MICHAEL D. O'BRIEN IL NEMICO (Father Elijah. An Apocalypse, 1996) Sii vigilante e da' vigore a quanto resta, che altrime...
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MICHAEL D. O'BRIEN IL NEMICO (Father Elijah. An Apocalypse, 1996) Sii vigilante e da' vigore a quanto resta, che altrimenti finirebbe per morire. (Apocalisse 3,2) Introduzione Un'apocalisse è un'opera letteraria che si occupa della fine della storia umana. Da millenni, apocalissi di vario genere si sono presentate al mondo nella storia culturale di molti popoli e religioni. Nascono dalla speculazione filosofica, dalle visioni del futuro, o da paure e desideri indistinti, e non di rado dalla passione umana permanente per quello che J.R.R. Tolkien chiamava «sub-creazione». Questi poemi, racconti epici, fantasie, miti ed opere profetiche forniscono una testimonianza comune della condizione transeunte dell'uomo sulla terra. L'uomo è uno straniero e un ospite. La sua esistenza è indicibilmente bella - e pericolosa. È carica di misteri che implorano di essere decifrati. La parola greca apocalisse significa scoprire o rivelare. Attraverso tali rivelazioni l'uomo fissa intensamente il panorama della storia umana alla ricerca della chiave della sua identità, alla ricerca della stabilità e del compimento. Forse la parte peggiore della "demitologizzazione" così endemica ai nostri tempi è il messaggio secondo cui le storie della fede cristiana sono semplicemente la nostra versione di "miti" universali. Viene insinuato che molte culture hanno prodotto racconti incentrati su un eroe che viene ucciso e ritorna alla vita; un numero ancora maggiore di culture ha immaginato un cataclisma che avverrà alla fine della storia. Una volta G.K. Chesterton ha scritto che la posizione dei demitologizzatori equivale a questa: dato che una verità si è impressa profondamente nell'immaginario di un gran numero di popoli antichi, di conseguenza non può essere vera. Chesterton ha fatto notare che il demitologizzatore non è riuscito ad analizzare il fattore più importante di tutti: a livello dell'intuizione, popoli di diverse epoche e località potrebbero essere stati a conoscenza di eventi reali che un giorno sarebbero avvenuti nella storia; che nei loro desideri profondi vi era un barlume di luce, un presentimento, una brama, espressa
attraverso l'arte, della pienezza della verità che un giorno sarebbe diventata carne. L'Apocalisse di san Giovanni è un'apocalisse di ordine superiore. È una vera profezia, in quanto non è semplicemente un'opera di predizione, ma è una comunicazione proveniente dal Signore stesso della storia. È un'esortazione, un incoraggiamento, un veicolo di insegnamento ed una visione di eventi reali che avverranno un giorno. Dato che il dramma dei nostri tempi procede speditamente verso un climax ancora sconosciuto, sorgono numerose ipotesi e si presta nuova attenzione all'Apocalisse di Giovanni, suscitando una pletora di interpretazioni. Una scuola di pensiero sostiene che il libro si riferisce solo all'epoca di Giovanni; un'altra ritiene che sia solo ed esclusivamente una meditazione sulla fine delle cose in un futuro indeterminato; un'altra ancora crede che il libro sia una panoramica della storia della Chiesa esposta in sette epoche principali. Una quarta interpretazione, quella prediletta dalla maggior parte dei Padri della Chiesa, ritiene che sia una visione teologica di un ampio scenario spirituale, che contiene descrizioni della situazione della Chiesa all'epoca di Giovanni e anche degli eventi che si svolgeranno alla fine dei tempi. Per Giovanni, i «tempi della fine» iniziano con l'incarnazione di Cristo nel mondo e, quindi, alla Chiesa rimane solo un'ultima battaglia da affrontare. A mio parere, questa è l'interpretazione migliore, e più completa, ed è quella che ho seguito in Padre Elia. Il lettore incontrerà qui un'apocalisse nel senso letterario antico, ma scritta alla luce della rivelazione cristiana. È una speculazione, un'opera di fantasia. Non tenta di predire dettagli dell'apocalisse finale, quanto piuttosto di domandarsi come la personalità umana risponderebbe a una situazione di tensione intollerabile, in un clima morale che diventa sempre più gelido, in una condizione spirituale di orizzonti perennemente in movimento. Il futuro prossimo porta con sé per noi molte variazioni possibili del tema apocalittico, alcune più spaventose di altre. Io ho esposto solo uno scenario. E nonostante ciò, il personaggio centrale è immerso in un dilemma che affronterebbe in ogni apocalisse. Si trova dentro eventi che si dispiegano e, quindi, viene a confronto con il problema della percezione: come vedere le strutture nascoste dei suoi tempi caotici, come uscirne e giudicarle in modo obiettivo, pur rimanendone partecipe e agendo per il bene. Il lettore dovrebbe essere avvisato che questo libro è un racconto di idee. Non avanza con quel passo che dà assuefazione tipico di un minidramma televisivo, e non offre nemmeno soluzioni semplicistiche e falsa pietà.
Offre la Croce. Essa testimonia - spero - la vittoria finale della luce. IL NEMICO 1 Carmelo Fra' Mulo trovò padre Elia nell'orto, vicino alle cipolle. L'anziano frate stava zappando, sudato sotto il cappello di paglia, e il giovane fratello provò un sentimento di compassione nei suoi confronti. «Il padre priore la desidera». «Grazie, fratello». «Deve andare da lui adesso, dice. Non si preoccupi di lavarsi. Venga direttamente». Le parole gli schizzavano fuori alla rinfusa, come facevano di solito. Veniva chiamato "fra' Mulo" a causa della sua semplicità e della sua preferenza per ogni lavoro che potesse essere svolto dalle bestie da soma. Elia pensava a lui come al piccolo. «Di corsa, di corsa», lo pungolò. Il suo occhio buono stava ridendo; l'altro era offeso e si contraeva come se stesse sempre facendo l'occhiolino. Era un cristiano palestinese, un ragazzo disponibile e non complicato, a cui non importava di essere poco importante. Non era tenuto in grande considerazione dalla maggior parte dei padri e dei fratelli. Era trasandato e dimenticava la Regola quasi ogni giorno sebbene fosse sempre sinceramente pentito. Di solito il loro atteggiamento verso di lui era paziente; al peggio - e questo solo di rado - era condiscendente. A Elia piaceva molto e fra loro c'era un affetto sincero, anche se distaccato. «Mi è capitato di sentire che è arrivata una telefonata importante da Roma un'ora fa. Fra' Silvestro me lo ha detto quando siamo passati per l'ingresso dopo le preghiere». Si mise una mano sulla bocca, e il suo occhio buono si contorse per la vergogna. «Sono sicuro che tu e fra' Silvestro non avevate l'intenzione di rompere il silenzio». «È vero, padre, non avevamo l'intenzione di rompere il silenzio». «E sono sicuro che domani ricorderai di attenerti alla regola alla perfezione». «Sì, domani mi atterrò alla regola alla perfezione».
«Dio vede nel tuo cuore. Sa che tu Lo ami». Il piccolo annuì con enfasi. «Quando prega, quando chiede a Dio di farle ricordare le cose, potrebbe pregare per me, in modo che mi attenga alla regola alla perfezione?». «Lo farò, fratello». «Le sono grato per le preghiere». «Grazie, fratello». Si separarono nel corridoio davanti all'ufficio del priore. Il piccolo scappò in chiesa, dove si sarebbe inginocchiato davanti al Santissimo e avrebbe chiesto perdono per un altro giorno in cui non era riuscito a non commettere alcuna trasgressione. Elia bussò. Il priore disse: «Avanti». Elia entrò e attese. Il priore lo invitò a sedersi. Era tedesco. La fronte alta e tondeggiante, l'aspetto solenne, gli occhi grigi e pensosi sarebbero stati bene sul volto di uno studioso, forse di un benedettino del nord. Ma Elia aveva imparato da tempo a non giudicare dalle apparenze. In particolare, questo priore non era quello che sembrava. Stava in piedi di fronte alla finestra che si affacciava sulla baia di Haifa e guardava il sole tramontare nel mare. «È estremamente insolito, padre Elia. E io non mi do pace». «Riguardo a che cosa?». «Il suo omonimo ha abitato su questo santo monte tremila anni fa. È venuto qui per ascoltare la voce di Dio». Elia attese, sapendo che sarebbe seguito altro. Il vento frugava ansioso fra i grappoli del pergolato. «L'ha sentita in una brezza gentile, non correndo per il mondo alla ricerca di progetti. La nostra vocazione è una chiamata all'ascolto. All'adorazione di Colui che risiede in mezzo a noi. Questo è il motivo per cui lei è qui. Questo è il motivo per cui lei è nato». Elia annuì. «In quanto priore, mi è stata concessa la grazia del discernimento per i miei figli spirituali. E sono afflitto». «Lei è afflitto a causa mia?». «Mi scusi, ho parlato senza spiegarmi. Oggi è arrivata una telefonata. Lei è stato chiamato a Roma». «A Roma? Ma la nostra casa là è piena zeppa e noi qui siamo praticamente vuoti». «Lei non è stato chiamato a Roma alla nostra casa, ma al Vaticano».
«Al Vaticano?». «Ho parlato con un alto funzionario della Segreteria di Stato questo pomeriggio. Ha inviato i documenti necessari per fax poco dopo. La lettera formale con le direttive e le informazioni per il suo volo. Lei incontrerà certi funzionari alla Segreteria il prima possibile». «Ha spiegato il motivo del viaggio?». «Solo cenni. Sarà informato al suo arrivo». «Quando devo partire?». «Questa è la parte che mi sorprende. L'uomo con cui ho parlato ha palesato una certa urgenza. Lei partirà con il prossimo volo dal Ben Gurion. Ogni cosa è stata sistemata. Visti, biglietti. Roma ha organizzato tutto in dettaglio direttamente con gli israeliani». «Certamente ha menzionato lo scopo». «Ha detto solo che ha a che fare con l'archeologia». «L'archeologia?». «Lei ha da lungo tempo un interesse per l'archeologia, non è vero, padre?». «Un interesse da dilettante». «Ha pubblicato articoli dedicati all'archeologia biblica su riviste internazionali». «Sì, ma non erano niente di speciale. Si trattava di riflessioni sulla spiritualità dell'archeologia biblica piuttosto che di analisi scientifiche in senso stretto». «Pare che abbiano attirato l'attenzione del Vaticano». «Non vi sarà nessun congresso sull'argomento nel prossimo futuro. Non capisco la fretta». «Nemmeno io». Il priore fissò la sua scrivania. «Quanto rimarrò via?». «Il funzionario non voleva dirlo. Ha aggiunto solo che si tratta di un incarico che potrebbe richiedere la sua assenza per un considerevole lasso di tempo. Ha detto che la durata della missione è incerta e che è della massima importanza». «E che ne sarà dei miei corsi di teologia? Chi formerà i novizi?». «Padre Giovanni si prenderà cura di loro». «Dovevo predicare in un ritiro a Betlemme la prossima settimana». «Lo posso fare io». Il padre priore era un predicatore capace e molto richiesto. I due uomini rimasero seduti in silenzio per alcuni minuti, ascoltando gli uccelli della
sera. «Può parlarmi del motivo della sua afflizione?». «Non ne sono sicuro, ma sento che lei sta per affrontare un grave pericolo». «In campo archeologico?». «Abbiamo un papa straordinario, un uomo di spirito, cuore e intelletto un santo. Ma è circondato da nemici. La Chiesa è in crisi sin dalle sue fondamenta». «Sì, sta sanguinando da molte ferite». «Le peggiori di queste ferite le vengono inflitte dai suoi stessi figli. Roma è un posto pericoloso al momento. Un luogo di illusioni instabili». «Lei ha parlato di pericolo». «Sì». «Quale genere di pericolo?». «Quello di genere spirituale. Le dico, non mi sento tranquillo. La mando in Italia per obbedienza. Quale significato ha la nostra vita senza obbedienza? Tuttavia, so che la sto mandando incontro a un pericolo». «Non ho paura della morte». «La morte», disse il priore con un sospiro, «potrebbe essere il minore dei pericoli». «Posso parlare chiaramente, come farebbe un figlio con un padre?». «Naturalmente. Pensa che non veda le somiglianze fra noi due? Lei è un convertito dall'ebraismo scelto da Dio per diventare un carmelitano - un ramo tolto dal fuoco. E io un profugo dall'ateismo tedesco. Tutti e due esiliati che sono tornati a casa. Fratelli». «La onoro come un padre». «Solo tre voti avrebbero invertito le sedie su cui siamo seduti in questo momento». «Lo Spirito Santo ha scelto lei». «E non sarei sorpreso se scegliesse lei alla prossima elezione. Potrei morire in pace, se fosse così. Ma ora non penso che sarà così». Padre Elia guardò il priore in modo interrogativo. «No?». «Dopo quella telefonata ho pregato. E ho sentito una voce che mi dice che lei non ritornerà». «Se fosse così, sarei addolorato. Questa è la mia unica casa. Lei è mio amico». «Amico. Custodirò gelosamente questa sua parola. Non è un bene avere legami affettivi, no? Ma persino qui, dove pratichiamo la carità universale,
è impossibile non vedere che alcuni sono chiamati a percorrere insieme la stessa strada». «Ho camminato a lungo dietro di lei su questa ascesa al monte Carmelo. Lei mi ha insegnato tutto quello che un padre può insegnare a un figlio». «Se le avessi insegnato a portare la croce e a morire su di essa, allora le avrei insegnato tutto. Le ho insegnato questo?». «Me lo ha insegnato sin dal primo momento del mio arrivo». «Sa che quando lei è arrivato qui per la prima volta pensavo che non sarebbe rimasto? Un ebreo. Un famoso sopravvissuto dell'olocausto. Un uomo potente in Israele. Come avrebbe potuto una persona come lei accettare di diventare un uomo di Dio nel nascondimento? Questo è il motivo per cui sono stato così duro con lei all'inizio». «I fratelli erano soliti dire che non c'era mai stato un maestro dei novizi così rigoroso come lei». «Il Prussiano?». «Lo sapeva? Non era un soprannome molto caritatevole». «Era appropriato. Ho dovuto imparare molto in quei giorni. C'erano zone della mia personalità in cui la fede non era ancora penetrata. Il nostro secolo lascia ferite particolari nell'anima, no?». «Spesso mi sono domandato se lei non mi mettesse alla prova». «Sì, lo facevo. C'era qualcosa di irrisolto dentro di me. Non avevo abbastanza fede per superare le "impossibili barriere culturali". Ho ipotizzato semplicemente che i fratelli palestinesi non l'avrebbero mai accettata. Ho ipotizzato che avrebbe portato fra queste povere mura la malattia degli uomini famosi: l'orgoglio, la distruzione delle anime - e delle comunità. Mi ero sbagliato». «Lei aveva ragione». Il padre priore lo guardò fisso. «Lei aveva ragione, perché nessun uomo è esente dalla tentazione. Ciascuno deve lottare con essa, qualsiasi forma prenda. Non ero orgoglioso, perché sono stato un ministro di governo, e neppure perché si diceva che un giorno sarei diventato primo ministro. Non ero orgoglioso a causa dei miei libri. Ero orgoglioso, perché dentro mi rodeva un ideale segreto che continuava a sussurrare, una voce che diceva che avrei potuto salvare il mondo. Che avrei potuto prevenire un altro olocausto. Pensavo di essere come Dio. Un dio buono e umile, naturalmente». «Ah, Elia», disse il priore, agitando la mano come per scacciare il pensiero, «lei non è stato tolto dal fuoco per niente».
«Il fuoco è una prova. Purifica o distrugge. Mi sono occorsi anni per liberarmi della sete di vendetta travestita da giustizia. Ero pieno di odio idealistico - quello della peggior sorte». «La sua intera famiglia è stata annientata. Come avrebbe potuto non odiarci?». «L'ho fatto per anni. Sono diventato un uomo freddo, come morto. Una conchiglia. La misericordia di Dio l'ha frantumata quando sono diventato credente». «Ma non tutto si realizza in un colpo solo». «È vero. Quando sono arrivato in questa casa, ho portato la rabbia con me. La rabbia e il risentimento». «Mi sono spesso domandato come lei abbia fatto a controllare il suo disprezzo per me». «Non volevo disprezzarla. Ma il suo accento tedesco. Le abitudini. Era troppo per me». «Lo so. Non ne abbiamo mai parlato, padre, ma mi ricordo il mese e l'anno in cui lei ha perdonato ogni cosa, completamente. I suoi occhi sono cambiati. Fino a quel momento aveva perdonato molto, ma non tutto». «Lei me lo ha insegnato». «Le ho insegnato questo?». «Sì. Vede, sapevo che lei era a conoscenza del mio disprezzo. Un uomo di qualità inferiori alle sue sarebbe diventato più severo o, peggio, più gentile. Ma lei è rimasto distaccato e a poco a poco sono riuscito a comprenderla. Mi sono occorsi anni per rendermene conto, e, quando finalmente l'ho fatto, ho compreso il grande atto di carità che lei aveva compiuto. Lei si era rassegnato a essere per sempre il despota teutonico ai nostri occhi». Il priore replicò: «L'uomo proietta le sue ferite sul mondo, amico mio. Giudica ogni cosa e nel giudicare svela se stesso. Alcuni membri della mia famiglia sono stati perseguitati, pochi, molto pochi. Uno zio, un prete, è morto martire a Dachau. Ma la maggior parte dei miei parenti era compiacente, addormentata, o spaventata. Hanno collaborato con il male. Molti erano membri del partito. Uno dei miei cugini era nelle SS. Un bell'assortimento, la mia famiglia». «Un ritratto della razza umana». «Sì, la razza umana. Non cambia molto da popolo a popolo, da nazione a nazione. Cambiano solo le stagioni e i motivi della lotta. Se fossi stato un po' più grande, non sono sicuro chi avrei seguito, lo zio martire o il mio eroico cugino. Questo la sconvolge?».
«No». «Sconvolge me, Elia». «Lei era un ragazzo». «Non sono mai stato un ragazzo come lei. È vero che ero giovane durante l'olocausto. Tecnicamente parlando, non ho commesso nessun peccato. Questo mi consola in certi momenti, ma è una consolazione che non scalda. L'olocausto è stato un avvertimento per il mondo intero. La nazione più colta e religiosa d'Europa ha permesso che dal suo cuore sorgesse l'impensabile. I miei parenti ed i miei vicini». Rimasero seduti in silenzio per parecchi minuti fino a quando il priore si scosse e si alzò. «Farebbe meglio a prepararsi e a fare i bagagli. Fra' Silvestro la porterà all'aeroporto domani mattina. Non indossi la tonaca». «Per quale motivo non dovrei indossare la tonaca?». «Ci sono stati incidenti a Roma. Si sputa addosso ai preti e alle suore, e vengono anche attaccati fisicamente. Sta diventando sempre più frequente». «E se qualcuno durante il mio viaggio sentisse la necessità di confessarsi? Se vedesse un prete, potrebbe decidersi a chiedere aiuto. Possiamo negargli questa opportunità?». Il priore fissava per terra e rifletteva. «Come al solito, lei ha ragione. Indossi la tonaca». Padre Elia piegò la testa per ricevere la benedizione del priore. Poi i due uomini si abbracciarono senza dire una parola ed Elia andò nella sua cella. Lì pregò per ore e dormì in modo intermittente fino alle quattro del mattino, quando fra' Silvestro lo svegliò. Si diressero verso sud, sulla strada costiera, prima dell'alba. Quando passarono per le periferie settentrionali di Tel Aviv, Elia rivolse lo sguardo a est, verso Ramat Gan, dove aveva abitato insieme a Ruth per due anni. Si domandò, come aveva fatto molte volte, che cosa sarebbe diventata la sua vita se la bomba non fosse esplosa. O se lei fosse andata prima a Gerusalemme, come aveva suggerito lui. Ma lei si era scrollata di dosso la sua paura. «Sono una sabra, Dovidl. Sono abituata alle minacce terroristiche. Fanno parte del paesaggio». Doveva tenere lezione all'Università di Gerusalemme quel pomeriggio e non sarebbe tornata fino a tardi. Aveva detto che prima di tutto si sarebbe fermata a comprare formaggio di capra, pere e salmone affumicato al mer-
cato e li avrebbe lasciati in frigorifero per la cena. Lo sgridò con tenerezza. Lui promise di nutrirsi in modo corretto. «Vai», le disse, «vai». Se si fosse affrettata, sarebbe arrivata a lezione in orario. Lei lo baciò e se ne andò. Una mezz'ora dopo sentì l'esplosione dal suo ufficio, e capì. Non sapeva spiegare come lo capì, perché all'epoca non era credente. A quel tempo credeva solo in Israele e in Ruth. Fra' Silvestro attraversò Ramat Gan guidando leggermente al di sopra del limite di velocità e per fortuna scivolarono via attraverso la città prima che iniziasse davvero il traffico. Fecero il check-in al Ben Gurion verso le otto. Fra gli addetti alla sicurezza ci furono alcune sopracciglia che si sollevarono quando videro la tonaca, ma il nome sul passaporto e una rapida consultazione fra gli ufficiali gli consentirono di passare senza doversi sottoporre alla solita perquisizione completa. «Lei è fortunato ad avere degli amici alla Knesset», disse una guardia. Alle nove padre Elia si trovava a bordo del volo del mattino per Roma. Aveva un posto vicino al finestrino. Erano passati molti anni da quando aveva volato per l'ultima volta e si rallegrava infinitamente per ogni sensazione che provava. Il jet si alzò ad angolo acuto sul Mediterraneo, che era già una lastra di argento fuso. *** I suoi due vicini di posto non si erano quasi resi conto della sua presenza. La donna di mezza età accanto a lui indossava della bigiotteria di plastica gialla e profumava di gardenie. Stava leggendo un romanzo giallo francese. Nel posto che dava sul corridoio, un uomo abbronzato con una camicia a fiori batteva sui tasti del suo computer portatile. Elia dormicchiò fino alla colazione. La hostess la servì ai suoi vicini di posto accompagnandola con un sorriso e due chiacchiere amichevoli. A lui la servì senza degnarlo di uno sguardo e non rispondendo al suo grazie. Elia attribuì la dimenticanza della hostess a disattenzione. Ma quando lei portò via i vassoi mezz'ora più tardi, dimostrando lo stesso calore verso gli altri e aumentando la freddezza nei suoi confronti, pensò che questa freddezza fosse intenzionale. Disse una preghiera per lei e cercò di contrastare una lieve tendenza alla paranoia. Il film che veniva proiettato sul volo raccontava di una battaglia legale fra gli avvocati di una superpotenza occidentale senza nome e il leader psi-
cotico di una setta. I giovani avvocati idealisti, uomini e donne, erano belli, spiritosi, brillanti, dotati di ideali morali (a parte che fornicavano) e determinati a salvare il mondo dai fanatici. Per contrasto, al leader della setta non mancava nulla di ripugnante. Fra atti di violenza sessuale e lavaggio del cervello, urlava ripetutamente la sua fedeltà al «mio Signore e Salvatore Gesù Cristo». Al punto culminante del film, induceva tutti i suoi seguaci a commettere un suicidio di massa. Padre Elia si domandò se si fosse perso alcuni passaggi da quando era entrato in convento, venti anni prima. L'hostess ritornò e confermò l'atteggiamento di simpatia selettiva. Offrì una scelta di giornali. Elia prese il Jerusalem Daily News e Worldview. Di quest'ultimo non aveva mai sentito parlare prima. La testata lo informò che era una rivista di notizie internazionali, pubblicata ogni settimana in edizione inglese, italiana, spagnola, tedesca, giapponese e francese. Tiratura nel mondo: sette milioni e mezzo di copie. Il volto sulla copertina gli era sconosciuto. Un uomo dall'aspetto distinto tra i cinquanta e i sessant'anni. La didascalia in grassetto diceva: Un nuovo presidente per la Federazione di Stati Europei. Il servizio parlava della rapida ascesa del presidente, del suo retroterra, dei numerosi riconoscimenti che aveva ricevuto, delle onorificenze e lauree. Una figura di eccezionali qualità umane. C'era un paragrafo dedicato alla sua filosofia sociopolitica. Era prima di tutto e soprattutto un umanista, a quanto sembrava. Parlava in ogni occasione della «creazione di una civiltà globale» e della «rinascita di una opzione fondamentale per il genere umano». Rivolgendosi alla Corte internazionale per i diritti umani all'Aja, la settimana prima, aveva detto: «A causa della diffusa violazione dei diritti umani durante il secolo passato, abbiamo perso molta fiducia nell'uomo». Aveva ricordato ai giuristi che l'epoca della guerra intrapresa fra Stati e nazioni per le acquisizioni territoriali stava volgendo al termine. «Ora che ci avviciniamo al terzo millennio dell'era volgare, tutto il genere umano deve volgersi al futuro e accogliere una visione del nostro destino che abbracci ogni elemento umano nella sua totalità, compreso il concetto di uomo come essere spirituale». Elia fece una pausa. Era davvero un leader che spiccava rispetto ai soliti politici. Forse un filosofo. La donna al suo fianco picchiettò col dito sulla copertina della rivista. «C'est beau, ça! Le monde a besoin de cet homme».
Parlando in francese, Elia concordò con lei sul fatto che il presidente dicesse delle cose importanti. Cose vere. Forse potrebbe fare davvero del bene al mondo. La donna lo fissò di traverso. «Del bene? Ma quest'uomo è la cosa migliore che l'Europa abbia prodotto dalla guerra. È la persona giusta. Lo vedrà. È la persona giusta». Elia annuì e ritornò all'articolo. Diceva che al momento il presidente si trovava nella sua villa vicino a Napoli, a riposare dopo un lungo giro di conferenze. La donna si sporse su di lui e indicò il finestrino. «Guardi, là. È il tacco dello stivale. Stiamo per raggiungere la costa dell'Italia». Elia le offrì di scambiare i posti e lei accettò prontamente. L'uomo seduto lungo il corridoio gli lanciò un'occhiata e chiese in inglese: «A visitare il Vaticano?». «Sì». «Roma è un bel posto. Già stato?». «No». «Israeliano?». «Sì». Il giovane uomo non aveva bisogno di dire a Elia di essere americano. «Sta tornando negli Stati Uniti?». «Oh, libera uscita a terra». «Quanto tempo è stato via?». «Tre anni». «Ha voglia di rivedere l'America?». «Ci può scommettere. La terra della libertà, la patria dei valorosi». «Sì, certo. Mi dica, che cosa pensano gli americani del nuovo presidente europeo?». «Abbiamo il nostro presidente di cui occuparci. Sono tutti uguali di questi tempi, sa». «In che senso?». «Sono tutti sociologi». «Ma lei no?». «Nooo. Il mio ambito di lavoro è il buon, vecchio e affidabile corpo umano. Mi dia ogni giorno un'appendice al posto della psiche». «È un medico?». «Ho fatto parte dello staff dell'ambasciata in Medio Oriente negli ultimi due anni».
«Gerusalemme?». «In parecchi posti». «È un medico militare?». «Della marina», rispose con voce inespressiva. Cambiando argomento, l'americano picchiettò con il dito sopra una copia di Worldview, un numero vecchio della rivista. «Hey, questo tipo è dappertutto sui giornali. Gira molto. Qui sta trattando con la Banca Mondiale per puntellare ancora una volta l'economia russa. Un mese fa ha fermato una guerra fra due repubbliche delle banane in Africa. Un bel tipo. Sembra l'eroe di un'azione legale collettiva». «Sembra proprio così», disse Elia assorto. «Lei è un religioso?». «Sì, sono un religioso». «Ero cattolico». «Non lo è più?». «No. Ho rinunciato per un piatto di lenticchie tanto tempo fa». «Perché ha rinunciato?». «Non funzionava. Non ha mai funzionato troppo bene, non trova? Maledizione, state galoppando nel ventesimo secolo in sella a una lumaca. Questo non è il Medioevo, amico». Continuò a istruire il prete sulle numerose follie della dottrina della Chiesa. «Ero alla conferenza delle Nazioni Unite sulla popolazione, da osservatore. Sa che cosa si diceva nei corridoi? Si diceva che ci sono due problemi principali nel mondo di oggi. Il primo è che ci sono tre miliardi di persone di troppo su questo pianeta, e devono sparire. Il secondo problema è la Chiesa cattolica romana. E deve sparire». «Ho letto delle relazioni su quella conferenza e non ho notato affermazioni del genere». «È il genere di cose che i delegati si dicevano nei corridoi, conversazioni private, sa. I discorsi pubblici erano un po' diversi. Materiale di lavoro e tutta quella roba lì. Si poteva afferrare il senso delle affermazioni, ma non dirlo forte e chiaro, non quello che la gente pensava davvero. Ciò nonostante il vostro papa ha rigettato la maggior parte delle conclusioni della conferenza. Farebbe meglio a darsi una rinfrescatina alla svelta, se vuole salvare quello che resta». «Che cosa intende?». «Voglio dire, la vostra Chiesa è l'unico ostacolo sulla strada per rendere
questo pianeta un bel posto in cui vivere». «Forse lei sta trascurando i comunisti cinesi». «Lì le cose stanno cambiando. Stanno mettendo sotto stretto controllo i loro problemi demografici. Il capitalismo sta arrivando alla grande e le elezioni sono programmate fra due anni». «I cinesi possono essere maestri di illusioni». «La linea di demarcazione ora è il massiccio controllo delle nascite e l'aborto obbligatorio». «Se distrugge tre miliardi di persone per fare del pianeta un bel posto in cui vivere, che genere di posto sarà? Vorrebbe vivere con le persone che rimangono?». «Guardi, è l'epoca della democrazia e voi cercate di mandare avanti una monarchia medievale là a Roma. Almeno i vescovi statunitensi lo hanno capito. Stanno cercando di decentralizzare, di riportare il potere ai governi regionali». «L'ho sentito». «Non che importi davvero, perché non credo che vi rimarranno molti credenti laggiù». «Cinquanta milioni». «Quanti ascoltano il papa?». «Non lo so». «Bene, chiaro. Si guardi attorno, amico. È un nuovo mondo che sta progredendo alla svelta». L'americano aprì la rivista e cominciò a leggere lui stesso. Elia gettò uno sguardo fuori dal finestrino e vide le montagne sotto di loro. Gli Appennini. Il jet si inclinò in modo impercettibile e cominciò la sua lenta discesa verso Roma. Attraverso il corridoio vide la costa occidentale ed un golfo, doveva essere quello di Napoli. Aprì la sua copia di Worldview ed andò alla sezione dedicata alla religione. Sotto il titolo I teologi del mondo rigettano l'ultima enciclica papale, lesse l'articolo seguente: Sei decenni fa Albert Einstein rigettò l'idea di un Dio antropomorfico e dichiarò il suo amore per la bellezza, il mistero e la contemplazione della «meravigliosa struttura dell'universo». I teologi dell'epoca erano sconvolti dal fatto che egli scavalcasse la tradizione dell'ebraismo e del cristianesimo, che proclamava un Dio che esiste al di là e sopra la sua creazione. Ma la teologia è
cresciuta e il ruolo costante della teologia come ancella del papato è passato per sempre. Una nuova generazione di pensatori in campo religioso si impegna a pensare le realtà trascendenti da una prospettiva più ampia. Incontrandosi la scorsa settimana a Tubingen, Germania, l'Associazione Internazionale dei Teologi Cattolici ha reso pubblica una risposta definitiva all'ultima enciclica papale. Il risultato non è niente di meno che un piccolo capolavoro, un manifesto dedicato a un'idea di religione adatta al XXI secolo. Il copresidente dell'associazione, il dott. Felix von Tilman, un ex sacerdote e attuale direttore dell'Istituto Gaia per gli Studi sulla Religione e la Politica, ha parlato a nome dei cinquemila membri sparsi per il mondo quando ha detto: «È giunto il momento che la comunità umana faccia un notevole passo in avanti nella sua teologia della creazione. Le distinzioni del passato fra piante, animali e uomini si sono dimostrate disastrose per il nostro pianeta. Le persone capaci di pensare non accetteranno più senza obiettare le affermazioni tragicamente bloccate delle gerarchie o dei bonzi, degli ayatollah o dei guru». Sebbene il dott. Tilman non abbia accusato esplicitamente il presente papa e non abbia collegato direttamente le forme di tirannia religiosa del passato con il papato nella sua forma attuale, ha sottolineato la preoccupazione dei teologi del mondo per il fatto che l'enciclica del papa, Sulla libertà e la persona umana, rifiuti di prendere in considerazione i recenti progressi in campo teologico e spirituale - quello che Tilman chiama l'«ecumenismo profondo». Esiste un consenso fra i teologi - sostiene - secondo il quale il documento papale sottolinea eccessivamente il concetto delle verità assolute a scapito del dialogo fra le religioni mondiali. Prendendo la parola, la dott.ssa Mary-Beth Miller, OSVM, di Milwaukee, Wisconsin, già presidentessa del Consiglio Internazionale delle Superiore delle Religiose, ha espresso il sostegno della sua organizzazione al documento dell'Associazione Internazionale dei Teologi Cattolici e ha invitato il Vaticano a rivedere le sue posizioni in materia di teologia morale. Parlando con serenità e convinzione, ha fatto notare all'assemblea che «le gerarchie tendono a degenerare in tirannie. Ci sono vestigia della Chiesa dell'inquisizione nella Chiesa moderna, forze
che operano contro il progresso dell'umanità verso un'era di armonia universale. Queste forze devono essere affrontate in ogni circostanza e ridotte all'impotenza. Il potere del popolo di Dio deve tornare al popolo stesso». Citando numerosi passaggi della recente enciclica, ha mostrato che la Chiesa di Roma resta aggrappata a una sorta di autorità assoluta sulla coscienza, che - lei sostiene - nega il concetto di libertà personale e contraddice gli obiettivi manifesti dell'enciclica. Il modo in cui i teologi sono stati trattati dal Vaticano, ha fatto notare, è un esempio tipico di un modo di concepire la libertà. «Il rafforzamento della cattiva teologia da parte della gerarchia è indegno del nome della Chiesa e dovrebbe essere chiamato con il suo vero nome», ha concluso. «Il suo nome è ingiustizia, il suo nome è sacrilegio». L'arcivescovo Raymond Welland di New York ha aggiunto la sua voce al coro crescente dei dissidenti quando, durante l'omelia pronunciata alla messa di chiusura del congresso dell'associazione, ha detto: «Sotto questo pontificato, la Chiesa ha esibito un palese disinteresse per la voce del popolo. Questa voce è, in senso profondo, la voce di Dio. Abbiamo trascurato troppo a lungo questo magisterium della base a favore di un uomo isolato che siede su un trono solitario nella lontana Roma, esigendo obbedienza cieca». Elia scosse la testa lentamente. Le ruote del jet toccarono la pista in quel momento e lo sbandamento del velivolo gli impedì di ritornare all'articolo. Riuscì a passare la dogana con notevole difficoltà. Aveva appena superato un'intervista con il capo della sicurezza all'aeroporto, che gli aveva fatto domande in modo sgarbato e aveva interrotto ogni sua risposta. Era stato perquisito in modo completo da due guardie, una delle quali era una donna. Gli avevano messo sottosopra il bagaglio. Quando uscì dalle barriere del controllo doganale, era in un certo senso stupito e impreparato ad affrontare il suo comitato d'accoglienza. 2 Roma
Il comitato era composto da un uomo solo, basso, grassottello, dalla faccia florida, che avanzava verso di lui dall'altro estremo dell'uscita del terminal principale. «Davy», gridò mostrando tutti i denti. «Qui, amico!». Gli occorse un attimo per registrare il volto e il sorriso e poi Elia scoppiò a ridere. «Non ci posso credere! Sei tu, Billy?». «In carne e ossa!». «Questa è una vera sorpresa. Sei tu quello che è stato mandato a prendermi?». «Niente di meno». «Non avevo idea che fossi a Roma». «Sono venuto in visita con il primate d'Inghilterra lo scorso anno e la curia ha chiesto di potermi tenere qui per un certo periodo. Missioni speciali per varie congregazioni. Non sono altro che un "fattorino" di lusso, con un "monsignore" prima del mio nome e una sciarpa color porpora e tutto il resto». «Non ci posso credere! Tu, un monsignore». «Suona come un complimento e un'offesa allo stesso tempo». «Sempre lo stesso vecchio Billy». «Certo, sempre lo stesso vecchio Billy». «Congratulazioni! Questa è una notizia bellissima». Strinse vigorosamente la mano all'inglese. Billy Stangsby aveva ora più di cinquant'anni. Nonostante la sua ascesa a monsignore di curia, aveva il solito aspetto fresco da ragazzino. «Billy the Kid» lo chiamava qualcuno all'École Biblique. Molti pensavano che avesse un carattere superficiale. Elia ne aveva intuito la profondità e si era messo subito dalla sua parte. Ovviamente anche qualcuno in Vaticano lo aveva pensato. Guardandolo, non ci si sarebbe certo immaginati che fosse un esperto di teologia biblica, un avvocato civilista, un ex membro del Parlamento e un famoso convertito dall'anglicanesimo. Era un prete diocesano di Birmingham in Inghilterra. Nella sua ultima lettera, scritta da Roma più di un anno prima, diceva che stava cercando di ottenere il dottorato in diritto canonico. Aveva l'aspetto di un taxista e parlava come un taxista. Elia notò che non era vestito in nero con il collarino. Indossava una camicia sportiva color rosa salmone, una giacca leggera di cotone, un paio di pantaloni sportivi grigi di flanella e delle scarpe di pelle costose. Il bracciale dell'orologio era d'oro, la penna nel suo taschino era d'oro, aveva numerosi denti d'oro, ma la zazzera di capelli irrequieti era Billy al cento per cento.
«Hai un aspetto più florido, monsignore, dall'ultima volta che ci siamo incontrati». «E tu continui ad assomigliare ad un rabbino con un pessimo taglio di capelli. Wow, i capelli sono bianchi, almeno quelli che restano». «Si invecchia, si invecchia». «Sembra che ti abbiano messo sottosopra alla dogana». «Trattano tutti a questo modo?». «Nooo. È un trattamento speciale per il clero. Pensavo che per sicurezza il mio boss avesse detto al tuo di mandarti in abiti civili». «Ha accennato a qualcosa del genere. Ho protestato e vinto. Vorrei aver perso». Billy prese la sua valigia e disse: «Usciamo di qui. Stai attirando più sguardi d'odio di quanti un tipo sensibile come me possa sopportare». Andando verso l'entrata principale, passarono di fronte ad un'edicola che mostrava il poster di una donna e di un uomo nudi abbracciati. Era la pubblicità di un profumo. «È sbalorditivo», disse Elia, guardando dall'altra parte. «Oh, ti devi preparare a delle belle sorprese, Davy. Questo non è niente. Dai un'occhiata dall'altro lato». Sul retro dell'edicola c'era una pubblicità per un liquore. Mostrava due uomini nudi sdraiati sulla schiena a letto, sottobraccio, che si guardavano negli occhi e succhiavano con una cannuccia dallo stesso bicchiere. «Vedo bene?». «Vedi benissimo», borbottò Billy, «forse dovrei bendarti gli occhi fino a quando non siamo usciti dal parcheggio». «Va tutto bene. Terrò in custodia gli occhi». Billy rise a denti stretti. «È proprio un'espressione antiquata», disse, «e non ti rendi conto di quanto sia rinfrescante sentirla. La maggior parte dei preti che conosco dice che non dovremmo essere così puritani, che dovremmo comportarci da adulti». «E tu che cosa rispondi?». «Io dico che è maledettamente difficile vedere una donna nuda e pretendere che sia un portaombrelli. È meglio che non mi facciano vedere una donna nuda. In questo modo mantengo i miei voti». «E quello che cos'è?», disse Elia indicando un'edicola vicina all'uscita. «Non guardare». «Ma il mondo è diventato pazzo?».
«Temo di sì, vecchio mio». «Ma perché lo fanno vedere? È un crimine orribile e lo usano per fare pubblicità come se fosse...». «Un divertimento». «Ma che cos'è?». «È uno spettacolo. Beh, in effetti è una sorta di happening artistico. La compagnia teatrale ha i diritti per i feti abortiti. Vengono usati per lo spettacolo serale. È chiamato...». Elia fissò Billy e attraversò la porta avviandosi al calore del sole italiano. «È il Colosseo, sempre e dovunque», mormorò Billy, mentre apriva la porta di una Jaguar verde scuro. «Che cos'è successo al mondo?». «È una lunga storia». «Non ho mai letto niente a proposito». «Ma che cosa leggi di solito? Teologia? Spiritualità? Ho sentito che ti occupi ancora di archeologia. Scommetto che è quello di cui ti interessi». «Riceviamo un sunto delle notizie dal mondo. E L'Osservatore Romano ci informa ampiamente dello stato delle cose. Ma questo, questo è innominabile». «Temo che l'innominabile sia diventato ordinaria amministrazione, vecchio mio». «Non posso essere stato così tanto tempo lontano dal mondo perché sia cambiato in tal misura». «Non voglio urtare troppo presto il tuo innocente sistema nervoso, ma vorrei avvisarti che peggiorerà». «Come potrebbe peggiorare rispetto a questo?». «Ti meraviglierai». Elia scosse la testa. «Anche il passo del cambiamento sta accelerando. Questo è uno degli aspetti più nocivi». Billy entrò in autostrada e si diresse a nord della città. «Stiamo andando in Vaticano?». «Abbiamo un appuntamento lì questa sera». «Con chi?». «Con il mio boss. Prima di tutto ti porto nel mio appartamento. Puoi farti una doccia e mentre la fai, io esco e ti prendo qualche vestito». «No, non vorrei...».
«È una copertura. Sei un bersaglio vivente nel modo in cui sei vestito». «Se giunge la persecuzione, dobbiamo smettere di essere quello che siamo?», chiese Elia con voce tranquilla. «Tu devi obbedire a questo proposito, Davy. È ciò che vuole la Segreteria. Mi dispiace». «Ma siamo sacerdoti di Cristo!». «Lo so. Ma qui in palio c'è più di uno sputo o di un pugno». «Che cosa vuoi dire?». «Penso che sia meglio che te lo dica il boss». Elia guardò scorrere via le colline della città e quando la basilica di San Pietro gli si presentò alla vista il suo cuore fece un balzo. Si sporse in avanti e la fissò. «Per la prima volta a Roma?». «Sì». «Ti sorprenderà quante persone siano deluse da San Pietro. È imponente, chiaro. La chiesa più grande della cristianità. Stipata fino all'inverosimile di opere d'arte dal valore incalcolabile. Ma non si avvicina minimamente alla sensazione che procurano le catacombe di Callisto fuori dalla città. Quelle sono davvero le fondamenta della Chiesa. Quelle e la tomba di Pietro. Ho toccato le sue ossa, sai?». «Hai toccato le sue ossa?». «Hanno aperto la tomba lo scorso autunno durante lavori di restauro alla teca sotto l'altare maggiore. Sai, non è come me l'ero immaginato. Stavo cercando devozione e estasi. Non c'era niente del genere». «Riesci a descriverlo?». «Penso di poterci provare. Quando ho toccato le ossa, non ho avvertito niente di macabro. Era così semplice, proprio qui si trovava il grande pescatore, quello che è fuggito. Quello che ha rinnegato Gesù. Quello che è tornato indietro. L'ho sentito, Davy, ho sentito l'eternità della Chiesa. Come se il tempo non esistesse. C'era una pace che non potresti immaginare. Era bello. E pace. Sì, una pace che non aveva odore o sapore o suono, non avresti pensato che potesse esistere. Ma era là. "Ecco la roccia", mi sono detto. Quest'uomo rude, umile e grande, era proprio come me. Gesù lo ha guardato e amato. Pietro ha guardato Gesù e gli detto: Va' via da me, sono un peccatore. Uno sciocco dalla Galilea di nome Pietro. Gesù lo ha fatto capo degli apostoli, vescovo di Roma, la pietra angolare. Cristo ha costruito una Chiesa su tutta quella debolezza. Questo è ciò che mi ha colpito più di tutto. Dentro la debolezza si trovava un magnifico segreto».
«È una grazia straordinaria». «Sì, lo è stata. Hai fame?». «Temo di aver perso l'appetito all'aeroporto». «Non preoccuparti. Conosco un piccolo ristorante dove entri e cominci a rilassarti. Pasta. Pesce». «Non ho molta fame». «Okay, ma che ne dici se più tardi ce ne andassimo lì a bere un goccio di vino? La frescura della sera e tutto il resto. Ti aiuterà a rilassarti per il tuo debutto sul grande palcoscenico». «Va bene, Billy». L'appartamento di Billy si trovava a circa venti minuti a piedi dal Vaticano, in una strada piena di macchine sportive parcheggiate. Nella strada c'erano giardini pubblici, una fontana e una dozzina di bambini che giocavano sul marciapiede. Viveva in un palazzo antico, suddiviso in appartamenti privati. Le scale che portavano al terzo piano erano di marmo, i corridoi verde oliva, le pareti trasudavano umidità ed erano pesantemente deturpate da graffiti. «Casa dolce casa», disse Billy, aprendo la doppia serratura e un lucchetto. L'interno era fresco e moderno. Il pavimento piastrellato era bianco e le pareti erano di un azzurro pallido. Attraverso una finestra aperta, entravano risate di bambini, radio, qualcuno che si esercitava al pianoforte, clacson, l'intera sinfonia era sottolineata dal sussurro dei cipressini nel parco dall'altro lato della strada. «Viva Roma!», disse Billy. Andò in cucina e tornò con una bottiglia di Perrier e due bicchieri. L'acqua era ghiacciata ed Elia la bevve volentieri. Il soggiorno era tappezzato di libri dal pavimento al soffitto. C'era un'incisione policroma di una Madonna tardo gotica, un paesaggio impressionista francese, un crocifisso africano, una fotografia del papa autografata, uno stereo. Dall'altro lato, in parallelo alla cucina, si trovava una piccola stanza da letto, con una brandina singola, funzionale, austera. Un rosario di legno penzolava da un gancetto vicino al cuscino. Un piccolo orsacchiotto, senza un orecchio e da cui spuntava l'imbottitura, era seduto sulla testata. «La mia cella». «È incantevole». «Ti ricordi di Andy?». «Me lo ricordo bene».
«Salutalo». «Salve, Andy!». «Anche Andy ti saluta». «È invecchiato». «Ne ha viste delle belle. I doganieri britannici ne hanno abusato». «Gli addetti alla dogana sembrano essere diventati alquanto sgarbati durante gli ultimi vent'anni». «Oh, sì. Se fossero così sgradevoli verso i terroristi come lo sono con i cattolici convinti come te e me, vivremmo in un mondo più sicuro». «Nessun luogo è sicuro per gente come noi». «Hai ragione. Grazie per avermelo ricordato». Billy abbassò lo stereo - inni tradizionali cantati con stile operistico. «Placido Domingo», disse. «Lo preferisco a Pavarotti. Tu che ne pensi?». «Hanno entrambi una voce mirabile». «Senti, Davy, penso di avere un'idea della tua taglia. Ti andrò a comprare dei pantaloni, camicie, giacche sportive. Hai bisogno immediatamente di un vero vestito e di una cravatta, ma possiamo farteli sistemare nei prossimi giorni. Adesso ti dobbiamo far entrare nel travestimento». «Davvero, amico mio, va così male?». «Sì, certo che va così male», disse Billy asciutto. Uscì, chiudendosi dietro la porta. Elia si sedette sul divano ad ascoltare i rumori provenienti dalla strada. La tensione del suo corpo si allentò gradualmente. Si guardò intorno nell'appartamento e scoprì che Billy aveva ancora un gusto eclettico: qui c'era una bandiera australiana appuntata sul soffitto, un boccale da birra bavarese appoggiato su una credenza antica, un vascello in legno di balsa rimasto a metà sulla scrivania, un cappello texano messo storto sul busto di una matrona romana. Billy aveva mantenuto il suo entusiasmo da ragazzo, il suo amore per le novità, mentre il tempo aveva trasformato Elia in un pignolo dai movimenti lenti. Erano diventati amici all'École Biblique e lo erano rimasti. Spesso si era domandato perché Billy gli piaceva così tanto. C'era un aspetto intellettuale, naturalmente. Ma, più di quello, Billy era una delle poche persone che aveva incontrato che non tenessero in alta considerazione il proprio ego. Amava comportarsi da clown fino a sembrare stupido. Sembrava inattaccabile dalla tragicità. Il suo entusiasmo per la vita e il suo carattere spensierato erano perfettamente complementari della disposizione mentale se-
vera e rabbinica di Elia. Ma Billy non era amato da tutti. Era stato ricco e brillante, e questo gli aveva procurato nemici. Durante un drink, una sera, un gruppo di professori e studenti aveva parlato del piccolo inglese e lo aveva dichiarato inadatto alla teologia. «Quello Stangsby!», aveva protestato un francese, «Che idiota!». «Per carità, per carità», aggiunse un olandese, «diciamo piuttosto che è un idiot savant». «Oh, certo, è brillante», disse un altro, «ma scherza sempre. Stanca». «Billy possiede una grande serietà dentro di sé», disse Elia. «Non è mai serio». «Ha una personalità confusa», ribatté il francese, «e dice sempre yeah come gli americani». Molti studenti risero. «Questo non è certamente un difetto grave», intervenne un giovane prete dall'aspetto estremamente serio di nome Smith. Era un convertito dalla Chiesa episcopale e parlava con un accento distintamente inglese, anche se veniva dall'Idaho. «L'approccio di Billy alle questioni è chestertoniano», aggiunse. «Proprio lei, Smith», disse il francese, «lei che è un rigido sostenitore di Belloc, completo di accento». «Grazie». Il successivo scambio di battute creò un clima di allegria, ma i commenti erano pungenti. «Stangsby parla come un americano e Smith come un inglese», disse il francese. «Perché i preti di lingua inglese vogliono sempre essere diversi da quello che sono?». «Forse perché non presupponiamo che la nostra cultura sia superiore», disse Smith freddamente. «Questo non è molto patriottico». «Non abbiamo la fortuna di possedere la monodimensionalità di certi europei del continente», aggiunse Smith. «Ah, certo, il famoso melting pot. Venga a Parigi a studiare il prossimo anno, Smith. Parigi è la regina. Le insegnerà il significato della cultura». «Il suo atteggiamento trasuda di chauvinismo nazionalista, Jean», disse un tedesco. «Penso che Berlino meriti quella corona». Ma questa osservazione venne salutata da un silenzio imbarazzato. Un italiano alla fine salvò la situazione mettendosi a fare il verso a se
stesso e dicendo con un sorriso da clown: «Ma non c'è da discutere su questo argomento! Roma è la regina incontrastata». «È un fenomeno affascinante», disse il francese, senza mostrarsi colpito, «che la linea divisoria della Riforma protestante corrisponda più o meno alle antiche frontiere dell'Impero romano. La civiltà ed il cattolicesimo al sud; i barbari ed il protestantesimo al nord». «È troppo superficiale», disse il tedesco. «Lei dimentica i russi». «Ah, certo, i russi. Selvaggi incantati dallo splendore di Bisanzio». E andò avanti così per po', fino a quando il francese non tornò al punto di partenza. «Parigi, Parigi. Regina d'Europa. Smith, abbandoni la sua infatuazione per i britannici, che dopo tutto sono solo normanni trasferiti». «Sembrerei alquanto sciocco se ostentassi un accento francese, Jean. Preferisco le mie radici ancestrali». «Re Giorgio approverebbe». «La Rivoluzione Americana è avvenuta molto tempo fa», disse l'olandese. «Billy e Smith stanno semplicemente cercando le loro parti mancanti, come gli orfani». In quel momento Elia si mise a meditare sull'ultimo commento e pensò che contenesse una parte di verità. Billy, un inglese estroverso che parlava come un caratterista in un film americano, e Smith, un ragazzo introverso della prateria che parlava come se si fosse laureato ad Oxford? C'era davvero qualcosa di essenziale che mancava nella composizione dei loro caratteri, una frattura nella psiche lasciata da una rivoluzione violenta? Si potrebbe riuscire a vivere tranquillamente con quel solco, se ci fosse una forma di compensazione - potere, per esempio, o ricchezza, spazio, e frontiere. Ma il globo si era ridotto drasticamente a partire dalla guerra. Rule Britannia e il pragmatismo sfrontato della pax americana si erano eclissati entrambi. Era questo? Ma non erano stati solo gli americani e gli inglesi che avevano sofferto a causa di rivoluzioni negli ultimi trecento anni. Che cosa dire dei francesi stessi? E dei tedeschi? E del colpo profondo inferto alla coscienza occidentale dalla Riforma? E si poteva tornare ancora più indietro alla scissione tra la Chiesa orientale e la Chiesa occidentale. E forse ancora più indietro. C'era una componente mancante in tutti gli esseri umani? Le masse rurali che cercano la metropoli; i giovani di città che scappano nei boschi. Le donne che pretendono di essere uomini; gli uomini che diventano sempre più come donne; tutti che fanno il verso alla divinità nel loro tentativo di-
sperato di sfuggire alla propria dimensione creaturale. I giovani occidentali che cercano l'Oriente; gli orientali che cercano il capitalismo. I monaci che abbandonano il loro monastero; le persone sposate che bramano la solitudine. I progressisti che cercano di demitologizzare le Scritture nel tentativo di sfuggire alle esigenze della fede biblica; i fondamentalisti che cercano di riempire i vuoti nella loro religione ritornando all'Antico Testamento, sfuggendo ai compiti dell'intelletto battezzato. Si doveva trovare la promessa sempre altrove, sempre al di là del prossimo orizzonte? Perché questo bisogno continuo di segni, miracoli, nuove colonne di fuoco, arche dell'alleanza, tavole di pietra - nient'altro che le rivendicazioni di una fede grezza, faticosa, nascosta? A quell'epoca si era chiesto, spietatamente, se la sua conversione al cristianesimo non fosse una variante della dinamica della fuga - un genere di pseudo-trascendenza. Non c'erano dubbi che lui, un figlio della diaspora alla ricerca di Dio nel Nuovo Testamento, era in fuga dall'orrore del passato. La nascita di Israele non aveva dissipato la costante sensazione di essere una vittima. Il terrore era stato semplicemente rimpiazzato dalla rabbia, e sapeva che entrambi rappresentavano le due facce di una stessa medaglia. Era ancora scosso dagli avvenimenti che lo avevano portato al cattolicesimo - l'infanzia, la morte di Ruth, la lunga lotta contro il nero dominio della disperazione. Alla fine aveva compreso che stava correndo verso Cristo e la fuga dal passato era uno dei mezzi usati da Dio per spingerlo avanti. Ma quando incontrò Billy a Gerusalemme era ancora giovane nella fede, ancora ampiamente spinto dalla paura, ancora in lotta con i dubbi cronici su se stesso, ancora in dubbio su ogni cosa, persino su quelle cose in cui credeva ad un altro livello del suo essere. Era un uomo spezzato. «Sul volto di Dio c'è nascosto un sorriso», gli disse Billy una volta. Era un pensiero così estraneo a Elia che lo fece trasalire. La vita era una questione seria. La stragrande maggioranza delle persone che aveva amato era morta in modo violento. Un sorriso segreto? Davvero? Che genere di sorriso? Billy lo aveva catturato all'amo con questa idea intrigante, lo aveva fatto dubitare del suo dubbio, aveva messo in questione le sue domande, gli aveva insegnato a sorridere (in segreto) ed alla fine anche a ridere. Ora erano adulti nella fede, sembrava. Ciascuno aveva continuato la ricerca della sua parte mancante. Elia aveva imparato a poco a poco a scavare in profondità e a tirar fuori la gioia; e Billy era diventato più riflessivo al di là della sua tendenza a mettere tutto sul ridere.
Elia si stese sul divano. Il CD era arrivato alla fine e si era fermato da solo. La sua mente, abituata da lungo tempo alla routine pacata della preghiera e del lavoro e alla meditazione in solitudine, brulicava di frammenti slabbrati di immagini brutali. Non riusciva a levarsi dalla mente il poster dei bambini uccisi. Era solo l'inizio del pomeriggio, erano passate solo sei ore dalla sua partenza dal Ben Gurion, ma gli sembrava che fossero passati giorni. Era esausto. Chiudendo gli occhi lasciò scivolare nel sonno le immagini dell'orrore. Due ore dopo si svegliò in uno stato di semi-stordimento, fissando la parete. Aveva le labbra secche e gli occhi doloranti. Vide un uomo di mezza età seduto a un tavolo. L'uomo teneva lo sguardo abbassato e leggeva un dossier aperto di fronte a lui. Era vestito interamente di nero come un prete. Aveva un aspetto asciutto e ascetico, ma in un modo freddo e strano. Gli occhi erano intelligenti, persino attenti. Elia non sapeva dire se il visitatore fosse un essere corrotto o un ideologo di qualche genere; sapeva solo che era malvagio. Ma il male era di una qualità nuova per Elia. Non c'erano tracce di vizio in quel volto orgoglioso e guardingo. Al contrario, l'uomo irradiava virtù, carattere e nobiltà. Ma tutte queste qualità erano senza carità, e l'effetto cumulativo di così tanto bene trasformato in un male indistinto suscitava paura - come un magnifico arco a cui mancasse la chiave di volta. Perché quell'uomo si trovava nell'appartamento di Billy? Elia si scrollò e si mise a sedere diritto sul divano. In quel momento Billy entrò nella stanza portando delle tazze di caffè fumante. Le posò su un tavolo basso accanto al divano e si sistemò sulla poltrona di fronte. «Bevi», gli ordinò. Elia indicò il visitatore. «Ti prego di presentarci», disse. Billy lo guardò in modo strano. «Eh?». Elia guardò il punto in cui il visitatore si trovava e fu stupito che non ci fosse nessuno. «Stai bene, Davy?». «Devo aver sognato». «Hai dormito due ore. Devi averne avuto bisogno. Usciremo per cena fra poco». «Mi gira la testa. Non riesco a levarmi dalla mente quella faccia». «Qualcuno che conosci?». «No. Un estraneo. Ma l'ho visto come se fosse vero, seduto lì».
«Cervello surriscaldato. Bevi, amico». Elia si fregò gli occhi. «Così tanti cambiamenti; sono arrivati così alla svelta. È strano che uno si crei un'immagine astratta del mondo, ma che i suoi odori, i suoni, il calore e il tormento ci sfuggano. Forse i sensi riescono a leggere qualcosa fra le righe». «Che cosa ti stanno dicendo i tuoi sensi?». «È come se fosse accaduto un enorme crimine o stesse per accadere». «Bene, qui hai ragione. Nessuno osa chiamarlo per nome. Solo pochi ammetteranno che non c'è niente di sbagliato. Ma qualcosa è sbagliato. Terribilmente sbagliato». «Lo sento nell'aria, Billy, come un gas invisibile. Devi uscire dal mondo e ritornarci dopo lungo tempo per vedere il cambiamento». «Il tuo istinto corrisponde esattamente alle mie sensazioni. Se leggi quello che il Santo Padre dice, saprai che anche lui lo ha individuato alla perfezione. Lo sa meglio di chiunque di noi». «Che cos'è?». «Non ne sono sicuro. I nemici esterni sono solo una parte del problema. Ci sono problemi anche all'interno della Casa di Dio». «Ho visto allusioni a tale proposito insinuarsi nei giornali». «Allusioni? Signore, che cosa leggi? È dovunque». «La situazione è tanto brutta quanto pensi?». «Penso che nessuno abbia un'idea precisa della diffusione del problema, ma direi che è decisamente grande. E peggiorerà». «Perché sta succedendo?». «Per molte ragioni. Le tentazioni spirituali, innanzi tutto. L'orgoglio intellettuale. Il brivido di essere rivoluzionari. È la malattia del secolo. C.S. Lewis chiamava questa gente gli Ultimi Uomini Occidentali. Sono colti, ricchi, irrequieti e insoddisfatti. Sono persone razionali che spiegano e teorizzano ogni cosa in ogni situazione, sprofondando in un mondo completamente soggettivizzato. Quale progetto migliore della completa demolizione e ricostruzione della Casa di Dio, giusto?». «È un progetto così consapevole?». «Non per la maggior parte di loro. C'è un sistema nei loro presupposti. Con alcune eccezioni, le loro idee potrebbero essere riassunte grossolanamente in questo modo: "Sono un idealista, ma un realista; spero in una soluzione globale del problema dell'uomo; non credo più (o non ho mai creduto) in un Dio trascendente e in una religione organizzata. Credo il divino
nell'uomo"». «Una seduzione antica». «Sì, e funziona sempre bene». «Quest'uomo, Tilman, che cosa pensi di lui?». «Ohibò! Ora sto perdendo l'appetito. Dove hai sentito parlare di lui?». «In una rivista sull'aereo. Parlava di una conferenza teologica a Tubingen». «Tubingen!», ruggì Billy disgustato. «Le diatribe di Tilman contro la Chiesa universale sono disgustose. È uno di quei tipi che hanno ottenuto un dottorato prima di aver imparato a pensare». «Dall'articolo mi ha fatto un'impressione sensata». «La fanno sempre. Sono persone gentili. Parlano in toni misurati. Non hanno nulla da perdere, capisci. Non stanno sulla difensiva, come noi». «Sembrava alquanto ottimista sul futuro dell'uomo». «Oh, certo. È un utopista. È certamente un mondialista di prima categoria. Probabilmente hai letto che lui e i suoi amiconi condannano gli organismi della religione istituzionalizzata come i veri mostri della storia». «Nell'articolo afferma che il mondo in cui spera è liberato dall'egemonia di un regime mondiale onnipotente o dalla burocrazia mondiale; senza egemonia nel nome della religione; nessuna coercizione per conto del diritto, del dogmatismo o del moralismo religioso». «Quello che vuol dire davvero è che non può sopportare che la Chiesa lo controlli da dietro le spalle, chiedendogli conto dei suoi pronunciamenti da pazzi e della corruzione delle menti di generazioni di ragazzi. Vedrai, Davy, sarà il primo ad allearsi con qualche regime mondiale di carattere politico, con qualche dittatura che superficialmente si presenti come liberatrice, che lo sostenga e che gli consenta di interpretare la parte del rivoluzionario». «Non è possibile che da parte sua ci sia una cecità consapevole». «No. Il caro dottore è semplicemente stupido». La faccia di Billy era diventata rossa. «Scusa, questa conversazione sta prendendo una piega sgradevole. Sapevi già che possiedo una vena di cattiveria?». «In te c'è uno zelota, direi». «Ma mi fa così arrabbiare. Pensa di salvare la Chiesa e in effetti la sta mettendo in pericolo, e proprio nel momento della storia in cui dobbiamo stare all'erta». «È difficile discutere con una persona del genere. Ho incontrato molti come lui nella mia vita: marxisti zeloti, fascisti zeloti, sionisti, fondamen-
talisti, materialisti zeloti, ateisti zeloti, millenaristi zeloti...». «Inglesi cicciottelli zeloti?». «Sì, anche loro, ma sono i meno pericolosi». «Grazie mille». «Billy, forse nel mondo di Tilman il papa e un ayatollah sono fondamentalmente la stessa cosa: tiranni». «Che senza dubbio esercitano la loro tirannia nel modo più crudele sopra la libertà dei teologi». «Mi domando se abbia mai preso in considerazione il problema dello spettro di un mondo in cui ciascuno è divenuto il papa o l'ayatollah di se stesso, in cui ciascuno è divenuto infallibile - ciascuno, a parte il papa di Roma». «Un argomento interessante. Spero di raggiungere la ricompensa eterna prima che succeda». «Forse sta già succedendo». Billy sospirò di nuovo e disse: «Forse. Bene, sei quasi riuscito a farmi passare l'appetito. Ho detto quasi. Andiamo da Mamma Garibaldi. Fanno delle lasagne chiamate "camicia rossa". Sono imbattibili». Dopo che Elia si fu cambiato i vestiti, si avviarono al ristorante dall'altra parte della città. Elia si meravigliò del modo in cui Billy manovrava la Jaguar nell'isteria del traffico cittadino. Nessuno dei due disse una parola fino a quando non ebbero passato il peggio. «Perché un prete cattolico guida una macchina che costa quello che costa?», disse Billy. «Non lo so. Perché?». «Perché gliel'ha data la mamma». «Non devi giustificarti di fronte a me». «Sto cercando di giustificarmi di fronte a me». «Ti vergogni della macchina?». «Me ne vergogno e ne sono invaghito. È la terza che la mamma mi regala quest'anno. Ho messo all'asta la Mercedes e ho donato i proventi alle suore a Calcutta e la Maserati per un centro di rifugiati in Tanzania. Sto per prendere il coraggio a due mani e fare lo stesso con questa». «Quanto è ricca tua madre?». «Molto ricca, Davy, molto ricca. Vuole che il suo piccolo monsignore sia felice. Non riesce a immaginarsi che un uomo sia felice senza sesso sai come sono gli uomini - così si assicura che ci siano delle compensazioni. Tutti i ragazzini amano le macchinine, no?».
Billy guardò Elia con uno sguardo birichino ed entrambi scoppiarono a ridere. «È davvero stupefacente quante poche persone, e voglio dire persone molto religiose, credano davvero che la felicità celibataria sia possibile». «Non è sempre facile». «Non capiscono come ci si possa innamorare di Cristo». «Lo so». «Avevo tutto nella vita. Voglio dire tutto quello che si può volere. Ho passato la maggior parte della mia giovinezza a goderne e a pensare alle donne. Sono stato pazzamente innamorato di un gran numero di donne. Poi un giorno ho scoperto che c'era uno schema nella mia vita. Ero disposto a morire per una e dimenticarla il giorno dopo, e pronto a morire per un'altra il giorno successivo, solo per dimenticare l'intera cosa la mattina dopo». «Un cuore appassionato, Billy». «Un cuore volubile». «Un cuore indisciplinato». «Un cuore ingordo e questa è la verità». «Un cuore da zelota». «Fanatico di ogni sensazione che la vita potesse offrire. Ma non molto dotato di cervello, Davy. Ero così totalmente stupido da allibire. Vivevo come un tossicodipendente. E in quanto tale, non potevo credere che ci fosse la felicità al di fuori della mia dipendenza. Vedi, la dipendenza era diventata la vita stessa». «Che cosa ti ha cambiato?». «Un'esperienza alla san Paolo. Un giorno sono caduto da cavallo. Non voglio dire letteralmente. Voglio dire che stavo guidando per i Cotswold su una strada laterale. Non ero depresso o altre cose del genere. In effetti, tutto stava procedendo a meraviglia. Ho avvertito, con una certezza in un certo senso perentoria, che la mia vita era futile. Tutto sembrava senza senso. Ho fermato la macchina, sono sceso e ho camminato su per una collina e mi sono seduto sotto un albero a passare in rassegna la mia vita. E l'ho vista. L'ho vista davvero. Una bella vita. Non ero un uomo malvagio. Solo incredibilmente vuoto. È stato un severo momento di grazia». «Forse la vera grazia era la capacità di accettare quello che avevi visto». «Forse. Ma poi ho sentito una voce. Una voce tranquilla. Da dove venisse, non lo so. Non l'avevo mai sentita prima e non l'ho più sentita da allora, almeno non in questo modo». «Che cosa ti ha detto la voce?».
«Ha detto: "Apro una porta di fronte a te. Ti chiedo di varcarla". Allora mi sono voltato e ho visto una luce fra gli alberi, un pezzo di cielo là dove era stato aperto un varco attraverso la foresta. Era un sentiero per i cervi che correva fra i boschi. Sapevo che sarei dovuto andarci. In un primo momento volevo togliermelo dalla testa. Ma continuavo a guardarlo. Ero spaventato e felice allo stesso tempo. Sapevo che la cosa migliore per un tipo come me sarebbe stata mettere insieme tutto - tutto di tutto, le donne, le lauree, i soldi, la fama, il seggio in parlamento - e gettarlo via. Pazzesco, no?». «Pazzesco e santo». «Credimi, non ero un tipo santo all'epoca. Non ero nemmeno religioso». «E che cosa è successo dopo?». «Sono entrato nel bosco. Volevo dare via tutto su due piedi. Volevo camminare per sempre in quei boschi ed essere vuoto e povero. Era una sensazione magnifica. Come se fossi stato rilasciato dalla prigione. Camminavo verso una collina ricoperta di querce. Era autunno, gli alberi lasciavano cadere foglie marroni e ghiande, il vento era così gentile. Era la perfetta letizia. Sono arrivato in cima alla collina e con mia sorpresa che cosa è apparso?». «Che cosa è apparso?». «Un monastero». «Un monastero?». «È stato in quel momento che ho cominciato a sospettare che Dio avesse un asso nella manica. Ho riflettuto fra me e me che era un caso. Lì sopra ci sarebbe potuto essere un ashram, mi sono detto, o un college, o un istituto scientifico, o molto semplicemente sterpaglia per miglia. Ma era un monastero cattolico e non sarebbe svanito. Si rifiutava di cambiare. Così mi sono diretto alla porta, ho bussato e ho chiesto di parlare con il superiore. Il portiere mi ha detto che l'abate era occupato. Ho detto: "Okay, aspetterò". Mi sono seduto sull'erba fuori dalla chiesa e ho aspettato. Ho aspettato per ore. Sono arrivato fino a questo punto, mi sono detto. Andrò fino in fondo. Fino in fondo! Stavo cominciando a dubitare della mia sanità mentale, ma non mi importava più. Vedi, per la prima volta nella mia vita avevo un brandello di prova che ci potesse essere qualcosa di più della mia vita confortevole e ben ordinata. Ho capito di aver avuto successo in tutto. Semplicemente in tutto. Ho deciso di voler essere un fallito per un po'. Pensavo che mi avrebbe potuto insegnare qualcosa di utile».
«Lo ha fatto?». «Mi ha insegnato tutto quello che c'è di importante da sapere. Questo e incontrare Pietro sotto l'altare». «Che cosa è successo dopo?». «Alla fine è uscito l'abate in persona. Un tipo gentile. Ha sorriso quando gli ho raccontato chi fossi e che cosa volessi fare. Mi ha suggerito di andare a casa e di pensarci un po' sopra». «Cosa che tu hai fatto». «No. Mi sono affidato alla sua pietà e gli ho chiesto di restare come ospite. Ha acconsentito riluttante. Ero formalmente un anglicano con un brandello di fede alla quale mi aggrappavo come se fosse la vita stessa. Ne sono uscito otto mesi dopo da cattolico. Sapevo di non essere tagliato per la vita contemplativa. Ero semplicemente troppo estroverso». «Dove sei andato?». «All'École Biblique a Gerusalemme. Dove ci siamo incontrati». «Mi sembravi un cattolico inglese tanto sensibile. Non avevo idea che fossi caduto da cavallo». «Da una Bentley. Ero caduto da una Bentley». «A me pare che tu sia stato scelto». «Scelto per cosa, mi chiedo. Sono solo un fattorino di lusso». «Gli zeloti si considerano inutili, fino a quando non si trovano nel bel mezzo della battaglia». «Il fronte è così sinistramente tranquillo, come la quiete prima della tempesta. Il rombo provocato dai Tilman sta cominciando a farsi sentire. Continuo a chiedermi quando comincerà la vera battaglia». «È cominciata seriamente qualche tempo fa. La parte più pericolosa della battaglia è nascosta. Una parte di essa si svolge sopra di noi nel regno dei cieli, dove gli angeli giusti combattono contro i demoni. Ma vi è una lotta invisibile sulla terra». «Per favore, Davy, voglio una spada. Mettimi nel Colosseo. Qualsiasi cosa al posto di questo tedio che sta spremendo la vita fuori dal mondo. Volevo essere un missionario, ma mi hanno mandato alla Segreteria di Stato. Volevo essere povero come san Francesco, vestire di stracci, amare Dio, mendicare per un pezzo di pane secco. Niente di tutto questo. Mi hanno dato un appartamento e uno stipendio. Dimmi perché sono stato sbalzato fuori dalla mia Bentley per essere messo dentro una Jaguar?». «Forse ti viene chiesto di usare i tuoi talenti in un modo meno eroico. La Chiesa ha bisogno di buoni amministratori».
«È una forma perversa di martirio, suppongo. Macchine sportive e lasagne quando vuoi. Preferirei un campo di concentramento». Elia guardò fuori dal finestrino. «Oh...», esclamò Billy, «me ne sono dimenticato. I tuoi genitori sono morti lì, no?». «Sì, praticamente tutti coloro che conoscevo sono morti in un campo di concentramento». «Una bella dimostrazione di insensibilità da parte mia». «La vera sofferenza è sempre differente da come noi la immaginiamo», disse Elia con tranquillità. «Ho la segatura al posto del cervello». «L'obbedienza è la migliore forma di povertà, Billy. Penso che questo sia il genere di martirio che ti è stato assegnato». «Che cosa? Niente bandiere e spade fiammeggianti? Niente gloria sul campo di battaglia?». «Niente falsa gloria». 3 Il Vaticano Dopo cena, andarono in Vaticano. Billy parcheggiò la macchina nel cortile del Belvedere e guidò Elia agli uffici della Segreteria di Stato per una via indiretta fatta di ingressi, ascensori e scale. Entrò in un ufficio laterale lontano dal corridoio principale e ne uscì un momento più tardi abbottonandosi una tonaca nera con orli color porpora e una sciarpa viola attorno alla vita. «Una copertura», disse Billy. Passò di fronte a un segretario e a due guardie svizzere ed entrò in un ufficio spazioso e inondato di luce, in cui venivano accolti i visitatori, e, attraverso un'altra porta, in una stanza più piccola. Dietro ad una scrivania si trovava in piedi un cardinale. Dava loro le spalle, mentre guardava fuori dalla finestra verso il cortile di sotto. «Ehm», disse Billy. Il cardinale si voltò. Alto, con i capelli argentati, si diresse verso di loro con la mano tesa e un leggero sorriso in volto. Elia pensò che su quel volto, educato e composto, principesco ed italiano, ci fossero gli occhi più intelligenti che avesse mai visto. «William», disse il cardinale in un inglese pesantemente accentato, «lei
ci ha portato padre Elia». Dopo uno scambio di saluti e di cordialità, il cardinale indicò loro un gruppo di poltrone. «William Le ha detto nulla dello scopo della Sua visita?». «Nulla, Eminenza». «Un'impresa prodigiosa per William». «Questo è il modo sottile in cui Sua Eminenza intende dirti, Davy, che di me non ci si può fidare». Elia guardò avanti e indietro i due uomini, non sapendo come rispondere. Il cardinale e il suo segretario scoppiarono in una risata. «Non fare quell'espressione così preoccupata. Questa è la tua prima dose di romanità». Elia notò che c'era un vincolo di humour fra i due uomini e qualcosa di più raro - fiducia reciproca. «Lasciamo che sia il Santo Padre a spiegare la situazione», disse il cardinale. Guardò l'orologio. «Lo incontreremo fra dieci minuti». «Lo hai mai incontrato prima?», chiese Billy. «No». «Nervoso?». «Un po'». «Ti piacerà. Non è solenne». «Al contrario di Stato e Dottrina», disse il cardinale. «Appunto», disse Billy facendo un cenno d'intesa a Elia. «Il Santo Padre ha chiesto al cardinale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e a me di essere presenti al colloquio». «Eminenza, sono sorpreso dalla repentinità di tutto questo», disse Elia. «Ieri sera a quest'ora stavo lavorando nell'orto del Carmelo. Negli ultimi vent'anni ho lasciato di rado il convento. Non ci sono state spiegazioni». «So quanto questo debba risultarLe sconvolgente» disse il cardinale. «Ci sono buone ragioni per cui non ha avuto spiegazioni. Lo capirà fra poco. Ora, mi dica, come sta il Suo buon priore? Abbiamo insegnato insieme a Friburgo, lo sa, molti anni fa». «Il priore sta invecchiando, sebbene la sua mente sia giovane». «Ha sopportato molte cose da un anno a questa parte». «L'uccisione di due confratelli da parte dei terroristi pesa fortemente su di lui». «È afflitto». «Sì».
Il cardinale sospirò. «Non c'è dubbio che l'Angst si mescoli al dolore. Non avrebbe dovuto dedicarsi a Hegel da giovane. E a Nietzsche, Feuerbach. Brrrr! Lasciano una traccia gelida nell'anima». «Il padre priore Le manda i suoi saluti», disse Elia sperando di cambiare argomento. «Conosco il Suo padre priore molto bene. Si incolpa, naturalmente». «Purtroppo è così. Pensa che se fosse stato più attento alla sicurezza, non sarebbe successo». «Vedo che è duro con se stesso, come sempre. Gli scriverò». «Ci sono stati così tanti sviluppi ultimamente. Il culto del Nuovo Mondo ha installato il suo quartier generale a Haifa. Si può vedere il loro tempio dal nostro campanile. Ci sono stati disordini al nostro cancello. Piccole cose organizzate per i media». «Se mi ricordo bene, la loro filosofia è quella della tolleranza universale, no?». «Sì. Tuttavia dicono che la Chiesa cattolica romana è l'unico bastione di intolleranza rimasto sul pianeta». «E quindi non la tollerano». «Credo che non siano nemici di peso. L'assalto è in corso a tutti i livelli della società. Penso che tanto più rumorosi sono gli attacchi, tanto meno sono pericolosi». Stato si voltò e rivolse uno sguardo eloquente a Billy. «Lo vede, William, perché è la scelta giusta?». «Ho sempre detto che era un tipo brillante». Il cardinale guardò l'orologio. «È ora di andare». I tre uomini passarono per un labirinto di corridoi. Elia non cercò di farsi una mappa mentale del percorso, perché a ogni passo la sua attenzione era distratta da opere d'arte. La collezione sembrava inesauribile ed Elia sentiva una brama che si avvicinava al dolore fisico. Il monte Carmelo era un luogo di incredibile bellezza, ma era una bellezza fatta di ritegno architettonico, fiori, frutta e verdura, orti che si crogiolavano al sole, il tramonto sul mare, l'ampio movimento della montagna che digradava verso est, una sequenza significativa di colline color porpora, sulle quali avevano camminato Cristo e il diavolo. Un genere di bellezza forte ed eterna. Una bellezza macrocosmica. Qui, in questi corridoi laccati che odoravano di cera per pavimenti e di opulenza, la bellezza era di altro genere. Qui le immagini esprimevano il dramma umano. L'universo interiore. Il microcosmo.
Raffaello, Beato Angelico, Michelangelo, Bramante, Giacomo Manzù. Antichi busti funerari di coppie romane del I secolo, dai volti sorprendentemente moderni che irradiavano personalità. I ritratti marmorei idealizzati degli imperatori. Dei e dee dell'antichità classica. Un'icona bizantina della Madre con il Bambino. Un crocifisso romanico. Affreschi, tappeti, mosaici, dipinti del Rinascimento. Santi, eroi, traditori, principi, papi - gli alti e i bassi dell'anima umana esibiti in miriadi di forme incarnate. C'erano misticismo, santità, sesso, violenza, stabilità e instabilità della vita civile, il crollo degli imperi e guerre diaboliche. C'erano visioni del cielo e dell'inferno, la città dell'uomo e la città di Dio, la nuova Gerusalemme e la restaurazione dell'intera creazione nell'ordine divino. Vi erano la caduta e la redenzione. C'erano la Genesi e l'Apocalisse. Era tutto qui. Billy gli afferrò il braccio e lo trascinò dietro al cardinale. Elia si doveva ricordare ad ogni passo che stava per incontrare il pontefice della Chiesa universale. «La Chiesa una, santa, cattolica e apostolica», sussurrò a se stesso. «Stai bene? Hai un'aria un po' distratta, vecchio mio». «Sto bene. Solo che è difficile non lasciarsi catturare». «Hai perfettamente ragione», Billy sorrise. «Ma ti abituerai. Non guardare né a sinistra, né a destra. Concentrati sui busti degli imperatori romani - una banda dall'aspetto davvero orribile. Hanno ucciso i nostri antenati e le nostre antenate, ricordati. Focalizzati su questo. Nella valle della morte cavalcarono in seicento!». «La valle della morte? Seicento?». «Un poema antico. Materia di scuola in Inghilterra. Non importa. Rilassati». Il cuore di Elia batteva forte, e lui respirava ancora più profondamente. Avvertiva un misto di paura e gioia. Non aveva tempo di pensarci sopra, perché erano arrivati all'entrata degli appartamenti papali. Il cardinale parlò con un sacerdote seduto a una scrivania, che annotò qualcosa in un libro e annuì alle due guardie svizzere in piedi alla porta. L'appartamento privato del papa non era quello che Elia si aspettava. Era una successione moderna di stanze con i pavimenti ricoperti di tappeti color grigio tortora. Le pareti, rivestite di bianco, erano segnate da poche opere d'arte discrete e da alcuni mobili dal design quanto mai semplice. La mancanza di ornamenti determinava un forte contrasto con l'opulenza dei corridoi all'esterno. Da una sala da pranzo a destra arrivò una suora anziana in abito bianco.
Il cardinale scambiò un paio di convenevoli con lei, la quale spiegò che lei e un aiutante di camera stavano preparando la tavola per la colazione di domani. Il Santo Padre era nella cappella. Sarebbe arrivato fra pochi minuti. Il Santo Padre avrebbe gradito che Sua Eminenza e i suoi ospiti lo aspettassero nel salotto. L'aiutante di camera avrebbe portato qualcosa da bere. Il cardinale e la piccola suora si inchinarono l'uno all'altra e la suora uscì dall'entrata principale. Billy strinse il braccio di Elia e disse: «Vado via anch'io. Ci vediamo più tardi nell'ufficio di Stato per un resoconto». Il cardinale ed Elia si sedettero insieme nel salotto. L'unica immagine nella stanza era un'icona russa della crocifissione, con una lumino rosso acceso. Sotto un lucernario era sistemato un gruppo di piante. Il divano e quattro poltrone, rivestite di bianco, indicavano comodità, ma evitavano accuratamente il lusso. «È sorpreso?», disse il cardinale. «Sì». «L'arredo è come lui», spiegò. «Semplicità di forme». Indicò il crocifisso: «E santità». In quel momento, il papa entrò nella stanza. Non era alto, ma di statura media. Entrò leggermente curvo, una postura quasi impercettibile a causa del volto. Il volto attirava l'attenzione con un'assolutezza gentile. Era un volto radioso, gentile, serio, e sereno, ma in nessun modo distante. Le rughe palesavano una vita di risate e di dolore. Studioso eccezionale, uomo di vasta cultura, in nessun caso un accademico isolato. Forse uno dei maggiori filosofi del secolo, aveva accettato con riluttanza di diventare vescovo. Questa decisione aveva evidenziato la stoffa dell'uomo. Gli ultimi decenni del XX secolo lo avevano catapultato nella maggior parte dei maggiori conflitti morali e sociopolitici, durante i quali aveva imparato ad agire esposto al tiro, non solo come maestro, ma anche come pastore. Era dotato del talento di saper annunciare il messaggio evangelico come realtà che ciascuno può vivere. Rendeva credibile la bontà. Aveva trasmesso al mondo la sua convinzione - caduta in disuso da lungo tempo - che la verità e l'amore erano fatte per operare insieme, non erano in guerra l'una con l'altra. Che il mondo la prendesse a cuore oppure no, o si ricordasse che il papa l'aveva espressa, stava diventando ogni giorno di più un tema controverso. Se molti lo avevano sentito, molti lo avevano dimenticato.
Elia cadde sulle ginocchia e prese la mano del pontefice con l'anello per baciarlo, ma il papa lo afferrò per le braccia e lo fece alzare. «Padre Elia, benvenuto in San Pietro». «Grazie, Santo Padre». «Ha fatto buon viaggio? Deve essere stanco. Vi prego, venite tutti, sediamoci». Il papa si sedette al centro di un gruppo di tre poltrone poste di fronte ad una poltrona sola. Stato si sedette alla sua destra e un uomo sottile dai capelli bianchi si accomodò alla sua sinistra. Deve essere Dottrina, il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il segretariato che cura la purezza dell'insegnamento della Chiesa. Vennero presentati ed Elia si sentì vagliato con attenzione dal prefetto - i suoi occhi erano calmi, chiari, in un volto trasparente. «Mi è piaciuto il Suo articolo sulla spiritualità biblica», disse il prefetto, «Lei scrive con coraggio, ma tuttavia evita le vertigini del rancore personale». «Grazie, Eminenza». «Pochi esegeti concordano con le Sue posizioni. La critica biblica è dominata dal pensiero modernista, per questo c'è un interesse personale a confutare la Sua ipotesi». «Le recenti scoperte di Efeso e del Mar Morto sono fatti oggettivi. Credo che ricondurranno molti studiosi al buonsenso». «Spero che Lei abbia ragione, padre. Lo faranno gli studiosi sinceri. Quelli che perseguono altri scopi non verranno smossi neppure dalle prove schiaccianti offerte dai nuovi rotoli». «C'è da sperare che i codici dimostrino ai dissidenti che il loro punto di vista è arbitrario. Un momento di grazia». «Quando uno studioso scopre di essere stato arbitrario», intervenne Stato, «viene messo a confronto con un risveglio doloroso. È una vera prova. Se è intellettualmente onesto, rivedrà le sue posizioni e ricomincerà da capo». «E - penso - diventerà uno studioso migliore a causa della sua umiltà», aggiunse Dottrina. «Da questo verrà del bene», disse il papa. «Più che dalla riabilitazione dei nostri studiosi cattolici. Sopra ogni cosa c'è la realtà evangelica. Questa scoperta è dentro i piani della divina Provvidenza, perché il Signore ha rivelato i rotoli precisamente nel momento della storia in cui se ne aveva più bisogno».
L'aiutante di camera spinse dentro un carrello su cui erano collocati una teiera, una caffettiera, tazze e piattini, pane nero e burro, formaggio e biscotti al limone. L'aiutante di camera servì Elia per primo, il sacerdote lo notò con un certo disagio, poi i cardinali e per ultimo il papa. «Padre», disse il papa, «Lei si domanda perché l'abbiamo chiamata qui a Roma in circostanze così insolite». «Sì, Santo Padre». «La questione che ci si presenta riguarda solo superficialmente l'archeologia. È un tema estremamente delicato. Le chiedo di tenere strettamente riservati i temi di cui stiamo per discutere». «Naturalmente». «Il destino di molte anime dipende da quanto accadrà fra noi questa sera». Elia attese. «Chiederò al cardinale segretario di Stato di descrivere una certa situazione che la Chiesa deve affrontare in questo momento». «Come sa», disse quell'italiano così garbato, «incontriamo ostilità a livelli differenti. Come città-Stato, il Vaticano è perennemente coinvolto in difficoltà con il governo nazionale italiano, che per un certo tempo ha oscillato fra un ritorno al neofascismo, da un lato, e un eurocomunismo modificato, dall'altro. Questo è un problema a livello regionale, e sebbene sia potenzialmente una fonte di difficoltà pratiche, non rappresenta una grave minaccia per la sopravvivenza della Chiesa universale. Tuttavia, il Santo Padre, in quanto pastore della Chiesa universale, di questi tempi deve affrontare una serie di sfide sul piano dello sviluppo globale, massicci spostamenti nella struttura geopolitica del mondo. Ovunque regna confusione spirituale, il disorientamento dei nostri stessi fedeli ad opera dei mezzi di comunicazione e il dissenso interno a causa dell'influenza di cattivi maestri. Queste sono solo alcune delle sfide che ci si presenteranno negli anni a venire. In nessuno di questi ambiti esiste la concreta speranza di un miglioramento, almeno nel prossimo futuro. In tutto il mondo veniamo considerati il maggior ostacolo fra l'uomo e la prosperità universale. Tutti i problemi sociali vengono attribuiti a una politica demografica inadeguata e, naturalmente, noi ci opponiamo a ogni politica che svilisca il valore di ogni singola persona umana a vantaggio del "popolo"». Il papa si sporse in avanti. «Grazie, cardinale segretario. È fonte della più grande preoccupazione per me il fatto che l'Occidente manifesti l'infausta tendenza a rimanere cie-
co di fronte alle nuove forme di totalitarismo. Sebbene il materialismo fascista e il materialismo comunista siano quasi estinti nel mondo, con l'eccezione della Cina, il materialismo ateo nella sua forma capitalistica si rivela analogamente distruttivo. Decine di milioni di esseri viventi muoiono ogni anno a causa dell'aborto e dell'eutanasia. Questo secolo è stato caratterizzato da un'ideologia materialista violenta, che ha lasciato dietro di sé una civiltà quasi del tutto ignara del significato della vita. L'uomo è una creatura di cielo e di terra, ma da tempo non lo sa più. Non conosce più se stesso. Non ascolta più. Non sente più. Con il risultato che ci stiamo avvicinando a una crisi di grandi dimensioni». Elia comprese che il papa e i due cardinali più potenti stavano preparando il terreno per qualcosa. Qualcosa che volevano da lui. Non riusciva a immaginarsi che cosa. Si considerava una creatura priva di importanza nel dramma dei tempi, così nascosta che il pensiero di essere un servo utile alla Chiesa gli appariva tanto risibile quanto sconcertante. Non era tormentato in alcun modo dalla falsa umiltà, perché possedeva il senso delle proprie qualità. Ma considerava se stesso utile a Dio solo per avergli donato la sua vita fondandola sulla preghiera e sulla rinuncia a sé. Era un frate. Pregava Dio e intercedeva presso di Lui per il genere umano. Dottrina si mosse e allargò le braccia. «Forse stiamo per affrontare il confronto finale fra il Vangelo e l'antivangelo», disse con gravità, «fra la Chiesa e l'antichiesa». «Lei usa la parola finale, Eminenza. Sta parlando in senso apocalittico?». I tre uomini annuirono. «Lei intende nel senso dell'Apocalisse ultima?». «Le Scritture ci dicono che nessuno conosce l'ora e il giorno della venuta del Figlio dell'Uomo», disse il papa. «Ma ogni generazione è chiamata alla vigilanza». «Santo Padre, Le posso chiedere di spiegarsi più dettagliatamente? Lei personalmente - crede che questi siano i tempi profetizzati dai profeti dell'Antico Testamento, dal Signore stesso, e da san Paolo e san Giovanni nel Nuovo Testamento?». Gli occhi del papa si riempirono di un dolore che nessun altro essere umano era in grado di provare. «Numerosi papi e molti Padri della Chiesa hanno creduto che nella loro epoca fosse arrivato il tempo della fine e che le loro greggi fossero la prole degli ultimi giorni. È un tema pericoloso su cui speculare. Non è sempre la
cosa migliore per un papa esprimere la propria opinione. Le mie intuizioni, o meglio le mie convinzioni, non sono ex cathedra. Tuttavia, mi appartengono e sospetto che lo Spirito Santo mi abbia messo su questa cattedra per un motivo». «Penso che il Santo Padre voglia da Lei la garanzia», disse Dottrina, «che le sue riflessioni personali su temi apocalittici rimangano uno scambio strettamente privato fra noi quattro». «Ha la mia parola formale». «Per rispondere alla Sua domanda, figlio mio: sì. Credo che stiamo vivendo la conclusione della storia come noi la conosciamo. Credo che il ritorno del Signore sia imminente, forse entro tre o quattro anni, probabilmente dieci». Il cuore di Elia si contrasse. Sentì un brivido di paura. Poi, un'onda nera salì di fronte a lui. Sentiva le labbra tremare ed era sorpreso della propria reazione. L'apocalittica era un ambito di studi biblici, accademico, astratto, uno scenario del futuro, staccato dalla realtà della sua vita - al limite era un tuono lontano. L'onda si ritirò, quando ripensò alla sua fede in Cristo. «Lei non parla. Quasi sicuramente nel suo cuore si sente come si sentirebbero chissà quanti milioni di persone, se parlassi in questo modo dalla cattedra di Pietro. Mi ascolterebbero senza il vantaggio della Sua fede forte. Al momento l'uomo moderno non potrebbe sopportare questa conoscenza. Soffre della peggiore malattia del nostro secolo, una disperazione inconscia. La conseguenza sarebbe che ignorerebbe semplicemente la verità o la respingerebbe senza tanti complimenti». Stato parlò subito dopo: «Se Lei ha seguito il piano pastorale del Santo Padre per il pontificato, avrà visto che si reca ovunque sulla terra a proclamare che Gesù Cristo è il salvatore del mondo, il Signore della storia. Il papa è denigrato ovunque, perché è un segno di contraddizione, perché gli uomini non pensano più che la storia possa essere redenta con i metodi consueti. Si rivolgono sempre di più a soluzioni radicali o di natura collettiva. Il marxismo e il fascismo sono una forma brutale dello stesso principio. La disperazione conduce l'uomo moderno a queste soluzioni, ma terrorizzato dalla brutalità del recente passato, cerca ora forme che preservino l'apparenza della democrazia. L'orrore ora è nascosto». Durante il soliloquio, sembrava che il papa non stesse più ascoltando. Fissava l'altro capo della stanza, dove si trovavano le piante. «I tempi stanno diventando sempre più cupi», disse Dottrina. «Guardare
nell'oscurità e vedere la vittoria di Cristo è l'essenza della speranza». Il papa si alzò, andò all'altro capo della stanza e si fermò vicino alle piante. Le guardò senza parlare. Stato continuò come se il papa non fosse presente: «Il Santo Padre va nel mondo a parlare di Gesù e a parlare di speranza. Crede che, quando gli uomini possiedono la speranza, possono guardare in faccia alla realtà e risvegliarsi dal pericolo». Il papa si voltò e guardò i due cardinali e il sacerdote. «Ricordate il brano del Vangelo secondo Matteo dove il Signore maledice il fico sterile?». Essi fecero cenno di sì mormorando. «Sapete perché il Signore ha fatto una cosa così sorprendente?». «Come segno per loro», disse Stato. «Il fico era un simbolo dei farisei, maestri della legge che non producono frutto a causa della mancanza di fede». «Questa è solo una parte del significato», disse il papa. «C'è di più. Padre Elia?». «Santità, penso che il Signore lo abbia inteso come un ammonimento ai pastori del suo popolo. Un fico che è ricoperto di foglie, ma non porta frutto, ha l'apparenza della vita, ma non porta vita». «Sì. Continui». «È un ammonimento». «Una delle affermazioni severe di Gesù?». «Sì». «Fratelli miei», disse il papa, toccando il ramo di una pianta e guardando con severità i cardinali, «sanno che specie di pianta è questa?». «Un fico», dissero i cardinali contemporaneamente. «E Lei, padre, riconosce l'altra?». «Un mandorlo. Ne abbiamo molti nel nostro giardino al Carmelo». «Che cosa ci dice?». «Le popolazioni locali qualche volta lo chiamano l'albero guardiano, perché è il primo a fiorire in primavera. È come una sentinella». «Sa che cosa direbbe il Signore alla sentinella che non mantiene un occhio vigile sulla sua casa?». Nessuno degli altri conosceva la risposta precisa. «Troveranno l'ammonimento in Ezechiele, capitolo 3», disse il papa. «E sanno che cosa avrebbe da dire il Signore ai pastori che non danno da mangiare alle loro greggi e non le proteggono? Di nuovo Ezechiele, amici
miei. Capitolo 34». Ritornò al suo posto e guardò Elia. «In Matteo 24 sono elencati gli ammonimenti apocalittici del Signore. Lì parla di nuovo del fico. Domando Loro: la casa della fede porta il frutto che è chiamata a portare?». Nessuno replicò. «Il Signore è vicino, fratelli miei. Il tempo non è lontano». «Sembra preoccupato, padre», disse Stato. «Lo sono. Nel mio cuore sento la conferma di tutto quello che Loro hanno affermato. Per così dire, si tratta della fioritura di un bocciolo che è stato dentro di me per gran parte della mia vita. Si è aperto qui in pochi minuti, e all'improvviso vedo gli eventi del mio passato in una luce completamente nuova». «Mi racconti di questa nuova consapevolezza. Che cosa vede?», disse il papa. «Non ne sono sicuro, Santo Padre». «La luce che si è aperta nella Sua vita non ci è nuova. Da molti anni La conosciamo e amiamo come un figlio, sebbene Lei non conoscesse la nostra attenzione. La Sua vita è stata piena di sofferenza. Lei ha provato la fornace del tormento in un modo che pochi avrebbero sopportato. Ne è uscito come un uomo di fede. Questo è raro». «Ci sono molti come me». «Ci sono molti alberi guardiani nel mondo. Nessuno con le qualità che La portano qui in questo momento della storia». «Forse è tempo di parlarne, Santo Padre», disse Dottrina. «Padre Elia, in questo momento intorno al mio gregge girano molti lupi. Ho ripetutamente richiamato il mio gregge alla vigilanza, ma pochi ascoltano la mia voce. Molte delle pecore mi sono state strappate e uccise. Molte. Molte». Gli occhi del papa si riempirono di dolore. «Certe figure sul palcoscenico del mondo si stanno movendo verso il gregge per un attacco definitivo. Si stanno avvicinando al momento in cui utilizzeranno ogni mezzo per provocare divisione e distruzione. Stanno gridando "pace, pace", ma non ci sarà pace. I loro cuori sono pieni di rovine. Odiano il gregge di Dio, e ovunque vengono osannati come salvatori. Anche questo si trova nel piano della divina Provvidenza. Dio permette anche questo, perché deve giungere il confronto finale fra la Chiesa e l'antichiesa. Può essere solo rinviato di generazione in generazione. Credo che
sia arrivato nel nostro tempo». «Come posso esserLe d'aiuto, Santo Padre?». «Un uomo sta acquisendo sempre più potere nel mondo. Ho pregato per lui per molti anni. All'inizio del mio pontificato, il suo volto mi è comparso di fronte mentre stavo pregando. Di fronte al mondo intero appare come una sorta di santo secolare. La stampa lo loda come un uomo del destino. Il suo volto è sulla copertina dei giornali, alla televisione, di lui si parla nei saggi e negli editoriali, e i suoi libri si vendono a milioni. Ha ridato vigore al Parlamento Europeo, che era in letargo. Viene corteggiato dalle Nazioni Unite come colui che è in grado di presiedere alla transizione pacifica dall'era degli Stati-nazione alla federazione mondiale». Elia conosceva il nome dell'uomo prima ancora che Stato lo pronunciasse. «Questo nome Le è familiare?». «Sì, Eminenza. Ne ho sentito parlare da quando ho lasciato il convento». «In aggiunta alla presidenza del Parlamento Europeo, è l'attuale direttore del Consiglio delle Nazioni Occidentali, consulente delle Nazioni Unite e membro del Club di Roma. È nel consiglio di amministrazione di numerose delle più ricche corporation del mondo. Controlla un impero editoriale, una banca svizzera e la Globaltek, un'impresa che ha rivoluzionato la tecnologia delle immagini via computer. È anche il fondatore del Centro Mondiale Commerciale, forse il più importante centro del commercio mondiale. Ricopre anche altri incarichi troppo numerosi da menzionare». «Ci sono molti che sono apertamente contro Cristo», disse il papa, «e altri che fingono di venire nel nome di Cristo. Ma quest'uomo, che si muove tranquillo fra di loro, è ancora più potente. Si sta avvicinando il suo momento nella storia». «La turba tutto questo?», chiese Dottrina. «Non sono tanto turbato quanto disorientato. Qual è il mio ruolo in tutto questo?». «Le chiedo di essere un messaggero». «Un messaggero, Santo Padre?». «Desidero mettere in guardia quell'uomo del pericolo spirituale che corre. Devo avvertirlo che potrebbe trascinare il mondo nell'abisso». «Un incontro personale fra Lei e il presidente non sarebbe più efficace?». «Gli ho chiesto di farmi visita, ma non verrà. Trova sempre delle scuse. Ora comprendo che quest'uomo è politicamente astuto».
«Perché non verrà?». «Vuole essere presentato dalla stampa mondiale come colui che non va dal papa; il papa va da lui. Sarei felice di andare da lui e di lavargli i piedi, se questo inducesse la sua anima al pentimento. Ma lui considererebbe il gesto come una prugna matura che gli cade in mano. Causerebbe più male che bene». «I media sarebbero presenti», intervenne Stato. «Una fotografia dell'incontro varrebbe per lui - in termini di propaganda - come mille articoli di giornale». «Intende usare la Chiesa fino a quando ne avrà bisogno», disse il papa. «Ma la disprezza, perché non ha mai compreso la sua natura divina. Non comprende la sua forza. Pensa che sia solo un'istituzione umana. La Chiesa è umanamente imperfetta, tentennante, divisa al suo interno, gravemente scossa dagli eventi di questo secolo. Ai suoi occhi è debole, qualcosa da usare e poi da distruggere quando gli aggrada». «Le riesce difficile crederlo?», chiese Dottrina, tenendo lo sguardo fisso su Elia. «È difficile credere che un essere umano possa essere tanto insensibile». «È così difficile? Lei lo dice, Lei che ha sofferto durante l'Olocausto?». Elia ci rifletté sopra senza replicare. «Non è apertamente contro di noi, almeno non ancora», disse il papa. «Ma si sta preparando. Forse c'è ancora tempo. Forse ci potrebbe essere speranza oltre la speranza. Non chiamo nessun uomo Anticristo mentre la sua anima è in sospeso, mentre è ancora libero di scegliere il bene. Ma con la massima certezza Le dico che le sue idee si muovono nel regno dell'Anticristo. Ciò nonostante, Cristo è venuto anche per quest'uomo. Cristo è morto per quest'uomo». «Vuole mandarmi da lui?». «Sì». «Ho paura». «Sarei estremamente preoccupato per Lei se non ne avesse». «Non ho abbastanza capacità per combattere...». Intervenne Stato: «Il presidente si mostra al mondo intero come l'incarnazione della parte migliore della natura umana. Fa gran conto su quell'immagine. Sebbene vi sia un lato nascosto in lui, possiamo approfittare di un breve periodo in cui manterrà l'immagine pubblica di bontà. Questo è il momento in cui Lei potrebbe parlare con lui in tutta sincerità. In un anno o due, potrebbe essere troppo tardi. La perdita di anime umane
sarebbe disastrosa». «La perdita di una singola anima umana è disastrosa», disse il papa. «È una responsabilità enorme, padre. Non esigo obbedienza da Lei, la chiedo. Porterà il mio messaggio a quell'uomo?». Elia esitò. Sapeva di essere libero di rifiutare. Poteva ritornare in Israele con un volo il giorno successivo, seppellirsi al Carmelo, pregare per le anime in pericolo, pregare per la conversione del falso signore del mondo, pregare per il papa - certo, e domandarsi per il resto della vita che cosa sarebbe successo se avesse accettato. «Le chiedo di andare e di rendere testimonianza di fronte a lui mentre c'è ancora tempo». «Sì, ci andrò», disse Elia con voce sommessa. Ai tre uomini seduti di fronte a lui sfuggì un evidente sospiro di sollievo. «Grazie», disse il papa. Stato fornì i dettagli. «Padre Elia, Lei incontrerà il presidente per presentargli un rapporto della Pontificia Commissione per l'Archeologia Biblica sulle nuove scoperte nelle caverne vicino a Efeso e presso il Mar Morto. I rotoli lì ritrovati datano veramente gli scritti dei Vangeli all'epoca degli apostoli e confermano la precisione delle traduzioni ortodosse, confutando in tal modo la critica biblica modernista. Il presidente è un appassionato di archeologia e di studi classici. Il rapporto gli verrà consegnato come un gesto di benvenuto personale al nuovo presidente del Parlamento Europeo e come un primo gesto di dialogo fra la Città del Vaticano e quella istituzione. Il motivo apparente della visita è uno scambio di cortesie. Tuttavia, in una conversazione privata con il presidente, Lei dovrà scoprire le sue intenzioni occulte e trasmettere un messaggio di esortazione spirituale da parte di Sua Santità il papa. Deve gestire la Sua parte dello scambio nel modo più cortese. Per quanto sta in Lei, deve usare la massima discrezione. Se l'ammonimento non porterà a un effetto positivo, sia per ingerenze, sia per mancanza di disponibilità dall'altra parte, Lei deve tentare di stabilire il modo di proseguire il dialogo». «È chiaro?», domandò Dottrina. «Vedo che Lei mi ha fornito i parametri generali, ma ha lasciato spazio per la creatività». «Certamente. Lei non è un messaggio cifrato, padre. Potremmo inviare un fax o una nota diplomatica. Invece, mandiamo un ministro di Dio. La qualità del messaggero è un aspetto essenziale del messaggio».
«Sono ancora perplesso per la scelta del messaggero». «Le Sue molteplici ed eccellenti qualità non sono il fattore decisivo», disse Stato. «E la colpa non va nemmeno a monsignor Stangsby, in questo frangente. Non è stato il nostro William a spingerLa avanti, come sembrerebbe». «Allora, per quale motivo sono seduto qui?». «Può dare la colpa al Suo priore», disse Stato. «Come Le ho già detto, lui e io siamo vecchi amici. L'ha osservata da vicino per molti anni. Crede che Lei abbia la capacità di comprensione propria degli uomini di potere». «È consapevole della natura della missione?». «Sa solo che è urgente e che Lei consegnerà un messaggio di Sua Santità a un destinatario spinoso in campo politico». «Lei un tempo è stato un uomo di potere», disse Dottrina. «Perché ha rinunciato?». «Ho ricevuto un messaggio», replicò Elia lentamente. «Un messaggio? Come questo?». «Diverso. Enormemente diverso. Ma mi ha tolto da una strada che mi avrebbe potuto portare a commettere errori simili a quelli del presidente. Stavo andando verso un futuro che offriva potere, il potere di fare del bene al genere umano. Era uno scopo estremamente magnetico. È stato necessario un grandissimo sforzo di volontà per rinunciare ad esso». «Se l'obiettivo era buono, perché lo ha fatto?». «Perché ho compreso che stavamo facendo cose che erano state fatte a noi dagli hitleriani. Ci sono state violazioni dei diritti umani commesse dal nostro stesso popolo. Avevo chiuso un occhio. Avevo cominciato a scusare, nel nome di una giusta causa, quello che non può essere scusato». Il papa e i due cardinali ascoltavano senza parlare. «Le fondamenta del mio pensiero erano sbagliate», disse Elia. «Odiavo. Odiavo coloro che avevano distrutto la mia famiglia. Desideravo il potere più incontrastato perché, se lo avessi avuto, avrei potuto rieducare l'universo intero. Quanto strana mi sembra ora questa tentazione, ma allora sembrava il massimo bene immaginabile, salvare il genere umano». «Lei si considerava un salvatore?». «Sì. Ho paura di pensare a che cosa sarei diventato se un tale potere mondiale fosse stato messo nelle mie mani». «Ma Lei ha scelto una strada differente», disse il papa, «e per quella scelta Le sarò eternamente grato. Lei sarà in grado di discernere le dinamiche interiori di quell'uomo in un modo che a noi non sarebbe possibile.
Deve pregare intensamente lo Spirito Santo. Chiedergli di darLe le parole più adatte a schiudere il cuore di quell'uomo». «Preghi per me, Santo Padre». «Lo farò. Ogni giorno. Sempre». «Quando comincerà la mia missione?». «Fra una settimana il presidente riprenderà a ricevere i visitatori sull'isola di Capri. Al momento sta sovrintendendo la ricostruzione della villa di Tiberio. Secondo gli accordi preliminari, un emissario del Vaticano gli consegnerà un messaggio papale lunedì della settimana prossima. Oggi è martedì. Vorrei che Lei trascorresse alcuni giorni di preparazione al convento dei francescani ad Assisi. Un frate che vive lì è un mio amico. La fortificherà». Il papa si alzò. «La prego di trasmettere la mia benedizione apostolica a padre Matteo e di dirgli che il papa gli chiede di pregare». Il papa abbracciò Elia. Il sacerdote chiuse gli occhi e trovò forza fra le braccia dell'anziano prelato. Era una sensazione senza tempo, come se l'armonia e la speranza fossero presenti in questo luogo di pace in un pianeta che si muoveva vorticosamente. Il papa tracciò il segno della croce sulla fronte di Elia, augurò a tutti loro la buona notte e andò via. «Bene», disse Stato, «andiamo a trovare William. Abbiamo molte cose da dirgli». «Di quanto di tutto questo sono libero di parlare con lui?». «Lei può parlare in modo generico della natura della missione. Gliel'ho già esposta per sommi capi. La accompagnerà a Capri». Elia guardò preoccupato il cardinale. «Comprendo la Sua esitazione», disse Stato. «William è un compagno solido, ma la sua lingua..., ah, quella lingua potrebbe essere un problema. Gli ho raccomandato più volte di essere assolutamente riservato». Elia annuì. «Avrà bisogno che qualcuno glielo ricordi», disse Stato. *** «In marcia verso Mordor!», gridò Billy, brandendo una spada invisibile. «Mordor? Ma andiamo a Capri». «Una figura letteraria, Davy. Un riferimento letterario, materia di scuola
in Inghilterra». «Capisco». «Non comprenderai mai del tutto le mie particolari aberrazioni mentali, vero?». «Credo per fede che sappia quello di cui parli». «So sempre quello di cui parlo. È l'immagine che confonde l'altra squadra, capisci?». «Non sono sicuro di capire». «La routine di Billy the Kid. Sarai sorpreso di quanto sia utile. Quando le persone pensano che tu sia un pazzo ambizioso, hanno la tendenza a dire tutti i tipi di cose in tua presenza, rivelando se stesse, dove si trovano e a che cosa sono legate». «E così tu sei una sorta di spia del Vaticano». Billy sbuffò. «Non esistono creature del genere. Ma vale la pena di conoscere il tuo avversario. E direi che alcuni dei nostri peggiori avversari si trovano davvero vicini a casa». «La situazione è così seria come alcuni pensano?». Billy si sedette sul suo divano e guardò fuori dalla finestra dell'appartamento, verso la cupola di luci che rifletteva la notte romana. Sospirò. «Basta un solo Giuda. Un solo Giuda». Inclinò il bicchiere e lo svuotò in un sorso. «Sai se ci sia un Giuda attivo nella Chiesa in questo momento?». «Molti». «Vicini al Santo Padre?». «Penso di sì. Certamente dentro la Curia ci sono alcuni che non sono stati felici dell'elezione papale. Il papa ha messo un freno alla loro interpretazione del Vaticano II. C'è un sacco di gente infelice qui». «Che ne è dello spirito di obbedienza... e dell'umiltà?». «Buona domanda». «Non lo capiscono? Non riescono a riconoscere la tentazione?». «Inizia con le piccole cose, Davy. Cose che sembrano innocue al primo momento. Irritazione, brontolii, risentimento. Poi, a poco a poco, le persone che condividono la stessa opinione cominciano a gravitare le une intorno alle altre. Rafforzano reciprocamente le loro critiche, diventano più spavalde, guadagnano in sicurezza. Si dicono reciprocamente che loro hanno interpretato il Concilio in modo corretto e che è il pontefice che rappresenta una sorta di regressione, uno sfortunato incidente, inciampato sulla cattedra di Pietro per colpa della politica ecclesiale. Roba pesante.
Dopo un po' si convincono che stanno salvando la Chiesa, trascinandola contro la sua volontà nel ventunesimo secolo, nonostante il papa». «Non vedono l'orgoglio diabolico in un tale approccio?». «Sono prelati imbevuti di romanità. A poco a poco sono arrivati a pensare gradualmente che la politica della manipolazione governi la Chiesa». «Dov'è lo Spirito Santo in tutto questo?». «Pensano che lo Spirito Santo operi nella loro politica». «Una droga potente». «Li rende responsabili verso nient'altro che le loro opinioni e i loro piani». «Sai chi sono?». Il volto di Billy divenne inespressivo. Guardò intensamente Elia e poi fissò il soffitto. Si alzò e indicò tutte e quattro le pareti. «Che cosa vuoi dirmi?». «Penso che non dovrei continuare la discussione in questo momento». «Che cosa succede? Qual è il problema?». «Andiamo a fare una passeggiata». Al centro del parco, circondati da cipressi che sospiravano, Billy disse: «Ci sono prove abbastanza fondate che qualcuno stia attuando una sorveglianza elettronica sul personale di alto livello del Vaticano. Il prefetto ha scoperto una microspia nel suo ufficio lo scorso mese, e anche altri uffici sono stati violati. Penso che dovremmo dare per scontato che anche il mio appartamento sia sotto controllo. Per la mia scrivania passano un gran numero di informazioni delicate. E come tu sai già, non sempre sono discreto nella mia conversazione. Devo badare maggiormente alla mia lingua». «È possibile che gli uffici del Santo Padre siano stati violati?». «La sicurezza ha battuto a tappeto ogni spazio papale. Abbiamo trovato una cimice nella scrivania del suo segretario, ma l'appartamento papale è pulito». «Ne sono contento. La nostra conversazione di ieri sera riguardava un tema della massima delicatezza». «Forse ti ha chiesto di incontrarlo lì perché è il posto più sicuro di tutti. Anche se, chi lo sa, origliassero il Santo Padre, non trarrebbero nient'altro che edificazione. Chiederebbero il battesimo entro una settimana». «Prima hai parlato di un Giuda». «Di più Giuda, per essere più preciso». «Conosci i loro nomi?». «Non ne sono sicuro. Credo che il Santo Padre sappia chi sono, ma lo
devi capire. È davvero un santo, Davy. Non accusa nessuno, è caritatevole verso tutti, persino verso coloro che sa che sono i suoi più forti oppositori dentro la Curia». «Il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e il segretario di Stato gli sono fedeli?». «Assolutamente sì. Li ha selezionati personalmente. Stato e Dottrina sono due personalità estremamente differenti. Radicalmente differenti. Ma tutti e due amano la Chiesa e tutti e due amano il Santo Padre». «Una posizione coraggiosa. Dottrina soprattutto non è molto popolare». «Lo hai già notato? È vero. Probabilmente è l'uomo più impopolare del mondo. Dietro le spalle lo chiamano il Grande Inquisitore. La stampa lo caratterizza in modo grossolano come Éminence grise, la forza sinistra dietro al trono. Ma non è vero. È un uomo umile dai nervi d'acciaio. Fa il lavoro che deve svolgere, richiamando al dovere coloro che insegnano falsità nel nome della Chiesa. Ha molto da fare in questi giorni. Non l'ho mai visto perdere le staffe. È fantastico. È un genere differente di santo, forse un po' più severo rispetto al papa. Penso che abbia accettato ben presto di venire disprezzato da chiunque brandirà un'ascia contro la fede e che sapesse che sarebbe stato insultato dai media». «Sono stato attirato da lui». «Lo sapevo. È schietto, chiaro come uno squillo di tromba. Odia la romanità con passione e non ne fa mai uso». «E Stato?». «Il mio capo è il genere di principe della Chiesa ammirato da tutti. Persino i suoi detrattori lo rispettano. È un genio per quanto riguarda la diplomazia internazionale, un maestro di romanità. Non necessariamente gli piace, ma sta al suo gioco e spesso riesce a imporsi usandola. Il Santo Padre sapeva con chi aveva a che fare quando gli ha chiesto di assumere la Segreteria di Stato». «Ti fidi di lui?». «Del tutto. È un amministratore brillante, spaventosamente capace. Non è esattamente un santo - ha un certo caratterino. Ma è un uomo tremendamente giusto». «Perché il Santo Padre non ha scelto lui per comunicare con l'uomo di Capri?». «Su questo punto sei un ingenuo. Il nuovo presidente conosce la romanità. Si aspetta delegazioni in visita che inizino a giocare con lui. L'ultima cosa che si aspetta è un missionario che cerca di convertire la sua anima».
Elia era seduto al buio su una panchina nel parco. «È troppo per me, Billy. È una cosa troppo grande». Billy si sedette al suo fianco. «Naturalmente è una cosa troppo grande. Pensi che il Santo Padre sia così sciocco da scegliere qualcuno che pensi di essere in grado di affrontarla? No, sapeva che ben presto avresti fatto appello alla tua debolezza. È proprio qui che comincia l'opera, no? Quando scopriamo che è troppo grande per noi». «Mi piacerebbe poter parlare con il tuo amico Pietro in questo momento, Billy». «Sta pregando per te, amico. Anche lo Spirito Santo sta guidando la faccenda. E poi, hai qualcun altro che ti aiuta». «Chi?». «Me!», gridò Billy, brandendo la sua spada invisibile. Elia non sorrise. «In marcia verso Mordor!», gridò Billy, ridendo nel buio. 4 Assisi Elia meditava sul verde dell'Umbria e cercava di ignorare le ruote stridenti della Jaguar. Il modo in cui Billy guidava sulle strade secondarie della campagna collinosa era ammirevole, ma tendeva a provocare scariche di adrenalina. «Quello è il monte Subasio», disse Billy quando superarono una curva in collina. «A mezza costa si trova la città. La prima cosa che vedrai saranno le mura della basilica e il convento». «La vedo. Come una fortezza». «Sembra un po' un pezzo da museo. Ma non lasciarti ingannare. Dietro quelle mura si trova una città fiorente e moderna - case, ristoranti, teatri, conventi, turisti, pellegrini, persino gente normale. Il ceppo da cui sono nati Francesco e Chiara». «Mi sento come se fossi arrivato nella valle di Dio». «Tutti provano qualcosa di particolare quando vedono Assisi per la prima volta. Ma è davvero un posto piuttosto normale». «Billy, provo qualcosa che non ho mai provato da nessun'altra parte». Billy gli lanciò uno sguardo indagatore. «Ti sorprenderesti di sapere quante persone sedute al tuo stesso posto
hanno detto le stesse parole». «Ma che cos'ha questo posto?». «È bello, no?». «Sì, ma anche il monte Carmelo è bello. Molti luoghi possono vantarsi per la loro bellezza, molti sono più belli all'occhio di questo». «È la luce dell'Umbria. Quando cade su quel villaggio appoggiato sullo spuntone di roccia, aggiungi le allodole, i boschetti e il fiume - è una ricetta per un Medioevo pittoresco, vecchio mio. Sei appena stato morso dal virus». «È qualcosa di più, ma non riesco ad immaginare che cosa». «Qui mi aspetto sempre di imbattermi in Dante e Beatrice. È la sensazione che si prova a immergersi nei secoli e a scoprire che il passato mitologico era reale. Era il presente di qualcuno. Francesco e Chiara hanno camminato per queste strade e le hanno amate. Il loro mondo era più reale per loro di quanto non sia il nostro per noi». «Che cosa vuoi dire?». «Voglio dire che il loro mondo era così bello e pericoloso». «Come il nostro». «Il nostro mondo è maledettamente brutto, se me lo chiedi. Guarda che cosa ne abbiamo fatto. Pensiamo di aver risolto gli inconvenienti con la buona, vecchia tecnologia. A proposito, l'aria condizionata è troppo bassa per te?». «Va bene, Billy». «La buona, vecchia tecnologia». «Penso che viviamo nel periodo più brutto e pericoloso di tutti». «È brutto e agitato da una sensazione di irrealtà, ma è così pericoloso?». «Non è il tempo della finta pace il più pericoloso?». «Se si tratta di finta pace. Ma se è un tempo di vera pace, allora il tipo che se ne va in giro gridando la fine è vicina, ha bisogno di vedere uno strizzacervelli». «Allora molto dipende da quanto il profeta ascolti Dio e riesca a leggere i segni dei tempi». «Giusto. Come disse una volta il ben noto profeta Chicken Little, il cielo sta cadendo, il cielo sta cadendo». «Ti stai prendendo gioco di me con il tuo senso dello humour tipicamente inglese». «Sto solo cercando di tirarti su, Davy. Hai sempre un'aria così austera per i miei gusti. Assisi sarà proprio quello che il dottore ha ordinato. Ve-
drai». «Lo sento già». «È il romanticismo del passato, immagino. Per i turisti è il romanticismo storico. Per i tipi religiosi come te e me è il romanticismo religioso». «Permettimi di non essere d'accordo. Per me, non si tratta di un sentimento romantico. Ricordi quando parlavamo di un grande crimine l'altro giorno? Un crimine innominabile che nessuno riconoscerà?». «Sì?». «È come se qui fosse presente l'antitesi di quel crimine. Al genere umano sono state date molte benedizioni, che purtroppo sono cadute nel dimenticatoio». Billy non rispose subito. Poi disse: «Forse hai ragione. Forse ho letto troppi dépliants turistici». «La presenza di san Francesco è qui, non come un ricordo fossile che permane nel subconscio. Piuttosto ci si aspetta in ogni momento di guardare sul lato della strada e di vedere un poveretto vestito di sacco che ci tende le braccia. Ha dei buchi nelle mani. È qui. Lo sento». «Bene, reggiti la testa, Davy, perché più avanti affronteremo alcuni tornanti. Se passiamo san Francesco, digli che non posso fermarmi a questa velocità. Inoltre, non ho mai preso su gli autostoppisti». «Mai?». La faccia di Billy si rannuvolò. «Correzione. Uno, una volta. Te lo racconto prima o poi». Entrò nel parcheggio della basilica, saltò giù dalla macchina e si stiracchiò. «Buon giorno, Assisi!», disse con piacere, togliendosi gli occhiali da sole e stropicciandosi gli occhi. La sua camicia di seta argentata pareva fresca e per nulla stropicciata. Elia cominciò a sudare abbondantemente nel suo abito da carmelitano. Faceva più fresco dietro i portali del sacro convento. Si presentarono al portinaio, un italiano piccolo e incartapecorito, che fece un ampio sorriso quando Billy gli tese una nota per il padre guardiano, scritta dal cardinale segretario di Stato. «Vi stavamo aspettando. Venite, per di qua, vi mostrerò le vostre camere». Si muoveva tutto affannato precedendoli e guidandoli per il complesso del convento verso un'ala appartata, che si affacciava sulla pianura fra Perugia e Foligno. Una calda brezza entrava dalle finestre aperte nel corrido-
io. «Vi mettiamo nella dépendance. È estremamente tranquillo qui. E riservato. Andate e venite come desiderate. Senza dubbio vorrete visitare gli affreschi di Giotto e la tomba del Santo. Lo fanno tutti. Monsignor Stangsby non dovrebbe dimenticare di mostrarle la piccola chiesa di San Damiano. È dove il crocifisso ha parlato a Francesco. E non mancate di andare alla Porziuncola dentro Santa Maria degli Angeli! È la chiesetta dove Chiara ha emesso il voto di povertà. O cari, c'è così tanto da vedere qui, e così tanto movimento. I turisti sono arrivati in piena. Se cercate pace e quiete, andateci dopo gli orari di visita. Darò al monsignore le chiavi. Fatemi solo sapere quando siete pronti. Ecco una sala da pranzo privata per voi. Non è sontuosa. Anche il papa mangia qui quando viene. "Non si preoccupi troppo per me, fratello", dice, "semplici", dice, "amo le cose semplici, sono le migliori", mi dice sempre. Un uomo speciale, il nostro Santo Padre. Come sta? Come va la sua salute? Bene? Sono contento di saperlo! Salutatelo da parte mia». Portò Billy in una camera degli ospiti oltre la sala da pranzo, poi guidò Elia a quella di fianco. «Mi scusi, padre... Come ha detto che si chiama? Ora, monsignor Stangsby prende la camera del papa, perché è un gradino più in alto nella scala, ma lei ha la camera d'angolo con la vista, tanto che direi che ha fatto l'affare migliore. Le mie scuse, monsignore. Troverete un frigorifero nel cucinino. Frutta, caffè, pane. Sentitevi come a casa vostra. C'è una cappella privata alla fine del corridoio. In quest'ala non c'è nessun altro. Pax et bonum. Suonate se avete bisogno di qualcosa. Pax et bonum». Il frate percorreva a ritroso la sala da pranzo, sorridendo e benedicendoli, inchinandosi ripetutamente, fino a quando non aprì la doppia porta e lasciò i due visitatori in un intenso silenzio. In quel momento il cinguettio delle allodole entrò insieme alla brezza. Elia si sentì indescrivibilmente felice. «Andrò a farmi un pisolino», disse Billy. «Vieni un attimo a vedere la suite pontificia». Elia diede un'occhiata alla camera di Billy, una piccola cella con un lettino, una scrivania e una sedia. Un bagno privato con una doccia, un lavandino e la toilette. L'unica decorazione era un'icona sopra il letto - una copia della croce di San Damiano che aveva parlato a san Francesco. «Principesca, no?», sospirò Billy. «Molto romantica», disse Elia.
«Pensi di riuscire a prendermi in giro con il tuo umorismo israelita, no? Non ci provare! Lungi da me!». «Dormi bene, Billy». «Grazie, anche tu». «Buona notte, Andy». Billy scosse il suo bagaglio. «Buona notte, padre», disse una vocina dall'interno della valigia. Elia tornò alla sua camera e si distese sul lettino. Si rese conto all'improvviso di quanto fosse stanco, una fatica che gli era penetrata fino nelle ossa. Si addormentò e non si svegliò fino a quando una campanella non suonò per cena. L'inserviente addetto alla cena, un massiccio giovane frate in una tonaca consunta, spinse un carrello nella sala da pranzo e posò un vassoio di fronte al posto apparecchiato per uno. Elia si presentò. «Io sono Jakov», rispose il frate. Dopo alcuni convenevoli, Elia tirò fuori da Jakov che era un francescano croato, un rifugiato dalle guerre nei Balcani. «È perfetta letizia», disse con espressione enigmatica. «Perfetta letizia?», disse Elia, sforzandosi di comprendere quello che gli veniva comunicato. «Perfetta letizia», ripeté il frate, movendo su e giù la testa. Era solo al mondo, spiegò, la sua famiglia era stata massacrata. Indicò il cielo e disse, «Frate Francesco è la mia famiglia, no?». «Tuo fratello e tuo padre», aggiunse Elia. Il frate rimase in piedi senza muoversi, fissando nel vuoto, come se stesse rivivendo un'esperienza. «Monsignor Stangsby non viene a mangiare?», disse Elia. «Oh, dimentico troppa cose. Lascia una lettere per te, padre. È andato a fare visitare con amici a San Crispino. Parla con te domani». Il frate estrasse una lettera che aveva notevolmente sofferto nella tasca del suo grembiule. Cercò di togliere le pieghe e le macchie, la depose sul tavolo dove si trovava il piatto. Elia lo ringraziò e il frate andò via. Caro Davy, sono andato a trovare alcuni amici a San Crispino in via Sant'Agnese. Usciamo per cena in un vero ristorante. Mi dispiace abbandonarti, ma sai che è un bene per la tua anima. L'amico del
papa, padre Matteo, ti verrà a snidare dopo le sette o giù di lì. Rilassati. Ad Assisi quello che non manca è proprio il tempo. Pax et bonum! Tuo B. Elia consumò una cena fatta di uova sode, formaggio, sedano, panini bianchi, innaffiato con una piccola caraffa di vino rosso estremamente secco e alla fine un cesto di uva bianca. Quando uscì dalla sala da pranzo, il sole era basso all'orizzonte e irrompeva dalla finestra alla fine del corridoio. Andò nella cappella e si inginocchiò di fronte al Santissimo. La pace che sentiva era diversa da quella provata al Carmelo o a Roma. Era satura del carisma di questo santuario straordinario, un sensazione che non riusciva a descrivere senza fare ricorso a metafore decisamente obsolete. Era l'incenso sospeso nell'aria. Come l'infanzia ripristinata dopo una lunga corruzione. Come una fanciulla che canta all'alba. Era come un'ode alla bellezza, un'ode che era essa stessa bellezza, bellezza incarnata mentre cercava di evitare la follia di parlare della bellezza. Assisi era come qualcosa, ma come che cosa? Come qualcosa che si conosceva da sempre, ma che non si era mai visto. Qualcosa di percepito da lontano, come un vento dalla terra promessa che salutava lo straniero e l'ospite che esce dalla schiavitù in Egitto. Era gioia, su questo non c'erano dubbi. Ma una gioia diversa da tutte le altre mai provate prima. Una gioia inattesa in un tempo cupo. Una gioia curiosa. Non c'era nessun'altra espressione che si avvicinasse di più. Un gusto di dolcezza come la fertilità delle viti sulle terrazze sottostanti, dolcezza sulla lingua e una promessa di profumo nell'aria della sera. Era sensuale nel senso migliore della parola, saturava tutti i sensi, tanto che la carne era compresa finalmente come un'opera di bontà tale che l'uomo benediva il suo Creatore dal mattino alla sera per averlo creato. Qui, in questa città medievale, dove un uomo piccolo e straordinario si era messo a cantare a Dio, come un amante appassionato parla alla sua sposa, qui la reintegrazione dell'uomo nella sua vera casa non era più il sogno dei santi. Era una festa di nozze. Era parola fatta carne. Chiuse gli occhi e disse una preghiera di ringraziamento. Quando li aprì di nuovo la cappella si trovava al buio ed era scesa la notte. L'interno era illuminato solo dalla lampada del Santissimo. Avvertì che si trovava lì anche un'altra persona, un frate, immobile su una panca in fondo. Pensava che fosse o il portinaio o il giovane frate croato, ma quando
passò accanto alla figura inginocchiata mentre stava per uscire, l'altro frate lo guardò. Elia vide che era un uomo di età avanzata. Il frate si alzò e lo seguì in corridoio. «Padre Elia?», disse con voce flebile. «Sì?». «Sono padre Matteo». Il frate piegò il capo verso di lui e non sembrò notare la mano di Elia tesa in un saluto. Anche Elia si piegò in un lieve inchino. «Padre Matteo, il Santo Padre le manda un abbraccio e la benedizione apostolica. Le chiede di pregare per un'intenzione urgente». «Pregherò», disse il frate. Era figura normale, pallida, malaticcia, le mani nascoste nelle pieghe del saio marrone scuro. L'abito era rattoppato e sembrava di parecchie taglie troppo grande per lui. Elia attese in silenzio, non sapendo che cosa dire. Ora gli tornò in mente che lo scopo della sua venuta al convento ad Assisi non gli era stato spiegato in termini precisi. La rinfrancherà, aveva detto il papa. «Il Santo Padre desidera che lei si riposi qui». «Il Santo Padre le ha comunicato la natura della mia missione?». «Conosco la natura della sua missione». «Ha detto che lei mi avrebbe rinvigorito». «Il Signore la rinvigorirà. Passi più tempo possibile di fronte a Lui nel Santissimo Sacramento. Si crogioli nel fulgore del tabernacolo. Domani, prima di colazione, diremo messa nella cappella, al riparo dagli occhi dei curiosi». «C'altro che devo fare?». «Digiuni un po', se vuole. Ricordi che l'obbedienza è il digiuno più grande. Pratichi spesso le mortificazioni interiori durante i giorni in cui starà con noi. È meglio che rinunciare a una tavoletta di cioccolato». Padre Matteo sorrise gentile. «Che cosa posso leggere?». «Legga Matteo 24 e tutto quello che lo Spirito Santo la solleciterà a leggere nella Scrittura. Le suggerisco di tenere la mente sgombra. Rimanga in silenzio. Attenda Dio». «Bramo il silenzio, padre. Sono stati tre giorni di rumore continuo da quando ho lasciato Israele. La mia mente è come un turbine». «Il mondo è un posto rumoroso. Sì, rimanga in silenzio. Poi, quando si è
riposato, visiti la tomba di Francesco e preghi di fronte al crocifisso». «Sarebbe una grande gioia per me, se lei mi accompagnasse in quei posti». «Ci andremo insieme. Ma ora vedo che lei è molto stanco. Questa notte e domani deve riposare. Preghi e riposi». Con questo, il vecchio frate gli augurò la buona notte e con fatica arrivò alla porta della clausura. Elia si addormentò ascoltando il coro degli insetti e degli uccelli notturni fuori dalla finestra riparata della sua camera. *** Padre Matteo tornò prima dell'alba. Non servì a niente bussare alla porta di Billy, non riuscì a svegliarlo dal sonno e quindi Elia concelebrò la messa da solo con il frate. In tanti anni di sacerdozio non aveva mai partecipato a una messa celebrata con tale attenzione e rapimento. Il frate si soffermava su ogni singola parola. Alla consacrazione Elia si domandò se l'altro prete non avesse perso coscienza, perché il frate era in piedi, immobile, e tenne alzata l'ostia per parecchi minuti. Quando le pieghe del suo abito scivolarono giù dai polsi, le mani rimasero esposte. Elia vide che indossava guanti di lana nera senza dita. Le dita esposte erano lunghe, bianche, estremamente fragili, ma i palmi nascosti sotto i guanti sembravano spessi, come gonfi. Il sole sorse al momento dell'elevazione e penetrò attraverso la vetrata, gettando colori vivaci nella stanza. Gli occhi di padre Matteo erano chiusi; non sembrava notare l'epifania di luce. Il tempo stesso era sospeso sul mondo, trattenuto tra le sue mani, trafitto dall'estasi del suo volto sollevato verso l'alto. I frammenti di colore avevano iniziato ad attraversare le mattonelle della navata centrale, quando abbassò le braccia e continuò con le parole del canone. Durante la preghiera silenziosa di ringraziamento dopo la messa, Elia notò di nuovo che il frate scivolava in quella che pareva una perfetta compostezza del corpo, una quiete che si avvicinava a una immobilità assorta. Gli occhi erano chiusi, l'attenzione rivolta all'interno. Il frate rimase inginocchiato così a lungo che Elia non riuscì a rimanere in quella posizione. Le articolazioni gli facevano male. Lasciò la cappella brevemente per andare al bagno e quando tornò il frate non c'era più. Il resto della giornata lo trascorse in silenzio, periodi di lettura e di son-
no alternati con ore di quiete di fronte al Santissimo Sacramento. Sentiva che la tensione dei giorni precedenti si stava dissolvendo. Prima di cena completò una lenta lettura meditativa di Matteo 24 e venne colpito soprattutto dall'ammonimento di Cristo: «Come nei giorni che precedettero il diluvio la gente mangiava, beveva, si sposava e si maritava, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca, e non vollero credere finché si abbatté il diluvio e spazzò via tutti, proprio così sarà alla venuta del Figlio dell'uomo». Elia rimase seduto nella sua stanza a fissare intensamente la quieta campagna umbra, fino a quando non suonò la campanella della cena. Il frate croato portò un vassoio carico di formaggio striato di azzurro, prosciutto a fette, panini, olive, uva e una coppetta di budino al cioccolato. Una brocca di tè freddo, tutta imperlata, era posta a fianco di un bicchiere dentro al quale era stato messo un quarto di limone. Jakov sembrava insolitamente solenne. Elia vide che gli occhi del croato erano turbati. Con sua sorpresa, Jakov si sedette nella sedia di fianco a lui, appoggiò la testa sul braccio e scoppiò in singhiozzi. «Che cosa succede, fratello mio?», disse Elia toccando la spalla dell'uomo. «Mi dispiace, padre. Non volevo fare pianto. Volevo finire di servire cena, andare a pregare e piangere nessuno mi vede». «Dimmi, che cosa c'è?». «Questo giorno è festa della mia famiglia uccisa in Croazia». «Quanto tempo fa?». «Quattro anni fa. Ero ragazzo». «Mi dispiace, Jakov. Porti con te un grande dolore. Pregherò per le loro anime durante la messa». «Io prego. Perdono assassini. Ma poi voglio ucciderli nel mio cuore. Li odio!», disse a denti stretti. «Comprendo i tuoi sentimenti. La mia famiglia...». «Nessuno sa quello che provo. Ci hanno messo nella chiesa. Vedo che sparavano a mia madre. Ho visto che sparavano a mio padre. Ai miei fratelli. Violentano mia sorella, molti soldati violentano mia sorella e poi le sparano. Fanno tutto questo di fronte a Dio. Sparano a Gesù sull'altare. Cosa troppo brutta. Non riesco a parlare». «Come sei riuscito a fuggire?». «I soldati mi hanno colpito con il martello dappertutto. Mi tagliano, mi
bruciano. Sparano al prete, ma mi tengono in vita per torturarmi. Il nostro esercito attacca il giorno dopo e bombardano quella casa. Quasi morto. I cattivi soldati scappano. Passo molto tempo in ospedale». «Dio chiederà conto a quegli uomini, Jakov. Non lasciare che l'odio ti avveleni». «Io perdono. Poi odio, poi perdono. Odio, perdono, odio, perdono». «La tua famiglia è in paradiso». «Spero questo». «Sono felici ora. Ti sorridono. Ti amano. Ti vedono così infelice e vogliono che tu sia consolato». «Padre, ma chiedo una cosa, me la dici?». «Che cosa c'è, Jakov?». «Dove Dio?», chiese sottovoce. «Ha sofferto in loro. Hanno sofferto con lui sulla croce. Grande sarà la loro ricompensa nei cieli». «Voglio questo essere vero. Ma oggi troppo duro. Oggi duro credere questo è vero. Domani forse meglio». «Pregherò che tu comprenda che è vero». «Mi dispiace, padre. Parlo troppo. Tu non mangia cena». «Questa sera digiunerò per te e la tua famiglia. Per favore, porta via il cibo». Fratello Jakov lo guardò scandalizzato. «Io no fare te fame». «Ho fame, ma sono felice di digiunare. Digiunerò per te». «Io non piace», gridò. «Tu mangiare. Diventare forte». «Se questa sera non mangio, sarò più forte che se avessi mangiato». «No, no. Io cattivo. Ti faccio questo». «Non sei cattivo. Non mi hai fatto questo. Sei un messaggero, un buon messaggero». Elia caricò tutto sul vassoio, mentre Jakov si asciugava gli occhi con la manica. Prese il fratello per un braccio e lo condusse attraverso la porta del refettorio verso la cucina. Mise via il cibo nel frigorifero. «Vedi, è qui, se mi viene molta fame». «Promesso, padre, mangia se tu debole». «Lo prometto. Vieni qui, Jakov». Jakov fece un passo avanti. «Vorrei pregare per te. Posso pregare per te?». «Sì».
Il gigante piegò la testa. Elia mise le mani sul capo del frate e invocò la guarigione della sua memoria tormentata. Sentì una corrente di calore avvampare dalle sue mani. Si appellò alla misericordia di Cristo che un tempo era stato inchiodato sulla croce agonizzante. Implorò che la benedizione divina scendesse su quell'anima tormentata. Jakov cominciò a singhiozzare profondamente e dalla sua bocca uscirono lamenti. Dagli occhi gli sgorgavano le lacrime, ma non si sentivano più singhiozzi rumorosi. A poco a poco la pace avvolse i due uomini, e adesso Elia sentì che la corrente di calore si stava attenuando. Il pianto di Jakov si affievolì, e si asciugò gli occhi. «Gesù soffre in noi, fratello mio. E ci guarisce». «Lo so. Padre Matteo qualche volta mette le mani sulla testa. Sento caldo sulla testa e va giù al cuore. Le sue mani fanno buco dentro e Dio passa attraverso i suoi buchi. Proprio come te. Lui aiuti». Elia annuì, sebbene non avesse afferrato il significato dell'ultimo commento. Sì, forse le mani di un guaritore erano così, meditò, uno strumento, un canale o un buco attraverso il quale la potenza del cielo si riversava in un cuore spezzato. Jakov si piegò e prese le mani di Elia nelle sue. Il gigante le girò e le baciò. Poi, imbarazzato, indietreggiò verso la porta, dopo aver strappato un'altra promessa che avrebbe mangiato, se si fosse sentito debole. Elia si sedette nella cappella senza pensieri, senza parole. Spense la luce prima delle nove, ma si girò e rigirò per un po' prima di cadere in un sonno irregolare. *** Il mattino successivo Elia celebrò la messa da solo nella cappella vuota. Subito dopo Jakov portò la colazione nella sala da pranzo. Il suo volto era composto, né felice, né infelice. «Come stai oggi, amico mio?». «Io bene, padre. Monsignore dice torna per cena. Lui va a Spoleto con amici». «Grazie, Jakov». Padre Matteo arrivò dopo colazione e chiese a Elia se volesse vedere l'immagine che aveva «parlato» a san Francesco. Una camminata li portò alla costruzione in pietra che Francesco e i suoi compagni avevano restaurato, dopo che il santo aveva sentito le parole di Cristo.
Un rosone sopra l'arcata centrale illuminava l'interno di una luce fioca. Le pareti grigie della navata creavano l'impressione di una caverna. Sospeso sopra l'altare si trovava il famoso crocifisso. Era primitivo, bizantino, dipinto su legno durante il XII secolo. «Francesco si è innamorato di Dio», disse padre Matteo. «Ha visto il cuore di Dio emanare dalla bellezza di tutta la creazione. Un giorno stava attraversando a cavallo la pianura di Assisi. Incontrò un lebbroso dalle piaghe così ripugnanti che fu preso dall'orrore e non desiderò altro che fuggire. Ma quel ragazzo viziato, figlio di un ricco commerciante di stoffe, aveva cominciato a poco a poco a capire che la lotta spirituale per Cristo inizia con la vittoria sopra il proprio sé. Smontò da cavallo e, quando il lebbroso tese il braccio per chiedere l'elemosina, Francesco lo abbracciò e baciò. La repulsione era stata superata dall'amore che sgorgava dal suo cuore. Alcune tradizioni raccontano che quando Francesco rimontò a cavallo e si volse per salutare il lebbroso, il poveretto era scomparso. Vede, il lebbroso era Cristo sotto false spoglie. Qualche volta è stato detto che questo ultimo dettaglio è solo un abbellimento di carattere devozionale. Nonostante questo, è teologicamente pregnante». «Padre Matteo, pensa che fosse Cristo travestito?». «Ne sono certo». «Perché ne è certo?». «Perché ho visto con i miei stessi occhi cose ancora più miracolose di quella. E perché è proprio del carattere di nostro Signore nascondersi affinché gli uomini imparino ad amare con l'occhio che non ha visto». «Un amore che sgorga da una vista interiore?». «Sì. Quell'incontro è stato solo l'inizio per Francesco. Un giorno si fermò a pregare proprio in questa chiesa. Era in rovina, trascurata. Francesco si inginocchiò di fronte alla croce, forse proprio dove ci troviamo ora. Mentre pregava, sentì una voce che gli parlava dall'immagine. Gli disse tre volte: "Francesco, va' e ripara la mia chiesa, che sta andando in rovina". Francesco era sopraffatto. Ma decise di fare quello che la voce gli aveva chiesto. Pensò che il Signore alludesse a quell'edificio. Tornò a casa, issò su un cavallo un carico di vestiti dal negozio di suo padre e li vendette, insieme con il cavallo, per raccogliere fondi per le riparazioni. Portò il denaro al povero prete di San Damiano e gli chiese se potesse restare con lui. Suo padre, sentendo quello che aveva fatto il ragazzo, si infuriò, lo trascinò a casa e lo chiuse a chiave, fino a quando non fosse tornato in sé. Fran-
cesco scappò via di nuovo. Il vescovo intervenne a favore del padre e dichiarò che la Chiesa non poteva approfittarsi di beni rubati. Francesco restituì il denaro, si tolse tutti i suoi bei vestiti e, nudo, li riconsegnò a suo padre. Andò via da lì vestito solo degli stracci di un lavorante. Divenne un mendicante e un pellegrino. Considerato pazzo da tutti coloro che avevano conosciuto il giovane ricco, veniva insultato dappertutto come uno scandalo e trattato con disprezzo, come un figlio che ha attirato la vergogna sulla casa di suo padre. Ritornò alla chiesa di San Damiano e cominciò a ripararla a mani nude, pietra su pietra. Dopo fece lo stesso con un'altra chiesa antica, poi con una piccola cappella chiamata Porziuncola, che era anch'essa in rovina. Il ragazzo cresceva in santità. A uno a uno, sono arrivati altri giovani e si sono uniti alla sua opera. Vivevano degli avanzi di cibo che la gente del paese gettava loro. A Francesco era stato dato il dono della profezia e dei miracoli. Un uomo a Spoleto era afflitto da un cancro che lo aveva sfigurato orribilmente. Aveva sentito parlare del giovane santo e andò a trovarlo sperando di ottenere che pregasse per lui. Incontratolo, stava per gettarsi ai suoi piedi, quando Francesco lo precedette e baciò la sua faccia malata, che guarì all'istante». «Padre, questo dettaglio è un abbellimento?». «Ah, lei vuole dire un'agiografia romantica?». «Ritiene che le cose siano andate proprio così?». «Sì», disse il frate semplicemente. «Perché ha visto con i suoi occhi cose miracolose?». «Le confermo che ho visto cose ancora più miracolose di queste. Ma aggiungerò quello che san Bonaventura scrisse una volta a proposito di questo episodio: "Non so di che cosa mi dovrei meravigliare di più, della cura o del bacio"». Elia annuì. L'interpretazione di Bonaventura era la summa concisa dell'intero problema. Quale era il miracolo più grande, la sospensione della legge naturale per la guarigione fisica, o la conversione del cuore umano attraverso l'amore assoluto? Il frate non aggiunse altro. Ritornarono al convento in silenzio. Alla Porta Nuova, padre Matteo fece una pausa e prese il braccio di Elia nella sua mano guantata. «C'è un'altra cosa che Francesco le mostrerà». «Che cosa?». «All'inizio Francesco pensava di essere stato chiamato a riparare le rovi-
ne fisiche di alcune chiese nella campagna collinosa dell'Umbria. Non aveva capito che la Chiesa universale stava cadendo in rovina a causa dei peccati dei suoi membri, soprattutto del clero dell'epoca. Quando il gruppo dei suoi seguaci è aumentato, ha cominciato a capire che il suo compito era il ritorno della casa di Dio alla grazia. Il suo ordine si è diffuso rapidamente in Italia e altrove. C'erano cinquemila fratelli professi quando Francesco aveva appena trent'anni. Hanno predicato ovunque in Europa, hanno condotto una vita di povertà radicale e hanno riportato quasi da soli il cristianesimo alla fede». «Lei pensa che Francesco mi voglia mostrare qualcosa in questo?». «Le mostrerà una cosa semplice, ma spesso trascurata da coloro che perseguono la santità. Dio di solito affida all'anima incarichi insignificanti. Se l'anima è fedele in questo, le affida altri compiti. Inizia dal particolare e conclude l'opera nell'universale». «Questo posso capirlo. Ma confesso che non vedo come si possa applicare alla mia vita». «Non lo vede?», disse il frate con un leggero sorriso. Diede un colpetto al braccio di Elia, poi si avviarono alla clausura. 5 Ruth Per il resto della giornata non riuscì a scacciare dalla testa un ricordo. Gerusalemme in inverno. Luce mattutina. La neve cadeva sulla città per la prima volta da sei anni, o quasi. Un vento freddo. Nuvole color ardesia che vagavano per il cielo giallo. Bambini arabi che cantavano canti natalizi. Il Santuario del Libro, il settore dell'Israel Museum che conserva i rotoli del Mar Morto, era praticamente deserto. Una donna alta fra i venti e i trent'anni entrò dopo di lui e si mise a fissare una teca di vetro dove era esposto il rotolo di Isaia. Per caso David stava osservando un brano dello stesso rotolo. La donna teneva gli occhi socchiusi tentando di leggerlo. Si scoprì a fissare il suo volto riflesso nel vetro. Da quel volto emanava un'intelligenza sicura. Era attraente. Ma c'era qualcosa d'altro - un misto di dolcezza e forza - senza quella vigoria tipica fra molti giovani israeliani. «"Guardate ad Abramo, vostro padre, e a Sara che vi ha generato"», disse lei senza guardarlo, come se si conoscessero già. «"Ma quando era solo lo chiamai, lo benedissi e lo moltiplicai"». Lui si schiarì la gola.
«Penso che il profeta intenda dire: "Perché lo chiamai quando era solo, lo benedissi e lo moltiplicai"». Allora lei si girò e lo guardò. «Lei ha ragione. Mi sono sbagliata». «C'era molto vicina». «Sto studiando questi rotoli con molta attenzione. Sconfessano gli studiosi che dicono che le Scritture sono cambiate dalla loro composizione originaria. I rotoli dimostrano che sono sopravvissute intatte, senza alterazioni». «È una studiosa, signorina?». «Non delle Scritture. Insegno all'università, ma non questa materia. Questa è la mia passione». «Che cosa insegna?». «Letteratura europea moderna». «Postbellica?». «Pre e postbellica». Lui aveva ben presto esaurito le domande e cominciò ad innervosirsi per la sua testa vuota. Non voleva che la conversazione finisse. «E Lei è uno studioso delle Scritture?». «Sono un avvocato», disse movendo la testa come per scusarsi. «Conosce molto bene il testo». «L'ho studiato da bambino». «Lei è polacco, no?». Non aveva mai considerato se stesso come polacco. «Sono arrivato dalla Polonia dopo la guerra». «Era uno di quei bambini prodigio che uscivano dagli Hasidim?». «Sì». «Dove sono i suoi payos?». «I nazisti li hanno tagliati. Più tardi, quando sono arrivato in Israele, ero diventato un altro. Li ho tagliati da solo». Lei non rispose e lui percepì la sua disapprovazione. «Lei non porta la kippah o uno yarmulke. Perché?». «Non sono più credente». «Oh», disse lei con tristezza. «Come così tanti scrittori postbellici». «Lei ha fede?». «Un certo senso di fede». «La Shoah ha bruciato ed espulso da noi la fede». «La Shoah ha fatto crescere più forte la fede di alcuni. In altri l'ha inde-
bolita, in alcuni è scomparsa del tutto». «Perché?». «Non sarebbe corretto da parte mia fare delle congetture. Non ho sofferto come è capitato a tanti. La mia famiglia è in Israele dal XVIII secolo. Siamo venuti dalla Germania e siamo stati coinvolti nei primi insediamenti agricoli». «Nonostante questo, ha delle opinioni ben precise. Le riesco a sentire sotto le Sue parole educate». «Lei è davvero un avvocato», disse lei. «Il mio primo amore è la Scrittura. Ma è diventato un interesse letterario. Quando ero ragazzo pensavo che il mondo fosse fondato sulla Torah». «Non pensa più che lo sia?». Fu sorpreso dalla sorpresa di lei. Era strano incontrare un'intellettuale che irradiasse almeno i sintomi minimi della fede biblica. Non sapeva come comportarsi con lei. «Molti sono stati bruciati nel corpo e sono morti», disse lei. «Altri sono stati bruciati nell'anima e vivono. Lei è uno di questi ultimi?». Lui alzò le spalle. «Devo essere uno di questi ultimi». «Penso che lo sia. E penso che abbia bisogno di un bicchiere di vino. Di ballare e di ridere. Scommetto che Lei non rida troppo». Era stato analizzato con un'accuratezza sconcertante. Non gli piaceva. «Ho provato poche cose divertenti nella mia vita». «Mi dispiace», disse lei, sentendosi rimproverata. «Sono stata indiscreta. Le chiedo di perdonarmi». «Come si chiama? Come faccio a perdonarLa se non so il Suo nome?». «Mi chiamo Ruth Sonnenberg». «La perdono, Ruth». «E Lei, come si chiama?». Lui non rispose subito, perché aveva una quantità di nomi. C'era il nome del ragazzo che aveva vissuto alla Zamenhofa a Varsavia. C'era il nome che aveva fornito agli inglesi, sperando che avrebbero creduto che fosse un ebreo della Palestina capitato per sbaglio sul lato sbagliato del confine e che avesse bisogno di essere rimpatriato. Notarono subito il trucco e lo misero in un campo di detenzione a Cipro. Poi c'era il nome che gli aveva dato l'Haganah quando era diventato un agente, prima della dichiarazione d'Indipendenza. Aveva mantenuto quel nome. Era il suo nome pubblico nel nuovo Israele e lo era stato negli ultimi dodici anni. Avvertì immediatamente che la testa di lei era piegata di lato in attesa di
una risposta da parte sua. «Non ha un nome, ragazzo con i payos?». «Ho un nome». «Non vuole dirmelo?». «È David...». L'ultimo nome che usava era quello che gli aveva dato l'Haganah. «David. Re David». Lei rise. Gli piaceva la sua risata, perché rivelava come fosse. Era un suono gentile che procurava gioia. Era piacevole. Si innamorò di quella risata e le chiese di andare con lui a bere una tazza di tè, per poter portare con sé quel suono. Trascorsero molte ore insieme in un caffè a chiacchierare di cose poco importanti. Lui era semplicemente seduto lì, senza fare piani, senza sperare in niente, semplicemente sopraffatto dalla sua presenza. Non erano i suoi grandi occhi neri o la sua bellezza fisica che lo avevano catturato. Non era la sua intelligenza, sebbene ne fosse ampiamente dotata. Gli piaceva la dolcezza, ma si scervellava sulla sua forza. La combinazione era snervante. Si diceva che era un diversivo momentaneo. Che non l'avrebbe mai più rivista. Che era semplicemente interessante guardare attraverso una curvatura dell'esistenza e osservare una persona che viveva su un pianeta differente. Poi ammise con se stesso che stava mentendo. Sapeva che si sarebbe fatto sfrattare dal caffè piuttosto che separarsi dalla sua presenza. Avrebbero dovuto minacciarlo per impedirgli di stare con lei. Ma non poteva ancora dirglielo. Sebbene fosse un maestro con le parole - le parole della legge -, non riusciva a parlare con coerenza. Cominciava una frase e non la finiva. Balbettava. La sua mente era una stanza vuota in attesa di essere riempita. Lei se ne era accorta e conduceva la maggior parte della conversazione, lasciandogli lo spazio per le interiezioni. Rimasero insieme fino all'ora di chiusura. Cominciò a schiarirsi la gola, preparandosi a dire delle cose che alla fine non disse. Lei continuava a guardarlo con un misto inquietante di curiosità e di affetto, nel quale si era mescolata una simpatia per la sua sofferenza senza nome. Parlò di molte cose: libri e personaggi politici, la minaccia della guerra sempre incombente, i fiori, l'oceano. Amava l'oceano. Amava tutta l'acqua. Amava galleggiare nel Mar Morto, gli disse. Gli chiese se avesse mai visto Masada. No, non l'aveva ancora vista. Un giorno o l'altro sarebbero andati insieme, disse lei. Sì, avrebbero dovuto, fu d'accordo lui. Insieme, aggiunse. Tre mesi dopo si trovavano sotto il baldacchino e rompevano il bicchie-
re. Poi lui imparò di nuovo a ballare. Ballava e la danza lo fece piangere al suo matrimonio. Nessuno fece commenti, perché sapevano che era un sopravvissuto. Una sera di primavera. La casa rosa a Ramat Gan. Il cielo a occidente soffuso di colori iridescenti. Una brezza dal mare. Qualcuno nelle vicinanze faceva il pane. Grida di bambini che salivano dalla strada. Bambini ebrei che gridavano in ebraico come se non fosse un linguaggio reinventato. Era disteso su una sedia a sdraio all'ombra del mandorlo. Ruth attraversò la terrazza portando due bicchieri di colore verdegiallo, freddi, che tintinnavano di ghiaccio. Lui alzò un braccio e le fece un cenno. Era stata una giornata pesante in ufficio. Il processo Eichmann era imminente e lui era l'assistente del pubblico ministero incaricato di sostenere l'accusa. Era responsabile delle prove fotografiche. Lei si diresse verso di lui, l'antitesi dell'orrore delle fotografie, quei cumuli di volti immobili, membra, tronchi, ammucchiati, rinchiusi in un gabbia per gatti di circa due metri per tre, morte in bianco e nero. Era abbronzata, le sue labbra erano piene, i suoi occhi teneri e divertiti puntati su di lui, la sua camicetta e la gonna del colore cremoso delle conchiglie di strombo. Gli mise in mano un bicchiere. Lui era sdraiato sulla sedia a sdraio e chiuse gli occhi. Lei gli tolse i capelli dalla fronte, gli slacciò la cravatta e gli levò le scarpe. Si tolse i pendenti di giada dai lobi delle orecchie. «La cena è quasi pronta». «Che cosa c'è?». «Pesce. Latke. Melone. Miriam ha mandato del caffè brasiliano. È arrivato in tempo per il mio stanco marito». «Proprio in tempo». «Com'è questo Eichmann?». «È la persona più normale che riesci a immaginare». «Non schiuma di rabbia?». «È del tipo pensieroso. Si esprime in toni misurati». «Hai parlato con lui?». «L'ho incontrato oggi per la prima volta. Dovevamo controllare alcune foto che gli americani hanno fatto a Wobbelin. Gli inglesi ci hanno fornito altre foto di Bergen Belsen. Ha confermato tutto». «Hai dovuto passare in rassegna anche quelle di Treblinka?». «Sì». «Oh David», disse lei accarezzandogli il braccio. «Treblinka e Oświęcim e Belzec, e altri. La lista è così lunga. I servizi
segreti statunitensi hanno trovato alcuni nuovi archivi fotografici tedeschi in un magazzino. Ci sono stati passati dall'ambasciata. Cartoni pieni. Le SS si divertivano a tenere album, apparentemente». «Le foto di Treblinka. Hai... riconosciuto nessuna delle vittime?». «Mia madre? Mio padre? I miei fratelli? Le mie sorelle? No. Erano facce di estranei. È incredibile, Ruth. Tutte le facce avevano lo stesso aspetto, svuotate dalla personalità. Maschere umane nella vita e nella morte». «È terribile». «Non ho provato niente. È strano guardarle e non provare niente. È impossibile pensare a un male di quelle dimensioni. La mente si spegne dopo aver superato certi confini. In un certo senso i nazisti hanno vinto. Hanno trasformato le vittime in statistiche persino per noi». «Non dirlo. Non è vero». «Dal punto di vista intellettuale, sono d'accordo con te. Non è vero. E dal punto di vista filosofico, mantengo il mio sdegno. Ma non puoi sostenere quel male a lungo prima che cominci a divorarti dall'interno». «Forse dovresti passare questo incarico a qualcun altro. Ce ne sono molti, di incarichi, per un avvocato del tuo calibro. Ho sentito delle voci a tuo riguardo». Gli puntò il dito contro, prendendolo in giro. «Quali voci?». «Sei stato preparato per cose più importanti. Secondo il direttore del mio dipartimento, la moglie del ministro della giustizia, che è sua amica, dice di aver sentito che sarai pronto per il Consiglio dei ministri entro un decennio». «Voglio continuare a seguire il processo, Ruth. Voglio vedere quel bastardo impiccato. Se Dio è morto a Oświęcim, Eichmann lo seguirà sulla corda a Gerusalemme». «Shhh!», disse lei, portandosi l'indice alle labbra. Era quel genere di sabra che credeva in Dio in maniera distratta, ma che pensava che il sionismo fosse la forma che l'opera divina aveva assunto in questo secolo. Nonostante questo, manteneva una certa traccia di deferenza, un'eredità dei suoi antenati sefarditi. Quella note la loro camera da letto si trasformò in un giardino tropicale. Consolazione della carne. Unione della carne. Gioia della carne. Mai più nessuna fame della carne. Niente più fosse piene di carne morta. Lui si svegliò urlando, ansimando alla ricerca d'aria nella piccola camera da letto calda a Ramat Gan. «Shhhh, shhhhh», gli disse lei.
«Hanno vinto, Ruth». «Hanno perso. Li abbiamo battuti. Dio li ha battuti». «Dov'è Dio?». Gli prese la mano e la posò sul suo ventre. «Il Signore Dio ha piantato un giardino nell'Eden, a est», disse sussurrando. «Lì ha posto l'uomo che aveva formato. Il Signore Dio fece scendere un sonno profondo sull'uomo e mentre era addormentato, gli ha preso una delle costole e ha richiuso il fianco con la carne. Allora il Signore Dio formò la donna dalla carne dell'uomo. Ha svegliato l'uomo e ha dato lei a lui e lui a lei». Le brezze sospiravano attraverso la camera, portando il profumo del mare e dei fiori di limone. «Noi siamo uno zivig», disse lei. «Siamo scelti, una coppia benedetta dal cielo. Mettiamo al mondo un figlio, tu e io. Insieme». Sebbene fossero sposati da tempo e amanti esperti, a proprio agio nella carne conosciuta, quella notte lui baciò lei con un bacio che era il primo bacio mai creato nel mondo. Allora l'uomo e la donna divennero una sola carne con una passione che superava ogni passione precedente. Restarono uniti l'uno all'altra ed erano nudi e non provarono vergogna. Un mese più tardi lei gli prese di nuovo la mano e la premette sull'addome. «Qui c'è la risposta di Dio alla tua domanda, David. Un bambino vive qui dentro. Lo abbiamo fatto insieme, con la tua carne e la mia carne». Lui la strinse e sapeva che era cosa buona. Gioia della carne. Gioia del cuore. Gioia dell'anima. Tutto questo aveva a Ramat Gan. «Abbiamo vinto», disse lei. Poche settimane dopo la bomba dei terroristi esplose sulla piazza del mercato e cominciarono davvero gli anni vuoti. Elia si scosse. Era passato troppo tempo. Le memorie più dolci - e quelle che erano amare fino alla morte - una dopo l'altra erano sprofondate sotto le onde della guarigione giunta con la fede. Ma la guarigione non aveva intaccato quel persistente senso di perdita, la lacuna lasciata da un matrimonio amputato, la consapevolezza che il mondo intero stava soffrendo il dolore dell'abbandono. La fede aveva placato la tirannia delle emozioni. Aveva neutralizzato la loro capacità di spingerlo alla disperazione. Ma il dolore rimaneva. Nella notte di Assisi, quella solitudine umana penetrava ora in profondi-
tà con una intensità che non provava da molti anni. Uscì dal letto e andò alla finestra. C'erano alcune stelle sparse qua e là per il cielo. La brezza era calda e profumava del raccolto. Il sistema di irrigazione fischiava nelle vigne. La solitudine mordeva la sua anima come un grido nell'oscurità. Cercò dentro di sé una parola che potesse rispondere a questo grido e si scoprì vuoto. Fissò la notte, come per penetrare nel suo enigma con la forza della volontà. L'assenza di luce conteneva delle risposte? Solo fintantoché si aspira alla luce che manca, rendendo muta testimonianza a ciò che sarebbe ritornato con l'alba. Forse desiderava solo affermare il suo rifiuto delle illusioni. Come per dire: vi farò abbassare lo sguardo. «Non avete vinto», disse alla fine, a voce alta, e tornò a letto. *** Quella notte lei gli venne incontro in sogno. Non parlava. Lo guardava e dai suoi occhi proveniva amore. Era felice. Stava in piedi in un fiume poco profondo. L'acqua era azzurra, frizzante. Sullo sfondo, c'erano alberi di fico carichi, mandorli, limoni, limette, aranci, pompelmi, melograni. Lei mise entrambe le mani a coppa sul ventre e gli offrì i palmi delle mani e lui vide dentro un bambino piccolo, coi ricci, addormentato. «Questa è nostra figlia», disse con parole senza suono. «Non la conosco», disse lui preoccupato. «La conosci. Dorme, ma il suo cuore veglia». «Dov'è mia madre?», gridò lui. «Tua madre e tuo padre sono addormentati, ma i loro cuori vegliano. Sorgeranno l'ultimo giorno». «Dov'è, mia madre?». Ruth guardò alla sua destra e avanti. Gli occhi di lui cercarono il luogo verso il quale era rivolto il suo sguardo. «Tua madre è lì», disse Ruth. «La tua nuova madre. Ti è data questo giorno per l'opera che hai davanti a te». Lui guardò e vide una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle. Dato che stava per avere un bambino, gridava forte per il dolore provocato dal parto. Poi in cielo apparve un altro segno: un enorme drago, fiammeggiante di rosso, con sette teste e dieci corna; sulle sue teste c'erano sette corone. La sua coda spazzò un terzo delle stelle dal cielo e le scaraventò sulla terra. Poi il drago si fermò di fronte alla donna che stava per partorire, pronto a
divorare il bambino quando fosse nato. La donna diede alla luce un figlio - destinato a guidare tutte le nazioni. Il figlio venne portato a Dio e al suo trono. La donna, poi, fuggì nel deserto, dove per lei era stata preparata da Dio una dimora speciale; lì venne accudita per 1260 giorni. Poi in cielo scoppiò la guerra; Michele e i suoi angeli combatterono contro il drago. Sebbene il drago e i suoi angeli resistessero, vennero schiacciati e persero il loro posto in cielo. L'enorme drago, l'antico serpente conosciuto come il diavolo o Satana, il seduttore del mondo intero, venne cacciato fuori; venne scaraventato sulla terra e i suoi servi con lui. Allora udì una voce in cielo dire: Ora sono giunti la salvezza e il potere, il regno del nostro Dio e l'autorità del suo Unto. Perché l'accusatore dei nostri fratelli è stato scacciato, colui che li accusava giorno e notte di fronte al nostro Dio. Lo hanno sconfitto per mezzo del sangue dell'Agnello e con la loro testimonianza; l'amore per la vita non li trattenne dalla morte. Così esultate voi cieli, e voi che abitate in essi! Ma guai a voi, terra e mare, perché il diavolo è giunto su di voi! La sua furia non conosce confini perché il suo tempo è breve. Elia fissò il volto della donna vestita di sole e non ebbe più paura. «Tutto il cielo sta attendendo di riempirsi dei martiri della Donna», disse lei. Poi le stagioni cambiarono e le nuvole correvano come cavalli impazziti, le foglie cadevano dagli alberi e cadeva anche il loro frutto, e il mare infuriava. Dopo questo non ricordò più nulla. *** Elia si svegliò con le prime luci dell'alba. Poiché padre Matteo non si era presentato all'ora che avevano concordato, andò a cercare il portinaio.
«Dov'è padre Matteo?». «Oh», disse il grinzoso frate italiano, «ha di nuovo lottato con il diavolo». «Il diavolo?». «Il guardiano ha imposto a padre Matteo di obbedire. Deve rimanere a letto fino a quando le contusioni non saranno guarite». «Contusioni? È caduto?». «No, no», disse il frate irritato. «Le contusioni che il diavolo gli ha procurato la scorsa notte!». Sebbene fosse confuso, Elia trovò l'ufficio del guardiano e si trovò a faccia a faccia con un uomo di bell'aspetto, sui cinquant'anni, che lo fissava attraverso occhiali spessi. «Buon giorno, padre. Lei è l'ospite dal Vaticano?». «Sono io». «Come posso aiutarla?». «Sono preoccupato per padre Matteo. Eravamo d'accordo di dire messa insieme questa mattina e non è arrivato all'ora fissata. Il portinaio mi ha detto che ha...». «Non sta bene. Non è concesso a nessuno di vederlo per parecchi giorni». «Ma io parto questa mattina. Non potrei dirgli arrivederci?». «Mi dispiace...». «È della massima importanza che parli con lui. Ieri sera ha detto che il nostro incontro di questa mattina sarebbe stato fondamentale per la mia missione». «Non le ha spiegato altro?». «Niente». «Mi dispiace davvero, padre, ma è impossibile». «È prossimo alla morte?». «No». «Allora devo vederlo. Riguarda una missione papale». Il guardiano si irrigidì e quasi gli schizzarono via gli occhiali. «Ho un'intera comunità a cui badare. Questa casa non si può permettere di sprofondare nel caos per un singolo frate, persino per uno benedetto in modo particolare da Dio. Lei ha il suo incarico da parte di Dio e io ho il mio incarico da parte di Dio. La prego di accettarlo. Non posso aggiungere altro». Elia lasciò l'ufficio ancora più confuso di prima. Dopo aver detto messa
da solo nella cappella, andò in refettorio. Jakov gli portò la colazione. «Tu bene oggi?». «Partiremo dopo colazione». Jakov gli porse la mano ed Elia la strinse. «Arrivederci, padre. Grazie, tu prega per me. Io meglio. Penso mia famiglia in cielo». «Sono felice che tu stia meglio. Preghiamo tutti e due l'uno per l'altro». Il gigante mosse la testa su e giù, ma non fece alcun gesto di andarsene. «Jakov, sai che cosa è successo a padre Matteo?». «Ho sentito lui fatto male. Preso dolore su lui. Dottore venuto. Padre Matteo a letto». «Vorrei vederlo». «Nessuno può vederlo». «Perché no?». «Il padre guardiano dice no». «Dov'è la cella di padre Matteo?». «Lontana», disse il frate, guardandolo in modo curioso. «So che non puoi infrangere il voto di obbedienza, ma anch'io ho fatto voto di obbedienza. Il papa mi ha detto di vedere padre Matteo». «Questo è buono», disse Jakov a disagio. «Ti ricordi che cos'hai provato quando ti ho messo le mani sulla testa e abbiamo pregato?». «Non dimentico mai». «La mia anima ha bisogno di padre Matteo nello stesso modo. Ho bisogno delle sue mani sul mio capo». Jakov prese in considerazione questo sviluppo. «Santo Padre dice te?». «Credo che il Santo Padre lo desideri». «È difficoltà. Ho santa obbedienza. Tu hai santa obbedienza. Ma queste due sbattono». «Collidono solo se si scontrano direttamente. Se il mio voto di obbedienza aggira il tuo voto di obbedienza, allora non c'è nessuno scontro». «Ci penso su, padre». Andò via in direzione della cappella. Ritornò cinque minuti dopo e disse serio: «Porto te sua cella». Elia dovette trottare per stare al passo del giovane frate, che attraversò nervosamente un labirinto di corridoi e ali. Non incontrarono un'anima. Al-
la fine, si fermarono in un corridoio laterale vicino al retro del complesso. Odorava di vecchiaia e di abbandono. «Tu stai qui questa porta. Io vado. Niente scontro». «Niente scontro, Jakov. Grazie, e Dio ti benedica». «Perfetta letizia, padre!». Tamburellò delicatamente sulla porta. Dall'interno provenne una voce flebile, ed Elia entrò. Fu sconvolto da quello che vide. Era una cella minuscola contenente solo un portacatino, un inginocchiatoio, un armadio a muro nascosto, nel quale si trovava una statua della Beata Vergine, e un crocifisso. Dietro la porta c'era un letto da ospedale, dipinto di bianco, tutto scrostato. Sul letto giaceva un corpo con le braccia distese lungo i fianchi. Quando voltò la faccia verso di lui, Elia restò a bocca aperta. La faccia era coperta di macchie livide dalla fronte al mento. Anche le braccia, che spuntavano dalle maniche di una camicia da notte da ospedale, erano contuse. Le mani erano bendate sui palmi e macchie marroni trasparivano dalla stoffa. «Il mio angelo mi ha detto che Jakov l'avrebbe portata da me». «Padre Matteo! Che cosa le è successo?». «Non è niente, niente». «Non mi sembra che non sia niente». Avvicinò una sedia al letto. «È il solito. Avrei dovuto sapere che stava per arrivare». «Non capisco». «È un buon segno. Non sia così preoccupato, figlio mio». «Padre, le ripeto, che cosa le è successo? Ha avuto un incidente? È caduto?». «Sì. Sono caduto». «Avverto una riserva mentale dietro alla risposta. Me lo dica». «Non è necessario parlarne. Basta che Dio l'abbia portata qui». «Qualcuno le ha fatto del male?». «Qualcuno mi ha fatto del male. Ma ora è passato». «Chi è stato? Un pazzo? Il colpevole è stato punito?». «Il colpevole verrà punito l'Ultimo Giorno». Elia era seduto con lo sguardo fisso, il respiro pesante, fuori di sé. Guardò il volto del vecchio prete e vide anni e anni di sapienza. Guardò le mani antiche con le bende sanguinanti. Guardò i piedi. Anche loro erano bendati e macchiati.
Allora capì. «Perché non parla, figlio mio?». Elia non riusciva a rispondere. «Ha paura?». «Sì». «Ha paura per l'opera che il Signore l'ha incaricata di compiere?». «Sì». «Ha paura di venire ingannato?». «Sì». «Ha paura di venire indotto a servire il nemico?». «Sì». Il frate gli pose numerose domande del genere. Da questo Elia capì che aveva letto nella sua anima. «Non ha abbastanza forza per questa missione?», concluse il prete. «Non ho per niente forza. Roma ha fatto un errore. La missione ha bisogno di un santo». «Roma non ha fatto nessun errore». «Sono la debolezza in persona. Ho perso fiducia in me stesso. L'intenzione è quella di operare secondo le mie possibilità, ma non ho più la certezza di riuscirci. Proprio il contrario. Temo di fare ancora più danno». «Perché teme una cosa del genere?». «Non lo so». «È sacerdote da così tanti anni e non lo sa?». «Sinceramente, padre, non capisco che cosa stia succedendo alla mia anima in questi ultimi giorni. Mi sento meno preparato che mai». «È un bene che lei provi questa debolezza». «È necessario avere forza per svolgere questo incarico». «No. È necessaria la debolezza». «Che cosa vuol dire? Sono confuso». «Questo è quello che Francesco voleva mostrarle. La debolezza è la sua forza». Di nuovo, Elia non riuscì a rispondere. «Lei è un uomo che ha sopportato molte sofferenze. Sin dalla sua infanzia ha sofferto per mano di uomini malvagi. Nella mente ho l'immagine di un ragazzino vestito di nero. Sta danzando per Dio. È pieno di gioia. Il fuoco cerca di mangiarselo. Ma lui scappa e si salva. Poi corre per il mondo. Ma dimentica di danzare. Perde la gioia». «Lei ha descritto con precisione la mia infanzia e adolescenza».
«Poi deve affrontare un duro colpo. Ama una donna. È l'unico grande amore della sua vita. Per lui, lei è la vita stessa. Da tempo non crede più in Dio. Crede solo in questa donna. Lei è buona, ma la sua conoscenza della verità è limitata. Lo ama. C'è un bambino nel suo grembo, un bambino che hanno concepito insieme, marito e moglie». «Ora ha descritto l'inizio della mia età adulta». «La donna muore. Il bambino muore dentro di lei. Entrambi vengono portati in un luogo di gioia, ma il giovane marito e padre sente l'oscurità del mondo scendere nel profondo della sua anima. È arrabbiato con Dio. Pensa di odiare questo Dio, sostiene che non esiste. Si riempie la vita compiendo atti di coraggio. Sale al potere in una nazione in Oriente. Nel momento in cui gli viene offerta una strada verso il potere totale, gli viene inviato un messaggio». «Qual era il messaggio?». «Una parola d'amore proveniente dal suo passato. Una parola di amore sacrificale. È qualcosa di totalmente inatteso. Lo infastidisce. Scuote la fiducia che ha nel proprio giudizio. Lascia il cammino del potere. Vaga solo e senza meta. È una conchiglia vuota. Alla fine arriva al monte di Elia e lì desidera gettarsi dall'alto di un precipizio. In alto vede un edificio che assomiglia a una fortezza solitaria, l'ultimo rifugio in un mare di avversità senza senso. Per una qualche ragione si ricorda improvvisamente del ragazzino che era stato un tempo. Sente per un istante - oh, per un istante molto breve - uno scoppio di gioia. Si ricorda della danza di fronte al trono di Dio. Decide di concedere al Dio assente un'ultima possibilità. Bussa alla porta dell'edificio e trova un luogo dove gli uomini vivono in pace. Uomini di ogni genere, poveri, ricchi, coraggiosi, codardi, intelligenti, stupidi, santi, peccatori. Lavorano la terra e pregano. Seminano e raccolgono. Ascoltano la voce di Dio. Ascoltano nell'oscurità. Sono coloro che credono oltre ogni fede, quando non è più possibile credere. Lo invitano a entrare. Lui si ferma un giorno, due giorni, una settimana, un mese. Non vuole più gettarsi da un precipizio. Pone nuove domande. Impara che fino a quel momento aveva visto solo una parte della creazione. Per molti anni aveva fissato le tenebre e aveva perso la speranza nell'alba. Ora gli vengono mostrati barlumi dell'amore che è tutto l'amore. All'inizio non sono molto intensi. È troppo fragile. Tuttavia, lui accetta che ci sia molta, molta più esistenza di quella che si era immaginato. Ragiona, dubita, pensa e lotta con Dio».
«Padre, non dica altro. So che sta parlando di me». Il frate annuì ed Elia avvertì un'ondata d'amore provenire dall'uomo anziano. «Il ragazzino che danzava vestito di nero e con il cappello di pelliccia», continuò il frate, «è uno degli eletti da Dio. È un tizzone tolto dal fuoco. È un'anima che fin dai primi anni è stata affamata di Verità. A causa di questa fame, ha sopportato per Dio molte ferite e non lo sapeva». «Ora lo so». «Sopporterà ancora più ferite per Lui». «Non c'è forza dentro di me». «È come deve essere». «La notte scorsa ho avvertito un flusso di angoscia che non provavo da anni. Ho visto chiaramente tutto quello che avevo perso. La mia famiglia. Mia moglie, mia figlia. Mi sono sentito come se stessi cadendo in un pozzo di dolore senza fondo». «Sopra di noi c'è un oceano di gioia. Lo vedrà. Lei salirà e questo oceano di gioia scenderà per incontrarla. La donna vestita di sole non le ha parlato di questo? L'ho vista venire da lei in sogno». «Lo ha fatto», disse Elia stupefatto. «Perché ha paura? La donna l'accompagna. La missione della donna è identica alla sua, schiacciare la testa del serpente che striscia per il mondo. Lei è uno strumento per confondere il serpente che si prepara a prendere in trappola la Casa di Dio. Ma nessuno può resistergli senza assistenza divina. Il Signore ha dato alla donna un ruolo per gli ultimi giorni che nessun altro essere umano potrebbe svolgere, nemmeno il nostro santo papa. La donna sostiene il papa come sostiene lei, per la grazia che le è data dalle mani del Figlio. Intercederà per lei e la proteggerà. Anch'ella è una serva, ma la più grande dei servi, perché ha portato l'Agnello nel suo stesso grembo». «Il nemico ha ucciso l'Agnello». «Lei conosce il resto». «E l'Agnello ha vinto la morte». «Sì. Ma prima ha dovuto morire». «Perché ha dovuto morire? Perché è morta mia moglie? Perché lei è coperto di contusioni?». «Perché ci troviamo in una vera guerra». «Non è giusto!». «È sacerdote da tanti anni e dice così? Naturalmente non è giusto. La
croce non è giusta. Ma nostro Signore l'ha presa e l'ha trasformata nel grande segno che il diavolo odia più di tutti gli altri segni. Ogni volta che accettiamo di sopportare la croce e di essere inchiodati a essa, credendo contro ogni credere, quando è impossibile continuare a credere a causa del nostro dolore, questo è il momento in cui lo sconfiggiamo. Mediante il sangue dell'Agnello». «Che cosa sono queste contusioni?». «Non è necessario che lo sappia, fratello mio». «Penso che lei le abbia sopportate per me. Mi dica la verità». L'anziano frate sospirò. «Lei era esausto quando è arrivato qui. Il nemico la conosce e vede che lei si sta avvicinando, sebbene non afferri il piano di Cristo nella sua missione. Vede solo una minaccia ai suoi progetti, sebbene non immagini che cosa sia. Non impara mai». «Lei ha sopportato questi colpi al posto mio». «Ho domandato un favore al Signore. Gli ho chiesto che alcuni degli attacchi diretti a lei fossero deviati su di me». «Ma colpire lei nella carne! A quale scopo?». «Il nemico è infuriato. Cerca di fare paura. Vorrebbe farle paura. Di solito non gli è permesso spaventare le anime apparendo in forma concreta. La sua azione si svolge nel silenzio. È più efficace quando non viene visto. Di tanto in tanto, Dio permette che il diavolo usi armi grossolane, e quindi si rivela per quello che è. Afferra l'opportunità, anche se sa che perde terreno rivelandosi. Ma la sua malvagità è così grande che non sa resistere». «Le chiedo di pregare per me», disse Elia con voce rotta. «Ho paura». «Vede queste ferite? Queste contusioni?». «Sì». «Queste sono la mia gioia». «Il dolore è la sua gioia?». «Il dolore di per sé non è una gioia. È semplicemente dolore. Ma il significato del dolore, questo è gioia». Elia mise la testa sul letto di fianco alla mano del frate. «Le chiedo di pregare per me». Con molto sforzo padre Matteo si voltò di lato e mise la mano sul capo di Elia. Pregò ed Elia avvertì una corrente calda scorrere in lui. «Lei sta andando nella tana del leone», disse l'anziano. «Non deve avere paura. Sia in pace e abbia fiducia in Dio. Abbia fiducia nel Padre, in Gesù e nello Spirito Santo».
Rimasero in quella posizione senza muoversi per un po' di tempo. Poi padre Matteo indicò l'armadio a muro. «Mi prenda la reliquia. Là sopra, vicino alla Signora. È nel contenitore di latta». Trovò un reliquiario ai piedi della statua. Un contenitore rotondo liscio, delle dimensioni di un portapillole. «Me lo porti qui». Elia ubbidì. «Lo apra». Dentro c'era un frammento di legno marrone scuro. «È una reliquia della vera Croce. La do a lei. È sua ora». «È un dono troppo grande!». «Questo è vero», disse il frate con tristezza. «È un dono così grande che lo portiamo male. Anche così, lo porti, figlio mio». «Lo porterò vicino al cuore. La ringrazio, padre». «Sa che chi ci prende in giro dice che, se venissero raccolte, le ipotetiche reliquie della croce formerebbero dieci croci?». «L'ho sentito dire». «Lo sa che è una bugia? Se tutte le reliquie della vera croce venissero raccolte, non arriverebbero a formare una sola croce. Vede, chi ci denigra odia la croce. La croce è scandalosa per lui. Non può capirla. E così crede solamente che sia una superstizione di cattolici creduloni». «Chi sono i creduloni?». «Appunto. Ora, figlio mio, devo dirle che questa scheggia di legno è stata immersa nel sangue dell'Agnello. Lo so. Ho appoggiato questa reliquia su malati incurabili e sono stati guariti. I demoni strillano e fuggono quando la vedono». «Padre, perché questa reliquia della croce del Signore non l'ha protetta dal maligno?». «Di solito il maligno odia il segno della croce e soprattutto odia quei pezzetti che provengono dalla vera Croce. Ma non è un demonio comune, che si scaccia facilmente con una parola. Inoltre, il Signore mi ha concesso di provare alcuni dei colpi che sono caduti su di Lui». In quel momento la porta d'ingresso si aprì scricchiolando ed entrò un frate. Portava uno stetoscopio intorno al collo e un vassoio di medicine. Un'espressione di stupore gli attraversò la faccia. «Non è permesso», disse. «Deve riposare! Padre Matteo, il guardiano ha espressamente proibito...».
Padre Matteo fece il segno della croce sul capo di Elia ed osservò con un certo divertimento il modo in cui il giovane medico faceva uscire Elia dalla stanza senza troppe cerimonie. «Vada alla cattedrale di Orvieto!», aggiunse padre Matteo. «E mi scriva, figlio mio». 6 Napoli Bussò ripetutamente alla porta di Billy prima di sentire borbottare una replica. «Billy non felice. A Billy fa maledettamente male la testa. Billy non sentirsi bene. Billy si beve un litro di caffè, si sente meglio. Incontrerà il gentile padre al parcheggio verso le nove». Elia lasciò una lettera di congedo per padre Matteo. Ne lasciò un'altra per il gigante. Caro fratello Jakov, questo dono è stato intagliato da un membro della mia comunità. Me lo ha dato il giorno della mia ordinazione. È un arabo cristiano. Ha perso la sua famiglia nel bombardamento di un campo palestinese da parte dell'esercito israeliano. Coloro che hanno perso tutto sono compagni in spirito. Sopravvivere è una sofferenza che solo un altro sopravvissuto può comprendere. Anch'io ho perso la mia famiglia. Sono stati massacrati in Polonia durante la guerra. Nessuno si è salvato. Solo io. Sono un ebreo cristiano. Per tutta la vita mi sono chiesto: perché Dio ha salvato me e non loro? È la domanda più difficile di tutte. Ma Dio risponderà. Abbi fiducia in questo. Credo che il nostro dolore, unito al dolore di Gesù sulla Croce, possa aiutare a salvare delle anime. Prego per te. Ti chiedo di pregare per me. In Cristo, vero salvatore del mondo. Padre Elia Nella busta mise un crocifisso di legno. Sebbene non fosse un'opera d'arte, fra' Mulo lo aveva intagliato con amore. Era stato il primo dei confratelli di quella terra ad accettarlo. «Padre, vede questa croce che ho fatto per lei? Viene da un albero che
cresce a Betlemme. Ne ho tagliato un pezzo per me. Ooh, lei non crederebbe quanto ho dovuto pagare quel ricco mercante di olive che diceva di essere il proprietario dell'albero. Come si può possedere un albero del Signore, le chiedo? Questo albero è nato dalla semenza della semenza dell'albero che cresceva vicino alla stalla di Betlemme. Il Bambino Gesù ha benedetto questo albero la notte in cui è fuggito da Erode. È stato bagnato dal sangue dei bambini massacrati. È legno santo!». La fede del piccolo fratello, forte come un mulo, altrettanto imprevedibile, non andava disgiunta da certi ricami sulla dottrina. La mistica del crocifisso era solo una superstizione? Una pia finzione? O era uno stratagemma degli incolti, creato in secoli di sofferenza da persone semplici che non avevano altro modo di mantenere la speranza quando i soldati di Erode lasciavano i loro rifiuti insanguinati lungo la storia? Nonostante questo, l'intaglio era un'icona della redenzione, stava nel palmo della sua mano come un solido concentrato di milioni di parole, una summa dell'intero Vangelo. Questa immagine non sofisticata era il tesoro più grande sulla terra. La mise in una busta, su cui scrisse il nome del frate croato, e la lasciò sulla scrivania del portinaio. Billy arrivò al parcheggio con un aspetto orribile. «Buon giorno, monsignore». «Non chiamarmi così». «Sembri malato. Hai la febbre, brividi?». «Grappa», grugnì Billy. «Grappa?». «Questi miei amici! Mi hanno chiesto di riportarli a casa dopo che il bar di Frankie aveva chiuso. Hanno servito grappa fatta in casa. Come un idiota, l'ho bevuta». «E così ne paghi il prezzo oggi». «Non guardarmi con quel sorrisetto di compatimento. Se avessi un testone come questo, non lo troveresti tanto divertente». «Mi lasceresti guidare? La strada per Napoli è lunga». «Bene. Guida tu», mugolò tenendosi la testa. Elia portò la Jaguar con tutta calma fuori dalla città e si avviò verso sud. «Non ero ubriaco, capisci. Ne ho preso solo un bicchiere o due, ma scalciava come un rinoceronte». «Ti fa male la testa?». «Sì». «Che cosa è successo?».
«Mi sono messo a parlare con questa coppia da Frankie. Siamo andati subito d'accordo. La madre è un'inglese sposata con un italiano. Hanno una villa nei paraggi, in montagna. Siamo stati bene insieme, ma dovevano tornare dai loro piccoli. La babysitter doveva essere a casa per mezzanotte, o la carrozza sarebbe diventata una zucca». Elia corrugò la fronte. Non sempre capiva le battute di Billy. «Mi hanno chiesto di andare con loro alla villa per un cicchetto. Mentre la madre portava a casa la babysitter, il padre si mette a aprire una bottiglia di questa roba che sembra cherosene puro. "Ne prenda un goccio, monsignore", dice innocente come un agnello. Quel diavoletto!». «Che cos'è la grappa?». «È un liquore incredibile che solo quegli stramaledetti romani avrebbero potuto inventare. Quel giovanotto mi porta giù in cantina e mi mostra la sua distilleria privata. Lì sotto ha un pentolone di vino verde. Dal pentolone spuntano due cavi scoperti, i resti di una lampada elettrica. Li collega e dentro il vetro si scatenano le scintille. Il vapore comincia a salire verso l'alto, snodandosi attraverso un grappolo di tubi di rame e prima che te ne accorga, quel tipo raccoglie l'alcol distillato che gocciola fuori dall'altra estremità». «Incredibile». «Queste persone sono piene di risorse. Sembrava l'officina del dottor Frankenstein là sotto. Anche la roba aveva lo stesso sapore». «Forse ne hai sorseggiata più di quanta ne volessi bere?». «È molto generoso da parte tua. La risposta a quella domanda è sì». «Mi dispiace che non ti senta bene». «Mi sento propriamente castigato dalla mia testa. Ogni peccato ha le sue conseguenze, no?». Proseguirono senza più parlare, fino a quando Elia svoltò a destra verso Orvieto. «Dove stai andando? Napoli è dall'altra parte». «Padre Matteo mi ha suggerito di fare visita alla cattedrale di Orvieto». «Per quale motivo? C'è una dozzina di cattedrali sulla strada verso il sud, la maggior parte tanto imponenti quanto questa». «Hai mai visitato l'interno?». «No, ci sono solo passato davanti una volta o due. Ti ha spiegato perché devi venire qui?». «Vuole che veda qualcosa. Ma non ho avuto tempo di scoprire che cosa».
Arrivarono a Orvieto a metà mattinata. Spruzzate di pioggia avevano cominciato a segnare il selciato all'esterno della cattedrale. L'aria era più fresca rispetto al giorno prima, ma l'umidità era elevata, e si sentivano rombare i tuoni sopra la coltre grigia del cielo. Ci volle un momento perché i loro occhi si adattassero all'oscurità dell'interno. Profumava d'incenso e di cera d'api. L'abside riecheggiava debolmente di sussurri appena percettibili. Alcune donne anziane stavano pregando facendo le stazioni della Via Crucis. Elia e Billy si inginocchiarono in direzione del tabernacolo e poi si alzarono guardandosi intorno. L'interno era bello, ma non particolarmente diverso da quello delle numerose altre cattedrali che punteggiano l'Italia. «Bene, dov'è il grande segreto?». «È qui. Qualsiasi cosa sia, padre Matteo pensava che fosse importante per noi fare una deviazione per scoprirlo». Entrarono in una cappella laterale. Sulle pareti erano stati dipinti in colori vivaci quattro affreschi monumentali, che rappresentavano la fine del mondo, nello stile grandioso ed epico che doveva essere stato innovativo all'epoca della loro esecuzione. «Tra il 1499 e il 1500», disse Billy leggendo una targa di bronzo. «Questi affreschi sono di Luca Signorelli». «Chi era?». «Un discepolo del pittore Piero della Francesca. Michelangelo ammirava la sua opera». «Ha dipinto un'apocalisse». «E una allegramente sgradevole! Questo affresco qui rappresenta I dannati gettati all'inferno. Puah! Odio le folle. Quella massa non va certo a un incontro di calcio. Non baratterei la mia testa per l'immaginazione di quest'uomo, nemmeno per un milione di sterline. È orribile». «Sì. Penso che sia quello che voleva trasmetterci. L'orrore della dannazione». «Sembra che qui ci siano tutti i peccati mortali. Vediamo, sto cercando di trovare l'ubriachezza. Sono abbastanza sicuro, c'è, subito vicino alla lussuria. Fammi guardare la faccia dell'ubriaco. Lo sapevo! Lo sapevo! Mi assomiglia». Il tentativo di umorismo di Billy non attenuò la coltre di tragedia sospesa sulla scena. «Hanno un aspetto troppo dannatamente umano per i miei gusti. E anche
i diavoli». Elia andò verso un altro affresco. I suoi occhi furono catturati dalla figura centrale dell'immagine, una figura di Cristo. "Che strano", pensò, "vedere una rappresentazione del Signore con la figura di Satana che gli sussurra all'orecchio. È la mano di Cristo o quella del diavolo che emerge dalle pieghe dell'abito?". Non era una rappresentazione pittorica letterale di una scena scritturistica, concluse; forse poteva essere una libera esecuzione della tentazione nel deserto. Ma c'era qualcosa fuori posto nel modo in cui Cristo si piegava all'abbraccio di Satana e lo ascoltava con attenzione. Lo fissò a lungo. All'improvviso, il significato dell'affresco gli divenne chiaro, come una scena vista attraverso lenti che occorre ruotare per mettere a fuoco. Le forme sfuocate della realtà convergevano in un panorama netto, penetrante, di disastro morale. La figura trattenuta dall'abbraccio del diavolo non era Cristo, ma l'Anticristo. Elia capì perché padre Matteo aveva voluto che lui lo vedesse. Ora sapeva perché il vecchio frate non gli aveva detto la ragione della sua richiesta. Voleva che Elia scoprisse da solo il segreto dell'affresco e voleva anche che, in questo processo, osservasse i meccanismi della percezione. «Cosa stai fissando?», disse Billy. «L'Anticristo». «Ma non è l'Anticristo. È il Signore». «Guarda bene. Prega mentre guardi». Billy obbedì e pochi attimi dopo sussultò. «Riesco a capire quello che intendi». «Il dipinto sembra agire a diversi livelli», disse Elia. «In superficie, narra un racconto drammatico. A un altro livello, è una lettura morale del peccato e del tradimento. A un altro livello ancora, l'artista sta raggiungendo gli organi più profondi della percezione nell'anima. L'artista vuole che ascoltiamo un grido senza suono, un allarme, un avvertimento». «Potrebbe essere un po' tirato. Quei pittori del XV secolo erano teologi così sofisticati?». «Alcuni di loro lo erano. Alcuni erano addirittura dei mistici. In quei giorni, il mondo civilizzato era cristiano. La vita era breve, l'eternità era distante solo un soffio. La salvezza e la dannazione impregnavano l'atmosfera normale della vita. Persino così, il pittore si sentiva obbligato a trasmettere un ammonimento urgentissimo. Penso volesse dire quanto siamo
vulnerabili al potere dei sensi se possiamo essere ingannati con pochi colpi di pennello dall'arte, che per sua natura è un mezzo illusorio. Un Anticristo in carne e ossa non potrebbe creare ancora più efficacemente l'apparenza del bene, mentre nasconde il suo legame con il male?». «Teoricamente. Ma deve essere proprio un illusionista». «L'Anticristo assomiglia alla nostra immagine tradizionale di Cristo. Che cosa succederebbe se imitasse anche Cristo nelle sue azioni pubbliche?». «Va bene, è possibile. Ma non riesco a immaginarmi un uomo così malvagio capace di ingannare il mondo a lungo». «E se il mondo volesse essere ingannato?». «Avresti ancora centinaia di milioni di credenti che vegliano. Lo noterebbero». «Lo credi davvero? Al momento siamo nel mezzo di una massiccia apostasia. Nella storia della Chiesa non c'è mai stata una mancanza di fede così diffusa. Fra pochi anni ci sarà ancora fede sulla terra?». «Sei piuttosto pessimista oggi, Davy». «La Scrittura dice che finché i giorni non si saranno accorciati, anche gli eletti saranno ingannati». «Bene, suppongo che l'occhio possa essere ingannato, ma che mi dici della mente? Ogni cristiano con un minimo di sale in zucca ti potrebbe dire se il tuo ipotetico Anticristo sta predicando una dottrina falsa. No?». «Ma se per una generazione o due prima della sua comparsa la formazione dei cattolici fosse sprofondata nel caos? E se si formasse una generazione di persone incolte dal punto di vista religioso, incapaci di distinguere fra la verità religiosa e il sentimento religioso?». «Ok. Potrebbe succedere. E capisco il tuo punto di vista così netto. Tu pensi che siamo noi quella generazione». «Sì. Ma c'è un altro messaggio importante in questo capolavoro». «Aspetta un attimo! L'anima possiede delle facoltà. Riesce a riconoscere cose che l'occhio e la mente non possono vedere, non pensi? Voglio dire, se anche l'Anticristo all'apparenza fosse capace di ingannare i nostri occhi, e riuscisse pure a farlo con le nostre menti attraverso menzogne plausibili, non ci sarebbe qualcosa nel nostro intimo che sarebbe a disagio? Un debole campanello d'allarme che suona e suona, fino a quando non rispondiamo?». «Sono d'accordo. Ma tu sai bene come me che questo sistema d'allarme può essere disattivato. Il peccato lo può coprire strato su strato, fino a
quando alla fine non sentiamo niente. Ci dimentichiamo che sia mai esistito». Billy sospirò pesantemente. «Ho bisogno di una tazza di caffè», dichiarò solennemente. Uscì, lasciando solo Elia con l'affresco. *** Con Billy al volante, la Jaguar filava a 120 chilometri all'ora sull'autostrada fra Roma e Napoli. Elia cercava di non badare al tachimetro. Si sprofondò nel breviario e pregò l'ufficio. Quando ebbe finito, chiuse il libro. «A Napoli in mezz'ora», disse Billy con finta allegria. Proseguirono senza scambiarsi altre parole. Quando superarono Capua, Billy disse: «Qualcosa non va». «Alla macchina?». «No. Al monsignore». «Che cosa c'è che non va, Billy?». «Qui c'è qualcosa fuori posto, Davy. Non ero io ad Assisi. No, non sono stato preciso. Quello che voglio dire è che ero il mio vecchio io. Il mio vecchio io cattivo». «Ho capito che stavi combattendo con qualcosa». «Non ero il mio vero io. Mi spaventa». «È stato un momento di tentazione?». «Sì. Ma differente dalla solita roba. Di solito, è come una partita a tennis. Ho-hum. Oggi ho scacciato dieci stimoli a mangiare troppo, cinque inviti a pensieri impuri e un impulso a spettegolare di un nemico. Ieri, oggi, domani, la solita storia. Alcuni giorni vanno meglio di altri, ma lavoro duro per essere fedele. Lo faccio davvero». «Sei un buon prete, Billy. Lo so». «Il Santo Padre è un buon prete. Stato, Dottrina, loro sono buoni preti. Tu sei un buon prete. Ma so quello che sono io». «Ti senti depresso?». «Sì, dannazione, sono depresso. Ma questo non è il problema. Sono un uomo di mezza età grasso e viziato, che non è cresciuto. Cerco di essere buono. Per lo più sono buono. Ma non sono della stessa stoffa di cui sono fatti i martiri». «Nessuno lo è».
«Non me lo dire. Sono un debole». «Dimmi perché ti senti debole». «Sono venuto ad Assisi determinato a fare penitenza, a pregare per ore ogni giorno, a starti vicino, a incoraggiarti. Mi sono detto: Davy si è caricato di un grosso peso sulle spalle e ha bisogno di un amico che lo aiuti a portarlo quando diventa pesante. È tempo di rigare diritto, Billy, mi sono detto. Sai quanto è durato?». «Quanto?». «Il tempo di imbattermi in un paio di tizi e di pensare a un drink. Prima sono stato da Frankie, lo sai. C'è un bel clima. Gente in gamba. Non ci si va per fare peccato. Ci si va per uno scotch con ghiaccio e per la compagnia di cattolici cordiali. Tutto con moderazione, naturalmente. Assisi è territorio santo. Sai cosa voglio dire? Ci si va per fare una bella conversazione stimolante con americani ricchi e devoti, scambiarsi delle storie, sapere le ultime sulle apparizioni e le Chiese locali - sempre un sacco di cattive notizie in quel settore -, sai cosa voglio dire? Non stavo cercando compagnia femminile o una sbronza o di far finta di non essere un prete. Volevo un po' di divertimento cattolico. Volevo musica e volevo spanciarmi dalle risate». «Che cosa c'è di male?». «Niente, in effetti. Sono un grande fan di Chesterton, lo sai. Una volta ha detto di essere diventato cattolico perché è l'unica religione che non vede nessuna contraddizione fra una pinta, una pipa e una croce». Elia sorrise. «Era una battuta, ma conteneva una parte di verità. Il vecchio G.K. sapeva quando digiunare e quando tracannare una bella birra. È questione di tempestività. Sta tutto nella tempestività». «C'è Natale e c'è la Quaresima». «Colpito! E ciò che mi turba di questi ultimi giorni è che dentro di me qualcosa diceva: dannazione, voglio che sia Natale e non mi importa se è Quaresima». «È il Tempo Ordinario». «Ascolta, sono serio su questo punto. Lo so che è il Tempo Ordinario. Sto parlando metaforicamente. Siamo venuti ad Assisi per un ritiro, no? Una mini Quaresima. Ci siamo andati per temprarci, perché si sta preparando qualcosa di terribilmente serio. Ma quando siamo saliti su per la montagna e abbiamo parlato dello spirito di san Francesco e di tutto il resto - non so perché, ma mi ha dato fastidio. Una cosa davvero strana, per-
ché amo san Francesco». «Eri affaticato quanto lo ero io». «Lo so, lo so. E ultimamente sono stato sottoposto a forti pressioni. L'ufficio è soffocato dalle carte; siamo a corto di personale; il servizio diplomatico è uno stramaledetto campo minato. Ma era qualcosa di più dello stress». «Presumo che fosse una qualche forma di tentazione». «Sì, proprio così. Quando sono saltato giù dalla macchina, tutto quello che volevo era andare da Frankie, rilassarmi, be-bop sulla pista da ballo, tenere banco con i turisti pieni di ammirazione fino alle ore piccole. Volevo farli morire dal ridere. Ci sono riuscito. Non ho commesso nessuno singolo peccato da confessare, tecnicamente parlando. Ma il succo è che non sono stato molto presente. Non c'ero per te, Davy. E mi sento terribilmente male per questo». «Dio deve averlo permesso per un motivo». «Quale motivo?». «C'erano delle cose che dovevo imparare su di me che non sarebbero state possibili con te presente». «Grazie mille!». «Voglio dire, se alla mia destra ci fosse stato il ridente uomo con la spada, avrei potuto essere indotto a fidarmi in modo sbagliato». «Uhm, ora ha un senso». «Così, lo vedi, penso che tu sia un po' troppo duro con te stesso». «Sbagliato. È tempo che cominci a essere duro con me stesso. Per tutta la vita non ho fatto altro che essere gentile con me. Da quando sono diventato credente, la gentilezza ha preso una forma legittima, ma continua a coccolarmi. Niente più adulterio, niente più ubriacature, niente sogni a occhi aperti di appropriarmi della Banca d'Inghilterra. Ma cerca di negarmi una terza porzione di lasagne e una vecchia bottiglia impolverata di rosso secco». Elia ridacchiò. «Va' avanti, continua a ridere. Ridi quanto vuoi. Ma io devo vivere dentro questo carattere debole, questo corpo così visibilmente tondo, così eminentemente inguardabile. È mio, tutto mio. Sono io, e non mi piace». «Billy, Billy», disse Elia, «non riesci a convincermi di essere una tale canaglia. Ho incontrato assassini che hanno commesso stragi». «Davvero?», disse Billy. «E chi?». «Ho parlato con Adolf Eichmann in alcune occasioni».
«Stai dicendo sul serio?». «Sono serio. Lascia che ti racconti di lui. Era un uomo disciplinato. Non beveva né mangiava smodatamente. Era intelligente, parlava a bassa voce, era modesto e, alcuni dicono, affascinante. Amava Mozart e le rose. Ha progettato la morte di milioni di persone. Aveva carattere». «Allora, quello che vuoi dire è che quel carattere può servire a fare del bene o a fare il male. Giusto?». «La maggior parte delle qualità umane può essere usata male». «Cosa mi manca? Non ho le qualità per fare altrimenti». Elia lo guardò, rimase sovrappensiero per un momento e poi disse con una punta di severità: «Questo non è vero». Billy tenne la bocca chiusa per parecchi minuti. Quando alla fine parlò, aveva gli occhi pieni di lacrime: «Odio essere un uomo grasso e debole». «Siamo tutti deboli. Io sono debole in modo diverso dal tuo. Tu sei debole in modo diverso dal mio. Sono spine nella carne che ci impediscono di diventare boriosi». «Avevi bisogno di un santo in questo viaggio», disse Billy amaramente. «Ho con me un amico. Tu sei stato scelto. Pensi che Roma abbia fatto un errore di giudizio?». «Roma ha fatto un grande errore». «Roma non ha fatto nessun errore». Billy scosse la testa. Aveva un aspetto avvilito. «Non l'hai ancora capito. Ma tu sei sicuramente un messaggero di Dio. Hai detto molte cose che Dio mi ha rivelato durante questa settimana». «Che bello. Suppongo di essere qui per ricordarti che cosa non essere. Sì, loro sapevano che sarei stato istruttivo in qualche modo». «Hai capito male». «Spiegami». «Vuoi essere un santo, Billy. Ma tu vuoi essere un santo alle tue condizioni. Vuoi vincere usando la spada e ottenendo la fama; soprattutto, vuoi vincere le tue debolezze e imperfezioni personali». «Che c'è di sbagliato?». «È un desiderio giusto, ma può essere anche una forma di idealismo che maschera l'orgoglio». «È troppo complicato per me». «Chi è il santo? Quello che obbedisce a Dio nella debolezza o quello che pretende di possedere tutte le migliori qualità prima di continuare nella ricerca?».
«Il primo, è ovvio». «Mi hai accusato di romanticismo alcuni giorni fa. Ma non siamo tutti romantici, quando vogliamo che la nostra armatura brilli e che le nostre spade luccichino e che la nostra bella figura attiri sguardi di ammirazione allorché combattiamo la battaglia per Dio?». «Sai essere davvero sgradevole, vecchio mio». «Quello che dico è vero. Lo so che è vero perché sto descrivendo me stesso». «Oh», disse Billy a voce bassa. «Quindi, fra i molti meravigliosi doni che possiedi c'è il senso dell'umorismo. Mi fai ridere. Sono una persona seria, come forse hai notato». «L'ho notato. Non sei davvero un tipo buffo, Davy». «Lo vedi, non puoi farne a meno. Devi sempre dire cose divertenti. Questo è un dono del Signore. Risolleva il cuore». «Ero abituato a far ridere anche il primate cardinale d'Inghilterra. Ero il buffone di corte. Era dispiaciuto di perdermi per il Vaticano, ma sapeva che avevano bisogno di una bella risata là alla Segreteria di Stato». «Non devi svilirti. Il cardinale segretario ti ha scelto per la tua intelligenza e onestà. Sa che ami Cristo e la sua Chiesa. Ha fiducia in te. Pensi che chiunque si fidi di un buffone?». «Forse hai ragione», disse Billy pensieroso. «Penso che tu sia stato esposto a più di un genere di tentazione la scorsa settimana. Prima di tutto, hai permesso a te stesso di sottrarti alla preghiera. Non sei stato distratto da cose malvagie, perché il nemico sa che sei stato convertito. Ti ha distratto con piaceri legittimi». «Legittimi, ma inopportuni e smodati». «Giusto. Questa è stata una debolezza, semplice debolezza umana». «Lo puoi ben dire. Avrei dovuto saperlo». «Amico mio, avremmo dovuto vederlo arrivare, ma non lo abbiamo fatto. E allora abbiamo perso una scaramuccia di poco conto. Ma abbiamo imparato una lezione importante. E appena in tempo, perché la battaglia principale si trova di fronte a noi». «Ben detto. Quali sono allora le mie altre tentazioni?». «La seconda tentazione è di una natura più maligna. La tentazione di odiare te stesso, perché non vivi all'altezza dei tuoi ideali. Questo si chiama orgoglio ed è molto pericoloso. Apre la porta a cose ben peggiori». «Va bene, mi pento di tutto e mi cospargo il capo di cenere. Che cosa suggerisci come penitenza?».
«Suggerisco di fermarci al ristorante qui di fronte. Consumeremo ciascuno una sola porzione di lasagne e una sola birra». «Una pura e semplice tortura. Ma me la merito». Quando si sedettero al tavolo, Elia si fregò gli occhi e sbadigliò. «Sei stanco, vero?», disse Billy. «È stata una lunga notte». «Tentazioni?». «Sì, del mio genere». «Di quale genere?». «Il passato. Vecchi lamenti». «Parlami di loro». «Mi farebbe piacere parlartene un giorno. Ma ora sono troppo vicini alla superficie e questo non è il posto adatto». «Il seguito alla prossima puntata?». «Il seguito alla prossima puntata». La finestra vicino al loro tavolo si affacciava sul golfo di Salerno. Il mare era nero e mosso, il cielo si stava abbassando alla svelta. «Quanto manca al porticciolo turistico? Facciamo in tempo per la barca del presidente?». «Abbiamo un sacco di tempo. Ci siamo quasi. Abbiamo superato Napoli mentre mi stavi facendo la terapia». «Non me ne sono accorto». «Non ti sei accorto di Napoli! Sei davvero stanco». «Come si chiama questa città?». «Salerno. Il porticciolo privato del grand'uomo è proprio dietro quella curva. Ci aspettano al molo alle sette. Di solito la traversata dura meno di un'ora, ma dall'aspetto dell'acqua potrebbe volerci di più. Probabilmente non andremo da nessuna parte questa sera». Cenarono conversando del più e del meno. Alle sei e mezza il mare stava crescendo e la pioggia scendeva a catinelle. Era ovvio che la traversata sarebbe stata impossibile. Billy usò il telefono pubblico del ristorante per chiamare Capri. «Ho beccato il segretario addetto agli appuntamenti. Dice che la barca è troppo piccola per rischiare. Vuole che ci fermiamo qui stanotte e vedere com'è l'acqua domani mattina». «C'è un hotel economico nelle vicinanze?». «Tutti quelli che vuoi. Ma ha detto che dovremmo fermarci nella rimessa per le barche. Un posto di proprietà del presidente, a circa cinque minuti
da qui. Mi ha dato le indicazioni: si trova in una strada laterale oltre il porticciolo. Non c'è nessuno, tranne alcuni dipendenti. Telefonerà per avvertire, così ci aspetteranno». La Jaguar si mosse lentamente nell'acquazzone fino a quando le luci anteriori non si imbatterono nel cartello di un cancello su cui si poteva leggere: "Vietato l'ingresso! Proprietà del Centro Mondiale Commerciale". Con loro sorpresa, quando si avvicinarono il cancello elettronico si aprì automaticamente. Lo passarono e si avviarono su per la collina in un vialetto segnato da pini scossi dal vento e da luci nascoste. La casa si trovava in cima ad una terrazza ricoperta d'erba. Era più ampia di quanto si fossero aspettati, ultramoderna, fatta per lo più di pietra e vetro, disegnata secondo linee prese in prestito dall'architetto americano Frank Lloyd Wright. L'esterno era illuminato da riflettori nascosti. «Da' un'occhiata alla rimessa per le barche», sibilò Billy. La porta principale si aprì quando stavano per fermarsi, e un uomo emerse sulla veranda coperta. Era magro, coi capelli argentati, e li salutò con un'eleganza rilassata. «Signor Stangsby? Signor Schäfer? Li prego, entrino. Il tempo è terribile!». «E lei è...?». «Sono Roberto, l'addetto all'accoglienza degli ospiti. Il presidente mi ha chiesto di porgere le sue scuse per l'inconveniente. Spera di incontrarLi domani a Capri». «Grazie mille». «So che hanno mangiato», disse Roberto, «ma posso portare una tazza di caffè nel salone? Abbiamo anche del tè inglese. Cognac? Un bicchiere di latte?». «Per me niente, grazie», disse Elia. «Ma sono costernato!», disse Roberto in un tono di finta disapprovazione. «Mi dispiace, abbiamo avuto una giornata lunga», spiegò Billy. «Ci ritireremo presto, se non le dispiace». «Ma naturalmente, Mostrerò le Loro camere e poi, se lo desiderano, potranno scegliere tra svaghi diversi. Ci sono una piscina e una sauna, se i signori gradiscono. Un idromassaggio? No? I film del festival di Cannes in videocassette?». «Niente, grazie». «Il mio capo sarà deluso di me. La mia fama di intrattenitore di ospiti sta
declinando. No, non riesco a convincerLi? Bene, va bene così», concluse con un sorriso accattivante. «Senta, Roberto», disse Billy, stringendogli il braccio e usando un tono di voce che Elia riconobbe come romanità. «Non me lo perdonerei se perdesse il lavoro. Perché non mi porta del cognac e un dolce, se ne avesse?». «Abbiamo dolci, abbiamo biscotti, abbiamo cioccolato...». «Fantastico. Di tutto un po', Roberto. Comunque, solo uno spuntino di mezzanotte, per fare in modo che il nostro stomaco non brontoli in modo spiacevole. Eccolo qui». Il maggiordomo uscì e tornò poco dopo con aria molto compiaciuta portando un vassoio coperto. Li condusse seguendo una scala circolare all'ala delle stanze da letto che si apriva su un salotto privato affacciato sul mare. Si poteva sentire, attraverso le spesse vetrate alte da terra al soffitto, il fragore del vento fra i pini. Un fuoco ardeva nel camino di ogni camera da letto. «È magnifico, Roberto. Spererei di subire inconvenienti del genere alquanto spesso!». «Signor Stangsby, da come Lei parla mi sta prendendo in giro, no?». «Giusto. Là da dove vengo io, ci prendiamo davvero gioco delle persone. È una pessima abitudine». Il maggiordomo rise in modo schietto. «Questa è la Sua camera. E il signor Schäfer dorme dall'altra parte della hall, qui. Il mio capo mi rimprovererebbe se pensasse che ho omesso di invitarvi ad ammirare la sua collezione d'arte. Ci sono numerose opere importanti sparse per la casa. Li prego, facciano come se fossero a casa loro; girino a piacere. Mia moglie ed io siamo l'unico personale qui e io andrò via fra poco. Abitiamo oltre il giardino, in quel cottage. Chiamino sul telefono interno, se hanno bisogno di qualcosa. Auguro una serata riposante. Ritornerò domani mattina. Mia moglie verrà a preparare la colazione». «Grazie mille», disse Billy, dandogli la mano. «Lei è stato meraviglioso. Metterò una buona parola per Lei a Capri». Roberto rise di nuovo. «Gli inglesi! Sempre a scherzare... Buona notte, signori. Li prego, facciano come se fossero a casa loro. A domani!». Gli augurarono la buona notte e lui andò via. «Caspita, Davy, una casa tutta per noi». «Non sei abituato ai grandi edifici, Billy?». «Il Vaticano è più piccolo di quanto pensi, soprattutto quando sei un ve-
terano. La familiarità genera la noncuranza e tutto il resto. Oh, questo mi piace. Prima scelta». «Prima scelta». «Pensi che il suo capo passi qui molto tempo?». «Temo di no. Per quanto sia bello, sembra alquanto sterile, come se nessuno ci vivesse davvero. Questa è una casa di passaggio fra Capri e Bruxelles». «Se questa è la rimessa delle barche, aspetto di vedere la barca!». «Ti senti a disagio?». «No». «Io sì». «Hai un'idea del perché?». «In effetti no. Una sensazione». «Quel tipo, Roberto, sembrava alquanto amichevole. Più un domestico affezionato che un dipendente. Presumo che quando vivi a questo livello persino i domestici ispirino soggezione». «Io non avrei scelto quella parola». «Tu sei stanco e questo condiziona quello che provi. Hai bisogno di una bella dormita, ragazzo». «Sediamoci a parlare. All'improvviso mi sento molto solo. C'è uno strano freddo in questo edificio». «Ma è piuttosto comodo. Un posto delizioso. Chiunque lo abbia disegnato ha un gusto eccellente. Guarda, un Picasso giovanile su quella parete, e qui un Modigliani! Un bronzo di Giacometti vicino al camino. Scommetto che se controlliamo le camere da letto, scopriremo che qualcuno ci ha messo della roba religiosa apposta per noi». «Guarda qui, alla fine del corridoio, quella statua di marmo. È un pezzo d'arte religiosa? Penso che sia un San Sebastiano». «Chiunque sia, è tutto conficcato di frecce come un puntaspilli. Ora, dimmi la verità. Quello sguardo sulla faccia del ragazzo è di agonia per la morte, o un orgasmo?». «I gusti del collezionista sono eclettici», disse Elia guardando con discrezione qua e là. «Davy! Togli gli occhi da quella Afrodite!». La sua mente era diventata vulnerabile al potere delle immagini. Il convento lo aveva rinvigorito per determinate battaglie, ma aveva abbassato le sue difese per altre, soprattutto quelle visive. Il monachesimo era fondato sull'assunto di ritrarsi per sempre nel silenzio di Dio. Le mura del monaste-
ro erano disegnate per proteggere l'occhio e il cuore, per chiudere alcune delle molte porte attraverso cui giunge la tentazione. Non si guardava indietro. Non c'era la televisione al Carmelo, e i giornali che ricevevano contenevano poche fotografie. Le donne diventavano un'immagine mentale. «Le Afroditi inquietano in un certo senso», spiegò a Billy, «ma non rappresentano una minaccia seria». «Sei fatto di materiale più duro del mio? Guarda a destra, amico. Ignora semplicemente quelle signore senza vestiti addosso». «È quello che sto facendo». «Il nostro ospite invisibile deve essere proprio un bel tipo. Cosa ci dice di lui questo gusto squisito?». «Non ne sono sicuro. In superficie, è un bel posto. Non si può aspirare a un ambiente più confortevole, più accogliente. Ma mi sento abbastanza strano. Che cosa è capitato in queste stanze, mi domando». «Se ti fa sentire meglio, preghiamo per ottenere protezione spirituale». Billy estrasse una stola color porpora dalla tasca della giacca, la srotolò e se la mise intorno al collo. Elia fece lo stesso, lentamente, come se stesse combattendo contro un'irrefrenabile riluttanza. I due preti alzarono le braccia in gesto di supplica, invocarono la benedizione di Cristo e la protezione dei suoi santi angeli, e pregarono le parole dell'esorcismo contro lo spirito opprimente di quella casa. «Ecco, ti senti meglio?». «Sì». «Sono solo le otto. Vogliamo vedere un film? Quelli del festival di Cannes di quest'anno? Guarda le dimensioni di quel televisore». «Preferirei chiacchierare con te, Billy, mi sento...». «Non di nuovo! Che cosa ti senti?». «Come se ci trovassimo sull'orlo di una scogliera». «Bene, noi ci troviamo sull'orlo di una scogliera. L'architetto ha disegnato questa casa proprio così. E se il Vesuvio - che si nasconde solo a poche miglia laggiù - decide di esplodere questa notte, noi scivoleremo dentro il Mar Tirreno. Ci troviamo in terribile pericolo proprio in questo momento. Spero che ti consoli». Elia sorrise. «Forse hai ragione. Sono sovraffaticato e l'immaginazione galoppa». «Hai bisogno di un po' di divertimento. Scommetto che un frate come te non ha molto divertimento nella sua vita, no?».
«Billy, sei irrefrenabile. La maggior parte delle cose che per te è divertimento non lo è per me. Tuttavia, ho un'idea». «Va' avanti, sorprendimi». «Propongo di metterci il pigiama e la vestaglia e che ciascuno di noi racconti una storia all'altro». «È una proposta fantastica», gridò Billy, battendo le mani. «Oh caro, vorrei aver portato Andy con me. Gli sarebbe piaciuto! Beh, non importa. Glielo posso raccontare quando torno a casa». Billy si mise a letto nella sua suite, sdraiato su una montagna di cuscini, sorseggiando cognac e mangiucchiando torta alla frutta. Elia entrò indossando una vecchia vestaglia. Si sedette su una sedia ai piedi del letto. Il camino alla sua destra gettava nella stanza una luce soffusa. Billy aveva l'aria di uno che in ogni momento potesse estrarre da sotto le coperte un orsetto panda. Chiese: «Hai trovato un Rembrandt nella tua stanza?». «Solo un panorama di Watteau. E tu?». «Una cosa terribilmente all'avanguardia, di un romeno. Surrealista. Guarda». «Da qui sembra una Madonna con Bambino. Perché dici che è surrealista?». «Guarda meglio». Elia si avvicinò al quadro, si fermò e fece tre passi indietro. «Vedi che cosa ha combinato? Diabolico, no?». «Ha composto il ritratto di Nostra Signora e di Gesù Bambino con le miniature di ogni singolo peccato conosciuto dall'uomo. Davvero diabolico». «Il prodotto di uno squinternato. Ora, fai un paio di passi indietro e osservalo a distanza». Elia seguì le indicazioni di Billy. Guardò l'immagine, e l'ira gli attraversò il volto. «Lo vedi?». «Lo vedo. Ha prodotto di nuovo un'illusione ottica. Qui si raggiunge un terzo livello dell'immagine, usando l'ombra e la luce. Ora è la faccia di un enorme demone che spalanca le fauci per inghiottire Gesù Bambino e sua Madre». «Chiunque abbia dipinto questa cosa, non è una persona carina, te lo dico io», ribatté Billy. Elia tolse il quadro dalla parete e lasciò la stanza.
«Dove sei andato? Che cosa hai fatto?», disse Billy quando Elia tornò. «Ho trovato uno sgabuzzino giù nella hall. Può stare lì per la notte». Elia si sedette sulla sedia vicina al fuoco a fissare le fiamme. «Avanti Davy, raccontami una storia». «Dammi un attimo per raccogliermi». «Non dirmi che il quadro ti ha turbato. È solo vernice su tela». «È un'affermazione. Porta un messaggio dal regno delle tenebre». «Su su. Ti sta tornando l'umore che avevi quando siamo arrivati qui. Caccialo via!». Elia tolse lo sguardo dal fuoco. Si strofinò la faccia. «Forse hai ragione». «I tuoi nervi sono davvero al limite, vecchio mio. Perché non mi racconti una storia? Poi ci sentiremo meglio tutti e due». «Hai ragione, Billy». «Su, tirala fuori. E falla diventare una favola. Una favola polacca!». «In effetti ho una storia che sembra una favola. Me la raccontò un amico molti anni fa. Prometti di non spaventarti?». «Lo prometto». «Prometti di non interrompermi?». «Ci proverò». «Parla di un drago, un principe e una principessa». «Che bellezza! Finisce bene?». «Bene per gli uomini. Non così bene per il drago». «Proprio come dovrebbe essere. Comincia». E quindi Elia diede inizio alla storia che Pawel Tarnowski gli aveva raccontato alla vigilia di un inverno terribilmente freddo nel 1943, quando tutti e due stavano morendo di fame. «C'era un ragazzo», disse Elia, «che era il principe di un regno sulle montagne. Suo padre il re se n'era andato quando il ragazzo era piccolo e sapeva appena camminare, perché la regina era morta e il re non sopportava di entrare nella casa del suo primo e unico amore». «Continua, continua», lo incitava Billy a voce bassa. Aveva gli occhi spalancati e le ginocchia rannicchiate sotto le coperte. Elia si schiarì la gola e continuò il racconto del principe, che aveva perso il suo cuore, e dell'allodola zabawa, che glielo aveva restituito, e del drago smok, che il principe aveva ucciso al castello delle terre morte. Quando ebbe finito, Elia si mise a fissare il fuoco e si ricordò di Varsavia. Vide il volto di Pawel scosso dalla febbre. Vide la pietra posta sul cuo-
re di Pawel. «È proprio una bella favola», disse Billy. «Ora raccontami la tua». «Bene, ora che tocca a me, non mi viene in mente nessuna storia. Solo la testa piena di pettegolezzi e di materia da esame di letteratura inglese». «Non ci credo. Inventane una». Billy sembrava sinceramente imbarazzato. «Non penso di riuscirci. Non ci ho mai provato». «Ma mi hai detto che avevi una storia». «Io? No». «La settimana scorsa hai detto che volevi raccontarmi una storia con un autostoppista». «Oh, quella non è una vera e propria storia, credimi». «Basterà». «Non è inventata. È successa davvero». «Tanto meglio. Ora comincia!». «Prometti di non spaventarti?». «Lo prometto». «Prometti di non interrompermi?». «Ci proverò». «No, non te la racconto. Non mi crederesti mai». «Lo farò. Prometto che lo farò. Se assicuri che è una storia vera, ti crederò». Capì che Billy non stava scherzando. «È vera», disse a bassa voce. «È successa a me e ti giuro che è successa esattamente nel modo in cui te la racconterò». «Vai avanti». «Otto mesi fa stavo andando a nord sulla M40 in direzione di Birmingham. Volevo andare a trovare alcune persone che conosco e che sono fedeli al magistero cattolico. Dirigono un istituto di catechesi che diffonde gli insegnamenti della Chiesa. Pubblicano un sacco di roba ortodossa, soprattutto per ragazzi. Stavo pregando il rosario mentre il tachimetro segnava 140, quando ho sentito una voce. Ero da solo in macchina. La radio era spenta. E allora da dove veniva la voce? E chi lo sa? Non guardarmi con quell'aria preoccupata. Non sono il tipo che sente le voci, se capisci che cosa intendo». «Non sono preoccupato». «Anche mia cugina Vinnie sente le voci, ma è al reparto psichiatrico a
Netherne. Ora, tu e io sappiamo che non sono uno pazzo o un mistico, e non chiedermi di spiegarti quello che ti racconterò. Sto solo dicendo che ho sentito una voce». «Con le tue orecchie?». «Questa è la parte difficile da descrivere. C'era qualcosa o qualcuno che mi stava parlando. Ma non era proprio dall'esterno. Non erano onde sonore che colpivano la membrana del timpano. L'ho sentita dentro di me, ma veniva da fuori». «Che cosa ha detto la voce?». «Ha detto - tu riderai, lo so che riderai - ha detto che dovevo fermarmi e far salire il primo autostoppista che vedessi sulla strada. All'inizio l'ho scrollata via. Per nessun motivo, mi sono detto. È pazzesco. Non ho mai caricato autostoppisti. Non solo di questi tempi è pericoloso, ma io quasi sempre vado troppo veloce. L'ho messo in conto alla mia immaginazione. Allora ho continuato a dire le mie preghiere da quel bravo ragazzo che sono e la voce è saltata fuori una seconda volta. "Ti devi fermare e prendere a bordo il prossimo autostoppista", ha detto. Stavo cominciando a diventare nervoso, a domandarmi che cosa avessi mangiato per colazione, a chiedermi se mi fossi divertito abbastanza di recente, la solita lista di controllo di una neurosi. Poi la voce si è fatta sentire una terza volta, proprio mentre stavo per iniziare una salita, e in cima, mezzo miglio più avanti, c'era un tipo con il pollice di fuori. Allora mi sono detto: "Va bene", ma ho protestato forte contro quella voce! Mi sono accostato al bordo della strada e un tipo dall'aspetto gentile è saltato su. Non c'era niente di insolito in lui, a parte che aveva davvero una faccia per bene. Abbiamo chiacchierato per circa trenta secondi e stavo andando di nuovo a 140 quando si è voltato verso di me e mi ha detto: "La prima tromba ha suonato". Oh-oh, mi sono detto, ho preso su un balordo. Ho lasciato l'acceleratore e mi sono messo a cercare un'uscita dall'autostrada che avesse una stazione di polizia. Ero sceso a 80 chilometri all'ora, quando mi ha detto di nuovo: "La prima tromba ha suonato". "Ma di che razza di tromba si tratta? Sei un musicista, per caso?", ho detto io. Mi ha ripetuto per la terza volta: "La prima tromba ha suonato". "Chi sei?", gli ho chiesto.
"Mi chiamo Gabriele", ha risposto lui. A questo punto avevo davvero paura. Stavo fissando il manto stradale di fronte a me, e continuavamo ad andare a 80. Allora mi è venuto in mente che mi stesse prendendo in giro. Doveva essere così». La voce di Billy tremava, mentre guardava Elia direttamente negli occhi. «Che cosa c'è, Billy? Che cos'è successo?». «Ho guardato il posto del passeggero e lui non c'era». «Non c'era?». «C'era e non c'era». «Stai dicendo sul serio?». «Non potrei essere più serio». «Forse egli era il prodotto di una meditazione spirituale nella tua mente?». «Non era così. Era reale. Avresti potuto allungarti e toccargli un braccio. La sua giacca frusciava. Potevi sentirlo respirare. La sua voce ha colpito la membrana del mio orecchio in un modo diverso dalla voce precedente. Era concreta». «Che cosa hai fatto dopo?». «Ero così scosso che le mie mani non riuscivano a controllare molto bene il volante. Ho rallentato la macchina e l'ho accostata al bordo della strada. Sono rimasto seduto lì. Non riuscivo a pensare. Non riuscivo a fare niente. Sono rimasto seduto passando e ripassando la scena nella mia testa. Le mani non smettevano di tremare. Poi un agente è arrivato da dietro e si è avvicinato al mio finestrino. "Ha dei problemi, signore?". "No", ho detto io. Ma conosci gli sbirri. Sanno leggere nel pensiero. Ha detto. "È sicuro, signore? Mi pare che lei abbia un sacco di problemi". "Signor agente", ho detto io, "se glielo dicessi, non mi crederebbe". "Perché non ci prova?", ha detto lui. Così gli ho raccontato quello che era successo». «Che cosa ha detto?». «Si è limitato a tirare indietro il berretto e a grattarsi la testa. Allora ha detto: "Signore, se me lo avesse raccontato ieri, avrei pensato che lei fosse matto da legare, ma è la quarta persona che mi racconta questa storia stamattina"». «Incredibile». «Credimi, Davy. Non ho inventato niente».
«Ti credo». «Non ho nemmeno esagerato». «Ti credo. A quante persone lo hai detto?». «Ma credi che voglia perdere la mia credibilità? Pensaci, nella mia posizione». «Lo hai detto a qualcuno?». «L'ho raccontato a Stato. Gli sono venuti gli occhi di falco. Me l'ha tirata fuori. Mi crede. Penso che l'abbia raccontata al Santo Padre, ma che cosa ne abbia fatto non riesco nemmeno a immaginarlo». «È molto significativa». «Davvero? Perché?». «La mia vita di recente sembra perseguitata dal libro dell'Apocalisse. La tua esperienza concorda con alcune cose che stanno succedendo». «Me le puoi raccontare?». «Te le racconterò domani mattina. Se cominciamo a parlare di questo tema, non finiamo più. Tutti e due abbiamo bisogno di una bella dormita, se vogliamo mettere la testa nella tana del leone domani. D'accordo?». «D'accordo. Dio ti benedica, Davy». «Dio ti benedica, Billy». «Buona notte». 7 Isola di Capri Elia si girò e rigirò in un sonno irregolare per parecchie ore. Di tanto in tanto sentiva borbottii e lamenti dalla camera di Billy. Era chiaro che il monsignore stava sognando. Nel mezzo della notte i lamenti divennero urla e poi, all'improvviso, un forte grido di aiuto. «Oh, Signore! Il mio intestino!». Elia entrò nell'altra camera e trovò Billy seduto sul letto con uno sguardo di terrore in volto. Si stava tenendo il ventre e si dondolava avanti e indietro. Contorcendosi e agonizzando, si gettava contro i cuscini, si rotolava e poi cercava di uscire dal letto. «Presto! Il bagno!», disse Billy e corse dentro. Ne uscì barcollando circa venti minuti più tardi. «C'è qualcosa che proprio non va. Ho avuto conati di vomito su conati di vomito e non mi fermo anche se ho lo stomaco vuoto. Anche brutti attacchi di diarrea. È qualcosa di più di una indigestione. Non ho mai avuto
crampi come questi in vita mia». Cominciò a gemere di nuovo, e dagli occhi gli scendevano lacrime di dolore. «Sembra qualcosa di serio», disse Elia. «Ti porto all'ospedale». Chiamò Roberto con il telefono interno e gli chiese le indicazioni per l'ospedale più vicino. Quindici minuti più tardi entrarono barcollando nel pronto soccorso di Salerno. Billy continuava ad avere conati di vomito. In un italiano con forti inflessioni straniere Billy descrisse i suoi sintomi a un medico di guardia. Il giovane dottore chiese che cosa avessero mangiato la sera prima e quando entrambi replicarono contemporaneamente lasagne, chiese se Billy avesse mangiato qualcosa di diverso da Elia. «Dolce di frutta e cognac», disse Billy facendo la faccia da clown. Il dottore non sembrava divertito. «Lei non è in stato di shock», disse con aria severa, «quindi non c'è pericolo immediato di morte». «Grazie per il conforto», disse Billy in inglese. «È possibile che lei abbia mangiato qualcosa che ha provocato una neurotossina. Ha mangiato piselli in scatola ieri?». Billy scosse la testa. «Pesce, pollo, maionese?». «No. No. No». «Lei ha preso qualcosa. Potrebbe avere uno stafilococco o la salmonella - i soliti avvelenamenti alimentari. Voglio tenerla qui fino a domani. Potrebbe essere qualcosa di peggio. La terremo d'occhio e le faremo alcuni controlli». «Le sue maniere al letto del paziente lasciano un po' a desiderare», disse Billy. «Ma è un tipo in gamba e vuole solo che me la cavi». Cercò di assumere un'espressione ironica, ma uno spasmo di dolore gli attraversò la faccia. Chiese indicazioni per la toilette più vicina e vi si precipitò. Il dottore si voltò verso Elia e disse: «Sarà disidratato. Gli farò un'endovena e lo metterò sotto osservazione». «Ha idea di quale sia la causa?». «Non lo so. Il cognac non lo farebbe e non penso che la colpa sia del dolce». «Allora che cosa avrebbe potuto provocargli tutto questo?». «È un mistero. La vita è piena di misteri». «È possibile che stia meglio per domani mattina? Abbiamo un appunta-
mento importante fra poche ore». «Sarebbe imprudente da parte sua andare via così presto. Sebbene i sintomi non rappresentino un pericolo di vita, sono seri. La salmonella può durare parecchi giorni ed è debilitante. Non vorrei dimetterlo dopo poche ore, soprattutto se è disidratato». Billy uscì barcollando dal bagno. Un'infermiera lo fece sedere su una sedia a rotelle. Elia gli camminava accanto mentre andavano in corsia. Dopo che il paziente fu messo a letto, rimasero da soli. Elia disse: «Tu rimani qui per alcuni giorni. Verrò a trovarti quando torno da Capri questa sera». «Dannazione! È ridicolo. Non puoi andare da solo». «Posso». «A Mordor senza Billy? Pensaci su due volte, ragazzo!». «Non voglio andare da solo, amico mio. Mi dispiace terribilmente. Ma Cristo sarà con me». «Avrai bisogno anche di una legione di angeli con te, per non parlare di un'armatura di amianto». «Devi pregare per me». «Pregherò per te, ma non mi piace. Penso che dovresti aspettare». «Potrebbe non esserci un'altra opportunità. Questo è il momento che la Divina Provvidenza ha fissato». «Forse. Ma penso che ci sia qualcosa di marcio in tutto questo, se mi perdoni il gioco di parole con la salmonella. Forse il nemico vuole che tu vada da solo nella tana del leone». «Non sarò da solo». «Questo è molto edificante da parte tua. Come posso competere con questo!». Il dolore ricominciò, seguito da altri conati di vomito. Non discussero più dell'argomento. Un'infermiera arrivò con fialette e provette. Nel braccio di Billy venne infilato un ago da endovena. Si voltò mentre l'infermiera lo infilava. «Non mi martirizzi. Billy odiare dolore». «Presto si sentirà meglio», disse l'infermiera. «Sei riuscito a dormire un po'?», chiese Billy con sguardo severo. «Quasi per niente». «Me l'ero immaginato. Hai l'aspetto di come mi sento io. Perché non ritorni alla rimessa per le barche e cerchi di prendere sonno per poche ore? Sono le cinque adesso. Puoi dormire tranquillamente tre ore prima che ti
vengano a prendere al porticciolo. Queste tre ore potrebbero cambiare il futuro del mondo. Oh, oh, oh. Billy male! Billy vuole andare casa!». «Non ti posso lasciare in questo stato». «Certo che sì. Ho un grado superiore al tuo. Sono un monsignore e tu sei un umile frate. La santa obbedienza, ricordi? Via vermiciattolo!». Elia ubbidì ma, tornato alla rimessa delle barche, non dormì. Rimase a letto fissando il soffitto, fino a quando all'alba gli uccelli cominciarono il loro coro. Si alzò e pregò l'ufficio del mattino, ma si sentiva arido. La preghiera della fede senza consolazione spirituale. Si meravigliò. Il Signore desiderava che andasse nella tana del leone con una sensazione di vuoto e forse turbato nella fiducia? O forse voleva che avanzasse basandosi sulla fede più assoluta, consapevole solo della propria debolezza? «Mio Salvatore», sussurrò, «Gesù, vero Signore del mondo, non chiedo la forza umana. Ma chiedo la grazia di parlare con lui solo con le parole che Tu desideri siano pronunciate. Dammi un cuore retto. Rivestimi di verità. Armami di fede. Proteggi la mia anima dai principati e le potestà che governano quell'uomo, persino quelli che gli sono sconosciuti. Concedimi la spada dello Spirito, che le parole della mia bocca possano muovere i pensieri del suo cuore, che questo tuo avversario non cammini più con il Nemico, ma sia riportato alla virtù. Per la gloria dell'Agnello!». Lo riempì la quiete. La pace dei poveri. La consolazione dei prescelti. Si inginocchiò ai piedi del letto e tenne in mano il frammento di legno, come se fosse la prima e ultima àncora in un cosmo che girava freneticamente su se stesso. In quella posizione, immobile, attese l'alba. Alle prime luci, chiamò l'ospedale. Il dottore di guardia al mattino lo informò che le condizioni di Billy erano stabili e che il paziente stava dormendo. Rimaneva un certo rischio ancora, disse, ma non era in condizioni critiche. Non si trattava che di aspettare. Suggerì che Elia richiamasse alla sera. Il paziente allora avrebbe potuto ricevere visite. Chiese al dottore di dire a Billy che sarebbe andato a Capri e, a meno che non capitasse qualcosa di imprevisto, sarebbe ritornato sulla terraferma nel tardo pomeriggio. Sarebbe venuto in ospedale per sera. La moglie di Roberto gli preparò una colazione abbondante. Nonostante le proteste della donna, si rifiutò di mangiare nella sala da pranzo principale, ma preferì un angolino della cucina. Mentre gli stava versando dell'altro caffè nella tazza, la donna esprimeva la sua solidarietà al «povero signor Stangsby». Si batteva il petto e diceva a voce alta di sperare che non fosse colpa del dolce alla frutta. Chiese dove avessero cenato la sera prima e, al-
la sua risposta, alzò le mani e disse: «Ecco! Quei ristorantini, non stanno dietro alle pentole! L'anno scorso sono morti due turisti per i molluschi! E ora questo!». «Abbiamo mangiato tutti e due dallo stesso piatto», disse Elia. «Lasagne». Scrollò le spalle. «Forse Lei ha lo stomaco più forte». «Se qualcuno ha lo stomaco forte, questo è il signor Stangsby». «E allora?», scrollò di nuovo le spalle, sospirando e mormorando rivolta alle pentole. Roberto mise dentro la testa e annunciò che era atteso al porticciolo entro un'ora. Il segretario addetto agli appuntamenti aveva telefonato da Capri per dire che il presidente sperava di incontrarlo tra le nove e le dieci. Elia guidò la Jaguar giù per il vialetto battuto dal vento verso la strada principale, seguendo Roberto, che manovrava una Land Rover gialla come se fosse al Gran premio. Cinque minuti dopo, arrivarono ad una stradina privata che portava al lungomare. Lì vide un cabinato solitario che saliva e scendeva nelle onde oltre il molo. Roberto curvò, suonò il clacson e rombò giù per la stradina. L'equipaggio della barca attraversò il parcheggio mentre Elia chiudeva la macchina. Il capitano, un uomo anziano con i capelli tinti di rosso lo salutò cortesemente, ma in modo impersonale, e gli presentò il secondo, un uomo sulla trentina, che aveva l'aspetto di uno che sarebbe stato più a suo agio in un'impresa a conduzione familiare in Sicilia. «Mio genero», spiegò il capitano. Nessuno dei due uomini lo guardò per più di un secondo. I loro sguardi tornarono alla barca e immediatamente si misero all'opera per la partenza. Elia salì a bordo, il motore rombò e in pochi secondi la barca stava sfiorando le acque azzurre del golfo. Correndo lungo la penisola di Sorrento, si diressero a sorprendente velocità verso ovest. Elia sedeva a poppa, all'aria aperta, gustando l'eccitazione provocata dal vento e dagli spruzzi. Il cabinato voltò leggermente a destra, entrando nel golfo di Napoli. Dal mare di fronte a loro sorgeva una scogliera massiccia. Il capitano si avvicinò e gliela indicò. «L'isola di Capri», gli gridò nelle orecchie. «Presto arriveremo al porticciolo. Lassù in cima, quello è il Monte Tiberio. L'edificio bianco è la villa del presidente. Vicino c'è la villa di Tiberio, Villa Jovis. Il vecchio imperatore era solito gettare giù le persone dalla scogliera, se lo facevano arrabbiare».
Il capitano scoppiò a ridere, tornò alla cabina del pilota e si tolse il berretto. L'uomo più giovane era fermo accanto a lui e fissava Elia inespressivo. Poco dopo, la barca scivolò lungo la banchina. Il genero saltò giù, attraccò la barca e fece scendere Elia. «Lei venga da questa parte». Lo portò alla spiaggia e attraverso un cancello ad una piattaforma di calcestruzzo, dove si trovava un lungo e lucente elicottero rosso che stava scaldando i motori. Il genero aprì la porta dal lato del passeggero e fece un cenno al pilota. Elia salì e allacciò la cintura di sicurezza. Cominciarono a ronzare sempre più velocemente. Il velivolo si alzò in direzione perpendicolare, uniforme come un ascensore, inclinandosi senza oscillare, e volò in direzione della cima del Monte Tiberio. Dopo un minuto, Elia si trovava su una piattaforma di atterraggio bianca, così luminosa che dovette coprirsi gli occhi per il riflesso. Sentì l'elicottero alzarsi di nuovo, lasciandolo lì a sbattere gli occhi, abbagliato e disorientato. «Professor Schäfer, benvenuto», disse una voce incorporea. Una mano gli strinse la sua, lo prese per il gomito e lo guidò fuori dalla piattaforma verso un edificio che assomigliava alla rimessa per le barche di Salerno. La voce associata alla mano si presentò come il segretario addetto agli appuntamenti e si materializzò come un uomo sulla sessantina. Era vestito in modo sofisticato, ma confortevole, quasi fosse il dirigente di una multinazionale. L'espressione, come quella di Roberto, era posata, cordiale, pronta al sorriso e straordinariamente gentile. «La prego di entrare nella reception, signore», disse. «Fa molto meno caldo lì. Si può rinfrescare e faremo in modo che qualcuno Le porti del tè. Ho saputo che Lei preferisce il tè al caffè. Sì? E lo prende con il limone, senza zucchero, credo». «Esatto», disse Elia. «Come fa a saperlo?». Il segretario sorrise con aria d'intesa e lo condusse lungo un corridoio a vetri verso una stanza semicircolare ritmata da finestre, che si affacciavano a nord sul golfo di Napoli e a est sul golfo di Salerno. La parete posteriore era rivestita di legno di palissandro. Molto sotto, i motoscafi lasciavano tracce bianche, muovendosi sul mare a passo di lumaca. «Il presidente non è libero fino alle 9.30, quando sarà molto lieto di riceverLa nello studiolo, la biblioteca privata della residenza. Ha un'eccellente raccolta di documenti antichi. Scoprirà che alcuni sono esemplari unici. Il codice Cordova, per esempio, è l'unica copia esistente di un mano-
scritto di Aristotele a lungo considerato perduto nel grande incendio di Alessandria. Dato che anche Lei è un archeologo, sono sicuro che comprenderà il significato di questa scoperta». «È una notizia sbalorditiva. Quali dei libri perduti sono stati ritrovati?». «Lascerò che il presidente risponda alla domanda. L'archeologia è una delle sue grandi passioni e uno dei suoi massimi piaceri è condividere personalmente le scoperte rese possibili dalla sua fondazione per gli studi sull'antichità». «Molto bene», disse Elia. «La prego di mettersi a Suo agio, fino al mio ritorno. Poi andremo direttamente alla residenza». Fu lasciato da solo a meditare sul mare, a camminare avanti e indietro su un tappeto color ametista pallido (si era momentaneamente tolto le scarpe) e tra i mobili scandinavi. Il tavolino da caffè di mogano lo invitò ad osservare il riflesso del proprio volto. Roselline selvatiche sfioravano il vetro della finestra. Le rondini saettavano in cielo. Un cavallo bronzeo dai riflessi blu implorava la mano di accarezzargli la schiena curva. Elia lo fece. Sorseggiava il tè e si deliziava della stanza. Ogni tanto avvertiva una fitta al cuore quando richiamava alla mente chi fosse l'uomo con cui stava per parlare. In potenza, l'avversario più abile che la Chiesa avesse mai fronteggiato. Aveva una sensazione di lieve paura mista a curiosità e persino - con sua sorpresa - ad attesa. Quando riconobbe questo impulso, immediatamente raccolse i propri pensieri e iniziò a pregare. Si meravigliò di sé. Con che facilità si era dimenticato di pregare! Che cos'era successo al suo senso di vigilanza? Era stato anestetizzato dall'accumulo di fatica, dalla preoccupazione per la salute di Billy e dal piacere che proveniva dall'ambiente che lo circondava? Si rimproverò. La vigilanza raccolse le forze dentro di lui. Lo spirito della preghiera respinse una sensazione di ombre nascoste. Rimase in questo stato per alcuni minuti, prima che il segretario entrasse a grandi passi nella stanza e gli annunciasse: «È disponibile. La prego di venire, professor Schäfer». Fu condotto per un sentiero rialzato con copertura di vetro che si snodava attraverso rocce e giardini ornamentali verso un edificio più ampio, disegnato per corrispondere al padiglione dei visitatori. Passarono per due punti di controllo della sicurezza ed entrarono in un ingresso che si apriva in un soggiorno a volta. La stanza era quasi circolare, e quasi 300 gradi delle pareti erano finestre che andavano dal pavimento al soffitto. L'aria
era fredda, profumata di gelsomino. Elia non ebbe tempo di contemplare l'opera d'arte, perché il segretario si voltò e fece alcuni passi indietro, stendendo un braccio e guidandolo verso un'altra dépendance, sorridendo tutto il tempo. Entrò in una stanza di grandi dimensioni e annunciò: «Elia Schäfer, signore». Un uomo alto, dai capelli argentati, si alzò da una sedia a braccioli e gli venne incontro porgendogli la mano. Indossava un cardigan bianco sopra una polo turchese, pantaloni sportivi grigi e scarpe Oxford bordeaux. Era bello, aveva una bella espressione, seria e gentile; irradiava franchezza. La sua presa era calorosa e salda. «Padre Schäfer, è un grandissimo piacere». La voce era profonda, modulata e con un pizzico di maturità che denota dignità piuttosto che declino. «Signor presidente, Le porto i saluti di Sua Santità e i migliori auguri per la Sua salute». «La prego di trasmettere i miei ringraziamenti a Sua Santità, e in cambio i miei auguri per la sua salute». «Mi ha chiesto di trasmetterLe la sua personale gratitudine per gli sforzi da Lei fatti per la causa della pace del mondo e per assicurarLe le sue preghiere». «Questo è molto gentile. La prego di trasmettere a Sua Santità la mia gratitudine e stima». Tolse gli occhiali da lettura, fissò Elia negli occhi e sorrise. «Ora che abbiamo completato le formalità, perché non ci rilassiamo?». Prese Elia per un braccio e lo condusse ad una spaziosa poltrona di pelle rivolta verso il mare. Il presidente si sedette di fronte a lui, accavallò le gambe e ispezionò l'abbigliamento di Elia. «Noto che non ha viaggiato in abiti clericali». «Su richiesta della Santa Sede. La Santa Sede gradirebbe che lo stile del nostro incontro fosse informale e discreto». «Ah, sì», disse il presidente. «Conosco abbastanza bene il vostro cardinale segretario di Stato, anche se solo per fama. Da quanto capisco, è un giudice sagace delle implicazioni politiche di ogni iniziativa». «Sono sicuro che sia fra coloro che plaudono ai Suoi sforzi per la causa della pace fra le nazioni. Ma malauguratamente nel mondo odierno c'è troppa confusione. La Chiesa è molto antica. Ha visto civiltà sorgere e declinare. Deve esercitare la cautela». «È comprensibile che sia così. Anche noi dobbiamo esercitare la cautela verso i governi e i movimenti. Non tutti gli uomini di questo mondo sono
impegnati per gli ideali per cui lottiamo entrambi». «Sono felice che Lei non se ne abbia a male per il nostro approccio». «Ci troviamo nelle fasi preliminari della discussione, che spero si trasformerà in amicizia fra il nostro parlamento e la Santa Sede. La vostra cautela non fa che aumentare il mio rispetto per il papa e la Chiesa». Il segretario entrò in quel momento, prevenendo una replica. Chiese di parlare in privato con il presidente. Questi si scusò e lasciò la stanza. Durante la sua assenza, Elia poté notare che le pareti erano ricoperte di migliaia di libri. Bacheche incorporate mostravano monete antiche, anfore, terrecotte e bronzi romani. Il presidente ritornò. «Vedo che sta ammirando la mia collezione. Questi manufatti sono stati rinvenuti durante la ricostruzione di Villa Jovis. Risalgono alla fine del I secolo, quasi certamente al periodo in cui Tiberio reggeva l'impero proprio da qui». «Questo luogo riecheggia di storia». «È vero. Di una sovrabbondanza di storia persino imbarazzante». «Se ricordo con esattezza quello che ho imparato a scuola, non era considerato uno dei tiranni più sanguinari di Roma?». «Si tratta di un mito che è cresciuto intorno al suo ricordo. Studi recenti indicano che potrebbe essere stato diffamato dalla Chiesa antica, impegnata a mettere la religione contro lo Stato. Negli ultimi sessant'anni è stato giudicato più equamente. L'opinione prevalente fra gli studiosi è che Tiberio fosse un governante fedele ai suoi doveri, prudente, giusto e riservato. Sapeva che non lasciò Capri negli ultimi dieci anni di vita?». «Riesco a capire perché. È una bella isola». «Quello, e il fatto che Roma era una fogna pullulante di intrighi». «Questa casa e questi giardini devono procurarLe grande piacere». «Sono un'isola di pace in un mare di problemi. Il mondo non è cambiato molto dall'epoca di Tiberio». «Sono d'accordo, signore. La natura umana cambia ben poco di epoca in epoca». «Questo avviene perché l'uomo non ha la capacità di rimuovere le cause della sua ansia. Guerra, avidità, timore, odio - non nascono forse dalle disuguaglianze della vita? Come fa un uomo a essere in pace, se riesce a stento a cibare se stesso, mentre il suo vicino vive come...». «Come un imperatore romano». «Esattamente», disse il presidente. Si guardò intorno nella stanza. «Tutti
dovrebbero poter vivere in questo modo. E un giorno ci riusciranno. Nel frattempo alcuni avranno il privilegio di sviluppare il progetto. Noi tracciamo la strada. Un paradigma, un modello di uomo della nuova epoca». «Signore, non mi pare che l'uomo stia entrando in una nuova epoca. I crimini di questo secolo sono senza precedenti. A meno che non ci sia un cambiamento nel cuore di molte nazioni, ci possiamo aspettare crimini ancora più orribili». «È giusto. A meno che non ci sia un cambiamento nel cuore. Ma noi stiamo lavorando per lo sviluppo di questa consapevolezza. Ci stiamo avvicinando a un punto omega nella storia. Durante questo periodo, tutto quello che nella natura umana è deformato minaccia di esplodere e di trascinare la civiltà nell'abisso. Questa minaccia nasce proprio nel momento in cui tutto quello che c'è di positivo nell'uomo sta per fare un grande passo in avanti. Non si può permettere che gli istinti atavici nell'uomo fermino questa svolta verso lo stadio successivo dell'evoluzione». Il segretario entrò nella stanza portando una cassetta avvolta in pelle verde. La mise sul tavolino da caffè di fronte al presidente. Il presidente l'aprì e ne tolse un orcio color ocra a bocca larga. «La prego, padre Schäfer. Ho un dono da inviare a Sua Santità. Lo accetterebbe a nome suo?». «Ne sarei onorato, signore». «Venga, lo guardi. È un tesoro di inestimabile valore. Consegno questo patrimonio unico della comunità umana alla custodia della Chiesa». Estrasse dall'orcio un rotolo di pergamena. «È il dialogo perduto di Aristotele Sulla giustizia». Il cuore di Elia cominciò a battere più forte. «Signor presidente, questo è un reperto straordinario». «Spero che la Chiesa accetterà questo dono come segno della nostra buona volontà». «Nel nome della Chiesa, La ringrazio, signore. So che diventerà uno dei principali tesori della Biblioteca Vaticana». «È un documento senza prezzo dal punto di vista culturale. Ma il suo valore accademico è ancora più grande, una chiave di volta nella storia del pensiero umano. A lungo si è ritenuto che questo libro andato perso fosse un'opera simile alla Repubblica di Platone. Anche la Repubblica parla di giustizia e, in effetti, il suo titolo alternativo è Sulla giustizia». «Lei intende dire che questo documento potrebbe essere uno dei grandi libri del pensiero occidentale - ma rimasto sconosciuto?».
«Presto sarà conosciuto. È tutto quello che possiamo sperare, e ancora di più. Per certi aspetti, supera Platone per lo splendore delle sue visioni». «È una cosa importantissima. Come La possiamo ringraziare?». «Non c'è bisogno di ringraziamenti. È un pegno della mia dedizione ai nostri valori comuni». I due uomini si sedettero uno di fronte all'altro come prima. «Posso chiederLe come è stato scoperto?». «Forse Lei è a conoscenza che sono un amante delle antichità, solo un dilettante. La mia Fondazione per lo Sviluppo dell'Archeologia da tempo si è accorta che molti dei libri più importanti andati perduti sono rimasti nascosti in depositi non controllati di documenti antichi, custoditi da ignoranti, sconosciuti a tutti, eccetto che a bibliofili gelosi impregnati di filosofie antiquate. La mia teoria era che, rintracciando le orme storiche lasciate da civiltà in declino, avremmo potuto restringere le probabilità. Prenda questo codice, per esempio. Sapevo che Cordova nel XII secolo era la sede principale della cultura araba e che quella cultura includeva lo studio dei trattati aristotelici, e soprattutto delle opere che riguardavano la psicologia, la fisica e la metafisica. Inoltre, ho scoperto che la tradizione di Aristotele era sopravvissuta in Siria, e ho supposto che gli arabi fossero entrati in possesso del testo quando conquistarono la Siria nel VII secolo. Questo si basava su una congettura importante: che i libri perduti non fossero bruciati nel grande incendio, ma che fossero stati salvati a quell'epoca o in un periodo precedente. La loro successiva eclissi era dovuta alla necessità di nasconderli ai fondamentalisti, sia islamici sia cristiani. Successivamente mi sono reso conto che i grandi commentatori di Aristotele, soprattutto Ibn Rushd, conosciuto come Averroè, che è morto nella Spagna araba nel 1198, possedevano una conoscenza del loro maestro che l'Occidente latino non aveva. La loro esegesi sicuramente deve essere derivata dalle versioni arabe dei libri di Aristotele, che a loro volta provenivano dalle versioni siriache dei testi originali. Il resto è stato un semplice lavoro da detective. Ho trovato un deposito di codici nascosto nella cripta sigillata di un monastero ora abbandonato, che un tempo era una moschea moresca. È chiaro che i monaci, non gli arabi, hanno nascosto queste opere preziose alle autorità della Chiesa, perché l'interpretazione del pensiero di Aristotele avanzata dagli averroisti era considerata una forma pericolosa di corruzione. Fra questi codici si trovava il libro ritenuto perduto, in aggiunta a un numero di opere precedentemente sconosciute di filosofi antichi. A quanto pare, gli arabi avevano portato i libri perduti nei deserti montuosi
della Spagna, in un'arca della cultura. Per qualche ragione sepolta nei segreti della storia, la raccolta è caduta nelle mani dei monaci cristiani, che a loro volta hanno fatto in modo che la conoscenza di questo tesoro sfuggisse alla memoria dell'umanità». «Signor presidente, nei miei studi limitati su Aristotele ho appreso che le opere conosciute in Occidente sono arrivate attraverso Costantinopoli». «È esatto», disse il presidente, inclinando il capo pensieroso. «Ma la traduzione che proviene dal greco attraverso gli studiosi occidentali ha assunto un'interpretazione eminentemente latina. Come minimo, hanno alterato l'intento di Aristotele. Le scoperte effettuate nella Spagna moresca, credo, forniranno un sano contrappeso all'eccessivo razionalismo dell'Occidente. Questi nuovi libri respirano con l'anima dell'Oriente mistico, ma attraverso una mente che trascende sia l'Occidente, sia l'Oriente. Questa scoperta sarà una pietra miliare nella storia delle idee». «La sua importanza è tale che non sarà mai apprezzata come merita. So che il Vaticano sarà profondamente toccato dalla Sua generosità». «Allora ne sono contento». «Signore», disse Elia aprendo la sua valigetta, «anch'io porto un regalo. Sua Santità è a conoscenza del Suo amore per la storia e l'archeologia. Mi ha chiesto di presentarLe la relazione della Pontificia Commissione per l'Archeologia Biblica sui ritrovamenti a Efeso e nelle nuove grotte vicine al Mar Morto». «Ah, certo. Ho letto delle ultime scoperte. Ho letto anche i Suoi articoli sull'argomento. Molto interessanti». Il presidente prese il rapporto, ne sfogliò le pagine e lo ripose con cura sul tavolo accanto a sé. «Padre Schäfer, deve ringraziare personalmente Sua Santità da parte mia e dirgli che apprezzo questo gesto di cortesia. Lo interpreto come un primo passo verso un dialogo aperto». «Sua Santità desidera ardentemente questo dialogo. Inoltre, Le estende l'invito più caloroso ad andarlo a trovare al più presto, nel momento più opportuno per entrambi. Le chiede di fagli sapere il luogo più adeguato per questo incontro. Suggerisce come prima scelta la Città del Vaticano o la sua residenza estiva, Castelgandolfo». Gli occhi del presidente si rabbuiarono, e guardò fuori dalla finestra. Sembrò per un attimo perso nei propri pensieri, poi inspirò profondamente e si sedette più diritto in poltrona. «È un invito molto gradito. Sicuramente il dialogo deve continuare. Tut-
tavia, sono sicuro che Sua Santità comprenda gli immensi carichi di responsabilità che sto sopportando al momento. Il Parlamento Europeo è nel caos, l'economia del mondo è destabilizzata alle sue radici. Le Nazioni Unite mi hanno chiesto di negoziare fra fazioni in conflitto per vari motivi. Solo questa mattina, per esempio, i giapponesi hanno richiesto che faccia da mediatore nella loro guerra commerciale con gli americani. A questo livello è difficile organizzare anche solo una mezza giornata durante la quale mi possa occupare dei miei interessi personali. Credo che questo sia quello che Sua Santità stia proponendo: una visita personale, non di Stato». «Precisamente». «Allora sono doppiamente addolorato. Temo che non sia possibile in questo momento». «Signore, sono sicuro che Sua Santità aspiri al momento in cui questo sarà possibile». Il presidente sorrise all'improvviso. «Voi avete un detto: il papa è prigioniero in Vaticano. La prego di dirgli che anch'io sono un prigioniero - il prigioniero della civiltà». Elia si trovò in difficoltà, alla ricerca di una risposta, un modo di riprendere la conversazione e di dirigerla verso lo sviluppo di un dialogo permanente. «C'è un'alternativa», disse il presidente. «Signore?». «Sarei onorato se il Santo Padre prendesse in considerazione un invito a Capri. Se accetta, gli invierei il mio elicottero in Vaticano, lo farei portare qui per un incontro informale e lo farei riportare sano e salvo a San Pietro, in poche ore. Ho un'ora libera nei miei impegni la prossima settimana. Uno di quei rari pranzi in cui non sono annunciati ospiti». Il presidente osservò Elia con espressione d'attesa. «Temo che non sia possibile, considerando la sua prossima visita in Estremo Oriente. Sarà in Giappone e Corea la prossima settimana». «Ma naturalmente! Lo avevo dimenticato. Mi perdoni, ho la testa che trabocca di troppe informazioni. Forse in futuro, allora, in un luogo e in un momento conveniente per entrambe le parti». «Sono sicuro che Sua Santità non veda l'ora». «Molto bene. Rimarremo in contatto». Il presidente si alzò e gli porse la mano. «Padre Elia, la nostra breve chiacchierata mi ha fatto molto piacere. For-
se ci incontreremo di nuovo». «Spero di sì, signore». «Sarà sorpreso di sapere che per alcuni anni ho seguito la Sua carriera». Questa era davvero una sorpresa. «Venga, andiamo insieme all'elicottero. Possiamo parlare per strada». «Lei ha detto che ha seguito la mia carriera? Deve avere in mente qualcun altro. La mia carriera è quella di qualsiasi altro frate al Carmelo, essere nascosti nella vita interiore. Le carriere sono l'ultima cosa al mondo a cui persone come me danno la caccia». Il presidente sorrise fra sé e sé e prese il braccio di Elia. Gli addetti alla sicurezza si alzarono e fecero un leggero inchino, quando i due uomini passarono attraverso i checkpoint. «Sarei stupito se fosse altrimenti», disse il presidente. «Ma la Sua vita prima della conversione al cattolicesimo non è stata priva di fama. Un tempo la Sua carriera politica mostrava tutti i segni del destino. Non mi è sfuggito che, se Lei avesse scelto un percorso differente nella Sua vita, si sarebbe potuto ritrovare dove mi trovo io ora, in una posizione di massima influenza. Nel parlement des nations quanto bene avrebbe potuto fare per il genere umano!». La tristezza fece rannuvolare il volto del presidente. «La vita è misteriosa e piena di strane svolte», disse Elia. «Che gran bene!», ripeté il presidente a se stesso. «Dio solo vede ogni cosa. Credo che stia realizzando un bene differente attraverso la mia vita da frate». «Ma nonostante questo, che perdita, che peccato». «Penso che Lei esageri la mia importanza, signore». «No», disse il presidente con sobrietà, scuotendo la testa. «No, non lo faccio. Lei è una persona straordinariamente dotata. Lei è stato uno zaddik all'età di dodici anni». «No», disse Elia inorridito, «non sono mai stato uno zaddik». «No? Allora, per il bene della Sua modestia, diremo che non è stato un uomo santo, ma un bambino saggio. È accettabile?». «È impreciso». «Allora possiamo essere d'accordo sul fatto che Lei sia stato un prodigio nella conoscenza del Talmud all'età di tredici anni. Aveva una corrispondenza scientifica con il grande Dabrova Rev, quando i nazisti invasero la Polonia. Lo ammetta», disse il presidente divertito. «Tracce di quei doni brillano nei Suoi articoli».
«Come sa tutto questo?». Il presidente non replicò. Si limitò a guardare Elia negli occhi con calore e rispetto. Per un istante, la mente di Elia si offuscò. Si sentiva contemporaneamente confuso ed esaltato dalla lode. Gli faceva piacere e lo spaventava, sebbene non riuscisse a spiegarsi questo rimescolamento di emozioni. «Ho letto anche del Suo lavoro con il governo di Israele. I Suoi dossier su Eichmann sono stati profetici. La Sua successiva carriera di pubblico ministero contro i criminali di guerra è stata, a dir poco, brillante. La Sua ascesa nel partito. I Suoi discorsi negli incontri internazionali. Erano delle fondamenta su cui si sarebbero potute costruire grandi opere». «Ero una conchiglia piena di passioni idealistiche. Le perseguivo solo per riempire il mio vuoto». «Lei era molto ammirato». «E molto odiato». «Anche questo. Sì, fa parte degli oneri del destino. Quelli che fanno la storia, piccola o grande, devono accettare di venire incompresi dai propri contemporanei». «Ho trovato qualcosa di più grande. La cosa più grande del mondo...». Ma in quel momento l'attenzione del presidente venne distratta dal trambusto sulla pista degli elicotteri. Stava atterrando un secondo velivolo, un minielicottero blu scuro a due posti. Saltò fuori una guardia della sicurezza e urlò qualcosa al pilota. Frammenti di frasi, indistinte, ma comprensibili, attraversavano il rivestimento di vetro. «È in anticipo di un'ora! Non va bene!». «Mi dispiace! Ma ha detto che era una cosa della massima priorità», gridò il pilota indicando il passeggero. Dal velivolo uscì un uomo in un abito nero, una camicia bianca e una cravatta nera e si diresse all'entrata. La guardia lo raggiunse e fece un leggero inchino, parlando velocemente. L'uomo dal vestito nero lo ignorò ed entrò nel foyer. Si fermò brevemente, quando vide il presidente. «Le porgo le mie scuse. Capisco di essere in anticipo, ma è della massima urgenza...». Guardò Elia dalla testa ai piedi con curiosità ostile. «Ne parliamo nel mio studio», disse il presidente con un'aria di tranquilla autorevolezza. Il visitatore annuì in modo controllato e freddo. Teneva stretta una valigia sotto il braccio. «E ora Le devo dire arrivederci, amico mio», disse il presidente volgen-
dosi a Elia. «Spero che ci rivedremo presto». Gli strinse ancora una volta la mano. Poi, senza aggiungere altro, il presidente e il suo ospite si diressero alla hall, verso la residenza. Elia li fissò, tormentato dalla certezza di aver già visto quella faccia da qualche parte. Poi gli venne in mente che quello era l'uomo del sogno, la faccia che aveva visto nell'appartamento di Billy. *** «Bene, com'era Mister Grand'Uomo?», disse Billy seduto a letto con una smorfia. Un'infermiera ricordò a Elia che monsignor Stangsby non era ancora fuori pericolo e che aveva bisogno di riposo. «Lei ha cinque minuti», avvertì. «Cinque minuti e non di più». Billy appariva pallido come un fantasma. Gli occhi erano tirati, ma la luce divertita c'era ancora, come se avesse giocato con l'angelo della morte e lo avesse raggirato. «Il Mister Grand'Uomo, come lo chiami tu, non è così grande, quanto piuttosto travolgente. Ne sono stato... impressionato». «Impressionato? Perché questo mi rende nervoso?». «Non è necessario. Sapevo che sarebbe stato pericoloso. L'opposizione spirituale era sottile, ma molto potente. Ho percepito che in certi momenti qualcosa di invisibile cercava di piegarmi la mente. Adula, ma in modo da far sentire sinceri i propri complimenti. Trasuda sincerità». «Adesso sono nervoso. Cosa ha detto?». «Ha espresso la speranza di poter continuare a lavorare insieme per la pace nel mondo. Era disponibile a proseguire il dialogo con il Vaticano. È stato uno scambio preliminare secondo il protocollo». «Niente di eccitante?». «Ci ha fatto un regalo che penso sia molto eccitante. Ha donato al Vaticano un manoscritto originale. Contiene uno dei libri di Aristotele andati perduti, Sulla giustizia». «Troppo intellettuale per me. Scusami se non faccio i salti di gioia per questo. Ora raccontami i dettagli sanguinolenti. Aveva un mantello nero e i suoi incisivi erano solo leggermente più lunghi del normale?». «Mi dispiace di doverti dire che sembra un normale essere umano». «Questo mi delude. Se fossi stato lì con in mano il mio piccolo pungiglione, il mio fedele uccisore di mostri, oooh, lo devi credere, avrei snidato
i demoni». «Erano in gran numero, ma tranquilli». «Non eri spaventato?». «Sì, un po' all'inizio. Ma non era come la sensazione di spavento che si ha quando una persona posseduta è consegnata a uno spirito maligno o quando scampi per miracolo un pericolo fisico. Era come una pressione che cresceva lentamente, la consapevolezza delle nuvole nere che si raccolgono in silenzio, ma non sono ancora pronte a scatenare una tempesta. Quell'uomo era circondato da questa nuvola». «Ora diventi spettrale. Questa sì che è roba forte! Di più, dimmi di più!». «La nuvola era invisibile. Anche la tempesta imminente era invisibile, ma è stata presente tutto il tempo ai margini della coscienza». «Dopo tutto, è una figura sinistra». «No. Non è stato personalmente sinistro. O, per lo meno, niente nel suo carattere o nella sua indole emanava segni rivelatori del male. Trasmette piuttosto una fermezza ammirevole. È stato difficile portare la conversazione là dove il Santo Padre sperava che andasse: al tema della conversione. Decisamente ha avuto sotto controllo tutto quello che è successo questa mattina, ma lo controllava senza il normale sistema di controllo. È stato estremamente interessante. Mi ci vorrà un bel po' di tempo per cercare di capire come abbia fatto». «Ipnosi?». «Niente del genere». «Ti ha drogato o fatto ubriacare?». «La mia unica tazza di tè è stata deliziosa e non ha provocato effetti collaterali». «Allora non ti capisco proprio, vecchio mio. Avverto dell'esitazione nella tua voce, come se fosse successo qualcosa, ma non è successo. Qualcosa che ti rende nervoso, ma che è stato così minuscolo che lo hai ignorato». «Sì, qualcosa del genere». «Il livello della coscienza ti sta dicendo una cosa, ma scommetto che il tuo spirito si è portato a un altro livello. Che cosa sia - questo è il problema». «Forse mi sono sentito manovrato da un maestro delle pubbliche relazioni, un uomo così di talento che ti mette a tuo agio e fa svanire il sospetto che ti stia manipolando. Tu avverti un rapporto sincero, intimità, uguaglianza». «E in questo è stato campione del mondo?».
Elia annuì. «È stata una sorpresa. Ma avrei dovuto saperlo che sarebbe andata così. L'apocalisse non è un melodramma. Se lo fosse, la maggior parte della gente si sveglierebbe e comprenderebbe il pericolo in cui si trova. Questo è il vero rischio. I nostri tempi, non importa quanto siano inquieti, rappresentano la nostra idea di che cosa sia reale. È quasi impossibile fare un passo fuori e vedere questa realtà per quello che è». «Capisco ciò che vuoi dire. È il nostro mondo. Altri tempi e luoghi possono essere concepiti solo con l'intelletto o l'immaginazione». «Esatto. L'apocalisse vivente irradia un senso di normalità. Noi ci troviamo dentro». Billy si fissò le mani, le palme aperte posate sul ginocchio come foglie cadute. «Dov'è la mia piccola spada?», disse con voce flebile. «Dov'è il mio pungiglione?». «Pungiglione?». «Una favola. Hobbit. Letteratura». «Stai bene?». «Bene, bene», mormorò Billy, continuando a fissarsi le mani vuote. «Che cosa succede? A che cosa stai pensando?». «Sto pensando che avrei dovuto essere con te, Davy. Sto pensando che è pericoloso andare da solo a Mordor. La tua testa potrebbe essere costretta a piegarsi». «Non capisco». «Non devi. Raccontami di più. Come era davvero quel tipo?». «Ho avvertito una sorta di grandezza personale. Mi viene in mente la parola destino. Ma in lui non c'era niente di pretenzioso o pomposo. Al contrario, l'ho trovato nobile, persino spirituale». «Scommetto che era persino... umile», disse Billy, scrutando Elia con sguardo affilato. «Sì. Questa è la parola giusta. Un genere unico di umiltà. Sono rimasto impressionato». «L'hai detto anche prima». «Davvero?». «Penseresti che un tipo come lui sia un egomaniaco. Ho letto che le persone che lo incontrano per la prima volta e non sanno chi sia lo ritengono un professore di un piccolo college nelle Midland, mediamente conosciuto, ma non eccezionale. Non sospetteresti che ha una coltura enciclopedica, parla tutte quelle lingue, ha circa sette lauree e probabilmente quest'anno
riceverà il Premio Nobel per la pace. Senza contare il potere che ha. Somma tutto questo e subito diventa sbalorditivo. Ora, dimmi, come fa un tipo così a non diventare un pallone gonfiato?». «Si dice che sia una persona umile». «Sì, l'ho letto anch'io. Forse è vero e forse non lo è. Credi a tutto quello che la stampa ci propina?». «No, naturalmente no». Billy lo guardò in modo strano, poi abbassò lo sguardo di nuovo sulle proprie mani. Elia si domandò perché lo facesse. Si sentì leggermente irritato. Billy continuò: «In apparenza, quando parla di temi spirituali, si riferisce all'umiltà come a una delle massime virtù». «E lo è. Quella fondamentale». «Mi sono sempre sentito a disagio di fronte a grandi uomini che parlano eccessivamente di umiltà». «Perché?». «Mi ricordano impercettibilmente Uriah Heep». «Che nome strano! Voi inglesi! Chi è Uriah Heep?». «Un personaggio di un romanzo di Dickens. Era sempre umile, tanto tanto umile. Ma si è trasformato in un tipo alquanto sinistro verso la fine». Furono obbligati a mettere termine alla loro conversazione su quella nota, perché una tirannica capo infermiera entrò nella stanza e ordinò a Elia di andare via. «Non preoccuparti per me, Davy. Prenderò il treno per Roma fra pochi giorni, quando avrò scontato la mia pena. Di' al capo che mi dispiace di aver sbagliato il passaggio di palla... Mi dispiace davvero di averti piantato in asso di nuovo». «Non mi hai piantato in asso, Billy. Non hai scelto di ammalarti». «Forse. Ma questa era l'unica volta che avrei dovuto davvero esserci». «La missione è stata lanciata. Non ci sono stati danni». «Spero che tu abbia ragione. Bene, Dio ti benedica e arrivederci! Via, adesso, fai il bravo ragazzo. Ritorna a casa alla contea!». Elia uscì scuotendo la testa. 8 Roma Al ritorno in città, Elia telefonò alla Segreteria di Stato. Dopo l'interro-
gazione di un addetto zelante, la sua chiamata venne passata al cardinale stesso. Stato non voleva sentire i dettagli del viaggio a Capri per telefono e chiese a Elia di andare in Vaticano la mattina presto del giorno dopo. Avrebbe organizzato un incontro con il Santo Padre per le dieci. Elia si avviò agli uffici papali con un misto di euforia e di apprensione, aggravata dal fatto che avrebbe dovuto riferire che la missione era fallita. Il segretario privato del papa aprì una porta di quercia, ed Elia entrò. «Padre Schäfer, Sua Santità». L'uomo anziano si alzò dalla scrivania e si avvicinò tendendogli la mano. Il segretario si ritirò ed Elia piegò un ginocchio per baciare l'anello al pontefice. Ancora una volta non gli fu permesso, dato che il papa lo abbracciò e lo fece alzare. Guardò in profondità negli occhi del prete, poi fece un passo indietro. Uno sguardo preoccupato gli attraversò il volto. Continuava a tenerlo per le spalle. «Porta delle ferite dall'incontro?». «Non che io sappia». «Forse sono nascoste persino a Lei, figlio mio». Il papa condusse Elia alla finestra che si affacciava su piazza San Pietro. Rimasero fianco a fianco in silenzio, fino a quando il papa disse: «Quell'uomo ha catturato l'ammirazione di molti miei confratelli vescovi. Ha arrecato danno anche a Lei?». «Santo Padre, mi permetta, non mi sento danneggiato in alcun modo. Naturalmente, sono preoccupato per l'incontro, ma non ha scosso la mia fede». Sul selciato stavano affluendo folle di pellegrini. «Padre Elia, il nostro avversario è sottile. Conficca le sue frecce nel profondo del cuore degli uomini. Così in profondità che sono quasi invisibili». «Qual è la natura delle frecce?». «Colpiscono là dove l'umanità di ciascuno è più debole. Non sono capace di leggere le anime così bene come padre Matteo, ma capisco che nel passato Lei ha sofferto la ferita più dolorosa che affligge l'uomo moderno». «Che è...?». «La tentazione della disperazione assoluta». «È vero che nel passato ne sono stato profondamente afflitto, ma non la sento più da tanto tempo». «Nemmeno quando le consolazioni di Dio sono assenti? Nemmeno nei
periodi di aridità? Quando è esausto, quando tutti i Suoi sacrifici sembrano aver prodotto poco o nessun frutto?». «Nemmeno in quelle situazioni. Ma ci sono dei momenti in cui mi addoloro per mia moglie e mia figlia, e per la mia famiglia che è stata uccisa». «Lei si addolora con il cuore di un marito e di un padre. Anch'io mi addoloro». «Lei, Santo Padre?». «Mi addoloro per lo stato del genere umano. Il cuore di padre si addolora. L'amore soffre, no?». «Qualche volta soffro, lo ammetto. Ma niente che mi potrebbe condurre nella sfera di influenza del nostro avversario». «Credo che ciò che dice sia vero. Ma La devo mettere in guardia, come metto in guardia me stesso ogni giorno e ho messo in guardia ripetutamente i nostri pastori: nessuno uomo conosce la propria anima così bene da essere invincibile di fronte alle tattiche del nemico. Nessuno uomo». Il papa parlava con sicurezza, anche mentre guardava fuori dalla finestra, verso la piazza. Le folle stavano riempiendo le migliaia di sedie collocate di fronte ad un altare a cielo aperto sul sagrato di San Pietro. Stavano cominciando a riempirsi anche i settori isolati con transenne e riservati ad altre decine di migliaia di persone che sarebbero rimaste in piedi, sul fondo. «Sono arrivati presto oggi», disse il papa. «Questo pomeriggio, quando canonizzerò i nuovi martiri africani, parlerò del tema della vigilanza. La stampa dice che si tratta di una canonizzazione politica. Non lo è. Quelli che sono morti da vittime delle lotte tribali non sono la stessa cosa rispetto a costoro che sono morti rendendo testimonianza al Nome. Era stata loro offerta la possibilità di fuggire e l'hanno rifiutata. Hanno rifiutato di abiurare. Preti, vescovi, suore e laici fedeli, quanti sono stati crocifissi sotto il bollente sole africano, avevano trascorso una vita di sacrifici. Quando per loro è giunto il momento della scelta, erano pronti». «C'erano anche dei bambini. Come hanno fatto a scegliere i piccoli?». «Ha mai visto un bambino crocifisso, padre?». «Ho visto bambini picchiati a morte. Nel ghetto, quando ero ragazzo». «Va al di là di ogni immaginazione. La mente si ritrae. Ci diciamo che tali cose non devono succedere. E, tuttavia, continuano a succedere. In questa città, non molti secoli fa, ai nostri fratelli e sorelle è stata offerta la stessa alternativa: fare sacrifici all'imperatore o morire. Un singolo granello di incenso, questo è tutto. Solo un granello e sei libero. Niente morte.
Niente squartamenti. Vai a casa vivo. Sei un buon cittadino. Ma loro hanno rifiutato. Padre, sapeva che si hanno notizie di bambini cristiani che sono andati in croce o al Colosseo, ignorando le suppliche dei loro genitori? Così giovani, ma avevano imparato l'unica cosa che si deve sapere. Sapevano qualcosa che noi, che combattiamo senza sosta con le nostre intelligenze prodigiose e con le nostre emozioni complicate, di rado riusciamo a capire. Mi chiede se hanno scelto? Credo che lo abbiano fatto. Possedevano la chiarezza. Avevano gli occhi dell'infanzia». «Spesso ho avuto la sensazione, Santo Padre, che la gente della nostra generazione si muova come avvolta in una nuvola densa, ma invisibile. Ogni facoltà di percezione è ostacolata». «L'atmosfera ci contagia tutti, figlio mio. È per questo che Le chiedo se l'avversario L'ha contagiata». Elia non rispose subito. Dopo averci pensato sopra, disse: «Se il nemico si è insinuato dentro di me, è riuscito a farlo solo a un livello che va al di là della mia consapevolezza. Ma se ha fatto così, chiedo a Dio di estirparlo da me, qualsiasi cosa sia». «Non è offeso dalla mia domanda?». «No, la comprendo». «Bene. Comprende che cosa può provocare la tentazione della virtù, persino di quella più ferma?». «Sì. Ho visto uomini nobili scendere al livello delle bestie. Ho visto le stelle cadere dai cieli e i pilastri del firmamento scossi». «Lei è abile a citare. Allora comprende che siamo entrati nella fase finale della storia». «Sì, abbiamo parlato di questo». «Durante il nostro ultimo incontro abbiamo parlato delle condizioni generali di un'apocalisse. Le apocalissi coinvolgono uomini e donne e bambini concreti: non è da meno l'Apocalisse finale. Comprende che in quei giorni ogni essere umano sarà messo alla prova? Che a ciascuno verrà chiesto di rendere conto di se stesso? Si rende conto che si tratta di un processo universale? Quanto sarà spaventoso il prezzo della fedeltà?». «Ho avvertito la vastità del problema, quando ho parlato con il presidente. Non c'era niente di apertamente minaccioso nelle sue parole o nel suo atteggiamento, ma dietro di lui ho sentito che si stava preparando una tempesta, come se il cielo intero si stesse riempiendo lentamente di un'ira tonante. Quando quella tempesta si sarà scatenata, non si potrà trattenerla. E nessuno riuscirà a sottrarsi al suo respiro».
«Allora ha visto giusto, figlio mio». «Santo Padre, devo confessare di avvertire un senso di fallimento a proposito della mia missione. Nonostante tutte le buone intenzioni di aprire un dialogo di natura spirituale, nonostante gli sforzi per trovare l'opportunità di portare la verità nell'anima di quell'uomo, non sono stato capace di farlo». Il papa annuì. «Avrà un'altra opportunità. Verrà a Roma il mese prossimo per l'assemblea del Club di Roma. Sono certo che chiederà di incontrarLa». «Lo pensa davvero?». «Sì. Crede di poterLa convincere». «Perché lo pensa?», chiese Elia con voce udibile a stento. «Sa che tutti possono cadere. Si ricordi degli apostoli. Il loro comportamento non è stato impeccabile nella notte dell'arresto di Cristo. Siamo forse fatti di una materia diversa dai nostri predecessori?». «Non c'è una differenza cruciale, Santo Padre? Abbiamo il beneficio di duemila anni di senno di poi. Ancora più importante, siamo figli di Dio che vengono dopo la discesa dello Spirito Santo». «Un buon argomento, figlio mio. Ma accentua il fatto che coloro che non vivono secondo il potere dello Spirito Santo sono i più vulnerabili. Persino i credenti possono ridurre la fede a un sistema filosofico. Possono conservare la forma esteriore di religione e perderne il cuore». «Pensa questo di me?». «No. Tuttavia, come Suo padre spirituale, sono obbligato a ricordarLe di vegliare come un guardiano. Sorvegli il cuore in tutto. In tempi come questi siamo tutti in pericolo. Nel Suo caso, il nostro avversario sa che con la Sua storia e le Sue qualità personali Lei sarebbe un bel premio. Lei aiuterebbe moltissimo il suo sforzo di dare inizio alla nuova era». «E se il pericolo è di tale natura, allora è imprudente da parte mia espormi». «Quasi più di ogni altro nel mio gregge, Lei possiede gli occhi per discernere l'inganno. Lei ha fatto esperienze che pochi altri possono eguagliare. Certo, molto, molto tempo fa, Lei è stato vicino alla posizione di potere mondano che lui ha raggiunto. È stata offerta a Lei e Lei l'ha rifiutata. Sospetto che sia stata una sorte di immunizzazione. Deve chiedere a se stesso perché l'ha rifiutata». «Non sono del tutto sicuro delle motivazioni del mio cuore durante quel periodo della mia vita. La mia mente non era meno confusa di quanto lo
fosse prima della mia decisione di abbandonare il potere. Penso che ci fosse qualcosa di molto profondo nella mia anima. Forse è stata sollevata per un attimo la cortina che copre il significato della vita. Forse è stato un mondo di amore puro, una vita sacrificata per me, che ha scosso quell'illusione. Non riesco a vedere nessun altro significato che questo». «Ha risposto bene. C'è di più, ma lascerò che sia il Signore stesso a rivelarglielo. Non è lontano dal comprendere». «Comprendo sempre meno, Santità». «Sì, sì», l'uomo anziano sorrise, «è così che dovrebbe essere». «Sono incerto sul panorama, e sulla condizione della mia anima. Che cosa succederebbe, se venissi ingannato?». «Non credo che Lei possa essere ingannato facilmente, sebbene naturalmente non debba abbassare la guardia in nessun momento. Ritengo, padre, che Lei abbia sopportato molte cose terribili nella vita. C'è sempre una grande incertezza nel Suo cuore». «Pensavo che fosse passata per sempre. Quei sentimenti sono impalliditi gradualmente, mentre crescevo nella fede. Pensavo che non avrei mai più avuto paura». «Ma ha paura?». «Ho paura». «Perché si sente così?». «Di recente mi sono sentito molto solo. Come se fossi stato rigettato in balìa della mia forza fragile, come se fossi ritornato al buio della mia gioventù, quando ero obbligato a contare solo su me stesso. Sono stato tradito. Sono stato cacciato. Provoca qualcosa in un ragazzo sapere che uomini potenti lo vogliono uccidere. Per lungo tempo ho creduto di non potermi fidare di nessun essere umano. Nessuno... eccetto uno. Quello che mi ha salvato. Ed è morto». «Dio non era con Lei?». «Ora so che lo era. Vedo la Sua mano su tutta la mia vita durante quel periodo. Ma a quel tempo mi sentivo del tutto abbandonato. Provavo rabbia. La rabbia proveniva da un genere di paura globale, un terrore cosmico che cresceva e cresceva. Alla fine la rabbia si è trasformata in odio». «Tanto tempo fa». «Sì. E tanto tempo fa pensavo che fosse passato per sempre». «E ora ha paura di nuovo della Sua paura, non è così?». «Sì». «Non abbia paura. Il nemico non Le ha provocato danni irreparabili».
«Ma, Santo Padre, ci sono stati alcuni dubbi gravi nella mia mente. Di recente mi sono posto domande sulla grazia. Non ho avvertito per niente l'intervento divino durante il mio colloquio con il presidente». «Sicuramente sa che le grazie più potenti non possono essere avvertite nei sensi o nei sentimenti». «Ho dimenticato questa verità quando ero in sua presenza. Strano come abbia dimenticato una quantità di cose importanti. Ho fallito. Sono stato manipolato in maniera così sottile che le uniche parole che avrebbero potuto cambiare il corso della tempesta si sono rifiutate di prendere forma sulla mia lingua. In quell'atmosfera, in quell'atmosfera così cordiale ed equilibrata, le parole di ammonimento mi sarebbero sembrate inappropriate. Per un momento, nonostante anni di studio, nonostante la ricchezza della vita intellettuale cattolica, mi sono sentito... un difensore dell'assurdo». «Si è sentito forse come se fosse l'ambasciatore di un mito?». «Sì, qualcosa del genere. Il campione di una leggenda patetica». «C'era da aspettarselo. È nella natura della cosmologia del presidente percepire tutte le religioni come la stessa cosa, ciascuna un complesso di simboli condizionato dal punto di vista culturale, ciascuna, nel suo modo limitato, una via verso il principio divino». «Sì, lo ha suggerito in modo implicito. In uno dei suoi libri dice che tutte le religioni sono mitologie semplicemente fraintese. Questo è il motivo per cui Le può mandare un dono come se non vi fosse contraddizione fra le sue convinzioni e le nostre». «Ieri il codice è arrivato alla Biblioteca Vaticana con corriere speciale». «È veramente una dimostrazione di grande generosità da parte sua». «Oh, sì, è un dono magnifico», disse il papa tra sé e sé. «Ma ha una falla. Il presidente non fa niente senza astuzia. Il dono è pensato per farci abbassare la vigilanza. Allo stesso tempo accelera il processo di soggettivizzazione degli studi specialistici. È un tesoro, ma questo tesoro, stranamente, indebolirà ulteriormente la mente razionale dell'Occidente». «Ma è di Aristotele!». «È un'interpretazione della Giustizia di Aristotele, adattata dalla mente orientale». «Lei non pensa che sia autentica?». «È sicuramente autentica. È quello che il presidente sostiene che sia, una copia di Averroè di una traduzione siriaca del libro perduto. In quanto tale, è un reperto culturale di valore incalcolabile. Ma in questa versione viene manipolata la forma della realtà stessa. La distorsione è percepibile dagli
studiosi che conoscono Aristotele fino in fondo e che conoscono dettagliatamente la storia delle idee. Uno studioso normale, soprattutto giovane, verrà condizionato da un concetto di Stato e di cosmo di carattere cultuale. Il manoscritto emana uno spirito lontano dalla sapienza che, in Aristotele e in altri filosofi precristiani, potremmo chiamare "teologia naturale"». «Mi sforzo di capire. Ho un gran desiderio di leggerlo». «Molti avranno un gran desiderio di leggerlo, quando ne verranno a conoscenza». «In quel manoscritto è presente un pericolo così grande?». «Ho passato l'intera notte a leggerlo. Il libro non rappresenta un pericolo come quello che abbiamo affrontato quando il fascismo e il marxismo si sono diffusi in Occidente. Quelle bestie voraci hanno rivelato il loro appetito in modo aperto. E non è nemmeno come il materialismo postcomunista, quella condizione cupa e strisciante che avvolge gli organi vitali del mondo, uccidendolo lentamente. Il pericolo di quel libro sta nel fatto che è spirituale. Reintroduce il concetto di divino nell'ordine mondano, proprio nel momento della storia in cui la maggior parte delle persone ha perso l'orientamento, ha abbandonato ogni speranza che ci sia qualcosa al di là di questo mondo materiale. Sempre di più brama soluzioni complessive al "problema dell'uomo". Vuole il totalitarismo senza brutalità. Questo libro rappresenta una spinta delicata, certo molto sottile, ma potente, verso questo sistema del mondo, mescolato all'ebbrezza dell'Oriente pagano. Sebbene non ci sia nessuna prova nel testo, le sue origini gnostiche sono innegabili. Come se il grande intelletto di Aristotele fosse stato mescolato a quello di un negromante o di uno sciamano! Potrebbe fornire la giustificazione filosofica alla nuova era che il presidente spera di inaugurare». «Attraverso Aristotele?». «Non l'Aristotele che abbiamo conosciuto noi. Ma un Aristotele rubato e fatto passare attraverso un filtro. Un Aristotele allineato accanto alle distorsioni allettanti della spiritualità, senza ancoraggio assoluto nell'unico vero Dio, e agli scritti sociali pseudomistici del presidente stesso. Attingendo da Averroè e da altri mistici non cristiani, crede che la religione e la ragione possano essere in conflitto l'una con l'altra, ma che possano essere entrambe nel giusto». «In altre parole, il concetto che tutte le divisioni e tutte le distinzioni alla fine siano solo illusioni». «Esattamente. E quindi si forma una filosofia che pone l'unità al di sopra della verità».
«Ma anche noi crediamo nell'unità». «Ah, sì, ma l'unità può essere autentica solo se è fondata sulla verità. Non possiamo supporre che esistano due verità in conflitto, entrambe giuste. È una pazzia. Distrugge l'unità interiore della persona umana e il significato della personalità». «Santo Padre, posso chiederLe se il codice rappresenti davvero un pericolo così grave? Non si tratterebbe semplicemente un oggetto di discussione accademica, fra filosofi?». «I filosofi hanno studenti, e gli studenti che amano i propri insegnanti diffondono le loro idee in ogni ambito del comportamento umano. Le discussioni accademiche astratte trovano il modo di lasciare la loro impronta su intere civiltà. In un'altra epoca questo codice sarebbe stato relativamente innocuo, soprattutto se avessimo in mano il testo greco originale, con il quale potrebbe essere confrontato. Ma il vero testo ci sfugge, e ora dobbiamo batterci con una chimera che giunge dal regno dei morti e che usa il grande nome di Aristotele come fonte di attrazione e passe-partout per le menti degli uomini». Elia si domandava se il papa non esagerasse il pericolo più di quanto meritasse. «Avverto le Sue riserve silenziose, padre Elia. Ma deve capire che l'arrivo di quel documento non è un caso. Può essere compreso solo entro un contesto più ampio della lotta attuale. Giustizia, alla fine, non parla della giustizia. Il suo scopo è spingere gli uomini a una schiavitù definitiva, ma lo fa - la più amara delle ironie - lo fa nel nome della libertà». «E così Lei è alle prese con un dilemma?». «Proprio così. Il manoscritto può essere tranquillamente archiviato e aspettare tempi più propizi? O dovremmo metterlo a disposizione del mondo e sopportare il peso della consapevolezza che alcune anime potrebbero venire fuorviate da esso?». «Ha già deciso?». «L'ho fatto. Il manoscritto verrà messo a disposizione di tutti gli studiosi seri. Verranno fatte traduzioni e pubblicate in varie lingue, in edizioni che spieghino il suo retroterra, i suoi punti deboli e il pericolo del travisamento». «Se posso essere sincero, Santità, penso che la Sua decisione sia saggia. L'epoca moderna ci ha presentati come anti-intellettuali». «L'uomo moderno ignora il fatto che la Chiesa, virtualmente da sola, ha preservato l'eredità intellettuale dell'Occidente nelle epoche oscure».
«I nemici della Chiesa otterrebbero più materiale di propaganda se decidesse di conservare il manoscritto discretamente in archivio». «La loro terminologia non sarebbe così caritatevole come la Sua. Lo definirebbero nascosto. Li accuserebbero di truffa». «Potrebbe essere definita prudenza». Il papa sospirò. «Viviamo alla fine di una civiltà, una civiltà pesantemente segnata dall'ideologia. Ci sono centinaia di migliaia di libri pubblicati ogni anno, la maggior parte dei quali ben lontani dalle idee di Cristo. Questo libro è inficiato da un difetto: sarebbe inutile tenerlo lontano da gente che non comprende quello che sta leggendo e rifiuta di imparare a pensare. Tuttavia, ci sono alcuni che ne trarranno beneficio. È sempre nell'interesse della verità rendere disponibile un pezzo di patrimonio culturale che potrebbe arricchire la comprensione del passato dell'uomo. La pubblicazione di Sulla giustizia potrebbe essere letta in quella luce». «I fondamentalisti potrebbero accusarci di progressismo». «Sì, e i progressisti ci accuseranno di fondamentalismo quando leggeranno l'introduzione cautelativa. La interpreteranno come una nota stonata, un'ulteriore critica da parte di un'istituzione in decadenza, che brontola nella sua ottusità, un ostacolo verso l'evoluzione del pensiero umano». «Abbiamo suscitato giudizi ben peggiori, Santo Padre». Il papa sorrise. Si voltò verso l'interno della stanza e prese Elia per un braccio. «Venga, figlio mio, sediamoci. Ascolterò quello che ha da dire. Mi racconti dell'incontro con il presidente. Non tralasci nulla». *** Una leggera pioggia spruzzava la folla. A breve sarebbe cominciata la messa di canonizzazione. Diciottomila persone pregavano, parlavano e cantavano in coro mentre aspettavano il papa. I cardinali e i vescovi sedevano attorno all'altare papale, protetti da un baldacchino. Seduti con loro vi erano parecchie dozzine di dignitari di varie nazioni africane. Nella folla si notavano molte migliaia di persone di colore. Elia trovò posto a metà della piazza, nella zona con soli posti in piedi, oltre un gruppo di suore dello Zaire. Ognuna aveva una bandierina della sua nazione e della Città del Vaticano, tenute insieme in un'unità simbolica che era più ideale che reale.
Due eleganti matrone europee stavano di fronte alle suore e discutevano l'evento del giorno a voce alta. «È un errore», disse una. «Il processo è stato troppo veloce. Voglio dire, qualcuno ha investigato sul modo di vivere dei beati? I cosiddetti martiri hanno capito davvero la realpolitik della lotta sociale in Africa?». «Avrebbe fatto qualche differenza?», disse la sua compagna. «Questo papa è così insicuro che farebbe santo chiunque condivida la sua opinione sulle questioni ecclesiali». «Sta invecchiando. La mano gli trema. L'ho visto alla televisione ieri sera. Penso, mia cara, che fra poco vedremo un nuovo papa, uno che capisca il nostro tempo». Elia resistette alla tentazione di provare rancore. Desiderava intervenire e dire: «Lo Spirito Santo vi ha dato un papa che comprende questo secolo meglio di chiunque altro». Ma sigillò le labbra, facendo una mortificazione interiore, e pregò per loro. Non era facile ignorare la loro disquisizione. «Non sono convinta per niente», continuò una delle matrone con voce irritante. «Nemmeno io», disse l'altra. «Ho sentito il professor ***, il famoso teologo, dire che la fede in Africa è come un fiume, che è largo un chilometro e profondo un centimetro». Elia si allontanò da loro e si voltò verso le suore africane. Si domandava se avessero sentito di sfuggita la conversazione delle matrone e sperava di no. Chiese loro se avessero conosciuto qualcuno dei beati che sarebbero stati canonizzati oggi. Le suore annuirono enfaticamente. Le loro bocche si aprirono in sorrisi ampi e belli, e i loro occhi traboccavano di lacrime. La loro superiora, una donna alta con un volto segnato dalle cicatrici, disse: «La nostra madre superiora - quella prima di me - fu uccisa. La uccisero con un'ascia. Ma chiamò Gesù nell'ultimo minuto. Sorrise. La guardai morire. Vidi la colomba volare in cielo dal suo sangue. Perdonò i soldati quando morì». Al che tutte le suore scoppiarono in singhiozzi e cominciarono a spiegare a Elia quello che era successo nella loro lingua natale. Elia scuoteva la testa stupito, quando due mani si posarono da dietro sulle sue spalle. «Davy. Pensavo di aver intravisto la tua testa argentata muoversi qui fra la folla». «Billy!». «Proprio io. E sano come un pesce. Vieni un po' su, amico. Ho alcuni
posti riservati proprio in prima fila a destra dell'altare, per gli amici della Segreteria». «Preferirei rimanere qui, grazie. Fra queste suore. Sono la cosa migliore, Billy. Hanno perso una madre superiora nei massacri». Billy lo guardò serio e disse: «Hmmm». «Hmmm?». «Billy ha avuto un'idea». «Idea?». «Sì. Vieni con me». Andò dalle suore africane e parlò nel modo tipico di Billy, veloce come un fulmine. Sembravano sorprese, si guardavano l'una con l'altra, e guardavano in modo interrogativo la madre superiora, che fece un cenno di approvazione. Billy la prese per il braccio e la trascinò fuori da una marea di persone. Si guardò indietro e fece cenno a Elia di seguirlo. Il monsignore guidò il gruppetto di suore e il prete attraverso la folla, varcò il checkpoint per la sicurezza, salì i gradini di San Pietro verso la piattaforma superiore e si fermò in un settore alla destra dell'altare, in prima fila. «I posti migliori di tutti, signore». Le suore non finivano più di ringraziare Billy. Lui sorrideva, allontanando quei complimenti così cortesi con un cenno della mano. Quando fecero per sedersi notarono che mancavano due posti. Elia e la madre superiora rimasero in piedi. Billy divenne agitato e rosso in faccia. Due uomini molto anziani vestiti di scarlatto si avvicinarono e dissero in italiano: «Ci scusi, monsignore, ma non abbiamo fatto a meno di sentire. Saremmo onorati se la madre superiora e il sacerdote prendessero i nostri posti. Ci siederemo là dietro». Dopo proteste diplomatiche e complicate negoziazioni, esercitate con romanità esemplare, Billy accettò e collocò la madre superiora ed Elia in prima fila, accanto alle altre suore. Lui prese posto fra Elia e il cardinale segretario di Stato. La madre superiora rivolse il suo volto coperto di cicatrici a Elia, che vi vide un fondo di esperienze antico e saggio come il genere umano. Vide la santità. La donna estrasse un rosario dalla tasca dell'abito. Era fatto di grani bianchi e coperto in modo irregolare di macchie marroni. «È vero, la fede in Africa qualche volta è come un fiume poco profondo», disse la donna. «Ma dovrebbe vedere i nostri fiumi in piena. Sono forti e corrono molto veloci. Abbattono gli alberi. Smuovono le colline e le
pietre pesanti. Questo fiume», e indicò il rosario nel palmo della sua mano, «è il fiume più grande in Africa. È il fiume del sangue, corre veloce e profondo per Gesù adesso. Queste macchioline qui e qui sono il sangue della mia madre superiora. Lo do a lei». Guardò la reliquia e non disse nulla. Lei gli prese la mano e le mise dentro il rosario. Poi gli richiuse la mano. "Perché lo ha dato a me?", si domandò, "Perché non a Billy? È stato lui a organizzare tutto, perché allora non lo dà a lui?". «La mia madre superiora ha parlato nel mio cuore quando La vidi nella folla là sotto. Mi ha detto: dai la mia reliquia a quel prete. Non so perché». Elia continuava ad ammutolire, incapace di esprimersi, ma la guardò negli occhi e lei riconobbe la sua gratitudine. La donna si raddrizzò, aprì un breviario e cominciò a pregare in silenzio. Elia rimase immobile, senza pensare a nulla, per alcuni minuti. Alla sua sinistra, Billy cominciò a eruttare una corrente di chiacchiere sottovoce, ma Elia non riusciva a sentirle. I suoi occhi vagavano fra le file di prelati e dignitari seduti di fronte a lui dall'altro lato dell'altare. C'erano i cardinali e i vescovi africani. Conosceva alcune delle facce dagli articoli dedicati a loro o scritti da loro. Notò la presenza di importanti cardinali di Curia, soprattutto il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede - Dottrina, lo chiamava Billy. I suoi occhi continuarono a vagare senza meta nelle file anteriori, e alla fine si fermarono su una figura. Il volto di quel cardinale attirò la sua attenzione, sebbene non riuscisse a spiegarsene la ragione. Un uomo avviato alla calvizie, tra i cinquanta e i sessant'anni. I restanti capelli erano ancora scuri. Stava guardando in basso e leggeva, ma di tanto in tanto alzava gli occhi e scrutava la folla. La faccia era ricettiva, intelligente, segnata, ma ancora giovane. Era una faccia estremamente seria, con occhi seri, infossati, e una bocca sottile che sembrava sospesa ai limiti dell'indifferenza e che alludeva alla disapprovazione. «Billy, chi è quel cardinale?». «Quale? Ce ne sono parecchi là di fronte». «Quello giovane, due file dietro e tre posti verso sinistra dal cardinale arcivescovo di Vienna». «Dov'è Vienna? Eccolo lì, lo vedo accanto a Nairobi e Parigi. Ok, ora due file dietro e tre posti verso destra. Bene, l'ho individuato. Oh, quello è il cardinal Vettore, uno dei ragazzi della Curia».
«Mi puoi parlare di lui?». «Non c'è molto da dire. È un tipo brillante. In ascesa. Le voci di corridoio sostengono che sia in corsa per il posto di Stato, quando il capo un giorno o l'altro si ritirerà». «Pensi che sarebbe adatto al compito?». Billy ci pensò su un momento. «Sarebbe certamente adatto. Collegamenti importanti con i politici europei e con gli Stati della ex Unione Sovietica. Fa un lavoro eccellente nel Pontificio Consiglio per il Dialogo con le Religioni Non Cristiane. Lavora con un gran numero di uffici vaticani come una sorta di persona di contatto. Ma non è esattamente il mio genere. È il tipico intellettuale freddo. Ti fa sentire stupido se gli chiedi qualcosa in modo diretto». «È uno dei vescovi modernisti?». «No, non appartiene alla loro fazione. È un tipo tranquillo. Non riusciresti mai a dire, parlando con lui o leggendo la roba che ha pubblicato, se sia progressista o conservatore. Con il risultato che viene considerato un moderato. Ma potresti dire che fa gruppo a sé». «Come descriveresti quel gruppo?». Billy corrugò la fronte. «Non so come descriverlo. Ci sono alcuni come lui qua intorno. Di sicuro una subcultura. Uomini incredibilmente dotati, amministratori eccellenti, abili nel trattare con ogni genere di personalità. Ma non mostrano mai le loro carte, capisci. Sono puliti, immacolati. Ma sono anche insensibili». «Insensibili?». «Oh, non voglio dire crudeli o cose del genere. È che... beh, sento una ventata di freddo quando passano per i corridoi. Sono sempre perfettamente cortesi. Chiedono della tua salute. Ma hai la sensazione che ci sia qualcos'altro, lontano, sullo sfondo. Il mio barometro vibra sempre e non ho ancora decifrato che cosa voglia dire». Billy abbassò la voce: «Ora, prendi il boss, qui alla mia sinistra. Il secondo uomo più importante nella Chiesa. Ha a che fare con i pescecani della politica dalla mattina alla sera. La romanità gli esce da tutti i pori, ma ha un cuore. Dona la maggior parte del suo stipendio ai poveri, vive in un appartamento che è più scalcinato del mio, guida una Volkswagen di vent'anni e ha bisogno che gli si ricordi di comprarsi delle scarpe nuove di tanto in tanto. Prega quando nessuno lo vede - l'ho beccato alcune volte - e questo dice molto di un uomo. Una volta mi ha detto che non desiderava nient'altro che diventare un monaco certosino, ma come puoi vedere, Dio
aveva in mente altre cose. Gli piacciono i romanzi italiani del XIX secolo e il vino dolce - puah! Piange alle parti tristi delle opere e si abbatte davvero quando legge di un vescovo che parla a vanvera con la stampa "della Chiesa inquisitoria del presente papa". Ride di cuore a una bella barzelletta, ma penso che soffra molto dentro di sé. È brillante e nobile, è un prete fedele, ma naturalmente ha le sue pecche, specialmente il temperamento. Ma ama il Signore e la Chiesa con una devozione quasi infantile. Riesci a leggerlo come un libro aperto. È quello che è, se capisci quello che intendo». «È quello che sembra essere?». «Precisamente. Potrei passare in rassegna con te alcuni profili dei tipi sparsi qui e là attorno all'altare. La compagnia del papa, tipi allegri, stupidotti e santi a bizzeffe. Ma quelli come Vettore sono di un genere completamente diverso. Un vero puzzle per me». «Ce ne sono tanti come lui?». «No». Elia guardò il rosario macchiato di sangue che teneva in mano e cominciò a pregare in silenzio per la Chiesa. «Come mai tutto questo interesse improvviso per Vettore?», chiese Billy. «Ti ricordi il pomeriggio in cui sono arrivato a Roma?». «Sì». «Ti ricordi che mi sono addormentato e quando mi sono svegliato il sogno è continuato per alcuni minuti ed è diventato... Non vorrei chiamarlo una visione. Posso solo dire che ero sveglio e che ho visto una faccia. Mi ha spaventato. Te l'ho detto». «Mi ricordo vagamente». «Il cardinale ha una straordinaria rassomiglianza con l'uomo del mio sogno». «Un sogno, Davy? Senza offenderti, vecchio mio, ma i sogni hanno ingannato molti, come dice il Siracide». «È vero, la maggior parte dei sogni sono così. Ma Dio di tanto in tanto parla attraverso i sogni». «Allora, dimmi che cosa pensi che stia dicendo?». «Non lo so». «Avanti, sembri troppo preoccupato per un semplice sogno. C'è qualcos'altro, no?». «C'è. Ma esito a parlarne». «Sputa fuori».
«Ho visto quel cardinale a Capri». La faccia di Billy impallidì, mentre fissava Elia. «Non stai parlando sul serio». «L'ho visto alla villa del presidente». Billy guardò lentamente il cardinale dall'altro lato dell'altare. Poi tornò a guardare Elia. Aveva un'espressione colpita. «Ne parlerò al boss. E forse posso fare in modo che tu vada di nuovo dal Santo Padre. Me ne occupo io. Sarebbe meglio che lo sentisse dalla tua bocca». *** Nei giorni che seguirono, Elia aspettò una convocazione dal Vaticano. Era stato assegnato al Collegio Carmelitano Internazionale a Roma, dove aveva il compito di insegnare filosofia e introduzione alla teologia ai novizi. Non era certo un impegno gravoso, e passava la maggior parte del tempo libero in preghiera e studiando per i propri interessi. Il corpus della letteratura apocalittica che era cresciuto a partire dall'inizio del XIX secolo forniva materiale più che sufficiente ai suoi scopi. Fra le prediche del cardinal Newman dedicate all'Anticristo e le visioni di numerosi santi e mistici sullo stesso tema, era impegnato a tempo pieno. Passò una settimana. Poi un'altra. Nessuna telefonata dal Vaticano. Alla fine, chiamò l'ufficio della Segreteria di Stato e fu informato da un impiegato che monsignor Stangsby era all'estero per questioni di lavoro. Trascorse un'altra settimana. Chiamò di nuovo, ma l'impiegato disse che il monsignore era ancora all'estero e che non poteva essere raggiunto. Elia gli chiese se potesse lasciare un messaggio. Acconsentì senza entusiasmo. Elia gli diede il numero del collegio dei carmelitani e chiese di raccomandare al monsignore di richiamarlo non appena tornasse. Chiese in quale Paese fosse andato. L'impiegato rifiutò gentilmente di divulgare una tale informazione. «Ma monsignor Stangsby e io siamo buoni amici», ribatté. «Sicuramente...». «Se Lei, padre, volesse telefonare a casa di monsignore, potrebbe lasciare un messaggio lì», ribatté e riappese. Riuscì solo a trovare la segreteria telefonica nell'appartamento di Billy. «Ehi, amici», disse la voce metallica, «sono fuori città per impegni di lavoro. Torno entro martedì. Per favore lasciate un messaggio dopo il beep
e vi richiamerò prima possibile». Martedì arrivò e passò. Mercoledì mattina Elia chiamò la Segreteria di Stato e l'addetto gli riferì che sfortunatamente monsignor Stangsby aveva avuto un incidente di macchina e che stava riprendendosi al policlinico Gemelli. Elia ricevette dal priore il permesso di fargli subito visita e prese il primo autobus che andava in città. Fu informato alla reception che monsignor Stangsby era in terapia intensiva e non poteva ricevere visite. Purtroppo non si potevano fare eccezioni. Il monsignore non era ancora fuori pericolo. Il padre avrebbe dovuto aspettare una settimana e informarsi di nuovo. Deluso, Elia tornò alla fermata dell'autobus. Osservò l'arrivo e la partenza del suo autobus. Fissava il marciapiede. Poi, ringraziando Dio per la sua esperienza di topo del ghetto, tornò all'ospedale, cercò un'entrata di servizio e si fece strada attraverso l'edificio, fino a quando non trovò l'entrata sul retro della terapia intensiva. Aspettò un momento di distrazione alla reception, poi entrò rapidamente e silenziosamente nel reparto. Trovò Billy in un letto protetto da un separé. Era riconoscibile solo attraverso la placchetta con il nome collocata ai piedi del letto. La faccia era interamente bendata, le braccia ingessate e una gamba tenuta sollevata in trazione. C'erano lividi purpurei sulle parti esposte. Era collegato a fili e intubato. «Billy», sussurrò Elia. Gli occhi di Billy si aprirono, girarono intorno, poi tornarono al centro. Si focalizzò sulla faccia del prete, e un gemito uscì dalle sue labbra gonfie. «Daui?». «Che cosa è successo, amico mio?». «Maachina... splosa... uoco... danato tuo viiia». Cercava di agitarsi debolmente e indicava la propria faccia. «Tuo... fuoi!». «Devo davvero togliere il tubo? Forse ne hai bisogno». «Iìì... falo». «Mi dispiace, Billy, non capisco. Potrebbe essere pericoloso togliere il tubo. Parleremo un altro giorno, quando ti sentirai meglio». «No meio... no altri giorni... oua!». Billy lo fissò e cominciò ad agitarsi. Elia gli tolse il tubo nervosamente, con l'intenzione di rimetterlo al primo segno di sofferenza. «Eccoci! Grazie a Dio», ansimò Billy con voce rauca. «È proprio uno
stupido tubo. Stramaledetto coso. Tiene pulita la bocca insanguinata. Gah!». Sputò muco e sangue. «Che cosa ti è successo?». «Non lo so». «Sei stato preso per strada?». «Mi stavo appisolando nel mio appartamento. Avevo appena mandato giù alcuni dolcetti che erano arrivati per posta e mi sono addormentato. Ero davvero stanco. Ero appena tornato da Helsinki. La cosa che mi ricordo dopo era un casino di medici imbrattati di sangue che mi stavano tirando fuori dai rottami della Jaguar. Stava bruciando e sembrava una fisarmonica chiusa. "Questa è la nuvoletta del pisolino", ho detto loro, "io non sono qui", ho detto, "sto facendo un pisolino e voi non siete altro che un brutto sogno". Ma non prestavano attenzione al povero Billy». «Ricordi come sei arrivato dentro la macchina?». «No! Nemmeno uno straccio di ricordo». «Stavi guidando?». «No, no, no! Niente! Guarda, è una cosa pazzesca, Davy. Un minuto prima ho gli occhi pesanti nel mio appartamento e subito dopo mi ritrovo nell'ambulanza, pieno di botte, in un inferno di dolore e la macchina in fiamme. Peggio ancora, quegli zotici puzzavano d'aglio e mi respiravano in faccia». «Che cosa potrebbe essere successo?». «Ho i miei sospetti». «Dimmi». «I dolcetti. Penso che qualcuno volesse che io avessi uno spiacevole incidente di macchina... dagli effetti permanenti». «Che cosa dice la polizia?». «Dicono che ero ubriaco». «Lo eri?». Billy gli lanciò uno sguardo severo. «Per niente», disse in un tono che fece nascere in Elia il desiderio di scusarsi. «Ma che cosa li può portare a concludere che l'incidente è collegato all'alcol?». «C'erano bottiglie di alcolici vuote nella macchina e i miei vestiti erano imbevuti di gin. Che per me è la prova sufficiente per farmi dedurre che è stata una messa in scena».
Elia lo guardava perplesso. «Vedi, vecchio mio, io odio il gin. Non l'ho mai, e voglio dire mai, bevuto. Certo, c'è stato un periodo in cui ero un artista degli alcolici piuttosto dotato, ma non sono mai stato capace di mandare giù quella robaccia. L'odore della bacca di ginepro mi fa venire la nausea. Prendo un goccio di vino di tanto in tanto, come tu ben sai, o un boccale di birra...». «O grappa?». «Va bene, va bene, va bene! Ma gin mai!». «Allora vuoi dire che qualcuno ha tentato di ucciderti?». «Giusto. E ha fatto in modo che sembrasse un incidente». «È un miracolo che tu sia sopravvissuto». «Suppongo di sì». Sputò ancora sangue. «Ho perso alcuni denti posteriori. Non chiedermi perché quelli davanti siano ancora piantati dentro le gengive. E ho un gran taglio in bocca, ma non chiedermi da dove venga. Tutta la cosa è maledettamente misteriosa». «È successo qualcosa di strano la notte che ti è capitato questo?». «Un sacco di cose. Tutta la mia vita è strana. Ogni cosa con cui abbiamo a che fare in ufficio è strana. Fammi un'altra domanda». «Hai parlato del cardinal Vettore con il segretario di Stato o il Santo Padre?». «Non ancora. Volevo farlo, ma la mattina dopo la messa africana è scoppiata una serie di crisi». Billy si schiarì la voce e sputò in un catino. «Ora basta. Non parlare più», disse Elia. «Prova a fermarmi!». «No, no. Devi riposare». «Parlare è la cosa che preferisco e da quando sono stato intubato mi è stata negata». «Chiamo un'infermiera». «Non farlo, Davy. Ascoltami. Ci sono delle cose che devi sapere». «Quali cose?». «Ho continuato ad aspettare di avere l'occasione di parlare da solo con il boss, ma quella mattina c'era la Gran Bretagna in arrivo, e subito dopo abbiamo avuto la Russia che protestava per il gran numero di conversioni che i nostri missionari stanno ottenendo. Stato continuava a dire: "Più tardi, William, qualsiasi cosa sia, può aspettare". Vorrei che non mi chiamasse William. Al tramonto corse a incontrare il papa e poi a un meeting con al-
cuni ministri degli esteri per discutere le dichiarazioni che avrebbero presentato al Club di Roma. La mattina successiva sono dovuto partire per Helsinki. Stato aveva programmato di partire per un incontro di emergenza alle Nazioni Unite. Sono arrivato a casa tardi, ma prima di andare a letto ho registrato un memo relativo alla nostra conversazione su Vettore, con l'intenzione di farlo mettere per iscritto al mio segretario. Pensavo di spedire la cassetta per corriere la mattina successiva cosicché fosse nelle mani di Stato al suo rientro da New York. Ma mi sono svegliato tardi e sono corso all'aeroporto. Quando sono tornato da Helsinki era tardi e Stato era già andato a casa, lasciando ordini di non essere disturbato. Il suo segretario mi ha detto che si era preso una bella influenza. Sono stato tentato di andare a casa sua e di tirarlo giù dal letto. Ho saputo cose così importanti in Finlandia, così grosse che avrei ignorato tutto per fargliele sapere. Ma poi ho deciso che non volevo che se la prendesse con me per aver disturbato il suo bel sonno. E poi sapevo che l'avrei visto in ufficio il mattino dopo. Che sequenza di eventi pazzesca. Così sono andato a casa e ho aperto la cassetta della posta. C'era un pacchetto di cioccolato alla menta, il mio preferito. Ne ho mangiato un po' mentre registravo il memo su Helsinki. Il resto è storia». «Chi ti ha mandato i dolcetti?». «Delle suore di Londra. Amiche di mamma». «Hai ancora il pacchetto postale?». «Penso che sia ancora sul tavolino da caffè». «E la cassetta?». «Probabilmente dentro il registratore». «Se non c'è, che cosa facciamo?». «Vai da Stato e gli dici di venire da me subito». «Deve essere molto urgente». «È una cosa grossa. Molto grossa». «Di che cosa si tratta?». «È tutto sul nastro. Guarda, non capisco perché il capo non sia venuto a trovarmi. Puoi domandargli che cosa succede?». «Lo farò. Mi puoi parlare di Helsinki?». «Ci sto arrivando. Fammi prendere fiato». «Billy, quali informazioni possono essere così importanti che qualcuno ha cercato di ucciderti? Certamente non il gruppo intorno a Vettore». «Non penso che abbia qualcosa a che vedere con questo. Per quanto ne so io. Almeno non direttamente. Questo è probabilmente il motivo per cui
non hanno organizzato un piccolo incidente anche per te. Dopo tutto, entrambi sappiamo di Capri, giusto?». «Esatto. Ma si tratta della mia parola contro quella del cardinale». «Giusto». «Non si fanno questo genere di cose per fermare un pettegolezzo su un cardinale». «Vettore è ambizioso e cieco come una talpa. Ma non è un killer. Penso che in qualche modo lo stiano usando. Dubito che capisca che cosa abbiano in mente». «Chi sono?». «I suoi padroni? Ho alcuni nomi, ma si tratta di una cosa più grossa». «Che cosa hai saputo?». «È l'infiltrazione». «Infiltrazione?». «Uno dei loro si è preso paura. Non direi che è passato dalla nostra parte, ma è un tipo con degli ideali. Ha fatto una sorta di esame di coscienza e ha deciso che non poteva sopportare quello che hanno in mente di fare. Mi ha telefonato due settimane fa e mi ha chiesto un incontro segreto a Helsinki. Non posso dirti chi sia. Se esce il suo nome, è un uomo morto. Mi ha raccontato tutto il loro piano di battaglia per la distruzione della Chiesa». «Chi sono?». «Sono...». Billy rantolò e sputò sangue. «Per ora basta», disse Elia. «Chiamo un'infermiera». «No, no. Guarda, vai nel mio appartamento. Prendi il nastro e mettilo nelle mani di Stato personalmente. E chiedigli di venire a trovarmi il più presto possibile». «Posso avere le chiavi del tuo appartamento?». «Non so dove siano. Guarda nel cassetto del tavolino». «Qui non c'è niente». «Probabilmente le hanno messe nella cassetta di sicurezza dell'ospedale. Non c'è modo che te le diano. Di' semplicemente al mio padrone di casa che ti ho autorizzato ad entrare». «Mi crederà?». «Digli che devi dare da mangiare a Andy. Saprà che vieni da parte mia». «Pregherò che tu ti rimetta, Billy. Che Dio ti protegga!». «Non ti preoccupare. Hanno bisogno di un fucile per la caccia agli elefanti per togliere di mezzo il vecchio pari d'Inghilterra».
«E prega che troviamo la cassetta». «Va' tu da Stato. Ti crederà. Sono sicuro che ti porterà dal Santo Padre». Elia rimise a posto il tubo di aspirazione, benedì Billy e se ne andò. *** L'appartamento era immacolato. Non c'era carta strappata. Nessuna scatola di dolcetti. E nessuna cassetta. Non c'erano segni di lotta. Ma sul ripiano della cucina c'erano tre bottiglie di gin vuote accanto al lavello. Elia fissò le bottiglie per alcuni minuti, fino a quando ebbe l'impressione che fossero allineate come soldatini, o come testimoni sull'attenti, pronti a fornire le prove contro la sobrietà di un certo Billy Stangsby, noto ubriacone. L'ordine infastidiva Elia. Bastava questo a suggerire una "messa in scena". E poi conosceva Billy abbastanza bene per credere che non stesse mentendo a proposito del gin. La natura di Billy, portata a confessare tutto, avrebbe ammesso ogni cosa. In aggiunta, il monsignore era arrabbiato, confuso e un po' spaventato - una reazione del tutto diversa dalla vergogna. Sollevò il telefono e chiamò l'ufficio della Segreteria di Stato. Squillò due volte, e quando una voce rispose, Elia riappese senza dire una parola. Guardò il soffitto dell'appartamento, poi le pareti. Alla fine se ne andò. Elia decise di andare direttamente alla Città del Vaticano. Era un pomeriggio di fine settembre. La giornata era fresca e il cielo di un azzurro luminoso. Il genere di condizione atmosferica che lo aveva sempre messo in uno stato di euforia. Persino da bambino, nel ghetto, era stato felice in giorni come questi, non importa quanta fame avesse. Camminò lungo il Tevere e passò sulla riva occidentale al ponte di Sant'Angelo. Poi, volendo entrare in Vaticano in maniera discreta, andò verso nord e svoltò a ovest verso la Via Crescenzo. Se un singolo o un gruppo aveva attentato alla vita di Billy, era accaduto perché sapeva qualcosa che avrebbe messo in pericolo i loro piani. Perché, allora, in questa città di criminalità imperante, di omicidi quotidiani, la maggior parte di loro irrisolti, non si erano limitati ad assassinarlo? Un veleno mortale o una pallottola sarebbero stati veloci ed efficaci, lasciando poche possibilità di scoprire gli assassini. Perché essi avevano ritenuto necessario creare l'apparenza di un incidente? L'unica spiegazione possibile era che per loro fosse assolutamente necessario evitare domande difficili. L'assassinio di un monsignore appartenente alla Segreteria di Stato in Va-
ticano avrebbe suscitato curiosità da molte parti. Avrebbe provocato indagini complesse. Quasi certamente sarebbe stata fatta la domanda: quali informazioni delicate erano arrivate al monsignore di recente? L'"incidente" era stato ordinato da chi supervisionava la sorveglianza elettronica del personale del Vaticano? Questa persona, o queste persone, erano nemici esterni? O interni? Era impensabile che il responsabile fosse qualcuno all'interno del Vaticano. C'erano molti generi di corruzione in questo mondo, ma la corruzione ecclesiale di solito prendeva la forma del vizio o del dissenso ideologico. Nessuno dei due forniva un motivo per uccidere. Allora, quali erano gli altri scenari? Aveva sentito non pochi allarmisti elaborare teorie sulle infiltrazioni massoniche in Vaticano. Manipolazioni mafiose. Erosioni marxiste. C'era una teoria secondo la quale questi ultimi regimi, prima della loro scomparsa, avevano piazzato migliaia di agenti nei seminari di tutto il mondo e che alcuni di questi agenti ora si trovavano nell'età giusta per accettare nomine vescovili e assumere incarichi importanti nell'amministrazione della Chiesa universale. Aveva sentito di cimici fasciste, cimici sataniche, cimici eurocomuniste, invasori dallo spazio, e persino cimici capitaliste americane. Tutti sembravano avere le "prove" a sostegno del loro teorema sulla cospirazione. Non aveva dubbio che ci fossero peccatori e traditori nel collegio cardinalizio, e fra i migliaia di vescovi nel mondo. La stampa si divertiva a rivelare le loro defezioni e i loro scandali. Sapeva che la Chiesa era proprio quello che il Signore aveva detto, una rete gettata nel mare dell'umanità, che pescava pesci di ogni tipo, alcuni buoni, altri meno. Era sempre stato così. Desiderava discutere di questi temi con padre Matteo. Il frate sarebbe stato in grado di gettare una luce soprannaturale su tutto questo. Elia si sentiva esposto, in pericolo. Il mondo gli si era sempre presentato come una zona disastrata: Varsavia, Cipro, Israele. Ma la Chiesa? No. Era costruita su una roccia, una pietra d'angolo, fondamenta sicure. Ma il Signore, parlando attraverso la croce di San Damiano, aveva detto: «Va'. Ricostruisci la mia Chiesa che sta andando in rovina». Settecento anni prima, Francesco aveva sollevato una pietra e l'aveva messa su un'altra. Poi un'altra. E un'altra. Aveva cominciato in senso letterale e si era spostato all'universale. Il poverello di Assisi sarebbe rimasto sbigottito, se avesse previsto che cosa sarebbe successo a causa della sua santa obbedienza.
Ora la Chiesa stava cadendo di nuovo nel caos, ma non come nel XIII secolo, o all'epoca dei Borgia, o durante la cattività avignonese. Anche i giorni cupi dell'occupazione nazista di Roma erano stati tragici. E durante l'epoca sovietica era sembrato che tutta l'Europa si trovasse sull'orlo di un'invasione che assomigliava al regno dell'Anticristo come altre forme di tirannia che la Chiesa aveva affrontato nei suoi duemila anni di storia. Ma quel periodo ora era passato. Il comunismo e il fascismo erano morti. Il mondo era entrato in un'epoca di pace relativa, sebbene di tanto in tanto continuasse a ribollire. È vero, i poteri mondiali erano secolarizzati, e i credenti stavano continuando a diminuire di numero, ma questo significava che il peggio stava davvero accadendo? Significava che la Chiesa era davvero in rovina? I suoi problemi interni derivavano davvero dall'attività di pochi agenti segreti, pochi diavoli chiusi in stanze segrete, o pochi ribelli rumorosi che si mettevano in posa come dissidenti eroici? Elia era tentato di ridere amaramente. Aveva sofferto sotto tiranni in carne e ossa. Questi sciocchi prelati occidentali e teologi accademici viziati come potevano comprendere la natura della vera tirannia? Se avessero passato anche solo un giorno in un lager, abbandonerebbero all'istante il loro malanimo stizzoso verso Roma. Crescerebbero e arriverebbero a vedere la loro ostilità per quello che era: una ribellione adolescenziale. Una Chiesa inquisitoria, la chiamavano. Ma questo tiranno, cosa curiosa, non aveva polizia o eserciti, nessun potere temporale, solo la voce della verità nella coscienza. Perché era così odiata? La voce della verità nella coscienza suonava come un rimprovero e se i colpevoli non sopportavano i propri sensi di colpa, alla fine dovevano mettere a tacere chi li rimproverava. Ma uccidere Billy? Billy che più di chiunque altro in Vaticano era consapevole della propria debolezza e non avrebbe rimproverato a nessuno il peccato o la fragilità umana, sebbene avesse fatto alcune pungenti considerazioni sugli uomini che erano in posizione elevata e diffondevano errori. No, chiaramente l'attentato alla sua vita era di un'altra dimensione. Era puramente politico? Forse era un avvertimento a Stato che gli sarebbe stato riservato un destino simile se avesse continuato con la sua caratteristica tenacia a portare avanti una certa politica. Forse l'"incidente" non aveva niente a che vedere con Elia o con il cardinal Vettore ed era opera di movimenti internazionali complessi, di cui Elia non riusciva nemmeno a immaginare la natura. Qualsiasi cosa Billy avesse saputo a Helsinki, era ovviamente il pezzo
mancante del puzzle. All'improvviso gli venne in mente che Billy era l'unico nella Chiesa che sapeva che cosa fosse. Per un momento ebbe paura per lui e rimpianse di non aver insistito per sapere di più. Ma poi si ricordò che Billy avrebbe riferito l'informazione direttamente, e dettagliatamente, a Stato. Elia arrivò all'entrata della serie di uffici occupati dalla Segreteria di Stato e chiese di vedere il cardinale. «Sarebbe necessario un appuntamento», gli disse l'addetto, un sacerdote. «È davvero importante», replicò. «Il cardinale è oberato da un calendario molto pieno». «Per favore, potrebbe portargli un appunto? È della massima urgenza». Il sacerdote-addetto sembrava dubbioso, ma gli allungò un bloc-notes e una matita. Elia scarabocchiò il proprio nome, il numero di telefono alla casa dei carmelitani e il messaggio: «Riguarda William. Questione urgente e delicata». «Farà in modo che lo riceva alla svelta?», lo supplicò. L'addetto apparteneva a quel genere di burocrati che coltivano una freddezza impeccabile come una forma d'arte. «La vede questa?», disse indicando un cestino sulla sua scrivania. «Questa è la posta di oggi diretta personalmente a Sua Eminenza. Ne ho un'altra pila, ancora più grossa, per la Segreteria. Inoltre, ho una serie di messaggi telefonici a cui deve rispondere. L'ufficio del Santo Padre ha chiamato per organizzare un incontro non previsto per questo pomeriggio e Lei è il quarto prete che è venuto questa mattina, senza appuntamento, chiedendo di vederlo per questioni urgenti e delicate. Che cosa devo fare?». «Se il cardinale sapesse che cosa desidero dirgli, credo che metterebbe da parte tutto il resto». «Metterebbe da parte persino il Santo Padre?». Elia sospirò e aprì le mani. «La prego. In nome di Dio». «Sono un uomo impegnato. E lo è anche il cardinale. Al massimo, quando troverà un momento libero, la contatterà. Questo è il massimo che posso fare». Elia se ne andò con il cuore pesante e prese un taxi per tornare al collegio internazionale. ***
Doveva tenere una lezione dopo cena, ma fu sorpreso di vedere che la classe era mezza vuota. Tutti i novizi erano presenti, ma non era arrivato nessuno degli studenti ospiti e degli uditori. «Dove sono gli altri?», chiese. I novizi si scambiarono un'occhiata e ridacchiarono. «Padre, non lo sa? Questa sera c'è una partita di calcio importante. Vale per la qualificazione alla fase finale della Coppa del mondo». «Capisco», disse Elia. «In questo caso mi domando se abbia senso paragonare Giovanni della Croce a Tommaso d'Aquino sul tema della croce». Gli studenti soffocarono i loro sorrisetti e lo fissarono per vedere che cosa avrebbe fatto. «Proveremo con la teologia un'altra volta, quando la partita importante sarà passata. Non c'è lezione questa sera, fratelli miei». Si precipitarono fuori ed Elia si domandò dove avrebbero trovato un televisore in tutto il Carmelo. Si avviò esausto alla cappella e pregò per un'ora. La sua tensione si allentò, ma continuava a sentirsi inquieto. Telefonò al Gemelli, ma l'infermiera gli poté dire solo che le condizioni di monsignor Stangsby si erano stabilizzate. Sarebbe stato in grado di ricevere visitatori entro pochi giorni. Sentendosi agitato, Elia uscì per fare una passeggiata al crepuscolo. La sera era fresca e poche stelle bucavano la cupola bronzea sopra la città. Il rumore del traffico sulle strade principali si era attenuato, ma continuava a dare fastidio ai suoi nervi. Scantonò in strade laterali che non conosceva e camminò senza una meta, se non il vago proposito di girare attorno al collegio e di ritornarvi entro un'ora. La sua lunga passeggiata lo portò in una zona popolare fatiscente, dove dai balconi le donne strillavano dietro ai bambini e le strade erano cosparse di rifiuti. Dei cani gli latrarono dietro. Un topo lasciò imperturbabile che si avvicinasse. Qui la puzza di fogna era intensa, mescolata con odori di avanzi e pasta. In una strada buia fra lampioni con lampadine bruciate, lo circondò un gruppo di ragazzi di strada. Trovava triste e divertente incontrare degli adolescenti che parlavano un italiano gutturale, vestiti come nazisti, ma con primitivi tagli di capelli da indiani d'America. Sghignazzarono e lo schernirono e lo perquisirono alla ricerca di soldi. Trovarono solo poche lire e il rosario macchiato. Buttarono il rosario per terra, lo pestarono, se lo lanciarono, e se ne andarono bestemmiando e ridendo, senza fargli male per davvero. Benedì le loro schiene che si allontanavano.
Il rosario era a pezzi. Raccolse i frammenti rotti e li mise in tasca. Pregò per i ragazzi e continuò la sua passeggiata. Pochi isolati dopo, passò un vicolo e con la coda dell'occhio vide una fiamma. Temendo che ci fosse un incendio in uno dei caseggiati, tornò indietro ed entrò in un passaggio buio. Alla fine della stradina angusta si imbatté in una folla di bambini e giovani piegati su un fuoco. Quando lo videro, il più piccolo urlò terrorizzato. Poi tutti si dispersero, strillando: «Un prete, un prete!». I più grandi scapparono più lentamente alla sua vista, trottando all'indietro verso la strada, urlandogli dietro una serie di oscenità. Rimase sorpreso dell'inventiva volgare delle loro parole. Inoltre, rimase stupito del fatto che in quella luce fioca fossero stati in grado di capire che era un prete. Andò verso il fuoco abbandonato e vide schegge di legna che bruciavano sotto una graticola di ferro. Sopra c'era qualcosa di nero, fumante. Poi la cosa nera si mosse. Elia fece un balzo all'indietro per l'orrore, poi si portò avanti e rovesciò la graticola con il piede. La cosa nera rotolò sopra i carboni ardenti e cominciò a dimenarsi senza fare rumore. Era un gatto. Le zampe gli erano state mozzate e gli arti e il muso erano legati con del nastro nero. La maggior parte del pelo era bruciato. Il fetore era insopportabile. Gli occhi erano spalancati come spiritati e brillavano rossi e incandescenti alla luce delle fiamme. Elia lo fissò incredulo. Trovò un mattone e glielo picchiò sulla testa. Lo colpì ancora e ancora, fino a quando non smise di muoversi. Poi si alzò e si guardò intorno. Il fuoco era chiuso entro un cerchio bianco che era stato tracciato sui carboncini. Dentro il cerchio e sulle pareti del vicolo erano stati disegnati con il gesso dei simboli magici. Elia pronunciò un esorcismo e spruzzò acqua santa in tutte le direzioni. Poi andò via. Durante l'ora successiva, mentre cercava una strada per tornare a casa, vide il campionario di umanità più ampio dai tempi della guerra. Scavalcò parecchi ubriachi addormentati. Passò due donne anziane che stavano schiaffeggiando con vigore un uomo grasso che rideva in modo isterico e barcollava sotto l'influenza della bottiglia di vino che brandiva in mano. Una ragazzina piangente lo tirava per il braccio libero gridando: «Nonno! Vieni a casa! Nonno!». Un ragazzo esagitato, vestito solo della biancheria intima, raggomitolato sulla tromba delle scale, fumava una sigaretta con furia, brontolando con se stesso. Uomini di mezza età rombavano su e giù per le strade strette in Porsche e BMW, vestiti di pelle nera luccicante, l'aspetto potente, cinico,
arrogante. Gli fecero dei gesti volgari. Passò davanti ad una chiesa antica e vide delle giovani donne che si accendevano sigarette al riparo dell'ingresso. Lo invitarono e gli gridarono i prezzi a gran voce. Si avvicinò e cominciò a esortarle a lasciare la vita in cui erano finite, ma loro trovarono ridicola la sua terminologia arcaica. Risero, ma non in modo sgarbato, e gli promisero senza troppa convinzione e gli dissero di lasciarle in pace a fare il loro lavoro. Le supplicò almeno di condurre i loro affari in un altro posto lontano dalla porta di una chiesa. Smisero di ridere e gli spiegarono con grande serietà e una certa cortesia, una concessione riluttante al rispetto, che la chiesa era abbandonata e che il Santissimo Sacramento non c'era. Elia pregò per loro interiormente Maria Maddalena e a sorpresa andarono via senza dire una parola. Una piccola vittoria, ma era scosso. Alla fine, vagando per un labirinto di incroci e viali, arrivò sul retro del collegio. Andò diritto alla cappella e si inginocchiò senza muoversi. Lì, nella pace della stanza, si accorse che le mani gli tremavano. «Mio Dio», gridò, «mio Dio, dove sei? Perché non possiamo arrivare a loro?». Quando la mano smise di tremare, sentì una voce parlargli dal tabernacolo. Contemporaneamente, parlava dentro di lui. "Figlio mio, ti chiedo di scendere nei luoghi perduti. Va' senza paura". "Non ho la forza, Signore. Non ho il potere di salvarli!". "Nessun uomo è in grado di salvare un altro uomo. Solo io posso salvare. Ma la mia forza è dentro di te. La mia forza opera efficacemente nella tua debolezza. Quando ti fiderai di me?". "Che cosa sta succedendo, Signore? La tua Chiesa sta vacillando per i molti colpi e sta sanguinando da milioni di ferite". "Non avere paura. Cammina nell'oscurità e riportami le anime. Io sarò sempre con te". "Che cosa vuoi che faccia, Signore? Che cosa succederà a Billy? Come posso avvisare il papa? Sono circondato da più fronti e tenuto lontano dal luogo in cui devo andare. Che cosa devo fare?". "Devi fare solo questo: non guardare né alla tua destra, né alla tua sinistra. Non devi andare davanti a me, e neppure dietro di me. Aspettami e io agirò". Poi, con gentilezza, la Presenza ritornò nella sua condizione originaria. Persino così, rimase con lui. Sentì come se un fuoco dolce lo circondasse e pervadesse il suo tormento. Un fuoco così diverso dal fuoco del vicolo, che
era un miracolo che venissero chiamati con lo stesso nome. Il fuoco della Presenza sull'altare era l'abbraccio dell'amore totale; bruciava, ma non consumava. Dava gioia, non dolore. Non legava le sue creature e nemmeno mutilava la loro carne. Le liberava. Dava luce. Le consolava e le nutriva. Perché gli uomini lo odiavano così tanto? Andò a letto e dormì. 9 Roma Elia aspettò con pazienza che il cardinale lo contattasse. Ma non arrivò nessun messaggio, né quel giorno, né quello successivo. Fece lezione e si tenne occupato con i suoi studi privati. Pregava e leggeva e passeggiava intorno al collegio. Una sera uscì per andare al Gemelli, ma trovò Billy profondamente addormentato. Sembrava migliorare, cosa che risollevò considerevolmente l'umore di Elia. Non volendo disturbare il sonno del monsignore, se ne andò furtivamente come era arrivato. Sebbene pregasse e facesse continuamente atti di fede, la tensione causata dal silenzio del Vaticano continuava a crescere. Era difficile fidarsi, ed era persino più difficile rimanere inattivo, quando tutto dentro di lui gridava: "Avanti! Suona l'allarme!". Ma fece quello che gli era stato detto e aspettò. Se non ci fosse stata la letteratura apocalittica nella quale sprofondare per ore ogni giorno, la tensione sarebbe stata insopportabile. Stava crescendo la sua ammirazione per questo inglese, il famoso cardinal Newman, convertito dall'anglicanesimo nel XIX secolo. Un carattere insolito, un uomo differente da chiunque altro nella sua epoca. La sua solitudine, confinante con l'alienazione, gli aveva fornito un punto di vista unico. Era stato capace di fare un passo fuori dall'ethos del suo secolo, il XIX, e di osservarlo con occhio obiettivo. Era serio fino alla malinconia, brillante, sensibile e - questo lo avevano detto in tanti - un vero profeta. Aveva scritto e predicato molto sullo spirito dell'Anticristo. Diceva che nel mondo stava crescendo questo spirito perverso e che stava per incombere una grande apostasia. Citava il profeta Daniele, il quale ammoniva che l'avversario avrebbe ottenuto il potere su tutte le nazioni in modo pacifico e con le lusinghe. Newman, inoltre, supponeva che l'apostasia del popolo di Dio in varie epoche e luoghi avesse sempre preceduto la venuta degli anticristi, tiranni
come Antioco e Nerone, Giuliano l'Apostata, il falso profeta Maometto, e i leader atei della Rivoluzione francese, ciascuno un tipo o presagio dell'Anticristo che sarebbe venuto alla fine della storia, quando il mistero di iniquità avrebbe manifestato la sua insensatezza finale e terribile. L'incapacità dei credenti di vivere la loro fede, ammoniva Newman, come nelle epoche precedenti avrebbe condotto al regno dell'«uomo del peccato», che avrebbe negato la divinità di Cristo e innalzato se stesso al suo posto, al punto di entrare nel tempio di Dio e di pretendere di essere adorato. Elia lesse: "Inquineranno il santuario di forza e porteranno via il Sacrificio quotidiano e collocheranno l'abominio che affligge, e così come fanno i malvagi contro il Patto che verrà corrotto dalle lusinghe...". La sua concentrazione fu interrotta dal portinaio, che bussò alla porta. «Padre, un messaggio dal Vaticano! Le manderanno una macchina. Sarà qui in dieci minuti. Andrà a un incontro». «Sarò pronto, fratello. Grazie». Si spruzzò dell'acqua fredda sulla faccia, riassettò l'abito, e si recò in tutta fretta alla cappella lungo il corridoio. Lì pregò un paio di minuti, prima che entrasse il portinaio e lo avvertisse che la macchina era arrivata. «Svelto, svelto, sta girando intorno all'isolato». Elia uscì dall'entrata principale e guardò avanti e indietro sulla strada, ma non vide nessuna macchina di rappresentanza. Stava per rientrare per chiedere al portinaio, quando una Volkswagen gialla molto arrugginita rallentò facendo stridere i freni. Un braccio si sporse dal finestrino del guidatore e gli fece un cenno. «Salti dentro, padre», disse il cardinale segretario di Stato. Elia si allacciò la cintura di sicurezza, mentre il cardinale si allontanava dal marciapiede in una nuvola di gas di scarico nero. Suonando il clacson e sbandando, passò l'angolo stridendo, tuffandosi nel traffico frenetico della sera e guidando come un vero romano in direzione della cupola di San Pietro. «Sono sollevato! Lei ha ricevuto il mio messaggio, Eminenza». «Messaggio? Non ho ricevuto nessun messaggio da Lei». «Ma ho cercato di contattarla dall'incidente di monsignor Stangsby». «Il colmo!», disse il cardinale irritato. «C'è un gran daffare dall'incidente. Sospetto che il mio staff stia filtrando le comunicazioni che giungono in ufficio. C'è un flusso maggiore di quanto possiamo affrontare adesso. Mi devo scusare. Con l'assenza di William...». Il cardinale sembrava reprimere quello che stava per dire.
«Eminenza, c'è qualcosa di urgente che Le devo dire». «Anch'io. Ho delle notizie molto tristi, padre. Mi dispiace dirLe che il nostro William è morto». All'improvviso il traffico sembrò rallentare e svanire dalle sue orecchie. Il cuore fece un gran balzo, e un dolore antico tornò nel suo petto. Fissò fuori dal finestrino, incredulo, sospeso nell'immobilità, mentre percorreva al rallentatore la città eterna. La voce del cardinale ruppe l'incantesimo. «Mi dispiace. Era un Suo amico». «Sì, era mio amico». «È una perdita terribile per tutti noi. Quante volte gli ho detto: "William, Lei prega come un angelo, ma guida come un diavolo"». Questo detto da un uomo che percorreva la Via Appia a ottanta km all'ora. «L'ho visto alcuni giorni fa e sembrava rimettersi al meglio. Si sa che cosa sia successo?». «Quelli del Gemelli dicono di non sapere perché sia morto. Fino all'autopsia possiamo solo fare delle congetture. I dottori pensano che ci fosse un'emorragia interna che non hanno visto. Forse un grosso coagulo di sangue che ha bloccato il cuore. È successo nel mezzo della notte. Le infermiere del turno di notte non hanno sentito l'allarme. Sembra che fossero impegnate con un'altra crisi nel reparto, anche se si è dimostrata un falso allarme. Quando sono corse da William era già andato». «Questo è un male», disse Elia. «Lo so. Sentiremo la sua mancanza. Portava il buon umore in un posto che troppo spesso è solenne. Era un amministratore dotato». «C'è qualcosa di peggiore della nostra perdita personale». Il cardinale lo guardò di sbieco. «Che cosa vuol dire?». «È una questione molto seria. Molto più seria di quanto possa spiegare in una breve corsa in macchina». «Bene! Andiamo nel mio ufficio e lì mi potrà raccontare di cosa si tratta». «Non penso che sia saggio. Non possiamo dare per scontato che quel posto sia sicuro». «Padre», disse il cardinale con gentilezza, «la morte di William è un colpo per Lei. Vorrei riportarLa al Carmelo. Può riposare. Possiamo parlare domani».
«Quando Le racconterò che cosa è successo nelle scorse settimane, capirà che non soffro per il lutto o lo shock nervoso. William ed io abbiamo scoperto una grave minaccia al papato e alla sostanza della Chiesa stessa. Sono in pericolo le sue fondamenta». «Le sue fondamenta?», disse il cardinale con aria dubbiosa. «Possiamo fermarci e camminare?». Il cardinale non rispose subito. Elia vide che stava ponderando ogni cosa. «Va bene», disse con voce tranquilla. «Andremo da certi nostri amici. Lì non saremo disturbati da ascoltatori indesiderati». Da questo Elia capì, con un certo sollievo, che anche il cardinale aveva i suoi dubbi sulla sicurezza degli uffici della Curia. «Non parleremo più qui dentro», disse. «La sorveglianza elettronica è sofisticata di questi tempi. Una cimice può strisciare anche dentro a un maggiolino». Quindici minuti dopo lasciarono la Via Appia per entrare in una stradicciola che si snodava attraverso arbusti e alberi. Il cardinale parcheggiò la macchina sull'erba che affiancava la strada, lasciando le luci accese e puntate contro una piccola costruzione in pietra che sembrava una cappella funeraria del V o VI secolo. Aprì la porta di bronzo, entrò e accese una luce all'interno. Elia spense i fari della macchina e lo raggiunse. Il cardinale passò per una porta, in fondo allo stanzino aprì un'altra porta, la attraversò e scomparve giù per una rampa di scalini in pietra. La scala era ovviamente molto antica, scavata in strati di terreno alluvionale, poi in un impasto di tufo fatto di ghiaia e terra, e alla fine, al livello più basso, in pietra. I gradini finivano all'improvviso circa quindici metri sotto la superficie, aprendosi in una galleria scavata in modo irregolare, che si allontanava da loro in un'oscurità indefinibile. «Questo è il mio unico lusso», disse il cardinale, agitando la chiave che aveva in mano. «Venga, La voglio presentare ai miei amici». Condusse Elia nella galleria e voltò a destra in una delle innumerevoli diramazioni sotterranee. «Lei naturalmente sa dove ci troviamo». «Nelle catacombe». «Sì. Ce ne sono chilometri e chilometri qua sotto. Siamo in quelle di Callisto, un piccolo accesso laterale. Vede, da qui non passa nessuno. Solo un cardinale un po' matto».
Si fermò a una porta di legno molto antica, la aprì ed entrò. Elia lo seguì. Nella completa oscurità del luogo sentì sfregare un fiammifero; quando il cardinale accese la lampada a gasolio, si diffuse una luce accecante. Chiuse la porta dietro di sé e mise il catenaccio. «Mi piace venire qui qualche volta. Mi siedo fra le tombe dei miei fratelli e delle mie sorelle. Si guadagna una prospettiva, no? Quando mi sembra che Roma sia particolarmente invasa dalla corruzione e che il Vaticano sia un alveare di api indaffarate a trasformare la carta in miele, allora vengo quaggiù e prego il Signore. Non farmi diventare un principe. Non farmi gonfiare di boria. Fammi diventare come uno di questi piccoli, i tuoi veri servi». Elia guardò le nicchie poste nelle pareti lì intorno. «Guardi, padre. Legga questo: che cosa dice?». «Praetextatus, clarissimus». «Clarissimus. Significa che era un senatore. Non siamo lontani dalla tomba di santa Cecilia, la prima grande martire di nobile famiglia. Quest'uomo forse era un membro della sua famiglia. Ora, guardi qui. Che cosa dice questa?». «Osimus, servus». «Uno schiavo. Vede, questi due uomini erano fratelli in Cristo. Riposano fianco a fianco, aspettando l'ultimo giorno». «Un posto tranquillo per aspettare...». «Sì. È pieno di santi, la maggior parte dei quali ignoti alla storia. Qui si trovano le vere fondamenta della Chiesa. Molti di loro hanno subito morti orribili. Fatti a pezzi nell'arena, decapitati. Alcuni sono morti crocifissi. Guardi questa. È la mia preferita. Una ragazza. Una delle migliaia di martiri sconosciuti. La considero la mia santa, la figlia piccola che non ho mai avuto. Lei si domanda se non sono leggermente matto?». «No, Eminenza». «Un cristiano vive nel tempo e oltre il tempo. Sono più vicino a questa piccola che alla maggior parte di quelli che si muovono e parlano là sopra. Sì, lei e io ci conosciamo bene». «Come si chiama?». «Severa». «Sa qualcos'altro di lei?». «Solo che è morta durante una persecuzione nel III secolo. Era una martire. Tredici anni. Ha scelto di essere gettata in pasto ai leoni piuttosto che cedere alla seduzione sessuale. La famiglia ha scelto con tatto le parole del
suo elogio: "Una martire per la santa verginità, vittoriosa sul leone", dice. Oltre a questa iscrizione, ce n'è un'altra. Riesce a leggerla, padre?». «"Una colomba senza amarezza. Riposa, Severa, e rallegrati nello Spirito Santo"». «Una piccola santa». «Sì. Mille e settecento anni fa. Lei è nostra sorella. E nostra madre». Elia non riuscì a trovare parole che gli arrivassero fino alla gola. «Per un momento mi è sembrato felice, padre Elia. Per la prima volta da quando L'ho incontrata il suo volto ha perso il fardello. Che cosa Le passa per la mente?». «Un ricordo. Mia moglie è morta giovane e nel suo grembo ha portato con sé nell'eternità nostra figlia. L'ho vista in sogno di recente». «Lei ha avuto davvero una figlia». «La Sua Severa mi fa sperare di poterla vedere un giorno». «Ci ascolti. Se i protestanti avessero una cimice qui, arriverebbero alla conclusione che siamo negromanti infestati dai demoni, che visitano la casa dei morti alla ricerca di visioni e voci». «La nostra comunione con i morti è di altro genere. Un'unione degli spiriti che non ha bisogno di sedute medianiche». «Trucchi del diavolo, diranno! Ah, il diavolo si sentirebbe davvero a disagio in questo luogo santo». La parola cimice fece ricordare a Elia il motivo del loro incontro. «Eminenza, ho una questione seria da sottoporLe». «Bene! Mi dica». Iniziando con il viaggio da Assisi a Napoli e poi a Capri, Elia fece un riassunto degli avvenimenti delle ultime settimane. Ebbe un'esitazione nel raccontare la scoperta del legame del cardinal Vettore con il presidente. Persino alla luce tremolante della lampada a gasolio, Elia riuscì a vedere che il volto del cardinale era impallidito. Sebbene la sua espressione non vacillasse, non batteva più ciglio con regolarità. Alla fine del racconto di Elia, il cardinale emise un sospiro pesante e si sedette su una pietra. «È difficile da accettare. È assolutamente sicuro che si trattasse di Vettore?». «Assolutamente». «È una notizia dolorosa. È considerato un uomo buono». «Mi dispiace».
«Non è colpa Sua. Lei ha fatto luce su un piccolo episodio, forse niente di più che un sospetto, ma qualcosa da cui potrebbe dipendere il futuro della Chiesa». «Forse sono saltato alle conclusioni. Forse il cardinale è stato inviato in una missione separata, su richiesta della Santa Sede». «È improbabile che il Santo Padre faccia una cosa del genere senza discuterne con me». «Forse è una missione personale del cardinale, un desiderio di assistere la Chiesa nei suoi negoziati». «Questo genere di negoziati è interamente al di fuori della sua sfera d'azione. Lei è proprio nuovo in Vaticano, se immagina che avrebbe intrapreso una tale missione senza consultarmi. Penso, padre, che Lei stia cercando di gettare una luce il più possibile favorevole sulla situazione». «Forse ho giudicato male». «Spero che lo abbia fatto. Quello che mi ha detto contiene implicazioni al di fuori della Sua portata». «Avrei voluto dirlo prima, ma mi sembra che l'addetto che gestisce le Sue visite e la Sua posta non mi sia stato d'aiuto». «È bravo. Molto efficiente». «Anche il cardinal Vettore è bravo». «Lei mi ha detto di aver lasciato un messaggio per me all'addetto?». «Sì, una nota scritta, segnata come urgente. Le ho anche telefonato parecchie volte e lasciato messaggi a voce». «Capisco». «C'è di più. Sono convinto che monsignor Stangsby sia stato ucciso. Durante la nostra ultima conversazione mi ha detto di avere forti dubbi sull'incidente. Credeva di essere stato drogato e che lo scontro in macchina fosse stato messo in scena per farlo sembrare un incidente». «Le ha detto questo?». «Sì, e mi ha detto anche altre cose». «Quali...?». «Era quasi sicuro che il suo appartamento fosse infestato dalle cimici, ma nella notte prima di partire per Helsinki ha registrato in tutta fretta la storia del cardinal Vettore su una cassetta, sperando di farLe avere il messaggio». «Non sempre William era discreto». «Mi ha detto anche di avere informazioni ancora più pericolose dei legami di Vettore. Ha detto che a Helsinki aveva saputo dei piani del nemico
per la distruzione della Chiesa». «Le ha raccontato i dettagli?». «No». «Forse questo è il motivo per cui Lei è ancora vivo». «Ha detto che era tutto registrato sulla cassetta. Ma per una tragica catena di eventi non è riuscito a consegnarla nelle Sue mani. È scomparsa». «Capisco». «E con la cassetta e scomparsa ogni prova che quello che Le ho raccontato è la verità». «E così rimaniamo solo con la Sua testimonianza», disse il cardinale lentamente, fissando il pavimento. Elia rimase in silenzio. Pregava. Il cardinale sollevò lo sguardo. «Le credo», disse. «Forse la situazione non è così compromettente come sembra. Forse Vettore non è per niente responsabile dei sotterfugi». Il cardinale guardò Elia negli occhi e disse: «Vorrei che fosse così. Ma ho la sensazione che non lo sia. Quello che mi ha detto spiega molte cose. Molte piccole anomalie quotidiane, quasi invisibili, il genere di cose che ci si aspetta in un ufficio grande come il nostro. La vita quotidiana in Vaticano consiste in centinaia di migliaia di dettagli, la maggior parte dei quali di nessuna importanza. Uno dei dettagli, per esempio, è che il mio addetto alla gestione dei visitatori, una persona veramente abile, è arrivato di recente dal Pontificio Consiglio per il Dialogo con le Religioni Non Cristiane». «L'ufficio del cardinal Vettore». «Sì. Ci sono altri eventi poco importanti che ora appaiono in una luce interamente nuova. Relazioni, conferenze, sguardi, una parola qua e una là, insinuazioni. Una spintarella di romanità. Nondimeno, anche se si mette insieme tutto, non si arriva all'omicidio». «Forse le mie riflessioni sono errate, Eminenza, ma non posso fare a meno di notare che l'incidente è capitato proprio quando Billy ha cercato di comunicarLe delle informazioni estremamente delicate. La sua morte ha eliminato l'unica persona che era a conoscenza delle informazioni di Helsinki. Una persona, cioè, al di fuori della loro cerchia». «Sospetto che sia questo il motivo. Tuttavia, non dobbiamo sottovalutare il collegamento di Vettore con Capri». «Sono d'accordo. Non penso che lo dovremmo scartare in questa fase». «Se le Sue deduzioni, pur così inverosimili, sono corrette, allora Lei non è al sicuro. Lei è in pericolo».
«Se posso aggiungere una nuova congettura: se qualcuno è a conoscenza del nostro incontro questa sera, forse anche Lei è in pericolo». «Nessuno lo sa, a parte il Suo portinaio, e dubito al solo guardarlo che sia un sovversivo». «In effetti non lo è. È una persona semplice. Infatti, non conosceva nemmeno il nome del funzionario del Vaticano che è venuto da me questa sera. Ma gli dirò di mantenere il silenzio, se ci fossero delle indagini. L'ha detto a qualcun altro?». «No. Per quanto ne sappia, nessun messaggio da parte Sua ha mai raggiunto né me, né il Santo Padre». «Dovremmo continuare con questo trucco per un motivo di carattere superiore». «Ah, mi domando che cosa direbbero i teologi morali di questo! Sì, cavalcheremo l'onda della parvenza». «Domani potrei telefonare al Suo addetto e chiedergli se Le ha passato il messaggio. Lo potrei implorare di farmi avere un appuntamento. Se è coinvolto in un piano premeditato, mi dirà una cosa e ne farà un'altra. Comunicherà le informazioni ai suoi amici ed eviterà di passare il mio messaggio a Lei. Se va così, avremo almeno un indizio che è in corso una sorta di congiura». «Una magnifica idea. Mio caro padre Schäfer, non avevo idea che Lei fosse capace di tali intrighi!». «In vari periodi della mia vita sono stato un ragazzo di strada, il membro di un esercito clandestino, e un pubblico ministero, fra le altre cose. Alcune qualità particolari sono inattive dentro questo prete». «Lo vedo. Bravissimo!». «Avviserà il Santo Padre?». «Farò in modo di incontrarlo domani mattina, per colazione». «Se posso darLe un suggerimento, sarebbe meglio che parlasse con lui di questo argomento nella parte più segreta dei Giardini Vaticani». «Questo pensiero era venuto in mente anche a me». «Come possiamo sapere se il Suo addetto ha passato o ha fallito il test?». «Chiami l'ufficio alle undici domani mattina. Per quanto mi riguarda, anch'io sono piuttosto bravo come detective. Starò a osservare gli eventi della mattinata con molto interesse». Dopo questa osservazione si alzarono e tornarono all'esterno. Il cardinale guidò a rotta di collo per tornare in città e fece scendere Elia a parecchi isolati di distanza dal collegio.
*** Alle undici precise, chiamò l'ufficio della Segreteria di Stato e gli rispose la voce dell'addetto a lui ormai nota. Elia chiese di parlare con il cardinale. «Ancora una volta La devo informare, padre, che il cardinale segretario di Stato è una persona molto impegnata. Non siamo in grado di rispondere a ogni messaggio così velocemente come la gente vorrebbe». «Gli ha dato il mio messaggio?». «Naturalmente gli ho dato il Suo messaggio! Ho menzionato al cardinale le Sue telefonate e gli ho dato i Suoi messaggi scritti». «Capisco». «Davvero, padre, deve avere pazienza. Se si tratta di qualcosa in cui il cardinale La può aiutare, lo farà, ma tutto a suo tempo. Non si dovrebbe seccarlo. Non si dovrebbe diventare un fattore di disturbo». «Mi dispiace. È stato avventato da parte mia. Glielo dirà?». «Andrò nel suo ufficio immediatamente e lo avviserò di un ulteriore messaggio da parte Sua», disse l'addetto seccamente. «Grazie». «E, padre, Le suggerisco di non chiamare più. Se non sente niente da parte del cardinale, significa che ha valutato la questione e ha deciso di non poterLa aiutare». «Sì, certamente, capisco». «E, padre, se è così urgente, Le suggerisco di affidarlo all'azione della divina Provvidenza. Conosco il Suo nome. Lei insegna dai carmelitani, no?». «Sì». «Allora Le consiglio di focalizzare la Sua attenzione sui Suoi doveri e di lasciare la gestione della Chiesa a quelli che sono meglio preparati per farlo». «Sì, ci penserò sopra», disse Elia in tono conciliante. «La ringrazio. È un buon consiglio». «È un ottimo consiglio». «Ha ragione. Sono sovraffaticato di recente. Posso essermi immaginato qualcosa. Forse è meglio dimenticarlo». «Dobbiamo affrontare molte crisi reali in questo ufficio, padre. Non possiamo occuparci dei dubbi e delle fantasie di ogni prete di Roma. Poche
cose nella vita sono così urgenti come si pensa». «È vero. Sono stato di disturbo. Non La importunerò più. La prego di scusarmi». «Non è niente. Buona giornata, padre Schäfer». «Buona giornata». Durante il pranzo, il portinaio venne a chiamare Elia in refettorio. «Telefono per Lei. Si immagini, a quest'ora del giorno. È l'ora del sonnellino a Roma!». «Buon giorno». Era la voce del cardinale. «Buon giorno». «Sarà meglio che non usiamo nomi. Sto chiamando da una linea esterna, ma non conosco le condizioni della Sua linea». «Capisco». «La questione è come sospettavamo. Il giardino è invaso dai parassiti, ma non in modo letale, per quanto ne sappiamo». «Non ha ricevuto il messaggio?». «Niente. Stavo alla porta. Ho captato solo questo lato della conversazione». «Dopo, ne ha parlato con Lei?». «Non una parola. Invece, ha chiamato quel certo ufficio di cui abbiamo parlato. Ha avvisato l'altra parte che la difficoltà è scongiurata». «Capisco. Ora abbiamo la nostra conferma». «Ce l'abbiamo. Ho parlato con papà a colazione. Non si sentiva bene, ma abbiamo fatto un giretto in giardino, dove ci sono i fiori». «Come stanno le sue rose rosse?». «Sono quasi alla fine della fioritura. Alcune sono infestate dai vermi. Ma la maggioranza è sana». «Glielo ha detto?». «Tutto. Papà capisce. Lo aveva previsto». «Che cosa consiglia? Come facciamo a salvare le piante?». «Crede che dobbiamo lasciare che la questione faccia il suo corso. Non dobbiamo fare niente adesso. Una potatura discreta, un po' di fertilizzante per il terreno. La primavera tornerà di nuovo, dice, e fiorirà una nuova generazione di rose». «È saggio, il nostro papà». «Sì. Un santo». «Possiamo incontrarci subito?». «Sì, dobbiamo. Ho un messaggio per Lei da papà. Incontriamoci da Se-
vera. Può procurarsi una macchina?». «Sì». «Questa sera, alle nove?». «Ci sarò». Dopo cena, Elia prese in prestito la macchina del collegio e si diresse a nord della città, lontano dalle catacombe di Callisto. Girò in tondo, vagò senza meta per un'ora, poi ripiegò sulla Via Appia, certo di non essere stato seguito. Il cardinale era seduto nella sua Volkswagen con il motore acceso e le luci spente. Scesero nella cripta e cinque minuti dopo erano seduti uno di fronte all'altro vicino alla tomba della colomba. «L'infestazione», chiese Elia, «è estesa?». «A prima vista, sembra essere estesa entro i limiti della cerchia di amici del cardinal Vettore. Non è un gruppo numeroso, forse una dozzina di cardinali, e altrettanti vescovi. Forse è un po' più ampio. A questo stadio è difficile dipanare i contatti connessi al suo incarico ufficiale e quelli volontari e collegati a qualcosa di segreto». «Quale pensa che sia il loro scopo?». «Non ne sono certo. Sono perplesso». «Sono ambiziosi?». «Alcuni sì, alcuni no». «Nemici personali del papa?». «Nessuno di loro, per quanto ne sappia. Due o tre parlano bene di lui». «Potrebbe essere un consenso di facciata». «Forse. Non riesco a distinguere nessun elemento unificante nel loro collegamento. Nessun interesse comune. Hanno opinioni differenti sulla natura della Chiesa». «Questo non indica una componente ideologica». «Ma che cosa potrebbe legare insieme un gruppo di uomini così disparato?». «Forse un legame spirituale». «Spirituale?». «Per ipotesi, diciamo che questi uomini con retroterra così differenti nella Chiesa hanno ceduto uno dopo l'altro a un approccio, chiamiamolo così. Supponiamo che la natura di questa offerta fosse così velata, così nascosta, che non hanno riconosciuto il pericolo. A un certo punto, interiormente, hanno dato il loro assenso, imprimendo una sottile svolta ai loro intenti, allontanandosi da Cristo, dalla visione storica della Chiesa universale. A poco a poco le loro percezioni sono state sviate dall'escatologia cattolica».
«Lei intende le cose ultime? Il tempo della Fine», disse il cardinale dubbioso. «Perché questo dovrebbe avere a che fare con la congiura? Ah, aspetti, capisco dove intende arrivare». «Questo potrebbe essere il filo che li unisce. Potrebbero essere stati sedotti da una bella visione del futuro, una visione spirituale». «Lei intende, una salvezza di un certo tipo». «Qualcosa del genere. Non dico che questo sia il caso, ma penso che spiegherebbe molte cose». «Non spiega l'omicidio». «La situazione potrebbe essere più complessa di quanto pensiamo. Questi poveri uomini di Chiesa potrebbero essere molto ingenui, manipolati da organizzazioni o forze, o da una combinazione di entrambe, esperte nella lettura della natura umana. Qualcun altro potrebbe essere responsabile della morte di Billy». «È giusto. Non è una cosa facile trasformare un uomo di Dio in un killer». «Il Suo uso del termine parassiti è adeguato. Non penso che questi poveri vescovi siano i nostri parassiti. I parassiti sono uomini o poteri dietro le quinte, che hanno preso le redini di questi prelati proprio nella casa di Dio». «Sarebbe un abominio! Se è così, deve essere fermato». «Come facciamo a fermare una chimera?». «Come abbiamo sempre fatto. Pregando e digiunando. Dobbiamo destare l'intero corpo dei credenti. Hanno dormito troppo a lungo, mentre si è già fatto giorno!». «Eminenza, profeti e santi, papi e maestri hanno cercato di destare i fedeli da più di un secolo. Si sono rifiutati di svegliarsi». «Lo so, lo so», sospirò il cardinale. «Ma alcuni risponderanno. Dobbiamo salvare quello che rimane. Inoltre, il Santo Padre ha ragione. Il giardino è sempre giovane. La nuova generazione di anime ha bisogno di essere coltivata. La nostra responsabilità va anche a quelli che non sono ancora nati, che verranno dopo di noi». «A livello pratico, come posso essere d'aiuto?». «Il Santo Padre vorrebbe che Lei rimanesse a Roma per i prossimi tempi. Desidera che Lei attenda le sue indicazioni, perché vuole che Lei proceda come ha iniziato. Lei sarà la presenza del papa nell'accampamento del nemico. Sa che il presidente La tiene d'occhio e crede di poterLa manovrare per i propri scopi».
«Sta dicendo che dovrei accettare i suoi inviti?». «Solo per questo motivo. Accetti i suoi inviti, per quanto sia moralmente possibile. Lei saprà discernere i confini». «Non posso fingere di essere un altro cardinal Vettore». «Ma Lei è in grado di operare restrizioni mentali nell'interesse di una carità superiore». «Non posso mentire». «Non Le ho chiesto di mentire». «Che cosa mi sta chiedendo?». «Di andare nel suo accampamento come Davide è andato nell'accampamento di Saul, quando Saul cercava di togliergli la vita. Lei sarà circondato da nemici; forse incontrerà i responsabili della morte di William. Le chiediamo di essere una parola di verità nel mare di falsità di cui si circonda il presidente. Lei deve essere semplice come una colomba, ma prudente come un serpente, come ci ammonisce il Signore. Deve scegliere il momento giusto con saggezza. Fino a quel momento deve studiare molto e aumentare la Sua importanza agli occhi del presidente in preparazione del tempo in cui egli ascolterà le parole di Cristo dalle Sue labbra». «Non si può raggiungere questo scopo con una lettera? O incontrando il papa?». «Una lettera è fatta di caratteri impressi su una pagina. Il mondo è inondato di lettere stampate su carta. Per quanto riguarda il Santo Padre, come Le ho detto prima, il presidente finirebbe per sfruttare il faccia a faccia a scopo di propaganda. Non ascolterebbe. Lei ha il compito di addentrarsi nelle sue difese, nelle profondità della comunicazione fra gli uomini, in quelle regioni misteriose dell'anima dove un uomo ascolta un altro uomo». «Sarà in grado di essere così ricettivo?». «Non lo sappiamo. C'è una possibilità che non sia del tutto malvagio e per questo dobbiamo cercare di raggiungerlo». «È pericoloso dal punto di vista spirituale». «Sì, molto pericoloso. Ma non conosciamo nessun altro che potremmo mandare. Lei è libero di rifiutare. Né il papa né io la rimprovereremmo per il rifiuto». «Che cosa mi direbbe la nostra amica Severa?». Il cardinale guardò commosso la tomba e toccò la lastra con l'indice. Trovò e ripercorse con le dita la parola PALUMBA, "colomba". «Questa bambina ha affrontato il leone e lo ha vinto», disse il cardinale. «Posso io fare di meno?».
«Solo Lei è in grado di rispondere alla domanda». Elia guardò la croce, l'ancora e la colomba scolpite nella pietra. «Lo farò». «Grazie», disse il cardinale. «Nel nome di Cristo, La ringrazio». *** Nonostante tutto, un alito di irrealtà saliva dal biglietto che teneva nel palmo della mano. Era un invito a un banchetto privato che si sarebbe tenuto a Palazzo Giancarlo Galeone, in piazza Navona, per celebrare la felice conclusione dell'incontro del Club di Roma. Era firmato dal presidente. La sera del banchetto, Elia si tolse l'abito da carmelitano, domandandosi quante volte lo avrebbe indossato di nuovo. Lo ripose nell'armadio della cella. Il cardinale segretario di Stato gli aveva detto che avrebbe dovuto cominciare a coltivare una nuova immagine, se si fosse inoltrato ancora di più nel territorio di missione. «Una nuova immagine? Ma loro sanno che cosa sono!». «Sanno che Lei è un prete e che in un'occasione ha agito come inviato del Vaticano. Avranno immaginato che è stato scelto a causa del Suo interesse per l'archeologia, una passione che condivide con il presidente. Sanno anche che Lei è rimasto impressionato da lui. Riguardo alle Sue motivazioni, è probabile che La considerino un frate che è arrivato dal deserto con l'aspirazione a una vita più colta, urbana, persino a un maggiore coinvolgimento nel mondo - da qui il trasferimento a Roma. Sanno che Lei tiene un corso di filosofia e di introduzione alla teologia. Supporranno che Lei sia come molti altri, un accademico intaccato dalla giusta dose di ambizione sottile e da una leggera disaffezione verso l'ortodossia, senza cadere apertamente nell'eresia. Un eretico, come Lei sa, è solo uno stupido giocattolo nelle loro mani, e loro lo sanno. Lei è una preda migliore, quasi un premio». «Ma si renderanno anche conto che conosco il collegamento fra il cardinal Vettore e il presidente». «Chiunque abbia rubato la cassetta lo sa. Ma il collegamento con Vettore forse non ha niente a che vedere con quello che William ha saputo a Helsinki. Non legge i giornali, padre?». «Raramente, perché?».
«Un diplomatico italiano molto conosciuto si è impiccato a Helsinki il giorno dell'incidente di William». «Capisco». «Vorrei che riuscissimo davvero a capire», sospirò il cardinale. «La cosa diventa ogni giorno più complessa. Questa gente potrebbe non avere niente a che vedere con il presidente e la sua cerchia. Ci sono troppi demoni a Roma. Dovremmo stare attenti a saltare alle conclusioni». «Dovremmo considerare il peggio, almeno come possibilità». «Naturalmente. Ma potrebbero esserci una dozzina di scenari, con centinaia di personaggi, alcuni dei quali saltano da una fogna a un'altra». «Eminenza, se qualcuno del gruppo del presidente è responsabile della morte di Billy e se sanno che conosco il collegamento, perché non hanno eliminato anche me?». «Non lo so. Se questo scenario è quello vero, allora ci troviamo di fronte a nuovi puzzle. Sarebbero riusciti facilmente a organizzare un incidente per Lei, con minori ripercussioni rispetto alla morte di un monsignore di curia». «Sono ancora vivo. Il che significa che sanno che Billy non era riuscito a dire a nessuno quello che sapeva». «Sì, devono pensare che Lei non sa niente dei loro piani a lungo termine. Il reparto di terapia intensiva era strettamente sorvegliato e lo staff dell'ospedale aveva garantito che, per ragioni mediche, Billy non avrebbe parlato con nessuno». «Ma perché l'invito?». «Probabilmente stanno giocando sulla capacità del presidente di attirarLa dalla sua parte. L'hanno valutata un giocatore di valore sul campo, e La vogliono a tutti i costi dalla loro parte, per ragioni che al momento ci sono ignote». «Non ha senso. Ci sono centinaia di professori di teologia, molti dei quali molto più influenti di me». «Quanti di loro hanno collegamenti con Israele e l'Europa orientale e con un certo numero di personaggi importanti in Occidente?». «Se questo è il loro motivo, si sbagliano. Sopravvalutano il mio valore tattico. Quasi tutti i miei contatti si sono interrotti, quando sono diventato cattolico, venticinque anni fa». «Vero, ma molti contatti potrebbero essere riattivati. Lei era molto ammirato a quei tempi. Se rinunciasse al cattolicesimo, diciamo così, o, in alternativa, perorasse un matrimonio del giudeo-cristianesimo con la spiri-
tualità New Age, Lei sarebbe accolto come il figliol prodigo che ha visto la luce. Ah, che celebrità farebbero di Lei!». «Chiunque conosca le mie opinioni capirebbe quanto sia ridicolo questo progetto!». «Senza dubbio, ma quante persone nel mondo conoscono le opinioni di un oscuro frate che viene dal deserto vicino a Haifa?». «Allo stesso modo, quante persone si interesserebbero alle opinioni di un uomo che è stato famoso pochi giorni durante gli anni '60? Sono vecchio. Il mio tempo è passato». «Davvero? Mi ascolti, padre Elia, stanno cercando di attirare alla loro causa il maggior numero possibile di persone nel campo delle arti, della politica e della religione. Stanno tentando di cambiare in profondità la cultura del mondo. La maggior parte della loro opera è già stata realizzata. Naturalmente Lei è importante per loro! Non solo il Suo passato è rilevante. Non intrattiene una corrispondenza con il rabbino capo della Francia, un Suo amico personale? E anche con un ex procuratore generale degli Stati Uniti? E il nuovo arcivescovo cattolico di San Pietroburgo: Lei non è forse il suo direttore spirituale?». «Sì». «Vede, Lei è un uomo molto utile. Deve stare al loro gioco». «Troverei moralmente imperdonabile imbrogliare qualcuno, persino un nemico di questa importanza». «Come ho detto prima, non Le sto chiedendo di mentire, e nemmeno di creare l'illusione di una menzogna. Voglio che Lei sia quello che è, un uomo di Dio che risponde all'invito a entrare nel loro accampamento. Spetta a loro pensare quello che vogliono. Lei si deve comportare come Paolo ad Atene. Ricorda il brano in cui affronta i sofisti e interpreta l'altare pagano al Dio ignoto trasformandolo in una testimonianza al vero e unico Dio?». «Sì, me lo ricordo». «Si comporti come Paolo, padre. Vada nel territorio che è stato conquistato dal nemico, faccia quello che può, e recuperi quello che può. Dio volge ogni cosa al bene per coloro che Lo amano. Lei potrebbe persino scoprire delle povere anime in catene che hanno bisogno di essere liberate. Non è una ragione sufficiente per una missione del genere?». Elia sorrise. «Eminenza, ora mi è davvero chiaro perché il Santo Padre L'ha messa a capo della sua diplomazia». Il cardinale fece una risatina. «Basta! Lei sovrastima le mie capacità tat-
tiche!». Il banchetto cominciava alle otto. Elia diede un'occhiata all'orologio da polso e indossò con disagio il vestito blu scuro, la camicia bianca e una cravatta italiana alla moda, ghirigori fucsia e oro dipinti a mano. Costrinse i propri piedi dentro mocassini costosi color bordeaux. Si pettinò i capelli. Si guardò allo specchio e distolse subito lo sguardo. Nello specchio era apparso un gentiluomo dai capelli argentati. Un estraneo che avrebbe potuto essere un distinto professore universitario, un banchiere, un ricco imprenditore. Solo gli occhi tradivano il travestimento. Erano tristi e cupi, oberati dai ricordi o dalle sensazioni che vedevano troppo lontano nel passato e nel futuro. Si guardò e cercò di sembrare meno malinconico. Strinse gli occhi cercando di dar loro una parvenza di allegria. L'effetto era orribile. Non avrebbe convinto nessuno. Incerto, si applicò alcune gocce di un profumo costoso che il cardinale gli aveva passato, saccheggiando gli effetti di Billy. «Povero William», aveva detto il cardinale. «La sua mamma gli ha mandato questa bottiglia di profumo. Profuma come il fazzoletto di una nonna!». Povero William! Il suo glorioso martirio aveva preso una forma che lui non avrebbe mai scelto. Venire soffocato dai lussi e poi morire in un letto di ospedale, senza la spada in mano. Poco prima delle sette uscì e prese un autobus per piazza Navona. L'autobus era stipato di lavoratori stanchi, studenti universitari che discutevano di politica, donne anziane con borse della spesa straripanti di pane e frutta, bambini che dormivano sul ventre rigonfio delle giovani madri, uomini anziani che vociavano e spettegolavano e adolescenti imbronciati che ascoltavano musica con le cuffie. Si fece silenzio quando Elia salì sull'autobus e ogni occhio seguì il suo passaggio verso l'ultimo posto libero. «Un principe fa visita alle classi inferiori!», borbottò qualcuno. I passeggeri irruppero in risate fragorose, sogghignando e prendendolo in giro. «Ehi, tu, signore illustrissimo, dove stai andando? A trovare una ragazza nei bassifondi?». Altre risate. Elia guardava fuori dalla finestra. Una donna anziana seduta di fronte a lui seguiva quello che stava succedendo senza battere ciglio. Lo fissava con uno sguardo penetrante che era quasi più crudele di quello di chi lo prendeva in giro. Spostò dal ginocchio
una rete per la spesa, si voltò e li apostrofò, «Basta! Chiudete il becco, stupidi. Non vedete che è un uomo buono?». Non venne fatto più nessun commento, e i passeggeri ripresero il loro parlottare abituale. La donna si sporse e gli prese il braccio. «Non badi a loro, signore. Sono solo giovani e sciocchi». Elia la ringraziò. Lei si strinse nelle spalle. Senza perdere la sua intensità, prese lo sgargiante crocifisso d'epoca che portava al collo e lo baciò cinque volte. Quando l'autobus lo depositò a destinazione, non si avviò direttamente al palazzo, ma si trattenne alla fontana del Nettuno. Studiò la luminosità del rame che si rifletteva dentro la fontana. L'antico dio pagano era in fiamme. Le finestre del piano superiore del palazzo stavano bruciando con l'ultima luce riflessa dal sole in fuga. Con la notte stava ritornando l'antico mondo pagano e quello che rimaneva del cristianesimo era sotto assedio. Lottò per superare una sensazione di repulsione contro gli eventi di quella sera. Non desiderava altro che fuggire dalla rete di illusioni che lo aspettava, ritornare al suo convento e passare il resto della sua vita nella più fruttuosa attività della preghiera. Avrebbe voluto chiedere al Signore di mandare in campo un soldato migliore. Pregò che avvenisse ora, ma la risposta non era quella che desiderava. Il palazzo Giancarlo Galeone non era l'edificio più sfarzoso della piazza, ma era il più famoso. Durante i quattro secolo della sua esistenza, era stata la dimora di conti e concubine, magistrati, cardinali e magnati di multinazionali. Ora era di proprietà della Globaltek, la multinazionale che produceva programmi di grafica per computer, il cui principale azionista era l'attuale presidente del Parlamento Europeo. Era decorata secondo lo stile del tardo barocco italiano, piena di spessi tappeti color rosa, tappezzeria verde menta e dipinti di Caravaggio e Guido Reni. Quando entrò, un valletto gli fece un inchino, chiese il suo nome e si inchinò di nuovo. Lo condusse in un ampio ingresso ricoperto di marmi e poi attraverso una serie di porte dorate in una sala da ballo che colpì Elia perché era sia spaziosa, sia intima. Lì si trovavano circa venti persone, raccolte intorno a un'orchestra da camera che stava suonando una miscellanea di pezzi romantici per archi tratti per lo più da opere del XIX secolo. Le persone entravano e uscivano dalla sala in modo casuale. Era evidente che alcuni preferivano conversare in luoghi più riservati del palazzo. Il valletto presentò Elia a colui che ricopriva l'incarico ufficiale di acco-
gliere gli ospiti e che si rivelò essere... Roberto! «Signor Schäfer, che enorme piacere! Il presidente mi ha chiesto di trasmetterLe i suoi saluti e di dirLe che gli fa molto piacere che Lei partecipi ai festeggiamenti di questa sera». «La ringrazio molto. Non vedo l'ora di rivederlo». Roberto alzò gli occhi al soffitto in un gesto di affettuoso dispiacere. «Il padrone di casa è attualmente bloccato al piano superiore con i delegati della Banca Mondiale. Poveretto, non è mai finita con questi incontri! Ma ho ordini severi di interromperli poco prima che inizi la cena». «Così lo vedrò a cena». «Sì, il presidente ha espresso la speranza di avere l'occasione di parlare con Lei durante i festeggiamenti». «Sì, lo spero anch'io». «La prego, mi conceda di portarLe un bicchiere di qualcosa per rincuorare lo spirito. Sì? Rosso? Bianco? No? Champagne? Oh, ma sono imbarazzato, io direi davvero mortificato di dover ammettere che il nostro fornitore di vino è stato davvero negligente. Ci ha dato uno champagne di qualità inferiore al beaujolais. Posso consigliarLe questo rosso secco? Non se ne pentirà». «Lei è sempre così cortese, Roberto. Monsignor Stangsby e io Le siamo stati così grati per la Sua gentilezza, quando siamo stati trattenuti la notte della tempesta». «Sì», disse Roberto, abbassando la testa. «Ho saputo del decesso del povero signor Stansgby. Le mie condoglianze per la perdita del Suo amico. Una persona così divertente». «Lo era». «Ora, mi vorrà scusare, ma devo andare a salutare alcuni ospiti che sono arrivati adesso, e dopo devo fare in modo che il boss non venga trattenuto dalle torture dell'economia mondiale. Che noia!». Fece una smorfia teatrale e se ne andò. Elia vagò per l'ampia sala del banchetto, con le pareti ricoperte di arazzi rinascimentali, il pavimento dal parquet lucido e la lunga tavola ricoperta di damasco apparecchiata per quaranta ospiti. Le posate erano d'argento. Le candele erano accese, i cristalli scintillavano. Mazzi di rose emanavano la loro fragranza per tutta la sala. I valletti si affaccendavano per sistemare problemi dell'ultimo minuto. Ritornò all'ingresso e passò in una piccola biblioteca dove si trovavano otto persone, sparpagliate per la stanza, alcune sorseggiavano i loro drink,
altre si scaldavano le mani al camino acceso. L'atteggiamento vivace degli ospiti non sollevò Elia da una certa tensione, causata in parte dalla consapevolezza che la maggior parte dei volti che vedeva erano identificabili solo perché comparivano con regolarità sulle prime pagine dei giornali internazionali. Notò tre capi di Stato, l'editore del maggiore quotidiano francese, l'ambasciatore americano, un violinista israeliano di fama mondiale e un economista inglese famoso per le sue pubblicazioni. Nella stanza si assisteva a un continuo andirivieni. Nessuno fece lo sforzo di farlo partecipare alla discussione, ma non venne nemmeno escluso. Elia non riconobbe l'ottava persona presente, una donna tra i quaranta e i cinquant'anni. Stava parlando con il violinista, il quale a sua volta stava tentando di convincerla di qualcosa usando l'espressione del viso e le mani con notevole vivacità. Quando il violinista catturò lo sguardo di Elia, si fermò a metà di una frase e fece un cenno a Elia. «Venga qui. Perché non si unisce a noi? Shalom! Lei è Schäfer, l'archeologo, no?». «Sì». «Anche lui israeliano», spiegò alla donna. «Piacere di conoscerLa», disse la donna con voce gentile. «Guardi, Schäfer, c'è bisogno di un intervento qui. Lei mi deve salvare da questa donna. Sta avendo la meglio su di me a proposito di un argomento davvero difficile. È del tutto sleale da parte sua. Dopo tutto, Anna, io sono un artista, dominato dalla parte destra del cervello. Lei è una creatura della parte sinistra del cervello! Ho detto creatura? Ha! Dovrei dire un mostro di logica». La donna sorrise e si voltò verso Elia. Gli porse la mano destra e disse: «Sono Anna Benedetti. Lei è...». «Elia Schäfer». «Un archeologo, come ci ha informato Uri». «Bene, è un po' più di quello!», disse il violinista seccamente. «No, padre?». Prese un lungo sorso del suo drink. «Sono un prete cattolico», disse Elia in modo pacato. La donna lo guardò con curiosità, ma non c'era traccia dell'ostilità che si sarebbe aspettato entrando nel territorio dell'intellighenzia. «Una combinazione interessante», disse lei in tono amichevole. «Ma non insolita». Il violinista, un uomo sulla trentina con i nervi a fior di pelle, si allonta-
nò verso un'altra stanza, salutando gli ospiti mentre passava, stringendo una mano qui, abbracciando qualcuno là. «Non deve badare a Uri. È giovane e molto famoso. Un genio, ma dentro è rimasto un ragazzino. Gli piace passare per cattivo». «Non mi è sembrato cattivo nei miei confronti». «No. Interpreta la parte del cosmopolita che dice cose argute e sconvolgenti alle vittime innocenti di situazioni sociali imbarazzanti». «Come me?». «Sì. Le dispiace essere qui?». La guardò pensieroso. Una persona gentile, con occhi sinceri e intelligenti. Probabilmente era la moglie di uno dei personaggi presenti. Ma non portava la fede al dito, notò lui, e si domandò se fosse coinvolta in qualche tipo di rapporto moderno. «All'inizio non volevo», disse. «Non sono abituato a questo genere di ambiente». «Bene, perché non resta qui con me? Così non dovrà fingere conversazioni casuali con primi ministri e geni». «È gentile da parte sua». «Non del tutto. Anch'io mi libero di un simile fardello». Gli sorrise e riscaldò il gelo che era sceso su di lui dal momento in cui era entrato nel palazzo. «Di che cosa Le piacerebbe parlare?», riprese la donna. «Non lo so. Di niente. Di tutto. Ho molte domande, ma sono inopportune». «Inopportune. Davvero?». «Per esempio, sarebbe troppo azzardato da parte mia chiederLe dei Suoi legami con il presidente?». Lei rise in modo sincero. «Non troppo azzardato. Vedo che Lei è un gentleman. Sarebbe sorpreso di sapere quanto sia diminuito il numero dei gentleman negli ultimi anni». «Suppongo che dipenda da che cosa Lei intenda per gentleman». «Intendo un chevalier du roi. Un uomo di buona volontà e di buona parola». «Mi risolleva il cuore sentire che c'è ancora qualcuno che apprezza tali cose». «C'è ancora qualcuno. Ma per rispondere alla Sua domanda: sono membro del consiglio direttivo della Fondazione del presidente per lo Sviluppo dell'Archeologia».
«È un'archeologa?». «Solamente un amateur». «Allora perché...?». «Perché la mia famiglia è di grande prestigio e perché il mio nome gli è utile». «Lei è molto diretta». «La vita è breve. Non penso che noi esseri umani abbiamo molto tempo da perdere producendo immagini fuorvianti». «Sono d'accordo con Lei». «Così, vede, non solo la Sua domanda inopportuna ha scacciato la nebbia, ma ha messo anche in evidenza il fatto fortuito che abbiamo qualcosa in comune. Possiamo parlare di rovine fino al momento della cena». Elia era colpito dalla gentilezza della sua voce, dalla limpidezza e coerenza del suo sguardo, che rivelava sia modestia, sia onestà e una qualità più sfuggente... virtù. Gli piaceva e si accorse con sorpresa di essersi fatto un'alleata. «Ora sono libera di fare la stessa domanda inopportuna. Perché si trova qui?». «Sono stato invitato, ma non so perché. Ho incontrato il presidente solo una volta, alcuni mesi fa. Ho semplicemente fatto da corriere». «Semplici corrieri non ricevono inviti a incontri come questo». «Allora suppongo che pensi che io possa essere utile alla sua causa... in un modo che mi sfugge». «Ha sempre uno scopo», disse la donna senza rivelare emozioni. «Lo ammira?». «È una persona straordinaria». Ma di nuovo Elia notò l'assenza di trasporto. «Lo ammira, padre Schäfer?». «Come ha detto Lei, è una persona straordinaria». Lei non replicò, ma continuò a guardarlo negli occhi come se stesse aspettando qualcosa. In quel momento suonò la campanella che li invitava a prendere posto a cena e gli ospiti iniziarono a spostarsi nella sala del banchetto. «Grazie per la conversazione», disse Elia. «Mi ha reso più facile la situazione. Le auguro ogni bene per le Sue attività». «Anch'io Le faccio i miei auguri. Forse ci rivedremo un giorno». Si voltò e si avviò nel salone prima di lui. Ecco tutto, si disse Elia. Si trattenne sulla porta, incerto sul da farsi. Vi-
de che Anna Benedetti aveva localizzato il proprio segnaposto a metà del lato destro del tavolo e si era seduta. Osservò che la maggior parte degli ospiti si avviava al proprio posto a tavola con un certa disinvoltura, come se avessero la capacità di valutare il proprio grado di importanza. Roberto e alcuni altri camerieri guidavano i ritardatari, Elia fra questi, ai loro posti. Con sua sorpresa, si ritrovò accanto ad Anna. Era arrivato a pensare a lei come ad Anna. Lei lo guardò e sorrise. Lui ricambiò il sorriso. «Archeologia», disse lui. «Sì, deve essere così. Qualcuno ha fatto i compiti a casa proprio bene. Lo fanno sempre, come sa». Alla destra di Elia sedeva una donna frusciante in un abito di satin nero trapuntato di diamanti. Si presentarono e poi lei si voltò verso l'uomo alla sua destra, con cui lei riprese un'accesa conversazione in una lingua balcanica. Elia immaginò che stessero parlando di musica sulla base dei nomi di compositori che saltavano fuori fra parole incomprensibili. Anna stava chiacchierando con l'uomo anziano alla sua sinistra, l'ambasciatore americano. Elia guardò il proprio segnaposto. C'era scritto Professor Elia Schäfer. In questo modo era stato deciso quale sarebbe stata la sua immagine pubblica, quella dell'accademico. Gettò un'occhiata al segnaposto di Anna. Vi stava scritto Signora Anna Benedetti. Era sposata. Una donna sposata che non portava la fede. Una vedova? Il presidente entrò nella sala affiancato da due uomini. Alcuni degli ospiti esplosero in applausi. Tutti smisero di chiacchierare e l'applauso divenne tempestoso; gli ospiti si alzarono in piedi tutti insieme. Elia si alzò con loro. Anna catturò il suo sguardo, ma la sua faccia rimase inespressiva. Il presidente sembrava imbarazzato dall'attenzione e li invitò a fare silenzio. «Grazie, grazie!», disse, poi si produsse in un gioco di parole in italiano che provocò molte risate. Era chiaro che gli ospiti non solo lo stimavano, ma provavano affetto per lui. «Ora, davvero mi devono perdonare per il ritardo ingiustificabile. Avevo sperato di salutarLi ciascuno al Loro arrivo, ma sono stato rapito da questi due tipi biechi e ho dovuto pagare il riscatto. Ho fatto loro tutte le concessioni in mio potere e quindi sono stato rimesso in libertà. Il terrorista internazionale alla mia destra tornerà alla London School of Economics con la borsa piena di soldi e l'altro alla mia sinistra tornerà al Fondo Monetario
Internazionale con il suo bottino. Ora sono libero di godere - di godere con Loro - della pasta!». Ancora risate, applausi e acclamazioni. Era un ospite affabile. Condusse i due economisti ai loro rispettivi posti vicini a un capo del tavolo. Anche i capi di Stato stavano da quella parte, insieme ad altri due o tre personaggi che Elia non riusciva a identificare. Quando tutti si furono seduti, il presidente rimase in piedi. «Amici miei», disse con una voce che raggiungeva anche l'altro capo della sala, ma rimaneva calda e virile, «amici miei, benvenuti a questa giornata di festa. Abbiamo terminato settimane di delibere, creato pile di documenti e ora dobbiamo festeggiare. Questa sera non sono permessi discorsi, prese di posizione, titoli onorifici. Si divertano. Viva Roma!». «Viva Roma!», dissero i presenti, alzando i calici. «Viva Roma!», disse Anna, sottovoce, guardando Elia con il bicchiere alzato. Elia toccò il bicchiere di lei con il proprio e disse: «Alla saggezza della storia!». Lei gli sorrise e poi si sedette sorridendo fra sé e sé. Durante la cena, l'ambasciatore americano continuò ad attirare l'attenzione di Anna. Era una persona estroversa e affascinante e aveva un gran numero di opinioni da offrire su una varietà di argomenti. Parlarono a lungo delle leggi che sarebbero state approvate dal Parlamento Europeo nella sessione successiva. Elia era intrigato dal notare come Anna padroneggiasse i principi fondamentali del diritto e di sentire che stava argomentando instancabilmente e con una certa abilità contro un progetto di legge, la cui sostanza sfuggì a Elia a causa di una risata fragorosa dal lato dei Balcani. Quando riuscì a riprendere il filo della loro discussione, scoprì che stava volgendo al termine. L'ambasciatore scuoteva la testa, dicendo: «Bene, forse ha ragione Lei sui principi, ma per il bene delle società bisogna essere flessibili. La legge deve servire l'uomo, non l'uomo la legge». «Questo è vero», replicò lei. «Ma bisogna fare attenzione ai sofismi. La legge deve servire i principi universali nell'uomo, fondati sulla legge naturale. La legge non li può servire in modo adeguato se svolazza qua e là a ogni cambio di opinione, moda o pregiudizio». «Hmmm», disse l'ambasciatore, «questo è troppo filosofico per me». Si voltò verso la donna alla sua sinistra, permettendo ad Anna di continuare a mangiare. «Lei non è una semplice casalinga, signora Benedetti». Lei lo guardò.
«Professor Schäfer, sono dell'opinione che quando si conosce una casalinga, si scopre che non è mai una semplice casalinga». «Questo è un sentimento nobile». «È anche un dato di fatto». «Sa, questa sera ho imparato proprio questo». «Sì?». «Ho scoperto un grande segreto del cosmo». «Davvero? E quale sarebbe questo segreto?». «Ho imparato che l'universo è tenuto insieme solo per mezzo di alcune anime straordinarie. È salvato dal cadere in rovina dalla forza di donne anziane e fiere che portano borse della spesa a rete». Mise giù la forchetta e rise schiettamente. «Questo è un sentimento nobile, professore». «È anche un dato di fatto». «Penso che Lei lo ritenga davvero». «Lo faccio». «Bene». Al momento del dessert e dello champagne, il presidente passò lungo il tavolo, salutando tutti gli ospiti personalmente. Andò dai musicisti e disse loro quanto avesse atteso la loro esibizione. Si avvicinò a Elia e gli afferrò saldamente la spalla. «Padre Schäfer, sono molto felice che Lei sia riuscito a venire. Ci fa onore. Se posso approfittare della Sua pazienza, ci sono così tanti ospiti e pochi di loro sopporterebbero di venire trascurati. Sarebbe un piacere per me se ci potessimo incontrare più tardi questa sera». «Naturalmente, signore. Lascio a Lei di farmi sapere quando sarà il momento più opportuno». «Anna! È sempre una gioia. Come stai?». Lei rispose che stava bene. Lo chiamava con il suo nome proprio. Lui le domandò come stessero di salute persone ignote a Elia. Lei gli rispose. Era amichevole, leale, ma riservata. Passò all'ambasciatore americano. «Edgar, l'Europa potrà mai ricambiare il dono in crediti e grano da parte del Suo popolo? Il pane è vita! La speranza è vita! Quando aprirà la sessione autunnale del Parlamento, voglio che il Parlamento stenda una lettera formale di ringraziamenti. Ho già commissionato una scultura - intitolata Libertà - che desideriamo donare al popolo americano. Penso che il Congresso e il presidente dovrebbero avere un ricordo tangibile della nostra
gratitudine. La vostra generosità ha scongiurato una guerra disastrosa. Russia, Ucraina, Georgia, i milioni di vite che avete salvato...». «Penso, signore», disse l'ambasciatore alzandosi e stringendo la mano del presidente, «che a conti fatti noi dovremmo ringraziare Lei». «No, no, niente di questo! Non voglio sentire nessuno dei nonsense della Louisiana!». L'ambasciatore scoppiò a ridere per la gratitudine e diede una pacca sulla spalla al presidente. E così proseguì per tutto il tavolo, avanti e indietro. Gli ospiti furono invitati a spostarsi nel salone principale, la sala rossa, tutta decorata con arazzi e ritratti del Rinascimento. Si accomodarono su divani di broccato e poltrone dorate. Il presidente entrò e scelse un posto in prima fila. Alcuni degli uomini rimasero in piedi e rigiravano fra le mani i loro bicchieri di brandy. Anna si sedette da sola in una poltrona laterale, dallo schienale rigido. Elia arrivò e rimase in piedi vicino a lei. Lei non sembrava notare la sua presenza. L'orchestra da camera aveva preso posto su un podio basso all'altra estremità della sala e la donna con il vestito di satin nero si avvicinò ai musicisti. In tutta la sala furono accese le candele; le luci dei lampadari furono abbassate. La donna, parlando in italiano con accento evidente, disse, «Signor presidente e ospiti d'onore, questa sera ascolterete tre pezzi romantici: di Telemann Aria, di Puccini Un bel dì vedremo e di Dvořák Inno alla luna. Queste tre opere esprimono i misteri più profondi dell'amore. Auguro a tutti coloro che sono qui raccolti un felice risveglio delle facoltà del cuore. L'amore è la medicina che curerà il nostro mondo malato. Dedico questa trinità all'uomo che sta rinnovando i nostri tempi: a Lei, signore». Fece un inchino al presidente. Lui si alzò e ricambiò l'inchino. Poi seguì un timido applauso. La donna ripeté la presentazione in francese, inglese e nella sua lingua madre slava. L'orchestra attaccò le prime note e cominciò il movimento appassionato dell'Aria. Elia si lasciò andare completamente alla musica e sentì che lo assalivano le emozioni. Gli si presentò il volto di Ruth, Ruth sotto i melograni, Ruth con la luce rosata del tramonto sulle sue spalle abbronzate, Ruth piena di gioia. Ruth con la bambina, lenta e felice, i suoi piedi sottili che strisciano sul tappetino di lana caprina bianco e nero, le sue dita che
tagliano con abilità i peperoni rossi dentro una terrina con avocado, arance e lattuga fatte a pezzetti. Ruth con il cuore che le batte intensamente sotto il soffitto della loro camera da letto. All'obitorio con il corpo squarciato. I pozzi dell'agonia e della perdita esplosero e strariparono dal suo interno. "Sono vecchio. Tutto l'amore risiede nella memoria. Tutto l'amore esiste solo oltre un abisso insuperabile". Irrazionalmente, avrebbe voluto inginocchiarsi e appoggiare il capo sulle ginocchia di Anna Benedetti e dirle che nella sua lunga vita aveva avuto solo una casa, solo una volta aveva vissuto come un uomo che vive con una donna. Una sola casa. Per due armi. "C'era un giardino nell'Eden", avrebbe voluto sussurrare. "E lì è stato formato un uomo. Un sonno profondo è stato fatto scendere su di lui e dalla sua carne è stata formata un'altra creatura, che era stata fatta per essere la sua compagna, per essere amata come lui stesso si amava. E lui, per contro, sarebbe stato suo, e né i poteri del cielo, né quelli della terra avrebbero potuto dividerli. Erano un'anima sola". Ma Anna non avrebbe compreso. Il suo volto sarebbe rimasto inespressivo. Avrebbe visto solo un uomo che si umiliava. "È un segreto del cosmo", le avrebbe detto, desiderando ardentemente di convincerla. "È una delle cose più grandi, ma non la più grande". "È un sentimento nobile?", avrebbe replicato lei, "o è archeologia?". "Anna, se il cuore è morto, l'amore è solo archeologia". "Sono solo un amateur, professore, solo un amateur". Applausi per l'aria. Poi dalla gola della cantante uscì il desiderio ardente di Madama Butterfly e divenne il lamento per tutta la solitudine e tutte le perdite umane, per ogni aspirazione all'unità, per ogni speranza di una gioia perenne. Una nuova forma di dolore trapassò il suo cuore. Sentì il tempo scorrere di nuovo. La musica riempiva l'intero ordine del creato. L'esistenza stessa era musica. La musica rimandava la gloria dell'esistenza a se stessa. "Ruth, pensavo di poter sfuggire al momento insostenibile. Pensavo di poter sopportare la vita senza di te. Ho vissuto senza di te per tutti questi anni, come una farfalla che si dimena sotto lo spillo, si divincola, lasciando indietro un frammento di sé, alzandosi con il vento, sostenuta da un'immagine di sé come di un intero. Ma non essendo l'intero". Applausi. Fu riportato indietro al presente. Guardò verso Anna Benedetti
e vide che continuava a rimanere immobile. Notò che le tremava il petto e che aveva gli occhi umidi. "Anna, sei stata scossa come calcolato? Hanno applicato la ricetta efficace per provocare uno sfogo emotivo? Una serata di catarsi come sport di società?". L'inno alla luna era iniziato. La cantante conosceva il suo mestiere, conosceva il potere unico della propria voce e conosceva le intenzioni di Dvořák. Gli occhi di Elia seguirono i suoi gesti, l'ascolto assorbì la passione accumulata e controllata di questo grido d'amore, fino a quando esso si unì al movimento a lungo sepolto del suo cuore. Chiuse gli occhi e ascoltò fino alla fine. Quando li riaprì, scoppiò l'applauso. E il posto di Anna era vuoto. Vagò per il pianterreno alla sua ricerca, ma non era da nessuna parte. «Sta cercando la signora Benedetti?», gli chiese Roberto squadrandolo. «Sì». «È andata via». Elia fissò l'ingresso. «Andata?», disse. "Mi sto rendendo ridicolo. Sei un prete per sempre. David, Elia, David, Elia, Elia, padre Elia. Mio fratello, mia figlia, mio padre, mia sorella, mia madre, il mio amico, il mio amore. Sei prete da così tanti anni e ti agiti ancora sullo spillo? Cinque spilli? Cinque baci. Elia, Eli. Pawel. Papà. Ruth. Anna. Sei un prete per sempre. Con tutto il mio essere ti dono la mia vita. Signore... Gesù... proteggi... me... per... il... sangue... dell'Agnello. «Signor Schäfer, non si sente bene?». «Mi gira la testa. Mi devo sedere». «Andiamo sul balcone. Si può sedere qui all'aria fresca della sera. Il ricambio d'aria non funziona bene in questi palazzi antichi. Venga con me». Seguì Roberto attraverso una serie di porte alla francese verso una balconata marmorea che si affacciava su un minuscolo giardino racchiuso entro le mura del palazzo. Lì cresceva un solo albero in fiore, una fontana sussurrava, gli uccelli notturni cantavano. Si sedette su una sedia di vimini e respirò profondamente. A poco a poco la testa gli si schiarì, nonostante fosse ben poco quello che era rimasto di lui dopo che i giramenti di testa erano cessati. Si sentì come un vuoto che avvolge un nucleo di paura. «Potrebbe portare le mie scuse al presidente? Mi sento piuttosto male. Mi chiamerebbe un taxi?». «Certamente, signore».
Il taxi arrivò in pochi minuti. Più tardi Elia non avrebbe ricordato niente del tragitto fino al collegio, ma solo di aver barcollato sui gradini dell'ingresso, di essere entrato nella sua cella, di aver guardato con disgusto la propria immagine nello specchio, di essersi tolto i vestiti eleganti, essersi messo a letto, essersi tirato addosso l'abito e di averlo tenuto stretto. Era sdraiato al buio, tremante, non sapendo che cosa stesse succedendo, impaurito - no, terrorizzato per questo. Alla fine, verso l'alba, il respiro rallentò ed egli scivolò in un sonno agitato, tentando di sottrarsi alla punta di un dolore antico, dibattendosi contro il cielo, lasciando dietro un frammento di sé, lasciando cadere lentamente molti frammenti, come avevano fatto spesso, sulla terra, mentre lui si arrampicava, sostenuto da un'immagine di sé come tutto. *** Rimase a letto malato per un giorno. Si era alzato per tenere la lezione, ma era solo una voce che forniva informazioni. Gli studenti si erano accorti che c'era una differenza. Smisero di prendere appunti e si limitarono ad ascoltare. Alla fine della lezione uno di loro gli suggerì di ritornare a letto e di starci fino a quando non si fosse sentito bene. A poco a poco i frammenti si misero insieme e il ricordo del volo impallidì fino a diventare un simbolo della mente. Il dolore diminuì costantemente. I sacramenti lo rinvigorirono. Si convinse di aver fallito, ancora una volta. Contattò il cardinale segretario di Stato a casa, continuando a comunicare con lui in un linguaggio criptico. Una sera il cardinale lo venne a prendere, e viaggiarono a lungo per la campagna. «Lei è penetrato nell'oscurità senza armatura», disse il cardinale. «Ha cercato di entrare solo con le proprie forze! Davvero, padre Elia, non lo deve fare più. Dovrebbe chiedere sostegno alla preghiera quando si reca in certi luoghi. Deve implorare la grazia necessaria». Come ricostituente, il cardinale gli ordinò di leggere Efesini 6,10-20. Lo sgridò scherzosamente, con l'aria di un nonno italiano bonario, ma i suoi occhi erano preoccupati. «Questa donna che La preoccupa, ritiene che sia un'affezione del cuore?». «Forse. Non è la solita relazione amorosa. Non è desiderio sessuale. Molto semplicemente mi è piaciuta e ho avvertito che era un'anima con cui
potevo stringere amicizia». «Amicizia? Molti preti sono caduti in questo modo. L'amore è gentile; l'amore è caritatevole; ma bisogna essere prudenti per quanto riguarda le questioni di cuore». «Lo so. Quante volte ho messo in guardia quelli che vengono da me come direttore spirituale dalle affezioni apparentemente innocenti? La solitudine è la condizione umana, dico loro. Persino la coppia più felicemente sposata a un certo punto affronta questa situazione. Solo Dio può riempire questo vuoto». «E ora Lei ha difficoltà ad applicare il Suo stesso consiglio?». «È successo tutto così velocemente. Quello che mi preoccupa è il modo globale in cui i miei sensi hanno vacillato e la mia prudenza è evaporata». «Lei si affida troppo a se stesso. È una persona solitaria. Ma certi generi di solitudine non sono affatto monastici». Elia era d'accordo. E poi protestò. «Non esiste amore umano per me? Tutti quelli che amo devono venire uccisi?». «Come potrei giustificate tutte le Sue perdite? Ma almeno comprenda questo: Dio non ha ucciso quelli che Lei ha amato. Lo hanno fatto i nemici di Dio». «Mi sono avvicinato all'anima di questa donna, ma da lontano, senza uscire dagli steccati del mio cuore. Non la rivedrò più, perché se l'amassi, qualche nemico la ucciderebbe». «Sono sicuro che sia una bella persona. Sono sicuro che non c'è stato peccato». «Certo che no! Ha una bellissima anima». «Com'è rapido il cavaliere a ergersi per difendere questa signora». «Eminenza, La prego di non farla più grande di quello che è». «Padre Elia, non la faccia più piccola di quello che è. Questa donna, chiunque sia, potrebbe distruggere quello che Lei è nel profondo. E Le ha reso già un buon servizio aprendo il Suo cuore con uno scalpello. Forse il Signore vuole che Lei gli conceda di raggiungerLa nel profondo per curare una vecchia ferita che non è guarita nel modo giusto». *** Alcune settimane dopo questa conversazione, quando Elia si sentiva ampiamente guarito, una sera si recò nella sala di lettura del collegio per leggere il Jerusalem Times. Vide il volto di Anna Benedetti che lo guarda-
va dalla copertina di un settimanale esposto sullo scaffale per le riviste. Il servizio raccontava della nomina della dottoressa Anna Benedetti, giudice della Corte di Cassazione in Italia e consulente della Commissione per i Diritti Umani a Ginevra, a giudice del Tribunale Internazionale all'Aja. *** Passò un mese, durante il quale il presidente non fece alcun tentativo di organizzare un incontro. Elia immaginò di aver fallito ancora una volta, essendosi affidato solo alla propria forza, senza adeguata preparazione spirituale. Teneva le sue lezioni, studiava l'Apocalisse e impiegava il resto delle sue energie nell'esercizio della vita monastica in una situazione urbana. Dopo un autunno caldo, a dicembre la neve cadde abbondante, ricoprendo la città alla festa dell'Immacolata Concezione. Dovunque i bambini uscivano da tutte le parti, strillando di gioia, bagnandosi i piedi, facendo pupazzi di neve, organizzando battaglie a palle di neve, e prendendo il raffreddore. Il traffico della città era ostacolato da questa strana condizione atmosferica. Nel tardo pomeriggio, Elia fece una passeggiata, sentendosi euforico, ricordando i giorni più felici della propria infanzia in Polonia, prima della guerra. Una città nel sole invernale. Una città di molte campane, di cavalli e di bambini. Temporaneamente prigioniera in un abito di neve che si scioglieva, persino una metropoli mostruosa come Roma poteva diventare bella. La sua cacofonia si trasformò, eccetto che per le grida dei bambini e per i torrenti di acqua che scendevano dai tetti, la città era così tranquilla, per nulla frenetica, e non assomigliava più a se stessa. Era stata riportata alla dimensione umana di una comunità. Nella sua casella della posta c'era una lettera spedita da Bruxelles. Mio caro padre Schäfer, gli impegni di governo mi hanno impedito di scriverLe prima questa lettera. Mi dispiace che Lei non si sia sentito bene durante la festa a palazzo Galeone. Avevo sperato di parlare con Lei quella sera a proposito di un avvenimento imminente, che si terrà a Varsavia nella primavera del prossimo anno. Con l'aiuto di altre organizzazioni collegate, sto organizzando una conferenza sulla rinascita della cultura occidentale. Ci saranno numerosi gruppi di
lavoro che affronteranno la questione da diversi punti di vista. Sarebbe negligenza da parte nostra trascurare le influenze culturali della Sede di Roma. Le sarei grato se potesse venire a Varsavia a nostre spese a presiedere un gruppo di lavoro sull'archeologia biblica alla luce dei rotoli del Mar Morto e dei codici del Nuovo Testamento scoperti di recenti al Mar Morto. Vorrebbe prendere in considerazione l'integrazione di questo tema con le Sue importanti (e, io penso, uniche) opinioni sulla nuova spiritualità dell'archeologia biblica? Attendo una Sua risposta. La lettera era firmata dal presidente. Elia contattò il cardinale segretario di Stato. Il cardinale era compiaciuto della proposta e ricordò a Elia che la conferenza gli offriva la duplice opportunità di tenersi in contatto con il presidente e di presentare uno studio ortodosso in quello che quasi sicuramente sarebbe stato un evento mediatico. Elia scrisse una lettera di accettazione. Scrisse anche al priore al monte Carmelo e a numerose altre comunità contemplative che lo conoscevano, descrivendo le implicazioni spirituali del suo incarico in termini generici e chiedendo le loro preghiere. In una lettera più estesa sintetizzò a padre Matteo la situazione, il modo in cui si era sviluppata e passò a descrivere in dettaglio un sogno o una "visione" che aveva appena avuto. Padre Matteo, passo ora ad un fenomeno, davanti al quale mi sento incerto. Glielo descrivo e lo affido alla sua capacità di discernimento. Questa mattina, dopo un sonno tranquillo, mi sono svegliato ben riposato. Pochi secondi dopo essere tornato cosciente, ho avuto una visione interiore quasi concreta tanto era chiara. Stavo fissando la parete accanto al letto e ho visto una sfera. Sapevo - non so come - che la sfera rappresentava la struttura del libro dell'Apocalisse. L'Apocalisse mi ha sempre affascinato, il suo simbolismo lussureggiante, il suo dramma, e la sua maestà. Ma mi provoca anche frustrazione, perché è un mistero che si rifiuta di essere svelato con il metodo analitico. Tutti i metodi falliscono, quando lo vogliono rendere comprensibile. Quelli che sembrano riuscirci lo
fanno solo limitando il significato dell'opera, soprattutto ipotizzando in essa una struttura storica lineare. Lo si può fare senza problemi per i Vangeli, che sono derivati da una cronologia, una vera sequenza di eventi storici. Ma gli eventi della visione di san Giovanni non sono accaduti all'epoca della sua stesura e non sono ancora avvenuti nella loro pienezza. Senza alcuna analisi razionale o conoscenza impartita con le parole, sapevo che il libro dell'Apocalisse è il resoconto di una serie di visioni che sono state date a san Giovanni in forma multidimensionale. Certo, l'evangelista è stato costretto a metterle per iscritto in una forma bidimensionale, una serie di lettere per pagina. Le pagine vengono lette da un lato a un altro. Le righe vengono lette da un lato ad un altro. Anche le lettere vengono lette allo stesso modo. C'è fluidità e solidità e tutto questo influenza nel lettore il senso del tempo e della realtà immediata. L'opera stessa ha un inizio e una fine. E quindi, nonostante la sua forma, la parola scritta influenza fortemente nel subconscio del lettore una forma di cronologia, una sensazione del passaggio del tempo dal punto A al punto B in un processo storico lineare. Ma la "sfera" della mia visione interiore (esito a definirla una visione ispirata; chiamiamola discernimento) era una presentazione della fine della storia come condizione spirituale durante uno stato di climax. Gli eventi che descrive sono reali, si verificheranno, saranno storici un giorno. Una lettura ripetuta dell'Apocalisse lascia emergere la sensazione che ci sia una grande complessità in questo periodo. A causa di questa complessità, coloro che vivono dentro di esso possono essere facilmente fuorviati. L'uomo percepisce tutte le cose con gradi mutevoli di soggettività. Può tralasciare facilmente le cose essenziali, dettagli, che nel linguaggio ordinario della narrativa possono apparirgli periferici, mentre invece si rivelano centrali. Potrebbe concentrarsi eccessivamente sui ghirigori di dettagli sorprendenti e perdere il nucleo sottile che è il suo nemico più pericoloso. Quindi, lo Spirito Santo utilizza simboli potenti per aiutare il lettore a sospendere il suo modo normale di percepire e lo guida a una consapevolezza più ampia del conflitto esteso e sfaccettato fra il bene e il male che avverrà alla fine della storia. Non è tanto interessato a impartire informazioni quanto piuttosto ad instillarci gli strumenti della consapevo-
lezza. Nella forma letteraria del libro non troviamo solo una cronologia di eventi, sebbene lo si legga spesso in quel modo. Ho capito che in realtà si tratta di una stratificazione di eventi-simbolo, come se si stesse guardando in una sfera di vetro o in una boccia d'acqua in cui si svolgono numerose storie, alcune delle quali contemporaneamente. Molte di loro si sovrappongono, alcune nel tempo, altre nella geografia, altre sia nel tempo sia nello spazio. La sfera contiene un numero di cronologie, ma non sono disposte l'una dopo l'altra, secondo una linea unica. Entro l'Apocalisse c'è, naturalmente, una serie di eventi consecutivi che si succedono gli uni agli altri in successione rapida, ma non si deve concludere che l'intero libro sia semplicemente così, soprattutto negli stadi iniziali, dove vengono raccolti i diversi flussi della visione. Solo a poco a poco si muovono insieme verso gli eventi finali. Entro la multidimensionalità dell'intero c'è una processione graduale verso l'"éschaton", la battaglia finale e la seconda venuta di Cristo. In questo senso, ha un inizio e una fine. Certo, la struttura fondamentale della visione prende la forma di un essere creatore, un'opera d'arte che non è piatta, ma contiene piuttosto le profondità in cui il lettore si immerge per il discernimento. La visione è una profezia, ma più di una profezia nel senso di mera previsione. Non si occupa di date e durata del tempo, eccetto in modo indiretto. Quei credenti che si ritroveranno a vivere entro gli eventi attuali predetti vedranno cose disposte tutte intorno a loro e poi i tempi e i luoghi diverranno chiari, come lenti che vengono messe a fuoco. Se l'Apocalisse di Giovanni descriva o meno un periodo di tre anni e mezzo o venticinque anni, un secolo o un millennio è ancora incerto e rimane tema di dibattito fra i biblisti. Gesù stesso ci ricorda che nessun uomo conosce l'ora o il giorno del ritorno del Figlio dell'Uomo. Non sarebbe un bene per noi saperlo. Probabilmente la maggior parte delle persone si abbandonerebbe a una sorta di legalismo al contrario, indulgendo in ogni genere di comportamenti disordinati, presupponendo che saremmo riabilitati, quando giungerà il tempo del ritorno. Nell'interesse di ogni singola anima, quindi, lo Spirito Santo ha trovato necessario evitare descrizioni palesi, dettagli precisi. La visione di Giovanni non è resa in un semplice approccio let-
terale anche per un'altra ragione, forse ancora più impellente. Un giorno verrà l'Anticristo. Ma spesso dimentichiamo che lo spirito dell'Anticristo è attivo in ogni epoca, è capace di ingannare le anime e di condurre alla perdizione intere nazioni e popoli, senza fare ricorso al grande dramma dell'Apocalisse. Ci sono state molte apocalissi dal tempo di Cristo: il regno di Nerone, Hitler, e Stalin, per esempio. Si tratta di prefigurazioni del regno dell'Uomo del Peccato. Si tratta di ammonimenti. Rammentano che non dobbiamo percepire la lotta con l'Anticristo come magnifico megadramma riservato ad un futuro distante. La battaglia attuale contro quello spirito è stata lanciata sin dall'inizio della storia umana e continua ininterrotta fino ai giorni nostri. Se la visione di Giovanni fosse stata resa in termini letterari simili a quelli dell'Antico Testamento, ci sarebbe un pericolo ancora maggiore di travisamento per coloro che saranno in vita quando il vero Uomo del Peccato salirà al potere. Dato che la psicologia umana tende naturalmente a interpretare il paesaggio circostante e il proprio tempo come normalità, per quanto possano essere estremi, è difficile riconoscere in essi il momento decisivo della storia. Solo la persona preparata dal punto di vista spirituale è capace di interpretare l'ammonimento e applicarlo al proprio universo apparentemente normale. Quindi, la visione di Giovanni doveva essere trasmessa in forme universali. Dato che è stata materializzata in simboli, la profezia prende vita entro l'immaginario del credente di ogni epoca. Non è semplicemente immagazzinata come una notizia nuova, un altro pezzo di informazione religiosa, un altro scenario - cosa che sarebbe particolarmente infeconda per l'uomo moderno, che soffre per l'eccesso di teorie, conoscenze, e scenari. Invece, l'Apocalisse prende la forma di un grido a voce alta in un mondo che sta diventando sordo. L'autorità del suo simbolismo spaventoso garantisce un potere assoluto sull'immaginazione. Siamo affascinati, disorientati, frustrati, allarmati, e infine incoraggiati. In breve, veniamo risvegliati a un genere di attenzione di fronte al mistero della storia umana nel suo sviluppo, proprio perché non sappiamo quando o come si incarnerà l'ultimo pericolo. In una lettura pervasa dalla preghiera, il libro ci aiuta a convertire l'attenzione nella santa vigilanza, lo spirito della sentinella.
Questo, mio caro padre nello spirito, è tutto il senso che riesco a vedere nella mia "visione-sogno", ma lo sottometto in pace al suo discernimento sulla questione. È una vana immaginazione, un inganno, o semplicemente un'intuizione? È un insegnamento che proviene dallo Spirito Santo? Non subisco le percosse che lei sopporta nella lotta contro il nemico. Le mie sono interiori, e non poche sono un dubbio abissale. Ho chiesto al cardinale segretario di Stato e attraverso lui al Santo Padre di sollevarmi da questa missione, ma hanno rifiutato. E così devo continuare in una condizione di debolezza totale. Quanto vicino deve essere lei al Salvatore, se le ha dato l'incarico di sopportare le sue ferite nel mondo. Quando parla con Lui, lo implori che mi dia la forza. Il suo figlio in Cristo, padre Elia Schäfer *** La risposta arrivò alla vigilia di Natale, una nota scritta a mano e consegnata da un giovane frate francescano. «Salve, padre. Mi fa piacere rivederti». «Jakov!». «Voglio che tu prendi la lettera di padre Matteo. La porto in treno. Mi dispiace per rovinarla». Elia gli diede un colpetto di benvenuto sulle spalle. Il gigante fece ripetutamente su e giù con la testa. «È bello rivederti, Jakov. Stai bene?». «Va tutto bene. La mia testa non si spezzare; il mio cuore si è fissato». Assistette alla messa celebrata da Elia, durante la quale il volto del giovane irradiava una tale luce che parecchi novizi non riuscivano a togliergli gli occhi di dosso. Durante la liturgia, Elia si aspettò di voltarsi e di trovare Jakov sospeso in aria, ma non successe nulla del genere. Jakov non si sarebbe fermato per cena e rifiutò un passaggio verso il convento francescano dove avrebbe passato la notte prima di tornare ad Assisi. «Questa è la notte di Natale, padre. Questa notte la Sacra Famiglia cammina sulla terra. Li cerco, forse trovo un posto dove possono dormire.
La Sacra Famiglia, a lei piace giocare. Vengono da noi, ma non sembrano la Sacra Famiglia. Ma li trovo», disse facendo un sorrisetto e agitando il dito indice come per sgridare la Sacra Famiglia per questi trucchetti. Uscì nel dedalo di strade sempre con quel sorrisetto, facendo un cenno di saluto. Dopo il vespro, Elia rimase da solo nella cappella e lesse la nota. Mio fratello Elia, la sua visione viene dal Signore. Abbia fiducia in Lui e Lui agirà. Non tema nulla, ma sorvegli il suo cuore in tutte le cose. Sempre nella preghiera padre Matteo 10 Varsavia Il jet virò, ed Elia vide la città. Si era immaginato questo momento così tante volte nella sua vita. Era sicuro che avrebbe provato eccitazione, o terrore, o gioia. Non provava nulla. Varsavia ribolliva di caldo nel sole primaverile, una metropoli in espansione di quasi due milioni di abitanti. Quando le ruote dell'aereo toccarono l'asfalto, molti volti si affacciarono nei suoi pensieri. Sua madre. Suo padre. Fratelli, sorelle, cugini, zii, e zie, amici d'infanzia, vicini - tutti scomparsi, estinti nel fuoco della Shoah. Vide bambini fare il gioco del saltarello sui marciapiedi. Vide la madre diffondere il profumo delle candele dello shabbes e coprirsi il volto. Vide il padre cucire cucire cucire, mentre il nonno gli leggeva pagine dei trattati. Sentì la puzza di pesce e l'aroma narcotizzante del pane appena sfornato. Gustò la dolce vischiosità del vino color porpora. Sentì la lingua mormorante dei commercianti al mercato, i nitriti dei cavalli, le grida dei giovani coraggiosi che scagliavano parole contro i carriarmati, le urla delle donne violentate, il sibilo dei proiettili e il loro rumore secco, quando si scheggiavano nel marciapiede vicino a lui. Vide molti altri volti. Le guardie al cancello del ghetto. Il libraio, Pawel Tarnowski, il suo volto che si sbiancava mentre lo nascondeva nei recessi del solaio. E quell'altro, quello corrotto, il volto che bruciava rosso nell'atto del tradimento. Facce, facce che volavano nella memoria come uccelli
che si alzavano in volo dal profondo della foresta, dove la luce evidenzia certi dettagli solo nei giorni più rigidi dell'inverno, quando ogni cosa viene riportata alla sua forma essenziale. Il taxista che lo portava in centro città continuava a commentare, indicando questa o quella attrazione turistica: edifici religiosi, l'architettura monumentale del regime comunista, i nuovi teatri e night club che sorgevano a ogni angolo. Il centro culturale della Polonia, lo chiamavano alcuni, nonostante fosse probabilmente Cracovia, l'antica capitale, a meritare questo titolo. Passarono davanti a molti spettacoli della strada, pittori, musicisti, acrobati, persone anziane che vendevano fiori, sorridevano, gridavano, ridevano, borbottavano: innumerevoli gruppi di giovani che chiacchieravano vivacemente. Una città di giovani e di anziani. Le strade erano percorse da un gran traffico. Il viale Jerozolimiski era pervaso dal rombo delle automobili come ogni strada importante di Roma o Tel Aviv. L'autista lo portò all'Hotel Marriott, e in pochi minuti Elia fu condotto alla sua camera all'ultimo piano. Era stato sistemato tutto. Qualcuno si era già occupato di tutte le formalità, la direzione non sapeva chi precisamente. Il padre desiderava del caffè? No? Il padre avrebbe potuto suonare in qualsiasi momento, se avesse avuto bisogno di qualcosa. Dopo le esperienze in Israele e a Roma, una tale gentilezza rappresentava una piacevole sorpresa. Una volta che l'inserviente se ne fu andato, si sedette su un letto lussuoso e fissò, oltre la finestra a tutta parete, le cime degli alberi sormontate dalle torri degli uffici. La città che era stata la sua casa per i primi diciassette anni di vita era diventata completamente indecifrabile. I nazisti l'avevano distrutta, ma dal reticolato delle strade era sorta una nuova città. Solo la Città Vecchia e la Città Nuova, l'antico cuore medievale, erano state meticolosamente ricostruite dalle macerie lasciate dall'invasione. Vide la Vistola piegarsi attorno al centro verso est, e sapeva che se avesse guardato verso nord avrebbe visto il quartiere Muranow, che conteneva il ghetto. Pezzo per pezzo individuò la forma originaria e la sovrappose ai parchi e agli edifici moderni. A nord-est identificò l'area più familiare di tutte. Il caseggiato sulla Zamenhofa non c'era più. Solo allora si rese conto che le sue mani stavano tremando e che per lungo tempo aveva conservato una stanza segreta nella sua anima. Lo aveva sempre preoccupato non provare il desiderio di ricordarsi della vita che aveva vissuto. Aveva immaginato che quello che era venuto dopo fosse più importante, che il passato fosse solo un ricordo nascosto. Naturalmente, ogni tanto aveva ricordato le
festività e le preghiere, i rimproveri e i baci, e le solenni discussioni filosofiche. Ma tutto questo era sbiadito, trasformato in una quinta teatrale, vago, indistinto, un tono, un'atmosfera, un mondo che si era disperso, quando la sua vita aveva assunto una forma e un nome completamente diversi. Di tanto in tanto, era stato trafitto da attimi di desiderio di rivedere i volti amati, o il caseggiato grigio sporco e le tre stanze del quarto piano che erano state la sua casa. Ma mai come ora gli era capitato di avvertire che un'intera porzione della sua esistenza era stata tranciata dalla sua coscienza. Che fosse cristiano, un prete cristiano, era fuori di dubbio. Era la sua vita, la sua gioia, e il compimento di tutto quello che era autentico nel suo carattere. Era stato bambino, un tempo. Un ebreo. Ogni cosa appartenente a quell'esistenza era stata distrutta, ma era rimasta dentro di lui, dormiente, ancora viva. L'aveva messa sotto sigillo. Ora la porta era aperta. Disse la messa sulla scrivania di fronte alla finestra che si affacciava verso nord. Il kit portatile per la messa gli era stato donato da un vescovo tedesco il giorno della sua ordinazione, molti anni prima. «Questo calice, questa patena, questo candeliere sono stati fatti in segreto a Dachau da un prete tedesco», disse il vescovo. «È morto per la fede che Lei ha abbracciato. È il mio tesoro più grande. Le chiedo di accettarlo». Elia aveva accettato il dono come stordito, comprendendo il simbolismo del gesto, grato per il suo significato, ma quasi per nulla commosso. Perché non era commosso? Da molti anni corrispondeva con questo vescovo, erano diventati amici. Ma era rimasta una piccola zona remota di stordimento, si era sottratta alle spiegazioni. Perdono. Sì, molto tempo fa aveva perdonato ogni cosa. Forse era solo incapacità di provare dolore. Aveva odiato e più tardi perdonato. Ma aveva mai semplicemente provato dolore nel profondo della sua anima? Dopo la comunione, si sedette nella luce che filtrava dalla finestra e sentì dentro di sé il calore della Presenza. La adorò e l'abbracciò. Si riposò sul Cuore che batteva nel suo stesso cuore. Il senso di disorientamento e di dolore diminuì, e la pace a poco a poco riempì il suo essere. Cercò con lo sguardo i luoghi dove si trovava il ghetto e pregò per le centinaia di migliaia di anime che lì avevano sofferto. Davanti alla finestra passavano stormi di uccelli come frammenti di bianco e oro, rosso e nero. Pregò per le anime della sua famiglia. Quando ebbe terminato la liturgia, pregò in ebraico il kaddish, la preghiera per i morti.
*** Dopo aver pranzato nella propria camera, scese nella lobby. L'addetto alla reception gli fece un cenno e gli porse una busta. Conteneva un messaggio del segretario del presidente addetto agli appuntamenti: lo invitava al ricevimento d'apertura della conferenza internazionale, che si sarebbe tenuto al Palazzo della Cultura e della Scienza, alle sette di sera, quattro giorni più tardi. Il discorso iniziale sarebbe stato tenuto dal presidente. Il professor Schäfer veniva pregato di unirsi al presidente e ai suoi invitati per una cena anticipata al Canaletto, presso l'hotel Victoria Intercontinental, alle cinque. R.S.V.P. Allegata c'era una busta già affrancata e con l'indirizzo, che Elia compilò e imbucò nella casella della posta nella lobby. Uscì per fare una passeggiata verso il Jerozolimiski e fu colpito da una ventata di caldo. Il sole era alto sulla città, l'aria era umida e rumorosa, ma pervasa dalla fragranza che proveniva dalle bancarelle di fiori lungo il viale. Camminò verso est per dieci minuti, evitando gli zingari che volevano leggergli il palmo della mano, i venditori che gli offrivano tazzine di stagno di woda gazowa, e mendicanti giovani, in salute, ben vestiti. Attraversò la Marszalkowska e si avviò a nord verso il lato orientale del ghetto. Una passeggiata di circa mezz'ora lo portò a Nowolipki. Svoltò a sinistra, passò oltre un caseggiato e svoltò a destra nella Zamenhofa. Continuò verso nord per alcuni caseggiati, fino all'angolo di Mila. Si fermò e guardò il luogo dove avrebbe dovuto trovarsi il suo caseggiato. Gli edifici erano completamente differenti. Ora qui crescevano degli alberi. Bambini giocavano sul marciapiede. Se avesse socchiuso gli occhi, non ci sarebbe stata nessuna differenza, a parte il fatto che non portavano la kippah, o i riccioli di capelli lungo le orecchie, o le frange del talliskot'n che sbucavano da sotto i loro abiti. Erano vestiti come tutti i bambini di oggi. Le macchine percorrevano la strada avanti e indietro. Un adolescente passò strimpellando una chitarra. Signore anziane erano sedute a fumare una sigaretta sui gradini di fronte a un caseggiato di stile sovietico. «Si è perso, padre?», disse una di queste donne a voce alta. «No», replicò lui. «Mi potrebbe dire, Pani», disse in polacco, «i numeri della strada sono gli stessi di prima della guerra?». «Eh?», disse una, guardando l'altra. «Non lo so. Non abitavamo qui a quel tempo». «Sto cercando il 112. Vivevo qui da ragazzo». Lo squadrarono dalla testa ai piedi.
«Gli ebrei abitavano qui. Lei è cattolico». «Sono cattolico. Ed ebreo». Le donne lo guardarono perplesse e si voltarono, ignorandolo. Camminò lentamente lungo il marciapiede. La strada sembrava molto più stretta di quanto non ricordasse. C'era più luce. Più alberi. Circa a metà del primo caseggiato a nord della Nowolipki, sulla sinistra. Sì, sì, sicuramente era questo il posto. Schiere di edifici nuovi avevano rimpiazzato i caseggiati che allora si allineavano in questa zona. Guardò per terra e trovò un ciottolo. Sì, c'era una pietra incrinata che assomigliava a una testa di cavallo. «Ho giocato qui», disse. «I miei piedi hanno toccato queste pietre...». Non si fermò a lungo. Continuò a camminare senza meta attraverso il dedalo di strade, cortili e viali. Alla fine, si trovò a lasciare Muranow e si diresse verso le acque della Vistola. Non sapeva dove stesse andando, né dove volesse andare. Il pensiero di ritornare alla lussuosa sterilità dell'hotel non lo attraeva. Pensò che forse avrebbe potuto vedere il fiume. Passò l'angolo di Nalewki, dove era scappato dal ghetto saltando su un carro che stava passando per il cancello con un carico di spazzole. Gli spararono. Lì. Si fermò e fissò il punto. Sì, lì. Stava scappando via dai soldati. Era affamato ed estremamente debole, ma in uno scatto di disperazione galoppò via dai sibili e dalle grida in tedesco, Halt! Halt! Le frange del tallis gli svolazzavano dietro, e i suoi piedi erano imbevuti del fango dovuto alla pioggia fredda. Sentì il fischio e i colpi delle pallottole. Procedendo per intuizione più che a memoria, Elia rintracciò il percorso della sua fuga terrorizzata. Camminò lentamente verso la Città Vecchia. Erano trascorsi quasi sessant'anni. Vide se stesso ragazzo precipitarsi giù lungo la strada con due soldati grandi e grossi che gli stavano alle calcagna; sentiva con le proprie orecchie martellare il cuore, sentiva la gola dolorante e i gemiti del vento dentro e fuori i suoi polmoni. Dentro e fuori, dentro e fuori. Per questa strada tre caseggiati, poi a destra nel vecchio quartiere, a sinistra in un viale, a destra, sinistra, dietro front, un cortile. Una strada senza uscita. Disperato. La morte si avvicinava. Si nascose nel vano di una porta. Le gambe gli si piegarono, e cadde a ritroso nella libreria di Pawel Tarnowski. La bussola interiore non abbandonò padre Elia, e un quarto d'ora dopo si trovava nel cortile, a fissare la seconda resurrezione della giornata. Il vischio non c'era più. Gli edifici sembravano gli stessi, nonostante
molti dei dettagli più eleganti fossero cambiati. L'intelaiatura della vetrina era dipinta di giallo vivace, non di verde. La porta era nuova. Le lettere dorate della Casa Sophia non c'erano più, rimpiazzate da un'insegna appariscente che annunciava arte folk galiziana. In vetrina c'erano scatole dai colori brillanti, bambole di legno, arazzi, icone a buon mercato stampate su legno. Entrò. Il campanello della porta suonò, ma il negozio rimase incustodito per alcuni minuti. Si fermò a fissare l'interno, stupito che fosse completamente trasformato, ma nonostante tutto familiare. Le finestre e le porte erano dove erano sempre state. L'illuminazione era moderna. Sapeva che dietro la tenda c'era una scala che portava all'appartamento al piano di sopra, e che ci sarebbe stato un soffitto decorato a stucchi, e che vicino a una cameretta c'era una scala nascosta che portava al solaio, e che nel solaio dalle pareti a pannelli di legno ci sarebbero stati mucchi di scatole, una finestra sul tetto ed esplosioni di ricordi che forse sarebbero stati insopportabili. «Posso aiutarLa?». Una giovane donna uscì da dietro la tenda. Era truccata pesantemente e portava i capelli tutti a punta come una rock star americana. «No, grazie, Pani. Vorrei solo dare un'occhiata, se non Le dispiace». «Guardare costa poco. Guardi quanto vuole». Ma non ne sembrava felice. Sentì l'odore di salsa piccante, cipolle fritte e cavolo bollito. Nella stanza sul retro un televisore stava strillando cartoni animati, e due bambini piccoli stavano bisticciando cambiando canale. La donna si fermò a fissarlo con espressione annoiata. «Sta cercando un souvenir? Un regalo per qualcuno?». «Ho vissuto qui», spiegò. «Quando ero ragazzo. Durante la guerra». «Oh, la guerra. Prima di me». Elia indicò il soffitto. «Vivevo qui sopra». «È tutto chiuso da quando sono arrivata io. Non ci va nessuno. Forse è vuoto. Forse c'è un tesoro», ridacchiò. «Il proprietario ha la chiave». «Un tempo questa era una libreria. Il proprietario, il suo nome era Pawel Tarnowski. Ne ha mai sentito parlare?». La donna scosse la testa. «Non lo conosco». «Sa che cosa gli è successo?». Lei scosse di nuovo la testa e diede un'occhiata alla stanza sul retro. Gri-
dò ai bambini di abbassare il volume della televisione. «Forse il proprietario lo sa», disse stringendosi nelle spalle. «Può dirmi il suo nome?». «Perché no? Tutti lo sanno. È proprietario di questo posto dalla guerra. Era un comunista. Naturalmente nessuno è più comunista. Giusto? Il vecchio Boleslaw cade sempre in piedi. Adesso è un capitalista. Un aristocratico». Rise e mise in evidenza una bocca piena di denti marci. Gli scrisse il nome e l'indirizzo su un pezzetto di carta e glielo diede. «Vada qui. Stia attento. È una serpe. Ma non gli dica che ho detto così. Aspetti. Gli dica invece, per favore, che ho detto così». Aprì di nuovo la bocca, ma Elia non rimase abbastanza a lungo per sentirla ridere. Trovò l'indirizzo, a sud della Città Nuova, in una via tranquilla fiancheggiata da alberi, appartamenti di prestigio che si affacciavano sulla Vistola. La suite del proprietario era al quinto piano. Una targhetta di ottone sulla porta diceva Boleslaw Smokrev, broker, antiquario, stime, beni immobiliari. Gli rispose un uomo dall'aspetto duro di circa trent'anni. Diede un'occhiata tagliente all'abito religioso di Elia. «Sì?». «Vorrei parlare con Pan Smokrev, per favore». «Chi è Lei?». «Mi chiamo padre Elia Schäfer, sono in visita a Varsavia. Vorrei incontrarlo». «Per quale motivo? Vuole comprare o vendere qualche oggetto prezioso?». «No, è una questione personale». «Il conte è ammalato. Non può vedere nessuno». «Mi dispiace. Posso lasciargli un messaggio?». L'uomo annuì bruscamente. Elia scrisse il proprio nome sul retro di un pezzo di carta, il nome del suo hotel e il messaggio: "A proposito di Pawel Tarnowski". «Glielo darò quando si sveglia. Se è una questione per cui Pan Smokrev può fare qualcosa, verrà contattato a breve. Se è una questione che non può trattare, non si metterà in contatto con Lei e La prego di non chiamare più». «Capisco. La ringrazio. Buona giornata». L'uomo non rispose al saluto. Chiuse la porta. Elia ritornò in hotel a piedi. Camminò per parecchi chilometri e arrivò
alquanto esausto. Dormì fino a sera, quando il servizio in camera bussò e gli portò un caffè. Sul vassoio c'era una busta. Il biglietto diceva: "Venga domani alle nove di mattina. B. Smokrev". La scrittura era tremolante, inchiostro blu scuro su un biglietto da visita di color malva. La mattina successiva il cielo aveva aperto le cateratte e le strade erano abbondantemente inondate. Il rumore e il ticchettio della pioggia erano una delizia per le orecchie di padre Elia. La calura si era attenuata. Poco prima delle nove, riuscì a fermare un taxi. Pochi minuti dopo stava salendo all'appartamento di Smokrev con un ascensore antico. Lo stesso giovane uomo dalla faccia dura gli aprì la porta e gli fece un cenno. La suite era spaziosa, ricoperta di tappeti orientali e arredata con mobili antichi del genere più severo e soffocante. Le pareti erano ricoperte di dipinti risalenti a periodi diversi. L'atmosfera era di opulenza e desolazione. «Da questa parte», disse l'uomo. Lo condusse attraverso un lungo corridoio in una camera da letto. Lì incontrarono un'infermiera in uniforme che li portò in una seconda camera da letto collegata alla prima da una doppia porta a vetri. Lì, in un letto a baldacchino coperto di seta rossa, era sdraiato un uomo incartapecorito. Teneva un telecomando in mano. Un televisore giapponese in miniatura al suo fianco venne spento all'improvviso. Il vecchio era coperto di macchie marroni, e i suoi occhi pallidi lasciavano colare un fluido giallo. La sua espressione era sardonica, lo sguardo circospetto. «Conte Smokrev», disse il domestico, «la persona che ha lasciato il messaggio». «Ah, sì», disse una vocina gracchiante. «Lei desidera acquistare la mia collezione di icone. È l'esperto d'arte che il cardinale ha detto che mi avrebbe mandato. Dica a quel seccatore che non mi convincerà a svendere quello che legalmente è mio. Ho comprato la mia collezione in modo legale e non ho (qui l'uomo ruggì ad un volume sorprendente) e non l'ho confiscata alle chiese. Gli dica che se continua a mettere in giro queste dicerie infamanti, sto pensando seriamente di denunciare lui... e tutta la sua Chiesa. La Chiesa polacca vacillerà per un bel po' per lo shock! Se vuole le mie icone, deve pagare come chiunque altro!». «Conte Smokrev, non sono venuto da parte del cardinale. Sono venuto in modo privato. Vengo da Israele». «Israele, eh?», disse sospettoso. «Perché voleva vedermi?». «Sono quello che ha lasciato il messaggio su Pawel Tarnowski».
«Che cosa avrei a che fare con lui, eh?». «Durante la guerra Pawel abitava in una proprietà che ora è Sua, nella Città Vecchia». Il domestico sussurrò qualcosa nelle orecchie di Smokrev, e il vecchio borbottò. «Sì, sì, ora ricordo. Lei ha lasciato un messaggio ieri», bofonchiò. «Una persona anziana non ha il permesso di riposare». «Possiamo parlare? È una questione di grande importanza per me». «Lasciateci», disse al domestico e all'infermiera. Questi uscirono e chiusero la porta a vetri, ma l'infermiera si sedette in una poltrona in vista e piegò la testa su un lavoro di ricamo. «Non conosco nessuno con il nome di Tarnowski. Viene da Tarnow?», ridacchiò. «No. Da Varsavia. Era un libraio». «Non conoscevo nessun libraio. I miei giri erano completamente differenti. L'intellighenzia». «Ha anche pubblicato dei libri, prima della guerra. Ritengo che in questo senso appartenga all'intellighenzia. Ha scritto anche un'opera teatrale che è stata pubblicata in Germania dopo la guerra. È uscita sotto falso nome. Più avanti è stata ripubblicata in tedesco con il nome del suo vero autore. È apparsa per la prima volta in Polonia solo dopo la caduta del comunismo». «Perché si interessa di lui?». «Lo conoscevo». «E...?». «Mi ha aiutato». «Che cosa c'entro io?». «Mi ha salvato la vita». «Come Le ha salvato la vita?». «Mi ha nascosto». «Era nella resistenza?». «No». «Ebreo?». «Sì». Smokrev ridacchiò di nuovo. «Un ebreo! Un ebreo! In costume da prete! Che bello! È sempre un piacere incontrare un traditore della sua razza!». Elia rimase in silenzio. «Un traditore della sua fede!».
Smokrev si calmò e quando smise di ridacchiare e si asciugò gli occhi, gli chiese bruscamente: «Le ripeto: che cosa vuole da me?». «Vedo che non sa nulla del mio benefattore, signore. Ma sarebbe molto gentile da parte Sua se mi permettesse di visitare i locali di Sua proprietà nella Città Vecchia». «Il negozietto dove quella strega vende imitazioni di arte folk agli americani?». «Il negozietto, sì. Sopra ci sono un appartamento e il solaio dove abitavo. Significherebbe molto per me». «Perché dovrei farLe un favore? Chi ha mai fatto favori a me?». «La prego, signore». «Mi prega», sbuffò Smokrev. Il cuore di Elia colò a picco. «Mi prega», borbottò il vecchio. Elia si alzò, gli augurò una buona giornata e se ne andò. *** Si svegliò alle sette la mattina successiva. Disse messa davanti alla finestra che si affacciava sulla città, pregò per le vittime, pregò per i sopravvissuti furbi come Smokrev, e per il successo della missione papale. Provò consolazione dopo la comunione, un tocco del Signore che lo riassicurò. Nonostante questo, continuava a sentirsi triste per non aver scoperto di più di Pawel Tarnowski. Passò la mattina a leggere l'Apocalisse e a pregare per il successo del suo incontro con il presidente. Due giorni dopo sarebbe stato faccia a faccia con il leone, ammesso che il presidente fosse davvero una bestia del genere. Dopo pranzo, un fattorino dell'albergo gli portò in camera una busta color malva. Dentro si trovavano una chiave nera e un messaggio. Caro turista da Israele, va', guarda dentro la scatola vuota del tuo passato. Poi fammi il favore di riferirmi quello che hai visto. Smokrev Quando entrò nel negozio, la donna alzò la testa dal giornale che stava leggendo, dalle labbra le pendeva un bastoncino di liquirizia rossa. «È tornato», disse in modo irritante.
«Il conte Smokrev mi ha dato il permesso di vedere...». «Lo so, lo so», borbottò. «Il leccapiedi della vecchia serpe ha telefonato questa mattina. Bene, da questa parte». Lo guidò dietro la tenda e lungo un corridoio verso una scala. Scope e stracci sui gradini. Elia li tolse di torno e cominciò a salire. «Se c'è un tesoro là sopra», scherzò la donna, «voglio la mia parte». «È improbabile che ci sia altro oltre al tesoro dei ricordi. Grazie per il Suo aiuto, Pani». «Non c'è di che. Tesoro dei ricordi! Ah! Puoi mangiarli, i ricordi? I ricordi sono spazzatura. Vivi la tua vita e poi porta fuori la spazzatura. Questo è tutto». Se ne andò strillando ai suoi bambini che avevano fatto irruzione nel corridoio, litigando. In cima alle scale, Elia aprì la porta. Quando la aprì, cigolò, e gli venne incontro un'ondata di aria fredda e stantia. Chiuse la porta dietro di sé e mise il catenaccio. Rimase fermo per alcuni attimi e si guardò intorno. L'appartamento era riconoscibile solo per la sua forma e per la luce che entrava da una finestra coperta di polvere nella sala da pranzo. Il gabinetto era allo stesso posto, ma le tubature erano state rimosse. Il soffitto non sembrava così alto come si ricordava, ma a quell'epoca era giovane, un ragazzino malnutrito e sottosviluppato. Non era più abbellito da decorazioni in gesso, perdute a causa dei bombardamenti. Non c'erano mobili. Il pavimento in legno massiccio era cosparso ovunque di frammenti di gesso ed escrementi di topo. La piccola camera da letto si avvicinava alle tracce più profonde della sua memoria. Il vetro della finestra che lui e Pawel avevano rimpiazzato con un pannello di ottone del paravento per la stufa non c'era più. Era stato sostituito dal vetro. Ma le dimensioni della stanza erano le stesse. Rimase fermo nel silenzio risonante e ascoltò ancora una volta le storie che Pawel gli aveva raccontato. Il racconto dell'artista che aveva visto Cristo nascosto nella faccia rovinata di un vecchio peccatore. Ricordava soprattutto la storia di un principe senza regno che aveva trovato il suo cuore. Qui il ragazzino ebreo ortodosso, David Schäfer, aveva raccontato al suo benefattore polacco le storie degli Hassidim. Quante volte Pawel lo aveva guardato perplesso? Quanto spesso, per contro, non era riuscito a comprendere quell'uomo più grande? Fra loro era cresciuto un rispetto reciproco, che aveva messo da parte per un certo tempo la barriera fra le loro culture. Avevano imparato molto l'uno dall'altro. Pawel era diventato come un padre
per lui, perché suo padre e sua madre erano morti nella Shoah. Era diventato come un figlio per Pawel, perché Pawel non aveva né moglie, né figli, e perché Pawel era un principe senza regno, che cercava in se stesso un cuore di padre. Anni più tardi, dopo la guerra, quando stava diventando importante in Israele, un avvocato che aveva fama di essere coraggioso e giusto, una figura pubblica destinata a un futuro politico, aveva ricevuto un messaggio da questo uomo. Un biglietto sgualcito avvolto attorno a una medaglietta ossidata con un soggetto religioso. Glielo aveva consegnato un angelo durante un giro di conferenze a New York. La medaglietta diceva, Mądrość, "sapienza"! Questa parola incisa lo aveva stanato da un futuro certo, aveva fatto sorgere il dubbio di fondo che aveva conferito alla sua vita un corso completamente diverso. Poche parole su un pezzetto di carta gialla. David, figlio mio, amico mio, non ho mai desiderato così tanto vivere come adesso. Scendo nelle tenebre al tuo posto. Ti dono la mia vita. Porto la tua immagine dentro di me come un'icona. Questa è la mia gioia. Scendo per dormire, ma il mio cuore veglia. Pawel La messaggera aveva detto che era stato lanciato da un treno durante la guerra. La messaggera lo aveva conservato per molti anni, fino a quando un angelo le aveva parlato e le aveva detto che il famoso israeliano era l'uomo a cui era indirizzato il messaggio. Ma David Schäfer aveva smesso di esistere. L'Haganah gli aveva dato un nuovo nome. Durante la guerra d'indipendenza questo nome si era affermato ed era diventato la sua identità pubblica, e il passato si era trasformato semplicemente in una forma di spazzatura che un giorno bisognava portare via. Alla fine era diventato famoso con questo nome, e non aveva più alcun collegamento con il nome sul biglietto. Non c'era un'anima al mondo che potesse ricordare il suo vero nome, a parte coloro che conservavano un certo dossier nei seminterrati del quartier generale dell'Haganah. Come faceva una semplice donna polacca che viveva in Florida a conoscerlo? Come? Impossibile, pensò all'epoca. Ma lei lo conosceva con la conoscenza dell'anima e aveva attribuito agli angeli quella conoscenza. Pawel Tarnowski era sceso nelle tenebre? Il treno era veramente diretto a Oświęcim? Forse il marito della donna, l'addetto ai binari, aveva capito
male. Anche se avesse avuto ragione e Pawel fosse stato trasportato a quel luogo di morte, sarebbe potuto sopravvivere. Alcuni erano sopravvissuti. Se Pawel era ancora in vita, Elia sapeva di doverlo trovare. La tenda che un tempo nascondeva la scala verso il solaio non c'era più, il suo segreto era esposto. La porta non era chiusa a chiave e si aprì senza difficoltà. Entrò. Il solaio era uno spazio ampio, vuoto, rivestito di pannelli di legno marrone scuro. Qui gli odori dalla cucina al piano terreno erano più intensi, ma l'odore della vernice vecchia dominava sopra ogni cosa. Elia andò dall'altro capo della stanza e aprì la piccola finestra. Le tegole erano le stesse. La vista dei tetti della Città Vecchia era la stessa, una ricostruzione fedele. L'orizzonte era completamente differente, dominato dall'architettura sovietica e capitalista. Il giorno in cui furono traditi era scappato attraverso quella finestra ed era corso sul tetto per raggiungere un altro caseggiato. Aveva camminato fino al fiume, cercando di non attirare l'attenzione, e, quando era arrivato alla riva sabbiosa, aveva proseguito verso est lungo la spiaggia per un chilometro, fino a quando aveva trovato dei cespugli fitti. Si era nascosto lì dentro fino a quando era scesa la notte e aveva nuotato fino all'altra riva, poi aveva percorso la campagna fino ad arrivare ai boschi, dove aveva trovato i partigiani. A loro aveva raccontato di avere delle indicazioni per un luogo in cui trovare rifugio a Mazowiecki, nella fattoria del cugino di Pawel, Masha. Lo dissuasero. Sembrava troppo ebreo, dissero. Persino se lo avessero fatto passare per un bracciante agricolo, non poteva essere al sicuro. Non aveva documenti. Sarebbe morto in meno di un mese. I polacchi lo passarono a un altro gruppo di partigiani che vivevano in un bosco a est. Erano giovani ebrei, amareggiati, laceri e male armati, alla ricerca del fronte sovietico. Rimase con loro una settimana, li lasciò e si spostò a est di notte. Ben presto si ritrovò affamato, malato, mezzo pazzo. Rubava il cibo, quando arrivava in campi incustoditi. Più di una volta i gentili avevano cercato di consegnarlo ai tedeschi, ma era sempre riuscito a scappare. Una volta, trovato addormentato in un fienile, era stato picchiato e rinchiuso in uno sgabuzzino, mentre il contadino era andato a chiamare le SS. Fece a pezzi le assi del pavimento, sgattaiolò fuori attraverso un'apertura nelle fondamenta di pietra e strisciò lungo un campo melmoso, scivolò in un fiumiciattolo e lo guadò seguendo la corrente fino a quando non si attenuò l'abbaiare dei cani che lo seguivano. Altri, gentili giusti, riconoscendo un ragazzino ebreo mezzo matto, lo nascosero nei fienili e gli diedero da
mangiare in abbondanza. Alcuni, lungo la strada, prendendolo per un matto vero e proprio, gli diedero del pane, un uovo, una tazza di latte, una fetta di salsiccia rancida. A sud di Lublino passò il fiume Dnestr. Viaggiò per tre notti lungo la riva, fino a quando non inciampò in una barchetta mezza affondata sulle secche. La trascinò a riva, la voltò e ci dormì sotto. Alla luce del mattino, vide che era forata da buchi di proiettili e che sulle fiancate era rimasto del sangue secco, una cosa vecchia. Al tramonto, riempì i buchi con steli di canna, la rimise in acqua, ci salì e si mise disteso. La corrente lo portò verso sud durante la notte. Un uomo, che pescava all'alba, lo chiamò dalla riva. Cucinava un pesce. Il ragazzo lo mangiò voracemente. L'uomo osservò il modo in cui lo consumava. Gli diede del formaggio e un bicchierino da liquore di vodka forte distillata in casa. Gli parlava in una lingua strana. Scherzava. Il ragazzo non rideva. Fece dei segni per indicare i fucili, imitò un saluto hitleriano e additò il fiume non lontano. L'uomo si fece il segno della croce sul petto e alzò gli occhi al cielo, uno sguardo che esprimeva un misto di sofferenza e di ironia. Poi lo portò alla sua fattoria, gli diede da mangiare per parecchi giorni, e durante una lunga notte lo condusse per un sentiero attraverso i boschi e i campi alle sponde di un altro fiume. «Prut! Prut!», disse l'uomo enfaticamente, indicando la corrente. David Schäfer lo ringraziò in polacco, yiddish, francese e un russo stentato, al quale l'uomo replicò con un ampio sorriso e annuì. Quando scese il sole, il ragazzo si allontanò verso sud, lungo le rive del fiume Prut, che voltava ai piedi dei Carpazi e procedeva serpeggiando verso il Mar Nero. *** I colpi alla porta lo riportarono indietro attraverso cinquant'anni di storia. «Su, non ha ancora finito? Che succede lì sopra?». «Scendo subito», disse a voce alta. «Mi lasci vedere. Forse ha trovato un tesoro, eh? Forse lo vuole tenere tutto per sé?». Scese e aprì la porta. «Venga e controlli da sola». La donna passò per il piano superiore con cautela, facendo schioccare la lingua in segno di disapprovazione, commentando il pessimo materiale isolante, il costo del riscaldamento, i topi, la "serpe", come allevare i bam-
bini ora che il vecchio ordine era scomparso. «I comunisti erano dei bastardi», disse, «ma almeno tenevano le cose in ordine». «La guerra era peggio». «Tutti parlano di quei brutti tempi», si lamentò lei, «ma le dico che secondo me sono proprio brutti questi tempi. Come fa un onesto lavoratore a comprarsi una casa, le chiedo!». «Mi creda, Pani, la guerra va al di là di ogni immaginazione. È stato il regno del male». La donna borbottò, ma non replicò. «Vorrei stare da solo ancora un po', se non le dispiace. Non c'è nessun tesoro qui». «Va bene. Ma deve andare via a mezzogiorno. Ho bisogno che vada via, così posso chiudere. Non che non mi fidi di lei...». «Capisco. Mi dia un po' di tempo». La donna si lamentò scendendo le scale, chiuse la porta e lo lasciò al silenzio. Per lui questo silenzio non aveva prezzo, e quando cadde fra le sue braccia, dalla nebbia uscirono brani dimenticati dei ricordi e gli parlarono. «Mi metto in ascolto di Dio nelle tenebre», diceva Pawel. «È una bella cosa», diceva il ragazzo. «Come Elia sul monte Carmelo, che si mette in ascolto della parola di Dio nella brezza gentile». «È un'occupazione solitaria?». «Qualche volta lo è. Vivo qui in questa grande città come un monachus, un solitario. Prego. Lavoro. Metto buoni libri nelle mani della gente. Forse nelle loro menti nascono buoni pensieri. Questa è la mia vocazione». «Continuo a non capire. Perché questo ci vieta di dividere il letto? Cinque coperte sono meglio di due. Tu sei come un fratello. Sei mio amico. Dormiremmo bene dopo tutto». «Il calore di un altro cuore che batte vicino a me sarebbe una consolazione troppo grande per me. Non capisci?». «Non capirò mai». «Dimenticherei il grande cuore che batte entro ogni cosa e dovunque, in ogni tempo. Smetterei di andare verso di Lui. Amerei la creatura più del Creatore - e alla fine cesserei di amare anche la creatura. Non amerei più nulla». Padre Elia stava seduto sul pavimento della camera da letto, appoggiato alla parete. Chiuse gli occhi. Si ricordò le notti terribilmente fredde, quan-
do Pawel non gli permetteva di dividere il letto, quando gli aveva dato una coperta in più. Una forma naturale di riservatezza. Modestia. Pawel era sempre stato un uomo distaccato, avvolto su se stesso. Non rivelava molto di sé, eccetto che nelle sue storie. «Sono come un figlio per te, Pawel?». «Sì, un po' come un figlio». «E un amico?». «Sì, anche quello». «Ma un giovane amico che dice cose infantili». «Może, forse. Ma anche l'uomo in cui si sta trasformando. Un uomo buono, che un giorno andrà a passeggio con me lungo la Vistola, quando la guerra sarà finita e che correggerà le mie conoscenze filosofiche traballanti». David Schäfer sorrise. Padre Elia sorrise. «Vedo che non sei arrabbiato con me, Pawel». «Non sono mai stato arrabbiato con te». «Ma io sono un peso per te». «Non sei mai stato un peso per me». «Ma c'è un'altra cosa. Lo vedo lì, nel tuo cuore. Rimane». «Un giorno, una mattina di primavera, quando gli invasori se ne saranno andati, cammineremo nel sole verso il fiume, e lì parleremo di questa cosa». «È una cosa che ti rende infelice?». «Sì». «Di cui ti vergogni?». «Sì». «È sitra ahra?». «È una ferita inflitta dal sitra ahra». «Ti fa male». «Sì. Mi fa male». «È come una pietra nel cuore? Come il principe?». «Sì, come quello». «Toglieremo la pietra e la getteremo nel fiume». «Sei molto giovane, David». «Qualche volta i giovani vedono cose che i vecchi non vedono». «Più spesso i vecchi vedono cose che i giovani non vedono». «Pawel, penso che sia una cosa santa essere un figlio nel regno dell'anima».
«Allora è una cosa santa anche essere padre nell'anima». «È una cosa che ci unisce, te e me». I tedeschi e il traditore avevano eliminato quella possibilità. "Il tipo corrotto", lo aveva chiamato Pawel. «Far groys tsores zolttsu zikh nit farbrenen...», aveva gridato David Schäfer avvolto nel cappotto di Pawel il giorno in cui i tedeschi avevano picchiato alla porta. «Non bruciare di dolore, non bruciare di dolore...», aveva gridato, nonostante non capisse perché dovesse pronunciare proprio le parole di una canzone del ghetto in quel momento. «Va'!», disse Pawel intransigente. «Va'!». «Non posso andare senza di te». «Sono già qui. Li tratterrò per un po', quanto basta perché tu vada via». «Non me ne andrò!». «Va'! Va'!». Quelle erano state le ultime parole che aveva detto prima di spingerlo fuori dalla finestra del solaio sul tetto, verso il suo futuro. *** «Il conte La sta aspettando», disse l'infermiera, «ma ora sta dormendo. La prego di attendere nel salone, mentre lo sveglio. Avrà bisogno di aiuto per le sue esigenze, e poi, se ne è in grado, lo porterò qui da Lei». Il domestico dallo sguardo duro mise su un tavolino un vassoio con tè e biscotti. Elia non li toccò. Nonostante l'ampia finestra, il salotto era tenuto perennemente nella semioscurità, non alleviata dai ritratti in nero e bordeaux di antichi gentiluomini, severi nei loro chiaroscuri, dipinti male, in mostruose cornici dorate. Due sculture a grandezza d'uomo facevano la guardia ciascuna a una estremità della stanza. Erano nudi maschili scolpiti nel marmo, un satiro morente (probabilmente romano) e un corridore (del periodo della Grecia classica). Entrambi erano macchiati e scheggiati. Forse erano pezzi autentici o delle copie ben fatte. «Così sta ammirando la mia collezione», disse una voce stridula dietro di lui. L'infermiera stava spingendo il conte nella sedia a rotelle attraverso la stanza verso una dormeuse. Lei e il domestico spostarono il corpo del vecchio e li lasciarono. «La prego, si sieda. Tè? No? Non è avvelenato. Non ho dubbi che Lei pensi di essere finito nel boudoir di un Medici», ridacchiò ed ebbe un at-
tacco di tosse. «Ah, sic transit gloria mundi!», disse il conte enfaticamente. «Tutta la carne non è che erba, no? Voi siete degli esperti di quel tema. Ma io Le potrei dire una o due cose». Tossì di nuovo, e quando si sistemò, mettendosi un plaid di velluto color porpora sulle gambe, il conte sollevò la testa con eleganza e fece penzolare il braccio lungo lo schienale della dormeuse. «Ora, non voglio perdermi un solo dettaglio. Mi deve raccontare tutto!». «Non sono venuto per approfittare del Suo tempo, conte Smokrev. Volevo ringraziarla personalmente per avermi dato il permesso di visitare il Suo immobile nella Città Vecchia». «Non è nulla. Ha la chiave? La prego di metterla lì». «Naturalmente. Eccola». «Allora. È come se lo ricordava?». «In sostanza non è cambiato nulla. È stato alquanto gentile da parte Sua permettere a un estraneo la nostalgia di un momento. La ringrazio». Si alzò per andare via, ma Smokrev agitò la mano ordinandogli di risedersi. «Si sieda, si sieda, si sieda! Non ho ancora finito con Lei». «Davvero? Non vi è molto da aggiungere». «Mi dica come è finito sotto la protezione di quell'uomo. Tarkowyski, lo ha chiamato?». «Tarnowski». «Sì, sì. Bene, me lo dica. Mi dica tutto». Padre Elia notò il luccichio curioso negli occhi del vecchio e decise di assecondare il capriccio di un'anima solitaria. «Sono cresciuto a Muranow, nella Zamenhofa. Quando sono arrivati i tedeschi, come ricorda, siamo stati isolati. Nell'estate del 1942 la mia intera famiglia è stata presa e caricata su un treno all'Umschlagplatz per essere trasferita». «Ah! Lei sa che cosa significasse, naturalmente». «Sì». «Treblinka». «Sì. Treblinka». «Ma non Lei? Non L'hanno presa?». «Mi sono nascosto nelle fogne. Ho vissuto come un ratto. A settembre sono uscito dal cancello nord-orientale. Mi sono messo a correre. Non sapevo dove stessi andando. Mi sono limitato a correre. I soldati mi davano la caccia, ma li ho persi nel dedalo della Città Vecchia. Sono caduto dentro
il negozio che ora è di Sua proprietà. Il proprietario mi ha nascosto. Ho vissuto nell'appartamento e nel solaio sopra il negozio durante l'inverno del 1942-43. Poi ho preso la strada verso sud». «Quando è stata l'ultima volta che ha visto il Suo protettore?». «Alla fine dell'inverno, inizio della primavera del 1943. Sono stato costretto a scappare, capisce? Sono stato scoperto da un polacco. Mi ha segnalato ai tedeschi». «Il traditore!». Smokrev si accese una grossa sigaretta con le dita tremanti e soffiò una nuvola di fumo velenoso per la stanza. «Non ho mai scoperto che cosa sia successo al mio amico». «Peccato!». «Sono stato messo in un accampamento a Cipro dopo la guerra e sono arrivato in Palestina con una nave illegale nel 1947, poco prima della guerra di indipendenza. Quei giorni erano frenetici, molto eccitanti per un ragazzo. Dopo la nascita di Israele, ho avuto più tempo. Ho scritto al governo polacco chiedendo informazioni su Pawel Tarnowski, ma naturalmente non ho avuto risposta». «Naturalmente sì. Comunque, la mia infermiera Le ha detto che sto morendo di cancro ai polmoni? No? Ha accennato alla mia età? Ho più di novant'anni, sa, nonostante sembri che ne abbia appena compiuti settanta. Non lo neghi! Non contraddica la vanità di una vecchia sgualdrina. Sono sopravvissuto al collasso della nobiltà, ai nazisti, ai russi. È la nuova cricca che mi vuole seppellire», emise un sospiro e esalò un filo di fumo. «Ho sviluppato una passione per queste disgustose sigarette russe fumate a letto. Mi piacevano i russi. Soprattutto i loro ragazzi. Sarebbe meravigliato di scoprire quanto spesso dietro un contadino grande e grosso in uniforme si nasconda una coquette. Ah, quei dolci e viziosi occhi da mongolo! Un paradiso!». In un attimo padre Elia vide il profilo esatto della vita del conte Smokrev. Non disse nulla e osservò l'anima non particolarmente profonda dell'uomo. «Allontani da me quello sguardo insultante pieno di pietà, per favore!». «Lei non è un uomo felice, conte», disse padre Elia con gentilezza. «Sono un uomo molto felice. Ho avuto tutto quello che desideravo dalla vita». «La Sua vita si sta avvicinando al termine. Ha mai pensato all'eternità?». «Ho venduto la mia anima molto tempo fa, caro amico. Il resto sono tutti
cosmetici e giochi di società. Niente di quello che può dirmi, Lei apostolo ammirevole e serio, mi toccherà minimamente». «Ne è così sicuro? Ogni uomo non è forse un mistero per se stesso?». «Ho sondato le profondità di ogni depravazione conosciuta dall'uomo. Fino in fondo. Lei non ha idea. Non perda il Suo tempo». «Non perderò il mio tempo. Lei è un'anima umana. Non è stato creato per questa...». «Ooh, caro, caro, Lei è arrivato molto vicino a dire "depravazione", o "corruzione", o "dannazione", no?». «Stavo per dire che Lei non è stato creato per questa mancanza di amore». «Amore? Che cos'è l'amore?». «Dare la propria vita per l'altro». «Sono uno che prende. Non uno che dà. Non vale la pena di continuare a parlarne». «Sembra risoluto a questo proposito». «Sono semplicemente privo di illusioni. So che non c'è amore nel mondo. Siamo tutte creature mosse da vari tipi di desiderio. Persino l'idealista che parla per tutto il giorno di amore, amore, farà un bel po' di sacrifici per convincere se stesso della sua fantasia. Ma Le dico, la sua fantasia è un piacere per lui; desidera che sia vera, ma l'abbandonerà nel momento in cui diventerà una sofferenza assoluta. Sono una creatura che coltiva un certo genere di desiderio, questo è tutto, solo una variazione del Suo idealista che pensa di amare. Amo alla mia maniera, proprio come lui. Ma non chiamiamolo un amore puro, incontaminato, disinteressato. Non esiste una cosa del genere. Lei pensa a me come a una creatura deforme. Lo ammetto. Ma tutti sono deformi. Non un'anima su questo pianeta sfugge a questo destino. L'idealista è deformato dal suo idillio teologico. Io sono stato deformato dalla storia e dalla Sua religione e dalla mia cara madre e da...». Qui il conte si fermò e si accese un'altra sigaretta. Inalò ed emise altri colpi di tosse. Si sdraiò e combatté per riprendere fiato. «In tutti gli anni della Sua vita», disse Elia, «nessuno Le ha detto che è possibile ritornare a quello per cui si è stati creati?». «Me lo hanno detto in migliaia di modi. Ho sentito più prediche di quante Lei ne abbia mai fatte. Ho sentito le esortazioni degli zelanti, dei compassionevoli, dei veementi, dei santi, dei geni e dei cretini, tutti alle dipendenze della Sua amata Chiesa. E Le dico che niente ha toccato la mia mancanza di fede».
«Lei si aggrappa alla Sua mancanza di fede come un Medici si aggrappa alla sua bottiglia di veleno». «Ah, touché! Formidable! Un delizioso modo di esprimersi. Mi sto scaldando con Lei. Lei possiede una vena letteraria. Meraviglioso. Continui». «La vita è breve, l'eternità è lunga». «Se c'è un Dio, mi faccia sapere che la fine è vicina. Voglio pentirmi sul mio letto di morte». «Lo sapeva, conte Smokrev, che le conversioni sul letto di morte sono alquanto rare? Ogni prete glielo potrebbe dire». «Una questione di linea di condotta?». «Un semplice dato di fatto. Molte persone pensano di poter posporre il pentimento fino alla fine. È un'illusione. La maggior parte degli uomini muore come ha vissuto. Se la morte è improvvisa, non c'è tempo per il pentimento. Se viene per gradi, di solito c'è poca energia per rivedere un intero modo di essere». «Lasci stare, lasci stare! Lei non mi spaventa con questi ammonimenti spaventosi». «Niente di quello che dico La tocca, no?». «Vero. Ma non si scoraggi, caro amico. Lei è amabilmente divertente. Che sollievo rispetto alla mia infermiera, che desidera tenersi questo lavoro il più a lungo possibile, e al mio domestico, che si impegna con straziante perseveranza per la causa della mia dannazione. Sono tipi ottusi interessati al profitto». «Se lottasse per la Sua anima, lotterebbe con me contro le cose che La tengono in trappola». «No. Lotterei contro di Lei e solleciterei una legione di demoni ad assistermi». «Allora precisamente questo era lo scopo della nostra conversazione?». «Divertimento». «Capisco». Padre Elia si alzò. «Ah, sì, ben fatto. Ora se ne andrà con grande dignità. Proprio come l'ho pensato. Questa conversazione è stata perfettamente prevedibile, persino piacevole». «Me ne vado con grande tristezza nel cuore. Vedo un uomo dotato che ha creduto in una menzogna». «Che cosa intende? Ah, sì, la Sua teologia. Bene, non importa. Arrivederci».
«Pregherò per Lei». «Non sprechi il Suo tempo. Buona giornata». «Buona giornata». Le gambe gli vacillarono sui gradini che portavano alla strada. La mano gli tremava e lo sgomento riempiva la sua mente. Aveva sentito le confessioni di un gran numero di persone. Aveva incontrato molti grandi peccatori. Aveva incontrato uomini brutali, uomini corrotti, bugiardi e truffatori e omicidi e adulteri e seduttori di innocenti. Ma non aveva mai incontrato nessuno così privo anche solo di una traccia di pudore. Quest'anima morente, il conte Smokrev, sembrava sapere di essere dannato, sembrava aver scelto di esserlo, sembrava provare piacere ad esserlo. Elia, pallido e privo di forze, si allontanò dall'appartamento e si mise a vagare alla cieca per strada. Alla fine del viale si ritrovò davanti all'entrata di un convento. Un ordine di suore contemplative. Suonò e spiegò alla portinaia che non si sentiva bene e che desiderava stare alcuni momenti in preghiera. La portinaia lo lasciò entrare nella cappella, ed Elia si inginocchiò davanti al Santissimo Sacramento per quasi un'ora. All'inizio era agitato, implorò aiuto per sé e per Smokrev, per il presidente e per la Chiesa, che ora stava sanguinando copiosamente da più ferite di quante avesse mai immaginato. Dopo alcuni minuti ritornò calmo, ma svuotato, poi gradualmente ricadde in uno stato di raccoglimento interiore. Alla fine, il senso del tempo scomparve. Una voce parlò dentro di lui: "Ti chiedo uno straordinario sacrificio del cuore". "Sì, mio Signore". "Ti chiedo di amare il mio nemico nel mio nome". "Cercherò di farlo, mio Signore, ma Ti imploro di concedermi la grazia necessaria". "Dove ogni cosa viene data, non manca nulla. Non avere paura di nulla, figlio mio". "Ho paura, Signore, ho paura. Presto dovrò affrontare il leone. Lo temo fortemente. E questa persona corrotta, temo anche lei. Ha esaurito tutte le mie scorte e mi ha indebolito per l'incontro con il leone". "La mia forza raggiunge la massima efficacia nella debolezza". "È impossibile. Non mi è rimasto nulla. Vorrei tornare al monte Carmelo. Ti imploro di inviargli un altro messaggero". "Ho scelto te". "Mi hai dato due incarichi impossibili? Entrambi vanno oltre le mie for-
ze. Non capisco". "Non ti ho dato che un incarico, e cioè di affidarti a me mentre scendi nelle tenebre del cuore umano. Quest'anima depravata è figlio mio. Vedo quello che è stato un tempo e che potrebbe essere di nuovo. Combatte tenacemente con te, perché desidera che tu gli resista. Resistigli con amore. L'altro, l'uomo di potere, è un nemico di genere differente". "Guidami, Signore, sono confuso". "Ti chiedo di non avere paura di nulla. Ti ho tratto come un tizzone dall'incendio per farti parlare al nemico e per il bene di molte anime. Ti sostengo sempre. Devi fidarti di me soprattutto durante i momenti di desolazione". "Tu sei il cuore del mondo. Pongo la mia fiducia in te". "Aggrappati a me in ogni cosa che succederà. Tu sopporterai molte ferite per me". "Tu sei la mia vita". "Tu sei mio amico e discepolo, Elia". La luce interiore impallidì e la sensazione del tempo rifluì nella sua coscienza. Si alzò e si avviò all'entrata, dove chiamò la portinaia. Aveva ancora le gambe deboli. Le chiese di telefonare a un taxi. Ritornato al Marriott, si buttò sul letto e cadde immediatamente in un sonno profondo. 11 La confessione "Voglio confessarmi", diceva il biglietto. "Venga alla svelta". L'infermiera lo fece entrare nell'appartamento e lo condusse per il corridoio alla camera di Smokrev. Lì trovò il conte seduto nel suo enorme letto, una pila di giornali di fianco, libri, bottigliette di medicine e bibite sparsi sulla coperta di broccato. Stava leggendo una rivista teatrale di New York e fumava una delle sue sigarette russe. La stanza puzzava in modo spaventoso, un misto di tabacco e di orina per l'incontinenza tipica delle persone anziane. L'infermiera si schiarì la gola, e Smokrev sollevò lo sguardo, fece un cenno al prete, e si aprì in un sorriso che assomigliava allo sguardo lascivo di una donnola soddisfatta. «Lei è venuto! Ben fatto, servitore buono e fedele!», sussurrò e alzò gli occhi al cielo. «Riesco sempre a individuare un vero discepolo. Andranno nei luoghi più degradati della terra alla ricerca di un singolo penitente. Ba-
ceranno i pubblicani e le prostitute in ogni occasione, giorno e notte». La nota sarcastica avvertibile sotto il tono ironico non allentò la tensione di Elia. «Mi ha chiesto di venire. È vero che intende confessarsi?». «Sì». «Ne sono contento, molto contento». «Mi sono vestito per l'occasione», disse Smokrev, tirando indietro i risvolti della sua vestaglia di satin color cremisi. «Rosso per la donna scarlatta. Colletto nero per la vera contrizione. Camicia bianca per ristabilire la mia purezza originaria». «Sono sorpreso da questo improvviso cambio di atteggiamento del cuore. Quando ieri ci siamo lasciati, Lei mi aveva convinto che non ci sarebbe mai stato nessun cambiamento. Posso chiederLe che cosa l'abbia portata a questo?». «Qualcosa che Lei ha detto della nostalgia. Quello l'ha provocata». La semplicità della risposta disorientò padre Elia. Tolse nondimeno una stola color porpora dalla tasca e la srotolò. Smokrev lo guardò mentre se la metteva intorno al collo; osservò con un lieve sorriso il prete che avvicinava una sedia al letto e piegava la testa per ascoltare. Smokrev scoppiò in una risatina stridula, isterica. «Lei mi ha capito male. Voglio confessarmi a Lei da uomo a uomo. Non intendevo il sacramento». Elia ebbe un tuffo al cuore. «Capisco». «Sempre alla ricerca di qualcuno da riabilitare, no?». «Sì, suppongo che sia così, sebbene Lei si esprima in modo così crudo. Se con riabilitare intende riportare un'anima in un mondo di amore, sì, è vero». «Ah! Ci prova di nuovo. Il predicatore! Per favore, per favore, tutto quello che Le chiedo è di ascoltare. Vorrei raccontarLe alcune storie della mia vita». «Perché io, conte Smokrev? Se Lei dissente in modo così deciso da quello che rappresenta la mia vita, di quale utilità posso essere per Lei?». «Lei possiede una qualità positiva, molto piccola, ma alquanto rara, e cioè non è ambizioso. I miei domestici prestano ascolto alle mie chiacchiere, perché sono pagati per farlo. I miei clienti all'estero ascoltano i miei monologhi, perché pensano che impareranno qualcosa di utile per i loro affari. Lei è la prima persona che ho incontrato in molti anni che da me non
vuole niente». «Voglio riportarLa alla vita». «Ah, capisco. Un'altra anima trascinata in paradiso dalle mani di sant'Elia? È così?». «Lei è intrappolato in una gabbia. Pensa che non ci sia niente al di là della gabbia. Ma c'è qualcosa di così grande, tanto grande, che a stento riusciamo a crederci. C'è la vita. In abbondanza. E la gioia». «Le speranze brevi e luccicanti suscitate dalla piccolezza della terra. Non hanno il potere di creare la propria realtà e allora raccontano i propri sogni; vivono nelle proprie favole. Lei è a servizio di un mito». «Se sono un illuso, perché vuole raccontarmi una storia?». «Perché Lei è umano, e perché ha mostrato interesse per una parte del mio passato. E, suppongo, perché è un uomo onesto, anche se illuso». Elia sorrise. «Grazie per il complimento». «La stavo adulando. È una mia qualità». «Non è stanco di giocare con le persone?». «Qualche volta. Ci si sente così soli, quando tutti quelli che incontri si mostrano vulnerabili alla tattica. Tutti possono essere piegati o comprati, lo sa». «Questo non è vero». «Lei pensa che non sia vero, naturalmente. Una risposta perfettamente prevedibile. Non Le è ancora stata offerta una bustarella abbastanza consistente». Elia scosse la testa. «Vorrei sentire la Sua storia». «Non è una bella storia». «Sin da quando ero piccolo amo le storie». «Commedie, tragedie?». «Sì, tutto». «Storie sordide?». «Commedia e tragedia contengono ogni cosa». Smokrev sbuffò e tossì. «Ho sentito migliaia di confessioni sacramentali nella mia vita. Non c'è niente che non abbia sentito». «Non viene mai scosso?». «Non direi così. È possibile che l'uomo escogiti nuove forme di trasgressione. Ma il peccato essenziale rimane più o meno lo stesso. Ciascuno di noi, compresi gli uomini migliori, è tentato di farsi Dio. L'omicida si rende
signore sulla vita e sulla morte; il ladro sui beni materiali, il tiranno sulla libertà dell'uomo, l'occultista sui poteri spirituali, l'adultero sull'amore, e così via». «E, implicitamente, anch'io voglio divinizzarmi?». «Ciascuno di noi. Nessuno escluso». «Davvero orribile. Il Suo atteggiamento verso la natura umana sembra molto più perverso e pessimista del mio!». «Ho visto molte cose terribili durante la guerra e più avanti, durante le guerre in Israele. Ma niente mi ha preparato alla varietà del peccato umano che ho sentito nel confessionale». «Me ne racconti qualcuno». «Questo è impossibile». «Ah, sì, il giuramento di non tradire mai i segreti del confessionale. Affascinante. Una parte estremamente interessante dell'idillio». «Perché dice questo?». «Pensando a tutti i traffici, alle forme di piacere e di dipendenza che ho promosso e alimentato, nessuno, Le dico, nessuno ha potere su chi ha l'informazione. Scandali, calunnie, dettagli, fatti, e soprattutto pettegolezzi». «Forse ha ragione. Il commercio delle informazioni è un modo di possedere la conoscenza del bene e del male, un modo per avere potere sugli altri». «Una sottile forma di deificazione». «Questo è il motivo per cui proteggiamo così accuratamente il sacramento della penitenza. È un momento di esposizione radicale. Lo difendiamo con le nostre vite». «Ah, che magnanimità». «Che realismo». «Va bene! Va bene! Quando la smetterà con le Sue chiacchiere da frate e mi permetterà di confessarmi?». «Può cominciare in qualsiasi momento». Smokrev lisciò il copriletto, si aggiustò il berretto da notte cremisi, prese un lungo sorso di acqua minerale e si accese una sigaretta. «Cominciamo. Non posso dirLe quale piacere sia avere qualcuno che lotta per la mia anima. Lei perderà, naturalmente, ma ci divertiremo molto lungo il cammino. Ah, così serio, così serio. Sorrida, padre Elia». «La prego, inizi». «Mi piacerebbe raccontarle del mio primo grande peccato. È stata la mia scelta originaria. Sono sicuro che Lei si affretterà ad aggiungere che è stato
il mio giardino dell'Eden. No? Niente da dire, padre? Bene, me lo sono detto da solo, no? Chiamiamolo il mio peccato originale, la mia prima scelta consapevole del male. Ha messo in moto una serie di forze che mi hanno portato a questo letto traboccante di colpe deliziose. Sono cresciuto nella malvagità. Ma all'inizio non ero così. Oh, ero colpevole di tutte le colpe tipiche dei ragazzi. Ho rubato un biscotto o due; ho detto delle bugie innocue; ho schiaffeggiato la mia governante e le ho fatto promettere di non dirlo alla mamma, e lei non l'ha fatto, per paura di perdere il posto. Mia madre era una contessa, sa, una donna frivola e superficiale, di una bellezza straordinaria, protagonista di una delle tante storielle ridicole della nobiltà. Un nobile sposa una donna per la bellezza, ignorando il carattere. Paga il prezzo per il resto della vita. Una storia noiosa che è stata raccontata un migliaio di volte. Una vera favola. Ma sto andando troppo veloce!». «Mio padre è scappato via dal lento strangolamento che, come divenne presto evidente, sarebbe stato il suo destino nella vita. Era sempre via "per affari". Ha aiutato Pilsudki a fermare l'Armata rossa sulla Vistola nel 1920. Era molto conosciuto e ammirato. I nazisti lo hanno ucciso quando hanno eliminato l'aristocrazia». «Perché non hanno ucciso anche Lei?». «Ero a Parigi negli anni '30. Sono diventato fascista e i tedeschi mi ritenevano utile per i loro affari culturali dopo l'occupazione. Ma ancora una volta stiamo divagando. C'è così tanto che voglio raccontarLe, che mi distraggo facilmente con questo o quel crimine». Smokrev lo scrutò divertito e si accese un'altra sigaretta. «Ben fatto. Non ha battuto ciglio al collegamento con i nazisti. Bravo!». «Mi sta mettendo alla prova, conte Smokrev?». «Precisamente. Ha superato l'esame summa cum laude. Ora, dove sono rimasto?». «Alla Sua adolescenza. Il Suo primo grande peccato». «Ah, sì». Smokrev spense la sigaretta e se ne accese un'altra. Non parlò per alcuni minuti e sembrava pensare ai dettagli di quello che stava per rivelare. I suoi occhi persero la loro cronica espressione di umorismo allusivo. «Non è facile da raccontare. Le chiederò di immaginare un ragazzo di undici anni, figlio di genitori aristocratici, incastonato come un piccolo gioiello nell'ambiente dorato delle proprietà di famiglia. Questo è il suo mondo. Non conosce nient'altro. I suoi genitori pagano per ogni passatempo, ogni distrazione, ogni gioco e piacere.
È un bambino solo. Suo padre, che lui ammira, spesso non è a casa. Ha affari importanti da seguire nella capitale. Sta lavorando a un Paese migliore per il futuro del figlio. Per il bene di quella linea del sangue che discenderà dal suo erede. Il suo unico erede. Cerchi di immaginare, se vuole, un ragazzo sensibile e dalla grande fantasia, educato alle arti: suona Mozart a sette anni, dipinge paesaggi e nuvole, scrive poesie. Gli viene regalato una cavallina araba bianca per il suo decimo compleanno, e la sa cavalcare bene. Ama correre con il suo levriere russo nei prati chiusi dalle siepi della proprietà. È bravo nel tiro con l'arco, nel maneggio della spada, nel nuoto. Ottiene voti eccezionalmente alti negli studi - ha un precettore privato - e intrattiene nel tempo una corrispondenza con diversi studiosi in Polonia e a Parigi. Uomini di lettere molto impegnati, ma disposti a essere gentili con il figlio dei loro benefattori. Il ragazzo legge i romanzi che loro gli consigliano, opere in tedesco e in francese, e comprende poco di essi tranne che il mondo è molto più complesso delle brevi storie che a sua volta scrive, composte per divertimento storie piene di duelli con la spada, cameratismo, animali selvaggi, navi, treni e abbandoni in luoghi esotici. Non è un bambino attraente. Ma ha un aspetto piacevole e un portamento solido, e si muove con una certa grazia e cura, che imita, se non esprime per davvero, nobiltà. Una o due volte all'anno viene portato in Europa per un giro dei musei, dei salotti, delle case di moda e delle residenze dell'aristocrazia. Li trova noiosi. Ci sono pochi bambini in questo giro di persone belle ed esperte. Ma più di questo, è sinceramente religioso. Desidera consacrare la propria vita a cause eroiche e vivere molte avventure di carattere religioso. Digiuna, indossa una corda sotto la camicia e, quando ha dodici anni, dorme sul pavimento della sua camera da letto, fino a quando il suo segreto viene scoperto dalla governante e dopo la mamma gli proibisce di fare una cosa così strana e inquietante. Continua a parlare con Dio nel privato della cappella, che è sistemata nell'ala occidentale, nel piano sopra la sua camera, della residenza principale. Si alza spesso di notte per visitare il Santissimo, che non risponde mai. Non vengono scambiate parole. Malgrado questo, la lampada rossa della veglia per lui rappresenta un conforto. Vibra nella cappella buia. Incenso antico persiste nell'aria. Lampi di fuoco sui fili dorati e argentati delle tappezzerie. Si lascia andare al calore gentile di questa atmosfera, come a un rifugio antico, un santuario, sebbene non conosca le parole per esprimere questa sensazione. Riesce quasi a sentire il
battito di un cuore misterioso su cui riposare, il calore di braccia che lo stringono. Avverte una pace profonda che viene sempre infranta dall'alba. Nonostante tutto, desidera diventare un santo e partecipare della sua gloria. Il cappellano nota il suo raccoglimento nella preghiera durante la messa e suggerisce che il giovane conte possa avere la vocazione religiosa. Forse potrebbe frequentare per un anno la scuola del seminario in questa o quella città, dove i padri si dedicano all'educazione e all'edificazione dei ragazzi. Ma la mamma non ne vuole sapere di queste cose! E solo un bambino! È l'unico erede! E poi è la sua unica compagnia in quel grande palazzo. Di sera il piccolo conte legge alla mamma romanzi difficili alla luce del camino, mentre lei sorseggia sherry inglese e fa il piccolo punto. La mamma prega di rado. Spettegola spesso a voce alta, rivolgendosi a suo figlio. Si lamenta di suo marito in termini sottili e raffinati. Il piccolo conte non affronta con papà il tema della sua educazione religiosa durante una delle sue visite irregolari. Non pensa di chiedere una vita diversa. Non indaga neppure il significato della sua vita. Si limita semplicemente a viverla. Non viene spinto a chiedere perché è nato. Ha solo un difetto, all'inizio molto piccolo, ma pericoloso. Dato che viene adulato da sua madre e trascurato da suo padre, eccetto le attenzioni più formali, il ragazzo non impara a essere generoso se gli costa sacrificio. Ottiene tutti i vantaggi della modernità ma ignora che cosa significhi mancare di qualcosa. È ingrato. È orgoglioso. È un maestro nel farsi cogliere da una crisi, quando non si fa a modo suo. Vuole avere tutto, fare tutto, essere tutto. Si aspetta di eccellere in tutto quello che prova, persino nella santità, ma ha poche opportunità di misurare il significato della grandezza, a parte il flusso costante di discipline fisiche e mentali che gli viene imposto di imparare. Con il tempo diventa un adolescente attraente, intelligente, compito. Ha tutto. E non ha niente». «Perché egli si sente così?», chiese Elia. «Sente di avere tutto nella dimensione esteriore della sua vita, e niente in quella interiore. È solo. A tredici anni comincia a gustare il frutto dolce e corrotto della fantasia quando la passione è legata a una solitudine profonda. Ma la passione è inspiegabile e anarchica. Fa correre senza riguardo la sua cavallina araba, e lei cade e si rompe una gamba. È necessario abbatterla. Rompe oggetti in casa, all'inizio cose piccole, tavoli rovesciati per distrazione con il gomito. E poi sempre più spesso objets d'art di valore. Mamma e papà si consultano preoccupati. Gli fanno predicozzi. Vengono prese misure disciplinari. Come punizione, è costretto a passare una gior-
nata da solo in camera sua. Una cameriera gli porta da mangiare e lui non mangia. Scaglia soldatini di piombo per tutta la stanza. Conficca le loro baionette nelle pareti. Smette di fare le visite notturne alla cappella. Comincia a pensare che la sensazione di pace e di protezione fosse una fantasia. Sente sempre maggiore ritrosia a frequentare la messa. Ruba regolarmente le sigarette del maggiordomo e vomita subito dopo. Beve una mezza bottiglia di sherry inglese e quasi affoga nella fontana, ma è salvato da un domestico, che accetta di non dire niente. In alcune occasioni, vaga per il villaggio di notte e dalle finestre spia la vita delle famiglie povere. Prende a calci i cavalli, che imparano a temerlo. Tira pietre al suo levriere russo, che lo perdona sempre. Riferisce difetti e peccati in confessione, ma la scelta di non fare male e non fare danni dura solo pochi giorni, una settimana al massimo. Chiede di poter ricevere la comunione tutti i giorni, ma la mamma non acconsente, preoccupata che torni al fanatismo religioso. Alla fine la mamma dice al vecchio cappellano di non tornare alla proprietà, e la famiglia e la servitù partecipano alla messa una volta alla settimana in un convento, un viaggio breve con la carrozza. Mamma preferisce il landò trainato da due cavalli alle nuove carrozze a motore che fanno così male alla salute, considerando i loro scarichi e la spaventosa velocità che raggiungono». Smokrev fece una pausa e si accese un'altra sigaretta, che finì in un attacco di tosse. Quando si fu calmato, Elia disse: «Lei era molto infelice». «È proprio un osservatore». «Sicuramente c'è di più». «Durante quell'estate così infelice è successa una cosa straordinaria. Ho incontrato il mio primo amico. Me ne andavo di cattivo umore per il nostro vecchio frutteto e ho incontrato per caso un ragazzo che raccoglieva le mele cadute sotto l'albero. Mi ha guardato. Si è spaventato. Stavamo lì fermi e ci fissavamo. "Chi sei?", gli ho chiesto. "Piotr", ha detto. "Perché stai portando via le mele dai miei alberi?", ho domandato. "Mia madre mi ha mandato a raccoglierle. Mio padre è Stanislaus, il giardiniere di tuo padre". Conoscevo Stanislaus. Sapevo di non piacere al giardiniere, perché mi aveva visto fare delle cose che non approvava. In più, era quello a cui era stato detto di abbattere la mia cavallina araba, quando si era rotta la gamba. "È permesso?", mi ha chiesto il figlio di Stanislaus. Non era molto più
grande di me, un anno o due al massimo. Ero così tentato di gridargli: No!, che queste erano le nostre mele e che non aveva il diritto di raccoglierle senza il permesso di mia madre. Volevo esercitare la mia superiorità su suo padre, ma sono stato fermato da qualcosa nel volto di quel ragazzo. Era fiducia. Era come se fosse sicuro che avrei detto di sì, perché è quello che farebbe una persona buona, capisce? Le persone buone dicono di sì. Le persone buone sono generose. Aveva fiducia in me. Stava proiettando il suo cuore sul mondo, allo stesso modo in cui io volevo proiettare il mio su di lui. Mi aspettavo che fosse un parassita indesiderato, perché io mi sentivo indesiderato da tutto il mondo, eccetto che da mia madre, sola e affamata d'affetto. Mi sentivo come un parassita. Lui si aspettava che fossi un padrone gentile. Ma la verità era che lui era gentile. Si muoveva come un giovane dio in un paradiso agreste. Ha staccato un pomo dorato dall'albero e me lo ha allungato con uno sguardo cordiale che mi era del tutto estraneo. "Prendi, dalle un morso. Sono davvero dolci", ha detto. Ho esitato. Dopo tutto, erano le mie mele. Ma il gesto mi ha colpito così tanto, che l'ho accettata con gratitudine. Le ho dato un morso. Quel frutto era dolce e saporito. Ancora oggi riesco a sentire quel primo attimo di piacere sulla mia lingua. Per me rappresenterà sempre il gusto dell'amicizia. "Siediti", mi ha ordinato Piotr, ma non in modo sgarbato. Mi sono seduto sotto l'albero, e lui si è sdraiato nell'erba accanto a me. Era alto e snello, vestito con una pesante casacca di cotone e pantaloni abbondanti. I suoi capelli erano una massa dorata, i suoi occhi azzurri. La sua faccia era serena, luminosa, bella e mascolina allo stesso tempo. "Vedi questo?", ha detto aprendo un sacco di tela. "Mia madre le farà bollire e sai che cosa ci farà?". "No". "Un barattolo di gelatina di mele". "Non è tanto". "La teniamo da parte per la cena di Natale, da mangiare con l'oca". "Perché non fate bollire più mele e non fate più gelatina?". "Perché la mamma ha detto che abbiamo il permesso di raccogliere solo un sacco di mele cadute. Il resto va alle mucche del conte - voglio dire tuo padre. Oh, quelle ingrassano proprio, qui!". Ho riso e ha riso anche lui. È stata una bella sensazione. "Guarda", ha detto, "è una giornata calda. Ti piacerebbe venire a pescare
con me?". "Sì", ho detto, rimasto quasi senza parole. "Vieni!". È saltato su e si è messo a correre verso il boschetto di betulle che costeggiava il confine meridionale della nostra proprietà. In mezzo ci passava un fiume, un ruscello freddo e profondo, pieno di ombre punteggiate di sole, dove i pesci oziavano. Piotr ci ha gettato dentro un pezzo di spago con un amo e un pezzetto di cotenna di maiale attaccato all'amo. Dopo un minuto, una carpa marrone si dibatteva sulla riva. Mi ha messo lo spago in mano e mi ha mostrato come gettare l'amo nelle pozze più calde. La lenza cantava fra le mie dita come se volasse. Gli strattoni e le tirate quando un pesce abboccava mi provocavano un'enorme felicità. Gridavo di gioia, quando cercava di trascinarmi in acqua. Piotr si piegava in due, ridendo a crepapelle. Poi, mano sulla mano, lo tiravamo su insieme. Lasciava a me la vittoria finale. Ho trascinato la carpa dorata e pesante sulla riva e la guardavo sorpreso. Non avevo idea che la vita comprendesse tali piaceri. Abbiamo portato il pesce a casa da sua madre, e per la prima volta in vita mia ho visto la casa in cui vivevano. Sapevo che la maggior parte della gente viveva in alloggi estremamente piccoli, ma era una conoscenza che avevo fatto dall'esterno. Per la prima volta nella mia vita mi trovavo in una casa di contadini. Piotr era il maggiore di tredici figli e si può immaginare quanto rumore e movimento ci fosse in quella casa. Sono arrivate frotte di bambini e gli sono saltate addosso gridando. Si appendevano alle sue braccia. Buono com'era, si può immaginare quanto fosse amato dai fratelli e dalle sorelle più piccoli. Per loro era un piccolo padre. Li invidiavo. Sua madre mi ha salutato con un inchino e un sorriso e mi ha ringraziato per le mele. Quando le ho presentato i due pesci, era felice perché insieme avrebbero costituito un pasto per l'intera famiglia. Quella donna, Le dico, era una dei pochi veri santi che ho incontrato. La sua vita non è stata semplice. Stanislaus non era un uomo facile, ma lei se la cavava bene con lui. La casa era piena di icone e di crocifissi, di rumore e di gioia. Prima del pasto hanno detto le preghiere con fervore. Sì, il padroncino è stato invitato a rimanere. Mai, prima o dopo quel pasto, ha gustato così tanto il cibo. Dopo, i genitori e i tredici figli si sono inginocchiati, hanno acceso una candela sotto un'icona rudimentale della Madre di Dio di Częstochowa e hanno detto il rosario. Avevo già detto il rosario nella cappella con il prete e, di tanto in tanto, con gli ospiti. Ma mai come quella volta. Si avvertiva il
flusso dell'energia spirituale e che ogni tensione religiosa dell'anima rientrava in un ordine. Si sentiva il suono della preghiera penetrare attraverso i cancelli del cielo e ottenere udienza presso un trono molto, molto lontano. È stato in quel momento che ho capito la mia condizione disgraziata. Ho capito con estrema chiarezza che queste persone erano davvero ricche e io ero un poveretto. Ho fatto le mie scuse e sono corso a casa, dove sono stato rimproverato dalla governante per essere sparito e aver fatto preoccupare a morte tutta la servitù. Ho dormito bene quella notte, dopo una breve visita in cappella. Volevo ringraziare il Santissimo sopra la luce rossa, ringraziarLo per questo giorno straordinario, ringraziarLo per avermi dato il mio amico Piotr. Ma la luce era spenta e lo sportello del tabernacolo spalancato. Per noia o timore, non ho mai saputo il motivo, la mamma aveva deciso proprio quel giorno di tentare una riforma delle nostre vite. Pensava che un'esistenza più mondana, meno tradizionalmente religiosa, più cosmopolita, mi avrebbe riportato a quello che lei definiva "equilibrio". Per tutto l'autunno e l'inverno Piotr e io ci siamo incontrati di frequente nel bosco e parlavamo di tutto. Passeggiavamo per i possedimenti di mio padre come se fossero di Piotr e io fossi in visita. Mi indicava le varie specie di alberi nelle nostre terre, e io imparavo i loro nomi da lui. Mi ha insegnato a fare piccoli giocattoli con le castagne. Mi ha fatto un arco e ha intagliato le frecce per me, e le ha decorate con piume di fagiano. Ascoltava pazientemente le mie storie di navi e di ragazzi abbandonati. Rideva ai miei incerti tentativi di raccontare barzellette. Mi dava un colpetto sulla schiena quando agivo bene; rimaneva tranquillo e volgeva la nostra attenzione ad altre cose, quando sbagliavo. Era come un fratello per me. Qualche volta pregavamo insieme il rosario, camminando lungo il sentiero innevato intorno al perimetro dei nostri terreni. La preghiera era diventata molto dolce per me, un'occupazione cordiale, un mistero condiviso. Sono arrivato ad amarlo come si amano i fratelli. Ero felice. Ricordo il giorno in cui il desiderio si è fatto strada attraverso la membrana che separa l'amore casto dalla libidine. Era un giorno di primavera. L'ultima neve era appena scomparsa. Mi stava mostrando i piccoli che i suoi conigli avevano appena avuto. Erano i suoi animali, un progetto speciale. Alcune gabbie di ferro vicino alla stalla delle mucche contenevano due femmine grigie e robuste, un maschio marrone malinconico e una dozzina di piccoli. Giganti fiamminghi. Era stato un inverno duro e Piotr stava esaurendo le scorte di fieno. Gli ho detto che avevamo del fieno di scorta nel fienile principale. E anche che erano state messe via più carote nei no-
stri sacchi color sabbia di quanto pensassimo di dover dare ai cavalli. Gli ho chiesto se ne volesse un po' per i conigli. Ha accettato subito. "Possono venire con noi Camilla e Ludmilla?", ha chiesto. "Buona idea! Forse sulla strada troveremo della verdura che possono rosicchiare. Porta un sacco per le carote". Era uno di quei caldi pomeriggi primaverili che arrivano presto con la nuova stagione per sciogliere il ghiaccio nel cuore. Dopo aver riempito dei sacchi con le carote e il fieno alla fattoria principale, siamo tornati indietro. Quelle belle coniglie robuste se ne stavano tranquille in braccio a noi. Abbiamo preso una scorciatoia per i boschi, abbiamo attraversato la passerella che si trova sul sentiero e siamo arrivati a una radura dall'altro lato. Non ci ero mai stato. Era un posto nuovo per me e mi sembrava un perfetto santuario di luce nel sottobosco buio. Era pieno di sole e stava spuntando l'erba fresca. Ci siamo sdraiati e immediatamente le coniglie hanno cominciato a mangiare con voracità. Piotr e io ci riposavamo contenti in questa pozza di luce ambrata e ci è venuto sonno. Abbiamo parlato per un po', poi io ho chiuso gli occhi. Devo aver dormicchiato per un bel po', perché quando mi sono svegliato nella radura la luce si era spostata. Il pomeriggio stava avviandosi alla sera. Certo, faceva ancora abbastanza caldo. Ho visto che Piotr si era allungato di fianco a me e per il caldo si era tolto gli stivali e i calzini e la camicia. Una delle coniglie stava brucando vicino alle sue gambe, mentre lui teneva l'altra nella piega del suo braccio muscoloso. Le stava baciando le orecchie, che si contraevano avanti e indietro, avanti e indietro. Si stava divertendo a questo gioco, e la coniglia sembrava ben contenta di assecondarlo. Li ho guardati per un bel po' e, contro il mio volere, non capendone le ragioni, il mio cuore ha cominciato a battere come un martello. Non avevo mai visto una tale forma di bellezza perfetta. In quella quiete sonnolenta, in quella gloria di luce egli sembrava una forma su cui il cielo avesse versato oro liquido. Lo fissavo in volto, così bello e tenero, così virtuoso e noncurante. Devo aver deglutito forte, perché mi ha guardato e mi ha sussurrato, "Sshh, bratko, dziecko". Mi ha chiamato fratello, piccolo. Era come se la luce fosse diventata l'amore stesso. Riuscivo a malapena a respirare. Mi sono allungato e gli ho toccato la faccia con le dita. Ha riso e ha spinto via la mia mano. Ipnotizzato, gli ho toccato le labbra con le dita. Si è aggrottato. "Non farlo, dziecko", ha detto con calma e ha rivolto la sua attenzione di nuovo a Ludmilla.
Ho sentito un calore corrermi per il corpo e il cuore mi martellava ancora più forte. Mi sembrava di avere la faccia in fiamme. "Non posso toccare la tua faccia, Piotr? È così bella". "Nie!", disse con decisione. "Per favore!". "Perché vuoi toccarmi la faccia?", disse guardandomi in modo strano. "Non lo so". Si alzò e si rivestì in tutta fretta. Non disse niente, ma io ero preoccupato, perché era accigliato. A quell'epoca ero troppo giovane per capire. Anni dopo ho capito che deve aver sofferto come soffrono spesso le persone straordinariamente belle. Il loro aspetto attrae tutti gli sguardi, ma chi li vede per quello che sono? Chi si preoccupa per il loro io, non è così? Le donne lo subiscono di continuo. Ma di rado un uomo è costretto a sopportare una tale umiliazione. Viene provata soprattutto dagli uomini troppo belli. Di solito i giovani non sanno come affrontare le emozioni. Questo era quello che faceva soffrire Piotr. Non gli piaceva la sua faccia; considerava il proprio aspetto poco maschile. Che questo causasse un problema a un altro ragazzo era doppiamente angosciante per lui. Per quanto mi riguardava, non ero per nulla angosciato. Ero intossicato, innamorato, attratto, ossessionato, ridotto al mutismo per la soggezione. Era adorazione». Guardò padre Elia. «Scorgo i primi segni di disgusto sul Suo volto prudente?». «Sto semplicemente cercando di provare quello che Lei e il Suo amico avete provato quel giorno. Due emozioni completamente differenti». «Precisamente. Questa è stata la fonte del problema che stava per scoppiare come una furia infernale». «Che cosa è successo dopo?». «Il fratello che ero diventato di recente è sparito e il piccolo conte egoista è cresciuto dentro di me come un demonio. Non mi sarei negato un tale piacere. Se non potevo essere tenuto fra le braccia dell'idolo, allora mi sarei allungato per toccarlo. Me lo sarei preso! Sarebbe stato mio. Era mio. "Voglio sentire la tua faccia", ho detto bruscamente. "È una cosa stupida. No!", ha detto Piotr. "Me lo devi lasciar fare!", ho insistito. "Non ti devo niente!". Ha alzato la voce, e io ho visto il primo segno di paura nei suoi occhi. "Sì che lo devi. Voi lavorate per noi. Voi appartenete a noi".
"Noi lavoriamo per voi, ma non apparteniamo a voi". "Devi fare quello che ti dico!", gli ho urlato. Piotr mi ha guardato come se fossi matto. Non mi aveva mai visto durante una crisi di rabbia. È rimasto seduto a fissarmi. Come posseduto, mi sono allungato e ho cominciato ad accarezzarlo in faccia. All'improvviso, gli occhi gli si sono riempiti di lacrime e ha fatto una smorfia di rabbia. Non mi ha picchiato. Non mi ha insultato. Si è limitato a fissarmi con uno sguardo di comprensione. Se mi avesse preso a calci, probabilmente avrei dimenticato l'incidente subito dopo. Invece, è saltato in piedi. Senza dire una parola, ha raccolto Camilla e Ludmilla e si è incamminato per il bosco verso casa sua. Non si è preoccupato di raccogliere i sacchi di carote e fieno. Quella notte mi sono girato e rigirato nel mio letto, confuso e spaventato da quello che avevo fatto. Ho pensato di correre a casa sua prima dell'alba e di portargli il fieno e le carote, di chiedergli scusa. L'ho preso in considerazione, ma l'ho scartato. Dopo tutto, ho pensato, è un nostro servitore. Perché dovrei chiedergli perdono? Perché io, che un giorno sarò il conte, dovrei umiliarmi davanti a un contadino, che viene da una famiglia di ignoranti? Lentamente, mentre le ore passavano, sono arrivato a provare fastidio per la sua bellezza e per la sua bontà. E soprattutto l'ho odiato per non avermi permesso di tenere in mano il suo splendore, di possederlo. Il mio Piotr. Mio! A poco a poco, al buio, il risentimento è cresciuto, è salito e si è manifestato con uno scoppio di desiderio sessuale. Odio, offesa, rabbia e libidine si mescolavano, cercando sfogo. La mattina successiva ho trovato come sfogarmi. L'ho visto arrivare attraverso i campi, all'alba, in direzione della villa. Ho pensato: "Sta andando a dirlo a mia madre". Ho pensato: "Si prenderà gioco di me e poi mi sentirò piccolo e brutto. Mi sentirò una cosa maledetta. Gli sarò inferiore". Il mio odio per lui è scoppiato come un ascesso. Sono corso giù per le scale come un lampo. Il levriere russo guaiva sulla porta. L'ho portato fuori tenendolo stretto per il collare. Piotr si è fermato a qualche metro di distanza. Teneva in mano uno dei suoi conigli grigi. Mi fece un cenno e mi sorrise. "Boleslaw, stai meglio? Sembravi un matto ieri. Ma mettiamoci una pietra sopra. Oggi è un altro giorno, no? Andiamo a pescare!". Non ho detto niente in risposta. Lo fissavo con un odio più freddo della morte. Piotr ha smesso subito di sorridere. "Mi dispiace, non ti ho detto arrivederci ieri", disse con voce tremante. "Ma guarda, ho pensato che forse ti avrebbe fatto piacere tenere Ludmilla. Forse ti va di accarezzarla. Le
piace. Se vuoi, la puoi tenere qui". Per un momento ho esitato. La sua bontà mi scivolava addosso come un'onda e quasi ha spezzato la mia resistenza, ma sapevo che se avessi ceduto mi sarebbe stato di nuovo superiore. "Io sono il conte", mi sono detto. "Chi è quel contadinello che gioca a comportarsi da principe?". Piotr mi stava davanti, aspettava. Mi sono avvicinato a lui e ho preso Ludmilla per la collottola. L'ho strappata dalle sue braccia e l'ho gettata davanti alle mascelle del mio cane. È caduta con un tonfo e uno squittio. Il cane le ha dato un'occhiata e le si è avvicinato. "Fermalo!", ha gridato Piotr. Non ho detto niente. Ho incrociato le braccia e ho guardato il levriere staccare le gambe a Ludmilla e fare a pezzi il resto. Gridava come un bambino agonizzante. Il suono era un piacere, un piacere profondo, delizioso, nero. Sentivo i singhiozzi di Piotr. Osservavo la sua faccia contorcersi per l'orrore e la rabbia e anche questo era un piacere per me. Si è voltato ed è corso via. Non è più tornato a casa nostra. Sentivo rimorso? Tristezza? No, mi sentivo bene. Sentivo un senso di supremazia. Io ero superiore. Ero signore sulla vita e sulla morte. Certo, si trattava di una piccola vita, di una piccola morte. Ma mi sembrava il primo passo di una lunga carriera che un giorno mi avrebbe portato a decidere di molte cose, di molte persone, che mi avrebbe dato il potere di governare sopra ogni cosa. Non mi sarei mai più sentito piccolo e brutto e sgradevole». Smokrev si mise comodo e fece un sorriso. Si allungò e si accese un'altra sigaretta e cominciò il suo ciclo di boccate e tosse. Quando ebbe finito, disse: «È il momento di una breve interruzione». Elia fece un sospiro e non riuscì a sollevare gli occhi dal pavimento. Smokrev suonò una campanella. Il domestico entrò e mise un vassoio di caffè e biscotti accanto al prete. Uscì e tornò poco dopo con un vassoio di medicine per il conte. «Lei non parla». «Il racconto non era divertente». «Sono riuscito a turbarLa?». «No». «Perché non mi guarda?». «Sto pensando». «Riesco a immaginare i Suoi pensieri». «Sto pensando che un ragazzo così confuso, ma così dotato, avrebbe po-
tuto prendere un'altra direzione nella vita, se solo avesse ricevuto qualche indicazione». «Assolutamente sì. Ci sta arrivando vicino, molto vicino. Continui a pensarci. Forse arriverà da solo alla conclusione alla quale La sto portando». «Non può controllare ogni cosa». «Si, ho imparato anche questo alla fine. Ma ne posso controllare molte». «Non può esercitare il controllo sui pensieri degli uomini». «Quelli sono i più facili da conquistare». «Non di quest'uomo». «Vedremo». "Oh Dio", pregò interiormente, "dammi la grazia di rimanere con lui, dammi la forza di camminare con lui fino in fondo alla sua anima. Aiutami, aiutami a resistergli con amore". «Mi dica perché, prete. Perché Dio non ha impedito che diventassi quello che sono diventato?». «Stiamo per cominciare una disputa sulla natura della libertà?». «Più avanti, più avanti. Mi dica solo perché Dio non mi ha salvato. Perché non ha salvato Ludmilla da me?». «Non è Dio a essere sotto processo qui. È l'uomo. Per essere più precisi, un uomo. Lei. Perché non si è fermato?». «Non potevo». «È così?». «Ah!», Smokrev gridò di esultanza. «L'ho riscaldata. C'è della rabbia nella Sua voce». «Lei pretende che fare a pezzi una creatura non mi faccia arrabbiare?». Smokrev si strinse nelle spalle, ma non disse niente. «Sono arrabbiato con le forze che hanno manipolato la Sua vita, che hanno fatto dei Suoi genitori quello che erano, che hanno tentato Lei, che L'hanno spinta nelle fauci in cui è caduto. Questo mi fa rabbia». «Touché!», sussurrò Smokrev pensieroso. «Dovrò cercare a lungo una risposta a quello che Lei ha detto. Ben fatto!». «Questo non è uno scherzo, conte. Questa è la vita. Questo è il destino della Sua anima». «Ah, sì, sì, sì. Ma continuiamo. Ho così tanto da dirLe e ho solo iniziato». «Mi dica solo questo. Ha contattato ancora il Suo amico Piotr? Gli ha chiesto perdono?».
«Sì, in effetti. Circa cinquant'anni dopo. Ma è un episodio noioso». «Mi interessa». «Allora va bene. È superfluo dire che non potevo fare a meno di amare Piotr, anche se ora lo odiavo. Ha occupato per anni i miei pensieri, ininterrottamente. Ho continuato a sperare che un giorno venisse da me e mi chiedesse perdono, che si scusasse per la sua scortesia. Non è stato così, naturalmente. Quando lavoravo per i comunisti, un giorno mi è venuto in mente di visitare le nostre vecchie proprietà. Erano passate nelle mani dello Stato dopo la guerra, e mi era sempre dispiaciuto. Non vedevo quei posti dagli anni '20, quando ero partito per studiare a Parigi. Era come se fossi stato liberato da una gabbia. Provavo una tale ripugnanza per il luogo in cui sono nato che qualche volta sperai che fosse stato bruciato o bombardato, insieme con i miei genitori, senza perdere niente del nostro capitale. Mi creda. A lungo non ho provato nessuna nostalgia per quella proprietà. Quando sono tornato in Polonia dopo l'arrivo dei tedeschi, ho scoperto che era stato confiscata dal Governo generale e si trovava ora nelle mani di Hans Frank. Era usato come luogo di incontro per gli amministratori di alto rango. Dopo la guerra, i comunisti hanno fatto la stessa cosa. Ma i miei genitori sono stati abbastanza furbi da liquidare parte delle nostre terre prima dell'invasione e i nostri risparmi sono stati trasformati in oro e depositati in una banca svizzera. Quindi, non mi sono mai trovato in situazioni di bisogno. Ma gli invasori, uno dopo l'altro, hanno abitato il palazzo. A Parigi ho sviluppato l'abitudine di chiamare la casa in cui sono nato il palazzo. Ha aperto molte porte. Mia madre era un'Asburgo, sa, e se trenta o quaranta persone prima di me nella linea di successione fossero state spazzate via, sarei diventato il principe ereditario dell'Impero austro-ungarico. Purtroppo, è crollato nel 1918. Allora ero alla Sorbona a studiare letteratura moderna. Nonostante questo, il mio titolo nobiliare è stato piuttosto utile. Mi ha aperto le porte di molti palazzi, studi e camere da letto». «Mi stava raccontando di aver incontrato Piotr ancora una volta. Del perdono». «Sì, a un certo punto durante il regime di Jaruzelski, quando Solidarnosc stava facendo i suoi primi passi così sgradevoli, e quel papa stava mettendo in pericolo la situazione dal basso, mi è venuto in mente che l'influenza sovietica potesse scomparire dalla Polonia entro breve. E ho pensato: se un nuovo regime decidesse di restituire le vecchie proprietà ai loro veri proprietari? Come era prevedibile, il mio passato variegato mi aveva seguito;
le autorità mi avevano tenuto sotto controllo raccogliendo su di me dossier pesanti, messi insieme da vari governi. È stato deciso che ero indesiderato. Ma, prima che succedesse qualcosa, sono stato preso dalla voglia di vedere che cosa rimanesse della vecchia proprietà. È stato un viaggio di una mezza giornata. Andando, mi sentivo così eccitato come mi era capitato di rado. Ma il palazzo si è rivelato una delusione. Sembrava decisamente più piccolo paragonato ai miei ricordi. I terreni erano ancora ben tenuti, ma in apparenza la proprietà originaria era diminuita notevolmente. Non mi è stato permesso di entrare in casa, perché ora era un luogo di soggiorno per membri del governo, e in quel momento visitatori di alto livello stavano tenendo una conferenza. Nonostante questo, ho fatto un giro delle terre. Il frutteto non c'era più. Il fienile non c'era più. C'erano parecchie nuove costruzioni agricole in metallo. Le stalle in pietra erano ancora lì. I boschi erano diventati una foresta molto fitta di alberi altissimi. Ma il fiume era intatto. Ho camminato per ore lungo i sentieri che lo costeggiavano, ma non sono riuscito a trovare la passerella o la radura. Più tardi sono andato al villaggio dall'altro lato del bosco. Era diventato una cittadina. Aveva molti negozi e una discoteca. In periferia ho trovato dove viveva il nostro ex giardiniere. Il podere era vuoto. Ho chiesto a un vicino se sapesse dove trovare la famiglia di Piotr. "Lei vuol dire il panettiere!", ha detto il vicino. "Sicuro che li conosco. Vivevano qui prima della guerra. Piotr ora sta in città. Gestisce la panetteria". Sulla strada principale ho scoperto la panetteria Stella di Mazovia. Sono entrato con una certa trepidazione. Il mio autista ha lasciato in moto la Daimler, nel caso ci fossero dei problemi. Il negozio aveva un bistrot annesso. Mi sono seduto e ho ordinato un caffè, delle prugne, un dolce ai semi di papavero e un croissant caldo. Me li ha portati un uomo incredibilmente grasso e li ha messi sul tavolo. "Ecco a Lei, signore", ha detto. "Mi dispiace per il ritardo. Il ragazzo che aiuta in cucina oggi è ammalato. Mio nipote. Un bravo ragazzo, ma un po' svogliato. Pigro come tutti quelli della generazione di oggi". Sì, ecco come era diventato il giovane apollineo. Un panettiere. Un uomo grande e grosso, gioviale, calvo, rugoso, dalle guance rosse, che indossava un grembiule unto. Gli occhi erano quasi perfettamente intatti. Erano - sì, dopo cinquant'anni - erano ancora gentili. Devo averlo fissato senza rispondere, perché ha piegato la testa verso di me con curiosità e ha detto: "È di queste parti, signore?". "Sono cresciuto qua vicino. Negli anni '20".
Poteva vedere chiaramente che non ero un contadino. Quando gli ho detto il mio nome, si è grattato la testa come se gli venisse in mente un ricordo confuso. "Oh, sì. Il conte e la sua famiglia. Mio papà lavorava da giardiniere per loro. Lei era il loro figlio, no?". Ho annuito, incapace di parlare. Ha sorriso. Non ci potevo credere. Ha sorriso. "Ora ricordo. Andavamo a pesca insieme, Lei e io!". È scoppiato in una risata di cuore e mi ha teso la mano. Ce la siamo stretta. "Eccoci, due vecchi!", disse. "Chi ci crederebbe!". Poi all'improvviso la sua faccia si è rabbuiata e io ho pensato che ci sarebbero stati dei problemi. "Ho saputo", disse, "ho saputo di Suo papà, il conte. Ricordo quando i tedeschi l'hanno portato via. L'hanno ucciso, no?". "Sì, l'hanno ucciso". "Nella vita succedono così tante cose. Così tante". Gli occhi di Piotr si sono riempiti di lacrime che ha asciugato con il grembiule sporco. "Mia moglie, è morta l'anno scorso. Cancro. Che Dio accolga la sua anima". Ancora non riuscivo a pronunciare una parola. "Ma perché non cena qui? È quasi ora di chiudere. Le faccio qualcosa di buono. Le piacciono le salsicce? Un sorso di birra? Possiamo parlare di com'era prima che iniziassero i problemi, di quando eravamo ragazzi. Era bello allora, no? Era sempre estate. Si ricorda il fiume, la carpa grassa, le campane che suonavano per la messa, il suono del vento sui pioppi nelle notti d'autunno? Eh, probabilmente Lei non lo sa, ma sono quasi diventato prete. Sono entrato in seminario nel '28 e ho resistito un anno. Non ero tagliato. Ho incontrato mia moglie nel '32 e ho fatto l'apprendista con Wajda il panettiere. Mi ha passato il negozio prima di morire". "Quanti figli ha?". "Non così tanti come mamma e papà. Ma siamo stati una coppia fertile. Sei sposati, una suora, due preti; uno di loro lavora con il vescovo a Cracovia. Sono tutti felici. È stata una vita dura, ma buona". "Ha molto di cui essere orgoglioso". "Dziękuje! Mi dica, cosa fa per vivere?". "Vendo quadri e statue a Varsavia". "Le piace?". "Mi piace". "Una buona vita?". "Sì". "Sono contento", ha detto.
Poi mi ha guardato con uno sguardo che mi ha trapassato, e ho capito che si ricordava tutto. Tutto di tutto. Era nella sua natura astenersi dalle recriminazioni. "Si ricorda di Ludmilla e Camilla?". "No", ha detto con voce tranquilla. "Penso che lei si ricordi". Non mi ha risposto. Poi dopo una pausa lunga ha detto: "Mi ricordo un ragazzino che stava troppo da solo. Mi piaceva. Mi sono sempre domandato che cosa fosse diventato". "Lei è buono", ho detto. "Chi è buono?", ha sorriso. "Nessuno è buono". "Lei mi ha perdonato". "Niente da perdonare, dziecko. Niente da perdonare". La sua gentilezza era troppo per me. Mi sono controllato, mi sono alzato e ho ringraziato per il caffè, ho presentato delle scuse cortesi e sono andato via. "Ritorni una volta o l'altra", ha detto, mentre salivo sulla Daimler. Un minuto dopo stavo lasciando la città a tutta velocità e non sono più tornato». 12 Un'altra confessione Smokrev si scosse ed emise un lungo sospiro. Guardò padre Elia. «Ne ha abbastanza?». «Il racconto sta migliorando». «Non si preoccupi. Peggiorerà. Se resiste abbastanza, si farà davvero brutto». «È tardi. Dovrei lasciarLa riposare». «Perché non si ferma per cena? Le piacciono le salsicce? Un sorso si birra? Possiamo parlare di com'era prima che iniziassero i problemi, di quando eravamo ragazzi. Era bello allora, no? Era sempre estate». Elia non poté ignorare una lieve nota di supplica dietro l'ironia. «Se lo desidera». Dopo cena, l'infermiera tirò le tende della camera da letto e abbassò le luci. Rimase accesa solo la lampada da letto. Elia andò alla finestra e guardò fuori, verso il fiume. Le luci della riva orientale erano disseminate luminose lungo l'acqua. Un barca per turisti stava passando, trascinandosi
dietro musica dance e risate roche. «Perché è a Varsavia, prete israeliano? Davvero, perché?». «Sono qui per partecipare a una conferenza sulla cultura». «Ne ho sentito parlare. Ci parlerà anche il presidente del Parlamento Europeo». «Il suo discorso di apertura è domani sera». «Lo guarderò in televisione, poi ne possiamo discutere il giorno dopo». «Temo che non sarà possibile. Devo partire per Roma il giorno dopo il discorso». «Quindi questo è il nostro ultimo incontro. Ho solo poche ore per confutare la Sua difesa di Dio?! Non è giusto! Ho ammassato una quantità enorme di prove per incriminarlo. Non se la può cavare così facilmente». «Poche ore? Come posso giustificare le vie di Dio in così poco tempo?». «Non ci vorrà molto. Ho degli argomenti che credo inconfutabili. Se possono essere confutati, perché non in modo semplice?». «Lei ha il Suo punto di vista. Ma alcune risposte sono così semplici, così vere, che gli uomini di oggi come Lei e me hanno difficoltà a comprenderle». «Farò del mio meglio». «Lo farà? Tentiamo l'impossibile». «Si sieda, La prego». Elia riprese di nuovo la sua posizione in poltrona. «E così continua il poema epico di Boleslaw Smokrev, ex aristocratico, ex fascista, ex nazista, ex sovietico, ex capitalista dei mercati internazionali. Ex agente segreto di numerose nazioni, fra cui anche gli americani». «Lei è stato un agente?». «Lo sono stato. Fra i miei molti travestimenti e atteggiamenti eccentrici, questo era uno di quelli autentici. Ero nel settore alleato di Berlino quando i tedeschi sono stati annientati. I servizi segreti dell'esercito statunitense mi hanno scovato e mi hanno convinto a passare al settore russo e poi a tornare in Polonia. Poi, per più di metà della mia vita mi sono rivelato molto utile a loro. La CIA mi ha ricompensato mantenendomi ai livelli di vita a cui ero abituato». «Allora Lei è un patriota, dopo tutto». «Oh, sono stato utile a tutti, per lo più a me stesso. Un vero buono a nulla, avevo sperperato il grosso dell'eredità di famiglia proprio prima della guerra. Di conseguenza, ero alle strette e sono stato costretto a comprare e vendere la gente. Ho commerciato in carne umana. In carne politica, non
sessuale. Oh, certo, c'è stata anche quella. Come critico letterario ho creato e distrutto la reputazione di molti scrittori. Carriere. Relazioni. Le ho create e distrutte. È diventata la mia principale forma d'arte. Fra il 1927 e il 1989 sono sempre stato un mediatore culturale internazionale, in un certo senso. Ero di casa a Parigi, Berlino, Londra, Roma, Washington e Mosca con una breve pausa tra il 1939 e il 1945. Durante l'occupazione sono stato anche consulente della Camera Culturale del Reich in Polonia, e sono venuto a sapere molte cose utili. Più tardi, dopo la guerra, mi sono reso utile ai comunisti polacchi e ai russi. Il mio compito è diventato assistere ai negoziati per il ritorno dei tesori d'arte europei che Göring e l'Einsatzstab Rosenberg avevano saccheggiato. E inoltre ho fatto una fortuna sul mercato nero con i diamanti, i segreti di Stato e l'arte. Ora mi rimane solo il traffico d'arte. Ma naturalmente la mia energia è limitata. Sono vecchio», concluse, tenendo un fiammifero sotto la punta di una sigaretta. Elia era seduto tranquillo, mettendo ordine in quelle allusioni. «Sta cercando di convincermi di essere un uomo cattivo?». «Per niente!», protestò Smokrev. «Sono orgoglioso di tutte queste doti! Sto solo preparando il palco. È tutto teatro». «Continui. Sto trepidando per la commedia o la tragedia». «Ohibò, una punta di sarcasmo... così disdicevole per un ministro di Dio». «Era un tentativo di ironia, conte». «Lei mi piace. Mi piace la Sua mente. Lei è onesto. Illuso, ma onesto». «Stava per raccontarmi dei Suoi argomenti contro Dio». «È precisamente quello sto facendo. E c'è di più, molto di più. Non ho nemmeno cominciato a mettere alla prova la Sua resistenza allo shock». «La ascolterò, ma solo a una condizione. Non voglio che infioretti i Suoi racconti. Voglio che mi dica in un linguaggio semplice quello che vuole dirmi. La prego di non farsi passare per un mostro. Lei non può sconvolgermi. Non può fare in modo che La disprezzi». «Davvero? Sorprendente! Lei sarà il primo a sopravvivere alla prova». «Sono un prete di Cristo. Non ho bisogno di passare il test. Se lo passo o meno, non importa. Dio non è sotto processo». «Ah, certo che lo è». «No. L'uomo è sotto processo». Smokrev ridacchiò. «Ho preparato l'accusa. Non può cavarsela così facilmente». «Allora devo andare», disse Elia alzandosi. «Lei sta giocando. Non può
giocare con Dio». «Va bene, va bene», disse Smokrev in tono condiscendente, indicando a Elia di rimettersi a sedere. «Lei è così suscettibile. Mi stavo solo divertendo un po'». «La vita è breve. Anche il mio tempo è breve. Le concedo quello che ho, ma Le chiedo di non sprecarlo». «Lei ha un'aria così grave! Va bene, sono d'accordo». «Allora vada avanti. Che cosa voleva raccontarmi?». «Sono indeciso su come iniziare. Dovrei stabilire prima il problema filosofico e illustrarlo con alcuni dettagli piccanti della mia vita? O, in alternativa, dovrei semplicemente avanzare attraverso la cronologia dei miei anni di perdizione, raccontando ogni singolo e innominabile crimine? Quale si adatta meglio al Suo temperamento?». «Il primo approccio». «Non Le piace il melodramma dozzinale». «No. Si tratta di autocompiacimento». «Ma in una confessione sacramentale sono obbligato a esporre una lista dettagliata. Non c'è una contraddizione qui?». «No. In una confessione sacramentale il penitente elenca i suoi peccati perché è un modo di assumersene la responsabilità davanti a Dio e agli uomini. Dice: "Sono un peccatore. Questo è quello che ho fatto. Non incolpo nessuno se non me stesso. Chiedo di essere perdonato e guarito. Ho bisogno di un Salvatore"». «Hmmmm. Ho sempre sospettato che fosse intesa più a umiliare il penitente per non fargli ripetere più le sue follie». Elia scosse la testa. «Questo è il modo in cui molti la fraintendono. Un prete di Cristo sa di essere un uomo come gli altri. Anche lui potrebbe commettere i peccati che gli vengono raccontati attraverso la grata. Il prete è come un segno di contraddizione posto nella creazione. Un segno di misericordia e verità. La verità ci rende liberi e la misericordia ci guarisce. È posto come presenza vivente di Cristo di fronte agli uomini, e al posto degli uomini di fronte a Cristo». «Mi sono confessato innumerevoli volte. Nel mio caso non ha funzionato. Ho smesso mezzo secolo fa». «Che cosa sarebbe diventato se avesse perseverato!». «Che abitudine noiosa! Era diventata troppo umiliante». «Perché?». «Alcune delle cose che dovevo raccontare sono inimmaginabili. Ludmil-
la è stata la prima di molti, sa, e non è stata nemmeno l'unica. Durante la guerra, ci sono state anche vittime umane». Il cuore di Elia cominciò a battere più velocemente. Pregò in silenzio di rimanere obiettivo nelle proprie emozioni. «Luoghi come Treblinka, Oświęcim, Belzec... erano una sala del tesoro inesauribile». Schiarendosi la gola, Elia lo interruppe. «Lei ha sottolineato proprio quello che sostengo. Se da giovane avesse perseverato nei sacramenti, non sarebbe stato forse rinvigorito per resistere a tentazioni del genere?». «Questa ora è una discussione accademica. È successo», si strinse nelle spalle. «Andava così in quei giorni. Centinaia di migliaia di persone destinate ai forni. Spazzatura. Scarti umani, cancellati dallo Stato. Nessun futuro, nessuna speranza. Nessun salvatore. Nessun Dio. Niente di niente. Erano già morti anche se hanno continuato ad andarsene in giro per poche miserabili settimane o mesi o anni. C'erano così tanti, così tanti bei ragazzi. Ne avevo una scuderia piena». Elia si guardò le mani. «Ah, i primi segni di sofferenza. Di repulsione, forse? Un certo disgusto? Forse una nota di odio nel cuore del prete di Cristo?». «Provo dolore. La sorprende?». «Del tutto prevedibile. Ma, mi dica, perché avrei dovuto lasciarmi sfuggire quella che era la mia passione, proprio le cose che mi erano state negate e che mi venivano messe davanti come un banchetto?». «Perché Lei non ne era il proprietario. Perché erano esseri umani. Il corpo di ogni uomo è a lui che appartiene». «Anime morte. Personaggi di Gogol'. Statistiche. Pedine geopolitiche». «E qui, conte, sta il punto cruciale del nostro problema. Precisamente qui». «Che cosa vuol dire?». «Ogni peccato è una scelta. Si sceglie di trasformare un essere prodigioso in un oggetto di consumo. Riduce la persona umana, la vittima e il persecutore, a un universo monodimensionale». «No, prete, qui non sta il punto cruciale del problema. Il punto cruciale è: perché, quando l'uomo schiaccia la sua vittima, c'è solo silenzio dal cielo? Perché Dio non mi ha salvato da me stesso e non ha salvato le mie vittime da me? Risponda!». «Dio non cancellerà mai il Suo libero volere». «Nemmeno per trattenermi dal negare il libero volere di milioni di per-
sone? Ma è assurdo». «Lei è libero. Questa è la struttura fondamentale dell'universo». «Ah, il problema della libertà». «Siamo attrezzati per questa discussione? La prenderà sul serio?». «Ci proverò», disse il conte agitando la mano. «Il cielo non tace». «Il cielo non tace? Sa quanti milioni di vittime supplicavano il cielo, quando sono finite nei forni? Che cosa era il grido dalle loro gole, Le chiedo? Era questo: "Dove sei? Dove sei, Salvatore del mondo?". E i potenti, noi, gli assassini e i depredatori e i corruttori degli innocenti? Quale grido usciva dalle nostre labbra? Glielo dirò: "Dove sei? Dove sei, Salvatore del mondo?". Sulle mie labbra c'era lo scherno, quando facevo cose impensabili da raccontare persino a Lei, per quanto sia un prete fuori dal comune». «Il cielo non taceva». «Ah!». «Che cosa voleva che Dio facesse? Voleva che Dio lacerasse i cieli come il fondale di un teatro e venisse fuori? Voleva che inviasse un esercito di angeli nella creazione, con gli ordini del quartier generale: "Uccidete i cattivi! Salvate i buoni!". Si aspettava che una voce tuonasse dalle nuvole dicendo: "Fermatevi!". Si aspettava che schiacciasse un bottone e che l'intero cosmo si fermasse cigolando, mentre il capo meccanico si introduceva nei meccanismi interni della macchina e armeggiava intorno alla parte rotta? È questo l'universo secondo Lei?». Smokrev soffocò una risatina di soddisfazione. «È bellissimo vederLa così infervorato». «Non eluda la domanda. È centrale. Il cielo non taceva». «Non lo accetterò mai. Non ho sentito nessuna voce». «Dove era Lei, quando le encicliche papali di condanna del nazionalsocialismo venivano lette da ogni pulpito? Dove era quando molti mistici e visionari gridavano i loro ammonimenti? Per centinaio di anni i popoli d'Europa sono stati avvertiti. Sono stati richiamati di continuo a pentirsi in preparazione del terribile oltraggio che si stava avvicinando. Ha ascoltato i passaggi della Scrittura che parlano dei nostri tempi? Ha letto le parole dei saggi? Che letteratura leggeva negli anni '30? Molti grandi scrittori ebrei e cristiani l'hanno visto arrivare. Ma chi ha ascoltato?». «Se pochi hanno ascoltato, perché Dio non ha parlato più forte?». «Quali parole avrebbero potuto essere più forti del Figlio di Dio morto agonizzando sotto un cielo silente?».
«Questo è successo tanto tempo fa». «Quanto tempo fa? Siamo vecchi, conte. Non era ieri che Lei camminava con il suo amico Piotr nel bosco? Non era ieri che ha annientato la creatura amata che Piotr teneva in braccio? Come passano alla svelta gli anni». «Lei sta eludendo il problema principale: perché, prima di tutto, Dio lo permette?». «La risposta a quella domanda è un'altra: perché ha creato un universo dove c'è la libertà?». «Non lo so. Mi sembra un modo inefficace di mandare avanti un universo». «Lei ha ragione, se l'universo fosse un meccanismo che perde carica. E se fosse qualcosa di diverso?». «Cioè?». «Un universo creatore. Un luogo dove la bellezza è stata fatta per crescere e moltiplicarsi incessantemente, dove esseri unici si amano reciprocamente e creano ancora più vita. Sempre differente, sempre rivelatrice di nuove prospettive di gioia». «Avrebbe potuto farlo senza la parte oscura». «Avrebbe potuto prevenire la possibilità del male, senza trasformare ogni essere vivente in una marionetta, una semplice parte di un ingranaggio?». «Sta divagando di nuovo». «No. Mi sto focalizzando sul nocciolo del problema. Lei rifiuta di vederlo, perché non può ammettere che sia il nocciolo. Lei vuole che l'oscurità sia il nocciolo». «E se lo faccio, non è forse un argomento a mio favore? Non è Lei a dire che se un'anima come la mia agisce nel buio, nega la magnifica fantasia di una creazione amorevole alla quale Lei si aggrappa con tanta ostinazione nella Sua immaginazione?». «Badi bene a questa sottile differenza teologica. È una menzogna potente. Un'anima che ha scelto di rifiutare la luce dovrebbe avere il permesso di annientare le leggi che sostengono coloro che hanno scelto di seguire la luce? Se fosse così, sarebbe come mettere tutto nelle mani di un terrorista. Dovrebbe essergli permesso di tenere l'intero universo in ostaggio? Un solo atto di male, e fa andare in polvere le leggi della creazione? Le chiedo, è forse questo un modo efficace di mandare avanti un universo?». «Touché». «Il problema è non solo un atto di male, ma molti atti del genere. Dicia-
mo, sei milioni di ebrei e sei milioni di polacchi gentili, e poi altre decine di milioni. Questa è solo la II Guerra Mondiale. Mettiamo che il nostro terrorista cosmico minacci sempre di più l'integrità di Dio. Prendiamo in considerazione forse cinquanta, forse sessanta milioni di persone morte per mano di un solo tiranno. Dio dovrebbe distruggere la struttura morale dell'universo per salvare l'universo fisico? Rappresenterebbe una difesa superficiale e, in ultima analisi, una sconfitta. Dovrebbe arrendersi per la quantità delle vittime?». «Lei ingigantisce la situazione. Non capisco che cosa intenda». «È qualcosa del genere. Satana tiene le persone scelte in ostaggio. Tiene una pistola puntata alla loro testa e dice a Dio: "Bene, non intendi fare niente? Non mi fermerai? Non metterai fuori uso una sola delle tue leggi insignificanti per salvare i tuoi cari?". Dio replica: "Non metterò fuori uso le leggi che ho iscritto nella creazione, perché questo comporterebbe un altro genere di distruzione per coloro che amo". Satana risponde: "Tutto bene, allora guarda!". Stringe, schiaccia, lacera con le sue fauci, fino a quando quelli che sono stati scelti cominciano a implorare il loro Creatore: "Salvaci! Dove sei? Perché non vieni?". Satana guarda Dio e dice: "Allora?". Ma Dio tace. Tace così profondamente che le tenebre sembrano coprire la terra. Satana crede di aver obbligato Dio a ritirarsi. Ha argomentato fino a renderlo incapace di reagire. Pensa che Dio non abbia più niente da dire. Pensa di aver vinto il dibattito cosmico e di aver ottenuto il potere su Dio. Pensa di essere superiore a Dio. Ma in tutto questo tempo nel cuore di Dio sta accadendo un evento meraviglioso. Comincia a formarsi una Parola. Una Parola che è così immensa, più grande dell'intero universo creato, che riposa come una mela dorata nella mano di Dio. Questa Parola è così grande, ma così semplice, che nessuno riesce a sentirla. Satana non vuole sentirla. L'uomo non riesce, perché è stato assordato dalle grida della sua stessa sofferenza. La materia stessa riesce solo a sentirla senza comprenderla. "Scenderò di nuovo nella mia creazione come ho fatto una volta tanto tempo fa, quando ho camminato con Adamo e Eva nel giardino. Quando sono venuto a Gerusalemme in forma di uomo. Scenderò nella mia creazione e soffrirò in lei. Soffrirò con lei. E questa sarà la mia Parola, come lo è stata un tempo sul Calvario"». «Di nuovo la teologia?». «Questa è la replica di Dio, ma è così potente che le orecchie non riescono a sentirla. Solo l'anima riesce a sentirla».
«Io non la sento», disse Smokrev di malumore. «Lei è assordato dalle grida di dolore». «Si sbaglia. Forse ha notato che sono sfuggito a ogni forma di incarcerazione messa in atto dall'Europa fin dall'inizio del secolo scorso. Le meritavo tutte, badi bene. Ma non sono una vittima». «Lei è un persecutore. E una vittima». «Non sento grida». «È sordo». «Non sento nessuna parola nella creazione, nessun messaggero dal suo Dio silenzioso». «Non la sente? Non la vede?». «No. Niente. Su, su, qui ci stiamo solo impelagando in un battibecco. Torniamo alla mia domanda originaria. La realtà oggettiva qui è che non c'è stata nessuna salvezza». «Che cosa intende per salvezza? Una fuga dal campo di concentramento? Una lunga vita? Nel sistema più ampio delle cose, forse la vittima che va incontro alla morte senza essere toccata dall'odio è l'unica che è stata veramente salvata». «Così Lei permette che i cattivi continuino a essere cattivi? Non combatte il male? Non mi ferma?». «Dobbiamo fare quello che è possibile senza oltrepassare i confini dei principi divini. Non possiamo adottare le armi del male per combattere il male. Fare così, persino in difesa del bene, significa venire sicuramente sconfitti. Perché un angelo caduto dovrebbe desiderare di uccidere sei milioni, o sessanta, o cento milioni di persone, o persino l'intera razza umana? Che cosa proverebbe? Che è cattivo? Questo lui lo sa già, e anche Dio lo sa. No, il trofeo a cui mira è niente di meno che coinvolgere tutto il genere umano nella sua ribellione. E farlo nel nome del bene. Questo sarebbe il suo colpo da maestro». «Bene, bene, bene, Lei attribuisce una grande perspicacia a questo orco di dimensioni cosmiche. Si risparmia un bel po' di travaglio di coscienza, no? È colpa sua. Il diavolo mi ha fatto fare così». «In un certo senso lo ha fatto. Ha tentato. Lei ha scelto. Ha creduto nella sua interpretazione dell'universo». «Francamente, considerando la condizione dell'umanità, penso che questa versione sia la più adeguata. Voi cattolici costruite castelli in aria, poi cercate di viverci dentro. Come se foste tutti degli aristocratici». «Conte Smokrev, siamo tutti figlie e figli di un Re. Ciascuno di noi».
«Non può avere tutte e due le cose. Lei sta mescolando le metafore. Ha detto che Dio è venuto nella creazione e soffre con noi, e in noi. Ora dice che è un re. I re regnano. I re vivono nei castelli. I re stabiliscono l'ordine nei loro regni. Lei mi delude. Non c'è nessun re». «Il nostro re soffre con noi. Soffre in noi. Quando il suo regno sarà stabilito in pienezza, il nostro amore per Lui supererà quello per qualunque altro re terreno, perché Lui ha sofferto ogni cosa che i suoi figli più miseri hanno sofferto. E ha sofferto per scelta, mentre noi abbiamo sofferto controvoglia». «Facciamo una pausa. Mi sento soffocare. Teologia, letteratura, mito, metafora! È troppo per questo vecchio cervello. Tutto quello che ho è quello che ho visto e che ho fatto. Non è bello. Ma è il mio universo». Suonò il campanello per chiamare il domestico, che portò un vassoio di caffè e di biscottini. Bevvero e mangiarono in silenzio. Dopo aver fumato una sigaretta e aver tossito a lungo, Smokrev si sdraiò e sorrise fra sé e sé. «Mi piace molto. L'eccitazione dell'aula di tribunale, le spade che cozzano, il fastidio delle divagazioni filosofiche secondarie, quella particolare sensazione di esultanza, quando La metto all'angolo». «Non penso che lo abbia fatto». «Lo farò». «Lei ha ricordato le spade che cozzano. Penso che sarà d'accordo che ci troviamo in zona di guerra». «Ma naturalmente!». «Bene. Lo ammette». «Sì!», replicò Smokrev irritato. «Perché l'uomo insiste nel cercare di realizzare la sua utopia nel mezzo della battaglia?». Smokrev si strinse nelle spalle: «La battaglia ha i suoi alti e bassi. Alcuni muoiono. Altri sopravvivono. Io voglio sopravvivere». «Lei farebbe qualsiasi cosa per sopravvivere?». «Ho già fatto qualsiasi cosa per sopravvivere. Sono sopravvissuto». «È d'accordo che un campo di battaglia è un posto poco adatto per realizzare un'utopia?». «Va bene, per amore della discussione, sono d'accordo. Non è il posto migliore». «Seguirebbe qualcuno che è morto al Suo posto sul campo di battaglia,
che è tornato misteriosamente alla vita, e che Le offre un vero paradiso?». «Dipende dal prezzo. Un'utopia temporanea in mano è meglio di un paradiso da favola sulle nuvole». «Questo è il punto cruciale del nostro problema». «Davvero? Allora su questo siamo d'accordo». «Supponga che l'uomo che è tornato dalla morte sia la persona più buona e bella che abbia mai incontrato. Ha dato la sua vita per Lei». «Non l'ho mai incontrato». «Lo ha incontrato. Da bambino. Di notte». «Roba da bambini!». «Le allunga la mano e dice, vieni con me. Conosco la strada per tornare dalla morte. E conosco anche un'altra cosa, la cosa più grande. Conosco la via per arrivare alla terra dove non esiste più la morte». «Direi che è un matto e un sognatore. E per quanto possa essere personalmente allettante, non rischierei la mia vita per seguirlo». «Preferirebbe rischiare la vita a schivare proiettili e missili». «Senti, senti, senti», disse Smokrev scacciando l'immagine con la mano, «questa è un'affermazione teorica. La validità del Suo argomento è basata sul presupposto che quest'uomo esista e che sia quello che dice di essere. Le confermo: in tutta la vita non ho mai incontrato un uomo che sia quello che dice di essere o che sembra essere». «Io ne ho incontrati tanti». «Allora Lei è un pazzo e un sognatore». «No. Quest'Uomo è stato messo alla prova. Lo hanno seguito in paradiso innumerevoli anime». «Un'illusione prodotta da menti febbricitanti alla ricerca disperata della speranza. È tutto un'illusione». «È evidente che Lei non si fida di niente e di nessuno». «Un'affermazione assolutamente precisa. Lei non è uno psicologo da quattro soldi». «Diciamo, per amore della discussione, che quest'Uomo che è tornato dalla morte Le allunghi la mano e Le dica: "Vieni!"». «Gli riderei dietro. Che diritto ha di darmi ordini?». «Le offre la vita. Il panorama è confuso e pericoloso, un campo minato pieno di segni contraddittori. Gli obbedisca e La condurrà alla salvezza». «Perché dovrei fidarmi? Perché dovrei servirlo?». «Perché ha servito Lei per primo. Ha dato la sua vita per Lei». «Io non servo nessuno».
«Ma è schiavo di molte cose». «Che cosa vuol dire?», chiese bruscamente. «È schiavo dei Suoi appetiti e della Sua paura. Lei dipende da molte cose». «Così, Lei è come tutti gli altri. È venuto qui per accusarmi!». «Conosco il mio cuore. Riconosco un uomo caduto, perché lo sono anch'io. So che se fossi nato in circostanze simili alle sue, sarei potuto diventare peggiore di Lei. Date le circostanze della mia vita, Lei avrebbe potuto essere un uomo migliore di me. Questo non c'entra. Quello che Le chiedo di tenere in considerazione è questo: nessuno sfugge alla schiavitù. Siamo tutte creature. Esistiamo in un cosmo gerarchico che ha a capo un re». «Io vivo in una democrazia». «Quando era utile ai Suoi intenti, Lei ha servito una tirannia». «Le ho usate. Le ho usate tutte». «Pensava di essere superiore a loro, mentre le serviva?». «Ero superiore. Io creo, si ricordi. Creo le mie realtà. Nella mente di quelli che pensavano di essere i miei padroni ho creato l'impressione di servire, mentre per tutto il tempo ero io che li dominavo». «Il doppio agente è mai stato il padrone di se stesso? Non è posseduto da due padroni, e nel Suo caso da molti padroni? Non sono forse loro che Le hanno concesso l'illusione che sia Lei ad avere il controllo?». «Se fosse così - non lo ammetto, ma se fosse così - ci usavamo a vicenda. Tutti lo fanno. Tutti ci usiamo a vicenda». «E la chiama democrazia?». Smokrev fece spallucce: «Sì». «La monarchia in cui io vivo ha a capo un Re. Ma che Re! Un Re che è morto per me. Regna con il cuore spalancato. Dalle sue ferite fluiscono oceani di sangue, secoli dopo secoli. Questo è un re così nobile che l'amore è un nome troppo piccolo per Lui». «Lei diventa poetico», brontolò Smokrev. «Basta. Odio i sentimentalismi». «Anch'io». «E che cosa sono allora queste sciocchezze?». «Le parole di un amante che parla di chi ama». «Ama, ama! Ah! Al diavolo i castelli e le favole!». «Questo Amato è vero. L'ho visto. Ho sentito il suo abbraccio. Ho toccato il suo sangue sulle mie labbra».
«Non sopporto il cannibalismo, sebbene me ne sia occupato a tempo perso, solo per curiosità, badi bene, non per abitudine. Ci sono stati riti a cui ho partecipato a Londra...». «Per favore, conte Smokrev, mi ascolti. Lei combatte ogni parola di verità con una contorsione, un ghigno, una menzogna. Perché lo fa? Perché?». «Perché non voglio servire». «Ma Egli è reale!». «E allora? Questo peggiora ancora di più la cosa. Perché non mi ha salvato? Perché non mi ha concesso di toccarlo, di vederlo? Perché sono stato così solo in vita mia? Se è reale, perché così?». «Lei è stato un bambino che pretendeva che tutti La servissero. Se non lo facevano, tentava di controllarli facendo le bizze. Se non funzionava, prendeva il potere. Se il potere non Le dava amore, lo distruggeva. Non può lasciare da parte se stesso per un momento e guardarsi? Non riesce a vedere?». «Lei vuole solo che mi disprezzi tanto quanto Lei mi disprezza». «La verità è proprio il contrario. Io non la disprezzo. Lei si disprezza molto più di quanto potrei fare io». «Basta!», strillò il conte. I suoi occhi e le labbra erano terribilmente deformi. Con mano tremante si accese un'altra delle sue sigarette russe. «Lei è andato troppo oltre, prete. Sta giocando con la mia mente». «Non è quello che sto facendo». «Che cosa mi sta facendo? Chi è Lei?». «Sono un messaggero dell'Amato. Le dice: "Vieni!"». «Non dipinga questi affreschi fantasiosi nella mia mente. Ne ho abbastanza. Ho bisogno di riposare. È ora che Lei vada». Elia lo fissò per alcuni secondi, emise un sospiro e si alzò lentamente. «Mi dispiace, L'ho offesa». «Per niente», disse il conte con voce tesa. «Le chiedo perdono. Sono stato troppo schietto». «Va bene, va bene», disse Smokrev calmandosi. «Apprezzo la schiettezza in un uomo». «Me ne vado. Non la disturberò più». «Si sieda». «Davvero io...». «Si sieda», gli ordinò.
«Pensa che dovremmo continuare? Forse è inutile, dopo tutto. Ci lanciamo avanti e indietro delle parole. Ma nessuno dei due accetta la realtà oggettiva di quello in cui crede l'altro». «Così si trascorre una serata piacevole», disse seccamente. «Starei guardando il sumo in televisione, se Lei non fosse qui. Ma quello lo posso guardare in ogni momento». Suonò un campanello sul tavolino da notte. Il domestico entrò. «Dov'è la mia medicina? Sono passate le nove». «Ma, signore, Lei mi ha detto di non disturbarLa mentre il visitatore...». «Sì, sì. Bene. Non intendevo nel senso di non prendere le medicine». Il domestico uscì e tornò immediatamente con un vassoio. Si sedette sul bordo del letto, arrotolò la manica di Smokrev, gli parlò come si fa con un bambino e gli fece un'iniezione con una siringa ipodermica. Poi, rincalzò il vecchio come un bambino e se ne andò. «Disgustoso, no?». Elia scosse la testa. «Così il messaggero è diventato muto». «A che cosa servono le parole, se il messaggero non è credibile?». «Lei sta scommettendo sul fatto che almeno alcune delle Sue parole possano infiltrarsi attraverso un'incrinatura della mia armatura provocando distruzione fra le mie autodelusioni. Sta investendo il Suo tempo in una causa senza speranza, perché per anni, dopo la mia sepoltura, Le procurerà un piacere sentimentale e malinconico. Gusterà la Sua sconfitta come un dolce andato a male. Lo offrirà al Suo Dio». «Lei proietta la Sua immagine di sé sul mondo». «Sono realista». «Che cos'è un realista secondo Lei?». «Non è né un ottimista, né un pessimista». «Sono d'accordo. Un realista non è né un ottimista, né un pessimista. Ha il coraggio di guardare nell'abisso di un secolo molto buio e di vederlo per quello che è. Vedrà la vittoria della luce». «Non mi fraintenda. Il mio realista sa che il potere forma il mondo. Sa che il piacere lo ispira. Nei miei novant'anni non ho visto niente che contraddica questo presupposto». «Io ho visto un flusso infinito di eventi che lo contraddicono». «Perché dovrei crederLe?». «Io stesso, questa carne concreta, questa presenza seduta di fronte a Lei, non rappresento forse una sorta di parola di risposta?».
«Una parola di fantasia che è capitata per caso in casa mia. Un evento insignificante, ma divertente». «Pochi minuti fa non sembrava così divertito. Ho toccato un nervo scoperto? Se è così, che cosa Le dice quel nervo a proposito della realtà oggettiva?». «Che cosa vuol dire?». «Ha sentito un gran dolore, quando ho menzionato il fatto che Lei non si ama». Il volto di Smokrev si incupì. «Se significa qualcosa, vuol dire che sono realista. Niente di più, niente di meno». «Penso che significhi che nell'anima di ogni persona si trova un'icona di quello che deve essere. Lì è nascosta un'immagine dell'amore. Ogni anima viene amata molto di più di quanto riesce a immaginare. Ogni anima è bella agli occhi di Dio. I nostri peccati e le nostre mancanze, e quelli commessi contro di noi, seppelliscono questa immagine originaria. Noi stessi non riusciamo più a vedere come siamo davvero». «Continui. Sto ascoltando. Riesco a vedere le torri e le torrette crescere sulle nuvole rosate». «Quando ho toccato il punto dolente dentro di Lei, quando ho toccato la ferita, Lei ha sentito il dolore dell'immagine perduta. È stato insopportabile e Lei mi ha detto di smettere». Smokrev fissò fuori dalla finestra le luci della riva orientale del fiume. «Non concede a se stesso di credere a quello che Le sto dicendo, perché ha paura che il dolore dell'immagine perduta sia troppo insopportabile». «Allora, quale speranza c'è per un uomo come me?». «Una speranza illimitata! Non deve sopportare il dolore da solo». «Quell'uomo sul campo di battaglia che è morto ed è ritornato dalla morte. Che cosa dice di tutto questo?». «Ha molto da dire». «Perché non viene e non me lo dice che sono così amato». Smokrev sorrise in modo sardonico e scosse via le ceneri della sigaretta nel portacenere a fianco del letto. «È venuto da Lei infinite volte. Ma Lei non ha ascoltato. Ora, alla fine della vita, Le ha mandato un messaggero umano. Uno che Lei può vedere e sentire». «Che cosa avrà da dire questo messaggero, eh?». Elia avvertì un fiotto di luce interiore.
«Le dice: "O anima invasa dalle tenebre, non disperare. Non tutto è perduto. Vieni al cuore del tuo Dio, che è amore e misericordia"». Il volto di Smokrev si avvolse nella propria ombra. «Figlio mio, piccolo mio, ascolta la voce di colui che ti ama». «Amore?», disse Smokrev sbuffando. «Un amore eterno. Un amore indistruttibile». «Per me non c'è nessun amore, nessuna misericordia, nessuna pace». «Non si lasci cadere in una tenebra ancora più profonda. Mi ascolti. La disperazione è un anticipo di inferno. Non si aggrappi. Questa è la Sua caramella avvelenata, la Sua droga. Se ne liberi!». «Non mi presterò». «La sta chiamando. Ma se Lei persiste nella cecità e nella durezza, che cosa può fare Lui? Non violerà la Sua libertà. L'amore non la costringerà. Lo ascolti. Sta versando su di Lei un'ultima grazia. Apra il Suo cuore a quella grazia. È una luce speciale con cui può vedere l'attenzione che Dio ha per Lei. Ma la conversione dipende dalla Sua volontà. Questa è la grazia ultima per Lei. Lo sa. Lo sa». «Non so niente». «Dio è misericordia. Non c'è niente che non possa perdonare». «E Lei è il messaggero di questa parte della dottrina?». «Nel bene o nel male, lo sono. Sono stato mandato a Lei». «Lei è venuto da me. Che sentimentale!». «Non si tratta di sentimenti. Si tratta di vita e di morte». «Lei è un romantico. Guardi là in alto, sulla parete sopra il mio écritoire. Che cosa vede?». «Un'icona». «La guardi meglio. Mi dica che cosa vede». «Vedo un'immagine bizantina di san Michele tratta dall'Apocalisse». «Me la descriva». «Si tratta di un famoso prototipo della sconfitta di Satana. Michele è seduto a cavallo. Tiene in una mano il libro della Sacra Scrittura e con la stessa mano tiene una tromba, in cui sta soffiando. Nell'altra mano ha una lancia, che è anche una croce. La sta conficcando dentro Satana, che si è avvolto in forma di serpente intorno alle città del mondo». «La misericordia si estende solo fino a quel punto», disse Smokrev. «Anche Satana non si piegherebbe. La sua rivolta è eterna». «Non c'è misericordia per lui? Ho sempre pensato che Lucifero sia stato denigrato ingiustamente».
«Questo è assurdo». «È un mito. È un simbolo del nostro lato oscuro». «Satana è reale». «Se è così, perché non estendere un po' di misericordia nella sua direzione? Perché quel bravaccio grande e grosso dell'arcangelo fa contorcere Lucifero come un'anguilla infilzata da una fiocina?». «Per fermarlo. All'inizio di questa serata non pretendeva che Dio mettesse fine al male? Non può avere entrambe le cose». Smokrev sbuffò, ma non disse niente. «La misericordia di Dio verso il genere umano è illimitata», Elia continuò, «ma non permetterà che il male continui a distruggere per sempre il bene. Questa non sarebbe misericordia». Smokrev si raddrizzò sul letto. Sembrava essere stato colpito da un'ispirazione. «Ho tenuto da parte il meglio per ultimo, prete. La mia confessione non è ancora completa. Questa parte non Le piacerà». «Lei non mi scuote più». «Non la scuote più niente?». «Non penso». «Lei, un messaggero della misericordia, lo promette? Niente la smuoverà dal Suo atteggiamento misericordioso?». «Sono un essere umano. Sono imperfetto come Lei. Se Lei riuscisse a smuovermi dalla fiducia nella misericordia di Dio, questo proverà solo che sono una creatura. Solo Dio è misericordia perfetta. Io sono solo il messaggero di questa misericordia per Lei». «Vedremo». Elia lo guardò con aria interrogativa. Smokrev sembrava sinceramente divertito. «Vede quell'icona dell'Apocalisse?». «Sì». «L'ho acquistata da Pawel Tarnowski durante la guerra». Sorpreso, Elia disse: «Lei lo conosceva!». «Oh, sì, lo conoscevo. Lo conoscevo molto bene». «Mi ha mentito». «Illusioni, fumo, specchi. Fa parte della messinscena». «Perché mi ha mentito?». «Ho previsto la discussione. Conoscevo gli alti e bassi dell'argomentazione. Sapevo che Lei avrebbe proseguito con la difesa di Dio».
«Perché non me l'ha detto?», insistette Elia con un nodo in gola. «Dirigo io questa discussione. Non Lei, messaggero. Nessun altro!». Dopo un attimo di silenzio, Elia chiese con voce tremante: «Sa che cosa gli è successo?». «Non così alla svelta. Glielo dirò più avanti. Prima mi lasci dire che ho tenuto questo frammento di informazione per la fine, perché è il colpo da maestro nella mia causa. Lei dimostrerà la mia causa al posto mio». «Dov'è Pawel Tarnowski?». «È morto». «Di questo ero quasi certo. Ma avevo sperato...». «Perché è così importante per Lei?». «Ha rischiato la vita per me. Alla fine gli è costato la vita». «Era il Suo benefattore?». «Sì, era mio amico». «Un compagno?». «Come un fratello maggiore per me». Smokrev ridacchiò. «Che meraviglia! Quel timidone di Tarnowski ha sempre avuto il particolare talento di sedurre i ragazzini più carini». «Che cosa sta dicendo?». «Lei sa benissimo che cosa sto dicendo». «No». «Era una checca, tanto depravato quanto me. L'ho conosciuto a Parigi negli anni '30, quando era un pittore mediocre che viveva come un parassita alle spalle di vecchi sporcaccioni. Ha spezzato parecchi cuori là, sa? È si è goduto ogni minuto di quella vita. Prosciugava i suoi benefattori e poi li gettava via». «Questo non è l'uomo che conoscevo. Era buono». «Non era buono. Era un verme, come me». Prima che Elia fosse in grado di fermarlo, Smokrev gli fornì altri dettagli sulla carriera del famigerato e corrotto Pawel Tarnowski. «So che è una menzogna. Conoscevo l'anima di quell'uomo». «Non è una menzogna. Lei si rifiuta di vedere quello che siamo in realtà. L'uomo è un animale stupido e vizioso, che va alla caccia del più debole. Lei non sa reggere a questo dato di fatto. Preferisce castelli tinti di rosa. Anch'io sono un messaggero. Sopporto le Sue fughe dalla realtà!». «Questo non è vero», disse Elia, ma non riuscì a tenere la voce sotto controllo; gli faceva male la gola.
«Lei sa che è vero. Non l'ha mai portata a letto? Che piacere sarebbe stato vederlo. Un ragazzo ebreo ortodosso, bello com'era. Un giovane David strappato dal pascolo, fatto stendere e spogliato sul letto di un vecchio satiro». «Basta!», gridò Elia. Smokrev sogghignava in modo isterico, poi continuò, vomitando descrizioni, nomi, posti, dettagli della corruzione. Elia gridò per cercare di interrompere quel flusso di sudiciume. «Non mi ha fatto niente!». «Non Le credo». «Nemmeno una volta nella mia vita ho avvertito un barlume del desiderio cui Lei sta alludendo. E non ho visto niente del genere nemmeno in Pawel». «Diciamo, per ipotesi, per qualche ragione bizzarra che non riesco a capire - forse impotenza -, che si è astenuto dal consumare Lei come ha consumato così tanti altri. Se è andata così, non è perché non La desiderasse. La desiderava ardentemente come un maiale desidera le mele marce. Me lo ha detto». I due uomini si fissarono. Per parecchi minuti nessuno dei due parlò. Smokrev si accese un'altra sigaretta e si mise sdraiato, sorridendo fra sé e sé. Elia era seduto come tramortito. La testa gli mulinava, lo stomaco gli si rivoltava per la nausea, e si sentiva sul punto di piangere. Una tenebra invisibile sembrava succhiare via l'aria dalla stanza. Sentiva una vampata di terrore e di disorientamento. Desiderava fuggire via. «Non ho altro da dire», sussurrò Smokrev, con gli occhi chiusi, sorridendo e fumando, sorridendo e fumando. "Resistigli", disse la voce. "Non posso", si disse Elia. "Non posso sopportarlo". Come per sigillare la sconfitta di Elia in modo completo, Smokrev disse: «Ho ucciso Pawel Tarnowski». «Lei?». «Naturalmente! L'ho mandato io alla camera a gas. Ho cercato di comprarLa da Tarnowski, ma voleva troppi soldi, il magnaccia. Quando mi sono rifiutato, mi ha colpito con un bastone. Per questo gli ho procurato quello che meritava, un incontro con le SS». «Lei era il corrotto». «Il che cosa?». «Mi ha parlato di Lei».
«Davvero? Anche lui mi ha parlato di Lei. In effetti, L'ho vista. Riesco ancora a ricordarmi del ragazzino dello shtetl, allampanato e mezzo morto di fame, con le frange che gli penzolavano sotto il cappotto. I capelli neri corvini, la pelle bianca come alabastro, le labbra come la polpa delle ciliegie! Sublime». Elia distolse lo sguardo. «Così snello e solo e tremendamente bello. David». «Come sa il mio nome?». «Me lo ha detto lui. Il Suo guardiano». Il cuore di Elia diede libero sfogo a una rabbia nauseata. Desiderava avvicinarsi al letto e prendere a schiaffi quell'uomo. Desiderava trovare dentro di sé una parola o più parole per distruggere definitivamente l'orgoglio del vecchio drago. Ma dentro di lui non c'erano parole del genere. Solo una sensazione nauseante di degenerazione. Sentiva l'intera struttura dell'universo scivolare di lato, poi oscurarsi in un lungo e lento collasso verso l'abisso, che alla fine avrebbe risucchiato tutto. Si tenne sotto controllo e per alcuni minuti non disse niente. Non aveva forza. Era intrappolato in un'assoluta impotenza. L'amore era davvero un sogno che fuggiva al primo alito freddo di realtà. Mentre l'amore moriva, Elia sentiva crescere il terrore. Smokrev lo guardava da vicino, come uno scienziato che osserva un campione da laboratorio che muore sotto la lente del microscopio. «Lei ha due possibilità», disse Smokrev. Il suo tono era rilassato e piacevole. «Può scappare via da questa stanza il più velocemente possibile e non guardarsi indietro. Ma quello che Le ho detto La perseguiterà fino alla fine del mondo e La divorerà. L'altra possibilità... bene, può fare quello che le Sue emozioni La spingono a fare: avvicinarsi a me e mettere le Sue dita intorno alla mia gola e togliermi la vita. Questo è quello che Lei desidera». Elia non disse niente. «A quel punto Lei sarà il maestro». Elia si alzò, il volto una maschera inespressiva su un pozzo di agonia. Fece un passo verso il letto. «Bene, bene», sussurrò Smokrev, gli occhi socchiusi, la bocca aperta in un ghigno, che lasciava intravedere denti gialli ricoperti d'oro. Elia si inginocchiò di fianco al letto e allungò le mani verso la testa di Smokrev. «Lo faccia adesso. Metta fine alla mia esistenza disgustosa».
Prese il volto di Smokrev in mano, e lo baciò su una guancia, poi sull'altra. Dalla bocca del prete uscivano sospiri profondi e dai suoi occhi fluivano lacrime. Le lacrime caddero sulla fronte di Smokrev. Il vecchio si ritrasse con orrore. «Se ne vada via!», sibilò. «Posso toccarLe la faccia?». «Se ne vada. Lei non è il mio Giuda», strillò. «No. Non sono il Suo Giuda». «Lei pensa che basti andare in giro a baciare la gente! Non è vero! Non è vero!». Gli occhi di Smokrev erano terrorizzati. Spinse via il prete. Elia gli si avvicinò e gli toccò il volto. «Shhh, dziecko». «Perché vuole toccarmi la faccia?», gridava Smokrev rauco. «Perché Le voglio bene». Le tenebre fuggirono nell'angolo più lontano della stanza. Elia chiuse gli occhi, e vide l'immagine interiore di un bambino in una mangiatoia dorata. Il piccolo stava piangendo nella notte. Gridava, ma non arrivava nessuno. Smokrev cominciò a scuotersi con violenza. Elia gli mise un braccio intorno e lo strinse. Era sorpreso di quanto fosse minuta e fragile la creatura furiosa che si agitava fra le sue braccia. Il vecchio ebbe conati di vomito. Da lui uscì un lamento lungo e sofferto. Poi un grido prolungato sopra il livello di sopportazione, un suono così brutto che Elia fece una smorfia e allontanò la testa dalla bocca del conte. Quando ebbe finito, guardò di nuovo il volto che riposava sul suo petto. Smokrev stava sudando copiosamente, tremava. Gli occhi erano chiusi. Il volto esausto. Sembrava l'espressione di un corridore caduto a terra dopo la linea del traguardo. Le mani macchiate e simili ad artigli erano avvinte intorno alle sue braccia. Poi Smokrev cominciò a singhiozzare. Pianse così a lungo che Elia cessò di pensare, non notò lo scorrere della notte. Alla fine il vecchio cominciò a russare ed Elia capì che il peggio era passato. Adagiò Smokrev sui cuscini e rimboccò la coperta di satin sulle sue spalle. Prese un tubetto di ottone dalla tasca, lo aprì e intinse le dita nell'olio che conteneva. Benedì la fronte di Smokrev con il segno della croce, gli unse i palmi delle mani e la base dei piedi. Pregò per quell'uomo, chiedendo la redenzione. Mentre faceva così, Smokrev si contorceva e borbottava, poi sembrò cadere in un sonno profondo. Sulla porta si presentò l'infermiera, in ciabatte e camicia da notte, schia-
rendosi la gola. Sembrava preoccupata. «Ho sentito dei rumori terribili», sussurrò. «Il conte sta bene? Ha bisogno di me?». «Si è addormentato». «Che cosa gli è successo? Di solito ha bisogno delle medicine per dormire». «È tranquillo. Ritornerò domani mattina». *** Si svegliò presto, sentendosi esausto. La tensione della notte passata non si placò fino a quando non ebbe detto messa davanti alla finestra che sovrastava la città. Quando consumò la sacra ostia, cadde in un una situazione di eternità, riposò nel calore radioso di quell'abbraccio, poi disse le preghiere conclusive. Uno sguardo all'orologio lo informò, con sua sorpresa, che la sua meditazione dopo la comunione era durata più di un'ora. Era metà mattina, quando arrivò all'appartamento di Smokrev. Il domestico lo salutò con freddezza sulla porta. «Non è qui. Lo hanno portato all'ospedale». Elia gli tirò fuori un paio di informazioni e una mezz'ora più tardi entrava nella camera d'ospedale di Smokrev. Il vecchio era circondato da flebo e collegato a vari tubi. Un dottore diede a Elia il permesso di rimanere cinque minuti. «È in extremis, padre. Non avrà molto da vivere». «È cosciente?». «Va e viene. Vuole dargli l'estrema unzione?». «Sì. Vorrei rimanere da solo con lui». «Naturalmente». Il dottore uscì e chiuse la porta dietro di sé. Il vecchio indossava un camice verde da ospedale, legato intorno al suo collo sottile. Le mani curate erano appoggiate accanto al corpo, le palme girate verso le lenzuola. Elia srotolò la sua stola viola, la baciò e se la mise sulle spalle. Ripeté il rito dell'unzione che aveva già fatto la sera precedente e aggiunse la preghiera per i morti. Quando ebbe finito, vide che Smokrev era sveglio e lo guardava. «Sto morendo?». «Sì». «Vuole sentire la mia confessione?».
«Sì». «Questa volta quella vera». Lentamente, meticolosamente, con voce debole, Smokrev raccontò nuovamente al prete gli eventi che il giorno prima aveva descritto in modo così sinistro. Li raccontò con semplicità e aggiunse alcuni fatti che aveva tralasciato. Quando ricevette l'assoluzione, due rivoli di acqua gli scesero dagli angoli degli occhi. Questo pianto profondo non assomigliava affatto ai singhiozzi isterici della notte precedente. Era un pianto muto, ed Elia vide che il vecchio si trovava nella pace più profonda. «C'è qualcos'altro che devo dirLe». Elia annuì. «Nella mia confessione, Le ho parlato delle mie menzogne. Ci sono state milioni di menzogne». «Lasciamole al passato. È tutto raccolto nella misericordia di Dio». «Ma gli effetti del mio peccato proseguono. C'è una menzogna, soprattutto, che devo correggere». Cercò di riprendere fiato. «Non parli. Lei è molto malato». «David, David. La prego di perdonarmi». «La perdono. Ogni cosa è perdonata». «Devo riparare il danno. Ora posso fare poco, ma ci devo provare. Mi conceda questa consolazione». «Di che cosa si tratta?». «Le ho mentito riguardo a Pawel Tarnowski. Le cose che ho detto di lui. Erano menzogne. È vero che l'ho conosciuto a Parigi. Ma non era quello che ho detto. Era buono, e per questo lo odiavamo. È scappato via quando ha visto che cosa volevamo. Ce lo ha fatto odiare ancora di più». «In cuor mio lo sapevo». «Ha avuto molte difficoltà. Ha sofferto molto. Anche lui desiderava l'amore, nonostante gli fosse negato. Un uomo come lui! Avrebbe potuto avere il mondo intero. Ma non lo prese». «Lei ha detto che ha cercato di...». «Di venderLa. Anche questa era una menzogna. Mi ha colpito e mi ha cacciato via, quando ho cercato di comprarLa. Per questo l'ho distrutto. Per questo ho quasi distrutto anche Lei». «Inizia a vedere, ora, la struttura dell'universo? Pensa ancora che non ci sia nessuna ragione dietro le cose? Perché Dio ha mandato proprio la persona che Lei avrebbe voluto distruggere per parlarLe del Suo amore?».
«Questo va oltre la mia capacità di comprensione. Perché è crudele?». «Lei sa che non lo è. Vuole che Lei sappia che niente di quello che può fare distruggerà mai l'amore che ha per Lei. Le ha mandato un uomo dal passato a dirlo». «Non capisco». «Non capiamo, perché siamo creature piccole. Lei ed io. Tutti noi. Nasconderci fra le Sue braccia, questa è la cosa migliore da fare». Le labbra di Smokrev si aprirono in un sorriso stanco. «Capisco perché La amasse». «Ama tutti». «Voglio dire Pawel. La amava». «Anch'io lo amavo». Smokrev chiese la maschera a ossigeno e ci respirò dentro. Il suo colorito migliorò leggermente. «Ho lasciato qualcosa per Lei. La scorsa notte, quando l'ambulanza è arrivata, ho detto all'infermiera che Lei sarebbe tornato. Le ho detto di darLe alcune cose. Una di queste cose è l'icona dell'Apocalisse. È Sua ora». «Non posso accettarla». «La deve prendere. Non è legittimamente mia. L'ho comprata da Pawel Tarnowski durante la guerra. Allora valeva una fortuna. L'ho pagata una miseria. L'ho truffato, e lui lo sapeva. L'ha venduta per darLe da mangiare. Pawel Tarnowski Le dà quell'icona. Non può rifiutare». Elia cercò di parlare, ma non gli vennero le parole. «C'è un'altra cosa. Una scatola di latta. Dentro ci troverà l'anima di un uomo». Con questo Smokrev cominciò a rantolare e ad ansimare. Elia gli mise la maschera a ossigeno e chiamò il dottore. Mentre i medici facevano quello che potevano, gli rimase seduto accanto e gli teneva la mano. Sussurrava: "dziecko", quanto bastasse perché il paziente lo sentisse. Pregava. Alla fine, la mano divenne fredda al tatto, il dottore rimosse la maschera e guardò il prete. Schioccò la lingua e disse: «Bene, il vecchio conte è morto». 13 Il congresso Un tempo il Canaletto era considerato il miglior ristorante della città. Di recente era sceso nelle preferenze, contrastato da Bacciarelli al Marriott e da Wilanow, dove i turisti potevano mangiare arrosti di maiale, circondati
da trofei di caccia. Ma al Canaletto, presso l'hotel Victoria Intercontinental sulla via Kralewska, si poteva ancora cenare nello splendore del vecchio mondo, serviti da camerieri col cravattino, con il sottofondo di musica per pianoforte e arpa. Si potevano mangiare il cinghiale e le lumache con la salsa all'aglio, trota affumicata e funghi, e finire la cena con crèpe alla fiamma. "Semplicità, silenzio, povertà", pensò mentre entrava nel foyer principale dell'hotel. L'ambiente dell'hotel sembrava l'antitesi degli ideali monastici. Suo malgrado, sentì avversione. Il direttore dell'albergo, un uomo già avanti con l'età, lo notò e gli si affrettò incontro. «Professor Schäfer?», disse in polacco con accento francese. «Mi chiamo Philippe. La prego di seguirmi alla sala banchetti del ristorante. La stanno aspettando». Non era chiaro come avesse fatto a riconoscerlo, ma Elia lo seguì docile. Sulla porta della sala banchetti, il direttore appuntò una piccola rosa rossa sul risvolto del vestito italiano blu scuro che Billy gli aveva procurato al suo arrivo a Roma molti mesi prima. Questa era la prima volta che lo indossava e odiava il suo taglio di sartoria, lo odiava per quanto era costato, e provava disagio per un travestimento così lontano dalla verità della sua vita interiore che avrebbe desiderato scusarsene con chiunque fosse disposto ad ascoltarlo. Sussultò quando il direttore lo avvicinò e dominò una ripulsa immediata per i baffi bianchi e curati dell'uomo, il suo sguardo da professionista, l'eccessiva familiarità di un certo genere di personale che si presenta con il nome alle persone famose. Poi, mentre l'uomo si affannava attorno alla spilla, Elia lo guardò e provò compassione. Comprese che pochi esseri umani sfuggono ai dettami della loro posizione; è davvero rara quell'anima che non viene intaccata dalla sua immagine pubblica. «Ah, vedo che monsieur è un pochino nervoso. Monsieur non dovrebbe, il presidente è un grand'uomo, di sicuro, ma è un uomo gentile, e un uomo del popolo. Grandi e piccoli sono benvenuti a questa tavola», aggiunse con ostentazione. «Ah, bon, bon, bon», concluse, togliendo della forfora dalle spalle di Elia. «Grazie, Philippe». Elia entrò nella spaziosa sala da pranzo e vide di fronte a sé un gruppo di circa due dozzine di persone. Il presidente si alzò da capotavola e gli venne incontro con il braccio teso. Strinse la mano di Elia con calore e ancora
una volta il prete avvertì un'ondata di ammirazione per la controllata disinvoltura di quell'uomo. «È un piacere che Lei si sia unito a noi questa sera, padre Schäfer. Anche Lei è poco preparato come me per i discorsi che dobbiamo tenere? Ah, lo vedo che lo è! Allora sono rassicurato! Siamo due attori con crampi di panico allo stomaco, no?». «Sì». «Venga, vorrei presentarLa ad alcune persone che stanno soffrendo come noi. Questa sera gli occhi del mondo saranno su di noi, ma in quest'ora calmeremo i nostri nervi e saremo fra amici, senza pretese. Credo che Lei conosca già alcuni di loro». Elia venne presentato a una donna robusta, che era il ministro della cultura della Polonia. Dopo venne un giovane poeta cileno, sottile e timido; poi uno studioso americano, che si era occupato dell'influenza di Jung sulla cultura; seguì il coordinatore della conferenza, un uomo di mezza età in smoking, che Elia riconobbe come il primo ministro di un'ex repubblica sovietica, un uomo acclamato come uno dei principali architetti della nuova democrazia all'est. Era il primo volto che non trasmettesse un'impressione di convivialità rilassata. Dopo vennero parecchi nomi che non conosceva, professori, artisti, scrittori, il curatore di un museo in Inghilterra: ciascuno di loro emanava un'impressione di tranquilla soddisfazione. Poi un nome che conosceva: «Un confrère dei Suoi», disse il presidente, senza il minimo cambiamento nell'inflessione, «il dottor Felix von Tilman». Tilman, il teologo, in carne e ossa, era terribilmente affascinante, ma Elia avvertì che era il fascino abituale di un vero e proprio animale politico. «Archeologia, no?», disse Tilman. «Archeologia e spiritualità? Affascinante. Non vedo l'ora di sentire la Sua conferenza, davvero non vedo l'ora». «Come Lei sa, Felix è un Suo correligionario. Parlerà della spiritualità della pan-mitologia», disse il presidente. Elia si schiarì la voce. «Pan-mitologia?». «Sì, mio caro amico», spiegò Tilman, «l'universalità di tutte le credenze religiose. Sta diventando un campo molto vasto, e naturalmente è centrale perché il passaggio alla nuova epoca abbia successo. Mi aspetto che il nocciolo dei nostri discorsi si sovrapporrà per alcuni aspetti». Elia stava ancora cercando un modo per replicare, quando il presidente lo presentò all'ospite successivo. Il suo cuore fece un balzo.
«Ha già conosciuto Anna, penso». «Professor Schäfer, che piacere rivederLa qui», disse senza alzarsi. Gli porse la mano e lui la strinse. «Anche per me è un piacere rivederLa, dottoressa Benedetti», replicò. La sua voce era più acuta di quanto volesse, ma sperava che esprimesse un distacco amichevole. «Perché non si siede qui?», disse il presidente. «Anna, mi permetti di sistemarlo di fianco a te, strategicamente, in modo da metterlo al riparo? Non è una creatura molto mondana». Sorrise a Elia e gli strinse un braccio. Anna Benedetti rispose in modo affermativo, usando il nome proprio del presidente, proprio come alla festa di Roma. «Farò in modo che si senta a suo agio». «Grazie, mia cara. Vedi, è un frate, un uomo senza finzioni. Questo genere di incontri è del tutto estraneo alla sua indole, e vorrei che tu lo addomesticassi». «Questo sarebbe un grave errore», scherzò lei con un leggero sorriso. «Non sopravvivrebbe a nessun cambiamento della sua forma essenziale». La risata del presidente non era per niente condiscendente, ma piuttosto uno scherzo fra pari. «La prego, si rilassi, padre. Lei qui si trova fra amici», disse. Si voltò all'improvviso, distratto da un orientale che era appena entrato nella sala e che sembrava ancora più a disagio di Elia. Indossava una tuta di cotone nero tagliata male, dagli enormi risvolti. Intorno alle spalle era drappeggiata una sciarpa color porpora. «Vi prego di scusarmi», disse il presidente. «Ecco il rappresentante del Dalai Lama». Si allontanò per salutare il nuovo arrivato. Elia si sedette di fianco a Anna Benedetti. «Siamo stati messi insieme ancora una volta, come due adolescenti impacciati al loro primo ballo», disse lei. «Se non sapevano che cosa farsene di me, non avrebbero dovuto invitarmi». «Via, via», lo calmò lei. «L'ha invitata perché è interessato a Lei». «O perché pensa che possa essergli utile». Anna bevve un sorso da un bicchiere di vino. «Mi dispiace. Deve essere sembrato un commento cinico». «Solo un po'», disse lei pensierosa. «Dovrebbe avere più fiducia nella natura umana».
«La prego di perdonare le mie parole precipitose. Il presidente è un uomo davvero ammirevole». «Un idealista», aggiunse lei. «Sì, addirittura un utopista». «Un utopista», gli fece eco Anna con voce inespressiva. Il candore del suo sguardo lo disarmava, come aveva fatto durante il loro primo incontro. Non avrebbe potuto spiegare perché Anna suscitasse la sua fiducia. Diceva ciò che ci si sarebbe aspettati da una persona nella sua posizione, apparentemente una vera adepta. Tuttavia, Elia avvertiva che si sarebbe sempre distinta dalla marea di ammiratori del presidente. Era una persona indipendente, e lo sarebbe rimasta in qualsiasi situazione si trovasse. «Ho parlato senza riflettere. Mi perdoni, sono molto stanco questa sera, signora». «La prego, mi chiami Anna. La conosco appena, ma sento di conoscerLa da tanto tempo». «Questo a causa della Sua generosità e della Sua indole». «Non penso. Non sono generosa per natura. Di solito sono sospettosa, per essere sincera». «Lei dovrebbe avere più fiducia nella natura umana», replicò Elia con un sorriso. Anna gli lanciò un'occhiata divertita e non disse niente. «Eppoi dal nostro ultimo incontro ho appreso che Lei è un giudice. È nella natura delle persone che si occupano di diritto essere sospettose, no?». «Un rischio professionale. Mi dica, non è presente anche in Lei una vena di cautela?». «Questo perché quando ero giovane anch'io sono stato un avvocato». «Oh, sì, l'ho sentito». «Davvero? Chi glielo ha detto?». «Non mi ricordo. Mi dica perché è così stanco». «Ho passato alcune traversie nei giorni scorsi». «Qui a Varsavia?». «Sì, ho avuto a che fare con un uomo che attraverso una strana catena di eventi era collegato alla mia vita senza che lo sapessi». Raccontò la storia del conte Smokrev. Lei lo ascoltò con attenzione. Si piegò in avanti, quando Elia raccontò che Smokrev era stato responsabile della morte del suo amico, l'amico che lo aveva salvato. Alla fine, quando
raccontò la conversione del conte, sembrava commossa, ma non fece commenti. Poi l'accensione delle candele e l'attenuazione della luce dei lampadari nella sala da pranzo fecero capire che venivano chiamati a cena. Suonò una campanella. Grandi vassoi d'argento vennero portati dentro da camerieri in livrea e, una volta scoperti, rivelarono polli arrosto e anatra à l'orange. La cena era iniziata per la gioia di tutti, accompagnata da un quartetto d'archi che suonava discreto in sottofondo. Anna ed Elia furono coinvolti in discussioni con altri ospiti. Anna, alla sua destra, era assorbita dal curatore del museo inglese, che era chiaramente attratto da lei; Elia si sforzò di conversare in tedesco con il giovane poeta cileno, che sedeva alla sua sinistra. Quando questi informò Elia di essere un neomarxista, il prete non riuscì a reprimere un sorriso, che il poeta interpretò in modo corretto. Sembrò offeso e arrabbiato, e per il resto della cena si rifiutò di riconoscere la presenza di Elia. Ma Elia preferiva questo vicino di posto a quel Tilman così socievole che stava intrattenendo la maggior parte delle persone all'altro capo del tavolo con pettegolezzi maligni e arguti su prelati cattolici. Il presidente era visibilmente compiaciuto del buffone di corte, ma di tanto in tanto il suo sguardo saettava verso Elia e Anna senza fermarsi a lungo. In quello sguardo si avvertiva una grande serietà. Il coordinatore della conferenza era seduto a due posti di distanza da Anna, sull'altro lato del tavolo. Si allungò e diede un pezzo di carta a Elia. «Prima che lo dimentichi», disse freddamente, «questo è l'itinerario. Il luogo e l'orario del Suo discorso sono elencati qui». «Grazie». «Lei parlerà dei ritrovamenti recenti al Mar Morto, vedo». «È esatto». Il coordinatore si voltò verso la persona alla sua sinistra e borbottò in inglese, abbastanza forte da essere sentito: «L'emissario della Morta Sede di Roma». Ci furono delle risatine imbarazzate da parte di quelli che gli erano seduti vicini. Elia guardò Anna, ma lei non diede segno di aver sentito. «Mi dica, padre, quando è la Sua presentazione? E dove?», chiese Anna. «Alle dieci di mattina, al Palazzo della Cultura». «Mi piacerebbe essere presente». «Ne sarei onorato».
La fitta del commento del coordinatore si attenuò. Al dessert, il presidente si alzò e si congedò dai presenti. Doveva prepararsi per il discorso di apertura, fissato un'ora più tardi. Gli ospiti, disse, sarebbero potuti rimanere per il dessert e avviarsi al Palazzo con tutta calma. E se, purtroppo, fossero arrivati troppo tardi per il suo discorso, avrebbero scelto la parte migliore, perché il vino e l'amicizia erano le verità più importanti. Queste parole vennero salutate con cordiali rimproveri da parte di tutti. Naturalmente sarebbero stati presenti! Non avrebbero perso una parola! Nessun altro avrebbe potuto fare quello che stava per fare quella sera! Un'occasione storica! Tanti auguri! Bravissimo! Gli vennero lanciati baci e piovvero alcuni applausi. Elia, rincuorato da due bicchieri di vino bianco, si sentiva eccitato e stremato, ma felice, inspiegabilmente felice, considerati i suoi propositi. Nutriva il desiderio di alzarsi e di seguire il presidente, di prendergli la mano e di fargli i migliori auguri. Con la testa leggera, cercò di alzarsi, ma fallì completamente la manovra. Ricadde indietro, impregnato di grandissima carità, un ottimismo ringiovanito, la convinzione che al genere umano venisse offerta una seconda occasione in questo uomo buono e nobile, il presidente. "Due bicchieri di vino?", si disse. "Che cambiamento straordinario nel mio atteggiamento. Che spiriti sorprendenti si nascondono in questa bottiglia?". Rise a voce alta, e Anna gli diede un'occhiata perplessa. «Anna», disse. «Sì?». «Niente... solo Anna. Un nome così bello, così gentile sulla lingua, così dolce». Anna gli toccò la manica e gli lanciò un'occhiata severa. «Niente più vino, professore. E, La prego, mangi la Sua anatra». Trovò queste parole così divertenti e cominciò a ridere in modo incontrollato, ma la risata era impercettibile, compressa dentro il suo corpo. Si scosse a questo umorismo selvaggio e poi, quando l'umorismo si dissolse in un pozzo di dolore, desiderò piangere. Ma anche il pianto rimase dentro di lui senza lasciar trapelare alcun segno all'esterno. Nessun avvocato, nessuna giuria, o nessun giudice al mondo lo avrebbero trovato colpevole di emozioni disordinate. Poco dopo la cena ebbe termine e venne annunciato che gli ospiti privati
del presidente sarebbero stati portati in limousine al Palazzo della Cultura. Sul marciapiede di fronte all'hotel, Elia e Anna lasciarono andare avanti gli altri. Anna fece cenno di partire alla macchina che li aspettava. «Non è troppo lontano», disse. «Perché non andiamo a piedi e prendiamo un po' d'aria fresca?». Gli prese il braccio e lo guidò a ovest sulla Kralewska, poi svoltarono a sud sulla Marszalkowska, avviandosi alla torre massiccia del Palazzo della Cultura. Ci misero venti minuti, durante i quali la testa di Elia cominciò a schiarirsi. «Che edificio è quello?», chiese Elia. «Quella è una mostruosità che hanno costruito i sovietici. Ci sono molte sale conferenze, cinema, e un auditorio. La conferenza si tiene lì». «È indicibilmente brutto». «La gente di Varsavia dice che dalla torre del Palazzo della Cultura si ha la vista più bella di Varsavia, perché non si vede il Palazzo della Cultura». Elia rise. «Il governo polacco progetta di costruire una nuova facciata», continuò Anna, «per nascondere le ultime vestigia del realismo architettonico stalinista». «Speriamo che il lifting facciale venga effettuato presto». «Un passo alla volta. Almeno le strade sono tornate al nome che avevano prima della guerra». «È un passo, Lei dice. Ma la città non potrà mai tornare quella che era un tempo». «Lei è nato qui, no?». «Sì. Sono andato via durante la guerra». «Era molto giovane». «Ero giovane, ma il ricordo è così netto come se fosse successo ieri. Ci sono poche sensazioni nella vita più strane del tornare in un posto che un tempo era tutto il tuo mondo e scoprire che non c'è più». «Di sicuro non è scomparso del tutto». «Non del tutto. Ho camminato per le strade della mia infanzia e ho trovato delle tracce. Il mio passato era reale. Era qui». «Non vive più dentro di Lei?». «Sì, certo. Come un'icona nella mente, un'immagine di qualcosa che un tempo era conosciuto e amato, ma che non esiste più». «E tuttavia sopravvive, sommerso nella memoria». «Anna, sembra che lo abbia provato anche Lei».
«Sono nata dopo la guerra. Ma le perdite e le trasformazioni sono un'esperienza umana universale. Cerchiamo di portare avanti quello che c'era un tempo, nella speranza che torni di nuovo. E scopriamo che non potrà mai essere quello che era. La vita ci spinge sempre verso il futuro». «Mi domando se le persone che hanno vissuto gli anni della ricostruzione hanno un vantaggio su quelli come me». «In che senso?». «Dopo la guerra hanno visto la ricostruzione del loro mondo passo dopo passo, pezzo dopo pezzo. La realtà lentamente si è trasformata in una nuova realtà. Hanno osservato questo cambiamento ogni giorno. Hanno persino contribuito a mettere le nuove pietre. Non c'è stata una rottura radicale. Le loro menti sono andate di pari passo con il cambiamento graduale del loro mondo». «Ma Lei...?». «Quelli come me devono vivere con una frattura nella mente». «È così difficile?». «È molto difficile. L'uomo desidera sempre una casa stabile. Ma non la riconosce, fino a quando non gli viene portata via». Salirono gli scalini del Palazzo in silenzio. Anna si fermò all'entrata e si voltò verso Elia. «Vorrei vedere le tracce con Lei». «Le tracce?». «Prima che la settimana sia finita, mi potrebbe portare nei posti dove ha vissuto da bambino?». Elia annuì. Entrarono. *** Gli inviti assicuravano a Elia e Anna un posto nelle prime file della sala congressi, nell'auditorio principale. Furono guidati da una maschera a dei posti in seconda fila. La folla di parecchie migliaia di delegati dietro di loro era elettrizzata dall'attesa. Il palco era vuoto. Un enorme striscione bianco riempiva la parete di fondo e in esso un pianeta terra azzurro e verde circondato da lettere dorate scritte in numerose lingue: Unitas -una nuova civiltà per il genere umano. Il mormorio delle conversazioni si zittì non appena il coordinatore del congresso si avvicinò a grandi falcate da dietro le quinte verso il microfono solitario al centro del palco. Non era più la stessa figura che aveva fatto quel commento sarcastico a cena, aveva lasciato il posto a un personaggio
di grande contegno. Il suo atteggiamento era così pervaso della mistica della sua posizione sopraelevata che la folla venne ridotta istantaneamente al silenzio; i suoi modi, i vestiti e la posizione delle spalle rivelavano un uomo di Stato a suo agio in pubblico, ma non meno consapevole della portata del suo ruolo. «Signore e signori, delegati, gentili ospiti», disse, «vi do il benvenuto a quello che dalle generazioni future potrebbe essere considerato come un momento fondamentale nello sviluppo della civiltà umana su questo pianeta». Le cuffie collegate a ogni posto nell'uditorio fornivano la traduzione simultanea in una dozzina di lingue. «Condivido con voi l'eccitazione che noi tutti sentiamo questa sera. In un certo senso, questo momento è stato preparato da secoli. È mio compito fare quello che nessuno potrebbe mai sperare di fare in modo adeguato, cioè introdurre l'uomo che inaugurerà il nostro congresso. Non è estraneo agli eventi attuali, ma tuttavia mi domando se i presenti comprendano pienamente il significato della sua venuta qui. Un uomo di grande cultura e di profonda umanità, un uomo che ha utilizzato le sue capacità, il suo patrimonio personale e la sua grande preoccupazione per la condizione umana in uno sforzo eroico di mettere insieme le diverse comunità del genere umano, spesso così litigiose. Quelli fra voi che conoscono i suoi scritti o hanno ascoltato i suoi discorsi o che hanno sentito entro i confini tranquilli del proprio cuore una voce che rende testimonianza al suo ruolo nell'evoluzione della coscienza umana sapranno che non esagero. Infatti, il problema che mi trovo ad affrontare è come attenuare la sua importanza nelle vostre menti» (ilarità sommessa dall'uditorio) «perché non mi accusiate di adulazione». Uno scoppio di risate di approvazione. Il coordinatore sorrideva di fronte all'uditorio, visibilmente soddisfatto di scherzare con esso. «Lo conoscete. Lo amate». Una tempesta di applausi. Riassumendo un tono serio, continuò: «Le energie che accompagnano i passi di quest'uomo sul palcoscenico mondiale sono veramente fenomenali. Basandosi solo sulla sua forza morale ha reso possibile la transizione di Stati un tempo totalitari alla comunione economica a culturale con l'Occidente. Ha ridotto le tensioni fra altri Stati nemici e ha fatto progressi significativi nella lotta per mettere fine alla fame nel mondo. Inoltre, sta emer-
gendo come un uomo che ha una sua visione per il prossimo millennio. Con una serie di atti coraggiosi ha catturato l'immaginazione sia delle élite culturali, sia dell'uomo comune, le masse dell'umanità oppresse da tanta sofferenza nei nostri tempi, e per le quali c'è stata così poca speranza, fino a oggi. È conosciuto con molti titoli: dottore, professore, utopista, moderatore, autore, negoziatore, presidente, e il più recente, nella dichiarazione dell'UNESCO della scorsa settimana, "guaritore del mondo". Io lo chiamo semplicemente il Maestro. Vi chiedo di dare il benvenuto al relatore principale del nostro congresso...». L'applauso fu assordante. La folla intera balzò in piedi quando il presidente salì sul palco. Elia si alzò e applaudì con disagio. L'ondata di adulazione che fluiva tutto intorno a lui era uno sconcertante atto di adorazione. L'applauso proseguì per parecchi minuti, fino a quando il coordinatore e il presidente non riuscirono a sedare la platea con gesti delle mani. Quando il presidente prese il microfono, scese il silenzio. Era bello, vestito alla moda, principesco ma democratico, intellettualmente profondo ma in un modo che non ignorava la gioia. La componente principale era un'intensa dignità in alcun modo pomposa o affettata. Sembrava una persona indipendente, composta e umile, ma nel suo atteggiamento c'era una qualità che nessuna persona presente non poteva non interpretare come grandezza. Elia vide immediatamente che qui stava la qualità che aveva frainteso fino a quel momento. Non senza ragione il mito del Grande Uomo era presente in ogni epoca e cultura. La natura produce tali figure di epoca in epoca, come a ricordare al genere umano quello che potrebbe essere. E qui c'era un uomo che aveva grande successo, più di altri grandi uomini, un uomo accanto al quale il coordinatore veniva ridotto a dimensioni normali. Qui era l'enigma, pensò Elia. Non era l'ospite simpatico che lo aveva toccato e aveva scherzato con lui in modo così disarmante non più di poche ore prima? Non era lo studioso di Capri e l'amministratore lungimirante di una multinazionale fiorente? Era un utopista o un pragmatico? Era entrambi, sembrava, e la sovrapposizione, o piuttosto la perfetta integrazione, di queste qualità apparentemente incompatibili era stupefacente. Inoltre, catturava l'attenzione con autorevolezza magisteriale. Solo un pazzo non avrebbe ascoltato le sue parole. «In questa epoca così bellicosa siamo invitati a una rinascita di gioia», cominciò con voce tranquilla. Fece una pausa. La sala era pervasa da grandissima attenzione.
«Per millenni, siamo andati avanti nello spazio e nel tempo occupandoci dei nostri interessi in questo piccolo pianeta, come se l'esistenza stessa non fosse un miracolo. Abbiamo vissuto nella cecità. Siamo stati appesantiti dalla colpa. Ci siamo raggomitolati nella paura. E il risultato è che abbiamo prodotto un pianeta che pullula di tribù in lotta e di bambini affamati. Questo deve cessare». Fece di nuovo una pausa e fissò migliaia di volti. «Il millennio che si sta approssimando è un evento transculturale di proporzioni epiche. È un climax che ricorre una volta ogni mille anni, una convergenza spirituale avvertita da ogni anima che sta vivendo in questo momento sulla terra. È un momento di grande benedizione per il genere umano. Ma nella storia abbiamo abusato di questa opportunità. L'abbiamo salutata con paura o l'abbiamo interpretata come un tempo per combattere il nemico o saccheggiare il vicino, per ritrarsi di fronte a una punizione divina di carattere mitologico o per guardare la collisione delle stelle. Siamo strisciati nelle caverne e abbiamo aspettato la fine, scrutando i cieli neri per avere un giudizio. E se il giudizio non arriva - e non arriverà mai, perché è interamente una creazione della mente umana - strisceremo di nuovo fuori e ricominceremo a costruire i nostri piccoli accampamenti, a circondarli con steccati, a riarmarci, e a continuare come sempre, proiettando i nostri terrori sul cosmo e sulle tribù vicine». La sua voce crebbe di intensità. «Nessuna generazione fino alla nostra ha scoperto il grande segreto dell'universo». Fece una pausa. «L'universo respira!», gridò con voce appassionata. Un'ondata di timore percorse la platea, e tutto intorno Elia sentiva il potere delle parole del presidente penetrare nelle coscienze dei suoi uditori. Il suono della sala si sentiva appena; era un'irradiazione indefinibile, un'attesa diffusa. «L'universo vive. E noi siamo parte di esso. È tempo di scavare i nostri pozzi nella terra e scoprire nelle profondità del suo essere quello che tutte le anime sagge alla fine scoprono; lì vedremo che alla fonte di tutto c'è un fiume sotterraneo. Ci sono pozzi africani e pozzi europei, pozzi aborigeni e pozzi sufi, pozzi ebrei e cristiani, musulmani e buddisti, hindu e giainisti. Ci sono pozzi della dea Gaia e confuciani, e pozzi rossi e neri e bianchi e gialli. Ci sono pozzi animisti e wiccan e spiritisti. E persino sotto l'arido deserto del fondamentalismo c'è un pozzo soffocato, una brama verso l'unica grande verità. Ciascuno e tutti sono punti di accesso alla verità ultima
del destino umano. Scopriremo un timore primario, una sacralità originaria. Ogni persona in questa sala sta irradiando splendore!». Continuò: «Quando cominceremo a vedere noi stessi per la prima volta e a conoscerci? Quando? Quando giungeremo alla luce? Vi dico che ci arriveremo il giorno in cui deporremo le armi e i nostri giudizi e divisioni e ci guarderemo negli occhi. Perché nei nostri occhi vedremo alla fine la radiosità della divinità. Doxa! Splendore! E quel giorno cominceremo ad adorare in spirito e verità!». L'ardore della voce del presidente vibrava nell'aria immobile, mentre la folla assorbiva le sue parole. A poco a poco, un lieve applauso catturò il momento e si gettò sul palco onda dopo onda con intensità euforica. Il presidente non riconosceva la passione che lo contraccambiava, non se ne abbeverava, come avrebbero fatto altri. Si limitava a fissare per terra e ad aspettare che terminasse, e poi continuò. Parlò in modo commovente della rivoluzione ambientale e dei vari movimenti umanitari che per più di un secolo avevano affrontato i problemi dell'uomo. Li lodò, ciascuno e tutti insieme, come prefigurazione, come predecessori di questa generazione che stava convergendo verso un balzo di coscienza in un'età di armonia universale. Ancora più applausi, più profondi, più lunghi. Parlò della sofferenza delle persone indigenti, delle donne e dei poveri. Sfoggiò un lampo di vera rabbia contro forze innominate che erano ancora all'opera nel mondo per diffondere divisione e difendere la dissociazione distruttiva della coscienza umana. Elia rabbrividì. La paura cominciava a farsi largo nella sua spina dorsale. Capì quello che stava per arrivare. «Coloro che sono bloccati nel pessimismo hanno condannato se stessi a una fine tragica. Creano la propria fine. E vi dico, amici miei, che non è nostro intento riportare alla luce le strutture morte. Le filosofie sociali sistematiche, le religioni sistematiche, le economie sistematiche, le forme sistematiche di governo oppressivo stanno tutte morendo, e nessun essere umano sulla terra può prevenire questa morte. Noi che siamo stati chiamati a dare inizio al nuovo ordine mondiale dobbiamo lasciare che i morti seppelliscano i loro morti». Applauso intenso. «Più o meno regolarmente, durante la storia, la civiltà raggiunge un punto di svolta. Quando finisce un'epoca e ne nasce una nuova, si affronta un periodo difficile di transizione, durante il quale le società attraversano una serie di crisi che minacciano la loro esistenza. Diviene dolorosamente chia-
ro a tutti che i vecchi sistemi e le vecchie soluzioni non funzionano più. In questi momenti, gli individui dotati di una visione autentica devono lavorare insieme per riportare la pace e l'armonia, devono unire tutte le qualità umane per diffondere una visione del mondo a una comunità umana spaventata. Nei nostri tempi si assiste a una convergenza schiacciante di verità, e non è un caso. Persino mentre le forze della morte danno sfogo ai loro ultimi scoppi di rabbia sulla comunità umana sofferente, sta iniziando una nuova epoca. I tiranni sono morti. È nata una razza di creatori. Grandi pensatori, artisti, maestri di spiritualità e mistici sono apparsi fra di noi, ciascuno porta una fiamma di quella luce universale. Se questo congresso aiuterà a far nascere un nuovo mondo, allora dobbiamo mettere da parte le nostre paure reciproche, mettere da parte i nostri infiniti sospetti, i nostri dogmatismi, e la nostra paura cosmica. È tempo per l'uomo di forgiare una nuova storia della creazione, di reinventare i miti antichi senza scartarli. Basandoci sulle ricchezze della nostra eredità culturale globale, ce la faremo!». Applauso. «Ce la faremo!», gridò con enfasi ancora maggiore. «Ecco perché in questo momento le speranze del mondo sono rivolte a noi; ecco perché i mezzi di comunicazione del pianeta sono qui questa sera, consentendoci di parlare a miliardi di persone per mezzo del miracolo della tecnologia moderna. La generosità di numerose nazioni e di benefattori privati renderà possibile la trasmissione di questo congresso e dei suoi singoli seminari in tutto il mondo. Nei prossimi giorni, il genere umano sarà in grado di sentire parlare esperti in ogni campo del sapere umano: le arti, le università, le scienze, le varie religioni del mondo, e tutti quegli individui generosi che lavorano entro l'ordine esistente, leader e rappresentanti di governi che intendono la politica come l'arte di far nascere una comunità veramente umana, veramente globale. In tutto questo ampio banchetto di cultura, sentirete il grido dell'uomo e il grido della divinità: Unitas! Unitas! Unitas! Torna a casa, genere umano! Torna dall'esilio e vivi dentro il tuo corpo e la tua anima. Scopri su questa terra il significato ultimo del nostro destino comune!». Fece un inchino all'uditorio e lasciò il palco senza cerimonie. La folla balzò in piedi, rumoreggiando e applaudendo. Elia rimase seduto, tramortito, cercando di raccogliere i propri pensieri. Anna si alzò e si unì all'applauso, ma il suo applauso era calmo e misurato, e il suo volto era privo di espressione.
I riflettori puntarono sull'immagine del globo e un'orchestra cominciò a suonare da dietro le quinte, facendo concorrenza al fragore della folla. La gente si divise in centinaia di gruppi a discutere il discorso con entusiasmo. Salendo dalla confusione, la musica era sensuale, delicata, eccitante, con una nota di esuberanza mai stridente. Si adattava perfettamente all'umore della folla. Molte persone si accostarono ad Anna e la coinvolsero in conversazioni animate, ma il suo atteggiamento rimase distaccato, anche se gentile. «Sì, un bel discorso», replicò a una persona. «Sono d'accordo, sa come affrontare temi impellenti con una sensibilità poetica. Un maestro del linguaggio. Commovente. Sì, penso che il mondo farà grande attenzione da ora in poi. Bene, ci vedremo la prossima settimana ad Amsterdam. Arrivederci, Thea. Non dimenticare l'incontro del comitato per lo spettacolo a Firenze. Bene, dirò alla mia segretaria di passarmi subito i documenti, quando arriveranno in ufficio. Eccellenza, che piacere vederLa qui. Sì. Sono rimasta impressionata dal suo stile. Fa sempre una grande impressione. Lei ha ragione... egli sa come toccare una folla. Non vi è dubbio. Sì, ha toccato tutte le corde giuste». Voltò con eleganza la testa verso un altro interlocutore. «Elettrizzata? In effetti no. Sto solo soffrendo un po' per il tempo. Una leggera influenza. La prego di portare i miei saluti a Eleanor. Anche a Lei! Davvero. Buona notte! Adieu!». Lunghe file di persone si avviavano alle uscite che portavano al foyer. Camerieri in livrea si muovevano tra la folla offrendo bicchieri di vino appoggiati su vassoi. Lunghe tavole da banchetto con specialità gastronomiche furono prese d'assalto. Elia emise un sospiro e si alzò, infilandosi il cappotto. Anna fissava il palco vuoto, con lo sguardo rannuvolato. «Bene», disse Elia, «Lei deve andare, no? Suppongo che ci sia un ricevimento privato. Il presidente La sta aspettando. O Lei lo sta aspettando?». Anna si voltò verso di lui con espressione indecifrabile. «Non lo sto aspettando. E lui non sta aspettando me». «Sembrava preoccupata un attimo fa». Anna scosse la testa e si mise il cappotto da sera. «Non mi sento bene. Penso che tornerò direttamente in hotel. Grazie per la Sua compagnia, padre Schäfer». «Posso chiamarLe un taxi?». «La ringrazio».
A causa della folla, rimasero sotto una pioggia sottile per un po', prima di trovare un taxi libero. Quando Anna disse all'autista: «Al Marriott», Elia esclamò: «Anch'io sto lì. Posso tornare con Lei?». Lei disse: «Naturalmente». In macchina rimasero in silenzio. Nella lobby dell'hotel, Elia le augurò di rimettersi presto. Anna replicò che una buona notte di riposo le avrebbe fatto bene. Non voleva perdere le relazioni domani. In quale sala Elia avrebbe parlato? Glielo disse e lei gli augurò la buona notte. Elia andò nella sua camera e si sdraiò sul letto. Fissò il soffitto a lungo. Gli sembrava impossibile che delle esperienze così intense potessero concentrarsi tutte in un unico giorno. Solo quella mattina era stato accanto a un uomo morente - sembrava fosse successo così tanto tempo fa - e poi gli eventi della sera, così densi di significato, erano come una montagna che cade nel mare della coscienza. Ondate dopo ondate di ricordi gli schizzavano nella mente, tormentandolo e suggestionandolo. L'evento non meno importante della giornata era il movimento appena percettibile del suo cuore verso Anna Benedetti. Si guardò nello specchio della toeletta e disse a voce alta: «Chi sei, Elia Schäfer? Perché è stato così facile superare il tuo distacco? Vent'anni di sacerdozio si dileguano semplicemente alla presenza di una donna?». Guardò il proprio volto riflesso, e non gli piacque quello che vide, un tormento accompagnato dal dolore. «Chi sei?», disse a voce alta. Un pensiero gli balenò in mente: "Sono David". Lo scacciò. "Ero David. Sono stato sposato per breve tempo con Ruth, ma non sono più sposato da tanto tempo. Sono un frate. Sono diventato un essere nuovo, segnato per sempre dall'unzione dell'ordinazione. La mia anima è diversa da quella che era". "E il tuo cuore?". "Il mio cuore, come tutti i cuori umani, porterà il segno della caduta dell'uomo fino alla fine. La vera prova dell'identità di un uomo sta nel suo volere. La vera misura del suo amore è il modo in cui si adatta all'ordine divino". "Elia... David, l'amore nega l'amore?". "Se uno dà la vita per un altro, lo fa con la totalità del suo essere. Se di tanto in tanto il cuore ricade, o non guarda più all'Amato per rivolgersi all'amore umano, è un momento di prova. Non nega il dono originale. In-
fatti, potrebbe essere un'occasione per mettere alla prova l'amore e rinvigorirlo nella fucina dell'avversità". "Non hai commesso peccato, non hai mentito... ma hai fatto un gesto di intimità". "A tavola ho pronunciato alcune parole che hanno trasmesso un messaggio di desiderio". "Desiderio di che cosa?". "Di essere unito a un altro cuore". "Tanto tempo fa hai ceduto il tuo cuore". "L'ho fatto. So di averlo fatto. Ma questa sera, quando quel desiderio insano mi correva per le vene, non capivo quello che stavo facendo. È stato un momento di debolezza". "Capisci, figlio mio, che il tuo cuore appartiene solo a Me, e in questo modo è aperto a tutto il genere umano. Non c'è amore più grande di questo". "Il desiderio era di una dolcezza insopportabile". "Hai ripreso il tuo dono nelle tue mani. È diventato un possesso". "Lo so, mio Signore, lo so". "Così tante anime dipendono dalla tua fedeltà. L'amore che ti aspetta in paradiso supererà di gran lunga la solitudine presente". "Sono così stanco. Non riesco a pensare". "Riposa in me e prega, e sarò la tua forza". Avvertì che il suo corpo era terribilmente esausto e iperteso. Si inginocchiò, pregò il breviario, e alla fine si sdraiò di nuovo in pace. *** La relazione di Elia era fissata in una piccola sala al terzo piano di un'ala del complesso. Quattro volte al giorno i delegati potevano scegliere fra diverse conferenze che si tenevano contemporaneamente. Ogni relazione veniva registrata per essere trasmessa dalle televisioni del mondo, e sarebbe stata disponibile anche in videocassetta. Delle migliaia di delegati, non più di una dozzina si erano raccolti in quella sala. Uno di loro - Elia fu contento di vederlo - indossava l'abito bianco dell'ordine di san Domenico. Lui e gli altri erano seduti in attesa che il cameraman finisse di preparare le apparecchiature per le riprese. Quando fu pronto, il tecnico fece un segno ad Elia, si accese una luce rossa, e il prete cominciò la sua conferenza.
Si era premurato di indossare il suo abito da carmelitano. Quella mattina, vestendosi nella stanza d'albergo, si era ricordato della richiesta del Santo Padre ai religiosi di indossare il loro abito in pubblico, come segno della loro consacrazione, una testimonianza visiva di una vita offerta interamente a Dio. Pochi la rispettavano ancora. Al contrario, questa richiesta era stata interpretata dalla stampa cattolica e no come un sintomo del "legalismo" del papa ed era stata vivamente dibattuta, se non semplicemente liquidata con una risata. Sebbene Elia avesse ricevuto la dispensa per indossare vestiti civili in ossequio al suo nuovo "terreno di missione", sentì di essere il rappresentante del cattolicesimo ortodosso che parlava lì quel giorno, e quindi la sua testimonianza avrebbe dovuto manifestare forte coerenza. Non voleva dare l'impressione di disprezzare le richieste del papa. L'uditorio, per com'era, squadrò il suo abito con curiosità, come se fosse un personaggio di una nuova e coraggiosa opera ambientata in un passato pittoresco. Aveva appena terminato un breve riassunto di carattere storico della critica biblica, quando alcuni delegati alzarono la mano. Scusandosi per l'interruzione, informarono Elia che il servizio di traduzione simultanea non funzionava bene. Elia stava parlando in tedesco. Ben presto si scoprì che i canali in tedesco e spagnolo funzionavano, ma gli altri canali erano inattivi. Pregando in silenzio che i suoi ascoltatori riuscissero a seguirlo, continuò in tedesco per descrivere l'influenza di Bultmann sulla critica biblica e la conseguente deriva nelle spiegazioni naturalistiche del miracoloso, le cosiddette scuole della "demitologizzazione". Tre persone si alzarono, indicando le cuffie, scuotendo la testa. Lasciarono la sala. Elia, distratto, tentò di riordinare i propri pensieri, consultò i suoi appunti, e proseguì. Stava andando male, lo sapeva, ma quando Anna entrò tranquilla e prese posto in fondo, sentì uno scoppio di gioia. Descrisse le prime scoperte dei rotoli dell'Antico Testamento a Qumran, che confermavano la precisione delle traduzioni successive della Bibbia. Proseguì descrivendo con entusiasmo il materiale straordinario scoperto di recente nelle altre grotte vicine a Efeso e al Mar Morto, testi che evidenziavano aspetti estremamente importanti: erano molto più antichi dei manoscritti più antichi dei Vangeli. Uno di loro era scritto in aramaico colloquiale, accompagnato da un testo a fronte in greco, l'opera di uno scribastudioso che o stava scrivendo sotto la dettatura di un apostolo ancora in
vita, o stava controllando la sua traduzione con lo stesso apostolo, assicurandosi che venisse reso il senso esatto per le future generazioni. Il manoscritto in effetti faceva risalire il Nuovo Testamento all'epoca degli evangelisti, e quindi demoliva con pochi colpi la scuola della critica biblica che cercava di "demitologizzare" il Nuovo Testamento. Questa critica riteneva che alcuni cristiani del I e del II secolo avessero riscritto la vita di Cristo per adattarla alle loro particolari prospettive teologiche, influenzati dalle crisi della loro epoca. Le scoperte recenti, sosteneva Elia, confutavano questa teoria. Se si teneva in considerazione la psicologia umana, era meno probabile che quelli che erano stati testimoni degli eventi dei Vangeli, o che avevano scritto parti del Nuovo Testamento sotto le indicazioni dei testimoni diretti, avrebbero proiettato le loro personalità su eventi sconvolgenti del passato più recente. La coloritura teologica era molto più probabile nell'epoca contemporanea, così dominata dalla teoria e dal mito. Non potrebbe essere che gli esegeti moderni abbiano proiettato il loro scetticismo, il loro stile e il loro atteggiamento sulla gente del I secolo? Se questo fosse vero - e le scoperte ne fornivano prove convincenti -, si sarebbe trattato di un limite non da poco. La perdita di obiettività, per non dire di distacco professionale, evidenziava una lacuna tragica. Molti avevano semplicemente supposto di saperla più lunga di coloro che li avevano preceduti. Avevano supposto che il progresso dei tempi conferisse una superiorità quasi infallibile. Questa, Elia lo sottolineò, era davvero una forma di mito, il mito dell'evoluzione dell'intelligenza. «Forse», aggiunse con un sorriso gentile, «forse sono i demi tologizzatori che vanno demitologizzati». Dall'uditorio provennero una o due risatine esitanti. Proseguì dicendo che l'intelligenza, l'esercizio, la conoscenza, per quanto fossero così progrediti in questo secolo, non rappresentavano certo una garanzia contro l'ostacolo permanente dell'uomo: la soggettività. «L'orgoglio ci spinge alla cecità», disse, «e non c'è orgoglio più dolce, e tirannico, dell'illusione di possedere una conoscenza superiore. Questo è vero soprattutto quando si è emotivamente coinvolti nella propria teoria. In conclusione, l'esigenza di demitologizzare la Sacra Scrittura non è radicata nelle esigenze della ricerca o della scienza, ma in problemi spirituali profondi. L'uomo perde la sapienza, quando persiste nel pec...». Il domenicano si alzò in modo teatrale nel suo abito bianco svolazzante, e disse irritato in francese: «Sta dicendo che coloro che mettono in questione la Sua concezione semplicistica di Dio vivono nel peccato? Un non-
sense fondamentalista», e se ne andò a grandi passi. Elia respirò profondamente. Imperterrito, proseguì soffermandosi su brani specifici dei nuovi codici, paragonando un campione di versetti nel testo aramaico, il corrispondente in greco e numerose traduzioni moderne attendibili. L'effetto era stupefacente. Ma nella sala erano rimaste solo otto persone, compreso il cameraman. Quando ebbe finito, nessuno si fece avanti. Tutti misero via le proprie cose, eccetto Anna e il cameraman. Anna stava scrivendo su un computer portatile e alzò lo sguardo, guardandolo con simpatia. Il tecnico stava borbottando e imprecando in polacco, accendendo e spegnendo tutti gli interruttori e i bottoni del suo apparecchio. «C'è un problema?», disse Elia. «Non ci posso credere! Gli strumenti e gli indicatori erano a posto!». Alzò le mani e disse a denti stretti: «Mi dispiace. Non ho registrato niente di niente!». Continuava a ringhiare con se stesso, portando via l'equipaggiamento ribelle. Elia fece un sospiro pesante. «Sembra un vero e proprio disastro», disse. «Non del tutto», disse Anna. «L'ho trovato affascinante. Possiamo pranzare insieme?». Sulla scala incontrarono una donna giovane dalle guance arrossate che saliva correndo dal pianterreno con un fascio di carte sotto il braccio. Anna la presentò come una delle addette stampa del presidente. «Presto, presto», disse senza fiato, «abbiamo bisogno di Lei giù da basso». Nella lobby affollata, il presidente salutò Elia con il suo solito calore e gli chiese di mettersi di fianco a lui. Con sua sorpresa, Tilman uscì dalla folla e si aggiunse a loro. Il presidente mise le braccia sulle spalle di entrambi, uno per parte. Le macchine fotografiche cominciarono a scattare e numerosi tecnici filmavano la scena. Poi venne intervistato il presidente ed Elia sentì di non essere più necessario o desiderato. «A pranzo», sussurrò Anna e lo portò via. Anche la sala banchetti privata, riservata ai relatori della conferenza e ai loro colleghi, era affollata. Anna ed Elia trovarono un tavolo d'angolo e si sedettero a mangiare la loro minestra e a sbocconcellare un panino. «Che cosa è stato?», chiese Elia. «Pubblicità, suppongo. Lo sta facendo con ogni relatore e con le delega-
zioni nazionali. Centinaia di sessioni del genere, suppongo». «Tilman ed io rappresentiamo il cattolicesimo?». «Immagino di sì», disse Anna. Era tornato il suo tono serio, e insieme la maschera di neutralità emotiva. Elia era arrivato a pensarla come una maschera. Perché una maschera?, si domandò. Le maschere dissimulano, proteggono, eludono. Che cosa c'era che lei non voleva che lui vedesse? «Quando è la Sua relazione, Anna?». «Fra tre giorni». «Qual è il tema?». «Parlerò dei diritti umani a partire dalla prospettiva dei nuovi modelli di legge internazionale». «Dovrebbe attirare una grande folla». «Senza dubbio. Ho due conferenze fissate in una delle sale cinematografiche. La prima dovrebbe attirare parecchi delegati. Alla seconda non ce ne saranno così tanti». «Perché?». «La mia relazione non sarà quello che gli organizzatori si aspettano». «Davvero?», disse intrigato. «Perché?». «Si avverte una forma di uniformità non esplicita sotto tutto l'eclettismo che può osservare qui questa settimana. Tutto gira intorno a un'unica visione dell'esistenza. È l'antica visione del monismo. I monisti credono che alla fine tutte le divisioni siano illusioni, tutti i conflitti possano essere superati, ogni dogmatismo sia essenzialmente una violazione della libertà, e così via». «E Lei non pensa che sia così?». «No». «Il presidente è monista?». «Lo si potrebbe chiamare un neomonista, un nuovo genere di politico interessato alla dimensione spirituale». «Questa è la prima volta che dalle Sue labbra sento qualcosa che non concorda con quello che sta succedendo qui». «È un clima alquanto euforico, no? Io ne diffido. Il mio retroterra giuridico, senza dubbio». «Così non è tanto diffidenza, quanto cautela professionale». «Sì, penso che sarebbe più appropriato dire così. Sto osservando. E sto riflettendo su molte cose proprio adesso». «Ma non è soddisfatta del monismo, anche se viene da un uomo così fuori dal comune?».
«Il presidente desidera portare la pace nel mondo. Parla in ogni occasione di unità. Sono davvero obiettivi importanti. Ma il monismo tratta dell'unità solo superficialmente. Da giudice, ho sviluppato un orecchio interno per la differenza fra impressioni e fatti». «E ha scoperto una differenza?». «Il monismo è un concetto allettante; risolve molte difficoltà. Ma credo anche che crei molte tendenze distruttive nella società». «E così, solleverà queste riserve durante la Sua relazione?». «Sì. Nel seminario della mattina discuterò i principi esistenti su cui è basata la legge nei Paesi civili. Dimostrerò che certi concetti di uomo possono apparire umanisti e allo stesso tempo hanno come risultato la violazione o la distruzione di vite umane». «Chi potrebbe obiettare?». «Penso che le obiezioni non nasceranno tanto nelle menti, ma nelle emozioni. Il mio uditorio riconoscerà istintivamente una minaccia per l'euforia. E per l'utopia. E ora mi domando se questo non sia un esercizio futile. Pochi possiedono la struttura intellettuale per capire quello che dirò». Elia non disse nulla. «Vede, sono orgogliosa, padre Schäfer, ma non è una sensazione dolce al gusto. È una cosa amara». «Perché è amara?». «Un giorno glielo dirò. Non ora. Non qui». «Va bene. Per tornare al Suo tema: mi sembra che Lei stia parlando del problema dei fondamenti della legge. In teologia sosteniamo che la legge sociale debba essere fondata sulla legge naturale, sui principi che Dio ha iscritto nella creazione». «Non so chi o che cosa li abbia scritti nella creazione. Ma so che ci sono, e so anche quale disastro ne segua per la società che ignora tali principi. È quello che mi affligge. Devo parlarne». «Lei potrebbe fare ancora più bene di quanto pensi». Anna sospirò. «Spero di sì. Ma sospetto che la maggior parte degli esseri umani non sia davvero interessata alla verità. Pensano secondo una catena di impressioni e per più di un secolo sono stati nutriti di impressioni gradevoli. Mi dispiace di dire che ci sono numerosi segni di "impressionismo" qui questa settimana». «E nella Sua seconda conferenza?». «Parlerò di legge e coscienza». «Ha letto l'enciclica del papa sull'argomento?».
«L'ho fatto. Ovviamente è un uomo di intelletto eccezionale, e un utopista a suo modo. Ci sono molti aspetti con cui concordo». «Ma non tutto?». «Non tutto. Non sono credente». «Non lo sapevo, ma lo sospettavo». «A causa dell'ambiente in cui mi muovo? Lei non mi conosce affatto». «Sono certo che sia vero. Ma penso di capirLa un po' meglio ora. Le sono grato». «Se viene alla seconda conferenza, potrebbe trovarsi in un uditorio ancora più ridotto di quello che ha avuto Lei». «Mi dispiace di perdere le Sue conferenze». «Quando torna a Roma?». «Domani mattina presto». «Così il Suo contributo al convegno è finito?». «Sì». «Non mi sembra molto coinvolto a questo proposito». «Davvero? Suppongo invece di esserlo. C'è così tanto che mi disturba nello svolgimento di questo convegno. Ho bisogno di tempo per riflettere sulle cose che sono state dette qui». «Comprese le riflessioni del presidente?». «Sì. Mi pare che in un certo senso si sia allontanato». «Allontanato? Da che cosa?». «La vera questione è verso che cosa. Penso che abbia colto questa opportunità per spostarsi a un nuovo livello di attività pubblica». «A stento potrebbe avere una maggiore presenza pubblica di quanta non ne abbia già». «Intendo un altro livello di rivelazione, se vuole. Un genere di epifania delle sue visioni che non è ancora stato visto da molti». «Lei intende, naturalmente, il suo discorso di apertura ieri sera». Elia annuì. «L'ha disturbata?». La guardò diretto negli occhi e disse: «Non ha disturbato anche Lei?». Anna abbassò lo sguardo senza replicare. Un minuto dopo lo alzò di nuovo. «Se Lei parte domani mattina presto, non c'è molto tempo per vedere i luoghi della Sua infanzia. Ha detto che me li avrebbe mostrati. È libero questo pomeriggio?». Il cuore di Elia, contro la sua volontà, batteva violentemente.
«Sì. Le piacerebbe venire con me?». Subito Anna si aprì in un sorriso sincero. Ed Elia avvertì un'ondata di gioia. *** Dopo pranzo, presero un taxi per la zona settentrionale del ghetto. Nelle strade che percorsero non c'era niente a indicare che una volta una città nella città aveva occupato quell'area. Nessuna protesta, nessuna voce, contro la catastrofe che lì era avvenuta. Tutto intorno fiorivano gli alberi. I bambini giocavano felici nei giardini pubblici. Elia non parlava e Anna non cercava di rompere il suo silenzio. Di fronte al monumento in marmo dell'Umschlagplatz, Elia disse: «I nazisti hanno mandato via centinaia di migliaia di ebrei del ghetto da questo punto di imbarco. La linea ferroviaria iniziava qui. Portava a Treblinka». «La Sua famiglia è salita sul treno?». «Tutti». «Qualcuno è sopravvissuto alla guerra?». «Nessuno». Scesero lungo la strada e svoltarono nella Zamenhofa. Anna gli prese il braccio senza parlare. Si sentì stordito, chiedendosi perché il gesto non lo commovesse. "Sono vecchio", si disse. "Le persone che ci guardano, se ce ne sono, vedono solo una donna più giovane che porta un uomo anziano a fare una passeggiata. Una nipote con lo zio. Una figlia con il padre". All'angolo di Mila, Elia le mostrò dove aveva vissuto da ragazzo. «Vivevo al quarto piano, in un caseggiato che un tempo si trovava qui», disse. «Ma è stato demolito tutto. I tedeschi hanno fatto saltare il ghetto, casa per casa». «Non rimane niente?». «Niente». Poi Elia si ricordò della fessura nelle pietre che assomigliava a un cavallo. La trovò e la mostrò ad Anna. Durante i giorni precedenti qualcuno l'aveva colorata con il gessetto bianco. Un bambino, quasi di sicuro. Un bambino. «Ho passato la mia infanzia qui. Ho giocato in questi posti. Mi ricordo che noi, i miei fratelli, le mie sorelle ed io, immaginavamo che il cavaliere che ha ucciso il grande drago di Cracovia fosse venuto qui dopo la sua vit-
toria e avesse intagliato con la spada questa forma nella pietra, a ricordo del suo atto di coraggio». Nel resto del pomeriggio, passarono dalla prigione Pawiak e dall'Istituto di Storia Ebraica. Alle quattro, Anna chiese di andare in un caffè. Aveva bisogno di sedersi. Era affamata. Elia continuava a provare quello sgradevole stordimento, sebbene sotto ci fosse una tensione crescente. Ai margini della Città Vecchia trovarono un bistrot. Anna mangiò qualcosa e bevve un bicchiere di vino. Elia sorseggiò una tazza di caffè. «Ha una famiglia?», le chiese. Anna gli gettò uno sguardo tagliente. «Sono vedova». «Mi dispiace. Ha perso Suo marito di recente?». «Molti anni fa». «C'è qualcun altro?». «Due figli, entrambi all'università». «Come si chiamano?». «Dovremmo parlare della mia vita un'altra volta. Questa è la Sua giornata. Desidero conoscere il Suo passato». «Non c'è molto da vedere», si scusò Elia. «C'è molto da vedere». «È tutto nella mia memoria, sa. Quando la mia generazione sarà passata, diventerà una pagina nei libri di storia». «Lo pensa davvero? Io penso invece che il mondo non dimenticherà. Varsavia è una città piena di fantasmi. Così tanti morti. Così tante piccole lapidi a ogni angolo per ricordare i caduti». «I monumenti sono importanti. Ma non è la stessa cosa». «La stessa cosa rispetto a?». «Non è la stessa cosa rispetto a invecchiare con chi è rimasto in vita. Milioni di storie non sono state trasmesse alla generazione successiva. La generazione successiva è morta. I pochi di noi che sono sopravvissuti sono invecchiati mentre erano ancora bambini». Anna lo fissò a lungo negli occhi. Alla fine osò dire: «Non c'è dubbio che è l'avvocato dentro di me che parla, padre, ma sento che c'è qualcosa di più. Qualcosa che non mi sta dicendo». «Se cominciassi a parlare di questo più, ci vorrebbe l'eternità». «Ho tempo», rispose Anna tranquilla. «C'è un posto che per me è tanto importante quanto casa mia». «Mi ci porterebbe?».
Elia annuì. Pochi minuti più tardi entravano in una strada laterale della Città Vecchia e si fermarono di fronte a Casa Sophia. «Ho vissuto qui un inverno intero, in quell'edificio». Le raccontò la storia. Quando ebbe finito, Anna gli chiese del suo protettore. «Si chiamava Pawel Tarnowski. Era uno dei hasidei umot haolam, uno di quelli che noi chiamavamo i gentili giusti. Ha rischiato la vita per nascondermi. Mi ha dato da mangiare con le sue misere razioni alimentari. Non ha chiesto niente in cambio». «Davvero straordinario. Che genere di uomo era?». «Un'anima solitaria. Un cattolico devoto. Un amante dei libri. Questa era una libreria, a quell'epoca. Ha pubblicato anche alcune cose, prima della guerra». «È sicuro che non sia sopravvissuto alla guerra?». «Ne sono sicuro». «Come è morto?». «È morto in una camera a gas a Oświęcim. Auschwitz». «Mi dica, come è successo? Come è stato arrestato?». «Siamo stati traditi. È successo tutto all'improvviso; non c'è stato tempo di pensare; non c'è stato tempo di discutere. Ha dato la sua vita per me». Elia raccontò dell'ultima notte che aveva passato nella Casa della Sapienza. «Pawel bloccava la strada al male, vede. Stava lì come una difesa, e ha preso su di sé tutto quello che era stato pensato contro di me. Lo ha fatto per un ragazzo che non teneva in considerazione quello in cui lui credeva; lo ha fatto perché io avessi la vita». «Perché lo ha fatto?». «Non lo so, davvero. Era un uomo che pensava molto - in effetti un uomo giovane con tutta la vita davanti - ma per lui, penso, la vita era buona solo rispetto ai principi secondo cui viveva. È morto per questi principi tanto quanto per me». «Era un amico?». «Sì, un amico, in un certo senso. Avevo solo diciassette anni. Era un amico quanto un uomo può essere amico di un ragazzo». «Che cosa intende?». «Era vecchio così come io ero invecchiato, ma in modo differente. Aveva sofferto per qualcosa, ma non ho mai saputo che cosa fosse. Un tormen-
to, forse, o un amore perduto. Ha scritto una piccola opera teatrale in cui mi sono imbattuto alcuni anni fa. È stata pubblicata nella Germania Est dopo la guerra, da un ex ufficiale della Wehrmacht che gliel'ha rubata. Pawel ha perso tutto, come vede». «Tutto tranne i suoi principi». «È vero. Curiosamente il plagiatore verso la fine della vita si è pentito e ha ammesso pubblicamente quello che aveva fatto. Ciò ha rovinato la sua non trascurabile reputazione. Il libro è stato pubblicato di recente in polacco, sotto il nome del suo vero autore». «Come si intitola l'opera?». «Andrei Rublev. È una reinvenzione immaginaria della vita del famoso pittore di icone russo. Ne ha sentito parlare?». «No». Elia sospirò. «No, certo che no. Non è molto conosciuta al di fuori della comunità letteraria polacca, dove gode di un piccolo seguito. Probabilmente non è una grande opera di letteratura. Ma Pawel ci ha messo il cuore. È dedicata alla ricerca della bellezza e dell'amore in un mondo perduto». «Un tema affrontato spesso nella letteratura». «Il tema preferito di molti scrittori». «Si potrebbe addirittura dire, il tema preferito dal cuore umano». «Immagino che sia così». Anna indicò il secondo piano. «Ha vissuto lì?». «Sopra, al piano superiore, nascosto nel solaio». «Possiamo entrare a dare un'occhiata?». «Ci sono stato pochi giorni fa». «È rimasto identico?». «I tedeschi hanno distrutto la Città Vecchia, ma è stato fatto di tutto per ricostruirla in maniera esatta. È la stessa e non è la stessa». «Lei non è lo stesso». «Questo fa parte sicuramente della differenza». «Mi piacerebbe vederlo, se permette». «Anna, preferirei non andarci oggi. Era qualcosa che dovevo vedere da solo. Sarebbe diverso se ci andassi con Lei. Spero che capisca». «Certo». Elia fissò il cielo blu-nero sopra i tetti. «Non so come descriverlo. Per lo più come stordimento. Dispiacere per la morte di un uomo buono. Gratitudine. E colpa, perché io sono vivo a causa del suo sacrificio. I soliti conflitti che provano i sopravvissuti della
Shoah». «È tutto? Non c'è di più?». «Sento - come posso spiegarlo? - sento che quest'uomo che conoscevo appena mi ha dato la libertà. A quell'epoca ero un ragazzo e non capivo davvero quello che mi stava dando. Ora che sono tornato lo capisco di più». «Non è una cosa curiosa che Lei avverta una tale libertà nel luogo della Sua prigionia, mentre ha provato una tale oppressione nel Palazzo della Cultura, dove ogni due parole si parla di libertà!». Elia guardò il tetto della Casa della Sapienza e sussurrò: «Sì. È così». «È tardi», disse Anna. «Dovremmo tornare all'hotel». Quando arrivarono alla lobby del Marriott, Anna lo ringraziò per il pomeriggio. «Non La rivedrò più», disse Elia. «Le auguro che le relazioni vadano bene. Pregherò per Lei». «Non deve pregare per me. Pensi qualche volta a me di tanto in tanto». Si strinsero la mano e Anna entrò nell'ascensore. L'addetto alla reception gli andò incontro. «Ci sono delle cose per Lei. Le ha lasciate una signora». C'era un biglietto dell'infermiera di Smokrev. Spiegava che la notte prima di morire il conte le aveva detto di confezionare le cose che aveva lasciato al prete israeliano e di consegnargli il pacchetto. Elia andò nella sua stanza e si sedette sul letto. Aprì uno dei pacchetti e trovò una scatola di latta piena di carte scritte a mano. L'altro pacchetto conteneva l'icona del San Michele dell'Apocalisse. «Pawel Tarnowski Le dà il suo regalo», aveva detto il conte. «Non lo può rifiutare». Fissò il regalo fino a quando il cielo divenne nero e apparvero le prime stelle di primavera. Si sedette alla scrivania e scrisse: Caro signor presidente, la vita di un uomo è una piccola cosa, ma la tiene nelle sue mani e la dona agli altri come la cosa più grande del mondo. Non conosco i Suoi piani per il futuro. Non posso sapere per certo se le Sue visioni si dimostreranno giuste o si riveleranno dei gravi errori. Ma ho imparato che se il dono di ciascuno non è fondato sull'amore assoluto, contribuisce semplicemente al cumulo di vite
violate che si sono ammassate nel nostro secolo. Colui che è la mia vita e attraverso il quale vivo Le parlerebbe, se Lei volesse ascoltarlo. Le direbbe che nessun uomo può salvare il mondo, men che meno salvare da se stessa l'umanità caduta. Solo uno lo può fare, Cristo. Lui, e solo Lui, è il Salvatore del mondo. E Lui che era Dio non ritenne che l'uguaglianza con Dio fosse qualcosa a cui aggrapparsi, ma svuotò se stesso, prendendo la forma di servo. E prendendo forma umana, umiliò se stesso e ubbidì fino alla morte. Con rispetto, padre Elia Schäfer Mise la lettera in una busta, la indirizzò al presidente, presso l'amministrazione del congresso al Palazzo della Cultura. L'addetto alla reception promise di fare in modo che venisse consegnata. Ritornò nella sua stanza e si sedette vicino alla finestra, tenendo la scatola di latta in una mano e l'icona nell'altra. L'oscurità della stanza aumentò, e la rete di luci di Varsavia aumentò fino a diffondersi di fronte a lui come un campo di battaglia vasto e illuminato in modo crudo, un campo di battaglia su cui si scontravano draghi e cavalli bianchi in una battaglia confusa. Fissava il paesaggio del disastro senza muovere e senza muoversi. Quando alla fine premette l'icona contro il petto, lo stordimento dentro di lui si spezzò, ed Elia pianse sulla città e il mondo. 14 Roma Dormì per quasi tutto il volo diretto a Roma e arrivò nel bel mezzo di un temporale. La città stava soffocando sotto una coltre opprimente di umidità e inquinamento, ma era contento di essere tornato. C'era un messaggio che lo aspettava nella sua casella della posta al collegio. Non firmato, scarabocchiato a mano dal cardinale segretario di Stato, diceva: "Può venire a trovare il giardiniere questa sera da Severa? Dobbiamo discutere della semina di primavera. Telefoni al mio appartamento per confermare". Fece la telefonata dopo cena e il cardinale rispose.
«Buona sera, signor giardiniere». «Buona sera. È tornato». «Sì. Lei vuole parlare della semina di primavera?». «Sì. Questa sera, da Severa? Alle otto?». «Ci vedremo lì». «Sta bene?». «Sto bene, ma, di nuovo, credo che il nostro progetto sia andato a vuoto. I parassiti in giardino stanno diventando più robusti». «Lo so. È tutto nei giornali». «Va così male?». «Molto male. Peggio di quanto ci aspettassimo. Le racconterò quando ci incontreremo». Elia arrivò poco dopo le otto. Passò per la cappella funeraria, superò porte non chiuse a chiave e si fece strada nel labirinto, fino a quando arrivò alla galleria laterale. La porta era aperta. Elia rimase sulla porta a guardare. Il cardinale non lo aveva notato. Era appollaiato su una sedia da campeggio a leggere il breviario, con gli occhi socchiusi alla luce debole di una lampada a cherosene. Una spalla era appoggiata alla parete, le lettere romane PALUMBA scolpite nel marmo sopra la sua testa. Sembrava più vecchio, più pesante, più curvo, i capelli argentati gli scivolavano sulla fronte. Quando alzò lo sguardo, Elia notò la mancanza del suo solito aplomb. «Ah, padre, benvenuto», sospirò alzandosi. Si strinsero la mano. «Sono contento di vederLa». «Anch'io sono contento, Eminenza». «Il veterano ritorna. Deve essere esausto». «Un po'. Lei ha detto che va male». «Sì. Per lo meno una svolta sgradevole negli eventi. Guardi». Indicò un pacco di giornali ai suoi piedi. «Vada avanti, dia un'occhiata. The New York Times, The Manchester Guardian, La Stampa, Figaro. Lì ce ne sono altri». Elia vide la propria faccia fissarlo dalla prima pagina di ognuno di loro, Tilman che guardava raggiante nell'obiettivo, il presidente in mezzo, le braccia attorno alle loro spalle. Gli strilli: IL VATICANO APPOGGIA IL CONGRESSO MONDIALE UNITAS. «Ci sarà un articolo sull'Osservatore Romano che spiegherà la situazione», disse il cardinale. «Cercheremo di correggere questa impressione fuorviante, ma il danno è fatto. Temo che il tentativo di portare la voce
della Chiesa cattolica dentro quell'arena si sia ritorto contro di noi». «Ma non ha senso. Io ero uno solo fra parecchie dozzine di relatori. Neanche l'uno per cento dei delegati era presente alla mia conferenza. Inoltre, la registrazione della conferenza è andata perduta in conseguenza di un guasto tecnologico». «Non ne sono sorpreso», disse il cardinale disgustato. «Questa impresa è stata una farsa dall'inizio alla fine. Lei è stato invitato lì allo scopo di costruire un evento artificiale per i media». Indicò con il dito la pila dei quotidiani. «Siamo stati usati», disse Elia. «Sì. Quell'uomo non ha nessun interesse per il nostro punto di vista. Vuole la nostra immagine, niente di più, come sospettava il Santo Padre. Non aveva dubbi a questo proposito, ma io l'ho convinto a mandare Lei a Varsavia. Ho commesso un grave errore di valutazione». «L'articolo sull'Osservatore Romano chiarirà il malinteso, no?». «Quante persone lo leggono?». «Ma la Santa Sede non può chiedere di correggere la notizia sulla stampa mondiale?». «Ci abbiamo già provato. Sono stato al telefono tutto il giorno». «E...?». «Squilli a vuoto. Chiamate senza risposta. Una certa scortesia. Alcune risposte evasive, quando sono riuscito a farmi passare l'editore. I giornalisti del mondo, con poche eccezioni, non ci amano e praticamente appoggiano tutto quello che fa il presidente. È l'uomo del momento, dell'anno e, alcuni dicono, del secolo». «Allora è come sospettavo. La mia missione va di male in peggio. Eminenza, forse è il momento di riconsiderare...». «No, no!», disse il cardinale deciso. «Una battuta d'arresto tattica non significa una sconfitta. Lo scopo ultimo della nostra missione non ha niente a che vedere con questa propaganda. È l'anima di un singolo uomo che vogliamo raggiungere». «Perché è così difficile?». «Quest'anima è circondata da diversi livelli di barriere protettive. Quando non è in mezzo alla folla, è in un gruppo di amici intimi, persino quando è da solo, non è mai da solo, perché ci sono principati e potestà che lo sorvegliano e dirigono ogni suo atto. Perché un profeta possa parlargli, dovrebbe necessariamente addentrarsi nella propria paura, e poi attraversare gli scudi che il Nemico colloca intorno al suo servitore».
«Lo definisce un servitore?». «Schiavo sarebbe il termine più appropriato». «Schiavo. È difficile pensare a lui in questi termini. È l'uomo più potente del mondo». «Oh, sì, senza dubbio. Ma non è padrone di sé. Può essere certo che non fa nulla senza un esercito spirituale che protegge ogni suo movimento e devia chiunque si avvicini a lui e lo richiami alla verità». «È posseduto, Lei pensa?». «Non lo so per certo. Forse non è del tutto posseduto in questo momento, ma certamente è sotto l'influenza dell'Avversario». «Una parola di avvertimento riuscirebbe a distogliere l'uomo da questa strada?». «È la nostra unica speranza. Soprattutto se quella parola è pronunciata in nome dello Spirito Santo e se molte anime pregano per la vittoria contro gli spiriti nemici». «Possiamo sperare in un tale esercito di alleati?». «Molti ordini contemplativi nel mondo stanno pregando per la Sua missione. A loro si è unito un piccolo numero di santi viventi noti solo a noi. Giorno e notte digiunano e pregano per Lei - e per lui. Credo che arriverà il momento in cui il cuore del presidente rimarrà scoperto, in cui le sue guardie del corpo invisibili verranno ricacciate indietro, disarmate per un breve periodo di tempo durante il quale Lei deve raccogliere tutte le forze della Sua anima e aprirsi alla piena autorità dello Spirito Santo. Allora, le parole che Lei pronuncerà, che siano eloquenti o semplici, trafiggeranno la sua corazza e lo richiameranno alla realtà. Riconoscerà che Dio esiste. Per un istante intenso e luminoso comprenderà in quale tenebra è caduto e quale tenebra sta portando al genere umano, e capirà di essere libero di decidere altrimenti. In quell'istante vedrà la bellezza inesprimibile di Dio. Agognerà Dio e vedrà che Dio agogna che torni da Lui. Quello sarà il momento in cui dovrà decidere». Il cuore di Elia martellava. «Ancora una volta devo protestare, Eminenza», balbettò. «E se fossi troppo debole per questo incarico? Se fallissi di nuovo? Pensi alle conseguenze!». «Pensi Lei alle conseguenze se non ci proviamo». Il cardinale lo guardò direttamente negli occhi. «Lei riceverà la grazia di svolgere tutto quello che Dio Le chiede. La grazia non verrà dalla forza o dalla saggezza umana. Sarà esclusivamente un dono. Sia umile, figlio mio. Accetti di essere debo-
le, e Colui che ha creato l'universo La colmerà di forza». I due uomini rimasero in silenzio. Chiusero gli occhi e sprofondarono nella preghiera silenziosa. Rimasero immobili per un certo tempo, fino a quando successe una cosa strana. In quel posto senza correnti d'aria, la porta verso la galleria esterna sbatté violentemente e la lanterna venne spenta da una forza invisibile. Balzarono in piedi. Uno spaventoso fetore riempì la stanza. «Padre, faccia luce», ansimò il cardinale. «I fiammiferi sono vicino alla lampada. Presto!». Elia, disorientato e spaventato, barcollava al buio alla ricerca della lampada. La voce del cardinale gridava con forza: «Vade retro, Satana! Ipse venena bibas!». Il terrore riempì la stanza. Il maligno picchiò contro i due preti, martellando contro le loro anime per entrare, per possederli. Una scossa percorse il corpo di Elia, la nausea gli afferrò lo stomaco, la testa gli girava per le vertigini. Barcollò e cadde sulle ginocchia; annaspò alla ricerca dei fiammiferi. Le sue dita svolgevano il loro compito solo in obbedienza a uno sforzo sovraumano della volontà. Il cardinale continuava a pregare a voce alta, con autorevolezza: «Vade retro, Draco! Crux sacra sit mihi lux!». Il fetore se ne andò così velocemente come era arrivato. Elia accese la lampada, barcollò verso la porta e la spalancò. Tutto era come prima, minacciosamente silenzioso, terribilmente normale. Nemmeno un alito di vento agitava l'aria della galleria. I due uomini si sedettero, respirando pesantemente. «Bene», disse il cardinale, «il vecchio drago ha ancora qualche asso nella manica». Elia si asciugò il sudore freddo dalla fronte. «Era il diavolo», disse con voce tremante. «Forse il diavolo. O uno dei suoi luogotenenti più orribili». «Che cosa è successo?». «È perfettamente chiaro. Non gli piacciamo». La schiena del cardinale era più diritta, ora, e sembrava un vecchio soldato rinvigorito dalla lotta corpo a corpo con un nemico antico. «Fa sentire bene. Avevo dimenticato come ci si sente dopo averlo respinto». «Averlo respinto?». «Prima di diventare vescovo, ero l'esorcista della mia diocesi. Non era un'attività piacevole, ma lo facevo. Sono stato felice, quando mi hanno
promosso a incarichi minori. Come passano alla svelta trent'anni! È un bene che non abbia dimenticato le vecchie preghiere. Ha visto come si è allontanato?». «Non prima di aver sferrato alcuni colpi». «La disturba? Sicuramente Lei ha già visto questo genere di cose». «A un livello differente. Lo scontro spirituale di solito prende una forma che i sensi non riescono a percepire». «Ma quando i demoni si rivelano non è bello, no?». «Ho pregato con alcune persone in Israele che sono venute al convento a cercare aiuto. Contadini caduti vittima della magia. Ce ne sono stati sempre di più negli ultimi anni, per lo più giovani coinvolti nell'occulto». «La situazione sta peggiorando. Le città dell'Occidente ospitano centinaia di culti che operano in clandestinità. Alcuni sono più sfrontati di altri, e stanno diventando ancora più sfrontati. Roma ne è piena». Elia sospirò e le sue mani tremavano. Il cardinale lo scrutò. «Non sia così preoccupato. Ha cercato di metterci paura. Ma è un ottimo segno». «Davvero?». «Ci dice che stiamo facendo qualcosa di buono, se nella battaglia viene gettato questo genere di munizioni. È disperato». «Vorrei condividere la Sua fiducia». Il cardinale gli diede un colpetto su un braccio. «Lei è stanco, padre. È appena ritornato da un campo di battaglia diverso. Per certi versi, uno ancora più stancante. Le ordino di andare a casa e di riposarsi. Si prenda alcuni giorni liberi. Metta da parte la letteratura apocalittica che sta leggendo. Sarà ancora qui, quando la riprenderà in mano. Faccia delle passeggiate al sole. Ascolti della bella musica. Riempia la Sua mente di cose belle, come ci dice di fare san Paolo. Ora saliamo e prendiamo una boccata d'aria fresca». «Posso fare una domanda prima che andiamo via? Perché è necessario incontrarci in questo modo? Perché dobbiamo continuare a fare finta di essere dei giardinieri?». «Il mio segretario inaffidabile è andato via, ma ci sono ancora troppe cose poco chiare. La rimozione di una persona sola da una scrivania in Vaticano non risolve tutti i problemi. Ce ne possono essere altri come lui». «Non copriamo così tutto e tutti con una coltre di sospetto? Come fa la Curia a funzionare in modo adeguato, se fosse così?». «Certamente presenta alcuni inconvenienti. C'è il pericolo della parano-
ia, naturalmente, ma allo stesso tempo dobbiamo essere cauti. Non è prudente supporre che tutti siano leali». «E per quanto riguarda il cardinal Vettore?». «Ah, sì, il cardinal Vettore». «Che cosa viene fatto a proposito?», lo sollecitò Elia. «È difficile», disse il cardinale. «Non ci sono prove oggettive che abbia fatto qualcosa di sbagliato. Il Santo Padre ha parlato con lui privatamente, e Vettore ha negato ogni cosa». «Così è la sua parola contro la mia». «Esattamente». «Il Santo Padre gli crede?». «No. Crede a Lei. E lo stesso faccio io». «Perché non è stato rimosso dal suo incarico?». «Non è così semplice». «Mi perdoni, Eminenza, ma mi sembra abbastanza semplice». «Lei non capisce. È una personalità potente, a suo modo. Non ha detto o fatto niente apertamente contro il deposito della fede, e neppure contro il Santo Padre. Abbiamo così tanti nemici interni ed esterni proprio adesso. Il licenziamento sommario di un uomo che è considerato fedele aumenterebbe la confusione. E peggio ancora, insidierebbe la fiducia di molte brave persone che ammirano il cardinale Vettore e lo considerano un "papabile"». «E allora che cosa va fatto?». «Il Santo Padre sta facendo il possibile, considerate le circostanze. Ha indirizzato altrove in modo gentile, ma deciso, l'attenzione di Vettore. Gli ha dato un progetto nobile, che consumerà le sue energie e che esigerà da lui una prova di ortodossia. È una prova a cui il cardinale non potrà sottrarsi senza abbandonare la sua immagine pubblica. Sta per affrontare una serie di viaggi esplorativi in Estremo Oriente, per valutare la situazione della Chiesa nella Cina continentale e in Vietnam. Per i prossimi due anni dovrà impegnare tutti i suoi sforzi in questo. E il papa lo ha generosamente esonerato dagli obblighi ordinari del suo incarico, rimpiazzandolo, in modo temporaneo, naturalmente, con una persona che sappiamo essere leale». «Una soluzione ingegnosa». «È il meglio che possiamo fare. Un licenziamento diretto avrebbe solo rafforzato l'impressione che il papa è un duro, che vuole riportare la Chiesa a una situazione preconciliare, un autocrate che non sostiene il proprio entourage, che presta ascolto ad accuse anonime non suffragate da prove».
«Certo, ma io non sono anonimo. Se necessario, posso testimoniare di fronte a un tribunale ecclesiastico riguardo a quello che ho visto a Capri». «E il processo distruggerebbe ogni speranza di successo per la Sua vera missione. No, se perde la Sua copertura, come la chiamerebbero i romanzi di spionaggio, perderemmo troppo per guadagnare troppo poco». «Capisco». «Questi non sono tempi facili, padre Elia. Avremmo bisogno della sapienza di Salomone persino per affrontare una giornata normale. Dobbiamo stare all'erta». Elia si allungò e seguì con le dita le lettere del nome di Severa. «So a che cosa sta pensando», disse il cardinale. «Pensa che dovremmo marciare diritti al Colosseo e dire alle guardie di lasciare entrare i leoni contro di noi». Elia non disse niente. «Un martirio eroico è veloce, semplice, glorioso, no? Il sangue lava via tutte le ambiguità. La morte spezza tensioni intollerabili. Lei vorrebbe che intrecciassimo una corda e scacciassimo i cambiavalute dal tempio, e poi andassimo in croce. Giusto?». «È così sbagliato? Non è la strada che ci ha indicato il nostro Salvatore?». «Lo è. E io Le dico che noi andremo in croce. Ma non sta a noi accelerare quel momento. Dobbiamo lavorare finché c'è luce. Dobbiamo rinvigorire quello che rimane. Si tratta di un martirio lungo e solitario. È il più difficile di tutti». I due uomini si guardarono senza parlare. Poi insieme si mossero, andando in direzioni diverse. *** Elia fece quello che il cardinale gli aveva ordinato. L'anno accademico giunse alla fine una settimana dopo il suo incontro con il draco nelle catacombe. Corresse le tesine e gli scritti finali, evitò accuratamente la letteratura apocalittica e fece tutti i giorni delle passeggiate nel giardinetto dietro al collegio. Lesse anche un romanzo che si riprometteva di leggere da molti anni, I promessi sposi di Manzoni. Racconta la lotta fra la luce e le tenebre. L'autore aveva fatto in modo di portare i suoi personaggi sul ciglio della disperazione assoluta prima di salvarli attraverso l'intervento di un santo. Come ogni romanzo cattolico del romanticismo ottocentesco, pre-
senta la lotta come inesorabile e piena di svolte spaventose, ma non è intaccato dalla nausea esistenziale dei romanzi del XX secolo. Alla fine del racconto, gli eventi disastrosi sono riportati all'ordine divino e si assiste a una conversione spettacolare. L'epilogo gli sembrò un po' forzato fino a quando non comprese con un certo pathos che il suo incontro con Smokrev era, in un modo contorto, un miracolo. "Senza il santo", pensò fra sé e sé. Quando le settimane della tarda primavera scivolarono verso un'estate precoce, trasse forza dall'esercizio della preghiera, contemporaneamente vigorosa e ristoratrice. Le ansietà che lo avevano tormentato si attenuarono a poco a poco, e per quanto l'immagine di Anna Benedetti sorgesse nella sua mente, cessò di turbarlo. Accettò il persistente senso di solitudine come un dono, come una ferita che il Signore permetteva che rimanesse aperta, esposta al potere terapeutico della luce. Soffriva con gioia e offriva questa sofferenza per Anna stessa, come sacrificio in previsione del momento in cui avrebbe parlato della verità al presidente. La offriva anche per l'anima del conte Smokrev - e per Pawel. L'istinto lo aveva spinto a non guardare che cosa contenesse la scatola di latta: uno straordinario esercizio di autocontrollo. Se avesse cercato di spiegarselo, si sarebbe semplicemente detto che desiderava farlo al momento giusto. Intendeva davvero leggere il materiale quando avesse ritrovato la pace e l'attenzione fosse stata libera da ogni interferenza. Allora, e solo allora, avrebbe conosciuto l'anima dell'uomo che era stato suo amico. Quella primavera fu una delle più belle in Italia. Il caldo non era opprimente, e giorno dopo giorno il cielo dispiegava un azzurro pallido, con striature di nuvole alte e sottili. In città si sentiva dovunque il profumo dei fiori, persino il traffico automobilistico sembrava aver perso la sua frenesia. I turisti erano meno numerosi del solito, si poteva passeggiare per i musei e pregare nelle chiese senza folle vocianti e irritanti. Una domenica pomeriggio, prese la scatola di latta dal suo armadio e la tenne in mano. Avvertiva una leggerezza che gli mancava da tempo. Quella mattina aveva celebrato la messa per Pawel e, dopo la santa comunione, aveva sperimentato un calore in petto, un abbraccio di amore che era contemporaneamente serenità e passione. Si era verificato un moto estatico, una breve lacerazione del velo che separa l'umano dal divino, quella linea di divisione e di unione che corre inesorabile per il centro del cuore. Capì che il momento era arrivato. Andò in un parco vicino ai Giardini Vaticani e si sedette sull'erba sotto un cipresso. Ne emanava un profumo meraviglioso. Il sole gettava una lu-
ce dorata sulle siepi ornamentali. Uccellini scatenati facevano a gara per attirare la sua attenzione, ma la loro polifonia svanì dalla sua coscienza, quando aprì il coperchio malconcio e arrugginito. La pioggia fredda batteva contro la vetrina della libreria. Il campanello d'ingresso suonava. Colpi d'arma da fuoco distanti bucherellavano di paura il cielo plumbeo. 13 settembre 1942 Carissima Kahlia, le cose stanno succedendo alla svelta. Ho un ospite che non rimarrà qui molto a lungo. Spero che vada via presto. Non solo ora la mia posizione è precaria, ma mi mette in un altro genere di pericolo. Il volto è il tuo. Lo temo... Elia intuì immediatamente l'identità dell'ospite. Distese con cautela il pezzetto di carta che stava sotto al primo. Baciata dalla brezza, la bandierina della nave si muove appena, l'acqua solleva gentilmente il suo petto luminoso; le ragazze già promesse, sognando la felicità, si svegliano, sospirano, poi ricadono subito nel sonno. (Da Adam Mickiewicz, Sonetti della Crimea) *** 5 ottobre 1942 Mia carissima Elzbieta, perché è così difficile scriverti questa notte? Forse perché a poco a poco l'ospite sta prendendo il tuo posto o assumendo la tua forma? È addormentato in solaio. Il rumore delle armi da fuoco è calato nel silenzio. L'orologio batte sulla parete vicino al busto di Paderewski. La mia scrivania è diventata un intero paesaggio. Sopra la mia testa si trova una presenza straordinaria, un carbone vivo che riposa su un letto di vecchi giornali. Perché è stato lasciato cadere nelle mie mani? Che pazzia affidarmi un ragazzo! A me fra tutta la gente... un uomo incapace di amare, introverso e dal temperamento sin troppo sensibile?
Non osavo usare quella parola, amore. È una parola che maschera la nostra ricerca egoista della liberazione dalla solitudine. Non mi fido del mio cuore. Ma perché provo i sentimenti che sentivo una volta - e che sento ancora - per te? Brucio di una passione che ignoravo esistesse, ma non è un impulso di genere carnale. Sento che ti dissolvi nel vento della notte. Ti correrei dietro nelle strade, se potessi. Ti correrei incontro, o correrei via da te - non so che cosa. Desidero correre attraverso la notte fino a quando questo dolore sarà passato del tutto. Correrei come il vento, se non fossi certo che un proiettile tedesco ben presto metterebbe fine al mio stupido romanticismo. Oh, Dio, non permettere che degeneri in quel giovane disordinato che sono stato un tempo. Mi controllerò. Se sei qui, sostienimi, se sei quello che sembri essere, dimmi che i miei sensi non mi stanno ingannando. Se la bellezza è sacra, come potrebbe tradirci? Ma che cos'è la bellezza? Non ho più parole. Per la prima volta da quando ci siamo incontrati, ho meno da dire a te dello spazio e del tempo per dirlo. Amore? I greci lo chiamavano exousia, un respiro fuori dall'essere. Il mio essere ti chiama ora, vieni presto, vieni presto da Pawel. Sto sprofondando. *** Trionfante gridò lo scoppio; poi, elevandosi fuori dal gorgo, a cavallo di un dirupo, come un assaltatore su muri spezzati, il genio dell'estinzione si avvicina di soppiatto alla nave. (Da Adam Mickiewicz, Sonetti della Crimea) *** Varsavia, 11 febbraio 1943 Mia carissima Elzbieta, è notte. Non c'è abbastanza da mangiare. Di sopra, il tuo fratellino dorme sotto la gronda, nascosto dai nostri nemici. Non deve cadere nelle loro mani. Non potrei sopportare un'altra perdita. È quasi certo che loro ti abbiano presa per sempre. Non mi conoscevi, ma io ti conoscevo. Mi guardavi. Uno sguardo che non ti
deve essere costato niente - subito dimenticato - e tuttavia è il mio tesoro più grande. Poi sei stata arrestata e forse sei stata messa a morte. Vorrei aver avuto abbastanza coraggio da venirti a trovare quella notte dopo il concerto. Il tuo modo di eseguire il tema di Rachmaninoff mi ha rivelato più di quanto avrei saputo in un anno di corteggiamento. Non c'è dubbio che penserai che sono un folle a scriverti in questo modo, ma forse puoi leggerlo dal cielo. Voglio chiedere al mio angelo custode di farne una copia e mandartela. Quando il mio cuore è stato colpito dalla tua vista, per la prima volta in vita mia ho imparato che l'amore brama di completarsi nell'essere dell'altro. Non intendo solo l'incontro dei corpi, maschio e femmina, ma ancora di più l'unione dell'anima con l'anima. Quando questa brama è assente, l'amore muore presto. Persino i preti e le suore conoscono questa brama, sebbene abbiano scelto un Amato che ricambia il loro abbraccio cento volte di più. Ma in tutti i casi, l'amore esiste solo come un dono dato liberamente. Non mi conoscevi, e così era impossibile che fra di noi affrontassimo questo argomento particolare. L'opportunità che tu mi dessi il tuo amore non era che una delle innumerevoli porte aperte per una persona come te. Alla fine, il nemico ha deciso per noi. Dimmi quale nome dare a questo terreno di comunicazione misteriosa che fino a ora non sapevo esistesse. Mi domando come dovrei chiamarla: «Una spiritualità dell'amore non ricambiato»? No, troppo teologico. Forse: «Il cammino dell'amore nascosto»? Qualcosa non va in questo titolo. O forse: «Il dono»? Sì, questo è più il mio stile. La imbucherò nel solito posto. Forse verrà un giorno in cui un angelo consegnerà la scatola di latta nel fondo del cassetto della mia scrivania. È rigonfia della nostra corrispondenza. Un giorno, quando la guerra sarà finita, passerai per la porta principale della libreria e farai smettere di battere il mio cuore? Se è così, manda un messaggio prima di te, Elzbieta, sorella mia, amore mio. *** Caro ospite,
lo straniero e il viaggiatore hanno trovato ospitalità dentro la tua tenda. La vedova e l'orfano gioiscono. Gli angeli piangono di gioia. Con rispetto, D. Schäfer, Varsavia, febbraio 1943 *** 1 marzo 1943 Il dono: dorme per terra sulle assi, respirando e sospirando profondo e antico come il genere umano. Cerca la verità. Non sorprende che molti desiderino elevarlo allo status divino. È un ragazzo gentile, ma non è più vicino a essere un dio del conte Smokrev. È un essere umano che cerca l'unità originaria, l'immagine e la somiglianza dell'Unico che ci ha creati. Si deve preservare la vigilanza del cuore, che è parte del dono totale di sé. Un tale dono non è possibile senza la preghiera, perché l'uomo di per sé non è capace di controllare l'impulso all'unione e al completamento. In effetti, temo che non siamo designati per essere i padroni di noi stessi. Se nel matrimonio sono in tre che fanno l'unione - la sposa, lo sposo e il Creatore - allora deve essere così anche nell'amicizia. Amico o amante, alle porte del tuo cuore ci deve essere un custode, e quel custode è la Verità. Se ignori i suoi ammonimenti, devi essere certo di quello che stai scegliendo. Tu solo sei responsabile di quello che succederà: la morte dell'Amore. *** Il vecchio Giovanni, sorpreso e spaventato, fissava il volto dell'Imperatore silente. All'improvviso fece un salto indietro e, voltandosi verso i suoi seguaci, gridò con voce soffocata: «Figlioletti, è l'Anticristo!». (Da Vladimir Solovëv, Guerra, progresso e fine della storia) ***
Varsavia, 7 marzo 1943 Elzbieta, sorella mia, amore mio, David Schäfer mi sta insegnando molte cose. Ho imparato che la mia mente è in grado di ingannarmi. L'ho riconosciuto da solo tanto tempo fa, ma non mi è mai stato rivelato in modo così evidente. Ho proiettato su di lui un'immagine di quello che ho percepito essere l'ideale. È un'anima molto buona, ma non è l'icona che ho creato dentro di me. Com'è facile ingannare le nostre percezioni! Questa è stata una grande sorpresa per me. Mi ha mostrato che dentro di me c'è il seme di un padre. Oh, sì, un padre molto piccolo, un pover'uomo che non sa come essere padre. Ma dentro di me c'è un amore sincero che desidera il bene ultimo della persona amata. Sì, persino al punto di sacrificare tutto. Anche questa è una sorpresa. *** Raggiungere la soddisfazione in tutto, desiderare il suo possesso in nulla. Venire a conoscenza di tutto. Desiderare la conoscenza di nulla. Arrivare a essere tutto, desiderare essere nulla. Arrivare a essere quello che non sei, devi andare sulla strada su cui non sei. (Da san Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo) *** Parigi, 1931 Cher Paul, non devi disperare per la scena artistica. Nessuno vuole i tuoi dipinti, dici tu. Ah, una tale sofferenza nella tua lettera. Ahimè povero solitario! Povero esiliato! Hai cercato di dipingere il cielo e l'inferno, e pensi di aver fallito? Dici che il tuo cielo assomiglia a Versailles e il tuo inferno alla stazione di Saint-Lazare? Conosco il tuo dolore. Per sessant'anni anch'io ho vissuto dentro quel
dolore, e ora so che non lo avrei mai lasciato, se non avessi voluto lasciarlo. Hai letto Péguy? È straordinario! Ascolta questo brano tratto da Lettres et Entretiens. Sta scrivendo a proposito della Divina Commedia di Dante: «Da nessuna parte, nel corso di quel lungo pellegrinaggio, l'autore appare come uno storico o un geografo del Cielo e della terra, come un visitatore, un ispettore, o un turista come un genere grandioso di turista, ma pur sempre un turista. In nessun punto il poeta è qualcuno che sta compiendo un viaggio, un viaggio grandioso, ma pur sempre un viaggio. In nessun punto prende posizione sulle linee laterali per osservare quello che sta succedendo di fronte a lui, perché quello che sta succedendo di fronte a lui è lui stesso, ovvero riguarda la sua dannazione o la sua salvezza. In nessun punto prende posizione sul marciapiedi per osservare passare i peccatori, perché i peccatori sono lui stesso. Questa immensa moltitudine è quello che lui stesso è dentro, non qualcosa di fianco a lui. L'intero compito consiste nel giusto orientamento del genere umano, rivolto completamente al Giudizio Finale». Paul, noi ci siamo dentro, sebbene ci sentiamo fuori. Mantieni lo spazio che ti è stato dato. Non cercare di combattere sull'altro fronte. Se abbandoni quello che ti è stato dato, non importa quanto piccolo, la guerra potrebbe essere persa. Non cercare di fare tutto e subito. Attraversa il deserto senza bagaglio. La povertà e il silenzio sono la dimora naturale della verità. Amitiés. G. Rouault *** Varsavia, 2 novembre 1942. Giorno dei morti Mi sono venute le parole la scorsa notte. Pezzi spezzati che cadevano come larghi cristalli dalle nuvole di ghiaccio che coprono il cielo, ogni fiocco una galassia che gira cadendo. Si fondono nello spazio e formano un pensiero. Il pensiero è questo: il pericolo dell'artista è di essere padrone
della forma, dimenticare di essere povero, pensare di essere il padrone dell'invisibile realtà che rappresenta questo scarabocchio pallido. Sto per scrivere un'opera teatrale su questo. Metterò il pensiero in bocca ad Andrej Rublëv. *** Zakopane, 15 agosto 1919 Pawel, nipotino mio. Quanto sei stato coraggioso oggi! Quando siamo scesi nelle caverne di Wrog il drago, ho tremato. Sì, anche gli adulti qualche volta hanno paura, ma impariamo a superare la paura con il coraggio. Anche tu hai tremato? Siamo stati coraggiosi insieme, no? Mi hai detto: «Perché non vediamo il drago?». Ho risposto: «Perché è fuggito al nostro arrivo». «Perché è fuggito?», hai chiesto. «Perché ha paura di noi!». Non dimenticare mai quello che abbiamo imparato oggi. Ricordatelo sempre. Non avere paura, Pawel. È l'offesa più grande che puoi fare a un drago. Ti do questa medaglia della Madre di Dio di Czestochowa in ricordo della nostra vittoria. Ti bacio. Il tuo Ja-Ja *** C'erano altre lettere e frammenti. Elia lesse fino a quando il sole scese dietro la cupola di San Pietro. Si alzò indolenzito e tornò alla sua cella. Mise la scatola su un ripiano dell'armadio. Si inchinò all'icona di San Michele dell'Apocalisse, venne avanti e la baciò. Dalle pagine della sua Bibbia estrasse un pezzetto di carta gialla piegata male, un frammento che conteneva un messaggio letto innumerevoli volte. Nel cassetto del comò trovò un medaglione d'argento su cui erano incise un'icona della Madre di Dio e la parola Mądrość, "sapienza" in polacco. Poi prese il medaglione e il pezzetto di carta gialla e ritornò alla cappel-
la. Lì, di fronte alla luce accesa davanti al Santissimo, lesse per la millesima volta le ultime parole di Pawel Tarnowski, gettate da un treno, scritte mentre veniva portato via verso Oświęcim. David, figlio mio, amico mio, non ho mai desiderato così tanto vivere come ora. Scendo nelle tenebre al tuo posto. Ti dono la mia vita. Porto la tua immagine dentro di me come un'icona. Questa è la mia gioia. Scendo per dormire, ma il mio cuore veglia. Pawel 15 Roma Quell'estate fu di una bellezza insuperabile. La luce sfolgorante, le temperature miti, le brezze che soffiavano verso la città dal Tirreno, i venditori di frutta e verdura che lodavano la propria merce, tutto si combinava per creare una cospirazione di tale dolcezza che persino i caratteri più cupi avrebbero rinnegato il loro pessimismo. Elia non faceva eccezione. Si sentiva riposato interiormente, e la sua salute fisica migliorava. Ogni giorno faceva lunghe passeggiate nelle zone più belle della città e andava spesso in San Pietro a pregare sulla tomba del pescatore dalla Galilea. Per il Pescatore della sua generazione, tuttavia, le cose non stavano andando bene. La stampa laica era piena di speculazioni sul «papa attuale», come lo chiamavano loro. La professionalità dei suoi giornalisti veniva confermata da un florilegio di editoriali e di articoli scritti in modo accurato, sotto i quali stava crescendo il disprezzo per il pontefice «lontano», che stava invecchiando. Correva voce, annunciavano, che stesse per dimettersi. Fonti affidabili del Vaticano, dicevano ancora, avevano confermato che stava perdendo alcune delle sue facoltà mentali. Si poteva consentire che un uomo nelle sue condizioni, un uomo, in fondo, non importa quanto grande in passato, rimanesse abbarbicato a un incarico così importante? Aveva passato da tempo l'età della pensione e nella «nuova chiesa» (con la c minuscola) non era ragionevole ipotizzare che anche il vescovo di Roma si assoggettasse alle stesse leggi che imponeva ai suoi fratelli vescovi? Molti buoni amministratori erano stati rimossi dal loro incarico al raggiungimen-
to dei 75 anni; era ovvio che fossero stati allontanati per direttissima in base a un tecnicismo del diritto canonico, semplicemente perché non erano d'accordo con le prese di posizione del papa. Non era l'ultimo di una gerarchia in via d'estinzione, un autocrate che governava alla vecchia maniera, ormai incapace di «favorire» il progresso che i Padri conciliari avevano avviato? La stampa cattolica progressista non era da meglio. In effetti, guidava il branco dei critici. Stranamente, i giornali cattolici eretici sembravano sempre più moderati nel tono. Dicevano le stesse cose sconcertanti che avevano sempre detto, ma si esprimevano in termini più sfumati del solito. Erano diventati modelli di equilibrio. Il numero dei loro abbonati cresceva costantemente. La gente cominciava a considerarli i nuovi moderati; per lo stesso motivo, i veri moderati erano ora considerati ultraconservatori, e i conservatori dei sociopatici. Durante il decennio precedente, numerosi giornali cattolici fra i più equilibrati erano stati affidati a nuovi direttori. I vescovi, spaventati dall'aggressività dei dissidenti nelle loro diocesi, e ancora più preoccupati di essere condannati come preconciliari, avevano fatto alcune concessioni. Uno dopo l'altro, avevano affidato gli organi di informazione e di opinione cattolici a direttori gradevoli, eloquenti, che si sentivano a disagio con le concezioni della Chiesa cattolica romana, ma si davano un gran daffare per mascherarlo. Da quando aveva lasciato il monte Carmelo, Elia aveva rivolto una certa attenzione soprattutto a un settimanale americano, The Catholic Times. Il suo direttore, un certo padre Smith, nativo dell'Idaho, era stato licenziato senza giusta causa. Non gli era stata fornita alcuna motivazione, se non che Smith era stato incapace di adattarsi ai tempi postconciliari. Smith aveva scritto a Elia raccontandogli del fatto. Era un uomo di notevole sagacia. Non era né conservatore né progressista, disprezzava quei termini politici. Aveva guidato il suo giornale nel campo minato del dibattito ecclesiale nordamericano con considerevole abilità e, si potrebbe dire, santità. Si richiamava ai primi Padri della Chiesa, al Concilio Vaticano II e agli scritti del papa. Aveva evitato il rancore, da un lato, e l'indifferenza, dall'altro. Era considerato una delle voci più assennate della Chiesa moderna. Era anche un vero prete, e dopo l'amore a Cristo poneva l'obbedienza sopra ogni cosa. Credeva che l'obbedienza e l'amore sincero fossero inseparabili. Quando il superiore del suo ordine gli chiese di assumere certi commentatori, scrittori di cui Smith sapeva che erano contaminati dal modernismo,
si rifiutò, appellandosi al fatto di aver ottenuto completa libertà editoriale dall'arcivescovo della sua città, colui che per la legge civile era il proprietario e il direttore del giornale. Il suo superiore insistette, ricordando a Smith che aveva fatto voto di obbedienza e facendogli notare che il rifiuto di collaborare sarebbe stato indegno di un religioso fedele. Il prete si trovava ora in un conflitto di obbedienza. Chiese consiglio a Elia. Si appellò anche all'arcivescovo, che era d'accordo con lui. Tuttavia, l'arcivescovo chiese a padre Smith di fare delle concessioni poco importanti per preservare l'unità del gregge. Avrebbe potuto far entrare nel gruppo dei commentatori il meno offensivo dei dissidenti. Questo sarebbe stato, nella diocesi, un segno positivo lanciato verso i critici, per far capire che l'ortodossia non era autoritaria, ma amorevole, e non era mai chiusa alla discussione. L'arcivescovo aveva aggiunto di aver sofferto da giovane curato sotto pastori autocratici, e prima ancora in seminario: non avrebbe nemmeno saputo da dove iniziare a descrivere gli abusi che aveva subito sotto il vecchio sistema! La nuova Chiesa doveva rimanere sempre aperta al dialogo, insisteva, e si doveva capire che lui, l'arcivescovo, era un pastore comprensivo che aveva a cuore gli interessi di tutto il suo gregge, qualsiasi fossero le divergenze. Smith, tormentato, spossato e spinto a prendere una decisione immediata dall'ufficio per le comunicazioni sociali dell'arcivescovo, aveva acconsentito. La replica di Elia, che gli raccomandava di rimanere sulle sue posizioni e - se fosse stato necessario - di appellarsi a un tribunale ecclesiastico superiore, arrivò troppo tardi. Il prete, cercando di trarre il meglio da una situazione negativa, pensò che un solo commentatore controverso rappresentasse un male minore rispetto a un giornale pieno di commentatori del genere. L'anno successivo, a poco a poco cedette sempre di più la sua autorità. Era un uomo gentile e un perfezionista; il suo sistema nervoso non era più quello di una volta. Gli mancava il talento per riconoscere le forme più sottili di manipolazione. Pezzo dopo pezzo, perse terreno in favore di un nuovo comitato editoriale, composto per lo più da persone affidabili. Sembrava innocuo, a prima vista. Quando l'arcivescovo designò a far parte del comitato un rappresentante dell'ufficio diocesano per le comunicazioni, una suora che di recente aveva ottenuto un dottorato in teologia, Smith non fece obiezione; non si augurava di essere considerato quel genere di maschio che difende il proprio territorio e che lotta senza esclusione di colpi per mantenere il potere. Ma la suora aveva una forte personalità e un progetto. Smith si sentì scoraggiato e poi depresso. L'arcivescovo gli suggerì
un congedo di tre mesi. Lo prese. Chi lo sostituì temporaneamente era un uomo competente dalle credenziali impeccabili. Era un protetto del cardinale arcivescovo di una diocesi più grande, un buon amico dell'arcivescovo di Smith. I due prelati erano stati in seminario insieme e, sebbene non sempre fossero d'accordo sulle questioni ecclesiali, concordavano per quanto riguarda l'unità come valore supremo. Il sostituto temporaneo era uno scrittore e un direttore dotato. Era anche capace dal punto di vista diplomatico e non perdeva mai le staffe. Stava pure salendo in alto all'interno della segreteria della Conferenza episcopale nazionale e, al momento, dirigeva l'ufficio per le comunicazioni. Sapeva come trattare con vescovi non progressisti e come smorzare le loro paure. Diceva cose molto moderate. Non aveva mai scritto o detto una parola che provocasse divisioni. Si era dimostrato un mediatore abile per i vescovi e veniva considerato conciliante. In un mese, aveva indotto uno dei commentatori più ortodossi e meno popolari a lasciare il giornale e aveva inserito un secondo dissidente, non un incendiario, naturalmente, ma uno che poteva ampliare l'approccio del giornale ai molti problemi complessi che la Chiesa moderna doveva affrontare. Un secondo commentatore ortodosso scomparve dal giornale il mese successivo. In tutto questo tempo, Smith cominciò a capire quello che era successo. Stava trascorrendo il suo congedo in un monastero benedettino nel deserto degli Stati Uniti sud-occidentali. Da qui scrisse all'arcivescovo per protestare. L'arcivescovo replicò di non essere completamente d'accordo con la direzione presa dal nuovo comitato editoriale, ma che non sarebbe stato «opportuno» per lui usare la propria autorità episcopale per interferire. Il direttore ad interim stava solo sperimentando, spiegò, e presto il giornale avrebbe trovato il suo equilibrio. Padre Smith avrebbe dovuto concedergli un'opportunità. Il direttore ad interim era considerato un ottimo amministratore e un teologo eccellente. Anche suor *** stava facendo un ottimo lavoro nel tenere lontani dal giornale i ribelli più estremi. Tutti e due, insieme, stavano riportando il giornale al centro. Delegare l'autorità non era un atto semplice, e dopo tutto era l'epoca del laicato. A quel punto, Smith sentì venir meno la carità. Fece una cosa imprudente. Buttò giù una risposta rabbiosa, che mal si conciliava con il carattere di un uomo così gentile. Fece notare che l'arcivescovo non aveva tenuto conto del suo suggerimento. Non lo aveva sostenuto nella sua lotta con il proprio superiore. Aveva interferito. Inoltre, il giornale era sempre stato collo-
cato al centro - il vero centro - fino a quando si era insediata la nuova direzione. L'arcivescovo non vedeva il danno spirituale che veniva fatto dall'attuale linea editoriale? L'arcivescovo non si rendeva conto di usare metri di giudizio differenti? Forse l'arcivescovo era segretamente d'accordo con i dissidenti. Forse Sua Eccellenza stava usando i laici come strumento di dissenso, senza sporcarsi direttamente le mani. Si sentiva tradito, diceva, e l'arcivescovo non aveva svolto un ruolo secondario nel tradimento. Firmò la lettera e la spedì. Una settimana più tardi il prete ricevette istruzioni dal suo superiore, accompagnate da una lettera stringata di conferma da parte dell'ufficio per le comunicazioni dell'arcivescovo, che lo informava che si sarebbe dovuto recare immediatamente in un posto della California chiamato "Centro Acquario per il Paradigma Spirituale" per un lungo periodo di «riposo e rinnovamento». Lesse e rilesse l'ordine. Aquinate? No, Acquario! Il prete sapeva che quel centro era stato fondato allo scopo di rieducare preti problematici che non si erano adattati «allo spirito del Vaticano II». Tempo prima un suo amico aveva passato lì alcuni anni e durante l'internamento, partecipando a una terapia di gruppo, era stato invitato a descrivere le sue fantasie sessuali più degradanti. Una suora, con indosso solo un vestito nero aderente e al collo un medaglione d'argento di una dea della luna, aveva "agevolato" la seduta. Quando le raccontò di non avere fantasie sessuali degradanti e di non aver sentito il benché minimo bisogno di coltivare alcun genere di fantasie sessuali, dato che tali fantasie erano espressamente proibite da Cristo e dagli insegnamenti della Chiesa, la suora gli lanciò uno sguardo di commiserazione. Non gli credeva. «Mi piace il whiskey», il prete offrì timidamente in contraccambio. «Forse persino troppo». L'amico di Smith aveva partecipato ad alcune delle sedute terapeutiche, ma solo per ottenere un buon voto, per così dire. Aveva sperato di venir rimandato nella sua diocesi il più presto possibile. Una volta non più «disfunzionale», avrebbe vissuto il resto dei suoi anni tranquillamente - molto tranquillamente - amministrando una povera parrocchia del centro città. Quando venne avviato a una nuova terapia chiamata yoga christokundalini, che apparentemente lo avrebbe aiutato a mettersi in contatto con lo spirito serpente attorcigliato alla base della sua spina dorsale, ignorò le sue paure istintive. Obbedì come un agnello, ma cominciò a sentire che le tenebre si diffondevano nella sua vita interiore e perse il gusto per la preghiera. Quando alla fine provò ripulsa per la messa, uno stato d'animo che
non aveva mai provato prima, divenne ancora più confuso e si domandò se ci fosse qualcosa di serio che non andava nella sua testa, qualcosa che richiedeva una terapia più intensiva. Dopo si gettò a capofitto in tutti i programmi. Una sera lui e gli altri preti ebbero l'ordine di ballonzolare intorno a un falò vestiti solo di minuscoli costumi da bagno, con in testa corna di cervo. Vennero incoraggiati a emettere grida ataviche che salivano dalla base della spina dorsale. L'amico di Smith esitò. Quanto vide i suoi confratelli preti barrire e sbraitare sotto le stelle, qualcosa si spezzò dentro di lui. Si strappò via le corna, andò nella sua stanza, fece la valigia e camminò per tre ore nel silenzio della notte fino alla più vicina stazione degli autobus. Tornò a casa dai suoi genitori, dormì per un giorno intero, bevve parecchi quarti di whiskey uno dopo l'altro e quando gli si schiarì la testa, uscì a cercare un lavoro. Non tornò più al ministero attivo. Smith telefonò all'arcivescovo ed ebbe con lui uno scambio di opinioni molto acceso. Un comportamento veramente strano per questo prete dai modi gentili. Pregò l'arcivescovo di riconsiderare il suo ordine. L'arcivescovo si rifiutò. Smith descrisse le procedure ridicole a cui i preti erano obbligati a sottoporsi. L'arcivescovo replicò che il CAPS godeva di grande considerazione presso molti vescovi. Se era capitato un episodio così assurdo, si trattava sicuramente di un incidente isolato e probabilmente era stato gonfiato dall'amico di Smith, che dopo tutto era sicuramente un prete con dei problemi, considerando quello che aveva fatto (o non fatto) successivamente. Persino così, Smith confermò di non essere d'accordo. L'arcivescovo obiettò, ma offrì un'alternativa. C'era un altro centro per ritiri spirituali nel nord-est degli Stati Uniti, dove l'approccio non era così "creativo" - parole dell'arcivescovo - e che offriva una forma più classica di assistenza psicologica. Era dotato di personale molto competente, «gente estremamente fidata». Smith sarebbe stato d'accordo con questa proposta? Smith chiese del tempo per pensarci sopra. «Ha ventiquattr'ore», disse l'arcivescovo. «Ventiquattr'ore!», tuonò Smith. «Non mi può dare più tempo? Perché, visto che agli eretici e agli scismatici il Vaticano concede anni per riconsiderare i loro errori?». «Ventiquattr'ore», ribadì l'arcivescovo e riappese. Smith contattò in tutta fretta una giornalista di una città vicina al centro
per ritiri spirituali di tipo "classico", una donna che era stata allontanata dal giornale alcuni mesi prima. Era madre di otto figli e possedeva un gran buon senso. «Cosa mi può dire di quel posto?», chiese Smith. «È un punto di raccolta per pedofili, drogati e altri psicopatici del mondo ecclesiastico», lo informò. «Vada lì, padre, e lei sarà marchiato a vita». «L'arcivescovo dice che è un posto del tutto riservato, estremamente discreto». «Oh sì, non ne dubito... Ma mi spieghi perché conosco così tanta gente che vi ha fatto una visitina?». «Non lo so. Per la compagnia di cui lei si circonda?». «Non c'è niente da ridere. Lei può fare quello che ritiene meglio, padre, ma le sto dicendo che è una sorta di "qualcuno volò sul nido del cuculo" in versione suoresca. Analisi del profondo di stile junghiano, pseudo-liturgie, auto-rivelazione e auto-ossessione, pensiero della "nuova Chiesa" mescolato a idee buone. Nel corso della terapia lei dovrà smontare la sua psiche pezzo per pezzo come una vecchia moto e rimetterla insieme sotto la direzione delle suore. Hanno conseguito tante di quelle lauree da non sapere che farsene. Sanno tutto di tipi come lei. Hanno voci dolci e occhi penetranti. Parlano sottovoce. Sono anche religiose, a modo loro. Nessuno le farà passare le forche caudine o la obbligherà a regredire allo stadio anale. Ma l'avverto, non uscirà uguale a come è entrato». «Non è molto rassicurante». «Non è pensato per esserlo». «Che cosa devo fare?». «Penso che lei dovrebbe venire qui a passare alcuni mesi con Bob, me e i bambini. Se i pannolini e i maccheroni non la faranno impazzire, la dichiareremo un essere umano perfettamente a posto e la rimanderemo al suo arcivescovo sano come un pesce». «Sono già sano come un pesce», disse Smith tutto serio. «Lo so, lo so, stavo solo scherzando». «Non c'è niente da ridere». A quel punto Smith sapeva che cosa avrebbe fatto. Chiamò Elia. «Mi hanno messo con le spalle al muro, padre», disse senza traccia dell'accento britannico per cui era conosciuto. «Se vado in uno dei due centri di riabilitazione, non so cosa mi succederà. Potrei finire come il mio amico, o peggio. Forse mi ritroverei a gettare via le corna. Forse finirei per farmele piacere. E se vado nel centro di tipo classico, come lo chiamano
loro, potrei passare il resto della mia vita ad autoanalizzarmi. Alla fine diventerei un nevrotico cronico. D'altra parte, se mi rifiuto di andare in uno dei due posti, potrebbero usarmi come propaganda. Direbbero: "Vedete come sono davvero questi preti cosiddetti ortodossi. Non sono nemmeno capaci di ubbidire". Lo userebbero per giustificare il modo in cui hanno trattato tutta la questione». «Non si muova. Non faccia niente», disse Elia. «Il generale del suo ordine vive qui a Roma. Cercherò di ottenere un appuntamento con lui. Intanto, voglio che lei preghi come non ha mai pregato finora». «Va bene», disse Smith abbattuto. «Ma dubito che porterà a qualcosa di positivo. È una persona corretta, ma è anche un tipo estremamente gentile. E i tipi estremamente gentili non amano gli scontri. Non vorrà andare contro l'arcivescovo e soprattutto non vorrà mettersi contro i suoi sottoposti di qui. Delega di autorità, capisce?». «Allora dobbiamo pregare». Elia incontrò il generale dell'ordine il giorno successivo, spiegò la situazione e ottenne da lui l'assicurazione che avrebbe indagato sulla questione. Alla metà di luglio Elia ricevette una telefonata da Smith. «Lei ce l'ha fatta!», gridava. «Lei fa miracoli! Il generale ha detto al mio superiore che vuole trovare per me un centro di riabilitazione in Italia. Arriverò la prossima settimana». «Dove la manderanno?». «Questa è la parte migliore. Passerò la riabilitazione proprio nell'ufficio centrale di Roma. Il generale vuole che lavori al giornale internazionale dell'ordine. È tutto detto sottovoce, naturalmente. Sono un caso troppo politico per avere un ruolo visibile, pensa lui, ma vuole che sia il suo vicedirettore, senza il titolo. Si suppone che veda anche uno psichiatra, ma il generale mi ha detto confidenzialmente che pensa di potermi dispensare. È il suo modo di togliermi dai pasticci senza creare scalpore nell'ordine. È un tipo brillante». «Vede, la preghiera può ottenere tutto». «La preghiera e un certo padre Elia! Dio la benedica, amico mio. Dio la benedica». Ma Elia pensava si trattasse di una vittoria di Pirro. Smith era stato salvato, ma era stato anche allontanato dalla scena nordamericana. Il direttore ad interim era stato nominato direttore capo e coeditore. Nei mesi successivi, The Catholic Times aveva indirizzato l'attenzione dei suoi lettori verso una visione del mondo nuova e apparentemente "più aperta". Passo do-
po passo, in modo inarrestabile, li aveva condotti a una nuova idea di Chiesa. All'inizio era stato attento a impacchettare ogni numero con una gran quantità di notizie relative a eventi locali, dimostrando così ai lettori che niente era cambiato nella vita quotidiana delle parrocchie, e rassicurandoli. A poco a poco aveva introdotto servizi su incontri, eventi giornalistici, conferenze stampa che fornivano una piattaforma pubblica ai dissidenti. Ogni numero aumentava la temperatura di un grado. Leggendo The Catholic Times, si aveva l'impressione che dovunque i cattolici fremessero per ricreare la Chiesa da cima a fondo. Il giornale dava sempre più spazio alle dichiarazioni delle associazioni teologiche. In toni misurati, i suoi cronisti riferivano le critiche al papa e ai vari dicasteri vaticani, come se fossero temi nuovi di grande portata. La rubrica che riportava le parole del Santo Padre, e che una volta occupava una pagina intera di ogni numero, diminuì costantemente, fino a occupare un ottavo della pagina, sepolta nel mezzo, incastrata fra pubblicità per statue che brillavano al buio e pellegrinaggi "tutto compreso" in Terra Santa. Molto spazio era dedicato alle dichiarazioni di varie conferenze episcopali e dei loro staff, e di un numero sempre crescente di organizzazioni che sembravano premere per «riformare la Chiesa». Otto mesi dopo averne preso il controllo, il nuovo direttore aveva trasformato uno dei settimanali cattolici più diffusi dell'emisfero occidentale in un potente strumento di indottrinamento, e nessuno sembrava esserne consapevole. Centinaia di migliaia di cattolici fedeli si impregnarono del suo concetto di Chiesa. Era "impressionismo" su larga scala e rappresentava un clamoroso successo. Dall'inizio della crisi legata a Smith, Elia aveva seguito i cambiamenti da vicino. Ai primi di agosto si era annotato i titoli dell'ultimo numero: Roma respinge la Bibbia usata nei Paesi di lingua inglese; La Conferenza Mondiale sulla Vita Religiosa richiede un maggiore coinvolgimento delle donne nella legislazione ecclesiale; Nonostante la condanna di Roma, il nuovo lezionario rimane in uso in attesa di chiarimenti, dice la Conferenza episcopale; L'educazione cattolica deve mostrare maggiore sensibilità verso temi inclusivi; Basta alla discriminazione contro le donne, dice un arcivescovo al sinodo; I vescovi tedeschi protestano contro il rifiuto del Vaticano di concedere la comunione alle coppie divorziate; Sono necessarie nuove forme di spiritualità nella Chiesa occidentale; Come affron-
tare gli abusi sessuali dei preti; Nella Chiesa è necessaria la democrazia, dice la Conferenza dei leader delle organizzazioni laicali... E così via. In quel singolo numero, c'erano tredici articoli che mettevano in cattiva luce la Chiesa universale e dimostravano la presunta vitalità delle Chiese locali. C'erano cinque articoli che potevano essere interpretati alla lontana come ortodossi. Erano brevi e insulsi. Chiaramente, erano stati usati come riempitivo o, peggio, come prova di arretratezza. C'erano anche due stralci dai discorsi pubblici del papa. Elia aveva letto quei particolari discorsi, sapeva che erano profetici e pervasi da chiarezza di linguaggio, dinamismo morale e passione. Il giornale aveva ignorato la sostanza e aveva estratto le proposizioni più anodine, praticamente prive di senso se lette fuori dal contesto. Tecnicamente parlando, il giornale non poteva essere criticato per comportamento sleale; ma in realtà, era in prima linea nella rivolta. Elia si domandava che cosa sarebbe successo dopo. La risposta lo raggiunse sotto la forma di un padre Smith terribilmente agitato che lo aspettava sul portone del collegio, sventolando l'ultimo numero. Aveva gli occhi fuori dalle orbite. «Dove possiamo andare a parlare?», disse a denti stretti. «In privato», aggiunse. «Non qui», disse Elia. Seduti uno di fronte all'altro in un caffè all'aperto vicino al Tevere, bevendo del caffè nero, i due preti lessero il titolo a tutta pagina: «I dottori dichiarano il papa inabile». «Ma è ridicolo», sussurrò Elia. «Lo so. Continui a leggere». L'articolo era stato scritto da un gruppo di medici, due negli Stati Uniti, uno in Olanda, e un altro in Gran Bretagna, che avevano studiato i discorsi recenti del Santo Padre, le sue decisioni di governo durante lo scorso anno e i video delle sue apparizioni pubbliche. I dottori concordavano che il papa manifestasse segni di declino che sconfinavano in una leggera paranoia. Citando come prova la sua diffidenza nei confronti di vescovi leali e le sue riflessioni velatamente apocalittiche, suggerivano che gli venisse concesso un periodo di riposo per il resto del pontificato. Anche la sua salute fisica era andata sicuramente peggiorando. Inoltre, mostrava quelli che erano sicuramente i primi sintomi dell'Alzheimer. Poi c'era il suo noto comporta-
mento collerico verso i collaboratori del Vaticano, la sua incapacità a tollerare il dissenso, la sua crescente distanza dalla voce del popolo. La voce del popolo, concludevano i dottori, era nella stragrande maggioranza a favore di un ripensamento generale del carisma papale. Non era ragionevole, nell'epoca postconciliare, aspettarsi dal vescovo di Roma lo stesso senso di responsabilità che veniva richiesta ai vescovi del mondo? «Non ci credo», disse Elia. «E non dovrebbe farlo», disse Smith. «È un imbroglio dall'inizio alla fine. Il papa è una persona anziana, ma spero di avere la metà delle sue capacità quando avrò la sua età». «I suoi medici personali non hanno niente da dire in proposito?». «Negano tutto. Anche l'Ufficio stampa del Vaticano lo nega. Dicono che sia una speculazione priva di fondamento e inesatta». «L'articolo riferisce le loro affermazioni. Sembra alquanto equilibrato». «Oh, sì, si tratta di cosmesi giornalistica, appoggiarsi sull'illusione dell'obiettività. Ora possono sostenere di avere fornito tutti gli aspetti della storia, ma quello che hanno davvero ottenuto è di suscitare un enorme dubbio nelle menti dei fedeli. È un classico caso di "gradualismo"». «Che culmina in una menzogna». «Esattamente. È diabolico». «Forse. È anche alquanto umano». «Elia, glielo dico, ne ho abbastanza. Voglio andare via, da qualche parte, e trovare un bel monastero tranquillo, ma, è sicuro come l'oro, verrebbe fuori che l'abate è un modernista non dichiarato. Dio, sono così stanco di tutto questo». «Come vanno le cose nell'ufficio del generale?». «Tiene la bocca cucita. Si può dire che la cosa lo disturba, ma non vuole piantare grane. Continua a sorridere e sorridere a chiunque si presenti, e parla piano piano di piccoli rimedi per mantenere la pace e non farsi prendere dall'ansia. Al diavolo, sono ansioso!». «Non dovrebbe». «Che cosa?», ringhiò Smith. «Non mi dica che anche lei è stato contagiato da questo virus?». «Nient'affatto, ma so che se il nemico non riesce a intrappolarci nell'errore, può raggiungere un altro genere di vittoria facendoci perdere la tranquillità. Se riesce a spingerci alla rabbia, ci ha attirato nei suoi piani». «Che cosa suggerisce?». «Ritrovi il suo equilibrio. Preghi per il Santo Padre. Perdoni i nostri ne-
mici, dica la verità in modo sincero e tranquillo ogni volta che ne ha occasione. Ma sorvegli i cancelli del suo cuore, padre. Li sorvegli attentamente». Il prete abbassò lo sguardo. «Lei ha ragione», disse. Elia si allungò e gli diede un colpetto sul petto: «Il suo dolore diventa una preghiera potente quando si unisce alla Croce di Cristo, che sta soffrendo nella Chiesa». Smith non disse niente. Gli si inumidirono gli occhi. «Bene, probabilmente non durerà a lungo. Il generale pensa di aver fatto un errore facendomi venire qui. Ne sono sicuro. Il mio nome non compare su nessun documento ufficiale. Mi tengono nascosto come se procurassi imbarazzo. Lavoro in un ufficio del seminterrato tutto il giorno, e mi occupo dei testi più innocui. Sono stato incaricato di espungere ogni riferimento che possa suscitare una controversia. Il risultato è un budino alla crema così terribilmente insipido e privo di sostanze nutritive che non merita nemmeno il nome di giornalismo cattolico. Sto seduto lì giorno dopo giorno a tagliare via ogni nota di virilità da quegli articoli. Veniamo neutralizzati, Elia, e non mi piace. Non mi piace per niente». «Lei è arrabbiato». «Naturalmente sono arrabbiato! Non dovrei?». «Penso che sia salutare essere arrabbiati per quello che sta succedendo. Il problema vero è che cosa fare con la nostra rabbia». «Molto saggio», disse Smith in modo sarcastico, la sua faccia gentile deformata dall'amarezza. «Riesce a prendere la rabbia e a trasformarla in preghiera? Riesce a prendere i colpi del nemico e a girarli contro di lui?». «Messo in questo modo, suppongo che ci sia un qualche merito nello stare nel seminterrato». «Lo consideri una catacomba». Per la prima volta il volto di Smith si rilassò e rivelò un sorriso riluttante. «Voi frati, siete incredibili». «Pensa che io non combatta con la rabbia?». «Lei? Il mio direttore spirituale e il mio mentore? Non mi dica che sotto la sua aria imperturbabile batte un cuore inquieto». «È proprio così». L'umore di Smith migliorò visibilmente. «Questa è una buona notizia. Ora mi dica, che cosa fa lei quando avverte
quegli impulsi inquieti?». «Proprio quello che le ho suggerito. Cerco di convertirli. Di farne il combustibile della preghiera». «Hmmmm. Non è una cattiva idea. Funziona?». «L'ho tirata fuori da un costume da bagno e l'ho messa nel seminterrato». «Va bene, lei ha vinto questo round», Smith si mise a ridere. «Senza di lei e senza il Signore, probabilmente in questo momento starei a saltellare in giro con le corna di cervo in testa». I due preti finirono i loro caffè, lasciarono alcune monete sul tavolo e fecero quattro passi lungo il Tevere, fino a quando non arrivarono a una fermata dell'autobus. «Farei meglio a tornare. Mi tengono sotto stretto controllo al quartier generale. Sono ancora ufficialmente disfunzionale e non voglio che il generale si preoccupi. Si è già preso delle belle critiche per avermi fatto venire qui». «Non sembra una cattiva persona». «Questo è il problema, no? È un uomo buono, ma non ha coraggio. Ben pochi hanno coraggio al giorno d'oggi. Questa è la cosa avvilente. Nessuno vuole fermare questi tipi che mirano al potere. Nessuno riesce a sopportare di essere criticato. Sono tutti paralizzati». «Il papa sta facendo del suo meglio. Ci sono molti cardinali fedeli. Cercano di mantenere la pace e continuano a richiamare la gente alla realtà». «La realtà? Ho quasi dimenticato che cosa sia. Mi rinfreschi la memoria». «Annunciare il Vangelo, insegnare, dare da mangiare, proteggere... e adeguarsi all'immagine di Colui che ha portato la Croce ed è morto su di essa». Smith abbassò la testa, meditando tra sé e sé, fino a quando non arrivò l'autobus e non lo portò via. *** Durante il resto dell'estate, Elia riprese i suoi studi sulla letteratura apocalittica. Mentre stava ispezionando alcune pile di libri nella biblioteca dei carmelitani, si imbatté in una edizione in fac-simile di un commento al libro dell'Apocalisse di un monaco spagnolo dell'VIII secolo di nome Beato di Liébana. Beato aveva scritto il testo del suo commento durante gli scon-
volgimenti dell'occupazione araba. Un artista del X secolo, di nome Maius, un monaco del monastero di San Michele, lo aveva miniato con i colori sgargianti e l'iconografia assolutamente inconfondibile della Spagna medievale. Le immagini erano sfolgoranti. Draghi color porpora attorcigliati attorno alle città dell'uomo, di colore giallo acido. Serafini di smeraldo punteggiavano il disco azzurro del cosmo. Scorpioni color indaco pungevano le loro vittime. Gli arcangeli scendevano a frotte giù dai cieli, con le spade spiegate, illuminate da una luce abbagliante. I giardini esplodevano di frutti maturi, le scuri cadevano, le teste rotolavano via dai corpi dei martiri come la raccolta in un frutteto. Il sangue zampillava, le interiora uscivano. Fiumi di inchiostro fluivano dalle bocche dei serpenti. Le trombe soffiavano. Il messaggero alla Chiesa di Sardi aveva un'espressione accigliata mentre ammoniva: «Porti il nome di vivente e invece sei morto. Sii vigilante e da' vigore a quanto resta». Ancora più trombe soffiarono. Sangue! Fuoco! Diluvio! Due monaci rendevano testimonianza contro l'Anticristo. Una luce dorata e calda usciva dalle loro labbra. L'Anticristo li uccideva, mentre i suoi servi demolivano Gerusalemme, pietra su pietra. Sospeso sopra tutto questo, il volto fiero di Cristo in trono, in attesa dell'Ultimo Giorno, il Giorno del giudizio, molto più terrificante della bestia che divorava la carne color rubino dei santi. Il testo era penetrante e di interesse storico. Ma Elia fu commosso soprattutto dal colofone inserito alla fine del manoscritto: Che la voce del fedele risuoni e riecheggi! Che Maius, certo piccolo, ma zelante, gioisca, canti, riecheggi e gridi! Ricordatevi di me, servi di Cristo, voi che abitate nel monastero del sommo messaggero, l'Arcangelo Michele. Scrivo questo nel timore del sommo patrono, e su ordine dell'abate Vittore, per amore del libro della visione di Giovanni il discepolo. Come parte della sua decorazione ho dipinto una serie di immagini che illustrino le parole meravigliose delle sue storie, perché il saggio tema la venuta del giudizio futuro alla fine del mondo. Gloria al Padre e al Suo unico Figlio, allo Spirito Santo e alla Trinità nei secoli dei secoli fino alla fine del tempo.
La prima volta Elia aveva sorvolato sul gioco di parole nel colofone, ma poi ci tornò sopra: il riferimento a quel «certo piccolo» non sottolineava l'umiltà dello scrivano, soprattutto se paragonato al nome dell'artista, Maius, letteralmente «più grande». Era uno scherzo, e un altro monaco, mille anni dopo, ci stava ridendo sopra. Elia notò, inoltre, che l'apocalisse di Beato era riemersa dal caos della Spagna moresca nella stessa epoca delle copie di Aristotele di Averroè. Si ricordò che Dio è sempre più avanti rispetto agli stratagemmi diabolici e umani. Si domandò anche perché il senno di poi sembrasse l'unica facoltà per discernere le vie della divina Provvidenza. Quando l'estate finì, Elia mise da parte l'Apocalisse di Beato e si accinse a preparare i suoi corsi. Di giorno in giorno entrava in una condizione di pace che sospettava fosse il risultato delle preghiere invisibili offerte per lui in tutto il mondo. Pieno di rimorso, era più convinto che mai che la sua missione fosse fallita, sebbene non avesse detto nulla al cardinale segretario di Stato a questo proposito. Era rassegnato a rimanere a Roma indefinitamente, forse persino a passare il resto della sua vita a insegnare al collegio internazionale, ma segretamente sperava di ritornare nel deserto. A un certo punto, il papa, Stato e Dottrina avrebbero capito che sarebbe stato necessario provare altre strade di approccio al presidente. Chiaramente, la lettera di ammonimento non aveva suscitato nessuna risposta. Sebbene fosse stata formulata con tatto e fornisse elementi primari di comprensione senza nessun confronto diretto, il presidente avrebbe certamente capito il suo significato: lo spirito di Cristo era in conflitto con l'impegno per ottenere una posizione di prestigio nella vita. Quasi certamente il presidente lo aveva cancellato dalla lista dei potenziali seguaci. Con tutta probabilità, Elia non sarebbe più stato invitato alla presenza del Grande Uomo. Questa convinzione interiore - o più precisamente questa speranza - gli diede un immenso senso di sollievo. Durante la settimana prima dell'inizio delle lezioni, la sua relativa tranquillità venne disturbata da una lettera di Anna Benedetti. Foligno, 2 settembre Caro padre Schäfer, il nostro incontro a Varsavia mi ha colpito molto. Ripensandoci, c'è così tanto che vorrei discutere con Lei. Ho una casa vicino a Foligno, dove è possibile ricevere ospiti senza il solito stress legato alle cerimonie pubbliche. Mi farebbe grande onore se accon-
sentisse a farmi visita. Mio figlio Marco e mia figlia Gianna ritorneranno a Milano la prossima settimana. Prima che partano, mi piacerebbe che Lei li conoscesse. Penso che ricorderebbe loro il padre, la cui assenza ha lasciato un vuoto nelle loro vite. Il prossimo weekend andrebbe bene per Lei? Se è d'accordo, Le manderò una macchina. Sinceramente, Anna B. Combatté con sentimenti contrastanti per alcune ore prima di scrivere la risposta: Roma, 6 settembre Cara dott.ssa Benedetti, Cancellò il titolo formale e cominciò di nuovo. Cara Anna, il Suo invito mi onora immensamente. Mi piacerebbe venire a conoscere i Suoi figli. Tuttavia, le responsabilità legate all'inizio dell'anno accademico mi impediscono di accettare. Il nostro incontro a Varsavia è stato importante anche per me. L'ammirerò sempre e continuerò a pregare per Lei. Sinceramente, padre Elia Schäfer Elia sperava che il tono fosse cordiale, sufficientemente caloroso, ma distaccato. Sperava che Anna leggesse il segnale nel modo adeguato e che non lo avvicinasse più. Aveva collocato il suo ricordo accanto a quelli di Ruth e Pawel, accanto ai molti che amava e che sarebbero rimasti al di fuori dei parametri del suo sacrificio, fino a quando non li incontrasse di nuovo in Paradiso, dove tutto l'amore trova completamento e perfezione. Portava troppe ferite, soffriva gli impulsi di un bisogno troppo grande per fidarsi del suo cuore in presenza di Anna. Si comportava in modo falso?, si domandò. Ma quale era la verità, soprattutto quando era coinvolto il cuore? Non sarebbe stato più onesto dirle: "Sono attirato da te, Anna, ma la mia vita appartiene a un altro, Uno a cui tu non credi?". Come avrebbe fatto a capirlo?
La amava. Certo, lo ammetteva. Senza rendersene conto, aveva permesso che il suo volto, la sua voce e la sua anima gli diventassero familiari. Amava anche Cristo. E sapeva che, se amava nel modo più profondo e divino, non doveva abbandonare il carattere indelebile della sua vita, la sua condizione celibataria di sacerdote ordinato, segno escatologico della fine della storia. Avrebbe portato così nella sua stessa carne una parola relativa all'obiettivo finale dell'amore, il compimento ultimo a cui mirava ogni amore umano, e di cui ogni amore umano non era all'altezza su questa terra. "In paradiso", le avrebbe detto, "in paradiso noi...". Eccolo qui, disse a se stesso con rabbia, stava di nuovo avendo una conversazione con Anna. Si rese conto che la sua immaginazione era scossa. Se non l'avesse frenata all'istante, sarebbe stata infiammata da sentimenti incontrollati. Nella risposta aveva detto la verità. La ammirava davvero. Avrebbe pregato per lei - non c'erano dubbi in proposito - fino alla fine della vita. Ma aveva bisogno di prendere le distanze. Aveva bisogno di ritirarsi nel deserto il prima possibile. Aveva appena allontanato questo tema dalla sua mente, quanto arrivò un'altra lettera. Foligno, 9 settembre Caro padre Schäfer, capisco perfettamente la Sua posizione. Le assicuro che il mio rispetto per Lei è totale, questo include il vincolo della Sua vita. Ci sono poche persone di cui mi posso fidare al momento. Ancora meno sono quelle sagge. Ho un grande bisogno e la questione è urgente. Ci vorrebbe ripensare? Le assicuro la Sua libertà. Sinceramente, Anna Benedetti Lei gli assicurava la sua libertà? Che cosa intendeva dire? Aveva letto in modo corretto quei frammenti di lui che erano scivolati fuori tra le righe della sua risposta concisa e aveva dedotto il resto? Se fosse stato così, la situazione era più impossibile che mai. Non poteva andare. D'altro canto, si trattava di un'anima, forse di un'anima in difficoltà. Fino a quel momento, Anna gli era sembrata il genere di persona che non concede a se stessa di provare difficoltà. Ricchezza, educazione, condizione sociale: si trattava di un'armatura impenetrabile. Chi o che cosa avrebbe
potuto affliggerla? Che cosa intendeva con bisogno e urgente? Stava ancora lottando con se stesso, quando il portiere arrivò e gli disse che c'era una telefonata per lui. «Buon giorno», disse Anna. «Ha ricevuto la mia lettera?». «Sì». «Può venire?». «È difficile». «La prego». «La Sua lettera non spiegava niente. È in difficoltà?». «Sì». «Che genere di difficoltà?». «Non è possibile parlarne ora». «Un pericolo?». «In parte. La prego». La sua voce era calma, ma insistente. «Davvero, Anna, ci devono essere altre persone a cui si può rivolgere. Non c'è nessuno che...?». «Riguarda anche Lei». Fra di loro rimase sospeso il silenzio. Parecchie volte Elia aprì la bocca e la chiuse di nuovo. Provava timore ed euforia. «E riguarda anche la Sua Chiesa». «La Chiesa?». «Non posso parlarne ora. La prego, deve venire». «Va bene. Verrò. Quando?». «Domani mio figlio verrà a Roma per affari di famiglia. La verrà a prendere al collegio domani sera e la porterà alla casa di campagna». «Va bene». Il sospiro di sollievo di Anna era percepibile, e sconcertante. «Se si trova in pericolo, perché non posso venire adesso?». «Sarebbe meglio se Lei viaggiasse con Marco. Le chiedo solo di non parlarne con lui. Non sa niente». «Niente di cosa?». «Ho tenuto i miei figli all'oscuro delle... delle difficoltà della mia vita. La prego di non minare la loro felicità». «Anna, Lei mi deve dire...». «Non posso. Più tardi capirà». Riappese. Trovò Foligno su una cartina geografica dell'Italia appesa nel corridoio della guardiola del portinaio. Era poco più a sud di Assisi. Era provviden-
ziale, perché da tempo desiderava rivedere padre Matteo. Aveva scritto spesso al frate durante l'estate, ma non aveva mai ottenuto risposta. Aveva chiamato due volte il convento, ma ogni volta gli era stato detto che padre Matteo era malato e non poteva ricevere visite. Nonostante questo, Elia decise di cercare di vederlo durante il successivo weekend. 16 Foligno Dopo la cena di venerdì sera, Elia si vestì sportivo, con una camicia bianca e una giacca a vento, su richiesta del priore, che era preoccupato per l'aumento di incidenti anticlericali nelle campagne. Pregava il breviario, camminando avanti e indietro sul marciapiede davanti al collegio. Una macchina sportiva rossa si fermò sul bordo e saltò fuori il guidatore, un uomo giovane e agile. «Lei è l'amico di mamma», disse levandosi gli occhiali da sole e stringendo la mano di Elia in modo vigoroso. «Mi chiamo Marco. Pronto per un viaggio nello spazio?». «Pronto a tutto», rispose Elia ricambiando il sorriso. Marco guidava con totale sprezzo per la realtà della morte. Presto furono fuori città, correndo a tutta velocità sull'autostrada che portava verso Firenze. Chiacchierarono di cose irrilevanti, fino a quando il ragazzo disse: «Lei è un prete». «Sì. Da che cosa lo deduci?». «Non dai vestiti sportivi. Ma si vede». «Quali sono gli indizi?». «Niente che salti all'occhio. Suppongo sia qualcosa che si trasmette ai tipi come voi». «E tu, Marco? Che cosa vuoi fare nella vita?». «Studio legge. È nei geni». Gettò uno sguardo a Elia. «Anche tua sorella studia legge?». «No, Gianna studia medicina». «Anche quello è nei geni?». «Lei è una mutante. La pecora nera della famiglia». «Non vedo l'ora di conoscerla». «Le piacerà. È sensibile, come la mamma». «E tu non lo sei?».
«No, suppongo di no», disse allegramente. Il sole stava tramontando, quando imboccarono una statale diretta a est che andava a finire tra le colline umbre. «Ci saranno molti ospiti?». «Non penso. Per quanto ne so, lei è l'unico». «La casa di Foligno deve essere molto importante per voi». «Ci passiamo l'estate e il Natale». «Fate tutti e tre un bel viaggio per arrivarci». «Milano non è così lontana». «È un viaggio lungo per vostra madre». «È arrivata in aereo dall'Aja. Lei vola dappertutto. Abbiamo case in Francia e Belgio, e un palazzo a Roma. Ma Foligno è la residenza migliore». «È la più bella?». «Sì. Sarà sorpreso di quanto è bella. È pomposa!». «Pomposa? Più del palazzo?». «Molto di più. È splendida. È opulenta». «Più di quelle in Francia e in Belgio?». «Lei dimentica San Marino». «Più di quella a San Marino?». «Ancora meglio. È un castello». Elia iniziò a domandarsi come avrebbe fatto a godersi quel weekend. Non si sentiva a suo agio nelle residenze opulente. «Come sta tua madre?». Ci fu una pausa appena percepibile, prima che Marco rispondesse. «È davvero molto stanca. Sono contento che abbia compagnia questo weekend. Ha bisogno di un cambiamento». «Davvero? In che senso?». «Mamma fa troppe cose. Naturalmente è famosa. Tante belle qualità e tutto il resto, ma...». «Ma?». «Guardi», disse Marco distraendo Elia. «Quella è Terni. Dopo Terni proseguiremo verso nord e poi non mancherà molto». Quarantacinque minuti più tardi, la macchina svoltò in una strada sterrata che proseguiva su per una collina coperta di vigneti. Rallentando un po', il ragazzo aprì con un telecomando un cancello che apparve di fronte a loro e se lo chiuse dietro. Cinque minuti più tardi, frenò di fronte a una piccola casa di campagna, ricoperta di piante rampicanti.
«Il nostro castello», disse Marco facendo un gran sorriso. Elia scese dalla macchina e lo guardò. «Questa è vera opulenza!», disse. Il ragazzo fece una risata di gratitudine. L'ingresso principale si aprì, e Anna uscì sui gradini di pietra dissestati. «Padre Schäfer», disse con gentilezza. «È sopravvissuto. Grazie, Marco». «Non è niente, mamma. È un tipo tosto». «Marco è molto duro con i nostri ospiti. Ha accorciato la vita a molti di loro». Anna li fece accomodare. Entrarono in un salotto ammobiliato con antico mobilio italiano, tipico delle case di campagna, che sembrava autentico. E passarono in una grande cucina illuminata da una lampada a petrolio e da candele. In piedi presso la stufa a legna, una giovane donna molto carina mise un mestolo in una pentola che bolliva e si asciugò la mano nel grembiule. Si avvicinò con un sorriso incantevole e strinse la mano a Elia. «Questa è Gianna. Padre Schäfer». «Sono molto felice di conoscerla, padre. Spero che le piaccia questo posto. È piuttosto semplice». «Sono le cose che mi piacciono di più». «Era la casa di famiglia di mia madre», disse Anna. «È nata in una camera da letto di sopra. Il mio bisnonno ha costruito questa casa per la sua sposa nel XVIII secolo». «I promessi sposi», disse Elia. I tre italiani si guardarono e scoppiarono a ridere. «Mi piace», disse Marco. «Può restare». «Com'è gentile da parte tua», disse Gianna, dandogli un colpetto sulle costole. Il fratello e la sorella lottarono per qualche secondo, fino a quando il ragazzo si liberò della sorella e si diresse alle scale. «Sono a pezzi», disse salendo. «Devo partire allo spuntare dell'alba. Buona notte a tutti!». «Va in barca a vela sull'Adriatico domani», spiegò Anna. «Mamma, perché non andate in salotto a bere un goccio di vino? I cannelloni saranno pronti fra poco. Vi chiamo io». Andarono nel soggiorno con i bicchieri. Anna si sedette di fronte a lui. «Ha dei figli meravigliosi», disse Elia. «Grazie». «Gianna Le assomiglia così tanto». «Per me è più una sorella che una figlia. È sempre stata matura, persino
da bambina». «Anche Marco è così affabile... proprio un ragazzo gentile e simpatico». «È la delizia del mio cuore. Ma è anche un po' viziato». «Deve essere stato difficile crescerli da sola». Anna abbassò lo sguardo mentre beveva un sorso di vino. «Assomiglia a suo padre?». «Sì. Gli assomiglia tantissimo». «Anna, Lei sembrava preoccupata al telefono». «Ne parliamo più tardi. Non voglio che Gianna senta». Chiacchierarono fino a quando Gianna non li chiamò a cena. Lei e sua madre fecero un pasto completo. Elia, che aveva mangiato a Roma, piluccò dal suo piatto. Gianna gli fece delle domande su Israele. Disse che avrebbe voluto lavorare in un kibbutz dopo la laurea. Elia raccontò alcune storie divertenti, centellinarono il vino. Alla fine la ragazza sbadigliò, diede un bacio a sua madre, augurò la buona notte e andò di sopra. Anna guardò Elia dall'altro lato del tavolo. «Lei è stanco», gli disse. «Sì. Ma non riuscirei a dormire se non so che cosa La preoccupa». «Non dormirà, se glielo racconto». «Se posso scegliere, preferirei saperlo questa sera». «È complicato. Ci metterò molto a raccontarlo». «Allora dovremmo cominciare». Gli occhi di Anna si rannuvolarono, e strinse le labbra. «A causa del mio lavoro ho sviluppato uno schema mentale analitico. Cerco di attenermi sempre alla logica e alla legge. Questo almeno dovrebbe essere ovvio». «In effetti, lo è». «Non sono una donna sentimentale. Sono sempre stata - come posso spiegarlo? - cauta riguardo alle realtà non oggettive. Questo atteggiamento mi ha aiutato da giovane avvocato a impormi in un campo dominato dagli uomini. In quegli anni bisognava essere due volte più brava di un avvocato maschio per essere considerata capace la metà. Non succede più, ma quando ho cominciato il praticantato era ancora così. Quel periodo della mia vita è stato molto importante per me. Mi ha insegnato molto. Basta dire che sono diventata esperta nel proteggere le mie emozioni. Ho fatto carriera nella professione legale, e il risultato è il posto dove sono ora. Ho lavorato per questo. Penso di essermelo meritato. Ma ho pagato un prezzo. Ho eliminato dalla mia vita tutto quello che esulava dai confini precisi della razionalità. Ho perso la fede in Dio, nella Chiesa e nell'umanità come specie.
Sono arrivata a considerare la legge uno strumento di insegnamento e una protezione contro le forze irrazionali nella società. Poi ho conosciuto un altro giovane avvocato, Stefano Benedetti. Stava cominciando a essere influente nella Democrazia Cristiana. Veniva preparato per assumerne la guida. La politica italiana era confusa, corrotta. Stefano era onesto e molto, molto brillante. Un uomo integro di cui si diceva che entro dieci anni sarebbe potuto diventare presidente del Consiglio. È stato un periodo eccitante per noi. Eravamo felici. Gianna è nata durante il secondo anno di matrimonio e Marco è arrivato un anno dopo. La famiglia di Stefano è ricca. Non ci siamo mai trovati in difficoltà economiche. Avevamo le tate. Facevamo vacanze costose. La vita era piena e gratificante. Dopo aver partorito, riprendevo a lavorare entro pochi mesi. Salivamo e salivamo, senza i graffi e le manipolazioni che di solito sono legati a quel genere di vita. Tutto sembrava facile. Eravamo la coppia d'oro. Poi una sera del 1982 Stefano ha lasciato il suo ufficio e non è mai arrivato a casa. È semplicemente scomparso, senza preavviso, senza lasciare una nota estemporanea, senza dire dove andasse». «Lei deve essere impazzita per la preoccupazione». «Non riesco a descrivere il tormento che ho passato». «Non ne sapevo niente. Ero sepolto al Carmelo in quegli anni. Non eravamo così al corrente degli avvenimenti di attualità. È stato mai ritrovato?». «Hanno trovato il suo corpo due mesi dopo la scomparsa. È morto strangolato. È stato torturato». «Mi dispiace». «Non deve dire niente. So quanto sia difficile ascoltare un racconto come questo». «La polizia ha trovato gli assassini?». «No. Non c'era uno straccio di prova che portasse in qualche direzione, nemmeno un depistaggio. Un silenzio totale». «Pensa che l'omicidio sia stato motivato politicamente?». «Lo pensavo fino a poco tempo fa». «Non lo pensa più?». «Non ho le prove, ma credo che la ragione della sua morte sia legata a qualcosa di così grande e bieco che è spaventoso pensarlo». «Allora non sarebbe meglio dimenticare...». «Dimenticare? Non posso dimenticare. Ho dovuto identificare il corpo. Quello che gli hanno fatto è da non credere. I ragazzi non lo hanno mai sa-
puto. Sanno solo che il loro padre è stato assassinato e pensano, come ho fatto io per molti anni, che sia stato un insensato atto di terrorismo, le Brigate Rosse o qualche frangia fascista». «È successo qualcosa che ha gettato nuova luce sul crimine?». «Niente. Non è una questione legata a prove giuridiche». Elia scosse la testa. «Non capisco». «È un'intuizione... una facoltà femminile che era rimasta inattiva dentro di me. Devo tornare indietro di molti anni per descrivere un'altra situazione, un episodio che sembra non avere attinenza con la morte di Stefano. Lei è al corrente che io conosco il presidente personalmente». Elia annuì, non sapendo dove Anna volesse arrivare. «La nostra generazione era affascinata da lui. Era giovane, allora. Non era così conosciuto nel mondo, ma a quel tempo la sua influenza stava cominciando a crescere. Si sentiva che era destinato a grandi cose. Era molto ricco. Aveva legami con banche importanti in Italia, Francia e Svizzera. Era poliglotta. Tutte quelle lingue e lauree. Scriveva libri. Stefano diceva che era un economista eccezionale e, quello che più gli faceva onore, un uomo dotato di principi. La lista dei riconoscimenti è infinita, come sa. Era l'uomo più sincero che avessi mai incontrato, dopo Stefano. Era un umanista, sempre apolitico; in effetti, alcune delle persone a lui più vicine appartenevano a partiti rivali. Ha attirato a sé un gruppo di persone incredibilmente eclettico, e possedeva la notevole capacità di far pensare a ciascuno di noi che il suo interesse fosse puramente personale. Nessuno si è mai sentito usato, persino quando si capiva che avrebbe gradito questo o quel favore. Le richieste - esito a chiamarle così - erano sempre espresse senza fare pressione. Era, e rimane, un maestro di sottigliezze. Ma a Stefano non piaceva. Questo è sempre stato un enigma per me. Quando lo spingevo a darmi una ragione, non sapeva indicare niente di sbagliato; non si fidava di lui, ma a un livello che mi rimaneva inaccessibile. Mio marito era un cattolico impegnato, Lei capisce, e forse questo gli dava una qualche antenna che io avevo perso per strada. A poco a poco ha cominciato a estraniarsi dalla sua cerchia. Gli sono rimasta accanto, naturalmente, ma controvoglia. Non abbiamo più partecipato a quelle meravigliose feste, agli eventi culturali, abbiamo rimandato indietro una gran quantità di inviti. Alla fine non siamo stati più invitati». «Quando è successo questo?». «Circa tre anni prima della morte di Stefano». «Mi permetta, Anna, ma non ho potuto non notare la Sua familiarità con
il presidente, quando abbiamo partecipato alla cena a Roma e a Varsavia. A un certo punto Lei deve avere ripreso i contatti». «Sì». «È venuto al funerale?». «Oh, sì. C'era, ma era perso nella folla. C'erano centinaia di autorità, senza contare le nostre famiglie. Non ho notato la sua presenza e, se lo avessi fatto, avrei pensato a un obbligo sociale. Le condoglianze ufficiali, dimenticate alla svelta. Ma poi, negli anni successivi alla morte, ha ingaggiato parecchi investigatori privati per continuare le indagini dopo che la polizia le aveva interrotte. Deve essergli costato una fortuna. In silenzio, ha messo sotto sopra l'Italia in cerca di indizi, e lo ha fatto senza dirmelo. Alla fine l'ho saputo da amici comuni, e naturalmente ne sono rimasta colpita. Gli ero grata. Gli ho mandato un biglietto di ringraziamento. Mi ha risposto. Sono ricominciati gli inviti. Avevo il cuore spezzato ed ero terribilmente sola. Ho partecipato ad alcuni eventi, pensando di poter incontrare qualcuno che potesse curare la ferita nel fondo della mia esistenza. Da quel buco la mia vita si stava dissanguando. Ma non c'era nessuno. Nessuno poteva prendere il posto di Stefano». Le tremò la voce, ma Anna riprese alla svelta la padronanza di sé. «Se Gianna e Marco non avessero avuto così tanto bisogno di me, mi sarei uccisa. Loro mi hanno salvato la vita». «E il presidente? Ha offerto compagnia, consolazione?». «Ci ha provato. Ma nemmeno lui poteva passare attraverso quella barriera. Nonostante la sua grande gentilezza, qualcosa dentro di me non poteva sopportare di avvicinarsi a una persona che a Stefano non piaceva per niente. Ho innalzato le solite barriere che una donna sa come innalzare. Abbiamo stabilito una relazione cordiale, che è continuata senza interruzioni fino a oggi». «Perché rimane parte della compagnia?». «Ci sono ricordi di Stefano legati a quell'ambiente, vecchi amici, molti legami utili per il mio lavoro. Sono una persona riservata, e ci si sente isolati quando si è così. Lavoro troppo. I ragazzi si lamentano sempre con me di questo. Così, essere legata in qualche modo alla cerchia del presidente mi apre molte porte. Mi fornisce distrazioni piacevoli». «Pensavo che foste amici intimi». «Tutti, e nessuno, hanno un legame stretto con lui. Ci sono circoli dentro circoli e io occupo una posizione intermedia, lontana dal nucleo radioattivo, che è il presidente stesso, ma anche molto più vicina rispetto a molte
persone che lo considerano un amico stretto. È una posizione molto strana». «E unica, immagino». «Forse. Non ci sono mai stati coinvolgimenti romantici, se è quello che si sta domandando. Nessun coinvolgimento di nessun tipo». Elia bevve un sorso profondo dal suo bicchiere. Era vuoto. Anna si alzò e tornò con la bottiglia. «La sto logorando. È tardi e Lei deve essere terribilmente affaticato. Andare in macchina con Marco è un modo sicuro per esaurire il sistema nervoso». «Sto bene. Sarei felice di parlare tutta la notte, se vuole». «Dove sono rimasta? Oh sì, il rapporto dopo la morte di Stefano». «Sì, quello mi sorprende. Quale era il suo scopo?». «Di riprendere i contatti con me? Per lo più faccio da ornamento. Sono una figura pubblica. Ottiene una certa forma di visibilità legandosi a me e a persone come me. Il denaro è corrotto. Uomini come lui ritengono che una buona reputazione sia molto più importante del loro patrimonio». Qui fece una pausa e guardò fuori dalla finestra buia, protetta da una tenda di pizzo giallo. «Sto divagando. Non dovrei farlo. Non si addice a un giudice». «Prima ha parlato di una nuova luce gettata sul mistero che circonda la morte di Suo marito. Ha parlato di un'intuizione». «Oh, sì. Come posso spiegarla? Diciamo che per molti anni ho archiviato una serie di dettagli inspiegabili raccolti durante eventi sociali in tutta Europa. La maggior parte di loro insignificanti, ma alcuni balzavano all'occhio e non trovavano spiegazione. Ma da giudice si impara a percepire le cose sotto il livello delle parole, mentre ci si sforza di mantenere la massima obiettività». «Per esempio?». «Un anno fa durante una festa è venuto fuori il Suo nome». «Un anno fa stavo scavando nel giardino del Carmelo». «Comunque sia, è venuto fuori il Suo nome. Lei è stato citato come un uomo che aveva fatto una grande carriera in Israele e che avrebbe potuto essere un predecessore nel genere di iniziative che il presidente sta prendendo ora. Qualcuno - ho dimenticato chi - ha fatto un riferimento sprezzante al fatto che Lei aveva "scoperto la religione" e aveva buttato via tutto. L'ho trovato interessante. Non avevo mai incontrato nessuno che avesse fatto una cosa del genere. Pensavo che mi sarebbe piaciuto conoscerLa, ma
naturalmente ho scartato l'ipotesi come improbabile. Ma qualcosa è successo durante i pochi minuti in cui si è parlato di Lei. In quel momento mi è sembrato insignificante, ma per qualche ragione non l'ho dimenticato. L'ho archiviato nei miei file misteriosi. Quando hanno parlato di Lei, qualcosa ha attraversato lo sguardo del presidente. Come posso descriverlo senza sembrare un'autrice di storie di fantasmi che cerca di spaventare i suoi lettori con sciocchi melodrammi? Posso solo dire che ho visto un'ombra passare nei suoi occhi - dietro i suoi occhi. Per una frazione di secondo. Quello sguardo mi ha spaventato. È venuto e se n'è andato così velocemente che quasi pensavo di non averlo visto. Ma quello sguardo ha risvegliato un ricordo che per anni era rimasto inattivo dentro di me. Mi sono ricordata di una festa a cui abbiamo partecipato Stefano ed io a Palazzo Galeone a Roma, quasi vent'anni fa. In quell'occasione, ci stavamo divertendo molto. Il mondo era splendido. Stefano era così ammirato. La gente gli voleva bene. Anche Lei gli avrebbe voluto bene». A questo punto le si spezzò la voce, si riprese e continuò. «Ero uscita a prendere aria fresca quella sera. Ero incinta di Marco e avevo la nausea. Mi trovavo sul piccolo balcone che si affaccia sul giardino nel cortile interno. Lì cresce un bell'albero, e mi ci ero affezionata. Quella sera, nonostante avessi lo stomaco sottosopra, ero incredibilmente felice. Mi domandavo se ci fosse qualcun altro felice come me sulla terra. Sono tornata nella saletta, lo stesso locale dove noi due ci siamo conosciuti anni dopo. Nessuno mi ha notata quando sono entrata. Lì dentro c'erano tutti i tipi di persone. Gente potente. Generali, finanzieri, politici. Stefano stava parlando della necessità di ridare vita a una visione morale della politica europea. Lo definiva umanesimo cristiano. In quegli anni, qualche volta trovavo imbarazzante il suo incrollabile cattolicesimo. Come la maggior parte delle persone in quella stanza, avevo rigettato la forma cristiana di umanesimo, ma amavo Stefano per il suo coraggio e non potevo fare a meno di ammirarlo. Ero grata di avere un marito così. Parlava in modo appassionato ed eloquente. Era avvincente. Tutti lo ascoltavano. Ho lanciato un'occhiata al nostro ospite, aspettandomi di vedere sul suo volto quello che io provavo nel cuore. Pensavo che anche lui volesse bene a Stefano. Invece ho visto qualcosa che mi ha spaventato. Sembrava apprezzare quello che diceva Stefano, ma un'ombra gli è passata negli occhi. Mi ha sconvolto. L'ho scacciata via come un prodotto della mia immaginazione. È sprofondata nel mio subconscio, dove è rimasta fino allo scorso anno, quando ho visto lo stesso sguardo nel momento in cui è stato fatto il Suo
nome. Allora ho capito che l'uomo che è diventato la figura più potente del mondo odiava mio marito». «E implicitamente odia anche me». «Potrebbe essere vero, se ho ragione». «Potrebbe essere infondato». «Potrebbe essere», disse Anna dubbiosa. «Ma Lei non lo pensa». «Penso che le mie intuizioni siano corrette». «E allora che cosa significa? Sta dicendo che potrebbe essere coinvolto nella morte di Stefano?». «Non lo so. Non ne sono sicura. Sono andata avanti come prima, partecipando ai banchetti e ai comitati, ma con gli occhi bene aperti, guardando e aspettando. E le mie antenne si agitano per ogni cambiamento. Cose infinitamente piccole. Segnali, sguardi, ombre». «Come dice Lei, niente che starebbe in piedi come prova in un'aula di tribunale». «Precisamente. Non si tratta di quel genere di prove». «Continuo a non capire il mio coinvolgimento. Perché è interessato a me?». «Quando il Suo nome è stato citato in modo così sprezzante, il presidente ha detto qualcosa che mi pareva irrilevante allora, ma che ora sospetto avesse un altro significato. Ha detto che nonostante la Sua religione, Lei era una persona di qualità eccezionali che avrebbe potuto dare un importante contributo al nuovo ordine. Ha detto proprio così: avrebbe potuto dare un importante contributo al nuovo ordine. Non ha aggiunto altro, ma ho sentito quella strana miscela di rancore e desiderio. Ho capito che La odiava e che voleva usarLa per qualcosa. Mi ha lasciato perplessa. Perché avrebbe dovuto odiare Lei, una persona che non aveva mai incontrato?». «Le persone si odiano per moltissime ragioni». «Ma perché Lei?». Elia ci pensò sopra. «Potrebbe essere un odio che non ha radice in motivi umani. Potrebbe essere puramente spirituale». «Che cosa intende dire?». «L'anima non è così semplice come pensiamo. Intelletto, immaginazione, emozioni, processi fisici. Le parti distinte della natura umana si possono sovrapporre, offuscare, spostare. I pensieri influenzano i sentimenti e viceversa. La salute influenza l'umore e viceversa. Si può davvero sapere quello che succede nell'intimo dell'animo umano? E tuttavia, sospetto che
istintivamente abbia riconosciuto che rappresento l'antitesi della sua visione». «Non sembrava pensare che questo fosse un problema». «È abituato a influenzare le menti umane. Se un uomo può cambiare in modo così radicale come sono cambiato io, non è possibile che possa tornare indietro, indietro alla sua visione?». «È possibile?». «La questione è: lui pensa che sia possibile? Ovviamente sì, o non avrebbe cercato di attirarmi nella sua sfera di influenza» . «Ma il rancore... è stato così istantaneo». «La sua reazione potrebbe essere stata prodotta da forze spirituali che si trovano al di fuori dell'anima». Anna lo guardò con aria dubbiosa e fece un gesto con una mano, come per scacciare via il pensiero. «Diavoli? Mi dispiace, padre, ma sono troppo razionalista per prendere in considerazione quell'idea». Elia si fermò e rifletté. Avrebbe trovato il modo, in quell'ora così tarda, di cercare di convincerla della realtà della lotta invisibile? L'avrebbe lasciato a un altro giorno. Lei cambiò il tema al posto suo. «Quando L'ho incontrata per la prima volta, ho visto che Lei possedeva un carattere bello come quello di Stefano, ma mancava delle sue qualità in società. Lei è un uomo candido. Malgrado questo, L'ho ascoltata e osservata, mi sono domandata se sarebbe diventato un altro Tilman. Mi sono chiesta come avrebbero cercato di riplasmarLa. Ho pensato che ci sarebbero riusciti, perché ci riescono quasi sempre». «E a quale conclusione è arrivata?». «Lei non è un Tilman. Non potrebbe mai esserlo. Varsavia ha demolito quella paura. Ma Lei rimane un mistero per me». «È molto semplice, Anna. Non ci sono misteri». «Allora me lo spieghi». «Un uomo è quello che ama. Un uomo è quello per cui vive e muore». «Che cosa ama? Che cosa è reale per Lei?». «Amo Dio. Lui è reale». «La teologia non è logica». «La logica non contiene la teologia; la teologia contiene la logica». «Su questo si può discutere. Ahimè, eccoci qui; ora stiamo scivolando nel mondo delle astrazioni, dove finiscono tutti questi generi di conversa-
zione». «L'amore che Dio riversa nel mondo agisce nelle nostre vite fino a farci aprire ad esso. Fino a quando non lo facciamo, pensiamo che si tratti di un'astrazione». «È così? Immagino che possa esserlo. La morte era un'astrazione, fino a quando Stefano non è morto». «È lo stesso con l'amore». «Mi dica, Lei non ha provato l'amore umano. Come fa a parlare di amore, se non ha amato un altro essere vivente?». «L'amore divino che alberga in noi contiene ogni amore umano». «Ma voglio dire carne e sangue. Calore. Passione». «Anche questo è contenuto dentro quell'amore, ma in una forma differente». «Non ha mai amato una donna?». Elia le raccontò di Ruth e lei lo ascoltò senza interromperlo. «Mi dispiace», disse. «Non lo sapevo». Bevvero l'ultima goccia di vino. Anna si alzò. «Ho ancora tanto da dirLe, ma può aspettare fino a domani». Gli mostrò una camera da letto vicino al soggiorno. «L'abbiamo messa qui. Era la camera dei miei nonni e dei bisnonni prima di loro. Erano una bellissima vecchia coppia. Molto devoti», disse pensosa, toccando un piccolo crocifisso sulla parete sopra un antico portacatino. Un'incisione incorniciata del Sacro Cuore era appesa sopra il letto stretto. «Mi racconti qualcosa di loro». «Il nonno era un agricoltore. La nonna era una casalinga. Non sono andati tanto a scuola. Si beccavano un po' come il gallo e la gallina, sono stati sempre insieme, mai separati, nemmeno per un giorno della loro vita. Sette figli; mia madre era la più piccola. Hanno risparmiato ogni centesimo per mandarla all'università. Lì mia madre ha incontrato mio padre. Veniva da Firenze, era il figlio di un consigliere comunale. Borghesia medio alta». «Dove sono Sua madre e Suo padre ora?». «Deceduti entrambi. La terra è stata divisa fra i parenti, ma la casa è passata a me quando la mamma è morta. Conservo gelosamente questa casa più di ogni altra cosa al mondo. Non ho cambiato niente. Quando il mondo si fa troppo pesante per me, vengo qui. Gianna e Marco non provano lo stesso attaccamento. Hanno il futuro davanti e i giovani non pensano alle tradizioni. Gianna un giorno capirà. Sarà sua, quando morirò».
«È una camera piena di pace. Dormirò bene qui». «Bene! È tempo che lo faccia. Buona notte, padre Elia». «Buona notte, Anna». *** Dormì bene, come aveva previsto. Si alzò con il sole, pregò il breviario e celebrò una messa privata nella stanza prima che il resto della casa si svegliasse. Poco dopo, sentì che Marco faceva partire il motore della macchina, poi qualcuno che rumoreggiava con dei coperchi sulla stufa in cucina. Trovò Gianna seduta vicino alla stufa intenta ad occuparsi della caffettiera e della griglia per tostare il pane. «Buon giorno, padre». «Buon giorno, Gianna. Sembra una bella giornata là fuori». «Non si vede nemmeno una nuvola. Le previsioni dicono che il tempo sarà più fresco. Non farà troppo caldo». Gli servì del pane tostato con marmellata di uva spina, una scodella di cereali e una tazza di caffè. «Dov'è tua madre?». «Sta dormendo. Avete fatto tardi ieri sera». «Sì». «Sono contenta che Lei sia qui. Mamma ha bisogno di qualcuno con cui parlare. La vita non è stata facile per lei». «Ha tante responsabilità». «Troppe». «È una donna eccezionale, tua madre». «Sì, eccezionale. Dà così tanto. Non prende niente per sé, eccetto questo posto, di tanto in tanto». «Mi ha detto di vostro padre. Mi dispiace per la vostra perdita». La ragazza annuì, e la tristezza le attraversò il volto. «Ti ricordi di lui?». «Un po'. Era molto gentile. Mi ricordo che era alto, un gigante. Era bello. Tutti gli volevano bene». Gianna abbassò lo sguardo sul libro che teneva aperto sulle ginocchia. «Che cosa stai leggendo?». «Filosofia». «Ti piace la filosofia?». «Da morire», disse Gianna divertita. «Non lo dica a nessuno. Compro-
mette il futuro di una ragazza». «Non penso che tu corra questo pericolo. Ci deve essere una lunga schiera di gentiluomini interessati». «A centinaia. Devo barrare la porta». «Bene. Non accettare la prima proposta». «Non lo farò. Lo prometto». Il suo umore scanzonato improvvisamente si fece serio. Sfogliò le pagine e disse: «Questo è un brano su cui ho riflettuto molto. Vuole che glielo legga?». «Moltissimo». «È di Kierkegaard. Sa chi è Kierkegaard?». «Sì». Lo guardò divertita e impressionata. «Ascolti: "La maggioranza degli uomini è soggettiva verso se stessa e obiettiva verso il mondo. Terribilmente obiettiva qualche volta. Ma il vero compito consiste in effetti nell'essere obiettivi verso se stessi e soggettivi verso tutti gli altri"». Alzò lo sguardo con espressione deliziata. «Non è bellissimo? Non dice tutto in così poche righe?». «Dice una cosa importante». «Alla mamma non piace questo brano. Pensa che dobbiamo essere obiettivi verso ogni cosa». «Probabilmente lo intende rispetto al suo lavoro». «Oh, è più di quello. Vuole che tutto sia freddo e distaccato. Vuole che sia separato dalla vita. È stata terribilmente ferita. Le dico: "Mamma, non c'è bisogno che ti comporti da giudice ogni momento". Lei è d'accordo, ma non riesce a cambiare. I suoi unici punti deboli siamo Marco e io e questa collina». «È una benedizione per lei che voi ci siate». «Penso che sia una benedizione per la mamma aver trovato Lei, padre. Ha bisogno di un amico». «Sono sicuro che abbia molti amici». «A centinaia. Anche lei deve barrare la porta». Gli riempì di nuovo la tazza e gli mise altre tre fette di pane tostato sul piatto. «Mangi!». «Obbedisco di buon grado, Gianna». Lei tornò alla stufa.
«Sa che cosa mi ha detto quando stava cercando di organizzare questo weekend?». «No». «Ha detto che in tutti questi anni dalla morte di papà Lei è la prima persona di cui sente di potersi fidare completamente». «È un onore detto da tua madre. Spero di meritarlo». Gianna lo guardò seria, chiedendosi che cosa intendesse. Poi fece un sorrisetto. «Ma che umiltà! Avevo dimenticato come si comportano i tipi religiosi». «Non ce ne sono a Milano?». «Ce ne sono alcuni». «Ne conosci?». «Uno. Un ragazzo. Umile come Lei. Ma anche orgoglioso». Gianna guardò da un'altra parte, pensierosa. «È tutto? Solo un cristiano all'Università di Milano?». «Si muovono in altri circoli. Io sono una solitaria». «Non ci sono circoli per giovani filosofi?». «Sì. Ma la maggior parte di loro è come me. È difficile organizzare un circolo di solitari». «In che cosa credono i tuoi amici filosofi?». «Quando ho cominciato a studiare medicina, le persone che conoscevo e che studiavano filosofia erano per la maggior parte marxiste. Idioti! Ok, mezzi idioti; erano marxisti alla Gramsci, non il genere gulag e camere di tortura. La maggior parte ora è delusa. Alcuni sono diventati capitalisti. Pochi si sono trasformati in ambientalisti. Alcuni sono tornati alla Chiesa». «Che cosa è successo per farli cambiare?». «Suppongo che la mia generazione sia semplicemente cresciuta. È interessante il modo in cui le menti più semplici, e quelle più raffinate, ritornano alla Chiesa. Noi agnostici lo troviamo strano». «Ah, così sei agnostica!». «Non mi prenda in giro, padre Schäfer, o Le faccio bruciare il pane tostato». «Chiedo scusa». «Suppongo che la fede dia ad alcune persone la forza di affrontare la vita. La vita può essere brutta». «E molto bella». «Anche questo. Ma nessuno ti spiega mai la parte brutta. Non riesco a dimenticare la prima volta che ho assistito a un'autopsia. Vuole che glielo
racconti? No. Immagino di no». «Oh, sì, mi piacerebbe sentirlo. Per favore, raccontamelo». Si fermò con lo sguardo fisso a mezz'aria, con la spatola che le penzolava in mano. «È stata una sensazione proprio strana. C'erano almeno una dozzina di cadaveri sui tavoli in laboratorio. Avevano tutti dei sacchetti di plastica nera in testa, per renderci l'esame più facile, immagino. Per nascondere la loro identità. Non volevano che noi pensassimo che erano persone, no?». «Suppongo di no. Lo renderebbe difficoltoso». «Ci si fa coraggio, ci si calma i nervi e si guarda il professore incidere. È tutto così meravigliosamente tecnico. Ogni cosa nel corpo ha un nome latino. Lo trovavo affascinante, ma continuavo a tornare al sacchetto di plastica, continuavo a domandarmi chi fosse la vecchia signora che stavamo sezionando. Il professore la definiva cadavere. Una cosa! Alcuni dei cadaveri erano di persone che avevano donato il proprio corpo alla scienza, ma per la maggior parte si trattava di derelitti consegnati all'università dall'obitorio cittadino. Il nostro cadavere era uno di questi derelitti. Si poteva dire che non era stato una persona ricca. Le sue unghie erano terribilmente macchiate. Nessuno si curava di lei da tanto tempo, lo si capiva. Se le dico una cosa, non penserà che sono strana?». «Dipende da quello che mi dirai». «Lei è sincero. Rischio. All'ora di pranzo sono usciti tutti dal laboratorio. Era la prima volta per la maggior parte di noi, e nessuno aveva voglia di mangiare. Sono tornata dentro da sola e ho tolto alla vecchia signora il sacchetto di plastica». «Perché lo hai fatto?». «Non lo so perché». «Che cosa hai visto?». «La prego di non pensare che sono pazza, ma ho visto mia nonna. Non la mia vera nonna, naturalmente, perché non l'ho mai conosciuta. Ma ho pensato, questa potrebbe essere la nonna. Questa potrebbe essere la mamma fra qualche anno. Un giorno potrei essere io». «Non è una cosa così strana». «Sono contenta che la pensi così. Poi è successa un'altra cosa. Ho cominciato a piangere per lei. Piangevo e piangevo. Le lacrime le cadevano sulla faccia. Le ho accarezzato la fronte. I suoi capelli erano in disordine, incrostati di sporco. Era una povera vecchia mendicante. Le ho sistemato i capelli intorno alla testa. Poi l'ho ricoperta di nuovo».
Elia guardò fuori dalla finestra. Gianna si scosse e tornò alla stufa, dove si tenne occupata. Anna scese dalle scale proprio in quel momento e li salutò. «Hai un'aria seria questa mattina», disse a sua figlia, stringendola a sé. «Stavo raccontando a padre Schäfer come dissezionare un corpo». «Per favore, Gianna, risparmiacelo!». Intervenne Elia. «È stato davvero interessante. Dovrebbe essere orgogliosa di lei, Anna». «Lo sono, lo sono», sospirò in modo plateale. «Ma per favore nessuna discussione sull'anatomia prima di colazione». Si sedette e disse a Elia. «Che cosa Le piacerebbe fare oggi?». «Quello che vuole Lei. Ha qualche proposta?». «Potremmo fare una passeggiata in collina. Mi piacerebbe farLe vedere una grotta che il mio bisnonno ha costruito su in montagna». «Abbiamo il tempo di andare ad Assisi?». «Penso di sì. È un viaggio breve. Perché Assisi?». «Ho un amico lì che mi piacerebbe vedere. Non rimarremo molto». «Va bene. Possiamo partire dopo colazione. Faremo la passeggiata questo pomeriggio». Anna tirò fuori un'utilitaria da una vecchia stalla e partirono per Assisi in una nuvola di polvere. «Ho visto che stava facendo conoscenza con mia figlia». «È deliziosa. Nello spazio di dieci minuti abbiamo sorvolato un bel numero di argomenti, cominciando con la filosofia, galoppando attraverso la religione e finendo con le autopsie». «È proprio da Gianna. Qualche volta penso che sia una poetessa più che un medico». «Mi domandavo se non fosse più adatta alla filosofia, a metà strada fra la poesia e la scienza». «Forse Lei ha ragione». «Mi sembra preoccupata per Gianna». «Non più del solito. Mi preoccupo per i miei figli per abitudine. Mi chiedo se sia stato saggio metterli al mondo nelle condizioni attuali». «Si comporteranno bene. Lei glielo ha insegnato. Gianna è un'anima buona. È sensibile e sembra molto felice». «È innamorata. C'è un ragazzo a Milano». «Com'è? Pensa che sia adatto?». Anna tolse gli occhi dalla strada e lo guardò.
«Adatto? Che parola vecchio stile. Che bello sentirla. Sì, è veramente adatto. Piace abbastanza a tutti noi». «Lei non sembra entusiasta». «È giovane, idealista, e studia per diventare avvocato. Un amico di Marco. Non è troppo ricco e neanche troppo povero; suo padre è professore di etica; è bello e mascolino, caloroso e, la cosa più straordinaria di tutte, è vergine. Se lo immagina? Vergine! Ecco un'altra parola vecchio stile per Lei. Lui le ha detto così. E ne è orgoglioso. Hanno deciso di aspettare fino al matrimonio. Anche Stefano era così. Assomiglia così tanto a Stefano che mi spaventa». «La spaventa? Questo ragazzo sembra la risposta alle preghiere di ogni madre». «E invece prelude a tanta sofferenza. Che cosa pensa che succederà a un ragazzo come lui?». «Non potrebbe essere una di quelle persone che riportano la luce nella vita pubblica?». «A che prezzo? Non voglio vedere il cuore di Gianna spezzarsi». «Come il Suo?». «Come il mio». «È giusto nei confronti di Gianna? Non ha il diritto di rischiare di avere il cuore spezzato?». Anna si strinse nelle spalle con aria infelice. «Eppoi è un cattolico praticante». «Meglio. Ma è reale?». «Oh, sì. È una creatura esotica, ma reale». «Un tempo sarebbe stato considerato normale». «Quei tempi sono passati». «Davvero? Penso che stiano tornando. Nel profondo del loro cuore, molte persone desiderano la fedeltà. Desiderano coniugi che siano capaci di sacrificarsi». «Mi è impossibile discutere di questo argomento. Noi due veniamo da punti di partenza diversi». «Anna, se siamo amici, posso parlare schiettamente?». «Vada avanti». «Penso che Lei stia diventando leggermente irrazionale». «Irrazionale! Sono perfettamente razionale. Loro sono irrazionali!». «Penso che anche Lei sia scandalosamente soggettiva». Anna gli lanciò un'occhiata severa. Riportò gli occhi sulla strada. Poi il
suo volto si distese e sorrise controvoglia. «Lei mi sta prendendo in giro». «Un po'. Le dispiace?». «Mi potrei abituare». *** «Non permettono alle donne di entrare al convento», le spiegò Elia. «Non vuole andare a visitare le bellezze del luogo, mentre parlo con il frate addetto all'accoglienza degli ospiti?». Anna andò via da sola, seguendo un gruppo di turisti nella basilica superiore. Il piccolo frate era cordiale come sempre, ma aveva alcune notizie spiacevoli. «Sono dolente, padre. Abbiamo ordini precisi. Padre Matteo è stato malato tutta l'estate. La mia ipotesi è che stia sanguinando troppo ultimamente, e vogliono rinvigorire la sua salute». «Non posso parlare con lui per un minuto?». «Mi dispiace». «Non ha risposto alle mie lettere. Deve essere seriamente ammalato». «Ho sentito che lo è. Il guardiano non permette che nessuno vada da lui, eccetto i dottori. L'anno scorso è trapelata la notizia che qui c'era un frate con le stimmate: non si direbbe, ma i turisti hanno iniziato a piovere da tutte le parti. È una cosa buona per noi, in un certo senso. Salgono in cielo molte preghiere. Ma il guardiano ha dovuto puntare i piedi. Dopo finirebbero per fare a pezzi il povero padre Matteo per ricavarne delle reliquie, ha detto. È tempo di mettere fine a questo circo, ha detto. E così, più veloci di un fulmine, l'hanno portato...». Il piccolo frate si coprì la bocca. «L'hanno portato dove?». «Si dimentichi quello che ho detto». «No, non me ne dimenticherò. Me lo dica». «Non posso». «Ho diritto di saperlo. È il mio direttore spirituale». «Davvero? Allora è diverso». Sembrava confuso. Si schiarì la voce esitante. «Fratello, dov'è padre Matteo?». «Non è qui».
«Dove è stato portato?». «Non glielo posso dire. Ho già detto troppo. Non ci è permesso di dirlo a nessuno. I turisti...». «Non sono un turista. Mi faccia parlare con il guardiano». Il guardiano venne rintracciato con notevoli sforzi e arrivò all'ingresso. Elia ripeté la sua richiesta. Il guardiano non concesse il permesso. I due uomini fecero a tira e molla, fino a quando Elia comprese che tutto questo non portava da nessuna parte. Ritornò in chiesa e vide una figura familiare inginocchiata nelle panche in fondo. «Fra' Jakov», gli sussurrò, scivolandogli accanto. Il gigante gli gettò le braccia al collo e gli diede dei colpetti tutto contento. «Padre, è troppo bello vedere me! Mi piace tu tornare. Come stai?». «Molto bene, amico mio. Ma ho un problema. Non riesco a trovare padre Matteo. Sai dov'è?». Il volto di Jakov si tese. Gli occhi gli si riempirono di paura. «Non lo posso dire a te». «Perché no?». «Guardiano dice, nessuno lo può sapere». «Ma io sono amico di padre Matteo. È il mio direttore spirituale. Il papa vuole che lo incontri». Jakov non sembrava convinto. «Lo so. Ricordo l'ultima volta, padre, ma ora non può essere». «Mi devi dire di più. Almeno dimmi se padre Matteo sta bene». «Penso è malato di più. Sanguina molto. È uomo vecchio e vogliono lui va e riposa». Questa volta toccò a Jakov coprirsi la bocca. «Va bene. Non mi hai detto niente che non sapessi già». Jakov passava con lo sguardo da Elia al tabernacolo. Il suo corpo gigantesco rifletteva il parossismo dell'agonia nel suo cuore. Alla fine disse. «Dovresti andare a Rieti. È un bel posto lì». «Rieti? Perché Rieti?». «Ascolta, padre», disse afferrando la manica della camicia del prete e strattonandola, «tu vai a Rieti. Ti piacerà lì. San Francesco, anche lui va lì. Posto santo. Persone sante vanno lì». «Persone sante vanno lì?». «Persone sante vanno lì. Tu vai. Bel posto. Vedi». «Rieti?».
«Rieti. Eremo. Prega lì. Voglio tu vai Rieti perché posto bello. Eremo». Diede a Elia un'occhiata d'intesa. «Grazie, Jakov. Sì, capisco. Non mi hai detto niente. Non hai disobbedito. Andrò all'Eremo a Rieti». Il frate grande e grosso gli diede un colpo sulla schiena e gli fece l'occhiolino. Elia trovò Anna seduta dietro a una colonna vicina alla parte anteriore della navata. «Mi dispiace che ci sia voluto così tanto. C'è stato un pasticcio. Il mio amico è stato trasferito, e mi ci è voluto tutto questo tempo per scoprirlo. Pensa che potremmo allungare il nostro viaggio e andare a cercarlo?». «Non vedo perché no. Dov'è?». «A Rieti». Erano a metà strada in direzione di Rieti, quando Elia notò che l'espressione preoccupata era scomparsa dal volto di Anna. «Mi scuso per tutto il tempo perso». «Non è stato tempo perso. Me lo sono goduto. Sono rimasta lì seduta. Era così tranquillo dopo che i turisti se ne sono andati. Ho ammirato le opere d'arte e mi sono risollevata lo spirito». «Ne sono felice». «Ho fatto una deliziosa chiacchierata con uno dei frati. Un tipo anziano proprio buffo». «Di che cosa avete parlato?». «Della vita. Era proprio un bel personaggio. Sembrava sapere chi fossi». «Davvero?». «Sì, e conosceva anche Lei». «Che cosa ha detto?». «Qualcosa a proposito di un leone. Non è stato del tutto coerente, ma molto molto dolce. Mi sono sentita tranquillizzata dalla sua presenza. Devono avere alcuni frati molto anziani che vivono qui. Ho sentito dire che raggiungono una bella età». «Sì, è vero». «Ha detto che stava pregando per Lei. Come faceva a sapere che Lei era qui?». «Anna, portava delle bende sulle mani?». «Non lo so. Teneva le mani dentro le maniche. Aspetti, mi ha dato un buffetto sulla spalla a un certo punto e... sì, Lei ha ragione, la mano portava una benda. Ho pensato che si fosse tagliato. Era macchiata».
«Zoppicava parecchio?». «Sì. Perché?». «Si tratta del mio amico». «Allora torniamo indietro, se è ad Assisi». «Potrebbe non essere ad Assisi». «Non ha molto senso. Lui è ad Assisi, ma non è ad Assisi? Lei mi sembra leggermente irrazionale, padre Elia». «Lo so. Andiamo a Rieti». Anna sollevò le sopracciglia e continuò a guidare in silenzio. Quindici minuti più tardi trovarono la strada che portava ai conventi francescani della zona. La seguirono fino a quando arrivarono a un viottolo con un'indicazione di legno su cui c'era scritto "Eremo". Parcheggiarono la macchina alla fine del sentiero e si diressero verso un edificio di pietra circondato da uno steccato di legno. Due frati erano piegati a strappare le erbacce del giardino fiorito nel cortile. Quando Elia e Anna passarono dal cancello principale, i due frati si rialzarono e li fissarono. «Pax et bonum, fratelli, stiamo cercando padre Matteo». I frati si guardarono. «Signore, signora. Questo è un convento privato. Mi dispiace, ma non accogliamo visitatori qui». «Sappiamo che padre Matteo è dentro». I frati sembravano agitati, indecisi su che cosa dire. «Gli ospiti devono prendere appuntamento», balbettò uno. «È un buon amico. Credo che ci stia aspettando». «Non è permesso». «Vorrebbe dirgli che sono qui? Potrebbe lasciar decidere a lui». «Non sarà necessario», disse una voce dalla porta principale. Padre Matteo stava sulla soglia, con un sorriso imbarazzato, appoggiato allo stipite con la mano bendata. I frati corsero da lui e lo sorressero, uno per parte. Cominciarono a rimproverarlo parlando rapidamente. «Padre Matteo, sa che cosa ha detto il dottore!». «Via, via», li ammoniva con tenerezza. «Non agitatevi. Li stavo aspettando. Ora potete lasciarci». «Non è previsto che lasci il letto. Deve tornare e mettersi sdraiato». «Pochi minuti non mi faranno male. Fatemi sedere qui sulla panchina. Parleremo un po'. Andate, ora».
I frati si allontanarono, lasciando padre Matteo rilassato al sole. Elia e Anna si sedettero sui gradini del porticato. «Salve di nuovo, giovane signora». «Salve. Come ha fatto a tornare qui così alla svelta?». «Viaggio veloce», disse strizzando gli occhi. Elia si allungò e prese una delle mani di padre Matteo fra le sue. La teneva senza fare pressione. Non la lasciava andare. «Padre Elia, ha proprio un bell'aspetto. Come sta?». «Ho così tanto da dirle e non so da dove cominciare». «Allora, mi dica, come stanno i cancelli?». «I cancelli?». «I cancelli del suo cuore». «Malconci, ma saldi». «Come pensavo. Molto bene. E la paura?». «Alcune vittorie, alcune sconfitte». «Sì, sì, è normale. Ora ascolti, ho un messaggio per lei». «Un messaggio? Da chi?». «Dal nostro Re. Vuole che le dica questo: "Di giorno e di notte il mio sguardo è su di te. Vedo quanto soffri per me". Vuole che lei sappia che permette queste avversità per accrescere il suo merito. Tutto sta nel volere. Nessun altro sacrificio è paragonabile all'immolazione del suo cuore. Il Signore non la ricompensa per il successo, ma per la pazienza e gli stenti sopportati per Lui. Nessun successo conta quanto la perfetta obbedienza, perché è quella che prepara la strada all'azione della grazia divina nella sua anima. È attraverso la sua debolezza che Dio agirà nel modo più potente per portare la misericordia al genere umano. Dio conosce la sua paura, e vuole che lei venga a Lui e appoggi il capo sul Suo cuore. Le chiede di parlare con Lui da amico ad amico. Dice che ci saranno tanti ostacoli e menzogne. Deve essere preparato e non rimanere sgomento. La consolerà al momento opportuno, ma l'opera più grande è fare il Suo volere nelle tenebre della fede. La fede è di massima importanza. "Sappilo", dice, "sappilo: sono sempre nel tuo cuore, e il mio amore è concesso agli altri quando tu ti fidi completamente di me. Tu sei mio figlio"». Elia chiuse gli occhi. Tutti i pensieri, tutte le emozioni, tutte le impressioni impallidirono. Si immerse nel profondo della sua interiorità e riposò lì, immobile, sospeso nell'essere, in perfetta quiete. Anna aveva seguito con stupore quello che succedeva. Fissava i due pre-
ti, cercando di comprendere quello che osservava. Non aveva senso. Padre Matteo la guardò. «Ho un messaggio anche per lei, sorellina. Il Signore mi chiede di dirle che il suo martire è con Lui». «Il mio martire?», mormorò Anna. «Colui che porta il nome del primo martire. Colui che era il compagno della sua anima». «Stefano?». Padre Matteo annuì. Elia alzò lentamente la testa. Vide prima l'espressione di tenerezza del vecchio frate e poi la confusione negli occhi di Anna. In quel momento i due frati tornarono con un terzo molto agitato, che bruscamente annunciò che l'incontro era finito. Padre Matteo si alzò a fatica e tornò indietro zoppicando, scortato dai confratelli. Anna non si era mossa. Elia la prese per un braccio e l'aiutò ad alzarsi. Si diressero lentamente alla macchina e tornarono a Foligno senza dire una parola. *** Quel pomeriggio Anna lo portò su una montagna dietro alla casa. Un sottile velo di nuvole copriva il cielo e una brezza fredda faceva ondeggiare i pini. Anna si avviò per un sentiero che si dipanava fra vecchi vigneti non più coltivati, invasi da sterpaglie e da rovi intricati. Mentre salivano, la terra si faceva più asciutta e il sentiero si restringeva. In cima alla collina, culminante in uno spuntone di roccia, raggiunsero un fazzoletto erboso da cui si poteva vedere l'intera valle. Scavata nella roccia c'era una grotta. Dentro si trovava una statua di gesso della Madre di Cristo, la vernice bianca scolorita e scrostata, la testa ricoperta da un diadema di fiori di plastica rovinati. Gli uccelli avevano costruito dei nidi negli incavi fra le pietre. Anna si sedette nell'erba alla base della statua e le fissò il volto sereno. «Sette spade le trafiggono il cuore», disse. «Ero solita venire qui con la nonna quando ero una bambina. Pregavamo sotto l'immagine. Mi ha insegnato il rosario. Ai mie genitori non piaceva. Avevano studiato. Pensavano di essersi liberati dalle vecchie superstizioni della gente di campagna». «Nostra Signora dei dolori». «Sì, la nonna la chiamava così. Mi spaventava quando ero piccola, ma la
nonna l'amava tanto. Mi ha detto che la Madonna proteggeva la valle, intercedendo per tutti quelli che vivevano sotto. La Signora piangeva per scacciare i peccati, diceva». «È ancora qui». «Decenni dopo decenni è rimasta qui, immobile, immutabile. Il mio bisnonno ha costruito tutto questo alla fine del XIX secolo. Non l'ho mai conosciuto. Era già morto quando sono nata, ma il suo ricordo era rimasto vivo in famiglia. Ci hanno detto che sul letto di morte ha chiesto di trasmettere un messaggio a ogni generazione successiva. Ha detto che aveva avuto una visione del Santo Padre in ginocchio, tutto solo, che piangeva per la Chiesa in rovina, e mercenari che entravano in Vaticano e lo colpivano con i fucili. Ma era un altro Santo Padre, ha detto. Roma era in fiamme. Una visione del futuro. Ha previsto un tempo in cui tutti sarebbero stati tentati di perdere la fede. Dicono che il mio bisnonno abbia pianto, un uomo anziano forte come lui. Era inconsolabile. Piangeva, perché non voleva che la sua famiglia finisse all'inferno, e pensava che molti di loro, di quelli che sarebbero nati in un altro secolo, ci sarebbero andati». «Che cosa pensa la famiglia di questo, adesso?». «Immagino che nessuno di loro lo sappia, o, se lo sanno, lo hanno dimenticato. Ne sono venuta a conoscenza solo perché la nonna me lo ha confidato una volta, mentre pregavamo qui. Persino allora ho avuto dei dubbi. Quando l'ho riferito ai miei genitori, si sono messi a ridere e hanno detto che erano i deliri di un contadino moribondo, un povero vecchio pieno di paura. Ma la nonna assicurava che non c'era mai stato un uomo senza paura come suo padre. È morto in pace, guardando l'immagine del Sacro Cuore, quella appesa sopra il letto in cui ha dormito la scorsa notte. Ci sono così tanti misteri, no?». «Tanti. Eppure qualche volta un mistero è piuttosto semplice». «Sì, l'ha detto anche ieri sera. Un uomo è quello che ama». «Quindi, un uomo del genere avrebbe potuto vedere delle cose che altri non vedono. La fede apre determinate porte». Anna guardò giù nella valle. «Anna», disse Elia alla fine, interrompendo il suo sogno a occhi aperti, «non abbiamo parlato di Rieti. Che cosa è successo nel Suo cuore, quando eravamo lì?». «Non lo so. Non riesco a parlarne ora. Ho bisogno di tempo per pensarci. Forse è stata un'illusione». «Padre Matteo Le è sembrato un'illusione?».
«Non sono sicura di quello che penso», disse Anna irritata. Fissava una montagna dall'altra parte della valle. «Lei non mi deve fare pressione», disse con forza. «Non voglio. Non...». Si fermò all'improvviso e si alzò bruscamente. «Questa montagna è come un rifugio per me. È un ricordo, un romitaggio, questo è tutto, un pezzo del mio passato. Non posso permettere che si trasformi in qualcos'altro. Fino a quando sarà ciò che è, posso sempre venirci e trovare pace. Ma non mi faccia dire che è più di questo». «Non sto cercando di farLe credere qualcosa a cui non vuole credere. Sto solo facendo delle domande». «C'è ancora un avvocato dentro di Lei, padre Elia. Lei ha fatto delle domande ben precise. Non cerchi di influenzare la teste». Elia le sorrise e il volto di Anna si rilassò. «Mi dispiace», le disse. «Dispiace anche a me. Sono un po' agitata. Sentire il nome di Stefano dalle labbra di un estraneo...». «Le assicuro. Non avevo idea che La conoscesse, e nemmeno che conoscesse il nome di Stefano». «Un altro dei Suoi misteri?». «Deve essere così». Anna rabbrividì. «Andiamo», disse e riprese la strada per l'imbocco del sentiero. Anna si voltò ancora una volta a guardare la statua, poi scese. Quella sera, dopo cena, Gianna e Marco andarono a una festa per la fine dell'estate nella casa di un cugino che viveva a Spoleto. Elia e Anna uscirono sul porticato della cucina a guardare il cielo sopra la montagna mutare dal rosa al violetto al blu scuro al nero. Le stelle apparvero a una a una. «È lassù», disse Anna piena di nostalgia e la indicò. «Là in cima. Non si può vedere la grotta da qui, ma so che fa sempre la guardia». «Parla di lei come se fosse reale». «È reale, ma non come pensa Lei». «In che modo è reale?». «Rappresenta un mondo che è passato. Era un'epoca storica più semplice, ma aveva una certa bellezza che non esiste più». «È sicura che non esista più?». «Guardi il mondo, avvocato Elia. Lo guardi, amico mio». «Lo guardo di continuo». «Anch'io lo guardo di continuo».
Anna si alzò e rientrò, ritornando poco dopo con due bicchierini di vino. «Trova che io sia difficile da convertire, no?». «Non è quello che penso di Lei». «E che cosa pensa di me?». «Penso che sia un'amica». «Una giovane amica». «Sì». «Una giovane amica intossicata dalle scorie del XX secolo?». «Che genere di amico vuole, Anna? Uno che Le menta?». «Naturalmente no. Penso che Lei abbia risposto alla mia domanda». «Tutto il mondo è contagiato. Questo secolo ha colpito i sensi dell'uomo con un tale orrore che la mente si ritrae. Un male così grande scuote l'esistenza nel suo nocciolo più profondo. Lo si creda oppure no. Noi scegliamo. Mia moglie una volta mi ha detto una cosa sorprendente. Conosceva molti sopravvissuti dell'Olocausto. Diceva che in alcuni quell'esperienza aveva distrutto la fede in un Dio buono. Altri credevano ancora più profondamente di prima». «E il motivo è insondabile». «È alquanto semplice». «Per Lei tutto è semplice». «Non è così. Ricordi che per molti anni sono stato più intossicato, come lo chiama Lei, di quanto non sia Lei». «E così si è rifugiato nel mondo della religione per evitare di diventare pazzo». «Ora, chi la sta facendo semplice?». «Mi scusi», disse Anna sfregandosi la fronte. «È stata un'affermazione priva di tatto. Mi perdoni». «Quelli che non hanno perso la fede hanno trovato un significato sotto l'orrore». «Qual era il significato?». «Hanno capito che i poteri del male devono essersi sentiti minacciati tanto da scatenare una tale malvagità contro le persone di fede». Anna ci meditò sopra. «Lei lo chiama male. Io lo chiamo irrazionale». «Ma gli architetti della Shoah erano alquanto razionali. Alcuni di loro avevano lauree in filosofia; altri erano maestri di logica». «Il Suo presupposto è che i poteri del male esistano davvero». «Esistono. Le assicuro che esistono». «Questa è un'affermazione di fede, non una conoscenza empirica, il ge-
nere di prove su cui - da giudice - devo basare le mie decisioni». «Non sono un pubblico ministero in questo caso; sono un testimone». «Mi deve lasciar prendere fiato. Ci sono state troppe cose concentrate in così poco tempo». «Non rimane molto tempo». «Allora mi lasci definire l'argomento una volta per tutte. Se vuole il mio giudizio definitivo, glielo dirò: la mente umana è prevalentemente soggettiva. I sistemi religiosi sono il risultato della necessità dell'uomo di sperare. Egli proietta le sue credenze sul cosmo. È tutto qui». «Mi dica, Anna, se l'uomo è capace di proiettare le sue credenze sul cosmo, non è possibile allo stesso modo che riesca a proiettare la sua incredulità sul cosmo?». Anna ci pensò sopra. «Va bene. È un buon argomento, ma del tutto teorico». «Lo è? Penso che veniamo continuamente bombardati da una moltitudine di prove concrete che rendono testimonianza delle realtà invisibili. La maggior parte delle persone non vuole vederle, e perciò mette gradualmente a tacere le proprie capacità percettive, una dopo l'altra». «Lei ci deve considerare una generazione cinica!». «Per niente. Non penso che sia un rifiuto consapevole di accettare la verità. L'incredulità è radicata nell'incapacità di fidarsi. Occorre uno sforzo di volontà per aver fiducia nella bontà ultima della vita, e le esperienze che il genere umano ha sopportato per più di un secolo non incoraggiano certo la fiducia. E soprattutto, questa è un'epoca di paura». «Eccoci di nuovo. Ci giriamo intorno», sospirò Anna. «Astrazioni su astrazioni. Come ha detto Lei, il nostro tempo è breve. Entriamo, no? Ci sono ancora alcuni fatti concreti che Lei deve sapere». Gli indicò una sedia a dondolo vicina alla stufa. Ravvivò la fiamma e fece un caffè. Quando ebbero in mano le tazze fumanti, Anna si sedette su una panca di fronte a Elia. Incrociò le gambe, serrò le labbra e lo guardò direttamente negli occhi. «Non sono stata completamente sincera con Lei». «Oh?». «Non che abbia mentito, capisce? Questo mi farebbe orrore. Ma c'è qualcos'altro in cui sono coinvolta. Non è una cosa bella». «Me ne può parlare?». «Siamo stati proprio vicini questo weekend. Siamo amici. L'ammiro e credo nella Sua integrità. Lei è come è. Lo si può dire di poche persone in
questi giorni». «A che cosa vuole arrivare, Anna?». «Voglio che rimaniamo amici. Ho bisogno di Lei come una figlia ha bisogno di un padre. Forse non è sempre d'accordo con lui, ma sa che lui vuole solo il meglio per lei nel suo cuore». «Ma naturalmente». «Ho paura di dirLe una cosa. Forse non Le piacerò più». «Anna! Mi conosce troppo poco, se ha paura di questo». Anna fissò il pavimento. «Si ricorda che cosa Le ho detto ieri sera del mio rapporto con la cerchia del presidente, della mia posizione unica? Dopo la morte di Stefano ci sono rimasta dentro, perché avevo bisogno della vita di società come difesa dalla pazzia. Per anni ho navigato sulla superficie della sua compagnia, distratta, non consapevole dei cerchi nei cerchi che sono la vera composizione del suo mondo. Poi l'anno scorso, quando ho visto quello sguardo sul suo volto, quello sguardo che mi ha risvegliato il ricordo dei suoi sentimenti contro Stefano, ho cominciato a osservare seriamente. Ho cominciato ad afferrare barlumi del gran numero di cerchi concentrici che lo circondano, l'enorme rete dei suoi contatti. Mi ha spaventato. Ho capito che avrei potuto essere una di quelle persone deluse che girano intorno a lui come satelliti, che pensano di essere libere, ma che in effetti sono possedute da lui». «Ma non ha alcuna pretesa su di Lei. E se Lei ha ragione riguardo al suo coinvolgimento - in un modo che non conosciamo - nella morte di Stefano, non rappresenterebbe una minaccia per lui?». «Lei non lo conosce. Per anni ho pensato che fosse innamorato di me e che io controllassi la situazione con le mie difese. Come sono stata sciocca! Penso che mi legga come un libro aperto. Pensavo di usarlo, ma per tutto il tempo si stava servendo di me». «Come ha fatto a servirsi di Lei?». «Se i miei sospetti sono esatti, penso che gli abbia procurato un certo piacere perverso che la vedova dell'uomo che aveva ucciso fosse una sua seguace devota». «Potrebbe essere così depravato?». «Se Lei avesse visto il corpo di Stefano... che cosa gli hanno fatto. Chiunque ne sia stato responsabile è depravato». «Ma perché dovrebbe desiderare la Sua compagnia? A quale scopo?». «Gli ricordo costantemente che è incredibilmente abile e incredibilmente al sicuro».
«Sa che noi due siamo in contatto?». «Ne è a conoscenza. Ma non conosce il contenuto delle nostre conversazioni. Non sospetta niente della mia nuova consapevolezza. Pensa che io sia una seguace fedele, naturalmente una di alto livello. Lei deve sapere che ogni soggetto fedele viene ricompensato. A me ha concesso un bel premio. È stato lui che ha organizzato il mio trasferimento dalla Corte di Cassazione in Italia alla Corte Internazionale all'Aja». «Ha chiesto qualcosa in cambio?». «Sì». «Che cos'era?». «Riguarda Lei». «Me?». «La sera prima che ci conoscessimo, mi ha parlato di un prete che avrebbe partecipato alla festa, un uomo che era arrivato di recente da Israele, di cui il Vaticano si stava servendo come inviato. Ha detto che il prete era una persona che molti anni prima era stato - per dirla con le sue parole - istruito per diventare una figura-chiave nella ristrutturazione dell'Occidente». «Ma non è vero». «Ha detto che Lei si era ritirato scomparendo dalla vita pubblica. Non ha spiegato perché. Ha detto che desiderava farLe alcune proposte, introdurLa nella nostra sfera di attività. Tuttavia pensava che a causa della Sua religione semplicistica non sarebbe stato facile portarLa dalla nostra parte. La nostra parte, così l'ha chiamata. Ha suggerito che se fossi entrata in confidenza con Lei, avrei potuto farLe capire la grandezza della sua visione. Gli ho chiesto come mi sarei dovuta comportare. Mi ha fatto capire, nel modo più discreto possibile, che Lei era un uomo con un dubbio irrisolto, una debolezza che permaneva nella Sua personalità a causa delle terribili esperienze che aveva sopportato durante la guerra. Mi ha detto che un contatto avrebbe potuto rassicurarLa del valore positivo della nostra visione del destino umano. A poco a poco Lei avrebbe visto che non siamo una minaccia per la Chiesa, che siamo persone di buona volontà e che in ultima analisi abbiamo a cuore il bene del genere umano. Un bel discorso basato su nobili principi». «L'ha mandata a conquistare il mio cuore». «Sì, a conquistare il Suo cuore per la causa». «E a farlo conquistando per sé personalmente il mio cuore?». «Temo che sia così».
«Capisco. Ecco perché lo strano ordine dei posti alle due cene». «Giusto». «Non si è sentita offesa da una tale proposta?». «Era una missione intrapresa con gli intenti più nobili». «Sì, ma il messaggio era chiaro». «Assolutamente sì. Il presidente sa che non sono stupida. Sotto il linguaggio sottile, mi stava chiedendo di farLa innamorare di me». «E Lei che cosa ha pensato di tutto questo?». «Ho pensato che fosse spregevole e assurdo, ma non gli ho fatto capire quello che provavo. Gli ho lasciato credere che avrei fatto quello che mi chiedeva, perché credevo nella causa». «Crede nella causa?». «Lei sa molto bene che nutro delle riserve riguardo al programma». «Lui lo sa?». «Adesso lo sa, dopo la mia seconda relazione a Varsavia. Ma molti dei suoi sostenitori hanno dei dubbi riguardo a questo o quel dettaglio del Piano - così lo chiamano fra di loro. Non è insolito per loro essere in disaccordo sulle strategie o su punti marginali della loro filosofia. Al presidente piace creare l'impressione di un dialogo aperto. Ma vince sempre. Riesce a convincere tutti di qualsiasi cosa. La mia piccola ribellione non l'ha preoccupato affatto. Penso che lo abbia rassicurato che sono un battitore libero. Questo è quello che vuole che io creda, capisce?». «Sembra tutto molto contorto». «Non è così contorto come sembra. Se fossi un perfetto robot, avrebbe dei sospetti. Così, capisce, la mia piccola slealtà ideologica non rappresenta un problema di grande portata». «Spero che Lei abbia ragione». «Il presidente non si rende conto che ora possiedo una mappa della struttura del labirinto. Non mi inganna più; non vago più lì dentro senza meta». «Ma, mi dica, perché è andata avanti con quello che Le aveva chiesto?». «Pensavo che sarebbe stato un modo per avvicinarmi al nocciolo delle sue attività e, quindi, per varcare molte porte che mi erano chiuse. Dietro una di quelle tante porte alla fine avrei potuto trovare chi aveva ucciso Stefano». «Questo è un gioco pericoloso, Anna». «Che cosa ho da perdere?». Elia non le disse che cosa aveva da perdere. La vita? Gianna? Marco? «Ora che Le ho detto tutto, mi disprezza?».
«No». «Ho cercato di essere sincera. Se si sente offeso, La prego di perdonarmi». «Non c'è niente da perdonare». «Ho fatto finta di adeguarmi. Ero al posto giusto nel momento giusto. Ma Lei sa che non ho mai fatto niente per incoraggiare...». «Non ha mai fatto niente per incoraggiare una relazione». «Malgrado questo...». «Malgrado questo. Lei mi ha letto nel cuore». «Questa è l'unica cosa che non mi aspettavo. Mi dispiace. Non volevo che succedesse». «Nemmeno io». «E per dirla tutta, non è successo niente». Elia annuì con la testa e si fissò le mani. Anna si alzò, si avvicinò alla credenza e ne tirò fuori due bicchieri. «Vuole del vino?». «No». «La chiacchierata è finita? La capirei se ora non mi volesse più vedere. Chiederò a Marco di riportarLa a Roma questa sera, se vuole». Elia alzò lo sguardo e le sorrise. «No. Va tutto bene». «Mi dispiace che Lei sia solo. Mi dispiace che abbia perso Ruth». «Mi dispiace che abbia perso Stefano». Rimasero seduti in silenzio per un po' di tempo, ad ascoltare la legna crepitare nella stufa. «Com'era Ruth?». «Le sarebbe piaciuta. Sareste state amiche». Le raccontò alcune delle cose più belle di Ruth. «Sembra proprio una persona di qualità. So che mi sarebbe piaciuta». «Sì, lo penso anch'io». «Non c'è molto di più da dire, no?». «Niente, e tutto». «Sono contenta che Lei abbia la fede». «Vorrei che Lei lo capisse. Non è un puntello. È l'avventura più grande di tutte». «È un tempo difficile per i cattolici». «Un tempo per il coraggio». «Ne avrà molto bisogno. Ci saranno altri problemi. Spero che mi concederà di rimanere Sua amica. Posso tenere le orecchie e gli occhi aperti. Po-
trei farLe sapere delle cose». «Non penso che dovrebbe. Se quello che mi ha detto è giusto, Lei si trova in una compagnia pericolosa». «Non mi importa. Non ho paura». «Ho paura io per Lei. Penso che dovrebbe uscirne. Li lasci, Anna. Adesso». «Non posso. Non posso per Stefano e per me. Proseguirò fino al limite delle mie forze. Lo scoprirò». «Lasci perdere. Dio potrebbe avere altri piani per quell'uomo. Noi speriamo di tirarlo fuori dalle tenebre. Alla fine, potrebbe aprire le porte per propria scelta». Anna lo guardò piena di pietà. «Elia, Lei non li capisce». «Nutro la speranza di parlare al suo cuore e di richiamarlo, come sono stato richiamato io». «Lei è ingenuo. Sanno tutto dei vostri piani». «I nostri piani sono semplici e diretti. Che cosa c'è da sapere?». «Sanno, per esempio, che Lei e qualcuno del Vaticano da un anno state parlando di persone che loro hanno infiltrato nella Curia». «Davvero? Quali persone?». «Non conosco i nomi. Non so che cosa significhi, ma penso di aver saputo qualcosa che potrebbe esservi utile. Ero presente a una festa poche settimane fa, durante la quale il presidente e alcuni dei suoi consiglieri più stretti stavano chiacchierando vicino a me. Io ero impegnata a parlare con gli organizzatori di una mostra d'arte a Venezia. Quando ho sentito qualcuno sussurrare il nome Schäfer, ho cominciato ad ascoltare con un orecchio. Poi qualcuno ha citato il Mar Morto. Ci stavano ridendo sopra. Non sospettavano che avessi sentito quella battuta sulla Morta Sede di Roma. Pensavano di poter parlare della Chiesa in codice e nessuno che li avesse ascoltati avrebbe capito niente. La stanza era piena di persone. Si stavano svolgendo contemporaneamente tante conversazioni e loro hanno fatto l'errore di pensare che nessuno avrebbe avuto la più pallida idea di quello di cui stavano parlando. A causa della Sua conferenza a Varsavia, hanno capito che Lei è un prete ortodosso e che sarebbe stato virtualmente impossibile cambiarLa. Hanno archiviato la nostra ipotetica relazione come una tattica che non aveva portato a niente. Stavano discutendo altre strategie. Hanno parlato di Lei e di altra gente in Vaticano come di ragazzini che giocavano a fare le spie.
Hanno detto di Lei e di qualcun altro - qualcuno che hanno chiamato "il giardiniere" - che stavate organizzando una grande operazione di controspionaggio e che sarebbe fallita. Il presidente pensava che Lei avrebbe dovuto proseguire con il Suo piano ancora un po', perché trovava divertente tenerlo d'occhio. Ci sono state allusioni a così tante cose, ma adesso non riesco a ricordarmi tutto. Alcune cose riguardo a un inglese. La Cina. Il Vietnam. Rose. La maggior parte non aveva senso per me». «Hanno usato la parola giardiniere?». «Si. Chi è?». Elia la fissò, e il suo cuore cominciò a battere più velocemente. «Anna, vorrebbe fare una passeggiata con me? Ho bisogno di un po' di aria fresca». «Va bene». Passeggiarono lungo il sentiero sotto le stelle. La vista di Elia di notte non era tanto buona e inciampava. Anna gli prese il braccio e proseguirono così fino a quando raggiunsero la strada pavimentata. Svoltarono e proseguirono verso nord. «Si sente meglio?». «Dobbiamo continuare a camminare». «Che cosa c'è? Che cosa succede?». «Lei mi ha appena dato un'informazione devastante. Sanno dei nostri piani. Sanno tutto. I nostri sforzi di evadere la loro sorveglianza sono falliti». «Sorveglianza? Forse qualcuno ha raccontato loro dei vostri piani». «Per quanto ne so, solo un piccolo numero di persone è a conoscenza della mia missione». «Chi sono?». «Il papa, il segretario di Stato, il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, padre Matteo ed io». «Allora, come potrebbero...?». «Anna, quanto è sicura la casa di campagna?». «Sicura?». «È possibile che abbiano collocato dispositivi elettronici per ascoltare le nostre conversazioni?». «Molto improbabile». «Ne è sicura? Perché, se non ne è sicura, è in grande pericolo. Potrebbero aver sentito tutto quello di cui abbiamo parlato questo weekend». «Non deve preoccuparsi».
«Perché no?». «Perché qualcuno ha già installato delle microspie nei miei uffici. È andato avanti per due anni. So tutto». «Chi lo ha fatto?». «All'inizio pensavo che fossero organizzazioni politiche italiane. Marxisti, forse, o fascisti. Crimine organizzato. O altri gruppi radicali. Ho lasciato le microspie al loro posto». «Perché lo ha fatto?». «Quando ho capito che la fonte avrebbe potuto essere più vicina di quanto sospettassi prima, mi sono resa conto che sarebbe stato meglio per loro pensare che conoscevano tutti i miei movimenti». «Ma la fattoria?». «È l'unico posto a cui tengo davvero. Sono qui di rado e sanno che è un posto che non userei mai per affari o per questioni che potrebbero essere interessanti ai loro occhi. Sono sicura che sentirebbero solo le riflessioni di Gianna e i resoconti che Marco fa delle sue prodezze sportive. Inoltre, ho preso le mie precauzioni». «Che genere di precauzioni?». «Uno dei fratelli di Stefano ha una società che si occupa di sistemi di sicurezza a Milano. Il presidente non gli piace. Non saprebbe dire il perché, dice solo che Stefano non si fidava di lui e, quindi, perché dovrebbe farlo lui. Mi ha sollecitato spesso a lasciare quell'ambiente, così penso che non ci sia pericolo che sia coinvolto. Ogni anno, prima che io arrivi qui per le vacanze, passa in rassegna la casa centimetro per centimetro, letteralmente. I piani, il solaio, le travi del tetto, la parte inferiore delle credenze, i buchi nelle pareti, le aiuole, le crepe nell'intonaco all'esterno. Ha un equipaggiamento speciale. Ci vogliono due giorni per coprire tutto. Lo fa in modo che io arrivi quando sta finendo. È molto bravo nel suo lavoro. Non ha mai trovato niente qui». «Ha controllato anche la Sua automobile?». «Sì. Ha trovato una cimice lo scorso anno. Non l'abbiamo toccata. Ci siamo limitati a parcheggiare la macchina a Milano e per quella settimana suo figlio mi ha prestato la sua macchina scassata. Di solito arrivo a Roma in aereo e ho preso l'abitudine di noleggiare una macchina all'aeroporto. Ne scelgo una a caso fra quelle disponibili». «Spero per Lei che non abbia tralasciato niente». «Sono sicura che siamo al sicuro per adesso». Si voltarono e tornarono alla casa.
Anna ravvivò il fuoco. Cercarono di fare inutili tentativi di una conversazione leggera. Non riuscivano a scrollarsi di dosso l'inquietudine. «La paranoia è un virus mortale», disse Elia fissando le pareti. Anna colse il suo sguardo. «Qualche volta persino i paranoici vengono perseguitati», disse sorridendo divertita. Risero. Elia le disse di essere molto stanco dalla notte precedente e dalla salita in montagna. «Sono un uomo anziano. Ho bisogno di riposo». Anna lo fece sdraiare sul divano in salotto e gli mise addosso una coperta all'uncinetto. C'era un vecchio grammofono nell'angolo della stanza. Fece fare parecchi giri alla manovella, abbassò il volume e mise la puntina sul disco. La stanza si riempì di musica operistica. Sebbene fosse gracchiante e leggera, era la voce di un'epoca scomparsa, d'altri tempi, antica, rassicurante. Più tardi, quando si svegliò, Elia vide che Anna stava leggendo seduta su una semplice sedia alla luce di una lampada. Gli sembrò che, se la vita fosse andata diversamente, questa scena di quiete avrebbe potuto presentarsi in un altro modo. Avrebbero potuto essere qui insieme, come marito e moglie. Si liberò del pensiero. Pregò in silenzio per lei. Poco dopo, si sentì rombare una macchina, e Gianna e Marco si precipitarono dentro pieni di gioia. Andarono tutti in camera e si misero a dormire. La mattina successiva lo portarono alla stazione ferroviaria. I due ragazzi stavano per tornare a Milano e Anna li avrebbe accompagnati. Avrebbe proseguito per Ginevra. Aveva offerto a Elia di noleggiare una macchina per farlo riportare a Roma, ma Elia insistette che il viaggio in treno sarebbe stato un piacere. Quando si dissero arrivederci, Anna gli prese le mani nelle sue. Gli assicurò che la sua visita aveva significato per lei più di quanto potesse immaginare. Elia promise che non avrebbe smesso di pregare per lei. Lei annuì. «Buona fortuna», disse Anna. Gianna lo baciò su entrambe le guance e Marco gli strinse forte la mano. Lo ricoprirono di una marea di saluti. Elia salì in treno e partì. 17 Roma «Ho cercato di mettermi in contatto con Lei per giorni», disse il cardina-
le. Elia tenne il telefono lontano dall'orecchio. «Non ha ricevuto il mio messaggio?». «Messaggi! Messaggi! Continuano a smarrirsi e nessuno sa dove sono finiti! Dove è stato?». «Un breve viaggio. Ho saputo alcune cose importanti. Possiamo incontrarci e parlarne?». «Questa sera allo stesso posto. Alle otto?». «Ci sarò». Quando Stato arrivò alla cappella delle catacombe, Elia espresse il desiderio di non scendere giù alle tombe. «Temo che nessun posto sia sicuro», spiegò. «Proseguiamo per la campagna». Il cardinale guidò in silenzio, era chiaramente di umore irritabile. Una mezz'ora più tardi lasciò la strada e svoltò in un sentiero che terminava in un uliveto. Cento metri dopo, frenò la macchina e si mise a fissare il parabrezza. «Allora! Mi racconti le novità. Non dubito che siano cattive». «Dobbiamo camminare». «Bene! Camminiamo!». Brontolò mentre tirava fuori dalla Volkswagen la sua corporatura abbondante. Aveva una torcia elettrica. Elia se la fece dare, la smontò vicino alle luci di posizione, la esaminò minuziosamente, la rimise insieme. «Che cosa sta facendo?». «Eminenza, è una storia lunga». «Allora, inizi!». «Prima di tutto, posso chiederLe se porta addosso qualcosa che potrebbe nascondere un congegno elettronico?». «Una cimice? Impossibile!». «La prego, possiamo controllare?». Sospirando, il cardinale rovesciò le proprie tasche. Vennero fuori un libriccino di preghiere, un rosario, alcune monete, un mazzo di chiavi, un flacone di medicinali - «Per il cuore», spiegò -, un portafoglio con alcune tessere e poche lire. Nel taschino portava una biro di poco valore e una teca d'oro. Elia smontò la penna e la rimise insieme. «Che cosa c'è dentro qui?», chiese indicando la teca. «È una reliquia di san Carlo Borromeo. È il mio patrono, un cardinale
santo, un uomo saggio. Se solo fosse con noi adesso!». «È qui», disse Elia, «ma forse ci sono anche altri oltre a lui. Posso aprirla?». «Naturalmente, ma non c'è niente da vedere. Solo un ciuffo di capelli. Lo porto vicino al mio cuore tutto il tempo». La teca conteneva un reliquiario di vetro circolare appoggiato su un letto di velluto color porpora. Elia diede il reliquiario al cardinale e sollevò la stoffa sul fondo della teca. Fissato sul lato inferiore trovò un componente elettronico in miniatura collegato a una batteria come quella che alimenta gli orologi da polso. «Che cos'è?». «È una ferita dalla quale la Chiesa sta sanguinando». La fissarono. «Mio Dio!», sussurrò il cardinale. Si fissò il soprabito e i pantaloni. Mise avanti un piede e si guardò la scarpa sospettoso. Afferrò i risvolti della giacca e li scrollò come se contenessero delle pulci. «Ma è scandaloso!». «Eminenza, Le dispiacerebbe tornare in macchina?». Indumento per indumento, il cardinale passò in rassegna i propri vestiti. Non trovarono altre cimici. «Penso che ora ci dovremmo incamminare». «Prima di tutto mi dia quella cosa. La voglio smontare!». «Come vuole». «No! Aspetti, non la tocchi», disse il cardinale. «La lasci sul sedile della macchina. Quando torno al mio appartamento, metterò la teca accanto al registratore. Penso che dovremmo infliggere ai nostri ascoltatori un vero supplizio. Ho ore e ore di registrazioni delle conferenze dedicate alla teologia mistica. Sì, perfetto. E anche il ritiro spirituale che ho tenuto alla Casa Pontificia lo scorso anno. E poi le cassette che le suore hanno fatto dei miei corsi sulla Scrittura. Settimane e settimane. Questo dovrebbe tenerli occupati per un po'». Rise per nulla divertito. «Potremmo addirittura conquistare un'anima!». Proseguirono a piedi per un po' nell'uliveto, il sentiero illuminato dalla torcia elettrica. «Come ci sono riusciti?». «Immagino che Lei dorma ogni tanto. Che faccia il bagno». «A causa di questi piccoli colpi siamo crollati! Basta! Ne ho abbastan-
za!». L'umore irritabile del cardinale si era trasformato in sconforto e confusione. «Che cosa significa? Chi è questa gente?», disse. «Questo è il tema del nostro incontro. Credo di sapere chi sono». Gli descrisse dettagliatamente la visita a Foligno. «E così, come vede, sono stati a conoscenza dei nostri piani per tutto il tempo. Il presidente ha giocato con noi come il gatto con il topo». «Prima di divorarlo», disse il cardinale di cattivo umore. «Non siamo ancora stati divorati. Ed è la Sposa di Cristo quella con cui sta giocando. Penso che nostro Signore abbia alcune cose da dire a quell'uomo. Non è ancora finita». «Considerando quello che Lei mi dice, e quello che è successo alla Chiesa nelle scorse settimane, potremmo essere più vicini alla fine di quanto sembri». «La situazione è così brutta?». «Alcuni cardinali hanno concesso delle interviste alla stampa. In modo cauto, hanno fatto sapere che il Santo Padre sta perdendo colpi. È una cosa senza senso, naturalmente. Nello spirito è forte come sempre, e la sua mente è lucida. La sua salute fisica si sta indebolendo, ma non così tanto come vogliono far credere a tutti». «Almeno questo fa capire chi è contro di lui». «Sì, è utile. Ma è un brutto colpo». «Perché lo stanno facendo?». «Vogliono un nuovo inizio. Dicono che il papa non era l'uomo giusto per questa epoca. Vogliono qualcuno giovane che possa portare la pace al nostro interno. Vescovi contro vescovi, cardinali contro cardinali. La stampa cattolica sta litigando aspramente. Tutte le nostre zuffe in famiglia vengono messe in piazza. I progressisti si stanno facendo più audaci. Molti scrittori - persino alcuni che pensavamo fossero affidabili - stanno chiedendo a gran voce un nuovo modello di Chiesa, una Chiesa democratica, una Chiesa di base, e sostengono che le loro richieste sono suggerite dallo Spirito Santo. All'altro estremo dello spettro, gli ultraortodossi stanno gridando che il papa è nelle mani dell'Anticristo, chiunque sia. Vecchi amici sono dipinti con colori smorti, nuovi eroi vengono esaltati. Il cardinal Vettore, per esempio...». «Non ho sentito parlare di lui di recente. Che cosa sta facendo in Oriente?».
«Grandi cose per la Chiesa, dice la stampa. Ed è vero. Ha ottenuto dai vietnamiti il permesso per i vescovi cattolici di partecipare al prossimo sinodo a Roma. È in Cina, al momento, immagino a negoziare con il governo maggiori diritti per i cattolici. La Chiesa clandestina sta soffrendo una terribile persecuzione, ma solo un esiguo rivolo di notizie a questo proposito arriva in Occidente. In compenso, c'è un diluvio di interviste di Vettore sulla Chiesa nazionalista. La loda per la sua capacità di sopravvivere in una situazione difficile. Tutto questo appare ai commentatori estremamente ragionevole. La fama di Vettore sta crescendo. Viene chiamato il "pacificatore del Vaticano". Il Santo Padre gli ha mandato un messaggio ammonendolo a non rilasciare più affermazioni che incoraggino la Chiesa nazionalista e spingendolo a parlare della Chiesa sofferente in Cina ogni volta che rilascia un'intervista. Per quanto ne so, non c'è stata risposta dal cardinale. Potrebbe essere che la censura abbia tagliato ogni riferimento alle persecuzioni. O potrebbe essere che Vettore stesso sia il problema». «Qual è la Sua opinione?». «Una combinazione delle due ipotesi». «Lo richiamerà a Roma?». «Abbiamo problemi a metterci in contatto con lui. È in viaggio nell'entroterra della Cina. Devo dire che lui invece non sembra avere problemi a far arrivare i suoi articoli e le sue interviste in Occidente». «Non è un caso evidente di disobbedienza?». «È molto sfuggente. Inoltre, abbiamo altre cose di cui preoccuparci nel panorama internazionale. Diventa più complesso ogni giorno di più. La Cina si sta muovendo in modo enigmatico su più livelli. La Russia è fragile e in una situazione pericolosa. L'Europa occidentale è infatuata della nuova visione del mondo offerta dalla conferenza Unitas. Le nazioni islamiche stanno dichiarando la guerra santa contro gli infedeli che vivono in esse e contemporaneamente si stanno criticando duramente le une con le altre. Il presidente va da tutti, negozia qui, esercita un po' di pressione là, calma tutti. In tutto questo, il Santo Padre diffonde un torrente di saggezza, non cessando mai di affermare che Cristo è il Signore della storia, la fonte di ogni vera unità, pace e speranza. Dalla sua bocca scorre un grande fiume di luce e si perde per terra. Nessuno lo ascolta». «Alcuni lo fanno». Il cardinale si asciugò il volto con la mano e sospirò. «Non molti. È scoraggiante». «A livello umano».
Il cardinale alzò lo sguardo per osservare le stelle che si erano mostrate in uno squarcio fra le nubi. Si calmò. Si girò verso Elia. «Grazie per la Sua pazienza. Un uomo vecchio e irritabile che dà sfogo alle sue frustrazioni. Non è molto edificante, no?». «Siamo umani. Inciampiamo, proprio come gli apostoli. Ma ci risolleviamo e continuiamo, proprio come hanno fatto loro». «È vero». «Anche se il diavolo ottiene grandi successi, anche se riesce a ingannare la maggior parte del mondo, persino allora non dobbiamo perdere la speranza. Non è stato predetto che la Chiesa un giorno sarebbe passata per questa seconda Passione?». «Speravo che non accadesse nella nostra epoca». «Crede che sia arrivata?». «Non ne sono ancora convinto», sospirò il cardinale. «Ma si fa sempre più chiara. Non c'è mai stata una situazione come questa». «La caduta di Roma? Le invasioni barbariche?». «In quei giorni il mondo aveva i suoi cattivi maestri, Tiberio, Nerone e Domiziano. Ma persino nel mezzo del collasso della civiltà, il mondo è riuscito a strisciare fuori dalle tenebre. Noi ci stiamo ricadendo, e questa è la differenza. I nostri autocrati non sono tiranni viziosi. Sono gli architetti del potere mondiale e manipolano tutte le risorse della psicologia moderna per controllare l'anima dell'uomo e farne uno strumento al loro servizio». «In un certo senso sono dei puritani severi». «Oh, sì, ma questi puritani possono fare del male in modo freddo, motivati da alti ideali». «Ha paura?», chiese Elia con gentilezza. «Un cardinale può ammettere di avere paura? Sì, ho paura. Paura per tutti gli innocenti che stanno cadendo in bocca a quella fiera». «Che cosa farà il Santo Padre?». «Continuerà a fare fino alla fine quello che sta facendo. Dobbiamo comportarci come lui. Il nostro compito è annunciare Gesù. Dobbiamo rafforzare le cose che ci restano. Non tocca a noi contare il numero di quelli che ascoltano». Elia si sforzò di scacciare una sensazione di paura. Il cardinale si voltò e lo guardò. «Sa, se qualcuno mi avesse detto tre anni fa che sarebbe successo così repentinamente, non ci avrei creduto. Lo avrei respinto come allarmismo. Ora, non ne sono così sicuro. Nello spazio di pochi anni abbiamo visto la situazione passare da una relativa stabilità a
un crescente caos. Sta accelerando rapidamente. Non avrei saputo prevedere la velocità con cui è successo». «C'è ancora tempo. Possiamo ancora sperare». «Sperare? Soprattutto dobbiamo sperare. Le sicurezze umane stanno scomparendo a una a una. Ogni anima è stata pesata sulla bilancia. Molte stanno trascurando il loro momento di prova. Sono scoraggiato soprattutto dai nostri pastori». «Molti di loro rimangono fedeli». «Mi domando se ce ne saranno ancora quando il calore si farà insopportabile. A un certo punto diventerà una questione di martirio». Era il momento di Elia di mostrarsi frustrato. «Eminenza, questo più di qualsiasi altra cosa mi spinge al peccato dell'ira. Resisto ancora. Spingo quelli che vengono da me come direttore spirituale a resistere, a pregare, a digiunare, a perdonare. Ma nonostante questo, sono in conflitto con i miei sentimenti. Quando Anna mi ha raccontato della tortura e della morte di suo marito, la realtà del martirio mi ha colpito definitivamente». «Dobbiamo tutti passare dalle storie devote che abbiamo letto nei martirologi alla realtà della carne e del sangue vivo. I nostri primi martiri erano uomini e donne veri, con le loro personalità, i loro difetti e le loro grandezze. Noi non siamo differenti». «Se solo potessimo affrontare i poteri delle tenebre come un corpo unico!». «Se solo, se solo... il vecchio ritornello. Ma è stato sempre così. In tutte le principali crisi della nostra storia, abbiamo dovuto sopportare il tradimento di coloro che avrebbero dovuto curare il gregge! È la stupidità e la debolezza umana». «Ma i nostri vescovi dissidenti non riescono a vedere quello che stanno facendo?». «Una cecità di quella portata è radicata nel peccato, il peccato più difficile da scorgere in se stessi, e persino ancora più difficile da sradicare: l'orgoglio. L'antico stratagemma del nemico». «Qualcuno li deve mettere in guardia!». «Sono stati messi in guardia innumerevoli volte. Non ascoltano». I vecchi dubbi cominciarono a tornare a galla. «Perché nostro Signore permette che succeda?». Il cardinale sorrise tristemente e mise la mano sulla spalla di Elia. «Una tale preoccupazione nella Sua voce, amico mio... Sento da Lei lo stesso grido che è stato strappato dalle labbra degli apostoli durante la tempesta
sul lago, quando la barca stava affondando, mentre il Signore dormiva». «Mi vergogno. Naturalmente Lei ha ragione. Nel momento finale, si risveglierà e sederà la tempesta. Poi tornerà da noi e ci chiederà perché abbiamo avuto così poca fede». «Precisamente. Nel frattempo, portiamo la croce. Osserviamo il tradimento. Soffriamo». «Possiamo fare qualcosa!». «Deve capire, padre, che lo scopo del diavolo, quando sementa la rivoluzione nella Chiesa, è gettarla in confusione, perché la sua attenzione sia distratta e le sue energie disperse. In questo modo veniamo indeboliti proprio nel momento della storia in cui avremmo bisogno di essere più forti». «Perché il Santo Padre non agisce? Non può imporre a questi prelati l'obbedienza?». «Lo ha fatto ripetutamente e nel modo più cristiano. Ma non comanda una polizia, o un esercito. Di recente è stato più fermo con i dissidenti. Il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede è incrollabile nei suoi sforzi di tenere a freno la rivolta. Un vero esercizio di autorità. La soluzione però non è l'autoritarismo, perché quello getterebbe solo benzina sul fuoco della rivolta. Il Santo Padre opera finché c'è luce. Richiama noi tutti a Colui che ha portato la croce e che è morto su di essa. Nelle sue mani porta solo questo, una croce; parla sempre del trionfo della Croce. Quelli che non vogliono ascoltare ne risponderanno a Dio». *** Smith passò da Elia quella settimana e lo invitò a prendere un caffè. Andarono al bar sul Tevere e si sedettero al loro solito tavolo. Bevvero un espresso. Per il viale volavano via le foglie. Smith si accese la pipa e aspirò furiosamente. Indicò con il bocchino oltre il fiume. La basilica di San Pietro brillava dorata al tramonto. «Tutto sembra normale, no, Elia?». «Che cosa vuol dire?». «Niente, niente di niente», disse in una nuvola di fumo. «Lei ha qualcosa in mente». «Quasi niente. Bene, per dire la verità, volevo chiederLe da tanto tempo che cosa pensa di tutti questi fenomeni straordinari». «Quali?». «Ce ne sono a centinaia. Visioni, miracoli, statue che piangono, luci nel
cielo. Ne scelga uno. Uno qualsiasi». «Ho osservato, ascoltato, pregato». «E...?». «Naturalmente alcuni sono di origine dubbia». «Questo si chiama minimizzare. Cosa ne pensa di quella signora che sta andando in giro per il mondo a dire che Gesù le ha detto che il papa deve cambiare condotta o Lui lo abbandonerà?». «Penso che sia vittima della propria immaginazione o di un inganno di natura spirituale». «Bene. Lo penso anch'io. Quella donna ha tirato fuori un argomento inattaccabile: ehi, bravi cristiani, se respingete i miei messaggi, respingete Gesù che me li ha dati. Ora, se comprerete il mio prossimo libro...». «Piuttosto difficile resistere, no?». «Lo dico anch'io! Ora, dall'altro lato, abbiamo un grappolo di visionari che affermano che, se vogliamo essere di Gesù in questa babilonia, dobbiamo stare vicini al papa». «Credo che questi siano sinceri. Tuttavia, c'è una confusione crescente fra i seguaci più stretti di nostro Signore. C'era da aspettarselo». «Lo so, lo so. Vorrei solo che ci fosse maggiore chiarezza. Alcuni miei amici di ritorno negli Stati Uniti si sono uniti agli scismatici. Sono convinti che più conservatori si è, più ortodossi si è. Sono più cattolici del papa». «Credo che alcuni degli ammonimenti siano una grazia mandata a noi dal Signore». «Quali?». «Quelli che parlano della fedeltà e della misericordia. C'è una certa solidità in quei messaggi. Praticamente stanno dicendo a una sola voce che, a meno che il genere umano non si penta e ritorni a Dio, sulla terra si abbatterà un castigo, uno che non abbiamo mai visto prima». «Non dal tempo del diluvio, dicono loro». «Le Scritture ci ammoniscono che il secondo diluvio sarà peggiore di quello di Noè. Solo che questo diluvio non sarà fatto d'acqua, ma di fuoco». «Sì. L'ho letto. Mi dà i brividi». «Non sembra più impossibile». «Non da Hiroshima. Guardi, Elia, quello che mi preoccupa è la velocità. Le profezie stanno arrivando così veloci e così impetuose che a stento si ha il tempo di capirne il senso. Disastri naturali, guerre, attacchi alla Chiesa, martiri, politica, intrighi, massoni, diavoli, traditori, stigmatizzati, statue
piangenti, icone sanguinanti, tre giorni di oscurità, segni nel cielo, avvertimenti soprannaturali... e potrei andare avanti». «Si comincia a capire qualcosa se ci rendiamo conto che questo è il confronto finale tra la Chiesa e l'antichiesa, il Vangelo e l'antivangelo. Il Cielo, quindi, sta diffondendo molte grazie straordinarie». «Sembra un'offerta ben assortita di grazie, se me lo chiede». «Se l'avversario sta preparando l'ultima battaglia, non è ragionevole pensare che schiererà tutti i suoi poteri e cercherà di insidiare quelle grazie, di allontanare la gente da quelle reali, di farla correre dietro alle imitazioni?». «Immagino di sì. È già successo». «Appunto. Aggiunga a questo lo sforzo dell'avversario di dominare e manipolare ogni aspetto della vita umana». «Questo è davvero spaventoso, non pensa?». «Sappiamo dalle Scritture che il tempo della fine sarà spaventoso». «Oh no! Non mi dica che lei è uno da fine dei tempi!». «Dipende da che cosa lei intenda con quell'espressione». Smith si guardò intorno perplesso, aspettando una replica. «Sa cosa intendo. Un apocalittico farneticante». «Cerco di non farneticare». Smith puntò la pipa su Elia. «Lei ha attraversato momenti davvero brutti durante la guerra, no?». «Sì». «Forse questo le ha suggerito una prospettiva pessimistica». «Forse mi ha dato occhi per vedere quello di cui sono capaci gli uomini». «Ok, ma per rimanere al tema, e se questa che stiamo attraversando fosse solo un'altra crisi? Abbiamo già affrontato crisi spaventose, e questa sembra innocua a confronto di altre. E poi, la gente del X secolo affrontava in modo esagitato la fine del primo millennio. Pensavano che anche il Signore stesse per tornare. Vedevano l'Anticristo ovunque». «Capisco quello che intende dire, padre. Pensa che un'isteria di massa affligga il mondo ogni volta che un millennio si avvicina». «È un'idea». «È da prendere in considerazione. Ma, oltre a questo, deve tenere conto di un altro aspetto. Supponiamo che un uomo sia malato e si avvicini alla morte. Tutti sono convinti che morirà. È la fine. Ma poi, per un intervento miracoloso di Dio, si riprende. Vive ancora a lungo in piena salute. Quando arriva a un'età avanzata, si ammala di nuovo. Sembra che stia per mori-
re. Il dottore dovrebbe concludere che, perché una volta è stato malato ed è guarito, tornerà anche questa volta in buona salute?». Smith fece una smorfia e riaccese la pipa con una certa difficoltà. «Ok, ha ragione lei, studioso del talmud, lei». «Aggiungiamo un altro aspetto ai primi due. Diciamo che al momento della fine si presenta un pericolo particolare per il nostro dottore e la famiglia del moribondo. Non saranno isterici, oh no, ma a loro mancherà il senso della premura. Mancherà la vigilanza». «E il paziente muore». «Tutti moriamo alla fine». «Che cosa sta dicendo? Non può avere tutte e due. Dovremmo lasciar morire il paziente o cercare di salvargli la vita?». «Cerchiamo di salvargli la vita e, se deve morire, morirà». «Lei mi ha confuso del tutto». «Fatichiamo per preservare la vita del corpo, ma alla fine la vita e la morte non dipendono da noi. Se il paziente vive più a lungo, verrà un certo genere di bene. Se Dio dispone che questo è il momento di morire, ne verrà un altro». «Tutto bene, messo in questo modo lo capisco». «Il problema non è la sopravvivenza della Chiesa». «Non lo è? E qual è allora?». «Le anime. Quante saranno salvate?». Smith gettò uno sguardo al fiume. «Ma è intollerabile che il declino dell'umanità proceda così. Dobbiamo fermarlo!». «Questo è proprio quello che hanno detto gli apostoli. Non riuscivano a capire perché il Signore dovesse morire». «Lei vuol dire che noi non dovremmo dire niente, mentre la Chiesa viene diffamata e condannata ingiustamente?». «No. Ne dobbiamo parlare. E molto. Ma alla fine è l'agire la vera prova». «L'agire?». «Amiamo i nostri nemici? Accettiamo di camminare con il Signore sul suo cammino verso il Calvario e di restare sotto la Croce? Accettiamo addirittura di venire inchiodati con Lui? O no?». Smith scosse la testa. «Lei sta dicendo che dovremmo essere due persone. Una combatte la morte e l'altra lascia che la morte vinca. Non lo accetto». «Non dobbiamo accettarlo. Dobbiamo semplicemente farlo».
«Forse è semplice per lei, Elia, ma non è così semplice per me». I due preti si lasciarono andare al silenzio. «C'è così tanta irrazionalità in tutto questo. Alcuni amici mi hanno mandato un libro sull'Anticristo l'altro giorno. Dentro vengono elencati tutti i generi di profezie. Un gran numero di santi e di papi era sicuro che il proprio tempo fosse il tempo della fine». «Il nostro uomo malato si è ripreso. Lo spirito dell'Anticristo è presente sin dall'inizio. San Giovanni dice ai credenti del suo tempo che stanno vivendo l'ora finale. In un certo senso, ogni epoca cristiana è quella degli ultimi giorni. È così irrazionale concludere che il periodo della fine raggiungerà un climax definitivo?». «Immagino di no. Ma il nostro è quel tempo? Guardi, uno di quei visionari, centinaia di anni fa, ha detto che l'Anticristo non avrebbe avuto un padre terreno. Il diavolo sarebbe stato suo padre. Sarebbe nato da una vergine. Avrebbe avuto i denti e sin dalla nascita avrebbe sputato fuori blasfemie. Sarebbe stato educato dai negromanti e dai maghi. Avrebbe compiuto miracoli. E così via. Proprio un brutto tipo, direi». «Se quella era una visione, era allegorica. Ci sono altre profezie che descrivono il suo comportamento e la sua persona in modo differente. Sarà una figura estremamente attraente. I Padri greci e latini dicono che non avrà l'aspetto di un mostro. San Gerolamo e san Tommaso, che erano modelli di sobrietà, descrivono i numerosi attributi nobili che possiederò. Gli scritti del cardinal Newman avvertono che raccoglierà il frutto di una grande delusione che assalirà le menti degli uomini. L'Anticristo ci morderà, ma non con un dente avvelenato. Bestemmierà, ma lo farà con il linguaggio più elegante. Negherà che Gesù è l'unico Cristo e negherà che è Dio. Al posto del Salvatore, ergerà se stesso come anti-icona, un'incarnazione della grandezza umana. Spingerà il genere umano ad adorare il proprio ego e, alla fine, ad adorare Satana». Elia parlava con un tono di massima tristezza. Smith lo osservava attentamente, senza dire nulla. «Sta assumendo abbastanza proteine nella sua dieta?», scherzò. Per una volta, Elia non si lasciò scaldare dall'ironia del prete americano. «Padre, è vicino. L'inganno sarà grande. Dobbiamo farci piccoli. Dobbiamo aggrapparci alla Croce». Smith sospirò. «È troppo cupo per me. Ho problemi concreti da affrontare. Molto più pressanti della bestia dell'Apocalisse». «Quali problemi?».
«Il calore è aumentato di una tacca, o diminuito, a seconda di come lo si guarda. Leggo gli articoli che vengono mandati alla rivista e che mi fanno stare male. Anche in passato di tanto in tanto abbiamo ricevuto cose del genere, ma non più di uno stillicidio. Ora lo stillicidio si sta intensificando fino a trasformarsi in un flusso costante. Il generale dell'ordine dice che dobbiamo essere aperti. Si chiede se questa roba nuova sia lo Spirito Santo che sta cercando di dirci qualcosa». «Qual è il contenuto di quel materiale?». «La maggior parte propone di non rifiutare le religioni del mondo, di fare ammenda per il nostro "imperialismo teologico", come lo chiamano. Capisce che qui sto parlando di preti e vescovi. Vogliono che la Chiesa chieda scusa pubblicamente ai musulmani per le Crociate, ai cinesi per i missionari, agli indigeni per aver convertito il Messico, ecc. Una richiesta continua di battersi il petto; ma sotto sotto c'è il disprezzo per la missione evangelica della Chiesa». «Tutte le religioni sono uguali?». «Non lo dicono proprio così, ma questo è il messaggio. Mi si rivolta lo stomaco ogni volta che leggo quella roba. Fino a ora sono riuscito a convincere il generale a non pubblicarla, ma sta ricevendo sempre più critiche dalla base. Quei tipi vogliono sapere perché non pubblica i loro articoli. Glielo confermo, è una persona davvero buona, ma non ha polso». «Non riesce a vedere i danni che procurerebbero articoli del genere?». «Il generale pensa che sia solo un confronto accademico. Non è l'intelletto più brillante del mondo, capisce?». «Che cosa ne pensa? Che cosa ispira gli autori?». Smith sollevò le sopracciglia il più possibile e alzò le mani. «Sono sincero, Elia, non lo so. Ogni qual volta sembrano approssimarsi a una tesi, la loro mente cambia direzione rapidissimamente. Mi sconcertano! Offri loro un'idea vera e loro la trascureranno, la dissolveranno o la faranno sprofondare in una gran quantità di fango. Ho litigato a questo proposito con il generale, che non è di nessun aiuto». «Davvero, padre, non deve. Lo spinge nella loro direzione». «Lo so, lo so, ma non riesco a frenarmi. Di solito mi prende di sorpresa. È misterioso il modo in cui succede. Per esempio, la posta arriva mentre il generale si trova nel mio ufficio e parla con me del tempo. Dell'immondizia salta fuori da una busta e io la leggo mentre stiamo chiacchierando dei risultati di calcio. Mi salta agli occhi una riga sulla "Chiesa inquisitoria di questo pontificato" o un'idiozia del genere, e io esplodo. Divento furibon-
do, il viso rosso, e faccio qualche commento in un tono aspro. Lui smette di parlare, si limita a guardarmi impassibile, domandandosi se sono davvero quello che dicono gli altri. Scivola fuori dall'ufficio senza aggiungere una parola, con uno sguardo preoccupato in faccia. Circa un'ora dopo torna dentro e dice qualcosa senza preavviso, del tipo che dobbiamo prestare maggiore attenzione allo spirito dell'aggiornamento. Non dovremmo forse essere aperti a tutte le parti, fornendo un forum per il dialogo, facendo in modo che ci si ascolti reciprocamente? Ascoltare! All'inferno, nessuno ascolta più nessuno. Sta ancora vivendo negli anni '70. L'unica cosa che questa spazzatura provocherà è scombussolare la testa dei poveri preti e di una gran parte dei fedeli». «Quanti?». «Siamo una delle maggiori riviste missionarie del mondo. Ci leggono centinaia di preti e migliaia di catechisti. Anche centinaia di migliaia di laici. Ho voglia di spiegarlo al Signore il giorno del giudizio? Non proprio». «Allora lei ha il dovere di non cedere. Respinga il materiale». «Ho ordini di lasciare passare qualcosa. Un indizio, un gesto di apertura, dice il generale. Fino a ora ho resistito. Non saprà che non ho ubbidito fino a quando non uscirà il prossimo numero in autunno. Allora la situazione si farà davvero critica». Le mani di Smith cercarono di riaccendere la pipa. «È come la storia del Catholic Times che si ripete ancora una volta», disse. «Non ceda, padre. Lasci che nostro Signore agisca». «Ok. Raccoglierà lei i pezzi se il Signore non agisce?». «Farò più di questo. Pregherò per lei come abbiamo pregato lo scorso anno e implorerò che avvenga un miracolo». «Che cosa succederà se questa volta non lo otteniamo?». «Allora parlerò con qualcuno che conosco in Vaticano». «Ha degli amici anche lì?». «Ho fatto la conoscenza di alcuni funzionari. Potrebbero riuscire a trovarle un posto in un'altra casa religiosa». «Bene. Potrebbe mettere una parolina per un monastero? Ho sempre desiderato avere una cella tutta per me». «Vedremo. Preghi, padre. Abbia fiducia e preghi». ***
Un giorno, all'inizio di novembre, Elia ricevette una lettera al collegio. Era scritta a macchina e priva di firma. Diceva: "Si ricordi di Nostra Signora dei Dolori. Ho bisogno di parlarLe. La Sua posta e il Suo telefono potrebbero non essere affidabili. Mi chiami con un telefono pubblico. Chieda di Maria". In fondo, scritto a penna, c'era un numero di telefono di Roma. Andò in un hotel lì vicino e usò il telefono pubblico nella reception. Rispose una voce femminile. «Potrei parlare con Maria?». «Un momento». Elia sentì una conversazione smorzata in linea. «Sono Maria». Era la voce di Anna. «Dov'è?». «In un ristorante a Trastevere». «Può parlare liberamente?». «Più o meno. Può venire qui?». «Sarò lì il più presto possibile». Anna gli diede le indicazioni, e una mezz'ora più tardi si trovavano faccia a faccia attorno a un tavolo nella sala sul retro di un'osteria di poche pretese. La carta da parati arancione imitazione velluto, decorata con busti di plastica degli imperatori romani e drappeggiata da filoni di peperoncini rossi. «Non è di classe, ma è anonimo». «Ha detto che la mia posta e il mio telefono potrebbero non essere affidabili». «Volevo dire sicuri. Se non mi sbaglio, le Sue lettere in entrata e in uscita vengono aperte. E la Sua linea telefonica probabilmente viene tenuta sotto controllo». «Che cosa La fa arrivare a queste conclusioni?». «Sanno di Foligno». «Oh no», sospirò Elia pesantemente. «Non sanno molto, solo che Lei è stato lì. Ha acceso la loro speranza che Lei ed io...». «Ah, intende la nostra relazione mitologica». «Sì, quella. Il presidente mi ha chiamato all'Aja la scorsa settimana e ha fatto un vago accenno. "Ben fatto, Anna", ha detto. "Dopo tutto forse ci sei riuscita". Mi ha fatto venire la pelle d'oca. Gli ho lasciato credere che fra di
noi sta succedendo qualcosa. Naturalmente c'è qualcosa, ma non gli ho detto che si tratta di un'amicizia vecchio stile». Elia sospirò. «Ma a quale scopo? La nostra copertura è saltata, come dicono nei romanzi di spionaggio. Il gioco da spie è finito». «Forse il Suo è finito, ma il mio no. La mia copertura è ancora intatta. L'illusione di una relazione accresce la fiducia che ha per me e, con il Suo permesso, mi piacerebbe alimentarla un po'». «Prima di andare avanti, Anna, c'è qualcosa che devo dirLe». Accennò alla scoperta della cimice che avevano piazzato nel reliquiario di Stato. Anna impallidì, si alzò, e andò alla toilette. Tornò dieci minuti dopo. «Va tutto bene. Sono pulita. Mi ha fatto preoccupare». «Allora, come pensa che potremmo alimentare l'illusione di una relazione?». «Cominciamo a mandarci dei biglietti discreti. Useremo un linguaggio in codice che ogni cretino saprà decifrare». «Capisco. Una sorta di operazione di contro-controspionaggio. Ma non mi sento a mio agio. Un giorno potrebbero usarla contro di noi». «Pensa che ci sia ancora qualcuno che si preoccupa dei peccati dei preti? Ne hanno di materiale scandalistico da usare contro la Chiesa. Non staranno dietro alle solite indiscrezioni. È qualcosa di più grosso che vogliono». «Che cosa?». «Vogliono Lei, e il loro appetito sta aumentando di nuovo». «C'è qualcosa di sbagliato qui. Sono troppo furbi. Lo scopriranno». «Non sono onnipotenti. Non possono sapere tutto». «Immagino che Lei abbia ragione, ma...». «Se è preoccupato che...». Anna non terminò la frase. «Non sono tanto preoccupato per il Suo cuore quanto per me stesso». «Capisco». «Pensa che sia facile per me dirlo? Sa quanto sia doloroso ammettere che una persona per cui mi preoccupo è anche una fonte di tentazione?». «È quello che sono?». «Mi dispiace. L'ho detto nel modo sbagliato. Lei non è la tentazione, Anna. La tentazione è tutta dentro di me: l'immagine nella mente, il sogno, il ricordo dell'amore più bello mi spingono verso una consolazione che non è pensata per essere mia in questo mondo. Lei sarà sempre mia amica nel significato più sincero e profondo della parola». L'emozione le riempì gli occhi. Non interruppe la fissità di Elia.
«Dobbiamo combatterli, Elia», disse Anna alla fine, con passione. «Non lasciamo che si prendano tutto». «Alla fine, perderanno». «Ma quanta distruzione provocheranno nel frattempo! . Troppa». Le spuntarono le lacrime agli occhi. «Anna», disse Elia impotente. «Non capisco che cosa potrei fare». «Lei non deve fare niente, in realtà. Solo pochi messaggi, poche telefonate. Quanto basta per far credere che i loro piani stanno funzionando. Intanto, questo mi consentirà di andare ancora più avanti. Ci sono già dei segni che sto passando da una cerchia a un'altra». «Quali segni?». «Su invito del presidente, ieri ho partecipato a un incontro privato in una tenuta vicino a Roma. Questo è il motivo per cui sono in città». «Qual era lo scopo dell'incontro?». «Non sono stata messa al corrente di ogni dettaglio, ma era ovvio che durante il weekend si stavano svelando apertamente a me più di quanto non abbiano mai fatto finora. È stato in un certo senso come una prova. Penso di averla passata». «Che genere di persone era presente?». «Non era un gruppo numeroso. Dodici uomini e sette donne, inclusa me. La cosa strana è che non erano le solite persone che lo circondano durante gli incontri pubblici. Niente politici o finanzieri che potessi riconoscere, niente gente famosa. Ma ognuno di loro trasudava... potere. Si tratta di persone che da qualche parte su questo pianeta esercitano enorme influenza. Ma non oso immaginare la natura di questa influenza». «Perché è stata invitata? Sicuramente non per parlare di una relazione sentimentale». «Apparentemente quella era una delle ragioni. Nel modo più discreto, il presidente ha ripetuto le congratulazioni che mi aveva fatto solo pochi giorni prima al telefono. Ha fatto accenno anche al caso che verrà discusso alla Corte Internazionale il mese prossimo. Nonostante questo, mi sfugge il motivo per cui si dovrebbe preoccupare, perché sanno che andrà come vogliono loro. Le Nazioni Unite e il Parlamento Europeo sono decisi a rendere vincolante la legge contro l'incremento demografico in tutto il mondo». «Come voterà?». Anna esitò. «Mi dispiace, è stato indiscreto da parte mia. Lei è un giudice. Non ho alcun diritto di fare una domanda del genere».
«Ho passato molte notti insonni pensando al problema. Sono arrivata alla conclusione che la nuova legislazione è fondamentalmente distruttiva. Autorizzerà i governi ad infliggere molte violazioni dei diritti umani ai loro popoli. So che non posso appoggiarla. D'altro canto, se mi pronunciassi contro la legge, la mia copertura salterebbe. Capisce, è un perno del loro avanzamento verso il potere globale. La devono ottenere. Sanno che sono abbastanza in gamba da riconoscerlo. Per questo mi hanno messo lì. Non immaginano le mie riflessioni più personali sull'argomento». «Allora che cosa farà?». «Sono indecisa. La legislazione mi ripugna. Ma se voglio scovare l'uomo che ha ucciso Stefano, allora devo stare al loro gioco. Non posso lasciarmi espellere da quell'ambiente». «Anna, La prego. È un errore. Se vota come vogliono loro, userà un mezzo malvagio per raggiungere un fine buono. Alla lunga, non potrà mai funzionare». «Lei non capisce. Ci saranno uno o due voti contrari. Ma la corte estenderà la legge a tutto il mondo. Il mio voto non farà alcuna differenza». «Ne è così sicura?». «Lo so. Il presidente controlla la maggioranza. Il resto è bendisposto verso la legislazione. Uno o due voti contrari provengono da persone che presto andranno in pensione. Ha già vinto». «Malgrado questo, si tratta di una questione di coscienza. Per il bene della Sua anima!». «La mia anima? Qualche volta mi domando se la mia anima non sia morta molto tempo fa. È sepolta in una bara a Milano». «Ricorda la nostra visita a padre Matteo? Si ricorda quello che Le ha detto?». «Mi ricordo». «Un giorno si riunirà a Stefano. Tutto questo sarà finito. Sarete felici insieme per sempre. Non rischi l'eternità per uno sporco gioco di spionaggio». «È troppo teologico. Non riesco a pensare secondo queste coordinate. Voglio l'assassino di Stefano. Se il mondo non mi farà giustizia, allora la otterrò a modo mio!». «La prego». Anna scosse la testa, scacciando gli argomenti di Elia. «Lasciamolo stare per ora. C'è altro che Le voglio raccontare. Ora so che la mia intuizione sulla morte di Stefano è esatta».
«Come fa a saperlo?». «Durante lo scorso weekend ho incontrato il suo assassino». «Davvero? E chi è?». «Non conosco il suo nome. Era uno del gruppo». «Ma è spaventoso. Che cosa è successo?». «Deve capire che la natura di quell'incontro era differente dagli altri a cui ho partecipato. Le facce mi erano sconosciute. Dal momento del mio arrivo, sono stati usati solo i nomi propri. Nessun cognome. Solo il presidente era noto a tutti. Non è stato detto niente. Non è stato spiegato niente. Tutte le conversazioni sono state generiche. Ma si trattava di argomenti generici che avrebbero scosso la terra. Movimenti sulla scena mondiale, personalità, strategie. Nessun tema comprensibile a chi non conosca profondamente la loro visione delle cose. C'erano rotelle dentro rotelle, giroscopi dentro giroscopi. Quella parte non mi è stata chiara. Per niente. Ma si ricorda che una volta Le ho detto di aver imparato a leggere le persone? Il tremolio di un sopracciglio mi rivela un'infinità di cose, uno scambio di sguardi, chi comunica con chi, ecc.?». «Mi ricordo». «Ero un avvocato penalista duranti i primi anni di praticantato. So riconoscere un assassino, Elia, e Le dico che a quel weekend ne era presente più di uno. Ma questi uomini sono un genere diverso di animali, che non avevo mai incontrato prima. Riesce a capire che cosa sto dicendo?». Elia annuì, ricordando il volto di Eichmann. «Perfetti gentiluomini?». «Esattamente. Perfetti gentiluomini con qualcosa di orrendo dietro ai loro occhi. Questa scoperta mi ha raggelato. Dal momento in cui sono entrata in quel posto dalla porta principale, volevo scappare via. Ma sapevo che, se lo avessi fatto, non avrei mai smesso di correre». «Penso che ora sia tempo di lasciarli. Vada via. Faccia finta di essere malata. Una crisi di nervi, qualsiasi cosa. Ma ne deve uscire!». «Non ne uscirò. Quando Le racconterò il resto, capirà perché». «Vada avanti». «L'ultima sera, dopo cena, stavamo bevendo dei drink e chiacchierando in piccoli gruppi. Uno degli uomini si è avvicinato al gruppo in cui ero anch'io. Il presidente era lì con noi. Sono riuscita a capire che quell'uomo si trova alla pari del presidente, perché chiunque altro si fosse avvicinato sarebbe rimasto indietro di un passo. È una di quelle cose inconsce che la gente fa e che ti consente di capire che un uomo è molto importante, fa
classe a sé. Ma quell'uomo era un perfetto sconosciuto. Non ho idea di chi sia. La deferenza che veniva mostrata nei suoi confronti era straordinaria. Non c'era niente di insolito nella sua presenza: aveva circa sessant'anni, sulla via della calvizie, di media altezza. Parlava con voce tranquilla, non ha detto niente di importante, solo alcune battute moderate che tutti hanno apprezzato. Non mi è stato presentato. Alla fine si è allontanato e il presidente lo ha seguito. Tutto è stato casuale, tutto è avvenuto con noncuranza, ma ho visto che ha obbedito a un richiamo». «Il presidente lo ha chiamato?». «No, il contrario. Si sono fermati a una certa distanza dal gruppo e hanno parlato per pochi minuti a bassa voce. Non conoscono la mia abilità nell'ascoltare più di una conversazione alla volta. Stavo parlando con uno scozzese: mi diceva del successo che pensava fosse arriso al congresso di Varsavia. Stavo mormorando un commento di approvazione, ma per tutto il tempo ho ascoltato la conversazione sussurrata a non più di dieci passi di distanza. Non ho capito quasi niente, ma sono sicura di aver sentito il presidente chiamare l'altro Mago». «Mago?». «Sì, mago. Stregone». «Ma forse ha sentito male. A quella distanza...». «Non penso. Poi l'altro ha detto qualcosa e ha chiamato il presidente Architetto». «Architetto?». «Sì, hanno terminato il loro tête-à-tête annuendo in modo complice, poi il presidente è tornato da noi e ha continuato come prima». «C'erano molte persone con nomi del genere?». «Alcune. La maggior parte di loro è stata presentata come Carlo, Katerina o Edmund. Sparpagliati in mezzo c'erano nomi come Archer o Abaddon». «Abaddon?», disse Elia trasalendo. «Perché? Conosce quel nome?». «È usato nel libro dell'Apocalisse. Si riferisce a un angelo». «Non aveva l'aspetto di un angelo». «Forse queste persone usano nomi che per loro hanno significati simbolici. Secondo le Scritture, Abaddon è l'angelo che regna sul pozzo senza fondo. Possiede la chiave degli abissi. È chiamato una stella caduta dal cielo». «Perché una stella?».
«Gli angeli ribelli un tempo erano creature di luce. Sono diventati tenebra e sono stati gettati sulla terra. Nei Vangeli, Gesù fa di Satana colui che è caduto come la luce dal cielo. L'interpretazione abituale di quel passo dell'Apocalisse sostiene che, quando la quinta tromba dell'apocalisse verrà suonata, questo angelo aprirà i cancelli del mondo demoniaco, che allora si diffonderà sulla terra». «Che mitologia orribile». «Potrebbe essere più letterale di quanto pensa». «Non affrontiamo questo tema, Elia. Che cosa significa il nome?». «Significa "Distruttore". È in stridente contrasto con il nome di Gesù, che significa "JHWH salva"». «Bene, quell'uomo era alquanto umano». «Mi parli di lui». «Era uno come tanti. Sui cinquanta, robusto, espressione enigmatica, una bocca che sembrava abituata a sogghignare, mi è sembrato malinconico per tutta la sera. È stato sulle sue». «Era lui l'assassino?». «Era un assassino, ma non l'assassino». «Chi era l'assassino? Come è riuscita a distinguerlo dagli altri?». «Lo sapevo e basta. Non mi chieda come. I Suoi dubbi su di me potrebbero aumentare se Le raccontassi quello che è successo dopo. Non ci sono molte prove, ma è tutto quello che ho. E il mio istinto mi dice che ho assolutamente ragione». «È stato qualcosa che ha detto?». «Sì e no. È successo così: come a ogni festa, i gruppi cambiavano in continuazione, singole persone che si spostavano avanti e indietro da un gruppo a un altro. Gente che usciva dal salone verso la sala da ballo e tornava indietro. C'era della musica, fiori, una ricerca di briosità che mi sembrava forzata. Alcune persone stavano ballando nella stanza accanto. Uomini di una certa età che fumavano e ridevano in un angolo. Io stavo parlando d'arte con tre signore. Hanno aiutato il presidente a mettere insieme la sua collezione, che al momento sta girando in America. Erano persone ben informate, molto sofisticate, sebbene non dicessero che cosa facevano per vivere o chi erano. Solo nomi propri. A un certo punto, l'uomo che chiamavano Abaddon si è avvicinato e loro lo hanno accolto nel gruppo. Gli hanno chiesto se fosse d'accordo che Picasso è un precursore della rivoluzione modernista nell'arte. Era d'accordo con riserva. Non ha risposto subito. Sorseggiava il suo drink e ci ascoltava. Ho avvertito i suoi occhi su
di me. Non il solito sguardo maschile. Si trattava di fredda osservazione, e di curiosità. Una delle donne ha detto qualcosa del modo in cui Picasso ha frammentato l'immagine della donna, quasi come se la odiasse. Abaddon l'ha guardata e ha detto che secondo lui Picasso voleva entrare dentro le donne, perché gli erano estranee. Le smontava, ha detto, e le rimetteva insieme. A quel punto l'uomo che chiamavano Mago ha alzato la voce. Era proprio dietro di me; non l'avevo visto arrivare. Ha detto che, se Picasso ne avesse avuto l'opportunità, le avrebbe smembrate vive, pezzo per pezzo, perché stava davvero cercando la fonte della vita. A quel punto la maggior parte di noi, penso, ha cominciato a sentire il forte desiderio di cambiare quel tema raccapricciante. Ma Mago non l'ha permesso. Ha fatto un cenno a un uomo basso che gli stava accanto e che non avevo notato fino a quel momento. "Vieni qua, Chirurgo", ha detto. Lo ha chiamato proprio "chirurgo". Quell'uomo basso si è avvicinato e stava lì come un cane obbediente. Ho capito immediatamente che anche lui era un assassino. Chirurgo, Mago e Abaddon, tutti e tre assassini. Ho guardato negli occhi del Chirurgo e ho capito. Era lui». «Stefano?». «Sì». «Che cosa ha fatto?». «Non ho fatto niente. Ho guardato da un'altra parte come se non avessi visto niente. Ero priva di emozioni. Mi ha assalito una sensazione di assoluta obiettività. Non ho dovuto fingere. Qualcosa si è spento dentro di me, perché era essenziale che non rivelassi niente. Qualcos'altro è entrato in gioco, qualcosa che non sapevo di avere in me. Immagino che Lei la chiamerebbe "furbizia"». «Che cosa è successo dopo? Che cosa ha detto Mago a Chirurgo?». «Ha detto: "Raccontaci, dottore, com'è smontare un essere umano vivo". Chirurgo non ha battuto ciglio. Ha inclinato leggermente la testa e ha detto: "È una scienza". Ho guardato le mani che hanno torturato Stefano e ho visto che erano mani delicate, pulite. Gli ho sorriso. Solo un angelo avrebbe potuto capire che quel sorriso era falso. Allora ho detto qualcosa in cui non credo, ma che ho detto perché so che loro ci credono. Ho detto: "Ci sono state epoche in cui la scienza ha preceduto il resto dell'umanità. Lo scienziato deve fare cose impopolari, persino cose che altri definiscono malvagie, per il bene comune". Mentre tutti intorno a me mormoravano la loro approvazione, Chirurgo mi fissava come se fossi matta. Se fosse stato
un dottore normale, persino un cattivo dottore normale, sarebbe stato contento dell'osservazione. Invece, sembrava senza parole. Immagino che sia rimasto colpito dalla terribile ironia della scena: ecco, la moglie addolorata di un uomo che aveva torturato a morte lo stava rassicurando che era stato tutto per il meglio». «Che cosa è successo dopo?». «Sono subentrati Mago e Abaddon. Contemporaneamente, senza svelare nessuna emozione, nessuna preoccupazione, tutti e due hanno puntato gli occhi su Chirurgo e si sono guardati. Fra i tre si è svolta una conversazione senza parole, che è durata una frazione di secondo. Tutti e tre mi hanno guardata per un attimo. Non potevano leggere niente nei miei occhi. Mi sono voltata verso la donna alla mia sinistra e le ho chiesto se pensasse che anche i cubisti disprezzassero la donna come Picasso. Si è lanciata in una dissertazione, e il momento era passato. Gli assassini si sono allontanati in direzioni diverse come se niente fosse». Elia, che aveva ascoltato la storia come ipnotizzato, all'improvviso espirò pesantemente. Riprese fiato. «Ma è terribile!». «Terribile? Naturalmente è terribile. Ed è una grande vittoria». «Ne è sicura?», disse Elia scuotendo la testa. «Non potrebbe esserselo immaginata?». «No. L'ho visto», disse Anna in modo pacato. «È la prova migliore che ho che quanti circondano il presidente sono privi di coscienza e non lasciano presagire nulla di buono per il genere umano». «Che cosa farà? Andrà alla polizia?». «Per dire che ho visto tre uomini che si guardavano?». «E che cosa, allora?». «Le posso assicurare che non ho intenzione di comperare una pistola e di sparare a quel patetico piccoletto». «Anna, se si accorgono della debolissima minaccia che proviene da Lei, se sospettano che Lei sa...». «Sono creature che vivono in un mondo di ombre. Pensano di essere al sicuro. Non c'è potere sulla terra che possa toccarli». «Prima ha parlato di giustizia. Come pensa di assicurarli alla giustizia?». «Cercando una giustizia che abbracci ogni cosa. Andrò il più avanti possibile, per quanto me lo concederanno, e scoprirò il più possibile. Si lasceranno sfuggire qualcosa. Lasceranno in giro prove a sfavore. E quando le avrò, farò crollare quell'edificio sulle loro teste. Le rovine di quell'edificio saranno davvero orribili».
Elia non riusciva a scacciare una sensazione di paura. Anna si raddrizzò e si guardò in giro nel ristorante. «Penso di aver sopportato abbastanza velluto arancione per questa sera. E non è stata la quarta volta che hanno fatto passare quella musica registrata? Non si può ascoltare Torna a Surriento più di tanto». Elia si sporse attraverso il tavolo e le prese la mano. «Lei è una donna molto coraggiosa». Anna si strinse nelle spalle. «Che ore sono?». «Le nove e mezza», disse Elia. «Non voglio che la serata finisca su questo tono. Perché non troviamo un posto dove fare una passeggiata?». Ritornarono in centro città con la macchina di Anna, la parcheggiarono vicino al collegio e camminarono lentamente verso il Tevere. «Mi è appena venuta in mente almeno una cosa buona della nostra presunta relazione», disse Anna. «E quale sarebbe?», replicò Elia malinconico. «Possiamo comportarci da spie e sperare di venire scoperti. Alimenterebbe la credibilità del copione». «E come facciamo con le comunicazioni vere?». «Dobbiamo imparare a leggere fra le righe. Ci saranno momenti come questa sera in cui potremo parlare liberamente. In un modo o nell'altro, Le farò sapere quello che sta succedendo. Abbiamo una bella copertura». «Lei deve fare un grande sforzo per evitare di tradirsi», la ammonì Elia. «Lo farò». «Quando parliamo sinceramente, dobbiamo essere assolutamente sicuri che non ci siano cimici». «Naturalmente. E quando interpretiamo la nostra farsa, dobbiamo fare in modo che sembri che stiamo evitando di essere sorvegliati». «E che non ci riusciamo». «Giusto. Non ci riusciremo. Ce la farà a tenere a mente tutto?». «Penso di sì». «Se scopro qualcosa di sicuro, glielo farò sapere attraverso i nostri falsi messaggi amorosi. Le dirò che ho trovato un'opera d'arte senza prezzo e che voglio il Suo consiglio sull'acquisto. Poi troveremo il modo di incontrarci». Anna gli prese il braccio. «Non si preoccupi. È utile alla farsa». Elia vide che gli sorrideva alla luce di un lampione. Gli teneva il braccio con leggerezza, con rispettosa premura.
«Senta, Anna, se insiste ad esporsi al pericolo, voglio che mi faccia un favore». «Che cosa?». Elia rovistò nella tasca del cappotto ed estrasse un piccolo reliquiario di ottone. Lo aprì e le mostrò il contenuto. «Voglio che lo porti dovunque vada. Contiene il mio tesoro più grande». «Una scheggia di legno e alcune perline?». «Non Le dirò da dove viene la scheggia, perché non mi crederebbe. I grani sono macchiati con il sangue di una santa. Una martire. Qualsiasi cosa accada, ricordi che non è sola». Anna prese il reliquiario e lo fece scivolare nella tasca. «Lo promette?». «Lo prometto», disse e si voltò, andando incontro alla notte. 18 Avvento Le notizie dal mondo peggioravano. Qua e là erano scoppiate guerre di piccole dimensioni. I mezzi di comunicazione erano pieni degli sforzi coraggiosi del presidente di far scongiurare ulteriore violenza. La Cina ambiva all'annessione di Taiwan. In Bielorussia gli ispettori delle Nazioni Unite avevano scoperto un deposito di armi atomiche non dichiarate, risvegliando il timore diffuso che gli ex Stati sovietici non si attenessero all'accordo sul disarmo e fossero un campo armato pronto a esplodere. A El Salvador era scoppiata una rivoluzione sanguinosa. Il Messico si trovava in pieno caos politico. Ancora una volta l'asse economico giapponese-americano era stato destabilizzato da una guerra commerciale. I giornali parlavano regolarmente del declino della salute del papa e delle numerose voci secondo cui presto si sarebbe dimesso o sarebbe stato dichiarato inabile dal collegio cardinalizio. Si facevano già ipotesi su chi sarebbe stato il nuovo papa. Fra i principali candidati la stampa faceva un nuovo nome: il cardinal Vettore. Elia osservava e aspettava, faceva lezione e pregava. Il lunedì dopo la prima domenica di Avvento, ricevette una lettera in una busta rosa. Non riportava l'indirizzo del mittente, ma era stata spedita da Parigi. L'inchiostro usato sul foglio di pergamena all'interno era violetto. Era la scrittura di Anna: Carissimo David,
penso a te ogni momento. Avevo dimenticato che esistesse una tale felicità. Quando siamo stati insieme ho capito che mi stai riportando alla vita. Il nostro amore deve rimanere un segreto. La nostra reputazione dipende da questo. Maria *** Cara Maria, la vita a Roma è tetra senza di te. Anch'io avevo dimenticato che su questa terra arida potesse esistere un tale amore. Ti porto come un'icona nel mio cuore. Con amore eterno, David *** Elia scrisse la risposta con una sensazione di disagio, ma pensò che le parole non erano insincere. I cani da guardia invisibili le potevano interpretare come volevano. La spedì all'indirizzo di Anna in Francia. Una lettera di altro genere arrivò pochi giorni dopo. Era di Smith. Si trovava nella prigione di Regina Coeli e la situazione era davvero seria. Chiedeva a Elia se potesse andarlo a trovare il più presto possibile. Dato che Elia era un prete, le guardie della prigione non applicarono le solite restrizioni. Normalmente, nella sala delle visite, i prigionieri parlano dei loro casi con i familiari e gli avvocati, seduti a un lato di un tavolo e separati da una lastra di vetro. Una guardia lo condusse invece all'interno del complesso e lo lasciò entrare nella cella di Smith. Smith era seduto su un letto a castello e guardava fuori dalla finestra. Si alzò lentamente, si avvicinò a Elia e lo abbracciò. «Padre Smith, che cosa è successo?». Gli occhi di Smith erano rossi e i capelli arruffati. «La saga a puntate di uno stupido prete dell'Idaho. Rimanete in onda, peggiorerà». «Perché si trova qui?». «Perché? Perché il Signore ha ordinato che alla fine io abbia una cella tutta per me. Come i Padri del deserto», disse agitando le braccia, la bocca
contorta per l'amarezza. «Le piace l'ambiente? Incantevole, no?». Smith crollò fra i singhiozzi. «Avrei dovuto rimanere a Boise a commerciare con la soia come mio fratello. Perché mai sono diventato prete!». «Di che cosa La stanno accusando?». «Niente di grosso. Un crimine vecchio stile, americano come la torta di mele. Appropriazione indebita o qualunque sia il termine legale, non ne sono sicuro. Il succo è che presto sarò estradato negli Stati Uniti per il processo». «Ma come è successo?». «Lei vuole dire, se è vero? Naturalmente non è vero!». Elia mise una mano sulla spalla del prete. «Lo so». «Bene, questo è un bel sollievo! Lei è la prima persona che ho incontrato da un bel pezzo che non pensa che qualcuno sia colpevole fino a prova contraria». «Chi la sta accusando?». «L'editore del Catholic Times e lo Stato dell'Illinois. Dicono che quando ero direttore del giornale, ho prelevato fondi per me. Centinaia di migliaia di dollari». «Ma in quanto direttore lei non esercitava nessun controllo sui soldi o sui conti». «Giusto. Ma questo non li turba per niente. Hanno anche escogitato un disgustoso scandalo sessuale fra la signora Evans, la contabile, e me. Eravamo in combutta, dicono, e progettavamo di partire per un paradiso tropicale con i soldi. Dicono che lì ci saremmo costruiti un nido d'amore e che siamo stati ostacolati solo perché sono stato trasferito a Roma». «Di sicuro questo verrà chiarito in breve tempo. Non ci sono prove». «Naturalmente non ci sono prove! Tutta la cosa è una menzogna. Ma il denaro è scomparso». «Che cosa dice la signora Evans?». «È sconvolta. Il mio avvocato ha parlato con lei ieri e pensa che avrà un collasso nervoso a causa di quello che sta succedendo. È a casa. L'hanno rilasciata su cauzione». «C'è la possibilità che possa aver fatto qualcosa di illegale?». Smith lo fissò incredulo. «Se lei conoscesse Gertrude Evans saprebbe quanto sia pazzesco tutto questo. Ha settantadue anni e circa trenta nipoti. Da quando la conosco, ha tre novene perpetue in corso. Una borsetta piena di scapolari e rosari, fa la comunione tutti i giorni, non dice mai una parola
cattiva su nessuno, soffre di artrite alle anche, conserva i francobolli per le missioni e pensa che Grace Kelly debba essere canonizzata». «Avrebbe potuto avere un momento di debolezza?». «Sicuramente», disse Smith con aria irata. «Forse è così. Una volta l'ho beccata a fare a maglia delle babbucce per neonati durante l'orario di lavoro. C'è una vena criminale in lei, va bene!». «Quando parte?». «Domani». «Qual è la reazione del generale?». «Il generale?», disse Smith con una risata. «Capitano, mio capitano? Oh, abbiamo fatto una bella chiacchierata confidenziale prima che arrivasse la polizia. Mi ha chiesto se fossi colpevole e naturalmente ho negato. Ha risposto che la gente interessata al caso - questo significa l'ufficio dell'arcivescovo, il mio provinciale e il mio eloquente sostituto - ha trovato alcune prove schiaccianti. Ha suggerito che il mio problema di fondo è di natura psicologica e che, se avessi confessato tutto, sarebbero riusciti a tenermi fuori dalla prigione». «Che cosa le farebbero?». «Psicoterapia. L'ordine si è offerto di rimborsare il denaro mancante, cosa molto carina da parte loro, non trova?». «Questo non farebbe pensare al procuratore distrettuale che i suoi confratelli la ritengono colpevole?». «Ma non mi va di andare in prigione. Un bel centro di riabilitazione sarebbe molto meglio». «Davvero?». «Mi potrebbero piacere le corna di cervo». «Non penso». «No, penso anch'io che non mi piacerebbero», disse Smith strofinandosi la faccia. «Sa, non penso che mi preoccuperei così tanto se non avessero coinvolto Gertie. Ha dato la vita per quel giornale. Aveva una tale fiducia in tutti noi. Sarebbe potuta andare a vivere con sua figlia in California tanto tempo fa, ma credeva davvero nel nostro lavoro, ha sopportato quei freddi inverni del nord per il giornale. Se le hanno spezzato il cuore, prenderò a pugni quei bastardi». Smith saltò in piedi e cominciò ad andare avanti e indietro. I suoi occhi erano rossi, si muoveva di scatto, i pugni serrati. Emise imprecazioni a voce alta. Poi si gettò di nuovo sul letto a castello e si prese la faccia fra le mani.
«Padre Smith», disse Elia con calma, «non pensa che alla fine la verità vincerà?». «Davvero? Non lo so più». «Vincerà. Deve avere fiducia». «Fiducia? Guardi, non ha imparato niente da tutto questo? Sono tre anni che affondo nelle sabbie mobili. Non le ferma niente. Continuiamo ad affondare e affondare!». «C'è un Signore e c'è la sua giustizia. La discolperà, persino se tutti gli enti umani non lo faranno». «E Gertie? Pensi alla sua umiliazione. Pensi a quello che stanno dicendo di noi. È ridicolo!». «Pensi a quello che hanno detto di nostro Signore». «Sì, sì. Grazie per il fervorino. Ma la realtà è che qui una persona davvero buona viene inchiodata sulla croce. Non ha mai fatto un briciolo di male in tutta la sua vita. E può essere sicuro che un gran numero di persone - e fra di loro ci sono buoni cattolici - con le loro menti putride immerse in questa società sudicia ci crederà. Non c'è fumo senza arrosto, diranno. E persino se una corte ci dichiarerà innocenti, ci sarà sempre un'ombra di sospetto su di noi». «Questo è il prezzo che qualche volta dobbiamo pagare per essere in prima linea». «È facile per lei dirlo». «Smith...». «Mi dispiace. Non voglio scontrarmi con lei. Lei è una persona davvero buona, Elia, e mi è stato di grande aiuto in tutti questi anni. Ma questa situazione è differente. Dia un'occhiata alla mia vita. Dia un'occhiata alla sua. Meno di due anni fa è successo qualcosa che ci ha mandati su due pianeti completamente diversi. Lei è un frate. Prega tutto il giorno e fa lezione, e questa è la sua vita. Non la critico per questo. Sono contento per lei. Ma la prego, la prego di capire che la mia vita è finita. Ho lavorato come uno schiavo al servizio di Dio tutti questi anni, e questo è quello che ottengo alla fine». «Padre, qualche volta mi piacerebbe raccontarle di più della mia vita...». «Lo so. Ha sofferto. La guerra e tutto il resto. Ma questo succede ora!». «Lei è molto agitato, e a ragione. Ma voglio che si domandi se nostro Signore non la stia chiamando a percorrere il cammino più duro di tutti, proprio accanto a Lui, portando una croce amara». «È amara, va bene. Sa che cosa ha detto il generale? Quando gli ho spie-
gato che questa lurida accusa sul sesso e sul nido d'amore era una pura follia, si è limitato a guardarmi e non ha detto niente. Niente di niente! Questo mi ha fatto saltare il tappo. Gli ho detto che cosa pensavo della sua codardia. Gli ho detto che sono un prete e che ho fatto dei voti che non ho mai infranto e che non infrangerò mai. Gli ho detto che ho cinquantotto anni e che Gertie è una vecchia signora molto più santa di quanto non sia mai stata Grace Kelly. Sa che cosa ha detto allora?». «Che cosa?». «Mi ha lanciato uno dei suoi sguardi bovini e mi ha chiesto se avessi mai provato attrazione sessuale per mia madre! Mia madre! Questo ha detto. Gli ho detto che era malato e che anche l'ordine è malato, proprio nel nocciolo. Ho detto che una cella sarebbe stata un cambiamento piacevole. Poi sono andato nel mio ufficio e ho aspettato. Un'ora dopo è arrivata la polizia e mi ha prelevato». I due preti rimasero seduti insieme in silenzio. Alla fine Smith si alzò, andò al lavandino nell'angolo e si buttò dell'acqua fresca in faccia. «Continuo a dirmi tutte le cose giuste, il genere di cose che ha appena detto lei. Ma non fa passare il dolore. Mi sento così tradito. Perché sta succedendo?». «Questo è il punto: perché sta succedendo?». «Non sento nessuna risposta dal cielo. Silenzio totale. Che cosa sta accadendo?». «Prega?». «Dico la messa. Recito il breviario. Ma il cuore non c'è. Non mi sento molto religioso al momento». «Il suo cuore è pieno di sentimenti ostili. Si calmi. Faccia un atto di fiducia. Le consolazioni seguiranno». Smith sospirò. «Davvero? Sembra che si siano prosciugate mesi fa». «Ma lei ha insistito? Quanto tempo dedica alla preghiera?». «Beh, per dire la verità, sempre meno. Sono alquanto a secco». «Questo è in parte la causa della sua ansia. Proprio ora ha bisogno della pace di Cristo». «Non lo so». Parlarono per un'altra mezz'ora, fino a quando non arrivò la guardia e disse: «Ancora cinque minuti». Elia si alzò. «Farò quello che posso», disse. «Preghi, padre, preghi. Niente è impos-
sibile a Dio». «Va bene. La santa obbedienza, Elia. Forse è stato Dio a mandarla da me». «Si affidi a Lui. È sempre con lei». «Vuole ascoltare la mia confessione?», chiese Smith timidamente. Elia si risedette e disse le preghiere di introduzione al sacramento. Quando Smith arrivò a confessare i propri peccati, disse: «Non c'è stata né avidità, né impurità. Quello che dicono di me è una menzogna. Ma io sono colpevole di qualcosa: li odio. Li odio moltissimo. Faccio fatica a perdonarli per quello che hanno fatto all'ordine, alla Chiesa e a una persona come Gertie. Chiedo il perdono di Dio e chiedo la Sua grazia per superare questo sentimento nel mio cuore». «La rabbia è un'emozione, padre», disse Elia. «Può nascere per motivi validi. Il peccato è solo nella volontà. Che cosa scegliamo di fare con la nostra rabbia? Dobbiamo convertire questi sentimenti. Pregare per i nostri nemici. Soffrire in silenzio. Quando verrà il momento, dirà la verità di fronte ai suoi accusatori, ma lo dovrà fare senza rancore. Offra la sua sofferenza al Signore. La userà come arma potente per disorientare i piani del nemico. Creda nella vittoria finale, e il suo dolore si trasformerà in gioia». Smith sembrò confortato da queste parole. Dopo l'assoluzione, abbracciò Elia. Arrivò la guardia, e questa fu l'ultima volta che Elia vide Smith. *** Caro David, i giorni si allungano senza fine. Possiamo incontrarci di nuovo? Spero di andare a Foligno per Natale. Puoi raggiungermi lì? Con amore, Maria *** Carissima Maria, mi sarà impossibile lasciare il collegio prima del 26. Farebbe nascere dei sospetti. Ho il permesso di partire dopo la liturgia di Natale e mi è stata promessa una macchina. Se non andrà in porto, arriverò in treno. Conto i giorni. Sono sempre con te,
David *** Mio David, sussurro il tuo nome da mattina a sera. Sei un'isola di gioia per me, mio amato. Se non ti scrivo ogni giorno, è perché assaporo il dolce dolore dell'attesa, sapendo che è solo un prologo. La vita è estremamente intensa qui. Il mondo sta cambiando velocemente. Il nostro presidente sta facendo cose meravigliose per l'unità e la pace nel mondo. So che hai dei dubbi sui suoi motivi. Caro, non devi. È un grande leader e la storia lo ricorderà come una figura che spicca fra gli uomini del nostro tempo. Sono sempre con te, nel cuore Maria *** Maria, aspiro al momento in cui non nasconderemo più i nostri nomi. L'amore non si nasconde. L'amore è il grande fuoco che consuma senza distruggere. Questo è il nostro genere di amore. Niente ce lo potrà togliere. Niente potrà mai separarci. Mi dispiace di essere stato così critico sul presidente. I telegiornali sono pieni delle sue attività. Forse mi sono sbagliato. Possiamo parlarne di più a Foligno. Saremo da soli? Tuo David *** Caro, spero presto di avere un regalo per te. Sto per acquistarlo. È un'opera d'arte senza prezzo. La voglio portare a Foligno. Quando la vedrai, mi dirai che sono stata impulsiva, ma vale tutto il suo prezzo. M.
*** Maria, mi preoccupa il tuo cuore impulsivo. Non devi spendere troppo. Ti supplico, non spendere troppo. Il vero dono è il nostro amore, questo solo supera ogni tesoro. Sto sperando che nevichi. La neve a Natale, il mondo coperto di bianco. Cammineremo fianco a fianco sulle colline. Tu mi stringerai forte il braccio e io ne sarò immensamente felice. Parleremo delle montagne e dei vigneti e della primavera che verrà. Parleremo di noi due, di te e di me. David *** Elia non ricevette nessuna risposta a questo biglietto. Pensò che Anna avesse troppi impegni e che volesse raccontargli le ultime novità quando si fossero incontrati. La terza domenica di Avvento passò tranquilla. Si tenne occupato correggendo le prove scritte degli esami e scrivendo biglietti di auguri dell'ultimo minuto agli amici sparsi per il mondo. Alla sera della vigilia di Natale li portò giù all'ufficio del portiere perché li spedisse. Il portiere lo stuzzicò a proposito delle eccessive spese postali. «Ancora? Scandaloso! Pensavo che avesse finito! Guardi qui: Israele, Stati Uniti, Francia, Russia, Olanda!», lo rimproverò. «Padre, quando diventerà una persona semplice?». «Mi dispiace, fratello. La carità mi impone di non dimenticare questi conoscenti». «Lei riceve il doppio delle lettere degli altri padri. E ne manda altrettante!». Scherzarono così per un po', fino a quando il frate non si lasciò sfuggire una domanda: «Chi è la signora che le manda tutte quelle lettere quasi tutti i giorni?». «La signora?». «Sì, la signora dall'Olanda». «Un'amica. Ma come fa a sapere che è una signora?». «Nessun uomo userebbe delle buste belle come quelle». Elia sorrise, ma non disse niente. «Ora, non sono affari miei, ma ho notato che le lettere si sono fermate».
Fece una pausa e guardò Elia in attesa di una risposta. Quel frate aveva il difetto di provare gusto a mettere insieme frammenti minuscoli di informazioni sulla vita privata dei sacerdoti del collegio. Dato che Elia non era molto disponibile a fornire dettagli, il portinaio passò ad altri argomenti. Elia stava salendo le scale verso la sua stanza, quando il portinaio gli corse dietro. «Padre, padre, dimenticavo. È arrivato questo pacchetto per lei stamattina. Lo ha lasciato giù un uomo». Stampato sul davanti della busta imbottita: "David Schäfer". David? «L'uomo ha detto chi era?». «No. È arrivato dalla strada e lo ha fatto passare attraverso lo sportello. Ha detto. "Dallo a Schäfer". Non molto gentile, se me lo domanda». Elia portò il pacchetto nella sua stanza e lo aprì. Conteneva il reliquiario di ottone che aveva dato ad Anna. Aprì il coperchio. Dentro c'era una massa di materiale che sembrava semiliquido. Era color porpora scuro, quasi nero, e dentro erano incastrati pezzi di materia solida. Odorava di putrefazione. Lo fissò senza capire. L'odore riempì la stanza. Portò il reliquiario al lavandino, inserì il tappo e ci versò dentro il contenuto. Una massa gelatinosa colò giù sulla ceramica bianca, lasciando una striscia di schegge e qualcosa che sembrava ghiaia. Dopo un controllo più accurato, vide che erano grani di un rosario. Uno di essi galleggiava al centro vicino a un pezzetto di legno. Si piegò sul lavandino e resistette all'impulso di vomitare. Il cuore gli martellava e un grido selvaggio minacciava di sfuggirgli dalla gola. Raccolse tutto e lo rimise nel reliquiario, lavò la superficie esterna, il lavandino e le mani. Mise il reliquiario in tasca, si voltò verso l'icona dell'arcangelo dell'Apocalisse e balbettò una preghiera disperata: «San Michele, difendici in questo giorno di battaglia, proteggici contro il male e le insidie del diavolo. Preghiamo umilmente che Dio lo ammonisca e che tu, principe dei guardiani del cielo, possa spingere all'inferno Satana e tutti gli spiriti maligni che si aggirano nel mondo cercando la rovina delle anime». Si sedette sul letto. Tremava violentemente. Si voltò verso la Croce e gridò: «Salvala!». *** Guidò come un pazzo. Il traffico per entrare in città era caotico, le strade
in uscita erano quasi vuote. Adesso stava piovendo e il manto stradale era scivoloso. Fece una leggera sbandata, ne uscì, accelerò e perse il controllo. La macchina si rimise in carreggiata da sola e poté continuare. Pregava incessantemente mentre il tachimetro saliva, sperando che la polizia stradale non lo fermasse, sperando contro ogni speranza che il contenuto del reliquiario fosse solo un avvertimento o un brutto scherzo. Svoltò a est e corse su per le colline. Un lampo rosso vivo nello specchietto retrovisore gli indicò che il sole stava scendendo dietro l'orlo delle nuvole. A Terni, dove svoltò a nord verso Foligno, la pioggia si trasformò in nevischio e la strada divenne una lastra di ghiaccio. Andò a passo d'uomo per un'ora. Si faceva sempre più buio e la neve cominciava a cadere in grossi fiocchi bianchi che lo accecavano con lo splendore riflesso della luce dei fari. «Oh, Anna», gridava. «Risparmiala, Signore!». A Foligno trovò la strada che saliva sul lato della montagna. Sbandò fino a quando non arrivò al sentiero. Venti metri dopo i pneumatici cominciarono a girare a vuoto e si rifiutarono di spingere avanti la macchina. Uscì e andò avanti a piedi. Il cancello era semiaperto e alla luce della torcia vide che la serratura era rotta e la sbarra era appoggiata di traverso. Si mise a correre e inciampò, fino a quando il terreno non tornò in piano di fronte al profilo nero della fattoria. In casa non c'erano luci accese. La porta era chiusa, ma una finestra era stata fatta a pezzi. La aprì ed entrò, temendo di vedere quello che si trovava dentro. L'interno era freddo e umido. Non si muoveva niente. I suoi stivali scricchiolavano sui detriti sparsi sul pavimento. Attraversò il piano terra, osservando i mobili rovesciati, i cassetti sparsi dappertutto, le stoviglie rotte, i quadri, i libri, i dischi e le carte che coprivano ogni cosa come la scia di un uragano. Un computer portatile per terra sul tappeto del salotto, senza disco fisso, un buco che si spalancava come un teschio da cui fosse stato rimosso il cervello. Cercò tracce di sangue, ma non trovò niente. Salì le scale con cautela. Lo stesso spettacolo anche al piano superiore. Materassi fatti a pezzi, sedie lacerate, gli armadietti divelti, i vestiti ammucchiati. Anche qui non c'era traccia di sangue. In cucina trovò una lampada e dei fiammiferi. La luce dorata illuminò completamente quella scena di caos. Girò e girò, meravigliandosi della totalità dello sfacelo. Si rese conto che stava gelando fino al midollo. Guardò dietro la stufa
con l'intenzione di raccogliere dei pezzetti di legno per accendere un fuoco. E lì lo vide. Un pezzetto di carta, di colore violetto, che sporgeva da mucchio di legnetti buttati accanto alla cassetta per la legna rovesciata. Sembrava implorarlo. Lo estrasse e lesse: "Sotto il cuore del nonno". La scrittura di Anna. «Sotto il cuore del nonno?», sussurrò. Che cosa significava? Che cosa intendeva dire? Il cuore del nonno? Si muoveva per la casa da una stanza all'altra. "Che cos'è, Anna? Che cosa vuoi che trovi?". Andò nella stanza dove aveva dormito, la stanza dei nonni. La stanza del nonno? "Cuore, cuore, cuore, cuore...". Il letto era stato demolito, i quadri tolti dalle pareti, il crocifisso fatto a pezzi, l'immagine del Sacro Cuore... Giaceva a faccia in giù accanto al letto. Il vetro era frantumato e squarciava il cuore dell'oleografia. Cristo stava piangendo, piangendo sul mondo intero. Stava chiamando, chiamando, ma nessuno lo avrebbe ascoltato, nessuno gli avrebbe prestato attenzione. Elia sollevò più in alto la lanterna e la luce svelò il profilo di uno stivale stampato sui pezzi di vetro. Sollevò l'immagine afferrandola dalla cornice e con cautela rimosse i frammenti. Rovesciò il quadretto. Il retro era coperto interamente da due larghi listelli di legno, tenuti insieme da due chiodini sottili vecchio stile. I due chiodini superiori mancavano. Rimosse gli altri; uscirono dai buchi senza fatica, e i listelli di legno caddero sul pavimento. Scivolò fuori un foglio di carta. La carta non era ingiallita dal tempo ed era coperta di caratteri scritti al computer. La riportò in cucina, rimise in piedi una sedia e si sedette presso la stufa. Lesse: Foligno, 21 dicembre Caro Elia, Marco Le porterà questa lettera personalmente. Posso scrivere apertamente.
Sono un po' preoccupata. Non ho ricevuto risposta al mio biglietto del 12 in cui riportavo la notizia dell'«opera d'arte senza prezzo». Non avremmo potuto sperare di meglio: ogni mio sospetto è stato confermato. Senza dubbio il Chirurgo, il Mago e il Distruttore sono coinvolti: mi è stato riferito da una persona che loro credono affidabile. Ho lavorato a lungo per guadagnare la sua fiducia. Mentre penetravo sempre di più nella loro cerchia, come Dante che scende nei gironi dell'inferno, ho scoperto che più di una persona non era contenta di essere lì. In quelle anime così infelici possono essere decifrati molti segni rivelatori. La donna in questione è uno dei loro giocattoli, un povero essere umano a pezzi che non riusciva più a sopportare le pressioni psicologiche delle loro attività. La mia presenza in mezzo a loro, che per la maggior parte di quei potenti è semplicemente una fonte di divertimento, per lei è una fonte di agonia. Non mi chieda di spiegarlo; posso solo dire che è una persona da cui l'ultimo frammento di coscienza non è ancora stato interamente cancellato. Ho fatto amicizia con lei solo per cercare delle prove. All'inizio mi ispirava solo ripulsione, ma a poco a poco, quando sono venuta a sapere di più della sua terribile esistenza, sono stata mossa a pietà. Le ho lasciato capire che comprendevo il suo dolore. Lei ha risposto. Ci siamo avvicinate l'una all'altra. Poi, la scorsa settimana, il premio che Lei ed io abbiamo previsto me lo sono ritrovato tra le mani senza sforzo. La donna non riusciva più a sopportare la tensione di far finta di non sapere niente. Ha accennato di sapere qualcosa di molto importante. Di punto in bianco le ho chiesto di Stefano. Ha ammesso tutto. Stefano è stato ucciso dal gruppo. Ha confessato di aver assistito ad alcune delle fasi in cui è stato torturato. Ha detto che l'Architetto era presente e ha approvato ogni cosa. Era dispiaciuta per quello che gli avevano fatto, perché era un uomo coraggioso. Era un uomo gentile, ha detto con enfasi. Un uomo gentile! Immagino che quelle siano le uniche parole che una persona come lei possa andare a pescare per descrivere una persona come Stefano. Ho registrato la nostra conversazione con un miniregistratore nascosto e ne ho fatto una trascrizione. Non le chiederò di testimoniare in tribunale, perché non sopravvivrebbe un solo giorno
dopo aver sporto la denuncia. Tuttavia, il materiale che mi ha fornito, insieme con alcune prove che sono venute alla luce, basterà per convincere il governo italiano ad avviare un'indagine. Non è certo che riusciranno a mandare in prigione lui e i suoi soci, perché i suoi tentacoli si estendono fino agli organi vitali dello Stato, e oltre. Nonostante questo, lo scandalo pubblico rallenterà la sua ascesa al potere assoluto e potrebbe addirittura fermarla. Un dubbio radicale sarà insinuato nella mente del mondo. Se subirò dei danni in seguito alla mia attività investigativa, servirà solo a confermare quel dubbio. È un rischio che mi sento di correre. Nonostante queste vittorie, mi sento inquieta. Il disegno fatto di ombre che mi ha circondato per anni è cambiato improvvisamente. Nel mio lavoro e nella vita del giroscopio c'è un leggero squilibrio - sfumature, strani silenzi - così sottile da essere quasi microscopico. Ricorda il mio intuito? Potrebbe aggiungerci una vibrazione alle antenne che pensavo di aver perso. Perché non mi ha risposto? Ha ricevuto il mio messaggio? Era nello stesso linguaggio cifrato che abbiamo usato di solito e comunicava la notizia che c'era stato un importante passo avanti. Senza grande sforzo, potrebbero aver intuito il vero significato. Potrebbero persino aver fatto crollare quella povera donna. O potrebbe essere crollata da sola e aver raccontato tutto a loro. Non importa quello che mi succederà, non potrà sfuggire alla giustizia. Ho fatto numerose copie del materiale legato al caso. I dossier sono impilati di fronte a me e li farò consegnare personalmente da Marco, quando lo vedrò a Milano il 2 di gennaio. Ne spedirò altri per corriere alle Nazioni Unite e alla segreteria del Parlamento Europeo. Alcune copie andranno ai principali giornali del mondo occidentale. Non possono proprio ignorare un'accusa di questo genere, considerando che sono uno dei principali esperti di diritto del mondo (sì è vero, sono ancora orgogliosa - ma non più amareggiata). Nel caso improbabile che molte di queste copie vengano intercettate, ne ho messa una nelle mani di colei che ha il cuore trafitto da una spada, dove i passeri costruiscono il loro nido e le rondini trovano la loro casa. Lei la conserverà per bene. La prego di venire a Foligno. Sono qui fino al 1° gennaio. Dopo andrò a Milano e poi all'Aja. Marco è finalmente innamorato e mi ha chiesto il permesso di passare le vacanze con la sua amata. La
mia Gianna è con la famiglia del suo principe. È la prima volta che sarò qui da sola. Ma non sono sola. Sento Stefano molto vicino. Il giorno di Natale andrò giù alla cappella della Beata Angela, una santa locale, una moglie, madre e vedova, e sentirò la messa per la prima volta da vent'anni. Oh, non si faccia troppe illusioni su di me, avvocato Elia. Non sono ancora spinta a questa avventata devozione dalla fede che Lei desidera per me. Benché forse sia una forma di fede, un ritorno alle origini per vedere se quello che è stato perso si possa ritrovare. In solitudine, in esilio, arriviamo a capire quello che altrimenti non può essere compreso; ricordiamo quello che abbiamo visto e lo vediamo per la prima volta. Oserò dirLe che ci sono stati momenti, quando la farsa dei nostri messaggi romantici si è fatta indistinta, che ho cominciato a provare seriamente le parole che Le scrivevo, come se fossero le mie, come se fossimo quello che fingevamo di essere? So che mi dirà di non farlo. Dirà che il Suo cuore non riesce a sopportarlo. Bene, non lo dirò più. Ma solo questa volta Le dirò che il Suo cuore può sopportarlo. E ha bisogno di sopportarlo! L'amore brucia dalle fonti del cuore come una materia prima. Prende molte forme. Ci chiede di andare avanti e di morire, continuamente. Chiede sempre questo terribile prezzo. Vuole la nostra vita, tutta. Poi la dà indietro. Non deve avere paura di me. E nemmeno temere per il Suo cuore. Lei è un padre senza una figlia. Io sono una figlia senza un padre. Lasciamo che questo sia il genere di amore fra di noi. Non è da meno rispetto all'amore per Gianna e Marco. La sua forma cambia, e la stagione, e il raccolto. Ma è amore. Bene, mio padre-amico, è davvero tardi. Sono così sfinita. Sono così felice. Possiamo batterlo, Elia. Abbiamo vinto. Ho nuotato nelle acque oscure e sono sopravvissuta. E tuttavia sento che non è ancora finita. Nuvole così grandi stanno salendo verso di me dall'abisso, sebbene sulla superficie non si veda quasi nessuna increspatura. Chiederò a Marco di venire a Roma in macchina e di consegnaLe questa lettera personalmente. (firmato) Anna
Qui finiva la parte scritta con il computer. Sotto, scritto a mano, uno scarabocchio frettoloso: Oh Dio. Sono qui. *** Elia lesse e rilesse la lettera. Aveva voglia di piangere e poi di gridare di rabbia. Balzava in piedi e poi si sedeva di nuovo non sapendo che cosa fare. Doveva andare dalla polizia? Ma che cosa avrebbero potuto fare? Una sola lettera sarebbe stata sufficiente a legare il presidente alla scomparsa di Anna? Il nome "Architetto" non avrebbe avuto alcun significato per gli inquirenti. Era ovvio che tutte le prove erano state distrutte da chiunque avesse messo sottosopra la casa e portato via Anna. Scese a fatica dove aveva lasciato la macchina e cercò di toglierla dal sentiero, ma i pneumatici giravano a vuoto e affondavano nel fango semighiacciato. Nessuna spinta o nessuna preghiera l'avrebbero spostata. «Perché, mio Signore?», gridava. «Perché?». La neve scendeva sempre più fitta. Il freddo stava aumentando ed Elia indossava solo il suo soprabito leggero. Se avesse cercato di raggiungere la città a piedi, avrebbe potuto perdere la strada e morire di freddo. Sulle colline circostanti non si vedeva nessun'altra luce. Ritornò alla casa. Trascinò un materasso in cucina e lo mise di fianco alla stufa. Ravvivò il fuoco e si sdraiò. Si immaginò come dovesse essere andata. Anna aveva appena finito di stampare la lettera per lui, quando, più che vedere, aveva avvertito l'arrivo dei rapitori. Forse erano apparse delle luci sul sentiero, forse aveva sentito il rumore attutito del piede di porco sulla serratura elettronica, che piegava il gancio metallico. Forse c'erano stati degli uomini che erano saliti a piedi, in silenzio, mentre altri aprivano il cancello per far passare la macchina. Anna doveva aver capito in qualche modo che questo era il momento che aveva temuto e che aveva sperato di evitare. Aveva scritto "Oh Dio. Sono qui" in fondo alla lettera, poi con tutta calma l'aveva piegata - non faceva mai niente di fretta. Era andata nella camera dei nonni e aveva fatto scivolate il foglio sul retro dell'immagine del Sacro Cuore. A quel punto dovevano essere arrivati battendo per entrare alle porte sul davanti e sul retro, infine spaccando il vetro. Anna aveva avuto pochi secondi per scaraboc-
chiare il messaggio finale, "Sotto il cuore del nonno", su un pezzetto di carta violetto e gettarlo dietro alla stufa, quando le serrature delle porte erano state schiantate ed erano arrivati da tutte le parti. Elia si girò e rigirò e pregò in una delle ore più oscure della sua vita, una distesa eterna di desolazione paragonabile solo ai giorni finali del ghetto e alla sua fuga da Varsavia per la campagna, da ragazzo. Nel mezzo della notte sentì delle voci. Si mise seduto veloce, allungandosi a sentire quello che stavano dicendo, ma era solo il vento che sussurrava: "Lei la conserverà per bene... lei la conserverà per bene... Arrivarono le prime luci, un grigio minaccioso si diffuse sulle cime a est della casa di campagna. Si bollì una tazza d'acqua, che scacciò via il freddo dalle sue ossa. Lesse di nuovo la lettera. "Nelle mani di colei che ha il cuore trafitto da una spada, dove i passeri costruiscono il loro nido e le rondini trovano la loro casa". Le parole balzavano fuori dalla pagina. "Lei la conserverà per bene... lei la conserverà per bene...". Trovò il sentiero che portava sulla montagna attraverso il vigneto abbandonato. Scivolò ripetutamente sul viottolo ricoperto di neve. Ben presto i suoi piedi furono bagnati, sanguinava dagli stinchi e dai gomiti, dove aveva battuto sulla pietra. Il battito del suo cuore divenne irregolare e il petto gli faceva male. Si spinse avanti, ansimando per il bisogno di ossigeno, e il sibilo sottile del suo respiro divenne un rantolo, mischiato nel delirio alle preghiere e al nome di Anna e a proteste indistinte. Si aprì la strada centimetro per centimetro, aggrappandosi ai rovi e alle radici. Aveva le mani screpolate e sanguinanti. Si arrampicava con le mani e i piedi, quando finalmente raggiunse la cima. La statua era lì in vetta, sepolta sotto una coltre di neve, nella pace infinita della grotta. Mucchietti di neve riempivano i nidi che i passeri avevano costruito intorno a lei. Cadde in ginocchio ai suoi piedi e l'abbracciò in vita. La statua oscillò e quasi cadde, ma Elia la raddrizzò. Si sedette nella neve, ansimando e gemendo. Sentiva dolore dalla testa ai piedi e per una volta non riuscì a farsi obbedire dal suo corpo. Appoggiò la testa contro la vernice crepata del piedistallo e pregò. La preghiera era poco più che un grido di dolore, ma egli vi riconobbe una corrente di comunicazione vera che si estendeva dall'abisso della lunga epoca buia in cui era nato, attraverso spazio e dimensioni, attraverso barriere dopo barriere impossibili, al trono della grazia.
«Aiutaci, aiuto dei cristiani. Aiutaci, Madre», gridò. E poi una parola tornò indietro. Non aveva origine nella psicologia o nella biologia umana, non aveva altra fonte che le fonti che sgorgavano dal trono che aveva creduto essere così distante. "Sono qui". Il calore pervase il suo corpo. La luce riempì la sua mente. In lui era rinato un silenzio che era parte di quel silenzio originario anteriore alla prima parola della creazione. Guardò la statua e vide nel suo volto dipinto in modo semplice un riflesso della fame dell'uomo per la casa eterna di Dio. Vide il cielo scendere e toccare questo povero pezzo di gesso e riplasmarlo nelle forme che esistono oltre le cieche percezioni sensoriali dell'uomo. L'amore era sul suo volto, e l'amore era dentro. "Non avere paura, piccolo mio", disse lei, "sono con te. L'amore è con te fino alla fine". La corrente di calore ora scorreva attraverso di lui come acqua chiara e calda, contenente delizie nascoste, puliva le sue ferite, lavava la sua anima. Il suo corpo, un pesante sacco di dolore, venne placato e rinvigorito, sebbene il dolore non cessasse. "Lei la conserverà per bene. Lei la conserverà per bene", disse il vento. Allora capì. Si alzò, abbracciò la statua e la inclinò verso il fondo della grotta, dove si appoggiò alla pietra. In una cavità aperta sotto i suoi piedi trovò una busta di plastica. La tolse e rimise la statua sulla sua base, coprendo il buco. La busta era sigillata contro l'umidità. Strappò la parte superiore e tolse il contenuto; documenti, trascrizioni, cassette registrate, una storia dettagliata del caso nella scrittura di Anna, descrizioni della storia principale e degli intrecci secondari, nomi, date. C'era di più. Molto di più. Si mise in cammino per scendere dalla montagna, ma si fermò e tornò a guardare la statua. Una madonna senza vita, priva di valore artistico, eppure una figura attraverso cui la Madre si era rivelata. A suo modo, naturalmente, perché era stata una piccola e povera ragazza di Nazareth. Le sue immagini erano incoronate nelle cattedrali del mondo, icone dipinte da santi e statue modellate da geni. Era amata e glorificata in queste opere potenti, e in loro guidava le anime a glorificare suo Figlio, Colui che lei indicava sempre e ovunque. Eppure non disdegnava le immagini più umili, perché anche loro erano segni posti nelle tenebre della storia, senza la falsa gloria o l'orgoglio umano del talento, parole fatte di creta e dipinte con i pigmenti estratti da mani nodose che lavoravano la terra e speravano nel
Paradiso. "Piccolo mio, figlio mio. Non avere paura di nulla. La bestia che si traveste da agnello si avvicina al santuario per distruggerlo e prendere il trono di Gesù, il vero Agnello di Dio. Riuscirà per un certo tempo a oscurare la luce del cielo in molti luoghi". "Madre santa, che cosa devo fare? È tutto perduto?". "Quando il nemico penserà di aver vinto tutto, quello è il momento in cui verrà sconfitto. Prima della fine ci sarà molta sofferenza. Sarai un testimone di Cristo. Devi essere un segno. Non avere paura di nulla. Di' solo quello che Lui ti dirà di dire e che sarà detto per la salvezza di molte anime". "Come farò a salvare Anna?". "Non puoi salvarla. Prega per la sua anima. Sono con lei". "Dove devo andare?". "Prega lo Spirito Santo e Lui ti guiderà". Il colloquio nel suo spirito si dissolse a poco a poco ed Elia venne lasciato da solo, un uomo su una montagna. Era il giorno di Natale. *** Quando arrivò alla macchina, i solchi nel fango erano ancora congelati. Fece partire il motore, fece marcia indietro e uscì con facilità. Il manto stradale era pulito. Tornò giù nella valle e si diresse a sud verso l'autostrada. Si girava di continuo a guardare il pacchetto con il materiale appoggiato sul sedile di fianco al suo. Il suo cuore si contraeva di continuo. Pregò per Anna ancora e ancora, fino a quando le parole non divennero un torrente di supplica confusa. Superò numerose stazioni di servizio, tutte chiuse, ma a Terni ne trovò una aperta. Entrò nella toilette e si lavò, mentre l'addetto, un adolescente con le cuffiette che saltellava al ritmo di una musica senza suono, gli faceva il pieno. Nel negozio annesso alla stazione di servizio vide la propria faccia e quella di Anna sulla prima pagina di un giornale. In un attimo i suoi occhi catturarono le parole "scomparsi" e "amanti". Non perse tempo a leggere il resto. Portò il giornale alla cassa e lo pagò. L'addetto digitò dei numeri. Elia voltò la faccia dall'altra parte, ma non avrebbe dovuto preoccuparsi, perché il ragazzo non gli prestò attenzione. Prese i soldi di Elia e mise alcune monete dentro il piattino. «Buon Natale!», biascicò meccanicamente, mentre Elia si avviava alla
porta. «Buon Natale!». Da Terni si avviò verso sud-ovest fino a quando non si avvicinò al casello dell'autostrada Roma-Firenze. Si accostò a una piazzola di emergenza e si mise a leggere la prima pagina del quotidiano. Riportava che era scomparsa una giudice della Corte Internazionale e che la polizia stava investigando. Non venivano esclusi coinvolgimenti criminali, ma c'era il forte sospetto che il motivo fosse strettamente privato. All'attenzione del giudice istruttore erano state sottoposte alcune lettere che indicavano il coinvolgimento di un prete cattolico, anche lui scomparso, a cui la giurista era legata. C'era materiale sufficiente per corroborare la teoria della polizia, secondo la quale la donna avrebbe cercato di mettere fine a quella relazione compromettente e il prete, già inviato del Vaticano, l'avrebbe eliminata nel tentativo fallito di evitare lo scandalo. Era in atto un rastrellamento a tappeto delle principali città italiane. L'articolo forniva i nomi di entrambe le persone coinvolte. Elia era seduto al volante come pietrificato. Prese in considerazione di dirigersi a nord, a Milano, dove avrebbe potuto rintracciare Gianna e Marco e sapere da loro notizie di Anna. Gli avrebbero creduto? Forse, soprattutto se a loro avesse mostrato la documentazione. Ma se le loro abitazioni fossero state sorvegliate? No, era impossibile. Ovviamente, non sarebbe potuto tornare al collegio a Roma, perché anche quello sicuramente era sotto stretto controllo. Dove andare, allora? Chiuse gli occhi e invocò lo Spirito Santo, interiormente sentì la parola, Roma. Diede gas al motore, si infilò sulla corsia a sud e guidò verso la città eterna. *** Raggiunse la periferia nord verso mezzogiorno. Da un telefono pubblico chiamò l'appartamento di Stato. Rispose una donna. Elia chiese del cardinale. La voce della donna esitò: «Mi dispiace, signore, ha avuto un attacco di cuore. È stato portato al Gemelli». «Con chi sto parlando, mi scusi?». «Sono sua sorella, Margherita. Vuole lasciare un messaggio?». «No, no, grazie. Lo andrò a trovare all'ospedale».
«Non penso che glielo lasceranno vedere. È in terapia intensiva». «La situazione è così brutta?». «Si è preso un bello spavento. I dottori dicono che è stato un avvertimento». La voce della donna si affievolì e riappese. Tornò alla macchina e rovistò nel vano portaoggetti. Trovò degli occhiali da sole - il portiere li portava sempre, che piovesse o ci fosse il sole - e se li mise. Guidò attraverso la città e parcheggiò a parecchi isolati di distanza dall'ospedale. Fece a piedi il resto della strada, evitando gli sguardi degli altri, sperando che nessuno notasse gli strappi nei suoi vestiti e gli schizzi di fango. Arrivò all'entrata principale senza problemi, ma si fermò prima di entrare, giusto in tempo. Al banco della reception c'erano due poliziotti che parlavano con un'infermiera. Elia fece marcia indietro e svoltò velocemente dietro l'isolato, avviandosi al retro dell'edificio. Lì trovò l'entrata di servizio attraverso la quale era entrato nell'ospedale mesi prima nel tentativo di vedere Billy Stangsby. Cinque minuti più tardi si trovava sul piano della terapia intensiva, nello stanzino del custode. Pulì i vestiti con uno straccio, si pettinò i capelli e lisciò l'impermeabile. Assumendo un'espressione sicura di sé, percorse il corridoio e passò attraverso la doppia porta del reparto, non sapendo chi avrebbe trovato dall'altra parte. Stava suonando un allarme. Le infermiere si stavano precipitando nel corridoio verso una luce lampeggiante, spingendo una macchina. La lista dei nomi dei pazienti alla reception deserta gli rivelò il numero della stanza del cardinale. In pochi secondi si ritrovò dentro la stanza privata, con il respiro pesante. Chiuse la porta. Stato stava dormendo. Aveva una brutta cera. Dal suo corpo spuntavano innumerevoli tubi in tutte le direzioni. Elia lo fissò, timoroso di svegliarlo. «Chi è?», disse il cardinale con voce roca. «Padre Schäfer», sussurrò Elia. «Schäfer!», disse il cardinale. «Si avvicini. Non riesco quasi a vederLa». Elia si avvicinò al letto. «Sente dolore, Eminenza?». «Fa male». «Sono in serio pericolo». «Lo so. Ho visto i giornali». «Ho bisogno del Suo aiuto». «Che cosa posso fare? Sono stato messo al tappeto!», gemette. «Avrei così bisogno di essere forte». «La prego, cerchi di aiutarmi. Potrei essere arrestato in qualsiasi momento».
«Perché? Perché? Perché ci sta succedendo questo?». Il cardinale muoveva la testa avanti e indietro. Sembrava molto più vecchio, e il suo volto era stanco, sbattuto. I suoi occhi si annebbiarono, poi si concentrarono di nuovo su Elia. «Ho delle prove che distruggeranno la carriera del presidente. È un bugiardo e un assassino». Sollevò il pacco dei documenti. «È tutto qui». Il volto del cardinale si illuminò. Per un istante nei suoi occhi si accese la vecchia fiamma. Sollevò le sopracciglia e strinse le labbra. «È tutto vero?». «È vero. Siamo vicini a sconfiggerlo, ma non è ancora fatta. Devo dare le informazioni a chi le userà nel modo più efficace. A chi le devo portare?». «Non lo so. Sono così stanco... Forse il mio amico giudice a Brescia. Aspetti, vada dal prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Il cardinale è l'unico. Oh no, dimenticavo! È a New York a cercare di sedare una disputa fra i vescovi americani. Se avessi qualche minuto di forza, solo qualcuno. Potrei fare una telefonata. Le deve portare al Santo Padre. Lui saprà che cosa fare». «Ma come faccio a entrare in Vaticano? Sono sicuro che mi stanno cercando alle porte». «Potrebbe entrare dal retro. Poi cercare il comandante delle Guardie Svizzere. Lo conosco. È una brava persona. Scriverò un messaggio che Lei potrà consegnargli. Mi dia quel bloc-notes». Elia appoggiò il blocchetto sul ventre del cardinale, e Stato lo riempì con un messaggio scritto in una grafia incerta. Si tolse l'anello episcopale e lo diede a Elia. «Se ha bisogno di usarlo, lo faccia. Potrebbe aprirLe delle porte». «Grazie, Eminenza». «Si avvicini». Il cardinale si allungò e con il pollice e l'indice tracciò il segno della croce sulla fronte di Elia. «Ecco. Ora, mi benedica». Elia pronunciò le preghiere del sacramento dell'unzione degli ammalati e unse la fronte del cardinale. «Ritornerò il più presto possibile». «Lei ha affrontato un grave rischio venendo da me. È meglio che non torni più qui; chissà che cosa succederà». Il cardinale lo squadrò da capo a piedi.
«Lei è proprio messo male. Prenda il mio soprabito e i pantaloni dall'armadio. Abbiamo circa la stessa taglia». Elia indossò i vestiti del cardinale. Gli andavano quasi bene, erano solo un po' abbondanti in vita. «Ora il soprabito». Il giaccone imbottito pesava sulle sue spalle. Una sciarpa verde a disegni scozzesi e i guanti di pelle completavano il travestimento. «Anche lo zucchetto. Non sia timido». Elia si mise il copricapo rosso in testa, sentendosi davvero a disagio. «Le va bene», Stato sorrise debolmente. «Ora, come sta andando in giro?». Elia glielo disse. «È ridicolo. La macchina della Sua comunità è stata certo denunciata come scomparsa e la staranno cercando. Vada al mio appartamento. Chiederò a un'infermiera di telefonare a Margherita. Le darà le chiavi della mia Volkswagen. Questo Le dovrebbe dare un po' più di tempo». «Non so se ci rivedremo di nuovo, Eminenza. Qualsiasi cosa succeda, sappia che pregherò sempre per Lei». Prese la mano di Stato. «Che Dio sia con Lei. Che gli angeli santi La guidino». «Che la Sua pace sia con Lei. Riposi, Eminenza. La Chiesa ha bisogno di Lei». «La Chiesa ha bisogno di Lei, padre Elia». Ripercorse la stessa strada per uscire dall'ospedale e camminò per diversi isolati verso una delle strade principali, dove fermò un taxi. Quindici minuti dopo, suonava il campanello dell'appartamento del cardinale. Alla porta venne una donna robusta. Il suo volto era la versione femminile di quello di Stato, una semplice donna di campagna, i capelli grigi raccolti in una retina. L'appartamento dietro di lei odorava di cipolle fritte. «Margherita?». «Sì. Lei viene da parte di mio fratello?». «Sì». Gli diede un mazzo di chiavi. «L'ospedale ha appena telefonato. Immagino di doverLe dare queste, Eminenza». «Dov'è la macchina?». «Giù nel garage. Stia attento, Eminenza, non la graffi quando sale dalla rampa. È pignolo quando si tratta di quella macchina».
Cominciò a piangere. «Non si preoccupi, signora. È forte. Avrà indietro presto suo fratello». Si asciugò le lacrime sul grembiule. «Forse sì. Forse no. Lavora come un cane. Non riposa mai. Gliel'ho detto così tante volte, devi lasciare a Dio un po' di spazio perché faccia a sua volta qualcosa. Ma no, deve fare tutto da solo». Elia la rassicurò di nuovo, poi scese nel garage. La vecchia Volkswagen arrugginita del cardinale non meritava proprio le preoccupazioni che le erano stato prodigate. Ma partì appena girò la chiave e si mosse scoppiettando su per la rampa, lasciando una scia di gas di scarico azzurro. Passò il ponte sul Tevere verso la Via Crescenzo, girò intorno al Vaticano e parcheggiò a due isolati a sud della stazione ferroviaria della città cinta da mura. Si infilò il pacco di materiali sotto il braccio, chiuse la macchina e si avviò al cancello. Il cancello era temporaneamente aperto. "Gli angeli si danno da fare", pensò Elia. Si fece strada attraverso i giardini, fino a quando incontrò le prime guardie. Chiese di essere condotto dal comandante delle Guardie Svizzere. Cinque minuti più tardi venne introdotto in un ufficio al piano terra del palazzo di Sisto V. «Colonnello, questo cardinale vorrebbe parlare con Lei». Un vigoroso sessantenne, vestito nell'uniforme delle Guardie, si alzò da dietro una scrivania. «Come posso aiutarLa, Eminenza?». «Possiamo parlare da soli?». Il colonnello chiuse la porta e offrì a Elia una sedia. Si sedette anche lui, incrociò le mani sulla scrivania di fronte a sé e fissò Elia con sguardo penetrante. «Lei non è un cardinale». «È vero», disse Elia togliendosi lo zucchetto. «Il ragazzo è nuovo qui. Altrimenti avrebbe capito che Lei non è quello che dice di essere». «Non ho detto a nessuno di essere un prelato. L'ha supposto lui. Sono un prete». «Perché è qui?». Tese al colonnello il messaggio di Stato. «Questo è davvero strano. Il cardinale segretario si trova in condizioni serie all'ospedale».
«L'ho appena visto al Gemelli. Mi ha chiesto di mostrarLe questo». Elia mise l'anello sulla scrivania. Il volto del colonnello non rivelava i suoi pensieri. «Questo è un anello episcopale. Ce ne sono a migliaia nel mondo. Come faccio a credere che venga dal cardinale?». «Non lo so, ma La prego di credermi, in nome di Dio». «E questa è una scrittura molto tremolante», disse picchiettando sul foglio. «Sicuramente riconosce la scrittura del cardinale». «Potrebbe essere un falso». «Non è un falso». «Lei sa quante persone, alcune di loro in scarlatto, altre in nero, vengono in questo ufficio cercando di ottenere un'udienza privata con Sua Santità?». «Non lo so». «Parecchie ogni settimana». Si fissarono dai due lati della scrivania. «Ha un messaggio da parte di Dio per Sua Santità?». «No. Non sono un visionario». «Forse una rivelazione privata?». «Naturalmente no. La prego, colonnello, non sono un pazzo o un nevrotico con una causa. Porto un messaggio da parte del cardinale. Sono stato ingaggiato in un incarico speciale da parte della Segreteria di Stato e questo pacco contiene materiale della massima importanza per la Chiesa». Il colonnello non sembrava convinto. «La maggior parte delle persone che vuole vedere il papa mi dice la stessa cosa. Vogliono tutti parlare con lui di questioni della massima importanza per la Chiesa». Elia chiuse gli occhi e pregò. «Pregano anche loro», disse il colonnello. Si allungò verso il telefono. «Come si chiama?». «Immagino che non importi più ora. Se Le dico il mio nome, mi garantisce che questo pacco arriverà nelle mani del Santo Padre?». «Esaminerò il suo contenuto e prenderò in considerazione la richiesta. Il Suo nome?». «Padre Elia Schäfer». Il colonnello tolse la mano dal telefono. Fissò Elia e batté le ciglia. «Schäfer». Si appoggiò allo schienale della sedia ed espirò pesantemente dalle nari-
ci. «Perché un uomo ricercato dalla polizia italiana e sospettato di omicidio vuole parlare con il papa? Pensa che possa aiutarLa in questa situazione?». «Non ho ucciso nessuno. La situazione è estremamente critica. C'è un complotto - troppo complesso da spiegare ora - che minaccia di compromettere la Chiesa». «Come faccio a sapere che Lei non fa parte di questo complotto?». La sua mano comparve quasi all'improvviso e schiacciò un bottone. Immediatamente due Guardie Svizzere entrarono nell'ufficio. «Rimanete sulla porta», disse. «Posso vedere il materiale?». Elia gli diede il pacco. Il colonnello sfogliò il suo contenuto lentamente, esaminando i documenti, scorrendo velocemente i titoli. Li mise accuratamente da parte, poi ritornò al manoscritto più corposo di Anna, quello in cui descriveva i dettagli del caso. «Questo è stato scritto dalla donna che è scomparsa?». «Sì». Il colonnello fece un cenno alle guardie. Uscirono e richiusero la porta dietro di sé. Il colonnello lesse in silenzio per cinque minuti. «Ovviamente tutto questo riguarda questioni di Stato». «Questioni di estrema importanza. Il Santo Padre starebbe già leggendo questo materiale, se non fosse stato per il deplorevole attacco di cuore del cardinale». «Vedo che Lei si trova in una situazione difficile». «Ci troviamo tutti in una situazione difficile. Quello che la dottoressa Benedetti descrive è terribilmente grave. Mi deve credere». «Forse lo ha messo insieme Lei». «Non l'ho fatto». Il colonnello si alzò e si allacciò una spada dalla doppia elsa intorno alla vita. Elia abbassò la testa e si sfregò la fronte. «La prego, mi creda», sussurrò, sapendo che sarebbe stato inutile. «Si alzi, padre. Lei verrà con me». Elia gemette stupito e afflitto. Un'onda nera gli attraversò la mente. «Dove mi sta portando?», chiese sconsolato. «A vedere il papa».
19 In pectore «Si rimetta lo zucchetto», disse. «Avrà bisogno anche di quello». Diede l'anello a Elia. «Lo infili». Elia fece quello che gli veniva detto. Il colonnello mise la lettera di Stato nella tasca interna dell'uniforme, raccolse i documenti di Anna e li mise in una cartelletta di pelle, che sistemò in una valigetta. La chiuse, fece girare la serratura a combinazione numerica e l'afferrò con la destra. La mano sinistra sull'elsa della spada, guidò Elia fuori dall'ufficio. Nell'anticamera, il colonnello fece segno alle due giovani guardie di accompagnarli. «Da questa parte, padre», disse. Elia lo seguì. «Ci potrebbero essere delle difficoltà», lo avvisò da sopra le spalle. «Lei deve fare esattamente come Le dico». «Lo farò». Mentre avanzavano attraverso il labirinto del Vaticano, Elia venne colpito dal contrasto fra la valigetta moderna e l'uniforme rinascimentale del colonnello. Se non si fosse sentito così disorientato, avrebbe potuto sorridere di quell'accostamento sorprendente. La gravità con cui lo Svizzero svolgeva il suo compito avrebbe d'altronde bloccato ogni riferimento scherzoso. Mentre si avvicinavano all'entrata alla sala del trono, il colonnello indicò un piccolo salotto a lato del salone principale. «Entri lì, padre, e ci rimanga fino a quando non La chiamo». Il colonnello proseguì per la sala del trono e, vedendo un gruppo di prelati raccolti sulla porta all'altra estremità, andò loro incontro. Il prefetto dei Palazzi Apostolici e il maestro di Camera stavano discutendo con un uomo corpulento, non certamente un prete, che indossava un trench scuro. Riconobbe immediatamente lo sguardo esperto negli occhi dell'uomo, il modo in cui si dondolava avanti e indietro sui piedi, e la sua aria di superiorità professionale. Si trattava di qualcuno che leggeva nella natura umana da cima a fondo. Di qualcuno che il colonnello conosceva abbastanza bene. "Polizia", si disse. Il prelato lo presentò come l'ispettore capo della sezione omicidi della polizia di Roma. Il colonnello venne presentato come il comandante delle Guardie Svizzere, il capo della sicurezza del Vaticano, e il protettore della
persona del papa. «Posso chiederLe il motivo della Sua presenza qui?», disse il colonnello in tono formale. «Si tratta di un'inchiesta ufficiale che riguarda un ex incaricato del Vaticano, un certo padre Schäfer, che è sospettato di rapimento e omicidio. Abbiamo ragione di credere che possa cercare di rifugiarsi qui. Voglio ottenere l'assicurazione che qui non gli verrà fornito riparo e che, se viene trovato, verrà consegnato al mio ufficio nell'interesse della giustizia. Devo avere la Sua assicurazione». Quando ebbe finito di parlare, l'ispettore fissò il colonnello nel modo più risoluto, tranquillo e intimidatorio. Non aveva mai incontrato il colonnello prima. Il colonnello gli sembrava il membro di uno di quei gruppi di vecchi eccentrici che amano saltellare di qua e di là con i cappelli piumati brandendo lame d'acciaio. Il colonnello era vestito con una calzamaglia gialla, scarpe con la fibbia, pantaloni a strisce a sbuffo e un copricapo nero tenuto fermo da lacci rossi. Inoltre portava una spada decisamente troppo grande. «Ripeto: devo avere questa assicurazione prima di andarmene». Il colonnello ricambiò lo sguardo dell'ispettore. Se possibile, il suo era ancora più tranquillo, puntellato dallo stesso atteggiamento deciso. Scrutò senza battere le ciglia gli occhi dell'ispettore, fino a quando quest'ultimo non cominciò a sentirsi a disagio e guardò da un'altra parte. «Le ricordo che è ospite sul territorio di uno Stato sovrano. Sarebbe appropriato per un ospite esprimere i propri desideri in forma di richiesta, non di ordine». L'ispettore si strinse nelle spalle. «Come vuole. Le chiedo di consegnare al mio ufficio chiunque risponda al nome di Schäfer o che corrisponda alla sua descrizione. Legga questo!». Il colonnello prese i fogli che l'ispettore gli aveva cacciato in mano. «Le assicuro che qui non ci sono criminali». «Se potessi avere la Sua assicurazione che ci informerà del suo eventuale arrivo...». «Lo prenderò in considerazione». «Lo prenderà in considerazione?», disse l'ispettore imitando alla perfezione il tono di voce. «Lei si sta mettendo in una situazione sempre più difficile. Il Suo comportamento mi costringe a sentirmi meno disposto a prendere in considerazione questa richiesta rispetto a quando ha accennato al tema all'inizio».
La faccia dell'ispettore diventò rossa e lo guardò con ostilità. «Voglio parlare con un responsabile qui!», sbraitò. «Gli sta parlando». «Voglio dire uno dei pezzi grossi. Il papa o uno di quelli in alto». «Lei non vedrà il papa. In effetti, non vedrà nessun altro in Vaticano oggi. Lei ora lascerà questo edificio. Queste due giovani guardie La scorteranno alla porta». «Ridicolo buffone!», ringhiò l'ispettore. «Questo caso riguarda un crimine molto grave e uno dei vostri è coinvolto. Non si metta a fare stupidi giochetti con me. Ma sa chi sono io?». «So che Lei sta violando la legge internazionale, a meno che non se ne vada subito». L'ispettore diede in escandescenza. Il colonnello mise la mano sull'elsa della spada. «Se non ubbidisce immediatamente, saremo obbligati a presentare una protesta formale al Suo governo. Potrà spiegare la situazione ai Suoi superiori». Furibondo, l'ispettore si calcò in testa un cappello, girò i tacchi e si avviò a grandi passi alla porta, seguito al trotto dai due giovani Svizzeri. I prelati fissarono il colonnello e si guardarono. «Lei è stato alquanto sgarbato», disse uno. «Davvero, colonnello, Lei ha tenuto un comportamento ostile verso quell'uomo. Dovremmo cercare di essere in buoni rapporti con le autorità italiane». «Con rispetto, Eminenza, per quanto minuscoli siamo, siamo uno Stato. Questo è il centro di una comunità spirituale che comprende più di un miliardo di persone». «Lei non è stato umile». Il colonnello sembrò pensieroso. Fissò il pavimento e storse le labbra. «Ha ragione. Non sono stato umile. È un mio difetto. Mi scuso». Ritornò al salone e chiamò Elia. «Venga, dobbiamo andare adesso». Il maestro e il prefetto dei Palazzi Apostolici intercettarono la loro marcia verso la porta che conduceva agli uffici del papa. «Ancora un momento, colonnello. Non riconosciamo questo cardinale», disse il maestro. «Chi è? È davvero un cardinale?». Il colonnello spiegò che Elia era in pectore. I prelati sollevarono le sopracciglia. Sapevano quello che il colonnello intendeva: alcuni uomini sconosciuti sparsi nel mondo erano stati eletti cardinali in segreto per di-
versi motivi di delicata opportunità politica, prima di tutto per evitare la cattura in Stati totalitari. I prelati si spostarono e li lasciarono procedere verso l'Anticamera Segreta, che porta allo studio privato del papa. Il segretario del papa si alzò dalla sua scrivania e li salutò. «Buon Natale, colonnello!». «Buon Natale, monsignore! Ho con me un emissario del cardinale segretario di Stato. Porta un messaggio urgente per Sua Santità». «Può aspettare? Il Santo Padre sta riposando dopo la messa di questa mattina. Poi deve preparare l'omelia per la messa in San Giovanni in Laterano». Il colonnello consegnò al segretario il messaggio di Stato e il dossier della polizia. Sottolineò ancora una volta l'assoluta necessità di un incontro con il papa. «Un momento». Il segretario scomparve da una porta laterale. Mentre aspettavano, il colonnello aprì la valigetta e diede ad Elia la cartelletta di pelle. Il segretario ritornò alcuni minuti dopo e fece capire che Elia poteva entrare. Passò dalle porte di rovere e il segretario le richiuse dietro di lui, lasciandolo da solo con il papa. Il pontefice era seduto alla finestra. Un bastone era appoggiato contro la parete vicina alla poltrona. Elia si inginocchiò di fronte a lui e gli baciò l'anello. Il papa accettò il gesto, non lo fece rialzare come aveva fatto nelle occasioni precedenti. Il suo volto era sottile, più vecchio di quanto ricordasse Elia. «Si accomodi». Elia si sedette di fronte a lui. Gli occhi del papa riflettevano un oceano di tristezza - e di forza. «Il Suo volto è cambiato più del mio, padre, e in così poco tempo». «Sono successe così tante cose, Santità». «Il tempo accelera mentre invecchiamo, no? Il tempo e gli eventi si fanno sempre più densi». «Proprio ora stanno accadendo eventi molto importanti per la Chiesa». «Sì, lo so. Il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede mi ha chiamato da New York questa mattina. La Sua situazione è precaria». «Il pericolo abbraccia la Chiesa universale. Ho delle prove che vorrei Lei esaminasse. Ora sappiamo per certo che il presidente è responsabile della morte di Stefano Benedetti e che è coinvolto nella scomparsa di Anna Benedetti».
«La polizia dice che è Lei il sospettato». «Sono innocente». Il papa si allungò e toccò il braccio di Elia. «So che Lei è innocente. Non deve confermarlo a me». «L'accusa è solo una piccola parte di una cospirazione che cerca di minare la struttura organizzativa della Chiesa». «La Chiesa sopravvivrà a tutto. Il nostro scopo più immediato è contrastare l'ascesa del presidente al potere mondiale. Lei dice di avere delle prove». «Prove decisive». Aprì la cartelletta. «Documenti, lettere, registrazioni». «Mi assicurerò che vengano fatte delle copie e che raggiungano le autorità responsabili. La metta sulla mia scrivania». Dopo che Elia lo ebbe fatto, crollò sulla poltrona e dalle labbra gli sfuggì un chiaro gemito. All'improvviso si rese conto di essere esausto e di sentire dolore dappertutto. «Lei è molto stanco, figlio mio». «Sono successe così tante cose, da ieri pomeriggio, che non so da dove iniziare». Spiegò tutto quello che gli era successo dalla vigilia di Natale. «Ho paura per la mia amica Anna. Quasi certamente la sua vita è in pericolo. Potrebbe essere...». «È morta». «Oh, Signore... Come?». Il papa passò a Elia il rapporto della polizia. «Dice che è stata uccisa e che il delitto è stato fatto passare per un incidente in macchina sugli Appennini. L'autopsia indica che è morta il 21 dicembre». Elia soffocò un singhiozzo in gola. Il papa rimase in silenzio, fino a quando Elia non si fu ripreso. «Temevo che succedesse», sussurrò. «In qualche modo sapevo che sarebbe successo». «Quando l'ha vista per l'ultima volta?». «Parecchie settimane fa». Elia estrasse dalla cartelletta di pelle la lettera che Anna aveva scritto a Foligno la notte del suo rapimento. «È datata il 21».
«Non ha sofferto a lungo. Offrirò la messa a San Giovanni in Laterano per la sua anima. Era una donna coraggiosa». «Una donna coraggiosa», gli fece eco Elia con voce spezzata. «Ha dato la vita». «Santo Padre, la sua vita non deve andare persa! Dobbiamo fare di tutto per assicurare i suoi assassini alla giustizia». «La giustizia verrà fatta, secondo i tempi di Dio». Rimasero seduti in silenzio, ognuno perso nei suoi pensieri. Alla fine Elia disse: «C'è qualcosa che non capisco. Perché lo hanno fatto passare per incidente, se volevano gettare la colpa su di me?». «Sospetto che lo abbiano camuffato da incidente, ma che abbiano lasciato indizi sufficienti a far capire che si trattava di omicidio, per creare l'impressione di un crimine occultato alla svelta. Questo avrebbe fatto sollevare il dito accusatore in un'altra direzione, verso un dilettante che cerca di coprire la sua colpa. Persone di quel genere non lasciano tracce che risalgano fino a loro. Sono professionisti, maestri dell'inganno. Chiaramente volevano cogliere due piccioni con una fava, la dottoressa Benedetti e Lei». «Perché non hanno cercato di disfarsi di me?». «Sperano di ottenere qualcosa di più che l'eliminazione di un individuo fastidioso. Vogliono creare uno scandalo e così accreditare l'immagine pubblica di una Chiesa giunta agli ultimi stadi della degenerazione». «In ogni caso, è finita». Il papa lo guardò con tristezza. «Oh, figlio mio, è tutt'altro che finita. Non abbiamo ancora visto il peggio. Non dobbiamo supporre che questi siano criminali incalliti e niente di più. Il loro attacco alla Chiesa viene portato avanti a più livelli». All'improvviso vennero interrotti da qualcuno che bussava alla porta. Il segretario privato del papa si precipitò nella stanza e chiuse la porta dietro di sé. «Santità, il cardinal Vettore desidera parlare con Lei». «Vettore? Ma è in Cina!». «È qui, Santità, e pare molto agitato. Chiede udienza. Devo dirgli di andare via? C'è un buco nel Suo calendario martedì». «No. Lo riceverò. Mi dia cinque minuti». Il segretario uscì, e il papa, con espressione risoluta, si voltò verso Elia. «Voglio che Lei ascolti quello che succede. La prego, vada nella mia stanza e lasci la porta leggermente aperta. Non venga fuori e non interferi-
sca in nessun modo, per nessun motivo». Elia passò in una cameretta oltre la scrivania del papa. La stanza era poco più che una nicchia, spoglia, eccetto una brandina e un inginocchiatoio. Una lampada rossa da veglia era accesa sotto un tabernacolo collocato nella parete. Si inginocchiò di fronte al Santissimo, poi si mise accanto alla porta ad ascoltare. «Il cardinal Vettore, Santo Padre», disse la voce del segretario. La porta verso l'ufficio esterno venne chiusa. «Buon Natale, Santità». «Buon Natale, cardinal Vettore. Bentornato a Roma. Il Suo ritorno è inatteso». «Sono accaduti eventi importanti che hanno reso necessaria la mia presenza qui. Ci sono sviluppi che hanno conseguenze per la Chiesa. Dobbiamo discuterne immediatamente». «Sono contento che Lei sia venuto da me. E in un giorno come questo! La prego di sedersi». «Grazie, preferisco stare in piedi». «Porta delle novità dalla Cina?». «C'è molto da dire della Cina, ma ci sono temi ancora più urgenti che dobbiamo discutere». «Mi dica, figlio mio». «Mi è giunta notizia che tra le pareti della nostra stessa casa esiste una cospirazione». «Una cospirazione? Qual è la sua natura?». «Lo so che per Lei sarà difficile crederlo, ma devo informarLa che ci sono membri del collegio cardinalizio che non sono fedeli». «Non sono fedeli alla Chiesa?». «Diciamo piuttosto che non sono fedeli alla Sua persona». «Al papato?». «Bene, non esattamente. È il Suo pontificato che sembra averli infastiditi. C'è un gruppo di vescovi, parecchie centinaia so, e molti cardinali che hanno auspicato che Lei prenda in considerazione di ritirarsi». «Ritirarmi?». «Sì, ritirarsi». «Capisco. Quali sono le loro ragioni? Lo sa?». «Dalle informazioni che ho raccolto, concordano che il Suo pontificato non è stato quello che il conclave aveva sperato. Quando Lei è stato eletto, si aspettavano che gli obiettivi del Concilio sarebbero stati messi in atto a
pieno ritmo. Ora ritengono che le Sue recenti encicliche e il modo in cui sono state applicate le Sue decisioni disciplinari rappresentino un ritorno alla Chiesa preconciliare». «E quindi fra i fedeli ne è risultata una confusione pericolosa?». «Esattamente. Credono che un uomo più giovane, uno più pervaso dal pensiero dei Padri conciliari, sarebbe capace di correggere la nostra rotta e portarci come un corpo unico all'inizio del terzo millennio». «Che cosa pensa di questa proposta?». «Sono sorpreso, naturalmente. Ovviamente, siamo disuniti. Tuttavia, non penso che la condizione attuale sia necessariamente dannosa. Il cambiamento non è mai facile. Potrebbero occorrere due o tre generazioni perché la Chiesa si consolidi». «Lei forse si ricorda che durante il Concilio ero stato da poco consacrato vescovo». «Sì, mi ricordo». «Lei era giovane, allora». «Ero in seminario. Ma i nostri professori erano coinvolti nel Concilio; alcuni di loro erano dei periti e ci parlavano delle loro aspettative. È stato un periodo entusiasmante». «Pensa che il frutto del Concilio sia quello che avevamo sperato?». «Ci sono stati alcuni errori. Ma penso che in complesso i cambiamenti abbiano portato un approccio più creativo». «Ci sono stati travisamenti dei testi del Concilio». «In alcune regioni ci sono state innovazioni incaute. Ci sono stati degli eccessi. Tuttavia, questo gruppo di vescovi sembra ritenere che il problema sia altrove. Credono che i conservatori stiano esercitando un'influenza inopportuna e che abbiano conquistato la Sua attenzione». «Quel gruppo pensa che io abbia rallentato il processo di rinnovamento?». «Purtroppo pensano così». «E Lei, cardinal Vettore, che opinione ha su questo tema?». «La mia fedeltà verso di Lei è incrollabile». «Concorda sul fatto che i conflitti diffusi nei campi della dottrina, dell'educazione e della liturgia siano il risultato di un fraintendimento del Concilio?». «Indubbiamente». «Da parte di prelati modernisti?». Il cardinale non rispose.
«Forse da parte di cardinali conservatori?». «Il gruppo di cui stiamo parlando sembra tendere a questa seconda risposta». «Ma Lei, Lei che cosa pensa?». «Sa che Le sono fedele». «Sì, l'ha già detto prima». «I dissidenti sono chiaramente in errore, ma hanno posto alcune questioni importanti, che potrebbero rappresentare un contributo valido». «Quali questioni?». «Bene, per essere sinceri, il problema della collegialità». «Qual è, precisamente, il problema?». «Dobbiamo o meno affidarci allo Spirito Santo e aprire la strada a un processo più democratico?». «Il papato sarebbe quindi una pietra d'inciampo sui sentieri dello Spirito Santo?». «Non esattamente. Attualmente ci troviamo in un periodo di transizione e, quindi, possiamo aspettarci le normali difficoltà di adattamento a un nuovo paradigma di Chiesa». «Come si immagina questo nuovo paradigma?». «Dovrei spiegare, Santo Padre, che non sto tanto riferendo le mie opinioni, quanto piuttosto quelle di questo gruppo. Ritengono che le Chiese nazionali funzionerebbero con maggiore efficienza e metterebbero in atto un processo più realistico di inculturazione, se non concentrassimo le nostre calanti risorse sul mantenimento di un modello medievale di Chiesa». «Penso che il Concilio sia stato chiaro su questo punto, no? Il papa è Pietro, il capo degli apostoli. I suoi fratelli vescovi pascolano legittimamente il gregge di Cristo solo in unione con la cattedra di Pietro». «Sono completamente d'accordo. Ma i vescovi desidererebbero sapere se possono mantenere la linea di successione apostolica esercitando una maggiore autonomia». «Hanno tenuto in considerazione le lezioni della storia?». «Mi scusi?». «Hanno tenuto in considerazione il IV secolo, quando quasi tutti i vescovi del mondo si sono piegati al volere di un imperatore ariano? Solo il papa e un manipolo di vescovi fedeli a lui hanno preservato la cristianità dei Vangeli. Che cosa ci dice ciò dello Spirito Santo?». Vettore non replicò. «Hanno pensato al comportamento dei vescovi inglesi durante il regno
di Enrico VIII? Solo un vescovo è rimasto fedele, se si ricorda. Hanno dimenticato che nella nostra epoca il partito comunista si è impossessato di una Chiesa autocefala, la Chiesa ortodossa in Russia, e l'ha usata per sottomettere le sue Chiese sorelle e fuorviare il Consiglio Mondiale delle Chiese?». «Questi sono eventi del passato. Siamo una nuova stirpe di cristiani e affrontiamo nuovi pericoli». «Cristo è sempre lo stesso, ieri, oggi e domani. Non affrontiamo nuovi pericoli. Sono solo variazioni di temi antichi». «Vorrei che fosse così semplice come Lei pensa, Santo Padre». «Che cosa suggerisce Lei?». «Credo che stiamo affrontando un futuro incerto. Siamo stati indeboliti da spaventose divisioni in campo teologico. Il gruppo dissidente presto si impegnerà per una destrutturazione, per dar vita a un movimento che elabori un modello più orizzontale di Chiesa. I conservatori, come sappiamo, stanno diventando sempre più fanatici. Condannano non solo il Concilio, ma anche il Suo pontificato come tradimento». «Ah, così Lei suggerisce di intraprendere una rotta verso il centro?». «Esattamente». «Ma se il centro si fosse spostato?». «Si è spostato?». «Oh sì, si è spostato. Il vero centro non può mai essere il punto centrale esatto fra due estremi, perché i poli sono sempre instabili, persino mutevoli. Il vero centro è sopra». «In ogni caso, stiamo affrontando una rivolta conservatrice da un lato e un rivolta progressista che cova dall'altro. Questa è la dolorosa realtà». «Quei termini - conservatori e progressisti - sono termini politici. Sono fuorvianti se applicati al Regno di Cristo». «Sono imperfetti, ma utili». «Questi conservatori e progressisti di cui parla amano il papa?». «Tutti tranne i più radicali riconoscono che la carica petrina è un carisma. Mostreremo sempre deferenza per quella carica, quale che sia il modello di Chiesa. Il problema è: quali sono i limiti precisi di quella carica?». «Il Concilio e duemila anni di tradizione sono chiari su questo punto». «Non è così chiaro ai cattolici moderni come lo era una volta». «E perché è così? Come ha fatto a diventare così incomprensibile?». «Forse si tratta della confusione naturale che sorge in un'epoca di cambiamento».
«E così torniamo al punto di partenza. Chi o che cosa è Pietro?». «Non potrebbe essere che lo Spirito Santo ci chieda di crescere? Forse è tempo di ripensare alcune delle vecchie strutture, compresa la Sua carica. Il cambiamento non è un male». «Ripeto la mia domanda: tutte queste persone - a sinistra, destra e al centro - amano Pietro?». «Amore? Non ne sono sicuro. Tutti La ammirano». «L'ammirazione è facile da provocare. Ma mi amano?». A questo punto nella voce del cardinale si insinuò la prima nota di impazienza: «Non lo so». «Mi amano... ma non mi obbediranno». La risposta di Vettore fu impercettibile. «Sa che cos'è l'amore, figlio mio?». «Naturalmente. Dal punto di vista teologico...». «L'amore è obbedienza fino alla morte. E rinascita». «L'obbedienza qualche volta necessita di un dissenso coraggioso. In una relazione libera...». «Qualsiasi tentativo di svalutare la vera comunità della Chiesa universale in favore di un modello ipoteticamente più democratico di Chiese regionali è un grave errore. Una delle tecniche costanti usate dalla tirannia è dividere e neutralizzare i propri oppositori, isolare quei movimenti o voci che ostacolano il dissolvimento dell'identità». «Ma Santo Padre», replicò Vettore in tono riflessivo, «i tiranni sono tutti morti. L'età del confronto è finita. Le terribili guerre e le rivoluzioni dell'era moderna sono state il risultato di vari generi di dogmatismo. È arrivato il tempo di dialogare con ogni parte, di costruire ponti. Troppo a lungo abbiamo camminato a ritroso nel futuro, ossessionati dal nostro passato, intrappolati nel passato. La razza umana sta ora compiendo un grande passo in avanti. Dobbiamo voltarci e guardare in faccia al futuro. Questo e solo questo assicurerà la salvezza del pianeta!». «E qual è la nostra parte in tutto questo?». «Mostreremo che crediamo nell'Uomo. Per troppo tempo ci siamo alienati la maggior parte della comunità umana con i nostri giudizi e le nostre condanne, promovendo le divisioni da ogni parte». «Cardinal Vettore, stia attento a quel sofisma! Se un uomo dice che il cielo è blu, sta causando una divisione? È irragionevole? È ostile all'uomo che crede che il cielo sia rosso?». «Qualche volta il cielo è rosso».
«Sì, quando la luce del giorno finisce, qualche volta è rosso». «Lei comprende il mio punto di vista». «Ma anche lo estendo. Supponiamo che, durante quel breve momento in cui la luce muore, il Suo uomo proclami al mondo che il cielo è sempre rosso. Sostiene che la gente non deve far altro che alzare lo sguardo per vedere la prova davanti ai propri occhi. La gente che vive ai margini delle nostre città ha perso l'abitudine di guardare in alto. Vive tutta la vita in quei labirinti di cemento armato, illuminati solo dalla luce artificiale, e si dice: "Finalmente vediamo il cielo, e vediamo davvero com'è. È rosso"». «Sta estremizzando il punto di partenza». «Davvero? La Chiesa cattolica romana difende la diversità - la vera diversità - entro la sua comunità universale ed è in grado di farlo proprio perché è una comunità fondata sulla verità. Questo è il motivo per cui i regni terreni non eguaglieranno mai la sua forza. Ogni sforzo umano di sostituire la Città di Dio è destinato al fallimento». «Perché? Perché è destinato al fallimento? Perché noi diciamo che è così? Abbiamo cercato di fondare una civiltà giusta su questo pianeta? Abbiamo cooperato con la Città dell'Uomo? Abbiamo davvero fatto ogni sforzo per portare la pace fra le nazioni?». «Lo abbiamo fatto», disse il papa semplicemente. «Non abbiamo fatto abbastanza». «Che cosa avremmo dovuto fare? Dire ai non credenti che ci siamo sbagliati nell'offrire loro la Luce? Ci siamo sbagliati nel parlare delle tenebre del mondo? Ci siamo sbagliati a difendere la pienezza degli assoluti umani e divini?». «Non stavo dicendo...». «Che cosa stava dicendo? La Sua posizione è costellata di contraddizioni». «Non sono venuto qui per essere rimproverato. Sono venuto per aiutarLa». «Davvero? Sì, immagino che Lei la veda così. Il giorno di Natale Lei viene per portare un dono al mondo. Il gruppo che rappresenta, anche loro considerano la loro visione un dono?». «Non li rappresento. Sono semplicemente...». «Se desidera aiutare la Chiesa, deve dire a questi cardinali e vescovi insoddisfatti che il cielo è azzurro. La Chiesa non è una struttura umana. Questo è il motivo per cui così tante culture e così tanti popoli diversi trovano la loro identità in essa. La crescita del regionalismo in alcuni angoli
del cattolicesimo occidentale sembra solo promuovere un senso d'identità intensificato; in realtà contribuisce a corrompere l'identità. È in grado di spiegarmi perché la rivolta tende a una torbida uniformità sotto la "creatività" superficiale del suo individualismo?». «Santo Padre, la nostra conversazione sta avviandosi su un binario morto. L'ecclesiologia è un tema complesso. Torniamo al problema concreto». «Questo è proprio quello che stiamo discutendo». «Come vuole. Devo dirLe che il Suo approccio non funzionerà a lungo». «E Lei ha un rimedio». «Sì. Con tutto il dovuto rispetto, devo dirLe che c'è un consenso crescente sul fatto che anche Lei si attenga alle regole che ha imposto ai Suoi fratelli vescovi. Dovrebbe prendere in considerazione di ritirarsi. Un conclave eleggerà un nuovo papa, uno che non sarà né progressista, né conservatore, che partirà dai risultati da Lei raggiunti e riporterà la Chiesa sulla giusta rotta». «Lei sta insinuando, senza mezzi termini, che ho condotto la Chiesa fuori rotta. Questo mi fa comprendere che Lei, come quei dissidenti, ha perso la fede nella promessa petrina, il carisma unico di Pietro, le chiavi del Regno». «Non è così. Non ho detto questo. Non stiamo mettendo in discussione la Sua difesa della fede e della morale. Qui si tratta di una crisi pastorale. I Papi sono uomini. La nostra storia è un lungo racconto fatto di curve e di svolte. Molte personalità, grandi e meno grandi, hanno occupato la Sua cattedra. In questo momento Lei è ancora rispettato come uomo che ha fatto grandi cose. Sarà ricordato come un grande pontefice. Ma nessuno è al di sopra delle critiche. Per il bene ultimo della Chiesa Lei dovrebbe consegnare le chiavi ad altri che possano continuare da dove Lei è giunto. È meglio che si ritiri al culmine della grandezza che presiedere alla graduale frantumazione della Chiesa, una tragedia della quale Lei verrebbe accusato nelle generazioni future». «Capisco». «Spero che Lei lo faccia, Santità. Non intendo offenderLa». «Naturalmente no», disse il papa con gentilezza. Elia ascoltava senza muoversi. Un silenzio pesante riempì lo studio del papa. «Figlio mio», disse il papa infine, «lo lasci». «Lasciarlo? Lasciare chi?», chiese Vettore sorpreso. «Non vada più da lui. Ritorni alla fede».
«Che cosa sta dicendo? Io non ho abbandonato la fede». «Egli La sta usando». «Chi?». «Lei non sa quello che sta facendo. Prego Dio che Lei non sappia quello che sta facendo». «È vero quello che dicono di Lei. La Sua mente sta vacillando. Non so di che cosa stia parlando!». «Se ne liberi». «È assurdo! Ho cercato di aiutarLa. Non serve. Vado via». «Si sieda», disse il papa. Vettore si sedette. «Si liberi della sua presa. Per la salvezza della Sua anima, almeno per quella». «Nessuno ha potere su di me». «Nemmeno Cristo». «Che cosa!». «Lei pensa che nessuno abbia autorità su di Lei, e quindi si rende vulnerabile ai poteri più oscuri di tutti». «Lei sta vaneggiando. È tutto nella Sua testa». «Conosco la verità. La scongiuro, lasci quell'uomo». «A chi si sta riferendo?». «Lasci il presidente». Vettore all'inizio non rispose. Persino da quella distanza Elia riuscì a sentire che respirava pesantemente. «Le ho già detto lo scorso anno che quelle accuse sono false. Chiunque gliele abbia fatte credere è un nemico di Cristo». «È un amico di Cristo». «Lei gli ha creduto». «Non è un bugiardo». «Lo sono io?». «Lei è stato per lo meno raggirato». «Lei è stato raggirato. Schäfer è un assassino. È un bugiardo. Perché crede alla sua parola contro la mia?». «Come fa a conoscere il nome Schäfer? Non l'ho menzionato». «Me lo ha detto lo scorso anno. Sono sicuro che l'abbia fatto». «So di non averlo fatto». «Naturalmente l'ha fatto». «Lei è un pastore della Chiesa, cardinal Vettore. Il destino di molte per-
sone dipende dalla Sua fedeltà. Si allontani da lui. Ritorni! Ora, prima che sia troppo tardi». «Che cosa intende con troppo tardi?», disse il cardinale lentamente. «Vede il dossier sulla mia scrivania? Contiene delle prove che a breve saranno presentate alle autorità. Il presidente è responsabile della morte di persone innocenti. Non è l'uomo buono che Lei crede che sia. Deve smettere di allearsi con lui. Non so come e perché Lei sia stato portato a sostenere la sua causa, ma credo che possa allontanarsi da lui senza paura». «Non ho paura», disse il cardinale freddamente. «Dio è misericordioso. Ritorni da Lui». «Questa conversazione sta diventando noiosa. Lei è una personalità ossessivo-compulsiva, e non sopporterò di venire insultato!». «Figlio mio», disse il papa con voce supplichevole, «mi dispiace se le mie parole La offendono. Non ne ho intenzione. Ma Lei si trova in un pericolo spirituale. Lei è un'anima, un'anima del mio gregge. Non permetta che il lupo la strappi da noi senza fare resistenza». Vettore si alzò e torreggiò sul pontefice. «Non è un lupo. È l'unico che cerchi di portare al mondo quella pace di cui ha disperatamente bisogno». «Lei sta parlando di pace dove non c'è pace». «La pace, la pace vera, si trova ora alla portata di tutta l'umanità». «La pace di Cristo sta arrivando. Non la metta da parte correndo dietro alla falsa pace». «La pace di Cristo sta arrivando? Quando, Le posso chiedere? I giorni si allungano, i secoli si allungano, e non si ha nessuna visione». «I giorni sono prossimi e, quindi, anche il compimento della vera visione». «Chi è il lupo? Lei è il lupo, perché vieta al gregge i pascoli della pace. Se uomini come Lei insistono a mettersi di traverso sulla strada della riconciliazione, allora, l'avverto, Lei verrà spazzato via». «E come farà quest'uomo di pace a spazzarmi via?». «Non importa come. La sopravvivenza della terra dipende dalla vittoria di quell'uomo. Lei vorrebbe dominare il mondo con il pessimismo, il ritualismo, il legalismo, il rifiuto di piegarsi alle dinamiche del progresso». «Oh, figlio mio, figlio mio, Lei è accecato da un ideale bello. Lei pecca di ingenuità a proposito della natura umana. L'uomo non può liberarsi da solo dalla sua natura caduca. Pensa che il presidente lo possa fare?». «Lo farà».
«E che cosa distruggerà mentre ci proverà?». «È un creatore, non un distruttore». «E se ci chiedesse di dire che il cielo è rosso? Un piccolo compromesso qui, un altro là». «Ci chiederà solo quello che le persone ragionevoli possono fare reciprocamente: ascoltare l'altra parte, prendere accordi, condurre negoziati, stipulare compromessi - non è una parolaccia, sa?». «Preferirei mille volte una Chiesa perseguitata che una Chiesa compromessa». «Se non si fa da parte, vedrà realizzato il Suo desiderio». «Così Lei vuole risparmiarci tutto questo». «Naturalmente! Pensa che voglia vedere il mondo coperto del sangue dei cristiani? Dobbiamo sopravvivere. Abbiamo bisogno di tempo per riorganizzarci, per presentare la nostra posizione al mondo. Non possiamo più indulgere in una spiritualità pessimista. Non possiamo più aspettare che un deus ex machina scenda dal cielo. Dobbiamo costruire la Città di Dio». «L'uomo non è in grado di costruire la Città di Dio. La Scrittura dice che la Nuova Gerusalemme scenderà dal cielo come un dono di Dio dopo la devastazione della terra per opera del peccato e dell'errore dell'uomo». «Profezie!», sbuffò Vettore disgustato. «Il mondo è pieno di questo simbolismo dilagante. Nel presidente il destino ci ha dato un essere umano accorto e intelligente, uno che costruirà la Città di Dio per noi, se non riusciremo a costruirla da soli. Ci condurrà all'adorazione in spirito e verità, liberati dalle nostre antiche mitologie». «Ora capisco. Ora vedo la fessura attraverso la quale è penetrato nella Sua mente». «È Lei che barcolla in una prigione piena di fumo. Lei ha abbandonato il cuore della religione per un guscio, proprio come i farisei prima di Lei. Lei lega le anime con tutte le Sue innumerevoli leggi». «La legge è maestra e mette alla prova. Se gli uomini non riescono a essere fedeli nelle piccole cose, come faranno a essere fedeli nelle grandi?». «Questo è il guscio della religione. Dov'è il cuore?». «Qual è la Sua definizione di religione?». «Definizioni, definizioni! Ancora razionalismo! Non ne abbiamo ancora avuto abbastanza? Quando gli uomini saranno liberi, abbracceranno naturalmente le vie della pace». «Il cuore della religione non è amare Gesù vivente come Salvatore, come Dio, e amare il prossimo come se stessi?».
«Credo in una religione che trovi la salvezza nel mondo, non sopra, in un castello lontano nel cielo». «Dio è nel mondo e sopra di esso. Lei assume continuamente come ipotesi una situazione o / o. Dice che le anime devono abbracciare un Dio immanente o uno trascendente, il cuore della religione o le strutture della religione. Vorrebbe farci credere che le strutture inevitabilmente uccidono il cuore». «Ho detto tutto». «I Suoi argomenti sono superficiali e sono stupito che un uomo così intelligente come Lei non lo capisca». «Io non sono stupito da Lei. Lei è penosamente trasparente. È il Grande Inquisitore di Dostoevskij. Vuole governare su un sistema feudale, dove tutti piegano il collo di fronte al Suo volere. Questo è fariseismo». «Chi è il vero fariseo? I Suoi prelati ribelli non legano le anime degli uomini, portandole a fare la pace con il peccato, quindi rendendole incapaci di entrare nel Regno?». «Peccato, peccato! Non è capace di parlare di altro? Che ne è dell'amore?». «L'amore non mente. La verità ci rende liberi di amare». «Non vede come Lei deprime la psiche umana?». «Lei vuole liberare l'uomo dalle sue inquietudini dicendo che non c'è pericolo? Lo vuole liberare dai sensi di colpa dicendo che non è colpevole?». «Colpevole di che cosa? Tutti gli uomini sono condizionati dal loro passato. Non ci sono molte persone su questa terra che hanno commesso un vero peccato». «Pensa di no?». «Lo so. Al peggio, siamo tutti vittime di un'ignoranza invincibile. Non siamo colpevoli. Nessuno va davvero all'inferno». «Chi conosce il numero degli ignoranti che andranno in paradiso? Forse sono in tanti. Ma Le dico una cosa sicura: ci sono molti vescovi e preti che andranno all'inferno per aver creato quell'ignoranza inestirpabile». Vettore alzò la voce: «L'ho chiamata Santo Padre, ma ora capisco che non c'è niente di santo in Lei. Lei è un uomo meschino che è arrivato su un grande trono per caso e per l'ingenuità di un conclave che non è stato in grado di leggere i segni dei tempi». «I tempi sono pieni di segni. Lei li ha letti correttamente?». «Pazzo!», sbraitò Vettore. Si sentì chiaramente uno schiaffo abbattersi come un colpo.
«Il Suo tempo è finito, Santo Padre», disse il cardinale, sottolineando le ultime due parole con il sarcasmo. Si sentì un altro sonoro schiaffo. Elia era bloccato nell'immobilità. "Non venga fuori e non interferisca in nessun modo, per nessun motivo". Lottò con se stesso. Poi si precipitò alla porta e guardò attraverso la fessura, facendo solo in tempo a vedere la schiena di Vettore che scompariva nell'anticamera. Il papa era in ginocchio e si teneva il volto con la mano. Gli occhiali da lettura erano messi storti sulla fronte. Goccioline di sangue gli cadevano sul petto. Elia cadde in ginocchio per sostenere quell'uomo anziano. Il corpo del papa stava tremando. Aveva gli occhi pieni di lacrime e il labbro superiore sanguinante. «L'ha colpita!», disse Elia esterrefatto. «Sì. Va tutto bene. Va tutto bene. Mi aiuti a alzarmi, La prego». Elia fece alzare il papa, lo condusse alla sua poltrona e gli asciugò il sangue dal volto. I lividi di due percosse gli attraversavano le guance. «È incredibile. Ha perso la testa?». «Preghi per lui, padre. La sua mente è prigioniera; la sua anima è molto malata. Non si arrabbi!». «Non arrabbiarmi!», Elia sbuffò. «Ha colpito il vicario di Cristo!». «Sono stato colpito a lungo da lui e da molti altri. Ora l'oscurità è diventata visibile. Ora è l'ora che il servo dei servi di Dio vada con Cristo per essere glorificato». «Non capisco». «Doveva succedere così. Si è svelato. Ora andremo al Calvario». Elia si rialzò e guardò il papa, non capendo. Corse nell'anticamera e trovò il segretario e il colonnello. «Che cos'è successo?», disse il colonnello. «Il cardinal Vettore si è precipitato fuori come un ciclone». «Ha colpito il papa. Lo fermi». I due uomini lo fissarono increduli. Corsero dentro lo studio e circondarono il papa. Dopo essersi assicurati che non era stato colpito gravemente, corsero fuori all'inseguimento del cardinale. Elia tornò dal papa e si mise in ginocchio. «Chiamerò un dottore, Santo Padre». «Non c'è bisogno di un dottore. Ma mi piacerebbe sdraiarmi per un attimo. Ho bisogno di pregare. L'eucaristia per me è una tale consolazione. Il Signore è così bello, così bello. Merita da noi molto di più. Siamo così po-
veri! I nostri piccoli cuori sono così poveri! L'Amore non è amato, padre Elia. L'Amore non è amato». Elia aiutò il pontefice a rimettersi in piedi e lo portò in camera da letto, lo fece sdraiare e gli mise addosso una coperta. «Grazie. Grazie. Ora mi lasci riposare per un po'. Sto bene, sto bene». Elia andò nell'anticamera e rimase lì, non sapendo che cosa fare. Aspettò, riflettendo sulle cose di cui era appena stato testimone, fino a quando il segretario tornò. «Bene, è scomparso. Una cosa da non credere! Che cosa gli è preso?». «Dov'è il colonnello?». «Si è precipitato a organizzare la sicurezza e immagino che voglia rintracciare Vettore. Dubito che riesca a prenderlo». «Che cosa farete?». «Che cosa possiamo fare? Immagino che il papa voglia affrontare il cardinale e chiedere che si scusi». «Lo pensa davvero?». «No, ha ragione, non lo farà. È troppo gentile. Perdona ogni cosa». Si sedette scuotendo la testa. «Non può essere che accada una cosa del genere. Tutto ciò è irreale». In quel momento il colonnello entrò con passo pesante, guardando tutti e due furioso e sconcertato. «Lo devo vedere». Entrò nella camera privata del papa e ci rimase alcuni minuti. Quando uscì di nuovo, disse a Elia: «Il Santo Padre La desidera». Elia entrò e rimase accanto al letto. Il papa si risollevò e gli prese la mano. «Le chiedo di obbedire. Deve fare come Le dico e non chiedere perché. È nel piano della Divina Provvidenza e Lei si deve fidare, persino quando tutto sembra perduto». «Qualsiasi cosa sia, Santità. Io La servirò in qualunque modo Lei vorrà». «Serviam!», disse il papa, sorridendogli. Si alzò lentamente dal letto e portò Elia al tabernacolo. «Si inginocchi». Elia si inginocchiò. Il papa mise entrambe le mani sul capo di Elia e pregò. Tolse un tubetto d'argento dalla tasca della sottana, lo aprì e unse la fronte di Elia con l'olio. Poi riprese a pregare ad alta voce in latino. Elia comprese quello che stava succedendo solo quando il papa fece un segno della croce sopra di lui.
«La prego, si alzi, vescovo Schäfer». Il papa lo abbracciò. «La nomino vescovo titolare di Panaya Kapulu». Elia tenne il braccio del papa, fissando per terra. Poi sollevò gli occhi e incontrò lo sguardo dell'uomo anziano. «È troppo. Non so che cosa voglia dire essere un vescovo». Il papa gettò uno sguardo al tabernacolo. «Può discutere i Suoi dubbi con il Signore. Ma so che Lei sarà un servo obbediente e accetterà». «Accetto, Santità». «Sarà un vescovo segreto, sconosciuto a tutti, eccetto che al Signore e a pochi Suoi servi scelti». «Dov'è Panaya Kapulu?». «È un'antica sede vescovile in Asia Minore. Si trova nella regione di Efeso, dove la Chiesa un tempo era grande e per secoli si è assottigliata fino ridursi quasi a niente. Poche anime al massimo. Forse non ne è rimasta nessuna. Si tratta di pochi chilometri quadrati di rovine e di colline aride, un posto desertico». «Vuole che vada lì?». «Sì. Non può rimanere in Italia. Deve andare nel deserto, in un posto sicuro, e rimanere lì fino al tempo fissato». «Quali saranno i miei doveri?». «Deve pascolare il gregge di Dio nel mezzo delle tribolazioni, figlio mio». «Con permesso, Santità, non capisco. Sarò un pastore che pascola un gregge dove non c'è un gregge?». «Lo Spirito Santo Le mostrerà il gregge. Da questo momento in poi, il mio popolo sarà dilaniato dai lupi. La confusione coprirà ogni cosa. Porte verranno chiuse e altre verranno aperte. Le fondamenta saranno scosse. Cose che ora stanno in piedi cadranno. I grandi saranno abbassati e i piccoli saranno innalzati». Il papa si sedette sulla sua brandina e prese un campanello dal comodino. Lo suonò e il segretario entrò immediatamente. «Per favore, chieda al colonnello delle Guardie Svizzere di entrare». Il colonnello entrò un momento più tardi. «Colonnello, voglio che quest'uomo lasci la Città del Vaticano senza essere fermato. Una volta fuori da Roma, gli dia una macchina di servizio e abbastanza soldi per il viaggio. Deve raggiungere Bari e imbarcarsi sulla
nave che il cardinale segretario di Stato ha organizzato». «Ma Santità! Le devo chiedere di ripensarci. Quella nave è a Sua disposizione pronta a salpare». Il papa si voltò verso Elia sorridendo. «I miei protettori hanno organizzato diverse vie di fuga nel caso che Roma diventi un posto insicuro per il pontefice. Il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede vorrebbe che andassi con lui in Svizzera. Il segretario di Stato ha ipotizzato che scappi in America, se necessario. Altri mi hanno raccomandato di rifugiarmi presso il patriarca di Costantinopoli. La nave a Bari è a disposizione per quest'ultima via di fuga». Si volse di nuovo al colonnello. «Mi vuole proteggere da questo momento?». Il colonnello sembrava confuso. «È il mio dovere, Santità». «Amico mio, Lei e san Pietro avete molto in comune. Anche lui voleva salvare il Signore dalla Sua ora finale». Il colonnello balbettò, senza sapere che cosa dire. «Molte cose ora devono succedere», disse il papa. «Il tempo è vicino, ma non così vicino che il papa debba fuggire via al primo segno di pericolo». «In ogni caso», disse il colonnello, «i documenti che padre Schäfer ha portato confonderanno i piani dei nostri nemici. Credo che abbiamo abbastanza prove da garantire la sicurezza della Chiesa». «Con questo materiale potremmo ritardare il confronto decisivo. Anche se il presidente è abbattuto, il nemico farà sorgere un altro come lui». «Santità, il cardinal Vettore probabilmente è andato a contattare la polizia italiana. Se vogliamo far uscire padre Schäfer dal Vaticano, dobbiamo fare in fretta». «Ha ragione. Vada con Dio, figlio mio», disse il papa, dando a Elia una benedizione finale. Lasciarono la camera da letto e rientrarono nello studio papale. Il colonnello chiese il permesso di fare delle copie del dossier sul presidente, e il papa gli raccomandò di farlo subito. Fece un elenco delle istituzioni e dei funzionari a cui spedire le copie, aggiungendo che il materiale avrebbe dovuto essere trasportato segretamente da corrieri del Vaticano. Il colonnello prese la cartelletta di pelle e l'aprì. «Non c'è niente qui», disse. I tre uomini la fissarono. «Il cardinal Vettore», disse il papa.
*** Alla periferia di Roma due auto rallentarono e parcheggiarono sul bordo della strada. Il colonnello, che stava guidando la prima, si voltò verso il suo passeggero e gli diede un pacchetto. «Qui dentro c'è una cartina, insieme alle indicazioni per il porto di Bari. La nave si chiama Stella Maris. È un peschereccio della compagnia di pesca Pescatti e sta aspettando all'ancora. Vada nel loro ufficio alla darsena e chieda del capitano della Stella. L'ho chiamato mentre Lei si cambiava i vestiti. La sta aspettando». «Come farà a riconoscermi?». «Lei si presenterà come signor Pastore. Il capitano sa solo che Lei sta lavorando per il papa e che deve portarLa sulle coste della Turchia vicino a Efeso. È una bravissima persona. È il marito di mia sorella, uno dei fratelli Pescatti. Qui, questa borsa contiene articoli da toilette e un cambio d'abiti. E poi ha bisogno anche di un visto per le autorità turche, nel caso che la barca venga ispezionata, e di un passaporto. È stato tutto fatto a nome di Pastore». Elia aprì i documenti e memorizzò tutto alla perfezione. L'uomo della fotografia era lui, vestito con giacca e cravatta, la personificazione di uno studioso. I capelli erano pettinati in maniera diversa e portava degli occhiali. La foto era autenticata con un timbro ufficiale del Vaticano. Non si ricordava di aver mai posato per una fotografia del genere. «Come avete fatto a realizzarla?». «Non sottostimi mai le capacità di un computer». «Ma in così poco tempo!». «Il nostro amico, il cardinale segretario di Stato, è un uomo di una certa preveggenza. L'ha ordinata alcune settimane fa». «Ha previsto tutto questo?». «Mi ha confidato che c'erano difficoltà in corso e che Lei probabilmente sarebbe stato oggetto di calunnie». «Allora, Le posso chiedere, colonnello, perché mi ha sottoposto a interrogatorio quando sono venuto nel Suo ufficio questa mattina?». «Dovevo essere sicuro. Il cardinale segretario di Stato si fidava di Lei, naturalmente, ma il mio compito è di non fidarmi di nessuno, eccetto che del Santo Padre, è ovvio. Le chiedo scusa mille volte». «È tutto perdonato».
Il colonnello gli porse un paio di occhiali da vista e un pettine. «Cerchi di assomigliare al "professore" della foto. Si metta questi occhiali. Non si preoccupi, non sono lenti graduate, solo semplice vetro. Non è un gran travestimento, ma è il meglio che possiamo fare». Elia frugò nella sua tasca alla ricerca dell'anello di Stato. «Vorrebbe fare in modo che torni al cardinale segretario?». Il colonnello corrugò la fronte, prese l'anello, lo girò e rigirò fra le mani. «Perché non lo tiene, per ora? Potrebbe averne bisogno». Lo restituì a Elia, che lo mise in tasca senza ribattere. «Bene. Ecco le chiavi». «Spero che ci incontreremo di nuovo, colonnello». «Oh, la rivedrò di sicuro dopo che avrò trascorso molti molti anni in purgatorio». «Posso intercedere per un'assoluzione completa per Lei». Il colonnello rise. «Grazie! Il Signore sia con Lei». «E anche con Lei». I due uomini si strinsero la mano. Il colonnello scese dalla macchina e salì sull'altra, che retrocesse verso il marciapiede, fece inversione di marcia e rombò verso Roma. Elia studiò la cartina per orientarsi. Avrebbe impiegato un'ora e mezza per raggiungere Napoli, poi due ore verso est sulla strada che scavalca gli Appennini e procede verso la costa adriatica. In tutto quattro ore, forse cinque, prima di raggiungere Bari. Sarebbe stata quasi mezzanotte, quando avrebbe bussato all'ufficio della compagnia di pesca Pescatti. L'indicatore della benzina segnava il pieno. La piccola Toyota azzurra sarebbe stata in grado di fare tutta la strada senza fermarsi, ma Elia era deciso a interrompere il viaggio a Napoli per riempire di nuovo il serbatoio. Il cielo notturno si era liberato dalle nuvole e la strada era vuota. C'era poco traffico diretto a sud. Elia mise il piede sull'acceleratore e si spostò sulla corsia di sorpasso. Guidò senza pensare, consapevole solo che la sua carne era dolorante e che i suoi sensi stavano reclamando attenzione - fame, paura, euforia, sfinimento, il dolore sordo dei tagli e dei lividi -, tutto si fondeva in una massa amorfa di malessere. A poco a poco cominciò a mettere ordine fra i suoi pensieri e vide gli eventi della giornata nella sua mente, come su uno schermo. Si meravigliò che fosse cominciata fra i brividi su un materasso in una casa di campagna deserta in Umbria. Rivisse la salita e la discesa della montagna di Nostra
Signora dei Dolori, l'incursione all'ospedale Gemelli, l'interrogatorio da parte del colonnello, i corridoi del Vaticano, la conversazione fra Vettore e il papa, fino ad arrivare alla sua frettolosa consacrazione a vescovo. «Sono un vescovo?», disse. Venne improvvisamente colpito dalla realtà - e dall'irrealtà - di tutto questo. Poi si ricordò di Anna, e il suo cuore fece un balzo. Sprofondò e sprofondò e la testa cominciò a girargli. Gli occhi gli si annebbiarono. Si accostò al bordo della strada e spense il motore. Abbassò il finestrino e fece alcuni respiri profondi. Si tenne la testa fra le mani. Rimase seduto senza muoversi. Chiuse gli occhi. Quando si svegliò, non si sentì più stordito e il malessere generale si era leggermente attenuato. Continuò a guidare, domandandosi quanto avesse dormito, non dovevano essere stati più di venti minuti. Si rese conto di non aver dormito sul serio nelle ultime trentasei ore. Sperava di riuscire a portare a termine il viaggio per Bari senza appisolarsi al volante. Alla sua destra apparve una stazione di servizio, proprio quando le luci di Napoli stavano cominciando a riempire il cielo. Mentre l'addetto gli faceva il pieno, andò alla toilette e si lavò più volte la faccia con l'acqua calda. Poi si risciacquò gli occhi con acqua ghiacciata. Questo gesto lo rianimò al punto da sentire che il suo stomaco stava brontolando per la fame. Dopo essersi pettinato i capelli come nella foto sul passaporto e aver messo gli occhiali, andò alla cassa a pagare il pieno. Lì comprò pane, formaggio e un litro di succo d'arancia. Tornato in macchina, cacciò giù il cibo in gola, masticando meccanicamente per puro atto di volontà, perché la sua carne non era presente, il suo spirito non provava niente, se non ripulsa. Subito dopo vide l'insegna luminosa con le frecce che indicavano l'est: "Nola, Avellino, Bari (Traghetti per Atene)". La vide e capì. Sapeva che avrebbe dovuto prendere quella direzione. Capì che il passo successivo sarebbe stato imboccare lo svincolo dell'autostrada e avviarsi alle montagne. Invece continuò a procedere dritto. Al primo momento non capì perché lo avesse fatto. Era semplicemente la cosa che aveva voluto fare, sebbene non si fosse ancora dato una spiegazione di questa decisione. Non aveva provato nessuna sensazione legata a questo atto, ancora meno la consapevolezza di un piano. Non c'era stato nessun dovrei o devo. Sentì scendere la pace, per la prima volta da quando gli eventi degli ultimi due giorni avevano cominciato ad accavallarsi. Poi, nella certezza legata costantemente a questa condizione, una certezza che non aveva oggetto, né profilo, né scopo, né forma, capì quello che avrebbe
fatto. Non era certo della strada, perché la notte in cui era passato da qui era stata tempestosa, più scura di questa tempestata di stelle. La cupola di luci sopra Napoli si attenuò alle sue spalle, mentre quella di Sorrento gli si presentò davanti. Vide il ristorante sul mare dove avevano mangiato lasagne e bevuto birra. Da questo punto gli fu facile ritrovare l'itinerario. Vide la carrozzabile che dall'autostrada saliva fino in collina alla "rimessa per le barche" e un minuto dopo arrivò al vialetto di ghiaia che svoltava a destra, verso il mare. La strada era sbarrata da un cancello di ferro chiuso con un lucchetto. Si fermò, tornò sulla strada principale e trovò una strada laterale. La seguì, fino a quando raggiunse uno spiazzo in un boschetto. Infilò la macchina fra le palme per nasconderla, uscì, tornò al cancello a piedi. Lo scavalcò e scese verso il vialetto scricchiolante. In fondo vide la barca sollevarsi e abbassarsi accanto al molo. Il porticciolo era deserto. Non c'erano luci in vista, da nessuna parte. Il tetto del cabinato e i bordi cromati lampeggiavano ritmicamente al moto delle onde, riflettendo la luna crescente. Saltò giù dal molo sul ponte e armeggiò alla ricerca della porta della cabina. Era chiusa. Accanto c'erano il timone e un armadietto, anche quello chiuso. La sua esperienza con l'Haganah gli tornò molto utile. Usando una carta di credito di plastica, fece scattare la porta della cabina, entrò e trovò una scatola di metallo. Dentro c'era una piccola torcia elettrica appoggiata su cacciaviti e chiavi inglesi e una bustina nera di plastica, che conteneva una chiave. L'introdusse nell'accensione e la girò, pregando. Il motore scoppiettò e si accese. Guidando la barca dal timone sul ponte, la portò fuori dal golfo di Salerno. Fece girare piano il motore fino a quando fu abbastanza lontano dalla spiaggia, poi proseguì a tutto gas. Il cabinato rombò, prese velocità rapidamente e iniziò a rimbalzare sulla leggera maretta. Quando la costa fu ben lontana, accese le luci e puntò la prora verso Capri. 20 Capri Le luci della recinzione del palazzo apparvero in cima al Monte Tiberio. Elia virò la barra verso il porto, lontano dalla parte settentrionale dell'isola. Per evitare di essere riconosciuto al molo e alla pista per l'atterraggio degli elicotteri del presidente, si diresse verso il porticciolo pubblico, infilandosi fra la flotta di cabinati e di yacht privati. Trovò un ormeggio libero alla banchina, attraccò la barca e si avviò alla montagna attraversando la città.
Il quadrante del suo orologio da polso indicava che la sera era quasi passata. Erano già le dieci. Le case e i bar erano illuminati e, a giudicare da rumori e suoni che ne uscivano, le feste di Natale erano ancora in corso. La strada che conduceva alla cima era buia ed Elia salì in modo regolare, lottando con un chiacchiericcio di voci che uscivano dal nulla e che sembravano invadere la sua mente. Le scacciò via. Ritornarono ancora e ancora, si obbligò a ignorarle, a resistere alla tentazione di mettersi a discutere con loro. "Non puoi vincere. Morirai". L'aria della notte era fredda, un vento da nord batteva contro il suo cappotto. Non indossava cappello o guanti, e le orecchie cominciavano a fargli male. "Verrai fatto a pezzi". Si rese conto dello sfinimento estremo del proprio corpo e della fragilità del proprio volere. "Torna indietro, torna indietro, torna indietro". A mezza costa, si fermò sul ciglio della strada e si sedette su un ciuffo d'erba, con il respiro pesante, la mano sul cuore che gli martellava. "Non è qui, non è qui". Le luci di un'automobile che scendeva segnavano le curve della strada. Si rannicchiò nei cespugli e trattenne il fiato. La macchina lo superò lentamente. Si alzò per continuare la salita, ma altre luci svoltarono sulla strada, e fu obbligato a gettarsi di nuovo a terra. Le ginocchia sbatterono contro una pietra, un ramo affilato gli graffiò la faccia. Elia si lasciò sfuggire un grido, quando la seconda macchina fu passata lentamente. "Quello che è successo a lei succederà anche a te". Facendosi largo fra le felci e gli alberi nani che crescevano sul lato destro della strada, continuò a salire e superò la curva. Più avanti c'era un cancello affiancato da un recinto che si perdeva nei boschi a sinistra e a destra, circondando la cima. Ai lati del cancello stavano due uomini. Erano appoggiati alle sbarre di metallo, parlavano fumando sigarette sotto le luci ad arco che avvolgevano l'area del cancello. Elia scattò verso i boschi a destra della strada e si arrampicò con mani e piedi in un punto che lo avrebbe portato vicino al recinto, oltre il cerchio di luci. Da qui proseguì alla cieca, aggiungendo altri tagli e graffi, pregando tutto il tempo, sperando che il vento coprisse i rumori di sterpi che si spezzavano e di rami che frusciavano. Dopo aver passato una gobba sul lato della montagna, oltre il campo vi-
sivo dei due uomini, accese la minuscola torcia elettrica e trovò la recinzione. Era alta due metri e mezzo, sormontata da filo spinato. Le strisciò accanto cercando un varco nelle maglie, e non trovò niente che gli consentisse di passare. La recinzione cominciava a piegare verso sud e attraverso i pini aggrappati alla roccia apparve il mare illuminato dalla luna. Capì di dover tornare alla strada, attraversarla senza farsi vedere e cercare di entrare dal lato settentrionale. Stava per tornare indietro quando, con la coda dell'occhio, vide una luce tremolante fra gli alberi più in basso. Provò un attimo di panico, domandandosi se una pattuglia stesse perlustrando la recinzione. "Sappiamo che sei qui, sappiamo che sei qui". Si accovacciò in una fenditura e cercò di nascondersi. "Non puoi scappare, non puoi scappare". Aspettò. La luce non si avvicinava. Osservò attentamente dal suo nascondiglio e vide che non veniva da una fonte artificiale, ma che in effetti si trattava di un fuoco. Stava bruciando a una certa distanza, forse a venti metri. Il fumo di legna tirava nella sua direzione. Si mise ad ascoltare, ma non sentì nessuna voce. Si domandò chi potesse trovarsi così tardi di notte su un precipizio roccioso. Forse un'anima solitaria che ammirava il mare, che cercava consolazione in questa sera di festa, in compagnia del fuoco, dell'acqua e delle stelle. Persino così, chiunque fosse, era probabilmente collegato agli uomini della proprietà e sarebbe stato un suicidio esporsi al rischio. "Torna indietro, torna indietro, torna indietro". Chiuse gli occhi e pregò: «È impossibile, mio Signore, devo tornare indietro». In quel momento il fuoco si alzò, ed Elia vide una silhouette umana contro le fiamme. La figura era sola, in piedi, con le braccia aperte rivolte al punto in cui Elia si stava nascondendo. Faceva cenno nella sua direzione. Impossibile a quella distanza, eppoi il bagliore delle fiamme si frapponeva tra loro, e le rocce lo nascondevano. Nonostante questo, la figura continuava a fargli cenno. Elia vide che era inutile far finta di nulla. Meglio avvicinarsi e rischiare le conseguenze. Se fosse scappato all'improvviso, la figura avrebbe potuto dare l'allarme, forse aveva una ricetrasmittente con cui avvertire la sicurezza e disseminare di guardie la cima della montagna. La sua unica possibilità era andare avanti, facendo finta di fare una passeggiata e di aver perso la strada al buio. Quando si avvicinò al fuoco, fu sorpreso di vedere che la figura era un
ragazzo di circa otto anni. Gli sorrideva. «Chi sei?», disse Elia. «Mi chiamo Raffaele». Era a piedi nudi, vestito con calzoncini corti e una giacchetta di cotone leggera. Il vento gli scompigliava i capelli dorati. «Che cosa stai facendo qui? È tardi. Fa freddo». «Non ho freddo», disse il ragazzo. La sua voce era bella, addirittura dolce. I suoi occhi rivelavano una compostezza che di solito si trova negli uomini di una certa età. Continuò a fissare Elia senza parlare, non dando spiegazioni, non chiedendone. Alla fine si voltò verso il mare e lo indicò. «La stella del mattino sorgerà quando la notte sarà quasi passata», disse con gioia. «Non dovresti essere qui. Dov'è tua madre, bambino?». «Mia madre mi sta aspettando». «Dovresti andare. Saranno preoccupati a casa». «Non sono preoccupati». «Piccolo, devi andare ora». Il bambino lo fissò serio. «Ma se vado, chi ti guiderà in cima alla montagna?». Elia pensò di non aver sentito bene. «È Natale!», protestò Elia. «Sì, è Natale», disse il ragazzo, il volto che ardeva alla luce delle fiamme crepitanti. «Non dovresti stare da solo». «Non sono solo». «È pericoloso qui». In risposta, il bambino si avviò alla recinzione e disse a Elia: «Vieni». Elia obbedì. Proprio dentro il raggio di luce il ragazzo aprì i cespugli e gli mostrò un vallo nella roccia. «Possiamo passare di qui». Elia strisciò sulla pancia sotto la recinzione, strappando il dorso del cappotto. Gli ci volle un minuto per districarlo dal filo spinato, e, quando uscì dall'altra parte, vide che il ragazzo era già passato. Guidò Elia per i boschi. La luna e le stelle illuminavano il loro cammino. Procedettero per parecchi minuti, fino a quando una traccia sottile apparve sul terreno sotto i loro piedi. «Di qui passavano le pecore», disse il ragazzo. «Qui proseguiremo».
Lo stretto sentiero si inoltrava attraverso rocce e cespugli sparsi, salendo sempre più in alto. Elia non trovò niente di strano in quella situazione del tutto inattesa. Non la capiva, ma spiegò a se stesso che la divina Provvidenza aveva fatto in modo che un bambino del posto si trovasse su quella montagna e che sapesse, forse per intuito, che Elia avrebbe cercato di salire in cima. Il ragazzo aveva immaginato, senza dubbio, che lo straniero che si era perso dovesse essere un visitatore dell'uomo famoso che viveva in cima. Raggiunsero la recinzione interna. Il ragazzo aprì un cancello spuntato fuori dal buio ed entrarono in un giardino ornamentale. Dentro c'erano molte statue e vialetti lastricati di pietra bianca. Il complesso della villa e la residenza del presidente vennero alla luce oltre un dedalo di siepi. Poi Elia vide la piattaforma per gli elicotteri e il padiglione degli ospiti. «Ora devi tornare indietro, Raffaele», sussurrò. «Da qui in poi vado da solo». «No. Ti devo portare io». Senza aspettare una risposta, il ragazzo attraversò a grandi passi il prato verso la parete di vetro del foyer della sicurezza e si fermò alla porta. Si voltò a guardare Elia. Elia si fece avanti con cautela e sbirciò dentro. La guardia seduta alla scrivania era appoggiata allo schienale con la mano sullo stomaco, il capo sul petto, addormentata. Elia abbassò la maniglia. Era chiusa. «È inutile», disse. Il ragazzo si avvicinò e abbassò la maniglia. La porta si aprì. «Ora puoi entrare». Elia lo fissò. Sbalordito, entrò e superò la guardia. Si voltò a guardare il ragazzo, ma se n'era andato. Passò per i corridoi verso la stanza semicircolare tutta a vetri che si affacciava sul golfo di Napoli a nord e sul golfo di Salerno a est. La parete di fondo era come la ricordava, rivestita di palissandro. In basso, le luci delle barche si muovevano come stelle sul mare. L'edificio non era deserto. Dietro una porta chiusa si sentivano delle voci impegnate in una conversazione. Da un'altra parte, Elia sentì i soliti rumori provenienti dalla cucina, piatti che venivano accatastati e il tintinnio degli utensili. Percorse il tappeto color ametista pallido, notò la statua bronzea del cavallo dai riflessi blu e i rami nudi del biancospino che sbattevano contro la finestra. Nell'aria aleggiava profumo di gelsomino. Camminò con cautela lungo il sentiero rialzato con la copertura di vetro
che si snodava attraverso rocce e bonsai in vaso verso l'edificio più grande, la residenza. In ogni momento si aspettava di venire fermato, ma più di una porta venne chiusa poco prima che passasse, o i passi scomparivano in un corridoio. Passò due posti di controllo, nel primo una sigaretta bruciava lentamente in un posacenere sulla scrivania; nel secondo la guardia sembrava aver momentaneamente abbandonato il suo posto per andare alla toilette. Elia passò silenziosamente mentre sentiva scorrere l'acqua ed entrò nell'ingresso che si apriva sul maestoso salone. La stanza era quasi circolare, e quasi 300 gradi delle pareti erano finestre che andavano dal pavimento al soffitto. Passò a un'altra dépendance ed entrò nella biblioteca. Il presidente era seduto in una sedia coi braccioli, accanto a un camino acceso. Stava leggendo qualcosa da un fascio di documenti alla luce di una lampada da tavolo e non sembrava aver notato l'arrivo di Elia. Pochi attimi dopo sollevò gli occhiali sulla fronte e si mise i documenti sulle ginocchia. «Non ho bisogno di nient'altro questa sera», disse. «Può ritirarsi». Quando Elia non rispose, il presidente sollevò lo sguardo e lo vide nell'ombra della porta. Lo fissò per un minuto intero. Poi sorrise. «Mi domandavo se Lei sarebbe venuto». «L'ha uccisa», disse Elia con espressione seria. «Hanno detto che stava arrivando qualcuno». «Perché l'ha uccisa?». «Naturalmente non sapevo chi fosse. C'è stato solo un accenno di turbamento fra gli spiriti guardiani. Devono essere stati distratti dagli angeli ribelli». «Ha ucciso anche suo marito. Quanti altri ha assassinato?». «Come ha fatto a passare?». «Non importa». «Che cosa intende fare? Spararmi?». Il presidente fece una breve risata. «La nostra parte non uccide la gente». «Non conosce molto bene la loro storia». «Uomini di tutti gli schieramenti hanno fatto il male nel nome del bene». «Che bello sentirlo... un impulso di autocoscienza». «Non sono venuto per farLe del male». «No? Che cosa ha in mente di fare? Di convertirmi?». «Sono venuto per parlarLe». «Parlare con me? Che cosa vorrebbe dirmi?». «Le porto un messaggio».
«Ah, l'annuncio di una grande gioia per gli uomini di buona volontà?». «Sì». «Non molto originale». Il presidente mise i documenti su un tavolino e ci appoggiò sopra gli occhiali. La sua espressione, che fino a quel momento era stata semplicemente divertita e aveva rivelato solo un accenno di preoccupazione, si fece seria. «Lei è stanco e sembra ferito», fece un cenno con noncuranza. «Un tempo mi sono trovato nella posizione in cui si trova Lei». «Lei non è mai stato dove sono io». «Mi stavo avviando a occupare quel posto su cui è seduto Lei». «Lei era uno dei tanti che venivano preparati per questa posizione. Ce ne sono a centinaia come Lei». «Ho ottenuto la grazia di vedere quanto fosse vuoto». «Vuoto? Sono seduto in cima al mondo. Vado avanti e indietro senza che nessuno mi fermi». «C'è Uno che la fermerà». «No, non riuscirà a fermarmi». «Ha già spezzato il potere delle tenebre». «Ah, la teologia», sospirò il presidente. «È tardi. Non sono nello stato d'animo di affrontare una lunga discussione che, alla fine, non porterà da nessuna parte». «Ero un ragazzo durante la guerra. Ho visto davvero le tenebre. Ho visto il loro vero volto». «Perché, allora, dopo tutto quello che ha visto, è andato così avanti ed è salito così in alto, se crede che siamo i poteri delle tenebre?». «Perché pensavo che le tenebre avessero solo una o due facce. Mi ci è voluto tempo per imparare che ne hanno tante, e che la sua faccia peggiore è travestita da luce». «Lei è un uomo dotato, ma intrappolato nel Suo passato tragico. Quelle esperienze L'hanno ferita. Non riesce a giudicare la situazione attuale nel modo migliore». «Il sacrificio di Anna Benedetti La smentisce». «Non ho ucciso Anna». «Ho visto i documenti. So che lo ha fatto». Il presidente scosse la testa. «Lei è stato indotto in errore. I documenti sono la cosa più facile da falsificare al mondo. Le firme possono essere imitate. Lei è vittima di un inganno complesso».
«Lo so». «Lei non capisce quello che voglio dire. Non sono io quello che L'ha ingannata. Ho cercato di salvare Lei e di salvare la Sua Chiesa, perché presenta tanti aspetti positivi. Ci sono forze ataviche all'opera nel mondo, forze a cui gli uomini di ragione devono fare resistenza. Lei e io non siamo nemici, non importa quello che pensi». «So che Lei è un maestro di inganni. Sono venuto qui ad avvertirLa che i Suoi inganni spingeranno il mondo in tenebre ancora più fitte di quelle che finora si sono viste sulla terra». «Lei è semplicemente in errore, amico mio», replicò con severità gentile. La sicurezza di Elia si incrinò. Gli venne in mente che nell'ultimo anno era stato al centro di un miraggio di orizzonti in movimento, segni illusori e rotelle dentro rotelle - giroscopi dentro giroscopi, li aveva chiamati Anna. Aveva forse frainteso tutto, traducendo gli eventi criptici secondo i dettami della sua fede? "Sei cieco, sei cieco, sei cieco", sussurravano le voci. Il coro in sottofondo che era scomparso all'arrivo del ragazzo era tornato ad affiorare nella sua coscienza. Improvvisamente si sentì incerto sui piedi. Oscillò e si appoggiò alla parete. «Il Suo sistema etico è un'immagine della mente, un'astrazione», disse il presidente tranquillamente. «La gente del nostro tempo è intrappolata dentro così tante strutture. I labirinti, i miti, le costruzioni mentali portano a interpretare erroneamente la vera forma della realtà». "Miti, miti, miti". «E mi lasci formulare un'altra domanda: quali sono i frutti della Sua fede? I cristiani si amano gli uni gli altri?». Elia provò un guizzo di vergogna per la sua Chiesa imperfetta. «Duemila anni», balbettò, «in un tale lasso di tempo possono esserci degli errori». «Lei è immobilizzato in una cultura limitata. Ma è uno dei pochi capaci di liberarsi con le proprie forze». Ora Elia cominciò a dubitare della propria mente. Tanto tempo prima aveva imparato a non fidarsi dei propri sensi, aveva contato sul potere della ragione di estrarre l'ordine dal mondo degli impulsi, aveva trovato una realtà misurabile a fronte di un universo disordinato. Si era forse fatto un dio della ragione e aveva giurato fedeltà assoluta alla religione più ragionevole, il cattolicesimo, impedendosi di vedere quello che di irrazionale era presente nella sua struttura? Forse il presidente aveva ragione, forse era stato davvero profondamente danneggiato dalle esperienze della sua giovi-
nezza. Forse davvero si era rifugiato nella fede per salvare la propria sanità mentale? La mente umana non poteva sopportare a lungo la frantumazione della realtà. Il bambino picchiato a morte con il calcio del fucile nel ghetto - «Questo ratto stava contrabbandando le patate», dissero i soldati - il corpo di Ruth dilaniato da una bomba a frammentazione - «Come vede, stava portando un embrione», aveva detto il patologo. I molti volti che aveva amato e che erano stati risucchiati freneticamente e disperatamente dal vortice di Treblinka e Oswiecim? Il volto delle tenebre che si materializzava in forme mostruose? Era sceso a patti con l'orrore gettandosi nel sogno di un mondo riportato allo stato edenico? "Questo è un uomo nobile e buono", dicevano le voci. "Restituirà ragionevolezza al mondo". La confusione turbinava nella sua mente. "L'hai giudicato male, l'hai giudicato male, l'hai giudicato male". «Si sieda», disse il presidente. «Qui, vicino a me». Elia si sedette nella sedia con i braccioli di fronte al presidente e si coprì la fronte con una mano. «Sono così sfinito», disse. «Non dormo da due giorni». «Può rimanere qui», disse il presidente. «Domani andiamo alla polizia italiana. Posso fare da garante della Sua innocenza. So che non ha ucciso Anna». «Davvero?». «Naturalmente. Lei non può aver ucciso nessuno. So chi l'ha uccisa». «Chi?». «Le stesse persone che hanno liquidato Stefano Benedetti». «Chi sono?». «La mafia, in collaborazione con alcuni elementi isolati dell'ordine massonico». «E Lei non c'entra niente con tutto questo?». «Le giuro per tutto quello che ho di più caro che non ho niente a che vedere con tutto questo». «Non è coinvolto in alcun modo?». «Non Le mentirei. Sono stato coinvolto involontariamente con alcune di quelle persone in progetti più costruttivi, ma non avevo idea che facessero cose del genere. Sono rimasto in contatto con loro solo per scoprire l'intera portata dei loro crimini. Non sono un criminale, padre Schäfer. La mia intera vita è stata dedicata ai principi della civiltà. Lei sa che è vero». Elia si ricordò che non c'erano macchie sul curriculum pubblico del pre-
sidente. «A parte il fatto che aborro la violenza, pensa che comprometterei il mio lavoro associandomi ad attività del genere?». «No, immagino che non lo farebbe». «Dopo che si sarà riposato, avviserò la squadra omicidi di Roma che Lei è disponibile per essere interrogato. Sarà interpretato come un gesto di buona volontà da parte Sua e da parte loro come una giusta dimostrazione di innocenza. Allo stesso tempo, fornirò loro informazioni che mi sono state riportate e che riguardano la morte di Anna». «Questa gente può essere davvero assicurata alla giustizia?». «Penso che lo possiamo fare». Elia fissò il pavimento, la mente confusa. Il presidente lo guardò con compassione. «Ha mangiato?». «Grazie, non ho fame». «Padre Schäfer, Lei è passato per esperienze pesanti». Elia fece un lungo sospiro. «La peggiore di tutte è la morte di Anna. Come è potuto accadere! Perché è accaduto?». «Non conosciamo tutti i dettagli. Quasi sicuramente è legata al suo rifiuto di accettare bustarelle dal crimine organizzato. Lo scorso anno, quando era ancora giudice della Corte di Cassazione, volevano che prendesse una certa decisione in loro favore. Si è rifiutata. Ha mandato in prigione alcuni di loro. L'hanno punita». «Non sapevo niente di tutto questo». «La vita di Anna era complessa. Aveva molti nemici». Rimasero seduti insieme in silenzio per alcuni minuti. «Lei l'amava», disse il presidente alla fine. «Sì, l'amavo». Le parole gli uscirono dalla gola come strangolate, spezzate. «Come si faceva a non amare una donna così?». «Anche Lei la amava?». «Sì, la amavo anch'io». Elia sentì che le voci avevano cessato di parlare come si può sentire il silenzio in una sala da concerto alla fine di un'esibizione lunga e difficile, nel momento sospeso fra il colpo di genio finale e gli applausi scroscianti. La mano gli scivolò nella tasca del cappotto. Sentì una piccola scatoletta di ottone e l'afferrò, un oggetto che una volta conosceva e che aveva dimenticato.
La sua mente rimase vuota solo per alcuni secondi, ma poi emerse il volto del bambino che lo aveva guidato sui sentieri impossibili. La favola che Pawel Tarnowski gli aveva raccontato in una notte cupa e di freddo pungente, più di cinquant'anni prima. Vide draghi vomitare pigmento nero sulla tela della creazione. Vide cuori oberati di pietre e allodole che raccontavano agli orfani di un re assente. Vide il vento e gli alberi e fiumi di lacrime. Poi vide altri frammenti sparsi del proprio passato librarsi nel vento, volteggiare come stormi di uccelli; la luce emergere dai buchi nelle mani di padre Matteo; Gianna che intrecciava i capelli di una donna anziana e abbandonata; fiori di plastica gialli cadere dal cielo, e la neve più pura sulla terra come una coperta posata sopra un letto cosparso dal sangue della nascita. Vide tempeste sul mare e colombe piantate come semi sulle tombe, in attesa di germogliare; cime e caverne, foglie che volano per strade antiche e preghiere che salgono come incenso dal mondo devastato. Vide un angelo, armato e bizantino, lanciarsi giù dalle nuvole verso le città della notte, e un guerriero nero salire per scontrarsi con lui, mentre le spade cozzavano. Vide i pantaloni di un buffone e una patata avvizzita rotolare buffamente verso la punta dello stivale di un soldato. Vide un cuore trafitto da una spada e un minuscolo figlio di donna galleggiare nel mare di vetro del grembo; vide sua madre lavorare il pane e suo padre cucire, cucire, cucire, con la pazienza dei secoli, mentre suo nonno gli leggeva dai trattati. Vide un calice salire su milioni di altari e un cavallo bianco inciso su una pietra, e cavalli blu rampanti lacerare la carne vivente con i loro zoccoli d'acciaio. Scese la notte e venne il mattino. Notte e giorno e notte e giorno, secoli dopo secoli, la luna che proseguiva per il suo corso e una donna vestita di sole, coronata di stelle, che troneggiava sopra tutto questo. Nei suoi occhi c'erano misericordia e verità. Guardò in basso, e ai suoi piedi c'erano il dono di Pawel, e l'amore pulito e saggio di Anna, il panettiere grasso che elargiva il perdono come amore, e un pazzo con un occhio solo che intagliava una croce dal legno di ulivo a Betlemme, e un uomo che tossiva fumo dai polmoni, implorando, implorando che qualcuno, chiunque, accettasse l'amore che teneva nascosto, il suo unico atto di generosità. E tutte le persone bruciate che salivano al cielo come fumo. E con loro salivano i loro canti e le storie e le suppliche, come nastri di vari colori che circondavano il pianeta caduto, e che salivano con loro, il ricordo del Dio dei piccoli, tenuto in vita di generazione in generazione dal potere del sacrificio. Vide fuoco - e ancora fuoco. Elia alzò lo sguardo, con la sensazione di essere stato lontano dalla stan-
za per molte ore, sebbene fossero stati solo pochi secondi. «Stefano Benedetti», disse. «Che cosa provava per lui?». «Stefano Benedetti era mio amico». Allora un'ombra passò davanti e attraverso e dietro i suoi occhi. Elia vide quello che Anna gli aveva descritto. Vide l'odio. Comprese, allora, la portata della menzogna che stava circondando la sua mente. Tolse il reliquiario di ottone dalla tasca e lo aprì in grembo. Il presidente lo fissava, senza tradire emozioni. Non c'era curiosità, né antipatia, né attrazione. Era quell'espressione neutra, simile a una maschera, che convinse Elia che il presidente lo aveva riconosciuto. «Mettilo via», disse. «Sai che cos'è». «No. Non lo so». «Sai molto bene che contiene un frammento di legno imbevuto del sangue di Cristo. E ci sono anche grani di rosario dall'Africa, dove è stato versato sangue santo. E c'è anche il sangue di Anna». Il presidente superò la distanza che li separava e prese il reliquiario dal grembo di Elia. Lo tenne fra le dita con espressione di disgusto. «Se hai intenzione di superare i tuoi patetici difetti, devi smettere di aggrapparti a questi amuleti». Lo gettò nel camino, dove il reliquiario cadde su un letto di carboni ardenti. Elia lo guardò diventare scuro, bruciato dalle fiamme verdi e azzurre. La croce araldica sbalzata sulla sua superficie cominciò a fondersi. Si inginocchiò e prese il reliquiario con la mano destra. Notò appena le urla di protesta del suo palmo, la puzza della carne che brucia. Il presidente sbraitò: «Che cosa stai facendo!». Elia si alzò. «Questo è il segno che ti ha sconfitto e continuerà a sconfiggerti fino alla fine dei tempi». Il presidente si alzò e lo affrontò, la bocca contratta per il disgusto. «Sei pazzo». Tolse un congegno elettronico nero dalla tasca interna del maglione. Una minuscola luce rossa lampeggiava sulla superficie. Il suo dito era sospeso sul bottone. «Ascoltami, Schäfer. Sei un uomo finito. Ti posso consegnare alla polizia in ogni momento. I miei domestici possono essere qui in un minuto, e ti getteranno dalle scogliere, se lo ordino io».
«Come il tuo predecessore. Come Tiberio». «Chiudi il becco, pazzo. Ti illudi di poter marciare contro un esercito con quel gingillo. L'età antica è passata. Te lo dico io. Non c'è potere in quella cosa a cui ti aggrappi. La tua sola speranza è gettarlo di nuovo nel fuoco e ascoltarmi». «Non ti ascolterò. Dalla tua bocca esce solo menzogna». «Ascolterai». «Ti porto un messaggio del Re. Lo vuoi ascoltare?». «Non c'è niente che possa dirmi che non sappia già. Appartiene all'epoca antica e io a quella che sta cominciando». «Cristo è unico. Non c'è altro Cristo. In Lui è stata creata ogni cosa in cielo e sulla terra, le cose visibili e invisibili, che siano troni, dominazioni, principati o potestà; tutto è stato creato per mezzo di Lui e per Lui». «Silenzio!», ruggì il presidente. Allora dalla sua bocca uscì un torrente di blasfemie. Elia voltò la testa e pregò il nome di Gesù, fino a quando il flusso non si fu arrestato ed Elia riuscì a farsi largo con l'autorità che stava crescendo in lui. «L'Agnello è il primogenito e la somma di tutto. È attraverso di Lui e da Lui che tutta la creazione viene riconciliata con il Padre, per merito del Suo sangue santo!». In risposta, una voce tuonò dalla bocca del presidente. Gridava negando il primato e l'unicità della figliolanza dell'Agnello, negando che Gesù fosse il Cristo, negando la vittoria della Croce, negando Colui che era venuto nel mondo. «Non è rimasta altra luce nel mondo, eccetto una», concluse. «Colui che porta la luce, l'angelo della luce che è stato cacciato giù per la gelosia di Dio!». «La gelosia di Dio? Pensa a quello che stai dicendo. Le tue parole non sono forse segno di pazzia?». «Io, e nessun altro, porterò il genere umano alla pienezza del suo destino», gridò. «Nessun altro!». Gli occhi del presidente erano pieni di un distillato di malvagità che schizzò contro Elia dall'altra parte della stanza come un getto di fuoco nero. Ne avvertì nel proprio spirito la forza, e quelle onde passarono attraverso il suo corpo. Il presidente fece un passo verso di lui. «Vuoi che ci abbassiamo ai trucchi di magia?», sogghignò. «Dobbiamo
giocare al piccolo cavaliere che affronta Dracula? Vuoi interpretare la parte del martire eroe e finire come una nota a pie di pagine in un codice vaticano? Devo essere io il tuo mostro, il tuo orco? Pensi che sia tutto? Pensi davvero che un'esibizione di giochi di prestigio possa fermare l'opera a cui sono stato destinato dalla nascita, da prima dell'inizio del mondo? I tuoi trucchetti non sono niente se paragonati e quello che posso fare io. Per il potere di colui che è l'oscurità e ha la forma della fiamma nera, ti ordino di cadere!». Elia tremò e sentì molte presenze sciamargli intorno, strillare in coro, sputare bestemmie, saltellare, generare immagini ostili nella sua immaginazione e provocare rumori non terreni nelle sue orecchie. Si sentì venir meno e la forza dell'anima di cui aveva parlato cominciava a indebolirsi, a farsi impotente. Poi pronunciò il nome di Gesù. La parola echeggiò nella stanza e ci fu silenzio in cielo e sulla terra per lo spazio di un battito di cuore. «Gesù», disse Elia. «Gesù». «Non pronunciare più quel nome! Ti dico di lasciare il Nazareno. Perché continui a guardare a quello che è passato e non tornerà più? Vieni da me e stai con me. Guarderemo insieme al futuro. Tu che interpreterai il ruolo del profeta. Io che farò di te un profeta come non si è mai visto finora e non si vedrà mai più». «Se sono un profeta, sono uno di quelli minori. Non voglio essere uno dei grandi. Il mio unico compito è portare testimonianza all'Agnello di Dio. Colui che era, che è e che verrà. È il Primo e l'Ultimo. È l'Alfa e l'Omega. Viene rapido, cavalcando un cavallo bianco. Il suo nome è Fedele e Vero. Ti ha sconfitto». «Oh, poveretto. Mi ha sconfitto? Non ha eserciti sulla terra. Miliardi di persone seguono me». «Il tuo esercito è come l'esercito tedesco in ritirata alla fine della guerra. Erano già sconfitti, ma hanno cercato di contrattaccare, mentre il loro impero crollava sulle loro teste». «Il mio esercito cresce di giorno in giorno e si diffonde su tutto il pianeta. Lascia perdere Cristo, pazzo. Era un piccolo Cristo. È morto. Il Cristo di questa epoca sta di fronte a te e tu non lo riconosci». «Non sei Cristo. Non lo sarai mai. C'è un solo Cristo». «Lascialo! Lascia quell'uomo». «È la radice e il virgulto di Davide, la stella del mattino. Guarda. Arriverà. Arriverà presto!».
«È morto duemila anni fa. Il precursore è forse più grande di colui che lui stesso indica? L'ombra è forse più grande della carne viva?». «Non c'è discussione. I tuoi poteri sono limitati e non riuscirai a intrappolare la mia mente a lungo». «Oh, che premio saresti stato se non avessi lasciato quella strada! Ma non è troppo tardi. Puoi ancora fare rotta verso la luce». «Cristo è la Luce del mondo». «Lucifero è il portatore di luce!». «È la tenebra. È Satana, il nemico». «È la stella del mattino». «Solo Cristo è la stella del mattino». «Il mio signore guiderà l'umanità alla verità somma». «Il tuo signore è il diavolo, il denigratore. Che il Signore lo ammonisca!». Elia mise il reliquiario in tasca e si infilò al dito l'anello vescovile. Sollevò entrambe le mani al cielo nella posizione orante, le palme aperte verso il presidente. La carne bruciata con la forma della croce fu sollevata sull'uomo più potente del mondo. Quando il presidente osservò il segno con odio e con passione, e cominciò a barcollare indietreggiando. Cercò di formare un grido in gola, ma non riuscì a produrre nessun suono. Cercò di imboccare la porta, ma le gambe non gli ubbidirono. Cercò di schiacciare il bottone sul telecomando che aveva in mano, ma le sue dita non gli ubbidirono. «Via! Via! Ti lascerò andare se te ne vai adesso!». «Non me ne andrò fino a quando non avrai sentito la parola che il Signore ti manda. Dice questo: nonostante ti sia venduto mille volte all'angelo delle tenebre, hai ancora una scelta finale. Puoi ancora lasciarlo. Nonostante sia giunto il tempo del demonio e la sua furia non abbia limiti, egli giungerà presto alla fine. E a meno che tu non lo lasci, andrai con lui alla punizione che attende coloro che cingono d'assedio il Regno di Dio». «Fa' silenzio!», ruggì il presidente. «No! Fa' silenzio tu!», gridò Elia. Il presidente fece come per andare alla porta, ma esitò. Nei suoi occhi si leggeva la confusione. «Taci!», disse Elia. «La mano di chi ti frena è sopra di te. Non puoi colpire fino a quando Dio stesso non permetterà che tale mano venga tolta. Ora devi ascoltare! Questo è il momento della scelta. Dio te la offre, perché, nonostante i tuoi crimini, sei un figlio di Adamo. Sei stato creato a
Sua immagine, come tutti i nati da donna. Anche tu sei un uomo, niente di più, niente di meno. Sei stato condotto in cattività, ma questa schiavitù non è assoluta. Lascia Satana! Allontanati da lui e torna da tuo Padre!». La bocca del presidente si aprì e si chiuse di nuovo. «Ti ordino, Satana, lascialo!». Gli occhi del presidente si rivoltarono, e si vide il bianco degli occhi. La sua bocca si aprì e si chiuse come un pesce gettato a riva, che boccheggia per respirare. «Vade retro, Satana! Vade retro, Draco! Crux sacra sit mihi lux!». Il corpo del presidente cadde a terra e si dimenò. Dalla sua bocca provenivano rumori bestiali. Poi rabbrividì e rimase bocconi senza muoversi, gli occhi fissi, puntati sul tappeto. Elia, temendo che fosse morto senza pentirsi, si inginocchiò accanto a lui e gli amministrò il sacramento dell'unzione dei moribondi. Ma vide che l'uomo stava ancora respirando. Poi il tremore soffocato cominciò di nuovo. A un certo punto, spalancò gli occhi e fissò Elia. La personalità che lo guardava attraverso quegli occhi non era quella del presidente. Elia riprese le preghiere dell'esorcismo, e alla fine l'uomo chiuse gli occhi e perse coscienza. Elia trasalì al vedere un paio di gambe nude accanto al corpo. «Raffaele», ansimò, «che cosa fai qui? Non dovresti essere qui!». Il bambino guardò la figura sul pavimento con un'espressione di profonda misericordia. «Si sveglierà fra pochi minuti», disse il bambino. «A quel punto dovrà scegliere». Elia lo fissò. «Il tuo compito qui è finito. Ora devi andare». Senza parlare, Elia si lasciò guidare fuori dalla stanza. Passarono molte porte chiuse, rumori di passi che scomparivano lungo i corridoi, e guardie addormentate. Come in un sogno, uscirono dall'edificio, attraversarono il giardino e scesero verso la scogliera. La luna stava salendo e il sentiero delle pecore era ben illuminato. Scesero senza parlare ed Elia seguiva il ragazzino come un bambino piccolo guidato da uno più grande. Più tardi - non sapeva dire quanto più tardi - si ritrovarono sul pontile ed Elia salì a bordo. Si voltò per dirgli arrivederci. Il bambino sollevò la mano destra. La sua espressione era infinitamente dolce e forte. I suoi occhi, occhi vecchi di diecimila anni, erano incastonati in un volto così puro che Elia sentì l'impulso contrastante di fissarli e di guardare da un'altra parte. Guardò il quadro comandi per un secondo, girò la chiave dell'accensione, e
si voltò verso il molo. Il bambino non c'era più. La barca rombò fuori dal porto. Elia la puntò sulla costa. Il mare era calmo ora, e la barca sfiorava la superficie. Un vento freddo gli sferzava la faccia e lo rinfrescava. Si sentiva sollevato. Era finita. Tornò a guardare indietro e vide che il Monte Tiberio brulicava di luci. Sentì campane e sirene e allora capì che il presidente aveva scelto. Virò verso nord e procedette senza luci di posizione. Passò un elicottero puntando a sud, illuminando il mare con un riflettore. Elia costeggiò la penisola fino a quando non fu vicino a Salerno. Quando si avvicinò alla spiaggia, a quasi tre chilometri dal porticciolo privato del presidente, vide che era illuminato da luci ad arco e che sul molo si muovevano molte figure. Spense il motore e si lasciò trasportare lungo la costa. Sotto i sedili di poppa trovò un remo e un gommone. Lo gonfiò, lo sganciò di lato e ci saltò sopra. Senza fare rumore, remò verso un'area boscosa che scendeva verso il mare. Tirò a secco il gommone e cercò fra gli alberi, fino a quando non trovò la Toyota azzurra fra le palme. Guidò verso est attraverso le montagne, incontrando poche macchine. Si annunciava l'alba mentre entrava nel porto di Bari. Sul mare stava salendo la stella del mattino. 21 Panaya Kapulu Le rovine di Efeso si trovavano nella pianura paludosa e malsana sotto il villaggio di Aya Solouk, a pochi chilometri dalla costa dell'Egeo. Un fiume, ora insabbiato, un tempo portava le navi fino alla città, che all'epoca del soggiorno triennale di san Paolo era la capitale della provincia romana dell'Asia Minore e un centro di commerci. Era stata anche la sede del culto di Diana e per questo attirava moltitudini di visitatori. Qui, i miracoli e la predicazione di Paolo erano stati responsabili della conversione di un gran numero di cittadini. Il suo impatto sulla popolazione era stato così grande, che maghi, astrologi e indovini della città avevano sepolto volontariamente i loro libri di incantesimi e di conoscenze arcane. Il declino nel commercio degli idoli provocò tumulti, da cui Paolo fu obbligato a fuggire per salvarsi la vita. In una giornata normale, centinaia di turisti passeggiano fra le più grandi rovine di città del mondo, lungo le strade romane che univano il tempio, lo stadio e il teatro, attraverso la basilica paleocristiana e le case sontuose.
Una mattina di primavera, un uomo si muoveva in modo discreto fra i turisti. Non attirava per niente i loro sguardi, perché era vestito in modo non appariscente. Avrebbe potuto essere un archeologo in visita, o un professore in pensione proveniente da Istanbul, o forse solo un uomo anziano con niente da fare. Da un venditore comprò pane nero, formaggio bianco e una tazza di caffè nero dolce e si fermò a consumarli di fronte alle rovine della chiesa di San Giovanni. Di tanto in tanto guardava l'orologio da polso, ma non sembrava avere fretta. Poco prima di mezzogiorno, due uomini si avvicinarono alla chiesa dal lato del foro antico. Uno era anziano, l'altro giovane. Andarono verso di lui, si strinsero le mani. Fecero una breve conversazione; qualsiasi passante avrebbe sentito commenti sul tempo, i viaggi, il valore storico della tomba di San Luca. I tre uomini si voltarono e si avviarono insieme alla porta della città che si apriva sulle colline. Dei bambini gettavano ciottoli nell'acqua stagnante delle pozzanghere lungo la strada da cui si alzavano colonne di marmo spezzate come foreste di pietra. Passarono la porta verso la campagna e subito videro contadini che aravano la terra al di là delle rovine della città e donne a cavallo di asini, che portavano carichi di legna per il fuoco. Per una mezz'ora salirono sulle colline. Sul lato della montagna che si affacciava sul mar Egeo e sulle rovine della città la strada finiva in un piccolo edificio fatto di pietre non lavorate. «Che cos'è questo posto, Elia?». «Questa è Panaya Kapulu, la casa della Vergine». «Davvero? È proprio quella?». I tre uomini fissarono il custode, che era seduto su uno sgabello e leggeva una rivista turca di cinema. Entrarono e si fermarono a fissare l'interno male illuminato. «Qui l'apostolo Giovanni ha portato Maria, la Madre di Cristo, per sfuggire alle persecuzioni dei cristiani che erano scoppiate a Gerusalemme. È vissuta qui». «Proprio in questa casa?». «Più di mille e novecento anni fa! È possibile?». «Non riesce a sentirlo?». L'edificio misurava circa sette metri e mezzo in lunghezza e larghezza. Passarono dalla stanza principale a una cameretta sul fondo e da lì a una piccola stanza laterale. «Qui è dove dormiva e dove è morta».
Dopo essersi guardati intorno in modo furtivo per assicurarsi che l'edificio fosse vuoto, si inginocchiarono e pregarono in silenzio. La quiete della stanza era una presenza palpabile. Antica, ma senza tempo, più antica delle case ricostruite nella città in basso, ma più giovane. Era la dimora di una povera donna che era appena partita, come per fare una commissione da cui sarebbe tornata a momenti. Sentirono che sarebbe entrata dalla porta e che li avrebbe riconosciuti e, sebbene non l'avessero mai incontrata a faccia a faccia, anche loro l'avrebbero riconosciuta. La conoscevano da sempre, lei, che avevano chiamato Madre dalla nascita. «Abbiamo una bella salita davanti a noi», disse Elia. «Dobbiamo andare». Dalla casa della Vergine, si avviarono per un sentiero alla fine della strada e proseguirono per le colline. Un'ora più tardi entrarono in una gola stretta, fiancheggiata da pendii ripidi, ricoperta di arbusti selvatici. In cima era nascosta una capanna di pietra. Un terebinto si alzava tutto storto lì vicino, e un giovane mandorlo fioriva vicino a un muretto. Una gallina beccava nella ghiaia del cortile. Una capra bianca legata a una catena gettava occhiate curiose alla base del pendio e li salutò con un sonoro naah. «Elia», disse uno dei nuovi arrivati, «il suo gregge le sta dando il benvenuto». «Shtiler, shtiler», Elia provò a convincere l'animale, accarezzandole la nuca. «Calma, calma. Avrai il tuo grano al tramonto. Dacci più latte questa sera, sorellina; abbiamo compagnia». I tre uomini entrarono nella capanna, sfuggendo alla calura del sole del pomeriggio. Elia servì pane e formaggio, cipolle, piselli, uva passa, fichi, una zuppa di lenticchie speziate e caraffe di acqua fredda. Dopo il pasto, il giovane si sdraiò su un materasso di cotone in un angolo e chiuse il suo unico occhio. Cadde addormentato in pochi minuti. Elia si voltò verso l'altro e disse: «Padre priore, pensavo che non l'avrei mai più rivista». Rispondendo in tedesco, il priore disse: «Anch'io non pensavo che ci saremmo incontrati di nuovo. È una grazia che non avevamo previsto». «Dio è buono». «Grande è la Sua lode». «Sempre sia lodato». «Mi dica, che cosa è successo da quando ci siamo incontrati per l'ultima volta?». «Non ha letto i giornali?».
Il priore annuì. «Naturalmente non ci abbiamo creduto. Il nostro Elia un assassino! Sapevo che non era nient'altro che un segno di quanto lei abbia ostacolato i piani del nemico». «È così». «Ma nonostante questo, il nemico prosegue la sua attività come se nessuno potesse fermarlo. Verrà a Gerusalemme a settembre. I preparativi nel Paese non hanno niente da invidiare a una visita regale. Non ho mai visto niente del genere. I culti pagani ed alcune sette ebraiche lo stanno già acclamando come il nuovo messia. Anche i giornali cristiani sono pieni di encomi nei suoi confronti». «Un grande inganno. Seduce i saggi e gli sciocchi allo stesso modo». «Che cosa dobbiamo fare, Elia? Il Santo Padre le ha dato qualche indicazione per il futuro?». «Mi ha detto di aspettare e pregare... fino al tempo fissato, come lo ha chiamato». «Fino al tempo fissato. Mi domando che cosa intendesse». «Lo sapremo quando sarà ora di saperlo, e non prima». Il priore sospirò. «Come sempre, a noi il Signore domanda la fede. Prima la fede e poi viene l'aiuto». «Anche lei è passato per tante prove dall'ultima volta che ci siamo incontrati». Il priore piegò il capo. «La sua lettera mi è arrivata a Nazareth, proprio quando ero prossimo al massimo sconforto. Quando in gennaio sono iniziati i tumulti a Haifa, alcuni dei padri volevano che portassi la comunità negli insediamenti cristiani al di là del Giordano, ma mi sono rifiutato. Ho detto che dovevamo avere fiducia. Se cominciamo a correre, ho sostenuto, i nostri nemici non faranno altro che darci la caccia ancora più duramente e più a lungo. Ma quando la setta del Nuovo Mondo ha saccheggiato il convento, non ho avuto scelta. Siamo andati a Nazareth, quelli di noi che erano rimasti». «Quanti sono morti?». «Undici padri e sette fratelli». «Chi è sopravvissuto?». «Io, padre Giovanni, il nostro fratello qui e il vecchio Fotosforo, che era in ospedale giù a Haifa. Non so che cosa gli sia successo». «Il piccolo è esausto». «Fra' Mulo? Sì, ha fatto così tanto bene negli ultimi mesi, che Lei non lo può immaginare. Mi ha salvato la vita».
«È cambiato. Ha un'espressione più matura e non è più chiassoso». «Lo consideravamo come l'ultimo dei fratelli, no? Semplice, ignorante. Noi, con i nostri dottorati e le nostre omelie teologicamente elaborate, noi sorridevamo di lui con benevolenza. Fra' Mulo lo chiamavamo. Noi, che eravamo così umilmente superiori, siamo meno di lui». «Come ha fatto a salvarle la vita?». «I rivoltosi ci hanno picchiati e ci hanno lasciati lì pensando che fossimo morti. Non so dove fosse finito durante l'attacco, ma è ritornato di notte e mi ha tirato fuori dal mucchio dei corpi. Dal nulla ha fatto saltare fuori una macchina e ha portato me e Giovanni a Nazareth, dove le francescane ci hanno accolto nel loro ospizio». «Che cosa farete ora?». «Non lo so. Il superiore a Roma dice che non dovremmo tornare indietro. Troppe tensioni. Ha detto che dobbiamo aspettare fino a quando non verrà organizzato il viaggio in America. Questo sei settimane fa. Da allora non ho saputo più niente. Le cose sono molto confuse a Roma. Non ce n'è traccia nei media, ma penso che ci siano delle lotte in corso. Religiosi di ordini diversi mi raccontano la stessa storia: le comunicazioni si sono interrotte. Non sappiamo che cosa stia succedendo». «Può ritornare dalle suore?». «Anche la loro situazione è precaria. Il patriarca latino di Gerusalemme sta negoziando con il governo israeliano per ottenere la promessa che gli ordini cristiani vengano protetti, ma è la stessa cosa dappertutto: vaghezza, rinvii, inerzia». «Padre priore, siete i benvenuti, se decidete di rimanere qui». «Grazie, Elia, ma vedo che ha poco cibo. Come potrebbe dare da mangiare a tre persone quando basta a stento per una sola?». «Il Signore provvede. Ho un gregge». «Un gregge? Una pecora?». «Un po' di più. C'è un villaggio a circa due ore di cammino da qui. Vado là ogni domenica a dire la messa. I fedeli fanno in modo che io abbia abbastanza da mangiare e olio per le lampade». «Non sapevo che nella regione fossero rimasti dei cattolici». «Ci sono circa quaranta famiglie sparse per queste colline». «Tutto qui?». «Per la maggior parte di loro si tratta di greci, ma non hanno ricevuto alcun sacramento da quando il patriarca melchita è stato arrestato. Molti dei loro preti sono fuggiti. In Asia Minore sono rimasti pochi pastori, ma sono
in città, ed è difficile trovarli. Ci sono alcuni palestinesi, naturalmente. E anche un gruppo di convertiti ebrei. Sono i più ferventi di tutti». «Persino se ci fosse cibo per tutti e tre, a che cosa servirei? Non penso che queste mani tormentate dall'artrite possano mungere la capra». «Ho un bisogno disperato di preti». «Lei ha bisogno?», disse il priore lentamente. Elia andò a una nicchia sul fondo della capanna e tirò da parte una tendina, rivelando una lampada da veglia rossa e un piccolo tabernacolo di ottone incastrato nelle pietre della parete. Si inginocchiò di fronte al tabernacolo, poi prese un anello da una mensola lì sotto, lo infilò nel dito e si pose a sedere di fronte al priore. Questi lo guardò senza parlare, poi si mise in ginocchio e prese la mano di Elia nella sua. Gli baciò l'anello. Elia lo aiutò a rimettersi a sedere. «Il Signore ha davvero il senso dell'umorismo», disse il priore. «Perché dice così?». «Elia, Elia! Si ricorda quando sono stato eletto?». «Me lo ricordo bene. Ho votato per lei». «Non le ho mai raccontato che cosa mi è successo la notte prima dell'elezione? No, non l'ho fatto. Bene, ora è il momento, perché la storia è tornata al punto di partenza. Si ricorda che era quasi certo che lei sarebbe stato eletto. Era molto amato, io no. Ero sicuro che lei sarebbe stato il prossimo priore e ne ero molto felice. Per dire la verità, ero sollevato». «E allora, qual è il piccolo scherzo del Signore?». «Nella notte prima dell'elezione, ho fatto un sogno. È stato un bel sogno. Mi sono visto inginocchiato ai suoi piedi mentre le baciavo l'anello. Lei aveva in mano un bastone da pastore. Il giorno dopo, quando mi hanno eletto priore, ho pensato: "È stato fatto un terribile errore!". Ho gridato a Dio, ho deciso di rifiutare l'incarico. Sapevo che Dio aveva indicato lei per pascolare la nostra casa». «Ma non è stato così», protestò Elia. «Sì, ora lo so. Il consiglio mi ha spinto ad accettare, perché asserivano che Dio parla attraverso i voti della comunità. Mi hanno detto che contro questa autorità un sogno non ha nessun peso. Se avessi rifiutato, sarebbe stato un rifiuto del volere di Dio. Non so dirle quanto fossi tormentato. Ho accettato con l'agonia nel cuore. Conoscevo i miei limiti sin troppo bene. Ho implorato il Signore di levarmi questa croce, ma non ha voluto. Ora capisco perché». Chiacchierarono così ancora per due ore. Il piccolo frate continuò a
dormire per tutto il tempo e si svegliò solo quando scese il sole e il fresco della sera si depositò sul burrone. Era affamato e pronto. Disse poche cose, accontentandosi di svolgere i compiti semplici che aveva implorato Elia di dargli: lavare i piatti, mungere la capra, raccogliere i rami secchi per la pentola di latta che serviva da stufa. A poco a poco, cominciò a lanciare sguardi incuriositi sul loro ospite. «Padre», osò dire alla fine, «ha problemi con la polizia?». «No. I miei documenti dicono che sono un archeologo, cosa che naturalmente sono. Sto scavando fra le rovine di un campo militare bizantino nelle vicinanze. È stato costruito durante la campagna di liberazione dai Seleucidi nell'XI secolo». «Ha trovato dell'oro, padre?». «Ho portato alla luce alcune monete e le fondamenta in pietra di una strada dell'accampamento. Mi fornirà una scusa per rimanere qui per alcuni anni». «È divertente?». «Mi piace. Ma ho trovato un tesoro ancora più grande da un'altra parte». «Un tesoro? Quale tesoro?». «Te lo mostrerò domani». *** Si alzarono poco prima dell'alba, pregarono il mattutino e celebrarono la messa. Dopo una colazione semplice fatta di caffè nero, miglio bollito e uva passa, si avviarono per un sentiero che procedeva a zigzag sul pendio dietro alla capanna. Attraversava la montagna avanti e indietro, su e giù dalle alture, diventando sempre più ripido mentre salivano, portandoli a poco a poco alla terra scrostata e arida dei rilievi. In cima al burrone, guardarono indietro verso ovest, dove all'orizzonte una sottile vena d'argento svelava il sole che si rifletteva sul mare. Di fronte a loro li aspettavano altre salite e riposarono per alcuni minuti. «Che cosa ci sta portando a vedere, Elia?», chiese il priore. «Un tesoro che è rimasto nascosto fra i disegni di Dio per almeno due millenni». «Oro!», disse fra' Mulo. «Sì, oro purissimo», rispose Elia, sorridendo. Il sentiero per capre finiva a quel punto, ma proseguiva una sorta di traccia, una linea a stento visibile, tortuosa, segnata da rami spezzati ed erba
morta appiattita che i piedi di Elia avevano calpestato nel suo andare e venire dai fedeli sparsi nella regione. Arrivarono ad uno stretto altopiano e fecero di nuovo una pausa. «Non ci può dare un'indicazione?», disse il priore con il respiro pesante. «Lo riconoscerete quando lo vedrete». «Ah, ancora la mistica, no? Le piacciono i misteri. E fa soffrire i suoi amici per questo». «È molto meglio per l'anima». Il priore sospirò. «Sì, sì, ma io continuo a preferire la conoscenza». Elia gli sorrise. «Prima che la giornata sia finita, mi ringrazierà per le gambe stanche». «Me lo garantisce?». «Assolutamente sì». «Va bene, da ora in poi sospenderò i miei dubbi scolastici. Voglio obbedire come un agnello». «Anch'io!», disse fra' Mulo tutto contento. Salirono più in alto e passarono da una protuberanza della terra in una gola che tagliava per tutta la lunghezza i fianchi della collina. Lo stretto avvallamento, invisibile da sopra e da sotto, era abbastanza profondo da nascondere chiunque ci camminasse dentro. «Dove siamo?». «A sud di Efeso. Se salissimo ancora più in alto e camminassimo verso nord-est per un'ora, arriveremmo alla città di Aya Solouk, sopra le rovine della città. È una fermata sulla linea ferroviaria che corre tra Smirne e Aïdin». «Non mi dica che torniamo lì». «No. Ora svoltiamo e proseguiamo per questa trincea per tre chilometri». «Tre chilometri?», disse il priore. «Le mie vecchie ossa!». «Da qui in poi la strada è in pianura». Quando si incamminarono sul fondo ricoperto di pietre, capirono subito che si trattava dei resti di una strada antica, che non era stata usata per secoli. Era una gola naturale, le cui origini erano andate perdute. Chiaramente, era stata migliorata dall'uomo in un lontano passato, perché dovunque la scarpata a destra si faceva scoscesa, c'erano segni di muri di contenimento, ora crollati. «È dell'epoca turca?». «No», disse Elia. «Molto più antica».
«Porta a un forte dei crociati? È questo che ci vuole far vedere?». «Ancora più antica». «Probabilmente bizantina». «Ancora più antica». «Un notevole stato di conservazione». «È di epoca romana». «Sicuramente, le tratte migliori corrono lungo la costa. Perché qualcuno avrebbe dovuto prendersi la briga di costruire qui?». «Ci sono strade transitabili sopra e sotto, alcune antiche, altre moderne. Questa è l'unica che è caduta nell'anonimato. Il suo scopo è sconosciuto». «Forse è stata costruita da dei pastori?». «I pastori non usano itinerari del genere». «Allora, a che cosa serve?». «È lunga solo pochi chilometri. Comincia dal nulla e sembra finire nel nulla. Non offre nessuna spiegazione in nessun punto». «Ora mi ha intrigato, Elia». Proseguirono per la loro strada lentamente per un'altra ora, fermandosi di tanto in tanto a bere dalle borracce che fra' Mulo portava sulle spalle. Alla fine, arrivarono a un rilievo della collina e la strada finì bruscamente. «Ma qui non c'è niente», disse il priore. «Niente e tutto». «Dove siamo?». Elia indicò il nord. «A pochi chilometri in quella direzione arriveremmo a Efeso». «Perché non siamo passati per la strada sotto, la via che abbiamo fatto ieri?». «Perché non ci sono più sentieri per le montagne da questa parte». «Non ce ne sono?». «Un tempo c'era una pista in basso, ma le frane l'hanno coperta. Vede quel cumulo di pietre sulle colline più basse? Il resto della strada è sepolto lì sotto». «E allora? Che cosa ci ha portati a vedere qui, una strada amputata che non conduce da nessuna parte?». «Non è che non conduce da nessuna parte. Ora guardi in alto. Vede la fessura nella roccia?». «Non vedo niente di insolito. Aspetti, ha ragione, c'è una piccola gola. Ma è impossibile da raggiungere». «È difficile, ma non impossibile. Ci arrampichiamo per una dozzina di
metri alla fine del burrone. Un terremoto lo ha bloccato molto tempo fa. Quando passeremo quei detriti, avremo trovato quello che stiamo cercando». A malincuore, i due visitatori lasciarono la relativa scorrevolezza della strada, seguendo Elia in salita fra un dedalo di cespugli e pietre sparse. Quando arrivarono in cima, guardarono oltre il bordo in una rientranza concava del terreno, nascosta su tutti i lati da rocce e da una scarpata sovrastante. Scesero nell'avvallamento, di sei metri di profondità e lo stesso in larghezza. In fondo, Elia indicò un'ombra nella roccia. Lì si trovava una pietra circolare. «Una caverna!», esclamò il priore. Elia piegò la testa e passò per l'entrata bassa. Il priore e fra' Mulo rimasero fuori, guardando con attenzione. «Entrate. Non abbiate paura». Quando tutti e tre furono seduti su polvere e detriti, Elia accese un fiammifero e con quello una lampada a cherosene. La cavità venne illuminata all'improvviso, e si guardarono in giro. Fra' Mulo fece un gran sorriso e il suo unico occhio buono stava lacrimando. Il priore ispezionò l'interno con interesse meditato. «Ah, ora capisco. Questo è il posto dove di recente sono stati trovati i rotoli». «No, non lo è». «E allora che cos'è?». «Siamo gli unici esseri viventi a conoscere questo posto». «Padre», disse fra' Mulo, «è dove sono stati sepolti i sette santi addormentati di Efeso?». «No. Quella è un'altra caverna, molto più a nord. Ci sono molte caverne nella regione, e alcune non sono ancora venute alla luce». «Che cosa rende questa così speciale?». «Presto lo saprà. Non abbiamo ancora avuto l'occasione di rimanere in silenzio. Riposiamo, e poi, dopo aver pregato, vi chiederò che cosa vi è stato rivelato». Il priore lo guardò dubbioso; il frate sembrava eccitato dall'enigma. La caverna era alta quasi quanto un uomo, asciutta e fresca. Le pareti erano di pietra, in parte scavate con degli strumenti. All'altra estremità si vedeva una nicchia scavata a mano, nella quale si trovava una panca di pietra.
«Era un rifugio per i preti durante le persecuzioni? Sicuramente, quello è un altare». «Potrebbe essere stata usata per questo motivo, ma non era lo scopo originale». «Per quale motivo, allora?». «Non dirò nient'altro per ora. Riposiamo. Preghiamo. Dormite, se volete». Fra' Mulo, fissandolo, si mise sdraiato per terra e appoggiò la testa sul gomito. Chiuse l'occhio. «Lei dice che siamo gli unici che ne sono a conoscenza. Quando è arrivato qui per la prima volta?». «Poco dopo il mio arrivo. Stavo camminando per le colline, di ritorno dalla messa in un villaggio cristiano. Avevo incrociato la strada nascosta un gran numero di volte, ma non ci avevo fatto caso. Ci sono così tanti siti archeologici nella zona. Un pomeriggio, ho incontrato un bambino sulla collina sopra al sentiero delle capre. Senza presentarsi o conversare, è venuto da me e mi ha indicato la strada in questa direzione. Mi ha detto che dovevo trovare qualcosa, qualcosa di importante. Non mi ha spiegato niente. Non ha risposto a nessuna delle mie domande. Ha detto solo: "Va' fino in fondo e sali"». «Gliel'ha mostrata lui?». «No. Mi ha lasciato e non l'ho mai più visto». «Come sapeva dove trovare la caverna?». «Non lo sapevo. Sembrava che i miei piedi sapessero dove arrampicarsi, i miei occhi dove guardare. La pietra posta sull'imboccatura era coperta da detriti. Avessi cercato per mille anni fra queste colline, non avrei trovato indicazioni utili a distinguere questo mucchio di pietre da un altro. Sapevo solo che dovevo rimuovere queste pietre sparse. Sotto, con mia sorpresa, ho trovato la porta di pietra circolare. Ovviamente era stata sbozzata a mano. L'ho fatta scivolare via». «Qui ci sono altri strumenti. Lei sta scavando». «Sì, vengo qui il più spesso possibile». «C'è qualcosa che indichi il periodo archeologico?». «Credo che risalga al I secolo». «Ha trovato dei reperti?». «Monete romane del periodo di Nerone e Vespasiano. Monete giudaiche della rivolta che ha portato alla distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C. Questa è la prova che dei giudeo-cristiani si sono nascosti qui dopo la di-
struzione del tempio. Ci sono lampade usate un tempo in Terra Santa per bruciare l'olio d'oliva. Alcuni recipienti di terracotta così piccoli, che dovevano essere più decorativi che utili. Forse ci tenevano dentro i fiori. Forse si tratta di vasetti d'unguento. L'oggetto più importante è un pesce d'argento che riporta le lettere greche Χριστός,, Cristo. Ci sono altre iscrizioni sulla panca». «Me le faccia vedere». Incise in modo irregolare sulla superficie della pietra, alle due estremità, si leggevano le parole ebraiche: "Figlia di Sion, Primogenita di Donna". Le iscrizioni erano ripetute in greco e aramaico. «Aramaico?», disse il priore. «Questo è strano. Chiunque lo abbia scritto, aveva dietro di sé un lungo viaggio dalla Galilea». Si sedette e rifletté. Aggrottò la fronte. Era chiaro che nella mente gli stavano passando pensieri contrastanti. «Non ritiene che...?». Elia annuì. A quel punto, fra' Mulo si mise a gridare nel sonno e si alzò per metà appoggiandosi sui gomiti. «"Tommaso non c'è!"», gridò. «"Qualcuno è andato a cercarlo?". "È troppo lontano, troppo lontano!". "Silenzio!, gli angeli glielo diranno. Sarà qui presto". "Ma è oltre la Persia. Non possiamo aspettare". "Dobbiamo andare avanti, sebbene i nostri cuori siano abbattuti. Che cosa faremo senza la Madre? Era con noi, proprio come l'Agnello è con noi fino alla fine dei tempi. Non ricordate le Sue parole, quando è salito sulle nubi?". "Quando tornerà? Quando tornerà?". "Lucano, calmalo. Che cosa penseranno le donne?". "Il corpo è pronto?". "Lidia è andata in città a cercare altre erbe. Stanno sbocciando i fiori del giardino. Così tanti, anche fuori stagione. Portali, portali tutti. La grotta è preparata?". "Andrea! Mattia!". "È tutto pronto". "Sono arrivati i fratelli da Damasco?". "Arriveranno? La Macedonia e la Galazia arriveranno. Sapevano da settimane che lei stava venendo meno". "Pregate, fratelli, pregate che tutti riescano ad arrivare"». Elia e il priore fissavano fra' Mulo senza capire. Il piccolo fratello si mise a sedere appoggiandosi alla parete. Dal suo occhio buono scendevano fiumi di lacrime. «Fratello, svegliati». «Sono sveglio, padre Elia. "Ma lei è andata via, la nostra piccola sorella, la nostra piccola madre". "Come facciamo a vivere ora che non è più fra noi?". "La luce si allontanerà dal mondo?". "Non parlate più come se non
aveste fede. La luce non sta svanendo. Sta cambiando. Lei farà ancora più bene per noi adesso". "Sì. Credo. Credo". "Le donne presto avranno finito con la preparazione del corpo. Dobbiamo pregare". "I nostri cuori sono spezzati! Come facciamo a pregare?". "Non ricordate come eravamo addolorati, quando è stato crocifisso? Ricordate che siamo fuggiti? E poi tre giorni dopo che gioia! Oh, fratelli miei, non dobbiamo perdere il coraggio". "Giovanni, dicci, dicci. Persino i nostri cuori spezzati obbediscono alla tua voce". "Rimanete in silenzio, fratelli miei, rimanete in silenzio e riposate sul Suo cuore. Rimanete in silenzio e conoscerete il battito del cuore di Dio"». Il pianto di fra' Mulo a poco a poco si attenuò. I due preti lo guardavano senza parlare, sentendo solo il battito del loro cuore. «Lei aveva le mani incrociate sul petto. Le donne le hanno tagliato piccole ciocche di capelli per ricordo. C'erano mazzi di erbe attorno al collo e alla gola. Pietro e Giovanni si sono avvicinati al corpo nei loro mantelli. Giovanni portava il vasetto d'olio con cui Pietro le aveva unto la fronte, le mani e i piedi con il segno della croce. Poi le donne l'hanno avvolta nelle bende, lasciando scoperto solo il volto, riportato alla bellezza e alla freschezza della sua gioventù. "Non è più vecchia", abbiamo detto. Hanno messo una ghirlanda di fiori sul suo capo e un velo sul suo volto». «Fratello», disse il priore, facendosi avanti e scuotendo fra' Mulo per un braccio, «svegliati». «Sono sveglio». Elia tolse gentilmente il braccio del priore e sussurrò: «Lo lasci. Il Signore ci sta rivelando qualcosa». «Il corpo era così leggero. Lei era come una bambina nelle nostre braccia. Sentivamo la sua voce nelle nostre menti. "Dormo, ma il mio cuore veglia. Dormo, ma il mio cuore veglia". Poi abbiamo capito che, nonostante il suo corpo riposasse nel sonno della morte, aspettando l'Ultimo Giorno, la sua anima era in paradiso. Il corpo era stato messo in una cassa di legno bianco e il coperchio era fissato sopra con cinghie di pelle. Gli uomini l'hanno messa in un lungo cesto di paglia a forma di mangiatoia. L'hanno trasportata con questa portantina, sei di quelli che portano il Vangelo, quelli che hanno camminato insieme al Signore. L'hanno portata in processione dalla casa, accompagnati dalle donne. Piangevamo tutti, ma cantavamo nelle nostre lacrime. Non ci lamentavamo come fanno i pagani. Abbiamo lodato il Padre di tutti mentre salivamo per la strada ripida sopra la casa. Lungo il cammino abbiamo percorso la via della croce che la ma-
dre aveva fatto per le sue preghiere in ricordo di Gerusalemme. A ogni stazione ci fermavamo e baciavamo le croci che Giovanni aveva inciso nelle pietre. La caduta, l'incontro, Simone, il velo della Veronica e il luogo dell'umiliazione, quando hanno tolto a Gesù tutti gli indumenti, perché tutto il mondo vedesse; poi la crocifissione. Alla fine, nel punto che ricordava la morte del Signore, ci siamo inginocchiati. Il corpo della Madre riposava sulla pietra, mentre aspettavamo. Poi Pietro si è alzato per primo e ci ha guidati per il resto della strada». Fra' Mulo rimase in silenzio, perso nella visione. Gli altri due uomini non lo sollecitarono. «Quando siamo arrivati alla grotta sulle colline, quattro degli apostoli hanno portato la bara dentro la tomba e l'hanno messa sul letto di pietra. Siamo entrati tutti, a uno a uno, e ci siamo inginocchiati a pregare davanti al santo corpo, a rendergli omaggio, a prendere congedo per l'ultima volta. Poi la pietra è stata fatta rotolare davanti all'entrata e noi siamo andati via. Il giorno dopo è arrivato Tommaso, accompagnato da Gionata Eliazar e da un uomo dalla pelle scura che veniva dalle terre oltre la Persia. Ci siamo raccolti intorno a loro a raccontare tutto. Quando Tommaso ha sentito che la Vergine era già stata sepolta, ha pianto così tante lacrime e ha gridato forte. Si è gettato a terra vicino al letto dove lei era morta, e non riusciva a perdonarsi di essere arrivato tardi. Giovanni lo consolava. "È nei piani del Signore", ha detto, "niente è al di fuori del volere del Padre". Poi Tommaso si è alzato e si è inginocchiato di fronte all'altare nella camera da letto di Maria. Dopo, gli anziani lo hanno portato sulla collina al buio, perché li aveva implorati di vedere il suo volto per l'ultima volta. Hanno piegato i cespugli e fatto rotolare via la pietra. Tommaso, Giovanni, Eliazar e l'uomo dalla pelle scura sono entrati. Hanno aperto il coperchio della cassa e hanno visto che era vuota. Giovanni si è messo a piangere. "Lei non è più qui!". Il resto di noi è corso dentro, ha visto, pianto, pregato e alzato le braccia al cielo. "Il Signore l'ha fatta ascendere, corpo e anima!", ha gridato Lucano. Abbiamo raccolto le bende funebri e la cassa da tenere come reliquia e siamo ritornati alla casa per la Via Dolorosa, pregando e cantando i salmi». Fra' Mulo aprì l'occhio. Sul suo volto si dipinse un sorriso di insuperabile dolcezza, e radioso disse ai due preti: «È molto bella». «Elia», sussurrò il priore, «ci troviamo nella tomba della Vergine». «È così bella», disse fra' Mulo, e si rimise giù di nuovo. Chiuse l'occhio e cadde addormentato.
Il priore guardò Elia ed emise un respiro profondo. Poi anche lui chiuse gli occhi in raccoglimento. Rimasero immobili a lungo, senza sapere quanto, riposando in una pace ininterrotta. Più tardi, un raggio di luce dorata scivolò dentro dall'ingresso e si mosse lungo il pavimento. Elia svegliò gli altri. «Il sole sta scendendo. Dobbiamo ritornare a casa, adesso». Uscirono e ritornarono alla capanna nel burrone per la strada da cui erano arrivati, senza parlare, ognuno di loro preso in una corrente di gioia soffusa di timore. *** Elia venne svegliato nel mezzo della notte dal rumore del vento fra i rami del mandorlo e del terebinto. Si alzò e uscì a guardare le stelle. Una grande stella arancione si muoveva verso est, cadendo lentamente, quasi naufragando nel vicino orizzonte, seguita pochi secondi dopo da una stella azzurra brillante, più piccola e più veloce. Tornò dentro e si inginocchiò di fronte al tabernacolo. Rimase immobile a pregare, ore e ore. Cercò di raccogliersi, ma trovava difficile focalizzare i propri pensieri. Era esausto, naturalmente, e questo peggiorava le distrazioni e indeboliva il suo volere. Il bagliore della visione nella caverna rimaneva, ma stava impallidendo. Perché non bastava più, mentre solo poche ore prima gli era sembrato che niente in questo mondo e nei regni spirituali potesse strapparlo da quella visione? La gioia sembrava gocciolare fuori lentamente da qualche fessura sconosciuta. Molti pensieri si rincorrevano nella sua mente. Si ricordò del fuoco dolce che scendeva impetuoso sui cuori che lo ricevevano. Una volta, mille e novecento anni prima, un gruppo di uomini e donne ci aveva creduto. Lo avevano gustato, e il mondo era cambiato per sempre. Poteva succedere di nuovo? Sì. Sarebbe nata nuova vita, e sarebbero sorte nuove civiltà. Ma non sarebbero cadute come erano cadute quelle di un tempo? E quale sarebbe stato il prezzo in termini di miseria umana e di anime perdute? Perché Dio lo permetteva? Era impotente? Elia indietreggiò di fronte a quel pensiero, come di fronte a un fuoco divorante che un tempo lo aveva bruciato, non in modo fatale, ma lasciandogli una cicatrice che era appena guarita. Nudo di fronte ai suoi occhi stava il problema fondamentale della sua anima: gli era stato dato tutto, e non bastava. Aveva avuto la grazia di ve-
dere gli atti di Dio come era stato concesso a pochi. Le consolazioni riversate su di lui e dentro di lui erano straordinarie, e non da ultimo il miracolo di quel giorno. Ma... ma l'antica cicatrice di Adamo dentro la sua natura lo trascinava indietro, inesorabilmente, ripetutamente, al desiderio di certezza. Non che desiderasse forzare il Creatore dell'universo a giustificare il Suo volere, ma bramava una traccia di spiegazione. Sapeva molto bene che, se gli fosse stata data, presto avrebbe avuto bisogno di una spiegazione più grande, e poi di una ancora più grande dopo di questa, fino a quando nessuna spiegazione sarebbe riuscita a riempire l'abisso enorme del suo dubbio. L'illusione della comprensione avrebbe solo alimentato una confusione ancora più profonda, forme ancora più vincolanti di protesta interiore contro la violazione di tutto quello che era bello. L'assenza di conoscenza era la strada verso l'unione definitiva con l'Amore, il cui abbraccio era il riempimento di ogni dubbio, la fasciatura di ogni ferita. Da carmelitano, conosceva la teologia e la spiritualità della montagna della fede, la via del nulla - nada -, il cammino che conduceva per il giusto itinerario alla montagna di Dio. Perché questa spinta irrefrenabile verso destra e verso sinistra, come se un sentiero zigzagante attraverso burroni pericolosi e cime scoscese fosse una via migliore? Non era una via migliore. Lo sapeva e, nonostante tutto, la spinta rimaneva. La questione tornava ancora e ancora, assillando, mordendo, catturando la sua attenzione ogni volta che cercava di fissare la mente sul Santissimo. Perché Dio lo permetteva? Perché? I piccoli progetti umani erano destinati a fallire poco prima della Gerusalemme celeste, ripetendosi infinitamente, fino alla caduta radicale e globale, il collasso terribile e maestoso nel male ultimo, che spazzava via tutte le illusioni riguardo alla perfettibilità dell'uomo? Questa lunga lezione estratta dal corso della storia non era forse una forma di crudeltà? Oh, sì, conosceva tutte le risposte, avanti e indietro, su e giù, dentro e fuori. Libertà. Volere umano. L'uomo non potrebbe amare, se non fosse in grado di scegliere l'amore, e con questa scelta può scegliere l'opposto dell'amore. Elia sarebbe stato capace di indurre un ateo al silenzio, se avesse ascoltato, e di porre questioni che avrebbero condotto alla speranza più bella un'anima nelle tenebre. Ma oltre a questo si sarebbero profilate questioni ancora più grandi e pericolose. Anche il suo convertito le avrebbe affrontate, perché lui, Elia, le stava ancora affrontando dopo tutti questi anni. "Perché permetti al male di andare avanti? Gli permetteresti di distrug-
gere tutto?". "Non tutto", disse la voce tranquilla. "Non tutto. E da un singolo seme nascono intere foreste, in attesa di spezzare il sigillo, di ricoprire la terra di vita". Vide i molti volti che, come semi, erano caduti nel suolo oscuro della sua memoria. Ruth, la bambina nel suo grembo, Anna, Pawel, la madre, il padre. Così tanti erano morti, consumati dai nemici di Dio. Era impossibile capire perché Dio avesse permesso questo. La questione, l'unica che lo aveva perseguitato dal momento dell'arresto dei suoi genitori quando aveva diciassette anni, gli era apparsa e riapparsa come una punta acuminata che scandagliava quella ferita incurabile. Sì, la consolazione nella caverna lo aveva rinvigorito. Sì, sapeva che Dio esiste. Senza una fede del genere sarebbe stato da tempo stanco e barcollante, supplicando Dio di morire e di prendere con sé il dolore della comprensione. Aveva passato quella crisi, lo sapeva. La disperazione della sua gioventù era superata e le perdite che erano seguite erano state sopportate pazientemente, ma sotto il tessuto cicatrizzato c'era un ascesso: una domanda e il dubbio. Uscì di nuovo, passando sui suoi compagni addormentati. Si sedette sul bordo del pozzo, a guardare le stelle, a chiedere lumi. I volti di coloro che aveva amato gli si presentarono in quel momento con aumentata intensità e dentro di sé sentì un singhiozzo che non riusciva a prendere una forma esteriore. Erano andati. Un costante panorama di assenza. Sì, comprendeva il messaggio della caverna - che la piccola donna, la primogenita figlia di Sion, era un segno della resurrezione della carne nell'Ultimo Giorno. Ma ora si era assottigliato a una promessa, una parola che una volta aveva sentito, un evento che risiedeva in un futuro distante e forse astratto. Credeva che Dio dopo di lei avrebbe attirato in cielo quei volti amati, che vorticavano come uccelli di fuoco, su e su fino a una luce vastissima che affluiva per accoglierli. Il grande panorama della storia umana sarebbe diventato un ricordo, un semplice racconto narrato velocemente e ben presto ultimato. Tutta la rabbia sarebbe scivolata via e tutte le domande sarebbero state ricordate come i vagiti confusi di un neonato, che non afferra il significato della propria esistenza e ha fame solo di latte. Dentro la scatola del tempo era stato allestito un dramma. Le scene finali si stavano avvicinando, ma poteva essere che altre nascite e morti fossero in serbo per questo pianeta senescente. Notte e giorno. Tempo della semina e del raccolto. Troni che sorgono e che cadono. La Parola e l'antiparola che si cingono l'un l'altra senza fine in un combattimento dal quale non c'è
via di scampo, né salvezza, né tregua. Fino a quando l'uomo fosse rimasto uomo, ci sarebbero state ancora e ancora le macchinazioni di coloro che non avevano speranza oltre alle tattiche del potere mondano; avrebbero sempre ucciso i miti nei loro sforzi disperati di modificare l'arredo del palcoscenico. Le metafore affluivano nella mente di Elia, sciamavano cozzando, frantumandosi in disegni confusi, come il vetro infranto di un'immagine che un tempo aveva rispecchiato il volto nascosto di Dio e che ora portava solo l'impronta di uno stivale. Vide molti copioni e molti spettatori. I palazzi crollavano e le dimore degli umili sorgevano di nuovo dalle rovine. Vide un mondo percorso dalle azioni degli angeli santi, e i canti dell'uomo che li accoglievano flebili, come la stella del mattino saluta l'alba. Ma vide anche i draghi avvolgere le città e ingurgitare ondate su ondate di anime umane lì residenti, come se la città dell'uomo fosse la città della forza eterna. Città costruite dagli uomini che non sarebbero nati per altri diecimila anni. Il dolore e la futilità di tutto questo lo colpirono duramente. "Capisci che il tempo deve avere una fine", disse la voce. "Puoi darci ancora tempo?", implorò. "Ancora un po' e noi potremmo fare di questa terra un luogo d'amore". "Il male non può avere il permesso di divorare il bene indefinitamente". "Capisco, mio Signore, ma non c'è un'altra possibilità per noi?". "Figlio mio, riesci a misurare la pienezza del tempo o a rintracciare il seme dell'uomo nel suo corso attraverso l'ordine della creazione? Conosci il numero delle stelle e il numero dei discendenti che nasceranno a causa della tua implorazione? Se garantissi altri mille anni, entrerebbero in paradiso molte anime, che forse non sarebbero mai esistite, e molte altre si getterebbero volontariamente nel pozzo dell'inferno". Indietreggiò di fronte a questa rivelazione. "Questa è la spiegazione?". La voce non rispose. Per un brevissimo momento, Elia sentì il sorriso del Creatore, ma fu una sensazione passeggera, e si domandò se fosse solo una sensazione. Si rivolse al proprio intelletto in cerca d'aiuto. Preparò un riassunto del suo caso. "Tu sei un Dio fecondo. Molti semi vengono gettati nel terreno. Molti non germogliano. Ma sotto l'apparenza della perdita, niente va sprecato, niente va perso. Alberi giganti crollano sul terreno della foresta, si decompongono e divengono il terreno su cui nascono nuovi alberi. In modo analogo, nelle questioni umane, si creano movimenti, nascono, compiono la
Tua opera nel mondo, declinano, tornano al terreno, e forniscono quella ricca humus da cui sorge nuova vita. Le generazioni vengono e vanno. Il sole e la pioggia, inverno ed estate, il tempo della semina e il tempo del raccolto. Solo la Tua Parola rimane eterna. Il Tuo popolo è richiamato ancora e ancora, generazione dopo generazione, alla costanza, a quella solidità misteriosamente fluida, l'unica sicurezza che vale la pena di avere. Non puoi sprecare ancora un po' di tempo con noi?". "Puoi sopportare il peso delle anime che disprezzerebbero il tempo della grazia?". "Se ci dai il tempo di ammonire e proteggere!". "Quanto tempo vi ho già dato. Duemila anni e ancora una volta ricadono nella dimenticanza". "Dacci la voce per parlare con autorità". "Se facessi in modo che la vostra voce scuota le fondamenta della terra come il tuono, non si renderebbero ancora più sordi per non sentire?". "Oh mio Salvatore, Tu conosci la nostra condizione, conosci la nostra debolezza. Quanto è fragile l'uomo! I potenti della terra si volgono al potere assoluto per stabilire il controllo sul caos della condizione umana". "Si farebbero divini per sfuggire a Dio". Elia sentì che stava dibattendo con un giudice che non era solo misericordia, ma anche giustizia, il Pantocrator, il Signore di tutta la creazione, che presiedeva un tribunale in cui gli accusati non afferravano l'estensione della propria colpa. Tutto il cielo osservava, e tutto l'inferno. Ospiti invisibili stavano ascoltando il dibattito. Una volta, tanto tempo fa, nel freddo appartamento di Pawel Tarnowski, durante i giorni peggiori dell'inverno del 1943, aveva trovato un libro contenente un poema sul cielo e sull'inferno. Lo aveva letto a Pawel, mentre attorno a loro uomini malvagi stavano sparando agli innocenti: Quello che in me è oscuro, illumina, quello che è basso, eleva e sostieni. Che al culmine di questo grande dibattito possa affermare la provvidenza eterna, e giustificare le vie di Dio agli uomini. Con quale gioia ingenua aveva letto quelle parole a voce alta. Con quale entusiasmo! Ricordava il suono della sua voce infantile e lo sguardo negli occhi di Pawel - il suo silenzio l'unica risposta.
Ora era qui, più di cinquant'anni dopo, era un uomo, un uomo che aveva preso una forma che il ragazzo non avrebbe potuto prevedere. Un uomo in un deserto alla fine di un'epoca, che cercava di giustificare a Dio le strade dell'uomo. "O Padre, posso discutere il nostro caso con Te?". "Lo puoi fare, avvocato Elia". Anna lo chiamava così. Anna che era morta per mano di uomini malvagi, così come erano morti Ruth e la bambina e Pawel. "Sono un povero avvocato nel tribunale di Dio. Ma, mio Signore, è così impossibile che il genere umano possa venire riportato alla condizione originaria? Niente è impossibile per te. Il grembo di Maria non ha portato l'impossibile, l'impensabile? In quel piccolo spazio sacro è stato allevato il seme che avrebbe salvato il mondo dalle tenebre. Codificati qui, come su una doppia elica, c'erano i martiri e i mistici, le cattedrali e le statue, l'Oriente e l'Occidente cristiano, i canti dei monaci, le encicliche, i poemi, i milioni di bambini che altrimenti avrebbero potuto non esserci. Anche Giuseppe, un uomo piccolo, nascosto, proveniente da un villaggio insignificante, ha avuto il cuore di un vero padre e ha reso possibile che un nuovo mondo giungesse all'essere. Giuseppe, padre putativo di un mondo senza padre, icona vivente del Padre. È rimasto aperto ai messaggi e, quindi, ha collaborato perché fosse possibile che Tu diventassi uomo. La sua obbedienza ha protetto la Tua esistenza. La sua vigilanza, la sua giustizia, il suo amore Ti hanno consentito di crescere come un uomo. Quale meraviglia è questa, e quale scandalo. Perché tutta questa debolezza? Perché la povertà, la piccolezza, il nascondimento? Non hanno senso. Hai scelto Tu di nascere in un tempo freddo. Il cielo è sceso sulla terra in una stagione di pericolo. Il Salvatore di Israele si è rivelato come impotenza durante la rovina finale della nazione. Per il mio popolo, per gli anziani, era la fine. Qui stanno il mistero, il paradosso e lo scandalo: Tu sei venuto nel peggior momento possibile". "Sono venuto in un momento impossibile e il mondo, che era potente e malato mortalmente, che stava bruciando e morendo per i suoi peccati, è rinato". "Dove è andata la luce? Quando è andata via quella speranza che era nata con la Tua nascita? È passato così tanto tempo. È difficile vedere nel buio. Ce lo devi dire ancora: la Tua forza va trovata nella debolezza. Nazareth di Galilea è stato il luogo dove all'inizio è vissuto questo messaggio piccolo, chiaro, indistruttibile. Ci ha insegnato questo, Tua Madre. Viene
vissuto in ogni generazione, spesso al cospetto di sconvolgenti disuguaglianze. Le civiltà sono nate e sono decadute. Sono nati santi e tiranni, re e poveri, sono cresciuti e sono morti. Culture, teorie, convincimenti, mode, teologie, movimenti, sono nati e sono scomparsi di nuovo. Questo è il motivo per cui la nostra fede non può mai essere semplicemente un sistema di pensiero religioso, una teoria etica o una bella cultura. Questo è il motivo per cui i miracoli e le visioni non bastano. Quando tutto è ridotto alla sua forma essenziale, la nostra fede significa credere in Colui che ci ama; in Gesù, vero Dio e vero uomo, l'unico Cristo, che risiede nel cuore della sua Chiesa. Colui che era, che è e che verrà. Questo è il motivo per cui la nostra casa è la Chiesa universale, il trono su cui Tu regni, una Chiesa che è dentro il tempo e fuori dal tempo. Questo è il motivo per cui le sue porte sono sempre aperte per Anna e Severa e Smokrev e Billy, e me e persino per quell'uomo posseduto che desidera dominare il mondo. Intendi chiudere le porte al genere umano?". "Parli come se la somma delle anime umane fosse una sola cosa. Il genere umano non è un organismo. Ogni anima viene pesata come se fosse unica". "Desideri mettere fine a tutto questo? Se lo fai, accetterò. Potrei persino capirlo, ma c'è una cosa che vorrei contestarTi: la Chiesa è passata attraverso epoche in cui si è gloriata nel trionfo dell'estate, e altri periodi in cui è scesa nel freddo della terra, apparentemente battuta. Potrebbe essere che la sua massima gloria sia da cercare nascosta sotto una pietra, in apparenza morta, ma in effetti vivissima, in attesa della primavera. Penso spesso alla nostra martire Severa che giace nelle catacombe di Callisto: 'Una colomba senza amarezza. Riposa, Severa, e rallegrati nello Spirito Santo'. Una ragazzina che vince i leoni! Risorgerà l'Ultimo Giorno. La vedremo faccia a faccia. Parleremo con lei, la nostra sorellina, nostra madre nello spirito. E mia figlia che non è mai nata, che non è mai salita in montagna e che non ha mai giocato nel vento. Vedo i suoi disegni da bambina, le sue poesie, le sue canzoni mai cantate. Vedo il suo sorriso. Vedo il tempo della semina a Ramat Gan e le messi mai raccolte. Vedo tutto quello che avrebbe potuto essere. Queste lettere fragili inscritte sulla superficie della creazione avrebbero raccontato una storia più grande della somma delle sue parti. 'Io sono', proclamano. 'Io sono stata qui', dicono. 'Il mondo è bello. Mi rende felice e lo amo!'. E a un livello più profondo esprimono la consapevolezza umana che 'Colui che ha fatto fiorire il mandorlo ha creato anche me'. Non è vissuta
abbastanza per dirTi questo". "L'ho creata e lei mi appartiene, è felice. Me lo dice". "Le Tue parole consolano, ma nella mia audacia, imploro la Tua pazienza, perché devo diventare ancora più audace. Dacci figlie e figli, e tempo, che Tu possa avere molti figli della luce. Non riesco a vedere il futuro, perché sono un uomo piccolo e cieco. Hai unto la mia mano con il potere di portarTi a questa terra, perché possiamo nutrirci di Te. Ma ci sarà ancora un gregge da nutrire? La Chiesa potrebbe continuare a convertire il mondo, o potrebbe continuare a rimpicciolirsi in un piccolo resto. Ci sarà ancora la fede sulla terra, quando il Figlio dell'Uomo ritornerà? Non lo sappiamo. Solo Tu lo sai. Ma di questo possiamo essere certi: quelli che toccherai con il Tuo fuoco diverranno quello che Tu vuoi che diventino. Dacci il fuoco, perché stiamo morendo di freddo". "Quanti sono come te in questa epoca buia? Solo pochi. Elia, figlio mio buono e cieco, tu sei un mandorlo che fiorisce su un terreno arido". "Lascia allora che faccia il seme di una seconda primavera, non un seme di carne, ma dello spirito, che porti alla vita gli uomini morti. Perché Tu mi hai fatto in questo modo, e Tu ci hai detto che siamo fatti come un prodigio. Tu hai piantato questo desiderio dentro di me. Tu hai creato quest'anima che Ti supplica. Dacci ancora più tempo per dire la parola che distrugge le menzogne. Quando saranno passati i tiranni e i propagandisti e gli sperimentatori, quando si saranno esauriti coloro che odiano e disperano, la terra si rattristerà e rinascerà. Fa' che sia così, Padre, fa' che la Tua sposa, la Chiesa, rimanga. Fa' che coloro che hanno seminato nel pianto raccolgano nella gioia". Ma la Voce non rispose, ed Elia rimase da solo con le stelle. Entrò, si sdraiò sul suo materasso e dormì. *** Domenica mattina, Elia salì in montagna con fra' Mulo. Salirono sulle cime più elevate e arrivarono a un pianoro ricoperto di sterpaglia. Lo attraversarono fino a una strada sterrata che piegava a est, verso il villaggio cristiano. Erano due ore di cammino, ed Elia colse l'opportunità di chiedere al piccolo fratello dell'esperienza nella caverna. «Ero sveglio, padre. Tutto il tempo sapevo dov'ero, dentro la caverna con Lei e il padre priore. Allo stesso tempo, era come se guardassi un film, ma c'ero anch'io dentro il film».
«Parlavi come se fossi uno degli apostoli». «Ero vicino a loro. Vi ho detto solo quello che ho sentito dire a loro. Non capivo molto. Non assomigliavano agli apostoli dei santini. Erano un genere di cristiani diversi da noi. Ma erano anche come noi. Lo Spirito Santo mi ha portato là con la mia anima, e ho visto solo quello che succedeva. L'ho sentito dentro le orecchie del cuore. Ho visto tutto. Ho pianto quando piangevano loro. Ero felice, quando erano felici. Era così bella. Il suo volto...». La descrizione del frate tentennava e nessun incoraggiamento riuscì a farlo continuare. Avrebbe detto solo: «Non so come dirlo. Deve vederlo con i suoi occhi». Il piccolo fischiettava e saltellava come un bambino, lasciandosi andare di tanto in tanto a un sogno a occhi aperti chiaramente legato alla visione che aveva avuto. Ogni qual volta i pensieri del giovane uomo ritornavano alla visione, il suo volto si illuminava di una luce che non era naturale. Un unico cavo telefonico serpeggiava lungo le colline verso un gruppo polveroso di circa venti case e negozi. C'era una stazione di rifornimento cadente, un ufficio postale, un negozio di alimentari e una chiesa bizantina intonacata, i vetri frantumati, le porte d'ingresso chiuse con assi. Elia entrò nel negozio di alimentari. Venne salutato da uno strillo di gioia da parte di una signora corpulenta, dai capelli bianchi e con indosso un vestito rosa macchiato d'unto. Si trattava della signora Cohen, una convertita dall'ebraismo. Lo abbracciò stretto e lo portò in una stanza sul retro. Per quarantacinque minuti Elia ascoltò le confessioni, poi indossò i paramenti del rito orientale che qualcuno aveva recuperato dalla chiesa. Offrì la divina liturgia di San Giovanni Crisostomo per una comunità di una dozzina di anime: contadini, commercianti, casalinghe e bambini. Dopo la messa, la signora Cohen riempì i loro zaini di cibo. «Ha un ospite, eh? Ecco, avrà bisogno di più roba del solito. Non discuta! E metta via quei soldi! Non vorrà farmi arrabbiare. Poi dovrei confessarmi da Lei perché mi ha fatto ammattire. Allora si caccerebbe in un bel pasticcio, eh? Qui, prenda questo marzapane. È domenica. La festeggi. Ora, che ne dice dei fagioli secchi?». E così via. Alla fine del predicozzo, la signora Cohen si tolse due lettere dal petto e le infilò nello zaino. «Mio cognato di Smirne è stato qui ieri. Due lettere per Lei». Elia non le aprì fino a quando lui e fra' Mulo non si fermarono per ripo-
sare a metà strada nel loro viaggio di ritorno. Si sedette all'ombra di una roccia e studiò attentamente la busta. L'indirizzo del mittente era una prigione dell'Illinois. Il francobollo era stato timbrato a Chicago. Caro amico, non preoccuparti, non possono rintracciare dove ti trovi da questa lettera. Ho ancora alcuni amici. La coppia di turisti che mi fa da corriere ama fare pellegrinaggi nel misterioso Oriente e ha promesso di lasciar cadere le mie parole immortali in una casella postale a Istanbul, intestata a un certo signor Cohen di Smirne. Wow. Certo che ti sposti proprio. Ho riconosciuto la scrittura, ma dubito che qualcun altro lo abbia fatto da questo lato dell'Atlantico. Lo pseudonimo mi ha fatto fare una risata. Da quando hai cominciato a farti chiamare Davy? Oh, bene, ho capito il tuo trucco immediatamente. Ho letto dei tuoi vari crimini sui giornali e ho riconosciuto il copione. Identico al mio, giusto? Giusto! Bella gente questi democratici del nuovo mondo. La patria dei valorosi, la terra della libertà. Pare che sarò fuori nel 2020, forse un po' prima, se mi comporto bene. Non so dirti quanto abbiano significato le tue parole per me. Ho fatto pace con la mia ingiusta condanna. Questo allevia un sacco di tensioni. Niente più ricerche di fondi, niente più tormentose serate di bingo, niente più contrattazioni con gli scrittori e i comitati - non sono mai riuscito a sopportare tutta quella esibizione dell'ego. Niente più orgoglio, niente più rabbia. Lavoro in officina. Leggo le Scritture. Passo molto tempo sull'ultimo libro della Bibbia e devo dire che assomiglia sempre di più a lenti che si stanno mettendo a fuoco. Forse verrò schiacciato dal rullo compressore grande e grosso dell'Apocalisse. E allora? Alla fine ho avuto una cella tutta per me e un sacco di tempo per pregare. Ti meraviglieresti di sapere quanti criminali onesti ci sono qua dentro. Sono colpevoli e peccatori e lo ammettono, un atteggiamento migliore di quello della gente là fuori che è colpevole e pensa di essere innocente. Siamo tutti criminali nel cuore, persino quelli di noi che sono innocenti, tecnicamente parlando. Caino e Abele: la storia la conosci. Alcuni dei tipi qua dentro vogliono essere assistiti spiritualmente. Mi piace. Sacerdozio vecchio stile. È duro, ma almeno è one-
sto. Mi preoccupo un po'. È ancora il mio peccato più grande. Mi preoccupo per la Chiesa e mi preoccupo per te e mi preoccupo per i figli dei miei fratelli che hanno tutti abbandonato la fede. Gertie è morta di un colpo apoplettico. Grazie a Dio i miei genitori sono morti prima che succedesse tutto questo. Dicono che il Santo Padre sia molto malato. Suppongo che ci sia molta gente felice per questo. Che cosa succederà alla Chiesa con così tanti zombie che se ne vanno in giro, che parlano a vanvera? Che cosa verrà dopo, Davy? C'è ancora speranza per noi? Il papa parlava sempre della speranza, e forse era questa la sua grazia più grande. Ci ha insegnato a sperare quando ogni cosa sembrava perduta. Ho pensato tanto all'ultimo dicembre, quando si è celebrato il mio processo. Ho sempre avuto un'avversione segreta per l'Avvento, perché è un periodo così pazzesco per i preti. Ma davvero me lo sono goduto quest'anno, se riesci a immaginarti qualcuno che si gode un periodo liturgico, mentre sta per essere mandato in prigione per qualcosa che non ha fatto. L'Avvento, piazzato così strategicamente nel momento in cui l'anno muore, è un ottimo, ottimo allenamento. Non si suppone che facciamo come i pagani antichi, che guardavano all'avvicinarsi dell'inverno con una sorta di ossessione afflitta dal terrore, ipnotizzati dallo spettro della morte, soggiogati alla morte, sacrificando i loro figli all'insaziabile appetito della morte. Non si immagina, ma è buffo il modo in cui i vapori mortali penetrano dentro il tuo cuore senza che tu lo sappia. Durante l'Avvento, ho imparato a respingerli. Ho imparato a fissare le tenebre che avanzano senza battere ciglio. Impossibile? Sìììì! Ma i cristiani dovrebbero sempre mantenere un'icona dell'impossibile nel loro cuore. Giusto? Bene, ora è il tempo ordinario e si ritorna al solito. Scrivere questa lettera è stata una terapia utile, meglio che ululare alla luna. Grazie per avermi ascoltato. Non mi capita spesso di entusiasmarmi. Quanti fervorini senti là in mezzo al deserto? Hai scritto deserto. Dove? Africa? Asia? Una città europea? È tutto deserto ora, no? Spero che da qualche parte, in qualche modo, avrai una cella tutta per te. Con amicizia, Ed Smith
La seconda lettera non riportava saluti e non era firmata. Era battuta a macchina e, come la prima, era indirizzata a "D. Pastore", presso il signor Cohen a Smirne. Era stata spedita da Atene. Ho ricevuto il Suo messaggio sei settimane dopo che è stato spedito. Sono sollevato di ricevere notizie da Lei, e lo è anche il S.P. che Le manda la sua benedizione. Preghi per lui, perché viene pesantemente denigrato da tutte le direzioni. Non creda a quello che ha letto, o a tutto quello che riguarda i nostri affari. Spero di arrivare nella tarda primavera o all'inizio dell'estate, se la situazione politica migliora. Il nostro contatto a Costantinopoli è stato di grande aiuto. Mi porterà a Smirne e da lì alle persone che mi faranno arrivare al posto in cui Lei si trova attualmente. Non so davvero dove sia, ma sono sollevato di sapere che Lei sta bene. Pascoli il gregge che è stato affidato alle Sue mani. L'affido interamente alla protezione della Madre di Dio. Fide, C.D.F. Elia la decifrò facilmente. Costantinopoli era la sede del patriarca della Chiesa ortodossa. Fide era la parola latina per fede. C.D.F. significava Congregazione per la Dottrina della Fede. La lettera era del prefetto, Dottrina, come lo chiamava Billy. Il priore li accolse al loro ritorno e mise in tavola un pasto a base di lenticchie bollite e di cipolle. Per dessert festeggiarono con il pane all'avena, i semi di sesamo e fette di marzapane dolce. Elia raccontò ai suoi compagni della lettera di Dottrina, e loro ne furono molto felici. «Ci pensi! Viene qui un cardinale!», disse fra' Mulo. «Non ho mai incontrato prima un cardinale». Elia e il priore si misero a ridere. «I cardinali sono proprio come te e me», disse il priore. «Oh, non ci credo», disse il piccolo. Saltò su e iniziò a darsi da fare nella capanna per mettere tutto a posto. Afferrò una scopa e si mise a pulire il pavimento sporco. «Siediti e goditi il tuo caffè. Sua Eminenza potrebbe non arrivare per mesi». «Spero che arrivi presto, padre Elia, allora avremo di nuovo un convento
regolare. Quattro di noi fanno un coro». «Ti eleggeremo priore, fratello». «Mai!», replicò il piccolo sconvolto. «Mai!». «Penso che sarò il maestro di teologia», disse il priore, «e il cuoco». «Non saremmo i primi a fondare un convento qui», disse Elia. «Queste pietre sono cadute e sono state rimesse in piedi più di una volta dall'Incarnazione. Dietro la capanna ci sono le fondamenta di un antico oratorio». «Chi ha rimesso in piedi la capanna?». «Sono stato io. È solo l'inizio». «Non intende ricostruire un intero convento a mano!». «Sì. Una pietra alla volta». Dopo il vespro, Elia uscì a guardare le stelle e loro apparvero a una a una sopra la catena montuosa a est. Fu sorpreso di vedere la sagoma di un uomo in piedi contro l'azzurro scuro del tramonto, un uomo che guardava giù nel burrone. Elia gli gridò un saluto, ma non era certo che la sua voce arrivasse così lontano. Fece un cenno e la figura ricambiò il cenno. Elia gli fece cenno di scendere, ma la figura rimase immobile. Poi la figura gli fece capire che avrebbe dovuto salire lui. Incuriosito, Elia si alzò, si spolverò i calzoni e salì lungo il sentiero delle capre. Quando si avvicinò alla cresta, riconobbe la figura. Era il ragazzo che gli aveva mostrato la caverna molti mesi prima. Era un adolescente di circa sedici anni, alto, robusto, i piedi nudi ben piantati per terra, vestito con pantaloni e una camicia bianca, il volto fiammeggiante nell'ultima luce riflessa dal mare occidentale. Poi Elia si rese conto che il sole era già tramontato e che il bronzo levigato del volto del ragazzo era illuminato da una fonte sconosciuta. «Ora ti mostrerò una cosa nuova», disse. Il ragazzo si voltò e si arrampicò più in alto, non guardando dietro, confidando nell'obbedienza di Elia. Elia lo seguiva, andando più a senso che con la vista, perché il buio scendeva velocemente e la polvere pallida della pista divenne presto invisibile. Procedeva lentamente, meravigliato, pieno di timore, guidato solo dalla colonna della schiena del ragazzo che si allontanava di fronte a lui. 22 Apocalisse
Quando aumentò il buio sulle montagne, Elia diventò inquieto. La figura che si allontanava si fece confusa, poi invisibile. La chiamò, ma non ebbe risposta. Barcollò alla cieca per parecchi metri, fino a quando non inciampò di nuovo in una pietra e cadde. Rimase seduto e aspettò. Il ragazzo presto se ne sarebbe accorto e sarebbe tornato a cercarlo. Il ragazzo non tornò. Elia lo chiamò ripetutamente, ma risposero solo gli insetti e gli uccelli notturni. Una volpe abbaiò da lontano. Una nave sull'Egeo suonò le sirene da nebbia. Le nuvole arrivarono da ovest e nascosero le stelle. Tenne la mano di fronte a sé, ma non riusciva a vederla. Alla fine iniziò a domandarsi se il ragazzo non fosse uno spirito maligno. Se fosse stato un angelo dell'Altissimo, sarebbe già tornato. Non c'era nient'altro da fare se non aspettare l'alba. Se avesse cercato di proseguire su quel terreno sconosciuto, avrebbe potuto mettere il piede in fallo sul bordo di uno dei mille burroni e non sarebbe mai stato ritrovato. Se avesse cercato di tornare sui suoi passi, avrebbe sicuramente perso la strada. Aveva passato molte notti della sua vita ad ascoltare la notte. Aveva sempre pregato e si era sempre ricordato di intensificare la preghiera, quando le proteste delle sue emozioni lo colpivano con il loro coro rumoroso, i loro argomenti, la loro vertigine, risucchiandolo nell'incubo. Durante la sua vita si era nascosto nelle fogne e nei solai, nei fienili e nei buchi del terreno, nella sentina delle navi e, più profonda di tutte, nella notte spirituale del Carmelo. Quindi, era abituato all'assalto alle sue facoltà, alla tentazione di correre da qualche parte, da qualunque parte, per sfuggire all'oppressione eterna e inesorabile; o, in alternativa, alla tentazione di attaccare le tenebre senza volto con minacce, singhiozzi e imprecazioni. Aveva imparato l'arte di calmare la mente, poi le emozioni, e infine lo spirito. Ora pregava, come aveva sempre fatto in situazioni del genere, le preghiere della volontà. Recitò i salmi a voce alta, lentamente, sottolineando ogni parola deliberatamente, respingendo i sudari che lo coprivano strato dopo strato e che si facevano sempre più pesanti ad ogni respiro. La concentrazione gli sfuggiva. Le preghiere formali sgorgavano dalla sua gola come piombo. Alla fine gridò: «Oh Dio, ho bisogno di aiuto. Per quale motivo mi hai guidato qui? Sei stato Tu? È stato il nemico?». La notte non rispose; se possibile, si infittì ancora di più, premendo sulla sua coscienza. Dove erano andate le voci? Perché tacevano? La consapevolezza di sé che aveva avuto la notte precedente ora si ripeteva: nudo di fronte ai suoi occhi stava il problema fondamentale della sua anima: gli
era stato dato tutto e non bastava. Nel passato il Signore gli aveva parlato nei sogni, nelle visioni, nei dialoghi interiori. Adesso cominciava a metterli in dubbio. Era tutto il prodotto di una florida mitologia sviluppatasi nel suo subconscio? Il dialogo era solo uno scambio fra emisferi del cervello, il traffico interno alla mente bicamerale? Era l'intuito che permeava l'intelletto, o il contrario? O era pura immaginazione avvolta per così dire dall'autorità magisteriale delle sue credenze? Non era niente di più che una teoria etica, un sistema di pensiero religioso, una bella cultura, spazzata via dal vento della realtà assoluta? Smokrev aveva ragione a proposito dei castelli e delle favole? Forse l'ultimo conforto in un universo come questo era una scelta fra balzo deliberato nell'abisso e lo stimolo al dominio su quello che non vi era stato ancora risucchiato, sostenendo per un momento l'illusione della libertà dalla forza inesorabile della gravità. Non lo sapeva più. E la mancanza di certezza aumentò la sua inquietudine, al punto che iniziò a diffondersi anche al petto, peggiorando rapidamente fino a quando non si domandò se il terrore non avrebbe raggiunto proporzioni patologiche. Se non fosse cessato presto, una paura psicotica l'avrebbe spinto a gettarsi oltre il ciglio di una scogliera, prima che i suoi compagni potessero cercarlo alla luce del giorno. Sperava che fosse un attacco di cuore, e l'eventualità che stesse morendo lo confortò per un istante, prima che le negazioni lo catturassero con rinnovato vigore. Si obbligò a pensare a tutto quello che sapeva della vita spirituale, a ogni cosa nella sua memoria che fornisse delle prove contro il buio, ma era inutile. Mistica? Persino la pretesa di definire questa condizione come la buia notte dell'anima era un'assurdità. Identificare questo nulla abissale, privo di un barlume di consolazione o di certezza, o di un anelito di spirituale nobiltà, creava nozioni così false che definirle una parodia della spiritualità autentica era sin troppo gentile. Quale il suo nome? Questo era lui: un Elia senza corvo; un Davide senza regno; un professor Pastore che grattava nella terra di civiltà morte; un Dovidl che fa girare i suoi dreydel sul tappeto del salotto, come il pazzo che tesse le sue fantasie con logica orribile; un vescovo che teneva le sue omelie in una cattedrale vuota, una capanna fatta di pietre che erano cadute e che erano state rimesse in piedi chissà quante volte, distrutta e ricreata dalle mani dell'uomo. Uomo? Che cos'era l'uomo? Lui stesso era un uomo, ma che cos'era questa cosa-uomo che aveva la presunzione di definirsi? Un mendicante, un re-eroe, un sisifo; un uccello preso in un rovo, il cuore trafitto che palpita nella gabbia delle sue costole; un padre dotato di sperma e di una sterilità auto-inflitta; uno scarabocchia-
tore di storie senza inizio e senza fine, senza eroe e senza cattivo, che scarabocchia, scarabocchia, mentre il treno lo trascina ai forni; un pittore, un poeta, un venditore ambulante, un buffone nel pantano dell'autocommiserazione, un figliol prodigo che scialacqua l'eredità dei suoi mille baci e che corre a casa da un padre che non esiste? Un angelo, un satiro, un golem? Nessuno di loro e tutti loro. Era un uomo. Un uomo privo di significato. Privo di significato, privo di significato. Persino l'espressione privo di significato era priva di significato. Non era nient'altro che una congiunzione di dolore mentale e fisico, un sacco di brutti ricordi che erano riusciti a sfuggire al fuoco dell'olocausto, sopravvivendo solo per caso, lasciando dietro di sé una striscia di egoismo e di orgoglio spirituale, come la scia di putrefazione di una lumaca. Ruth? La piccola, mia figlia? Anna? Severa? Pawel? Parole vuote. Costruzioni di carta, che ruggivano al cielo mischiate al fumo oleoso del grasso umano che brucia. L'ascesa al monte Carmelo? Questo? Sentiva urti di vomito all'idea. Come faceva a esserci della vita oltre la distesa senza fine della corruzione? Sperare nella vita significava rendere più profonda l'assurdità. La morte, questa dipendenza perenne. Desiderava morire, sfuggire alla disintegrazione della sua mente. L'attacco di cuore non stava avvenendo abbastanza alla svelta. Ma era privo del coraggio di uccidersi. Se solo fosse riuscito ad avvicinarsi a una gola, avrebbe potuto lanciarsi in una caduta libera da cui non ci fosse ritorno. Sì, almeno di quello era capace, una sorta di mezzo incidente, mezzo suicidio. Un'autodistruzione codarda. Cercò di alzarsi, ma le sue gambe cedettero e ricadde per terra. Non riusciva più a camminare, ma poteva ancora strisciare. Sì, avrebbe spinto il suo cadavere vivente fino al precipizio e lo avrebbe fatto rotolare oltre il bordo come esercizio finale di quell'illogicità logica che aveva consumato la sua vita. Si sentiva una coscienza schiacciata sotto cosmi appiattiti. Ma gli era stata lasciata una sola dimensione. Fece scivolare il suo corpo lungo quella dimensione. Attraverso i gironi compressi di un inferno che non esisteva più, cerchio dentro cerchio, giroscopio dentro giroscopio, intrappolato in eterno nella mancanza di significato della parola dannato. Cercava solo l'annichilimento. Quando lo avesse incontrato, lo avrebbe trangugiato - no, si sarebbe gettato nella sua bocca, e lui lo avrebbe trangugiato... Poi picchiò la testa contro una roccia e perse conoscenza.
*** La ferita alla testa lo svegliò. C'era una luce grigia. Aveva della terra in bocca e cenere nell'anima. All'inizio pensò di essere all'inferno, perché l'inferno può esistere, anche se il paradiso e il purgatorio non esistono. Vicino alla sua faccia c'era una pietra e sopra c'era del sangue. Si girò sulla schiena e fissò il soffitto dell'universo, che non cadeva a schiacciarlo. Si domandò perché non lo facesse. Si rimise diritto e si appoggiò alla pietra. Dall'altra parte c'era una scogliera che cadeva per trecento metri di roccia sul mare. Il mare era ancora lì, a sospirare. Un uccello cantava. C'erano uccelli in questo universo appiattito. Elia parlò nel vento, perché c'era anche il vento in questo universo appiattito: Ne ho abbastanza. Dio non ascolta. Rimane in silenzio. Il fumo dei corpi che bruciano sale per sempre. Mi hanno spogliato nudo e mi hanno rasato e mi hanno fotografato. Sono fuggito per la paura, e Tu mi hai condotto a una paura ancora più grande. Ma Tu non c'eri. Non si sono accontentati di uccidere la poesia, hanno gettato anche il poeta nel fuoco, e anche lui è salito come fumo. Tu non c'eri. Perché non c'eri? Eli, Eli! Piovevano pugni su uomini anziani che pregavano e sollevavano le loro mani al cielo. E anche loro sono saliti come fumo. Non sono più riuscito a vederli. Tu non c'eri. Hanno strappato le preghiere dei bambini dalle loro piccole bocche. Hanno fatto a pezzi i loro arti come bambole e, mentre venivano gettati nel pozzo, l'ultima cosa che i loro occhi urlanti hanno visto sono state le facce ridenti di uomini forti.
Dal profondo ho gridato a Te, ma Tu non hai risposto. Tu non c'eri! Hanno trafitto le nostre mani e i nostri piedi. Eravamo rachmanim bnai rachmanim, un popolo misericordioso, i figli di un popolo misericordioso. Ma Tu non hai risposto. E anche noi siamo saliti come fumo. Baruch dayan emet, Dio è il vero Giudice, abbiamo detto. Il crimine prosegue senza fine, ma il Giudice e il processo non ci sono più. Hanno contato tutte le nostre ossa. Dal profondo abbiamo gridato a Te. Hanno tirato a sorte i disegni e i canti dei nostri bambini. Tu non hai risposto. Tu ci hai abbandonato. Ti abbiamo dato la nostra parola e la nostra vita. Tu hai permesso che umiliassero la nostra parola. Ci hanno preso la vita. Siamo diventati uomini scrutando il cielo, cercando segni. Ma Tu non hai mandato segni. Ti abbiamo implorato e implorato di venire. Ma Tu non sei venuto. Il vecchio - l'uomo vecchissimo di nome Elia - si raggomitolò su se stesso vicino alla roccia. «Sono finito, ne ho abbastanza», disse alla roccia. «Ora mi puoi uccidere. Non sono meglio dei miei antenati prima di me». Poi una mano gli toccò una spalla. Non credeva alla mano. Gli scosse la spalla. «Alzati». Aprì gli occhi e si distese. Si rimise sulla schiena. Di fronte a lui, in piedi sotto una ginestra, c'era il ragazzo. L'alba penetrava attraverso la foschia che lo circondava, confondendosi con il fumo di un falò. Le sue vesti di un bianco sfolgorante. Il suo volto luminoso nella luce ambrata. «Alzati e mangia». Elia guardò e vide che accanto alla sua testa c'erano una focaccia cotta sulle pietre bollenti e una giara d'acqua. E il ragazzo disse una seconda volta: «Alzati e mangia, altrimenti per te
il viaggio sarà lungo». Elia si alzò e mangiò e bevve. «Perché mi hai abbandonato?», disse con voce roca. «Non ti ho abbandonato». «Ero solo». «Non eri solo». «Avevo paura». «Avevi grande paura, dove non c'era paura». «Perché non mi hai protetto?». «Il luogo più buio è quello in cui ti darò più luce». «Avresti potuto fermarlo». «Se lo avessi fermato, non ci sarebbe stato raccolto». «Non capisco nulla». «È vero. Non capisci nulla». «Sei il Signore?». «Sono un servo come te». «Chi sei?». «Chi è come Dio? Nessuno è come Dio!». «Chi sei?». «Chi è come Dio? Nessuno è come Dio! - questo è il mio nome». «Sono sfinito. Lasciami qui. Voglio morire». «Sei esausto. Tanto tempo fa hai accettato questo incarico e questo fardello. Hai dimenticato?». «Non ricordo». «La tua anima ricorda. Nella tua anima c'è il segno del tuo patto». «Non so nulla». «Non sai nulla, ma hai obbedito». «Voglio morire». «Ora possiamo iniziare». *** Il ragazzo lo condusse nel deserto. Camminarono una notte e un giorno, e mentre Elia lo seguiva senza fare domande, non si sentiva stanco o affamato, sebbene il suo cuore fosse una cosa morente dentro il suo petto, la sua mente vuota, la sua carne un recipiente pieno di tizzoni. Il terzo mattino arrivarono a una caverna. Il ragazzo indicò l'interno.
«Qui riposerai. Andrò via dai tuoi occhi, ma sono con te, e anche il tuo angelo è con te. Non temere nulla. Quello che ti accadrà, porterà frutto in molte vite». Elia si sedette all'imboccatura della caverna e chiuse gli occhi. Quando li aprì di nuovo, era arrivata la notte e a est stava per scoppiare il tuono. Cadde la pioggia. Il fulmine lampeggiò in cielo, ma la voce del Signore non era nel fulmine. Divampò il fuoco nella valle sotto di lui, ma il Signore non era nel fuoco. Un terremoto scosse le radici delle montagne, ma il Signore non era nel terremoto. Il trentasettesimo giorno, il ragazzo ritornò e rimase con lui. Fece il segno della croce sulla fronte di Elia, e su Elia scese la forza. «La tua missione è vicina, ma ti attende ancora la parte più grande». Il trentottesimo giorno il ragazzo gli disse: «La tempesta non ti ha abbattuto. Non ti hanno abbattuto né il fuoco, né il fulmine, né il terremoto». Il trentanovesimo giorno, una brezza gentile soffiò da sud. «Esci dalla caverna», disse il ragazzo. Elia uscì dalla caverna senza dire nulla. Si coprì la faccia con le mani. «Perché ti copri la faccia?». «Chi può vedere Dio e vivere?». La brezza soffiò gentile su di lui, e il Signore era nella brezza. «Guarda in alto». Scoprì gli occhi e vide. Il cielo del mattino si era fatto improvvisamente nero e il segno del Figlio dell'Uomo rifulgeva sopra di esso con la luce che emanava dai buchi delle ferite. «Questa è una visione di quello che non è ancora, ma che sarà presto. In quel giorno, ogni creatura umana vedrà la sua anima denudata davanti ai propri occhi. Allora deve scegliere. Tu dovrai rendere testimonianza per me contro l'uomo del peccato che cerca di insediarsi nella mia casa, di usurpare il trono di Dio». Poi Elia sollevò le braccia e gridò, e il cielo tornò normale. Si guardò intorno, e il ragazzo era scomparso dalla sua vista. Poi, mettendo un piede davanti all'altro, tornò al luogo da cui era venuto. *** La mattina dopo la scomparsa di Elia, un ragazzo si era presentato alla
porta della capanna e aveva informato gli altri due che Elia sarebbe tornato fra quaranta giorni. Diede istruzioni al priore di andare al villaggio cristiano a celebrare la messa e a confessare durante l'assenza di Elia. Se ne andò senza fornire una parola di spiegazione. Troppo stupiti per dire qualcosa, il priore e il frate fissarono la soglia vuota come se avessero visto un'apparizione. Rispettarono le istruzioni, e quaranta giorni dopo Elia ritornò. Della sua assenza si può dire poco, perché si conosce poco. Più tardi, ne avrebbe parlato in termini vaghi, non riuscendo ad articolare una vera descrizione. Il linguaggio di ogni giorno non aveva i mezzi per esprimere quello che aveva visto. Per lo più era accaduto nella sua anima e non poteva essere riversato nella mente di un altro. Il linguaggio della mistica e della poesia gli andava vicino, ma cedeva a pochi passi dal traguardo, indicando solo la direzione generale dell'esperienza. Ogni qual volta gli si presentava una metafora o qualcosa di simile, Elia la utilizzava nel suo tentativo di spiegare, ma il priore e il piccolo non riuscivano mai ad afferrare quello che intendeva dire. Il piccolo si concentrava sui nudi fatti della narrazione, e il priore tendeva ad astrarre e a passare alla teologia. Alla fine, tutti e due fraintendevano. Sapevano solo che era andato via nel deserto e che aveva vissuto in una caverna e che aveva ricevuto qualcosa da Dio. Ora a Elia bastavano poche ore di sonno per notte. Mentre gli altri russavano, Elia si riposava leggendo la Scrittura alla luce di una lampada a olio, meditando, pregando, aspettando. Obbedienza, aveva detto l'angelo. Semplicità. Assenza di conoscenza. Questa era la sua unica ricchezza. Queste erano le fondamenta. La sua mente non era più tempestata di domande, ansie, considerazioni intellettuali. Le attività fisiche come raccogliere la legna per il fuoco, scopare, mettere le pietre dell'oratorio una sopra l'altra erano azioni di grande dolcezza per lui. Non accontentandosi di dargli delle visioni, il Signore gli mandava dei sogni. Nella terza notte dopo il suo ritorno, sognò un'assemblea in una grande città moderna. Molti vescovi del mondo stavano celebrando la liturgia su uno splendido altare, ma l'altare non era in una chiesa; era su un podio al centro di una sala congressi. C'erano centinaia di prelati, circondati da innumerevoli preti e laici. Erano tutti vestiti in paramenti pregiati. Il celebrante principale aprì
la bocca, una stella irruppe dal pavimento e andò verso di lui, e dalla sua bocca uscì una tenebra che brillava. La folla ascoltava, e batteva le mani, e gioiva per le parole che provenivano dalla sua bocca, e dalle loro bocche uscivano grandi lodi per lui. Ma fra la folla c'erano alcuni che erano rimasti in silenzio, che non approvavano quelle parole. Erano una minoranza e non potevano dire niente contro tutto quello. Il celebrante fece salire una stella nera sopra la folla, e la folla si prese per mano e ballò in cerchio attorno alla stella. "Costruiremo la città dell'Uomo", cantavano, "e muteremo la notte in giorno". "No", gridava Elia, "no!". Cercava di dire che venivano ingannati, ma loro non riuscivano a sentirlo. Quelli che non approvavano le tenebre brillanti lo guardavano, sforzandosi di ascoltarlo, ma colsero solo poche parole e tornarono a guardare la stella, o i propri piedi, non sapendo che cosa pensare. "Guardate in alto!", gemeva Elia. Ma loro non avrebbero guardato. Poi si sentì picchiare alla porta. Uomini vestiti di nero, che indossavano maschere e portavano armi automatiche, entrarono nella sala congressi. Puntarono le armi sui prelati e fecero fuoco. Scariche squarciarono vescovi e preti e laici, e loro caddero. Il canto divenne un grido. La gente fuggiva in ogni direzione, ma le porte erano bloccate. Gli uomini armati spararono a raffica sulla folla, fino a quando la sala non fu che un mucchio di corpi silenziosi che galleggiavano nel sangue. Poi Elia venne portato via da quel luogo, e si svegliò. La notte successiva, sognò una tempesta violenta. Come un pastore, stava guidando un gruppo di bambini attraverso una terra desolata e buia. Era scoraggiato dalla gravità di quel compito. "Guarda in alto", disse la voce. Guardò in alto e vide una città distante in cielo. Aveva dodici porte e sulle sue merlature diecimila volte diecimila persone stavano salutando e acclamando, incitandolo a entrare. Si trovava a una certa distanza dalla porta principale, avanzava lentamente, perché la folla di bambini stava piangendo, confusa e spaventata ed Elia si trovava alle strette cercando di impedire che si sparpagliassero nel buio. Venne obbligato a rallentare il passo, perché nemmeno il più piccolo rimanesse indietro e si perdesse. Alle loro spalle si trovava il mondo, e la tempesta cresceva di intensità, il vento ululava, portando nuvole scure, i fulmini lampeggiavano, e nella tempesta un occhio rosso cercava i bambini per divorarli. All'inizio la len-
tezza della loro fuga verso il santuario fu un tormento, poi da una delle porte arrivò un angelo e cinse il piccolo gregge con un filo dorato, e lo guidò verso l'alto. Elia si svegliò quando arrivarono alla porta. La notte successiva vide un ragazzo che avanzava barcollando fra mucchi fumanti di rovine bombardate. Era nudo, eccetto che per un tallis, con cui si avvolgeva i lombi. Stava piangendo e agonizzando per la perdita di tutto quello che era vero e bello e buono nel mondo. "Tutto è perduto", gridava, "tutto". Passò davanti a uomini e donne, che si fermarono e risero della sua nudità. "Pentitevi!", gridava loro. "Pentirsi di cosa?", lo prendevano in giro. "Il fuoco sta arrivando", diceva. "Guardati attorno", rispondevano. "Non c'è fuoco. Abbiamo sconfitto il fuoco". "È tutto a posto", diceva un altro. "Niente è a posto", diceva il ragazzo. "Pace", gridavano loro. "Pace!". "Non c'è pace", diceva il ragazzo. Gli gettarono addosso delle pietre, e lui corse via. Cadde e si alzò, cadde ancora e strisciò, tagliandosi su vetri rotti. Attraversò le rovine sulle mani e sulle ginocchia, fino a quando arrivò al bordo di un cratere lasciato da una bomba. Nel fondo del cratere c'era un prete che diceva messa su una scatola di cartone illuminata da moccoli di candela. Il calice era una coppa di latta e la patena un piatto rotto. Il prete era il papa, assistito da tre vescovi. Trenta o quaranta laici erano inginocchiati intorno all'altare, vestiti di stracci. Stavano adorando l'ostia che il papa aveva sollevato. La sua luce era abbagliante, e respinse le tenebre in quel luogo per due ore, poi un'altra ora, e una mezz'ora. La gente adorava, ma aveva paura. Il papa pregava, ma il suo volto era solcato dalle lacrime. "Guarda in alto", disse la voce. Il ragazzo con il tallis guardò in alto e lì nel cielo, proprio sopra il papa, c'era la donna vestita di sole, e sopra il suo capo c'era una corona di dodici stelle. Guardava giù con grande amore il gruppo ammassato nel cratere. E intorno a lei stavano i santi. Fra di loro riconobbe molti che aveva amato: Giovanni da Avila con la sua croce; Davide con l'arpa, Massimiliano d'Auschwitz con le due corone, Beato di Liébana con la sua penna d'oca e la pergamena, Maius con le sue battute e le illustrazioni, Severa con la sua colomba, e uno strano vecchio
che portava un corvo. L'uomo anziano guardò il ragazzo con il tallis e sorrise. Dietro alla compagnia dei santi, vide un altro coro di uomini e donne che cantavano e lodavano Dio, e fra di loro c'erano Billy e padre Matteo e una donna anziana con una borsa intrecciata. Dietro di loro si trovava un'altra compagnia di figure vestite di bianco, e fra di loro c'era una giovane donna che cullava una bambina piccola fra le braccia. La bambina sollevò le braccia verso di lui e sorrise. Accanto alla donna ce n'era un'altra e in mano teneva una bilancia per pesare i giudici sulla terra. Accanto a lei si trovava un uomo che teneva un'icona sopra la testa. "Chi sono queste persone?", disse il ragazzo con il tallis. "Lo dovresti sapere", disse la voce. "Da dove vengono?". "Sono coloro che sono passati per il grande giudizio. Hanno lavato le loro vesti e le hanno rese candide nel sangue dell'Agnello". Allora la donna con la bambina e la donna con la bilancia e l'uomo con l'icona lo guardarono e sorrisero. E si svegliò. *** Il 15 di agosto, Elia andò al villaggio con fra' Mulo. Dopo la messa, aveva da celebrare un matrimonio e un battesimo. Quando tutti furono andati via, la signora Cohen servì loro del tè e del cibo nella cucina dietro al negozio. Generosa per natura, ma gelosa della sua reputazione di bisbetica, non sapeva resistere all'impulso di pretendere un pagamento di un certo tipo: chiacchierava, spettegolava e li sgridava a proposito del loro abbigliamento trascurato. Accese la radio mentre mangiavano ed emise un torrente di commenti alle notizie. «Non capisco tutto questo trambusto», si lamentava. «Va bene, sta facendo grandi cose! E allora? Chiunque con tutti quei milioni potrebbe fare grandi cose. Non mi fido di lui». «Perché no?», domandò Elia. «Solo una sensazione», disse lei, torreggiando sulla sua cucina come un autocrate. «Lo vede? Già finito, padre? Voi uomini non mangiate bene, là nel deserto. Qui, prendetene ancora». Ignorando le proteste di Elia, rovesciò nel suo piatto cereali fritti, riso e carne di pecora a pezzettini. Fece la stessa cosa con il piatto di fra' Mulo.
«Voglio dire, tutte quelle sciocchezze su quello lì, che sarebbe il solo che rimette insieme il mondo! Le ho già sentite queste cose». «Davvero?». «Bene, non proprio di prima mano, badi bene. Avevo solo sei anni quando abbiamo lasciato la Germania. Siamo saliti su una nave e siamo andati a Istanbul proprio prima che scoppiasse la guerra. Non ricordo molto di quegli anni. Ma quando siamo cresciuti, la mamma e il papà ci hanno raccontato un mucchio di cose di Hitler, di come tutti pensassero che salvasse l'Europa. Come facevano a essere così stupidi, le chiedo». «È facile dirlo col senno di poi». «Immagino che lei abbia ragione. Ma poi egli camminava come un lupo, ululava come un lupo e alla fine era un lupo. Come è successo che poi sono stati tutti sorpresi?». «Il presidente non ulula in pubblico». «Naturalmente no. È una persona gentile. Ma se lo guarda, non appena avrà in pugno tutti, comincerà a ululare». Si dava un gran daffare intorno alle pentole, sempre in movimento, e poi si diede una manata in testa. «Ohi! L'ho dimenticato! C'è un messaggio per lei. Mio cognato arriverà da Smirne questo pomeriggio e porterà un visitatore. Non le dispiace aspettare?». Poco dopo le tre, in cortile arrivò rombando una Chevrolet arrugginita, sollevando nuvole di polvere. Un uomo basso e grasso uscì dal lato del guidatore e diede un bacio alla signora Cohen. Dal lato del passeggero uscì un uomo sottile, che osservava la scena tranquillo. Era vestito con gli abiti dei lavoratori della regione. Aveva i capelli bianchi e gli occhi pensosi. Quando vide Elia uscire dal porticato del negozio, si illuminò e andò verso di lui. I due uomini si abbracciarono. «Eminenza, sono molto felice di vederLa». «Anch'io sono felice di vederLa». «Rimarrà con noi?». «Un giorno o due. Il signor Cohen tornerà a prendermi mercoledì. Cercherò di arrivare in Israele. Ho dei messaggi per il patriarca di Gerusalemme». «Un modo contorto di mandare un messaggio». «Abbiamo dei problemi a far arrivare i messaggi secondo i canali normali. Il Santo Padre mi ha chiesto di consegnarlo a mano». «Non poteva andare in aereo?».
«L'Italia e Israele prendono tempo con le carte. Non possiamo aspettare più a lungo per i visti. Rinvii, eterni rinvii. È un trucco, naturalmente. Nessuno ci vuole in Israele quando il prossimo mese arriverà il presidente». «Eminenza, è una bella camminata fino a casa nostra. Più di due ore su un terreno accidentato. Pensa di farcela?». «Ce la posso fare», disse togliendo un grosso zaino dalla macchina. «Andiamo». Dopo aver salutato i Cohen, partirono in direzione delle colline. Il padre priore, fra' Mulo, Dottrina ed Elia parlarono a lungo fino a notte tarda. Elia venne a sapere che padre Matteo era morto di polmonite durante l'inverno. Stato era ancora vivo, ma il suo cuore era in cattive condizioni, e aveva accettato di andare in pensione. Il cardinal Vettore non era più andato in Vaticano, ma era molto attivo. Andava avanti e indietro per il mondo, intrattenendo rapporti con le conferenze episcopali nazionali, rilasciando interviste che parlavano di una nuova epoca per le Chiese nazionali, pubblicando articoli, facendosi nuovi amici. «Non so come faccia», disse Dottrina. «Per lui tutte le porte sembrano aperte, mentre per noi ogni porta è chiusa». «Lei ha parlato di un guasto nelle comunicazioni», disse Elia. «I legami fra la Sede di Pietro e le Chiese locali sono stati interrotti a uno a uno. La Chiesa universale è nel caos. La stampa è piena di notizie sulle divisioni. Vescovi contro vescovi, cardinali contro cardinali. Gli sforzi di raccogliere i fedeli dietro al papa non hanno avuto gran successo. La nostra gente non legge, non pensa! I pochi giornali cattolici che rimangono ortodossi sono isolati e ignorati come retrivi e reazionari. La posta e i telefoni non sono affidabili. Anche la rete dei computer è compromessa, e al Vaticano di recente è stata negata la proroga per il canale satellitare». «Ci stanno strangolando lentamente», disse il priore. «Non così lentamente», disse Dottrina. «Stanno procedendo il più velocemente possibile, senza fare innervosire l'opinione pubblica». «Che cosa hanno in mente di fare i nostri avversari?», chiese Elia. «Vogliono che il mondo pensi che non diciamo niente, perché non abbiamo niente da dire. Abbiamo la radio a onde corte, ma ci sono state interferenze da parte di fonti sconosciute. Radio pirata, probabilmente». «Si potrebbe pensare che siamo in guerra!», disse il priore. «Siamo in guerra», commentò Elia. «È una situazione stranissima», disse Dottrina. «Contro di noi vengono ordite tutte queste trame scandalose, ma ai media non arriva nemmeno un
accenno. Tutti pensano che siano cose normali». «Che cosa fa il Santo Padre?». «Che cosa può fare? Parla e parla, ma persino quando le sue parole arrivano alle persone, non lo ascoltano». «Come sta di salute?». «Non così bene come lo scorso anno, ma, sa, ha uno spirito indomabile. Ho cercato di fargli prendere in considerazione alcuni piani nel caso che ci sia un attacco alla Città del Vaticano». «Pensa davvero che si arrivi a questo?». «Non al momento. La parvenza di normalità è essenziale ai piani del nostro avversario. Colpirà in privato e solo quando rimarranno in pochi a sostenerci». «Chi colpirebbe il papa?», disse il priore. «Sicuramente Lei non intende la violenza fisica!». Il cardinale sollevò le sopracciglia. «Forse no. Ma non possiamo più essere sicuri di niente riguardo allo schema umano delle cose. Hanno già arrestato alcuni dei nostri con accuse infondate, alcuni per mancanze personali, altri politiche. Non so chi sarà il prossimo. Intorno a noi il nodo si sta stringendo, e sono sicuro che l'obiettivo ultimo è il Vaticano». «Se si arriverà a questo, convincerà il papa ad andare in un posto sicuro?». «Ho suggerito la Svizzera. Forse l'Australia, ma come in molti Paesi, le Chiese locali sono costrette a venire a compromessi e non conosco più di un gruppetto di vescovi che darebbero il benvenuto al papa». «L'America?». «Questo mi sembrerebbe più probabile. Tuttavia, lì la Chiesa si trova in una situazione di stallo, e il presidente degli Stati Uniti è uno dei maggiori sostenitori del nostro nemico. Il tutto comunque è inattuale: il Santo Padre non lascerà mai Roma». «Nemmeno per salvaguardare la cattedra di Pietro?». «Crede che la preserverebbe nel miglior modo possibile offrendo la sua vita». «Il martirio?». «È convinto che sia la via che il Signore ha scelto per lui e si rifiuta di evitarla». «Dobbiamo pregare per lui», disse all'improvviso fra' Mulo, parlando per la prima volta. I tre preti lo guardarono. Compresero quale sforzo gli fosse costato aprire la bocca.
«Ha ragione, fratello», disse il cardinale. Piegarono le teste, e Dottrina guidò le loro preghiere per la sicurezza del papa. Quando ebbe finito, si alzò e portò via le tazze da caffè dal tavolo, andò a una tinozza su una panca e iniziò a lavare i piatti. Fra' Mulo lo fissava come se stesse osservando un atto sconvolgente. «La prego, Eminente, voglio dire Sua Santità, voglio dire cardinale, non lo può fare!». «Perché no, fratello?». «Perché... perché è il mio lavoro». «Lei vuole dire che me lo sono preso senza chiedere il permesso?». «Sì... no! Non volevo dire quello!». «Fratello, mi permetterebbe di lavare i piatti?». «No, signore! Voglio dire sì! Eh... no!». Il priore fece fatica a non sorridere, e il cardinale umilmente passò l'asciugapiatti a fra' Mulo, che sembrava confuso, domandandosi come fare a tirarsi fuori da una situazione spinosa. Elia disse: «Fratello, posso prendere in prestito il cardinale per un momento? Vorrei mostrargli l'oratorio». Fra' Mulo annuì con enfasi e si voltò verso i piatti tutto rosso in faccia. Elia e Dottrina uscirono e dietro l'edificio scavalcarono il basso muretto portante per scendere all'oratorio. Era aperto sotto il cielo, illuminato dalla luna piena. «Mi dispiace. Non volevo metterlo in imbarazzo». «Si riprenderà presto», disse Elia. «Perché voleva parlare con me da solo?». «Ho bisogno del Suo discernimento per una questione. Ma prima Le devo raccontare un'esperienza che mi ha procurato il Signore». Usando un linguaggio scarno, Elia gli riferì quello che era successo durante i quaranta giorni nel deserto. Quando ebbe finito, il cardinale non parlò a lungo. «Si tratta di un'esperienza biblica», disse alla fine. «Non so perché sia successo, o che cosa succederà prossimamente. Almeno non nei dettagli. So solo che il Signore mi ha chiamato a Gerusalemme a rendere testimonianza contro l'avversario». «Allora deve andare». «Questo è evidente. Ma come ci arriverò? Che cosa dirò?». «Il Suo compito è obbedire. Le parole Le verranno date». «Dovrei andare da solo? Ho paura di mettere in pericolo i miei due com-
pagni». «Non saprei. Forse potrebbe venire con me». «Ha i documenti necessari per passare le frontiere?». «Quelli che servono per arrivare fino al Giordano. Da lì, degli amici si stanno movendo per ottenere il permesso di farmi passare in Israele». «Potrei esserLe d'ostacolo. Sono ancora un uomo ricercato». «Potremmo andare insieme fino ad Amman, e da lì dovrà improvvisare». Lasciarono in sospeso la questione, entrarono nella capanna e dormirono. *** Dopo colazione, salirono in montagna. I tre compagni non dissero al cardinale dove lo stavano portando. Soprattutto fra' Mulo era contentissimo dello scherzetto e quando arrivarono alla strada antica, non poté fare a meno di correre in testa, saltellando da un cumulo di detriti a un altro. Di tanto in tanto si fermava e aspettava che gli altri lo raggiungessero. Aveva abbandonato ogni briciola di ossequio verso la personalità in visita dal giorno precedente e gridava: «Avanti, Vostro Onore!», ogni qual volta rimanevano indietro. «Rallenta, fratello», ribatteva il priore. «Un po' di pietà. Siamo vecchi!». Quando arrivarono all'entrata della grotta, il piccolo era già entrato. Lo trovarono seduto contro la parete di fondo, con un sorriso estatico e le lacrime che gli scendevano dall'occhio buono. «Che cos'è questo posto?», chiese il cardinale. Nessuno gli rispose. Si guardò intorno e poi lentamente cadde sulle ginocchia. Fece un lungo sospiro. «Theotókos», disse. Rimasero nella caverna per molte ore. Non vennero dette parole. La luce li colmava. Su di loro scese la forza. I quattro uomini sollevarono le braccia contemporaneamente e iniziarono a cantare e a lodare Dio. Le loro braccia non si fecero pesanti. Sentirono la gioia scendere dentro di loro. Il canto fluiva come un fiume dalle loro bocche. Le lacrime come un olio di letizia sgorgavano dai loro occhi. Quando il raggio del sole al tramonto si insinuò nell'entrata, fra' Mulo si mise sdraiato e si addormentò. La corrente della dolcezza divina si attenuò
a poco a poco e poi si interruppe, lasciando i tre preti avvolti nella pace. Alla fine il cardinale guardò la sagoma addormentata del frate. «Lo chiamate fra' Mulo», disse. «Uno strano nome. Ma gli piace?». «Da quando lo conosco», disse il priore, «questo è il nome che ha sempre voluto». «Qual è il suo nome nell'ordine?». «Non ne sono sicuro. Penso che il giorno della sua professione gli sia stato dato il nome di fra' Enoch». «Non dovremmo chiamarlo con il suo vero nome?», disse il cardinale. «Se lo ritiene giusto, ma non gli piacerebbe». «Forse», disse il cardinale pensoso. In quel momento, il piccolo emise un grido acuto e si alzò. Si teneva una mano sopra l'occhio malato. «Che cosa succede, fratello?», chiese Elia. «Sta bruciando, sta bruciando!». Elia si inginocchiò di fianco a lui e gli tolse la mano dall'occhio. Il tessuto rugoso della cicatrice, di solito bianco, era infiammato. Fra' Mulo afferrò la mano destra di Elia e appoggiò il palmo contro l'occhio malato. Elia cercava di toglierla, ma il frate non glielo permetteva. La cicatrice nel suo palmo si fece bollente. Riusciva a sentire la sua forma, la croce, come un bruciore. «Che cosa c'è? Va tutto bene?», chiese il priore. «Li lasci stare», disse il cardinale. Poi la presa del frate si allentò e si tirò indietro. Il palmo di Elia non faceva più male, ma il segno dell'ustione era ancora livido. «Apri gli occhi», disse. Il fratello aprì tutti e due gli occhi. Quello cattivo batteva le palpebre e lacrimava. «Ci vedo», ansimò. «Con tutti e due gli occhi. Ci vedo!». *** In una bella mattina di settembre, due uomini uscirono a piedi dalla landa di Moab, a est, e attraversarono il Giordano al guado di Hajalah. Nessuno li vide e, sul lato israeliano, nessuno li fermò per chiedere loro i documenti. Da lì, puntarono a sud attraverso la campagna, fino a quando giunsero a una strada asfaltata. Svoltarono a ovest e camminarono fino alla fine della giornata, fermandosi solo a bere dalle loro bottiglie d'acqua e a man-
giare una manciata di fichi e datteri. Li superarono macchine e camion e veicoli, in entrambe le direzioni. Allo scendere della sera, arrivarono a un incrocio dove la strada si immetteva nell'autostrada, dove passava il traffico pesante. Un'ora dopo emersero da una salita, e Gerusalemme si trovava di fronte a loro. Si fermarono e misero giù i bagagli. Alzarono le mani nella posizione dell'orante. Il più anziano, un uomo dai capelli bianchi, gridò: Ti lodiamo, Signore Dio onnipotente, perché ci hai fatto uscire dal deserto. Ti lodiamo, perché hai nascosto molte cose ai potenti e hai innalzato i piccoli. Ora i Tuoi nemici fanno la guerra contro i Tuoi servi e ora i Tuoi servi Ti glorificano nel mezzo di una grande tribolazione! Sul palmo della sua mano destra c'era una croce, che bruciava alla luce del sole rosso. «La salvezza e la gloria e l'onore appartengono solo a Te, o Signore!», gridava il più giovane, nei cui occhi brillava Gerusalemme, la dorata. Tu sei l'Alfa e l'Omega, il Primo e l'Ultimo, la stella del mattino che brilla luminosa. Lo Spirito e la Sposa dicono: «Vieni!». Rimani con noi mentre affrontiamo il nostro nemico, che possiamo rimanere saldi e dare vigore a quanto resta. Poi Enoch ed Elia scesero in città, mentre sopra di loro un aereo virava e cominciava la sua discesa sull'aeroporto, provenendo dal mare. Presi il libriccino dalla mano dell'angelo e lo inghiottii: nella bocca era dolce come il miele; ma, dopo che l'ebbi inghiottito, le mie viscere si riempirono d'amarezza. Quindi mi fu detto: «È necessario che tu faccia ancora profezie su popoli, nazioni e re senza numero». Mi fu data una canna, simile a verga, con questo comando: «Orsù, prendi le misure del tempio di Dio e dell'altare con quanti ivi fanno adora-
zione. Ma l'atrio esterno del tempio lascialo fuori, non lo misurare. Infatti è stato concesso ai gentili di calpestare la Città santa per quarantadue mesi. Ma io invierò i due Testimoni a esercitare il loro ministero profetico, vestiti di sacco, per milleduecentosessanta giorni». Sono essi i due ulivi e i due candelabri che stanno davanti al Signore della terra. Se per caso qualcuno vorrà far loro del male, uscirà dalla loro bocca un fuoco che divorerà i loro nemici; perciò se qualcuno volesse far loro del male, in quella maniera dovrà morire. Essi avranno potere di chiudere il cielo, in modo che non scenda la pioggia per tutto il tempo del loro ministero profetico. Inoltre avranno facoltà di cambiare l'acqua in sangue e di colpire la terra con ogni specie di flagelli, ogni volta che lo vorranno. Una volta terminato il tempo della loro testimonianza, la bestia che sale dall'Abisso combatterà contro di loro, li vincerà e li ucciderà. Quindi i loro cadaveri rimarranno esposti nella piazza della grande città, che si chiama allegoricamente Sodoma o Egitto, proprio dove il loro Signore fu crocifisso. Contempleranno i loro cadaveri per tre giorni e mezzo uomini di ogni razza, popolo, lingua e nazione, impedendo che essi siano messi nella tomba. Gli abitanti della terra faranno festa su di loro, manifesteranno la loro gioia scambiandosi doni; perché questi due profeti hanno tormentato gli abitanti della terra. Ma dopo tre giorni e mezzo un soffio vitale, proveniente da Dio, entrò in loro e si rizzarono sui loro piedi, mentre tutti quelli che li guardavano furono presi da grande spavento. Udirono quindi una gran voce dal cielo che disse loro: «Salite quassù!». Essi salirono nel cielo su una nuvola e i loro nemici rimasero a guardarli. In quel momento avvenne un gran terremoto, per cui crollò la decima parte della città. E morirono nel terremoto settemila persone. I superstiti, presi dallo spavento, diedero gloria al Dio del cielo. Apocalisse 10,10 - 11,13 Ringraziamenti Sono grato al poeta polacco-canadese Christopher Zakrzewski per il suo aiuto redazionale. Sono anche profondamente grato a Marc Sebanc, traduttore, saggista e romanziere, per la saggezza, l'acume e la sincerità. Soprattutto, desidero ringraziare mia moglie, Sheila, la cui capacità di revisione
redazionale è insuperata e la cui pazienza verso il mio sguardo fisso durante molti pranzi e cene un giorno verrà ricompensata. FINE