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RAMSEY CAMPBELL IL SESSO DELLA MORTE (Scared Stiff, Tales Of Sex And Death, 1987) A Jenny, con tutto il mio amore, un libro per conciliare il sonno INTRODUZIONE DI CLIVE BARKER Morte che insidia giovane fanciulla: è un soggetto che è sempre stato caro ai pittori e, per certi aspetti, anche agli scrittori e ai registi cinematografici. Quale immagine evoca questo tema nella nostra mente? Quella di una donna nuda, o in abiti succinti, che ci fissa con orrore (o, più raramente, con sublime indifferenza) mentre la Morte protende verso il suo seno le sue grinfie putrescenti, o allunga verso le sue labbra il teschio traboccante di vermi per offrirle i suoi baci. Corruzione e sessualità in un connubio di opposti. Questo tema fa capolino ogni volta che un mostro di celluloide abbraccia o tenta di abbracciare la sua giovane vittima. A volte, la Fanciulla riesce a tenere a bada la Morte, ma più spesso soccombe; in entrambi i casi il brivido erotico suscitato dalla seducente bellezza della vittima è decuplicato dall'orrore provocato dalla figura oscena che la minaccia. Ma la drammaticità di quest'immagine, in cui la Fanciulla incarna la vita e l'innocenza, e la Morte il male che la insidia, costituisce soltanto uno dei molteplici aspetti di questo affascinante confronto. Questo tema presenta infatti infinite sfaccettature, le più complesse delle quali trovano, a mio giudizio, resa più immediata nella composizione narrativa, perché più di qualunque altro artista lo scrittore possiede gli strumenti per descrivere sia la realtà oggettiva degli avvenimenti sia quella soggettiva vissuta dai singoli protagonisti. Le storie di sesso e morte ci conducono nei regni più selvaggi della perversione: ci mostrano la carne in tutta la sua sensualità per poi rivelarci lo scheletro che vi si cela sotto; denunciano la corruzione quale forza motrice di una passione apparentemente integra e ci fanno conoscere la febbre dell'ossessione. In breve, il connubio sessualità e morte è un terreno assai fertile per uno scrittore.
Ciò nonostante, e benché l'horror tragga ispirazione e forza proprio dalla trasgressione dei tabù, gli autori di questo genere si sono sempre mostrati molto cauti nell'affrontare l'argomento sessuale. Così accade che in un'epoca in cui i protagonisti di ogni romanzo vivono senza remore la loro sessualità, la letteratura dell'orrore conservi una pudicizia di stampo quasi bigotto. È ben vero che molti capolavori di narrativa horror sono basati su tematiche erotiche (anzi esiste una tesi secondo cui gran parte della produzione orrorifica sarebbe frutto di una sessualità repressa), ma è altrettanto innegabile che da sempre i testi a sfondo sessuale sono stati relegati fra le opere di serie B. Possiamo interpretare la figura del lupo mannaro in un'ottica freudiana, ma fino a quando non ostenta un'erezione (il lupo mannaro, s'intende, non Freud), oltre al gnigno e alla coda, possiamo considerarlo scevro da implicazioni sessuali. Per quanto mi riguarda, ritengo che una simile, caparbia ingenuità sia perversa e che l'opera d'arte vada concepita e fruita fino al limite massimo. La vera arte, quella di qualità, non dovrebbe cercare di negare il potenziale significato di un'immagine perché la sua interpretazione potrebbe angosciare o turbare il lettore, né dovrebbe invitare questi ad eluderla. Ne consegue che è doppiamente deplorevole il fatto che così pochi scrittori dell'orrore abbiano finora affrontato apertamente la tematica sessuale. Ho discusso questo argomento sia con autori sia con amanti del genere, e molti hanno espresso il timore che una componente sessuale troppo esplicita rischierebbe di compromettere la capacità persuasiva della narrazione. A mia volta, ho contro-obiettato che qualsiasi tribunale letterario che richieda una volontaria sospensione dello spirito di ricerca intellettuale da parte del lettore (rispetto al suo scetticismo) non merita di sopravvivere, e ho tenuto fede con la penna al mio pensiero, introducendo la tematica sessuale in molte delle mie opere. Ramsey Campbell ha fatto la stessa cosa, coniugando con grande maestria nei sette racconti riuniti in questa antologia, sesso e orrore. Non ho usato di proposito la parola erotismo perché ritengo che la componente sessuale attorno alla quale si dipanano le singole trame abbia implicazioni molto più complesse della semplice sollecitazione dei sensi. In primo luogo, in questi racconti la vicenda sessuale non è mai una digressione narrativa (una storia hard-core che anticipa l'evento orrorifico), ma rappresenta il nucleo centrale della narrazione. In secondo luogo, i protagonisti di queste storie (quando sono esseri umani) assai raramente vestono i panni degli stereotipi da feuilleton, ma sono in tutto e per tutto si-
mili a quelle persone dalle "chiappe chiare" e dal sudore maleodorante che vediamo riflesse nello specchio quando ci guardiamo alla mattina appena svegli. Infine, ed è importante sottolinearlo, Campbell affronta la tematica sessuale in un'ottica personalissima, che conferisce a questi racconti, come a tutta la sua produzione narrativa, un'impronta unica. Come molti di voi sapranno, Ramsey Campbell si è conquistato schiere di fedeli lettori, e gli infiniti plausi della critica, creando un mondo in cui molto resta inespresso, e la paura che è capace di suscitare deriva tanto dall'interpretazione individuale di quello che la sua prosa suggerisce quanto da ciò che l'autore rivela esplicitamente. Essendo questa la caratteristica fondamentale del suo genio narrativo, si potrebbe essere indotti a pensare che vivaci descrizioni di scene sessuali, e, credetemi, vivaci lo sono davvero, male si adattino all'obliquità, alla sottigliezza del suo stile. Niente di più falso. Uno degli aspetti più inquietanti e più intriganti di questi racconti è rappresentato dall'approccio unico e meditato dell'autore, che è capace di trasformare un atto a noi tutti famigliare in un evento così strano e agghiacciante da ingenerare in noi paura e angoscia. Come si è già apprezzato in altre sue opere, la sua prosa serrata risponde con grande duttilità alla sua spiccata inclinazione a reinventare la realtà e così, senza mai scivolare nel cliché, ad ogni racconto Ramsey chiede anche a noi di dare un nuovo senso alle scene che descrive. Cosa che noi dovremmo fare, perché troppo spesso la sessualità è sfera d'azione del sentimentale o del pornografo, e troppo raramente del sognatore. Eppure, quello sessuale è un atto che trasforma, nel senso letterale della parola: perché per un certo lasso di tempo ricrea il nostro corpo e anche la nostra mente; per alcuni minuti sperimentiamo nel nostro intimo l'ossessione: siamo alla mercé di messaggi chimici che acuiscono i nostri sensi e concentrano la nostra attenzione, intensificando e affinando la nostra capacità di percezione. Per sua natura, la letteratura dell'orrore è sempre stata incentrata su questi tre temi: trasformazione, ossessione e percezione. Per questo motivo, il sesso, con le sue estasi, con i suoi riti privati e le sue depravazioni pubbliche, il sesso che ci ricorda che qualsiasi piacere fisico trae origine da quello stesso corpo che caca, suda e invecchia, non può che rappresentare un'importante fonte di ispirazione per lo scrittore di genere horror, anche se pochi artisti si sono dimostrati capaci di analizzare e tradurre in opera letteraria questa fondamentale esperienza umana, come l'autore di questa antologia.
Come ho già accennato, la narrativa dell'orrore è, per tradizione, l'ambito letterario in cui vengono sfidati i tabù. È il regno in cui imperano la morte, la follia e la trasgressione dei principi etici e dei limiti fisici. E il mondo in cui i morti resuscitano e i neonati vengono trucidati nella culla, in cui gli animali domestici si trasformano in mostri e gli psicopatici implorano il nostro affetto. Se crediamo di possedere un minimo potere di controllo sulla realtà, gli scrittori dell'orrore ci disilludono e ci ricordano che vacilliamo ad ogni istante sull'orlo del caos e dell'oblio. A questi tabù io adesso ne aggiungo altri, quelli che riguardano i lati oscuri e proibiti della sessualità: le ossessioni che coltiviamo nell'intimo dei nostri pensieri, gli atti che sogniamo ma che non osiamo desiderare apertamente, le sofferenze che agogniamo subire o infliggere agli altri in nome dell'amore. Nei racconti presentati in questa antologia la sfida di tutti questi tabù dà vita a vicende fantastiche in cui i morti non tornano semplicemente a vivere, ma resuscitano per fottere i vivi. Ad alcuni di voi questi racconti sembreranno scorci di vita infernale, ma io sono sicuro che se sarete sinceri fino in fondo non potrete fare a meno di ritrovare in queste pagine l'eco dei vostri sogni più segreti. Chi lo sa... Forse la Fanciulla non è affatto atterrita dalla Morte, forse ha bramato per tutta la vita il momento in cui avrebbe sentito le sue dita gelide sfiorarle il seno... Le persone desiderano le cose più strane, come questo straordinario artista che è Ramsey Campbell sta per dimostrarci... Londra, 29 giugno 1986 DIABOLICHE STATUINE Gelida come il vento di febbraio, la luna piena splendeva sopra i campi. Anne Norton udì il fruscio delle spighe agitate dal vento un attimo prima che l'aria della notte le accarezzasse il corpo nudo. Rabbrividì, ma non per il freddo, che quasi non sentiva. Il potere si era già impadronito di lei; già la belladonna e l'aconito le facevano pulsare i genitali e tremare le gambe. Corse dietro a John, suo marito, e oltrepassò il cancello, che interrompeva il muro di pietra che cingeva la loro casa. Una volta fuori dal giardino si voltò a guardare fugacemente l'agglomerato di casette che formavano il borgo di Camside. Alcune erano vuote,
questo lo sapeva, come vuota era anche la fattoria dei Cooper, in fondo al paese. Le altre erano buie e immerse nel sonno. Dal pascolo comune una pecora si unì alla sua allegria beffarda con un belato stridulo. Davanti a lei John aveva già raggiunto il limitare del bosco. Ombre nere scivolarono sul suo corpo nudo. Il bosco era pervaso da un silenzio ovattato. Soltanto l'acqua del torrente Cambrook ciangottava incessantemente nell'oscurità. Gli altri dovevano essere già tutti al luogo del convegno. Adesso l'unguento stava cominciando a colarle lungo le gambe in scie bollenti. Anne si mise a correre più velocemente, scivolando fra le pennellate di luce lunare e le sagome scure degli alberi, che iniziavano ad agitarsi nel sonno. Il vento le accarezzò il sesso che si infiammò di desiderio, lasciandola senza fiato. Si immerse nel torrente, spezzando i fili argentei e tremuli che la luna aveva intessuto sull'acqua. Sotto i suoi piedi le pietre sgusciarono producendo un rumore al tempo stesso stridente e liquido. Quando raggiunse la riva opposta, Anne si voltò di scatto a fissare il Cambrook, perché d'un tratto le era sembrato che il torrente fosse animato da una vita insolita, una vita che non gli apparteneva: ma non vide nient'altro che lo scorrere innocente dell'acqua. Come se il rumore stridulo dei sassi nel torrente avesse siglato l'ultimo tentativo della terra di trattenerla, Anne si sentì sollevare in aria e vide il terreno, illuminato dalla luna, correre sotto l'ombra radente dei suoi piedi. File di alberi possenti danzavano attorno a lei, uniti dall'intreccio dei rami e agitati da un ritmo sempre più selvaggio. La donna chiuse gli occhi e sentì tutta la forza e l'abbandono delle piante fluire nel suo corpo. Un attimo dopo, o forse un'ora, perché sembrava che il bosco si fosse ingrossato come un'onda e avesse invaso tutta la campagna, raggiunse la radura. Erano già arrivati tutti. I quattro Cooper aspettavano con impazienza ai margini del prato; i loro corpi fremevano come i tronchi neri degli alberi. Elizabeth Cooper le lanciò un'occhiata ostile. Lei le rispose con una smorfia. Sapeva che quello sguardo non era rivolto a lei, ma a John, perché la vecchia era invidiosa del suo potere. I Cooper erano stati per così tanto tempo i soli depositari dei segreti della stregoneria, che non accettavano di buon grado l'idea di spartire quel potere con altri. Ma non osavano mettersi contro John. Stordita dall'euforia che le procurava il prestigio del marito ed eccitata dall'unguento che le bruciava fra le cosce, Anne attraversò la radura con
passo sicuro, ricominciando a poco a poco ad avvertire la terra sotto i piedi. John era stato fermato da Robert Allen. Gli occhi dell'uomo roteavano selvaggiamente, al punto che, anziché John, sembrava stesse guardando qualcun altro alle sue spalle. «Celia Poole ha dato della strega alla mia Nell» disse. «L'ha detto per scherzo, naturalmente, ma poi ha visto come Nell l'ha guardata. Celia non è molto sveglia, ma prima o poi scoprirà la verità.» John annuì. Quindi, mentre dai suoi occhi scompariva ogni traccia di vita, si sottrasse allo sguardo di Robert per affondare nel centro segreto della sua persona. Anne, che lo stava fissando, trasalì e indietreggiò. Il suo potere, che da un lato la confortava e di cui andava tanto fiera, la atterriva. Era una di quelle cose alle quali non osava pensare a mente fredda, proprio come alla sua prima notte di nozze. «Celia Poole» mormorò John. «Quando crederà di aver capito, per lei sarà già troppo tardi per parlare.» Non fece quasi a tempo a finire la frase che, con aria di sfida, Adam Cooper fece un passo avanti. «Introibo!» urlò. Immediatamente, Elizabeth Cooper intonò un canto. Le parole che uscivano dalle labbra della donna, ammesso che di parole si trattasse, non appartenevano ad alcuna lingua nota ad Anne: sembravano piuttosto un susseguirsi di ululati, di gorgheggi e di gorgoglii soffocati. A volte i suoni si ripetevano in modo monotono, altre volte a brani già uditi agli incontri precedenti si frapponevano sequenze mai sentite. Ogni tanto Anne sospettava che la vecchia Elizabeth si inventasse il canto di sana pianta. Ma qualunque fosse la verità adesso non aveva alcuna importanza, perché i Cooper avevano già intrecciato le braccia e avevano incominciato a danzare freneticamente per la radura, trascinando con sé, ad uno ad uno, tutti i presenti. Anne fu afferrata da Adam e, per poco, non perse l'equilibrio. John era stato catturato da Jane Cooper, che forse non aveva ancora quindici anni, ma era già di forme generosamente rotonde. Anne si sentì avvampare di gelosia. Ma adesso che anche suo marito si era unito al gruppo, si stavano muovendo più rapidamente e quella danza vorticosa la trascinava lontano dalla sua gelosia, da qualsiasi cosa esulasse da quel circolo di tredici persone che correvano attorno al centro della radura, con i piedi che sfioravano appena il terreno. Le nubi si ritirarono come impaurite, scoprendo il disco bianco della luna; la luce inondò la radura e le ombre degli alberi saltellanti afferrarono il
terreno. Anne avvertì il potere del marito percorrere come un'onda le loro braccia intrecciate e sollevarla da terra, e quando aprì la bocca il canto le sgorgò dalle labbra, incomprensibile eppure vivificante. Accanto a lei, il pene di Adam si drizzò, sguainando il glande e ipnotizzando il suo sguardo. Poi, d'un tratto, il vortice della danza la espulse con forza dal gruppo e, ansimando, Anne rotolò sull'erba umida. Il cerchio si stava rompendo e Adam si precipitò verso il limite della radura, dove aveva nascosto un cesto. Ne estrasse una gallina nera, che decapitò, serrandone il corpo fra le cosce per far schizzare il più in alto possibile il fiotto di sangue. «Corpus domini nostri» urlò, elevando la testa dell'animale verso la luna. Aveva cambiato di nuovo il rito, pensò Anne; l'ultima volta aveva consacrato e poi offerto in cibo a tutti loro un pesce, mentre la volta prima ancora aveva distribuito dei biscotti simili alle particole. I rituali dei Cooper cambiavano di mese in mese, a causa, soprattutto, della costante perdita di memoria di Elizabeth. Ma in questo caso non aveva importanza, perché il significato della cerimonia rimaneva inalterato. «Amen!» urlò Anne insieme gli altri, tutti sdraiati a terra con il petto squassato dall'affanno. Così il Pastore Jenner avrebbe capito quanta paura lei avesse di lui. «Amen!» ripeterono ancora in coro. «Domini nostri! Domini nostri!» D'intesa con Robert Allen, John si alzò in piedi e si allontanò dalla radura. I dodici tacquero. La luna risplendeva sopra di loro, immobile e fulgida. Anche gli alberi si erano placati, come spettatori che trattenessero il fiato sopraffatti da un grande turbamento. A poco a poco le loro ombre agitate si acquietarono, come se l'attesa spaventata del gruppo li avesse paralizzati. Il cuore di Anne batteva all'impazzata, mentre, a poco a poco, il suo respiro si placava. Prima che John fosse ritornato, il suo potere riempiva già la radura, freddo e disumano come la luce della luna. Nessuno lo guardò in volto. Tutti abbassarono lo sguardo sulle sue mani, nelle quali si concentrava tutto il suo potere. Fra le dita stringeva un coltello e una bambola di legno senza faccia. Dapprima Robert Allen non volle prendere la bambola. La fissò e fissò con terrore la mano color della luna che gliela porgeva. Fu solo quando, con un gesto di rabbia, Nell lo spronò, che si decise ad afferrarla e, serrando gli occhi, contrasse il volto in una tacita maledizione. Non appena Robert gliela restituì, John ne intagliò la testa con il coltello. I suoi movimenti sembravano casuali, noncuranti. Ma in un batter d'occhio
la bambola ebbe un volto: fronte bassa, naso lungo e smussato, zigomi pronunciati e bocca grande: era il volto di Celia Poole. Benché lo avesse visto intagliare tante volte prima che abbracciasse la stregoneria, Anne rimase atterrita dalla precisione e dall'essenzialità dei suoi movimenti: perché adesso la sua arte era l'espressione di un odio puro. Ma non solo; quando intagliava lui diventava un'altra persona, non era più l'uomo che le aveva fatto la corte, l'uomo che l'aveva posseduta la prima notte di nozze, l'uomo trasformato da anni di matrimonio. Quando lo vide allontanarsi fra gli alberi gli occhi fissi sulla bambola, Anne trasse un sospiro di sollievo. Anche se lui non aveva mai impedito a nessuno di assistere al rito della maledizione, lei non avrebbe potuto seguirlo per nessuna ragione al mondo. John aveva appena lasciato la radura quando Elizabeth Cooper afferrò Robert Allen. Scivolò in ginocchio davanti a lui e affondò voracemente la testa fra le sue gambe. Ad Anne, che la stava guardando, sembrò un grande ragno peloso e grigio che, aggrappato al basso ventre dell'uomo, stesse strattonando la propria tela. Il corpo di Robert si protese all'indietro come un arco teso dalla freccia dei genitali. Il suo volto si accese di fredda luce lunare; lentamente, la sua bocca si dilatò. Il gesto di Elizabeth aveva sciolto il terrore che paralizzava tutti. Adam spinse Jenny Carter contro un albero e la penetrò da dietro prima ancora che lei potesse avvinghiarsi al tronco. James Carter fu rovesciato a terra da Alice Young e Nell, che si allacciarono al suo corpo con i genitali dilatati come due bocche fameliche. Arthur Young aveva inchiodato Mary Cooper al terreno con le braccia divaricate, ma, ansimando, lei sollevò i fianchi per bloccarlo a sua volta. Jane Cooper giaceva sopra Thomas Small che, con le sue braccia robuste la teneva stretta a sé, premendo i suoi seni giovani e pieni contro il proprio petto. Aveva strappato alcune ortiche con le quali adesso le percuoteva le natiche tornite. I fianchi della ragazza si sollevavano e si abbassavano convulsamente, mentre le sue dita si serravano freneticamente intorno ai capelli del suo compagno. Urlarono nello stesso istante e, nell'estasi dell'orgasmo, lei inarcò la schiena fino a scivolare quasi fuori dal suo corpo. Mentre Robert Allen si accasciava a terra esausto, Elizabeth sollevò lo sguardo su Anne. «Come mai adesso il tuo John non si fa più vedere?» la schernì. «Ci ha rinunciato forse? Ricordati quel che ti dico: nessun uomo può farne a meno.» Quelle parole erano dettate dall'invidia, Anne lo sapeva. Era stata l'in-
vidia a indurla a lanciarsi verso Robert Allen appena John era scomparso. Ciò nonostante, all'improvviso Anne si sentì rifiutata dagli altri, anche se fino a quel momento, mentre attendeva invano un partner, non aveva voluto ammetterlo. Afferrò Adam non appena lasciò Jenny Carter, che era rimasta avvinghiata all'albero, e lo trascinò sopra di sé. Nel medesimo istante udì uno scricchiolio provenire dal cuore del bosco, come di un albero piegato dal vento. Ma non c'era vento. Il suo corpo si chiuse attorno al pene di Adam, risucchiandolo dentro di sé e accelerandone le spinte. Con le cosce ingabbiò il suo torace e, facendo scivolare i piedi verso l'alto, lo serrò ancor di più a sé. Rotolò con i glutei sull'erba umida e il caldo unguento le colò fra le gambe esplodendole nel sesso quasi all'istante. Quando raggiunse il terzo orgasmo, sentì il pene di Adam raddoppiare di dimensione e affondare dentro di lei, in spinte sempre più lunghe e incontrollate. Mentre giaceva sotto di lui, Anne udì lo scricchiolio dei passi che si avvicinavano dal bosco. Cercò di non pensare. Chiuse gli occhi e si sforzò di concentrarsi solo sul corpo massiccio di Adam che la schiacciava contro l'erba. Ma un attimo dopo lui si staccò da lei e, improvvisamente placato, si sedette sul prato, in attesa. Anne cercò di annullare ogni rumore attorno a sé, in quella radura bagnata di luce gelida che sembrava abbandonata da ogni forma di vita. Voleva tenere lontano ciò che si stava avvicinando. Quello che, nella loro orgia, tutti loro avevano tentato di ignorare era impensabile. E dal momento che non lo si poteva concepire, non poteva nemmeno accadere. Stava cercando di convincersene quando, con incedere solenne, il diavolo entrò nella radura. Osservò i dodici sogghignando; sopra la testa ostentava un paio di corna che avrebbero potuto trafiggere un toro. I suoi occhi, la bocca larga e le guance infossate erano piene d'ombra. Questo fu tutto ciò che Anne vide prima di distogliere lo sguardo. Ma guardare altrove non le servì a niente, perché continuò ad avvertire la presenza del suo corpo, imponente come una quercia, che dominava la radura, e l'odore fetido della sua pelle. Alzò gli occhi. Con un dito spesso e nocchiuto piegato ad uncino stava invitando una di loro ad avvicinarsi. Un debole scricchiolio accompagnava quel movimento, lento e sinistro. Forse era quello l'aspetto più spaventoso del diavolo: il fatto che non parlasse mai, perché non ne aveva bisogno. All'improvviso Anne sentì una staffilata allo stomaco. Doveva essere arrivato
il suo turno. Poi si accorse che il diavolo non stava facendo cenno a lei, ma a Jane. Il suo pene gigantesco luccicava alla luce della luna, eretto davanti al ventre informe. Il diavolo rimase fermo con il dito piegato ad uncino, mentre Jane, tremando, avanzava lentamente verso il centro della radura. La sua presenza sembrava aver imbrigliato il tempo: i passi della ragazza duravano ore. Quando lo raggiunse e, dopo un attimo di esitazione gli toccò timidamente una spalla, lui la scaraventò per terra. Subito dopo fu su di lei e, con le dita nodose, le inchiodò le spalle al terreno. Quando la penetrò con l'enorme pene, Jane boccheggiò, come se con la sua foga lui l'avesse privata dell'aria per respirare. I suoi glutei infiammati dalle ortiche si contrassero convulsamente sull'erba. Ma con spinte lunghe e lente, lui affondò ancora di più dentro di lei. E quando lei gli graffiò la schiena con le unghie e si ferì le cosce contro i suoi fianchi, lui non mutò il ghigno delle labbra, né disse nulla. Quando alla fine Jane ricadde sul terreno esausta, lui la gettò da parte e si allontanò a lunghi passi verso il bosco, cigolando con la lenta solennità degli alberi. Il pastore Jenner stava tuonando dal pulpito. «La mente carnale è nemica di Dio! Pensare alla carne significa morte!» La sua voce rimbombò nella chiesa alle spalle di Anne. La donna si fece piccola piccola. Ma lui non la stava guardando. Non poteva sapere. «Questa è la parola del Signore» riprese il sacerdote con forza, ma abbassando il tono della voce. Poi urlò: «Vorreste forse metterlo a tacere con le parole degli uomini? Vorreste forse dirgli che la concupiscenza è naturale, che è dono di Dio? Trovare piacere nel sudiciume è nella natura degli animali! È questa forse la vostra natura? Volete glorificare la vostra sconcezza e chiamarla amore cristiano?» Anne avrebbe voluto coprirsi il volto in fiamme con le mani. Sapeva che il pastore aveva ragione. E ogni volta che lo sentiva predicare su quell'argomento, la sua convinzione aumentava. L'aveva capito la prima notte di nozze, appena aveva visto il pene eretto di John. L'aveva capito quando lui l'aveva infilato dentro di lei, duro, asciutto e ruvido, per la sola buona ragione per la quale il pastore Jenner lo aveva autorizzato a farlo. Ma contro quell'intrusione il suo corpo si era irrigidito ed era diventato di ghiaccio, e da allora era sempre stato così tutte le volte che aveva fatto l'amore con lui. Eppure non era stato così quella volta, a sedici anni, quando era entrata a
far parte (a questo punto il pensiero accelerò nella sua mente, per paura che Dio e il Pastore Jenner potessero sentirla) della setta. Allora l'unguento l'aveva aiutata, iniziandola all'estasi; e da allora le aveva sempre fatto quell'effetto. Solo a casa, nel letto che divideva con John, si irrigidiva e si sentiva sporca. Ci aveva pensato a lungo ed era giunta alla conclusione che la causa di tutto fosse il pastore, che dominava con il suo potere tutto il villaggio. E lei riusciva a liberarsi dal suo influsso solo all'interno della (questa volta pensò provocatoriamente la parola ad alta voce) setta. Tutti i membri della setta erano in chiesa, soggiogati dal potere del sacerdote. Anne si guardò attorno senza dare nell'occhio. C'era Adam, tutto impettito nella sua lunga giacca nera, che non perdeva nemmeno una parola del pastore, i suoi genitali nascosti sotto le pieghe delle falde imbottite. C'era, all'improvviso Anne avvertì un inspiegabile quanto violento impeto di gelosia, c'era Jane, il seno rotondo trattenuto dai lacci del corsetto, le natiche, che ancora dovevano bruciarle, perché non potevano essere certamente guarite in meno di ventiquattr'ore, celate dalle numerose sottovesti, dalla gonna lunga e dal grembiule. E c'erano anche tutti gli altri, ognuno nascosto dietro un'espressione intensa e rispettosa. Nella cappella all'estremità occidentale della chiesa, Anne vide Robert Allen e Arthur Young, pronti ad accompagnare, il primo con l'oboe, il secondo con il corno, l'inno che il pastore avrebbe intonato di lì a poco. «Il Signore Nostro Gesù Cristo ha forse disonorato la carne vergine della Sua Santa Madre concupendo una donna?» Quelli dovevano essere i soli momenti in cui il sacerdote si lasciava trasportare dalla passione, pensò Anne cercando di rincuorarsi. Ma così era peggio, perché significava che la sua forza era superiore a quella delle sue parole. Riportò immediatamente lo sguardo sull'altare, facendo finta di non averlo mai distolto. Il suo potere era troppo forte per loro; il fatto stesso che gli celassero i loro corpi e i loro pensieri era un riconoscimento dichiarato della sua forza. I convegni in cui si ritrovavano i membri della setta non rappresentavano altro che una fuga da lui, una fuga imposta loro dai capricci della luna piena. Per tutto il resto del mese erano soggiogati dalla sua autorità. Anne sapeva che i Carter e gli Young avevano aderito alla setta soltanto per sfuggire alle limitazioni imposte dai suoi sermoni alla loro vita matrimoniale. Immaginò la sua rabbia e il suo disprezzo il giorno in cui li avesse scoperti. Si sentì umiliata e piena di vergogna. Le sembrava di udire la sua voce, che le diceva che la setta non era nient'altro che un'illusione.
Scosse la testa. Aveva la mente confusa. Cercò di aprirsi un varco in mezzo alla nebbia grigia che calava sulla sua mente dopo ogni convegno e che vi gravava fino alla luna piena successiva. No, la stregoneria che praticavano non era semplicemente frutto di un'illusione. Una notte, mentre attraversava il Cambrook, aveva sentito il torrente ingrossarsi alle sue spalle, un manto luccicante e ghiacciato che ribolliva alla luce della luna e si riversava a valle per seguirla al luogo del convegno: ma quando si era voltata a guardare aveva visto soltanto l'acqua scorrere senza meta fra le due rive. Eppure lei era sicura di averlo sentito. E poi c'era una cosa che aveva visto. Una volta, al culmine dell'estasi, aveva alzato gli occhi verso il cielo e aveva visto un'enorme faccia bianca, illuminata dalla luna, che fissava sogghignando il loro gruppo raccolto nella radura. Aveva la bocca e gli occhi pieni di notte e dai loro contorni frastagliati usciva un fumo denso e lento. A poco a poco, la faccia si era dilatata fino ad occupare l'intera volta celeste e dalla fronte erano spuntate un paio di corna. «La concupiscenza è un'illusione, uno scherzo del diavolo!» tuonò Jenner. «Il Nostro Signore Gesù Cristo provava forse concupiscenza? O l'aveva forse mai provata la Sua Santa Madre?» Un'illusione, pensò Anne. Se il diavolo era capace di farle provare quello che provava ad ogni convegno, era certamente in grado di farle vedere anche strane facce in cielo. La sua mente si incupì. La setta non aveva alcun potere, se non quello dell'illusione. Ma non era vero! protestò all'improvviso una voce dentro di lei. Il potere della setta era reale, e spaventoso! Per la prima volta, dacché aveva messo piede in chiesa quella mattina, Anne riuscì a guardare il Pastore Jenner negli occhi. «Adesso innalzeremo il nostro canto di lode a Dio» proclamò il sacerdote. Anne si alzò in piedi, spronata non soltanto dalla musica. La setta e il pastore si erano scontrati dentro di lei e la setta aveva vinto, perché possedeva lo stesso potere di John. Ad un tratto la sua mente si schiarì e i colori tornarono a risplendere nei suoi pensieri e nella chiesa attorno a lei; da quel momento e per tutta la durata dell'ufficio, Anne si sentì come se si trovasse al centro di un raggio di luce. Finché uscì e vide Celia Poole, viva e vegeta. Ad un tratto, John, che camminava accanto a lei, celando il suo potere dietro un'espressione di grande compostezza, le parve come tutte le altre pecorelle del gregge di Jenner: un fantoccio inerme, con la faccia da timorato di Dio. Aveva detto che la maledizione avrebbe colpito Celia Poole
prima che potesse parlare. Ma come poteva essere sicuro che non avrebbe parlato se non la metteva a tacere immediatamente? Quella volta il suo potere aveva fallito. E il Pastore Jenner aveva vinto. Quando ritornarono a casa, Anne si sedette davanti al fuoco e restò in silenzio. Il potere del pastore incombeva anche lì. Mentre gli altri uscivano a passeggiare, godendosi il giorno di festa, lei e John dovevano restare a casa, per dimostrare la loro maggiore devozione. Un dolore sordo le rodeva lo stomaco. Aveva dovuto digiunare prima del convegno e adesso doveva astenersi per santificare la domenica. Lanciò un'occhiata al filarello, poi distolse lo sguardo. Non poteva nemmeno rammendare i vestiti, per paura che al pastore venisse in mente di andarli a trovare. I pensieri che si affollavano nella sua mente erano cupi come il pavimento sotto i suoi piedi, fatto di nuda terra. L'orologio del nonno batté l'ora, ricordandole, con i suoi rintocchi forti e pigri, l'approssimarsi dell'ufficio serale. Immaginò Celia Poole che si alzava in piedi nel bel mezzo della funzione non per fare atto di pubblica penitenza, ma per denunciare Nell. Nell sarebbe certamente crollata e avrebbe fatto tutti i loro nomi. E allora sarebbero stati alla mercé di Jenner, circondati dalla sua voce tonante, legati da un cappio di paesani. A nulla sarebbe servito invocare la Legge sulla Stregoneria di Giorgio II. Jenner non era un uomo incline alla clemenza, e non lo era nemmeno il paese che aveva fatto suo. Anne osservò John mentre, con gesti calmi e precisi, aggiungeva legna al fuoco, apparentemente sereno. Si rifiutò di farsi illudere da quella sua calma. Dietro quel suo atteggiamento discreto e riservato non c'era niente. Lui era l'unico che avrebbe potuto salvarla da Jenner. Anni prima il pastore era riuscito ad averla vinta su di lui e lei era sempre stata convinta che l'odio feroce che quello smacco aveva scatenato dentro di lui fosse la fonte del suo potere. Ma ormai il suo potere era svanito. Era seduto di fronte a lei, con il volto immobile. Ad un tratto Anne si rese conto che al di fuori dei convegni, la vita del marito doveva trascorrere grigia come la sua. Almeno lei viveva preziosi minuti d'estasi sotto la luna. Ma nel caso di John quali mai potevano essere i piaceri che lo aiutavano a tirare avanti? Non aveva importanza, si disse, ricacciando il pensiero prima che potesse prendere forma nella sua mente. I piaceri erano finiti per tutti e due, adesso che Jenner aveva vinto. Una folata di vento spinse un nero pennacchio di fumo fuori dal camino, mandandolo ad infrangersi contro i travicelli del tetto.
Quando giunse l'ora della funzione serale, Anne uscì di casa con il capo chino e, per tutto il tragitto, non fece che inciampare nei profondi solchi della strada. Era come se quei solchi volessero spingere i suoi piedi riluttanti verso la chiesa. Circondate da grandi giardini, le piccole case di mattoni rossi sembravano volersi tenere lontane da lei. Il sole era basso sopra i campi di grano. Con gli occhi fissi sulla sua ombra che incespicava, Anne si trascinò verso la chiesa. Quando passò accanto ai Cooper, che sedevano un paio di panche dietro a quella che era stata assegnata a lei e a John, nessuno dei due le rivolse lo sguardo; del resto neppure lei avrebbe mai osato guardarli apertamente in faccia. Il potere del pastore era assoluto: nessuno avrebbe avuto il coraggio di mostrare di conoscere qualche altro membro della setta. Anne non poté fare a meno di domandarsi se anche loro fossero paralizzati dal terrore come lo era lei. Poi si accorse che i posti dei Poole erano vuoti. Non osò sperare, ma per la prima volta da quando Jenner era arrivato in paese, riuscì a pensare in chiesa che forse esisteva un barlume di speranza. I Poole arrivavano quasi sempre con mezz'ora di anticipo alla funzione, per non essere costretti a subire da soli i propri reciproci, imbarazzati silenzi. Mentre si inginocchiava, Anne si guardò intorno. La chiesa era stata piuttosto trascurata in passato, ma da quando era arrivato Jenner le cose erano cambiate. Tuonando dal pulpito, aveva messo a nudo le più segrete manchevolezze di ognuno di loro, inchiodando ciascuno alle sue colpe. Alcuni degli abitanti del paese avevano salutato con gioia la sua nomina a pastore, perché nel suo rigore vedevano una soluzione contro il lassismo dei tempi; gli altri non avevano osato mettersi contro di lui, perché il suo disprezzo si stava diffondendo nel paese come un'epidemia. E la maggior parte degli abitanti ne era rimasta infettata prima che il disprezzo potesse venire usato contro di loro. Jenner li aveva spronati a pulire e a ripristinare la chiesa, e ad imbiancarne le pareti. E infatti adesso era così linda che splendeva tutta nella luce della sera. Ma forse quella non era stata poi una gran conquista, come credeva Jenner, pensò Anne. In fondo non era stato sempre lui a predicare l'inutilità delle cose terrene? La vera vittoria era quella su Celia Poole, ed era John ad aver vinto... Non appena Anne udì i passi riecheggiare nella navata non ebbe bisogno di voltarsi per sapere che si trattava di Celia Poole. Quando, all'unisono con il resto dell'assemblea, girò la testa per rim-
proverare i due ritardatari, vide la donna prendere posto con aria imperturbabile nel banco che, come tutti gli altri, era stato costruito da John, su ordine del pastore. E dal luccichio nei suoi occhi capì che pregustava il sapore dell'imminente atto di denuncia. Seduto accanto a lei, Richard, suo marito, era rosso in volto e ancora affannato per la discussione che avevano appena sostenuto. Dallo sguardo di Celia si capiva che era stata lei a spuntarla. Come se avesse atteso con trepidazione il suo momento di gloria, Jenner avanzò a grandi passi verso l'altare, facendo svolazzare la tonaca. La sua voce, stentorea e autoritaria, rimbombò in tutta la chiesa. Anne rispose meccanicamente all'orazione latina, benché quelle parole non significassero quasi nulla per lei. Le uscivano dalle labbra da sole, sfuggendo al suo pensiero, proprio come era accaduto al convegno, quando Elizabeth aveva intonato il canto. Ma adesso quelle parole si stavano serrando attorno a lei come le maglie di una catena che la inchiodava lì, al suo posto nel banco, in attesa che calasse la mannaia della denuncia. Sentiva Celia dietro di sé, pronta a balzare in piedi da un momento all'altro. Poi, all'improvviso, udì un frastuono, seguito da un tonfo sordo. Il canto si interruppe e tutti si voltarono a guardare. C'era qualcosa nella navata, qualcosa che si dimenava con gli stessi movimenti di un indifeso neonato. Aveva il viso nero, con i muscoli spasmodicamente contratti attorno alla lingua che protrudeva senza suono dalla bocca. Era Celia Poole. «Siate vigilanti!» tuonò Jenner, ammonendo l'assemblea con l'indice puntato. «Perché il diavolo vostro nemico, si aggira in mezzo a voi come un leone ruggente, alla ricerca di una vittima da divorare!» Anne riuscì a soffocare a stento un sorriso. Lei sapeva che quella non era la vittoria del diavolo, ma della setta.. Ma quando Richard sollevò gli occhi dal corpo sofferente della moglie, occhi assenti e umidi di rabbia, capì che anche lui sapeva. Fu il giorno prima della successiva luna piena che le parole di Elizabeth Cooper fecero capolino nella mente di Anne, generando in lei il sospetto. Anne stava rammendando alcuni vestiti. Non più attanagliata dalla paura, la sua mente si muoveva agile come l'ago che stringeva in mano, attraverso la selva dei ricordi. Per la prima volta, dacché era sposata, la donna si sorprese a gioire spontaneamente del suo lavoro. Si crogiolò in quella piacevole sensazione. Ricordava l'iniziazione dei Carter e degli Young; ricordava la loro irrefrenabile euforia la prima volta che si erano abbandona-
ti ai piaceri del sesso. All'improvviso quell'immagine si associò ad un altro pensiero che, senza che lei ne fosse cosciente, covava da tempo nella sua mente: cosa ne era stato della sessualità di John? Si sforzò di riflettere. Suo marito non era certo un uomo privo di desideri sessuali, tutt'altro: la sua ardente passione l'aveva atterrita la prima notte di nozze, quando il sesso le si era presentato alla luce incerta di una candela, anziché a quella prepotente della luna piena. Non appena si era accorto che né le lusinghe né le minacce servivano a sollecitare i sensi di lei, John aveva soffocato il proprio desiderio, che tuttavia non poteva essere morto. «Nessun uomo può farne a meno» le aveva ricordato Elizabeth. Ma era ovvio! Ecco dov'era finita la sua sessualità: nel suo potere magico. Senza volerlo, con quella frase acida, dettata dall'invidia, Elizabeth le aveva indicato la verità. Ma Anne non ne era del tutto convinta. Sentiva John chiuso in camera sua, intento a ultimare qualche mobile. Più di una volta l'aveva sorpreso ad osservarla, mentre credeva che lei non lo vedesse, e nei suoi occhi aveva letto il desiderio. E ogni volta si era sentita raggelare: no, non poteva, non poteva e basta, non serviva a niente cercare di costringerla. Si impose di riflettere con calma: le riusciva difficile credere che lui fosse riuscito ad annullare la passione nel potere. L'estasi che tutti loro raggiungevano durante il convegno non poteva non accendere anche in lui un desiderio incontenibile. Inoltre, lei era certa che suo marito quel potere l'avesse sempre posseduto. Era stato il Pastore Jenner a trasformarlo in odio. John era un esperto mobiliere, come, prima di lui, era stato suo padre. I suoi manufatti erano modesti, ma realizzati con stile, ed era grazie a lui che molti braccianti della zona potevano compiacersi di dormire in un letto a baldacchino anziché su quattro assi di legno o su un materasso buttato per terra. Ma il vero genio di John si esprimeva nelle figure che intagliava: cavalieri, pastori, contadini e animali in miniatura. Nella sua stanza aveva addirittura un modellino di Camside, con tutti i suoi abitanti. Portava alcune delle sue sculture a Brixtel e solo molto di rado ne riportava indietro qualcuna. Nei giorni che precedevano il Natale, esponeva tutte le sue statuine davanti all'uscio della loro casetta, sul ciglio della strada. Da quando si erano sposati, John aveva intensificato l'attività di scultore e il Natale prima aveva messo in vendita più statuine di quante ne avrebbero potute acquistare tutti gli abitanti del paese messi assieme, più le persone che venivano apposta da Brichester per comperarle.
John era in piedi accanto alle sue sculture e quasi tutta la popolazione di Camside era lì ad ammirarle, quando, con passo solenne, era arrivato il Pastore. Jenner aveva fissato in silenzio le statuine, come se avesse trovato finalmente la conferma di un terribile peccato di cui gli era giunta voce, poi sollevando gli occhi su John aveva urlato: «Non ti fare nessuna scultura, né immagine delle cose che splendono su nel cielo, o che sono sulla terra o nelle acque sotto la terra! Non hai dunque compreso la parola del Signore? L'uomo non ha diritto di emulare la perfezione, che è solo di Dio!» Anne aveva avvertito un immediato cambiamento d'umore negli astanti, nei cui sguardi l'ammirazione aveva lasciato prontamente il posto alla condanna, una condanna che si estendeva anche a lei. Si sentiva spaventata, ma sicura: era certa che John avrebbe avuto la meglio su tutti loro. Ma proprio allora John l'aveva delusa. Aveva ceduto a Jenner e gli aveva chiesto che cosa dovesse fare. «Brucia tutte le statuine» gli aveva risposto il Pastore, «e ringrazia con tutto il cuore Dio Onnipotente per averti salvato dalla perdizione.» Mezz'ora più tardi le fiamme stavano già divorando le piccole figurine di legno. Anne si era sentita spregevole e falsa. Quando John era rientrato in casa, aveva pensato che fosse andato a nascondere la scultura in miniatura di Camside, ma poco dopo era riemerso per gettarne i pezzi in mezzo al fuoco. Da quando si erano sposati, Anne aveva smesso di frequentare la setta, perché temeva che John potesse scoprirla. I Cooper non avevano obiettato perché nel frattempo erano state iniziate altre coppie. Ma quel mese, spinta dal bisogno disperato di ridare un senso alla sua vita, aveva ottenuto dai Cooper l'unguento ed era andata al convegno. E mentre correva in mezzo agli alberi ondeggianti, lasciandosi alle spalle la casa e la sua atmosfera di sconfitta, si era finalmente sentita libera. Dietro di sé, suggestivo e incalzante, aveva udito il debole battito del cuore della foresta... Ma quando era arrivata nella radura e si era voltata a guardare quello che tutti gli altri stavano fissando, si era resa conto che il rumore che aveva udito era quello dei passi di suo marito. «Lo immaginavo» aveva detto John, incapace tuttavia di celare la sua sorpresa. «Be', penso di avere più ragioni di tutti voi di odiare la religione e tutte le sue assurdità. Quindi farete meglio ad accettarmi come membro della setta.» «E così finalmente saremo in tredici!» aveva esultato Anne, comprendendo finalmente il motivo per cui il marito non si era opposto a Jenner.
«Ci saresti stato più utile quando intagliavi le tue statuine» aveva detto Elizabeth. «Ci avrebbero dato il potere sulle persone che scolpivi.» A quel punto John aveva estratto di tasca un coltello e, come la luna aveva inondato di luce la radura, una nuova determinazione aveva acceso il suo sguardo. «Forse non è troppo tardi.» Prima della fine di quella settimana, Jonas Miller si era fracassato le ginocchia sotto il tornio; Jonas aveva aiutato John a bruciare le sue sculture con un entusiasmo eccessivo anche per il più zelante dei credenti e quella notte, nella radura, John aveva accuratamente eliminato le ginocchia dalla statuina dell'uomo che aveva intagliato. Da allora, tutti i membri della setta gli avevano chiesto di maledire i loro nemici, ma lui acconsentiva soltanto quando sussistevano validi motivi, per paura che un'improvvisa epidemia di malattie e di disgrazie potesse tradire la presenza della setta. Dopo Jonas Miller era stato il turno di Roger Piace, il proprietario terriero di Brichester, che una cronica infezione urinaria aveva costretto a letto, impedendogli di recintare la terra di Camside, e consentendo così a Arthur Young di continuare a lavorare i campi della vedova Taylor. La setta metteva subito a tacere chiunque manifestasse sospetti su una delle streghe. L'ultima in ordine di tempo era stata Celia Poole. Ricordando quanto era accaduto a Celia Poole, Anne non ebbe più dubbi. Per esercitare un simile potere, John doveva attingere a tutte le sue energie, compresa la sua sessualità frustrata. Un simile potere doveva per forza assorbirlo tutto. L'ago di Anne riprese a muoversi alacremente. Ripensando a Celia, Anne provò compassione per Richard Poole, un uomo timido, la cui principale preoccupazione era quella di vivere in pace con il prossimo e di evitare fastidi. Non si meravigliava che avesse cercato di dissuadere la moglie dall'idea di denunciare Nell. Pover'uomo, adesso che Celia era stata stroncata da una crisi epilettica, avrebbe finito per chiudersi ancora di più in se stesso. Ma la setta doveva pur difendersi dai suoi nemici. Rincuorata da quella nuova vittoria del marito, Anne attizzò il fuoco con il mantice. Si stava ancora riscaldando le mani al tepore della fiamma, quando arrivò Jane Cooper per ritirare la sedia che John aveva appena terminato. Il buonumore che le aveva fatto compagnia fino a quel momento fu subito annullato dall'accesso di gelosia che ormai la coglieva tutte le volte che vedeva la ragazza. Ma un attimo dopo, non appena la ragazza scomparve nella stanza del marito, Anne si vergognò di se stessa: si sentiva troppo in pace con il mondo per permettere ad un sentimento così meschino di rovi-
nare tutto. Uno dei lussi che, grazie al lavoro di John, potevano permettersi era il tè, una cosa che, con ogni probabilità, Jane non aveva nemmeno mai assaggiato. Una pentola colma d'acqua era già pronta accanto al camino e Anne l'appese sopra il fuoco. Poi si affrettò a dire a Jane di aspettare. Quando entrò nella stanza, John non si curò di mutare l'espressione del suo sguardo: stava fissando la ragazza con gli occhi pieni del ricordo dell'accoppiamento e della promessa di altri incontri. Dopo quelli che a Anne sembrarono parecchi minuti, l'uomo le rivolse un'occhiata stanca e spazientita e si richiuse in se stesso, celando i propri sentimenti come un padrone geloso che nasconda bruscamente un libro all'ingresso di una cameriera. Jane uscì portando la sedia sulla schiena. Incespicando, Anne ritornò nella sua stanza e indugiò alcuni istanti con le mani in mano. Per qualche minuto sostenne un'intima lotta con la verità. John non poteva aver toccato la ragazza. Non l'aveva fatto durante i convegni e i vecchi Cooper non glielo avrebbero permesso in nessun'altra circostanza. Su quel punto erano intransigenti almeno quanto Jenner. Del resto, pensò, (o fu quasi sul punto di pensare perché la sua mente rifuggiva da quel pensiero), se fossero stati capaci di stare insieme tutte le volte che lo desideravano, la setta non sarebbe nemmeno esistita. Ma la verità attendeva pazientemente che lei la vedesse. John era il diavolo che faceva la sua comparsa durante i convegni: ecco come faceva a soddisfare la sua sessualità. Perfino adesso, sollecitata da quell'intuizione, Anne dovette compiere un atto di violenza nei confronti di se stessa per pensare al diavolo. Era apparso dal folto del bosco otto lune piene prima, cigolando come se il suo corpo fosse di legno, di vento e di luna. Da allora era sempre riapparso al culmine della loro estasi. Non era mai stato visto prima che John si unisse alla congrega e la sua comparsa era stata salutata come la riprova del potere del numero tredici e di quello di John. Le donne avevano detto che il suo pene era duro e rigido, proprio come, ricordando i convegni della sua infanzia, Elizabeth aveva predetto che sarebbe stato. Insomma, tutto concorreva a dimostrare che la congrega aveva riacquistato il suo potere magico. Ma adesso Anne si rendeva conto che esisteva un'altra spiegazione. Il diavolo non l'aveva mai scelta. Lei era incommensurabilmente grata di essere stata risparmiata, così grata che non osava pensare alla sua fortuna per paura che la volta successiva il diavolo decidesse di accoppiarsi con
lei. A volte le capitava di dimenarsi e di gemere nel sonno, mentre nei suoi incubi peggiori il diavolo la inchiodava a terra e la possedeva con il suo smisurato pene. Agli ultimi due convegni era sicura che fosse ormai giunto il suo turno e aveva atteso con terrore che il suo sguardo ghignante si fermasse su di lei; ma il diavolo aveva scelto di nuovo Nell e Jane. D'un tratto Anne capì la ragione della sua istintiva gelosia nei confronti della ragazza. La sua mente collegò fra loro brandelli di ricordi finché ebbe la certezza che la sua intuizione era giusta. Il diavolo faceva la sua comparsa sempre dopo che John si era ritirato nel bosco per maledire le statuine. Anche le volte in cui il rito non aveva luogo, perché nessuno aveva invocato il suo potere contro qualche nemico, lui scompariva nella foresta con il pretesto di rinnovare le maledizioni precedenti, affinché il loro potere non diminuisse. Il diavolo appariva sempre dalla stessa direzione in cui John si dileguava. E ancora, ricordando questo particolare Anne capì di aver sempre, inconsciamente, saputo la verità: il diavolo sceglieva sempre la donna con cui John aveva danzato prima del sacrificio. Prima che il terrore la paralizzasse, Anne entrò nella sua stanza. Il marito stava intagliando la gamba di una sedia con la tenerezza di un amante. «Il diavolo che viene nelle notti di luna piena» disse, rendendosi conto che quella era la prima volta che parlavano della setta, «Io so chi è.» «È il nostro signore e padrone» rispose lui, senza alzare gli occhi. «Ma non il mio. Sei tu sotto mentite spoglie, è un tuo trucco per avere tutte le donne alla tua mercé. È così che anche tu riesci a chiavare.» «Io non oserei mai toccarle» protestò John con lo stesso veemente disprezzo con cui avrebbe parlato Jenner. Indietreggiando, Anne ritornò nella sua stanza. Rifletté con calma su quella risposta e si rese conto che il significato delle parole di John non era quello che sulle prime lei gli aveva attribuito. Non aveva negato di essere il diavolo. Ed era chiaro che non avrebbe potuto toccare nessuna delle donne, perché il suo travestimento glielo impediva: in questo senso aveva usato il verbo "toccare". Avrebbe potuto accontentarsi di quella magra soddisfazione, del fatto che lui fosse stato costretto a forzare il significato delle parole per ingannarla; era pur sempre una vittoria: l'aveva messo alle strette, nell'impossibilità di usare direttamente il suo potere. Ma all'improvviso quella risposta le risuonò nella mente come un insulto. "Non oserei mai toccarle", aveva detto, non "toccarvi": l'aveva automaticamente esclusa, per pietà, o per indifferenza; non la considerava nemmeno degna del suo disprezzo.
Nella sua amarezza, Anne era certa che non potesse esservi alcun'altra spiegazione. L'acqua bolliva nella pentola e traboccava sibilando. Senza scomporsi la tolse dal fuoco. Sapeva che cosa doveva fare. Dopo un po' disse a John che sarebbe andata in chiesa. Jenner l'aveva guardata in modo strano, addusse come scusa, e lei voleva levargli dalla mente ogni sospetto. Si incamminò di buon passo verso la chiesa, ma appena fu abbastanza lontana da essere sicura che il marito non potesse vederla, ritornò indietro attraverso il bosco. Avanzò a grandi passi nella radura dove avvenivano i convegni, poi si fermò, confusa. Il sole era una cialda d'argento che si squagliava in uno stagno grigio e, illuminata dalla sua luce, la radura appariva piccola e nuda, racchiusa da alberi spogli: non sembrava affatto il grande prato circolare attorno alla quale gli alberi danzavano selvaggiamente. Ma poi riconobbe le piante dai tronchi nocchiuti fra le quali il diavolo faceva sempre il suo ingresso e, con il cuore in gola, si affrettò in quella direzione. Attorno a lei il bosco, sonnolento ma vivo, cigolava sinistramente, come il pendolo di un enorme orologio di legno. Sapeva che John non portava mai le statuine con sé, che le nascondeva prima, insieme al coltello; anche il suo costume da diavolo doveva essere lì intorno da qualche parte, ne era certa. Era quella la prova che cercava. Un improvviso rumore la fece trasalire: qualcuno stava venendo verso di lei dal cuore della foresta. D'istinto cercò di zittire gli alberi con un gesto nervoso della mano, ma le piante continuarono ad ondeggiare lentamente, impedendole di vedere oltre il fitto intreccio dei rami. I rami sembravano descrivere strani movimenti rotatori, dal basso verso l'alto, come le mani di un mago che aveva visto da bambina. All'interno della fiacca rete di suoni e di legno scuro, qualcuno si stava avvicinando. Dopo aver indugiato alcuni minuti con il fiato sospeso, Anne si convinse che doveva trattarsi di un vagabondo. Scrutò fra i tronchi, ansiosa di trovare il costume di John, ansiosa di andarsene. A mano a mano che avanzava nella foresta, gli alberi si facevano flemmaticamente da parte, rivelando altri alberi. I rami più alti si allungavano esitanti e neri verso la volta grigia e confusa del cielo. Le piante ondeggiavano all'unisono, scricchiolando per lo sforzo, ma restavano saldamente abbarbicate al terreno. Qualcuno la stava seguendo nel bosco. Anne si girò, guardandosi intorno con gli occhi sgranati. Non c'era nessuno. Dopo alcuni istanti si voltò di nuovo e si trovò a faccia a faccia con il diavolo.
La stava fissando, con occhi vacui e le labbra contratte in un ghigno, dal breve spazio che separava due grossi alberi. Era quasi interamente nascosto da una pila di rami e foglie, che gli erano scivolati giù dalla testa, scoprendone soltanto la faccia. La bocca era immobile, gli occhi non erano che due cavità vuote e nere come la tenebra. Pur immobilizzato com'era, la sua imponenza era terrificante. Ma Anne si costrinse ad andargli vicino e cominciò a spostare alcuni rami. Ad un tratto si accorse che la pelle del diavolo era tesa sopra una struttura di legno. Ecco che cosa lo rendeva così massiccio. Ricordò di aver sentito dire che alcuni mesi prima qualcuno aveva rubato un'enorme quantità di pelli da un ciabattino di Brichester; sulla provenienza dello scheletro di legno non aveva alcun dubbio. Proseguì a scostare i rami e fu così che scoprì che il diavolo era privo di pene; al suo posto c'era soltanto un orifizio. Scosse la testa sorridendo. Stava per allungare la mano per toccarlo, per dimostrare a se stessa che era capace di farlo, quando la sua attenzione fu attratta da un rumore improvviso, proveniente dalla direzione della radura. Questa volta la sua immaginazione non l'aveva ingannata: c'era qualcun altro nel bosco. Era Richard Poole. Risistemò i rami attorno al diavolo, poi si nascose fra gli alberi. Scrutando fra le foglie intravvide il viso di Richard. Non vi era più alcuna traccia di timidezza nel suo sguardo: i suoi occhi erano accesi d'odio. Era chiaro che stava cercando qualche prova dell'esistenza della setta. Mentre fuggiva scivolando fra gli alberi, udì uno scricchiolio, come se il diavolo si fosse agitato nel sonno. Trasalì e inciampò in un ramo, che si spezzò con uno schianto. Quando recuperò l'equilibrio e sollevò la testa, il suo sguardo incrociò quello di Richard Poole, che la stava fissando. Lo salutò con un rapido cenno del capo, quindi, celando abilmente il tumulto del suo cuore, si allontanò a grandi passi. Quando riacquistò la calma sufficiente per pensare, Anne sorrise soddisfatta. Giocava tutto a suo favore. Per la prima volta si sentiva così forte da sfidare il rischio. Era riuscita a nascondere il diavolo completamente e, quando aveva inciampato, era già troppo lontana perché Richard potesse trovarlo. Poteva permettersi di aspettare fino all'indomani. Aveva in mente due piani e già pregustava il momento in cui sarebbe riuscita a realizzarli. Era calata la notte. Anne uscì di casa e corse dietro a John. Il vento aveva spazzato via le nubi e la luna piena riversava la sua luce bianca sulla
terra dura, gli alberi intirizziti, l'erba irrequieta e ammantata di brina. Quando i rami cominciarono a fremere, le loro vibrazioni indugiarono negli occhi di Anne come scie di una nebbiolina luminescente. Anche il corpo di John sembrava emanare un alone di luce gelida. All'improvviso, le settimane che erano trascorse dall'ultimo convegno apparvero ad Anne come un sogno dal quale finalmente si stava risvegliando. Ma quell'atmosfera di sogno non le impediva di pensare a mente fredda. Quando raggiunsero la radura, Anne vide che gli altri li stavano aspettando ancora una volta e allora capì perché lei e John arrivavano sempre per ultimi: perché gli altri si sentissero costretti ad aspettarli, per confermare la loro fede nel potere di lui. Molto bene, pensò. Anche lei avrebbe dimostrato a tutti loro di che cosa era capace. A voce abbastanza alta perché tutti potessero udirla, Anne disse al marito: «Fammi una statuina del Pastore Jenner.» Prima di ritirarsi in se stesso per annullarsi nel profondo del suo odio, John le lanciò un'occhiata che a lei parve di ammirazione. «Perché vuoi che lo maledica?» le domandò. «Ha visto il sorriso che mi è sfuggito quando Celia Poole è stata colta da quell'attacco in chiesa. E adesso continua a scrutarmi per vedere se mi tradisco. Ogni notte sogno che accadrà, e prima o poi sarà così.» Gli occhi di John la fissarono, ma quelli non erano i suoi occhi, erano gli occhi di una persona vecchia e mostruosamente depravata, affamata di tutto fuorché d'odio. «Non preoccuparti, non ti guarderà mai più» sentenziò. Un groviglio di emozioni si agitarono nel suo animo: compiacimento, terrore, sorpresa, l'improvvisa, acuta consapevolezza che solo in quei momenti di potere disumano lei e John potevano provare ammirazione l'uno per l'altra. Si era domandata spesso perché suo marito non avesse mai invocato la propria maledizione su Jenner. Più di una volta, con lo stesso profondo disprezzo che aveva provato quando lui aveva bruciato le sculture, aveva ipotizzato che fosse terrorizzato dal Pastore. Ma forse, si era detta il giorno prima, forse aveva soltanto paura di venire sopraffatto dal suo stesso potere, nel momento in cui avesse deciso di usarlo per maledire un suo nemico. E, sempre il giorno prima, si era resa conto che avrebbe potuto metterlo alla prova su questo punto e, al tempo stesso, neutralizzare Richard Poole. Una volta distrutto Jenner, i loro compaesani non avrebbero mai osato mettersi contro la setta. Anne sorrise alla luna fredda e indifferente. Elizabeth Cooper aveva già intonato l'inno e stava cantando con im-
pazienza, urlava quasi; forse, pensò Anne, era spaventata dall'enormità di quello che John stava per compiere. Alle prime note del canto, i Cooper avevano incominciato a danzare, pestando con forza i piedi sul terreno, come se stessero sfidando tutte le divinità della terra. Correndo, Anne si unì al quartetto, aggrappandosi saldamente al braccio di Jane. Dall'estremità opposta della catena, Elizabeth le lanciò un'occhiata piena di disprezzo: erano sempre stati i Cooper a decidere l'ordine dei danzatori. Ma Anne le restituì un sorriso trionfante e, trascinando l'intero gruppetto, si avvicinò a John e lo afferrò per il braccio. Poi chiuse gli occhi e lasciò che il canto entrasse dentro di lei per poi scaturire nuovamente dalle sue labbra. Le gambe, infiammate dall'unguento, la spronavano a danzare con crescente frenesia. Strinse il braccio di John e fece una capriola: non vedeva l'ora che la danza finisse, in modo che lui potesse andare, per poi ritornare da lei... anche sotto forma di diavolo, se proprio doveva. I suoi seni pesanti sobbalzavano al ritmo della musica, con i capezzoli ritti e frementi; le labbra del suo sesso pulsavano avide. Abbassò gli occhi nell'istante in cui con un movimento vigoroso piegò il busto. Gli avrebbe fatto dimenticare Jane e tutte le altre. In quello stesso istante John allungò la mano verso Anne e, lentamente, il cerchio dei danzanti si chiuse. Anne era sdraiata ai margini della radura, con le gambe rilasciate e tremanti. Adam aveva squarciato un pesce e adesso lo stava mostrando alla luna. «Domini nostri» urlarono tutti in coro. John scomparve; gli altri si sedettero accanto agli alberi, in muta attesa in mezzo al roco scricchiolio del bosco. D'un tratto, Anne si sentì lo stomaco freddo e vuoto come la radura. John stava avanzando a grandi passi verso di lei dal fitto del bosco. Il suo sguardo era fisso e indifferente come quello della luna. Con una mano incolore, eppure, al tempo stesso, illuminata da una strana luce che sembrava provenire dall'interno della carne, le gettò una statuina di legno. Nel momento in cui l'afferrò, Anne non poté fare a meno di soffocare un grido: le era sembrato di sentire la statuina sussultare fra le dita, come se Jenner fosse intrappolato nel bosco e stesse lottando per liberarsi dalla maledizione e, dibattendosi con tutte le sue forze, facesse tremare la superficie della terra. Chiuse gli occhi per invocare la maledizione sul pastore, ma trovò ad attenderla il panico. Se avessero cercato di maledire Jenner, lui l'avrebbe saputo: Dio lo avrebbe avvertito e lui li avrebbe distrutti. Strinse la statuina
fra le dita fino a farla scricchiolare. Si sarebbe affidata al potere di John. Serrò le palpebre fino a quando un incendio rosso scoppiò davanti ai suoi occhi, e formulò la maledizione. Quando John riprese la statuina, lei riaprì gli occhi. Non lo vide intagliare il volto del sacerdote, ma quando guardò di nuovo la statuina, Jenner era già lì, che la fissava dalla testa di legno, minuscolo, ma pieno di disprezzo. Era come se l'animo del pastore avesse permeato il legno e la stesse guardando dalla mano di suo marito, ancora più intenso e concentrato a causa delle dimensioni della scultura. Per un attimo, Anne sentì tutta la forza del suo potere che la conquistava. Poi riuscì a restituire al manichino paralizzato uno sguardo di sfida e, pregustando il trionfo, si sentì pervasa dalla forza di un gigante. John scomparve nel bosco, impallidendo a mano a mano che si allontanava, un'ombra appena luminescente adesso, e poi nero come la notte che lo inghiottiva. Ammutoliti da ciò che stava per fare, i dodici rimasero in attesa, incapaci di muoversi. Avevano bisogno di veder riapparire il loro signore, per essere certi che la loro presunzione non lo avesse distrutto; tutti, tranne Anne, che giaceva imperturbata sull'erba, mentre la sua eccitazione cresceva, facendola fremere in mezzo alle cosce. Quando udì lo scricchiolio riecheggiare fra gli alberi muti, ebbe la certezza che si trattasse di John, John che ritornava per prenderla. Il suo sesso si contrasse in uno spasmo di piacere. Il diavolo avanzò solennemente nella radura, abbassando sul gruppetto il volto immobile e ghignante. I suoi occhi infossati erano un turbinio di ombre. Per la prima volta, Anne trovò il coraggio di guardarlo e vide che aveva i piedi fessi. La pelle che gli copriva il corpo si aggrinzava cricchiando e risplendeva opaca sotto i raggi bianchi della luna. Ritto sopra le cosce, il suo pene sembrava una gigantesca verga di luce lunare. Anne balzò in piedi prima di rendersi conto che il diavolo non stava invitando lei, ma Alice Young e, quando l'altra si alzò, non esitò a farla ruzzolare a terra con una spinta. Quindi avanzò con passo sicuro verso il centro della radura. Gli altri soffocarono un'esclamazione di sdegno, che aumentò quando la videro afferrare fra le mani il grande pene lucente. Era di gran lunga più grosso di quello di tutti gli uomini della setta e molto più duro; sembrava completamente diverso da quello di John, o almeno dal ricordo che gliene era rimasto dai primi tempi del loro matrimonio. La faccia disumanamente immobile si chinò su di lei, la fronte celata dall'ombra delle grandi corna. Le orbite nere e vuote la fissarono.
Poi il diavolo l'afferrò brutalmente per le spalle, la fece girare e la scaraventò per terra. L'erba ghiacciata le graffiò il ventre e il seno. Anne sentì le sue ginocchia gelide che cercavano di aprirle con forza le gambe e contrasse disperatamente i muscoli per tenerle unite. Ma le mani del diavolo le serrarono le spalle in una morsa, imprigionandola prima che potesse cercare di trascinarsi lontano, e il suo pene si conficcò con forza fra i suoi glutei. Allora Anne cominciò a piangere di dolore e di rabbia, sopraffatta da una frustrazione che non aveva più provato dalla prima notte di nozze. Puntò invano le gambe contro il terreno, cercando di far presa con i piedi contro l'erba. Lui affondava sempre di più il pene dentro di lei, mentre il suo corpo scricchiolava con la stessa rigidità degli alberi. L'odore intenso della sua pelle le riempiva le narici. Le sue spinte le facevano sfregare i capezzoli contro l'erba. Poi Anne si mise a singhiozzare: l'unguento che le infiammava il sesso la costringeva ad assecondare i movimenti del diavolo, a stringere il pene fra i glutei e a farlo penetrare sempre di più dentro di sé, finché non poté più distinguere il fuoco del dolore dall'incendio dell'unguento. D'un tratto lui si ritrasse e mollò la presa delle spalle. Anne cominciò a trascinarsi rapidamente verso il margine della radura, ma quando udì il suo insidioso scricchiolio sopra di lei, si voltò per difendersi. Era quello che lui aspettava. Mentre lei scalciava per tenerlo lontano, lui le sollevò le ginocchia e la costrinse ad allargare le gambe. Poi, mentre la sua bocca e il suo sesso si dilatavano, lui la penetrò. Anne urlò di rabbia, dimenandosi come una farfalla trafitta. Sentì la sua vagina tendersi fino quasi a lacerarsi e, mentre aspettava di venire sopraffatta dal dolore, una lenta esplosione di piacere cominciò a diffondersi lentamente dai suoi genitali a tutto il suo corpo. L'enorme mazza dura sfregava contro le pareti del suo sesso, sollevandola da terra ad ogni spinta. La maschera ghignante premette contro il suo viso e lei cercò invano di allontanarlo, prendendo a pugni il suo petto insensibile. All'improvviso qualcosa si infranse nelle viscere del suo essere, nella sua mente raggiunta dall'esplosione. Era come se, d'un tratto, la fiamma soffocata dell'unguento avesse avvolto con una vampata tutto il suo corpo. Anne fu travolta dalla forza dell'esplosione, ne fu accecata. Serrò le mani attorno all'erba sottile e con le ginocchia trasse a sé il diavolo, ancora, ancora, sempre di più. Poi ricadde sul prato, con il petto che le si sollevava in respiri lunghi,
lenti, e avidi. Nel momento in cui il diavolo si rialzò, Anne voltò la testa e vide Richard Poole precipitarsi come una furia verso il centro della radura. Lanciò un urlo, ma il diavolo si stava muovendo ancora con troppa lentezza per reagire. Gli altri membri della setta la fissarono senza capire, poi si voltarono, appena in tempo per vedere l'uomo sfrecciare in mezzo a loro. La luce della luna si infranse contro la lama dell'ascia che stringeva fra le mani. Il diavolo si raddrizzò e si girò nel momento stesso in cui Richard vibrò il colpo. Forse la vista di quel volto ghignante e dagli occhi di tenebra ricordò all'uomo che dopo tutto era un pavido, perché l'ascia, con la quale aveva inteso colpire il collo, esitò a mezz'aria e poi si abbatté contro il braccio destro della creatura. I membri della setta urlarono e Anne gridò più di loro. Il braccio le cadde in mezzo alle gambe. Richard brandì nuovamente la scure e l'affondò fra le spalle del diavolo; dopodiché si lanciò in una fuga disperata in mezzo al bosco. Il diavolo vacillò e cominciò a inclinarsi verso il corpo della donna. Continuando a gridare istericamente, Anne allontanò il braccio mozzato con un calcio; poi si guardò le gambe convinta di averle coperte di sangue. Ma del sangue non ce n'era neppure una stilla, poiché il braccio era fatto di legno. Allora Anne andò su tutte le furie: se la prese con se stessa per aver assecondato un manichino, per aver addirittura temuto per la sua vita e, accecata com'era dalla rabbia, non si domandò nemmeno come facesse a muoversi e a camminare. Si voltò verso la creatura, che giaceva supina accanto a lei e ne afferrò il grande pene. Non era che un'asta fatta di legno giovane, levigato fino a renderlo liscio e uniforme. La girò con violenza, finché ruotando nell'orifizio che la ospitava, le rimase in mano. John si assicurava che il legno fosse il più umido possibile, sostituendolo ogni volta, si disse, con il cuore che le batteva forte nel petto per lo stupore. Che pensiero gentile, pensò con cattiveria. Stringendo il pene fra le mani, ne avvertì di colpo tutta la consistenza legnosa. Poi un rumore la distolse dai suoi pensieri. Mentre si spegneva l'eco della fuga di Richard, dalle piante vicine provenne un gemito. Lo udirono tutti. Quando lo trovarono, John aveva già smesso di lamentarsi. Era sdraiato per terra, vicino al luogo in cui Anne aveva trovato il diavolo. Sembrava stesse affondando in quella che, a prima vista, sembrava un'ombra enorme, che lo circondava completamente. Era riverso sul fianco destro, con il corpo per metà coperto dal sottobosco, cosicché nessuno riusciva a vedergli il
braccio destro. Teneva invece la mano sinistra premuta contro l'inguine, da dove un fiotto inarrestabile di sangue gli filtrava fra le dita. Non era ancora morto. Li fissò tutti con un ultimo rigurgito di potere, e Anne avvertì il suo disprezzo, che condannava ciascuno di loro. Non gli aveva creduto quando le aveva detto che non avrebbe mai toccato nessuna delle donne. Lo guardò e lui, che la stava fissando, si rese conto che aveva capito, e accennò un mesto sorriso. Poi, ogni traccia del suo potere svanì dai suoi occhi, e fu come se l'intero bosco svanisse. Una folata di aria fredda portò con sé la voce di Richard Poole, che correva verso il paese urlando il nome del Pastore Jenner. L'ALTRA DONNA Fuori dalla finestra, nel parco, le foglie degli alberi luccicavano al sole di giugno. Il cielo galleggiava sul lago; alcuni rami affondavano nell'acqua, profonda e immobile. Phil indugiò a contemplare il paesaggio, poi si voltò a guardare la donna strangolata e la allontanò con un gesto nervoso della mano. L'aveva già dipinta altre volte. Non andava bene. Rilesse le indicazioni dell'editore: Lo strangolatore ("corridore automobilistico di giorno, strangolatore di notte!"). Poi riguardò il dipinto: si vedeva la macchina da corsa illuminata dal sole, e la luna sospesa in un triangolo di cielo buio dietro la donna. Andava bene così: erano i particolari che colpivano l'occhio. La donna non era niente di speciale, una delle tante vittime di omicidio sulla copertina di uno dei tanti gialli. E perché avrebbe dovuto essere diversa? Non è certo l'arte che fa vendere i libri, per lo meno non quel genere di libri. La gente è attratta da ciò che le è famigliare, da ciò che è prevedibile, insomma dal prodotto garantito. Che cosa poteva offrire un libro come quello? Qualche scena da brivido sul circuito automobilistico, una ragazza con il vestito strappato sul seno che veniva strangolata (e forse qualcosa di più che la copertina non rivelava); era più che sufficiente per i pendolari che lanciavano un'occhiata frettolosa all'edicola della stazione. Ma non era sufficiente per Phil. Aveva già dipinto una vittima come quella per Il suo caro cadavere. Si stava ripetendo. D'accordo, si stava ripetendo. Ma c'era un modo per evitarlo e aveva tutto il tempo che voleva. Si sarebbe tenuto il resto della giornata libera, in modo da non essere troppo stanco l'indomani quando sarebbe andato a Londra. Tanto più che proprio quella mattina gli erano arrivati due assegni
piuttosto cospicui. Si sentiva più che all'altezza del compito. Guardò fuori dalla finestra e iniziò a ripensare alla copertina, e a fare qualche schizzo. Una donna che urlava fissando terrorizzata una mano che avanzava incerta nel disegno, no, niente da fare. Phil strappò il foglio con rabbia e lo gettò via. Un cadavere con i segni dello strangolamento. No, troppo statico. Una gola di donna che si dibatteva fra due pollici che premevano sulla sua trachea ... No! Aveva già disegnato cose del genere! «Maledizione!» urlò, appallottolando il foglio e scagliandolo dalla parte opposta della stanza. «Merda!» E continuò così per un po', finché esaurì la serie delle imprecazioni e ricominciò daccapo. Meno male che Hilary era al lavoro. Se fosse stata a casa, avrebbe finito per prendersela con lei, sprecando inutilmente metà delle sue energie. Quando si fu calmato, osservò i rami che pendevano mollemente nella profondità del lago. Si sentì assorbire da quel paesaggio. Ad un tratto chiuse gli occhi e cercò di immaginare in che modo lui avrebbe strangolato una donna. La scena prese lentamente forma nella sua mente: prima la gettava per terra, poi le si sdraiava sopra per non permetterle di scalciare e le bloccava gli avambracci con i gomiti per impedirle di graffiarlo e di difendersi. A quel punto le serrava con forza i pollici attorno alla gola, che cominciava a sussultare come un uccellino preso in trappola. Allora la donna dilatava gli occhi, nell'estremo tentativo di liberarsi da quella morsa: un occhio azzurro e uno castano. All'improvviso Phil la vide, come se ce l'avesse davanti in carne ed ossa. Aveva le labbra piene e d'un colore rosso intenso, che si ritraevano scoprendo i denti grandi e bianchi, tutti perfettamente uguali. Il naso e le guance erano lunghe ed affilate, d'una grazia semplice, naturale. Scuoteva violentemente la testa da una parte all'altra e i suoi lunghi capelli rossi ondeggiavano, rivelando due orecchie piccole e delicate. Era la prima volta che la vedeva. Phil stava dipingendo furiosamente, senza perdere tempo con gli schizzi preliminari. Non era Hilary. Alcune delle sue donne lo erano: Hilary che fuggiva terrorizzata attraverso una brughiera sulla copertina di Assassinio sotto la luna; Hilary sul punto di cadere sotto un treno (anche se sfortunatamente assomigliava di più ad un angelo cacciato dal paradiso), su quella di Attenti alle porte. Non importava chi fosse quella donna. Perché non era nessuno, naturalmente: era una fantasia che la sua immaginazione gli aveva regalato nel momento in cui ne aveva bisogno. Continuò a dipingere. Quand'ebbe finito fece un passo indietro. Ottimo lavoro, niente da dire.
La ragazza giaceva fra uno scorcio di giorno e uno di una notte illuminata dalla luna. Forse era morta, o forse si stava dibattendo fra le mani di un aggressore invisibile; perché benché il suo corpo fosse immobile come quello di un cadavere, continuava ad esserci un accenno di vita in lei. Ammirandola da lontano, Phil si rese conto che chiunque la guardasse diventava il suo potenziale aggressore; era per questo che l'aveva disegnata da sola. Aveva le gambe divaricate sotto l'abito leggero, e i talloni che affondavano in un terreno impercettibile. I suoi capezzoli erano ritti sotto la stoffa bianca. Era come se si offrisse al suo assassino per essere strangolata. Dopo un po', Phil distolse lo sguardo. Era confuso. In genere, quando ultimava una copertina si sentiva leggero, affamato, libero. Quel pomeriggio, invece, si sentiva inspiegabilmente teso e il soggetto del quadro continuava ad indugiare nella sua mente, come un rimprovero. Firmò il ritratto e dall'angolo della stanza il suo sguardo ritornò lentamente sulla donna. Era così seducente; le copertine con Hilary non lo erano mai state. Ad un tratto pensò, ma era un'idea del tutto irrazionale, che, in qualche modo, quella donna gli fosse stata messa in testa nel momento in cui era più sensibile al suo fascino. E perché non dovrebbe eccitarmi? si disse. Speriamo soltanto che faccia lo stesso effetto ai lettori. Stava ancora rimuginando, quando Hilary tornò a casa. «Bello» esclamò vedendo la copertina. «Bello davvero. Però fa paura.» «Che cosa vuol dire, però fa paura?» Rimase teso tutta la cena. Hilary se ne accorse e cercò di aiutarlo a calmarsi con le sue chiacchiere, con i suoi gesti, con i suoi silenzi. Lui l'avvertì e la sua tensione aumentò. Non vedeva l'ora di fotografare la copertina e di sviluppare tutte le diapositive. Era chiaro, era quello che gli creava ansia: il pensiero che il giorno seguente sarebbe dovuto andare a Londra ad incontrare i suoi editori. Uno lo conosceva già; non era così agitato la prima volta che l'aveva incontrato. Forse, era perché l'indomani ne avrebbe dovuti vedere due in un giorno solo. Osservò la vittima mentre la fotografava e sentì la tensione sciogliersi. Con una copertina così, non aveva di che preoccuparsi. Contento e sollevato, si precipitò in camera a fare l'amore con Hilary. Ma non riuscì ad avere un'erezione. Venerdì, quando a lei erano incominciate le mestruazioni, si era masturbato, ma ormai era lunedì. «Non importa» disse Hilary, allontanandogli gentilmente la testa dalle sue cosce. «Raccontami che cosa hai fatto oggi.»
«Come sarebbe a dire, che cosa ho fatto oggi? L'hai visto, grazie a Dio! Non vorrai mica che ti racconti il sangue che ho dovuto sputare per fare quella copertina?» «Se vuoi...» «Preferisco scordarmelo, grazie». Scivolò sotto il lenzuolo. «Immagino che tu capisca quello che voglio dire.» «Oggi è venuta in negozio una signora che voleva sapere quali sono le uve migliori per fare il chiaretto» disse Hilary dopo un po'. «Le ho detto di aspettare che le avrei chiamato la direttrice, ma lei non smetteva di ripetermi che avrei dovuto saperlo.» Continuò a parlare, accennando a qualcosa che sarebbe accaduto alla fine dell'anno, ma l'attenzione di Phil era tutta rivolta a una donna che gli si stava avvicinando. Cercò di indovinarne i lineamenti, ma la sua figura si dilatava sempre di più, si espandeva dentro di lui, finché lui si addormentò e lei si dissolse nel suo sonno. «Molto bella, quella della donna assassinata» sentenziò Damien Smiles. «Rivediamola di nuovo.» Phil ritornò sulla diapositiva della copertina de Lo strangolatore. «Eccezionale» ribadì Damien. «Se realizzerà anche per noi delle copertine così, diventerà il nostro grafico numero uno. Ascolti, se la Crescent non la vuole, troveremo noi qualcuno che scriva un libro adatto a quella copertina.» Accese l'interruttore e la luce inondò l'ufficio, cancellando con un colpo di spugna l'euforia di Phil. Come avrebbe voluto non dover andare alla Crescent Books! La Apollo Books gli stava offrendo condizioni di pagamento migliori e la garanzia di una serie che avrebbe curato interamente lui; anche il pranzo che gli aveva offerto Damien era meglio di quelli che gli offrivano alla Crescent. Ma per fortuna, la Apollo gli proponeva una collaborazione che lo avrebbe impegnato a tempo pieno, così se solo la Crescent gli avesse rifiutato l'aumento che gli spettava, tanti saluti e amici come prima. «Un'altra cosa a cui forse dovrebbe pensare» aggiunse Damien. «L'anno prossimo ci occuperemo di magia nera. Le do da leggere questo libro, così vediamo che cosa riesce a cavarci. Con suo comodo, s'intende. Fa schifo, ma sa quanto vende questa roba!» La verità su streghe e demoni. Phil ne lesse alcuni brani in metropolitana, sorridendo di tanto in tanto con indulgenza. La setta era la più abominevole delle società segrete: l'insieme degli eccessi più immondi che una mente malata potesse concepire. Ma erano poi tanto diversi dagli
hippy o dai beatnik di quegli anni? Be' quelle però non erano persone normali, dovette ammettere Phil. Erano tutti schiavi di Satana, esseri umani e non. Il vampiro, il lupo mannaro. Il succube. Era arrivato alla stazione dove doveva scendere per andare alla Crescent Books. Phil si alzò di scatto per guadagnare la porta e per poco non dimenticò il libro sul sedile. Alla Crescent Book accettarono la sua copertina per Lo Strangolatore e gli offrirono da bere. Erano dispiaciuti di non potergli aumentare i compensi, dispiaciuti che lui li lasciasse, ma gli auguravano di avere tutto il successo che si meritava. A Phil non importava se fossero sinceri oppure no. Alla fine ritornò al Lancaster Gate. Con i soldi che stavano per arrivargli si sarebbe potuto permettere un albergo migliore, se solo lo avesse saputo. In ogni caso, l'unica cosa di cui aveva bisogno in quel momento era un letto. Dopo aver ispezionato la stanza, concluse che le tende dovevano essere di seconda mano: erano di tessuto buono, bello spesso. Lottò con il vetro scorrevole della finestra finché rimase incastrato, ma il caldo della stanza si appoggiò oziosamente contro quello dell'esterno. Dopo svariati tentativi, Phil scoprì che se anche lasciava le tende appena dischiuse, la luce del lampione finiva infallibilmente per colpirlo in pieno viso, perché il letto era fissato al pavimento. Si sdraiò nudo sopra il lenzuolo, immerso nella nube di tenebra densa e calda che riempiva la stanza. L'aria sapeva di stoffa e di polvere. Una volta o due un debole bagliore osò filtrare attraverso le tende, ma fu subito soffocato. Forse era colpa dell'alcol, o forse di quel buio che lo disorientava, o del caldo. Qualunque fosse la causa, probabilmente tutte quelle tre messe assieme, restava il fatto che la tenebra sembrava strusciarsi lentamente contro il suo corpo, calda e invitante come una seduttrice. Phil sentì il suo pene fremere e drizzarsi a scatti. Allungò la mano, poi si trattenne. Se ci avesse rinunciato quella sera, l'indomani non avrebbe avuto problemi con Hilary, tranne forse la solita precocità! Sorrise alla tenebra, ignorando il lieve disagio che provava e sperando che il suo membro si placasse. Ma la tenebra gli si avvicinò e aspettò che lui la notasse. Il suo pene si tendeva con impazienza. No, non doveva, si disse. Ripensò alla giornata appena trascorsa e sorrise di nuovo; si rifiutava di sottrarsi a quella gratificante sensazione di contentezza. E tutto grazie alla copertina de Lo Strangolatore! Era stato quel disegno a convincere la Apollo Books del suo talento. All'improvviso, come se un misterioso proiettore si fosse acceso nella sua mente, rivide la diapositiva della copertina: il corpo stremato e im-
potente sotto l'abito leggero. L'occhio azzurro e quello castano che lo fissavano. Prese mentalmente la diapositiva e baciò con profonda gratitudine il minuscolo viso della ragazza. In un certo senso, era come baciare una fata, la soia differenza era che quel viso era freddo e immobile. Ma lei si stava allontanando, diventava sempre più piccola, e lo trascinava nell'oscurità, nel sonno. Doveva proprio essere sonno, perché ad un tratto aveva avvertito il corpo della donna che si dibatteva sotto il suo. Cercava di puntargli le ginocchia contro l'inguine, ma lavorando di cosce lui l'aveva costretta ad allargare le gambe. Poi, con i gomiti, le aveva bloccato gli avambracci: riusciva ad agitare solo le mani adesso, come una farfalla trafitta. Le dita di lui si serrarono attorno alla sua gola e la donna spalancò gli occhi, incitandolo a continuare. Allora lui incollò le labbra a quelle di lei, che stava soffocando, e ne sentì la lingua carnosa agitarsi convulsamente sotto la sua. Poi si aprì prepotentemente un varco fra le sue gambe e, quando la penetrò, il suo sesso si spalancò come bramava fare la sua bocca. Lui affondò il pene dentro di lei cinque o sei volte, poi, ricordandosi di Hilary, cercò di trattenersi: ma era tardi, troppo tardi. E mentre veniva si avventò sul cuscino e lo morse furiosamente. Il giorno dopo, sul treno che lo riportava a Liverpool, Phil era preoccupato. Fuori dal finestrino, gli alberi fuggivano uno dopo l'altro, per andare a formare nuovi intrecci di verde, che scintillavano in lontananza. Avrebbe dovuto riservare quell'orgasmo a Hilary. Sapeva che aveva una voglia folle di fare l'amore; erano più vicini in quei momenti, quando lui poteva dedicarle tutto il suo tempo. Da alcune strane cose che gli aveva raccontato, ma che adesso non ricordava più, aveva avuto l'impressione che non fosse del tutto contenta del suo lavoro all'enoteca, una ragione in più per cercare soddisfazioni nel sesso. Ma lui non ce la faceva sempre ad avere due erezioni nel giro di ventiquattr'ore, soprattutto quando nemmeno le più elaborate fantasie di Hilary riuscivano ad eccitarlo. In ogni caso, non aveva senso che si facesse una colpa di quello che era successo. Dopo tutto era mezzo addormentato e perciò in condizioni di totale vulnerabilità. La truce fantasia della sera precedente non lo preoccupava: non era come se fosse stato vero. Anzi, era stato un riconoscimento indiretto della capacità persuasiva del suo disegno, un omaggio che aveva fatto alla sua abilità artistica. Aprì la valigetta e, distogliendo gli occhi dall'infinita distesa dei campi di grano, riprese a leggere La verità sulle streghe e i demoni. Mezz'ora più tardi, aveva già in mente la copertina: una donna nuda che
teneva una mano appoggiata sulla testa di un serpente dall'espressione allegra e sorniona al tempo stesso. I suoi genitali erano celati da una creatura che ricordava lo stadio rettile dell'embrione umano e che faceva capolino fra le sue cosce come se fosse stata appena partorita dal suo grembo. Nella mano libera la donna stringeva un bastone di comando che terminava in una punta simile ad un glande scintillante. Lesse il sunto redazionale sulla collana "nera" della Apollo e, pur non avendo ancora visto i libri, cominciò ad immaginarne le copertine. La sua mente lavorava freneticamente, incalzando il rapido movimento delle ruote ogni volta che ultimava una copertina: corri, treno, corri. Hilary lo stava aspettando. Quando lo sentì arrivare aprì la porta dell'appartamento. «È andata bene?» gli domandò con impazienza, leggendo già la risposta sul suo viso. «Sì, molto bene» rispose Phil. «Molto bene», e si precipitò nel suo studio. Quando lei gli portò il caffè stava già dipingendo; rimase ferma a guardarlo, al limite del suo campo visivo, tormentandolo in silenzio come una frase difficile da pronunciare, la cui difficoltà aumenta con il passare dei secondi. Forse voleva dirgli veramente qualcosa, ma per l'amor di Dio, in quel momento non aveva proprio tempo! «Grazie» disse, alludendo al caffè. «Appoggialo pure lì. Non lì, accidenti, lìì!» Sentiva che stavano per saltargli i nervi. Non adesso, per favore, non adesso che aveva tutte quelle copertine da illustrare: fuori dai piedi, porca vacca! Per un minuto si concentrò intensamente sul quadro, dopodiché si accorse con sollievo che Hilary se ne era andata. Comunque se aveva qualcosa da dirgli, non aveva colto l'occasione di farlo a cena, cena che aveva dovuto riscaldare per ben due volte, in attesa che lui finisse di ricreare sulla carta la sua ultima idea. «Mi dispiace di aver rovinato la cena» disse Phil, mordendosi immediatamente la lingua e cercando di rimediare alla gaffe. «Volevo dire, è tutto molto buono, ma mi dispiace di averti fatto aspettare.» Le raccontò della Crescent e dell'Apollo, ma non osò ripeterle le parole di Damien Smiles; lo imbarazzava l'idea di riferire a qualcun altro gli elogi che riceveva; li ripeteva soltanto a se stesso, a mo' di incoraggiamento. «Che cosa ti ha detto?» gli domandò Hilary e lui rispose: «Che voleva che facessi qualche lavoro per loro.» Come aveva temuto, non fu in grado di avere un'erezione quella sera. Quando Hilary se ne accorse smise di accarezzarlo. Il suo sesso si acquietò e lei si sdraiò in silenzio. E dài, aiutami, buon Dio! pensò Phil. Per forza
che non gli si drizzava. In quel momento in lei c'era meno vita che nella donna strangolata! Hilary si voltò su un fianco per dormire tenendosi la sua mano sullo stomaco. Con la mano libera, Phil spense la luce. Poi, appena sentì che si era addormentata, si allontanò rapidamente da lei. Nell'umidità dell'estate, il suo corpo era caldo e gonfio, appiccicaticcio, quasi repellente. Il mattino seguente, quando entrò nello studio per fotografare le copertine, Phil rimase senza fiato. La donna con l'occhio azzurro e l'occhio castano lo stava aspettando, anzi, lo stavano aspettando, perché erano in quattro. La sera prima aveva dipinto con tale intensità che non si era reso conto di ciò che aveva fatto. Era confuso, nervoso. La donna lo guardò quattro volte simultaneamente: perversa, sottomessa, assassina, seducente. E allora, perché doveva sentirsi turbato? Non si stava affatto ripetendo. Quella donna non solo dava vita ai suoi disegni, ma gli garantiva anche la varietà di cui aveva bisogno. La facilità con cui aveva creato quei dipinti ne era una prova. Fotografò alcune copertine che aveva disegnato in passato e che non erano mai state pubblicate per mostrarle a Damien al loro prossimo incontro; poi si chiuse nella camera oscura, dietro il tramezzo, per sviluppare le diapositive. Lo splendore rosso della lampada squarciava il buio della stanza non come una normale luce, ma come l'essenza del calore dell'estate divenuta visibile. I volti minuscoli presero vita in quel chiarore e lo fissarono. Phil ricordò di aver baciato la diapositiva. Era quella l'essenza vera della donna, quella copertina: tutte le altre erano adattamenti. Poi ricordò di averla strangolata. La stava strangolando. Il corpo della donna si alzava per venirgli incontro e quasi lo sollevava da terra; la sua gola si inarcava verso di lui, gli si offriva. I movimenti convulsi delle sue labbra carnose risucchiavano la sua lingua nel profondo della sua bocca; il suo corpo che si dibatteva attirava il suo pene dentro di lei. All'improvviso, la donna si accasciò. Ecco, pensò Phil, adesso fermati, aspetta questa sera, aspetta Hilary. Ma non fece in tempo a chinarsi a guardare le diapositive per distrarsi, che l'orgasmo esplose nel suo sesso. Si appoggiò al tramezzo. Quella storia doveva finire. Non era giusto nei confronti di Hilary. Ma come poteva farne a meno senza rischiare di compromettere il suo nuovo lavoro, nonché il migliore che gli fosse mai capitato? Un profondo senso di depressione si stava impadronendo di lui quan-
do il campanello suonò. Era il postino. Il pacco conteneva cinque polizieschi di autori americani. Stiamo pensando di ristamparli, gli scriveva Damien nella lettera di accompagnamento. Dipende in gran parte da quello che sarai in grado di proporci tu. Phil scosse la testa, stupito e lusingato. Si preparò un caffè, poi iniziò a leggere il primo libro. Portò la lettera nel suo studio, ma subito dopo la riportò in soggiorno: forse a Hilary avrebbe fatto piacere leggerla. «Mi sembra un'ottima cosa» commentò lei quando rientrò. «Sì, promette bene» replicò lui. «Ti raggiungo fra un attimo. Finisco solo di leggere questo capitolo.» Diversi pomeriggi dopo, mentre ultimava la seconda copertina, il basso ventre di un temporale riempì il cielo. Phil prese a dipingere rapidamente, strizzando gli occhi, troppo preso per allontanarsi dal quadro e accendere la luce. Ma l'oscurità acquitrinosa inghiottì il foglio, come se qualcuno si fosse messo apposta alle sue spalle per fargli ombra e attirare la sua attenzione. Mentre si dirigeva con passi rabbiosi verso l'interruttore, si rese conto che accendere la luce non gli sarebbe servito a nulla, perché non sarebbe più riuscito a dipingere. Ma c'era un'altra cosa che doveva fare prima, una cosa che lo tormentava con insistenza in un angolo recondito della sua mente. Ma che cos'era? Che cos'era, Sant'Iddio? Il corpo accasciato della donna si staccò dal foglio e si protese verso di lui, offrendogli la gola. Non siamo assurdi, pensò Phil. Ma non poteva discutere con il suo intuito, non mentre stava dipingendo. Abbassò la cerniera dei pantaloni e chiuse la mano attorno al pene, che si irrigidì all'istante. Dopo dipinse senza fatica, rapidamente, mentre con grande fragore il temporale si allontanava e il cielo tornava a rischiararsi. La sera di agosto si stava spegnendo lentamente: oro, poi perla, che a poco a poco sfumava nell'oscurità della notte. Hilary stava leggendo Forum, una rivista di educazione sessuale che aveva cominciato a comprare da poco. Phil stava finendo Negromanti nella notte. Quando sollevò lo sguardo si accorse che Hilary lo stava osservando già da qualche minuto. «Pensi di continuare a dipingere quella donna e nessun altro?» gli domandò. «Prima o poi mi capiterà anche un libro per il quale avrò bisogno di un soggetto maschile.» Quando alzò di nuovo gli occhi, spazientito, lei disse: «Ma non ci prendiamo una vacanza quest'anno?» «Dipende se il lavoro cala un po'. Non mi va di mollare proprio adesso
che sta andando così bene.» «Il clima in negozio peggiora ogni giorno che passa. Ormai è diventato insopportabile.» «Be', vedremo che cosa potremo fare» replicò lui per darle il contentino. «Ma non ti va di venire via con me?» «Se mi lasciassi finire di lavorare, magari! Dio!» Ecco, ci siamo, pensò. Affrontiamo l'argomento una volta per tutte. «Voglio finire quello che sto facendo prima del mio prossimo incontro con Damien. A lui piacciono i miei disegni, quindi più sarò in grado di proporgliene e meglio sarà. Ho alcune idee che forse potranno servirgli. Mi aveva accennato alla possibilità di commissionare a degli scrittori alcuni libri sulla base delle copertine che gli proponevo, ti ricordi che te ne avevo parlato? E poi non venirmi a dire che non ti racconto mai niente del mio lavoro. Fammi finire quello che sto facendo, d'accordo? Vorrei avere anch'io la possibilità di rilassarmi ogni tanto.» «Ma se ormai non mi rivolgi più la parola nemmeno nei weekend» replicò Hilary. E dài, continua, pensò lui con rabbia. Lei non aggiunse altro, ma lo fissò. «Ma questo è o non è il weekend?» urlò Phil. «E con chi sto parlando, io, da solo forse? Oh Cristo!». Si alzò di scatto e si diresse come una furia nel suo studio. Ma Hilary era anche lì: lo fissava dal portaritratti con quei suoi occhi miti e dolci. Phil distolse lo sguardo. Sapeva bene qual era il vero problema, naturalmente. Erano quasi tre mesi che non facevano l'amore. Scagliò il libro sulla poltrona. Dio solo sapeva se lui non ci aveva provato. Anzi, forse ci aveva provato fin troppo. Ma ogni volta era come se un macigno grigio gravasse nella sua mente, un macigno che impediva al suo pene di rizzarsi. Con il passare delle settimane anche Hilary aveva cominciato ad eccitarsi sempre meno; si sdraiava senza dir nulla sul letto e aspettava un po' per essere sicura di potergli dire «Non importa» senza che lui si arrabbiasse. Ogni tanto lo assaliva con improvvisi impeti di passione, ma lui capiva che stava fingendo, e quella sensazione lo innervosiva ancora di più. Nelle ultime settimane, poi, nessuno dei due aveva più accennato alla cosa, e lei aveva cominciato a leggere Forum. Se le andava bene così, tanto meglio! Lui era contento lo stesso. Ogni volta che non riusciva a farlo con lei si masturbava. Allora gli bastava un niente per eccitarsi: gli bastava la gola morbida e sottomessa, l'abito sottile pronto ad essere strappato, il corpo
che si contorceva sotto di lui, l'invito celato nell'occhio azzurro e in quello castano, un invito assai poco celato adesso, per la verità. La prima volta si era masturbato a letto; stava per raggiungere l'orgasmo, quando Hilary era rotolata verso di lui e, gemendo, aveva cercato la sua mano. Lui aveva serrato il pene fra le dita, come avrebbe fatto per impedire ad una creatura di liberarsi e denunciarlo e, non appena Hilary si era acquietata, aveva ritratto lentamente la mano e si era precipitato in bagno. Da quella volta si era sempre rifugiato lì, mentre Hilary dormiva, portando con sé la sua vittima, nell'oscurità. Non si sentiva in colpa. Se era frustrato non riusciva a dipingere. Si era sentito in colpa soltanto la prima volta; la notte dopo, quando con Hilary non aveva funzionato, era rimasto sveglio per ore, cercando di ricacciare l'immagine della donna dei suoi sogni, di cancellare ogni pensiero e di dormire. Il mattino successivo si era svegliato con i nervi a fior di pelle: aveva versato il colore, aveva rotto un pennello e, soprattutto, si era ritrovato con la testa vuota. Da quella volta non si era imposto più alcun freno; del resto, il suo lavoro non gli permetteva il lusso di avere sensi di colpa. Ma in colpa lui si sentiva ugualmente. Stava mentendo a se stesso, e questo non lo aiutava certo: il tarlo del rimorso avrebbe finito comunque per compromettere il suo lavoro... anzi, a volte si accorgeva di dipingere proprio per sottrarsi a quei tormento. Hilary lo faceva sentire in colpa con le sue copie di Forum sparpagliate per la casa. Uno leggeva quelle riviste come un surrogato, continuava a ripetersi Phil. Ma non era quella la ragione per cui lei le lasciava in giro. Gliele metteva sotto il naso nella speranza che si decidesse a leggerle e a cercare di capire che cosa ci fosse che non andava in lui. Ma non c'era niente che non andava in lui! Non c'era mica solo il sesso nella vita! Le sue copertine riscuotevano un successo dopo l'altro, possibile che lei non potesse condividere quel suo momento magico? Perché voleva rovinare tutto con quei suoi silenzi supplici? Mentre la guardava, mentre osservava quella sua dolcezza intrappolata dal vetro, si ricordò di aver baciato la diapositiva. Non aveva mai baciato la fotografia di Hilary. Eppure, parte del suo successo lo doveva anche a lei. Era lei che faceva lo sforzo di stargli fuori dai piedi mentre lui lavorava, per non distrarlo; e il lavoro che aveva accettato di fare per questa ragione era decisamente meno piacevole del suo. Eppure lui non le aveva mai detto nemmeno un grazie. Si diresse goffamente verso il muro e, appoggiando le palme delle mani alla parete, allungò il collo per baciare la fotografia. Le sua labbra si appiattirono contro il vetro freddo.
Phil ritornò sui suoi passi sentendosi un perfetto cretino. E così aveva baciato la sua foto. Bravo. E adesso va da lei. Ma sapeva già come sarebbe andata a finire. Non riusciva a rinunciare alla vittima dei suoi sogni; e anche se l'avesse fatto, non aveva motivo di supporre che questo l'avrebbe riavvicinato ad Hilary. Forse, pensò, non più convinto di quanto lo fosse all'epoca in cui leggeva qualche libro sull'argomento, avrebbe potuto consultare uno psicanalista e cercare di rimpiazzare l'altra donna con sua moglie. Ma non adesso: adesso aveva bisogno di quel sogno per lavorare. Il che significava che non poteva andare da Hilary. Ormai sapeva di non poter avere allo stesso tempo lei e il suo sogno. Ad un tratto sgranò gli occhi: a meno di non avere Hilary e il suo sogno contemporaneamente! La soluzione era così semplice che gli ci vollero alcuni istanti per afferrarne il significato. Poi si precipitò fuori dallo studio. Sentiva di potercela fare: la forza della sua immaginazione lo avrebbe spinto fino in fondo. Mentre accelerava il passo, si rendeva conto che l'ansia che provava in quel momento era diversa dal bisogno immediato di dipingere che a volte avvertiva: assomigliava piuttosto alla necessità di fare in fretta per paura che qualcuno lo scoprisse. Quella sensazione lo fece rallentare, ma ormai era arrivato in soggiorno. «Vieni» disse ad Hilary. Lei sollevò gli occhi dalla rivista e lo fissò con sguardo interrogativo, ma pronta a capire. «Che cosa c'è?» gli domandò. «Vieni», disse lui in fretta. «Ti prego.» Si sedette sul letto accanto a lei e cominciò ad accarezzarla. Il respiro intermittente delle tende imitava sommessamente i suoi movimenti maldestri. Quando Hilary si sdraiò con le ginocchia divaricate e il viso illuminato da un sorriso speranzoso (un sorriso coraggioso, un sorriso irritante, pensò lui), Phil riprese ad accarezzarla sistematicamente: il collo, la schiena, i glutei, i seni. Alcune vene bluastre si diramavano sotto la pallida pelle delle mammelle, simili a rivoli di inchiostro; un pelo cresceva ai margini di una delle due areole. Dopo un po', Hilary cominciò ad eccitarsi. Lui le accarezzò le cosce pensando: una donna che si dimena sotto di me, chiedendo di essere strangolata. Cercò il suo clitoride e lo stimolò. Hilary serrò le cosce, rivelando altre vene azzurrognole. Phil pensò: una gola morbida che si offre alle mie mani. No, non funzionava. La sola cosa che vedeva era Hilary. Quando lei chiuse le dita attorno al suo pene floscio, la sua mano gli sembrò dura, ruvida, sgradevole. Si trattenne appena in tempo dall'impulso di allontanarla per far posto alla propria.
Poi, all'improvviso, disse: «Aspetta un momento, spengo la luce.» «Non vuoi vedermi?» «Non è questo» le rispose con impazienza, quasi con rabbia. Non gli restava molto tempo, anche se non riusciva a capire perché. Probabilmente era vicino all'orgasmo, anche se non lo sentiva. «Forse aiuta.» L'oscurità gli restituì immediatamente la donna. Giaceva impotente sotto di lui e un attimo dopo scalciava per attirarlo ancor di più a sé. La lingua le guizzava fra le labbra, invocando la stretta delle sue dita attorno alla gola; l'abito le scivolò sullo stomaco e le sue cosce lo catturarono. Si contorse violentemente quando il suo pene la trovò. In un'altra dimensione Phil sentiva di essere dentro al corpo di Hilary e quel senso di divisione lo distraeva. C'era una specie di barriera che gli impediva di raggiungere l'orgasmo. Non ce l'avrebbe fatta nemmeno quella volta. Poi si trovò ad affondare con impeto nel sesso della donna. La sua gola era immobile, e anche il resto del suo corpo. Era solo la sua furiosa eccitazione a farla muovere, a farla rotolare mollemente attorno al suo pene, mentre la frequenza delle sue spinte aumentava. Eppure doveva essere viva, perché in caso contrario non sarebbe potuta ritornare da lui, come faceva sempre. Quell'idea rendeva quella sua mancanza di vita ancora più eccitante: la penetrò con forza, quasi a sfidare quella sua immobilità. Ma il corpo di lei non rispose nemmeno quando l'orgasmo esplose dentro di lui. Fu solo quando sentì urlare, che si accorse dei respiri affannati di Hilary. Quando riaccese la luce, lei non ebbe voce per dirgli nulla. Si limitò a guardarlo con uno sguardo colmo di stremata gratitudine. Phil provò un'enorme soddisfazione. La amava. Phil prese la metropolitana. Era preoccupato. Sentiva una strana tensione dentro. La sentiva dalla sera che aveva fatto l'amore con Hilary. Quella sera aveva giurato a se stesso che non si sarebbe più masturbato, ma la prima volta in cui aveva rimesso piede nella camera oscura, aveva ceduto. Da allora aveva cominciato ad usare una nota marca di sviluppatori, anche se era più costosa, e aveva limitato le sue fantasie erotiche al ricordo del rapporto con Hilary. La donna, naturalmente, continuava ad essere presente in ogni suo disegno, anche se con il passare dei giorni il suo sguardo si era fatto più deciso e minaccioso. Forse era quella la causa della sua tensione. No, non era quella. Forse era Hilary, invece. Era sicuro che fosse felice adesso che lui riusciva di nuovo a fare l'amore con lei. Su questo non aveva dubbi. Ciò nonostante,
negli ultimi tempi aveva avvertito in lei un certo nervosismo, specialmente quando le accennava a quel suo viaggio a Londra, come se quell'idea non le piacesse, quasi come se sospettasse di lui. E così lui si era messo in testa che a Londra gli sarebbe accaduto qualcosa di sgradevole. Stronzate. Era solo che a lei non andava giù che se ne stesse via così tanto, dopo averle negato una vacanza insieme. Be', se andava tutto bene, adesso forse se la sarebbero potuti permettere. Sollevò gli occhi e si accorse che, immerso com'era nei suoi pensieri, si era seduto davanti all'unico passeggero di quella carrozza, una ragazza. La ragazza lo stava fissando. La sua testa sobbalzava assecondando il ritmo del treno, i capelli neri e lucenti, che le scendevano fino alle spalle, le sfioravano alternativamente le guance: solo i suoi occhi castani erano immobili. E lo fissavano con aria di sfida. Provaci! era la minaccia che vi leggeva Phil. Teneva le cosce serrate nella gonna corta e leggera che la fasciava come una guaina e, senza accorgersene, le sfregava impercettibilmente una contro l'altra. Gli ricordava, soprattutto nello sguardo, la donna dei suoi sogni. Non poteva alzarsi adesso. Sarebbe sembrato ancora più sospetto. Tanto più che lei non aveva nessun motivo di sospettare alcunché. In ogni caso, non le avrebbe certo dato la soddisfazione di costringerlo ad andarsene. Aveva caldo e si sentiva teso. L'aria della metropolitana non riusciva a mitigare neanche un po' l'afa settembrina che ristagnava nel vagone; un'afa che lo opprimeva, come la luce gialla e sudicia delle lampade. Cominciò a giocare con la cerniera della cartella, sorridendo soddisfatto del suo prezioso contenuto; la ragazza continuava a fissarlo. Ad un tratto, mentre si sforzava di distrarsi, Phil vide con la coda dell'occhio una sagoma che lo superava con un balzo e poi superava anche la ragazza. Alzò la testa e incrociò lo sguardo della giovane donna. Lei doveva aver visto di che cosa si trattava, anche se lui ne aveva scorto soltanto il movimento. Ma nei suoi occhi Phil lesse la stessa sfida di prima e nient'altro; era chiaro che non stava facendo finta di non aver visto. Forse era stata soltanto un'aberrazione delle luci, si disse l'uomo. Mentre formulava quel pensiero, le luci della carrozza si spensero. Phil afferrò la borsa con entrambe le mani e corse in avanti, trascinato dall'oscurità vuota e sferragliante. Fu allora che, per la prima volta, si accorse del respiro della ragazza, rapido e aspro. Era vicino al suo volto, troppo vicino. Non fece quasi a tempo a rendersene conto che la ragazza gli affondò le unghie aguzze nella spalla.
Lo stava aggredendo, stava ingaggiando una lotta con lui per costringerlo ad andarsene. Eppure se avesse avuto realmente paura di lui, avrebbe cercato di guadagnare l'estremità opposta della carrozza. Forse furono gli strattoni di lei, o forse i sobbalzi del treno, ma prima che Phil potesse evitarlo, si ritrovò sopra di lei sul sedile. Le ragazza continuava ad agitare le braccia, ma non con sufficiente veemenza da impedirgli di afferrarle entrambi i polsi con una mano sola. Il pene gli pulsava sotto la stoffa dei pantaloni. Con la mano libera le sollevò la gonna. Riusciva a vederla adesso, a leggere l'invito nei suoi occhi, uno azzurro, l'altro castano. Ma non era lei. Non importava. Era la donna che stava violentando. Il dondolio del treno la faceva rotolare violentemente sul suo pene. Phil venne quasi subito. Quando la luce ritornò, Phil giaceva ancora prono sul sedile, mentre la ragazza era misteriosamente svanita. Lui stava ancora boccheggiando, la ragazza, invece, era all'estremità opposta della carrozza e lo fissava con aperto disgusto, la mano appoggiata sul segnale d'allarme. Non era possibile che fosse riuscita ad arrivare fin lì in meno di due secondi. Alla stazione successiva scese, o quanto meno cambiò carrozza, ma prima di precipitarsi fuori gli lanciò un'ultima occhiata di disprezzo. Phil si sedette con la cartella in grembo e cercò di analizzare le proprie emozioni. Era sbalordito. Aveva letto su Forum di donne che avevano bisogno di fantasticare di essere violentate per raggiungere l'orgasmo, ma certo non avrebbe mai immaginato di incontrarne una. Cose del genere potevano capitare soltanto a Londra, pensò. Non si vergognava di ciò che aveva fatto. E perché avrebbe dovuto? Non appena lei lo aveva toccato, il suo orgasmo era esploso e lui non aveva potuto farci nulla: era stata una cosa tanto imprevista quanto inevitabile. Se mai, lui si sentiva ipocritamente soddisfatto. Nonostante fingesse di disprezzarlo, era stata lei a farsi avanti. Non era stata una fantasia, non aveva ceduto a un sogno, ma a una donna in carne e ossa. Lo preoccupava soltanto il fatto che potesse avergli trasmesso qualche malattia. Ma no, non poteva essere: gli era sembrata una ragazza pulita; del resto non poteva essere altrimenti per fingere quel comportamento da santerellina. Quando scese alla fermata vicina alla sede dell'Apollo Books, Phil stava sorridendo. Non c'era bisogno che raccontasse niente ad Hilary; sarebbe stato in grado di soddisfare anche lei. «Ecco qui alcune delle tue copertine stampate» disse Damien. «A quanto
pare alla gente piacciono proprio.» Phil ammirò le copertine e sorrise, mentre Damien esaminava le nuove diapositive. «Sono sicuro che riusciremo a trovare dei libri anche per queste. Sempre la famosa donna di Phil, a quanto vedo.» Phil sorrise con accresciuta soddisfazione, stupito di se stesso. Aveva sempre cercato di dare il meglio di sé quando dipingeva, ma non si era mai reso conto di voler essere riconosciuto per uno stile personale. E adesso Damien glielo aveva fatto capire... No, era stata la donna dei suoi sogni a farglielo capire. Mandò un bacio alla diapositiva. «Hai tempo di vedere un film domani?» gli domandò Damien. «Vorrei trarne un libro e vorrei che fossi tu a disegnarne la copertina. Telefonerò al direttore del cinema in modo da organizzare la cosa. Si intitola Il Succube di Padre Malarkey. È francese.» Andarono a bere insieme al pub vicino. Phil era contento di trovarsi così bene con Damien, nonostante i suoi capelli lunghi e la sua camicia di seta color malva. Al termine dell'incontro, Phil andò per negozi: comprò un libro di nudi per sé e una collana indiana per Hilary; le era sempre piaciuta l'arte indiana. Poi ritornò in albergo, fece la doccia (aveva una meravigliosa camera con bagno!) e infine scese per la cena. La cosa che gli piaceva di più della sua stanza era, per quanto fosse lui il primo a stupirsene, la luce che filtrava attraverso le tende chiare. Per la verità, quella notte lasciò addirittura acceso l'abat-jour. Non gli andava di dormire al buio. Chissà, forse era solo il senso di estraneità che gli dava quell'ambiente lussuoso. Oh, ma era troppo felice per rischiare di guastarsi il sangue rimuginandoci sopra. Chiuse gli occhi e, sorridendo soddisfatto, ripensò alla ragazza della metropolitana, finché si addormentò. Il mattino seguente calcolò male i tempi e, quando arrivò al cinema, la prima proiezione era già incominciata. Era inutile fermarsi: cercare di mettere insieme i pezzi di un film già iniziato era come cercare di capire un libro incominciando a leggerlo a metà. Passeggiò per Soho e acquistò l'ultima copia di Forum. Di sicuro Hilary non era ancora riuscita a trovarla dal loro giornalaio. «Sono Phil Baker» disse alla ragazza alla cassa. «So che mi state aspettando.» La ragazza chiamò una maschera, che, superata la fila di persone in coda, lo fece accomodare nell'ufficio del direttore. Trovava molto gratificante quel trattamento, era un segno del suo successo. Il direttore, un signore elegante, con un paio di baffi scuri lucidi come le sue scarpe stringate, gli consegnò un pieghevole, corretto a penna, con le informazioni sul
film, che in originale si intitolava Le Succube du Père Michel e durava quattro minuti di più. Lo stesso regista aveva già fatto Le Chant des Pétomanes. Il direttore si informò del suo lavoro. «Sono conosciuto più per le mie donne» esordì Phil. Dopo alcuni minuti ebbe inizio la proiezione. Le scene erano girate in uno studio piuttosto piccolo e squallido. Il protagonista della vicenda era Padre Malarkey, un sacerdote francese (che nella versione americana diventava un oriundo irlandese) che concupiva le monache del vicino convento. Frustrato, cominciava a masturbarsi. Altolà, aveva decretato il censore e in quel punto la pellicola era stata tagliata. Scena successiva: mentre il sacerdote faceva il bagno immerso nella vasca, la sua tonaca macchiata incominciava a gironzolare per la stanza. La sequenza si concludeva con una dissolvenza sul volto allegro di una ragazza che faceva capolino sotto il cappuccio. Gesù Santissimo, che cosa sta succedendo, esclamava il prete la prima volta che la ragazza veniva a trovarlo a letto. Sono venuta a confessarmi, diceva lei. Ma non qui, protestava lui, rannicchiandosi sotto le coperte. Ma allora non avrei nulla da confessare, replicava lei, facendo boccuccia e introducendo una mano sotto il lenzuolo già sollevato da un eloquente rigonfiamento. Basta così, aveva sentenziato il censore. La ragazza si chiamava Lilith. Lilith andava a trovarlo tutte le notti, incitandolo a violentarla, a sculacciarla e via dicendo. Dopo alcuni giorni, quando finalmente il sacerdote riusciva a sgusciare nel convento, la ragazza si insinuava a forza fra lui e le sue ignare compagne di letto. Alla fine, Padre Malarkey entrava in una cella e sorprendeva due suore l'una nelle braccia dell'altra. E adesso guardate un po' come va a finire, sembrava dire il censore. Scoperti, il prete e la Madre Superiora venivano sconsacrati e, in un clima di disapprovazione generale, uniti in matrimonio. Ma accanto all'ex-prete, dalla parte opposta della sposa, c'era Lilith. E per quanto riguardava Phil, aveva un occhio azzurro e uno castano. Aveva già in mente la copertina. Rimase seduto in attesa che iniziasse il cortometraggio successivo: La Caduta delle Mutande Romane. Una giovane maschera stava dando la caccia a un gatto, che si ostinava ad affilarsi le unghie sul velluto rosso delle pareti. Nonostante la sala fosse piccola, era una delle quattro in cui era suddiviso il cinema, il gatto continuava ad eludere la sua inseguitrice. Un vecchio signore ringhiò qualcosa e tirò alla bestiola l'involucro di un gelato. La ragazza si fermò a protestare e Phil si mise a sfogliare Forum. La sessualità segreta delle "taglie forti". Il sesso come antidoto all'infarto. Imparate a massaggiarlo nel modo giusto. Passò alla rubrica delle lettere, che
era quella che gli piaceva di più: quando le leggeva si sentiva contento di essere normale. Un titolo in neretto attirò immediatamente la sua attenzione: Pittore promiscuo? Mio marito dipinge. Fino a poco tempo fa ero io il soggetto dei suoi quadri, ma da alcuni mesi ha cominciato a ritrarre una donna che non conosco, solo lei e nessun altro. Si assenta spesso per motivi di lavoro e io sono sicura che abbia conosciuto quella donna nell'ultimo viaggio che ha fatto prima di cominciare a dipingerla. So che è una donna reale, perché ha gli occhi di due colori diversi, No, pensò Phil, come intontito. No, no. e una cosa così non poteva certo inventarsela. Continua a fare l'amore con me, anzi, ad essere onesti, lo fa con più passione di prima, anche se per un certo periodo, subito dopo averla conosciuta, è stato impotente, immagino per il senso di colpa che provava. Adesso però ho la sensazione che pensi a lei anche quando fa l'amore con me. Che cosa posso fare per non perderlo? Non lo lascerei per nessuna ragione al mondo. H. B. Oh Cristo, pensò Phil. Dille che non è vero. Fa' in modo che non ci creda. Si sbaglia, diglielo che si sbaglia. Le luci si stavano abbassando. Phil strizzò gli occhi, cercando disperatamente di leggere la risposta. Se non ha altre prove della "relazione" di suo marito, oltre a quelle di cui parla nella sua lettera, non penso proprio che abbia motivo di preoccuparsi. Dice di essere sicura che lui pensi alla donna dei suoi quadri mentre fa l'amore con lei: questo significa in realtà che lei si sente estraniata da lui quando lavora? Forse, dal momento che, a quanto pare, non può chiedergli dove abbia preso l'ispirazione per quei dipinti, dovrebbe interessarsi di più del suo lavoro, partecipare di più a quello che fa. (Immagino che sia un lavoro e non un hobby). Per quanto riguarda la donna... Be' gli artisti che collaborano con la nostra rivista mi hanno detto che rimarrebbero allibiti se qualcuno pensasse che abbiano una storia d'amore con tutte le donne che dipingono! Suo marito si servirà della sua immaginazione nel lavoro che fa, no? E allora perché, se ha avuto un'ispirazione particolarmente felice e vuole
sfruttarla al meglio, dovrebbe essere stata una sua misteriosa rivale a fornirgliela? Temo che lei veda in quella donna una rivale soltanto perché è diversa da lei, o dall'immagine che lei ha di se stessa (le due cose non sempre coincidono, come sa). Se ha la certezza che suo marito non pensa a lei quando fate l'amore, forse è perché i vostri rapporti sono sempre uguali e con il tempo la monotonia può logorare un rapporto. C'è forse qualche fantasia che lui ha e che gli piacerebbe mettere in pratica con lei? Se diventa... Ma la lettera lo aveva spinto lontano con il pensiero, in un mondo oscuro. Phil trasalì, completamente disorientato. Stava galleggiando, trasportato dalla tenebra verso un gruppo di uomini che correvano per le strade buie di Roma. Si aggrappò a Forum, alla sua cartella, a qualsiasi cosa gli capitasse sottomano. Era in balia di quelle onde di tenebra. Non riusciva a pensare. Doveva uscire. Fece per alzarsi quando qualcosa gli bloccò la gamba. Abbassò gli occhi. Nell'oscurità, in mezzo alle cartacce e alla cenere appiccicata al succo d'arancia, una donna stava allungando le mani verso di lui, per afferrarlo. Le sue unghie gli graffiarono le mani, trascinandolo giù, in mezzo ai mozziconi di sigaretta, verso il centro di quell'oscurità segreta. Era sdraiata sulle assi polverose del pavimento, con il vestito sollevato e le gambe spalancate; la testa le ciondolava di lato, sul collo spezzato e livido. «Oh Cristo!» urlò Phil. «Va via! Va Via!» La torcia della maschera illuminò la fila nella quale era seduto. Non c'era niente sul pavimento, solo l'ombra delle cartacce. «Era il gatto» balbettò l'uomo. «Non sapevo che cosa fosse.» Uscì barcollando. Era ovvio che fosse il gatto; e non c'era da meravigliarsi che l'avesse confuso con la donna che lo visitava in sogno, dopo quello che aveva letto. La rivista gli era caduta di mano ed era scivolata sotto il sedile. Grazie a Dio, pensò. Doveva raggiungere Hilary prima che Forum arrivasse in edicola. Non doveva sospettare che lui l'avesse letto e che la portasse in vacanza per ingannarla. Ma aveva tempo. Fu solo quando il treno stava per entrare nella stazione di Liverpool che Phil si rese conto della somiglianza fra la sua esperienza e quella del prete del film. Erano praticamente identiche. Be', non proprio identiche, ovvio, perché cose simili non accadevano nella realtà. Eppure il suo sogno si era insi-
nuato fra lui e Hilary, proprio come il succube del film: era come se avesse voluto deliberatamente impedirgli di vederla, perché ogni volta che aveva cercato di visualizzarla, nella sua mente si era creato il vuoto assoluto. E poi il sogno era nato dentro di lui. L'idea che si era fatto all'inizio, che cioè qualcuno o qualcosa glielo avessero messo in testa, era assolutamente priva di senso. Quella era stata una scappatoia della sua mente, che si rifiutava di ammettere la verità. Ma visto che il sogno era un parto della sua immaginazione, poteva distruggerlo quando voleva. Quello che consigliavano su Forum era sbagliato; dicevano che bisognava dare sfogo alle proprie fantasie, ma era sbagliato. All'improvviso, Phil si rese conto che tutti quei numeri della rivista sparsi per casa non erano che muti appelli di Hilary. E subito provò per lei ammirazione e pietà; soffriva molto, ma soffriva in silenzio, per non essergli di peso. Mio Dio, e tutto questo, soltanto perché lui non la lasciava parlare! pensò come intontito. Quel pensiero ne generò un altro. Hilary andava a lavorare fuori soltanto per lasciarlo dipingere in pace. Quella era una romantica bugia. Usciva per evitare i suoi scatti d'ira. In pratica con il suo comportamento lui l'aveva cacciata di casa. Quella scoperta lo fece sentire leggero, euforico, capace di fare qualsiasi cosa. Finalmente riusciva a vedere Hilary com'era veramente. No, invece, non ci riusciva: nella sua mente c'era il cupo vuoto di sempre. Sopra di lui, il traffico dell'ora di punta intasava il ponte. Nel profondo della sua mente sembrava gravare un peso grigio, immobile, sospeso in una vaga attesa. Non importava. Una volta in vacanza anche quegli ultimi residui di depressione sarebbero scomparsi. Non aveva più tempo per pensare. Ecco la Stazione di Lime Street, ecco la sua casa. Appena arrivato fece i bagagli; l'hotel l'aveva prenotato prima di partire da Londra. Quando ebbe finito, diede un'occhiata all'orologio: ancora un'ora e anche Hilary sarebbe stata libera; quella sera l'enoteca chiudeva prima. Avrebbero preso il primo treno. Chiamò un taxi e si fece portare al negozio, che si trovava nel quartiere più esclusivo della città, fra Jaguar e i giardini giapponesi. Mancava mezz'ora alla chiusura, ma era sicuro che avrebbero permesso a Hilary di andare via prima, vedendo che c'era un taxi ad aspettarla. La localizzò dietro al banco: stava guardando una signora che parlava con la direttrice. Perfetto: non avrebbe dovuto aspettare per poterle parlare. Phil entrò nell'enoteca come se fosse il padrone del negozio. «E semplicemente ridicolo» stava urlando la signora. «Questa donna non
sa niente del suo lavoro. Se siete messi così male a commesse, sappia che c'è mia figlia che cerca lavoro!» Fu soltanto quando vide l'espressione di Hilary, furibonda e umiliata al tempo stesso, che Phil si rese conto che la signora stava parlando di lei. «Quella che lei sta insultando è mia moglie» disse. La signora si voltò a guardarlo. «Allora significa che lei ha una moglie ignorante.» «Non certo ignorante dove conta, come lei». Phil cercò di controllarsi, ma non resistette alla tentazione di togliersi quella soddisfazione. «Prego, vada avanti, vecchia troia.» La donna girò sui tacchi e si diresse con sussiego verso la porta. «Là fuori c'è un taxi che ci aspetta» disse allora Phil rivolto alla moglie. «Le tue ferie cominciano da questo momento.» «Ma vuoi farmi perdere il lavoro?» «Possiamo farne a meno. Vieni, andiamo» la esortò, cercando di non perdere il controllo. «Non vuoi andare ai Laghi?» Lei sfoderò il suo sorriso più smagliante e gli rispose: «Oh sì che lo voglio.» Si voltò per parlare alla direttrice, ma lui la prevenne. «Il minimo che potesse fare era difenderla» le disse. «Dio solo sa quanto poco l'ha sempre pagata.» Quando furono sul taxi Hilary disse: «Ti avevo detto che avevo intenzione di mollare quel lavoro alla fine dell'anno.» «Non l'ho sentito.» «Per forza, tu non mi ascolti mai quando ti parlo.» Phil fissò il collo teso del tassista e riuscì a concentrare lì il suo nervosismo. «So che ultimamente non ti sono stato molto vicino» disse ad Hilary. «Mi dispiace.» Poi, a voce più alta aggiunse: «Ma ti assicuro che a partire da questa sera tutto ritornerà come una volta.» Era ancora chiaro quando arrivarono all'hotel. In cima alla collina bave di foschia si impigliavano nei rami degli alberi; un banco di nebbia più fitta stava calando lentamente sopra il lago. Phil osservò le sagome perfette degli alberi che immergevano i rami nell'acqua irradiata dalla luce del tramonto. I corridoi erano rivestiti di soffice moquette, che attutiva ogni rumore. Guardò Hilary e dai suoi occhi capì che anche lei stava provando le sue stesse emozioni. Si rendeva conto che aveva dovuto compiere uno sforzo enorme per dimenticare la scena nel negozio, ma non importava: adesso era felice. Era tardi per la cena, ma riuscirono ugualmente a farsi preparare qual-
cosa. Ordinarono una bottiglia di vino d'annata, che il cameriere scese a prendere apposta in cantina. Poi bevvero al bar e giocarono a biliardo, cosa che non facevano più da quando erano fidanzati. Quando il bar chiuse salirono in camera. Il corridoio accompagnò silenziosamente i loro passi. Phil si avvicinò alla finestra e scrutò la notte. Adesso la nebbia era scesa a lambire la strada, avida della luce dei fari. Assomigliava al grigio senso di vuoto che continuava ad intorpidirgli la mente. Cercò di afferrarlo, ma sapeva che avrebbe preso forma soltanto quando fosse stato pronto. Si voltò solo quando Hilary uscì nuda dal bagno e si sdraiò sul letto. Allora tirò frettolosamente le tende e le sorrise. Continuò a sorriderle. Non provava alcun desiderio. «Allora, pensi che questa notte torneremo ad essere un solo corpo e una sola anima?» Phil annuì. «Sì» si affrettò a confermare, per paura che lei intuisse il suo stato d'animo. Mentre si spogliava la osservò. I suoi seni erano molli, lievemente venati d'azzurro; il pelo biondo continuava a crescere ai margini dell'areola. Il grigio senso di vuoto era divenuto un macigno, che gravava fra la sua mente e il suo pene. Doveva fare l'amore con lei senza pensare al sogno. Se si fosse nuovamente affidato a quella visione, si sarebbe allontanato ancora di più da lei, di questo era certo. Ma senza il sogno, rifletté tristemente, era destinato a fare fiasco. «Lasciamo accesa la luce?» domandò Hilary. «Certamente» rispose lui, ma non per la ragione che pensava lei. Hilary gli sorrise. «C'è qualche cosa di nuovo che ti piacerebbe provare?» «Per esempio?» «Non lo so, così, mi chiedevo se avessi qualche desiderio particolare.» D'un tratto Phil ebbe un flash e ricordò ciò che aveva visto a casa mentre faceva i bagagli, ma che la sua mente, nella fretta, aveva relegato ai confini della sua memoria: una copia di Forum buttata sul divano. Era la copia dello stesso numero che lui aveva comprato a Londra. Dunque Hilary aveva letto la risposta alla sua lettera. Lei lo guardò dal letto. Phil cominciò a masticare nervosamente. Aveva la bocca arsa. Doveva dirle che sapeva? In quel caso avrebbe dovuto spiegarle anche la questione del sogno... raccontarle ogni cosa. No, era fuori discussione. Hilary ne avrebbe sofferto un sacco, ne era sicuro. E poi non ce ne era bisogno. Lei stessa gli aveva suggerito la soluzione. Il suo pene cominciava ad eccitarsi e anche quello strano, grigio senso di vuoto nella
sua testa. «Ti violenterò» le disse. Si inginocchiò sopra di lei. «Avanti, forza» lo incitò lei ridendo. No, così non andava. Se lei rideva non poteva funzionare. «Chiudi le gambe» disse «E lotta. Fa' di tutto per impedirmelo.» «Ma non voglio farti male.» Il grigiore stava ritornando: ricominciava a calare nella sua mente come la nebbia sul lago. La sua erezione stava regredendo. «Non preoccuparti» disse con affanno. «Difenditi con tutte le tue forze.» Adesso il suo pene era completamente floscio. Dio, no. Le pizzicò un capezzolo con rabbia. Quando lei urlò e si portò le braccia al petto per proteggersi lui le afferrò i polsi. «Sì, così» esclamò, già eccitato di nuovo. Le inserì le ginocchia fra le gambe, costringendola ad allargarle. Adesso Hilary stava lottando. Il letto cigolava come impazzito. Hilary cercò di fare leva sui talloni, ma la stoffa troppo tesa del lenzuolo si strappò. Non stava più giocando adesso; stava cercando di liberarsi le mani e il suo respiro era affannoso e rauco. Phil le affondò brutalmente una mano fra le cosce. Un attimo dopo era pronta. Ah, era così che le piaceva allora, pensò, e dire che lui non se ne era mai accorto. Quando fu sul punto di penetrarla esitò. Il grigio senso di vuoto continuava ad aleggiare nella sua mente, come una minaccia. Sentiva le persone nel corridoio, la tv accesa nella camera accanto, il rombo delle macchine nella nebbia; quei rumori si sovrapponevano alla sua passione e lo distraevano. Sentiva che il pene stava per afflosciarsi di nuovo. Poi, all'improvviso capì che cosa aveva dimenticato. Costrinse Hilary ad aprire le braccia, poi, dopo aver affondato i gomiti nei suoi avambracci, le serrò leggermente le dita attorno alla gola. Hilary iniziò a boccheggiare e il suo ansito roco lo attrasse con violenza dentro di lei. Il grigiore che gli insidiava la mente si dileguò all'istante. Ogni spinta portava con sé una nuova ondata di piacere. Più la pressione delle sue dita aumentava più il suo pene pulsava e più gli occhi di lei si dilatavano e le sue mani si agitavano come impazzite. Con il respiro strozzato, Phil inarcò il collo e tese la testa all'indietro. Come lo schianto di un ramo spezzato che rivela la presenza di un intruso, nella stanza si udì un colpo secco. Phil venne subito, a lungo. Lasciò la gola di Hilary e ghermì le lenzuola. Poi chiuse gli occhi, mentre i palpiti del suo pene si smorzavano e il suo petto si sollevava in respiri lunghi e profondi. Quando la guardò, Hilary stava fissando il muro. Aveva una guancia ap-
poggiata al lenzuolo, mentre la testa le pendeva di sghembo dal collo rotto. Phil scoppiò in singhiozzi. Le prese il viso fra le mani e lo voltò verso di sé. Le strofinò le guance, nel tentativo di restituire il calore della vita ai suoi occhi spenti, poi le scostò i capelli che le coprivano gli occhi e li accarezzò. Da ultimo le afferrò le spalle e la scrollò, e quando la sua testa rotolò di lato, crollando nuovamente sul lenzuolo, si abbandonò sul suo corpo con i pugni piantati negli occhi, e pianse. Allora le gambe di lei si serrarono attorno ai suoi fianchi e quando lui rialzò la testa con le pupille dilatate per lo stupore, vide i suoi occhi che lo fissavano: uno azzurro e l'altro castano. CHEZ LILITH Palin doveva aver notato il negozio poco tempo dopo che era stato aperto. Faceva quella strada tutte le sante sere per tornare a casa dal lavoro. Trovava deprimente quel quartiere; era tutto uguale: stessi palazzoni incolori che si susseguivano sul pendio sopra il fiume, stessa lenta processione di squallide case a schiera lungo la strada che l'autobus risaliva a fatica; le stesse frasi ostili scarabocchiate sui muri contro il vicino campo nomadi. La pioggia di gennaio rigava i vetri dell'autobus e faceva apparire quel paesaggio ancora più brutto e più monotono; le case sembravano confusi ammassi marroni, le imposte di legno fradice pennellate di vernice scura; alle loro spalle i rettangoli tremuli e pallidi dei grandi condomini fluttuavano nell'oscurità che li inghiottiva. Palin sedeva immerso in strati plurimi di grigio fumo di sigaretta. Di tanto in tanto tossiva; aveva cercato di fermarsi al piano di sotto, ma il conducente lo aveva costretto a salire. Maledetto piccolo Hitler. Squassato dalle vibrazioni cavernose del motore l'autobus accostò ad una fermata. Quando Palin guardò fuori, sbattendo più volte le ciglia per mitigare il bruciore degli occhi, notò una strana sporgenza sopra una delle case a schiera che sorgevano nella laterale di fronte; assomigliava alla sbarra abbassata di un passaggio a livello, ma c'era una scritta sopra: messe insieme le lettere formavano le parole... Con uno scossone l'autobus si rimise in moto e affrontò la pioggia battente. Il giorno seguente il cielo grigio aveva deciso di risparmiare la pioggia. CHEZ LILITH lesse Palin, prima che l'autobus sfrecciasse oltre la targa, sottraendogliela bruscamente alla vista. Sotto l'insegna c'era una vetrina con della merce esposta, mentre molte di quelle vicine erano parzialmente murate o sbarrate da assi di legno. All'angolo fra la strada principale e la
laterale sorgevano un negozio tanto anonimo quanto fatiscente, e una filiale di WOOLWORTH'S, o meglio di WO LWO TH'S, visto che alcune lettere della targa erano scomparse e non erano ancora state rimpiazzate. Che cosa diavolo potevano vendere da CHEZ LILITH? Per tutto il resto del mese, Palin fece in modo di assicurarsi un posto a sedere al secondo piano dell'autobus, sul lato destro. Apriva il finestrino per pulirlo, nonostante le proteste dei fumatori e, quando capitava che l'autobus saltasse la fermata in corrispondenza del negozio, un senso di rabbiosa frustrazione si impadroniva di lui, al punto da farlo quasi esplodere; era la stessa sensazione che provava quando non riusciva a fare l'amore con Emily. Anche il tragitto del mattino cominciò a diventare una sofferenza per lui, perché all'andata l'autobus seguiva un altro percorso. Comunque, anche quando la vettura risaliva lentamente la strada, o indugiava più a lungo del solito alla fermata, e il cielo era terso e illuminato dagli ultimi scampoli di sole, Palin non riusciva a capire la natura della cosa che stava seduta in vetrina. Assomigliava a una persona. Era rosa e indossava un completo di biancheria nera. Tutt'attorno erano sparsi libri, poster e oggetti vari. Forse era soltanto un manichino... Ovvio, che cos'altro poteva essere? Ma perché aveva un enorme fiore bianco al posto della testa? In marzo, deciso a venire a capo di quel rebus, scese alla fermata di fronte al negozio. In fondo erano solo due fermate prima della sua. Ciò nonostante, aveva quasi dovuto farsi violenza per scendere. Era pur sempre un bel pezzo di strada da fare a piedi, gli aveva ricordato la sua mente. Non gli piaceva quel quartiere e la cosa che desiderava di più in quel momento era arrivare a casa e rilassarsi; ne aveva diritto, no?, dopo aver combattuto tutto il giorno con le dichiarazioni delle tasse e le lagnanze dei contribuenti. Per giunta stava piovendo, una ragione in più per non cedere a quell'impulso. La sera prima argomentazioni simili lo avevano convinto a proseguire verso casa. Quel giorno, invece, Palin si diede da fare di gomito e guadagnò l'uscita. Quando si ritrovò sotto la bandierina di metallo della fermata dell'autobus, si sentì solo e vagamente ridicolo. Fra i vialetti lastricati che conducevano ai grandi condomini di cemento, occhieggiavano rettangoli di prato incolto, abbandonati al loro destino, come vita rifiutata dal mare e gettata sulla spiaggia. Dai balconi di cemento alcuni bambini lo spiavano. Ai piedi di una colonna di terrazzi c'era una bambola con la testa schiacciata e un grande buco al posto della bocca. Lungo la strada che scendeva
alcuni uomini stavano arrancando verso casa e ogni tanto qualcuno si fermava a lanciare minacce al campo degli zingari. Palin attraversò la strada. All'angolo con la laterale, dietro le vetrine del negozio anonimo, un dolce a forma di cane accumulava polvere sopra nude assi di legno. Palin accelerò il passo: nell'aria umida della sera, l'insegna di CHEZ LILITH lo invitava ad avvicinarsi. La figura rosa sedeva in attesa, il volto perso in circonvoluzioni bianche simili alle ramificazioni del corallo. Non era un manichino. Era una "Partner d'Amore", come spiegava il cartone contro il quale era appoggiata. Il nome era malamente scritto a matita, ma il corpo era ben fatto, seducente perfino, per uno a cui piacessero cose simili, s'intende. Aveva la testa avvolta nella carta velina. Palin scrollò la testa amaramente. Be', per lo meno adesso sapeva di che cosa si trattava e quella strana visione rosa non lo avrebbe tormentato più. Dietro la vetrina si intrawedeva una stanza, che assomigliava in tutto e per tutto al soggiorno di una casa; la differenza era che, oltre ad essere tappezzata di carte astrologiche, ospitava un bancone fatto di assi di legno grezzo, come quelle del pavimento, sopra il quale si trovavano pile di libri sulla stregoneria e strani oggetti parzialmente nascosti da teli; sulla copertina di un libro, una ragazza protendeva una statuina intagliata verso un uomo, che crollava ai suoi piedi con occhi vitrei. Ma c'era qualcos'altro nell'oscurità del negozio, in mezzo ai libri, ai tarocchi e a vari ornamenti fallici: una ragazza, seduta dietro al banco. Un visino a forma di cuore, dal quale lo fissavano due grandi occhi scuri. La sua bellezza gli diede i brividi. Ma quale bellezza, se quasi nemmeno riusciva a vederla? Scosse la testa e aggrottò la fronte. Non aveva alcuna intenzione di farsi attirare lì dentro. Ne aveva abbastanza di fascino femminile che promette tanto e poi ti delude; gli bastava Emily per questo. Quindi, smettila di guardare quella ragazza, si disse. Stava ancora cercando di capire che cosa la rendesse così bella, quando si sentì battere sulla spalla. Era soltanto la pioggia. Ma quando si voltò, vide un uomo, fermo sui gradini della casa di fronte, che lo fissava con un misto di ostilità e di disprezzo. Doveva essere il proprietario perché aveva le chiavi in mano. Palin lo fissò a sua volta, nel tentativo di costringerlo ad abbassare gli occhi, poi si avviò verso la strada principale, ma mentre camminava continuava a sentire il suo sguardo fisso in mezzo alle scapole. Quando arrivò all'angolo si voltò e vide che l'uomo stava fissando la vetrina: un crociato con la tuta sporca; c'erano rabbia e minaccia nei suoi occhi.
Un paio di settimane dopo, Palin ritornò al negozio. Era primavera e gli piaceva l'idea di fare due passi. In più, se scendeva dall'autobus non era costretto a salire al piano di sopra a sorbirsi il fumo soltanto per togliersi la soddisfazione di dare un'occhiata alla vetrina. E poi, magari, in quel negozio avrebbe potuto trovare un regalo per Emily. Nessuna di queste, in realtà, era la vera ragione per cui era sceso a quella fermata. Il vero motivo è che in quelle due settimane non aveva fatto altro che chiedersi che cosa mai rendesse quella ragazza tanto bella. Non erano solo i suoi grandi occhi scuri e neppure il suo visino leggermente paffuto a forma di cuore. E allora che cos'era? Non ne aveva visto il corpo, perché indossava un abito lungo e scuro, che per di più, data la lontananza, si confondeva con l'ombra in cui era immerso il negozio. Le sue labbra piene e i suoi occhi gli sorrisero: era un sorriso invitante, promettente, misterioso. Ma che cosa prometteva Sant'Iddio? Sbuffò cercando di ricacciare le sue fantasie vogliose. Ma la sera successiva ritornò a scrutare il lieve sorriso della ragazza. Mentre guardava la vetrina, Palin sapeva che qualcuno lo teneva d'occhio dalla casa opposta. Una volta, aveva visto l'uomo precipitarsi fuori a cacciare via un gruppetto di bambini attratti dagli oggetti esposti e, più di una volta, lo aveva intravvisto nel riquadro di una piccola finestra sopra il portone di ingresso. Che provasse a mandare via lui, che solo ci provasse. Ma quel fascino che provava era assurdo. Che cosa ne ricavava? Dalla strada principale giungevano il pigro ronzio del traffico e le volute di fumo dei gas di scarico. Forse avrebbe dovuto comprare un regalo per Emily e finirla per sempre con quella storia del negozio. Erano un po' di giorni che non gli ronzava attorno: aveva le mestruazioni, era ovvio, o qualche altra balla del genere. In mezzo a vari libri, fra cui Le gioie del corpo e La gloria della carne, boccette senza etichetta e quelle che, a giudicare dai disegni maliziosi sulle scatole, dovevano essere candele di forma fallica, Palin individuò diverse confezioni di tarocchi. Era il genere di cose che forse a lei piaceva. A lui no: troppo incomprensibili e imprevedibili. No, non le avrebbe comprato un regalo perché quando era in quel periodo era di malumore. Quando si sarebbe comportata in modo più carino con lui, ammesso che fosse possibile, allora forse... Lui e Emily si stavano allontanando sempre di più, ma lentamente, come quando si cerca di fuggire in un incubo; facevano qualche timido tentativo per rompere, si lanciavano reciproci segnali di insofferenza e di stanchezza, ma nessuno dei due aveva il coraggio di compiere il passo decisivo. Lui non era sicuro che si fossero
allontanati al punto da non potere più ritornare insieme, ma era così difficile capire i suoi stati d'animo, cercare di farla felice, intuire quello che pensava. Era sempre difficile, con le donne. Dal fondo del negozio, la ragazza lo guardò sorridendo. Era quello il suo fascino. Per un attimo gli mancò il respiro e rimase a fissare la vetrina a bocca aperta. Non era come Emily, non lo incoraggiava soltanto per poi fargli patire le pene dell'inferno per piacerle. Si limitava ad aspettare, sfoderando quel suo sorriso nell'oscurità vellutata del negozio, un sorriso amoroso, se lui voleva interpretarlo così. Era disponibile, ansiosa di piacere, riposante, tranquilla e sottomessa. Lei era lì se lui la voleva. C'era tutto questo nel suo sorriso e nei suoi occhi. Che idiozia. Era solo la sua immaginazione. Per un attimo si domandò se anche la ragazza fantasticasse come lui. Stava seduta per ore e ore dietro a quel banco, nel buio di quel bugigattolo: a che cosa pensava tutto il giorno? Ma sarebbe stato bellissimo avere una donna che facesse esattamente quello che voleva lui, e quando lo voleva. Come la Partner d'Amore. Oh no. Lui non aveva mica bisogno di quel genere di cose! E perché no? Con il passare dei giorni le sue risposte a quella domanda diventavano sempre meno convincenti. Il collo della figura era sormontato da un groviglio bulbiforme di circonvoluzioni coralline, ma a parte quell'aspetto un po' scioccante, il suo corpo era fantastico: le braccia lunghe e sottili, le mani delicate, le cosce levigate e misteriosamente serrate, i seni morbidi e pieni che, ne era più che certo, erano celati dal reggiseno non per reclamizzare la biancheria, ma per decenza. La figura dava l'impressione di essere morbida e tutt'altro che gommosa; perfino la sua carne rosa non gli sembrava più innaturale, ma soltanto nuova, giovane, vergine. Nemmeno il corpo della ragazza poteva essere più bello sotto il lungo abito scuro. Era come se si celasse il più possibile nell'oscurità per poter mettere meglio in risalto il suo corpo in vetrina. Era più forte di lui. Non era certo il timore di scandalizzare il tizio della casa di fronte a trattenerlo dall'entrare, eppure non riusciva a varcare la soglia di quel negozio. Il pensiero di rivolgersi ad una ragazza per quel genere di cose poi, rendeva tutto ancora più difficile. Lei sapeva quale volto si celava sotto il fiore di carta velina e tutto sommato era proprio l'idea della faccia a convincerlo meno. Però tornare a casa alla sera e trovare un corpo pronto a realizzare tutti i tuoi sogni della giornata... Si sentiva uno stupido. Ascoltava stupefatto le argomentazioni della sua mente. Ma che cosa stava
facendo? Era l'unico uomo sulla faccia della terra a permettere ai suoi sentimenti di ribattere le ragioni della mente! Il volto della ragazza tremolava dolcemente nell'oscurità, illuminato dal suo sorriso. Fu Emily a dargli la spinta che gli mancava per decidere. Le aveva chiesto di andare a casa sua a cucinare una romantica cenetta per due. Emily l'aveva invitato a cena all'inizio della settimana, ma Palin si sentiva intimidito nel suo appartamento; forse era colpa dell'arredamento: i vecchi mobili scuri, ereditati o comprati in qualche strano negozio; un grande leone morbido e sorridente; Kafka, Mick Jagger, La storia di O., riviste di cucina, Fisco: La Rivista Della Federazione degli Operatori Fiscali, Magia... troppe contraddizioni che lo confondevano. E poi era convinto che il suo appartamento lo inibisse sessualmente. La prima volta che avevano fatto l'amore da lei, lui era stato troppo impetuoso ed era venuto subito dopo averla penetrata. Poi, per settimane, la tensione gli aveva impedito di avere un'erezione e lui aveva sentito su di sé lo sguardo di disapprovazione di quei suoi dannati mobili neri e di tutte le sue carabattole. Quando era finalmente riuscito ad eccitarsi di nuovo, aveva avuto la netta sensazione che Emily si annoiasse, un po' perché lui non riusciva a mantenere un ritmo costante e un po' perché gli occorreva tempo per arrivare all'orgasmo; a volte lei era già asciutta quando lui veniva. A casa sua, invece, Palin si sentiva più a suo agio, gli sembrava di riuscire a controllare meglio la situazione. Ma quella sera non si era sentito per niente a suo agio. Per tutto il giorno, Emily non aveva fatto altro che lanciargli strane occhiate dalla sua scrivania, come se volesse annullare il loro incontro e aspettasse soltanto che lui le offrisse l'occasione per farlo. Ma lui aveva evitato di parlarle, se non brevemente per questioni di ufficio. Sull'autobus nessuno dei due aveva aperto bocca. Attorno a loro la conversazione degli altri passeggeri si confondeva con l'arrancare rumoroso dell'autobus. L'insegna di CHEZ LILITH si levò per un attimo a salutarli, poi scomparve di nuovo nella stradina laterale. I mattoni arancioni della casa di Palin risaltavano fra i terrazzi neri; la moquette dell'ingresso li accolse nella luce arancione che si irradiava dal paralume cinese. Avevano in programma una cenetta elaborata. «Lo so, ma se invece ti preparassi qualcosa di più semplice, una sorpresa?» propose Emily mentre salivano. Gli lanciò un'occhiata dubbiosa, poi aggiunse: «Se ti va, s'intende.» Nessun problema, a lui andava sempre bene tutto; ma perché diamine
non gliel'aveva detto subito, anziché guardarlo tutto il giorno a quel modo come se avesse in mente chissà che? Tanto più che una cena più semplice significava avere più tempo per andare al cinema, come avevano deciso. «Dobbiamo proprio uscire questa sera?» gli domandò Emily. «Non potremmo starcene a casa belli tranquilli?» La cena si rivelò ottima. Palin bevve quel tanto di vino da sentirsi vagamente brillo. Era contento che avessero deciso di non uscire. Dopo aver rigovernato la cucina, Palin accese la luce delle scale e l'attese. «Oh, non questa sera» disse Emily. «Che cosa significa, non questa sera?» «Non posso. Ho le mestruazioni» rispose lei con un certo nervosismo. «Che cosa credevi che volessi dire?» Maledizione! Ma su trenta sere che ci sono in un mese, proprio quella doveva avere le mestruazioni! E lo guardava anche, come se lui fosse tenuto a saperlo, come se lui tenesse conto dei giorni! Non gli restava altro da fare che accendere la tv e quella poteva guardarla anche da solo. Aveva già cercato di parlare con Emily di vini, ma lei non aveva mostrato alcun interesse né per quello né per altri argomenti, come i soldatini o i war games. All'improvviso, a metà del film lei gli disse: «Io vado.» Dopodiché si alzò e si avviò verso la porta, senza nemmeno aspettare che lui l'accompagnasse. L'indomani iniziò con la gradita sorpresa di un aumento di stipendio. Durante l'intervallo del pranzo Emily uscì a fare shopping e per tutto il resto del giorno evitò accuratamente di rivolgere la parola a Palin; non gli fece vedere nemmeno gli abiti che aveva acquistato. Stava seduta alla scrivania in modo da mostrargli costantemente le spalle e scrollava con provocatoria indifferenza i lunghi capelli biondi che, ad ogni suo cenno di diniego con il capo, sembravano rimandarne uno analogo a lui. Quando prese l'autobus per ritornare a casa, Palin si sedette al piano di sotto. Per quale ragione non sarebbe dovuto scendere alla fermata di CHEZ LILITH? Fu infatti quello che fece, benché il cielo minacciasse pioggia: sembrava rigovernatura di piatti sporchi che si rovesciasse nel fiume. Il dolce a forma di cane era sempre esposto nella stessa vetrina, irraggiungibile dietro il vetro polveroso. Avanzò con passo strascicato verso CHEZ LILITH. Doveva forse comperare ad Emily un regalino con il quale scusarsi... Una confezione di tarocchi, per esempio? No, che gli venisse un accidenti se l'avesse fatto. Le aveva già regalato fin troppe cose per farle ritrovare il buon umore, ma la
metà delle volte non era servito a niente. Quel giorno avrebbe speso per comprare qualcosa di garantito, per un piacere di cui avrebbe potuto godere senza dover lottare. Oltrepassò il bulbo di corallo bianco e, prima che si sentisse pronto ad entrare, i suoi lunghi passi lo avevano già condotto oltre la soglia. L'oscurità lo inghiottì come un mare profondo. Aveva la sgradevole sensazione di essere entrato per sbaglio nel salotto di una casa privata, dove i legittimi proprietari stavano meditando al buio. La stanza era piena della presenza della ragazza; non sembrava affatto un negozio. Per quanto potesse essere irrazionale, Palin sentì l'impulso di fuggire. Ma adesso riusciva a distinguere il banco, l'unico elemento che conferisse al locale l'aspetto di un esercizio commerciale. Il sorriso della ragazza prese vita nell'ombra. A poco a poco, anche il suo volto cuoriforme si illuminò. La ragazza continuava a sorridere, aspettando che lui si decidesse a parlare. Ma ce l'avrebbe fatta davvero a comperare la figura rosa esposta in vetrina? Poi, con un moto di sollievo, si rese conto che non aveva bisogno di compromettersi subito. «Quanto costa la, la...?» domandò agitando la mano in direzione della vetrina. «Che cosa le interessa?» La voce della ragazza era bassa e sottile, al punto che Palin dovette drizzare le orecchie per captarne le parole, così come era costretto ad aguzzare la vista per cogliere i tratti del suo viso. Ma nello sforzo della concentrazione si accorse anche di quanto la sua voce fosse affascinante: la sua musicalità, la sua vellutata fiochezza erano un invito, comunicavano desiderio di piacere e una misteriosa tensione sessuale. Ma forse tutto questo era frutto più della sua fantasia che della voce di lei. «Quella cosa in vetrina» rispose Palin. «La... » Come diavolo si chiamava, Sant'Iddio? «La Partner d'Amore!» ricordò all'improvviso, e senza volerlo gridò quelle parole con un senso quasi di liberazione. «Quanto vale per lei?» Avrebbe preferito che fosse lei a dirgli il prezzo. Non voleva compromettersi ancora, ammettere subito di essere intenzionato a comprarla. Ma lei si limitò a sorridergli dall'ombra e a fissarlo in silenzio con quel suo volto dolce e luminoso. Gli toccava proprio tirare ad indovinare. «Dieci sterline» disse, augurandosi di non offenderla e sperando che si decidesse finalmente a dirgli un prezzo; contrattare con una donna lo metteva a disagio. «Dieci sterline?» Sembrava triste, ma rassegnata. Si alzò dalla comoda
poltrona sulla quale sedeva dietro il banco e il suo volto fluttuò nell'oscurità. Era molto alta. «Sono costretta ad accettare la sua offerta» proseguì. Dal tono della sua voce sembrava che stesse soggiacendo all'inevitabile e anche a lui. Quando si avviò verso la vetrina Palin si accorse con uno stupore misto a disappunto che era storpia. Lui non ne vedeva che il volto e le mani sottili, ma sotto il lungo abito scuro il suo corpo avanzava a scatti, sbilanciato di lato da una forte sciancatura. La ragazza prese delicatamente la figura rosa dalla vetrina; poi le sfilò la biancheria e la gettò in un angolo. Fu solo allora che Palin si rese conto che l'aveva vestita soltanto per evitare possibili denunce. Adesso la figura risplendeva in tutta la sua nudità. La ragazza le distese le braccia lungo i fianchi, poi le sollevò le gambe fino ad incastrare i piedi sotto le ascelle. Palin intravvide i suoi genitali glabri dilatarsi e fu colto da un'improvvisa eccitazione. La ragazza stava aprendo il cartone. Avrebbe voluto chiederle di togliere la strana costruzione di carta velina, ma non poteva: era sicuro che sotto quelle volute coralline si celasse il suo volto e avrebbe potuto acquistare la bambola soltanto se quel segreto fosse rimasto tacito, una specie di complice intesa fra loro due. Armeggiò nel portafoglio. I genitali aperti della bambola scivolarono nella scatola. Dalla parte opposta della strada, il tizio della casa di fronte stava fissando la vetrina scuro in volto. Quando Palin le porse le banconote, la ragazza gli afferrò deliberatamente la mano. Il suo sorriso sembrava una promessa. Ma che cosa significava quella stretta? Au revoir, un appello, un gesto d'amicizia? La seguì con lo sguardo, mentre, contorcendo il corpo slanciato sotto l'abito scuro, ritornava a sedersi sulla poltrona dietro il banco. Poi, all'improvviso, si sentì oppresso, come un estraneo entrato per sbaglio in una casa dominata da una personalità troppo forte. «Buongiorno» si limitò a dire e uscì, felice, tutt'a un tratto, di ritrovarsi circondato dal grigiore del cielo, del cemento e del fiume. Lo sguardo del proprietario della casa di fronte si spostò su di lui. Sentiva la bambola scivolare dentro la scatola. Dall'autobus che risaliva la strada, i volti infreddoliti dei passeggieri lo fissarono. Andava tutto bene, non potevano vedere il contenuto della scatola. Ciò nonostante, Palin si drappeggiò il cappotto sulle spalle in modo da coprire il nome scritto a matita sul cartone. Poi, udendo la bambola rimbalzare al ritmo dei suoi passi, si sentì improvvisamente stupido. Come diavolo gli era venuto in mente di comprarsi quel manichino? Meno male che gli era costato soltan-
to dieci sterline. Si domandò come facesse a campare chi vendeva cose del genere. Quella stupida bambola pesava come un accidenti. Lasciò cadere la scatola davanti al portone e armeggiò in tasca alla ricerca delle chiavi. Ad un tratto si ricordò che non ne aveva ancora visto il volto e fu colto da una subitanea eccitazione: l'idea che quel volto lo stesse attendendo nell'oscurità, misterioso e invitante... Forse, dopo tutto, erano stati soldi ben spesi. Si affrettò verso il salotto, poi si fermò; rifletté un istante e alla fine decise di portare la scatola in camera sua. L'appoggiò sul letto e tirò le tende. Il primo impatto con la bambola fu con il suo sesso dilatato; la vista di quel buco rosa, così immobile nella scatola di cartone, lo innervosì. Dopo un po' afferrò la figura per i glutei e la tirò fuori. Erano vellutati come pesche e sorprendentemente caldi; non riusciva a capire di che cosa potessero essere fatti. Estrasse la bambola fino all'altezza delle ginocchia, poi afferrò la scatola e la scrollò sopra il letto. La bambola atterrò sui glutei e rotolò sulla schiena; Palin si aspettava quasi di vederla piegarsi in avanti e mettersi a sedere. Fissò le bende di carta velina. Gli sembrava già di vederne il volto. Le risistemò le braccia in modo che le ricadessero morbidamente lungo i fianchi, poi le piegò le gambe in modo che le ginocchia fossero alte e divaricate. Dopo un attimo di esitazione allungò le mani verso la maschera bianca, affondò le dita sotto le circonvoluzioni di carta velina e strappò. Lo choc fu tale che ci mancò poco che scivolasse giù dal letto: la testa era calva e senza volto. La bambola era lì, tutta per lui. La parte anteriore della testa era morbida, rosa e leggermente appiattita; era rivolta verso l'alto, come se stesse fissando il soffitto. Palin si alzò di scatto dal letto, la piegò sommariamente e, dopo averla ricacciata nella sua scatola, la gettò in una camera vuota. Scese di corsa le scale, sentendosi ingannato, imbarazzato, vagamente arrabbiato e in un certo senso disgustato. Ma perché? Ci rimuginò sopra mentre cuoceva i bastoncini di pesce. E se anche avesse avuto un volto? Sarebbe stata rigida, senza vita, con lo sguardo fisso. Se avesse avuto i tratti della ragazza sarebbe stata una delusione. Il motivo per cui la Partner d'Amore non aveva volto era perché toccava a lui dargliene uno, quello che gli piaceva di più, quello che sognava. Non era stato ingannato. Il fatto era che dubitava che avrebbe potuto funzionare. C'era solo un modo per scoprirlo. Quando finì di mangiare, il sole era già scomparso dietro i tetti delle case di fronte. Estrasse la bambola dalla
scatola. Gli dispiaceva di averla trattata così male prima; dopotutto aveva un corpo splendido, era un peccato rovinarlo. Le distese le gambe e le braccia e la portò in camera da letto. Le tende riempivano la stanza della luce arancione del crepuscolo. Anche l'ovale rosa della bambola risplendeva adesso di una vaga nuance aranciata. Le piegò le ginocchia e le divaricò le gambe. Ok Emily. Adesso ti possiederò come nessuno ti ha mai posseduto prima. Pronunciò mentalmente quelle parole, ma senza crederci neanche un po'. Le cosce di Emily erano più molli, leggermente flaccide; e quando si sdraiava, i suoi seni si allargavano e si appiattivano. Il pene gli penzolò fra le cosce tutt'altro che convinto. Illuminato dagli ultimi raggi del sole, il corpo della bambola risplendeva ed emanava uno strano calore, un calore che lo tentava. Solo la sua perfezione lo faceva sembrare innaturale. Non si addiceva ad una donna piena di contraddizioni come Emily. All'improvviso ripensò al volto della ragazza immerso nell'oscurità, al suo corpo nascosto dietro a quello messo in vetrina. Il suo viso sarebbe stato perfetto su quel corpo. Fissò la bambola con un improvviso sussulto di sorpresa: non si era accorto che la mano destra della partner d'amore era quasi appoggiata sulla sua, nello stesso punto in cui la ragazza l'aveva stretta. Palin la osservò. A poco a poco, mentre la luce che emanava il suo corpo giocava con le sue pupille, ebbe l'impressione che la testa senza faccia mutasse forma. Immaginò il volto cuoriforme della ragazza e il suo sorriso luminoso che si ridisegnavano gradualmente in quell'ovale morbido; rivide la dolce intimità del suo sguardo. Dal chiarore aranciato sbocciò il sorriso della donna. Il lento parto della sua immaginazione rese quella visione ancora più eccitante. Lei era lì, che lo aspettava con le braccia e le gambe spalancate. Il suo pene si rizzò all'istante. Palin si inginocchiò sopra di lei e, istintivamente, le afferrò la mano. Un brivido gli percorse tutto il corpo: era morbida e calda, salda nella sua... praticamente identica a quella della ragazza, per il momento almeno. Le sollevò le mani sopra la testa e fissò il muro sopra il letto: il suo viso sembrava leggermente acceso. Benché il suo pene pulsasse impazientemente all'unisono con il cuore, Palin stava rimandando il momento della penetrazione. Era sicuro che quella fessura rosa e senza peli l'avrebbe deluso. Alla fine si abbassò su di lei e rimase senza fiato. Non era come le labbra lisce di Emily, a volte un po' ruvide. Non aveva avuto bisogno di spingere. Appena l'aveva penetrata si era aperta; era mor-
bida come il velluto e sembrava incresparsi attorno all'asta del suo pene e baciarne ogni nervo. Quando il suo pube toccò quello di lei, le sue gambe si chiusero dolcemente e la sua pelle calda gli accarezzò la schiena. Palin si abbandonò dentro il corpo di lei e godette delle vibrazioni di piacere che si rincorrevano per tutta la lunghezza del suo membro. Lei aspettava. Poteva starle dentro tutto il tempo che voleva, muoverla come voleva. Non doveva più adattarsi a posizioni scomode come accadeva con Emily. Gli dava un enorme fastidio il doverle dire sempre quello che doveva fare; secondo lui Emily avrebbe dovuto capirlo da sola quando faceva qualche cosa di sbagliato. Adesso poteva finalmente avere quello che voleva. Quel pensiero lo eccitò. Il suo pene si ingrossò, riempiendo completamente quella vagina vellutata; i suoi nervi furono percorsi da brividi di un piacere travolgente. Il velluto si increspava attorno al suo pene e quando le sue spinte si fecero più impetuose, le increspature si trasformarono in onde. Palin serrò le dita attorno alle spalle vellutate di lei e premette il viso contro la sua guancia morbida. Le increspature erano tante lingue vellutate attorno al suo pene, che risucchiavano il suo orgasmo mentre lui si aggrappava alle spalle della bambola e affondava i denti nel cuscino. Si abbandonò sul suo corpo, restando dentro di lei. I sui seni erano sodi e fermi contro il suo petto. Il velluto continuava ad aderire al suo pene che lentamente, si afflosciava. Le sue gambe lo serravano. Il suo volto risplendeva di una luce più scura adesso; e continuava a sorridergli con quel suo sorriso caldo. D'un tratto Palin sgranò gli occhi: per la prima volta in vita sua stava avendo una seconda erezione. La macchia scura era quasi ferma nel cielo azzurro. Tutti i passeggeri dell'autobus la stavano fissando e ognuno formulava un'ipotesi diversa. Era uno strato di fumo nero, largo e sottile, sospeso sopra le case a schiera. Palin aguzzò la vista, mentre l'ansia gli attanagliava lo stomaco. Il fumo riempiva un enorme tratto di cielo sopra il pendio vicino al fiume e continuava ad espandersi. Era una massa informe che terminava in una specie di coda, che pendeva verso una delle strade laterali lungo le quali sorgevano le case a schiera. No, non poteva essere quella strada. E invece sì. Si lanciò in mezzo alle porte che si stavano richiudendo. Non c'era molto da vedere, a parte il fumo e i resti carbonizzati. Dalle due costruzioni confinanti protrudevano mattoni e puntoni bruciacchiati. In mezzo alla carreggiata c'era un groviglio nero dal quale spuntavano pezzi di metallo e
frammenti di vetro anneriti dal fumo: quel che restava dell'insegna di CHEZ LILITH. L'uomo era in piedi sugli scalini della casa di fronte. Quando riconobbe Palin, un'espressione trionfante illuminò il suo sguardo. «Lei era dentro» disse con tono macabro. La sua voce riecheggiò piatta nella strada disastrata. «E morta. Bruciata viva.» Palin capiva che l'uomo voleva fargli intendere quanto fosse stata giusta la sua morte, ciò nonostante gli sorrise. Gli avrebbe fatto sparire quell'aria di vittoria dalla faccia. «No, non è morta» si limitò a dirgli e se ne andò. Non provava alcun dispiacere. Lei era ancora viva, nella sua mente. Anzi, in un certo senso l'incendio l'aveva resa ancora più viva, nel corpo sottomesso che lo attendeva a casa. Lui l'avrebbe mantenuta in vita. Si affrettò a raggiungere il suo appartamento. Non aveva bisogno di sentirsi in colpa per quell'assenza di dolore. Tutto sommato non poteva dire di conoscerla; conosceva soltanto l'immagine che gli era rimasta impressa nella mente. Ma non vedeva l'ora di fare l'amore con il suo corpo... perché quello era il suo corpo, era il corpo che avrebbe voluto su di lei. Era sicuro che le sarebbe piaciuto essere ricordata così. Aveva lasciato le tende del soggiorno tirate. Che idiota, in quel modo i ladri avrebbero capito che la casa era vuota. Si precipitò nella stanza. La luce del sole faceva capolino fra le tende appena dischiuse. La sua collezione di soldatini risplendeva sulla mensola del camino e sui ripiani della libreria. Con la coda dell'occhio catturò un barlume rosa intenso dove i raggi del sole colpivano una sedia rivolta verso la finestra. Si voltò aggrottando la fronte. Illuminata dal sole, la testa senza volto lo accolse con un colore più acceso del solito. Era come se il viso fosse stato asportato con un bisturi, lasciando soltanto la carne tenera e liscia. «Cristo!» Indietreggiò e con il pugno colpì il vetro attraverso la tenda. Doveva aver portato giù la bambola quella mattina, quando ancora era mezzo addormentato. L'aveva sistemata sulla sedia con le gambe divaricate, le mani sulle ginocchia e il viso leggermente rivolto verso l'alto. Ma perché Sant'Iddio? Perché, perché aveva pensato che avrebbe avuto l'impressione che lei gli desse il benvenuto a casa, quando fosse rientrato. Ed era proprio così. Aprì le tende e la guardò; guardò le sue lunghe gambe, i suoi seni morbidi e fermi. Era bellissima. Dopo tutte quelle settimane non si era ancora stancato di lei. Eppure in quel momento sentiva il bisogno di starle lontano. «Mi dispiace» disse cercando il sorriso nella luce
arancione. Osservò le labbra glabre, e leggermente dischiuse, della sua vagina. Era seduta lì ad aspettarlo. La sollevò dolcemente. Quando la distese sul letto, un misto di pietà e di eccitazione si impadronì di lui; non l'avrebbe lasciata morire, l'avrebbe tenuta con sé, avrebbe fatto in modo che il suo ricordo vivesse per sempre nella sua memoria. Mentre si spogliava, un'idea accrebbe la sua eccitazione. Era stato spesso sul punto di chiederlo ad Emily, ma non aveva mai osato. La mise prona e le allargò gentilmente le natiche: erano calde e morbide. Il respiro gli sibilò fra i denti quando la penetrò. Il contatto con il velluto lo fece fremere di piacere. Attorno al letto i soldatini brillavano di luce fredda. Quella sera, quando salì in camera per andare a dormire, lei era ancora sul letto. La prese in braccio: era calda. Dopo un attimo la fece scivolare sotto le lenzuola. Era così bella e invitante in mezzo alle sagome rigide e fredde dei soldatini, troppo bella per cacciarla via: era bella persino quella sua testa liscia, la sua morbidezza, la curva perfetta dell'ovale. Nell'oscurità Palin le prese una mano e se l'appoggiò al petto. Il suo viso dolce e caldo si annidò contro la sua spalla, e gli diede un bacio grande, infinito. Alcune settimane dopo, Palin diede via i suoi soldatini. Non li poteva più sopportare. Non erano che dei nanetti di latta, stupidamente irreali. Quando ripensò alla precisione con cui ne aveva dipinto le divise, lo trovò puerile. Era puerile faticare tanto per farli sembrare vivi, quando aveva lei. Li spedì a John Hulbert, per scusarsi della sua decisione di interrompere improvvisamente il loro war game. Palin si era sempre divertito a giocare con i soldatini; lo trovava rilassante: le ricerche fatte con comodo nel tempo libero, le lunghe riflessioni, le pause di una settimana fra una mossa e l'altra. Ma adesso trovava che lei lo distraesse; quando sedeva accanto a lui, sulla sedia illuminata dalla luce cremisi del sole, che filtrava attraverso le tende del soggiorno, il suo viso vuoto sembrava un muto rimprovero, una supplica. Il gioco non lo rilassava più, anzi lo innervosiva. Lasciò Napoleone a trastullarsi dalle parti di Waterloo e spedì i soldatini. Quando la portò a letto con sé quella sera, Palin si sentì un uomo profondamente virtuoso. Era la pausa del tè. Palin fece posto alla tazza come meglio poteva fra le carte ammucchiate sulla sua scrivania. Stava aiutando un collega più lento a sbrigare la corrispondenza, che languiva sul suo tavolo da più di sette giorni. Pile di carte giacevano sul pavimento fra gli schedari, dove alcuni
impiegati stavano cercando pratiche male archiviate. Un funzionario stava girando per l'ufficio mostrando a tutti una lettera: un altro contribuente aveva scritto a Sua Maestà l'Ispettore dei Tassi... anche quella castroneria sarebbe finita su Fisco, se non fosse stata già pubblicata troppe volte. «Vai ai Laghi quest'anno?» gli domandò il suo vicino di scrivania. «Sì, senz'altro.» Si stava così bene da quelle parti. Con sorpresa Palin si rese conto che non pensava alle vacanze da settimane. Normalmente, in quel periodo dell'anno pregustava già le ferie, anzi le attendeva con impazienza. Evidentemente riusciva a rilassarsi bene a casa. Emily stava parlando al telefono. Si avvicinò a Palin. «È una tua pratica» disse allungandogli un foglietto con scarabocchiato sopra il nome del contribuente. Un tempo, in caso di bisogno, lui rispondeva alle telefonate dirette a lei e lei alle sue. Adesso non più. Erano troppo tesi, troppo spaventati all'idea di commettere qualche errore. Anzi, per la verità, Emily non gli rivolgeva quasi più la parola, anche se faceva sempre in modo di farsi sentire quando parlava al telefono con il suo nuovo ragazzo. Palin recuperò la pratica e andò al telefono. Gli dava fastidio sapere che Emily era seduta a pochi centimetri da lui. La persona che lo cercava era una signora sposata. Aveva sottoscritto una polizza assicurativa sulla vita, ma non aveva beneficiato di nessuna detrazione fiscale. Palin le spiegò con pazienza che le detrazioni relative alla sua polizza erano state effettuate sul reddito di suo marito. La signora non dava segno di aver capito e Palin glielo rispiegò una seconda volta. Poi una terza. Sì, signora. Capisco, ma vede, temo proprio di non poter fare niente per lei. «Mi dispiace, signora, ma per il Fisco se lei è sposata i suoi soldi sono soldi di suo marito.» Emily lo stava osservando in silenzio. Che cosa le pigliava? Come poteva essere stato assieme ad una donna con uno sguardo simile? «Che cosa c'è?» le domandò. «Oh, niente. Certo che una risposta così solo tu potevi dargliela.» «Come? Che cosa vorresti dire?» Lei lo fissò incerta se proseguire oppure no, poi disse: «Mi riferivo al tuo tipico atteggiamento nei confronti delle donne.» «Io non c'entro niente. È il Fisco che detta le regole.» Lei continuava a fissarlo. «A me sembra che quando una donna si sposa» riprese e, a quel punto, la rabbia gli fece dire quello che forse non voleva, «dovrebbe imparare a stare al suo posto.» «Oh il matrimonio non c'entra niente per quel che ti riguarda.»
«E questo che cosa vorrebbe dire?» «Te lo spiego subito. Significa» Palin fece un vano tentativo di zittirla, «che a te le donne vanno bene fino a quando non hanno sentimenti. Ti vanno bene fintanto che ti preparano la cena e per fottere, quando ci riesci. Ma che Dio ce ne scampi se solo osano provare qualche sentimento che rischierebbe di interferire con la tua vita! Chi vuoi prendere in giro dicendo che queste sono le regole del Fisco?» Era come se Palin avesse sollevato un coperchio e adesso non fosse più capace di rimetterlo al suo posto. Be', anche lui aveva qualcosa da dire. «Ho una ragazza a casa che è decisamente più disponibile di te!» «Che Dio l'aiuti, allora!» Tutto l'ufficio li stava ascoltando. Alcuni funzionari li stavano osservando con la fronte aggrottata. Uno di loro si alzò per intervenire. Palin si affrettò a ritornare alla sua scrivania, chinando il volto rosso e accaldato. «Decisamente più disponibile» mormorò a mezza voce. E molto meno costosa da portare in vacanza, anche. Fu solo quando ritornò a casa e vide la figura rosa seduta sulla poltrona che si chiese come diamine avrebbe fatto a portarsela dietro. La scatola di cartone era troppo ingombrante e non ci stava nel bagagliaio. Come faceva allora a portarla all'albergo? Poteva spedirla per posta. No, troppo crudele. All'improvviso pensò alla faccia che avrebbe fatto la cameriera trovandola in camera sua, o peggio ancora, nel suo letto. Dio, no. Osservò il suo viso vagamente acceso. Doveva cercare di pensare ad una soluzione in fretta, altrimenti avrebbe dovuto lasciarla a casa. Tutti i suoi colleghi d'ufficio erano attorno al suo letto; c'era anche Emily, che gli puntava contro l'indice teso e rideva. Quando il suo pene affondò con violenza, con disperazione, nella fessura vellutata il corpo della bambola si spezzò: una frattura rosa che dal ventre proseguiva fino al petto e le fendeva in due la testa, aprendovi una bocca piatta e verticale. Palin cadde nel freddo squarcio della plastica e si svegliò. Un peso gli gravava sulla spalla e contro la guancia: morbido, liscio e fresco. Lui si ritrasse e la testa senza volto rotolò di traverso sul cuscino. Aveva il cuore in gola. Cercò di calmarsi inspirando profondamente, poi l'abbracciò furioso con se stesso. Ma gli ci volle parecchio per ritrovare il sorriso della ragazza, e riuscire a riprendere sonno. Emily fu trasferita in un altro reparto. Quando la vide radunare le sue cose e andarsene, Palin ne fu contento. Ma il giorno dopo gli sembrò che tutti lo guardassero con insistenza, anche la ragazza che aveva preso il po-
sto di Emily. Pensavano che fosse colpa sua? Non avevano capito che quella scenata era iniziata per colpa di Emily e delle sue lune? Con il passare delle ore, la sua rabbia sorda non fece che aumentare. E, quando arrivò a casa dovette sfogarsi. «Ho avuto una giornata di merda oggi. E tutto per colpa delle donne. Maledette donne. E tu non credere di essere diversa, sai. Anche tu non vali un tubo. Per esempio, mi hai forse preparato la cena? No. Vedi che ho ragione?» Aveva parlato troppo. Aveva rattristato la testa rosa e sentiva la sua tristezza aumentare in modo insopportabile, perché non poteva esprimersi. «D'accordo, scusami. Mi dispiace.» Era lui che si stava deprimendo: era quella la tristezza che sentiva. Aveva bisogno di una vacanza. «Non ti posso nemmeno portare in vacanza» urlò. «E così te ne starai qui a casa per un paio di settimane. Non ti farà male.» Era un vero porco. Quando si sedette a tavola a mangiare si sentì ancora peggio. Lasciarla sola dopo una scenata come quella... Quando si accorse che stava trangugiando il cibo cercò di dominarsi. Non essere ridicolo. Lei può aspettare. Aveva quasi finito la cena. Non si era mossa. Aveva il viso leggermente piegato di lato e dal suo posto Palin non riusciva a vederla bene. Allora si alzò e le girò la testa, ma lei lo guardò soltanto perché non aveva altra scelta. La sua testa immobile lo rimproverava. Un gruppo di minuscoli cowboys galoppava in un deserto di venti pollici; la faccia scura lo fissava con aria corrucciata al limite del suo campo visivo. «Ma Dio Santissimo, nemmeno la televisione posso più guardare adesso?» Non aveva alcun bisogno di urlare. Abbassò la voce. «Ascolta, ti ho già detto che mi dispiace. Ma io ho bisogno di una vacanza!» Si alzò in piedi di scatto e le voltò la testa dall'altra parte. Lei fissò il muro senza protestare. Manzi in miniatura che fuggivano in preda al panico. La sua spalla rosa e nuda restava immobile. «Non lo capisci che mi dispiace?» urlò Palin. «Ma Dio benedetto, vuoi farmi sentire ancora peggio di quanto non mi senta già? Non sei capace di dire niente?» Si catapultò in avanti e spense la televisione. «Contenta adesso?» gridò. La stava provocando con un silenzio pari al suo, per vedere se si ostinava a restare sulle sue. Fu solo allora, nel silenzio che regnava nella stanza, che Palin si rese conto di quello che stava facendo. Dio Santo, aveva avuto una giornata tanto brutta da mettersi addirittura a parlare con uno stupido fantoccio? Perché quello era, nient'altro. «Non sei nient'altro che uno stupido fantoccio!» gridò. Una bambola che viveva sol-
tanto quando lui la faceva vivere. Eppure lui sapeva che non era vero, perché ne avvertiva la presenza anche in quel momento. Oh, solo perché si era agitato. Era unicamente quello il motivo, unito al fatto di averla investita del ricordo della ragazza. Be', la ragazza era morta, non esisteva più. «Sei morta» disse alla bambola, e poi si chiese come fosse potuto essere così pervertito da piazzare un cadavere in salotto. No, non un cadavere... un qualcosa che non era mai stato vivo. Ad un tratto la sua presenza gli divenne insopportabile. «Te ne starai per un po' nella tua scatola» disse. Ma Sant'Iddio, non riusciva proprio a fare a meno di parlarle? No, no finché continuava a sentirsi oppresso da quella sua tristezza, da quel suo muto rimprovero, dal quel suo silenzio ferito, che appesantiva l'aria come gas. Persino la luce arancione che filtrava dalla finestra sembrava più spessa. Uscì dalla stanza sbattendo la porta. Mentre camminava su e giù per l'ingresso, Palin capì che avrebbe dovuto disfarsi della bambola. Aveva lavorato troppo in quei mesi, aveva bisogno di una vacanza ... E se una stupida bambola gli faceva venire dei dubbi se andare in ferie oppure no, significava che era giunto il momento di liberarsene. Gesù, lo aveva perfino costretto a dar via i suoi soldatini e a disdire il suo war game. Era davvero troppo. Quando appoggiò la mano sulla maniglia del soggiorno, si ritrovò a domandarsi con un certo stupore per quale ragione assurda l'avesse comprata. Quel genere di cose non l'avevano mai eccitato. Poi ricordò la strega sulla copertina del libro esposto in vetrina e l'uomo dagli occhi vitrei che cadeva ai suoi piedi. Forse la ragazza di Chez Lilith aveva appreso da libri come quello qualche trucco per attirarlo nel negozio? E in quel caso, a quale scopo l'aveva indotto a comprare la Partner d'Amore? Non aveva importanza. Tanto lui a quelle cose non ci credeva. La Partner d'Amore era soltanto una bambola e la ragazza era morta. Spinse la porta del soggiorno e l'aprì. La figura era sempre seduta sulla poltrona nella luce arancione del crepuscolo, con la testa girata di lato. Palin avanzò con passo deciso verso la finestra e, con uno strattone, aprì le tende. Osservò le lunghe gambe della bambola, le sue braccia sottili, le sue mani delicate: all'improvviso gli parvero di un rosa assolutamente innaturale e i suoi genitali nient'altro che una banale fenditura in un corpo fatto di plastica. Ma quando si chinò per prenderla in braccio, il volto della ragazza si impose sulla testa ovale e gli rivolse un sorriso che esprimeva al tempo stesso rimprovero e coraggiosa
rassegnazione. Palin andò in cucina, prese un sacchetto di plastica e lo calò sulla testa della bambola. La portò in cortile. L'erba cresceva incolta fra i quadrati di cemento del vialetto; l'ombra di un gatto si dileguò dal bidone della spazzatura. Non poteva bruciarla: con ogni probabilità era fatta di un materiale altamente infiammabile e, una volta appiccato il fuoco, rischiava di non essere più in grado di controllarlo. Si limitò a piegarle gli arti flessuosi e a gettarla nel bidone. Pigiò con forza il coperchio di plastica sopra la testa avvolta nel sacchetto bianco e ritornò verso casa. Non fece in tempo a fare più di due passi che sentì il coperchio del bidone aprirsi. Si girò di scatto e vide la bambola drizzarsi a sedere come il pupazzo di una scatola a sorpresa. Sembrava rosa scuro nella luce del crepuscolo e aveva la testa, bianca e svolazzante, vagamente inclinata nella sua direzione. Dovevano essere state le molle nascoste all'interno del suo corpo. Palin la schiacciò di nuovo nel bidone e assicurò il coperchio. Ma la testa si drizzò una seconda volta, sollevando il coperchio, e la sportina bianca lo fissò. Doveva fare in modo di fissare meglio il coperchio. Andò in garage e ritornò con una sega in mano. Ma non avrebbe mai avuto il coraggio di segarle il collo. Non sopportava l'idea di vedere la testa ciondolare da una parte all'altra nella sportina di plastica, mentre le tagliava in due la gola. Estrasse la figura dal bidone e le segò parzialmente il braccio sinistro, all'altezza del gomito e della spalla. In questo modo non si sarebbe rialzata più. Spinse la testa nella spazzatura e poi cacciò dentro anche il resto del corpo. Questa volta il coperchio rimase chiuso. Dieci sterline buttate via, pensò Palin. Alcuni gatti lo guardarono di soppiatto dai muri del vicolo. Rientrò in cucina e si affacciò alla finestra: la vista del bidone chiuso lo rassicurò, anzi lo calmò. Palin provò un enorme senso di sollievo: si sentiva finalmente libero. Non si sarebbe mai più fatto fregare da niente di simile. Tempo qualche giorno e sarebbe partito per le vacanze, com'era vero Iddio. Ne aveva proprio bisogno. I gatti stavano fissando il bidone. Che andassero pure a frugare alla ricerca di cibo, sarebbero rimasti a bocca asciutta. Era bello starsene lì, mentre, a poco a poco, calava la rassicurante oscurità della sera. Poco più tardi andò a letto. Sentiva la mancanza dei suoi soldatini; la stanza gli sembrava nuda. Sarebbe mai riuscito a convincere John Hulbert a renderglieli? Non vedeva come. Ma dopo tutto non era così
importante. Chiuse gli occhi e si addormentò con il sorriso sulle labbra. Stava facendo l'amore con una ragazza. Lei aveva gli occhi che le brillavano e il respiro affannoso; gli sorrideva e rideva... lo faceva sentire vivo come mai lo aveva fatto sentire vivo prima di allora. Appena fosse stato libero sarebbe andato da lei. Si sarebbe vestito e sarebbe corso a cercarla. Anche lui rideva mentre si avvicinavano insieme all'orgasmo. L'aveva trovata e l'aveva portata a letto senza fatica. Lei teneva il braccio sinistro abbandonato sopra la testa, contorto in un modo impossibile. L'aveva trovata e l'aveva trascinata fino a casa, mentre i gatti si azzuffavano sul suo corpo. Quando si svegliò urlando, Palin era sdraiato sul letto a pancia in giù, dentro di lei. Il sacchetto di plastica era scomparso. Per un attimo, la tenue luce dell'alba che si insinuava fra le pieghe della tenda le diede un volto: un sorriso fisso e carbonizzato, due occhi che sembravano due buchi neri. Palin urlò di nuovo e cominciò a dimenarsi nel tentativo di liberarsi dall'abbraccio delle sue membra viscide: la sua erezione lo inchiodava dentro di lei. Allora Palin le afferrò la testa e cominciò a torcerla. Il collo cedette quasi subito e, rotolando giù dal cuscino, la testa andò a picchiare con un tonfo sul pavimento. Allora, in un'estrema convulsione, le sue cosce si serrarono attorno a lui, contratte nel rigor mortis. LA SEDUTTRICE Era la prima volta che la portava a casa sua. Sua madre era fuori quella sera, le disse, sorridendole con sguardo malizioso. «Qual è la tua stanza, Alastair?» gli domandò lei con impazienza. «Vediamo un po'...» Lui le urlò qualcosa; doveva averle detto di non entrare, ma ormai lei aveva già aperto la porta. Dopo alcuni istanti si avvicinò al comodino: voleva essere sicura di aver visto bene... Quando uscì lui cercò di fermarla, ma lei lo allontanò con uno spintone gridando: «Non mi toccare!» Lui la seguì per le strade deserte, immerse nella luce del crepuscolo. «Non è come sembra, Betty» continuava a ripeterle, tirandole timidamente la manica. «L'ho fatto soltanto perché ti volevo.» Lei gli scostò la mano con un colpo secco delle dita, come se si fosse trattato di un insetto. Peccato che non potesse tappargli la bocca e levarsi dagli orecchi quella sua voce lagnosa. «Non mi interessa!» urlò. «Non voglio averci niente a che fare con quel genere di cose!»
La sua voce rimbalzò contro i muri grigi delle case, restituendole un'eco smorzata. Non aveva mai visto le strade così deserte. Sperava che qualcuno si affacciasse alla porta per vedere che cos'erano quegli schiamazzi, ma nessuno esaudì il suo desiderio. «Vattene, altrimenti vado alla polizia!» gridò, ma lui la seguì supplicandola, fin davanti al commissariato. Quando uscì, dopo aver raccontato ad un agente di aver smarrito la strada di casa, Alastair era scomparso. Doveva essersela data a gambe non appena lei era entrata. Non avrebbe mai avuto il coraggio di aspettarla e in quel momento doveva essere già a casa, preoccupato a morte di quello che lei poteva aver detto alla polizia. Le strade erano ancora più buie adesso, eppure lei si sentiva stranamente sicura. Suo padre non le avrebbe mai permesso di camminare da sola per strade come quelle. Ma erano così tante le cose che suo padre non le avrebbe permesso di fare! Per fortuna era riuscita ad affrancarsi da lui e, quella sera, si era liberata anche di Alastair. Inspirò profondamente, assaporando il gusto di quella ritrovata libertà: si sentiva pronta ad affrontare nuove esperienze... la vita che lei e solo lei avrebbe scelto di vivere. Quando giunse in vista del suo appartamento, situato al pian terreno dell'ultima di una serie di case a schiera in stile georgiano, Betty sorrise. Le stanze vuote, gli spazi fra i poster che aveva appeso al muro, aspettavano di essere riempiti di nuove cose: proprio come lei. Il mattino seguente trovò un biglietto di Alastair. La busta, priva di francobollo, giaceva sul pavimento dell'ingresso su un vassoio di luce solare. Doveva strapparla senza aprirla? Ma no, ormai non era più legata a lui, anzi si sentiva così libera da poter leggere quello che le scriveva. Forse poteva aiutarla a capire. E uno scrittore aveva sempre bisogno di capire. Salì le scale spiegando il foglio. Le parole le ondeggiavano davanti agli occhi. A metà della rampa si fermò e spalancò la bocca. Quando entrò in casa rilesse la lettera: le solite frasi fatte, nient'altro. Era uno scherzo? Stava forse cercando di angosciarla o di farle venire i sensi di colpa? Immagino che tu abbia raccontato tutto alla polizia. Ma anche se non l'hai fatto non ha importanza. Nessuno mi aveva guardato con un disprezzo simile prima di te ieri sera, e non voglio che nessuno possa mai più guardarmi in quel modo. Quando tu leggerai questo mio biglietto io sarò già morto. Se proprio aveva deciso di farla star male poteva almeno inventarsi qualcosa di più originale! Betty scosse la testa e sospirò. Quella lettera
sembrava il primo tentativo di scrittura di un romanziere dilettante. Ma ciò non significava che non potesse essere vero. E se si fosse ucciso sul serio? Non poteva esserne sicura. Dopotutto, lo conosceva ben poco: lo aveva capito quando aveva aperto la porta della sua camera da letto. Sulle prime, quando aveva strizzato gli occhi per mettere a fuoco ciò che la circondava in quella stanzetta buia e piena di disordine, aveva creduto di vedere uno specchio sul comodino accanto al letto: era la sua immagine quella che la fissava dalla cornice. Ma non era uno specchio: era una sua fotografia, scattata a sua insaputa. Poi, addentrandosi nella stanza, aveva visto, uno dopo l'altro, strani simboli e diagrammi dipinti sul muro. Formule magiche. L'ignoto. Aveva sentito l'ignoto circondarla come un'ombra, intrappolandola com'era intrappolata nella foto: l'oscurità e le ambigue forme della stanza, la figura di Alastair che si stagliava nel vano della porta. Ma lei non si era lasciata intimorire e si era avvicinata al comodino. C'erano delle erbe sparpagliate tutt'intorno al suo ritratto e sopra vi era spalmato qualcosa. Qualcosa che puzzava. Con un colpo rabbioso della mano, Betty l'aveva scagliato sul pavimento dove il vetro era andato in mille frantumi. Alastair aveva urlato come un animale e, quando lei si era voltata a guardarlo, gli era sembrato di vederlo per la prima volta: capelli color fango, lunghi e di diverse misure, la pelle butterata, le spalle spioventi. Tutt'ad un tratto, sembrava invecchiato di dieci anni, o forse più. Che fosse riuscito ad accecarla in qualche modo? Quando aveva cercato di impedirle di uscire, lei lo aveva spinto da parte: non aveva più paura di lui né di quella sua stanza sinistra. «Non toccarmi!» Adesso aveva finalmente capito che tipo era. Ma ne era proprio sicura? Era in grado di giudicare se quella lettera era vera o falsa? Certo che lo era, se avesse voluto, ma la cosa non le interessava. Seppellì il biglietto sotto i suoi bloc-notes. Era ora che si mettesse a lavorare al suo nuovo libro. Ma non ci riusciva. Gli appunti che aveva preso non le dicevano più niente delle persone con le quali aveva parlato. Il vuoto della stanza la assediava, sottraendole le idee ancora prima che prendessero forma nella sua mente. Le restava soltanto una grande emozione, che faceva capolino dall'angolino della sua mente in cui l'aveva ricacciata. Doveva ammetterlo: era curiosa. Era possibile che Alastair si fosse suicidato sul serio? Per scoprirlo avrebbe dovuto fare un salto nei paraggi di casa sua. Ma forse era proprio questo che lui voleva. In ogni caso non avrebbe corso al-
cun rischio andandoci in pieno giorno. Ma che cosa le saltava in mente? Non poteva certo nuocerle, né di giorno né di notte! Nelle prime ore del pomeriggio la curiosità ebbe il sopravvento sulla sua apprensione. Alastair abitava in una casa a schiera del centro di Brichester, bagnata e asciugata dal sole di aprile. Betty si avventurò sul marciapiede opposto. Un ciclista procedeva balzelloni sull'acciottolato; un camioncino con il disegno di una bandiera americana sulla carrozzeria era fermo in fondo alla strada. Un quadrato di luce solare rimbalzò dalla villetta, facendo trasalire Betty. Ma un attimo dopo sorrise. Le tende delle finestre erano aperte. Alastair aveva inscenato un bluff. Del resto lei lo aveva saputo fin dall'inizio, sul serio. Stava per oltrepassare la casa - sarebbe stato stupido fare dietro-front proprio adesso, come se stesse fuggendo - quando la porta si aprì. Il respiro le morì in gola. Era come se avesse fatto scattare una trappola, che a sua volta aveva fatto aprire la porta dalla quale era spuntata fuori una figura. Ma non era Alastair. Era una donna alta, che doveva aver superato da poco la mezza età. Indossava un vestito di cotone a fiori, piatto sul seno. Scrutò nella sua direzione, poi le domandò: «Tu sei Betty, vero?» Betty era rimasta impietrita e non poté far altro che annuire. «Devi entrare un attimo a parlare con me» le disse la madre di Alastair. Betty si sentì irrigidire i muscoli dei piedi, puntati, come l'ago di una bussola, a metà strada fra la donna e la fuga. È si rese conto anche dello sforzo che avrebbe dovuto fare per fuggire. Ma perché sarebbe dovuta fuggire? Dopotutto, la madre di Alastair sembrava una persona gentile; andarsene via così sarebbe stato maleducato e non le veniva in mente nessuna scusa. «La prego» insistette la donna, sorridendole; nel suo sorriso e nei suoi occhi luminosi, Betty lesse una dolce supplica. «Venga a parlare con me.» Forse voleva che la aiutasse a capire il figlio. «Non posso trattenermi a lungo» disse Betty. Il portone di ingresso immetteva direttamente in un'ampia stanza, che la sera prima era immersa nella più completa oscurità, mentre adesso era illuminata da grandi rettangoli di sole. Alle pareti erano appesi vari utensili di ottone infocato; i vasetti pieni di erbe allineati sugli scaffali sembravano tubi di luce; quattro grandi contenitori occupavano gli angoli della stanza. Non c'era traccia di Alastair. Betty si sedette in una grande poltrona; i jeans le tiravano sulle ginocchia, come se volessero spronarla a rialzarsi. «Mi piacerebbe vivere in un
posto come questo» disse. Forse la madre di Alastair aveva intenzione di lasciarla parlare a ruota libera, perché si limitava ad annuire, e intanto armeggiava con un bollitore sulla griglia. Betty continuò a chiacchierare circondata dal silenzio. La donna preparò il tè e appoggiò la teiera su un tavolino fra le due poltrone. Continuò ad annuire e a sorridere dolcemente anche mentre Betty sorseggiava il tè; il suo viso squadrato, e sormontato da un grosso naso, sembrava affabile. Fu solo dopo averle riempito la tazza per la seconda volta, che si decise a parlare. «Perché l'hai fatto?» le domandò. Da alcuni minuti Betty si sentiva tesa e aveva cominciato a sorseggiare il tè più in fretta, perché quello le sembrava il solo modo di contraccambiare il sorriso gentile della sua ospite. Adesso si sentiva battere forte il cuore. «Fatto che cosa?» chiese a sua volta, con circospezione. Il sorriso della donna si fece più triste, più gentile. «Quello che hai fatto a mio figlio» rispose. Ma che cosa stava dicendo? Betty si sentì oppressa da un vago senso di colpa; si sentiva anche accaldata, benché la giornata fosse fresca. Stava per domandarle a che cosa alludesse quando la donna la prevenne. «Prima l'hai sedotto e poi lo hai lasciato.» Betty non aveva mai fatto l'amore con lui... ringraziando il Cielo, pensò con un brivido. «Ma le assicuro signora...» (si indispettì quando si rese conto di non conoscere il nome della donna) «... che io non l'ho affatto sedotto.» «Chiamalo come vuoi.» La madre di Alastair continuava a sorridere, ma i suoi occhi lampeggiavano. «Non ti ci è voluto molto per portartelo a letto» sibilò. Betty sentiva uno strano sapore in bocca; era come se avesse la lingua impastata. Bevve un altro sorso di tè per sciacquarsi la bocca e negare, ma ancora una volta la donna fu più svelta di lei. «Forse non ti sei resa conto di quanto fosse sensibile.» Poi sorrise mestamente, come se quella fosse la scusa migliore che potesse trovare per Betty. «Forse lei non sa quello che lui stava facendo» disse Betty. «Oh, penso di conoscere mio figlio.» Betty avvertiva uno strano tic alla base della lingua, un tic che la innervosiva e che la fece quasi urlare. «Ma lo sa che pratica la magia nera?» «Allora è questa la ragione. È questa la ragione per cui lo hai lasciato.» La donna la fissò con tristezza. «Soltanto per le cose in cui credeva. Io ero convinta che voi giovani non credeste nella persecuzione.»
«Io non ci credo, naturalmente» rispose Betty furibonda. «Ma è contro la vita. E lui se ne stava servendo per intrappolarmi.» La donna non la lasciò finire di parlare. «Il suo corpo ti andava bene, ma la sua mente no, è così? Allora io ti piacerò ancora meno. Avevo appena cominciato ad insegnargli quello che sapevo.» Stava sorridendo con aria trionfante e annuiva con la testa. «Stava appena imparando quella che un giorno sarebbe diventata la sua arte e solo per questo tu l'hai ucciso.» Betty sgranò gli occhi e spalancò la bocca; continuava a sentire in bocca lo strano sapore del tè. «Oh sì, è morto» disse la donna. «Ma tu lo vedrai ancora.» La tazza non voleva staccarsi dalla sua mano; era come se il manico si fosse attorcigliato attorno al suo dito e lo stringesse come un viticcio fatto di fragile osso. Betty tirò con forza. Appena riusciva a liberarsi, se ne sarebbe andata. Mentre la tazza le ruotava fra le mani, il mucchietto nero delle foglie di tè sembrò dimenarsi, sorriderle: assomigliava alla faccia bagnata di un uomo. Con uno strattone, Betty estrasse il dito e la tazzina andò ad infrangersi sul tavolino. Si alzò incerta sulle gambe, ma la donna era già balzata in piedi. «Vieni a vederlo adesso.» le disse. La stava trascinando verso la porta che dava sulle scale. La porta era socchiusa e oltre il battente si intravvedeva un locale immerso nell'oscurità. L'oscurità si dilatava, diventava sempre più nera: si protendeva verso di lei, voleva afferrarla, risucchiarla dentro di sé. E in quell'oscurità, disteso sul suo letto, o seduto con la schiena appoggiata alla scala, o sdraiato pronto ad amarla sul pavimento in fondo c'era... Dimenandosi con violenza, Betty si liberò dalla stretta della donna. Per un attimo, quando si accorse che la ragazza era ancora più forte di lei, la madre di Alastair la fissò con un lampo d'ira negli occhi. Betty riuscì a dirigersi verso il portone di ingresso, nonostante i muri della casa si inclinassero minacciosamente verso di lei come lente cascate bianche. Ma la porta continuava ad allontanarsi: per quanti sforzi lei facesse, regrediva sempre più rapidamente di quanto lei avanzasse e ogni volta che cercava di afferrarlo, il pomello le sfuggiva di mano. Sentiva dietro di sé i passi tranquilli della madre di Alastair, pronta a riagguantarla di nuovo, con quel suo sorriso gentile stampato sulle labbra. Poi, all'improvviso la porta le venne incontro, come se fosse stata sospinta da un cavallone marino; finalmente adesso riusciva a toccarla. Ma si stava rimpicciolendo. Il
pomello era enorme nella sua mano, ma la porta era diventata così piccola che non avrebbe potuto passarci in mezzo neppure chinandosi. Non era più grande di quella della gabbia di una voliera. A poco a poco il battente si aprì, lasciando filtrare la luce del sole. Quando riuscì a guadagnare il marciapiede e, incerta com'era sulle gambe, si voltò per aggrapparsi allo stipite, Betty vide che la donna era ancora ferma davanti alla porta delle scale. «Non importa» le gridò senza smettere di sorridere. «Lo vedrai presto.» Betty si allontanò dalla cornice del portone, che si stava nuovamente contraendo, minacciando di stritolarla. La strada le gettò in faccia la luce del sole; la porta le spinse le spalle verso il basso, verso Alastair. Alastair era sdraiato sul marciapiede, con la testa girata verso di lei e dalla bocca contratta in un ghigno immobile allungava la sua grossa lingua verso il suo viso. La porta la scagliò giù, scagliò la sua faccia sopra quella di lui. Non era ancora giorno pieno, erano soltanto le sei. Ma nella sua fuga precipitosa Betty si era svegliata e adesso, con il cuore in gola e gli occhi sbarrati nella penombra, stava cercando di liberarsi dal ricordo di quell'incubo, che nemmeno la corsa disperata le aveva permesso di lasciarsi alle spalle. La sua stanza vuota non le offriva alcuna difesa contro il ricordo. Dopo un po' si vestì e andò al parco, che sorgeva ad un paio di strade di distanza da casa sua. Il tè era drogato. Forse era ancora sotto l'effetto della droga perché si sentiva irreale e, più che camminare, le sembrava di scivolare, leggera come una piuma, per le strade che, a poco a poco, si rischiaravano. Ma non aveva importanza. Appena si fosse ristabilita del tutto, avrebbe cancellato per sempre il ricordo di Alastair e di sua madre dalla sua mente e sarebbe stata di nuovo libera. La foschia accorciava le strade, smussava i cancelli del parco e si protendeva sopra il lago come un fantasma di metallo. I colori degli alberi apparivano sbiaditi, le foglie dei sempreverdi invetriate; le piante più lontane sembravano nubi di fumo pietrificate. Betty si sentiva vulnerabile. La realtà sembrava volersi tenere a distanza, lasciandola alla mercé della sua immaginazione. Su una collinetta immersa nella nebbia un alberello si mosse. Stava venendo verso di lei: la sua sagoma sottile e scura ondeggiava leggermente mentre scendeva lungo il sentiero. Era alta e indistinta. Avanzava verso di lei senza fretta, come la madre di Alastair. Quando emerse dalla nebbia Betty vide che era un uomo. Trasse un re-
spiro di sollievo così profondo che l'aria umida le restò impigliata in gola. Quando l'uomo la raggiunse stava ancora tossendo. Lo sconosciuto si fermò mentre lei si raschiava la gola, alternando brevi scoppi di tosse che riusciva a far passare per risatine di scusa. «Tutto bene?» le domandò. Aveva la voce sottile, addolcita da una nota di apprensione; con il sorriso che gli illuminava il viso lungo e magro sembrava volerle infondere coraggio. «Sì gra» (colpo di tosse e sorriso) «zie.» «Mi scusi l'intrusione. Mi sembrava preoccupata.» Il tono della sua voce era cordiale senza essere confidenziale: rassicurante. Sembrava più preoccupata di quanto pensava di essere? «Ero solo assorta nei miei pensieri» rispose Betty, lambiccandosi il cervello alla ricerca di una scusa plausibile. «Sto scrivendo un romanzo.» Le procurava sempre un brivido di piacere dire così. Gli occhi dell'uomo si illuminarono. «Davvero scrive? E di che cosa parla nei suoi libri?» «Della gente. Mi interessano le persone.» Sì, nei suoi libri parlava della gente, e anche piuttosto bene stando a quanto sostenevano i critici che avevano recensito il suo primo romanzo. «Capisco. Anche a me interessano le persone.» In che senso? Ma se glielo chiedeva, quel breve scambio di battute si sarebbe trasformato in un'intervista, ed era proprio in quel modo che aveva conosciuto Alastair. Era andata in una discoteca, ricavata in una cantina, alla ricerca di una persona che valesse la pena intervistare in mezzo a quella massa di ragazzi e ragazze che si dimenavano come tanti ubriachi sotto una pioggia di lampi sotterranei. Lui aveva notato il suo sguardo indagatore e le si era avvicinato; le era sembrato affascinante allora. L'uomo, forse di una ventina d'anni più vecchio di lei e quindi all'incirca sui quarantacinque, le stava sorridendo. «Che cosa fa?» gli domandò con tono neutrale. «Oh ... cerco soprattutto di conoscere la gente.» Betty ne dedusse che fosse senza lavoro. Aveva scoperto che alcune delle persone più interessanti che aveva intervistato erano disoccupate. «Io sono qui a Brichester per parlare alla gente» disse. «Per il nuovo libro che sto scrivendo.» «Deve essere interessante. Conosco alcune persone con cui forse varrebbe la pena che lei parlasse» raccolse l'uomo. «Sono diverse dalla gente comune.» Ah sì? Ma il ricordo di Alastair e di sua madre era ancora troppo vivo
perché lei potesse fidarsi di lui. «Bene, la ringrazio» rispose. «Forse ci rivedremo, ma adesso devo andare.» Le parve di scorgere un lampo di dolore nei suoi occhi, come chi si sente rifiutato. Anche lui doveva essere un tipo vulnerabile. Poi lo sconosciuto le sorrise e alzò la mano in segno di addio; lei si avviò, si costrinse ad andarsene. Quando raggiunse il cancello si voltò. Lui era fermo dove lei l'aveva lasciato e la stava guardando. A pochi passi da lei un movimento improvviso attirò la sua attenzione: fra gli alberi, contro il luccichio muto dell'acqua increspata del lago... una figura scura che la scrutava? Strinse gli occhi, ma non vide nulla: doveva essere stato uno scherzo della luce. Mentre usciva dal parco, l'uomo la salutò brevemente con la mano. Sembrava piccolo e fragile e tanto solo adesso, su quel sentiero. Betty si rammaricò di non avergli chiesto come si chiamava. Come città, Brichester l'aveva profondamente delusa. Lo aveva scritto anche nel suo primo romanzo, Un anno vissuto in campagna. Aveva parlato dell'atteggiamento di aperto disprezzo e di riluttante compiacenza dei suoi abitanti nei confronti dei turisti; aveva descritto il modo in cui il degrado urbanistico e le nuove costruzioni stavano cancellando l'identità della città; aveva denunciato le frustrazioni dei giovani e delle persone di mezza età: i giovani che sfogavano nella violenza e nella droga la loro aspirazione di trasferirsi a Londra; gli uomini e le donne di mezza età, malinconici se non disperati, che avevano come unica ambizione quella di ampliare il proprio repertorio sessuale. Non aveva chiamato la città con il suo vero nome, ma i giornali locali l'avevano riconosciuta e avevano recensito il suo libro con stizzito malanimo. In ogni caso le loro critiche non avevano fatto che accrescere il suo senso di trionfo, perché la maggior parte delle recensioni erano state entusiaste. Tutto quello che aveva scritto di Brichester era vero almeno in parte: il resto l'aveva immaginato, perché aveva sempre vissuto a Camside. Forse, però, aveva sottovalutato la sua capacità immaginativa. Si era trasferita a Brichester per scrivere un secondo libro, un libro basato su osservazioni e interviste, in cui si proponeva di offrire un ritratto completo della città, colta nell'insieme dei suoi aspetti e dei suoi umori. Ma la realtà si stava dimostrando ancor meno interessante della versione romanzata: Brichester era un connubio di cliché e di aspettative frustrate. Non c'era da stupirsi che Alastair, con quel suo modo di fare che sembrava alludere ad un segreto da svelare, le fosse sembrato interessante.
Più conosceva la città e più la trovava spenta. Soprattutto i giovani l'avevano delusa: erano peggio che annoiati, erano noiosi. Trascorse il resto della giornata e quella successiva a raccogliere altre prove di quanto già sapeva. Frasi stereotipate che aveva sentito pronunciare decine di volte: se le sentiva ripetere ancora una volta soltanto avrebbe urlato. Si avviò verso casa mentre il cielo imbruniva. Ad un tratto si rese conto con rammarico che più che un'osservatrice esterna, lei era un'estranea in quella città. Non conosceva nessuno a Brichester. Ma non per questo avrebbe fatto i bagagli e sarebbe ritornata a Camside, da suo padre; avrebbe significato ammettere la sconfitta. Annuì con la testa, serrando le labbra per sentirsi più forte. Il cielo era piatto sopra i tetti delle case: il suo grigiore, uniforme e luminoso, sembrava quasi bianco. Quel suo aspetto vacuo le dava fastidio: sembrava uno specchio incapace di riflettere. Gli alberi che si curvavano sopra il marciapiede, i mattoni delle case apparivano inconsistenti, precari, irreali; anche il loro colore sembrava smorto. L'unica cosa reale che riuscisse a ricordare di quegli ultimi giorni era l'uomo del parco, ma anche lui era lontano adesso. Se solo quel mattino lei gli avesse parlato! Immersa in quei pensieri cupi, Betty imboccò un vicolo, che le permetteva di accorciare la strada. I muri che costeggiavano il viottolo, alti la metà di lei, la scortarono lungo il cammino. Erano sormontati da frammenti di vetro, opachi come il ghiaccio. Oltrepassò vecchie porte sbarrate di cui immaginò i cardini arrugginiti; poi si fece strada fra una doppia fila di bidoni della spazzatura, in parte scoperchiati. Il cielo imbronciato diffondeva tutt'intorno la sua luce biancastra. Ad un tratto Betty udì alcuni passi frettolosi alle sue spalle. Chiunque fosse, non poteva certo stringerla fra i bidoni per superarla. I passi riecheggiarono sempre più vicini. Betty accelerò a sua volta: voleva arrivare in fondo al viottolo prima che lui potesse raggiungerla, in modo da non essere costretta ad appiattirsi contro quei sudici bidoni per lasciarlo passare. Ma perché non si voltava a guardare? Non era stupido mettersi a correre come se stesse scappando? Lo scalpiccio cessò, lasciando il vuoto del silenzio alle sue spalle. Ecco, aveva spiccato un salto e stava per piombarle addosso. Era un'idea stupida, ma Betty si voltò di scatto. Il vicolo era deserto. Fissò i muri grigi. Non poteva aver svoltato da nessuna parte. E se qualcuna delle porte si fosse aperta lo avrebbe sentito. Che fosse balzato su un muro? Intrawide una figura accovacciata sopra di lei, che guardava giù...
no, non poteva essere saltato sopra i vetri. Quella luce morta e quel mondo precario sembravano innaturali. Un panico improvviso si impadronì di lei e Betty corse via. Superò la sua strada senza fermarsi. Probabilmente il palazzo era vuoto e il suo appartamento, situato al pian terreno, era il meno sicuro di tutti. Si precipitò al parco. L'uomo era là, sulla riva del lago. Quando lei si avvicinò si voltò a guardarla. Era preoccupato. A Betty parve di scorgere un accenno di dolore nei suoi occhi. Poi l'uomo lesse l'espressione sul suo viso e aggrottò la fronte. «C'è qualcosa che non va?» le domandò. Che cosa poteva dire? Soltanto «Mi sembrava che qualcuno mi stesse seguendo.» Lui si guardò intorno. «Sono ancora lì? Mi faccia vedere.» Betty avvertì la sua calma, la spontaneità delle sue intenzioni e si sentì subito rassicurata. «Oh, ormai se ne saranno andati» disse. «Sto bene, adesso.» «Lo spero.» Pronunciò quella frase come una promessa di giustizia e di forza. Il tono della sua voce le fece ricordare le qualità migliori di suo padre; subito dopo, però, ricacciò quel ricordo e disse: «Mi scusi se l'ho distolta dai suoi pensieri.» «Non si preoccupi, la prego. Ho un sacco di tempo per pensare.» Ma per un attimo l'oggetto dei suoi pensieri indugiò fra di loro, inespresso e vago: una sensazione di dolore, di rimpianto, forse di perdita. Come quando lei aveva salutato suo padre... Forse quell'uomo voleva restare solo. «La ringrazio di essersi preoccupato per me» disse Betty. Ma quando fece per andarsene ebbe l'impressione che l'uomo si sentisse respinto. Aveva provato la medesima sensazione quando aveva lasciato suo padre: ricordò il suo muto dolore, il senso di perdita che lo dilaniava, come se lei, andandosene, stesse tendendo la catena che li univa, fino a spezzarla. Pensò a quello che avrebbe fatto il giorno dopo: alle persone che avrebbe intervistato, identiche a quelle che aveva intervistato il giorno prima, alla storia del libro che stava scrivendo, che era costretta a spiegare giorno dopo giorno, fino a quando, prima o poi, le sarebbe suonata come una vecchia barzelletta; e poi, alla sera, il ritorno nella sua stanza vuota. «Ieri mi ha detto che potrebbe farmi conoscere alcune persone» gli disse. Si chiamava James; lei non cercò mai di chiamarlo Jimmy o Jim. Non aveva idea di dove abitasse. Si incontravano sempre a casa sua e da questo lei aveva dedotto che si vergognava del posto in cui viveva. Che la-
voro facesse, ammesso che lavorasse, restava un mistero. Betty sentiva spesso che soffriva: spasmi di dolore che lo trafiggevano nel profondo, e che lui si sforzava di celare. In quei momenti lei cercava di confortarlo senza fargli capire ciò che vedeva. Forse, un giorno, avrebbe scritto di lui, ma adesso non riusciva a prendere le distanze necessarie per osservarlo con obiettività; né voleva farlo. E la gente che conosceva! C'era il gruppo folk che cantava in più lingue di quante lei fosse in grado di riconoscere. Cantavano in un pub; il barista si univa a loro e durante gli intervalli le spiegava il significato delle canzoni, mentre le sue mani servivano abilmente le bibite. Poi c'era la comune (assomigliava senz'altro più a una comune che a qualsiasi altra cosa): sei giovani e un uomo più anziano, evidentemente un gruppo di fanatici conservatori delle tradizioni della regione, che abitavano in una casa del diciassettesimo secolo, dove si ostinavano a vivere secondo i costumi dell'epoca. E poi c'era un'artista che tutte le sere teneva lezioni di pittura, una donna terrificante, con gli occhi sempre accesi; tutti i suoi allievi dipingevano paesaggi che, se uno li fissava, cominciavano a vibrare e diventavano simboli mistici. A Betty piaceva frequentare quelle persone, anche la terribile pittrice. Si sentiva invulnerabile vicino a James, protetta da quella sua calma rassicurante. A volte si domandava se quegli incontri le sarebbero ritornati utili. Quando pensava al suo libro, si innervosiva e si sentiva frustrata: stava cambiando forma, non riusciva più a "sentirlo", le sfuggiva. Ma senza dubbio, la sua nuova forma le sarebbe stata presto chiara; per il momento preferiva evitare di toccarlo, come se fosse una ferita aperta nella sua mente. Per contro, godeva fino in fondo di quella meravigliosa atmosfera di tranquillità. Il sesso con James era un'esperienza di calma ancora più profonda. L'aveva scoperto la prima volta che lui aveva dovuto aiutarla a rilassarsi. L'aveva portata a un incontro del Movimento Britannico, tenuto da un tizio che sembrava uno scolaretto cocciuto e parlava per generalizzazioni e frasi fatte. La maggior parte delle domande venivano poste da alcuni membri del pubblico che, al termine della conferenza, si erano riuniti nel soggiorno di non so chi, dove Betty e James erano riusciti a convogliarli. Erano tutti sostenitori della supremazia della razza britannica. I più giovani le urlarono contro, quando lei criticò le loro idee; i più vecchi si limitarono a lanciare occhiate scaltre e sospettose al suo bloc-notes. La guardavano come si guarda un bambino maleducato. Non credeva nel suo paese? nella tradi-
zione? Non voleva far rivivere i valori di una volta? Alla fine, ammutolita dalla rabbia, Betty se ne andò. James la seguì. «Mi dispiace» disse. «Pensavo che valesse la pena farteli conoscere.» Lei annuì con le labbra serrate; non le importava se James non capiva che non ce l'aveva con lui. Anche quando furono a casa, Betty continuò a sentirsi tesa, come se un peso le gravasse sullo stomaco, impedendole di rilassarsi. Preparò il caffè, ma quando fece per versarlo, si scottò una mano e lasciò cadere la tazzina. «Merda! Merda! Merda!» urlò. Prese a calci la tazzina e ne calpestò i frammenti sotto i piedi. James le mise un braccio attorno alle spalle. Le accarezzò i capelli, le massaggiò la schiena. «Non ti far prendere dal nervoso» le disse. «Non mi va di vederti in questo stato.» Lei si rannicchiò contro il suo petto e, a poco a poco, il suo tremito si placò. Lui le accarezzò le reni, i glutei, le gambe; la sua mano scivolò verso l'alto, sollevandole la gonna. Poi, lentamente, dolcemente la scoprì. Betty si sentiva meravigliosamente al sicuro. Si aprì già bagnata. Lui spense la luce, mentre lei lo guidava verso il letto. Dopo un attimo lo sentì nudo accanto a sé: era caldo, dolce e la circondava con la sua serenità. A dire il vero sembrava fin troppo calmo, distaccato, come se fosse un osservatore esterno. Lo stava facendo soltanto per tranquillizzarla? Ma il suo pene era duro e pronto. Betty si dimenò con impazienza. Lui si tratteneva ancora. Sono pronta, sono pronta! lo implorò lei, boccheggiando, ma lui continuava ad accarezzarla per accrescere il suo piacere, fino a quando questo si trasformò quasi in agonia. Betty cercò di eccitarlo: il suo pene era salato, molto più di quello del suo primo ragazzo, l'unico (ci avrebbe giurato) che suo padre le avrebbe permesso di sposare. Finalmente James le sollevò le ginocchia e scivolò dentro di lei: grosso, possente, duro e liscio. Le crescenti vibrazioni del suo orgasmo si trasformarono in un attimo in ondate travolgenti. Tutto il suo corpo fremeva e boccheggiava incontrollabile. Non lo sentì afflosciarsi dentro di lei. Betty si abbandonò esausta sul materasso e lui la baciò sulla fronte. Un minuto dopo era già sola. Quella era l'unica cosa che non le piaceva: il modo in cui lui la lasciava, come se fosse sempre in ritardo per qualche appuntamento. Una volta o due gli aveva chiesto di restare, ma lui aveva scosso mestamente la testa. Forse doveva tornare a casa sua, per quanto povera fosse, per non essere costretto ad ammettere di vergognarsene. E lei aveva paura di supplicarlo,
temeva di fargli perdere quella sua meravigliosa calma. Ma a casa da sola, di notte, si sentiva a disagio. Era turbata da quello che aveva visto una sera. Era stato un sogno, naturalmente: una pallida sagoma delle dimensioni di una testa che la guardava attraverso le bande appena dischiuse della tenda. Per la verità la sagoma non c'era più quando, urlando di terrore era balzata a sedere sul letto. Ma dopo quella sera l'aveva rivista parecchie volte, e sempre poco prima di scivolare nel sonno: era un sogno impaziente, che la tormentava quando era ancora nel dormiveglia. Tuttavia, una volta, sedendosi di scatto sul letto, l'aveva vista: era una figura vaga, ma lei avrebbe giurato che stesse annuendo con la testa in direzione del suo letto. Insomma, era certa di aver visto qualcosa oltre i vetri della finestra: forse era un uccello, un pezzo di carta sollevato dal vento o il bagliore di un faro. O forse era stata un'allucinazione. Probabilmente era stato l'effetto postumo della droga. Pensava che si fosse esaurito dopo l'episodio dei passi nel vicolo, ma evidentemente in quella fase delicata che è il dormiveglia le giocava ancora qualche brutto scherzo; sul fatto che lo scalpiccio che aveva udito quella sera fosse frutto di un'allucinazione provocata dalla droga, non c'erano dubbi. Non poteva raccontare a James la storia di Alastair. Non sapeva da che parte cominciare. Quella reticenza da parte sua la aiutava ad accettare l'idea che anche lui avesse diritto a tenersi il suo segreto, se voleva, ma al tempo stesso la rendeva vulnerabile, come se una parte di lei rifiutasse la sicurezza che lui le offriva. Poi, un giorno, Betty capì che aveva finalmente l'occasione per confidarsi con lui e godere fino in fondo della protezione che la sua serenità le garantiva. Era sera e stavano facendo ritorno insieme al suo appartamento. Lui le aveva presentato un antiquario, che viveva in una serie di stanze che erano un labirinto di librerie e fungevano sia da casa che da negozio. Mentre passeggiavano, James le parlava di alcuni libri che stava cercando da anni. Li teneva tutti nella sua misteriosa casa? si domandò Betty. Si stavano avvicinando alla villetta in cui abitava la madre di Alastair. Betty si sforzò di restare calma. Era con James, non poteva accaderle nulla. Il cielo ribolliva lentamente, bianco e spesso, basso sopra i tetti delle case; era opprimente: costringeva verso l'asfalto grigio della strada il silenzio della sera, finché nell'aria riecheggiò soltanto lo scalpiccio dei loro passi, insistente e cadenzato come il ticchettio di un orologio implacabile; costringeva verso il basso anche la luce scialba e fioca dei lampioni. Le ca-
se erano interrotte dalle bocche nere dei vicoli dai quali, da un momento all'altro, poteva saltar fuori qualche sconosciuto. La schiera delle villette terminava all'improvviso. Un'inferriata conduceva ad un cancello aperto: fra le sbarre di ferro luccicavano ciuffi d'erba, contro i quali spiccava il bianco opaco di alcune lapidi e di una chiesa. All'improvviso Betty si rese conto che non era affatto sicura che Alastair non fosse morto. Ma in quel caso sarebbe stato sepolto lì, no? Qualsiasi fosse la verità, saperla sarebbe stato un sollievo. «Entriamo un attimo» disse. Il cielo imbrunì prima che lei riuscisse a trovare la tomba. Per giunta, lì in mezzo agli alberi era ancora più buio. Il marmo nuovo e liscio brillava fra le macchie d'ombra proiettate dai rami. Betty dovette inginocchiarsi per leggere l'iscrizione. Dopo alcuni istanti riuscì a decifrare ALASTAIR e la data del giorno in cui aveva ricevuto la sua lettera. «Chi era?» le domandò James quando si rialzò. Le sembrò di cogliere una nota di gelosia nella sua voce, un dolore segreto. «Oh nessuno» disse. «Ma per te doveva essere qualcuno.» Era ferito, lo percepiva chiaramente adesso. «Nessuno di cui valga la pena parlare» replicò Betty. «Non mi sarei mai interessata a lui se ti avessi conosciuto prima.» Lo abbracciò e insinuò la lingua fra le sue labbra. Lui le strinse con forza i glutei con una mano. Lei lo stava ancora baciando quando sentì che con l'altra stava armeggiando fra i loro due corpi. Liberò il pene: Betty riusciva appena a intravvederlo, un'ombra più scura e lucente nell'oscurità del cimitero. «Oh James, no!» balbettò con il respiro strozzato.. «Qualcuno potrebbe vederci!» «Non c'è nessuno. E poi è buio.» Non cercava più di celare il suo dolore. Si sentiva rifiutato, come se lei non lo volesse per paura di offendere Alastair. Gli affondò le unghie nelle spalle. Era confusa. Quando lui cominciò a sfilarle gli slip e ad accarezzarla, protestò solo in silenzio. Quando James la penetrò Betty picchiò la schiena contro il tronco di un albero. E più lui affondava dentro di lei e più Betty si tendeva, come colpita da un pugno. La sua mente sembrò frantumarsi in tanti pezzetti. Betty si disse che stava dimostrando a se stessa e a James di essersi finalmente liberata di Alastair; era come se stesse scrivendo un capitolo di un libro, un capitolo' assurdamente simbolico. Ma guardando il volto del suo compagno, si rese conto che lui era tran-
quillo, distaccato come sempre. Voleva che lui provasse qualcosa quella volta, che mettesse da parte la sua calma imperturbabile. Non capiva che si stava dando a lui? Si strinse al suo corpo e serrò con forza le cosce attorno ai suoi fianchi; sotto la gonna le sue natiche nude sfregavano contro la corteccia dell'albero. Ma non appena lei esplose nell'orgasmo e si abbandonò alle ondate di piacere che le percorrevano il corpo, lui la lasciò. Betty si distese sull'erba a riprendere fiato. I flash rossi che le palpebre serrate le avevano fatto divampare davanti agli occhi stavano lentamente svanendo. Sopra di lei una sagoma pallida, che la scrutava dal ramo di un albero, annuiva con ripetuti cenni della testa. Un uccello, soltanto un uccello. Ma prima che lei riuscisse a metterlo a fuoco, era già scomparso con un fruscio nell'oscurità. Doveva riuscire a soddisfarlo. Era diventato quello ormai il suo pensiero fisso e l'obiettivo che si proponeva di raggiungere ogni volta che si incontravano. Lei adorava la sua serenità, ma lui non poteva restare calmo anche quando facevano l'amore: in quel modo lei si sentiva rifiutata, osservata, anche se sapeva che non aveva senso pensarlo. Una volta era quasi convinta di essere riuscita a far breccia dentro di lui, ma poi fra di loro si era frapposto di nuovo quel suo segreto dolore, che gli impediva di lasciarsi andare. Aveva anche la vaga sensazione che non gli piacesse fare l'amore nel suo appartamento, come se lì gli mancasse qualcosa. Se solo si fosse deciso ad invitarla a casa sua! Dovunque e comunque fosse, a lei non importava. La sola cosa che desiderava era di sentire il suo orgasmo. Ironia della sorte, forse perché era troppo impegnata a pensare a James per preoccuparsene, a poco a poco il suo libro prendeva forma. E adesso che lo vedeva impostato nel modo giusto, ne era entusiasta: era una risposta al suo primo romanzo, un libro sulla natura di Brichester, sulla sua singolarità. Senza volerlo si ritrovò a pensare a suo padre. «Come puoi scrivere roba simile?» le aveva domandato. «Se proprio vuoi diventare famosa in questo modo...» Erano queste le parole con cui aveva accolto le recensioni della sua prima fatica. A quel punto avevano litigato; e lei era fuggita lontano dalla sua cattiveria, perché aveva capito che quella poteva essere una scusa per liberarsi di lui, di lui e del suo atteggiamento possessivo, del suo moralismo freddo e tetro, dei suoi tentativi di trasformarla in una sostituta di sua madre morta. E adesso stava contraddicendo il suo primo romanzo, stava ammettendo che quello che aveva scritto era falso. Rivide suo padre ad alcuni passi dalla finestra della sua camera da letto, da dove pensava che lei
non l'avrebbe visto, con la bocca aperta e gli occhi pieni di lacrime... Non doveva ripensare a quelle cose. James sarebbe arrivato da un momento all'altro. Sembrava che avesse esaurito il circolo degli amici e dei conoscenti a cui presentarla; adesso aveva cominciato a farle conoscere posti nuovi. Quel giorno la meta era una chiesa: la chiesa di San Giuseppe in Bosco. Salirono a piedi sulla Collina della Misericordia, tutta coltivata a terrazzi. Enormi macchie scure si srotolavano pigramente sopra il cielo. La chiesa sorgeva dietro la cima della collina, in mezzo agli alberi. Betty girò attorno alla costruzione prendendo appunti sul suo taccuino: tredicesimo secolo; alcune tracce dei Templari parzialmente cancellate; retaggi di epoca vittoriana nei vetri colorati alle finestre. La chiesa era immersa nel silenzio del bosco. Le foglie degli alberi erano dello stesso colore delle nubi e sventolavano nella loro stessa direzione, agitate dal vento. Sollevando lo sguardo Betty vide sopra di sé, un unico, lento movimento cupo. Nel silenzio vaghe ombre scure scivolarono sopra la chiesa, fondendosi le une nelle altre. Betty si affrettò verso l'ingresso dove James la stava aspettando. «Entriamo?» le propose l'uomo. All'interno regnavano un silenzio e un buio ancora maggiori. Benché piccola, la chiesa era spaziosa; il rumore dei loro passi riecheggiava secco e distinto fra i banchi deserti. Sagome scure ondeggiavano dietro i vetri delle finestre stuzzicando i volti colorati dei santi. Betty era davanti, ma camminava piano; non le piaceva allontanarsi troppo da James. Se gli stava vicino, però, sentiva che era eccitato, impaziente. Aveva in mente qualche sorpresa? Si voltò a guardarlo, ma il suo viso era imperturbabile, come sempre. Le loro voci rimbalzavano contro la pietra vuota. Betty era arrivata in fondo alla navata centrale e stava osservando l'arco che precedeva l'altare: un arco a sesto acuto, venato di crepe, ma saldo. Sulle pareti ad entrambi i lati dell'altare si aprivano due finestre ogivali: i vetri erano color dell'ambra e in ognuno era raffigurato un santo. Betty si sporse oltre la balaustrata per guardare meglio. All'improvviso sentì le mani di James sui fianchi. Poi una si spostò rapida sulle sue reni e l'altra cominciò a sollevarle la gonna. Finalmente Betty capì il motivo di quella sua strana eccitazione. Forse era quella la ragione per cui l'aveva condotta lì. «Non qui!» protestò. Le sue mani si bloccarono e rimasero ferme dov'erano. Betty lo guardò al di sopra della spalla. Per la prima volta lesse una nuda espressione di dolore nei suoi occhi. Aveva bisogno di fare l'amore con lei lì, era quella la
richiesta muta del suo sguardo. Finalmente era riuscito a farglielo capire e lei si rifiutava, si rifiutava di soddisfare il suo desiderio. «Oh James!» esclamò incapace di celare la sua tristezza e il suo imbarazzo. Una parte di lei implorava: ovunque ma non qui. Ma quello era quello che avrebbe pensato suo padre. I suoi moralismi l'avevano fatta allontanare dalla religione molti anni prima. Se James aveva bisogno di farlo lì, era una cosa naturale, faceva parte della vita. Nessuno li avrebbe visti, nessuno sarebbe venuto in chiesa in un giorno come quello. Distolse lo sguardo dai suoi occhi e rilassò i muscoli. Poi chiuse gli occhi e si aggrappò alla balaustrata. Sentì le sue mani scoprirle i glutei; l'aria fredda della chiesa li accarezzò. Adesso li stava allargando; il suo sfintere si contrasse nervosamente. Perché non la faceva voltare? Che cosa stava... James le divaricò al massimo le natiche e un secondo dopo fu dentro di lei, enorme e duro. Nessuno le aveva mai fatto una cosa simile prima. Il suo grido indignato, esplosione di un groviglio di emozioni che non riusciva ad afferrare, rimbalzò contro le pareti della chiesa come un uccello in trappola. Andava tutto bene. Finalmente aveva raggiunto il suo scopo. Anche quella era un'esperienza e forse un giorno ne avrebbe parlato nei suoi libri, avrebbe descritto quello che aveva provato. Si sforzò di soffocare il suo respiro affannoso: la chiesa non doveva sentire. Dio, ma ne avrebbe avuto bisogno tutte le volte? Lo sentiva affondare dentro di lei; i rumori del suo corpo stridevano in quel silenzio. Dall'altare ombre nere si abbatterono su di lei: la chiesa si stava accigliando, la stava fissando enorme e cupa. Ma c'era qualcuno dietro i vetri della finestra alla sinistra dell'altare... qualcuno che la stava guardando! No, era solo il vetro colorato. Eppure la figura del santo sembrava più piena, quasi solida, come se qualcuno vi si fosse sovrapposto. Qualcuno che premeva contro il vetro, confuso e mosso come le ombre, e che la fissava con il volto del santo. Betty aguzzò la vista e il vetro si rischiarò all'istante, ma con un grido strozzato lei gettò le mani all'indietro, spinse James fuori dal suo corpo e serrò i glutei. Si precipitò lungo la navata, singhiozzando senza lacrime. Quando sentì James che la inseguiva, si mise a correre più forte; non avrebbe saputo che cosa dirgli. Uscì dalla chiesa con passo malfermo. Da che parte erano venuti? Con uno scricchiolio l'oscurità si chinò gigantesca su di lei; ombre informi si riversarono sull'erba, spesse e lente. Era quello lì il viale, o quello là in fondo? La porta della chiesa si aprì alle sue spalle e lei si lanciò in
mezzo agli alberi. La tenebra l'accolse con un'enorme, fragorosa risata. I rami degli alberi si chiusero neri sopra la sua testa. Non si raccapezzava più. Grandi pilastri scuri la circondavano promettendo vie d'uscita che si inseguivano all'infinito, soltanto per trascinarla verso il cuore di quella tenebra rombante: gli archi che si intrecciavano sopra la sua testa ondeggiavano, sferzando impetuosamente l'aria della notte. C'era qualcuno che la inseguiva, rapido e vago. Non era sicura che fosse James. Più avanti le piante si diradavano. Quel varco conduceva ad un'altra tenebra, che aveva quantomeno l'aspetto confortante di un viale. Betty si precipitò fuori dal bosco. Le foglie degli alberi sibilavano lungo entrambi i lati del viale, la tenebra si abbatteva impetuosa sopra l'erba, ma la strada davanti a lei era libera. Betty si mise a correre ancora più forte; lo sforzo e la paura le toglievano il fiato. In fondo al viale non c'era nulla, soltanto cielo; doveva essere arrivata in cima alla Collina della Misericordia. Il viale era largo e vuoto, ad eccezione di un punto proprio al centro, dove cresceva un alberello sottile e indistinto. Fra le nubi in tumulto si aprì uno spiraglio e una luce grigia si riversò tutt'intorno. Betty stava correndo a rotta di collo verso l'alberello... che non era affatto un alberello: era un'orribile figura alta e sottile che, annuendo nella sua direzione, protendeva le braccia verso di lei. Betty urlò e si buttò di lato, verso il bosco. Inciampò in una radice e cadde. Appena raggiunsero il suo appartamento, James se ne andò. Quando si era ripresa dallo spavento della caduta, Betty aveva visto il suo volto chino su di lei. L'aveva aiutata a rialzarsi, poi, senza dire una parola, l'aveva guidata attraverso quella tenebra tumultuosa. Quel suo silenzio era un tacito rimprovero per la sua fuga. James la lasciò al cancello. «Non andartene adesso» lo implorò Betty, ma lui si stava già allontanando a lunghi passi nell'oscurità. Si stava comportando come un bambino. Non capiva perché era fuggita? La maggior parte delle donne non gli avrebbe mai permesso di fare quello che le aveva fatto. Si era sempre sforzata di capirlo e adesso, quando per la prima volta era lei ad aver bisogno di comprensione, lui non faceva neanche un minimo tentativo di venirle incontro. Sbatté con rabbia il portone. Che continuasse a comportarsi come un bambino, se gli aggradava. Ma la rabbia non impedì al terrore di attanagliarla non appena varcò la soglia del suo appartamento. Si precipitò a controllare che tutte le finestre fossero
chiuse. Trascorsero diversi giorni. Betty cercava di concentrarsi sul suo lavoro, ma il pensiero della notte la distraeva: di notte il suo appartamento le faceva paura, immerso com'era in quel silenzio paziente e beffardo. Si trascinò dall'uno all'altro dei giovani che aveva intervistato. Ma loro sapevano che era una scrittrice e, o la spedivano dai loro amici o le raccontavano storie. Erano piacevolmente noiosi. Ogni tanto qualche ragazzo la invitava a casa sua, ma lei rifiutava, anche se spesso, alla sera quando si coricava, le capitava di vedere strani movimenti davanti alle sue finestre. E se si alzava a chiudere bene le tende, quelle ombre si muovevano come se fossero all'interno della stanza. Tutte le mattine andava al parco. Stormi d'anatre salutavano il suo arrivo con strida rauche, prima di tuffarsi nelle acque del lago per le abluzioni mattutine. Gli alberi risplendevano di luce rosa o bianca. Non c'era mai nessuno in giro: non c'era mai James. Una notte, sulla parete della sua camera da letto comparve un'ombra. Betty rimase immobile a fissarla. Era più alta del soffitto, cosicché la testa si piegava in due al limite della parete. I contorni della figura tremavano e mutavano, come se fosse fatta di vapore. Era soltanto un uomo, un signore che aspettava qualcuno sul marciapiede sotto il lampione. L'ombra rimpicciolì e cessò di essere un gigante minaccioso. Poi, d'un tratto, Betty si rese conto che il fatto che l'ombra fosse rimpicciolita significava che l'uomo si era avvicinato alla finestra... Adesso stava sbirciando dentro, con quella sua testa che sembrava ancora stranamente piegata... Tremando, Betty affondò la testa nel cuscino e le sembrò di restare lì per ore prima di trovare il coraggio di lanciare un'occhiata alla finestra: l'ombra se n'era andata. Il giorno dopo James era al parco. Betty lo vide non appena varcò il cancello. Era sulla riva del lago e la sua figura slanciata si stagliava contro la luce accecante del sole. Sbatté le palpebre; gli occhi le bruciavano per le lunghe notti trascorse insonni. Gli si avvicinò di soppiatto, come un cacciatore. Non doveva sfuggirle di nuovo. No, era stupido. Non avrebbe apprezzato che lei gli facesse uno scherzo simile. Riprese a camminare normalmente; i tacchi delle sue scarpe scricchiolarono sulla ghiaia. Ma James continuò a fissare i riflessi del sole sull'acqua, al punto che Betty si domandò se stesse facendo apposta a non accorgersi di lei. Fu solo quando gli fu così vicina da poterlo toccare che lui si voltò.
Il suo viso era pieno di cose non dette: il ricordo o l'attesa del dolore. «Mi dispiace» disse Betty, pur non avendo avuto alcuna intenzione di essere franca. «Ti prego, ritorna.» Dopo un po', quando il suo volto riacquistò l'abituale espressione distesa, lui annuì. «Verrò da te questa sera» disse. «Vuoi che resti?» «Se vuoi.» Non voleva scoraggiarlo sembrandogli troppo ansiosa. Ma all'improvviso rivide l'ombra nella stanza. «Sì, ti prego, resta.» Lui la fissò; dubitava che lei lo volesse veramente, pensò Betty guardandolo negli occhi. Ma non doveva avere dubbi a quel riguardo. Gli avrebbe detto tutto di Alastair. «Ti devo raccontare alcune cose di cui ancora non ti ho parlato» riprese. «Ti dirò tutto questa sera. Così, poi, mi capirai meglio.» Lui le sorrise debolmente. «Anch'io ti devo dire qualcosa.» Dopodiché si incamminò costeggiando il lago. «A stasera, allora.» Betty corse a casa sorridendo. Finalmente poteva osare sperare che la loro diventasse una storia vera, non una relazione a metà. Avrebbero mangiato sempre insieme e lei avrebbe cucinato per lui, anziché pagare con discrezione al ristorante. E finalmente avrebbe potuto riprendere a lavorare senza interrompersi cento volte per domandarsi quando l'avrebbe rivisto. Con lui vicino si sarebbe sentita sicura. Attraversò il parco quasi volando. Per prima cosa, appena ritornata a casa, decise di rassettare l'appartamento. Com'era possibile che avesse lasciato accumulare tutto quel disordine! Un poster con la piantina ottocentesca di Brichester mezzo staccato, romanzi di Capote e di D.H. Lawrence letti a metà e appoggiati di traverso sugli scaffali della libreria; appunti del suo libro disseminati qua e là come fossero carta straccia. E tutta quella corrispondenza da sbrigare! C'era una lettera del suo editore il quale la informava che l'edizione paperback del suo primo libro era andata in ristampa; poi una comunicazione dell'azienda telefonica che si scusava del ritardo con cui le avrebbero allacciato il telefono: le seccava enormemente il fatto di non poter telefonare ai suoi amici di Camside... per invitarli a conoscere James, pensò. Il dépliant pubblicitario di una scuola guida che offriva la prima lezione gratis: se solo si fosse decisa ad imparare a guidare, sarebbe potuta andare a trovare i suoi amici senza essere legata agli orari degli autobus. Quando finì di riordinare era esausta. La mancanza di sonno cominciava a farsi sentire. Controllò che la porta e le finestre fossero ben chiuse, poi sorrise: da quella sera non avrebbe più avuto bisogno di farlo, perché avrebbe fatto in modo che James rimanesse a vivere con lei per sempre.
Confortata da quel pensiero, si distese sul divano a riposare. Si svegliò. La stanza era immersa nella tenebra. Ma era una tenebra che si muoveva. Una tenebra con un corpo e una testa che camminava rasente al muro e che, passo dopo passo, diventava sempre più piccola. Si stava avvicinando... Il soffitto imponeva alla testa un'angolatura che avrebbe rotto il collo di un uomo. L'ombra scivolò giù dal soffitto, ma la testa rimase piegata in un modo... inverosimile! Nel momento in cui Betty se ne rese conto, l'ombra scomparve. All'improvviso ebbe la sensazione che l'uomo fosse sdraiato accanto a lei. Ma era come se il suo corpo fosse bloccato e doveva fare uno sforzo enorme per voltarsi a guardare. Ma lui non aveva fretta: era lì che la aspettava. Quando finalmente Betty riuscì a girarsi, la faccia rotolò verso di lei sopra il corpo emaciato, come una maschera beffarda, con la lingua spessa che stava quasi per staccarsi: era la faccia di Alastair. Betty si svegliò boccheggiando. La stanza era immersa nell'oscurità. Corse alla cieca verso la porta e accese la luce. Non c'era nessuno nella stanza, e nessuno nemmeno fuori dalla finestra. La notte era calata già da molte ore; erano le undici passate. James doveva essere venuto ed essersene andato senza far rumore. Ma sarebbe tornato senz'altro. Oppure no? E se avesse pensato che aveva cambiato idea, che forse c'era davvero una nota di dubbio nella sua voce quando gli aveva chiesto di restare? E se l'avesse interpretato come un rifiuto definitivo? Betty si guardò allo specchio, distratta. Doveva aspettarlo fuori; in quel modo avrebbe capito che lei lo voleva. Se fosse tornato indietro, non sarebbe dovuto arrivare nemmeno fino alla porta. Si spazzolò con rabbia i capelli. Nel riflesso della stanza passò un'ombra. Si voltò di scatto. Qualcosa di scuro si era mosso nello specchio. All'improvviso si sentì vulnerabile, disorientata da quella tenebra calata di soppiatto, intrappolata in una dimensione irreale. L'ombra passò di nuovo, trascinando dietro la testa piegata contro il soffitto. Betty si precipitò alla finestra: la strada era deserta. La luce del lampione era accesa. Non poteva uscire... non fino a quando non fosse riuscita a scoprire chi stesse proiettando quell'ombra. Fissò il marciapiede grigio e la pozza di luce fioca e stagnante. Stava ancora guardando fuori dalla finestra quando qualcosa di scuro si mosse nella stanza alle sue spalle. Betty si girò con la rapidità di un fulmine, soffocando un grido. L'ombra stava scomparendo oltre il limite della parete. Dopo pochi istanti ritornò,
più piccola questa volta, ma più rapida. Eppure, tutte le volte che lei si voltava a guardare la strada era deserta. L'ombra passò di nuovo, inquieta, impaziente; ogni volta era più piccola e più intensa: adesso i suoi contorni vibravano. Betty continuava a spostare freneticamente lo sguardo dalla parete alla finestra e viceversa. L'ombra era poco più grande di un uomo adesso e da un momento all'altro l'avrebbe raggiunta. Poi, all'improvviso, con un movimento deciso, scomparve dal muro. In quel momento il suo campanello suonò, come impazzito. All'urlo del campanello fece eco quello stridulo della ragazza. Per un attimo rimase paralizzata, poi si lanciò di corsa nell'atrio. Doveva essere James, o qualcun altro, non certo l'ombra. L'atrio rimbombava sotto i suoi piedi; le scale giganteggiavano alle sue spalle, immerse di tenebra. Betty raggiunse il portone e accese la luce. L'atrio balzò all'indietro, nudo, lasciandola sola. Levò il chiavistello. Avrebbe pagato oro perché ci fosse una catena. Aprì il portone il minimo necessario per sbirciare fuori, incuneando al tempo stesso il piede sotto il battente. Era James. «Oh, sia ringraziato il Cielo. Entra, presto.» Dietro di lui la strada era deserta. Lo tirò per la manica e si affrettò a richiudere il portone alle sue spalle. Fu solo quando entrarono nel suo appartamento e lei chiuse a chiave la porta, che si accorse che non aveva bagagli: soltanto una grande borsa. «Hai deciso di fermarti, non è così?» lo implorò. Sembrava troppo ansiosa? James era calmo, come sempre. «Sì, penso di sì» disse dopo alcuni istanti. «Per un po'.» Non solo per un po', lo supplicò Betty. Lanciò un'occhiata ansiosa alla parete vuota. Avrebbe visto l'ombra, se fosse ritornata, oppure la vedeva solo lei per colpa di quella maledetta droga? «Devo dirti una cosa» esordì. «Voglio che tu sappia.» «Non adesso.» Aveva aperto la borsa; ne estrasse quattro pezzi di corda lucida. «Spogliati e sdraiati sul letto.» La sua calma sembrava freddezza adesso. Betty non voleva essere legata: si sarebbe sentita come una vittima e in quel modo non avrebbe mai potuto sentirsi vicina a lui. Aveva paura ad essere legata quando l'ombra era così vicina. Ma c'era James, l'avrebbe protetta lui. E poi, se lo respingeva ancora una volta, rischiava di perderlo per sempre. Si spogliò contro voglia e si sdraiò sul letto. Per lo meno le corde non erano ruvide. Ma James la legò saldamente con le gambe e le braccia divaricate. Betty si sentiva insicura, vulnerabile. Ma
non aveva il coraggio di protestare; se lui se ne andava, sarebbe ritornata l'ombra. Chiuse gli occhi e cercò di calmarsi. Lui si spogliò e si chinò su di lei. Le sue guance lisce le accarezzarono l'interno delle cosce. La sua lingua si fece strada nel suo sesso, dura come un dito. Era ruvida e, con guizzi improvvisi si spingeva sempre più dentro di lei. Poi lui la penetrò, affondando con impeto il pene nel suo corpo. Betty serrò le dita, cercando invano di allungare le mani legate verso la sua schiena. Si sentiva una vittima impotente. Sopra di lei, il volto di James fissava la finestra, immobile, quasi indossasse una maschera. Dietro la sua testa c'era la parete bianca. Betty si contorceva sul letto, umiliata, frustrata; le spinte di James la strattonavano, senza che lei potesse fare nulla. Abbassò gli occhi e si vide come lui dove vederla: alla mercé del suo membro. Poi, all'improvviso, accadde un fatto inspiegabile: i suoi genitali cominciarono a rispondere alle spinte del pene, a fremere, trascinandola verso l'orgasmo. In fondo, andava tutto bene. Riusciva a godere anche lei. Chiuse gli occhi e, a poco a poco, cominciò a sentire il piacere delle corde che le stringevano i polsi e le caviglie. Fuori alcune persone stavano tornando a casa, dopo aver trascorso la serata al club o al pub; il rumore dei loro passi e delle loro voci era rassicurante, teneva lontana l'ombra. Il suo corpo si tese. Stava per venire, c'era quasi... e all'improvviso lui uscì. Scese dal letto e si mise a frugare nella borsa. «Che cosa c'è che non va?» gli domandò stupita. James stava fissando l'angolo più scuro della stanza, oltre lo specchio della finestra. Betty vide qualcosa muoversi, ma non lì: sul muro di fronte alla finestra... Un'ombra che avanzava rapida, diventando ad ogni istante più piccola e più scura. Allungò le mani al di sopra dei lacci e riuscì ad indicarla con un dito, urlando «James!» Lui si voltò rapidamente. Tirò fuori una mano dalla borsa e, prima che lei potesse reagire, con l'altra le sollevò abilmente la testa. Poi le mise un fazzoletto in bocca e glielo legò dietro la testa. In quel momento, Betty sentì svanire tutta la sua calma: la sua impazienza la colpì come un'esplosione, lasciandola stremata e tremante. La sua voce crebbe, crebbe oltre ogni limite. «Non James» disse allegramente. «Signora James.» Quando Betty si abbandonò sbigottita sul materasso, il volto si chinò su di lei, costringendola a guardare ciò che si rifiutava di vedere. Era la madre di Alastair, che le sorrideva con aria trionfante. La donna si passò una mano sul viso e, come se quel gesto avesse il potere di mutarne ogni tratto,
era di nuovo James: il viso allungato di lui cancellò quello quadrato di lei, il naso piccolo e carnoso della donna si trasformò all'improvviso in uno lungo e sottile. Poi la donna si passò di nuovo la mano sulla faccia e ritornò se stessa, come se avesse cambiato maschera. La maschera sorrise. Sotto la maschera e il busto senza seno, il pene era ancora eretto. La signora James lo tirò. Rabbrividendo, Betty si ritrasse quanto più poteva, ma la donna non si stava masturbando: staccò l'organo e lo lasciò cadere sul pavimento. Betty sentì il rumore della gomma contro il legno del pavimento. «Sì, era tutto finto» disse la madre di Alastair allegramente. «Adesso sai che cosa si prova quando qualcuno usa il tuo corpo. Adesso cominci a capire quello che ha provato mio figlio.» Betty cercò di urlare, ma la voce le restò intrappolata in gola, amara come la bile. Il muro era pieno di ombre, adesso: i dodici presero ciascuno il proprio posto, completando il fregio ininterrotto di volti scuri e muti. Betty indietreggiò più che poteva sul materasso, con gli occhi che le pulsavano nelle orbite e il bavaglio che soffocava le sue grida. La signora James le avvicinò uno specchio al viso, affinché potesse vedere chi c'era alla finestra. Betty li riconobbe tutti: un membro del gruppo folk, il barista, il rappresentante più anziano della comune, la pittrice, due sostenitori della supremazia britannica, l'antiquario e altre persone che le erano state presentate. I loro occhi fiammeggiavano ed esprimevano tutta la loro impazienza. La signora James sorrise e, piano piano, come una brezza sonora che lambisse la finestra, i dodici intonarono un canto. «Avresti potuto avere il meglio di mio figlio» riprese la donna. «Lui era un novizio. Ma adesso vedrai di che cosa sono capace.» Anche lei si unì al canto e il sussurro si insinuò nella stanza, insidioso come un'esalazione venefica. Betty giaceva tremante sul materasso con il viso abbandonato contro il cuscino. Non lottava più e il bavaglio le pendeva floscio fra le labbra. Le dodici ombre la fissavano cantando sottovoce. Ma alle spalle della signora James, nell'angolo più buio della stanza, c'era qualcosa che era più di un'ombra: un accenno di figura, sottile e pallida come una voluta di fumo. Dall'angolo proveniva un suono simile a un arrancare strascinato d'ossa. La signora James fece cenno alla figura di avvicinarsi. La sagoma azzardò alcuni timidi passi avanti, la testa ciondoloni. Era circondata da un alone ghiacciato, che attanagliò Betty. Quando la donna si voltò di nuovo verso il letto, senza mai smettere di spronare il fantasma, Betty vide il suo sorriso. C'era più che giustizia in quel sorriso: c'era orgoglio.
CRISTALLI VERDI Quando Ray uscì dal portone sentì che qualcuno si stava avvicinando. Prima che avesse il tempo di rifugiarsi nell'atrio del palazzo, dalla strada laterale un'ombra si riversò sul marciapiede. La seguì la figura che la proiettava: un uomo grande e grosso che avanzava con passo pesante e rapido. Poiché la sua ombra si srotolava davanti a lui, poi si contraeva sotto il suo corpo e infine si srotolava di nuovo, sembrava che fosse lei a portarlo. Era assai più corpulento di Ray, che si sentì rimpicciolire, sopraffatto dalla paura. L'uomo sapeva che lui era in trip. Quando raggiunse il cancello, lo sconosciuto gli lanciò un'occhiata piena di sospetto. Sotto la luce del lampione la sua pelle appariva di un rosa innaturale, come quella di un neonato immerso per sbaglio in una vasca d'acqua bollente; mentre camminava le sue guance tremolavano come se fossero fatte di gelatina. Non era che un ammasso di carne ballonzolante trattenuta da un sottile involucro di pelle. Aggrottò la fronte in segno di disapprovazione, poi si allontanò, trascinandosi dietro la sua coda d'ombra. In realtà non poteva sapere che lui era in trip, si disse Ray. Quella era paranoia pura. Aveva avuto un'esperienza identica con l'acido. Ciò nonostante, attraversò la strada deserta quasi di corsa. Se un piedipiatti l'avesse fermato per domandargli che cosa facesse in giro a quell'ora... era sicuro che dal suo modo di parlare avrebbe capito tutto. La luce dei lampioni si affievolì alle sue spalle. Quando raggiunse il parco rallentò. Dietro di lui torreggiava un enorme condominio. Il cielo era imbottito di nuvole, fra le quali appariva, a tratti, il disco affilato della luna piena. Un viale alberato si perdeva nelle misteriose profondità del parco. Ai due lati del viale luccicavano prati di erba nera. Ray si incamminò sotto gli alberi. L'ombra delle piante si richiudeva sopra di lui come un'imposta, con la stessa regolarità del meccanismo di una macchina fotografica sonnolenta. Di tanto in tanto Ray riemergeva alla luce limpida e pura della luna. L'aria immobile di quel mattino di settembre era tiepida. Il suo "viaggio" stava per finire; per il momento, però, continuava ad agitare un poco gli alberi per lui, arruffandone le foglie a formare sottili giochi di forme. Ray continuò a camminare, rilassato, senza fretta. Arrivò in un giardino di pietra, dal quale, svolgendosi lentamente come strisce di mercurio luminoso, si dipartivano alcuni viottoli. Al centro era
collocata una statua di Peter Pan. Ray ne accarezzò il corpo, che sapeva di fresco e di pulito. Attorno a lui, nella luce gelida, il mondo sembrava perfetto. Si avviò verso il punto in cui il lago si ampliava. Il cielo era più limpido adesso, interrotto soltanto qua e là da nubi che assomigliavano a ciuffi di schiuma ghiacciata, o a corolle di fiori imbutiformi fatte di lucente porcellana bianca. Se le nuvole si muovevano, il loro movimento era impercettibile. Tutto era immobile: la luna era un cerchio luminoso e senza macchia, affilato come un rasoio. Ray avanzò in mezzo a quell'immobilità con passo così leggero da non udirne nemmeno il rumore. Nel punto in cui il lago si allargava, un pipistrello volteggiava a caccia di insetti; Ray riusciva a percepire ogni battito d'ali di quello scampolo di tenebra sbrindellato che volava in rapidi cerchi. Alcune anatre procedevano a scatti lungo la riva del lago; un esemplare solitario, spaventato dal suo arrivo, si tuffò maldestramente in acqua, increspando la superficie piatta del lago e frantumando i riflessi della luce e delle nuvole. Ray osservò gli scarabocchi della luce sullo specchio corrugato. La luce formava sequenze di simboli che mutavano in continuazione. Era quasi capace di interpretarli. Ma mentre li osservava, cercando di aprire la sua mente al loro significato, gli scarabocchi si placarono e ritornarono luce e nubi riflesse. Era quello il loro significato: ma che cosa voleva dire? Quel nuovo picco del "viaggio" lo aveva preso alla sprovvista. Stava per condurlo di nuovo in un regno sconosciuto? Attese con impazienza. Dal lago, fermo e lucente, gli giunse un rumore, simile ad un sospiro. Proveniva da un capanno che sorgeva sulla sponda opposta. Scrutò la distesa d'acqua. Per qualche strano motivo quel suono prometteva la risoluzione verso la quale quel "viaggio" lo aveva condotto fin dall'inizio. La terra e il lago erano immobili, raggelati dalla luce della luna. Ray ritornò indietro fino al punto in cui un sentiero fatto di sassi permetteva di guadare il lago. Il capanno era privo di porta e di vetri. Pennellate di vernice risplendevano bianche sul legno annerito dalla luna, la cui superficie ricordava la corteccia di un albero morto e ricoperto di muffa. Adesso Ray non aveva più dubbi: quei sospiri erano di una donna. Si avvicinò al buco scuro di una finestra e sbirciò all'interno. Nel sentiero di luce tracciato dalla luna attraverso il vano della porta, giaceva una donna, sdraiata su un cappotto buttato sulle assi di legno. A-
veva le gambe divaricate e sollevava e abbassava ritmicamente le ginocchia. Inginocchiato accanto a lei, con le spalle rivolte a Ray, c'era un uomo: era nudo dalla cintola in giù e con una mano la accarezzava sotto la lunga gonna, mentre le sue labbra si muovevano sul suo seno attraverso l'apertura della camicetta. Il resto dei loro indumenti giaceva aggrovigliato poco lontano. Ray li osservò. I vestiti della coppia erano neri sotto i raggi della luna, mentre i loro corpi emanavano una luce bianchissima. Sembrava che stessero recitando una scena per lui su un palcoscenico fatto di luce. Quando i loro corpi luminescenti cominciarono a muoversi più velocemente, gli sembrarono due statue animate: era quasi come se le sue sculture avessero preso vita. Gli ansiti della donna si fecero più rapidi e frequenti; la lingua le guizzava fra le labbra che si dilatavano. I suoi capelli biondo-cenere ondeggiavano leggermente come la luce della luna sul lago. Le sue ginocchia si sollevavano sempre di più, facendo lentamente scivolare la gonna nera e scoprendo le gambe. Erano divaricate e di un candore smagliante, che contrastava con i ricci neri del pube. L'uomo si inginocchiò sopra di lei e la mazza marmorea del suo pene affondò nell'ombra. Mentre Ray guardava le prime lente spinte dell'uomo, al quale la donna si era avvinghiata, il sentiero e il lago alle sue spalle svanirono. Esisteva soltanto l'opera messa in scena su quel palcoscenico di luce lunare. Provava le stesse sensazioni degli attori. Era più che immaginazione. Il senso di separazione che aveva provato all'inizio si era dissolto come il resto del mondo. Sentiva la vagina morbida che lo stringeva, che lo comprimeva da ogni lato, spronandolo a continuare. E al tempo stesso sentiva le spinte impazienti del pene, che pulsava in quella guaina calda, avvampando, come se al suo interno fosse scoppiato un incendio. Per qualche ragione, quella dissociazione non lo disturbava: anzi si abbandonava a quelle sensazioni, lasciava che quei ritmi sempre più accelerati lo conducessero verso una risoluzione, verso una sorta di unità. Quando accadde fu un'esplosione di luce oltre la luce, un urlo prolungato di emozioni. Non aveva una forma che lui fosse in grado di percepire, ed era quello il suo significato. A poco a poco, Ray cominciò a recuperare la pienezza dei sensi. Ancora qualche minuto e avrebbe saputo chi era e dove si trovava. Eppure c'era qualcosa che lo tormentava. Ma non valeva la pena pensarci adesso e rovinare la perfezione di quella straordinaria esperienza... Tuttavia continuava
ad ostacolare le sue percezioni. Era un volto vagamente lucente, che lo scrutava attraverso un buco nel legno. Era la sua faccia che lo guardava. Rifluì in se stesso con una rapidità che lo lasciò boccheggiante. Era alla finestra. La coppia lo stava fissando; l'uomo stava per alzarsi in piedi. Ray indietreggiò, poi si accorse che l'uomo faticava a drizzarsi. Che fosse spossato anche lui da quell'esperienza? Si allontanò dal capanno, sul quale luccicava il suo sperma. Il parco era immerso nella luce e nel silenzio; non si udivano rumori di inseguimento. Ray si sdraiò sul letto, contento di lasciar svanire gli ultimi effetti della droga. Era contento di non essere andato in "viaggio" con Jane. Stava per spuntare l'alba. Quando il trip finì, Ray cominciò a chiedersi che cosa fosse effettivamente accaduto al parco. Forse non c'era stata nessuna coppia. Quella stessa domenica, quando, diverse ore più tardi, si risvegliò da un lungo sonno, gli parve addirittura impossibile. Aveva fatto un "viaggio" fantastico. Si augurò di tutto cuore che Dave ne avesse sintetizzata parecchia di quella roba, di qualunque cosa si trattasse. Il "viaggio" di quella notte era stata l'esperienza più intensa di tutta la sua vita. Il giorno seguente, mentre andava all'Istituto d'Arte, fece una deviazione e si fermò alla Facoltà di Scienze. Dave stava lavorando seduto ad un banco. Il sorriso obliquo con cui l'accolse era insolitamente circospetto. Non c'era nessuno a portata d'orecchio. «Ehi, a proposito di quella roba» esordì Ray. Dave scoprì per un attimo i denti candidi. «OK. Mi dispiace. Non l'hai presa, vero?» «Sì, sabato. È stato fantastico!» «Ma vuoi scherzare! Noi ne abbiamo presa un po' nel week-end ed è stato peggio che fare un brutto viaggio. Penso che se non avessimo trovato subito i tranquillanti avremmo finito per urlare.» «Davvero? Forse è meglio prenderla da soli. Senti, io la reggo benissimo. Non l'hai promessa a nessun altro, vero?» «Pensavo di venderla a Norman, il tizio che ci rifila sempre l'acido cattivo.» «Ehi, aspetta, non buttarla via così. Vorrei provarne ancora un po'.» Possibile che Dave non si rendesse conto del suo entusiasmo? «Passo a comprarla stasera, d'accordo?» Dave ritornò al suo lavoro. «Non voglio soldi, te la regalo» disse scrollando le spalle. Ray si diresse verso l'Istituto d'Arte. Un gruppo di studenti,
allegri e rumorosi, lo superò. Una ragazza di cui conosceva i disegni lo salutò; lui le rispose con un vago sorriso. La maggior parte degli studenti era già tornata a casa per le vacanze; forse quei ragazzi si erano fermati per cercare di vendere qualche lavoro, come faceva lui, per arrotondare gli introiti della borsa di studio. Si incamminò su uno dei tanti viottoli di cemento che si dipanavano fra i palazzi universitari. Sembrava che avessero fatto piazza pulita di tutte le piante, con la sola eccezione di alcuni alberelli stentati. Era interessante il fatto che Dave e i suoi amici avessero fatto un brutto viaggio. Era una conferma di quello che lui sosteneva da tempo, e cioè che non serviva a niente andare in trip con altre persone nella speranza di riuscire a comunicare meglio, di stare meglio insieme. Ci aveva provato. Sentiva anche lui il bisogno di vivere più intensamente con i suoi amici, ma l'acido glieli aveva fatti vedere gonfi, bozzoluti, untuosi, a volte naneschi e deformi. Nei loro volti aveva visto stupidità, cattiveria, vuoto e loro, che avevano letto quei pensieri nel suo sguardo, lo avevano odiato perché con il suo disprezzo minacciava l'esito del loro viaggio; così avevano finito per escluderlo. Ad alcuni di quegli amici non aveva più osato rivolgere la parola. Però in trip ci sarebbe certamente potuto andare con Jane. In fondo vivevano insieme. Per la verità non più, da quella notte d'agosto che gli aveva spremuto fuori il sudore e oppresso il cervello. Mentre giaceva sul letto, vestito solo del suo sudore accanto alla carne calda ed elastica di Jane, la sua mente aveva cominciato a ribollire di ricordi oscuri: le antiche colpe della sua infanzia, il sadismo dei primi anni della sua adolescenza, i fallimenti dell'età adulta. Aveva avuto una fugace visione di come dovesse apparire agli occhi di Jane: freddo, arido, ferito e chiuso in se stesso, insomma, un uomo precocemente invecchiato. Lei si era voltata a guardarlo negli occhi e lui aveva visto il sorriso morirle sulle labbra. Lei gli aveva parlato, aveva pianto, ma lui non era riuscito a risponderle. Poi l'alba si era affacciata alla finestra della sua camera, simile ad una fitta nebbia, e aveva offuscato l'ultima parte del suo viaggio. Per cercare di sfuggire alla depressione, per fare qualcosa, aveva detto con tono indifferente: «Forse faremo meglio a lasciarci.» Era trascorso un mese da allora e non l'aveva più vista. Forse l'acido non gli era congeniale. Ma adesso c'era quella nuova invenzione di Dave. Sabato sera, per la prima volta da quando aveva cominciato a drogarsi, aveva quasi perso coscienza di sé durante il trip: così sì che valeva la pena di viaggiare! Accelerò il passo in direzione dell'Istituto d'Arte, felice di rimettersi al lavoro.
La scultura consisteva in un grande uovo di plastica bianca e traslucida; l'estremità affusolata ricordava un seno, ma là dove avrebbe dovuto esserci il capezzolo, c'era una piccola cavità liscia. Lavorò di lena, spronato dal desiderio di rivedere Dave prima che cambiasse idea, e finì a metà pomeriggio. Rigirò l'uovo-seno fra le mani. Era soddisfatto: era semplice, puro, bellissimo. Lo impacchettò con cura in una scatola di cartone e uscì. Forse sarebbe piaciuto anche al collezionista che aveva ammirato e acquistato un'altra sua scultura, molto simile a quella. «Arp» aveva esclamato appena l'aveva vista; e stava paragonando la sua opera a quella di uno scultore francese, non stava ruttando. L'appartamento di Dave si affacciava su un commissariato di polizia; le auto azzurre dei piedipiatti stavano in agguato nel vicolo. Ray prese a calci l'erba che invadeva il viottolo. Dave si presentò alla porta con lo sguardo accigliato. «Sarei venuto io da te più tardi» disse; spacciare droga a casa sua lo rendeva paranoico. Sua moglie Chris stava allattando il bambino al seno; Ray celò il suo imbarazzo dietro un abbozzo di sorriso e guardò Dave. «Quella è una delle tue sculture?» gli domandò Chris. Ray estrasse l'uovo dall'involucro e glielo mostrò. «È molto bello» commentò la donna. «Sì, buono davvero» approvò Dave. «Ti prendo la roba.» «Quale roba? Non avrai mica intenzione di dargli quella roba!» «Non ti preoccupare Chris. Io ci ho fatto un viaggio fantastico.» «Ma è... è spaventosa! Davvero. Dave voleva rifilarla a Norman per vendicarsi, ma io gli ho detto che l'unica cosa che doveva fare era buttarla nel cesso. Ed è quello che penso anche adesso.» Lo fissò con i grandi occhi umidi pieni d'apprensione. Senza che se ne fosse accorta, il seno le era scivolato fuori dalla bocca sdentata del bambino. Ray si sforzò di non guardarla. Nascose il pacchetto di carta stagnola nell'involucro di cartone, accanto all'uovo, e uscì di corsa. Di ritorno verso casa si fermò in un take-away per comprarsi un piatto a base di curry. Non c'era da meravigliarsi che avessero avuto un viaggio d'inferno se si erano fatti davanti alla stazione di polizia e magari con il bambino che urlava. La curva dell'uovo di plastica scintillava; l'idea di averlo finito lo riempiva di pace e di contentezza. Doveva farsi un trip mentre si sentiva così? Certo. E sarebbe anche andato a trovare un paio di amici. Sue e Nick abitavano in una casa con balcone che si affacciava sul parco: il posto ideale
per un bel "viaggio". Se non erano già in trip, quella roba avrebbe potuto aiutarlo ad entrare in sintonia con loro. E forse lo avrebbe facilitato nel lavoro. Le sue sculture assomigliavano a frammenti di corpo umano, puliti e perfezionati; forse quel "viaggio" gli avrebbe permesso di renderle più umane. Ma soprattutto, voleva rivivere l'intensità dell'esperienza di sabato notte. Estrasse il pacchettino di carta stagnola nascosto all'interno di una penna stilografica vuota. Mentre lo svolgeva, i suoi occhi osservarono con impazienza i dieci cristalli verdi, grandi come una capocchia di spillo, pronti ad essere ingigantiti e decodificati dalla sua mente. Ne ingoiò uno e ripose il pacchetto nel nascondiglio. Un sapore amaro, vagamente metallico, gli si impresse sulla lingua, ma svanì nel giro di pochi secondi. Mentre lavava i piatti ripensò al viaggio che aveva fatto sabato sera. La musica era diventata una forza fisica, un flusso di intensa energia: il suo significato stava in quella intensità. Un'ora dopo si era affacciato alla finestra per guardare le persone che camminavano sul marciapiede quattro piani più sotto. La sua vista si era straordinariamente acuita al punto che riusciva a distinguere con chiarezza i tratti di ciascun passante. A poco a poco una sequenza di pensieri si era fatta strada nella sua mente: pensieri strani che, spesso, assomigliavano a ricordi. Pensieri frettolosi, pensieri solitari, immagini inseguite da emozioni. Alla fine aveva cominciato a riconoscere sui minuscoli volti dei passanti espressioni che riflettevano i pensieri che gli attraversavano la mente. Era rimasto lì per ore a leggere nel cuore della gente; non si era mai sentito così vicino ai suoi simili come quella sera. Si lavò e si sbarbò; la lama fredda e affilata gli scivolava lungo la gola. Doveva portare con sé l'uovo-seno per guardarlo mentre era in trip? No: Sue e Nick avrebbero potuto pensare che cercasse i loro elogi. Si affrettò ad uscire. Appena appoggiò la mano sul cancello il mondo attorno a lui cominciò a vacillare. Brividi convulsi percorsero case e muri che iniziarono ad ondeggiare come piante acquatiche. Lampi improvvisi e incessanti riempirono il cielo. Alcuni passanti si fermarono a guardarlo: il suo respiro strozzato dallo choc era risuonato alle loro orecchie quasi come un grido. I loro volti emanavano una luce intensa, ardevano, pronti a trasformarsi in energia pura. Ray rientrò precipitosamente in casa. Boccheggiando salì le scale, che ad ogni secondo diventavano più grandi. Pensava che l'effetto della droga sarebbe iniziato almeno mezz'ora do-
po. Gesù! La tromba delle scale si dileguò sotto di lui, dilatandosi come una bocca gigantesca. La chiave del suo appartamento sembrava diventata di gomma. Quando finalmente riuscì a farla girare nella toppa, entrò in casa e sbatté la porta dietro di sé. Era al sicuro adesso. I fiori stilizzati della carta da parati oscillavano come se fossero agitati da un vento impetuoso, ma quella vista gli era abbastanza famigliare. Dopo un po' accostò una sedia alla finestra. Il cielo era azzurro, interrotto qua e là da nuvole che sembravano pennacchi di fumo. No, non erano nuvole: erano grasse lettere, simili a quelle dei fumetti, che, lette di fila, formavano una frase: PIÙ' FORTE DELL'ACIDO! PIÙ' POTENTE DELL'STP! Ray si abbandonò confuso contro lo schienale della sedia e rise. Osservò il cielo che, a poco a poco, si liberava dalle nubi: una purificazione grande e continua. Lentamente si mondò anche della luce, finché, nell'oscurità si stagliarono le teste di serpente dei lampioni, pronte a diffondere il loro bagliore sulla carreggiata. Una debole luce gialla si sovrappose a quella delle lanterne sull'asfalto. Un attimo dopo, l'auto emerse dalla strada laterale e parcheggiò davanti al portone della casa di fronte. Nella via deserta riecheggiò lo sbattere delle portiere. Dalla macchina scesero due figure, che entrarono in casa. Ray seguì con lo sguardo la luce che saliva le scale. Poi fu una finestra ad illuminarsi. Apparteneva ad un appartamento situato di fronte al suo, un piano più sotto. Le due figure apparvero fra i due lembi di una tenda aperta: era come se fossero entrati sul palcoscenico di un teatro. Gli occhi di Ray inquadrarono lo specchio della finestra con la potenza di un teleobiettivo. L'uomo accese la televisione e si sedette sul divano. La ragazza uscì dal palcoscenico zoppicando leggermente, per rientrare alcuni minuti più tardi spingendo un carrello con i piatti della cena. Ray li osservò mentre sorseggiavano il caffè. La loro piccolezza conferiva ad ogni loro gesto ed espressione un significato particolarmente intenso. Pochi istanti dopo notò i loro primi approcci amorosi. Ray studiò il rituale del corteggiamento. Si scambiavano occhiate furtive, piene di ammirazione e di tenerezza. Ad un tratto l'uomo finse di tirarsi in faccia un sorso di caffè e la ragazza lo guardò con affetto divertito e rassegnato. Quando i loro occhi si incontrarono, bastò loro soltanto un sorriso per intendersi. Si sedettero vicini sul divano e guardarono il film. Una bocca che gridava muta sotto la doccia; un coltello che affondava nella carne della vit-
tima. Un uomo che cadeva all'indietro giù da una scala, il volto ridotto ad una maschera di sangue. Occhi vuoti e tetri in cui vibrava una luce; un teschio che sbocciava da una faccia. La finestra sembrava lo schermo di un cinema, in cui era inquadrato un altro schermo, più piccolo e monocromatico. La ragazza trasalì: l'uomo le passò un braccio attorno alle spalle e lei nascose la testa contro il suo petto. Ray trovava frustrante questa parte del rituale. Quando il film finì la ragazza si alzò e scomparve zoppicando. Dopo una manciata di secondi nella stanza accanto si accese una luce arancione. Sotto la lanterna cinese di carta arancione, Ray vide il letto. La ragazza si avvicinò alla finestra. Non chiudere le tende! Le sue dita si serrarono attorno alla stoffa: Ray trattenne il fiato finché sentì pulsare le orecchie. La ragazza tirò la tenda, ma rimase aperta una fessura, attraverso la quale si intravvedeva metà del letto. L'uomo spense la luce del soggiorno. Dopo un po' apparve nudo sullo sfondo lontano della fessura e si sedette sul letto. Lei gli prese la mano, come se volesse invitarlo a danzare. Quel breve contatto sembrò sigiare un'intesa segreta. Lei si sedette sul suo grembo e lui le sostenne le spalle con il braccio. Sotto la luce arancione della lanterna i loro corpi nudi sembravano perfetti. Adesso erano dei pupazzi, pupazzi che recitavano per Ray. Le labbra dell'uomo si chiusero dolcemente sui capezzoli di lei. La ragazza gettò indietro la testa, chiuse gli occhi e spalancò la bocca. Con la mano libera lui cominciò ad accarezzarle i genitali e subito dopo i loro volti si unirono in un lungo bacio ardente. Poi lei abbassò lo sguardo. Il pene del suo compagno era ancora flaccido. Si inginocchiò fra le sue gambe, accarezzandogli le cosce con i lunghi capelli neri e lucidi; quindi, annuendo con il capo, gli sollevò il pene con la bocca. All'improvviso, l'uomo si abbandonò sul letto e strinse spasmodicamente la coperta fra le mani. Lei lo seguì, divaricò le gambe e si abbassò su di lui. Ray sentì il respiro convulso del suo corpo quando lo accolse dentro di sé. Poi percepì il ritmo lento e faticoso dell'uomo. Sentì le contrazioni, in parte volontarie, in parte impotenti del sesso di lei. E quando il loro ritmo si fece più serrato, le sue sensazioni cominciarono a rimbalzare da lui a lei e viceversa. Sentiva le crescenti ondate del piacere della ragazza, le pulsazioni sempre più frequenti di quello di lui. Era come se la sua mente schizzasse repentinamente là dove il piacere era più intenso, avanti e indietro, più rapida del ritmo sempre più frenetico degli amanti.
Non così in fretta! Cercò di farli rallentare. Ad un tratto, ma forse si trattava soltanto di un'illusione della sua mente, ebbe l'impressione di esserci riuscito: indusse l'uomo a trattenersi, a controllare un po' le sue spinte furiose e quando desiderò che la ragazza serrasse con più forza le cosce attorno ai suoi fianchi, lei lo accontentò. Ma forse erano le sue sensazioni ad essere rimaste indietro, forse la sua mente era dislocata e lui non riusciva a rendersi conto di aver già visto prima quella scena, apparentemente soltanto volendolo. Ma non era quello il momento di porsi domande: le sensazioni si inseguivano dentro di lui più rapide dei flash dell'acido; i pupazzi arancioni si agitavano selvaggiamente, mentre ondate di emozioni si abbattevano su di lui, martellanti e vibranti. Il martellio e le vibrazioni si trasformarono in energia pura, che lo sommerse, infiammandolo, accecandolo, senza fine. La stanza arancione si spense. A poco a poco la strada svanì e a Ray non rimase altro da fare se non sdraiarsi sul letto a fissare la tenebra che si riempiva di ricordi, sempre più elaborati, di ciò che era accaduto. Per tutto il giorno seguente Ray non fece che domandarsi se la sua volontà si fosse realmente imposta a quella della coppia oppure no. Aveva davvero indotto l'uomo a controllare le sue spinte e la ragazza a stringergli le gambe attorno ai fianchi? O al contrario la coppia era esistita soltanto nella sua allucinazione? Il mondo che lo circondava si semplificò, non appena, svaniti gli effetti della droga, la sua mente smise di farneticare. Affacciandosi alla finestra, vide l'uomo e la donna uscire di casa. Dunque esistevano, erano due persone in carne ed ossa. Pulì la chiazza di sperma sul vetro. Quella sera telefonò al collezionista. Certo che gli interessava vedere il lavoro di Ray, di qualunque cosa si trattasse. Potevano fissare un appuntamento per il giorno seguente, se per lui andava bene. Stava forse pensando a qualche nuova opera? Ray uscì dalla cabina impregnata di fumo e fece ritorno a casa immerso nei suoi pensieri. L'indomani, mentre aspettava l'arrivo del collezionista, iniziò a disegnare alcuni schizzi. Uno lo soddisfò in modo particolare: era una specie di pene idealizzato, senza orifizi, incastrato in una serie di spessi anelli molto aderenti. Doveva disegnarlo leggermente curvato? Quell'immagine doveva far pensare al movimento degli anelli, o, al contrario, gli anelli dovevano sembrare una cosa sola con il fallo? Dopo un po' si stufò e si avvicinò alla finestra. Ma l'appartamento di fronte era vuoto.
Il collezionista venne a vedere l'uovo. Sì, sì, gli piaceva. Forte e pulito, ma al tempo stesso delicato. Ray gli mostrò gli schizzi. Interessanti; gli sarebbe piaciuto vedere il lavoro una volta finito. Ray riprese a disegnare; aveva l'idea chiara in testa, ma la matita non riusciva a tradurla in immagine. L'ultimo schizzo che aveva fatto sembrava una banana incastrata in una serie di focacce. Pazienza! Non aveva fretta, perciò non c'era motivo che si sforzasse inutilmente. Il collezionista lo aveva pagato bene e quel guadagno imprevisto lo liberava dalla necessità di lavorare per un po'. Era contento. Lesse Rolling Stones e ascoltò Tangerine Dream. Poi si mise ad osservare sistematicamente la coppia dell'appartamento di fronte. L'uomo e la ragazza leggevano, mangiavano seduti ad un tavolo di pino lucido e infine si accoccolavano sul divano a guardare la televisione. Accedevano al palcoscenico dal pianerottolo o dalla cucina. Che lui non controllasse le loro azioni era cosa certa; per di più, aveva la netta sensazione che si rifiutassero perversamente di fare l'amore. Con il passare dei giorni, Ray cominciò ad innervosirsi. Doveva assolutamente scoprire se fosse ancora in grado di condividere la loro esperienza, di compiere quei meravigliosi voli di fantasia di cui era stato protagonista durante il week-end. La quarta sera, l'uomo e la donna andarono in camera da letto. La fessura fra i due lembi della tenda era più stretta questa volta, ma Ray riuscì ugualmente a distinguere i loro minuscoli corpi chiazzati d'arancione aggrovigliati sul talamo. Ciò nonostante, mentre li guardava fare l'amore, provò solo una vaga eccitazione. Da quella distanza, senza la droga che gli acuiva la vista, li vedeva sfocati e, di conseguenza, i loro movimenti non lo allettavano affatto. Si allontanò dalla finestra, in preda ad un attacco di depressione. Doveva assolutamente scoprire se fosse ancora capace di vivere quelle straordinarie esperienze che la droga di Dave gli aveva regalato. Un altro viaggio e l'avrebbe saputo. No, adesso non poteva, doveva lavorare. Ma il collezionista poteva aspettare, dopo tutto. Ancora un trip soltanto, per essere sicuro; poi avrebbe conservato gli altri cristalli per occasioni più significative. Disegnò un'altra serie di schizzi. L'ultimo, in cui l'asta fallica era stretta in una sequenza di rigonfiamenti muscolari, gli parve un soggetto degno di essere tradotto in scultura. Per due sere di seguito la coppia andò a letto soltanto per dormire. Dio, pensò Ray. Non avrebbero certo fatto molta strada come attori porno. Forza, amico, fallo drizzare. La terza sera li osservò mentre uscivano dalla
macchina giocattolo. L'uomo tenne aperto il cancello, la ragazza si affrettò verso il portone con le chiavi in mano. Ray trovava i loro gesti di una banalità irritante. Su, forza. Piano dopo piano le scale si illuminarono. Finalmente la coppia apparve sul palcoscenico del soggiorno. La ragazza si diresse immediatamente in cucina. Ritornò dopo alcuni istanti, spingendo un carrello con sopra il caffè. Ray ebbe la sensazione di aver già assistito a quella scena. Si allontanò dalla finestra per arrotolarsi una sigaretta; forse avrebbe ascoltato un po' di musica elettronica. Mentre leccava la cartina, si voltò a controllare la situazione: la stanza arancione era illuminata. Diavolo! Si precipitò alla finestra. La ragazza stava lisciando con le mani il copriletto. Chiamò l'uomo, che le rispose senza sollevare gli occhi dal giornale. Lei scrollò le spalle, un po' delusa o forse ferita, e si sedette sul letto in attesa. Ray aveva tempo. Recuperò il pacchetto di carta stagnola nascosto nella penna stilografica e lo aprì con tale frenesia che per poco non rovesciò a terra tutti i cristalli. Ne prese uno con la punta bagnata dell'indice e lo ingoiò frettolosamente. Dopodiché spense la luce e si sedette alla finestra. Aspettò. Anche la ragazza stava aspettando. L'uomo continuava a sfogliare tranquillamente il quotidiano. E dài, muoviti, mormorò Ray riferendosi alla droga. La volta precedente aveva fatto effetto con una rapidità sorprendente; chiuse gli occhi e si augurò che quella sera facesse effetto ancora prima. La ragazza aveva allungato le gambe e stava battendo nervosamente il piede a terra. Si massaggiò la gamba offesa. Chiamò l'uomo per la seconda volta. Lui lasciò cadere il giornale e fece per alzarsi. Non ancora! La ragazza si stava avvicinando alla finestra. Stava allungando le mani verso la tenda. Ray serrò i pugni, concentrandosi con tutto se stesso sul momento in cui avrebbe finalmente avuto inizio il viaggio. Si sentiva la lingua ruvida e secca. Gli ultimi sprazzi di luce del giorno che imbruniva cominciarono a saettare rapidi. Non chiudere la tenda! La testa gli pulsava. Ebbe la sensazione che il volto della ragazza gli si avvicinasse: i suoi tratti erano sempre più netti, come se la stesse guardando attraverso la lente di un microscopio. La tenda si chiuse. All'ultimo istante, però, la donna ebbe un attimo di esitazione e ritornò verso il letto lasciando aperta una piccola fessura. Sembrava confusa e preoccupata. Ray si rilassò, ma aveva la fronte madida di sudore. La coppia si spogliò. Attorno a loro il mondo ondeggiava senza sosta. L'uomo si sedette sul letto. La ragazza si inginocchiò e cominciò ad ac-
carezzargli l'interno delle cosce; poi gli prese delicatamente il pene in bocca. C'era qualcosa che non andava. No, era soltanto colpa dello sforzo che aveva fatto per impedire alla donna di tirare la tenda. Non appena si fosse riavuto da quella fatica, sarebbe stato bene. Ma c'era anche dell'altro: un crescente senso di malumore e di frustrazione. L'uomo prese gentilmente per mano la ragazza e la fece alzare. Poi le passò un braccio attorno alle spalle e cominciò ad accarezzarle il seno. Più le sue mani indugiavano sui suoi capezzoli eretti e più lei si eccitava e si dimenava sul suo grembo. Ray li osservò annoiato. Possibile che non sperimentassero mai niente di nuovo? Ma non era solo quella la causa della sua insoddisfazione. Si sentiva escluso dalle loro effusioni. La sola cosa che vedeva erano due bamboline che si contorcevano l'una nelle braccia dell'altra. Gesù, ma quando si decidevano ad arrivare al sodo? La sua mente cercò di impossessarsi delle sensazioni che stavano provando. Niente da fare: la sola cosa che sentiva era la sua carne appiccicosa. Era depresso, vuoto, sporco e solo: un essere polveroso e appiccicoso nascosto a spiare dietro una finestra. Si sedette tremando, paralizzato dalla tensione generata dalla sua volontà impotente. Su, dài! Urlò. Tu zoppa leccacazzi e tu fottuto cazzo molle, volete decidervi a scopare? Senza alcun preavviso, Ray sentì la sua volontà impadronirsi di loro. Eppure non riusciva ancora a provare la tenerezza delle loro effusioni. Sentiva l'eccitazione sopita dei loro sessi disgiunti; sentiva i loro corpi dimenarsi lentamente, cullati dal reciproco affetto. Lo stavano deliberatamente frustrando. Allungò una mano, si afferrò il pene e cominciò a strusciarlo contro la coscia della ragazza. All'improvviso, sullo schermo dalla parte opposta della strada, vide recitare la stessa scena. La ragazza sgranò gli occhi. Sorrise confusa, scuotendo la testa. Poi fece per inginocchiarsi, ma Ray le piantò le dita nelle spalle. Il suo pene era già eretto. La spinse sul letto, bruscamente. Lei protese le mani per accarezzarlo, ma, con un gesto di impazienza, lui le ficcò due dita nella vagina, aprendola per il suo membro, prima che questo si afflosciasse di nuovo. Adesso l'espressione sul volto della ragazza era di dolore. Tentò di ribellarsi, ma lui affondò dentro di lei, costringendola ad allargare le cosce con le spinte possenti del pube. Ondate di piacere fluirono dentro di lui in un crescendo senza fine, finché luce e piacere si fusero insieme. Ma mentre il suo corpo si muoveva, come indipendente dalla sua volontà, regalandogli tuttavia un innegabile piacere, un'ombra di inquietudine stava in agguato.
Ma il pulsare impetuoso delle sensazioni dentro di lui cancellò ogni cosa e, nel giro di pochi secondi, quelle vibrazioni frenetiche culminarono in un flusso ininterrotto e accecante. Quando riguadagnò la percezione visiva della minuscola stanza arancione, Ray vide l'uomo seduto sul letto a bocca aperta, sbigottito. Zoppicando sensibilmente, la ragazza stava raccattando ì suoi vestiti e piangeva. Forse accentuava di proposito l'andatura claudicante. Anche l'uomo sembrava pensarla così, perché le indicò la gamba e le disse qualcosa, con un'espressione di gelo negli occhi. Continuando a piangere, la ragazza si raggomitolò sul divano del soggiorno. Ray fissò la finestra dov'era seduto l'uomo: stava guardando il corpo tremante della sua compagna. Dopo un po' balzò in piedi e corse al parco. La notte era opprimente e nei prati i fiori ardevano in modo orribile; la sua mente allucinata li spostava lentamente davanti ai suoi occhi. Finalmente apparvero due frammenti di luna, che veleggiarono senza fretta nel cielo e sul lago. Il mattino seguente Ray guardò dalla finestra. La ragazza stava uscendo dal portone con le valige in mano. L'uomo la rincorreva, cercando di prenderle i bagagli e di convincerla a salire sulla sua macchina. Ma lei si piantò davanti alla fermata dell'autobus con le mani serrate attorno ai manici delle valige. Lui le si avvicinò più volte per parlarle, ma lei gli voltò le spalle. Dopo un po' l'uomo si arrese e rientrò in casa. Ray osservò la scena con indifferenza: era una scena lontana, che non lo coinvolgeva. Pochi minuti dopo l'autobus portò via la ragazza. Ray si sporse dalla finestra e allungò il collo. Sì, era lui. «Dave!» urlò, nel caso l'amico fosse diretto da qualche altra parte, e si precipitò di sotto. Spalancò il portone e l'accolse con un ampio sorriso. «Stavo per venire da te» disse. «Ah sì?» Dave non sembrava ansioso di sapere il motivo della sua visita. «Come va il lavoro?» domandò. «Benone» rispose Ray ansimando su per le scale. «Ho venduto quel pezzo che ti avevo fatto vedere.» «Guarda che non posso fermarmi molto.» «Avrai almeno il tempo di bere un caffè.» «D'accordo.» Lo stava assecondando con riluttanza. Lo seguì all'interno dell'appartamento e quando varcò la soglia non poté fare a meno di sgranare gli occhi. Ray sapeva che la stanza era in disordine: e allora? Stava per dire E allora?, quando Dave gli chiese: «L'hai venduto in fretta eh? Ottimo,
fantastico. E dopo che cosa hai fatto?» «Ho un progetto in mente.» Attese che Dave lo seguisse in cucina. «Ehi, senti, quello che volevo chiederti» disse accingendosi a preparare il caffè, «era se per caso avevi ancora un po' di quella roba...» «Te l'ho data tutta, tutta quella che avevo. Ce la fai a lavorare anche senza, vero?» «Certo che ce la faccio, se devo» rispose Ray indignato. «Ma adesso sto lavorando ad una cosa che, se riesco a realizzarla come dico io, sarà eccezionale. Non ti sarai mica ravveduto, spero? Ti ricordi che cosa mi dicesti il giorno che mi procurasti la roba per il mio primo trip? La scienza che aiuta l'arte.» «Sì, ma quello era un acido.» «E allora? Questa roba è molto meglio. Ascolta, non è che puoi farmene ancora un po'?» «Impossibile. Ho buttato via la formula.» «Oh Cristo» esclamò Ray cupamente; sentì aprirglisi un vuoto nella testa. «Oh Cristo. E perché?» «Se tu avessi fatto il viaggio che abbiamo fatto io e Chris lo sapresti. In ogni caso, avevo scoperto quella formula per caso. Non sappiamo nemmeno quali sarebbero potuti essere gli effetti collaterali. Comunque quello era un veleno, te lo assicuro. Anzi se te ne è rimasto ancora, buttalo via. Ti preparerò io del buon acido.» Continuò a parlare, anche se la schiena di Ray era indecifrabile. Ray gli allungò una tazza di caffè, poi si voltò di nuovo. «Chris mi ha detto che Jane ha chiesto di te» riprese Dave. «Non si è messa con nessun altro da quando vi siete lasciati. Chris dice che è molto sola.» Ma apparentemente a Ray non interessava. Dave ingollò il suo caffè e se ne andò. Ray rimase a guardare fuori dalla finestra della cucina. Stradine strette separavano minuscoli cortili, che gli ricordavano i box di un mattatoio. Poi si costrinse a ritornare in soggiorno. Prese il pacco degli schizzi e li sfogliò; osservò l'asta incastrata nella sequenza di anelli: adesso quell'immagine lo deprimeva; lo deprimeva perché era uno schifo. Elogio del gioco degli anelli, lo aveva intitolato durante il suo ultimo "viaggio". Dispiegò il pacchetto di carta stagnola. Da qualche parte, in uno di quei quattro cristalli, c'era quello che cercava. Ma gli ultimi quattro "viaggi" erano stati confusi e lo avevano turbato. Nel migliore dei casi gli avevano restituito soltanto il ricordo del flusso di energia trascendente che aveva sperimentato nei trip precedenti. Aveva visto qualcosa di profondo e di as-
soluto, ma poi lo aveva dimenticato; rammentava soltanto qualche brandello di immagine, fugace e imperfetta. Se solo fosse riuscito a rivederlo ancora una volta soltanto, sarebbe stato in grado di creare un'opera d'arte. Ma come? Non in un viaggio simile agli ultimi che aveva fatto. Aveva preso l'abitudine di scrutare le case di fronte, in attesa che si chiudessero le tende di qualche camera da letto. Aveva scoperto che se si concentrava intensamente, la sua volontà riusciva a penetrare attraverso i lembi di stoffa. Non era soltanto la sua immaginazione: in alcune stanze non trovava che sonno profondo o pallidi sogni fluttuanti; in altre, corpi che affondavano l'uno nell'altro e un crescendo di sensazioni. La prima cosa che percepiva era la sensazione fisica e soltanto in un secondo tempo, e per gradi, la presenza degli attori. La cosa a volte lo disturbava, a volte lo eccitava. Ma anche in questo caso lui non restava che uno spettatore, un partecipante passivo. Il suo ultimo viaggio era stato più che frustrante. In quell'ultimo mese, da quando aveva iniziato a fare uso dei cristalli verdi, aveva sviluppato tolleranza nei confronti della droga, cosicché a parità di dose gli effetti diminuivano di volta in volta. Spesso si era sentito come un fantasma senza forze che svolazzava impotente fra la sua carne umida e tarda e le scene appena intravviste nell'oscurità di qualche camera altrui. Sembrava che perfino la sua vista si rifiutasse di collaborare: o meglio, riusciva a vedere tutto come sempre, ma quello che vedeva non gli diceva più nulla. A volte si era abbandonato per ore a emozioni confuse, incapace di capire dove si trovasse, mentre il suo sguardo allucinato passava da una scena all'altra: oscuri movimenti di corpi in stanze buie, gesti lenti ed esitanti, viscidità. Spesso non riusciva nemmeno a distinguere il sesso o i sessi dei partecipanti. Rifuggiva le scene di dolore o di umiliazione, ma ogni suo tentativo di sottrarsi a quelle immagini si rivelava una trappola che lo inchiodava al disgusto che lo soffocava. Forse quelle scene erano reali, o forse erano soltanto allucinazioni, e cioè parte di lui: difficile dire quale ipotesi fosse la peggiore. Dopo un tempo infinito, il sorgere dell'alba e il tumulto del suo cuore lo richiamavano gradualmente in sé. Allora si sedeva con gli occhi sbarrati e il respiro ansante, completamente svuotato. Ray osservò i quattro cristalli. Non era stata colpa della droga. Era stata colpa del posto e della dose troppo bassa. E poi aveva sbagliato anche lui ad abbandonarsi completamente alle sue fantasie. Aveva bisogno di vedere gli attori davanti agli occhi, non di immaginarli. E aveva bisogno di vederli quella sera.
Quella sera sarebbe stato perfetto. Di lì a poche ore sarebbe sorta la luna piena, che avrebbe inondato il mondo con la sua luce candida. Il bianco era sempre stato il colore dei suoi "viaggi" più belli. Sarebbe andato al parco. Con un po' di fortuna, avrebbe trovato qualche coppietta appartata fra gli alberi; in caso contrario, sarebbe stato comunque circondato da decine di appartamenti e, con la vista potenziata dalla droga, sarebbe riuscito a sbirciare oltre i vetri delle finestre. Così l'indomani avrebbe incominciato la sua nuova opera; sì, finalmente la sua mente sarebbe riuscita ad afferrare l'idea giusta e a tradurla in pratica. Anzi, forse ne avrebbe tracciato lo schizzo proprio quella sera durante il trip. Si sentiva euforico, e non vedeva l'ora che calasse la notte. Scese al Wampo Egg a comprarsi un piatto al curry da consumare a casa. Mangiò e rigovernò. Poi esaminò gli ultimi schizzi che aveva realizzato: alcuni non erano tanto male, dopo tutto. Fuori, la città si stava acquietando; sotto la sua finestra, il flusso arrogante delle macchine procedeva lento, lasciando spazio, di tanto in tanto, allo scatto di qualche auto veloce. Banchi di nubi si aprivano come tende nel cielo notturno; la luna piena fluttuava indisturbata sopra i tetti. Un orologio batté dodici rintocchi. Sorridendo alla solennità del momento, Ray aprì il pacchetto di carta stagnola. Non gli restavano molti viaggi da fare e, dopo quelli, non avrebbe avuto la possibilità di farne altri. Doveva essere sicuro che il trip di quella sera andasse bene. Ingoiò un cristallo, poi, impulsivamente, un altro. Un attimo dopo fu colto da una paura improvvisa. Fece scivolare il pacchettino argentato nella penna. Era tutto OK. Il posto e l'atmosfera erano perfetti, non rischiava nulla. Si avviò a grandi passi verso il parco. I profili bianchi e taglienti di alcune nubi incorniciavano la volta nera del cielo; gli alberi che, inseguendosi, conducevano nel cuore del parco formavano file sottili e scintillanti. In fondo al viale, Peter Pan splendeva quasi diafano. Ray costeggiò il lago e andò a distendersi in cima al piccolo poggio che sovrastava il capanno dove aveva visto la prima coppia. Nessuno avrebbe potuto vederlo lì e lui sentiva che quella sera qualcuno avrebbe usato il capanno. Il "viaggio" iniziò. Il disco della luna si scisse in decine di segmenti, aprendosi come un anemone nello specchio del lago. I suoi raggi vibrarono per un attimo sull'acqua che, subito dopo cominciò a risplendere di luce bianca in una cornice di nero assoluto. Sollevando lo sguardo oltre il recinto del parco, Ray vide le finestre guizzare nei palazzi, simili a sciami di
lucciole rettangolari. Le osservò assorto. Il mondo attorno a lui stava perdendo consistenza e presto fu solo al centro dell'universo. Passarono le ore. La notte si fece fredda; Ray era furioso con se stesso perché non riusciva a smettere di tremare. Il capanno era deserto e il picco del suo viaggio sarebbe durato ancora per poco. Si guardò attorno. C'erano sì alcune finestre accese, ma le tende erano tutte ermeticamente chiuse. Un altro "viaggio" sprecato... Avvertì l'incombere insidioso della depressione. Rimase sdraiato sull'erba fredda, incapace di pensare al da farsi. Poi, ad un tratto, una luce attirò la sua attenzione. Si era fermata una macchina sulla sponda opposta del lago. I fari si spensero. Ray udì il rumore delle portiere che sbattevano. Trattenne il fiato. Per favore, per favore! Rumore di passi. Di passi che si avvicinavano. Ma dove stavano andando? Adesso lo scalpiccio era quasi scomparso. No, erano soltanto ritornati sul sentiero principale. Vide la coppia adocchiare il capanno. Gli stivali dell'uomo scricchiolavano sul sentiero; la lunga gonna della ragazza si gonfiava leggermente. Ray li vide entrare nel capanno. Poi udì il loro mormorio di approvazione; adesso i loro passi echeggiavano nel silenzio della notte. Scese cautamente dalla collinetta, facendo attenzione a non scivolare sull'erba umida. Ci mancava soltanto che cadesse e andasse a sbattere contro il capanno! Ma ormai era quasi arrivato. Non vedeva ancora la coppia, ma aveva le orecchie piene del debole fruscio dei vestiti che scivolavano sulla loro carne. Si aggrappò all'erba e continuò a scendere. Stava per raggiungere il capanno, quando una luce gli esplose negli occhi, inchiodandolo nel punto in cui si trovava. Si sentì mancare il fiato e avvertì una fitta al cuore. Dietro l'occhio di luce che illuminava il sentiero c'era un'ombra. «Che cosa sta facendo?» disse l'ombra. Era un poliziotto. Ray si sentì serrare la gola. Se avesse aperto bocca sarebbe riuscito soltanto ad urlare. La luce gli paralizzava il viso. L'ombra si avvicinò; non avrebbe impiegato molto a capire che era drogato, e allora l'avrebbe afferrato, l'avrebbe inghiottito. Ray abbassò la testa per sottrarsi al fascio indagatore della torcia e fece finta di tossire, per liberare la gola dalla morsa di terrore e per prendere tempo. Adesso poteva parlare. «Stavo facendo una passeggiata» balbettò. «Poi ho sentito un rumore. Lì nel capanno. Come se stesse accadendo qualcosa.» La luce lo abbagliò. Dopo alcuni istanti l'ombra decise di avvicinarsi alla costruzione di legno a dare una sbirciatina all'interno. «Ah è così che si fa,
eh?» disse allegramente. Ray si allontanò sul sentiero. L'ombra rovistò con la torcia all'interno del capanno. Poi, all'improvviso si voltò. «Ehi, tu!» urlò. «Non ti ho mica detto che potevi andare!» Ma Ray stava già correndo, lontano dallo specchio tremulo e accecante del lago, dal pallido ragazzo di pietra, verso il viale striato di nero. Quando finalmente si fermò, lo stava inseguendo soltanto il silenzio. Cominciò ad inspirare spasmodiche boccate d'aria. Poi sentì le dita delle mani che si contraevano. Cristo, no! Si strinse le braccia al corpo, ma fu tutto inutile. Sotto la luna, fra il sussurrare degli alberi, il suo intestino lo tradì. Era sdraiato sul letto. Quando spuntò l'alba, una luce fredda si instaurò nella stanza, simile a fanghiglia. Un pensiero si affacciò alla sua mente, lento, ma inesorabile. Sarebbe riuscito a far di nuovo l'amore con qualcuno, o era condannato ad un sesso solitario? La prospettiva del futuro, che vedeva come una versione infinita di quel momento, lo soffocava. Sarebbe stato solo, con il vuoto della sua vita come unica compagnia, senza niente su cui fare affidamento: non certo il suo lavoro. Non era che un granellino di sabbia nel vuoto, e senza nemmeno la forza di suicidarsi. Guardò dentro di sé, ma non trovò niente. Non c'erano porte a cui bussare. Tranne... A mezzogiorno in punto Ray era davanti alla Facoltà di Inglese. Sullo spazio che separava la costruzione dalla strada, le porte a vetri riflettevano rettangoli di luce solare, che scivolavano via ogni volta che i battenti si aprivano. Gli studenti uscivano da soli o a piccoli gruppi che procedevano a scatti. Alcuni, che conosceva, lo salutarono. Ogni tanto Ray si ricordava di sorridere. Jane fu una delle ultime persone ad uscire; varcò la soglia da sola, con passo sicuro e, non appena la porta si richiuse alle sue spalle, risucchiando il proprio rettangolo di luce, lei allontanò dal viso i lunghi capelli biondi per ricevere i raggi del sole. Ray conosceva bene quel gesto: in tale movimento del capo era racchiusa tutta Jane. Poteva sembrare un gesto di sfida, un gesto che denotava padronanza di sé, e invece era soltanto un atto di difesa contro la sua vulnerabilità. Ray si sentì percorrere da un brivido. Jane voltò lo sguardo verso di lui e lo vide. Esitò. Rapide maschere di emozione passarono sul suo viso: eccessiva sorpresa, distacco, nonchalance; alla fine optò per un lieve sorriso neutrale.
Si avviò senza fretta, ma Ray la raggiunse subito, quasi correndo. «Ciao Jane» disse. «Ciao» rispose lei, come se fosse una persona che conosceva appena. «Che coincidenza.» Non riusciva a capire se il tono della sua voce fosse ironico oppure no. «Eh sì, passavo di qui» replicò Ray. «Ti va di bere qualcosa?» Lei scrollò le spalle. «Se vuoi.» Il pub del campus era pieno di studenti; da una saletta parzialmente nascosta provenivano i colpi secchi delle palle da biliardo. «Il solito?» domandò Ray. «Sì, grazie.» Ma pronunciò quella frase con fredda laconicità, come se non apprezzasse il fatto che loro due condividessero quel genere di ricordi. Ray bevve una birra. Era colpa dei postumi dell'ultimo "viaggio" se la birra aveva un sapore metallico, ma quella sensazione contribuì a deprimerlo. Chiacchierarono con evidente imbarazzo. Jane stava leggendo Hardy. Anche Laurei? Lei gli restituì un sorriso sinceramente risentito: una volta non sarebbe stato così. Le piacevano quei libri? Sì anche lui avrebbe dovuto leggerne qualcuno. Quale le consigliava? Lei stava per finire il suo drink. «Ascolta» le disse Ray con affanno. Jane gli lanciò un'occhiata guardinga. «Mi dispiace» esitò lui. «Per quello che ti ho detto l'ultima volta. Era perché stavo facendo un brutto "viaggio". Non era colpa né mia né tua. Era il posto, l'atmosfera che non andava. Intendo dire, faceva un caldo pazzesco. Mi sembrava di soffocare.» Lei lo fissò, aspettando pazientemente che finisse. «Capisci quello che voglio dire?» le domandò Ray. «Sì, OK» rispose lei, con tono indifferente. Si mise la borsa a tracolla. «Grazie per il drink. Adesso ho lezione, devo andare.» Ray si sentì tremare la mano sotto il tavolo. Più che tremare si contorceva. Non riusciva più a comunicare con lei, era diventata un'estranea. All'improvviso, gli ultimi effetti della droga lo spinsero a dire: «Prima non passavo per caso. Ti stavo aspettando. Sono molto solo.» Jane, che era già in piedi dietro la sedia, si fermò a guardarlo. Il suo viso era una maschera senza espressione, ma aveva gli occhi lustri. Ray pensò che stesse cercando il modo di andarsene. «Sono solo senza di te» disse. «Torna con me. Ti prego.» Dopo un attimo di silenzio lei si risedette. «Oh Ray.» C'era smarrimento nella sua voce. Lui riprese a parlare. «Mi dispiace, davvero. Senti, io (lanciò un'occhiata
agli studenti seduti al tavolo vicino e sentì l'imbarazzo crescergli dentro come bile; poteva dirlo, doveva, era vero) «Io ti amo, lo sai.» «Tu dici?» Jane scosse tristemente la testa; le due tendine bionde che le incorniciavano il viso ondeggiarono. «Non lo so.» «Ti prego vediamoci questa sera e parliamo» la implorò lui disperato. «Vieni da me. Ti vengo a prendere alla fine delle lezioni.» «No, non venire. D'accordo, vengo da te. Non ho dimenticato dove abiti.» Si alzò prima che lui avesse il tempo di replicare e, un attimo dopo se ne era già andata. Stava solo affermando la sua indipendenza. Il fatto che lui non la passasse a prendere la rendeva libera di scegliere se andare o no da lui. Ma avrebbe mantenuto la parola. Ciò nonostante, Ray fu nervosissimo per tutto il pomeriggio. E se avesse pensato che la sola ragione per cui si era fatta convincere così in fretta era perché voleva liberarsi di lui? Poteva sempre ripensarci e mandare un'amica a dirgli che aveva cambiato idea. Si mise a guardare dalla finestra: sotto di lui sferragliavano decine di macchine, lustre come latta impolverata; creature solitarie vagavano con borse malconce e, di tanto in tanto, si fermavano a rovistare nei bidoni della spazzatura. Ray si mise a riassettare a casaccio l'appartamento, poi ci rinunciò. Che Jane vedesse come si era ridotto dopo che lei se n'era andata. Il cielo si riempì di nuvole. Sembravano gelatine bianche, pensò Ray. Le auto si moltiplicarono sulla carreggiata, intralciandosi a vicenda; uomini e donne erano costretti ad appiattirsi per passare attraverso quel labirinto di lamiere. La lezione di Jane doveva essere già finita. Ecco, aveva deciso di non venire. E non si era nemmeno degnata di farglielo sapere. La luce era opaca sotto il soffitto di nubi. Fra i passanti c'erano numerose ragazze dal volto accigliato. Una bionda, due, tre. La folla era punteggiata di teste bionde, che ondeggiavano pigramente. Che nervi gli davano! Ecco Jane. Dovette allungare il collo per accertarsi che fosse lei. Anche lei lo vide ma non lo salutò finché non fu lui a prendere l'iniziativa; e anche allora si limitò ad alzare rapidamente una mano. Non riusciva a leggere l'espressione del suo viso. La sua visuale era così dannatamente limitata in quel momento! Si precipitò di sotto. «Ciao» disse lei con voce scialba. Gli venne il dubbio che fosse venuta soltanto perché non aveva trovato il modo di declinare l'invito. Ray le fece segno di precederlo su per le scale. Mentre saliva i suoi fianchi oscillavano ritmicamente, lasciando indovinare la curva dei glutei sotto la gonna lunga. Rivide il suo corpo nudo.
Jane varcò la soglia dell'appartamento e poi si fermò di colpo. Fissò le coperte aggrovigliate, i vari schizzi buttati sul tavolo, la paletta della spazzatura che faceva capolino da sotto una sedia, una tazza rovesciata dalla quale gocciolava sul pavimento un rimasuglio di caffè freddo. Ray avvertì lo stato di confusione interiore di Jane: non sapeva come reagire. Poi, all'improvviso, trasse un profondo sospiro ed esclamò: «Oh Ray, basta che io ti lasci per cinque minuti e guarda che cosa combini!» Lui rimase senza fiato. Jane lo aveva ripreso con sé. La afferrò per le spalle e la fece girare per abbracciarla, ma lei gli puntò le mani contro il petto. «Lascia perdere. Adesso aiutami a sistemare questo casino.» Ray vide l'appartamento come doveva apparire agli occhi di lei: abbandonato, squallido. Cominciò a darsi da fare, arrossendo per la vergogna. Comunque, aveva lasciato che si riducesse così soltanto perché viveva solo: era una dimostrazione lampante di quanto lui avesse bisogno di lei. Insieme rifecero il letto, come era accaduto tante altre volte in passato. Ad un tratto Jane lo trasse a sé con violenza. «Pensavo che tu mi odiassi» disse, stringendolo forte. «Non guardarmi mai più come hai fatto quel giorno, mai più. Altrimenti me ne andrò per sempre.» Lo guardò diritto negli occhi, poi lo baciò. Ma prima che lui potesse affondare la lingua nella sua bocca, lei gli scivolò dalle braccia e si mise a sfogliare fra gli schizzi. «Come va il lavoro?» «Bene.» Il tono della sua risposta era stato quanto mai incolore e lei si accigliò. «"Bene" o solo "bene"?» All'improvviso Ray ricordò come andavano le cose tra di loro quando stavano insieme. A volte l'apprensione di Jane lo soffocava; le sue domande angosciose e i suoi silenzi ancora più angosciosi. Se le diceva di lasciarlo in pace, lei ci restava male; se non le rispondeva, era freddo e lei ne soffriva; e più lei cercava di aprirsi una breccia dentro di lui più lui le sfuggiva e si rinchiudeva in se stesso. Quella sera si limitò a scuotere la testa e a dire. «Bene e basta.» Lei lo abbracciò; stava cominciando a lasciarsi andare. «Non preoccuparti» gli disse. «Adesso riuscirai a lavorare di nuovo.» Il suo sorriso si aprì lentamente. Lo accettava di nuovo, completamente. Quando Ray abbassò lo sguardo sul suo corpo, il suo pene si infiammò. La spinse delicatamente sul letto. Poi cominciò a sollevarle la T-shirt per scoprirle il seno nudo, ma lei gli sfiorò il polso con le dita, facendogli segno di fermarsi. Tirò le tende e si spogliò; quindi lo spinse sul letto e lo denu-
dò. Evidentemente voleva che fosse chiaro per tutti e due che lei si stava dando per sua scelta. Si sedette a cavalcioni sopra di lui e cominciò a muoversi con violenza. Ray interpretò quella violenza come l'ammissione indiretta che non aveva avuto nessun altro uomo da quando si erano lasciati. Lui la accarezzò e le trafisse la bocca con la lingua. Ma la sola cosa che sentiva era il suo pene floscio. Che quegli ultimi trip lo avessero "bloccato"? Che non fosse più in grado di eccitarsi con Jane? Chiuse gli occhi, cercando di fare appello alla sua forza interiore e di contrarre i muscoli attorno ai genitali. Ma era inutile e frustrante. Esperienze di impotenza temporanea come quella lo avevano sempre ferito profondamente. Jane gli baciò gli occhi serrati. Il suo calore scivolò sul suo corpo; la sua bocca si chiuse attorno al suo glande. Lui abbassò lo sguardo: il suo pene assomigliava ad una salsiccia cruda, servitagli fra le cosce. La bocca di Jane vi aderiva come una sanguisuga. La sua testa si alzava e si abbassava meccanicamente, ma lui non sentiva niente, niente di niente, soltanto lo sbatacchiare di quel suo assurdo pezzo di carne. Anzi, lo sfregamento delle labbra di Jane contro il suo sesso e il calore del suo corpo in mezzo alle cosce lo irritavano. E poi temeva di venire sopraffatto da quel suo deferente ufficio. C'era solo un modo in cui forse sarebbe riuscito a liberarsi da quel senso di oppressione... Mosse con impazienza le gambe e disse: «Lasciami andare un attimo a fare la pipì.» Quando passò accanto al tavolo, prese la penna e la nascose nella mano. Aveva pensato fin dall'inizio di condividere quell'ultimo viaggio con Jane e, in un certo senso era quello che avrebbe fatto: forse era il modo migliore. Si chiuse in bagno e ingoiò gli ultimi due cristalli che gli erano rimasti. Poi cominciò a tamburellare sul lavandino con le dita. La droga non avrebbe dovuto tardare a fare effetto. Camminò avanti e indietro sul tappetino per non far rumore; il glande pendulo gli rimbalzava contro la coscia con la stessa delicatezza del pugno di un bambino. Si guardò allo specchio. Il viso cominciava a trasformarsi oppure la sua vista stanca lo stava ingannando? «Che cosa stai facendo?» domandò Jane Lui si fissò con sguardo colpevole. «Sto venendo» rispose e la sua immagine riflessa accolse con un sorriso beffardo quella battuta involontaria e crudele. Sapeva quello che Jane stava provando: gli sembrava di essere in quel bagno da ore. Non poteva trattenersi oltre, altrimenti lei si sarebbe sentita rifiutata. Aprì la porta e uscì.
Jane lo attendeva pazientemente distesa sul letto, con le gambe appena dischiuse. Sembrava un po' offesa. Inarcò le sopracciglia e fece per aprire la bocca: stava per chiedergli se lui non la volesse. Ma lui la voleva, eccome se la voleva! Rifuggendo l'idea di una possibile discussione, si inginocchiò a baciarle i genitali. Nel momento in cui lo fece, il mondo attorno a lui rabbrividì. Sollevò gli occhi. Da quella posizione il corpo di Jane gli appariva di scorcio: la testa, il seno e la vagina sembravano uniti... Era come se si fosse ridotta ad un simbolo di se stessa. All'improvviso Ray si sentì pervaso da un sentimento di sereno, profondo affetto. La sua fica ardeva. Era un arco di carne luminosa. Tutt'intorno splendeva l'alone scuro del pube. Ray toccò l'arco, che si aprì, rivelando il profondo corridoio di carne infocata. Jane osservò il suo riverente stupore e lui avvertì la profondità del suo desiderio. Il suo pene si drizzò all'istante e la sua luce interna cominciò lentamente ad accendersi, assecondando il ritmo delle pulsazioni che lo percorrevano tutto. Ray la penetrò. In quello stesso istante una parte di lei si riversò in lui, travolgendolo. Jane era calore, pietà, devozione, senso pratico, sessualità, un insieme di energie che lo inondarono. Se lui voleva, lei era lì, pronta ad offrirgliele. Fu un'inondazione sconvolgente, eppure pacata: non poteva nuocergli. Paragonato a questo, tutti i suoi viaggi precedenti erano scialbi, incolori. Qualsiasi movimento lui compisse, per quanto minimo, accresceva l'intensità di quell'inondazione. Aveva gli occhi aperti, eppure era come se si trovasse in una regione rutilante oltre i confini della visione. I suoi sensi non erano più distinti, ma una cosa sola. Un altro movimento e Ray sentì l'afflusso impetuoso dell'orgasmo, sempre più vicino, sempre più vicino, fino a quando lo travolse. Gli spasmi del suo piacere gli parvero giganteschi, violenti, prolungati: esplosioni di energia così intense che l'una era separata dall'altra da vuoti di cieca tenebra. Qualcuno stava ansimando. Il suo cuore pulsava più furiosamente del suo pene. Il suo corpo si accasciò. Lui era da qualche parte, pronto a ritornare in sé per tempo. Sentiva che anche Jane era arrivata all'orgasmo. L'orgasmo di lei era più violento del suo. Era un vortice di sensazioni che lo inghiottiva. Basta! Era troppo! Ma l'intensità di quelle sensazioni lo risucchiò, con un'inesorabilità che non aveva mai sperimentato prima. L'orgasmo di Jane prese d'assalto tutti i suoi sensi: non era in grado di concepire, né sentire nient'altro.
Si abbandonarono sul letto esausti. Ray cercò cautamente di riconquistare i propri sensi. Nulla: il vuoto. Dov'era? I suoi sensi vagavano alla deriva come sogni, fuori dal suo controllo. Che cos'era che lo opprimeva? Che cosa c'era che non andava? Occhi aperti. Sbarrati. Qualcuno rimase senza fiato, poi urlò. Un volto lo fissò con occhi spenti: era il suo volto. Il suo corpo giaceva senza vita sopra di lui e l'opprimeva. Mani che si protendevano in alto e scuotevano freneticamente le spalle del suo corpo, mani con dita sottili e unghie lunghe: le mani di Jane. La sentiva singhiozzare, ma non riusciva a vedere la sua faccia. Sì: adesso riusciva a vedere i suoi occhi, per quanto fosse una visione un po' sfocata. Con rapidi movimenti delle palpebre cercava di liberarli dalle lacrime. Stava vedendo attraverso i suoi occhi. Non doveva farsi prendere dal panico. Gli era capitato altre volte, in quegli ultimi "viaggi", di trovarsi fuori dal suo corpo. Nel primo aveva visto il suo viso che sbirciava all'interno del capanno. Poteva tornare indietro. Il suo corpo era solo svenuto per un attimo, tramortito dall'orgasmo. Ma adesso Jane non lo chiamava più, urlava solo e colpiva con forza le spalle del corpo accasciato sul suo per liberarsi. Non farlo! Dio! Doveva correrle vicino, rassicurarla! Ma era trascinato lontano dal terrore, dalla vista del proprio volto inanimato che lo fissava a bocca spalancata, del suo corpo afflosciato, completamente separato da lui, un peso morto e senza cervello. Il terrore di Jane stava crescendo in maniera incontrollabile. Alla fine esplose e lo travolse, annientandolo, spazzando via la sua coscienza, la sua identità. E mentre lei urlava, cercando di sollevare il suo corpo, lui si ridusse ad un grido sottile e impotente, confuso fra le grida di lei. IL RITORNO DI LOVEMAN Stava certamente sognando. Era nel suo letto, ma le lenzuola avevano la stessa consistenza di un tappeto di muschio umido. Aveva gli occhi bianchi e acciecati. Per un attimo fu attanagliata da un'angoscia da incubo, poi si rese conto che ciò che le riempiva gli occhi, impedendole di vedere, era la luce della luna e non una cataratta. Si drizzò a sedere sul letto e, oltre i vetri sudici della finestra, vide il disco della luna. Il camino di una casa vicina si stagliava contro il suo bagliore come una testa squadrata, nera e cornuta.
Doveva essere stata quella luce a svegliarla, ammesso che fosse sveglia. Le coperte illuminate dai raggi bianchi conservavano, nelle pieghe sgualcite e nere d'ombra, la sagoma, seppur vaga, del suo corpo. Fissando quella sagoma riuscì ad avvertire appena la propria presenza. Era in piedi, scoprì, ed era vestita, pronta per uscire. Ma perché voleva uscire? La brina luccicava sui vetri della finestra, come se la sporcizia accumulata da mesi fosse sbocciata adornandoli di fiori traslucidi. In ogni caso, perfino il gelo della notte era forse preferibile alla solitudine di quell'enorme casa, che sembrava priva di vita, piena soltanto dell'eco della sua persona. Eppure non era così quando i suoi genitori... Non aveva senso pensarci adesso. Era meglio uscire a fare due passi. Ma non era nemmeno il caso di avere tutta quella fretta. Poteva almeno accendere la luce delle scale. La forza compulsiva che la dominava, però, non sembrava dello stesso parere; i raggi della luna si protendevano ad illuminare il pianerottolo sul quale si affacciava la sua camera, e formavano un frammento di guida, un po' sghimbescia per la verità, lungo la prima rampa di scale: un'illuminazione più che sufficiente. La sua ombra frastagliata scese balzelloni giù per i gradini. Il rumore dei suoi passi rintronò per tutta la casa come lo scalpiccio inconsistente di una folla, soltanto per rammentarle la sua solitudine. Per fuggire lontano da quel ricordo, si precipitò alla cieca giù dalle scale di nudo legno, attraversò l'atrio rimbombante e uscì. La strada non era rassicurante. Ma a quell'ora di notte nessuna strada poteva esserlo. Ripensò istintivamente ai suoi vagabondaggi notturni. Oppure anche quello era un sogno? Non aveva vagato tante volte di notte, proprio alla ricerca delle vie più buie e più deserte, con altre persone (amici senza dubbio) insieme alle quali fumava sigarette multicolori arrotolate a mano, e attendeva, rinchiusa, come loro, nella gabbia della sua solitudine, che la droga esaurisse il suo effetto? Non ricordava le case che rimpicciolivano, come se uno gnomo stesse operando qualche magia, e i mattoni che fondevano insieme come cera? Ma non era sicura che quelle immagini appartenessero a qualche ricordo. In quel momento perfino i suoi genitori le sembravano personaggi di un sogno. L'impulso di camminare era più reale. Be' più velocemente di così proprio non riusciva a camminare. L'asfalto sembrava incrinarsi sotto i suoi piedi; sul marciapiede i lampioni spenti tenevano su la testa rotta. In fondo alla via, intrawide una strada immersa nella luce della luna: le sembrava lo scheletro luminoso di qualcosa di inimmaginabile. Ma il suo impulso la trascinò dalla parte opposta, in mezzo
a file ininterrotte di case che avevano per giardino soltanto il grigio cemento del marciapiede. La luce della luna ricopriva i tetti spioventi di scaglie sovrapposte di ghiaccio immacolato. Al suo passaggio, le finestre buie e opache si incresparono, o così almeno a lei sembrò. Era così intirizzita che l'unica cosa che percepiva era l'obbligo di camminare. Era una sorta di nervosismo che doveva assecondare, una specie di tarlo, la minaccia di qualcosa di doloroso. Erano i sintomi di un'incipiente crisi di astinenza? Non lo ricordava più... A dire il vero non ricordava nemmeno di aver mai avuto crisi di astinenza. Era arrivata a bucarsi così tanto da non poter più fare a meno della droga? Il vento gelido dispiegò sull'asfalto un tappeto di rifiuti; un oggetto rotto grattò contro le zanne di vetro di una lampada. Le case a schiera che sorgevano lungo entrambi i lati della strada la circondavano come solide mura. Nell'oscurità, le finestre apparivano opache come mattoni; non poteva certo viverci nessuno in case simili. Possibile che non incontrasse anima viva, qualcuno che le confermasse che durante la notte la città non era morta? Quell'incapacità di ricordare cominciò a preoccuparla. Le sembrava di avere la mente buia e vuota. Ma le strade si stavano rischiarando. Una luce arancione brillò fra i muri, ferendole gli occhi. Un bagliore ramato covava sotto le nubi che si stavano addensando sopra di lei. Quando udì il rombo vivace di un motore, capì che stava per raggiungere la strada principale. Per quanto fosse squallido, la rincuorò. Almeno sarebbe riuscita a vedere: camminare in quella viuzza deserta le aveva fatto ripensare alla sua paura più segreta, più angosciosa. Sulla strada principale avrebbe potuto camminare lungo la carreggiata; in quel momento, perfino gli automobilisti, chiusi nelle loro macchine come in tante scatoline di latta su una catena di montaggio, le sarebbero stati di compagnia. Chissà, forse uno di loro le avrebbe perfino offerto un passaggio. Era successo qualche volta. Ma non le era permesso camminare lì. Prima ancora che avesse il tempo di socchiudere gli occhi per proteggerli dalla luce, la forza che la dominava la obbligò ad imboccare le scale del sottopassaggio, sui cui muri frasi e disegni si confondevano in grovigli barbari. Luci lunghe e sottili tremolavano e ronzavano come insetti in trappola. Un'auto rombò sulla strada. Al centro del sottopassaggio c'era una pozza d'acqua fangosa che sommergeva uno scarico intasato. Benché fosse costretta a passarvi in mezzo, non sentì l'acqua bagnarle i piedi. Non era quella una prova che stava sognando?
Forse. Ma quando si ritrovò sul marciapiede dalla parte opposta della strada, un crescente disagio si impadronì di lei. Sapeva dove stava andando, ma la sua mente si rifiutava di essere più esplicita. Qualcosa la costringeva a proseguire, a passare fra due imponenti pilastri di pietra e a incamminarsi sotto le chiome di una doppia fila di alberi. I ricordi cominciarono a riaffiorarle alla mente: facevano capolino, ma poi scomparivano prima che lei potesse capire la ragione della profonda tensione che sentiva dentro. Si sentì costretta ad accelerare il passo e ad imboccare una strada privata, quasi per fuggire lontano da quei ricordi. Ma lì c'erano cose che aveva già visto: grandi case bianche, isolate e distanti oltre la barriera verde dei giardini; facce di mattoni, squadrate e compiaciute, incrinate dall'ombra dei rami; famiglie di automobili simili ad animali addormentati fra gli alberi; lampade o timoni di nave di fronte ai portoni di ingresso; barche tratte in secca lontane da qualsiasi mare. Ma quando era stata lì, e perché? Nella fretta involontaria, scivolò e cadde su un tappeto bagnato di foglie morte. A poco a poco, accompagnata da un crescente senso di sgradevolezza, nella sua mente si scatenò una lotta fra impulsi opposti. Voleva sapere perché quel posto le era famigliare e al tempo stesso aveva paura di scoprirlo. Una parte di lei voleva svegliarsi, ma se poi si accorgeva di non essere affatto addormentata? Irrispettosi di quella confusione mentale, i suoi piedi continuavano a procedere rapidi. Ad un tratto si voltarono. Doveva smetterla di dibattersi fra quei pensieri per vedere dove stava andando. No, non lì! Non era soltanto il fatto che nella sua mente si era risvegliato un ricordo che alludeva ad una vaga minaccia: si stava dirigendo verso la casa di qualcuno. L'avrebbero arrestata! Cristo, che cosa diavolo aveva intenzione di fare? Ma i suoi piedi ignorarono le sue proteste e per quanto lei si dimenasse intimamente, il suo corpo la trascinò verso la meta a cui era diretto. Una fila di siepi premeva accanto a lei; pugni di foglie le colpirono il volto. Scivolò sul sentiero erboso che si dipartiva dalla strada; riuscì a non cadere, ma un ramo della siepe si spezzò, sferzandola. Qualcuno l'avrebbe sentita e avrebbe chiamato la polizia! Ma quella paura era quasi un conforto, perché le impediva di accorgersi che il luogo verso il quale era diretta era molto, molto diverso da qualunque casa. Ad un certo punto si apriva un varco nella siepe e lei si fermò. Certo non aveva alcuna intenzione di... Invece si fece strada fra i rametti ruvidi e scricchiolanti e si ritrovò all'interno di uno spazio più ampio. Gli alberi si
curvarono su di lei, immergendola nel chiacchiericcio delle foglie; rare scaglie di luce lunare galleggiavano sopra le nubi. Proseguì incespicando su quello che sembrava un sentiero. Dopo un po' lo lasciò e si incamminò alla cieca sopra alcuni tumuli, accanto a lastre verticali che le graffiavano le gambe; una volta inciampò in un vaso di pietra, o qualcosa di simile, che ruzzolò pesantemente a terra. Davanti a lei si profilavano alcune costruzioni scure. Una di quelle era una casa con le luci spente: doveva ritornare verso la strada. Era davvero la sagoma di una finestra, scura come le nubi, quella che le sembrava di scorgere e dalla quale protrudeva la testa di una persona che la scrutava? Quella fugace visione le impedì di notare la costruzione più vicina fino a quando non le fu quasi accanto. Era un capanno che emanava un odore che olezzava di legno vecchio e umido, e la sua mano stava già tastando la porta alla ricerca della maniglia. No. No, non sarebbe entrata. Non finché gli sprazzi di luce lunare avrebbero continuato a mostrarle tutti quei tumuli abbandonati, alcuni dei quali aperti... Ma il suo corpo era un automa e lei non era che un esserino minuscolo e impotente racchiuso al suo interno. La sua mano tirò verso di sé la porta di legno screpolato, e i suoi piedi la condussero all'interno. Ti prego, lascia almeno la porta aperta, per favore... La sua mano tremò, ma ignorò la sua supplica e, allungandosi all'indietro, la chiuse nel buio del capanno del cimitero. Doveva trattarsi per forza di un sogno. Nessun capanno poteva essere immerso in una tenebra così uniforme. In ogni caso, non avrebbe potuto esplorare quel luogo nemmeno se ne avesse avuto il coraggio, perché il suo corpo era paralizzato, spento, in attesa. Non era forse una situazione abbastanza orrorifica da dover essere per forza un sogno? E non poteva dirsi altrettanto dei passi lenti che dal cimitero profanato avanzavano incespicando verso il capanno? Doveva voltarsi; doveva vedere che cosa avesse aperto la porta e adesso indugiasse, in silenzio alle sue spalle. Ma forse per un senso di costrizione, forse per paura non riuscì a muoversi. Un timido raggio di luna disegnò davanti a lei il profilo di un tavolo basso, sul quale era riflessa l'ombra piegata e deforme di una testa e di una spalla. Poi, insieme alla porta che sbatteva, la tenebra si richiuse attorno a lei. Tre passi l'avevano condotta all'interno del capanno: non più di tre sarebbero serviti a trovarla. Sentì i piedi strisciare sul terreno: un passo, due... Dita impacciate come artigli le tirarono i capelli. Poi le sfiorarono le
spalle. Un grido sottile morì al centro del suo essere. Le mani, che erano molto fredde, le sollevarono le braccia. Poi, mentre lei aspettava come una croce tremante nell'oscurità, le afferrarono i seni. Quando cominciarono ad armeggiare con i bottoni del suo vestito, la sua mente si rifiutò di crederci: fuggì e si nascose in un angolo mormorando: è un sogno, soltanto un sogno. Il suo seno era nudo sotto l'abito. Le dita, gelide come il terreno sul quale era caduta, le strinsero violentemente i capezzoli, come se volessero ridurli in polvere. La sua mente, ansiosa di distrarla, le ricordò la frantumazione in tabacco della canapa indiana. Quando finalmente i suoi capezzoli si drizzarono, le sembrarono lontani, non più parte di lei. Le mani la spinsero con la schiena contro il tavolo. Poi le serrarono le dita contro il bordo e le allargarono le gambe. Era come una di quelle bambole a dimensione naturale che si vendono nei sexy-shop; e una spettatrice impotente dei movimenti grotteschi di quel suo corpo di marionetta. Quando le mani le scoprirono il sesso, la sensazione che provò fu meno convincente di un sogno. Sentì il pene che la penetrava. Le sembrava innaturalmente scivoloso e piuttosto grosso. Quelle sue osservazioni erano del tutto neutrali, e il suo distacco rimase tale anche quando le dita cercarono il suo clitoride. Le spinte del pene avevano per lei lo stesso significato dei colpi di un tamburo lontano. Quella situazione era così grottesca che le permetteva di ritirarsi in un angolino solitario, spoglio e tranquillo della sua mente. Il ritmo delle spinte aumentò, seguì il getto finale, ma lei non provò nemmeno l'ombra di un orgasmo, come del resto accadeva il più delle volte. Quel famigliare senso di insoddisfazione era stranamente rassicurante. Solo l'ansito nervoso del suo partner, l'affanno di una persona a cui sia stato impedito di respirare, era nuovo. Non appena ebbe finito, l'uomo si ritrasse. Dopodiché l'allontanò con uno spintone, o per meglio dire la scartò. Lei allungò di scatto le mani per non andare a sbattere contro le assi viscide delle pareti, ma non sentì niente. Era naturale che non sentisse niente, era un sogno! Non si aspettava di riacquistare così all'improvviso il controllo del suo corpo e barcollò. All'improvviso la porta si aprì e i suoi occhi catturarono l'immagine fugace di una figura dalle gambe arcuate che usciva incespicando; della faccia vide soltanto che era grassa e pelosa, orribile come la superficie di un cibo ammuffito. Nell'uscire, la figura afferrò la maniglia e chiuse la porta. Forse era prigioniera. Ma la sua mente non era in grado di sopportare al-
tro; se era prigioniera, non sapeva proprio che cosa farci. Si rivestì alla cieca, meccanicamente; i bottoni le sembravano enormi, spessi come ciottoli. La porta non era chiusa a chiave. Sì, si trovava in mezzo ad un cimitero. La sua mente intorpidita la lasciò camminare: non c'era motivo per cui non dovesse ritornare a casa. Ripercorse a ritroso il tragitto di prima, attraversò il sottopassaggio allagato e si ritrovò sulla strada principale, che era deserta. La luna era tramontata; le vie laterali erano valli buie. Forse, una volta ritornata nel suo letto, quel sogno si sarebbe eclissato nel sonno. Quando crollò completamente vestita sopra le coperte, l'oblio la catturò all'istante. Quando si svegliò capì immediatamente dove era stata. Nel sogno, s'intende. Era comprensibile che quel sogno le avesse scombussolato il sonno; una volta sveglia si accorse di aver dormito tutto il giorno, spossata da quell'incubo. Avrebbe di gran lunga preferito che quella grande casa in cui viveva da sola non fosse così buia. Il riverbero della luna rischiarava il cielo; stagliati contro la volta pallida, i tetti sembravano ancora più neri. Nel vuoto della stanza, il cigolio del letto riecheggiò con distinta sonorità. Almeno adesso era sicura di aver sognato, perché Loveman era morto. Ma perché lo sognava proprio adesso? Soppesò gli scuri pensieri che le affollavano la mente intorpidita. La ragione doveva essere la morte dei suoi genitori. Di tutte le cose che aveva fatto che avrebbero potuto scioccarli e farli soffrire, se ne fossero stati a conoscenza, la sua storia con Loveman era senz'altro quella che avrebbero disapprovato di più. Da quando erano morti non aveva fatto che ripetersi che finalmente era libera di fare tutto quello che voleva, senza più il rischio di essere scoperta, ma con il passare dei giorni si era resa conto che quella libertà non le interessava più. Quel pensiero doveva essere rimasto latente nella sua mente e quella notte doveva aver dato vita all'incubo. Il ricordo dei suoi genitori le fece sembrare la casa ancora più vuota. Si era sentita così piccola e abbandonata le prime notti che aveva dormito da sola, con il vuoto e il silenzio come unici compagni! Non si era mai resa conto di quanto avesse sempre fatto conto sulla loro presenza. Era stato allora che, per la prima volta, era ricorsa alla droga non per piacere, ma nel disperato tentativo di riuscire a dormire. Ed era per quello che adesso aveva il ritmo del sonno sfasato. Uscì di corsa, senza nemmeno preoccuparsi di accendere le luci; conosceva troppo bene la casa. Non era abitata dai fantasmi: era soltanto
morta, fredda, una tomba. Fuggì lontana da quello squallore, puntando verso la strada principale. Forse la vista della luce e di uno spazio aperto l'avrebbe confortata. Oltrepassò le case a schiera senza nemmeno vederle, tanto le erano famigliari. Il pensiero di Loveman la accecava. Camminava meccanicamente. Dio, se solo i suoi avessero scoperto che si era immischiata con gente che praticava la magia nera! Non che si fosse mai fatta coinvolgere più di tanto. Aveva sentito dire che Attaccavesti aveva il potere di chiamare a sé le sue donne, che loro lo volessero oppure no, semplicemente modellando delle bamboline a loro immagine e somiglianza. Probabilmente le donne venivano intimorite dal suo sguardo, uno sguardo che ipnotizzava. Nel suo caso non aveva avuto bisogno di conquistarla per possederla, come nessun altro uomo, del resto. E non l'aveva nemmeno soddisfatta più degli altri. Evidentemente per quello la magia nera non serviva a un granché! Poi, così aveva saputo da alcuni amici, un brutto scherzo del destino aveva posto fine ai suoi incantesimi. Era stato investito sulla strada principale da una macchina guidata da un'infermiera, che, per giunta, era una cristiana devotissima. Era stato un modo d'agire misterioso anche per il Padreterno! Era successo prima o dopo la morte dei suoi genitori? I suoi ricordi a questo proposito erano incongruenti e vaghi. Doveva essere quello scombussolamento del sonno a offuscarle la mente. E il resto del sogno... Un incubo, soltanto un incubo, un'esagerazione. Sì, era vero, Loveman abitava nella strada privata che aveva percorso in sogno e dietro casa sua c'era un cimitero. E senza dubbio doveva essere sepolto lì, come aveva sognato. Ma perché doveva lasciarsi turbare da uno stupido incubo? Eppure turbata lo era, e ricordava bene anche la sera in cui era andata a casa sua e l'aveva visto uscire dal cimitero. Lui le aveva lanciato un'occhiata obliqua e a lei era parso imbarazzato e falso dietro quella ostentata sicurezza di sé che sconfinava con l'aggressività, e segretamente estasiato. Non aveva voluto sapere che cosa fosse andato a fare al cimitero quella sera e, tanto meno, voleva saperlo adesso. Ecco, finalmente era arrivata alla strada principale. La luce dei lampioni avrebbe cancellato il ricordo di quel brutto sogno. Ma in un angolo remoto della sua mente continuava a fare capolino una presenza che lei non era mai abbastanza lesta da riuscire ad afferrare. Le auto sfrecciavano sulla strada; le tendine delle case risplendevano bianche dietro i vetri. C'era soltanto un modo per liberarsi di quell'incubo: proseguire fino alla via in cui
abitava Loveman e scacciare le immagini del sogno con quelle della realtà. Ma non ce la faceva. Raggiunse l'entrata del sottopassaggio e si fermò, come paralizzata. I cancelli erano aperti, i muri erano ricoperti di scarabocchi, come l'ingresso di una tomba profanata. Una forza oscura che dominava la sua volontà e che lei non riusciva né a percepire fino in fondo né a capire, le impediva di compiere anche un solo passo in direzione della casa dell'uomo. Particolari del sogno e ricordi di Loveman si accavallarono minacciosi nella sua mente. E se il cimitero fosse stato esattamente come lei lo aveva sognato? Il pensiero improvviso di essere sonnambula la fece retrocedere di scatto dall'entrata gelida del sottopassaggio, dalla pozza fangosa in cui tremolavano i fantasmi delle luci morenti. Ad un tratto, con un tempismo che sembrava una vendetta, la strada si vuotò di macchine. La luce che filtrava dai vetri delle finestre serviva soltanto a farla sentire esclusa e ancora più sola. La ragazza si sentì raggelare, anche se forse era una sensazione di freddo più psicologico che fisico, e rabbrividì. Dalla parte opposta della strada, gli alberi che crescevano lungo entrambi i lati della via privata agitarono i rami all'unisono, quasi parodiando una preghiera. Aveva paura a stare da sola; non se la sentiva di trascorrere la notte nella sua grande casa vuota più di quanto fosse disposta a dormire in una bara. Si guardò attorno, ma il suo sguardo si arenò nei vialetti che conducevano ad abitazioni altrui, ciascuno con una macchina parcheggiata a fare da cane da guardia. Dietro quelle case rispettabili c'era una biblioteca. C'era stata soltanto una volta, per comprare dell'acido; i libri non erano mai riusciti ad interessarla a lungo. Ma in quel momento cercò rifugio in quel palazzo come un credente cerca rifugio in una chiesa. E l'aria della chiesa ce l'aveva davvero. Diverse signore camminavano avanti e indietro con passo felpato, immerse nella lettura di romanzi che tenevano in mano come fossero messali, pronte a zittire chiunque osasse far rumore. Ma c'erano anche tavoli coperti di giornali, vecchietti che facevano di nascosto le parole crociate, ragazzine che ridacchiavano dietro gli scaffali, passandosi furtivamente una sigaretta. Sì, avrebbe potuto rifugiarsi lì senza dare nell'occhio e calmarsi. Varcò timidamente la soglia della grande sala illuminata, poi si fermò di colpo: Magia nera, Il libro degli incantesimi, La verità sulla stregoneria. Possibile che il suo sguardo dovesse cadere proprio su quello scaffale di libri? Cambiò direzione, incapace di celare il suo disagio.
La gente la squadrava aggrottando la fronte e si allontanava non appena lei si avvicinava. Ma a questo era abituata; normalmente lanciavano rapide occhiate ai buchi che aveva sulle braccia. Si abbassò le maniche della blusa fino ai polsi. Nessuno le avrebbe impedito di sedersi... solo che non c'era posto: tutti i tavoli erano occupati da vecchietti intenti a scarabocchiare e a grugnire alla pagina del giornale che stavano leggendo o fra di loro. No: c'era un tavolo pressoché deserto e nascosto alla vista del bibliotecario da uno degli scaffali. Vi era seduto soltanto un ragazzo tutto pelle e ossa, reso ancora più piccolo dal pesante cappotto dimesso che indossava; in testa portava un berretto di lana che gli nascondeva i capelli. Stava leggendo un romanzo di fantascienza, e voltava le pagine con lo stesso entusiasmo con cui avrebbe mangiato una pietanza insipida. Quando lei si sedette, lui sollevò gli occhi, e la guardò con il medesimo interesse che avrebbe manifestato se su quella stessa sedia qualcuno avesse buttato un vecchio cappotto. Quando fece scorrere rapidamente le pagine fra le dita diafane, lei notò i segni lasciati dagli aghi sui suoi avambracci. Ecco perché non c'era nessun altro seduto a quel tavolo. Forse aveva della roba da vendere, ma a lei non interessava; non ne sentiva alcun desiderio. Il solo sentimento che provava in quel momento era un vago senso di depressione legato al ricordo, che quel ragazzo le aveva fatto brutalmente scattare nella memoria, dei giorni in cui si bucava. Non riusciva a staccare gli occhi da quei segni di puntura, e lo sguardo del ragazzo si indurì. «Tutto bene?» le domandò, con una voce così tediata, che i suoni scivolarono gli uni negli altri, confondendosi. «Sì, grazie.» Forse il suo tono non era del tutto convincente; le paure che l'avevano assalita al suo risveglio non se ne erano ancora andate. «Sì, direi di sì» aggiunse, quasi si sentisse in obbligo di dargli delle spiegazioni. Lo sguardo di lui le pesava e aveva la sensazione che dubitasse delle sue parole, anche se la verità era che per lui non faceva alcuna differenza guardarla o non guardarla. «Ho fatto due passi e volevo riposarmi un po'» riprese, incapace di aggiungere altro. «Ho capito.» Stava sfregando nervosamente con la punta delle dita l'angolo di una pagina, che, già tutto annerito, era sul punto di stracciarsi. Era chiaro che la sua presenza lo seccava. «Mi dispiace» disse, sentendosi sola e respinta. «Immagino che tu sia qui per leggere.» Il bibliotecario si avvicinò al tavolo con sguardo di rimprovero, ma dopo un po', non avendo trovato niente di cui accusarli, scivolò via per andare a riprendere un vecchietto che stava finendo un cruciverba. «Che cosa sta facendo? Eh, che
cosa sta facendo? Lo sa che è vietato.» «Non stavo leggendo» disse il ragazzo. Forse non era vero, ma adesso il suo principale desiderio era quello di provocare il bibliotecario. «Continua. Stavi dicendo che hai fatto due passi. Da sola, immagino?» C'era una nota di preoccupazione nella sua voce? L'improvvisa solitudine che provò fu più forte del doloroso, sordo senso di vuoto che fino ad allora era riuscita a tenere a bada. «Sì» borbottò. «Vivi con qualcuno?» Il suo interesse era cresciuto, perché non biascicava più le parole, ma le pronunciava distintamente. Era perché si preoccupava per lei o aveva un secondo fine? «No» rispose cautamente. «E da che parti abiti?» Adesso era chiaro dove volesse arrivare; l'impazienza gli aveva fatto perdere ogni ritegno come accade a tutti i drogati. «E tu dove vivi?» replicò, scandendo le parole con aria trionfante. «Oh» rispose lui evasivo. «Sto traslocando.» Il suo sguardo nervoso vacillò, perché lei, alzando la voce, aveva attirato l'attenzione del bibliotecario; il volto rosso dell'uomo si chinò sul tavolo. «Devo chiedervi di parlare più piano» disse. «Oh. Vaffanculo. Ce ne andiamo.» Quell'interruzione gli aveva fatto perdere il controllo. «Mi scusi» aggiunse subito dopo con voce lagnosa. «Non volevo dire quello che ho detto. Ci comporteremo bene. Non daremo fastidio a nessuno, lo giuro. Ci lasci restare qui. La prego.» La ragazza e il bibliotecario lo fissarono, in preda ad un grande imbarazzo. Dopo alcuni istanti il bibliotecario disse: «Basta che vi comportiate bene» e si allontanò lentamente, scuotendo la testa. A quel punto lei aveva già capito perché il ragazzo aveva tanta paura di essere buttato fuori; era venuto lì per comperare della "roba". «Me ne vado fra un attimo» gli bisbigliò. «Sto bene adesso. Avevo fatto soltanto dei brutti sogni, ecco tutto» aggiunse poi, per spiegargli perché prima era un po' scossa. Soltanto sogni, era ovvio, soltanto brutti sogni. «Ah Ah» assentì lui, facendole capire dal tono della voce che sapeva bene di che cosa stesse parlando; aveva notato i segni delle punture che anche lei aveva sulle braccia. «Non c'è bisogno che te ne vada» si affrettò a sussurrarle; forse, lei gli ricordava ciò che in quel momento desiderava di più, e la solitudine della sua condizione di drogato. «Puoi leggere un libro.» C'era qualcosa in lui, forse quei buchi che le erano tanto famigliari, o la
sua preoccupazione, per quanto interessata, che la faceva sentire meno sola. Quella sensazione l'aveva già aiutata a scrollarsi di dosso il ricordo del sogno; restare lì a fargli un po' di compagnia non poteva certo nuocerle. Scelse alcuni libri, anche se le sembravano tutti uguali. Leggiucchiò alcune pagine qua e là, soffermandosi soprattutto sulle scene di sesso, nessuna delle quali riuscì a coinvolgerla: erano assurde e, soprattutto, non avevano niente a che vedere con la realtà. Di fronte a lei, il ragazzo picchiettava con le unghie la copertina del suo romanzo, lasciando che le pagine girassero quando volevano. «Fra cinque minuti la biblioteca chiude,» annunciò il bibliotecario. Al quinto scatto, la lancetta dei minuti si sovrappose a quella delle ore, ma fu solo quando il bibliotecario si avvicinò al loro tavolo aggrottando la fronte, che il ragazzo si decise ad alzarsi. Non era venuto a sedersi nessun altro a quel tavolo. Il ragazzo si diresse con passo frettoloso verso uno scaffale e, addossandolo con un colpo secco ad altri tomi, rimise a posto il libro... Ma la ragazza si accorse che aveva solo fatto finta: con l'abilità di un prestigiatore, aveva fatto sparire il romanzo sotto la falda del cappotto. Quando si ritrovarono sulla strada lui le domandò: «Vuoi andare da qualche parte?» Lei sospettò che lui intendesse, "da qualche parte a cercar roba": più che tentarla una simile proposta la deprimeva. In più temeva che se l'avesse accompagnato, non sarebbe riuscita a nascondergli dove abitava. E non voleva che lui lo sapesse; le era capitato fin troppo spesso di perdere il controllo della situazione in quel periodo; e, la notte precedente, come se non bastasse, c'era stato perfino quello strano sogno. Non aveva più bisogno di lui adesso... Si era liberata dell'incubo. «Devo andare a casa» gli disse in fretta, e se ne andò. Quando si voltò a guardarlo, lo vide fermo sugli scalini della biblioteca. Il suo viso pallido e avvizzito appariva innaturalmente rosso sotto le lampade a vapori di sodio; il suo corpo magro tremava sotto il lungo cappotto macchiato. Era contenta di non essere più così. Svoltò nella prima laterale per paura che lui la seguisse. Aveva cominciato a piovere e le gocce ticchettavano sui tetti delle auto. La luna sembrava fluttuare in acque limacciose, ed era costantemente inghirlandata di nubi nere sospinte dal vento. Nonostante le avesse inzuppato il vestito, quello scroscio di pioggia sul viso l'aveva fatta rinascere: era fredda, ma non al punto da darle fastidio. Quell'acqua pura aveva finalmente cancellato ogni traccia del sogno. Ma non era così, perché ad un tratto, nel cuore di una tenebra che doveva essere il sonno, si ritrovò ad alzarsi di nuovo dal letto. Fuori dalla fine-
stra, stagliato contro la luna, luccicava un camino inondato di pioggia. Lei ebbe soltanto il tempo di cogliere quell'immagine, perché subito dopo un impulso la costrinse a scendere di sotto, gli occhi strizzati a sfidare il buio, e poi ad uscire in strada. Com'era possibile che sognasse in modo così vivido? Tutto intorno a lei sembrava drammaticamente reale: le centinaia di gocce che le baciavano la pelle, le onde sottili che il vento le soffiava in faccia, il ticchettio della pioggia sulle lamiere. Poteva essere il suo udito a trasmetterle quei suoni nel sonno, ma come faceva a sentire gli spruzzi dell'acqua fredda negli avvallamenti del marciapiede e a vedere il luccichio dell'asfalto bagnato? Alcune delle lampade del sottopassaggio erano fuori uso. L'acqua della pozzanghera le schizzò sulle caviglie, serrandole le gambe in una morsa di gelo. Non aveva provato alcuna sensazione simile la notte precedente. Era il suo sogno che si riempiva di nuovi particolari o era il suo crescente terrore che le impediva di rendersi conto di quanto stava realmente accadendo? Lungo la strada privata gli alberi erano zuppi di pioggia. Le gocce, accese dalla luce dei lampioni si rincorrevano come formiche lungo i tronchi scuri e i rami. Il solo rumore che rompeva il silenzio che la circondava era il sibilo vago e leggero della pioggia. Quello avrebbe potuto udirlo anche dal suo letto... ma allora perché la sua mente si dava la pena di mostrarle una macchina parcheggiata davanti alla casa di Attaccaversi? C'era scritto qualcosa sul finestrino dell'auto, ma prima che lei riuscisse a leggerlo, qualcosa la costrinse a piegare di lato, fra le siepi. Le foglie brillavano e le riversavano addosso gocce gelate. I capelli fradici le colavano lungo il collo. Quando si fece strada, o qualcuno la spinse (non avrebbe saputo dirlo) nel varco che si apriva nella siepe, i ramoscelli del sempreverde la inondarono con il loro carico di pioggia. Era troppo bagnata perché quella sensazione fosse reale... Eppure stava procedendo a tentoni nell'oscurità, fra lapidi e buchi neri che cercavano di inghiottirla. Che cosa contenevano quelle montagnole di terra aperte? Dio ti prego, fa che sia un sogno. Ma quella maniglia gelata e quelle scaglie di ruggine staccate dalla pioggia che le erano rimaste appiccicate alla mano non erano un sogno. Per quanto lei cercasse di trattenerlo, il suo braccio si protese all'indietro a chiudere la porta. Poi avanzò incespicando, fino a quando le sue cosce urtarono contro il bordo del tavolo. Doveva essere la pioggia a riempire la tenebra di quel nauseante odore di terra, ma quella spiegazione non serviva
a placare il suo terrore. Peggio ancora: le nuvole avevano lasciato libera la luna e adesso un debole chiarore diluiva l'oscurità del capanno. Avrebbe avuto la possibilità di vedere. I primi passi che udì erano pesanti, come di piedi che affondavano nel fango. E non poteva che essere così, visto che stavano risalendo dalle viscere della terra. Si contorse all'interno di quel suo corpo di bambola e urlò in silenzio. I passi avanzarono ineguali verso la porta, che cigolò sui cardini, lenta, gongolante. Armeggiare di mani contro il legno del battente finché la porta si spalancò. Forse il proprietario di quelle mani era cieco, magari incompleto, pensò con orrore. La luce della luna la investì, scagliando la sua ombra, incapace perfino di tremare, nelle profondità del capanno. La tenebra si richiuse con un tonfo alle sue spalle. I passi si avvicinarono, carichi di fango. Grinfie gelate, che sembravano contorte e zuppe d'acqua come i rami della siepe, le afferrarono le spalle. Volevano costringerla a voltarsi, in modo da poter vedere in faccia il suo aguzzino. Con uno sforzo che per un attimo la accecò, lei resistette e non si voltò. Che le concedesse almeno di restare paralizzata com'era, di non vedere! Un istante dopo le mani smisero di tirarla e, quasi assecondando un improvviso mutamento d'intenti, la spinsero a pancia in giù sul tavolo. Poi, con sua enome sorpresa e umiliazione, un'umiliazione che quasi la fece urlare, cominciarono a picchiarla. Dopo alcuni minuti lui la spogliò e continuò a sculacciarla. All'improvviso lei capì che se prima avesse voluto avrebbe potuto costringerla a voltarsi: la stava picchiando per puro piacere. Il dolore che le procurava non era intenso quanto l'umiliazione, e forse era proprio quello che lui voleva. Poi, con un improvviso moto di impazienza, la costrinse ad allargare le gambe e un istante dopo la penetrò da dietro. Scivolò dentro di lei, riempiendola. Lei sentiva soltanto i propri genitali gelati. A poco a poco, la tenebra si diradò: non erano ombre quelle che vedeva, vaghe e distorte, di fronte a sé, intente a mimare una copula? Non stava sognando. Solo la sensazione di non essere del tutto sveglia le permetteva di aggrapparsi a quella speranza. Era un incubo, continuava a ripetersi, un incubo che mutava il ritmo del pene per istupidirle la mente. Quando il suo orgasmo la inondò, era ghiacciato come la pioggia. Nel momento in cui lui si staccò da lei, il suo abito fradicio le ricadde, viscido come un unguento, sulle natiche che ancora le bruciavano per le percosse. Il capanno si illuminò prima che la porta sbattesse. Il rumore dei
passi che affondavano nel fango si confuse con il sibilo della pioggia. Quando si rialzò abbottonandosi il vestito, la stoffa le aderì addosso come un sudario. Il suo unico desiderio era quello di ritornare al più presto a casa. Inciampò nelle voragini aperte nel terreno. Gli angeli di pietra sbavavano. Lei stava singhiozzando, ma poiché dai suoi occhi non riuscivano a sgorgare le lacrime, dovette accontentarsi delle gocce di pioggia che le rigavano il viso. In un pietoso tentativo di conservare la speranza che quello fosse un sogno, cercò di toccare meno cose possibili: era tutto così terribilmente reale! ma quando si fermò nel sottopassaggio, costretta da una forza oscura ad attendere che la macchina che sentiva rombare in lontananza fosse passata, l'acqua della pozzanghera le infradiciò le scarpe. Dal suo corpo la pioggia gocciolò sulle coperte, che erano viscide come melma. Cominciò a tremare convulsamente, poi cercò di calmarsi: era tutto finito adesso, almeno per quella notte. Aveva bisogno di dormire per essere pronta... perché aveva un'idea. Mentre arrancava singhiozzando verso casa, aveva preso lentamente forma nella sua mente e lei aveva deciso: l'indomani si sarebbe trasferita a casa di qualche amico, non importava di chi. Non doveva più vivere da sola. Stava ancora tentando di calmarsi quando il sonno le piombò addosso, nero come la terra. Era una bambola chiusa in una scatola. Tutt'attorno a lei c'erano altre scatole piene di bambole cieche, immobili e stupide. La rabbia che provava la faceva ribollire. Ma aveva l'effetto di un tonico o di un veleno? Lei non era una bambola perché possedeva un cervello. Doveva fuggire da quella scatola prima che qualcuno la comperasse. Spinse il coperchio che le impediva di vedere. Lentamente, ma senza demordere. Sì, si stava muovendo. Scivolò via e la terra le crollò addosso, soffocandola. Si svegliò tossendo e boccheggiando. La terra era soltanto il buio della stanza; era sdraiata prona sopra le coperte. Soltanto il buio? Nonostante la sua decisione di svegliarsi per tempo, aveva dormito di nuovo tutto il giorno. Ok, non importava, si ripeté per mettere a tacere il panico che stava per attanagliarla. Avrebbe sicuramente trovato a casa qualcuno dei suoi amici. Rimase sdraiata alcuni minuti a massaggiarsi i muscoli contratti e gelidi. Da chi avrebbe potuto provare per primo? Chi era il più gentile e chi aveva il posto per ospitarla? Stava tremando; il letto era così bagnato che sembrava una spugna. Le bastava soltanto un amico, soltanto un buon amico... Ma il suo corpo tremava in preda ad un terrore a cui si sforzava di non dare
voce. Non riusciva a ricordare nemmeno il nome o l'indirizzo di una persona amica. Non poteva più fingere di aver sognato. La sua mente era stata spoglia di qualsiasi ricordo che le potesse essere utile. Forse quella cosa che aveva potere su di lei la costringeva a dormire di giorno; forse il suo potere era più forte di notte. E la sua grande casa vuota non era che la scatola in cui la teneva chiusa fino a quando non la voleva. Allora la prima cosa da fare era andarsene per sempre da lì. Questo fu l'unico pensiero lucido che il panico le permise di formulare. Si precipitò in strada, inseguita dall'eco dei suoi passi. La luna si nascondeva dietro i tetti. Le case la fissavano cieche, non una finestra era illuminata. Ma che differenza faceva? Anche se si metteva a picchiare tutti gli usci, anche se svegliava tutta la città con le grida che minacciavano di squarciarle la gola come una lama di paura, nessuno le avrebbe mai creduto. E come avrebbe potuto biasimarli? Si lanciò in una corsa disperata. Senza luna il cielo era così buio che era come se stesse correndo in un tunnel. In lontananza la strada principale avvampava accesa da un fuoco innaturale; le nubi imbronciate ardevano di luce arancione. E se non fosse stato alla biblioteca, il ragazzo? E se invece ci fosse stato? Non poteva certo esserle di grande aiuto; era un drogato e quindi un povero essere impotente quanto lei. Non sapeva neppure come si chiamava. Ma era forse l'unica persona in tutto il mondo che fosse in grado di riconoscere. Lottò con la porta a doppio battente, che sembrava decisa ad impedirle di entrare. Quando, con una fragorosa spallata, riuscì ad aprirla e si precipitò nella sala, le persone intente a leggere si voltarono a guardarla con occhi sgranati. Il bibliotecario si accigliò e fece per andarle incontro. Per un attimo di puro terrore, lei pensò che volesse cacciarla. Lo distanziò e si precipitò verso il tavolo nascosto. No, nessuno l'avrebbe costretta a rinunciare al vago senso di sicurezza che le procurava la luce intensa di quelle lampade. Non sarebbero riusciti a cacciarla via: avrebbe urlato e lottato con le unghie e con i denti, se fosse stato necessario. Il ragazzo stava giocando con un nuovo libro. Sollevò lo sguardo dalla pagina, ma non era lei la persona che stava aspettando. «Ancora qui» disse con tono indifferente. Il bibliotecario finse di riordinare i libri su uno scaffale poco distante. Né lui, né l'indifferenza del ragazzo le avrebbero fatto cambiare idea. Si sedette e fissò un giornale abbandonato sul tavolo. Un articolo che parlava
di tombe profanate attrasse la sua attenzione, ma proprio in quel momento sopraggiunse un vecchietto che mugugnando parole incomprensibili, le strappò il quotidiano da sotto il naso. Non le restava da far altro che osservare il ragazzo. Sembrava meno teso della sera prima; di tanto in tanto un sorriso gli increspava le labbra; evidentemente aveva preso qualcosa per tirarsi su. E se quella cosa avesse potuto aiutare anche lei a combattere gli impulsi che, con la complicità della notte, prendevano il sopravvento sulla sua volontà? No, non poteva funzionare, e lei lo sapeva bene. Ma era disposta a tutto pur di stare con lui e con i suoi amici, chiunque fossero. «Vai da qualche parte più tardi?» gli bisbigliò. Lui non la guardò. «Sì, è probabile.» Era chiaro che il libro non gli interessava e lei ancora meno. Non poteva correre il rischio di farlo spazientire. Leggere. Si avvicinò allo scaffale accanto a quello dal quale il bibliotecario li stava spiando. Non doveva pensare che avesse paura di lui; lei aveva paura di... Il panico le serrò lo stomaco in un improvviso attacco di nausea. Afferrò il libro più vicino e ritornò a sedersi. Forse era riuscita a spuntarla con il bibliotecario, perché l'uomo stava lentamente ritornando alla sua scrivania. Lo sentì riordinare le sue carte. Sorrise compiaciuta; aveva bisogno di fare del rumore per scaricare la sua frustrazione. Ma poi capì che non era quella la ragione per cui stava sistemando il suo tavolo; un istante dopo l'uomo annunciò: «Fra cinque minuti la biblioteca chiude.» Oh Cristo, com'era possibile che fosse già così tardi? Alle undici il ragazzo se ne sarebbe andato e lei sarebbe rimasta di nuovo sola! Anzi era già pronto per andarsene, perché aveva già fatto abilmente scivolare il libro sotto il cappotto! Quando si incamminò dietro di lui verso l'uscita, lui la ignorò. Il bibliotecario lo scrutò con aria sospettosa. Oh Dio, adesso lo avrebbe arrestato, gliel'avrebbe portato via! Ma benché lei stesse tremando di paura, uscirono entrambi senza problemi. Quando arrivò in fondo alla scala, si aggrappò boccheggiando ad una delle colonne di pietra. Il ragazzo proseguì, senza aspettarla. Oh Dio, no! «Allora, vai da qualche parte?» gli urlò, cercando di modulare un tono amichevole e di impedire al panico di incrinarle la voce. «Non so.» Si era fermato, ma era chiaro che quella domanda lo aveva infastidito. Lei lo seguì incespicando e, per un attimo, vide la propria immagine ri-
flessa nello specchio scuro della porta a vetri della biblioteca: era pallida e magra come un cadavere; sembrava uno spaventapasseri. Dovevano essere stati quegli incubi nel capanno a ridurla così. Che ne era stato del suo viso aggraziato e dei suoi capelli lucidi e morbidi? Come poteva pretendere di suscitare l'interesse di quel ragazzo, conciata così? Ciò nonostante disse: «Pensavo soltanto che magari potevo venire con te.» «Come vuoi. Sto traslocando» biascicò lui, guardando altrove. Non doveva supplicarlo; aveva perso quasi tutta la sua dignità nel capanno e adesso doveva aggrapparsi a quel poco di amor proprio che le restava. «Potrei darti una mano» disse. «Perché no... Ma forse traslocare non è la parola giusta.» Dal tono della sua voce era chiaro che gli seccava molto doverle dare delle spiegazioni. «Al momento non ho nessun posto dove andare. Stavo da alcune persone, ma mi hanno buttato fuori.» Ma non doveva nemmeno permettere al suo orgoglio di nuocerle. La luce dei lampioni riempiva la strada di fuoco, ma l'aria era molto fredda. «Puoi venire da me, se vuoi» gli propose tutto d'un fiato. Lui la fissò. Poi, dopo una breve pausa, disse con tono indifferente: «Okay.» Non doveva aspettarsi molto da un tipo come quello. Ma adesso la cosa che più le premeva era di non restare sola. Gli prese la mano sudaticcia e lo condusse verso casa sua. All'improvviso lui disse: «Non ho mai conosciuto nessuno come te.» Suonava più come una frase fatta che come un complimento. Percorsero a tentoni le strade buie, accecati dal persistente riflesso arancione del cielo. «È qui che vivi?» domandò lui quasi con disprezzo, quando furono arrivati. Che cosa si aspettava? Una strada simile alla via spaventosa dove abitava Loveman? Il solo pensiero le fece venire le convulsioni e strinse con forza la mano sottile abbandonata nella sua. Sottili tappeti di luce lunare coprivano gli incroci, ma la strada in cui si trovava casa sua era immersa nell'oscurità. Non aveva importanza: adesso c'era lui con lei e lei non lo avrebbe più lasciato andare. «Sei così fredda» notò il ragazzo con indifferenza. Dal momento che non possedeva alcun tipo di droga da offrirgli, c'era soltanto un modo con cui avrebbe potuto legarlo a sé. «Ti assicuro che da un certo punto di vista sono tutt'altro che fredda» azzardò. Se aveva capito, non lo diede comunque a vedere. Le teneva la mano, come se si trattasse di un oggetto fragile che non aveva la minima idea di come maneggiare.
Quando arrivarono davanti alla casa, lui non fece commenti, ma lei intuì i sentimenti che provava: delusione e depressione. D'accordo, sapeva anche lei che era un po' malconcia: il portone screpolato, i vetri coperti da un dito di sporcizia, i fantasmi di polvere che si sollevarono dal pavimento quando aprì la porta. Ma non aveva alcuna voglia di tenerla pulita e in ordine, né per la verità di fare qualsiasi altra cosa, da quando i suoi genitori erano morti. Adesso che era riuscita ad attirarlo fino a lì, la morsa della paura si stava leggermente allentando; si disse che in fondo lui avrebbe dovuto esserle grato: dopo tutto si era offerta di ospitarlo a casa sua senza nemmeno chiedergli come si chiamava. Lo condusse direttamente nella sua camera da letto. Da quando i suoi genitori erano morti non era più riuscita a mettere piede nelle altre stanze. Dal vano della porta, la luce della luna si riversava sulla scala. Mentre saliva a tentoni gli scalini, lo sentì fermarsi dietro di lei. E se avesse deciso di non restare? Se avesse fatto dietro front e se ne fosse andato? «Ci siamo quasi» sbottò, dopodiché si fermò in preda ad un grande nervosismo, fino a quando non lo sentì arrancare di nuovo alle sue spalle. Spalancò la porta. La luce della luna inondava il letto; le lenzuola accese di bianco conservavano una traccia del suo corpo, un'ombra di verginità. La polvere le venne incontro. «Eccoci arrivati» disse, calpestando l'asse che cigolava sempre... adesso che non era più sola poteva permettersi di godere di simili aspetti famigliari della stanza. Lui esitò, scarna sagoma scura sulla soglia della camera. Il fatto di non riuscire a vederlo in faccia la infastidiva. «Non si può accendere la luce?» mugugnò lui. «Sì, certamente.» Era sorpresa sia che lui gliel'avesse chiesto sia di non averci pensato lei stessa appena entrata. Ma quando azionò l'interruttore la luce non si accese: mancava la lampadina. Ma quando diavolo era stata tolta? «Be', di luce ce n'è abbastanza lo stesso» disse con un certo imbarazzo. Senza muoversi, il ragazzo domandò: «Abbastanza per che cosa?» Voleva sapere la ragione per cui l'aveva portato lì; forse pensava che avesse della "roba" da offrirgli. Doveva assolutamente convincerlo a restare. Ma ci sarebbe riuscita? Poi una paura peggiore le serrò la gola. Anche se lui si fosse fermato, era possibile che la cosa del cimitero fosse così potente da rapirla comunque? «Non abbiamo bisogno di vedere.» Parlava in fretta; doveva persuaderlo a restare prima che il tremito che la scuoteva tutta le incrinasse la voce. «Volevo soltanto offrirti un posto in cui dormire.» Non era il momento di
pensare all'amor proprio quello; fu il panico a farle balbettare, prima ancora che potesse rendersene conto: «Vieni a letto con me.» Oh Cristo, ma così lo spaventava! No, grazie a Dio, non se ne stava andando. Si stava soltanto torcendo le mani come un bambino imbarazzato. «Ti prego» lo supplicò. «Sono così sola!» Se soltanto avesse immaginato quant'era grande la sua solitudine! Sentì all'improvviso il vuoto gelido che aveva preso il posto dei suoi ricordi. Non aveva nessuno da cui andare, se non la cosa del cimitero. Ancora una volta fu il panico a parlare per lei: «Se non lo fai, non puoi nemmeno restare.» Finalmente lui si mosse. Stava ritornando verso la scala. Lei soffocò un grido di terrore che le riempì la bocca di polvere. All'improvviso intuì quale potesse essere il suo problema: forse l'eroina lo aveva reso impotente. «Aspetta, ti prego» gemette, afferrandolo per un braccio. «Ti aiuterò io. Andrà tutto bene, vedrai.» Dopo alcuni attimi di esitazione, lui si lasciò condurre verso il letto. Lo fissò e allungò una mano verso le coperte: schifato dal bagnato, si ritrasse di scatto. Lei non si era resa conto che fossero ancora umide. «Ci stenderemo sopra il tuo cappotto» lo rassicurò. «In fondo, non hai un posto migliore dove andare, giusto?» Gli sbottonò il cappotto. Il colore dei suoi jeans era quello indefinito delle macchie che li coprivano; il suo maglione grigiastro era punteggiato da buchi color carne. Lo spogliò in fretta; nudo non poteva certo scappare. Alla luce della luna il suo pene penzolava come la coda floscia di uno scheletrico animale. Riuscì a sorridergli, nonostante fosse secco come uno stuzzicadenti e avesse le costole così sporgenti da solcargli il torace di ombre. Ma che importanza aveva? Non aveva bisogno dell'amante dei suoi sogni, soltanto di un compagno. Nel frattempo lui si era chinato e stava armeggiando con i lacci delle scarpe, forse per nascondere la miseria del suo pene. Lei chiuse gli occhi e sperò che le sbottonasse il vestito. Rimase immobile ad aspettare. Almeno, a differenza della cosa del capanno, avrebbe visto la sua reazione. Ma non c'era alcuna reazione da vedere. Spogliarlo era stato come denudare un pupazzo, ed era un pupazzo quello che adesso le stava davanti, con la faccia ammosciata e le mani e il pene penzoloni. Si tolse l'abito: era asciutto. Lo distese sopra il cappotto di lui, poi si sfilò le mutandine e le lasciò cadere sopra il mucchietto di vestiti: tutti insieme, come bravi amici. Stavano tremando tutti e due, anche se lei più di
paura che di freddo. Dovevano fare in fretta. Se la cosa fosse venuta a cercarla dal suo regno di tenebra, sarebbe dovuta andare... ma forse, se lei e quel ragazzo di cui non conosceva neanche il nome fossero riusciti a fare l'amore, il sesso l'avrebbe tenuta ancorata lì. Sì, sarebbe stato così. Doveva essere così. Lo convinse a sdraiarsi sul letto. Quando sfiorò con la gamba le coperte umide rabbrividì, ma si distese sul suo cappotto e sul vestito di lei con la rigidità di una vittima di una commozione cerebrale. Poi, un improvviso scatto di nervi sembrò infondergli uno slancio di vitalità. La spinse all'indietro, si chinò su di lei e prese a baciarle i capezzoli e a cercarle il clitoride con le mani. Lei sentì i capezzoli indurirsi, ma non provò alcun piacere. Poi, altrettanto repentinamente, lui si lasciò ricadere sul letto, sconfitto dalla sua mancanza di desiderio. Il suo pene floscio gli colpì la coscia, come la sferzata di un flagello. Oh, Dio, non poteva rinunciare! Il cigolio del letto riecheggiò stridulo e solo nel silenzio della casa. Era circondata da stanze vuote, strade buie e, troppo, troppo vicino, il capanno. Come sarebbe avvenuta la chiamata della cosa? Avrebbe sentito il proprio corpo trascinarla verso il capanno ancora prima di rendersene conto? Guardò il ragazzo tremando. «Provaci ancora, ti prego» lo implorò. Lui la incenerì con un'occhiata carica d'odio. Ma brava, così gli ricordava soltanto il suo fallimento. Doveva aiutarlo. Si chinò a baciargli il corpo, che era molto freddo. Poi nascose la testa fra le sue cosce, come un animale spaventato: il suo pene si insinuò molle fra le sue labbra. Provò tutte le tecniche che conosceva per farlo indurire, ma era sensibile quanto quello di un cadavere. Ti prego, ti prego! La cosa la stava chiamando, la sentiva strisciare verso di lei dal suo regno di tenebra, stava per afferrarla, per trascinarla verso il capanno... I movimenti della sua testa si fecero più frenetici; sopraffatta dal panico, serrò i denti intorno al pene. Poi trasalì, perché le era parso di sentirlo drizzare. Il ragazzo sollevò la macchia scura del viso e spalancò la bocca. Si stava drizzando davvero e lui ne era sorpreso quanto lei. Lei raddoppiò i suoi sforzi e cominciò a mordicchiarlo leggermente. Su, dai, ti prego! Finalmente, anche se non prima di sentirsi coperta dalla testa ai piedi da un velo di sudore ghiacciato, riuscì a fargli raggiungere un'erezione. Terrorizzata dall'idea che potesse afflosciarsi di nuovo, si mise a cavalcioni sopra di lui e lo trasse dentro di sé.
Quando la luna gli illuminò il viso, vide che il ragazzo era pallido e boccheggiante come un pesce morto. Nonostante il sentimento incombente di terrore che provava, era quasi arrabbiata. Era riuscita a farlo reagire, a infondergli un po' di vita. Dapprima si mosse lentamente, per permettere al suo pene di risvegliarsi a poco a poco e di affondare il più possibile dentro di lei. Poi, quando la stanza si riempì dei suoi respiri affannosi, cominciò a muoversi in fretta. Doveva fare in modo che lui le fosse grato e che decidesse di restare! Adesso il suo pene era pieno di vita, e guizzava con prepotenza nel suo corpo! Assecondò le sue spinte, fino a quando, all'improvviso, culminarono in una sola, più lunga e intensa delle altre. Il suo espiro strozzato divenne quasi un grido e lui si aggrappò a lei con tutto il corpo. Benché lei non avesse provato alcun piacere, era contenta che il ragazzo fosse riuscito a raggiungere l'orgasmo. Quella situazione, almeno, riusciva a controllarla. Si accasciò sopra di lui. La sua guancia fredda strofinò contro la sua. «Non pensavo di potercela fare» borbottò lui, stupito e orgoglioso al tempo stesso. Lei gli accarezzò il viso con tenerezza, per fare in modo che non se ne andasse. Poi gli strinse le spalle, sperando di poter dormire fra le sue braccia, quando la chiamata fosse giunta. Non riuscì a capire quale dei suoi sensi la percepì per prima. Forse il potere della cosa era più forte di tutti i suoi sensi. Non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto di che cosa stesse accadendo, perché il suo corpo si era drizzato sulle gambe e sulle braccia, come quello di un cane obbediente. La sua coscienza era ridotta ad un mero osservatore esterno, incapace perfino di gridare. No, non poteva fare molto di più. Per la prima volta la chiamata era giunta mentre era sveglia. Il terrore le incendiò i nervi, con la potenza repentina di un fulmine; le percorse i muscoli come una scarica elettrica e la costrinse ad affondare le unghie nelle spalle del suo compagno. Lui restò dapprima senza fiato, poi l'afferrò a sua volta, pensando che avesse ancora voglia di fare l'amore. Ma all'improvviso il suo corpo si afflosciò. Era incredibile, ma forse era libera. La chiamata era balzata indietro come un animale impaurito, se n'era andata. Si abbandonò fra le braccia del ragazzo che la strinse a sé. Aveva vinto! Ma un pensiero pressante, eppure vago, la rendeva nervosa: e se la chiamata non fosse il solo potere di cui disponeva il suo aguzzino per dominarla? Si guardò furiosamente attorno. La testa nera e cornuta del camino si stagliava contro la luna. Si stava ancora lambiccando il cervello
nel tentativo di capire in che modo la cosa l'avrebbe assalita, quando all'improvviso lo sentì: era un sentimento di disgusto, un disgusto che stava invadendo il suo corpo come un veleno. Ad un tratto il ragazzo le parve insopportabile. Le sue labbra da pesce boccheggiante, la sua carne, fredda e pallida come quella di un morto affogato, le sue braccia sottili come le zampe di un ragno, i suoi occhi scialbi e accecati dalla luna, il suo pene bagnato e molle... Cercò di liberarsi dalla sua stretta, ma lui l'abbracciò ancora più forte: non voleva lasciarla andare. Subito dopo un'altra forza si impadronì di lei, una forza che l'aveva conquistata già una volta: una potenza fisica crescente, enorme e spietata. Atterrita, ripensò al sogno delle scatole e, con un potente strattone si liberò dalle braccia del ragazzo. Ma non si fermò lì, benché cercasse di chiudere gli occhi per non vedere, per cancellare dalla sua vista quello che stava facendo. Da qualche parte aveva letto di persone fatte a pezzi, ma aveva sempre pensato che fosse soltanto un modo di dire. Non era mai riuscita ad immaginare come una cosa simile potesse accadere, né aveva mai pensato che potesse essere così assordante e che comportasse un simile spargimento di sangue. Quando ebbe finito, la sua coscienza era quasi riuscita a nascondersi. Ma percepiva la chiamata che la costringeva a scendere le scale. Il rumore cadenzato dei suoi passi impotenti riecheggiava in ogni stanza della casa. Avvertendo il vuoto che la circondava ricordò come si fosse sentita terribilmente sola dopo la morte dei suoi genitori. Una sera si era versata un'intera boccetta di sonniferi nell'incavo della mano. La chiamata la obbligò ad uscire di casa. La luce della luna illuminava la strada e fu allora che lei vide, per la prima volta, che tutte le case della zona erano abbandonate e avevano lamiere ondulate al posto delle finestre. Ebbe appena il tempo di un breve sguardo, poi i suoi piedi la trascinarono non verso la strada principale... ma verso la chiesa. La sua mente sapeva perché e aveva il terrore di ricordare. Ma doveva essere pronta ad affrontare qualsiasi cosa stesse per accadere. La sua coscienza lottò nell'intimo del suo corpo che arrancava. Sulle prime, l'unico ricordo che riuscì ad afferrare le parve privo di senso. Le parole che aveva letto di sfuggita sul finestrino dell'automobile parcheggiata davanti alla casa di Loveman erano state ASSISTENTE SANITARIA. Loveman non era morto. All'improvviso, senza sapere perché, ne ebbe la certezza. Le notizie che erano circolate a proposito della sua scomparsa non erano che voci, voci che forse lui stesso aveva messo in giro ad arte.
Doveva aver sposato l'infermiera cristiana che lo aveva investito e lei lo aveva aiutato a guarire. Ma sposato o no, non era riuscito a rinunciare alle sue visite furtive al cimitero. Continuava a preferire i morti ai vivi. Lei sapeva che cosa ciò significasse. Oh Cristo, lo sapeva, eccome! Non c'era alcun bisogno che glielo mostrasse di nuovo! Ma la forza che la dominava la costrinse ad oltrepassare l'imponente costruzione della chiesa e ad entrare nel cimitero. I suoi passi accelerarono, trascinando il suo io singhiozzante oltre i falli di pietra delle lapidi. Se soltanto fosse riuscita a muovere un poco una mano, per aggrapparsi ad una di quelle pietre... Ma fu costretta a fermarsi bruscamente e ad abbassare lo sguardo su una lapide abbattuta e circondata da un mucchio di terra smossa. Tuttavia lui dovette avere l'impressione che lei non fosse del tutto convinta, perché la obbligò a scavarsi una fossa profonda e a giacervi. Fu solo molto tempo dopo che le permise di risalire e di scrollarsi di dosso la terra, prima di trascinarsi verso il capanno. REGINA DI MAGGIO Non appena Kilbride uscì dal rettangolo d'ombra proiettato dalla casa di cui possedeva l'ultimo piano, fu investito dal sole di aprile. Lungo quel lato dell'ampia strada sulla quale si affacciavano alti edifici, alberi e cespugli mettevano continuamente nuove foglie. Alcuni anni prima, quando si stava appropinquando alla mezza età, simili testimonianze dell'eterno rinnovarsi della vita lo riempivano di gioia; adesso, invece, lo sforzo di quelle piante gli sembrava futile: un'assurda costrizione a produrre nuovi germogli, mentre magari nell'ombra era in agguato una brina tardiva. Acquistò il giornale del mattino all'edicola all'angolo e, mentre la macchina si scaldava, diede una scorsa agli annunci personali. Solo e disperato? Prima di fare qualsiasi altra cosa telefonaci... C'erano numerosi messaggi da parte di H., ma nessuno per J. che stava per Jack. In fondo se lo aspettava, perché erano settimane che lui non metteva nessun annuncio. Nei nove mesi in cui erano stati insieme, lui e Heather si erano serviti di quella rubrica ogni volta che uno di loro due doveva assentarsi, e il giorno in cui quell'abitudine più che un gesto d'amore era diventata un obbligo, aveva segnato l'inizio della fine della loro storia. L'idea della costrizione gli fece ripensare alle gemme umide che stavano sbocciando attorno a lui e, per associazione, alla vulva rosa di Heather, che si schiudeva per lui. A quel ricordo il suo pene vibrò, cosa che da un lato lo abbatté e
dall'altro lo innervosì. Accartocciò il giornale, innestò la prima e si tuffò nel cuore di Manchester. Parcheggiò l'auto nel posteggio davanti alla Facoltà di Musica e si diresse verso l'aula in cui avrebbe dovuto tenere lezione. Erano molte le sue studentesse che gli ricordavano Heather, e non solo per via dell'età. Ma quante di loro avrebbero dimostrato di possedere abbastanza talento da girare di città in città a tenere concerti per lo meno con un'orchestra di dilettanti, come aveva fatto lei? E quante, come lei, avrebbero sofferto di un esaurimento nervoso? I loro volti avidi di sapere e i loro occhi pieni di luce lo sgomentavano: assorbivano come spugne qualsiasi nozione o intuizione che lui fosse in grado di comunicare loro, e pretendevano ogni giorno di più. Forse avrebbe dovuto pensare a se stesso come al sole che alimentava la loro crescita, ma quel mattino, quando salì sul palco trovò più adatto il paragone con lo sterco. «La forma-sonata nella musica contemporanea...» Aveva tenuto quella lezione una decina di volte, se non di più, eppure, all'improvviso, gli sembrava di non aver niente da dire. Mormorò quattro parole di introduzione, dopodiché, con una fretta insolita, si sedette al piano. Ma quando si accinse a suonare, non riuscì a rintracciare nella propria memoria nemmeno una nota di un qualsiasi brano musicale che non fosse il lento movimento che aveva concepito per la sua sinfonia. Aveva suonato quel brano soltanto per Heather. Ricordò come fin dalle prime note, lei avesse sgranato i suoi occhi scuri, per trasmettergli coraggio, o forse per esprimergli il suo profondo desiderio che quella sua composizione avesse successo. Sul filo di quel ricordo, abbassò le dita sui tasti e attaccò con impeto la battute di apertura della sinfonia. Fu solo quando passò al secondo tema che si azzardò a dare un'occhiata ai suoi studenti: lo stavano fissando e con lo sguardo assente ascoltavano la sua musica. Reagivano a quel modo perché era la prima volta che sentivano quella sinfonia, era chiaro; o forse il linguaggio della sua musica era troppo impegnativo, troppg esoterico? Fu soltanto quando una delle studentesse dell'ultima fila nascose uno sbadiglio dietro una mano, che Kilbride capì: erano semplicemente annoiati. All'improvviso la sinfonia gli parve insopportabilmente banale, materiale di seconda mano arrangiato con l'ingenuità di uno studentello del primo anno. Eseguì la ripresa in tutta fretta, poi si alzò di scatto, come se volesse allontanare il più possibile il pianoforte da sé. Si sentiva totalmente incapace di parlare in concreto di musica e decise di passare ad un altro argomento: prendendo spunto dal primo movimento
della Nona di Beethoven, cominciò ad analizzare il processo della crisi e del rinnovamento della sinfonia. Quando si accorse della crescente insofferenza dei suoi studenti, fu sopraffatto dalla sgradevole sensazione di non sapere più nulla di musica, sensazione che non lo abbandonò neppure quando si rese conto di aver già trattato quell'argomento in una lezione precedente. «Mi dispiace, so che tutte queste cose le avete già sentite» disse, cercando di metterla sul ridere. Quella era la sola lezione che aveva di giovedì. Non se la sentiva di incontrare i suoi colleghi, non quel mattino in cui la consapevolezza di aver perso Heather gli era piombata addosso come una valanga. Poteva andare al concerto in programma alla Free Trade Hall; ma dopo aver attraversato tutta la città a passo d'uomo, imbottigliato nel traffico dell'ora di pranzo (aggravato dalle interruzioni per lavori in corso), la prospettiva di ascoltare Brahms e le composizioni giovanili di Schoenberg non gli arrideva più. Quindi, quando si ritrovò davanti alle arcate rinascimentali della Hall, tirò diritto e superato un gruppetto di streghe che danzavano per una telecamera davanti agli studi televisivi, puntò verso Salford, verso casa. La strada lo condusse oltre le acque scure dell'Irwell e sotto un tetro ponte, che segnava l'inizio dell'agglomerato di Salford. Ad un semaforo fu costretto a frenare così bruscamente che il giornale del mattino scivolò in avanti sul sedile vicino. D'un tratto si domandò se oltre a cercare qualche messaggio di Heather, non fosse inconsciamente alla ricerca di una donna che potesse prendere il suo posto. Si costrinse a distogliere gli occhi dal quotidiano, e quando sollevò la testa il suo sguardo incrociò quello di una donna ferma al semaforo. C'era qualcosa nei suoi occhi, pesantemente dipinti con un ombretto color argento, che fece drizzare immediatamente la testa al suo pene. Non stava attraversando la strada: era semplicemente lì, ferma sotto il semaforo rosso, e con le lunghe unghie argentate si tamburellava la coscia fasciata da una minigonna di stoffa nera e lucente. «Vai dove sto andando io?» immaginò che gli avrebbe chiesto se solo avesse osato sporgere fuori la testa. Dopodiché, prima ancora di rendersi conto di quello che stava facendo, abbassò il finestrino dal lato del passeggero. All'improvviso si sentì un idiota; era sbalordito dal proprio comportamento. Ma la donna si avvicinò alla macchina; un sorriso circospetto le increspò le labbra. «Da che parte va?» le domandò lui, con voce appena udibile. «Da qualsiasi parte vai tu, tesoro.»
Adesso che era più vicina, Kilbride si accorse che era truccata in modo molto più pesante di quanto non gli fosse sembrato sulle prime. Si sentì colpevole, vulnerabile, eccitato. Armeggiò con la maniglia della portiera, poi la guardò mentre scivolava accanto a lui, con le calze a rete che strusciavano l'una contro l'altra. Dovette schiarirsi la voce prima di riuscire a chiederle: «Quanto?» «Trenta per il solito, di più se vuoi qualcosa di particolare. Non mi piace essere picchiata o roba del genere, ma se ti va so punirti con tutti i castighi che desideri.» «Non sarà necessario, grazie.» «Chiedevo soltanto, tesoro» replicò la donna in modo compassato, scrollando le spalle di fronte alla sua laconicità. «Immagino che tu voglia venire da me.» Lo guidò attraverso Salford, fino ad una stradina lontana, dalle parti di Peel Park. Per lo meno non erano a Manchester, dove il capo della polizia era un predicatore laico, i librai finivano in prigione perché vendevano libri come Il sesso della morte e la polizia aveva sequestrato la videocassetta de Il Grande Rosso, perché il titolo era sospetto; eppure Kilbride non riusciva a credere che stesse proprio accadendo. Un gruppo di bambini con le ginocchia sbucciate giocava in mezzo alla strada, sotto le corde del bucato tese da una finestra all'altra; quando vide che non si spostavano, si sentì troppo imbarazzato per suonare il clacson. Alcune donne, ferme nei vicoli fra le case di pietra, mormorarono qualcosa e lo seguirono con lo sguardo mentre parcheggiava l'auto e poi raggiungeva la donna argentata all'interno della sua abitazione. Appena varcato il portone dipinto di rosa, una scala conduceva al piano di sopra, ma la donna aprì una porta a sinistra della scala ed entrò nel soggiorno. Era una stanza cuneiforme, che doveva quella sua strana pianta ad un tramezzo, che divideva in due una camera già di per sé piuttosto piccola. Sotto la finestra, lungo il lato più lungo del triangolo era collocato un divano; di fronte, su un tavolino, si trovavano una televisione e un videoregistratore. «Eccoci arrivati, tesoro» disse la donna. «Su, non essere timido, entra.» Kilbride fece un paio di passi avanti e chiuse la porta dietro di sé. La carta da parati rosso scuro faceva apparire la stanza ancora più piccola. Probabilmente, dietro il tramezzo c'era la cucina perché nell'aria gravava un insostenibile odore di cavolini di Bruxelles. La sensazione di stare invadendo l'intimità domestica di un'altra persona non fece che aggravare il
panico che lo attanagliava. «Su, amore rilassati adesso. Qui con me sei al sicuro» mormorò la donna tirando la tenda e trasformando con destrezza il divano in un letto matrimoniale. Kilbride la osservò come intontito mentre spiegava una coperta rossa, drappeggiata sullo schienale del sofà, e la stendeva sul letto. Poteva benissimo andarsene, se voleva; nessuno lo costringeva a restare... ma quando lei lo invitò a sedersi sul materasso, l'unica cosa che seppe fare fu obbedire. Nel frattempo, con abilità consumata, lei si era liberata delle scarpe e si stava sollevando la gonna per sfilarsi le calze. «Hai voglia di vedere un video per entrare nello spirito giusto?» gli suggerì. «No, non è quello...» Più passavano i minuti e più la stanza gli sembrava piccola e calda, il che rendeva ancora più greve l'odore dei cavolini di Bruxelles. La guardò mentre si toglieva la seconda calza, ma subito dopo le grida dei bambini sulla strada lo fecero voltare nervosamente verso la finestra. Come se fosse stata colta da un'improvvisa quanto geniale intuizione, la donna gli rivolse un sorriso obliquo, quindi, con il tono materno di una cameriera che offra un dolce a un bambino, gli disse: «Ho capito che cosa vuoi. Ma avresti dovuto dirmelo subito.» Sollevò una tenda rossa che nascondeva un'apertura nel tramezzo e scomparve nella stanza attigua. Benché una parte di lui premesse per andarsene, Kilbride affondò la mano nella tasca dei pantaloni, estrasse il portafoglio e vi cercò trenta sterline. Tutto quello che riuscì a racimolare furono ventisette sterline e quaranta centesimi. Che gli venisse un colpo se avesse pagato più di quanto gli era stato chiesto. Non appena sentì la donna rientrare nella stanza nascose le banconote nel palmo della mano. Si era vestita da scolaretta, con un mini abito sportivo e calzettoni bianchi che le arrivavano al ginocchio. «Pensavo che forse ti sarei piaciuta di più così» disse con finta ritrosia. Quando allungò la mano per prendere i soldi, appoggiò un piede sul letto, lasciando che la tunica le salisse provocatoriamente a rivelare i peli del pube. Erano tinti della stessa tonalità mogano dei capelli. Al pensiero di penetrare quella fessura che ingrigiva, Kilbride si sentì soffocare, mentre la sua mente si riempiva del rosso della stanza e dell'odore dei cavolini. Si spostò bruscamente di lato e scagliò i soldi alle spalle della donna, in modo da guadagnare tempo. Poi si precipitò verso la porta, la spalancò, aprì il portone e si lanciò fuori a capofitto. La strada era deserta. Evidentemente le donne del quartiere avevano richiamato in casa i loro figli per paura che sentissero quel che accadeva nell'alloggio della loro vicina. Quando aveva guardato fuori dalla finestra lei
doveva aver dedotto che lui nutriva un debole per le ragazzine, pensò furibondo. Raggiunse a grandi passi l'automobile e se ne andò senza voltarsi. Quel che era peggio era che in fondo il suo intuito non l'aveva ingannata del tutto, perché adesso la sola cosa a cui riusciva a pensare era Heather vestita da scolaretta. Ad un certo punto dovette addirittura accostare per sistemarsi il cavallo dei pantaloni in modo da far spazio al suo pene che si stava ingrossando. Fu solo la paura di perdere il controllo della macchina a persuaderlo a sospendere quelle fantasie e ad andare a casa. Parcheggiò a casaccio, salì gemendo le scale che conducevano al suo appartamento, si precipitò in bagno ed eiaculò con prepotenza prima ancora di masturbarsi. Non provò alcun piacere, bensì la deprimente sensazione di essere una vittima inerme del suo stesso sesso. Il pene rimase stupidamente eretto, fino a quando gli venne la tentazione di metterlo sotto il rubinetto dell'acqua fredda, per liberarsi di quel desiderio frustrante che lo gonfiava e che trovava motivo di soddisfazione nella fantasia anziché nella realtà. L'idea di non poter condividere quel desiderio con nessuno e nemmeno ammetterlo a se stesso, lo inorridiva. Ma almeno, adesso che lo aveva soddisfatto, non gli avrebbe impedito di dedicarsi alla musica. Si preparò una tazza di caffè forte e si sedette al piano con gli spartiti manoscritti della sua sinfonia. Li sfogliò nella speranza di provare un barlume di soddisfazione, poi incominciò a suonare. Quando arrivò alla fine della partitura, piantò i gomiti sulla tastiera e nascose il volto fra le mani, mentre nella stanza si spegneva l'eco dissonante delle note. Pensò di suonare un brano di Ravel per rinfrescare la sua tecnica pianistica, oppure di ascoltare uno dei suoi dischi preferiti, Monteverdi o Tallis, la cui musica distaccata e lontana non finiva mai di commuoverlo e di ispirarlo. Ma adesso la musica antica gli sembrava fuori moda e quella più moderna altisonante e arida. Gli aveva suscitato la stessa sensazione l'età di Heather, ma allora la sua insoddisfazione lo aveva reso creativo e gli aveva ispirato diversi movimenti per pianoforte. Perché non poteva accadergli la stessa cosa adesso? Fissò le ultime pagine della sua sinfonia: l'Incompiuta di Kilbride, L'Indistinguibile, la Sinfonia n. 1, la Sinfonia dei Mille Tagli, non più all'altezza di un'orchestra da camera che di un bidone della spazzatura... La luce del crepuscolo invase la stanza e le note cominciarono a serpeggiare sul rigo come sperma. Quando fu troppo buio per vedere, Kilbride riprese a suonare a memoria finché le note si accumularono attorno a lui come la polvere dei secoli. Alla fine prese uno ad uno i fogli dello spartito e li strappò.
Quella sera Kilbride rimase seduto al buio per ore senza provare alcuna emozione. Era come se riuscisse a vedere per la prima volta il vero Jack Kilbride: una nullità di mezza età che concupiva donne con la metà dei suoi anni, se non meno; un pandit musicale, incapace di comporre musica e senza alcun diritto di parlare di chi invece lo era. Non c'era davvero da meravigliarsi che i genitori di Heather gli avessero proibito di andarla a trovare e di telefonarle. Solo adesso si rendeva conto di aver avuto bisogno della sua ammirazione per rimandare il momento in cui sarebbe stato costretto a guardarsi allo specchio. Più a lungo rimaneva lì al buio e più lo spaventava l'idea di accendere la luce e di toccare con mano la sua solitudine. Con uno scatto fulmineo, si avventò sull'interruttore, si riempì le mani di quel che restava della sua creazione e buttò tutto nella pattumiera. «Patetico» ringhiò rivolto alla sua opera o a se stesso. Era mezzanotte passata. Non sarebbe mai riuscito a dormire con le note della sinfonia che continuavano a rincorrersi nel suo cervello. Non c'era nessun posto in cui potesse andare a cercare compagnia a quell'ora, a meno che non si rifugiasse in qualche night-club, pieno di gente sola e insonne come lui. Ma con qualcuno però poteva parlare, pensò, qualcuno che non l'avrebbe visto in faccia e che non sapesse niente di lui. Scese le scale in punta di piedi, uscì nella notte battuta da un vento freddo e prese il giornale che aveva lasciato sul sedile della macchina. Solo e disperato? Prima di fare qualsiasi altra cosa telefonaci... Era un'organizzazione che si chiamava Vita Nuova e che, a giudicare dal numero di telefono, aveva la sede dalla parte opposta di Manchester. Il fatto che si trovasse lontano da casa sua lo faceva sentire più sicuro. Se non gli garbava il modo in cui gli rispondevano, poteva riagganciare senza dire niente. Il telefono squillò così a lungo che Kilbride pensò di aver sbagliato numero. O forse si stavano occupando di persone più disperate di lui. Quel pensiero lo fece sentire stupidamente egoista, ma in quella giornata di amare scoperte, quell'ulteriore presa di coscienza gli sembrò meno importante di una nota a piè pagina. Continuò a tenere l'orecchio caparbiamente appiccicato alla cornetta. Finalmente lo squillo s'interruppe e una voce di donna rispose: «Sì?» Sembrava che si fosse appena svegliata. Aveva fatto davvero il numero sbagliato, pensò Kilbride furibondo e si sentì in dovere di farglielo sapere. «Vita Nuova?» domandò con tono esitante. «Sì, buonasera». La voce della donna era più limpida adesso, come se si
fosse svegliata del tutto o stesse cercando di svegliarsi. «Che cosa possiamo fare per lei?» Doveva essersi addormentata accanto al telefono, pensò Kilbride. Questo la rendeva più umana, ma non certo più rassicurante. «Veramente... non lo so...» «Allora facciamo così: lei prima fa una cosa per me e poi io la ricambio.» Adesso sembrava perfettamente sveglia. Forse quella che lui aveva interpretato come sonnolenza era qualcos'altro: qualcosa che continuava a permeare la sua voce: un accenno di pigra ritrosia che forse alludeva ad una promessa di tipo sessuale... «Che cosa?» domandò con sospetto. «Mi giuri che non riattaccherà.» «D'accordo, lo giuro.» Attese che la donna gli illustrasse la natura della loro organizzazione, ma poi, all'improvviso, si sentì così stupido e imbarazzato da doversi giustificare in qualche modo. «Non sapevo bene che cosa aspettarmi quando ho fatto il vostro numero. Sto semplicemente attraversando un periodo di crisi, sarà l'andropausa... non so... Ho riflettuto un bel po' su me stesso ma non sono riuscito a cavare un ragno da un buco. Forse quella di chiamarvi non è stata una buona idea. Forse ho bisogno di parlare con qualcuno che mi conosce da tempo e che mi possa aiutare a venirne fuori.» «Allora mi parli un po' di lei.» Quando sentì che lui taceva, la voce si affrettò ad aggiungere: «Almeno mi dica dove abita.» «A Manchester.» «Oh, solo nella grande città! Questo certo non può giovarle. Quello di cui lei ha bisogno sono tre o quattro giorni di riposo in campagna, lontano da tutto e da tutti. Dovrebbe venire qui da noi. Sono sicura che le piacerebbe. Ma sì, perché non viene? Se parte subito, domattina all'alba sarà qui.» Kilbride stava cominciando a domandarsi quanti anni potesse avere la sua interlocutrice. La sua ingenuità gli piaceva e lo divertiva, anche se adesso nella sua voce quella allusione ad una promessa non meglio definita era più forte che mai. «Come no?» replicò ridendo. «Peccato che io domani lavori.» «Venga sabato allora. Non vorrà mica passare il fine settimana da solo nello stato in cui si trova! Fugga lontano dal cemento, dalle fabbriche e dall'aria inquinata e venga a festeggiare con noi l'arrivo di maggio.» Domenica era il Primo Maggio. Era fortemente tentato di raggiungerla
ovunque lo stesse invitando, a quanto sembrava non nel posto a cui corrispondeva quel numero telefonico. «Ma che tipo di organizzazione siete?» si informò. «Ci interessa soltanto continuare a vivere. Che poi è il motivo per cui lei ci ha chiamato.» Sembrava quasi offesa, e più giovane che mai. «Non dovrà raccontarci niente della sua vita di cui non le vada di parlare e non sarà costretto a prendere parte a niente che non le vada a genio.» Forse era soltanto perché stava parlando con una giovane donna nel cuore della notte, ma ebbe la netta impressione che quell'ultimo riferimento avesse a che vedere con il sesso. «Se decido di prenderla in parola posso richiamarla, non è vero?» «Certamente, così le do le indicazioni per arrivare qui. Ma mi telefoni anche se decide di non venire, ok? Me lo giuri.» «Lo giuro» promise Kilbride, sorpreso di essere contento di essersi impegnato e incapace di pensare a qualcosa da dire che non fosse un laconico: «Buona notte.» Ma appena riabbassò la cornetta, si pentì di non aver chiesto il nome della ragazza. Pensò che forse gli aveva risposto dal letto e se la immaginò come una scolaretta alta e snella, con la gonna corta, le lunghe cosce scoperte e il viso di Heather. Il senso di colpa che gli derivò da quell'ultimo pensiero gli procurò una dolorosa fitta allo sterno, ma un attimo dopo era già nel mondo dei sogni. Il giornale del mattino era pieno di notizie tristi e deprimenti. Mentre aspettava che il motore si scaldasse, diede una scorsa alla rubrica degli annunci personali. Ormai non si aspettava più di trovarvi un messaggio di Heather, ma non trovò nemmeno traccia dell'annuncio di Vita Nuova. Il programma accademico di quella mattina prevedeva due ore di tecnica pianistica. Alcuni dei suoi studenti suonavano come se la passione potesse sostituire la tecnica, altri si applicavano con una tale diligenza da sembrare decisi a non concedere nulla ai sentimenti. Quel giorno Kilbride riuscì a correggere i difetti di ognuno senza spazientirsi né maledire il suo lavoro e, dal canto loro, i suoi allievi gli diedero l'impressione di aver ritrovato l'antico rispetto per il loro insegnante. Forse la 'nuova vita' che avrebbe assaporato quel weekend gli avrebbe permesso di riprendere a tenere con entusiasmo anche la lezione del martedì, si disse, domandandosi se i grafici avessero omesso di pubblicare l'annuncio di Vita Nuova per sbaglio. Alla fine dell'ora una delle studentesse si trattenne in classe. «Vorrei sapere che cosa ne pensa di questo.» Arrossendo, attaccò un brano e lui capì che l'aveva composto lei. Sembrava uno studio dei suoi compositori prefe-
riti: cascate di note alla Debussy, esplosioni alla Liszt, un tintinnio simbolico alla Messiaen... Ma c'era anche qualcosa di originale: c'erano sequenze armoniche impreviste, una specie di gioco di suoni. Le disse tutto questo e la fanciulla uscì sorridendo insieme con il suo ragazzo, un violinista senza ispirazione che adesso arrossiva al posto suo. Aveva un futuro, pensò Kilbride, lusingato dal fatto che avesse chiesto il suo parere. Chissà, forse un giorno il suo nome sarebbe stato citato come quello di colui che l'aveva incoraggiata agli inizi della carriera. Un cielo rosso fiammeggiava sopra le torrette e i timpani di Manchester. Aveva davvero intenzione di lasciare la città e avventurarsi in chissà quale posto oltre i confini dell'orizzonte? Più ripensava alla conversazione della sera prima e più gli sembrava inverosimile. Ritornò a casa, cercò il giornale e pensò di richiamare immediatamente quel numero... Ma la voce aveva detto sabato e a telefonare adesso gli sembrava di sfidare il destino. Le soddisfazioni di quella giornata avevano un po' smorzato la sua voglia di avventura; quella sera, quando si coricò, non aveva ancora deciso se l'indomani avrebbe chiamato oppure no. Il cinguettio degli uccelli lo svegliò quando fuori il cielo cominciava ad impallidire. Kilbride si crogiolò sotto le coperte: si sentiva assonnato come il nuovo giorno che tardava a spuntare. Non era ancora ora di prendere una decisione per il week-end, era troppo presto... Poi all'improvviso sgranò gli occhi: no che non era presto, tutt'altro! Si sbarazzò delle lenzuola e compose il numero che la sera prima aveva lasciato accanto al telefono. Non fece in tempo ad udire il primo squillo che una voce rispose: «Vita Nuova.» Era più brusca della volta precedente. Aveva la stessa inflessione dialettale del Lancashire, le vocali larghe, ma Kilbride non era sicuro che si trattasse della stessa voce. «Avevo promesso che avrei chiamato oggi.» «Infatti stavamo aspettando la sua chiamata. Non vediamo l'ora di averla qui. Perché lei verrà, non è vero?» Forse la voce gli sembrava diversa soltanto perché questa volta la ragazza non si era appena svegliata. «Che cosa siete, una specie di organizzazione religiosa?» domandò. La ragazza rise come se sapesse che stava scherzando. «Non dovrà prendere parte a nessuna iniziativa che non le vada, ma vedrà che qui troverà tutto quello che cerca.» Non poteva essere più esplicita se non voleva rischiare di venire denunciata, pensò Kilbride. «Mi spieghi come fare ad arrivare lì» disse, al-
l'improvviso completamente sveglio. Le indicazioni che gli aveva dato la ragazza conducevano nel cuore del Lancashire. Kilbride fece il bagno e si vestì di tutta fretta; quindi uscì, fece il pieno e si mise in marcia, domandandosi se il percorso che la sua misteriosa interlocutrice gli aveva indicato l'avrebbe condotto in mezzo a quel cemento, a quelle fabbriche e quell'inquinamento che nella loro prima telefonata lei aveva tanto deplorato. Alle spalle del centro cittadino strade piene di piccoli negozi si dipanavano per miglia e miglia, finché i negozi cedevano il posto ad enormi fabbriche anonime e a magazzini. A mano a mano che il sole saliva l'ombra dei magazzini si ritirava, ma Kilbride non riusciva a fare a meno di pensare con angoscia che non sarebbe mai uscito da quelle vie assediate dal cemento e oppresse da quel cielo sudicio. Finalmente la strada abbandonò le città che si stava affollando e cominciò a salire fra prati lussureggianti e il luccichio di timidi stagni, che occhieggiavano in mezzo all'erba per metà sommersa dall'acqua. Lì le nubi non erano nere, ma bianche come panni appena lavati e stesi ai confini di un cielo azzurro e terso. Kilbride guidò per parecchie miglia senza incontrare altre macchine. La sua unica compagnia era quell'ultimo giorno di aprile, in cui le foglie sbocciavano con maggior fiducia, indugiando come sciami sugli alberi. Dopo essersi addentrato per mezz'ora in aperta campagna, Kilbride cominciò a chiedersi quanto distasse ancora la sua meta. «Prosegua fino all'altezza del Jack delle Fronde» gli aveva detto la ragazza, «dopodiché chieda di noi.» Lui aveva automaticamente pensato che si trattasse di un pub, ma poteva benissimo essere una località o un monumento. Comunque, anche se non lo avesse trovato, il senso di rinascita che gli aveva procurato quel contatto con la natura era sufficiente a ripagarlo delle miglia percorse. La strada riprendeva a salire, fra banchi di felci grandi quasi quanto lui. Non appena avesse trovato un posto adatto, pensò, si sarebbe fermato alcuni minuti a godersi quel panorama; ma la strada lo condusse in cima ad una cresta e gli mostrò la fabbrica che vi sorgeva sotto. Una simile vista era tanto inattesa quanto sgradevole. Per lo meno, lo stabilimento era in disuso, notò mentre l'auto accelerava lungo la discesa. Tutte le finestre della lunga facciata color rosso opaco erano crollate, come pure parte del tetto. Un tempo la fabbrica doveva possedere numerosi camini, ma adesso ne era rimasto soltanto uno e anche quello sembrava alquanto precario. Quando lo osservò meglio, gli sembrò addirittura di vederlo muovere. Ma per metterlo a fuoco dovette aguzzare la vista, perché
sull'officina gravava una specie di nebbiolina, un inscurimento dell'aria, che ne sfumava i contorni. Il camino sembrava ammollito, come del resto anche le serrature delle finestre. Doveva essere un effetto dell'aria che aleggiava sulla valle ed era un miscuglio di gelo e miasmi. Quella vista gli procurò uno strano brivido, soprattutto attorno all'inguine. Kilbride pigiò con forza l'acceleratore; non vedeva l'ora di lasciarsi alle spalle quei campi grigi e spogli. L'auto corse incontro al sole sulla strada che risaliva. Kilbride socchiuse gli occhi per difendersi dalla luce che lo abbagliava e vide il paesino che sorgeva sotto di lui, all'estremità opposta della cresta rispetto alla fabbrica, ma a poche miglia in linea d'aria da essa. Alcune stradine fiancheggiate da casupole di calcare si dipartivano dalla statale e declinavano in direzione di uno spiazzo erboso situato al centro del paese, sul quale si affacciavano una locanda e una piccola chiesa. Alle spalle dell'agglomerato, il versante risaliva, ammantato da un bosco in pieno rigoglio. Paragonata ai profili incurvati della fabbrica, la nitidezza delle casette bagnate dal sole e dei loro giardini fioriti era quasi troppo intensa. Quando Kilbride le oltrepassò per raggiungere il centro del paese, l'emozione gli serrò il petto. Parcheggiò vicino alla locanda e ne osservò l'insegna: era il 'Jack delle Fronde', una figura gioviale con i vestiti e il cappello fatti d'erba. Non si sentiva così teso dal giorno del suo primo concerto, quando, al momento di salire sul palcoscenico, era stato colto da un attacco di panico. Scese dalla macchina e, quando chiuse la portiera, il frastuono del metallo lo innervosì. Un cane abbaiò, un altro gli rispose, ma nessun altro suono vibrò nell'aria tersa, nemmeno la voce di un bambino. Ebbe la sensazione che l'intero paese fosse in attesa della sua prossima mossa. Al centro dello spiazzo verde era coricato un albero alto e sottile. Con ogni probabilità era destinato a fornire il palo attorno al quale si sarebbero svolte le danze per la festa di maggio, perché la lama di un'ascia brillava nell'erba, anche se i rami non erano ancora stati tagliati. Chiunque l'avesse portato fin lì doveva essere nella locanda, pensò Kilbride, e si avviò verso il locale. Una donna lo stava osservando sulla porta. Quando Kilbride incrociò il suo sguardo, lei gli fece un inchino. Era alta e rotondetta; aveva il viso largo e cordiale, grandi occhi grigi, naso piccolo e una grande bocca dalle labbra d'un rosa intenso. Gli andò incontro leccandosi le labbra. «Cerca qualcuno?» domandò. «Sì, la persona con cui ho parlato questa mattina.» Lei sorrise e inarcò le sopracciglia. I suoi generosi seni si alzavano e si
abbassavano sotto la stoffa aderente dell'abito verde che le arrivava appena sotto il ginocchio. Kilbride inspirò a pieni polmoni il suo profumo, dolce e selvaggio. «Era lei?» «Perché, le piacerebbe?» Sarebbe stato felice di risponderle di sì, ma si domandava a che cosa rinunciasse con quella scelta. Si sentì avvampare il viso, ma lei fu lesta a toccargli il polso con una mano gelida. «Non deve deciderlo adesso. Lo farà quando sarà pronto. Può stare qui al 'Jack' se vuole, oppure da noi.» «Noi?» «Papà sarà fuori a ballare.» Kilbride non poté fare a meno di pensare che intendesse rassicurarlo. Ci fu un silenzio imbarazzante, che la donna interruppe dicendo: «Immagino che non sappia bene cosa fare.» «Be', sì.» «Tutto quello che vuole. Si rilassi, si guardi attorno, faccia una passeggiata. Domani è il grande giorno. Mangi qualcosa. E se non ha fame so io come fargliela venire.» «Mi sembra un'ottima idea.» «Allora venga con me e si guadagnerà un pranzo gratis.» Possibile che stesse sognando segretamente che quella donna avesse già intenzione di portarselo a casa? La seguì verso il centro dello spiazzo erboso, ridendo intimamente in preda ad una strana frenesia. «Veda un po' se riesce a spogliarlo» disse la donna indicando l'albero «mentre io le porto da bere. Una birra va bene?» «Perfetto» rispose lui, pensando che quel lavoro era ben poca cosa come compenso per quello che, ne era certo, lo aspettava più tardi. «A proposito, come si chiama?» «Sadie.» Poi, con un'impercettibile contrazione del sorriso, aggiunse «Signora Thomas.» Poteva essere divorziata o vedova. Kilbride prese la scure per costringersi a smettere di fantasticare. Era più leggera di quanto avesse immaginato, ma molto affilata: scelse un ramo a caso e furono sufficienti due colpi decisi per staccarlo dal tronco. «Niente male per un insegnante di musica» mormorò, e iniziò a lavorare in modo sistematico, cominciando dall'estremità più sottile della pianta. Ma forse avrebbe fatto meglio a iniziare dalla parte opposta, perché dopo la prima decina di rami, il lavoro divenne più faticoso. Quando Sadie fu di ritorno con una pinta di birra chiara forte, gli dolevano già le braccia. Nel
momento in cui la donna si accinse ad attraversare il prato, Kilbride sollevò lo sguardo, passandosi il braccio sulla fronte per tergersi il sudore (gesto di cui si pentì subito) e fu allora che si accorse di avere un pubblico: parecchi uomini seduti su una panchina fuori dalla locanda. Avevano la sua età o erano poco più giovani di lui. Faceva fatica a capirlo, perché avevano tutti la faccia ammosciata, con i lineamenti appiattiti dall'indolenza: sembravano prepensionati, notò, e il suo pensiero andò immediatamente alla fabbrica. Non riusciva nemmeno ad interpretare l'espressione dei loro occhi, che poteva essere ostile oppure semplicemente assente. Fu tentato di allontanarsi dall'albero e di invitare uno di loro a proseguire il lavoro: dopotutto quello era il loro paese. Ma proprio in quel momento due degli spettatori si asciugarono deliberatamente la fronte, e a lui venne il dubbio che lo stessero prendendo in giro. Allora si chinò di nuovo sull'albero e non sollevò la testa fino a quando non ebbe tagliato l'ultimo ramo. Uno scroscio di applausi, forse volutamente ironico, lo premiò quando posò l'ascia sull'erba. D'un tratto ebbe la netta sensazione che le conversazioni telefoniche con la ragazza e tutto quello che ne era conseguito non fossero che uno scherzo organizzato a sue spese. Ma in quel momento Sadie Thomas si accucciò accanto a lui, mostrandogli le forti cosce sotto la gonna verde, e lo prese per mano. «Si è guadagnato tutto quello che è in grado di mettere sotto i denti. Venga dentro la locanda oppure, se preferisce può sedersi fuori.» Gli uomini si alzarono in piedi per fargli posto sulla panca. Alcuni sembravano contrariati, ma nessuno osò mettere in dubbio che lui ne avesse tutto il diritto. «Mi siederò fuori» disse, domandandosi perché, a quelle sue parole, gli uomini si fossero scambiati strane occhiate, prima di rifugiarsi all'interno del locale. Capì tutto pochi istanti dopo. Un donnone muscoloso, con i capelli grigi tagliati alla maschietta, uscì dalla locanda portando un tavolo; lo sistemò davanti a lui e vi appoggiò sopra un piatto di formaggio, una pagnotta, un coltello e un altro boccale di birra. Poi Sadie gli si avvicinò. «Quando ha finito di mangiare le andrebbe di fare un'altra cosa per noi?» Le braccia gli tremavano per lo sforzo; riusciva a malapena a reggere in mano il coltello. «Non è niente di faticoso questa volta» lo rassicurò la donna. «Abbiamo soltanto bisogno di un giudice, di una persona che non sia del posto. Per cui non dovrà fare altro che starsene qui seduto a scegliere.»
«D'accordo» acconsentì Kilbride. «E che cosa debbo giudicare?» La donna gli lanciò un'occhiata civettuola, che gli ricordò quella strana allusione ad una misteriosa promessa che gli era parso di cogliere nella voce della ragazza al telefono. «Ah ah, allora finisce la sorpresa.» Forse non avrebbero mantenuto quella promessa se lui avesse fatto troppe domande, soprattutto in pubblico. Quella prospettiva lo eccitava ancora abbastanza da permettergli di tenere per sé la sua curiosità, che riguardava, fra l'altro, il numero degli abitanti del paese che facevano parte di Vita Nuova. Mentre finiva il formaggio le sue mani smisero di tremare e lui allungò il collo per seguire Sadie, che si affrettava verso la scuola, che sorgeva nella strada accanto. Capì a che proposito chiedessero il suo parere, quando vide le ragazze uscire in fila indiana dal piccolo edificio e dirigersi verso lo spiazzo erboso. Si allinearono davanti al tronco nudo dell'albero, con le mani strette sullo stomaco. Alcune lo guardarono con aria di sfida, ma le più erano timide o fingevano di esserlo. Non era in grado di dire se sapessero che, oltre a proiettare le loro ombre slanciate verso di lui, il sole, filtrando attraverso le loro uniformi disegnava le silhouette dei loro corpi. «Può andare più vicino se vuole» gli sussurrò Sadie all'orecchio. Si alzò prima che il suo pene, che già si stava irrigidendo, lo intralciasse nei movimenti, e si avviò con un certo impaccio verso il prato. Le ragazze avevano tutte tra i tredici e i quattordici anni, l'età abituale della Regina di Maggio, ma alcune erano straordinariamente sviluppate. Dovette fermarsi a tre metri circa dalla fila, perché se da un lato l'imbarazzo che provava riusciva a tenere il suo pene sotto controllo, ad ogni passo che compiva, il suo glande sfregava contro la zip dei pantaloni. Soffocando un gemito, si sforzò di guardare solo i volti delle candidate. Ma nemmeno in quel modo riuscì ad avere ragione del suo desiderio, perché una delle ragazze aveva leggermente piegato la testa di lato e lo stava guardando attraverso le lunghe ciglia nere in un modo che lo costringeva ad avvertire, pur senza vederli, i suoi seni pieni e il disegno perfetto delle lunghe gambe. «Questa qui» disse con voce alta e roca, indicandola con la mano tremante. Quando la ragazza fece un passo avanti, Kilbride temette che gli afferrasse la mano di fronte a tutti. Ma lei gli passò davanti rivolgendogli un sorriso obliquo, mentre la fila si scioglieva e le altre candidate si allontanavano; alcune sollevate, altre stizzite. La ragazza che aveva scelto aveva raggiunto Sadie. Si accorse con ritardo di quanto si assomigliassero. Ma ancora più sconcertante di quella
scoperta e dell'arrivo silenzioso degli abitanti del paese, fu l'espressione che colse sul volto di Sadie quando guardò la figlia: un misto di orgoglio e di sgomento. Le ragazzine si stavano disperdendo in piccoli gruppi, mormorando e ridendo nervosamente fra di loro. Alcuni degli abitanti si fecero avanti per ringraziarlo, ma lo fecero con tale esitazione che Kilbride non capì esattamente di che cosa gli fossero grati. Visti da vicino i loro volti sembravano ancora più flaccidi, quasi asessuati. Sadie, che stava conducendo via la figlia, si fermò ad indicargli la strada dietro la locanda. «Sta da noi, vero? Siamo al numero tre. La cena è alle sette. Che cosa pensa di fare nel frattempo?» «Una passeggiata, direi. Darò un'occhiata attorno.» «Si consideri a casa sua» gli disse una signora robusta e occhialuta, e il suo ricciuto compagno aggiunse: «Qualsiasi cosa desideri, non deve fare altro che chiedere.» Aveva voglia di riflettere, ma non troppo. Si sedette sulla panchina, mentre le ombre della foresta si protendevano lentamente verso lo spiazzo erboso. Cominciava a pensare di conoscere la ragione per cui l'avevano fatto andare lì: ma non stava indulgendo in una fantasia che quasi non aveva il coraggio di ammettere nemmeno a se stesso? Si alzò di scatto; gli era venuta in mente una domanda che ancora non aveva trovato risposta. La porta della taverna era chiusa a chiave e, presumibilmente, a casa di Sadie non era atteso prima delle sette. Passeggiò per le strade del paese, immerso nella luce del pomeriggio, mentre nei piccoli giardini, gremiti all'inverosimile, i fiori risplendevano con aria imbronciata. Le persone intente a spettegolare davanti alle villette bianche, tacevano appena lo vedevano avvicinarsi e poi lo salutavano calorosamente. Non poteva chiedere a loro. Anche quando si fermò a scrutare la vetrina dell'unico negozio del paese, una casa fatta ad angolo con la stanza che si affacciava sulla strada adibita ad emporio, si sentì a disagio. Dopo aver passeggiato per circa dieci minuti, stava per far ritorno al punto di partenza quando vide l'ambulatorio del paese: una casetta con una targhetta d'ottone recante il nome di un medico, che sorgeva sullo stesso lato in cui si trovava quella di Sadie. L'omino, lindo e avvizzito, che, con mirati spruzzi di uno spray venefico, stava uccidendo gli insetti minaccia del suo rigoglioso giardino giapponese, doveva essere il dottore. Quando Kilbride si fermò davanti al suo cancello si raddrizzò e, con voce sottile, gli domandò: «C'è qualcosa che posso fare per lei?» «Lei è un membro di Vita Nuova?» «Lo spero bene.»
Kilbride si sentì stupido, benché il medico non lo stesse certo prendendo in giro. «Intendo dire, qui al paese fate parte tutti dell'organizzazione?» «Siamo una comunità molto chiusa.» Il dottore azionò un'ultima volta la bomboletta, poi si rizzò. «Per cui la prego di non offendersi se qualcuno le sembra poco cordiale.» Era sicuro che quella risposta contenesse un'indicazione molto utile, se fosse riuscito a coglierla. «Sono qui da solo? In altre parole, è stato chiesto a qualcun altro di venire qui questo week-end?» Il medico lo guardò diritto in faccia e i suoi occhi pallidi si illuminarono. «Lei è il nostro uomo.» «Grazie» rispose Kilbride e si allontanò. Era stordito. Passò davanti alla chiesa, dove una testa di pietra, con fronde che le spuntavano dalla bocca e dalle orecchie, sorrideva incastrata sotto il tetto spiovente; poi proseguì verso il bosco. La risposta del medico era stata inequivocabile, ma altre domande cominciarono ad affollarsi nella sua mente, mentre attorno a lui la luce sbiadiva. Tutti volevano che lui si sentisse a suo agio e invece lui si sentiva un estraneo; si avventurò in mezzo agli alberi e rimase lì fino a quando non vide che la taverna aveva riaperto i battenti. Mentre ritornava verso il paese, i miasmi della fabbrica gli andarono incontro. Il bar era accogliente. Le fiamme di un camino a legna danzavano riflesse sul legno scuro delle pareti, dove erano appese fotografie di danzatori di un gruppo folcloristico. Kilbride si sedette, ordinò da bere e, dopo un po' si mise a chiacchierare con due uomini un po' tocchi. Quando alle sette si avviò verso la casa di Sadie Thomas, si rese conto di non ricordare neanche una parola della conversazione appena avuta al pub. La casa di Sadie aveva il portone rosso, con un batacchio d'ottone. Quando Kilbride bussò, aprì un uomo. Era più alto e più corpulento di lui, e aveva il viso accigliato. Un paio di baffi irregolari gli crescevano in modo disordinato sopra le labbra pendule. Fissò con vaga ostilità la valigia che Kilbride aveva preso dalla macchina. «Giusto in tempo» mormorò, come se ci avesse ripensato, prima che Kilbride riuscisse a varcare la soglia. «Bob Thomas.» Quando allungò la mano, Kilbride si affrettò a stringergliela, senza accorgersi che l'uomo si stava offrendo di prendergli la valigia. Thomas salì con la valigia su per una scala ripida e ingombra, quindi ridiscese rumorosamente e lo precedette in cucina; era una stanza luminosa e larga quanto la casa, con le pareti decorate di boccioli. Sadie e la figlia erano sedute ad un tavolo rotondo, il cui ripiano era costituito da un unico disco di quercia.
Gli sorrisero entrambe, anche se la figlia con maggior ritrosia. Sadie affondò un mestolo in una fumante casseruola di terracotta. «Si accomodi» gli disse Bob Thomas in tono burbero, quando Kilbride si fece da parte per lasciarlo sedere sulla sedia migliore che restava. Sadie gli riempì il piatto di stufato di montone e patate, e non appena Kilbride ritenne di non sembrare sgarbato, iniziò a mangiare per celare l'imbarazzo che sentivano tutti. «Ottima carne» commentò. «Non è di queste parti» lo informò Sadie, come se fosse importante che lui lo sapesse. «Per via della fabbrica, intende?» «Ah, la fabbrica» intervenne Bob Thomas con insospettatà veemenza. «Lei la conosce già la storia, vero?» «Be', veramente, no, solo quello che ho intuito al telefono... Mi è stato detto di fuggire lontano dalle fabbriche.» Bob Thomas lo fissò, lisciandosi i baffi con le dita come se volesse farne apparire altri per magia. Kilbride si sentì raggelare e si chiese se avesse parlato troppo. «A papà non piace parlare della fabbrica» mormorò la figlia, mentre si portava schifiltosamente la forchetta alle labbra, «per quello che ha fatto a lui e a tutti gli altri uomini.» «Margery!» Kilbride non avrebbe mai immaginato che un padre potesse pronunciare il nome della propria figlia con la stessa durezza di una bestemmia. La ragazza trasalì e sollevò gli occhi verso il soffitto. Kilbride si stava lambiccando il cervello per trovare il modo di salvare la conversazione quando Margery disse: «L'ha visto?» Si stava rivolgendo a lui. Seguendo la direzione del suo sguardo, vide che si riferiva ad una trave arrotondata, che sembrava avere una funzione più decorativa che di sostegno. «È un palo della festa di maggio.» «Sì, quello dell'anno scorso.» La sua voce esprimeva una fierezza che Kilbride riusciva solo parzialmente a comprendere. «Allora voi siete una famiglia che crede molto nelle tradizioni e nell'importanza di mantenerle in vita» disse rivolto a Bob Thomas. «Immagino che continuino a vivere indipendentemente da quello in cui credo io» replicò l'uomo. «Intendevo dire» peggiorò la situazione Kilbride, «che è per questo che continuate a vivere qui e non vi trasferite da qualche altra parte.» Bob Thomas trasse un profondo sospiro e fissò con rabbia il vuoto da-
vanti a sé. «Viviamo qui perché la nostra famiglia ha sempre vissuto qui. La fabbrica è arrivata quando avevamo bisogno di lavorare. Il proprietario era uno del paese e così noi pensavamo che ci facesse un favore. Invece ci ha avvelenato. Allora abbiamo trovato lavoro su in cima alla strada e l'abbiamo costretto a chiudere. Possiamo anche essere avvelenati, ma questo non basterà a farci andare via. Faremo tutto quello che potremo per tenere vivo il nostro paese.» Era chiaro che un discorso così lungo era una cosa insolita da parte sua, e non ammetteva repliche. Kilbride tacque, domandandosi se in quello che l'uomo aveva detto lui c'entrasse qualcosa. Sadie e la figlia animarono la conversazione per tutto il resto della cena e Kilbride finse di ascoltarle attentamente. «Papà non è sempre così. È così soltanto in questo periodo dell'anno. Non decida di andarsene a causa sua» gli disse Sadie, mentre portava via i piatti. «Giuri che non lo farà» aggiunse Margery. Kilbride si impegnò immediatamente, perché adesso aveva la certezza di aver parlato con lei al telefono, almeno la prima volta. Bob Thomas abbassò la testa taurina, ma non disse nulla. La sua passività sembrò contagiare tutti; non restava più molto da dire, e ancor meno da fare: i Thomas non avevano né la televisione, né la radio e, per quel che poteva vedere Kilbride, nemmeno il telefono. Così, appena ne ebbe l'opportunità salì in camera sua. Rimase per un po' alla finestra che, ricavata nel basso soffitto, seguiva l'angolo del tetto, e osservò la luna che si levava alta sopra il bosco. Quando si stancò di quel panorama, si sdraiò sul letto, pentendosi amaramente di non aver portato qualcosa da leggere. Non gli andava di uscire dalla sua stanzetta verde, perché non voleva correre il rischio di imbattersi nel padrone di casa. Alla fine si avventurò fino al bagno, dopodiché si rintanò sotto le coperte, a guardare le losanghe di luna che scivolavano lentamente sul muro sopra i suoi piedi. Si addormentò prima che i raggi bianchi lo raggiungessero. Dapprima pensò che le voci che udiva, decine di voci che sembravano provenire dalla porta della sua stanza, lo stessero chiamando per nome. Appartenevano alle ragazze che avevano sfilato davanti a lui sullo spiazzo erboso e che adesso si erano presentate a ritirare un premio di consolazione. Dovevano essere tutte accalcate sulla scala, il che significava che, anche se avesse voluto, non sarebbe potuto fuggire prima che ognuna di loro avesse avuto ciò che le spettava. Inoltre, il suo pene si stava ingrossando in
modo così strepitoso, che non sapeva più che cosa fare: era già più grosso della sua gamba e continuava a crescere. Se non avesse risposto, le ragazze sarebbero entrate nella stanza e si sarebbero catapultate su di lui, ma per quanto si sforzasse non riusciva ad articolare neppure un suono. Poi si rese conto che non era possibile che lo stessero chiamando perché nessuno in quel paese conosceva il suo nome. Lo choc fu tale che Kilbride si svegliò. Continuava ad udire le voci. Si drizzò a sedere sul letto, evitando a malapena di sbattere la testa contro il soffitto. Si guardò attorno con gli occhi sgranati. Le voci non stavano chiamando il suo nome, e'non erano nemmeno all'interno della casa. Mise i piedi giù dal letto, sussultando per lo spavento quando sentì le assi scricchiolare, e guardò fuori dalla finestra. La luna era quasi piena e ammantava di bianco i pendii che circondavano il paese. Ad eccezione di alcune mucche che ciondolavano in un campo vicino, niente si muoveva. Non solo le mucche, ma anche i campi erano dello stesso colore della luna. I boschi sembravano sculture d'avorio, e tale era la loro immobilità che quando scorse il fremito dei rami, rabbrividì. Poi si rese conto che i rami che aveva visto vibrare erano troppo lontani perché potessero esser mossi dal vento. Kilbride aprì la finestra e allungò il collo per vedere meglio. Fissò il limitare del bosco fino a quando i tronchi cominciarono a tremolare davanti alle sue pupille sbarrate. Le voci che udiva provenivano dal bosco, ne era certo. Subito dopo scorse un movimento in mezzo agli alberi, su un poggio che emergeva sopra una tettoia di rami. Due figure, un uomo e una donna, uscirono alla luce della luna tenendosi per mano. Si abbracciarono e si baciarono, poi le loro teste si separarono ed entrambi si guardarono attorno, come se cercassero di capire da che parte provenissero le voci. Un attimo dopo erano già scomparsi nel bosco. Erano in anticipo, pensò Kilbride come in sogno. Avrebbero dovuto aspettare fino all'undici, il giorno in cui, secondo l'antico calendario, cadeva la festa di maggio e iniziava l'estate celtica. A quei tempi uomini e donne suonavano il corno oltre a chiamarsi gli uni gli altri, per essere sicuri che nessuno si perdesse, mentre spezzavano i rami e li decoravano con fiori di biancospino. Le coppie che volevano restare sole, rimanevano in silenzio. D'un tratto Kilbride si domandò se anche lui avrebbe dovuto trovarsi là fuori... L'avrebbero chiamato se avessero saputo il suo nome? Aprì la porta della stanza senza far rumore e uscì in punta di piedi sui minuscolo pianerottolo. Le porte delle altre camere da letto erano socchiu-
se. I battiti del suo cuore accelerarono quando si avvicinò alla prima e sbirciò all'interno. Erano tutte e due vuote. Era solo in casa e sospettava anche di essere rimasto solo in tutto il paese. Di certo avrebbe dovuto trovarsi anche lui nel bosco. Forse la tradizione impediva che qualcuno venisse a svegliarlo, forse doveva essere destato proprio dalle voci che giungevano a valle. Chiuse la finestra della sua stanza per impedire ai miasmi della fabbrica di entrare poi si vestì e scese di corsa le scale. Il portone non era chiuso a chiave. Kilbride uscì e si incamminò sul marciapiede incatramato d'ombra. In meno di dieci minuti attraversò il paese deserto e si ritrovò all'aperto, accanto alla chiesa. Benché ci fosse soltanto la testa di pietra, con la bocca e le orecchie piene di fronde a guardarlo, quando emerse alla luce della luna e attraversò lo spiazzo erboso, diretto verso il campo che confinava con il bosco, si sentì vulnerabile. Ad un tratto sussultò, perché un'altra testa di pietra, con un fascio d'erba che le pendeva dalla bocca, lo stava fissando al disopra di un cancello; dopo un istante di puro terrore, Kilbride trasse un sospiro di sollievo; era soltanto una mucca. Si avviò lungo il sentiero che saliva al bosco, guidato dai richiami delle voci. Quando raggiunse i primi alberi, ebbe un attimo di esitazione, mentre l'ombra di una nuvola scivolava sugli intrecci di radici bianche e nocchiute. Le voci più vicine provenivano dal cuore del bosco. Kilbride si fece strada in mezzo agli alberi, affondando fino alla caviglia nel pacciame di foglie. Ogni volta che calpestava qualche ramoscello o gli sembrava di scorgere un movimento fra i pallidi tronchi percorsi da intricati intagli di tenebra, si fermava e tratteneva il fiato. Ciò nonostante, poco ci mancò che inciampasse sulla coppia che si era rifugiata in una radura isolata; li aveva scambiati per l'ombra di qualche fronda. Kilbride si nascose dietro un albero e si coprì la bocca con una mano fino a quando non riuscì a regolarizzare la frequenza del respiro. Non voleva guardare la coppia, ma non osava muoversi fino a quando non fosse stato in grado di misurare i suoi passi. La donna aveva la gonna sollevata sopra i fianchi, l'uomo aveva i calzoni calati fino alle caviglie. Kilbride non riusciva a vedere il volto di nessuno dei due. L'uomo affondava le mani nel muschio che ricopriva il terreno, mentre le sue natiche pompavano furiosamente. All'improvviso, crollò sul corpo della sua compagna. Lei gli prese il volto fra le mani come se volesse confortarlo. Allora l'uomo riprese a spingere dentro di lei con crescente disperazione e senza sapere perché,
Kilbride si convinse che dovessero essere Bob e Sadie Thomas. Ma subito dopo l'uomo gettò indietro la testa, il viso contratto in una smorfia di delusione, e lui si rese conto che non poteva avere più di vent'anni. In quel momento Kilbride capì molte cose. Ciò che si stava svolgendo nel bosco non era la celebrazione della Primavera, ma un rito disperato. Solo allora si rese conto di quale fosse stato il terribile danno provocato dall'inquinamento della fabbrica e capì perché non aveva udito grida di bambini in paese. Si nascose dietro l'albero, con il viso in fiamme per la vergogna, e si allontanò in punta di piedi, non appena ebbe l'impressione di poterlo fare senza essere notato. Era arrivato a circa metà del campo illuminato dalla luna, stava quasi correndo per paura che qualcuno lo vedesse e sospettasse che avesse scoperto il loro segreto, quando finalmente capì che cosa gli abitanti di quello sperduto paese si aspettassero da lui. Si fermò all'ombra della locanda a riflettere. Poteva prendere le sue cose e andarsene finché non c'era nessuno ad impedirglielo... Ma chissà mai per quale ragione doveva temere una cosa simile? Al contrario, sembrava che gli uomini non vedessero l'ora che lui se ne andasse. Non avrebbe permesso a nessuno di costringerlo ad andarsene. Non era soltanto il fatto di essere stato invitato; ma c'era anche qualcuno che aveva bisogno di lui. Ciò nonostante, quando ritornò nella sua stanzetta verde, rimase sveglio per ore a domandarsi quando lo avrebbero mandato a chiamare e ad ascoltare le voci che riecheggiavano nel bosco. Gli sembravano malinconiche adesso, quasi disperate. Era quasi l'alba quando si addormentò. Questa volta i sogni che fece non furono a sfondo erotico. Era seduto al pianoforte in una sala da concerto vuota e rimbombante, e le sue dita si muovevano abilmente sui tasti dando vita ad una musica che non aveva mai udito prima; una musica pacata come il sole che tramonta e poi impetuosa, come un temporale in montagna. Le mani che danzavano sulla tastiera erano le sue mani di ragazzo. Cercò carta e penna ma non li trovò. Era determinato a tenere a mente quella musica finché non gli si fosse presentata l'occasione di trascriverla. Doveva ricordarla, perché quelle note erano la cosa più importante di tutta la sua vita. Poi la luce di un riflettore lo abbagliò, lui spalancò gli occhi e il sogno e la musica si dileguarono. Era il sole, che brillava attraverso la finestra sul soffitto. Kilbride si voltò per nascondere il volto e cercare di riafferrare il sogno. Ma la luce del sole gli accarezzò la schiena e illuminò il muro davanti a lui. Alla fine, si rilassò, nella speranza che il ricordo di ciò che aveva sognato riaffiorasse spontaneamente alla sua mente. Fu allora che si accorse della totale assen-
za di rumori attorno a lui, come se il borgo fosse deserto. Benché dovesse essere almeno mezzogiorno, in paese regnava il silenzio, interrotto soltanto dal muggito di qualche mucca e dal tintinnio dei campanelli. Fu quest'ultimo ad indurlo ad alzarsi e ad affacciarsi alla finestra. Il palo, ricavato dall'albero che il giorno prima lui aveva sfrondato, era ritto al centro dello spiazzo erboso. Tutt'attorno, sul prato, erano riuniti gli abitanti del paese. Le ragazze più giovani indossavano abiti corti bianchi e portavano ghirlande di fiori fra i capelli. Alcuni danzatori folcloristici vestiti in costume - calzoni alla zuava, zoccoli e braccialetti adorni di campanelli ai polsi - bevevano birra di fronte alla locanda. In fondo al prato c'erano due posti vuoti. Kilbride li fissò con gli occhi ancora pieni di sonno; uno dei due doveva essere per lui... e tutto il paese lo stava aspettando. Ma perché non lo avevano svegliato? Forse non avevano un costume speciale per lui. Si lavò di corsa, si vestì e scese; quando si avvicinò allo spiazzo erboso, gli abitanti del paese si voltarono a guardarlo quasi all'unisono. Un danzatore gli andò incontro; era Bob Thomas, Kilbride rimase sconcertato alla vista dell'uomo in costume. «È pronto?» gli domandò Thomas in tono burbero. «Venga a sedersi». Lo condusse verso la sedia più a sinistra delle due rimaste vuote, entrambe fatte di assi di legno nuovo inchiodate fra di loro in modo alquanto grossolano. Non appena Kilbride si fu seduto, due delle ragazze inghirlandate gli si avvicinarono con le braccia cariche di piante rampicanti che gli avvolsero attorno al corpo; con suo grande sollievo, però, lo lasciavano libero di muoversi. Subito dopo si fece avanti Margery, che prese posto accanto a lui. Non indossava un granché sotto il lungo abito bianco. Quando gli passò dinnanzi, abbassando pudicamente lo sguardo, Kilbride notò chiaramente i suoi capezzoli e l'ombra del suo seno sotto la stoffa leggera. Le rivolse un sorriso che voleva essere di incoraggiamento, ma che temette potesse esserle sembrato lascivo. Poi distolse lo sguardo. Mentre le ragazze tornavano verso di loro con una corona composta di boccioli che posarono sul capo di Margery. Allora ebbero inizio le celebrazioni e Kilbride rimase seduto a godersi lo spettacolo. Quando Sadie Thomas portò a lui e a Margery un vassoio pieno di piccoli dolci, scoprì di avere una fame da lupo. Più ne mangiava e più strano e appetitoso gli sembrava il loro sapore; era un misto di carne, mele, zucchero, cipolla, timo, rosmarino e altre erbe che non conosceva. Margery mangiò simbolicamente un solo dolcetto e lasciò tutti gli altri a lui.
Le ragazze cominciarono a ballare attorno al palo, dalla cui sommità pendevano nastri che le danzatrici reggevano in mano. A poco a poco, i movimenti del ballo e il complesso intreccio dei nastri assunsero un preciso significato agli occhi di Kilbride; era una specie di cristallizzazione di quanto stava avvenendo sullo spiazzo verde, con l'erba che si protendeva verso i raggi del sole, i vestiti bianchi e abbacinanti delle danzatrici che lasciavano intravvedere scorci di cosce nude, le occhiate maliziosamente allusive che lanciavano nella loro direzione. Da quanto tempo stavano ballando? Gli sembravano ore e, a tratti, pochi minuti soltanto, come se il sole primaverile avesse catturato il giorno e non volesse più lasciarlo andare. Alla fine le ragazze sciolsero l'ultimo intreccio dei nastri e i danzatori avanzarono impettiti sul prato. Bob Thomas non era il capo-gruppo e, senza sapere perché, Kilbride si sentì sollevato. Gli uomini si allinearono in due file poste l'una di fronte all'altra e iniziarono a compiere lenti passi di danza; brandivano ciascuno un bastone lungo una settantina di centimetri che, ad intervalli regolari, battevano insieme. Lo schema dei loro movimenti sembrava ancora più complesso di quello della danza del palo; mentre Kilbride li osservava il senso di potenza muscolare che si sprigionava dalle loro movenze gli fece ingrossare il pene, benché non lo sentisse eretto. I percorsi descritti dai danzatori prendevano forma solida nella sua mente e gli infondevano forza. Fu allora che, con sorprendente tranquillità, si rese conto che i dolci che aveva mangiato erano drogati. Più fissava i danzatori e più le loro ombre si allungavano, ombre che si congiungevano, poi si separavano e guizzavano verso il pubblico accalcato all'estremità opposta dello spiazzo. Ma il sole non avrebbe dovuto proiettare le ombre dalla parte opposta? Si chiese Kilbride, apparentemente incapace di distogliere lo sguardo dal loro gioco di intrecci fino a quando non avesse trovato una risposta a quella domanda. Ma prima che riuscisse a risolvere l'enigma, il ballo finì. Le ombre, tuttavia, diedero l'impressione di continuare a danzare ancora per alcuni istanti. Poi i ballerini batterono insieme i bastoni e si allontanarono a passo di danza in direzione del campo più vicino. Kilbride notò perplesso che tutti i maschi del paese si accingevano a seguirli. Molti ragazzi e molti giovani uomini gli lanciarono occhiate di fuoco e Kilbride capì che il suo tempo era vicino. Preceduti dai danzatori gli uomini e i ragazzi scomparvero in un tramonto verde in cima ad un pendio. A poco a poco, il suono dei campanelli svanì e restò soltanto il cinguettio degli uccelli.
Kilbride immaginò che, a quel punto, avrebbe dovuto voltarsi verso Margery, ma si sentiva la testa enorme e intorpidita. Fissò l'erba che iscuriva e avvertì un crescente senso di pace. La consapevolezza che Sadie e un'altra donna gli si stavano avvicinando non fu sufficiente ad indurlo a sollevare lo sguardo. Quando lo presero per le braccia, Kilbride si alzò in piedi rigido come una statua, con il corpo che gli doleva per le lunghe ore trascorse sedute. Le due donne lo liberarono dai rampicanti che le ragazze gli avevano avvolto intorno e lo condussero lontano da Margery, dal palo inghirlandato di fiori e dalle zolle che i danzatori avevano sollevato con i tacchi dei loro zoccoli. Quando raggiunsero il limite del prato, le donne accalcate attorno allo spiazzo erboso gli aprirono un varco e fu allora che Kilbride si rese conto che Sadie e la sua compagna lo stavano conducendo verso la chiesa. Attraversarono il nartece, piccolo e nudo, e Sadie aprì la porticina interna. Oltre la schiena dei banchi vuoti l'altare era sommerso di fiori; a pochi metri dall'altare, al centro della navata, un materasso e due cuscini erano appoggiati sul pavimento di pietra. Le due donne accompagnarono Kilbride verso il materasso e lo aiutarono ad adagiarvisi sopra con tale delicatezza che lui ebbe la sensazione di affondare, come un seme trasportato dal vento. Poi, affiancate come due gemelle siamesi, se ne andarono senza voltarsi e uscirono chiudendosi la porta alle spalle. A poco a poco, mentre giaceva sdraiato in attesa, le finestre ogivali si riempirono di tenebra e i contorni dei banchi sfumarono nell'oscurità che si stava addensando. Gli ultimi movimenti che aveva visto, le natiche ondeggianti delle due donne che si allontanavano, gli avevano riempito la mente e il pene. Gli sembrava di avere un'erezione vasta quanto la tenebra, ma che stranamente non aveva urgenza di essere soddisfatta. Aveva quasi dimenticato in quale luogo si trovasse quando sentì il rumore della porta esterna che si apriva. Subito dopo si aprì anche la porticina interna. Non vedeva che la notte fuori, incorniciata dallo stipite della porta. Contro quella tenebra si stagliavano due figure vestite di bianco. Le loro teste si toccarono in un bisbiglio, poi la più snella delle due si avventurò timidamente lungo la navata. Con un balzo Kilbride fu in piedi e le andò incontro. Non l'aveva ancora raggiunta quando la sua compagna fece un passo indietro e chiuse la porta interna. Dopo un attimo anche la porta esterna si racchiuse con un tonfo. Kilbride avanzò lentamente, tastando i banchi, e quando arrivò all'ultimo, individuò l'abito bianco che brillava davanti a lui. Allungò una mano e
prese quella della fanciulla. Kilbride la sentì irrigidirsi per dominare l'impulso di fuggire, e la udì trarre un sospiro tremante. Ma subito dopo la ragazza si rilassò, o si impose di rilassarsi, e lasciò che lui la condusse verso l'altare. Se la tenebra l'aveva quasi accecato, tutti gli altri sensi si erano sorprendentemente acuiti; il calore della carne della fanciulla fluì nel suo corpo attraverso il contatto delle loro mani; il suo profumo, più delicato di quello di Sadie, lo inebriò. Non ebbe quasi bisogno di tastare banchi per ritrovare il materasso. Appena lo raggiunse, Kilbride fece adagiare dolcemente la sua compagna e si inginocchiò accanto a lei. Un attimo dopo lei allungò le mani impacciate verso di lui. Le sue dita cercarono il suo pene e cominciarono ad abbassargli la cerniera dei pantaloni. Lui le accarezzò i capelli, che erano morbidi ed elettrici, per tranquillizzarla e per frenare il suo impeto, ma lei cominciò a spogliarlo con crescente impazienza. Anche lei aveva mangiato uno dei dolcetti, ricordò allora Kilbride; con ogni probabilità avevano un potere afrodisiaco. Si spogliò, lasciando cadere i vestiti sul pavimento di pietra, poi cercò di nuovo il corpo della ragazza nell'oscurità. Le mani di lei si chiusero attorno al suo pene che si stava ingrossando e ne percorsero tutta la lunghezza con le dita tremanti. Lui le accarezzò le spalle strette, poi fece scivolare le mani sul suo corpo snello fino alle natiche sode, per risalire infine sotto la stoffa del vestito. Allora lei si alzò in modo che lui potesse sfilarle l'abito; poi, appena lui l'ebbe spogliata, cercò di nuovo il suo pene, più sicura di sé questa volta. E quando lui le accarezzò le natiche, coperte di nylon sottile, soffocò un gemito. Appena Kilbride cominciò ad abbassarle le mutandine, lei le sfilò con impazienza e le allontanò con un calcio. Poi gli afferrò una mano e la strinse fra le cosce. Lui fece scorrere il pollice attraverso la selva ispida del pube e immediatamente le sue gambe si allargarono pronte ad accoglierlo. Le labbra bagnate del suo sesso si chiusero attorno alle sue dita, inghiottendole con un'avidità che implorava di venire soddisfatta. Quindi, con un movimento improvviso, lei si arrotolò come un gatto e chiuse la bocca attorno al suo pene. Quando la lingua della ragazza guizzò sulla punta del suo glande, il desiderio fu per lui incontrollabile ed esplose in un'erezione dolorosa. Il suo pene era piacere incarnato, un piacere così intenso che la tenebra attorno a lui si accese e gli pulsò dietro gli occhi. Allora lui le mise una mano sotto il mento per sollevarle la testa, ma prima che potesse muoversi, la ragazza
salì sopra di lui e si abbassò sul pene, facendolo affondare dentro il suo corpo. Gridò, ma Kilbride non avrebbe saputo dire se di dolore o di piacere; forse per entrambi. La fanciulla premette con forza il seno contro il suo petto, mentre il suo sesso bagnato stringeva il pene e lo risucchiava sempre più dentro di sé. Nonostante l'incombere dell'orgasmo, ogni crescendo di sensazione era più lungo, più lento e più duraturo. Le braccia della ragazza cominciarono a tremare per lo sforzo di reggersi sopra il suo corpo e allora lui la fece rotolare sotto di sé e affondò più che poté dentro di lei. Quando venne, gli sembrò che il suo piacere dovesse durare in eterno. Era profondamente conscio della presenza della ragazza e della chiesa attorno a loro, e il lento sbocciare del suo corpo e della sua anima sembrò un atto di adorazione di entrambi. Mentre il suo pene si afflosciava dentro di lei, e le sue sensazioni si spegnevano lentamente come un fuoco, Kilbride avvertì la voglia prorompente di abbracciare il mondo intero. Ad un tratto il sentiero della vita, che l'aveva condotto fino a quel momento, gli apparve più chiaro. Lo considerò con divertita tolleranza, e così anche la musica del sogno, che adesso ricordava. Non era un capolavoro, si disse, ma valeva la pena trascriverla. Comunque, per il momento gli era sufficiente quel senso di pace universale che provava. O quasi sufficiente, perché la ragazza stava tremando. Riusciva ad intravvedere i contorni del suo volto adesso, rischiarati dalla luce della luna che aveva cominciato a filtrare attraverso le finestre della chiesa. Si sdraiò accanto a lei, con il pene ancora dentro il suo corpo, e le accarezzò il viso. «È stata la prima volta anche per Vita Nuova, vero? Io spero che raggiunga l'obiettivo che si è posta. Comunque, quello che volevo dirti è che non ho provato mai niente di simile in tutta la mia vita, mai. Grazie, Margery». Doveva aver parlato a voce più alta di quanto avesse voluto, perché le sue parole rimbombarono nella chiesa. Kilbride pensò che fosse stato quello a farla allontanare di scatto e poi ad indurla ad alzarsi e a fuggire lungo la navata immersa nel debole chiarore della luna... Poi capì la vera ragione della sua fuga; l'aveva chiamata per nome, si era lasciato sfuggire di averla riconosciuta. Non gli avrebbero più permesso di andarsene adesso. Il pensiero di morire a quel punto della vita si affacciò alla sua mente con inattesa tranquillità. Si sentiva come se avesse dato il meglio di sé e avesse realizzato tutto ciò di cui era capace. Si vestì senza fretta, poi attraversò con calma la navata percorsa da strisce di luce bianca. Quando aprì
la porta interna udì un singhiozzo soffocato. Sperò che non fosse Margery. Afferrò l'anello di ferro e aprì la porta esterna. La luna era alta sopra lo spiazzo erboso. Visto dalla chiesa, il prato sembrava impalato dal tronco d'albero ancora eretto e adorno di nastri. Il suono di nuovi singhiozzi lo costrinse a voltarsi verso la locanda. Davanti al Jack delle Fronde erano riunite numerose donne in mezzo alle quali c'era Margery, che piangeva con il volto nascosto fra le mani, Qualcuno le aveva drappeggiato un cappotto nero sopra il vestito bianco. Sadie Thomas lanciò a Kilbride un'occhiata che esprimeva dolore, rassegnazione e un'ombra di pietà, mentre i danzatori, che erano rimasti in attesa davanti alla chiesa, avanzavano verso di lui. Era Bob Thomas a guidare il gruppo e, per la prima volta, Kilbride lesse decisione e forza nei suoi occhi, benché il suo volto fosse privo di espressione. Gli uomini si erano tolti i braccialetti adorni di campanelli, ma stringevano ancora in mano i bastoni decorati che avevano usato durante la danza. Gli zoccoli non facevano rumore sull'erba. Quando Bob Thomas alzò il bastone sopra il suo capo, Kilbride chiuse gli occhi e sperò che quella fosse l'ultima cosa che avrebbe visto e sentito. Il primo colpo lo raggiunse in mezzo alle spalle. Lui digrignò i denti, serrò gli occhi e pregò che il colpo successivo non fallisse il bersaglio. Ma il bastone gli si abbatté contro il braccio. Allora Kilbride aprì gli occhi pieni di lacrime per protestare e vide che le donne se ne erano andate. Si voltò verso Bob Thomas, per cercare di indurlo alla ragione, e dal volto dell'uomo capì che non avevano intenzione di ucciderlo, non per il momento, almeno. Gli uomini cominciarono a picchiarlo sistematicamente, costringendolo ad allontanarsi dalla chiesa e, quando lui cercò di dirigersi verso la macchina, lo trascinarono dalla parte opposta. Allora Kilbride cercò scampo verso il bosco, con il corpo che gli doleva come una ferita aperta. Poiché i suoi inseguitori calzavano gli zoccoli, lì non sarebbero riusciti a corrergli dietro, si disse, e, appena fosse riuscito a seminarli, avrebbe fatto ritorno alla macchina. Ma gli uomini lo costrinsero a rifugiarsi in mezzo agli alberi, dove inciampò nelle radici celate dall'oscurità. Pochi minuti dopo zoppicava già senza speranza di salvarsi. Quando vide che, come cani da pastore, lo stavano spingendo verso una capanna, accanto ad una radura, Kilbride si buttò di lato, ma i suoi inseguitori lo ricatturarono immediatamente. Uno di loro gli mise il bastone fra le gambe e Kilbride cadde sull'erba. Rotolò sul terreno soffice e umido per voltarsi a guardarli in faccia. Al-
l'improvviso, temette che lo calpestassero a morte con i loro zoccoli, specialmente quando quattro di loro lo afferrarono per le braccia e per le gambe. Quando Bob Thomas si chinò su di lui, con la pappagorgia che gli tremolava, Kilbride si rese conto che qualcuno aveva seguito la caccia, una piccola figura nascosta nell'ombra, al limite della radura. «Non avevi mai provato niente di simile, vero?» mormorò l'uomo. «Non hai provato neanche la metà di quello che proverai adesso, idiota!» Kilbride si dimenò nel tentativo di liberarsi, ma in quel momento udì un rumore metallico nell'oscurità e subito dopo vide brillare la lama di un coltello. Bob Thomas si fece di lato per lasciare passare il medico con la sua borsa. Era come se non avesse mai visto Kilbride prima, tanto il suo volto avvizzito era impassibile. «Le nostre donne ci fanno sentire dei buoni a nulla, con te invece saremo di nuovo degli uomini» disse Bob Thomas sfregandosi le mani. «Ti daremo da mangiare, ti cureremo e ti terremo nascosto in un posto sicuro. E quando ritornerà la festa di maggio, avremo anche noi la nostra Regina di Maggio». POSTFAZIONE Nessuno sviluppa maggior spirito di ribellione di un bambino che abbia ricevuto una rigorosa educazione cattolica. Anch'io ho rispettato questa legge e mi sono opposto fin dalla fanciullezza ai principi repressivi a cui si ispiravano i miei genitori. Dovevo farlo. Da piccolo l'estremo imbarazzo di mia madre di fronte a qualsiasi situazione celasse un doppio senso mi contagiò a tal punto da rendermi insopportabile ogni immagine o battuta un po' esplicita. Basti questo esempio per tutti: quando, nel Goon Show, Bluebottle e Eccles cercavano di riconoscere i vari personaggi sbirciando attraverso le gambe dei pantaloni, io mi dimenavo sulla sedia in preda ad un disagio così profondo da rasentare il malessere fisico. Non potevo vivere tutta la vita così, anche se sono sicuro che fin troppe persone lo fanno, e, quando i miei genitori mi iscrissero ad una scuola superiore retta da fratelli cristiani, ero già votato ad un'aperta ribellione. Non avevo tempo da perdere con insegnanti bigotti che arricciavano il naso di fronte ai riferimenti sessuali delle canzoni pop; sicuramente, la mia insofferenza era in parte dovuta al fatto che le suddette canzoni e le barzellette sporche rappresentavano tutta l'esperienza che avevo in materia di sesso. Di educazione sessuale, naturalmente, non si parlava; l'unica eccezione fu un discorsetto sui fatti della vita che ci tenne un monaco venuto da non so dove uno degli ul-
timi giorni di scuola: un monaco che parlava dei "fari" delle ragazze e dei "beccucci" dei maschietti. Del resto alcuni dei miei insegnanti approvavano le punizioni corporali, che erano piuttosto frequenti alla scuola; nell'edizione di quell'anno del giornale scolastico, uno dei direttori, rivangando i propri trascorsi studenteschi, si dilunga a parlarne in modo quasi morboso. Per quanto mi riguarda io sono d'accordo con Gore Vidal, che ammette la punizione corporale solo fra adulti consenzienti. Ma a quei tempi il principale motivo del mio risentimento nei confronti della chiesa e dell'educazione che mi veniva impartita riguardava la proibizione di leggere certi libri. Avevo l'impressione — quanto lucida fosse non saprei dirlo — che, come cattolico, non potessi leggere tutto quello che avrei voluto, se non sotto pena di incorrere in una punizione misteriosa e, perciò stesso, terribile, la cui incombente minaccia aveva un potente effetto deterrente. Ma dopo aver convinto a poco a poco mia madre a lasciarmi prendere in prestito dalla biblioteca libri sui fantasmi per adulti e poi, all'età di dieci anni, a comperarmi riviste di fantascienza, fra cui perfino Weird Tales, mi sentivo pronto a sfidare l'atteggiamento critico del mondo intero, o così almeno pensavo. Era l'anno in cui fu pubblicato per la prima volta in Inghilterra L'amante di Lady Chatterley e, anche se credo che nessuno dei miei compagni abbia mai avuto il fegato di portarne una copia a scuola, diversi sostenevano di averlo letto e, probabilmente, qualcuno di loro lo aveva fatto. Tutto quello che potevo fare io, invece, era avvicinarmi di soppiatto agli espositori e stringere in mano le tre sterline e sei pence che avevo in tasca, nel vano tentativo di indurmi a comprarlo. Fu solo quando lasciai la scuola che mi decisi a recuperare il tempo perduto leggendo tutto quello che volevo. Acquistai Lolita di Nabokov, romanzo che trovai liberatorio in molti sensi, non da ultimo come scrittore. Per riuscire a scrivere qualcosa di abbastanza vivace da poter essere pubblicato avrei dovuto disimparare alcune delle regole che mi erano state insegnate a scuola, dove era ammesso soltanto l'inglese più forbito, ma la lettura di Nabokov ebbe l'effetto immediato di rendere più agile il mio stile e di farmi apprezzare i piaceri della lingua (piaceri di cui, temo, almeno uno dei miei insegnanti di inglese non conosceva nemmeno l'esistenza). Nel frattempo erano apparsi i miei primi racconti, di chiara matrice lovecraftiana, e Pat Kearney, un amico che aveva pubblicato il primo sulla sua rivista Goudy, mi parlò dell'Olympia Press, la casa editrice che per prima ha stampato Lolita in Inghilterra. A me piaceva l'idea di affidarmi ad un editore che pubblicava libri messi al-
l'indice, anche perché, con il passare degli anni, avevo scoperto, con profonda indignazione, quanti fossero i testi proibiti. Con i soldi dell'anticipo, che mi era stato pagato alla pubblicazione del mio primo libro, portai mia madre a Parigi, da dove ritornai con Soft Machine e The Ticket that Exploded di William Burroughs, e una raccolta di ballate oscene per Pai, curate da un tale che si firmava con lo pseudonimo di Christopher Logue. Non ho idea di come avessi intenzione di gabbare i doganieri, e devo ringraziare il mare mosso della Manica se riuscii a farla franca: vedendomi incerto sulle gambe, bianco come un cencio e con tracce della colazione mattutina sulla giacca, il funzionario della dogana mi fece segno di passare. Nell'introduzione alla propria bibliografia dell'Olympia Press, Pat Kearney descrive questo episodio in un modo che mi ricorda l'ultima, sinistra visione che Anthony Cronin ha di Brendan Behan. Un'altra fonte di libri proibiti fu August Derleth, amico e mentore nonché (ai tempi in cui lui "era" la Arkham House) grande editore; fu lui a spedirmi Il tropico del Cancro e Il Tropico del Capricorno di Henry Miller e Black Book di Lawrence Durrell. Ne dedussi che non avrebbe avuto niente da obiettare alla mia idea di introdurre un pizzico di scioccante novità nelle mie imitazioni di Lovecraft: si trattava della parola "merda" inserita all'interno di un dialogo ma, contrariamente alle mie aspettative, lui la censurò. Sono tuttora convinto che fosse giusto metterla in bocca al protagonista del racconto, anche se mi rendo conto che forse era fuori luogo in un testo stilizzato come un pastiche lovecraftiano. Tentai allora di scrivere per la Olympia Press, che in quegli anni pubblicava una rivista. L'intento con cui concepii "A third-Floor Withdrawal" era quello di confrontarmi con i turbamenti sessuali che avevo vissuto negli anni dell'adolescenza, e il redattore a cui lo sottoposi mi dette l'impressione che sarebbe stato disposto a pubblicarlo se non fosse stato così breve (non superava le mille parole). Ci riprovai con "The Folding Socket", una fantasia senza trama che risentiva della lettura dell'opera di Burroughs, e che scrissi durante la pausa pranzo all'epoca del mio primo impiego statale; ma era un racconto troppo volgare per la rivista dell'Olympia, che si rivolgeva al pubblico delle edicole inglesi e americane. Entrambi i racconti sono andati perduti e di certo non c'è motivo di dolersene. Anni dopo, nel 1969 credo, ebbi un'esperienza del tutto diversa, legata all'Olympia Press. Nel primo bollettino inviato ai soci di un cineclub clandestino di Liverpool, che ahimè ebbe vita breve, invitavo tutti ad acquistare I 120 giorni di Sodoma di de Sade, edito dall'Olympia, che, per la verità,
io avevo trovato piuttosto noioso. Naturalmente il tizio che si presentò chiedendo di esaminare l'opera, era un poliziotto in borghese, senza dubbio infiltrato nel club per tener d'occhio la situazione; ma io lo capii soltanto quando ritornò insieme a tre colleghi sbandierando un mandato di perquisizione. Si comportavano in modo più che gentile e sembravano sinceramente stupiti della mia ingenuità e del fatto che alcuni miei scritti fossero stati pubblicati. Un paio di settimane dopo fui invitato a presentarmi al commissariato, dove trovai ad attendermi una tazza di tè e la notizia che il pubblico ministero aveva deciso di non procedere contro di me; il commissario mi restituì pressoché tutto ciò che mi era stato sequestrato, compresi Memoirs of a Shy Pornographer di Kenneth Patchen (requisitomi, presumibilmente, per la stessa ragione per cui la polizia di Manchester ha posto sotto sequestro il video de The Big Red One: titolo sospetto!) e Imagination Dead Imagine di Samuel Beckett, in cui qualche solerte poliziotto aveva provveduto a segnare pagina 12 con un circolino a matita attorno al numero, immagino perché iniziava con la parola "culo". Non penso che nessuno si fosse mai sognato di considerare Beckett uno scrittore pornografico prima di allora. Dovetti rinunciare soltanto al libro di de Sade, nominando il quale il commissario arricciò il naso come faceva il mio vecchio insegnante ascoltando le canzoni pop. A quell'epoca avevo già ultimato Demon by Daylight, il mio secondo libro, anche se non fu pubblicato che nel 1973. Letto adesso non sembra tanto scandaloso, ma per i lettori di allora lo era senz'altro, quanto meno per la peculiarità dei protagonisti dei racconti, impacciati e pieni di sensi di colpa, paure e problemi sessuali che rispecchiavano quelli che io stesso avevo vissuto. In realtà, se non avessi avvertito la necessità di modernizzare la narrativa dell'orrore, in risposta all'evolversi degli altri generi letterari, forse non avrei avuto il coraggio di continuare; intuivo che August Derleth non approvava quel tipo di racconti e, quando terminai di battere a macchina il libro, precipitai in un terribile stato di depressione, perché da un lato consideravo la Arkham House l'unica casa editrice potenzialmente disposta a pubblicarlo (lo stesso ragionamento che Lovecraft faceva nei confronti di Weird Tales) e dall'altro ero certo che non lo avrebbe nemmeno preso in considerazione. E invece Derleth acquistò i diritti, anche se non mi ha mai detto che cosa pensasse dei racconti. Ogni tanto, qualcuno avanza la tesi (come ha fatto Paul Schrader, nel tentativo di giustificare il suo volgare rifacimento di Cat People) che tutta la narrativa dell'orrore parli di sesso. Ma si tratta di un giudizio assurdo e
riduttivo, anche qualora sia applicato a racconti che abbiano per oggetto tematiche erotiche: è troppo facile passare da "la storia parla di questo" a "la storia parla solo di questo". Nondimeno è vero che molti racconti di genere horror abbondano di implicazioni sessuali, anche se, soprattutto in passato, molti scrittori noir hanno evitato di dare corpo a simili tematiche, convinti che laddove fossero diventate esplicite, avrebbero tolto mordente alla vicenda narrata. Fu il compilatore di antologie Michel Parry ad offrirmi l'opportunità di mettere alla prova questa teoria, anche se non credo che si rendesse conto fino in fondo di quello che stava facendo. Dopo aver revisionato tre volumi di racconti di magia nera del ciclo di Mayflower, si era lamentato con me del fatto che nessuno gli proponesse mai storie a sfondo erotico. Così scrissi "Diaboliche statuine", che sorprese a tal punto il mio editore, che consultò il suo legale, il quale gli consigliò di pubblicarlo. Nel corso degli anni seguenti Michel mi commissionò altri racconti del genere, che oggi sono tutti riuniti in questa antologia, ad eccezione di "In the Picture", che ho deciso di pubblicare soltanto come fantasia del protagonista di Incarnate, Danny Swain. Dopo aver letto "Cristalli verdi", Michel prese in esame l'idea di pubblicare un'intera antologia di racconti sulla droga, ma quando un altro libro che aveva curato per conto dell'altro Lovecraft, Linda dei sexy shop, fu ritirato dalla vendita su consiglio di Scotland Yard, il progetto si arenò. Il volume in questione, More Devil's Kisses, conteneva fra gli altri racconti, "Il ritorno di Loveman", che ciò nonostante fu candidato al World Fantasy Award, ma fu battuto da un altro mio racconto "The Chimney". "Regina di maggio", invece, l'ho scritto ex novo per arricchire la presente antologia. Se qualcuno mi contesta che la narrativa dell'orrore non si presta ad affrontare determinati temi, io faccio il possibile per dimostrare il contrario ed è così che sono nati questo e altri miei libri. Senza dubbio c'entra anche la mia profonda insofferenza nei confronti della censura, che in questo caso si è comportata come una mosca di Spagna. A questo proposito colgo l'occasione per ringraziare le numerose persone che mi hanno indotto a scrivere questi racconti: Mary Whitehouse, James Anderton, il responsabile della Clausola 28, del Video Recording Act e di leggi analoghe, nonché tutte le anime pie che si prodigano per arricchire la nostra vita. Le amo tutte quante. In fondo, come esse stesse non possono fare a meno di riconoscere, odiamo nel nostro prossimo quello che non riusciamo ad accettare di noi.
Ramsey Campbell Merseyside 9 febbraio 1989 FINE