbassò la manica e si alzò dalla sedia per esplorare l'ufficio, notando ogni dettaglio per imprimerlo nella memoria. I cassetti della scrivania erano chiusi a chiave. La borsa non era in vista. Provò ad aprire il classificatore, pensando di trovare il suo fascicolo, ma anche quello era chiuso a chiave. Mentre sfiorava i documenti sulla scrivania, fu colpita dal cambiamento verificatosi in lei: appena un attimo prima era in preda al panico e ora si sentiva forte e padrona di sé, come quando era uscita da Phoenix House ed era rientrata senza che nessuno la scoprisse. Detestava quella sua parte che restava padrona del campo quando sfuggiva al Cerchio. Odiava la sua debolezza. Sapeva di poter essere forte. Sono io che ti rendo forte, Angel. Tu hai bisogno di me. Tu mi ami. Tu mi odi. La nuova forza che sentiva in sé le permetteva di ignorare la Voce.
Fece ruotare le schede dell'indirizzario, fermandosi sul nome Conlan. Frank e Ingrid, Las Vegas. I genitori di Kate, intuì. Kate doveva avere dei parenti normali. Un padre che andava al lavoro vestito decorosamente di scuro. Una madre che cucinava l'arrosto e sfornava biscotti. Non quel genere di madre che si droga e va a letto con tutti. Non quel genere di padre che se ne infischia dei figli e li lascia in balia dei balordi che la madre si porta a casa. I genitori di Kate Conlan avevano amato la figlia come tutte le persone normali amano i loro figli. Kate Conlan non era mai stata chiusa a chiave in un armadio a muro o frustata con un appendiabiti di filo metallico o costretta ad andare a letto con il patrigno. Angie strappò la scheda dall'indirizzario, la ridusse in tanti pezzetti minuscoli e se la mise nella tasca del giubbotto. C'erano delle buste ancora chiuse nel vassoio della posta in arrivo e un'altra pila nel vassoio della posta in partenza. Angie prese le buste, esaminandole. Ce n'era una di colore giallo vivo, scritta a mano e indirizzata a una certa Maggie Hartman, con l'indirizzo del mittente indicato su un'etichetta adesiva in oro nell'angolo in alto a sinistra: Kate Conlan. Angie imparò a memoria l'indirizzo prima di rimettere a posto le buste, trasferendo la sua attenzione sulla collezione di minuscoli angioletti che aveva visto la prima volta che era entrata in quell'ufficio. Erano disposti a caso sopra il contenitore delle pratiche, sulla scrivania. Erano uno diverso dall'altro: vetro, ottone, argento, peltro, ceramica dipinta, non più alti di due o tre centimetri. Angie scelse quello di ceramica dipinta, che aveva i capelli neri e dei puntini turchesi sulla tunica. Aveva le ali con i bordi dorati e un'aureola dorata sulla testa. Guardandolo da vicino, fissò il viso tondo con due puntini neri al posto degli occhi e un sorriso allegro. Aveva l'aria felice e innocente, semplice e dolce. Tutto quello che non sei tu, Angel. Ben sapendo che non era il caso di cedere alla profonda malinconia in agguato nel suo cuore, Angie si allontanò dalla scrivania, infilandosi l'angioletto in tasca proprio mentre la maniglia della porta veniva girata. Un attimo dopo, entrò Kate nella stanza. «Dove diavolo sei stata?» esclamò Angie. Kate la guardò, rimangiandosi la risposta brusca che aveva già sulla punta della lingua. «A limitare i danni», fu la spiegazione più diplomatica che le riuscì di trovare. «Mi spiace di aver fatto tardi.» Tutta l'arroganza di Angie svanì all'istante. «Ho fatto del mio meglio!»
Kate ne dubitava, ma non c'era niente da guadagnare a dirlo. Quello che doveva fare, adesso, era riuscire a estorcere tutta la storia a quella ragazzina. Si lasciò cadere sulla sedia, aprì il cassetto delle matite che era chiuso a chiave e prese un flacone di pillole contro l'emicrania. Ne mandò giù due con un sorso di caffè ormai freddo e una smorfia, prima che le si affacciasse alla mente l'idea che la sua affascinante protetta poteva avvelenarla. «Non preoccuparti per l'identikit», le disse, massaggiandosi la base della nuca per allentare la tensione. Controllò con discrezione la scrivania, come faceva sempre quando lasciava un cliente solo in ufficio. Uno degli angioletti mancava. Angie si sedette sulla sedia riservata ai visitatori, appoggiando un braccio sulla scrivania. «E ora che cosa succederà?» «Niente. Sabin è frustrato, ha bisogno di un colpo di scena, e sperava che tu glielo fornissi. Ha parlato di scaricarti, ma l'ho convinto a ripensarci, almeno per ora. Ora sei fra l'incudine e il martello, Angie. Lo so che il tuo primo istinto è tenerti tutto dentro e lasciare il resto del mondo fuori, ma devi ricordare una cosa: il segreto che nascondi, lo condividi con un altro... e lui ti ucciderà per questo.» «Non serve che cerchi di farmi paura.» «Dio, spero proprio di no. L'uomo che hai visto tortura le donne, le uccide e dà fuoco al loro cadavere. Spero che questo ti faccia paura più di qualunque cosa possa dirti io.» «Tu non sai che cosa significa avere paura», l'accusò Angie, scattando dalla sedia e cominciando a camminare avanti e indietro, rosicchiandosi le unghie. «Allora dimmi qualcosa. Qualcosa che io possa gettare in pasto a Sabin e ai poliziotti per tenerli a bada. Che ci facevi nel parco, quella notte?» «Te l'ho detto.» «Stavi tagliando attraverso il parco, lo so. Se eri con qualcuno, non capisci che lui potrebbe aver visto l'assassino? Potrebbe aver intravisto una macchina. Potrebbe almeno confermare la tua versione e, nella migliore delle ipotesi, potrebbe aiutarci a catturare questo mostro.» «Che cosa credi?» ribatté Angie. «Che io sia una puttana? Una di quelle che scopano il primo che passa per una manciata di spiccioli? Te l'ho detto che cosa facevo lì. E questo significa che mi consideri una puttana, oltre che una bugiarda. Vaffanculo.» Uscì come una furia dalla porta. Kate la seguì. «Ehi, ora basta con queste stronzate», le ordinò, afferrandola per il brac-
cio e restando quasi sorpresa dalla sua gracilità. L'espressione di Angie tradiva tanto sorpresa quanto collera. Non se l'aspettava. Non era quello il modo in cui avrebbero reagito le innumerevoli assistenti sociali che aveva conosciuto nella sua giovane vita. «Cosa?» esclamò Kate. «Credevi che mi sarei pentita e scusata? Ti aspettavi che io dicessi: 'Oh, santo cielo, ti ho offeso, Angie! Come ho potuto pensare che tu facessi qualcosa per sopravvivere sulla strada!?'» Atteggiò il viso a un'espressione sbigottita, poi tornò seria. «Ma tu credi che io sia arrivata proprio adesso dalla campagna? So bene come va il mondo, Angie. So che cosa sono costrette a fare per sopravvivere le donne senza casa e senza lavoro. «Sì, francamente penso proprio che tu fossi nel parco a scoparti qualcuno per pochi spiccioli. E so benissimo che sei una bugiarda. Sei anche una ladra. Quello che voglio dirti è: non me ne importa. Non intendo giudicarti. Non posso fare niente per rimediare a quello che ti è successo prima che entrassi nella mia vita, Angie. Posso soltanto aiutarti ad affrontare quello che succede adesso e che succederà in futuro. Questa faccenda rischia di sommergerti e io voglio aiutarti. Riesci a ficcartelo in quella testa dura e a smettere di combattermi?» Per un attimo regnò un silenzio assoluto, mentre si fronteggiavano nel corridoio, una furiosa, l'altra diffidente. Poi squillò un telefono, e Kate si accorse che Rob Marshall faceva capolino dalla porta del suo ufficio. Rimase tutta concentrata su Angie, augurandosi che Rob ne restasse fuori. La desolazione negli occhi della ragazza era tale da spezzarle il cuore. «Perché dovrebbe importarti di quello che mi succede?» chiese sottovoce Angie. «Perché non c'è nessun altro a cui importi.» Gli occhi azzurri della ragazza si riempirono di lacrime, a riprova della verità di quello che aveva detto Kate. Nessuno si era mai curato di Angie DiMarco, e lei non osava credere che ora qualcuno fosse pronto a farlo. La fissò ancora per un attimo, soppesando le alternative, oppressa dal loro peso. Una lacrima le scivolò sulla guancia. «Non mi piace», sussurrò con una vocina infantile, il labbro inferiore tremante. Lentamente, con cautela, Kate passò un braccio sulle spalle di Angie per attirarla a sé, assalita da un desiderio di consolarla così intenso che le faceva paura. Qualcuno aveva messo al mondo quella ragazza senza altra ragione che
punirla per i propri errori. L'ingiustizia della sorte ardeva come una fiamma nel petto di Kate. Ecco perché non lavoro con gli adolescenti, pensò. Mi lascio coinvolgere troppo. Il corpo della ragazza tremò, lasciando affiorare ancora un fiotto di quell'emozione che minacciava di stritolarla. «Mi dispiace», mormorò. «Mi dispiace tanto.» «Lo so, piccola», rispose lei con voce roca, battendole la mano sulle spalle. «Dispiace anche a me. Ora sediamoci e parliamo. Questi dannati tacchi saranno la mia morte.» 16 «C'è da non credere al materiale che arriva sulla 'linea telefonica dedicata'», commentò Gary Yurek, depositando un grosso fascicolo e un taccuino per appunti sul tavolo del centro operativo dell'ex Loving Touch. «Figuratevi che ha chiamato una donna per dire che secondo lei il suo vicino di casa è il Crematore, perché il suo cane lo detesta!» «Di che razza è?» domandò Tippen. «Uno spaniel americano», rispose Elwood, scostando una sedia dal tavolo. «Una razza simpatica e allegra, nota per l'abitudine di disseppellire cadaveri e giocare con le parti del loro corpo.» «Si direbbe il tuo ritratto, Elwood», commentò Liska, assestandogli un pugno sul braccio mentre passava. «Ehi, lasciatemi i miei hobby!» «Qualche altra segnalazione di Jillian Bondurant?» chiese Hamill. Yurek rispose disgustato: «Sì, da parte di un meccanico di Brooklyn Park che pronunciava ogni due secondi la parola 'ricompensa'.» Quinn prese posto al tavolo, con la testa che pulsava. Il suo cervello desiderava una tazza di caffè, ma lo stomaco diceva di no, con il preciso linguaggio del dolore. Pescò dalla tasca una compressa antiacido e la inghiottì con un sorso di Diet Coke. Mary Moss gli porse un pacco di fotografie che aveva ricevuto dai genitori di Lila White, scattate pochi giorni prima del delitto. «Voglio i rapporti sui progressi delle indagini!» ordinò Kovac, riuscendo a sfilarsi il cappotto mentre reggeva tre fascicoli e si avviava a prendere posto a capotavola. «I tabulati telefonici di Jillian non rivelano niente che sia fuori dell'ordinario», riferì Elwood. «Chiamate al padre, allo strizzacervelli, a questa a-
mica che Tinks è andata a trovare. Niente di insolito nelle ultime due settimane. Ho chiesto anche i dati relativi al cellulare, ma i computer sono sovraccarichi di lavoro, quindi non li ho ancora ricevuti.» «Abbiamo una lista di dipendenti della Paragon licenziati negli ultimi diciotto mesi», disse Adler. «Nessuno di loro ha mostrato un atteggiamento particolarmente vendicativo nei confronti di Peter Bondurant. Abbiamo controllato i loro nomi al computer, ma senza trovare fatti di rilievo. «In generale», continuò, «nessuno di quelli che lavorano per Bondurant sembra entusiasta di lui, ma nessuno ha particolari rimostranze da fare, con una sola, vistosa eccezione. Bondurant fondò la Paragon negli anni settanta insieme con un socio, Donald Thorton. In seguito rilevò la quota di Thorton, nel 1986.» «Più o meno all'epoca del divorzio», osservò Kovac. «Esattamente all'epoca del divorzio. Versò a Thorton una bella somma, più del dovuto, secondo alcuni. Thorton in seguito cominciò ad avere seri problemi con l'alcol e il gioco d'azzardo, e nel 1989 finì con l'auto nelle acque del lago Minnesota. Una pattuglia costiera lo ripescò prima che annegasse, ma aveva riportato gravi lesioni al cervello e la frattura della spina dorsale. La moglie ne dà la colpa a Bondurant.» «Come mai?» «Non ha voluto parlarne al telefono. Chiede un colloquio privato.» «Me ne occupo io», disse subito Kovac. «Chiunque abbia qualcosa da dire contro Mister Miliardo non può che essere un amico.» Walsh alzò una mano, coprendosi la bocca con l'altra mentre tossiva con tanta violenza da far temere che potesse sputare un mezzo polmone. Quando riuscì a recuperare il fiato, aveva il viso paonazzo. «Ho appena chiamato l'ufficio dell'addetto legale a Parigi», riferì con voce strozzata. «Stanno controllando il patrigno, Serge LeBlanc, sia attraverso l'Interpol sia presso le autorità francesi, ma penso che sia una pista senza sbocchi. Venire fin qui per eliminare due prostitute e la figliastra? Mi sembra impossibile.» «Avrebbe potuto pagare qualcuno», suggerì Tippen. «No», ribatté Quinn. «Questo è un classico omicidio a sfondo sadico. L'assassino ha un protocollo preciso da seguire. Non lo fa per soldi, lo fa perché la cosa lo eccita.» «LeBlanc è molto seccato dalle indagini, tutt'altro che disposto a collaborare», aggiunse Walsh. «Dice che consegnerà le radiografie dentarie di Jillian, il che per il momento non ci serve a niente. Ha accettato anche di consegnare tutte le lastre che ha, ma niente di più. Non vuole inviare l'inte-
ro dossier che riguarda la figliastra.» Kovac s'illuminò. «E perché? Che cosa cerca di nascondere?» «Forse che ha fatto sesso con lei, l'ha spinta a tentare il suicidio e poi l'ha fatta rinchiudere in un istituto psichiatrico», suggerì Liska, godendosi la soddisfazione di avere sconfitto sul campo i maschietti. Poi riferì le informazioni ottenute da Michelle Fine. «Le ho chiesto anche di passare a farsi prendere le impronte digitali, in modo che possiamo eliminarle dalle altre trovate nell'appartamento di Jillian. A proposito, è confermato che qualcuno ha ripulito la casa durante il weekend. L'amica dice che Jillian era molto disordinata.» «Forse l'assassino è stato in casa sua, quella sera», commentò Adler. «Non voleva lasciare delle tracce.» «Posso capire che volesse cancellare le impronte», obiettò Elwood. «Ma perché rimettere in ordine? Non ha senso.» Quinn scosse la testa. «No. Se fosse stato lì, non avrebbe pulito e riordinato. Semmai, avrebbe peggiorato le cose, per mancare di rispetto alla vittima. Avrebbe messo tutto a soqquadro, urinando o defecando in qualche punto bene in vista.» «Quindi siamo di fronte a un altro mistero», concluse Kovac. Rivolgendosi a Liska, le domandò: «Hai controllato i precedenti di Michelle Fine?» «Nessuna incriminazione, nessun mandato, nulla. Non ha un ragazzo, dice lei, e io sono propensa a crederle. Dichiara che lei e Jillian non erano amanti. Fra loro c'era forse uno scambio di droga, ma roba da poco, direi.» «Jillian e Michelle scrivevano musica insieme», osservò Quinn, prendendo un appunto. «Che genere di musica?» «Folk alternativo», rispose Liska. «Stronzate sull'angoscia della donna che odia gli uomini, direi, a giudicare dall'idea che mi sono fatta di Michelle. È un vero caso clinico. Alanis Morissette con una sindrome premestruale.» «E dov'è questa musica? Mi piacerebbe vederla.» «Super G-man e talent scout, tutto in una sola persona», commentò sarcastico Tippen. Quinn gli lanciò un'occhiata tagliente. «La musica è un fatto personale, intimo. Rivela molte cose sulla persona che l'ha scritta.» Liska corrugò la fronte, riflettendo. «Ho visto degli spartiti, ma di quelli che si acquistano al negozio. Non ho visto niente che fosse scritto a mano.» «Guarda se l'amica ha delle copie», suggerì Kovac.
«Lo farò, ma credo che dovremmo controllare la posizione di Vanlees. Quel tipo ha qualche rotella fuori posto, e corrisponde abbastanza al profilo di John.» «Precedenti penali?» chiese Quinn. «Niente di serio. Una sfilza di multe per sosta vietata e un paio di piccoli reati, tre o quattro anni fa. Violazione di domicilio e guida in stato di ubriachezza, il tutto nell'arco di diciotto mesi o poco più.» «Violazione di domicilio?» Quell'informazione fece scattare un segnale di allarme nella mente di Quinn. «Era il capo d'accusa iniziale, oppure il risultato di un patteggiamento?» «Il risultato finale.» «Scavate più a fondo. Molti guardoni patteggiano per derubricare il capo d'accusa, le prime volte. Sembrano creature troppo patetiche perché valga la pena di portare fino in fondo l'incriminazione per un reato così banale. Controllate anche le multe e le località in cui sono state emesse in relazione all'indirizzo in cui è avvenuta la violazione di domicilio.» Tippen si protese verso Adler. «Già, potremmo avere per le mani un esibizionista seriale.» «Devono pur cominciare da qualche parte, Tippen», replicò Quinn. «Lo strangolatore di Boston cominciò spiando dalle finestre e anche allora qualche sbirro testa di cazzo liquidò la faccenda come una ragazzata.» Il detective fece per alzarsi dalla sedia. «Ehi, vaff...» «Calma, ragazzi», ordinò Kovac. «Non possiamo sprecare il nostro tempo a controllare chi ce l'ha più lungo. Tinks, verifica se questo tizio ha fatto il servizio civile nei parchi.» «E che tipo di macchina guida», aggiunse Quinn. «Sarà fatto. Gli ho ricordato l'incontro pubblico di questa sera. Scommetto che si farà vedere.» «A proposito», disse Kovac, «vi voglio tutti sul posto alle sette e mezzo. Faremo rilevare i numeri di targa nel parcheggio dalle unità di sorveglianza della squadra speciale di Minneapolis e della Narcotici. Yurek farà da maestro di cerimonie. Voialtri mescolatevi alla folla e, per l'amor di Dio, cercate di non sembrare poliziotti.» «A parte il ragazzo copertina», commentò Tippen, tenendo sollevata la copia dello Star Tribune di quel giorno, con il titolo: «Il massimo esperto di profili dell'FBI si occupa del caso». «Chissà, magari si beccherà due titoli di fila.» Quinn si accigliò, tenendo a freno la collera. «Non voglio titoli. Dirò
qualche parola, ma sarò breve e mi terrò nel vago.» «Proprio come ha fatto con noi?» «Che cosa vorrebbe che dicessi, Tippen? Che l'assassino porterà una scarpa rossa?» «Sarebbe già qualcosa. Che diavolo ci ha dato, finora, a spese dei contribuenti? Una fascia di età e la possibile descrizione di due veicoli che potrebbe guidare, oppure no. Che andava a letto con la madre e si faceva le seghe sulle riviste pornografiche? Sai che scoperta!» «Lo sarà, se fermeremo un sospetto. E non credo di aver mai detto che andava a letto con la madre.» «Tip rivive la sua infanzia.» «Piantala, Chunk.» «È possibile», riprese Quinn, fissando il detective dell'ufficio dello sceriffo per il gusto di vederlo fremere. «Parlo del soggetto, ovviamente. È probabile che nel suo passato ci sia un comportamento sessuale non appropriato, tanto in generale quanto in particolare verso di lui, da bambino. Probabilmente la madre aveva un comportamento sessuale promiscuo, forse era una prostituta. Il padre era una figura debole o del tutto assente. La disciplina era incoerente e oscillava dall'indifferenza all'estrema severità. «Era un bambino sveglio, ma con molte difficoltà nell'ambiente scolastico. Non riusciva a stabilire rapporti con i compagni. Coltivava fantasie di dominio e controllo dei suoi pari. Era crudele con gli animali e gli altri bambini. Appiccava incendi, rubava. Era un bugiardo patologico, fin dai primi anni di vita. «Alle scuole superiori stentava a concentrarsi a causa dell'intensità delle fantasie sessuali, che cominciavano già a diventare violente. Si cacciava nei guai con le figure autoritarie, forse incorreva in qualche arresto. La madre appianava i suoi problemi, lo giustificava, lo toglieva dai guai, consolidando così uno schema in cui non veniva mai ritenuto responsabile delle azioni distruttive nei confronti degli altri. Questo lo faceva sentire più forte e lo incoraggiava a tentare un comportamento ancora più estremo. Inoltre intensificava la mancanza di rispetto per la madre.» Tippen alzò le braccia. «A meno che quel tizio non si sieda vicino a me, stasera, e mi dica: 'Salve, mi chiamo Harry. Mia madre mi portava a letto quando ero piccolo', tutto questo non è che un mucchio di stronzate.» «L'analisi è uno strumento», replicò Quinn. «Potete usarlo, oppure lasciarlo nella cassetta degli attrezzi. «Stasera, quando sarete in mezzo alla folla, tenete gli occhi aperti per
individuare chiunque vi sembri su di giri... eccitato, nervoso, oppure troppo sensibile alle persone che gli stanno intorno. Ascoltate i discorsi di chi sembra troppo bene informato sul caso, che ha una familiarità insolita con il lavoro della polizia. Oppure adottate il metodo del detective Tippen e aspettate che qualcuno vi dica di essersi scopato la madre.» Tippen fece una smorfia amareggiata. «Oh, al diavolo», borbottò, afferrando il soprabito e uscendo. Kovac guardò di sottecchi Quinn. In una delle stanze lungo il corridoio stava squillando il telefono. Gli altri componenti della task force cominciarono a disperdersi, ansiosi di mangiare un boccone o bere qualcosa prima dell'assemblea cittadina. «Essere un buon poliziotto ed essere una testa di cazzo non sono due condizioni che si escludono a vicenda», commentò Liska, infilandosi il cappotto. «Lo dice per lui o per me?» replicò Quinn, con amarezza. «Ehi, Sam!» gridò Elwood. «Vieni un po' a vedere.» «Tippen è un venne, ma è anche un buon investigatore», disse Liska. «Nessun problema», replicò Quinn con un sorriso assente, infilandosi il trench. «Lo scetticismo è la dote di ogni buon investigatore.» In quel momento Kovac rientrò nella stanza con un fascio di fax. «Le va di fare un giro, GQ? Mi serve un martello in più nella cassetta degli attrezzi.» «Qual è il motivo?» Gli occhi di Kovac brillavano, mentre teneva sollevato il fax. «I tabulati del cellulare di Jillian Bondurant. Ha fatto due telefonate dopo la mezzanotte di venerdì, cioè dopo aver lasciato la residenza paterna. Una allo strizzacervelli e una al caro paparino.» Li vide arrivare. Immobile al centro dell'immacolata sala da musica, vicino al pianoforte a mezza coda sul quale era posata una piccola galleria di foto incorniciate di Jillian, vide l'auto fermarsi al cancello. Una vetturetta economica marrone sporco. Kovac. Sentì suonare il citofono. Helen non era ancora andata via. Era in cucina a preparare la cena. Avrebbe risposto al citofono, lasciando entrare Kovac perché era la polizia, e lei, da brava donna americana di mezza età, non avrebbe mai pensato di sfidare la polizia. Fissò le fotografie ancora per un minuto. Jillian alla tastiera, con aria troppo seria. Nei suoi occhi c'era sempre qualcosa di oscuro e torpido. Il
primo concerto. E il secondo, e il terzo. Sempre vestita di fronzoli che non le si addicevano... troppo innocenti, emblemi di quella spensieratezza infantile che la figlia non aveva mai posseduto. Uscì dalla sala proprio mentre suonava il campanello della porta. «È in casa?» chiese Quinn. Helen: «Vedrò se è disposto a ricevervi. C'è stato qualche nuovo sviluppo nel caso?» «Stiamo seguendo alcune piste.» A parlare era stato Kovac. «Lei conosceva bene Jillian?» intervenne Quinn. «Oh, be'...» «Eravate stati pregati di mettervi in contatto con me attraverso il mio avvocato», li interruppe Peter Bondurant a mo' di saluto. «Mi spiace, signor Bondurant», rispose Kovac, tutt'altro che dispiaciuto. «John e io stavamo andando all'assemblea cittadina che abbiamo indetto per giungere alla cattura dell'assassino di sua figlia, e abbiamo deciso di passare di qui per un'improvvisa ispirazione, con l'intento di sottoporle alcuni punti. Spero che non sia un momento poco opportuno.» Bondurant gli lanciò un'occhiata dura, prima di rivolgersi alla governante. «Grazie, Helen. Se ha finito in cucina, perché non torna a casa?» La governante sembrava preoccupata. Mentre la donna si avviava verso la cucina, Quinn osservò Bondurant. Il suo aspetto tradiva lo stress degli ultimi giorni. Sembrava che non avesse mangiato né dormito, a giudicare dalle occhiaie scure e dalle guance infossate, insieme con il pallore tipico delle persone sottoposte a una terribile pressione. «Non ho niente di utile da dirvi», dichiarò spazientito. «Mia figlia è morta. Non posso fare nulla per cambiare questa realtà. Non posso neanche seppellirla, finché l'ufficio del medico legale non si deciderà a rilasciare il corpo.» «Non può farlo, senza un'identificazione sicura, signor Bondurant», gli spiegò Quinn. «Non vorrà seppellire una sconosciuta al posto di sua figlia, vero?» «Mia figlia era una sconosciuta per me», ribatté lui in tono enigmatico, carico di stanchezza. «Davvero?» disse Kovac, muovendosi lentamente in circolo nell'atrio, come uno squalo intorno alla preda. «E io che pensavo le avesse detto tutto, quella notte, quando le ha telefonato dopo essere uscita di qui. Dopo l'ultima volta in cui l'aveva sentita, secondo quanto lei ci ha dichiarato.» Bondurant lo fissò in silenzio. Niente domande. Niente scuse.
«Che cosa credeva?» domandò Kovac. «Credeva che non lo avrei scoperto? Mi prende per un incapace? Pensa che sia necessario portare un distintivo dell'FBI per avere un cervello?» «Pensavo che non fosse rilevante.» Kovac era sbalordito. «Che non fosse rilevante? Forse sua figlia le ha fornito qualche indizio sul posto in cui si trovava quando l'ha chiamata. Questo ci consentirebbe di restringere l'area in cui cercare dei testimoni. Forse in sottofondo c'era una voce, oppure un rumore caratteristico. Forse la telefonata è stata interrotta.» «No a tutte le domande.» «Perché l'ha chiamata?» «Per darmi la buona notte.» «Ed è lo stesso motivo per cui ha chiamato il suo strizzacervelli nel cuore della notte?» Nessuna reazione. Né sorpresa, né collera. «Non saprei dire perché ha chiamato Lucas. Il loro era un rapporto fra medico e paziente, che non mi riguardava.» «Era sua figlia», ribatté Kovac, camminando sempre più in fretta, man mano che la frustrazione aumentava. «Pensava che non la riguardasse neppure il fatto che il patrigno se la portava a letto?» Un colpo andato a segno. Finalmente, pensò Quinn, guardando l'ira diffondersi sul volto magro di Peter Bondurant. «Ne ho abbastanza di lei, sergente.» «Ah, davvero? Immagino sia quello che ha detto LeBlanc a Jillian, quando l'ha spinta a tentare il suicidio, in Francia?» lo provocò Kovac, avventurandosi su un terreno minato. «Bastardo.» Bondurant fece per avventarsi su di lui, ma si trattenne. Quinn lo vide tremare. «Ah, il bastardo sarei io?» esclamò Kovac ridendo. «Forse sua figlia è morta e lei non se ne cura abbastanza da dirci quello che sa, e il bastardo sarei io? Questa è bella. Ma lo sente, John?» Quinn rispose con un gran sospiro di delusione. «Non le rivolgiamo queste domande alla leggera, signor Bondurant. Non lo facciamo per ferire lei o la memoria di sua figlia. Lo facciamo perché dobbiamo avere un quadro completo.» «Ve l'ho già detto», replicò Bondurant in tono basso e teso, gli occhi accesi da una collera gelida. «Il passato di Jillian non c'entra con tutto questo.»
«Temo di sì, invece, in un modo o nell'altro. Il passato di sua figlia faceva parte di ciò che era... o è ancora.» «Lucas mi ha detto che lei insiste su questo tasto. È ridicolo pensare che Jillian in un certo senso si sia attirata addosso questa sorte. Stava così bene...» «Questo compito non tocca a lei, Peter», disse Quinn, passando sul piano personale. Sono un amico. A me può dirlo. Consentendogli di allentare lentamente e volontariamente il controllo, Quinn poteva vedere la parte logica della mente dell'altro lottare contro le emozioni che teneva tanto saldamente a freno. Era così teso che, se Kovac lo avesse spinto troppo in là, facendolo crollare, sarebbe stato come il cedimento di un filo ad alta tensione, del tutto privo di controllo. Bondurant era abbastanza intelligente da rendersene conto e abbastanza represso da temere quella possibilità. «Non stiamo dicendo che è stata colpa di Jillian, Peter. Non è stata lei a chiedere che accadesse e non lo meritava.» Gli occhi di Bondurant scintillarono di un velo di lacrime. «Mi rendo conto che questo le riesce difficile», disse piano Quinn. «Quando sua moglie se n'è andata, ha affidato sua figlia a un uomo che ha abusato di lei. Posso immaginare la collera che deve aver provato quando lo ha scoperto.» «No, non può.» Bondurant gli voltò le spalle, cercando una via di fuga, ma senza allontanarsi dall'atrio. «Jillian era oltre oceano, nei guai, fra mille sofferenze, ma quando lei lo ha saputo era tutto finito, quindi che cosa poteva fare? Niente. Posso immaginare la frustrazione, la collera, il senso di impotenza che deve aver provato.» «Non ho potuto fare niente», mormorò lui. «Non lo sapevo. Me lo ha detto soltanto al suo ritorno. L'ho saputo quando ormai era troppo tardi.» Quinn rimase accanto a lui, ancora nel suo spazio personale. Abbastanza vicino da invitare alla confidenza, da suggerire l'idea di un sostegno, anziché di un'intimidazione. «Non è troppo tardi, Peter. Può ancora aiutarla. Abbiamo lo stesso obiettivo, trovare e fermare l'assassino di Jillian. Che cosa è successo, quella notte?» Lui scosse la testa. Per negare cosa? Emanava da lui un'emozione intensa quasi come un odore: colpa? Vergogna? «Niente», rispose infine. «Niente.» «Avete cenato insieme. Sua figlia si è trattenuta fino a mezzanotte. Che cosa è successo che l'ha spinta a chiamare Brandt? Doveva essere sconvol-
ta per qualche motivo.» Continuava a scuotere la testa. Ma che cosa intendeva negare? Lo stato emotivo della figlia, o la possibilità di rispondere? Respingeva quella domanda, trovandola inaccettabile perché le risposte avrebbero aperto una porta che lui non intendeva socchiudere? La figlia che era tornata da lui dopo tanti anni non era più la bambina innocente di un tempo; era tornata diversa, ferita. Come poteva sentirsi suo padre? Ferito, deluso, pieno di vergogna. In colpa, perché non era stato vicino alla figlia per impedire ciò che l'aveva indotta a tentare il suicidio. In colpa per la vergogna che provava considerandola danneggiata, non più perfetta. Emozioni oscure e aggrovigliate, intrecciate in un nodo che soltanto la perizia di un chirurgo avrebbe saputo sciogliere. Pensò alla foto nell'ufficio di Bondurant: Jillian, così infelice in un abito destinato a un altro genere di ragazza. Kovac si affiancò a Bondurant dal lato opposto. «Non abbiamo intenzione di fare del male a Jillian o a lei, signor Bondurant. Vogliamo solo la verità.» Quinn trattenne il fiato, senza staccargli gli occhi di dosso. Passò un istante. La decisione era presa. Si sentì cadere un peso dalle spalle. La vide negli occhi di Peter Bondurant e capì che quella porta interiore, solo leggermente socchiusa, si era richiusa. «No», disse Bondurant, con il viso simile a una vuota maschera d'osso, mentre allungava la mano verso il ricevitore del telefono. «Non voglio vedere il nome di mia figlia trascinato nel fango. Se vedrò pubblicare sui giornali una sola parola su quanto che è accaduto a Jillian in Francia, vi rovino tutti e due.» Kovac si allontanò dal tavolo con un sospiro. «Io cerco soltanto di risolvere questi delitti, signor Bondurant. Sono un uomo semplice, con esigenze semplici... come la verità, per esempio. Certo, lei può rovinarmi in un batter d'occhio. Ma sa una cosa? Continuerò a cercare la verità, perché sono fatto così. Sarà più facile per tutti noi se me la confiderà, una volta o l'altra.» Bondurant lo guardò, impassibile, e Kovac si allontanò scuotendo la testa. Quinn rimase immobile per un istante, osservandolo, cercando di valutare, di decifrare. Era mancato così poco... «Lei mi ha fatto venire qui per una ragione», disse a bassa voce, da uomo a uomo. Prese di tasca un biglietto da visita e lo posò sul tavolo. «Mi chiami, quando sarà pronto.» Bondurant premette un pulsante sul telefono, restando in attesa.
«Un'ultima domanda», disse Quinn. «Jillian amava comporre musica. L'ha mai sentita esibirsi? Ha mai visto qualche sua composizione?» «No. Non divideva con me questa sua passione.» Poi distolse lo sguardo, mentre qualcuno rispondeva alla chiamata. «Sono Peter Bondurant. Mi passi Edwyn Noble.» Rimase a lungo fermo nell'atrio, in attesa, dopo che il rombo dell'auto di Kovac si era allontanato. Fermo, in silenzio, nell'oscurità quasi assoluta. Poi tornò nello studio, sentendosi come se il corpo e la mente funzionassero in modo indipendente l'uno dall'altra. C'era una sola lampada accesa, nell'angolo. Nella stanza regnava una penombra cupa che s'intonava al suo stato d'animo. Aprì il cassetto chiuso a chiave della scrivania, prese un foglio di musica e si avvicinò alla finestra per leggerlo, come se le parole, allontanandosi dalla luce, perdessero la loro consistenza reale. Tesoro Sono il tuo tesoro La tua bambina Ti voglio più di ogni altra cosa al mondo Portami nel luogo che conosco Portami dove vuoi andare Voglio che tu mi ami In un modo soltanto Papà, non vuoi amarmi Amami adesso Papà, sono il tuo tesoro Prendimi adesso JB 17 In un certo senso quell'assemblea si tiene in suo onore. Lui siede tra la folla, guardando, ascoltando, impressionato e divertito. I presenti - secondo i suoi calcoli centocinquanta persone, di cui gran parte giornalisti - sono venuti perché lo temono, oppure sono affascinati da lui. Non immaginano neppure che il mostro sìa seduto al loro fianco, dietro di loro, scuotendo la
testa nel sentire i commenti sulla crudeltà del Crematore. È convinto che alcuni provino addirittura invidia per il Crematore, anche se non saranno mai disposti ad ammetterlo. Nessuno di loro ha l'audacia o la lucidità necessarie per mettere in atto le proprie fantasie e scatenare le forze oscure che si agitano nel loro animo. L'incontro ha inizio con una dichiarazione del portavoce della task force che annuncia lo scopo della riunione, ma è tutto falso. L'incontro non serve a informare e neppure a offrire alla comunità una dimostrazione di azione. Lo scopo è quello di Quinn. «Molto più importanti, spiegai, erano l'opera di prevenzione e l'utilizzo della polizia e dei media per cercare di attirare in trappola il colpevole. Per esempio, le autorità avrebbero potuto organizzare una serie di incontri pubblici per 'discutere' dei delitti. Ero infatti ragionevolmente certo che l'assassino avrebbe partecipato a uno o più dibattiti.» John Douglas, Mindhunter. Il vero scopo dell'incontro è attirarlo in trappola, eppure lui è seduto in sala, calmo e rilassato. Uno dei tanti cittadini in ansia. Quinn guarda la folla, guarda lui, guarda qualcosa che la maggior parte delle persone non è in grado di riconoscere: il volto del male. «La gente si aspetta che il male abbia un volto orribile, due corna e una coda. Invece il male può essere attraente, oppure banale. La bruttezza è qualcosa di interiore, un marciume nero e canceroso che mina la coscienza, la fibra morale e le capacità di controllo che definiscono il comportamento civile, lasciando soltanto una bestia in agguato dietro una facciata di normalità.» John Quinn in un'intervista a People, gennaio 1997. Quinn, elegante nel completo grigio di buon taglio, appare chiaramente superiore di una spanna agli sbirri locali, con l'espressione annoiata di un modello di GQ. Lo fa andare in collera il fatto che si sia finalmente degnato di riconoscere in pubblico la sua esistenza, ma dia l'impressione di non provare il minimo interesse. Perché tu credi di conoscermi, Quinn. Pensi che io sia solo uno dei tanti casi tutti uguali. Niente di speciale. Ma non conosci il Crematore, l'Angelo del Male. Io invece ti conosco benissimo.
Lui conosce la carriera di Quinn, la sua reputazione, i suoi metodi. Alla fine ne otterrà il rispetto, che per Quinn ha più valore di quanto ne abbia per lui. Il suo vero sé oscuro è superiore al bisogno di approvazione. La ricerca di approvazione è segno di debolezza, di dipendenza, induce vulnerabilità e invita al ridicolo e alla delusione. Inaccettabile. Inammissibile dal lato oscuro. Lui recita dentro di sé il suo credo: dominio, manipolazione, controllo. Appena Quinn sale sul podio, scattano i flash, ronzano i motorini delle telecamere. La donna seduta accanto a lui comincia a tossire e lui le offre una mentina, pensando intanto che vorrebbe tagliarle la gola per avere turbato la sua concentrazione. Quinn assicura ai presenti che la task force ha a sua disposizione tutti i servizi offerti dall'FBI, parla dei computer del VICAP, dell'NCAVC, dell'ISU e del CASKU, rassicurandoli proprio con l'espediente di confonderli. Il cittadino medio non è in grado di decifrare quell'insieme di sigle. La maggior parte delle persone non sa neanche distinguere fra il dipartimento di polizia e l'ufficio dello sceriffo. Ma quelle sigle hanno un suono importante, ufficiale, e tutti ascoltano con attenzione estatica, sbirciando di sottecchi la persona seduta al loro fianco. Quinn si limita a tratteggiare a grandi lìnee il profilo che sta costruendo; l'esperienza gli consente di rivelare il minimo possibile di informazioni, dando a intendere che si tratta di una vera e propria miniera. Parla del comune assassino di prostitute, un perdente, un uomo inadeguato che odia le donne e sceglie quelle che ritiene peggiori per vendicarsi dei peccati della madre. Quinn lascia intendere che non sia un profilo del tutto esatto del Crematore, perché quest'ultimo è un assassino speciale, molto intelligente, estremamente organizzato, abile, per cui sarà necessario ricorrere a tutti gli sforzi non solo dei tutori della legge, ma anche della comunità, per catturarlo. Su una cosa ha ragione: il Crematore non ha niente di comune. Si cura così poco della donna che lo ha messo al mondo che non gli verrebbe mai in mente di esigere vendetta nel suo ricordo. E tuttavia, dentro di sé, sente ancora la sua voce che lo sgrida, lo critica, lo esaspera. E la collera, che cova sempre sotto la cenere, comincia a divampare. Al diavolo Quinn e le sue stronzate freudiane. Lui non sa niente del senso di potere e di euforia che si prova a uccidere. Non ha mai apprezzato la musica deliziosa del dolore e della paura, o il fatto che quella musica esalta il musicista. Uccidere non ha niente a che vedere con il sen-
so di inadeguatezza di sé, uccidere è potere. «Nell'istante in cui le vittime morivano, molti serial killer riferiscono di aver provato un lampo di intuizione intenso, una specie di quasar emotivo, accecante per la verità che rivela.» Joel Norris, Serial Killers. «Agente speciale Quinn, qual è la sua teoria in merito al fatto che l'assassino brucia i corpi?» La domanda proveniva da un cronista. Il rischio di quegli incontri pubblici era che si trasformavano in una conferenza stampa, e quella era l'ultima cosa che lui desiderava. A lui serviva una situazione ben controllata, per il bene del caso e suo personale. Non doveva fornire troppe informazioni, né troppo poche. Qualche congettura, ma niente che l'assassino potesse scambiare per arroganza. Doveva condannare il killer, ma inserire nella condanna una nota di rispetto. Uno scontro aperto avrebbe potuto sfociare in altri delitti. Una parola sbagliata, un tono poco felice, e ci sarebbe stata un'altra vittima. Il peso di quella responsabilità lo schiacciava come un macigno. «Agente Quinn?» La voce lo riscosse come un pungolo, riportandolo al presente. «Il fuoco è la firma di questo assassino», rispose, massaggiandosi la fronte. Aveva caldo. Gli mancava l'aria, in quella sala. La testa gli pulsava. La lesione alle mucose dello stomaco bruciava, estendendosi sempre più. «Un atto che si sente spinto a compiere per soddisfare un'esigenza interiore. Quale sia questa esigenza, lo sa soltanto lui.» Scegli un viso, scegli un viso, ripeteva a se stesso, scrutando la folla. Dopo tanti anni, tanti casi e tanti assassini, a volte pensava che avrebbe dovuto riconoscere l'impulso coatto a uccidere, vederlo aleggiare sulla testa del killer come un'empia aureola: invece non funzionava così. Tanti insistevano a parlare degli occhi dei serial killer, sottolineandone il vuoto fisso e piatto che dava l'impressione di guardare in fondo a un tunnel lungo e nero, là dove avrebbe dovuto esserci l'anima. Ma un killer di quel genere era sveglio e duttile: nessuno, oltre alle sue vittime, avrebbe visto quello sguardo nei suoi occhi, a meno che non si trovasse di fronte alla sua pistola. Qualunque volto di quella folla poteva essere la maschera di un assassino. Forse qualcuno tra loro ascoltava la descrizione dei delitti, captava l'o-
dore della paura aleggiare nella sala e si sentiva eccitato, euforico. Lui aveva visto degli assassini addirittura avere un'erezione quando le loro mostruose imprese venivano riferite alla giuria esterrefatta e nauseata. «Non è suo compito restringere le possibilità?» gridò un altro giornalista. Per poco Quinn non cercò Tippen tra la folla. «Il profilo non è completo», rispose. Non spiegarmi come devo fare il mio lavoro. So qual è, testa di cazzo. «È vero che l'hanno richiamata dal caso della piccola Bennet, in Virginia, per lavorare a questo?» «E i delitti gay di South Beach?» «In ogni momento ho un certo numero di casi sotto controllo.» «Ma ora si trova qui a causa di Peter Bondurant», dichiarò un altro. «Questo non è un esempio di favoritismo?» «Io vado dove mi mandano», ribatté secco. «Quello che m'interessa è il caso, non da dove arrivano gli ordini o perché.» «Per quale motivo Peter Bondurant non è stato formalmente interrogato?» A quel punto si fece avanti Greer, salendo sul podio per porre il veto a quel genere di domande, magnificando le virtù di Peter Bondurant davanti a Edwyn Noble e all'esperto di pubbliche relazioni della Paragon che era intervenuto per conto di Bondurant. Quinn indietreggiò, trovandosi a fianco di Kovac, e riprese fiato. Il sergente guardava fisso in avanti, con un'espressione impenetrabile da poliziotto, gli occhi socchiusi sotto le palpebre pesanti, notando più di quanto potesse immaginare chiunque fra il pubblico. «Vede quel tizio di cui parlava Liska, seduto vicino a lei?» disse sottovoce. «È venuto in divisa, Cristo santo.» «Sarebbe un buon sistema per indurre le vittime a seguirlo», commentò Quinn. «Lo faccia invitare da Liska per un confronto.» Si augurava di provare la sensazione viscerale che fosse lui il responsabile, ma l'istinto lo aveva abbandonato e non sentiva niente. «Faccia in modo che sembri una consulenza. Noi chiediamo la sua assistenza, il suo punto di vista sulla questione, la sua opinione di osservatore addestrato. Qualcosa del genere.» Greer concluse il suo discorsetto con un drammatico appello finale al pubblico perché assistesse la polizia nel caso, invitando chiunque avesse qualche informazione da fornire a rivolgersi ai detective Liska e Yurek. Non appena annunciò la fine dell'incontro con il pubblico, i giornalisti si scatenarono come un branco di cani uggiolanti.
Kate si aprì un varco verso le prime file, puntando su Kovac. Mentre lui la raggiungeva, Edwyn Noble si diresse verso Quinn come lo spettro della morte, con la bocca larga serrata in una linea dura. Vicino a lui c'era Lucas Brandt, con le mani affondate nelle tasche del cappotto di cammello. «Agente Quinn, possiamo dirle una parola in privato?» «Certamente.» Li precedette, allontanandosi dal podio e dalla stampa per raggiungere la cucina del centro dove si svolgeva l'incontro, con un bancone ricoperto di formica rossa sul quale erano allineate parecchie caffettiere di dimensioni industriali. «Peter è rimasto sconvolto dalla sua visita di questa sera», esordì Noble. «Sì, lo so. C'ero anch'io.» Con le mani in tasca, si appoggiò all'orlo del banco. Il ritratto della calma, con tutto il tempo del mondo a sua disposizione. «E voi due avete assistito a tutto l'incontro solo per dirmi questo?» «Io sono qui per rappresentare gli interessi di Peter», disse Noble. «Penso che lei debba sapere che ha intenzione di chiamare Bob Brewster. È estremamente dispiaciuto del fatto che lei perda tempo prezioso...» «Mi scusi, avvocato, ma conosco il mio lavoro», lo interruppe con calma Quinn. «Al suo cliente non piace il modo in cui lo faccio. Io non lavoro per lui, ma, se è scontento, può benissimo chiamare il direttore. Ciò non toglie che Jillian abbia fatto due telefonate dopo che era uscita di casa sua, quella notte, e che né Peter né il dottor Brandt si siano disturbati a riferirlo alla polizia. Quella sera è successo qualcosa a Jillian Bondurant, e forse lei è morta. Certe domande dovranno trovare una risposta, prima o poi.» I muscoli della mascella di Brandt fremettero. «Jillian aveva dei problemi. Peter amava sua figlia e morirebbe di dolore se dovesse vedere il suo passato e le difficoltà che aveva vissuto spiattellate sulle riviste scandalistiche ed esposte agli occhi dell'America nel telegiornale della sera.» Quinn si staccò dal bancone con un gesto brusco, parandosi di fronte a Brandt e fissandolo con aria severa. «Non è mia abitudine vendere casi sensazionali ai media.» Noble allargò le braccia, interpretando il ruolo del paciere, del diplomatico. «Ma certo. Stiamo semplicemente cercando di mantenere la massima discrezione. Ecco perché parliamo con lei, anziché con la polizia. Peter, Lucas e io ne abbiamo discusso e riteniamo che lei possa imprimere una nuova svolta alle indagini, per così dire. Noi potremmo tranquillizzarla riguardo alle telefonate che Jillian fece quella sera e lei potrebbe accantonare la faccenda.»
«E l'etica professionale?» ribatté Quinn, continuando a fissare Brandt. «Un piccolo sacrificio in vista di un bene superiore.» Il suo, sospettava Quinn. «Sono tutto orecchi.» Brandt prese fiato, accingendosi a violare il patto di riservatezza stretto con la sua paziente. «Nelle ultime settimane il patrigno di Jillian si era messo più volte in contatto con lei, facendole intendere che voleva riprendere i rapporti. Jillian provava nei suoi confronti sentimenti molto complessi e contraddittori.» «Avrebbe voluto riallacciare la relazione con lui?» disse Quinn. «L'amica di Jillian ha lasciato intendere che lei ne era stata innamorata, e avrebbe voluto che divorziasse dalla madre per sposare lei.» «Quando si era legata a Serge, Jillian era una ragazza molto infelice e molto confusa. La madre era sempre stata gelosa della figlia, fin da quando era bambina, e Jillian era affamata d'amore. Lei sa certamente a quali estremi si può arrivare per amore...» «Sì, ne ho visto i risultati nelle fotografie della scena del delitto. Come mai il patrigno non è mai stato processato?» «Non è mai stato denunciato. LeBlanc aveva fatto il lavaggio del cervello a Jillian», replicò Noble, disgustato. «Lei si è rifiutata persino di parlare alla polizia.» «Peter sperava che, tornando nel Minnesota e cominciando la terapia, si fosse lasciata tutto alle spalle», spiegò Brandt. «E invece?» «La terapia è un processo lungo e laborioso.» «E poi LeBlanc ha ricominciato a chiamarla.» «Venerdì sera lei ha deciso di parlarne a Peter. Lui naturalmente è rimasto sconvolto. Aveva paura per Jillie.» Un altro sospiro strategico. «Peter ha difficoltà a esprimere le proprie emozioni. L'ansia che provava si è manifestata sotto forma di collera e i due hanno finito per litigare. Quando se n'è andata, Jillian era sconvolta e mi ha chiamato dalla macchina.» «Dove si trovava?» «In un parcheggio. Non mi ha detto dove, in realtà. Le ho suggerito di tornare da Peter per riprendere la discussione, ma lei era imbarazzata e ferita, e alla fine si è limitata a chiamarlo», rispose Brandt. «Questa è tutta la storia. Molto semplice, come vede.» Quinn dubitava di entrambe le affermazioni. Quella che Lucas Brandt gli aveva appena raccontato non era affatto tutta la storia, e niente di quello
che riguardava la vita o la morte di Jillian Bondurant si sarebbe rivelato semplice. «E Peter non avrebbe potuto raccontare questa storia al sergente Kovac e a me, quattro ore fa, quando eravamo nell'ingresso di casa sua?» Noble lanciò un'occhiata nervosa dietro di sé, verso la porta chiusa all'altro capo del locale, come se si aspettasse un'irruzione dei giornalisti, con i microfoni puntati come baionette. «Non è facile per Peter parlare di queste cose, agente Quinn. È un uomo estremamente riservato.» «Me ne rendo conto, avvocato Noble. Il guaio è che questa è un'indagine su un caso di omicidio e in simili indagini la privacy non esiste, anche se ci si chiama Peter Bondurant e si gode della confidenza e dell'amicizia del direttore dell'FBI... almeno finché questo è il mio caso.» «Bene», replicò Edwyn Noble, facendo un passo indietro con il viso duro e gelido come il marmo. «Potrebbe non esserlo ancora per molto.» Se ne andarono come bambini viziati, ansiosi di correre a casa a fare la spia sul suo conto. Avrebbero parlato a Bondurant, e lui avrebbe chiamato Brewster, che avrebbe potuto chiamarlo per ammonirlo, oppure farlo semplicemente richiamare e assegnare a un altro caso. C'era sempre un altro caso. «Che volevano?» chiese Kovac. «Indicarci l'uscita, credo.» «Kate dice che la testimone si è confidata con lei. La piccola Raggio di Sole sostiene che quella notte era nel parcheggio a guadagnarsi un biglietto da venti facendo un lavoretto a uno dei soliti perdenti.» «Questo perdente aveva un nome?» Kovac sbuffò. «Hubert Humphrey, le ha detto. Traduzione: un bastardo repubblicano con un pessimo senso dell'umorismo.» «Questo restringe molto il campo», ribatté asciutto Quinn. «Naturalmente non ha preso il numero della targa, né l'indirizzo, e non ha la ricevuta della carta di credito.» «È in grado di descriverlo?» «Sì. Il solito patetico yuppie con un SUV e una moglie che non vuole fargli pompini.» Quinn alzò gli occhi di scatto. «Un cosa?» «Una moglie che...» «No, prima. Che cosa guidava?» «Uno di quei fuoristrada che chiamano SUV, Sport Utility Vehi...» Ko-
vac sbarrò gli occhi, buttando via la sigaretta che stava per accendere. «Oh, Cristo.» Lui esce fra gli ultimi, cogliendo al volo brandelli di conversazione che lo riguardano. Il parcheggio all'esterno è completamente bloccato. Raggiunge la sua auto e si appoggia alla carrozzeria, incrociando le braccia. Osserva gli altri uscire dall'edificio e incamminarsi sul marciapiede, sotto la luce abbagliante dei riflettori. Alcuni sono semplici cittadini, altri poliziotti assegnati alla task force. Quinn esce da una porta laterale sul retro, un punto che i media hanno deciso di ignorare. Cammina in fretta, senza soprabito, e si ferma appena superata la soglia, con le mani sui fianchi, guardandosi attorno. Cerca me, agente Quinn? Il perdente inadeguato con un complesso materno? Il mostro? Lei non sa che cos'è un mostro, ma sta per scoprirlo. Il Crematore ha un piano. Diventerà una leggenda. Il killer che ha distrutto John Quinn. Il trionfo supremo per il killer supremo: la sconfitta del cacciatore più abile della sua specie. Si mette al volante della vettura che lo ha portato fin lì, avvia il motore, regola il riscaldamento e impreca contro il freddo. Ha bisogno di un terreno di caccia più caldo. Esce a marcia indietro dal parcheggio, seguendo sulla strada un Toyota 4Runner metallizzato. 18 Kate, al volante del suo 4Runner, entrò cautamente nel vecchio garage angusto che dava sul vicolo, dietro la casa. Nei mesi invernali sognava regolarmente un garage collegato da un passaggio interno, ma poi veniva la primavera, in giardino tornavano a sbocciare i fiori e lei dimenticava il fastidio di passare in mezzo alla neve e il rischio di percorrere un vicolo buio in una città con un numero allarmante di reati sessuali. Inserì la chiave nella serratura della porta di servizio, ma attese un istante prima di girarla, sentendosi drizzare i capelli sulla nuca. Aveva la sensazione di essere osservata. Si girò lentamente, allungando il collo per guardare oltre il cerchio delle luci attivate dai sensori, verso gli angoli in ombra del giardino. Le venne in mente che aveva lasciato il cellulare a bordo del fuoristrada. All'interno di quel garage oltre il cortile che le dava i brividi. Al diavolo. Poteva ricevere qualunque messaggio anche dal telefono di
casa. Se c'era un Dio, nessuno dei suoi clienti si sarebbe fatto venire una crisi, quella notte, e lei avrebbe potuto rilassarsi in una vasca piena d'acqua calda, con un bicchiere del suo toccasana preferito. Nessun maniaco l'aggredì alle spalle quando varcò la soglia, nessuno l'aspettava in cucina armato di un coltello da macellaio. Thor arrivò di corsa, protestando a gran voce per il ritardo nella cena. Kate gettò la borsa sul banco e accese il piccolo televisore per seguire il notiziario. Con una mano si sbottonò il cappotto, con l'altra cercò nel frigo la scatoletta di cibo per gatti e la bottiglia di gin. Il primo servizio del telegiornale era dedicato all'incontro pubblico. Seguirono le informazioni sulla ricompensa e sul numero di telefono della linea riservata dell'unità di crisi, dopodiché fu la volta di un altro argomento scottante: il caso dei poliziotti di ronda che, nelle notti gelide di novembre, cercavano un po' di calore nei locali a luci rosse del centro. Kate lasciò il notiziario a Thor e si trasferì in sala da pranzo, sedendosi al tavolo di quercia che aveva rimesso a nuovo la prima estate dopo che aveva lasciato l'FBI. Allora era tesa, ferita, ancora sconvolta dalla morte di Emily e dal fallimento tanto del suo matrimonio quanto della storia con Quinn. La vita così come la conosceva era finita, e lei doveva ricominciare daccapo. Sola, a parte i fantasmi. Non aveva mai parlato di Quinn alle persone che le erano vicine, alla sorella o ai genitori. Nessuno di loro sapeva che lei aveva dato le dimissioni dal Bureau sotto la minaccia di uno scandalo. Sentiva che non sarebbe riuscita a spiegare nel modo giusto il rapporto che era nato fra lei e Quinn quando Steven l'aveva lasciata, travolto dal dolore e dalla collera, e del resto i suoi genitori non avrebbero saputo capirlo più di quanto avessero fatto i colleghi di Quantico. Lei aveva avuto una relazione, aveva tradito il marito, quindi era colpevole. Ecco che cosa avevano voluto credere: la realtà peggiore, la più sordida. Nessuno si era curato di sapere quanto si fosse sentita sola, quanto avesse provato il bisogno di essere confortata e sostenuta. Non volevano sentir parlare della forza del legame che aveva unito lei e Quinn, al di là dell'attrazione fisica. La gente preferiva credere al peggio, perché sembrava meno minaccioso per la loro stessa esistenza. E così Kate aveva tenuto il segreto per sé, insieme con il senso di colpa, il rimpianto e il dolore che facevano parte della storia. E un po' alla volta si era costruita una nuova vita, facendo attenzione a garantirle una base solida e un buon equilibrio. Il lavoro la teneva impegnata quasi tutti i giorni
dalle otto alle cinque, i clienti andavano e venivano. Il suo impegno era ben definito e lei riusciva a gestirlo. Proprio mentre faceva quelle riflessioni, rivide mentalmente il volto di Angie e si affrettò a bere una lunga sorsata di gin. Rammentò le lacrime della ragazza, quell'adolescente indurita dall'esistenza che aveva condotto, la ragazzina di strada tutta chiusa in se stessa, che piangeva come una bambina, anche se non avrebbe mai ammesso di esserlo. Spaventata, piena d'imbarazzo e di vergogna: e anche questo non lo avrebbe mai ammesso. Kate si era inginocchiata ai suoi piedi, mantenendo sempre il contatto con lei, sfiorandole la mano o il ginocchio o accarezzandole la testa mentre Angie si piegava in due, nel tentativo di nascondere la faccia. La storia che aveva raccontato era breve, triste e sordida. L'avevano caricata nella Strada al Lago e scaricata nel parco; un giocattolo sessuale da gettare via dopo l'uso, per quell'uomo che non le aveva chiesto neanche come si chiamava. Le aveva dato venti dollari, mentre la tariffa corrente era trentacinque, e quando lei aveva protestato le aveva detto di chiamare un poliziotto, spingendola fuori e allontanandosi. L'aveva lasciata lì, in piena notte, come un gattino indesiderato. L'immagine di Angie abbandonata, sola, con in tasca una banconota da venti sgualcita, era rimasta impressa nella mente di Kate. Poteva avere al massimo quindici o sedici anni, poco più di quanti ne avrebbe avuti Emily, se fosse vissuta. Assalita a tradimento dalle lacrime, Kate bevve un altro sorso di gin, tentando di mandare giù il groppo che aveva in gola. Non c'era tempo per piangere, e non aveva senso. Emily non c'era più e Angie non poteva sostituirla. Del resto lei non voleva una sostituta. Quando si alzò per andare nello studio, la stanchezza e l'alcol si fecero sentire. Doveva controllare i messaggi e voleva chiamare Phoenix House per stabilire un ultimo contatto con Angie prima della notte... per consolidare quello che si era creato nel pomeriggio. La spia rossa della segreteria telefonica lampeggiava come una fiamma, ma il telefono squillò prima che lei potesse premere il pulsante per ascoltare i messaggi registrati. «Kate Conlan.» «Kovac. Alza il culo e raggiungi il Phoenix, testa rossa. La nostra testimone è scomparsa. Ci vediamo lì.» «Sarei dovuta restare», disse Kate, camminando avanti e indietro nello
squallido studio del Phoenix, con le mani sui fianchi. «Dannazione, sarei dovuta restare.» «Non puoi stare con loro ventiquattr'ore su ventiquattro, sette giorni su sette», le fece notare Kovac. «No», ribatté Kate, scrollando la testa, esasperata dalla propria stupidità. «Avevo fatto dei progressi con lei. Sarei dovuta restare.» «A che ora l'hai lasciata qui?» «Non lo so, ma dev'essere stato poco dopo le otto. Mi ha parlato di quel tizio nel parco verso la fine del pomeriggio, ma poi sembrava imbarazzata e sconvolta, così ho preferito non insistere troppo. L'ho portata al centro commerciale per mangiare qualcosa e l'ho accompagnata a fare un po' di spese.» «Il tenente Fowler ha sganciato qualcosa per lei?» Kate fece una smorfia, eludendo la domanda. In realtà ci aveva messo lei il denaro, ma non aveva importanza. «Poi l'ho riportata qui.» Più si avvicinavano al Phoenix, più Angie diventava silenziosa, chiudendosi di nuovo nella sua corazza. E io l'ho lasciata fare, pensava Kate. «L'ho lasciata qui e sono venuta alla riunione per parlarti... oh, merda! Sarei dovuta restare.» «Chi altri c'era, qui, quando l'hai accompagnata?» «Gregg Urskine, ma stava per andare anche lui all'assemblea pubblica... e poi un'altra donna. Non so chi, non l'ho vista. Me lo ha detto Gregg che c'era anche lei. Non volevo che Angie restasse sola.» Era troppo facile immaginare Angie in quella vecchia casa, tutta sola. Se Smokey Joe era riuscito a sapere dove la tenevano... Le sue tre vittime erano scomparse senza alcun segno di lotta. Svanite nel nulla. E Angie DiMarco sosteneva di poterlo riconoscere. L'ondata di emozioni che minacciava di travolgerla era sproporzionata, Kate lo sapeva, ma non riusciva a dominarla. Provava un vago malessere, un lieve senso di vertigine. Il gin le aveva lasciato in bocca un retrogusto metallico. Sentì Quinn avvicinarsi alle sue spalle; capiva che era lui senza guardarlo. Il suo corpo era ancora in sintonia con quello di John. Che il magnetismo fisico non fosse svanito in tutto quel tempo era un'idea sconcertante. «Non è stata colpa tua, Kate», le disse, sottovoce. Posò una mano sulla sua spalla, trovando a colpo sicuro il nodo di tensione nei muscoli del trapezio e massaggiandolo in quel modo che le era familiare.
«Ormai non ha più importanza», ribatté, irrigidendosi e scostandosi. «Ora quello che conta è trovarla, quindi cominciamo a cercare.» Salirono al piano di sopra, nella stanza che Angie aveva diviso con un'altra ospite del Phoenix. Il suo letto era disfatto, un groviglio di lenzuola in mezzo al quale spiccava la busta degli acquisti fatti al centro commerciale; i jeans e il maglione che aveva comprato erano spariti. Si notava l'assenza dello zainetto sporco, il che faceva pensare che la ragazza fosse fuggita di sua spontanea volontà. Sul comodino, vicino alla lampada di vetro da quattro soldi, c'era un minuscolo angioletto di ceramica. Kate lo prese in mano, guardando quella stamina alta due o tre centimetri che aveva comprato per cinque dollari da una donna navajo, sulla piazza principale di Santa Fe. «Ne sai qualcosa?» le chiese Quinn, di nuovo troppo vicino. «Certo, lo ha rubato oggi dalla mia scrivania.» Sfiorò l'aureola dorata sulla testa bruna dell'angioletto. «Ho una collezione di angeli custodi. Che ironia, vero? Non credo nella loro esistenza. Se gli angeli custodi esistessero davvero, noi due saremmo senza lavoro, io non avrei perso mia figlia e non ci sarebbero ragazzine che vivono come Angie. «Stupida», mormorò fra sé, accarezzando delicatamente le ali dell'angioletto. «Vorrei che lo avesse preso con sé.» La statuetta le scivolò di mano, cadendo sul vecchio tappeto accanto al letto. Lei s'inginocchiò per raccoglierla, appoggiando la mano sinistra sul pavimento per mantenere l'equilibrio. Quando alzò la mano, rovesciandola con il palmo in su, le batteva forte il cuore e dovette sedersi sui talloni. «Oh, Cristo», sussurrò, fissando la macchia di sangue. Quinn le afferrò la mano, accostandola alla luce. Kate si liberò, accovacciandosi e allungando il collo per guardare meglio il legno scuro del vecchio pavimento. L'angolazione doveva essere perfetta. La luce doveva investirlo nel modo giusto. «No», gemette, scoprendo un'altra gocciolina, poi una macchia rimasta nel punto in cui qualcuno aveva tentato di fare pulizia in fretta. Sarei dovuta restare con lei. La pista proseguiva nel corridoio, e di lì fino al bagno. Il panico investì lo stomaco di Kate con il peso di un macigno. «Oh, Dio, no.» Sarei dovuta restare con lei. Si rialzò incespicando per slanciarsi nel corridoio, con tutti sensi acuiti
al massimo. «Non toccare niente!» gridò Kovac, seguendola. Kate si fermò davanti alla porta del bagno, che era socchiusa, per consentire a Kovac di aprirla con una spallata. Il sergente prese una penna biro dalla tasca del cappotto, usandola per far scattare l'interruttore della luce. Il bagno era un incubo allucinogeno di carta da parati rosa fucsia, arancio e argento. Il pavimento di piastrelle non era più bianco da un pezzo. E adesso era macchiato di sangue. Uno schizzo qui, una chiazza irregolare là. Perché non sono rimasta con lei? «Aspetta nel corridoio», disse Quinn, prendendo per le spalle Kate, mentre Kovac si accostava alla doccia. «No», rispose lei, tremando e trattenendo il fiato. Non c'era nessun corpo. Angie non giaceva morta nella vasca. Eppure Kate si sentì rivoltare lo stomaco. La parete di piastrelle era striata di sangue che formava delle macchie pallide, come un dipinto sbiadito realizzato con le dita. Dal centro della vasca partiva una linea sottile di acqua arrossata dal sangue diluito. Kate si premette una mano sulla bocca, macchiandosi il mento con il sangue che aveva sul palmo. «Merda», imprecò sottovoce Kovac, allontanandosi dalla vasca per avvicinarsi al contenitore di plastica per la biancheria sporca, sotto il lavandino. Lo aprì cautamente, servendosi della stessa penna che aveva usato per accendere la luce. «Che succede?», esclamò Elwood, affacciandosi alla porta. «Chiama la Scientifica», rispose Kovac, estraendo dal contenitore un asciugamano e poi un altro, tutt'e due bagnati e macchiati di sangue. «A quanto pare, abbiamo un'altra scena del delitto.» 19 Toni Urskine entrò nella stanza ancora vestita di tutto punto, come all'assemblea, con un paio di pantaloni neri aderenti e una giacca rosso vivo sopra la blusa bianca con un elaborato jabot. Gli occhi le ardevano di sacrosanta indignazione. «Non mi piacciono affatto quelle auto di pattuglia davanti all'ingresso. Non potrebbero almeno spegnere i lampeggiatori? Questo è un quartiere residenziale, sergente, e i vicini sono già abbastanza scontenti della nostra presenza.»
«Mi scuso per il disturbo, signora Urskine», rispose brusco Kovac. «Rapimenti e omicidi sono una vera seccatura, lo so.» Una rossa con l'aria fragile e smunta della drogata di crack entrò nella stanza nella scia di Toni Urskine, seguita da Gregg Urskine, che sembrava un modello pronto a sfilare, con scarponcini da lavoro, jeans e una camicia di flanella a quadri aperta sul collo che lasciava intravedere una T-shirt bianca. Posando una mano sulla schiena della rossa, la sospinse in avanti. «Questa è Rita Renner. Stasera è rimasta con Angie, dopo che sono uscito.» «Non ero proprio con lei», spiegò Rita, con un filo di voce. «Io guardavo la televisione, e l'ho vista andare di sopra. È rimasta in bagno a lungo... sentivo scorrere l'acqua. Noi non dovremmo fare una doccia troppo lunga.» «A che ora si è accorta che la doccia smetteva di scorrere?» «Non l'ho sentita. Mi sono addormentata sul divano e mi sono svegliata soltanto dopo il telegiornale.» «E mentre era sveglia, ha visto o sentito qualcun altro in casa, a parte Angie?» «Non dopo che era uscito Gregg.» «Non ha sentito porte che si aprivano o si chiudevano? Rumore di passi? Niente di niente?» Rita scosse la testa, fissando il pavimento. «Le ha già detto che non ha sentito né visto niente», protestò spazientita Toni Urskine. Kovac la ignorò. «Come mai non è andata all'incontro insieme con gli altri?» Toni Urskine s'irrigidì. «Rita è sospettata di qualcosa, sergente?» «Semplice curiosità.» Innervosita, Rita Renner spostò lo sguardo dall'uno all'altro dei coniugi Urskine, come se aspettasse il loro permesso per parlare. «Non mi piace la folla», disse in tono di scusa. «E poi è dura per me, sa? Per via di Fawn.» «Rita e Fawn Pierce, ossia la vittima numero due, come la chiamate voi, erano buone amiche», spiegò Toni Urskine, cingendo con un braccio le spalle ossute di Rita in un gesto protettivo. «Non che questo importi a qualcuno di voi.» Kovac represse un moto di irritazione. «Chiedo scusa. Domani manderò un agente per la deposizione. Stasera la mia priorità è Angie DiMarco. Dobbiamo trovarla.»
«Non penserà che il killer sia venuto qui a prenderla, vero?» domandò Toni, improvvisamente allarmata. «Non essere ridicola», la rimbeccò Gregg, cercando di mitigare il tono con un sorriso. «Qui in casa non è entrato nessuno.» La moglie si girò di scatto verso di lui, con uno sguardo velenoso. «Non sono ridicola. Chiunque potrebbe entrare, qui. Sono mesi che ti chiedo di installare delle serrature nuove e di murare quella vecchia controporta in cantina.» Il marito arrossì leggermente. «La controporta della cantina è chiusa a chiave dall'interno.» Kovac guardò Elwood. «Va' a controllare.» «Gliela faccio vedere io», si offrì Urskine, ansioso di allontanarsi dalla moglie. Kate lo trattenne con una domanda. «Gregg, Angie le ha detto qualcosa prima che lei uscisse?» L'uomo rispose con una delle sue risatine nervose e lei pensò che era un'abitudine esasperante, alla pari con il sorriso da leccapiedi di Rob Marshall. «Angie non ha mai niente da dirmi. Anzi, mi evita come la peste.» «A che ora è uscito per andare all'assemblea?» domandò Kovac. «Poco dopo che Kate era andata via», rispose Gregg. «Devo essere arrivato verso le otto e mezzo o le nove meno un quarto, vero, tesoro?» «Qualcosa del genere», confermò la moglie, imbronciata. «Eri in ritardo.» «Dovevo sistemare la caldaia.» Un muscolo guizzò nella mascella di Urskine, che si girò verso Elwood. «Ora le faccio vedere quella porta.» «Siamo liberi di ritirarci, sergente?» chiese Toni Urskine. «È stata una serata molto lunga.» «A chi lo dice», ribatté Kovac, congedandoli. Kate li seguì fuori della stanza, ma si diresse verso la porta principale della casa, a destra. «Sta per nevicare», osservò, affondando le mani nelle tasche del cappotto e incurvando le spalle, non per ripararsi dal maltempo, ma per reagire a un gelo che veniva da dentro. Si spinse fino all'estremità del portico, allontanandosi dalla luce gialla, dal viavai dell'ingresso. «Kate, non sappiamo che cosa gli sia successo», le disse Quinn. «Comunque mi sembra ragionevole supporre che Angie non si sia tagliata depilandosi le gambe.» Si sentì assalire da un tremito, ripensando a tutto quel sangue. Sangue
sul pavimento, sangue sulle piastrelle, sangue sugli asciugamani. S'irrigidì per resistere alla debolezza nauseante che le serpeggiava nei muscoli. Devi farti forza, Kate. Metti quelle emozioni in una scatola. Chiudi la scatola in un ripostiglio adatto. «Io la vedo così», riprese, nonostante il groppo che aveva in gola. «Lui s'introduce in casa dal retro, l'aggredisce al piano di sopra. C'è una colluttazione, a giudicare dalle impronte di sangue nella vasca... penso che siano le mani di Angie. Forse lui la uccide, o forse comincia soltanto il lavoro... delle due, la prima ipotesi è la più probabile. E la lascia sanguinare nella vasca, perché altrimenti ci sarebbero state altre macchie negli altri locali. Vuole dare l'impressione che lei sia semplicemente andata via, quindi tenta di ripulire tutto, ma per la fretta non fa un lavoro accurato. Comunque, anche quel poco gli avrebbe fatto guadagnare tempo, se non fossimo venuti a controllare stasera stessa.» «Come faceva a sapere che lei era qui?» «Non lo so, ma Angie aveva la sensazione di essere osservata. Forse era vero.» «Ma com'è possibile che tutto questo sia avvenuto senza che nessuno sentisse o vedesse niente?» «È già riuscito a catturare, torturare e assassinare tre donne senza che nessuno sentisse o vedesse niente. Rita Renner dormiva al pianterreno con la televisione accesa. La casa è grande.» Quinn scosse la testa. «C'è qualcosa che non mi quadra.» «Perché? Perché volevi che lui fosse presente all'incontro pubblico?» Quinn si appoggiò alla balaustra del portico, con le spalle curve sotto il trench. «È possibile che ci fosse comunque. Siamo a pochi isolati di distanza, e l'assemblea è finita più di mezz'ora prima che Kovac e io venissimo qui. La domanda è: perché correre questo rischio? La ragazza non aveva fornito alla polizia nessun elemento utile, né un nome né un identikit decente. Non ha trovato niente neppure nelle foto segnaletiche. A che scopo rischiare?» «Per dimostrare che può farlo», rispose Kate. «Che sberleffo, per la polizia! Proprio la sera dell'incontro destinato a stanarlo, s'introduce in casa e porta via l'unica testimone dei suoi delitti.» Quinn distolse lo sguardo, mentre uno dei tecnici della Scientifica portava in casa un aspirapolvere. «Per quale motivo siete venuti qui, stasera?» domandò Kate. «Kovac non me lo ha spiegato.»
«Quando gli hai parlato di Angie e del suo cliente nel parco, domenica notte, hai accennato al fatto che l'uomo era al volante di un SUV. Io sono convinto che probabilmente Smokey Joe usa un veicolo del genere per trasportare i cadaveri. Qualcosa che somigli a un automezzo del servizio di manutenzione, forse un SUV.» Kate si sentì attanagliare lo stomaco da una morsa di gelo. «Oh, Dio, John. Non penserai che fosse il suo cliente?» «Sarebbe il soggetto ideale. Odia le donne, soprattutto quelle che hanno una condotta sessuale promiscua. Ne trasporta una, già cadavere, nel bagagliaio. Ne prende a bordo un'altra e la porta nel parco, il terreno dove lascia di solito le sue vittime, per fare sesso con lei. Questo lo eccita, e l'eccitazione risveglia la stimolante emozione legata all'atto di uccidere. Nello stesso tempo afferma il proprio dominio e controllo sulla donna che è con lui. La segreta consapevolezza che potrebbe fare alla sua partner quello che ha fatto alla vittima, senza però realizzare la fantasia, gli ispira un senso di controllo tanto su di lei quanto sulla coazione a uccidere.» «E la decisione di non uccidere esalta la sensazione di potere. Tutto converge verso la cerimonia del rogo... il completamento del ciclo», concluse Kate per lui. «La ricostruzione sembra buona, almeno sulla carta.» «Angie ha detto che l'uomo l'ha spinta fuori e si è allontanato. Sarebbe dovuto tornare indietro subito nello stesso punto, perché lei potesse vederlo bruciare il corpo.» «Per il momento è solo una teoria.» «Ma se era lo stesso uomo, perché non me lo avrebbe detto? E perché non ci avrebbe dato un identikit migliore? Quell'uomo lo ha visto da vicino, a stretto contatto.» «Queste sono domande alle quali soltanto lei può rispondere.» «E ora non può farlo», mormorò Kate. «Per lei è stato così difficile parlarmene, questo pomeriggio. Fin da quando è cominciato questo incubo, lei non ha fatto che usare espressioni volgari e darsi arie da dura, ma quando alla fine mi ha parlato di questo cliente, è stato come se si vergognasse. Continuava a ripetere che non le andava di farlo, che le dispiaceva tanto. E piangeva.» A quel ricordo, si sentì assalire da un tumulto di emozioni, proprio com'era accaduto nel pomeriggio. «Quella ragazza ti piace», osservò Quinn. «Come può piacermi? È una prostituta, ladra, bugiarda e scurrile.»
«E ha bisogno di te.» «Già, e guarda che cosa ci ha guadagnato.» «Non è colpa tua, Kate.» «Sarei dovuta restare con lei.» «Non potevi sapere che sarebbe successa una cosa del genere.» «Era particolarmente vulnerabile», rifletté lei. «Sarei dovuta restare con lei, se non altro per cavarle qualcosa. Ma non l'ho fatto perché...» Sentì che la gola le si chiudeva, perché non voleva ammetterlo. Non qui. Non con Quinn. Lui la conosceva troppo bene... o, almeno, un tempo l'aveva conosciuta. «Non è Emily, Kate.» Kate inspirò di scatto, come se fosse stata schiaffeggiata, e si voltò per fulminarlo con lo sguardo. «Lo so benissimo. Mia figlia è morta.» «E tu dai ancora la colpa a te stessa. Dopo tanto tempo.» «Non mi risulta che esista la prescrizione, per il senso di colpa.» «Non è stata colpa tua, e non lo è adesso.» «Emily era mia figlia, affidata alla mia responsabilità. Angie è mia cliente, affidata alla mia responsabilità», insistette lei, ostinata. «Quanti dei tuoi clienti porti a casa con te?» «Nessuno, ma...» «Quanti dei tuoi clienti segui ventiquattr'ore su ventiquattro?» «Nessuno, ma...» «Allora non c'è motivo di pensare che saresti dovuta restare con lei.» «Aveva bisogno di me, e io non c'ero.» «Ma ogni volta che ti capita l'occasione di punirti, perdio, non te la lasci sfuggire», proruppe Quinn. Ricordava fin troppo bene la frustrazione provata quando aveva tentato di liberare Kate dal senso di colpa per la morte di Emily. Ricordava fin troppo bene di aver provato la voglia di scrollarla e nello stesso tempo di tenerla stretta, perché era esattamente la stessa emozione che provava in quel momento. Avrebbe voluto proteggerla dalla sofferenza che s'infliggeva, ma lei era pronta a battersi all'ultimo sangue per impedirglielo. «Mi assumo le mie responsabilità! Come se tu non ne sapessi niente», ribatte con amarezza, tenendogli testa. «Il grande Quinn, che cura il cancro della società moderna, lottando da solo per stroncare il male. Tu che porti sulle spalle il peso del mondo, come se fossi l'unico a proteggerlo, hai la faccia tosta di venire qui a criticarmi?» Scuotendo la testa, gli passò accanto, scendendo i gradini dell'ingresso.
«Dove vai?» Cercò di trattenerla, come se avesse ancora il diritto di toccarla, ma lei si scostò, raggelandolo con un'occhiata. «Vado a fare qualcosa. Non me ne starò qui tutta la notte a mangiarmi le unghie. Nella remota eventualità che Angie sia andata via di qui volontariamente, il minimo che io posso fare è contribuire alla sua ricerca.» «Aspetta. Vengo con te. Due paia di occhi sono meglio di uno.» Kate avrebbe voluto dire di no. Non voleva che la sua vicinanza riaprisse le vecchie ferite; ci riusciva già abbastanza bene da sola. Poi ripensò al modo in cui l'aveva presa per le spalle, al piano di sopra, pronto ad allontanarla dall'orrore che si aspettavano di trovare dietro la tenda della doccia, pronto a sostenerla, se necessario, a offrirle la sua forza, e capì che non doveva dire di no. Quinn la fissò con uno sguardo intenso, poi ripescò chissà dove un sorriso affascinante, e lei sentì qualcosa scattare dentro di lei, proprio come tanti anni prima. «Ti prometto di non fare lo scemo, e di lasciarti guidare.» Lei sospirò, avviandosi verso il 4Runner e premendo il pulsante dell'apertura a distanza. «Be', credo alla metà di quello che dici.» Fecero il giro dei locali sulla Strada al Lago dove le creature della notte trascorrevano le ore comprese fra il crepuscolo e l'alba. Sale da biliardo, bar e tavole calde aperte tutta la notte. Un centro di accoglienza per i senzatetto, pieno di donne con bambini. Una lavanderia automatica dove un alcolizzato con un cespuglio di capelli pepe e sale stava seduto su una sedia di plastica, guardando dalla finestra, finché l'inserviente, poco più fortunato di lui, non lo cacciava. Nessuno aveva visto Angie. «Ho bisogno di bere qualcosa», disse Kate quando entrarono in un locale che si chiamava Eight Ball's. All'interno ristagnava un banco di nebbia formato dal fumo delle sigarette. Lo schiocco delle palle da biliardo era accompagnato dal malinconico blues di Jonny Lang diffuso dal juke-box, Lie to Me. Il barista aveva le dimensioni di un pullmino, con la testa rasata e un paio di baffi alla Fu-Manchu. «Mi chiamo Tiny Marvin. Che ne dici di qualcosa di forte e nero come me, bellezza?» Quinn mostrò il distintivo, lanciandogli un'occhiata severa. «Oh, dannazione, mi dovevano capitare Scully e Mulder», mormorò Tiny Marvin, per nulla impressionato, togliendo dal fuoco una caffettiera. Kate si appollaiò su uno sgabello. «Il caffè va bene, grazie.»
Tiny Marvin squadrò Quinn a occhi socchiusi. «Ehi, amico, non ti ho visto per caso in TV?» «Stiamo cercando una ragazza.» Kate spinse la Polaroid sul piano del bancone, aspettandosi che Marvin la guardasse di sfuggita, come tutti gli altri baristi. Lui invece la prese, con le dita corte e grosse come salsicciotti, socchiudendo ancora di più gli occhi. «Sì, è stata qui.» Kate si raddrizzò. «Stasera?» «No, domenica sera, verso le dieci e mezzo. È entrata per scaldarsi un po', ha detto. L'ho cacciata subito, quella pollastrella bianca. Voglio dire, lasciar entrare gli adulti è un conto, amico... capisci che cosa intendo? Quella ragazzina era solo una fonte di guai e io non voglio finire nella merda.» «È uscita con qualcuno?» chiese Quinn. «Non da qui. È tornata in strada, camminando per un po' avanti e indietro. Allora ho cominciato a starci male... be', se fosse stata mia nipote o roba del genere, e fossi venuta a sapere che qualche figlio di puttana l'aveva sbattuta per strada? Amico, gli spaccherei il culo. Così vado a dirle che può bere una tazza di caffè, se vuole, ma lei trova un cliente e se ne va con lui.» «Che tipo di vettura?» «Una specie di furgone.» Il cuore di Kate accelerò i battiti. Guardò Quinn, ma lui era tutto concentrato su Tiny Marvin. «Non avrà mica preso la targa?» «Ehi, amico, non sono il vigile di turno.» «Ha visto il conducente?» «Non ho guardato. Ho pensato soltanto, ehi, gente, che fegato ci vuole, per prendere su una ragazzina come quella. Il mondo è insensibile e schifoso, lo sa che cosa intendo?» «Sì», mormorò Kate, raccogliendo la foto di Angie, «so esattamente che cosa intende.» Ripose la foto nella borsa, lanciò un dollaro sul banco per il caffè che non aveva toccato e uscì. Aveva cominciato a nevicare a larghe falde, sospinte da folate di vento freddo. Si addossò al muro esterno, desiderando che il vento spazzasse via tutte le emozioni che si erano accumulate in lei. Stavano per salirle alla gola e
non riusciva più a respingerle. Quinn uscì dalla sala da biliardo, socchiudendo gli occhi per difendersi dal vento gelido e rialzando il colletto del trench. «Kovac ti manda a dire: 'Ottimo lavoro, testa rossa'. Se mai ti venisse voglia di lasciare il mondo delle buone maniere, metterà una buona parola per te.» «Ah, sì? Ho sempre desiderato lavorare notte e giorno, compresi i weekend e le ferie, immersa in un mare di cadaveri. Questa è la mia grande occasione.» «Manderà una squadra per parlare con il barista e chiunque altro riusciranno a trovare. Se scovano qualcuno che ricorda qualche altro dettaglio dell'automezzo, o ha visto il conducente, avranno un punto di partenza.» «Il tempo è tutto», osservò Kate. «Se quella sera Angie non fosse stata in strada nel momento esatto in cui si è fermato quel furgone, io sarei a casa mia, a letto, e tu staresti scavando nel cimitero privato di qualcun altro.» Scosse la testa, ridendo di se stessa. «Finché vivrò, non smetterò mai di gridare la mia protesta contro il destino. Che stupida!» «Hai sempre vinto il primo premio per l'ostinazione.» Quinn allungò istintivamente la mano per ravviarle una ciocca di capelli sferzata dal vento, sfiorandole la guancia con le dita. «Ogni cinico è un idealista deluso, sai?» «Te compreso?» «Io non ho mai trovato ideale la vita.» Lei lo sapeva, ovviamente. Sapeva della sua vita, del padre alcolista e violento, degli anni tetri dell'adolescenza, trascorsi a Cincinnati. Era una delle poche persone alle quali Quinn avesse concesso di guardare da quella finestra. «Ma questo non ti ha salvato dalla delusione.» «L'unica cosa che può salvare dalla delusione è la disperazione. Ma vivere senza speranza non ha senso.» «E che differenza c'è fra speranza e disperazione?» domandò lei, pensando ad Angie, chiedendosi se osava sperare. «Il tempo.» Che forse era già scaduto per Angie DiMarco, e di sicuro per loro due, anni prima. Kate si sentì assalire dalla delusione. Avrebbe voluto appoggiare la testa alla spalla di Quinn e farsi abbracciare; invece si staccò dal muro per raggiungere il 4Runner parcheggiato vicino alla lavanderia. «Ti accompagno in albergo», disse a Quinn.
«No, vengo a casa tua e di lì chiamo un taxi. Lo so che sei dura, ma non voglio che tu vada a casa da sola, Kate. Non è una buona idea, almeno stanotte.» Se si fosse sentita più forte, forse avrebbe obiettato, ma non si sentiva forte, e il ricordo di quegli occhi fantasma che la seguivano mentre entrava dalla porta di servizio, poche ore prima, era ancora troppo recente. «D'accordo, ma non tentare scherzi, altrimenti ti scateno contro il gatto.» 20 «Il controllo del vicinato ha dato qualche frutto?» domandò Kovac, accendendo una sigaretta. Tipe curvò le spalle ossute. «Molti si sono lamentati perché gli agenti avevano bussato alla loro porta nel cuore della notte.» Erano fermi sul portico del Phoenix, sotto una luce di un giallo bilioso. Kovac si rivolse a Elwood. «Qualche novità, a proposito, per quella porta della cantina?» «È chiusa dall'interno. Abbiamo trovato delle macchioline di sangue sul pavimento. Urskine dice che non è niente, che si era tagliato lavorando alla caldaia, qualche sera fa.» Kovac si lasciò sfuggire un brontolio gutturale, guardando Liska. «E il tuo uomo, Vanlees?» «Non riesco a trovarlo. Volevo seguirlo quando si è conclusa l'assemblea, ma tra la folla e il traffico l'ho perso.» «Stanotte non doveva lavorare? È venuto all'incontro in divisa.» «Scommetto che ci dorme, con quella divisa», ribatté lei. «Sempre pronto a salvare i cittadini da tifosi di baseball indisciplinati e portoghesi. Ha un appartamentino da poco prezzo a Lyndale, ma non è in casa. Sono riuscita a parlare con quella che fra poco sarà la sua ex moglie, che mi ha detto che in questo periodo lui sorveglia la casa di qualcuno. Non sa chi sia, ma non potrebbe importarle di meno.» «Eh, se vuole fare il poliziotto, è bene che parta già con un divorzio alle spalle», commentò Tippen. «Ti ha dato qualche elemento da cui risulti che ha tendenze strane?» domandò Kovac. «Oh, so che questa ti piacerà», ribatté lei, illuminandosi. «Le ho chiesto informazioni su quella condanna per violazione di domicilio, diciotto mesi fa. Aveva ragione Quinn: era stato sorpreso a spiare una collega della mo-
glie.» «E lavora come guardia?» ribatté Kovac. «È riuscito a mantenere il segreto, e nessuno ci ha badato. Ha sostenuto che era tutto un grossolano equivoco, in ogni caso.» «Questo tizio mi sembra perfetto», disse Liska. «La moglie ha avuto per lui solo parole di disprezzo. Ha anche fatto capire che la loro vita sessuale, quando erano insieme, era inesistente. Se questo è vero, potrebbe corrispondere ancora meglio al profilo di Quinn. Molti di questi killer sono repressi sessualmente.» «Parli per esperienza?» la punzecchiò Tippen. «Be', non sono venuta a letto con te, quindi credo di no.» «Vaffanculo, Campanellino.» «Metterò un'auto di guardia davanti al suo appartamento», decise Kovac. «Lo voglio in centro appena possibile. Vedi se ti riesce di appurare quale casa sorveglia. Qualcuno deve pur sapere dove si trova. Chiama il suo capo, chiama di nuovo la moglie. Stanotte stesso. Fatti dare i nomi dei suoi amici e contattali.» «L'aiuto io», si offrì Moss. «Andate a infastidire tutti quelli che lo conoscono», suggerì Kovac. «Lo verrà a sapere, e questo gli farà saltare i nervi. Hai scoperto che automezzo guida?» «Un GMC Jimmy marrone.» Kovac ebbe l'impressione che qualcuno lo avesse colpito al diaframma con un pugno. «Un barista della Strada al Lago ha visto la testimone salire domenica sera su un furgone o un SUV di colore scuro. Era il cliente che si è lavorata nel parco prima di imbattersi nella vittima numero tre.» «Questo tizio ha un nome?» «No.» «Vanlees avrebbe potuto sapere che la ragazza alloggiava qui?» domandò Moss. Liska scosse la testa. «Non vedo come, a meno che non l'abbia pedinata. Ma mi sembra improbabile.» «Chi sapeva che la testimone alloggiava qui?» chiese Adler. «Noi, Sabin, quelli servizio di protezione vittime e testimoni, la capintesta laggiù», aggiunse Kovac, indicando Toni Urskine che si stava facendo intervistare dalla televisione, «e suo marito. Il sindaco, gli uomini di Bondurant...» «E chi più ne ha, più ne metta», concluse Elwood.
«Un'altra delle vittime era legata a questo istituto», fece notare Moss. «E quando l'abbiamo trovata abbiamo interrogato tutti, controllato i precedenti, gli alibi, i personaggi collegati, eccetera eccetera», ribatté Kovac. «E ora dobbiamo rifare tutto daccapo», gemette Tippen. «Come se ci mancassero scartoffie da compilare.» «Al lavoro», ordinò Kovac. «Il tempo passa e questo caso comincia a puzzare. Cerchiamo di beccare il bastardo prima che dia fuoco a qualcun altro.» «È un vero gigante, quel gatto», osservò Quinn, squadrando Thor mentre Thor lo squadrava a sua volta dal tavolino dell'ingresso. «Ma penso che potrei farcela.» Il gatto doveva pesare almeno nove chili, con i baffi lunghi trenta centimetri e folti ciuffi di peli che gli spuntavano dalle orecchie. Piegando il muso verso il petto, emise un profondo brontolio ingoiato, poi sollevò una zampa, portandola dietro l'orecchio in posizione yoga per leccarsi il didietro. «Mi pare di capire che cosa pensa di me.» «Non devi prenderlo come un fatto personale», ribatté Kate. «Thor è superiore alle meschine considerazioni degli esseri umani. «Ti ringrazio per l'aiuto di stasera», aggiunse, chiudendo la porta dell'armadio a muro in cui aveva appeso il cappotto e appoggiandosi al battente. «Non sono stata generosa, quando me l'hai offerto, ma so che non spetta a te indagare.» «E neanche a te.» «È vero, ma avevo bisogno di fare qualcosa. Sai che non posso sopportare di restarmene tranquilla in disparte. Del resto questo vale anche per te. Non eri tenuto ad andare al Phoenix con Kovac.» «Questo è un caso tutt'altro che normale.» «A causa di Peter Bondurant, lo so.» Kate accarezzò distrattamente Thor, che la guardò con aria offesa e scese dal tavolino con un balzo, allontanandosi. «Eppure non riesco a biasimarlo. Quale genitore non farebbe tutto ciò che è in suo potere per riavere la figlia?» aggiunse con aria malinconica. «Io avrei fatto un patto con il diavolo, quando Emily si è ammalata. In effetti, credo di averci provato», confessò con un mezzo sorriso. «Nessuno ha ascoltato la mia preghiera e questo ha compromesso la mia fede nel male.» Il suo dolore era ancora tangibile e Quinn avrebbe voluto stringerla fra le
braccia e invitarla a dividerlo con lui, come ai vecchi tempi. «Neanche il denaro di Bondurant è servito a impedire che la figlia morisse», osservò. «Ammesso che il corpo sia di Jillian. Lui è convinto di sì.» «Come mai?» chiese Kate, sconcertata. Dal canto suo, aveva resistito con tanta violenza alla notizia della morte di Emily che anche quando un'infermiera l'aveva portata nella stanza per farle vedere il corpo della figlia, per farle toccare la manina gelida e sentire da sé che non c'era più battito cardiaco né respiro, si era rifiutata di ammettere l'evidenza. «Che uomo strano. Mi ha sorpreso vederlo stasera all'assemblea. È stato sempre così riservato.» Quell'osservazione fatta con noncuranza colpì Quinn come un pugno invisibile. «Hai visto Bondurant? Ne sei sicura?» «Mi è sembrato proprio lui», rispose Kate. «L'ho visto uscendo. Ho pensato che fosse strano vederlo senza il suo legale, ma era evidente che non voleva farsi notare. Era vestito alla buona, come tanti altri, con un parka e un cappello piuttosto malconcio, nel tentativo di apparire anonimo, ed è uscito dal retro insieme con gli altri.» Quinn si accigliò. «Non riesco a capacitarmi. Non posso dire che sia disponibile a collaborare, eppure è stato lui a farmi venire qui. È un groviglio di contraddizioni. «Non riesco a togliermi di mente l'idea che sua figlia sia la chiave di tutta la storia», riprese poi. «Ammesso che sia lei la terza vittima. Nel suo caso, Smokey Joe ha deviato dal consueto schema. Per quale motivo? Con le prime due, ha bruciato i corpi, ma senza cercare di renderli irriconoscibili. Invece con la numero tre cancella le impronte digitali, sfigura la pianta dei piedi, le mozza la testa, insomma fa di tutto per rendere difficile l'identificazione.» «Ma lascia la patente di guida.» «Anche in questo caso, perché?» «Forse gli altri aspetti rientrano nella tortura», suggerì Kate. «Nel processo per spersonalizzarla. L'ha ridotta all'anonimato. Non gli importa se sappiamo chi è dopo la morte, quindi lascia il documento come per dire: 'Ehi, guardate un po' chi ho ucciso'. Ma forse voleva che la vittima si sentisse annullata negli ultimi istanti di vita, che morisse pensando che nessuno avrebbe potuto identificarla o prendersi cura del suo corpo o piangerla.» «Forse», ammise Quinn. «O forse questa estrema spersonalizzazione è dovuta al fatto che conosceva Jillian. Per esempio, se sospettassimo della guardia di sicurezza del complesso residenziale di Jillian, potremmo ipo-
tizzare che abbia ucciso le due prostitute per fare pratica, proiettando su di loro i suoi sentimenti per Jillian. Ma questo non ha soddisfatto le sue esigenze, quindi la uccide, poi perde il controllo e le taglia la testa perché vuole possederla. «Oppure le taglia la testa perché quel corpo non è di Jillian Bondurant, mentre lui vuole farcelo credere. D'altra parte il documento è senz'altro suo, quindi, se il corpo non lo è, come ha fatto Smokey Joe a procurarselo? Sappiamo che questo non è un rapimento. Sono trascorsi alcuni giorni senza telefonate e richieste di riscatto... almeno per quanto ne sappiamo, visto che Bondurant si è rifiutato di far mettere il telefono sotto controllo. Questo è un altro dei suoi strani comportamenti.» «E se Jillian è ancora viva», disse Kate, «dov'è, e che cosa c'entra in tutto questo?» «Non lo so. E pare che nessuno di quelli che la conoscevano voglia o sappia dircelo. Questo caso mi dà una brutta sensazione.» «Non è che dovresti magari andare da un medico?» ribatté lei, lanciando un'occhiata significativa alla mano che lui si premeva sullo stomaco. «Non fai che ripetere quel gesto.» Lui allontanò bruscamente la mano. «Non è niente.» «Probabilmente hai un buco nello stomaco grande abbastanza da farci passare una Buick, ma figurati se lo ammetti. Chissà che danno sarebbe per la leggenda di Quinnl Potrebbe ridurlo al livello di Superman, così vulnerabile di fronte alla kryptonite.» Lui sorrise, come se Kate lo avesse divertito, ma evitò di incontrarne lo sguardo. «Non è niente.» «Fa' come ti pare.» Se non voleva prendersi cura di se stesso, era un problema suo... o di qualche donna senza volto laggiù in Virginia, non di Kate. «Ora ho bisogno di un drink. Tu vuoi qualcosa, prima di andartene? Un antiacido, o qualche compressa contro l'ulcera da masticare in taxi?» Si diresse verso la cucina, prendendosi mentalmente a calci per avergli offerto la possibilità di trattenersi; poi si disse che glielo doveva, quella sera. Inoltre aveva l'aria di desiderare un drink anche lui. Naturalmente non se lo sarebbe concesso, perché era troppo consapevole del pericolo rappresentato dall'alcolismo che imperversava tanto nella sua famiglia quanto fra i colleghi. Per quanto ne avvertisse il bisogno per allentare la frustrazione e la tensione indotte dal lavoro, il rischio di annegare nell'alcol era troppo alto. «Gran bella casa», osservò, seguendola in cucina.
«L'ho comprata dai miei genitori, quando hanno perso la testa e si sono trasferiti a Las Vegas.» «Quindi in effetti sei tornata nella tua casa natale.» La guardò mentre si muoveva in cucina, prendendo dall'armadietto una tazza e una bustina di tisana alle erbe, con i capelli sciolti sulla schiena come una cascata d'oro rosso. Provava il desiderio di accarezzarli, di posarle la mano sull'incavo delle reni. Aveva sempre visto la sua femminilità e vulnerabilità. Dubitava che molti, guardando Kate, pensassero che aveva bisogno di protezione. Le qualità che gli altri notavano erano la forza e la tenacia; ma dietro quella facciata c'era una donna che non sempre era sicura di sé come sembrava. «Come stai, Kate?» «Cosa?» Voltò le spalle al forno a microonde, con un'espressione perplessa. «Sono stanca, sono sconvolta. Ho perso una testimone...» Avvicinandosi, Quinn le posò un dito sulle labbra. «Non mi riferisco al caso. Sono passati cinque anni. Come ti senti veramente?» Kate sentì il cuore martellarle la gabbia toracica, mentre le risposte le restavano in gola. Cinque anni. Come mi sento? Vuota. Sola. In gabbia. «Lasciamo andare», rispose sottovoce. «Se tu avessi voluto saperlo davvero, non avresti aspettato cinque anni a chiederlo.» Avvertì il rammarico in quelle parole e rimpianse di averle pronunciate. A che cosa serviva, ormai, quando avevano soltanto qualche giorno da trascorrere insieme? Meglio fingere che il fuoco non ci fosse stato, piuttosto che riattizzare le braci e smuovere la cenere dei ricordi. Sentì suonare il timer del forno a microonde e si voltò a preparare una tazza di tisana. «Mi avevi detto che era quello che volevi», le rammentò lui. «Volevi andartene. Volevi un taglio netto. Volevi partire per ricominciare da capo. Che cosa avrei dovuto fare, Kate?» Chiedermi di restare, pensò. Venire con me. Le risposte erano lì, brusche come ieri, e altrettanto futili. Quando aveva lasciato la Virginia, l'ira e la sofferenza li avevano spinti oltre il punto di non ritorno. E lei, anche senza chiederlo, sapeva che Quinn non avrebbe mai lasciato l'ISU per andare con lei. Per John Quinn il lavoro era tutto. Era unito al suo lavoro da un legame profondo che non avrebbe mai provato per una donna. E come le faceva male pensarlo, ancora oggi! «Che cosa avresti dovuto fare? Niente», sussurrò. «Hai fatto bene.» Quinn le si avvicinò alle spalle, con una gran voglia di toccarla, come se
il contatto potesse cancellare per magia il tempo e i problemi che li avevano divisi. Avrebbe voluto dirle che il telefono funzionava nei due sensi, ma sapeva che lei non avrebbe mai rinunciato al proprio orgoglio, o all'insicurezza che celava. Una parte di lui era sollevata che Kate non avesse mai chiamato, perché allora avrebbe dovuto guardarsi nel grande specchio della vita e chiedersi: in lui era rimasto abbastanza per costruire un rapporto durevole? La paura della risposta lo spingeva a eludere quella domanda da tanto, tanto tempo. E ora eccolo lì, a un passo dalla parte migliore del suo passato, sapendo di doverlo lasciare così com'era. Se cinque anni prima non era in grado di dare abbastanza in un rapporto, tanto meno lo era adesso. Alzò una mano a sfiorarle i capelli, confrontando con la realtà il ricordo della loro serica morbidezza. Le posò la mano sulla spalla, trovando con il pollice il nodo familiare di tensione. «Ti sei pentita, Kate? Non di com'è finita, ma di noi.» Kate chiuse gli occhi. Ne aveva a tonnellate, di rimpianti, ma non era mai riuscita a pentirsi di averlo cercato. Si rammaricava di aver desiderato di più; si rammaricava che lui non fosse riuscito a darle di più, questo sì. Ma non poteva immaginare una sola carezza, un solo bacio, una sola notte fra le sue braccia, di cui pentirsi, anche solo per un secondo. Le aveva dato amore e comprensione, passione e compassione, tenerezza e conforto, proprio quando ne aveva più bisogno, quando era più ferita, quando si sentiva sola. Come poteva pentirsi di questo? «No», rispose, voltandosi, in modo da tenere fra loro la tazza di tisana fumante. «Tieni, ti farà bene.» Lui prese la tazza, mettendola da parte. «Anch'io non mi sono mai pentito», le disse. «Ci sono stati momenti in cui pensavo che avrei dovuto, ma non ero e non sono pentito.» Le accarezzò la guancia con le dita, le sfiorò i capelli poi si chinò a sfiorarle le labbra. In lei il desiderio si destò all'istante acuto, dolce e amaro. Le labbra fremettero, mosse dal ricordo e dal languore. Un incastro perfetto. L'equilibrio perfetto fra tensione e passione. Le lingue si unirono, cercando, assaggiando, toccando, rendendo più profondo il bacio e le emozioni che evocava. Lei avvertì subito l'intenerirsi del seno, lo struggimento che le faceva desiderare la sua mano, la sua bocca, un legame più forte di quel semplice gesto. Lui l'abbracciò, e Kate sentì la pressione della sua virilità mentre la stringeva. Sarebbe rimasto solo per qualche giorno, le rammentò quel barlume di
logica che le restava. Era venuto per un caso, non perché avesse bisogno di lei, o sentisse la sua mancanza, o volesse sciogliere il nodo al quale erano sfuggiti. Era tutto un gioco di coincidenze. «No», disse dolcemente, quando lui alzò la testa. «Non sono pentita. Ma questo non significa che voglia ricominciare. Non sono qui a tua disposizione.» «E credi che mi aspetti questo?» ribatté Quinn, ferito. «Pensi che mi aspetti che verrai a letto con me solo perché sei disponibile e sai già come sono? Credevo che mi conoscessi meglio, Kate. Mio Dio, sei l'unica persona che mi abbia mai conosciuto veramente.» «Credevo di conoscerti», mormorò Kate. «Ma alla fine si è visto che nessuno dei due conosceva l'altro.» Lui sospirò, facendo un passo indietro. «Consideriamoci buoni amici e lasciamo le cose come stanno, va bene?» concluse Kate, con un nodo alla gola. «Tu non sei venuto qui per me, John. Se fosse stato quello che volevi, saresti venuto anni fa. Ti chiamo un taxi.» 21 La casa era buia. Tutto il quartiere era buio. I residenti sulle rive del Lago delle Isole rispettavano degli orari civili, mentre nella zona in cui abitava Kovac c'era sempre qualche luce accesa: persone che rientravano tardi, che andavano al lavoro presto, che guardavano gli spot televisivi. Kovac parcheggiò la macchina ai confini della proprietà di Bondurant, facendone il giro completo a piedi. La neve, fresca e umida, gli inzuppava i pantaloni, infiltrandosi nelle scarpe, ma lui la ignorò, concentrato com'era su quella imponente dimora: nel buio sembrava ancora più grande che alla luce del giorno. Gli ingressi laterali erano contrassegnati dai faretti del sistema di sorveglianza, ma in casa non c'era neanche una luce accesa. Se Peter Bondurant guardava la TV, lo faceva in qualche stanza senza finestre nel cuore della casa. E che casa. Sembrava trasferita di peso dall'Inghilterra medievale, come uno di quei castelli che nascondevano nei sotterranei la stanza delle torture. Per quel che Kovac ne sapeva, poteva essercene una anche lì. Cristo, e se fosse toccato a lui, quel colpo di fortuna? Sarebbe stato lui ad annunciare al mondo che il milionario Peter Bondurant era un pazzo omicida. Ma il sindaco l'avrebbe fatto a pezzi, seppellendo il suo corpo nelle fondamenta del nuovo carcere, le autorità cittadine volevano la cat-
tura dell'assassino, certo; ma l'assassino doveva essere preferibilmente un pregiudicato del Wisconsin con lo sguardo allucinato e la bava alla bocca. Tornando indietro, si tolse la neve dai piedi e dalle gambe, salì al posto di guida e accese il motore per avviare a pieno regime il «riscaldamento anemico della sua auto. Poi frugò in una pila di cianfrusaglie per scovare il cellulare e compose il numero telefonico di Bondurant. Quinn lo aveva chiamato per informarlo che Kate aveva visto il padre di Jillian all'incontro pubblico, nascosto fra i comuni spettatori. Quel tizio era uno schizzato. Nascondeva qualcosa a proposito di quell'ultima serata con la figlia, e chissà che altro. Il telefono squillò. Al quinto squillo si inserì la segreteria telefonica e una voce inespressiva impartì le istruzioni. Kovac lasciò nome e numero telefonico, insieme con la richiesta di essere richiamato. Mettendo in moto, raggiunse il pannello del citofono vicino al cancello e premette il pulsante. Nessuno rispose. Rimase lì altri cinque minuti, provando e riprovando, ma nessuno rispose. Mentre era lì, passò una vettura di servizio della società privata di sorveglianza e un sollevatore di pesi con una divisa elegante gli chiese i documenti. Poi lui rimase di nuovo solo a fissare la casa di Peter Bondurant, chiedendosi quali segreti nascondesse. C'è chi non risponde al telefono dopo la mezzanotte, ma non sono certo i genitori di un figlio scomparso. Forse Peter Bondurant non rispondeva mai al citofono, e in quel momento se ne stava rannicchiato a letto, tremando in attesa che una folla di poveri diavoli disperati facesse irruzione in casa sua per saccheggiarla. Ma non era stato lui a chiamare il servizio di sicurezza. Un giro di routine, aveva detto il sollevatore di pesi. Kovac fissava la casa e diciassette anni di esperienza gli dicevano che dentro non c'era nessuno. I cadaveri galleggiavano nell'acqua sopra di lui come tronchi d'albero. Corpi nudi, in decomposizione. Lacerati, smembrati, crivellati di fori. Lembi di carni putrefatte si staccavano dalle ferite. Cibo per i pesci. Le anguille nuotavano dentro e fuori, passando dalle cavità spalancate. Quinn li guardava dal basso, tentando di riconoscerli uno per uno nell'acqua azzurrina. Era a corto di ossigeno. I polmoni gli bruciavano, ma non poteva risalire in superficie prima di aver identificato ogni cadavere e indicato il nome dell'assassino.
Doveva sforzarsi di riflettere. Nomi. Date. Fatti. Ma non riusciva a ricordare tutti i nomi. Non conosceva tutti gli assassini. I fatti gli vorticavano nella testa, a caso. Aveva l'impressione che i cadaveri si moltiplicassero, fluttuando alla deriva. Ormai l'aria stava per finire. Non poteva respirare, non poteva pensare. Dimenò le braccia, tentando di aggrapparsi a qualcosa che lo aiutasse a risalire, ma tutto ciò che le sue mani incontravano era gelido e morto, e lo tratteneva sott'acqua. I cadaveri e la responsabilità lo tenevano sotto. Doveva sforzarsi di pensare. Avrebbe potuto completare il puzzle, se solo i pezzi avessero smesso di muoversi, se solo i suoi pensieri avessero cessato di accavallarsi, se solo lui fosse riuscito a respirare. I corpi si spostarono ancora, sopra di lui, e riuscì a scorgere il volto di Kate che lo guardava al di sopra della superficie. Poi i cadaveri si spostarono e lei scomparve. Proprio quando aveva l'impressione che i polmoni cominciassero a sanguinare, sferrò un ultimo calcio violento e uscì dalla superficie dell'acqua e dell'incubo, ansimando e alzandosi dal letto. Il sudore gli inondava il corpo, colando dalla punta del naso e raccogliendosi nel solco della colonna vertebrale. Si allontanò barcollando dal letto, con le gambe molli, lasciandosi cadere sulla sedia accanto alla scrivania, tremando di freddo nell'aria notturna. Si piegò in due sul cestino della carta straccia, senza quasi accorgersi del fuoco che gli dilaniava lo stomaco. Sentiva come sempre la voce interiore che lo trovava sempre in difetto e non esitava mai a colpirlo quando era giù. Gli diceva che non c'era tempo per quelle stronzate. Aveva casi da risolvere, c'erano persone che dipendevano da lui. Se avesse perso la concentrazione e ingarbugliato ogni cosa, potevano morire. Se avesse combinato un pasticcio veramente grave, se qualcuno avesse scoperto che aveva perso il fiuto e il sangue freddo, e quale caos aveva nella testa, si sarebbe ritrovato senza lavoro. E senza lavoro lui non aveva più niente, perché il lavoro non era quello che faceva: era tutto ciò che era, tutto ciò che aveva. Quel sogno non era una novità. Ne aveva fatti tanti altri, tutte variazioni sul tema. Erano assurdamente semplici da interpretare e lo facevano sempre sentire a disagio. Non aveva tempo per quelle stronzate. Chiudendo gli occhi, rivide i cadaveri e si sentì assalire dal panico, una pioggia acida interna. Gli pareva di sentire il capo della sua unità che esigeva risposte, spiegazioni, risultati. Il direttore mi ha fatto una paternale di mezz'ora. Non è Bondurant che devi torchiare, John. Che diavolo ti
prende? Si sentì salire le lacrime gli occhi al pensiero della risposta che proveniva dal vuoto al centro del suo petto: L'ho perso. Il talento, il sangue freddo, l'istinto. Sentiva di averlo disperso e dissipato in troppi angoli del paese. Non aveva il tempo di andare a caccia dei frammenti. Poteva soltanto fingere che fosse rimasto intatto e sperare che non fossero in troppi a soffrirne. Stai arrivando a qualche conclusione? Hanno individuato un sospetto? Lo sai che cosa vogliono, vero? È abbastanza semplice, no? Certo che lo era. Se lo consideravi semplicemente come l'assassinio di due prostitute, ignorando il fatto che la terza vittima poteva essere o no la figlia di Peter Bondurant. Se facevi finta che il comportamento di Bondurant fosse normale. Se non avevi ancora un centinaio di domande senza risposta sull'enigma rappresentato da Jillian Bondurant. Se questo fosse stato soltanto l'omicidio di due prostitute, lui avrebbe potuto tracciare un profilo in base al manuale, senza spostarsi da Quantico. Ma in tal caso nessuno si sarebbe rivolto al suo ufficio. Rinunciando all'idea di dormire, si lavò i denti, fece la doccia e indossò la tuta di felpa dell'accademia. Poi si sedette alla scrivania con il fascicolo del caso e un flacone di antiacido, bevendone ogni tanto una sorsata mentre studiava i rapporti. In mezzo alle pagine del raccoglitore c'era il pacco di fotografie che Mary Moss aveva ricevuto dai genitori di Lila White. Immagini di Lila White viva e felice, mentre rideva alla festa di compleanno della sua bambina. Guardare quelle foto doveva spezzare il cuore ai genitori, pensò. Nel visino della piccola vedevano la figlia com'era stata quando il suo mondo era semplice, solare e pieno di meravigliose opportunità, mentre sul volto di Lila scorgevano le rughe incise dalle dure lezioni apprese nella vita, dalla delusione e dal fallimento. E la speranza di qualcosa di meglio, una speranza ricompensata con una morte brutale, poco tempo dopo che erano state scattate quelle foto. Quinn sospirò, tenendole sollevate alla luce della lampada, per imprimersi nella memoria l'immagine di Lila White: la pettinatura, il sorriso malizioso, la gobbetta sul naso, la curva alla base del collo... Si sarebbe unita alle altre che ossessionavano i suoi sonni. Mentre stava per accantonare la fotografia, qualcosa colpì la sua attenzione, inducendolo a riprenderla. Seminascosto dalla spallina del costume da bagno, vide un piccolo tatuaggio sulla parte superiore destra del petto.
Cercò la lente d'ingrandimento e sollevò la foto per esaminarla meglio. Un fiore. Un giglio, sembrava. Con una mano, sfogliò il fascicolo in cerca delle foto dell'autopsia di Lila White. Erano circa un terzo di quelle scattate alla vittima che si riteneva fosse Jillian Bondurant, eppure trovò quello che cercava: una foto che mostrava un lembo di carne asportato dalla parte superiore destra del petto di Lila White... senza tatuaggio. Kate era raggomitolata nell'angolo del grande divano di cuoio verde dello studio, con l'ennesimo bicchiere di gin sul tavolino accanto. Aveva perso il conto di quanti ne aveva già bevuti, ma non aveva importanza. L'alcol serviva a smussare il dolore che l'assaliva da più parti. Quella era l'unica cosa che contava, stasera. Aveva dovuto telefonare a Rob Marshall per informarlo della situazione; a lui toccava il compito poco invidiabile di trasmettere la notizia al procuratore. Sabin avrebbe dedicato il resto della notte a escogitare vari metodi di tortura. L'indomani Kate poteva aspettarsi di essere mandata al rogo. Eppurel'idea di un confronto con Ted Sabin era l'ultima delle sue preoccupazioni. Niente di ciò che poteva fare per punirla sarebbe stato peggio di quello avrebbe fatto lei nei propri confronti. Ogni volta che chiudeva gli occhi, rivedeva il sangue. Sarei dovuta restare con lei. Se fossi stata lì, sarebbe ancora viva. E ogni volta che lo pensava, il viso di Angie si trasformava in quello di Emily, e il dolore la dilaniava ancor più in profondità. Quinn l'aveva accusata di voler fare la martire, ma i martiri soffrivano senza peccato, mentre lei si assumeva tutta la colpa. Per Emily. Per Angie. Si alzò, dirigendosi verso la scrivania di quercia che era appartenuta al padre. Sollevando il ricevitore, compose il numero della sua casella vocale e batté sui tasti per ascoltare i messaggi. Lo aveva già fatto tre volte. . 22.05, annunciò la voce meccanica. Il segnale fu seguito da un lungo silenzio. 22.08. Un altro lungo silenzio. 22.10. Un altro lungo silenzio. Lei aveva lasciato in macchina il cellulare, e non era voluta uscire per andare a prenderlo perché si era spaventata. Chi chiamava poteva sempre lasciare un messaggio. Avrebbe controllato la segreteria in seguito, rammentava di aver pensato. Se era stata Angie a chiamare...
Ma non c'era modo di saperlo, e non c'era altro da fare che aspettare. La chiamata arrivò alla centrale del 911 della contea di Hennepin alle 3.49 di notte. Un'auto in fiamme. Kovac ascoltò con un orecchio solo, per pura abitudine. Era gelato fino al midollo delle ossa; al posto dei piedi gli sembrava di avere due blocchi di ghiaccio. La neve s'infiltrava dal finestrino che aveva lasciato aperto per evitare l'avvelenamento da monossido di carbonio. Forse avrebbe dovuto appiccare il fuoco a quella macchina. Le fiamme lo avrebbero scongelato, e il garage della polizia avrebbe potuto fornirgli qualcosa di meglio, magari una Hyundai con una ruota per i criceti sotto il cofano. Poi sentì l'indirizzo, e l'adrenalina scacciò all'istante il gelo. Con l'assemblea erano riusciti sul serio a stanare Smokey Joe, e come! Imballò il motore e partì a razzo, abbandonando la sorveglianza della casa vuota di Peter Bondurant. Il killer aveva appena dato fuoco alla sua quarta vittima, nel parcheggio del centro dove si era tenuto l'incontro pubblico. 22 Kate uscì di corsa dalla porta sul retro, con il cappotto infilato a metà. Era riuscita a calzare un paio di stivaletti da neve, ma neppure le suole pesanti le furono d'aiuto quando posò il piede su un gradino ghiacciato. Lanciando uno strillo involontario, cadde rovinosamente nel cortile, dove l'impatto fu attutito da quindici centimetri di neve fresca. Non si concesse neanche il tempo di riprendere fiato, rialzandosi per proseguire la corsa. Kovac l'aveva chiamata lungo il tragitto verso il parcheggio del centro dove si era svolto l'incontro con i cittadini. Un'auto in fiamme. Sembrava che a bordo ci fosse qualcuno. Angie. Nessuno sapeva ancora niente, ovviamente, ma l'idea che potesse trattarsi di Angie bruciava nella mente di Kate mentre correva verso il garage, cercando le chiavi nella tasca. Quinn aveva fatto eco alle sue preoccupazioni per il garage. Posizione orribile, illuminazione scarsa. La rendeva vulnerabile. Era tutto vero, ma lei non aveva il tempo di pensarci. Chiunque avesse intenzione di rapinarla o violentarla avrebbe dovuto aspettare. Era a metà strada dal 4Runner, quando si rese conto che la luce del gara-
ge non si era accesa. Quella scoperta la bloccò per un attimo, una frazione di secondo in cui tutti i suoi sensi si acuirono e il cuore batté con un tonfo amplificato. Poi premette il tasto del telecomando e l'interno del fuoristrada s'illuminò. Continua a muoverti, si disse. Se avesse continuato a muoversi, non avrebbe offerto a qualcuno la possibilità di fermarla. Un'idea risibile, ma lei vi si aggrappò, spalancando la porta del fuoristrada e issandosi al posto di guida. Con una rapida successione di movimenti, bloccò le portiere, accese il motore, inserì la trazione integrale e mise in moto. L'automezzo si spostò in retromarcia, oscillando sulla neve e sbandando sulla sinistra. Lo specchietto esterno si salvò per pochi minimetri. Il paraurti posteriore urtò lo steccato del vicino, poi finalmente Kate ingranò la prima e il motore ruggì. Lei sterzò troppo bruscamente immettendosi sulla strada e il fuoristrada slittò, schivando di un soffio il muso di una Lexus nera parcheggiata sulla strada. Davanti al centro congressi c'era una massa compatta di veicoli di soccorso, ambulanze, luci rosse, bianche e blu che lampeggiavano e roteavano come al luna-park. In mezzo c'erano gli onnipresenti furgoni della stampa, che scaricavano giornalisti, cameramen e attrezzature. Era già cominciato il controllo casa per casa, che costringeva i vicini ad alzarsi dal letto. In alto, un elicottero della polizia di Stato incrociava sui tetti, inondando di luce abbagliante i prati e le finestre, illuminando per un attimo un paio di cani della pattuglia cinofila con i loro istruttori. Se Smokey Joe aveva dato alle fiamme l'auto con la quale aveva raggiunto il parcheggio, doveva essersi allontanato a piedi. C'erano buone probabilità che vivesse nei dintorni. A meno di cinque minuti dalla casa di Kate, anche se in quel momento lei non voleva pensarci. Parcheggiò il 4Runner dietro il furgone della rete televisiva KMSP, lasciandolo con le ruote sul marciapiede, poi, lavorando di gomiti, si fece largo tra la folla di curiosi. Teneva gli occhi fissi sul personale paramedico che lavorava all'interno di un cerchio di poliziotti in divisa, a una certa distanza dall'auto bruciata. I paramedici si affollavano intorno alla vittima, lanciando bruschi ordini in gergo medico. Uno degli agenti prese per il braccio Kate, trattenendola mentre tentava di passare. «Mi spiace. È ammesso soltanto il personale autorizzato.»
«Io lavoro nel servizio di protezione vittime e testimoni. Ho il distintivo.» «Questo non ha bisogno di lei. È carbonizzato.» «Questo?» «O questa, chi può dirlo?» Kate fu assalita dalla nausea. Oh, Gesù. Angie. «Dov'è Kovac?» «È impegnato, signora. Se vuole farsi da parte...» «Posso garantire per lei, agente», intervenne Quinn, mostrando il distintivo. «È meglio che la lasci passare, se non vuole che le stacchi una mano.» Kate si slanciò, ma Quinn la trattenne, tenendola stretta mentre si dibatteva per liberarsi. «Lasciami andare!» «Prima vediamo che cosa ne sa Kovac. Se si tratta di Smokey Joe, ci dovrebbe essere un documento nei paraggi.» «No, devo vedere!» «Sarà un brutto spettacolo, Kate.» «Lo so, ne ho già visti. Dio, che cosa non ho visto?» Niente. Aveva trascorso anni a esaminare fotografie di un orrore indicibile. Sapeva tutto delle atrocità che un essere umano poteva infliggere a un altro. Pure, non c'era nulla che reggesse il paragone con la cruda realtà della scena di un delitto. Le fotografie non riuscivano mai a catturare i suoni, l'elettricità che vibrava nell'aria, l'odore della morte. L'odore della carne umana carbonizzata era terribile e la colpì in faccia come una mazzata, causandole una sensazione simile al dolore fisico. Si sentì le ginocchia molli. Non capì come mai non fosse caduta, finché non si rese conto che Quinn l'aveva sorretta, tenendola per le spalle. Delle centinaia di vittime che aveva visto, nessuna era una persona che forse poteva conoscere. Il corpo, orrendamente carbonizzato e quasi fuso dalle fiamme, era disteso sul fianco, con gli arti piegati e irrigiditi in posizione seduta. Il calore dell'incendio doveva essere stato incredibile. I capelli erano inceneriti, il naso era scomparso; le labbra contorte erano state divorate dalle fiamme, lasciando scoperti i denti in un ghigno macabro. Lo sterno era esposto, con le ossa bianche e lucenti nei punti in cui lo strato sottile di carni era stato consumato. L'agente aveva ragione: a prima vista non c'era modo di distinguere il sesso della vittima, se non per il fatto che i lembi di tessuto incollati dal fuoco al dorso del corpo sembravano appartenere ad abiti fem-
minili: un frammento di golfino rosa, un riquadro di gonna. L'esame della dentatura era escluso. Non sapevano neppure chi fosse Angie DiMarco, o da dove venisse. Non c'erano genitori che potessero fornire radiografie dentarie o cartelle mediche utili per individuare vecchie fratture. Non c'erano neppure effetti personali da controllare. Orecchini. Angie portava gli orecchini. Le orecchie del cadavere erano divorate dalle fiamme, ridotte a due mozziconi carbonizzati. Anelli. Ne portava almeno mezza dozzina. Le mani del cadavere erano nere e adunche come zampe di scimmia. Sembrava che mancassero alcune dita. Kate fu scossa da un brivido che non aveva niente a che fare con il freddo. Quinn la costrinse ad allontanarsi, un passo alla volta. «Non so», mormorava lei, continuando a fissare il corpo, che aveva le dita dei piedi tese e arcuate come quelle di un ginnasta, per effetto della contrazione dei tendini. Il tremito era così forte che Quinn lo sentiva attraverso il pesante cappotto di lana. L'attirò lontano dal viavai di persone, scostandole i capelli dal viso e costringendola con dolcezza ad alzare la testa. Alla luce delle lampade al sodio del parcheggio, il viso appariva cinereo. Lo fissò con gli occhi vitrei per lo choc e il panico. In quel momento, lui non desiderava altro che attirarla a sé e tenerla stretta. «Ti senti bene, tesoro?» le chiese in tono gentile. «Hai bisogno di sederti?» Lei scosse la testa, distogliendo lo sguardo per fissare il personale delle ambulanze, le autopompe dei vigili del fuoco, il bagliore delle luci accecanti delle troupe televisive. «No... oh, mio Dio», balbettò, respirando troppo forte e troppo in fretta. Lo guardò di nuovo negli occhi, con le labbra tremanti. «Oh, Dio, John, e se fosse lei?» «Se è lei, non sei stata tu a metterla in quella macchina, Kate», ribatté lui con fermezza. «Dannata ragazzina», mormorò lei, lottando per non piangere. «Ecco perché non lavoro con gli adolescenti. Non portano altro che guai.» Lui la strinse a sé, accarezzandole i capelli con la mano e baciandola su una tempia, e si sentì completo per la prima volta in cinque anni. «Ci sono qui io, tesoro», sussurrò. «Ti tengo stretta.» «È lei?» A parlare era stato Rob Marshall, che li aveva raggiunti trotterellando sulle gambe troppo corte, infagottato in un piumino che gli arri-
vava fino alle orecchie, con un berretto di maglia calzato sulla testa rotonda. Sentendo la sua voce, Kate s'irrigidì, allontanandosi di un passo da Quinn. «Non lo sappiamo», rispose con voce roca. «Il corpo è irriconoscibile e nessuno ha ancora trovato un documento di identità.» «Come può essere succcesso?» esclamò Rob. «Pensavo che tu la tenessi d'occhio.» «Mi dispiace. Ti ho già detto al telefono che mi dispiace. Sarei dovuta restare con lei.» Ora quell'ammissione le pesava, perché era una concessione al suo capo, e lei aveva istintivamente voglia di contraddirlo. «Ti avevamo scelta per una ragione precisa.» «Lo so benissimo.» «Il tuo passato, la forza della tua personalità. Pensavo che una volta tanto la tua ostinazione tornasse a nostro vantaggio...» «Lo sai, Rob, mi sto già biasimando abbastanza per tutti e due», scattò Kate. «Quindi puoi anche piantarla, grazie tante.» «Sabin è su tutte le furie e non so come calmarlo.» «Sono sicura che te la caverai benissimo», ribatté, troppo in collera per essere prudente. «Basta che ti metti in ginocchio e cominci a leccarlo come sempre.» Tutto il corpo di Rob fu scosso da uno spasmo che lo spinse a gridare: «Come ti permetti di parlarmi così? Come osi! Hai perso le tracce della testimone, forse ne hai causato la morte...» «Questo non lo sappiamo», obiettò Quinn. «... e hai ancora la faccia tosta di parlarmi così! Non mi hai mai mostrato un briciolo di rispetto. Nemmeno adesso, dopo tutto quello che è successo! Non posso crederci! Dannata puttana!» «Indietro», ordinò Quinn, frapponendosi tra loro e respingendo con forza Rob, con il palmo della mano. Marshall perse l'equilibrio, scivolando sulla neve, e finì con il sedere per terra. Si rialzò a fatica, brontolando, poi si allontanò in direzione dell'ambulanza, scrollandosi la neve dal dorso del piumino con gesti rapidi e collerici. «Accidenti, John, volevo farlo io», protestò Kate. «Allora probabilmente ti ho salvato il posto di lavoro.» Soltanto allora nella mente di Kate balenò l'idea che la sua carriera fosse in pericolo. Diamine, perché mai Rob non la licenziava? Aveva ragione lui: non gli aveva mai mostrato il minimo rispetto. Per quanto non se lo
meritasse, era pur sempre il suo capo. Lo guardò fermarsi vicino all'ambulanza, coprendosi la bocca con la mano protetta dal guanto. I paramedici stavano per chiudere il corpo in un sacco. Quando tornò indietro, aveva il viso sudato e congestionato nello stesso tempo. «È... è orribile», mormorò, respirando affannosamente con la bocca. Si tolse gli occhiali per asciugarsi il viso con il guanto. «Incredibile.» Inghiottì un paio di volte, spostando il peso del corpo da un piede all'altro. «Quell'odore...» «Forse dovresti sederti», gli suggerì Kate. Rob abbassò in parte la chiusura lampo del giaccone, sempre con lo sguardo fisso sull'ambulanza. «Terrificante... orribile...» L'elicottero incaricato della ricerca passò poco lontano, con le pale del rotore simili alle ali di un gigantesco colibrì. «Ci sta sfidando, non è vero? Il Crematore, voglio dire», osservò Rob, guardando Quinn. «Porta via la ragazza, brucia il corpo proprio qui, dove si è svolto l'incontro.» «Sì. Vuole farci fare la figura degli idioti, mentre lui sembra invincibile.» «E direi che ci riesce», ribatté Rob. «Chiunque può sembrare un genio, se ha tutte le risposte in anticipo», disse Quinn. «Ma alla fine fallirà. Succede a tutti. Il trucco sta nel farlo accadere prima, anziché poi. E prenderlo al volo non appena fa un passo falso.» «Mi piacerebbe essere lì per vederlo.» Rob si asciugò il viso, raddrizzando il giaccone. «Vado a chiamare Sabin», disse a Kate. «Finché lavoriamo ancora per lui.» Kate non replicò. Il suo silenzio non aveva nulla a che fare con il procuratore della contea o la precarietà del suo lavoro. «Andiamo a cercare Kovac», disse a Quinn. «Vediamo se ha trovato la patente di guida.» Kovac era impegnato in una discussione per stabilire chi dovesse occuparsi della scena del delitto con una donna afroamericana che indossava un parka nero con la scritta INCENDI DOLOSI sul dorso. L'auto, piccola e rossa, si trovava al centro di un cerchio di fari portatili. L'incendio l'aveva sventrata, facendo esplodere il parabrezza. La portiera dalla parte del guidatore era aperta e pendeva dai cardini, deformata dagli attrezzi usati dalla
squadra di recupero per forzarla. L'abitacolo era un caos di cenere, plastica rasa e schiumogeni. Il sedile di guida era stato divorato dalle fiamme, che avevano lasciato soltanto una carcassa di molle distorte. «Si tratta di incendio doloso, sergente», insisteva la donna. «Spetta al mio ufficio accertarne la causa.» «Si tratta di omicidio e me ne infischio della causa dell'incendio», ribatteva Kovac. «Voglio che i tecnici della Scientifica controllino quella macchina in cerca di qualunque prova che non sia stata già compromessa dai suoi uomini.» «A nome del dipartimento dei vigili del fuoco di Minneapolis, mi scuso per aver tentato di spegnere un incendio e salvare una vita umana. Forse riusciremo a imparare la lezione prima che qualcuno incendi la sua, di macchina.» «Marcell, se qualcuno desse fuoco a quella vecchia carcassa mi farebbe un favore!» «Sam, abbiamo controllato la targa», annunciò Elwood, avanzando a fatica nella neve. «È una Saab del '98, intestata a Jillian Bondurant.» I tecnici della Scientifica si lanciarono sulla Saab distrutta dal fuoco come un gruppo di avvoltoi che ripuliscono la carcassa di un elefante. Kate stava a guardare, stordita ed esausta, seduta al volante dell'auto di Kovac. Quinn aprì la portiera del passeggero, portando con sé una folata di aria fredda. «È abbastanza chiaro che il fuoco è stato appiccato al posto di guida», annunciò. «Il cruscotto e il volante sono completamente rasi. È da escludere che si possano rilevare delle impronte.» «È in piena escalation.» «Sì.» «E sta cambiando modus operandi.» «Per trasmettere un messaggio.» «Ha in mente qualcosa.» «Sì. E darei tutto quello che ho per sapere che cosa e quando.» «E perché.» Quinn scosse la testa. «Il motivo non m'interessa più. Non esistono ragioni valide. Ci sono soltanto scuse. Tu conosci quanto me tutti i fattori concomitanti, ma sai che non tutti i bambini che subiscono abusi da parte dei genitori ne commettono a loro volta, e non tutti i bambini che hanno una madre emotivamente distaccata finiscono per uccidere, una volta di-
ventati adulti. A un certo punto si compie una scelta e, una volta che questa è fatta, non m'importa quale sia il motivo: voglio soltanto cancellare quei bastardi dalla faccia della terra.» «E ti sei assunto la responsabilità di catturarli tutti.» «È un lavoro di merda, ma che altro mi resta?» «Non c'è bisogno che tu resti qui, adesso», gli disse Kate, avvertendo la stanchezza e la tensione in ogni fibra del corpo. «Ti aggiorneranno nella seduta di domani. Mi sembra che un paio d'ore di sonno ti farebbero bene.» «Sonno? Ormai ci ho rinunciato. Attenuava la mia paranoia.» «Fa' attenzione, John. Se continui così, ti trasferiranno dalla CASKU a X Files.» «In effetti sono meglio di David Duchovny.» «Di gran lunga.» Era strano, pensò Kate, come fossero scivolati facilmente nella vecchia abitudine di scambiarsi battute scherzose, persino in quel momento, dopo tutto quanto che era successo quella notte. D'altra parte era un'abitudine familiare e confortante. «Neanche tu sei tenuta a stare qui, Kate», ribatté lui, ridiventando serio. «Sì, invece. Sono l'unica persona alla quale stia a cuore la sorte di Angie DiMarco. Se quel corpo è il suo, il minimo che possa fare è perdere qualche ora di sonno per saperne di più.» Si aspettava che Quinn le ricordasse che la responsabilità non era sua, invece lui non disse niente. «Pensi che ci sia qualche probabilità che il corpo sia di Jillian Bondurant?» gli domandò. «Che non fosse lei la vittima numero tre, e che si sia suicidata?» «No. Il suicidio con il fuoco è raro e, di solito, chi lo sceglie vuole un pubblico. Per quale motivo Jillian avrebbe dovuto venire qui nel cuore della notte? Che rapporto ha con questo posto? Nessuno. Dopo l'autopsia sapremo per certo se è Jillian, dato che stavolta possiamo confrontare le arcate dentarie, ma direi che le probabilità che sia lei e che si tratti di suicidio sono pari a zero.» Kate accennò un sorriso. «Sì, lo so. Speravo soltanto che potesse trattarsi di qualcuno di cui non ero responsabile.» «Sono stato io a decidere l'incontro, Kate. Smokey Joe lo ha fatto per dire: 'Va' all'inferno, Quinn'. Ora devo chiedermi da che cosa si è sentito provocato. Avrei dovuto essere più severo con lui? Avrei dovuto fingere
simpatia? Avrei dovuto lusingare il amor proprio e presentarlo come un genio? Che cosa ho fatto? Che cosa non ho fatto? Perché non sono riuscito a capirlo meglio? Se era alla riunione, se era seduto proprio di fronte a me, perché non l'ho visto?» «A quanto pare, la super-vista ai raggi X che ti permette di vedere il male nel cuore degli uomini è in panne.» «Come la tua capacità di prevedere il futuro.» «Siamo ben assortiti.» «Lo eravamo.» Kate lo fissò, vedendo l'uomo che lei aveva conosciuto e amato, e l'uomo che era diventato in quegli anni. Sembrava stanco, aveva l'aria stravolta. Si domandò se anche Quinn vedeva lei allo stesso modo; era umiliante ammettere che avrebbe dovuto. Si era voluta illudere di stare bene, ma non era stata altro che una finzione, una messinscena. Aveva compreso la verità un'ora prima, quando si era trovata nel caldo rifugio delle sue braccia. Era stato come ritrovare all'improvviso una parte essenziale di sé che aveva rifiutato per anni di riconoscere. «Ti amavo, Kate», disse lui sottovoce, fissandola con gli occhi scuri. «Qualunque sia l'opinione che hai di me, e del modo in cui è finita fra noi, ti amavo. Puoi dubitare di tutto il resto, Dio sa se non ne dubito anch'io, ma su questo non ho il minimo dubbio.» Un qualcosa fremette nel cuore di Kate. Lei si rifiutò di dargli un nome. Non poteva essere speranza. Quando c'era in ballo John Quinn, non voleva sperare. Preferiva l'irritazione, l'indignazione, una punta di collera. Ma non provava nulla di tutto questo, lo sapeva, e lo avrebbe capito anche lui. Era sempre stato abile a decifrare ogni minima ombra che le passava per la mente. Tutt'a un tratto, dietro il finestrino di Quinn apparve il viso di Kovac. Kate trasalì e imprecò, poi abbassò il finestrino dalla parte del conducente. «Ehi, ragazzi, basta pomiciare», esclamò il sergente, scherzando. «È passata l'ora del coprifuoco.» «Stiamo cercando di non morire assiderati», ribatté Quinn. «Ho un tostapane che produce più calore del riscaldamento di questa macchina.» «Avete trovato la patente?» chiese Kate. «No, ma abbiamo trovato questa.» Tenne sollevata una microcassetta contenuta in una custodia di plastica trasparente. «Era per terra, a circa cinque metri dalla macchina. È un vero miracolo che qualcuno dei pompieri non l'abbia schiacciata.
«Probabilmente si tratta della registrazione di qualche giornalista», aggiunse. «Ma non si sa mai. Una volta ogni morte di papa scopriamo una prova dell'esistenza di Dio. Devo avere un registratore, lì sul sedile.» «Sì, insieme con il Sacro Graal», borbottò Kate, scavando fra rapporti, riviste, incarti di hamburger. «Ma tu in questa macchina ci vivi, Sam? Esistono dei rifugi per le persone come te, lo sai?» Trovò il registratore e lo porse a Quinn, che estrasse la cassetta, prima di inserire con cura quella che Kovac gli porgeva sulla punta di una biro. Quello che scaturì dal minuscolo altoparlante trafisse Kate come una stilettata. Un grido di donna, arrochito dalla disperazione, inframmezzato da suppliche ansimanti, spezzate, invocazioni di pietà che non sarebbero mai state ascoltate. Le grida di qualcuno che viene torturato e invoca la morte. Non era la prova che esiste un Dio, ma la prova che non esiste. 23 Euforia. Estasi. Eccitazione. Ecco quali sentimenti prova nel momento del trionfo, frammisti alle emozioni più oscure, ira, odio e frustrazione, che ardono ininterrottamente dentro di lui. Manipolazione. Dominio. Controllo. Il suo potere si estende oltre le vittime, rammenta a se stesso. Lui esercita lo stesso potere sulla polizia e su Quinn. Euforia. Estasi. Eccitazione. Il resto non conta. Bisogna concentrarsi sulla vittoria. L'intensità delle emozioni è travolgente. Lui trema, suda, congestionato dall'eccitazione, mentre torna verso casa. Sente il proprio odore, l'afrore caratteristico di quell'eccitazione: forte, muschiato, quasi sessuale. Avrebbe voglia di passarsi le mani sotto le ascelle per sfregarsi il viso con quel sudore e sentire l'odore nelle narici, leccarlo dalle dita. Avrebbe voglia di spogliarsi e costringere la donna delle sue fantasie a leccargli quel sudore dal corpo. Dal torace, dal ventre e dalla schiena. Nella sua fantasia la donna finisce in ginocchio davanti a lui, leccandogli i testicoli. La sua erezione è enorme, turgida, e lui gliela infila in bocca e la costringe a succhiargli il pene, schiaffeggiandola ogni volta che viene assalita da un conato. Viene sul suo viso, poi la costringe a mettersi carponi e la sodomizza. Tenendole strette le mani intorno alla gola, la violenta con sadismo, strangolandola fra un grido e l'altro. Quelle immagini lo stimolano, lo eccitano. Ha bisogno di sentire i suoni
acuti, belli come lame affilate alla perfezione. Ha bisogno di udire le urla, il suono del terrore allo stato puro, e di fingere nella sua mente che le urla provengano dalla donna. Ha bisogno di percepire quel crescendo prodotto da una vita che giunge al termine. L'energia che si esaurisce, assorbita avidamente dalla morte. Infila una mano nella tasca del cappotto, in cerca del nastro, e non trova niente. Lo sommerge un'ondata di panico. Accosta l'auto al marciapiede, frugando in tutte le tasche, controlla il sedile del passeggero, controlla il fondo dell'auto, il lettore di cassette. Il nastro è sparito. Si accende in lui una fiammata di collera, enorme e violenta. Un muro di rabbia. Imprecando, mette in moto e torna in strada. Ha commesso un errore. Inaccettabile. Sa che non gli sarà fatale. Anche ammesso che la polizia trovi il nastro, anche ammesso che riesca a rilevare un'impronta, non lo troveranno, perché le sue impronte non sono inserite nella banca dati dei cittadini con precedenti penali. Non è mai stato arrestato, da quando era minorenne. Ma la sola idea di un errore lo manda in bestia, perché sa che servirà di incoraggiamento alla task force e a John Quinn, mentre lui vuole solo distruggerli. Ora il suo trionfo è sminuito, la celebrazione sciupata. L'erezione si è afflosciata. In fondo alla mente gli pare di sentire la voce sarcastica, il disprezzo della donna delle sue fantasie che si alza e si allontana, annoiata e disinteressata. Imbocca il vialetto, azionando il telecomando della porta del garage. L'ira è come un serpente che striscia dentro di lui, trasudando veleno. Lo insegue nel garage l'abbaiare di un minuscolo cane. Quel dannato botolo della vicina. La notte rovinata, e ora questo. Scende dall'auto, dirigendosi verso il cassonetto dei rifiuti. La porta del garage si abbassa lentamente, richiudendosi. La cagnetta lo fissa, abbaiando senza posa e saltellando all'indietro, verso la porta che cala. Lui prende uno straccio dalla spazzatura e si gira verso la bestiola, immaginando già di catturarla e di sbattere contro il muro di cemento quel sacchetto improvvisato, ancora e ancora e ancora. «Avanti, Bitsy, piccola carogna», mormora in tono carezzevole. «Perché non mi puoi soffrire? Che cosa ti ho fatto?» La cagnetta ringhia, emettendo un suono stridulo, simile a quello di un temperamatite elettrico, e gli tiene testa, lanciando occhiate verso la porta che sta per suggellare il suo destino.
«Lo sai che ho già fatto fuori altre bestiacce come te?» gli chiede lui, sorridendo, avvicinandosi e chinandosi. «Ti sembra di fiutare il male addosso a me, vero?» Tende una mano verso la cagnetta. «È perché io sono il male», mormora mentre Bitsy gli si avventa addosso, scoprendo i denti. Il cigolio metallico del meccanismo della porta cessa. Lo straccio cala, soffocando un uggiolio sorpreso. 24 Quando arrivarono a casa, Kate tremava ancora. Quinn aveva insistito per accompagnarla di nuovo, e lei non aveva obiettato. Nella sua testa continuava a echeggiare il ricordo delle urla. Le sentiva ancora, fioche ma ininterrotte, mentre scendeva dal garage, mentre cercava le chiavi della porta di servizio, mentre passava dalla cucina all'ingresso per alzare il termostato. Quinn la seguiva come un'ombra. «Sono gelata», gli disse, entrando nello studio, dove la lampada sulla scrivania era rimasta accesa e un plaid di ciniglia era posato sul vecchio divano. Guardò la segreteria telefonica, con la spia spenta, e ripensò alle telefonate silenziose che erano arrivate al cellulare. Sul tavolino c'era un bicchiere pieno a metà di gin e acqua tonica, con il ghiaccio ormai sciolto. Kate lo prese, con la mano che tremava, e bevve un sorso, ma senza sentire il sapore. Quinn le tolse il bicchiere di mano, e lo posò, poi la prese delicatamente per le spalle, costringendola a girarsi verso di lui. «Non hai freddo?» continuò lei, parlando nervosamente. «La caldaia ci mette un'eternità a scaldare la casa. Dovrei sostituirla, è vecchia come il cucco, ma ci penso solo quando ormai è già inverno. «Forse dovrei accendere il fuoco», propose e subito sentì il sangue defluirle dal viso. «Oh, Dio, non posso credere di averlo detto. Non faccio che sentire l'odore del fumo e quell'orribile... mio Dio, che cosa tremenda...» Deglutì a fatica, guardando il bicchiere che ormai era fuori della sua portata. Quinn le posò una mano sulla guancia, costringendola a guardarlo. «Smettila», le disse con dolcezza. «Ma...»
«Smettila.» Con una delicatezza estrema, come se fosse fatta di vetro soffiato, l'abbracciò e la strinse a sé. Un altro invito ad appoggiarsi a lui, a cedergli. Lei sapeva di non doverlo fare. Se si fosse lasciata andare solo per un secondo, in quel momento, sarebbe stata perduta. Aveva bisogno di restare in movimento, di continuare a parlare, di fare qualcosa. Se avesse abbssato le difese, la marea della disperazione l'avrebbe sommersa, e allora come sarebbe finita? Senza difese, fra le braccia di un uomo che amava ancora, ma che non poteva avere. Non aveva mai smesso di amarlo. Aveva soltanto riposto quell'amore in una cassaforte segreta del suo cuore, decidendo di non riaprirla mai più, forse nella speranza che si avvizzisse e morisse. Invece era semplicemente andato in letargo. Un'altra ondata di gelo la sommerse, e lei si rifugiò con la testa nell'incavo della spalla di Quinn. Premendogli l'orecchio sul petto, poteva sentire i battiti del suo cuore e rammentò tutte le altre occasioni in cui l'aveva tenuta stretta e confortata, e lei si era illusa che quei momenti rubati potessero durare per sempre. Dio, come avrebbe voluto illudersi ancora. Avrebbe voluto fingere con se stessa che non fossero appena tornati dalla scena di un delitto, che la sua testimone non fosse scomparsa, e che Quinn fosse tornato per lei, anziché per il lavoro, che per lui veniva sempre al primo posto. Sentì le labbra di lui sfiorarle la tempia, la guancia. Suo malgrado, sollevò il viso a incontrare le labbra di Quinn. Calde, ferme, perfette per lei. La sensazione che la pervase era composta in parti uguali di dolore e piacere, un che di dolce e amaro. Il bacio fu tenero, lieve, gentile: una richiesta, non una pretesa. E quando lui sollevò appena la testa, la domanda e la cautela si riflettevano nei suoi occhi, come se Kate gli avesse trasmesso con quel bacio ogni desiderio e ogni dubbio che provava. «Ho bisogno di sedermi», mormorò, facendo un passo indietro. Le braccia di Quinn la lasciarono libera e il gelo l'avvolse di nuovo come una stola invisibile. Kate afferrò il bicchiere, rannicchiandosi in un angolo del divano e coprendosi con il plaid. «Non posso farlo», disse piano, rivolta più a se stessa che a lui. Bevve un sorso di gin, poi scosse la testa. «Vorrei che tu non fossi venuto, John.» «È veramente quello che desideri, Kate?» «No. Ma ormai che importanza ha? Quello che desidero non incide af-
fatto sulla realtà.» Finì di bere, posando il bicchiere per passarsi le mani sul viso. «Ho desiderato tante cose, ma il desiderio non ha mai avuto il potere di farle avverare», riprese. «E ora vorrei chiudere gli occhi senza vedere il sangue, chiudere le orecchie senza sentire le urla, scacciare dalla mia mente questo incubo e andare a dormire. Ed è come volere la luna.» Quinn le posò una mano sulla spalla. «Io ti darei la luna, Kate», le rispose, riprendendo una vecchia battuta che tanto tempo prima si scambiavano come un segnale segreto. L'emozione l'assalì, consumando quanto ancora restava della decisione di tenere duro. Era troppo stanca, e tutto le faceva male, quel caso, i ricordi, i sogni che erano morti. Affondò il viso fra le mani. Quinn la cinse con le braccia, costringendola di nuovo ad appoggiargli la testa sulla spalla. «Va tutto bene», sussurrò. «No, niente affatto.» «Lasciati abbracciare, Kate.» Lei non riuscì a dire di no. Non poteva sopportare l'idea di allontanarsi, di restare sola. Era troppo tempo che si sentiva sola. Voleva il suo conforto, la sua forza, il calore del suo corpo. Fra le sue braccia aveva la sensazione di avere raggiunto finalmente la sua meta, dopo tanto tempo. «Non ho mai smesso di amarti», sussurrò Quinn. Kate lo strinse a sé, ma non trovò la forza di guardarlo negli occhi. «Allora perché mi hai permesso di andarmene?» domandò, con la sofferenza che affiorava sotto la superficie. «E perché sei rimasto lontano?» «Credevo che fosse quello che volevi, di cui avevi bisogno. Mi pareva che fosse la soluzione migliore per te. Negli ultimi tempi non chiedevi certo la mia attenzione.» «Tu eri nei guai con i servizi interni per colpa mia...» «Di Steven, non tua.» «Questioni di semantica. Steven voleva punirti per causa mia, per causa nostra.» «Ed era lo stesso motivo per cui volevi nasconderti.» Lei non tentò di negarlo. Ciò che aveva di speciale il loro amore segreto era quel tipo di magia che nessuno dei due aveva mai conosciuto prima di allora; ma quando il segreto era stato violato, nessuno l'aveva visto quel genere di magia. Il loro amore era diventato una relazione extraconiugale, qualcosa di squallido e banale. Nessuno aveva capito, anzi, nessuno ci aveva provato, o aveva desiderato farlo. Lei non era una donna che naufra-
gava nel dolore, respinta da un marito che era diventato amareggiato e distante. Era una sgualdrina che aveva tradito il marito in lutto mentre la figlia non era ancora fredda nella tomba. Non poteva negare che quei sentimenti riflettessero in parte il suo stesso senso di colpa, sia pure suo malgrado. Non era nella sua natura mentire, ingannare. Era stata allevata in una casa in cui s'intrecciavano il senso di colpa dei cattolici e il profondo senso etico dei luterani svedesi. E l'ondata di autocondanna suscitata dalla morte di Emily e dalla coscienza di aver violato le leggi della morale l'aveva sommersa al punto che non era più riuscita a riemergere, soprattutto perché l'unica persona alla quale poteva aggrapparsi per avere aiuto si era ritirata, alle prese con la propria rabbia e la propria sofferenza. Il ricordo di quel turbine emotivo la spinse ad alzarsi di nuovo, irrequieta, turbata dai sentimenti che accompagnavano i ricordi. «Avresti potuto venire con me», concluse. «Ma tutt'a un tratto, fra l'inchiesta dei servizi interni e il lavoro, non c'eri mai. «Ho pensato che amassi il lavoro più di me», ammise con un filo di voce. «Ho pensato che finalmente avessi capito che ti procuravo troppi guai.» «Oh, Kate.» Quinn si avvicinò per guardarla negli occhi. I suoi erano scuri come la notte, scintillanti e intensi. «Ti ho lasciata andare perché pensavo che fosse quello che volevi, e mi sono immerso nel lavoro perché era l'unica cosa che attutiva il dolore. «Ho sacrificato a questo lavoro tutto ciò che avevo», le confessò. «E non so se resta qualcosa di me che valga la pena di darti. Ma so che non ho mai amato il lavoro - e nessun'altra cosa, nessun'altra persona - come ho amato te, Kate.» Lei non disse niente. Quinn pensò a come si erano lasciati, a tutto il tempo che avevano perduto, e capì che era più complicato di una semplice mancanza di comunicazione. I sentimenti, le paure, l'orgoglio e la sofferenza che si erano frapposti fra loro erano tutti autentici. Così intensi e veri che nessuno dei due aveva mai trovato la forza di affrontarli e risolverli. Era stato più facile rinunciare. E dire che era stata la decisione più difficile che avesse preso in vita sua. «Siamo ben assortiti», sussurrò, facendo eco a quello che aveva detto lei, a bordo dell'auto di Kovac. «Che cosa provavi, Kate? Hai smesso di amarmi? Hai...» Lei gli chiuse la bocca con le dita tremanti, scuotendo la testa. «Mai», rispose, così piano che quella parola parve più pensata che detta. «Mai.»
Lo aveva odiato. Lo aveva ritenuto responsabile e aveva tentato di dimenticarlo, ma non aveva mai smesso di amarlo. Ed era stato terrificante scoprire che in cinque anni il desiderio non si era spento, che lei non aveva provato mai più nulla di simile, e ora lo sentiva rinascere dentro di sé come una fiamma che faceva svanire la stanchezza, la paura e ogni altra cosa. Si protese per incontrare le sue labbra, assaporando la bocca di lui e il sale delle proprie lacrime. Quinn l'abbracciò con forza, piegandola all'indietro per aderire completamente al suo corpo. «Oh, Dio, Kate, quanto ti ho desiderata», confessò, sfiorandole l'orecchio con le labbra. «Quanto mi sei mancata.» Lei lo guidò al piano di sopra, tenendolo per mano, e lui si fermò tre volte per baciarla, per accarezzarla, per affondare il viso nei suoi capelli. In camera da letto, si spogliarono a vicenda, ostacolandosi per l'impazienza, ma senza mai perdere il contatto. Una carezza. Un bacio. Un abbraccio ansioso. Per Kate, il contatto con Quinn fu come sovrapporre un ricordo alla realtà. La sensazione della sua mano sulla pelle era impressa nella sua mente e nel suo cuore. Riportò alla superficie in un solo istante il desiderio che aveva conosciuto soltanto con lui, scatenando un fiotto caldo di dolce sofferenza, come se fossero rimasti separati cinque giorni, anziché cinque anni. Nel sentire la sua bocca sul seno, trattenne il respiro, e rabbrividi quando lui le fece scivolare la mano fra le gambe. Il bacino s'inarcò istintivamente nell'angolazione giusta, quella che avevano trovato tante volte, tanto tempo prima. Percorse con le mani il suo corpo. Territorio familiare. Rilievi e pianure di muscoli e ossa. Pelle calda, levigata. L'avvallamento della spina dorsale. L'erezione tesa, dura come il marmo, liscia come il velluto. La coscia soda e muscolosa che la invitava a schiudere le gambe. Lo guidò dentro di sé, provando l'emozione assoluta dell'appagamento perfetto, lo stesso che aveva avvertito ogni volta che facevano l'amore. La sensazione meravigliosa non si era mai attutita, anzi, se mai si era intensificata, per lui come per lei. Glielo lesse negli occhi mentre la guardava alla luce della lampada: il piacere intenso, il calore, la sorpresa, l'accenno di disperazione che nasceva dal sapere che quella magia si realizzava soltanto nell'unione reciproca. A quell'idea le venne voglia di piangere. Lui era il solo, l'unico. L'uomo che aveva sposato, al quale aveva dato una figlia, non era mai riuscito neanche lontanamente a farle provare quello che le faceva sentire John Quinn
con la sua sola presenza nella stanza. Lo strinse più forte, muovendosi contro di lui, affondandogli le unghie nel dorso. Lui la baciò in modo profondo, possessivo, con la lingua e con i denti. Si mosse dentro di lei con forza sempre maggiore, poi si ritrasse, placandosi, rallentando il ritmo per non precipitare la conclusione. Il tempo perse ogni significato. Non esistevano i secondi, ma soltanto il respiro e le parole sussurrate sottovoce; non i minuti, ma soltanto le ondulazioni del piacere. E quando finalmente la conclusione arrivò, fu un'esplosione di emozioni estreme che percorrevano tutta la gamma del piacere. E poi raggiunsero uno strano equilibrio fra pace e tensione, appagamento e serenità e cautela, finché la stanchezza prevalse e si addormentarono l'una nelle braccia dell'altro. 25 «Aprite bene le orecchie!» Kovac si appoggiò all'estremità del tavolo, nel centro operativo dell'ex Loving Touch. Era passato da casa e si era addormentato su una sedia della cucina mentre aspettava che il caffè filtrasse. Non si era rasato né fatto la doccia, e immaginava di avere l'aspetto di un barbone, con indosso lo stesso vestito spiegazzato che portava il giorno prima. Non aveva neanche avuto il tempo di cambiarsi la camicia. Tutti gli altri componenti della squadra mostravano gli stessi segni di stanchezza. Occhiaie scure sotto gli occhi iniettati di sangue, rughe profonde incise su volti pallidi. La stanza puzzava di fumo, sudore e caffè amaro, tutti odori sovrapposti agli effluvi originari di escrementi di topi e muffa. Una radio portatile sul banco da lavoro faceva concorrenza a un televisore da dieci pollici, sintonizzato anche quello sugli ultimi notiziari. Le foto dell'auto incendiata e della vittima numero quattro erano state fissate in gran fretta con le puntine su uno dei tabelloni alle pareti, tanto fresche di sviluppo da incurvarsi ai bordi. «I media andranno a nozze con l'episodio di stanotte», disse Kovac. «Smokey Joe dà fuoco a una vittima praticamente sotto il nostro naso, e noi diamo l'impressione di stare qui a rigirare i pollici. Stamattina il capo e il tenente Fowler mi hanno già dato una ripassata. Per farla breve: se non riusciamo a concludere qualcosa in fretta, finiremo tutti a fare i secondini in qualche prigione di second'ordine.
«Per fortuna», aggiunse, «siamo riusciti a tenere segreta ai media l'esistenza di quella cassetta.» «Grazie a Dio non l'ha trovata uno di loro», convenne Walsh, «altrimenti tutte le stazioni della città la trasmetterebbero.» «Ora il nastro si trova nel laboratorio dell'unità speciale», annunciò Kovac. «Ci sta lavorando un mago della tecnica, che cerca di individuare i rumori di fondo e roba del genere. In seguito vedremo che cos'ha da dirci. Tinks, hai trovato Vanlees?» «Niente da fare. Pare che l'unico vero amico che ha sia il proprietario della casa che sta sorvegliando, e lui di sicuro non si farà vivo, per ora. Mary e io siamo riuscite a rompere le scatole a tutti quelli che conosce, chiamando nel cuor della notte. Un tale ci ha detto che Vanlees si vantava di questa casa, comunque. Secondo lui potrebbe trovarsi fuori città, o qualcosa del genere. Vicino a un lago.» «Ho messo un'auto di guardia nei pressi del suo appartamento di Lyndale», disse Kovac, «e un'altra al complesso di Edgewater. E tutti gli agenti della città cercano il suo fuoristrada.» «Non abbiamo un motivo plausibile per arrestarlo», fece notare Yurek. «Non ce ne sarà bisogno», rispose Quinn, entrando, con i capelli spruzzati di fiocchi di neve. «Non è un arresto. Chiediamo la sua assistenza. Se Smokey Joe è lui, si sentirà compiaciuto e lusingato. Stanotte ci ha fatto fare la figura degli idioti. L'idea che gli sbirri chiedano aiuto proprio a lui appagherà moltissimo il suo amor proprio.» «Non vogliamo che un errore formale comprometta la possibilità di incriminarlo, tutto qui», replicò Yurek. «Il primo che fa un errore del genere», promise Kovac, «gli sparo personalmente nelle rotule.» «Allora, G-man», disse Tippen, socchiudendo gli occhi, «pensa che sia lui?» «Corrisponde abbastanza bene al profilo. Lo convocheremo qui a fare una chiacchierata, dopodiché raccomando una stretta sorveglianza. Facciamolo sudare un po', per vedere che cosa possiamo cavargli di bocca. Se riusciremo a scuoterlo, a fargli saltare i nervi, le porte si apriranno. Se tutto andrà bene, finiremo per avere elementi sufficienti a ottenere un mandato di perquisizione. Come vi è sembrato, durante l'incontro di ieri sera?» chiese infine Quinn. «Affascinato, un po' eccitato, propositivo.» «Sappiamo dov'era domenica sera?»
«L'eterna risposta: a casa da solo.» «Vorrei essere presente, quando lo porterete in gabbia», disse Quinn. «Non nella stanza, ma in modo da poterlo vedere.» «Non vuole interrogarlo di persona?» «Non subito. Lo interrogherete voi, più qualcuno che lui non ha mai visto prima. Probabilmente Sam. Io interverrò in seguito.» «Chiamatemi sul cercapersone appena lo rintracciate», disse Kovac. «Tippen, Yurek, avete trovato qualcuno che abbia visto la DiMarco salire su un fuoristrada, domenica sera?» «No», rispose Tippen. «E ogni volta, per ottenere una risposta, bisogna sganciare dieci dollari.» «Insistete», ordinò Kovac. «Fate stampare dei volantini con la foto della ragazza e un'immagine del GMC Jimmy. Chiedete al tenente Fowler di promettere una ricompensa. È probabile che chiunque bazzichi in quella zona a quell'ora di notte sia disposto a vendere anche sua madre per un paio di centoni.» «D'accordo.» «Qualcuno che abbia un po' di tatto deve andare al Phoenix a parlare di nuovo con quella prostituta che conosceva la seconda vittima», continuò Kovac. «Ci penso io», si offrì Moss. «Le chieda se Fawn Pierce aveva un tatuaggio», disse Quinn. «Lila White aveva un tatuaggio nel punto esatto da cui l'assassino le ha prelevato quel lembo di tessuto, sul petto. Può darsi che Smokey Joe sia un amante dell'arte, oppure un artista.» «Da che cosa lo deduce?» chiese Tippen, scettico. «Ho fatto qualcosa che nessun altro si è curato di fare: ho guardato», rispose in tono brusco. «Ho guardato le foto che i genitori di Lila White hanno consegnato all'agente Moss. Sono state scattate qualche giorno prima della morte. Se salta fuori che il killer ha asportato un tatuaggio anche dal corpo di Fawn Pierce, dovrete scoprire dove sono andate a farsi tatuare, e controllare i laboratori di tatuaggio e tutti coloro che vi sono legati.» «Sappiamo se Jillian Bondurant aveva dei tatuaggi?» chiese Hamill. «Il padre dice di no, che lui sappia.» «Anche l'amica, Michelle Fine, dice di non saperne niente», aggiunse Liska. «E penso che nessuno meglio di lei possa saperlo. È un campionario di disegni ambulanti.» «Le hanno mai preso le impronte digitali?» chiese Kovac, scavando in
una pila di appunti in disordine. «Non ho avuto il tempo di controllare.» Squillò un cellulare e Quinn imprecò, alzandosi dal tavolo e frugando nella tasca della giacca. «L'ultima vittima aveva qualche mutilazione?» chiese Tippen. «L'autopsia è in programma per le otto», rispose Kovac, controllando l'orologio. Le sette e quaranta. Si rivolse a Moss. «Al Phoenix ci sarà anche Rob Marshall, dei servizi legali. I pezzi grossi vogliono fare un gesto pubblico di riconciliazione con gli Urskine, dopo che la Reginetta delle Streghe del Nord ha fatto un cancan con la stampa, ieri sera. Personalmente, me ne infischio se si sono offesi. Voglio che oggi qualcuno parli faccia a faccia con il marito della vampira, alla stazione di polizia. Mary, chiedigli di passare da noi e, quando vorrà sapere perché, resta nel vago. Procedura di routine, roba del genere. E chiedigli se hanno una ricevuta della carta di credito o qualche assegno annullato per il weekend che hanno trascorso fuori città, quando è stata uccisa Lila White. «Gregg Urskine è stato uno degli ultimi a vedere la nostra testimone, ieri sera. La prima vittima era ospite in casa sua, e la seconda era amica di una delle prostitute che stanno da loro. Ci sono troppe coincidenze, per i miei gusti», concluse Kovac. «Tony Urskine si attaccherà al telefono di tutti i giornalisti della zona metropolitana», lo ammonì Yurek. «Se saremo cortesi, ci rimedierà soltanto una brutta figura. Stiamo svolgendo un'indagine accurata, senza tralasciare nessuna possibilità. Non è quello che voleva lei?» «Abbiamo ricavato qualcosa dall'incontro di ieri sera?» domandò Hamill. «Niente di utile dalle auto», rispose Elwood. «Soltanto la videocassetta.» Kovac controllò l'orologio. «La guarderò dopo. La dottoressa Stone starà affilando i coltelli. Viene con me, GQ?» Quinn alzò una mano in segno di assenso, concludendo la telefonata. Presero al volo il soprabito e uscirono dal retro. La neve aveva ricoperto i rottami e le cianfrusaglie accumulati nel vicolo, compresa l'auto di Kovac, che scovò una spazzola sul sedile posteriore per liberare i vetri, il cofano e i fanalini di coda. «È tornato in albergo, stanotte?» domandò mentre, salito a bordo, avviava il motore. «Avrei potuto accompagnarla. Mi è quasi di strada.» «No, me la sono cavata lo stesso», rispose Quinn, senza guardarlo. Sen-
tiva lo sguardo di Kovac fisso su di lui. «Kate era così sconvolta che ho voluto accertarmi che stesse bene.» «Ah, ecco. E stava bene?» «No. È convinta che il corpo sia della testimone, che quelle urla siano della testimone che viene torturata. Pensa che sia tutta colpa sua.» «Be', allora probabilmente è un bene che l'abbia accompagnata a casa. E poi che ha fatto, ha chiamato un taxi per tornare in centro?» «Sì», mentì lui, rievocando dentro di sé la scena di quella mattina. Svegliarsi e trovare Kate accanto a sé, toccarla, vedere quegli incredibili occhi grigi che si aprivano, pieni di incertezza. Avrebbe voluto poter dire che fare l'amore aveva risolto tutti i loro problemi, ma non era così. Aveva dato loro un po' di conforto, ristabilito il contatto e complicato tutto. Eppure era stato come tornare in paradiso dopo anni di purgatorio. E adesso? Quella domanda inespressa era rimasta in sospeso fra loro mentre facevano la doccia, si vestivano, afferravano una ciambella e si precipitavano alla porta. Non c'era stato neanche il tempo di parlare, ammesso che fosse possibile far parlare Kate. La sua tendenza istintiva, quando si trattava di sentimenti, era chiudersi in se stessa e rimuginare. Lui, del resto, non era da meno. Kate lo aveva accompagnato al Radisson, dove lui si era fatto la barba in fretta, si era cambiato ed era uscito di nuovo, in ritardo. «Ho provato a telefonarle, stamattina», disse Kovac, «ma senza avere risposta.» «Dovevo essere sotto la doccia», ribatté Quinn, impassibile. «Ha lasciato un messaggio? Non ho avuto il tempo di controllare.» «Volevo solo sapere come stava Kate.» «Allora perché non le ha telefonato?» replicò, cominciando a perdere la pazienza. Poi guardò Kovac e cambiò bruscamente argomento. «Sa una cosa? Se a suo tempo avesse mostrato altrettanto interesse per il delitto White, forse ora non saremmo qui.» Kovac arrossì, più per il senso di colpa che per rabbia, pensò Quinn, anche se il sergente preferì giocare su quella corda. «Ho affrontato il caso secondo le regole.» «Ha preso la corsia veloce, Sam. Altrimenti come spiega l'indifferenza per quel tatuaggio?» «Abbiamo chiesto, ne sono certo. Dobbiamo averlo fatto», ribatté Kovac, dapprima sicuro di sé, poi meno, poi per nulla. «Forse non abbiamo chiesto alla persona giusta. Forse nessuno ci aveva badato.»
«I suoi genitori sono due persone semplici, di campagna. Pensa che non si siano accorti che la figlia aveva un giglio tatuato sul petto? Crede che nessuno dei suoi clienti fissi lo abbia notato?» Kovac imballò il motore, uscì dal parcheggio troppo in fretta, poi frenò con eccessiva violenza. La Caprice slittò sulla neve umida e urtò con il paraurti posteriore l'angolo di una Dumpster malandata, con un tonfo sordo. «Merda!» Quinn fece una smorfia, poi si rilassò, continuando a concentrare la propria attenzione su Kovac. «Ho letto i rapporti. Lei ha indagato a fondo per una settimana, poi se l'è presa comoda. La stessa cosa per Fawn Pierce.» Kovac socchiuse il finestrino e accese una sigaretta. «Lei ne ha visti a sufficienza, di questi casi, per sapere come vanno le cose», rispose. «Quando una prostituta fa una brutta fine, il dipartimento se ne occupa pressappoco quanto potrebbe fare per un cane randagio che sia stato investito. Le affibbi un numero, la infili nel sacco e non ti preoccupi di fare indagini sofisticare. Se il caso non viene risolto in fretta, lo accantoni per fare posto all'indagine su un contribuente assassinato da un marito geloso o da un rapinatore strafatto di crack. «Ho fatto quello che potevo finché potevo», concluse, fissando dal finestrino la neve che continuava a cadere. «Le credo, Sam», rispose Quinn, anche se pensava che lo stesso Kovac non ne fosse del tutto convinto. «È un peccato che non sia stato abbastanza per le altre tre vittime.» «Da quanto tempo conosceva Fawn Pierce?» domandò Mary Moss. Si era seduta a un'estremità del divano verde pisello, nel salottino di Phoenix House, invitando in silenzio Rita Renner ad accomodarsi all'altra estremità, per creare un'atmosfera più intima. «Due anni circa», rispose Rita, a voce così bassa che Mary si protese per avvicinare il piccolo registratore posato sul tavolo. «Ci siamo incontrate in centro e siamo diventate amiche.» «Lavoravate nella stessa zona?» Lanciò un'occhiata a Toni Urskine, seduta sul bracciolo del divano, con una mano posata sulla spalla di Rita per rassicurarla, poi a Rob Marshall, dalla parte opposta del tavolino. Lui sembrava impaziente di trovarsi altrove e faceva vibrare la gamba destra come un motore in folle. «Sì», rispose Rita. «Battevamo intorno ai locali di spogliarello e al centro commerciale Target.»
«Aveva dei nemici? Ha mai visto qualcuno maltrattarla, in strada?» Rita parve confusa. «Ogni notte. È così che sono fatti gli uomini», rispose, guardando di sottecchi Rob. «Una volta è stata violentata, lo sa? La gente non crede che si possa violentare una prostituta, invece è così. I poliziotti hanno arrestato e condannato l'uomo, ma non per avere violentato Fawn. Aveva stuprato una donna che fa la contabile, in un parcheggio del centro, ecco perché lo hanno preso. Non hanno voluto nemmeno che Fawn testimoniasse. Come se quello che aveva fatto a lei non contasse.» «Le testimonianze su altri possìbili reati commessi da un imputato non sono ammissibili in aula, signorina Renner», le spiegò Rob. «Le sembra un'ingiustizia, vero?» «È uno schifo.» «Qualcuno avrebbe dovuto spiegarlo alla Pierce. Sa se per caso si era incontrata con qualcuno del servizio protezione vittime e testimoni?» «Sì, però mi aveva detto che erano tutte stronzate. Doveva tornarci, ma non lo aveva mai fatto. Volevano soltanto che ripetesse tutta la storia.» «Ricostruire gli avvenimenti è una fase essenziale del processo di guarigione», dichiarò Rob, sorridendo in modo goffo, con gli occhietti porcini che sprofondavano fra le pieghe della pelle. «Lo raccomando a tutte le mie clienti. Anzi, raccomando loro di registrare la propria voce mentre rievocano la propria esperienza a distanza di tempo, in modo da poter sentire i cambiamenti nelle emozioni e nell'atteggiamento, a mano a mano che guariscono. Può essere molto catartico.» Rita rimase a fissarlo, con la testa piegata di lato, come un uccellino che osserva qualcosa di nuovo e strano. Mary represse un sospiro spazientito. «Conosce qualcuno in particolare che potesse voler fare del male a Fawn?» «Diceva che un tizio le aveva telefonato, molestandola.» «E questo tizio aveva un nome?» «Non ricordo. In quel periodo ero piuttosto tesa. Uno dei suoi clienti, credo. Non potreste controllare le telefonate?» «Lo si può fare soltanto con le telefonate in partenza, non con quelle in arrivo.» Rita si accigliò. «Non vengono registrate tutte?» «Se lei conoscesse il nome dell'uomo, potremmo controllare le sue telefonate.» «Non lo so.» Gli occhi di Rita si riempirono di lacrime, mentre guardava Toni Urskine, che le batté di nuovo sulla spalla. «Fawn lo chiamava 'il Ro-
spo', ricordo solo questo.» «Purtroppo non credo che sia il nome che usa con la società telefonica», osservò Rob Marshall. «Va tutto bene, Rita. Può darsi che con il tempo le torni in mente», disse Mary Moss. «Sa dirmi se Fawn aveva dei tatuaggi?» Rita la guardò, confusa da quel brusco salto da un argomento all'altro. «Certo, un paio. Perché?» «Può dirmi in quali punti del corpo li aveva?» «Aveva una rosa sulla caviglia, un quadrifoglio sulla pancia e due labbra con una lingua di fuori sul sedere. Perché?» Mary si risparmiò una bugia perché Gregg Urskine scelse proprio quel momento per entrare nella stanza con il vassoio del caffè. Lei raccolse dal tavolo il registratore, si alzò e rivolse all'uomo un sorriso per scusarsi. «Purtroppo non posso trattenermi, ma grazie del pensiero.» «Non vuole scaldarsi un po' prima di tornare fuori al gelo, detective?» le chiese Urskine, in tono garbato ma vacuo. «Non ho tempo, comunque grazie.» «Immagino che questo sia un momento di grande tensione», commentò Toni Urskine con una punta di maligna soddisfazione. «Con tutto quello che è successo ieri notte, la task force si sta mostrando incredibilmente inetta.» «Stiamo facendo tutto il possibile», ribatté Moss. «A proposito, signor Urskine, il sergente Kovac mi ha incaricato di chiederle se può fare un salto alla stazione di polizia, oggi, con una copia della ricevuta dell'albergo in cui avete soggiornato durante il weekend in cui è stata assassinata Lila White.» Toni Urskine si alzò di scatto dal divano, rossa in viso. «Cosa? È un oltraggio!» «Si tratta di una pura formalità», le assicurò Mary. «Stiamo controllando ogni minimo dettaglio.» «Si tratta di molestie belle e buone.» «Una semplice formalità. Ovviamente, non siete obbligati a soddisfare al nostra richiesta, per ora. Il sergente Kovac non ha ritenuto necessario un mandato, visto che siete tanto interessati a un'indagine meticolosa.» Gregg Urskine si lasciò sfuggire una risatina nervosa, guardando la moglie. «Va tutto bene, tesoro. Sono sicuro di poter trovare la ricevuta. Non è un problema.» «È un oltraggio!» scattò Toni. «Chiamerò il nostro avvocato. In tutta
questa storia ci siamo sempre comportati da cittadini coscienziosi, ed ecco in che modo veniamo ripagati. Ora può andarsene, agente Moss e anche lei, Marshall», aggiunse. «Stiamo solo facendo del nostro meglio per le vittime», replicò Mary con calma. «Credevo che lo volesse anche lei. Oppure questo vale solo di fronte alle telecamere?» «Hai avuto la possibilità di parlare con la tua amica di Milwaukee?» domandò Kate. «Le hai spedito la foto via fax, vero?» «Sì, per la prima domanda. No, per la seconda», rispose Susan Frye. Kate ringraziò il cielo per aver deciso di telefonare, anziché andare di persona nell'ufficio della donna. Sapeva che non sarebbe riuscita a nascondere la frustrazione e l'impazienza che la divoravano. Lo stress aveva logorato la patina delle buone maniere, lasciando scoperte tutte le terminazioni nervose. «È impegnata in un processo. La chiamerò per lasciarle un messaggio.» «Oggi.» Kate si accorse in ritardo che aveva pronunciato quella parola in tono autoritario, senza il minimo tatto. «Per favore, Susan. Sono in un mare di guai, con questa ragazzina. Non so che cosa aveva in mente Rob. Avrebbe dovuto assegnarla a qualcuno di voi. Io non mi occupo di minorenni. Non so che cosa fare, e adesso è scomparsa...» «Ho sentito dire che forse è morta», replicò l'altra. «Non potrebbe essere lei, la vittima di ieri sera?» «Non lo sappiamo ancora con certezza.» Dentro di sé, Kate aggiunse: Che carogna! Bella amica, pronta ad assestarle un colpo basso. «E anche se fosse vero, dovremmo sapere chi è... era... per metterci in contatto con la famiglia.» «Te lo garantisco fin d'ora, Kate: non troverai nessuno che versi una lacrima per lei, altrimenti non sarebbe finita in questo pasticcio. Sarebbe stato meglio se sua madre avesse abortito nei primi tre mesi.» Il cinismo di quell'affermazione colpì Kate, mentre ringraziava Susan Frye del discutibile aiuto che le aveva dato e riattaccava. Si alzò di scatto dalla sedia, cominciando a camminare avanti e indietro nel minuscolo ufficio. Se non impazziva per la fine di quella giornata, sarebbe stato un miracolo. Si era aspettata che Sabin la convocasse nel suo ufficio appena arrivata, o almeno che Rob la chiamasse per chiederle di scusarsi formalmente per quanto aveva detto nel parcheggio, la notte prima. Invece niente, almeno
per il momento. E così aveva tentato di accantonare il pensiero di Angie mettendosi a indagare sulla precedente vita della ragazzina; ma ogni volta che i suoi processi mentali rallentavano, sentiva le urla su quel nastro. E ogni volta che tentava di pensare ad altro, le veniva in mente Quinn. Non volendo pensare a lui, si sedette di nuovo alla scrivania, afferrò il telefono e compose un altro numero. Aveva altri clienti a cui pensare, almeno finché Rob non la licenziava. Chiamò David Willis e dovette ascoltare una lunghissima ed elaborata spiegazione sul modo di lasciare un messaggio alla sua segreteria telefonica. Provò a chiamare a casa la vittima dello stupro con risultati simili, poi la cercò nel suo posto di lavoro, e il direttore della libreria la informò che Melanie Hessler era stata licenziata. «A partire da quando?» «Da oggi. Ha fatto troppe assenze.» «Soffre di stress post-traumatico», gli fece notare Kate. «In seguito a un crimine commesso contro di lei nella sua proprietà, potrei aggiungere.» «La colpa non è nostra.» «Lo stress post-traumatico è stato riconosciuto in tribunale come causa di invalidità, e pertanto rientra nei casi previsti dalla legge. Se lei discrimina Melanie in base a questa invalidità, potrà essere citato in giudizio.» «Ascolti, signora», replicò il direttore, «forse dovrebbe parlarne con Melanie, prima di cominciare a lanciare minacce, perché non credo che sia contraria a lasciare il lavoro. Non la sento da una settimana.» «Mi pareva che avesse detto di averla licenziata.» «E l'ho fatto. Ho lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica.» «L'ha licenziata con un messaggio? Che razza di vigliacco schifoso è, lei?» «Di quella razza che ti attacca il telefono in faccia, puttana», ribatté l'uomo, sbattendo il ricevitore. Kate tentò di ricordare quando era stata l'ultima volta in cui aveva telefonato a Melanie Hessler. Al massimo una settimana prima, pensò. Prima del caso del Crematore. Da allora non aveva avuto più tempo per chiamarla. Angie l'aveva tenuta impegnata a tempo pieno. Ora, a ripensarci, le sembrava un periodo di tempo troppo lungo. Melanie l'aveva chiamata sempre più spesso, perché si avvicinava il momento del processo e il suo nervosismo aumentava. Pensò che poteva essere andata fuori città. Comunque glielo avrebbe fatto sapere; si comportava come se fosse in libertà vigilata e Kate avesse la
responsabilità di controllarla. Probabilmente non c'era motivo di allarmarsi, comunque seguì l'istinto e chiamò il detective della Buoncostume. Nemmeno lui aveva notizie della vittima, però sapeva che uno dei suoi stupratori era stato arrestato durante il weekend per aver aggredito un'ex fidanzata. Kate gli spiegò la situazione, pregandolo di andare a casa di Melanie, tanto per controllare. «Ci passerò dopo pranzo.» «Grazie, Bernie, sei un tesoro. Probabilmente sto diventando paranoica, ma...» «Il fatto che tu sia paranoica non esclude che la vita voglia fregarti.» «Proprio così. E in questo momento la sorte non mi sorride troppo.» «Non commiserarti, Kate. Può sempre andare peggio.» Il solito umorismo da sbirro. Quel giorno non si sentiva in vena di apprezzarlo. Tentò di concentrarsi su una pila di pratiche, ma poi ci rinunciò e tirò fuori il fascicolo di Angie, sperando di trovare qualche spunto che le suggerisse un'idea per agire. Se restava seduta in quell'ufficio ad aspettare, le sarebbe esploso il cervello. Il fascicolo era penosamente scarno. Più domande che risposte. Squillò il telefono, e Kate rispose, per metà sperando, per metà temendo che fosse Kovac, con qualche notizia sull'autopsia della vittima numero quattro. «Kate Conlan.» La voce cortese di una segretaria le annunciò un'altra notizia sgradita, sebbene di altra natura. «Il procuratore Sabin vorrebbe vederla subito nel suo ufficio.» 26 «Insomma, questo sergente Kovac viene, sì o no?» Liska controllò l'orologio, rientrando nella stanza degli interrogatori. Era quasi mezzogiorno e lì dentro il caldo era soffocante. Vanlees, che aspettava da quasi un'ora, non era affatto contento. «Sta arrivando, ormai dovrebbe essere qui a momenti. L'ho chiamato non appena lei mi ha detto che accettava di venire, Gil. Ma, sa com'è, deve presenziare a un'autopsia... la donna che è stata data alle fiamme ieri sera. Ecco perché è in ritardo.» Glielo aveva già ripetuto almeno tre volte.
«Sì, va bene, lei sa che voglio rendermi utile, ma ho altre cose da fare», ribatté spazientito. «Questo pomeriggio devo andare al lavoro...» «Oh, per quello è a posto», gli assicurò lei con un gesto disinvolto della mano. «Ho chiamato il suo capo per giustificare l'assenza. Non volevo che avesse delle noie per il fatto che si comporta da buon cittadino.» L'occhiata che le lanciò fece capire che anche quello non gli andava troppo a genio. Si dimenò sulla sedia, guardando lo specchio alle spalle di Liska. «Sa, ne abbiamo uno anche noi al Target Center, negli uffici. C'è qualcuno, dall'altra parte?» «Perché dovrebbe esserci?» ribatté Liska con aria innocente. «Non è come se lei fosse in arresto. È qui per aiutarci.» Vanlees fissò lo specchio. Si girò a guardarlo anche lei, chiedendosi che aspetto doveva avere agli occhi di Quinn. «E così, ha sentito parlare anche lei della quarta vittima», riprese, rivolgendosi a Vanlees. «Però, che fegato questo tizio, a darle fuoco proprio nel parcheggio, non le pare?» «Sì, come se cercasse di trasmettere un messaggio, o qualcosa del genere.» «Arrogante, ecco come lo definisce Quinn. Smokey Joe ci fa marameo.» Vanlees si accigliò. «Smokey Joe? Credevo che lo chiamaste Crematore.» «Quello è il nome che gli ha dato la stampa. Per noi, è Smokey Joe.» Si chinò sul tavolo, come per suggerire una maggiore intimità. «Non dica a nessuno che gliel'ho confidato. Dovrebbe restare fra noi sbirri... mi capisce?» Vanlees annuì, da vero professionista, abituato ai segreti. «È brava», disse Quinn, guardando attraverso il vetro. Era lì da una ventina di minuti insieme con Kovac, a osservare e aspettare, in attesa che i nervi di Gil Vanlees cominciassero a cedere. «Sì, nessuno sospetta niente, quando è Campanellino a lavorarselo.» Kovac annusò il risvolto della propria giacca, facendo una smorfia. «Cristo, che odore nauseante. Profumo di autopsia, più una punta di fumo. Allora, che ne pensa di questo bastardo?» «È nervoso. Penso che potremmo spaventarlo un po', poi stargli incollati al sedere non appena esce. Per vedere che cosa fa», rispose Quinn, senza staccare gli occhi da Vanlees. «Sotto molti aspetti corrisponde al profilo, ma non è un'aquila.»
«Può darsi che faccia il finto tonto, in modo che gli altri non si aspettino troppo da lui. Mi è già capitato.» Quinn non si sbilanciò. Di norma, il tipo di assassino che stavano cercando ce la metteva tutta per fare sfoggio di intelligenza. La vanità era un difetto comune. «Gli faccia capire che è al corrente di quell'accusa di voyerismo», raccomandò. «Batta su quel tasto. Non gli piacerà. Non vuol essere considerato un pervertito. Può darsi che abbia rubato qualche oggetto da tenere come feticcio. Cerchi di sondarlo in quel senso, e soprattutto lo tenga sulla corda. Gli faccia credere che lei è sul punto di commettere una pazzia, che stenta a mantenere il controllo. Questo caso e l'intelligenza del killer la stanno spingendo verso la follia. Insinui senza fare ammissioni. Sfrutti tutte le sue capacità di attore.» Kovac si allentò la cravatta e si scompigliò i capelli. «Attore? Dovrà darmi l'Oscar, altro che storie!» «Sanno già chi è la vittima?» chiese Vanlees. «Ho sentito dire che durante l'autopsia hanno trovato il documento», rispose Liska. «Kovac non ha voluto parlarne, ha detto solo di essere rimasto disgustato. Ha aggiunto che vuole trovare quel sadico figlio di puttana per ficcargli qualcosa in corpo.» «Era nel corpo?» esclamò Vanlees, con un misto di orrore e attrazione. «Una volta ho letto di un caso simile.» «Legge storie di questo genere?» «Qualche volta», ammise lui, diffidente. «Mi offrono degli spunti.» Chissà quali, si chiese Nikki. «Sì, anche a me. Che storia era?» «La madre era una prostituta, così l'assassino odiava le prostitute e le uccideva. Poi ficcava qualcosa nella...» S'interruppe e arrossì. «Be', sa...» Liska non batté ciglio. «Nella vagina?» Vanlees distolse lo sguardo e si dimenò di nuovo sulla sedia. «Fa proprio caldo, qui dentro.» Prese un bicchiere, ma era vuoto, come la brocca di plastica posata sul tavolo. «Che cosa pensa che provi, l'assassino, a fare una cosa del genere?» gli chiese Liska, osservandolo con attenzione. «A ficcare degli oggetti nella vagina di una donna? Pensa che lo faccia sentire forte? Potente? «È una mancanza di rispetto umano?» continuò. «Mi fa pensare sempre al gesto che potrebbe compiere un ragazzino prepotente. Come ficcarsi dei fagioli nel naso, o cavare gli occhi a un gatto morto per la strada. Sembra
quasi una ragazzata, ma facendo questo lavoro vedo ogni giorno degli uomini adulti che si comportano così. Qual è il suo parere, Gil?» Ora Vanlees aveva un'espressione preoccupata, con una goccia di sudore che gli colava sul viso. «Non ne ho.» «Eppure dovrebbe, con tutte le sue letture. Provi a mettersi nei panni dell'assassino. Perché dovrebbe conficcare un corpo estraneo nella vagina di una donna? Forse perché non ce la fa con il pene? Si tratta di questo?» Vanlees era rosso in faccia ed evitava di guardarla. «A quest'ora Kovac non dovrebbe essere arrivato?» «Sarà qui da un momento all'altro.» «Devo andare in bagno», mormorò lui. In quel momento la porta si spalancò ed entrò Kovac, con i capelli dritti, la cravatta allentata, il vestito gualcito che gli pendeva di dosso come un sacco umido. Fissò Liska con un'espressione corrucciata, poi si girò verso Vanlees. «È lui?» Liska annuì. «Gil Vanlees, il sergente Kovac.» Vanlees tese la mano, ma Kovac la guardò come se fosse coperta di merda. «Ho quattro donne fatte a fette come zucche di Halloween e arrostite. Non sono in vena di convenevoli. Dov'era lei, ieri notte, fra le dieci e le due?» Vanlees reagì come se lo avesse preso a schiaffi. «Cosa?» «Sam», intervenne Liska in tono irritato, «il signor Vanlees è venuto qui per esporci alcune idee su...» «Voglio le sue idee su ieri notte, fra le dieci e le due. Dov'era?» «A casa.» «A casa dove? Mi risulta che sua moglie l'ha buttata fuori perché lei andava a sventolare il suo pendaglio sotto gli occhi di un'amica.» «Quello fu un malinteso...» «Si dice sempre così. Quanto tempo passava a spiare dalla finestra Jillian Bondurant?» Ora il viso di Vanlees era paonazzo. «Io non...» «Oh, andiamo. Era un bel pezzo di ragazza, no? Prosperosa. Esotica. Vestita in modo un po' provocante, con quei vestitini leggeri e gli anfibi e il collare di cuoio. Un uomo può sentirsi tentato... specie se a casa i fuochi sono spenti, non so se mi spiego.» «Non mi piacciono questi discorsi.» Vanlees guardò Liska. «Mi serve un
avvocato? Devo chiamare l'avvocato?» «Cristo, Sam!» esclamò Liska, in tono disgustato. «Mi spiace, Gil.» «Non scusarti a nome mio!» scattò Kovac. Vanlees li squadrò con diffidenza, prima l'uno e poi l'altra. «Che cos'è questo giochetto? Poliziotto buono, poliziotto cattivo? Non sono tanto stupido. Non sono tenuto a stare qui per sentire queste stronzate.» Fece per alzarsi, ma Kovac si alzò di scatto, con lo sguardo allucinato, puntando una mano verso di lui e battendo l'altra sul tavolo. «Seduto, per favore!» Vanlees ricadde sulla sedia, con il viso pallido come un cencio. Kovac indietreggiò di un passo, facendo un vistoso sforzo per controllarsi, poi indietreggiò ancora, alzando le braccia e abbassando la testa, con il respiro affannoso. «Per favore», ripeté in tono più calmo. «Stia seduto, per favore. Mi spiace.» Camminò avanti e indietro fra il tavolo e la porta, controllando Vanlees con la coda dell'occhio. L'altro lo guardava come avrebbe potuto guardare un gorilla selvaggio in compagnia del quale fosse rimasto rinchiuso per sbaglio nel recinto dello zoo. «Mi serve un avvocato?» chiese di nuovo a Liska. «Per quale motivo, Gil? Lei non ha fatto niente di male, che io sappia. Non è in stato di arresto. Ma se pensa di averne bisogno...» Lui sbirciò di nuovo i due investigatori, tentando di capire se era un trucco. «Mi scusi», disse infine Kovac, sedendosi su una sedia in fondo al tavolo. Scuotendo la testa, pescò una sigaretta dal taschino della camicia, l'accese e tirò una lunga boccata. «Avrò dormito in tutto tre ore, questa settimana», mormorò, «e arrivo da una delle peggiori autopsie alle quali abbia assistito da anni. Quello che ha fatto a questa donna...» Lasciò che il silenzio si prolungasse, fumando, poi spense la sigaretta sulla suola della scarpa e gettò il mozzicone in un bicchiere di carta vuoto. Si passò le mani sulla faccia, lisciandosi i baffi. «Dove vive adesso, Gil?» gli domandò. «A Lyndale...» «No, intendo la casa di questo amico che lei custodisce.» «Sul lago Harriet.» «Ci servirà l'indirizzo. Lo dia a Nikki, prima di andarsene. È da tempo che se ne occupa?»
«Ci vado di tanto in tanto. Il proprietario viaggia molto.» «Allora perché non si stabilisce da lui e lascia il suo appartamento?» «Lui vive con una ragazza.» «E ora dov'è?» «In viaggio con lui.» «E lei, Gil? Ha una donna?» «No.» «No? Eppure è separato da tempo. Un maschio ha delle esigenze.» Liska si lasciò sfuggire un verso di disgusto. «Perché, una donna no?» Kovac la fulminò con lo sguardo. «Tinks, le tue esigenze sono di dominio pubblico. Ti dispiace fingere per un momento di non essere una donna liberata e andare a prendere un po' d'acqua? Qui dentro sembra di stare in un forno.» «Il caldo non mi disturba», ribatté lei. «Ma l'odore che hai addosso rivolterebbe lo stomaco a un topo di fogna.» «Va' a prendere l'acqua, per favore.» Si tolse la giacca, appendendola alla spalliera della sedia mentre Liska usciva brontolando. «Mi spiace per l'odore», riprese. «Se ha mai provato il desiderio di sapere che odore ha un corpo carbonizzato, questa è l'occasione. Respiri a pieni polmoni.» Vanlees lo guardò senza parlare. «Allora, non ha risposto alla mia domanda, Gil. Ricorre al sesso a pagamento? Le piacciono le prostitute? Se le paghi abbastanza, con loro puoi fare quello che vuoi. Alcune si lasciano perfino strapazzare un po', se ti vanno queste cose. Si fanno legare e roba del genere.» «Il detective Liska mi ha detto che lei voleva parlare con me della signorina Bondurant», ribatté Vanlees. «Degli altri delitti non so niente.» Kovac, che si stava rimboccando le maniche della camicia, si fermò per lanciargli un'occhiata da sbirro. «Ma dell'omicidio di Jillian sì?» «No! Non è quello che intendevo dire.» «Che cosa sa di Jillian?» «Soltanto come si comportava a Edgewater, tutto qui. Come la vedevo io. Cose del genere.» «E com'era? Le ha mai fatto delle avance?» «No! Stava quasi sempre a testa bassa, non parlava molto.» «Non parlava con nessuno o non parlava con lei? Forse non le piaceva il modo in cui la guardava, Gil», disse, pungendolo di nuovo sul vivo.
La fronte di Vanlees s'imperlò di sudore. «Non la guardavo!» «Ha flirtato con lei? Ci ha provato?» «No.» «Lei aveva una chiave di casa sua. È mai entrato mentre Jillian non c'era?» «No!» Ma non lo guardò in faccia. Kovac seguì un'altra delle intuizioni di Quinn. «Ha mai frugato nel cassetto delle mutandine, magari per prendersi un souvenir?» «No!» Vanlees spinse indietro la sedia per alzarsi. «Questa storia non mi piace. Sono venuto qui per aiutarvi. Non deve trattarmi così!» «Allora mi aiuti, Gil. Mi dia qualche elemento utile. Ha mai visto un ragazzo ronzare intorno alla casa?» «No, soltanto quell'amica... Michelle. E il padre. È venuto qualche volta. La casa è sua, lo sa?» «Sì, lo so, quel tipo è ricco quanto Rockefeller. Ha mai visto qualche tipo sospetto gironzolare nei paraggi?» «No.» «E lei dovrebbe saperlo, no?» «Ci lavoro.» «Non è esatto, ma che diamine... Dicendo così ha un pretesto per stare lì, controllare i vari appartamenti, magari acquistare un po' di biancheria.» Rosso in faccia, Vanlees sbottò: «Ora me ne vado». «Ma se abbiamo appena cominciato», protestò Kovac. La porta si spalancò e comparve Liska con l'acqua. Dietro di lei entrò Quinn, che le tenne aperto il battente. A differenza di Kovac, appariva fresco e impeccabile, a parte le occhiaie scure e le rughe profonde. Il suo viso era una maschera dura e inespressiva. «Signor Vanlees, sono John Quinn, dell'FBI», disse, tendendo la mano, che Vanlees fu pronto a stringere. «Ho letto di lei. È un onore conoscerla.» «Lei sa qualcosa di me, vero, signor Vanlees?» «Sì.» «Allora probabilmente ha idea di come funziona la mia mente. Probabilmente sa quali conclusioni potrei trarre esaminando la storia di un uomo che voleva diventare poliziotto ma non ce l'ha fatta, un uomo che ha dei precedenti di guardone e ladro feticista...» «Io non sono... Io non...» Liska prese la Polaroid posata sul tavolo e scattò una foto di Vanlees.
Lui balzò in piedi. «Ehi!» «Un uomo che la moglie ha cacciato di casa, criticando le sue capacità sessuali», aggiunse Quinn. «Cosa? Che ha detto?» balbettò Vanlees. Ora la sua espressione era un misto di angoscia, imbarazzo e incredulità, come un uomo intrappolato in un incubo. Si alzò dalla sedia per camminare, irrequieto. Cerchi di sudore chiazzavano le ascelle della camicia scura. «Non posso crederci.» «Lei conosceva Jillian Bondurant», continuò impassibile Quinn. «La controllava.» «Non è vero. Non m'importa di quello che vi ha detto quella puttana.» «Quale puttana?» Vanlees si fermò a guardare Quinn. «Quella sua amica. Ha detto qualcosa di me, non è vero?» «Quell'amica di cui non conosceva il nome?» domandò Liska, guardandolo con durezza. «Mi ha detto che non la conosceva. Eppure neanche cinque minuti fa ha pronunciato il suo nome, Gil. Michelle. Michelle Fine. Perché mi ha mentito, dicendo di non conoscerla?» «Infatti non la conosco. Mi è solo tornato in mente il nome, tutto qui.» «E se mi ha mentito su questo, mi domando su che cos'altro ancora lo avrà fatto.» Vanlees li fulminò con lo sguardo, il viso congestionato, le lacrime agli occhi, la bocca tremante di collera. «Al diavolo tutti, non avete niente sul mio conto. Me ne vado. Sono venuto qui per aiutarvi e mi trattate come un criminale qualsiasi. Andate al diavolo!» «Non si sottovaluti, signor Vanlees», replicò Quinn. «Se lei è l'uomo che cerchiamo, non ha nulla del criminale qualsiasi.» Lui non replicò. Nessuno lo trattenne quando spalancò la porta e uscì, diretto verso la toilette degli uomini. Kovac si appoggiò allo stipite. «Un tipo suscettibile.» «Come se avesse qualche motivo per sentirsi in colpa.» Liska guardò Quinn. «Lei che pensa?» «Penso che andrò a rinfrescarmi.» Nella toilette degli uomini aleggiava un cattivo odore. Vanlees non era agli orinatoi e in uno dei cubicoli si vedeva un paio di scarpe nere dalla suola spessa. Quinn si diresse verso i lavandini, aprì un rubinetto e si sciacquò il viso. Sentì scrosciare uno sciacquone e un attimo dopo apparve Vanlees, pallido e sudato. Vedendo Quinn, si fermò di colpo. «Tutto bene, signor Vanlees?» chiese Quinn con indifferenza, asciugan-
dosi le mani con un tovagliolo di carta. «Lei mi sta molestando», lo accusò l'altro. «Mi sto solo asciugando le mani.» «Mi ha seguito qui dentro.» «Solo per accertarmi che stesse bene, Gil. So che è sconvolto, e non la biasimo. Ma voglio che si renda conto che non è un fatto personale. Devo catturare un assassino e per riuscirci devo ricorrere a ogni mezzo. Lei lo capisce, non è vero?» «Io non ho fatto del male a Jillian», disse Vanlees, sulla difensiva. «Non lo avrei mai fatto.» Quinn soppesò con attenzione quelle parole. Non si aspettava mai che un serial killer ammettesse la propria colpa. Molti di loro parlavano dei propri delitti in terza persona, anche quando la loro colpevolezza era stata accertata oltre ogni ragionevole dubbio, e parecchi si riferivano alla loro metà oscura che era in grado di commettere delitti come a un'entità separata. La sindrome del gemello cattivo, la definiva lui. Quel Gil Vanlees di fronte a lui non avrebbe fatto del male a nessuno. Ma la sua metà oscura? «Conosce qualcuno che volesse fare del male a Jillian?» gli domandò. «No.» «Bene, nel caso che le venga in mente qualcuno...» Gli porse un biglietto da visita. Vanlees lo prese a malincuore, guardandolo davanti e dietro, come in cerca di qualche minuscolo congegno di localizzazione inserito nella carta. «Dobbiamo fermare questo assassino, Gil», gli disse Quinn. «È un uomo molto, molto crudele, e farò tutto il necessario per eliminarlo. Chiunque sia.» «Bene», mormorò Vanlees. «Spero che ci riesca.» S'infilò il biglietto nel taschino della camicia e uscì senza neanche lavarsi le mani. Quinn si voltò accigliato verso lo specchio, fissando intensamente la propria immagine, come se potesse scorgere sul proprio volto un segno, una consapevolezza segreta che il colpevole era Gil Vanlees. Gli elementi del puzzle c'erano. Se avessero combaciato tutti... Se i poliziotti avessero trovato una prova concreta... Kovac entrò un attimo dopo, arricciando il naso. «Ha chiamato il tecnico dell'unità speciale», annunciò. «È convinto che possa interessarci ascoltare il nastro di ieri notte, ora che ci ha giocato un po'.» «È riuscito a ricavarne la voce dell'assassino?»
«Assassini, al plurale», ribatté Kovac in tono grave. «Secondo lui sono due. E stia a sentire questa: crede che uno dei due sia una donna.» Kate entrò nell'ufficio di Sabin pensando che erano passati solo pochi giorni da quando si era tenuta la riunione che l'aveva coinvolta nel caso, eppure sembrava che fosse trascorso un anno intero. In quei pochi giorni, la sua vita era cambiata. E non era ancora finita. Sabin e Rob si alzarono in piedi, l'uno stanco e arcigno, l'altro pieno di virtuosa indignazione. «Allora, dov'è l'uomo con il cappuccio nero e la mannaia?» chiese Kate, fermandosi dietro la sedia destinata a lei. Sabin la fissò accigliato, come se lei gli avesse appena rovinato la battuta iniziale. Rob lo guardò. «Visto? È esattamente quello che stavo dicendo.» «Kate, non è il momento adatto per le battute di spirito», disse Sabin. «Stavo facendo dello spirito, per caso? Sono appena riuscita a perdere l'unica testimone sul caso di omicidio più grave che questa città abbia visto da anni, e non devo aspettarmi la mannaia del boia? Dopo quello che è successo ieri notte, mi meraviglio che non sia Rob in persona a impugnarla.» «Non credere che non sia tentato», replicò lui. «Sono stufo del tuo atteggiamento verso di me. Non hai il minimo rispetto.» Lei si rivolse a Sabin, volgendo le spalle al suo capo senza dire una parola. «Ma...» «Rob, ora lascia che intervenga io», disse Sabin, sedendosi di nuovo. «Ci troviamo in una situazione di estrema tensione. Gli animi sono agitati.» «Ma lei mi tratta sempre così!» «Smettila di frignare, Rob. È anche la migliore che abbiamo in questo ufficio, e tu lo sai. Sei stato tu a suggerire il suo nome per questo incarico, e per motivi ben precisi.» «Devo ricordarle che non abbiamo più una testimone?» Sabin lo fulminò con gli occhi. «No, non ce n'è bisogno.» «Angie era affidata alla mia responsabilità», ammise Kate. «Nessuno è più dispiaciuto di me per questa vicenda. Se potessi fare qualcosa... Se potessi tornare indietro nel tempo e fare qualcosa di diverso...» «Hai accompagnato personalmente la ragazza al Phoenix, ieri sera, non è così, Kate?» ribatté Sabin con il tono che usava nelle aule di tribunale.
«Sì.» «E la casa doveva essere sotto la sorveglianza degli agenti di polizia, giusto?» «Sì.» «Allora la responsabilità è loro. Qualunque sia stata la sorte della ragazza, è colpa loro, non tua. Voglio che tu rimanga a disposizione per questo caso, Kate.» «Sappiamo...» cominciò lei, con il cuore che le batteva all'impazzata mentre si sforzava di formulare la domanda, come se la sua vita dipendesse da quella risposta. «La vittima sull'auto... si sa qualcosa?» Rob le lanciò un'occhiata maligna. «Oh, non ti ha telefonato dall'obitorio qualcuno dei tuoi amici poliziotti?» «Sono certa che oggi sono piuttosto impegnati.» «Nel corso dell'autopsia è stata ritrovata la patente di guida della vittima.» Prese fiato, preparandosi a comunicare la notizia in modo brusco e rapido, poi ci ripensò. «Forse sarebbe meglio se ti sedessi, Kate», le disse con eccessiva premura. «No.» Aveva già i brividi e la pelle d'oca. «Perché?» «La vittima è Melanie Hessler. La tua assistita.» 27 «Mi dispiace», disse Rob. La sua voce sembrava molto distante. Kate si sentì defluire tutto il sangue dalla testa. Le gambe le cedettero e si ritrovò con un ginocchio a terra, ancora aggrappata allo schienale della sedia, ma si affrettò a rialzarsi. Sabin fece il giro della scrivania per sorreggerla, mentre Rob restava interdetto e imbarazzato, a pochi passi da lei. «Ti senti bene?» le chiese Sabin. Sì lasciò cadere sulla sedia, mentre Ted s'inginocchiava accanto a lei, guardandola con ansia. «Kate?» «Ah... no. Io... non capisco.» «Mi dispiace, Kate», ripeté Rob, facendosi avanti, come se gli fosse appena venuto in mente che avrebbe dovuto fare qualcosa. «So che ti sentivi molto protettiva nei suoi confronti.» «Ho appena provato a chiamarla», disse Kate con un filo di voce. «Avrei dovuto chiamarla lunedì, ma poi, con l'arrivo di Angie, tutto il resto mi è uscito di mente.»
Le immagini di Melanie Hessler le turbinarono in testa. Una donna banale, quasi schiva, con una figura esile e una brutta permanente fatta in casa. Lavorare in una libreria pornografica la metteva in imbarazzo, ma aveva bisogno di quel posto perché voleva mettere insieme il denaro sufficiente per tornare a scuola. Il divorzio l'aveva lasciata senza soldi e senza qualifiche professionali, e l'aggressione subita qualche mese prima l'aveva resa fragile, sul piano emotivo e psicologico, oltre che fisico. «Oh, Cristo», mormorò Kate, prendendosi la testa fra le mani. Chiuse gli occhi e rivide il corpo carbonizzato, orribile, sfigurato, contorto, violato e mutilato. Melanie Hessler, che aveva tanta paura di essere aggredita di nuovo e di soffrire. Torturata, brutalizzata, bruciata fino a diventare irriconoscibile. E in fondo alla sua mente risuonarono le parole del direttore della libreria: Non la sento da una settimana. Quando si era impadronito di lei, quel figlio di puttana? Per quanto tempo l'aveva tenuta in vita? Per quanto tempo lei aveva invocato la morte, chiedendosi quale Dio poteva permettere che soffrisse così? «Perché?» domandò, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Perché scegliere lei? Non capisco come mai sia successo.» «Probabilmente per via del suo lavoro in quella libreria per adulti», suggerì Rob. Rob conosceva il caso quanto lei. Aveva partecipato a parecchi incontri con Melanie, aveva analizzato i nastri di quelle sedute insieme con Kate, suggerendo anche un gruppo di sostegno per la sua cliente. Nastri. «Oh, mio Dio», sussurrò Kate, sentendosi abbandonare di nuovo dalle forze. «Quel nastro. Oh, mio Dio.» Si piegò in due, prendendosi la testa fra le mani. «Quale nastro?» chiese Rob. Le urla di dolore, di paura, di tormento e di angoscia. Le urla di una donna che aveva conosciuto, di una donna che aveva avuto fiducia in lei e cercato sostegno e protezione all'interno del sistema giudiziario. «Kate?» «Scusatemi», mormorò lei, alzandosi a fatica. «Devo andare a vomitare.» Quando i conati si placarono, lei si ritrovò seduta sul pavimento della toilette delle donne, debole e sudaticcia, insensibile al luogo in cui si tro-
vava e al freddo del pavimento che penetrava attraverso i pantaloni. Il tremito che le scuoteva il corpo non derivava dal freddo, ma dallo choc e da un oscuro senso di premonizione che gravava sulla sua anima come una nube temporalesca. Una delle sue clienti era morta. Torturata, assassinata, bruciata. Un'altra era scomparsa, lasciandosi dietro una scia di sangue cancellata frettolosamente. Lei era l'unico anello di congiunzione fra le due. Doveva attenersi alla logica, ragionare con freddezza. Era solo una coincidenza, senza dubbio. Come poteva essere altrimenti? Aveva ragione Rob: Smokey Joe aveva scelto Melanie perché lavorava in quella libreria pornografica che, per puro caso, si trovava nella stessa parte della città frequentata da prostitute come le prime due vittime, mentre Angie era stata già in contatto con il killer quando Kate era stata assegnata al caso. Eppure quella nuvola nera continuava a incombere su di lei, schiacciandola. Una strana reazione istintiva che non riusciva a scrollarsi di dosso. Troppo stress. Troppo poco sonno. Troppa sfortuna. Appoggiando le spalle alla parete, tentò di indurre il cervello a superare le immagini della sera prima. Fa' qualcosa. Lo sprone che l'aveva aiutata a superare tutte le crisi che aveva dovuto affrontare. Non stare lì seduta, fa' qualcosa. L'azione combatteva l'impotenza, a prescindere dal risultato. Doveva muoversi, pensare, fare qualcosa. La prima cosa che avrebbe voluto fare era chiamare Quinn, un impulso istintivo che respinse subito. Il solo fatto di aver trascorso la notte insieme non voleva dire che poteva appoggiarsi a lui. In quelle poche ore non c'era alcuna garanzia di un futuro. Lei non sapeva neppure se voleva sperare in un futuro insieme con lui. Avevano un passato troppo ingombrante. In ogni caso, non era quello il momento di pensarci. Se la vittima a bordo dell'auto non era Angie, c'era ancora qualche speranza che la ragazza fosse viva. Doveva pur esserci qualcosa da fare per ritrovarla. Si alzò a fatica, tirando lo sciacquone prima di uscire dal bagno. Davanti a uno dei lavandini c'era una donna che indossava un impeccabile tailleur verde acido, intenta a rifarsi il trucco già perfetto. Kate le rivolse un pallido sorriso, avvicinandosi a un altro lavandino per lavarsi le mani e il viso. Si guardò allo specchio. Aveva un aspetto orribile: era livida, pesta, pallida, abbattuta. Il suo aspetto corrispondeva perfettamente al suo stato d'animo.
«Questo lavoro sarà la tua morte, Kate», mormorò alla propria immagine riflessa. Brandendo il mascara, la signorina Perfezione si fermò un attimo, fissandola con diffidenza. Kate le sorrise di nuovo, con un'aria di folle allegria. «Be', immagino che non possano cominciare l'udienza per l'affidamento senza di me», esclamò in tono allegro, prima di uscire. Rob l'aspettava nel corridoio con aria imbarazzata. «Che cosa c'è?» esclamò Kate. «Ora che Sabin non può sentirti, vuoi dirmi che è colpa mia se Melanie Hessler è morta? Che, se lunedì avessi affidato il caso a te, avresti potuto impedire che cadesse nelle mani di quel maniaco figlio di puttana?» Lui assunse un'aria offesa. «No! Come puoi dire una cosa simile?» «Perché forse è questa la mia opinione», ammise. «In che modo, secondo te, avresti potuto impedire quello che è successo?» Lui la fissò con un misto di perplessità e risentimento. «Pensi di essere Wonder Woman, per caso? Credi che tutto ruoti intorno a te?» «No, so soltanto che avrei dovuto chiamarla e invece l'ho trascurata. Se le avessi telefonato, almeno qualcuno avrebbe saputo che era scomparsa e si sarebbe preoccupato. Non aveva nessuno.» «Ed era affidata alla tua responsabilità», osservò lui. «Come Angie.» «Qualcuno deve pur assumersi una responsabilità.» «Tu, Caterina la Grande», ribatté lui con una punta di sarcasmo. Kate alzò il mento, lanciandogli un'occhiata imperiosa. «Io non ti capisco, Rob. Mi dici che sono la persona giusta per questo caso, poi cambi idea e ti lamenti del modo in cui lavoro. Vuoi addossarmi la colpa di quello che è andato storto, ma non vuoi che sia io ad assumermela. Qual è il problema? Il fatto che mi accolli io questa responsabilità manda a monte la tua strategia con Sabin? Se lo faccio spontaneamente, tu non puoi mostrarti contrito e ossequioso per conto mio, è così?» I muscoli della mascella di Rob fremettero e nei suoi piccoli occhi balenò un lampo di malignità. «Rimpiangerai il modo in cui mi tratti, Kate. Forse non oggi. Forse neanche domani. Ma un giorno...» «Oggi non puoi licenziarmi, Rob», lo interruppe lei. «Sabin non te lo permetterà. E io non sono dell'umore giusto per prestarmi ai tuoi giochetti. Se la tua presenza qui ha uno scopo, vieni al sodo. Ho un lavoro da svolgere, almeno nelle prossime ore.» Lui socchiuse gli occhi, spostando il peso da un piede all'altro, e si rab-
buiò in viso. Kate pensò di aver esagerato, e che forse non sarebbe potuta tornare sui suoi passi semplicemente scusandosi e promettendo di comportarsi meglio: ma non intendeva rimangiarsi quello che aveva detto. «La polizia vuole che tu riesamini i nastri delle sedute con Melanie per vedere se ha detto qualcosa che potrebbe essere pertinente al caso», rispose lui. «Pensavo che fosse troppo per te», aggiunse con il tono del martire offeso. «Volevo offrirti il mio aiuto.» «Volevi? Questo significa che l'offerta è stata ritirata perché hai deciso che sono una puttana ingrata?» Lui le rispose con un sorriso sgradevole, gli occhi quasi invisibili dietro le lenti da vista. «No, non permetterò che il tuo atteggiamento interferisca con il mio lavoro. Ascolteremo i nastri insieme. Tu farai attenzione alle osservazioni che ti sembrano stonate, visto che la conoscevi. Io ascolterò obiettivamente, dal punto di vista linguistico. Ci vediamo nel mio ufficio fra cinque minuti.» «Questo nastro è una copia», spiegò il tecnico del BCA. Kovac, Quinn, Liska e un tipo ossuto che Kovac chiamava Ears - «Orecchie» - erano riuniti intorno a una serie di apparecchiature elettroniche nere, munite di un numero impressionante di pomelli, levette, spie luminose e quadranti. «La qualità del suono è molto migliore di quella che si ottiene in genere con un registratore a microcassette», spiegò Ears. «Infatti a mio parere l'assassino ha addirittura applicato un microfono alla vittima, oppure glielo ha collocato molto vicino. Questo spiegherebbe la distorsione delle urla e anche il motivo per cui le altre voci sono così indistinte.» «Lei è sicuro che ci sono due voci?» domandò Quinn, tutto preso dalle implicazioni di quella possibilità. «Sì. Ecco, ascolti.» Il tecnico premette un tasto e regolò un quadrante. La stanzetta fu invasa da un urlo, che spinse i quattro a irrigidirsi come per respingere un'aggressione fisica. Quinn si sforzò di concentrarsi non sulle emozioni all'interno dell'urlo, ma sulle singole componenti del suono, tentando di prescindere dal fattore umano e dalle proprie reazioni. Rivivere i propri delitti era una componente essenziale del ciclo vitale di un serial killer: fantasia, fantasia violenta, fattori scatenanti del delitto, delitto, fantasia, fantasia violenta, e così via, all'infinito.
Una tecnologia ormai a buon mercato facilitava il compito di riprodurre una copia più perfetta del ricordo; ma la stessa tecnologia a buon mercato, insieme con l'esigenza egoistica del killer, aveva prodotto una quantità di prove incriminanti, negli ultimi anni. Il segreto era che poliziotti e procuratori dovevano farsi forza per ascoltarle e vederle. Era già abbastanza terribile vedere il risultato di delitti come quelli, ma doverli guardare o ascoltare mentre venivano commessi poteva costituire un'esperienza spaventosa. Ears girò una manopola per abbassare il volume e alzò due levette. «Si sente a partire da qui. Ho isolato e cancellato la voce della vittima per esaltare le altre. Ascoltate con attenzione.» Nessuno si azzardava a respirare. Le urla si spensero e una voce maschile, sommessa e indistinta, disse: «Gira... fallo...», seguita da un rumore bianco e poi da un'altra voce ancor più indistinta che diceva: «... voglio... di me...» «Questo è il massimo che si riesca a ottenere», disse Ears, premendo i pulsanti per riavvolgere il nastro. «Posso aumentare il volume, ma non per questo le voci diventano più riconoscibili. Erano troppo lontani dal microfono. Comunque, in base alle letture dei grafici, direi che la prima è di un uomo e la seconda di una donna.» Quinn pensò alle pugnalate nel petto di ogni vittima, con quello schema preciso: ferita lunga, ferita breve, ferita lunga, ferita breve. Croce sul cuore, che io possa morire... Un patto, un'alleanza. Due coltelli che calavano seguendo un ritmo macabro. Ora quelle ferite avevano un senso. Avrebbe dovuto arrivarci da sé: due coltelli, due assassini. Non che non gli fosse mai accaduto di incontrare casi del genere; il fatto era che non voleva rivederne altri. Non esistevano delitti più oscuri o contorti di quelli commessi da una coppia. Le dinamiche di una relazione del genere riassumevano in sé gli estremi più morbosi del comportamento umano. Ossessioni e impulsi coatti, paure e fantasie sadiche di due persone ugualmente disturbate s'intrecciavano come una coppia di vipere che tentavano di divorarsi a vicenda. «Vuoi continuare a giocare con il nastro, Ears?» domandò Kovac. «Vedi se ti riesce di isolare qualche altra parola. Vorrei sapere di che cosa parlano.» «Ci proverò, ma non ti prometto niente.» «Cerca di fare il possibile. Potresti salvarmi la carriera.» Quinn precedette gli altri nel corridoio, intento già a dipanare i pensieri che si aggrovigliavano in mente per distogliere la propria attenzione dal
groppo che sentiva in gola, per concentrarsi sul problema immediato da risolvere, e non su quello interiore, per non pensare che, proprio quando cominciava a convincersi che stavano facendo dei progressi, il killer si sdoppiava, come in un incubo. Kovac chiudeva il gruppo. «Questa è una complicazione che non ci voleva proprio», protestò. «Era già abbastanza difficile trovare uno psicopatico. Ora devo dire ai capi che ne cerchiamo due.» «Non glielo dica», suggerì Quinn. «Non subito. Ho bisogno di riflettere.» Si fermò con le spalle contro la parete, come se fosse deciso a restare lì finché non gli balenava alla mente la risposta. «Che differenza fa per il profilo, se ha una partner?» chiese Liska. «Che differenza fa per il profilo se ha una partner e questa partner è una donna?» ribatté Quinn. «Mi complica la vita in modo infernale», rispose Kovac. «Sono soci alla pari, oppure la donna è quella che si definisce una 'vittima consenziente'?» riprese Quinn. «Partecipa perché le piace, oppure perché sente di doverlo fare, per un motivo o per l'altro... perché ha paura di lui, perché lui la controlla, o altro?» Si rivolse a Liska. «Vanlees ha una ragazza?» «Che io sappia, no. Ho chiesto alla moglie, al suo capo, ai colleghi. Niente.» «Hai chiesto alla moglie qualcosa su Jillian Bondurant? Se lei la conosceva, se pensava che il marito la conoscesse un po' troppo bene?» «Mi ha detto che a lui piaceva guardare qualunque cosa avesse le tette, ma non ha nominato Jillian.» «A che cosa pensa?» chiese Kovac. «Penso al fatto, che mi ha sconcertato fin dall'inizio, che non è stato possibile giungere a un'identificazione positiva per la terza vittima. Perché decapitarla? Perché mutilare anche i piedi? Ora usa l'auto di Jillian per bruciare il corpo della quarta vittima. Perché tanta enfasi su Jillian?» si chiese Quinn. «Sappiamo che era una ragazza infelice e turbata. Quale via di fuga più definitiva da una vita infelice che la morte, reale o simbolica?» «Lei pensa che la voce sul nastro potrebbe essere di Jillian?» disse Liska. «Che potrebbe essere lei la partner di Vanlees?» «Ho detto fin dall'inizio che la chiave di questa storia è Jillian Bondurant. È lei il pezzo che non combacia con gli altri. Ma finora non mi era mai venuto in mente che forse non è soltanto la chiave. Forse è un'assassi-
na.» «Cristo», mormorò Kovac. «Bene, è stata una buona carriera, finché è durata. Forse potrò prendere il posto di Vanlees.» Lanciò un'occhiata all'orologio e si diede una manata sulla fronte. «Devo andare. Ho un appuntamento con la moglie dell'ex socio di Peter Bondurant. Forse riuscirò a scoprire qualcosa sul conto di Jillian.» «Io voglio parlare con quella sua amica... Michelle Fine, per vedere se ha qualche copia della musica che scriveva insieme con Jillian. Inoltre vorrei conoscere il suo parere su Vanlees.» «Non ne ha», ribatté Liska. «Gliel'ho chiesto il giorno in cui siamo andati a casa di Jillian e lo abbiamo visto. Mi ha detto: 'Chi bada ai perdenti?'» «Ma i predatori sanno riconoscere i loro simili», ribatté Quinn. Poi si rivolse a Kovac. «Chi sorveglia Vanlees?» «Tippen e Hamill.» «Perfetto. Dica loro di chiedergli se questo amico di cui sorveglia la casa importa apparecchiature da registrazione, videocamere e articoli del genere.» «Sarà fatto.» «Ci sono altre due possibilità da prendere in esame, oltre a Vanlees», osservò Quinn. «Se il rapporto fra Smokey Joe e la sua partner è basato sul controllo, il dominio, il potere, dobbiamo considerare la vita di Jillian e domandarci quali sono gli uomini che hanno questo tipo di controllo su di lei. Posso indicarne due che conosciamo.» «Lucas Brandt e paparino», ribatté Kovac con un gran sorriso. «Magnifico. Forse abbiamo una pista, finalmente, ed è che la figlia dell'uomo più potente della città è una psicopatica, e magari ha preso dal padre. Tutte a me devono capitare, queste fortune.» Liska gli assestò una pacca sul braccio mentre si allontanavano. «Conosci il vecchio detto, Sam: non puoi sceglierti i parenti, né i serial killer.» «Io ne conosco uno migliore», ribatté Quinn, mentre gli balenavano in mente le infinite soluzioni possibili per quel caso. «Non è mai detta l'ultima parola.» 28 Il caffè D'Cup era semivuoto, e Michelle Fine aveva chiesto un giorno di permesso per malattia. Liska ottenne l'informazione dallo stallone italiano dietro il banco e si
ripromise di prendere l'abitudine di bere un cappuccino al giorno. «Conosceva la sua amica?» gli chiese Quinn. «Jillian Bondurant?» Il dio romano si morse il labbro turgido, poi scosse la testa. «Non proprio. Voglio dire, veniva qui spesso, ma non era molto socievole. Piuttosto introversa, non so se mi spiego. Lei e Chell erano intime amiche. È tutto quello che so, a parte le notizie che ho letto sui giornali.» «È mai stata qui con qualcun altro?» provò Quinn. «Michelle o Jillian Bondurant?» «Jillian.» «Non direi.» «E Michelle? Aveva un ragazzo?» L'uomo non parve gradire la domanda, come se si cominciasse a scivolare su un piano troppo personale. Liska tirò fuori la foto di Vanlees e gliela porse. «Ha mai visto una delle due in compagnia di quest'uomo? Oppure lui da solo?» L'adone socchiuse gli occhi per osservare l'istantanea. «No, non ha un'aria familiare.» «E la loro musica?» chiese Quinn. «Michelle dice che a volte si esibivano qui.» «Chell canta e suona la chitarra nelle serate per i dilettanti. So che hanno scritto qualcosa insieme, ma non saprei dirvi qual è il contributo dell'una o dell'altra. Jillian non si esibiva mai. Si limitava ad assistere. Le piaceva guardare gli altri.» «Che tipo di musica?» «Quelle canzoni folk di protesta che fanno le donne. Piene di rabbia e di angoscia, piuttosto cupe.» «In che senso?» «Relazioni sbagliate, rapporti intricati e tanta sofferenza emotiva.» Quinn lo ringraziò, Liska ordinò un caffè moka e gli lasciò un dollaro di mancia. Fuori nevicava ancora. L'appartamento di Michelle Fine si trovava a circa un chilometro e mezzo di distanza, in un quartiere piuttosto decadente, pieno di vecchie villette malandate e brutti condomini squadrati che secondo Liska ospitavano un numero esorbitante di detenuti in libertà condizionata e piccoli delinquenti affidati al servizio sociale. «L'appartamento di Vanlees a Lyndale dista pochi isolati da qui, a sud», osservò lei mentre avanzavano cautamente sul marciapiede, mettendo i
piedi nei solchi scavati da altri nella neve fresca. «Che incredibile coincidenza!» «Eppure quando si sono visti in casa di Jillian hanno dato l'impressione di non conoscersi, vero?» Lei ripensò alla scena. «È stato un incontro di sfuggita. Non si sono parlati. Lei pensa davvero che possa averlo sorpreso mentre spiava dalla finestra?» «Quello è stato un tentativo alla cieca, ma senz'altro ha colpito nel vivo il suo ragazzo. Quello che mi domando è: se lo ha sorpreso a fare qualcosa del genere, come mai non ne ha parlato?» «Buona domanda. Andiamo a cercare una risposta.» Nell'ascensore aleggiava un cattivo odore di cibi cinesi da asporto. Salirono al terzo piano insieme con un tipo emaciato che si rannicchiò in un angolo, cercando di passare inosservato, mentre al tempo stesso sbirciava il costoso trench di Quinn. Lui gli lanciò un'occhiata impassibile e vide la fronte pallida del drogato coprirsi di sudore. Quando le porte si aprirono, l'altro rimase nella cabina e ridiscese al pianterreno. «A poker, lei dev'essere un asso», commentò Liska. «Non ho tempo per giocare.» Liska lo guardò perplessa, con uno scintillio invitante negli occhi azzurri. «Attenzione! Chi troppo studia, matto diventa.» Quinn abbassò la testa con un sorriso imbarazzato. «Le farei venire sonno, Tinks.» «Ne dubito, comunque se volesse una controprova scientifica...» Ferma davanti alla porta di Michelle Fine, lo guardò. «Le faccio perdere la pazienza, lo so. La triste verità è che lei mi sembra un uomo che ha in mente qualcuno.» Quinn suonò il campanello, fissando la porta. «Sì, un killer.» Anche se, per la prima volta in vita sua, i pensieri non erano tutti rivolti al lavoro. Suonò di nuovo il campanello. «Chi è?» domandò una voce dall'interno. Liska si mise davanti allo spioncino della porta. «Il sergente Liska, Michelle. Devo farle ancora un paio di domande su Jillian.» «Non mi sento bene.» «Ci vorrà solo un minuto. È molto importante. C'è stato un altro omicidio, lo sa.» La porta si aprì di uno spiraglio, mentre Michelle guardava fuori senza togliere la catenella di sicurezza. Quel varco inquadrava proprio la parte
sfregiata del suo viso stretto e angoloso. «Io non c'entro niente. Non posso aiutarvi.» Poi vide Quinn, e il suo sguardo s'indurì, divenne sospettoso. «Lui chi è?» «John Quinn, FBI. Vorrei parlare un po' con lei di Jillian, signorina Fine. Sto cercando di farmi un'idea più chiara della sua personalità. Per quanto ne so, eravate buone amiche.» I secondi passarono mentre lei lo squadrava in un modo che si addiceva poco alla cameriera di un caffè trendy; sembrava piuttosto lo sguardo di una donna che conosceva fin troppo bene la strada. Quando alzò la mano per sganciare la catenella, lui intravide il serpente avviluppato intorno al polso. Lei aprì la porta, indietreggiando a malincuore. «Non la sente da venerdì scorso?» le chiese Quinn. Michelle gli rivolse un'occhiata carica di sospetto e avversione. «Come potrei sentirla?» ribatté con amarezza, gli occhi pieni di lacrime. «È morta. Perché mi fa una domanda del genere?» «Perché io non ne sono altrettanto certo.» «Che diavolo sta dicendo?» ribatté con un'espressione frustrata e confusa. «Lo dicono tutti i notiziari. Il padre offre una ricompensa. A che gioco vuole giocare?» Quinn la lasciò in sospeso mentre si guardava attorno. L'appartamento era datato anni settanta - autentico, non ricostruito - e faceva pensare che da allora niente fosse cambiato o fosse stato spolverato. L'ambiente era saturo dell'odore di sigarette e di erba. «Non mi va che lei venga qui a cercare di manipolarmi la testa», proruppe Michelle. «Non mi sento bene. Soffro per Jillian. Era mia amica...» La voce le s'incrinò e lei distolse lo sguardo, serrando le labbra in un modo che metteva in risalto la cicatrice all'angolo della bocca. «Sto... sto male. Quindi, qualunque cosa voglia sapere, me lo chieda e se ne vada al diavolo.» Riprese la sigaretta che stava fumando e si scostò, tenendosi un braccio stretto intorno alla vita. Era di una magrezza malsana, pensò Quinn, pallida e ossuta. Forse stava davvero male. Portava un enorme cardigan nero, sopra una T-shirt che in origine era stata bianca, tanto piccola che sembrava destinata a una bambina, e un paio di logori pantaloni di maglia nera. Camminava scalza sul tappeto sporco. «E che cos'ha?» le chiese Liska.
«Eh?» «Ha detto di essere malata. Che cos'ha?» «Oh, l'influenza», rispose distrattamente, lanciando un'occhiata alla televisione. «Con disturbi di stomaco.» «Lo sa che cosa fa bene per la nausea?» disse Liska, imperturbabile. «La marijuana. La usano anche per i pazienti che fanno la chemioterapia. Certo, in altri casi è illegale...» La minaccia era sottile, appena quanto bastava per indurre Michelle a collaborare, se l'idea non l'attirava troppo. «L'altro giorno, quando abbiamo incrociato la guardia giurata a casa di Jillian», riprese Liska. «Lei non ha saputo dirmi granché sul suo conto.» «Che c'è da dire?» «Fino a che punto Jillian lo conosceva? Erano amici?» «No. Lo conosceva quanto bastava per chiamarlo per nome.» Michelle si diresse verso il tavolo da pranzo formato francobollo e si sedette, appoggiandosi al piano come se non avesse la forza di reggersi da sola. «Lui le aveva messo gli occhi addosso.» «In che senso?» Lei fissò Quinn. «Come fanno gli uomini.» «Jillian le ha mai detto se lui cercava di incontrarla, la spiava, o qualcosa del genere?» «Credete che l'abbia uccisa lui?» «Lei che ne pensa, Michelle?» chiese Quinn. «Qual è la sua opinione su quell'uomo?» «È un perdente.» «Ha mai avuto qualche scontro con lui?» «Forse un paio di volte l'ho mandato al diavolo.» «Perché?» «Perché ci fissava come se ci immaginasse nude insieme. Schifoso bastardo.» «E Jillian che cosa diceva?» Una scrollata di spalle. «Una volta ha detto di lasciarlo guardare pure, se quella era l'emozione più grande della sua vita.» «Non le ha mai detto che la infastidiva?» «No.» «Ha mai accennato alla sensazione che qualcuno la spiasse o la seguisse, qualcosa del genere?» «No, anche se era vero.»
Liska la guardò di scatto. «Come?» «Suo padre e quel nazista del suo strizzacervelli la sorvegliavano come due falchi. Il padre aveva una chiave dell'appartamento. A volte, quando andavamo a casa di Jillian, lo trovavamo dentro ad aspettare. E poi parlano di violazione della privacy!» «Jillian restava infastidita, quando lo faceva?» Michelle Fine storse la bocca in uno strano sorrisetto amaro. «No. Dopotutto era la cocca di papà.» «Che significa?» «Niente. Gli lasciava manovrare i fili, tutto qui.» «Le aveva parlato della sua relazione con il patrigno, ma le aveva mai detto qualcosa a proposito del suo rapporto con il padre?» «Non parlavamo di lui. Sapeva che cosa pensavo del suo tentativo di controllarla. L'argomento era tabù. Perché?» domandò. «Credete che cercasse di scoparsela anche lui?» «Non lo so», rispose Quinn. «Lei che ne pensa?» «Penso di non aver mai conosciuto un uomo che non volesse portarsi a letto una femmina, se ne aveva l'occasione», ribatté lei in modo deliberatamente volgare, facendo scorrere lo sguardo sul corpo di Quinn fino all'inguine. Lui la lasciò fare, aspettando che tornasse a guardarlo negli occhi. «Comunque, se anche era così, non lo ha mai detto apertamente.» Quinn sedette senza essere invitato sulla sedia all'altro capo del tavolo, come se intendesse restare per cena. Guardò di nuovo l'appartamento, notando che c'erano ben pochi elementi ornamentali: niente di famigliare, niente di personale. Nessuna foto. L'unico pezzo di arredamento che avesse un aspetto curato era un piccolo impianto stereo nell'angolo opposto del soggiorno. Vicino era appoggiata una chitarra. «So che lei e Jillian componevate musica insieme», le disse. «Qual era il contributo personale di Jillian?» Michelle accese un'altra sigaretta e lo sguardo di Quinn cadde sul serpente tatuato intorno al polso, ritorto intorno alle cicatrici che le erano state impresse nelle carni molto tempo prima. Il serpente del Giardino dell'Eden, con una piccola mela rossa tra le fauci. «A volte le parole», rispose, «a volte la musica. Quello che si sentiva di fare.» «Ha mai pubblicato niente?» «Non ancora.» «Quali erano i suoi argomenti preferiti?»
«La vita, la gente. I rapporti umani.» «Relazioni sbagliate?» «Ne esistono altre?» «Lei conservava le copie dei pezzi che scrivevate?» «Certo.» «E dove?» chiese Liska. «Nel suo appartamento. Nello sgabello del piano e nella libreria.» «L'altro giorno non ho trovato niente.» «Eppure erano lì», ribadì Michelle in tono difensivo. «Lei ha delle copie che potrei vedere?» domandò Quinn. «Mi piacerebbe leggere le parole, per vedere che cosa dicono di lei.» «La poesia è una finestra aperta sull'anima», disse Michelle in uno strano tono sognante. Il suo sguardo vagò di nuovo lontano e Quinn si domandò che cosa avesse in mente e perché. Il presunto omicidio di Jillian Bondurant aveva forse minato il suo equilibrio mentale? A quanto pareva, era l'unica amica di Jillian, e forse Jillian era stata la sola amica per lei. E adesso non c'era più nessuno: né l'amica, né la collega che scriveva le sue parole, nient'altro che quello squallido appartamento e un lavoro senza sbocchi. «È proprio su questo che conto», rispose. Lei allora lo guardò negli occhi, attraente e vagamente esotica, con i capelli scuri e unti ravviati all'indietro in modo da scoprire il viso, vagamente familiare... come ormai gli sembravano tutti i visi del mondo, dopo tanti casi. Gli occhi piccoli divennero improvvisamente molto chiari mentre diceva: «Ma riflette chi siamo, o chi vorremmo essere?» Si alzò per attraversare la stanza e raggiungere una serie di scaffali cosmposti da semplici assi di legno; tornò indietro sfogliando un raccoglitore. Quinn si alzò, tendendo la mano, e lei si allontanò di scatto, lanciandogli un'occhiata quasi civettuola. «È una finestra anche sulla mia anima, signor Federale. Forse non voglio che lei provi a sbirciare.» Gli porse mezza dozzina di fogli di carta da musica. Aveva le unghie rosicchiate fino alla carne viva. Poi si strinse il fascicolo al petto, un gesto che metteva in risalto i seni piccoli sotto la maglietta aderente. Non portava il reggiseno. Liska posò sul tavolo la valigetta, aprendola e tirando fuori un kit per rilevare le impronte. «Ci servono anche le sue, Michelle, così potremo eliminarle da tutte le impronte rilevate nell'appartamento di Jillian. Mi risulta
che non abbia fatto in tempo a passare dalla polizia, impegnata com'è.» Michelle guardò il tampone con l'inchiostro e il cartellino con un'espressione diffidente e infelice. «Ci vorrà solo un minuto», disse Liska. «Si sieda.» Michelle Fine si sedette, tendendo la mano a malincuore. «Quando è stata l'ultima volta che ha sentito Jillian?» le chiese Quinn. «L'ho vista venerdì, prima della seduta con lo strizzacervelli.» «Non l'ha chiamata venerdì sera?» «No.» «Non è venuta a trovarla?» «No.» «Dov'era, intorno a mezzanotte o l'una di notte?» «A letto. Nuda e sola.» Lo guardò di sotto le ciglia, in modo provocante. «Strano, non le sembra?» ribatté Quinn. «Jillian aveva appena litigato con il padre, era tanto sconvolta da scappare di casa, ma non ha provato a mettersi in contatto con la sua migliore amica.» «Ebbene, agente Quinn», replicò lei con la voce dell'esperienza, «ho imparato molto tempo fa che non si può mai sapere veramente che cosa c'è nel cuore di un'altra persona. E a volte è meglio così.» Kovac s'infilò a tutta velocità con la Caprice in un parcheggio riservato alla polizia sulla Quinta Strada, poco lontano dal municipio, abbandonandola lì. Sgranando un rosario di imprecazioni, tentò di superare di corsa il cumulo di neve che copriva il cordolo del marciapiede, ma sprofondò fino alle ginocchia, ansimando come un mantice. Il cuore faticava a pompare sangue e adrenalina in arterie che probabilmente avevano l'aspetto di tubi dell'acqua intasati. L'atrio era affollato di donne furibonde che lo investirono come una marea mentre cercava di raggiungere la divisione della polizia investigativa. Soltanto quando fu al centro del vortice notò il cartello di protesta che oscillava sopra la loro testa: «Anche la nostra vita conta! Giustizia: Una fenice che risorge dalle ceneri». Le loro grida gli piovvero addosso come un fuoco di sbarramento. «Basta con le molestie della polizia!» «Gli Urskine vogliono giustizia!» «Perché non trovate il vero assassino?» «È quello che sto cercando di fare, sorella», scattò Kovac contro la donna che gli sbarrava la strada. «Quindi perché non ti togli di mezzo e mi la-
sci continuare?» Fu allora che si accorse dei media. I flash cominciarono a scattare a destra e a manca. Maledizione. Kovac continuò ad avanzare. L'unica regola in tale situazione era tenere la bocca chiusa e continuare a muoversi. «Sergente Kovac, è vero che ha ordinato l'arresto di Gregg Urskine?» «Nessuno è in arresto!» gridò lui, facendosi largo. «Kovac, ha confessato?» «Era Melanie Hessler la vostra testimone misteriosa?» «No comment», ringhiò, sgomitando per avanzare. Aggirò il caos di scatole di cartone e classificatori per raggiungere la Omicidi, svoltando a destra nell'ufficio improvvisato del tenente Fowler. Lo assalì la voce stridula di Toni Urskine, che gli irritava i nervi come lo stridio delle unghie su una lavagna. Nell'entrare in ufficio abbassò la testa e Yurek si alzò di scatto dalla scrivania, con il ricevitore del telefono incollato all'orecchio, e gli lanciò frenetici segnali con gli occhi, alzando una mano per indicargli di restare nei paraggi. Kovac si trattenne cinque secondi, come un auto con il motore su di giri .«Ho parecchi posti da visitare e persone da mettere sulla graticola, Yurek.» Yurek annuì e disse al telefono: «Mi spiace, signora, ora devo andare. Qui c'è una situazione di emergenza. Mi dispiace. Sì, qualcuno passerà da lei. Mi scusi». Fece il giro della scrivania, scuotendo la testa. «Questa gente mi manderà il tilt. C'è una donna che insiste a dire che il suo vicino di casa è il Crematore, e non soltanto ha brutalmente ucciso quattro donne, ma secondo lei ha ucciso e divorato il suo cane!» «C'è Quinn?» scattò Kovac. «È appena tornato. Sta seguendo l'interrogatorio di Urskine», rispose Yurek. «Ho appena ricevuto una chiamata dal piano di sopra...» «Vuoi dire che la signora con il cane morto è il sindaco? Che razza di caso!» «No, prima della signora con il cane. La tua presenza è richiesta nell'ufficio del sindaco. Hanno cercato di raggiungerti con il cellulare.» «Era scarico. E tu non mi hai visto. La mannaia può aspettare. Ho un pesce maledettamente grosso da friggere. Ho la balena di Giona!» «Che cosa vuoi dire? Dove sei stato?» Kovac non rispose, pensando già al confronto che lo aspettava. Quinn aveva l'aria di un morto che cammina e fissava la stanza accanto, dove
Gregg Urskine sedeva di fronte a Elwood. «Abbiamo pagato in contanti. Non sono riuscito a trovare la ricevuta», diceva Urskine, esasperato. «Lei conserva tutte le ricevute, sergente?» «Sì, perché uso un sistema di archiviazione semplice ma efficiente», rispose Elwood. «Non si sa mai quando potrebbe servire. Per le tasse, per un alibi...» «A me non serve un alibi.» «Conosco qualcuno a cui serve», esclamò Kovac, attirando l'attenzione di Quinn. «Vuole fare un altro giro?» «Che cosa c'è?» «Ho appena parlato con la signora Thorton, la moglie dell'ex socio di Peter Bondurant. Vuole sapere come mai Sophie Bondurant ottenne la custodia di Jillian dopo il divorzio, pur essendo instabile sul piano psichico? Le piacerà», promise in tono sarcastico. «Ho quasi paura a chiederlo.» «Minacciò di denunciare il marito e di suscitare scandalo. Per molestie a Jillian.» 29 «Oh, mio Dio», gemette Yurek, inorridito. Kovac si girò di scatto verso di lui. «Che c'è, adesso? Vuoi che faccia finta di non sapere che Bondurant molestava la figlia?» «Si tratta di presunte molestie...» «Credi che non lo sappia di essere nei guai fino al collo?» «Penso che faresti meglio a sentire che cosa vuole il sindaco.» «Non potrebbe fregarmene...» «Ti vuole nel suo ufficio per fornire al signor Bondurant una dettagliata relazione sull'andamento del caso. Ti stanno aspettando.» La stanza rimase silenziosa per un attimo, poi si sentì di nuovo la voce calma di Elwood che proveniva dall'altoparlante nella stanza degli interrogatori. «Lei ha mai fatto sesso a pagamento, signor Urskine?» «E va bene», disse Kovac a Quinn, con lo stomaco serrato da un nodo di nervosismo e anticipazione. «Andiamo ad aggiornare il sindaco e il signor Bondurant. Lungo la strada mi darà le ultime informazioni.» «Immagino che si renda conto dell'esigenza di Peter di chiudere al più presto questa faccenda», stava dicendo Edwyn Noble al capo Greer. «Ab-
biamo qualche indicazione sulla data in cui potrà essere restituito il corpo?» «Non in modo specifico. Ho chiamato il sergente Kovac. Mi dicono che è in attesa di ricevere notizie dal laboratorio dell'FBI su alcuni test. Probabilmente, dopo il completamento di queste analisi, che potrebbero essere eseguite da un momento all'altro...» «Io voglio seppellire mia figlia, Greer.» Bondurant parlava con voce tesa, senza guardare il capo, con gli occhi fissi su un qualcosa che lui solo poteva vedere. Aveva rifiutato di sedersi, e si aggirava irrequieto nella sala. «L'idea che il suo corpo si trovi in una cella frigorifera come un quarto di bue... La rivoglio.» «Mio caro Peter, comprendiamo perfettamente», disse Grace Noble. «Partecipiamo al tuo dolore. E ti posso assicurare che la task force sta facendo tutto il possibile per risolvere questo...» «Davvero? Il capo dei vostri investigatori ha perso più tempo a infastidire me che a indagare sui sospetti.» «Il sergente Kovac può essere un po' brusco», ammise Greer, «ma il suo curriculum nella Omicidi parla da sé.» «A rischio di sembrare invadente, Greer», disse Edwyn Noble, «precedenti a parte, che cosa ha fatto per noi il sergente Kovac, negli ultimi giorni? Abbiamo un'altra vittima. Sembra che l'assassino si faccia beffe di noi, e non solo della task force, ma della città intera. Ha almeno un possibile sospetto, a questo punto?» «Il tenente Fowler mi ha informato che oggi è stato disposto un interrogatorio.» «Di chi si tratta? Un legittimo sospetto?» Greer si accigliò. «Non sono autorizzato...» «Era mia figlia!» gridò Peter, con tanta violenza che la sua voce rimbalzò nella stanza. Voltando le spalle per nascondere il viso agli sguardi altrui, se lo coprì con le mani. «Se è stato fermato qualcuno», intervenne Noble in tono ragionevole, «sarà soltanto questione di ore prima che la stampa diffonda questa informazione. Non è una critica alla discrezione della polizia. È semplicemente impossibile eliminare tutte le fughe di notizie in casi di questa importanza.» Greer spostò lo sguardo dall'avvocato di Bondurant alla moglie, che era anche il suo capo. Non vedendo alcuna via di scampo, si lasciò sfuggire un sospiro. «Il custode del complesso residenziale in cui sorge la casa del si-
gnor Bondurant.» Si sentì ronzare l'interfono e Grace Noble rispose. «Sindaco Noble, il sergente Kovac e l'agente speciale Quinn chiedono di vederla.» «Falli entrare, Cynthia.» Kovac entrò ancor prima che il sindaco avesse finito di parlare, puntando subito gli occhi su Peter Bondurant, che sembrava ancora più magro del giorno prima, con un colorito livido. Ricambiò lo sguardo di Kovac con un'espressione di gelido fastidio. «Sergente Kovac, agente Quinn, grazie di averci raggiunti», disse il sindaco. «Accomodatevi tutti e parliamo.» «Non intendo fornire dettagli sul caso», dichiarò Kovac, con aria ostinata. Nessuno dei due intendeva sedersi per fare da bersaglio fisso a Bondurant o Edwyn Noble. Nessuno si sedette. «Sappiamo che avete un sospetto», esordì Edwyn Noble. Kovac lo fulminò con gli occhi, poi fissò Dick Greer. «Non è stato deciso nessun arresto», rispose poi. «Stiamo ancora seguendo tutte le piste. Io ne ho appena scoperta una interessante.» «Il signor Vanlees ha un alibi per la notte della scomparsa di mia figlia?» chiese bruscamente Bondurant. «E lei ha un alibi per la notte della scomparsa di sua figlia, signor Bondurant?» «Kovac!» ringhiò il capo della polizia. «Con tutto il dovuto rispetto, capo, non ho l'abitudine di cedere ad altri la guida delle mie indagini.» «Il signor Bondurant è il padre di una vittima. Vi sono circostanze attenuanti.» «Certo, qualche miliardo», brontolò Kovac. «Sergente!» «Il sergente Kovac è convinto che io debba essere punito per la mia ricchezza», disse Bondurant. «Forse pensa che abbia meritato di perdere mia figlia, in modo da capire che cos'è la vera sofferenza.» «Dopo quello che ho saputo oggi, credo che lei non meritasse affatto di avere una figlia», ribatté Kovac. «Meritava senz'altro di perderla, ma non nel modo in cui è accaduto. Ammesso che sia davvero morta, tesi che non siamo affatto disposti a sottoscrivere.» «Sergente Kovac, spero che lei abbia una valida spiegazione per la sua condotta.» Greer si diresse verso di lui con aria aggressiva.
Kovac si scostò, concentrando tutta la sua attenzione su Peter Bondurant, il quale ricambiò l'attenzione. Interruppe il suo andirivieni, con una diffidenza istintiva negli occhi socchiusi, come un animale che fiuta il pericolo. «Oggi ho avuto una lunga conversazione con Cheryl Thorton», disse Kovac, accorgendosi subito che Peter Bondurant aveva perso anche quel minimo di colore che aveva sul viso. «Mi ha fornito informazioni molto interessanti sul suo divorzio dalla madre di Jillian.» Edwyn Noble parve sorpreso. «Non vedo questo che rilevanza abbia...» «Oh, penso che potrebbe essere molto rilevante», ribatté Kovac, continuando a fissare Bondurant. «Cheryl è una donna amareggiata e vendicativa.» «E osa affermarlo sapendo che ha tenuto la bocca chiusa per tutti questi anni? Lei è proprio un figlio di puttana...» «Kovac, basta così!» gridò Greer. «Niente affatto», rispose Kovac. «Se vuole leccare il culo a un pedofilo, capo, si accomodi. Io non sono disposto a farlo e me ne infischio se è ricco.» «Oh!» esclamò Grace Noble, portandosi una mano al petto. «Forse ne dovremmo discutere al piano di sotto», suggerì Quinn in tono blando. «Per me va bene», rispose Kovac. «Abbiamo una stanza degli interrogatori bella calda.» Bondurant aveva cominciato a tremare in modo vistoso. «Non ho mai abusato di Jillian.» «Forse lei ne è convinto.» Kovac girò lentamente intorno a lui. «Molti pedofili si autoconvincono di fare un favore al bambino. Alcuni confondono persino le violenze con l'amore. È questo che pensa?» «Bastardo!» Bondurant si lanciò su Kovac, afferrandolo per i risvolti della giacca e spingendolo all'indietro. Travolsero un tavolino, facendo volare in aria un paio di candelabri di bronzo. Kovac riuscì a dominare l'impulso di rotolare addosso all'avversario, schiacciandolo con il suo peso e pestandolo. Dopo quello che aveva appreso, ne aveva una gran voglia e forse lo avrebbe fatto, se si fossero incrociati in un vicolo buio; ma uomini come Bondurant non frequentavano i vicoli bui e la giustizia sommaria non li sfiorava. Bondurant mise a segno una sventola, sbucciandosi le nocche sull'angolo
della bocca di Kovac, poi Quinn lo afferrò per la collottola, allontanandolo. Greer s'interpose fra loro come un arbitro di pugilato, allargando le braccia, con gli occhi che spiccavano bianchi sul viso scuro. «Sergente Kovac, le consiglio di uscire», sbraitò. Kovac si raddrizzò la cravatta e la giacca, asciugandosi il sangue che gli colava dall'angolo della bocca. Fissando Peter Bondurant con un sogghigno, replicò: «Chiedetegli dov'era la notte scorsa, alle due del mattino. Mentre qualcuno dava alle fiamme la macchina di sua figlia con una donna morta e mutilata al posto di guida». «Non la degnerò neanche di un commento», rispose Bondurant, armeggiando con gli occhiali. «Cristo, lei è proprio un lurido bastardo», proruppe Kovac. «Crede che tutto le sia permesso, da abusare di una figlia ad aggredire un funzionario di polizia! Ritiene di potersi permettere un omicidio, se lo desidera?» «Kovac!» gridò Green. Il sergente guardò Quinn, scosse la testa e uscì. Bondurant si liberò con un guizzo dalla stretta di Quinn. «Lo voglio fuori dal caso! Espelletelo dal corpo di polizia!» «Perché fa il proprio lavoro?» ribatté calmo Quinn. «Indagare è il suo mestiere. Quello che scopre non dipende da lui, Peter.» «Ma lui non indaga sul caso!» gridò l'altro, ricominciando il suo andirivieni e gesticolando in modo incontrollabile. «Indaga su di me! Mi molesta. Io ho perso mia figlia, Dio santo!» Edwyn Noble cercò di fermare Bondurant. «Calmati, Peter. A Kovac penseremo noi.» «Io credo invece che dovremmo pensare a quello che ha scoperto, no?» disse Quinn all'avvocato. «Sciocchezze. Sono cose che non riguardano affatto l'indagine.» «Davvero? Eppure Sophie Bondurant era una donna emotivamente instabile. Come mai la corte le ha assegnato la custodia di Jillian? E, soprattutto, perché lei non si è opposto, Peter?» Bondurant continuò a muoversi, agitatissimo; ora sudava ed era tanto pallido al punto che Quinn temette un malore. «Secondo Cheryl Thorton, la ragione per cui non si è opposto è che Sophie minacciava di denunciarla per le molestie a Jillian.» «Non ho mai fatto del male a Jillian. Non ne sarei stato capace.» «Cheryl ha sempre attribuito a Peter la responsabilità dell'incidente capitato a suo marito», spiegò Noble in tono amareggiato. «Non voleva che
Donald vendesse la sua quota della Paragon. Ha punito anche lui per questo, spingendolo a bere. È stata lei a causare l'incidente - indirettamente, è ovvio - ma ne incolpa Peter.» «E finora questa donna amareggiata e vendicativa non ha mai detto una parola a proposito di quei presunti abusi?» ribatté Quinn. «Sarebbe difficile crederlo, se non fosse per i generosi assegni mensili che Peter invia alla clinica di lungo-degenza in cui Donald Thorton trascorre gli ultimi anni di vita.» «C'è chi parlerebbe di generosità», commentò Noble. «E chi di ricatto. Qualcuno potrebbe dire che Peter ha comprato il silenzio di Cheryl Thorton.» «E sarebbe in errore. Donald e Peter erano soci e amici. Per quale motivo lui non dovrebbe provvedere alle sue esigenze?» «Senza dubbio ha provveduto con grande generosità, nell'acquisto della Paragon... che, guarda caso, avvenne all'incirca nello stesso periodo del divorzio», continuò Quinn. «Una generosità che si potrebbe persino definire eccessiva.» «Che cosa avrebbe dovuto fare?» ribatté Noble. «Tentare di rubare la società a chi aveva contribuito a costruirla?» Quinn notò che Bondurant aveva smesso di parlare e ora continuava il suo andirivieni nell'angolo vicino alla finestra, ritraendosi. Lui gli si avvicinò senza parere, invadendo in modo sottile il suo spazio vitale. «Come mai non si è battuto per la custodia di sua figlia, Peter?» gli domandò a bassa voce, come se fosse una domanda intima fra amici. «Dovevo rilevare l'azienda e non potevo occuparmi anche di una bambina.» «E così l'ha lasciata a Sophie, una donna che entrava e usciva dalle cliniche psichiatriche?» «Non era pazza. Sophie aveva dei problemi, come tutti noi.» «Non così gravi da spingere al suicidio.» Gli occhi dell'uomo si riempirono di lacrime, e lui li coprì con la mano, come per sottrarli allo sguardo indagatore di Quinn. «Per quale motivo avete litigato, quella notte, Peter?» Lui scosse appena la testa, muovendosi ora in uno spazio più ristretto. Tre passi avanti, svolta, tre passi indietro, svolta... «Jillian aveva ricevuto una telefonata dal patrigno», disse Quinn. «Lei era in collera.» «Abbiamo già discusso di tutto questo», intervenne spazientito Noble,
cercando chiaramente di frapporsi fra Quinn e il suo cliente. Quinn si girò di lato per escluderlo. «Perché continua a sostenere che Jillian è morta, Peter? Non so se è vero. Io ho qualche dubbio in proposito. Per quale motivo lei lo afferma? Per quale motivo avete litigato, quella notte?» «Perché vuole farmi questo?» mormorò Bondurant, con voce angosciata. Il labbro superiore gli tremava. «Perché dobbiamo appurare la verità, Peter, e io credo che lei nasconda alcune tessere essenziali del puzzle. Se vuole la verità, come afferma, deve darmi quei pezzi, lo capisce? Dobbiamo poter vedere il quadro completo.» Quinn trattenne il fiato. Bondurant era sul punto di cedere. Lo vedeva, lo sentiva. Cercò di spingerlo con la forza della sua volontà a fare l'ultimo passo. Bondurant guardava fuori della finestra, con l'aria stordita. «Volevo soltanto che fossimo padre e figlia...» «Basta così, Peter.» Noble passò davanti a Quinn, prendendo per un braccio il suo cliente. «È ora di andarcene.» Fissò con ira Quinn. «Pensavo che ci fossimo capiti.» «Oh, capisco perfettamente, avvocato Noble. Questo non vuol dire che sia interessato a giocare nella sua squadra. A me interessano soltanto due cose: la verità e la giustizia, e non credo che lei desideri né l'una né l'altra.» Noble non replicò, limitandosi a portare via Bondurant come avrebbe fatto un infermiere con un paziente sotto sedativi. Quinn guardò Grace Noble, che si era finalmente seduta, con un'espressione in parte sbigottita e in parte pensierosa, mentre Greer sembrava un uomo affetto da colite acuta. «È questo il guaio quando si comincia a scavare», disse Quinn. «Non si può mai avere la certezza di trovare ciò che si vuole... o di volere ciò che si trova.» Alle cinque del pomeriggio, in tutte le agenzie di stampa che avevano sede nelle Città Gemelle o vi si erano accampate si faceva il nome di Gil Vanlees. Quinn non aveva dubbi su chi avesse diffuso quella notizia. Gli uomini di Bondurant avevano un tale accesso alle informazioni sul caso da rischiare di inquinarlo. E, alla luce delle rivelazioni fatte da Kovac quel pomeriggio, l'intromissione di Bondurant assumeva connotati ancora più oscuri. Per quanto concerneva la sua, di storia, nessuno l'aveva fatta trapelare
alla stampa, neppure la vendicativa Cheryl Thorton, il cui marito veniva assistito finanziariamente da Peter Bondurant. Si domandò quanto denaro occorreva per tenere a bada tanto rancore per oltre un decennio. Che cosa era successo nella vita di Jillian e dei suoi genitori, si chiedeva, nel momento cruciale del divorzio? Fin dall'inizio, Bondurant gli era sembrato un uomo che nascondeva dei segreti. Segreti sul presente. Segreti sul passato. Segreti oscuri come l'incesto? Per quale altro motivo Sophie avrebbe potuto ottenere la custodia di Jillian, se lei era così instabile e Peter così potente? Tornò a sfogliare il fascicolo sul delitto per esaminare le foto scattate sulla scena. Certi aspetti del delitto sembravano suggerire che l'assassino e la vittima si conoscessero. Ma come conciliare tale conoscenza con la teoria secondo cui l'assassino aveva come partner, una donna? Quello schema non si adattava a Peter Bondurant. E che dire del sospetto che la donna implicata fosse proprio Jillian Bondurant? Una storia di abusi sessuali avrebbe combaciato con il profilo di una donna coinvolta in questo tipo di crimine. Una donna del genere avrebbe avuto una visione distorta delle relazioni fra uomo e donna, dei rapporti sessuali. Era probabile che il partner dominante fosse più anziano e ricordasse in qualche modo una figura paterna. Quinn ripensò a Jillian Bondurant, alla fotografia nell'ufficio del padre. Disturbata sul piano emozionale, con una scarsa autostima, una ragazza infelice che fingeva di essere qualcosa che non era per compiacere l'altro. Fino a che punto si sarebbe spinta per ottenere l'approvazione che tanto desiderava? Pensò al legame con il patrigno, apparentemente consensuale... ma quei rapporti non lo erano mai veramente. I figli hanno bisogno di amore, ed è facile manipolarli facendo leva su tale bisogno. E se Jillian era sfuggita a un rapporto con il padre basato sugli abusi solo per restare coinvolta in un altro simile con il patrigno, ciò non poteva che rafforzare l'idea distorta che aveva dei rapporti con gli uomini. Se Peter aveva abusato di lei... Se Jillian non era una vittima morta, ma una vittima consenziente... Se Gil Vanlees era il suo partner in quel rapporto morboso... Se Gil Vanlees era davvero un assassino... Se, se, se. Vanlees sembrava perfetto per quello schema, se non fosse stato che agli occhi di Quinn non aveva le capacità intellettuali necessarie per farsi beffe
dei poliziotti così a lungo, o il fegato per sostenere il gioco di provocazioni inscenato dal killer. O, almeno, non il Vanlees che aveva visto quel giorno nella stanza degli interrogatori. Ma sapeva per esperienza che gli esseri umani possono avere varie sfaccettature, e che un uomo in grado di uccidere come uccideva il Crematore era capace di tutto, anche di mimetizzarsi bene, molto bene. Tornò a sfogliare il fascicolo, per esaminare le ultime fotografie, quelle dell'autopsia di Melanie Hessler. Come nel caso della terza vittima, le ferite inflitte prima e dopo la morte erano state brutali, di una crudeltà indicibile, peggio che nelle prime due. Guardando le immagini, gli parve di sentire l'eco del nastro. Le urla si sovrapponevano, creando una cacofonia che riempiva i suoi incubi, aumentando sempre più di intensità. Quel caso cominciava a prendergli la mano; lui non riusciva a vederlo con lucidità. I giocatori erano troppo vicini, e con le loro idee e le loro emozioni incidevano sui gelidi fatti che gli occorrevano per l'analisi. Il professionista che era in lui rimpiangeva ancora la distanza del suo ufficio di Quantico; ma, se fosse rimasto là, Kate avrebbe continuato a essere un ricordo del passato. D'impulso afferrò il ricevitore per telefonarle in ufficio, ma al quarto squillo s'inserì la segreteria telefonica. Lasciò di nuovo il suo numero, attaccò e la richiamò a casa, ottenendo lo stesso risultato. Ormai erano le sette. Dove diavolo era? Gli tornò in mente il garage decrepito nel vicolo buio dietro la casa, e si lasciò sfuggire un'imprecazione. Poi rammentò a se stesso, come avrebbe fatto anche lei, che se l'era cavata benissimo senza di lui per cinque anni. In quel momento avrebbe voluto il suo parere, per non parlare di un bacio lungo e lento e di un caldo abbraccio. Invece tornò al fascicolo sul caso, in cerca di quell'elemento che gli era sfuggito e che avrebbe dato un senso al tutto, indicando il colpevole. Riesaminò per l'ennesima volta la foto della vittima numero tre, fissando le ferite sul petto. La firma. Ferita lunga, ferita breve, ferita lunga, ferita breve, come le punte di una stella o i petali di un macabro fiore. M'ama, non m'ama. Croce sul cuore, che io possa morire. Pensò alle voci indistinte sul nastro. «... Gira... fallo...» «... voglio... di me...» Gli riusciva fin troppo facile immaginare gli assassini in piedi ai lati del
corpo caldo e inerte della vittima, ciascuno armato di coltello, ferire a turno il petto della vittima per incidere la loro firma, siglando il patto che li univa. Il solo pensiero avrebbe dovuto farlo inorridire, ma non era lo spettacolo peggiore che avesse mai visto, neanche per sogno. Lo lasciava intorpidito. Ed era questo che gli dava i brividi. Un uomo e una donna. Esaminò le varie possibilità, prendendo in esame le persone legate alle vittime. Gil Vanlees, Bondurant, Lucas Brandt. Gli Urskine... era possibile. La prostituta che si trovava al Phoenix la notte in cui Angie DiMarco era scomparsa, ma sosteneva di non aver visto e sentito niente, e aveva conosciuto anche la seconda vittima. Michelle Fine, l'unica amica di Jillian. Strana e instabile. Segnata... da cicatrici fisiche ed emotive. Senza dubbio una donna che aveva alle spalle una storia lunga e oscura, e priva di un buon alibi per la notte in cui era scomparsa Jillian. Riprese in mano la composizione che gli aveva consegnato, interrogandosi su quelle che aveva tenuto per sé. Outsider Outsider Nel sangue Nelle ossa Non posso avere Quello che voglio Condannata a vagare Tutta sola Fuori Lasciami entrare Voglio un amico Voglio un amante Stai con me Sii il mio ragazzo Sii mio padre
Outsider Nel sangue Nelle ossa Non posso avere Quello che voglio Condannata a vagare Tutta sola fuori JB Un colpetto leggero risuonò alla porta, e Kovac si affacciò senza attendere di essere invitato a farlo. «Non si sente l'odore?» domandò entrando. Si appoggiò alla parete su cui Quinn aveva attaccato i suoi appunti, con il vestito gualcito, il labbro spaccato da un pugno di Peter Bondurant e la cravatta di traverso. «Pollo arrosto.» «L'hanno estromessa», indovinò Quinn. «Mi hanno buttato fuori dalla task force, e tanti saluti. Il mio successore sarà nominato domattina, nel corso di una conferenza stampa.» «Almeno Bondurant non l'ha fatta espellere dalla polizia», disse Quinn. «Stavolta ha esagerato un po' con il ruolo del poliziotto cattivo, Sam.» «Altro che poliziotto cattivo», ribatté disgustato Kovac. «Ero io che parlavo, in quel momento, e pensavo ogni cosa di quello che ho detto. Ne ho piene le tasche di Peter Bondurant, del suo denaro, del suo potere e dei suoi uomini. Quello che mi ha detto Cheryl Thorton mi ha fatto perdere il controllo. Non facevo che pensare a quelle donne di cui nessuno si curava, e a Bondurant che giocava con questo caso come se fosse il suo passatempo personale. Non facevo che pensare a sua figlia e alla vita che avrebbe potuto avere, mentre invece, viva o morta, è fottuta per sempre, grazie a lui.» «A patto che l'abbia molestata davvero. Non sappiamo se quello che ha detto Cheryl Thorton è vero.» «Bondurant paga le spese mediche del marito. Perché dovrebbe sparlare di lui, se non fosse vero?» «Le ha dato l'impressione di credere che Peter abbia ucciso Jillian?» «Non si è spinta fino a questo punto.» Quinn tenne sollevato il foglio con la composizione musicale. «Mi dica che cosa ne pensa. Sembrerebbe indicare che lei è sulla pista giusta.»
Kovac si accigliò leggendo le parole della canzone. «Cristo.» «Può avere un significato sessuale oppure no. Può riferirsi al padre, o al patrigno, oppure non voler dire niente. Voglio parlare ancora con questa Michelle.» Kovac si girò a guardare le fotografie che Quinn aveva fissato alla parete. «Non c'è niente che io detesti di più al mondo dei pedofili. È per questo che non lavoro alla divisione Reati sessuali, anche se hanno un orario migliore. Se mai andassi a lavorarci, finirei in galera.» Scosse la testa, pescando una sigaretta dal taschino. Negli uffici dell'FBI era vietato fumare, ma Quinn lasciò correre. «Io ho una figlia, sa», riprese Kovac, dopo la prima boccata di fumo. «Be', lei non può saperlo. Non lo sa quasi nessuno. È nata dal mio primo matrimonio, che è fallito non appena sono entrato nella polizia. Si chiama Gina, e ora ha sedici anni. Non la vedo mai. La madre si è risposata con una fretta imbarazzante, trasferendosi a Seattle. Qualcun altro le fa da padre.» Guardò di nuovo le foto. «Non sono poi così diverso da Bondurant, vero?» aggiunse con una smorfia. «Cristo, detesto l'ironia della sorte.» «Che cosa farà riguardo al caso?» domandò Quinn. Kovac parve sorpreso dalla domanda. «Continuerò a lavorare per la task force, punto e basta. Me ne infischio di quello che dice il piccolo Dick. Possono nominare chi vogliono, ma il caso è mio e lo dirigo io.» «Il suo tenente non le assegnerà un altro incarico?» «Fowler è dalla mia parte. Mi ha assegnato alla squadra di supporto, con la raccomandazione di restare a testa bassa e bocca chiusa.» «Da quanto tempo la conosce?» «Quanto basta per sapere che non lo farò.» Quinn si lasciò sfuggire una risata stanca. «Sam, lei è un fenomeno.» «Sì, ma non chieda troppo in giro di quale specie.» Kovac sorrise, poi ridivenne serio. «Non è per avere il mio nome sui giornali. Me ne infischio di quello che mi entra in tasca. Non ho mai chiesto promozioni, e non mi aspetto di averne. «Voglio questo sacco di merda», aggiunse con voce dura come l'acciaio. «Avrei dovuto provare questi sentimenti quando ha ucciso Lila White, invece non è stato così. Non che non me ne importasse, ma ha ragione lei: ho seguito la routine, senza scavare a fondo. Incerti del mestiere. Ora siamo arrivati a quota quattro e voglio la testa di Smokey Joe su un vassoio prima che il conto salga ancora.»
Quinn lo ascoltò fino in fondo e annuì. Aveva di fronte a sé un buon poliziotto. Un brav'uomo. E quel caso con ogni probabilità gli avrebbe distrutto la carriera, anche se lui avesse risolto il mistero. Soprattutto se fosse saltato fuori che la soluzione era Peter Bondurant. «Ci sono novità su Vanlees?» gli chiese. «Tippen gli sta addosso. Lo hanno portato alla sede della polizia della contea per interrogarlo sull'amico, il commerciante in articoli di elettronica. Tip dice che per poco non se l'è fatta nei pantaloni.» «Che cosa si sa di questo tale?» «Adler ha controllato il suo sito Web. È specializzato in computer e affini, ma può fornire qualunque genere di apparecchiatura elettronica, quindi non c'è niente di strano se è ben fornito di impianti di registrazione. Vorrei procurarmi un mandato di perquisizione per la casa, ma in tutto lo stato non c'è un solo giudice che sia disposto a firmarlo in base a quello che abbiamo in mano... cioè niente.» «Questo mi preoccupa», ammise Quinn. «Non mi sembra che Gil sia esattamente un'aquila. Sotto molti punti di vista coincide con il profilo, ma Smokey Joe è brillante e audace, mentre Vanlees non è né l'uno né l'altro, il che fa di lui un capro espiatorio perfetto.» Kovac si accasciò su una sedia. «Vanlees è collegato a Jillian, nonché a Peter, e questo non mi piace. Sono ossessionato dall'incubo che Bondurant sia Smokey Joe, solo che nessuno vuole darmi ascolto, così quel figlio di puttana finirà per farla franca. E poi mi dico: 'Sam, sei un idiota. È stato Bondurant a far venire Quinn'. Perché avrebbe dovuto farlo, se l'assassino era lui?» «Per un senso di sfida», rispose lui senza esitare. «Oppure per farsi catturare. In questo caso propenderei per la prima ipotesi. Si sentirebbe al settimo cielo sapendo che sono qui e non posso beccarlo. Ma se Bondurant è Smokey Joe, chi è la sua complice?» «Jillian», suggerì Kovac. «E tutta la storia del suo omicidio è una messinscena.» Quinn scosse la testa. «Non credo. Bondurant crede davvero che la figlia sia morta. Ci crede più di noi. Questa non è una finzione.» «Allora si torna daccapo a Vanlees.» «Oppure agli Urskine. O a qualcun altro che non abbiamo neanche preso in considerazione.» «Certo che lei è di grande aiuto.» «È per questo che mi pagano fior di bigliettoni.»
«Ecco dove finiscono le mie tasse», commentò disgustato Kovac. Quinn si diresse verso la parete di appunti per scorrerli, senza leggerli davvero, ma vedendo soltanto un guazzabuglio di lettere e fatti che s'intrecciavano nella sua mente con le teorie, i volti e i nomi. «Si sa niente di Angie DiMarco?» «Nessuno l'ha vista. Nessuno ha avuto sue notizie. Trasmettiamo la sua foto alla televisione, chiedendo ai cittadini di telefonare se la vedono. Personalmente temo che il ritrovamento del corpo di un'altra in quella macchina, l'altra notte, sia stato solo un rinvio di una conclusione inevitabile. Ma», aggiunse alzandosi faticosamente, «come diceva sempre la mia seconda moglie, sono un inguaribile pessimista.» Sbadigliando, consultò l'orologio. «Bene, GQ, per oggi ho chiuso. E lei? Posso darle un passaggio in albergo.» «Per fare cosa? Dormire? Ho rinunciato al sonno. Incideva sui miei attacchi d'ansia», rispose Quinn, eludendo il suo sguardo. «Grazie, Sam, ma penso che resterò qui ancora un po'.» Kovac lo guardò per qualche istante senza replicare, poi annuì. «Faccia come vuole. Ci vediamo domani. Vuole che passi a prenderla?» «No, grazie.» «Bene. Buona notte.» Il sergente fece per uscire, poi si voltò. «Saluti Kate da parte mia. Se per caso la sente.» Quinn non replicò, ma, dopo che Kovac era uscito, rimase immobile per cinque minuti buoni, pensando che aveva un occhio micidiale. Poi telefonò a Kate. 30 «Sono io, Kate. John. Senti, sono in ufficio. Chiamami, se puoi. Vorrei riesaminare con te alcuni punti che riguardano le vittime. Sentire il tuo parere. Grazie.» Kate fissò il telefono, mentre la comunicazione s'interrompeva e la spia dei messaggi cominciava a lampeggiare. Una parte di lei si sentiva in colpa per non avere risposto, una parte invece era sollevata. Era esausta, stressata, depressa come non si sentiva da anni... e avrebbe voluto sentire intorno a sé le braccia di John Quinn. Proprio per questo non aveva risposto. Aveva paura. L'ufficio era immerso nel silenzio. Lei e Rob erano gli ultimi rimasti al
lavoro in quella sezione. Rob era chiuso nel suo studio, qualche porta più avanti lungo il corridoio, senza dubbio intento a scrivere un lungo e astioso rapporto da inserire nel suo fascicolo personale. Aveva i nervi tesi, dopo ore e ore trascorse ad ascoltare la voce della sua cliente morta che confessava il proprio terrore di dover soffrire ancora, la paura di essere violentata, di essere uccisa, di morire sola, mentre la voce di Kate la rassicurava, promettendole di proteggerla e aiutarla, alimentando in lei un falso senso di sicurezza. Rob aveva insistito per riascoltare i nastri più volte, fermandoli e riavvolgendoli a tratti, rivolgendole più volte le stesse domande, come se tutto quello che facevano avesse qualche importanza. Ai poliziotti non interessava conoscere le inflessioni più sottili del linguaggio di Melanie, ma soltanto sapere se aveva espresso timore nei confronti di qualcuno in particolare, nelle sue ultime settimane di vita. Rob aveva voluto punirla, Kate lo sapeva. Alla fine aveva tirato troppo la corda, e lei si era alzata e si era protesa sul tavolo per spegnere il registratore. «Ti sei fatto valere. Hai avuto la tua vendetta. Ma quando è troppo è troppo», aveva detto a bassa voce. «Non capisco di che cosa parli», le aveva risposto quasi in tono di canzonatura, senza un briciolo di sincerità e senza guardarla negli occhi. «A me piace questo ufficio, Rob. Mi piace la maggior parte delle persone che ci lavorano. Ma sono molto in gamba nel mio lavoro e posso trovarmi un altro posto in men che non si dica. Non accetto che tu cerchi di manipolarmi e di punirmi. «Ora devi scusarmi», aveva aggiunto. «Le ultime ventiquattr'ore sono state le peggiori della mia vita e mi sento sull'orlo di una crisi psicotica, quindi me ne vado a casa. Chiamami, se non vuoi che mi ripresenti al lavoro.» Lui non aveva replicato, o forse lei non l'aveva sentito, tanto era assordante il rombo che le pulsava nelle orecchie. Ogni parvenza di buone maniere e ipocrisia sociale era stata spazzata via, lasciando dietro di sé soltanto emozione allo stato puro. La sentiva ancora scorrere nelle vene, come se dentro di lei si fosse rotta un'arteria vitale. Aveva l'impressione che potesse soffocarla, sommergerla. E non desiderava altro che trovare Quinn e gettarsi fra le sue braccia. Aveva lavorato tanto per rimettere insieme la sua vita, pezzo per pezzo, su nuove basi, e ora quelle fondamenta si rivelavano traballanti. No, peg-
gio: aveva scoperto che erano costruite proprio sulla linea di faglia della sua vita, solo per mascherarla. Non era una donna nuova, non era più forte, era solo una menzogna che aveva ripetuto ogni giorno a se stessa negli ultimi cinque anni: che non aveva bisogno di Quinn per sentirsi completa. Con le lacrime agli occhi, fu assalita da una disperazione che la lasciò dolorante, vuota, sola e spaventata. Dio mio, com'era stanca. Ma inghiottì le lacrime e cominciò come sempre a mettere un piede davanti all'altro. Andare a casa, ricomporsi, bere qualcosa, andare a letto. Domani è un altro giorno. Prese il cappotto, raccolse dalla scrivania il fascicolo di Angie, afferrò la posta, i messaggi e i fax che si erano accumulati nel vassoio durante il giorno, e ficcò tutto alla rinfusa nella valigetta. Poi si voltò per spegnere la lampada da tavolo, ma la sua mano deviò verso gli scaffali per prendere la piccola foto in cornice di Emily. «Mi dispiace, Em», mormorò. Si portò la foto alle labbra per il bacio della buonanotte, poi la ripose nel solito nascondiglio, dove la donna delle pulizie l'avrebbe scovata e rimessa al suo posto. Uscì dall'ufficio, chiudendo la porta a chiave. C'era un aspirapolvere in funzione, nella stanza di fronte alla sua. La porta di Rob Marshall, più avanti, era chiusa. Che fosse ancora lì, a progettare un piano per privarla della liquidazione? Oppure era tornato a casa? Lei non sapeva neppure se aveva una ragazza, o un ragazzo, magari. Nel dipartimento non aveva amici, e Kate non aveva mai socializzato con lui, a parte la festa natalizia di prammatica in ufficio. Ora si chiedeva se lui avesse qualcuno da cui tornare, per lamentarsi di quella strega che lavorava al suo fianco. Finalmente aveva smesso di nevicare, notò imboccando il passaggio verso la rampa della Quarta Strada. Quindici centimetri in tutto, aveva sentito dire. Tirò fuori le chiavi, stringendole nel pugno in modo che la più lunga e acuminata sporgesse fra l'indice e il medio, un'abitudine che aveva preso quando viveva nei sobborghi di Washington. La rampa era bene illuminata, ma a quell'ora di notte non molto frequentata, e affrontarla da sola la innervosiva un po'; tanto più quella sera, dopo tutto quello che era successo. Il fuoristrada sembrava lontano un chilometro. Poi si ritrovò a bordo, con gli sportelli chiusi dalla sicura, il motore acceso, diretta a casa, e gli strati di tensione cominciarono a dissolversi, uno alla volta. Tentò di concentrarsi sul programma destinato a sciogliere i nodi alle spalle: pigiama, un drink, e poi a letto. Forse avrebbe dovuto cambiare le lenzuola.
Entrò nel garage, rammentandosi in ritardo della lampadina fulminata. Imprecando sottovoce, prese la grossa torcia elettrica che teneva nel vano portaoggetti, poi scese dal fuoristrada, con le braccia cariche. L'odore la investì un attimo prima che finisse con un piede nella massa molle. «Oh, merda!» Alla lettera. «Merda!» «Kate?» La voce proveniva dalla direzione della casa e apparteneva a Quinn. «Sono qui dentro!» rispose lei, cercando di destreggiarsi fra valigetta, torcia e borsa. «Che cosa c'è? Ti ho sentita imprecare», disse lui, entrando. «Ho appena messo il piede in un mucchio di merda.» «Cosa... Accidenti, sento l'odore. Dev'essere stato un cane.» Lei accese la torcia, puntandola sul pavimento. «Non può essere stato un cane. La porta era chiusa. Che schifo!» «Si direbbe umana», osservò Quinn. «Dove tieni la pala?» Kate puntò la torcia verso la parete. «Laggiù. Mio Dio, pensi che qualcuno sia entrato nel mio garage e abbia fatto questo?» «Hai una teoria più valida?» «Non riesco proprio a immaginare chi possa averlo fatto.» «È un segno di mancanza di rispetto.» «Questo lo so. Voglio dire, perché a me? Chi, fra le persone di mia conoscenza, farebbe un gesto così strano e primitivo?» «Chi hai fatto infuriare, di recente?» «Il mio capo. Ma non riesco a immaginarlo che si cala i pantaloni nel mio garage. E preferisco non pensarci.» Uscì dal garage zoppicando, appoggiando sul pavimento soltanto la punta dello stivaletto sporco, per non imbrattare ancora di più il garage. «I tuoi clienti sanno dove abiti?» «Se lo sanno, non è certo perché li ho informati io. Hanno il numero telefonico del mio ufficio, che trasferisce le chiamate alla mia segreteria telefonica dopo l'orario di lavoro, e il numero del cellulare per i casi di emergenza, tutto qui. Il mio numero di casa non figura sull'elenco. Non che questo possa impedire a qualcuno di trovarmi; non è troppo difficile, se si sa come fare.» Quinn buttò gli escrementi fuori del garage, a ridosso dello steccato del vicino, poi ripulì la pala su un mucchio di neve, mentre Kate cercava di fare lo stesso con lo stivale.
«Mi sembra la conclusione appropriata per una giornata come questa», brontolò, tornando verso il garage per rimettere a posto la pala. Proiettò tutt'intorno il raggio della torcia per vedere se mancava qualcos'altro. Sembrava di no. «Ti è accaduto qualche episodio strano, negli ultimi tempi?» Lei scoppiò a ridere senza allegria. «Che cosa c'è nella mia vita che non sia strano, negli ultimi tempi?» «Mi riferisco ad atti di vandalismo, telefonate silenziose, posta strana, cose del genere.» «No», rispose lei, poi pensò istintivamente alle tre chiamate della sera prima. Dio, era soltanto la sera prima? Le aveva attribuite ad Angie, e quella le sembrava ancora l'ipotesi più ragionevole. L'idea che qualcuno la molestasse non le era mai passata per la mente e le sembrava ancora improbabile. «Penso che dovresti parcheggiare in strada», le disse Quinn. «Può darsi che sia stato qualcuno di passaggio, o qualche ragazzino in vena di scherzi, ma non si è mai abbastanza prudenti, Kate.» «Lo so. Seguirò il tuo consiglio, a partire da domani. Da quanto tempo sei qui?» «Sono appena arrivato. Ho provato a chiamarti in ufficio e a casa, poi sono venuto in ufficio, ma tu eri già uscita. Così ho preso un taxi. Hai sentito il messaggio?» «Sì, ma era troppo tardi ed ero stanca. È stata una giornata infernale e non vedevo l'ora di andarmene.» Quando entrarono dalla porta di servizio, Thor li accolse con un miagolio indignato. Kate lasciò gli stivali nell'ingresso, posò la valigetta su una sedia di cucina e andò subito verso il frigo per tirare fuori la cena del gatto. «Non mi stavi evitando, per caso?» chiese Quinn. «Forse, un po'.» «Ero preoccupato per te, Kate.» Lei posò sul pavimento la ciotola di cibo, accarezzando il dorso del gatto, poi si raddrizzò con le spalle rivolte a Quinn. Quella piccola frase era bastata a farle salire le lacrime agli occhi, ma non voleva che lui le vedesse, se poteva evitarlo. «Mi spiace», gli disse. «Non sono abituata a sentire qualcuno che si preoccupa per me...» Era la verità, ma la faceva sembrare patetica. Le faceva tornare in mente Melanie Hessler... scomparsa da un'intera settimana senza che nessuno si curasse di sapere perché.
«Era una mia assistita», disse. «Melanie Hessler, la vittima numero quattro. Sono riuscita a perderne due in una sola notte. Non ti sembra un record?» «Oh, Kate.» Quinn si avvicinò, abbracciandola da dietro, avvolgendola con il suo calore e la sua forza. «Perché non mi hai chiamato?» Perché mi spaventa l'idea di avere bisogno di te. Perché ho paura di amarti. «Non potevi farci niente», rispose invece. Lui la obbligò a voltarsi, scostandole i capelli dal viso, ma senza costringerla a guardarlo negli occhi. «Avrei potuto fare questo», mormorò. «Sarei potuto venire ad abbracciarti e tenerti stretta per un po'.» «Non credo che sarebbe stata una buona idea.» «Perché no?» «Perché sei qui per lavorare a un caso. Hai cose più importanti da fare.» «Kate, io ti amo.» «E me lo dici così, come se niente fosse?» «Lo sai che non è vero.» Lei si allontanò, interrompendo il contatto. «So che siamo rimasti cinque anni senza scambiarci una parola, un biglietto, niente. E ora è bastato un giorno e mezzo per innamorarci di nuovo. E fra una settimana te ne andrai. E poi?» esclamò, muovendosi irrequieta, con le mani sui fianchi. «Che cosa devo pensare, secondo te?» «Niente di buono, direi.» Kate si accorse di averlo ferito, anche se non era nelle sue intenzioni, e si rammaricò di essere tanto goffa nel parlare di sentimenti così fragili; ma era fuori allenamento e aveva paura, e la paura rende goffi. «Io penso a tutte le volte che avrei voluto sollevare il ricevitore del telefono, in questi cinque anni, e non l'ho fatto», le disse Quinn. «Ma ora sono qui.» «Per puro caso. Non capisci che cos'è che mi spaventa, John? Se non fosse per questo caso, saresti mai venuto? Mi avresti mai cercata?» «E tu?» «No», rispose lei senza esitare, poi ripeté quella parola con maggiore dolcezza, scuotendo la testa. «No... no... avevo sofferto abbastanza per tutta una vita. Non sarei andata a cercarmi altri guai. Preferisco diventare del tutto insensibile. E tu invece mi fai provare troppe emozioni», aggiunse con la gola stretta. «Troppe. E non so se tutto questo non finirà per dissolversi di nuovo.»
«No, no.» Lui la prese per le braccia, trattenendola di fronte a sé. «Guardami, Kate.» Lei non voleva, non osava. Avrebbe dato qualunque cosa per non essere lì, di fronte a lui, con gli occhi pieni di lacrime. «Kate, guardami. Quello che avremmo fatto non conta. Quello che conta è che ora siamo qui. Quello che conta è che proviamo esattamente gli stessi sentimenti di allora. Quello che conta è che fare l'amore con te, stamattina, è stata la cosa più naturale e più perfetta del mondo... come se non ci fossimo mai separati. Ecco che cosa conta. Tutto il resto è niente. «Ti amo», mormorò. «Ecco che cosa conta. E tu, mi ami?» Lei annuì, a testa bassa, come se si vergognasse ad ammetterlo. «Ti ho sempre amato.» «L'essenziale è questo», sussurrò Quinn. «Tutti gli altri problemi sono irrilevanti. Da quando te ne sei andata, Kate, la mia vita è vuota. Ho tentato di riempire quel vuoto con il lavoro, ma il lavoro non ha fatto che divorarmi, e il vuoto è diventato ancora più grande, mentre io continuavo a scavare come se fossi impazzito, nel tentativo di riempirlo. Da qualche tempo ho la sensazione che non mi sia rimasto niente. Ne attribuivo la colpa al lavoro, pensando di aver dato via tanto di me da non sapere più chi sono. Ma quando sono con te so benissimo chi sono, Kate. Ecco che cosa mi mancava, in tutto questo tempo: la parte di me che avevo dato a te.» Kate lo fissò, comprendendo che diceva la verità. Quinn poteva essere un camaleonte quando si trattava di lavoro, cambiando colore a volontà pur di ottenere il risultato che voleva, ma nel loro rapporto era sempre stato onesto con lei, almeno prima della fine, quando entrambi avevano indossato una corazza per proteggere il proprio cuore ferito. E sapeva quanto gli era costato aprirsi così. La vulnerabilità non si addiceva a John Quinn. Lei stessa cercava di evitarla, per quanto era possibile, anche se in quel momento la sentiva premere alle porte. «Scegliamo sempre il momento meno adatto, lo hai notato?» esclamò, strappandogli un lieve sorriso. Lui la conosceva abbastanza per capire che con quella battuta cercava di attenuare la tensione. Un segno sottile che non era pronta, che in quel momento non aveva la forza di affrontare la situazione. «Oh, non so», le disse, allentando la stretta. «Io penso che in questo momento tu hai bisogno di essere abbracciata, e io ho bisogno di abbracciarti, quindi non mi pare tanto male.» «Già, penso di sì.» Gli posò la testa sulla spalla. Rassegnata, fu la parola
che le venne in mente, ma non resistette. Era troppo stanca, e aveva davvero bisogno di essere abbracciata. «Baciami», le sussurrò lui. Kate alzò la testa, invitando Quinn a posare le labbra sulle sue e schiudendole. Come in ogni bacio che si scambiavano, provò una sensazione di crescente calore, un senso di eccitazione, ma anche di appagamento, che nasceva dal profondo dell'anima. Una sensazione di completezza. «Ho bisogno di te, Kate», mormorò Quinn, sfiorandole la guancia con le labbra fino a raggiungere l'orecchio. «Sì», rispose lei in un sussurro, mentre il desiderio si destava in lei con l'impeto delle onde che martellano le rocce. Lui la baciò di nuovo, più a fondo, con maggiore intensità e calore, lasciando briglia sciolta alla passione che lo divorava. Kate la sentì nei muscoli, nel calore del suo corpo; ne avvertì il sapore sulle labbra. Interrompendo il bacio, Quinn si scostò per fissarla con occhi duri, luminosi e oscuri, le labbra appena socchiuse. Respirava in modo affannoso. «Mio Dio, Kate, come ti desidero.» Kate lo prese per mano, guidandolo nel corridoio. Ai piedi delle scale, Quinn l'attirò di nuovo a sé per un altro bacio, ancora più caldo e profondo, ancora più urgente. La spinse contro la parete, afferrando con le mani l'orlo del maglione nero e sollevandolo per lasciare la sua pelle esposta all'aria e alle carezze. Lei ansimò quando lui scostò il reggiseno per chiudere la mano sul turgore del suo seno. Non aveva importanza dove si trovavano. Non aveva importanza che chiunque passava di lì potesse vederli attraverso i pannelli di vetro della porta. Il desiderio che provava per lui annullava ogni preoccupazione razionale. Esisteva soltanto quell'esigenza primitiva e impetuosa. Gemette di piacere, quando sentì la bocca di Quinn chiudersi su un capezzolo. Gli cullò la testa fra le mani, inarcandosi sotto quella carezza. Si scostò appena dalla parete con il bacino, quando lui spinse verso l'alto la corta gonna di maglia, abbassando il collant nero. E tutt'a un tratto non vi furono più né il caso né il passato, nient'altro che il desiderio e la sensazione delle dita che esploravano la sua femminilità, accarezzandola, trovando i punti più sensibili, insinuandosi dentro di lei. «John! Oh, John», mormorò, affondandogli le dita nelle spalle. «Ti voglio. Ti voglio adesso.» Lui si rizzò e la baciò due volte, in fretta, con le labbra dure, guardando prima verso le scale e poi alle sue spalle, verso la porta aperta dello studio,
dove la lampada da tavolo diffondeva una luce ambrata che sfiorava appena il vecchio divano di cuoio. Un attimo dopo erano vicini al divano, Quinn impegnato a sfilarle il maglione dalla testa, Kate alle prese con la sua cravatta. Bastarono pochi movimenti e gli abiti finirono sul pavimento, dimenticati. Si lasciarono cadere avvinti sul divano, trattenendo il fiato nel contatto con il cuoio freddo. Poi anche quella sensazione fu dimenticata, consumata dal calore dei loro corpi e dalla fiamma della passione. Kate serrò le lunghe gambe intorno al corpo di Quinn, accogliendolo dentro di sé con un solo movimento fluido. Si muovevano all'unisono come danzatori, completandosi a vicenda in modo perfetto, mentre la passione si espandeva come una possente sinfonia, sfociando in un travolgente crescendo. Infine raggiunsero l'apice e precipitarono in caduta libera, tenendosi stretti, mormorandosi parole di conforto e rassicurazione. «Non lo facevo su questo divano da quando avevo diciassette anni», confessò più tardi Kate, sottovoce, guardandolo negli occhi al riverbero della lampada. Erano distesi sul fianco, stretti stretti, quasi naso contro naso. Quinn le rivolse un sorriso feroce, da squalo. «Dimmi come si chiamava lui, così posso andare ad ammazzarlo.» «Il mio uomo delle caverne!» «Con te lo sono. Lo sono sempre stato.» Kate non fece commenti, anche se la sua mente corse subito alla sgradevole scenata che aveva fatto Steven affrontando lei e John in ufficio e scegliendo le armi che sapeva usare meglio: parole crudeli e minacce. Quinn aveva sopportato colpo su colpo, finché Steven non se l'era presa con lei. Dopo un'operazione al naso e alcune protesi dentistiche, il marito aveva trasferito la guerra su un altro terreno, facendo del suo meglio per rovinare la carriera di entrambi. Quinn le sollevò il mento con un dito per guardarla negli occhi. Sapeva esattamente che cosa stava ricordando. «Smettila», le ordinò. «Lo so. Il presente è già abbastanza ingarbugliato. Perché rievocare il passato?» Lui le accarezzò la guancia con un dito baciandola dolcemente, come per sigillare con quel gesto la porta del passato. «Ti amo, adesso, nel presente, sia pure ingarbugliato com'è.» «E pensare che due settimane fa non avevo niente a che fare con questo
caso. Oggi ho già perso due clienti.» «Non puoi biasimarti per questo, Kate.» «Certo che posso. Sono pur sempre io.» «Volere è potere.» «Ma io non voglio», protestò Kate. «Se solo avessi chiamato Melanie lunedì, come facevo sempre! Se non fossi stata tanto presa da Angie, mi sarei messa in allarme per non averla trovata. Ormai dipendeva da me, sul piano emotivo. Era come se fossi la sua rete di sicurezza. So che può sembrare strano, ma vorrei almeno essermi preoccupata per lei. Il pensiero che sia finita in un incubo del genere senza che nessuno la cercasse, si chiedesse dov'era, fosse in ansia per lei... è troppo triste.» Quinn la strinse forte, baciandola sui capelli e pensando che aveva un cuore tenero come il burro, sotto l'armatura. «Non avresti potuto impedirlo», le disse. «Ma forse puoi aiutarla adesso.» «In che modo? Rivivendo tutte le conversazioni con lei nel tentativo di scovare indizi su un delitto di cui non poteva prevedere di diventare la vittima? È così che ho trascorso tutto il pomeriggio.» «Non hai ricavato nulla dai nastri?» «Ansia e depressione, culminate in una lite con Rob Marshall, che potrebbe costringermi presto a cercare un altro lavoro.» «Stai tirando troppo la corda, Kate.» «Lo so, ma non posso farci niente. È come se lui sapesse stuzzicarmi esattamente nel punto sbagliato. Che cosa vuoi che faccia? Potrei iniziare una nuova carriera?» «Rientra per un momento in quella vecchia. Ti ho portato le copie dei profili delle vittime. Continuo ad avere la sensazione di avere sotto gli occhi la chiave del caso senza riuscire a vederla. Ho bisogno di occhi nuovi.» «Hai a tua disposizione tutte le risorse del CASKU e dell'Unità di scienze comportamentali. Perché io?» «Perché ne hai bisogno», replicò lui con sincerità. «Ti conosco, Kate. Tu hai bisogno di fare qualcosa, e sei qualificata quanto chiunque altro nel Bureau. Ho spedito tutto il materiale a Quantico, ma tu sei qui e ho fiducia in te. Vuoi dare un'occhiata?» «D'accordo», rispose lei, esattamente per la ragione che aveva indicato lui: perché ne aveva bisogno. «Ma dammi il tempo di vestirmi.» «Lo sapevo che c'era uno svantaggio.» Kate gli rivolse un sorriso malizioso, prima di avvicinarsi alla scrivania,
dove lampeggiava la spia rossa della segreteria telefonica. Era una visione di sogno, sotto la luce ambrata della lampada, con i capelli rosso fiamma e la curva scultorea del dorso. Quinn si sentì incredibilmente fortunato ad avere una seconda occasione. Dalla macchina scaturì una voce petulante. «Kate, sono David Willis. Ho bisogno di parlare con lei...» Kate premette il pulsante per passare al messaggio successivo. «Se fossero tutti come lui, mi cercherei un posto di commessa al supermercato.» Il messaggio successivo era della responsabile di un gruppo di donne d'affari, che la invitava a parlare in occasione di un convegno. Il terzo era costituito da un lungo silenzio. Kate incontrò lo sguardo serio di Quinn. «Ieri sera ne ho sentite un paio così, ma credevo fosse Angie. O meglio, volevo illudermi che fosse così.» Poteva essere chi teneva prigioniera Angie, pensò Quinn: Smokey Joe. «Dobbiamo mettere sotto controllo il tuo telefono, Kate. Se ha in mano Angie, ha il tuo numero.» Si accorse che non le era venuto in mente, ma del resto Kate non si sarebbe mai considerata una possibile vittima. Era forte, responsabile, padrona della situazione: ma non invulnerabile. Ancora nudo, si alzò dal divano per raggiungerla e abbracciarla «Dio, che incubo», mormorò lei. «Pensi che possa essere ancora viva?» «Certamente», rispose lui, perché sapeva che Kate aveva bisogno di sentirselo dire. Ma sapeva pure che si rendeva conto quanto lui delle spaventose prospettive che quella possibilità schiudeva alla fantasia. Poteva darsi che Angie DiMarco fosse ancora viva, ma che fosse di gran lunga auspicabile saperla morta. Sono morta Il desiderio ardente Mi fa andare avanti Mi fa sperare Mi vorrà? Mi prenderà? Mi farà soffrire? Mi amerà? Le parole lo torturavano. La musica gli attanagliava i sensi. Eppure continuava ad ascoltare il nastro. Lasciandosi ferire solo perché aveva bisogno
di sentire qualcosa. Peter era seduto nello studio con le luci spente, accontentandosi del tenue chiarore che filtrava dalla finestra, sufficiente appena per trasformare il nero in antracite, il grigio in cenere. L'ansia, il senso di colpa, la nostalgia, il dolore, il desiderio, tutte emozioni che riusciva a stento ad afferrare -mai a esprimere - erano intrappolate dentro di lui, creando una pressione tale da fargli pensare che il suo corpo fosse sul punto di esplodere, senza lasciare altro che frammenti di tessuti e capelli incollati alle pareti e al soffitto e alle foto che lo ritraevano con le persone che aveva giudicato importanti nell'ultimo decennio della sua vita. Si domandò se qualcosa di lui sarebbe arrivato a lambire le foto di Jillie, riunite in un angolino della parete. Non in vista, per non attirare l'attenzione. Per un sottile senso di vergogna... di lei, del proprio fallimento, dei propri errori. ... Dobbiamo appurare la verità, Peter, e io credo che lei nasconda alcune tessere essenziali del puzzle... Dobbiamo poter vedere il quadro completo. Pezzi oscuri di un quadro inquietante che non voleva far vedere a nessuno. L'ondata di vergogna e di rabbia gli scorreva come acido nelle vene. Lo squillo del telefono gli parve un rasoio che incidesse i nervi scossi. Sollevò il ricevitore, gli tremava la mano. «Pronto?» «Pa-pà, pa-pà, pa-pà», cantilenava la voce, come una sirena. «Vieni a trovarmi. Vieni a darmi quello che voglio. Sai quello che voglio, e lo voglio adesso.» Lui inghiottì a fatica la bile che aveva in gola. «Se lo farò, mi lascerai in pace?» «Paparino, non mi vuoi bene?» «Ti prego», mormorò lui. «Ti darò quello che vuoi.» «Allora non mi vorrai più. Quello che ho in serbo per te non ti piacerà. Ma verrai lo stesso. Verrai per me. Dimmi che verrai.» «Sì», rispose in un soffio. Quando attaccò, piangeva, lacrime che bruciavano le ciglia, scottavano le guance, annebbiavano la vista. Aprì il cassetto in basso a destra della scrivania, estrasse una semiautomatica Glock da nove millimetri, di un nero opaco, e la fece scivolare nella borsa di tela nera che aveva ai piedi. Poi uscì dallo studio, portando con sé la borsa pesante, uscendo di casa e allon-
tanandosi in auto nella notte. 31 «Qual è il tuo lavoro ideale?» disse Elwood. «Consulente tecnico per un film poliziesco, ambientato alle Hawaii, con Mel Gibson come protagonista», rispose Liska senza esitare. «Accendi il motore. Ho freddo.» Rabbrividì, infilando le mani nelle tasche del cappotto. Erano fermi nel parcheggio riservato ai dipendenti del centro commerciale Target, con l'incarico di sorvegliare il fuoristrada di Gil Vanlees. I giornalisti giravano intorno all'isolato o sostavano nei numerosi piccoli parcheggi sparsi nei dintorni, in attesa. Si erano incollati a Vanlees come piattole da quando era stato fatto il suo nome in rapporto all'omicidio di Jillian Bondurant. La radio crepitò. «Viene dalla vostra parte, Elwood.» «Roger.» Elwood chiuse il collegamento, riprendendo a mangiare un sandwich. L'interno della macchina odorava di burro di arachidi. «Mel Gibson è sposato e ha sei figli.» «Nella mia fantasia no. Eccolo che arriva.» Vanlees uscì dal cancello con un'andatura stanca. Una mezza dozzina di giornalisti gli piombò addosso come un nugolo di moscerini. Elwood abbassò il finestrino per sentire che cosa diceva, ma Vanlees non aprì bocca. Avanzava senza fermarsi, avendo imparato in fretta quella tecnica di sopravvivenza. Quando fu davanti a loro, Elwood girò la chiave dell'accensione e avviò il motore. Vanlees sussultò, scartando di lato e affrettandosi a raggiungere il suo automezzo. «Un individuo nervoso e asociale», commentò Elwood, mentre si accodavano a Vanlees che aspettava di immettersi sulla Prima Avenue e scattavano all'inseguimento, tra frenate e colpi di clacson. Rimasero incollati al furgoncino, percorrendo il labirinto di strade che li separavano da Lyndale. Elwood lanciò un'occhiata allo specchietto e imprecò. «Sembra un corteo funebre. Dietro di noi ci saranno almeno nove automezzi pieni di giornalisti.» «Il lavoro di polizia non è più divertente come una volta.» «Che ne pensi, Tinks? Sarà lui, oppure si ricomincia daccapo con gli attentati, come alle Olimpiadi?»
«Corrisponde al profilo. Nasconde qualcosa.» «Non per questo dev'essere un assassino. Tutti nascondono qualcosa.» «Mi sarebbe piaciuto poter appurare che cosa nasconde, senza un nugolo di giornalisti alle calcagna. Sarebbe un idiota a tentare qualcosa adesso.» «Può darsi che non ci restino alle costole a lungo», ribatté Elwood, controllando di nuovo lo specchietto retrovisore. «Guarda questo figlio di puttana!» Una vecchia Mustang familiare si affiancò a loro sulla sinistra, con due uomini sul sedile anteriore, tutti con gli occhi fissi sul furgoncino di Vanlees. «Che idioti», commentò Liska. «Probabilmente pensano che siamo della concorrenza.» La Mustang accelerò, superandoli e affiancandosi a Vanlees, mentre il finestrino dalla parte del passeggero si abbassava. «Figlio di puttana!» gridò Elwood: Vanlees aumentò la velocità, ma l'auto rimase al suo fianco. Liska afferrò la radio per trasmettere la loro posizione, chiedendo rinforzi e segnalando il numero di targa della Mustang. Elwood prese dal sedile la luce girevole e l'applicò alla base, accendendola. Davanti a loro, il passeggero a bordo dell'auto si protendeva dal finestrino con un teleobiettivo. Vanlees scattò in avanti a tutta velocità, ma l'auto non mollò la presa. Il flash fu luminoso, accecante. Il furgoncino di Vanlees sterzò verso la Mustang, che finì in testacoda sulla corsia opposta proprio sulla traiettoria di un taxi in arrivo. Né l'una né l'altra auto ebbero il tempo di cambiare bruscamente direzione o di inchiodare i freni; si udì soltanto lo schianto spaventoso della collisione fra tonnellate di metallo. Al momento dell'impatto il fotografo fu scagliato lontano e rotolò sulla strada come un fantoccio di pezza lanciato da un finestrino, mentre la Mustang veniva avvolta da una sfera di fuoco. Liska vide tutto al rallentatore: lo scontro, l'incendio, il furgoncino di Vanlees che finiva contro il marciapiede con una ruota divelta, abbattendo un parchimetro con il paraurti anteriore. Poi il tempo tornò alla velocità normale ed Elwood superò il fuoristrada per tagliargli ogni via di fuga, piazzandosi di traverso rispetto alla cordonatura del marciapiede. Mise il motore in folle e scese, mentre Liska afferrava tremando il microfono della radio chiedendo l'intervento di un'ambulanza e di un'autopompa dei vigili del fuoco. Alcuni degli automezzi che li avevano tallonati si fermarono ai lati della
strada, altri sfrecciarono via, costringendo Elwood a schivarli mentre correva verso il relitto in fiamme. Liska aprì lo sportello per raggiungere Vanlees che stava scendendo dal posto di guida. Già da mezzo metro di distanza si sentiva l'odore del whiskey nel suo alito. «Non sono stato io!» gridò l'uomo, singhiozzando. I flash lampeggiavano come luci stroboscopiche, illuminandogli in pieno il viso. Gli colava il sangue dal naso e dalla bocca, che doveva avere sbattuto contro il volante. Alzò le braccia per non restare abbagliato, rovinando le foto. «Dannazione, lasciatemi in pace!» «Non credo proprio, Gil», ribatté Liska, prendendolo per il braccio. «Alzi le mani e le appoggi alla vettura. La dichiaro in arresto.» «Ora capisco come fanno crollare le spie privandole del sonno», dichiarò Kovac, dirigendosi a lunghe falcate verso il fuoristrada di Vanlees, ancora di traverso sul marciapiede. «Sono disposto a farmi trasferire in archivio, pur di dormire un po'.» Liska lo fulminò con lo sguardo. «Prova a ripeterlo quando avrai un frugoletto di nove anni che ti guarda con gli occhioni blu pieni di lacrime e ti chiede come mai non sei andata alla recita del Ringraziamento della sua scuola, dove lui interpretava la parte di uno dei Pellegrini del Mayflower.» «Cristo, Tinks», brontolò lui, con un'espressione di scusa. «Non dovremmo avere l'autorizzazione a riprodurci.» «Vallo a dire alle mie ovaie. Comunque, che diavolo ci fai, qui?» domandò, allontanandolo dal giornalisti. «Stai cercando di farti licenziare del tutto? Dovresti restare in disparte.» «Ti ho portato il caffè», rispose, porgendole un bicchiere di plastica fumante. Il ritratto dell'innocenza. «Cerco solo di fare da supporto alla prima squadra.» Parlando, lasciò vagare lo sguardo verso l'automezzo di Vanlees, circondato da poliziotti in uniforme e tecnici della Scientifica che si preparavano a eseguire tutti i controlli. «Si sa qualcosa del tuo successore?» domandò Liska. «Ho messo una parola buona per te con Fowler.» Lei parve sorpresa. «Accidenti, Sam, grazie. Pensi che ti daranno ascolto?» «Neanche per sogno. Io punterei su Yurek, perché si lascia intimorire. Allora, che novità ci sono, qui?» «Vanlees e stato portato in ospedale per un controllo medico, prima di
essere trasferito alla centrale. Credo che si sia rotto il naso. A parte lui, abbiamo un morto, un ferito in prognosi riservata e un altro in condizioni discrete.» «Come sta Elwood?» «Si è ustionato seriamente le mani cercando di estrarre il conducente dalla macchina in fiamme ed è pure lui in ospedale. Si è bruciato anche le sopracciglia. Così conciato, ha un'aria da cretino.» «Ce l'aveva già in partenza.» «Vanlees ha fatto registrare 0,08 alla prova del palloncino. Buon per noi, così ho potuto sequestrare il furgoncino. Sarà necessario inventariare tutto il contenuto», aggiunse con un'aria di falsa innocenza. «Chissà che cosa potremmo trovare.» «Speriamo che ci sia un coltello insanguinato sotto il sedile», disse Kovac. «Sembra abbastanza stupido da fare una cosa del genere, no? Cristo, che freddo! E dire che non è ancora la festa del Ringraziamento.» «Bingo!» gridò uno dei tecnici della Scientifica. Kovac scattò subito in avanti. «Che c'è? Che cosa avete trovato? Ditemi che c'è del sangue sopra.» Il tecnico, che era una donna, si scostò dalla portiera del posto di guida. «Il kit economico di autogratificazione», annunciò, sollevando in aria una copia di Hustler e un paio di mutandine da donna di seta nera. «Inventariate tutto. Forse abbiamo la chiave per entrare nella testa di quel bastardo.» «Che speranze ci sono di ottenere un mandato per perquisire la casa di Vanlees?» chiese Quinn, togliendosi il trench. Portava la stessa camicia della sera prima, notò Kovac. «In base agli elementi che abbiamo in mano, neanche una», rispose. «Neppure il nome di Peter Bondurant potrebbe smuovere le acque. Abbiamo setacciato quel furgone centimetro per centimetro, senza trovare niente che lo colleghi direttamente a una delle vittime. Potremmo avere fortuna con le mutandine... fra qualche settimana, quando saranno completati i test sul DNA. Per il momento non possiamo neanche effettuarli, perché le mutandine fanno parte del materiale inventariato di sua proprietà. Non sappiamo di chi fossero, non possiamo dire che le abbia rubate, e masturbarsi non è reato.» «Sentito, Tippen?» esclamò Liska. «Non hai niente da temere.» «Ho sentito dire che quelle erano le tue mutandine, Tinks.»
«Perché, Tinks porta le mutandine?» disse Adler. «Molto spiritoso.» In una sala per le conferenze del dipartimento di polizia erano riuniti tutti i componenti della task force tranne Elwood, che si era rifiutato di tornare a casa e ora si trovava nella stanza degli interrogatori insieme con Vanlees. «Perché non è stato tanto idiota da tenere un coltello insanguinato sotto il sedile?» proruppe Adler. «Sembra il tipo capace di farlo.» «Sì», ammise Quinn. «È questo che mi preoccupa. Non abbiamo a che fare con un cervellone, qui, a meno che non abbia una personalità multipla e uno dei suoi alter ego tenga il cervello tutto per sé. Che cosa sappiamo del suo passato, a parte i precedenti penali più recenti?» «Sto controllando», rispose Walsh. «Nikki e io abbiamo parlato con la moglie», disse Moss. «Devo vedere se è disposta a venire?» «Sì, per favore», rispose Quinn. «Se il marito è un maniaco pervertito, lei dovrebbe saperlo», osservò Tippen. «Non è detto», ribatté Quinn. «A quanto pare, nel loro rapporto era lei il partner dominante, quindi è probabile che lui le abbia tenuto nascosto il suo hobby, in parte per paura, in parte per sfida. Ma se ha una partner femminile, e riteniamo di sì, chi può essere? La moglie è pulita?» «Sì, la moglie è pulita. Jillian?» azzardò Liska. «È possibile. La moglie ha alluso al fatto che lui avesse una ragazza?» «No.» Quinn guardò l'orologio. Voleva far aspettare Vanlees quanto bastava per innervosirlo. «Si sa qualcosa sulle impronte di Michelle Fine?» «Niente nel Minnesota.» «Vanlees si è procurato un avvocato?» «Non ancora», rispose Liska. «Il suo ragionamento fila. Dice che non chiama un avvocato perché un uomo innocente non ne ha bisogno. Gli ho spiegato che dovevamo aspettare di capire che cosa era successo prima di accusarlo di omicidio colposo, ma in ogni caso dovevamo trattenerlo per avere guidato in stato di ubriachezza. Non riesce a decidere se deve sentirsi sollevato o deluso.» «Mettiamoci al lavoro, prima che si decida», disse Quinn. «Sam... soltanto lei, Tinks e io. Lo lavoriamo come prima.» «Se fossi in te non lo farei, Sam», lo ammonì Yurek. «Fowler, il capo
Greer, Sabin e il viceprocuratore Logan sono tutti lì a osservare.» «Che si fottano!» ribatté Kovac con profondo disgusto. Liska lo guardò con un sopracciglio inarcato. «Continueresti a rispettarmi anche dopo?» «Perché, ora ti rispetto?» Lei gli assestò un calcio nello stinco. «Yurek», aggiunse Kovac fra i denti, «se tu fossi in me, non saresti in questo casino.» Greer, Sabin, Logan e Fowler erano tutti nel corridoio davanti alla stanza degli interrogatori, in attesa. Vedendo Kovac, Fowler boccheggiò come chi è assalito da un attacco di angina, mentre Greer sbarrò gli occhi. «Lei che cosa ci fa, qui, sergente?» esclamò. «È stato allontanato ufficialmente dalla task force.» «È qui su mia richiesta», spiegò Quinn con calma. «Abbiamo già instaurato un certo rapporto con Vanlees, e non voglio cambiare procedura proprio in questo momento. Ho bisogno che abbia fiducia in me.» Greer e Sabin apparivano contrariati, mentre Logan era spazientito, ma Quinn passò oltre prima che qualcuno pensasse a mettere in discussione la sua decisione. Tenne la porta aperta a Liska e Kovac, poi li seguì all'interno. Gil Vanlees sembrava un procione gigante, con gli occhi neri a causa dei postumi dell'incidente, il labbro spaccato e una grossa striscia di cerotto sul naso. Era in piedi a un'estremità della stanza, con le mani sui fianchi. Elwood era seduto con le spalle alla parete e le mani bendate. Il viso era rosso per le ustioni; senza sopracciglia, aveva un'aria di perenne stupore. «Ho sentito dire che hai avuto un incidente, Gil», disse Kovac, sedendosi al tavolo. Vanlees gli puntò un dito contro. «Sporgerò querela. Voi altri mi avete molestato, avete permesso alla stampa di molestarmi...» «Ti sei messo al volante con una bottiglia di whiskey in corpo», ribatté Kovac. «L'ho acquistata io? Te l'ho versata in gola?» «Voi mi avete lasciato salire in auto», contrattaccò Vanlees con la virtuosa indignazione di un uomo abituato a scaricare ogni responsabilità sugli altri. «Fra poco mi dirai che è tutta colpa mia se hai ucciso Jillian Bondurant e tutte quelle altre donne.» Vanlees arrossì, con gli occhi pieni di lacrime. «Non sono stato io.» Poi
si rivolse a Liska. «Lei mi aveva detto che si trattava solo dell'incidente. Piccola bugiarda schifosa!» «Ehi!» ringhiò Kovac. «Il sergente Liska ti sta facendo un favore. Ieri sera hai ucciso un uomo, fottuto ubriacone.» «Non è stata colpa mia! Quel figlio di puttana mi ha sparato un flash in faccia! Non ci vedevo più!» «È quanto afferma anche il sergente Liska. Lei era presente, è la nostra testimone. Vuoi insultarla ancora?» Vanlees la guardò con aria contrita. «Liska dice che sei innocente come una vergine vestale», continuò Kovac, «e che non vuoi un avvocato. È vero?» «Non ho fatto niente di male», rispose lui immusonito. «Certo che hai un concetto piuttosto elastico della realtà, vero, Gil? Ti abbiamo inchiodato per guida in stato di ubriachezza, e questo per la legge è grave. Per giunta, so che spiavi Jillian Bondurant dalle finestre, e questo è ancora più grave.» Vanlees si sedette, con la sedia disposta di fianco al tavolo, in modo da voltare le spalle a Kovac e agli altri che guardavano dalla parte opposta del falso specchio. Era seduto a testa bassa, con le braccia appoggiate sulle cosce, e sembrava pronto a restare così per tutta la notte senza dire una parola di più. Quinn lo studiò. In base alla sua esperienza, non era l'innocente a rifiutare l'assistenza di un legale, ma l'uomo che aveva qualcosa sulla coscienza e voleva liberarsene. «Allora, quelle mutandine che abbiamo trovato sotto il sedile di guida erano di Jillian, vero?» domandò Kovac, in tono brusco. Vanlees rimase a testa bassa. «No.» «Di Lila White? Di Fawn Pierce? Di Melanie Hessler?» «No, no, no.» «Be', a prima vista non l'avrei detto, ma sei un individuo complesso, Gil. A più strati... come una cipolla. E ogni strato che tolgo manda un tanfo peggiore del precedente. Sembri un tipo qualunque, poi si leva uno strato e - oh! - tua moglie ti lascia. Non che questo sia tanto insolito. Persino io ci sono cascato un paio di volte. Togliamo un altro strato e, sorpresa! Ti lascia perché sei un guardone! No, aspetta, non sei un semplice guardone, ma un esibizionista! Di male in peggio. Sei un ubriacone, anzi, un ubriacone al volante. Un ubriacone che guida e provoca la morte di qualcuno.» Vanlees abbassò ancora di più la testa. Quinn si accorse che il labbro
gonfio gli tremava. «Non ne avevo l'intenzione. Non ci vedevo», disse Vanlees. «Non mi lasciano in pace. È colpa loro. Io non ho fatto niente.» «Vogliono sapere che cosa è successo a Jillian», disse Kovac. «E voglio saperlo anch'io. Penso che fra voi due ci fosse qualcosa di più di quello che ci hai raccontato, Gil. Penso che tu avessi i bollori per lei. Penso che la spiassi. Penso che tu abbia rubato quelle mutandine dal cassettone per masturbarti con quelle fantasticando su di lei, e intendo provarlo. Sappiamo già che le mutandine sono della sua misura, della sua marca», disse bluffando. «È solo questione di tempo prima che arrivino i test sul DNA. Qualche settimana. È meglio che ti abitui a questi giornalisti, perché ti staranno sempre addosso, come mosche su una carogna.» Ora Vanlees piangeva, in silenzio, lasciando scorrere le lacrime sul dorso delle mani. Quinn guardò Kovac. «Sergente, vorrei restare per qualche minuto da solo con il signor Vanlees.» «Oh, certo, come se non avessi di meglio da fare», si lamentò Kovac, alzandosi. «Lo so come va a finire, Quinn. Voi federali volete il caso tutto per voi.» «Voglio soltanto dirgli due parole.» Quinn non parlò finché i poliziotti non furono usciti, e anche allora rimase in silenzio a lungo. Si sedette con calma in direzione perpendicolare a Vanlees, proteso in avanti, e rimase immobile per qualche istante, finché l'altro non lo guardò. «Adesso ricomincia con quella storia del poliziotto buono e di quello cattivo», disse Vanlees, immusonito. «Mi ritiene un idiota.» «Credo che lei guardi troppo la televisione», ribatté Quinn. «Questo è il mondo reale, Gil. Il sergente Kovac e io abbiamo interessi diversi. Lei sa che cosa interessa a me, vero? Mi conosce. Mi ha già letto dentro.» Vanlees non disse niente. «La verità e la giustizia, tutto qui. E non m'importa quale possa essere la verità. Per me non è un fatto personale. Per Kovac è tutto personale. Non la può vedere, mentre io voglio soltanto appurare la verità, Gil. Ho l'impressione che lei abbia un grosso peso sullo stomaco, e forse vorrebbe liberarsene, ma non si fida di Kovac.» «Non mi fido neppure di lei.» «Sì, invece. Lei mi conosce. Con lei sono stato franco fin dall'inizio, Gil, e penso che lei lo apprezzi.»
«Lei crede che io abbia ucciso Jillian.» «Credo che sotto molti aspetti lei corrisponde al profilo, questo lo ammetto. Inoltre, se considera la situazione in modo oggettivo, non può che concordare con me. Lei ha studiato questo materiale, sa che cosa cerchiamo, e sa che alcuni aspetti della sua personalità corrispondono al puzzle. Ma questo non vuol dire che secondo me lei ha ucciso Jillian. Non è detto che Jillian sia morta.» «Cosa?» Vanlees lo guardò come se pensasse che gli aveva dato di volta il cervello. «Penso che Jillian fosse molto più complicata di quanto sembra, e penso che lei abbia qualcosa da dire in proposito. È vero, Gil?» Vanlees guardò di nuovo il pavimento. Quinn sentiva la pressione aumentare dentro di lui, mentre soppesava i pro e i contro della sincerità. «Se la spiava, Gil», aggiunse a voce bassissima, «non si troverà nei guai per questo. La polizia chiuderà volentieri un occhio, in cambio di qualcosa di utile.» Vanlees diede l'impressione di riflettere su quella possibilità, senza pensare, Quinn ne era certo, che quel «qualcosa» poteva essere usato contro di lui. «Era attirato da lei, giusto?» riprese Quinn. «Non è un delitto. Era una ragazza carina. Perché non avrebbe dovuto guardarla?» «Sono un uomo sposato», mormorò lui. «È sposato, ma non è morto. Guardare non costa niente. Quindi la guardava, e su questo non ho niente da eccepire.» «Lei era... diversa», disse Vanlees, continuando a fissare il pavimento, ma vedendo Jillian Bondurant, secondo Quinn. «Piuttosto... esotica.» «Ha detto a Kovac che non la provocava, ma non è del tutto esatto, vero?» azzardò Quinn, sempre sottovoce, come se fossero due amici che si scambiano confidenze. «Si era accorta di lei, non è vero?» «Non diceva mai niente, ma mi guardava in un certo modo», ammise. «Come se la desiderasse.» Un'affermazione, non una domanda. Vanlees esitò. «Non so. Come se volesse farmi capire che sapeva di essere osservata, ecco.» «Segnali contraddittori, per così dire.» «Sì.» «Ne è nato qualcosa?» Vanlees esitava, combattuto, mentre Quinn aspettava, trattenendo il fiato.
«Io voglio soltanto la verità, Gil. Se lei è innocente, non la danneggerà. Resta fra noi, da uomo a uomo.» Il silenzio si prolungò. «Io... lo so che era sbagliato», mormorò infine Vanlees. «Non intendevo veramente farlo. Ma una sera, durante il solito giro di controllo...» «Quando è successo, questo?» «L'estate scorsa. E... io ero lì...» «A casa di Jillian.» Lui annuì. «Lei suonava il piano, indossando una vestaglia di seta che stava per scivolarle dalle spalle. Potevo vedere la spallina del reggiseno.» «E così l'ha spiata per qualche tempo», disse Quinn, come se fosse del tutto naturale; qualunque uomo lo avrebbe fatto, senza malizia. «Poi si è tolta la vestaglia e si è alzata in piedi, stiracchiandosi.» Vanlees rivedeva tutta la scena nella sua mente. Il ritmo del respiro era accelerato e un velo di sudore gli faceva luccicare il viso. «Ha cominciato a muoversi, come se danzasse. In modo lento e molto... erotico.» «Sapeva che lei era lì?» «Io credevo di no. Ma a un tratto si è avvicinata alla finestra e ha abbassato le coppe del reggiseno in modo che potessi vedere le tette e le ha accostate al vetro, strofinandole», aggiunse in un sussurro, pieno di vergogna e di eccitazione. «E... ha leccato il vetro con la lingua.» «Dev'essere stato molto eccitante.» Vanlees batté le palpebre, imbarazzato, e distolse lo sguardo. Da quel punto in poi, alcune parti della storia sarebbero state censurate. D'altronde non c'era bisogno che dicesse tutto. Quinn conosceva la storia, conosceva lo schema di comportamento, per averlo visto più volte negli anni in cui aveva studiato il modo di agire dei criminali sessuali. Gil Vanlees non poteva insegnargli niente di nuovo. Ma se la storia era vera, rivelava un aspetto molto significativo di Jillian Bondurant. «E poi che cosa ha fatto?» Vanlees si spostò sulla sedia, sentendosi a disagio. «Lei... si è abbassata le mutandine e... si è toccata fra le gambe.» «Si masturbava di fronte a lei?» Lui arrossì. «Di punto in bianco ha aperto la finestra e io mi sono spaventato e sono scappato. Ma più tardi sono tornato e ho visto che lei aveva lanciato le mutandine dalla finestra.» «E sono quelle che la polizia ha trovato a bordo del suo furgoncino. Sono davvero di Jillian.»
Vanlees annuì, portandosi una mano al viso come per nasconderlo. «Quando è successo, questo?» chiese di nuovo. «Quest'estate. In luglio.» «La scena si è ripetuta?» «No. Lei non mi rivolgeva quasi mai la parola.» «E questo non la mandava in bestia, Gil? Che si spogliasse davanti a lei, si masturbasse davanti a lei, e poi facesse finta di niente. Che facesse finta di conoscerla appena, come se lei non fosse abbastanza per lei. Questo non la faceva infuriare?» «Io non le ho fatto niente», mormorò. «Era una provocatrice. Se una donna mi facesse una cosa del genere - mi facesse eccitare e poi mi piantasse in asso - io andrei in collera. Mi verrebbe voglia di fotterla per bene, di costringerla a prestarmi attenzione. A lei no?» «Ma non l'ho mai fatto.» «Però voleva fare sesso con lei, non è vero? Non c'era una parte di lei che voleva darle una lezione? Il lato oscuro che esiste in tutti noi, che serba rancore e medita vendetta. Lei non ha un lato oscuro, Gil? Io sì.» Attese di nuovo, carico di tensione. Vanlees aveva un'aria avvilita e sconfitta. «Kovac cercherà di affibbiarmi quel delitto», mormorò. «Perché quelle mutandine sono di Jillian. Per via di quello che le ho detto. Anche se la cattiva era lei, non io. È così che andrà, non è vero?» «Lei è un buon sospetto, Gil. Se ne rende conto, vero?» Lui annuì lentamente, riflettendo. «Il padre era lì, in casa», mormorò. «La domenica mattina presto, prima dell'alba. L'ho visto uscire. Lunedì il suo avvocato mi ha dato cinquecento dollari perché non parlassi.» Quinn assimilò l'informazione in silenzio, soppesandola e valutandola. Gil Vanlees era nei guai fino al collo, e poteva dire qualunque cosa. Poteva dire di aver visto in casa di Jillian uno sconosciuto, un vagabondo, un uomo con un braccio solo: invece aveva detto di aver visto Peter Bondurant, aggiungendo che Bondurant aveva pagato il suo silenzio. «Domenica mattina presto», ripeté Quinn. Vanlees annuì. Senza guardarlo. «Prima dell'alba.» «Sì.» «E lei che cosa ci faceva, lì intorno, a quell'ora? Dov'era, se ha potuto
vederlo... e lui ha visto lei?» Stavolta Vanlees scosse la testa, come per respingere la domanda, oppure il pensiero che gli frullava per la testa. Sembrava invecchiato di dieci anni negli ultimi dieci minuti. Era quasi patetico. Seduto lì con la divisa della guardia giurata, il poliziotto mancato che faceva finta di esserlo. Il massimo a cui poteva aspirare. Parlò con un filo di voce. «Voglio un avvocato.» 32 Kate era seduta sul vecchio divano di cuoio nello studio, raggomitolata in un angolo, tenendo a bada il gelo mattutino con un paio di pantaloni attillati neri, calze di lana pesante e una vecchia felpa sformata che le aveva dato Quinn tanto tempo prima e che non indossava da anni. Era triste constatare quello che gli esseri umani potevano farsi a vicenda, pensava, scorrendo con lo sguardo le pagine dei profili delle vittime, sparpagliate sul tavolino da caffè. Altre quattro vite distrutte e rovinate prim'ancora che incontrassero il Crematore. Cinque, compresa Angie. Rovinate perché avevano bisogno di amore e non riuscivano a trovare altro che un surrogato squallido e distorto. Perché volevano qualcosa che era fuori della loro portata. Perché sembrava più facile accontentarsi che cercare di avere di più. Perché erano convinte di non meritare niente di meglio. Perché le persone intorno a loro non credevano che meritassero di più, come avrebbero dovuto. Perché erano donne, e le donne sono un bersaglio naturale nella società americana. Tutte quelle ragioni formavano una vittima. Tutti erano vittime di qualcosa. La differenza consisteva in quello che facevano: arrendersi, oppure rialzarsi e andare avanti. Le donne di cui aveva davanti le foto non avrebbero avuto un'altra occasione. Kate si protese sul tavolo, scorrendo i rapporti. Aveva telefonato in ufficio per dire che voleva prendersi un giorno di libertà. L'avevano informata che anche Rob era assente, e in ufficio si diceva che si fossero picchiati e non volessero far vedere i lividi. Secondo Kate, era più probabile che Rob stesse ancora lavorando al rapporto da inserire nel suo fascicolo personale. Se non altro, per quel giorno era libera dalla sua presenza. Sarebbe stato magnifico, se non fosse stato per le foto che doveva guardare, immagini di donne bruciate e mutilate, e se non fosse stato per le emozioni e le realtà deprimenti che quelle fotografie evocavano.
Tutti erano vittime di qualcosa. Prostituzione, droghe, alcol, aggressioni, stupro, incesto... se quello che aveva appreso Kovac era vero. Vittime di crisi, vittime della loro educazione. A prima vista, Jillian Bondurant sarebbe apparsa l'elemento anomalo: non era una prostituta e non esercitava una professione legata al sesso, ma, stando al suo profilo psicologico, non era affatto diversa da Lila White o da Fawn Pierce. Sentimenti confusi e contraddittori riguardo al sesso e agli uomini. Scarsa autostima. Forti esigenze emotive. Esteriormente, non sembrava che avesse avuto una vita difficile come quella di una prostituta, perché non era esposta allo stesso genere di crimini e di violenza; ma non c'era niente di facile nel soffrire in silenzio, mascherando il dolore e gli abusi subiti per salvare la faccia della famiglia. Secondo Quinn, era molto dubbio che Jillian fosse davvero morta, ma questo non significava che non fosse una vittima. Se era complice di Smokey Joe, non era che una vittima di altro genere. Il Crematore stesso, a suo tempo, era stato una vittima. Una delle numerose componenti che davano origine a un serial killer era la vittimizzazione subita durante l'infanzia. Tutti erano vittime di qualcosa. Kate tornò a esaminare i propri appunti su Angie, molto scarni. Per lo più intuizioni, aspetti che aveva appreso nel corso degli anni, osservando gli esseri umani per vedere che cosa plasmava la loro mente e la loro personalità. Erano stati gli abusi a plasmare la personalità di Angie DiMarco, probabilmente fin da quando era molto piccola. Dagli altri si aspettava il peggio, anzi, li sfidava a mostrarlo, a dimostrare che aveva ragione. E senza dubbio questo era accaduto più volte, perché le persone che vivevano nel mondo di Angie tendevano a realizzare le aspettative peggiori, lei compresa. Si aspettava che il prossimo la detestasse, non avesse fiducia in lei, la ingannasse, la usasse, e faceva in modo che andasse proprio così. Anche quel caso non aveva fatto eccezione. Sabin e la polizia non avevano fatto altro che cercare di usarla, e Kate era stata il loro strumento. Per loro la scomparsa di Angie era un inconveniente, non una tragedia. Se non fosse stato per la sua condizione di testimone, nessuno al mondo avrebbe offerto una ricompensa o mostrato la sua foto alla televisione chiedendo: «Chi l'ha vista?» Anche così, la polizia non si era impegnata in una ricerca troppo coscienziosa per ritrovarla. Le energie della task force erano tutte protese a trovare il sospetto, non la testimone scomparsa. Chissà se era viva, si domandò, alzandosi dal divano per camminare a-
vanti e indietro nella stanza. Era morta? Era stata fatta prigioniera? Se n'era andata spontaneamente? Lei aveva visto il sangue con i suoi occhi. Troppo, per poter credere a una spiegazione ottimistica. Ma come aveva fatto Smokey Joe a scoprire dove si trovava? Quante erano le probabilità che l'avesse riconosciuta per caso alla centrale di polizia, seguendola fino a Phoenix House? Scarse. Il che significava che doveva averlo scoperto in qualche altro modo. E questo a sua volta voleva dire che aveva qualche legame con il caso... o con Angie. Chi sapeva dove alloggiava Angie? Sabin, Rob, la task force, un paio di agenti in divisa, gli Urskine, l'avvocato di Peter Bondurant, e quindi anche Peter Bondurant. Gli Urskine, che avevano conosciuto la prima vittima e avevano un vago rapporto con la seconda. Non conoscevano Jillian Bondurant, ma il suo collegamento con quei delitti aveva fornito a Toni Urskine una base per la sua campagna di propaganda. Gregg era in casa, mercoledì sera, quando Kate aveva accompagnato Angie. Con lui c'era soltanto Rita Renner, che dava l'impressione di essere una marionetta nelle mani degli Urskine. Rita Renner, che era stata amica di Fawn Pierce. Kate conosceva gli Urskine da anni e, sebbene Toni potesse suscitare in qualcuno istinti omicidi, non riusciva a immaginare i due intenti a praticare quell'hobby in coppia. D'altra parte, nessuno a Toronto aveva mai sospettato di certi Ken e Barbie, eppure i due avevano commesso insieme delitti così orribili da indurre veterani della polizia a trattenere a stento le lacrime sul banco dei testimoni, durante il processo. Che idea sinistra, quella che gli Urskine potessero attirare le donne con la gentilezza e le premure soltanto allo scopo di condurre un sadico gioco di caccia. D'altra parte non sarebbero stati tanto stupidi da usare come prede le loro stesse ospiti, attirando automaticamente i sospetti su di sé. E se l'uomo che Angie aveva visto nel parco fosse stato Gregg Urskine, lei lo avrebbe riconosciuto al Phoenix, no? Kate pensò alla vaga descrizione che la ragazza aveva fornito di Smokey Joe, all'identikit quasi anonimo, cercando di interpretare quegli elementi. Era stata così vaga e riluttante perché era spaventata, come lei aveva sospettato? Oppure la motivazione andava cercata altrove? Ma non aveva senso ipotizzare un collegamento fra Angie e il killer. Se lo avesse conosciuto e ne avesse voluto la cattura, lo avrebbe denunciato.
Se invece lo conosceva e non voleva che lo arrestassero, avrebbe fornito una chiara descrizione di un fantasma al quale la polizia potesse dare la caccia. E se quella notte nel parco non aveva visto niente, per quale motivo avrebbe dovuto sostenere il contrario? Per ottenere vitto e alloggio? Per attirare l'attenzione su di sé? Tanto più sarebbe stato logico aspettarsi, in questo caso, che si mostrasse disposta a collaborare. Tutto, in quella ragazzina, era un mistero all'interno di un puzzle avvolto in un enigma. Ecco perché non lavoro con gli adolescenti. Ma quella ragazza era stata affidata alla sua responsabilità, e lei era decisa a scoprire la verità sul suo conto, o a morire nel tentativo di farlo. Poco felice, come scelta delle parole, si disse, salendo di sopra a cambiarsi. Venti minuti dopo, uscì dalla porta sul retro. Durante la notte aveva continuato a nevicare: appena un paio di centimetri, che avevano steso sul paesaggio uno strato bianco simile a zucchero a velo, coprendo i gradini sul retro, dove si notavano le impronte lasciate da un paio di stivali. Quinn era uscito quella mattina dall'ingresso principale, per raggiungere il taxi in attesa. Comunque le orme erano troppo piccole per essere sue. Come dimensioni, somigliavano di più a quelle di Kate, anche se questo non bastava a definire il sesso di chi le aveva lasciate. Facendo attenzione a non calpestarle, Kate seguì quelle impronte giù per i gradini fino al cortile. Proseguivano fino all'angolo del garage e oltre, lungo lo stretto corridoio fra l'edificio e il muro di cinta del vicino, per raggiungere l'ingresso laterale del garage, che aveva tutte le porte chiuse. Kate si sentì correre un brivido lungo la spina dorsale. Ripensò alla sera prima e al fatto che qualcuno le aveva insozzato il garage. Si rammentò della lampadina, fulminatasi all'improvviso, e della sensazione di essere osservata che aveva provato il mercoledì sera. Si guardò attorno nella stradina deserta. Quasi tutti i vicini avevano un muro di cinta alto, che nascondeva il pianterreno della casa alla vista dei passanti. Le finestre del primo piano sembravano nere e vuote. Il quartiere era abitato da professionisti, che per lo più uscivano alle sette e mezza per andare al lavoro. Indietreggiò, allontanandosi dal garage, con il cuore che le batteva forte, frugando in tasca alla ricerca del cellulare. Tornando verso casa, lo tirò fuori, lo aprì e premette il tasto per accenderlo, ma non successe niente. La
batteria si era scaricata durante la notte. Gli inconvenienti delle comodità moderne. Lo rimise nella borsa, tirando fuori le chiavi di casa. Entrò, chiuse a chiave la porta e riprese a respirare. Posando sul tavolo la borsa e il portafogli, stava per sfilarsi il cappotto, quando il suo cervello registrò un suono. Il brontolio sommesso e feroce di un gatto. Thor era sotto il tavolo e soffiava, con le orecchie appiattite. Kate si sentì drizzare i peli sulla nuca, provando nello stesso tempo la sensazione di essere osservata. Esaminò rapidamente le varie possibilità. Non sapeva chi fosse la persona alle sue spalle, o quanto fosse vicina alla porta. Il telefono a muro si trovava dalla parte opposta della stanza... troppo lontano. Aprendo la borsa con falsa disinvoltura, guardò dentro in cerca di un'arma. Non portava la pistola. La bomboletta di spray al pepe che aveva tenuto nella borsetta per qualche tempo era scaduta, e lei l'aveva gettata via. Aveva un flacone di cachet per il mal di testa, un pacchetto di fazzoletti di carta e il tacco della scarpa che le si era staccato il lunedì precedente. Pescando sul fondo, trovò una lima per le unghie, di metallo, la nascose nel palmo e la fece scivolare nella tasca della giacca. Conosceva le uscite di sicurezza. Si sarebbe voltata, affrontando l'intruso, e poi sarebbe fuggita a destra o a sinistra. Formulato un piano, contò fino a cinque e si voltò. La cucina era vuota. Ma nella sala da pranzo, seduta su una delle sedie antiche di quercia, c'era Angie DiMarco. «Confessa di avere le mutandine di Jillian Bondurant, e lei non crede che sia il nostro uomo?» esclamò Kovac, sorridendo. La collera aveva un pessimo effetto sul suo stile di guida, notò Quinn. La Caprice sfrecciava sulla Statale 94, zigzagando sulla carreggiata come l'auto di un clown. Lui teneva i piedi puntati, pur sapendo che in un impatto le sue gambe si sarebbero spezzate come grissini. D'altronde aveva poca importanza, visto che sarebbe morto comunque; quella vettura si sarebbe accartocciata come una lattina di birra vuota. «Sto solo dicendo che ci sono alcuni particolari che non mi convincono», replicò. «Vanlees non mi dà l'impressione di poter fare un gioco di squadra. Gli manca l'arroganza necessaria per essere il capo branco, e in una coppia di assassini il partner dominante è nel novantanove per cento dei casi il maschio sadico. La donna gli è sottomessa, una vittima che si ritiene fortunata a non essere uccisa.»
«Allora vuol dire che questo caso è l'un per cento in cui avviene il contrario», insistette Kovac. «È la donna a condurre il gioco. Perché no? Moss e Liska dicono che la moglie lo ha umiliato.» «Probabilmente lo faceva anche la madre. E in effetti spesso è proprio una donna dominante o manipolatrice o comunque importante del suo passato o del presente quella che l'assassino uccide simbolicamente quando infierisce su una vittima. Tutto questo quadra, ma ci sono anche dei vuoti. Vorrei poter dire, guardandolo, che lo trovo il candidato ideale per questi delitti, ma non sento una simile ispirazione.» Kovac sterzò, attraversando in diagonale tre corsie per raggiungere l'uscita. «Be', le posso assicurare che ai pezzi grossi questo tizio piace molto. Ha dei precedenti, corrisponde al profilo, è collegato a Jillian, frequenta prostitute e non è Peter Bondurant. Se riescono a trovare un modo per incriminarlo, lo faranno. E, se possibile, lo faranno in tempo per la conferenza stampa di oggi.» E se non era lui il colpevole, avrebbero corso il rischio di spingere il killer a uccidere di nuovo. L'idea angosciava Quinn. «Vanlees dice che Bondurant era a casa di Jillian domenica mattina prima dell'alba e che il lunedì ha incaricato Noble di pagargli cinquecento dollari per tenere la bocca chiusa», riferì, attirandosi un'occhiata di Kovac paurosamente lunga. La Caprice cominciò a slittare in direzione di un'Escort arrugginita nella corsia vicina. «Cristo, tenga gli occhi sulla strada!» scattò lui. «Ma come si ottiene la patente in questo Stato, collezionando i tappi di bottiglia, per caso?» «Le linguette delle lattine di birra», ribatté Kovac, riportando l'attenzione sulla strada. «Quindi è stato Bondurant a ripulire la casa di Jillian e a cancellare i messaggi sulla segreteria telefonica.» «Penso di sì, se Vanlees dice la verità. E scommetto che per lo stesso motivo non abbiamo trovato nessuna delle composizioni musicali di Jillian. Potrebbe averle fatte sparire perché rivelavano qualcosa del suo rapporto con Jillian.» «Gli abusi sessuali.» «Può darsi.» «Figlio di puttana», mormorò Kovac. «Ma a quale scopo cancellare tutte le impronte?» si chiese Quinn. «La casa è sua, e ci viveva la figlia. Le sue impronte non erano fuori posto.» Kovac gli lanciò un'occhiata. «A meno che non fossero insanguinate.» Quinn si aggrappò al cruscotto mentre un TIR tagliava la strada alla Ca-
price e Kovac frenava di colpo. «Pensi a guidare, Kovac, altrimenti non vivremo abbastanza per scoprirlo.» Ora che si parlava di un sospetto trattenuto nella centrale di polizia, nella strada di fronte alla casa di Peter Bondurant si era accampato di nuovo il circo dei media. Al cancello c'erano due guardie di sicurezza della Paragon munite di walkie-talkie, che si fecero da parte non appena Quinn mostrò il distintivo dell'FBI. Nel viale d'accesso era parcheggiata la Lincoln nera di Edwyn Noble, insieme con una berlina Mercedes azzurro acciaio. Quinn guardò Kovac. «Prometta di comportarsi bene.» L'altro fece l'innocente. Era stato retrocesso al ruolo di autista e non poteva lasciare l'auto o passare nel raggio visivo di Peter Bondurant.. Come ulteriore precauzione, Quinn aveva tenuto per sé le rivelazioni di Gil Vanlees. L'ultima cosa che voleva era che Kovac entrasse in scena. Noble accolse Quinn all'ingresso, guardando al di là delle sue spalle. «Non si preoccupi», gli disse Quinn. «Grazie a lei, il miglior investigatore che lavorasse a questo caso è stato retrocesso ad autista.» «Sappiamo che Vanlees è stato arrestato», replicò l'avvocato facendogli strada e ignorando le sue parole. «Fermato per guida in stato di ubriachezza. La polizia lo tratterrà il più a lungo possibile, ma per il momento non ci sono prove che sia lui il Crematore.» «Ma aveva... qualcosa di Jillian», obiettò Noble con il tono imbarazzato del puritano. «Sostiene di averlo ricevuto da lei.» «Che idiozia.» «Racconta una storia molto interessante. Che riguarda lei e un pagamento, fra l'altro.» La paura balenò negli occhi dell'avvocato, ma solo per un attimo. «Assurdo. È chiaro che mente.» «Non si può dire che sia il solo. Desidero parlare con Peter. Ho alcune domande da fargli in merito allo stato d'animo di Jillian quella sera e in generale.» «Peter non riceve nessuno, stamattina. Non si sente bene.» «Riceverà me.» Quinn fece per salire le scale, come se sapesse dove andare, e Noble lo rincorse. «Non credo che lei capisca, agente Quinn. Questa storia ha avuto un ter-
ribile effetto sui suoi nervi.» «Che cosa sta cercando di dirmi? Che è ubriaco? Sotto sedativi? Catatonico?» Il viso lungo e stretto di Noble aveva un'espressione ostinata, quando volse la testa all'indietro per guardarlo. «Lucas Brandt è con lui.» «Meglio, così prenderò due piccioni con una fava.» Arrivato in cima alla scala, si fece da parte, accennando a Noble di precederlo. L'anticamera dell'appartamento privato di Peter Bondurant era il pezzo forte di un arredatore che probabilmente conosceva meglio la casa che Peter. Era una stanza studiata per un aristocratico inglese del Settecento, tutta mogano e broccato, con le pareti decorate da cupe scene di caccia racchiuse in cornici dorate. Noble bussò con delicatezza prima di entrare, lasciando fuori Quinn. Poco dopo, Noble e Brandt uscirono insieme. Brandt aveva la solita espressione da giocatore, calma e impenetrabile. «Agente Quinn», disse con il tono sommesso che si usa in una corsia di ospedale, «mi risulta che avete un sospetto.» «È possibile. Ho un paio di domande da fare a Boundurant.» «Questa mattina non è lui.» «Davvero? E chi è?» Noble lo fissò corrucciato. «Temo che il sergente Kovac abbia una pessima influenza su di lei. Questo non è il momento di fare battute.» «E neppure di fare giochetti con me, avvocato Noble.» Quinn si rivolse a Brandt. «Ho bisogno di parlare con lui a proposito di Jillian. Se vuole restare nella stanza, per me va bene. Meglio ancora se vorrà esporre le sue opinioni in merito allo stato mentale ed emotivo di Jillian.» «È un argomento che abbiamo già trattato in modo esauriente.» Quinn abbassò la testa, adottando un sorriso vacuo per mascherare la collera. «Bene, allora non dica niente.» Si avviò verso la porta come se fosse deciso a travolgere Brandt e scavalcarlo. «È sotto sedativi», spiegò Brandt, sbarrandogli la strada. «Risponderò io, per quello che posso.» Quinn lo fissò con gli occhi socchiusi, lanciando poi un'occhiata all'avvocato. «Tanto per curiosità», disse infine, «lo proteggete per il suo bene o per il
vostro?» Nessuno dei due batté ciglio. «Non importa... almeno per me. A me interessa soltanto conoscere tutta la verità.» Ripeté la storia che gli aveva raccontato Vanlees a proposito dell'episodio alla finestra. Edwyn Noble respinse in blocco tutto il racconto. Brandt, dal canto suo, rimase con le spalle addossate alla porta, gli occhi bassi e le mani strette davanti a sé, ascoltando con attenzione. «Quello che voglio sapere, dottor Brandt, è se Jillian era capace o no di un comportamento del genere.» «E avrebbe raccontato una storia del genere a Peter per rivolgergli questa domanda? Sul conto della figlia?» esclamò Brandt, indignato. «No. A Peter avrei rivolto una domanda del tutto diversa. Per esempio, che cosa faceva in casa di Jillian, domenica prima dell'alba, e perché aveva ritenuto che valesse la pena di pagare il silenzio di un testimone.» Noble alzò di scatto la testa, offeso, e fece per replicare. «Se lo risparmi, Edwyn», gli suggerì Quinn, tornando a guardare Brandt. «Gliel'ho già detto, Jillian aveva molti conflitti emotivi e a causa della relazione con il patrigno una certa confusione riguardo alla propria sessualità.» «Quindi la risposta è sì.» Brandt rimase in silenzio, mentre lui aspettava. «A volte si comportava in modo poco appropriato.» «Promiscuo.» «Io non direi. Amava... provocare delle reazioni. Di proposito.» «Manipolatrice.» «Sì.» «Crudele.» Quella domanda indusse Brandt ad alzare la testa e fissarlo. «Perché me lo chiede?» «Perché se Jillian non è morta, dottor Brandt, esiste una sola ipotesi plausibile: che possa essere complice dell'assassino.» 33 La ragazza aveva un aspetto da far pietà, pensò Kate: pallida come la morte, con gli occhi vitrei e iniettati di sangue, i capelli unti. Ma era viva,
e quella constatazione suscitò in lei un enorme sollievo. Non doveva sopportare il peso della morte di Angie. Lei era viva. E seduta nella mia cucina. «Angie, santo cielo, mi hai spaventata a morte!» esclamò. «Come hai fatto a entrare? La porta era chiusa a chiave. Da chi hai avuto il mio indirizzo?» La ragazza non rispose. Kate si avvicinò, cercando di valutare le sue condizioni. Aveva il viso segnato di lividi, il labbro inferiore spaccato e incrostato di sangue rappreso. «Ehi, piccola, dove sei stata? Eravamo in pensiero per te.» «Ho letto il tuo indirizzo su una busta in ufficio», spiegò la ragazza, con voce roca e atona. «Sei davvero piena di risorse.» Kate si avvicinò ancora. «Ma dove sei stata, Angie? Chi ti ha conciata in questo modo?» Ora Kate era sulla soglia della stanza. La ragazza non si era mossa dalla sedia. Indossava ancora gli stessi jeans sudici che portava il primo giorno, ora coperti sulle cosce di macchie scure che sembravano di sangue, il solito giubbotto sporco e un maglione azzurro che Kate aveva già visto. Sul collo aveva una serie di segni di strangolamento: lividi violacei lasciati dalle dita che avevano stretto abbastanza forte da interrompere il passaggio dell'aria e l'afflusso del sangue al cervello. Un'ombra di sorriso sfiorò le labbra di Angie. «Ne ho viste di peggio.» «Lo so, tesoro», disse Kate con dolcezza. Fu solo quando si avvicinò per accovacciarsi vicino a lei che vide il coltello a serramanico in grembo alla ragazza: una lama di rasoio con un'impugnatura spessa di metallo grigio. Si raddrizzò lentamente, indietreggiando. «Chi ti ha fatto questo? Dove sei stata, Angie?» «Nella cantina del diavolo», rispose lei, con una sorta di aspro divertimento. «Angie, ora ti chiamo un'ambulanza, d'accordo?» fece Kate, spostandosi di un passo verso il telefono. Gli occhi della ragazza si riempirono subito di lacrime. «No, non ho bisogno di un'ambulanza», rispose, in tono prossimo all'isteria. «Qualcuno ti ha conciata per le feste, ragazzina.» Kate si chiedeva dove potesse trovarsi quel qualcuno. Angie era arrivata fin lì da sola, o era stata accompagnata? Il suo rapitore era forse nella stanza accanto, a guardare, in attesa? Se lei fosse riuscita a raggiungere il telefono, poteva chiamare il 911, e la polizia sarebbe arrivata in pochi minuti.
«No, ti prego», la supplicò Angie. «Non posso stare qui? Non posso restare con te, solo un po'?» «Tesoro, hai bisogno di un medico.» «No, no, no.» Angie scosse la testa, stringendo le dita sull'impugnatura del coltello e tenendo la lama contro il palmo della mano sinistra. Alcune gocce di sangue imperlarono la pelle in corrispondenza della punta della lama. Il telefono squillò, infrangendo quel silenzio. Kate trasalì. «Non rispondere!» gridò Angie, sollevando la mano e affondando la lama sempre di più nella carne, facendo sgorgare il sangue. «Mi taglio sul serio», minacciò. «So come si fa.» Se diceva sul serio, se affondava ancora di poco la lama nel polso, poteva morire dissanguata prima che Kate finisse di chiamare il 911. Gli squilli cessarono. La segreteria telefonica informò cortesemente chiunque chiamasse che poteva lasciare un messaggio. Era Quinn? Kovac con qualche notizia? Rob che la chiamava per licenziarla? Lo immaginava capace di lasciare un messaggio del genere, proprio come aveva fatto il capo di Melanie Hessler. «Perché vorresti tagliarti, Angie?» le domandò. «Ora sei al sicuro. Ti aiuterò io. Ti aiuterò a uscire da questa storia, a ricominciare daccapo.» «Finora non mi hai aiutato.» «Non me ne hai dato molte possibilità.» «Certe volte mi piace tagliarmi», ammise Angie, abbassando la testa per la vergogna. «Certe volte ne ho bisogno. Comincio a sentire... Mi spavento. Ma se mi taglio, passa tutto. È pazzesco, non è vero?» Nei suoi occhi lo sguardo era tanto smarrito che Kate si sentì spezzare il cuore. Non rispose subito. Benché avesse letto qualcosa su ragazze che si comportavano come Angie, il suo primo pensiero fu che era pazzesco. Come poteva una persona mutilarsi senza essere folle? «Posso farti aiutare, Angie», disse infine. «Ci sono persone che possono aiutarti ad affrontare questi sentimenti senza doverti fare del male.» «Che cosa ne sanno, loro?» ribatté Angie con gli occhi scintillanti di disprezzo. «Che cosa ne sanno di 'affrontare' qualcosa? Non sanno un beato niente, loro.» E io nemmeno, pensò Kate. Dio, perché lunedì non si era presa un periodo di ferie per malattia? Meditò l'idea di strappare la lama alla ragazza, scartandola subito. Il rischio di rovinare tutto era troppo alto. Se riusciva a farla parlare, forse alla
fine l'avrebbe persuasa a posarlo. Avevano tutto il tempo del mondo, a patto che fossero sole. «Angie, sei venuta qui da sola?» Lei abbassò gli occhi sulla lama, con la quale sfiorava delicatamente le linee blu del tatuaggio intorno al pollice, una lettera A con una linea orizzontale sopra. «Ti ha accompagnato qualcuno?» «Sono sempre sola», mormorò. «E l'altra sera, dopo che ti ho riaccompagnato al Phoenix? Eri sola anche allora?» «No.» Angie affondò la punta della lama nelle goccioline di sangue tatuate sul braccialetto di spine che le cingeva il polso. «Sapevo che mi voleva. Mi ha mandata a prendere.» «Chi ti voleva? Gregg Urskine?» «L'Angelo del Male.» «Chi è?» «Io ero nella doccia», rispose lei, con gli occhi vitrei mentre sprofondava nei ricordi. «Mi stavo tagliando. Guardavo il sangue e l'acqua. Poi mi ha mandato a prendere, come se avesse fiutato l'odore del sangue.» «Chi?» ritentò Kate. «Non era contento», disse Angie in tono cupo. Sul viso, per un bizzarro contrasto, le aleggiava un sorriso. «Era arrabbiato perché non avevo eseguito gli ordini.» «Mi rendo conto che questa è una storia lunga», disse Kate, guardando il sangue gocciolare dalla mano di Angie sul tappeto della sala da pranzo. «Perché non andiamo a sederci nell'altra stanza? Potrei accendere un fuoco nel camino, per scaldarci. Che ne dici?» Distrarla da quel gioco con il coltello. Allontanarla dalla vista di un telefono e avvicinarsi a un altro, in modo da poter fare una telefonata, in un modo o nell'altro. Il telefono/fax nello studio aveva il 911 memorizzato sul tasto di emergenza. Se fosse riuscita a far sedere Angie sul divano, avrebbe potuto sedersi alla scrivania, staccare il ricevitore e premere il tasto. Poteva funzionare. Di sicuro era meglio che restare lì a guardare la ragazza che perdeva sangue. «Ho i piedi freddi», ammise Angie. «Andiamo nell'altra stanza. Potrai toglierti quegli stivali bagnati.» La ragazza la guardò socchiudendo gli occhi, poi si portò alla bocca la mano che sanguinava, leccando il sangue da una ferita. «Va' tu avanti.»
Precedendo una psicotica con un coltello in mano, con la prospettiva di avvicinarsi a un folle serial killer in attesa. Magnifico. Kate si diresse verso lo studio camminando quasi di lato nel tentativo di guardare con un occhio Angie e con l'altro lo spazio davanti a sé, sempre mantenendo viva la conversazione. Angie stringeva in mano il coltello a serramanico, pronta a usarlo. Camminava leggermente protesa in avanti, con l'altro braccio stretto sullo stomaco, chiaramente sofferente. «Gregg Urskine ti ha fatto del male, Angie? Ho visto il sangue nel bagno.» Lei batté le palpebre, confusa. «Ero nel Cerchio.» «Non so che cosa significhi.» «Non puoi saperlo.» Kate la precedette nello stadio. «Siediti», le disse, accennando al divano dove aveva fatto l'amore con Quinn poche ore prima. «Ora accendo il fuoco.» Pensò di usare come arma l'attizzatoio, ma scartò subito l'idea. Sottrarre il coltello ad Angie senza usare la violenza sarebbe stato preferibile per tanti motivi, non ultimo lo stato mentale della ragazza. Angie si era raggomitolata in un angolo del divano, cominciando a tracciare dei ghirigori con la lama sulle macchie di sangue dei jeans. «Chi ha tentato di strangolarti, Angie?» le domandò Kate, dirigendosi verso la scrivania. Era arrivato un fax. La telefonata a cui non aveva risposto. «Un amico di un amico.» «Ti servono amici migliori.» Appoggiò un fianco alla scrivania, con gli occhi fissi sul fax... una copia di un quotidiano di Milwaukee. «Lo conoscevi?» «Certo», rispose la ragazza, fissando il fuoco. «Lo conosci anche tu.» Kate l'ascoltava appena, tutta assorta nella lettura del fax che la segretaria dei servizi legali le aveva inviato insieme con un biglietto che diceva: «Ho pensato che volesse vederlo subito». L'articolo portava la data del 21 gennaio 1996, e il titolo diceva: «Sorelle prosciolte per l'incendio in cui hanno trovato la morte i genitori». Era illustrato da due fotografie sgranate, di qualità scadente, peggiorata dalla trasmissione via fax. Ma anche così Kate riconobbe subito la ragazza nella foto di destra: Angie DiMarco. Peter Bondurant era in camera da letto, seduto su una piccola sedia accanto alla finestra, e cingeva con le braccia la borsa di tela nera che aveva
sulle ginocchia. Portava gli stessi vestiti che aveva indossato quella notte, pantaloni e maglione nero. I pantaloni erano sporchi, sul maglione c'erano tracce di vomito. Benché l'odore acre di quest'ultimo, del sudore e della paura aleggiasse intorno a lui come una nube tossica, chiaramente Bondurant non aveva voglia di cambiarsi né di fare la doccia. Si rendeva conto di essere pallido, perché aveva la sensazione che tutto il sangue gli fosse defluito dal corpo. Quello che gli scorreva nelle vene, adesso, era l'acido della colpa, che bruciava, bruciava, bruciava. Immaginava che avrebbe potuto bruciarlo vivo dall'interno, ridurgli le ossa in cenere. Edwyn, venuto a informarlo dell'arresto del custode, Vanlees, lo aveva trovato nella sala da musica, intento a distruggere il pianoforte a mezza coda con un cric, e aveva chiamato Lucas, che era arrivato con una piccola borsa nera piena di fiale e di siringhe. Peter aveva rifiutato i farmaci. Non voleva stordirsi. Aveva trascorso troppi anni in uno stato di stordimento, ignorando la vita di coloro che gli stavano intorno. Forse, se avesse avuto il coraggio di sentire qualcosa prima, le cose non sarebbero andate così. Ora non poteva sentire altro che il dolore lancinante del rimorso. Il tempo continuò a scorrere mentre lui restava seduto sulla sedia, riflettendo, rivivendo tutta la storia fin dalla nascita di Jillian, rievocando ognuno degli errori devastanti che aveva commesso, fino a quel momento e oltre. Guardò fuori della finestra, senza vedere gli automezzi delle reti televisive, i furgoni dei giornalisti che attendevano una sua apparizione, una sua parola. Si strinse al petto la borsa di tela e si dondolò, giungendo alla sola conclusione che avesse un senso per lui. Poi controllò l'orologio e attese. Kate fissava il fax, sentendosi invadere da un'ondata di gelo. Il suo cervello isolava le parole chiave: arsi vivi, madre, patrigno, alcol, droghe, affidamento, precedenti, storia di abusi. «Che ti prende?» le chiese Angie. «Niente», rispose lei istintivamente, distogliendo lo sguardo dall'articolo. «Per un attimo ho avuto le vertigini.» «Pensavo che fossi anche tu nel Cerchio.» Angie sorrise. «Non sarebbe buffo?» «Non lo so. Com'è il Cerchio?» Il sorriso svanì. «È buio e vuoto e t'inghiotte completamente e senti che
non ne uscirai mai più, che nessuno verrà a prenderti», rispose Angie, con lo sguardo di nuovo allucinato. Non vuoto, ma allucinato, spaventato, carico di sofferenza, il che significava che in lei c'era ancora qualcosa da salvare. «Ma qualche volta è anche un posto sicuro», aggiunse a bassa voce, fissando il sangue che scorreva a rivoli dalla mano sinistra, tutt'intorno al polso. «Posso nascondermi laggiù, se ne ho il coraggio.» «Angie? Non vuoi un panno freddo per la mano?» le chiese Kate. «Non ti piace vedere il mio sangue? A me sì.» «Preferirei non vederlo colare sul mio tappeto», ribatté Kate con una punta del solito tono ironico, più per provocare una reazione in Angie che per proteggere il tappeto. Angie si guardò per un attimo il palmo della mano, poi la portò al viso, asciugandosi il sangue sulla guancia con una carezza amorevole. Kate si allontanò dalla ragazza, arretrando verso la porta. Angie la guardò. «Vuoi lasciarmi?» «No, tesoro, non voglio lasciarti. Vado solo a prendere quel panno bagnato.» E a chiamare il 911, pensò, facendo un altro passo verso la porta, ma timorosa di lasciare la ragazza sola, per paura di quello che poteva fare a se stessa. Appena uscita in corridoio, sentì suonare alla porta e rimase per un attimo paralizzata. Da uno dei vetri laterali della porta apparve un viso, una testa tonda al di sopra di un piumino, che cercava di sbirciare oltre la tendina sottile. Rob. «Kate, lo so che sei a casa», disse in tono petulante, bussando. «Ti vedo.» «Che cosa ci fai, qui?» rispose Kate in un sussurro roco, aprendo la porta. «Ho saputo in ufficio che non saresti venuta. Dobbiamo parlare di questa...» «Non sai usare il telefono?» cominciò lei, poi si riprese e cambiò tono. «Questo non è il momento...» Rob si avvicinò ancora, con aria ostinata. «Kate, noi dobbiamo parlare.» «Non potresti abbassare la voce?» ribatté lei, serrando i denti per l'esasperazione. «Perché? Vuoi evitare che i vicini sappiano che stai cercando di evitarmi?» «Non fare l'idiota. Non cerco di evitarti. Ho una situazione complicata,
qui. Angie è ricomparsa, ma è in uno stato mentale molto precario.» Rob sgranò gli occhi piccoli e porcini. «È qui? Che cosa ci fa? Hai chiamato la polizia?» «Non ancora. Non voglio peggiorare le cose. Ha un coltello ed è pronta a usarlo, su se stessa.» «Mio Dio! E tu non glielo hai strappato di mano, Wonder Woman?» replicò lui in tono sarcastico, entrando nell'atrio. «Preferirei conservare tutte le mie appendici, grazie.» «Si è fatta del male?» «Finora soltanto dei tagli superficiali, ma uno richiede dei punti.» «Dov'è?» Kate accennò allo studio. «Forse puoi distrarla mentre io chiamo il 911.» «Ti ha detto dov'è stata? Chi l'ha portata via?» «Non esattamente.» «Se va in ospedale, si chiuderà a riccio per il rancore, e potrebbero passare ore, o addirittura giorni, prima che riusciamo a strapparle qualche informazione», disse Rob in tono pressante. «La polizia ha fatto un arresto. Sta per cominciare la conferenza stampa. Se riusciamo a farci dire che cosa è successo, possiamo chiamare Sabin prima che finisca.» Kate incrociò le braccia, riflettendo. Vedeva Angie ancora seduta sul divano. Se fossero arrivati gli infermieri per portarla via, avrebbe reagito male, questo era certo. D'altra parte, che cosa potevano fare? Tentare di estorcerle quello che volevano mentre era ancora debole per il sangue perduto e vulnerabile. Tentare di catturare un assassino. Si lasciò sfuggire un sospiro. «E va bene. Tentiamo, ma se fa sul serio con quel coltello, io chiamo il 911.» Rob la guardò socchiudendo gli occhi, con un sorriso forzato. «So che ti addolora, Kate, ma qualche volta ho ragione io e prima o poi lo capirai. So esattamente quello che faccio.» «Che cosa ci fa lui, qui?» proruppe Angie. «Sono qui per aiutarti, Angie», rispose Rob, appoggiandosi al bordo della scrivania. Lei gli lanciò una lunga occhiata dura. «Ne dubito.» «A quanto pare, hai avuto un piccolo problema, dall'ultima volta che ci siamo visti. Puoi parlarcene?» «E tu vorresti saperlo?» chiese lei, con gli occhi socchiusi e un tono qua-
si seducente nella voce roca. Alzò la mano, leccandosi di nuovo il sangue dal palmo, con lo sguardo fisso su di lui. «Vuoi sapere chi è stato a farmi questo? O vuoi soltanto sentir parlare di sesso?» «Tutto quello che vuoi, Angie», rispose lui con calma. «È importante che tu parli. Siamo qui per ascoltarti.» «Oh, ne sono sicura. Ti piace sentir parlare gli altri di dolore e sofferenza. Sei un piccolo pervertito, non è vero?» Un muscolo fremette nella guancia di Rob. «Stai mettendo a dura prova la mia pazienza, Angie. Sono sicuro che non è quello che vuoi fare davvero. Ho ragione o no?» La ragazza distolse lo sguardo, fissando il fuoco tanto a lungo che Kate ebbe paura che non parlasse più. Forse era andata in quel Cerchio di cui aveva parlato. Teneva il coltello a serramanico nella mano destra, premendo i polpastrelli sulla lama. «Angie», le disse, spostandosi dietro il divano e raccogliendo il plaid di ciniglia con un gesto casuale. «Stiamo cercando di aiutarti.» Si sedette sul bracciolo dalla parte libera del divano, tenendo il plaid sulle ginocchia. Negli occhi di Angie scintillarono le lacrime. «No, non è vero. Avrei voluto che mi aiutassi, ma non è così. Tu vuoi soltanto quello che posso dirti.» La sua bocca gonfia si contrasse in un sorriso amaro. «Il bello è che tu pensi di ottenere quello che vuoi, ma non sai quanto ti sbagli.» «Parlaci di quello che è successo quella sera al Phoenix», intervenne Rob, cercando di riportare su di sé la sua attenzione. «Kate ti ha accompagnata. Tu sei andata di sopra a fare una doccia... Qualcuno ti ha interrotto?» Angie lo fissò, passandosi lentamente la punta della lama sulla coscia, avanti e indietro. «Chi è venuto a prenderti, Angie?» incalzò Rob. «No», disse lei, guardandolo con odio. «Non lo farò.» La lama affondò, e il suo viso si coprì di un velo di sudore. La tela dei pantaloni si lacerò. Il rosso del sangue fiorì nello squarcio. Kate si sentì male. «Rob, smettila.» «Lei ne ha bisogno, Kate», ribatté lui. «Angie, chi è venuto a prenderti?» «No.» Il viso livido di Angie era rigato di lacrime. «Non puoi costringermi.» «Lasciala in pace.» Kate si alzò. Cristo, doveva fare qualcosa prima che la ragazza si tagliasse a fette.
Lo sguardo di Rob era inchiodato su Angie. «Avanti, Angie, parla. Basta con i giochetti.» Angie lo fissava con odio, tremando in modo visibile. «Dove ti ha portato? Che cosa ti ha fatto?» «Vaffanculo!» gridò lei. «Non mi presterò al tuo gioco.» «Sì che lo farai, Angie», ribatté lui in tono minaccioso. «Non hai scelta.» «Vaffanculo! Ti odio!» Urlando, si alzò dal divano con il braccio alzato, la lama lampeggiante. Kate reagì in fretta, lanciando il plaid di ciniglia in modo da coprire il coltello e gettandosi al contempo su Angie. La ragazza urlò mentre cadevano, rovesciando il tavolino e sparpagliando i rapporti sulle vittime. Kate la tenne inchiodata al pavimento mentre si dibatteva e provò un'ondata di sollievo. Rob raccolse il coltello, chiudendo la lama e mettendolo in tasca. Angie singhiozzava. Kate si mise in ginocchio e la prese fra le braccia per confortarla. «Va tutto bene. Ora sei al sicuro.» Angie si liberò, fissandola con un'espressione incredula e furiosa. «Stupida puttana», mormorò. «Ora sei morta.» 34 «Gli squali fiutano il sangue nell'acqua», commentò Quinn, fissando la folla che affluiva in vista della conferenza stampa. «Sì, e parte di quel sangue è mio», ribatté Kovac. «Sam, ti posso garantire che, con Vanlees in stato di arresto, di te non importa niente a nessuno.» L'idea parve deprimere ancora di più Kovac, e del resto non era di conforto neanche a Quinn. Che gli uomini di Bondurant avessero fatto trapelare alla stampa indiscrezioni su Vanlees era già abbastanza fastidioso, ma che la polizia ne parlasse apertamente come di un sospetto era pericolosamente prematuro. Lui lo aveva fatto notare al sindaco, a Greer e a Sabin: se decidevano di ignorare il suo parere era affar loro. Ciò non toglieva che sentisse l'ansia scavargli un altro buco nella parete dello stomaco. Il sindaco aveva scelto come sfondo per la conferenza stampa l'ingresso d'onore, sulla Quarta Strada: una cattedrale di marmo levigato con un'imponente scala doppia e i pannelli di vetri colorati. Quel genere di ambiente in cui i politici potevano restare in piedi sulle scale, al di sopra dei comuni mortali, per darsi arie d'importanza, mentre lo splendore del marmo si ri-
fletteva sulla loro pelle, facendoli apparire più radiosi dei comuni cittadini. Quinn e Kovac assistevano da un angolino in ombra, mentre la televisione e la stampa si contendevano i posti migliori. Sulle scale, il sindaco e Sabin si stavano consultando, mentre l'assistente del sindaco le spazzolava il vestito. Di Peter, neanche l'ombra. Non che Quinn si aspettasse di vederlo, dopo quella mattina. Pure, non poteva fare a meno di interrogarsi sullo stato mentale di Bondurandt e sui motivi che avevano indotto Lucas Brandt ad accorrere con la sua piccola borsa nera. La presunta morte di Jillian, o la rivelazione di quello che poteva essere accaduto anni prima? «Guarda l'idolo del giorno», osservò Kovac in tono di derisione, fissando Yurek. «Destinato a un ufficio d'angolo. Al piano di sopra lo adorano. Con un sorriso da un milione di dollari sulle labbra, non esita a usarlo per leccare il culo.» «Geloso?» Kovac rispose con una delle sue tipiche smorfie. «Io sono fatto per azzannare, non per leccare.» «Perlomeno non è amareggiato.» «Io sono nato amareggiato.» Vince Walsh annunciò il suo arrivo con un attacco di tosse catarrosa. «Dannato raffreddore», si lamentò. Aveva il colorito giallastro di un corpo imbalsamato, mentre porgeva a Kovac una busta di carta. «La cartella clinica di Jillian Bondurant, o almeno quello che LeBlanc era disposto a consegnare. Ci sono delle radiografie. Vuole prenderle, o devo lasciarle al patologo?» «Io sono fuori, lo sa», rispose Kovac, prendendo in consegna la busta. «Ora il capo è Yurek.» Walsh rischiò di strozzarsi con il catarro, poi fece una smorfia acida. Kovac annuì. «Esattamente quello che ho detto io.» Peter attese che la conferenza stampa fosse iniziata prima di entrare nell'edificio. Gli era bastato chiamare Edwyn sul cellulare dal telefono della macchina. Noble non poteva sapere che lui non era più in casa. Peter aveva mandato via i dipendenti incaricati da Edwyn di tenerlo d'occhio, e loro avevano obbedito senza discutere. Era lui che pagava il salario, dopoutto. Entrò nell'atrio con la borsa di tela fra le braccia. Sul podio c'era Greer, che esaltava le qualifiche professionali dell'uomo prescelto per succedere a Kovac a capo della task force. Peter non lo ascoltò neppure. La task force
non gli interessava più. Lui sapeva chi aveva ucciso Jillian. Avanzò lungo un lato della folla, dirigendosi verso le scale con la sensazione di essere invisibile. Forse lo era. Forse era già un fantasma. Per tutta la vita aveva avvertito un vuoto nell'anima, un vuoto che nulla era in grado di colmare. Forse lo aveva eroso dall'interno per tanto tempo da far evaporare l'essenza di ciò che lo aveva reso umano, facendolo diventare invisibile. Quinn vide arrivare Bondurant. Stranamente, pareva che fosse il solo. Forse nessun altro guardava con sufficiente attenzione. Erano tutti concentrati sul podio e sull'ultima bordata di idiozie che volevano diffondere attraverso la televisione e i giornali. E poi c'era il fatto che aveva un'aria vagamente trasandata: con la barba lunga, trascurato, non era il Peter Bondurant di sempre, con il vestito su misura e tutti i capelli in ordine. La pelle era così pallida che sembrava trasparente, il viso scavato, come se il corpo divorasse se stesso dall'interno. I suoi occhi incontrarono quelli di Quinn, poi si fermò dietro gli operatori della televisione e rimase immobile, con una borsa di tela nera fra le braccia. L'istinto di Quinn si ridestò proprio mentre Greer lo invitava a salire sul podio. Le luci accecanti dei riflettori gli impedivano di vedere Bondurant. Si domandò se Kovac lo avesse notato. «Vorrei sottolineare», cominciò, «che l'interrogatorio di un possibile sospetto non mette fine alle indagini.» «Lei crede che Vanlees sia il Crematore?» gridò un giornalista. «Non ritengo prudente sbilanciarmi in un senso o nell'altro.» Tentò di spostarsi in modo da vedere di nuovo Bondurant, ma non era più dove l'aveva visto poco prima. «Ma Vanlees corrisponde al profilo. Conosceva Jillian Bondurant...» «Non è vero che aveva in suo possesso dei capi di vestiario della vittima, quando è stato arrestato?» chiese un altro. «No comment.» «Non ha niente da dire sul caso Bondurant?» «L'ho uccisa io.» Peter uscì allo scoperto, aggirando un cameraman ai piedi delle scale e voltandosi verso la folla. Per un attimo nessuno, tranne Quinn, capì che la confessione proveniva da lui. Poi si puntò alla testa una semiautomatica da nove millimetri, e la folla fu percorsa da un'ondata di emozione.
«L'ho uccisa io!» gridò Peter, più forte. Sembrava stupito dalla sua stessa confessione, con gli occhi dilatati e sporgenti, il volto pallido, la bocca aperta. Guardava la pistola con terrore, come se fosse qualcun altro a impugnarla. Salì le scale procedendo di lato e saettando occhiate alla folla, alle persone vicine al podio: il sindaco Noble, il capo Greer, Ted Sabin, che si immobilizzarono, fissandolo come se non lo avessero mai visto prima di allora. Quinn rimase al suo posto. «Peter, metta giù la pistola», ordinò con fermezza. Il microfono amplificò la sua voce e la trasmise a tutta la sala. Bondurant scosse la testa. Il suo viso era scosso da fremiti che lo deformavano. Teneva stretta al petto, con il braccio sinistro, la borsa di tela. Alle sue spalle, Quinn vide due agenti in divisa che avanzavano, con la pistola in pugno, tenendosi bassi. «Peter, lei non vuole farlo», disse in tono calmo, sommesso, spostandosi leggermente dal podio. «Le ho rovinato la vita. L'ho uccisa. Ora tocca a me.» «Perché qui? Perché ora?» «Perché tutti sappiano», rispose lui con voce soffocata. «Così sapranno tutti chi sono.» Edwyn Noble avanzò dalla prima fila verso le scale. «Peter, non farlo.» «Cos'è che non dovrei fare?» domandò Bondurant. «Rovinare la mia reputazione? O la tua?» «Non dire sciocchezze! Posa la pistola.» Peter non gli dava ascolto. La sua angoscia era quasi palpabile, «È tutta colpa mia», disse, piangendo. «Sono stato io e ora devo pagare. Qui. Subito. Non ce la faccio più.» «Venga con me, Peter», gli disse Quinn, avanzando di un passo e tendendo la mano sinistra. «Perché non ci sediamo, così può raccontarmi tutta la storia? È questo che vuole, non è vero?» Sentiva il ronzio del motorino elettrico delle macchine fotografiche, impegnate a scattare una foto dietro l'altra. Anche le videocamere ronzavano, alcune trasmettendo dal vivo. Tutti erano intenti a registrare l'agonia di quell'uomo per il loro pubblico. «Di me può fidarsi, Peter. È dal primo giorno che le chiedo la verità. È tutto quello che voglio, la verità, e lei può darmela.» «L'ho uccisa io, l'ho uccisa io», ripeteva all'infinito Bondurant, con le guance rigate di lacrime.
La mano che impugnava la pistola tremava come una foglia. Ancora un minuto, e i muscoli esausti lo avrebbero costretto ad abbassarla. Se prima non si faceva saltare via la testa. «È stato lei a farmi venire, Peter», insistette Quinn. «Mi ha fatto venire qui per una ragione. Voleva dirmi la verità.» «Oh, mio Dio. Oh, mio Dio!» esclamò Bondurant singhiozzando, dilaniato da una lotta interiore spaventosa, che lo straziava. Ora tutto il braccio tremava. Armò il cane della pistola. «Peter, no!» ordinò Quinn, slanciandosi verso di lui. L'arma sparò. Nella sala echeggiarono grida e richiami. Con una frazione di secondo di ritardo, Quinn afferrò il polso di Peter, torcendolo verso l'alto. Partì un altro colpo. Kovac accorse alle spalle di Peter, spalleggiato dagli agenti in divisa, e gli tolse di mano la pistola. Bondurant si accasciò addosso a Quinn, singhiozzando. Perdeva sangue, ma era vivo. Quinn lo adagiò con delicatezza sui gradini di marmo. Il primo colpo lo aveva raggiunto di striscio sopra la tempia, scavando un solco di cinque centimetri nel cuoio capelluto, prima di proseguire verso il piano superiore dell'edificio. La pelle era annerita dalla polvere da sparo. Bondurant abbassò la testa fra le ginocchia e vomitò. Il frastuono era assordante. I fotografi si precipitarono in avanti per ottenere un'inquadratura migliore. Edwyn Noble ne spinse da parte un paio per raggiungere il suo cliente. «Non dire una parola, Peter.» Kovac gli lanciò uno sguardo disgustato. «Sa, penso che sia un po' tardi per questo.» Ted Sabin salì sul podio per invocare ordine e calma, mentre il sindaco piangeva e Dick Greer redarguiva i capitani di polizia del suo seguito. Gli agenti si occupavano del loro lavoro, registrando la pistola e aprendo un varco per il passaggio dei paramedici. Quinn si accovacciò al fianco di Peter, tenendo una mano sul polso dell'uomo e notando che aveva un battito irregolare. Lui stesso si sentiva martellare il cuore nel petto. Sarebbe bastato qualche millimetro, e una mano più salda, e Peter Bondurant si sarebbe fatto saltare le cervella in diretta, davanti a mezza nazione. Un evento che sarebbe stato trasmesso durante il notiziario della sera con l'avvertenza: «Vi segnaliamo che la scena potrebbe non essere adatta a un pubblico sensibile...» «Ha il diritto di restare in silenzio, Peter», gli disse a bassa voce. «Tutto ciò che dirà potrebbe essere usato contro di lei in giudizio.»
«Deve farlo proprio adesso?» gli chiese Noble, in un sussurro aspro. «La stampa ci guarda.» «Guardavano anche quando è salito sul palco impugnando una pistola carica», ribatté Peter, attirando a sé la borsa di tela che Peter aveva usato per introdurre l'arma nella sala. Bondurant, che singhiozzava in modo incontrollabile, tentò per un attimo di trattenerla, poi rinunciò al tentativo, e si accasciò inerte. «Mi sembra che siano state già commesse molte infrazioni alle regole, nel caso di Peter», osservò Quinn. Consegnò la borsa a Vince Walsh. «È pesante. Forse ci sono dentro altre armi.» «Lei ha il diritto all'assistenza di un avvocato durante l'interrogatorio», continuò Kovac, recitando i diritti dell'arrestato mentre gli metteva le manette. «Dio Cristo!» esclamò una voce roca. Alzando la testa, Quinn vide Walsh lasciar cadere la borsa di tela, portandosi le mani al collo, con il viso paonazzo. In seguito i medici dissero che era morto sul colpo, prim'ancora di toccare il suolo, proprio accanto alla borsa che conteneva la testa recisa di Jillian Bondurant. 35 Kate indietreggiò, allontanandosi da Angie senza soffermarsi a ragionare su quello che le aveva detto. Ansimava e, siccome nella caduta aveva urtato il gomito contro il tavolino, se lo massaggiò con delicatezza, cercando di schiarirsi le idee. Angie era in ginocchio e urlava come un'ossessa, martellandosi la testa di colpi, con le mani insanguinate. Il sangue filtrava dai jeans attraverso le fessure che aveva praticato nella tela con il coltello s serramanico. «Mio Dio», mormorò Kate, scossa, poi arretrò verso la scrivania per telefonare. Rob era in piedi, a un metro di distanza da lei, e fissava la ragazza con un interesse curioso, come uno scienziato che osservi un esemplare raro. «Parlaci, Angie», disse a bassa voce. «Dicci quello che provi.» «Cristo, Rob», scattò Kate mentre sollevava il ricevitore del telefono. «Lasciala in pace! Va' in cucina a prendere una salvietta bagnata.» Invece lui si avvicinò ad Angie, estrasse dalla tasca del giaccone un
manganello di cuoio lungo quindici centimetri e la colpì sulla schiena. La ragazza urlò e cadde sul fianco, inarcando il dorso come per tentare di sfuggire al dolore. Kate rimase stordita, fissando a bocca aperta il suo superiore. «Cosa...?» cominciò, poi si interruppe, deglutendo a fatica con il cuore che le batteva all'impazzata. «Che cosa ti prende?» domandò infine, senza fiato per lo stupore. Rob Marshall si girò a fissarla senza mascherare l'odio. Quello sguardo ardente trafisse Kate come la lama di una spada. Rimase immobile, mentre il tempo si prolungava all'infinito e il suo istinto di autodifesa si ridestava, di fronte alla scoperta che il telefono era muto. «Tu non hai nessun rispetto per me, Kate, cagna fottuta», le disse Rob in tono sommesso e minaccioso. Quelle parole e l'odio che le ispirava la colpirono come un pugno, lasciandola stordita per un attimo e poi scuotendola, mentre i pezzi del rompicapo andavano al loro posto. «Chi ha tentato di strangolarti, Angie? Lo conoscevi?» «Certo... Lo conosci anche tu.» «...Va tutto bene, Angie. Ora sei al sicuro.» «Stupida puttana. Ora sei morta.» Rob Marshall? No. L'idea sembrava quasi risibile. Quasi. Solo che il telefono funzionava, prima che lei facesse la doccia, e ora Rob era davanti a lei con un'arma in mano. Abbassò il ricevitore. «Ne ho abbastanza di te», ringhiò lui. «Sempre lì a punzecchiarmi, sempre a discutere, a sminuirmi. Guardandomi dall'alto in basso.» Ai suoi piedi erano sparsi sul pavimento i rapporti sulle vittime. Tutte erano state doppiamente vittime. Lo aveva pensato una mezza dozzina di volte, quella mattina, mentre esaminava i rapporti, ma non ci aveva riflettuto abbastanza a fondo. Lila White era stata anche vittima di un'aggressione. Fawn Pierce, di uno stupro. Melanie Hessler, anche lei di uno stupro. Prima o poi, tutte quante avevano avuto a che fare con il servizio di protezione vittime e testimoni. L'unica che non rientrava nel quadro era Jillian. «Ma tu dovresti proteggere le vittime, in nome di Dio», mormorò. E grazie alla sua posizione poteva ascoltare resoconti su resoconti di
persone vittimizzate, per lo più donne brutalizzate, picchiate, violentate, degradate... Quante volte l'aveva costretta a sentire i nastri dei colloqui con Melanie Hessler? E lui era lì ad ascoltare, a riavvolgere il nastro, tornando più volte sugli stessi passi. Ripensò a Rob quando era andato a guardare il cadavere carbonizzato, tornando agitato e visibilmente sconvolto. Ma quella che lei aveva scambiato per angoscia era invece eccitazione. Oh, mio Dio. Si sentì salire la bile in gola, pensando a tutte le parole offensive che gli aveva detto. Oh, mio Dio, sono morta. «Mi dispiace», gli disse, vagliando in un baleno tutte le possibilità. La porta d'ingresso era distante appena tre metri. Il viso di Rob si contrasse spasmodicamente. «No, non è vero. Non ti dispiace per il modo in cui mi hai trattato. Ti dispiace che stia per ucciderti per questo.» «Angie, scappa!» gridò Kate, Afferrò l'apparecchio del fax, strappandolo dalla presa e lanciandolo contro Rob. Lo colpì al petto, facendogli perdere l'equilibrio. Si lanciò poi verso la porta, ma scivolò su uno dei rapporti, un errore che le costò una frazione di secondo preziosa. Lui l'afferrò per una manica e vibrò un colpo violento con il manganello. Nonostante il pesante strato di lana del cappotto, Kate sentì quel peso micidiale abbattersi sulla sua spalla. Se lei fosse stata raggiunta alla testa, sarebbe crollata a corpo morto. Si girò di lato per sfuggire alla sua presa, poi sfruttò il suo stesso slancio per spingerlo lontano da sé, nel corridoio. Afferrandogli il braccio sinistro e torcendoglielo dietro la schiena mentre le passava accanto, lo spinse contro il tavolino dell'ingresso e si allontanò di scatto, prima di sentirlo piombare a terra, per correre verso la porta, che ora le sembrava lontana un chilometro. Rob si lasciò sfuggire un ruggito e la placcò alle spalle. Finirono sul pavimento con violenza e Kate gridò nel sentire il braccio destro che si torceva sotto di lei con un'angolazione innaturale, con uno strappo lacerante dei muscoli della spalla. Il dolore l'assalì violento come una fiammata. Cercò di ignorarlo, come meglio poteva, e tentò di liberarsi scalciando per raggiungere carponi la
porta, ma Rob l'afferrò per i capelli, sferrandole un pugno sulla tempia destra. La vista le si annebbiò e l'orecchio cominciò a ronzare e a bruciare in modo infernale, mentre un dolore acuto le saettava nel viso e lungo la mascella. «Puttana!» le ripeteva lui, come invasato. Poi le serrò le mani intorno alla gola, soffocandola, e le grida a poco a poco si attutirono. Kate si dibatté freneticamente, artigliando le mani di Rob, ma lui aveva le dita corte, spesse e forti. Kate non riusciva più a respirare, aveva l'impressione che gli occhi le sporgessero dalle orbite e il cervello si gonfiasse nel cranio. Con l'ultimo barlume di buon senso che le restava, decise di afflosciarsi, restando inerte. Rob continuò a stringere, per qualche secondo interminabile, poi le sbatté la testa sul pavimento. Lei lo sentì vaneggiare, ma non riuscì a distinguere le parole, perché il sangue le affluiva di nuovo al cervello, con un rombo fragoroso. Tentò di non aspirare troppo avidamente le boccate di ossigeno di cui aveva disperatamente bisogno, e nello stesso tempo di non perdere i sensi. Doveva restare lucida per pensare, ma non alla scena del delitto che aveva visto, non al corpo carbonizzato della sua cliente, non alle foto dell autopsia delle quattro donne che quell'uomo aveva torturato e mutilato. «Tu credi che non sappia fare niente di buono!» gridava Rob, alzandosi. «Mi consideri un idiota!» Senza riuscire a vederlo, Kate spostò a poco a poco la mano sinistra verso la tasca del cappotto. «Sei una fottuta puttana!» urlò lui, prendendola a calci, troppo delirante per accorgersi che Kate si lasciava sfuggire un gemito di dolore. Lei strinse i denti e si concentrò sullo sforzo di spostare la mano verso la tasca, un centimetro alla volta. «Ma non mi conosci», dichiarò Rob. «Tu non sai niente di me, di come sono veramente!» E non avrebbe mai sospettato di lui. Dio santo, aveva lavorato a fianco di quell'uomo per un anno e mezzo e mai avrebbe sospettato che fosse capace di tanto. «Mi credi una nullità!» urlò lui. «Invece sono qualcuno! Io sono l'Angelo del Male! Sono il Crematore! E ora che te ne sembra, eh, puttana?» Si accovacciò sul pavimento vicino a lei, girandola sul dorso. Kate rimase con gli occhi socchiusi, la mano in tasca, con le dita che scivolavano intorno all'impugnatura della limetta di metallo.
«Ti ho lasciata per ultima», disse Rob. «Dovrai supplicarmi di ucciderti. E farlo sarà una gioia per me.» 36 «Che cosa è successo quella notte, Peter?» domandò Quinn. Erano seduti in una squallida stanzetta bianca nelle viscere del municipio, poco lontano dall'ufficio in cui venivano registrati i detenuti adulti. Bondurant aveva bruscamente rifiutato di farsi assistere da un legale e ricoverare in ospedale. Aveva permesso solo a un infermiere di ripulirgli la ferita al cuoio capelluto, lì, sulle scale, dove aveva tentato di farla finita una volta per tutte. Edwyn Noble aveva sbraitato come un ossesso, insistendo per essere presente all'interrogatorio, ma Peter l'aveva avuta vinta, dichiarando davanti a una dozzina di telecamere che voleva confessare. Nella stanza, oltre a lui, c'erano Quinn e Yurek. Peter avrebbe voluto soltanto Quinn, ma la polizia aveva preteso che fosse presente un loro rappresentante. Nessuno aveva nominato Kovac. «Jillian venne a cena da me», cominciò Bondurant. Era pallido e smagrito, con gli occhi rossi e vacui. «Era in una fase di instabilità. Un momento era euforica e rideva, quello dopo diventava brusca e scostante. Era sempre stata così, come sua madre. Fin da piccola» «Per quale motivo cominciaste a litigare?» Lui fissò una chiazza rosa sulla parete opposta della stanza, forse una macchia di sangue che qualcuno aveva cercato di ripulire. «La scuola, la musica, la terapia, il patrigno, me.» «Voleva riprendere la relazione con LeBlanc?» «Aveva parlato con lui. Mi disse che pensava di tornare in Francia.» «Lei era in collera.» «In collera», ripeté Bondurant con un sospiro. «Non è la parola adatta. Ero sconvolto e provavo un tremendo senso di colpa.» «Perché?» Rifletté a lungo prima di rispondere, come se scegliesse con cura ogni parola. «Perché era colpa mia... tutto quello che era successo fra Jillian e LeBlanc. Avrei potuto impedirlo. Avrei potuto oppormi a Sophie per ottenere l'affidamento, invece avevo rinunciato.» «Lei minacciava di denunciarla per le molestie a Jillian», gli rammentò Quinn.
«Per le presunte molestie», lo corresse Peter. «Aveva addirittura istruito Jillian su come parlare e comportarsi per convincere la gente che era vero.» «Invece non era così?» «Jillian era la mia bambina. Non avrei mai potuto farle del male.» Mentre rifletteva su quella risposta, il suo autocontrollo s'incrinò. Coprendosi la bocca con una mano tremante, pianse per un attimo, in silenzio. «Come avrei potuto sapere?» «Conosceva lo stato mentale di Sophie», gli fece notare Quinn. «Stavo rilevando la quota di Don Thorton. Avevo in sospeso parecchi contratti molto importanti con il governo. Lei avrebbe potuto rovinarmi.» Quinn non replicò, lasciando a Bondurant il tempo di riflettere, come aveva fatto senza dubbio migliaia di volte, durante la settimana. Bondurant si lasciò sfuggire un sospiro, fissando il tavolo. «Così avevo consegnato mia figlia a una pazza isterica. Avrei fatto meglio a ucciderla allora.» «Che cosa accadde venerdì sera?» gli chiese di nuovo Quinn, riportandolo al presente. «Discutemmo a proposito di LeBlanc. Lei mi accusò di non volerle bene e si chiuse per qualche tempo nella sala da musica. La lasciai sola e mi ritirai in biblioteca, dove mi sedetti davanti al fuoco a bere un cognac. «Verso le undici e mezzo entrò nella stanza alle mie spalle, cantando. Aveva una voce bellissima, eterea, ossessiva. La canzone era oscena, disgustosa. Racchiudeva tutto ciò che Sophie le aveva insegnato a dire contro di me tanti anni prima: le cose che in teoria le avrei fatto.» «Questo la fece infuriare.» «Mi nauseò. Mi alzai per dirglielo, e me la trovai davanti nuda. 'Non mi desideri, papà?' mi chiese. 'Non mi ami?'» Il solo ripensare a quella scena lo lasciò sbigottito e disgustato. Assalito da violenti conati di vomito, si chinò sul cestino dei rifiuti che si trovava vicino alla sua sedia, ma ormai nello stomaco non aveva più niente. Quinn rimase in attesa, calmo, volutamente distaccato. «Ebbe un rapporto sessuale con lei?» domandò Yurek. Quinn lo fulminò con gli occhi. «Mio Dio, no!» proruppe Peter, indignato. «Che cosa successe in seguito?» chiese Quinn. «Litigaste e lei fuggì via.» «Sì», confermò lui, calmandosi. «Litigammo. Le dissi cose che non a-
vrei dovuto dire. Lei era troppo fragile, ma io ero sconvolto e infuriato. Jillian uscì di corsa dalla stanza, si rivestì e se ne andò. Non l'ho più rivista da viva.» Yurek parve confuso e deluso. «Non ha detto di averla uccisa lei?» «Ma non capisce? Avrei potuto salvarla, e invece non l'ho fatto. La prima volta l'ho lasciata andare per salvare me stesso, la mia azienda, il mio patrimonio. È colpa mia se è diventata quello che era. Venerdì sera la lasciai andare perché non volevo fare i conti con la realtà, e ora è morta. L'ho uccisa io, detective. È come se l'avessi pugnalata al cuore con le mie mani.» Yurek spinse indietro la sedia per alzarsi e cominciare a camminare avanti e indietro, come se si fosse accorto di essere stato truffato al gioco delle tre carte. «Andiamo, signor Bondurant, si aspetta che noi le crediamo? È arrivato con la testa di sua figlia dentro una borsa. Questo che cosa sarebbe, un souvenir che le ha inviato il vero killer?» Bondurant non rispose. Sconvolto dall'accenno alla testa di Jillian, si era chiuso di nuovo in se stesso. «Peter», disse Quinn per richiamarlo al presente. «Che cosa faceva in casa di Jillian, nelle prime ore di domenica mattina?» «Ero andato a trovarla, per vedere se stava bene.» «In piena notte?» obiettò Yurek, dubbioso. «Non rispondeva alle mie telefonate. Il sabato l'avevo lasciata in pace, dando ascolto a Lucas Brandt. Ma domenica mattina... sentii che dovevo fare qualcosa.» «Così entrò in casa sua», disse Quinn. «Pensavo che fosse a letto, poi mi chiesi nel letto di chi. L'aspettai.» «E che cosa fece, mentre aspettava?» «Le pulizie», rispose, come se fosse del tutto naturale. «La casa sembrava un porcile», aggiunse con una smorfia disgustata. «Sporca, in disordine, piena di rifiuti.» «Come la vita di Jillian?» disse Quinn in tono gentile. Gli occhi di Bondurant si riempirono di lacrime. Quelle pulizie avevano più che altro un valore simbolico. Non era riuscito a cambiare la vita di sua figlia, ma poteva almeno mettere ordine nell'ambiente in cui viveva. Un atto di controllo, e forse di affetto. «Cancellò i messaggi sulla segreteria telefonica?» chiese Quinn. Bondurant annuì. «Ce n'era qualcuno di LeBlanc?»
«Quel figlio di puttana! Lui è responsabile quanto me!» Si accasciò sul tavolo, squassato da violenti singhiozzi che sembravano squarciargli il petto. Quinn attese, pensando a lui che, facendo le pulizie, s'imbatteva nelle canzoni di Jillian. Forse era stata proprio la musica il motivo principale per cui era andato in casa della figlia, dopo l'incidente di venerdì sera nello studio, ma ora Peter, attanagliato dal senso di colpa, sosteneva che il suo primo pensiero era stato il benessere di Jillian. Quinn si protese in avanti, posandogli la mano sul polso per stabilire un contatto fisico, cercando di riportarlo al presente. «Peter? Sa chi ha ucciso sua figlia, in realtà?» «La sua amica», rispose Bondurant. «La sua amica Michelle Fine.» «Che cosa glielo fa pensare?» «Ha tentato di ricattarmi.» «Cosa?» «Fino a ieri sera.» «Che cosa è successo, ieri sera?» «L'ho uccisa.» Edwyn Noble gli piombò addosso nell'attimo stesso in cui uscì dalla stanza degli interrogatori. «Niente di tutto questo potrà essere portato come prova in tribunale, Quinn», lo ammonì. «È stato lui a rifiutare l'assistenza di un legale.» «È chiaro che non è in grado di prendere decisioni del genere.» «Se la veda con il giudice», replicò Sabin. I due legali si affrontarono come una coppia di cobra, mentre Yurek prendeva in disparte il viceprocuratore Logan per ottenere un mandato di perquisizione della casa di Michelle Fine. Kovac era in attesa nel corridoio, appoggiato alla parete, senza fumare. Il coyote solitario. «Le serve un passaggio, GQ?» disse con aria speranzosa. «Devo essere diventato masochista. Mi pare impossibile che sia proprio io a dirlo, comunque andiamo.» Superarono le forche caudine dei media, Quinn opponendo un ferreo: «No comment» a tutte le domande che gli venivano rivolte. Non aprì bocca finché Kovac mise in moto, allontanandosi con un rombo dal marciapiede. «Bondurant dice che ha sparato a Michelle Fine, lasciando il corpo nel
Minneapolis Sculpture Garden. Michelle tentava di ricattarlo con alcune delle composizioni più compromettenti di Jillian e con le presunte confessioni che lei gli aveva fatto. Ieri sera doveva avvenire il pagamento. Lui portava i soldi, lei consegnava i fogli di musica e i nastri che aveva, e tutto il resto. «In quel momento Bondurant non sapeva che la ragazza fosse coinvolta nell'omicidio di Jillian. Ci ha detto che era disposto a pagare per tenere segreta la storia, ma si era portato dietro una pistola.» «A me sembra premeditazione», commentò Kovac, azionando la luce girevole sul cruscotto. «Esatto. Poi Michelle si presenta con la roba dentro una borsa di tela. Gli mostra qualche spartito, un paio di cassette, e richiude la lampo della borsa. Avviene lo scambio e lei se ne va, non pensando che lui guarderà subito nella borsa.» «Mai dare nulla per scontato.» Quinn si aggrappò allo sportello e puntò i piedi mentre l'auto sterzava bruscamente a destra a un semaforo rosso, scatenando un concerto di clacson. «Invece lui guardò. Poi le sparò alla schiena e la lasciò lì dov'era.» «Che cosa diavolo pensava di fare Michelle, nel consegnargli la testa?» «Contava di essere già lontana, quando lui avrebbe chiamato la polizia», ipotizzò Quinn. «Ho notato delle riviste di viaggi nel suo appartamento, quando Liska e io ci siamo andati, L'altro giorno. Scommetto che pensava di raggiungere direttamente l'aeroporto e prendere un aereo.» «E Vanlees? Ha detto niente su Vanlees?» Quinn trattenne il fiato, mentre Kovac s'infilava fra un autobus delle linee urbane e un furgone. «Niente.» «Non penserà che lei lavorasse da sola?» «No. Sappiamo che non era sola a uccidere, e anche il ricatto non lo avrebbe mai tentato da sola. Le vittime consenzienti di un sadico sessuale sono come burattini. È il partner a esercitare il potere, a controllarle ricorrendo ad abusi fisici, psicologici e sessuali. Non può aver agito da sola.» «E Vanlees era già sotto custodia, quando è accaduto questo.» «Probabilmente il piano era già prestabilito e lei lo ha seguito senza sapere dove fosse il partner. Non avrebbe mai avuto il coraggio di disobbedire. Ammesso che il partner sia lui.» «Si conoscevano.» «Anche io e lei ci conosciamo, ma non abbiamo ucciso nessuno. Stento
a credere che Vanlees sia in grado di manipolare qualcuno a quel livello.» «Allora chi è?» «Non lo so», rispose Quinn. «Ma se abbiamo Michelle Fine, abbiamo anche un filo da seguire.» Li avevano preceduti quattro autopattuglie. Il Minneapolis Sculpture Garden era un parco vasto circa quattro ettari, nel quale erano disposte oltre quaranta statue di artisti di primo piano: il pezzo forte era un cucchiaio lungo quindici metri che conteneva una ciliegia alta circa tre. Un posto che doveva apparire surreale anche nelle condizioni migliori, pensò Quinn; come scena di un delitto, sembrava preso da Alice nel Paese delle Meraviglie. «Bondurant dice che avevano appuntamento vicino al cucchiaio», disse Quinn, mentre procedevano in quella direzione. «È sicuro di averla colpita?» obiettò Kovac. «Era buio.» «Sostiene di averla colpita, di averla sentita gridare mentre cadeva a terra.» «Quaggiù!» esclamò uno degli agenti in divisa. Quinn si mise a correre insieme con gli altri. «È morta?» chiese Yurek, arrivando sul posto. «Morta? Diamine», rispose l'agente, indicando una grande macchia di sangue color ciliegia nella neve. «Se n'è andata.» 37 Rob afferrò Kate per i capelli, cominciando a sollevarla, mentre lei serrava le dita nella tasca, intorno alla lima di metallo. Aspettava. Forse quella era l'arma migliore sulla quale poteva sperare di mettere le mani, ma doveva usarla con precisione, al momento giusto. Le varie strategie possibili le turbinavano in testa come cavie in un labirinto, alla disperata ricerca di una via d'uscita. Rob la schiaffeggiò, e il sapore del sangue le fiorì nella bocca come una rosa. «Lo so che non sei morta. Continui a sottovalutarmi, anche adesso, Kate. È molto stupido da parte tua.» Kate lasciò ricadere la testa, ripiegando le gambe sotto di sé. Lui voleva vederla spaventata, voleva leggerle la paura negli occhi, sentirne l'odore sulla sua pelle, udirla nella sua voce. Ecco qual era la sua ossessione. Ecco
qual era il suo scopo quando sentiva i nastri delle vittime, sue e altrui. Ora la voleva terrorizzata e sottomessa. Voleva che si pentisse di ogni volta che gli aveva parlato con sarcasmo, di ogni volta che lo aveva sfidato. E se lei gli avesse dato ciò che voleva, il senso di trionfo non avrebbe fatto altro che alimentare la sua crudeltà. «Oggi sarò il tuo padrone, Kate», le disse in tono drammatico. Lei alzò la testa per lanciargli con calma una lunga occhiata carica di veleno. Gliel'avrebbe fatta pagare, ma sembrava l'unica via. Poi, con molta determinazione, gli sputò in faccia. «Un corno, piccolo stronzo miserabile.» Inferocito, lui la colpì subito con il manganello. Kate schivò il colpo e si slanciò verso l'alto, stringendo i denti per colpirlo sotto il mento con il gomito destro. Poi estrasse di tasca la lima per le unghie e gliela conficcò nel collo, poco più su della clavicola. Rob urlò selvaggiamente, afferrando la limetta e cadendo all'indietro sul tavolino, mentre Kate correva in cucina. Se solo fosse riuscita a uscire di casa, a raggiungere la strada. Lui aveva messo certamente fuori uso la macchina, quindi per trovare aiuto Kate doveva arrivare sulla strada. Attraversò in un lampo la sala da pranzo, rovesciando le sedie al suo passaggio, poi si precipitò in cucina. E fu allora che si sentì perduta. Angie le sbarrava la strada, ferma davanti alla porta sul retro, con il viso rigato di lacrime e un coltello da macellaio in mano, puntato verso il petto di Kate. «Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace», singhiozzava, scossa da un tremito violento. Di colpo, la conversazione fra Angie e Rob nello studio assunse una dimensione tutta nuova. I frammenti del rompicapo andarono al loro posto, ricostruendo il quadro della verità, ma era un quadro distorto e surreale. Se Rob era il Crematore, era lui quello che Angie aveva visto nel parco. Eppure l'uomo dell'identikit disegnato da Oscar seguendo le sue istruzioni non somigliava affatto a Marshall... Un attimo dopo, Rob Marshall varcava la soglia, alle sue spalle, e quasi duecento grammi d'acciaio rivestito di sabbia e di cuoio la colpirono alla base del cranio. Le gambe cedettero all'istante e Kate cadde in ginocchio sul pavimento della cucina. L'ultima immagine che le rimase negli occhi fu quella di Angie DiMarco. Ecco perché non lavoro con gli adolescenti. Non si sa mai quello che
hanno in mente. Poi tutto divenne buio. Le riviste di viaggi erano ancora sparse sul tavolino di Michelle Fine, con le pagine piegate e le destinazioni contrassegnate da un circoletto con annotazioni in margine. L'assassino in veste di turista, pensò Quinn, sfogliandole. Controllando le compagnie aeree, la polizia avrebbe potuto scoprire se aveva prenotato un volo per una o più di quelle località. Nel caso la fortuna fosse dalla loro parte, avrebbero scoperto anche qualche prenotazione a nome del suo partner, chiunque fosse. Data la quantità di sangue trovata nel parco delle sculture, era estremamente improbabile che Michelle Fine si fosse allontanata da sola. Gil Vanlees era in stato di fermo, eppure tanto Michelle quanto il denaro che Peter Bondurant aveva portato con sé e lasciato sul posto erano scomparsi. I poliziotti sciamarono nell'appartamento come formiche, frugando in ogni angolo, in cerca di qualcosa che fornisse un indizio sul partner di Michelle, mentre Adler e Yurek setacciavano il vicinato chiedendo informazioni. La conoscevano? L'avevano vista? Aveva un ragazzo? Il soggiorno era esattamente nello stesso stato del giorno prima, polvere e posaceneri sporchi compresi. Tippen trovò una pipetta per il crack nel cassetto di un tavolino. Quinn percorse il corridoio, lanciando un'occhiata in un bagno degno di una stazione di servizio per camionisti, poi proseguì verso la camera da letto. Il letto era disfatto, con gli abiti sparsi in giro. Come nel resto dell'appartamento, non c'era nessun tocco personale, nessuna decorazione, tranne che sulla finestra rivolta a sud, verso il retro di un altro edificio. «Là, guardate», esclamò Liska con voce strozzata, attraversando la stanza. Erano appesi a ganci applicati a piccole ventose fissate sul vetro della finestra: piccoli telai circolari di filo metallico del diametro di sei o sette centimetri, ciascuno dei quali conteneva un'opera d'arte in miniatura. L'aria che entrava da un aeratore sopra la finestra li faceva fremere come ali di farfalla, insieme con le decorazioni applicate a ciascuno: un nastro, un bottone di madreperla appeso a un filo, un orecchino, una ciocca di capelli intrecciata... Liska, sbigottita, si fermò accanto a Quinn, colpita improvvisamente dalla rivelazione della loro vera natura.
Il giglio di Lila White. Il quadrifoglio di Fawn Pierce. Una bocca con la lingua protesa in fuori. Un cuore con la scritta «Papà». Erano circa mezza dozzina. Tatuaggi. I tatuaggi che erano stati prelevati dal corpo delle vittime del Crematore. Tesi su altrettanti piccoli telai e messi a essiccare al sole. Decorati con un ricordo della donna da cui erano stati asportati. Souvenir di torture e delitti. 38 Il trionfo è ormai a portata di mano. La gloria a coronamento della vittoria. La conclusione... per il momento, in quel luogo. Ha sistemato la Puttana nel modo più soddisfacente, legandole mani e piedi alle gambe del tavolo con la cordicella di plastica presa dalla stanza della posta, in ufficio. Un tratto di quella corda è avvolto intorno alla gola della Puttana, con le lunghe estremità libere in modo da poterle avvolgere intorno alle mani. Per l'illuminazione ha scelto delle candele, trasferendole nel seminterrato da altre parti della casa. Trova la luce delle candele molto sensuale, eccitante, erotica. L'eccitazione è accresciuta dall'odore di benzina che aleggia greve nell'aria. Fa un passo indietro per osservare meglio la scena. La Puttana sotto il suo controllo assoluto. È ancora vestita, perché lui vuole che sia cosciente della propria degradazione. Vuole che assapori ogni istante della propria umiliazione. Vuole registrare tutto su nastro. Inserisce un nastro vergine nel registratore a microcassette, posandolo su uno sgabello da bar di vinile nero, con il sedile lacero. Non si cura delle impronte, tanto fra poco il mondo scoprirà l'identità del Crematore. Non vede alcun motivo per non attuare il piano fino in fondo. Michelle può essere fuori gioco, ma lui ha ancora Angie. Se dovesse superare la prova, potrebbe portarla con sé. In caso contrario, la ucciderà. Certo, lei non è Michelle, il suo complemento ideale. Michelle, che era disposta a fare tutto ciò che lui le chiedeva, se riteneva che questo potesse indurlo ad amarla. Michelle, che seguiva la sua ispirazione nei giochi di tortura, che lo aveva incoraggiato a dare fuoco ai corpi, e aveva ricavato tanta gioia dall'arte del tatuaggio. Lui ne sente la mancanza, per quanto gli è possibile. Con un vago distacco. La signora Vetter soffrirà molto di più per la scomparsa della sua orribile cagnetta.
Angie lo guarda mentre svolge il rotolo di pelle che contiene i suoi strumenti preferiti e lo stende sul tavolo. Sembra uscita da un film dell'orrore per adolescenti, con gli abiti in disordine e i jeans lacerati e macchiati di sangue. Ha ancora in mano il coltello da macellaio che ha preso in cucina e di nascosto si punzecchia con la punta il polpastrello del pollice, guardando il sangue che sgorga. Piccola pazza. Lui guarda i segni lividi che la ragazza ha intorno alla gola, ripensando a come lo ha sfidato durante l'esecuzione del suo grande piano. Facendogli fare la figura dello stupido nel primo colloquio. Rifiutandosi di indicare il nome del bar dove lui l'aveva presa a bordo quella sera per dare maggiore credibilità alla storia. Rifiutandosi di descrivere il Crematore al disegnatore della polizia secondo le istruzioni che le aveva dato. E pensare che lui aveva perso tanto tempo a creare l'immagine di un killer fantasma. La ragazza, ostinata, ha fornito una descrizione così vaga da adattarsi a chiunque, compreso il povero Vanlees. La sola idea che lui possa assumersi il merito delle imprese del Crematore lo manda in bestia. E nonostante le percosse che ha`ricevuto mercoledì, Angie gli ha negato il momento perfetto della rivelazione, nel soggiorno di Kate. «Chi è venuto a prenderti, Angie?» «No.» «Chi è venuto a prenderti, Angie?» «No, non voglio.» «Angie, chi è venuto a prenderti?» Avrebbe dovuto rispondere: «L'Angelo del Male». Non ha importanza che non sia stato lui, che ci abbia pensato Michelle a evitare che quella piccola stupida si tagliasse a fette nella doccia, a ripulire tutto e a sgattaiolare con lei dalla porta di servizio di Phoenix House. La ragazza aveva delle istruzioni da seguire, e invece ha disobbedito. Decide che la ucciderà, è troppo imprevedibile. La ucciderà lì, dopo la morte della Puttana. Le ucciderà tutt'e due, prima di bruciarle insieme e dare fuoco anche alla casa. Ha già preparato la scena, versando il liquido infiammabile: la benzina di una tanica che ha preso nel garage della Puttana, la notte in cui ha defecato sul pavimento. Una volta presa la decisione, dedica ogni suo pensiero al compito che lo attende adesso: Kate Conlan. Kate tornò in sé in modo intermittente, a sprazzi, come un televisore con una cattiva ricezione. Prima riprese a udire, ma senza vedere. Poi riacqui-
stò, ma ancora annebbiata, e avvertendo uno spaventoso ronzio nelle orecchie. L'unico segnale chiaro e costante era un suono sordo e pulsante alla base del cranio. Le dava la nausea. Non riusciva a muovere le braccia o le gambe, e si domandò se Rob le avesse spezzato l'osso del collo o fratturato la spina dorsale. Poi si rese conto che poteva ancora sentire le mani e le facevano un male infernale. Legata. Il soffitto di piastrelle, l'odore di polvere, il vago sentore di umidità. Il seminterrato. Era legata a braccia e gambe spalancate sul vecchio tavolo da ping-pong nella cantina della sua casa. Le giunse alle narici un altro odore, che invece era fuori posto: denso, oleoso e amaro. Benzina. Oh, mio Dio. Guardò Rob Marshall che la fissava, fermo all'altra estremità del tavolo. Rob Marshall, un serial killer. L'assurdità di quell'idea la spingeva a credere che fosse un incubo, ma sapeva che non era così. Ne aveva viste troppe, quando lavorava come agente. Le storie erano accumulate nella sua memoria come fascicoli in un classificatore. L'ingegnere della NASA che rapiva gli autostoppisti e li faceva morire dissanguati per bere il loro sangue. Il perito elettronico, sposato e padre di due figli, che conservava parti scelte del corpo delle vittime nel congelatore per la carne, in garage. Il giovane studente di legge repubblicano che lavorava come volontario presso un telefono amico per i suicidi ed era diventato Ted Bundy. E ora avrebbero potuto aggiungere alla lista il funzionario pubblico che sceglieva le sue vittime nell'elenco delle persone assistite dal suo dipartimento. Lei si riteneva un'idiota per non averlo capito. Persino in quel momento lei non riusciva a credere che Rob Marshall fosse tanto intelligente. Si era tolto il piumino, rivelando un golf grigio inzuppato di sangue intorno al collo, dove lei lo aveva colpito con la lima per le unghie. Due centimetri più in là, e gli avrebbe reciso la giugulare. «Mi sono persa qualcosa?» domandò, con la voce roca per la stretta di poco prima. Notò la sorpresa e la confusione sul suo volto. Uno a zero per la vittima. «Sempre la solita lingua tagliente», commentò lui. «Non impari mai, brutta cagna.» «Perché dovrei? Che cosa vuoi fare, Rob? Torturarmi e uccidermi?» Tentava disperatamente di cancellare ogni nota di paura dalla sua voce. «Lo farai comunque, quindi tanto vale prendermi la soddisfazione di dirti
in faccia che sei un perdente senza palle.» Angie, ferma di fianco al tavolo, con il coltello da macellaio in mano, trattenne il fiato, lasciandosi sfuggire un mugolio angosciato. Il viso di Rob s'indurì. Prese di tasca un temperino sottile come una matita e lo conficcò fino all'impugnatura nella pianta del piede destro di Kate, che imparò a proprie spese qual era il prezzo da pagare per la strategia che aveva scelto. Lanciò un grido acuto e tutto il suo corpo si contorse in uno spasmo, tendendo i legacci che affondavano nelle carni dei polsi e delle caviglie. Quando ricadde sul tavolo, le corde sembravano leggermente allentate, consentendole una maggiore mobilità. Riuscì a controllarsi concentrandosi su Angie, pensando a quello che aveva letto nei suoi occhi poco prima, quando era stata colpita dall'idea che non erano vuoti, che, fin quando c'era un barlume di luce nel buio, c'era ancora speranza. Pensò al modo in cui la ragazza aveva tentato di avventarsi su Rob con il coltello a serramanico. «Vattene, Angie», le sussurrò con voce roca. «Salvati!» La ragazza trasalì, lanciando un'occhiata nervosa a Rob. «Resterà», scattò lui, conficcandole di nuovo il temperino nel piede. «È mia», urlò, con gli occhi ardenti per l'ebbrezza che provava infliggendo dolore al prossimo. «Non credo», ribatté Kate, inspirando bruscamente per soffocare il dolore. «Non è stupida.» «No, la stupida sei tu», disse Rob, indietreggiando di un passo. Prese una lunga candela dal candelabro che aveva scelto in sala da pranzo e sistemato sull'essiccatoio. «Perché so che razza di patetica e pervertita parvenza di essere umano sei?» «Quanto sono patetico, adesso, puttana?» le domandò lui, spostando la fiamma della candela da un dito all'altro del piede destro. Istintivamente, Kate scalciò contro la fonte del dolore, facendogli cadere la candela di mano. Rob si abbassò di scatto per raccoglierla, imprecando. L'odore della benzina assalì il naso e la bocca di Kate, che rabbrividì al pensiero di finire bruciata viva. Il terrore la colpì come un pugno alla base della gola. «Che cosa c'è, Rob?» esclamò, lottando contro la tentazione di piangere. «Pensavo che il fuoco ti piacesse. Invece ne hai paura?» Lui si alzò, guardandola con rabbia. «Io sono il Crematore!» urlò, con la
candela stretta nel pugno. Kate notò la sua crescente agitazione, che traspariva dal respiro affannoso e dai movimenti a scatti. La scena non si svolgeva come nelle sue fantasie. «Io sono superiore!» gridò con uno sguardo allucinato. «Sono l'Angelo del Male! Tengo la tua vita fra le mani! Sono il tuo dio!» Kate trasformò la sofferenza che provava in rabbia. «Tu non sei altro che una sanguisuga, un parassita! Non sei niente!» Probabilmente così lo avrebbe indotto a pugnalarla quarantasette volte di seguito, strapparle la laringe e ficcarla nel tritarifiuti. Poi pensò alle fotografie delle altre vittime, al nastro di Melanie Hessler, alle ore di tortura, allo stupro, allo strangolamento ripetuto. Preferiva correre il rischio. Chi di spada ferisce, di spada perisce. «Mi fai vomitare, piccolo stronzo smidollato!» Era la verità. Le dava la nausea l'idea di aver lavorato al suo fianco, un giorno dopo l'altro, mentre la sua mente si abbandonava a fantasie di abusi, brutalità e omicidi. Lui cominciò a camminare avanti e indietro ai piedi del tavolo, borbottando piano, come se parlasse alle voci che sentiva dentro di sé, anche se Kate riteneva improbabile che le sentisse davvero. «Non riesci a fartelo drizzare se non domini la situazione, vero?» insistette, per provocarlo. «Quale donna ti vorrebbe, se prima non la leghi mani e piedi?» «Zitta!» le gridò. «Sta' zitta, puttana!» Le lanciò addosso la candela, mancandola di un buon metro. Poi si spostò lungo il tavolo, afferrò un coltello per le ossa dal tavolo vicino e gliene appoggiò la punta sulla laringe. Kate deglutì istintivamente e sentì la punta d'acciaio perforare la pelle. «Ti taglierò a pezzi!» le gridò in faccia. «Ti taglierò a pezzi! Sono stufo di sentirti! Sono stufo di sentire la tua voce!» Kate chiuse gli occhi, tentando di non deglutire e restando rigida mentre lui cominciava a spingere contro la gola quella lama piccola e acuminata. Si sentì invadere dal terrore: l'istinto le diceva di sottrarsi, la logica le ordinava di non muoversi. Poi la pressione cessò. Rob si fermò accanto al registratore a nastro posato sul vecchio sgabello. Probabilmente non voleva essere costretto a riascoltare le critiche lanciate da Kate al suo indirizzo, ma nello stesso tempo voleva sentire le sue urla, come aveva fatto con tutte le vittime; anzi, probabilmente nel suo caso lo desiderava ancora di più. Se l'avesse privata della voce, quel piacere sa-
rebbe venuto meno e l'atto di uccidere avrebbe perso il significato che aveva per lui. «Vuoi sentirlo, non è vero?» disse Kate. «Vuoi poterlo ascoltare, in seguito, e sentire il momento esatto in cui comincio ad avere paura di te e ti cedo il controllo. Non vuoi rinunciarci, eh?» Lui prese in mano il registratore, tenendolo accostato alla sua bocca, poi posò il coltello, prese un paio di pinze e con quelle le afferrò un capezzolo, stringendo con forza brutale. Nonostante gli strati protettivi del maglione e del reggiseno, il dolore da acuto, poi divenne insopportabile, strappandole un urlo. Quando infine lui la lasciò andare, fece un passo indietro, sollevando il registratore con un sorriso crudele. «Ecco», le disse. «Ho ottenuto quello che volevo.» Kate ebbe l'impressione che fosse passata un'eternità, quando riuscì di nuovo a ragionare a mente quasi fredda. Respirava affannosamente, sudata e scossa da un tremito. Le si schiarì la vista e si trovò davanti Angie, sempre ferma nella stessa posa, con il coltello stretto al petto. Si domandò se non fosse catatonica. Lei era la sua unica speranza, l'anello più debole nella messinscena di Rob. Doveva tirarla dalla sua parte, facendo in modo che restasse lucida e in grado di agire. «Angie», le disse con voce roca e spezzata. «Lui non è il tuo padrone. Puoi ribellarti. Ti sei già ribellata altre volte, no?» Il viso di Rob divenne rosso di rabbia. «Smettila di parlarle!» «Hai paura che ti si possa rivoltare contro, Rob?» gli chiese Kate, anche se non più con il tono di sfida di prima. «Sta' zitta. Lei è mia. E anche tu sei mia, puttana!» «Non sei il suo padrone più di quanto tu sia il mio!» replicò Kate, guardandolo con odio e tendendo le corde che la legavano. «E non sarai mai, mai, il mio padrone, rospo!» «Sta' zitta!» gridò di nuovo lui, voltandosi per assestarle un violento manrovescio. «Sta' zitta, sta' zitta, puttana!» Si udì un tintinnio metallico, poi Rob le si avvicinò impugnando un grosso coltello. Le afferrò lo scollo del maglione e cominciò a tagliarlo con il coltello, lacerando con violenza la maglia. La punta del coltello le rigò il seno, le sfiorò il ventre, le lasciò un taglio superficiale sull'anca. «Te lo faccio vedere io! Te lo faccio vedere io!» ringhiò, rivolto alla ragazza. «Vieni qui! Vieni qui, subito!» Non potendo aspettare, fece di corsa il giro del tavolo, afferrando la ragazza per il braccio e trascinandola verso Kate.
«Fallo!» le disse all'orecchio. «Per Michelle. Tu vuoi farlo per Michelle. Vuoi che Michelle ti ami, non è vero, Angie?» Michelle? Quello era un elemento del tutto nuovo, pensò Kate, invasa da una nuova ondata di terrore. Chi diavolo era, Michelle, e che significato aveva per Angie? Come poteva combattere, lei, contro un nemico che non aveva mai visto? Il viso di Angie era rigato di lacrime. Strinse il coltello da macellaio con tutt'e due le mani, tremando. «Non farlo, Angie», le disse Kate, con la voce che vibrava di paura. «Non farti usare in questo modo da lui.» Non poteva nemmeno sapere se la ragazza l'aveva sentita. Pensò a quello che le aveva detto del Cerchio e si domandò se in quel momento si fosse rifugiata lì, per sfuggire a quell'incubo. E allora? Avrebbe agito lo stesso? Il Cerchio era forse uno stato dissociativo? Le aveva permesso di partecipare ai delitti di Rob anche in passato? «Fallo!» gridò Rob all'orecchio di Angie. «Fallo, stupida sgualdrinella! Fallo per tua sorella. Fallo per Michelle. Vuoi che Michelle ti ami, no?» Sorella. In quel momento il titolo di giornale brillò nella mente di Kate come una cometa. «Sorelle prosciolte per l'incendio in cui hanno trovato la morte i genitori.» Con gli occhi porcini che uscivano dalle orbite della brutta testa rotonda, Rob lanciò un grido di frustrazione, sollevando il coltello che impugnava. «Fallo!» La luce si rifletté accecante sulla lama che fendeva l'aria, conficcandosi nell'incavo della spalla di Kate proprio mentre lei, contorcendosi, si spostava di pochi e vitali centimetri. La punta della lama urtò contro l'osso, rimbalzando, e il dolore fu lancinante. «Fallo!» gridò Rob ad Angie, colpendola alla nuca con l'impugnatura del coltello insanguinato. «Sgualdrina buona a nulla!» «No!» gridò la ragazza. «Fallo!» Singhiozzando, Angie brandì il coltello. «Abbiamo un'identificazione per le impronte di Michelle Fine, nel Wisconsin», annunciò Yurek, entrando nella camera da letto. I tecnici della Scientifica stavano rimuovendo dalla finestra i feticci con i tatuaggi, avvolgendoli con cura nella carta velina prima di infilarli nelle bustine di plastica.
«Il suo vero nome è Michelle Finlow. Ha parecchi precedenti per cattiva condotta e un fascicolo sigillato che riguarda il periodo in cui era minorenne.» Kovac inarcò un sopracciglio. «Scuoiare la gente si chiama cattiva condotta, nel Wisconsin?» «È lo Stato che ha prodotto Ed Gein e Jeffrey Dahmer», gli fece notare Tippen. «Ehi, sei anche tu del Wisconsin, Tip?» domandò uno della Scientifica. «Sì, di Menominie. Vuoi venire a casa mia per il Ringraziamento?» Quinn si tappò con un dito l'orecchio libero, mentre ascoltava il telefono di Kate squillare a vuoto per la terza volta in venti minuti. Eppure sarebbe dovuta scattare la segreteria telefonica. Rinunciò, provando con il cellulare, che dopo quattro squilli inoltrò la sua telefonata al servizio di segreteria telefonica. Quello era il numero che Kate dava ai clienti: anche Angie DiMarco aveva quel numero, quindi Kate non avrebbe lasciato squillare il telefono senza rispondere. Con la mano libera si massaggiò lo stomaco in fiamme. Si unì al gruppo Mary Moss. «Una delle vicine dice che le è capitato qualche volta di vedere Michelle in compagnia di un tipo robusto, piuttosto calvo, con gli occhiali. Non sa il nome, ma dice che guida un SUV nero e una volta ha tamponato la macchina dell'inquilno dell'interno 3F.» «Sì!» esultò Kovac. «Smokey Joe, sei fritto!» «In questo momento Hamill sta parlando con il tipo del 3F per avere i dati dell'assicurazione.» «Possiamo acciuffare il Crematore in tempo per il telegiornale delle sei, e arrivare lo stesso in tempo da Patrick's per approfittare della happy hour», commentò Kovac con un gran sorriso. «Questa sì che è una grande giornata, per me.» Hamill entrò come una furia nell'appartamento, urtando i tecnici della Scientifica. «Non ci crederete mai!» esclamò rivolto ai membri della task force. «L'uomo di Michelle Fine era Rob Marshall.» «Santo cielo!» Quinn prese per la spalla Kovac, spingendolo verso la porta. «Devo andare da Kate. Mi dia le chiavi, guido io.» «Fallo! Fallo!» Angie lanciò un lungo grido stridulo che risuonò distante persino alle sue orecchie, come un ululato che provenisse dall'interno di un lunghissi-
mo tunnel. Il Cerchio si parò in lontananza davanti a lei, come una bocca nera e spalancata. E dalla parte opposta si era svegliata la Voce. Stupida sgualdrinella! Fa' quello che ti dico! «Non posso!» gridò lei. «Fallo!» La paura era come un soffice grumo in gola che bloccava l'aria, la faceva vomitare, la soffocava. Nessuno ti vuole bene, piccola sgualdrinella pazza. «Tu mi vuoi bene, Michelle», miagolò, senza neanche sapere se aveva pronunciato quelle parole a voce alta, oppure se esistevano solo nella sua mente. «Fallo!» Lei abbassò gli occhi su Kate. Il Cerchio si avvicinava. Lei ne sentiva l'alito caldo. Poteva sprofondare là dentro e non uscirne mai più. Sarebbe stata al sicuro. Sarebbe stata sola. Per sempre. «Fallo!» Tu sai cosa fare, Angel. Fa' quello che ti dicono, Angel. Tremava in tutto il corpo. Vigliacca. «Tu puoi salvare Michelle, Angie. Fallo per lei.» Guardò Kate, il punto del suo petto dove avrebbe dovuto conficcare il coltello, proprio come aveva fatto Michelle. Glielo aveva visto fare. Lui l'aveva costretta a guardare mentre stavano ai lati della donna morta, vibrando una pugnalata per uno, a turno, pronunciando il giuramento, suggellando il patto, impegnandosi solennemente a rispettare il loro amore. Lei si era sentita male per la paura. Michelle aveva riso di lei, poi l'aveva consegnata a lui, lasciando che la violentasse. Lui le faceva male. Angie lo odiava. Michelle lo amava. Lei amava Michelle. Nessuno ti ama, piccola sgualdrinella pazza. Era tutto lì, quello che voleva: che qualcuno si prendesse cura di lei, che non la lasciasse sola. E tutti non avevano fatto altro che usarla e abusare di lei. Persino Michelle, che l'aveva salvata dalla solitudine. Ma Michelle l'amava. Amore e odio, amore e odio. Amoreodio. Per lei non c'era una linea di confine fra quei due sentimenti. Lei amava Michelle, voleva salvarla. Michelle era tutto ciò che aveva. «Fallo! Uccidila, uccidila!»
Lei guardò Kate, che tendeva le corde, con il viso stravolto dal terrore. Perché dovrebbe importarti di quello che mi succede? Perché non c'è nessun altro a cui importi. «Mi dispiace», mormorò. «Angie, no!» «Colpiscila, adesso!» La pressione interiore era enorme, ma quella esterna era ancora più forte. Aveva l'impressione che le sue ossa stessero per cedere, schiacciate da quel peso, e che il Cerchio potesse risucchiare quel che restava, facendola sparire per sempre. Forse era meglio così. Almeno non avrebbe più sofferto. «Fallo, altrimenti lascio morire quella sgualdrina di tua sorella!» gridò lui. «Se non lo fai, finirò Michelle sotto i tuoi occhi. Fallo!» Lei amava la sorella. Poteva salvarla. Brandì il coltello. «No!» Kate prese fiato, cercando di controllarsi, senza staccare lo sguardo da Angie. La ragazza lanciò un urlo disumano, sollevò il coltello sopra la testa con tutt'e due le mani, poi con una brusca giravolta, conficcò la lama nel collo di Rob Marshall. Non appena ritirò un coltello, si levò un geyser di sangue. Sangue sulla parete, sul tavolo, su Kate, come acqua che sprizzasse da una manichetta antincendio. Rob barcollò all'indietro, portandosi le mani alla gola, con il sangue che gli scorreva fra le dita. Angie, continuando a urlare, affondò di nuovo il coltello, nella mano e nel petto di Rob. Lui provò a invocare aiuto, a chiedere misericordia, ma soffocò nel proprio sangue, mentre le ginocchia gli cedettero e cadde riverso sull'essiccatoio, rovesciando il candelabro sul pavimento. Allora Angie si scostò, fissandolo per un attimo come se non sapesse chi era o perché fosse disteso sul pavimento. Poi guardò il coltello lordo di sangue, le mani coperte di grumi rossastri, e si girò lentamente verso Kate. Quinn guidava senza rispettare le norme stradali e le leggi della fisica, incalzato da una sensazione di panico che gli serrava le viscere in una morsa. Kovac si aggrappava al sedile, lanciando ogni tanto un grido quando Quinn eseguiva una manovra azzardata per aggirare le auto nel traffico. «Se ha un minimo d'intelligenza, ha già lasciato la città», gli fece notare.
«Il cervello non c'entra», ribatté Quinn, gridando per farsi sentire al di sopra del rombo del motore. «Ha coinvolto Kate nel caso perché questo faceva parte del gioco. Ha ucciso Melanie Hessler perché era assistita da Kate. L'altra sera le ha anche lasciato un biglietto da visita nel garage. Non lascerà la città prima di avere concluso questa partita in sospeso fra loro.» Mentre frenava slittando davanti alla casa di Kate, scorse la luce accesa nell'ingresso, che filtrava da quei dannati pannelli laterali di vetro. Mise il motore in folle prima ancora di essersi fermato del tutto, strappando un suono sinistro al cambio, poi balzò in corsa dalla macchina, lanciandosi verso la porta proprio mentre arrivavano due autopattuglie con la sirena. Raggiunto il portico, bussò alla porta, poi tentò la maniglia. Niente. «Kate! Kate!» Accostando il viso al vetro, vide il tavolino dell'ingresso rovesciato, il tappeto ripiegato. «Kate!» L'urlo che gli giunse dall'interno della casa lo trafisse come una lama d'acciaio. «No!» Afferrò la cassetta della posta, la divelse dalla parete e la usò per sfondare il vetro della porta mentre Kovac saliva i gradini del portico. Pochi secondi, e furono dentro. Gli occhi di Quinn corsero verso una macchia di sangue sulla parete vicino allo studio. «Kate!» Dall'interno della casa giunse il suo grido: «Angie, no!» Angie rigirava il coltello fra le mani insanguinate, fissando la lama. Lasciò che la punta sfiorasse la pelle del suo polso. «Angie, no!» gridò Kate, tendendo le corde che la legavano. «Non farlo, ti prego! Vieni a tagliare le corde. Poi andremo in cerca di aiuto per te.» Non poteva vedere Rob, ma sapeva che era disteso sul pavimento vicino alla porta. Poteva sentire i suoni gorgoglianti che gli sfuggivano dalla gola. Nella caduta, lui aveva rovesciato il candelabro, e le fiamme raggiunsero una parte della benzina che doveva avere versato intorno a Kate mentre era priva di sensi. Il combustibile prese fuoco all'istante, con un sibilo. Il fuoco avrebbe seguito la pista, alla ricerca di altro carburante, e il seminterrato era ricco di oggetti infiammabili, dalle casse di cianfrusaglie che i genitori avevano messo da parte alle immancabili latte di vernice e altre sostanze chimiche. «Angie, Angie!» disse Kate, cercando di attrarre l'attenzione della ragazza, proprio mentre lei contemplava la propria morte.
«Michelle non mi vorrà bene», mormorò Angie, guardando l'uomo che aveva appena ucciso. Sembrava delusa e scontenta di sé, come una bambina che avesse scarabocchiato su una parete e si rendesse conto che avrebbe dovuto affrontare la punizione. «Kate!» Al piano di sopra risuonò il grido di Quinn. In apparenza Angie non si accorgeva né delle grida né dei tonfi prodotti dai passi maschili, ma continuava a premere la lama del coltello. «Kate!» Lei tentò di rispondere: «In cantina!» ma riusciva a stento a sentire la propria voce. Le fiamme raggiunsero una cassa di vestiti usati destinati, per ironia della sorte, alla Phoenix House, e balzarono in alto, troppo vicino al tavolo. Kate tirò di scatto le corde, ottenendo il solo risultato di tenderle ancora di più. Cominciava a perdere la sensibilità nelle mani. Provò a schiarirsi la gola per parlare. Ormai dalle casse scaturiva un fumo denso e nero. «Angie, aiutami. Aiutami e io aiuterò te. Che ne dici?» La ragazza fissava il coltello. Finalmente il rivelatore di fumo in cima alle scale scattò e il suono dei passi puntò in quella direzione. Angie premette ancora di più la lama sul polso, dove minuscole gocce di sangue affiorarono dalla pelle, come le gemme di un braccialetto. «No, Angie, ti prego», sussurrò Kate, pur sapendo che la ragazza non avrebbe potuto sentirla neanche se avesse gridato. Angie la guardò in faccia, e per la prima volta da quando l'aveva conosciuta Kate la vide per quello che era in realtà: una bambina. Una bambina che nessuno aveva mai voluto o amato. «Mi fa male», disse. «Chiamate i vigili del fuoco!» gridò Quinn in cima alle scale. «Kate!» «Joh...» La voce le si spezzò, incrinata da un accesso di tosse. Il fumo saliva lungo il soffitto, diretto verso le scale e la nuova fonte di aria pura. «Kate!» Quinn scese le scale per primo, impugnando una calibro 38 presa in prestito da Kovac: il terrore gli aveva fatto ignorare tutte le norme della procedura. Chinandosi per superare la barriera di fumo, vide subito Kate, legata mani e piedi a un tavolo, con il maglione tagliuzzato e pozze di sangue sulla pelle. Poi la sua attenzione si spostò sulla ragazza vicino al tavolo: Angie DiMarco, con un coltello da macellaio fra le mani. «Angie, lascia cadere il coltello!» le gridò.
La ragazza lo guardò, mentre la luce svaniva dai suoi occhi. «Nessuno mi ama», disse, poi, con un gesto fulmineo, si tagliò il polso fino all'osso. «No!» gridò Kate. «Cristo!» Quinn si slanciò attraverso la stanza, con la pistola in pugno. Angie cadde in ginocchio, con un fiotto di sangue che sgorgava dal polso. Il coltello cadde sul pavimento e Quinn lo allontanò con un calcio, inginocchiandosi e serrando il braccio della ragazza in una morsa di ferro. Il sangue gli scorreva a fiotti fra le dita, mentre Angie si accasciava contro di lui. Kate, che assisteva inorridita alla scena, non riconobbe neppure Kovac, che tagliò le corde per liberarla. Rotolò giù dal tavolo, ma i piedi avevano perso la sensibilità e cadde a terra, costretta a trascinarsi in ginocchio verso Angie. Aveva le mani inutilizzabili, gonfie e violacee al punto che non riusciva neanche a muovere le dita, eppure abbracciò la ragazza. «Dobbiamo andarcene da qui!» gridò Quinn. Le fiamme avevano cominciato a lambire le scale. Per quanto un agente in divisa cercasse di respingerle con un estintore, continuavano inesorabili la loro marcia nel seminterrato, seguendo la traccia della benzina e divorando tutto ciò che trovavano sul loro cammino. Con l'appoggio di un agente, Quinn aiutò Angie a salire le scale, uscendo dalla porta di servizio. Le sirene ululavano già a un paio di isolati di distanza. Lui affidò la ragazza all'agente e tornò indietro di corsa, mentre Kovac usciva sorreggendo Kate. Lei gli si gettò fra le braccia e Quinn la sostenne, stringendola a sé. «Io torno dentro a prendere Marshall!» gridò Kovac per sopraffare il rombo delle fiamme. «È morto!» gli gridò dietro Kate, ma Kovac era già sparito. «Sam!» Uno degli agenti in divisa si lanciò sulle sue tracce. «Stai bene?» chiese Quinn, fissando Kate negli occhi. Lei alzò la testa per guardare la casa, con le fiamme che ormai spuntavano dalle finestre del pianterreno. Dietro l'auto di Kovac, era ferma l'ambulanza sulla quale stavano caricando Angie. Il terrore e il panico che si era sforzata di tenere a bada durante la terribile prova che aveva superato l'assalirono in ritardo, travolgendola. Si girò di nuovo verso Quinn, tremando. «No», rispose finalmente in un sussurro, sciogliendosi in lacrime. E lui la tenne stretta fra le braccia, sorreggendola.
39 «Non mi è mai piaciuto», disse Yvonne Vetter all'agente in divisa che era stato messo di guardia davanti alla porta del garage di Rob Marshall. Era infagottata in un cappotto di lana bouclè che la faceva apparire deforme. «Ho chiamato parecchie volte la polizia. Sono convinta che abbia divorato la mia Bitsy.» «Che cosa, signora?» «Bitsy, la mia adorabile cagnetta!» La task force voleva dare un'occhiata alla camera degli orrori di Rob prima che cominciasse la raccolta delle prove; per questo con gli altri c'era anche un operatore munito di videocamera. Era una bella casa, in una strada tranquilla di un quartiere tranquillo, con un lotto di terreno molto grande e ricco di alberi, poco lontano da uno dei laghi più frequentati della zona, e un seminterrato ben rifinito. Gli agenti immobiliari avrebbero cominciato a sbavare al pensiero di venderla, se non altro per il fatto che in quella casa Rob Marshall aveva torturato e assassinato almeno quattro donne. Cominciarono dallo scantinato, dove trovarono una sala dotata di alcuni televisori, videoregistratore, impianto stereo, uno scaffale carico di videocassette e nastri registrati. In un angolo del locale c'era un manichino senza testa, vestito con un reggiseno trasparente di pizzo nero e una minigonna di tessuto elastico. «Ehi, Tinks, guarda qui», esclamò Tippen, prima di notare dei residui appiccicosi sulle spalle del manichino. Probabilmente sangue, misto ad altri fluidi più chiari. Liska proseguì lungo il corridoio ed entrò nella lavanderia. I suoi ragazzi avrebbero adorato quella casa. Non facevano che sognare un'abitazione come quella del loro amico Mark, con una tavernetta dove sfuggire alla sorveglianza della mamma, attrezzata con un tavolo da biliardo e un televisore a schermo panoramico. E nella stanza in fondo al corridoio c'era appunto un tavolo da biliardo. Era coperto di plastica bianca macchiata di sangue, e sopra c'era un corpo. Nell'aria aleggiava un odore di sangue, urina ed escrementi. L'odore della morte violenta. «Tippen!» gridò Liska, correndo verso il tavolo. Michelle Fine era distesa sul dorso, con il corpo in una posizione strana, lo sguardo fisso verso la luce intensa sopra di lei, senza battere le palpebre,
con gli occhi vitrei come un cadavere. La bocca era aperta, con una scia di bava incrostata sul mento. Le labbra si muovevano in modo quasi impercettibile. Liska si chinò su di lei, posando due dita su un lato del collo per sentire il battito cardiaco, senza riuscirci. «... iuta...mi...iuta...mi...» Frammenti di parole su un filo di fiato quasi inconsistente. Tippen entrò di corsa e rimase paralizzato. «Merda.» «Chiama un'ambulanza», gli ordinò Liska. «Forse sopravviverà abbastanza da raccontarci la storia.» 40 «Io non volevo aiutarlo», disse Angie. Non sembrava la sua voce. Il pensiero vagava su una nuvola, filtrato da un cervello annebbiato. Sembrava la voce della bambina che era dentro di lei, quella che cercava sempre di nascondere, di proteggere. Fissò la fasciatura sul braccio sinistro, mentre nei recessi oscuri della sua mente faceva capolino il desiderio di strapparla, per lasciar scorrere il sangue dalla ferita. «Non volevo fare quello che diceva lui.» Si aspettava che la Voce la schernisse, invece, stranamente, taceva. Si aspettava che il Cerchio si spalancasse per inghiottirla, ma le medicine lo tenevano a bada. Era seduta a un tavolo che non sembrava adatto a un ospedale. La vestaglia stampata a motivi azzurri che indossava aveva le maniche corte e lasciava scoperte le braccia sottili, costellate di cicatrici che sembravano sbarre di una cella. Segni che si era incisa sulla pelle. Segni che la vita le aveva inciso sull'anima. Un memento costante, perché non potesse dimenticare mai chi era, che cos'era. «Era Rob Marshall l'uomo che ti ha portata nel parco quella notte, Angie?» le chiese Kate a bassa voce. Era seduta anche lei al tavolo, vicino ad Angie, con la sedia voltata in modo da guardarla in faccia. «Era lui l'uomo di cui mi hai parlato?» Angie annuì, continuando a guardare le cicatrici. «Il suo grande piano», mormorò. Avrebbe voluto che le medicine cancellassero i ricordi, invece le immagini erano nitide nella sua mente, come se guardasse la televisione. Come se fosse ancora seduta a bordo del furgoncino, sapendo che nel bagagliaio
c'era il corpo della donna morta, sapendo che l'aveva uccisa l'uomo che era al volante, sapendo che Michelle aveva partecipato al delitto. Le pareva di rivederli, mentre la colpivano più e più volte, le pareva di vedere l'eccitazione sessuale che cresceva in loro a ogni colpo. Poi Michelle l'aveva consegnata a lui, che l'aveva presa di nuovo, quella notte nel parco, eccitato all'idea della donna morta nel bagagliaio e del grande piano. «Avrei dovuto descrivere qualcun altro.» «Come assassino?» chiese Kate. «Una persona inventata da lui. Tutti quei dettagli... me li ha fatti ripetere un'infinità di volte... «Lo odio.» Ne parla come se fosse vivo, pensò Kate. Come se non sapesse che è morto, che lo ha ucciso lei. Forse non lo sapeva. Forse la sua mente le concedeva quell'unica consolazione. «Lo odio anch'io», disse piano. A poco a poco stavano giungendo dal Wisconsin le notizie sui fatti che riguardavano Rob e le sorelle Finlow, ricomponendo il quadro di una vicenda sordida e terribile di cui L'America apprendeva ogni giorno nuovi episodi nel telegiornale della sera. L'estrazione umile degli amantiassassini e il crollo del milionario costituivano un'esca succosa per far salire gli indici di ascolto. Michelle Finlow, che era sopravvissuta per dieci ore dopo essere stata trovata nel seminterrato della casa di Rob, aveva colmato alcune delle lacune che ancora restavano, e Angie forniva quei pochi frammenti che la mente le consentiva di ricordare. Michelle e Angie, figlie di due uomini diversi e di una donna che aveva alle spalle una storia di droghe e sventure famigliari. Avevano tutt'e due dei precedenti, ma quelli di Michelle erano più gravi, perché mostrava una certa inclinazione alla violenza. Kate aveva letto il resoconto dell'incendio che aveva ucciso la madre e il patrigno. Il parere concorde degli investigatori era che fosse stata una delle sorelle ad appiccare le fiamme, o forse tutt'e due insieme, ma le prove raccolte non erano state sufficienti per ottenere un'incriminazione. Uno dei testimoni aveva dichiarato di aver visto Michelle in cortile mentre osservava tranquillamente la casa che bruciava, indifferente alle grida delle due persone rimaste intrappolate all'interno. Ma si trovava troppo vicina a una delle finestre ed era rimasta ustionata quando i vetri erano esplosi e l'incendio si era sviluppato all'esterno. Era stato quel caso a far entrare nella loro vita Rob Marshall, grazie all'efficienza del sistema giudiziario, ed era stato Rob
a portare le ragazze a Minneapolis. Lui l'amava, o almeno così credeva Michelle, anche se era dubbio che riuscisse ad afferrare il vero significato della parola amore. Un uomo innamorato non lasciava morire la sua partner da sola, abbandonata in un seminterrato, per fuggire dal paese come progettava di fare Rob. Il proiettile di Peter Bondurant aveva colpito Michelle alla schiena, recidendo il midollo spinale. Rob, che assisteva alla scena da lontano, aveva aspettato che Bondurant se ne andasse, poi l'aveva portata a casa sua. Non in ospedale, perché ogni ferita di arma da fuoco veniva denunciata alla polizia, e lui non voleva correre quel rischio neppure per salvare la vita della donna che lo amava. L'aveva lasciata lì, sul tavolo dove avevano consumato le loro morbose fantasie sadiche; dove avevano ucciso quattro donne. L'aveva lasciata paralizzata, morente, in stato di choc, senza neanche curarsi di proteggerla con una coperta. Il denaro del ricatto era stato ritrovato all'interno della sua auto. Secondo Michelle, la fissazione di Rob per Jillian era frutto della gelosia, così lei faceva in modo che non si incontrassero. Ma quel fatale venerdì sera, Jillian l'aveva chiamata da un telefono pubblico, perché la batteria del suo cellulare si era scaricata. Voleva parlare della lite con il padre, aveva bisogno del conforto di un'amica; e l'amica l'aveva consegnata a Rob Marshall. «Michelle lo ama», disse Angie, tirando un filo della fasciatura. «Più di quanto ama me.» D'altra parte Michelle era tutto ciò che aveva, la sua unica famiglia, la sua vicemadre, perciò aveva sempre fatto tutto quello che Michelle le chiedeva. Kate si domandò che cosa sarebbe accaduto nella mente di Angie quando le avrebbero detto che Michelle era morta e lei era rimasta sola... la cosa che temeva più di ogni altra. Si sentì bussare piano alla porta, segno che il tempo concesso a Kate era scaduto. All'uscita sarebbe stata assalita dalle domande di tutti quelli che erano seduti dall'altra parte del finto specchio: Sabin, il tenente Fowler, Gary Yurek e Kovac, tornato nelle grazie del capo della polizia dopo aver interpretato il ruolo dell'eroe in casa di Kate. Credevano che fosse lì per soddisfare le loro richieste, ma lei non aveva fatto domande né preteso risposte. Non era venuta in quel reparto psichiatrico per estorcere informazioni ad Angie; non era venuta a visitare un'assistita. Era venuta a trovare una persona con la quale aveva superato una dura prova, una persona che
sarebbe rimasta legata per sempre alla sua vita in modo indissolubile. Si protese sul tavolo e sfiorò la mano di Angie con le sue, ancora gonfie e segnate, a tre giorni di distanza dall'incendio. «Non sei sola, ragazzina», le disse con dolcezza. «Non puoi salvarmi la vita e poi sparire come se niente fosse. Ti terrò d'occhio. Ecco un piccolo ricordo per te.» Con la destrezza di un prestigiatore, le fece scivolare in mano il minuscolo angioletto di ceramica che Angie aveva rubato dalla sua scrivania, per lasciarlo poi al Phoenix. Angie fissò la statuirla, un angelo custode in un mondo in cui certe cose non esistevano realmente; o almeno, così aveva pensato. Ora il bisogno di crederci era così intenso da terrorizzarla, per cui si ritirò nel lato in ombra della sua mente, in modo da sfuggire alla paura. Meglio non credere affatto, che incappare in una delusione inevitabile. Serrò la mano intorno alla statuina, tenendola stretta come un segreto. Poi chiuse gli occhi e si isolò nella sua mente, senza neanche accorgersi delle lacrime che le rigavano le guance. A sua volta Kate respinse le lacrime, alzandosi lentamente, con cautela. Accarezzò il viso di Angie, sfiorandole la testa con un bacio. «Tornerò», disse in un sussurro, prima di raccogliere le stampelle e avviarsi faticosamente verso la porta. Uscendo nel corridoio, vide aprirsi la porta della stanza di osservazione attigua, da cui uscirono Sabin, Fowler e Yurek, con l'aria frustrata, e si allontanò zoppicando. «Ehi, testa rossa!» Voltandosi, vide venirle incontro Kovac, che aveva l'aria di un vagabondo abituato a dormire sulla spiaggia. Il viso era arrossato come se fosse scottato dal sole, con le sopracciglia bruciate ridotte a due archi pallidi. I baffi da poliziotto erano scomparsi, il che lo faceva apparire più giovane. «Che ne pensi di quei tipi?» domandò con voce roca, lottando contro un accesso di tosse. Erano gli strascichi dell'intossicazione da fumo. «Sempre più curiosi.» «Quinn non è ancora tornato?» «Domani.» Era andato a Quantico per il rapporto finale sul caso e per chiedere la prima licenza da cinque anni, per la festa del Ringraziamento. «Allora vieni, stasera?» «Non credo, Sam. Non mi sento troppo in vena di socializzare.»
«Ma come, Kate», ribatté lui in tono di rimprovero, «c'è la veglia del Ringraziamento e io faccio la parte del vescovo! Abbiamo tante cose da festeggiare.» Era vero, ma una festa chiassosa a base di tacchino gommoso insieme con una banda di sbirri e dipendenti del tribunale ubriachi non le sembrava l'ideale, dopo tutto quello che era successo. «La seguirò alla televisione», gli promise. Lui sospirò deluso, prima di ridiventare serio per dirle quello che in effetti l'aveva spinto ad allontanarsi dal gruppo. «È stato un caso davvero infernale, ma te la sei cavata bene, testa rossa.» Gli sfuggì un accenno di sorriso. «Sei in gamba, per essere una civile.» Kate gli sorrise con calore. «Un urrà per te, Kojak.» Poi si avvicinò zoppicando e si protese per scoccargli un bacio sulla guancia. «Grazie per avermi salvato la vita.» «Sempre a tua disposizione.» Un fronte di aria calda si era spostato sul Minnesota il giorno prima, riportando il sole e una temperatura mite. La neve si era quasi sciolta, lasciando scoperti prati gialli, cespugli privi di foglie e terriccio gelato. I cittadini di Minneapolis, sempre coscienti della durata interminabile dell'inverno, quando cominciava a fare sul serio, erano usciti dal precoce letargo di novembre per avventurarsi in giro in bicicletta o sui pattini. Piccoli gruppi di donne anziane che camminavano di buon passo per tenersi in forma sciamavano dall'isolato di Kate in direzione del lago, rallentando appena per fissare incuriosite l'esterno annerito della casa. I danni erano stati contenuti al seminterrato e al pianterreno. La casa si poteva salvare, riparandola e ristrutturandola: bastava che lei cercasse di non pensare troppo a quello che era avvenuto, ogni volta che scendeva in cantina. C'erano problemi più seri che scegliere nuovi pensili per la cucina. Si fece largo nel caos annerito dal fumo che era stato il pianterreno della sua casa, dedicandosi a frugare fra i detriti con un paio di molle per recuperare gli oggetti che valeva la pena di salvare. Quel lavoro la depresse al punto che non riuscì a trovare conforto neppure nelle lacrime. Non era tanto la perdita delle cose che possedeva a turbarla: poteva sempre comprarne di nuove. A farla soffrire era la perdita di tutto ciò che era legato in modo indissolubile ai ricordi, nella casa in cui era cresciuta. Raccolse ciò che restava di un album di fotografie di Emily e cominciò a sfogliarlo, assalita dalle lacrime nel rendersi conto che quasi tutte le foto
erano rovinate. Era come perdere sua figlia per la seconda volta. Chiuse l'album, stringendolo al petto e guardando con gli occhi velati di lacrime quella devastazione. Forse non era il giorno adatto per dedicarsi a quel lavoro. Quinn aveva cercato di dissuaderla, al telefono, ma lei aveva insistito, sostenendo che era forte abbastanza e aveva bisogno di fare qualcosa di positivo. Invece non era abbastanza forte, o almeno, non quanto avrebbe voluto in quel momento. Si sentiva troppo vulnerabile, stanca, soggetta a emozioni che rischiavano di affiorare troppo facilmente in superficie. Le sembrava di avere perso qualcosa di più che gli oggetti distrutti dall'incendio. La sua fede nelle proprie capacità di giudizio era stata scossa, l'ordine del suo mondo era stato capovolto. Era convinta che avrebbe dovuto impedire quello che era accaduto. Era la maledizione che colpiva le vittime: giudicare con il senno di poi, detestare la mancanza di controllo sul mondo circostante. La vera prova consisteva nel vedere se la vittima riusciva a risollevarsi, a scuotersi di dosso il passato, a lasciarsi alle spalle quell'esperienza, uscendone arricchita. Il suono dello sportello di un'auto che si chiudeva la spinse a sbirciare oltre l'angolo della casa. Vide Quinn allontanarsi dal taxi che lo aveva portato fin lì e si sentì subito allargare il cuore per come lui si muoveva e guardava preoccupato la casa, senza sapere di essere osservato. Nello stesso tempo, la tensione dei suoi nervi salì di una tacca. Nei giorni successivi all'incendio non si erano visti granché. Il rapporto finale sul caso aveva rubato molto tempo a Quinn, che aveva dovuto subire anche le pressioni dei media, interessati a rievocare, analizzare e rianalizzare ogni aspetto di quella drammatica vicenda. Poi era arrivata la convocazione ufficiale a Quantico, dove lo aspettavano altri casi, anch'essi avviati a una soluzione. Anche le loro conversazioni telefoniche erano state brevi, e tutti e due si erano astenuti dall'affrontare i nodi del loro rapporto. Il caso aveva portato Quinn a Minneapolis. Il caso li aveva riuniti. Il caso era chiuso. E adesso? «Sono sul retro!» gridò Kate. Quinn la fissò, percorrendo il vialetto che costeggiava la casa. Era ridicola e bellissima, con un cappello e un giaccone verde un po' troppo grandi per lei. Bellissima, anche se malconcia, piena di lividi e ancora scossa. Aveva rischiato di perderla. Di nuovo, e stavolta per sempre. Quell'idea lo investì con la violenza di un colpo di maglio al plesso solare. Aveva ri-
schiato di perderla anche perché non si era accorto di avere sotto gli occhi il mostro che avrebbe dovuto conoscere meglio di chiunque altro. «Ciao, bella», le disse, lasciando cadere a terra i bagagli, prendendola fra le braccia e baciandola, non per trasmetterle la forza del suo desiderio, ma per dare e ricevere conforto. Il cappello di Kate cadde all'indietro, lasciando scivolare sulle spalle la massa dei capelli rossi. «Come va?» «Da schifo, e odio sentirmi così», rispose lei con franchezza, secondo il suo stile. «Amavo la mia casa e tutto quello che c'era. Ho già dovuto ricominciare una volta, e non ho voglia di rifarlo. Ma la vita ci insegna che bisogna rialzarsi, quindi quale scelta ho? Tirare su il mento e riprendere la marcia.» Distolse lo sguardo. «È sempre meglio di quello che è capitato ad Angie, o a Melanie Hessler.» Quinn le sollevò il mento ostinato, costringendola a voltarsi verso di lui. «Ce l'hai per caso con te stessa, Kathryn Elizabeth? Lei annuì, lasciandosi asciugare le lacrime dalle guance. «Anch'io», confessò Quinn, accennando un sorriso. «Siamo bene assortiti. Pensa a come sarebbe fantastico il mondo, se tu e io potessimo davvero controllarlo.» «Senz'altro faremmo un lavoro migliore di chi lo controlla adesso», ribatté lei, poi fu, scossa da un brivido. «O forse io combinerei un disastro, e le persone che amo dovrebbero soffrirne.» «Ecco, oggi ho sentito circolare una voce preoccupante: siamo soltanto esseri umani e questi errori fanno parte del gioco.» «Umani?» ribatté Kate, prendendolo per mano e guidandolo verso la vecchia panchina di cedro logorata dalle intemperie. «Tu e io? E chi te lo ha detto? Lasciami il tempo di fondergli il cervello con il mio raggio della morte.» Si sedettero, e Quinn la cinse subito con un braccio, mentre lei appoggiava istintivamente la testa nell'incavo della spalla. «Sei in anticipo», gli disse. «Non volevo rischiare di perdermi l'inizio della festa», ribatté lui imperturbabile. «Non sei felice di vedermi?» «Non dopo questa risposta.» Lui scoppiò a ridere, sfiorandole la tempia con un bacio, e rimasero in silenzio per qualche minuto, fissando la porta annerita sul retro della casa, da cui Quinn e Kovac l'avevano portata in salvo. «Sono tornata qui proprio per costruirmi questa vita», disse piano Kate.
«Pensando che, così facendo, avrei potuto controllarla e non sarebbe successo niente di brutto. Ingenua, non ti pare?» Quinn si strinse nelle spalle. «E io pensavo che, se avessi potuto afferrare saldamente il mondo, sarei riuscito a liberarlo da tutti i demoni. Ma le cose non vanno così. Salta fuori sempre un nuovo demone, e non riesco più a contarli. Non ho la forza di metterli in riga. Diamine, non li riconosco neppure quando sono davanti a me.» Kate avvertì la nota di disperazione sotto quel tono rude e capì che anche lui aveva visto scossa la fiducia nelle sue capacità. Il grande Quinn, infallibile, sempre sicuro di sé, lanciato verso il bersaglio come una freccia. Aveva sempre amato la sua forza incrollabile e ammirato la sua determinazione; ora lo amava ancora di più per la sua vulnerabilità. «Nessuno poteva prevederlo o intuirlo, John. Ho detestato quell'uomo fin dal primo giorno, eppure non avrei mai sospettato una cosa del genere. Noi vediamo quello che ci aspettiamo di vedere. C'è da aver paura, se pensi a quello che si può nascondere sotto la superficie.» Kate guardò il giardino, bruno e arido, surreale alla luce del crepuscolo. «Immagina le crudeltà più terribili e repellenti che un essere umano possa compiere ai danni di un altro. E pensa che in questo momento là fuori c'è qualcuno che le sta mettendo in atto. Non so come fai a sopportarlo, John.» «Infatti non ce la faccio», ammise lui. «Sai com'è, quando cominci questo lavoro, no? Tutto ti sconvolge e devi imparare a resistere. Devi indossare una specie di corazza emotiva. Poi arrivi al punto che hai visto troppo, niente ti fa più impressione, e cominci ad avere dei dubbi sulla tua stessa umanità. Se resisti abbastanza a lungo, la corazza comincia a incrinarsi, il male comincia a corroderla, e ti ritrovi al punto di partenza, solo che sei più vecchio e più stanco, e sai che non puoi sterminare tutti i draghi, per quanto tu possa tentare.» «E allora?» chiese Kate sottovoce. «E allora o ti fai da parte, o ti ficchi in bocca la pistola, o cadi stecchito come Vince Walsh.» «In apparenza questa scelta sembrerebbe suicida.» «No, se il lavoro è tutto ciò che hai. Se ti seppellisci nel lavoro perché hai troppa paura di andare a reclamare la vita che veramente vuoi. È il mio ritratto degli ultimi cinque anni», aggiunse Quinn. «Ma ora basta. A partire da oggi, sono ufficialmente in congedo. È ora di far decantare la tensione, di pensare a rimettermi in sesto.» «Di decidere quello che vuoi», suggerì Kate.
«Quello che voglio lo so», rispose lui con semplicità. Voltandosi verso di lei sulla panchina, le prese la mano fra le sue. «Ho bisogno di avere qualcosa di buono nella vita, Kate, Ho bisogno di qualcosa di bello e di caldo. Ho bisogno di te. E tu, di che cosa hai bisogno?» Kate lo guardò, sullo sfondo della sua casa distrutta, e l'immagine che le venne in mente fu quella della fenice che risorge dalle proprie ceneri. Gli avvenimenti che li avevano portati fin lì erano stati devastanti, ma ora si offriva loro la possibilità di un nuovo inizio. Insieme. Per la prima volta in cinque anni, provava un senso di calore, di dolcezza, di pace, al posto del vuoto al quale era diventata quasi insensibile. Aveva trascorso anni interi senza di lui, limitandosi a esistere. Adesso era tempo di amare. Dopo tante morti, reali e metaforiche, era tempo di vivere. «Ho bisogno che tu mi tenga fra le braccia, John Quinn», rispose sorridendo. «Ogni giorno e ogni notte della mia vita.» FINE