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DAVID SELTZER IL PRESAGIO (The Omen, 1976) Chi ha intendimento riconosca il numero della Bestia: perché è un numero umano, e il suo numero è Seicento e Sessanta Sei. Libro delle Rivelazioni Avvenne in un millesimo di secondo. Un moto delle galassie che avrebbe richiesto milioni di milioni di anni si verificò con la rapidità di un batter di ciglia. All'osservatorio di Cape Hattie un giovane astronomo rimase impietrito dallo stupore e allungò la mano con un attimo di ritardo verso l'apparecchio fotografico che avrebbe dovuto registrare l'evento: il frantumarsi di tre costellazioni che davano vita a una nuova stella cupa e scintillante. Dal Capricorno, dal Cancro e dal Leone si erano improvvisamente staccati dei frammenti che fluivano con straordinaria, magnetica sicurezza, fino a congiungersi, a fondersi in un pulsante fuoco galattico. E la luce si fece sempre più forte e più brillante e le costellazioni tremarono - o a tremare erano forse le mani dell'astronomo sull'obiettivo del suo strumento, mentre cercava di soffocare il grido confuso che gli saliva dentro? Ebbe paura di essere solo a confrontarsi con quell'attimo, ma in realtà non lo era. Dal profondo delle viscere della terra saliva un suono lontano. Un suono di voci, umane eppure non umane, che si levavano in un crescendo misterioso, in una devota cacofonia all'unisono con la crescente potenza della stella. Nelle caverne, nei sotterranei, nell'aperta campagna, si erano raccolte, levatrici al parto, ed erano ventimila. A mani giunte, le teste chine, le loro voci salirono e crebbero fino a quando la loro vibrazione fu avvertita, udita ovunque. Era il suono dell'Apocalisse che saliva alto nei cieli e penetrava in profondità nel cuore della terra, di una terra prebiblica. Era il sesto mese, il sesto giorno, la sesta ora. Il preciso istante predetto dall'Antico Testamento, l'istante in cui sarebbe mutata la storia del mondo. Le guerre, gli sconvolgimenti dei secoli più recenti non erano stati che semplici prove, test per misurare il clima in cui si muoveva il mondo e stabilire quando l'umanità sarebbe stata pronta. Sotto Cesare gli uomini avevano applaudito alla vista dei cristiani dati in pasto ai leoni, e sotto Hitler
avevano taciuto quando gli ebrei venivano ridotti a resti carbonizzati. Ora la democrazia si andava spegnendo, le droghe che annebbiavano la mente stavano insegnando una nuova concezione della vita, e nei pochi paesi in cui ancora era concessa la libertà di culto si andava proclamando che Dio era morto. Dal Laos al Libano i fratelli si rivoltavano contro i fratelli, i padri contro i figli; ogni giorno esplodevano autobus scolastici e supermercati, nel crescente tumulto di una sete divoratrice. Anche studiosi di cose bibliche lo avevano visto, quel manifestarsi di simboli annuncianti l'evento che ora si verificava. Il Sacro Romano Impero era risorto nelle vesti del Mercato Comune, e con la realizzazione dello stato di Israele gli ebrei erano ritornati alla Terra Promessa. Tutto ciò, aggiunto alla carestia che assaliva il mondo da ogni parte e alla disintegrazione di una struttura economica internazionale, stava a dimostrare ben più che una semplice coincidenza di eventi. Era chiaramente una cospirazione di eventi. Il Libro delle Rivelazioni aveva predetto ogni cosa. Mentre, alta nel cielo, la nera stella riluceva sempre più forte, il canto saliva sempre più alto e il cuore basaltico del pianeta riecheggiava del suo potere. Nel mezzo delle rovine sventrate dell'antica città di Meggido, il vecchio Bugenhagen lo sentì e pianse; le sue pergamene e le sue tavole erano inutili, ormai. E sopra di lui, nella piana desertica ai confini di Israele, gli archeologi del turno di notte arrestarono il loro lavoro, lasciarono cadere i setacci in cui liberavano dalla terra i loro reperti e rimasero in silenzio quando la terra cominciò a tremare sotto di loro. Nel suo posto di prima classe a bordo del Boeing 747 che da Washington lo portava a Roma, anche Jeremy Thorn lo sentì e, per abitudine, si allacciò la cintura di sicurezza, preoccupato di ciò che lo attendeva a terra. Anche se avesse saputo la ragione di quell'improvvisa turbolenza, sarebbe stato troppo tardi. Perché in quello stesso istante, nel seminterrato dell'Ospedale Generale di Roma, una pietra fracassava la testa della creatura che doveva essere suo figlio. 1. In qualsiasi momento del giorno e della notte oltre centomila persone volano nei cieli del mondo a bordo degli aerei. Questo era il genere di statistiche che affascinava Thorn e quando lesse quella notizia nella rivista Skyliner, immediatamente si trovò a dividere la popolazione del globo in due: quelli che erano a terra e quelli che volavano nel cielo. Di solito le sue
riflessioni erano di carattere più serio, ma quello era per lui un volo particolare, durante il quale si afferrava a qualunque cosa che potesse occupargli la mente, tenerlo lontano dall'incertezza a cui andava incontro. Quella statistica significava anche che se all'improvviso la popolazione sparsa sulla terra fosse stata annientata, ci sarebbero sempre state oltre centomila persone che non si sarebbero accorte di nulla e avrebbero continuato a bere il loro Martini e a seguire il film di bordo, perfettamente ignare che tutto era stato annientato. Mentre il suo aereo avanzava rombando pesantemente nel cielo di Roma, si domandò oziosamente quanti dei centomila in volo in quel momento fossero maschi, e quante le femmine, e in che modo avrebbero potuto accingersi a ricostruire una società umana, posto che avessero trovato un approdo sicuro dove atterrare. Probabilmente la maggior parte erano uomini, di livello sociale ed economico variante fra il medio e il superiore, il che significava che si trattava di gente in possesso di capacità relativamente inutili se tornavano su una terra da cui era sparita la massa lavoratrice. Managers senza più nessuno da dirigere, contabili senza più conti da fare. Non sarebbe stata una cattiva idea tenere in cielo in permanenza apparecchi carichi di squadre di lavoratori dell'edilizia e dei vari servizi, in modo da avere sufficiente manodopera per ricominciare. Non era stato Mao Tsetung che lo aveva detto? Il popolo che meglio sopravviverà alla catastrofe sarà quello che possiede la migliore manodopera. I freni idraulici dell'apparecchio vibrarono sotto i suoi piedi e Thorn spense la sigaretta, gettando un'occhiata fuori dal finestrino, dove nel buio apparivano ora chiaramente delle pallide luci. Con tutto il viaggiare che aveva fatto in quegli ultimi mesi, ormai era per lui una vista consueta, ma quella sera lo ripiombava nell'ansia. Erano passate già dodici ore da quando gli era giunto il telegramma a Washington, e ciò che doveva accadere era nel frattempo accaduto. Avrebbe trovato Katherine finalmente appagata e felice, in un letto d'ospedale, intenta a nutrire il suo nuovo nato, oppure immersa in uno stato di inerte disperazione per aver visto svanire ancora una volta il suo sogno. A differenza delle altre due gravidanze che si erano dolorosamente concluse dopo pochi mesi, quest'ultima era arrivata indenne fino all'ottavo mese. E se questa volta qualcosa fosse sopravvenuto a distruggere le sue speranze, egli sapeva che Katherine sarebbe stata perduta. Lui e Katherine erano stati vicini fin quasi dall'infanzia, e anche nella prima giovinezza, quando aveva diciassette anni, l'instabilità emotiva di lei era apparsa evidente. I suoi occhi tormentati di animale inseguito, pareva-
no chiedere protezione, e la parte del protettore rispondeva segretamente anche ai bisogni di lui. Era stato questo a formare il nucleo più profondo del loro rapporto, ma negli ultimi anni, man mano che le sue responsabilità professionali lo portavan sempre più lontano, lei era rimasta indietro, incapace di far fronte con successo ai doveri propri della moglie di un uomo politico. Il primo segnale delle sue angosce era passato quasi inosservato, e Thorn provò più rabbia che preoccupazione quando, ritornando a casa, trovò che sua moglie aveva preso un paio di forbici e si era malamente tagliuzzata i capelli. Una bella parrucca di Sassoon aveva coperto il disastro, finché i capelli erano ricresciuti. Ma, un anno più tardi, egli l'aveva scoperta nel bagno, intenta a tagliarsi i polpastrelli delle dita con una lama da rasoio, costernata di non sapere perché lo stava facendo. Fu allora che cercarono aiuto; uno psichiatra che rimaneva semplicemente seduto di fronte a lei avvolto in un blando silenzio. Lo abbandonò dopo un solo mese di trattamento, dichiarando che la sola cosa di cui aveva bisogno era un figlio. Il concepimento si verificò immediatamente e i tre mesi della sua prima gravidanza furono i migliori ch'essi avessero mai conosciuto. Katherine era diventata bellissima, si sentiva bene e fece persino un lungo viaggio in Estremo Oriente insieme al marito. La gravidanza finì nella toilette di un aereo, in un'acqua azzurra che lavò via tutte le sue speranze mentre lei piangeva disperatamente. La seconda gravidanza tardò due anni e quel tempo di attesa distrusse totalmente quella vita sessuale ch'era stata uno dei pilastri del loro rapporto. Lo specialista ginecologo che la seguiva aveva valutato esattamente il momento giusto nel suo ciclo, collocandolo in un'ora della giornata in cui per Thorn era difficile essere accanto a sua moglie, ed egli si era sentito uno sciocco strumento, costretto mese dopo mese a lasciare il suo ufficio per correre a casa a compiere un atto meccanico, privo di ogni carica emotiva. Arrivarono al punto di suggerirgli di masturbarsi affinché il suo sperma potesse essere raccolto e iniettato artificialmente, ma qui egli si oppose. Se per lei era tanto importante avere un figlio, avrebbe potuto adottarne uno. Ma Katherine non ne volle sapere. Doveva essere una creatura sua. Alla fine una cellula solitaria ne incontrò un'altra e per cinque mesi e mezzo la speranza tornò a fiorire. Questa volta le doghe colsero Katherine in un supermarket e la donna non volle accettare la realtà e continuò con caparbia ostinazione a fare i suoi acquisti, tentando di negare i fatti fino a
quando non fu più possibile. Fu una benedizione, le dissero, perché il feto era menomato, ma ciò non fece che accrescere la sua disperazione ed essa scivolò in uno stato di profonda depressione dalla quale ci vollero più di sei mesi per uscire. Questa, ora, era la sua terza gravidanza, e Thorn sapeva che sarebbe stata anche l'ultima. Se qualcosa fosse andata male questa volta, sarebbe stata la fine della salute psichica di lei. L'aereo toccò dolcemente la pista e ci fu a bordo un leggero diffuso applauso, una chiara ammissione che i passeggeri erano sollevati e felici e, in un certo senso, persino sorpresi di quell'atterraggio che li riportava vivi sulla terra. Ma perché voliamo? si domandò Thorn. La vita è dunque tanto poco necessaria da rischiarla continuamente così? Rimase immobile al suo posto mentre gli altri passeggeri afferravano i bagagli a mano e si affollavano verso l'uscita. Lui avrebbe avuto l'accoglienza riservata ai VIP, e ciò gli avrebbe assicurato un rapido disbrigo delle formalità doganali e lo avrebbe condotto rapidamente fino all'automobile in attesa. Questa era la parte migliore di ogni suo ritorno a Roma, perché qui era quasi una celebrità. Come consigliere economico del presidente, era il capo della Conferenza Economica Mondiale che da Zurigo era stata trasferita a Roma. Il programma iniziale di quattro settimane si era gradatamente prolungato, e adesso la conferenza durava da quasi sei mesi e nel frattempo i paparazzi avevano imparato a conoscerlo, mentre negli ambienti qualificati si andava facendo strada la voce che fra pochi anni avrebbe egli stesso potuto essere un candidato alla presidenza degli Stati Uniti, con buone probabilità di successo. A quarantadue anni, era nel momento migliore della sua carriera e aveva lavorato con cura a preparare ciò che ora appariva inevitabile. La nomina a presidente della Conferenza Economica Mondiale lo aveva fatto conoscere al grande pubblico e gli serviva da trampolino per un incarico di ambasciatore o una carica politica che più tardi lo avrebbe portato forse alla Casa Bianca. Del resto, l'attuale presidente degli Stati Uniti era stato un suo compagno di università e non rappresentava un ostacolo, anche se Thorn si era fatto da solo la sua strada. I grandi complessi industriali di cui era proprietaria la sua famiglia avevano conosciuto durante la guerra un momento di grande fortuna e gli avevano permesso di avere tutto ciò che di meglio si può ottenere con il denaro, una vita di agi e le migliori possibilità di studi. Ma alla morte del padre egli aveva chiuso tutti gli stabilimenti, sfidando tutti i suoi consiglieri con la solenne promessa di non favorire mai più la produzione di mezzi di di-
struzione. Ogni guerra è fratricida. Era stato Adlai Stevenson a dirlo e Thorn lo aveva citato. E nell'interesse della pace le fortune di Thorn si moltiplicarono. Grandi società immobiliari si trasformarono in imprese edilizie e Thorn si appassionò al progetto di migliorare le condizioni ambientali dei ghetti, offrendo prestiti per piccole imprese commerciali a persone capaci e bisognose. Era stato questo a renderlo famoso; il suo dono straordinario di accumulare denaro unito a un profondo senso di responsabilità verso coloro che ne erano privi. Si stimava che il suo patrimonio sfiorasse i cento milioni di dollari, ma la cifra non era verificabile e Thorn stesso in realtà non lo sapeva con precisione. Fare un calcolo esatto della sua ricchezza avrebbe significato fare una pausa, e Jeremy Thorn era continuamente in azione. Quando il taxi si arrestò davanti all'ingresso dell'Ospedale Generale, avvolto nel buio, Padre Spilletto guardò giù dalla finestra del suo studio al secondo piano e fu immediatamente certo che l'uomo che stava scendendo dall'automobile era Jeremy Thorn. La mascella vigorosa e le tempie brizzolate gli erano note attraverso le fotografie pubblicate dai giornali, e anche l'abbigliamento e l'andatura avevano qualcosa di familiare. Era rassicurante constatare che Thorn era esattamente l'uomo che ci si aspettava di vedere. Evidentemente la scelta era stata oculata. Stringendosi addosso la sua lunga veste, il prete rimase in piedi, immobile, rimpicciolendo con la vastità della sua figura il piccolo scrittoio che aveva davanti. Infine, con un volto del tutto inespressivo, si diresse rapidamente verso la porta. Giù nell'atrio si sentivano già risuonare nitidamente i passi di Thorn che attraversava con andatura energica il nudo pavimento piastrellato. «Mr. Thorn?» Sotto di lui Thorn si volse e alzò gli occhi frugando con lo sguardo nel buio delle scale. «Sì?» «Sono padre Spilletto. Le ho mandato...» «Sì. Ho ricevuto il suo telegramma. Sono partito appena mi è stato possibile.» Il prete si mosse in un cono di luce e cominciò a scendere le scale. C'era qualcosa nel suo modo di muoversi, nel silenzio che lo circondava che faceva capire che non tutto andava bene. «Il... il bambino è nato?» domandò Thorn. «Sì.»
«Mia moglie...?» «Sta riposando.» Adesso il prete era giunto ai piedi della scala e i suoi occhi incontrarono quelli di Thorn con uno sguardo che tentava di prepararlo, di addolcire il colpo. «C'è qualcosa che non va?» domandò ancora Thorn. «Il bambino è morto.» Ci fu un terribile silenzio e i lunghi corridoi deserti parvero rimbombarne, mentre Thorn restava immobile, come paralizzato, atterrato da un colpo mortale. «Ha respirato solo per qualche istante,» sussurrò il prete, «poi il respiro si è spento.» Il religioso fissava senza muoversi l'uomo davanti a lui che si dirigeva con passo rigido verso una panca, vi si sedeva e rimaneva così per un lungo momento. Poi Thorn abbassò la testa e si mise a piangere. Il suono di quei singhiozzi echeggiava lungo i corridoi e il prete aspettò, prima di parlare. «Sua moglie è salva,» disse, «ma non potrà più avere altri figli.» «Questo la distruggerà,» sussurrò Thorn. «Potrebbe adottarne uno.» «Voleva un figlio suo.» Nel silenzio che seguì il prete fece un passo avanti. I suoi tratti erano volgari, ma composti, e gli occhi colmi di compassione. Soltanto una lieve traccia di sudore sul suo viso tradiva la tensione nascosta sotto quella calma apparente. «Lei l'ama molto,» disse. Thorn annuì, incapace di ritrovare la voce. «Perciò deve accettare i disegni di Dio.» Dall'ombra di un corridoio semibuio emerse la figura di una vecchia suora che gettava occhiate imploranti al prete, facendogli cenno di avvicinarsi. I due si appartarono un momento parlottando fra loro sottovoce in italiano, poi si separarono; la suora scomparve e il prete tornò da Thorn. Qualcosa nel suo sguardo fece irrigidire l'uomo che gli stava davanti. «La mano di Dio opera misteriosamente, Mr. Thorn,» disse il prete e tese una mano. Thorn, alzandosi, si sentì costretto a seguirlo. Il reparto maternità era al terzo piano e i due presero una scala posteriore, percorrendo poi un corridoio secondario e illuminato solo da poche, deboli lampadine. Il reparto era immerso nel buio, lindo, ordinato e vi a-
leggiava un odore di neonato che a ogni passo rinnovava la sensazione di dolore, di lutto che martellava nel petto di Thorn, un singhiozzo che non gli arrivava alla gola. Dirigendosi verso un tramezzo di vetro il prete ebbe un attimo di esitazione aspettando che Thorn, incerto, si avvicinasse e abbassasse gli occhi su ciò che stava dall'altra parte del vetro. Un bambino. Appena nato. Una creatura di angelica perfezione, con fitti capelli neri arruffati sopra occhi azzurri profondamente incassati che si levavano e istintivamente trovavano lo sguardo di Thorn. «Un trovatello,» disse il prete. «La madre è morta proprio mentre moriva suo figlio, Mr. Thorn... alla stessa ora.» Confuso Thorn si volse verso di lui. «Sua moglie ha tanto bisogno di un figlio,» continuò il prete. «E il bambino ha bisogno di una madre.» Thorn scosse lentamente la testa. «Lei voleva il suo bambino,» disse. «Se posso permettermi di far notare... assomiglia moltissimo...» Tornando ad abbassare gli occhi sul neonato, Thorn si rese conto che era vero. La faccina del bimbo aveva gli stessi colori del volto di Katherine, mentre i lineamenti richiamavano i suoi. La mascella ferma, volitiva e, persino la fossetta nel mento, così caratteristica dei Thorn. «Non c'è nessun bisogno che la signora lo debba venire a sapere,» esclamò il prete con voce implorante. L'improvviso silenzio di Thorn lo rincuorò. La mano di Thorn aveva cominciato a tremare e il prete la prese fra le sue, cercando di infondergli fiducia. «È... è un bambino sano?» domandò Thorn con voce tremante. «Assolutamente perfetto, sotto ogni punto di vista.» «Ci sono dei parenti?» «Nessuno.» Intorno a loro i lunghi corridoi deserti, frusciami di silenzio, un silenzio così fondo da assalire l'orecchio come un fragore. «Qui io rappresento l'autorità,» riprese a dire il prete. «Non ci sarà nessun certificato, nessuna prova. Nessuno lo saprà mai.» Thorn distolse gli occhi, in un gesto disperato di indecisione. «Potrei... vedere il mio bambino?» domandò. «A che servirebbe?» esclamò il prete. «Dia il suo amore a chi vive.» Da dietro la parete di vetro il neonato alzò le braccine verso Thorn con un gesto che pareva un'invocazione, un richiamo. «Lo faccia per amore di sua moglie, signore. Per questo Dio perdona un inganno. E lo faccia anche per amore di questa creatura che altrimenti re-
sterà sola al mondo...» «Questa notte, Mr. Thorn... Dio le ha dato un figlio.» La sua voce si spense, poiché nulla più doveva essere detto. Nei cieli della notte alti sopra di loro la stella nera raggiunse l'apice della sua parabola e si infranse all'improvviso, colpita dalla furia violenta di un lampo. Nel suo letto d'ospedale Katherine Thorn si svegliò, convinta che il suo risveglio fosse naturale, del tutto immemore dell'iniezione che le era stata praticata solo poco prima. Aveva sofferto dieci ore di doglie e aveva chiaramente avvertito le contrazioni finali, ma poi era scivolata in uno stato di incoscienza prima ancora di poter vedere la sua creatura. Ora, mentre lentamente la coscienza ritornava, fu colta dalla paura, ma cercò di calmarsi udendo dei passi che si avvicinavano nel corridoio. La porta si spalancò e vide suo marito. In braccio egli reggeva un bambino. «Il nostro bambino,» esclamò Thorn, con la voce tremante di emozione. «Abbiamo un bambino tutto nostro.» Katherine allungò le braccia, prese il piccino e pianse di gioia. E mentre la guardava con gli occhi velati di lacrime, Thorn ringraziò Dio per avergli mostrato la via. 2. I Thorn erano entrambi di famiglia cattolica, ma ne l'uno né l'altra potevano dirsi religiosi. Katherine si ricordava di tanto in tanto di dire una preghiera e andava in chiesa a Natale e a Pasqua, ma più per sentimentalismo e fors'anche superstizione che per una vera fede nel dogma cattolico. Thorn invece aveva completamente abbandonato qualsiasi pratica religiosa, e non prese molto sul serio, come fece invece Katherine, il fatto che il loro figlio Damien non venisse mai battezzato. Non che non l'avessero voluto. Subito dopo la nascita si erano sentiti in dovere di portare in chiesa il bambino per la cerimonia al fonte battesimale, ma la creaturina aveva immediatamente mostrato, al solo varcare la soglia della cattedrale, una sorta di così violento terrore, che avevano creduto bene di tagliar corto con la funzione. Il sacerdote li aveva seguiti fuori, per la strada, l'acqua lustrale nelle mani tenute a coppa, ammonendoli che se il bambino non fosse stato battezzato, non sarebbe mai entrato nel Regno dei Cieli. Ma Thorn rifiutò energicamente di continuare. Lo stato di terrore panico in cui si trovava il neonato era più che evidente. Per tranquillizzare Katherine improvvisarono una cerimonia in casa, ma la donna non ne fu mai del tutto rassicurata e
promise che un giorno sarebbe tornata in chiesa con Damien e la cerimonia si sarebbe compiuta secondo le regole. Quel giorno non venne mai. I Thorn furono travolti da un turbine di distrazioni e la questione del battesimo fu dimenticata. Infine, la Conferenza economica mondiale era terminata e la famiglia tornò a Washington, dove Thorn riprese il suo lavoro di consigliere del presidente per gli affari economici e ben presto divenne una personalità politica di primo piano. La loro splendida residenza a McLean, in Virginia, diventò lo scenario di incontri e ricevimenti che facevano notizia su tutti i giornali, da New York alla California e la famiglia Thorn fu ben presto familiare ai lettori dei settimanali e delle riviste di tutto il paese. Erano fotogenici, erano ricchi, ed erano chiaramente in ascesa nella società americana. E, cosa ancor più importante, erano spesso in compagnia del presidente. Era evidente che Thorn si andava preparando a un grande futuro politico e quindi non fu una sorpresa per nessuno quando fu nominato ambasciatore alla Corte di san Giacomo, una posizione chiave nella quale aveva la possibilità di esprimere a tutto vantaggio della politica americana il suo potere carismatico. Di ritorno a Londra, i Thorn si stabilirono nel castello di Pereford, una costruzione del diciassettesimo secolo. La vita divenne un sogno meraviglioso, specialmente per Katherine; così perfetta da incutere quasi timore. In quella splendida residenza di campagna, essa poteva vivere in totale isolamento la semplice vita di una madre che sta accanto al suo adorato bambino; poi, quando lo desiderava, poteva apparire al fianco del marito, assecondandolo, come ospite squisita, nelle sue funzioni diplomatiche. Ora che aveva il bambino, aveva tutto, compreso l'adorazione di suo marito e la felicità la faceva fiorire come una superba orchidea; fragile e delicata, ma in pieno rigoglio, così bella e così fresca che era una gioia per gli occhi di tutti coloro che la incontravano. Il castello di Pereford era un'elegante dimora con il suo posto nella storia inglese. Vi era una cantina dove era stato tenuto nascosto un duca bandito dalla corte fino a quando non era stato scoperto e giustiziato, e la foresta che circondava il castello era famosa per essere la stessa in cui Enrico V aveva cacciato il cinghiale. Il castello aveva passaggi segreti e gallerie misteriose piene dell'eco di antiche paure, ma per la maggior parte era un luogo di serenità e di gioia, poiché la casa era sempre piena di gente e di allegre risate in ogni ora del giorno. Per i servizi c'era una piccola squadra di persone che veniva durante la
giornata ad accudire alle varie faccende, più una coppia che abitava in permanenza al castello, gli Horton, molto dignitosi e molto inglesi, marito e moglie con incarico rispettivamente di autista e di cuoca. Per occuparsi di Damien quando Katherine era presa dai suoi impegni ufficiali e mondani, c'era una paffuta ragazza inglese di nome Chessa, poco più di una bambina lei stessa, ma una gioia per tutti, un'aggiunta indispensabile alla famiglia. Era allegra e vivace e adorava Damien come se fosse suo figlio. Spesso passavano ore e ore insieme, Damien che le trotterellava dietro sul grande prato oppure seduto tranquillamente accanto allo stagno, mentre la ragazza cacciava libellule e girini che poi portavano a casa nei barattoli. Il bambino, crescendo, diventava sempre più simile alla immagine ideale che un artista può farsi dell'infanzia. Nei tre armi trascorsi dalla sua nascita tutte le promesse di perfezione fisica che si erano annunciate sin dal principio si erano avverate, ed era inoltre sano e robusto. Vi era in lui una calma, una sorta di quieta serenità che raramente si trova nei bambini e qualche volta i visitatori restavano perplessi e quasi disturbati dalla fissità del suo sguardo. Se si potesse misurare l'intelligenza dal grado di attenzione, si sarebbe potuto dire che quel bambino era un genio, perché spesso sedeva per ore e ore, appollaiato su una panchina di ferro battuto sotto un melo, gli occhi fissi sulla gente che andava e veniva, assorbendo ogni particolare di ciò che gli passava davanti. Horton, l'autista, qualche volta lo portava con sé, a fare delle commissioni, godendo di quella sua presenza silenziosa e impressionato dal fascino che tutto ciò che accadeva esercitava sul bambino. «Sembra un piccolo marziano,» disse una volta Horton a sua moglie. «Come se fosse stato inviato sulla terra per studiare la razza umana.» «È la pupilla degli occhi di sua madre,» gli rispose la donna. «Non ti gioverebbe davvero se ti sentissero dire una cosa simile.» «Ma con questo non intendo dirne male. Dico semplicemente che è un bambino piuttosto singolare.» Il solo altro aspetto di Damien che preoccupava i suoi genitori ero lo scarso uso che faceva della voce. La gioia si esprimeva in lui con un largo sorriso che gli riempiva il volto di fossette; il dolore si manifestava invece con lacrime stranamente silenziose. Katherine ne parlò una volta al medico, ma questi fu molto rassicurante. Le raccontò la storia di un bambino che non aveva mai pronunciato una sola parola fino a otto anni e anche allora aveva aperto bocca soltanto per dire che non gli piaceva il purè di patate. E quando sua madre, nel più totale sbalordimento, gli aveva chiesto
come mai, se sapeva parlare, non lo aveva fatto prima di allora, il bambino rispose che fino ad allora lei non gli aveva mai dato il purè di patate. Katherine aveva riso di cuore a quella storia e aveva smesso di preoccuparsi. Dopotutto anche Albert Einstein non aveva parlato prima dei quattro anni e Damien ne aveva solo tre e mezzo. A parte il fatto di essere così tranquillo e così acuto osservatore, era un bambino perfetto, il giusto compimento del perfetto matrimonio di Jeremy e Katherine Thorn. 3. L'uomo che rispondeva al nome di Haber Jennings era nato sotto il segno dell'Acquario; un prodotto da libro di testo di Urano in ascesa e in congiunzione con una luna crescente. Un tipo lunatico e insistente fino ai limiti dell'imbarazzo. Jennings era un paparazzo; una di quelle piaghe del mondo giornalistico tollerate soltanto perché sono disposti a fare ciò che nessun altro farebbe. Come un gatto che sta in agguato ad aspettare il topo, era capace di stare per ore e giorni ad aspettare il momento per scattare una sola fotografia: Marcello Mastroianni seduto sul gabinetto, colto con il teleobiettivo dall'alto di una pianta di eucalipto; la regina madre d'Inghilterra che si faceva levare i calli; Jackie Onassis che vomitava a bordo del suo yacht. Questo era il suo genere di lavoro. Sapeva dove trovarsi e quando, e le sue foto erano del tutto diverse da quelle dei suoi colleglli. Viveva in un monolocale a Chelsea e ben di rado portava calzini. Ma nella ricerca dei suoi soggetti metteva la strenua determinazione e la stessa cura di Salk nella ricerca del vaccino per la poliomielite. Negli ultimi tempi gli era venuta l'idea fissa di occuparsi dell'ambasciatore americano a Londra; un bersaglio di prim'ordine, proprio grazie a quella facciata di perfezione. Quella coppia aveva una vita sessuale? E se sì, come? Sognava di poter rivelare quella ch'egli chiamava la loro umanità, ma ciò che gli premeva in realtà era dimostrare che tutti erano disgustosi quanto lo era lui. Ma quell'ambasciatore non comperava mai una rivista pornografica? Non si masturbava? Non aveva nessuna ragazza nascosta? Erano tutte domande che lo colmavano di curiosità, e anche se non avessero mai potuto avere una risposta, c'era sempre la speranza. Questa era la molla che lo spingeva a osservare e ad aspettare con tanta tenacia. Oggi sarebbe andato alla tenuta dei Thorn a Pereford, probabilmente non per scattare delle fotografie, dal momento che per questo c'erano già tanti suoi colleghi, ma giusto per farsi un'idea, per scoprire qual era la finestra
giusta, per studiare gli ingressi e le uscite e stabilire chi della servitù si sarebbe potuto comperare con un paio di sterline. Si alzò per tempo e controllò tutti i suoi apparecchi, ripulendo accuratamente le lenti degli obiettivi con un kleenex e usando poi lo stesso fazzolettino di carta per strizzarsi un foruncolo. Aveva trentotto anni e continuava a essere afflitto da eruzioni cutanee, non ultimo motivo questo per muoversi nella vita tenendo sempre una macchina fotografica davanti alla faccia. La figura era snella, ma priva di tono muscolare, e l'unica cosa che definiva i suoi contorni erano gli abiti spiegazzati che pescava ogni mattina da un mucchio ai piedi del letto. Prima di uscire regolò gli orologi della camera oscura, poi frugò disordinatamente sul tavolo, in mezzo a un cumulo di carte alla ricerca del cartoncino stampato con l'invito. Era una festa di compleanno. Il quarto compleanno del figlio di Thorn. Da tutti i quartieri poveri di Londra una quantità di pullman erano già in viaggio per portare a Pereford piccoli orfani e bambini handicappati. La corsa in macchina attraverso la bella campagna inglese era estremamente rasserenante e Jennings si accese una sigaretta oppiata per alleggerirsi meglio la mente. Dopo un po' ebbe la sensazione che la strada si muovesse sotto di lui e che la macchina fosse immobile ed egli abbandonò ogni contatto con la realtà, esplorando invece gli angoli più riposti della sua mente. Le sue fantasie del resto erano sempre vita, come le fotografie che scattava. Il soggetto era lui, sempre eternato in un gesto eroico. Intento ad attraversare il pack artico con una slitta trainata dai cani o a massaggiare Coppertone sul corpo di Sophia Loren. A un miglio di distanza dalla tenuta dei Thorn agenti della polizia stradale dirigevano il traffico e controllavano le credenziali; Jennings continuò a tenere lo sguardo fisso nel vuoto davanti a sé, in uno stato di stupore ipnotico, mentre i poliziotti studiavano attentamente il suo biglietto di invito per accertarsi che non fosse un falso. Era abituato a questo trattamento e sapeva benissimo che l'unica cosa che doveva assolutamente evitare era di avere un aspetto presentabile. Ma questo faceva parte delle sue munizioni. Il fatto che la gente preferisse fingere di non vederlo gli permetteva di osservare meglio ciò che lo interessava. Ammesso finalmente oltre i grandi cancelli di ferro battuto, Jennings sbatté gli occhi furiosamente, cercando di scuotersi di dosso l'effetto dell'oppio, prima di rendersi conto che ciò che gli pareva un'illusione era invece realtà. L'intera proprietà era stata trasformata in un sontuoso carneva-
le. I grandi prati brulicavano di vita e di colori, figurine infantili correvano fra tende da circo e giostre di ogni sorta, mentre venditori ambulanti si muovevano in mezzo a loro facendo roteare zucchero filato e mele caramellate; i loro richiami si perdevano nel ritmo di valzer degli organini delle giostre, che accompagnava il dondolio dei bambini in groppa a cigni e cavalli color di rosa. C'era una tenda dove un'indovina prediceva la fortuna e molti dei personaggi più in vista della vita londinese facevano la coda per sentirsi predire la sorte. Nei prati correvano liberi dei minuscoli ponies di Shetland e c'era persino un piccolo elefante dipinto a pois rossi, che accettava noccioline da orde di bambini schiamazzanti. I fotografi correvano in tutte le direzioni, fuori di sé per la ricchezza della preda che si trovavano davanti; ma per Jennings non c'era nulla da fotografare. Quella era solo la facciata. Una parete di mattoni che tutti gli altri prendevano per realtà. «Che ti succede, amico? Già finita la scorta di pellicola?» Era Hobie che parlava, il cronista del News Herald, intento a ricaricare affannosamente il suo apparecchio vicino a una tavola del buffet, quando Jennings si avvicinò casualmente e prese una manciata di panini. «Sto aspettando la canonizzazione,» rispose Jennings con disgusto. «Che cosa intendi dire?» «Che non riesco a capire se qui ci troviamo davanti soltanto all'erede dei milioni dei Thorn o a Gesù Cristo in persona.» «Sei matto a perdere un'occasione come questa. Non capita tutti i giorni di poter entrare in un posto simile.» «Che bisogno c'è di impazzire tanto? Quel che mi serve lo posso sempre comprare da te.» «Vuoi un'esclusiva, eh?» «Nient'altro.» «Beh, allora buona fortuna. Guarda che, dopo quella di Monaco, questa è la famiglia con la vita privata più protetta che ci sia.» L'esclusiva. Era il sogno di Jennings, la sua idea fissa. La possibilità di entrare in regni segreti, rarefatti. C'era qualcosa di eccitante nella caccia, nel mettersi in agguato, certo, ma nessun rispetto, nessuna considerazione per la posizione sociale. Se soltanto fosse riuscito a vedere dietro le quinte; era questo che lo interessava. «Ehi, Nanny! Nanny!» gridava ora Hobie da lontano. «Guardi da questa parte!» E tutta l'attenzione si concentrò sull'immensa torta di compleanno che veniva ora portata all'aperto su un carrello. La governante del bambino, Chessa, era vestita da clown, la faccia im-
biancata dalla cipria e un enorme sorriso dipinto in rosso che le tagliava il viso. Quando i fotografi cominciarono a ballarle intorno, la ragazza gioì di tutte quelle attenzioni e si diede da fare per recitare la sua parte, baciando e abbracciando il bambino e impiastricciandolo con i colori del suo trucco. «È capace di spegnere tutte le candeline?» le gridarono. «Gli faccia provare.» Gli occhi di Jennings scorrevano lentamente sulla folla; scorse il viso di Katherine Thorn, che se ne stava un po' in disparte, con una vaga traccia di disapprovazione intorno alla bocca. Per una frazione di secondo dal suo viso era caduta la maschera e Jennings istintivamente afferrò la macchina fotografica e scattò. Alla comparsa della torta si alzò dalla folla un uragano di applausi, mentre Katherine si faceva avanti. «Gli faccia predire la sorte!» gridò un reporter. «Lo porti dall'indovina!» E come un sol uomo, tutti gli invitati si avviarono in quella direzione, sospingendo la governante e il suo adorato bambino attraverso il prato. «Lo porto io,» intervenne in quel momento Katherine, avanzando verso di loro mentre passavano. «Ma posso farlo io, signora,» replicò la ragazza vivacemente. «Ci vado io,» ripete Katherine con un sorriso. Per una frazione di secondo i loro occhi si incontrarono e la governante lasciò andare il bambino. Fu un attimo di cui nessuno si accorse, l'eccitazione e il fracasso spingevano avanti la gente, ma Jennings seguiva ogni sguardo attraverso il suo mirino. Quando la folla si mosse, la governante rimase indietro, per un momento rimase sola, le spalle volte alla grande casa che torreggiava dietro di lei, il costume da clown che pareva accentuare la sua solitudine. Jennings scattò due volte, prima che la ragazza si voltasse e tornasse tutta sola verso casa, a passo lento. Davanti alla tenda dell'indovina Katherine pregò i giornalisti di restare fuori, poi entrò con un sospiro di sollievo per l'improvvisa quiete di quell'angolo in penombra. «Ciao, bel bambino.» Le parole venivano di sotto un cappuccio, da una donna che sedeva dietro un tavolinetto verde, la faccia dipinta di verde, la voce forzata in un tono falso, per rendere più credibile la sua parte di strega. Quando abbassò gli occhi su di lei Damien si irrigidì e parve volesse quasi arrampicarsi sulle spalle di sua madre. «Su, Damien,» rise Katherine, «questa è una strega molto buona. Vero che lei è una strega buona?»
«Ma certo,» rise l'indovina, «non ti farò alcun male.» «Ti predirà l'avvenire,» disse ancora Katherine per convincerlo. «Vieni, fammi vedere la mano.» Ma Damien non ne voleva sapere e si stringeva sempre di più a sua madre. Allora l'indovina si tolse dal viso la maschera di gomma e si scoprì per quello che era, una ragazza come tutte le altre, con un grande sorriso. «Guarda, sono una persona come tutti gli altri. Non ti farò alcun male.» Rasserenato, Damien allungò la manina attraverso il tavolino ingombro di carte da gioco, tenendosi vicino a Katherine che gli sedeva accanto. «Oh, che bella manina morbida e soffice. Qui si vedrà una grande fortuna.» Ma la ragazza d'improvviso tacque, fissando confusa la mano che aveva davanti. «Guardiamo l'altra.» Damien porse l'altra mano e la ragazza rimase a fissarle entrambe, palesemente perplessa. «Questo fa parte del gioco?» domandò Katherine. «Non ho mai visto nulla di simile,» rispose la ragazza. «Sono tre anni che faccio questo lavoro alle feste dei bambini, ma non ho mai visto prima d'ora una mano così.» «Così come?» «Guardi. Non ci sono le linee della personalità. Ha solo delle grinze.» «Che cosa?» Katherine si abbassò anche lei a guardare. «Ma mi sembrano belle mani,» disse. «Si è trovato in mezzo a qualche incendio?» domandò la ragazza. «No, naturalmente.» «Guardi le sue mani, signora. Vede tutte le linee, i segni. Sono diversi per ogni persona. Sono i segni della personalità.» Ci fu un lungo silenzio pieno di disagio, mentre il bambino stesso si guardava le mani, chiedendosi che cosa c'era che non andava. «Guardi i polpastrelli come sono lisci,» continuò la ragazza. «Non ci sono impronte.» Katherine fissò attentamente le dita del figlio. La ragazza aveva ragione. «Beh,» rise l'indovina per superare l'imbarazzo, «il giorno che dovesse svaligiare una banca, non c'è pericolo che lo prendano.» E rise ancora più forte, mentre Katherine fissava le piccole mani in un silenzio colmo di perplessità.
«Potrebbe predirgli l'avvenire, per favore? È per questo che siamo venuti.» La voce di Katherine era incerta. «Naturalmente.» Ma mentre la ragazza tendeva la mano a prendere quella di Damien, furono interrotti da una voce che veniva da fuori. Era Chessa, la governante. Pareva che gridasse da una grande distanza. «Damien! Damien!» gridava. «Vieni fuori! Ho una sorpresa per te!» L'indovina si arrestò, avvertendo, come Katherine, una certa disperazione in quella voce lontana. «Damien! Vieni fuori, vieni a vedere che cosa faccio per te!» Uscendo dalla tenda con Damien fra le braccia, Katherine si arrestò, gli occhi alzati verso la casa. Lassù, in precario equilibrio sul tetto, c'era Chessa, con in mano una grossa fune che allungava allegramente davanti a sé, per mostrare che l'aveva legata intorno al collo. Sotto, sul prato, la folla cominciò a levare gli occhi, sorridendo incerta alla figuretta di quel piccolo clown che ora si muoveva verso l'estremità della grondaia, le mani tese in avanti come se si preparasse a un gran tuffo dall'alto in una inesistente piscina. «Guarda, Damien!» gridava Chessa. «È tutto per te!» E con un rapido scatto fece un passo in avanti e il suo corpo cadde a capofitto, trattenuto poi dalla fune e rimase così appeso come uno straccio. Silenzioso. Morto. Sul prato la folla rimase sbalordita, in un silenzio pieno di sgomento, mentre il piccolo corpo penzolava dondolando leggermente, accompagnato dal lieve ritmo di valzer che veniva dalle giostre. Poi, d'improvviso, un urlo. Era Katherine. Ci vollero quattro persone per calmarla e riportarla in casa. Solo nella sua camera, Damien guardava fuori dalla finestra, verso il grande prato deserto, dove non erano rimasti che gli uomini del servizio di sorveglianza e pochi venditori, gli occhi dei quali fissavano un poliziotto che con aria cupa saliva una scala a pioli e tagliava la fune riportando a terra il corpo penzolante. Ma il cadavere gli scivolò di mano e cadde a testa in giù sulle pietre del patio. Rimase lì così, raggomitolato, con gli occhi fissi al cielo e la bocca dipinta di quel grande sorriso rosso da clown. I giorni che precedettero i funerali di Chessa furono segnati da una profonda depressione. Il cielo sopra Pereford s'era fatto grigio e rimandava l'eco di tuoni lontani. Katherine passò la maggior parte del suo tempo se-
duta tutta sola nel grande soggiorno in penombra, fissando il vuoto. Il rapporto del coroner aveva rivelato che nel sangue della ragazza, al momento della morte, c'era un forte quantitativo di Benadryl, un medicamento antiallergico, ma questo non fece che aggiungere confusione e creare nuove illazioni sulla ragione per cui Chessa si era tolta la vita. Per evitare che i giornalisti tentassero di infiocchettare la storia raccogliendo altri particolari, Thorn rimase a casa, e rivolse tutte le proprie attenzioni alla moglie che stava ricadendo, così egli temeva, nello stato in cui l'aveva vista anni prima. «Stai consumando in questa storia tutte le tue migliori energie,» le disse una sera quando entrò nel soggiorno. «Dopotutto non era un membro della famiglia.» «Lo era,» rispose Katherine a voce bassa. «Mi aveva detto che desiderava restare con noi per sempre.» Thorn scosse la testa, incapace di comprendere che cosa mai si nascondesse dietro quell'episodio. «Avrà cambiato idea,» disse alla fine. Non aveva inteso essere così duro, ma le parole erano fredde e aspre, ed egli si rese conto che gli occhi di Katherine cercavano i suoi attraverso la stanza. «Mi dispiace,» disse. «Ma non posso sopportare di vederti così.» «È colpa mia, Jeremy.» «Colpa tua?» «C'è stato un momento particolare durante la festa.» Thorn attraversò la stanza e venne a sedersi accanto a lei; la preoccupazione gli incupiva gli occhi. «Era eccitata per tutte le attenzioni che le prodigavano,» continuò Katherine, «e io ne sono stata gelosa. Le portai via Damien perché non potevo sopportare di dividere con lei le attenzioni del pubblico.» «Temo che tu sia un po' troppo dura con te stessa. La ragazza doveva essere malata.» «Anch'io lo sono,» sussurrò Katherine, «se essere al centro dell'attenzione significa tanto per me.» La sua voce si spense. Non c'era più altro da dire. La donna scivolò nelle braccia del marito ed egli la tenne così, fino a quando si fu addormentata. Era un sonno che egli conosceva, il sonno in cui l'aveva vista cadere quando era in cura e prendeva il Librium. Si chiese se lo choc della morte di Chessa l'aveva indotta a ricorrere nuovamente ai farmaci. Restò così, per quasi un'ora, poi la sollevò tra le braccia e la portò nella sua camera.
Il mattino seguente Katherine presenziò ai funerali di Chessa e portò Damien con sé. Fu una piccola cerimonia privata in un minuscolo cimitero nei sobborghi della città. C'erano solo la famiglia della ragazza, Katherine, Damien e un prete calvo che lesse i salmi tenendosi un giornale aperto sopra la testa per ripararsi da una pioggerella insistente. Temendo la pubblicità che la sua presenza avrebbe dato alla cosa, Thorn si era rifiutato di partecipare alla cerimonia, e aveva pregato anche Katherine di fare lo stesso. Ma era evidente che sua moglie desiderava esserci. Aveva voluto bene a quella ragazza e ora sentiva il bisogno di accompagnarla all'estremo riposo. Fuori dal cimitero era assiepato un gruppo di fotografi, tenuti a bada da due marines americani, che Thorn all'ultimo momento aveva fatto inviare dall'ambasciata. Fra di loro c'era, non visto, Haber Jennings, avvolto in un lucido impermeabile nero, con gli stivali, appollaiato su un albero piuttosto lontano; seguiva tutte le fasi delle esequie attraverso il teleobiettivo. Non si trattava di un normale apparecchio, ma di un aggeggio mostruoso montato su un treppiedi; una lente con cui avrebbe potuto fotografare l'incontro di due mosche sulla luna. Con straordinaria precisione il suo mirino si spostava da una faccia all'altra: la famiglia piangente, Katherine in evidente stato di choc e il bambino accanto a lei, inquieto, gli occhi che vagavano sul terreno spoglio. Fu proprio il bambino a catturare l'attenzione di Jennings, che aspettò pazientemente il momento più adatto per scattare la sua foto. Fu una questione di secondi. Uno sbattere degli occhi e un mutare improvviso di espressione, come se di colpo il piccolo avesse provato una sensazione di spavento e poi, altrettanto rapidamente, si fosse rasserenato. Gli occhi inchiodati su un punto lontano del cimitero, dalla parte opposta, il corpicino infantile improvvisamente rilassato, come se fosse d'un tratto riscaldato in mezzo al freddo di quella pioggia pungente. Spostando il mirino, Jennings frugò il paesaggio circostante, senza riuscire a vedere altro che pietre tombali. Poi, d'improvviso, qualcosa si mosse. Un oggetto scuro e indistinto che lentamente venne a trovarsi davanti all'obiettivo mentre Jennings metteva a fuoco le lenti. Era un animale. Un cane. Grosso e nero, il muso appuntito marcato da occhi molto vicini e una mascella bassa tutta protesa in avanti, i denti scoperti, estremamente forti contro il nero notturno della pelliccia. Non visto da nessuno se ne stava lì immobile come una statua, tenendo lo sguardo attento e fermo davanti a sé. Jennings imprecò con se stesso per aver caricato la macchina in bianco e nero, perché il giallo di
quegli occhi aggiungeva un tocco sinistro di mistero alla cupa singolarità della scena. Aprì l'otturatore fino ad ottenere la massima esposizione e un più forte rilievo del bianco, poi volse l'obiettivo verso il bambino e scattò nuovamente. Quella mattina l'aveva ripagato della fatica e quando ripose i suoi apparecchi si sentì soddisfatto del lavoro compiuto. Ma non poteva sottrarsi a una sensazione di disagio. Giunto in cima alla collina, si voltò a guardare e vide la bara che veniva calata nella fossa. A quella distanza il bambino e il cane apparivano molto piccoli, ma la muta comunione di quelle due creature era evidente. Il giorno seguente portò un nuovo diluvio di pioggia e l'arrivo di Mrs. Baylock. Era irlandese e prepotente e si presentò perentoriamente ai cancelli di Pereford come la nuova governante. L'uomo di guardia aveva cercato di trattenerla, ma lei si era fatta ugualmente strada, urlando. Le sue maniere intimidivano e affascinavano al tempo stesso. «Lo so che per voi è un momento difficile,» dichiarò ai Thorn mentre si toglieva il cappotto nell'anticamera, «quindi non voglio interferire nel vostro dolore. Ma, detto fra noi, chiunque si prenda una creatura così giovane e magra come governante, va proprio in cerca di dispiaceri.» I gesti con cui muoveva il suo corpo massiccio erano così energici da scuotere l'aria; Thorn e Katherine, che la stavano a osservare confusi e sconcertati, furono ridotti al silenzio dalla sua sicurezza. «Lo sapete come si fa a giudicare una buona governante?» esclamò. «Dalle dimensioni del seno. Quelle ragazzine che hanno delle tettine da piccione vanno e vengono nello spazio di una settimana. Io invece... quelle belle tonde come me... Queste sono le governanti che restano! Vada un po' a dare un'occhiata in Hyde Park, vedrà se non ho ragione.» Tacque soltanto per sollevare la valigia. «Bene, allora dov'è il bambino?» «La porterò da lui,» disse Katherine, indicando le scale. «Perché non lascia che ci incontriamo da soli? È meglio che facciamo conoscenza per conto nostro.» «Ma è un po' timido con le persone che non conosce.» «Con me non lo sarà, glielo assicuro.» «Ma davvero... penso che...» «Sciocchezze. Mi lasci provare.» Intanto si avviò per le scale e il suo massiccio deretano scomparve alla
vista di quelli di sotto. Nell'improvviso silenzio i Thorn si scambiarono un'occhiata e Thorn assentì con uno sguardo piuttosto incerto di approvazione. «Mi piace,» disse. «Anche a me.» «Dove l'hai scovata?» «Dove l'ho scovata?» domandò Katherine. «Sì.» «Ma io non l'ho trovata. Credevo l'avessi trovata tu.» Dopo un attimo di silenzio Thorn chiamò verso le scale. «Mrs. Baylock?» «Sì?» Era già sul pianerottolo del secondo piano, la sua faccia si sporse oltre la ringhiera per guardar giù. «Mi dispiace... siamo un po' confusi.» «Che cosa c'è?» «Non sappiamo ancora come lei è arrivata sin qui.» «Con un taxi. Naturalmente. L'ho mandato indietro.» «No, voglio dire... chi l'ha chiamata?» «L'agenzia.» «L'agenzia?» «Hanno letto sui giornali che avevate perso la vostra governante, e così hanno pensato di mandarne una nuova.» La cosa pareva avere un aspetto commerciale molto opportunistico, ma sapendo quanto era aspra a Londra la concorrenza in fatto di personale qualificato, Thorn pensò che non era improbabile. «Molto intraprendenti,» commentò. «Posso telefonare per confermare?» domandò Katherine. «Lo faccia, lo faccia pure,» ribatté il donnone. «Vuole che stia fuori sotto la pioggia ad aspettare?» «No, no...» aggiunse rapidamente Thorn. «Perché? Le sembro forse un agente segreto?» domandò Mrs. Baylock. «Non direi,» replicò Thorn con voce soffocata. «Non ne sia troppo sicuro,» ribatté la donna. «Potrebbe anche darsi che abbia la cintura piena di nastri magnetici. Perché non manda su un giovane marine a dare un'occhiata?» Tutti risero e Mrs. Baylock più forte di tutti. «Vada, vada,» le disse Thorn, «avremo tempo di controllare più tardi.»
I Thorn si ritirarono nel salotto, dove Katherine chiamò l'agenzia ed ebbe conferma delle credenziali di Mrs. Baylock. La donna era considerata personale qualificato e aveva ottime referenze. L'unica confusione nasceva dal fatto che secondo i loro schedari essa risultava attualmente impiegata a Roma. Tuttavia era probabile che la situazione fosse mutata senza che il cambiamento fosse stato registrato tempestivamente; questo si sarebbe potuto chiarire non appena il direttore dell'agenzia, che senza dubbio l'aveva personalmente inviata in casa Thorn, fosse ritornato dalle sue quattro settimane di vacanza. Katherine riattaccò il telefono e guardò il marito con aria interrogativa, poi entrambi alzarono le spalle, abbastanza soddisfatti di quanto avevano appreso. Mrs. Bavlock era un personaggio piuttosto strambo, ma era piena di vita e questo, in quel particolare momento, era proprio ciò di cui avevano bisogno più di ogni altra cosa. Al piano di sopra il sorriso di Mrs. Baylock si era spento ed essa fissò con occhi velati il bambino addormentato nel suo letto. Apparentemente il piccolo era rimasto col mento appoggiato alla mensola della finestra mentre guardava la pioggia e si era appisolato in quella posizione, con la manina ancora sul vetro. Mentre lo guardava, il mento della donna cominciò a tremare, come se si trovasse di fronte a un oggetto di incomparabile bellezza. Il bambino udì il suo respiro affannoso e aprì gli occhi a incontrare lo sguardo di lei. Si irrigidì e si sollevò a sedere, ritirandosi contro il vetro della finestra. «Non aver paura, piccino mio,» sussurrò la donna con voce tremante. «Sono qui per proteggerti.» Si udì il rombo cupo di un tuono. Era l'inizio di una lunga pioggia che doveva durare due settimane. 4. A luglio la campagna inglese era in pieno rigoglio. Una stagione di piogge particolarmente intense e prolungate aveva fatto straripare gli affluenti del Tamigi e portato una nuova vita anche nei semi più insonnoliti dal lungo inverno. Anche le terre di Pereford avevano risposto alla generale fioritura ed erano verdi e lussureggianti, la zona boscosa dietro i giardini si era infoltita e ospitava un'incredibile quantità di animali. Horton temeva che i conigli selvatici sarebbero presto usciti dai loro rifugi nei boschi per venire a nutrirsi dei suoi tulipani, e aveva messo trappole dovunque; nel cuore della notte si sentivano ogni tanto le loro grida angosciose quando
erano colpiti a morte. Quell'abitudine però finì, e non soltanto perché Katherine chiese di levare le trappole, ma anche perché Horton stesso aveva cominciato a provare una sensazione di disagio, quasi di paura all'idea di entrare nel fitto del bosco per raccogliere le bestie morte. Diceva di sentire laggiù degli «occhi» che lo guardavano, come se vi fosse qualcuno in agguato ad osservarlo dal folto del sottobosco. Quando lo raccontò alla moglie, costei rise, dicendogli per canzonarlo che probabilmente si trattava del fantasma di Enrico v. Ma Horton non trovava la cosa divertente e si rifiutò di tornare nel bosco. Per questo lo turbava non poco il fatto che la nuova governante, Mrs. Baylock, portasse tanto spesso Damien laggiù, trovandovi Dio sa che cosa per farlo divertire ore e ore. Horton inoltre notò, mentre aiutava la moglie a stendere il bucato, che la biancheria del bambino aveva sempre tracce di pelo scuro, come se avesse giocato a lungo con degli animali. Ma non stabilì nessun rapporto fra i peli di animale e le lunghe passeggiate nei boschi di Pereford, considerando anche questi fra gli aspetti misteriosi della vita di Pereford House, che cominciavano a diventare un po' troppo numerosi. Una cosa strana era che Katherine passava sempre meno tempo con suo figlio, rimpiazzata, per così dire, dalla nuova, esuberante governante. In effetti Mrs. Baylock svolgeva le sue mansioni con molto impegno e il bambino aveva preso a volerle molto bene. Ma era piuttosto inquietante, persino innaturale, che preferisse la compagnia di questa nuova venuta a quella delle madre. Tutto il personale di casa se n'era accorto e ne parlava, sentendosene ferito nella sua devozione per la padrona al pensiero che una salariata avesse portato via il posto che spettava alla madre nel cuore del bambino. Tutti avrebbero visto volentieri Mrs. Baylock andarsene. Ma al contrario, ogni giorno la trovava sempre più saldamente attaccata al suo posto, e sempre più sensibile si faceva la sua influenza sui padroni di casa. In quanto a Katherine, anche lei provava gli stessi sentimenti, ma si sentiva impotente e non voleva permettere alla gelosia di interferire una volta di più nell'affetto che un'altra persona provava per suo figlio. Si riteneva responsabile di avere già una volta sottratto a Damien una compagnia che gli era cara e respingeva l'idea di lasciare che ciò accadesse nuovamente. Quando, dopo la seconda settimana di permanenza, Mrs. Baylock chiese di trasferirsi in una camera proprio di fronte a quella di Damien, Katherine acconsentì. Probabilmente era così che avveniva nelle famiglie dei ricchi. Katherine era stata allevata in un ambiente più modesto dove spettava a sua madre e a nessun altro che a lei essere la compagna e la protettrice del-
la propria creatura. Ma qui la vita era diversa. Lei era la padrona di una grande casa e forse era tempo che cominciasse a comportarsi adeguatamente alla sua posizione. La nuova libertà che veniva così ad avere, era riempita da una quantità di cose che incontravano l'incondizionata approvazione di suo marito. Le mattinate erano occupate da impegni di beneficienza, i pomeriggi dedicati ai tè e alle riunioni di carattere politico. La moglie di Thorn non era più un personaggio singolare in società, un fiore fragile tenuto in disparte, ma era diventata una leonessa, piena di un'energia e di una fiducia in se stessa che egli non aveva mai conosciuto in lei. Questa era la moglie che egli aveva sempre sognato, e anche se quell'improvviso mutamento aveva in sé qualcosa di inquietante, non fece nulla per impedirlo. Anche la sua maniera di amare era diversa ora, più esaltante, più appassionata; Thorn non si rese conto che, molto probabilmente, in quella passione c'era più disperazione che desiderio. Dal canto suo Thorn aveva una vita di lavoro «stremamente intensa; il posto che ricopriva a Londra lo poneva in un ruolo chiave in tutte le trattative riguardanti la crisi petrolifera, e il presidente faceva ogni giorno di più assegnamento sui suoi contatti con gli sceicchi dell'Arabia Saudita. Per la settimana seguente era in programma un viaggio in quel paese e Thorn ci sarebbe andato solo, dal momento che presso gli arabi la presenza di una donna in un viaggio di affari era interpretata come un segno di debolezza. «È una cosa che non capisco,» disse Katherine quando suo marito glielo annunciò. «Questione di usanze,» rispose Thorn. «Dal momento che sono io che vado nel loro paese, è chiaro che devo rispettare i loro costumi.» «Ma non sono loro che devono rispettare i tuoi allo stesso modo?» «Certo che lo devono fare.» «Bene, anch'io dopotutto faccio parte dei tuoi costumi!» «Katherine...» «Li ho visti, quegli sceicchi. E ho visto le donne che si comperano. Dovunque vadano si trascinano dietro la loro schiera di prostitute. È quello che vogliono fare anche con te?» «Francamente non te lo saprei dire.» Erano nella loro camera da letto ed era molto tardi. Non certo l'ora per iniziare una discussione. «Che cosa intendi dire?» domandò Katherine con molta calma. «È un viaggio molto importante, Katherine.»
«Così se loro vogliono che tu vada a letto con una delle loro donne...» «Se vogliono che vada a letto con i loro eunuchi, andrò a letto con i loro eunuchi. Sai qual è la posta in gioco in questo viaggio?» Erano arrivati a un punto morto; Katherine lentamente ritrovò la voce. «E io che posto ho in tutto questo?» domandò a voce bassa. «Tu sei qui,» le rispose il marito. «E quello che fai qui è altrettanto importante.» «Non metterti a fare del paternalismo, adesso.» «Sto semplicemente tentando di farti comprendere...» «Che puoi salvare il mondo facendo quello che dicono loro.» «È uno dei modi in cui si può vedere la cosa.» Lei lo fissò come non aveva mai fatto prima. Con durezza. Quasi con odio. Egli si sentì smarrito sotto quello sguardo. «Immagino che siamo tutti in grado di prostituirci. Tu con loro e io con te, Jeremy,» disse. «E ora possiamo anche andare a dormire.» Thorn restò a lungo in bagno, sperando di trovarla già addormentata al rientro in camera. Ma lei non dormiva. Era ben sveglia e lo aspettava, ed egli avvertì una traccia di profumo nell'aria. Sedette sulla sponda del letto e la guardò a lungo; Katherine gli rispose con un sorriso. «Mi dispiace,» gli disse. «Capisco.» Prese il volto di lui fra le mani e se lo attirò vicino, chiudendolo in un abbraccio. Il suo respiro si fece affannoso ed egli la prese, ma lei rimase immobile sotto di lui. «Prendimi,» insisteva. «Prendimi. Non andare via.» Si amarono come non si erano mai amati prima d'allora. Katherine rifiutò di muoversi, ma rifiutò anche di lasciarlo andare, spingendolo all'orgasmo solo con la voce. Quando fu finito lo lasciò andare ed egli si staccò da lei, fissandola ferito e confuso. «E ora vai a salvare il mondo,» gli sussurrò lei. «Vai e fai ciò che ti dicono.» Quella notte Thorn non dormì; restò seduto davanti alla vetrata della loro camera, con gli occhi fissi nella notte illuminata dalla luna. Vedeva la distesa dei boschi e tutto era silenzioso e immobile, come una sola cosa immersa nel sonno. Tuttavia non tutto dormiva, ed egli ebbe la chiara sensazione di qualcosa che lo fisasse dal buio. Sotto il portico tenevano un cannocchiale per osservare gli uccelli; Thorn uscì dalla stanza, andò a prenderlo, e si appoggiò le lenti davanti agli occhi. Dapprima non vide che oscurità. Poi incontrò gli
occhi che lo fissavano. Due cupi tizzoni ardenti che parevano riflettere il chiarore della luna; degli occhi molto ravvicinati, gialli, puntati sulla casa. Gli diedero un brivido, abbassò il cannocchiale e si volse a guardare dietro di sé. Rimase lì immobile per un istante, come paralizzato, poi si impose di muoversi; silenziosamente, a piedi nudi scese le scale, arrivò fino alla porta d'ingresso e infine uscì. Tutto era silenzio. Persino i grilli tacevano. Allora ricominciò a muoversi, come se una forza misteriosa lo spingesse verso il limite del bosco, dove si arrestò, in ascolto, con gli occhi fissi davanti a sé. Nulla. Non un suono. I due occhi ardenti nella notte erano scomparsi. Volgendosi per tornare indietro, i suoi piedi nudi incontrarono qualcosa di morbido e umido. Trattenne il respiro, scostandosi di un passo. Era un coniglio morto, ancora caldo. Il sangue bagnava l'erba dove aveva posato la testa. Il mattino dopo Thorn si alzò per tempo e interrogò Horton a proposito delle trappole per i conigli. Horton dichiarò di non averne più messe da parecchio tempo e Thorn lo condusse nel luogo dove giaceva la bestia morta. Ora intorno alla carcassa c'era un gran ronzio di mosche e Horton le allontanò con il piede mentre si chinava a esaminare l'animale ucciso. «Che cosa gliene pare?» domandò Thorn. «Pensa che ci sia nel bosco un animale da preda?» «Non lo saprei dire, signore. Ma ne dubito.» Sollevò il coniglio ormai rigido additando con disgusto il cadavere. «La testa è quello che di solito lasciano, non quello che prendono. Chiunque abbia ucciso questa bestia lo ha fatto per il semplice piacere di uccidere.» Thorn diede ordine a Horton di far sparire il coniglio e di non dir nulla in casa. Mentre si stavano allontanando, Horton si fermò. «Non mi piace affatto questo bosco, signore. E non mi piace che Mrs. Baylock ci porti sempre suo figlio.» «Le dica di non farlo più,» rispose Thorn. «C'è una quantità di spazio sui prati per far giocare il bambino.» Nel pomeriggio Horton fece come gli era stato detto, e ciò diede a Thorn il primo segno che in casa c'era qualcosa che non andava. Mrs. Baylock quella stessa sera venne a cercarlo in salotto e gli manifestò la sua irritazione per avere ricevuto ordini trasmessi da un altro membro della servitù. «Non è che io non voglia eseguire gli ordini,» esclamò indignata. «Soltanto desidero riceverli direttamente.» «Non vedo che differenza faccia,» ribatté Thorn e fu sorpreso dall'impe-
to di rabbia che scorse nello sguardo della donna. «È semplicemente la differenza fra una grande casa e una piccola, Mr. Thorn. Ho l'impressione che qui non ci sia nessuno che si occupa di queste cose.» E girando sui tacchi la donna si allontanò. Thorn si domandò che cosa avesse voluto dire. Per quanto riguardava l'amministrazione della casa, era Katherine che se ne occupava. Ma per il resto, lui era lontano tutto il giorno. Forse Mrs. Baylock voleva fargli intendere che le cose non erano come apparivano a un primo sguardo. Che di fatto Katherine non aveva il controllo della situazione. Nel suo caotico appartamentino al sesto piano, a Chelsea, Haber Jennings era sveglio, intento a scrutare la galleria sempre più numerosa di ritratti della famiglia Thorn che adornavano la sua camera oscura. C'erano le fotografie del funerale, buie e tristi, il primo piano del cane fra le pietre tombali, un primo piano del bambino. E poi c'erano le fotografie della festa del compleanno: Katherine che scrutava la governante, la governante nel suo costume da clown, sola. Era quest'ultima fotografia che lo interessava più di ogni altra, perché sopra la testa della ragazza si vedeva una specie di traccia chiara, un'imperfezione fotografica che in qualche modo sembrava accrescere la tensione carica di presagi dell'immagine. Si trattava di una macchia dovuta a un'emulsione sbagliata nello sviluppo, un'ombra vaga che aleggiava sopra la giovane donna formando una specie di aureola intorno alla testa e al collo. Di solito una fotografia macchiata sarebbe finita subito nel cestino, ma questa valeva la pena di conservarla. Visto ciò che era accaduto subito dopo che era stata scattata, essa acquistava un valore simbolico; quell'ombra informe diventava un alone di morte, un segno del destino. L'ultima fotografia era quella del cadavere penzolante dalla fune; una stridente realtà che completava il montaggio. Presa nel suo complesso, la galleria dei ritratti dei Thorn rappresentava un bell'esempio di macabro fotografico. Ed era ciò che mandava in estasi Jennings. Aveva scelto gli stessi soggetti che adornavano con la loro banale eleganza le pagine di Good Housekeeping e aveva trovato in loro qualcosa di straordinario da portare in luce, qualcosa che nessuno vi aveva visto prima di lui. Così aveva iniziato anche delle ricerche, servendosi di contatti che aveva in America, per venire a sapere qualcosa di più sull'ambiente dal quale i Thorn provenivano. Scoprì in questo modo che Katherine discendeva da una famiglia di im-
migrati dalla Russia e che suo padre si era suicidato. Secondo le informazioni che si potevano trarre da una vecchia copia del Minneapolis Times, si era gettato dal tetto di un edificio adibito a uffici nella città bassa di Minneapolis. Katherine era nata un mese dopo la morte del padre, e dopo un anno la madre si era risposata, trasferendosi nel New Hampshire con il nuovo marito che aveva dato il nome alla bambina. Nelle poche interviste che Katherine aveva rilasciato alla stampa in tutti quegli anni, essa non aveva mai fatto cenno al patrigno, e Jennings era propenso a credere che probabilmente nemmeno lei conosceva la verità sulla propria nascita. Non era una cosa molto importante, ma in qualche modo serviva ad arricchire i contorni del quadro. Un piccolo e semplice boccone prelibato, che aiutava Jennings a crearsi l'illusione di essere nel vivo di una vicenda. L'unica figura che mancava nella sua galleria di ritratti era quella dell'ambasciatore, ma Jennings sperava che l'indomani sarebbe stata la sua grande giornata. C'era un matrimonio importante alla chiesa di Ognissanti ed era molto probabile che la famiglia Thorn vi assistesse al completo. Non era il genere di circostanza che Jennings preferiva, ma fino ad allora aveva avuto fortuna e forse la sua buona sorte avrebbe continuato ad assisterlo. La vigilia del matrimonio Thorn dimenticò gli abituali impegni del sabato all'ambasciata e portò invece Katherine a fare una gita in campagna. La loro ultima discussione lo aveva profondamente turbato e anche quella strana, inconsueta ora di passione seguita al diverbio l'aveva lasciato perplesso; ora voleva stare solo con lei, per cercare di capire che cosa non andava nei loro rapporti. Gli parve che la medicina che aveva scelto fosse quella giusta, perché Katherine, per la prima volta dopo molti mesi, appariva serena e rilassata e si godeva la corsa in automobile, la semplice gioia di tenersi per mano mentre si inoltravano nella splendida campagna inglese nel suo pieno fulgore. A mezzogiorno si trovarono a Stratford-Upon-Avon e andarono ad assistere a una rappresentazione pomeridiana del Re Lear; Katherine sedeva al suo posto estasiata e il dramma la commoveva fino alle lacrime. Il monologo di Lear sulla morte della sua creatura: «Perché un cane, un topo, respirano... e tu non respiri più...» toccò in lei una corda profonda. Si mise a piangere apertamente, e Thorn rimase a confortarla a lungo nel silenzio del teatro anche dopo che la rappresentazione era finita. Poi tornarono all'automobile e ripartirono, Katherine tenendosi stretta alla mano del marito, mentre l'allentarsi delle emozioni della giornata aveva creato intorno a loro una intimità che da molto tempo mancava nei loro
rapporti. Katherine era adesso una donna estremamente vulnerabile, e quando si arrestarono accanto a un fiume, le lacrime le salirono nuovamente agli occhi. Parlò dei suoi timori, della paura di perdere Damien. Disse che se fosse accaduto qualcosa al bambino, non avrebbe potuto sopravvivere. «Ma non c'è nessuna ragione perché tu lo debba perdere, Kathy,» la rassicurò Thorn con dolcezza. «La vita non può essere tanto crudele.» Era la prima volta dopo molto tempo che tornava a chiamarla Kathy, e la cosa lo colpì, mettendo al tempo stesso in rilievo il distacco che si era formato fra loro negli ultimi mesi. Rimasero a lungo seduti sotto una grande quercia e la voce di Katherine arrivò a lui come un sussurro, mentre teneva gli occhi fissi sull'acqua che scorreva davanti a loro. «Ho tanta paura,» disse. «Ma non c'è ragione di aver paura.» «Eppure ho paura di tutto.» Un insetto arrancava accanto a lei e Katherine stette a lungo a guardarlo mentre si faceva strada in quell'immenso paesaggio d'erba. «Di che cosa puoi avere paura, Katherine?» «Di che cosa si può non avere paura?» Egli la fissò, aspettando che continuasse a parlare. «Ho paura delle cose buone perché so che finiranno... e ho paura di quelle cattive perché so di essere troppo debole per affrontarle. Temo il tuo successo e ho paura di un tuo insuccesso. E temo anche di avere ben poco a che fare sia con l'uno sia con l'altro. Ho paura che tu debba diventare presidente degli Stati Uniti, Jeremy... e che ti trovi con una moglie che non è all'altezza di quel compito.» «Finora ti sei comportata splendidamente,» cercò di rassicurarla. «Ma odiavo di doverlo fare.» L'ammissione era così semplice, ma era sempre stata taciuta. In qualche modo quella confessione parve purificare l'atmosfera fra loro. «Non ne sei spaventato?» gli domandò. «Un poco,» rispose lui. «Lo sai che cosa desidero più di tutto per noi?» gli domandò. Egli scosse la testa. «Vorrei che potessimo tornare a casa.» Thorn si lasciò ricadere all'indietro sull'erba, fissando gli occhi nel fogliame della quercia. «Lo desidero più di ogni altra cosa al mondo, Jeremy. Andare dove si
possa essere al sicuro. Vivere dove si è nati.» Seguì un lungo silenzio; Katherine gli si era stesa accanto, accucciandosi nell'incavo del suo braccio. «Qui sono al sicuro,» sussurrò lei. «Nelle tue braccia.» «Sì.» Katherine chiuse gli occhi e ripiegò la bocca in un sorriso pieno di desiderio. «Questo è il New Jersey, vero?» sussurrò. «E la nostra fattoria è là, appena oltre la collina? La fattoria dove ci siamo ritirati?» «È una grande collina, Kathy.» «Lo so. Lo so. Non riusciremo mai ad arrivarci.» Si alzò una brezza leggera che mosse appena le foglie sopra le loro teste. Stettero in silenzio a osservare i raggi del sole che giocavano sui loro visi. «Forse Damien ci arriverà,» sussurrò Thorn. «Forse c'è nascosto in lui un futuro agricoltore.» «È molto improbabile. È tuo figlio in tutto e per tutto.» Thorn non rispose. Teneva gli occhi sempre fissi sulle foglie. «È così, lo sai,» riprese Katherine. «È come se io non avessi nulla a che fare con lui, assolutamente nulla.» Thorn si sollevò su un gomito e guardò la moglie con uno sguardo rattristato. «Perché dici questo?» domandò. Katherine alzò le spalle, incapace di spiegare esattamente ciò che provava. «È autonomo. Sembra che non abbia bisogno di nessuno.» «Sembra soltanto.» «Non è attaccato a me come lo sono di solito i bambini alla loro mamma. Tu eri molto legato a tua madre?» «Sì.» «Sei legato a tua moglie?» Gli occhi di Thorn incontrarono quelli di lei. Le accarezzò dolcemente il viso; Katherine baciò la mano che la accarezzava. «Non vorrei dover mai andarmene di qui,» sussurrò lei. «Vorrei poter restare così, per sempre.» E alzò il volto verso di lui, finché le sue labbra incontrarono quelle di lui. «Sai, Kathy,» mormorò Thorn dopo un lungo silenzio, «quando ti incontrai per la prima volta pensai che tu fossi la donna più bella che avevo mai
vista.» Lei sorrise a quel ricordo e assentì con un cenno del capo. «E lo penso ancora, Kathy,» continuò lui. «Lo penso ancora.» «Ti amo,» sussurrò lei. «Ti amo tanto,» rispose lui. La bocca di lei si strinse mentre le ciglia si inumidivano sopra gli occhi chiusi. «Quasi vorrei che tu non mi parlassi più,» sussurrò Katherine. «Per poter ricordare meglio ciò che hai detto ora.» Allorché riaprì nuovamente gli occhi il buio era calato sopra di loro. Quando ritornarono a Pereford quella sera, tutti dormivano; accesero un gran fuoco nel caminetto, si versarono del vino e sedettero vicini, rannicchiati in un morbido divano di pelle. «Pensi che potremo farlo anche alla Casa Bianca?» domandò Katherine. «Di qui a allora, c'è molto tempo.» «Ma lo potremo fare?» «Non vedo perché no.» «Possiamo essere immorali nella camera da letto di Lincoln?» «Immorali?» «Carnali.» «Nella camera di Lincoln?» «Sì, nel suo letto?» «Se Lincoln si toglie dai piedi, immagino di sì.» «Oh, potrebbe starci anche lui.» Thorn rise e se la strinse vicina. «Bisogna anche fare qualcosa per i turisti,» disse ancora Katherine. «Passano nella stanza da letto di Lincoln ben tre volte al giorno.» «Chiuderemo la porta a chiave.» «Oh, no. Faremo piuttosto pagare un supplemento.» Egli rise di nuovo, felice di vederla così. «Che straordinario giro turistico!» esclamò lei entusiasta. «Vedere il presidente che fa l'amore con sua moglie.» «Kathy!» «Kathy e Jerry in pieno orgasmo. E il vecchio Lincoln che si rivolta nella tomba.» «Ma che cosa ti ha preso?» esclamò lui con voce soffocata. «Sei tu,» rispose lei in un sussurro.
Egli la guardò, leggermente perplesso. «Sei proprio tu?» «Il mio più autentico io.» «Il tuo autentico io?» «Non sono disgustosa?» Scoppiò a ridere ed egli rise con lei. E per quel giorno e quella notte fu per loro come essa aveva sempre sognato che potesse essere. Il mattino seguente il tempo era splendido. Alle nove Thorn scese le scale con passo elastico, vestito di tutto punto per la cerimonia nuziale. «Kathy?» chiamò. «Non sono ancora pronta,» rispose dall'alto la voce di lei. «Saremo in ritardo.» «Hai ragione.» «Potrebbero anche aspettare proprio noi, sai. Dovesti cercare di fare un piccolo sforzo.» «Sto facendo uno sforzo.» «Damien è già vestito?» «Lo spero.» «Non voglio arrivare in ritardo.» «Chiedi a Mrs. Horton di prepararci dei toast.» «Non voglio nessun toast.» «Ma io voglio dei toast.» «Su, sbrigati.» Horton aveva già portato la limousine davanti all'ingresso. Thorn uscì e gli fece cenno di aspettare qualche minuto, poi si diresse rapidamente verso la cucina. Katherine uscì di corsa dalla sua camera, stringendosi la cintura dell'abito bianco, e si diresse verso la camera di Damien, chiamandolo a gran voce mentre si avvicinava. «Andiamo, Damien. Noi siamo pronti!» Cercò nella camera, ma non lo trovò. Udì scorrere l'acqua nel bagno accanto e vi entrò in fretta. Rimase senza fiato per lo sgomento. Damien era ancora nella vasca e giocava mentre Mrs. Baylock lo stava lavando. «Mrs. Baylock,» gemette Katherine, «le avevo detto di vestirlo e tenerlo pronto per tempo...» «Se non le spiace, madame, credo che sarà meglio per il bambino andare nel parco.»
«Ma le ho già detto che lo portiamo con noi in chiesa!» «La chiesa non è un luogo adatto per un bambino piccolo in una simile giornata di sole.» La donna sorrideva, dando l'impressione che la cosa non avesse importanza. «Mi dispiace,» replicò Katherine con calma. «È importante che venga con noi in chiesa.» «È troppo piccolo per andare in chiesa. Non farà altro che dare fastidio.» C'era qualcosa nel tono della sua voce e nelle sue maniere, forse un eccesso di calma e di innocenza mentre la provocava così apertamente, che fece spazientire Katherine. «Mi pare che lei non voglia capire,» ribatté con fermezza, «che voglio che ci accompagni in chiesa.» Mrs. Baylock si tese fulmineamente, offesa dal tono di Katherine. Anche il bambino se ne accorse, perché si spostò per stringersi alla sua governante che, seduta sul pavimento, levava gli occhi verso sua madre. «Non è mai stato in chiesa prima d'ora?» domandò Mrs. Baylock. «Non vedo che cosa c'entri questo...» «Kathy?!» chiamò Thorn impaziente dal piano di sotto. «Un minuto solo!» rispose sua moglie. Fissò con occhi duri Mrs. Baylock e la donna ricambiò lo sguardo con calma. «Lo vesta immediatamente,» disse Katherine. «Mi scusi se dico quello che penso, ma lei non si aspetterà davvero che un bambino di quattro anni capisca le tiritere di un matrimonio cattolico?» Katherine aspirò profondamente e si irrigidì. «Io sono cattolica, Mrs. Baylock, e lo è anche mio marito.» «Qualcuno deve pur esserlo,» ribatté la donna. Katherine restò di sasso, offesa da quell'aperto disprezzo. «Lei mi farà la cortesia di vestire il bambino e portarlo giù fino all'automobile nel giro di cinque minuti. In caso contrario può cominciare fin d'ora a cercarsi un altro impiego.» «Probabilmente sarà ciò che farò.» «Se preferisce.» «Ci penserò.» «Lo spero.» Ci fu un silenzio pieno di tensione, poi Katherine si volse per uscire. «In quanto a portarlo in chiesa...» aggiunse ancora Mrs. Baylock.
«Sì?» «Si pentirà di averlo fatto.» Katherine uscì dalla stanza. Di lì a cinque minuti esatti Damien era davanti all'automobile, vestito e pronto per partire. La corsa in macchina si concluse nella zona di Shepperton, dove era in costruzione la nuova autostrada e i lavori in corso intralciavano il traffico, rendendo ancor più tesa l'atmosfera nella limousine dei Thorn. «Qualcosa che non va?» chiese Thorn accorgendosi dell'espressione contrariata di Katherine. «No, non esattamente.» «Hai l'aria arrabbiata.» «Non era mia intenzione.» «Di che si tratta?» «Niente di grave.» «Andiamo. Butta fuori.» «Mrs. Baylock,» sospirò Katherine. «Che succede con Mrs. Baylock?» «Abbiamo avuto una piccola discussione.» «A che proposito?» «Voleva portare Damien nel parco.» «Che cosa c'è di male in questo?» «Invece di lasciarlo venire in chiesa.» «Non posso dire di disapprovarla completamente.» «Ha fatto di tutto per impedirgli di venire.» «Forse si sente sola senza il bambino.» «Non so se sia un bene.» Thorn alzò le spalle, fissando il cantiere a fianco della macchina, mentre procedevano a passo d'uomo nel groviglio del traffico. «Non c'è modo di evitare questo ingorgo, Horton?» «No, signore,» rispose l'autista, «ma se mi permette vorrei dire anch'io la mia a proposito di Mrs. Baylock.» Thorn e Katherine si scambiarono uno sguardo, sorpresi della richiesta di Horton. «Dica pure,» disse Thorn. «Non mi piace di doverlo fare di fronte al piccolo.» Katherine diede un'occhiata a Damien che stava giocando con i lacci delle sue scarpette nuove, apparentemente estraneo alla conversazione. «Va bene, parli pure,» disse Katherine.
«Credo che abbia una cattiva influenza,» disse Horton. «Non ha alcun rispetto per le regole della casa.» «Quali regole?» domandò Thorn. «Non intendevo entrare in particolari, signore.» «La prego.» «Bene, tanto per cominciare, è un fatto accettato da tutti che il personale mangia tutto insieme e si dà dei turni per rigovernare.» Thorn gettò un'occhiata a Katherine. Evidentemente non c'era nulla di serio. «Lei non mangia mai con noi,» proseguì Horton. «Scende sempre in cucina quando noi abbiamo tutti finito e mangia da sola.» «Capisco,» rispose Thorn fingendosi preoccupato. «E poi lascia i suoi piatti da lavare per quelli che sono di turno la mattina seguente.» «Penso che potremo dirle di non farlo più.» «Inoltre è usanza che, quando le luci sono spente, tutto il personale rimanga in casa,» continuò Horton, «ma io l'ho vista più di una volta uscire di notte e andare nel bosco nelle prime ore del mattino, quando è ancora buio. E sono anche sicuro che camminava senza far rumore perché nessuno se ne accorgesse.» I Thorn rimasero perplessi a guardarsi, meditando sulla faccenda. «Piuttosto strano...» borbottò Thorn. «Poi c'è una cosa, ma è piuttosto delicata e mi vorranno scusare,» disse ancora Horton. «Ma ci siamo accorti che non fa uso della carta igienica. Per il gabinetto, capisce? Non abbiamo ancora dovuto cambiare il rotolo da quando è arrivata.» Sul sedile posteriore i coniugi Thorn tornarono a guardarsi. La storia cominciava a diventare assurda. «Naturalmente ci ho riflettuto,» spiegò Horton. «E ho concluso che lo fa nel bosco. E questa mi pare una cosa incivile, se vuole la mia opinione, signore.» Seguì un silenzio. I Thorn erano perplessi. «E c'è ancora una cosa, signora. Una cosa che mi sembra molto grave.» «Di che si tratta, Horton?» domandò Thorn. «Usa il telefono e fa lunghe telefonate interurbane, parla con Roma.» Terminato quello che aveva da dire, Horton riprese a occuparsi della guida della macchina e trovò persino il modo di sgusciare in mezzo al traffico e portarsi rapidamente avanti. Mentre il paesaggio scorreva davanti ai
loro occhi, Katherine e Thorn rimasero in silenzio a riflettere. Infine i loro occhi si incontrarono. «Oggi è stata apertamente offensiva,» disse Katherine. «Desideri licenziarla?» «Non lo so. Che ne pensi?» Thorn alzò le spalle. «Damien sembra contento di stare con lei.» «Lo so.» «Questo ha la sua importanza.» «Certo,» sospirò Katherine. «È senz'altro così.» «Puoi mandarla via, se lo desideri.» Katherine rimase immobile a guardare dal finestrino. «Penso che forse sarà lei a prendere l'iniziativa.» Seduto in mezzo a loro, con gli occhi immobili, Damien fissava il pavimento della vettura, mentre si dirigevano verso il centro della città. La chiesa di Ognissanti era un edificio gigantesco e pomposo. Architettura del Seicento che si confondeva con il Settecento, l'Ottocento e il Novecento in un caotico confluire di stili diversi. Il massiccio portale centrale restava sempre aperto e l'interno era illuminato giorno e notte. Quel giorno la scalinata che portava all'ingresso era ornata da un'alta siepe di giaggioli che si apriva al centro in un maestoso passaggio fiancheggiato da uomini in abito da cerimonia. Il fastoso rito nuziale aveva richiamato una gran folla di curiosi, a cui si mescolavano gruppi contestatori recanti cartelli con scritte e slogan comunisti, evidentemente gente che aveva disertato una manifestazione politica a Piccadilly per venire qui a curiosare. Ora la folla cominciava a ribollire e gli addetti al servizio di sicurezza avevano qualche difficoltà a tenere indietro quella massa compatta. Ciò rallentava naturalmente l'afflusso delle automobili, che dovevano mettersi in fila e aspettare finché non riuscivano ad arrivare davanti alla chiesa prima di scaricare i loro illustri passeggeri. La limousine dei Thorn fu una delle ultime a giungere, e dovette fermarsi quasi in fondo alla strada. Qui il servizio di sorveglianza era meno fitto che davanti alla chiesa e la gente cominciò a stringersi intorno alla macchina fissando sfacciatamente gli occupanti. Via via che avanzava, la piccola folla si infittiva e Damien, che aveva sonnecchiato per tutto il viaggio, cominciò ad agitarsi, spaventato dalle facce che premevano contro i finestrini. Katherine se lo strinse a sé, guardandosi in giro con crescente disagio, ma la gente intorno si moltiplicava e cominciava a premere; la faccia
grottesca di un idrocefalo si pose a fianco di quella di Katherine, oltre il cristallo, e cominciò a battere furiosamente contro il finestrino, tentando di entrare nell'automobile. La donna girò la faccia, nel tentativo di sfuggire a quella vicinanza; intanto l'uomo era scoppiato a ridere abbandonandosi a uno scroscio di sciocche esclamazioni. «Mio Dio,» mormorò con voce soffocata, «ma che sta succedendo?» «Tutta la strada è bloccata, fino all'altezza della chiesa,» rispose Horton. «Non c'è qualche altra strada?» domandò Katherine. «Impossibile uscire dalla fila, le macchine sono una attaccata all'altra.» I colpi picchiati contro il finestrino a fianco del suo viso continuavano e Katherine chiuse gli occhi, tentando di sottrarsi a quel frastuono, ma il chiasso aumentava, la folla fuori pareva divertita dal suo spavento e prese a battere nel vetro anche dall'altra parte. «Non potremmo uscire dalla macchina?» implorò Katherine. Accanto a lei ora Damien, avvertendo il panico che si era impossessato della madre, cominciò a manifestare i primi segni di paura. «Calma... calma... non c'è nulla da temere,» esclamò Thorn per tranquillizzarlo. «Questa gente non ha nessuna intenzione di farti del male, vuole semplicemente vedere chi c'è nella macchina.» Ma gli occhi del bambino cominciarono a dilatarsi sempre di più; adesso non erano più fissi sulle persone che erano nella strada, ma guardavano oltre, più in alto, verso le guglie torreggiami della cattedrale. «Non c'è nessun motivo di aver paura, Damien,» disse Thorn. «Stiamo semplicemente andando a un matrimonio.» Ma la paura del bambino cresceva, la faccina contratta da una terribile tensione, via via che la vettura avanzava a passo d'uomo verso la chiesa. «Damien...» Thorn guardò la moglie e con gli occhi le indicò il bambino. La faccia del piccolo era come pietrificata, il corpo teso fino allo spasimo mentre ormai avevano superato la calca e la cattedrale improvvisamente appariva in tutta la sua imponenza. «Va tutto bene, Damien,» sussurrò Katherine stringendo a sé il bambino, «quella gente se n'è andata...» Ma gli occhi del piccolo erano inchiodati sulla chiesa e continuavano a farsi sempre più grandi. «Che gli succede?» domandò in fretta Thorn. «Non lo so.»
«Che cos'hai, Damien?» «È spaventato a morte.» Katherine gli prese la mano e il bambino vi si aggrappò, fissandola con occhi supplichevoli e disperati. «Ma è una chiesa, tesoro,» esclamò Katherine. Quando il bambino si volse, aveva le labbra inaridite; il panico pareva sopraffarlo e cominciò ad ansimare. Il suo piccolo volto era di un pallore impressionante. «Mio Dio,» esclamò Katherine con voce soffocata. «Sta male?» «È tutto gelato. Sembra un pezzo di ghiaccio!» La limousine si fermò in quel momento proprio davanti all'ingresso della chiesa. Uno dei cerimonieri aprì la portiera dall'esterno e allungò una mano per aiutare Damien a scendere, ma quel gesto provocò nel bambino una crisi immediata di panico. Afferrandosi con tutte le sue forze all'abito della madre, le si strinse contro con violenza, cominciando a gemere di paura. «Damien!» gridò Katherine. «Damien!» Più tentava di staccarlo da sé, più il bambino la stringeva con forza, con una furia disperata, tanto più impetuosa quanto più lei lottava per liberarsi. «Jeremy!» gridò la donna. «Damien!» urlò Thorn. «Mi sta strappando il vestito!» Thorn afferrò il bambino, strappandolo con forza, mentre il piccolo lottava disperatamente per restare attaccato alla madre; le mani si aggrappavano come artigli al viso di lei, afferrandosi ai suoi capelli per non lasciare la presa. «Aiuto! Oh Dio!» gridò Katherine. «Damien!» urlò Thorn tirando inutilmente il bambino per staccarlo dalla madre. «Damien! Lascia andare la mamma!» Il bambino cominciò a urlare terrorizzato e una piccola folla si raccolse intorno a loro, assistendo a quella lotta disperata. Nel tentativo di portare aiuto, Horton lasciò il posto alla guida della macchina e si lanciò di corsa verso lo sportello, tentando di afferrare il bambino e tirarlo fuori dall'automobile. Ma il piccolo divenne una belva e fra alte grida affondò le mani nel viso di Katherine e le strappò un ciuffo di capelli. «Prendetelo! Prendetelo!» urlava ora la donna. In preda al terrore cominciò a picchiarlo, tentando di scostare le dita che le si erano conficcate in un occhio. Con uno strappo violento Thorn riuscì
a staccare il bambino da Katherine cingendolo con una stretta robusta e bloccandogli le braccia dietro la schiena. «Metta in moto,» gridò ansimante a Horton. «Andiamo via di qui!» Mentre il bambino continuava a dibattersi, Horton tornò di corsa al suo posto, sbattendo la portiera; la limousine fece un improvviso balzo in avanti e si staccò dal bordo del marciapiedi. «Mio Dio,» singhiozzava Katherine, reggendosi la testa, «mio... Dio...» Via via che la macchina si allontanava, la furia del bambino lentamente si placava fino a che si spense del tutto. Il capo gli ricadde sui cuscini, in totale sfinimento. Horton svoltò rapidamente e in pochi minuti fu sull'autostrada. Il silenzio si fece completo. Damien se ne stava seduto con gli occhi vitrei, la faccia ancora madida di sudore; Thorn lo teneva ancora per le braccia e guardava davanti a sé con un'espressione di profondo timore. Accanto a lui Katherine era in uno stato di choc, i capelli arruffati e strappati, un occhio gonfio e quasi chiuso. Stettero così, in silenzio, fino all'arrivo a casa. Nessuno di loro osava parlare. Appena giunti a Pereford, portarono Damien nella sua camera e rimasero lì seduti con lui in silenzio, mentre il bambino guardava fuori dalla finestra. La fronte del piccino era fresca, quindi non c'era alcun bisogno di chiamare un medico. Ma il piccolo evitava il loro sguardo, lui stesso intimorito di ciò che aveva fatto. «Mi prenderò io cura di lui,» disse a voce bassa Mrs. Baylock entrando nella stanza. Quando Damien si volse e la vide, tutta la sua personcina ebbe un'espressione di sollievo. «Non gli piace andare in chiesa,» rispose la governante, «Avrebbe voluto andare nel parco.» «È diventato... furioso,» disse Thorn. «Era arrabbiato,» spiegò Mrs. Baylock, prendendo il piccolo tra le braccia. Damien le si afferrò, come un bimbo che ritrova la madre. I Thorn rimasero in silenzio a osservare la scena. Poi, lentamente, uscirono dalla stanza. «C'è qualcosa che non va,» disse Horton alla moglie. Era sera ormai, e i due erano seduti in cucina. La donna aveva ascoltato in silenzio il racconto che il marito le aveva fatto degli eventi della giornata. «C'è qualcosa che non va con quella Mrs. Baylock,» continuò l'uomo, «e
c'è anche qualcosa che non va in quel bambino, e in tutta questa casa.» «Adesso stai esagerando,» replicò sua moglie. «Se tu avessi visto quello che ho visto io, capiresti che cosa intendo dire.» «I capricci di un bambino.» «La furia di un animale.» «È nervoso, ecco tutto.» «E da quando?» La donna scosse la testa, come per rifiutare gli argomenti del marito, andò a prendere della verdura dal frigorifero e si mise a tagliarla a piccoli pezzi. «Ma lo hai mai guardato negli occhi?» domandò Horton. «È come guardare negli occhi di un animale. Ti fissano come se aspettassero qualcosa. Come se sapessero qualcosa che tu non sai. Sono occhi di chi è stato dove tu non sei stato mai.» «Tu e le tue fantasie,» borbottò la donna continuando a tagliare la verdura. «Aspetta e vedrai,» affermò Horton. «In questa casa succederà di sicuro qualche disgrazia.» «Le disgrazie succedono dappertutto.» «Tutta questa faccenda non mi piace,» replicò l'uomo cupamente. «Penso che ce ne dovremmo andare.» In quello stesso momento i Thorn erano nel patio. Era tardi e Damien dormiva. La casa intorno a loro era buia e silenziosa. Da un impianto stereofonico veniva della musica classica e i due sedevano in silenzio, fissando le tenebre oltre le grandi vetrate. Il viso di Katherine era gonfio e coperto di graffi, e di tanto in tanto essa rinnovava l'impacco tiepido che si teneva sull'occhio colpito. Non avevano aperto bocca dopo quanto era avvenuto, ma si erano contentati di rassicurarsi con la reciproca presenza. La paura che si era impossessata di loro era qualcosa che altri genitori avevano conosciuto prima di loro: per la prima volta si rendevano conto che nel loro figliolo c'era qualcosa che non andava. Era una paura che si cristallizzava nel silenzio, non acquistava dimensioni reali fino a quando non se ne parlava. Katherine sentì con la mano l'acqua nella bacinella degli impacchi e si accorse che era fredda, spremette la pezzuola e la mise in disparte. Sentendola muovere, Thorn si volse a guardarla e attese che lei avvertisse il suo sguardo.
«Sei sicura di non voler chiamare un medico?» le domandò a voce bassa. Lei scosse la testa. «Soltanto un paio di graffi.» «Voglio dire... per Damien,» disse Thorn. Tutto ciò che Katherine poté fare fu di alzare le spalle in un gesto di impotenza. «Che cosa gli potremmo dire?» domandò in un sussurro. «Non dobbiamo dirgli nulla. Semplicemente farlo esaminare.» «Ha fatto l'ultimo controllo soltanto il mese scorso. Non ha assolutamente nulla. Non è mai stato malato un solo giorno da quando è venuto al mondo.» Thorn annuì, riflettendo su quelle parole. «Non ha avuto mai nulla, vero?» ripeté curiosamente. «No.» «È strano, non ti pare?» «Trovi?» «Direi di sì.» Il suo tono di voce era singolare e sua moglie si volse a guardarlo. I loro occhi si incontrarono e Katherine aspettò che continuasse. «Voglio dire... né scarlattina né morbillo... o varicella, le solite malattie infantili. E neppure un raffreddore o un po' di tosse.» «E con questo?» ribatté lei subito sulla difensiva. «Non so... trovo soltanto che è abbastanza insolito.» «Io non trovo.» «A me pare di sì.» «È di ceppo sano.» Thorn si arrestò di colpo; un nodo gli chiudeva la gola. Il segreto era lì e continuava a soffocarlo. Stava chiuso nel suo petto. Non lo aveva mai abbandonato un istante, in tutti quegli anni, ma il più delle volte vi aveva trovato una giustificazione. Si sentiva colpevole di quell'inganno, ma al tempo stesso la sua colpa era alleviata da tutta la felicità che l'inganno aveva portato con sé. Quando tutto andava bene, era sempre stato facile dominare il senso di colpa, tenerlo chiuso in fondo al cuore, addormentato. Ma ora stava assumendo proporzioni inattese, stava diventando una cosa enorme, lo sentiva montare dentro di sé e serrargli la gola. «Se nella tua o nella mia famiglia ci fossero stati dei casi... di psicosi... o di disturbi psichici di qualsiasi altro tipo,» disse Katherine, «francamente sarei molto preoccupata per ciò che è accaduto oggi.»
Egli la guardò, poi distolse gli occhi. «Ma ci ho riflettuto molto,» continuò la donna, «e so che tutto è perfettamente a posto. È un bel bambino, perfettamente sano. Discende da una razza di persone sane, sia da parte della tua che della mia famiglia.» Incapace di guardarla, Thorn annuì silenziosamente. «Ha preso uno spavento, tutto qui,» aggiunse ancora Katherine. «È stato soltanto... un brutto momento. Ogni bambino ha i suoi brutti momenti.» Thorn assentì di nuovo, e con grande fatica si passò una mano sulla fronte. Dentro di sé sentiva un infinito desiderio di dirle la verità, di chiarire ogni cosa, di liberarsi di quel segreto. Ma ormai era troppo tardi. L'inganno durava da troppo tempo. Katherine lo avrebbe odiato se le avesse detto la verità. Avrebbe potuto arrivare a odiare anche il bambino. No, non doveva saperlo mai. «Ho riflettuto a proposito di Mrs. Baylock,» disse Katherine. «Sì?» «Ho pensato che forse è meglio che rimanga.» «Oggi mi è parsa molto gentile,» osservò Thorn a voce bassa. «Damien è in preda all'ansia. Probabilmente ha sentito quello che abbiamo detto in macchina.» «Già.» Sì, poteva essere così. Questa poteva essere la ragione di quella paura in automobile. Loro avevano creduto che non stesse ascoltando, ma evidentemente aveva udito e compreso ogni parola e il pensiero di perdere la sua governante lo aveva riempito di terrore. «Già,» sussurrò ancora Thorn e ora la sua voce era piena di speranza. «Vorrei affidarle anche qualche altro incarico,» disse Katherine, «di modo che ogni tanto stia lontana da casa durante la giornata. Potrebbe, per esempio, occuparsi degli acquisti del pomeriggio, così io potrei avere più tempo per stare con Damien.» «Chi li fa ora? Voglio dire gli acquisti.» «La signora Horton.» «Credi che non si offenderà di questo cambiamento?» «Non lo so. Ma desidero avere il modo di trascorrere più tempo con Damien.» «Penso che sia una buona cosa.» Il silenzio ricadde fra di loro e Katherine si girò dall'altra parte. «Sì, credo che sia un bene,» ripeté Thorn. «È una buona idea.» Per un attimo ebbe l'impressione che tutto sarebbe andato bene, poi si
accorse che Katherine stava piangendo. Si sentì stringere il cuore e stette a fissarla, incapace di confortarla. «Avevi ragione, Katherine,» sussurrò. «Damien ha sentito che stavamo meditando di licenziarla. È questo che lo ha scosso. Sì, è stato semplicemente questo.» «Me lo auguro,» rispose lei con voce tremante. «Ma certo...» mormorò Thorn. «È stato soltanto questo.» Lei annuì e quando smise di piangere rimase lì in piedi, tenendo gli occhi fissi in alto nella casa buia. «Beh,» disse, «la cosa migliore da fare in una giornata simile, è mettervi fine. Io vado a letto.» «Io resterò qui ancora un momento. Verrò su fra qualche minuto.» Il rumore dei passi della moglie si spense alle sue spalle e Thorn fu solo con i suoi pensieri. Guardando fuori in direzione del bosco, vide invece davanti a sé l'ospedale di Roma; vide se stesso laggiù, immobile davanti a una finestra, mentre accettava di prendere quel bambino. Perché non aveva preteso di sapere di più sulla madre? Chi era? Da dove veniva? Chi era il padre del bambino e perché non era lì? Nel corso di quegli anni si era fatto le sue idee in proposito ed esse erano servite a placare i suoi timori. Molto probabilmente la madre di Damien era una ragazza del contado, attaccata alla chiesa e per questo era andata a partorire in un ospedale cattolico. Era un ospedale molto costoso e non ci sarebbe potuta certamente entrare se non avesse avuto dei contatti con i religiosi che lo dirigevano. Forse si trattava di un'orfana, per questo non c'era nessuno della sua famiglia. Evidentemente il bambino era frutto di una relazione illecita e questo era il motivo per cui il padre non si era fatto vedere. Che altro c'era ancora da sapere? Che altro poteva avere importanza? Il bambino era vispo e bello e assolutamente sano, descritto dai medici come «perfetto sotto ogni punto di vista.» Thorn non era uomo abituato a dubitare di sé o ad autoaccusarsi; ora la sua mente era tesa nello sforzo di trovare qualcosa che lo rassicurasse, che gli dicesse che ciò che aveva fatto era giusto. Nel momento in cui aveva compiuto quel gesto era confuso e disperato. Era vulnerabile e facile preda della suggestione? Possibile che avesse sbagliato, che avesse commesso un errore? Possibile che ci fossero altre cose che egli avrebbe dovuto sapere? Le risposte a tutte quelle domande non sarebbero mai arrivate fino a Thorn. Soltanto un piccolissimo gruppo di persone le conosceva, ed ora
esse erano sparse per il mondo. Erano suor Teresa, padre Spilletto e padre Tassone. Solo loro conoscevano la verità. Essa era soltanto nelle loro coscienze. Nel buio di quella notte ormai lontana, essi avevano lavorato in febbrile silenzio, dominati dalla tensione e dall'onore di essere stati i prescelti. In tutta la storia del mondo solo due volte prima d'allora quel tentativo era stato fatto ed essi sapevano che ora non dovevano, non potevano fallire nel compito che era stato loro assegnato. Tutto era nelle loro mani, nelle mani di loro tre soltanto, e tutto si era svolto con la precisione di un orologio: nessuno ne aveva saputo nulla. Dopo la nascita, era stata suor Teresa a preparare il falso neonato, depilandogli le braccia e la fronte, cospargendolo di talco per asciugarlo bene e renderlo presentabile per quando Thorn sarebbe venuto a vederlo. I capelli sulla testolina erano folti, come avevano sperato, e la monaca aveva usato un asciugacapelli per renderli più morbidi e soffici, esaminando prima il cranio per assicurarsi che ci fosse il marchio della Nascita. Thorn non avrebbe mai conosciuto suor Teresa, e neppure avrebbe visto il piccolo padre Tassone, che era al lavoro nel sotterraneo, intento a imballare due corpi che dovevano essere fatti partire immediatamente. Il primo dei due corpi era quello del figlio di Thorn, ridotto al silenzio prima ancora che potesse emettere il suo primo vagito; il secondo era quello dell'animale che aveva avuto la funzione di madre della creatura sopravvissuta. Fuori, un camion aspettava di trasportare i corpi a Cerveteri, dove, nel silenzio del cimitero di Sant'Angelo, i becchini attendevano sotto l'altare della chiesa. Il piano era nato da una diabolica comunione e l'incarico era andato a Spilletto, che a sua volta aveva scelto con la massima cura i suoi complici. Di suor Teresa era stato soddisfatto, ma all'ultimo momento aveva avuto delle perplessità a proposito di padre Tassone. Il piccolo discepolo era pieno di devozione, ma la sua fede nasceva dalla paura e l'ultimo giorno aveva dato dei segni di instabilità che avevano preoccupato Spilletto. Tassone era pieno di zelo, ma era uno zelo che gli veniva dal disperato bisogno di provare a se stesso di essere degno di quel compito. Guidato da quei sentimenti, si era preoccupato dell'importanza del proprio ruolo nell'esecuzione del piano e aveva perso di vista il significato supremo di ciò che essi stavano compiendo. Quella eccessiva consapevolezza di sé lo aveva gettato in uno stato di ansia, e Spilletto era stato lì lì per escludere il confratello dall'impresa. Se uno solo di loro avesse fallito nel suo compito, tutti tre sarebbero stati responsabili. E, cosa ben più grave, il tentativo non avrebbe potuto essere ripetuto per altri mille anni.
Alla fine Tassone aveva dato buona prova di sé, portando a termine la sua parte del lavoro con devozione e prontezza, superando persino con bravura una crisi che nessuno di loro aveva previsto. Il bambino non era ancora morto e dall'involucro in cui era stato deposto aveva emesso un suono, un vagito, proprio mentre lo stavano caricando sul camion. Ripreso rapidamente il pacco, Tassone era ritornato di corsa nel sotterraneo e aveva fatto sì che nessun suono di vita uscisse più dal corpo del neonato. Ma la cosa lo aveva scosso profondamente. Tuttavia lo aveva fatto, e questo era ciò che contava. Intorno a loro, quella notte all'ospedale, tutto appariva perfettamente normale; i medici e le infermiere avevano continuato a compiere il proprio dovere senza avere la minima idea di ciò che stava avvenendo in mezzo a loro. Tutto era stato eseguito con discrezione ed esattezza e nessuno, e tanto meno Thorn, avrebbe mai potuto averne un indizio. Mentre ora sedeva nel patio, guardando fuori nella notte, Thorn si rese conto che il bosco di Pereford non gli dava più nessun presentimento, sinistro. Non aveva più, come gli era capitato prima, l'impressione che qualcuno lo guardasse di laggiù. Ora il bosco era immerso nella pace, allietato solo dal concerto dei grilli e dei ranocchi. Ed era molto distensivo, quasi rassicurante sentire che la vita intorno a lui era normale. I suoi occhi si alzarono sulla facciata della casa, giunsero alla finestra della camera di Damien, illuminata da una debole luce notturna. Thorn cercò di immaginare il volto del bimbo nella pace del sonno. Sarebbe stata la visione più giusta e rasserenante per concludere quella burrascosa giornata ed egli si alzò, spense la lampada e si avviò attraverso la casa immersa nell'oscurità. Dentro era buio pesto e l'aria pareva vibrare dell'intensità di quel silenzio. Thorn cercò a tentoni la scala e salì silenziosamente, fino al pianerottolo. Non aveva mai visto la casa così buia, e si rese conto che, perduto nei suoi pensieri, doveva essere rimasto fuori molto a lungo. Intorno a sé avvertì il suono del respiro dei dormienti e camminò senza far rumore, allungando la mano a toccare il muro per orientarsi. Cercò un interruttore e fece per accendere la luce, ma l'interruttore non funzionò; proseguì, girando l'angolo della lunga galleria. Di fronte a sé vide l'uscio della stanza del bambino, una striscia sottile di luce che filtrava di sotto la porta. Ma improvvisamente si arrestò, agghiacciato. Gli era parso di udire un suono. Una specie di vibrazione, un sordo brontolio, già svanito prima ancora ch'egli potesse identificarlo, subito sostituito dall'atmosfera greve di silen-
zio che veniva dal grande vestibolo. Accennò a riprendere a camminare, ma il suono si ripeté, più forte questa volta, facendogli battere il cuore con violenza. Poi abbassò lo sguardo e vide gli occhi. Con un sussulto si appiattì contro il muro; il brontolio aumentava di intensità mentre dall'oscurità usciva la forma di un cane che stava di guardia davanti alla porta della stanza di Damien. Respirando appena Thorn rimase immobile; impietrito dallo sgomento, mentre il ringhio si faceva più distinto e gli occhi gialli lo fissavano scintillanti. «Fermo... fermo...» esclamò Thorn con voce soffocata, quasi senza respirare, ma la sua voce parve agitare ancor più l'animale, pronto a scattare. «Zitto adesso,» esclamò in quell'istante Mrs. Baylock comparendo sulla porta della sua camera. «Questo è il padrone di casa.» Il cane si accucciò subito in silenzio e il dramma si dissolse nel nulla. La signora Baylock sfiorò un interruttore e subito il grande atrio della casa si illuminò, lasciando Thorn senza fiato, gli occhi fissi sul cane. «Che... che cosa è questo?» disse con voce soffocata. «Signore?» domandò Mrs. Baylock in tono disinvolto. «Questo cane.» «Un pastore, credo. Non è bellissimo? Lo abbiamo trovato nel bosco.» Ora il cane giaceva ai suoi piedi, improvvisamente indifferente. «Chi le ha dato il permesso...?» «Ho pensato che un buon cane da guardia sarebbe stato utile e il bambino se ne è subito innamorato.» Thorn tremava ancora e rimase rigido, appoggiato al muro, mentre la signora Baylock non riusciva a nascondere del tutto un'aria divertita. «L'ha spaventata, eh?» «Sicuro.» «Vede come è bravo? Come cane da guardia, voglio dire? Mi creda, lei sarà ben contento di averlo qui quando sarà partito.» «Quando sarò partito?» domandò Thorn. «Per il suo viaggio. Non sta per partire per l'Arabia Saudita?» «Che ne sa lei dell'Arabia Saudita?» domandò lui. La donna alzò le spalle. «Non sapevo che fosse un segreto.» «Non ne ho parlato con nessuno.» «È stata la signora Horton a dirmelo.» Thorn assentì, sempre fissando il cane. «Non darà nessun fastidio,» assicurò la donna. «Da mangiare gli diamo solo gli avanzi...»
«Non voglio averlo qui,» esclamò con voce secca Thorn. La signora Baylock lo guardò sorpresa. «Non le piacciono i cani?» «Quando voglio un cane, me lo scelgo da me.» «Ma il bambino si è molto affezionato a questo animale, signore, credo proprio che ne abbia bisogno.» «Deciderò io quando ha bisogno di un cane.» «I bambini sanno di poter contare sugli animali, signore. Non importa quali.» Lo guardava fisso come se volesse fargli capire qualcosa. «Sta cercando di dirmi qualcosa?» «Non me lo permetterei, signore.» Ma il suo sguardo parlava molto chiaro. «Se ha qualcosa da dire, Mrs. Baylock, preferirei saperlo.» «Non dovrei dirlo, signore. Lei ha già abbastanza cose in mente...» «Ho detto che vorrei saperlo.» «È semplicemente che il bambino si sente molto solo.» «E perché dovrebbe sentirsi solo?» «Sua madre pare non gli voglia bene.» Thorn si irrigidì, offeso da quell'osservazione. «Vede?» disse la donna. «Avrei fatto meglio a non parlare.» «Non gli vuol bene?» «Sembra che non lo accetti. E il bambino lo sente.» Thorn era senza parole, non sapeva come reagire. «Credo che lei si sbagli.» «E ora ha questo cane. Gli vuole molto bene. Per amore del bambino, non glielo porti via.» Thorn abbassò gli occhi sul grosso animale e scosse la testa. «Non mi piace questo cane,» ripeté. «Domani lo porti al canile municipale.» «Al canile dove portano le bestie randagie?» esclamò la donna con voce sorda. «Ma lo uccideranno!» «Mi basta che lo porti via di qui. Voglio che domani non ci sia più.» La faccia di Mrs. Baylock si indurì e Thorn girò gli occhi altrove. La donna e il cane lo guardarono allontanarsi lungo il corridoio e i loro occhi bruciavano di odio. 5. Thorn aveva trascorso una notte insonne, seduto sulla terrazza della sua
camera da letto, fumando una sigaretta dopo l'altra, disgustato dal sapore del fumo. Dalla stanza udiva i gemiti di Katherine e si chiese contro quali demoni sua moglie stesse lottando nel sonno. Era ancora il vecchio demone della depressione, sempre in agguato, che si faceva nuovamente avanti? Oppure stava rivivendo nel sonno le ore terribili di quella giornata? Per tenere sgombra la mente dalle immagini della realtà e sfuggire all'ansia che lo attanagliava, si rifugiò nella fantasia. Cominciò a pensare ai sogni, alla possibilità di vedere i sogni di un altro. È noto che l'attività cerebrale si fonda su impulsi elettrici; come quelli che producono le immagini sullo schermo televisivo. Doyeva esserci sicuramente un modo di combinare le due cose. Ne sarebbero derivati vantaggi terapeutici incredibili. Si sarebbero potuti registrare i sogni su nastri magnetici e il soggetto avrebbe potuto rivivere il proprio sogno in tutti i dettagli. Egli stesso aveva spesso provato la vaga sensazione di avere fatto un brutto sogno, ma al risveglio non era stato capace di ricordare molto, i particolari erano andati perduti, lasciandosi dietro solo una scia di disagio. Ma oltre all'aspetto terapeutico, era facile immaginare come sarebbe stato interessante rivedere i sogni. E anche pericoloso. I sogni dei grandi uomini, per esempio, avrebbero potuto essere registrati e archiviati per le generazioni future. Chissà quali erano stati quelli di Napoleone? O di Hitler? O di Lee Harvey Oswald? Probabilmente l'assassinio di Kennedy sarebbe stato evitato, se qualcuno avesse potuto per tempo prendere visione dei sogni di Oswald. Ci doveva certamente essere un mezzo. In queste oziose considerazioni Thorn passò le ore della notte, fino alle prime luci dell'alba. Quando Katherine si svegliò, l'occhio colpito si era gonfiato tanto che non si apriva più. Uscendo per andare in ufficio, Thorn le disse di chiamare un medico. Erano state le uniche parole che si erano scambiati. Katherine era silenziosa e Thorn preoccupato per la giornata che lo aspettava. Quel giorno doveva prendere gli ultimi accordi per il suo prossimo viaggio nell'Arabia Saudita, ma aveva la netta sensazione che avrebbe fatto meglio a non partire. Aveva paura. Per Katherine, per Damien, anche per se stesso. Ma non avrebbe saputo dire perché, né che cosa temeva. C'era nell'aria un'atmosfera di incertezza, l'improvvisa sensazione chela vita fosse di una estrema fragilità. Prima d'allora non aveva mai conosciuto l'angoscia della morte; era una cosa lontana, sempre proiettata in un futuro incerto. Ma questa era l'essenza del timore che provava adesso: che la sua vita fosse in qualche modo in pericolo. Nella limousine che lo portava all'ambasciata prese meccanicamente de-
gli appunti sulle polizze di assicurazione e su altri aspetti dei suoi affari di cui ci si sarebbe dovuti occupare in caso egli fosse venuto a mancare. Lo fece con spassionata freddezza e senza neppure rendersi conto che era qualcosa che mai aveva fatto prima d'allora, e nemmeno aveva mai pensato di dover fare. Soltanto quando ebbe finito si spaventò di quei suoi calcoli e rimase al suo posto in un silenzio carico di tensione, mentre l'auto si avvicinava all'ambasciata. Aveva la chiara sensazione che qualcosa stesse per accadere. Quando la vettura si arrestò, Thorn scese, leggermente rigido e aspettò a muoversi che la macchina si fosse allontanata. Fu allora che li vide scendere verso di lui; due uomini che si avvicinavano di corsa, uno scattando fotografie, l'altro assalendolo con un fuoco di fila di domande. Thorn si diresse all'ingresso dell'ambasciata, ma i due gli tagliarono la strada; tentò di aggirarli, scuotendo negativamente la testa a tutte le loro domande. «Mr. Thorn, ha letto il Reporter di oggi?» «No, non l'ho letto...» «C'è un articolo sulla sua governante, quella che si è uccisa...» «Non l'ho visto.» «Il giornale dice che ha lasciato una lettera in cui annunciava il suicidio.» «Sciocchezze.» «Può guardare da questa parte, per favore?» Era Jennings con la sua macchina fotografica che si muoveva rapido di qua e di là, continuando a scattare. «Non le spiace...» disse Thorn quando Jennings gli sbarrò la strada. «È vero che la ragazza si drogava?» domandò il cronista. «No, naturalmente.» «Ma il rapporto del coroner parla di una droga che le è stata trovata nel sangue.» «Era un antiallergico,» rispose Thorn a denti stretti. «Soffriva di allergie...» «Si dice che abbia preso una dose troppo alta.» «Può restare un attimo così?» domandò Jennings. «Volete per favore lasciarmi passare?» gridò Thorn seccato. «Sto soltanto facendo il mio lavoro, signore.» Thorn tentò di spostarsi, ma i due lo inseguirono, bloccandolo nuovamente. «La ragazza si drogava, Mr. Thorn?»
«Vi ho già detto...» «L'articolo dice...» «Non mi importa nulla di quello che dice l'articolo!» «Magnifico!» esclamò Jennings. «Resti un attimo così!» L'apparecchio arrivò troppo vicino e Thorn lo spinse via, facendolo sfuggire dalle mani di Jennings. Cadde sbattendo con forza sul cemento e per un attimo tutti rimasero in silenzio, storditi da quell'improvviso impeto di violenza. «Ma non potete aver un po' di rispetto?» esclamò Thorn con voce soffocata. Jennings si inginocchiò accanto ai resti della sua macchina e da quella posizione alzò gli occhi a fissare Thorn. «Mi dispiace,» disse questi con voce tremante. «Mi mandi il conto dei danni.» Jennings sollevò la macchina in pezzi e si alzò lentamente, alzando le spalle mentre guardava Thorn negli occhi. «Non importa, signor ambasciatore,» disse. «Diciamo... che lei resta 'in debito' con me.» Terribilmente a disagio, Thorn fece un cenno del capo, si volse e entrò nell'edificio dell'ambasciata, mentre un marine ne usciva di corsa, troppo tardi per evitare l'incidente. «Mi ha spaccato la macchina fotografica,» esclamò Jennings rivolto al militare. «L'ambasciatore mi ha spaccato la macchina.» Rimasero lì, tutti in preda a un forte imbarazzo, poi si separarono e ciascuno andò per la sua strada. Nell'ufficio di Thorn regnava la confusione. Il viaggio nell'Arabia Saudita era in pericolo perché l'ambasciatore faceva dell'ostruzionismo, diceva di non voler partire, senza dare ulteriori spiegazioni. La preparazione del viaggio era costata due settimane d'intenso lavoro a tutto il personale, e adesso i due assistenti dell'ambasciatore si ribellavano a quell'inspiegabile mutamento di programma, vedendo distrutto tutta la loro sottile attività diplomatica. «Ma non può disdire così,» intervenne uno dei due. «Dopo tutto quanto è stato fatto, non può telefonare di punto in bianco e dire che...» «Il viaggio non è disdetto,» ribatté Thorn, «è semplicemente rimandato.» «Lo prenderanno per un insulto.» «Affari loro.»
«Non mi sento di mettermi in viaggio in questo momento,» rispose Thorn. «Non è il momento giusto.» «Ma si rende conto di ciò che è in gioco in questo viaggio?» domandò il suo secondo assistente. «Diplomazia,» rispose Thorn. «Molto più di questo.» «Loro hanno il petrolio e con ciò hanno il potere,» esclamò Thorn. «Niente potrà cambiare questo dato di fatto.» «Ma è precisamente per questo che...» «Manderò qualcun altro.» «Il presidente desidera che ci vada lei.» «Gli parlerò. Gli spiegherò.» «Mio Dio, Jerry! Ma questa operazione è stata preparata per settimane e settimane!» «La ripreparerete un'altra volta!» gridò Thorn. Il suo improvviso scoppio d'ira provocò un silenzio totale. Si udì il ronzio del citofono e Thorn allungò la mano e premette il tasto. «Sì?» «C'è qui un certo padre Tassone che le vuol parlare,» annunciò la voce di una segretaria. «Chi?» «Padre Tassone, di Roma. Dice che si tratta di una cosa personale, molto urgente.» «Non l'ho mai sentito nominare,» replicò Thorn. «Dice che ha bisogno solo di pochi minuti,» riprese la voce. «Si tratta di un ospedale.» «Probabilmente vorrà qualche donazione,» brontolò uno degli assistenti. «Va bene,» sospirò Thorn. «Lo faccia entrare.» «Non sapevo che le stesse tanto a cuore la beneficenza,» esclamò piccato uno dei due collaboratori. «Pubbliche relazioni,» borbottò Thorn. «La prego, non prenda nessuna decisione circa il viaggio in Arabia Saudita. Non ancora. D'accordo? Oggi è di cattivo umore. Lasci sbollire la faccenda.» «La decisione è presa,» disse Thorn stancamente. «O ci va qualcun altro oppure bisogna rimandare.» «Rimandare a quando?» «A più tardi,» rispose Thorn. «Fino a quando mi sentirò di mettermi in
viaggio.» La porta si spalancò e sulla soglia apparve la figura di un prete. Un uomo molto piccolo e minuto. Aveva gli abiti in disordine, i suoi modi tradivano un grande nervosismo e nel suo sguardo c'era un'espressione di urgenza che tutti avvertirono. I due assistenti si scambiarono un'occhiata perplessa, incerti se fosse consigliabile lasciare solo l'ambasciatore con quello strano individuo. «Sarebbe... sarebbe possibile...» domandò il prete con un forte accento italiano, «parlarle da solo?» «Si tratta di un ospedale?» domandò Thorn. «Sì,» rispose il prete in italiano. Dopo un attimo di perplessità, Thorn annuì e i suoi assistenti si diressero con una certa esitazione verso la porta. Quando furono usciti, il religioso richiuse a chiave la porta dietro di loro; poi si volse, con un'espressione di profonda sofferenza sul viso. «Dunque?» domandò Thorn con una certa apprensione. «Non abbiamo molto tempo.» «Che cosa? «Deve ascoltare ciò che ho da dirle.» Il prete restò immobile, con le spalle appoggiate alla porta. «Di che cosa si tratta?» domandò Thorn. «Lei» deve accettare Cristo come il suo Redentore. Deve accettarLo ora.» Vi fu un momento di silenzio, Thorn non sapeva che cosa dire. «La prego, signor...» «Mi scusi,» lo interruppe Thorn. «Se ho ben capito lei mi deve parlare di una cosa personale di grande urgenza?» «Lei si deve comunicare,» continuò il prete. «Bere il sangue di Cristo e mangiare la Sua carne, perché solo se Lui sarà dentro di lei, lei potrà sconfiggere il figlio del demonio.» L'atmosfera nella stanza era carica di tensione. Thorn allungò la mano verso il bottone del citofono. «Ha già ucciso una volta,» sussurrò il prete, «e ucciderà di nuovo. Ucciderà finché tutto ciò che le appartiene sarà suo.» «Se vuole aspettare fuori...» Ora il prete aveva cominciato ad avanzare e la sua voce si faceva sempre più profonda. «Lei lo può combattere solo per mezzo di Cristo,» esclamò in tono sup-
plichevole. «Accetti il Signore Gesù Cristo. Beva il Suo sangue.» La mano di Thorn aveva trovato il tasto e lo premeva. «Ho chiuso la porta a chiave, Mr. Thorn,» disse il prete. Thorn si irrigidì. Adesso il tono solenne del prete lo spaventava. «Sì?» domandò la voce della segretaria attraverso il citofono. «Mandi un uomo del servizio di sicurezza,» disse Thorn. «Che cosa c'è, signore?» «La prego, signore,» supplicava ora padre Tassone, «ascolti quello che le dico.» «Signore?» ripeté la segretaria. «Ero all'ospedale, Mr. Thorn,» disse il prete, «la notte in cui è nato suo figlio.» Thorn fece un balzo. Poi rimase immobile a fissare quell'uomo, come paralizzato. «Io... ho fatto... da levatrice,» riprese il prete con voce tremante. «Ho... assistito... alla nascita.» La voce della segretaria tornò a farsi udire, questa volta con un'ombra di preoccupazione. «Mr. Thorn?» domandò. «Mi scusi, non la sento.» «No, non è nulla,» rispose Thorn. «Solo... rimanga al suo posto.» Lasciò il bottone del citofono e tornò a guardare terrorizzato il prete. «La supplico...» esclamò Tassone, ingoiando le lacrime. «Ma che cosa vuole?» «Salvarla, Mr. Thorn. Affinché Cristo mi lavi dalle mie colpe.» «Che cosa sa di mio figlio?» «Tutto.» «Che cosa sa?» ripete Thorn. Adesso il prete tremava, la sua voce era gonfia di emozione. «Ho visto sua madre,» rispose. «Ha visto mia moglie?» «Ho visto sua madre!» «Sta parlando di mia moglie?» «Di sua madre, Mr. Thorn!» La faccia di Thorn si indurì e ricambiò lo sguardo del prete con fermezza. «Si tratta di un ricatto?» domandò a voce bassa. «No, signore.» «E allora, che cosa vuole?»
«Dirle la verità, signore.» «Dirmi che cosa?» «Sua madre, signore...» «Vada avanti, chi è sua madre?» «Sua madre, signore... era uno sciacallo!» Un singhiozzo sfuggì dalle labbra del prete. «È nato da uno sciacallo! L'ho visto con i miei occhi!» Con un violento fracasso la porta dello studio di Thorn si spalancò ed entrarono un marine, gli assistenti e la segretaria. La faccia di Thorn era di cenere, quella del prete inondata di lacrime. «Qualcosa che non va, signore?» domandò il marine. «Lei aveva una voce strana,» aggiunse la segretaria, «e la porta era stata chiusa a chiave.» «Desidero che quest'uomo sia scortato fuori di qui,» disse Thorn. «E se dovesse mai ritornare... voglio che venga arrestato.» Nessuno si mosse, il marine esitava a mettere le mani su un sacerdote. Lentamente Tassone si volse e si diresse verso la porta. Lì si girò di nuovo e guardò ancora Thorn. «Accetti Cristo,» gli mormorò in tono dolente. «Beva ogni giorno il Suo sangue.» Poi se ne andò, seguito dal marine, mentre gli altri rimanevano a guardarsi intorno in un silenzio confuso. «Che cosa voleva?» domandò uno degli assistenti. «Non lo so,» rispose Thorn a voce bassa fissando la figura del prete che scompariva. «Era un pazzo.» Sulla strada fuori dall'ambasciata, Haber Jennings se ne stava appoggiato a un'automobile, intento a controllare il suo apparecchio fotografico di riserva, dopo avere messo via quello che l'ambasciatore gli aveva fracassato. Con la coda dell'occhio vide il marine che scortava fuori dal palazzo un prete e istintivamente scattò un paio di foto dei due mentre Tassone si allontanava lentamente. Il marine si accorse di Jennings e gli si avvicinò, guardandolo con antipatia. «Non ha già avuto abbastanza guai per oggi con quella macchina?» gli domandò. «Guai abbastanza?» sorrise Jennings «Non sono mai abbastanza.» E così dicendo scattò un paio di volte con l'obiettivo puntato sul soldato, cogliendolo a bruciapelo, a distanza molto ravvicinata, mentre lo fissava con occhi torvi. Poi Jennings cambiò direzione e riuscì a scovare ancora il
piccolo prete e gli scattò ancora un paio di foto mentre scompariva in lontananza. Più tardi, quella sera, Jennings se ne stava nella sua camera oscura e studiava la serie di foto fatte quella mattina, con occhi curiosi e al tempo stesso confusi. Per essere ben sicuro che il suo apparecchio di riserva desse buoni risultati, aveva scattato un intero rullo di 36 pose, a esposizione e con tempi diversi. Tre di esse erano risultate difettose, lo stesso tipo di difetto che aveva riscontrato in una foto scattata qualche mese prima, quando aveva fotografato la governante dei Thorn che si era poi uccisa. Questa volta il difetto riguardava le fotografie del prete. Anche qui pareva trattarsi di una macchia lasciata dall'emulsione, ma ora la cosa si era ripetuta più di una volta. Era presente in due fotografie della serie, poi ce n'erano due perfette, e infine la macchia riappariva, esattamente come nelle prime due. Cosa ancor più curiosa, il difetto pareva legato al soggetto, una strana macchia sfumata sospesa sopra la testa del sacerdote. Jennings estrasse cinque fotografie dalla bacinella dello sviluppo, le sollevò e le studiò a lungo sotto la luce: due del prete con il marine, due primi piani del marine da solo e una del prete da solo, mentre si allontanava. Non solo la macchia spariva nelle foto del marine, ma nella fotografia del prete che si allontanava era più piccola, proporzionata alla figura presa a distanza. Come nel primo caso si trattava di una specie di alone, ma a differenza della macchia che segnava la fotografia della governante, questa era di forma oblunga, sospesa esattamente sopra il capo del soggetto. L'ombra che avvolgeva la testa della ragazza era immobile, inerte e trasmetteva una sensazione di pace, mentre quella sopra la testa del prete era dinamica, pareva in movimento; la si sarebbe potuta interpretare come un fantomatico giavellotto che trapassava la figura del religioso. Jennings allungò la mano a prendere una sigaretta oppiata e si sedette comodamente a riflettere. Una volta aveva letto che l'emulsione della pellicola era sensibile al calore molto intenso, esattamente come lo era alla luce. La notizia era in un articolo di una rivista specializzata, in cui si parlava di certe immagini misteriose apparse su fotografie scattate in un castello inglese famoso per essere abitato dagli spiriti. L'autore dell'articolo, grande esperto di fotografia, aveva elaborato una propria teoria sul rapporto fra il nitrato d'argento e le variazioni di temperatura, facendo notare che in esperimenti di laboratorio si era riscontrato come il calore intenso agisse sull'emulsione della pellicola esattamente come la luce. In effetti il calore è energia e l'energia calore e se, come qualcuno supponeva, le apparizioni
dei fantasmi altro non erano che residui di energia, in particolari circostanze la loro forma poteva restare impressa su una pellicola. Ma l'energia di cui l'articolo parlava non aveva alcun rapporto con il corpo umano. Quale poteva essere il significato di un'energia che si coagulava intorno a una forma umana? Si manifestava casualmente o aveva qualche particolare significato? Aveva qualche rapporto con influssi esterni o forse nasceva dalle ansie che maceravano una persona? È noto che l'ansietà genera energia, questo è il principio su cui si fonda la cosiddetta macchina della verità. Tale energia è di natura elettrica. E l'elettricità è anche calore. Probabilmente il calore generato da uno stato di estrema ansietà può erompere dalla massa corporea ed essere quindi fotografabile come un alone che circonda la figura dell'individuo in stato di stress violento. Tutte queste considerazioni eccitavano moltissimo la fantasia di Jennings, che cominciò a frugare fra le tabelle dei dati tecnici delle pellicole, finché non trovò qual era la pellicola più sensibile sul mercato - Tri-X-600, un nuovo prodotto che quasi riusciva a fotografare un'azione in movimento alla luce di una candela. Con ogni probabilità era anche la più sensibile al calore. Il mattino seguente Jennings comperò ventiquattro rotoli di pellicola TriX-600 e una serie di filtri adatti per sperimentare il nuovo tipo di pellicola all'aperto. I filtri sarebbero serviti a limitare la luce, ma non avrebbero probabilmente influito sull'effetto del calore, e ciò avrebbe accresciuto le sue probabilità di scoprire quello che andava cercando. Aveva bisogno di soggetti in stato di grande ansietà e andò quindi in un ospedale, dove, senza farsi scorgere, fotografò pazienti dei reparti che accoglievano i più gravi, tutta gente che sapeva di essere prossima a morire. I risultati furono deludenti: su dieci rotoli scattati, non una sola foto rivelava l'alone che andava cercando. Evidentemente, quale che fosse la natura del fenomeno, non aveva nulla a che vedere con la consapevolezza della morte. Jennings restò deluso, ma non si perse d'animo, perché istintivamente sentiva di essere in procinto di scoprire qualcosa. Ritornò nella sua camera oscura e stampò un'altra volta le foto del prete e della governante, provando diversi tipi di carta e facendo degli ingrandimenti che gli permettevano di studiare ogni minimo particolare. Negli ingrandimenti risultava ben chiaro che vi era realmente qualcosa. A occhio nudo non si vedeva, ma il nitrato d'argento lo rivelava senza ombra di dubbio. Nell'aria che circondava le figure c'erano effettivamente delle immagini invisibili.
Tutte queste prove e le relative congetture tennero occupato Jennings per una buona settimana. Alla fine riemerse per occuparsi nuovamente di Thorn. L'ambasciatore era impegnato in una serie di conferenze e non fu difficile a Jennings riuscire a vederlo. Thorn fece la sua comparsa negli ambienti dell'università, ebbe colazioni di lavoro, visitò persino un paio di stabilimenti e chiunque lo poteva vedere. Lo stile dei suoi discorsi si distingueva per una particolare eloquenza piena di fervore, che pareva guadagnargli il favore del pubblico, ovunque parlasse. Se questo era il suo forte, era altresì la migliore qualità che potesse avere un uomo teso verso una grande carriera politica. Egli sapeva commuovere e appassionare coloro che lo ascoltavano, e la gente credeva in lui, specialmente le masse lavoratrici, la folla degli sconfitti, che avvertivano nelle parole dell'ambasciatore un'autentica preoccupazione per la loro condizione. «Ci sono tante cose che ci dividono!» gli sentivano dire. «Il mondo si divide in ricchi e poveri, in giovani e vecchi... ma la divisione più grave è fra coloro che hanno una possibilità di farsi strada nella vita e coloro a cui tale possibilità è negata. La democrazia significa dare a tutti un'uguale possibilità. Senza questa premessa, la parola stessa 'democrazia' non è che una menzogna!» Durante questi discorsi faceva in modo di venire in contatto con il pubblico, spesso cercando di avvicinare personalmente gli elementi più «handicappati» fra coloro che lo ascoltavano. Appariva come l'incarnazione stessa del paladino della giustizia e, cosa ancor più importante, univa alle innate qualità di uomo politico, il dono di indurre le persone a credere in ciò ch'egli diceva. In realtà, però, il fervore ch'era in lui e che tanto successo aveva presso la gente, nasceva da una profonda disperazione. Thorn era come un uomo in fuga, che faceva uso dei propri incarichi pubblici per sfuggire all'angoscia, a quel presagio sempre più cupo che lo seguiva dovunque. Due volte, mentre parlava alla folla, aveva intravisto fra il pubblico una minuscola figura in abito talare e aveva cominciato a sentire che quel piccolo prete gli stava alle calcagna. Non ne parlò con nessuno, temendo che si trattasse solo di una sua fantasia, ma ormai ne era preoccupato; durante i discorsi frugava con gli occhi la folla con la paura di vederselo sempre davanti. Aveva cercato di dimenticare le parole di Tassone; era evidente che si trattava di un pazzo, un religioso fanatico ossessionato da una figura pubblica, e il fatto che l'ossessione del prete coinvolgesse suo figlio non poteva essere
nulla di più che una semplice coincidenza. Tuttavia le parole di quell'uomo non gli lasciavano tregua. Per quanto assurde, gli riecheggiavano di continuo nella mente, ed egli lottava ora per ora con se stesso per non dar loro peso. Thorn pensò persino che il prete potesse essere un potenziale assassino; infatti, sia nel caso di Lee Harvey Oswald sia in quello di Arthur Bremmer, l'assassino aveva fatto ripetuti tentativi di venire in contatto con la sua vittima, lo stesso tipo di tentativo che il prete aveva fatto con lui. Ma poi lasciò cadere quell'idea. Non avrebbe più potuto muoversi se avesse continuato a pensare che lo spettro della morte lo aspettava quotidianamente in mezzo alla folla. E tuttavia il piccolo sacerdote era sempre con lui; nelle ore di veglia come nel sonno, fino a quando Thorn si rese conto che quel prete era diventato per lui un'ossessione, come lui evidentemente lo era per il prete. Tassone era l'inseguitore e lui la preda. Si sentiva come deve sentirsi un topo di campagna, sempre consapevole della presenza del falco che gli gira sopra la testa. A Pereford regnava in apparenza la massima calma. Ma nel profondo dei sentimenti più nascosti, il fuoco dell'angoscia bruciava violento in tutti. Thorn e Katherine si vedevano poco, perché gli impegni di lavoro di lui lo tenevano lontano da casa. Quando stavano insieme, entrambi si preoccupavano di mantenere la loro conversazione su un tono superficiale, evitando con cura tutto ciò che avrebbe potuto rivelare i loro veri sentimenti. Katherine passava ora molto più tempo con Damien, come aveva detto di voler fare, ma ciò non faceva che accentuare la distanza che li separava, mentre il bambino pareva ammazzare passivamente il tempo, più sopportando docilmente che non godendo le ore che trascorreva con la madre, in attesa del ritorno di Mrs. Baylock. Con la sua governante giocava e rideva, con Katherine invece si rinchiudeva in se stesso. Di giorno in giorno, cercando di vincere il sentimento di frustrazione che la sopraffaceva, Katherine tentava di trovare qualche mezzo per farlo uscire da quella cupa passività. Gli comperò libri illustrati e scatole di colori, costruzioni e giocattoli, ma tutto incontrava nel bambino la stessa svagata indifferenza. Un pomeriggio diede qualche segno di interesse per un libro da cui si ritagliavano degli animali, e fu allora che Katherine ebbe l'idea di portarlo allo zoo. Mentre caricava l'automobile per la gita che doveva durare tutta la giornata, le venne fatto di pensare quanto la loro vita era diversa da quella della gente normale. Il suo bambino aveva già quattro anni e mezzo e non era ancora andato una sola volta in un giardino zoologico. L'alta carica di suo
marito faceva sì che tutto venisse messo a loro disposizione, servito per così dire a domicilio, sicché raramente veniva loro in mente di andare a cercare le cose che erano fuori. Forse era stata la mancanza di quel normale senso dell'avventura che è nella vita di tutti i bambini a rendere Damien così diverso, a fargli smarrire il gusto per le cose che divertono tutti i suoi coetanei. Ma quel giorno c'era nei suoi occhi una luce d'allegria, e mentre gli sedeva accanto nell'automobile, Katherine ebbe la sensazione di stare finalmente facendo qualcosa di giusto. Il bambino chiacchierava persino. Non molto, per la verità, ma certo più del solito, indaffaratissimo a formulare la parola «ippopotamo.» Quando finalmente riuscì a pronunciarla correttamente, rise tutto soddisfatto. Come bastava poco a Katherine per essere felice; la semplice risatina del suo bambino era sufficiente a mettere ali al suo spirito oppresso. Mentre si dirigevano verso la città, lei continuò a chiacchierare, mentre Damien l'ascoltava attentamente. I leoni erano soltanto dei gattoni molto grossi e i gorilla delle grosse scimmie, gli scoiattoli erano imparentati con i topi e i cavalli con i ciuchini. Lei raccontava tutto molto in fretta e Damien rideva, e più lei parlava in fretta, più il piccino rideva forte. Il suo riso divenne quasi convulso e risero insieme per tutto il viaggio, fino allo zoo. In una bella domenica in pieno inverno, tutti a Londra cercano di uscire di casa, avidi di aria fresca e di sole. Era una giornata insolitamente serena e luminosa e lo zoo era affollatissimo. Anche gli animali parevano godersi il sole, e le loro voci si udivano fin dall'ingresso. Katherine prese a nolo un passeggino e vi collocò Damien, perché la stanchezza non dovesse turbare la loro giornata. Dapprima si fermarono a contemplare i cigni, mentre gli splendidi animali si raccoglievano intorno a un gruppo di bambini che gettavano loro pezzetti di pane. Si spinsero avanti per avere un posto di prima fila, ma in quell'istante i cigni improvvisamente persero ogni interesse per il cibo e si girarono indietro, allontanandosi maestosamente. Quando furono in mezzo allo stagno si voltarono guardando con aria sdegnosa, come dei re spodestati, incuranti dei bambini che continuavano a gettare il pane e a supplicarli di tornare. Katherine notò che soltanto dopo che lei e Damien si furono allontanati, i cigni parvero ritrovare l'appetito e si riavvicinarono alla folla. Era ormai mattino inoltrato e la gente si infittiva sempre più: Katherine si guardò intorno alla ricerca di qualche gabbia dove non ci fossero troppi spettatori. Sulla destra c'era un cartello con la scritta CANI DELLA PRA-
TERIA; si avviò in quella direzione, mentre raccontava a Damien tutto quello che sapeva su quel genere di animali. Vivevano nelle loro tane in zone desertiche, gli spiegò, ed erano molto socievoli; in America molta gente li catturava quando erano ancora cuccioli e li teneva come animali domestici. Mentre si avvicinavano Katherine si accorse che anche lì c'era molta gente, tutti intenti a guardare nella fossa dove stavano i cani. Cercò di farsi avanti, ma poté vederli solo per un istante: infatti, con la rapidità del fulmine, le bestie erano andate tutte a rinchiudersi nelle loro tane. La folla tutt'intorno ebbe un mormorio di sorpresa di fronte a quella fuga improvvisa, poi cominciò adagio a disperdersi, delusa. Quando Damien allungò il collo per guardare, tutto quello che vide fu una montagnola di rifiuti piena di buche; allora alzò verso la madre due grandi occhi colmi di stupore e di delusione. «Si vede che è ora di colazione anche per loro,» gli disse lei alzando le spalle. Continuando nel loro giro, si fermarono a un carrettino che vendeva panini caldi e poi si misero a mangiare su una panchina del parco. «Ora andremo a vedere le scimmie,» annunciò Katherine. «Ti piace andare a vedere le scimmie?» Il viottolo che conduceva alla casa delle scimmie era ben segnato dai cartelli; si trovarono a passare davanti a una quantità di gabbie di animali diversi, e gli occhi di Damien si accesero di eccitazione alla loro vista. Il primo fu un orso, che passeggiava su e giù nello spazio ristretto di cui disponeva, del tutto ignaro della gente che stava a guardarlo a bocca aperta oltre le sbarre. Ma quando Katherine e Damien si avvicinarono, l'orso sembrò accorgersi della loro presenza. Si arrestò di colpo e rimase a fissarli; mentre gli passavano accanto parve che il pelo gli si rizzasse sul dorso. Nella gabbia accanto c'era un grosso gatto e anche lui si bloccò di colpo; i suoi occhi gialli si fissarono su di loro, seguendoli mentre passavano. Più avanti c'era un babbuino, che improvvisamente scoprì i denti in una orribile smorfia, indirizzando chiaramente lo sguardo verso di loro, fra tutti gli altri visitatori. Katherine cominciò ad avvertire l'effetto che il loro passaggio faceva sugli animali e li osservò attentamente, mentre si spostavano da una gabbia all'altra. Era su Damien che le bestie fermavano lo sguardo. E anch'egli pareva accorgersene. «Credo che ti trovino molto simpatico,» gli disse Katherine con un sorriso. «E lo sei davvero.» Lo guidò lontano dalle gabbie imboccando un altro sentiero. Da un edi-
ficio in fronte a loro si udivano venire delle grida insolite e Katherine capì che erano vicini alla casa delle scimmie. Quello era il padiglione più popolare fra il pubblico e dovettero mettersi in coda nella folla. Katherine parcheggiò il carrozzino e si prese in braccio il figlio. Dentro, l'aria era calda e fetida; il baccano delle voci infantili rimbombava dalle pareti, amplificato dallo spazio relativamente ristretto. Da dove si trovavano, sulla porta, non potevano vedere nulla, ma Katherine avvertì, dalle reazioni del pubblico, che in una gabbia più lontana le scimmie stavano dando spettacolo. Sempre tenendo Damien in braccio, si fece strada in mezzo ai presenti finché non arrivò a vedere ciò che stava accadendo. Era una gabbia di scimmie ragno e gli animali erano eccitatissimi, si dondolavano, saltavano da una fune all'altra, rimbalzavano in tutte le direzioni divertendo i visitatori con le loro acrobazie. Damien era molto eccitato e cominciò a ridere e Katherine si spinse avanti, decisa a fargli avere un posto di prima fila. Le scimmie giocavano senza badare agli spettatori, ma quando Katherine e Damien furono vicini, l'atmosfera nella gabbia mutò improvvisamente. La gaia attività delle scimmie cessò di colpo e a una a una le bestie cominciarono a voltarsi, gli occhietti nervosamente rivolti a frugare nella folla. Il pubblico si fece silenzioso, incuriosito da quello strano mutamento, ma tutti sorridevano in attesa del gioco che sarebbe ben presto ripreso. Quando però gli animali ricominciarono a muoversi, accadde qualcosa di completamente inatteso. Ci fu nella gabbia un urlo improvviso, un suono lacerante di paura, un avvertimento, e mentre il grido cresceva, tutte le bestie si univano al coro. D'un tratto la gabbia fu piena di una disperata agitazione, tutto fu movimento, le scimmie correvano furiosamente da un angolo all'altro, come se volessero uscire. Poi tutte si stiparono sul fondo, tentando di spezzare la finestra coperta di rete metallica, in preda al panico come se una belva feroce fosse improvvisamente piombata in mezzo a loro. Nella loro furia tragica presero ad accapigliarsi l'una con l'altra e il sangue cominciò a scorrere, mentre con le zampe e coi denti cercavano la via della fuga. La folla era in silenzio, spaventata, solo Damien rideva divertito, puntando il dito verso quella scena terrificante e lanciando piccole grida di gioia. All'interno della gabbia il panico intanto cresceva, una grossa scimmia corse avanti, spinse la testa attraverso i fili metallici della rete che copriva il soffitto e vi rimase impigliata con il collo, il corpo penzoloni, dando poderosi strattoni, finché i suoi movimenti si fecero più deboli e incerti. La gente gridava inorridita, alcuni si diressero di corsa verso l'uscita, ma le loro grida furono soffocate dall'urlo tremendo degli
animali che ora, con gli occhi terrorizzati e il muso madido di saliva, si muovevano in una furia selvaggia da una parte all'altra della gabbia. Una delle scimmie cominciò a battere furiosamente la testa contro il pavimento di cemento; ben presto fu tutta coperta di sangue e cadde, il corpo contratto dalle convulsioni, mentre le sue compagne le saltavano intorno urlando di orrore. Ora si spingevano contro la folla dei visitatori e la folla, a sua volta presa dal panico, cercava di raggiungere rapidamente le uscite. Pur essendo sospinta e malmenata dalla gente impaurita, Katherine rimase immobile, gelata dal terrore. Suo figlio rideva. Con il dito puntato verso le scimmie, rideva come se si divertisse pazzamente a causare quel tumulto suicida. Perché era lui la causa di quel terrore. Era di lui che le bestie avevano paura. Era lui. E mentre quell'orrendo sacrificio si andava consumando, Katherine cominciò a gridare. 6. Quella sera Katherine rientrò a casa piuttosto tardi. Damien si era addormentato nell'automobile. Dopo la visita allo zoo non avevano fatto che girare in macchina. Il bambino se ne stava seduto al suo posto in silenzio, confuso e spaventato, avvertendo di avere fatto qualcosa di male. Tentò di ripetere ancora una volta la poesia che parlava dei gorilla e delle scimmie, dei cavalli e dei ciuchini, ma Katherine, muta, teneva gli occhi immobili fissi sulla strada davanti a sé. Quando era venuto buio, Damien aveva detto di avere fame, ma sua madre si era rifiutata di rispondergli e il bambino si era arrampicato sul sedile posteriore. Lì aveva trovato una coperta e si era addormentato. Katherine guidava veloce, ma senza una meta precisa, lottando per sfuggire all'angoscia che si andava impossessando di lei. Non era paura di Damien o di Mrs. Baylock. Era il timore di trovarsi sulla soglia della follia. A Pereford Jeremy la stava aspettando, sicuro di trovarla di buon umore dopo la gita; aveva disposto che la cena fosse ritardata fino a quando la signora fosse rientrata. Ora sedevano l'uno di fronte all'altra a un tavolinetto e gli occhi di Thorn erano fissi sulla moglie che tentava silenziosamente di mangiare. «Stai bene, Katherine?» «Sì.» «Sei così silenziosa.» «Solo stanca, credo.»
«Una buona giornata?» «Sì.» I suoi modi erano bruschi, come se quell'intrusione la infastidisse. «Vi siete divertiti?» «Sì.» «Mi sembri di cattivo umore.» «Davvero?» «Che cosa c'è che non va?» «Perché dovrebbe esserci qualcosa che non va?» «Non lo so. Mi sembri sconvolta.» «Sono semplicemente stanca. Ho bisogno di dormire.» Si sforzò di sorridere, ma non fu convincente. Thorn la scrutava preoccupato. «Damien sta bene?» domandò. «Sì.» «Sei sicura?» «Sì.» Thorn la guardò, ma la donna sfuggì il suo sguardo. «Se ci fosse qualcosa che non va... me lo diresti, vero? Voglio dire nel bambino.» «Il bambino? Che cosa potrebbe non andar bene col bambino, Jeremy? Che cosa potrebbe avere nostro figlio? Noi siamo gente 'fortunata', non è vero?» Colse lo sguardo del marito e abbozzò un sorriso, ma non c'era ombra di gioia nei suoi occhi. «Voglio dire che solo le cose 'buone' scendono sulla casa dei Thorn,» disse Katherine. «Le nubi nere stanno lontane.» «Ma c'è qualcosa che non va, vero?» domandò ancora Thorn sottovoce. Katherine abbassò la testa e si coprì il viso fra le mani, restando immobile. «Kathy...» insistette Thorn con dolcezza. «Che cosa c'è?» «Penso...» rispose la donna, sforzandosi di controllare il tremito della voce, «che vorrei vedere un medico.» Alzò gli occhi ed erano colmi di dolore. «Ho... delle 'paure',» confermò. «Paure che una persona normale non dovrebbe avere.» «Kathy...» sussurrò lui. «Che genere di paure?» «Se te lo dicessi, mi faresti ricoverare.» «No...» assicurò lui. «No... Sai che ti amo.»
«Allora aiutami,» lo supplicò lei. «Trovami un medico.» Le sfuggì una lacrima e Thorn allungò il braccio a carezzarle una mano. «Ma certo,» ripeté. «Certamente.» E Katherine pianse. Ma ciò che era accaduto quel giorno rimase chiuso dentro di lei, per sempre. In Inghilterra gli psichiatri non sono così numerosi come in America e fu con qualche difficoltà che Thorn trovò la persona di cui gli pareva di potersi fidare. Era un americano, più giovane di quanto Thorn avrebbe desiderato, ma gli era stato raccomandato come persona di vasta esperienza. Si chiamava Charles Greer. Aveva studiato a Princeton, era stato interno a Bellevue e ciò che maggiormente lo raccomandava era il fatto che aveva vissuto per parecchio tempo a Georgetown e aveva avuto in cura le mogli di parecchi senatori. «Il problema più comune fra le mogli degli uomini politici è l'alcolismo,» affermò Greer, mentre Thorn gli sedeva davanti nel suo studio. «Credo che dipenda da un senso profondo di isolamento. Di inadeguatezza. Il timore di vivere di riflesso, di non avere un'identità propria.» «Lei si rende conto dell'assoluto bisogno di fiducia...» disse Thorn. «È tutto quanto posso offrire,» sorrise lo psichiatra. «La gente ha fiducia in me, e in effetti è tutto ciò che posso offrire ai miei pazienti. Essi non discutono i loro problemi con altre persone proprio perché non sanno fino a che punto le loro confidenze si rivolgeranno contro di loro. Con me si sentono al sicuro. Non posso promettere molto, ma la fiducia sì. «Devo dirle di telefonarle?» «Le dia semplicemente il mio numero. Non le dica di telefonare.» «Non è che non voglia. È stata lei a chiedermelo...» «Bene.» Quando Thorn si alzò, un po' a disagio, il giovane medico sorrise. «Mi chiamerà dopo averla vista?» domandò Thorn. «Ne dubito molto,» rispose Greer con semplicità. «Voglio dire... se trova che la sua situazione è preoccupante...» «Ha idee suicide?» «...No.» «Bene, allora non credo che mi dovrò preoccupare per lei. Sono certo che la cosa non è così seria come lei immagina.» Rassicurato Thorn si diresse verso la porta. «Mr. Thorn?» «Sì?»
«Perché è venuto qui oggi?» «Per parlare con lei.» «Per quale ragione?» Thorn alzò le spalle. «Per vedere che tipo era, penso.» «C'era qualcosa di particolare che mi voleva dire?» Thorn si sentì a disagio. «Vuol farmi intendere che potrei avere bisogno anch'io di uno psichiatra?» «Lei lo pensa?» «Le dò l'impressione di averne bisogno?» «E io dò questa impressione?» domandò di rimando lo psichiatra. «No.» «Bene, invece ho uno psichiatra,» sorrise Greer. «Con il mio lavoro sarei nei guai se non lo avessi.» Quella conversazione l'aveva disturbato, e dopo essere ritornato nel suo ufficio, Thorn ci ripensò per tutta la giornata. Quando si era trovato davanti a Greer aveva sentito l'imperioso bisogno di parlare, di dirgli cose che non aveva mai detto a nessuno prima di allora. Ma a che cosa sarebbe servito? La menzogna di cui si era caricato la coscienza era qualcosa con cui doveva vivere, una parte della sua stessa esistenza. E tuttavia provava un bisogno immenso di dividere quel segreto con qualcun altro. La giornata passò lenta, mentre Thorn tentava faticosamente di preparare un discorso importante. Era un discorso che avrebbe dovuto tenere la sera seguente davanti a un gruppo di influenti uomini d'affari; era molto probabile che fra di essi ci fossero dei rappresentanti degli interessi petroliferi arabi. Thorn desiderava che fosse un discorso speciale, una sorta di difesa della pace. Il prolungarsi del conflitto riguardante Israele, approfondiva sempre di più la spaccatura fra gli Stati Uniti e il mondo arabo, e Thorn sapeva benissimo che le ostilità arabo-israeliane erano di natura storica, affondavano le loro radici nelle Scritture. Perciò si mise a sfogliare la Bibbia, non una ma tre diverse versioni delle Sacre Scritture, nell'intento di ampliare la sua comprensione dei fatti alla luce di quella antica saggezza. In realtà lo faceva anche per una ragione più pratica; sapeva benissimo che non c'era pubblico al mondo che non restasse impressionato dalle citazioni delle Scritture. Si rinchiuse nel suo ufficio, deciso a restarvi tutto il pomeriggio, ordinò che gli portassero la colazione mentre lavorava e poi, trovando una certa difficoltà a localizzare i passi delle Scritture che lo interessavano in parti-
colare, mandò un suo funzionario a cercare una bibliografia e un testo interpretativo. Così il lavoro gli divenne più facile ed egli poté scovare agevolmente i passi più rilevanti e trovare poi, in molti casi, una chiave teologica del loro significato. Era la prima volta in vita sua che Thorn si impegnava seriamente sulla Bibbia, da quando era bambino. La trovò affascinante, specialmente alla luce delle incessanti violenze che funestavano il Medio Oriente. Scoprì che l'ebreo Abramo aveva avuto per primo da Dio l'assicurazione che il suo popolo avrebbe ereditato la Terra Promessa: «E io ti moltiplicherò e farò di Te una moltitudine. E darò questa terra ai tuoi posteri dopo di Te, affinché essi la posseggano per l'eternità.» La terra data da Dio agli ebrei era chiaramente delineata nel Libro della Genesi come quella che si estendeva dal fiume dell'Egitto fino al Libano e all'Eufrate. Thorn guardò l'atlante e constatò che lo stato di Israele occupava attualmente soltanto lo stretto lembo di territorio fra il Giordano e il Mediterraneo. Solo una piccola parte di quello che Dio aveva promesso. Era possibile che il bisogno di espansione di Israele fosse dettato da quell'antico patto? L'interesse di Thorn si accentuò, ed egli cercò di comprendere meglio. Se Dio aveva fatto una simile promessa, perché ora non la portava a compimento? «Se terrete fede alla mia alleanza sarete per me un regno di sacerdoti e una Santa Nazione.» Forse questa era la chiave. Gli ebrei non avevano tenuto fede all'alleanza col Signore. E si credeva anche che gli ebrei avessero ucciso il Cristo. Il Libro del Deuteronomio metteva in luce questo aspetto, poiché dopo la morte di Cristo veniva annunciato agli ebrei: «E Dio vi disperderà fra gli altri popoli e di voi resterà un piccolo numero fra le Nazioni dove Dio vi condurrà. Sarete fatti prigionieri fra le nazioni e Gerusalemme sarà calpestata sotto il piede dei Gentili fino a che il tempo dei Gentili sarà compiuto.» Questo era ripetuto anche nel Libro di Luca, dove «Gentili» era sostituito con «Nazioni.» «Sarete calpestati sotto i piedi finché il tempo delle Nazioni sarà compiuto.» Era una chiara profezia delle persecuzioni che gli ebrei avrebbero subito nel corso della storia. Poi un giorno le persecuzioni sarebbero cessate. Ma qual era il tempo delle Nazioni? Il tempo in cui avrebbero avuto fine le persecuzioni? Interrogando il commentario, Thorn trovò la prova della collera di Dio. Era una storica sequela di persecuzioni che aveva avuto inizio quando gli ebrei erano stati allontanati da Israele da Re Salomone e poi, più tardi,
massacrati dai crociati mentre fuggivano. Nell'anno 1000 era documentato che dodicimila ebrei erano stati uccisi, nel 1200 tutti quelli che si erano rifugiati in Inghilterra furono espulsi o impiccati. Nel 1298 centomila ebrei erano stati uccisi in Franconia, in Baviera e in Austria; nel settembre del 1306 altri centomila erano stati cacciati dalla Francia pena la morte. Nel 1348 gli ebrei erano stati accusati di aver diffuso un'epidemia mondiale di peste nera, e più di un milione erano stati ricercati e uccisi in tutte le contrade del globo. Nell'agosto del 1492, proprio mentre Colombo portava gloria al suo paese scoprendo il Nuovo Mondo, l'Inquisizione spagnola cacciava mezzo milione di ebrei e ne uccideva altrettanti. La tragica sorte continuava nel corso della storia, fino al tempo di Hitler che ne sterminò sei milioni, lasciandone sulla faccia della terra soltanto undici milioni, senza patria e in povertà. Ci si poteva meravigliare dell'impeto con cui essi ora lottavano per il loro rifugio, per un paese da poter chiamare la loro terra? E ci si poteva meravigliare ch'essi ingaggiassero ogni lotta come se fosse l'ultima per loro? «Farò di te una grande nazione, Dio ha promesso: e ti benedirò e farò grande il tuo nome; così che tu sia una benedizione... e tutte le famiglie della terra siano benedette in te.» Thorn cercò di nuovo nei testi intrepretativi e trovò che nella promessa di Dio ad Abramo c'erano tre fattori diversi, ugualmente importanti. Il dono di una terra, Israele. L'assicurazione che Abramo e la sua discendenza sarebbero diventati una grande nazione. E infine, sopra ogni altra, la «benedizione»; la venuta del Salvatore. Il ritorno degli ebrei a Sion era legato alla seconda venuta di Cristo, e se ciò rispondeva a verità, il tempo era venuto. Non c'era nessuna prova di come e di quando ciò sarebbe accaduto; le profezie erano avvolte nella leggenda e nei simboli religiosi. Era possibile che Cristo fosse già sulla terra? Era di nuovo nato da una donna e camminava fra di noi? Thorn si portò a casa questi pensieri e anche i suoi volumi. Dopo che Katherine si fu ritirata e la casa intorno a lui fu avvolta nel buio e nel silenzio, riaprì i suoi libri e ricominciò le sue riflessioni. Era il ritorno di Cristo che aveva colpito la sua fantasia e cercò nel testo i passi che più si addicevano a quei pensieri. Trovò l'impresa terribilmente ardua perché nel Libro delle Rivelazioni la profezia diceva che quando Cristo fosse ritornato sulla terra si sarebbe trovato a dover affrontare la sua antitesi. L'Anticristo, il Figlio del Male. E la terra sarebbe stata fatta a pezzi dalla lotta finale fra il Cielo e l'Inferno. E sarebbe stato Armageddon. L'Apocalisse. La fine del mondo.
Dal silenzio del suo studio, Thorn sentì un suono che veniva dal piano di sopra. Era un gemito. Il suono si udì due volte e poi non si ripeté più. Thorn uscì dallo studio, salì silenziosamente le scale ed entrò nella stanza di Katherine a dare un'occhiata. La donna dormiva, ma era inquieta, il viso madido di sudore. Rimase a guardarla fino a quando sembrò placarsi e il respiro si fece più tranquillo, poi si ritirò, dirigendosi nuovamente verso le scale. Ma mentre si avviava verso il vestibolo immerso nel buio, passando davanti alla camera di Mrs. Baylock, notò che la porta era appena accostata. La donna dormiva, una massiccia montagna di carne illuminata dal chiarore lunare che entrava a fiotti dalla finestra. Thorn stava per riprendere la sua strada, ma si arrestò di colpo, spaventato dalla faccia della donna. Era incipriata di bianco fino a sembrare un fantasma e la bocca era brutalmente dipinta di rosso, come se si fosse truccata in stato di ubriachezza. L'effetto era orribile, ed egli si sentì mancare le gambe a quella vista, e dovette fare uno sforzo per allontanarsene. Era una cosa folle, senza senso. Nel chiuso della sua camera, quella donna si era truccata come una prostituta. Dopo aver richiuso piano la porta di quella camera, Thorn ridiscese nel suo studio e tornò a fissare i libri sparsi sul suo tavolo. Ma era turbato, ora, incapace di concentrarsi, i suoi occhi vagavano oziosamente attraverso le pagine. La piccola Bibbia era aperta al Libro di Daniele ed egli la contemplò in silenzio: «...E poi si leverà un essere spregevole al quale non è stata concessa alcuna maestà. Egli verrà con mezzi illeciti e otterrà il Regno con le blandizie. Gli eserciti saranno spazzati via davanti a lui e si disperderanno... e agirà con la frode e diverrà potente pur con piccolo seguito. All'improvviso piomberà sulle terre più prospere e farà ciò che né i suoi padri né i padri dei suoi padri hanno fatto, disseminando fra gli uomini saccheggio e rovina. Ed escogiterà dei piani contro le cittadelle ed esalterà e magnificherà se stesso sopra ogni Dio, e dirà cose sorprendenti contro il Dio di tutti gli dei. E prospererà fino a che l'indignazione si compirà, perché ciò che è scritto sarà.» Thorn frugò sulla scrivania alla ricerca di una sigaretta, la trovò, si versò un bicchiere di vino. Poi si mise a passeggiare per la stanza, imponendosi di trattenere la mente sulle proprie ricerche e cercando di lasciare in disparte il disagio che aveva provato al piano di sopra. Quando gli ebrei saranno ritornati a Sion, Cristo ritornerà sulla terra. E quando Cristo fosse nato, sarebbe nato anche l'Anticristo, e i due sarebbero cresciuti separatamente fino al momento del finale confronto.
Thorn sapeva che la corrente delle vicende umane si volgeva contro Israele; gli arabi, con il loro petrolio, erano ora troppo forti perché qualcuno potesse ancora opporsi al loro volere. Se la collera di Dio doveva volgersi contro le nazioni che facevano guerra a Gerusalemme, era destino che si volgesse contro tutti loro. La profezia diceva che Armageddon, la battaglia finale, avrebbe avuto luogo nell'arena degli israeliti, con Gesù da una parte, sul monte degli ulivi, e l'Anticristo dall'altra: «Guai a voi, terra e mare, perché il demonio manda la bestia nell'ira, perché sa che il tempo è breve... Lasciate che colui che sa, calcoli il numero della bestia, poiché è un numero umano, il numero è seicento e sessantasei.» Armageddon. La fine del mondo. La battaglia per Israele. «E il Signore apparirà... i Suoi piedi quel giorno poseranno sul monte degli ulivi, che è di fronte a Gerusalemme sul lato orientale... e il Signore Iddio verrà e tutti i suoi santi con Lui.» Thorn rinchiuse i suoi libri e spense la lampada sulla scrivania. Sedette a lungo in silenzio, nel buio. Si chiedeva che cosa fossero quei libri e chi li avesse scritti e perché erano stati scritti. E si chiese anche perché vi credeva e tuttavia li rifiutava. Credere in loro rendeva vano ogni sforzo. Gli uomini erano tutti soltanto pedine per le forze possenti di Dio e del demonio? Fantocci mossi dall'alto e dal basso? Poteva realmente esserci un paradiso? Poteva realmente esserci un inferno? Si rese conto che erano domande che avrebbe potuto farsi un adolescente, e tuttavia non poteva fare a meno di interrogarsi. Negli ultimi tempi aveva avvertito l'esistenza di forze che andavano al di là di ogni possibilità di controllo. Non forze che si muovevano nelle mani del caso, ma con intenti precisi; una sensazione che lo aveva fatto sentire debole e in balia della sua stessa precarietà. E ancor più di questo: si era sentito indifeso, impotente. Questo era in fondo il vero significato di tutto ciò. L'assoluta impotenza dell'individuo. L'uomo non chiedeva di venire al mondo e non chiedeva di morire. Tutto avveniva al di fuori della sua volontà. Qualcuno guidava gli eventi. Ma perché, fra la nascita e la morte, doveva esserci tanta sofferenza? Thorn si stese su un divano e si addormentò. E i suoi sogni furono pieni di paura. Vide se stesso vestito da donna, pur sapendo di essere un uomo. Era in una strada affollata e fermava un vigile, cercando di spiegargli che si era perduto e aveva paura. Il vigile si rifiutava di ascoltarlo, continuando invece a dirigere il traffico intorno a lui, così da vicino che sentiva la ventata d'aria delle macchine che gli passavano accanto. Mano mano che il traffico si faceva più intenso e veloce, il vento cresceva e Thorn ebbe l'im-
pressione di essere in mezzo a una tempesta. Il vento era tanto forte che non poteva più neppure respirare e boccheggiava, appeso sopra il poliziotto che rifiutava di accettare la sua presenza. Gridava per chiedere aiuto, ma nessuno lo udiva, le sue grida si perdevano nel vento. Improvvisamente un'automobile nera puntò verso di lui ed egli lottò per tirarsi in disparte. Ma il vento lo sospingeva da tutte le parti e non gli permetteva di scansarsi. Mentre l'auto lo schiacciava, riuscì a vedere la faccia del guidatore. Non aveva lineamenti, ma da quel volto informe usciva una risata, la carne si apriva dove avrebbe dovuto esserci la bocca e sputava sangue. Intanto la macchina lo travolgeva. Al momento dell'urto, Thorn si svegliò. Aveva il respiro affannoso ed era bagnato di sudore. Lentamente il sogno si dileguò ed egli rimase immobile. Era già di prima mattina e la casa era immersa nel silenzio. Lottò contro un improvviso, disperato bisogno di pianto. 7. Il discorso di Thorn agli uomini d'affari aveva luogo al Mayfair Hotel; alle sette la sala era già al completo. Aveva detto ai suoi assistenti che voleva la presenza della stampa e la conferenza era quindi stata annunciata nei giornali del pomeriggio, cosicché adesso bisognava rimandare indietro la gente. Non c'erano soltanto gli ospiti previsti, ma una quantità di reporter e anche un gruppo di gente della strada che ebbe il permesso di rimanere in fondo alla sala. Il partito comunista aveva mostrato molto interesse per l'attività di Thorn e ben due volte, mentre parlava in pubblico, aveva mandato suoi rappresentanti a disturbare le sue conferenze. Thorn sperava che quella sera non sarebbero venuti. Mentre si dirigeva verso il podio, Thorn notò, stretto in mezzo a un piccolo gruppo di fotografi, il giovanotto a cui aveva fracassato l'apparecchio fotografico davanti all'ambasciata. Il fotografo gli sorrise, sollevando verso di lui una nuova macchina e Thorn ricambiò il sorriso, lieto di quel gesto di riconciliazione. Poi attese che la sala fosse in perfetto silenzio e cominciò il suo discorso. Parlò della struttura economica mondiale e dell'importanza del Mercato comune. In ogni società, disse, persino in quella preistorica, il mercato ha rappresentato il terreno comune, il livellatore delle ricchezze, il punto di incontro e di fusione delle più disparate civiltà. Quando c'è qualcuno che vuole comperare e qualcuno che vuol vendere, si hanno le componenti fondamentali della pace. Ma quando uno ha bisogno di com-
perare e l'altro rifiuta di vendere, già si è compiuto il primo passo verso la guerra. Parlò della comunità del genere umano, della necessità di riconoscere che siamo tutti fratelli, chiamati a dividere una terra le cui risorse sono destinate a essere il bene di tutti. «Siamo intrappolati tutti insieme,» affermò citando Beston, «nella rete della vita e del tempo. Siamo tutti ugualmente prigionieri dello splendore e del travaglio della terra.» Fu un discorso ispirato e il pubblico pendeva dalle sue labbra. Poi egli si volse ad analizzare i tumulti politici del nostro tempo e il loro rapporto con l'economia, e intanto coglieva a una a una fra il pubblico le facce dei rappresentanti arabi e pareva rivolgersi direttamente a loro. «Possiamo comprendere molto bene il rapporto fra le inquietudini dei popoli e la povertà,» continuò, «ma dobbiamo anche ricordare che le civiltà sono crollate per il malcontento e l'ingiustizia nati dagli eccessi della ricchezza!» Ora Thorn aveva preso l'avvio e si andava riscaldando, e dal suo posto, a poca distanza, Jennings cominciò a scattare una foto dopo l'altra. «È una triste e ironica verità,» continuò Thorn, «che risale ai tempi di re Salomone in Egitto, che coloro che sono nati nel potere e nella ricchezza...» «Lei ne dovrebbe sapere qualcosa!» gridò una voce dal fondo. Thorn si fermò, gettando un'occhiata sul pubblico avvolto nell'oscurità. La voce non si fece più sentire e Thorn riprese a parlare. «...che risale fino all'epoca dei Faraoni d'Egitto. Anche qui troviamo che coloro che sono nati detentori della ricchezza e del potere...» «Ce ne dica qualcosa!» gridò di nuovo il disturbatore e questa volta nel pubblico passò un mormorio di fastidio; Thorn si sforzava di vedere. Era uno studente; un ragazzo con barba e blue-jeans, appartenente probabilmente a un gruppo contestatore. «Che cosa ne sa lei della povertà, Thorn?» gridò in tono sarcastico. «Lei non ha mai dovuto faticare un solo giorno della sua vita!» Il pubblico manifestò il suo disappunto fischiando il disturbatore, qualcuno alzò la voce, ma Thorn levò le mani a chiedere calma. «Il giovanotto ha qualcosa da dire. Lasciatelo parlare.» Il ragazzo venne avanti e Thorn aspettò che continuasse. Lo avrebbe lasciato parlare finché non si fosse sfogato. «Se è tanto preoccupato per la distribuzione della ricchezza, perché non comincia a distribuire la sua?» gridò il ragazzo. «Quanti milioni ha? Ma lo
sa lei quante persone al mondo muoiono di fame? Lo sa che cosa potrebbe significare per molti anche solo la manciata di spiccioli che lei si porta in tasca? Lo stipendio che lei dà al suo autista basterebbe a mantenere una famiglia in India per un mese intero! L'erba dei prati della sua tenuta potrebbe nutrire metà della popolazione del Bangladesh! Tutto il denaro che lei spreca per dare una festa per il suo bambino basterebbe per fondare una clinica qui, nei quartieri più poveri di Londra! Se proprio vuol spingere la gente a rinunciare alle proprie ricchezze, cominci lei a dare un esempio! Ma non se ne stia lì nel suo bel vestito da quattrocento dollari a raccontarci che cos'è la povertà!» C'era eccitazione e anche commozione nell'aggressività del giovane. Chiaramente il ragazzo trovava un cento consenso. Dal pubblico venne un'onda leggera di applausi. Ora toccava a Thorn rispondere. «Ha finito?» domandò. «Quando Rockefeller venne nominato vicepresidente, i giornali affermarono che le sue ricchezze erano leggermente al di sopra dei trecento milioni di dollari! Sa che cosa significava quel 'leggermente al di sopra'? Trentatrè milioni! una cifra che non valeva neppure la pena di contare! Erano gli avanzi, mentre metà della popolazione del mondo moriva di fame! Non c'è in questo qualcosa di osceno? È possibile che un essere umano abbia bisogno di tanto denaro?» «Io non sono Rockefeller...» «Al diavolo se non lo è!» «Vuol lasciarmi rispondere, per favore?» «Un bambino! Un bambino che muore di fame! Faccia qualcosa per un solo bambino che muore di fame e di privazioni! Allora crederemo alle sue parole! Allunghi semplicemente una mano, invece di aprire la bocca, allunghi una mano e salvi un bambino che muore!» «Forse l'ho già fatto,» rispose Thorn a voce bassa. «E dov'è?» domandò il ragazzo. «Chi è il bambino che lei ha salvato, Thorn? Chi sta cercando di salvare?» «Alcuni di noi hanno responsabilità che vanno oltre un bambino che muore di fame.» «Ma lei non può salvare il mondo, Thorn, fino a che non comincia la sua opera dal primo bambino che muore.» Ora il pubblico era dalla parte del ragazzo. Alle sue appassionate invettive rispose un improvviso, caldo applauso. «Lei mi ha messo in svantaggio,» esclamò Thorn con grande calma.
«Lei sta al buio e urla invettive...» «E allora faccia accendere le luci e io griderò più forte!» Il pubblico rise e le luci cominciarono ad accendersi, i giornalisti e i fotografi si alzarono di colpo, volgendosi verso il fondo della sala. Jennings, il fotografo, imprecò con se stesso per non avere portato il teleobiettivo e frugò fra le molte teste, in cerca del giovane arrabbiato in mezzo al pubblico. Sul podio, Thorn rimase calmissimo, ma quando le luci illuminarono tutta la sala, il suo atteggiamento mutò improvvisamente. Il suo sguardo non si fissava più sul ragazzo, ma su un'altra figura, nascosta nell'ombra, più indietro. Era la figura di un piccolo prete che stringeva convulsamente un cappello fra le mani. Era Tassone. Anche se Thorn non riusciva a vedere chiaramente i suoi tratti, sapeva che era lui e ciò lo paralizzò completamente. «Che c'è ora, Thorn?» gridò sarcastico il ragazzo. «Non ha più nulla da dire?» Ogni energia aveva abbandonato di colpo Thorn, travolto da un'ondata di paura, ed egli restò muto, con gli occhi fermi nell'ombra. Dalla posizione in cui era, Jennings girò il suo obiettivo verso il punto su cui si fissava lo sguardo dell'ambasciatore e scattò una serie di foto. «Andiamo, Thorn!» esclamò il giovane disturbatore. «Ora mi può vedere, che cosa ha da dire?» «Penso...» disse Thorn a fatica, quasi balbettando, «che in molte cose lei ha ragione. Dovremmo dividere con gli altri le nostre ricchezze. Cercherò di fare di più.» Il ragazzo fu preso alla sprovvista da quella risposta, e con lui il pubblico. Qualcuno gridò che si spegnessero nuovamente le luci e Thorn tornò al suo posto. Si sforzò di ritrovare la calma e puntò nuovamente gli occhi nel buio. In un lontano cono di luce vide la veste di un uomo che lo osservava. Jennings quella sera rincasò molto tardi e mise subito le pellicole a sviluppare. Come già le altre volte, l'ambasciatore l'aveva impressionato e lasciato perplesso. Jennings aveva per la paura lo stesso fiuto che un topo ha per il formaggio, ed era paura ciò che aveva avvertito, che aveva visto attraverso il suo mirino quando aveva alzato il suo apparecchio sull'ambasciatore. Una paura non vaga e incerta, perché era chiaro che Thorn doveva aver visto nel buio della sala qualcosa o qualcuno che lo aveva turbato. La luce era scarsa e la sua macchina aveva un obiettivo grandangolare, ma
Jennings aveva scattato nella direzione dello sguardo smarrito dell'ambasciatore e ora sperava di trovare una spiegazione nella pellicola che stava sviluppando. Mentre aspettava, si rese conto di aver fame e aprì il sacchetto degli acquisti che aveva fatto ritornando a casa. Aveva comperato un pollo alla griglia e una bottiglia grande di birra scura e si mise davanti il suo pranzo come se fosse un festino. Il pollo era intero, gli mancavano solo la testa e le zampe e Jennings lo posò ai piedi della bottiglia di birra in modo che rimanesse dritto, fissandolo decapitato attraverso la tavola. Era stato un errore, perché ora non si sentì più di mangiarlo, allungò la mano e gli ripiegò le alucce arrostite, gracchiando un poco, come se la bestiola gli stesse parlando. Poi aprì una scatola di sardine e mangiò in silenzio, di fronte al suo muto commensale. Intanto era scattato il segnale della camera oscura, Jennings si alzò e andò a vedere, usando le molle per sollevare le pellicole dal bagno di acido. Ciò che vide lo mandò in estasi facendolo mugolare di gioia. Accese una lampada molto forte e fece passare il film dietro una lente di ingrandimento; studiò accuratamente le foto, scuotendo la testa, deliziato dai risultati del suo lavoro. Era il rullo che aveva scattato rivolto verso il fondo della sala. Sebbene nel buio non si riuscisse a distinguere un solo volto o una figura, ecco di nuovo sospesa nell'aria quell'ombra allungata che aveva già visto nelle altre foto, come una boccata di fumo grigio sopra le teste della folla. «Maledizione!» borbottò Jennings quando il suo sguardo si posò su un altro particolare. Era un grassone che fumava un sigaro. Quell'ombra poteva essere il fumo. Sollevando contro luce le negative, scelse le tre in questione e le preparò per l'ingrandimento, aspettando poi quindici lunghissimi minuti perché fossero pronte e si potessero vedere i dettagli. No. Non era fumo. Il colore e lo spessore della macchia erano di natura diversa e così pure la distanza dal suo obiettivo. Se si fosse trattato di fumo di sigaro, quel grassone avrebbe dovuto fumare come una vaporiera per arrivare a formare una simile nuvola e ciò avrebbe disturbato i suoi vicini, che invece non badavano minimamente all'uomo che fumava e guardavano davanti a sé, perfettamente indifferenti. No, quell'ombra fantomatica pareva essere molto più lontana, in fondo alla sala, forse contro la parete. Jennings fece scivolare l'ingrandimento dietro la lente e studiò attentamente ogni minimo particolare. Sulla parte bassa della fotografia vide l'orlo di una tonaca sacerdotale. Alzò le braccia al cielo e lanciò un grido di guerra. Ecco che compariva di nuovo il piccolo prete che aveva già visto. Era chiaro che
quell'uomo era in qualche modo collegato alla persona di Thorn. «Merda!» gridò Jennings. «Santissima merda!» E per festeggiare la sua scoperta tornò al tavolo dove aveva pranzato, strappò le ali del suo muto commensale e le divorò fino all'osso. «Devo riuscire a trovarlo, quel disgraziato!» rise. «Lo cercherò finché non lo avrò trovato!» La mattina seguente ritagliò una foto del prete, quella che aveva preso davanti all'ambasciata insieme al marine. Andò a fare il giro di parecchie chiese e alla fine si recò negli uffici della curia di Londra, mostrando a tutti la fotografia, ma nessuno conosceva quel prete; gli assicurarono inoltre che se il sacerdote avesse avuto qualche incarico nella diocesi londinese, gli uffici competenti lo avrebbero certamente conosciuto. Doveva essere di fuori città. Questo rendeva le ricerche più difficili. Colto da un sospetto, Jennings si recò a Scotland Yard e riuscì a ottenere di dare un'occhiata ai loro archivi di dati segnaletici. Ma anche qui non arrivò a nessun risultato e quando ne uscì sapeva benissimo che gli rimaneva una sola cosa da fare. La prima volta che aveva visto quel prete, l'uomo stava uscendo dall'ambasciata; probabilmente là qualcuno ne avrebbe saputo qualcosa. Era tutt'altro che facile riuscire a entrare all'ambasciata. Gli uomini del servizio di sicurezza controllavano documenti e appuntamenti e non permisero a Jennings di andare oltre l'anticamera. «Vorrei vedere l'ambasciatore,» spiegò Jennings. «Mi ha detto personalmente che mi avrebbe rimborsato la macchina fotografica.» Telefonarono al piano di sopra e con grande sorpresa di Jennings gli dissero di andare a un telefono nel corridoio, dove la segretaria dell'ambasciatore lo avrebbe chiamato. Fece come gli veniva detto e dopo qualche istante parlava con la segretaria di Thorn, che voleva sapere la cifra richiesta e l'indirizzo a cui inviare l'assegno. «C'è qualcosa che gli vorrei spiegare personalmente,» disse Jennings. «Vorrei fargli vedere quel che può avere per il suo denaro.» La segretaria gli rispose che non era possibile, l'ambasciatore era occupato in una riunione. Jennings allora decise di giocare il tutto per il tutto. «Le dirò la verità, pensavo che mi potesse aiutare a risolvere un mio problema personale. Ma forse può aiutarmi lei. Sto cercando un prete. È un parente. Ha avuto a che fare con l'ambasciata e così ho pensato che qualcuno qui sarebbe stato in grado di aiutarmi.» Era una richiesta piuttosto singolare e la segretaria parve molto riluttante a dare una risposta.
«È un ometto molto piccolo,» aggiunse Jennings. «È italiano?» domandò la signorina. «Credo che abbia trascorso molto tempo in Italia,» rispose Jennings, giocando d'azzardo per vedere che cosa ne usciva. «Si chiama forse Tassone?» domandò ancora la segretaria. «Beh, per la verità non ne sono molto sicuro. Vede, ciò che sto tentando di fare è di rintracciare un lontano parente che abbiamo perso di vista. Il fratello di mia madre è stato separato da lei quando erano ancora bambini e io so soltanto che ha cambiato nome. Ora mia madre sta morendo in ospedale e vuole che lo ritrovi. Non conosciamo il suo attuale cognome, io ho soltanto una descrizione molto vaga del suo aspetto. So che è piccolo come mia madre e sappiamo che si è fatto prete; un mio amico ha visto un prete piuttosto piccolo di statura uscire dall'ambasciata circa una settimana fa e mi ha detto che assomigliava moltissimo a mia madre.» «Sì, infatti è stato qui un prete,» ammise la segretaria. «Disse di venire da Roma e credo che il nome fosse Tassone.» «Non sa dove abita?» «No.» «Ha avuto a che fare con l'ambasciatore?» «...Credo di sì.» «Può darsi che l'ambasciatore sappia dove abita.» «Non glielo saprei dire. Non credo.» «Non sarebbe possibile domandarglielo?» «Potrei provare.» «Quando lo potrebbe fare?» «Beh, solo più tardi.» «Mia madre sta molto male. È all'ospedale e temo che ci sia ben poco tempo.» Nell'ufficio di Thorn si udì il ronzio del citofono; la voce di una segretaria domandò se l'ambasciatore sapeva come trovare il prete che era stato da lui due settimane prima. Thorn interruppe il suo lavoro, colto da un'improvvisa sensazione di gelo. «Chi lo vuol sapere?» «Un giovanotto. Dice che lei gli ha fracassato la macchina fotografica. Il prete è un suo parente. O comunque pensa che lo sia.» Dopo un momento di pausa, Thorn rispose: «Gli dica di salire, per favore.» Jennings trovò la strada dell'ufficio dell'ambasciatore senza altre diffi-
coltà. Nessun cerimoniale. Era semplicemente l'ufficio di un funzionario. Una grande stanza all'estremità di un vestibolo adorno dei ritratti di tutti gli ambasciatori americani a Londra. Mentre Jennings li passava in rivista, notò con interesse che John Quincy Adams e James Monroe avevano occupato quella carica prima di diventare presidenti degli Stati Uniti. Probabilmente il posto era un buon trampolino per la Casa Bianca. E forse il buon vecchio Thorn era anche lui destinato a diventare un grande. «Si accomodi,» sorrise Thorn. «Prego.» «Mi spiace disturbarla...» «Niente affatto.» L'ambasciatore lo invitò con un gesto e Jennings entrò e si trovò seduto in una poltrona. In tutti i suoi anni di lavoro e di agguati, era la prima volta che si trovava faccia a faccia con una sua preda. Era stato relativamente facile farsi strada fino a lui, ma ora era piuttosto scosso, aveva le ginocchia molli e il cuore gli batteva furiosamente. Ricordava di aver provato quella stessa emozione la prima, volta che aveva sviluppato una fotografia. Un'emozione così forte da assomigliare quasi a un'eccitazione sessuale. «Desideravo rivederla per scusarmi con lei della macchina,» disse Thorn. «Era comunque un apparecchio vecchio.» «Vorrei rimborsarla.» «No, no...» «La prego. Vorrei veramente farlo. Desidero sistemare la cosa.» Jennings alzò le spalle e infine consentì. «Perché non mi dice semplicemente qual è il tipo migliore che lei vorrebbe avere? Gliela farò acquistare.» «Questo è molto generoso da parte sua...» «Mi dica soltanto qual è la migliore.» «È di fabbricazione tedesca. Pentaflex. Trecento.» «Affare fatto. Lasci detto alla mia segretaria dove la possiamo trovare.» Jennings annuì nuovamente e gli occhi dei due uomini si incontrarono in silenzio. Thorn lo stava studiando, cercando di valutare l'individuo, dietro i calzini spaiati e i capelli che gli penzolavano sopra il collo del giubbotto. A Jennings piaceva essere studiato in questo modo. Sapeva che il suo aspetto sconcertava la gente e questo gli dava una sorta di perversa soddisfazione. «L'ho vista spesso,» disse Thorn. «Grazie.»
Thorn si alzò dalla scrivania, dirigendosi verso un piccolo bar dove stappò una bottiglia di cognac. Jennings lo guardò riempire i bicchieri e ne accettò uno. «È stato molto bravo l'altra sera nel trattare quel ragazzo,» disse Jennings. «Crede?» Stavano ammazzando il tempo ed entrambi se ne rendevano conto, ciascuno aspettando che fosse l'altro ad affrontare l'argomento. «Ho semplicemente parato,» disse ancora Thorn. «Fra poco la stampa dirà che sono un comunista.» «Oh, sa bene com'è la stampa.» «Già.» «Devono guadagnarsi lo stipendio.» «Giusto.» Sorseggiavano il loro cognac e Thorn si diresse verso la finestra, restò a guardar fuori. «Sta cercando un suo parente?» «Sì, signore.» «Un prete di nome Tassone?» «È un prete, ma non sono sicuro che si chiami così. È il fratello di mia madre. Non si vedono da quando erano bambini. I Thorn gettò un'occhiata a Jennings e questi avvertì la delusione dell'altro. «Ciò significa che lei non lo conosce,» disse l'ambasciatore. «No, signore. Sto appunto cercando di trovarlo.» Thorn si accigliò e si abbandonò pesantemente sulla sua poltrona. «Se posso permettermi di chiedere...» domandò Jennings. «Forse se sapessi la ragione che l'ha portato da lei...» «Si trattava di un ospedale. Voleva... una donazione.» «Che ospedale?» «Oh, a Roma. Ma non ne sono sicuro.» «Le ha lasciato il suo indirizzo?» «No. Per la verità me ne dispiace. Gli avevo promesso di mandargli un assegno e ora non so dove trovarlo.» Jennings annuì. «Immagino quindi che siamo nella stessa barca.» «Già, penso proprio di sì,» rispose Thorn. «È semplicemente venuto e poi se n'è andato, vero?» «Sì.»
«E lei non l'ha più rivisto?» La mascella di Thorn si irrigidì e Jennings se ne accorse, si rese perfettamente conto che l'ambasciatore gli stava nascondendo qualcosa. «Mai più.» «Anche se probabilmente... potrebbe essere stato presente a qualcuna delle sue conferenze.» I loro sguardi si incontrarono e si tennero. Thorn capì che l'altro lo stava giocando. «Qual è il suo nome?» domandò Thorn. «Jennings. Haber Jennings.» «Mr. Jennings...» «Haber.» «Haber.» Thorn studiò la faccia del giovane, poi staccò gli occhi e tornò a guardare fuori dalla finestra. «Signore?» «...Ci terrei molto a ritrovare quell'uomo. Il prete che è stato qui. Temo di essere stato molto brusco con lui e vorrei riparare.» «Brusco in che senso?» «L'ho mandato via piuttosto aspramente. Non sono stato molto attento a ciò che voleva dirmi, per la verità.» «Sono certo che ci è abituato. Quando si va a seccare la gente per chiedere delle donazioni...» «Vorrei ritrovarlo. È importante per me.» Dallo sguardo di Thorn si capiva chiaramente quanto lo fosse. Jennings si rese conto di avere inciampato in qualcosa di singolare, ma non riusciva a immaginare di che cosa si trattasse. Tutto ciò che poteva fare era giocare a carte scoperte. «Se riesco a scovarlo, glielo farò sapere,» disse. «Mi farebbe questo favore?» «Naturalmente.» Thorn assentì, il colloquio era finito. Jennings si alzò e avvicinandosi a Thorn gli strinse la mano. «Lei mi sembra molto preoccupato, signor ambasciatore. Spero che il mondo non stia per saltare in aria.» «Oh no,» rispose Thorn con un sorriso. «Sono un suo ammiratore. È per questo che la seguo dovunque.» «La ringrazio.»
Jennings si diresse verso la porta, ma Thorn lo fermò. «Mr. Jennings?» «Signore?» «Mi faccia capire... lei quel prete non lo ha mai visto?» «No.» «Ha fatto un'osservazione prima a proposito dell'eventualità ch'egli abbia assistito a qualche mia conferenza. Ho pensato che...» «No.» «Bene. Non importa.» Ci fu una pausa piena di disagio, poi Jennings si mosse nuovamente per avviarsi alla porta. «Nessuna possibilità di farle qualche fotografia? Voglio dire, a casa sua? Con la sua famiglia?» «Non è il momento più adatto.» «Proverò a richiamarla fra qualche settimana.» «Lo faccia, la prego.» «Le farò avere notizie.» 8. Per Edgardo Emilio Tassone la vita sulla terra non poteva essere peggio di ciò che avrebbe sofferto in purgatorio. Per questa ragione anch'egli, come tanti altri, si era unito alla congregazione che aveva sede a Roma. Portoghese di nascita, era figlio di un pescatore morto al largo dei Grandi Banchi di Terranova durante la pesca del merluzzo. Il suo più lontano ricordo d'infanzia era legato all'odore del pesce. Quell'odore era rimasto addosso a sua madre come il manto di una malattia, e in effetti essa era morta a causa di un parassita ingerito mangiando pesce crudo quando si era ormai troppo indebolita e non era più in grado di andare nei boschi a far legna per il fuoco. Orfano a otto anni, Tassone era stato portato in un monastero; e lì, percosso dai monaci finché non aveva confessato i propri peccati, era stato salvato. Aveva abbracciato la strada di Cristo all'età di dieci anni, ma a quel tempo la sua schiena era già piegata dalle penitenze che erano state necessarie perché il Santo dei Santi finalmente apparisse. Con il timore di Dio inculcatogli letteralmente a suon di botte, egli aveva dedicato la propria vita alla Chiesa, restando otto anni in seminario a studiare la Bibbia giorno e notte. Lesse fino a consumarsi dell'amore di Dio e dell'ira del Signore, e all'età di venticinque anni si avventurò per il
mondo, nell'intento di salvare altre creature dal fuoco dell'inferno. Divenuto missionario andò dapprima in Spagna, poi in Marocco, a predicare la parola del Signore. Dal Marocco si spinse fino all'estremità sudorientale dell'Africa, trovando pagani da convertire, uomini che egli redimeva nel solo modo che conosceva, cercando cioè di renderli simili a quello che era diventato lui stesso. Li picchiava come lui era stato picchiato e col tempo si accorse che nell'impeto dell'estasi religiosa le loro sofferenze gli davano un piacere sensuale. Fra i giovani africani convertiti ce ne fu uno preso da particolare devozione per lui e insieme essi divisero i piaceri della carne, profanando così la prima legge di Dio e dell'uomo. Il ragazzo si chiamava Tobu, ed era della tribù dei kikuyu. Quando lui e Tassone furono scoperti insieme, il ragazzo fu mutilato con una cerimonia solenne; lo scroto fu aperto e gli furono asportati i testicoli e il ragazzo fu costretto a mangiarli mentre i suoi fratelli guerrieri stavano a guardare. Tassone stesso sfuggì per miracolo alla punizione e si trovava in Somalia quando venne a sapere che i kikuyu avevano catturato un frate francescano e lo avevano scorticato vivo al posto suo. Dopo averlo scorticato, lo avevano fatto camminare finché era caduto morto. Tassone era fuggito a Gibuti, di lì a Aden e infine a Giacarta, sentendo la collera di Dio sopra di sé ovunque andasse. La morte gli era sempre alle spalle e colpiva coloro che gli erano vicini ed egli temeva continuamente di essere la prossima vittima. La sua conoscenza dei testi sacri gli insegnava molto bene quale fosse la collera di un Dio schernito. Tassone si spostava rapidamente, sempre cercando di proteggersi da ciò che pure sapeva inevitabile. A Nairobi aveva incontrato padre Spilletto e gli aveva confessato i suoi peccati; Spilletto aveva promesso di proteggerlo e lo aveva portato a Roma con sé. Fu là, nella congregazione romana, che Tassone venne iniziato ai dogmi del demonio. I seguaci di Satana offrivano un rifugio in cui il giudizio di Dio non esisteva. Vivevano perseguendo solo i piaceri della carne, e Tassone divise il suo corpo con altri che avevano le sue stesse inclinazioni. Era una comunità di proscritti che, insieme, potevano proscrivere il resto dell'umanità. La venerazione del demonio si realizzava nella dissacrazione di Dio. La congregazione era composta per la maggior parte da gente delle classi più povere, ma vi erano anche alcuni professionisti, persone di cultura e di elevata posizione. Esteriormente tutti vivevano una vita rispettabile e questa era la loro arma più importante contro coloro che credevano in Dio. La loro missione era di creare paura e tumulto, aizzando gli uomini gli uni contro gli altri, fino a quando fosse giunta l'ora
del demonio; piccoli gruppi, chiamati Forze Attive, erano impegnati ad andare per il mondo a creare il caos ovunque fosse possibile. La congregazione di Roma acquistò molti meriti per il ruolo avuto nei disordini irlandesi, ricorrendo al sabotaggio dove era possibile per fomentare le ostilità fra cattolici e protestanti e ravvivare il fuoco della guerra di religione. Due monache irlandesi, che nella congregazione portavano i nomi di B'aalock e B'aalam, avevano organizzato i bombardamenti in Irlanda, e quella chiamata B'aalam era morta suicida. Il suo corpo era stato rinvenuto tra le rovine di un mercato dopo un'esplosione, i suoi resti erano stati rimandati in Italia, e solennemente sepolti in terra sconsacrata nell'antico cimitero etrusco di Cerveteri, noto attualmente come cimitero di Sant'Angelo, ad alcune decine di chilometri da Roma. Per la sua devozione al dio del Male, B'aalam aveva avuto l'onore di essere sepolta sotto l'altare di Techulca, il demone-dio degli Etruschi e alla cerimonia avevano assistito membri di molte altre congregazioni, in numero di quasi cinquemila. Tassone era stato profondamente colpito da quella cerimonia e dopo di allora aveva cominciato a prendere parte all'attività politica della congregazione, nel tentativo di farsi dei meriti e dimostrare così a Spilletto di essere degno della sua fiducia. La prima prova di tale fiducia Tassone la diede nel 1968, quando, insieme a un altro prete, venne inviato da Spilletto nel Sudest asiatico; organizzò infatti piccole bande di mercenari in Cambogia e riuscì a infrangere il cessate il fuoco nel Sud Vietnam. Il Nord aveva accusato il Sud, il Sud aveva dato la responsabilità al Nord e nello spazio di pochi giorni dall'arrivo di Tassone nella regione, l'armistizio faticosamente raggiunto era stato rotto. La congregazione credeva fermamente che ciò avrebbe aperto la strada alla totale rovina di tutti i paesi del Sudest asiatico: Cambogia, Laos, Vietnam e infine anche Tailandia e Filippine. La più viva speranza era che nel giro di pochi anni il solo nome di Dio sarebbe stato considerato un'eresia in tutto l'emisfero sudorientale. In gran parte grazie all'attività politica di Tassone, la congregazione romana aveva acquistato la fama di supremo potere spirituale e centro di ogni direttiva politica agli occhi dei seguaci di Satana in tutto il mondo; il denaro cominciò ad affluire nelle casse e la sua autorità aumentò. Roma, sede suprema del cattolicesimo, era diventata anche il centro dei fedeli di Satana di tutto il mondo. Proprio a quel tempo, nel momento della massima tensione, i simboli biblici si manifestarono, annunziando che era giunta l'ora in cui la storia
del mondo avrebbe subito un improvviso e irreversibile mutamento. Per la terza volta dalla creazione del pianeta, il dio del Male avrebbe vomitato la sua progenie, affidandone la crescita alla maturità dei suoi discepoli sulla terra. Due volte nella storia del mondo era stato fatto quel tentativo, e due volte era fallito; i guardiani di Cristo avevano scoperto la Bestia e l'avevano uccisa prima che potesse giungere al potere. Questa volta non si poteva fallire. La concezione era chiara, il piano preparato alla perfezione. Non fu una sorpresa che tra i tre che avrebbero dovuto portare a compimento il grande progetto Spilletto scegliesse anche Tassone. Il piccolo prete era un discepolo leale e fidato e sapeva eseguire gli ordini senza la minima ombra di esitazione o di rimorso. Proprio per questo a lui venne riservata la parte più brutale del progetto: l'uccisione dell'innocente che, per necessità, doveva essere coinvolto nella terribile impresa. Fu Spilletto a scegliere la famiglia che serviva allo scopo e sarebbe stato lui a trasferire la creatura. Suor Maria Teresa (così adesso si chiamava B'aalock) avrebbe curato il concepimento e assistito al parto. Tassone avrebbe invece diretto l'orrenda seconda parte dell'impresa, la soppressione del bambino e la sua sparizione. Tassone si accinse a questo nuovo incarico con zelo e fervore. Si rendeva conto che ciò avrebbe consegnato il suo nome alla posterità. Egli sarebbe stato ricordato e venerato; lui, l'orfano picchiato a sangue, era adesso il prescelto, gli era concesso di entrare in sacra alleanza con il demonio. Ma nei giorni precedenti l'evento, qualcosa si verificò in lui; la sua energia sembrò incrinarsi. Le cicatrici che gli deturpavano la schiena cominciavano a dolere e la sofferenza divenne una vera e propria agonia. Per cinque notti, insonne e disperato, si agitò furiosamente, lottando contro le visioni d'incubo che gli attraversavano la mente. Ricorse a pozioni d'erbe che gli arrecavano un po' di sollievo ma non bastarono a placare i sogni e i fantasmi che lo afferravano appena si addormentava. Vedeva Tobu, il ragazzo africano, che lo supplicava, gli chiedeva aiuto. E vedeva la figura scorticata di un uomo, le orbite sporgenti sopra muscoli e legamenti messi a nudo, una bocca senza più labbra che gridava implorando pietà. Rivedeva se stesso fanciullo, mentre sulla spiaggia aspettava il ritorno del padre, e poi vedeva sua madre sul letto di morte, che gli chiedeva perdono perché moriva e lo lasciava solo così piccolo, abbandonandolo al suo destino. Quella notte Tassone si svegliò piangendo, come se fosse sua madre, chiedendo di essere perdonato. E quando ricadde nel torpore del sonno artificiale, la figura di Cristo comparve accanto a lui, e lo
assicurò che gli avrebbe perdonato. Cristo, in tutta la sua bellezza di fanciullo, il corpo snello coperto di cicatrici, si inginocchiava accanto a Tassone e gli diceva che era sempre benvenuto nel Regno del Padre. Bastava solo che si pentisse. Questi incubi notturni avevano profondamente scosso Tassone. Spilletto avvertì la sua tensione e lo convocò per chiedergliene ragione. Ma ormai Tassone era troppo profondamente coinvolto, sapeva che la sua vita sarebbe stata in pericolo se avesse tradito anche il minimo dubbio e assicurò Spilletto di essere ansioso di fare tutto ciò che andava fatto. Quello che lo turbava erano le violente fitte alla schiena, gli disse, e Spilletto gli offrì delle pillole che avrebbero calmato il dolore. Da allora fino al compimento dell'opera, Tassone visse in uno stato di calma dovuto alle droghe e le inquietanti visioni di Cristo cessarono di tormentarlo. Notte del sei giugno. Il sesto mese, il sesto giorno, la sesta ora. In quella notte si susseguirono degli eventi che avrebbero perseguitato Tassone fino alla fine dei suoi giorni. Nel pieno delle doglie la madre prescelta aveva cominciato a gemere e suor Maria Teresa l'aveva fatta tacere con l'etere, mentre la creatura si apriva la strada attraverso il suo grembo. Tassone finì poi l'opera con la pietra che Spilletto gli aveva dato. Fracassò la testa dell'animale fino a ridurla in poltiglia, poi la preparò per la stessa fine che era stata prevista per la creatura umana che stava per nascere. Ma quando il bambino, il figlio degli uomini, gli fu portato perché egli eseguisse il suo compito, Tassone esitò: il neonato era di eccezionale bellezza. Guardò le due creature che aveva davanti, l'una accanto all'altra: l'una coperta di sangue e di pelo folto; l'altra bianca e morbida, gli occhi aperti e levati su di lui in totale fiducia. Egli sapeva ciò che doveva fare e lo fece, ma la mano gli tremò. Il lavoro dovette essere ripetuto e Tassone si sentì sopraffare dai singhiozzi mentre riapriva la cassetta per colpire di nuovo il figlio dei Thorn. Per un istante era stato colto dal folle impulso di stringersi quella creaturina fra le braccia, fuggire con lei, portarla al sicuro. Ma ben presto si avvide che il bambino era già gravemente, irreparabilmente colpito, e allora la pietra ricadde pesantemente sul figlio dell'uomo. Una volta. E ancora una volta. Finché il vagito si spense e il corpicino fu immobile. Nell'oscurità di quella notte nessuno vide le lacrime che inondarono la faccia di Tassone; in realtà, dopo quella notte, nessuno più lo vide nella congregazione. Fuggì da Roma l'indomani mattina e visse nascosto per i quattro anni che seguirono. Andò in Belgio, si mise a lavorare in mezzo ai poveri e trovò la strada che lo condusse in una clinica dove poté trovare
accesso alle droghe di cui aveva bisogno non solo per placare i dolori sempre più forti, ma anche per spegnere il ricordo di ciò che aveva fatto. Viveva solo e non parlava con nessuno e piano piano divenne un infermo Quando finalmente si decise a entrare in un ospedale, la diagnosi trovò una rapida conferma. I dolori nella schiena erano causati da un tumore maligno e inoperabile per la posizione a ridosso della colonna vertebrale. Orinai Tassone stava morendo e fu questa certezza che lo spinse a cercare il perdono del Signore. Cristo era misericordioso. Cristo lo avrebbe perdonato. E, da parte sua, egli avrebbe cercato di mostrarsi degno di quella grazia facendo quanto gli era possibile per riparare al male compiuto. Raccogliendo le poche energie che gli restavano, si mise in viaggio per Israele, portando con sé otto fiale di morfina per placare i lancinanti dolori che gli pulsavano nella schiena. Andava alla ricerca di un uomo chiamato Bugenhagen, un nome legato alla storia di Satana fin dagli inizi del tempo. Era stato un Bugenhagen che nel 1092 aveva scoperto la prima progenie del Maligno e aveva trovato i mezzi per metterlo a morte. Ed era stato ancora un Bugenhagen che nel 1710 aveva saputo di un secondo tentativo ed era riuscito a impedirgli di prendere il potere terreno. Erano degli zeloti, quei guardiani di Cristo completamente dediti alla loro missione di tenere lontano il Maligno dalla faccia della terra. Tassone impiegò ben sette mesi a trovare l'ultimo discendente della stirpe dei Bugenhagen, poiché l'uomo viveva isolato da tutti, nascosto in una fortezza sotto la superficie della terra. E lì anch'egli, come Tassone, aspettava la morte, torturato dalle infermità della vecchiaia e dalla consapevolezza di avere fallito nella sua missione. Come molti altri, anch'egli sapeva che il tempo era venuto, ma non era in grado di impedire che il figlio di Satana venisse partorito sulla terra. Tassone trascorse soltanto sei ore con il vecchio, raccontandogli tutta la storia e la parte che egli aveva avuto in quella nascita. Bugenhagen ascoltò in preda alla disperazione, quando il prete lo supplicò di intervenire. Non poteva. Era imprigionato nella sua fortezza e non osava avventurarsi all'esterno. Era necessario che venisse fino a lui chi era in diretto contatto con il bambino. Temendo di avere ancora poco tempo da vivere, Tassone andò a Londra per convincere Thorn. Pregò che Dio l'assistesse; sempre temendo che anche Satana tenesse lo sguardo fisso su di lui. Ma sapeva bene come si svolgeva l'opera del demonio e prese tutte le precauzioni per mantenersi in vita finché non fosse riuscito a trovare Thorn e a raccontargli quella terri-
bile storia. Se l'avesse fatto, Dio l'avrebbe assolto dai suoi peccati e ammesso nel Regno dei Cieli. Affittò una stanzetta a Soho e ne fece una piccola fortezza, sicura come una chiesa. Le sue armi di difesa erano le Scritture; coprì ogni centimetro delle pareti, persino le finestre, con pagine staccate dalla Bibbia. Gli ci vollero ben settanta Bibbie per ricoprire tutto. Dovunque nella stanza pendevano delle croci, e. Tassone badava a non uscire mai di casa se prima il suo crocifisso, in cui erano inserite particelle di specchio, non rifletteva un raggio di sole quando se lo appendeva al collo. Dovette rendersi conto che non era facile raggiungere lo scopo. Intanto i dolori alla schiena lo consumavano. Il suo primo incontro con Thorn, nell'ufficio di quest'ultimo, era stato un disastro. Aveva spaventato l'ambasciatore ed era stato cacciato senza riuscire a dirgli tutto ciò che doveva. Ora lo seguiva ovunque, in uno stato di sempre crescente disperazione; e quel giorno se ne stava lì a osservare l'ambasciatore dall'altra parte di una barriera formata dalle catenelle che trattenevano il pubblico, mentre Thorn e un gruppo di autorità inauguravano un grande progetto di edilizia sociale in un quartiere povero di Chelsea. «Sono orgoglioso di inaugurare quest'opera...» esclamò a voce alta Thorn, gridando contro vento verso il centinaio di persone che assistevano alla cerimonia, «poiché essa rappresenta un preciso desiderio della comunità: migliorare la qualità della vita!» E con queste parole puntò una vanga nel terreno; una banda cominciò a suonare una polka e Thorn e il gruppo delle autorità si mossero verso la barriera per stringere le mani tese della folla che si spingeva avanti per toccarlo mentre passava. L'ambasciatore era un politico di consumata abilità, un uomo che godeva dell'adulazione della folla e mentre si accostava alle transenne si preoccupò di stringere quante più mani poté e giunse fino a chinarsi in avanti per lasciarsi baciare da qualcuno. Ma d'un tratto si raggelò; una mano si era allungata verso di lui con subitanea violenza e lo afferrava convulsamente, attirandolo verso la barriera. «Domani,» ansimò Tassone, il volto quasi sugli occhi spaventati dell'ambasciatore. «All'una, Kew Gardens...» «Mi lasci!» gridò Thorn con voce soffocata. «Cinque minuti soltanto, e poi non mi vedrà mai più.» «Tolga quella mano...» «Sua moglie è in pericolo. Morirà se lei non viene.» Quando Thorn riuscì a liberarsi da quella stretta, il prete era già sparito.
L'ambasciatore rimase stordito, con gli occhi fissi su facce sconosciute. Intanto i flash dei fotografi gli bersagliavano gli occhi. Thorn aveva lottato a lungo con se stesso ponendosi il problema di ciò che doveva fare con quel prete. Avrebbe potuto semplicemente mandare al suo posto la polizia, che avrebbe arrestato Tassone. Ma avrebbe dovuto presentare una denuncia per molestia e lui stesso, come denunciante, sarebbe stato costretto a comparire in tribunale. La polizia avrebbe interrogato il prete e la cosa sarebbe diventata di dominio pubblico. La stampa sarebbe andata a nozze con un fatto del genere e avrebbe fatto quattrini speculando sulla follia di un povero pazzo. No, non poteva farlo. Non ora, né mai, del resto. Non c'era modo di sapere che cosa quell'uomo gli volesse dire. Il suo chiodo fisso era la nascita di un bambino; una macabra coincidenza, peraltro molto vicina al segreto che Thorn doveva assolutamente custodire. Un'alternativa all'intervento della polizia era mandare qualcuno al suo posto, un emissario autorizzato a pagare il prezzo che quell'uomo voleva per lasciarlo in pace. Oppure minacciarlo. Ma ciò significava coinvolgere un'altra persona, mettere qualcuno al corrente delle sue paure. Pensò a Jennings, il fotografo, e provò quasi l'impulso di chiamarlo, per dirgli che aveva trovato l'uomo che lui cercava. Ma anche così non andava. Non c'era niente di peggio che intromettere in faccende private quelli della stampa. Tuttavia sentiva un enorme bisogno di parlarne con qualcuno. Avere qualcuno con cui dividere quell'ansia. Perché in realtà egli era molto spaventato. Aveva paura di ciò che il prete gli avrebbe detto. Quella mattina Thorn prese la sua macchina, dicendo a Horton che desiderava stare un po' solo e guidare personalmente. In effetti guidò per tutta la mattinata, evitando di andare in ufficio, nel timore che qualcuno gli facesse domande, gli chiedesse dove intendeva andare a colazione. Gli venne anche in mente che avrebbe potuto benissimo far finta di nulla, limitarsi a ignorare la richiesta del prete. Poteva darsi che il suo rifiuto a lasciarsi coinvolgere convincesse finalmente Tassone a desistere dal suo proposito, ad andarsene. Ma neppure questa soluzione lo soddisfaceva. In realtà era Thorn stesso che desiderava quell'incontro, quel confronto. Sentiva il bisogno di affrontare l'uomo e ascoltare tutto quello che aveva da comunicargli. Tassone aveva detto che Katherine era in pericolo, che sarebbe morta se lui non fosse andato all'appuntamento. Tutto questo non era assolutamente possibile, ma Thorn provava un senso profondo di sofferenza al pensiero che anche lei fosse diventata un bersaglio per la mente sconvolta di un pazzo.
Thorn arrivò alle dodici e mezzo, parcheggiò la macchina lungo il marciapiedi e rimase seduto al posto di guida, in uno stato di grandissima tensione. Il tempo passava lentamente, sentì il notiziario della radio, ascoltando solo a metà la voce che sciorinava i nomi di tutti i paesi sconvolti dai conflitti. La Spagna, il Libano, il Laos, Belfast, l'Angola, lo Zaire, Israele, la Tailandia. Volendo, si sarebbero potuti chiudere gli occhi e puntando un dito sulla carta del globo, si era sicuri di arrivare molto vicino a una zona insanguinata. Pareva che quanto più si prolungava il tempo dell'uomo sulla terra, tanto più ristretti si facessero i margini delle sue possibilità di vivere in pace. Come se una bomba a orologeria scandisse il passare del tempo. Un giorno, presto, l'ordigno sarebbe esploso. Il plutonio, prodotto secondario della scissione nucleare, era ormai accessibile a chiunque e con esso anche i paesi più piccoli erano in grado di armarsi per una guerra atomica. Alcuni del resto già sembravano decisi al suicidio. Non avevano nulla da perdere se nella loro follia avessero trascinato il mondo alla catastrofe. Thorn pensò al deserto del Sinai, la Terra Promessa. Si chiedeva se Dio, quando aveva fatto la sua promessa ad Abramo, sapeva che un giorno la bomba sarebbe esplosa. Guardò l'orologio sul cruscotto: l'una precisa. Cercando di controllarsi, Thorn si avviò verso il parco. Aveva indossato l'impermeabile e portava grossi occhiali scuri, per non essere riconosciuto, ma quella specie di travestimento parve aumentare la sua ansia mentre cercava con lo sguardo la figura del prete. Lo individuò quasi subito, e si sentì gelare il sangue; dovette lottare contro l'impulso di fuggire. Tassone era solo, seduto su una panchina, e gli voltava le spalle. Thorn sarebbe potuto andarsene senza essere visto. Invece continuò ad avanzare, gli girò intorno e gli si piazzò di fronte. Tassone sussultò all'improvvisa comparsa di Thorn; aveva la faccia tesa e madida di sudore, come se fosse afflitto da una sofferenza insostenibile. Per un lungo attimo i due uomini rimasero a fissarsi in silenzio. «Avrei dovuto portare la polizia,» disse Thorn seccamente. «La polizia non può aiutarla.» «Parli dunque. Dica quello che ha da dire.» Gli occhi di Tassone sbatterono e le mani gli tremarono. Era evidente che l'uomo era in uno stato di estrema tensione nervosa; e lottava per vincere il dolore. «Quando gli ebrei torneranno a Sion...» sussurrò. «Cosa?»
«...quando gli ebrei torneranno a Sion. E una cometa riempirà il cielo. E il Sacro Romano Impero si risolleverà. Allora lei e io... dovremo morire.» Il cuore di Thorn cominciò a battere forte. Quell'uomo era pazzo. Stava recitando dei versi, la faccia rigida, come se fosse in trance, la voce che si alzava con una stridula intensità. «Egli si leva dal Mare Eterno. E creerà su entrambe le sponde. E i fratelli si volgeranno contro i fratelli. Fino a quando l'uomo avrà finito di esistere!» Thorn osservava il prete, che cominciò a tremare, lottando per farsi udire. «Il Libro delle Rivelazioni ha predetto ogni cosa!» esclamò. «Non sono qui per ascoltare una predica.» «È per mezzo di una creatura umana interamente in suo possesso che Satana scaglierà la sua ultima e più terribile offensiva. Libro di Daniele, Libro di Luca...» «Lei ha detto che mia moglie è in pericolo.» «Vada alla città di Meggido,» supplicò Tassone. «Nella antica Jezreel. E là cerchi del vecchio Bugenhagen. Egli solo potrà dirle come il bambino deve morire.» «Senta...» «Colui che non sarà salvato dall'Agnello, sarà distrutto dalla Bestia!» «La smetta!» Tassone tacque, mentre la sua piccola figura si piegava e l'uomo alzava una mano tremante ad asciugare il sudore che gli si era raccolto sulle sopracciglia. «Sono qui perché lei mi ha detto che mia moglie è in pericolo!» disse Thorn a voce bassa. «Ho avuto una visione, Mr. Thorn.» «Ha detto che mia moglie...» «È incinta!» Thorn si arrestò di colpo, colto alla sprovvista. «Lei è in errore.» «Credo che sia incinta.» «Non è vero.» «Egli non permetterà che la creatura veda la luce. La ucciderà mentre ancora riposa nel grembo materno.» Il prete, colpito di nuovo dalla violenza del dolore, gemette. «Di che cosa sta parlando?» domandò Thorn trattenendo il respiro.
«Di suo figlio, Mr. Thorn! Il figlio di Satana! Egli ucciderà il figlio ancora non nato e poi ucciderà sua moglie! E quando avrà la certezza di ereditare tutto ciò che lei possiede, Mr. Thorn, ucciderà anche lei!» «Basta!» «E con la sua ricchezza e il suo potere stabilirà il regno del Male qui sulla terra, ricevendo gli ordini direttamente da Satana.» «Lei è pazzo,» sibilò Thorn. «Deve morire, Mr. Thorn!» Il prete ebbe un sussulto e una lacrima gli scese dagli occhi; Thorn teneva lo sguardo abbassato su di lui, incapace di muoversi. «La prego, Mr. Thorn...» supplicò il prete piangendo. «Mi ha chiesto cinque minuti...» «Vada alla città di Meggido,» implorò Tassone. «Trovi Bugenhagen prima che sia troppo tardi!» Thorn scosse la testa, puntando un dito tremante verso il piccolo uomo che gli stava seduto davanti. «Io l'ho ascoltata...» lo ammonì. «Adesso voglio che lei ascolti me. Se si farà vedere ancora una volta... la farò arrestare.» Thorn girò sui tacchi e si allontanò, mentre Tassone continuava a chiamarlo fra le lacrime. «Ci rivedremo all'inferno, Mr. Thorn. E là sconteremo insieme la nostra condanna!» Ma in un attimo Thorn era scomparso; Tassone rimase solo, la testa china, nascosta fra le mani. Restò così per parecchi minuti, cercando di frenare il pianto. Ma le lacrime continuavano a scorrere. Tutto era finito ora, e anche questa volta egli aveva fallito nella sua missione. Si alzò lentamente guardando il parco tutt'intorno. Era ormai deserto e straordinariamente tranquillo: una calma sinistra. Il prete aveva l'impressione di muoversi nel vuoto, l'aria gli chiudeva la gola. Poi, vagamente, cominciò a udire il suono. Da principio era distante, avvertito quasi solo dall'inconscio, ma gradatamente aumentava di intensità, finché parve colmare l'atmosfera circostante. Era il suono dell'Anticristo, sempre più acuto. Tassone afferrò il suo crocifisso e si sentì mancare il respiro, mentre teneva gli occhi impauriti fissi sul parco. Il cielo sì oscurò e si alzò una brezza, via via più impetuosa fino a diventare un vento che scuoteva i rami degli alberi come una furia. Con la croce stretta fra entrambe le mani, Tassone cominciò a muoversi, cercando salvezza nella strada. Ma anche lì il vento lo investì di colpo, sca-
raventandogli contro pezzi di carta e detriti. Il religioso chiudeva gli occhi e ansimava e la violenza del vento lo batteva in pieno viso. Al di là della strada scorse una chiesa, ma quando si fermò sul gradino del marciapiedi, il vento lo travolse con la furia improvvisa di una tempesta e lo ricacciò indietro, rendendogli sempre più difficile mettersi al sicuro. La voce dell'Apocalisse gli echeggiava adesso come un fragore nelle orecchie, mescolato all'urlo del vento; Tassone gemeva per lo sforzo mentre lottava per farsi avanti, gli occhi oscurati da un turbine di polvere. Non vide né udì il camion che avanzava rumorosamente, udì solo il cigolio acuto delle ruote enormi nel momento in cui il mezzo deviò dalla strada, sbandando e andando a cozzare contro una fila di macchine in sosta, per poi arrestarsi violentemente. Il vento cadde di colpo La gente si mise a correre urlando in direzione dell'autocarro, dove la testa del conducente pendeva inerte grondante sangue contro il vetro del finestrino, mentre il prete era rimasto immobile in mezzo alla strada, gemendo di terrore. Un lampo accecante guizzò sopra la chiesa lontana e Tassone si volse, tornò rapidamente verso il parco. Con un improvviso rimbombo la pioggia cominciò a cadere con violenza. Il piccolo religioso correva disperatamente, mentre i lampi si abbattevano intorno a lui. Un albero secolare, colpito in pieno, quasi esplose al suo passaggio. Gridando di paura, egli scivolò e cadde nel fango. Si rialzò e riprese a correre, ma una scarica di elettricità cadde poco distante, facendo ardere una panchina del parco come una scatola di fiammiferi. Girando su se stesso, Tassone si lanciò verso un gruppo di cespugli, vi si gettò dentro e riemerse in una stradetta laterale. Ancora il lampo tornò ad abbattersi vicino a lui, colpendo questa volta una cassetta per le lettere, sollevandola in aria e lasciandola poi ricadere come una scatola di sardine usata che rotolava con gran fracasso sul selciato. Fra i singhiozzi il prete tentò ancora di avanzare, gli occhi protesi verso il cielo irato. La pioggia cadeva con violenza, inondandogli la faccia; al di là del velo d'acqua, gli apparivano i confusi contorni della città. In tutta Londra la gente correva alla ricerca di un rifugio sotto quell'uragano; le imposte sbattevano. Pochi isolati più avanti una maestra stava lottando con un antiquato palo che serviva a chiudere le finestre mentre nella furia dell'acquazzone i suoi piccoli scolari la stavano a guardare. La donna non aveva mai sentito parlare di padre Tassone, e non poteva neppure immaginare che la sua sorte fosse legata a quella di lui. Ma in quello stesso istante, sulle strade lucenti di pioggia e gonfie d'acqua, egli stava avanzando
verso di lei. Con il respiro affannoso, egli camminava per stradette secondarie inciampando, correndo senza meta, nel tentativo di sfuggire alla collera che lo inseguiva. Ora i lampi erano più lontani, ma Tassone si sentiva mancare le forze. Il cuore gli faceva male per le fitte acutissime. Girò l'angolo di una casa e si arrestò un momento ai piedi di un edificio, la bocca spalancata, cercando disperatamente aria. Gli occhi erano ancora fissi sul parco ormai lontano, dove i lampi continuavano ad abbattersi a ogni rombo di tuono; non pensò neppure lontanamente di guardare in su, quando dall'alto si avvertì un movimento improvviso. Da una finestra del terzo piano proprio sopra di lui, la stanga di una finestra scivolò dalle mani che la reggevano le mani di una donna che cercava disperatamente di trattenerla. La lunga asta di ferro precipitò al suolo; la sua punta metallica tagliò l'aria con la velocità di un giavellotto ben lanciato. Cadde dritta sulla testa del prete, lo trafisse per tutta la lunghezza del corpo e lo impalò nell'erba davanti alla casa. Il poveretto rimase così, diritto, le braccia allungate sui fianchi, come una marionetta appesa per la notte. Su tutta Londra l'improvviso uragano estivo di colpo cessò. Da una finestra del terzo piano di una scuola, una maestra sporse la testa e cominciò a urlare. Intanto, in una strada dalla parte opposta del parco, un gruppo di persone estraeva il corpo del conducente morto dal camion ribaltato. Sulla fronte del morto c'erano le impronte insanguinate del volante contro il quale aveva battuto. Allorché le nubi si dissolsero e il sole tornò a brillare sereno sulla città, un gruppo di bambini si raccolse in incuriosito silenzio intorno al corpo di un prete che pendeva irrigidito da un'asta infissa nel terreno. Gocce di pioggia gli colavano ancora dal cappello, e scivolavano su una faccia raggelata in un'espressione di straordinaria stupefazione, a bocca spalancata. Una mosca gli ronzava intorno e si posò sulle labbra aperte. Il mattino dopo, davanti al cancello principale di Pereford, Horton raccolse come di consueto i giornali e li portò nella saletta dove Thorn e Katherine stavano facendo colazione. Andandosene, Horton notò che la faccia della signora era ancora tesa e rigida. Erano settimane ormai che aveva quell'espressione, e l'uomo sospettò che ciò avesse qualche rapporto con le sedute regolari che faceva a Londra da un medico. Da principio Horton aveva immaginato che quegli appuntamenti fissi a cui la portava fossero legati a qualche malattia fisica, ma poi sulla targa all'ingresso del palazzo dove andava a fermarsi, lesse che il dottor Greer era uno psichiatra. In
quanto a lui, Horton non aveva mai sentito il bisogno di consultare uno psichiatra, e neppure conosceva qualcuno che ci andasse. La sua impressione in proposito era che gli psichiatri servissero soltanto a far impazzire la gente. Infatti, quando si leggeva sul giornale di qualcuno che aveva commesso un atroce delitto, spesso si veniva anche a sapere che la persona in questione era in cura da uno psichiatra; causa ed effetto erano chiaramente collegati. Ora, osservando l'aspetto della signora Thorn, la sua teoria sugli psichiatri aveva trovato conferma. Per quanto talvolta apparisse serena e di buon umore mentre lui la portava in città, al ritorno a casa era invece sempre silenziosa e chiusa in se stessa. Da quando avevano avuto inizio quelle visite, il suo stato d'animo era continuamente peggiorato. Era evidente che la donna era profondamente turbata. I suoi rapporti con il personale erano limitati a degli ordini bruschi e concisi e a soffrire di più di quella situazione erano stati i suoi rapporti con il figlio. La cosa più triste era che adesso il piccolo cominciava a sentire molto il bisogno della madre. Le settimane durante le quali Mrs. Thorn si era interamente dedicata a riguadagnare l'affetto del figlio, avevano dato i loro frutti; ora però, quando Damien si guardava intorno in cerca della mamma, essa non era mai lì ad aspettarlo e a occuparsi di lui. Per Katherine la terapia aveva rappresentato uno sforzo molto penoso, perché l'aveva costretta a spingere lo sguardo oltre la superficie delle sue paure. E sotto vi aveva trovato un abisso senza fondo di angoscia e di disperazione. La sua vita era schiacciata dal peso di un'enorme confusione, e adesso aveva l'impressione di non sapere neppure più quale fosse la sua identità. Ricordava che cosa era stata prima e quello che un tempo aveva desiderato, ma ormai tutto ciò era finito: non riusciva più a immaginare il futuro. Le cose più semplici la colmavano di terrore; bastava che il telefono suonasse, che il termostato del forno mandasse il suo segnale, o che l'acqua del tè fischiasse nel bollitore. Era arrivata al punto di non saper più affrontare neppure i più banali compiti quotidiani e giungere alla fine della giornata rappresentava già un'enorme prova di coraggio. Di coraggio, quel giorno, ce ne voleva ancora più del solito. Katherine aveva infatti scoperto di dover prendere una decisione. Doveva affrontare quel confronto con il marito che essa temeva più di ogni altra cosa, e ad accrescere la sua ansia c'era il bambino. Damien aveva preso l'abitudine di starle sempre addosso specialmente la mattina, tentando in ogni maniera di attirare la sua attenzione «Mrs. Baylock!!!» chiamò imperiosamente Katherine.
Thorn, che le sedeva di fronte e che stava aprendo i giornali, alzò lo sguardo su di lei e sobbalzò al tono irato della sua voce. «Qualcosa che non va?» domandò. «Damien. Non posso sopportare questo fracasso.» «Ma non è poi così terribile...» «Mrs. Baylock!» chiamò lei di nuovo. Il donnone entrò nella stanza correndo pesantemente. «Signora?» «Lo porti fuori di qui,» ordinò Katherine. «Ma sta solo giocando,» obiettò suo marito. «Ho detto di portarlo fuori!» «Sì signora,» rispose la governante. Prese Damien per mano e lo condusse fuori dalla stanza. Mentre si allontanava, il bambino si girò a guardare la madre, con gli occhi feriti, carichi di tristezza. Thorn vide quello sguardo e si girò a sua volta disperato verso Katherine. Lei continuava a mangiare, cercando di evitare gli occhi di lui. «Perché abbiamo avuto un figlio, Katherine?» «Per la nostra immagine,» rispose lei. «...Cosa hai detto?» «E come avremmo potuto non averlo, Jeremy? Si è mai sentito di una bellissima famiglia senza un bellissimo bambino?» Thorn l'ascoltò in silenzio, sconvolto da quel tono. «Katherine..» «Non è forse vero? Noi non abbiamo mai pensato a che cosa avrebbe significato allevare un figlio. La sola cosa alla quale pensavamo era l'effetto che avrebbero fatto le nostre fotografie nei giornali.» Thorn la fissò sconcertato e la donna gli ricambiò lo sguardo con calma. «È così, non è vero?» domandò. «È questo quello che il dottor Greer fa per te?» «Sì.» «Allora sarà meglio che faccia quattro chiacchiere con lui.» «Sì, sarà meglio. Anche lui ha qualcosa da dirti.» I suoi modi erano freddi e duri. E Thorn istintivamente ebbe paura di ciò che lei avrebbe potuto dirgli. «Di che cosa si tratta?» domandò. «Abbiamo un problema, Jeremy,» rispose lei. «...sì?»
«Non voglio più figli. Mai più.» Thorn la scrutò in volto, in attesa di ciò che ancora doveva venire. «Sei d'accordo?» domandò Katherine. «Se è quello che desideri,» replicò lui. «Allora devi acconsentire all'aborto.» Thorn si sentì gelare. Rimase a bocca aperta. Folgorato. «Sono incinta, Jeremy. L'ho saputo ieri mattina.» Ci fu un lungo silenzio. Il cervello di Thorn girava vorticosamente. «Mi hai sentito?» domandò Katherine. «Ma come è possibile?» sussurrò Thorn. «Il diaframma. Qualche volta non funziona.» «Sei incinta?» domandò lui ancora con voce soffocata. «Da poco.» Thorn era di un pallore grigio, cinereo Gli tremavano le mani mentre fissava la tavola. «Ne hai parlato a qualcuno?» domandò. «Soltanto al dottor Greer.» «Sei sicura?» «Di non volerlo tenere?» «Di essere incinta?» «Sì.» Thorn restò immobile, lo sguardo agghiacciato perduto nel vuoto. Accanto a lui suonò il telefono. Con gesto meccanico sollevò il ricevitore. «Sì?» Rimase in silenzio, non riconoscendo la voce. «Sì, il numero è questo.» Gli occhi si colmarono di stupore ed egli alzò lo sguardo su Katherine. «Che cosa? Chi parla? Hallo! Hallo!» All'altro capo della linea riagganciarono. Thorn sedeva immobile, le pupille dilatate dallo spavento. «Che succede?» domandò Katherine. «Qualcosa a proposito dei giornali...» «Che cosa a proposito dei giornali?» «Qualcuno mi ha chiamato... e ha detto... di 'leggerli', oggi.» Abbassò gli occhi sul quotidiano che teneva davanti ripiegato e lo aprì lentamente. Quando gli occhi gli caddero sulla fotografia in prima pagina si rannicchiò tutto in se stesso come se gli avessero dato un pugno nello stomaco. «Che succede?» domandò Katherine. «Che cosa c'è che non va?» Ma suo marito non era in grado di rispondere e lei gli tolse il giornale di
mano, trovando l'immagine su cui si era fissato il suo sguardo. Era la fotografia di un prete impalato in una sbarra metallica. La didascalia diceva: Prete ucciso in un singolare incidente. Katherine guardò il marito e vide che tremava violentemente; confusa allungò la mano a prendere quella di lui. Era gelata. «Jerry...» Thorn si alzò completamente rigido e cominciò a girare per la stanza. «Lo conoscevi?» domandò Katherine. Ma egli non le rispose mai. Katherine guardò di nuovo la fotografia e poi lesse l'articolo. Nello stesso momento udì la macchina di suo marito mettersi in moto e la vide scomparire lungo il viale. Per Mrs. James Akrewian, insegnante della terza classe nella scuola industriale Bishops, la giornata era cominciata come tutte le altre. Era venerdì e quando iniziò a piovere la signora stava preparando la propria classe alla lezione di lettura. Sebbene la pioggia non entrasse dalle finestre, essa cercò di chiuderle, nell'intento di ridurre il rumore prodotto dal temporale. Si era più volte lamentata per il sistema antiquato di chiusura delle finestre, che non riusciva a chiudere da sola, dovendo ogni volta ricorrere a qualche strumento per raggiungere la parte più esterna. Spesso si serviva di una lunga asta metallica che terminava in un gancio. Non riuscendo a infilare il gancio nell'anello della finestra, spinse il palo in fuori, cercando di agganciare la parte più esterna della finestra stessa per attirarla a sé. Ma a causa del vento l'equilibrio dell'asta metallica era precario, e il palo le sfuggì di mano, cadendo proprio sulla testa di un passante, che con tutta probabilità si era fermato lì sotto per ripararsi dalla pioggia. La polizia non ha ancora rivelato l'identità della vittima, riservandosi di notificare prima la disgrazia alla famiglia, di cui è alla ricerca. Katherine non riusciva a capire che cosa in quella notizia potesse avere tanto sconvolto suo marito. Chiamò al telefono l'ufficio di Thorn all'ambasciata, lasciando detto che telefonasse a casa appena arrivava. Apparentemente egli non arrivò mai in ufficio quella mattina, perché a mezzogiorno la telefonata richiesta non era ancora venuta. Allora Katherine telefonò al dottor Greer, il suo psichiatra, ma il medico era troppo occupato e non poté rispondere al telefono. L'ultima telefonata di Katherine fu quella con l'ospedale, per prendere accordi circa l'aborto.
9. Dopo aver visto la fotografia del prete, Thorn si era diretto verso Londra a tutta velocità, mentre la sua mente lavorava febbrilmente nel tentativo di veder chiaro nella situazione. Katherine era incinta, il prete aveva avuto ragione. Partendo da questo dato di fatto, non poteva continuare ancora a ignorare il resto di ciò che Tassone gli aveva detto. Cercò di ricordare il loro incontro nel parco: i nomi, i luoghi dove Tassone gli aveva detto di andare. Si sforzò di riordinare i suoi pensieri con un po' di calma, di analizzare con cura tutto ciò che era avvenuto, fino all'ultimo colloquio con Katherine e a quella strana telefonata anonima. «Legga i giornali,» aveva detto la voce. Thorn la conosceva, quella voce, ma non riusciva a darle un volto. Chi mai sulla faccia della terra sapeva che egli aveva qualcosa a che fare con quel prete? Il fotografo. Ecco di chi era la voce. Era di Haber Jennings. Giunto all'ambasciata, Thorn si rinchiuse nel proprio studio. Citofonò alla segretaria e le disse di chiamargli al telefono Jennings. La signorina lo fece, ma la segreteria telefonica rispose che Jennings era fuori. Riferì a Thorn, accennando alla risposta ricevuta; Thorn si fece dare il numero e riprovò a chiamare personalmente. La risposta veniva da un nastro su cui era registrata la voce dello stesso Jennings. La riconobbe immediatamente, era la stessa voce che lo aveva chiamato quella mattina. Perché non si era fatto riconoscere? Che strano gioco stava giocando? Poco dopo Thorn fu avvertito che Katherine l'aveva cercato, ma non la richiamò subito. Certamente lei avrebbe voluto parlargli dell'aborto, ed egli non si sentiva ancora pronto a darle una risposta. «Lo ucciderà,» rammentò che il prete aveva detto. «Lo ucciderà mentre ancora riposa nel grembo materno.» Thorn trovò rapidamente il numero telefonico del dottor Greer e gli spiegò che lo doveva vedere con la massima urgenza. La visita di Thorn non fu una sorpresa per Greer; il medico aveva avvertito che lo stato di Katherine si andava rapidamente deteriorando. C'è una sottile linea di demarcazione fra l'ansia e la disperazione, ed egli aveva visto in quegli ultimi giorni la donna varcare parecchie volte quel confine, avanti e indietro. In alcuni momenti lo stato di terrore in cui si trovava sembrava giungere a un punto estremo: lo psichiatra pensò al pericolo che essa tentasse di togliersi la vita. «Nessuno può dire quanto questi terrori vadano in profondità,» disse a Thorn nel suo studio. «Ma francamente, mi sentirei colpevole se non le di-
cessi che temo che sua moglie vada incontro a disturbi mentali molto gravi.» Thorn sedeva tutto teso su una poltrona dall'alto schienale. Il giovane medico camminava avanti e indietro per la stanza, tirando rapide boccate dalla sua pipa nel tentativo di mantenerla accesa. «L'ho già visto accadere altre volte,» disse ancora. «È come un treno. Accumula vapore ininterrottamente.» «Vuol dire che è peggiorata?» domandò Thorn con voce sconvolta. «Diciamo piuttosto che la malattia è in fase di evoluzione.» «E lei non può fare niente in questo momento?» «La vedo due volte la settimana. Penso che abbia bisogno di un'assistenza più intensa.» «Sta dicendomi che è pazza?» «Diciamo che sta vivendo in un suo mondo di fantasie. E le sue fantasie sono terrificanti. Il suo modo di comportarsi è una risposta al terrore delle sue visioni.» «Quali fantasie?» Greer fece una pausa, riflettendo se era o no il caso di approfondire l'argomento. Si abbandonò pesantemente sulla poltrona e vide fissi su di sé gli occhi disperati di Thorn. «Per prima cosa è ossessionata dall'idea che il bambino non sia realmente suo figlio.» Queste parole caddero su Thorn come un fulmine. Restò immobile, come paralizzato, incapace di rispondere. «Francamente io non interpreto questa sua idea tanto come una paura, quanto piuttosto come un desiderio. Inconsciamente non desiderava aver figli. È un modo di rispondere a questo suo desiderio primario, almeno a livello puramente emotivo.» Thorn era sbalordito, incapace di reagire. «Non intendo dire con questo che il bambino non conti per lei,» continuò Greer. «Al contrario, rappresenta la cosa più importante della sua vita. Ma per una strana ragione, lo sente come qualcosa di particolarmente minaccioso. Non saprei ancora dirle se questa paura si riferisce alla maternità in generale ed è legata a uno stato emotivo, oppure nasce semplicemente dalla convinzione di essere inadeguata al suo compito. Incapace di essere una buona madre.» «Ma lei desiderava un bambino,» riuscì a dire Thorn. «Per lei.»
«No...» «Inconsciamente sì. Aveva bisogno di dimostrarsi degna di lei. Come avrebbe potuto farlo meglio che dandole un figlio?» Thorn teneva gli occhi fissi davanti a sé, colmi di disperazione. «Ora si sente incapace di far fronte alla situazione,» continuò Greer, «e quindi cerca inconsciamente una ragione che la sottragga al suo senso di inadeguatezza. Fantastica che il bambino non è suo, che il bambino è un demonio...» «...cosa?» «Si sente incapace di amarlo,» spiegò Greer, «e perciò inventa delle motivazioni che spieghino che non è degno del suo amore.» «Pensa che il bambino sia un demonio?» Thorn era profondamente scosso, la faccia irrigidita dalla paura. «Per lei in questo momento è necessario crederlo,» aggiunse ancora Greer. «Ma il punto più serio è che, in un momento simile, un altro figlio sarebbe disastroso.» «Come... un demonio?» «Ma questa è semplicemente una fantasia. Esattamente come l'idea che il bambino non sia suo.» Thorn respirò profondamente, lottando per dominare una sensazione di nausea. «Non c'è ragione di disperare,» assicurò Greer. «Dottore...» «Sì?» Thorn non riuscì a continuare e i due stettero in silenzio guardandosi attraverso la stanza. «Voleva dirmi qualcosa?» domandò Greer. La sua espressione era profondamente preoccupata: l'uomo che gli stava davanti era chiaramente in preda all'angoscia. «Mr. Thorn? Si sente bene?» «Sono spaventato,» sussurrò Thorn. «Certo che è spaventato.» «Voglio dire... ho paura.» «Ma questo è più che naturale.» «Sta accadendo qualcosa... di terribile.» «Sì. Ma entrambi supererete la crisi.» «Lei non capisce.» «Certo che capisco.»
«No.» «Mi creda, la capisco.» Thorn, sul punto di scoppiare a piangere, abbassò la testa e se la strinse fra le mani. «Lei è stato sottoposto a una grave tensione, Mr. Thorn. Più di quanto lei stesso non creda.» «Non so che cosa fare,» gemette Thorn. «Per prima cosa deve acconsentire all'aborto.» Thorn sollevò gli occhi con fermezza a incontrare quelli di Greer. «No,» esclamò. Lo psichiatra rimase stupito. «Se è una questione di princìpi religiosi...» «No.» «Certamente lei vedrà la necessità in questo momento...» «Non voglio,» replicò Thorn in tono risoluto. «Ma deve.» «No.» Greer si appoggiò allo schienale della sua poltrona, fissando l'ambasciatore con aria profondamente turbata. «Vorrei sapere per quali ragioni,» disse a voce bassa. Thorn continuava a fissarlo senza parlare. Infine disse: «Mi è stato predetto che questa gravidanza sarebbe stata interrotta, e ho intenzione di lottare per far sì che ciò non si avveri.» Il medico lo fissava, sconcertato e preoccupato al tempo stesso. «Lo so che effetto le devono fare le mie parole,» disse Thorn. «E può anche darsi che io sia... pazzo.» «Perché dice questo?» Thorn lo guardò e parlò con la mascella tesa. «Perché questa gravidanza deve continuare, per impedirmi di credere...» «Credere...?» «Ciò che crede mia moglie. Che il bambino è...» La parola gli si fermò in gola ed egli si alzò, colto da una sensazione improvvisa di fretta. Un presentimento si era impossessato di lui. Temeva che stesse per accadere qualcosa. «Mr. Thorn?» «Mi perdoni...» «Si sieda, per favore.» Scuotendo bruscamente il capo, Thorn uscì dalla stanza e si precipitò per le scale. Quando fu sulla strada, si mise a correre, cercando disperatamente
le chiavi mentre si dirigeva verso la macchina. C'era qualcosa che non andava. Doveva correre a casa. Premette con forza sull'acceleratore e fece compiere all'automobile una curva secca; le gomme stridettero e la vettura puntò a tutta velocità verso l'autostrada. Pereford era a mezz'ora di distanza, ma Thorn, senza sapere perché, temeva di non arrivare in tempo. Le strade di Londra erano intasate dal traffico di mezzogiorno; si attaccò al clacson, facendo sorpassi folli e ignorando i semafori. La disperazione si era ormai impossessata di lui. A Pereford House, Katherine era anch'essa in preda all'ansia, e si era dedicata ai compiti domestici nella speranza di far tacere le paure che la angosciavano. Adesso si trovava sul pianerottolo del secondo piano; teneva un innaffiatoio in mano e si chiedeva come avrebbe potuto arrivare alle piante che pendevano dalla ringhiera delle scale sopra il vestibolo, senza che l'acqua sgocciolasse di sotto. Dietro a lei, nella stanza dei giochi, Damien correva sulla sua automobilina, facendo il fracasso di un treno, un rumore che si intensificava mano mano che egli fingeva di aumentare la velocità. Non vista da Katherine, la signora Baylock era in piedi in un angolo della stanza del bambino, con gli occhi chiusi, come raccolta in preghiera. Sull'autostrada, i pneumatici gemettero paurosamente quando Thorn svoltò nello svincolo che immetteva nella M-40, la strada che conduceva direttamente a Pereford. La faccia di Thorn era irrigidita dalla tensione, le mani aggrappate al volante, mentre l'asfalto si dileguava sotto di lui. Il suo corpo era tutto buttato in avanti, quasi a sospingere il veicolo con ogni fibra. Arrivò giù dall'autostrada con la velocità di un fulmine, sibilando. Teneva una mano schiacciata sul clacson, e si lasciava dietro tutte le macchine che incontrava come fossero ferme. Di colpo pensò alla polizia stradale, e guardò nello specchietto retrovisore. E vide una forma sinistra che si muoveva dietro di lui e stava guadagnando terreno. Era un'altra macchina, nera e massiccia, che seguiva la sua in ogni movimento. Un carro funebre! Thorn lo vide avvicinarsi, avvicinarsi sempre di più e si sentì gelare dallo spavento. A Pereford, intanto, Damien correva sempre più forte con la sua automobilina, puntando in avanti come se stesse conducendo una corsa. Sul pianerottolo Katherine salì su uno sgabello per arrivare alle piante. Nella stanza di Damien, Mrs. Baylock fissava con occhi spiritati il bambino, come se volesse indurlo con la sola forza di una muta volontà a correre sem-
pre più forte, e il bambino infatti accelerò ancora. I suoi occhi erano sbarrati, la sua faccia segnata da una luce di frenesia. Nella sua macchina Thorn ansimava per lo sforzo, premendo al massimo l'acceleratore. Il carro funebre continuava a guadagnare terreno; si vedeva la faccia del conducente fissa in avanti, in una smorfia gelida. Il tachimetro aveva ormai toccato il massimo, ma la macchina sembrò aumentare ancora di velocità. Il carro funebre tuttavia si avvicinava sempre più, Thorn, con il cuore in gola, si rese conto che ogni buon senso lo aveva abbandonato, ma era incapace di controllarsi. Non poteva lasciare che «quel» veicolo lo superasse. Il motore della sua auto urlava in tutte le fibre, ma il carro funebre era sempre più vicino. Ora si spostava al centro della carreggiata per sorpassarlo. «No...» gemette Thorn, «no!» Le due macchine continuarono a volare così sull'asfalto, mentre il carro funebre, implacabile, avanzava. Thorn si chinò sul volante, ma l'altro lo stava ormai superando, lo oltrepassava. Dentro al cassone, una bara oscillava leggermente. In casa Thorn, Damien accelerò sempre più. La macchinina sbandava furiosamente urtando ogni cosa nella stanza. Nel frattempo fuori, sul grande pianerottolo, Katherine si sporgeva dal suo sgabello. Sull'autostrada il carro funebre accelerò ancora di colpo, lasciando indietro Thorn. L'uomo lanciò un grido agghiacciante. In quello stesso istante Damien con la sua auto uscì dalla camera e andò a sbattere contro lo sgabello su cui si trovava Katherine. La donna precipitò urlando. Rimase per una frazione di secondo sospesa, cercando disperatamente di aggrapparsi alla ringhiera della balconata. Poi si afferrò a un vaso tondo di pesci rossi che cadde con lei. Il suo urlo si spense in un tonfo violento e la coppa dei pesci rossi si infranse sul pavimento del vestibolo un secondo dopo, esplodendo in una miriade di frammenti scintillanti. Katherine giacque così, in silenzio. Immobile. Un delicato pesciolino rosso guizzava ancora sulle fredde piastrelle accanto a lei. Quando Thorn arrivò all'ospedale, la schiera dei reporter era già lì. Urlavano domande e gli scattavano flash impietosi negli occhi, mentre l'uomo cercava disperatamente di farsi strada verso una porta con la scritta Pronto Soccorso. Quando era arrivato a casa aveva trovato Mrs. Baylock in preda a una crisi isterica; la donna gli aveva detto che Katherine era caduta ed era stata portata al City Hospital con un'ambulanza. «Ci può dire qualcosa sulle sue condizioni, Mr. Thorn?» gridò un croni-
sta. «Toglietevi dai piedi.» «Hanno detto che è caduta.» «Come sta?» Si fece strada attraverso una doppia porta. Le voci dei giornalisti si spegnevano dietro di lui, mentre varcava di corsa l'ingresso. «L'ambasciatore Thorn?» «Sono io.» Un medico gli si fece premurosamente incontro. «Mi chiamo Becker,» disse. «Come sta?» domandò Thorn disperato. «Guarirà. Ha subito un brutto colpo. Commozione cerebrale, una frattura della clavicola e qualche emorragia interna.» «È incinta.» «Temo di no.» «Ha perso il bambino?» disse con voce soffocata. «Sul pavimento dove è caduta. Volevo esaminare il feto, ma a quanto pare la servitù aveva già lavato via tutto quando io sono arrivato.» Thorn rabbrividì e si appoggiò sfinito al muro. «Naturalmente manterremo il massimo riserbo sull'accaduto,» continuò il medico. «Quanta meno gente lo sa, tanto meglio è.» Thorn lo fissò senza capire. Il medico parve confuso. «Ma lei lo sa, vero, che si è buttata?» disse. «...buttata?» «Dalla balconata del secondo piano. A quanto pare davanti agli occhi del bambino e della governante.» Thorn rimase a fissarlo stordito. Poi girò la testa verso il muro. E dal tremito delle sue spalle il dottore capì che stava piangendo. «In questi casi di solito è sempre la testa che batte prima a terra. Quindi, in un certo senso lei può considerarsi fortunato.» Thorn annuì, cercando di ricacciare indietro le lacrime. «Non c'è motivo di piangere,» aggiunse il medico. «Anzi, c'è proprio da rallegrarsi. Sua moglie è viva, e con cure appropriate, probabilmente non ci riproverà più. Anche mia cognata ha fatto un tentativo di suicidio. È entrata nella vasca da bagno portando con sé il tostapane elettrico. Poi ha attaccato la spina ed è quasi rimasta fulminata.» Thorn si voltò a fissarlo. «Ebbene se l'è cavata e non ci ha più riprovato. Sono già passati quattro
anni, e non ha più avuto disturbi.» «Dov'è ora?» domandò Thorn. «Vive in Svizzera.» «Mia moglie.» «Camera 4A. Dovrebbe riprendere conoscenza fra poco.» La camera di Katherine era buia e silenziosa. Un'infermiera sedeva in un angolo con una rivista in mano. Thorn si fermò accanto alla porta, la faccia paralizzata dallo choc. L'aspetto di Katherine era davvero impressionante. Il viso era gonfio, di un pallore cadaverico; dal braccio saliva il tubicino collegato al flacone del plasma. L'altro braccio era chiuso nel gesso, ripiegato in una posizione grottesca. Sembrava ancora sotto l'effetto dell'anestesia, priva di vita. «Dorme,» sussurrò l'infermiera. Thorn si diresse a passo rigido verso il letto. Come se avesse avvertito la presenza del marito Katherine emise un gemito e mosse leggermente la testa. «Soffre?» domandò Thorn con voce tremante. «È ancora sotto l'effetto del pentotal,» rispose l'infermiera. Thorn si sedette accanto al letto, posò la fronte sulle coperte e pianse. Dopo qualche momento sentì la mano di Katherine che gli sfiorava la testa. «Jerry...» sussurrò. Egli alzò la testa e vide che si sforzava di aprire gli occhi. «Kathy...» gemette fra le lacrime. «Non permettere che mi uccida.» Poi richiuse gli occhi e si addormentò. Thorn rientrò a casa dopo mezzanotte e rimase a lungo nel buio dell'anticamera, fissando il punto del pavimento dove Katherine era caduta. Si sentiva intorpidito, esausto e con un gran bisogno di dormire, di cadere in un oblio che gli cancellasse misericordiosamente dalla mente l'agonia di quella tremenda giornata. La loro vita era completamente mutata, definitivamente forse. Come se vivessero sotto una maledizione. Thorn spense le luci del vestibolo e restò per un momento nell'oscurità. Poi salì fino al secondo pianerottolo. Tentò di immaginare Katherine, mentre meditava di gettarsi nel vuoto. Perché, se aveva veramente deciso di mettere fine alla sua vita, non era salita sul tetto? In casa c'erano medicinali, sonniferi, c'erano lame da barba, almeno una dozzina di altri mezzi per farlo, se proprio lo voleva. Perché aveva scelto di buttarsi? E perché proprio di fronte a Damien e a Mrs. Baylock?
Ripensò al prete e alle sue parole di ammonimento. «Ucciderà la creatura non ancora nata mentre ancora riposa nel grembo materno. Poi ucciderà sua moglie. E poi, quando sarà certo di ereditare tutte le sue sostanze...» Chiuse gli occhi, cercando di allontanare quel pensiero dalla mente. Pensò a Tassone morto impalato, alla chiamata telefonica di Jennings, al panico irragionevole che lo aveva preso quando il carro funebre lo aveva sorpassato sull'autostrada. Lo psichiatra aveva ragione. Era in uno stato di angoscia patologica e il suo comportamento lo dimostrava. Evidentemente le paure di Katherine si erano estese anche a lui; le sue fantasie dovevano essere contagiose. No, non poteva più permettere che questo avvenisse, doveva cercare di mantenere la mente lucida, conservare un comportamento razionale. Era sfinito dalla stanchezza. Si diresse verso la sua camera. Avrebbe dormito e l'indomani si sarebbe svegliato riposato, con nuove energie, pronto ad affrontare la situazione. Quando fu sulla soglia, si fermò a guardare la sottile striscia di luce debolissima che filtrava di sotto la porta della camera di Damien. Immaginò il volto del bambino immerso nella pacifica innocenza del sonno. Provò un gran desiderio di vederlo e si diresse lentamente verso la stanza del piccolo, cercando qualcosa di rassicurante, qualcosa che lo confortasse, che gli dicesse che non c'era nulla di cui avere paura. Ma quando aprì la porta, la scena che gli si presentò allo sguardo lo fece rabbrividire. Il bambino dormiva, ma non era solo. Da una parte del letto stava seduta Mrs. Baylock, a braccia conserte e con lo sguardo perso nel vuoto, dall'altra parte si distingueva chiaramente la forma massiccia di un grosso cane. Era lo stesso animale ch'egli aveva ordinato alla donna di allontanare, ma adesso la bestia era tornata e stava seduta accanto al letto del bambino con le orecchie tese, come se fosse lì per fare la guardia al sonno di suo figlio. Sentendosi mancare il respiro, Thorn richiuse silenziosamente la porta e tornò indietro, finché trovò la porta della sua camera. Restò lì immobile, tentando di placare il respiro affannoso. Si rese conto che stava tremando. Improvvisamente il silenzio fu lacerato dal suono stridulo del telefono. Thorn si accostò al tavolino accanto al letto e sollevò il ricevitore. «Hallo...» «Qui parla Jennings,» disse una voce. «Si ricorda, quel fotografo al quale lei ha rotto la macchina fotografica...» «Sì.» «Sto all'angolo di Grosvernor, a Chelsea, e credo che lei farebbe bene a
venire subito.» «Che cosa vuole da me?» «Sta succedendo qualcosa, Mr. Thorn. Qualcosa che lei dovrebbe sapere.» L'appartamento di Jennings era in un quartiere povero di Chelsea e Thorn faticò a trovarlo. Pioveva, la visibilità era molto scarsa e alla fine stava quasi per rinunciare all'impresa quando vide il bagliore di una luce rossastra venire dalla vetrata di un lucernario, piuttosto alto sopra la strada. Jennings era alla finestra e gli faceva grandi cenni con la mano, poi si ritirò, rendendosi conto che avrebbe dovuto ripulire un po' la stanza prima di ricevere un ospite così importante. Diede un calcio a un ammasso di vestiti e li fece sparire in un ripostiglio, poi lisciò un poco la coperta che copriva il suo letto e infine aprì la porta e aspettò che Thorn arrivasse. Finalmente l'ambasciatore comparve, con il fiato corto per le cinque rampe di scale che aveva dovuto salire. «Ho un po' di cognac, se lo desidera.» «Grazie.» «Non certo della qualità alla quale lei è abituato, temo.» Jennings richiuse la porta e sparì in un'alcova, mentre Thorn girava intorno gli occhi e studiava la stanza immersa nella penombra. L'unica luce era un riflesso rossastro proveniente da uno sgabuzzino che serviva da camera oscura. La porta era aperta e le pareti dello stanzino erano letteralmente tappezzate di fotografie e di negativi. «Ecco qua,» esclamò Jennings, rientrando con una bottiglia e due bicchieri. «Un po' di questo e lei sarà pronto ad affrontare i turchi.» Thorn prese il bicchiere e Jennings versò il cognac; poi il fotografo si sedette sul letto e indicò all'ospite una montagna di cuscini, ma Thorn rimase in piedi. «Alla salute,» augurò Jennings. «Una sigaretta?» Thorn scosse la testa, irritato dalle maniere disinvolte del giovanotto. «Mi ha detto che stava accadendo qualcosa.» «Precisamente.» «Vorrei sapere di che si tratta.» «Non lo sa già?» «No, non lo so.» «Perché è qui, allora?» «Lei non si è spiegato molto al telefono.»
Jennings annuì e posò il suo bicchiere. «Non potevo spiegarglielo perché si tratta di qualcosa che lei deve vedere.» «Di che si tratta?» «Sono fotografie.» Si alzò ed entrò nella camera oscura, facendo cenno a Thorn di seguirlo. «Pensavo che lei volesse prima fare quattro chiacchiere.» «Sono molto stanco.» «Bene, questo le farà passare di colpo la stanchezza.» Accese una piccola lampada, illuminando una serie di fotografie; Thorn entrò nel bugigattolo e si sedette su uno sgabello accanto al fotografo. «Le riconosce?» Erano le fotografie della festa per il quarto compleanno di Damien: bambini che cavalcavano sulle giostre, Katherine che fissava gli occhi nella folla. «Sì,» rispose Thorn. «Dia un'occhiata a questa.» Jennings mise da parte le prime foto e gliene fece vedere una di Chessa, la prima governante di Damien. La ragazza era sola, nel suo costume da clown, fotografata sullo sfondo della facciata della villa. «Non scorge nulla di strano?» domandò Jennings. «No.» Jennings passò leggermente un dito sulla fotografia, seguendo la traccia di un vago alone fra il collo e la testa della ragazza. «Sulle prime ho creduto che fosse un difetto dello sviluppo,» spiegò Jennings. «Ma guardi che cosa succede in quest'altra.» Estrasse dal mucchio una foto di Chessa che penzolava dal tetto. «Non capisco,» disse Thorn. «Un momento di pazienza.» Jennings mise in disparte quel gruppo di foto e ne prese un altro. La prima era la fotografia di un piccolo prete, Tassone, che scendeva i gradini dell'ambasciata. «Che ne dice di questa?» Thorn si volse verso di lui con aria sgomenta. «Come l'ha avuta?» «L'ho fatta io!» «Pensavo che lei stesse cercando quest'uomo. Aveva detto che si trattava di un suo parente.»
«Ho mentito. Ma ora guardi questa foto.» Jennings di nuovo pose il dito sulla fotografia, indicando quella specie di aureola che pareva sospesa sopra la testa del prete. «Quest'ombra sopra la testa?» domandò Thorn. «Sì. E ora guardi questa. Presa circa dieci giorni più tardi.» Afferrò un'altra fotografia e la mise sotto la luce. Era un gruppo di persone raccolte in fondo alla sala dove Thorn aveva tenuto la sua conferenza. La faccia di Tassone non si vedeva, si distingueva la veste talare, ma sopra il punto dove doveva esserci la testa, si distingueva chiaramente la stessa ombra oblunga sospesa nell'aria. «Immagino che si tratti della stessa persona. Non si vede la faccia, ma si nota molto evidente quello che c'è sopra.» Thorn studiò l'immagine, con occhi increduli e sgomenti. «Questa volta il segno è più pronunciato,» continuò Jennings. «Se lei calcola le proporzioni del viso, si rende conto che l'ombra si è abbassata rispetto alle altre fotografie, qui sfiora quasi la testa. Nei dieci giorni trascorsi dalla prima foto, si è decisamente avvicinata, insomma.» Thorn se ne stava lì a guardare, smarrito; Jennings tolse la foto e la rimpiazzò con quella che era apparsa sulla prima pagina di tutti i giornali; il prete impalato da un'asta metallica simile a una lancia. «Comincia a vedere il rapporto?» domandò Jennings. Thorn era stordito. Alle loro spalle il ticchettio di un contaminuti si arrestò e Jennings accese un'altra luce, voltandosi a incontrare lo sguardo turbato di Thorn. «Non riesco a spiegarmelo neppure io,» disse Jennings. «Per questo ho cominciato a indagare.» Prese un paio di molle a forbice, si volse verso una bacinella e ne tirò fuori un ingrandimento, che sventolò un poco per farlo asciugare. Poi lo mise sotto la luce. «Ho degli amici alla polizia. Mi hanno dato alcuni negativi e ne ho fatto un ingrandimento. Il rapporto del coroner dice che l'uomo era malato di cancro, all'ultimo stadio. Sotto morfina la maggior parte del tempo, si faceva da sé le iniezioni due, tre volte al giorno.» Quando gli occhi di Thorn caddero sull'ingrandimento, trasalì. La fotografia era divisa in tre settori separati, ciascuno con una posa diversa del cadavere. «Esternamente il corpo era del tutto normale,» spiegò Jennings. «Tranne un piccolo particolare nella parte interna della coscia sinistra.»
Porse a Thorn una lente di ingrandimento e gli guidò la mano verso l'ultima delle tre immagini. Il cadavere nudo del prete era in una posa grottesca, a gambe larghe, i genitali in primo piano, l'interno delle cosce ben visibile. Thorn guardò attentamente e vide il marchio. Pareva un tatuaggio. «Che cos'è?» domandò. «Tre sei. Seicentosessantasei.» «...Campo di concentramento?» «È quello che ho pensato anch'io al primo momento, ma una biopsia ha dimostrato che il marchio era profondamente inciso nella carne. Non era così che lavoravano nei campi di concentramento. Questo doveva esserselo fatto da solo, immagino.» Thorn e Jennings si scambiarono un'occhiata. Thorn era senza fiato. «Mi segua ancora un momento,» riprese Jennings, e mise sotto la luce un'altra fotografia. «Questa è la stanza dove viveva. Un modesto appartamentino di Soho. Pieno di topi quando ci arrivammo. Sulla tavola c'era ancora della carne salata appena cominciata.» Thorn studiò la fotografia. Era uno stretto cubicolo con soltanto un tavolo, un letto e uno scrittoio. Le pareti erano letteralmente tappezzate da strane strisce di carta spiegazzata. Dappertutto erano appese grosse croci. «Tutta la stanza era ridotta così. I fogli di carta che ricoprono le pareti sono pagine della Bibbia. Migliaia e migliaia di fogli. Ogni centimetro di muro tappezzato così, persino le finestre. Come se in quel modo tentasse di tener fuori qualcosa.» Thorn sedeva al suo posto, esterrefatto, fissando quell'incredibile fotografia. «E anche croci. Ce n'erano quarantasette soltanto inchiodate dietro la porta.» «Ma... era pazzo?» sussurrò Thorn. Jennings lo guardò dritto negli occhi. «Lei sa meglio di me che cos'era.» Jennings si voltò sul suo seggiolino girevole e aprì un cassetto e ne estrasse una cartelletta a brandelli. «La polizia lo ha liquidato come un povero pazzo,» spiegò. «Così mi hanno lasciato frugare in pace fra le sue cose e prendere ciò che volevo. Guardi che cosa ho trovato.» Si alzò e passò nell'altra stanza. Thorn lo seguì. Qui Jennings sollevò la cartelletta e ne rovesciò il contenuto sulla tavola. «La prima cosa è un diario,» disse agitando un quadernetto strappato.
«Non parla di lui, bensì di lei, signore. Ci sono annotati tutti i suoi movimenti. A che ora lei lasciava il suo ufficio all'ambasciata, dove andava, quali ristoranti frequentava, dove teneva le sue conferenze.» «Posso vederlo?» «Si accomodi.» Thorn lo prese con mani tremanti e lentamente sfogliò le pagine. «L'ultima annotazione dice che aveva un appuntamento con lui,» continuò Jennings. «A Kew Gardens. La data è la stessa del giorno in cui è morto. Immagino che la polizia avrebbe preso più a cuore la faccenda se avesse conosciuto questo particolare.» Thorn alzò gli occhi e i due uomini si fissarono. «Era pazzo,» disse Thorn. «Crede?» Il tono di Jennings era minaccioso e Thorn si irrigidì sotto quello sguardo che non lo abbandonava un attimo. «Cosa vuole da me?» «Si è incontrato con lui?» «No.» «Ho altre informazioni, signor ambasciatore, ma non gliele darò fino a quando lei non mi dirà la verità.» «Ma cosa interessa a lei di questa faccenda?» sibilò fra i denti l'ambasciatore. «Voglio esserle utile,» rispose il fotografo. «Sono suo amico.» Thorn rimase immobile, tenendo gli occhi fissi sul giovane che aveva di fronte. «Le cose veramente importanti sono tutte qui,» disse ancora Jennings, additando la tavola. «Desidera parlare o preferisce andarsene?» Thorn strinse i denti. «Cosa vuol sapere?» «Lo ha incontrato nel parco?» «Sì.» «Che cosa le ha detto?» «Mi ha messo in guardia.» «Da che cosa?» «Mi ha detto che la mia vita era in pericolo.» «Che genere di pericolo?» «Non è stato chiaro su questo.» «Non cerchi di imbrogliarmi.»
«Non la sto imbrogliando. Diceva cose senza senso.» Jennings arretrò di un passo, fissando Thorn con occhi dubbiosi. «Era qualcosa sulla Bibbia,» disse ancora Thorn. «Erano dei versi. Non li ricordo. Ho pensato che fosse pazzo. Non riuscivo a capire cosa diceva. Le sto dicendo la verità. Non lo ricordo, e non sono stato in grado di capire!» Jennings parve piuttosto scettico, mentre Thorn si agitava irrequieto sotto il suo sguardo. «Penso che lei dovrebbe confidarsi con me,» disse Jennings. «Lei ha detto di avere altre informazioni.» «Non fino a quando non ne saprò di più.» «Non ho altro da dirle.» Jennings annuì, con l'atteggiamento di chi smette di lottare. Frugò fra le carte che ricoprivano la tavola, accese una lampadina che pendeva nuda dal soffitto e alla fine trovò un pezzo di giornale. Lo porse a Thorn. «È ritagliato da una rivista che si chiama Astrologer's Monthly. La descrizione fatta da un astrologo di ciò ch'egli chiama un 'fenomeno insolito'. Una cometa che ha assunto la forma di una stella. Come la stella di Betlemme, duemila armi fa.» Thorn esaminò l'articolo, asciugandosi il sudore che gli si formava sul labbro superiore. «Soltanto che questa si è manifestata in un'altra parte del globo,» proseguì Jennings. «Sul continente europeo. Esattamente quattro anni fa. Il sei giugno, per essere esatti. Questa data le dice qualcosa?» «Sì,» rispose Thorn con voce rauca. «Allora riconoscerà anche quest'altro pezzetto di carta,» replicò Jennings, sollevando un secondo ritaglio di giornale. «È preso dall'ultima pagina di un giornale romano.» Thorn lo riconobbe immediatamente. Katherine ne aveva una copia a casa, in un album. «È l'annuncio della nascita di suo figlio. Anche questo è del sei giugno di quattro anni fa. Io la chiamerei una coincidenza, non le pare?» Adesso le mani di Thorn tremavano. Il foglio di carta gli ballava davanti agli occhi tanto che non riusciva a leggere. «Suo figlio è nato alle sei del mattino?» Thorn si girò verso di lui. I suoi occhi erano pieni di muta angoscia. «Sto cercando di capire che cosa significava il marchio sulla gamba del prete. Tre sei. Penso che si riferisca a suo figlio. Il sesto mese, il sesto
giorno...» «Mio figlio è morto,» esplose Thorn. «Mio figlio è morto. Non so di chi è il figlio che sto allevando!» Si strinse la testa fra le mani e si volse verso la parte della stanza in penombra. Il suo respiro era divenuto faticoso. Jennings lo osservava. «Se non le dispiace, Mr. Thorn,» disse il fotografo a voce bassa, «vorrei cercare di aiutarla a scoprire la verità.» «No. Questo è un mio problema,» gemette Thorn. «Lei si sbaglia, signore,» rispose cupo Jennings. «È un problema anche mio.» Thorn si volse verso di lui e incontrò il suo sguardo. Lentamente Jennings andò nella camera oscura e ne ricomparve con un'altra fotografia in mano. La porse a Thorn. «Nella stanza del prete, in un angolo, c'era un piccolo specchio,» cominciò a spiegare Jennings, parlando con una certa difficoltà. «Casualmente vi sono rimasto riflesso mentre scattavo una di queste fotografie.» Gli occhi di Thorn si posarono sulla foto e il suo viso registrò chiaramente lo choc. «Un effetto piuttosto inconsueto, non le pare?» esclamò Jennings. Avvicinò la lampadina perché Thorn potesse vedere meglio. Lì, nella fotografia della stanza di Tassone, in un piccolo specchio nell'angolo più lontano della cameretta, c'era l'immagine di Jennings con la macchina fotografica davanti alla faccia. Fin qui niente di speciale. Non era così straordinario che un fotografo riprendesse la propria immagine su uno specchio mentre scattava una fotografia. Ma in questo caso mancava qualcosa. Era il collo di Jennings: la testa appariva separata dal corpo da un alone di forma oblunga. 10. L'indomani la notizia dell'incidente di Katherine rese più facile a Thorn liberarsi dai suoi impegni d'ufEcio per qualche giorno. Ai suoi collaboratori disse che andava a Roma a consultare uno specialista traumatologo per la moglie; in realtà la ragione del suo viaggio era molto diversa. Aveva finito col raccontare ogni cosa a Jennings e costui era riuscito a convincerlo che bisognava risalire alle origini di quella storia, ritornare all'ospedale dove era nato Damien. Là avrebbero potuto cominciare a mettere insieme i pezzi di quello che appariva sempre di più come un enorme rompicapo.
Il viaggio venne organizzato molto rapidamente, senza pubblicità. Thorn affittò un jet privato, in modo da decollare da Londra e atterrare a Roma su piste chiuse al pubblico. Nelle ore precedenti la partenza, Jennings si diede da fare per raccogliere il materiale che riteneva necessario alle loro ricerche: svariate versioni della Bibbia e tre libri di occultismo. Thorn rientrò a Pereford per prendere un piccolo bagaglio, al quale aggiunse un cappello che doveva servire a celare la sua identità. A Pereford regnava un'insolita quiete. Girando per la casa deserta, Thorn si accorse che la signora Horton era introvabile. Anche suo marito non si vedeva; le macchine erano tutte ben allineate nel garage, una accanto all'altra, come se fossero state messe a riposo. «Se ne sono andati entrambi,» disse la signora Baylock quando Thorn entrò in cucina. «Sono usciti?» domandò lui. «No, andati. Hanno preso le loro valigie e se ne sono andati. Hanno lasciato un indirizzo perché lei possa inviare loro l'ultimo mese di stipendio.» Thorn ne rimase molto scosso. «Ma non hanno detto perché?» domandò. «Non importa, signore. Io posso arrangiarmi da sola.» «Ma devono pur aver dato una spiegazione, un motivo per andarsene così all'improvviso.» «Non a me, signore. Non mi hanno detto nulla. Ma per la verità non hanno mai parlato granché con me. È stato il marito che ha insistito per andarsene. Penso che la signora Horton desiderasse rimanere.» Thorn la fissò con occhi turbati. Il pensiero di lasciarla sola in quella casa con Damien lo spaventava. Ma non c'era altra soluzione possibile in quel momento. Lui doveva partire. «Lei può cavarsela qui per qualche giorno, mentre io sono .via?» «Penso di sì, signore. Abbiamo in casa provviste per un paio di settimane e credo che il bambino sarà contento della pace e della tranquillità della casa.» Thorn annuì e fece per andarsene. «Mrs. Baylock?» domandò. «Signore?» «Quel cane.» «Oh, lo so, se ne andrà prima di sera.» «Perché è ancora qui?»
«Lo abbiamo portato fuori, in campagna e lo abbiamo lasciato andare, ma ha trovato la strada ed è ritornato. Era sulla porta ieri sera, dopo... 'l'incidente'. Il bambino era piuttosto scosso e ha chiesto di poterlo tenere in camera sua. Gli ho detto che lei non voleva, ma date la circostanze ho pensato...» «Voglio che sparisca da questa casa.» «Bene, signore. Chiamerò il canile municipale oggi stesso.» Thorn si volse per andarsene. «Mr. Thorn?» «Sì?» «Come sta sua moglie?» «Va migliorando.» «Quando lei sarà partito, potrei portare il bambino a trovarla?» «Preferirei di no. Glielo porterò io, al mio ritorno.» «Benissimo, signore.» Si fecero un cenno di saluto e Thorn uscì, prese la sua macchina e andò direttamente all'ospedale. Lì parlò con il dottor Becker che lo informò che Katherine era sveglia e si sentiva molto più distesa. Il medico domandò se poteva far venire uno psichiatra e Thorn gli diede il numero telefonico del dottor Greer. Poi si recò nella camera della moglie. La donna sorrise debolmente vedendolo. «Ciao,» disse lui. «Ciao,» sussurrò Katherine. «Ti senti meglio?» «Abbastanza.» «Mi dicono che stai facendo progressi.» «Ne sono certa.» Thorn prese una sedia e si sistemò accanto al letto. Era colpito dalla sua bellezza, persino in quelle condizioni. Il sole che entrava dalla finestra le illuminava dolcemente i capelli. «Hai uno sguardo dolce,» disse Katherine. «Stavo pensando a te,» rispose il marito. «Devo sembrare proprio un fantasma.» Egli le prese una mano e la tenne fra le sue. Rimasero così a fissarsi negli occhi. «Tempi strani,» mormorò lei con dolcezza. «Sì.» «Pensi che tutto tornerà ad andar bene?»
«Certo che lo penso.» Katherine sorrise tristemente ed egli allungò una mano per scostare una ciocca di capelli che le era ricaduta sulla fronte. «Noi siamo brava gente, vero, Jeremy?» domandò Katherine. «Penso di sì.» «E allora perché ci va tutto male?» Thorn scosse la testa, incapace di trovare una risposta. «Se fossimo persone cattive,» continuò lei sospirando, «allora direi va bene, è quello che ci meritiamo. Ma che cosa abbiamo fatto di male? Che cosa mai abbiamo fatto di male?» «Non lo so,» rispose Thorn con voce rauca. Sembrava così vulnerabile e innocente, che egli si sentì sopraffare dalla commozione. «Ora sarai al sicuro,» le sussurrò. «Qui sei al sicuro. Io mi devo allontanare per qualche giorno.» Katherine non reagì alla notizia. Non gli domandò neppure dove doveva andare. «È un viaggio di lavoro,» annunciò lui. «Una cosa che non posso rimandare.» «Quanto tempo starai via?» «Tre giorni. Ti telefonerò ogni giorno.» Katherine annuì ed egli si alzò lentamente, piegandosi su di lei per baciarla con dolcezza sulla guancia pallida, segnata dalle contusioni. «Jerry?» «Sì?» «Mi hanno detto che mi sono buttata.» Alzò gli occhi su di lui. Occhi perplessi e colmi di un infantile candore. «È quello che hanno detto anche a te?» domandò. «Sì.» «Ma perché avrei dovuto farlo?» «Non lo so,» sussurrò Thorn. «È quello che dovremo cercare di scoprire.» «Sono pazza?» domandò la donna con semplicità. Thorn la guardò negli occhi e poi scosse lentamente la testa. «Forse lo siamo tutti,» rispose. Lei si sollevò ed egli sì chinò nuovamente, accostando il suo viso a quello di lei. «Non mi sono buttata,» sussurrò Katherine. «È stato Damien a spinger-
mi.» Restarono a lungo in silenzio, poi Thorn si alzò e lentamente uscì dalla stanza. Il piccolo Lear-Jet a sei posti aveva due soli passeggeri. Thorn e Jennings, e quando puntò verso il cielo che si andava oscurando, sulla rotta di Roma, l'atmosfera all'interno dell'apparecchio era silenziosa e carica di tensione. Jennings si era sparso intorno i libri che voleva consultare per le sue ricerche e incitava Thorn a rammentare tutto quello che gli aveva detto Tassone. «Non ci riesco,» rispose l'uomo angosciato. «Sono confuso, ho la mente completamente annebbiata.» «Cerchi di cominciare dal principio. Mi dica tutto quello che può.» Thorn ripeté il racconto del suo primo incontro con il prete e come poi il prete lo aveva seguito, riuscendo finalmente a bloccarlo e a dargli quell'appuntamento nel parco. Era stato in occasione di quell'incontro, il loro secondo incontro, che aveva recitato quei versi. «Qualcosa a proposito di... levarsi dal mare...» Thorn borbottava fra sé, cercando di ricordare: «...della morte... e degli eserciti... e l'impero romano...» «Dovrà cercare di ricordare più chiaramente.» «Ero molto scosso. Pensavo che fosse pazzo! Non l'ho ascoltato con molta attenzione.» «Ma ha ascoltato. Ha sentito. Lei ha la chiave di tutto, cerchi di sputarla!» «Non ce la faccio!» «Si sforzi!» Thorn aveva la faccia sconvolta dall'impotenza. Richiuse gli occhi, sforzandosi di spingere la mente in una direzione che essa non voleva prendere. «Ricordo... che mi pregò di fare la Comunione. Beva il sangue di Cristo. Questo mi disse. Beva il sangue di Cristo...» «Perché?» «Per sconfiggere il figlio del Male. Mi disse di bere il sangue di Cristo per sconfiggere il demonio.» «E che altro disse?» insisté Jennings. «Parlò di un vecchio. Disse qualcosa a proposito di un vecchio...» «Che vecchio?»
«Disse che dovevo andare da un vecchio.» «Vada avanti...» «Non ricordo...!» «Non le ha detto un nome?» «M... Magdo, Magdo. Meggido. No, questa era la città.» «Che città?» insiste ancora Jennings. «La città dove avrei dovuto andare. Meggido. Sì, ne sono sicuro. Era lì che dovevo andare, mi disse.» Eccitatissimo, Jennings si mise a frugare nella sua borsa e ne estrasse una carta. «Meggido...», mormorava, «Meggido...» «L'ha mai sentita nominare?» domandò Thorn. «Scommetterei che è in Italia.» Ma non era in Italia. E nemmeno era possibile trovarla nella carta di qualsiasi paese di tutto il continente europeo. Jennings studiò le sue carte per più di una mezz'ora prima di arrendersi. Poi le ripose e scosse il capo, avvilito. Lanciò un'occhiata a Thorn e si accorse che l'ambasciatore si era addormentato. Non lo svegliò, tornò invece a sfogliare i suoi libri di occultismo. Mentre il piccolo aereo avanzava nel cielo di mezzanotte, Jennings si immerse nelle profezie che si riferivano al secondo avvento di Cristo. L'evento era collegato alla venuta sulla terra dell'Anticristo, il Figlio del Male, la Bestia, il feroce Messia: «...e su questa terra appare il Messia del Male, la creatura di Satana in forma umana, generata dallo stupro di un quadrupede. E come il giovane Cristo diffonde intorno a sé amore e bontà, così l'Anticristo diffonderà odio e paura... e riceverà i suoi comandamenti direttamente dall'inferno.» L'aereo toccò terra con un leggero sobbalzo. Jennings raccolse i suoi libri e le carte che giacevano sparse intorno a lui. A Roma pioveva e il tuono rombava sinistramente sopra di loro. Attraversarono in fretta l'aeroporto deserto e si infilarono in un tassì in attesa. Jennings rabbrividì mentre procedevano lentamente sotto un acquazzone verso l'altra estremità della città. Thorn sedeva in silenzio, assente, e quando passarono per via Veneto, tutta illuminata, ricordò le ore che lui e Katherine avevano passato proprio in queste strade, in un tempo che pareva ormai tanto lontano, tenendosi per mano, giovani e innamorati, pieni di speranze e di innocenza. Rammentò l'aroma del profumo di lei e il suono del suo riso felice. Essi allora scoprivano Roma come Colombo aveva scoperto l'America. Si sentivano i padroni della città. Facevano l'a-
more in pieno pomeriggio. Ora, mentre fissava lo sguardo nella notte, si chiese se mai sarebbe accaduto ancora, se mai avrebbero fatto di nuovo l'amore nel pomeriggio. «Ospedale Generale,» gracchiò il tassista. La vettura si arrestò con uno scossone. Jennings si svegliò e Thorn guardò fuori nella notte, pieno di sorpresa e di confusione. «Ma non è questo,» disse. «Sì, l'Ospedale Generale,» rispose il tassista. «No, non era questo. Era una vecchia costruzione di mattoni. Me lo ricordo benissimo.» «L'indirizzo è giusto?» domandò Jennings. «Ospedale Generale,» ripeté il conducente. «Ma è diverso,» insisté Thorn. «Ah,» fece il conducente. «Il fuoco. È bruciato. Tre anni fa, più o meno.» «Che cosa dice?» domandò Jennings. «Il fuoco,» rispose Thorn. «Ci dev'essere stato un incendio.» «Sì,» ripeté il conducente. «Tre anni fa.» «Che c'entra il fuoco?» esclamò Jennings. «A quanto pare l'ospedale è andato distrutto da un incendio. È stato ricostruito.» «Tre anni fa, più o meno. Molti morti.» Thorn gettò un'occhiata a Jennings. «Tre anni fa. Ci devono essere stati molti morti.» Pagarono il tassista e gli dissero di aspettare. Da principio l'uomo rifiutò, ma poi, vedendo il denaro che i due gli mostravano, acconsentì prontamente. Thorn, nel suo stentato italiano, gli disse che avrebbe desiderato servirsi di lui finché restavano a Roma. Il tassista disse che voleva prima avvertire la moglie, ma promise di ritornare. Appena entrati nell'ospedale, li attendeva la prima delusione. Poiché era già molto tardi, il personale degli uffici non sarebbe stato a disposizione prima del mattino seguente. Jennings cominciò a gironzolare intorno per conto proprio, cercando qualcuno che potesse essere in grado di dare delle informazioni. Intanto, Thorn aveva trovato una suora che parlava un po' di inglese. La religiosa gli confermò che tre anni prima un incendio aveva ridotto in macerie la costruzione. «Ma il fuoco non avrà distrutto proprio tutto,» insisté. «Ci saranno pure
degli archivi...» «Io non ero qui a quel tempo,» rispose la suora nel suo cattivo inglese. «Ma qui dicono che ha distrutto ogni cosa.» «È possibile che i documenti d'archivio siano stati trasportati da qualche altra parte?» «Non saprei.» Thorn fece una smorfia di disappunto, mentre la suora alzava le spalle mortificata, incapace di offrire di più. «Senta,» le spiegò Thorn. «Si tratta di una cosa molto importante per me. Ho adottato un bambino nato qui, e ora sto cercando dei documenti riguardanti la sua nascita.» «Ma qui non si sono mai fatte adozioni.» «È stato un caso particolare. Non una vera e propria adozione.» «Lei è in errore. Tutte le adozioni vengono fatte attraverso il centro assistenziale.» «Ma ci sono i documenti, le registrazioni delle nascite? Tenete un registro dei bambini che nascono qui?» «Naturalmente.» «Allora forse, se le dico i dati...» «Non serve. Non c'è niente da fare,» interruppe Jennings. Thorn si voltò e lo vide avvicinarsi, con un'espressione di profonda delusione dipinta sul viso. «L'incendio si è sviluppato proprio negli archivi del seminterrato. Tutti i documenti erano laggiù. Pare che sia bruciato come una torcia. Il fuoco si infilò per la tromba delle scale... Il terzo piano diventò un inferno.» «Il terzo piano...» «Sì, il reparto maternità,» confermò Jennings. «È andato tutto in cenere.» Thorn si piegò nelle spalle, appoggiandosi pesantemente al muro. «Se mi vogliono scusare...» disse la suora. «Aspetti un momento,» la pregò Thorn. «Che ne è stato del personale? Qualcuno sarà certamente sopravvissuto.» «Sì, qualcuno.» «C'era un uomo. Un prete. Molto alto. Una specie di gigante.» «Si chiamava Spilletto?» «Sì,» esclamò Thorn eccitato. «Esattamente. Spilletto.» «Era il caposervizio,» rispose la suora. «Sì, si occupava lui di ogni cosa. È...»
«È sopravvissuto.» La speranza tornò nel cuore di Thorn. «È qui?» «No.» «Dove si trova?» «In un convento di Subiaco. Molti dei religiosi dell'ospedale che sono sopravvissuti all'incendio sono stati portati laggiù. Era stato lì lì per morire. Ma riuscì a salvarsi. Ricordo che dissero tutti che era stato un miracolo. Era al terzo piano al momento dell'incendio.» «Subiaco?» domandò Jennings. La suora annuì. «Sì, nel monastero di San Benedetto.» Corsero verso il tassì e si gettarono a studiare le carte di Jennings. Subiaco era ai confini del Lazio; raggiungerlo ora voleva dire fare una lunga corsa nella notte. Il tassista si lamentò, non ne voleva sapere, ma gli diedero dell'altro denaro e gli segnarono il percorso sulla carta in matita rossa, perché potesse viaggiare mentre loro dormivano. Ma erano troppo eccitati per dormire; si concentrarono invece sui libri di Jennings, studiandoli attentamente alla debole luce all'interno della vettura, mentre il piccolo tassì correva a tutta velocità nella campagna romana. «Che io sia dannato...» mormorò Jennings, mentre guardava nella Bibbia. «Ecco dove stiamo andando.» «Che cosa c'è?» «È qui, proprio nella Bibbia. Nel maledetto Libro delle Rivelazioni. 'Quando gli ebrei ritorneranno a Sion'...» «Ecco, era questo,» lo interruppe Thorn eccitato. «Questi versi. 'Quando gli ebrei torneranno a Sion.' Poi c'è qualcosa a proposito di una cometa...» «C'è anche questo,» si affrettò a dire Jennings, puntando il dito su un altro libro. «Una caduta di stelle e l'ascesa del Sacro Romano Impero. Pare che siano questi gli eventi che segnano la nascita dell'Anticristo. Il figlio del demonio.» Continuarono a leggere mentre il tassì correva nella notte. Thorn trasse dalla sua borsa il testo di cui si era servito quando aveva dovuto preparare quella conferenza, per interpretare e citare la Bibbia. Ora il libro forniva la chiave per decifrare i simboli delle Sacre Scritture. «E ora gli ebrei sono tornati alla terra di Sion,» concluse Jennings, «e c'è anche stata una cometa. E in quanto all'ascesa del Sacro Romano Impero, alcuni studiosi pensano che esso possa oggi essere identificato con la costituzione del Mercato comune.» «Un po' tirato per i capelli...» commentò Thorn.
«Ma allora che cosa significa questo?» domandò Jennings, aprendo uno dei suoi libri. «Nelle Rivelazioni sta scritto: 'Egli verrà dal Mare Eterno'.» «Sono di nuovo i versi che ha recitato Tassone,» e Thorn chiuse gli occhi sforzandosi di ricordare quelle parole. «Dal mare eterno egli si leva... con gli eserciti su entrambe le sponde. Ecco, ora ricordo, era così che cominciava.» «Allora stava citando il Libro delle Rivelazioni. Questi versi sono presi di lì.» «Dal mare eterno si leva...» Thorn lottava per ricordare di più. «Questo è il punto, Thorn,» disse Jennings, indicando il suo libro. «Qui c'è scritto che il Convegno internazionale delle scienze teologiche ha interpretato il 'mare eterno' come il mondo della politica. Essa è il mare dove costantemente infuriano il tumulto e la rivoluzione.» Jennings guardò Thorn dritto negli occhi. «Il figlio del demonio si leva dal mondo della politica,» dichiarò. Thorn non rispose. Teneva gli occhi rivolti verso il paesaggio che si scopriva lentamente nelle prime luci dell'alba. Il monastero di San Benedetto era in uno stato di grande decadenza, ma la superba fortezza di pietra manteneva intatta tutta la sua forza e la sua dignità. Per secoli si era levato alto sulla sua montagna e aveva sostenuto molti assedi. All'inizio dell'ultima guerra mondiale, tutti i monaci che vi avevano abitato erano stati uccisi dagli invasori tedeschi, che avevano usato il monastero come un loro quartier generale. E tuttavia, malgrado tutti gli assalti terreni che aveva subito, San Benedetto era pur sempre un luogo sacro; alto, carico di storia, in cima alla collina, con il suo gotico maestoso, il suono della preghiera echeggiava ancora sotto le sue volte come vi era echeggiato per centinaia d'anni. Quando il piccolo tassì romano, tutto infangato, arrivò sulla strada lungo la quale si ergeva il muro frontale del monastero per una lunghezza di mezzo chilometro, i due passeggeri si erano addormentati; il conducente dovette voltarsi e dar loro uno scossone per svegliarli. «Signori?» Mentre Thorn cominciava a muoversi, Jennings abbassò il vetro del finestrino e respirò l'aria del primo mattino, allungando lo sguardo sul paesaggio fresco e carico di umidità. «San Benedetto,» mormorò il conducente stanchissimo. Thorn si strofinò gli occhi, e il suo sguardo mise a fuoco la sagoma imponente del monastero che si stagliava contro il cielo rabbiosamente rossa-
stro dell'alba. «Guardi, guardi, per favore...» sussurrò Jennings sbigottito. «Non ci si può avvicinare di più?» domandò Thorn. Il conducente scosse la testa. «Evidentemente no,» concluse Jennings. Dopo avere spiegato al conducente di cercare un angolo tranquillo e mettersi a dormire finché non fossero tornati, i due uomini si avviarono a piedi. Ben presto furono immersi fino aEa cintola nelle erbe altissime, i calzoni tutti bagnati dalla rugiada della notte. La marcia era faticosa, e soprattutto i due non erano vestiti in modo adeguato; i loro abiti si impigliavano negli arbusti e li ostacolavano mentre avanzavano lentamente. Ansimando in quell'assoluto silenzio, Jennings a un certo punto si fermò ed estrasse il suo apparecchio fotografico, scattando un mezzo rotolo di pellicola. «Incredibile,» mormorava. «Assolutamente incredibile.» Thorn si volse indietro a guardarlo con una punta di impazienza e Jennings si affrettò a raggiungerlo; potevano ascoltare il proprio respiro in quell'impressionante silenzio; poco dopo avvertirono come il suono lontano di un canto, simile a un gemito continuo, che veniva dall'edificio sovrastante. «È un luogo di una tristezza sconvolgente,» osservò Jennings, mentre sboccavano nella strada che conduceva al portale di ingresso. «Ascolti. Ascolti il dolore che c'è in quel canto.» Era solenne e terrificante insieme; una nenia che sembrava emanare dalle mura stesse degli immensi corridoi e porticati di pietra. I due uomini si dirigevano adesso verso l'interno. Si guardavano intorno, tentando di individuare da dove veniva il suono di quelle preghiere. Tutto era deserto. «Da questa parte, credo,» disse Jennings, e indicò un lungo corridoio. «Guardi il fango.» Davanti a loro, il pavimento era segnato da una traccia di un colore marrone scolorito. I piedi che per secoli la avevano calpestata, avevano lasciato un segno su quella pietra, l'avevano consumata creando un solco in cui nelle stagioni di grande pioggia l'acqua scorreva in un rivolo. La traccia conduceva a un'immensa rotonda di pietra, chiusa da pesanti portali di legno massiccio. Via via che si avvicinavano, sentivano le voci farsi più forti. Aperta la porta, levarono gli occhi con timore e reverenza verso ciò che stava loro davanti. Era come se fossero entrati in pieno Medio Evo; la presenza di Dio, della spiritualità, era viva come una presenza fisica, qualcosa
di tangibile, di concreto. Era una sala immensa, antichissima; enormi gradini di pietra conducevano a un altare sul quale si ergeva una massiccia croce di legno; la figura del Cristo crocifisso era scolpita nella pietra. La rotonda era composta di grandi blocchi di pietra legati fra di loro dai rami di una vite che si raccoglievano al centro formando una specie di cupola aperta contro il cielo. A quell'ora un raggio di luce del primo mattino scendeva a illuminare la figura del Cristo. «Questo è il senso di tutto quanto,» sussurrò Jennings. «È un luogo di preghiera e di devozione.» Thorn annuì; il suo sguardo esplorò l'enorme locale e si arrestò su un gruppo di monaci incappucciati inginocchiati fra i banchi, immersi in preghiera. Il loro canto era straordinariamente emozionante, e al tempo stesso snervante; si alzava e si abbassava ininterottamente e rinasceva ogni volta che sembrava dissolversi. Jennings fece scattare il suo esposimetro, tentando di calcolare il grado di penombra della stanza. «Metta via quella roba,» mormorò Thorn. «Avrei dovuto portare i miei flash.» «Ho detto metta via.» Jennings fissò Thorn con occhi infuriati, ma ubbidì. Thorn era profondamente scosso. Le gambe gli tremavano, quasi volessero spingerlo a inginocchiarsi e pregare. «Sta bene?» gli chiese Jennings sottovoce. «...Sono cattolico,» rispose Thorn. Il suo tono era tranquillo. Quand'ecco, di colpo, il suo volto si raggelò. Thorn aveva scorto una forma immersa nell'ombra. Jennings seguì il suo sguardo e la vide anche lui. Era una sedia a rotelle, e su di essa c'era una possente figura d'uomo. A differenza di tutti gli altri, che stavano inginocchiati con la testa china, l'uomo sulla sedia a rotelle sedeva e teneva il busto rigido, la testa inclinata all'indietro e le braccia tese, come se fossero paralizzate. «È lui?» domandò Jennings. Thorn annuì in silenzio. I suoi occhi erano profondamente turbati. I due uomini si avvicinarono per vedere meglio. Quando i tratti del monaco gli apparvero chiaramente, Jennings sussultò. Metà della faccia di quell'uomo si era letteralmente fusa, i lineamenti non esistevano più; l'occhio era spento e fisso, senza sguardo. La mano destra era grottescamente deformata, ed emergeva dalla grande manica di tela di sacco dell'abito monacale come un luccicante moncone. «Non sappiamo se vede o sente,» disse il monaco che stava dietro la pol-
trona a rotelle di Spilletto nel cortile del monastero. «Dopo l'incendio non ha più pronunciato parola.» Erano in quello che un tempo era stato un giardino ed ora era caduto completamente in rovina. Frammenti di statue erano sparsi dappertutto. Il monaco parlava spingendo la poltrona di Spilletto dalla rotonda fino all'estremità del cortile. Thorn e Jennings l'avevano seguito, avvicinandosi soltanto quando erano rimasti soli, non più a portata d'orecchio del resto della comunità religiosa. «Sono i confratelli che si occupano di lui, lo imboccano persino,» continuò il monaco. «Noi tutti preghiamo perché Dio gli conceda la guarigione, quando la sua penitenza sarà terminata.» «Penitenza?» domandò Thorn. Il monaco annuì. «La sventura si abbatte sul pastore che abbandona le sue pecorelle. Possa il suo braccio destro essiccarsi e il suo occhio destro perdere la vista.» «Ha perduto la grazia?» domandò Thorn. «Sì.» «Posso chiedere perché?» «Per avere abbandonato Cristo.» Thorn e Jennings si scambiarono uno sguardo carico di curiosità. «E come sa che ha abbandonato Cristo?» domandò nuovamente Thorn al monaco. «La confessione.» «Ma se non parla.» «Una confessione scritta. C'è ancora qualche traccia di movimento nella sua mano sinistra.» «Che specie di confessione?» incalzò Thorn. «Potrei sapere la ragione delle sue domande?» fece il monaco. «È una questione di vitale importanza,» rispose Thorn in tono molto grave. «La scongiuro di aiutarci. È in gioco una vita.» Il monaco studiò a lungo la faccia di Thorn e infine fece un cenno di assenso. «Venga con me.» La cella di Spilletto era una scatola nuda, in cui trovavano posto solo un pagliericcio e un tavolo di pietra. Come la rotonda, anche qui il soffitto era aperto sul cielo e lasciava entrare la pioggia. Al centro della cella una pozza d'acqua era rimasta dall'acquazzone della notte precedente. Thorn notò che il materasso era fradicio e si domandò se era la regola che imponeva a
tutti di vivere in così grave disagio, o se ciò faceva soltanto parte della penitenza personale inflitta a Spilletto. «C'è un disegno sulla tavola,» disse il monaco, quando entrarono. «L'ha fatto lui con un carboncino.» La sedia a rotelle di Spilletto passò cigolando sulle pietre disuguali del pavimento. Tutti si raccolsero intorno alla tavola di pietra e videro lo strano simbolo che il prete vi aveva disegnato. «Lo fece appena arrivato qui,» informò il monaco. «Gli abbiamo lasciato il carboncino, nella speranza che potesse un giorno scrivere qualche cosa di più, ma non fece più nulla.» Era una strana, grottesca figura graffiata in modo irregolare sulla pietra, come uno scarabocchio infantile. Il disegno era tutto storto e malformato; la testa della figura era circondata da una linea semicircolare. Ciò che attrasse immediatamente l'attenzione di Jennings furono i tre numeri rinchiusi nel semicerchio sopra la testa della figura. Erano dei sei. Tre sei. Esattamente come il marchio sulla coscia di Tassone. «Noterà la linea ricurva sopra la testa,» disse il monaco. «Sta a indicare il cappuccio dell'abito monacale. Il suo cappuccio.» «Intende dire che questo vuole essere un autoritratto?» domandò Jennings. «È ciò che crediamo.» «E che cosa significano quei sei?» «Sei è il numero del demonio,» rispose il religioso. «Sette è il numero perfetto, il numero di Cristo. Sei invece è il segno distintivo di Satana.» «Perché tre?» domandò ancora Jennings. «Riteniamo che significhi la trinità diabolica. Il demonio, l'Anticristo e il falso profeta.» «Padre, Figlio e Spirito santo,» osservò Thorn. Il monaco annuì. «Per tutto ciò che è sacro, c'è un corrispondente nel mondo del Male. Questa è l'essenza della tentazione.» «Ma perché considerate questa una confessione?» domandò Jennings. «Come lei ha detto, questo è un autoritratto. O almeno così crediamo. È simbolicamente sormontato dalla triade del Male.» «Quindi non sapete che cosa abbia voluto confessare in particolare?» «I dettagli non sono importanti,» rispose il religioso. «Ciò che conta è che egli dimostri il desiderio di pentirsi.» Jennings e Thorn si scambiarono una lunga occhiata; la faccia di Thorn era contratta dalla delusione.
«Posso parlargli?» domandò Thorn. «Non servirà a nulla.» Thorn fissò Spilletto e rabbrividì alla vista del luccichio di quella faccia devastata. «Padre Spilletto,» disse con voce alta e ferma, «il mio nome è Thorn.» Il prete teneva gli occhi fissi in alto, muto, senza un movimento; niente lasciava pensare che udisse ciò che veniva detto. «Non serve a nulla,» ammonì ancora il monaco. Ma ormai Thorn era deciso ad andare fino in fondo. «Padre Spilletto,» ripeté. «Si tratta di quel bambino. Voglio sapere da dove veniva.» «La prego, signore,» intervenne il frate con voce supplichevole. «Lei ha confessato a loro!» gridò Thorn con voce ancora più forte. «Ora lo confessi a me! Voglio sapere di dove veniva quel bambino!» «Devo chiederle di smettere...» «Padre Spilletto! Mi ascolti! Mi dica qualcosa!» Il monaco tentò di accostarsi alla poltrona di Spilletto, ma Jennings gli tagliò la strada. «Padre Spilletto!» gridò ancora Thorn su quel volto muto e impenetrabile. «La scongiuro! Dov'è la madre? La prego, mi risponda!» E d'un tratto accadde qualcosa. Ci fu una vibrazione, mentre l'aria tutt'intorno rimbombava per lo scampanio proveniente dalla chiesa. Era un fragore assordante. Thorn e Jennings rabbrividirono mentre il suono rimbalzava con mille echi contro le mura del convento. Poi Thorn abbassò lo sguardo e vide. La mano paralizzata del prete aveva cominciato a muoversi e si alzava faticosamente. «Il carboncino!» gridò Thorn. «Dategli il carboncino!» La mano di Jennings si mosse rapidissima, afferrando il pezzetto di carboncino che era in un angolo della tavola e ponendolo fra quelle dita tremanti. Mentre le campane continuavano a suonare, la mano del prete si allungò rigida sulla pietra e cominciò adagio adagio, con gesti incerti, a formare delle lettere. «È una parola! esclamò Jennings eccitatissimo. «C...E... R...» Il prete tremava in tutte le fibre del corpo nello sforzo di continuare; il dolore che quella fatica gli costava era evidente sul suo viso, gli trasfigurava la bocca che ora era spalancata ed emetteva suoni gutturali, come il lamento di un animale ferito a morte. «Avanti! Vada avanti!» incalzava Thorn.
«...V...» lesse Jennings, «...E...T...» Improvvisamente le campane tacquero; il prete lasciò cadere il carboncino dalle dita contratte in uno spasimo, mentre la testa gli ricadeva all'indietro, in un totale sfinimento. Gli occhi erano rovesciati in alto, la faccia inondata di sudore. Mentre l'eco delle campane si dissolveva in lontananza, Thorn e Jennings rimasero in silenzio, fissando le lettere scarabocchiate sulla tavola di pietra. «...Cervet...» gli fece eco Jennings. «È italiano?» Si voltarono verso il monaco che era stato a guardare. Poi il loro sguardo, smarrito, si volse verso Spilletto. «Che cosa può significare? Le dice qualcosa questa parola?» domandò Thorn. «Cerveteri,» rispose il monaco. «Penso che sia Cerveteri.» «E che cos'è Cerveteri?» domandò Jennings. «È un vecchio cimitero dell'epoca etrusca. Il cimitero di Sant'Angelo.» Il corpo rigido del prete riprese a tremare ed egli emise un gemito, come se volesse parlare. Poi ricadde nel silenzio, ma nei suoi tratti si avvertì una sorta di rilassamento, come se avesse cessato di lottare e si abbandonasse al peso dell'infermità che gli paralizzava il corpo. Thorn e Jennings fissarono il monaco che scuoteva la testa sgomento. «Ma Cerveteri è solo una distesa di rovine. Ci sono i resti dell'altare di Techulca.» «Techulca?» domandò Jennings. «Sì, il dio del Male degli etruschi. Gli etruschi erano adoratori del demonio. Il luogo in cui seppellivano i loro morti era anche il luogo dei sacrifici.» «Ma perché ha scritto quel nome?» domandò Thorn. «Non lo so.» «Dov'è questo Cerveteri?» domandò Jennings. «Ma non c'è nulla laggiù, signore, all'infuori di tombe... e pochi cani selvatici.» «Dove si trova?» ripeté Jennings con insistenza. «Il loro autista lo saprà. Si trova a forse cinquanta chilometri a nord di Roma.» L'uragano sospeso nel cielo sopra Roma si era esteso ad altre zone, e una fitta pioggia rallentava la loro corsa, cosicché era notte quando lasciarono
la via principale per prendere una vecchia strada secondaria, tutta fango e buche. Il tassì sobbalzava continuamente e la ruota posteriore sinistra scivolò in un piccolo fossato laterale. Tutti dovettero scendere e spingere il veicolo. Quando rientrarono nell'auto erano bagnati fradici e tremavano di freddo; Jennings guardò l'orologio e vide che era già quasi mezzanotte. Fu l'ultima cosa che registrò prima di addormentarsi; quando si risvegliò, si accorse che l'automobile era ferma e tutto era immerso nel silenzio. Thorn dormiva accanto a lui, avvolto in una coperta, e tutto ciò che riuscì a vedere del conducente furono le scarpe infangate sollevate sul sedile accanto al posto di guida. L'uomo, adagiato di traverso, russava sonoramente. Jennings cercò la maniglia dello sportello e scese per sgranchirsi le gambe nel buio della notte. Era quasi l'alba, all'orizzonte il cielo cominciava lievemente a schiarirsi. Jennings fissò gli occhi nell'oscurità, per capire dove si trovavano. Lentamente si rese conto che erano a Cerveteri. Davanti a lui si alzava una cancellata. Le sbarre erano piuttosto alte e terminavano in punte sottili a forma di freccia. Subito dietro, le sagome delle tombe si stagliavano nella luce dell'alba. Jennings tornò al tassì e guardò Thorn, poi diede una rapida occhiata al suo orologio. Mancavano dieci minuti alle cinque. Passando silenziosamente davanti al sedile del guidatore, allungò una mano all'interno e staccò la chiavetta dell'accensione; poi girò dietro e aprì con grande cautela il portabagagli. Il coperchio si sollevò cigolando, ma il rumore non bastò a svegliare i due uomini addormentati nella macchina. Frugando nel buio, trovò il suo apparecchio e lo caricò con un nuovo rotolo di pellicola. Poi controllò il flash. L'apparecchio scattò e la luce abbagliante gli si accese davanti agli occhi, accecandolo per un attimo e facendolo sobbalzare di paura. Aspettò di poter vedere di nuovo chiaramente davanti a sé, poi si mise a tracolla il suo equipaggiamento; intanto gli occhi gli caddero su una chiave inglese che giaceva in fondo al baule, seminascosta fra gli stracci sporchi di olio e gli attrezzi. La prese e se la infilò nella cintura, poi richiuse adagio il portabagagli e si avviò silenziosamente alla cancellata. Il terreno era bagnato e Jennings aveva freddo. Mentre si aggirava in cerca di un'entrata, rabbrividì. Non c'era nessun varco. Fissatasi bene addosso la sua apparecchiatura, Jennings scalò il cancello salendo su un albero vicino. Per un attimo restò sospeso senza riuscire a posare il piede; finalmente, dopo essersi impigliata e strappata la giacca nelle punte di ferro, riuscì a ricadere dall'altra parte. Si rialzò, si riassestò la macchina a tracolla e si avviò verso l'interno del cimitero. Il cielo si andava sempre più illuminando, e Jennings
poté distinguere i particolari dei sepolcri che sorgevano lì intorno, pietre tombali e pezzi di statue in rovina. Erano tutte molto ricche ed elaborate, ma sfigurate dallo stato di abbandono in cui si trovavano: maschere simili a doccioni grotteschi, dall'espressione divorata dal tempo, cripte mezzo diroccate e dovunque l'incessante via vai di topi che si muovevano incuranti della presenza del fotografo, entrando e uscendo dalle buche e dagli incavi bui. Nonostante si sentisse gelare dal freddo, Jennings si accorse di essere tutto sudato. Si guardava intorno terribilmente a disagio, mentre procedeva a fatica sul terreno pesante. Aveva la sensazione di essere osservato; gli occhi vuoti di pietra di quelle maschere sembravano seguirlo man mano che avanzava. Si fermò, cercando di vincere la sua inquietudine, ma quando fissò lo sguardo davanti a sé, ebbe un sussulto. Una gigantesca statua di pietra lo guardava dall'alto con un'espressione di agghiacciante furore, come se si sentisse oltraggiata dall'intrusione di quell'individuo. Jennings si sentiva mancare il respiro; quegli occhi sporgenti, pur senza sguardo, gli dicevano di andarsene. Era una faccia umana, ma l'aspetto era bestiale: una fronte fitta di capelli, un grosso naso a bulbo e una bocca carnosa spalancata in una smorfia di rabbia feroce. Jennings si sforzò di soffocare l'ondata di paura che lo stava travolgendo, e tentò di alzare la propria macchina, scattando di colpo tre fotografie con il flash. La faccia di pietra sembrò assalita da quei lampi improvvisi. Nell'auto, intanto, Thorn stava aprendo lentamente gli occhi. Subito si accorse che Jennings se n'era andato. Uscì dalla macchina e vide il cimitero davanti a sé, le sue statue spezzate nella luce dell'alba. «...Jennings...?» Nessuna risposta. Thorn si diresse verso la cancellata e chiamò di nuovo. Gli rispose un suono lontano. Il rumore proveniva dall'interno del cimitero, come se qualcuno stesse camminando verso di lui. Thorn si aggrappò alle sbarre, si sollevò e si lasciò ricadere dall'altra parte. «...Jennings...?» Adesso il rumore era cessato. Thorn frugò con lo sguardo la distesa di pietre spezzate che aveva davanti. Facendosi forza, avanzò lentamente. Le scarpe gli affondavano nel terreno fangoso. Si vide davanti le mezze teste dei doccioni e si sentì mancare. C'era nell'aria uno strano silenzio, quella impressione di qualcosa di sospeso nell'aria che aveva già conosciuto prima d'allora, come se l'atmosfera trattenesse il respiro. Gli era accaduto la prima volta a Pereford, la notte che era rimasto a guardare nel buio della
foresta. Ora si fermò, temendo di avvertire anche lì uno sguardo su di sé. I suoi occhi si fissarono sulle statue e si arrestarono su una grande croce piantata al suolo a testa in giù. Si irrigidì. Da qualche parte veniva nuovamente il suono di qualcosa che si muoveva, ma adesso il rumore era più rapido, si avvicinava, puntava direttamente verso di lui. Thorn avrebbe voluto fuggire, ma non riusciva più a muoversi, paralizzato dal terrore. «Thorn!» Era Jennings, che quasi gli piombò addosso, sbucando da un gruppo di cespugli, senza fiato e con gli occhi sbarrati. Thorn, ansimando, era rimasto lì, immobile, scosso da un tremito violento. Jennings venne avanti rapidamente. Aveva in mano la chiave inglese. «L'ho trovato,» balbettava affannosamente, «l'ho trovato!» «Trovato che cosa?» «Venga. Venga con me!» Si misero a correre attraverso i cespugli selvatici che coprivano il terreno; Jennings scansava le tombe come un soldato che corra evitando gli ostacoli, e Thorn faticava a tenergli dietro. «Ecco, laggiù,» esclamò Jennings quando furono giunti in una radura. «Guardi. Sono quelle!» Davanti a loro c'erano due tombe vicinissime, scavate l'una a fianco dell'altra. A differenza delle altre sparse nel cimitero, si vedeva chiaramente che queste erano recenti; una di misura normale, l'altra più piccola, le pietre tombali erano spoglie, recavano soltanto nomi e date. «Guardi le date!» esclamò Jennings in uno stato di grande agitazione. «Sei giugno. Il sei giugno! Di quattro anni fa! Una madre e un bambino!» Thorn si avvicinò lentamente e si fermò accanto al compagno, gli occhi fissi sui cumuli di terra ai suoi piedi. «Sono le uniche tombe recenti in tutto il cimitero,» esclamò Jennings con una punta d'orgoglio nella voce. «Le altre sono talmente antiche che non si capisce neppure che cosa dicano le iscrizioni.» Senza rispondere Thorn si inginocchiò, ripulendo la pietra dalla polvere. «...Maria Avedici Santoya...» cominciò a leggere. «Bambino Santoya... In Morte et in Natu Amplectuntur Generationes.»' «Cosa significa?» «È latino.» «Che cosa vuol dire?» «...Nella morte... e nella nascita... le generazioni si abbracciano.» «Una bella scoperta, direi.»
Jennings si inginocchiò accanto a Thorn, sgomento al vedere il suo compagno in lacrime. Thorn chinò la testa e pianse senza ritegno. Il fotografo rimase in silenzio, aspettando che il pianto cessasse. «È qui,» gemette Thorn. «Lo so. Mio figlio è sepolto qui.» «E forse anche la madre del bambino che lei ora sta allevando.» Gli occhi di Thorn incontrarono quelli di Jennings. «Maria Santoya,» esclamò Jennings, indicando la pietra. «Questa è la madre e lì c'è il bambino.» Thorn scosse la testa, cercando di comprendere il senso di tutto ciò. «Guardi,» disse Jennings. «Lei ha chiesto a Spilletto di dirle dov'era la madre. Qui c'è la madre. E questo accanto è probabilmente suo figlio.» «Ma perché qui? Perché in questo luogo?» «Non lo so.» «Perché in questo luogo orribile e sinistro?» Jennings guardò Thorn, sentendosi oppresso dallo stesso sgomento e dallo stesso smarrimento. «C'è un solo modo di scoprirlo, Thorn. Ormai, visto che siamo arrivati fin qui, dobbiamo andare fino in fondo.» Sollevò la chiave inglese che aveva portato con sé e la cacciò con forza nel terreno. Il metallo affondò del tutto e si arrestò con un rumore sordo. «È abbastanza facile. Le casse non sono molto in profondità, al massimo una trentina di centimetri.» Cominciò a scavare, smuovendo il terriccio, grattandolo via con le mani. «Vuole aiutarmi?» domandò a Thorn e questi, riluttante, si mise anch'egli al lavoro. Le sue dita erano paralizzate dal freddo. Dopo mezz'ora erano coperti di terra e di sudore. Avevano messo quasi del tutto allo scoperto due lastre di cemento. «Sente l'odore?» domandò Jennings. «Sì.» «Devono aver fatto un lavoro di gran fretta. Non proprio secondo le regole dell'igiene.» Thorn non rispose; la sua faccia era devastata dall'angoscia. «Quale apriamo per prima?» domandò Jennings. «È proprio necessario?» «Sì.» «Mi sembra una cosa che non si deve fare.» «Se vuole chiamo il tassista.» Thorn strinse i denti, poi scosse la testa.
«Andiamo avanti, allora,» disse Jennings. «Apriamo per prima quella più grande.» Jennings infilò il ferro con forza sotto la lastra di cemento cercando di far leva. Poi, con uno sforzo tremendo, riuscì a sollevarla, quel tanto che bastava per passarci sotto le dita. «Mi dia una mano, accidenti!» gridò a Thorn, il quale obbedì prontamente. Le braccia gli tremavano nello sforzo, mentre aiutava il fotografo a sollevare il lastrone. «Peserà una tonnellata...!» grugnì Jennings. Vi si puntò contro con tutto il suo peso e la lastra si mosse lentamente; i due uomini continuarono a spingere in uno sforzo estremo, cercando di tenere la pietra sollevata mentre i loro occhi frugavano nella buia cavità sottostante. «Mio Dio!» ansimò Jennings. Era la carcassa di uno sciacallo. Mosche e vermi pullulavano in abbondanza in mezzo alla putrefazione, aggirandosi fra i pezzi di carne ancora attaccati alle ossa. «No!» gridò Thorn. «Andiamo via!» «No!» ansimò Thorn. «L'altra!» «A che scopo? Abbiamo visto quel che dovevamo vedere!» «No, l'altra,» gemette Thorn con disperazione. «Può darsi che sia anch'esso un animale!» «E con ciò?» «Allora il mio bambino potrebbe essere vivo, chissà dove!» Jennings si fermò, colpito dall'angoscia che si leggeva negli occhi di Thorn. Estrasse rapidamente il ferro dal terreno e lo infilò sotto la lastra più piccola; accanto a lui Thorn si muoveva ora con furia febbrile. Cercava di infilare la mano sotto la pietra, mentre Jennings si sforzava di far leva con la chiave inglese. Con un colpo secco la lastra si staccò e la faccia di Thorn si contorse in una smorfia di terribile angoscia. Dentro alla cassettina c'erano i resti di una creatura umana, un neonato con il cranio sfracellato. «La sua testa...» singhiozzò Thorn. «...oh, Dio...» «L'hanno ucciso!» «Andiamo via di qui!» «Hanno ucciso mio figlio!» urlò Thorn, e la lastra ricadde pesantemente, mentre gli occhi dei due uomini si incontravano al colmo dell'orrore.
«L'hanno ucciso!» ripeteva piangendo Thorn. «Hanno ucciso il mio bambino!» Jennings aiutò Thorn a rimettersi in piedi, cercò di trascinarlo via. Ma poi si bloccò, paralizzato da un fulmineo terrore. «Thorn.» Thorn si volse seguendo la direzione del suo sguardo e vide, proprio di fronte a sé, la testa di un grosso pastore tedesco, tutto nero. Gli occhi dell'animale erano molto ravvicinati e scintillavano; la bava gli colava dalla bocca semiaperta, mentre un ringhio feroce fendeva l'aria. Thorn e Jennings restarono immobili, mentre l'animale avanzava lentamente verso di loro, uscendo dal fogliame. Ormai se ne poteva vedere tutto il corpo. Era una bestia magra, tutta segnata da cicatrici. Sul fianco aveva una ferita aperta tra ciuffi di pelo arruffato. I cespugli tutt'intorno cominciarono a frusciare e uscì la testa di un altro cane, grigio questo, il muso sfigurato e gocciolante. Poi ne comparve un altro ancora e il cimitero sembrò ravvivarsi, improvvisamente pieno di movimento. Le scure sagome degli animali emergevano ormai da tutti gli angoli, una muta di almeno dieci bestie selvatiche, feroci, minacciose, tutte con la bava alla bocca, tutte accomunate in un unico ringhio sordo. Jennings e Thorn restarono paralizzati dallo spavento, temendo di fare il minimo movimento, senza neppure il coraggio di guardarsi fra loro. «Hanno annusato... le carcasse...» sussurrò Jennings. «Tenti... di retrocedere... lentamente.» Respirando appena, i due uomini cominciarono ad arretrare; immediatamente i cani mossero loro contro, il muso abbassato verso terra, annusando la preda. Thorn inciampò e un gemito involontario gli sfuggì di bocca; Jennings lo afferrò per un braccio, cercando di calmarlo. «Non corra... vogliono... soltanto i cadaveri.» Ma quando ebbero oltrepassato le due tombe aperte, i cani continuarono ad avanzare; lentamente, inesorabilmente, gli occhi fissi solo sui due uomini. Ora s'erano fatti più vicini, la distanza fra gli animali e la preda era ridotta, i movimenti fluidi dei cani erano più rapidi di quelli degli uomini che retrocedevano, mentre Jennings si voltava a cercare disperatamente con gli occhi la cancellata, lontana ancora un centinaio di metri. Thorn inciampò una seconda volta e si aggrappò con forza a Jennings. Entrambi, presi da un invincibile tremito, tentavano faticosamente di farsi strada verso il limite del cimitero. Poi urtarono con le spalle contro qualcosa di solido e Thorn rabbrividì. Erano accanto al basamento della grande statua di
pietra, bloccati lì mentre i cani li accerchiavano adagio, completamente, tagliando loro ogni possibilità di fuga. Per un terribile istante i due uomini rimasero bloccati dal terrore, i predatori e la preda; l'arco dei grossi denti si chiudeva intorno a loro, li teneva prigionieri. Si era levato il sole, e gettava un bagliore rossastro sui cento metri di terreno che dividevano ancora i due uomini dalla cancellata. Thorn tornò a inciampare e si afferrò a una pietra tombale; i cani e gli uomini ora erano perfettamente immobili, come in attesa di un segnale che li rimettesse in movimento. I secondi passavano ed essi erano sempre più vicini; gli uomini completamente rigidi, i cani accucciati, pronti a spiccare il balzo. Con un urlo selvaggio, Jennings scagliò violentemente la chiave inglese contro il primo cane. Tutta la muta scattò. I cani saltarono, scagliandosi tutti contro gli uomini che si erano messi a correre disperatamente. Jennings fu afferrato quasi subito. L'uomo si rotolò sul terreno mentre le bestie lo assalivano. Si stringeva intorno al collo le cinghie della tracolla della macchina fotografica, mentre le bestie gli danzavano intorno tentando di arrivare alla carne. Le cinghie gli premevano nella pelle. Le lenti della macchina fotografica andarono in frantumi sotto i denti furiosi degli animali che tentavano di spezzare quell'ostacolo. Thorn, approfittando del fatto che i cani erano tutti addosso a Jennings, era riuscito a correre più avanti. Ma mentre si avvicinava al cancello, una delle belve l'attaccò, affondandogli la mascella spalancata nelle spalle. Thorn lottò per continuare la corsa, ma l'animale lo teneva saldamente, agitando in aria le zampe anteriori. L'uomo cadde in ginocchio, facendo uno sforzo supremo per spingersi avanti, mentre altre bestie gli si scagliavano addosso. Vedeva solo intorno a sé un gran roteare di denti, la saliva che scendeva da quelle fauci voraci. Thorn urlava tentando ancora disperatamente di raggiungere il cancello. Ma non c'era più nulla da fare. Si ripiegò su se stesso, sentendo la fitta terribile dei denti che gli penetrarono nella carne. Per un attimo riuscì ancora a vedere Jennings che si rotolava per terra, mentre i cani tentavano ripetutamente di azzannargli il collo. Thorn non sentiva più neppure il dolore, soltanto un furioso bisogno di fuggire. Riuscì ancora a sollevarsi, avanzando con le mani e i piedi, i cani che lo tenevano per le spalle, mentre si dirigeva verso la cancellata. La mano gli cadde su qualcosa di freddo. Era la chiave inglese che Jennings aveva scagliato poco prima; l'afferrò saldamente, abbattendola con forza sull'animale che gli stava lacerando la schiena. Dal terribile guaito di agonia che udì, capì di aver colpito il bersaglio. Sentì sopra la testa un fiotto caldo di sangue,
mentre la belva colpita si rigirava su se stessa e gli occhi parevano uscirle dalle orbite. Quella vista ridiede a Thorn un po' di coraggio. Riprese a colpire con tutte le forze, poi cominciò a brandire in alto il ferro che aveva in mano. Jennings intanto era rotolato ai piedi di un albero. Lottava per rialzarsi, tra i cani inferociti che gli giravano intorno, continuando a colpire la macchina e le cinghie nel tentativo di arrivare ad azzannargli il collo. Mentre si dibatteva così, il flash improvvisamente scattò da solo e le bestie si ritrassero spaventate davanti alla luce accecante. Thorn, intanto, era riuscito a rimettersi in piedi. Brandendo furiosamente la chiave inglese e vibrandola ripetutamente sui musi e sulle teste che aveva intorno, si faceva strada verso la cancellata. Jennings ora si era staccato dall'albero. Teneva il flash puntato e continuava a scattare ogni volta che i cani riprendevano ad avanzare e retrocedeva verso il cancello. Si diresse rapidamente verso Thorn, tenendo a bada i cani con il flash mentre l'altro si arrampicava sull'inferriata. Thorn si strappò gli abiti, aveva la faccia insanguinata, ma riuscì a salire. Quando fu in cima scivolò e si infilò uno degli spuntoni nell'ascella. Urlando di dolore, riuscì a liberarsi e ripiombò a terra dall'altra parte. Jennings lo seguì, scattando flash all'impazzata. Infine, mentre si arrampicava sul cancello e saltava dal lato opposto, scagliò l'apparecchio fotografico contro la belva che l'inseguiva. Thorn vacillò quando Jennings lo afferrò per sollevarlo e trascinarlo verso il tassì. Il conducente dapprima li fissò, intontito dal sonno e dallo spavento; poi cacciò un urlo. Provò ad accendere subito il motore, ma non c'erano più le chiavi. Corse fuori dalla macchina, impazzito dalla paura, aiutando Jennings a deporre Thorn sul sedile posteriore. Quando girò dietro alla macchina, per andare a prendere le chiavi che aveva lasciato nella serratura del portabagagli, Jennings si voltò indietro e vide i cani che ora parevano in preda a una furia parossistica. Si sbattevano con violenza contro la cancellata, ululando rabbiosamente. Uno tentò di saltare al di là della sbarre, ma restò impalato per il collo e il sangue sgorgò dalla ferita come una fontana. Nel loro delirio, gli altri animali gli saltarono addosso, mangiandolo vivo mentre scalciava furiosamente lanciando urla orribili. L'automobile partì a tutta velocità, con la portiera posteriore ancora aperta. Il tassista era totalmente sconvolto da ciò che vedeva nello specchio retrovisore. I due uomini dietro a lui non parevano più esseri umani, erano solo una massa informe di sangue e di abiti strappati. E si tenevano stretti l'uno all'altro, piangendo come bambini.
11. Il tassista li portò a gran velocità al Pronto Soccorso di un ospedale, scaricò dalla macchina i bagagli di quei due scomodi clienti e filò via rapidamente. Thorn era in uno stato di assoluto stordimento, sicché fu Jennings che rispose alle domande che vennero loro fatte, dando nomi falsi e raccontando una storia inventata lì per lì. Ma il personale dell'ospedale sembrò convinto. Avevano bevuto troppo, spiegò, e senza avvedersene si erano inoltrati in una proprietà privata, dove c'era un cartello che segnalava la presenza di cani da guardia molto feroci. Naturalmente non avevano badato all'avviso. La proprietà era fuori Roma, una tenuta in campagna, ma non era in grado di ricordare in che zona; ricordava soltanto che c'era una cancellata piuttosto alta sulla quale si era ferito, fuggendo, il suo amico, quando si erano visti assaliti dai cani. Entrambi furono curati e medicati, gli fu praticata la puntura antitetanica e il medico disse loro di tornare di lì a una settimana, per controllare se l'iniezione avesse avuto il suo effetto. Si cambiarono d'abito e se ne andarono. Infine trovarono una stanza in un alberghetto, dove si fecero registrare sotto falso nome. Il portiere insisté perché pagassero in anticipo la camera e gliene assegnò una a due letti. «Avrebbero potuto ucciderla e non l'hanno fatto,» stava dicendo il fotografo, turbato. «Era con me che ce l'avevano, volevano a tutti i costi arrivare a sbranarmi il collo.» Thorn fece cenno a Jennings di stare zitto; attraverso la medicazione una grossa macchia di sangue gli inzuppava la camicia. «Ha sentito quello che ho detto, Thorn? Mi volevano azzannare il collo!» «È l'ospedale?» domandò Thorn al telefono. «Sì, camera 4A.» «Se non avessi avuto quegli apparecchi...» continuò Jennings. «Vuole interrompere, per favore? Questa è una chiamata urgente!» «Dobbiamo fare qualcosa, Thorn. Mi ascolta?» Thorn si volse verso Jennings, e vide i segni lasciati dalle cinghie sul collo del fotografo. «Trovi la città di Meggido,» disse a voce bassa. «Come diavolo vuole che faccia a trovarla...?» «Non lo so. Vada in una biblioteca.» «Una biblioteca! Oh, Cristo!» «Hallo?» gridò Thorn nell'apparecchio. «Katherine?»
Nel suo letto d'ospedale, Katherine si sollevò a sedere, improvvisamente preoccupata per l'ansia che agitava la voce del marito. Teneva il ricevitore con la mano sana, l'altra era immobilizzata nel gesso. «Come stai?» domandò Thorn in preda alla disperazione. «Bene. E tu?» «Sì, bene, bene. Volevo soltanto rassicurarmi...» «Dove sei?» «A Roma. In un albergo che si chiama Imperatore.» «Che cosa ti è successo?» «Nulla.» «Non stai bene?» «No, ero soltanto preoccupato...» «Jerry, torna indietro.» «Non posso tornare, non subito.» «Ho paura.» «Non c'è ragione di aver paura.» «Ho telefonato a casa e non risponde nessuno.» Nella sua stanza d'albergo Thorn fissò Jennings che si stava cambiando la camicia per uscire. «Jerry?» disse Katherine. «Credo che farei meglio ad andare a casa.» «Resta dove sei,» esclamò Thorn in tono energico. «Ma sono preoccupata per Damien.» «Non devi avvicinarti a quella casa, Katherine.» «Ma devo...» «Stammi a sentire, Katherine. Non devi assolutamente andare a casa.» Katherine tacque, allarmata da quel tono perentorio. «Tu hai paura che io faccia qualcosa di brutto,» sospirò infine, «ma non hai ragione di temere. Ho parlato con lo psichiatra e ora vedo le cose in una luce diversa, molto più chiaramente. Non è Damien che mi ha creato questa situazione. Dipende tutto da me.» «Katherine...» «Ascoltami. Ora sto prendendo un farmaco che si chiama Lithium. È contro la depressione. E mi fa bene. Desidero veramente andare a casa. E voglio che tu torni presto.» Si interruppe, la voce gonfia d'emozione. «E voglio che ogni cosa torni ad andare bene come un tempo.» «Chi ti ha dato quel farmaco?» domandò Thorn. «Il dottor Greer.» «Resta in ospedale, Katherine. Non uscire di lì finché non arrivo io.»
«Ma io voglio andare a casa, Jerry.» «Per l'amor di Dio, Katherine, fa' come ti dico. Non uscire di lì finché non arrivo io.» «Ma ora sto bene!» «Non stai bene!» «Non devi preoccuparti per me.» «Katherine!» «Vado a casa, Jerry.» «No, non prima che io sia tornato.» «Ma quando arrivi?» «Domani mattina.» «Ma se a casa è accaduto qualcosa? Ho telefonato e...» «C'è qualcosa che non va a casa, Katherine.» La donna rimase in silenzio, spaventata da quelle parole. «Jerry,» domandò a voce bassa. «Che cosa è accaduto?» «Non te lo posso dire per telefono,» rispose Thorn in una agonia di dolore. «Ma che cosa c'è? Che sta succedendo? Perché non devo andare a casa?» «Ti prego, aspettami lì. Non muoverti dall'ospedale per nessuna ragione. Sarò di ritorno domani mattina e ti spiegherò tutto.» «Jerry, non farmi questo...» «Non sei tu, Katherine. Tu sei perfettamente sana.» «Che cosa intendi dire?» Nella camera d'albergo Jennings gettò un'occhiata a Thorn e scosse la testa. «Jerry?» «Katherine, non è il nostro bambino. Damien appartiene a qualcun altro.» «Cosa?» «Non andare a casa, Katherine,» implorò ancora Thorn. «Aspettami lì.» Riappese. Katherine restò muta, folgorata, senza fare un gesto, fino a quando il telefono cominciò a ronzarle nell'orecchio. Lentamente depose il ricevitore nella forcella e stette a fissare le ombre che danzavano sulle pareti e un albero che oltre la sua finestra dal sesto piano, si dondolava dolcemente nella brezza. Era terribilmente spaventata, ma anche consapevole che la sensazione di panico che aveva fino allora accompagnato le sue paure, si era di colpo dissolta. Il farmaco agiva, ora era capace di mantenersi
calma, di avere la testa lucida. Sollevò di nuovo il telefono e fece il numero di casa. Ancora una volta nessuna risposta. Si girò verso il tasto del citofono e premette. «Sì, signora?» rispose una voce. «Devo lasciare l'ospedale. C'è qualcuno con cui possa parlare?» «Occorre il permesso del medico, signora.» «Può cercarlo, per favore?» «Proverò.» La voce si spense e Katherine rimase seduta in silenzio. Un'infermiera entrò con la colazione, ma non aveva appetito. Sul vassoio c'era un piattino di gelatina di frutta. La toccò con un dito; era fredda e dava una sensazione di calma. Se ne impiastricciò una mano. A molte centinaia di chilometri di distanza, nel cimitero di Cerveteri, tutto era silenzio, il cielo coperto, quell'assoluta quiete interrotta soltanto dal suono appena percettibile di qualcosa che scavava. Su due tombe scoperchiate, due cani grattavano il terriccio. Le loro zampe si muovevano meccanicamente mentre riempivano di nuovo la cavità rimasta aperta. La terra ricadeva adagio sugli scheletri dello sciacallo e del neonato. Da una sbarra del cancello pendevano le membra squartate di un altro cane; ai piedi dell'inferriata un suo solitario compagno sollevava la testa in un mugolio basso e dolente di lutto. Il pianto risuonò per tutto il cimitero, aumentando progressivamente di intensità; altri cani si unirono a lui e in breve l'aria fu riempita da un coro di voci discordanti. Sembravano pronunciare una condanna. Nella sua stanza d'ospedale, Katherine premette ancora il bottone del citofono. Adesso la sua voce vibrava di impazienza. «C'è qualcuno?» domandò. «Sì?» rispose la solita voce. «Ho chiesto di cercare il medico che mi ha in cura.» «Temo di non poterlo raggiungere, signora. Dev'essere in sala operatoria.» «Potrebbe venire ad aiutarmi, per favore?» chiese Katherine. Il suo tono era teso. «Cercherò di mandarle qualcuno.» «Faccia presto, la prego.» «Farò del mio meglio.» Con uno sforzo riuscì a scendere dal letto. Si diresse verso l'armadio dove trovò rapidamente i suoi vestiti. L'abito era ampio come un camicione e
infilarselo non sarebbe stato difficile; ma la camicia da notte che indossava rappresentava una difficoltà, abbottonata com'era fino al collo. Si guardò allo specchio e si chiese come sarebbe mai riuscita a liberarsi da quell'indumento, con quel braccio ingessato. Era una camicia di un leggerissimo tessuto rosso porpora, una cosa ridicola per una donna con un braccio chiuso nel gesso. Katherine cominciò a cercare di slacciare i bottoncini. La sua irritazione cresceva via via che si accorgeva di non riuscirci. Con un gesto secco fece saltare i bottoni e lottò per sollevarsi quel velo rosso sopra la testa, ma non vi riuscì, al contrario, più si agitava, più si trovava avvolta, imprigionata in quella massa di mussola purpurea. Nel cimitero la furia dei cani risuonava sempre più sinistra. Nella sua camera d'ospedale Katherine lottava disperatamente contro quella rete di velo, finendo per avvolgersela sempre più strettamente intorno al collo e alla testa. Per un attimo provò una sensazione di panico e cominciò a respirare affannosamente. Proprio in quel momento la porta si aprì e la donna si sentì sollevata. Era venuto qualcuno ad aiutarla. Il cimitero di Cerveteri era tutto un'orgia di suoni. Il lamento degli animali cresceva, cresceva, sempre più alto. «Hallo!» esclamò Katherine, cercando di vedere attraverso il velo rosso chi era entrato. Ma non ci fu risposta. La donna si voltò, cercando di liberarsi del tessuto che la stringeva. «C'è qualcuno qui?» Si bloccò di colpo. Era Mrs. Baylock. Aveva la faccia infarinata di bianco, la bocca mostruosamente dipinta di rosso acceso, in un grande sorriso che le deformava il viso. Muta. Katherine osservò la donna che le passava davanti lentamente e andava a spalancare la finestra, guardando giù, nella strada sottostante. «Mi potrebbe aiutare...?» sussurrò Katherine. «Mi pare... di essere tutta legata in questa camicia.» Mrs. Baylock si limitò a sorridere; alla vista di quella faccia Katherine si sentì tremare le gambe. «È una bellissima giornata, Katherine,» esclamò la donna. «Una bellissima giornata per volare.» E si avvicinò, afferrando con forza la camicia da notte nei grossi pugni. «Per favore,» supplicò Katherine. I loro occhi si incontrarono e si fissarono per un lungo, ultimo istante.
«Sei bellissima, Katherine,» sussurrò Mrs. Baylock, «Dammi un bacio.» Si sporse in avanti e Katherine indietreggiò, mentre la donna la sospingeva con violenza verso la finestra. Nell'atrio del Pronto Soccorso dell'ospedale un'ambulanza arrivò a tutta velocità con uno stridio di freni, la sirena urlante e la luce rossa sul tetto che girava vorticosamente. In quell'attimo preciso da una finestra del sesto piano una figura di donna avvolta in una fluttuante camicia di velo color di porpora prese il volo con grazia. Il corpo volteggiò lentamente nella lunga discesa, componendo strane volute nell'aria. Nessuno lo vide, finché non andò a battere sul tetto dell'ambulanza, rimbalzando poi di lì e ricadendo a terra. Andò a fermarsi, inanimato, proprio nel mezzo dell'ingresso del Pronto Soccorso. Adesso a Cerveteri tutto era silenzio. Le tombe erano state ricoperte, i cani erano scomparsi nel folto dei cespugli. Thorn era caduto in un sonno pesante. Fu svegliato di colpo dal telefono. Era buio, ormai, e Jennings se n'era andato. «Sì?» disse Thorn ancora mezzo addormentato. Era il dottor Becker. Il timbro stesso della sua voce tradiva la notizia che ancora doveva arrivare. «Sono lieto di trovarla, Mr. Thorn,» cominciò. «Il nome dell'albergo era scritto sul tavolino da notte di sua moglie, ma ho faticato molto a rintracciarla...» «Che cosa c'è?» domandò Thorn. «Sono molto dolente di doverglielo dire per telefono.» «Cosa è successo?» «Sua moglie si è gettata dalla finestra della sua camera, qui in ospedale.» «...Cosa...?» ansimò Thorn. «È morta, Mr. Thorn. Abbiamo fatto tutto il possibile, ma non c'era più nulla...» Un nodo prese Thorn alla gola; non riuscì neppure a parlare. «Non siamo in grado di dire che cosa sia accaduto esattamente. Aveva chiesto di poter uscire dall'ospedale. Poi l'abbiamo trovata...» «È morta...?» gemette piano Thorn. «Una morte istantanea. Il cranio si è sfracellato nell'impatto con il selciato.» Thorn cominciò a gemere come un bambino, tenendosi il ricevitore premuto contro il petto. «Mr. Thorn?» esclamò ancora il medico.
Ma gli rispose un clic. Aveva riattaccato. Nel buio della sua camera Thorn pianse, i suoi singhiozzi echeggiavano nel corridoio. Un inserviente corse verso la stanza e bussò, ma nessuno gli rispose. Nessun cenno di vita per ore e ore. A mezzanotte tornò Jennings; piegato dalla stanchezza, entrò nella stanza e vide Thorn steso sul letto. «Thorn?» «Sì?» sussurrò l'altro. «Sono stato in biblioteca, poi all'Automobil Club e infine ho telefonato alla Royal Geographic Society.» Thorn non rispose e Jennings si abbandonò pesantemente sull'altra sponda del letto. Vide che la macchia di sangue sulla camicia del compagno si era allargata. La zona sotto l'ascella era scura e bagnata. «Ho scoperto la città di Meggido. Il nome è preso dalla parola 'Armageddon', la fine del mondo.» «Dov'è?» domandò Thorn. La sua voce era priva di qualsiasi espressione. «A circa quindici metri sotto la superficie della terra, temo. Nei dintorni di Gerusalemme. Stanno facendo degli scavi da quelle parti. Mi pare che ci lavorino degli archeologi di qualche università americana.» Jennings non ebbe risposta e si diresse verso il suo letto, dove si allungò, sfinito dalla stanchezza. «Ci vorrei andare,» mormorò ancora Thorn. Jennings annuì e sospirò profondamente. «Se soltanto lei riuscisse a ricordare il nome del vecchio...» «Bugenhagen.» Jennings si voltò a guardarlo, senza riuscire a vederne gli occhi. «Bugenhagen?» «Sì. E ora mi sono ricordato anche quei versi.» La faccia di Jennings esprimeva un'immensa confusione. «Allora il nome dell'uomo che lei dovrebbe incontrare è Bugenhagen?» «Sì.» «Bugenhagen era un esorcista del diciassettesimo secolo. È citato in uno dei libri che abbiamo con noi.» «Quello è il nome,» replicò Thorn, senza alcuna inflessione nella voce. «Di colpo ho ricordato tutto. Tutto quello che ha detto.» «Alleluia,» brontolò Jennings. «'Quando gli ebrei ritorneranno a Sion...'» recitò Thorn quasi in un sus-
surro, «'e una cometa si leverà nel cielo... e ritornerà il Sacro Romano Impero... allora noi tutti dovremo morire'.» Jennings ascoltava attentamente nell'oscurità; finalmente insospettito dal tono inerte della voce di Thorn, si rese conto che qualcosa in lui doveva essere mutato. «'Dal mare eterno egli si leva...'» continuò Thorn, «'con eserciti su entrambe le sponde... volgendo i fratelli contro i fratelli... fino a quando l'uomo sarà estinto'.» Thorn taceva. Jennings attese che il rumore di una macchina della polizia che si stava avvicinando fosse passato sotto le loro finestre. «È accaduto qualcosa?» domandò. «Katherine è morta,» rispose Thorn senza nessuna emozione nella voce. «Ora voglio che muoia anche il bambino.» Restarono svegli, ad ascoltare i suoni che salivano dalla strada. Poi tutto cadde nel silenzio della notte. Alle otto del mattino Jennings telefonò alla El-Al e prenotò due posti sull'aereo di mezzogiorno per Israele. In tutti i suoi viaggi, Thorn non aveva mai avuto occasione di recarsi in Israele; la sua conoscenza del paese si limitava alle notizie che ricavava dai giornali e dalle sue recenti ricerche bibliche. Fu colpito dalla sua modernità. Un paese concepito all'epoca dei Faraoni, ma nato nell'età dell'asfalto e del cemento; un pezzo di ventesimo secolo nel cuore di un arido deserto. Il cielo che aveva visto l'esodo di un popolo a dorso di cammello, era punteggiato ora di grattacieli e di ricchi alberghi imponenti, in tutti i quartieri si udiva il rumore dei cantieri edili. Gru gigantesche lavoravano come elefanti meccanici a trasportare i loro carichi di materiale da costruzione sempre più in alto. Si aveva la sensazione che la città fosse decisa a estendersi in tutte le direzioni possibili. Martelli pneumatici spaccavano i marciapiedi e allargavano strade già divenute insufficienti nel giro di così pochi anni. Dappertutto cartelli turistici offrivano escursioni in Terra Santa. C'era anche della polizia dappertutto. Sempre all'erta, controllava severamente bagagli e borse, per prevenire l'azione di eventuali sabotatori. All'aeroporto Thorn e Jennings erano stati fermati; i graffi e le contusioni che portavano sul viso avevano provocato i sospetti delle autorità di frontiera. Thorn aveva evitato di usare il passaporto diplomatico, preferendo servirsi dei documenti privati su cui figurava semplicemente come funzionario del governo americano. Ciò gli garantiva un certo anonimato. Nel volo da Londra a Roma il piccolo jet personale era servito ottimamente allo scopo. Ma qui l'unica possibilità di passare inosservato era quella di
viaggiare e avere lo stesso aspetto di tutti gli altri. Presero un tassì e si recarono all'Hotel Hilton. Nel negozio della hall si comperarono degli abiti più leggeri, poiché in città faceva molto caldo; il cemento sembrava rimandare moltiplicato il calore del sole e Thorn inzuppò di sudore le bende della medicazione che gli copriva la spalla. Sentiva riacutizzarsi il dolore della ferita sotto l'ascella, Jennings se ne accorse quando lo vide cambiarsi d'abito, e suggerì di chiamare un medico, ma Thorn rifiutò. Tutto quello che voleva adesso era trovare l'uomo di nome Bugenhagen. Quando furono pronti s'era già fatto buio. Camminarono per le strade della città, cercando di far passare il tempo in qualche modo, prima di poter iniziare le loro ricerche. Thorn era molto debole e sudava abbondantemente; si fermarono a un caffè che aveva i tavolini all'aperto e ordinarono del tè, nella speranza di riprendere un po' di forze. Avevano pochissimo da dirsi, ora; Jennings era inquieto, terribilmente a disagio per il silenzio passivo del suo compagno. Mentre si guardavano intorno oziosamente, seguendo il movimento che animava le strade, gli occhi del fotografo videro due ragazze che li osservavano da poco lontano. «Ecco, è proprio la cosa che ci vuole,» disse a Thorn. «Così riusciremo a sciacquarci la mente da tutto quello che ci tormenta.» Thorn seguì lo sguardo di Jennings e vide le due donne dirigersi verso il loro tavolino. «Io mi prendo quella con il neo,» comunicò Jennings. Thorn fissò Jennings con un senso di repulsione. Il fotografo si era alzato e invitava le due a prendere posto al loro tavolo. «Parlate inglese?» domandò Jennings, quando si furono sedute. Le due ragazze sorrisero, spiegando così che non erano in grado di rispondere. «Meglio così,» esclamò il fotografo rivolto a Thorn. «Basta agire.» La faccia di Thorn si riempì di disgusto. «Mi troverà all'albergo,» disse. «Perché non aspetta di vedere che cosa offre il menu?» «Non ho fame.» «Può darsi che ne valga la pena,» sorrise Jennings. Thorn capì solo in quel momento che cosa l'altro intendeva dire. Si alzò e se ne andò. «Non abbiatevela a male,» disse Jennings alle ragazze. «È un antisemita.»
Per la strada Thorn si girò a guardare il suo compagno. Vedendo che aveva già messo le mani addosso alle ragazze, se ne andò in fretta, dileguandosi nella notte. Vagò senza meta per le strade. Il dolore che gli saliva dentro a ondate sembrava sommergerlo. Sotto il braccio la ferita gli doleva e la notte gli appariva estranea, nemica quasi; gli pareva che se la morte l'avesse colto in quel momento sarebbe stata la benvenuta. Passò davanti a un night-club e il portiere lo afferrò per un braccio, invitandolo a entrare. Ma Thorn lo respinse e continuò la sua strada, senza sentire né vedere nulla, distinguendo appena con gli occhi velati ie luci della città. Più avanti, camminava ancora, gruppi di persone uscivano da una sinagoga. Vide le porte ancora aperte e silenziosamente entrò. La stella di Davide era su un altare, illuminata; sotto, dentro a teche di cristallo, delle pergamene bibliche. Thorn si avvicinò fino a trovarsi proprio davanti a quelle antiche testimonianze, solo nel silenzio pieno di echi che emanava da quelle pareti. «Posso fare qualcosa per lei?» domandò una voce nell'ombra alle sue spalle. Thorn si volse e vide un vecchio rabbino. Adesso era in luce. Era vestito di nero e camminava con una gruccia, piegato dall'artrite, il minuscolo berretto nero in bilico sulla testa canuta. «Questo è il Torah più antico di Israele,» disse indicando le pergamene. «È stato dissotterrato di sotto le spiagge del Mar Rosso.» Thorn osservò il vecchio. Gli occhi appesantiti dagli anni, annebbiati dalla cataratta, erano pieni di orgoglio. «La terra sotto Israele è colma di storia,» mormorò il vecchio. «È un peccato che noi vi dobbiamo soltanto camminare sopra.» Si rivolse di nuovo verso Thorn e gli sorrise. «È qui in visita?» «Sì.» «Che cosa l'ha portata fin qui?» «Sto cercando qualcuno,» rispose Thorn. «Anch'io sono venuto qui per la stessa ragione. Cerco mia sorella. Ma non l'ho trovata.» L'uomo sorrise. «Forse stiamo camminando sopra di lei.» Vi fu un lungo silenzio, poi il vecchio allungò una mano e spense una luce. «Ha mai sentito il nome 'Bugenhagen'?» domandò Thorn. «È un nome polacco?» «Non lo so.»
«Vive in Israele?» «Credo di sì.» «Che cosa fa?» Thorn si sentì terribilmente sciocco e scosse la testa. «Non lo so.» «È un nome familiare.» Rimasero per un lungo momento in silenzio nel buio. Il rabbino frugava nella propria memoria, alla ricerca di qualcosa. «Sa che cos'è un esorcista?» domandò Thorn. «Un esorcista?» sorrise il vecchio. «Vuol dire colui che è in contatto con il demonio?» «Sì.» Il rabbino rise e fece con la mano un gesto verso Thorn. «Perché ride?» domandò Thorn. «Perché sono cose che non esistono.» «No?» «Il demonio? Non esiste il demonio.» Jennings ritornò presto il mattino seguente e risparmiò a Thorn ogni racconto circa le sue imprese notturne. Il solo gesto che rivelò come aveva occupato quelle ore lo fece quando andò in bagno e si mise a urinare lasciando la porta aperta. Si urinava nelle mani e poi si lavava i genitali con l'urina. Cogliendo l'espressione di disgusto sul volto di Thorn, esclamò: «Me l'hanno insegnato nella RAF. È meglio della penicillina.» Thorn chiuse la porta e aspettò con impazienza che Jennings si fosse vestito. Stare in compagnia di quell'uomo lo disgustava. Ma ancora di più lo terrorizzava l'idea di restare solo. «Andiamo,» esclamò Jennings, afferrando il suo armamentario fotografico. «Mentre tornavo, questa mattina, ho fissato i posti per un giro turistico agli scavi.» Su un pulmino con altri dieci turisti si diressero dapprima nella città vecchia di Gerusalemme. Ci fu la sosta prevista al Muro del Pianto, dove i turisti scesero tutti a prendere avidamente fotografie. Il commercio che prospera ovunque arrivi il turismo assumeva qui aspetti grotteschi. Venditori ambulanti si aggiravano in mezzo alla folla degli ebrei raccolti in preghiera lungo il Muro, gridando sopra le loro teste ciò che avevano da vendere, dai panini con le salsicce calde fino ai crocifissi di plastica. Jennings comperò due crocifissi e se ne mise uno al collo, dando l'altro a Thorn. «Se lo metta. Può darsi che ci serva.»
Ma Thorn rifiutò, irritato dall'atteggiamento di Jennings che si comportava come se fosse alla fiera. Il viaggio nel deserto fu meno divertente. La guida raccontava con diligenza la storia più recente della guerra fra arabi e israeliani, additando in lontananza le alture del Golan, dove la battaglia aveva maggiormente infuriato. Passarono per il villaggio di Daa-Lot, dove un gruppo di scolaretti ebrei era stato massacrato dai terroristi arabi. Infine la guida spiegò come un altro gruppo di terroristi fosse stato catturato e ucciso, e i loro corpi ridotti in poltiglia da altri scolaretti, per rappresaglia. «Ora almeno sappiamo perché fanno tutto quel gran piangere,» borbottò Jennings. Thorn rifiutò di rispondere e il resto del viaggio si svolse in silenzio. Quando finalmente raggiunsero la zona degli scavi archeologici, tutti i turisti erano stanchi e accaldati; cominciarono a lamentarsi, mentre la guida indicava l'area delimitata da grandi funi e illustrava i lavori che si stavano compiendo. Sotto i loro piedi si trovavano le cave di re Salomone, un complicato sistema di fossati e canali che molto probabilmente si spingeva fino a Gerusalemme, a circa sessanta chilometri da dove si trovavano adesso. Nella zona compresa in quell'intrico, dovevano esserci anche le rovine di un'antichissima città, che si riteneva fosse il luogo stesso dove era stata scritta la Bibbia. Già si erano potuti recuperare frammenti di testi antichissimi, conservati in vasi di coccio avvolti nelle stoffe; riferivano di eventi strettamente collegati con quelli dell'Antico Testamento. Il progetto degli scavi era un'ambiziosa impresa archeologica, dal momento che non si avevano elementi sufficienti per stabilire dove si trovasse in realtà la città sepolta; i lavori quindi non venivano condotti con le escavatrici, ma eseguiti a mano, con la massima cautela, lavorando di piccone e di spazzola. Mentre la guida continuava a raccontare, Jennings e Thorn avvicinarono alcuni degli studenti di archeologia che lavoravano sul posto, ma non ottennero nessuna utile informazione. Il nome di Bugenhagen non diceva loro nulla e tutto quello che sapevano sulla città di Meggido era che molti secoli prima un violento terremoto l'aveva fatta precipitare nelle viscere della terra. Si era trattato di un sisma, o forse anche di un diluvio, poiché erano stati ritrovati nella zona dei gusci di lumache, assolutamente diversi da quelli di qualsiasi specie conosciuta. Ritornati all'albergo, Thorn e Jennings si recarono al mercato, chiedendo informazioni a tutti quelli che incontravano, domandando se qualcuno avesse udito il nome di Bugenhagen. Quel nome non risvegliava nessun ri-
cordo, ma i due proseguirono imperterriti. Thorn ora era al limite della disperazione e le sue forze stavano cedendo. La maggior parte del lavoro di ricerca lo svolse Jennings, continuando a girare e a interpellare tutti, visitando botteghe e fabbriche, studiando elenchi telefonici, ricorrendo persino alla polizia. «Può anche darsi che ora l'uomo abbia cambiato nome,» disse alla fine il fotografo mentre erano seduti sulla panchina di un parco, la mattina del secondo giorno. «Forse è un tale che si chiama George Bugen. O Jim Hagen. O Izzy Hagenberg.» Il giorno seguente si trasferirono a Gerusalemme, prendendo alloggio in un piccolo albergo. Per l'ennesima volta ricominciarono le loro ricerche, interrogando chiunque incontravano. Ma non servì a nulla, nessuno aveva mai sentito quello strano nome, evidentemente. Avrebbero potuto anche continuare in eterno senza risultato. «Io direi di rinunciare,» esclamò Jennings. Stava contemplando la città dalla veranda della loro camera. Dentro faceva molto caldo e Thorn se ne stava steso sul letto madido di sudore. «Se mai c'è un Bugenhagen in questo paese, non abbiamo una sola possibilità al mondo di trovarlo. E per quanto ne sappiamo, può anche darsi che non esista.» Entrò nella stanza alla ricerca di una sigaretta. «Accidenti, quel prete era quasi sempre sotto l'effetto della morfina, e noi ce ne stiamo qui, prendendo le sue parole come se fossero Vangelo. Per fortuna non le ha detto di andare sulla luna, altrimenti a quest'ora saremmo col sedere al fresco.» Si buttò pesantemente sul letto, fissando gli occhi su Thorn. «Non capisco proprio, Thorn. Prima mi pareva che tutto avesse un significato, ma adesso non ci capisco più nulla, mi sembra una pazzia.» Thorn annuì e si sollevò faticosamente a sedere. La medicazione si era disfatta e Jennings fece una smorfia quando vide la ferita. «Mi pare piuttosto brutta,» disse «Si sistemerà.» «Ho paura che ci sia un'infezione.» «Va benissimo così,» ribatté ancora Thorn. «Non sarebbe meglio farla vedere a un medico?» «Cerchiamo invece il vecchio,» replicò seccamente Thorn. «È la sola persona che desidero incontrare.»
Jennings stava per insistere, quando si udì un leggero battere di nocche alla porta. Si alzò, andò ad aprire e si trovò davanti un mendicante. Era un ometto piccolo, un arabo anziano e nudo dalla cintola in su, un sorrìso zelante accentuato da un grosso dente d'oro. Si inchinò con eccessiva cortesia. «Che cosa vuole?» domandò Jennings. «Loro cercano il vecchio?» Jennings e Thorn si scambiarono una rapida occhiata. «Quale vecchio?» domandò Jennings diffidente. «Al mercato mi hanno detto che voi andate cercando il vecchio.» «Infatti, stiamo cercando un uomo.» «Io vi ci porto.» Thorn si alzò con uno sforzo, fissando gli occhi in quelli di Jennings. «Svelto, svelto,» disse l'arabo con aria frettolosa. «Ha detto di portarvi direttamente da lui.» Si avviarono a piedi, in silenzio, attraverso le stradette della vecchia Gerusalemme; il piccolo arabo faceva strada, sempre in fretta. Era straordinariamente agile e veloce per la sua apparente età. Thorn e Jennings faticavano a tenergli dietro, e quasi lo perdevano di vista quando si immergeva nella folla del mercato, per rispuntare dalla parte opposta, in cima a un muro. L'uomo pareva divertito a vedere la loro fatica e li precedeva costantemente di una ventina di metri, svoltando rapidamente sotto portichetti e stradine. Quando finalmente i due lo raggiunsero, col fiato corto, sorrise tutto soddisfatto. Sembrava che fossero giunti alla fine del loro viaggio, ma tutto ciò che si trovarono davanti fu una parete di mattoni; per un momento Jennings e Thorn furono presi dal dubbio di essere stati tratti in inganno. «Giù,» disse l'arabo, sollevando una grata e invitandoli con un gesto a scendere. «Che diavolo è?» domandò Jennings. «Svelto, svelto,» ripeté l'arabo, sempre sorridendo. Thorn e Jennings si scambiarono un'occhiata inquieta, poi obbedirono. Dopo essere entrato dietro di loro, l'arabo rimise a posto la grata. Dentro era buio pesto; il mendicante accese una torcia e cominciò ad avanzare rapidamente. Lo seguirono e dai gradini consunti che calpestavano si resero conto di stare scendendo. Lo scolo della strada sovrastante aveva formato sul passaggio nel quale si trovavano uno strato spesso di fanghiglia scura e puzzolente che rendeva estremamente precario mantenersi in piedi e cam-
minare. Incespicarono più volte, e quando furono sul terreno più solido l'arabo li sorprese per la velocità con cui prese ad avanzare. I due uomini tentarono di mettersi a correre, ma i piedi non facevano presa sulle pietre levigate. L'ometto procedeva rapidissimo e ben presto la torcia divenne un piccolo punto luminoso in lontananza. Intorno a loro tutto era oscurità, il tunnel nel quale camminavano era stretto e pareva senza fine, le pareti basse sembravano congiungersi sopra le loro teste. Si sarebbe detto un grosso condotto fognario o un canale di irrigazione; Jennings pensò che poteva darsi benissimo che stessero muovendosi in quell'intricata rete di gallerie di cui aveva parlato la guida il giorno precedente, durante la visita alla zona archeologica nel deserto. Pietre massicce e una totale oscurità parvero ingoiarli mentre proseguivano alla cieca. La luce della torcia era scomparsa e d'improvviso si resero conto di essere completamente soli. Non riuscivano neppure a vedersi l'un l'altro, sentivano soltanto i propri respiri nel buio. «Jennings...» ansimò Thorn. «Sono qui.» «Non vedo niente...» «Quel disgraziato...» «Mi aspetti.» «Non ho altra scelta,» ribatté Jennings. «Qui di fronte c'è una solida parete di pietra.» Thorn avanzò faticosamente a tentoni e toccò Jennings, poi allungando la mano sentì il muro. Erano in un cunicolo senza uscita. L'arabo era scomparso. «Ma non ci è passato accanto per tornare indietro,» disse Jennings. «Di questo sono sicuro.» Accese un fiammifero che illuminò un piccolo spazio intorno a loro. Pareva di essere in una tomba; il basso soffitto di pietra incombeva come se volesse schiacciarli, dalle crepe sgocciolava l'umidità. «È una fogna?» disse Thorn. «Il muro è bagnato,» osservò Jennings. «Come mai è bagnato?» Il fiammifero si spense e restarono immersi nell'oscurità. «Questo è arido terreno desertico. Da dove diavolo può venire questa umidità?» «Ci deve essere qualche sorgente sotterranea...» ipotizzò Thorn. «O dei serbatoi. Non sarei affatto sorpreso se fossimo vicini alla città sotterranea. Hanno detto di avere trovato dei gusci di lumache nel deserto.
È probabile che ci fosse dell'acqua nella città che poi affondò quando la terra si aprì.» Thorn stava in silenzio, continuando ad ansimare. «Andiamo,» disse alla fine. «Attraverso il muro?» «Torniamo indietro. Da dove siamo venuti. Usciamo di qui.» Cominciarono a tastare il muro per farsi strada; le loro mani scivolavano sulla parete di roccia bagnata. Progredivano con molta lentezza e senza riuscire a vedere nulla, eppure avevano la sensazione di star facendo miglia e miglia. Poi la mano di Jennings trovò uno spazio vuoto. «Thorn?» Jennings afferrò il braccio del compagno e lo tirò indietro, verso di sé. Di fianco a loro si apriva un altro corridoio che tagliava ad angolo retto quello che stavano percorrendo. Evidentemente passando nel buio non se ne erano accorti. «C'è una luce laggiù in fondo,» sussurrò Thorn. «Probabilmente il nostro piccolo Gandhi.» Avanzarono in quella direzione, muovendosi molto adagio. Non era un altro canale, ma una caverna, con dei macigni che sporgevano dalle pareti nei punti più inaspettati. Cercando di farsi strada con la maggiore cautela possibile, strisciarono avanti; cominciavano vagamente a distinguere qualcosa. Non era la luce di uria sola torcia. D'un tratto videro una grande stanza completamente illuminata. Due uomini li guardavano avanzare lentamente. Uno dei due era il piccolo arabo, con la sua torcia spenta che gli penzolava dal fianco; l'altro era un uomo anziano con calzoncini corti color cachi e una camicia a maniche corte. Sembrava in tutto e per tutto uno degli archeologi che avevano visto il giorno prima a scavare nel deserto. Il suo volto era serio e tirato, la camicia appiccicata al corpo per il sudore. Alle sue spalle si vedeva un grande tavolo di legno coperto di cumuli di carte e pergamene. Jennings e Thorn arrancarono fino a raggiungere la soglia di pietra per entrare nella stanza. Rimasero lì, sbalorditi, sbattendo gli occhi davanti a tutta quella luce. La stanza era rischiarata da dozzine e dozzine di lanterne appese ai muri, le pareti in penombra rivelavano i vaghi contorni di costruzioni e scale intagliate nella pietra. Il pavimento sotto i loro piedi era fango indurito, ma in più punti pendevano dal soffitto delle specie di stalattiti. Si potevano immaginare le forme delle grandi pietre che avevano in secoli lontani delimitato una strada.
«Duecento dracme,» disse l'arabo allungando la mano. «Potete pagare?» domandò l'altro. Thorn e Jennings lo fissarono sbalorditi; l'uomo in calzoncini corti sembrava volersi scusare. «Lei è...?» Jennings fu interrotto dal rapido gesto affermativo dell'uomo. «Lei... è Bugenhagen?» Jennings lo guardò con aria sospettosa. «Bugenhagen era un esorcista del diciassettesimo secolo.» «Questo era nove generazioni prima di me.» «Ma lei...» «Io sono l'ultimo,» replicò l'uomo bruscamente. «E il meno grande.» Si spostò fin dietro al tavolo e, con un certo sforzo, si sedette; la luce della lampada rivelò la sua pelle pallidissima, quasi trasparente, le vene estremamente evidenti alle tempie e sul cranio calvo. C'era nella sua espressione un'ombra di amarezza, come se si dolesse di ciò che doveva essere fatto. «Dove siamo?» domandò Thorn. «Questa è Jezreel, nella città di Meggido,» rispose l'uomo con voce inespressiva. «La mia fortezza e la mia prigione. Il luogo dove ha avuto inizio la cristianità.» «La sua prigione?» domandò Thorn. «Geograficamente questo è il cuore della cristianità. Fino a quando io rimarrò qui dentro, nulla potrà colpirmi.» Tacque, aspettando le loro reazioni. I due uomini erano impauriti, disorientati. L'ansia era dipinta sui loro volti tesi. «Possono pagare il mio messaggero, per favore?» domandò. Thorn affondò la mano in tasca e e ne trasse delle banconote; l'arabo le prese e subito scomparve da dove era venuto, lasciando i tre uomini a fissarsi in silenzio. La stanza era fredda e umida, Jennings e Thorn rabbrividirono mentre si guardavano intorno. «In questa piazza di villaggio,» disse Bugenhagen, «marciarono un tempo gli eserciti romani e i vecchi del luogo sedevano sulle panche di pietra sussurrando le voci che correvano sulla nascita del Cristo. Le storie che essi si raccontavano sono tutte raccolte qui,» disse allungando la mano, «in questo edificio, annotate con cura e diligenza e raccolte in tutti i libri che conosciamo come la Bibbia.» Jennings spinse gli occhi verso una caverna buia alle loro spalle e Bugenhagen seguì il suo sguardo.
«Tutta la città è qui,» annunciò. «Trentacinque chilometri da nord a sud. La maggior parte è transitabile, tranne i punti in cui stanno facendo attualmente degli scavi. Continuano a scavare e quando saranno arrivati fin qui, tutto andrà in frantumi.» Tacque, assorto nei suoi tristi pensieri. «Ma questo è il destino dell'uomo, la sua volontà, non è vero?» riprese. «La pretesa di volere che tutto ciò che deve essere visto sia sotto gli occhi, in superficie, visibile a tutti.» Thorn e Jennings restavano muti, cercando di capire tutto quello che vedevano e udivano. «Il piccolo prete,» domandò Bugenhagen, «è già morto?» Thorn si volse verso di lui, scosso dal ricordo di Tassone. «Si,» rispose. «Allora si sieda, Mr. Thorn. Sarà meglio che ci mettiamo al lavoro.» Thorn era perplesso e riluttante a ubbidire. Rimase in piedi. Gli occhi del vecchio si rivolsero a Jennings «Lei ci vorrà scusare. Quello che devo dire riguarda solamente Mr. Thorn.» «Ma io sono con lui in tutta questa faccenda,» ribatté Jennings. «Temo di no.» «Ma sono io che l'ho condotto fin qui.» «Sono certo che egli le sarà molto grato.» «Thorn...?» «Faccia come dice lui,» rispose Thorn. Jennings si irrigidì, offeso. «E dove diavolo dovrei andare?» «Prenda una lampada,» gli disse Bugenhagen. Riluttante Jennings, fece come gli era stato detto. Guardando rabbiosamente Thorn, afferrò una delle lampade dal muro e si allontanò nel buio. I due rimasero a lungo in silenzio, a disagio Poi il vecchio si alzò dal suo posto dietro il tavolo e attese finché i passi di Jennings non si persero in lontananza. «Si fida di luì?» domandò Bugenhagen. «Sì.» «Non si fidi di nessuno.» Si girò, frugò in un mobile intagliato nella pietra e ne prese un involto. «E di lei devo fidarmi?» chiese Thorn. Per tutta risposta il vecchio ritornò verso il tavolo e aprì l'involto. Comparvero sette piccoli pugnali scintillanti nella luce delle lampade. Erano sottilissimi, con il manico d'avorio. Ogni impugnatura aveva la forma del
Cristo crocifisso. «Si fidi di questi,» disse. «Sono tutto quanto può ancora salvarla.» Nelle caverne alle loro spalle l'aria era immobile. Jennings attraversò uno spazio bassissimo, piegandosi sotto il soffitto incombente e irregolare. I suoi occhi erano fissi nel cerchio di luce formato dalla lampada che reggeva in mano. Gli passarono sotto gli occhi strani oggetti incassati nella pietra delle pareti, scheletri semibruciati nella roccia; parevano sporgere dalle soglie e dai gradini di quella che un tempo doveva essere stata una strada. Continuò a camminare; avanzava sempre più chino nel tunnel che si andava via via restringendo. Nella stanza che si era lasciato alle spalle, le luci erano state abbassate; gli occhi di Thorn erano ora pieni di paura, mentre fissava il tavolo davanti a sé. I sette pugnali stavano dritti, infilati con mano ferma nel legno del ripiano a formare una croce. «Bisogna farlo in terreno consacrato,» sussurrò il vecchio. «In una chiesa. Il sangue deve zampillare sull'altare di Dio.» Le sue parole cadevano a una a una, inframmezzate da pause di silenzio, mentre egli studiava Thorn per assicurarsi che comprendesse ogni cosa. «Ogni pugnale deve penetrare fino all'impugnatura. Fino ai piedi del Cristo crocifisso... e devono essere disposti in modo da formare il segno della croce.» La mano rugosa del vecchio si protese verso i pugnali e, con un certo sforzo ne staccò uno, quello centrale. «Questo, il primo, è il più importante. Estingue la vita fisica e forma il centro della croce. Gli altri estinguono la vita spirituale, e devono irradiarsi verso l'esterno, in questo modo...» Si arrestò, scrutando l'espressione di Thorn. «Per farlo lei deve liberarsi di ogni umana simpatia,» disse. «Non si tratta di una creatura umana.» Thorn si sforzava di ritrovare la parola. Quando riuscì a parlare, gli parve che fosse la voce di un altro, rauca e stridula, un chiaro riflesso dell'angoscia che lo divorava. «Che cosa accade se lei si sbaglia?» domandò. «Se non fosse...» «Lei non deve fare errori.» «Ma ci deve pur essere un mezzo per essere sicuri. Una prova...» «Egli porta un marchio. Una serie di tre sei.» Il respiro di Thorn si fece più affannoso. «No,» disse.
«Così dice la Bibbia. Così sono segnati tutti gli apostoli di Satana.» «Ma il bambino non ha alcun segno.» «Salmo dodici, verso sesto. 'Fa' che colui che comprende veda il numero della Bestia, perché è un numero umano, il suo numero è seicentosessantasei'.» «Ma non ha alcun marchio, glielo assicuro.» «Deve averlo.» «Ma gli ho fatto io il bagno, quando era piccolo. Conosco la sua pelle centimetro per centimetro.» «Se non è visibile sulla pelle, lo troverà sotto i capelli. Non è nato con i capelli molto folti?» Thorn rammentò la prima volta che aveva visto il piccino. Si ricordava benissimo di essere stato colpito da quella massa di folti capelli scuri. «Scosti i capelli,» spiegò Bugenhagen. «Vi troverà sotto nascosto il marchio di Satana.» Thorn chiuse gli occhi e chinò la testa, stringendosela fra le mani. «Ma una volta che ha cominciato, non deve avere esitazioni.» Thorn scosse la testa, incapace di accettare quel compito. «Lei dubita di me?» domandò Bugenhagen. «Non lo so,» rispose Thorn con un sospiro. Il vecchio si appoggiò allo schienale della sua sedia e lo studiò attentamente. «Suo figlio è stato ucciso mentre era ancora nel grembo materno, come era stato predetto. Sua moglie è morta...» «Ma è un bambino...!» «Vuole altre prove?» «Sì.» «E allora aspetti,» disse Bugenhagen. «Deve essere sicuro che ciò che fa deve essere fatto. Altrimenti lo farà male. Se lei avrà qualche incertezza, essi la sconfiggeranno.» «Essi...?» «Lei ha detto che c'è una donna. Una donna che si occupa del bambino.» «Mrs. Baylock...» Il vecchio si appoggiò all'indietro, assentendo. Lo sapeva. «Il suo nome è B'aalock. È un'apostata, una creatura del demonio, e si farà uccidere prima di lasciare che lei lo faccia.» Silenzio; nella caverna dietro di loro si udivano dei passi. Dal buio emerse lentamente la figura di Jennings, la faccia devastata da un angoscia-
to stupore. «...Migliaia di scheletri...» mormorò. «Settemila,» precisò Bugenhagen. «Meggido era Armageddon. La fine del mondo.» Jennings venne avanti, scosso da ciò che aveva visto. «Lei vuol dire... 'Armageddon' è già stato?...» «Oh, certo,» rispose Bugenhagen. «E lo sarà ancora molte volte.» Staccò i pugnali infissi nel tavolo, li ritirò con cura nella stoffa, ne fece un involucro e lo tese a Thorn. Thorn non li avrebbe voluti, ma Bugenhagen glieli gettò nelle mani. I suoi occhi ressero con fermezza lo sguardo dell'uomo che aveva di fronte. «Io ho vissuto molto a lungo,» disse Bugenhagen con voce tremante. «Prego soltanto di non aver vissuto invano.» Thorn si voltò e seguì Jennings nell'oscurità dalla quale erano arrivati. Avanzava in silenzio e si girò soltanto una volta per vedere la stanza nella quale era stato. Era scomparsa. Le luci si erano spente e tutto si era dissolto nell'oscurità. Nelle strade di Gerusalemme, i due uomini continuarono a camminare muti. Thorn stringeva convulsamente fra le mani l'involucro che gli era stato affidato. Era profondamente scosso e avanzava come un automa, ignaro di tutto ciò che lo circondava, gli occhi fissi e sbarrati. Jennings aveva tentato di fargli qualche domanda, ma Thorn si era rifiutato di parlare. Ora, mentre percorrevano il marciapiedi ristretto dalla palizzata di un cantiere edile, il fotografo cercò di raggiungerlo, di tenere il passo del compagno che lo precedeva. Dovette gridare per farsi intendere, per superare il fracasso dei martelli pneumatici, mentre dentro di sé sentiva crescere l'impotenza. «Ma Thorn, mi ascolti! Tutto quello che voglio sapere è che cosa le ha detto! Ne avrò pur diritto, no?» Ma Thorn continuava a camminare per la sua strada tacendo ostinatamente. Anzi, allungava il passo come per mantenere una certa distanza fra sé e il fotografo. «Thorn! Voglio sapere che cosa ha detto!» Jennings scese in mezzo alla strada, afferrando Thorn per la manica. «Ehi! Ma io non sono un semplice spettatore! In fondo, sono io che l'ho trovato!» Thorn si arrestò, fissando Jennings negli occhi.
«Sì, è vero. È stato lei, non è così? È stato lei che ha trovato tutto quanto.» «Che cosa intende dire?» «Che è stato lei a insistere per andare avanti in questa storia! È stato lei che mi ha messo quest'idea nel cervello!» «Ehi, un momento...» «È lei che ha preso quelle maledette fotografie...» «Mi aspetti...» «È lei che mi ha portato fin qui...» «Che cosa le succede?» «Ma io non so neppure chi sia lei!» Staccò con forza la mano di Jennings dal suo braccio e si volse. Jennings lo afferrò nuovamente. «Ora lei si fermerà e starà a sentire quello che ho da dirle.» «Sono stato a sentirla anche troppo.» «Sto cercando di aiutarla.» «Non più, adesso!» Si fissarono negli occhi, Thorn sconvolto da un improvviso furore. «Se penso che sono davvero stato a sentire tutto questo! Che ho davvero creduto a tutto questo!» «Thorn...» «Per quanto ne so, quel vecchio potrebbe anche essere una specie di fachiro che gioca con i suoi pugnali!» «Di che cosa sta parlando?» Thorn sollevò con mani tremanti il pacco che teneva. «Questi sono pugnali! Armi! Vuole che io li adoperi per pugnalarlo! Si aspetta che io ammazzi un bambino!» «Ma non è un bambino!» «È un bambino!» «Per l'amor di Dio, ma quali altre prove...» «Ma che specie di uomo crede che io sia?!» «Si calmi un momento.» «No!» urlò Thorn. «Non voglio! Non lo farò. Non voglio avere niente a che fare con questa storia! Ammazzare un bambino. Ma che sorta di uomo crede che io sia?» In un'esplosione d'ira violenta Thorn si girò su se stesso, sollevando il pacco dei pugnali in alto e scaraventandolo contro un muro. Finirono in un vicolo poco lontano. Jennings si arrestò un istante, fissando con durezza
gli occhi furiosi di Thorn. «Forse lei non vuol farlo,» esclamò rabbiosamente, «ma io sì!» Si volse e Thorn lo fermò. «Jennings.» «Signore.» «Non la voglio più vedere. Mi dissocio da tutto quello che ha a che vedere con questa storia.» Le labbra ripiegate in un moto di ribellione, Jennings si addentrò rapidamente nel vicolo, chinandosi a frugare dappertutto in cerca del pacco. Il terreno era ingombro di rifiuti di ogni sorta, l'aria vibrava del frastuono assordante dei martelli pneumatici e delle grosse macchine del cantiere. L'uomo avanzava dando calci alle immondizie, finché scorse il pacchetto ai piedi di un secchio di rifiuti, proprio davanti a sé. Si mise a correre e si chinò rapidamente. Non fece in tempo a vedere il braccio di un'enorme gru che avanzava verso di lui, si arrestava un istante, prima di lasciar cadere la grandissima lastra di vetro che teneva nella sua morsa. La lastra si abbatté come la lama di una ghigliottina, con la stessa determinazione omicida e colse Jennings proprio all'altezza del collo: gli staccò di netto la testa dal corpo, prima di esplodere in una miriade di frammenti che schizzarono tutt'intorno. Thorn udì l'impatto violento, poi il suono sinistro delle grida di orrore, mentre i pedoni da tutte le direzioni correvano verso il vicolo dove era scomparso Jennings. Seguendo la corrente della gente, Thorn si fece strada in mezzo alla piccola folla fino al punto dove giaceva il corpo. Decapitato. Il sangue sgorgava ancora pulsante dal collo in un moto vivo, come se il cuore battesse ancora. Una donna che si era affacciata a una veranda della casa di fronte, guardò giù e a un tratto gettò un urlo di raccapriccio. La testa di Jennings era in un secchio delle immondizie, gli occhi sbarrati levati verso il cielo. Con uno sforzo immenso Thorn si mosse, fece ancora alcuni passi in direzione di Jennings, poi prese il pacco dei pugnali che giaceva fra i rifiuti, proprio sotto la mano senza vita dell'uomo. Con gli occhi agghiacciati dall'orrore, si rimise in moto, uscì dal vicolo e cercò la strada per ritornare all'albergo. 12. Il volo di ritorno a Londra era durato otto ore. Thorn se n'era rimasto se-
duto al suo posto in un silenzioso torpore. Il suo cervello si rifiutava di funzionare. Il fuoco d'artificio dei pensieri - intuizioni, fantasie, dubbi che fino allora gli erano turbinati nella mente come bagliori accecanti, si era spento. Ora non c'era più in lui alcun timore, e nemmeno dolore; solo la semplice, ottusa certezza di ciò che andava fatto. All'aeroporto di Londra il pacco dei pugnali gli fu restituito dalla hostess che, in base alle disposizioni antidirottamento, lo aveva preso in consegna per tutta la durata del volo. Ora, rendendoglieli, li osservò attentamente e gli disse, ammirata, che erano davvero splendidi. Gli chiese dove li aveva comperati. Thorn rispose a monosillabi, rimettendosi il pacco nell'interno della giacca, e si diresse verso l'interno del terminal. Era passata la mezzanotte e l'aeroporto era ormai chiuso; il suo volo era l'ultimo cui era stato consentito l'atterraggio, date le scarse condizioni di visibilità delle piste. La città era immersa nella nebbia, persino i tassisti si rifiutarono di portarlo a casa, spaventati dall'idea del lungo percorso fino a Pereford. Quel rientro a Londra così diverso dai suoi abituali ritorni disorientava Thorn, gli dava un'opprimente sensazione di sgomento e di tristezza. Nessuno a riceverlo, nessuno a riaccompagnarlo a casa; il ricordo di ciò che era stata la sua vita lo riempì di indicibile angoscia. Finalmente la macchina arrivò e il viaggio verso Pereford ebbe inizio a passo d'uomo. La totale mancanza di visibilità dava l'assurda sensazione di rimanere del tutto immobili. Era come se l'automobile fosse sospesa nello spazio e ciò aiutò almeno Thorn a vincere la tentazione di pensare a quello che l'aspettava. Il passato era concluso, il futuro inimmaginabile. Non c'era che il momento presente, che pareva durare un'eternità. Tutto il tempo che ci volle per arrivare fino a Pereford. Anche Pereford era avvolta in una nebbia fittissima. La macchina depositò Thorn e il suo bagaglio sul viale, proprio di fronte alla villa, dove tutto era buio e silenzio. Thorn rimase lì per un lungo attimo, dopo che l'automobile fu ripartita; alzò gli occhi e fissò la casa che un tempo, neppure tanto lontano, aveva custodito tutto ciò che egli aveva di più caro al mondo. Non una sola luce veniva dall'interno, non un suono. La mente di Thorn fu torturata dal fluire delle immagini della vita che si era svolta in quel giardino, fra quelle mura. Vide Katherine in giardino, che giocava con il bambino, mentre Chessa li guardava ridendo. Vide la grande veranda affollata di gente e il suono delle allegre risate, vide il viale pieno di macchine, appartenenti ai nomi più illustri del Commonwealth, ch'erano suoi ospiti. Per fortuna la visione svanì ed egli avvertì soltanto il battito del suo cuore, la
sensazione del sangue che gli scorreva nelle vene. Raccogliendo tutto il suo coraggio, Thorn si diresse verso la porta d'ingresso e, con mani gelide e irrigidite, infilò la chiave nella toppa. In quel momento udì un suono alle sue spalle. Era qualcosa che si muoveva, come se qualcuno stesse correndo verso di lui attraverso la foresta di Pereford. Sentì il cuore battergli in gola mentre entrava, richiudendo rapidamente la porta dietro di sé. Per un attimo aveva avuto la sensazione di essere inseguito, ma quando guardò fuori, oltre il vetro della porta chiusa, vide solo nebbia. Chiuse la porta con il catenaccio, poi rimase un momento immobile nel buio, cercando di sintonizzare l'orecchio ai suoni della casa. L'impianto di riscaldamento era in funzione, si udiva il fruscio nelle condutture di alluminio, la pendola ticchettava, puntuale, scandendo il passare dei secondi. Thorn si diresse lentamente verso il soggiorno, poi passò in cucina, infine aprì la porta del garage. Le due automobili erano al loro posto, una accanto all'altra, la giardinetta di Katherine e la sua Mercedes. Andò verso la Mercedes, aprì lo sportello accanto al posto di guida e infilò la chiave dell'accensione. Il serbatoio era pieno a metà; bastava per arrivare fino a Londra. Lasciando aperto lo sportello e la chiave inserita, tornò verso la porta della cucina, fermandosi ad azionare l'interruttore che sollevava automaticamente la saracinesca del garage. La nebbia entrò a folate, e per un istante Thorn ebbe di nuovo l'impressione di udire un suono. Si fermò, e riabbassò la saracinesca; stette in ascolto. Nulla. Il suo cervello troppo affaticato gli stava giocando dei brutti scherzi. Accese le luci e si guardò intorno. Tutto era come quando era partito, una casa dove la massaia aveva lasciato tutto in ordine prima di andare a dormire. C'era persino una pentola di coccio con i cereali messi a bagno per la colazione del mattino seguente, pronta sull'angolo del fornello. Quella vista scosse Thorn. Tutto era così consueto, così normale, assolutamente inconciliabile con la verità che egli conosceva. Dirigendosi verso la credenza della cucina, si tolse il pacco dei pugnali dalla tasca interna della giacca e li sparse disordinatamente davanti a sé. Tutti i sette pugnali erano lì; le lame affilate di fresco, riflettevano tracce del suo viso, mentre egli si chinava su di loro. Vi vide i suoi stessi occhi, inespressivi e risoluti, ma si accorse che la vista di quei coltelli lo faceva immediatamente sudare freddo. Una sensazione di estrema debolezza gli saliva dalle gambe e dovette lottare per superarla. Riavvolse in fretta i pugnali con mani tremanti e rimise il pacco nella tasca interna del cappotto.
Passò nella dispensa e si diresse verso una piccola scala di legno, chinandosi per evitare la lampadina che scendeva nuda a illuminare quell'angolo, appesa a un pezzo di filo elettrico scoperto. Quella era la scala di servizio e l'aveva usata una sola volta, giocando a nascondino con Damien. D'un tratto si ricordò che quella volta si era detto che doveva far qualcosa per quel cavo elettrico che pendeva dal basso soffitto, per paura che il bambino potesse raggiungerlo. Era uno dei tanti rischi di quella casa così vecchia. Al piano di sopra, per esempio, c'erano delle finestre che si aprivano con troppa facilità, e dei balconi malsicuri; le ringhiere avevano urgente bisogno di essere riparate. Mentre si faceva strada a fatica su per quella scaletta posteriore, Thorn ebbe la sensazione di stare vivendo un sogno. Presto si sarebbe svegliato accanto a Katherine e le avrebbe raccontato quelle brutte fantasie che lo avevano tormentato nel sonno. Lei l'avrebbe guardato con quei suoi occhi dolci colmi di preoccupazione e il tocco delle sue mani amorevoli lo avrebbe rassicurato; il bambino avrebbe fatto irruzione nella loro camera da letto, il visino fresco e ancora roseo di sonno. Thorn arrivò al primo piano e si inoltrò nel grande pianerottolo cui si accedeva dalla scala principale. In quel momento la confusione che gli aveva annebbiato la mente prima della morte di Jennings lo colse di nuovo. Pregò con tutta l'anima che la camera del bambino fosse vuota, che la casa fosse così silenziosa perché quella strana donna se lo era portato via. Invece sentiva nel silenzio il ritmo del loro respiro e il cuore gli tremò nuovamente di angoscia e di disperazione. Erano lì, entrambi, dormivano; il russare pesante della donna sovrastava il respiro leggero del piccino. Thorn aveva sempre avuto l'impressione che lì, in quel vestibolo, le loro vite si intrecciassero, proprio mentre loro dormivano; i loro respiri si incontravano e si fondevano nel buio, creando una sensazione di unicità che non avevano mai conosciuto da svegli. Si appoggiò ancora al muro, in ascolto, e poi si avviò rapidamente verso la propria camera. Entrò. Accese la luce. Il letto era pronto, come se il suo ritorno fosse atteso, ed egli vi si avvicinò a passi lenti e pesanti. Gli occhi gli caddero sulla fotografia incorniciata sul tavolino da notte in cui c'erano lui e Katherine. Come sembravano giovani e pieni di promesse, di speranze per l'avvenire! Thorn si stese supino sul letto e sentì le lacrime che si aprivano un varco agli angoli degli occhi. Erano arrivate senza preavviso ed egli vi si abbandonò, le lasciò scorrere liberamente. Al piano di sotto un orologio batté le due; Thorn si alzò e andò in bagno. Accese la luce e indietreggiò inorridito. La stanza da
bagno di Katherine era in uno stato di totale scompiglio, vasetti di crema e bottiglie di cosmetici sparsi dovunque, rovesciati, il contenuto versato in ogni angolo, quasi che lì avesse avuto luogo un furioso, macabro festino a base di belletti. Barattoli, scatole di cipria e creme sparse sul pavimento, tracce di rossetto che segnavano senza senso le piastrelle, il vaso del gabinetto riempito di spazzole per i capelli e di bigodini, come se qualcuno avesse tentato di farli spazzar via dallo sciacquone, senza riuscirvi. La scena rivelava una furia selvaggia e, sebbene Thorn non riuscisse in alcun modo a comprenderne la ragione, era evidente che tutto ciò rappresentava un ultimo insulto a Katherine. Era qualcosa che soltanto un adulto poteva fare; i barattoli erano stati scagliati con forza, le macchie che imbrattavano i muri arrivavano dappertutto. Era certo l'opera di un pazzo: ma di un pazzo carico di odio. Ne fu paralizzato e alzò gli occhi a guardare il proprio viso riflesso nei frammenti della specchiera fatta a pezzi. Scorse un volto indurito, poi si chinò per aprire un cassetto. Ma ciò che cercava non era al suo posto, aprì un armadietto e finalmente, dopo aver frugato a lungo, trovò quello che cercava. Un rasoio elettrico. Infilò la spina nella presa di corrente, premette il bottone e il piccolo oggetto cominciò a ronzargli fra le mani. Quando lo spense, udì un suono. Era un cigolio nel pavimento del piano di sopra. Restò in silenzio, respirando appena, finché il rumore cessò. Thorn aveva il labbro superiore imperlato da goccioline di sudore che asciugò con mano tremante. Uscì dal bagno e tornò nel vestibolo silenzioso. Mentre avanzava, le tavole del pavimento gemevano sotto i suoi piedi. La stanza del bambino veniva dopo quella di Mrs. Baylock, e quando vi fu davanti Thorn si arrestò. La porta era leggermente aperta e poté vedere all'interno. La donna apparentemente dormiva, supina, un braccio penzoloni, le unghie dipinte di rosso acceso. Anche la faccia era dipinta come egli l'aveva già vista; biacca sul viso e un rosso violento intorno alla bocca, ma questa volta vi aveva aggiunto anche dell'ombretto e un segno di matita nera intorno agli occhi. Giaceva immobile e russava. Il petto alto come una montagna si sollevava e si abbassava, gettando un'ombra sul pavimento. Con dita tremanti Thorn richiuse la porta. Lottando contro se stesso, arrivò silenziosamente fino alla porta in fondo al corridoio. Anche questa era appena accostata. L'uomo la spinse ed entrò, richiudendosela poi alle spalle. Vi rimase appoggiato, a osservare attraverso la camera il bambino dormiente. Suo figlio. La faccia del piccino era serena e innocente nel sonno e Thorn girò gli occhi, non osando continuare a guardarlo. Irrigidì i muscoli
e trattenne il respiro. Chinatosi sopra il bambino, infilò la spina nella presa. Il ronzio parve fortissimo nel silenzio della notte, la stanza sembrò riempirsi di rumore. Damien dormiva, senza accorgersi di nulla; Thorn si abbassò, il braccio gli tremava mentre sollevava il ronzante rasoio e con esso sfiorava appena appena il capo del bimbo. Un ciuffo di capelli cadde immediatamente e Thorn rabbrividì vedendo come stava sfigurando quella creatura. Si vide il biancore della cute, una striscia simile a un'orrenda cicatrice in mezzo ai folti capelli ricciuti. L'uomo premette ancora il rasoio e un'altra striscia di capelli si staccò, andando ad adagiarsi dolcemente sul cuscino; mentre il bimbo senza svegliarsi gemeva lievemente e cominciava a muoversi. Ansante per la disperazione, Thorn cominciò a lavorare più in fretta. I capelli del bambino cadevano a ciocche. Poi le palpebre sbatterono, la testa cominciò ad agitarsi, nel tentativo di sottrarsi. Damien si stava ormai svegliando, ancora intontito tentava di sollevare la testa. Thorn provò un attimo di panico e con una mano, gli premette con forza il capo sul cuscino. Il bambino ora era spaventato, accennò a ribellarsi, ma Thorn lo schiacciava sempre più forte, gemendo egli stesso nello sforzo e nel terrore di ciò che stava compiendo, mentre passava sempre più energicamente il rasoio sulla testa del bambino; i capelli cadevano sempre più copiosi, mettendo a nudo la testolina. Ora Damien si contorceva del tutto, si rivoltava nel letto. Il rasoio passava a casaccio sulla testa, mentre le grida di terrore del piccolo si facevano sempre più disperate, mano mano che Thorn lottava per tenerlo fermo. Adesso la testa era quasi tutta rasata, e Thorn si lasciò sfuggire un singhiozzo mentre premeva con forza; il corpicino si ribellava, scalciava e si impuntava, in cerca d'aria. D'un tratto gli occhi di Thorn si dilatarono terrorizzati. Puntò il rasoio con mano ferma, premendo su un punto all'estremità posteriore della testa del bambino. Eccolo. Il marchio era lì. Inciso profondamente nella carne formava una specie di crosta che il rasoio eliminò facendo uscire il sangue. Ma il segno era chiarissimo sulla pelle bianca, alla base del cranio. Erano tre sei disposti a trifoglio, le punte convergenti verso il centro. Thorn si tirò indietro e il bambino saltò in piedi, singhiozzando e rantolando in cerca d'aria. Fissava il padre con gli occhi colmi di uno sconosciuto terrore. Le piccole mani si levarono e sentirono la testa nuda; quando si guardò le dita le vide bagnate di sangue. Le fissò per un istante, poi cacciò un urlo. Si protese verso il padre e cominciò a piangere forte. Thorn era paralizzato dall'angoscia che vedeva in quegli occhi. Ma non era più capace di consolarlo, e cominciò lui pure a singhiozzare, mentre le manine sporche di sangue si tendevano
verso di lui a chieder gli aiuto. «Damien,» singhiozzò. Ma nello stesso momento la porta si spalancò. Thorn si girò e vide la forma gigantesca della Baylock che si buttava in avanti, le labbra dipinte di rosso violento protese in un inumano urlo di collera selvaggia. Thorn afferrò il bambino, ma la donna gli si scagliò addosso con violenza e lo gettò a terra. Damien si mise a urlare terrorizzato e scappò via, allontanandosi dal letto; Thorn si rotolò sul pavimento sotto il peso enorme della donna inferocita e le afferrò le mani che gli si stringevano intorno al collo, gli si puntavano contro gli occhi. Riuscì a colpirla, ma la mole di quel corpo massiccio era troppo grande, le mani carnose di lei gli cercarono la gola e cominciarono a stringere, finché egli sentì gli occhi uscirgli dalle orbite. Thorn tentò disperatamente di colpirla sul viso, ma i denti della donna gli morsero la mano; una lampada sul tavolino lì accanto cadde, trascinata in quella lotta furiosa; l'uomo la prese e con essa cominciò a colpire con tutte le sue forze la testa che aveva davanti. I colpi raggiunsero il bersaglio; la dorma ebbe un sussulto e stramazzò di lato. Thorn tornò a colpire con il basamento spezzato della lampada; sentiva il cranio di lei sotto i colpi, mentre il sangue cominciava a colare, mescolandosi alla biacca e al rossetto che le tingevano la faccia. Ma la donna non mollava ancora la presa; Thorn dovette colpirla una terza volta prima che cadesse definitivamente sul pavimento. Riuscì a rialzarsi a fatica, retrocedendo verso la parete di fondo dove il bambino si era rifugiato, con gli occhi dilatati dall'orrore. Thorn lo afferrò e uscì. Sbatté la porta dietro di sé e si fece strada verso le scale, andando a urtare contro il muro del corridoio. Damien si era attaccato con tutte le sue forze alla maniglia dell'uscio e Thorn dovette fare uno sforzo per staccarlo di lì; le mani del bambino gli si aggrapparono alla faccia. Thorn scese la scala quasi rotolando. Sulla porta della dispensa, non sapendo più a che cosa aggrapparsi, Damien si afferrò al filo della luce da cui pendeva l'unica lampadina. Thorn lo strappò via con la forza; d'un tratto entrambi furono scaraventati a terra da una scarica elettrica che li fece precipitare giù. Finirono sul pavimento della dispensa. Thorn si sollevò a gattoni, completamente intontito dal colpo, e cercò di rialzarsi. Il bambino accanto a lui era svenuto. Tentò di sollevarlo, ma non ci riuscì e ricadde indietro. Sentì il rumore della porta della cucina che si apriva con violenza. Si volse, inebetito. Era la Baylock che sopraggiungeva: e il sangue le sgorgava dalla testa. Con uno sforzo estremo Thorn si rimise in piedi, ma la donna lo af-
ferrò per il cappotto, tirandolo con furia. Thorn, disperatamente, si afferrava ai cassetti dei mobili che si aprivano e rovesciavano tutto il loro contenuto. L'uomo ricadde a terra e la donna gli fu di nuovo sopra, piantandogli ferocemente le dita insanguinate nella gola. La sua faccia era impiastricciata di biacca e di sangue, anche i denti erano coperti di sangue, la bocca spalancata in uno sforzo bestiale. Thorn non riusciva più a muoversi, si sentiva soffocare. Fissava gli occhi folli della donna, la faccia sempre più vicina. Le sue labbra arrivavano a posarsi su quelle di lui. Tutt'intorno erano sparsi gli utensili di cucina usciti dai cassetti caduti; allungando disperatamente le mani, Thorn riuscì ad afferrare un paio di forchettoni da arrosto e li impugnò, uno in ogni mano. Con uno scarto violento riuscì a sollevarli: colpì la donna conficcandoglieli in testa, piantandoglieli con forza nelle tempie. La Baylock cacciò un urlo e cadde all'indietro; Thorn si rimise faticosamente in piedi, mentre la donna si era sollevata ancora dietro di lui. Vacillava per la stanza e tentava invano di strapparsi via i forchettoni. Barcollando in direzione della dispensa, Thorn riuscì a fatica a raccogliere il bambino ancora svenuto. Raggiunse la porta che dava nel garage. Quando già stava per arrivare alla macchina, avvertì un rumore sinistro accanto a sé. Un'ombra fitta di pelliccia scura saettò nell'aria e gli fu addosso, lo azzannò alla spalla, facendolo cadere a fianco del sedile della macchina. Era il cane, che puntando le zampe con forza nel terreno tentava di trascinarlo indietro. Damien era finito sul sedile vicino, e Thorn, con la mano ancora sana, agguantò con forza la portiera. La sbatté violentemente contro il muso del cane fino a quando la bestia cominciò a sanguinare e lasciò la presa, ululando di dolore. Richiusa la portiera Thorn cercò affannosamente le chiavi. Fuori dall'auto il cane era in preda a una furia selvaggia. Si scagliava contro il cofano e contro il parabrezza con inaudita violenza. Sotto quei colpi il cristallo minacciava di andare in frantumi. Le mani tremanti di Thorn trovarono infine le chiavi, ma esse gli scivolarono fra le dita. L'uomo si chinò a cercarle febbrilmente. Accanto a lui il bambino aveva ripreso a gemere e il cane, fuori, continuava i suoi feroci assalti contro il parabrezza che stava già scricchiolando. Finalmente Thorn trovò le chiavi, le inserì. Mentre stava per mettere in moto, alzando lo sguardo avanti a sé si sentì gelare dall'orrore. La donna, ancora viva, con le ultime forze che le rimanevano, usciva dalla cucina reggendo con grande fatica un enorme martello. Era ormai vicina alla macchina. Thorn accese il motore, ma nel momento stesso in cui l'automobile cominciava a muoversi, il martello ricadde con forza sul cristallo del parabrezza e vi aprì una grossa falla; im-
mediatamente la testa del cane vi penetrò, sputando saliva e allungando i denti. Thorn si cacciò indietro, mentre il muso dell'animale si faceva sempre più vicino. Era bloccato al suo posto di guida, non poteva far nulla. Improvvisamente un pensiero lo folgorò. Infilò la mano nella tasca interna del cappotto e ne trasse uno dei pugnali, sollevò il braccio in alto e infisse con violenza la lama fra gli occhi ravvicinati dell'animale. L'arma penetrò nella testa del cane fino all'impugnatura. La bestia spalancò la bocca, emettendo un ululato di dolore più simile al grido di un leopardo che a quello di un cane: stramazzò all'indietro, scivolò giù dal cofano, danzando per un attimo sulle zampe posteriori, mentre con una zampa anteriore cercava di afferrare il coltello che gli si era conficcato nella fronte. Il suo urlo di agonia sembrò far tremare i muri del garage. Thorn innestò la marcia indietro e fece uscire la macchina. La Baylock camminava ancora a fianco dell'automobile, battendo nei vetri. La sua faccia era ridotta a un'informe massa rossa e sanguinante. «Il mio bambino.. Il mio bambino...» gridava. L'automobile uscì rapidamente dal garage, lasciandosela dietro. La donna corse lungo il viale, tendendo le mani, in un ultimo, disperato tentativo di bloccare la fuga. La macchina si arrestò, poi, innestata la seconda, ripartì, facendo schizzare la ghiaia mentre puntava verso il cancello. Thorn avrebbe potuto deviare per scansare la donna che cercava ancora di tagliargli la strada, ma non lo fece. Strinse i denti, schiocciò il piede al massimo sull'acceleratore; la faccia disperata di lei comparve ancora per un attimo nella luce dei fari mentre il muso della macchina la colpiva, sollevandola in aria. Quando arrivò al termine del viale, Thorn si fermò un attimo e guardò nello specchio retrovisore. Vide il corpo della donna disteso in mezzo al viale, un esanime mucchio di carne orribilmente contorto e, poco più in là, sul prato, il cane che si contraeva ancora convulsamente, ormai morto. Premette ancora con forza sull'acceleratore e svoltò nella strada, andando quasi a sbattere contro un muro. Puntò a tutta velocità verso l'autostrada. Accanto a lui il bambino non aveva ancora ripreso conoscenza. Thorn aumentò la velocità al massimo quando fu sull'autostrada per Londra. L'alba non era lontana, la foschia cominciava a sollevarsi. La Mercedes correva sulla strada deserta come un jet sulla pista di decollo. Sembrava che volasse; il guard-rail era un'ombra sfuggente, mentre il motore gemeva sotto lo sforzo. Adesso Damien si stava svegliando, cominciava a muoversi e a lamen-
tarsi. Thorn si concentrò nella guida, per dimenticare la sua presenza. «Non è una creatura umana!» gridò a se stesso fra i denti serrati. «Non è una creatura umana!» Aumentò ancora la velocità, mentre il bambino si lamentava confusamente, senza riuscire a riprendere conoscenza. La curva della strada 10-ovest fu presa a velocità troppo alta. Thorn slittò, perse il controllo della macchina, strisciò di lato contro il bordo esterno Lo scossone fece cadere Damien verso il fondo dell'automobile. Si stavano dirigendo verso la chiesa di Ognissanti. Thorn riusciva già a distinguere in lontananza le guglie torreggianti della cattedrale, ma il colpo aveva nel frattempo risvegliato completamente il bambino, che levò su di lui i grandi occhi pieni di innocenza. «Non guardarmi...» gemette Thorn. «Mi fa male...» mormorò piagnucoloso il bambino. «Non guardarmi!» Il piccolo obbedì, tenendo gli occhi fissi sul pavimento dell'automobile. I pneumatici cigolarono quando la macchina imboccò la curva che portava direttamente alla chiesa. Guardando in alto davanti a sé, Thorn vide che il cielo sopra la cattedrale si andava d'un tratto oscurando. Era come se tornasse a scendere la notte, un velo di tenebre scendeva di colpo con improvvisa violenza, disseminato di lampi. «Papà...» sussurrò impaurito il bambino. «No!» «Mi sento male.» E cominciò a vomitare. Thorn si mise a gridare per soffocare il suono della sofferenza del bambino. Un violento scroscio di pioggia si rovesciò su di loro, il vento frustava la vettura e spingeva detriti contro il parabrezza. La macchina andò a fermarsi di fronte alla chiesa. Thorn aprì lo sportello, afferrò Damien per il collo del pigiammo e lo tirò verso di sé dal posto dove sedeva. Il bambino cominciò a urlare e a dar calci, puntando i piedi contro il petto di Thorn e respingendolo verso la strada. L'uomo tornò ad afferrarlo, lo prese per un piede e lo trascinò fuori, ma Damien gli sfuggì di mano e corse via. Thorn lo raggiunse, lo prese per il pigiama e lo costrinse con forza a terra. Sopra di loro, il cielo parve esplodere in un fragore di tuono; un fulmine si abbatté vicinissimo all'automobile e Damien, girando su se stesso, riuscì ancora una volta a eludere la mano di Thorn che lo teneva, a sfuggirgli, scivolando sul selciato bagnato. Con un salto Thorn gli fu ancora addosso e lo tenne con forza sotto di sé, poi lo sollevò
stringendolo alla vita. Il bambino scalciava e urlava, ma Thorn riuscì a fargli salire la scalinata. Dall'altra parte della strada una finestra si aprì e un uomo si mise a gridare. Thorn continuava la sua marcia sotto la pioggia torrenziale, la sua faccia era ridotta a una maschera di terrore mentre lottava con tutte le forze per scalare i gradini, passo dopo passo, che portavano all'ingresso. Un vento impetuoso si alzò in un vortice intorno a loro; colpì Thorn in pieno viso e lo bloccò dove si trovava. Il bambino si dimenava furiosamente nelle sue braccia e tentava di mordergli il collo; Thorn gridò per il dolore, ma riuscì ad andare avanti. Nel fragore del tuono si udì una sirena della polizia; dalla finestra dall'altra parte della strada la voce di un uomo gridava disperatamente a Thorn di lasciar andare il bambino. Ma Thorn non udiva più nulla, continuava a salire quei gradini che parevano interminabili, mentre il vento urlava e il bambino gli dilaniava il volto con le unghie. Un dito di Damien gli penetrò nell'orbita e Thorn cadde in ginocchio, stringendolo sempre più forte e trascinandolo in preda al panico verso la soglia del tempio. I lampi si susseguivano senza sosta, uno cadde proprio accanto a loro e aprì uno squarcio nell'asfalto. Ora Thorn era quasi in cima alla scalinata. Ma capì che non sarebbe riuscito nel suo intento. Le sue forze lo stavano abbandonando, mentre la forza del bambino continuava ad aumentare. Le unghie di Damien gli stavano lacerando gli occhi, le sue ginocchia gli percuotevano il petto con una furia impressionante. Con uno sforzo sovrumano riuscì a tenere schiacciato il bambino sui gradini e a infilare la mano nella tasca interna, frugando nel pacco dei pugnali. Damien lanciò un urlo agghiacciante, diede uno strattone e i pugnali si sparsero al suolo tutt'intorno. Thorn ne afferrò uno, e intanto cercava di tenere fermo il bambino. In quell'istante la sirena della polizia urlò più forte, poi si arrestò. Il bambino continuava a gridare mentre Thorn levava il pugnale su di lui. «Si fermi!» gridò una voce dalla strada e due poliziotti emersero dalla pioggia, correndo fuori dalla loro auto; uno dei due teneva in mano una rivoltella, Thorn gettò loro una rapida occhiata, poi tornò a guardare il bambino e con un subitaneo urlo di furore abbassò con forza il pugnale. Damien gridò e contemporaneamente echeggiò uno sparo. Per un attimo tutto fu immobilità e silenzio; i poliziotti fermi al loro posto, Thorn seduto irrigidito sui gradini della chiesa con il corpo del bambino allungato davanti a sé. Poi di colpo, il portale della cattedrale si spalancò e un prete comparve sulla soglia.
13. La notizia della tragedia si sparse rapidamente a Londra e poi, via radio, fece il giro del mondo. La storia era molto confusa, i particolari contraddittori e per quarantotto ore i cronisti di tutti i maggiori giornali affollarono la sala d'attesa del City Hospital, cercando di interrogare i medici e di riuscire a capire che cosa era accaduto e come. La mattina del secondo giorno un gruppo di medici, i portavoce dell'ospedale, si diressero verso la sala dove era stata convocata una conferenza stampa; le telecamere di tutte le principali stazioni televisive avrebbero raccolto le loro dichiarazioni. A dare l'annuncio fu un chirurgo sudafricano, giunto appositamente dall'ospedale Groote Schuur di Città del Capo. «Desidero fare una comunicazione... la morte è subentrata alle otto e trenta di questa mattina. Tutti gli sforzi possibili sono stati fatti per salvare la vita dell'ambasciatore, ma la ferita era di tale gravità che il danno arrecato agli organi era da ritenersi irreparabile.» «Per il momento non ci sono altre comunicazioni. Un servizio funebre avrà luogo alla cattedrale di Ognissanti, dove è avvenuto il tragico incidente... La salma sarà quindi fatta partire per gli Stati Uniti dove si svolgeranno i funerali.» A New York una lunga fila di limousine era all'aeroporto J.F. Kennedy ad attendere le due bare, che furono deposte su un unico carro funebre e condotte al cimitero lungo una autostrada molto affollata; una pattuglia di polizia motorizzata bloccava il traffico. Quando le salme arrivarono, il cimitero era già pieno di gente, trattenuta dal servizio di sicurezza. Il corteo si diresse verso le fosse già pronte. Un sacerdote con una veste bianca svolazzante officiava il rito, davanti a un palco con la bandiera americana. Nel silenzio una musica si levò mentre le due bare venivano sistemate sulle funi e calate lentamente nelle fosse. Poi il sacerdote iniziò l'elogio funebre. «Oggi piangiamo contemporaneamente la scomparsa di due dei nostri fratelli, due creature che portano con loro nella morte una parte di noi, e che iniziano il loro viaggio nella eternità. Piangiamo non per loro che ora hanno raggiunto la pace, ma per noi che sentiremo la loro mancanza.» La folla ascoltava in silenzio, alcuni piangevano, altri si riparavano gli occhi dal sole. Fuori dai cancelli del cimitero, i giornalisti osservavano la scena e i fotografi lavoravano accanitamente con i loro teleobiettivi. Fra loro un piccolo gruppo stava in disparte, meditando sulla singolarità degli avvenimenti.
«Un'incredibile fatalità, eh?» «Che cosa c'è di così singolare? Non è la prima volta che della gente viene uccisa per la strada.» «Ma cos'è la storia di quel tipo che l'ha visto lottare con il bambino sulla scalinata della chiesa? Quello che ha chiamato la polizia?» «Era un ubriaco. Gli hanno fatto il test dell'alcool ed era pieno come un serbatoio.» «Non so,» esclamò un terzo. «Tutta la faccenda mi pare molto strana. Che cosa faceva a quell'ora sui gradini della chiesa?» «Sua moglie era appena morta, e voleva andare a pregare con il bambino.» «Non lo so,» ribatté ancora il primo. «Ma mi pare che qualcosa sia stato nascosto.» «Non sarebbe la prima volta.» «E neppure l'ultima.» Nel punto dove le due bare venivano calate nella fossa, il prete alzò le braccia al cielo. Fra i familiari in lutto c'era una coppia appartata dagli altri, circondata da uomini in borghese che con gli occhi controllavano discretamente la folla. Si trattava di un uomo dall'aria molto dignitosa e imponente e di una donna con un velo nero; tenevano per mano un bambino di quattro anni, con un braccio fasciato. «E mentre affidiamo i resti di Jeremy e di Katherine Thorn alla misericordia del Signore per l'eterno riposo,» esclamò ancora il sacerdote, «volgiamo lo sguardo verso il loro figlioletto Damien, il solo sopravvissuto di una grande famiglia, che ora inizia una nuova vita in una nuova famiglia. Possa egli prosperare nell'amore che i suoi nuovi genitori gli sapranno dare.» Dal suo posto accanto alle fosse Damien fissava le due bare che scendevano, tenendosi stretto alla mano della donna che aveva a fianco. «E da ultimo ci rivolgiamo a te, Damien Thorn,» esclamò in tono solenne il sacerdote con le braccia levate in alto, «possa il Signore Iddio accordarti le sue benedizioni e la sua grazia... possa Cristo concederti il suo eterno amore.» Dal cielo terso e luminoso si udì improvviso un lontano brontolio di tuono. La folla cominciò lentamente a disperdersi. La coppia, circondata dagli uomini in borghese, aspettò fino a che tutti se ne furono andati; poi si accostò alle tombe, e il bambino si inginocchiò in preghiera. La folla si volse a guardare, mentre molti scoppiavano in lacrime. Infine il bambino si alzò
e, insieme ai suoi nuovi genitori, si allontanò adagio. Gli uomini in borghese fecero circolo intorno a loro e li scortarono dal luogo della cerimonia fino alla limousine presidenziale. Quattro poliziotti motociclisti scortarono la limousine oltre il gruppo dei reporter, e tutti i fotografi si affrettarono a scattare fotografie del viso del bambino, mentre si volgeva a guardarli, attraverso il vetro del finestrino posteriore della macchina. Per tutti loro, le fotografie sarebbero state rovinate da uno strano alone, un'ombra che pendeva come una macchia sopra l'automobile. Doveva essere un difetto dell'emulsione o della pellicola. FINE