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P.J. TRACY IL PASSATO UCCIDE (Live Bait, 2004) 1 Era passata da poco l'alba e stava ancora piovendo quando Lily trovò il cadavere del marito. Era steso sulla striscia d'asfalto davanti alla serra, gli occhi e la bocca aperti che si riempivano d'acqua. Persino da morto era piuttosto bello. Lo era anche in quella posizione, con la gravità che gli tirava la pelle flaccida e raggrinzita del viso, lisciando ottantaquattro anni di dolori, sorrisi e preoccupazioni. Lily rimase a guardarlo per un istante, trasalendo mentre le gocce di pioggia cadevano rumorose nei suoi occhi. «Odio il collirio.» «Morey, sta' fermo. Smetti di battere le palpebre.» «Smetti di battere le palpebre, dice lei, mentre mi versa una sostanza chimica negli occhi.» «Sta' buono. Non sono sostanze chimiche. Sono gocce naturali, vedi? Dicono così, qui sulla boccetta.» «Credi che un cieco possa leggere?» «Basta un granellino di sabbia negli occhi e all'improvviso sei cieco. Che uomo forte e coraggioso.» «E non sono gocce naturali. Che fanno? Vanno forse ai funerali e mettono boccettine sotto la faccia della gente che piange? No, mescolano sostanze chimiche e le chiamano 'gocce naturali'. Una boccetta di bugie.» «Zitto, vecchio.» «Questo è il punto, Lily. Niente dovrebbe fingere di essere quello che non è. Tutto dovrebbe avere una grossa etichetta che dice cos'è, in modo che non ci sia confusione. Come il fertilizzante che abbiamo usato quell'anno per le piante delle aiole e che ha ucciso tutte le nostre coccinelle, come si chiamava?» «'Piante superverdi'.» «Esatto. Avrebbero dovuto chiamarlo 'Piante superverdi. Coccinelle superstecchite'. Lascia perdere l'etichetta scritta in caratteri minuscoli sul retro, che non riesci a leggere. La verità vera sull'etichetta, ecco ciò di cui abbiamo bisogno. È una buona regola. Dio dovrebbe seguirla.»
«Morey!» «Che posso dirti? Ha fatto un grande errore, a questo proposito. Sarebbe stato così difficile per Lui far sì che le cose sembrino quello che sono? Voglio dire, Lui è Dio, no? È una cosa che avrebbe potuto fare. Pensaci. Ti ritrovi un uomo sulla porta con uno splendido sorriso e una faccia simpatica, lo fai entrare e lui ti ammazza l'intera famiglia. Questo è l'errore di Dio. Il male dovrebbe avere l'aspetto del male. Così non lo faresti entrare.» «Tu più di tutti dovresti sapere che non è così semplice.» «Invece è semplice.» Lily fece un respiro, poi si accovacciò. Era una posizione giovanile per una donna anziana, ma le sue ginocchia erano ancora buone, forti e flessibili. Non riuscì a chiudere del tutto gli occhi a Morey e, con quella fessura tra le palpebre, avevano un aspetto sinistro. Fu la prima cosa a spaventare Lily dopo tanto tempo. Non guardò gli occhi mentre gli scostava i capelli argentei, scuriti dalla pioggia e appiccicati al cranio. Un dito le scivolò in un buco sul lato della testa e lei s'immobilizzò. «Oh, no», sussurrò, poi si alzò, rapida, pulendosi le dita sulla salopette. «Te l'avevo detto, Morey», rimproverò il marito per l'ultima volta. «Te l'avevo detto.» 2 Aprile nel Minnesota era sempre imprevedibile, ma all'incirca ogni dieci anni faceva davvero il sadico, oscillando violentemente tra allettanti sentori di primavera e gli ultimi, furiosi spasmi di un inverno caparbio che non voleva andarsene con le buone. E quello era proprio un anno del genere. La settimana precedente, una spaventosa bufera di neve aveva imperversato in quello che era stato l'aprile più caldo a memoria d'uomo, brutalizzando gli alberi pieni di germogli e suscitando dibattiti nell'intero Stato sull'eventualità di migrare in massa in Florida. Ma la primavera aveva infine prevalso: adesso era tutta presa a farsi perdonare e, a dire il vero, stava facendo un lavoro dannatamente buono. La colonnina di mercurio si era spinta fin quasi ai ventiquattro gradi, la flora stordita dalla neve si era ripresa con un'esplosione spudorata di verde neon e, cosa migliore di tutte, gran parte delle larve di zanzara si stava risve-
gliando nei laghi e nelle paludi. I minnesotani, intontiti e famelici di sole, uscivano in forze, crogiolandosi nella fugace illusione che il loro Stato fosse effettivamente abitabile. Il detective Leo Magozzi era allungato su una decrepita chaise longue sul portico, col quotidiano della domenica in una mano e con una tazza di caffè nell'altra. Non aveva dimenticato la bufera della settimana precedente ed era abbastanza pragmatico da sapere che non era troppo tardi perché ne arrivasse un'altra. Ma non aveva senso lasciare che il cinismo rovinasse una giornata assolutamente splendida. Inoltre era raro che lui potesse dedicarsi alla pratica dell'indolenza cui da sempre ambiva: le vacanze dei detective della Omicidi erano sempre condizionate dalle vacanze degli assassini, e gli assassini sembravano i lavoratori più indefessi del Paese. Tuttavia, per qualche inspiegabile ragione, Minneapolis si stava godendo il più lungo periodo senza omicidi verificatosi in anni. Come aveva efficacemente osservato il suo collega, Gino Rolseth, la Omicidi era morta. Negli ultimi mesi, non avevano avuto altro da fare che lavorare ai casi irrisolti e, se li avessero risolti tutti, sarebbero tornati di pattuglia a perquisire travestiti e a rammaricarsi di essere diventati poliziotti anziché dentisti. Magozzi sorseggiò il caffè e guardò i vicini masochisti che si autoinfliggevano ogni sorta di tortura, sbuffando, ansimando e sudando mentre gareggiavano furiosi contro un orologio climatico che, di lì a qualche mese, li avrebbe costretti di nuovo in casa. Facevano jogging, andavano in giro coi Rollerblade, correvano col cane e festeggiavano ogni grado in più sul termometro togliendosi un capo di vestiario. Era una delle cose che Magozzi amava di più dei minnesotani: grassi o magri, muscolosi o flaccidi, quando iniziava a far caldo, in quello Stato non c'erano persone vergognose e, se capitava una bella giornata, la maggior parte era mezza nuda. Ovviamente non era sempre un bene, e di certo non lo era nel caso di Jim, il suo irsuto vicino. Magozzi non capiva mai se aveva indosso una camicia. Adesso era fuori, forse a torso nudo, forse no, tutto intento a preparare le aiole che gli avrebbero valso la pole position per il Miglior Giardino delle Twin Cities. Se Jim aveva in animo d'indurre Magozzi a diventare un proprietario più attento alla casa, si sbagliava di grosso. Magozzi osservò il suo patetico simulacro di giardino: un paio di pozze fangose rimaste dopo la pioggia notturna, qualche coraggioso dente di leone e alcuni abeti delle Montagne Rocciose in vari stati agonici. Ogni tanto aveva il fugace ricordo di com'era quel posto prima del divorzio: fiori o-
vunque, fienarole dei prati sull'attenti e Heather là fuori tutti i giorni, con attrezzi affilati e un'espressione severa sul volto, a terrorizzare le piante perché si sottomettessero al suo volere. Era brava a terrorizzare e a sottomettere: con lui aveva sicuramente funzionato. E lui era un uomo armato. Era alla seconda tazza di caffè e quasi alle pagine sportive quando una Volvo station wagon imboccò il vialetto. Gino Rolseth balzò giù, trascinando un'enorme borsa termica e un sacchetto di carbonella Kingsford. La sua pancia metteva alla prova l'ampia circonferenza di una T-shirt Tommy Bahama e le gambe robuste spuntavano da un orrendo paio di bermuda a scacchi. «Ehi, Leo!» Gino salì pesantemente sul portico e posò la borsa termica. «Vengo con doni di carne animale e di cereali fermentati.» L'altro sollevò un sopracciglio scuro. «Alle otto del mattino? Dimmi che questo significa che Angela ti ha finalmente cacciato a calci in culo, così posso chiamarla e chiedere la sua mano.» «Ti piacerebbe, eh? Questo è un atto di carità. I genitori di Angela hanno portato lei e i ragazzi a una di quelle robe dell'artigianato al Maplewood Mall, perciò ho la domenica libera e ho pensato di rallegrare la tua cosiddetta vita.» Magozzi si alzò e guardò nella borsa termica. «Che sarebbero le 'robe' dell'artigianato?» «Sai, uno di quei posti con gli stand in cui la gente fabbrica casette con vecchi sacchetti di carta e cose del genere.» Magozzi frugò nel contenitore ed estrasse una confezione di grosse salsicce di color bianco-grigio, dall'aria nauseabonda. «Cosa sono questi affari che somigliano alle tue gambe?» «Sono würstel crudi, importati direttamente da Milwaukee, barbaro della cucina che non sei altro. Dov'è la griglia?» L'altro indicò una vecchia Weber tutta arrugginita nell'angolo del portico. Gino la spinse leggermente col piede e la griglia collassò. «Servirà del nastro adesivo.» Magozzi sollevò una mattonella di formaggio arancione scuro, dall'aria sospetta. «Cheddar di dodici anni? È legale?» Gino gli rivolse un ampio sorriso. «Quella roba ti farà piangere di gioia, te l'assicuro. L'ho preso in una minuscola ma fantastica casa del formaggio nella Door County. Qualcuno si era scordato una forma in cantina e l'ha ritrovata dodici anni dopo, coperta da un sacco di muffa. Un'estasi, amico
mio, una pura estasi. È sorprendente quello che possono fare una mucca e un po' di batteri.» «Oh, sì», esclamò Magozzi dopo averlo annusato. «Ogni volta che vedo una mucca, mi viene da dire: 'Ehi, non sarebbe meraviglioso prendere un po' di batteri e fare qualcosa con 'sta roba?' Perché c'è un dossier nella borsa termica?» «È un caso congelato.» «Spiritoso.» Gino sollevò la griglia e un'altra gamba cadde in mezzo a una pioggia di ruggine. «È del '94. Ho pensato che potevamo darci un'occhiata, dopo. Sai, solo per tenerci in esercizio, in caso qualcuno uccida di nuovo in questa città. Ti ricordi di aver sentito parlare del caso Valensky?» Magozzi si sedette sulla chaise longue e aprì il dossier. «Vagamente. L'idraulico, giusto?» «Già. Gli hanno sparato sette volte, tre in posti cui non voglio nemmeno pensare.» «Gli idraulici guadagnano troppo.» «Non me lo dire. Ma, a parte questo, quell'uomo era quasi candidato alla santità. Un polacco uscito vivo dalla guerra emigra nei cari, vecchi Stati Uniti dove inizia un'attività, si sposa, ha tre figli, diventa diacono nella sua chiesa, leader degli scout, il vero sogno americano, e finisce per morire dissanguato sul pavimento del bagno dopo che qualcuno lo ha usato per fare esercizio di tiro.» «Indiziati?» «No, accidenti. Secondo le testimonianze contenute lì dentro, gli volevano tutti bene. Il caso è stato chiuso in due secondi.» Magozzi grugnì e gettò il dossier sul pavimento. «Gran parte delle persone con una domenica libera troverebbe probabilmente qualcos'altro da fare, tipo starsene seduta su una panchina in riva al Lake Calhoun a contare i bikini.» «Sì, be', io combatto il crimine, ho uno scopo più nobile.» Gino si passò la mano sulla spazzola di capelli biondi, riconsiderando l'idea. «Inoltre probabilmente è troppo presto per i bikini.» Ricevettero la chiamata prima che Magozzi avesse terminato di fissare le gambe della griglia col nastro adesivo. Gino era andato dentro a svuotare la borsa termica e, quando uscì sul portico, era raggiante. «Ehi, ti va di andare a vedere un cadavere?» Magozzi, che era accovacciato, spostò il peso all'indietro sui talloni e si
accigliò. «Hai trovato un cadavere nella mia cucina?» «No. È suonato il telefono mentre ero dentro, così ho risposto. La centrale operativa ha ricevuto una vera chiamata per un omicidio. L'Uptown Nursery. La moglie del proprietario del vivaio lo ha trovato stamattina vicino a una delle serre e ha pensato a un attacco cardiaco, perché l'uomo andava per gli ottantacinque e che cos'altro può stroncare una persona della sua età? Allora telefona alle pompe funebri: il responsabile trova il foro di un proiettile nella testa dell'uomo e chiama il 911.» L'altro guardò la griglia con aria profondamente afflitta e sospirò. «Che cos'è successo ai ragazzi in servizio che dovrebbero occuparsene?» «Tinker e Peterson. Me lo sono chiesto anch'io. Sono stati chiamati allo scalo ferroviario di Northeast. Hanno trovato un povero disgraziato legato ai binari.» Magozzi trasalì. «No, non ti preoccupare. Il treno non l'ha toccato.» «Sta bene?» «No, è morto.» L'altro lo fissò, aspettando che continuasse. «Non mi guardare così. È tutto quello che so.» Poi dalla tasca della Tshirt di Gino si levò una versione metallica, irritante, della Quinta di Beethoven. «Che roba è?» Gino estrasse il cellulare dalla tasca e schiacciò rabbioso i tasti grandi la metà delle sue dita grassocce. «Dannazione. Helen continua a programmare tutte queste strane suonerie perché sa che non sono capace di cambiarle.» «Divertente.» Beethoven si fece sentire di nuovo. «I quattordicenni sono divertenti soltanto se sono figli d'altri... merda. Inventerò uno di questi aggeggi coi tasti grossi e farò soldi a palate... Pronto, Rolseth.» Magozzi si alzò e si pulì la ruggine dalle mani, ascoltò Gino grugnire al telefono per alcuni secondi e poi andò in casa a chiudere tutto. Quando uscì sul portico, Gino aveva recuperato la pistola dall'auto e la stava attaccando alla cintura che a malapena gli teneva su i bermuda. Sembrava un turista armato e pericoloso. «Immagino che tu non abbia un paio di pantaloni che mi vadano.» Magozzi si limitò a sorridere.
«Ah, sta' zitto. Era Langer, al telefono. Lui e McLaren hanno appena ricevuto una chiamata per un sospetto omicidio. 'Sospetto' significa che qualcuno ha decorato un po' gli interni con qualche litro di sangue, ma non ci sono cadaveri. E indovina un po'...» «Vuole che ce ne occupiamo noi?» «No, la centrale gli ha detto che seguivamo il caso del vivaio. Per questo ha chiamato. La casa insanguinata è pochi isolati più su.» Magozzi si accigliò. «Davvero un bel quartiere.» «Proprio. Per un sacco di tempo non succede nulla e poi d'un tratto riceviamo due chiamate in un giorno. E c'è un'altra cosa. Anche l'uomo che vive in quella casa è - o era - sull'ottantina, proprio come il nostro.» «Pensa a una serie di omicidi collegati? A uno psicopatico che se ne va in giro ammazzando i vecchi?» Gino si strinse nelle spalle. «Ci voleva solo avvertire. Crede che dovremmo restare in contatto, in caso salti fuori qualcosa.» Magozzi sospirò e guardò con rammarico la Weber. «Allora siamo di nuovo al lavoro.» «Alla grande.» Gino tacque per un istante, poi disse: «Non pensi mai che ci sia qualcosa di sbagliato in un lavoro in cui si ha da fare soltanto se qualcuno viene ucciso?» «Ci penso tutti i giorni, amico.» 3 Marty Pullman era seduto sul coperchio chiuso del water nel bagno del pianterreno e fissava la bocca di una 357 Magnum. Il buco tondo e nero sembrava molto largo, il che lo preoccupava. Peggio ancora, il water era di fronte al grande specchio sulla porta scorrevole che chiudeva la vasca e Marty non era affatto entusiasta all'idea di guardarsi lo snuff movie di cui sarebbe stato protagonista. Ci pensò su, quindi entrò nella vasca e chiuse la porta alle sue spalle. Sorrise vagamente mentre puntava il telefono della doccia verso la parte posteriore della vasca e apriva il getto al massimo. Si era incasinato la vita, ma non avrebbe fatto lo stesso con la morte. Soddisfatto, si sedette e si mise la canna in bocca. L'acqua gli scorreva sulla testa, sui vestiti, sulle scarpe. Esitò per pochi secondi, chiedendosi di nuovo che cosa avesse fatto la notte passata, ammesso che avesse fatto qualcosa. Non che ora importi,
pensò, infilando il pollice nel ponticello. «Mr Pullman?» Marty s'immobilizzò, col pollice che tremava sul grilletto. Maledizione, aveva le allucinazioni. Per forza. Nessuno veniva mai in casa sua, di certo nessuno vi si sarebbe introdotto, tranne forse un testimone di Geova. Al che si rallegrò di avere una pistola. «Mr Pullman?» La voce maschile era più forte, più vicina e sembrava di un giovane. «È in casa, signore?» Una poderosa bussata fece tremare la porta del bagno. La pistola gli lasciò un sapore terribile mentre lui la estraeva dalla bocca. Sputò nell'acqua che vorticava verso lo scarico. «Chi è?» gridò, cercando d'incutere timore. «Mi spiace disturbarla, Mr Pullman, però Mrs Gilbert mi ha detto di buttar giù la porta, se necessario?» «Chi diavolo è lei e come fa a conoscere Lily?» urlò Marty. «Jeff Montgomery, signore? Lavoro al vivaio?» Il ragazzo parlava solo a domande. Dio mio, che cosa irritante. Marty guardò la pistola e sospirò. Non sarebbe mai riuscito ad arrivare in fondo. «Resta dove sei. Esco tra un minuto.» Strisciò fuori dalla vasca, si tolse i vestiti fradici, poi mise pistola, abiti e scarpe nel cesto della biancheria. Si avvolse un asciugamano attorno alla vita e aprì la porta del bagno. Un ragazzo alto e di bell'aspetto - di diciotto, massimo diciannove anni era nell'atrio. Pareva a disagio, con le mani infilate nelle tasche dei jeans. «Eccomi. Adesso dimmi perché Lily voleva che tu tirassi giù la porta.» Jeff Montgomery aveva due grandi occhi blu che sgranò comicamente nel notare la larga cicatrice che segnava in diagonale il petto nudo di Marty. Distolse rapidamente lo sguardo. «Uh... Non ho proprio tirato giù la porta? Era aperta? E Mrs Gilbert ha cercato tante volte di chiamarla, però nessuno rispondeva al telefono? E accidenti, Mr Pullman, mi spiace davvero, ma Mr Gilbert se n'è andato.» Per qualche istante, Marty non si mosse. Non batté nemmeno le palpebre. Poi si sfregò il palmo della mano con forza sulla fronte, come se quel gesto lo aiutasse ad assimilare l'informazione. «Come?» sussurrò. «Morey è morto?» Jeff serrò le labbra e guardò imbronciato il pavimento, sforzandosi di non piangere e crescendo così di qualche punto nella stima di Morey, sebbene avesse terminato quasi ogni frase con un punto di domanda. Chiun-
que apprezzava Morey al punto da piangere non poteva essere tanto male. «Gli hanno sparato, Mr Pullman. Qualcuno ha sparato a Mr Gilbert.» Marty non disse nulla, ma sentì il sangue defluirgli dal viso, come se qualcuno avesse appena tolto un tappo. Si accasciò di lato contro il telaio della porta del bagno, contento che fosse lì per sostenerlo. Gesù Cristo, quanto odiava il mondo. 4 «Dai, Leo. Fermati da Target o in qualche altro posto, così mi compro un paio di pantaloni», borbottò Gino. Magozzi scosse la testa. «Non posso. La scena del crimine invecchia di minuto in minuto.» Afflitto, Gino pizzicò la stoffa dei bermuda. «Non sono affatto professionali.» Emise un forte sospiro e guardò fuori dal finestrino. Gli era sempre piaciuta quella zona di Minneapolis. Erano sulla Calhoun Parkway, stavano girando attorno al lago a una velocità solo di poco superiore a quella dei ciclisti che adornavano la pista asfaltata con le loro tute vivaci. Quel giorno c'erano persino alcuni windsurf che danzavano sull'acqua con le loro vele triangolari. «Maledizione, odio questa parte del lavoro.» «Almeno non dobbiamo informare la vedova», osservò Magozzi. «È già qualcosa.» «Presumo di sì. Ma dobbiamo ugualmente farle delle domande, tipo: 'Ha sparato lei in testa a suo marito?'» Quando Magozzi e Gino arrivarono, c'era una squadra in strada e un'altra bloccava il viale d'accesso dell'Uptown Nursery. Un paio di agenti in uniforme reggevano alcuni rotoli di nastro giallo per delimitare la scena del crimine e avevano l'aria smarrita. Uno di loro si avvicinò al finestrino e Magozzi gli mostrò il distintivo. «Avete predisposto la griglia? Volete che parcheggiamo in strada?» L'agente si tolse il cappello e si pulì la fronte lucida con la manica. Al sole faceva già caldo, soprattutto sull'asfalto. «Accidenti, non lo so, detective. Non sappiamo dove attaccare il nastro.» «Santo cielo, che ne dite di metterlo attorno al cadavere?» suggerì Gino. L'agente s'irritò un poco. «Sì, be', la moglie lo ha spostato.» «Come?» «Già. Lo ha trovato all'esterno e lo ha portato nella serra. Ha detto che
non voleva lasciarlo fuori, sotto la pioggia.» Magozzi emise un gemito. «Oh, per la miseria...» «Rinchiudetela», borbottò Gino. «Ha contaminato le prove, ha compromesso la scena del crimine. Rinchiudetela e buttate via la chiave. Probabilmente l'avrà ucciso lei, a ogni modo.» «Avrà più di cent'anni, detective.» «Be', questo è il bello delle armi da fuoco: vecchi, bambini, tutti le possono usare. Sono ispirate al principio delle pari opportunità.» Gino scese dall'auto, sbatté la portiera e si avviò lentamente verso la grande serra che gli stava di fronte, tenendo gli occhi puntati verso il basso, in caso la pioggia si fosse dimenticata di un'impronta insanguinata o di qualche altro indizio del genere. L'agente lo guardò allontanarsi e scosse la testa. «Non è un uomo felice.» «Normalmente sì», replicò Magozzi. «È solo incazzato perché gli ho impedito di fermarsi e di mettersi un paio di pantaloni lunghi prima di venire qui.» «Be', bisogna dargli credito. Ha proprio delle brutte gambe.» «Chi c'è nell'altra squadra?» «Ci sono Viegs e Berman. Stanno passando in rassegna il quartiere, interrogando i vicini. Un paio di agenti stanno facendo la guardia al cadavere, dentro, ma non mi sorprenderei se la vecchia avesse chiesto loro di annaffiare le piante o roba del genere.» «Sul serio?» Il poliziotto si asciugò di nuovo la fronte con la manica. «È davvero una sagoma, quella donna.» «Si è fatto un'idea?» «Sì. L'idea che il marito si goda un po' di riposo per la prima volta dopo tanti anni.» Magozzi raggiunse Gino che, fermo a metà dello spiazzo, era intento a fissare il carro funebre parcheggiato obliquamente rispetto alla serra. «Non abbiamo una scena del crimine», brontolò Gino. «Prima la pioggia l'ha rovinata, poi le pompe funebri ci sono passate sopra col loro carro armato e... Santo cielo, vedi quello che vedo io?» Dietro il carro funebre, quasi nascosta, c'era una Chevrolet Malibu decappottabile del '66, bianca con gli interni di pelle rossa. Di un rosso spiccatamente ciliegia. Gino l'aveva desiderata fin dalla prima volta che l'aveva vista.
«Uh», grugnì Magozzi. «Che ne pensi?» Gino schioccò la lingua, pieno d'invidia come sempre. «Deve essere la sua. Non ce n'è un'altra uguale nelle Twin Cities.» «Allora, che fa qui?» «Che ne so? Sarà venuto a comprare dei fiori.» Nessuno di loro aveva visto Marty Pullman da quando aveva lasciato la polizia, un anno prima, poco dopo la morte della moglie. Non che lo conoscessero bene neanche quando portavano tutti lo stesso distintivo. A Minneapolis, la Omicidi e la Narcotici non avevano rapporti così stretti, come invece sembrava dalle serie televisive. Però, se conoscevi Marty, non te ne scordavi facilmente. Aveva ancora il fisico da lottatore - gambe corte e arcuate, petto e braccia massicci - che gli aveva aperto le porte dell'università. I suoi occhi scuri, poi, rivelavano un tormento interiore e ciò da molto tempo prima che tale tormento diventasse reale. All'epoca, quando lui aveva ancora un certo senso dell'umorismo, lo chiamavano «Gorilla». Ma quei giorni erano finiti da un pezzo. La grande porta di vetro della serra era aperta e Pullman uscì per andar loro incontro. «Santo cielo», borbottò Gino. «Sembra che abbia perso una ventina di chili.» «Per lui è stato un anno d'inferno», replicò Magozzi. Marty arrivò davanti a loro e li salutò, stringendo la mano a entrambi, con l'aria seria come non mai. «Magozzi, Gino, che piacere vedervi.» «Che diavolo fai qui, Pullman?» chiese Gino, serrandogli la mano. «Ti sei dato al giardinaggio? Oppure sei tornato fra noi e nessuno me l'ha detto?» Marty emise un lungo, tremolante respiro, sgonfiando a poco a poco le guance. Pareva che stesse camminando su un filo, in equilibrio precario. «L'uomo cui hanno sparato era mio suocero, Gino.» «Oh, cazzo.» Gino si rabbuiò. «Era il padre di Hannah? Oh, cielo, mi spiace.» «Non ti preoccupare. Non potevi saperlo. Senti, non è granché come scena del crimine.» Magozzi percepì il tremolio della voce e decise di rinviare le condoglianze a quando l'altro sarebbe stato abbastanza forte da accettarle. «Così ci hanno detto», replicò, estraendo un notes e una penna. «È venuto qualcun altro qui stamattina oltre a te e a quello delle pompe funebri?» «Un paio di dipendenti: li ho mandati a casa, ma ho detto loro di restare
lì, che li avreste contattati in giornata. Ho coperto la zona dove Lily dice di aver trovato Morey con la mia macchina. È quanto di meglio ho potuto fare.» «Te ne siamo grati, Marty», disse Magozzi, pensando a quanto avrebbe voluto mollare quel caso. Lily Gilbert aveva perso la figlia un anno prima, e ora il marito. Magozzi non sapeva come si facesse a sopravvivere a una duplice tragedia del genere e farle le domande di rito gli sembrò all'improvviso uno spaventoso gesto di crudeltà. «Credi che tua suocera se la senta di parlarci?» Marty riuscì ad abbozzare un mezzo sorriso. «Non sta crollando, se è questo che intendi. Non è da Lily.» Lanciò un'occhiata verso la serra principale. «È là dentro. Ho cercato di convincerla a entrare in casa - è sul retro della proprietà, dietro tutte le serre -, ma non lo farà finché non porteranno via Morey. Il medico legale sta arrivando, vero?» Magozzi annuì. «Farà un breve esame sul luogo prima che spostino il cadavere. Non penso che tu voglia farla assistere.» «No, accidenti, no. Ma Lily sta dove vuole stare. È fatta così.» Risucchiò l'aria tra i denti. «C'è un'altra cosa.» Magozzi e Gino rimasero in attesa. «Dopo averlo portato dentro, lo ha lavato e rasato. Gli ha cambiato i vestiti. È steso lì su un banco per le piante, tutto agghindato nel suo abito da funerale.» Gino chiuse brevemente gli occhi, cercando di controllarsi. «Non va niente bene, Marty.» «Non me lo dire.» «Voglio dire, suo genero è uno sbirro, doveva sapere che stava distruggendo delle prove.» «È quasi cieca, Gino. Non ha nemmeno più la patente. Dice di non aver visto sangue. Immagino che la pioggia lo abbia lavato via prima che lei uscisse di casa. Lo hanno preso alla testa, un piccolo calibro proprio dietro la tempia sinistra e lui ha questa splendida chioma di capelli bianchi folti... Accidenti, anch'io ho dovuto cercarlo e sapevo che c'era.» «D'accordo.» Gino annuì, lasciando perdere per il momento la questione. Magozzi si appuntò di chiedere ai tecnici della scena del crimine di recuperare i vestiti che il morto indossava al momento dell'uccisione. «Ti viene in mente qualcosa che ci possa essere utile?» La risata di Marty fu breve e amara. «Vuoi dire chi potrebbe averlo ucciso? Certo. Cercate qualcuno disposto a far fuori un santo. Era un brav'uo-
mo, Magozzi. Un grande.» L'aria nella serra era calda e umida come in una palude, pregna dell'odore di terra bagnata e di vegetazione. Lunghi banchi pieni di piante erano disposti in due file, con uno stretto corridoio nel centro: sembrava una delle tante serre in cui Magozzi era entrato, tranne per il banco anteriore, sul quale, al posto delle piante fiorite in vaso, c'era un cadavere vestito di nero. Persino morto e disposto per la veglia, Morey Gilbert era una persona formidabile: molto alto, molto muscoloso, meglio vestito di quanto Magozzi non fosse mai stato in vita sua. Due giovani agenti si aggiravano attorno al cadavere, cercando di fingere che non ci fosse. «Dove sono?» chiese loro Marty. «Sua suocera l'ha portato laggiù, signore.» Uno dei due agenti inclinò la testa in direzione del muro posteriore. «Cosa c'è la dietro, Marty?» domandò Magozzi. «Il capanno per l'invasatura e un paio di altre serre. Lily voleva probabilmente tenere Sol lontano di qui per un po'. Era piuttosto scosso.» «Sol?» «È l'impresario di pompe funebri che ci ha chiamato, ma era anche il miglior amico di Morey. Stavolta per lui è dura. Aspettate, vado a chiamarli.» Gino attese finché Marty non fu più a portata d'orecchio per bisbigliare a Magozzi: «Suo marito è morto e lei consola l'impresario di pompe funebri? Mi sembra tutto capovolto. O no?» Magozzi si strinse nelle spalle. «Forse è il suo modo di reagire: prendersi cura degli altri.» «Forse. O forse non voleva molto bene al marito.» Si accostarono al banco per dare un'occhiata più da vicino al morto prima che tornasse la famiglia. Gino sollevò i capelli bianchi con una penna, rivelando il foro del proiettile. «Minuscolo. Immagino non lo noteresti se fossi mezzo cieco, però...» Alzò lo sguardo sugli agenti. «Ragazzi, potete andare ora, se volete. Ci pensiamo noi. Mandate copia del rapporto alla Omicidi.» «Sissignore, grazie.» Magozzi stava osservando il volto di Morey Gilbert, vedendo una persona invece di un morto e iniziando a creare quella sorta di legame che lo univa sempre alla vittima. «Ha un bel volto, Gino. E aveva ottantaquattro anni, gestiva ancora la sua attività, si prendeva cura della famiglia... Chi
vorrebbe uccidere un vecchio così?» Gino si strinse nelle spalle. «Forse una vecchia.» «Sei solo incazzato perché ha spostato il cadavere.» «Sono sospettoso perché ha spostato il cadavere. Sono incazzato perché mi hai fatto venire qui in pantaloni corti.» Arretrarono entrambi di un passo dal banco quando la porta posteriore si aprì e Marty la varcò col suo piccolo entourage geriatrico, capeggiato da una donna minuscola ma nerboruta, coi capelli argentei tagliati corti, quasi a spazzola. Indossava una camicetta bianca con le maniche lunghe sotto una salopette che sarebbe andata bene a una bambina. Un paio di occhiali spessi le ingrandiva gli occhi scuri, facendola assomigliare a Yoda. Uno Yoda tosto, pensò Magozzi mentre la donna si avvicinava. Nella schiena eretta e nelle spalle dritte non c'era cenno di abbandono alla disperazione e neppure dell'età. Era alta poco più di un metro e cinquanta e probabilmente sulla bilancia di casa non aveva mai raggiunto i quarantacinque chili, però aveva l'aria di chi poteva ribaltare il mondo. L'anziano che la seguiva era di tutt'altra pasta. Il dolore lo stava devastando: aveva gli occhi gonfi, rossi e la bocca tremante. Magozzi trovò interessante che Marty avesse allungato la mano come per toccare il braccio della donna e che all'ultimo momento l'avesse ritratta. A quanto sembrava, il loro non era un rapporto improntato all'espansività. «Detective Magozzi e Rolseth, questa è mia suocera, Lily Gilbert, e questo è Sol Biederman.» Lily Gilbert si avvicinò al banco e posò una mano sul petto del marito defunto. «E questo è Morey», disse, guardando accigliata Marty, quasi fosse stato maleducato a escludere il suocero dalle presentazioni solo perché era morto. «Marty ci ha detto che suo marito era un uomo meraviglioso, Mrs Gilbert», affermò Magozzi. «Non oso immaginare che perdita terribile sia per la sua famiglia e anche per lei, Mr Biederman», aggiunse, dato che le lacrime avevano preso a scorrere sul viso dell'uomo. Lily stava fissando Magozzi. «Io la conosco. Lei era in tutti i notiziari lo scorso autunno per quella storia della Monkeewrench. Ho visto più lei della mia famiglia.» Lanciò un'occhiata penetrante a Marty, che lui deliberatamente ignorò. «Lei ha delle domande, giusto?» «Se pensa di farcela, sì.» A quanto pareva, non soltanto era in grado di farcela, ma aveva anche
deciso di saltare le domande per andare dritta alle risposte. «D'accordo. Ecco cos'è successo. Mi sono alzata alle sei e mezzo come sempre, ho fatto il caffè, sono uscita per andare alla serra e ho visto Morey steso sotto la pioggia. Marty pensa che avrei dovuto lasciare suo suocero fuori con la pioggia che gli cadeva negli occhi, che avrei dovuto lasciarlo lì perché degli estranei potessero vedere la sua bocca che si riempiva d'acqua...» «Gesù, Lily...» «Ma non è così che una famiglia si prende cura dei propri cari. Quindi l'ho portato dentro, l'ho reso presentabile, ho chiamato Sol e poi Marty, che non rispondeva al telefono da sei mesi.» «Lily... Era la scena di un delitto», osservò stancamente Marty. «E io avrei dovuto saperlo? Sono forse un poliziotto? Ho chiamato un poliziotto, ma non rispondeva al telefono.» Marty chiuse gli occhi e Magozzi ebbe la sensazione che, su quella donna, lui li avesse chiusi da tempo. «Non sono più un poliziotto, Lily.» Magozzi ebbe un flashback del giorno in cui, quasi un anno prima, aveva incrociato il detective Marty Pullman che usciva dalla porta principale del municipio con la sua carriera in una scatola di cartone e l'aria di chi era stato schiacciato da un camion. «Tornerai, detective», gli aveva detto Magozzi, perché non sapeva cos'altro dire a un uomo che aveva perso così tanto. E, peggio ancora, non capiva come si potesse abbandonare un lavoro che si amava. Marty aveva fatto un vago sorriso. «Non sono più un detective, Magozzi», era stata la sua replica. Magozzi tornò al presente in tempo per sentire Gino attaccare la solita litania: manca qualcosa? Ci sono segni di effrazione? Morey Gilbert aveva nemici, rapporti d'affari insoliti...? «Rapporti d'affari insoliti?» replicò seccamente Lily. «Che vorrebbe dire? Pensa che coltiviamo marijuana nella serra sul retro o che altro? Che gestiamo una tratta delle bianche? Cosa?» Gino non aveva mai reagito molto bene al sarcasmo e cominciò a diventare paonazzo. Nel corso degli anni, lui e Magozzi avevano avuto a che fare con una buona dose di parenti affranti e Gino andava bene con quelli che crollavano. Lo riducevano a pezzi e ne soffriva a lungo, dopo, ma almeno sapeva come reagire. Se perdevano un parente, le persone crollavano: ciò rientrava nella sua visione della vita e della morte, dell'amore e della famiglia, e lo induceva a essere cordiale, gentile, a dare quel conforto che un poliziotto poteva offrire in una situazione del genere. Invece quelli arrabbiati che lo aggredivano o gli stoici che tenevano per sé i loro senti-
menti lo mandavano in tilt, e Lily Gilbert sembrava una combinazione di entrambi. «Mi scusi, Mrs Gilbert», la interruppe cortesemente Magozzi, attirandosi un'alzata d'occhi al cielo di Gino. «Le sarebbe di troppo disturbo accompagnarmi fuori e mostrarmi dove ha trovato suo marito? Magari spiegandomi quello che ha fatto, passo per passo, mentre Gino parla col suo amico Sol... Potremmo sbrigarci più in fretta.» Il ricordo del ritrovamento del marito accese il primo segno di debolezza nel suo sguardo. Fu solo un guizzo, ma ci fu. «Mi spiace davvero di doverglielo chiedere. Se è troppo difficile, non è necessario farlo adesso.» Lo sguardo della donna s'inasprì subito. «Ma certo che è necessario farlo adesso, detective. Adesso è tutto quello che abbiamo.» Si diresse a grandi passi verso la porta come un vecchio soldatino concentrato sulla missione, in modo da non dover pensare a nient'altro. Magozzi si affrettò ad aprirgliela. «Aspetta», disse Marty accigliato. «Dov'è Jack, Lily? Perché non è ancora qui?» «Jack chi?» «Maledizione, Lily, non dirmi che non l'hai chiamato...» Prima che lui terminasse la frase, la donna era già oltre la porta. «Merda.» «Chi è Jack?» domandò Magozzi, sempre tenendo la porta. «Jack Gilbert, il figlio. Non si parlano da tanto tempo, ma... Suo padre è appena morto... Lo devo chiamare.» Mentre Marty andava al banco della cassa e iniziava a premere i tasti del telefono, Gino si avvicinò a Magozzi e sussurrò: «Senti, mentre tu sei fuori a parlare con l'anziana e garbata signora, perché non le chiedi come ha fatto una di quaranta chili a trascinare novanta chili di peso morto fin là dentro e a sollevarlo su quel banco?» «Accidenti, signor detective, grazie per il suggerimento.» «Lieto di essere d'aiuto.» «Non ti va molto a genio, vero?» «No, mi piace... tranne per il fatto che ha un carattere aspro come un limone.» «Uh. Non ha fatto parola di come sei vestito. Direi che questo è garbo.» «Questo è il punto. Penso: come diavolo ha fatto a muoverlo? E mi rispondo: diamine, forse non lo ha mosso. Forse gli ha sparato lì dentro e ha
detto che è stato ucciso fuori in modo da farci credere che non abbiamo una scena del crimine.» Magozzi rifletté, poi disse: «Interessante. Tortuoso. Mi piace il tuo modo di pensare». «Grazie.» Magozzi aprì la porta per uscire. «Ma non è stata lei.» «Maledizione, Leo, non sai che...» «Invece sì.» 5 Il detective Aaron Langer aveva raggiunto quella fase della vita in cui si smette di sperare che l'anno successivo sia migliore del precedente e si spera soltanto che non sia altrettanto brutto. È ciò che capita quando arrivi alla mezz'età. I vecchi cui vuoi bene si ammalano e muoiono; i giovani che odi vengono promossi al posto tuo; il mercato crolla e si porta via i tuoi fondi pensione; il tuo corpo inizia a somigliare a quello di tuo padre quando pensavi che non ti saresti mai e poi mai ridotto così. Se qualcuno dicesse la verità sulla vita ai bambini di cinque anni, pensò Aaron, ci sarebbe un picco di suicidi negli asili. Fino a quel momento il lavoro lo aveva aiutato a superare il peggio. Persino quando la madre stava morendo di Alzheimer, quando gli investimenti per la pensione si erano dileguati in Brasile insieme col suo promotore finanziario, il lavoro era stato il suo rifugio, l'unico ambito della vita in cui la linea tra bene e male era netta e precisa, in cui lui sapeva esattamente che cosa fare. L'omicidio era un male. Prendere un assassino era un bene. Semplice. O almeno così era, prima del segreto. Adesso la linea che Aaron aveva seguito per tutta la vita era terribilmente confusa e lui capiva a stento dove mettere i piedi. Ciò di cui aveva più bisogno era un caso chiaro, un omicidio insensato che per qualche ragione perversa gli facesse ritrovare il proprio posto nel mondo. E, alla fine, sembrava che quel caso fosse arrivato. «Langer, ti spiace smettere di sorridere? Mi fai venire i brividi.» Lui guardò il collega, inorridito. «Stavo sorridendo?» Johnny McLaren gli rivolse un ampio sorriso. «Quasi, non del tutto. Voglio dire, non ti si vedevano i denti o che. Inoltre so come ti senti. Dopo quattro mesi di nulla da fare, per poco non uscivo e ammazzavo io stesso qualcuno.»
Langer chiuse gli occhi, ansioso di giustificare quel mezzo sorriso in una stanza insanguinata in cui un povero disgraziato era morto. «Non è per questo, McLaren», replicò tristemente. Poi distolse lo sguardo perché non poteva aggiungere altro. Gran parte della carneficina nella casa di Arlen Fischer era avvenuta in un soggiorno altrimenti immacolato, per la precisione su un divano un tempo color avorio che pareva aver trascorso un bel po' di tempo sul pavimento di un mattatoio. Jimmy Grimm, star dei tecnici della scena del crimine del Bureau of Criminal Apprehension, entrò, diede un'occhiata alle macchie di sangue sul divano e disse: «Hanno colpito un'arteria, ragazzi. Dovrebbe esserci rimasto secco. Quanto aveva? Ottantanove anni?» «A meno che il vecchio non fosse il tiratore», suggerì McLaren. «Forse è il sangue di qualcun altro e Fischer adesso è la fuori a seppellirlo nel bosco.» «Dio mio, quanto mi piace il mistero», esclamò Grimm, mettendosi le mani sui fianchi e guardandosi attorno con la sua sagoma rotonda coperta dal camice e dalle soprascarpe bianche monouso. Langer pensò che ricordava l'omino Michelin. «Uau. Questo è davvero interessante.» «Come?» chiese McLaren, ma Jimmy non lo sentì. Era chino sul divano, già in un altro mondo, il suo mondo, in cui le uniche cose che sentiva erano le storie che gli raccontavano gli schizzi di sangue e i minuscoli dettagli. Frankie Wedell, uno degli agenti di pattuglia addetti a sorvegliare la scena, si avvicinò all'ingresso del soggiorno e si fermò. «Ragazzi, vi ricordate come si fa o avete bisogno di un piccolo corso di aggiornamento da chi vive in trincea?» McLaren lo guardò e gli sorrise. Frankie era l'agente più anziano del corpo, per scelta ancora di pattuglia, e aveva addestrato più reclute di quelle che potesse contare, tra cui McLaren e Langer. «È questo il nostro corso di aggiornamento, vecchio mio», rispose in tono stridulo. «Omicidi Light: niente cadavere. Come diavolo stai, Frankie?» «Stavo molto meglio prima che la radio impazzisse, stamattina. Mi ha spezzato il cuore sentire di Morey Gilbert all'Uptown Nursery.» Il sorriso di McLaren svanì. «Quello spezzerà un bel po' di cuori.» «Che razza di modo per concludere un periodo di magra, perdere una persona in gamba come lui. Voi avete avuto occasione di conoscerlo abbastanza bene l'anno scorso, vero?» «Sì.»
«Meno male che non vi hanno assegnato il caso.» «Amen», mormorò Langer. «Il tuo collega ha detto che hai esaminato la parte anteriore, Frankie. È esatto?» «Sì. Tony ha coperto il retro. Abbiamo iniziato cercando un tiratore e abbiamo finito per cercare un cadavere.» Spostando con riluttanza lo sguardo sul divano insanguinato, aggiunse: «Non posso ancora credere che non l'abbiamo trovato. Con tutto quel sangue, non penseresti che sia andato molto lontano, soprattutto alla sua età». Mentre Frankie parlava, gli occhi di Langer stavano ispezionando la stanza, notando piccole cose: la lucidatura accurata del parquet, le riviste disposte con cura a ventaglio su un tavolino levigato, l'allineamento preciso dei classici rilegati in pelle nella libreria. Niente era stato mosso, niente sembrava fuori posto... tranne lo scempio del divano. Quello, e i tre grossi libri impilati sul pavimento accanto al tavolino. Il suo sguardo si fermò lì. «Com'era la scena quando sei arrivato, Frankie?» «Be', la governante - si chiama Gertrude Larsen - era sui gradini dell'ingresso, completamente in preda all'isteria, fuori di sé. Agitava le braccia, gemeva... Non oso pensare cosa avrebbe fatto se qui dentro ci fosse stato davvero un cadavere. A ogni modo, alla fine sono riuscito a calmarla e l'ho portata alla macchina, ma lei ha iniziato a perdere colpi alla grande. Doveva aver preso una pillola o qualcosa del genere. Forse dovreste parlarle prima che cada in coma.» «Ha spostato qualcosa qui dentro?» «Ne dubito. Dall'idea che mi sono fatto, è entrata, ha visto il sangue e ha perso la testa. Ha chiamato dal suo cellulare invece che dal telefono di casa, perciò non credo sia andata molto più in là della porta principale.» «Grazie, Frankie. Di' alla governante che arriviamo subito.» «Contaci.» Langer si avvicinò e guardò il suo riflesso sulla superficie del tavolino. «Non va bene.» McLaren lo raggiunse e studiò il tavolino a lungo, accigliato. «D'accordo, bandiera bianca. Vedo un bel tavolino da caffè, niente graffi, niente sangue, niente impronte grandi e unte. Quindi cosa mi sfugge?» «I libri sul pavimento. Dovrebbero stare sul tavolino.» «E allora? Mi stai dicendo che in casa tua ogni più piccola cosa sta là dove si trova sempre?» «No, santo cielo, non in casa mia. Ma in questa penso di sì. Da' un'occhiata alla stanza. Sono gli unici oggetti fuori posto, Johnny.»
McLaren scrutò rapidamente il locale con aria pensierosa. «Lo devo ammettere, questo maledetto posto sembra la foto di una rivista, vero?» «Esatto.» «Tranne per il divano.» «E per i libri sul pavimento.» McLaren sospirò e si cacciò le mani in tasca. «D'accordo, allora forse sono caduti dal tavolino nella colluttazione.» Langer scosse la testa. «Se fosse andata così, sarebbero sparpagliati, almeno un po'. Guardali. Sono quasi perfettamente impilati. Qualcuno li ha sollevati dal tavolino e li ha messi lì.» «'Qualcuno'... cioè l'assassino.» «È quello che penso.» La testa di Jimmy Grimm spuntò da dietro il divano, facendo trasalire McLaren e smentendo l'opinione generale secondo cui il tecnico non sentiva mai niente quando lavorava su una scena del crimine. «Gesù, Jimmy, mi ero persino scordato che fossi qui. Che diavolo fai nascosto là dietro?» «Ho un foro d'uscita nella stoffa e sto controllando col laser quello d'ingresso nel cuscino anteriore. Sembra che troveremo un proiettile nella libreria, da qualche parte.» Sbirciò verso il tavolino, poi rivolse un ampio sorriso a Langer. «Bella ipotesi quella sui libri, Langer. Non appena finisco qui, li imbusto e li segnalo come prioritari al laboratorio.» «Grazie, Jimmy.» McLaren si grattò l'ombra rossiccia delle basette sulla mascella non rasata. «Eppure non ha senso. Entri in questo posto, spari a un uomo seduto sul divano, ti giri, prendi una pila di libri dal tavolino e la posi sul pavimento. Perché diamine dovresti farlo?» «Bella domanda.» Gertrude Larsen aveva palesemente superato da tempo l'età della pensione e aveva un'aria patetica, avvolta com'era in un cardigan sformato e sbiadito, tutta tremante sul sedile posteriore dell'auto benché il sole riscaldasse l'abitacolo. Quando Langer si avvicinò alla portiera aperta, lei alzò gli occhi confusi, appannati dal narcotico. Alcune lacrime le scendevano nei solchi raggrinziti delle guance, ma sul suo viso non c'era emozione. Langer aveva notato spesso quella cosa nelle persone sedate che avevano visto la vittima di un omicidio o nei bambini che avevano ingurgitato il Valium dei genitori. Era il tremore a preoccuparlo. S'inginocchiò accanto
alla macchina e toccò il braccio della donna. «Come si sente, Mrs Larsen?» Lei sorrise debolmente e sollevò una mano tremante, piegata dall'artrite, posandola sulla sua. Langer non riusciva a immaginare una donna così logorata dal lavoro ancora impegnata a sfregare, spazzare e tenere pulita una casa. «Un po' meglio.» «Ha preso qualcosa?» Lei annuì, un po' imbarazzata, e gli porse una boccetta di plastica. «Una di quelle rosa.» Langer aprì la boccetta e inarcò le sopracciglia quando vi guardò dentro. C'erano pillole rosa, pillole blu e pillole gialle e un grumo polveroso di Turns. Quelle rosa gli sembrarono pasticche di Xanax, ma non ne era certo. «Prendo una di quelle ogni volta che qualcosa mi sconvolge molto», spiegò. «Capisco.» Langer prese nota del nome dell'ambulatorio scritto sulla boccetta e gliela restituì. Lei la infilò in una borsetta da vecchia signora, chiusa da un fermaglio metallico. «Se la sente di rispondere ad alcune domande?» La donna annuì lentamente, tamponandosi gli occhi con un fazzoletto orlato di pizzo e già umido. Langer fu estremamente gentile con l'anziana e il colloquio procedette al rallentatore. Alla fine, tuttavia, l'uomo apprese che lei era la governante di Arlen Fischer da trentadue anni, che veniva tre volte la settimana in autobus e ogni domenica mattina, sempre in autobus, per aiutarlo a prepararsi per la funzione delle nove alla chiesa luterana di Saint Paul of the Lakes. Era ben pagata, si prendeva cura di lui come se fosse un fratello e non aveva idea di chi potesse volergli male. E, sì, quei libri sarebbero dovuti essere sul tavolino, insieme con una bella striscia ornamentale di stoffa che lei gli aveva comprato per l'ottantesimo compleanno. E, no, lei non aveva spostato niente. «La striscia ornamentale era di gran valore?» Gli occhi acquosi della donna si strinsero, circondati da miriadi di rughe. «Be', non ne trova molte in giro con gli uccellini, di certo non con gli uccelli azzurri orientali. Sì, era un po' costosa. Ottanta dollari più le tasse.» Avvicinandosi, gli confidò in un sussurro: «Ma l'ho presa a una svendita. A diciannove e novantanove». Langer le sorrise in risposta. «Un vero affare.»
«Proprio.» Lui la ringraziò, le diede il suo biglietto e poi chiese a Frankie di portarla allo Hennepin County Medical Center, di restare con lei finché non l'avessero visitata e di riportarla a casa. Frankie emise un sospiro affranto. «Sai cos'è il pronto soccorso dello HCMC, di domenica?» Langer scrollò le spalle. «Vive sola, Frankie, prende farmaci di sua iniziativa e sta ancora tremando in quel forno di macchina. Temo che possa avere uno shock.» «D'accordo. Ma tu avresti dovuto fare il missionario o qualcosa del genere.» Lui e McLaren rimasero nel vialetto e osservarono l'auto allontanarsi. «Cosa stai pensando?» domandò McLaren. «Che l'assassino abbia spostato i libri per rubare una striscia ornamentale da venti dollari?» «Non ti scordare che aveva gli uccelli azzurri orientali. Non se ne trovano molte in giro.» «Accidenti, Langer, stai cercando di fare dell'ironia?» «Forse.» «Be', smettila. Mi spaventi.» Un'ora dopo Jimmy e la sua squadra erano ancora al lavoro, anche se mancava poco al termine. Langer e McLaren lo trovarono prono sul pavimento del soggiorno con un metro a nastro e un notes, assorto a scribacchiare numeri. «Ehi, Jimmy», disse McLaren con tutta l'allegria che riuscì a dimostrare dopo aver passato la domenica mattina in una casa che era stata teatro di un omicidio. «Hai risolto il mistero?» Grimm gli rivolse un sorriso stanco e si mise in piedi con un certo sforzo. «A questo punto, non sono nemmeno certo che si tratti di omicidio. La prossima volta trovate il cadavere, ragazzi: semplificherebbe molto le cose. Avete notizie dagli ospedali?» McLaren sfogliò il notes. «Sì. Ieri sera hanno avuto solo ferite da arma da fuoco: un paio di sedicenni membri di una banda hanno cercato di farsi fuori con due calibro 22. La cosa più complicata di cui si sono occupati sono stati alcuni interventi sui tessuti molli, nessuna lesione arteriosa...» «Non era una calibro 22.» Jimmy sollevò una piccola busta contenente un proiettile. «Era una calibro 45, con alcune belle rigature, tra l'altro.» «Una 45, eh? Be', in questo caso chiunque sia stato colpito qui ieri sera
non è arrivato in un ospedale o in una clinica di nostra conoscenza.» «Allora è morto», osservò Grimm in tono pratico. Langer ne seguì lo sguardo, sentendosi un po' a disagio. «C'è parecchio sangue.» Jimmy si strinse nelle spalle. «Sembra peggio di quello che è. Dovrò fare i test di saturazione prima di esserne certo, ma a prima vista direi che la vittima è uscita di casa viva. Non c'è sangue a sufficienza per pensare a uno sparo al cuore. Suppongo che abbia colpito un'estremità. Ma le arterie non si sanano da sole. Si sarebbe dissanguato in fretta senza cure mediche di qualche tipo e non c'è una goccia di sangue in nessun'altra parte della casa.» McLaren grugnì. «Perciò qualcuno gli ha sparato, lo ha chiuso in un sacco e lo ha trascinato fuori, il che significa che dobbiamo cercare un lottatore di sumo. Secondo la governante, Arlen Fischer pesava più di centotrenta chili.» Jimmy Grimm si dondolava sui talloni e sorrideva. «Nessuno lo ha trascinato fuori.» «Sì? E allora? Lo hanno risucchiato dal divano gli alieni?» «Meglio ancora», rispose Jimmy sempre sorridendo, godendo per il suo segreto. «Cristo, Langer, stendilo che vado a prendere le pinze per strizzargli le palle», brontolò McLaren. «Dio mio, gli irlandesi sono così impazienti», sospirò Jimmy indicando una zona del parquet contrassegnata dal nastro. «Abbiamo trovato segni di ruote. Dal divano alla cucina, fuori dalla porta e fin dentro il garage. Quattro ruote, non due. L'assassino ha portato con sé un lettino.» «Uau.» Le sopracciglia di McLaren s'inarcarono all'istante. «Premeditazione con la P maiuscola.» «Direi proprio di sì.» Jimmy tese le braccia grassocce verso il soffitto per stiracchiarsi un po'. «Be', tra poco ce ne andiamo e torniamo al laboratorio. A quanto pare, stanno portando una tonnellata di tracce dalla scena del crimine giù alla ferrovia...» S'interruppe a metà frase e le mani gli ricaddero lungo i fianchi. «Oh, santo cielo. Avete detto che Fischer era sui centotrenta chili?» Langer annuì. «Come minimo.» Jimmy chiuse gli occhi e scosse la testa. «Accidenti, mi era sfuggito. Il mio tecnico ha detto che l'uomo sui binari era grande e grosso.» «Lo hanno identificato?»
Jimmy si strinse nelle spalle e Langer estrasse il cellulare. «Tinker e Peterson seguono il caso, vero?» domandò a McLaren. «Già.» Langer premette alcuni tasti, accostò il telefono all'orecchio, ascoltò per qualche secondo e poi disse: «Tinker, qui Aaron. Dimmi dell'uomo sui binari». Nessuno aveva mai accusato Tinker Lewis di reticenza. Se gli chiedevi come stava, ti raccontava la storia della sua vita. Langer tentò di bloccarlo un paio di volte, ma alla fine rinunciò e ascoltò rassegnato in silenzio, col volto inespressivo tanto era spazientito. McLaren passeggiò avanti e indietro il più a lungo possibile, fino al limite della resistenza, poi si accostò a Langer e cercò di avvicinare l'orecchio al telefono. «Va bene, Tinker, grazie», disse Langer. «Adesso devo andare. McLaren mi sta chiamando.» Chiuse la telefonata e mise via il cellulare. Rimasero tutti e due a dondolarsi sui talloni con un cupo sorriso in volto. McLaren agitò le braccia, scoraggiato. «Maledizione, Langer, vuoi che ti supplichi?» «Non hanno identificato il cadavere sui binari. L'uomo era anziano, sui centotrenta chili, con un grosso foro nel braccio sinistro poco al di sopra del gomito.» Fece un cenno a Jimmy Grimm. «Un colpo all'arteria, come ha detto Jimmy.» «Quindi è morto dissanguato?» Le labbra di Langer si tesero, cancellando quello che restava del sorriso. «No. Pensano abbia avuto un attacco cardiaco, probabilmente quando ha visto arrivare il treno.» «Oh, Cristo», mormorò McLaren, immaginando fin troppo vividamente un vecchio ferito legato ai binari che sollevava lo sguardo e vedeva il fanale di un treno in movimento avanzare verso di lui. «Ma, se fosse sopravvissuto, secondo il medico legale avrebbe probabilmente perso il braccio. Qualcuno gli aveva messo un laccio emostatico troppo stretto, rimasto lì fin troppo a lungo.» Guardò McLaren sollevando le sopracciglia. «Era un pezzo di stoffa decorata, dice Tinker, con dei piccoli uccellini azzurri.» McLaren lo fissò, battendo le palpebre, poi emise un fischio silenzioso. «Quindi è il nostro uomo.» «Così sembra.» «Gesù.» McLaren guardò il divano ed ebbe un brivido, assimilando l'in-
tera sequenza dei fatti accaduti in quel posto. «È davvero una roba da malati, Langer.» «Non si discute.» «Quello che abbiamo è un sadico figlio di puttana che entra qui dentro, spara a quel povero vecchio al braccio, lo lega a un lettino, lo conduce fuori e lo trasporta lontano per legarlo ai binari del treno...» «... avendo cura di tenerlo in vita in modo che sappia cosa gli sta per capitare», terminò Jimmy Grimm. «Dio del cielo.» 6 Magozzi li guardò caricare il cadavere di Morey Gilbert sul furgone del medico legale e trasalì sentendo il sacco rimbalzare duramente quando le ruote del lettino si piegarono. Negli anni aveva visto molti cadaveri entrare in quel furgone, ma non si era mai abituato all'ultimo rimbalzo, quando uscivano dalla loro casa per l'ultima volta. Quando le porte del furgone si chiusero e i ragazzini mascherati da assistenti del medico legale salirono sul mezzo e si allontanarono, Magozzi tirò un sospiro di sollievo. «Chi sono quelli?» «Aspetta», disse Gino al telefono, e si premette l'apparecchio al petto. «Quelli non sono ragazzi. Sono adulti con una laurea in medicina. Iniziano a sembrarti dei ragazzi perché tu inizi a essere maledettamente vecchio.» «Sono nel fiore dei miei anni. I quaranta sono tanto lontani che da qui non li vedo nemmeno. E, a ogni modo, com'è che abbiamo gli assistenti? Dove diavolo è Anant?» Gino sospirò. «Si sta occupando del vecchio legato ai binari del treno, ecco dov'è. E i ragazzi hanno fatto altrettanto bene. Li ho osservati. Avevano i guanti e tutto il resto. Adesso posso finire la telefonata?» «Stai facendo sesso telefonico con Angela?» «No, con Langer. E tu mi hai interrotto in un momento cruciale. Ti spiace?» Accostò di nuovo il cellulare all'orecchio. «Scusa, Langer. Leo ha avuto una delle sue crisi di mezz'età.» Magozzi restò zitto per esattamente cinque secondi. «Anche l'uomo dei binari era anziano?» «Gesù. Aspetta, Langer... Sì, Leo, era anziano. Molto anziano.» «Fanno tre in una notte, Gino. Morey Gilbert, chiunque sia morto nella casa insanguinata e l'uomo dei binari.» «A dire il vero, sembra che siano solo due e, se mi lasciassi un secondo
di tempo per finire, scoprirei tutto quello che vuoi sapere sugli anziani morti. Diamine, sei come un ragazzino che mi tira per la gamba del pantalone.» «Non hai un pantalone con le gambe.» Gino gli rivolse un'occhiataccia e si allontanò con passo pesante nello spiazzo, tenendo il cellulare premuto all'orecchio. Magozzi trovò una panchina all'ombra della serra e si sedette accanto a una pila di sacchi di plastica rigonfi che odoravano di cioccolato. Sul grande viale alberato, il traffico della domenica mattina stava aumentando, ma non lo si sentiva quasi oltre la fitta siepe sempreverde che bloccava tutto ciò che arrivava dalla strada, fatta eccezione per il viale d'accesso. Era una zona piacevole e tranquilla nel bel mezzo di una città; piacevole per fare la spesa, per vivere e per sparare a un vecchio nel cuore della notte senza timore di essere visti. Un paio di tecnici della scena del crimine erano ancora all'interno ad analizzare l'area attorno al banco dove Lily Gilbert aveva steso il marito. Altri due si trovavano sul lato dell'edificio, a cercare il punto sull'asfalto lavato dalla pioggia in cui lei aveva detto di averlo trovato, ma per quanto riguardava Magozzi tutti seguivano solo la prassi. Intenzionalmente o no, Lily Gilbert aveva cancellato qualsiasi prova lasciata dalla pioggia. Odiava già quel caso perché sapeva come sarebbe finito: nessuno sparava ai vecchi per divertimento. A meno che non si trattasse di rapina, la lista degli indiziati era sempre breve e quasi sempre circoscritta alla famiglia. Avrebbe preferito occuparsi di uno psicopatico imbottito di droga piuttosto che di parenti che si ammazzavano tra loro. Non c'erano mostri più grandi di quelli. Gino stava tornando verso di lui nello spiazzo col volto largo già rosato per il sole e con la calibro 9 nella fondina che gli rimbalzava sui bermuda a scacchi. Si accasciò sulla panchina e si pulì il sudore che gli si stava accumulando sulla fronte. «È da non credere... La settimana scorsa nevicava. Accidenti, qua fuori c'è un caldo infernale. Ci saranno già ventisette gradi e non è nemmeno mezzogiorno. Mi piacerebbe che arrivasse il figlio, così potremmo levare le tende da questo posto del cavolo.» «Langer che cos'ha?» Gino si protese e si sfregò le mani. «Questo sì che è interessante. Lui e McLaren hanno una casa sporca di sangue ma non un cadavere, Tinker e Peterson, ai binari, hanno un cadavere e poco sangue. Grazie ai miracoli della telefonia mobile, comunicano e, voilà, salta fuori che l'anziano pro-
prietario della casa è probabilmente l'uomo legato ai binari. Lo identificheranno grazie alla governante, ma è probabile sia lui.» Magozzi si raddrizzò sulla panchina, accigliato. «Be', è un bel mistero.» «Altroché. Da quello che sono riusciti a capire finora, qualcuno spara al vecchio in casa, colpendolo a un'arteria del braccio e poi gli mette un laccio emostatico in modo che non si dissangui prima di arrivare ai binari. Macabro, eh? Voleva che fosse vivo per vedere il treno in arrivo. Adesso Anant sta facendo l'autopsia, ma presume che si tratti di attacco cardiaco.» «Gesù.» Magozzi rifletté a lungo. Ciò che il suo cervello elaborò non gli piacque per niente. «Lo hanno fatto morire di paura.» «Così sembra. A ogni modo, gli hanno sparato con una calibro 45, il nostro uomo qui è stato ucciso con un piccolo calibro e il modus operandi di certo non combacia.» «Quindi non ci sono collegamenti tra il nostro e il loro.» «Solo il fatto che erano entrambi anziani e che vivevano nello stesso quartiere.» Sentendo il sudore raccogliersi sulle palpebre, Magozzi si sfregò gli occhi. «Nemmeno questo mi va molto.» «Sì, neanche a me va, ma nient'altro coincide, perciò a prima vista siamo di fronte a due assassini.» Gino squadrò i sacchi di plastica accanto alla panchina. «Sono quelli che la vecchia ha spostato con le sue mani?» Magozzi sorrise. «No, sono quelli che ha fatto portare a me. Quindici chili l'uno. Credevo di morire.» «Sei proprio un bravo detective della Omicidi, a fare l'uomo di fatica per una sospetta assassina.» «È anziana. Me lo ha chiesto. Ti ricordo il rispetto per gli anziani e cose del genere. E c'era anche un po' di machismo, visto che lei trasportava quelli da dieci, pieni di terra per piante in vaso.» «Quindi credi che possa aver mosso il cadavere.» «Nella misura in cui doveva farlo. Ha usato la carriola per portarlo all'interno.» «Gesù, è raccapricciante... porta in giro il marito morto in carriola. Non quanto lavarlo e raderlo, però. Ti dirò, questo aspetto m'inquieta da morire e non mi dire che così si faceva ai vecchi tempi perché lo so. Non siamo più nei vecchi tempi, ed è strano.» Magozzi si strinse nelle spalle. «Forse per qualche anziano sono ancora i vecchi tempi, però anche a me inquieta da morire. Magari c'è sotto qualcosa.»
Gino sollevò le sopracciglia. «Sì?» «Non credo lo abbia ucciso, però c'è qualcos'altro che non vediamo.» «Per esempio?» «Non lo so. È solo una sensazione. Perché quei sacchi hanno un odore di cioccolato?» «È terriccio contenente fave di cacao. Lo metti attorno alle piante, sui vialetti dei giardini, robe del genere. Ogni volta che piove emana un odore di barrette Hershey. Grande, eh?» «Non saprei. Come fai a impedire ai figli dei vicini di mangiarlo?» «Gli spari.» Una Mercedes decappottabile nuova di zecca svoltò bruscamente nel viale d'accesso del vivaio e si fermò stridendo a meno di due centimetri dall'auto della polizia che lo bloccava. Il guidatore aveva un'aria piuttosto innocua - mezz'età, un po' appesantito, con addosso un abito costoso che faceva ancora la sua figura nonostante le spiegazzature -, ma, quando il poliziotto di guardia al viale cercò d'intercettarlo, prese a ballonzolargli attorno. «Deve essere il figlio», disse Magozzi. Gino stava fissando l'uomo con un sorrisetto idiota sul volto. «Santo cielo. Non lo avevo capito. Sai chi è, Leo? Quello è Jack Gilbert.» «Sì, il figlio. È quello che ho detto...» «No, no, è quel Jack Gilbert. L'avvocato specializzato in lesioni personali, protagonista di tutti quegli spot mielosi in televisione. Il Jack Gilbert del 'non lasciare che ti pestino i piedi'. Quello. Gesù, povero Marty. Immagina avere un deficiente come quello per cognato!» Gilbert stava urlando contro l'agente ed enfatizzava la sua aggressione verbale con un furioso agitare di braccia che lo faceva sembrare un mulino impazzito. «Cristo, guardalo. Quei maledetti avvocati credono di essere i padroni del mondo.» Magozzi si alzò e fece cenno all'agente di lasciarlo passare. «Cerca di capirlo. Ha appena scoperto che suo padre è stato assassinato e sua madre non lo ha chiamato per dirglielo.» «Ciò non lo rende meno deficiente.» Con riluttanza, Gino rimase fermo mentre Gilbert puntava dritto nella loro direzione. Poi arretrò di un passo quando l'uomo si buttò su di loro, avvicinandosi tanto che lui poté vedere gli occhi iniettati di sangue. «Voi siete i detective?» chiese, scrutando sospettoso i bermuda di Gino.
«Sissignore. Io sono il detective Rolseth e questo è il detective Magozzi.» Gilbert tese un palmo viscido di sudore e strinse loro la mano con forza, dondolandosi avanti e indietro sui talloni. «Jack, Jack Gilbert.» Magozzi stava per esprimergli le condoglianze di rito, ma non ne ebbe modo. «Allora, cos'è successo qui, che ne pensate? Una rapina? Hanno sparato da un'auto?» «Siamo solo all'inizio delle indagini. Non abbiamo nemmeno terminato d'interrogare...» «Gesù Cristo.» Gilbert si premette i palmi delle mani sugli occhi. «Non posso credere che sia successo. Ci sono centinaia di persone in questa città che vogliono uccidermi, compresa mia moglie, ed è mio padre che ammazzano.» Gino sollevò le sopracciglia. «Le spiace se le chiedo chi vuole ucciderla, Mr Gilbert? Oltre a sua moglie, intendo.» «Sono un avvocato specializzato in lesioni personali, le faxerò un elenco. Maledizione, era solo un vecchio. Chi cazzo può sparare a un vecchio? Dov'è mia madre? Dov'è Marty?» «Sono rientrati in casa, Mr Gilbert. Se non le spiace avremmo qualche domanda...» La bocca di Magozzi rimase aperta sull'ultima parola, mentre l'altro schizzava via senza voltarsi. «Interessante tecnica d'interrogatorio», commentò Gino. «Lo hai proprio torchiato alla grande. Però credo sia il caso di approfondire un po'. Sai, un paio di domande di routine che ti sei scordato di fargli, tipo dove fosse ieri sera, se abbia ucciso suo padre, roba del genere.» Magozzi lo guardò torvo, poi notò un agente anziano in uniforme chinarsi sotto il nastro della scena del crimine, all'imbocco del viale d'accesso, e avviarsi nella loro direzione. «Lo conosci?» Gino socchiuse le palpebre. «Oh, sì, accidenti. Al Viegs. Non dirgli niente dei capelli.» «Eh?» «Ha appena fatto il primo trapianto. Ha un aspetto strano con quei ciuffetti e tante zone pelate...» Magozzi si sorprese a guardare la testa dell'uomo mentre lui si avvicinava. «Maledizione, Gino, è come non guardare una montagna.» «Sì, lo so... Ehi, Viegs.» L'agente rispose con un cupo cenno di saluto, mentre Magozzi gli fissa-
va il cuoio capelluto rosa a strane chiazze. «Io e Berman abbiamo appena finito d'interrogare gli abitanti del quartiere. Dovremmo tornare per sentirne alcuni che erano via, ma gran parte era in casa, visto che era domenica e via discorrendo.» «Lascia che indovini», disse Gino. «Nessuno ha sentito niente e nessuno ha visto niente.» Viegs annuì. «Esatto. Ma... è strano.» Si guardò attorno, si schiarì la gola e strisciò i piedi per terra. «Saremo passati in una ventina di posti, tra case e aziende... Accidenti, è davvero strano.» Magozzi abbassò lo sguardo dalla testa agli occhi di Viegs. «Cosa intendi?» L'altro si strinse nelle spalle, confuso. «Molti piangevano. Davvero tanti. Nel momento stesso in cui hanno sentito che Mr Gilbert era morto sono scoppiati in lacrime. Uomini, donne, bambini... è stato terribile.» Lo sguardo di Magozzi si acuì. La cosa si stava proprio facendo interessante. «Non capisco. Voglio dire, questa è una città: metà delle persone che ci vivono non conosce nemmeno la faccia dei vicini. Poi pensi a quello che sta succedendo là fuori» - Viegs mosse di scatto la testa in direzione della strada - «e resti stupito.» Gino si alzò, fissando il viale d'accesso deserto oltre la spalla di Viegs. «Di che stai parlando?» «Sei uscito in strada, di recente?» «Non da quando siamo arrivati.» Viegs puntò il pollice in direzione del viale. «Allora fate due passi laggiù. Vale la pena che lo vediate coi vostri occhi.» Gino e Magozzi attraversarono lo spiazzo, l'apertura nella siepe attraverso cui passava il viale e si bloccarono, sconcertati. I marciapiedi erano affollati di persone di ogni età e razza. Alcune piangevano in silenzio, altre avevano un'aria stoica e severa, tutte stavano perfettamente immobili e mute. Magozzi sentì un brivido. Gino rimase a guardare mentre altri attraversavano la strada e si aggiungevano con calma alla fila. «Gesù», sussurrò. «Chi diavolo era quest'uomo?» Un ragazzo biondo e alto accanto al nastro continuava a sollevare la mano, cercando di attirare la loro attenzione. Magozzi si avvicinò e si chinò verso di lui. «C'è qualcosa che posso fare per te, figliolo?» «Hmm... siete i detective?» «Già.»
In altre circostanze il ragazzo sarebbe stato probabilmente di bell'aspetto, ma in quel momento aveva il viso tutto chiazzato, rosso e gonfio attorno agli occhi. «Sono Jeff Montgomery? E questo è Tim Matson? Lavoriamo qui e Mr Pullman ci ha detto di restare in casa, che forse ci volevate parlare? Ma... dovevamo venire, capisce?» Magozzi pensò che avevano l'aria di due cuccioli smarriti. Sollevò il nastro, fece loro segno di passarvi sotto, soffocando l'istinto di dar loro un colpetto affettuoso sulla testa e di dire che tutto sarebbe andato bene. 7 Quando non c'erano chiari indiziati, il primo giorno di qualsiasi indagine per omicidio era un turbinio di colloqui e verifiche dei fatti che si portavano via le ore più preziose tra l'assassinio e la probabilità di risolvere il caso. Se avevi fortuna, coglievi una scintilla, un minuscolo brandello d'informazione che poteva condurti sulla strada giusta, ma quel giorno Gino e Magozzi non l'avevano avuta. Quattordici ore erano passate e il caso rimaneva avvolto nelle tenebre. Magozzi parcheggiò l'auto accanto al municipio e, per qualche istante, lui e Gino rimasero seduti al buio. «Sai qual è il tuo problema, Leo? Prendi ogni omicidio in modo così dannatamente personale.» Gliel'aveva detto la sua ex moglie e, dopo tanti anni, lo lasciava ancora senza parole. Persino la confessione finale di tutte le sue infedeltà aveva perso mordente, ma non quello. Era stata la prima volta in cui Magozzi aveva considerato la possibilità che un assassinio non fosse un fatto personale, eppure non riusciva ancora a capire. Aveva qualcosa a che fare con l'empatia per la vittima, presumeva. Mai una volta era riuscito a guardare un cadavere con quel distacco mentale che dovrebbe permettere di vedere soltanto un cadavere. Alcuni poliziotti ci riuscivano. Ci dovevano riuscire, altrimenti impazzivano. Magozzi non era mai stato capace di farlo. Per lui non era solo un cadavere, era sempre una persona morta. C'era una grande differenza. Stavolta tuttavia era peggio. Erano soltanto al primo giorno d'indagine e non solo provava pena per la vittima, cominciava a provarla anche per sé, perché non aveva conosciuto quell'uomo, cosa che prima non era mai accaduta. «Una lunga giornata», disse infine Gino con un sospiro.
«Troppo lunga. Troppe persone tristi. Sai, per una volta vorrei lavorare a un caso in cui tutti odiano il morto.» Gino grugnì. «Questo non succederà mai. Nessuno odia un morto, non si può. Anche se sei il più perfido figlio di puttana della terra, quando ti mettono in una bara e ti lasciano in mostra sotto gli occhi di chi ti odiava quand'eri vivo, tutti sembrano trovare qualcosa di carino da dire. È una specie di miracolo.» Magozzi guardò accigliato la strada deserta. Forse Gino aveva ragione. Forse Morey Gilbert era come chiunque altro ed era stato in certo qual modo nobilitato dalla morte, ma nel suo cuore non la pensava così. «Credo però che questo caso sia leggermente diverso, Leo.» «Sì, lo so. Stavo pensando la stessa cosa.» Magozzi chiuse gli occhi, ricordando tutte le persone davanti al vivaio. Era quel genere di assembramento improvvisato che ti aspetti se muore una celebrità o una figura pubblica molto amata, non un uomo qualsiasi di cui nessuno aveva mai sentito parlare. I media avevano divulgato la notizia, perlopiù per l'ingorgo sul boulevard. Anche loro non avevano mai sentito parlare di Morey Gilbert e avevano rivolto gran parte dell'attenzione allo squisito orrore acchiappaaudience di un altro anziano torturato e legato ai binari del treno. La Quinta di Beethoven risuonò dalla tasca dei bermuda di Gino. Nell'estrarre il cellulare prima che l'irritante melodia ricominciasse, lui strappò la tasca. «Maledizione, castigherò quella ragazzina. Le insegnerò ad avere un po' di rispetto per suo padre e per i compositori di musica classica.» «Se è per questo, dovresti prenderti uno di quei porta-cellulari...» «Oh, certo. Un cellulare in un fodero e la pistola nell'altro. Finirei per spararmi nell'orecchio. Sì, qui Rolseth.» Quando Gino accese la luce dell'abitacolo e iniziò a prendere appunti, Magozzi scese dall'auto e si appoggiò alla portiera, premendo il tasto di chiamata rapida sul suo telefono e aspettando che scattasse il bip della segreteria. «Ehi, sono Magozzi. Abbiamo una cosa per le mani e farò un po' tardi. Cercherò di arrivare per le dieci. Richiamami se è troppo tardi, altrimenti ci vediamo verso quell'ora.» Chiuse il cellulare e rientrò in macchina, pregando che le dieci non fosse troppo tardi, che nelle ore seguenti il telefono non suonasse. Gino agitò il notes nella sua direzione. «Era il gestore notturno del Wayzata Country Club. Jack Gilbert era là ieri sera, proprio come ha detto. A quanto risulta, passa lì quasi tutte le sere, solo, il che ci rivela qualcosa della sua vita familiare. Ma il posto chiude all'una e Anant ha collocato l'ora
del decesso tra le due e le quattro, giusto?» «Giusto.» «Perciò aveva tutto il tempo di andare al vivaio e sparare al padre. Il che significa che non possiamo escludere nessuno della famiglia: la vecchia era sola in casa, il figlio e il cognato erano presumibilmente entrambi sbronzi e non ricordano un accidente.» Sospirò e infilò il notes in tasca. «Nessuno ha più un alibi. Detesto questa cosa. Allora, che ne pensi?» Magozzi si allungò verso il sedile posteriore per afferrare uno dei sacchetti macchiati di unto che stava probabilmente trasudando sul sedile. «Penso che questa macchina puzzerà di barbecue per un anno. Ripetimi perché siamo stati costretti ad andare a prenderci la cena.» «Perché, se ci mandavamo Langer, tornava con carote e segatura o qualche merda vegetariana, ecco perché.» Minneapolis si stava vestendo a sera col suo scintillio di luci. Era una bella città, pensò il detective Langer, fissando i rettangoli gialli in un grattacielo lontano che salivano nel cielo notturno come una sorta di scala dorata. Non il tipo di posto che ti aspetti partorisca un killer del genere. Tanto minnesotano quanto irlandese, McLaren era convinto che chiunque avesse ucciso Arlen Fischer era sicuramente di un altro posto, forse di Chicago, di New York o della cittadina in cui vivevano i Soprano, quale che fosse. Langer aveva sorriso all'idea, ma doveva ammettere che, nel modo in cui l'anziano era stato ucciso, c'era un'impronta mafiosa d'altri tempi. In molti altri ambiti non si vedeva una simile creatività. Lanciò un'occhiata al monitor e mosse lievemente il mouse per riportare in vita il rapporto che stava scrivendo. Detestava scrivere rapporti. Odiava il gergo misterioso, affettato, da sbirri che mandava in tilt il cervello e inceppava la lingua. Non mettevi mai piede in una casa, ma «entravi in un'abitazione residenziale», la gente non veniva mai uccisa da un colpo di pistola, ma «subiva ferite letali inflitte da arma da fuoco» di questo o di quel calibro. E Arlen Fischer non era stato di certo legato ai binari del treno per essere ridotto in poltiglia dal treno merci di mezzanotte per Chicago: era stato semplicemente «assicurato ai binari in direzione sud mediante filo spinato». Non potevi nemmeno citare il fatto che il treno era in arrivo, perché in quel modo sottintendevi che il criminale avesse premeditato un mezzo per uccidere, mezzo non dimostrato. Qualsiasi avvocatuccio della difesa si sarebbe appigliato a una cosa del genere. Il legalese era quello che era. Se uno sbirro avesse parlato così nella vita vera, i colleghi gli avrebbe-
ro riso dietro. Guardò di nuovo le luci, sognando l'ultima frase, chiedendosi se il comandante Malcherson lo avrebbe sospeso se avesse scritto che Arlen Fischer era stato messo sui binari per essere affettato da un treno. «Dai, Langer», lo rimproverò McLaren. «Datti una mossa, ti va? È arrivato il catering.» Langer alzò lo sguardo e trasalì, sentendosi in colpa come lo scolaro cui non avrebbero mai dovuto assegnare un banco vicino alla finestra. McLaren, Gino e Magozzi erano accanto al grande tavolo nella sala della Omicidi e stavano estraendo olezzanti contenitori di cartone bianco da vari sacchetti di carta. «Ho quasi finito», replicò, girandosi verso il computer. «Be', sbrigati», esclamò allegramente Gino. «Il mio stomaco sta pensando che mi abbiano tagliato la gola.» Magozzi gli lanciò un'occhiata. «Dove prendi quella roba?» «Quale roba?» «Tutti quei detti così pregni di saggezza.» «Da mio padre. È un uomo davvero pregno di saggezza.» McLaren trovò il sacchetto coi panini all'aglio e infilò il naso nell'apertura. «Che significa 'pregno'?» «È come 'impregnato di sangue'», rispose Gino, impassibile. «Ditemi, com'è che Tinker e Peterson non sono qui? Lavorate in tandem, giusto?» «No. Siamo bersagliati dai media per questo caso e il capo non lascia che Peterson si avvicini a una telecamera da quando ha detto a quel cazzone arrogante di Channel Three che era un cazzone arrogante.» Gino emise un sospiro di gioia. «È stato un momento splendido.» «Eccome», convenne McLaren. «A ogni modo, Tinker è stato escluso perché domattina va in ferie. Non appena Langer risolverà la faccenda, mi prenderò io tutto il merito.» Langer sorrise mentre dava il comando di stampa, si alzava e si stiracchiava. Era bello restare in ufficio dopo l'orario di lavoro, occuparsi di un caso, ascoltare i ragazzi che si prendevano in giro... Per la prima volta in quelli che gli sembravano anni stava iniziando a pensare che tutto potesse rimettersi a posto. Era a metà della quinta ala di pollo alla griglia e si stava chiedendo se aveva ancora quel flacone di Maalox nel cassetto, quando Magozzi gli fece una domanda. E Langer ebbe la sensazione che, se pure avesse ingurgitato tutto il Maalox del mondo, sarebbe stato inutile. «Tu eri abbastanza vicino a Marty Pullman, vero?»
Langer sollevò un dito e continuò a masticare, prendendo tempo. Nessuno si sarebbe aspettato che Aaron Langer parlasse con la bocca piena. Quando infine deglutì, ebbe la sensazione d'inghiottire una palla di pelo. «Prima di seguire il caso della moglie non lo conoscevo quasi.» «Per quello ci ha mollato», intervenne McLaren. «Non che si possa incolpare quel pover'uomo, eh? Accidenti se è stato un brutto momento.» «Non ne dubito», disse Magozzi. «Oggi era sulla nostra scena del crimine, sai.» «Lo immaginavo», replicò Langer. «Voleva davvero bene al vecchio.» «Be', il punto è che Marty aveva un aspetto piuttosto brutto...» «L'aspetto di un morto che cammina», convenne Gino. «... ed è per questo che te ne ho voluto parlare. Io e Gino ne abbiamo discusso ed entrambi abbiamo avuto la brutta sensazione che lui sia caduto in uno di quei buchi da cui non ti tiri fuori da solo. Quindi se eravate vicini...» «No, si è completamente chiuso in se stesso», affermò McLaren. «A dirla tutta, da quando gli hanno ucciso la moglie, è un morto che cammina. Beve ancora molto?» Gino annuì, cupo. «Ha detto di essersi svegliato stamattina sul pavimento della cucina accanto a una bottiglia vuota di Jim Beam e di non avere idea di dove fosse ieri sera. Gli ho detto: 'Diamine, Marty, bevi così da quando hai lasciato la polizia?' Lui ci ha pensato per un secondo e poi ha risposto: 'Be', questo spiegherebbe i miei blackout'.» McLaren trasalì e scostò i resti del pollo. «In un certo senso, immaginavo che sarebbe finito su quella strada. Non ricordo di averlo visto sobrio neppure una volta durante l'intera indagine. Morey sembrava l'unica cosa che gli permetteva di andare avanti.» D'un tratto Magozzi inarcò le sopracciglia. «Morey? Lo conoscevi così bene da chiamarlo per nome?» McLaren scrollò le spalle, a disagio. «L'hai incontrato anche tu, una volta. Pure tu lo conoscevi come me. Era quel tipo di persona, sai? Siamo rimasti davvero sconvolti quando abbiamo saputo la notizia, stamattina. Come se quella famiglia non ne avesse passate abbastanza. E ti dirò un'altra cosa: l'assassino è uno che non lo conosceva, perché nessuno che lo avesse conosciuto lo avrebbe voluto morto.» Magozzi appallottolò il tovagliolo e si scostò dal tavolo. «Sì, dicono tutti così, ma abbiamo un piccolo problema al riguardo: Morey Gilbert colpito alla testa una volta, da molto vicino. Non sembra un incidente o un colpo
dovuto a una reazione istintiva. Quello che sembra, dai fatti e dalle impressioni, è un'esecuzione.» Langer scosse la testa. «Impossibile. Morey non si sarebbe fatto dei nemici nemmeno se lo avesse voluto. Non potete immaginare quanto bene abbia fatto quell'uomo in vita sua.» «Oh, ce ne stiamo facendo un'idea», osservò Gino. «Avete visto la folla all'esterno del vivaio?» «Sì. Siamo rimasti bloccati nell'ingorgo.» «Be', abbiamo fatto qualche verifica, parlato con un po' di persone e sentito di parecchie buone azioni.» Gino si leccò la salsa barbecue dal pollice e iniziò a sfogliare il notes. «Ho qui una lista di poveri cui dava soldi, di senzatetto che tirava via dalla strada per offrire loro un pasto in casa sua... C'è anche un tizio col tatuaggio di una banda e con indosso un elegantissimo completo Perry Ellis: l'uomo sostiene che Gilbert lo ha convinto ad abbandonare la vita che faceva semplicemente parlandogli...» Langer sorrise. «Parlare era la cosa che faceva meglio.» «Eccome», aggiunse McLaren, sorridendo anche lui. «Accidenti, poteva parlare fino a stordirti, ma non erano mai chiacchiere vuote. Voglio dire, quell'uomo pensava alle cose più strane in modi che a te non venivano in mente.» «Per esempio?» chiese Magozzi. «Oh, diamine, un milione di cose. Come il giorno in cui io e Langer siamo andati da lui dopo la chiusura del caso e Morey ha scoperto che sono cattolico. Te lo ricordi, Langer?» «Oh, sì.» «Insomma, lui ci fa sedere al tavolo di cucina, ci dà una birra e ci fa una valanga di domande, tipo sapere se sono un prete o uno studioso o che...» McLaren scosse la testa, sempre sorridendo, al ricordo. «Allora, detective McLaren. Hanno i santi, i cattolici. Lo sa?» «Certo, Morey.» «È buffo pensare a quelli che hanno scelto. Sa, Giovanna d'Arco: infilzava la gente con la spada. Poi c'è san Francesco che parlava con gli uccellini... qual è il nesso? Non c'è coerenza. E quelle sono le persone che dovrebbero mettere una buona parola con Dio quando non riesci a parlargli direttamente, giusto?» «Be', sì...» «Mosè aveva un rapporto personale col Padreterno, sapete? Gli parlava
proprio come io sto parlando con voi. Quindi, se qualcuno deve intercedere per qualcun altro, penseresti che sia Mosè a farlo. Invece lui non è stato fatto santo. Ora, perché è così?» «Uh, credo sia necessario essere cristiani per essere santi.» «Ah! Capisce cosa intendo? Il modo in cui sceglie queste persone non ha senso.» «Ehi, non sono io a sceglierle...» «Forse dovrebbe parlare con chi fa questo genere di cose, eh? Perché il problema è: basano l'intera loro religione su Gesù e persino lui non poteva essere santo perché era ebreo, non cristiano. Capisce? Non c'è nessun senso. Mi serve il vostro aiuto per capire.» Gino si concesse un vago sorriso. «Quindi era un uomo piuttosto religioso, eh?» McLaren rifletté, poi disse: «Non propriamente religioso. Pensava molto a queste cose, come se tentasse di capire, ma immagino che fosse una cosa comprensibile. Era stato ad Auschwitz, lo sapevate?» Gino annuì. «Sapevamo che era stato in un campo di concentramento. Uno degli assistenti del medico legale mi ha mostrato il tatuaggio col numero.» «Ve lo devo dire, sono rimasto sbalordito quando l'ho scoperto. Non avevo mai conosciuto nessuno che sia stato in un campo di concentramento. Sembrano cose successe un milione di anni fa... E invece viene fuori quest'uomo che ha vissuto in un vero inferno e ne è uscito amando il prossimo. Ve lo ripeto, era un personaggio singolare. Vi sarebbe piaciuto molto.» «Ah, non dirmelo.» Gino si alzò per buttare i contenitori vuoti in un sacchetto. «Non voglio provare simpatia per i morti. Non se ne guadagna niente. Langer, lasci quelle ali di pollo?» «Ci puoi scommettere.» Gino ne afferrò una e ne staccò un pezzo con un morso. «Allora, dimmi: dato che eravate così vicini ai Gilbert, cosa pensavate del figlio?» «Di Jack?» Langer si strinse nelle spalle. «Non si faceva mai vedere. Una specie di pecora nera, credo. Marty diceva che aveva avuto una specie di lite coi suoi.» Gino buttò un'ala ben spolpata nel sacchetto. «Doveva essere stata una lite piuttosto accesa. La vecchia non gli parla.» «Probabile», convenne Langer. «Al funerale della sorella, Jack non stava
nemmeno insieme con la famiglia.» «Oh, Cristo.» McLaren trasalì. «È stata una cosa davvero terribile, me ne ero quasi scordato. Un uomo di mezz'età che strilla come un matto e sta per cadere letteralmente a pezzi. Poi quell'uomo si avvicina incespicando a Morey con le braccia tese... e Morey lo guarda, poi si gira e se ne va. Ha lasciato Jack lì solo, in lacrime, con le braccia tese verso il nulla... Diamine, ve lo ripeto, era patetico.» «Be', è interessante», borbottò Magozzi. «Ama il prossimo e volta le spalle al figlio in un momento del genere? E questo sarebbe Mister Bontà?» «Questo è il punto, Magozzi», mormorò Langer. «Era davvero Mister Bontà e quella storia di Jack al funerale è così in contrasto con la sua indole che viene da chiedersi...» Si bloccò, accigliato. «Quello che viene da chiedersi è: cosa diavolo ha fatto Jack?» concluse McLaren per lui. 8 Il punto era che a Magozzi piaceva guardarla e talvolta non riusciva a fare altro. «Mi stai di nuovo fissando.» «Non ne posso fare a meno, sono molto superficiale.» Grace MacBride sorrise, ma solo un po'. Se aveva un sorriso ampio, tutto denti, Magozzi non lo aveva ancora visto. «Ho un favore da chiederti.» «Sì.» «È un favore grosso.» «Posso farcela.» Ed era vero, naturalmente. Avrebbe fatto di tutto per Grace MacBride e l'unica cosa che chiedeva in cambio era passare qualche sera come quella, seduto al tavolo di cucina a bere vino senza parlare di niente in particolare, mentre guardava i suoi capelli neri e i suoi occhi azzurri, a sognare cose che sarebbero potute accadere se soltanto lui fosse stato abbastanza paziente. «Vorrei che badassi a Jackson.» Oh, non era davvero un buon segno. Jackson era un ragazzino adottato che viveva in fondo all'isolato di Grace e bisognava prendersene cura soltanto se lei aveva in mente di lasciare la città. Maledizione, forse aveva ecceduto nell'essere paziente. Magozzi decise di essere forte e di tacere, fingendo che non gli impor-
tasse, ma poi aprì la bocca e la verità venne fuori. «Grace, non te ne puoi andare. Ho in corso il mio piano di seduzione.» Un altro vago sorriso. «È un piano di seduzione? Sono passati sei mesi e non hai nemmeno cercato di baciarmi.» «È un piano a lungo termine. E poi non eri ancora pronta.» Lei si allungò sul tavolo e gli toccò la mano. Magozzi s'impietrì. Tranne in rari casi, Grace non toccava mai qualcuno, se poteva evitarlo. Oh, certo, magari ti prendeva la mano per condurti verso qualcosa che voleva mostrarti, ma toccare per il semplice piacere del contatto era insolito, da parte sua. «È tutto pronto, Magozzi. Ci lavoriamo da mesi. E adesso l'Arizona ha qualcosa per noi.» «Oh, per l'amor del cielo, Grace, nessuno del Minnesota va in Arizona in estate. È contrario a ogni logica.» «Cinque donne sono scomparse dalla stessa cittadina negli ultimi tre anni e tutto quello che hanno è una montagna di carte, fatta apposta per essere ordinata dal nuovo software.» Magozzi sentì un'improvvisa, inattesa ondata di rabbia colorargli il viso e girò la testa perché lei non la notasse. Grace MacBride aveva passato metà della sua breve vita a scappare dagli assassini... e cosa faceva quand'era finalmente al sicuro? Quella maledetta pazza aveva cercato ovunque un altro assassino e adesso gli correva incontro. Aveva la strana convinzione che affrontare i propri demoni fosse terapeutico, il che era assolutamente logico se avevi paura di volare, ma era del tutto illogico se i demoni erano armati, pericolosi e probabilmente malati di mente. «Hai la nuca molto rossa, Magozzi.» Lui si voltò, sforzandosi di mantenere un tono calmo. «Non c'è nessun motivo di andare laggiù. Il programma può macinare tutte le informazioni da qui.» «Magozzi... Le cinque indagini hanno generato migliaia di pagine e centinaia d'immagini, ci sono nuove informazioni che arrivano ogni giorno e neanche una parola è nel computer. Ci vorrebbe un mese soltanto per trasmettere tutto.» «Allora prendetevi un mese.» Lei scosse la testa e i capelli neri le ricaddero ondeggiando sulle spalle. Cerca di distrarmi, pensò Magozzi. «Non abbiamo tempo. Quell'uomo rapisce una donna ogni sette mesi, puntuale come un orologio. Ne sono passati sei dall'ultima.» Magozzi pensò di calare un pugno sul tavolo. Gli sembrava una cosa
molto italiana, però non riusciva a vedere se stesso comportarsi così. A quanto pareva, il gene della gesticolazione, nel suo viaggio ereditario, lo aveva saltato. «Mi vuoi dire come avete fatto a trovare un Dipartimento di polizia che non sia informatizzato?» Grace posò il mento sulla mano e lo guardò. «Non hai idea di quanti ce ne siano. Si tratta di un ufficio con quattro uomini, uno dei quali è il capo, e persino lui fa il doppio turno nel servizio di pattuglia.» Come odiava quando Grace aveva una risposta efficace per ogni domanda. «D'accordo, allora dove sono i ragazzi della Statale? L'FBI? I Texas Rangers? Chiunque debba dare una mano laggiù se si ha a che fare con un serial killer?» Grace fece una smorfia. «All'inizio, i federali e la polizia statale sono intervenuti alla grande, ma tecnicamente quei casi sono ancora classificati come riferiti a persone scomparse, non a omicidi. Niente cadaveri, niente scena del crimine e scarso interesse della stampa, dopo che è saltato fuori che gran parte delle vittime non erano proprio cittadine modello. Gran parte di loro aveva una storia alle spalle - fughe da casa, uso di droga, prostituzione - perciò sono finite molto rapidamente in fondo alla lista delle priorità.» Magozzi avvertì un primo barlume di speranza. «Ma, se non ci sono cadaveri, che cosa li rende così sicuri di essere di fronte a una serie di omicidi? Un fuggiasco scappa, dopotutto. È quello che fa. Forse sono ancora in giro.» Grace si stava spazientendo. «È proprio questo il muro che il comandante si trova di fronte: se scompaiono donne di questo genere e nessuno trova subito un cadavere, la polizia statale e i federali si tirano indietro, affermando: 'Accidenti, probabilmente se ne sono andate da qualche parte'. Il comandante crede invece che ci sia un serial killer in città e ci ha convinto della sua idea. L'ultima vittima non era una tossica, una prostituta o una fuggiasca, anche se quelli della polizia statale hanno scritto così. Aveva diciotto anni, stava andando a un negozio di alimentari a meno di quattro chilometri da casa per comprare un po' di gelato per il padre. Era la figlia del comandante, Magozzi. Quell'uomo sta cercando la figlia e nessuno lo aiuta.» Davanti a quella frase, Magozzi capì di aver perso la battaglia prima ancora di averla iniziata. Grace non stava correndo incontro a un assassino: stava partendo per una crociata. Chiuse gli occhi e sospirò. «È il genere di caso in cui il nuovo software potrebbe davvero fare la
differenza.» Magozzi cercò di non assumere un'aria infelice, perché capiva vagamente che dimostrarsi infelici non era molto virile. A dirla tutta, sapeva che quel giorno sarebbe arrivato. Da ottobre, Grace e i suoi tre soci maghi dell'informatica si erano ammazzati di fatica, lavorando al nuovo programma e preparandosi a renderlo operativo. Adesso che la notizia era stata divulgata, i casi dell'Arizona erano soltanto l'inizio. Quella faccenda avrebbe avuto un effetto valanga. Aveva visto l'articolo in un paio di numeri delle riviste delle forze dell'ordine che circolavano in quasi tutti i Dipartimenti del Paese e non ci sarebbe stato neppure un poliziotto che non vi si sarebbe buttato addosso, soprattutto dal momento che il servizio non sarebbe costato un centesimo. Il programma FLEE era sostanzialmente un detective informatico. Scansiva ogni pezzo di carta prodotto in un'indagine per omicidio, lo salvava e si autoesaminava alla ricerca di somiglianze e ripetizioni. Niente sfuggiva, niente veniva trascurato, un incubo che si verificava fin troppo spesso quando una decina di agenti leggeva e cercava di ricordare migliaia di pagine di dati. Il software incrociava costantemente le informazioni inserite con una miriade di database, identificando nel giro di ore nessi individuabili con settimane o mesi di lavoro sul campo da parte di una squadra di detective. Una volta, Grace gli aveva spiegato i dettagli tecnici e lui era tornato a casa con un mal di testa terribile. Magozzi se la cavava abbastanza bene con la tastiera, ma quello che succedeva all'interno di un hard drive era roba da incantesimo con la bacchetta magica. Alla fine, Grace aveva usato parole semplici. «Pensala così, Magozzi. Immagina una vittima che, pochi mesi prima, ha staccato un assegno a un antiquario. E immagina che quel giorno un fattorino con precedenti per aggressioni lievi consegni un pacco al negozio di antiquariato. Il programma te lo evidenzia in pochi minuti e tu puoi controllare l'uomo. Ora, un bravo detective con un bel po' di tempo libero può arrivare a fare lo stesso collegamento, ma...» Magari non ci sarebbe mai arrivato, aveva riflettuto Magozzi. Nella Guardia nazionale non c'erano abbastanza uomini per svolgere quel genere di ricerche in tempo utile. A quanto pareva, Magozzi non diceva niente da molto tempo, e la cosa aveva preoccupato Grace, che infatti stava cercando di calmarlo col cibo. Magozzi guardò il piatto di fragole ricoperte di cioccolato che lei gli aveva messo di fronte e pensò che era una mossa sleale. Avrebbe venduto sua
madre per una fragola ricoperta di cioccolato e Grace lo sapeva. «Annie è in Arizona già da una settimana», gli disse lei, suscitando un vago sorriso. Menzionare Annie Belinsky - socia di Grace e di certo la sua migliore amica - faceva quell'effetto a gran parte degli uomini. Fortemente in sovrappeso e incredibilmente sensuale, ad Annie bastava lanciarti un'occhiata per farti credere di essere in mezzo a un'orgia. «Sta cercando una casa da affittare per tutti noi e sta organizzando le cose col comandante.» Il sorriso di Magozzi svanì. «Avete intenzione di affittare una casa? Quanto pensate ci vorrà?» Grace si strinse nelle spalle. «L'affitteremo per un mese.» Magozzi chiuse gli occhi e sospirò. «Devo andare, Magozzi. Devo fare qualcosa.» «E il vostro lavoro qui? Quel programma ha chiuso almeno tre casi di omicidio a Minneapolis, casi rimasti insoluti per anni. Non significa niente? Tre famiglie che alla fine hanno potuto in qualche modo mettere la parola fine alla loro vicenda. Tre omicidi identificati...» «Magozzi.» «Cosa?» «Erano casi vecchi.» «Lo so. E ne abbiamo a milioni. Proprio stamattina Gino mi ha portato un altro dossier...» «Due assassini erano morti e il terzo era nell'ospedale dei veterani, a guardare cartoni animati con la bava che gli scendeva dalla bocca.» Magozzi s'incupì e allungò la mano verso la bottiglia di vino. Forse, se l'avesse ubriacata, avrebbe smesso di dire cose sensate. «Non fraintendermi. Sono contenta che siamo stati d'aiuto e quei casi sono stati un buon test per il software. Ci hanno permesso di eliminare i problemi. Ma là fuori ci sono persone che stanno uccidendo adesso e noi siamo qui, a lavorare sui vostri casi irrisolti, con in mano un programma che potrebbe salvare alcune vite.» Magozzi la guardò direttamente negli occhi. «Sono italiano. Sono assolutamente immune al senso di colpa. Tu ovviamente non lo sei.» «E questo significa?» «Significa che è la tua penitenza. Vi sentite tutti ancora in colpa per gli omicidi della Monkeewrench.» Grace trasalì. Monkeewrench era il nome della loro software house, al-
meno finché non era diventato anche il nome che i media avevano affibbiato a un killer e alla serie insensata di omicidi che avevano quasi paralizzato Minneapolis l'autunno precedente. Da allora ne stavano cercando uno nuovo. «Certo che ci sentiamo in colpa», disse pacatamente. «Come potrebbe essere altrimenti? Ma, quale che sia la nostra motivazione, stiamo facendo una cosa buona, Magozzi, e tu lo sai.» Avvicinò una fragola alla bocca di lui e guardò, incantata, mentre la mordeva. Era il momento più intimo, più apertamente sessuale che Magozzi avesse mai avuto con Grace ed ebbe un effetto dirompente, scatenando tutte le sue frustrazioni. Dio mio, come odiava essere così superficiale. Lei per poco non sorrise di nuovo. «Baderai a Jackson?» Un'altra fragola come quella e lo adotto, pensò, ma disse: «Non posso credere che abbandonerai quel povero bambino senza madre». «Ha una madre adottiva molto simpatica. Dice che le si sta affezionando, anche se è bianca.» «Quel ragazzino ti adora, Grace. È qui ogni giorno. Non puoi scappare da simili legami affettivi...» S'interruppe, chiedendosi se quella non fosse, almeno in parte, la ragione per cui lei aveva deciso di non avere più una sede fissa per la loro software house. I legami affettivi erano la cosa più pericolosa di tutte perché potevano condurre alla fiducia e forse anche all'amore. E, nel passato brutale di Grace, le persone che lei aveva amato e di cui si era fidata avevano quasi cercato di ucciderla. «Succederà soltanto fra qualche giorno.» Grace cercò di placarlo senza le fragole. «Oggi hanno terminato i lavori di adattamento del pullman, ma Harley e Roadrunner devono ancora istallare tutte le attrezzature elettroniche.» Magozzi scolò il bicchiere di vino e allungò la mano per prendere di nuovo la bottiglia. «Tra qualche giorno? Maledizione, Grace, ai dipendenti danno un preavviso maggiore. È troppo presto. Potrei velocizzare il piano di seduzione. Non ti ho neanche mai visto le caviglie. Ma le hai, le caviglie?» Abbassò lo sguardo sugli alti stivali inglesi da cavallerizza che lei portava da dieci anni, tutti i giorni della sua vita, per difendersi da un uomo che tagliava i tendini di Achille delle sue vittime in modo che non potessero scappare. «Tornerò, Magozzi.» «Quando?» «Quando mi potrò togliere gli stivali.»
Harley Davidson viveva a meno di un chilometro da Grace, nell'unico quartiere delle Twin Cities che riteneva adatto a un uomo della sua ricchezza e del suo gusto. Il rispetto che quel quartiere di Saint Paul nutriva per il passato era evidente più che mai nella prestigiosa Summit Avenue, un ampio boulevard tutto alberato che si estendeva dai promontori a picco sul fiume ai confini del centro. A cavallo del secolo, i magnati del legname, delle ferrovie e dell'industria molitoria si erano stabiliti in quell'area, costruendo ampie e imponenti ville sui promontori e lungo l'intera Summit, e ognuno aveva cercato di superare chi era arrivato lì prima di lui. Un secolo dopo, molte ville erano ancora integre, graziosamente ristrutturate dai discendenti che non avevano sperperato le fortune di famiglia, dalla Minnesota Historical Society o dai nuovi ricchi. Harley era uno dei nuovi ricchi di Summit Avenue, con gran sgomento di alcuni vicini ultraconservatori. Nelle sere temperate, percorreva spesso le strade a passi pesanti, grosso e muscoloso com'era, coi suoi vestiti di pelle, con gli stivali da motociclista, con la barba nera folta e con la coda di cavallo che rimbalzava. Il suo viso faceva paura ai residenti... anche prima che si avvicinassero abbastanza da vedere i tatuaggi. La casa di Harley era una mostruosità di arenaria rossa, piena di torrette e circondata da un'alta recinzione di ferro battuto, dotata di punte abbastanza grandi da infilzare un elefante. Tuttavia, facendo soltanto un passo oltre la massiccia porta d'ingresso, sembrava di entrare in un castello da fiaba dei fratelli Grimm. Novemila metri quadrati di lampadari di cristalli d'importazione, mobili antichi, deliziosi, enormi come il loro proprietario, in legno scuro intagliato a mano, un legno che luccicava come «gli occhi di una puttana spagnola», come diceva lo stesso Harley, il che spiegava perché i vicini fossero risentiti della sua presenza. Harley possedeva un impianto stereo che, esteso all'intera villa, faceva tremare le gambe e trasmetteva nonstop pezzi hard rock o d'opera, a seconda che lui fosse solo o no, perché talvolta l'opera lo faceva piangere. In ottobre, dopo il bagno di sangue nel loft che serviva da ufficio della Monkeewrench, avevano temporaneamente trasferito la società al terzo piano della casa di Harley per lavorare al FLEE. Per sei mesi, cioè fino al giorno in cui Annie era partita per l'Arizona, la settimana precedente, lui aveva avuto in casa Grace, Annie e Roadrunner e ora stava insistendo per-
ché quella situazione diventasse permanente. La sera, dopo che tutti se n'erano andati, odori e suoni rimanevano nella vecchia e grande casa, come se ci vivesse una famiglia, e a Harley piaceva quella sensazione. Quella sera, lui e Roadrunner erano nella rimessa per le carrozze, una meraviglia a due piani col pavimento di acciottolato e con le pareti ricoperte di pannelli di quercia a incastro che salivano fino agli archi del soffitto. Anche lì c'erano lampadari di cristallo, che Roadrunner trovava ridicoli ed eccessivi. Inoltre rimpiangeva i box dei cavalli e gli alloggi degli stallieri al pianterreno, che esistevano ancora quando Harley aveva comprato la casa. Quello spazio enorme, che un tempo ospitava carrozze, slitte e gli animali per trainarle, accoglieva adesso un altro tipo di cavalli-vapore. Il pullman era stato consegnato quel giorno e i lavori di routine si erano infine conclusi. Era un mostro dalla pelle argentea coi vetri fumé e sembrava fuori posto in quella rimessa. «Sembra un bus.» Roadrunner stava di fronte al mezzo con le braccia scheletriche sui fianchi e gli occhi quasi alla stessa altezza dell'ampio parabrezza, a due metri dal terreno. Era arrivato da Minneapolis con la sua vecchia dieci marce solo per allenarsi ancora un po', e indossava una delle tute di lycra che portava sempre e che quella sera era di colore nero, perché lui prevedeva di dover fare qualche lavoro sporchevole. «Non è un bus. Non chiamarlo bus. Tecnicamente, è un pullman di lusso e si chiama Chariot.» Roadrunner alzò gli occhi al cielo. «Perché devi sempre dare un nome agli oggetti inanimati? Lo detesto. A tutto, glielo dai, alla casa come al tuo cazzo.» «Il mio cazzo non è inanimato.» «Questo lo dici tu. Se passi tutto il tempo libero a pensare ai nomi, allora pensane uno nuovo per la società. Perché non lo fai, eh?» «Mi sono scervellato per sei mesi. Come si fa a trovare un nuovo nome per la Monkeewrench? È come... un sacrilegio o roba del genere.» «Sì, lo so. È come cambiare nome a un bambino di dieci anni.» «Esatto.» «Ma dobbiamo farlo.» «Presumo di sì.» Nessuno di loro era contento di cambiare il nome della ditta. Erano stati la Monkeewrench per più di dieci anni e quel nome era diventato parte della loro identità.
«Geco», esclamò d'un tratto Roadrunner. «Era uno starnuto?» «Geco. Dovremmo chiamarla Geco, Incorporated.» La bocca di Harley divenne un cerchio perfetto nella cornice nera della barba, tanta era l'incredulità. «Ti sei bevuto quel poco di cervello che hai? È una maledetta lucertola.» Roadrunner scrollò le spalle. «Tanto per continuare il tema animale. Penso sia un bene.» Harley aprì la grande portiera idraulica e salì pesantemente i gradini. «Be', se è questa la direzione che vuoi prendere, allora penso che dovremmo darle il tuo nome: Demenza.» Roadrunner lo seguì imbronciato su per i gradini, ma, non appena mise piede nel lussuoso abitacolo e diede un'occhiata attorno, si dimenticò subito dell'orgoglio ferito. Una moquette spessa e soffice come burro ricopriva il pavimento, divani superimbottiti di piume attorniavano i tavoli di legno lucido, la cucina spaziosa aveva banchi di granito e tubi cromati scintillanti. Ovunque, poi, c'era teak lucido. Harley incrociò le braccia sul petto massiccio con un sorriso extralarge stampato sul volto. «Allora, che ne pensi, mio piccolo amico? Sembra più Buckingham Palace che un coso con le ruote, eh?» Gli occhi di Roadrunner erano sgranati come quelli di un bambino la mattina di Natale. «Uau, è stupefacente. Mi piace davvero tutto questo legno.» Harley si strinse nelle spalle. «Volevo, come dire, un look da yacht senza tutte quelle stronzate da barca», dichiarò in tono umile. «Dai, ti mostro il resto. Non siamo ancora arrivati al pezzo forte.» Roadrunner lo seguì lungo il pullman, fermandosi brevemente con aria meravigliata di fronte a un ampio bagno completo di doccia e vasca a grandezza standard. In fondo al pullman c'era quello che Harley chiamava «il pezzo forte»: un'enorme stanza da letto che era stata privata dei mobili e trasformata in ufficio. C'erano quattro postazioni di lavoro con altrettanti computer, una parete piena di apparecchi fissati ai supporti, un cucinino dotato di wine cooler, un umidificatore per sigari per Harley, e il miglior modello di macchina professionale per il caffè per Roadrunner. «Qui avrà sede il nostro centro di comando mobile, amico mio. Da qui prenderemo chi di dovere a calci in culo o gli frantumeremo le palle. I cattivi del Paese tremeranno di paura ascoltando le nostre parole.» Roadrunner riuscì infine a staccarsi dalla macchina per il caffè. «Dio
mio, Grace e Annie diventeranno matte quando vedranno 'sto coso. Dov'è Grace, a proposito? Pensavo fosse qui a controllare...» «Stasera non poteva. È nella sua dimora d'amore con lo stallone italiano.» «Vuoi dire con Magozzi?» chiese scettico Roadrunner. «Sì, e chi altro?» Lui rifletté. «Pensi siano innamorati?» fece poi. Harley lo guardò a bocca aperta, incredulo. «Hai appena avuto un lampo di genio? Dove diavolo sei stato negli ultimi sei mesi? Certo che sono innamorati.» Il labbro inferiore di Roadrunner si piegò con quell'espressione tragica, ferita che lui assumeva sempre se pensava di essere stato tagliato fuori da qualcosa. «Non li ho mai visti tenersi per mano. Credevo che fossero solo amici.» Harley alzò gli occhi al cielo. «Gesù, non è una cosa da cervelloni, Roadrunner. Non ci vogliono che un secondo e un neurone funzionante per capire, non appena li vedi insieme con l'aria ebete e le palpebre socchiuse, che c'è qualcosa sotto.» «Oh, per amor del cielo. Per questo pensi che siano innamorati? A essere sinceri, Harley, sei davvero un romantico all'ultimo stadio. Vedi soltanto quello che vuoi vedere. Magozzi ha l'aria ebete e socchiude le palpebre, Grace è sempre molto sulle sue, e se avessi due neuroni funzionanti lo avresti notato. So che Magozzi è innamorato di Grace e provo davvero pena per lui, ma Grace non è pronta per imboccare quella strada. Forse non lo sarà mai.» Harley lo guardò in cagnesco. Non gli piaceva quello che Roadrunner aveva detto, perciò decise di non credergli. «Non calpestare mai i sogni romantici di una persona. L'amore è una forza misteriosa e imprevedibile, e sono successe cose ben più strane di una storia tra Grace e Magozzi. Accidenti, chi lo sa? Un giorno una femmina della specie umana potrebbe trovarti attraente. Il mondo è pieno di sorprese.» 9 «Puff! Qui, micio, micio, micio!» Nella voce di Rose c'era un ovvio tremore. Era spaventosamente tardi e quell'inutile bestiola stava ancora vagabondando per il giardino, fingendo di essere sorda.
Aveva sempre odiato il buio, anche da piccola e, con l'età, la paura non aveva fatto che peggiorare. Ora, una settantina d'anni dopo, aveva preso la forma di una fobia irrazionale e invalidante. Non temeva i pericoli terreni in cui poteva incorrere un'anziana che viveva sola, cose come ladri, assassini o stupratori, e nemmeno di cadere e rompersi un'anca, preoccupazioni, quelle, che la figlia le esprimeva in ogni occasione. Era il buio in sé ad atterrirla. Fece un altro passo esitante sul portico posteriore e scorse un lampo bianco nell'angolo più lontano dell'aiola di tulipani. Ovviamente Puff presumeva che tutta la fatica di Rose in giardino fosse a suo beneficio: la più grande lettiera del mondo. «Puff, vieni qui!» Lui reagì con uno scatto irritato della coda, con cui le comunicava che sarebbe rientrato quando fosse stato disposto a farlo, e non un minuto prima. Il suo minuscolo cervello di gatto non capiva che, quando l'oscurità inghiottiva il giardino, non importava se i cani dei vicini lo avessero sbranato; lei non sarebbe stata in grado di uscire per salvarlo. Come odiava essere così, come odiava le lacrime di frustrazione che le pungevano gli occhi. Perché quel maledetto gatto non rientrava e basta? «Puff! Vieni QUI!» Finalmente Puff obbedì. Trotterellò dalla padrona come se l'avesse notata per la prima volta, tenendo la coda ritta in segno di cordiale saluto. Rose lo prese in braccio, ammonendolo con dolcezza, mentre un'ondata di lacrime di sollievo cadeva sul pelo dell'animale. Quando si fu ritirata al sicuro, nella cucina luminosa e accogliente, quelle stupide lacrime cessarono. Rose verso un po' di latte nel piattino del gatto e un bicchierino di sherry per sé. Il telefono squillò mentre Rose si stava sistemando sul divano vecchio e gibboso quasi quanto lei. Era il genero - certo non l'uomo più brillante del mondo e per di più un pessimo dentista -, però era un buon marito per la sua Lorrel e immaginava che una madre non potesse chiedere di più. «Ciao, Richard. Sì, sto bene. Presumo che Lorrel lavori di nuovo fino a tardi. Sicuro che mi ricordo di domani, non ho ancora perso la memoria, Richard. Alle cinque. Da' un bacio per me alle ragazze e di' loro che sono ansiosa di vederle. Ho preparato i biscotti.» Mentre riagganciava, Rose sorrise e stava ancora sorridendo quando accese il televisore. Con qualche moina, convinse Puff a venirle in grembo e si mise a sonnecchiare. Le nipoti erano tornate a casa dal college per qual-
che tempo e la sera seguente sarebbero usciti tutti insieme a cena. Rose si svegliò molto più tardi, confusa e dolorante per la dura giornata di giardinaggio. Puff aveva disdegnato le sue ginocchia, ma lei sentiva che le stava solleticando la nuca. Si era sistemato nella sua postazione preferita, sullo schienale del divano, da cui poteva guardare fuori dalla finestra. Rose allungò la mano dietro di sé per accarezzarlo, ma si bloccò a mezz'aria. Puff stava emettendo un sordo brontolio. Rose cercò tastoni il telecomando e alla fine trovò il tasto MUTE. «Cosa c'è che non va, micetto?» Dopo qualche istante di silenzio, udì un lieve fruscio alle sue spalle, fuori, tra i cespugli. Sono gli zigoli tra le tuie. Nient'altro, si disse. Di notte, gli uccellini trovavano riparo nei soffici sempreverdi e, quando saltavano da un ramo all'altro, si udiva un gran frullio d'ali. Ma quello non era propriamente un frullio d'ali. Sembrava... più pesante. C'è qualcuno là fuori... Rose lo percepì grazie a quell'istinto cui la gente non presta mai attenzione se non quand'è troppo tardi. Le braccia flaccide e chiazzate furono percorse da un brivido. Poi, quando il sordo brontolio di Puff divenne più acuto, lei capì... ... c'è qualcuno là fuori, dall'altra parte del vetro, e mi sta guardando. Voltò la testa lentamente, molto lentamente, e vide due occhi sospesi là nel buio, proprio dietro la finestra. Due occhi che la fissavano. Ci fu un breve istante in cui il suo corpo reagì come doveva, in cui il cuore ebbe un tuffo e prese a martellarle, in cui il sangue le affluì dal cervello alle gambe secondo l'atavico meccanismo di preparazione alla fuga, lasciandole il viso freddo e appiccicaticcio. Ma tutto finì in un lampo. Rose girò semplicemente lo sguardo sul televisore muto e rimase seduta, tranquilla, in attesa di svegliarsi da quel brutto sogno. Non è un sogno. Il fruscio cessò e alcuni minuti dopo, quando infine trovò il coraggio di girarsi di nuovo, dietro la finestra non c'era nessuno. Non respirò finché i polmoni non protestarono, vuoti d'aria, e a quel punto si sentì un po' sciocca, perché probabilmente era stato un brutto sogno. La mente giocava sempre qualche scherzo in quella terra di nessuno compresa tra il sonno e la veglia, soprattutto se era una mente vecchia. Poi la porta d'ingresso prese a vibrare e Rose cominciò a tremare così forte da temere che le sue vecchie ossa si rompessero come vetro.
Chiama la polizia. Cercò il telefono sul tavolino, però la mano non le funzionava come avrebbe dovuto, no, per niente, e non c'era nulla che potesse fare, se non guardare quell'inutile appendice che si contraeva, si agitava, si contorceva e faceva cadere il telefono a terra. Il rumore alla porta d'ingresso infine cessò, ma il silenzio fu molto peggio, perché Rose aveva una paura tremenda di essersi scordata di chiudere la porta sul retro e una ancora più tremenda di alzarsi e di andare a vedere. Rimase seduta sul divano da patetica donna anziana qual era, illudendosi che, se fosse rimasta perfettamente immobile, se non avesse respirato, qualsiasi cosa stesse arrivando le sarebbe semplicemente passata accanto. Un istante dopo, udì la zanzariera della porta posteriore aprirsi e chiudersi con un clic, eppure nemmeno allora riuscì a muoversi. La pesante porta interna si chiuse, risucchiando un po' d'aria dalla stanza. Rose non si voltò a guardarlo, perciò lui si portò nel suo campo visivo e attese che gli occhi di lei si sollevassero e incrociassero i suoi. Quando lo fecero, lui estrasse una grossa pistola dalla tasca della giacca e gliela puntò contro. Oh, Dio mio. Non le sarebbe passato accanto. Stavolta l'avrebbe uccisa. In quel terribile istante di consapevolezza, Rose tornò a essere giovane, forte e impavida e fece un balzo nel momento stesso in cui il proiettile uscì dalla bocca dell'arma. La pallottola la ferì allo stomaco invece che al cuore e lei abbassò lo sguardo, ritrovandosi a osservare una chiazza rossa che si allargava sul suo vestito da piccola, anziana signora. «Maledizione», disse lui. E le sparò di nuovo. 10 Il comandante Malcherson era uno di quegli svedesi alti e ben piantati coi capelli bianchi folti, con due occhi color lago ghiacciato che lo facevano sembrare cattivo e con un volto da cane bastonato che lo faceva sembrare triste. Una sorta di basset hound della Omicidi, insomma. Quella mattina indossava un gessato, un ardito tentativo di seguire le tendenze della moda. «Bello, il vestito», dichiarò Gino buttandosi su una sedia accanto a Magozzi. Questi gli lanciò un'occhiata di avvertimento, ma Gino la ignorò. «È davvero allegro. Una specie di look da gangster.»
Malcherson si bloccò a metà, mentre si stava sfilando la giacca e chiuse gli occhi. «Non è esattamente il tipo d'immagine che speravo di dare, Rolseth.» «Intendevo in senso buono.» «È proprio questo che mi spaventa.» Malcherson si sedette alla scrivania e tamburellò un dito dall'unghia ben curata su due cartelle color rosso vivo. Teneva sempre i documenti dei casi di omicidio in corso nelle cartelle rosse, probabilmente perché, da ultraconservatore qual era, reputava il colore rosso quasi altrettanto offensivo del crimine. Magozzi non ne vedeva una da mesi. «I media vorrebbero sapere perché i nostri anziani cittadini vengono torturati e uccisi.» Magozzi sollevò di scatto le sopracciglia. «Qualcuno ha davvero detto questo?» «Un praticante di Channel Ten.» Malcherson sventolò un foglietto rosa per messaggi telefonici. Gino sbuffò. «È una vera stronzata. Ecco cosa accade quando fai il tuo lavoro e non ci sono omicidi per un po'. Nel momento in cui due persone vengono fatte fuori in una notte, un giornalista imbecille cerca di spaventare a morte la città parlando di escalation o di serial killer o di qualche altra puttanata hollywoodiana. Inoltre solo uno è stato torturato e non era il nostro. Morey Gilbert è morto prima ancora di toccare terra. Sul cadavere non c'era nessun segno, tranne quel piccolo foro di proiettile.» «Quindi non c'è ragione di sospettare un nesso tra i due omicidi.» Magozzi si strinse nelle spalle. «Se c'è, non lo vediamo ancora. Erano entrambi anziani e vivevano nello stesso quartiere, questo è quanto. Il nome di Arlen Fischer non dice niente alla famiglia Gilbert o ai suoi dipendenti, né la sua descrizione, e credo si ricorderebbero di un vecchio di centotrenta chili.» «Bene. Allora possiamo mettere a tacere le voci di un serial killer. Saremo già abbastanza sotto pressione per l'omicidio Gilbert in sé. Al centralino sono arrivate più di trecento chiamate fra la notte scorsa e stamattina.» Magozzi inarcò le sopracciglia. Era un numero assurdo. Venti chiamate per un caso bastavano a innervosire il capo, trecento potevano spezzare più di una carriera. «Per Gilbert o per l'uomo dei binari?» «L'uomo dei binari ha un nome», lo ammonì Malcherson. «Arlen Fischer. Gran parte delle chiamate su quel caso è arrivata dai media e il numero è piuttosto esiguo, se paragonato a quello per Gilbert. Il che lascia stupefatti, considerando l'orrenda natura dell'omicidio di Fischer. Quindi,
signori, vorrei sapere chi diamine era quest'uomo.» Gino agitò un dito. «È esattamente quello che mi sono chiesto io quand'ho visto tutta quella gente davanti al vivaio, ieri. Ovviamente mi sono espresso in modo un po' più colorito.» «Non ne dubito. Nel notiziario di ieri sera, hanno dato rapidamente la notizia. Soltanto un flash, intendo: i media non sembravano molto interessati finché non hanno fatto ricerche su quell'uomo. Adesso Channel Three sta preparando un documentario e sapete come lo intitoleranno? San Gilbert di Uptown.» Gino ridacchiò. «Oh, questa è bella. McLaren ci ha detto che una volta Morey lo ha messo sotto torchio, chiedendogli perché gli ebrei non potessero diventare santi. Ed ecco che affibbiano quel titolo proprio all'ebreo che ha fatto una simile domanda. E lui non è qui a godersela.» «Sono piuttosto certo che sia da intendere in senso laico, e non cattolico. Comunque, vero o immaginario che sia, il Dipartimento di polizia di Minneapolis non dovrebbe permettere che i santi vengano assassinati. Questo è il succo di gran parte delle telefonate. Francamente trovo un po' imbarazzante non sapere niente di un uomo che ha fatto tanto per gli altri, soprattutto il suocero di uno dei nostri.» Gino scivolò sulla sedia e incrociò le mani sul ventre. «Sì, be', Marty Pullman non è mai stato molto loquace. Quando si trattava della sua famiglia era molto riservato, ma, da quello che ho sentito finora, Morey Gilbert era un'associazione caritatevole incarnata in un unico individuo. Ha aiutato più gente di quanta non s'immagini e, se questa non è santità, non so cosa sia. Il guaio è che ciò non lo rende un probabile bersaglio per un omicidio.» Malcherson spostò lo sguardo su Gino. «Ho letto le risposte del detective Pullman. Come sta?» «Ha un aspetto orribile, se è questo che intende. Non l'ho scritto nel rapporto, ma lui ha confessato di alzare il gomito dal giorno in cui se n'è andato da qui, l'anno scorso. Non si ricorda neanche dove fosse la sera in cui il suocero è stato ucciso. Ha detto di essersi risvegliato sul pavimento di cucina con in mano una bottiglia vuota: è tutto ciò che sa.» «Non l'avrete mica considerato un indiziato.» «Marty? No, accidenti, però dovevo chiederglielo. Siamo costretti a prendere in considerazione la famiglia e lui lo sa. Quello buffo è il cognato, Jack Gilbert. Anzitutto non parla coi suoi da chissà quanto: sembra che abbia sposato una luterana invece di una bella ragazza ebrea, il che presu-
mo non sia stato molto gradito. E la sera in cui il padre è morto era impegnato a fare la stessa cosa di Marty, però in una zona migliore della città. Si è sbronzato al Wayzata Country Club e si è svegliato la mattina dopo sul viale d'accesso di casa sua; al club dicono che succede quasi tutte le sere. È come se quella maledetta famiglia sia andata in mille pezzi, dopo l'uccisione di Hannah.» Il comandante Malcherson si guardò le mani e per un istante nessuno disse niente. Anche a distanza di un anno, citare l'omicidio di Hannah Pullman aveva il potere di tacitare qualsiasi conversazione nell'edificio. La violenza casuale non era sconosciuta a Minneapolis, soprattutto in quei pochi quartieri in cui le gang si aggrappavano al loro precario territorio e i passanti innocenti cadevano sotto il fuoco incrociato, ma era una cosa rara e creava grande scalpore in città. L'assassinio della moglie di un agente aveva tuttavia elevato lo shock a mille e, nel corpo di polizia, tutti ne erano rimasti profondamente scossi. A volte i poliziotti venivano uccisi, faceva parte del loro lavoro, ma si presumeva che il rischio non si estendesse alle famiglie. L'omicidio della moglie del detective Marty Pullman era stato per tutti uno straziante richiamo ad aprire gli occhi, perché Marty era armato, accanto a Hannah, quando le avevano tagliato la gola, eppure non era stato in grado di proteggerla. Li aveva indotti a considerare la propria famiglia un po' più vulnerabile, li aveva fatti sentire un po' più impotenti e la triste verità era che molti se l'erano presa con Marty per quello. Perché non ha sparato a quel bastardo, dato che ne ha avuto l'occasione? Nei mesi seguenti, Magozzi aveva sentito ripetere centinaia di volte quella domanda e ogni volta la cosa lo aveva fatto star male, soprattutto quando l'aveva sentita da Gino. «Qualcuno di voi conosceva Hannah?» chiese il comandante Malcherson. Magozzi scosse la testa. «Quel tanto da dirle 'ciao' nell'atrio. Talvolta veniva a prendere Marty.» «Non riesco a smettere di pensare a Mrs Gilbert. La figlia e poi il marito, uccisi nell'arco di un anno. Non so come si possa sopravvivere a una cosa del genere.» «Be', non si lasci impietosire dalla vecchia signora», osservò Gino. «Pure lei non ha un alibi.»
«Gino non ha molto riguardo per Mrs Gilbert», spiegò Magozzi. «Quello per cui non ho molto riguardo è il fatto che ha alterato la scena del crimine, che non sembrava distrutta per la morte del marito e che ha quell'atteggiamento.» Malcherson si accigliò. «Quale atteggiamento?» «Un atteggiamento piuttosto ostile, se lo vuol sapere. Noi facciamo soltanto il nostro lavoro, cercando di scoprire chi le ha assassinato il marito. Ma, quando le ho fatto un paio di domande, lei si è dimostrata davvero... scortese.» Malcherson lanciò un'occhiata spazientita a Magozzi, chiedendogli di tradurre. «Gino ha chiesto a Mrs Gilbert se avessero 'rapporti d'affari insoliti' e lei si è offesa.» «Oh.» «A dire il vero, gli ha risposto male.» «Ah.» Malcherson guardò di nuovo Gino e, per un terribile minuto, Magozzi temette che il capo potesse sorridere. «Quindi, riassumendo, ha messo in dubbio l'integrità del defunto marito e la donna ha reagito in modo meno garbato di quello che lui ritenesse opportuno.» Gino arrossì e sembrò ritrarre la testa nel corpo. «Sarebbe dovuto essere lì, capo.» «Mi spiace molto che abbia ferito i suoi sentimenti, detective Rolseth.» Magozzi si portò la mano alla bocca per nascondere un sorriso e Gino lo notò. «Dai, Leo, c'era ben altro e tu lo sai. Quella vecchia ha qualcosa. Lasciamo perdere il fatto che non abbia versato una lacrima e che abbia una lingua tagliente come un coltello. È crollata quando ha trovato il cadavere del marito? No. Lo ha caricato su una carriola - una carriola, santo cielo -, se l'è portato in giro, l'ha scaricato su un banco per le piante, lo ha lavato con un tubo per annaffiare e infine l'ha vestito per la veglia. Non è la solita vedova affranta. Rischiamo di tralasciare la possibilità che sia un'assassina e che abbia fatto del suo meglio per distruggere le prove.» Malcherson si appoggiò alla sedia e sospirò. «Lei l'ha interrogata, detective Magozzi, e nel suo rapporto risulta 'non indiziata'.» «Mi attengo al rapporto, almeno per il momento», replicò Magozzi. Ma si accigliò di fronte alla visione dei fatti di Gino - Lily Gilbert che trascinava il marito come un sacco di granaglie - e alla sua, che presentava una donna anziana, sconvolta, decisa a mettere il marito al riparo dalla pioggia
e a renderlo «presentabile». Una era vera, ma quale? Non ne era sicuro e, nel lungo periodo, la cosa avrebbe potuto fare una bella differenza. «Però concordo con quello che ha detto Gino: c'è qualcosa. È una donna tosta ed è piuttosto chiusa in se stessa. Forse sa più di quello che lascia intendere. Forse protegge qualcuno. Non lo so ancora.» Gino s'illuminò all'istante. «Ehi, questo mi piace. Forse copre quel deficiente del figlio. Di certo lo odia, però nutre una sorta d'istinto materno nei suoi confronti. Sentite un po': Jack Gilbert è al club e ingurgita alcol come un'idrovora. Ben presto inizia a meditare sulla sua vita e sulla situazione spaventosa dei suoi legami familiari, e diventa un po' sentimentale. Il vecchio di certo non ringiovanisce con gli anni e Jack pensa che forse è il caso di rimediare. Perciò, alla chiusura del locale, quando lo cacciano fuori, decide di fargli visita e di seppellire l'ascia di guerra una volta per tutte. La faccenda però non va molto bene... L'unica cosa che ricorda, dopo, è che il padre è morto e che lui ha in pugno una pistola fumante.» Malcherson inarcò un sopracciglio bianco. Era abituato alle teorie improvvisate di Gino. «Immagino non abbia nessuna prova concreta su cui basare quest'ipotesi.» «Nemmeno la più piccola», disse allegramente Gino. «Mi è venuta in mente adesso.» «Jack Gilbert ha precedenti?» Gino scosse il capo. «È stato fermato un paio di volte per guida in stato di ebbrezza e ha alcune multe per eccesso di velocità. Non ha armi registrate a nome suo o della moglie, ma ciò non significa nulla. Ed è un avvocato specializzato in lesioni personali», aggiunse, senza un motivo preciso. «Fatemi un riassunto della sequenza temporale.» Magozzi sfogliò nel caos di pagine piene di orecchie del suo notes. «La stessa sequenza di sempre, secondo Mrs Gilbert: lei va a letto subito dopo il telegiornale. Morey resta alzato per sistemare un po' di carte e sbrigare un paio di lavoretti nella serra. La donna afferma che di solito lui arrivava a letto verso mezzanotte, ma la sera della sua morte non può confermarlo.» Malcherson alzò un sopracciglio. «Avevano camere separate, signore. Lei afferma di aver dormito senza interruzioni per tutta la notte e di essersi alzata alle sei e mezzo, come sempre. Lo ha trovato poco dopo all'esterno della serra. Ma il medico legale stima che l'ora della morte sia da collocare tra le due e le quattro.» Entrambe le sopracciglia di Malcherson s'inarcarono. «È un po' tardi perché un vecchio se ne stia fuori a fare giardinaggio.»
Magozzi annuì. «È quello che abbiamo pensato noi. O qualcosa lo ha tenuto sveglio e all'esterno di casa dopo l'ora in cui era solito andare a dormire oppure qualcosa lo ha portato là fuori in seguito.» «Se non 'qualcosa', 'qualcuno', come per esempio il figlio», intervenne Gino, insistendo con la sua teoria. «Se però non vi piace il figlio... che ne dite della moglie? Potrebbe essere l'uno o l'altra.» Malcherson gli lanciò una di quelle occhiate di estrema sopportazione tipica di un genitore che affronta per l'ennesima volta un figlio difficile. «La sua empatia per i parenti in lutto mi riempie di speranza per l'umanità, detective Rolseth.» «Il punto è che da quelle parti non ci trovo un gran dolore, capo. Mi faccia vedere il dolore e io le mostro tutta l'empatia che vuole.» «Stringiamo!» esclamò all'improvviso Magozzi. «Dobbiamo scoprire molto di più su Morey Gilbert, vedere se qualcosa ci conduce in una direzione diversa. Sembra improbabile che si fosse fatto molti nemici, ma ovviamente uno se lo è fatto, e nessuno di quelli con cui abbiamo parlato finora ammette tale possibilità, compresi Langer e McLaren, che lo hanno conosciuto piuttosto bene, quando indagavano sull'omicidio di Hannah. Aveva alcuni amici stretti, l'impresario delle pompe funebri, per citarne uno, e andremo a parlargli di nuovo.» La luce rossa sul telefono di Malcherson iniziò a lampeggiare. «Probabilmente sarà un altro reporter», disse Gino. «Vuole che la prenda io?» Per poco Malcherson non sorrise. «Scusatemi un momento, signori. Non muovetevi.» Afferrò il telefono, ascoltò per qualche istante, poi estrasse un notes formato A4 dal cassetto centrale della scrivania e lo posò con cura sul sottomano di cuoio. Sembrava avere una scorta inesauribile di quei notes: Magozzi non lo aveva mai visto utilizzarne uno che sembrasse anche solo vagamente usato e spesso si chiedeva se avesse un armadio pieno di notes scartati perché privi del primo foglio. Lui e Gino guardarono con crescente apprensione Malcherson scribacchiare con la sua Montblanc. Le telefonate innocue non richiedevano tanti appunti. «Non sono buone notizie», disse Malcherson, dopo aver riagganciato. «Era l'agente Viegs, chiamato per un'anziana trovata morta in casa sua, stamattina. È stata uccisa con un'arma da fuoco.» Staccò il foglio di carta e lo porse a Magozzi.
«Stesso quartiere?» domandò Gino. «Brillante congettura, detective Rolseth.» Malcherson guardò il notes: la seconda pagina era rovinata dai segni della penna, contaminata dai dettagli di un omicidio. Un altro notes pronto per l'armadio. 11 Magozzi e Gino si fermarono davanti a una linda casetta a un piano col tetto basso e con le persiane bianche brillanti. La casa era dipinta in un allegro color azzurro uova di tordo e quel fatto rattristò all'istante Magozzi. Villette come quelle non dovevano avere attorno uno squallido nastro giallo da scena del crimine, che stonava con la scelta cromatica. Il giardino non contribuì a mitigare la tristezza. Era pieno di aiole fiorite e curate - probabilmente, alla fine della settimana, sarebbero state coperte da erbacce - e di ornamenti kitsch del tipo che può piacere solo a una nonna: bagni per uccellini incrostati di vetro colorato, rane di resina con gli occhi di cristallo di rocca, statue sorridenti di gnomi con giacche di scaglie di vetro che imitavano il broccato. Uno gnomo reggeva un cartello dipinto con la scritta IL GIARDINO DELLA NONNA. Gino lo fissò a lungo, poi distolse lo sguardo. L'agente Viegs stava aspettando al sole, accanto alla porta d'ingresso. Goccioline di sudore brillavano tra i ciuffi trapiantati. «Viegs, se ti fai vedere su altre scene del crimine, ti dovremo mettere sulla lista degli indiziati», esclamò Magozzi. «Detective, se capitano altri omicidi come questo nel mio territorio, mi prenderò un permesso per portare mia mamma in un posto sicuro... nel Bronx, per esempio. Vive nelle residenze per anziani dalle parti di Lake Street: lei e i suoi vicini erano già pronti a fare le valigie dopo i primi due. Questo li manderà fuori di testa e non li posso biasimare.» «Capisco, ma, per quello che vale, niente di ciò che abbiamo finora indica che i due casi siano collegati.» Viegs sollevò le sopracciglia e i ciuffi trapiantati si mossero. «Tranne per il fatto che ora ne abbiamo tre, che erano tutti anziani, che vivevano tutti in questo quartiere e che sono stati tutti uccisi con un'arma da fuoco.» «Già. Cos'hai per noi?» Viegs sospirò ed estrasse il notes. «Rose Kleber, settantotto anni, vedova, viveva sola. Due colpi, uno allo stomaco e uno al petto, nessun segno evidente di scasso o di aggressione sessuale. Le due nipoti erano tornate a
casa dal college per la pausa di primavera, e sono venute stamattina a farle una sorpresa. Hanno trovato la porta posteriore aperta e la nonna morta, dentro. Hanno chiamato il 911 e poi la madre.» Tacque, prese fiato e ricominciò: «Erano piuttosto sconvolte, perciò ho chiesto a Berman di accompagnarle a casa, una volta prese le loro dichiarazioni. Non c'è molto, tuttavia. Voglio dire, era una vecchia: faceva giardinaggio, andava al centro per anziani, preparava i biscotti, santo cielo... Ah, merda. Di certo ci hanno messo un po'». Gino seguì il suo sguardo e vide un furgone di Channel Ten accostare al marciapiede. «Una cisterna piena di combustibile si è rovesciata sulla 494 circa un'ora fa. Tutti i reporter della città erano lì attorno con le telecamere puntate, in attesa che la maledetta cosa esplodesse. Immagino che non sia successo. Fa' muro e il finto tonto, d'accordo, Viegs?» «Sicuro. Forse è meglio che entriate dal retro. La squadra di Jimmy sta lavorando nella stanza sul davanti.» Non appena varcata la porta sul retro, Magozzi e Gino s'imbatterono in Jimmy Grimm, che aveva un'espressione seria come non mai. «Ehi, ragazzi, quanto tempo...» Magozzi gli diede una pacca sulla schiena. «E a noi non è dispiaciuto affatto.» Gino si rallegrò un po', grato per la distrazione. «Ehi, Jimmy, pensavo saresti andato in pensione.» «Sì, certo. Ovviamente non hai controllato il tuo fondo pensione, di recente.» Magozzi indicò i sacchetti per le prove che lui teneva in mano. «Hai qualcosa per noi?» Le sue spalle parvero curvarsi sotto il peso di una domanda che non aveva una risposta confortante. «Non molto. Niente bossoli. Un po' di terra, probabilmente del giardino, molti peli di gatto e un proiettile calibro 9 che abbiamo trovato nel cuscino del divano. È passato da parte a parte, l'altro è probabilmente ancora nel cadavere. Sembra che l'abbia colpita prima allo stomaco... Ma come diavolo si faccia a sbagliare tiro a una distanza tanto ravvicinata proprio mi sfugge.» «Forse aveva pianificato così.» Jimmy scosse la testa. «Allora quel bastardo è un vero sadico.» «Viegs dice che non ci sono segni di effrazione né di rapina.» Jimmy scosse la testa. «Non sembra un caso del genere. La borsetta era in piena vista, con dentro un rotolo di banconote, e non abbiamo segni di
piedi di porco da nessuna parte.» «Forse aveva la chiave o sapeva dove lei la teneva», aggiunse Gino, prendendo un appunto per ricordarsi di controllare riparatori, giardinieri e chiunque potesse aver avuto accesso alla casa. Jimmy annuì. «Forse. A proposito, quando siamo arrivati il televisore era acceso, ma io l'ho spento dopo che abbiamo passato la polvere per le impronte.» Scrollò le spalle, in segno di scusa. «C'era il talk-show di Jerry Springer e ascoltarlo mentre esaminavamo la scena aveva un non so che di ripugnante. A ogni modo, è appena arrivato Anant. Se volete dare un'occhiata prima che sposti la donna... Credo che lui vi stia aspettando.» «Grazie, Jimmy. Teniamoci in contatto.» Lui cercò di abbozzare un sorriso, che però non giunse mai alle sue labbra. Mentre attraversavano la cucina, Magozzi notò un piatto di biscotti fatti in casa appoggiato sul banco, avvolto con cura nella pellicola trasparente e profanato da uno strato di polvere nera per impronte. Il dottor Anantanand Rambachan era chino, quasi in atteggiamento di preghiera, sopra il cadavere ricurvo di Rose Kleber. La donna stava sul pavimento a faccia in giù, in un ampio cerchio color ruggine, vicino al telefono schizzato di sangue. Persino Anant sembrava assolutamente perplesso di fronte a ciò che stava osservando, e la cosa gettò Magozzi nello sconforto. Se c'era una persona in grado di dare un senso all'assurdo, quella persona era Anant. Se lui incontrava delle difficoltà, allora si era in un vicolo cieco. Il medico alzò lo sguardo e fece loro un cenno triste e garbato. «Detective Magozzi e Rolseth. Mi fa piacere rivedervi, tutti e due, a onta delle circostanze.» «Lo dice sempre, dottore», replicò cortesemente Gino. «Penso che una volta dovremmo uscire a berci una birra. Per spezzare il circolo, capisce?» «Certo, detective Rolseth, capisco bene.» «È bello vederla, dottor Rambachan», disse Magozzi. Lui ricambiò con un ampio e bianco sorriso che risollevò di colpo l'umore di tutti. «Ah, detective, ha fatto pratica col suo hindi, perché avverto un netto miglioramento nell'accento dall'ultima volta che ci siamo visti.» «Sì, be', i corsi serali aiutano molto.» Il dottor Rambachan lo guardò con un sopracciglio sollevato e sorrise di nuovo. «Penso che stia scherzando. Molto bene.» Ritornò serio, s'infilò un paio di guanti di lattice e si accovacciò accanto al cadavere. «Adesso gire-
rò questa cara signora e... Devo avvertirvi, potrebbe essere sgradevole da vedere. È morta da qualche tempo e di certo sapete che il sangue si raccoglie dove la gravità lo porta...» Li scrutò in volto e aggiunse: «E il sangue stagnante alla fine diventa nero». Lo sapevano, e Anant sapeva che lo sapevano, ma, nonostante l'avvertimento, Gino balzò indietro quando vide il volto annerito, a chiazze, di Rose Kleber. Attesero per un'eternità mentre il dottor Rambachan effettuava i controlli, scandendo il silenzio con qualche sporadica osservazione, ma non c'era niente di particolarmente strano in quel caso, tranne il fatto che qualcuno aveva sparato a un'anziana a sangue freddo in casa sua, mentre guardava la televisione. Gino cominciò ad agitarsi. Non aveva mai acquisito il controllo di Anant, e nemmeno di Magozzi, di fronte ai cadaveri. «Dov'è il gatto?» chiese infine. «Jimmy ha detto che ha un sacco di peli di gatto. Ciò significa che da qualche parte ci deve essere un gatto.» Il dottor Rambachan alzò lo sguardo. «Non ho visto gatti.» «Mi chiedo se la famiglia non lo abbia portato a casa. E se lo hanno dimenticato?» Magozzi gli lanciò un'occhiata sarcastica. «Diamine, Gino, non lo so. Probabilmente morirà di fame. Sarà meglio cercarlo.» «È quello che stavo pensando...» «È curioso», mormorò il dottor Rambachan, bloccando Gino proprio mentre si preparava alla fuga. Il medico si sedette sui talloni e indicò l'interno del braccio di Rose Kleber. «Date un'occhiata qui, signori.» Gino e Magozzi si avvicinarono più di quanto non volessero e socchiusero le palpebre per individuare i particolari di un segno quasi invisibile, tanto era scolorito. «Sembra che anche questa signora sia stata in un campo di concentramento, proprio come Morey Gilbert.» «Maledizione», esclamò Gino, scuotendo la testa. «Non mi piace. Non mi piace affatto.» «Detective?» Uno dei tecnici della Scientifica entrò dalla cucina. «Potrebbe essere solo una coincidenza, ma credo che vogliate saperlo.» Sollevò una piccola rubrica con una sbiadita copertina a fiori. «Qui dentro c'è il numero di Morey Gilbert.»
12 Jack Gilbert sedeva su una sedia da giardino nel centro dello spiazzo del vivaio, con una borsa termica piena di birra ai suoi piedi. Alcuni clienti accettavano l'offerta di una Bud gratis, ma gran parte girava al largo da quell'uomo con gli occhiali da sole rosa e coi pantaloncini giallo neon. Marty partì all'attacco per la terza volta in due ore, stavolta trascinandosi dietro un grosso tubo di gomma per annaffiare e brandendo la pistola a pressione a mo' di fucile. «Dai, Jack, alzati. È tempo di traslocare.» «Non puntarmi addosso quel coso a meno che tu non voglia usarlo», biascicò Jack con un sorriso storto. «Non mi tentare. Gesù, che diavolo ti succede? Stai spaventando i clienti.» Jack lo sbirciò da dietro le lenti rosa. «Non sto spaventando nessuno, anzi probabilmente sto aumentando le vendite del dieci per cento. Te l'ho detto, ubriachi qualcuno e lui compra il doppio. Vedi quel tizio laggiù, quello con le macchie di sudore sulla schiena? Era venuto a comprare una pianta di basilico, ma dopo un paio di birre l'ho convinto a prendere un intero vassoio, così può fare il pesto. La cosa più bella è che non credo sappia cos'è il pesto.» «Insomma, che ci fai qui, Jack?» «Accidenti, Marty, non lo so. Ho sempre pensato che i parenti debbano stare insieme e sostenersi a vicenda quando sono colpiti da un lutto, ma adesso che ci penso è una cosa piuttosto stupida, giacché è maledettamente certo che non è andata così l'ultima volta che qualcuno in questa famiglia è stato ucciso.» A Marty sembrò di aver ricevuto una martellata nel ventre. In ogni istante di sobrietà, ogni giorno della sua vita, vedeva la moglie dissanguarsi tra le sue braccia. Però vederlo e parlarne erano cose diverse. Jack studiò la sua espressione con pacato interesse. «Ma cosa credi, Marty? Secondo te, se non diciamo mai che Hannah è stata uccisa allora lei è... meno morta?» «Sta' zitto, Jack.» «Oh, capisco.» Jack gesticolava con la lattina, schizzando birra ovunque. «Hannah è un'altra di quelle cose di cui in famiglia si non parla mai, perché, se non parli di una cosa, vuol dire che non è mai esistita, giusto? Be', 'fanculo. 'Fanculo a tutti voi, perché Hannah è esistita ed è uno schifo che vogliate dimenticarvi di lei, perché era l'unica Gilbert a valere qualcosa.»
Abbassò gli assurdi occhiali rosa sul naso e guardò Marty con aria di sfida. «E non sei il solo cui manca.» Bisognava ricordarsi di quella cosa, con Jack, pensò Marty. Ricordarsi che era un chiassoso e sgradevole criticone, forse l'essere umano più irritante del pianeta, però sapeva anche amare incondizionatamente, benché pochi lo ricambiassero. E aveva amato Hannah più di tutti. Marty emise un sospiro spazientito. «Dov'è Becky?» «Becky? Mia moglie? La donna che in questa famiglia nessuno ha mai incontrato? Be', penso che oggi si stia facendo qualche iniezione di Botox nelle ascelle. Così evita di sudare, lo sapevi?» «Sai cosa intendo. Perché non è qui con te?» «Vuoi dire perché non fa la moglie amorevole che sostiene il marito affranto o roba del genere? Anzitutto non ci parliamo, il che preclude qualsiasi sostegno da parte sua. In secondo luogo, Lily probabilmente le sparerebbe se mettesse piede nella proprietà. Terzo, a Becky non frega un cazzo.» «Oh, mi spiace, Jack, non sapevo che le cose non andassero bene tra voi.» «Non ti dispiacere, Marty. Ho avuto esattamente ciò che volevo dal mio matrimonio e anche Becky l'ha avuto, se è per questo. Dovresti vedere le sue nuove tette.» Aprì una nuova lattina di birra e ne tracannò metà. «Sei certo che sia la cosa giusta da fare, Jack? Credevo dovessi andare in tribunale oggi pomeriggio.» Lui si strinse nelle spalle. «Niente d'importante. Uno stupido fattorino in bici che sostiene di aver preso un colpo di frusta quando un camion della UPS lo ha urtato. Astuto bastardo. Vede una miniera di soldi e d'un tratto si rompe il fottuto collo.» «Allora non vai in tribunale? Gesù, Jack, ti radieranno dall'albo.» «Non mi radieranno, non possono. Sono in lutto. Mio padre è stato assassinato, santo cielo... Diamine, è così strano, eh? Voglio dire, aveva quasi ottantacinque anni e mi aspettavo che un giorno o l'altro se ne andasse, ma... colpito da un proiettile alla testa? Chi poteva prevederlo? Tu che ne pensi, Marty? Hai qualche idea, qualche indizio? Qualcosa su cui poter lavorare?» «Lasciamo che se ne occupi la polizia, Jack.» «Be', accidenti, Marty, tu sei un poliziotto.» «Un ex poliziotto.» «Non me la bevo. Quando sei un poliziotto, lo sei per sempre. Ce l'hai
nel sangue o roba del genere. Scommetto che quel tuo cervello da detective sta lavorando come un pazzo per cercare di capire. Allora, di chi pensi si tratti?» «Veramente non ci ho pensato.» «Tutte stronzate.» «No, Jack. Non ci ho pensato.» Jack cercò di focalizzarsi su di lui per un lungo istante. «Che diavolo ti succede? Era tuo suocero. Non sei almeno un po' curioso?» Marty si prese tre secondi di tempo per analizzare i sentimenti che ancora gli restavano e decise che no, non era affatto curioso. «Non è il mio lavoro, Jack.» «Eccolo lì. Non è il tuo lavoro. È la tua maledetta famiglia, ecco.» Si girò, disgustato. «Cristo, sei anche più fottuto di me.» «Ti spiace moderare il linguaggio, Jack? Qui ci sono persone per bene.» Jack sbuffò. «Ti spiace moderare lo stupore, Marty? Qui ci sono persone eleganti e se ne accorgono... Ehi, tu!» Con la birra gesticolò in direzione di una donna che stava guardando i fiori su un banco esterno. «Sì, tu col prendisole! Vuoi smettere di accarezzare quelle viole del pensiero? E vieni qui a conoscere la più grande testa di cazzo del pianeta.» La donna rimase a guardarlo a bocca aperta per un istante, poi si voltò e si affrettò verso la macchina. «Jack, ora basta. Devi andartene.» «'Fanculo, Marty.» «Maledizione, Jack, Lily è pronta a chiamare la polizia se non te ne vai. Per l'ultima volta, te lo chiedo con le buone.» Jack finì la birra e schiacciò la lattina sulla coscia. «Va' da Lily e dille questo: se vuole che suo figlio se ne vada, può venire qui fuori a chiederglielo di persona. Altrimenti resto qui sinché non finisce la birra.» Per tutta la vita Marty Pullman era stato un uomo che portava a termine le cose, che vedeva le cose sbagliate e le sistemava. Quel Marty Pullman avrebbe preso Jack, lo avrebbe trascinato giù dalla sedia e portato via di peso, se necessario. Ebbe una sensazione un po' strana quando capì che non era più quell'uomo e che probabilmente non lo sarebbe stato mai più. «Stai rendendo le cose molto più difficili, Jack.» L'altro lo osservò per qualche istante, poi sorrise. «Cavolo, davvero? E io che avevo sempre pensato che cose del genere fossero per forza un po' difficili. Sto semplicemente facendo una piccola veglia, Marty. Una piccola veglia privata per Morey Gilbert, l'uomo più buono del mondo, l'uomo
che tutti amavano, l'uomo che amava tutti tranne suo figlio, com'è ovvio. E non è buffo? Io sono l'unico che si è messo a nudo. Voglio dire, sul serio, Marty, guarda cosa sta succedendo qui: questo posto oggi non dovrebbe nemmeno essere aperto, eppure voi ci siete tutti, professionali come sempre. La vita va avanti, accidenti. Pensate che riusciremo a trovare cinque minuti per metterlo sotto terra?» Marty lasciò andare il tubo, disgustato, afferrò una lattina e tornò a lunghi passi verso la serra. «Ci rinuncio.» Jack rise e poi gli urlò dietro: «Allora, che altro c'è di nuovo?» 13 Per cinque minuti dopo aver lasciato la scena del crimine nella piccola casa azzurra di Rose Kleber, Gino rimase seduto in auto come una persona normale - per rispetto della morta, suppose Magozzi -, ma, quando imboccarono il viale alberato, abbassò il finestrino e si girò per sporgersi con la parte superiore del busto. Sembrava una posizione scomoda, però lui aveva gli occhi chiusi e sorrideva. «Sembri un golden retriever», disse Magozzi. Gino ingurgitò diverse boccate d'aria. «Altri centocinquanta chilometri e forse mi toglierò quell'odore dal naso.» Si accasciò sul sedile, improvvisamente depresso. «Merda. Adesso mi sento proprio male. Non è giusto, sai? Muori ed è triste, e a coronamento di tutto finisci per puzzare tanto che la gente non riesce nemmeno a stare nella stessa stanza con te. I morti dovrebbero avere un buon odore, in modo che tu possa star loro vicino, guardarli e sentirti davvero disperato per quello che è successo.» «Io ti starò vicino, ti guarderò e mi sentirò davvero disperato, indipendentemente da quanto puzzerai, Gino.» «E io te ne sono grato.» Magozzi svoltò nel vialetto del vivaio, superò la siepe e si ritrovò in un parcheggio congestionato. «Be', guarda un po'», disse Gino. «La vedova affranta tiene aperta l'attività. Ehi, quel clown sulla sedia da giardino è Jack Gilbert?» «Così sembra.» «E pare stia proprio facendo il pieno. Sarà molto divertente.» Jack aveva l'aria sinceramente contenta di vederli. «Detective! Ho appena provato a chiamarvi. Lo avete preso? Avete preso quello che ha ucciso mio padre?»
«Ci stiamo lavorando, Mr Gilbert», rispose Magozzi. «Dobbiamo fare ancora qualche domanda a lei e alla sua famiglia.» «Non c'è problema.» Jack si pulì la schiuma dal labbro superiore e cercò di apparire sobrio. «Qualsiasi cosa vogliate. Qualsiasi cosa sia in mio potere. Chiedete pure.» «Chi è Rose Kleber?» domandò brusco Gino, osservando attentamente l'uomo per cogliere un suo eventuale cambiamento d'espressione e restando deluso quando non lo vide. «Diamine, non lo so. Perché? È un'indiziata?» «Non esattamente. Vive nel quartiere. Ci chiedevamo se fosse amica di suo padre.» «La cosa mi lascia perplesso. Probabilmente sì, se vive nel quartiere. Lui conosceva quasi tutti.» Si accigliò, cercando di mettere a fuoco il volto di Magozzi. «Allora, chi è, ragazzi? Cos'ha a che fare con tutto questo?» «È stata assassinata la notte scorsa», rispose Magozzi. Jack batté le palpebre, cercando di elaborare l'informazione mentre gli filtrava tra le cellule cerebrali impregnate d'alcol. «Gesù, è spaventoso, in questa zona stanno cadendo come mosche, vero? Che ne pensate? C'è un nesso? Credete che sia stato lo stesso uomo a farli fuori tutti e due?» «Rose aveva il numero di suo padre nella rubrica telefonica», affermò Gino. «Ed è solo una delle cose che dobbiamo verificare.» «Merda.» Jack ripiombò sulla sedia da giardino. «Metà delle persone di questa città ha il numero di papà. Santo cielo, era solito lasciare biglietti da visita alla mensa dei poveri. Era sempre lì a dare una mano.» «Per quello che le risulta, la signora poteva addirittura vederlo tutti i giorni, giusto?» domandò Gino con noncuranza. «Visto che di recente lei non è venuto qui spesso.» Jack inclinò pensieroso la testa di lato e, per un istante, Magozzi temette che gli si staccasse dal collo. «Sì. Ha ragione. Vi ho detto che da un anno a questa parte sono persona non grata?» Magozzi annuì. «Sì, ieri. Pensavo che fosse per un senso di vergogna. Detesto vedere rotture simili in una famiglia. Deve essere particolarmente dura per lei perdere il padre, prima di aver avuto modo di rimettere a posto le cose.» «No, non c'era nessunissima possibilità di sistemarle.» «Davvero?» «Voglio dire, non è come se non avessi portato fuori l'immondizia o roba del genere, capisce? Non sono mai stato quello che papà voleva che di-
ventassi e, come le ho detto ieri, la ciliegina è stata l'aver sposato una luterana. L'equivalente di servire una braciola di maiale a un ebreo.» Gino annuì, comprensivo. «Sembra che lei abbia avuto una vita difficile, Jack, e capisco quello che ha passato. Anch'io non ho mai fatto contento mio padre.» Magozzi si mantenne impassibile. Il padre di Gino adorava il suo unico figlio come se fosse un dio. «Non importava quello che facessi o quanto mi sforzassi; per quell'uomo non era mai abbastanza. Mi faceva proprio incazzare», continuò Gino. Jack sollevò gli occhi con aria ebbra e incredula. «Gesù, detective. Sono un avvocato, mi dia un po' di credito. Si aspetta davvero di farmi cadere nella trappola delle stronzate sulla solidarietà?» Gino si strinse nelle spalle. «Dovevo almeno provarci.» «Be', per quello che vale, non ho ucciso mio padre, d'accordo?» Si lasciò di nuovo andare sulla sedia e chiuse gli occhi. «Merda. Forse è il caso che vi spostiate un po' indietro. Credo proprio che potrei vomitare.» «Allora... chi era questa Rose Kleber?» Lily era davanti alla finestra anteriore della serra, a braccia conserte, intenta a fissare Jack che ingombrava lo spiazzo con la sua sedia da giardino e la sua borsa termica, steso lì come una carpa stordita. «Viveva sulla Ferndale, Mrs Gilbert», rispose Magozzi. «E un paio di cose hanno attirato la nostra attenzione. È stata in un campo di concentramento, per esempio, come Mr Gilbert.» Le palpebre di Lily si abbassarono per un istante. «E aveva il suo nome e il suo numero nella rubrica telefonica.» Marty era alla cassa e stava grattando una vecchia macchia col pollice. «Mi sembra un po' poco, ragazzi.» «Già. È solo una cosa che stiamo verificando.» Marty annuì, assente, e Magozzi ebbe la sensazione che fosse scarsamente interessato e scarsamente presente. Lily trasse un sospiro e diede le spalle alla finestra. «La gente compra le piante, Morey dà loro un biglietto da visita e dice di chiamarlo se hanno problemi. Capite il quadro? Forse era una cliente.» «Non ancora. Lo capiremo non appena potremo. Nel frattempo, non ricorda di averla sentita nominare?» Lei scosse la testa. «Morey era bravo coi nomi. Non se ne scordava mai uno. Non dimenticava mai una faccia. Per la gente era una cosa straordinaria, come se facesse loro un regalo.»
Magozzi mise via il notes. «Ha un elenco di clienti? Uno schedario tipo Rolodex, magari?» «Sì, nell'ufficio sul retro del capanno per l'invasatura, ma più che altro annoto i numeri. Morey non ne aveva mai bisogno. Sentiva un numero e se lo ricordava per sempre.» «Forse potremmo dare lo stesso un'occhiata, se non le dà troppo disturbo.» Tornati al capanno per l'invasatura, s'imbatterono nei due impiegati con cui Magozzi aveva parlato il giorno prima, quando si erano presentati alla commemorazione improvvisata al vivaio. Stavano buttando sacchi da venti chili di fertilizzante su un pallet munito di ruote con tale serena disinvoltura che Magozzi rimpianse la sua gioventù. Comunque si raddrizzarono, rispettosi, quando Lily si avvicinò. Le rivolsero un sorriso timido, quasi identico, poi si voltarono verso Magozzi e Gino. «Buongiorno, detective», trillarono all'unisono, pulendosi le mani sui jeans e porgendole. Sbigottito, Gino contemplò l'apparizione di quei due giovani beneducati che salutavano le persone più anziane con una cortesia da vecchi tempi. «Ehi, tu!» era la frase più garbata che i ragazzi sotto la ventina gli rivolgevano. «Jeff Montgomery, giusto?» Magozzi strinse la mano prima al ragazzo alto e biondo, poi a quello più basso e scuro. «E Tim...?» «Matson, signore.» «Uno di voi ricorda una donna di nome Rose Kleber, venuta a fare acquisti qui al vivaio?» domandò Gino. I ragazzi rifletterono per qualche istante, poi scrollarono le spalle. «Aiutiamo tanti clienti, ma non sempre ne conosciamo il nome, sa?» rispose Jeff Montgomery. «Che aspetto ha?» Magozzi trasalì dentro di sé, ricordando la faccia maculata e il vestito macchiato di sangue. «Anziana, un po' grossa, capelli grigi...» Guardò i loro volti inespressivi e si rese conto che era un'impresa disperata. Gli adolescenti ricordavano le adolescenti e basta. «A dire il vero, somiglia a tante persone che vengono qui, signore», osservò Tim Matson. «Forse è sulla mailing list. Mr Gilbert spediva ogni tanto le pubblicità dei saldi. Ha controllato sul computer?» «Sai come far funzionare quel coso, Timothy?» chiese impaziente Lily. «Certo. È solo un computer.» «Bene, vieni con noi. Jeffrey, non c'è quasi più basilico sul banco ester-
no. Pensaci tu, per piacere.» «Sissignora.» Jeff scomparve in un baleno, mentre Lily faceva strada nel capanno in direzione di un minuscolo ufficio sul retro. Tutto era coperto di un bello strato nero: il terriccio del capanno adiacente, suppose Magozzi. Rivestiva uno scaffale pieno zeppo di cataloghi, una scrivania ingombra di carte e il vecchio computer con stampante che vi erano collocati sopra. A Grace sarebbe venuto un colpo. «Non è un bene per questo coso», osservò Gino, tamburellando sul computer. «Tenerlo così, intendo, vicino al capanno per l'invasatura.» Tim si sedette sull'unica sedia e accese il computer. «È un modello vecchio, signore. Non sono così sensibili come quelli nuovi. L'hardware è migliore, se proprio lo devo dire, e Mr Gilbert non lo usava molto. Solo per le fatture una volta al mese e la mailing list.» «Uff.» Lily incrociò le braccia sul petto in segno di disapprovazione. «Questo lo pensi tu. Ci giocava, con quella stupida macchina. Sentivi il bip-bip-bip fin dalla serra anteriore. Un giorno sono tornata indietro, ho dato un'occhiata ed eccolo là, un uomo adulto che abbatte piccole astronavi da cartone animato.» Tim trattenne un sorriso mentre recuperava una mailing list in ordine alfabetico, poi mosse la mano in direzione dello schermo. «Mi spiace, non c'è nessuna Rose Kleber.» Gino stava sollevando alcuni fogli sparsi sul tavolo e sbirciava sotto di essi. «Ha un Rolodex, Mrs Gilbert?» Lei socchiuse le palpebre. «Uno di quei piccoli aggeggi con tutte le schede?» «Sì, esatto.» Scosse la testa. «Una delle cose più stupide che abbia mai visto. Vuoi trovare il numero di Freddie Herbert? Passi mezza giornata a guardare tutte quelle schedine, a una a una.» Aprì un cassetto, sbatté un indirizzario sul tavolo e lo aprì alla lettera H. «Ecco. Tutte le H su un foglio, senza girare, senza schedine, Freddie Herbert salta subito all'occhio, in un lampo.» Lo sfogliò fino alla K, guardò i tre nomi elencati, quindi si strinse nelle spalle. «Nessuna Kleber.» «C'è qualcos'altro in quel computer, Tim?» domandò Magozzi. Tim premette alcuni tasti e tornò al menu principale. «Solo la mailing list e le fatture, signore. Questo è tutto.» «Va bene.» «Posso spegnerlo? Dovrei andare fuori ad aiutare Jeff.»
«Va', va' pure», gli disse Lily, poi si voltò verso Magozzi e Gino, impaziente di tornare dai clienti. «C'è altro?» «Per il momento no», rispose Magozzi. «Grazie per l'aiuto, Mrs Gilbert.» «Quale aiuto?» brontolò Gino pochi minuti dopo, mentre percorrevano la striscia d'asfalto attorno alla serra, di ritorno al posteggio. «Ci ha mostrato l'ufficio, ha risposto alle domande...» «Sì, ma lei non ne ha fatte. Siamo qui da quasi un'ora e non ha chiesto neppure una volta se avevamo un indizio su chi le avesse ucciso il marito, e questo non fa che scatenare i miei istinti cinici.» Si fermarono nel punto in cui Lily aveva trovato il cadavere. Gino si sfregò la nuca. «Sai, m'inquieta non poco che tenga aperto questo posto il giorno dopo l'assassinio del marito. Non dovrebbe essere in casa a coprire gli specchi o robe del genere?» Magozzi lo guardò, inarcando le sopracciglia. «Gino, sono stupefatto e colpito. Sei andato a casa e ieri sera ti sei documentato sulle tradizioni funerarie ebraiche, vero?» «No. Un film. Melanie... come si chiama, quella bionda graziosa con la voce da bambina? È nell'NYPD, sotto copertura da qualche parte, in mezzo a un sacco di ebrei molto osservanti, non ricordo come si chiamano, quelli coi boccoli.» «Ebrei chassidici.» «Comunque si chiamino. Qualcuno muore e loro coprono tutti gli specchi. Lily dovrebbe essere a casa a fare quello.» Magozzi sospirò. «Non sono chassidici, Gino, e nemmeno ortodossi. McLaren ha detto che non erano religiosi, ricordi?» «Non devi essere religioso per dimostrare rispetto.» Guardò l'orologio e tamburellò sul vetro. «Che ora è? Ho detto alla figlia di Rose Kleber che saremmo stati da lei alle undici.» «Manca poco.» «Allora è meglio muoversi. Maledizione, un vero spasso.» Marty non si era mosso da quando Lily, Magozzi e Gino avevano lasciato la serra. Gran parte dei clienti era ancora all'esterno, intenta a svuotare i banchi di vendita. E per dieci minuti buoni era rimasto solo alla cassa, fissando il vuoto e pensando che altre sei o sette birre della borsa termica di Jack forse gli avrebbero attenuato il mal di testa che non lo mollava dal giorno prima. Era perfettamente sobrio da più di ventiquattro ore e non ri-
cordava l'ultima volta in cui era successo. Essere sobrio, decise, non era poi bello come decantavano. Lanciò un'occhiata fuori dalla finestra e vide che Jack, assopito sulla sedia da giardino, stava diventando rosso al sole. Fece un passo verso la porta per urlargli di mettersi all'ombra, poi si fermò. Che si arrostisse pure, quel bastardo. 14 Il detective Johnny McLaren sedeva dietro i cumuli di roba sulla sua scrivania, da cui facevano capolino alcuni ciuffi di capelli rossi. Gloria stava avanzando lenta nel corridoio centrale, diretta verso di lui e, quando quel corpo era in movimento, non c'era speranza di concentrarsi su altro. Era una donna statuaria, grande, nera e bella, e il più delle volte si vestiva con una ricercatezza da festival del cinema. Quel giorno indossava un sari giallo intenso con un copricapo in tinta. A Johnny sembrò di guardare il sole. «La poesia in movimento. La donna dei miei sogni. La mia anima gemella. Il mio destino.» «Datti una calmata, McLaren.» «Non posso. Guardo te, guardo me e vedo tanti bambini neri coi capelli rossi.» «Uh-huh. Un grande sogno per un piccolo sbirro.» Battendo di nuovo col dito sul foglio del messaggio, disse: «Quest'uomo ha chiamato tre volte, stamattina. Uno dal tono piuttosto impostato. Un inglese d'Inghilterra». La faccia rossiccia di McLaren si corrugò, perplessa, mentre lui leggeva il messaggio. Solo un nome e un numero estero. «Per che diamine mi dovrebbe chiamare un inglese? Non ne conosco.» «Be', accidenti, tesoro, non lo so. Speravo che fosse il tuo nuovo sarto. Dio sa che nella terra di sua maestà non ti avrebbero mai venduto quella giacca.» «Cos'ha che non va la mia giacca?» «McLaren, il madras era fuori moda già prima che nascessi. Fattene una ragione. E, se Langer torna dal bagno entro questo secolo, il comandante Malcherson vi vuole tutti e due nel suo ufficio alle tre per un aggiornamento sull'uomo dei binari, così da avere qualcosa da dare in pasto ai media per il notiziario delle cinque. Quegli sciacalli adorano quell'omicidio.» «Che fortuna sfacciata», brontolò McLaren, mentre cercava tastoni il
dossier nel disastro della sua scrivania. Gloria gli si avvicinò lievemente e lo studiò con aria furba. «Un fatto molto strano.» «Uh-huh.» Lei schioccò la lingua. «Quell'Arlen Fischer doveva proprio essere un bel tipo per finire com'è finito.» Attese una risposta, ma McLaren era totalmente assorbito da un memo di Malcherson vecchio di un mese riguardante il codice d'abbigliamento. «Davvero, McLaren», sbottò, irritata, «sotto quella pila di porcherie potrebbe essere sepolto Jimmy Hoffa.» «È tutta questa merda interna dell'ufficio, non riesco a starci dietro. Come diavolo faccio a trovare il tempo di risolvere i crimini se ogni settimana devo leggere un maledetto memo di cinque pagine di empietà varie?» Gloria inarcò un sopracciglio perfettamente curato. «Be', sono letteralmente stupefatta. Ho sempre pensato che non li leggessi. Non so come mi sia venuta un'idea così stupida.» Infilò la mano sotto una pila di annunci di svendite ed estrasse il dossier di Arlen Fischer. «È questo che cercavi?» McLaren la fissò, stupito. «Sì.» Lei raddrizzò il fianco ed emise un basso mormorio che a McLaren ricordò un violoncello. Gloria lo faceva sempre quand'era a caccia d'informazioni. Funzionava ogni volta. «Be', a proposito di Jimmy Hoffa, non so che cosa ne pensiate voi ragazzi, però a me sembra un assassinio di mafia.» Gli agitò la cartellina davanti al naso prima di porgergliela. McLaren la guardò, raggiante. «Te lo ripeto, Gloria, siamo anime gemelle. È proprio quello che pensavo io all'inizio: mafiosi di altri Stati che vengono a combinare casini nel Minnesota con le loro piccole vendette. È un vero peccato che non stia in piedi.» «E perché?» «Be', in primo luogo Arlen Fischer era un ottantanovenne di centotrenta chili con le anche malandate... non esattamente il tipo del mafioso comune.» «Ti devo dire un paio di cose, Marion Brando.» «E io ne devo dire una a te. Messinscena. Inoltre, quell'uomo era il re della mediocrità. Sai che cosa faceva per vivere? Riparava orologi. Ha lavorato nella stessa maledetta gioielleria per trent'anni e più, viveva grazie alla previdenza sociale e a una piccola pensione, niente famiglia, niente amici, niente denaro. Te lo ripeto, non era nessuno. Non ha mai lontanamente destato l'attenzione di qualcuno.» «Hmm. Sai cosa penso, McLaren?»
«Sono tutt'orecchi.» «Tesoro, adesso non ho tempo di parlare delle tue deformità fisiche, ma non penso che leghi un Mister Nessuno ai binari del treno e lasci che muoia di paura o che venga tagliato in due.» McLaren sospirò. «Sì, be', da questo punto di vista abbiamo qualche problema.» Gloria incrociò le braccia sotto il petto prosperoso. «Ricordati solo che la vecchia Gloria ti ha detto di cercare un legame con la mafia. E, quando alla fine arresterai Tony Soprano, mi pagherai una cena a base di una bella e grossa aragosta.» McLaren si drizzò sulla sedia. «Ti pago una cena a base di una bella e grossa aragosta quando vuoi.» «Chi ti ha detto che sei invitato?» McLaren osservò impotente mentre Gloria si allontanava silenziosa per continuare il giro, consegnando memo e biglietti con messaggi agli altri tavoli della Omicidi, tutti vuoti, dato che Gino e Magozzi erano fuori, impegnati sul campo, e il resto degli uomini assegnato ad altre divisioni con più lavoro. McLaren detestava il silenzio di una stanza vuota. Ne aveva già abbastanza quando tornava a casa, la sera. Emise un lieve sospiro di sollievo allorché Langer entrò dall'atrio, ma gemette non appena vide la scatola di cartone che stava portando. «Oddio, Langer, mi vuoi uccidere? Non me ne dare un'altra.» Langer la posò su un tavolo di servizio che avevano infilato tra le loro scrivanie. «Questa è l'ultima.» «Gloria sostiene che è collegato con la mafia.» Langer sorrise. «La cosa inquietante di quella donna è che il più delle volte ci azzecca, il che significa che è più brava della media di noi. Non so perché non si arruoli e non faccia veramente questo lavoro.» «Una volta gliel'ho chiesto. Ha detto che non vorrebbe mai farsi vedere in giro coi vestiti che ci fanno indossare. Dobbiamo proprio controllare un'altra di quelle maledette scatole?» «Sì.» «È deprimente da morire.» «Non me lo dire.» Langer iniziò a passare al vaglio un'altra quantità di detriti della vita di Arlen Fischer con la tenue speranza di trovare qualcosa di utile. Fino a quel momento il contenuto dei tavoli e degli armadi dell'uomo non aveva fornito altro se non la conferma che lui conservava il
ciarpame invece di buttarlo via. Avevano già esaminato quattro scatole come quella e la cosa più interessante era una vecchia scatolina vuota di Chiclets, che aveva subito evocato ricordi d'infanzia a entrambi. A quanto pareva, le mamme di tutte le fedi distribuivano di nascosto quei preziosi quadratini di gomma da masticare ai bambini per tenerli tranquilli durante le funzioni. Johnny si alzò e si stiracchiò, sbirciò nella scatola e ne estrasse un pacchetto di cracker sbriciolati per minestra. «Oh, caspita, abbiamo un indizio.» Langer guardò quel piccolo, patetico sacchetto, si accigliò e distolse rapidamente lo sguardo. Era il genere di cose che aveva trovato nella casa della madre un anno prima, dopo il funerale: gomme da masticare tanto vecchie e fragili che si erano rotte nei loro involucri di stagnola non appena lui le aveva toccate, scatole di mozziconi di candela, fogli di carta da regalo e, cosa che lo lasciava tuttora perplesso, un sacchetto di carta pieno di collant, tutti con una gamba tagliata. Le collezioni dei morti erano sicuramente una delle cose più tristi al mondo. «Qualcosa d'importante, Langer?» Lui scosse la testa e finse di studiare un vecchio volantino politico che aveva appena preso dalla scatola. Non parlava della lunga agonia della madre con nessuno: né col collega, né col rabbino e nemmeno con la moglie, che probabilmente sarebbe stata protagonista del suo prossimo fallimento. La madre era stata il primo: dopo una vita piena di amore, di umorismo e di Chiclets, Langer era fuggito dall'Alzheimer di cui lei soffriva e l'aveva abbandonata in mano a sconosciuti, che l'avevano lasciata morire sola. Proprio come aveva fatto lui. «Langer?» Dopo aver fallito con la madre, aveva fallito sul lavoro. Era rimasto a guardare come un emerito idiota il killer della Monkeewrench passargli davanti sulla rampa di un posteggio del Mall of America, mentre spingeva la sua vittima su una carrozzella. Era un detective e non aveva riconosciuto un assassino a pochi metri da lui. Si svegliava ancora nel cuore di ogni notte tutto sudato e ansimante, pensando alle vite che dopo quel giorno erano andate perdute e alla facilità con cui lui avrebbe potuto salvarle. Poi, ovviamente, c'era il fallimento più grosso, quello con se stesso, col suo Dio e con tutto ciò in cui credeva, e il buffo era che gli ci era voluto solo un attimo. No, nemmeno un attimo. Solo pochi secondi gli ci erano voluti per...
«Gesù, Langer, che diavolo hai?» Lui trasalì nel sentire la mano di Johnny McLaren sulla spalla: in quell'istante pensò che il cuore gli si fosse fermato. Ma tale eventualità non lo smosse affatto. «Ehi, che c'è, amico? Hai l'influenza? Stai sudando come un maiale.» Langer si raddrizzò e si asciugò il volto, sentendo la patina viscida della paura e del rimpianto. «Scusami. Sì, forse ho un po' d'influenza.» «Be', siediti, santo cielo, ti porto un po' d'acqua. Poi forse dovresti pensare di andartene a casa.» McLaren lo guardava circospetto, con un misto di diffidenza e di paura. «Per un minuto sei stato davvero su un altro pianeta, sai? Mi hai spaventato a morte.» Langer gli sorrise perché McLaren si era offerto di portargli un bicchier d'acqua. Una cosa piccola, stupida, eppure lo aveva commosso, come se fosse una gentilezza che lui assolutamente non meritava. «I maiali non sudano», disse. «Eh?» «Hai detto che stavo sudando come un maiale, però i maiali non sudano.» «No?» «No.» McLaren sembrava molto confuso. «Be', è così stupido. Mi fa incazzare, accidenti. Perché inventano detti sui maiali che sudano se non è vero?» «Proprio non lo so.» Quando McLaren tornò con una tazza sbreccata piena d'acqua e con due pilloline bianche, Langer era seduto tranquillo alla sua scrivania a osservare l'erba diventare verde dall'altra parte della strada, di fronte al municipio. «Hai un aspetto migliore.» «In realtà, adesso mi sento bene. Anzi normale. Cosa sono queste?» chiese, toccando le minuscole pillole. «È aspirina. Be', non proprio. Non ne ho trovata, ma Gloria ha detto che contengono aspirina o aceta-qualcosa, sai, in caso tu avessi la febbre.» Langer girò una pillola e sorrise quando vide il marchio, riconoscendo la medicina che la moglie prendeva per la sindrome premestruale. «Grazie, Johnny. Te ne sono grato.» «Non c'è di che. Sai, stavo pensando, hai aperto quella scatola e poi, bum, sei stato male. Potrebbero esserci delle spore in mezzo a quelle vecchie porcherie, come succede quando aprono le tombe egizie? E magari tu hai inalato per bene e...»
«Ah», annuì Langer con aria saggia. «Allora dovremmo chiudere quella scatola e dimenticarcene perché dentro potrebbero esserci delle spore letali, giusto?» «Buona idea.» McLaren fece per chiudere i lembi della scatola, poi si fermò, emettendo un triste sospiro. «Il guaio è che così non arriviamo da nessuna parte. Immagino che potremmo parlare ancora con la padrona di casa, ma non so che altro possa dirci.» «Probabilmente niente.» Langer lanciò un'occhiata alla scatola abbandonata. «Non sembra che ci sia molto da dire sulla vita di quell'uomo.» «Sì, è quello che stavo dicendo a Gloria, che non era nessuno. Lei in sostanza ha replicato che, se non si è nessuno, non si muore in quel modo. Qui sta l'inghippo, no? Qualcuno sapeva che Arlen Fischer esisteva e a quanto risulta Fischer lo ha fatto incazzare veramente tanto.» Langer rifletté per qualche istante, poi prese un notes dal cassetto e schiacciò il pulsante di una penna a sfera. «Bene. Chi tortura la gente quando s'incazza veramente tanto?» McLaren cominciò a contare sulle dita. «Be', ci sono i mafiosi, che abbiamo già eliminato perché non c'è assolutamente niente a sostegno...» «Esatto.» «... e poi ci sono i serial killer psicopatici, i dittatori stranieri, l'intelligence militare di circa duecento Paesi, i poliziotti degenerati, i gruppi estremisti...» McLaren si fermò e batté le palpebre. «Caspita, la lista è lunga, non credi?» Langer annuì. «È il brutto mondo in cui viviamo.» «McLaren!» Gloria fece capolino dal suo cubicolo. «Quell'inglese, sulla due. E tu, Langer, prendi subito la uno: il water del piano di sotto di casa tua si è intasato.» Osservando il telefono che lampeggiava, Langer fece una smorfia. «Avrei dovuto ripararlo la settimana scorsa e me ne sono scordato. Chi è l'inglese?» «Non lo so. Un tizio piuttosto impostato, dice Gloria. Ha già chiamato un paio di volte ed è probabilmente incazzato perché non l'ho ancora richiamato.» «Non quanto mia moglie.» Langer impiegò quasi dieci minuti a calmare la donna e a minacciare l'idraulico che lei aveva chiamato, uno di quei bruti che se ne stanno in mezzo al lago di casa tua e ti chiedono mille dollari per girare una valvola. Quando ebbe finito, McLaren aveva riempito tre tovaglioli di carta di sca-
rabocchi e stava ringraziando l'interlocutore con insolita gentilezza. «Sembra che la tua chiamata sia andata un po' meglio della mia», osservò Langer, posando la cornetta sulla forcella. L'altro aveva un sorriso un po' ebete, quasi stordito. «Amico mio, non ci crederai. Sai chi era? L'Interpol. La maledetta Interpol. Abbiamo qualcosa sulla calibro 45.» Langer sentì una specie di formicolio alle orecchie. «La calibro 45 che ha fatto un buco nel braccio di Arlen Fischer?» McLaren annuì, raggiante. «Hanno visto i dati balistici che abbiamo inserito tramite l'FBI: quell'arma ha picchiato su sei bossoli.» Langer si accigliò, confuso come sempre dalle metafore di McLaren. «Sei omicidi», spiegò l'altro, eccitato. «Quella pistola è l'arma di sei omicidi irrisolti degli ultimi quindici anni. E, Langer, amico mio, quegli omicidi sono sparsi in mezzo mondo.» 15 Al volante dell'auto senza contrassegni, Magozzi si avviò lungo il viale d'accesso. Quello con la famiglia di Rose Kleber era stato uno dei colloqui più difficili che lui ricordasse. Parlare con persone in lutto ipereccitabili che gemevano così forte che per farti sentire dovevi gridare, porre domande a chi aveva ancora gli occhi vitrei per lo shock e rispondeva con voce vuota, monotona era angosciante. Parlare con quella famigliola di persone gentili, che piangevano all'infinito, spesso senza emettere neppure un suono, persino mentre rispondevano con educazione a ogni domanda, era stato addirittura straziante. Comprensibilmente, le due ragazze che andavano al college e che avevano trovato il cadavere della nonna sembravano le più sconvolte: trattenevano i singhiozzi mentre accarezzavano compulsivamente un gatto perplesso, rannicchiato sul divano in mezzo a loro. La loro madre, la figlia di Rose Kleber, aveva però un'espressione più devastata. Il marito girava attorno alla sua famiglia, dando pacche affettuose sulle spalle e sulle teste, dispensando abbracci a mo' di pozioni magiche, ma anche lui piangeva, pur cercando di mantenere la dignità. Chiunque fosse stata Rose Kleber, era stata profondamente amata. No, nessuno di loro conosceva Morey Gilbert e, per quanto ne sapessero, non lo conosceva nemmeno Rose. La figlia andava dalla madre tutti i giorni; le pareva impossibile non essere a conoscenza di un'amicizia tra i due
anziani. «Ogni tanto andavamo a fare acquisti al vivaio», disse. «E un paio di volte potrebbe averci servito lui. Onestamente non ricordo.» «C'è qualche ragione per cui sua madre aveva annotato il numero nella rubrica?» le aveva domandato Gino. «Mettono un cartellino di plastica col numero del vivaio su ogni pianta. Suppongo che l'abbia copiato da uno di essi.» Dopodiché avevano fatto qualche altra domanda: come impiegava il suo tempo Rose Kleber, a quali organizzazioni apparteneva... Infine, era arrivata la domanda più difficile di tutte, quella sul tatuaggio. Ma la famiglia non sapeva nulla del periodo da lei trascorso nel campo di concentramento, mezzo secolo prima. Si era sempre rifiutata di parlarne. Nel preciso istante in cui Magozzi fermò l'auto, Gino spalancò la portiera e la tenne aperta. «È stato davvero deprimente», brontolò, rompendo il cupo silenzio che li aveva accompagnati per tutta la strada di ritorno. «Ma la sai una cosa? Quello è vero dolore. Così dovrebbero comportarsi Lily Gilbert e quel deficiente di figlio ubriacone, a meno che uno di loro non abbia ucciso il povero vecchio, ovviamente.» Magozzi sospirò e si slacciò la cintura. «Le persone soffrono in modo diverso, Gino.» «Uff, stronzate. Può sembrare diverso dall'esterno, ma tu riesci a capire se una persona è a pezzi perché è morto qualcuno e, ti ripeto, nei Gilbert non l'ho visto, tranne forse un po' in Marty. Inizio a pensare che sia l'unico della banda cui importasse qualcosa del vecchio. Gesù, Leo... Ti ho detto di recente che questo è il giardino più ripugnante e squallido che abbia visto in vita mia?» Con ciò, Gino mise da parte il dolore della famiglia di Rose Kleber, gli omicidi, l'indagine, ed entrò nel presente, trascinandosi dietro Magozzi. Questi fece un respiro, si sentì più leggero e sorrise al collega. «Non di recente.» Scesero dalla macchina e camminarono in mezzo a ciuffi di verde intercalati a grosse zone di terra. «Sai cosa sembra? La testa di Viegs, col cuoio capelluto che si vede tra i capelli trapiantati.» «Così deve essere», osservò Magozzi sulle difensive. «Si chiama xeriscaping.» «Zeroscaping?» «No, xeri, con la X.» «Te lo sei inventato su due piedi?» «No, è un termine tecnico. Significa usare le piante del luogo, quelle che
non richiedono molta acqua.» «Vuoi dire tutti quei denti di leone e quell'erba fasulla?» «Esattamente.» Magozzi aprì la porta e fece cenno a Gino di entrare. «Prendi i würstel mentre accendo la griglia.» Mentre un bello strato di carbonella prendeva ad ardere nella Weber tenuta insieme dal nastro adesivo, Gino andò in cucina a preparare la tavola e poi in soggiorno. Osservò le pareti spoglie, la poltrona reclinabile di pelle e l'unico tavolino con una lampada economica ad alta intensità. «E questo come lo chiami, xeriarredo?» «No, questo è minimalismo.» Gino scosse la testa. «È patetico. È esattamente com'era il giorno il cui la tua ex ti ha ripulito di tutto. Devi fare qualcosa.» «Ehi, non eri costretto a venire qui a pranzo, sai. Se non ti va l'ambiente, puoi andare a mangiare a casa tua.» «Oh, no, non posso. Anzitutto ieri ho lasciato qui i miei würstel e il mio cheddar di dodici anni; in secondo luogo, i parenti acquisiti sono arrivati soltanto all'album numero tre, su dieci, della loro ultima crociera. Sono persone splendide, ma si trovano qui da quattro giorni e talvolta bisogna prendersi i propri spazi. Dico sul serio, Leo, per quanto ancora hai intenzione di vivere in un posto che sembra un magazzino abbandonato? È come se avessi messo la tua intera vita in attesa dal giorno in cui Heather se n'è andata. Questo non è un bene.» «Anzitutto ho messo la mia vita in attesa dal giorno in cui ho sposato Heather, iniziando poi a star bene nel momento in cui lei se n'è andata; in secondo luogo, i single non passano il tempo libero frequentando i seminari di feng shui al Wally's World of Furniture. Non è virile.» Gino grugnì. «Be', di certo questo non è virile. Virile è un gigantesco televisore al plasma e un angolo bar. Qui è tutto vuoto, come se non ci vivesse nessuno. Hai mai sentito dire che 'la casa è lo specchio dell'uomo che ci vive'?» «Da quello che vedo, la casa è lo specchio della donna che ci vive.» «Stai parlando di casa mia?» «A dire il vero, parlo di questa casa quando Heather ci viveva.» In realtà, stava pensando al grosso e burbero Gino, armato di pistola, che viveva in una casa con arredi dai colori tenui, fiori secchi e ghirlande di erbe. Una casa femminile. La casa di Angela. Non ci trovavi un gigantesco televisore al plasma né un angolo bar. Odorava sempre dell'immancabile sugo con aglio e basilico che sobbolliva sui fornelli e ogni tanto di talco per bambi-
ni. «E anche di quella in cui vivi tu.» Con un ampio sorriso sul volto, Gino si dondolò sui talloni. «Il che dimostra la mia teoria. Casa mia mi rispecchia perfettamente. Io sono l'uomo che ama Angela.» Mezz'ora dopo, Magozzi stava finendo il terzo würstel. «Sono incredibili.» «Te l'avevo detto», esclamò Gino con la bocca piena. «Il vero segreto è nella precottura: devi far bollire i würstel a fuoco lento nella birra e nelle cipolle prima di grigliarli. Se non lo fai, è come mangiare salsicce di tofu. Vuoi l'ultimo?» Magozzi si mise la mano sul cuore. «Penso di aver danneggiato abbastanza le mie arterie per oggi. Posso anche amare il rischio, ma non sono un suicida.» Gino valutò attentamente l'ultimo würstel rimasto prima d'infilzarlo. «Per questo Dio ha inventato il Lipitor.» Tacque per un istante, accigliato, poi aggiunse: «A proposito d'istinti suicidi, fino a che punto credi ci dobbiamo preoccupare per Pullman? Oggi non sembrava al massimo». Magozzi si appoggiò allo schienale. «Difficile a dirsi. C'è una grande differenza tra pensarlo e farlo veramente, ma potrebbe imboccare quella strada. Se davvero perde spesso conoscenza, si sta dando un bel daffare per ammazzarsi con l'alcol, questo è certo.» «Proprio come il cognato. Che famiglia incasinata. Sai, mi sarebbe proprio piaciuto che Gilbert avesse fatto fuori il padre, ma, a dirti la verità, non penso che abbia il fegato necessario... la schtupa.» «Si dice chutzpah. Faresti meglio a dimenticare il tuo yiddish al funerale, domani.» «Comunque si dica, non ce l'ha.» Gino masticò pensieroso per un momento. «Inoltre ho risolto il caso: insisto sulla colpevole originaria.» «Lily Gilbert?» «E chi altro? Solo che ora la inchiodiamo per aver ucciso il marito e Rose Kleber.» Magozzi alzò gli occhi al cielo. «D'accordo, mi dichiaro sconfitto. Perché Lily Gilbert avrebbe ucciso una vecchia che non conosceva?» «Perché il marito si scopava la nonnina dei biscotti, ecco perché. Un crimine passionale geriatrico, chiaro come il sole.» «Mi sembra che abbiamo passato mezza mattinata ad appurare che Morey Gilbert e Rose Kleber non si conoscevano.»
«Le famiglie ignoravano il legame, ma questo non vuol dire che non c'era. Pensaci. Non te ne vai in giro a commettere adulterio e poi lo racconti alla tua famiglia, no?» «Smettila, Gino. Sono persone anziane.» «E allora? Credi che gli anziani non facciano sesso? Vuoi passare una notte in casa mia? Nella stanza in cui dormono i genitori di Angela, dovrò ridipingere la parete dietro la testiera del letto.» Magozzi lo guardò per un istante a bocca aperta. «Non è possibile.» «Non sto scherzando.» «Quanti anni hanno? Settanta?» «Sì.» «Huh.» Magozzi sorrise. «È una buona notizia, no?» «L'ho sempre pensato.» «Ma resta la teoria più stupida che ti sia venuta in mente.» «D'accordo, genio. Tu ne hai una migliore?» «Be', se cerchi di collegare Morey Gilbert a Rose Kleber, abbiamo due sopravvissuti a un campo di concentramento. Si potrebbe trattare di un crimine commesso da qualche gruppo estremista.» «Intendi qualche neonazista sciroccato?» Magozzi si strinse nelle spalle. «Forse. Ogni tanto saltano fuori. Abbiamo avuto la nostra dose di atti vandalici nelle sinagoghe e cose del genere. C'era quel gruppo a Saint Paul che appiccicava manifesti antisemiti in tutto il centro città.» Gino sbuffò. «Gli idioti che hanno disegnato la svastica al contrario? Accidenti, Leo, erano soltanto tre e, da quello che ho sentito, fra tutti avevano un solo cervello.» «Probabilmente non sono gli unici in città.» «Purtroppo. Possiamo verificare quel tipo di crimini soltanto per non tralasciare nessuna possibilità, ma quegli idioti lasciano un messaggio anche quando pisciano sul marciapiede, altrimenti che senso ha? Inoltre, secondo le famiglie, né Gilbert né Rose andavano mai in sinagoga, il che li esclude dalla portata del neonazista medio psichicamente disturbato. Erano scene del crimine molto pulite, da professionista. Non abbiamo tracce, impronte, testimoni... È un killer scaltro, tipo un'anziana donna lucida di mente e in buona forma che guarda i polizieschi.» Magozzi gli rivolse un ampio sorriso e scosse il capo. «Non me la bevo.» «Trovami un'altra spiegazione.»
«Diamine, non lo so. Il ragazzo psicopatico addetto a insaccare la spesa che sceglie le sue vittime al supermercato nella Giornata dell'Anziano per conquistarsi quindici minuti di gloria.» Gino alzò gli occhi al cielo. «Accidenti se voli con la fantasia. Abbiamo due armi diverse, vittime di entrambi i sessi. In più, citami un solo serial killer che abbia scelto le sue vittime tra la popolazione anziana. L'FBI non toccherebbe nemmeno un caso del genere, e loro vogliono sempre mettere il naso ovunque. Inoltre, se iniziamo a pensare a omicidi seriali, dobbiamo considerare Arlen Fischer parte della serie e non c'è modo di trovare un nesso tra il suo assassinio e quelli di Gilbert e della Kleber.» E quello non era l'unico problema. Immaginare un killer che se ne andava in giro a sparare agli anziani spinto da una sorta di eccitazione morbosa era un'atrocità cui non voleva nemmeno pensare. Era come fare del male ai bambini o ai cuccioli. Ma immaginare che due vecchi come Morey Gilbert e Rose Kleber fossero implicati in qualcosa che li avesse resi un bersaglio era altrettanto difficile. Magozzi cominciò a sparecchiare. «Forse siamo sulla strada sbagliata quando cerchiamo di collegarli. È un quartiere ebraico, ci sono molti anziani, che importanza può avere se Rose Kleber aveva il numero di Gilbert nella rubrica? La storia del giardinaggio potrebbe spiegare tutto.» «Quindi stai dicendo che è solo una coincidenza che due anziani ebrei dello stesso quartiere siano stati uccisi a un giorno di distanza l'uno dall'altro.» Magozzi emise un sospiro scoraggiato. «No. Non ci ho creduto da quando abbiamo ricevuto la chiamata per Rose Kleber. Sono collegati, senza dubbio.» Gino si alzò dalla sedia e si stiracchiò con le mani premute contro il fondoschiena. «Sai, io avevo collegato tutto con precisione quando avevo ipotizzato che Lily Gilbert li avesse uccisi entrambi, ma a te le cose semplici non piacciono, vero? Leo, dovresti smettere di cercare la mosca bianca.» Magozzi ridacchiò, poi iniziò a sciacquare i piatti e a metterli nella lavastoviglie. «Se ricordo bene, in una delle tue ipotesi tanto 'precise' avevi inchiodato con gran sicurezza Grace MacBride, ritenendola l'assassina della Monkeewrench.» «Era perfettamente logico avere dei sospetti su di lei.» «Ma la colpevole era la mosca bianca.» «Quella volta sono stato un po' fuorviato. Ciò non significa che in questo caso non ci veda ben chiaro. Hai un antiacido o qualcosa del genere? L'ul-
timo würstel si sta facendo sentire.» «Nella credenza insieme coi bicchieri.» «Hai dei bicchieri? Com'è che ho bevuto la bibita dalla lattina?» «Volevi un bicchiere?» «Accidenti, Leo, non sono del tutto selvaggio.» Trovò le pasticche di antiacido e ne buttò giù qualcuna, poi si appoggiò al banco. «Sai, a proposito della Mohkeewrench, potremmo chiedere loro d'inserire Gilbert e Kleber nel software che usano per i casi irrisolti e vedere se salta fuori qualcosa. Diamine, quel programma è fantastico: in pochi secondi ha trovato nessi che noi cercavamo da anni.» «Danni non può farne. Stasera darò i nomi a Grace e le chiederò d'inserirli.» Gino lo squadrò con la coda dell'occhio e Magozzi fece una smorfia. Si sarebbe dovuto sorbire un'altra predica. «Sai che amo Grace MacBride, vero?» Magozzi alzò gli occhi al cielo. «Ehi, non ho intenzione di spaccarti le palle per questo, però dimmi, onestamente: che genere di futuro vedi con lei? Devi guardare le cose in faccia, Leo. È una persona disturbata, paranoide al cubo. E ha un curriculum di relazioni normali da far schifo. Voglio dire, l'ultimo uomo che ha amato era un serial killer.» Magozzi lo guardò in cagnesco. «Sta migliorando, Gino.» «Oh, davvero? E com'è che la scorsa settimana, al cinema, si è portata dietro la pistola?» «Di questi tempi, al cinema ci va un sacco di gente.» «Leo, ci siete andati una domenica pomeriggio a vedere un film di animazione. Ehi, non mi fraintendere: sono più che d'accordo a lavorare con la Monkeewrench, sono persone straordinarie, ma penso tu debba stare attento. Forse bisognerebbe mantenere il rapporto nell'ambito professionale, almeno per il momento.» «Hai finito?» «Sì. Fine della predica.» «Grazie. E non li chiamare Monkeewrench.» «Oh, sì, me n'ero scordato. Maledizione, non riesco a togliermi di testa quel nome.» E non ci riesce nemmeno il resto della città, pensò Magozzi. «Ne hanno già trovato un altro?» «Non che io sappia.»
Gino protese il mento. «Ci penserò un po' su, per aiutarli.» 16 Era l'una e mezzo e c'erano ventinove gradi quando Magozzi e Gino arrivarono alla Biederman's Funeral Home. Entrambi erano disperatamente accaldati e avevano di nuovo la giacca addosso, per nascondere la pistola. Sol Biederman li attendeva all'ingresso. Sembrava un po' più tranquillo rispetto a quando lo avevano incontrato accanto al cadavere di Morey Gilbert, però aveva ancora gli occhi cerchiati di rosso. Un altro lato deprimente dell'invecchiamento, pensò Magozzi. I tessuti impiegano molto di più a riprendersi dalle crisi di pianto come da qualsiasi altra cosa. Sol li condusse in un'ampia sala d'attesa piena di mobili che, trent'anni prima, probabilmente erano alla moda. L'aria odorava di fiori semiappassiti e di caffè bruciato, e del puzzo stantio, nauseabondo di colonia da pochi soldi che qualcuno si era messo per l'ultimo saluto. L'aria condizionata, ammesso che ci fosse, era molto bassa. Gino si buttò su una poltroncina dallo schienale ampio, color testa di moro, prese un fazzolettino da una scatola vicina e si tamponò la fronte. «Chi avrebbe pensato che ad aprile potesse fare così caldo, eh? C'è un uomo che in questo momento sta lavorando sul condizionatore, ma nel frattempo, vi prego, toglietevi la giacca, detective. Mettetevi comodi.» «Grazie, stiamo bene così», replicò Gino, con un volto sempre più rosso che smentiva le sue parole. «Non aspetto nessuno prima delle cinque. Siamo soli. Nessuno vedrà le pistole tranne me e sono molto bravo a tenere i segreti.» Gino si mise in camicia prima che il ligio Magozzi potesse lanciargli un'occhiata sprezzante per aver sfidato le regole del Dipartimento. Aveva appena deciso di umiliarlo, restando a cuocere con la giacca addosso, quando Sol indicò le sue braccia nude al di sotto delle maniche corte della camicia. «Se non si toglie la giacca, detective Magozzi, sarò costretto a indossare la mia. Sono un uomo anziano, potrei morire di caldo.» Magozzi sorrise e si tolse la giacca sportiva, mentre Sol si sedeva su una poltroncina. «Presumo dobbiate farmi ancora qualche domanda. Temo di non esservi stato di grande aiuto...» Gino estrasse il notes. «No, lei ci è stato utile, Mr Biederman, e com-
prendiamo il suo dolore, ma il problema è che stamattina tutto si è complicato un po'.» Sol annuì tristemente. «Ho saputo di Rose Kleber. La figlia ha chiamato poco prima del vostro arrivo. Una cosa così terribile, assurda, tanto che mi sono chiesto se là fuori ci sia un pazzo che uccida i vecchi ebrei.» Guardò prima Gino poi Magozzi e chiese: «Questo è il vero motivo per cui siete qui, giusto? Vi state chiedendo la stessa cosa». «Stiamo valutando diverse strade, Mr Biederman», disse Magozzi. «Lei conosceva Rose Kleber? Era una sua amica?» Sol scosse la testa. «Non proprio un'amica, ma questa è una piccola comunità. Tutti finiscono per passare di qui. Mi sono occupato del marito di Mrs Kleber quand'è morto, dieci anni fa.» «Era amico di Mr Gilbert?» «Non che io sappia.» «E lo avrebbe saputo, visto che era il suo migliore amico, vero?» Sol guardò un punto nel vuoto, né vicino né lontano, battendo rapido le palpebre. Per qualche istante non rispose, come se la domanda avesse impiegato tutto quel tempo a coprire lo spazio tra loro. «Sì, certamente. Avrei dato la mia vita per salvare quella di Morey.» Fu un'affermazione pronunciata con tale calma e franchezza che Magozzi gli credette all'istante. Gino si protese sulla poltroncina. «Questo è il punto, Mr Biederman. I due omicidi non sono casuali. Non sono stati due incidenti. Qualcuno voleva morti sia Morey Gilbert sia Rose Kleber e, se la stessa persona li ha uccisi entrambi, significa che avevano qualcosa in comune, qualcosa che non abbiamo ancora scoperto e che ci potrebbe condurre al killer. Perciò qualsiasi particolare lei ricordi, anche solo Morey che la nomina d'un tratto o la riconosce per strada, ci potrebbe essere di grande aiuto.» Sol rifletté, poi scosse la testa. «Mi spiace, non rammento nulla.» «Sono stati entrambi in un campo di concentramento. Lo sapeva, vero?» disse Magozzi. Sol alzò il braccio destro e mostrò i numeri sbiaditi sul lato interno. «Certo che lo sapevo.» Gino fissò il braccio dell'uomo. «Sa, in tutta la mia vita non ho mai incontrato una persona che è stata in un campo di concentramento e adesso lei è la terza nel giro di ventiquattro ore.» Sol gli rivolse un lieve sorriso. «Non pubblicizziamo la cosa, però siamo più di quelli che lei crede, soprattutto in questo quartiere.»
«Maledizione, mi spiace davvero», mormorò Gino. «Grazie, detective Rolseth.» L'uomo abbassò lo sguardo sulle vene, simili a corde, delle sue vecchie mani. «Non riesco a immaginare perché qualcuno voglia uccidere persone che sono sopravvissute ai campi di concentramento. Quale sarebbe lo scopo?» Allargò le mani in un gesto intenso. «Siamo tutti vecchi. Ben presto saremo comunque morti.» Cosa rispondi a una cosa del genere? pensò Magozzi, colto alla sprovvista dalla schiettezza dell'uomo. «Stiamo considerando i crimini commessi dai gruppi estremisti.» Sol incrociò il suo sguardo e lo sostenne con occhi tanto penetranti che, se anche avesse tentato, Magozzi non avrebbe potuto guardare altrove. «Quando odi gli ebrei abbastanza da volerli eliminare, uccidi gli animali da riproduzione, detective, capisce?» Magozzi cercò di annuire, ma gli sembrava di avere il collo paralizzato. «Ce lo hanno insegnato i nazisti. Così chiamavano i giovani, 'animali da riproduzione', come se fossimo bestie. Certo, uccidevano gli anziani, ma soltanto perché erano inutili, perché stavano tra i piedi. Questa deve essere un'altra faccenda.» Da quando Sol aveva iniziato a parlare, Gino non si era mosso. Alla fine espirò a lungo e, in tono gentile, disse: «Allora dobbiamo trovare un altro collegamento tra il suo amico Morey e Rose Kleber. Come abbiamo detto prima, qualcos'altro che avevano in comune e che li rendeva entrambi bersaglio di un killer. Forse si erano conosciuti in un campo di concentramento e negli anni hanno mantenuto una sorta di contatto?» Sol scosse la testa. «Mrs Kleber era a Buchenwald. Questa è l'unica cosa che mi ha detto il giorno in cui è venuta a prendere accordi per il funerale del marito. Non riusciva quasi a pronunciare il nome di quel posto. Morey era ad Auschwitz, come me. Laggiù mi ha salvato la vita, lo sapevate?» «No, non lo sapevo», rispose Gino. «Be', Morey era fatto così. Anche allora aiutava le persone. Forse un giorno glielo racconterò.» Guardò Magozzi e poi di nuovo Gino, mentre gli occhi scuri gli s'inumidivano. «Quell'uomo era un eroe. Chi vorrebbe uccidere un eroe?» 17 Era quasi il tramonto quando Magozzi mise piede sul cuscinetto a pressione davanti alla porta di Grace MacBride e sentì la telecamera del sistema di sicurezza ronzare nella grondaia sopra la sua testa. Represse l'istinto
di scostarsi i capelli dalla fronte: erano folti e neri e troppo lunghi, gli ricadevano ovunque. Avrebbe dovuto tagliarli sabato, prima che a Minneapolis riprendessero ad ammazzarsi. Udì un lieve uoof dall'altra parte della porta d'acciaio, quando le serrature di sicurezza iniziarono a scorrere, e la cosa lo fece sorridere. Charlie, il cagnone bastardo dal pelo ispido che Grace aveva salvato dalla strada, era solo un po' meno paranoico della padrona. Aveva impiegato settimane prima di mettersi dall'altra parte della porta ad aspettarlo quando lui arrivava, per salutarlo poi con un uoof eccitato di benvenuto, invece di precipitarsi in cerca di un nascondiglio. Magozzi aveva buttato più di una camicia, rovinata dalle zampe infangate e dai baci festosi del cane, ma non gliene importava affatto. «Non lasciarlo fare», disse come sempre Grace. «Non ha il permesso di saltare addosso alla gente. Lo vizi.» Magozzi le rivolse un ampio sorriso al di sopra della spalla di Charlie. «Lasciaci in pace. È l'unico abbraccio che ho avuto, oggi.» «Oh, siete inguaribili, voi due. Entra.» Grace indossava una tuta nera e scarpe da tennis, il che significava che non sarebbero usciti - non metteva piede fuori dalla porta senza i suoi stivali da cavallerizza -, ma la Sig Sauer era infilata nella sua fondina ascellare, segno quasi certo che sarebbero andati nel giardino posteriore, chiuso da un robusto steccato, dove Grace riteneva di aver bisogno della portata e della potenza della pistola più grossa. La Derringer era invece l'arma da interno o da contatto ravvicinato: se avesse portato quella sopra le calze spesse che impedivano alla fondina da caviglia d'irritarle la pelle, Magozzi avrebbe capito che non c'era speranza di godersi una boccata d'aria fresca, visto che Grace non apriva mai le finestre, nonostante le sbarre di ferro che facevano sembrare la sua casetta una vera prigione. Mentre Charlie gli ballonzolava attorno con le unghie che ticchettavano sul pavimento di acero, Grace chiuse la porta, azionò tutte e tre le serrature e iniziò a digitare il codice per reinserire il sistema di sicurezza. Magozzi osservò la ben nota procedura con una tristezza che a poco a poco si trasformò in un'amara, riluttante rassegnazione. Il pericolo che l'aveva ossessionata per tutta la vita ormai non esisteva più. Tutto era finito l'ottobre precedente in una terrificante sparatoria, ma la sua fissazione era radicata come non mai e cancellava ogni possibilità di vita normale. Probabilmente Gino aveva ragione. Avvicinarsi davvero a Grace MacBride, aspettarsi che facesse anche un piccolo passo in quella direzione era un so-
gno impossibile. Non si sarebbe mai sentita al sicuro, né con lui né forse con nessun altro. «È un'abitudine, Magozzi, nient'altro.» Grace gli dava la schiena mentre digitava il codice, eppure sapeva cosa lui stava pensando. «Davvero?» Lei si voltò e gli puntò delicatamente un dito contro il petto. «Qui dentro ti viene da fare il macho, il cavernicolo, lo sai, vero? Vorresti che lasciassi la porta aperta perché ci sei tu a proteggermi.» «Questo non è assolutamente vero», mentì lui. «Se lasciassi la porta aperta in questo quartiere, avrei una paura da morire.» Lei si voltò con un vago sorriso e si diresse lungo il corridoio spoglio verso la cucina. Magozzi e Charlie la seguirono a rispettosa distanza. «Ho travasato una bottiglia di Borgogna da trecento dollari in una caraffa e messo uno Chardonnay da otto dollari a raffreddarsi in frigo. Cosa preferisci?» «Accidenti, non saprei. Mi sembrano interessanti tutti e due. Li posso mescolare?» Dieci minuti dopo, Magozzi uscì sui gradini posteriori con un bicchiere di vino in mano e si bloccò all'istante. Il giardino posteriore di Grace aveva lo stesso aspetto di sempre: un piccolo fazzoletto d'erba incolta chiuso da un recinto di legno robusto, alto due metri e mezzo, con una vecchia magnolia che allargava i suoi rami nel centro, semicoperta di germogli in procinto di schiudersi. Adesso però attorno all'albero c'erano tre sedie Adirondack. Ce n'erano sempre state soltanto due, una per Grace e una per Charlie, il quale era evidentemente convinto che, nel terreno, abitassero dei mostri perché non si sedeva mai per terra se c'era qualche mobile nei paraggi. Calma, Magozzi, è solo una sedia. Non significa nulla. E probabilmente l'ha presa perché Jackson viene qui tutti i giorni dopo la scuola. «Ti ho comprato un regalo», disse Grace da dietro le spalle di lui. «Oh?» esclamò Magozzi con tutta l'indifferenza che riuscì a dimostrare. «La sedia, stupido. Così Charlie non ti sale sulle ginocchia ogni volta che ci sediamo qui fuori.» «Oh, pensavo fosse per Jackson.» «I bambini di nove anni non usano i mobili, Magozzi. L'ho presa per te perché mi piace averti qui e voglio che tu stia comodo.» «Bene.» Magozzi era contento che Grace gli fosse alle spalle, così non poteva vedere il suo ridicolo sorriso.
Un piccolo passo. Sta migliorando, Gino. L'assurda calura del giorno rimase per un po' dopo il tramonto. Bevvero il primo bicchiere di vino nel cortile posteriore, sotto la magnolia. Sedettero in silenzio, a loro agio, sorseggiando il vino e ascoltando i rumori occasionali della sera in un quartiere di città: una porta che sbatteva, l'acciottolio delle stoviglie della cena dei vicini, l'improvviso cinguettare di un uccellino folle al punto da pensare che i rami della magnolia fossero un luogo sicuro per dormire. Grace non soltanto non sparò all'uccellino, ma non trasalì nemmeno al suono. Sta succedendo. Sta migliorando. «Guarda tra i rami, Magozzi. Si vedono le stelle. Tra una settimana le foglie spunteranno e non riuscirai più a vederle.» «Non ho mai visto quest'albero con le foglie.» Grace rimase in silenzio per un po'. «No?» «No. La prima volta che mi sono seduto qui fuori era quasi Halloween. Questo povero, vecchio albero aveva solo tre foglie ed erano di un giallo vivo.» Grace emise un piccolo verso. «È buffo. Mi sembra di conoscerti da molto prima.» Magozzi non era stupido al punto da chiederle se ciò fosse un bene. Allungò semplicemente la mano verso la bottiglia posata per terra tra le sedie e riempì i bicchieri. Bevve un sorso, si appoggiò allo schienale della sua nuova Adirondack e sentì l'ultima ondata di stress della giornata abbandonarlo e riversarsi sull'erba incolta del giardino di Grace. Era patetico, concluse. Era più felice ora, dopo sei mesi di relazione con una donna che non aveva nemmeno baciato, di quanto non fosse mai stato in vita sua. Frustrato, certo, dalla mancanza straziante di una vicinanza fisica, ma completamente felice. Era la vergogna degli uomini italiani, tuttavia non poteva farci niente. Lì sentiva un legame che non sapeva nemmeno spiegare. Lo aveva sentito fin dalla prima volta che si era seduto in quel giardino con quella donna e quel cane: un senso di casa, persino in un luogo che, dietro l'atmosfera accogliente, celava sempre qualche riserva. Per questo non ho mobili, Gino. Io non vivo lì. «Cosa stai pensando?» «Che sono felice.» Non mentiva mai. «È bello. Ho letto i quotidiani, visto i telegiornali. Hai un altro mistero da risolvere. Tu vivi per questo, credo.» «Non ha niente a che fare col mio essere felice in questo momento.»
«Lo so. Dimmi del caso.» «A dire il vero, i casi sono due. Morey Gilbert, l'uomo che possedeva il vivaio, e Rose Kleber. Però non abbiamo niente che li colleghi.» «E l'uomo che hanno trovato legato ai binari?» «Se ne stanno occupando Langer e McLaren. Non è collegato ai nostri. Noi abbiamo due ebrei anziani, uccisi da colpi molto precisi. Il loro era un luterano che qualcuno odiava al punto da torturare.» «D'accordo, allora due. E c'è un gruppo di detective della Omicidi senza casi di omicidio per le mani mentre tu e Gino ne seguite due? Sembra che qualcuno pensi che siano correlati.» Magozzi si strinse nelle spalle. «C'è un sottile legame. Lo stiamo valutando.» «Quanto sottile?» Lui si mosse un po' sulla sedia, improvvisamente a disagio. «Fa parte delle informazioni che teniamo riservate.» «Dai, Magozzi. Vuoi che inserisca i nomi nel nuovo software, vero? Per vedere se salta fuori qualcosa.» «Io e Gino pensiamo che valga la pena tentare.» «Va bene. Hai visto il programma all'opera sui casi irrisolti. Sai molto bene che passa al vaglio centinaia di database in cerca di collegamenti e alcuni di questi sono maledettamente lenti. Mi serve qualsiasi legame abbiate per restringere i parametri di ricerca, altrimenti ci potrebbero volere giorni.» Non è che lui non si fidasse di Grace. Oltre a Gino, era la persona di cui si fidava di più al mondo. Accidenti, se ne stava seduto sotto un albero con un uccellino potenzialmente pericoloso sopra la testa, giusto? Certo che Grace MacBride avrebbe estratto la sua arma e sparato, se il volatile avesse attaccato. Ma violare le linee di condotta del Dipartimento andava contro la sua indole e Magozzi, con suo perenne sgomento, non era un ribelle. «Non ho giorni di tempo, Magozzi.» Grace incrociò le braccia sul petto, impaziente come sempre quando lui arrancava sullo stretto cammino dettato dalle regole. «Tra due giorni cominciamo a caricare i computer sul pullman.» Al pensiero che lei stava per partire, Magozzi chiuse gli occhi. «Avevano entrambi un tatuaggio sul braccio. Morey Gilbert era ad Auschwitz, Rose Kleber a Buchenwald.» Si sentì gli occhi di lei addosso nel buio, poi li percepì spostarsi. Grace rimase a lungo in silenzio. «Potrebbe essere una terribile coinci-
denza.» «Certo.» «Ma tu non lo credi.» Magozzi sospirò. «È sottile, te l'ho detto. Sto lavorando di fantasia.» «Tu non lavori mai di fantasia, Magozzi, a meno che non sappia proprio dove sbattere la testa. Perciò cosa pensi davvero? Che qualcuno stia uccidendo ebrei in genere o ebrei che sono stati in un campo di concentramento? Quale delle due?» Lo faceva sempre. Diceva a voce alta le cose che non avresti mai voluto sentire perché alcune erano troppo spaventose per poter essere considerate. Magozzi si protese e puntò i gomiti sulle cosce, col bicchiere vuoto che gli penzolava dalle dita. «Non voglio pensare a nessuna di queste due cose. Voglio che inserisca i due nomi nel programma, scoprendo che si tratta di due persone veramente malvagie, coinvolte in qualcosa che alla fine le ha uccise.» «Un cartello della droga geriatrico?» «Sarebbe l'ideale. Inoltre il legame del campo di concentramento non funziona. Come ci ha detto un vecchio questo pomeriggio, perché uccidere anziani ebrei? In breve muoiono comunque.» «Uau. È piuttosto cinico.» Magozzi si strinse nelle spalle. «Anche lui era in un campo. È autorizzato a dirlo.» Grace tacque per un istante, tamburellando con la punta delle dita sul bracciolo di legno della sedia. Lo faceva sempre quando pensava. «Non lo so, Magozzi. Da quello che ho sentito ai notiziari, Morey Gilbert non sembra affatto un tipo da attività criminale.» «E non sai tutto. Passava la vita ad aiutare le persone. Santo, eroe, scegli la definizione che più ti piace, io le ho sentite tutte. Era un uomo buono, Grace.» «Troppo per essere vero?» Magozzi rifletté. «Non credo. Penso sia vero.» «E l'altra, Rose Kleber?» «La nonna Kleber. Biscotti, giardino, gatto, una famiglia che la adorava.» «Quindi anche lei non è un tipo criminale.» Magozzi sospirò. «Sto girando in tondo, vero?» Grace gli versò l'ultimo goccio di vino. «Forse non è qualcosa che hanno fatto, Magozzi. Forse si sono trovati nello stesso posto nello stesso mo-
mento, hanno visto qualcosa o qualcuno che non avrebbero dovuto vedere.» Magozzi annuì. «È la mia ipotesi preferita di sempre, ma come diavolo fai anche soltanto a iniziare a seguire una pista del genere?» «Per questo hai me.» Lui la osservò alzarsi dalla sedia, una graziosa goccia d'acqua nera nel buio. «No.» Grace sorrise e si stiracchiò, sfiorando un ramo della magnolia con le dita. L'uccellino impazzì. 18 Mentre Magozzi e Grace stavano sorseggiando vino sotto la magnolia, Marty Pullman stava tracannando scotch con intenzioni più serie. Era seduto sul letto della camera che un tempo, molto prima che lei diventasse sua moglie, era appartenuta a Hannah. Negli anni, la stanza era cambiata, trasformandosi lentamente da camera da letto di una figlia in uno di quei locali che non avevano più uno scopo preciso. C'era un tavolo che nessuno usava, un letto in cui nessuno dormiva, una cabina armadio con appendiabiti vuoti che tintinnavano quando aprivi la porta. Eppure Hannah era presente lì come ovunque e non c'era abbastanza scotch al mondo per poterla cancellare. Bevve una buona sorsata dal bicchiere e fissò il buio oltre la finestra. Era soltanto la sua seconda notte in quella casa, ma gli sembrava fosse passato un secolo da quando si era seduto nella vasca con la pistola in bocca. Non si era illuso quando Lily gli aveva chiesto di restare. Da qualsiasi altra donna cui avessero assassinato l'uomo col quale era sposata da più di cinquant'anni, la richiesta sarebbe apparsa perfettamente comprensibile. Il dolore si espande fino a riempire una casa svuotatasi da poco e Marty sapeva meglio di chiunque altro che l'unica cosa peggiore di essere morto era essere un sopravvissuto solitario. Non era tuttavia per quello che Lily lo voleva lì. Adesso che la morte di Morey lo aveva finalmente strappato dall'isolamento, lei lo avrebbe tenuto d'occhio e lo sapevano entrambi. In certo qual modo, la vecchia strega sapeva cosa stava combinando. Lo aveva sempre saputo, tranne quella volta. Trasalì nell'udire il gemito acuto dell'aspirapolvere che ripartiva. Nelle
ultime ore, Lily aveva cucinato e pulito per prepararsi ad accogliere una folla di persone in lutto. Marty aveva cercato di aiutarla in modo che potesse finire prima e andare a letto; a un certo punto erano quasi venuti alle mani a causa dell'aspirapolvere. «Sii buono, Martin», gli aveva detto Lily e, in quel momento, lui aveva capito che lo scopo non era affatto terminare il lavoro. Marty aveva la bottiglia, Lily l'aspirapolvere, e che Dio aiutasse chiunque avesse tentato d'impossessarsi dello strumento che permetteva loro di restare sani di mente. Marty afferrò lo scotch, andò in cucina a prendere due bicchieri puliti e li portò in soggiorno, staccando con un calcio il filo dell'aspirapolvere dalla presa. «Per l'amor di Dio, Lily, siediti e riposati. Sono quasi le undici.» Si aspettava almeno un po' di resistenza o forse un commento pungente sulla sua sbronza, ma a quanto pareva anche Lily Gilbert aveva i suoi limiti. Si accasciò sul divano accanto a lui e fissò noncurante il televisore col volume azzerato. Indossava ancora la sua salopette taglia bambino, ma sui capelli argentei a spazzola portava un foulard di cotone blu, com'era solita fare quando puliva. Quel fazzoletto lo sconcertava. Si chiese se da ragazza avesse portato i capelli lunghi, raccolti all'indietro da un foulard e se quello fosse rimasto per abitudine, anche dopo che i capelli non c'erano più. Cercò d'immaginare Lily coi capelli lunghi e col volto minuto da vecchia, con gli occhi ingranditi dalle lenti e quattro bicchierini di scotch nello stomaco, e tutto ciò che riuscì a figurarsi fu E.T. quando i bambini gli mettono la parrucca in testa. «Credo che la casa sia abbastanza pulita», proclamò lei per fugare qualsiasi dubbio sul fatto che si fosse seduta per volontà di Marty. «Il tappeto è quasi pelato. Sì, direi che è abbastanza pulita.» Marty le versò un dito di scotch. «Tieni.» Lei gli lanciò un'occhiata di disapprovazione. «Non vuoi bere da solo, vero?» «Non ho problemi a farlo. Tu hai bisogno di rilassarti.» «Non mi piace lo scotch.» «Vuoi qualcos'altro?» Lei fissò a lungo il bicchiere, poi alla fine bevve un sorso e fece una smorfia. «È terribile. Come fai a berlo?» Marty scrollò le spalle. «Ti ci abitui.» Lily provò a berne un altro sorso. «Lo scotch di Morey è migliore. Sempre cattivo, ma migliore di questo. Questo costa poco, vero?» Lui sorrise vagamente. «Sì.»
Lei annuì, si alzò e scomparve in cucina. Pochi attimi dopo, tornò con una bottiglia di Balvenie di venticinque anni. Marty la guardò a bocca aperta. «Dio mio, Lily, sai quanto costa quella roba?» «E quindi non dovremmo berla? Pensi di poter vendere una bottiglia di scotch semivuota su eBay?» Marty non riuscì a decidere che cosa fosse più sorprendente: il fatto che Lily avesse tirato fuori una bottiglia di scotch da duecento dollari o che conoscesse eBay. Rimasero seduti insieme in silenzio a bere scotch e a guardare il televisore col volume azzerato e, visto che l'occasione era stranamente piacevole, Marty fu quasi tentato di dirle tutto. Di sputare fuori ogni cosa, senza pensare alle conseguenze. Che reagisse pure nel modo più crudo. D'un tratto, vide l'immagine di Jack Gilbert sorridergli dallo schermo. Batté un paio di volte le palpebre, sicuro di avere un'allucinazione, ma la faccia sorridente non scomparve. «Ehi, quello è Jack. Alza il volume.» Lily afferrò il telecomando dal tavolino e spense il televisore. «Dai, Lily!» Prese il telecomando, riaccese il televisore e guardò divertito mentre la pubblicità proponeva un montaggio di scene toccanti: Jack di fronte a un incidente d'auto, intento ad aiutare una vittima, Jack in un cantiere edile mentre parlava agli operai, Jack accanto a un letto d'ospedale con aria zelante e premurosa. La voce del narratore commentò l'immagine finale di un Jack dinamico e carismatico in tribunale: «Hai bisogno di un avvocato che s'interessi di te? Chiama Jack Gilbert all'1-800-555-5225. Componi l'1-800-555-J-A-C-K. Non lasciare che ti pestino i piedi». «Fa schifo», borbottò Lily. «Mah. Credevo che fosse piuttosto buona.» Lei grugnì. «Una volta non pensavi che Jack facesse schifo. Di solito eri fiera di lui.» «E lui di solito era mio figlio», replicò Lily, sarcastica. Marty sospirò. Aveva deciso di mettere in pausa la sua non vita per rispetto di Morey e di fare quello che poteva per aiutare Lily. Hannah lo avrebbe voluto, tuttavia lui non l'avrebbe fatto per sempre, il che significava che quell'insensata faida familiare doveva finire. Jack si sarebbe dovuto prendere cura di sua madre, maledizione. «Gesù, Lily, sei la donna più testarda del pianeta.» «Perché lo fai? Perché imprechi? Sai che lo detesto.»
«Oh, dai, siamo ebrei. Dire 'Gesù' non significa niente.» «Significa qualcosa per qualcuno. Potresti mostrare un po' di rispetto, no?» «Bene. Io smetterò d'imprecare e tu smetterai di cambiare argomento. Qui i Gilbert si stanno esaurendo, Lily. Adesso siete solo tu e Jack ed è tempo di seppellire l'ascia di guerra. Lui si è sposato con una donna di fede diversa: perché è tanto grave? Tu e Morey non andavate nemmeno in sinagoga. Perché prendersela se ha sposato una luterana?» Lily gli lanciò un'occhiata incredula. «Pensi sia per questo?» «Be', non è così?» «Uff. Hai la testa piena di cose che non sai, cose che non ti sei preso la briga di scoprire perché sei un pensionato molto occupato.» Marty strinse i denti finché non osò parlare. «Non provare nemmeno a far leva sul senso di colpa, Lily. Non vedevamo Jack da tempo, se Hannah lo chiamava, lui la trattava con indifferenza, perciò ho chiesto a Morey cosa stava succedendo. E lui mi ha detto che Jack aveva sposato una luterana e che quindi l'argomento era chiuso. Punto. Una settimana dopo, o poco più, Hannah è stata uccisa. Maledizione, credo che mi scuserai se non ho potuto approfondire.» Trasse un respiro e squadrò la bottiglia di Balvenie. Dieci dollari a bicchiere, in base ai suoi calcoli. Sembrava un peccato sprecare quel denaro per fare il rapido viaggio verso l'oblio cui lui ambiva. «Fa' pure, serviti», disse Lily. «È meglio che tu muoia per un fegato malconcio che per i buchi nello stomaco creati da quello sturalavandini che bevi.» Se pensava di doverlo ripetere, si sbagliava di grosso. Marty afferrò la bottiglia, si riempì il bicchiere e sognò il buio. Lily lo guardò bere una lunga sorsata. «Allora, vuoi sapere di quella faccenda con Jack?» «Certo. Perché no?» Lei annuì, poi si appoggiò allo schienale del divano. Quando lo faceva, i piedi non toccavano il pavimento. Sembrava una bambina invecchiata con le gambe tese in avanti. «Jack veniva a pranzo tutti i giorni, ricordi? Questo prima di quella pubblicità schifosa, quando potevo ancora dire alla gente che mio figlio era un avvocato, senza preoccuparmi che lo vedessero fare il clown in televisione. Poi un giorno, puff. Sparisce dalla faccia della terra. Niente pranzi, niente telefonate, niente di niente. Lo chiamo in ufficio e parlo con una macchina. Chiamo casa sua e parlo con un'altra mac-
china. Morey dice che hanno litigato.» «Per cosa?» «Chi lo sa? Padri e figli litigano, succede. Perciò se ne stanno lontani quel tanto da dimenticare le sciocchezze che si sono detti quand'erano infuriati e poi tutto va a posto. Ma quella volta non è andata così. Quella volta Jack ci ha mandato una foto per posta e, nella foto, ci sono bambine con l'abito bianco e bambini in giacca e cravatta e nel mezzo quell'emerito idiota dello stesso Jack. Sono tutti inginocchiati davanti alla croce con quel povero Gesù morto, inchiodato.» Marty la guardò, battendo le palpebre, chiedendosi se l'ultimo drink non gli avesse fritto del tutto il cervello perché qualcosa gli era sicuramente sfuggito. «Di che parli? Quale foto?» Lily ignorò la domanda. «E sotto la fotografia si legge: Jack Gilbert, prima comunione, chiesa luterana tal dei tali.» «Come? Jack si è convertito?» Lei bevve un sorso dal bicchiere e non disse nulla. «Non ha senso. Jack non ci crede nemmeno, in Dio.» Lily lo guardò come se fosse un imbecille. «Ma cosa credi? Questo non ha niente a che vedere con Dio. È stato il suo modo di darci uno schiaffo, di voltare la schiena alla famiglia e a chi era, perché aveva avuto una stupida lite con suo padre. Poi, un paio di settimane dopo, riceviamo la foto di un matrimonio: stesso posto, stessa croce, una ragazza più grande con un vestito bianco più grande. Un altro schiaffo in pieno viso, e il codardo ce lo dà usando le foto.» Marty si passò la mano nei capelli, quasi potesse stimolare qualche cellula cerebrale dormiente in grado di aiutarlo a capire ciò che aveva appena sentito. Jack aveva la sua buona dose di difetti, ma non gli era mai sembrato il tipo di persona che ferisce gli altri intenzionalmente, tantomeno i genitori. Inoltre non aveva senso da parte sua punire Lily per una lite con Morey. «Non riesco a capire.» «Che sorpresa. Io ci provo da un anno e nemmeno io ci riesco.» «Avresti dovuto chiederlo a Jack.» «Te l'ho detto, Jack non mi parla. Morey non mi parlava. Voi uomini fate queste stupidaggini e noi donne soffriamo senza sapere il perché.» Marty la osservò bere, illudendosi dopo tutti quegli anni di scorgere un'ombra di sentimento sul volto dell'anziana donna. Sapeva che esisteva, senza dubbio, ma pure che non l'avrebbe mai vista. Probabilmente, se Lily Gilbert avesse iniziato a piangere, non sarebbe più riuscita a smettere.
«Be', parlerò con quel piccolo bastardo», disse. «Bene.» «E mi spiace che ti abbia ferito.» Lily gli lanciò un'occhiata compiaciuta. «E per tutto questo tempo sono stata io la cattiva. A proposito, stasera, mentre stavi chiudendo la serra, ha chiamato Sol. Sei uno dei portatori della bara, lo sai.» «Lo so.» Lei sorrise. «Morey ha scelto la bara anni fa. Andava al negozio di pompe funebri a giocare a poker con Sol. Un giorno torna a casa e mi dice: 'Lily, oggi mi sono scelto la bara. È di bronzo ed è pesante, e i portatori si spaccheranno la schiena. Questo aiuterà Harvey, il chiropratico, cui gli affari non vanno bene'.» Marty sorrise, pensando che quel commento era tipico di Morey. «Non sapevo che giocasse a poker.» «Giocava con Sol perché riusciva a batterlo. E a volte con quel Ben.» «Chi è Ben?» «Una nullità.» «Non ti piace?» «È un cretino. Una persona disgustosa.» «E a Morey piaceva?» Lily si strinse nelle spalle. «Conoscevi Morey. Era senza speranza. A lui piaceva chiunque, che fosse una persona degna o no. Inoltre si conoscevano da tanto tempo.» «Buffo che non l'abbia mai incontrato.» «Non erano così vicini. Andavano perlopiù a pescare due, tre volte l'anno e talvolta giocavano a poker.» Marty girò la testa molto lentamente verso di lei. «Morey andava a pescare?» «Certo... Oh, alza il volume, presto.» Si dimenò per posare i piedi a terra e, puntati i gomiti sulle cosce, tenne gli occhi fissi sul televisore. «Guarda, sono agli inning supplementari.» «Ti piace il baseball?» chiese Marty, stupito. Lei afferrò il telecomando e alzò il volume. «Certo che mi piace il baseball. Quelli sono signori. Non si buttano a terra quasi mai e sorridono molto se fanno qualcosa di buono.» Marty la osservò, stupefatto, mentre lei si faceva prendere dal gioco, pensando quanto poco l'aveva conosciuta negli anni in cui aveva amato sua figlia. Aveva passato gran parte del tempo con Morey, ripercorrendo l'ata-
vica divisione tra i sessi che si verifica allorché le famiglie si riuniscono. Lily era il mistero in cucina, Morey l'uomo, l'amico, il padre surrogato che aveva imparato ad amare e a conoscere così bene. Però non aveva mai saputo della pesca, il che lo turbava. Lasciò che la mente andasse per l'ennesima volta a un anno addietro, non molto tempo prima che la sua vita andasse a pezzi. Lui e Morey avevano portato Hannah e Lily in un posto un centinaio di chilometri a nord della città, un negozio di antiquariato che aveva prezzi doppi rispetto a qualsiasi altro più vicino a loro. Sulla via del ritorno si erano fermati a una stazione di servizio di campagna per prendere gelati e bibite. «Marty, vieni qui. Guarda un po'.» Morey era davanti a un frigorifero che conteneva latte, formaggi e altri generi deperibili, ed era intento a fissare un serbatoio adiacente per l'acqua con un gorgogliatore rumoroso. Marty aveva sbirciato nel serbatoio, facendo una smorfia nel vedere una massa nera di sanguisughe che si contorceva. In cima al serbatoio, vermi d'ogni sorta si dimenavano in scodelle di segatura e di terriccio. «È disgustoso. Cos'hanno che non va questi vermi? Com'è che quelli bianchi sono nella segatura?» «Io dovrei saperlo?» Morey aveva chiamato un giovane commesso. «Non è contrario alle norme igieniche?» «Uh... Lei è un ispettore o qualcosa del genere?» «No, no, non sono un ispettore, ma è una faccenda di buonsenso. Vicino al latte ci sono le sanguisughe.» «E i vermi», aveva aggiunto Marty. «Sono soltanto esche vive», aveva replicato il commesso. «Anche in quel serbatoio ci sono esche vive, e sopra ci sono quelle secche.» «È ovvio che siano vive», aveva detto Morey, sbuffando. «Si muovono. È disgustoso.» «Uh... qui vengono molti pescatori.» «La pesca, bah. E si definiscono sportivi. Che razza di sport è quello in cui infilzi creature inermi su un amo e lo getti in acqua per infilzarne altre, più grandi?» «Be', sono solo vermi, sanguisughe e cose del genere.» «Per lei, forse. Mi dica, ha visto quel film di Spielberg?» «Oh, ehi, sì, li ho visti tutti.» «Davvero. Sono colpito. Ha visto Schindler's List?» «Uh... è sicuro che sia di Spielberg?»
«Non importa. Quello di cui parlo riguarda i dinosauri.» «Oh, sì, Jurassic Park, certo. L'ho visto quattro volte. I seguiti facevano quasi schifo, ma il primo era davvero fantastico.» «Allora ricorderà dove hanno legato la capra in modo da attirare il grosso dinosauro.» «Oh, sì, una cosa veramente ripugnante.» «E ha provato pena per quella capretta?» «Be', sicuro. Voglio dire, era spaventata, piangeva e via dicendo.» «Un'esca viva, come questi vermi.» Il commesso aveva guardato Morey, inespressivo. «C'è una lezione importante in tutto questo», aveva ripreso Morey. «Sa qual è? Glielo dico io. Quello che per un uomo è un verme per un altro è una capra. Se lo ricordi.» Lily si sbaglia, pensò Marty, riscuotendosi dalle sue fantasticherie. Al di là di quello che lei aveva detto, al di là di quello che chiunque aveva detto, Morey Gilbert non era un pescatore. 19 La mattina del funerale di Morey Gilbert faceva ancora caldo e i meteorologi preannunciarono un'altra giornata di cielo terso e di temperature sui venticinque gradi. I vecchi dello Stato se ne stavano seduti sui portici riarsi dal sole a sfogliare i numeri consunti del Farmer's Almanac quasi fossero le centurie di Nostradamus, in cerca di testimonianze di una simile ondata di calore nel Minnesota nel mese di aprile, senza però trovarne traccia. Ma duemilacinquecento chilometri più a nord, nel profondo entroterra canadese, il ventre di un enorme fronte freddo prese ad abbassarsi verso il Midwest americano. Era in arrivo un cambiamento. L'Uptown Precinct aveva chiesto cinque pattuglie in più per regolare il traffico che convergeva sulla sinagoga dove si teneva il servizio funebre di Morey Gilbert. Alle dieci, all'interno c'era solo posto in piedi; alle undici, la folla si era riversata sul prato, sul marciapiede e infine in strada. Erano centinaia di persone e non c'era speranza di spostarle altrove, perciò la strada venne chiusa per tre isolati in entrambe le direzioni. Nessun residente e nessun guidatore si lamentarono. Persino i poliziotti, inizialmente risentiti per essere stati assegnati al controllo del traffico, si commossero per via del numero di persone e per il loro atteggiamento reverente, fino a sen-
tirsi più guardie d'onore che tutori della legge, presenti per assistere al passaggio di un grand'uomo. Nessuno di loro capì bene cosa stava succedendo e, dopo, riuscirono solo a dire: «Be', dovevi esserci». Tre ore più tardi, Magozzi e Gino erano seduti nell'auto senza contrassegni davanti alla casa di Lily Gilbert, dietro il vivaio, intenti a osservare una folla in lutto e vestita di nero incanalarsi attraverso la porta principale. «Sai, penso che mezza città sia andata al cimitero. Non so come diavolo farà a infilarli tutti in quella scatoletta di casa», commentò Gino. «È un ricevimento privato. Familiari e amici soltanto. Sono le persone che lo conoscevano meglio, quelle che vogliamo sentire.» Gino sospirò, allentandosi il nodo della cravatta. «Hai mai visto una copertura tanto ampia da parte della stampa a un funerale?» «Non per qualcuno che non fosse un politico o un membro di una rock band.» «E non è un triste segnale delle condizioni in cui versa il mondo? Hai sentito tutte quelle persone che si sono alzate e hanno raccontato la loro storia, spiegando come Morey le abbia aiutate? Cristo, era come fare due passi in un reparto di massima sicurezza: spacciatori di droga, membri di gang... Accidenti, sceglievi un crimine a caso e lì c'era.» «Ex spacciatori di droga, ex membri di bande.» Gino sbuffò. «Così dicono. Ma se uno ci fosse ricaduto, se fosse andato dal buon vecchio Morey per un altro aiuto finanziario e poi si fosse incazzato davanti a un rifiuto?» Magozzi lo guardò. «Sai, l'ho appena capito. Tu sei molto rispettoso, quasi garbato, finché non ti allenti il nodo della cravatta. A quel punto tutto precipita.» «Be', è possibile, non credi?» Magozzi appoggiò i polsi sul volante, sospirando. «Che una persona che ha aiutato si sia vendicata di lui? Immagino di sì, ma, se questo è il caso, avremmo un bel po' di difficoltà a prenderla. Oggi ci sarà stato un migliaio di persone. Inoltre questo ci crea un problema con l'ipotesi che sia lo stesso killer che ha ucciso Rose Kleber, e io sono, come dire?, un po' fissato su questa cosa.» Si protese e socchiuse le palpebre per guardare fuori. «Chi è quell'uomo con un vestito blu marine che sta abbracciando Jack Gilbert?» «Chiunque sia, non lo sta abbracciando, lo sta sorreggendo. Non lo hai visto vacillare davanti alla tomba? Per un istante ho pensato che sarebbe caduto nella fossa e avrebbe stretto la mano al padre.» «Sì, l'ho visto.» Magozzi si buttò contro lo schienale e osservò l'uomo
con l'abito blu marine rimettere in piedi Jack, poi, non appena questi fu stabile, correre via, come se non volesse essere nei paraggi nel momento in cui fosse caduto. Pareva che nessuno volesse stare vicino a Jack Gilbert. «È sempre solo, hai notato?» «Gilbert?» «Sì.» Gino scrollò le spalle. «Quell'uomo è un rottame.» «Oggi Lily non gli si è avvicinata e nemmeno Marty lo ha fatto, se è per quello. Se ne stava lì, tutto solo, proprio come Langer e McLaren ci hanno detto che è accaduto al funerale di Hannah. Almeno la moglie poteva stargli vicino, no?» «Ho sentito un paio di persone chiacchierare mentre uscivano dal cimitero. Sembra che stia per denunciarlo, se già non lo ha fatto.» La mascella di Magozzi s'irrigidì. «Doveva venire ugualmente. Sarebbe stato un gesto dignitoso.» Gino si voltò a guardarlo. «Dai, Leo. Jack Gilbert è un coglione alcolista. Raccogli quello che semini, perciò smetti di provare pena per lui.» «Lo faccio solo a distanza. Quando mi avvicino, lo detesto profondamente.» «Ecco il collega che conosco e cui voglio bene.» «Ma è la storia dell'uovo e della gallina.» «Come?» «Be', viene da chiedersi se sia un coglione alcolista perché lo hanno emarginato o se sia stato emarginato perché è un coglione alcolista.» Gino emise un sospiro esasperato. «Scelgo la numero due. Adesso possiamo entrare?» Magozzi esitò. «Forse è il caso di aspettare qualche altro istante prima d'intrometterci. Solo per rispetto.» «Abbiamo dimostrato parecchio rispetto, Leo. Non è che siamo i primi qui, sulla porta, armati di registratori. Inoltre in una folla del genere nessuno nota un paio di uomini in più, uomini peraltro molto affascinanti nel loro elegante abito da funerale.» Quindici minuti dopo, Magozzi si stava interrogando sull'opportunità di trovarsi lì, anche se la mossa era stata logica. Nessuno, nemmeno Morey Gilbert, era buono al cento per cento ed era impossibile che un uomo vivesse ottantaquattro anni senza fare incazzare qualcuno. Ascoltando le persone che lo conoscevano, avevano sperato di cogliere qualcosa del defunto che avevano ignorato fino ad allora, qualcosa che valesse la pena esamina-
re. Ma tutto quello che Magozzi aveva sentito erano altri testimoni in lacrime: se quell'uomo non era un santo, ci era andato vicino e la cosa cominciava a seccarlo. Morey Gilbert aveva dato tutto quello che aveva da dare tempo, denaro, consigli, cibo, alloggio - e non soltanto aveva aiutato le persone in cui si era imbattuto, ma era anche andato a cercare gente da soccorrere. Era una cosa semplicemente anomala. All'improvviso, un rapido movimento nella stanza attirò la sua attenzione. Jack Gilbert rimbalzava da un ospite all'altro come una pallina da flipper. L'empatia che Magozzi aveva provato per lui svanì. Jack si stava rivelando il più evidente fallimento delle buone intenzioni di Morey Gilbert. E forse anche l'unico fallimento. Assorto, Magozzi seguì Jack con lo sguardo. Aveva la sensazione che il suo cervello saltellasse, come un'automobile lanciata su una serie di dissuasori della velocità. Trovò Gino intento a riempirsi il secondo piatto a un buffet che superava le sue più sfrenate fantasie alimentari. «Non è fantastico?» esclamò Gino, allegro. «Dovresti provare le tagliatelle con l'uvetta.» Poi, infilandosi una polpetta in bocca, aggiunse: «Hai scoperto qualcosa d'interessante?» «Credo che dovremo concentrarci su Jack Gilbert.» Gino sollevò un sopracciglio; era l'unico movimento possibile per lui, visto che aveva la bocca piena. «È la sola ombra nell'aura dorata di Morey Gilbert, Gino.» «Sì, ma è un debole e un ubriacone. E nessuno di noi ha avuto sensazioni specifiche su di lui.» «Qui sta il punto: lo abbiamo ritenuto un indiziato e, quando la cosa non ci ha convinto, abbiamo smesso di pensare a lui. Ma se fosse Jack il legame? Se qualcosa in cui lui è coinvolto avesse causato la morte del padre?» Gino s'infilò in bocca un'altra polpetta e decise che, in fondo, poteva parlare. «E cosa avrebbe fatto Jack?» «Non lo so, accidenti...» «No, no, è proprio questo che hanno detto Langer e McLaren, quando parlavano di Morey che ha respinto Jack al funerale di Hannah... Ricordi? Forse si è fatto coinvolgere in qualcosa di veramente brutto, ben al di sotto del livello morale di Morey Gilbert, e magari il vecchio ha cercato di tirarlo fuori, facendosi poi ammazzare. Lo stesso Jack ha affermato che ci sono persone che lo vogliono morto. Forse parlava sul serio. Ma in che modo
s'inserisce Rose Kleber in tutto questo?» Magozzi usò uno stuzzicadenti con una decorazione di cellophane all'estremità per infilzare una polpetta sul piatto di Gino. «Ho un nuovo piano: un omicidio alla volta. Se quello di Rose Kleber è collegato, alla fine salterà fuori. Perciò andiamo a parlare con la moglie misteriosa di Jack, controlliamo i registri del suo ufficio, diamo un'occhiata al tipo di persone che rappresenta... questo genere di cose, insomma.» Gino annuì, pensieroso. «Sì, ci potrebbe essere qualcosa.» Si avvicinò a Magozzi, esitante, e mormorò, sempre con la polpetta in bocca: «Inoltre, sono un po' stanco di star qui ad ascoltare gente che ripete che grand'uomo era Morey Gilbert. Due settimane fa, ho dato venti dollari alla Humane Society e mi sono sentito Mister Carità e adesso Morey Gilbert mi fa sembrare un essere spregevole. Sai quel Jeff Montgomery che lavora al vivaio? Be', si scopre che i suoi sono morti in un incidente d'auto dopo che aveva iniziato l'università e Gilbert gli ha pagato la retta. Ci credi?» «Non c'è da stupirsi che il ragazzo abbia pianto per gli ultimi due giorni.» Magozzi lanciò un'occhiata al di sopra della spalla di Gino e vide Lily avvicinarsi col suo lungo abito nero. Marty le era a fianco, come sempre dall'inizio della giornata, a fare le veci del figlio inetto. Magozzi lo apprezzò molto per quel gesto. Lily si fermò, lanciò un'occhiata pungente alle mani vuote di Magozzi, poi annuì di fronte al piatto scandalosamente pieno di Gino. «Ha un buon appetito, detective.» «Il cibo è fantastico, Mrs Gilbert. Qualcuno mi ha detto che ha cucinato quasi tutto lei.» «È così.» «Allora dovrebbe disfarsi del vivaio e aprire un ristorante.» Lei non sorrise, ma, da un lieve mutamento della sua espressione, si capì che non era immune ai complimenti. «Stamattina ho visto sul giornale la foto di quella donna che è stata assassinata.» «Rose Kleber», disse Magozzi. «Penso di dovervelo dire: il suo volto mi è vagamente familiare, perciò potrebbe essere venuta un paio di volte... Però non era una cliente abituale. Gli abituali me li ricordo.» «Lily?» Sol Biederman le arrivò alle spalle e la interruppe, esitante. «Hai visto Ben?» «Ben chi?» «Dai, Lily, Ben Schuler.» Sol era chiaramente preoccupato, ma anche un
po' impaziente. «Non era al funerale e, se non è qui, c'è qualcosa che non va. Il suo cuore non è in ottima forma... Inoltre lui non risponde al telefono.» «Non è qui perché in casa mia non è il benvenuto e lui lo sa», disse bruscamente Lily. Sol le sfiorò la mano, rivolgendole un sorriso gentile. «Per quanto tu incuta timore, Lily, questo non gli avrebbe impedito di venire alla commemorazione del suo vecchio amico. Farò un salto da lui, solo per tranquillizzarmi. Non impiegherò molto.» «Se non è morto, digli che tuttora non è il benvenuto in casa mia», affermò Lily. Si girò, vide Jack avanzare nella sua direzione, al che si voltò e si avviò nella direzione opposta. Gino emise un fischio non appena Sol e Lily si furono allontanati in direzioni diverse. «Ricordati di non finire mai nella rosa dei bersagli di quella donna. Che cos'ha contro Ben?» Marty si strinse nelle spalle. «Con Lily non sai mai. Scusatemi. Torno da lei.» «Adesso ha una cinquantina di persone attorno, Marty», osservò Gino. «Prenditi un po' di fiato, rilassati per qualche minuto. Ho appena visto una polpetta col tuo nome.» È duro vedere uno dei tuoi sprofondare nell'abisso, pensò Magozzi. Gino fece del suo meglio per conversare con Marty e, dato che Marty era un uomo educato, si sforzò in ogni modo d'interessarsi a quello che diceva. Ma la finta era dolorosamente palese e, dopo una decina di minuti, Magozzi cominciò ad avere l'impressione di torturarlo. «Dovremmo muoverci, Gino», disse, ma in quel momento Jack Gilbert arrivò incespicando e si versò un drink rosso come la sua faccia sulla camicia Oxford bianca. Poi passò un braccio attorno alle spalle di Marty ed esclamò: «Ehi, ragazzi! Quanta gente, eh?» Indicò la sala col drink, schizzando punch. «Penseresti che sia morto un fottuto papa.» Con una repentinità che colpì tutti, Marty si girò verso Jack, si scrollò via il braccio dalle spalle e gli afferrò il drink. Per un istante, Magozzi pensò di scorgere un'ombra del vecchio Gorilla. «Non esagerare, Jack. Non oggi.» Arretrando, Jack barcollò e per poco non perse l'equilibrio. «Caspita, non ti offendere, Marty. Ti dovresti rilassare un po'. Vuoi un drink?» Una donna robusta coi capelli castani scuri si avvicinò e porse a Marty un cordless. «Ti vogliono al telefono.» Quando Marty prese l'apparecchio
e si allontanò, la donna si avvicinò a Jack. «Jack Gilbert, guardati, non riesci neanche a tenere in mano un bicchiere, versi i drink in giro, offendi la gente... Come puoi fare una cosa del genere a tua madre?» La testa di Jack dondolò sul collo, come se lui stesse cercando di mettere a fuoco la donna. «Gesù, Sheila, sei tu? Sembri Dennis Rodman. Che cazzo hai fatto ai capelli?» Lei socchiuse le palpebre e si protese verso di lui. «Farshtinkener paskudnyak», sibilò, e se ne andò, furiosa. Gino aveva gli occhi sgranati. Non sapeva come lo avesse definito la donna, ma era assolutamente certo che quell'uomo se lo meritava. «La sa una cosa, Mr Gilbert? Forse è il caso che si metta un po' tranquillo. Si sieda sul divano, qui, magari prenda una tazza di caffè.» «Be', è una splendida idea, detective... Però, vede, ho appena versato la mia migliore bottiglia di bourbon nella terrina del punch e c'è questa tradizione ebraica secondo cui, se versi alcol a un funerale, lo devi bere tutto altrimenti disonori il morto.» Gino lo fissò per un istante. Era più che certo che fosse una specie di battuta, ma con la religione non si può mai sapere. Insomma, chi crederebbe che i cattolici imbrattano la testa della gente con la cenere? «Scherzava, Gino», disse Magozzi. «L'avevo capito. Usciamo di qui.» Fecero per superare Jack quando Marty allungò di scatto la mano e trattenne Gino. C'era ancora un ben po' di forza in quella mano, pensò Gino, mentre Marty lo teneva bloccato mormorando una rassicurazione di qualche tipo al telefono prima di scostarlo dall'orecchio e di premere il tasto di fine chiamata. «Penso che vogliate saperlo», disse poi, guardandosi attorno per essere certo che nessuno degli ospiti lo sentisse. «Era Sol. Hanno sparato a Ben Schuler.» Il volto di Magozzi si contrasse. «È morto?» Marty annuì, cupo. «Chi è morto?» chiese Jack a voce troppo alta, mentre si avvicinava barcollando. «Abbassa il tono, Jack», sbottò Marty. «Ben Schuler.» «Sul serio? Povero, vecchio bastardo. Cos'è stato, un attacco cardiaco?» Marty esitò, forse per una residua riluttanza da sbirro a condividere informazioni con chi non lo era. «No», rispose infine. «Gli hanno sparato. Un colpo alla testa, proprio come a Morey.» A quelle poche parole, Jack Gilbert divenne incredibilmente sobrio e
ogni goccia di sangue gli defluì dal volto rosso da ubriaco. «Un suicidio?» Marty scosse la testa. Jack Gilbert abbozzò un'espressione strana, che Magozzi aveva visto solo poche volte in vita sua: un'espressione di autentica paura. «Gesù Cristo», sussurrò. «Lo conosceva?» chiese Gino. Jack annuì. «Sì, lo conoscevo.» Poi si girò e si allontanò, seguendo una perfetta linea retta. Marty lo trovò alcuni istanti dopo chino sul tavolo di cucina, intento a fissare la foto di Rose Kleber sul giornale. Tremava come una foglia. 20 Molti quartieri di Minneapolis erano stati abbastanza di moda finché le autostrade non avevano iniziato a erodere i terreni comunali. La casa di Ben Schuler si trovava in uno di quei quartieri, appollaiata su una collina in cui gli olmi centenari un tempo ombreggiavano un viale che ogni primavera si riempiva di fiori. La grafiosi aveva ucciso gran parte degli alberi negli ultimi vent'anni e il nuovo sistema di svincoli autostradali aveva fatto fuori quelli rimasti, tanto che i residenti ormai avevano ben poco da guardare se non le sei corsie ai piedi della collina. Quando scesero dall'auto, Magozzi e Gino sentirono il rombo di un autoarticolato cambiare marcia su una salita. «Una volta era più bella, questa zona», commentò Magozzi, osservando una lunga crepa nello stucco della casa di Ben Schuler e il portico infossato della vicina villetta di mattoni a due piani. «Una mia prozia aveva una grande casa vittoriana a pochi isolati da qui.» «Allora perché hai impiegato tanto a trovarla?» brontolò Gino, sfilandosi la giacca del vestito e la cravatta e appendendole sullo schienale. «Ci sono venuto solo un paio di volte, quando avevo sei o sette anni. Mia zia era una vecchia che incuteva timore. Secondo i miei, non c'era nessuno che le andasse a genio, familiari compresi. Si rifiutava di parlare inglese e mio padre si rifiutava di parlare italiano solo per farla incazzare. L'ultima volta che siamo andati da lei mi ha dato uno schiaffo per aver preso la forchetta prima che lei dicesse la preghiera di ringraziamento.» La bocca di Gino si tese, trasformandosi in una linea implacabile. Picchiare un bambino era una delle poche cose che andava oltre la sua comprensione. «Maledizione, è una cosa che odio. Spero che tuo padre gliene
abbia date un paio di rimando.» «Mio padre non avrebbe alzato la mano su una donna nemmeno se lo avesse fustigato vivo.» Magozzi sorrise vagamente al ricordo. «L'ha messa KO mia madre, però.» Gino fece un ampio sorriso e mandò un bacio in direzione di Saint Paul, dove vivevano i genitori di Magozzi, nella stessa casa in cui lui era cresciuto. «Tua madre mi è sempre piaciuta molto.» «E tu piaci a lei. Hai intenzione di toglierti tutti i vestiti o adesso possiamo entrare?» «Sai quanto costa far pulire un abito in tintoria?» Magozzi scosse la testa. «Non ci ho mai fatto caso.» «Amico, a volte odio i single. Ho appena pagato una bella cifra per farlo pulire e non voglio assolutamente che puzzi come la casa di un omicidio.» «Hai ancora i pantaloni.» «Sì, be', per questo non vedo soluzioni.» Sbatté la portiera e i due si avviarono su per il vialetto. «Sembra che Anant e i ragazzi del BCA ci abbiano battuto sul tempo.» «C'è poco da stupirsi.» Gino lanciò un'occhiata al triste furgone del medico legale nel vialetto e a quello del BCA infilato dietro di esso. «Loro hanno il GPS, mentre noi non abbiamo neanche un condizionatore che funzioni. Non c'è giustizia in questo mondo.» Jimmy Grimm uscì dalla porta posteriore della casa e andò loro incontro. Le prime parole che gli uscirono di bocca furono: «Dovete fermarlo». «Accidenti, buona idea, Jimmy», esclamò Gino. «Perché non ci avevamo pensato?» Jimmy si scostò, per lasciar entrare Gino nella piccola cucina. «Che cosa gli ha dato sui nervi?» chiese a Magozzi. «Il costo elevato delle tintorie, soprattutto, e anche il fatto che voi abbiate il GPS e noi no.» Lo sguardo di Magozzi vagò sul disegno a pastello appeso alla porta del frigorifero. Non aveva idea di cosa fosse, ma era chiaro che nessuno aveva ancora soffocato la creatività del bambino, perché i colori erano buoni. «Quant'è brutto là dentro?» chiese, inclinando la testa verso il corridoio che presumeva portasse alla stanza da letto. Jimmy gonfiò le guance e si slacciò il colletto dell'abito bianco pulito. «Abbiamo sangue al minimo e pateticità al massimo. Anant inizia a esserne davvero sconvolto. Ha una sorta di riguardo per gli anziani che non lo aiuta affatto. È una cosa hindi?» «È una cosa che ha a che fare col decoro.»
«Be', qualsiasi cosa sia, penso sia un effetto cumulativo. Sapete, questo mostro che uccide i vecchi sta scuotendo anche me. Entro nelle case, trovo fotografie di nipotini, flaconi di farmaci, fatture Medicare, roba del genere e vedo la casa dei miei, capite? Queste persone sono al termine della loro vita, cercano solo di andare avanti... non ha senso. E questo è il peggiore.» Gino stava scuotendo la testa. «Non può essere peggiore di Rose Kleber. Vedo in sogno il cartello IL GIARDINO DELLA NONNA; quello e il piatto di biscotti per le nipoti.» Jimmy lo guardò per un istante. «Penso che l'assassino abbia preso uno di quei biscotti.» Magozzi sollevò di scatto le sopracciglia. «Non l'ho letto nel verbale.» «Non ce l'ho messo. Era una supposizione, pura e semplice. Inammissibile. Non aveva nessun valore di prova. Lei li aveva disposti con tanta cura su quel piatto e poi coperti con la pellicola... ma la pellicola era sollevata da un lato e c'era uno spazio in cui ci sarebbe potuto essere un biscotto. È stata solo un'immagine mentale: il bastardo uccide una donna anziana e, quando esce, si serve, prendendo un biscotto che lei ha preparato.» Jim tentò di abbozzare un sorriso. «È questo che dopo un po' ti sconvolge, sapete? Le immagini mentali che ti restano, e questa è scioccante. Ben Schuler sapeva cosa gli sarebbe toccato ed era fuori di sé dalla paura. Pare che il killer abbia giocato con lui per un po', forse lo ha inseguito per la casa, forse gli ha parlato, non so. Ma quel poveraccio si è trascinato per tutta la stanza da letto, cercando di scappare... Ecco l'immagine che mi porterò via da questa casa.» Gino lo stava guardando, accigliato, tentando in ogni modo di cancellare il quadro che Jimmy Grimm gli aveva appena dipinto. Si sarebbe creato un suo quadro non appena avesse visto la scena. Il trucco era: vedi quella roba, individui i dettagli che ti possono servire per l'indagine e dimentichi il resto. Se passi troppo tempo a rimuginare sulle immagini di anziani piagnucolanti e spaventati che strisciano per sfuggire a un killer, ti butti giù, ti riduci in pappa e a quel punto non puoi fare il tuo lavoro. E Jim lo sapeva, dannazione. «Accidenti, Grimm, sembri una femminuccia. Aspiri ad andare a controllare gli scontrini dei posteggi o che?» «In questo momento non mi sembra un'idea tanto malvagia.» Si avviò lungo il corridoio. «Restate dietro di me. Un ingresso è accessibile, ma finora è tutto ciò che abbiamo. Anant vuole che diate un'occhiata alla scena prima che iniziamo a fare le foto, a rilevare le impronte e a imbustare le prove.»
Le vecchie assi del pavimento scricchiolarono sotto i loro piedi mentre superavano un'enorme collezione di fotografie di famiglia in bianco e nero. A metà corridoio, Magozzi e Gino si fermarono entrambi e guardarono le foto che avevano alle spalle, poi quelle davanti a loro. Jimmy lanciò un'occhiata dietro di sé. «Cosa vi blocca? Non state toccando niente, vero?» «Stiamo passando le mani sui muri, riempiendoli d'impronte», brontolò Gino. «Accidenti, Grimm, rilassati un po'. Che cos'è questa faccenda delle foto? È la cosa più strana che abbia mai visto.» Jimmy li raggiunse. «Non ditelo a me. Sono tutte stampe della stessa foto. Sessanta in tutto. Inquietante, eh? Il suo amico, il vecchio che lo ha trovato...» «Sol Biederman?» «Lui. Era ancora qui quando sono arrivato. Ha detto che questa è l'unica foto che Ben Schuler aveva della famiglia. Dei suoi, di lui e della sorella minore. A quanto pare, ogni anno incorniciava una stampa.» «Ha detto perché?» Jimmy scrollò le spalle. «Sono morti nei campi di concentramento, lui no. Senso di colpa del sopravvissuto, commemorazione, chi lo sa?» Magozzi e Gino si scambiarono uno sguardo afflitto. «Ben Schuler è stato in un campo di concentramento?» domandò Magozzi. «È quello che ha detto Biederman.» Jimmy Grimm incrociò il suo sguardo. «Già. Siamo a tre.» Anantanand Rambachan era al centro della camera da letto di Ben Schuler con la testa china e i palmi premuti insieme sotto il mento. Sembrava più una persona in lutto che un medico legale, pensò Magozzi esitando sulla soglia, chiedendosi se non stesse pregando e se interromperlo fosse una violazione imperdonabile di qualche cerimoniale indù. Gino ebbe un po' meno tatto. «Ehi, Anant. Sei in trance, per caso?» Girandosi verso di loro, Anant fece un vago sorriso. Niente denti, non quella sera. «Buonasera, detective Rolseth, detective Magozzi. E, per rispondere alla sua domanda, detective Rolseth: non ero in trance. Se fossi stato in una condizione simile, non avrei potuto sentire la sua domanda. Stavo semplicemente...» Le sue sopracciglia scure e lucide si sollevarono mentre lui apriva e poi chiudeva le mani per portarle al petto. «Assimilando il tutto?» chiese Gino. «Sì, è precisamente l'espressione che descrive quello che stavo facendo.
Grazie.» Fece loro cenno di entrare nella stanza. «Dritti dalla porta al punto dove mi trovo, per favore. Vedete dove il pavimento è di colore più scuro?» Magozzi abbassò lo sguardo su una striscia di circa un metro sul pavimento di legno che aveva conservato la lucentezza della vecchia laccatura, senza sbiadire per il sole e l'usura. «Qui c'era una guida?» «Sì. Mr Grimm l'ha tolta per esaminarla prima che entrassimo, cercando di trovare una traccia in questa terribile storia.» Magozzi e Gino avanzarono con attenzione nel centro della striscia lasciata dalla guida. A metà stanza si fermarono e si guardarono attorno, leggendo coi loro occhi la terribile storia che Anant aveva assimilato. La stanza era un disastro e per fortuna odorava più di dopobarba a buon mercato che di qualunque altra cosa. Di qualsiasi tipo fossero stati i flaconi sulla cassettiera, adesso erano ridotti a un ammasso di vetri e di liquidi. Il comodino accanto al letto era rovesciato; a poca distanza c'era una lampada rotta, il cui paralume verde era a pezzi. Quello che restava del telefono fracassato era in un angolo. Il copriletto di ciniglia sbiadita era stato trascinato giù dal letto. In mezzo a tutto quello sfacelo spiccavano le scarpe, come intoccate dalla violenza che si era scatenata in quel luogo. Erano nere, ben lucidate e poste con ordine davanti a una sedia dallo schienale rigido, in attesa dei piedi. Gino emise un lungo sospiro. Stava guardando la cabina armadio aperta e il groviglio di vestiti, strappati dagli appendiabiti, sul pavimento. «Dov'è? Là dentro?» Anant seguì il suo sguardo. «No, non più. Mr Schuler è sotto il letto.» Magozzi chiuse brevemente gli occhi e immaginò un vecchio terrorizzato che si trascinava da un inutile nascondiglio all'altro, in una versione umana e perversa del gioco del gatto col topo, per tentare di salvarsi. O forse aveva già accettato il suo destino e cercato d'istinto il riparo del letto come un animale ferito, per morire nascosto e relativamente in pace, come se una cosa del genere fosse possibile quando sei inseguito da un sadico psicopatico armato di pistola. «Non vedo sangue. Gli hanno sparato sotto il letto?» «Penso che lei abbia ragione, detective», disse Anant, inginocchiandosi e indicando loro di fare lo stesso. Estrasse una mini Maglite dalla tasca della giacca e illuminò la carneficina. «Prego, signori.» Magozzi e Gino si accovacciarono al suo fianco e fissarono ciò che re-
stava della testa di Ben Schuler. La sommità del cranio era ridotta a sangue, carne spappolata e frammenti ossei, ma la faccia, spaventosamente bianca nell'alone intenso della torcia, era ancora orrendamente integra, paralizzata in un'espressione grottesca, contorta. Gino si voltò per pochi istanti. «Gesù... Il viso. Perché quell'aspetto?» «È l'espressione con cui è morto, detective, pietrificata nel tempo cosicché noi la decifriamo. Credo stiate vedendo il terrore.» Anant fece scorrere la luce per mostrare i vestiti di Ben Schuler: un logoro blazer di lana, la camicia sporca di sangue, un cravattino parzialmente annodato. «Sembra che si stesse preparando per andare da qualche parte.» «Al funerale di Morey Gilbert», replicò calmo Magozzi. «Stava andando al funerale del suo amico.» Jimmy Grimm fece capolino dalla porta. «Fuori ci sono i media, ragazzi. Tutte e quattro le stazioni ed entrambi i giornali. La situazione si sta scaldando.» 21 La notizia dell'assassinio di Ben Schuler si diffuse rapidamente tra le persone in lutto in casa Gilbert, zittendo le voci, acuendo i sensi, sussurrando un monito malvagio nelle loro orecchie. La polizia poteva anche darsi da fare in cerca del filo che univa con certezza i tre omicidi, ma ogni uomo e ogni donna in quella casa sapevano la verità: qualcuno stava uccidendo gli ebrei. Nessuno espresse ad alta voce quel pensiero terribile, ma tutti rimasero lì più a lungo di quanto fosse normale, radunati in piccoli gruppi, cercando il conforto della sicurezza nel numero. Era buio pesto quando iniziarono ad andarsene e, anche allora, si soffermarono sulla porta a porgere le ultime, lunghe condoglianze. Mentre la fila di persone educate usciva dalla porta d'ingresso, Jack sgattaiolò fuori da quella posteriore, raggiungendo le ombre del giardino. C'erano un bel po' di ostacoli sulla strada che conduceva al capanno degli attrezzi dietro la serra, come varie, piccole gobbe del prato, ma alla fine Jack raggiunse la meta con solo alcuni graffi e con qualche macchia d'erba. Almeno sperava che fossero tali... Poteva sempre essere caduto su una rana... Si fermò sulla porta e premette la schiena contro il legno grezzo, mettendosi in ascolto. Là fuori era molto buio e, quando superavi il roco gra-
cidio di quelle maledette rane in giardino, molto silenzioso. Le uniche cose che lui sentiva erano il martellare del cuore nel petto e lo sfregare delle schegge che gli rovinavano la lana fine dell'abito. Scivolò a terra e si prese la testa tra le mani. Doveva controllarsi, doveva rilassarsi, studiare un piano e poi farsi un altro drink. Infine si alzò, barcollando, e aprì la porta con una spinta, trasalendo al cigolio dei cardini. Incespicò fino al centro del locale e agitò le mani attorno alla testa finché non trovò la catenella della lampadina che pendeva dal soffitto. Il capanno appariva ordinato come sempre. Jack si guardò attorno, osservando tutte le cose che da bambino gli avevano fatto paura: le pale coi bordi simili a coltelli, le lame scintillanti delle cesoie, le palette appuntite e i rastrelli da giardino i cui rebbi brillavano come denti nella luce ondeggiante. Tutti mostri quando Jack, a sei anni, aveva messo per la prima volta piede nel capanno dopo il calare del buio. La mano del padre era grossa - le dita gli arrivavano a metà del petto minuscolo, il pollice a metà schiena -, ma stranamente priva di peso. Era solo calda e confortante. «Va' avanti, Jackie. Entra.» Un deciso cenno di diniego. La testardaggine di un bambino di sei anni. «No? Ah. Di notte ha un altro aspetto, vero?» Un piccolo, convulso cenno di assenso. «E tutti gli attrezzi fanno un po' paura, o sbaglio?» Un altro cenno, stavolta un po' più coraggioso, visto che la parte spaventosa era ormai venuta a galla. «Ah! Secondo te, lascerei che qualcosa faccia del male a mio figlio, al mio bambino d'oro?» E poi due braccia forti lo avevano raccolto e sollevato, tenendolo stretto contro una camicia di lana ruvida che odorava di sudore, di terra e di aria. «Niente qui ti farà del male. Niente da nessuna parte ti farà mai del male. Non lo permetterò. Mi credi, vero, Jackie?» Jack non si accorse che stava piangendo finché non udì il suono orribile, straziante dei suoi stessi singhiozzi. Si tappò la bocca con la mano per attutire il rumore e, mezzo cieco per il potente cocktail di bourbon e lacrime, incespicò verso l'angolo dove su un pallet erano impilati vari sacchi di le-
tame di pecora. Gli ci vollero dieci minuti per scaricare di lato i pesanti sacchi in modo da poter scostare il pallet di legno dal muro, e a quel punto le lacrime erano cessate. Trovò subito la crepa nel pavimento di cemento, afferrò una paletta e prese a sollevare il pezzo di calcestruzzo, sentendo che la fronte gli s'imperlava di sudore. Il sacchetto di plastica era scuro per l'olio, gli stracci all'interno viscidi e impregnati di un odore dolce. Il male in fasce. Jack fissò la pistola che pareva così familiare nella sua mano, affascinato dal modo in cui la luce si rifletteva sulla canna. Aprì la camera e contò i proiettili. Stava quasi per mettere l'arma in tasca quando udì la porta cigolare alle sue spalle. Senza pensare, afferrò la pistola e si girò mettendosi in posizione di tiro. Sapeva molto bene come fare. Sulla porta c'era uno dei ragazzi che lavoravano al vivaio, gli occhi grandi quanto due uova fritte, fissi sulla pistola. «Omioddio, omioddio... Mr Gilbert? Sono io, Jeff Montgomery? La prego, non spari.» Jack crollò a terra e chiuse gli occhi. Mentre l'adrenalina cercava un posto dove andare, il suo corpo fu scosso da un violento tremore. Gesù Cristo, aveva quasi sparato al ragazzo. «Oh, merda», brontolò quando la botta di adrenalina si attenuò e l'alcol si fece di nuovo sentire. «Non ho intenzione di spararti. Non ti ha detto nessuno di non avvicinarti mai di nascosto a un uomo armato?» «Io... io... io non sapevo che fosse armato? Ho visto semplicemente la luce accesa e pensato che fosse meglio venire a controllare?» Jack si rialzò sulle gambe molli e vide il ragazzo ancora paralizzato sulla soglia, con gli occhi che guizzavano. Sembrava un coniglio pronto alla fuga. A quel punto si rese conto dell'aspetto orribile che doveva avere. «Senti, ragazzo. Non è quello che sembra. Odio maledettamente le armi, ma c'è un pazzo figlio di puttana che se ne va in giro a uccidere la gente del quartiere. Perciò mi serve questa, capisci?» «Sissignore, sissignore, certo che capisco. Uh... adesso penso sia il caso che io vada?» «No, no, aspetta.» Jack gesticolò frenetico con la pistola e il ragazzo si rannicchiò contro la porta, terrorizzato. Jack guardò prima gli occhi di lui poi la pistola nella sua mano. «Oh, Cristo, mi spiace.» Si cacciò l'arma in tasca e aprì le mani. «Non avere paura, ragazzo... Jeff, esatto?» Lui annuì, cauto. «Bene, Jeff, adesso ascolta. Mi spiace davvero tanto di averti spaventato,
sono solo un po' ubriaco e piuttosto spaventato anch'io. Ho appena preso questa pistola per proteggermi, vedi? Ma il punto è che non è esattamente legale, mi segui? Perciò non è bene che qualcuno scopra che ce l'ho, soprattutto Marty. Per l'amor di Dio, non lo dire a Marty, d'accordo?» «D'accordo, sì, nessun problema, Mr Gilbert.» «Ottimo. Veramente ottimo.» Jack Gilbert batté le mani e il ragazzo trasalì. «Allora! Vuoi darmi una mano a impilare quei sacchi sul pallet?» «Certo, Mr Gilbert.» Jack gli rivolse un magnifico sorriso. «Sei un bravo ragazzo, Jeff.» 22 Dopo che gli ultimi ospiti se ne furono andati, Marty trovò Jack accasciato dietro il volante della sua Mercedes, intento a fissare il buio oltre il parabrezza. Una fiaschetta d'argento lasciava colare le ultime, preziose gocce di bourbon sul morbido sedile di pelle. Marty si chinò all'altezza del finestrino aperto e per poco non svenne. «Dio mio, Jack, che diavolo è quest'odore?» Jack non lo guardò nemmeno. «Letame di pecora. Dovresti arieggiare il capanno degli attrezzi, Marty. Quel posto puzza.» Sembrava stranamente sobrio per un uomo che probabilmente stava bevendo fin dall'alba. «Che ci facevi nel capanno degli attrezzi?» «Era solo... un viaggio lungo il viale dei ricordi, suppongo. Papà mi portava spesso là dentro, quand'ero bambino. Mi lasciava gironzolare mentre affilava gli attrezzi. La sai una cosa? Penso di aver bevuto un po' troppo per accendere 'sta macchina e dovrei proprio farmi una doccia. Ti va di accompagnarmi a casa, Marty?» «Non con quell'auto.» Venti minuti dopo, erano nella Chevrolet Malibu del '66 di Marty con la capote abbassata per disperdere l'odore, diretti a ovest lungo l'autostrada che passava per il centro di Minneapolis. Il traffico era scarso, l'aria notturna aveva un calore quasi sensuale e Jack era insolitamente zitto. Marty disse infine le parole che pensava non gli sarebbero mai uscite di bocca. «Va bene, Jack. Inizia a parlare.» «Non c'è problema, amico. Scegli l'argomento.» «Cominciamo da quello che hai fatto a tua madre.» «Come?» «Non raccontarmi balle, Jack. Hai lo stesso interesse per la religione che
può avere una felce e all'improvviso vieni toccato dallo Spirito Santo e decidi di buttar via lo yarmulke e di diventare cristiano? Puttanate. Quella stupida foto della prima comunione - e probabilmente anche quella del tuo matrimonio - era un attacco diretto ai tuoi.» «E allora?» «Allora è stato infantile, antipatico e maledettamente imperdonabile. O quasi.» Jack emise un sonoro sospiro. «Hai finito?» «No, dannazione, non ho finito. Così hai litigato con tuo padre e Lily non sa nemmeno per quale motivo. Perché la tagli fuori?» «È complicato. E preferiresti non saperlo.» «Sì, invece, preferisco saperlo. Voglio sapere cosa diavolo ha detto Morey da farti reagire in un modo tanto aggressivo.» Jack si raddrizzò sul sedile e guardò Marty quasi con stupore. «La sai una cosa, Marty? Sei il primo a dirmi che potrei aver avuto un motivo per fare quello che ho fatto, che non sono stato semplicemente un coglione.» Si girò di nuovo e scosse la testa. «Diamine, non immagini quello che si prova.» «Ottimo. Sono contento di averti fatto felice. Allora, qual è il motivo?» «Ti voglio davvero bene per questo, Marty.» «Oh, santo cielo, è impossibile parlarti quando fai così.» «Be', questo è un bene, Marty, perché non mi va di parlare di quello schifo. Acqua sotto i ponti, latte versato, cose di un tempo...» «Dannazione, Jack, non è niente di tutto questo. Perché fa ancora male a Lily e anche a te. Devi mettere a posto le cose.» Jack scosse energicamente il capo. «Non posso.» «Bene, dimmi di che si tratta. Forse posso farlo io.» «Dio mio, sei proprio un idiota arrogante, il che è piuttosto buffo, se ci pensi. Perché diavolo fai l'arrogante? Non sai nemmeno sistemare la tua vita, quindi lasciami in pace. Non ho intenzione di parlarne.» Le dita di Marty strinsero il volante, mentre lui imboccava la stretta curva di uno svincolo autostradale che portava a Wayzata. «Non hai intenzione di parlarne? Va bene. Parliamo di Rose Kleber.» Jack incrociò le braccia sul petto. «Non la conoscevo.» «Non raccontarmi balle, Jack. Ho visto la tua espressione quando guardavi la foto sul giornale.» Jack rimase immobile e non disse nulla, però Marty colse il suo nervosismo. «D'accordo, d'accordo. L'ho incontrata una volta. E con ciò? Incontro
tante persone, non significa che le conosca. Probabilmente non sapevo neanche il suo cognome. È stato lo shock, nient'altro. Insomma, nel giro di tre giorni vengono assassinati tre anziani ebrei e viene fuori che io li conosco tutti.» «Come l'hai incontrata?» «Cristo, non lo so! Cosa sono tutte queste domande?» Marty sapeva di non dovergli concedere il tempo di pensare. «Be', la situazione è questa, Jack: la polizia sta cercando un nesso fra le tre vittime e quel nesso potresti essere tu.» «Stronzate. Scommetto che ci sono almeno cento persone che le conoscevano tutte e tre.» «Erano molto vicini, vero? Morey, Ben e Rose?» «Come cazzo faccio a saperlo?» «Perché lo sai, maledizione. Quando hai saputo che avevano sparato a Ben Schuler te la sei fatta sotto dalla paura, e Gino e Magozzi l'hanno capito. Credi che non si chiederanno perché? E loro non hanno nemmeno visto l'aria terrorizzata che avevi davanti alla foto di Rose Kleber. Jack, tu sai qualcosa di questi omicidi. Perché non parli? C'è un assassino in giro.» Jack si voltò a guardarlo. «Che diavolo significa? Ieri non t'importava un accidente di sapere chi ha ucciso tuo suocero e oggi sei di nuovo Mister Sbirro. Dove vuoi arrivare?» «Oh, sì? Be', ti sei dimenticato una cosa, Jack. Ieri mi sei saltato addosso per non aver cercato di scoprire chi aveva ucciso Morey e adesso che io ti faccio un paio di domande sei tu quello che non ne vuole parlare. Sono io che ti chiedo: cosa significa?» Jack sbatté la testa all'indietro contro il sedile, scoraggiato, e, mentre imboccavano un cavalcavia, lesse il grande cartello autostradale verde e bianco. «Maledizione, Marty, quella era Jonquil. Hai saltato l'uscita. Prendi la prossima.» «Devi parlare con me, Jack. Non puoi evitarlo.» Jack rimase in silenzio per un po', poi stranamente, proprio mentre si stavano immettendo sulla rampa, si allacciò la cintura. «Svolta a destra. Tre isolati più in su, all'altezza di un ruscello, la strada si biforca. Gira a sinistra.» Marty si guardò la mano destra, che stringeva il volante. Sembrava un pugno e si chiese che effetto avrebbe fatto tirarglielo in faccia. Gli ci volle tutta la sua forza di volontà per mantenere un tono calmo e non minaccioso. «Ascoltami, Jack. Non ragioni nel modo giusto. Se sai qualcosa che po-
trebbe aiutare la polizia a fermare questi omicidi, devi parlare, perché, se non lo fai e qualcun altro muore, è come se tu stesso avessi premuto il grilletto.» Jack fece uno strano sorriso, illuminato a intermittenza dalla luce dei lampioni. «Non succederà, Marty. Non ti preoccupare. Hai sempre quella 357?» Marty lo guardò, incredulo, e per poco non centrò un'auto parcheggiata. «Dannazione, Jack, mi stai tirando scemo. Non so nemmeno più chi sei.» «Neanch'io lo so. Ma che mi dici della pistola? Ce l'hai ancora?» Marty premette di colpo il freno, scaraventando Jack in avanti, mentre l'auto si arrestava stridendo in mezzo alla strada. «Sì, ce l'ho, quella maledetta pistola! La vuoi in prestito? Vuoi cacciarti un proiettile in testa e risparmiarmi la fatica?» «Gesù, Marty, calmati.» Jack scrollò la mano con cui si era afferrato al cruscotto. «Mi hai quasi spezzato il polso. È stato un bene che io avessi la cintura di sicurezza allacciata. Sai che il novantanove per cento degli incidenti automobilistici avviene sulle strade statali? Tutti pensano che le autostrade facciano stragi, ma non è così.» L'altro chiuse gli occhi e appoggiò la fronte sul volante. «Ora, tornando alla pistola. Voglio che mi faccia un favore. Va' a casa, prendila e resta con la mamma per un paio di giorni. Puoi farlo?» Marty lo fissò con un'aria di disperata rassegnazione. «Jack, mi devi dire cosa sta succedendo.» «Stanno sparando alle persone, ecco cosa sta succedendo. Alle persone anziane. Agli ebrei. Come mamma. Tienila d'occhio. Niente di più.» Marty sospirò e riprese ad avanzare. Al ruscello, svoltò a sinistra e percorse le ampie curve che attraversavano un complesso residenziale immerso in un verde rigoglioso. Aveva la sensazione di trovarsi in un sogno e di essere incapace di cambiare qualsiasi cosa attorno a sé. «Non penserai davvero che lascerei morire degli innocenti se potessi fare qualcosa per fermarlo, vero, Marty?» L'altro non dovette nemmeno riflettere sulla risposta, il che lo sorprese. «No, immagino di no. Però credo che tu sia nei guai. E non lasci che io ti aiuti.» Jack ridacchiò. «Da tempo ormai non ho più bisogno di aiuto, Marty. Ma è maledettamente bello che tu me l'abbia offerto.» Reclinò la testa sul sedile e alzò lo sguardo sulla pancia dorata delle nubi notturne, che riflettevano le luci lontane della città. «Diamine, come piaceva a Hannah, que-
sta macchina. A volte, quando tu lavoravi la notte, la prendevamo per andare da Porky's e mangiarci una fetta di torta calda glassata, poi facevamo un giro attorno ai laghi con la capote abbassata. Quelli erano davvero bei giorni.» Marty strinse forte gli occhi per un istante, pensando che, se li avesse tenuti chiusi, sarebbero finiti fuori strada, contro un albero, e sarebbero morti entrambi. Forse così il mondo sarebbe stato migliore. «Il suo mondo ruotava attorno a te, Marty, lo sai? Questa è un'altra ragione per cui ti voglio bene. Hai reso felice Hannah.» Marty serrò le labbra e andò in quel luogo oscuro che visitava ogni giorno. «L'ho fatta ammazzare.» «No, non è vero, Marty. Non te ne fare una colpa.» Jack si allungò e gli arruffò i capelli con un gesto stranamente paterno. Per la prima volta in un anno, Marty pensò che sarebbe potuto scoppiare in lacrime. Jack rimase alla fine del viale alberato e guardò Marty allontanarsi. Attese finché i fanali non scomparvero dietro una curva. Poi cautamente estrasse la pistola dalla tasca. Nel corso del tragitto, era terrorizzato che quella maledetta cosa sparasse e gli staccasse il cazzo, perché non riusciva a ricordare se, nel capanno degli attrezzi, avesse messo la sicura. Aveva ancora la pistola in mano quando udì un flebile snic-snic negli alberi alle sue spalle. Cervi... o forse quei dannati procioni, pensò. Eppure fu percorso da un brivido di terrore. 23 Gino e Magozzi ascoltarono l'ultima metà del telegiornale delle dieci seduti a un tavolo buio sul retro dello Sports Bar with No Name. Gino stava mangiando un'enchilada grande quanto una mazza da baseball e immersa in una salsa calda, Magozzi una scodella di minestra di pollo e tagliatelle. Aveva lo stomaco sottosopra. Sullo schermo in alto scorreva un mieloso servizio di ben cinque minuti sul funerale di Morey Gilbert, una sfacciata pubblicità del pezzo forte in arrivo, San Gilbert di Uptown, seguito da alcune inquadrature della casa di Ben Schuler che sfumarono in un primo piano di Magozzi, intento a rilasciare la consueta dichiarazione ambigua: non avevano arrestato nessuno, stavano seguendo tutte le piste possibili e, no, non c'erano legami certi tra gli omicidi di Morey Gilbert, Rose Kleber e Ben Schuler. A quel punto, si
udì fuori campo la voce acuta di Kristin Keller, la Barbie di Channel Ten: «Detective Magozzi! Le tre vittime erano sopravvissute ai campi di concentramento. Questo dal mio punto di vista è sicuramente un legame certo.» «Guarda lì.» Gino puntò la forchetta verso lo schermo. «Mandano la pubblicità subito dopo che quella ci ha dato un calcio nelle palle. Maledizione, come odio quella donna. Sai cosa dovremmo fare? Beccarla in un vicolo buio e rasarle la testa a zero. Quello la terrebbe lontana dalla televisione per un po'. Però sono sconcertato dalla velocità con cui hanno scoperto che Schuler è stato in un campo di concentramento.» «I vicini, probabilmente», replicò Magozzi, pescando una cucchiaiata di minestra. «Jimmy ha detto che le troupe televisive sono andate in giro a bussare alle porte per almeno mezz'ora prima che noi uscissimo.» «A Malcherson non piacerà quell'intervista.» Magozzi posò il cucchiaio. «Hai una Turns?» Erano quasi le undici quando Gino e Magozzi risalirono arrancando i gradini del municipio. Avevano i vestiti spiegazzati e le cravatte allentate; i resti delle pietanze di Lily Gilbert e dell'enchilada decoravano la camicia un tempo bianca di Gino. L'ampio corridoio che portava alla Omicidi era deserto, le luci erano smorzate e l'edificio era così silenzioso che, prima di aprire la porta dell'ufficio, i due sentirono la voce di Johnny McLaren. Stava parlando al telefono alla postazione di Gloria, probabilmente perché non riusciva a trovare l'apparecchio sotto il cumulo d'immondizia che copriva la sua scrivania. Li salutò con un ampio sorriso e con un cenno. Seguirono la direzione che lui aveva indicato col pollice, verso il fondo della stanza, dove Langer stava delicatamente addentando l'ultimo pezzo di un'ala di pollo. «Uau», esclamò Gino. «Langer che mangia di nuovo ali di pollo alla griglia? È la fine del mondo.» Guardò le ossa spolpate e ammonticchiate con ordine su un tovagliolino. «Credevo che fossi vegetariano.» «Lo ero fino a ieri sera. Adoro questa roba. Ne vuoi una?» chiese, tastando il sacchetto bianco e unto che troneggiava sul sottomano. «No, grazie. Che ci fate qui così tardi?» Langer si tamponò gli angoli della bocca con un tovagliolino. «Chiamate intercontinentali ad agenti che non siamo riusciti a trovare di giorno. McLaren sta cercando di contattare un tizio a Johannesburg, ci credete?» McLaren riagganciò e si avviò verso la sua scrivania. «La prossima volta
che abbiamo un periodo di calma alla Omicidi dovremmo fare le valigie e andare in Sudafrica. Ogni volta che cerco di chiamare quei tizi laggiù, sono fuori per l'ennesimo omicidio.» Sbatté un foglietto sulla scrivania di Langer. «E tu chiami questo, perché io non so come pronunciare un nome senza vocali. Ho chiesto di lui e mi hanno sbattuto il telefono in faccia.» «Che succede?» domandò Magozzi. «Perché queste chiamate intercontinentali?» McLaren assunse un'aria sgomenta. «Stai scherzando? Non hai visto il telegiornale delle sei? Oh, caspita...» Alzò le mani al cielo. «La volta in cui teniamo una conferenza stampa davvero formidabile, tu la perdi. Stavolta Malcherson ci ha lasciato parlare e sono stato grande, anche se non dovrei dirlo io. Non è vero, Langer?» Langer roteò gli occhi in direzione di Magozzi. «Aveva la giacca di madras.» Magozzi trasalì. «Hanno cercato di prenderci in contropiede, naturalmente», sospirò McLaren. «Soprattutto quel nuovo imbecille coi capelli permanentati del telegiornale serale. Ma siamo stati due rocce. Freddi, duri, i veri tipi dell'eroe. Ho un nastro...» «Che diamine è successo?» chiese Gino, mentre pescava a fondo nel sacchetto di ali di pollo. «Ci sono novità sull'uomo dei binari?» «Oh, sì, altroché», rispose McLaren con un bel sorriso. «Pare che la 45 che per poco non ha staccato il braccio ad Arlen Fischer scotti: dall'Interpol è arrivata una valanga di segnalazioni su quella pistola. Vediamo, c'erano Johannesburg, Londra, Parigi, Praga... e un paio di altre città.» «Milano e Ginevra», gli ricordò Langer. «Già. A ogni modo, Channel Three ha una fonte nell'FBI che ha saputo del contatto con l'Interpol e la stampa è impazzita: parlano di un intrigo internazionale nel cuore del Paese e roba del genere.» «E voi che ne pensate?» domandò Magozzi. Langer si strinse nelle spalle. «L'Interpol li ha sempre classificati come omicidi su commissione. Sei omicidi nell'arco di quindici anni, sette se contiamo Arlen Fischer, e sembra si tratti della stessa persona che usa la stessa arma. Entra ed esce pulita, niente testimoni, niente reperti medicolegali, un solo colpo alla testa.» «Ma Arlen Fischer non è stato colpito alla testa», gli rammentò Magozzi. «Questo è il lato positivo. Ovviamente c'è sempre la possibilità che l'ar-
ma sia andata in giro senza il suo proprietario - forse l'ha buttata dopo l'ultimo omicidio ed è finita qui grazie a qualcun altro -, ma l'Interpol spera che si tratti dello stesso killer e che l'uccisione di Arlen Fischer sia stata una questione personale. I killer prezzolati di solito non torturano gli sconosciuti.» Magozzi annuì. «Quindi conosceva Fischer.» «Questa è l'ipotesi: a un certo punto le strade di Fischer e del killer si sono incrociate. Se troviamo il collegamento, potremo dare un nome al nostro uomo.» «Accidenti, ragazzi, inchioderete un killer internazionale», affermò Magozzi con un sorriso stupito. «Non sarebbe una meraviglia?» osservò McLaren. «Ma il lato negativo è che l'Interpol vuole che subentri l'FBI. Sono veramente determinati a prendere quel tizio. Il comandante Malcherson li terrà a bada finché non avremo verificato i sei omicidi all'estero, per vedere se siano in qualche modo connessi con Fischer. A proposito...» McLaren gli porse il biglietto col messaggio. «Eccoti Mister Consonante. Io non lo chiamo, te l'ho detto.» «Probabilmente parla inglese, McLaren.» «Non mi servirà a niente se non riesco a farlo venire al telefono perché non so pronunciare il suo nome del cazzo.» «Va bene, va bene.» Langer prese il biglietto e gliene porse un altro. «Tu però ti occupi di Parigi. Scommetto che quelli fingeranno di non parlare inglese solo per risultare irritanti.» Gino sbuffò. «Come se McLaren sapesse parlare francese.» Langer gli sorrise. «McLaren lo parla benissimo.» «Sicuro.» «Le lingue romanze le padroneggio abbastanza», disse McLaren. «Ma quei dialetti slavi sono infernali.» Trotterellò alla scrivania e iniziò a comporre una lunga serie di numeri. Poi, quando si mise a parlare in una lingua che Gino e Magozzi non sarebbero mai stati in grado di comprendere, entrambi lo guardarono a bocca aperta. «È incredibile», mormorò Gino. «E io che ho sempre pensato a McLaren come a un semplice bravo ragazzo.» «E voi che fate qui?» domandò Langer. Gino e Magozzi si scambiarono un'occhiata cupa. Erano stanchi, abbattuti e un po' spaventati perché sentivano che le cose stavano scivolando loro di mano. «Abbiamo perso un altro anziano», disse Magozzi. Langer assunse un'espressione abbattuta. «Stai scherzando?»
«Magari», rispose Magozzi, truce. «Ottantasette anni. Gli hanno sparato in casa sua. Un altro col tatuaggio.» Langer emise un triste sospiro e guardò di lato, scuotendo la testa. «Che diavolo sta succedendo là fuori?» «I mezzibusti della televisione stanno iniziando a chiedersi la stessa cosa», brontolò Gino. «Voi vi siete presi l'edizione delle sei, noi quella delle dieci. Ci hanno ridotto in polpette.» «Penso io alle telefonate», disse Magozzi a Gino, avviandosi verso la scrivania. Gino annuì. «Chi è la vostra vittima?» domandò Langer. «Un certo Ben Schuler. Mai sentito nominare?» Langer scosse la testa. «Non credo.» «Be', a quanto pare lui e Morey si conoscevano molto bene.» Langer inarcò le sopracciglia. «Avete trovato un filo conduttore.» «Forse l'inizio di un filo, ma solo tra Schuler e Gilbert. Rose Kleber resta sempre la mosca bianca. Ieri abbiamo parlato con la famiglia in cerca di un legame tra lei e Morey Gilbert, però niente da fare. Adesso Leo sta cercando di scoprire se Rose Kleber conosceva Ben Schuler. Forse possiamo collegarli in questo modo.» Lanciò un'occhiata a Magozzi. Aveva ancora il telefono premuto all'orecchio, ma stava scuotendo il capo e teneva un pollice girato in basso. «O forse no.» Magozzi riagganciò e avvicinò una sedia con le ruote alla scrivania di Langer. Non era così depresso come Gino credeva. «La famiglia di Rose Kleber non ha mai sentito parlare di Ben Schuler.» «Sì, l'avevo capito», borbottò Gino. «Ma stavo pensando che è davvero strano: abbiamo una serie di omicidi e adesso viene fuori che l'omicidio cui stanno lavorando Langer e McLaren ha alle spalle una serie...» «Non avventurarti su quel terreno», lo ammonì Gino. «Ci stiamo spaccando la testa per collegare tre omicidi e adesso ne vuoi tirare in ballo un altro? Dai, Leo, abbiamo considerato e scartato l'idea il primo giorno. Gli omicidi erano troppo diversi e pure le vittime lo erano.» «Erano tutti molto anziani, Gino. Inoltre, se conti Arlen Fischer, tre di loro vivevano nello stesso quartiere.» Langer aveva appoggiato il mento sulla mano. «Le pistole non corrispondono, i profili delle vittime non corrispondono», disse, rivolto a Magozzi. «I vostri erano ebrei, sopravvissuti dei campi di concentramento, il
nostro era un luterano.» Magozzi fece una smorfia e si grattò la nuca. «Sì, lo so. Se guardi la cosa direttamente, vedi quattro anziani, tutti uccisi nel giro di pochi giorni e a pochi chilometri l'uno dall'altro; ma poi, se consideri i dettagli, tutto va a pallino. Sono simili e diversi nel contempo.» Langer si accigliò. «Non possiamo giustificare in nessun modo un'unione dei casi, visti tutti i buchi che ci sono.» «Sì, lo so. Però manteniamo aperte le linee di comunicazione, d'accordo?» Gino assunse un'aria scaltra. «Sapete, a pensarci bene, mi piacerebbe un sacco», mormorò, tamburellando un dito grassoccio contro le labbra. «Jack Gilbert: pezzo grosso di una banda di assassini internazionali.» Langer scoppiò in una sonora risata. «Jack Gilbert? Stai scherzando.» «Ah, non lo so. Quel tipo ha qualcosa che non va. Quando ha sentito che avevano sparato a Ben Schuler, tutto il sangue gli è defluito dal viso con una velocità tale che credevo sarebbe crollato a terra.» «Be', forse lo conosceva.» «Ha detto di sì, ma c'è di più. Dovevi vederlo, Langer. Jack Gilbert era spaventato a morte.» 24 Marty entrò in casa sua e si sentì un intruso. Era stato via solo due giorni, ma la cucina gli sembrava strana e poco familiare, come se fosse quella di qualcun altro. «Dovresti vendere la casa, Marty, e magari prenderti un appartamento in condominio. Oppure vieni a vivere con me e Lily. Ci farebbe comodo un aiuto al vivaio.» «Non posso, Morey. Io appartengo a questo posto.» «No, tu e Hannah appartenevate a questo posto. Voi due insieme. Adesso devi trovare un posto cui appartieni tu solo, senza di lei.» «Non è finita.» «Invece sì. Il caso è chiuso. La bestia che ha assassinato mia figlia è morta. È come dovrebbe essere e ringrazio Dio per questo. Dentro di me, danzo attorno alla sua tomba. Adesso possiamo tornare a vivere.» Era successo mesi e mesi prima. Da allora non aveva più rivisto Morey
vivo. La 357 era ancora nel cesto della biancheria, sepolta sotto gli abiti inzuppati che aveva gettato lì dentro quando Jeff Montgomery era venuto a dirgli che Morey era morto. Andò nello scantinato e passò mezz'ora a pulirla, oliarla e controllarla perché fosse pronta per sparare. Non era l'arma d'ordinanza del Dipartimento. Non entrava nella fondina più piccola che lui aveva indossato per più di metà dei quindici anni di servizio, perciò la mise nella tasca della giacca. Non aveva mai pensato di portarla in giro. L'aveva comprata per una ragione, e una soltanto, e infilarla in una fondina dopo che era servita a quello scopo non era compreso nel pacchetto. I morti non avevano bisogno di fondine. Ma non poteva star dietro a Lily per tutto il giorno con una 357 che gli ballonzolava nella tasca della giacca. A dire il vero, non che lui pensasse di aver bisogno di una pistola o che a lei servisse la sua protezione. Era quasi convinto che Jack avesse già fatto un bel passo oltre la linea che separava la sanità mentale dalla follia e che vedesse demoni immaginari ovunque. Ma non sarebbe stato controproducente assecondarlo per un po', finché non avesse capito che cosa stava effettivamente accadendo. Si accigliò mentre riponeva gli attrezzi per la pulizia e l'olio nel kit, pensando a come poteva andare all'armeria per comprare la fondina, senza però lasciare sola Lily e senza spaventarla, dando credito alle paranoie di Jack. Gli sembrava un dilemma insolubile e decise che l'avrebbe affrontato la mattina seguente. Portò il cesto della biancheria sul marciapiede, per la nettezza urbana, con tanto di vestiti e scarpe rovinati, poi andò nella grande camera da letto a preparare la valigia. Aveva già usato quasi tutto ciò che aveva cacciato in fretta e furia in una sacca, la mattina del fallito suicidio. Se aveva veramente intenzione di stare vicino a Lily per un po', doveva prendere la cosa sul serio, il che significava non lasciarla per correre a casa a prendere vestiti puliti. La cabina armadio odorava di Hannah. Era un profumo lieve, agrumato, eppure, quando lui aprì la porta pieghevole, per poco non lo fece cadere a terra, stordito. Rimase immobile, con le grosse mani che gli penzolavano sui fianchi e con le spalle grosse curve in avanti, come se avesse appena ricevuto un violento pugno allo stomaco. Fissò le sete fruscianti e i morbidi cotoni muoversi alla corrente creata dall'apertura della porta. Involucri tri-
sti, vuoti, di colori tenui che un tempo racchiudevano il corpo di sua moglie. L'uomo che l'aveva assassinata, morto ormai da sette mesi, lo uccideva ancora, all'infinito. Indossava l'abito lungo, bianco e sottile, con cui pareva fluttuare quando camminava. Lo aveva visto quel giorno nella vetrina di un negozio, drappeggiato inerte su un manichino, desideroso di prender forma sulle esili curve di Hannah. Si era già in parte infilata il vecchio vestito nero quando lui glielo aveva portato nella stanza, tenendolo sulle braccia muscolose, come un telo per altare di organza. Indossandolo, lei aveva urlato, una cosa che lo aveva fatto sorridere. Quand'era felice, Hannah urlava sempre. Quella sera stavano festeggiando la vita. Dopo sette anni di tentativi, Hannah era incinta. «Non usare quella parola», gli aveva detto Hannah. «Perché?» «Perché non mi piace. È fredda. Perché usare una parola che suona così male per descrivere una cosa così bella? Non sono incinta, ho deciso: sono una donna con un bambino.» «È molto biblico.» La sua risata era musica sulla rampa del parcheggio quasi vuoto. Si erano attardati al ristorante e adesso le ombre erano ovunque. Una di esse era balzata fuori da una colonna e aveva afferrato Hannah da dietro, avvicinandole il luccichio maligno di un coltello seghettato alla gola bianca. Era stato così furbo, quel ragazzino disperato, smilzo, con gli occhi spiritati, coi capelli biondi unti e con le braccia piene di buchi. Aveva preso Hannah per prima, sapendo che così avrebbe bloccato Marty all'istante. Però Marty era un poliziotto, un detective della Narcotici, santo cielo. Trattava con persone del genere tutti i giorni. Sapeva come affrontarle. «Calmati, ragazzo. Ho quasi cinquanta dollari nel portafoglio. Non è molto, ma è tutto quello che ho e sono tutti tuoi. Però lasciala andare.» «Prima i soldi. Buttali qui.» «Non c'è problema. Adesso metto la mano nella tasca interna, va bene? Vedi? Faccio davvero piano, ti getterò i soldi, poi ci volteremo e ce ne andremo. Per te va bene?» Il ragazzo aveva due occhi azzurri vivi, animati da una fame che pochi avrebbero capito e per un istante - solo per un istante - Marty aveva pensato che forse stava commettendo un errore. Gli occhi del ragazzo erano
troppo azzurri, troppo intensi, troppo concentrati. L'eroina non faceva quell'effetto e nemmeno il crack. Porse era qualcosa di molto peggio, uno di quei nuovi mix letali che esplodono come bombe nucleari nei cervelli devastati. Aveva lentamente aperto il risvolto della giacca buona, per mostrare la tasca all'interno, la sagoma rettangolare del portafoglio contro la seta. Ma si era scordato. Gesù Cristo, aveva visto il coltello alla gola di Hannah e si era scordato tutto quello che sapeva. Si era scordato di dire al ragazzo della pistola che lui doveva portare, in servizio o no, poi aveva visto lo shock e la paura negli occhi troppo vivi di lui e poi ancora il lampo e la lama che affondava e la vita di Hannah che scaturiva in un lago così grande da non crederci. Mentre il suo abito bianco diventava rosso, lui l'aveva tenuta fra le braccia, premendo frenetico i tasti del cellulare, chiamando i soccorsi, per poi gettar via il telefono e cullarla dolcemente. Lo squarcio nella gola era così profondo che l'aveva privata della voce. Però era riuscita a portare una mano al ventre e a chiederglielo con gli occhi. «Sta bene, Hannah», le aveva detto lui, premendole piano una mano sulla gola, cercando di tener dentro la vita. «Il bambino sta bene. Il bambino sta bene.» Aveva continuato a ripeterglielo finché gli occhi di lei non si erano appannati e la mano, inerte, era scivolata sul calcestruzzo. L'ambulanza era arrivata nel giro di cinque minuti. Soltanto tre minuti troppo tardi. Marty non aveva neanche sentito il rumore dei passi del ragazzo che scappava. Ma ricordava il suo volto. Rimase immobile davanti alla cabina armadio, semplicemente per respirare, per tornare al presente. Le immagini di quella sera lo accompagnavano di continuo. Ogni giorno, in misura maggiore o minore, ne rivedeva qualche pezzo, però mai il ricordo era stato così completo, mai le immagini erano state così vivide e crudeli. Aveva sempre saputo che, alla fine, l'intero ricordo sarebbe riaffiorato in tutto il suo orrore. E aveva vissuto con la certezza che, quando ciò fosse accaduto, lui sarebbe stato finalmente in grado di premere il grilletto. Restò senza fiato quando comprese di essersi sbagliato. Aveva una pistola in tasca e nessun impulso a usarla. Aveva visto il peggio che la sua mente aveva da offrirgli e adesso, miracolosamente, sentiva che si stava li-
berando. Quando Marty tornò da lei, Lily era seduta nella sua poltrona, con un libro in grembo. Era avvolta in un accappatoio color porpora e sorseggiava acqua da un bicchiere a strisce multicolori. Batté la mano sul bracciolo del divano accanto alla poltrona. «Sei stato via tanto. Ero preoccupata.» Marty si sedette sul divano e sprofondò nei cuscini, ammorbiditi negli anni da tutte le persone morte cui aveva voluto bene. «Minneapolis non è più così sicura da starsene fuori a qualsiasi ora. Ma tu non hai niente da temere, con quella pistola in tasca.» Marty abbozzò un sorriso. A Lily non sfuggiva niente. «Lo ripeto, le armi sono pericolose. E se partisse un colpo e tu ti colpissi per sbaglio?» «Non mi sparerò, Lily.» Lei inclinò la testa e lo fissò per un istante. «È bello sentirtelo dire, Martin. Allora in tutti questi mesi mi sono preoccupata per niente.» Marty guardò i suoi intensi occhi azzurri, senza età, e si chiese cosa sarebbe successo se qualcuno, in quella famiglia, avesse detto la verità. «Ci ho pensato», mormorò poi, sondando il terreno. «Se porti una pistola, probabilmente ci stai ancora pensando.» La strategia della verità sembrava funzionare e Marty pensò di tentare di nuovo. «Jack mi ha chiesto di andare a casa a prenderla. È preoccupato per gli omicidi e vuole che ti stia vicino.» Senza guardarlo, Lily bevve un sorso d'acqua. «Ha detto così?» «Sì.» «Uff. Allora adesso ho una guardia del corpo? Ti trasferirai da me, rimarrai qui per sempre? Hai portato una valigia bella grossa.» Marty le rivolse un mezzo sorriso stanco e guardò la vecchia Samsonite di tweed che lui e Hannah avevano comprato per la luna di miele. «Resterò finché la polizia non scoprirà chi ammazza la gente.» Lei posò con cura il bicchiere sul tavolino, poi si sollevò dalla poltrona. «Puoi anche disfarla, quella cosa.» Marty stava appendendo l'ultimo paio di pantaloni di cotone nella cabina armadio quando udì bussare alla porta. Senza attendere risposta, Lily entrò con una pila di abiti ben piegati e li posò sul letto. Lui guardò incerto i boxer di un bianco accecante in cima alla pila. «Sono miei?»
«Ho dovuto metterli in candeggina per un giorno intero. Hai mai sentito parlare della candeggina?» Lui si avvicinò e li sollevò. Avevano una piega affilata come la lama di un rasoio. «Hai stirato la mia biancheria?» Lei si strinse nelle spalle. «Siamo forse animali? Certo che l'ho stirata.» Trotterellò fino alla cabina ed esaminò la fila di pantaloni di cotone. «Non puoi appendere i pantaloni sportivi in quel modo», disse, togliendoli a uno a uno dagli appendiabiti e sistemandoli secondo la piega. Quando ebbe finito, si voltò e vide Marty seduto sul letto che la osservava con un sorriso triste. «Che c'è?» «Hannah faceva così.» Lily chiuse le labbra, distolse lo sguardo e annuì. «Tutti ce ne andiamo in giro con qualche buco nel cuore.» Lo fissò. «Però andiamo avanti lo stesso.» «Talvolta non so perché. Perché perseveriamo quando le cose diventano così brutte?» Lanciò un'occhiata al tatuaggio bluastro sbiadito sul braccio della donna. «Ci saranno state volte in cui ti sei chiesta se ne valesse la pena.» Sotto il voluminoso accappatoio, lei raddrizzò le spalle e lo guardò, decisa. «Non una volta, nemmeno per un minuto. La vita vale sempre la pena di essere vissuta.» Dopo che la porta si fu richiusa con un clic, Marty rimase a lungo seduto sul letto, un po' umiliato da quella minuscola vecchia assai più forte di lui. Alla fine si avvicinò all'antica scrivania a serranda nell'angolo, scostò la sedia e si sedette. Il cassetto superiore era vuoto, tranne che per un blocco di carta A4 e una confezione di penne a sfera. Piazzò il blocco con gran cura al centro della scrivania, scelse una penna e rimase seduto, ad aspettare. Poi la mano si mosse, quasi di sua iniziativa. Marty tracciò un cerchio con varie righe che s'irradiavano all'esterno, a mo' di sole. Al centro del sole scrisse JACK. Un'ora dopo, si appoggiò allo schienale e si sfregò gli occhi che gli bruciavano. Per la prima volta dopo tanto tempo aveva una voglia matta di caffè invece che di scotch. Aveva riempito tre fogli di appunti e domande, però altri pensieri aggrovigliati gli giravano ancora per la testa, chiedendo di essere messi su carta. Faceva sempre così quando lavorava a un caso particolarmente problematico, e la familiarità di quella situazione gli rammentò le notti in cui Hannah entrava di soppiatto nel suo studio, gli circondava le spalle con le
braccia e lo rimproverava dolcemente, perché la lasciava sola in quel letto grande e freddo. Sentiva quasi il peso delle sue braccia morbide, l'odore di sapone che lei usava per lavarsi il viso, come di limone, il solletico che gli facevano i suoi capelli setosi sul collo. Sulle labbra di Marty si formò un lento sorriso di stupore. Per un anno intero l'unico ricordo di Hannah era stato quello della morte. Ora, per la prima volta, stava ricordando un pezzo della sua vita. Sto migliorando, pensò, girando pagina. 25 Il sole stava cominciando a sorgere oltre i promontori a picco sul fiume quando Magozzi e Gino attraversarono il Mississippi sul Lake Street Bridge. Le strisce rosa e oro in cielo si riflettevano sulla superficie scura dell'acqua, increspandosi come rivoli scintillanti di champagne. «Dio mio, come mi piacerebbe metterlo su tela», sussurrò Magozzi. «Guarda l'acqua, Gino. È splendida.» Gino grugnì. Aveva due occhiaie profonde e i suoi capelli biondi a spazzola sembravano arrabbiati. «Splendida un paio di palle. Non la penseresti così se avessi avuto una nottata come la mia. L'Incidente ha trovato una scatola di quei cereali per ragazzi con tutti gli animali colorati e per circa tre ore ha vomitato arcobaleni. Sembrava proprio come quell'acqua.» «È un po' piccolo per mangiare roba del genere, no?» «Non li mangerà mai più quei cereali, Angela me l'ha promesso. Era la mia scorta segreta, quella. Hai presente quegli aggeggi di gomma che servono a bloccare gli armadietti per evitare che i bambini li aprano?» «No.» «Be', non funzionano. Oppure l'Incidente è un genio.» «Devi smettere di chiamare tuo figlio così, altrimenti crescerà complessato.» «Non lo chiamerei mai così in sua presenza. Ha un visino così grazioso quand'è coperto di bava... Accidenti, sto morendo di fame. Mi vuoi dire per favore perché il traffico si è bloccato a metà ponte alle sei della mattina?» Quella massa d'acqua su cui erano sospesi segnava il confine geografico tra Minneapolis e Saint Paul. Prima di uscire di casa, Magozzi aveva visto una replica del servizio di Kristin Keller, e aveva approvato la scelta di Malcherson di tenere il briefing mattutino d'emergenza a Saint Paul, in un
locale fuori mano. Circolava voce che la stampa avesse già teso loro un'imboscata al municipio di Minneapolis. Saint Paul era l'ultimo posto in cui li avrebbero cercati. «Oddio, guarda un po'!» brontolò Gino, scendendo dalla macchina. «Laggiù c'è gente che corre da tutte le parti. Metti il lampeggiante sul tetto, adesso sistemo io le cose.» Si avviò a grandi passi tra le file di auto ferme e Magozzi disse in silenzio una preghiera per tutti gli automobilisti che si erano messi tra Gino e la sua colazione. Cinque minuti dopo era di ritorno. Scivolò in macchina con un sorrisetto ebete. «È stato piuttosto divertente.» «Hai delle piume sulla camicia», disse Magozzi, lanciandogli un'occhiata di sbieco. «E allora?» «Non ti sarai mangiato un uccello, eh?» «No. Era una di quelle mamme anatre suicide che portava a spasso i piccoli lungo il ponte. Hai idea della velocità che possono raggiungere quei cosini gialli? Abbiamo fatto una bella fatica a prenderli tutti. Un tizio aveva uno scatolone, perciò li abbiamo cacciati là dentro e adesso lui li sta portando dall'altra parte. Il traffico dovrebbe riprendere a muoversi tra un minuto.» Basil's Broiler era una bettola sudicia e poco illuminata che serviva il popolo della notte, il quale però se n'era ormai andato, ammesso che gli sgabelli e i tavoli vuoti fossero indicativi in tal senso. L'unica persona dietro il banco era un ragazzo coi capelli a cresta e con una quantità incredibile di metallo che gli spuntava dalle orecchie, dalle sopracciglia, dalle labbra e dal naso. Sollevò brevemente lo sguardo quando Magozzi e Gino entrarono, poi riprese a fissare la sua tazza di caffè. «Lo vedi, quel ragazzo?» sussurrò Gino. «Procurati una piccola palla rossa e puoi giocare a jacks con la sua faccia. Dammi retta: ecco cosa succede se lasci che tuo figlio si buchi le orecchie. Prima è un grazioso bottoncino d'oro, poi è un anello, poi sono due anelli e prima che tu te ne accorga... una faccia da coglione.» «Helen si è fatta bucare le orecchie?» «Prima dovrebbe passare sul mio cadavere.» Trovarono Malcherson seduto a un tavolo in fondo al locale. Aveva un notes, due cellulari e una di quelle brutte cartelline rosse degli omicidi aperta davanti a sé. Alzò lo sguardo quando i due si avvicinarono e fece un cenno col capo.
«Buongiorno, detective.» «Buongiorno, capo», dissero Gino e Magozzi all'unisono, come scolari che salutano un direttore temibile. «Siete in ritardo.» «Una mamma anatra e i suoi piccoli sul ponte», spiegò Gino, strappando a Malcherson uno dei suoi rari sorrisi. Chiunque passasse anche solo una primavera nel Minnesota sapeva delle anatre che attraversavano la strada, del traffico che si bloccava e dei guidatori che, abbandonando il loro naturale impulso a scannarsi tra loro, si trasformavano all'istante in un felice gruppo di salvataggio animali. «Confido che li abbiate aiutati ad attraversare in tutta sicurezza.» «Sissignore.» «Bene.» Fece loro cenno di sedersi e avvicinò una caraffa di caffè. «Non ci sono né menu né cameriera. Ma ovviamente c'è un bruto enorme in cucina. Ha detto che ci avrebbe portato tre colazioni. Non so in cosa consistano.» «Saranno ottime», disse Gino. «Viegs mi ha parlato di questo posto. Cucinano tutto con olio di agnello.» Malcherson sospirò. «Che cosa... insolita.» Gino si versò una tazza di caffè, ne bevve rumorosamente un sorso, poi studiò l'abito del capo con espressione vagamente perplessa. Indossava un doppiopetto grigio tortora con una cravatta azzurra. Non chiedere nulla, si disse Malcherson, fingendo di non notarlo, ma alla fine non riuscì a trattenersi. «D'accordo, Rolseth: che cos'ha il mio abito?» «Be', è davvero uno dei miei preferiti, signore, ma... non è uno dei suoi abiti da omicidio.» «Capisco. Ho gli abiti da omicidio. E quali sarebbero?» «Lo sa, quelli aggressivi. Il nero di certo, quello grigio scuro, persino il gessato funziona quando lei è veramente carico, pronto a dare la caccia a qualche personaggio infimo. Ma questo è, come dire?, ottimista, speranzoso. Di solito usa il grigio tortora quando stiamo per chiudere un caso.» Malcherson emise un altro sospiro stanco. «Trovo strano che un uomo che indossa cibo sulla sua giacca sportiva da quaranta dollari studi la psicologia delle mie scelte in fatto di guardaroba.» «Be', lei per me è una sorta di faro della moda, capo.» Gli occhi di Malcherson erano dello stesso colore dell'abito. Li girò verso Magozzi: era troppo presto per parlare con Rolseth. «Dall'ultimo tele-
giornale di ieri sera non faccio che ricevere telefonate. Pensavo che cercassimo di tenere nascosta l'informazione sui tatuaggi.» «Sì, be', era una bella idea, però Kristin Keller e la sua banda di tirapiedi hanno intervistato i vicini prima ancora che chiudessimo la body bag di Ben Schuler», spiegò Gino. «Inoltre sapevamo fin dall'inizio che non avremmo potuto celare a lungo quel particolare. Chiunque conosca le vittime sa che sono state in un campo di concentramento. Diamine, chiunque le abbia viste in maniche corte deve aver notato il tatuaggio, e questo è il genere di cose che salta fuori quando i media intervistano amici e vicini.» Malcherson assentì. «È vero. Ma adesso la pressione è salita. Da ieri sera, l'intera città sa che abbiamo tre sopravvissuti ai campi di concentramento uccisi senza un'apparente ragione e ogni servizio che ho sentito stamattina - compreso quello della CNN - implicava la responsabilità di qualche gruppo estremista o la suggeriva apertamente.» Gino scosse la testa con decisione. «Ci abbiamo riflettuto, signore, ma quella spiegazione non quadra per molte ragioni. Inoltre due di queste tre persone si conoscevano e la nostra idea è che fossero coinvolte in qualcosa che alla fine le ha uccise.» Malcherson gli sorrise, il che era alquanto terrorizzante. «Non sto nella pelle. Mi dica, detective Rolseth, che genere di losche attività pensa che quegli anziani cittadini svolgessero per essere poi uccisi?» «Be'... non abbiamo ancora idee al riguardo...» Fu interrotto dal rumore secco, come di uno sparo, degli stivali dell'enorme bruto che spalancava la porta oscillante della cucina. Quanto più si avvicinava al tavolo, tanto più Magozzi doveva sollevare il mento per riuscire a vedere la faccia segnata e piena di cicatrici dell'uomo. È alto almeno due metri, pensò. Inoltre ha la muscolatura ben modellata di un ex galeotto che si allenava sempre nel cortile della prigione. Il bruto scaricò il gigantesco vassoio, mettendo davanti a ognuno di loro un piatto da portata: uova, salsicce, patate in padella, toast e salsa vi troneggiavano sopra, fumanti. Alla vista di quel banchetto, Gino si leccò le labbra, poi, palesemente non intimorito dalle dimensioni dell'uomo, alzò gli occhi su di lui. «Caspita, amico, sono tagli di coltello, quelli?» Malcherson e Magozzi s'irrigidirono. Gino era fatto così: tranquillo e incurante di tutto. «Sì», tuonò l'uomo. «Mi sono saltati addosso in gruppo coi coltelli.» «Brutta esperienza. Dentro?»
«Sì. Tu?» Gino infilzò una fila di anelli di patata e se li cacciò in bocca. «Non ancora. Per adesso sto dall'altra parte... Oddio, queste patate sono straordinarie. Leo, prova le patate e poi chiederai la mano di quest'uomo.» L'enorme bruto s'illuminò e Malcherson interpretò quel fatto come segno che quell'individuo non li avrebbe uccisi. Assaggiò un boccone di patate e poi batté le palpebre. «Oddio. Rosmarino fresco. Fantastico.» «Grazie. Nessuno in questo quartiere lo nota, il rosmarino. Volete del ketchup?» Come per un tacito accordo, per qualche istante nessuno parlò, anche perché tutti erano impegnati a masticare. Magozzi e Malcherson riuscirono a mangiare un terzo del piatto, che poi allontanarono contemporaneamente. «Non lo finite?» chiese Gino inseguendo l'ultimo, scivoloso pezzetto di salsiccia sul piatto vuoto. «È un vero peccato sprecarlo. Inoltre io non offenderei quel tipo, se fossi in voi.» «Giusta osservazione.» Malcherson spinse il piatto verso Gino e guardò l'orologio. «Se credete veramente che Morey Gilbert, Rose Kleber e Ben Schuler fossero legati al di là dell'esperienza comune di sopravvissuti di un campo di concentramento, presumo che stiate controllando documenti, bollette telefoniche, estratti conto bancari, eccetera.» Be', sì, lo stiamo facendo, ma non esattamente secondo i canali convenzionali, pensò Magozzi. «Ce ne stiamo occupando, signore.» «Davvero. E in che modo ve ne state occupando? Non ho visto mandati sulla mia scrivania...» S'interruppe e lo guardò. «Non importa. Non mi risponda.» Malcherson sapeva bene della relazione tra Magozzi e Grace MacBride, la donna capace d'introdursi in qualsiasi database ritenuto sicuro. Sapeva pure che il suo miglior detective - un uomo che sul lavoro non si sarebbe allentato la cravatta perché ciò era contrario al codice di abbigliamento del Dipartimento - aveva sviluppato un'allarmante impazienza nei confronti delle leggi sulla privacy, dei diritti civili e delle procedure se pensava che ci fosse in gioco una vita. Spiccare un mandato richiedeva tempo e controllare i documenti pure. La tentazione di prendere scorciatoie era enorme per un poliziotto convinto di essere in lotta contro il tempo per scoprire un assassino. Malcherson capiva benissimo quella tentazione, ma capiva altresì che, quando iniziavi a infrangere le regole, era difficile fermarsi. E un tutore della legge che si credeva al di sopra delle regole era una delle cose più pericolose al mondo. «Detective Magozzi...»
«Stiamo cercando di muoverci in fretta su questo caso, capo», lo interruppe lui. «Non so se là fuori ci siano altri bersagli.» «Lo so.» «Bersagli anziani, indifesi, terrorizzati», aggiunse Gino, con la bocca piena di uova. «Nonne che preparano i biscotti in casa come Rose Kleber.» «Detective Magozzi», ripeté Malcherson in un tono che zittì entrambi. «Se ha intenzione di chiedere a Grace MacBride e ai suoi soci di usare quel certo programma che si è rivelato così efficace per scoprire collegamenti nei nostri casi irrisolti, le ricordi di accedere solo a informazioni di pubblico dominio.» «Lo farò, signore, ma non stiamo semplicemente aspettando che salti fuori qualcosa dai database. Come ho detto nel rapporto, pensiamo che Jack Gilbert sappia qualcosa e oggi lo torchieremo per bene.» «Allora vi auguro tutta la fortuna del mondo. Per quello che riguarda la stampa e l'opinione pubblica, sembra che l'assassino abbia scelto come bersaglio un gruppo demografico molto preciso e quella categoria di persone sta cedendo al panico.» Giunse le mani e guardò l'orologio d'oro lucido. «Ricordate le cupe previsioni che la stampa ha fatto quand'è stata approvata la nuova legge sulla difesa personale?» Gino sbuffò. «Oh, sì. Hanno dipinto uno scenario foschissimo: milioni di minnesotani sarebbero andati in giro armati e si sarebbero ammazzati per strada. Be', ai telegiornali non ho sentito neanche una parola quando le nuove domande sono risultate quasi pari a zero.» Gli occhi di Malcherson si spostarono su Gino. «Soltanto ieri ci sono state 373 nuove domande di porto d'armi. È accaduto nella Hennepin County, nella nostra contea, signori. E trecento di quelle domande sono state compilate da persone con più di sessantacinque anni.» «Porca putt... signore.» Malcherson trasalì alla volgarità. «E tutto ciò prima che si sapesse dell'omicidio di Ben Schiller. Mi aspetto che oggi la cifra salga ancora, soprattutto ora che abbiamo catalizzato l'interesse nazionale. Ieri sera, la CNN lo ha messo fra i titoli principali; le altre reti lo faranno nel notiziario serale e questo, signori, agiterà davvero le acque.» Gino alzò le mani. «Ma che ha 'sta gente? Se io fossi un reporter e passassi al vaglio le notizie, mi butterei sul vecchio torturato e legato ai binari del treno.» Malcherson sospirò. «È un unico omicidio. Sensazionale, certo, ma in questo Paese ci sono ogni giorno decine di omicidi sensazionali. Voi, d'al-
tra parte, state lavorando a tre omicidi e, anche se nessuno dice a voce alta l'espressione 'serial killer', la pensa. Il che basta ad attirare l'attenzione. Aggiungeteci l'incomprensibile orrore di qualcuno che uccide anziani sopravvissuti ai campi di concentramento e avrete addosso tutti gli occhi del Paese.» Magozzi sentì un formicolio in testa, in profondità, come se le cellule cerebrali si fossero alzate e si stessero agitando per richiamare la sua attenzione. Chiuse gli occhi e si accigliò, tutto concentrato. «Che c'è, detective?» chiese Malcherson. Magozzi aprì gli occhi e guardò il comandante. «Non lo so. Mi verrà.» 26 Quando Magozzi e Gino lasciarono il comandante Malcherson, il sole si era alzato in un cielo caliginoso, quasi bianco. L'aria era molto densa, opprimente, e la colonnina di mercurio stava già sfiorando la tacca dei ventotto gradi. Poi, nel momento in cui svoltarono a ovest, sulla 394, videro che la caligine all'orizzonte diventava una specie di gel e rimescolava il cielo. «Eccolo che arriva», osservò Gino, che aveva smesso di armeggiare coi pulsanti dell'inservibile condizionatore dell'auto. «Il fronte freddo canadese si sta finalmente abbassando. Non appena quel tesoruccio arriverà qui, assisteremo a uno scontro di titani.» «Dicono che accadrà stanotte», disse Magozzi. «Nell'intero Stato è stato diramato l'allarme tornado.» «Che cosa strana, eh? Due settimane fa spalavo dieci centimetri di neve dal vialetto di casa, adesso invece cuociamo nel nostro sudore mentre guardiamo il cielo in cerca di nubi a imbuto.» «Benvenuto nel Minnesota.» Venti minuti dopo, Magozzi stava percorrendo le strade panoramiche tutte curve di un complesso residenziale immerso in un bosco che aveva decisamente un look da «natura selvaggia del Minnesota». Disponeva di tutti gli elementi giusti - gruppi enormi di alberi adulti, il gorgoglio dei ruscelli alimentati dal disgelo e dalle piogge primaverili -, però non era stata la natura ad abbellire quel luogo. Era il frutto dell'idea che un progettista di complessi residenziali aveva della natura. Tra gli alberi non c'erano cespugli deformi né rami piegati a ricordo dell'ultima tempesta e, se anche una foglia aveva osato cadere sull'asfalto
immacolato, l'autunno precedente, era stata da tempo rimossa. In quella parte di Wayzata non c'erano lotti: lì tutti possedevano «ettari di terra» e solo ogni tanto si riusciva a scorgere le case enormi, molto arretrate rispetto alla strada e nascoste da una vegetazione piantata in modo strategico. Gino stava guardando dal finestrino con un'aria molto sospettosa. «D'accordo, questo non va bene. Non ci sono buche sulla strada. È primavera nel Minnesota, santo cielo, ci devono essere le buche. E quel maledetto asfalto sembra lucido. Hai visto la casa che abbiamo appena superato, quella sulla collina?» Magozzi scosse la testa e tenne gli occhi sulla strada mentre affrontava un tornante che seguiva il corso naturale di quello che era chiaramente un ruscello dalle idee molto confuse. «Ci deve essere un altro modo per raggiungere la casa di Jack Gilbert. Non è possibile che guidi ubriaco su questa strada.» «Non lo so. Forse essere ubriachi serve. Diamine, questa cosa si torce come un intestino.» «Un'immagine davvero carina.» «Grazie. A dire il vero, mi piacciono le curve e l'unico posto dove ancora le trovi è in un complesso residenziale snob. Mi fa incazzare che il dipartimento dei Trasporti del Minnesota raddrizzi tutte le strade, come se nessuno avesse il volante. L'intero Stato si sta trasformando in una brutta e grossa griglia... Uh. Che abbiamo qui?» Magozzi aveva visto la prima delle luci lampeggianti spuntare da una curva e aveva iniziato a frenare. Si accorsero ben presto che i veicoli erano numerosi e avevano i lampeggianti accesi. C'erano quattro auto della polizia di Wayzata, un'ambulanza, le auto della security, il camion di pronto intervento dei vigili del fuoco e, cosa peggiore di tutte, un paio di furgoni con le parabole delle stazioni televisive locali. Magozzi si fermò di muso accanto alla portiera di un'auto del Dipartimento di polizia di Wayzata che bloccava la strada. «Scommetti che quella è la casa di Jack Gilbert?» La voce di Gino era tesa. «Maledizione. Avremmo dovuto inchiodarlo ieri sera. Mi odierò a morte se quel figlio di puttana di un ubriacone è morto.» Un agente alto, biondo e atletico, che sembrava un modello di GQ, si avvicinò al lato del guidatore. Magozzi sollevò il distintivo. «Omicidi di
Minneapolis. Detective Magozzi e Rolseth. È questa la casa di Gilbert?» «Sissignore, è così. Ma qui non abbiamo un omicidio.» In sincrono, Gino e Magozzi emisero un sospiro di sollievo. «Ci fa piacere, agente. Ma allora cos'è successo? Speravamo di trovare Jack Gilbert per fargli un paio di domande su un caso di Minneapolis cui stiamo lavorando. Non è ferito, vero?» L'agente guardò verso la falange di veicoli. «Non credo. Niente di visibile, comunque. Il personale dell'ambulanza lo sta esaminando in questo momento, però lui è piuttosto scosso. Dice che qualcuno ha cercato di ucciderlo.» Gino e Magozzi si scambiarono un'occhiata. «Dobbiamo andar dentro a parlargli, agente. Ci sono problemi?» «Sono sicuro di no, detective, ma è meglio che prima parliate col comandante Boyd, per essere ragguagliati su quello che è successo. La versione di Gilbert è un po' ingarbugliata. Aspettate, vado a chiamarlo.» Ebbero a malapena il tempo di scendere dalla macchina prima che il capo della polizia di Wayzata arrivasse e si presentasse. Era quasi più prestante del suo agente, solo con qualche anno in più. Magozzi concluse che, per vivere a Wayzata, dovevi essere bello. «È un vero piacere conoscervi, detective.» Boyd sfoderò una fila spettacolare di denti bianco perla. «Avete fatto un lavoro straordinario lo scorso autunno sul caso Monkeewrench. Adesso seguite gli omicidi di Uptown, giusto? Ho letto che il padre di Gilbert è una delle vittime.» «Già», disse Gino. «Stavamo venendo qui a parlare con Jack Gilbert per chiarire un paio di cose, quando ci siamo imbattuti nella vostra parata. C'è un bello spiegamento di forze qui, comandante. Che cos'è successo?» «Ieri sera o stamattina?» Gino sollevò le sopracciglia. «Ieri sera?» «È iniziato allora. Verso le undici, Gilbert ha chiamato il 911. Era in preda al panico e ha detto che c'era un intruso nella sua proprietà. Noi abbiamo mandato un paio di macchine a dare un'occhiata. Hanno ispezionato la proprietà con cura, ma non hanno trovato niente... a dire il vero l'hanno considerato un falso allarme. Mr Gilbert era...» Tacque diplomaticamente. «Era così sbronzo da non capire più una mazza?» suggerì Gino. Boyd sorrise con aria quasi contrita. «Be', era appena tornato dal funerale del padre», spiegò, facendo sentire Gino un insensibile figlio di buonadonna. «E credo che stia passando un periodo davvero brutto. Ci ha dato qualche problema: lo abbiamo fermato alcune volte per strada e ci siamo
assicurati che arrivasse a casa sano e salvo.» Gino guardò Magozzi. «Voglio venire a vivere qui.» «Stamattina poi abbiamo ricevuto chiamate da quasi tutti quelli che vivono qui attorno: ci segnalavano colpi d'arma da fuoco in casa Gilbert», proseguì il comandante. «Jack Gilbert era sull'orlo di una crisi isterica e, quando siamo arrivati, agitava una pistola. Il cortile e la macchina della moglie erano pieni di fori di proiettile.» «Gesù», mormorò Gino. «Qualcuno ha davvero cercato di ucciderlo.» «Be', non ne siamo così certi. Ci sono vari danni e molti bossoli in giro, ma finora tutti calibro 9. Anche proiettili. Ne abbiamo estratto qualcuno dal rivestimento del garage e da alcuni tronchi.» «Il che significa?» chiese Magozzi. Boyd sollevò una spalla, scrollandola in modo strano. «La pistola che Mr Gilbert stringeva in pugno era una Smith & Wesson calibro 9, ancora calda, e ci ha detto subito di aver svuotato il caricatore cercando di colpire chiunque riteneva che gli stesse sparando addosso. Manderemo tutto in laboratorio, naturalmente, in caso ci fossero stati due uomini, ciascuno con una calibro 9 diversa.» Magozzi lo studiò. «Lei non pensa che ci fosse un altro uomo armato, vero?» Il comandante guardò l'asfalto lucido sotto i suoi stivali lucidi e sospirò. «Sa, Jack Gilbert vive qui da dieci anni - da quando sono comandante - ed è sempre stato un po'... eccentrico. Ma, nel complesso, è una gran brava persona. Poi, circa un anno fa o poco più, ha iniziato a perdere colpi. Un sacco di alcol, un sacco di lamentele da parte dei vicini e, come ho detto, abbiamo dovuto fermarlo più di una volta quand'era alla guida. Una volta stavo percorrendo la strada principale in città, diretto a pranzo, e ho visto Mr Gilbert che passeggiava sul marciapiede. Indossava un accappatoio e ben poco altro. L'ho caricato in macchina a tempo di record, ma, quando gli ho chiesto che diavolo pensasse di fare andando in giro in accappatoio, lui si è guardato, esclamando: 'Porca puttana'. Non si era nemmeno accorto di non essere vestito. Per poco non lo rinchiudevo quassù, così il tribunale avrebbe potuto chiedere una perizia psichiatrica e fornirgli qualche aiuto.» «Forse gli avrebbe fatto un favore», commentò Gino. Boyd ridacchiò. «Purtroppo i residenti di questa comunità non pensano che essere arrestati dalla polizia sia un favore, per quanto buone siano le intenzioni. Ve lo ripeto, questo lavoro è più... politico di quanto io non abbia mai voluto essere.»
Magozzi annuì, comprensivo. «Talvolta in città abbiamo lo stesso problema. Se un agente di pattuglia sottopone un giudice al test del palloncino e scopre un valore di 0,10, sa di doversi chiedere se quell'arresto gli si ritorcerà contro la prossima volta che porterà un caso in tribunale. È triste, però è così.» Il comandante guardò verso una macchia di alberi laboriosamente potati. «Il mio agente mi ha detto che volete interrogare Mr Gilbert. È piuttosto scombussolato. Spero non mi diciate che è un indiziato nei casi di omicidio di Uptown.» Magozzi sorrise. «Le è simpatico, vero?» «Penso di sì. Mi dà la sensazione di una brava persona che, a un certo punto, si è persa per strada.» «Be', per quello che vale, al momento non lo consideriamo un indiziato, tuttavia pensiamo che nasconda qualcosa di utile all'indagine. Vogliamo soltanto parlargli.» Trovarono Jack Gilbert accasciato nel retro dell'ambulanza con addosso un paio di shorts e una polo, le gambe nude penzoloni oltre il bordo. Sembrava esattamente quello che era: un forte bevitore che si stava riavendo da una sbornia prolungata: occhi appannati, gonfi, carnagione giallastra e una rilassatezza attorno alla bocca, che pareva quasi sul punto di fondersi. Aveva un cerotto sulla fronte e un impacco freddo sulla guancia. Quando i due si avvicinarono, sollevò una bottiglia d'acqua. «Ehi, ragazzi, benvenuti in periferia. Siete un po' fuori dalla vostra giurisdizione, no?» «Come sta, Mr Gilbert?» domandò Gino. «Bene. Ho un taglietto lì e una piccola botta proprio qui», rispose, scuotendo l'impacco. «Probabilmente sono finito contro un maledetto albero... A dire il vero non ricordo, ma per il resto mi sento a meraviglia.» I due poliziotti lo affiancarono. «Va in ospedale?» chiese Magozzi. «No. Ho appena calcolato che aver chiamato l'ambulanza mi costerà un migliaio di dollari: perciò posso anche starci seduto per un po'.» «Ci vuol raccontare che cos'è successo?» «Vi ho visto parlare col capo. Non ve l'ha detto?» «Il capo non era qui, lei sì», disse Gino. Jack sospirò, si tolse l'impacco e indicò la guancia. «Com'è?» Gino si chinò e socchiuse le palpebre. «Un po' gonfia. Un po' rossa ma non tanto male. Dove ha preso la Smith & Wesson, Jack?» «Uau, niente preliminari?»
«Non oggi. Il numero dei cadaveri sta salendo un po' troppo velocemente per questo genere di cose.» Jack sostenne lo sguardo di Gino per un istante, mentre il suo cervello cercava di mettersi in moto. Infine scrollò le spalle. «Ce l'aveva papà da sempre. Non so dove se la sia procurata, però sapevo dove la teneva. L'ho portata a casa ieri sera.» «Dopo che ha sentito che Ben Schuler è stato ucciso. Quello l'ha spaventata a morte, vero, Jack?» Nei suoi occhi si era acceso un lampo. «Sì, ci può scommettere. In caso non lo abbia notato, stanno facendo fuori degli ebrei, detective, e guarda caso io lo sono.» Magozzi si appoggiò con la spalla al portellone dell'ambulanza. «Uno delle molte migliaia di ebrei che vivono nelle Twin Cities. Cosa le ha fatto pensare di essere un bersaglio? Lei è troppo giovane, per esempio, e finora gli omicidi sono avvenuti tutti a Uptown e non a Wayzata.» «Oh, andiamo. Prima muore papà, poi uno dei suoi migliori amici. Non pensa che il cerchio sia un po' troppo stretto?» A mo' di ammissione, Magozzi sollevò un sopracciglio. «D'accordo. Glielo concedo.» «Accidenti se me lo deve concedere, perché stamattina un coglione ha cercato di sparami qui, sul viale d'accesso.» «Non ci ha mai faxato quell'elenco, Jack.» «Quale elenco?» «La prima volta che ci siamo incontrati ha detto che ci avrebbe faxato l'elenco di tutte le persone che la volevano morta. Un centinaio, credo abbia detto.» «Oh, santo cielo, era una battuta.» «Davvero?» Jack rimise l'impacco freddo sulla guancia. «Dove volete arrivare?» Magozzi si strinse nelle spalle. «Be', nel suo ambito di lavoro ogni tanto s'imbatterà in qualche figura losca. Forse ha superato il limite, si è lasciato coinvolgere in qualcosa di grosso.» Jack fece una pernacchia. «E in cosa? Ho cominciato a uccidere le persone che mi stanno vicino? Diamine, avete visto troppi film di De Niro.» «Ehi, si sa. Sono cose che succedono.» «Suo padre era un uomo davvero onesto», intervenne Gino. «Scommetto che non avrebbe apprezzato che il suo unico figlio sguazzasse nelle fogne. Scommetto che le ha voltato le spalle più rapidamente di quanto un cane si
scrolli l'acqua di dosso, il che spiegherebbe il vostro allontanamento.» Jack era sbalordito. «Non ci posso credere. È per questo che siete venuti qui, stamattina? Pensate che il movente degli omicidi stia in qualcosa che io ho fatto? Sono un avvocato specializzato in lesioni personali. I miei clienti sono persone che scivolano sulla salamoia versata per terra nei negozi di alimentari, non tipi alla John Gotti.» «Lei è la carta a sorpresa, Jack», disse Gino. «In qualche modo è coinvolto nella faccenda e noi siamo decisi a spremerla finché non scopriremo cosa diavolo ha fatto.» Jack alzò le mani. «Fate pure. Non ho niente da nascondere.» Scese dall'ambulanza e si avviò zoppicando lungo il viale d'accesso. Magozzi guardò la parte del giardino che riusciva a vedere dalla strada. Una collina, brulicante di agenti di Wayzata e coperta da un fitto bosco, nascondeva del tutto la casa. «Forse stiamo prendendo un abbaglio», disse. «Non sarebbe la prima volta. Adesso dobbiamo usare le buone maniere, giusto?» «Così funziona.» Raggiunsero Jack. Si trovava vicino ad alcuni agenti che, armati di torce, stavano setacciando la zona sotto i grossi pini. «Lei zoppica, Jack», disse Gino. «Si è ferito anche alla gamba?» «Mi sta leccando il culo?» «Ehi, ci provo.» Jack abbozzò un sorriso. «Come tentativo, faceva veramente schifo.» «È accaduto qui?» chiese Magozzi. «No. Più su, vicino alla casa. Ma chissà da dove sparava quel tizio.» Proseguirono sul viale d'accesso fino a superare una curva. Lì diedero una prima occhiata alla casa bassa e lunga di Jack e alla scena davanti al garage. «Gesù», mormorò Gino. «Che casino.» Il viale d'accesso era ingombro di frammenti di corteccia e di piccoli rami. Sembrava che fosse scoppiato un albero. Il Mercedes SUV parcheggiato accanto al garage era butterato di fori di proiettile e gran parte dei finestrini era esplosa o danneggiata. Il finestrino del portello posteriore si era in parte sbriciolato e una miriade di schegge di vetro brillava sulle pietre. Si fermarono a pochi passi dal veicolo, rispettando il nastro della scena del crimine che lo circondava. Uno degli agenti di Wayzata era all'interno: stava estraendo con le pinze qualcosa dal cruscotto per infilarlo poi in una busta di plastica.
«Io ero là», spiegò Jack, puntando un dito. «Stavo per aprire il portello posteriore quando ho sentito lo sparo e qualcosa mi è sfrecciato accanto all'orecchio. Mi sono cagato sotto dalla paura, non mi vergogno a dirvelo, così ho estratto la pistola e mi sono messo a rispondere al fuoco.» Magozzi guardò in mezzo agli alberi sulla destra. Alcuni ramoscelli penzolavano da strisce di corteccia. «Lo sparo proveniva da lì?» «Ne sono piuttosto certo.» «Solo uno?» «Non lo so. A quel punto anch'io stavo facendo un po' di rumore.» Magozzi annuì. «D'accordo, è logico. Tuttavia, se l'aggressore era di lato, da quella parte, i fori di proiettile nel portello posteriore mi lasciano perplesso.» Jack li guardò, accigliato. «Potrei averli fatti io.» «Davvero?» «Forse. Stavo sparando ovunque. Voglio dire, non sapevo dove fosse quel tizio.» «Bella mossa», commentò Gino. «Avrebbe potuto uccidere metà vicinato.» A suo onore, Jack impallidì. «Ha l'aria un po' stanca, Jack. Che ne dice se andiamo dentro, ci sediamo, ci rilassiamo e parliamo un po'?» suggerì Magozzi. Ma lui scosse la testa. «Non posso andare là dentro. Ieri sera, dopo che Becky mi ha cacciato fuori, ho dormito nel capanno vicino alla piscina. Sono più che certo che, dopo tutto questo, non mi permetterà di entrare in casa. E comunque a me non va. Chiamerò un taxi e andrò a prendere la mia macchina al vivaio. Forse dormirò al club per un po'.» «Andiamo in quella direzione. Se vuole, può venire con noi.» «Sono in arresto?» chiese Jack, sospettoso. «Perché le hanno sparato addosso?» fece Gino. «Gesù, Jack. Le stiamo solo offrendo un passaggio. Lo vuole o no?» «Immagino di sì. Ho un borsone nell'ambulanza.» «Allora è meglio che lo recuperiamo prima che se ne vada.» Gino attirò l'attenzione di Magozzi e inclinò di pochissimo la testa in direzione della casa. Magozzi si guardò alle spalle e scorse una donna esile, con le braccia conserte, nell'ombra della porta. «Vi raggiungo subito.» Come il quartiere in cui viveva, Becky Gilbert era un po' troppo perfetta per essere totalmente naturale. Il suo volto grazioso, color bronzo, era li-
scio e stranamente teso, come una stoffa troppo tirata su un telaio da ricamo. Aveva il corpo flessuoso, tonico, di una scrupolosa frequentatrice di fitness club e le sue scarpe bianche da tennis parevano fatte su misura per essere il meglio del meglio. Al polso le luccicavano dei diamanti: era probabilmente l'unica donna al mondo che portava veri braccialetti tennis quando giocava, pensò Magozzi. Teneva le braccia rabbiosamente incrociate sul petto e, quando Magozzi si avvicinò, i suoi occhi mandarono un lampo. «Mrs Gilbert?» «Sì. Lei chi è?» «Detective Magozzi. Polizia di Minneapolis. Omicidi.» Lei lanciò un'occhiata torva a Jack che si stava allontanando lungo il viale. «Non è ancora morto.» «Sembra delusa.» Lei si abbandonò a un sospiro scoraggiato e abbozzò un sorriso teso. «Non sono delusa, detective, ma furiosa. La polizia è stata qui per metà della notte a cercare l'aggressore immaginario di Jack e adesso... questo.» «Quindi lei non crede che qualcuno stia cercando di ucciderlo?» «Ovviamente no. Negli anni, Jack ha tagliato alcuni ponti, ma non si tratta di cose che potrebbero costargli la pelle.» «Le viene in mente qualcosa d'insolito accaduto di recente?» «Per esempio?» «Oh, non lo so, strane auto che si aggirano in zona, qualcuno che bussa a tarda ora, telefonate mute o di minaccia...» «No, niente del genere.» Becky Gilbert inclinò la testa con aria curiosa. «La Omicidi. È per via di suo padre?» «Sì, dovevamo fare a Jack ancora qualche domanda.» La rabbia palese di Becky Gilbert per il marito parve svanire come l'acqua di un bollitore che evapora, però nel suo sguardo l'amarezza rimase. «È stata una cosa terribile.» «Jack le ha parlato dell'assassinio del padre?» domandò Magozzi. Lei scosse la testa. «Jack non parlava mai di suo padre. Quando ci siamo conosciuti, già non si rivolgevano la parola. Ho pensato che fosse un argomento doloroso, perciò non l'ho mai sollevato.» Magozzi guardò quella donna che apparteneva tanto chiaramente a quel quartiere residenziale e che altrettanto chiaramente voleva restarci, e pensò che forse non si era comportata così per riguardo ai sentimenti del marito. Forse non aveva una grande opinione di un'anziana coppia di ebrei che vi-
veva a Uptown. «Sa cos'ha provocato la rottura tra Jack e il padre?» «Non ne ho idea, detective. Non si è mai deciso a rendermi partecipe di quei fatto, gliel'ho detto.» E tu non hai chiesto, pensò Magozzi. Si voltò, allontanandosi. Fatti pochi passi, gli venne incontro il comandante Boyd, col suo sorriso affabile. «Detective Magozzi... Ha saputo qualcosa che possa collegare i fatti coi casi di Uptown?» «Molto dipenderà dai test balistici. Le saremmo molto grati se potesse comunicarci i risultati, comandante.» «Posso fare di più. Non diamo molto lavoro a quelli del laboratorio e immagino che lei abbia un po' più d'influenza di noi.» Sollevò una grossa busta sigillata, col registro di conservazione della catena delle prove inserito in una tasca di plastica. «Una Smith & Wesson calibro 9, undici bossoli e nove proiettili. Speravo che lei potesse consegnarli per noi.» Magozzi gli rivolse un ampio sorriso. «E io speravo che lo dicesse. Mi ha risparmiato l'imbarazzo di chiederglielo.» Estrasse il registro delle prove, lo resse col ginocchio e cominciò a firmare. «La donna anziana di Uptown è stata uccisa con una calibro 9, se ben ricordo», osservò con noncuranza il comandate Boyd. E anche Ben Schuler, pensò Magozzi, ma non c'era ancora motivo di svelare quell'informazione. «Esatto.» «Quindi probabilmente riceverà molto presto qualche risposta sulla pistola nella busta.» Magozzi si raddrizzò. «Là fuori ci sono molte calibro 9, comandante Boyd.» «Lo so. E sarei contento di sapere che quella che ho preso a Mr Gilbert non ha ucciso nessuno.» «La chiamerò non appena lo scopriamo. Dovremmo avere qualcosa già oggi.» Si avviarono insieme, poi Magozzi si fermò sulla strada, guardando i furgoni delle reti televisive. Non appena i reporter e i cameramen scorsero Boyd e Magozzi, si compattarono in un unico sciame. Accesero le telecamere, brandirono i microfoni e presero a urlare domande, muovendosi in massa verso il marciapiede e infine bloccandosi come se il bordo di calcestruzzo fosse la Grande Muraglia cinese. In silenzio, Magozzi guardò Boyd, che si era messo ad agitare le mani in direzione dei giornalisti. «Per quale motivo si sono fermati? C'è forse un recinto invisibile, uno di quei cosi elettrici che si usano per i cani?»
Sempre gesticolando come una stordita reginetta del ballo, Boyd replicò: «Perché diamine dovremmo aver bisogno di una cosa del genere?» «Mah, in città, i media s'infilano dove vogliono. Io stesso ho fatto dietrofront un paio di volte e sono scappato.» Il comandante ridacchiò. «La strada è suolo pubblico. Hanno diritto di stare lì come chiunque altro. Ma, nel preciso istante in cui appoggiano una suola sul marciapiede, violano una proprietà privata e vanno in prigione.» Magozzi sbuffò. «Sì, certo.» «Glielo abbiamo detto quando sono arrivati. Però c'era una giovane donna molto attraente, e piuttosto aggressiva, di Channel Ten, che mi è venuta dietro fin sul viale d'accesso.» «È Kristin Keller, l'anchorwoman e la spada da samurai nel mio fianco.» «Forse. Non guardo molto i telegiornali. Comunque, dopo che l'abbiamo ammanettata e messa in macchina, gli altri hanno fatto marcia indietro di gran carriera.» «Ha arrestato Kristin Keller?» esclamò Magozzi. «Suppongo di sì.» Magozzi cercò di mantenere un'aria professionale, ma proprio non ci riuscì. Il sorriso di soddisfazione per poco non gli aprì in due la faccia. «Comandante Boyd, lei è l'uomo giusto al momento giusto.» «È quello che ho detto a tutti loro.» 27 Grace MacBride era nello studio di casa sua: un locale stretto, più simile a un vicolo cieco che a una stanza. Vari computer erano disposti sul banco che correva lungo un'intera parete, e lei si spostava con la sedia a ruote dall'uno all'altro per controllare i monitor, digitare righe di comando e maledire la valanga d'informazioni inutili che intasavano i siti. Era più facile introdursi in qualsiasi sito protetto che passare al vaglio il ciarpame che veniva fuori coi motori di ricerca, ed era ormai arrivato il momento di farlo, perché stava impiegando troppo tempo. Il giorno precedente, per prima cosa, aveva inserito i nomi di Morey Gilbert e di Rose Kleber nel nuovo software. Poi, dopo una chiamata serale di Magozzi, vi aveva aggiunto quello di Ben Schuler. Però, dopo ore e ore di analisi dei database legalmente accessibili, l'unico nesso emerso era la tendenza dei tre a fare spese nello stesso negozio di alimentari della zona. Come qualunque altra persona del quartiere. Era possibile che non ci
fosse nessun legame da scoprire, pensò Grace. Tuttavia Magozzi e Gino non la pensavano così e lei si fidava del loro istinto. Si accigliò di fronte al dato sul negozio di alimentari che il programma aveva ritenuto degno di nota, appallottolò il foglio e lo gettò da parte. «È assurdo», disse a voce alta. Da mesi, Grace cercava di rimanere nella legalità, bucando i firewall dei siti davvero off-limits soltanto se era assolutamente necessario. Quel flebile tentativo di adottare l'equivalente informatico di una vita onesta era un tacito segno di rispetto e gratitudine per Magozzi e per gli altri poliziotti che dopo tanto tempo avevano posto fine ad anni di terrore, se non ai loro postumi ossessivi, persistenti. Tuttavia, rifletté Grace, erano stati proprio dei poliziotti, seppure di altro genere, a metterla in pericolo... Rispettando la caparbia osservanza della legge di Magozzi non rispettava allora forse anche la loro? Le ci vollero solo pochi istanti per inizializzare i parametri di ricerca così da esaminare i dati bancari e telefonici delle tre vittime. I siti di banche e compagnie telefoniche erano una preda lecita per Grace: quei bastardi vendevano ogni particolare della vita dei clienti al maggiore offerente, poi, se la polizia chiedeva loro informazioni, facevano gli ipocriti e si aggrappavano al baluardo della privacy. Non aveva senso, a suo parere, che la polizia dovesse procurarsi un mandato e i televenditori no, perciò s'introduceva regolarmente, e con gioia, nei loro siti. Inoltre Magozzi sapeva maledettamente bene che lei lo avrebbe fatto, benché non l'avesse mai detto esplicitamente. Gli altri siti cui si apprestava ad accedere - il fisco, l'US Immigration Agency, l'FBI - erano un po' più difficili da giustificare, ma la cosa non rallentò la velocità delle sue dita mentre lei si spostava con la sedia verso il grosso IBM e iniziava a pestare sulla tastiera. Era ancora incazzata con l'FBI e talvolta s'introduceva nei suoi siti senza una ragione specifica se non il puro disprezzo. Quella volta però era diverso: lo faceva per Magozzi. Non glielo avrebbe detto, ovviamente. Non c'era motivo di tormentare un uomo che conosceva di persona il crimine informatico. Il telefono suonò proprio mentre la stampante cominciava a sputare piccole chiazze d'inchiostro a forma di asterischi. Grace sollevò la cornetta e sorrise quando udì una canzone country e una risata roca in sottofondo. «Ehi, Annie, che fai in un bar di mattina?» Le rispose una voce calda, zuccherosa, strascicata. «Non sono in un bar, ma in una cantina dove hanno i migliori huevos rancheros della città.»
«Sembra un bar.» «Tesoro, quaggiù pure le biblioteche sembrano un bar. Questa gente sa davvero come divertirsi. Grace, devi portare il tuo piccolo patetico culo ossuto quaggiù. Non ci crederai: sto guardando una stanza piena di uomini con stivali e veri cappelli da cowboy. E la sai una cosa?» Il sorriso di Grace si allargò. «Non oso chiedere.» «Questi bravi ragazzi d'altri tempi ti aprono la porta, ti scostano la sedia dal tavolo, ti salutano levandosi il cappello e disprezzano le donne che portano la taglia 40. E la cosa più bella è che io sono la donna più grassa dell'Arizona.» «Ne sarai molto fiera.» «Sono l'unica confezione rimasta sullo scaffale per chi ama le donne rinascimentali. Che diavolo ho fatto nel Minnesota per tutto questo tempo? Lassù ero solo l'ennesimo ippopotamo del corpo di ballo di Fantasia, qui sono una grossa, grassa, rigogliosa peonia in una fila di scheletriche margherite. Dio mio, adoro il Southwest, però mi manca il tuo viso. Accidenti, mi mancano persino Harley e Roadrunner.» «Anche tu mi manchi, Annie. Potresti chiamare un po' più spesso.» «Faccio di meglio. Torno in aereo questo fine settimana. Ho parlato con Harley, ieri sera: ha detto che il pullman dovrebbe essere pronto a giorni.» «Fai il viaggio in pullman con noi?» Annie emise una risatina di gola. «Non me lo perderei mai. Inoltre in questo modo avremo la possibilità di esaminare quello che sono riuscita a mettere insieme finora. Hai detto a Magozzi che parti, vero?» «Sì.» «Ha pianto?» «A dire il vero... gli ho detto solo dell'Arizona.» Per qualche istante, tutto ciò che Grace udì al telefono fu un cantante sentimentale country che raccontava di aver lasciato il suo cuore alla stazione dei Greyhound di Tulsa. «Sei furba come una volpe», disse infine Annie. «Non puoi tenere quel pover'uomo legato in questo modo. Ci siamo già impegnati a seguire i casi dei bambini scomparsi in Texas e Harley dice che le richieste cominciano ad arrivare numerose. Staremo via per un bel po', Grace. Glielo devi dire... a meno che non pensi di restare nel Minnesota, magari di sposartelo e di trovarti un posto senza sbarre alle finestre in modo da non allevare i figli come animali di uno zoo.» «Non essere sciocca, Annie. Io e Magozzi non abbiamo quel genere di relazione.»
«Accidenti se l'avete. Voi due fate sesso ogni volta che vi guardate. Dormire insieme è solo una formalità cui non siete ancora arrivati.» Grace rimase in silenzio per un paio di secondi, il che fu un grosso errore. «Oddio», esclamò Annie. «Ci stai pensando, vero?» «In questi ultimi tempi sto pensando a un sacco di cose. Tuttavia verrò in Arizona.» Dopo la telefonata con Annie, Grace trovò Charlie seduto in corridoio e rivolto verso la porta del seminterrato, con lo sguardo fisso sulla maniglia. Era più affidabile di qualsiasi barometro. Sta arrivando il brutto tempo, pensò. Annie riagganciò e tamburellò con le unghie sul banco di quercia grezza. Quel giorno erano pervinca perché non c'erano molte donne al mondo che potessero portare quel colore e Annie amava distinguersi. Inoltre voleva mettere le lenti a contatto pervinca e l'idea che le unghie non si abbinassero con gli occhi le era insopportabile. Era stata una vera fatica prepararsi per la scelta cromatica del giorno, poco ma sicuro. Aveva dovuto correre dal parrucchiere per farsi tingere i capelli corti color henné con uno shampoo nero perché doveva ancora arrivare il giorno in cui Annie Belinsky avrebbe abbinato i capelli dai riflessi rossi col kimono di seta pervinca. Tuttavia, mentre si guardava attorno, osservando le trenta paia d'occhi maschili che la fissavano vagheggianti, concluse che ne era valsa la pena. Come diavolo facessero le donne che lavoravano e avevano famiglia a essere presentabili, le sfuggiva proprio. Sorrise, con soltanto un pizzico di malizia, e dimenò il suo grosso sedere fasciato di seta sullo sgabello. E avrebbe potuto giurare di aver sentito una trentina di sospiri di desiderio. Alcuni uomini erano insieme con una donna, naturalmente, e Annie suppose che parecchie di loro stessero progettando la sua eliminazione. Tutto ciò che vedevano sulle riviste o alla televisione insegnava che non c'era assolutamente nulla di affascinante o di elegante nell'essere sovrappeso; probabilmente molte passavano il tempo a fare aerobica e calcolare le calorie per evitare di ridursi in quello stato. Erano perlopiù abbronzate, magre e atletiche, coi loro jeans stretti sul sedere e con T-shirt minuscole. Ma la presenza di Annie, la sua palese ostentazione di ogni centimetro in eccesso come se fosse oro, le aveva sconcertate, irritandole alquanto, giacché gli uomini che di solito desideravano le Barbie in bikini erano nella fase due
di sbavamento per una grassona. Annie avrebbe potuto dire a quelle donne stizzite che gli uomini non reagivano esclusivamente a un determinato tipo corporeo - suo parere gli stilisti gay avevano perpetrato quel mito -, bensì al modo in cui una donna usava il suo corpo, i suoi occhi, la sua voce. Oh, sì, Annie lo aveva capito bene. «Miss Belinsky?» Santo cielo, non lo aveva visto arrivare e a lei non sfuggiva mai niente. Le si era avvicinato silenziosamente alle spalle e per poco non l'aveva fatta cadere dallo sgabello con quel suo modo di parlare rustico, al rallentatore, da cowboy. L'accento del Profondo Sud, come quello di Annie, era miele puro, tuttavia si addiceva solo alle donne. Se eri un uomo e volevi avere una voce affascinante, dovevi venire da un Paese di cowboy. «Be', salve, Mr Stellan. Lei è uno dei pochi uomini che riescono sempre a sorprendermi.» Lui rimase lì col cappello da cowboy rispettosamente premuto contro il petto. Somigliava a Gary Cooper, tranne per lo sguardo troppo intenso. «Miss Belinsky, userò ogni mezzo disponibile per restarle impresso nella memoria.» Per ricompensarlo della risposta adeguata, Annie gli rivolse un sorrisetto misterioso. Non che quell'uomo avesse qualche possibilità con lei, ovviamente. Aveva l'aspetto, la voce e le maniere giusti, ma dopotutto era un agente immobiliare. Andare a letto con un agente immobiliare voleva dire scivolare lungo la china della mediocrità. Era quasi come andare a letto con un avvocato. «Allora, mi dica, Mr Stellan... abbiamo preso l'hacienda?» «Ma certo, signorina. Alle condizioni e al prezzo che lei ha chiesto.» Posò un contratto d'affitto sul banco perché Annie lo firmasse. «I proprietari erano un po' riluttanti a togliere la clausola che escludeva gli ammali, ma poi ho spiegato che si tratta di un cane della polizia e via discorrendo. Non aggredisce all'istante, vero?» Annie si toccò l'angolo della bocca con un dito dall'unghia pervinca. «No, non è un cane da attacco.» Firmò il contratto con uno svolazzo. «Be', questa è certamente una buona notizia. Immaginavo che fosse un segugio, visto che siete qui per aiutare il capo a trovare sua figlia.» Annie sorrise all'idea che il cane di Grace potesse seguire qualcuno all'infuori della stessa Grace, il che era divertente ameno quanto l'immagine di Charlie come cane da attacco. «È un uomo ben informato, Mr Stel-
lan. Non ricordo di averle detto che lavoreremo col vostro bel Dipartimento di polizia.» «Ah, diamine, tre minuti dopo il suo arrivo, lo sapevano tutti, in città. È un posto molto piccolo, Miss Belinsky.» Poco ma sicuro, rifletté Annie poco dopo, mentre si avviava lentamente verso l'ufficio del comandante sentendosi un sacco d'occhi addosso. Se una piccola e vecchia donna con un vestito addosso faceva girare tante teste, vedendo Harley per strada ai residenti sarebbe venuta una sincope. Fino a quel momento, il comandante Savadra era stato l'unica eccezione. Quando la salutò, rivolgendole il suo solito sorriso triste, lei si sentì del tutto a suo agio, libera di essere se stessa. Era certamente l'uomo più brutto della cittadina, con quel volto tagliato con l'accetta e segnato dal sole e col corpo nerboruto che sembrava ignorare il movimento di alcune sue parti. Ma in lui c'era qualcosa di speciale che ad Annie era piaciuto fin dall'istante in cui si erano conosciuti. «Ho saputo che ha preso l'hacienda.» Annie andò direttamente al boccione dell'acqua. «Giuro, in questa cittadina le notizie viaggiano più veloci delle mie gambe.» «Da quello che sento, lei non cammina, Miss Annie. Lei incede, leggiadra.» Miss Annie. Le piaceva. Le ricordava il Mississippi. Le piaceva soprattutto perché non nascondeva un desiderio di flirtare. Era soltanto uno scherzo amichevole. «Aspetti che la città veda gli altri tre. Io sono la più conservatrice.» Savadra si appoggiò allo schienale della sua cigolante sedia di legno e la guardò mettere i dossier nella valigetta. «Credevo che non partisse prima di venerdì.» «Ho fatto tutto quello che potevo prima dell'arrivo dei computer. Ora che ho firmato per l'hacienda, posso anticipare un po' il mio rientro.» «Le mancano i suoi amici.» Annie gli lanciò un'occhiata di sbieco. «Non me lo aspettavo, almeno non fino a questo punto, ma è così. Non glielo dica.» Il comandante sorrise. «Farò un salto all'hacienda la prossima settimana. Mi accerterò che il condizionatore sia acceso e che la piscina sia piena, prima che arriviate.» «Grazie, però Joe Stellan manderà alcuni uomini che si occuperanno di queste cose.» «Darò lo stesso un'occhiata, mostrerò il distintivo agli operai e incuterò
loro un po' di timor di Dio.» Annie sorrise. «È gentile da parte sua.» «Scherza? Non esiste modo in cui possa ricambiare quello che tutti voi state facendo per me. Quello che non capisco è perché lo fate. Cosa spinge un gruppo di persone ad attraversare metà del Paese e a dar via una tecnologia che probabilmente vale un milione di dollari?» «È una lunga storia.» «Non vedo l'ora di sentirla.» 28 Gino rimase in silenzio finché non attraversarono Wayzata e imboccarono l'autostrada, probabilmente perché temeva che, se avessero ricominciato a far domande a Jack a una velocità inferiore ai centodieci orari, lui potesse saltar fuori dalla macchina. Si protese addirittura a guardare il tachimetro prima di togliersi la cintura e girarsi verso di lui. «D'accordo, Jack. Le do un'altra possibilità di fare la cosa giusta. Chi pensa che stia cercando di ucciderla?» La testa di Jack ciondolò all'indietro sul sedile. «Sapevo che lo avreste fatto, ragazzi. 'Le offriamo solo un passaggio.' Mi volevate su questo rottame di macchina senza aria condizionata per spremermi un po'.» Gino abbozzò un'espressione perplessa. «Accidenti, Jack. Sono piuttosto confuso. Ora, se pensassi che qualcuno è deciso a spedirmi sotto terra, sarei al settimo cielo all'idea di avere due poliziotti che mi portano in giro e mi proteggono. E la sa un'altra cosa? Direi tutto quello che so, li aiuterei in ogni modo possibile per poter inchiodare quel tizio prima che lui inchiodi me. Ma non è quello che lei sta facendo. Lei se ne sta seduto lì, tranquillo e ostile, con la bocca chiusa. Glielo devo dire, Jack, mi viene in mente un'unica ragione per questo tipo di atteggiamento: lei è il killer che stiamo cercando. Forse ha inscenato tutta quella sarabanda per depistarci.» «Oh, santo cielo, detective, lasci perdere. Non sono un imbecille senza cervello che avete preso per aver rubato una merendina in un 7-Eleven e non sono obbligato a rispondere a nessuna delle vostre stupide domande. Pensate cosa diavolo volete. Non me ne importa un cazzo.» Magozzi lanciò una rapida occhiata alla sua destra e fu contento di vedere che la pistola di Gino era ancora nella fondina. Eppure era il caso d'intervenire. «Stiamo cercando di aiutarla, Jack», disse in tono ragionevole. «Consideri le cose dal nostro punto di vista. Non vogliamo ritenerla un in-
diziato nell'assassinio di suo padre, ma crediamo che lei sappia qualcosa. Che ci possa spiegare perché queste persone sono state uccise e perché è convinto che un killer la stia braccando.» «Cosa vi fa credere che si tratti della stessa persona?» osservò Jack in tono derisorio. «Il fatto che lei lo pensi.» Quella frase zittì Jack per qualche istante. «D'accordo», disse infine con un sospiro. «Questa è la pura verità, detective. Non ho assolutamente la più pallida idea di chi abbia ucciso mio padre, Ben e quella Rose, e non so chi mi abbia sparato stamattina. Non credete che, se ce l'avessi, ve lo direi, anche solo per salvarmi il culo?» Gino si strinse nelle spalle. «Forse sì, forse no. Chi lo sa? Forse sta cercando di salvare il culo a qualcun altro.» Jack scoppiò in una sonora risata. «Questa è buona, detective. Jack Gilbert, l'eroe. Dovrei assumerla come addetto stampa. Apra un poco un finestrino, le va? Qui dentro c'è una puzza di barbecue...» Magozzi guidò per almeno un chilometro in un silenzio gelido prima di osservare: «Non ho suggerito che lei sappia chi è il killer, Jack. Ho detto che sa qualcosa sui motivi per cui queste persone sono state uccise. C'è una grossa differenza». Jack incrociò lo sguardo di Magozzi nel retrovisore, ma non disse nulla. Fecero una sosta a metà strada. Jack disse che doveva andare alla toilette, ma, quando si fermarono alla stazione di servizio, scese dall'auto e piegò a sinistra in direzione del vicino negozio di liquori. Magozzi scosse la testa. «Oh, splendido. Due detective che fanno servizio navetta per un negozio di liquori. Non lo scriverò nel rapporto.» «Quel maledetto figlio di puttana ce le ha suonate per bene», brontolò Gino. «Già.» «Odio gli avvocati. Accidenti quanto li odio. Dimmi: com'era la moglie? Ti ha dato qualche informazione utile?» «Non credo che quella donna dia niente a nessuno. È stata davvero fredda. Puro ghiaccio del Minnesota. Non sa niente della ragione per cui Jack e il padre hanno litigato e, da quello che posso dire, non si è mai curata di appurarla.» Gino reclinò la testa e chiuse gli occhi per un istante. «Dimmi che abbiamo abbastanza per sbatterlo in prigione con l'accusa di ostruzione alla giustizia.»
«No.» «Allora, adesso come ci muoviamo? Lui non ci dirà niente.» «Forse Pullman ci può aiutare.» Quando entrarono nel vivaio, le prime due file anteriori del parcheggio del vivaio erano piene e un numero sorprendente di clienti si aggirava tra i banchi esterni, tirando carretti piatti di legno da cui spuntavano fiori e vegetazione varia. «Sembra che il mercato dei fiori sia in pieno boom», commentò Magozzi. Jack era ansioso di scendere. «Ci sono almeno ventisette gradi. In questo periodo dell'anno hai due auto in più nel parcheggio per ogni grado in più sopra i ventuno.» «Sul serio?» «Sul serio. Fermate questa cosa e fatemi scendere, d'accordo?» Magozzi lo guardò nel retrovisore. Due secondi nella casa della madre e l'arroganza scompariva. «Abbia pazienza. Sto cercando un posto.» Gino stava guardando accigliato dal finestrino, ancora furioso per il colossale fallimento dei suoi tentativi di ottenere informazioni da Jack. «Chi sono tutte queste persone? Perché non hanno un lavoro? E perché non parcheggiano dentro le strisce? Ognuna di quelle maledette macchine occupa almeno due spazi.» Magozzi s'infilò in un posto di fronte alla serra principale proprio mentre Marty e Lily uscivano, tirando due carretti carichi, diretti al pick-up di un cliente. Marty notò subito l'auto e lanciò loro un'occhiata interrogativa. La sua perplessità aumentò quando vide Jack scendere dalla macchina e precipitarsi verso la Mercedes decappottabile in fondo al parcheggio. «Caspita, non ha nemmeno salutato.» «Bastardo d'un ubriacone», brontolò Gino. Attesero in auto, guardando Marty che caricava vassoi di piante nel pick-up e Lily che fungeva da sovrintendente. «Oggi sembra che Pullman stia meglio», osservò Magozzi. «Il duro lavoro e una donna che supervisiona. Due cose che forgiano il carattere, secondo mia suocera... Almeno questo mi ha propinato lo scorso fine settimana, quando mi ha fatto salire su una scala a pulire le grondaie. Sembra una ragazzina con quella tuta, vero?» «Chi? Lily?» «Sì. Andiamo dentro e minacciamola un po'. Forse è più semplice far
cedere lei che il figlio.» Magozzi sbuffò. «Ti mangerebbe vivo.» «Lo so. Tu ti occupi di lei, io parlo con Marty.» Seguirono Marty e Lily nella serra, poi attesero educatamente che un cliente pagasse e si allontanasse. C'erano altri acquirenti nella serra, nessuno a portata d'orecchio. Magozzi si avvicinò alla cassa, ma Jack piombò su di loro prima che potesse dire una parola. «Mi servono le mie chiavi.» Lanciò un'occhiata alla madre, poi a Marty. «Dove sono?» Con distacco, Marty fissò l'ecchimosi sulla guancia di Jack e il cerotto sulla fronte. «Hai preso in giro la persona sbagliata, Jack?» «Sono finito contro un albero.» «Figuriamoci.» «Stavo cercando di sfuggire alla persona che mi stava sparando.» Gli occhi di Lily si spostarono di scatto sul figlio e, per la prima volta, Magozzi scorse la madre dentro la donna. «Chi ha cercato di spararti?» Le parole le erano uscite di colpo, brusche. Jack quasi rabbrividì. La madre non gli rivolgeva direttamente la parola da molto tempo. «Non lo so.» La donna si raddrizzò e i suoi occhi tornarono duri. Merda, pensò Magozzi. Anche lei sa qualcosa. Marty stava fissando Jack con una ridda di espressioni sul volto: rabbia, disgusto, frustrazione e forse un po' di paura. Ma soprattutto c'era preoccupazione. Magozzi restò vagamente sorpreso nel vedere che Marty Pullman si curava davvero di Jack. «Cosa sapete dell'accaduto?» chiese Marty a Gino. Gino notò che una donna con un paio di pinocchietti color porpora si stava avvicinando alla cassa. «Andiamo a fare due passi. Ti dirò quello che abbiamo.» «Le chiavi», ripeté Jack in tono autoritario, mentre si allontanavano. Marty si girò e gli puntò contro un dito. «Niente chiavi. Tu resti qui.» Fissò Lily e aggiunse: «Rimane qui di giorno e di notte, finché non decido altrimenti». Jack e Lily lo guardarono entrambi, battendo le palpebre come bambini stupiti. «Parlo sul serio», lo ammonì Marty, mentre usciva dalla porta con Gino. Jack stava per parlare quando la donna coi pinocchietti gli batté sulla spalla. «Mi scusi, signore. Mi sa dire se questo è il fertilizzante giusto per i
rododendri?» Quasi senza pensare, Jack si girò, studiando il contenitore di plastica verde che la donna teneva in mano. «Oh, no, è troppo alcalino. Per un rododendro le serve qualcosa di più acido. Dovrebbe essere sullo stesso scaffale dove ha trovato questo.» «Davvero? Me lo può indicare? Lì c'erano così tante marche di fertilizzanti...» «D'accordo. Sì, certo, glielo indico io.» «Sembra conoscere il mestiere», disse Magozzi a Lily. «Deve conoscerlo per forza. È cresciuto qui dentro», replicò in tono assente, seguendo con lo sguardo il figlio che superava una folla di clienti occupati a riempire i carretti di Impatiens in svendita. «Allora mi dica di questa faccenda della sparatoria. Chi ha sparato a Jack?» «Forse dovrebbe chiederlo a lui.» «Lo sto chiedendo a lei.» Magozzi sospirò. «Jack pensa che qualcuno gli abbia sparato sul viale di casa, perciò ha risposto al fuoco.» Lily voltò la testa lentamente verso di lui. «Pensa? Non ne è certo?» Magozzi sì strinse nelle spalle. «Lui sì, noi no. Almeno non ancora. C'erano molti proiettili e bossoli sul posto, tuttavia potrebbero essere della pistola di Jack. Stiamo verificando.» Lily lo stava scrutando con uno dei suoi sguardi da Yoda. «Jack non ha una pistola. Lui odia le pistole.» «Dice che era di Morey e che l'ha portata a casa ieri sera, dopo aver sentito dell'uccisione di Ben Schuler. Morey la teneva qui.» Magozzi la scrutò. «Lo sapeva, che Morey aveva una pistola?» Il suo sguardo rimase immutato. «Se l'aveva, non me l'ha mai detto.» Magozzi appoggiò gli avambracci sul banco, il che lo mise alla stessa altezza d'occhi di lei. «Senta, Mrs Gilbert... Crediamo che Jack sappia qualcosa sugli omicidi, compreso quello di suo marito.» Lo sguardo di Lily vibrò. «Ieri, al ricevimento, quando ha saputo che avevano sparato a Ben Schuler, è quasi svenuto e non soltanto perché era sconvolto: era spaventato a morte, e pensiamo che lo fosse perché sapeva di essere il prossimo. Lui sa qualcosa, Mrs Gilbert. E, se noi non sappiamo cosa, non possiamo aiutarlo.» «Lei vuole che gli parli», replicò seccamente la donna. Magozzi si raddrizzò e allargò le mani. «Con noi non parla. Con sua
madre forse sì.» Fuori, Gino e Marty erano appollaiati sul paraurti anteriore dell'auto intenti a tracannare l'acqua minerale che Marty aveva preso da un frigo vicino all'ingresso. «Lui è tutto quello che abbiamo a questo punto», stava dicendo Gino. «E non ci dice un accidente di niente. Se fosse per me, lo sbatterei in una cella con un paio di energumeni finché non si decide a parlare, però Magozzi ha problemi di coscienza. Forse tu potresti dargli una bella torchiata.» Marty fece per sorridere, poi ci ripensò e scosse il capo. «Ci ho provato ieri sera, Gino, e l'ho messo parecchio sotto pressione. So che nasconde qualcosa. Il buffo è che ho la sensazione che lui pensi di avere una buona ragione per farlo. Ma ci riproverò stasera, quando Lily sarà rientrata in casa.» «Lo tieni davvero qui?» «Se qualcuno sta cercando di ucciderlo, probabilmente è più al sicuro qui che da qualsiasi altra parte.» «Come fai a saperlo? Morey qui non era molto al sicuro», osservò Gino. Marty si girò a fissarlo. «Perché non me ne vado e sono armato. Ieri sera, Jack mi ha chiesto di andare a casa a prendere la pistola. Era preoccupato per Lily. Adesso sono preoccupato per entrambi. Credo abbia veramente paura, Gino.» Gino annuì. «Anche noi. Ma potrebbe aver sparato in giardino da solo, Marty. Non lo sapremo finché non avremo i risultati dei test balistici e forse nemmeno allora. Se avremo un risultato positivo di una pistola che non è quella che Jack stava agitando, potremo piazzare una macchina qui fuori.» Smisero di parlare quando videro Jack correre attraverso il parcheggio nella loro direzione. «Dove diavolo sono i Big Boys, Marty? Dovrebbero essere sullo stesso banco degli Early Girls e là dietro ho una cliente che sta dando i numeri perché non li trova.» Marty si sfregò la testa, cercando di passare dagli omicidi alle piante. «Non ho la più pallida idea di cos'hai detto, Jack.» «Parlo dei fottuti pomodori, santo cielo. Dove sono?» «Oh, credo di averli messi in parte laggiù all'ombra, vicino alla serra piccola.» Jack lo guardò con la bocca aperta. «Hai messo i pomodori all'ombra?»
«Penso di sì. Se quei cosi laggiù sono pomodori.» Con uno scatto del pollice indicò a destra. «Oddio.» Fece per partire di corsa, poi si girò e tornò da Gino. «Credo di essermi scordato di ringraziarvi per il passaggio, detective.» «Sì, è così.» Jack annuì, si cacciò le mani in tasca e guardò di lato. «E c'è un'altra cosa.» «Sì?» «A volte mi comporto un po' da coglione.» «Lei crede?» «E, nonostante tutto, lei e il suo collega mi avete trattato con molto rispetto. Vi vorrei aiutare.» Alzò lo sguardo e aggiunse: «Parlo sul serio». Gino lo guardò allontanarsi. «Maledizione, adesso mi sento davvero in conflitto.» Marty ridacchiò. «Jack sa ribaltare tutto.» 29 Gino venne aggredito nel preciso istante in cui varcò la porta della Omicidi. Langer, McLaren, Gloria e Peterson si precipitarono verso di lui come un branco di cuccioli sbavanti di gioia. Un uomo più piccolo si sarebbe impaurito, pensò Gino. «Lars, che fai qui?» chiese al detective Peterson. «Credevo che ti avessero piazzato alla Narcotici fino al ritorno dalle ferie di Tinker.» Peterson era magro come un'acciuga e aveva un colorito solo lievemente più vivo di gran parte dei cadaveri che avevano visto negli ultimi giorni. «Era solo per ieri. E sai come ho passato la giornata? Seduto in un ambulatorio dove danno il metadone, in attesa che Ray la Bocca si facesse vedere. Dio solo sa che cosa mi sono preso là dentro...» Gloria lo spinse da parte con un lieve movimento dell'anca che per poco non lo ribaltò. «Dai, dai, forza, Rolseth, sputa tutto.» «Come?» «Stai scherzando?» chiese McLaren. Indossava una giacca pied-de-poule bianca e blu che sembrava un test visivo. «Eri in tutti i telegiornali e tu non telefoni nemmeno. Allora, cos'è successo da Gilbert? Dov'è Magozzi?» «Leo sta consegnando un po' di cose alla Balistica e da Gilbert non è successo niente.» «Nessun morto?»
«Nessun morto. Sembra che Gilbert abbia distrutto l'auto della moglie svuotando il caricatore per difendersi da un assassino fantasma.» Le spalle ossute di Peterson s'incurvarono sotto la camicia bianca. Lui guardò tristemente la scrivania vuota: quel bastardo assetato di sangue sognava probabilmente qualche omicidio. «Al telegiornale sembrava una replica di Waco.» In un turbinio di sete arcobaleno, Gloria si girò, facendo tintinnare le perline delle trecce. «Ve l'avevo detto, furboni, che non era niente. Quando a Wayzata si muove una foglia, tutti entrano in subbuglio. Peterson, hai circa tre minuti per comunicare alla Narcotici il tuo ritorno qui, prima che Harrison se ne vada, altrimenti dovrai restare con loro.» «Oh, cazzo.» Peterson si affrettò verso la porta. «Non è saltato fuori niente?» domandò Langer a Gino, mentre tutti tornavano lentamente alle scrivanie. «Non chiedere nulla, ti prego. Altri venti passi in avanti e torniamo al punto di partenza. E il vostro caso?» Langer scosse la testa e indicò una grossa pila di fogli stampati sul bordo della scrivania. «Questo è tutto ciò che siamo riusciti a ottenere sulle sei vittime dell'Interpol. Perlopiù si tratta di gente comune che aveva un'esistenza comune.» «Ma l'Interpol li aveva classificati come omicidi su commissione, giusto?» «Già. Però sono i bersagli più improbabili in cui mi sia mai imbattuto.» «Proprio come le persone che vengono fatte fuori dalle nostre parti.» Langer alzò un sopracciglio. «Giusta osservazione. Tuttavia non riusciamo ancora a trovare un nesso con Fischer, oltre alla pistola.» «E i federali stanno alle calcagna di Malcherson», aggiunse McLaren, afflitto. «Ai loro occhi siamo solo stupidi incapaci che non sanno vedere uno stronzo in una fogna, perciò ci porteranno via il caso, lo risolveranno nella pausa pranzo e si prenderanno tutta la gloria. Il che significa che domani io e Langer finiremo in qualche scuola a tenere lezioni sulla sicurezza.» «Uh.» Gino fece un debole tentativo d'infilarsi la camicia nei pantaloni. «Cosa dice Malcherson?» Langer scrollò le spalle. «Abbiamo sino alla fine della giornata per scoprire qualcosa, poi li coinvolgerà. E, a essere sincero, non sono certo che sia un male. Ci troviamo davvero in un vicolo cieco.» Gino scosse la testa. «Se vogliono il caso, probabilmente hanno qualcosa
che voi non avete.» «Probabilmente.» Magozzi entrò come un turbine nell'ufficio e avanzò rapido nel corridoio col cellulare premuto contro l'orecchio, intento ad ascoltare. Mentre passava, salutò tutti con un cenno. Poi, con un movimento del pollice, chiese a Gino di avvicinarsi alle loro scrivanie in fondo. Mentre terminava la chiamata, Gino frugò nel cassetto della scrivania in cerca di cibo. Stava esaminando una caramella per la tosse tutta impolverata per decidere se fosse commestibile quando Magozzi disse: «Grazie, Dave», e chiuse il cellulare. «Dave? Il Dave della Balistica?» «Quello. C'è una piccola novità: Rose Kleber e Ben Schuler sono stati uccisi con la stessa calibro 9.» «Oh, il primo legame certo! Per favore, Dio, dimmi che è la calibro 9 di Wayzata che abbiamo preso a Jack Gilbert, in modo che possa sbattere quel suo stupido culo in galera.» «Mi spiace, Dave ha fatto un test rapido di sparo. Non è la pistola di Jack.» «Merda.» «Ha esaminato anche tutti i proiettili della casa di Jack. Appartengono alla pistola di Jack tranne uno.» «Uau.» Gino si appoggiò allo schienale e intrecciò le dita sul ventre. «Dunque qualcuno ha davvero cercato di ucciderlo.» Magozzi annuì. «Hanno estratto il proiettile diverso dalla parte interna del tetto, a un paio di centimetri dal retro del SUV della moglie. Jack ha detto che si trovava vicino al portellone posteriore, ricordi? E quel proiettile appartiene alla stessa pistola che ha ucciso la Kleber e Schuler.» Gino rifletté per qualche istante, esclamò: «Oh, per amor del cielo!» e si alzò, afferrando le manette sul tavolo. «Che fai?» «Vado ad arrestare Gilbert.» «Perché gli hanno sparato addosso?» «Perché è un testimone, per custodia preventiva, per ubriachezza in luogo pubblico, non m'interessa. Lo voglio soltanto vedere in cella. Quel maledetto, stupido figlio di puttana sapeva che sarebbe successo, il che significa che sapeva perché sarebbe successo e forse anche chi è l'aggressore. E ce lo dice? No. Se ne sta buono buono, con la bocca chiusa, mentre altre persone vengono uccise. Dannazione, perché mettono le chiusure delle
manette così indietro che non riesco mai a raggiungerle...» «Gino, calmati.» Lui sbuffò, furioso. «Che c'è?» «Non possiamo arrestarlo.» «Ma dai.» «In realtà non ha assistito a niente, perciò non è un testimone. La custodia preventiva è volontaria e per quanto riguarda l'ubriachezza in luogo pubblico...» «Sì, sì, lo so.» Gino si buttò sulla sedia, scoraggiato. «Ma potremmo andare da lui e interrogarlo di nuovo. Magari armati di un pungolo per il bestiame perché, senza, quell'uomo non ci dirà niente.» «Chiama Marty. Digli quello che sappiamo, dagli materiale su cui lavorare. E assicurati pure che ne parli con Lily. Stamattina le ho dato un'imbeccata. Forse in due riescono a farlo cedere.» Gino si allungò per prendere il telefono. «Dovremo piazzare un'auto davanti al vivaio, se Jack resta lì.» «Giusto. Occupatene tu, io chiamo il comandante Boyd a Wayzata e gli dico di assegnare un'auto anche alla moglie. Non si sa mai.» Mentre Magozzi terminava la chiamata col comandante Boyd, il suo cellulare trillò. «Ehi, Grace.» «Chiamami sul fisso. Odio i cellulari.» Magozzi batté le palpebre quando lei riagganciò bruscamente, ma la chiamò subito, usando l'apparecchio da tavolo. «Perché non hai fatto subito il numero dell'ufficio se odi tanto i cellulari?» «Perché devo passare attraverso Gloria, ecco perché. Lei mi detesta.» «Come? È ovvio che non ti detesta.» Grace scoppiò in una sonora risata, che però s'interruppe subito. «Il programma ha iniziato a evidenziare alcune cose. Potrebbero non essere importanti, non ne sono sicura.» «So per certo che Gloria non ti detesta.» «Oddio, Magozzi, questo è sicuramente più importante», replicò lei, spazientita. «Tramite i canali normali non trovavo nessun legame fra le spese delle tre vittime, perciò ho leggermente ampliato i parametri di ricerca.» «Oh, santo cielo. Questo cosa significa?» «Sono andata a ripescare tutto: documenti bancari, carte di credito, portafoglio investimenti, dichiarazioni dei redditi...» Magozzi si prese la testa fra le mani e si coprì gli occhi, mentre l'elenco
di crimini informatici di Grace si allungava all'infinito. «Magozzi? Sei ancora lì?» «Ci sono. Forse questa è una buona occasione per dirti una cosa. Il comandante Malcherson mi ha chiesto di ricordarti di accedere solo a informazioni di pubblico dominio, quando ci aiuti.» «D'accordo. Queste sono le tue informazioni di pubblico dominio: Morey Gilbert e Rose Kleber facevano la spesa nello stesso negozio di alimentari.» «E basta?» «E basta.» «Oh.» «Vedila così, Magozzi. In due scene del crimine tu hai accesso legale a gran parte di queste informazioni. Tutto quello che dovresti fare è passare al vaglio e confrontare ogni singolo foglio di carta a casa di Rose Kleber e di Ben Schuler: nel giro di un paio di settimane, sapresti quello che io so adesso.» «Va bene, Grace. D'accordo. Ti ascolto.» «Le tre vittime, Morey Gilbert, Rose Kleber e Ben Schuler, hanno speso parecchio in biglietti aerei. Non appena ho trovato questo legame, ho collegato i loro dati coi database delle compagnie aree, scoprendo che hanno fatto molti viaggi insieme. Davvero molti. Stessi aerei, posti vicini, stesse destinazioni, stesse date.» «Che tipo di viaggi? Vacanze? Viaggi organizzati per anziani, questo genere di cose?» «Non credo.» «E allora dove andavano?» Magozzi rimase seduto ad ascoltare per qualche istante, dapprima accigliato e poi a poco a poco più sereno in volto. «Aspetta un secondo. Devo cambiare telefono. Ti metto in attesa, okay?» Quando Magozzi balzò in piedi, posando il telefono sul petto, Gino alzò lo sguardo. «Che c'è?» «Forse tutto.» Magozzi gli fece cenno con la spalla e partì in direzione della scrivania di Langer. Gino disse qualche parola al telefono, riagganciò e si affrettò dietro di lui. Magozzi si buttò su Langer, allarmato, afferrò il suo telefono e premette il tasto rosso lampeggiante. «Grace, sei ancora lì? Aspetta... Langer, dammi il foglio con gli omicidi dell'Interpol.»
Gino percepì una nota di eccitazione nella voce del collega. Scorse la tensione sul suo volto e si avvicinò per sbirciare oltre la sua spalla, mentre Magozzi era chino sulla scrivania, con la penna puntata sul foglio che Langer gli aveva appena messo davanti. «Bene, Grace. Ripetimeli.» Dopodiché avvicinò la penna al foglio. «Che succede?» sussurrò McLaren, spostandosi sulla sedia a ruote dalla sua scrivania per accostarsi a Magozzi dall'altra parte. Langer si strinse nelle spalle, perciò McLaren si mise a osservare Magozzi che scriveva. A ogni segno della penna, le sopracciglia rosse gli s'inarcavano sempre di più. Magozzi stava segnando le città dei delitti dell'Interpol - Londra, Milano, Ginevra e tutte le altre -, annotando accanto a esse la sigla MRB e una serie di numeri. «Capito», disse al telefono. «Grazie, Grace. Ti dovrò richiamare.» Gino puntò un dito grasso su quello che Magozzi aveva scritto. «Che cos'è MRB?» Magozzi prese la penna e indicò le lettere a una a una. «Morey. Rose. Ben. Grace ha scoperto che le nostre vittime hanno preso alcuni voli insieme. Ha verificato le destinazioni ed è scattato un campanello.» Indicando il foglio aggiunse: «Quelli sono i viaggi. I numeri sono le date. Sono arrivati e ripartiti da quelle città a distanza di ventiquattro ore dagli omicidi dell'Interpol». Per qualche istante nessuno disse niente. Gino si stava sfregando la fronte, neanche volesse massaggiarsi il cervello. «È una coincidenza ben strana, non credi?» «Direi. Soprattutto quando i viaggi sono così brevi. Chi va a Parigi per un giorno e mezzo?» «Viaggi d'affari?» suggerì Langer. Le labbra di Magozzi si tesero. «Forse, se i loro affari erano omicidi su commissione. Quelle persone hanno fatto sei viaggi in sei città nei giorni esatti in cui si sono verificati gli omicidi dell'Interpol.» Gino fece una smorfia. «È veramente strano.» . «È più che strano. A me sembra che siamo passati da coincidenze a prove circostanziali.» «Ma ti ascolti mentre parli, Magozzi?» disse McLaren, incredulo. «Stai dicendo che abbiamo un gruppo di assassini 'geriatrici' residenti a Uptown. È un po' troppo, persino per me. Non lo venderesti nemmeno a Hollywood.» Magozzi guardò Gino, che era molto accigliato e pareva aver chiamato a
raccolta tutte le cellule del suo cervello. «Ti sto ascoltando, Leo, e sai che adoro le teorie insolite, però... San Gilbert che uccide persone in Europa? Nonna Kleber con le sue piccole e vecchie scarpe ortopediche che se la dà a gambe dopo aver sparato a qualcuno? Ma cosa stiamo dicendo? Che queste persone hanno compiuto sessantacinque anni e deciso d'integrare la pensione con un'attività collaterale di omicidi su commissione?» «Morey Gilbert non sarebbe stato assolutamente capace di una cosa del genere. Tu non lo conoscevi, Magozzi», osservò Langer in tono pacato. «Forse nessuno lo conosceva.» «Ci deve essere un'altra spiegazione», insistette Langer. «E noi continueremo a cercarla. Ma tu non puoi continuare a chiudere gli occhi su quello che è ovvio soltanto perché non vuoi che sia vero.» Langer tacque, ripetendosi quella frase nella mente perché riassumeva alla perfezione ciò che lui aveva fatto nell'ultimo anno: chiudere gli occhi, mantenere il segreto, cercare di fingere che non fosse mai successo nulla perché voleva disperatamente che fosse così. McLaren non desistette. «Langer ha ragione. Non conosco gli altri due, però conoscevo Morey Gilbert: se moriva una coccinella, lui stava male. È impossibile che abbia ammazzato qualcuno. Inoltre non significa che abbiano ucciso soltanto perché erano in quelle città. Immaginiamo che venerdì io vada a Chicago: quante probabilità ci sono che qualcuno venga assassinato a Chicago un venerdì notte? Eppure di certo non significa che sia io il colpevole.» Magozzi abbozzò un sorriso per tranquillizzare McLaren, che era probabilmente più affezionato a Morey di quanto non pensasse. «Se si tratta di un unico viaggio e di un unico omicidio, niente da dire. Ma qui si parla di sei omicidi. È un'ipotesi da valutare, McLaren.» L'altro si placò, ma solo per qualche istante. «È una follia», replicò infine, agitando le braccia. «Non ha senso. Gli omicidi dell'Interpol risalgono a quindici anni fa, vero? Ciò significa che quella gente avrebbe ucciso la prima vittima a settant'anni suonati. Chi aspetta di essere vecchio per decidere di ammazzare un uomo?» «Forse non era il primo assassinio, McLaren», osservò Magozzi. «Grace dice che, prima di quell'anno, hanno fatto molti viaggi e ne hanno fatti parecchi anche dopo. Alcuni intercontinentali, altri nel Paese, alcuni in Messico e in Canada, tutti brevi, un paio più brevi di ventiquattro ore. Grace mi sta faxando quello che ha trovato sinora. Faremo qualche telefonata e vedremo se possiamo collegare anche quei viaggi a un omicidio.»
«Gesù», esclamò Gino. «Quanti sono gli altri viaggi?» «Oltre alle città dell'Interpol?» Magozzi sbuffò. «Più di dieci nell'ultima decina d'anni, fatti da tutti e tre insieme. Grace sta ancora cercando. I dati informatici arrivano solo fino a quel periodo, perciò non avremo mai il numero totale.» Langer sospirò, si appoggiò alla sedia e guardò il soffitto con aria stanca. «Mah. Nessuno di loro era ricco. Dove sarebbero i soldi?» Magozzi si strinse nelle spalle. «In società offshore, in conti svizzeri, sepolti nel giardino di Rose Kleber... Chi lo sa? Solo perché non li abbiamo trovati non significa che non ci siano.» «Va bene, d'accordo.» McLaren incrociò le braccia, irritato. «Starò al vostro stupido gioco. Voi pensate che Morey e i suoi amici fossero killer perché si trovavano nelle stesse città degli omicidi dell'Interpol. Be', le vittime dell'Interpol sono state uccise con la stessa calibro 45 che ha ammazzato Arlen Fischer. Ciò significa che le vostre vittime hanno ucciso la nostra vittima. E l'hanno pure torturata.» «Be', la cosa ha senso», disse Gino. «L'Interpol ritiene che l'omicidio Fischer sia stato una questione personale. Dato che le vittime vivevano da anni nello stesso quartiere, ci sono buone probabilità che in un determinato momento la strada di Fischer abbia incrociato quella di almeno una di loro. Oltre ad aver chiesto ai Gilbert se lo conoscevano, non siamo riusciti a scoprire nulla al riguardo. Non conosco una sola persona che non vorrebbe uccidere almeno uno dei vicini e, diciamolo, se vai in giro per il mondo ad ammazzare la gente, devi essere un po' sociopatico. E allora perché non occuparsi personalmente di sistemare qualcuno che ti ha fatto davvero incazzare?» McLaren fece leva col piede sulla sedia a ruote verso la sua scrivania, dopodiché appoggiò il mento sulle mani. «Odio tutto questo. Lo odio profondamente. Stimavo Morey Gilbert. Lo stimavo davvero molto.» Langer gli rivolse un triste sorrisetto. «Tutti lo stimavano.» 30 «Mi sento come se qualcuno mi avesse scaricato una pila di mattoni sulla testa», affermò Gino coi gomiti sulla scrivania e con le mani che sfregavano la spazzola bionda di capelli, come se fosse davvero andata così. «Ti capisco», borbottò Magozzi. Erano arrivate troppe informazioni, con eccessiva rapidità e da una direzione completamente diversa da quella che
si erano aspettati. Due anni prima, un tornado si era abbattuto in una zona rurale del Minnesota e aveva messo in fuga un agricoltore che, abbandonato il trattore, si era precipitato verso il rifugio sotterraneo. Correndo come un matto e guardando dietro di sé il tornado in arrivo, l'uomo era andato a sbattere contro la fiancata del pick-up con cui la moglie stava andando a soccorrerlo. Era morto all'istante. Così si sentiva Magozzi: stava inseguendo un killer ed era andato a sbattere nel fatto che le vittime erano dei killer. Non aveva visto arrivare il veicolo ed era finito lungo disteso a terra. La sala della Omicidi era silenziosa. Tutti gli altri erano andati a pranzo. Gloria aveva trasferito le chiamate al centralino, in teoria per accodarsi agli altri e lasciare un po' tranquilli Gino e Magozzi, ma più probabilmente per spremere qualche informazione. «Hai mandato una macchina a sorvegliare Jack Gilbert, giusto?» chiese Magozzi. «Becker era nei paraggi. In questo momento è al vivaio. Marty è armato e sorveglia Lily e Jack come un falco. Ha detto a Jack che, se tenta di andarsene, lui gli spara, perciò Becker non dovrà lanciarsi in inseguimenti acrobatici.» «Che altro dice Marty?» «Che da quando ce ne siamo andati sta mettendo Jack sotto pressione, ma non ha ottenuto niente. Se nient'altro funziona, chiuderà il vivaio, farà ubriacare Jack e gli caverà fuori la verità.» «Quindi abbiamo le spalle coperte.» «Come mosche su una merda di vacca. Abbiamo un ex poliziotto sul posto, un'unità nelle vicinanze, una scena circoscritta... Ci stiamo ammazzando di fatica, e quello stupido coglione se ne sta là seduto, senza dire nulla, mentre uno psicopatico gli dà la caccia e lo tiene sotto tiro. Forse però non è un male. Non lo pianificherei mai, tuttavia potrebbe essere l'unico modo per prenderlo.» Magozzi alzò le sopracciglia. «Un'esca?» Gino si strinse nelle spalle. «Non rientra nei nostri metodi, però siamo pronti a metterlo in atto. Quello che mi fa incazzare è che abbiamo appena risolto il caso di Langer e McLaren perché le nostre vittime hanno ucciso la loro, quindi loro adesso stanno festeggiando con un bel pranzo, mentre noi ce ne stiamo qui a pensare a chi abbia ucciso i nostri killer. È come voler afferrare la nebbia.» Magozzi si grattò la nuca e guardò il notes bianco. «Deve essere qui.
Sento che lo abbiamo avuto davanti agli occhi fin dall'inizio, però non lo vediamo ancora.» Magozzi e Gino tenevano sempre le scrivanie unite, l'una di fronte all'altra, in parte perché ciò facilitava il passaggio delle carte, in parte perché Gino aveva dichiarato che il pensiero si propagava in linea retta dalla fronte e voleva che Magozzi fosse in posizione tale da intercettare tutto quello che lui si dimenticava di dire a voce alta. Era la cosa più terrificante che Magozzi gli avesse mai sentito dire. Erano seduti da un paio di minuti quando Gino chiese: «Che fai?» Magozzi alzò lo sguardo. «La stessa cosa che fai tu. Prendo appunti, cerco di mettere tutto insieme, di pianificare la prossima mossa.» «Allora, che cos'hai?» Magozzi guardò gli oziosi scarabocchi che da sempre lo aiutavano a riflettere. «Due girasoli e una farfalla. E tu?» Gino sollevò un foglio su cui era tracciata una figura indistinta, fatta di bastoncini. «Un cavallo.» Girò il foglio verso di sé e si accigliò. «Sai, in occasioni simili dovremmo disegnare cose virili: pistole, automobili, roba del genere.» «Straccialo.» «Buona idea.» Gino buttò il foglio nel tritadocumenti e fissò la pagina bianca. «Credo che il mio cervello rifiuti l'idea. Cerco di riflettere e vedo gruppi di anziani con la fondina sui fianchi ossuti. È una cosa che mi lascia senza parole.» «Sono ancora solo fatti circostanziali, Gino.» «Forse. Però sembra la pista giusta.» Magozzi annuì. «Sì, è così. Eppure è maledettamente incredibile.» Gino si sfregò il mento, pensieroso. «Sai, io non sono riuscito nemmeno a trovare una persona che mi pulisse le grondaie. Come fai a trovare un killer prezzolato? E che genere di struttura può assoldare un gruppo di vecchi? La Bob's Discount Assassinations?» «Pensi che lavorassero per un'agenzia?» «Forse. Non riesco a immaginare due vecchi e una nonnina in quei posti schifosi dove parli di questo genere di cose. Inoltre erano piuttosto impegnati per essere dei freelance e gli omicidi sono puliti. Assolutamente professionali.» Emise un lungo sospiro e aggiunse: «Per quanto detesti dirlo, esula un po' dalle nostre competenze». «Va bene. Non dirlo.» «È pane per i loro denti, Leo. Erano già su di giri per gli omicidi dell'In-
terpol. Se pensiamo davvero di avere una squadra di assassini all'opera dalle nostre parti, dobbiamo coinvolgere i federali.» Magozzi iniziò a riempire i petali di un girasole. «È questo il punto. Non lo sappiamo. Almeno non con certezza. Se li coinvolgiamo troppo presto, incasineranno tutto.» «Se non li coinvolgiamo e poi si scopre che quelle persone erano degli assassini, la pagheremo cara.» «No, non è compito nostro dimostrare che Morey Gilbert e il suo gruppo erano dei killer. Noi dobbiamo scoprire chi li ha uccisi. Attieniti a questo. Inoltre abbiamo molte ragioni per dubitare della teoria dei killer prezzolati e solo una coincidenza a sostenerla: i viaggi all'estero. E la faccenda del terzetto mi dà da pensare. Tre killer per un omicidio? Mai sentita una cosa del genere.» Gino lasciò cadere la matita. «Più ci si pensa, più sembra sbagliato. Abbiamo appena speso mezz'ora a convincere McLaren e Langer che si trattava di un trio di killer e ora ne passiamo un'altra a convincerci che non è così.» Magozzi sorrise vagamente. «È come essere su una giostra, eh?» «Penso di sì.» Gino si allungò sulla scrivania e avvicinò a sé il dossier di Arlen Fischer che Langer aveva dato loro prima di uscire. «Questo caso mi sconvolge. Certo, tutti vorrebbero uccidere qualcuno, ma che diavolo aveva fatto Arlen Fischer per meritarselo? Aveva rovesciato una pianta nel vivaio? Ammaccato la portiera dell'auto di Nonna Kleber? È stato così brutale...» Lanciò a Magozzi una foto lucida, neanche fosse un frisbee. «Hai visto queste foto? Hanno legato l'uomo ai binari con del filo spinato. Alla faccia della premeditazione. Non compri una cosa del genere al negozio d'angolo, te la devi procurare molto tempo prima. La tortura era una parte importante del piano.» Magozzi piazzò la foto esattamente davanti a sé e la fissò, cercando di rallentare il cervello in modo che il pensiero, quello che lo tormentava fin dalla colazione con Malcherson, potesse a poco a poco affiorare. Forse era sempre stato lì fin dall'inizio dell'indagine, quando la sua mente aveva colto ciò che lui non era ancora pronto a considerare: una cosa triste, sgradevole che era suppurata nel buio finché non era giunto per lei il momento di manifestarsi. E infine così fu. «Gesù. Gino, ci sono.» Gino si alzò lentamente e sbirciò la foto capovolta, cercando di vedere
quello che vedeva Magozzi. «Cosa? Per amor del cielo, cosa?» Magozzi alzò lo sguardo con l'espressione più afflitta che Gino gli avesse mai visto. «Filo spinato. Treni. Campi di concentramento. Erano ebrei, Gino, sopravvissuti all'Olocausto.» Senza mai togliere gli occhi di dosso al collega, Gino abbassò lentamente la sua grossa mole sulla sedia. «Non erano killer prezzolati», continuò tristemente Magozzi. «Morey Gilbert, Rose Kleber e Ben Schuler stavano uccidendo dei nazisti, quelli che l'avevano fatta franca. E questo...» - aggiunse, puntando un dito sulla foto di Arlen Fischer - «lo conoscevano di persona.» Gino studiò ancora la foto, poi girò la sedia di lato, fissando il muro. «Una volta, Angela mi ha fatto vedere un documentario. C'era uno che intervistava gli ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento. Era un gruppo di uomini e donne anziani: parlavano dei nazisti cui avevano dato la caccia e che avevano ucciso dopo la guerra. Non era una di quelle cose ufficiali fatte da Simon...» «Da Simon Wiesenthal?» «Sì, da lui. No, non era niente del genere. Questi erano gruppi clandestini, tipo squadre della morte, e dicevano di essere tanti.» «Ci hai creduto?» domandò Magozzi. «Non lo so. All'inizio ho pensato che fosse solo una balla sensazionalistica per attirare l'attenzione della gente, ma il punto è che quegli anziani avevano elenchi di persone che loro sostenevano di aver ucciso e sapevano cose di alcuni casi irrisolti che la polizia locale non aveva divulgato. Al termine del documentario, avevo i brividi.» 31 Quando Langer e McLaren tornarono dal pranzo, Magozzi e Gino li fecero accomodare ed esposero la loro teoria. Langer capì che non la stava prendendo molto bene: forse perché anche lui era ebreo, forse perché tutto aveva maledettamente senso e non poteva convincersi del contrario. L'idea che Morey Gilbert fosse un killer prezzolato faceva acqua da tutte le parti, tanto da indurlo a sperare che non fosse vera; quella che fosse un killer di nazisti colmava quasi tutte le lacune. Nei primi trent'anni della sua vita, Langer aveva cercato di scoprire quelle storie che la madre non gli aveva mai raccontato, di capire il vuoto nel suo sguardo. Aveva desiderato che lei gli svelasse i terribili segreti che na-
scondeva. Infine era stato l'Alzheimer a scioglierle la lingua e Langer aveva ascoltato. Negli ultimi mesi di ricordi sporadici e di viaggi nel tempo, lei non sapeva più che lui era suo figlio, però rammentava gli orrori degli undici mesi passati a Dachau, sessant'anni prima. «Sta' attento a cosa desideri, perché lo otterrai.» Si diceva così, no? La malattia aveva sferrato il colpo finale, cancellando ogni ricordo tranne quello di Dachau. La mente della donna aveva trascorso gli ultimi momenti in una cuccetta di legno stretta e scheggiata, in un sudiciume di odori, di suoni e di spirito. E Langer, accanto al suo letto, non aveva potuto far altro che gemere. Morey Gilbert, Rose Kleber e Ben Schuler avevano condiviso quell'esperienza ed erano rimasti in silenzio proprio come lei, ma forse per loro giustizia e moralità avevano parametri diversi. Langer lanciò un'occhiata a McLaren, seduto alla sua scrivania con le braccia conserte, chiuso in sé, arrabbiato e triste nel contempo. Killer prezzolati, killer di nazisti... probabilmente per lui non faceva molta differenza. McLaren idolatrava Morey Gilbert e l'idea che lui avesse ucciso qualcuno per qualsiasi ragione era inconcepibile. Adesso però Langer ci credeva. Capiva anche cosa spingeva la preda a trasformarsi in cacciatore, lo aveva capito nel momento in cui aveva rivissuto Dachau con la madre. D'un tratto si accorse che quella capacità di comprendere aveva probabilmente segnato la sua caduta. Alzò lo sguardo su Magozzi. «Se hai ragione, per chiudere il caso io e McLaren dobbiamo dimostrare che un uomo stimato da entrambi ha ucciso Arlen Fischer.» «Più o meno è così. E anche a me e Gino serve quell'informazione perché ciò in cui erano invischiati Morey e i suoi amici, di qualsiasi cosa si tratti, c'indicherà la strada per trovare il loro assassino.» «Quindi, in un certo senso, stiamo lavorando sullo stesso caso.» «È quello che pensiamo.» McLaren si era accasciato sulla scrivania, con la testa appoggiata sulle braccia. Quando la sollevò, Magozzi pensò che somigliava a un bambino restio a svegliarsi dal sonnellino pomeridiano. «Non so come reagire a tutto questo», disse. «Ho passato metà della mia vita a incastrare cattivi e d'un tratto non so più distinguere il bene dal male. Pensavo che Morey Gilbert fosse un faro di onestà.» «Per molti lo era», gli ricordò Langer. «Ha salvato molte vite, Johnny.» «Giusto. Durante la settimana salvava una vita, poi nei weekend andava ad ammazzare qualcuno. Non è che la cosa mi vada a genio. Quante perso-
ne devi salvare per cancellare una vita che togli? E c'è una cosa ancora peggiore. Una parte di me dice: 'Va bene, lo capisco. È stato ad Auschwitz, santo cielo. Chissà cos'ha passato... Magari io avrei fatto lo stesso'. Ma l'altra parte - lo sbirro della Omicidi - non può credere a una simile giustificazione.» «Per il momento devi lasciar perdere tutto, McLaren», disse Gino. «La pensiamo tutti così, ma dobbiamo smettere di preoccuparci dei killer morti e iniziare a preoccuparci di quello vivo. È ancora là fuori.» McLaren sospirò e si raddrizzò. «D'accordo, ti ascolto. Allora, che facciamo?» Gloria era rimasta nel corridoio centrale e sembrava riempirlo col suo nero, possente e indocile corpo. Per la prima volta in vita sua ascoltava senza parlare. McLaren, quel patetico, piccolo idiota, l'aveva stupita. Anzitutto perché le era parso davvero addolorato, il che indicava in lui la presenza di un sentimento autentico. In secondo luogo, per dirla tutta, perché era uscito davvero allo scoperto. Quand'era depresso, McLaren aveva un visino triste, pensò Gloria. Non somigliava più al folletto di una fiaba. Quando Magozzi iniziò a spiegare il piano, lei tornò silenziosa al banco della reception. «A mio parere, qui abbiamo tre possibilità», disse Magozzi. «Morey Gilbert, Rose Kleber e Ben Schuler erano killer di nazisti. Oppure erano assassini prezzolati. O sono state vittime innocenti di uno psicopatico che fa fuori i sopravvissuti ai campi di concentramento. In quest'ultimo caso, i viaggi sono soltanto una strana coincidenza.» «Accidenti, Magozzi, smetti di prenderci in giro», sbottò McLaren. «Ci hai convinto a credere che erano killer di nazisti. Perché non partiamo da qui?» «Perché in questo momento abbiamo un assassino nelle Twin Cities. Il compito numero uno è identificarlo e fermarlo prima che colpisca qualcun altro. Se lo scenario dei killer di nazisti è giusto, cercheremo un familiare che ha visto i nostri vecchietti uccidergli un parente. Ma... se si trattasse di qualcuno che è sfuggito a un loro tentativo di ucciderlo e che ora vuole batterli sul tempo?» «Intendi un vecchio nazista?» domandò McLaren. «Perché no? Da un lato abbiamo tre persone anziane che uccidono. Perché dall'altro non ci potrebbe essere un vecchio nazista?» Langer chiuse gli occhi, pensando che l'incubo continuava a ripresentarsi, all'infinito.
«Ma, se fossero killer prezzolati, dovremmo ricercare un legame con la mafia», intervenne Gino. «L'ipotesi dello psicopatico ci costringerebbe invece a muoverci in un'altra direzione.» Magozzi annuì. «E non abbiamo il tempo e le risorse per esaminare tutte e tre le possibilità. Dobbiamo essere maledettamente certi d'imboccare la strada giusta prima di concentrarvi tutte le risorse che abbiamo, altrimenti il nostro uomo potrebbe sfuggirci. Dato che a tutti suona giusto il collegamento coi nazisti, partiremo da lì. Dobbiamo confermarlo o smentirlo e, da come la vedo, abbiamo un paio d'ore per scoprire la cosa, perché il nostro uomo ne uccide uno al giorno e, ora del telegiornale delle dieci, potremmo trovarci di fronte a un altro cadavere.» «E come diavolo facciamo?» domandò McLaren. «Io e Gino andremo da Grace MacBride coi dossier. Le ho spiegato l'ipotesi dei nazisti e lei crede di poterci dare una mano. Nel frattempo, abbiamo due scene del crimine aperte: quella di Rose Kleber e di Ben Schiller.» «Il BCA le ha già analizzate.» «Sì, ma allora i corpi erano di due vittime, non di potenziali assassini. Dovete esaminare le loro case in un'ottica completamente diversa. Dividetevi, prendete alcuni ausiliari di supporto, formate ciascuno una squadra e rivoltate quegli edifici da cima a fondo. Cerchiamo soprattutto la calibro 45, ma anche i documenti vanno bene.» «Oh, dai», esclamò McLaren in tono derisorio. «Al di là di chi stessero uccidendo, non avrebbero mai tenuto documenti che avrebbero potuto incastrarli.» «Non se erano professionisti», interloquì pacatamente Langer. «Ma, se il loro obiettivo erano i nazisti, forse sì. Sarebbe il loro lascito.» Guardò Gino e Magozzi. «Dovremmo perquisire anche il vivaio», aggiunse con rammarico. Gino annuì. «Mentre eravate a pranzo ne abbiamo parlato col procuratore della contea. Ufficialmente, quelle della Kleber e di Schuler sono tuttora scene del crimine e noi possiamo fare ciò che vogliamo, ma la proprietà dei Gilbert è un'altra cosa. Da un punto di vista tecnico, non c'è mai stata una vera scena del crimine e quello che avevamo - la serra e l'area circostante - è stato dichiarato agibile dai ragazzi del BCA. Ciò significa che abbiamo bisogno di un mandato e, date le premesse, il procuratore non ce lo firmerà mai.» «Potremmo chiedere a Lily», suggerì McLaren.
Gino sbuffò. «Certo. 'Ehi, Mrs Gilbert, pensiamo che suo marito fosse un pluriomicida. Le spiace se diamo un'occhiata in giro?'» McLaren fece una smorfia, abbattuto. «Perciò, se l'unica prova che esiste è nel vivaio, siamo comunque fottuti.» Magozzi sospirò. «Prima di perdere tempo a escogitare un motivo logico per un mandato, tentiamo con gli altri due posti. Se non troviamo niente, andremo da Malcherson, cercando di capire se può influenzare qualche alto papavero.» Gino saltò giù dal bordo della scrivania. «Dobbiamo muoverci.» Magozzi alzò un dito. «C'è un'altra cosa che dovete sapere e riguarda Jack Gilbert. È saltato fuori che qualcuno gli ha sparato davvero. Inoltre la pistola usata è la stessa che ha ucciso Rose Kleber e Ben Schuler.» Langer batté le palpebre. «Aspetta. Stanno cercando di uccidere Jack Gilbert? Non ha senso... a meno che lui non sia coinvolto in questa storia.» «Questioni di famiglia?» suggerì McLaren. Gino scosse il capo. «Non quadra nemmeno a me, eppure detesto quel tizio. Ma Jack sa qualcosa - forse l'identità dell'assassino? - e lo nasconde, il che lo rende il bersaglio per eccellenza. Marty lo ha costretto a restare al vivaio e abbiamo mandato una macchina di sorveglianza. Non si sa mai.» Le sopracciglia di McLaren formarono due piccole montagne rosse. «Avete teso una trappola all'assassino mettendo Jack Gilbert come esca?» «Non lo dire così, a voce alta. Noi non facciamo cose simili. Nel preciso istante in cui riuscissimo a far quadrare qualcosa, lo sbatteremmo in cella, anche soltanto per salvargli quell'inutile culo. Allo stato attuale delle cose, abbiamo la protezione di Marty sul posto e una pattuglia nei paraggi. È il massimo che possiamo fare. Se il killer cercasse di braccarlo, ricaveremo il meglio da una brutta situazione.» 32 Erano quasi le due quando Gino e Magozzi parcheggiarono davanti alla casa di Grace MacBride. Il termometro nell'auto - che ironicamente funzionava alla perfezione, mentre invece il condizionatore era rotto - segnava trenta gradi. L'aria era immobile e densa, irrespirabile. «Diamine, devi quasi nuotare a rana per farti strada in questa cappa», dichiarò Gino avviandosi verso la casa, con la fronte che gocciolava. «Mi sento come un pupazzo di neve in una serra.» Non appena Grace aprì la porta d'ingresso, Charlie saltò addosso a Gino
e prese a leccargli la faccia. Uggiolava e spingeva con tanto vigore che per poco non lo buttò giù dai gradini. Magozzi incrociò le braccia sul petto, irritato. Quel maledetto cane faceva il pagliaccio, dimenando il mozzicone di coda con tale energia da non riuscire a tenere entrambe le zampe posteriori a terra. «Charlie, Charlie, amico mio.» Gino rideva e abbracciava il cane, quasi fosse una persona. Vestita come al solito in jeans e T-shirt neri, Grace era sulla porta, con un po' di farina sul volto. La Derringer era infilata nella fondina da caviglia. «Charlie, vieni qui.» Il cane non si mosse, perciò Gino lo prese e lo portò dentro. «Che cosa disgustosa», commentò Magozzi. «Frena la lingua. Si tratta di pura adorazione pelosa. Questo cane mi ama alla follia.» «Il che mi ha sempre lasciato perplessa», osservò Grace con aria infastidita, mentre chiudeva la porta e reinseriva il sistema di sicurezza. «A te lascia perplessa?» Magozzi cercò di non apparire ferito. «Ci sono volute settimane prima che quel cane uscisse dal suo nascondiglio e venisse a salutarmi. E, la prima volta che Gino si presenta qui, per poco non lo butta a terra, accidenti.» «Io ho i feromoni da cane», replicò Gino. Charlie si era messo a spingere la gamba di Magozzi per farsi perdonare. «Che puttana che sei», borbottò Leo, riuscendo a resistere per due secondi prima d'inginocchiarsi e accettare di essere il secondo in classifica. Grace teneva le mani sui fianchi e scuoteva la testa. «Che ci sarà mai tra uomini e cani?» «Le stesse abitudini?» chiese Gino, suscitando un lievissimo sorriso in Grace, che tuttavia tornò subito seria e tese la mano a Magozzi. «Hai portato le foto di Arlen Fischer?» «Sono qui.» Magozzi si alzò e le porse un dossier sottile. «Le foto della scena del crimine dei binari e una scattata all'obitorio.» Grace aprì la cartellina e diede una rapida occhiata. «Dovrebbero andar bene, ma sai che le possibilità di riuscirci sono scarse. Anche se Arlen Fischer era un nazista, potrebbe non esserci materiale fotografico sul web. Non ci sono molte foto delle guardie di basso grado dei campi, perché quelli non erano i pezzi grossi cui mirava chi indagava sui crimini di guerra. Se era un ufficiale, allora abbiamo una chance.» Magozzi le diede un altro dossier. «Ho portato le foto delle vittime stra-
niere che l'Interpol ci ha faxato, ma la qualità fa schifo. Tanto per cominciare, sono fotocopie e tu hai detto che volevi gli originali.» Grace le guardò e arricciò il naso. Magozzi pensò che fosse la cosa più deliziosa che avesse visto in un volto umano. «Inizieremo con Fischer. Se non otterremo niente, proverò con le fotocopie. È un programma lento. Adesso lo avvio.» La seguirono sulla soglia dello studio, ma non entrarono. Charlie e Magozzi l'avevano vista schizzare di qua e di là sulla sedia con le ruote quando lavorava con più di un computer e sapevano bene di dover restare fuori dai piedi. Gino evitava d'istinto i locali piccoli pieni di computer, convinto che quelli emettessero qualche sorta di radiazione deleteria per alcune, preziose parti del corpo. Grace si sistemò davanti a un grosso computer che Gino giudicò particolarmente pericoloso e si mise a fare cose sbalorditive col mouse - un oggetto che era riuscito a identificare - e con un'altra macchina, che invece gli era ignota. «Cos'è? Sembra un minuscolo mangano.» «Che diamine è un mangano?» chiese Grace senza alzare lo sguardo. «Sai, una di quelle macchine per lisciare i panni. Li infili da un lato ed escono dall'altra parte piatti e lisci. Lenzuola, tovaglie, roba del genere. È piuttosto intelligente, come aggeggio.» «È uno scanner, Gino», lo ragguagliò Magozzi. «E sarebbe?» Grace lanciò loro un'occhiataccia. «Volete sapere quello che sto facendo o no?» «Sicuro», rispose Gino. «Ho appena scansito la foto di Arlen Fischer per inserirla nel nuovo programma di riconoscimento facciale cui sto lavorando.» «Noi ne abbiamo uno, vero?» disse Gino, guardando Magozzi. «Non credo.» Grace alzò gli occhi al cielo e continuò a battere sulla tastiera. «Se ne avete uno, cosa che non credo, è probabilmente una versione stile Flinstones. Alcuni programmi di riconoscimento facciale si avvalgono di un unico database, tipo quelli che hanno in alcuni aeroporti. Hanno un database con le foto di terroristi, criminali noti, di chiunque sia segnalato. La macchina scatta una foto digitale della persona che passa al controllo e la confronta con quelle contenute nel database.» Gino era piuttosto colpito. «Capisco. Il programma di riconoscimento facciale è come un testimone e il database è un catalogo di foto segnaleti-
che: guarda tutte le foto e identifica il cattivo.» «Esatto.» «Be', sembra abbastanza semplice.» «Lo sarebbe se ci fosse un unico database contenente le foto di tutti i nazisti, ma non è così. Quello che abbiamo sono centinaia di siti con foto d'archivio di alcuni nazisti. Perciò non ci resta che entrare in un sito alla volta, estrarre una foto alla volta e inserirla nel software di riconoscimento che la confronterà con quella di Arlen Fischer. Potresti passare un'intera vita a fare ricerche di questo tipo.» Gino sospirò. «Mi sarei dovuto portare il pigiama.» «Non necessariamente, grazie a Dio», ribatté Grace, mentre le sue dita continuavano a lavorare. «Invece di estrarre le immagini fotografiche dal web, ho inventato un programma che entra nel web e fa la ricerca in quel modo. È ancora lento - posso predisporlo solo per una decina di siti alla volta -, ma è molto più veloce del vecchio sistema. Passerò la foto di Fischer prima nei siti dei watch groups che si occupano di rintracciare i nazisti, perché lì abbiamo le migliori possibilità di trovare qualcosa: hanno in archivio più foto del periodo rispetto a qualsiasi altro sito storico.» Magozzi si accigliò. «A quell'epoca, Fischer era molto più giovane.» «Non importa. La pelle si affloscia, il mento cede, le persone ingrassano, dimagriscono, si sottopongono a interventi di chirurgia estetica e via di questo passo, ma le ossa restano sempre le stesse. Il programma si basa su trentuno punti strutturali rilevanti della faccia; quindi, se anche ti sei fatto ricostruire mandibola e zigomi, resta ancora una ventina di punti d'identificazione che il programma può utilizzare. Non sbaglia mai.» «Mai?» «No, a meno che una persona non abbia messo la testa dentro un mangano e se la sia fatta rifare completamente.» Gino sorrise e diede una gomitata a Magozzi. «Impara presto.» «In un lampo», convenne lui. «È ancora piuttosto rozzo», ammise Grace. «Ma alla fine riuscirete a inserire una fotografia della vostra amichetta preferita di quinta elementare in uno scanner, premerete un tasto e, se esiste una sua foto sul web, il programma la troverà.» Si spostò a un altro computer e tese la mano. «Passami i dati delle vittime straniere. Mentre aspettiamo, avvierò il programma standard di ricerca.» Lo stomaco di Gino emise un rumore simile a una gigantesca eruzione vulcanica. «Ti darei il mio primo maschio per un cracker.»
Grace alzò un sopracciglio. «L'Incidente?» Gino si accigliò e rifletté. «Ti darei una foto del mio primo maschio per un cracker», si corresse. Lei li cacciò via con un cenno. «Lasciatemi lavorare in pace per cinque minuti, poi vi porterò i cracker. Andate a sedervi in soggiorno.» Gino, Magozzi e Charlie si sedettero al tavolo da pranzo, mentre Grace finiva il lavoro. Gino continuava a osservare il cane sulla sedia a capotavola. «Caspita, sta seduto proprio come una persona. È una cosa che ti dà quasi i brividi.» Charlie si voltò a guardarlo. «Quel cane capisce la nostra lingua?» «Accidenti, perché no? McLaren capisce il francese.» Lo stomaco di Gino emise un altro brontolio di protesta. Lui si piegò di lato per sbirciare in cucina, oltre la porta ad arco. «Forse potrei andare là dentro e frugare finché non trovo una crosta di pane o qualcosa del genere.» «Gli armadietti hanno tutti una trappola esplosiva.» «Oh.» Magozzi alzò gli occhi al cielo. «Sto scherzando, Gino.» «Be', ci avevo creduto. In questa casa ci sono più dispositivi di sicurezza che in un caveau.» «Molte persone hanno un sistema d'allarme.» «La maggior parte però non se ne va in giro per casa con una pistola alla caviglia.» «Sta migliorando, Gino.» «Continui a dirlo, ma io non lo vedo.» «Mi ha comprato una sedia.» Gino inarcò un sopracciglio. «Una sedia qui? Una sedia tutta tua?» Guardò dietro di sé, in soggiorno. «Dov'è?» «Fuori.» «E questo non ti dice qualcosa?» «Tu non capisci.» In quel momento, Grace arrivò dal corridoio ed entrò in cucina, dalla quale si levarono vaghi rumori casalinghi. Pochi istanti dopo, la donna comparve in soggiorno, tenendo in equilibrio quattro piatti: tre contenevano un mucchietto di verdure luccicanti sovrastato da grossi pezzi d'aragosta di un colore chiarissimo. Nel quarto, sepolto sotto una specie di sugo grumoso, c'era uno stufato d'agnello. Dal profumo, sembrava il piatto cal-
do più buono che fosse mai stato preparato. Gino puntò proprio quello. «Ha un odore magnifico», disse, rattristandosi non appena Grace lo posò davanti a Charlie. «Altro che cracker.» «Con tutto quello che sta succedendo oggi, ho pensato che non avevate avuto modo di pranzare. Possiamo anche mangiare mentre aspettiamo che il programma tiri fuori qualcosa.» Gino guardò la generosa porzione di aragosta sul piatto e per poco non gli vennero le lacrime agli occhi. «È la cosa più maledettamente deliziosa...» fu tutto ciò che riuscì a dire prima che la forchetta trovasse la via della bocca. Quando ebbe finito, si tamponò gli angoli della bocca col tovagliolo. «Grace MacBride, ti dirò una cosa: dopo la salsa marinara di Angela, questo è senza dubbio il miglior piatto che abbia mangiato in vita mia.» «Grazie, Gino.» «E mi piace anche come hai decorato i piatti con tutta questa roba verde.» «Quella non è una decorazione. Andrebbe mangiata.» «Sul serio?» Gino tastò sospettoso la verdura. «E cosa sono questi piccoli cosi rotondi che sembrano bruchi?» «Provane uno.» Grace glielo indicò con la forchetta. «Dopo ti dirò cos'è.» Gino infilzò una di quelle piccole cose raggomitolate e la portò alla bocca con cautela. Masticò titubante un paio di volte, poi ne prese un'altra forchettata. Il vero parametro per misurare il gradimento di un cibo da parte di Gino era il numero di masticate: per le bistecche erano tre, per la pasta due, per i dessert uno... eppure quella volta Magozzi sarebbe stato pronto a giurare che lui avesse ingurgitato i bocconi interi. «Diamine, questa roba è una cannonata.» Grace continuò a guardarlo, compiaciuta. Magozzi sembrava quasi preoccupato. «Non credo di averti mai visto mangiare qualcosa di verde. Mi ritroverò forse un baccello in macchina?» Gino parve offeso. «Talvolta mangio verdura.» «Come per esempio?» «I ghiaccioli al lime.» Sorridendo a Grace, chiese: «Insomma, dimmi cos'è questa roba, perché me ne devo comprare un po'». «Fiddleheads, cioè punte di felce, in salsa vinaigrette allo champagne con formaggio Comté.» Gino annuì. «Questo spiega tutto: mangerei le scarpe di Leo, se ci versassi sopra lo champagne. Non c'è strada culinaria che non percorrerei.» Si
scostò dal tavolo, intrecciò le mani sull'addome prominente e guardò Grace. «Un giorno sarai un'ottima moglie per il fortunato che ti sposerà.» Grace lo fissò. «È la cosa più sexy che mi abbiano mai detto. Sai che sono armata, vero?» Gino sorrise. «Quella era solo la battuta d'esordio per attirare la tua attenzione.» «Bene. Hai la mia attenzione. Battuta d'esordio per cosa?» «Be', mi stavo chiedendo quali intenzioni avessi.» Gli occhi blu di Grace si spalancarono un po', segnando un sorprendente cambiamento in un volto di solito privo d'espressione. «Come?» «Nei confronti del mio amico, qui. Mi piacerebbe sapere le tue intenzioni. Ah, come puoi notare non sono affatto sessista. In genere fai agli uomini una domanda del genere.» Magozzi si prese la testa fra le mani. «Oh, per amor del cielo.» Gli occhi di Grace tornarono alla dimensione normale. Gino l'aveva colta alla sprovvista - una cosa quasi impossibile -, ma lei si era ripresa velocemente. «E questi sarebbero affari tuoi perché...?» «Perché lui è il mio collega e il mio migliore amico, e colleghi e amici si aiutano a vicenda. E perché vi vedete da quasi sei mesi, accidenti, e immagino che nessuno dei due abbia mai sollevato la questione di dove stia andando questa storia o se mai arriverete al sodo.» Magozzi era imbarazzato e furioso. «Gesù, Gino, sta' zitto.» «Ti sto facendo un favore, Leo. Tu faresti lo stesso per me.» «Mai e poi mai.» Un flebile campanello suonò nello studio. Grace stava ancora fissando Gino con quell'aria indifferente, priva di sentimento, che lo aveva infastidito la prima volta che si erano incontrati. Non riusciva a leggerle dentro, il che lo rendeva sospettoso. Quando il campanello suonò di nuovo, lei si alzò. «Vado a vedere. In cucina ci sono dolce e caffè, Magozzi. Ci pensi tu, vuoi? Sentiti pure libero di rovesciarli in testa a Gino.» Pochi minuti dopo, Gino si era scordato dei misteri di Grace MacBride, intento com'era a fissare una torta a strati con una glassa scintillante di cioccolato. «Gesù, Magozzi, taglia quella dannata cosa. Sto morendo.» «Sei fortunato che non te l'abbia davvero rovesciata in testa. Che diavolo...» «Era un modo d'interessarmi a te.» «Be', lascia perdere. Grace ha ragione. Non sono affari tuoi.» «Be', è la cosa più stupida che abbia mai detto.»
Magozzi lo stava fissando e Gino non ebbe nessun problema a leggere la sua espressione. Sollevò le mani in segno di resa. «D'accordo, forse mi sono spinto un po' troppo in là. Mi scuso e voglio rimediare. Tagliamo la torta e brindiamo alla nostra riconciliazione col cioccolato.» Grace entrò, lanciando una stampata sul piatto di Gino. Intenzionalmente, concluse lui. «Abbiamo un paio di corrispondenze. La prima riguarda una delle vittime dell'Interpol. Charles Swift, muratore in pensione assassinato a Parigi durante uno dei viaggi che le vostre vittime hanno fatto insieme. Il suo vero nome era Karl Franck.» Indicò un punto a metà pagina. «Imprigionato a Norimberga; si è fatto quindici anni per crimini di guerra.» Gino e Magozzi rimasero in silenzio mentre leggevano il paragrafo in questione, assimilando la notizia. «Niente sugli altri?» chiese infine Magozzi. Grace scosse la testa. «Questo è stato preso. Era nel sistema, perciò, quando ha cambiato nome dopo aver scontato la condanna, ha dovuto farlo legalmente, il che ha facilitato il recupero dei documenti. Se gli altri erano nazisti, avevano probabilmente un'ottima copertura.» «Ho detto a Langer che, se i federali volevano questo caso, allora avevano qualcosa che noi non avevamo», intervenne Gino. «Cosa scommettiamo che si trattava dell'informazione su Swift? Davvero un buon lavoro, Grace.» «Non cercare di far pace con me, Gino.» Gli posò un'altra stampata sul tavolo, stavolta con una fotografia in bianco e nero di vari uomini con le inconfondibili uniformi delle SS. Lei aveva segnato una delle facce. «Questo è Heinrich Verlag, altrimenti noto come Arlen Fischer, sessant'anni e sessantacinque chili fa. Era ad Auschwitz.» Magozzi guardò la foto. Finalmente le tessere del puzzle stavano andando a posto. «Morey Gilbert era ad Auschwitz e c'era anche Ben Schuler.» Era la conferma sperata e temuta nel contempo e Grace lesse quell'ambiguità sui loro volti. «Non capirò mai i poliziotti», borbottò. «Siete venuti qui a caccia d'informazioni, io vi do esattamente quello che volete e adesso siete depressi. I vostri vecchietti erano killer di nazisti. È questo che pensavate, vero?» Gino annuì, tetro in volto. «Sì, è questo che pensavamo, ma in fondo speravamo che non avessero ucciso nessuno. Che a farli fuori fosse stato il solito serial killer psicopatico.» La bocca di Magozzi era piegata verso il basso, in segno di cupa rasse-
gnazione. «Erano brave persone, Grace. Ben Schuler era un vecchio che dava biglietti da dieci dollari ai ragazzini dei quartieri poveri. Dovresti sentire i suoi vicini parlare di lui. Rose Kleber era una dolce nonnina che amava la famiglia, il gatto e il giardino. E Morey Gilbert faceva più opere buone in un giorno di quante io non ne farò in tutta la vita. Se dimostreremo che ammazzavano a sangue freddo, tutto questo verrà spazzato via.» Il sospiro di Grace fu d'irritazione. «Sai bene che le persone non sono sempre quelle che sembrano, Magozzi. Inoltre non stavano uccidendo degli innocenti, ma dei nazisti.» Il tono di lei lo sorprese: era stato diretto, pragmatico, una giustificazione noncurante della giustizia-fai-da-te. Gettava una luce sulle grandi differenze che esistevano tra loro. Magozzi avvertì un sussulto al cuore. «Sai qual è la cosa peggiore dei cattivi, Grace? È ciò che riescono a far fare alle brave persone.» Più tardi, quando stavano per andarsene, Grace toccò il braccio di Gino sulla porta e lo trattenne, mentre Magozzi si avviava sul sentiero verso la macchina. «Ci sto provando, Gino», disse in tono calmo, seguendo Magozzi con gli occhi. Gino non era certissimo del significato di quella frase, ma, quando lei lo guardò, per un istante scorse ciò che vedeva Magozzi: una piccola, straordinaria e tormentata donna, che annaspava per rimanere a galla. La cosa lo rattristò molto. Erano ormai in auto quando Langer chiamò Gino. «Abbiamo trovato qualcosa nella casa di Schuler.» 33 Quando Gino e Magozzi entrarono, il comandante Malcherson era con Langer e McLaren presso il lungo tavolo nella sala della Omicidi. Gino fu lieto come non mai nel vedere che indossava il doppiopetto grigio scuro con una cravatta rosso fuoco. «Diamine, capo», esclamò allegro. «È andato a casa e si è messo l'abito da omicidi. Grande.» Malcherson lo guardò. «Non sono andato a casa per mettermi T'abito da omicidi'. Mi sono rovesciato il caffè addosso sull'altro.» Gino continuò a sorridere. Erano tutte stronzate. Malcherson non rovesciava niente, mai. «Sa, molti non riuscirebbero ad abbinare quella cravatta con quel vestito senza sembrare dei mazzieri. Lei invece sì.»
«Grazie di cuore.» Malcherson si allontanò dal tavolo per permettere a Gino e a Magozzi di avvicinarsi. «Langer e McLaren mi hanno ragguagliato sulla pista che avete imboccato. Sembra che Langer abbia trovato la conferma che cercavate a casa di Ben Schuler.» Magozzi guardò le sessanta foto identiche della famiglia di Schuler, ancora incorniciate, disposte sul tavolo. «Le abbiamo viste e abbiamo pensato che fosse una cosa strana. Jimmy Grimm le riteneva una sorta di commemorazione familiare, perché loro erano morti nei campi di concentramento e lui no.» Gino era accigliato. «Non capisco in quale modo confermino che Schuler e gli altri stessero uccidendo dei nazisti.» Langer prese una foto dal tavolo e iniziò a smontare la cornice. «Anch'io ho pensato che fosse strano, perciò ho preso una fotografia e l'ho aperta, perché talvolta la gente nasconde qualcosa nelle foto. Questa è la prima che ho aperto.» Rimosse la foto dal sostegno di cartoncino e la girò per mostrare una scritta filiforme. «Non ho riconosciuto il nome, ma sulla data e sul luogo non ci sono dubbi.» Magozzi socchiuse le palpebre. «MILANO, ITALIA, 17 LUGLIO 1992.» Sollevò di scatto gli occhi su Langer. «È la data dell'omicidio dell'Interpol di Milano?» Langer annuì. «Ho controllato il retro di sei foto oltre a questa e hanno tutte lo stesso tipo di annotazione: un nome, un luogo e una data. Una corrisponde con l'elenco dell'Interpol, tutte le altre con la lista che Grace MacBride ci ha faxato a proposito dei viaggi che Gilbert, Kleber e Schuler hanno fatto insieme all'interno del Paese. Immagino che, quando chiameremo la polizia locale di quelle città e le comunicheremo la data, ci dirà che corrisponde a quella di un omicidio, probabilmente irrisolto, verificatosi in zona.» Gli occhi di Magozzi scrutarono la distesa di foto e, dietro ognuna di esse, videro un cadavere. «Gesù», sussurrò. «Queste fotografie non sono una commemorazione, sono trofei. Una per ogni nazista ucciso. Qui stiamo guardando sessanta corpi.» «Sessantuno», disse Langer. «Non ha avuto il tempo d'incorniciarne una per Arlen Fischer.» Malcherson prese una foto e guardò quei volti di persone morte da più di mezzo secolo. «Non sono trofei, Magozzi, sono offerte alla sua famiglia», mormorò. «Un cadavere all'anno.» Gino sospirò e si cacciò le mani in tasca. «Accidenti, mi è già successo
di essere sconcertato, ma questo mi lascia senza parole. Queste persone si sono date all'omicidio per sessant'anni.» Lanciò un'occhiata a McLaren, che stava aprendo le cornici e rimuovendo le foto. Poi le metteva sul tavolo in quello che sembrava un ordine cronologico. Da quand'erano entrati, non aveva detto niente, ma non sembrava più tanto depresso. Piuttosto era concentrato e forse un po' furioso, il che era un bene. I poliziotti depressi erano abbastanza inutili. «Hai trovato niente a casa di Rose Kleber, McLaren?» «Oh, sì. Una marea di foto delle nipoti, tutte le cartoline che riceveva da chiunque gliele mandasse, sai, le tipiche cose da nonna. Ma niente del genere e nessuna pistola. Un paio di uomini sono ancora sul posto. Io sono tornato quando ha telefonato Langer.» «Anche noi abbiamo portato qualcosa da casa di Grace», disse Magozzi. E posò sul tavolo la stampata degli ufficiali delle SS che Grace gli aveva dato. Mostrò la foto di Arlen Fischer da giovane, quando ancora si chiamava Heinrich Verlag, e riferì ciò che avevano scoperto. Langer prese la foto e la guardò attentamente. «Fischer era la preda più ambita per qualcuno, immagino per Morey o Ben Schuler, dato che erano entrambi ad Auschwitz con questo animale.» «Sì», convenne Gino. «Non voglio neanche sapere che cosa avesse fatto per meritarsi la morte che ha avuto.» «Ma c'è una cosa che mi lascia perplesso», proseguì Langer. «Lo hanno avuto sotto il naso per decine d'anni. Perché hanno aspettato tanto a ucciderlo?» Magozzi si strinse nelle spalle. «Forse sono riusciti a scovarlo solo di recente. Non sappiamo ancora come rintracciassero quelle persone, ma avevano ovviamente un vantaggio su Wiesenthal e sul resto dei gruppi che danno la caccia ai nazisti: Fischer era nei loro elenchi fin dagli anni '50. Oppure è stata una scoperta improvvisa: Fischer era un tipo abbastanza chiuso e l'unico posto che frequentava con regolarità era una chiesa luterana. È quindi improbabile che, nel corso degli anni, Morey Gilbert o Ben Schuler si siano imbattuti in lui. Magari, qualche settimana fa, Fischer ha fatto una passeggiata e uno di loro due è passato per caso in macchina dalle sue parti. Probabilmente non lo sapremo mai.» Gino annuì. «Quindi Morey Gilbert e gli altri vanno a casa di Fischer domenica sera. Hanno pianificato ogni cosa, tanto da portarsi dietro un lettino. Ma Fischer reagisce, forse cerca di scappare. Qualsiasi cosa sia accaduta, qualcuno si fa prendere dal panico e spara. E Fischer si dissangue-
rebbe prima che possano portarlo sui binari.» «Perciò prendono la striscia di stoffa dal tavolino e la usano come laccio emostatico», disse Langer. «Esatto. Poi lo portano sui binari, fanno quello che devono e, poche ore dopo, Gilbert è morto. Il giorno dopo, viene uccisa Rose Kleber e Schuler muore il giorno dopo ancora. Credo che qualcuno vicino a Fischer abbia assistito al fatto e li abbia braccati per pareggiare i conti.» McLaren scosse la testa. «Torna quasi tutto. Nessuno era vicino a Fischer: niente moglie, niente figli, niente amici... Non penso che la padrona di casa abbia inseguito il gruppetto di killer per compiere la sua vendetta.» «Allora dobbiamo andare più indietro rispetto a Fischer», intervenne Magozzi. «Potrebbe trattarsi di qualcuno che li seguiva da un po' - forse di un familiare di una delle prime vittime - e che ha colpito Morey quand'è tornato a casa tardi, quella sera. Dobbiamo chiamare le città indicate su quelle foto, vedere se si riesce ad abbinare un omicidio con una data e poi esaminare con attenzione le famiglie.» Si avvicinarono al tavolo per aiutare McLaren a smontare le cornici. Gino scosse la testa. «Chiamare tutti questi posti, blandire la polizia locale, rintracciare le famiglie... potrebbe volerci un'eternità.» «Lo so», ammise Magozzi. «Dove diavolo è Peterson?» «Maledizione», brontolò McLaren, dirigendosi al telefono più vicino. «È andato con gli altri a casa di Rose Kleber per aiutare nella perquisizione. Gli chiedo di tornare.» «Me ne occuperò io», disse Malcherson dalla soglia, facendo trasalire McLaren. Si era scordato che il capo era presente. «Torni al suo lavoro.» Quella era la qualità migliore di Malcherson, pensò Gino. Quando la situazione diventava pesante, era lui a occuparsi delle banalità, perché era certo che i suoi detective facevano il loro dovere. Inoltre sapeva quando tirarsi indietro e lasciarli agire. Malcherson uscì e, cinque minuti dopo, loro avevano disposto tutte le foto in ordine cronologico senza quasi prestare attenzione alle città, fatta eccezione per quelle comprese nell'elenco dell'Interpol e per Brainerd, nel Minnesota, associata con una data dell'anno precedente. L'ultimo luogo aveva inquietato Gino che, quand'era piccolo, andava proprio lì in campeggio coi boy-scout. Passarono altri cinque minuti, quindi Peterson entrò in gran fretta e rosso in volto. McLaren lo guardò a bocca aperta. «Come diavolo hai fatto ad arrivare così presto?»
«Andando a cento all'ora sulle strade normali. Credo mi stia venendo un attacco di cuore. Malcherson mi ha tenuto al telefono per l'intero tragitto, in modo che sapessi tutto. Datemi qualcuno da chiamare.» Magozzi gli porse una foto. «Iniziamo dalle date più recenti e andiamo all'indietro. Sai cosa fare?» «Certo. Chiamo la polizia locale, trovo un omicidio avvenuto nella data che c'interessa e rintraccio le famiglie.» «Sì, ma ricorda che il nome sulla foto probabilmente non coincide con quello della vittima. Se erano nazisti, vivevano nella clandestinità.» «Okay.» Peterson prese la foto e si diresse alla sua scrivania. «Ehi, Leo, da' un'occhiata a questa.» Gino gli cacciò una foto sotto il naso. «1425, Locust Point, Minneapolis, 14 aprile 1994. Sai chi è? L'idraulico che qualcuno ha trasformato in un colabrodo. Il caso irrisolto che ti ho portato domenica, ricordi?» «Valensky?» «Deve essere lui. Il nome è diverso, però, a meno che non ci sia stato un altro omicidio a quell'indirizzo in quella data, e nessuno me lo abbia detto, si tratta del nostro uomo.» Gino guardò tutte le foto. «Scommetto che, prima di chiudere questo casino, risolveremo molti casi aperti.» McLaren si raddrizzò dal tavolo con un'espressione furiosa sul volto solitamente affabile. «Bene, questa è la fine di ogni speranza. Che Dio lo maledica, mi fa davvero incazzare. Da sempre, Morey Gilbert è sembrato a me e a Langer un dio con una tuta addosso. Invece andava in giro a uccidere nella nostra città.» «Aveva ragioni che probabilmente non capiremo mai, Johnny.» McLaren guardò il collega come se fosse impazzito. «Nella nostra città, Langer. Se qualcuno ha un problema con la gente della nostra città, viene qui e noi ce ne occupiamo. Così dovrebbe funzionare.» Langer lesse la condanna negli occhi di Johnny McLaren e ricordò quando le cose, per lui, erano chiare. L'omicidio era un male. Prendere un assassino era un bene. Era così semplice... O bianco o nero. Erano le aree grigie a creare problemi. In quel momento, capì che, tra loro due, il poliziotto migliore era McLaren. «Muoviamoci», disse Magozzi, afferrando le foto più recenti e passandole in giro. Il telefono suonò nel momento esatto in cui raggiunse la sua scrivania. Dave della Balistica aveva una voce stridula così caratteristica che la riconoscevi subito. In più, in quel momento, era particolarmente tesa. «Sono
sommerso di lavoro, Leo. Però tu e Gino dovevate saperlo subito.» Magozzi fece cenno a Gino di prendere un telefono. «Dave, siamo entrambi in linea. Racconta.» «Ho appena avuto modo d'inserire la Smith & Wesson di Jack Gilbert nel sistema e ho trovato una corrispondenza. La stessa pistola ha ucciso il proprietario di un resort a Brainerd, l'anno scorso. Vi sto inviando il fax in questo momento.» «Bene, Dave. Grazie.» «Aspetta. C'è un'altra cosa. Langer è lì? E McLaren?» «Sono tutti e due qui, ma al telefono.» «Be', lascio a te il messaggio, va bene? Di' loro che mi spiace davvero tanto, non so come sia successo, ma questa settimana è stato un vero inferno, qui in laboratorio. Insomma, hai presente la calibro 45 del caso Arlen Fischer?» «Quella usata negli omicidi dell'Interpol?» «Sì. Be', c'è di più. Poco dopo era saltata fuori un'altra corrispondenza, però si era persa nelle carte. Mi è capitata sott'occhio alcuni minuti fa. Ho faxato anche quella. Di' loro che è la calibro 45 che ha ucciso Eddie Starr.» Magozzi socchiuse le palpebre e, scavando nella sua memoria, riconobbe il nome. «L'Eddie Starr che ha ammazzato la moglie di Marty Pullman?» A pochi metri di distanza, la testa di Langer si sollevò di scatto e il suo volto assunse un'aria gelida. «Quella», confermò Dave. «La moglie di Marty Pullman nonché la figlia di Morey Gilbert... Ma che diavolo succede in quella famiglia?» «Okay. Ti richiameremo.» McLaren alzò lo sguardo e mise il telefono contro la spalla. «C'è una musica registrata. Che succede?» «Dave sostiene che la pistola di Wayzata, quella presa a Jack Gilbert stamattina, ha ucciso un uomo a Brainerd l'anno scorso.» «L'uomo di Brainerd indicato sul retro della foto?» «Non lo sappiamo ancora», rispose Gino. «Ma la vostra 45 è diventata ancora più interessante. È la stessa pistola che ha fatto fuori quel ragazzo, Eddie Starr, l'assassino di Hannah Pullman.» Dalla spalla di McLaren il telefono scivolò sulle ginocchia. «Mi state prendendo per il culo.» Guardò Langer che era ancora al telefono, ma lui stava fissando Gino. «Posso richiamarla, sergente?» disse educatamente, poi riagganciò senza
attendere risposta. «Sembra che avremo un altro caso irrisolto in meno sui verbali», annunciò Gino. «E la triste verità è che quadra perfettamente. Morey Gilbert ha ucciso per anni con quella pistola. Perché non il ragazzo che gli ha ammazzato la figlia?» «Mi chiedo come abbia fatto a scovarlo prima di noi», disse McLaren. «Scherzi? Morey rintracciava nazisti scomparsi da sessant'anni. Probabilmente per lui Eddie Starr è stato una passeggiata. Inoltre è arrivato solo un'ora prima di noi. Starr era ancora piuttosto colorito quando lo avete trovato, giusto?» McLaren annuì. «Più che colorito.» «Vedi? Cosa pensi della pistola di Jack usata per far fuori l'uomo di Brainerd, Leo?» Magozzi si strinse nelle spalle. «Lui ha detto di averla presa a casa del padre e, considerata la storia di Morey, tenderei a credergli.» «Anch'io», disse Gino. «Dato che, oltre a tutto il resto, abbiamo un nesso di carattere balistico, dovrò contattare Brainerd. E quel caso è ancora fresco come una rosa. Langer, hai saputo qualcosa dai colleghi di Los Angeles?... Gesù, Langer, non hai l'aria di stare molto bene.» L'altro gli rivolse un sorriso stanco, poi si alzò e uscì rapidamente dall'ufficio. «Che cos'ha?» McLaren scrollò le spalle. «Ieri ha avuto una specie di attacco d'influenza. Deve essere una ricaduta.» Premette il tasto di fine chiamata sul telefono e schiacciò quello per composizione automatica del numero. «Richiamerò quegli idioti e dirò che sono dell'FBI. Forse stavolta non mi metteranno in attesa.» «Fallo», disse Magozzi. 34 Marty non tirava il fiato da quando Gino e Magozzi avevano accompagnato Jack a casa, quella mattina. La polizia poteva anche pensare che Jack avesse sparato a un fantasma, però Marty aveva quella sensazione viscerale che in passato avvertiva sul lavoro, quando le cose stavano per prendere una brutta piega. Aveva affidato gran parte delle sue mansioni a Tim e Jeff e impiegato tutto il tempo a tallonare Jack con la pistola infilata nella tasca posteriore dei jeans, coperta dalla camicia per non spaventare i clienti.
Come sempre, Lily aveva complicato tutto. Non aveva intenzione di parlare col figlio, ma, a quanto pareva, neppure di lasciare che lo uccidessero. Subito dopo l'uscita di Magozzi e Rolseth, si era piazzata a mezzo metro da Jack e lì era rimasta, come una madre al guinzaglio. Ma anche come una madre nella zona bersaglio. Una volta, Marty si era ritrovato in equilibrio sui talloni, pronto a balzare davanti a loro se una certa signora coi sandali di paglia avesse lasciato cadere il cesto di fiori per trasformarsi in un killer impazzito. Due cose di quel momento lo avevano stupito. In primo luogo, guardava di nuovo tutto con occhi da sbirro e vedeva ovunque potenziali pericoli; in secondo luogo, riusciva ancora a stare in equilibrio sui talloni. A sua memoria, da un anno non riusciva nemmeno più a stare in equilibrio su due piedi. In quell'istante era scoppiato in una sonora risata. Lily e Jack avevano alzato lo sguardo, fissandolo con un'aria strana, forse perché in quei giorni lui non aveva riso molto spesso o più probabilmente perché essere seguiti da un uomo armato poteva rivelarsi un po' inquietante. Perciò Marty aveva recuperato il suo contegno impassibile, ricordandosi sia quanto fosse dannatamente irritante quella faccenda e sia che le due persone da lui protette con tanta attenzione ne erano la causa. In teoria, bisognava sottoporre Jack a custodia preventiva e indurlo a confessare tutto ciò che sapeva. E Lily doveva spingerlo a parlare. Sarebbe stato un bene che si prendessero cura l'uno dell'altra, invece di fare affidamento su di lui per tutto. E invece... Che situazione estenuante. Tre giorni prima, lui versava in uno stato di stordimento alcolico, con una pistola in bocca; adesso era diventato uno pseudopoliziotto, una pseudoguardia del corpo e l'uomo più affaccendato del vivaio. E, maledizione, era quasi una cosa bella, pensò Marty, trattenendosi per un soffio dallo scoppiare di nuovo a ridere. Doveva ammettere che, per un po', quel ruolo di poliziotto era stato più un gioco che una cosa seria. Poi Gino lo aveva chiamato, poco prima delle due, spiegandogli che qualcuno aveva veramente sparato a Jack. In quel momento, tutti gli «pseudo» erano scomparsi e Marty aveva ricominciato a pensare come l'uomo che era stato fino a non molto tempo prima. Non poteva più trotterellare dietro a Lily e Jack, neanche fosse un cane da guardia. Doveva costringere Jack a dire la verità, scoprire chi aveva ucciso Morey, fare il lavoro per cui era stato addestrato e, cosa più importante di tutte, chiudere il maledetto vivaio. «Cosa intendi con: 'Adesso chiudo il vivaio'?» chiesero quasi all'unisono
Lily e Jack. Erano davanti alla serra, intenti a scaricare piante da un pallet su un banco esterno. Nonostante il caldo soffocante, il posto era pieno di gente e le piante scomparivano non appena le mettevano in mostra. Jeff e Tim si occupavano delle casse esterne, davanti alle quali c'era una lunga coda. «Sono arrivati i risultati dei test balistici sui proiettili recuperati a casa di Jack, stamattina», mormorò Marty. «La stessa persona che ha ucciso Rose Kleber e Ben Schuler ha sparato a lui, quindi, in caso il coglione decida di riprovarci, bisogna evitare che i clienti si trovino nel mezzo di un conflitto a fuoco. Perciò chiuderemo questo posto e, d'ora in poi, voi due farete esattamente quello che vi dirò.» Tacque, in attesa di un moto di protesta. Che non arrivò. «Comincio a far uscire i clienti da lì», disse infine Jack. «No, tu vieni con me.» Li condusse entrambi alla panca davanti all'ingresso della serra, li fece sedere e si mise di fronte a loro, rivolto al parcheggio. Lily rimase in silenzio per circa tre minuti. Probabilmente era un record senza precedenti, pensò Marty. «Per amor del cielo, Martin, pensi che staremo seduti qui tutto il giorno?» sbottò infine la donna. Lui non si girò neppure. «Gino sta mandando qui un'auto. Non appena arriva, Jack ci sale su e torna a casa. Poi rimane lì con l'agente. Hai capito, Jack?» «Ho capito.» L'agente Becker entrò nel parcheggio pochi minuti dopo, scese e si presentò a Marty. Era giovane, biondo e aveva un volto ingannevolmente infantile. Ma aveva preso parte alla sparatoria della Monkeewrench, l'autunno precedente e quell'esperienza lo aveva indurito in fretta, rendendolo vigile e pronto. A Marty piacque il modo in cui continuava a guardarsi attorno, a controllare tutto. «Questo è Jack Gilbert», spiegò Marty. «È il bersaglio. Riportalo a casa e resta con lui.» Dopo che se ne furono andati, Marty chiamò Tim e Jeff. «Chiudiamo il vivaio. Accompagnate fuori di qui i clienti.» «Chiudete il vivaio?» domandò Jeff Montgomery. «Esatto.» I ragazzi lanciarono un'occhiata a Lily, che fece un vago cenno d'assenso. «Bene.» Tim Matson scrollò le spalle larghe e guardò le casse. «Finiamo
questi clienti...» «No, chiudiamo adesso, in questo preciso momento. Dite che è un'emergenza di famiglia, scusatevi e fateli uscire. Poi voglio che ve ne andiate anche voi. Non preoccupatevi delle casse o dei nastri. Andate e basta.» Marty sapeva che li stava spaventando - sembravano un paio di orsetti di peluche con gli occhi sgranati e ansiosi - ma era quello che voleva. Due ragazzi spaventati che se ne andavano in fretta a casa, al sicuro. «C'è qualche problema, Mr Pullman?» domandò Jeff. «Perché, se è così, potremmo restare e darle una mano.» «Non potete restare», intervenne Lily. «Qualcuno potrebbe sparare a Jack. Non vi voglio qui, ma al sicuro.» Tim e Jeff la guardarono, increduli, cercando di assimilare l'informazione. Marty sapeva che stavano pensando a Morey ucciso soltanto pochi giorni prima, chiedendosi se e come tutte le tessere del puzzle s'incastrassero e che razza di animale volesse distruggere una famiglia così buona con loro. Si era preparato a una raffica di domande; invece venne fuori che aveva sottovalutato quei ragazzi. Si raddrizzarono entrambi, allargando le spalle e gonfiando il petto. Dopo aver fatto impazzire Marty per giorni, con la sua abitudine di terminare ogni frase con un punto di domanda, Jeff assunse d'un tratto un'aria adulta. «Per questo è venuto quel poliziotto?» Marty annuì. «Un unico poliziotto? Ci lasci restare, Mr Pullman. Ci permetta di dare una mano.» Splendido, pensò Marty. È proprio quello di cui ho bisogno. Un paio di eroi adolescenti. «Sentite, ragazzi. Vi ringrazio per la disponibilità, tuttavia credo che non succederà niente. Siamo solo molto prudenti. Io e l'agente Becker abbiamo la situazione sotto controllo. E l'unica cosa che potrebbe creare problemi è doverci preoccupare di voi due, oltre al resto. Se volete davvero essere d'aiuto, fate uscire i clienti, adesso, e poi andate a casa.» Coi capelli scuri che grondavano sudore, Tim si sedette accanto a Lily. «Neanche lei dovrebbe restare, Mrs Gilbert. Se dobbiamo andare, voglio che lei venga con noi.» Lily sorrise e gli diede un colpetto affettuoso sulla mano. «Siete due bravi ragazzi. Smettete di preoccuparvi. Domani porteremo Jack in un luogo sicuro e ogni cosa tornerà alla normalità.» Mentre Tim e Jeff iniziavano a far uscire i clienti, Marty chiese a Lily: «Come facciamo?»
«Come facciamo cosa?» «A portare Jack in un luogo sicuro.» «Facile. Lo convincerai.» «Non abbiamo abbastanza scotch per quello.» «Ne ho una cassa nel seminterrato.» 35 Tim e Jeff impiegarono mezz'ora a far uscire tutti i clienti dalle serre e dalla proprietà. Si comportarono bene, in modo molto professionale, pensò Marty, usando la strategia dell'emergenza di famiglia, parlando con un'espressione afflitta che stroncò qualsiasi moto d'irritazione prima ancora che si manifestasse. «Mi spiace tanto», sentì ripetere, mentre la gente si avviava alle auto. Probabilmente molti sapevano dell'omicidio di Morey, avvenuto la domenica precedente, e l'idea di un'altra sventura abbattutasi su quella famiglia ebbe un effetto calmante. Un numero incredibile di persone chiese se poteva fare qualcosa. Non era semplice bontà minnesotana, era la bontà della gente, e quel fatto ricordò a Marty che la bilancia pendeva ancora a favore del bene e che il male era limitato. Quando passavi gran parte della tua esistenza a fare il poliziotto, quasi tutte le giornate trascorrevano all'ombra del male, ed era un bene che qualcosa te lo ricordasse. Fin quasi all'ultimo Tim e Jeff cercarono di restare. Si offrirono di sorvegliare la proprietà per tutta la notte, se non per impedire eventuali guai quantomeno per individuarli. L'idea di quei due ragazzi in giro per la proprietà al buio fece rabbrividire Marty, perché la sensazione che potesse accadere qualcosa si stava facendo più forte di minuto in minuto. Era colpa del tempo, rifletté, mentre spediva i ragazzi verso le loro vecchie carrette e li cacciava dal viale, chiudendo poi il cancello alle loro spalle. Le grosse nubi non c'erano ancora - si scorgeva soltanto una caligine bianca e sottile che offuscava il sole a mo' di cataratta -, ma le sentivi arrivare dalla pressione al petto, come quando dal dentista ti mettevano quel grembiule di piombo per farti una radiografia. L'aria era densa, quasi irrespirabile, e le foglie pendevano inerti da alberi e cespugli. Marty si guardò attorno nel parcheggio - c'erano soltanto la sua Malibu, la Mercedes di Jack e l'auto della polizia di Becker - e poi, soddisfatto, girò attorno alla grossa serra, dirigendosi alle aiole sul retro. Lily Gilbert aveva sempre odiato le linee rette che gli uomini tracciavano nel mondo. Le linee erano cose autoritarie, inesorabili, segni indicativi
di tirannia. File di colture, file di edifici e poi file di persone mute, immobili, impaurite. La parte anteriore del vivaio aveva quella sorta di ordine rigido: la serra principale era allineata con la strada, la siepe col marciapiede, le linee bianche del posteggio indicavano alle auto dove andare. Davanti alla serra lei aveva dovuto accettarle perché il posto era già così quando lo avevano comprato, ma sul retro, dove i precedenti proprietari avevano allineato vasi e piante come schiavi sottomessi, Lily aveva distrutto l'ordine di linee rette, creando un allegro caos. I sentieri di ghiaia vagavano come ubriachi sonnolenti tra le fioriere con alberi e cespugli, curvando attorno alle aiole perenni che fornivano le piante madri; nelle «aiole madri», così le chiamava Morey, i semi di un singolo fiore producevano centinaia di piantine che venivano messe in vendita la primavera seguente. E, in piena estate, piccole foreste di piante ornamentali affollavano i sentieri, incombendo sui bambini divertiti che si chinavano per passare sotto le chiome ondeggianti, cariche di semi, mentre seguivano i tortuosi tracciati di quel grazioso e caotico labirinto della natura che l'odio per le linee di Lily aveva creato. La donna aspettava il ritorno di Marty seduta su una panchina circondata da lillà in vaso. Aveva accelerato la fioritura di alcuni cespugli, in modo che i clienti potessero vederne il colore, ma in gran parte quelle erano ancora piante dall'aspetto comune, senza fiori, con foglie normali. Le «piante del contadino», le chiamava Lily, segretamente compiaciuta quando, ogni primavera e per due brevi settimane, le più umili si vestivano come sfarzosi monarchi. Per essere un uomo corpulento, Marty si muoveva con discrezione, ma il vivaio era così silenzioso che Lily ne udì le scarpe scricchiolare sulla ghiaia. Poi avvertì il peso dell'uomo al suo fianco, sulla panchina. «Cercherò di convincere Jack ad andare in un hotel per qualche giorno», disse Marty. «Bene. Potrei prendermi una vacanza e tu potresti unirti a noi. Chiedi una suite con cucina.» «Vorrei pure che stessi lontana da Jack finché tutto questo non sarà finito, Lily.» Lei si girò a guardarlo. Di solito, Lily si muoveva con tale rapidità che era impossibile considerarla una donna anziana, ma la tensione di quei giorni la stava logorando. Marty scorse sul suo volto i segni dell'età, che cancellavano ogni illusione di forza. Era la prima volta che la vedeva come
una fragile donna mortale, proprio come tutti loro. «Se Jack va in albergo, ci vado anch'io.» Marty fece un vago sorriso. «Quindi sei di nuovo una mamma.» «Quando hai un figlio, anche se è un idiota, sei sempre una mamma, al di là di tutto. Non è una scelta volontaria.» Marty pensò a Lily e a Jack chiusi in una stanza d'albergo con un agente alla porta. L'idea gli piacque. «L'unica cosa brutta dell'albergo è che per te, Marty, è stato un bene essere qui. Vuoi sapere come lo so?» «No.» «Lo so perché bevi di nuovo come una persona normale. Un cicchetto la sera, forse, e basta.» «Non riesco a pensare e a bere.» «Allora, a cosa pensi?» «Voglio scoprire chi ha ucciso Morey.» Si voltò e la guardò con durezza. «Tu no?» Lei tese le labbra a tal punto che quasi scomparvero. «Sai, è buffo, Lily. Se qualcuno viene ucciso, la famiglia di solito tormenta la polizia, chiama, va al Dipartimento, chiede come vanno le indagini, se c'è un indiziato...» «Come avete fatto tu e Morey quando Hannah è stata uccisa», lo interruppe lei con voce stranamente gelida. Marty chiuse gli occhi per qualche istante. «Non sei mai venuta con noi, non hai mai chiesto nulla. Era come se io e Morey fossimo soli in quella vicenda. E adesso lo stai facendo di nuovo. Morey è morto da tre giorni e tu non hai mai dimostrato il minimo interesse per scoprire chi potrebbe averlo ucciso. Davvero non capisco.» Lily si riempì i polmoni d'aria greve e guardò i lillà. «Lascia che ti dica una cosa, Martin. Per me, che sia il cancro, la guerra o un uomo armato di coltello o di pistola, un morto è un morto. La morte è la fine. Sono passati sette mesi da quando l'uomo che ha ucciso Hannah è stato ammazzato. La tua vita è migliorata, adesso che luì è sotto terra? Per me, no. Quella persona non era niente. Seppelliscine altri diecimila come lui e questo» - si batté il petto - «resta vuoto.» Marty puntò i gomiti sulle cosce e si prese la testa fra le mani. «Ma sono contento che sia morto», sussurrò. Lily scosse la testa. «Voi uomini... Volete sempre sapere chi ha fatto una cosa terribile, in modo che qualcuno possa fargliela pagare. Per gli uomini
è sempre stato così: occhio per occhio. Come se facesse differenza.» Quando Marty e Lily arrivarono alla casa, camminando lentamente, oppressi dal tempo e dal tono della conversazione, Jack era già avviato a prendersi una sonora sbronza. Era seduto al tavolo di cucina con una bottiglia di Glenlivet in una mano e un bicchiere nell'altra, intento a dare consigli legali non richiesti all'agente Becker. Dal canto suo, il giovane poliziotto era occupato a osservare la persona che gli era stata affidata, le finestre, la porta. Marty suppose che li avesse individuati prima ancora che si avvicinassero alla casa. «Marty, vecchio mio, sono contento che tu sia qui. Il nostro amico Tony è simpatico, ma è anche un po' rigido, sai? E mi sta rendendo nervoso con tutto quel saltellare in giro, sbirciare dalle finestre e roba del genere.» «È il suo lavoro, Jack. Salvare la tua miserevole vita.» Jack ridacchiò. «Per questo è un po' tardi.» «Subito dopo cena, andremo tutti in un hotel.» «Come preferisci, Marty», disse Jack, alzando il bicchiere. «Nel frattempo, bevi qualcosa con me. Renderò il tuo mondo un luogo migliore.» Era un po' tardi anche per quello, pensò Marty, osservando Lily lanciare un'occhiata penetrante a Jack, che si dileguò in soggiorno con Becker alle calcagna. Mangiarono un'infinità d'insalate fredde e di piatti di carne portati da amici e vicini premurosi. «Cibo da funerale» lo chiamava Lily, mentre preparava un piatto per il riluttante Becker e Marty ne preparava uno per Jack, che probabilmente non avrebbe mangiato. Dopo cena, Marty andò al piano superiore, si fece una doccia, si vestì e mise nella sacca alcuni abiti. Nell'ambiente circoscritto di un hotel, con un agente di guardia alla porta, Jack e Lily sarebbero stati perfettamente al sicuro. Non c'era nessun motivo logico per andare con loro, se non quell'improvvisa sensazione di appartenenza: erano la sua famiglia. Una famiglia problematica, certo, eppure quei due erano tutto ciò che lui aveva e, a dire il vero, tutto ciò che aveva mai avuto. Andò nella cabina armadio per prendere la sua camicia preferita - quella bianca, di lino e a maniche corte che Hannah gli aveva regalato per il compleanno l'anno precedente -, questa scivolò dall'appendiabiti e cadde a terra. Lui si chinò a raccoglierla e fu allora che vide una vecchia cassetta rossa di metallo, da pescatore, nell'angolo in fondo all'armadio. «Che mi venga un colpo», mormorò, tirandola fuori, ricordando l'incre-
dulità che aveva provato quando Lily gli aveva detto che Morey andava a pesca con Ben Schuler. Sganciò il fermaglio e aprì il coperchio: c'era una fila di esche, ami e galleggianti ancora chiusi nelle confezioni di plastica, infilati negli scomparti puliti del vassoio superiore. Marty non sapeva granché di pesca, però non ci voleva un genio per capire che bisognava togliere le esche dalle confezioni per usarle. Quella non era la cassetta di un vero pescatore. Si sorprese a sorridere. In cuor suo, sapeva che Morey, col suo rispetto per ogni forma di vita, era incapace d'infilzare un verme vivo con un amo. Tuttavia l'affermazione di Lily era stata tanto decisa da mettergli una pulce nell'orecchio. Quegli strumenti, almeno in apparenza, dimostravano che Morey era stato esattamente l'uomo che sembrava. Forse si era anche seduto su un molo o in una barca con Ben Schuler, però Marty era pronto a scommettere qualsiasi cosa che non aveva mai gettato una lenza in acqua. Anzi, quando Ben non guardava, probabilmente liberava i ciprinidi. Sollevò il vassoio superiore per la maniglia e si ritrovò a fissare un sacchetto trasparente per alimenti con dentro un passaporto. Dalla foto all'interno della copertina, Morey Gilbert gli sorrideva. Non era il giovane Morey, arrivato in America alla fine degli anni '40. Era il Morey che Marty aveva conosciuto. Controllò la data di rilascio - otto anni prima - e sfogliò le pagine, accigliandosi sempre di più a ogni timbro. Poi se lo infilò in tasca. Sul fondo della cassetta c'era un piccolo involto di stoffa, tutto sporco. Marty tirò un angolo della stoffa e arretrò di scatto quando l'oggetto all'interno cadde in terra. Il cuore prese a martellargli nel petto. Rivide Morey, sulla porta di casa sua, col braccio teso e con un sacchetto di carta in mano. Era successo esattamente un mese dopo l'omicidio di Hannah. «Questa è per te, Marty.» «Che cos'è?» «È l'eredità di Jack quand'era mio figlio. Non l'ha voluta, perciò è tua.» «Non prenderò l'eredità di Jack, Morey... Ma... dove l'hai trovata?» «Bella, vero? È una Colt governativa modello 45-A. Impugnatura standard di madreperla. Ha più di sessant'anni. L'ho presa a un nazista morto, che aveva probabilmente ucciso un ufficiale americano per averla. È la cosa più preziosa che possiedo, Martin. È la mia eredità.» Marty si sedette sul pavimento della camera a riprendere fiato, a fissare
la calibro 45 con l'impugnatura di madreperla assurdamente conservata sul fondo di una cassetta da pescatore. Non si era aspettato di rivedere quell'arma. Non si rese conto di aver allungato la mano finché non sentì la madreperla liscia sotto il palmo. La struttura, il peso, la lieve tacca nella curva del grilletto. Era tutto uguale. Esattamente uguale all'ultima volta. Nella stanza c'era puzzo di urina, di fumo e l'odore acre, inequivocabile, di qualcuno che stava cuocendo morte. Un ratto gli era passato davanti, si era fermato e lo aveva guardato, poi era proseguito con andatura tranquilla. Aveva osservato la sua stessa ombra muoversi lungo il muro, un'ombra che si avvicinava e scuriva i lunghi e radi capelli biondi della non-creatura che se ne stava lì, accasciata, infilandosi un ago nel braccio. E poi aveva visto quegli occhi che non avrebbe più scordato, le mani pallide, nerborute che avevano tagliato la gola di Hannah, e quindi ancora la Colt che si alzava fino alla sua traiettoria visiva, che mirava alla fronte di Eddie Starr a mo' di dito accusatore. Quando aveva premuto il grilletto, gli era parso che il fuoco balzasse fuori dalla bocca dell'arma, però quel fatto non lo aveva colto di sorpresa. Era rimasto lì per lunghi istanti a osservare con occhi vuoti il sangue che colava sul muro. La mattina dopo Marty era andato al vivaio e aveva restituito la pistola a Morey. Era troppo preziosa, aveva detto, faceva parte della storia di famiglia, non poteva tenerla. Quel pomeriggio aveva comprato la 357 e iniziato a progettare il suicidio. Adesso era calmo, forse più calmo di quanto non fosse da mesi. Avvolse con cura la pistola, la rimise nella cassetta, che risistemò nell'angolo della cabina armadio. A un certo punto, negli ultimi tre giorni, aveva deciso che aveva ancora una famiglia, che aveva ancora degli obblighi e che, sorprendentemente, voleva vivere. Perciò avrebbe consegnato la pistola e se stesso, avrebbe pagato il prezzo di quello che aveva fatto perché così doveva essere. Ma non subito. 36 Alle cinque, Magozzi vide i cumulonembi ammassarsi fuori dalla finestra, come se qualcuno avesse scaricato un sacco di batuffoli di cotone
sull'orizzonte occidentale. Dopo la sua frettolosa uscita dall'ufficio di qualche minuto prima, Langer era tornato e sembrava un po' pallido, ma in forma. Da quel momento erano rimasti attaccati al telefono. Avevano avuto conferma di una serie di omicidi irrisolti verificatisi nelle date segnate sulle venti foto più recenti recuperate a casa di Ben Schuler e chiesto alla polizia locale di darsi da fare per rintracciare i familiari, ma adesso si trovavano davanti a un muro. Molti dei documenti più vecchi in mano alle forze dell'ordine erano archiviati in scatole polverose in qualche magazzino e gran parte dei detective che se ne erano occupati era da tempo in pensione. Magozzi non era particolarmente preoccupato. Da come la vedeva, se un familiare avesse voluto vendicare un parente che Morey, Rose e Ben avevano ucciso, non avrebbe aspettato tanto. Sempre ammesso che si trattasse di un familiare. Non c'era nulla che provasse la correttezza di quella teoria. Forse si erano semplicemente impantanati e non stavano andando da nessuna parte. Ma dieci minuti prima si era imbattuto in qualcosa d'interessante e ora stava tamburellando sul tavolo, in attesa che il telefono squillasse. «Figlio di puttana», esclamò Gino, sbattendo il telefono. «Lo sceriffo di Brainerd è fuori ufficio da due ore. Vuoi sapere perché? È su qualche lago con quasi tutti gli altri agenti della contea per salvare un cervo che ha rotto il ghiaccio ed è sprofondato nell'acqua.» Magozzi guardò la città che sfrigolava nella calura. «Da loro c'è il ghiaccio?» «Scherzi? È aprile. Avranno il ghiaccio per un altro mese. Inoltre loro sono a nord del fronte caldo, non hanno avuto la nostra calura. Sai che cosa mi ricorda? Hansel e Gretel.» «Questo me lo devi spiegare.» «Dai, è ovvio. La vecchia strega tiene i bambini per un po' per farli ingrassare prima di mangiarli. È proprio quello che fanno quei tizi: salvare un cervo che, nella prossima stagione, qualcuno di loro ucciderà per mangiarselo. E nel frattempo io me ne sto seduto qui a girare i pollici, con sessanta omicidi irrisolti...» Il telefono di Magozzi squillò, interrompendo la tirata di Gino. Magozzi ascoltò per un istante, poi posò il ricevitore sul petto. «Di' a tutti che interrompano le chiamate. Forse abbiamo qualcosa.» Pochi minuti dopo Langer, McLaren e Peterson si avvicinarono. «Secondo l'elenco di Grace, alcuni anni fa, Morey Gilbert, Rose Kleber
e Ben Schuler hanno fatto un viaggio a Kalispell, nel Montana. Però sulle foto di Ben Schuler non è indicato nessun omicidio nel Montana. Ho quindi chiamato le locali forze dell'ordine, solo per controllare: non ci sono stati omicidi nel giorno in cui i nostri tre erano lì, tuttavia c'è stata una sparatoria. Un vecchio strambo che vive nei boschi col figlio adulto - a quanto sembra sono survivalisti o roba del genere - arriva in ospedale con un proiettile calibro 45 nella gamba. L'unica cosa che ha saputo dire alla polizia è che un pick-up nero si è accostato alla sua capanna e che qualcuno ha aperto il fuoco su di lui e sul figlio mentre loro due erano seduti nel portico. Nessuno dei due ha notato la marca o la targa.» «O forse l'hanno notata, ma non l'hanno comunicata alla polizia», borbottò Gino. «Non credo che ai survivalisti piaccia l'idea che le forze dell'ordine s'interessino dei loro affari. Quei tizi ci odiano.» McLaren emise un lieve fischio. «Uau. Allora forse ne hanno lasciato uno in vita.» «È possibile. Il vecchio aveva l'età giusta. La cosa più interessante è che lo sceriffo ha fatto un rapido giro da quelle parti e, quando non c'era nessuno, ha parlato con un vicino. Sembra che il vecchio e il figlio se ne siano andati col loro camper un paio di settimane fa, presumibilmente a Las Vegas, ma il vicino pensa che sia un po' strano perché non lasciavano la proprietà da vent'anni e, per quanto ne sa lui, non sono giocatori.» Langer si alzò. «Hai una targa?» «Ho quella e i nomi.» Magozzi gli passò un foglio. «Langer, perché non ti occupi di Las Vegas? Dirama una segnalazione sulla targa e, con le belle maniere, cerca di convincere qualcuno a fare un giro nelle aree riservate ai camper. McLaren, tu invece dirama una segnalazione qui. Il resto di noi consulterà le pagine gialle e si dividerà le aree riservate ai camper attorno alle Twin Cities.» Lo sceriffo di Brainerd intercettò Gino tra una chiamata e l'altra e lo tenne al telefono per un quarto d'ora. «La buona notizia è che il cervo sta bene», disse Gino a Magozzi dopo aver riagganciato. «Che sollievo.» «La cattiva è che lo sceriffo era felicissimo all'idea che avessimo una pista per rintracciare gli assassini del proprietario del resort e depresso come non mai quando gli ho detto che erano morti. Avrebbe voluto tirare loro il collo di persona.» «Conosceva la vittima?»
«Sì. Un gran lavoratore, una persona buona e onesta. Il vecchio aveva una moglie e due figli, uno alle superiori, uno al college, in California. Sei mesi dopo la sua morte, il resort è fallito e la moglie si è uccisa.» «Oddio.» «Non è finita. Il ragazzo al college è morto in un incidente d'auto mentre tornava dal funerale della madre.» Magozzi lo fissò. «Te lo sei inventato?» «Sarebbe bello. A ogni modo, il ragazzo che va a scuola ha avuto un comprensibile esaurimento nervoso ed è andato a vivere con alcuni parenti del padre in Germania, per cercare di rifarsi una vita.» «In Germania?» «Già. È un collegamento con la storia dei nazisti. Lo sceriffo ripescherà il dossier e ci faxerà tutto.» Gino emise un sospiro e scostò il notes. «La sai una cosa? Forse il vecchio era un delinquente e, senza di lui, il mondo è diventato un posto migliore. Ma la moglie e i figli? Che cos'hanno fatto? Viene da chiedersi se Morey e i suoi si siano mai fermati a riflettere sui disastri che si lasciavano alle spalle.» Magozzi pensò alle sessanta fotografie, ai sessanta gruppi di bambini che forse ignoravano che il loro padre era un nazista. «Hai modo di rintracciare il figlio sopravvissuto?» «Ho di più. Ieri, il ragazzo ha chiamato lo sceriffo. Dopo che le cose hanno cominciato ad andare male, i due sono diventati amici e si tengono ancora in contatto. Mi ha dato un numero. Credi che debba telefonare?» «Penso di sì, solo per essere certi che sia ancora lì, per depennarlo dalla lista.» Gino prese il telefono. «Oh, happy day!» Fuori dalla finestra i cumulonembi erano diventati ancor più spessi e si stavano scurendo, avvicinandosi. Langer si alzò dalla sedia e accese le luci. 37 Per Marty fu difficile lasciare la camera dove Hannah aveva dormito da bambina. Anche se in quella stanza non rimaneva niente di lei, aveva osservato le pareti, la maniglia e il vecchio vetro ondulato delle finestre, sapendo che lei aveva visto le stesse cose migliaia di volte, che ovunque andasse lei aveva percorso quei passi prima di lui. Dopo aver rimesso la calibro 45 di Morey nella cassetta da pescatore, non riusciva più a sentire
Hannah al suo fianco: era come se avesse visto la pistola e la storia che racchiudeva e avesse lasciato la stanza per sempre. Dopo, era rimasto seduto a lungo a gambe incrociate sul pavimento, abbandonandosi alla sensazione di vuoto, mentre il mondo fuori dalle finestre diventava scuro. Dovette accendere la luce per finire di preparare la sacca, poi la spense quando scese al pianterreno, lasciandosi alle spalle la stanza buia. Trovò Lily sola in soggiorno, il volto duro nella luce di una lampada da tavolo. Stava guardando una partita di baseball senza l'audio. L'allerta meteo scorreva in fondo allo schermo accanto a una mappa in miniatura dello Stato. Quasi tutte le contee erano colorate di arancione. «Dove sono Jack e Becker?» le domandò. «Sono andati nella serra. Jack aveva lasciato là la borsa.» «Quanto tempo fa?» «Poco dopo che sei salito di sopra.» Marty lanciò un'occhiata all'orologio e si accigliò, cercando di ricordare quand'era salito a farsi la doccia e preparare la sacca. «Sono fuori da circa un'ora», aggiunse lei. «Sei stato tanto, lassù, Martin... Dove vai?» «Fuori a prendere Jack. Prima di andar via, gli voglio parlare.» «Fallo in macchina o in hotel.» «Senza offesa, Lily, ma, se sa qualcosa di chi ha ucciso Morey, non credo che ne parlerà davanti a te.» Lily sbuffò. «Non è che con te si sia aperto molto o sbaglio?» «Adesso credo di avere un po' più d'influenza.» Quella frase la fece leggermente sussultare. «E l'hai trovata sotto la doccia?» «Dopo che sono uscito, chiudi la porta a chiave.» «Non essere sciocco. Nessuno ha sparato a me. Io sono la buona della famiglia.» Marty sorrise. Non poté farne a meno e probabilmente quella era l'intenzione di Lily. «Parlo sul serio, Lily. Ho già chiuso la porta posteriore e resterò davanti a quella d'ingresso finché non ti sentirò girare la chiave. E prepara la borsa per una notte.» Lily sospirò, irritata, e si alzò, seguendolo fino alla porta. «L'ho già preparata. In cinque minuti. Voi uomini siete così lenti... È un miracolo che riusciate a portare a termine qualcosa.» Marty sentì il sudore imperlargli la fronte nel momento stesso in cui mi-
se piede all'esterno. C'era ancora una calura irrespirabile, opprimente. Le nubi a ovest erano diventate nere e avevano accelerato il crepuscolo. C'era quella luce strana, grigiastra che precede sempre un temporale estivo e altera i veri colori del mondo come un paio di occhiali da sole da poco prezzo con le lenti gialle. Il sentiero tortuoso che conduceva dalla casa alle aiole sul retro appariva in ombra, ingrigito e smorto in quella luce. Marty aveva aiutato Morey a stendere la ghiaia, ad azionare il Bobcat, a scaricare il materiale cercando di non ribaltarlo quando sollevava la lama. La ghiaia stessa era un'assurda stravaganza, portata da una cava nei pressi del confine canadese dove quarzo, agata e altri minerali avevano dipinto la roccia con venature lucenti di rosa, porpora e giallo. Era quasi svenuto quando Morey gli aveva detto il costo. «Ma la roccia economica è tutta grigia, Martin, e la vecchia odia il grigio. È una cosa che risale al campo, penso. Là tutto era grigio, niente luccicava. Vedi come luccica la ghiaia al sole? Questa le piacerà. La farà contenta.» Era stata l'unica volta in cui Morey aveva detto qualcosa del periodo di Auschwitz e Marty aveva apprezzato molto quella rivelazione, il vero motivo per cui il sentiero di ghiaia doveva essere luccicante. A Hannah non piaceva granché; riteneva quella ghiaia artificiale, anche se era vero il contrario. Jack pensava semplicemente che fosse vistosa. Marty però conosceva la storia e la serbava con cura, come un dono. Lily la rastrellava quasi ogni giorno. Non era mai riuscito a definire il rapporto tra Morey e Lily. Se era amore, era di natura diversa rispetto a quello che lui aveva scoperto con Hannah. Cercò di ricordare se li avesse mai visti baciarsi o abbracciarsi o anche solo tenersi per mano, ma non gli venne in mente nulla. Eppure, tra loro, c'era una serie di piccole, bizzarre tenerezze: la ghiaia colorata per Lily, gli strani cetrioli speziati che lei preparava ogni mattina per Morey, l'unico che li mangiasse... Trovò Jack e l'agente Becker nell'ufficio senza finestre dietro il capanno per l'invasatura. La lampada sul tavolo era accesa e gettava lunghe ombre sui muri, lasciando alcune chiazze di buio totale negli angoli. Jack sedeva scompostamente sul divano rovinato, con la faccia ebete e rossa per l'alcol e il sole, e con l'onnipresente bicchiere in mano. Becker era sulla porta esterna, mezzo dentro e mezzo fuori dall'edificio, tanto che le prime gocce di pioggia gli caddero sulle spalle della divisa. La porta interna che conduceva al capanno per l'invasatura era chiusa con le serrature di sicurezza.
«Ehi, Marty!» Jack batté la mano sul cuscino al suo fianco, facendo scricchiolare il rivestimento di plastica. «Rilassati.» Recuperò un altro bicchiere dal pavimento vicino al divano e una bottiglia di Balvenie chiaramente trafugata da casa. L'agente Becker si fece da parte, in modo da lasciar entrare Marty. «Il detective Rolseth mi ha detto che è armato, signore. Adesso ha un'arma con sé?» Marty annuì e sollevò l'orlo della camicia di lino bianco, rivelando la 357 scomodamente infilata nella cintura. «Non è il posto migliore per portarla, signore.» «Non me lo dire. Hai perso il cambio di turno?» Il giovane poliziotto parlava senza guardarlo, con gli occhi che si muovevano costantemente per scrutare le ombre sempre più scure all'esterno. «Pensavo di aspettare che vi sistemaste nell'hotel e poi di chiedere il cambio.» Marty annuì. Gli piaceva il modo in cui Becker si comportava, il fatto che prendesse sul serio l'incarico. «Sono contento che tu sia con noi.» «Grazie, signore. Sono tutti pronti?» Marty lanciò un'occhiata a Jack, assorto a bere il suo whisky. «Vorrei parlare un minuto in privato con Jack, se per te va bene.» Becker non sembrò molto felice all'idea e abbassò la voce. «A dire il vero, Mr Pullman, dopo aver passato il pomeriggio con Mr Gilbert, non vedo l'ora che sia chiuso a chiave in una stanza d'albergo con un agente alla porta. Non fa che saltellare di qua e di là e non sembra preoccupato neanche la metà di quello che dovrebbe essere, dato che stamattina ha schivato un proiettile.» «Rilassati, Supersbirro», biascicò Jack dal divano. A quanto pareva, aveva ascoltato con più attenzione di quanto Marty avesse immaginato. «Quel tizio non ama il pubblico. Spara a vecchiette sole nelle loro case o si nasconde dietro gli alberi per tirare a casaccio, quel vigliacco d'un bastardo.» Becker alzò un sopracciglio e guardò Marty, il quale annuì, pensando che probabilmente quel ragazzo sapeva molto poco oltre al fatto che qualcuno aveva sparato a Jack. «Finora è andata così», disse Marty. «Bene, allora mi allontanerò dall'edificio e vi lascerò un po' di privacy. Ma terrò sempre d'occhio la porta.» «Grazie, Becker.» Marty lo guardò allontanarsi tra le file di tuie in vaso
finché il giovane non fu che un'altra ombra. La pioggia si era già interrotta. Marty chiuse la porta, si avvicinò al tavolo e si sedette sulla sedia, scuotendo la testa all'indirizzo di Jack che gli aveva allungato un bicchiere, versando scotch su tutto il pavimento. «No, grazie.» Jack si strinse nelle spalle e iniziò a bere da quel bicchiere, benché tenesse il suo nell'altra mano. «Hai chiamato Becky per dirle dove vai?» «Becky? Mia moglie?» «Lei.» «Be', diamine, Marty, sarebbe come chiamare Mr Fischer, il macellaio, e dirgli dove vado. Mi risponderebbe: 'Che cazzo me ne frega?' Perciò, se proprio vuoi che chiami qualcuno, credo che sceglierò il macellaio.» «Non parli in modo molto logico.» «Probabilmente no. Mezza bottiglia di scotch ti fa scherzi del genere. Da come la vedo, morirò intossicato dall'alcol nel giro di una decina di minuti. Spararmi sarebbe un di più.» «Non è divertente.» «Certo che lo è. Sdrammatizza un po'. Il punto è che ieri sera Becky mi ha salutato alzando il medio e questo è avvenuto prima della sparatoria all'OK Corral. Sayonara, vaffanculo, ci vediamo in tribunale. Non mi ha nemmeno lasciato entrare in casa, perciò ho dormito nel capanno della piscina e mi sono fatto la doccia col tubo di gomma.» Marty espirò e allungò la mano per prendere uno dei bicchieri pieni a metà che Jack maneggiava a mo' di giocoliere. «Mi spiace.» «Mah. A ogni modo, quella casa l'ho sempre odiata. Quella checca di architetto cui Becky si è rivolta si è ispirato al tema delle rane per il bagno principale. Ci credi? È come cagare nel bel mezzo di uno spot della Budweiser.» Si scolò il bicchiere e lo riempì di nuovo. «Ne vuoi?» «No. Voglio che tu mi dica perché Morey è andato a Londra.» «Come?» «O a Praga, a Milano, a Parigi.» Gli gettò il passaporto di Morey e Jack trasalì quando gli arrivò sulle ginocchia. «Che diavolo è?» «È il passaporto di Morey, no? L'ho trovato in una cassetta da pescatore in una cabina armadio.» «Papà aveva il passaporto?» Jack lo aprì e socchiuse le palpebre. «Dio mio, che carattere piccolo... È Parigi o Praga? Quei maledetti mangiarane non sanno nemmeno usare un timbro senza sbavarlo...»
«È Parigi. Ci è rimasto un giorno. Non che negli altri posti sia restato di più. Da quando Morey si è dato ai viaggi internazionali?» Mentre sfogliava le pagine, Jack continuava a bere. «È andato a Johannesburg?» «Mi stai dicendo che non sapevi di questi viaggi?» «Di questi?» Jack gettò il passaporto sul cuscino accanto a sé. «No. Non ne sapevo niente. C'è altro? Ora possiamo uscire? Con la porta chiusa, qui fa più caldo che all'inferno.» «Perché Morey ha nascosto il passaporto in una cassetta da pescatore? Perché ha fatto una serie di viaggi intercontinentali per tornare indietro il giorno dopo? Che diavolo è andato a fare in quei posti, Jack?» «Lo sapevo. Sapevo che sarebbe successo. Non avevo ragione? Puoi annullare l'uomo nel poliziotto, ma non viceversa e adesso tu ti stai comportando come un maledetto sbirro. Allora, che facciamo, Marty? Giochiamo di nuovo all'interrogatorio? Vuoi spostarti nel capanno degli attrezzi? Lì c'è una lampadina attaccata a un filo. Potresti farla ondeggiare, come nei film...» Marty chiuse gli occhi e bevve un sorso dal bicchiere. «Che ne dici di saltare tutte le stronzate e di dirmi la verità, Jack? So che in questa famiglia normalmente non lo si fa - accidenti, forse in nessuna famiglia lo si fa -, ma ho provato con Lily l'altra sera ed è andata bene.» Jack ridacchiò. «Ah, sì? E che verità le hai detto?» Marty lo fissò. «Che avevo pensato di uccidermi.» Il bicchiere di Jack rimase fermo a metà strada. «Per via... di Hannah?» «Non esattamente.» Jack sembrava davvero sorpreso. «Be', ma allora... perché?» Marty bevve un altro sorso, poi posò il bicchiere sul tavolo e lo allontanò dalla sua portata con un dito. L'alcol era ancora seducente. La prigione lo avrebbe guarito, pensò con un cupo sorriso. «È un segreto molto grosso, Jack. Do ut des. Una verità per una verità.» Jack posò il bicchiere sul pavimento e si chinò in avanti, puntando i gomiti sulle cosce. «Sarei dovuto esserci per te. Ti ho abbandonato, amico mio. Nella lista dei cento rimpianti che ho accumulato negli ultimi due anni, questo è il primo.» «La verità, Jack. Che cosa sai dell'assassino di tuo padre?» Jack sorrise. «La verità non è una cosa tanto nobile, sai, Marty?» «Chiunque sia stato, sta uccidendo altre persone, Jack. Devi collaborare.»
«No. Ha finito. Manco solo io.» «E come diavolo lo sai?» Jack guardò nel bicchiere, inspirò ed espirò vigorosamente. «Credo di dover cominciare dall'inizio.» In un interrogatorio, di solito sparavi una raffica di domande, bersagliavi la persona con rapidità e con perizia. Eppure, prima o poi, arrivava il momento in cui smettevi di chiedere e restavi semplicemente zitto. Marty tenne le mani ferme sui braccioli della sedia e gli occhi su Jack, e attese. «Odio farti del male, Marty. So cosa significava per te quel vecchio.» «Era un brav'uomo, Jack.» «Sarà come Elvis.» «Non ti seguo.» «Be', ricordi com'è andata quando si è scoperto che Elvis Presley era un drogato? Voglio dire, lui era il re, e invece poi è venuto fuori che era soltanto un tossico obeso. Diamine, l'idolo è andato in mille pezzi e il mio mondo si è rovesciato. Sei pronto ad ascoltarmi?» «Jack...» «Il giorno in cui ho compiuto nove anni, papà mi ha messo in mano una pistola. Lo sapevi? 'Devi essere pronto', diceva. Da allora, ogni domenica mattina mi ha portato all'Anoka Gun Club a sparare al tirassegno. La mamma credeva che andassimo da McDonald's per cementare il rapporto padre-figlio, e a me non era permesso dire altrimenti. Era una noia mortale. Odio le armi, però ero un ragazzino idiota. Finché stavo con lui, ero contento.» Prese di nuovo il bicchiere e si appoggiò ai cuscini. «Sono un abile tiratore, Marty. Però, al confronto di papà, non ero niente.» Marty fissò le gambe bianche di Jack che spuntavano dai pantaloncini, la pancetta, i segni arcuati delle bruciature del sole sulla fronte là dove un tempo c'erano i capelli. Se l'idea che Jack fosse un abile tiratore lo spaventava a morte, l'immagine di una pistola nella mano buona e gentile del suocero era assolutamente inconcepibile. «Dove vuoi arrivare, Jack?» «Te lo dico subito.» Provò a mettere a fuoco l'altro e la testa ciondolò. «Vuoi sapere chi voleva uccidere papà, giusto? Perché lui era un grand'uomo, amava tutti, tutti lo amavano... Cazzo, Marty. Ho passato gli ultimi due anni a rovinarmi la vita in modo da non doverlo dire a nessuno e adesso tu vuoi che lo sputi fuori.» Marty udì il rombo di un tuono in lontananza. «Qualsiasi cosa sia, alla fine la polizia ci arriverà.» Jack ridacchiò. «Quegli imbecilli non lo capiranno mai. E comunque
non ci crederebbero.» «Capire cosa?» Jack cercò di pensare e, nel contempo, di tenere Marty nella sua traiettoria visiva, il che per lui era quasi troppo. «Che qualcuno alla fine li abbia beccati, ecco cosa. Solo che non è stata la polizia, altrimenti a quest'ora saremmo tutti in un talk-show tipo Jerry Springer. In quel genere di cose non riesci a cavartela senza far incazzare qualcuno, prima o poi, giusto?» «Quale genere di cose?» «Cristo, Marty, sta' attento, no? Uccidere, naturalmente. Da quello che ho capito, un paio all'anno per un lungo periodo.» Marty non batté ciglio. «Spari davvero un sacco di stronzate, Jack.» Jack annuì. Una mossa piuttosto pericolosa, nelle sue condizioni. «Sì, è vero, ma non su questo. Questo lo so per certo.» Si chinò per prendere la bottiglia di Balvenie dal pavimento e si riempì il bicchiere fino all'orlo, versando un po' di whisky quando un tuono scoppiò un po' più vicino. «Circa sei mesi prima che Hannah morisse, un fine settimana, papà mi ha portato a Brainerd, sostenendo che voleva portarmi a pesca, in modo da tenermi lontano dall'ufficio per un po'. Abbiamo raggiunto un grosso e vecchio chalet di legno e, poco dopo, sono arrivate altre due macchine: da una è sceso Ben Schuler, dall'altra è venuta fuori Rose Kleber.» Le sopracciglia di Marty si sollevarono. «Allora la conoscevi...» «È stata la prima e l'ultima volta in cui l'ho vista. Una gentile vecchietta dai capelli bianchi, con un vestito a fiori viola e un paio di scarpe grosse e rozze. Mi sono chiesto cosa diavolo facesse lì, a pesca con una coppia di anziani come papà e Ben. Non ho mai saputo il suo nome. Papà l'ha definita 'un'amica'. Siamo entrati nello chalet, suppongo per registrarci, ma era in corso una specie di gara al lago e quindi non c'era nessuno, tranne un vecchio strambo alla reception. Allora papà ha estratto dalla tasca della giacca una pistola, ha allungato il braccio e ha sparato in testa all'uomo.» Chiuse gli occhi, mentre la bocca di Marty si spalancava e il cuore prendeva a martellargli nel petto, come se cercasse di uscire. «Credo di aver urlato, ma non lo ricordo con certezza. So tuttavia che, dopo, papà ha passato la pistola a Ben e quel vecchio bastardo è andato dietro il banco della reception e ha sparato all'uomo a terra. Infine Ben ha allungato la pistola alla dolce nonnina e lei, fredda come il ghiaccio, ha sparato qualche altro colpo. Aveva sangue e altra roba su tutto il vestito e sulle scarpe nere. Buffo quello che si ricorda, vero?» Fece un sorriso storto, triste. D'un tratto, Marty sentì di avere la gola secca come il deserto. Per un i-
stante se ne meravigliò e si meravigliò pure della sua voce rotta quando disse: «Chi era? Chi era l'uomo che hanno ucciso?» Jack si strinse nelle spalle. «Un nazista, come tutti gli altri. E sai cos'è successo dopo?» Marty lo fissò, scuotendo la testa, basito. «Be', Marty, amico mio... Dopo aver finito, Rose mi ha passato la pistola.» 38 Jeff Montgomery sudava sotto l'impermeabile nero che portava sui jeans scuri. Era sgradevole, ma necessario. Prima della fine della serata, il fronte freddo si sarebbe scontrato con quello spaventoso strato di calore. Il vento avrebbe ululato, la temperatura sarebbe calata di chissà quanto e la pioggia sarebbe scesa a catinelle. Ogni bravo ragazzo del Minnesota sapeva quando indossare un impermeabile. Lui sperava che il fronte freddo arrivasse in fretta. Era l'aprile più caldo mai registrato, continuavano a dire. A lui il caldo non dispiaceva, però le piante da clima freddo stavano soffrendo. L'altro problema era che quel genere di calura spesso scatenava grandinate, cosa cui non voleva nemmeno pensare. Sarebbe già stato abbastanza brutto presentarsi al lavoro il giorno dopo e lottare col fango. Il pensiero dei danni che la grandine arrecava alle piante giovani e delicate lo faceva star male. Il che era buffo, pensò. Lui che si preoccupava per le piante quando, solo pochi mesi prima, non avrebbe distinto una centonchia da un'idrangea. Ingegneria era la scelta giusta. Ma, quando i genitori erano morti, il sogno del college sulla West Coast era morto con loro e Jeff aveva finito per frequentare alcuni corsi all'University of Minnesota, lavorando nel contempo per Morey e Lily Gilbert. Aveva imparato più sulle piante di Mrs Gilbert che qualsiasi altra cosa a lezione, scoprendo di avere un certo talento in quel campo. Prima ancora di capire cosa stava succedendo, si era appassionato. Gli piaceva lavorare la terra, analizzarla nelle piccole provette per verificarne il contenuto di nutrienti, stabilire quali additivi fossero necessari per le piante che voleva far crescere e in quale misura. Quella era la parte ingegneristica del suo cervello che prendeva il sopravvento, pensava Jeff. Ma gli piaceva anche sentire la terra fra le mani, sotto le unghie, vedere la rugiada mattutina in un calice di tulipano, guardare i germogli spuntare dai
tagli netti, precisi che il suo coltello praticava sugli abeti delle Black Mountains. Se, una volta terminato il lavoro, poteva esprimere un desiderio allora si augurava di restare in quel vivaio per sempre, d'imparare da Mrs Gilbert, e magari di comprarlo dopo aver messo da parte un po' di soldi. Buffo, come accadevano le cose: il modo in cui l'orrore e lo shock della morte dei suoi lo avevano condotto inconsapevolmente al posto e alla vita cui era destinato. Adesso le strade attorno al vivaio erano completamente deserte. Con molta probabilità, nel quartiere, erano tutti incollati al televisore, in attesa del tornado e degli annunci concitati che indicassero dove ripararsi. Tutti tranne lui, naturalmente. Non poteva lasciarsi spaventare dal maltempo perché era in missione. E talvolta le missioni erano molto pericolose. Aveva già girato attorno all'isolato del vivaio tre volte, trovando tutto come doveva essere. Nessuna figura armata era accucciata tra i cespugli; l'unica auto della polizia, arrivata quel pomeriggio, era ancora ferma nel parcheggio e, fatto ancor più importante, Mrs Gilbert era al sicuro in casa. Il rombo di un tuono lontano lo fece trasalire. Jeff si portò una mano alla bocca per attutire una risatina nervosa. Il cielo stava diventando sempre più nero e, verso ovest, si vedevano i fulmini diramarsi da una nube all'altra, seguiti da tuoni ancor più sinistri, che rendevano l'aria elettrica. Dio mio, com'era divertente. Il mite, tranquillo Jeff Montgomery che sgattaiolava nella semioscurità con gli occhi vigili e attenti a scrutare tutte le ombre, stranamente solleticato dall'eventualità di correre un pericolo. Quando giunse alla siepe del vivaio, si premette contro il verde e si mosse lento e furtivo, centimetro dopo centimetro, lungo la protezione. Stava attento a qualsiasi cosa sospetta, tenendosi però nascosto. Non poteva permettersi di farsi vedere: se Mr Pullman o l'agente lo avessero individuato, sarebbe finito tutto e lo avrebbero mandato via o, peggio, gli avrebbero potuto sparare per sbaglio. Doveva stare molto, molto attento. In quel momento, non gli parve affatto strano pensare a tutte le cose che i Gilbert avevano fatto per lui: pagarlo il doppio di quanto gli altri vivai davano ai lavoranti, pensare alla retta dell'università, persino aiutarlo con l'affitto, se il primo del mese era un po' a corto. Sapeva che Mrs Gilbert non se lo aspettava, ma un giorno lui le avrebbe restituito ogni centesimo. Era il minimo che potesse fare. Sentì un'eccitazione segreta quando si rese conto di trovarsi ormai all'interno del vivaio. Fino a quel momento, nessuno lo aveva individuato...
beccato, si corresse. Accidenti, era in gamba. Forse doveva lasciare gli studi ed entrare nella CIA. L'ultima volta che Marty Pullman si era sentito così - come se qualcuno avesse azionato un interruttore, spegnendogli il cervello - era seduto sul freddo cemento della rampa del parcheggio, guardando la moglie morta. Molti sentimenti di quella sera stavano cercando di trovare un ordine: incredulità, risentimento, shock e infine una tristezza incommensurabile. La stupida analogia con Elvis che Jack gli aveva suggerito era giusta: il suo mondo aveva preso a ondeggiare e lui non sapeva quale delle due facce gli stesse mostrando. Come accettare l'idea di aver idolatrato qualcuno, ritenendolo un uomo migliore di quanto tu potessi mai diventare, soltanto per scoprire che era marcio come te? Già, proprio come me, e forse anche di più, se si considera la faccenda da un punto di vista numerico, pensò Marty. Cedendo a uno stupido impulso, aveva cercato di calcolare quanti uomini avesse ucciso Morey nel corso degli anni, di quegli anni in cui, ogni domenica, lui aveva invitato il genero a pranzo. Poi, quando la sensazione di essere stato tradito e oltraggiato aveva cominciato a farsi sentire, Marty per poco non era scoppiato in una sonora risata. C'era davvero una gran differenza tra uccidere i nazisti e uccidere l'uomo che aveva ammazzato tua moglie? Non c'è da stupirsi che Morey ti piacesse tanto. Eravate identici. Jack era rimasto in silenzio, forse per dare all'altro il tempo di assimilare ciò che aveva detto, forse in attesa della domanda che certamente Marty aveva paura di fare. Dunque: Rose Kleber aveva sparato al vecchio dietro il banco della reception e poi aveva passato la pistola a Jack. E tu cos'hai fatto, Jack? Che diavolo hai fatto? Jack scoppiò in una risata da ubriaco e Marty si rese conto di aver fatto la domanda a voce alta. «A essere sincero, ho vomitato. Sul pavimento, sulla pistola e sulla mano della vecchia signora. Caspita, se si è incazzata. Non quanto papà, però. Continuava a dirmi di sparargli. 'Spara a quel bastardo di un nazista!' Queste sono state le sue parole esatte. È stata quella la prima volta in cui ho avuto il sentore di quanto stava accadendo. Forse, se avesse indossato un'uniforme da SS e fosse stato occupato a torturare qualcuno, ci sarei riuscito. Immagino che non lo saprò mai. Ma il fatto era che non vedevo nessun nazista. Vedevo solo quel morto tutto sporco e molto vecchio.» «Non gli hai sparato.»
«Oddio, Marty, certo che no. Cosa pensi che sia?» «Non lo so, Jack. Continui a sorprendermi.» «Questa maledetta famiglia è piena di sorprese, eh?» sbuffò Jack, con amarezza. «A ogni modo, sulla via del ritorno papà mi ha raccontato ciò che avevano fatto in tutti quegli anni e molte cose di Auschwitz che avrei preferito non sentire. Mi ha detto che quello era il mio dovere di figlio, il lascito che mi faceva, Dio mio. E, se lui fosse morto prima di 'terminare' il lavoro, allora avrei dovuto finirlo io.» «E tu che gli hai detto?» Jack lo guardò oltre il bordo del bicchiere. «Che non volevo più essere suo figlio e che non volevo nemmeno più essere ebreo. Poi ho agito di conseguenza.» Marty annuì lentamente, ricordando la foto della comunione e del matrimonio, l'improvviso allontanamento di Jack dalla famiglia e trovando infine un senso in quel groviglio di azioni che Lily aveva definito «uno schiaffo in pieno viso». «Avresti dovuto parlarne con Lily, Jack.» Jack sorrise e bevve nel contempo. «Un'arma a doppio taglio, quella. Anzi a triplo taglio. Diamine, per quel che ne sapevo, poteva essere coinvolta...» «Come puoi pensarlo?» L'altro lo guardò a bocca aperta. «Cristo, Marty, forse perché non l'avevo mai pensato nemmeno di mio padre, e poi guarda cos'è saltato fuori. Non ho mai creduto veramente che la mamma potesse fare una cosa del genere, però mi sono chiesto: come fai a vivere con qualcuno per più di cinquant'anni e ignorare questo? E se fosse stata coinvolta o l'avesse saputo...» Scrollò le spalle, impotente. «Non avrei potuto tollerare la cosa. Non volevo sapere. E se, per miracolo, l'avesse ingannata, come aveva fatto con me, di certo non sarei stato io a spezzarle il cuore, dicendoglielo. Perciò sono rimasto lontano da entrambi senza dire niente, domandandomi in continuazione se papà fosse fuori a uccidere qualcuno, mentre io me ne stavo seduto lì a far niente, a dire cose stupide per arrivare a fine giornata, pensando: 'Accidenti, Jack, non ti preoccupare, erano solo nazisti e probabilmente se lo meritavano', cercando di capire se avrei potuto vivere in pace con me stesso se avessi denunciato mio padre e rovinato la vita di mia madre o se non lo avessi fatto... Cristo.» Sospirò, poi bevve un sorso. «Te lo devo dire, a ogni modo, l'alcol è servito.» Dall'altra parte della porta chiusa a chiave che conduceva al capanno per l'invasatura, Lily era china sul legno scheggiato, intenta ad ascoltare con
gli occhi chiusi e il volto segnato dal dolore. «Che tu sia maledetto, Morey Gilbert», sussurrò, mentre si girava e si allontanava. «Perché non sei venuto da me e da Hannah?» chiese Marty. «Scherzi? Non mi sarei potuto neanche avvicinare a Hannah. Mi avrebbe fatto confessare tutto in due secondi e tu lo sai bene. E scoprire una cosa del genere su suo padre l'avrebbe uccisa. Lei lo adorava.» «Quasi quanto te», ribatté Marty, appoggiandosi allo schienale della sedia e guardando Jack l'ubriacone, l'idiota, lo sconsiderato, la pecora nera irresponsabile che aveva sacrificato tutto per risparmiare le persone che amava. Dentro di sé, Marty era profondamente scosso, ma cercò di concentrarsi su ciò che gli serviva sapere. «Hai detto che il killer ha finito, ma che gli manchi tu. Come fai a saperlo?» «Oh, sì, quello. Avevo un sospetto, ma non l'assoluta certezza finché non mi ha sparato addosso. Papà e gli altri facevano molti viaggi, uccidevano molte persone - ne era piuttosto fiero -, ma io sono andato con loro solo una volta.» «Allo chalet di Brainerd.» «Esatto. Al di sopra del banco della reception, c'era un vecchio e ampio solaio. L'ultima cosa che ricordo era papà che mi trascinava fuori per il braccio, mentre tutti mi gridavano contro. È stato allora che ho alzato lo sguardo e ho visto un'ombra muoversi dietro una grossa trave, lassù, nel solaio. Qualcuno ci ha visto, Marty. E, come si dice, quello che dai ti ritorna.» Marty chiuse gli occhi per un istante e si concentrò per annullare ogni sentimento, proprio come faceva sul lavoro. Una volta preso il killer e messo Jack al sicuro, avrebbe recuperato il ricordo di tutto ciò che aveva appreso quella sera e si sarebbe concesso la possibilità di reagire. In quel momento, però, i sentimenti erano un lusso che lui non si poteva permettere. Si stupì un po' che riuscisse a farlo così velocemente e così bene. Forse Jack aveva ragione anche su quello: quando sei uno sbirro, lo sei a vita. «Bene, Jack, ecco cosa faremo.» Estrasse il cellulare dalla custodia e consultò la rubrica, in cerca del numero di Gino Rolseth. «Chiederemo a Magozzi e Rolseth di venire qui e tu racconterai tutto quello che hai detto a me, in modo che possano fare il loro lavoro e prendere quell'uomo. Non ti perderò di vista finché lui non sarà chiuso a chiave da qualche parte. Inoltre non amo fungere da bersaglio.» «No?» Jack tentò di sollevare le sopracciglia. «Pensavo che avessi istinti
suicidi.» «Sì, be', le cose cambiano, Jack. Accidenti se cambiano.» Quando Gino rispose, Marty gli disse dov'erano, che Jack era pronto a parlare e che forse aveva una pista per loro. Nel momento stesso in cui chiuse la telefonata, si udì un tremendo boato scatenato da un fulmine caduto nelle immediate vicinanze. Marty scattò in piedi. Poi la pioggia e il vento si abbatterono sul tetto e sulla porta, con furia vendicativa. La porta si spalancò e sbatté contro il muro e Marty si girò di scatto, con la 357 già in pugno. Un Jeff Montgomery completamente fradicio sgranò gli occhi azzurri, mentre la pioggia spinta dal vento gli vorticava attorno. Jack fissò quel povero ragazzo, pensando che quella volta gli sarebbe davvero venuto un colpo. L'ultima volta che lo aveva visto così atterrito era stata la sera in cui lui gli aveva puntato contro la pistola, nel capanno degli attrezzi. Ci sono troppe pistole in questa famiglia, pensò. «Maledizione, Jeff», gli gridò Marty. «Ti avevo detto di non tornare qui stasera!» Era furioso, ma il ragazzo aveva un'aria patetica, come di un ratto annegato. Allora si addolcì un po'. «Dai, entra. Hai visto Becker?» «Uh... sì, signore?» Jeff fece un passo all'interno, ma i suoi occhi seguirono la pistola di Marty mentre lui la infilava di nuovo nella cintura dei pantaloni e la copriva con la camicia. «Be', chiamalo, prima che l'acqua se lo porti via.» «Mi spiace, ma non posso farlo, Mr Pullman», disse Jeff, facendo un altro passo e chiudendosi la porta alle spalle. Poi, dall'impermeabile nero, estrasse una pistola e la puntò contro Marty. 39 Al municipio, la tempesta stava ormai annunciando il suo prossimo arrivo. I tuoni brontolavano a breve distanza e i fulmini ramificati, dall'aspetto malvagio, colpivano ora una nube nera ora un'altra. Pochi minuti dopo, grosse gocce d'acqua colpirono le finestre della Omicidi. Dopo un'ora passata al telefono, non avevano ancora trovato il camper del Montana. Niente era emerso dalle segnalazioni diramate lì e a Las Vegas, e neppure dalle aree locali per camper che Gino aveva depennato dalla sua lista. Gli piaceva sempre di più la teoria dell'uomo del Montana, soprattutto perché non riuscivano a scovarlo. Si alzò dal tavolo e si stiracchiò, poi fece qualche passo nell'ufficio, mentre Magozzi terminava l'ulti-
ma chiamata. Il piccolo televisore in cima a uno schedario era raramente acceso. Anche senza audio, le immagini che si susseguivano attiravano l'attenzione e, secondo Malcherson, incantavano la mente. Non che avesse bisogno di aiuto, in quel Dipartimento, dato che la sua mente era già in pappa, pensò Gino, accendendo l'apparecchio. E poi, se un tornado stava per abbattersi su di loro, era bene saperlo in tempo, così da schivare le schegge di vetro. Azzerò il volume, però, pochi secondi dopo, tutti gli occhi erano ugualmente puntati sullo schermo, sul dinamico meteorologo di Channel Ten che ballonzolava davanti a una carta computerizzata. Piccoli imbuti stile disegno animato ruotavano ovunque. Langer coprì il microfono del telefono con la mano. «Sta arrivando qualcosa da noi?» Gino passò in rassegna i canali e trovò solo bollettini meteo. «Da quello che mostra la carta, pare la fine del mondo. Si avvicinò allo schermo e guardò con le palpebre socchiuse la striscia rossa che scorreva sul fondo con una serie di avvertimenti. «Hanno toccato terra a Morris, Cyrus, uno si dirige a Saint Peter... qui ancora niente.» Lasciò il televisore acceso e tornò alla scrivania. Voleva chiamare Angela per accertarsi che si tenesse aggiornata e per ricordarle come accedere al seminterrato, in caso se lo fosse scordata. «Sotto le scale, ricorda, se devi andare là sotto.» «Non c'è spazio, Gino. Là sotto ci sono mamma e papà.» Gino lanciò un'occhiata alla finestra. La pioggia adesso cadeva forte e sicuramente c'erano molti fulmini e tuoni, ma nulla di più. «Di già?» «Al primo tuono, sono scesi di corsa. Si sono portati dietro una bottiglia di vodka.» «Oh, santo cielo.» Quando terminò la chiamata, Magozzi stava riagganciando. «Non mi dire che hai già mandato Angela nel seminterrato.» Gino scosse la testa. «Ci sono già i miei suoceri. Si stanno ubriacando e chissà cos'altro stanno facendo. Probabilmente è meglio che i ragazzi vedano un tornado piuttosto che...» Magozzi guardò fuori dalla finestra. «Siamo presi di mira?» «No. Loro hanno vissuto per troppo tempo in Arizona. Là non ci sono fenomeni meteorologici di questo tipo. Niente di niente. Si sono scordati che cosa sono. Ah, alla fine ho rintracciato quel ragazzo del resort di Brainerd che è andato a vivere in Germania. Thomas Haczynski. 'Per favore,
mi chiami Tom, signore.' Il ragazzo più educato con cui abbia mai parlato, fatta eccezione per i due che lavorano al vivaio, ed è la cosa più bella che possa dire di questo caso: tanto per cambiare, ho conosciuto dei ragazzi per bene. Mi dà speranza per il mondo. Però è triste... è ancora piuttosto sconvolto. Quando gli ho detto che forse avevamo una pista per arrivare all'assassino del padre, ha detto: 'Vi ringrazio molto per avermi chiamato', e poi è scoppiato in un pianto fragoroso. Ha dovuto passarmi lo zio.» «E cosa ti ha detto?» «Non ne ho idea. Qualcosa in tedesco, suppongo. Odio le chiamate intercontinentali con tutte quelle pause in cui si finisce per parlare contemporaneamente.» Magozzi sospirò, afflitto. «Bene. Quindi la pistola che, secondo Jack, è appartenuta al padre ha ucciso il proprietario di un resort a Brainerd l'anno scorso, presumibilmente un nazista...» «Esatto.» «... ma la moglie del nazista si è suicidata, un figlio è morto in un incidente d'auto e l'altro con cui hai appena parlato è in Germania da qualche parte.» «A Monaco.» «Merda.» Gino tirò la matita sul tavolo, frustrato. «Il che ci lascia col tizio del Montana che i nostri amici Morey, Rose e Ben non hanno ucciso. E la sai una cosa? Questo per me ha senso. Mi sembra molto più probabile che un tizio che si è preso una pallottola nella gamba pensi che i tre facciano sul serio e decida di colpirli prima che abbiano la possibilità di ripetere il tentativo. Se esiste un profilo per questo genere di cose, probabilmente loro ci corrispondono alla perfezione.» «Mi spiace, ragazzi», disse Langer dall'altra parte del corridoio, agitando il ricevitore prima di riagganciare. «I survivalisti del Montana non c'entrano. Il parcheggio Happy-Go-Lucky RV Ranch di Las Vegas ha identificato il mezzo e confermato che è lì da quasi due settimane. Ho chiesto degli occupanti e il gestore ha detto che ce li aveva sotto gli occhi in quel preciso istante e che aveva già verificato le loro patenti. Ha aggiunto che, per quanto ne sa, non sono usciti una sola volta dal parcheggio, perché sono rimasti lì a bere birra tutto il giorno.» «Anche noi stiamo girando a vuoto.» Peterson stava tornando dal fax. Gettò un foglio sul tavolo di Magozzi. «Questi sono gli omicidi degli ultimi dieci anni, almeno quelli elencati sul retro delle foto prelevate a casa di
Ben Schuler. Se qualche parente delle vittime ha inseguito Morey Gilbert e la sua piccola banda, lo ha fatto sulla sedia a rotelle o portandosi dietro la maschera per l'ossigeno. Gran parte è sulla settantina, metà è morta o convalescente dopo un bypass, una chemio o qualche altro incubo del genere. Maledizione, questa storia dell'invecchiamento è una bella rogna. I pochi che sarebbero lontanamente in grado di pianificare e compiere un pluriomicidio hanno alibi di ferro per i giorni in cui Gilbert, Rose Kleber e Ben Schuler sono stati uccisi.» Gino guardò il tavolo di McLaren. I capelli rossi del giovane detective erano ritti nei punti in cui lui se li era tormentati. Stava parlando al telefono ed era tutto infervorato. «Sembra che McLaren stia lavorando su qualcosa.» «A dire il vero, sta lavorando sul suo broker. Siamo a corto di omicidi, a meno che tu non voglia che andiamo ancora indietro, a più di dieci anni fa.» «Oddio, no.» Magozzi si afflosciò sulla sedia. «Abbiamo già perso gran parte della giornata. Mi spiace, ragazzi. Vi ho condotto sulla strada sbagliata.» «Considerare le famiglie era una buona idea», osservò Gino. «E non è che avessimo altre piste da seguire. La domanda è: adesso cosa facciamo? Abbiamo esaurito gli indiziati.» Peterson gli porse un grosso dossier. «È il fax dello sceriffo di Brainerd. Forse con questo avremo fortuna.» Gino lo gettò di lato. «Improbabile. L'unico sopravvissuto di quella famiglia è in Germania. Gli ho parlato poco fa.» Peterson allargò le braccia. «Allora, che si fa?» Magozzi lo guardò con occhi annebbiati. Peterson era frustrato. Tutti lo erano. Erano frustrati, stanchi e affamati, comprese, ascoltando il brontolio del suo stomaco. Avevano seguito tutte le piste, tutte le teorie, e le avevano scartate. Sembrava che non ci fossero altre strade da imboccare. Ma ammetterlo equivaleva a riconoscere di non poter far altro se non starsene seduti ad aspettare che il killer colpisse ancora. Era il peggior incubo per un detective della Omicidi: per risolvere un caso, bisognava aspettare di trovare un altro cadavere. Jack Gilbert era un chiaro bersaglio e loro lo avevano protetto. Ma se non fosse stato l'unico? Se il killer lo avesse saltato per passare al successivo? Potevano soltanto sperare che le informazioni di Jack Gilbert li conducessero a un indiziato valido e che Marty riuscisse in qualche modo a farlo parlare.
Seduto alla scrivania, McLaren sbatté giù il telefono. «Sapete che mi ha combinato quel figlio di puttana? Ha fatto un casino con certe azioni dell'Uruguay. L'ho cacciato a calci in culo. Allora che succede?» «Assolutamente niente», borbottò Gino. «Abbiamo scartato tutte le piste.» «Quindi che facciamo? Aspettiamo che spari di nuovo a Jack Gilbert?» «Gilbert è protetto», disse Magozzi. «Ho parlato con Becker poco fa. Tallona Jack e, a quanto sembra, stasera andranno tutti in un hotel per rendere un po' più semplice il compito di Becker. Sono più preoccupato che il nostro killer passi a un altro bersaglio che ancora non conosciamo.» Il cellulare di Gino emise un trillo. «Sarà Angela. È bloccata a casa con due figli e coi genitori ubriachi, per non parlare della tempesta in arrivo.» Prese la chiamata e si avviò verso la porta col cellulare all'orecchio, poi si voltò e sollevò un dito, continuando ad ascoltare. Magozzi prese a sfogliare il fax di Brainerd. C'era probabilmente un centinaio di fogli tra verbali della polizia, risultati autoptici, colloqui, ritagli di giornale... «Grande, Marty», disse Gino al telefono, poi lo chiuse, rivolgendo un sorriso a Magozzi. «Marty ce l'ha fatta, è riuscito a far parlare Jack. Sono nell'ufficio del vivaio e dice che, se arriviamo prima che Jack torni sobrio o perda i sensi, ci racconterà un bel po' di cose che potrebbero metterci sulla strada giusta.» «Grazie a Dio», esclamò Peterson. «Volete una mano?» Gino scosse la testa. «Tenete solo i cellulari accesi, in caso venissimo a sapere qualcosa per cui sia necessario agire subito.» Premette il tasto di chiamata rapida per mettersi in comunicazione con Angela e dirle di non aspettarlo, osservando accigliato Magozzi. Avrebbe dovuto fare salti di gioia, essere già sulla porta. Invece era chino sulla scrivania, intento a fissare qualcosa. «Ehi, Leo, mi hai sentito?» Magozzi sollevò una mano, prese un foglio e lo fissò. Era la fotocopia di un necrologio del quotidiano di Brainerd che mostrava una foto del defunto William Haczynski, proprietario del Sandy Shores Resort, col figlio Thomas. L'anziano e il ragazzo biondo dall'aria fresca si tenevano per le spalle. Sorridevano raggianti alla macchina fotografica coi fucili appoggiati all'ascella. Magozzi guardava la foto da pochi secondi soltanto, ma gli sembrava di esservi immerso da ore. Scrutò ancora una volta il figlio dell'anziano, la luce nei suoi occhi e il volto innocente di un ragazzo che lui conosceva
come Jeff Montgomery. «Gesù Cristo, Gino. Thomas Haczynski non è in Germania.» Gli furono tutti addosso in un istante. Gino vide Montgomery e sibilò: «Quel piccolo figlio di puttana...» prima di rendersi conto di avere ancora il telefono in mano e Angela all'altro capo. Si allontanò dal tavolo e iniziò a parlare veloce e a bassa voce, poi chiuse la telefonata. Langer, Peterson e McLaren scrutavano la fotografia, accigliati. «Non capisco», disse McLaren. «Come fai a sapere che non è in Germania?» Magozzi indicò la foto. «Quel ragazzo si fa chiamare Jeff Montgomery. Lavora al vivaio. Lily Gilbert lo tratta come un nipote e Morey gli pagava gli studi.» Langer espirò bruscamente. «Ed è il figlio di un uomo che Morey ha ucciso l'anno scorso?» «Così sembra.» McLaren rabbrividì. «Deve essere il nostro uomo. Gesù, che cosa brutale. Morey gli paga gli studi mentre Jeff progetta di assassinare lui e qualcun altro. Quel ragazzo è una macchina per uccidere.» «Suppongo che abbia avuto un bravo insegnante», commentò pacatamente Langer. «Maledizione! Gli ho parlato, questo pomeriggio», esclamò Gino. «Era una chiamata intercontinentale, giuro su Dio. Non si possono fingere quelle pause...» «Forse ha qualcuno che lo copre in Germania, ma, comunque ci sia riuscito, adesso non conta», replicò Magozzi, in tono secco e concitato. «Dobbiamo muoverci subito. Gino, richiama Marty e mettilo in guardia, poi fa' lo stesso con Becker.» «Mi occupo io di Becker», si offrì Peterson, dirigendosi alla sua scrivania, mentre Gino componeva un numero sul cellulare. Magozzi si voltò verso Langer e McLaren. «Il ragazzo può essere nel suo appartamento o nel vivaio. Dobbiamo coprirli entrambi contemporaneamente. Voi due formate una squadra e andate all'appartamento, e non lesinate sugli uomini. Ho la sensazione che non mollerà facilmente.» «Va bene.» Nel frattempo, Gino premeva furiosamente i tasti, ascoltava, poi li premeva di nuovo. «Maledizione, Marty non risponde al cellulare.» Magozzi controllò che la sua calibro 9 fosse armata, la rimise nella fondina e agganciò le manette alla cintura. «Prova al vivaio, in casa di Lily, sul cellulare di Jack. Abbiamo il numero di cellulare di Jack?»
«La centrale non riesce a trovare Becker», gridò Peterson con voce tesa. Tutti s'immobilizzarono per un istante. Come ogni altro agente, Becker aveva un'unità in macchina e una da spalla. Al novantanove per cento, un'assenza di risposta significava «uomo a terra». Due secondi dopo, Gino e Magozzi erano fuori dalla porta. Le loro scarpe battevano sulle piastrelle, mentre il rumore del panico riecheggiava nel corridoio vuoto. 40 Marty era esattamente di fronte a Jeff Montgomery. La calibro 9 del ragazzo era puntata dritta al suo petto, e i suoi pensieri sbattevano contro il muro dell'ovvio, rimbalzando perché non volevano vederlo. Nell'ultima ora, aveva appreso che il vecchio, adorato Morey Gilbert era un assassino. E, a quanto pareva, lo era anche quel ragazzo dall'aria innocente, col viso liscio e con gli occhi azzurro chiaro. La vera domanda era: perché si sentiva così maledettamente sorpreso? Era colpa dei troppi anni di lavoro alla Narcotici, pensò. Chi si faceva di metanfetamine aveva la faccia di chi si faceva di metanfetamine, gli spacciatori di strada avevano la faccia da spacciatori di strada... Insomma tutti avevano esattamente la faccia delle persone che erano. C'era una sorta di sicurezza deforme in quello specifico segmento della malavita in cui quello che vedevi corrispondeva alla verità. Era la ragione per cui Marty ne era stato attratto. Nel mondo reale, invece, quasi tutti portavano una maschera. Lui lo sapeva fin da ragazzo, naturalmente; suo padre glielo aveva insegnato. Tuttavia poi se n'era scordato. Ma niente di tutto ciò aveva importanza in quel momento. Marty lasciò che la mente corresse a rotta di collo lungo il cammino che era addestrata a seguire. Il come, il perché e le motivazioni di un uomo armato erano assolutamente irrilevanti se un poliziotto si trovava dalla parte sbagliata di una pistola. Contava soltanto quello che sarebbe successo dopo. Era nel contempo troppo vicino al ragazzo e troppo lontano da lui. Troppo vicino per schivare un colpo e troppo lontano per disarmarlo. Parlare era l'unica alternativa. «Che vuoi fare, Jeff?» «Occuparmi dei miei affari, Mr Pullman.» Non terminava più le frasi con un punto di domanda, pensò Marty, cercando di annullare la sensazione di essere prigioniero in un cerchio che da un momento all'altro si sarebbe spezzato, scagliandolo in una direzione
impensata. Com'era ironico che il suo ultimo, sincero tentativo di suicidarsi fosse stato interrotto proprio da Jeff Montgomery, venuto a informarlo che Morey era morto. Adesso lo stesso ragazzo che gli aveva inconsapevolmente salvato la vita gli puntava contro una pistola. «E di quali affari si tratterebbe?» chiese Marty, mantenendo un tono calmo. Restò un po' sorpreso quando Jeff gli sorrise. «Credo che lei sia stato un ottimo agente, Mr Pullman. 'Se ti trovi in svantaggio, cattura l'attenzione del nemico. Mettiti a parlare, introduci qualche elemento che lo distragga...' È roba da manuale.» «Non di un manuale che io conosco.» «Si giri, Mr Pullman, per favore. Poi sollevi la camicia con la mano destra e sfili la pistola dalla cintura con la sinistra. Usi solo due dita. Quindi si giri di nuovo verso di me e getti la pistola qui, alla mia destra, se non le spiace.» «Hai intenzione di spararmi alle spalle, Jeff?» «Certamente no, signore. Non lo farei. Non sarebbe onorevole.» La cosa buffa era che Marty gli credeva. Eppure per un istante non si mosse, vagamente infastidito dalla buona educazione di quello strano ragazzo. Si voltò in parte e guardò Jack, chino in avanti sul divano: dondolava solo un po' e teneva le mani sulle ginocchia. La cosa peggiore erano i suoi occhi: non erano spaventati, ma grandi, tristi, contriti. Marty gli fece l'occhiolino, sollevò la camicia ed estrasse la pistola con due dita, proprio come Jeff gli aveva detto, poi si voltò di nuovo verso di lui. «Non vorrai che ti lanci la pistola senza aver prima messo la sicura, Jeff.» «Ha messo la sicura prima d'infilarla nei pantaloni, Mr Pullman. Per favore, non mi tratti con condiscendenza.» Il ragazzo ci sapeva fare, eppure Marty rimase lì, con la pistola lungo il fianco, pensando quanto fosse pesante se la tenevi soltanto con due dita. Aveva così tanti pensieri per la testa che, mentre passava al vaglio le possibilità, per poco non crollò a terra. Non bisogna rinunciare alla pistola. Punto. Gli restavano due alternative. Gettare l'arma, approfittare del momento in cui Jeff si sarebbe chinato per raccoglierla e saltargli addosso, oppure accovacciarsi, come se intendesse collaborare e invece far scivolare la pistola all'indietro, verso Jack per poi alzarsi di scatto e colpire il ragazzo. Per sua stessa ammissione, Jack era un
abile tiratore e, se fosse stato svelto, avrebbe potuto sfruttare quell'istante per sparare. Ma Jack aveva ingurgitato un bel po' di alcol e i suoi tempi di reazione di certo erano pari a zero. «La pistola, Mr Pullman.» Marty guardò il ragazzo che aveva lavorato al suo fianco negli ultimi tre giorni, il ragazzo che aveva pianto al funerale di Morey dopo che gli aveva sparato in testa. «Non posso, figliolo.» «Lo capisco e la rispetto, signore», replicò Jeff, ma raddrizzò la mira. «Però, se non mi dà la pistola, sarò costretto a spararle.» «Mi sparerai comunque. Sia che io ti renda il compito più facile sia che non te lo renda», replicò Marty. «No, Mr Pullman, non lo farò. Non sapevo nemmeno che lei fosse qui sinché non sono entrato. Non ho niente contro di lei e non voglio spararle. Tuttavia, se ne sarò costretto, lo farò.» «Quindi eri tu nel solaio di Brainerd...» disse Jack dal divano, in tono discorsivo. Marty udì il gorgoglio di un bicchiere che veniva riempito. Jack, che diavolo fai? pensò Marty. Eppure lo sguardo di Jeff aveva vacillato per un istante. Jack lo aveva colto di sorpresa, come faceva con tutti. «Come?» chiese Jeff, con gli occhi ancora fissi su Marty e col dito sempre sul grilletto. «Brainerd. Lo chalet da pesca. Tu eri nel solaio, hai visto quello che è successo, ci hai visto. Perciò quell'uomo dietro il banco chi era? Tuo padre?» Gli occhi di Jeff saettarono verso Jack e Marty si tese, avvertendo per la prima volta una vaga speranza. Continua a parlare, Jack. Gli mandò un messaggio mentale assolutamente inutile, perché parlare era ciò che Jack faceva per vivere. Distrarre, persuadere, sparare cazzate: erano i punti di forza di un avvocato e adesso Jack stava facendo esattamente quello per cui era preparato. Ma era pur sempre un atto di coraggio. Si voltò leggermente di lato e guardò Jack con la coda dell'occhio. Trenta secondi prima stava cercando di riaversi da una sbronza; adesso agitava il bicchiere, recitando la parte dell'ubriacone. «A pensarci bene, era un po' vecchio per essere tuo padre. Chi era, il nonno?» «Era mio padre», rispose Jeff in tono gelido. «Mr Pullman, butti qui la pistola o...» «Cazzo. Deve essere stata dura crescere con un nazista per padre. E io
che pensavo che mi fosse andata male. Ragazzo, hai la mia solidarietà.» La calibro 9 tremò leggermente nella mano di Jack e un rossore iniziò a salirgli dal collo al viso. Troppo veloce, pensò Marty. «Se hai visto quello che è successo a Brainerd, allora sai che Jack non ha sparato a tuo padre.» Il sorriso di Jeff era del tutto privo d'umorismo. «Si aspettava forse che le dicesse qualcosa di diverso? Sono uscito dalla mia stanza quando ho sentito gli spari e Jack impugnava una pistola.» «Lui non ha premuto il grilletto, Jeff», insistette Marty. «Gli altri hanno sparato a tuo padre. Hanno cercato di convincere Jack a sparargli quand'era già morto, ma lui non lo ha fatto. Non poteva.» Jeff socchiuse le palpebre per scrutare Marty. «Lui era lì.» «Ci puoi scommettere che ero lì», biascicò Jack dal divano. «E vuoi sapere perché? Perché mio padre stava cercando di convincermi a terminare il suo lavoro, proprio come tuo padre ti ha convinto a terminare il suo. Te lo ripeto, ragazzo, abbiamo molto in comune...» «Per favore, stia zitto, Mr Gilbert...» «... ma quello che voglio veramente sapere è: come cazzo hai fatto a trovarci?» Jeff era ancora concentrato su Marty, aveva ancora la situazione in pugno, ma Jack lo infastidiva, distogliendo momentaneamente la sua attenzione dalla 357 che Marty teneva ancora lungo il fianco. Molto lentamente, Marty mosse il dito verso la sicura. «Suo padre è stato così stupido da venire con la sua macchina. Ho visto la targa, mi sono fatto amico lo sceriffo, ho atteso finché non ha consultato la Motorizzazione per controllare una targa a causa di un eccesso di velocità e ho inserito il numero. Una volta rintracciato suo padre e trovato un lavoro qui, dovevo soltanto aspettare che gli altri due si facessero vedere. Un gioco da ragazzi.» «Perché non lo hai detto alla polizia?» chiese Marty, avvicinando un po' di più il dito. «Nella mia famiglia ci occupiamo di persona dei nostri affari.» «E adesso i tuoi affari ti portano a uccidere Jack.» «Esatto. Occhio per occhio. Non uccido in maniera indiscriminata. Sono atti di giustizia e Jack è l'ultimo di essi. Non devo ucciderla, Mr Pullman, e di certo non voglio farlo. C'è stato un tempo in cui speravo di restare al vivaio, di aiutare Mrs Gilbert, magari anche di farmi una vita qui...» Marty udì Jack inspirare bruscamente alle sue spalle ed ebbe difficoltà a
restare impassibile. «... ma, quando l'ho vista, ho capito che dovevo sacrificare il mio sogno, portare a termine la missione e poi scomparire. Sono contento di farlo per salvarle la vita, Mr Pullman. Lei deve soltanto scegliere di vivere, passandomi la pistola.» Marty continuò a fissarlo, sentendo la sicura toccargli il dito. «Ha fatto la sua scelta, vero, Mr Pullman?» «Immagino di sì, Jeff.» «Dannazione, Marty, dagli quella fottuta pistola!» urlò Jack, balzando su dal divano e facendo trasalire Marty. In quel momento, il piede di Jeff si sollevò a velocità incredibile. Con un calcio, il ragazzo fece volar via la 357, che roteò sul pavimento e finì sotto il divano, cozzando contro la parete con un sonoro clunc. Marty chiuse gli occhi. Quindici anni nella polizia e un ragazzo lo disarmava. Maledizione, non era in grado di salvare nessuno. Il cancello del parcheggio del vivaio era chiuso a chiave. Quando Magozzi e Gino si fermarono, quattro squadre erano già allineate sul marciapiede e altre due stavano arrivando da Lake Street. Grazie a Dio, niente luci e niente sirene. Peterson stava facendo bene il suo lavoro. Viegs si avvicinò a loro trotterellando, col berretto che gli proteggeva i capelli trapiantati dalla pioggia e con un cappuccio di plastica che gli proteggeva il berretto. «C'è una squadra nel posteggio. Due uomini hanno varcato la siepe per andare a controllare. Non c'è traccia di Becker. Non sapevo se volevate che ci spingessimo più in là. Peterson ci ha detto di aspettare.» «Un secondo...» disse Gino, estraendo il cellulare e proteggendolo dalla pioggia battente. Digitò un numero e ascoltò. «No, Pullman non risponde.» «Muoviamoci», sussurrò Magozzi. «Viegs, copri il perimetro con gli uomini che hai. Noi entriamo.» Lui e Gino si tolsero gli impermeabili - impacciavano troppo e facevano troppo rumore - e aggirarono la proprietà. Si tennero a ridosso della siepe e puntarono verso il lato in cui i cespugli lasciavano un varco. Tuoni e fulmini stavano diminuendo, benché continuasse a vedersi qualche lampo seguito da un brontolio lontano. Tuttavia la pioggia era ancora intensa e il vento li investiva con forza. Ti prego, ti prego, pensò Magozzi, pregando un dio in cui non era certo di credere. Ti prego, fa' che Montgomery non sia qui, fa' che sia nel suo
appartamento, che Langer e McLaren lo stiano ammanettando in questo momento, che non ci siano più cadaveri in questa spaventosa guerra che sembra non aver fine. Trovarono Becker nelle aiole a pochi metri dalla porta dell'ufficio. Era supino, con gli occhi chiusi e la pioggia che gli batteva sul volto. Dall'intero lato sinistro della testa fuoriusciva sangue. Magozzi non avrebbe saputo dire se era vivo o morto. Premette con forza la carotide e sentì un battito che forse era quello di Becker. Ma forse era il suo. Gino si rialzò all'istante, col cellulare in mano, e si precipitò verso la parte anteriore della serra per richiamare gli agenti nel posteggio coi gesti che aveva imparato all'Accademia e che pensava di aver dimenticato. Alle sue spalle, Magozzi si avvicinò furtivamente alla porta dell'ufficio. Dal telaio filtravano strisce di luce. Il calcio di Jeff Montgomery era riuscito a far arretrare Marty di qualche passo e a rompergli la mano, che adesso gli penzolava inerte lungo il fianco, gonfia, pulsante, vuota. «Mi spiace di essere stato costretto a farlo, Mr Pullman. È stato l'unico modo che mi è venuto in mente per salvarle la vita.» Santo cielo, pensò Marty, scuotendo la testa e sorridendo, impotente. Proteggere lui e uccidere Jack: Jeff metteva lo stesso impegno in entrambe le cose. Era un senso così strano, così bizzarro dell'onore, del bene e del male, che quasi non riusciva ad afferrarlo. Poi d'un tratto ci riuscì e comprese che, in quel momento, non stava guardando soltanto Jeff Montgomery, ma anche Morey Gilbert, Rose Kleber, Ben Schuler e infine Marty Pullman. Per la prima volta dopo lungo tempo si sentì in pace con se stesso. Stava guardando le cose in faccia, le stava vedendo con chiarezza. «Ascoltami, Jeff. Mi sono trovato nella tua posizione. Ho fatto quello che tu stai per fare e lascia che ti dica una cosa: non è un atto di giustizia.» Jeff lo scrutò con aria cinica. «Lei non capisce. Uccidere nell'esercizio del proprio dovere non è la stessa cosa.» «Non ho mai ucciso nessuno nell'esercizio del mio dovere.» Le sopracciglia di Jack si sollevarono, e anche Jeff sembrò sorpreso. «Che cos'ha fatto esattamente, Mr Pullman?» Marty inspirò ed espirò in modo che le parole avessero qualcosa su cui posarsi. «Ho ucciso l'uomo che ha ammazzato mia moglie.» La bocca di Jack si spalancò, flaccida. Tastò dietro di sé, trovò il bordo
del divano e si sedette. «Hai sparato a Eddie Starr?» sussurrò. Marty annuì. Jeff gli stava sorridendo con indulgenza. «Allora è stato un gesto nobile, Mr Pullman. Doveva farlo.» «Ho sparato a un uomo disarmato che si stava infilando un ago nel braccio, Jeff, e in questo non c'è niente di nobile. Non è giustizia, non mi ha reso migliore. Mi ha soltanto trasformato in un assassino e non c'è nulla che io possa fare per rimediare. Ma tu hai una possibilità che io non ho mai avuto: risparmia l'ultimo. Scegli di non ucciderlo. Fa' dietrofront, esci da quella porta e avrai qualcosa cui aggrapparti per il resto della vita.» Il vento stava rinforzando, investendo l'edificio e scuotendo la porta. Jeff lo stava osservando con uno sguardo impietosito. «È davvero un peccato, Mr Pullman. Ha fatto la cosa giusta, ma non lo capisce.» Fece un rapido passo a sinistra per poter sparare a Jack e premette il grilletto quasi un secondo prima che Marty si rendesse conto che quello era il momento buono. Quasi. In quel millisecondo, Marty si lanciò di lato a mezz'aria, sapendo che stava facendo la cosa giusta, sentendosi bene, improvvisamente puro, mentre si frapponeva tra il proiettile e l'unica persona innocente in quella stanza. L'incredibile gorilla volante! pensò, e sorrise mentre il proiettile gli penetrava nella parte inferiore del petto. «Maledizione!» urlò Jeff, mirando di nuovo a Jack. Quindi la porta si spalancò e sbatté contro la parete interna, staccandosi dai cardini. Magozzi era lì, accucciato sotto la pioggia e il vento, urlando: «Buttala! Buttala!» Jeff si girò di scatto, sparando all'impazzata perché aveva perso il controllo, perché tutto stava andando storto. Quando il legno volò in tutte le direzioni sopra la sua testa, Magozzi premette il grilletto più volte, sparando ripetutamente al petto di Jeff Montgomery, mentre l'adrenalina rovente gli alimentava i muscoli ma non il cervello, in modo che non vedesse il viso liscio da bambino, gli occhi azzurri sorpresi del giovane che stava uccidendo. 41 Magozzi si rialzò lentamente, con la pistola ancora ben salda e puntata verso il cadavere di Jeff Montgomery. I suoi occhi guizzarono nella stanza, come per scattare una serie di istantanee: il ragazzo sulla sinistra col petto devastato; Marty Pullman esattamente davanti a lui, supino ma con gli oc-
chi ancora aperti, anche se la camicia stava diventando rossa; Jack Gilbert che stava spiccando un balzo dal divano, per inginocchiarsi a fianco di Marty. Tavolo, computer, sedia, una bottiglia vuota rovesciata da cui colava un liquido. A quel punto si concesse di respirare e lasciò che il vento lo spingesse nel piccolo ufficio che puzzava di alcol, di cordite e di sangue. Con la punta del piede, scostò la pistola di Montgomery dalla mano piegata del ragazzo, poi sentì il pesante conforto della mano di Gino sulla spalla. «Lasciami passare, amico. Lasciami passare.» Magozzi sentì le gambe tremargli. Guardò Gino chinarsi, premere le dita sul collo di Montgomery e poi risollevarsi dicendo: «È andato». Quand'ebbero fatto tre passi per avvicinarsi al punto in cui era steso Marty, fuori, sotto la pioggia, era comparsa una mezza dozzina di poliziotti con le armi in pugno. «Via libera?» gridò uno verso l'interno. «Libera! Ci serve subito un'ambulanza!» rispose Gino. «È in arrivo.» Jack strappò la camicia di Marty e si sfilò la T-shirt per premerla forte contro la ferita. Marty grugnì e il suo sguardo si velò di dolore. «Stai cercando di uccidermi?» «Non sembra tanto brutta, Marty. Starai bene. È solo un forellino, adesso è sotto controllo, ma hai sanguinato su tutta la camicia, stupido coglione. Sai quant'è difficile togliere il sangue dal lino?» Marty chiuse gli occhi e sorrise. Ma aveva una brutta cera. «Lasci che ci pensi io, Jack.» Magozzi posò la mano su quella di Jack e attese che la scostasse, poi fece un po' di pressione sulla T-shirt appallottolata. Sapeva bene che l'emorragia di Marty non era esterna, ma interna. Il che non era un bene. L'uomo respirava affannosamente perché cuore e polmoni stavano contrastando la pressione e il sangue che impregnava la polo di Jack era rosso vivo. Sangue arterioso. «Ehi, Pullman.» Gino era accanto alla sua testa, inginocchiato lì vicino. «Apri gli occhi, amico. Se pensi che scriveremo noi il rapporto per te, ti sbagli di grosso.» «Gino», sussurrò Marty, senza però aprire gli occhi. «Quant'è grave?» L'altro deglutì vigorosamente, sforzandosi poi di parlare in tono spensierato. «Scherzi? Ti sei preso un proiettile nel petto, credi che sia una passeggiata? Da come la vedo, resterai steso sulla schiena per un mese e dovrai pisciare in un pappagallo. Perché diavolo hai lasciato che quello stronzo ti sparasse?»
«Voleva sparare a me», borbottò Jack, con le mani giunte tanto strette che stavano diventando bianche. Le teneva indietro, in modo da non toccare Marty, da non fargli male. Respirava affannosamente, parlava affannosamente e batteva le palpebre, cercando di tener duro. «Maledizione, stava sparando a me e Marty si è messo in mezzo. Quello stupido figlio di puttana è saltato davanti al proiettile ed è colpa mia, questa è tutta colpa mia, perché cazzo lo hai fatto Marty, perché devi sempre fare l'eroe...» Marty protese di scatto la mano e afferrò il polso di Jack. Poi girò la testa, aprì gli occhi e lo guardò. «Non sono un eroe. Sono esattamente come Morey, Jack. Ricordatelo...» «Questa è una tale stronzata...» Marty strinse il polso di Jack e lo sforzo gli costò parecchio. Gli era sempre più difficile parlare. «Esattamente come Morey, come tutti loro. Glielo devi dire. Racconta a Magozzi e Gino di Eddie Starr. Aiutali a chiudere il caso.» Poi sorrise. «Per tutto questo tempo, tu sei stato l'unico davvero buono, Jack. Sei il migliore di tutti noi. Sei tu l'eroe.» Jack avvicinò la testa a quella di Marty e scoppiò in lacrime. Gino si alzò, accigliato, poi si schiarì la gola. «Vado a vedere se arriva l'ambulanza», disse, fiero perché la voce gli si era incrinata solo un po'. Quando si girò verso la porta, scorse una marea di uniformi blu raccolte in una veglia silenziosa sotto la pioggia, coi volti duri e con le labbra serrate. Qualcuno si toccava gli occhi, fingendo di scacciare le gocce d'acqua. Lily Gilbert si stava facendo strada tra gli agenti come un piccolo, vecchio bulldozer, con la pioggia che le incollava i capelli bianchi sulla testa, le colava sugli occhiali e le batteva sulle spalle dritte. I poliziotti la lasciarono passare. Lei si avvicinò al punto in cui Marty giaceva a terra e s'inginocchiò accanto a Jack, senza dare nemmeno un'occhiata al cadavere di Jeff Montgomery. Magozzi si alzò e arretrò. Dovette avvicinarsi molto prima che Marty la vedesse. Per qualche ragione aveva problemi di vista, il che sembrava un fatto piuttosto grave, giacché gli avevano sparato al petto. «Sei tu, Lily?» «Sono proprio qui», disse lei, posandogli le vecchie dita ossute sulla fronte e sentendo un gelo mortale. «Jack ha qualcosa da dirti», sussurrò Marty, mentre la lingua si spostava da un lato della bocca, trovandovi sangue. «Lo so. Lo ascolterò. Adesso sta' tranquillo.» «È un po' tardi per questo.» Le lacrime scorrevano sul volto di Jack e gli gocciolavano dal mento sul
petto nudo, per rotolargli poi sul ventre. «Sta' zitto, Marty, maledizione, sta' zitto. Tu starai bene. Giuro su Dio che starai bene...» Mentre lui cercava di parlare, gli occhi di Marty si chiusero e il petto si sollevò per lo sforzo, riabbassandosi subito dopo. «Jack», mormorò Lily. «Marty non starà bene. Sta morendo. Lascia che dica quello che deve dire.» Il sorriso di Marty era triste, di un blu grigiastro. Eppure, quando lui riaprì gli occhi, erano chiari, concentrati e colmi di lacrime. «Dio mio, ti voglio bene, Lily», sussurrò. «Ho cercato di sistemare le cose.» Lei gli sorrise. «Tu hai sempre cercato di sistemare le cose. Ecco cosa sei: una brava persona. Sei un bravo figlio, Martin», mormorò. Poi vide gli occhi di lui chiudersi per sempre. A pochi passi di distanza. Magozzi girò la testa verso il muro, trovò una scheggia di legno che spuntava dal pannello e la fissò con attenzione. Udì Jack singhiozzare, udì alcuni agenti vicino alla porta tirare su col naso, udì Gino gridare: «Dove cazzo è quella maledetta ambulanza?» e, al di là di tutti i rumori, udì il vento che rinforzava di nuovo e la pioggia che scendeva più intensa, martellando il mondo. Alla fine udì le sirene. I tecnici dell'ambulanza si affaccendarono attorno a Marty Pullman per dieci minuti buoni, impegnati in tutte quelle orribili attività riservate alle persone che non volevano perdere, seguendo la procedura, benché avessero capito che era inutile fin dal momento in cui lo avevano visto. Ma si comportavano così perché un cordone di agenti e la famiglia erano lì a osservare e avevano bisogno di assistere a una scena del genere. Quando infine riposero l'attrezzatura, si alzarono e si allontanarono, uno di loro scoppiò in lacrime, senza pudore. Secoli prima aveva lottato con Marty Pullman nelle gare statali di wrestling e riso quando aveva perso: inchiodare a terra le gigantesche spalle di Marty era come voler placcare un gorilla. Jack si era allontanato per lasciare spazio al personale dell'ambulanza e, nel momento stesso in cui i paramedici uscirono, tornò a inginocchiarsi al fianco di Marty. Aveva un'aria così triste, steso lì, tutto solo... A uno a uno gli agenti entrarono per rendere un silenzioso omaggio al collega, poi uscirono in fila e scomparvero sotto la pioggia battente. Senza i loro corpi che bloccavano la porta, la pioggia spinta dal vento investì il corpo di Marty, lavandogli via il sangue dal petto. Gino, Magozzi e Lily stavano sulla soglia. In qualche modo, la mano di
Lily trovò quella di Magozzi. Era piccola, fragile e triste. Ci sarebbero stati alcuni istanti di relativa calma prima che i tecnici della scena del crimine si mettessero all'opera per trasformare la morte in scienza. Troppi perché Jack Gilbert restasse seduto lì tutto solo, pensò Gino, cercando di fare il burbero perché Jack non gli piaceva, allontanandosi però dal muro e avvicinandosi per restare al suo fianco. Fu allora che Gino vide la lunga cicatrice irregolare sul petto di Marty. «Gesù», mormorò. «Come se l'è fatta?» «Suo padre», rispose Jack, con voce spenta come l'uomo che aveva accanto. «Come?» «Suo padre lo ha ferito quand'era bambino.» «Cristo.» Gino chiuse brevemente gli occhi, pensando alla miriade di storie che fanno parte di un uomo, al fatto che non conoscevi mai tutto di una persona e che c'erano mostri ovunque. Girò le spalle quando una folata particolarmente forte spinse una cascata di pioggia oltre la soglia e produsse un rumore secco, disturbante, nel cadere sulla pelle nuda di Marty. I pensieri di Gino tornarono a un tratto all'inizio di quel terribile caso, a Lily Gilbert che aveva contaminato la scena del crimine per togliere dalla pioggia il cadavere del marito. Quando guardò la donna, che si trovava accanto a Magozzi, notò che lei lo stava fissando dietro gli occhiali spessi. Era silenziosa e non piangeva. Lo fissava e basta. Gino osservò la pioggia che schizzava sul volto di Marty e capì alcune cose. Magozzi inarcò un sopracciglio quando vide Gino accovacciarsi, infilare le braccia sotto le spalle e le ginocchia di Marty, sollevare il morto e trasportarlo con delicatezza sul divano, lontano dalla pioggia. Quando Gino si voltò, Lily lo stava ancora fissando. La donna annuì, poi avanzò per mettersi dietro Jack. Gli posò le mani sulle spalle tremanti, si chinò per baciargli la sommità del capo e sussurrò: «Vieni, prenditi cura di tua madre. Ha il cuore che sta andando a pezzi». Nel giro di mezz'ora, il comandante Malcherson arrivò sul luogo della sparatoria e assunse il controllo della situazione. Prese le dichiarazioni di Magozzi e Gino, prelevò la pistola di Magozzi e avviò tutte le procedure necessarie nei casi in cui un agente usava un'arma. Tecnicamente, Magozzi sarebbe dovuto andare in congedo amministrativo fino al termine dell'in-
chiesta sull'uccisione di Jeff Montgomery - Gino avrebbe dovuto firmare tutti i verbali prodotti prima della conclusione della pratica -, tuttavia Malcherson non prese neppure in considerazione l'idea di mandarlo a casa. Per prima cosa, Magozzi gli avrebbe disobbedito, il che sarebbe stato problematico e inaccettabile: sarebbero stati entrambi costretti ad assumere posizioni rigide che avrebbero soltanto nuociuto all'indagine. In secondo luogo, i Gilbert lo conoscevano e si fidavano di lui e, se c'era una possibilità di chiudere il caso, quella possibilità era in mano loro. A volte si seguivano le regole alla lettera, altre volte no. Malcherson rimase lì, mentre Jimmy Grimm e la sua squadra analizzavano la scena, lasciando liberi Gino e Magozzi, in modo che potessero andare a parlare coi Gilbert. I due seguirono il sentiero di ghiaia che passava in mezzo alle aiole fino alla casa. Nonostante la pioggia, i pezzetti di quarzo colorato brillavano nel fascio di luce delle torce. Almeno per il momento, i fulmini si erano spostati a est. Da ovest stava arrivando un altro fronte - secondo Jimmy Grimm, la supercella che stava scaricando sul Minnesota li avrebbe tenuti sotto tiro per l'intera notte -, però ci sarebbe stata una tregua prima della nuova ondata. Lily venne loro incontro sulla porta posteriore con addosso una salopette asciutta e una camicia con le maniche corte. Magozzi osservò i muscoli sodi delle braccia ossute e il tatuaggio in basso, vicino al polso. «Avete saputo qualcosa dell'agente Becker?» furono le prime parole che le uscirono di bocca. «Ce la farà», rispose Gino. «Montgomery non gli ha sparato. Gli ha soltanto dato una botta in testa.» «Dove l'hanno portato?» «Allo Hennepin County Hospital, credo.» «È un bravo ragazzo. Prima che ci portiate in prigione, gli manderò un mazzo di fiori.» Gino e Magozzi si scambiarono una rapida occhiata perplessa. «Non siamo qui per portarvi in carcere, Mrs Gilbert.» «Non ancora, forse. Entrate. Vi stavamo aspettando.» Li condusse in cucina, dove Jack - asciutto e sobrio - era seduto al tavolo, con addosso un'antiquata vestaglia scozzese che forse era appartenuta al padre. Aveva le maniche arrotolate più volte, cosa che ricordò a Magozzi che Morey era un uomo molto alto. Jack aveva gli occhi rossi e il volto gonfio. «Come sta, Jack?» «Bene, penso. Sedetevi, ragazzi.»
«È stata una sera terribile», disse Gino. «Ci spiace per Marty, davvero. E ci spiace dovervi fare alcune domande.» «È il vostro lavoro», osservò Lily, prendendo i piatti dagli armadietti e riempiendo i bicchieri come se loro fossero ospiti capitati lì per un boccone. «Ecco, mangiate.» Posò una ciotola di una zuppa aromatica davanti a ognuno. «È zuppa di pollo. Mette a posto molte cose. Fatta in casa, vero schmaltz. Tutto il resto non funziona.» Gino non aveva idea di che cosa fosse lo schmaltz, ma l'odore della minestra era favoloso. Prese il cucchiaio, poi esitò. Lily pensava che l'avrebbero portata in prigione eppure aveva offerto loro una zuppa. Si chiese se mangiarla significasse accettare una sorta di mazzetta. «Non rifiutate.» Jack li stava osservando. «Sa perché siete qui. Vi diremo tutto quello che possiamo, però dovete mangiare la minestra.» «Per prima cosa», aggiunse Lily. «Poi parliamo.» Magozzi mangiò la minestra, però, a differenza di Gino, prese l'offerta per quello che era. Lily Gilbert li stava finalmente accogliendo. Quand'ebbero finito, lei sparecchiò e si sedette accanto a Jack. «Racconta loro di Brainerd.» Magozzi si affaccendò a estrarre notes e penna, tenendo il volto girato per non rivelare la sua sorpresa. Come diavolo faceva Jack a sapere di Brainerd? Capì la risposta prima ancora di fare la domanda, il che lo fece star male. Jack era andato allo chalet da pesca col padre e con gli altri. Jack era coinvolto. Percepì la tensione di Gino e intuì che aveva pensato la stessa cosa. Tuttavia rimasero entrambi in silenzio, in attesa. E la storia fu ancora peggiore di quello che avevano temuto. Jack impiegò molto tempo per raccontare di Morey, Rose e Ben che avevano sparato al vecchio nello chalet, dell'ombra che lui aveva visto in solaio e infine del suo rifiuto di partecipare all'assassinio. Magozzi e Gino smisero di scrivere e guardarono Jack. «Che c'è?» chiese lui. «Niente. Vada avanti.» Raccontò loro del ritorno a casa, quel giorno, della lite col padre e di tutto quello che era venuto dopo. «Ma non avevo mai collegato Brainerd con la morte di papà», concluse. «Non finché Ben non è stato ucciso e io ho visto la foto di Rose Kleber sul giornale. Fino ad allora ignoravo il suo nome. A quel punto, ho capito ciò che stava succedendo. Chiunque fosse nascosto in quel solaio aveva visto quello che avevamo fatto e ci stava elimi-
nando a uno a uno.» «Quello che loro avevano fatto», lo corresse Gino. «Non lei.» «Comunque sia. Da qualsiasi prospettiva la si guardi, ho le mani sporche di sangue. Se ve lo avessi detto prima, forse avreste salvato Marty.» Magozzi gli disse la verità. «Forse sì, ma forse no. Jeff si era creato una copertura piuttosto buona.» Gli aveva dimostrato un po' di simpatia, però non sarebbe stato sufficiente e Magozzi non poteva fare di più. Una parte di lui avrebbe voluto prenderlo per il collo perché, sì, con un po' più di tempo magari sarebbero riusciti a salvare Marty. Ma l'altra parte soffriva per quell'uomo. Cosa si provava ad avere un padre che voleva trasformarti in un killer e che ti aveva ripudiato perché ti eri rifiutato di diventarlo? Jack si alzò e si versò una tazza di caffè. «C'è un'altra cosa. Papà mi ha detto che lo facevano da anni, che hanno ucciso molti nazisti. Ha aggiunto che teneva un elenco nel computer, però io non ho trovato niente. Forse lo ha cancellato.» «Chiameremo qualcuno perché venga a prendere il computer, ci daremo un'occhiata, per scrupolo», affermò Magozzi. Jack si strinse nelle spalle. «Potrebbe non essere vero.» «Temo di sì», rispose Magozzi. «Ci siamo arrivati proprio oggi pomeriggio. Sul retro di alcune foto che aveva in casa, Ben Schuler aveva scritto i nomi delle persone uccise.» Lily si raddrizzò leggermente sulla sedia. «Quante sono?» «Finora ne abbiamo contate più di sessanta.» Lei chiuse gli occhi. «Non ha mai sospettato nulla, in tutti questi anni?» Lei si tolse gli occhiali spessi, aprì gli occhi e lo guardò. Era la prima volta che Magozzi le vedeva gli occhi senza la barriera degli occhiali. Erano belli, pensò, e avevano un'aria tragica. «Ha iniziato a parlare di questa cosa subito dopo la guerra. Altre persone, piccoli gruppi, stavano dando la caccia a quegli uomini, li uccidevano, e lui pensava che fosse giusto. Una cosa nobile. Gli ho detto che, se fosse uscito da casa nostra per andare a uccidere un essere umano, non ci sarebbe più rientrato. E lui non ha più fatto parola di quella cosa.» «Viaggiava senza di lei almeno due volte l'anno», le ricordò Gino. «Non lo trovava strano?» «Lei è una persona molto sospettosa, detective Rolseth. Sua moglie va via con le amiche per un fine settimana e lei pensa: Ah, ecco, va ad am-
mazzare della gente. Morey e Ben andavano a pesca, di tanto in tanto. Era così difficile da credere? A ogni modo, ecco cosa sapevo, almeno fino alla notte in cui hanno sparato a Morey. Pensavo che lui fosse nella serra, come tutte le sere. Invece, verso mezzanotte, mi ha svegliato per dirmi di aver ucciso l'Animale.» «Un animale?» domandò Gino. «L'Animale. Così lo chiamava. Era nelle SS ad Auschwitz.» «Heinrich Verlag», chiarì Magozzi. «Altrimenti noto come Arlen Fischer.» La bocca di Jack si spalancò. «Fischer? L'uomo che è stato legato ai binari del treno? Mi stai dicendo che è stato papà a ucciderlo? E che poi te lo ha rivelato?» Lily annuì. «Lo conoscevo, Verlag, lo avevo visto in azione. Per sessant'anni ho augurato a quell'uomo di morire. E poi Morey mi sveglia, fiero come un gatto che ha portato in casa un topo morto. Forse pensava che non mi sarebbe importato se avesse ucciso quello lì. Non mi ha mai capito.» «Avresti dovuto dirmelo, mamma.» «Rivelando così a mio figlio che suo padre era un assassino?» «Ma io lo sapevo già.» Lily gli rivolse un sorrisetto triste. «Me lo hai detto adesso.» Magozzi posò la penna e si sfregò gli occhi. Erano troppe le informazioni da assimilare, e quasi nessuna era positiva per Jack o Lily. «Dovremmo scrivere tutto, documentare tutto», disse Gino facendo eco ai suoi pensieri. Jack fece un vago sorriso. «Non sia così cupo, detective. Per due giorni ha cercato di sbattermi in cella e ora il suo desiderio sta per realizzarsi. Sono stato testimone di un omicidio, non l'ho denunciato e vi firmerò una confessione. È tempo che in questa famiglia qualcuno inizi a prendersi la responsabilità per quello che ha fatto.» Lily gli diede un colpetto affettuoso sulla mano. «Be', per ora non speri troppo in una sistemazione di lusso a Stillwater. Qui ci sono molte circostanze attenuanti. Non sappiamo come agirà il procuratore della contea.» «Un'ultima domanda, Jack», disse Magozzi. «Marty voleva che lei ci dicesse qualcosa, qualcosa che ci avrebbe aiutato a chiudere il caso di Eddie Starr.» Lanciò un'occhiata a Lily e capì che pronunciare quel nome le aveva fatto male. «Lui sapeva che Morey lo aveva ucciso, vero?»
Jack si limitò a fissarlo. «Non ha più importanza, Jack», riprese Magozzi. «Ci siamo già arrivati: la pistola che Morey e gli altri hanno usato per uccidere molte delle loro vittime è la stessa che ha ammazzato Eddie Starr...» «Morey ha ucciso l'uomo che ha assassinato Hannah?» sussurrò Lily. «No», rispose Jack con calma. «È stato Marty. E la cosa lo stava distruggendo. Era un tormento con cui non riusciva più a convivere.» Magozzi e Gino si guardarono, poi si appoggiarono allo schienale della sedia, come se lo sforzo di stare seduti dritti fosse improvvisamente diventato eccessivo. Magozzi chiuse gli occhi e vide odio e vendetta ovunque. Morey che uccide, Marty che uccide... e Lily e Jack da un lato, soli contro la violenza che aveva distrutto la loro vita. Si chiese se si fossero resi conto di quanto erano simili, se qualcuno fosse in grado di andare oltre il groviglio dei loro errori e di coglierne la sostanziale bontà d'animo. E poi ricordò cos'aveva detto Marty prima di morire. «Per tutto questo tempo, tu sei stato l'unico davvero buono, Jack. Sei il migliore di tutti noi. Sei tu l'eroe.» 42 A un certo punto nella notte, la tempesta abbandonò il Minnesota per il Wisconsin, lasciandosi dietro una scia di edifici in rovina e di vite distrutte. Nove tornado si erano abbattuti sullo Stato e, almeno per il momento, i media erano tristemente impegnati a raccontarne le conseguenze. Avevano fatto un breve servizio sulla sparatoria all'Uptown Nursery, ma erano troppo concentrati sulla tempesta per approfondire seriamente il fatto. Ben presto, tuttavia, quando il pubblico si fosse stancato di vedere assi conficcate nei tronchi d'albero, case mobili capovolte o i resti di un capannone vicino a Wilmer che ospitava ventimila tacchini, la stampa si sarebbe buttata di nuovo sulla Omicidi, in cerca di un'altra notizia acchiappaaudience. Non era una bella prospettiva per il comandante Malcherson, che stava percorrendo a grandi passi il corridoio, diretto in ufficio. Quel giorno, d'altronde, per l'intero edificio non c'erano belle prospettive. Gloria era al banco, fasciata di nero, a sbrigare la corrispondenza. Marty Pullman aveva passato molto tempo in quell'ufficio quando Langer e McLaren stavano lavorando all'omicidio di Hannah e Gloria si era presa una cotta per lui. In parte perché aveva le gambe storte e lei doveva ancora
incontrare un uomo con le gambe storte che non le piacesse; in parte perché era sempre un gran signore e la trattava con quel pacato e cordiale rispetto che non ti stancava mai. Ma soprattutto perché quell'uomo era distrutto per aver perso la moglie e non si vergognava di rivelarlo. Qualsiasi uomo in grado di amare tanto una donna meritava di essere compianto. Quando Malcherson si fermò al banco, Gloria alzò lo sguardo. «Ha dormito un po', capo?» «Qualche ora, grazie. Chi c'è?» «Peterson si sta occupando di quel pazzo ubriaco che stamattina hanno tirato fuori dal Mississippi. Gli altri sono qui. Magozzi e Rolseth sono tornati circa mezz'ora fa con l'aria di chi è stato spianato da un rullo compressore. Se vuole il mio parere, e so che lo vuole, credo che dovrebbe mandarli a casa.» «Farò quello che posso, Gloria.» Malcherson andò verso il fondo della sala. Langer e McLaren stavano lavorando sulla scrivania di sinistra, mentre Gino e Magozzi erano a quella sulla destra. Trascinò una sedia nel corridoio in mezzo a loro e si sedette, posando un notes formato A4, e nuovo, sulle ginocchia. «Signori, dobbiamo esaminare alcune cose.» In apparenza, Langer e McLaren stavano bene. Per quanto ne sapeva lui, avevano terminato il rapporto sulla perquisizione dell'appartamento di Jeff Montgomery ed erano andati a casa prima di mezzanotte. Magozzi e Rolseth, invece, erano ancora in ufficio quando lui se n'era andato, alle tre. Magozzi aveva un'aria tesa ed emaciata; Gino sembrava avere due bustine di gelatina liquefatta sotto gli occhi. Ma il vero indice del suo sfinimento era l'assenza di commenti sul vestito di Malcherson. «Avete fatto un lavoro straordinario su quei casi, detective. A meno che non abbia letto male i rapporti, ieri sera abbiamo risolto quattro omicidi.» «Con difficoltà», commentò amaramente Magozzi. «Avete salvato la vita a Jack Gilbert», gli ricordò Malcherson. «Ma abbiamo perso Marty Pullman. Siamo arrivati dieci secondi troppo tardi.» «Ogni omicidio commesso in questa città significa che siamo arrivati dieci secondi troppo tardi, detective Magozzi. Facciamo quello che possiamo.» Estrasse la Montblanc dalla tasca e guardò Langer e McLaren. «Abbiamo già il rapporto definitivo sulla perquisizione dell'appartamento di Thomas Haczynski?» «Sta arrivando, ma il preliminare è già piuttosto esauriente.» McLaren
aprì un piccolo notes tutto logoro, pieno di scarabocchi sulla copertina. «Il ragazzo aveva una calibro 22 sotto il materasso. La Balistica lo ha confermato stamattina presto: è la stessa pistola che ha ucciso Morey Gilbert. E la calibro 9 che ha usato su Marty ha ucciso Rose Kleber e Ben Schuler. In più, abbiamo un diario che spiega che cosa faceva e perché fino all'ultima annotazione, poco prima che andasse al vivaio per uccidere Jack, ieri sera. È una lettura più che tetra, ve lo assicuro. Mi ha fatto venire i brividi. Aveva pianificato il delitto da più di un anno, fino all'ultimo dettaglio. Aveva persino ideato quella messinscena telefonica per far credere di essere in Germania.» Malcherson sollevò lo sguardo. «Si spieghi meglio.» «Ne abbiamo appena parlato con Gino e Magozzi», disse Langer. «Nel suo appartamento, Montgomery aveva uno di quei costosi telefoni ibridi, quelli che funzionano qui e in Europa. Era piuttosto semplice, in realtà. Si è semplicemente creato un identificativo tedesco, completandolo poi con un numero telefonico tedesco. Nessun dispositivo d'identificazione del chiamante, compresi i nostri, avrebbe mai potuto cogliere la differenza. Poteva ricevere o fare chiamate da qualsiasi parte del mondo e far credere di essere sempre in Germania.» «Che bastardo», brontolò Gino, ancora furioso per essersi lasciato ingannare. «Prima scoppia a piangere, poi si mette a parlare in tedesco e finge di essere suo zio.» Malcherson sospirò. «Quindi, in sostanza, i casi di Magozzi e Rolseth sono chiusi.» «Direi di sì», convenne Langer. «Ma quello di Arlen Fischer è un altro paio di maniche. Sappiamo che è stato ucciso da Morey Gilbert e dalla sua banda, ma le prove sono solo circostanziali. Un mucchio di biglietti di aereo e un bel po' di congetture. In realtà, non possiamo accusare nessuno di loro neanche per uno dei sessanta omicidi e più che hanno commesso, per non parlare di Arlen Fischer. E, per quanto riguarda la confessione che Morey ha fatto a Lily, uno studente di legge al secondo anno la farebbe a pezzi... È anziana, è stata svegliata mentre dormiva profondamente, forse stava sognando... cose del genere.» «Lo stesso vale per il resoconto di Jack sui fatti di Brainerd», replicò Gino. «Se si trattasse di Jimmy Carter, d'accordo. Nel caso di un avvocato ubriacone specializzato in lesioni personali che se ne va a spasso per Wayzata in accappatoio, non credo.» «Allora qual è il problema?» chiese McLaren. «Non è che incriminere-
mo queste persone. Sono morte.» «Se tentiamo di chiudere il caso di Arlen Fischer in base alle nostre conclusioni senza prove adeguate, le incriminiamo davvero senza un processo», rispose Malcherson. «E io, tanto per cominciare, non voglio indurre l'opinione pubblica a crederci sulla parola, convincendola che tre amabili vecchietti, tre pilastri della comunità che hanno sofferto e vinto gli orrori dei campi di concentramento solo per finire uccisi nella nostra città, fossero in realtà una banda di serial killer.» McLaren sollevò le mani. «Allora non chiuda il caso. Lo tenga aperto per sempre.» «Anche questo non funziona», osservò Langer. «Il diario di Jeff Montgomery sarà di dominio pubblico non appena chiuderemo gli omicidi Gilbert, Kleber e Schuler, e quel diario spiega che i tre gli hanno ucciso il padre a Brainerd. A quel punto, tutto verrà a galla e noi finiremo nel mirino per non aver proseguito le indagini.» Malcherson avvicinò un dito al sopracciglio bianco e soffice come cotone. «La stampa ci andrà a nozze. È il genere di storia che i giornalisti sognano: nazisti nascosti sotto gli occhi di tutti, squadre della morte di vigilantes ebrei... L'intera città prenderà le parti degli uni o degli altri e noi ci ritroveremo nel mezzo. A livello locale, quando la notizia arriverà ai media, il Dipartimento verrà bersagliato da tutte le parti.» McLaren era scivolato sulla sedia tanto da avere la testa quasi al livello del tavolo. «Quindi siamo fottuti sia che cerchiamo di chiudere il caso Arlen Fischer sia che lo lasciamo aperto.» «Sembrerebbe proprio così, detective.» «Be', splendido. Langer, da' la pistola al capo. Sparerà a tutti noi e poi si toglierà la vita.» «Potrebbe esserci un'alternativa.» Malcherson aveva quel suo sguardo inesorabile da cui si capiva che avrebbe passato i sei mesi seguenti col sorriso sulle labbra. «Da un punto di vista tecnico, quando passiamo un caso all'FBI, nel nostro Dipartimento risulta ufficialmente chiuso. Tutte le domande vengono girate all'agente speciale responsabile, Paul Schafer. Noi non siamo più nella posizione di discuterne con nessuno: né con le forze dell'ordine né con l'Interpol e di certo non coi media. Avremmo le mani legate.» A uno a uno iniziarono a sorridere, per la prima volta in ventiquattro ore, tranne Johnny McLaren, che stava guardando Malcherson con palese stupore. «Capo, lei è il più astuto figlio di puttana del pianeta.»
«Grazie, detective McLaren.» Malcherson era già quasi al banco di Gloria quando Gino lo chiamò. «Ehi, capo.» Malcherson si fermò all'istante, ma senza voltarsi. «Ottima scelta, il vestito blu marine. L'uomo comune può accontentarsi del nero in situazioni dolorose, ma un uomo nella sua posizione non potrebbe mai farlo. Sarebbe stato un po' troppo importante. Credo che abbia azzeccato di nuovo.» Il comandante Malcherson attese finché non si trovò in corridoio. E poi sorrise. Venti minuti dopo, il detective Aaron Langer entrò nell'ufficio del capo proprio mentre questi stava riagganciando il telefono con aria straordinariamente compiaciuta. «Era Paul Schafer», disse. «L'ammissione che il caso Fischer va oltre le nostre capacità investigative lo ha deliziato alquanto.» Langer sorrise. «Cosa gli ha detto, signore?» «L'assoluta verità. Che il Dipartimento di polizia di Minneapolis non ha le capacità mediatiche per gestire un caso di tale portata.» «Deve essere stato irresistibile.» «Credo proprio di sì. Sta venendo qui a prendere il dossier. Di persona.» «Dunque, per quanto ci riguarda, adesso il caso Arlen Fischer è chiuso.» «Già.» «Bella notizia, capo.» Langer tolse l'arma che portava al fianco, estrasse il caricatore e vuotò la camera, poi la mise sul tavolo, appoggiando per prima l'impugnatura. Malcherson fissò l'arma, quindi il distintivo che Langer vi posò accanto. «Posso sedermi, signore?» «Certo.» Langer si accomodò sulla sedia, poi guardò fuori dalla finestra in modo da non dover fissare Malcherson negli occhi. Ormai non riusciva a farlo da molto tempo. «Quando ho ricevuto la telefonata che rivelava dove avremmo potuto trovare Eddie Starr, Marty Pullman era al mio tavolo. Io ho scritto l'indirizzo e poi sono uscito dall'ufficio.» Malcherson attese, il volto immobile, l'espressione impassibile. «Marty ha sentito la telefonata. Sapeva di chi era quell'indirizzo e io sapevo che lui lo sapeva. Perciò ho lasciato il biglietto in bella vista e mi sono allontanato.» Malcherson abbassò lo sguardo su un'impronta lasciata sul ripiano luci-
do della scrivania, chiedendosi di chi fosse. «Cosa diamine aveva in mente, detective Langer?» chiese, in tono pacato. «Non lo so, signore. Forse pensavo che Marty avesse meritato la possibilità di pestare a sangue l'uomo che gli aveva ucciso la moglie e di farlo prima del nostro arrivo. O forse, nel profondo della mia mente, supponevo che lui potesse fare di più. Onestamente non lo so e, a dire il vero, non importa. Il punto è un altro. Quando ho visto il cadavere di Eddie Starr, ho capito subito che cos'era successo. Marty aveva premuto il grilletto, ma io avevo reso possibile quel suo gesto, perché mi sono allontanato dalla scrivania.» Malcherson si schiarì piano la gola. «Detective Langer, non crederò mai che la sua intenzione fosse quella d'indurre Marty Pullman a commettere un omicidio.» Un sorriso piegò un angolo della bocca di Langer. «Davvero? Be', io non ne sono sicuro e la cosa mi sta facendo impazzire da mesi. E prima ancora ho passato mesi a osservare la vita di Morey, Lily e Jack, notando che Marty andava a pezzi ogni giorno di più. Pensavo soltanto che era ingiusto: un pidocchio come Starr aveva distrutto tante brave persone... Capisce quello che facevo? Decidevo chi era buono e chi era cattivo e forse anche chi meritava di morire. Proprio come hanno fatto Marty, Morey e tutti gli altri. Poi, mentre emergeva la verità su questo caso, mi sono reso conto che Eddie Starr era una nullità, che se fosse vissuto altri cento anni non avrebbe mai eguagliato Morey Gilbert in termini di morti ammazzati. I buoni e i cattivi si sono fusi insieme. E l'unica cosa certa era che non sarei mai stato in grado di distinguerli.» Spostò lo sguardo sul distintivo. «Avrei dovuto restituirlo e costituirmi molto tempo fa.» Si alzò e si tastò le tasche, sentendo già la mancanza di quel peso che aveva segnato la sua vita e che adesso giaceva sulla scrivania del comandante. Poi fissò Malcherson e sorrise, pensando che stava avvertendo una sensazione tanto strana quanto piacevole. «Sa dove trovarmi, signore», concluse. Poi si girò e uscì. Dopo che se ne fu andato, Malcherson rimase seduto a lungo, immobile. 43 Magozzi e Gino erano accanto al grande tavolo della Omicidi a fotocopiare le pile di documenti che avevano accumulato dalla sera in cui Arlen Fischer e Morey Gilbert erano stati uccisi. Paul Schafer si trovava nell'uf-
ficio di Malcherson con un paio di tirapiedi dell'FBI, per formalizzare il passaggio del caso Fischer e di tutte le prove correlate. Nel giro di pochi minuti, sarebbero arrivati a prenderle. McLaren entrò con un carrello contenente quattro grosse scatole che aveva recuperato dalla stanza delle prove. «Queste sono le ultime cose che abbiamo preso a casa di Fischer.» Si fermò presso il banco di Gloria e si tamponò la fronte. «Mi daresti una mano, Miss Gloria?» Lei sollevò dieci dita dalle unghie laccate di nero e le agitò. «Guardale bene e dimmi quanto sei stupido a farmi una domanda così idiota.» McLaren si portò una mano all'altezza del cuore. «Sì, sono stupido. Sono qualsiasi cosa tu voglia che io sia. Devi semplicemente chiedere.» «Voglio che sparisca.» «Voglio che tu sia la mia donna.» «Oh, per amor del cielo.» Gloria uscì bruscamente da dietro il banco e si allontanò a passi pesanti, con le sue scarpe con la zeppa. McLaren sfoderò un ampio sorriso e spinse il carrello fino alla sua scrivania. «Mi sa che sto facendo breccia nel suo cuore.» «Il classico dongiovanni, ecco cosa sei», disse Gino, afferrando una scatola. «Sai, McLaren, se mai cercassi di sollevare qualcosa di più pesante di una matita con quelle braccine che ti ritrovi, non dovresti chiedere aiuto a una donna.» «Chi sarebbe il dongiovanni? E, a ogni modo, dove diavolo è Langer? Ogni volta che dobbiamo portare 'ste scatole di sopra, quell'uomo trova qualcos'altro da fare.» Quando il cellulare squillò, Magozzi si allontanò dal tavolo. «Ehi, Magozzi.» «Ehi, Grace.» «Ho visto il telegiornale. Mi spiace per il tuo amico, Marty. Deve essere stato terribile. Tu stai bene?» Dio mio, come gli piaceva quando si preoccupava per lui. «Non proprio.» «Potrei venire da te, stasera, prepararti la cena. E magari potremmo stappare un paio di bottiglie.» Magozzi si allontanò ancora di qualche passo dal tavolo e abbassò la voce. «Vuoi venire a casa mia?» «Ho un regalo per te.» Il buonumore di Magozzi spiegò le ali e provò a spiccare un volo. «Non vai in Arizona?»
«Mi spiace, Magozzi. Annie arriva oggi pomeriggio. Partiamo tutti domattina.» Splat. Il buonumore era finito sotto lo stivale di Grace MacBride. «È un regalo di tipo diverso.» «Quindi è un regalo di addio. Maledizione, Grace, fa schifo.» «Ti piacerà. Sarò lì alle sette.» Magozzi chiuse il telefono e decise che non gli importava un accidente se Grace MacBride andava in Arizona o sulla luna. Gino aveva ragione. Lui aveva bisogno di vivere. Aveva bisogno di una donna, preferibilmente di una che lo aiutasse a comprare un divano. Oh, quella sera avrebbe lasciato che Grace venisse da lui, avrebbero mangiato un po', bevuto un po' e forse l'avrebbe anche persuasa a stendersi e l'avrebbe baciata sino a farle volare via quegli stivali dai piedi, ma poi l'avrebbe cacciata a calci in culo. Ecco, sì, avrebbe fatto proprio quello. Gino lo guardò con le sopracciglia inarcate. «Grace?» «Sì», brontolò Magozzi in un tono da uomo vero, da uomo cui non importava nulla, da uomo che assumeva il controllo. Ma poi si chiese se lo stupido sorriso che sentiva di avere sulle labbra non stesse guastando quell'immagine. Harley Davidson era al posto di guida del pullman lungo tredici metri, con le braccia muscolose tutte tatuate sul grosso volante e la mole compatta avvolta da una poltrona di pelle Connolly, specificamente realizzata per la sua taglia. Farla realizzare era costato ventimila dollari, più altri mille per la spedizione espressa via aerea dalla piccola ditta italiana di mobili cui lui l'aveva ordinata. Altri tremila erano stati necessari per l'istallazione dei meccanismi idraulici. Un bianco sorriso squarciava la barba nera di Harley. Valeva ogni centesimo, quella poltrona. «Maledizione, adoro 'sto coso. Lo guiderei fino all'inferno e ritorno e sarei una persona felice.» L'uomo al suo fianco, simile a un trampoliere, piegò le lunghe braccia scheletriche sul petto ossuto e mise il broncio. «Tocca a me. Voglio guidare io. Tu hai guidato fino all'aeroporto. Al ritorno dovevo guidare io. Perciò accosta.» Gli occhi di Harley guizzarono a destra: con quel gioiellino, non potevi distogliere lo sguardo dalla strada troppo a lungo, altrimenti rischiavi di distruggere un intero lotto. Roadrunner indossava la sua immancabile tutina di lycra che gli andava dalla testa ai piedi e quel giorno era di un arancione intenso. «Roadrunner, non guiderai mai questo mezzo, toglitelo dalla te-
sta.» «Ah, sì? E perché?» «Be', accidenti, lasciami pensare. Primo: non hai la patente e non l'hai mai avuta. Secondo: l'unica cosa che hai guidato negli ultimi trent'anni è stata una bicicletta. In questo coso, i freni non sono sul manubrio, idiota.» «La volete smettere, voi due?» disse Annie alle loro spalle, e lo sguardo di Harley guizzò verso uno dei sette specchi. Ne aveva fatti adattare tre in modo da poter vedere Annie Belinsky stesa languidamente su uno dei divani. Indossava quell'abito fasciante in pelle scamosciata color daino con le frange sul fondo, le perline in alto e, oddio, gli stivali da cowboy con gli speroni. «Cristo, Annie, sento quasi quegli speroni nei fianchi.» Lei lanciò un'occhiataccia alla sua schiena. «Ma guarda un po'. Manco solo da due settimane eppure ero riuscita in qualche modo a dimenticare che razza di schifoso maiale sei, Harley.» «Gli sei mancata», intervenne Grace. Era stesa sull'altro divano, coi piedi protetti dagli stivali allungati davanti a sé e incrociati all'altezza delle caviglie. «Sei mancata a tutti.» Roadrunner girò la poltrona e guardò Annie. «Mi hai portato un regalo?» «Certo, tesoro. È in quella piccola borsa nera, laggiù.» Roadrunner s'illuminò e iniziò a frugare nella borsa finché non trovò un pacchetto avvolto da carta velina. Stracciò l'involucro ed estrasse una Tshirt da cowboy in lycra verde lime, con tanto di bordure di madreperla sul carré e di un cranio di mucca applicato alla tasca. «Oddio, Annie, è fantastica. Dove hai trovato una T-shirt da cowboy di lycra?» «Lascia che te lo dica: se ami il look da Urban Cowboy, Phoenix è il paradiso dello shopping. Mettono cactus, crani di mucca o frange ovunque. Quella viene da un negozio specializzato per bici ad alcuni chilometri dalla città.» Roadrunner si alzò, con la testa che quasi sfiorava il tetto, alto più di due metri, e si tolse il top arancione. Harley lo guardò e, come nelle comiche, finse di avere una reazione ritardata. «Dimmi, Roadrunner, quello è il tuo petto o hai ingoiato uno xilofono?» «Un uomo con le tette non dovrebbe criticare.» «Non sono tette; sono pettorali.» Annie si prese la testa tra le mani. «Voi due avete intenzione di andare avanti così fino in Arizona?» «Avresti dovuto sentirli mentre stavano sistemando il pullman», osservò
Grace. «Una coppia di galline litigiose.» Roadrunner era raggiante. Si mise in posa, con le gambe scheletriche arancione brillante e la T-shirt verde lime. «Come sto?» Harley lo guardò. «Scherzi? Sembri una carota.» Annie alzò gli occhi al cielo e si rivolse a Grace. «Com'è andato quel lavoro per Magozzi che stavi seguendo?» «Alla grande», tuonò Harley, restio a farsi escludere da qualsiasi conversazione che fosse a portata di urlo. «La nostra Gracie ha risolto il caso col software di riconoscimento facciale che ha inventato.» «Evvai, ragazza mia. Quando ne realizzerai una versione a prova d'idiota e la metterai sul web, guadagnerai milioni. Di che caso si trattava?» Grace chiuse gli occhi. «Non chiedere.» «La signora vuol sapere», intervenne Harley. «E io sono l'uomo che glielo dirà. Vedi, Annie, è andata così. Prima i nazisti uccidevano gli ebrei, giusto? Sai che cos'è successo qui, nella nostra bella città? Tre ebrei molto anziani hanno fatto fuori un nazista. Non ti pare giusto?» Roadrunner lo guardò a bocca aperta. «Credo che sia la cosa più orribile che ti abbia mai sentito dire.» «Come?» «Harley, hanno legato un novantenne ai binari perché finisse schiacciato da un treno.» Harley si strinse nelle spalle, perplesso. «Era un nazista, santo cielo. Che problema c'è?» «Come gran parte delle persone civili, Harley, io ho un problemino con gli omicidi. Avrebbero dovuto consegnarlo alla polizia, mandarlo all'Aia. Tribunali, avvocati, processi equi, non ti scatta nessun campanello in testa? Non è esattamente nuovo come concetto...» «Ah, stronzate. L'unico nazista buono è un nazista morto. Non mi credi? Chiedi a qualsiasi tedesco e ti dirà la stessa cosa.» «Come sai cosa ne pensano i tedeschi?» «Perché, Mister Codardo-Io-Non-Volo, vado in Germania almeno una volta all'anno a comprare il vino e a far festa con alcune delle persone più ospitali del mondo, che, guarda caso, vivono in uno dei Paesi più belli del mondo. Per non parlare poi della qualità eccelsa della loro birra o delle loro auto... e quella gente odia i nazisti.» Annie si protese nel corridoio e sussurrò a Grace: «Non ho intenzione di fare il viaggio fino in Arizona con questi due pazzi». Grace sospirò e sorrise, totalmente felice di essere lì ad ascoltare Harley
e Roadrunner che si lanciavano frecciate e Annie che si lamentava. Erano i veri rumori di una famiglia, pensò. Talvolta sentiva di voler loro tanto bene da stare quasi male e certi giorni, quando stava proprio bene con se stessa, provava quel sentimento anche per Magozzi. Annie le stava di nuovo leggendo nel pensiero. «Magozzi ti mancherà, vero?» «È un uomo piacevole, Annie.» «È un principe», tuonò Harley. «Una persona davvero cordiale. Mi piace quel tipo. Ogni volta che lo vedo vorrei baciarlo sulle labbra. Come sta il bastardo?» Grace scrollò le spalle. «È stata una brutta settimana.» Guardò Annie. «Ieri sera c'è stata una sparatoria. Fa parte della faccenda dei nazisti e degli ebrei, credo. Ha perso un agente e ha dovuto uccidere un ragazzo.» «Oddio, Magozzi odia dover uccidere la gente. Poveraccio.» Grace annuì. «Vado da lui, stasera, per una specie di cena di addio.» «Dovresti dormirci insieme», decise Annie. «Quello fa sempre sentire meglio gli uomini.» Harley girò la testa per guardare Grace. «Stai scherzando? Non hai ancora dormito con lui? Pensavo che fosse italiano.» «Credo che dovremmo dipingere il nome sul bus», trillò Roadrunner, cambiando bruscamente argomento. «Non è un bus, idiota, però metterci il nome non è una cattiva idea. Lo vedo: CHARIOT, a caratteri cubitali sul muso e sulle fiancate...» Annie aveva un'aria sgomenta. «Hai ribattezzato la società Chariot?» «No, no, Harley ha battezzato Chariot il bus che non è un bus. Lui dà un nome a tutto. Vuoi sapere come chiama il suo cazzo?» «Per l'amor del cielo, no.» «Comunque, non intendevo dire questo, Harley. Dovremmo dipingere il nome della società sul bus. Geco Incorporated. Lo vedo a lettere verdi, forse con una G sinuosa come la coda di una lucertola.» «Non ribattezzeremo la società col nome di un piccolo, orrendo rettile», affermò decisa Annie. Roadrunner mise il broncio. «Be', non mi sembra che abbiate trovato altri nomi.» «Io ci ho pensato», disse pacatamente Grace. Tutti la guardarono. «Chiamiamola Monkeewrench.» Per un minuto nessuno parlò. «Quel nome si è attirato un bel po' di pubblicità negativa, Grace», osser-
vò Harley. «Anche gli Stati Uniti se la sono attirata, però nessuno ha proposto di cambiarne il nome.» Annie rimuginò per un po', poi si allungò e diede un colpetto affettuoso sul ginocchio di Grace. «Mi piace», disse sorridendo. «È quello che siamo.» 44 Giornate piacevolmente calde e notti molto, molto fresche. Ecco cosa si era lasciato alle spalle il fronte freddo canadese quando, la sera precedente, era uscito dallo Stato. Alle sei e mezzo la temperatura era già scesa di quindici gradi e Magozzi stava sul portico di casa con un maglione nero pesante, chiedendosi come fosse vivere in un posto in cui la temperatura non si alzava o si abbassava continuamente di dieci gradi. Era noioso, probabilmente. Molti minnesotani non avrebbero più avuto argomenti di conversazione. I corpi bruciati dal sole durante l'ondata di calore, durata ben una settimana, erano adesso avvolti in felpe e giacche a vento per il jogging serale o per portare a spasso i cani dalla lingua penzoloni. Quella sera soffiava un forte vento freddo e Magozzi sentiva già l'odore del fumo di legna che saliva dai camini adiacenti. Era la serata giusta per accendere il fuoco. Ne aveva acceso uno in casa, prima, poi era rimasto sul tappeto davanti al caminetto, cercando di studiare dove sedersi con Grace. Si era ricordato di travasare il vino rosso in una caraffa e di mettere in fresco quello bianco, aveva apparecchiato la piccola tavola in cucina con tanto di forchette, coltelli e cucchiai, anche se aveva sempre pensato che questi ultimi fossero utensili piuttosto inutili, e poi aveva immaginato una serata languida, confortevole, davanti al fuoco scoppiettante. Si era però scordato che non aveva mobili degni di tal nome e che non aveva mai visto Grace MacBride sedersi per terra. Non le sarebbe piaciuto. Ci sarebbe voluto troppo tempo per balzare in piedi e sparare a qualcuno. E Grace passava la sua vita a presumere di doverlo fare. «Lascia che ti dica due parole», aveva affermato Gino quel pomeriggio, quando aveva saputo che Grace sarebbe andata a casa di Magozzi. «Uccelli giardinieri.» «Grazie, Gino. Ne farò per sempre tesoro.» «Non essere impertinente, sto cercando d'istruirti.»
«Va bene.» «Gli uccelli giardinieri maschi - ne esistono di tantissimi tipi - costruiscono un nido molto elaborato, simile a una piccola grotta, con rami, ramoscelli, rampicanti e roba del genere, poi vanno in cerca di qualcosa di grazioso come petali di fiori, sassolini luccicanti e li spargono tutt'attorno. Così attraggono le femmine. Il maschio col nido più bello vince. E ora ecco la triste morale di questa storiella: Leo, amico mio, tu hai il nido più squallido della città.» Magozzi sospirò e guardò il prato malconcio con la picea morente, l'unica sedia sul portico e la Weber con le gambe tenute insieme dal nastro adesivo. Valutò l'idea di scavare nel terreno in cerca di qualche pietra luccicante, ma alla fine si limitò a raccogliere il rotolo di adesivo che giaceva ancora ai piedi della griglia e a portarlo dentro. Era quanto di meglio potesse fare con un preavviso così breve. Alle sette esatte, aprì la porta d'ingresso, vide Grace MacBride nel portico e si sentì piuttosto compiaciuto di sé. L'aveva indotta a venire lì senza nemmeno una pietra luccicante. Lei indossava un lungo spolverino di pelle scamosciata, con le frange un capo che lui non le aveva mai visto - e gli stivali inglesi da cavallerizza. In un certo qual modo, era riuscita a conciliare due culture contrastanti. I capelli neri e leggermente ondulati le ricadevano sulle spalle, e gli occhi azzurri sorridevano, anche se la bocca era seria. Le prese il sacchetto della spesa che lei teneva con una mano e guardò il laptop che stringeva nell'altra. «Giocheremo col computer?» «Dopo», rispose lei, entrando a grandi passi, come se quella fosse casa sua. «Prima voglio darti il regalo.» Lui chiuse la porta e si voltò a guardarla nell'atrio, che stava diventando la sua stanza preferita della casa. C'era un tavolino accanto alla parete, dove lui gettava le chiavi, e ciò gli permetteva di considerarlo un locale completamente arredato. Grace posò il laptop, si raddrizzò e afferrò i lembi dello spolverino, tenendo i gomiti all'infuori. «Pronto, Magozzi?» «Non lo so. Sei nuda, sotto?» Il sorriso si aprì sulle labbra di lui mentre Grace apriva lo spolverino e lo lasciava scivolare a terra. In un certo senso, pensò Magozzi, era nuda. Persino coi jeans, con gli stivali e con la T-shirt di seta nera addosso, doveva sentirsi tale, perché non portava la Sig. Lo sguardo di lui si abbassò automaticamente alla caviglia, in cerca della
Derringer che Grace usava ogni volta che non portava la fondina ascellare. Ma non c'era. «Allora, Grace, dove sono?» «Sono a casa mia, in cassaforte. Tutte e due.» «Sei venuta fin qui disarmata?» I suoi occhi brillarono come quelli di un bambino. «Sì. Ma, oh, Magozzi, ho creduto di morire.» Magozzi strinse forte il sacchetto della spesa, sentendo qualcosa di soffice schiacciarsi tra le sue braccia. «È un bellissimo regalo, Grace», mormorò con un sorriso ebete. «Te l'ho detto che ti sarebbe piaciuto.» Probabilmente nessun altro uomo al mondo avrebbe considerato come un dono splendido, pieno di speranza, il fatto che una donna accettava di cenare con lui disarmata, pensò Magozzi. No, nessuno avrebbe capito. Grace gli aveva appena dimostrato di aver compiuto un passo gigantesco. Magozzi versò il vino. Grace svuotò il sacchetto e accese il forno. Poi lui studiò con attenzione una teglia coperta da un foglio di stagnola. «Ha un profumo fantastico.» «Filetto di manzo alla Wellington.» «Ottimo.» Magozzi non ricordava gli ingredienti precisi del filetto di manzo alla Wellington, però immaginava che fosse un piatto caldo dal nome illusoriamente altisonante. «Mentre aspettiamo che si scaldi, perché non fai spazio sul tavolo e colleghi il laptop a una presa? Ti mostro quello che ho trovato nel computer di Morey Gilbert.» Magozzi esitò, sentendosi d'un tratto proiettato in un'altra dimensione. Per lui il caso si era chiuso nel momento stesso in cui aveva sparato il primo proiettile a Jeff Montgomery. Si era del tutto scordato di aver mandato a Grace il computer dell'ufficio di Morey. Le dita di lei volarono sulla tastiera. Poi cliccò due volte sull'icona di un pesce appeso a un amo, con sotto la scritta VA' A PESCA. Magozzi grugnì. «Lily diceva che Morey giocava coi videogiochi tutte le sere.» «Ho dovuto ripristinarlo. Probabilmente Jeff Montgomery ha cercato di cancellarlo il giorno dopo aver ucciso Morey Gilbert. Ma non è un gioco.» La pagina che si era aperta mostrava tre colonne: nomi nella prima, luoghi nella seconda e una terza colonna, vuota, per le date. Magozzi esaminò i nomi, però non corrispondevano a quelli contenuti nell'elenco delle vittime
compilato in base alle foto trovate nella casa di Ben Schuler. Impiegò qualche istante a capire. «Oh. Sono quelli che non avevano ancora ucciso.» Grace annuì. «È quello che ho pensato subito. Ma poi ho fatto un controllo incrociato con gli elenchi del sito di Wiesenthal. Dobbiamo informarli, Magozzi. Gran parte di queste persone compare in quegli elenchi come 'non ritrovata'.» «Allora come diavolo ha fatto lui a trovarle?» Le dita di Grace danzarono nuovamente sulla tastiera. «È questa la cosa affascinante... o terribile, a seconda del punto di vista. Non so come abbia rintracciato i primi, però Internet gli ha reso il compito molto più facile.» Quella che sembrava una serie infinita d'indirizzi di siti iniziò a scorrere rapidissima sul monitor. «Controllando i log di tutti i siti vistati, log che poi lui aveva cancellato, mi sono venuti i brividi. Erano tutti siti neonazisti o di gruppi convinti della supremazia della razza bianca. Morey passava ore nelle chat room di quei siti, Magozzi, e postava lo stesso messaggio in tutti.» Smise di far scorrere il testo e si fermò su un testo in neretto. ATTENZIONE! GLI EBREI STANNO UCCIDENDO I NOSTRI FRATELLI! TUTELATEVI! Magozzi fissò il messaggio e poi l'indirizzo e-mail che Grace gli stava indicando. «Quello era un account nascosto che Morey si era creato, con password protetta. E sul suo hard drive ci sono circa mille risposte, molte delle quali sono insignificanti, mentre altre sono notevoli.» Grace si appoggiò allo schienale della sedia e sospirò. «Andavano loro da lui, Magozzi. Leggevano l'avvertimento o qualcuno glielo riferiva, poi iniziavano una corrispondenza. E quelli che avevano paura accettavano d'incontrare l'uomo che, a loro parere, li avrebbe salvati. È tutto nelle e-mail. Morey si offriva come esca e, quando loro abboccavano, li faceva fuori.» Magozzi si sfregò la fronte col palmo, quasi più turbato dalla sistematicità con cui Morey braccava le sue prede che dagli omicidi in sé. Si chiese se la sua mente sarebbe mai riuscita a collocare nello stesso corpo quell'uomo e il filantropo che la città piangeva. «Yin e Yang», mormorò Grace, leggendo la sua espressione e i suoi pensieri. «Tutti noi in parte li possediamo, Magozzi.» Chiuse il laptop, lo mise da parte e sistemò la tavola. «Cibo o vino?» chiese dopo un po' «Vino.»
Si sedettero sul gradino più alto del portico, mentre il crepuscolo si trasformava in tramonto, e lasciarono che il vino scacciasse il freddo. Non che Magozzi ne avesse bisogno. La spalla di Grace toccava la sua e lui si era convinto che non avrebbe mai più sentito freddo. Nonostante la luce sempre più fioca, c'era ancora qualcuno in giro. E una persona si fermò al confine della proprietà di Magozzi, attirando la sua attenzione. Lui non pensò, non analizzò la situazione. Invece rispose subito a quell'istinto che ti torce le budella e ti fa esplodere la mente, a quell'istinto che ti dice che c'è qualcosa di molto sbagliato. Quella figura non doveva essere lì. Per la prima volta nell'arco della giornata, Magozzi sentì un grande vuoto sul fianco, là dove ci sarebbe dovuta essere la pistola. Girò la testa e immerse le labbra nei capelli di Grace, accanto all'orecchio, proprio come un uomo che sussurra sciocchezze alla sua innamorata. «Alzati con calma, Grace. Va' in casa ed esci dalla porta posteriore, capito?» «Che succede, Magozzi?» mormorò lei in risposta, con soltanto una nota di panico nella voce. La figura si mosse verso il vialetto. Stava fissando entrambi. Allora Magozzi avvicinò a Grace il bicchiere e disse a voce alta: «Stavolta riempilo fino all'orlo, eh?» Tutti i muscoli del suo corpo erano così tesi che gli facevano quasi male. Si rilassarono un po' solo quando udì la zanzariera sbattere alle spalle di Grace. È al sicuro, pensò. Ti prego, mettiti al sicuro, scappa, scappa dalla porta posteriore, scappa da un vicino, non fare niente di eroico, Grace, niente di stupido... La figura stava avanzando sul vialetto e, a mano a mano che si avvicinava, i suoi tratti divennero più familiari. Magozzi era sempre seduto, con un sorriso rigido sul volto, cercando di apparire disinvolto. La mente gli diceva che non c'era niente di cui preoccuparsi. L'istinto gli gridava che gli restavano soltanto pochi secondi di vita. Ma Grace sarebbe riuscita a scappare e quel pensiero conferì al suo sorriso una parvenza di autenticità. Salvare Grace MacBride: ecco lo scopo della sua vita, il contributo più importante che lui avrebbe dato al mondo. All'interno, premuta contro il muro accanto alla porta, Grace aveva automaticamente cercato la sua Sig. Poi si era ricordata che non l'aveva con sé e il panico si era impossessato di lei. Faticava a respirare e non riusciva quasi neanche a vedere con chiarezza. I suoi pensieri corsero a sei mesi
prima - all'ultima volta in cui il terrore l'aveva paralizzata, nel loft della Monkeewrench -, quando aveva freneticamente cercato - e poi trovato una via d'uscita. Ricordò la speranza di salvezza, l'aura di calma che l'aveva avvolta allorché aveva sentito il peso confortante della Sig in mano. Udì i passi sul vialetto. Non aveva idea di chi fosse quella persona, non ne conosceva le intenzioni. Sapeva soltanto quello che aveva visto negli occhi di Magozzi, quello che aveva sentito nella sua voce. E ciò le bastava. La sua mente volò su per le scale, verso la camera da letto: era lì che teneva le pistole? La sera prima gli avevano preso l'arma di ordinanza, però doveva averne un'altra, tutti i poliziotti ne avevano un'altra. Ma dove la teneva e come diavolo avrebbe fatto lei a trovarla in tempo? La sua mente girava a vuoto attorno a quel pensiero. Maledizione, tutto per via delle pistole, come sempre. «Salve, detective Magozzi.» Udì la voce oltre la zanzariera e orientò lo sguardo in modo da sbirciare la figura all'esterno. Si era fermata e teneva le mani nelle tasche della giacca. Ma una tasca era più gonfia dell'altra e s'intuiva la sagoma di una pistola puntata al petto di Magozzi. «Per favore, si alzi, detective. Lentamente. Poi entri in casa.» Niente pistola, niente pistola, niente pistola... Era un mantra paralizzante. Poi lo sentì replicare: «Mi spiace, ma non credo di volerlo fare». A quel punto, la mente di Grace si aprì e si riempì di Magozzi: di Magozzi seduto sulla sua sedia in giardino, con Charlie sulle ginocchia; del suo stupido, mezzo sorriso quando le aveva raccontato del piano di seduzione a lungo termine; di Magozzi che le salvava la vita, tanti mesi prima, e che continuava a presentarsi alla sua porta, rifiutandosi di lasciarla in pace, di cedere le armi. Grace MacBride non aveva mai vissuto una vita vera, però sapeva con certezza che, se aveva la possibilità di viverne una, quella possibilità era seduta sui gradini del portico, pronta a morire per lei. Raccolse i due bicchieri di vino dal pavimento, con l'anca spinse la zanzariera e la mandò a sbattere contro il muro esterno, mentre usciva sul portico. «Ehi, tesoro, la sai una cosa?... Oh, salve. Non sapevo che avessimo compagnia.» Poi trotterellò lungo i gradini, col vino che oscillava nei bicchieri e con un sorriso vagamente ebbro stampato su quel suo volto sempre impassibile. Era l'impossibile visione di Grace MacBride nelle vesti di una svampita
casalinga di periferia, una visione così inattesa da far guadagnare a Magozzi secondi preziosi. Per un istante, la figura sul marciapiede guardò Grace con aria stupita. E, in quel preciso momento, Magozzi si alzò dal portico con un movimento ad arco che coprì la distanza tra la vita e la morte, colpendo Tim Matson al petto con una testata e gettandolo a terra sul cemento del vialetto. 45 La prima squadra arrivò cinque minuti dopo il crollo di Tim Matson sul vialetto di Magozzi. Il giovane si dimenava ancora violentemente, cercando di liberarsi dai metri di nastro adesivo che Grace gli aveva avvolto attorno alle braccia e alle gambe mentre Magozzi lo teneva, ed emetteva versi infuriati, attutiti dal bavaglio che gli aveva cacciato sulla bocca. Gino arrivò poco dopo, seguito da McLaren. Esausto, Magozzi era seduto accanto a Tim Matson e pensò che ben presto l'intero, maledetto Dipartimento sarebbe stato lì. Lanciò un'occhiata a Grace, che sembrava piccola e sola sui gradini del portico, con lo sguardo fisso a terra, e capì che non ce l'avrebbero mai fatta. Era stato un idiota a credere che loro due avessero una possibilità. Tutto quello che Grace aveva sempre temuto era ciò che Magozzi faceva per vivere e talvolta, dannazione, il lavoro ti seguiva fino a casa. Nell'ora successiva, lui e Grace risposero alle domande, rilasciarono dichiarazioni, raccontarono la loro versione dei fatti a McLaren, ai tecnici della scena del crimine e al personale del pronto soccorso, mentre Gino se ne stava seduto nell'auto della polizia, con Matson ammanettato, a fare Dio solo sapeva cosa. Dopo che tutti gli altri se ne furono andati, Gino entrò e si sedette al tavolo di cucina con Grace e Magozzi. «State bene?» Magozzi e Grace si guardarono in silenzio e Gino non riuscì a leggere la loro espressione. Attese per un po', sentendosi sempre più a disagio. Sul tavolo c'era una bottiglia di vino con un'etichetta che probabilmente era in francese. McLaren avrebbe saputo leggerla, ma a lui non importava. «Versami un bicchiere di quello, Leo, ti va? E spiegami cosa ti ha detto il ragazzo.» Magozzi staccò gli occhi da Grace. Non si erano ancora parlati. L'ultima volta che aveva sentito la sua voce era stato mentre lei rilasciava una dichiarazione a McLaren. «Non ha detto niente, ha percorso semplicemente
il vialetto e mi ha chiesto di entrare in casa.» Andò all'armadietto per prendere un bicchiere e lo posò davanti a Gino. «Prima, però, hai mandato Grace in casa. Perché?» Magozzi si strinse nelle spalle. «L'ho visto arrivare e ho avuto una brutta sensazione.» «Voleva salvarmi la vita», mormorò Grace. Magozzi scosse il capo. «Lei ha salvato la mia.» Gino alzò gli occhi al cielo e allungò la mano verso la bottiglia. «Oh, per favore. Ho parlato con McLaren e ho sentito di questo club di mutua ammirazione che voi due avete aperto. Siete una coppia dinamica, poco ma sicuro, e mi sembra davvero una bella cosa, però non esageriamo. Quindi non hai idea della ragione per cui è venuto a farti fuori?» «Immagino perché gli ho ucciso l'amico.» «Non esattamente, mio caro. Gli hai ucciso il fratello.» Le sopracciglia di Magozzi si sollevarono di scatto. «Tim Matson era il fratello di Jeff Montgomery?» «Proprio così. L'ho convinto a dirmi alcune cosette là fuori, in macchina.» Grace lo guardò direttamente in faccia per la prima volta. «Che gli hai fatto?» «Niente.» Gino sollevò una mano. «Giuro su Dio. Gli ho tolto il nastro adesivo molto velocemente - spero che il ragazzo non intenda farsi crescere i baffi -, ma soltanto per farlo sentire meglio. E in quel modo poteva parlare, ovviamente. Sembra che i due fratelli lo avessero progettato da più di un anno: si erano ben coperti il culo e fingere di morire faceva parte del piano. Se Montgomery fosse stato preso prima di aver terminato di uccidere gli assassini del padre, allora ci sarebbe stato un altro fratello in grado di finire il lavoro. Lo ammetto, dopo aver parlato con quel ragazzo avrò incubi per anni: è gelido come una lastra di ghiaccio. Il caro, vecchio papà ha fatto un gran bel lavoro quando li ha indottrinati... Però credo che quello lì abbia un istinto naturale per simili cose. È saltato fuori che ha ucciso lui Ben Schuler, che si è eccitato davvero a giocare col vecchio prima di ucciderlo. Quando ha saputo che hai ucciso Jeff, sei passato direttamente in cima alla sua lista, ma, dopo aver finito qui, lui aveva intenzione di andare al vivaio e di far fuori Jack Gilbert.» «E ha raccontato tutto questo?» chiese Magozzi. «Non ha chiesto un avvocato?» Gino si accigliò e si grattò la testa. «Già, è stata davvero una gran sor-
presa: è così fottutamente fiero di sé che mi ha fatto venir voglia di vomitare. Si è messo in testa di essere una specie di martire. Cosa scommetti che tra una settimana lo vedremo a Dateline? Poi si metterà a scrivere libri, gli daranno un computer in cella e aprirà un sito web. Accidenti, Leo, ecco perché mi spiace che in Minnesota non ci sia la pena di morte. Tutto quello che facciamo con gente simile è renderla famosa.» Lanciò un'occhiata a Grace. «Non hai sparato al ragazzo, Grace. È stata una cosa notevole.» «Non avevo la pistola.» Gino stava per dire: «Certo, come no?» poi notò che lei non portava la fondina ascellare e si chiese come avesse fatto a non notarlo prima. «Porca miseria, sei venuta qui senza pistola?» Lei lo fissò in silenzio e, per la prima volta, Gino Rolseth vide Grace MacBride sorridere davvero. Mostrò persino un po' i denti e, diamine, aveva denti magnifici. Sul volto di lui comparve un ampio sorriso. Poi girò il pollice verso l'alto ed esclamò: «Complimenti, Gracie. Davvero». Dopo che Gino fu uscito, Grace tentò di buttar via il filetto di manzo alla Wellington. Magozzi sapeva che, in quel modo, lei stava cercando di cancellare la sua presenza da quella casa prima di andarsene. Allora le prese la teglia dalle mani, afferrò una forchetta e iniziò a mangiare, aggrappandosi all'idea perfettamente idiota che, se avesse trattenuto la teglia, lei non se ne sarebbe andata. Avrebbe dovuto aspettare che Magozzi finisse e a lui serviva tempo. «Per l'amor di Dio, non mangiarlo. È rimasto nel forno tiepido per due ore. La pasta è molle, la carne è rovinata. Probabilmente morirai intossicato.» «È delizioso.» Magozzi non la guardò. Rimase semplicemente seduto, reggendo la teglia e continuando a mangiare. «Almeno mettilo in un piatto...» «No!» Grace si sedette al suo fianco, lo guardò mangiare e attese. Magozzi continuò a guardare la teglia. «Avevo intenzione di accendere il fuoco. Ci saremmo seduti davanti al caminetto a bere vino e poi ti avrei baciato e ti avrei tolto gli stivali.» «Davvero?» «Era il piano.» Grace si chinò, gli scostò le mani da quell'orrenda teglia di alluminio tut-
ta ammaccata e la allontanò. «Mi spiace, Magozzi. Credo che sia un po' tardi per questo.» Lui fissò la tavola per qualche secondo, pensando che, no, non era troppo tardi, almeno non per la parte che riguardava i baci, e che ormai era tempo di smetterla con la cautela, di prendere in mano la situazione. Balzò su dalla sedia e si voltò per afferrarla, ma lei non c'era. Accidenti se era svelta. La trovò in soggiorno con un piede sulla scala che conduceva alla camera da letto. «Diamine, Magozzi, perché ci hai messo tanto?» chiese con un sorriso. Lui rimase a guardarla. Si sentiva come se volesse spiccare il volo, ma fosse incapace di trovare una corrente ascensionale. «Domani parti comunque per l'Arizona?» Grace sospirò, impaziente, come faceva ogni volta in cui lui s'impantanava nelle regole e nelle procedure o cercava di guardare troppo in là. «Accadrà solo fra molte ore, Magozzi.» FINE