José Saramago Il Vangelo secondo Gesù Bompiani, Milano 1993. Traduzione di Rita Desti. Titolo originale "O Evangelho se...
310 downloads
1678 Views
2MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
José Saramago Il Vangelo secondo Gesù Bompiani, Milano 1993. Traduzione di Rita Desti. Titolo originale "O Evangelho segundo Jesus Cristo". Copyright 1991 José Saramago e Editorial Caminho, by arrangement with Dr. Ray-Gde Mertin, Literarische Agentur, Bad Homburg, FRG. Pubblicato da Editorial Caminho, Lisboa, 1991. Copyright 1993 Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas S.p.A., Via Mecenate 91 - 20138 Milano. Prima edizione Bompiani febbraio 1993.
Nota editoriale Gabriele Danesi si occupa di un libro di José Saramago che ha suscitato numerose polemiche. Ho da poco terminato la lettura di un testo impegnativo e corposo, sia per il tema trattato che per la prosa. Il romanzo in questione è Il Vangelo secondo Gesù Cristo di José Saramago, opera straordinaria che richiede la preventiva rinuncia a ogni certezza in materia spirituale, religiosa e senz’altro stilistica. La prosa dell’autore portoghese, lascerò a dopo la questione più spinosa del tema trattato, ha difatti tutte le caratteristiche poco concilianti di una guida che non ti aspetta: o la segui o ti perdi nei meandri di una caverna, come pure nei sillogismi, nei periodi lunghi che germogliano l’uno dentro l’altro in un gioco barocco di parole e considerazioni. Peculiarità questa dello stile di Saramago quasi ricattatoria, una forma violenta di porsi nei confronti del lettore. Si badi bene però, una violenza strategica, ben calcolata nei minimi particolari e indubbiamente fruttuosa. E sì, perché una volta cominciato a leggere, superato il primo attacco di repulsione da lettore abitudinario che ricerca in ogni romanzo la stessa poltrona, le stesse pantofole e la stessa linearità rilassante, le pagine scorrono da sole, con una leggerezza inaudita. Un respiro lungo che non trova posa. Se non avessi dovuto seguire i ritmi dei miei doveri, sociali e fisiologici, sono quasi sicuro che avrei divorato l’opera di Saramago in un solo giorno. Anche perché questo stile nuovo, irriverente, poco sensibile verso le esigenze del fruitore indolente, si fonde alla perfezione con le vicende narrate, di cui il titolo è una vetrina fin troppo evidente. Il Vangelo secondo Gesù Cristo dovrebbe essere annoverato, a pieno titolo, tra gli scritti apocrifi che s’interessarono alla vita di un uomo, che nel giro di soli trentatré anni, forse qualcosa di più secondo i famosi calcoli storici che si basano sul noto censimento caduto proprio nell’anno zero, sconvolse la storia dei secoli successivi. Certo di tempo ne è passato dall’era degli evangelisti e delle testimonianze protocristiane, ma l’evidenza di un accadimento che scandisce tutt’oggi la vita di milioni di persone, con coerenza o meno, questo non sta a me dirlo, dà diritto e credibilità a chi si senta di tornarci su, anche con spirito diverso rispetto a quei primi che affrontarono l’argomento. La voce di Saramago è una voce scettica, gonfia però di quella spiritualità sconsolata e cosciente, di chi da laico, o fedele da illuminato, guarda i fatti col senno di poi, dall’alto, da quelle vette vertiginose della storia che ci avvicinano così paurosamente all’onniscienza di Dio.
Un’ottica, quella di Saramago, tutta terrena, un modo come un altro per dire: secondo me è andata così, e raccontare una storia, la Storia, con un movimento verticale diverso. Non più dall’alto verso il basso, bensì dal basso verso l’alto e non con poche titubanze per questa ascesa. Gesù, uomo, figlio e fratello, ha infatti la modestia innata di tutti i nati di Israele che soffrono l’asprezza dei deserti, di un Dio che tace, ma comanda con le sue Scritture, di chi, al massimo, solleva un sasso o il rastrello contro le ingiustizie, ma mai oserebbe effigiarsi del titolo di Messia o Figlio di Dio. Gesù insomma è un Dio che fugge la propria divinità. È lui un uomo che vive fin da adolescente nell’amara compagnia di un sogno ereditato assieme al rimorso paterno, il non aver salvato i venticinque innocenti dalla strage ordinata da Erode. Certo, a non parlare, a non avvisare le madri del paese di Betlemme, è stato Giuseppe, ma mai come in questo romanzo le colpe dei padri ricadono sui figli. E la colpa maggiore è quella di vivere, e di vivere domandandosi se quanto avvenuto e se ciò che ancora accade, assassini, profezie, sacrifici di agnelli, lapidazioni in nome della morale del Signore, sia quanto di meglio l’uomo e con esso il suo Creatore, possa fare. Il Cristo di Saramago è uno che dubita, persino della parola di Dio, quando questi per bocca dell’unico reale alleato, il Diavolo- Pastore, rivela la natura soprannaturale al proprio figlio. Cristo nel romanzo, conosce a fondo solo due donne: sua madre e Maddalena. E lo fa nel modo più umano e quindi più vero e puro. Con la madre vive un rapporto conflittuale, quasi da manuale di psicoanalisi, con gli inevitabili screzi adolescenziali e una rottura, anche piuttosto brusca, che niente ricucirà, dato che, tra l’altro, qui i punti di contrasto non sono gli orari da rispettare o le amicizie da frequentare, quanto l’aver visto Dio e l’averci parlato come si fa col vicino di casa. Maria Maddalena, nella versione di Saramago, è per il suo Gesù un richiamo irrifiutabile verso l’amore terreno. Ci sono in Saramago dei momenti di così struggente lirismo, ma si badi bene sempre disincantato, che verrebbe voglia di credergli, quando descrive il dialogo a tre sul futuro del mondo, Dio, Gesù e Diavolo, sulla barchettina del pescatore Pietro, nella coltre impenetrabile della nebbia. E chi sa se in fin dei conti le cose non siano andate proprio così. E l’accusa di eresia sarebbe ben lontana qualora qualcuno s’azzardasse a parlare di manifesto laico del Cristianesimo per questo nuovo Vangelo, perché un Dio che muore con gli altri, respira l’affanno della polvere come le locuste e lascia a malincuore che l’Altro costruisca su di lui il Suo impero, ha le fattezze indurite di tutti gli uomini giusti e la spregiudicatezza di chi richiede ragione dei torti subiti su questa terra.
Il Vangelo secondo Gesù A Pilar. "Poiché molti si sono accinti a comporre una narrazione degli avvenimenti compiutisi in mezzo a noi, come ci hanno trasmesso coloro che fin da principio ne sono stati testimoni oculari, e son divenuti ministri della parola, è parso bene anche a me, dopo aver fatto diligenti ricerche su tutte queste cose, narrarle per iscritto, con ordine, o nobile Teofilo, affinché tu riconosca la verità degli insegnamenti che hai ricevuto". Luca, 1, 1-4
"Quod scripsi, scripsi". Pilato
1. Si vede il sole in uno degli angoli superiori del rettangolo, quello alla sinistra di chi guarda, e l’astro re è raffigurato con la testa di un uomo da cui sprizzano raggi di luce pungente e sinuose lingue di fuoco, come una rosa dei venti indecisa in quali direzioni puntare, e quel viso ha un’espressione piangente, contratta da un dolore inconfortabile, e dalla bocca aperta emette un urlo che non potremo udire, giacché nessuna di queste cose è reale, quanto abbiamo davanti è solo carta e colore, nient’altro. Sotto il sole vediamo un uomo nudo, legato a un tronco d’albero, i fianchi cinti da un drappo, a coprirgli le parti che chiamiamo intime o vergognose, e i piedi li ha posati su quanto resta di un ramo tagliato, ma per maggior saldezza, perché non scivolino da quel sostegno naturale, sono fissati da due chiodi, profondamente conficcati. Dall’espressione del viso, d’ispirata sofferenza, e dalla direzione dello sguardo, levato in alto, deve essere il Buon Ladrone. I capelli, a riccioli, sono un altro indizio che non tradisce, infatti è noto che angeli e arcangeli li usano così, e il criminale pentito, a quanto pare, è già sulla buona strada per ascendere al mondo delle celesti creature. Non sarà possibile appurare se questo tronco sia ancora un albero, solo adattato, per selettiva mutilazione, a strumento di supplizio, ma che continua a nutrirsi dalla terra con le radici, visto che la parte inferiore è completamente coperta da un uomo con la barba lunga, vestito con ricchi abiti, sontuosi e ampi, il quale, benché abbia il viso sollevato, non guarda certo il cielo. Questa solenne postura e questo sembiante triste possono appartenere solo a Giuseppe d’Arimatea, ché Simone di Cirene, senza dubbio un’altra ipotesi plausibile, dopo il lavoro cui lo avevano costretto, aiutare il condannato nel trasporto del patibolo, secondo i protocolli di tali esecuzioni, se n’era tornato alla sua vita, alquanto più preoccupato per le conseguenze del ritardo su un affare che aveva rinviato che
non per le mortali pene di quello sventurato che stavano per crocifiggere. Orbene, questo Giuseppe d’Arimatea è quel caritatevole e benestante uomo che offrì il servizio del proprio tumulo perché vi fosse deposto il corpo principale, ma non gli servirà granché la sua generosità al momento delle santificazioni, e neppure delle beatificazioni, giacché ad avvolgergli la testa non possiede altro che il turbante con cui esce di casa tutti i giorni, al contrario di questa donna che vediamo in primo piano, con i capelli sciolti sulle spalle, curva e china, ma toccata dalla suprema gloria di un’aureola nel suo caso frastagliata come un ricamo domestico. La donna inginocchiata si chiamerà di certo Maria, perché sappiamo già che tutte quelle radunate qui portano questo nome, ma solo una, essendo in più Maddalena, si distingue onomasticamente dalle altre, ebbene, qualunque osservatore, purché abbastanza addentro ai fatti elementari della vita, giurerebbe di primo acchito che la suddetta Maddalena è proprio questa, giacché soltanto una come lei, con un passato dissoluto, avrebbe osato presentarsi, nel tragico momento, con una scollatura così profonda e con un bustino tanto ridotto da farle risaltare e sporgere le rotondità dei seni, ragion per cui, inevitabilmente, attira e fissa su di sé lo sguardo avido degli uomini che passano, pregiudicando seriamente le anime, trascinate così alla perdizione dal turpe corpo. È tuttavia di compunta tristezza l’espressione del suo viso, e l’abbandono del corpo non esprime altro che il dolore di un’anima, sì, magari nascosta da carni tentatrici, ma che dobbiamo pur tenere in conto, stiamo parlando dell’anima, è chiaro, questa donna potrebbe essere addirittura completamente nuda, se avessero scelto di raffigurarla in tale stato, eppure dovremmo dimostrarle comunque rispetto e considerazione. Maria Maddalena, se è lei, sostiene e, con un gesto di compassione intraducibile a parole, sembra sul punto di baciare la mano dell’altra donna, questa sì, accasciata a terra, quasi priva di forze o ferita a morte. Anche lei si chiama Maria, seconda in ordine di apparizione, ma, senza dubbio, di primissima importanza, ammesso che significhi qualcosa il posto centrale che occupa nella parte inferiore della composizione. A parte il viso piangente e le mani inerti, non si riesce a vedere nulla del corpo, coperto dalle innumerevoli pieghe del mantello e della tunica, stretta in vita da un cordone di cui s’indovina la ruvidezza. È più vecchia dell’altra Maria, e questa probabilmente è una buona ragione, ma non l’unica, perché la sua aureola abbia un disegno più complesso, o perlomeno questo sarebbe autorizzato a pensare chi, non disponendo di informazioni precise su priorità, graduatorie e gerarchie in vigore su questo mondo, fosse costretto a esprimere un’opinione. Ma, tenendo conto del grado di divulgazione, fatta con arti maggiori o minori, di queste iconografie, solo un abitante di un altro pianeta, supponendo che non vi avessero mai replicato, o magari solo messo in scena, questo dramma, solo quell’essere davvero inimmaginabile ignorerebbe che l’addolorata è la vedova di un
falegname di nome Giuseppe e la madre di tanti figli e figlie, sebbene solo uno, per i dettami del destino o di chi lo regola, abbia finito col prosperare, non tanto in vita quanto, soprattutto, dopo morto. Reclinata sulla sinistra, Maria, la madre di Gesù, proprio quello di cui abbiamo appena detto, appoggia l’avambraccio sulla coscia di un’altra donna, anch’essa inginocchiata, anch’essa di nome Maria, e in fondo, benché non possiamo vedere né immaginare la sua scollatura, forse la vera Maddalena. Identica alla prima di questa trinità al femminile, ha i lunghi capelli sciolti sulle spalle, ma questi hanno tutta l’aria di essere biondi, a meno che non sia dovuta a pura casualità la differenza del tratto, più lieve in questo caso e con alcuni spazi vuoti fra una ciocca e l’altra, il che ovviamente sarà servito all’incisore per schiarire la tonalità della chioma raffigurata. Con simili ragioni non intendiamo affermare che Maria Maddalena sia stata di fatto bionda, ci stiamo solo adeguando alla corrente d’opinione prevalente, che insiste nel vedere nelle bionde, sia in quelle naturali sia in quelle tinte, i più efficaci strumenti di perdizione. Essendo stata, com’è noto, Maria Maddalena una donna così peccaminosa, perduta come tante altre, doveva pur essere bionda, per non smentire le credenze, bene o male acquisite, di una buona metà del genere umano. Comunque, non è che, perché apparentemente più chiara di carnagione e colore di capelli rispetto all’altra, suggeriamo e proponiamo, contro le prove schiaccianti di una profonda scollatura e di un seno in mostra, che sia questa terza Maria la Maddalena. Un’altra prova, e molto consistente, rafforza e convalida l’identificazione, e cioè che questa donna, per quanto sostenendo appena, con fare un po’ distratto, l’estenuata madre di Gesù, ha lo sguardo rivolto verso l’alto, ed è uno sguardo di autentico e appassionato amore, che ascende con forza tale da sollevare apparentemente tutto il corpo, tutto il suo essere carnale, come un’aureola raggiante capace di far impallidire l’alone che già le circonda la testa e disperde pensieri ed emozioni. Solo una donna che abbia amato nel modo e nella misura che attribuiamo a Maria Maddalena può guardare così, ed ecco quindi, in ultima analisi, la prova che dev’essere questa, solo questa e nessun’altra, escludendo pertanto anche la donna che le si trova accanto, la quarta Maria, in piedi, con le mani leggermente sollevate in atteggiamento pietoso, ma con lo sguardo vacuo, a far coppia in questa parte del quadro con un uomo giovane, poco più che adolescente, il quale flette la gamba sinistra in modo aggraziato, così, al ginocchio, mentre la mano destra, aperta, indica con posa affettata e teatrale il gruppo di donne cui tocca raffigurare, per terra, l’evento drammatico. Questo personaggio, così giovane, con i capelli a boccoli e il labbro tremante, è Giovanni. Come Giuseppe d’Arimatea, anch’egli occulta con il corpo la base di quest’albero che, lassù, in cima, innalza al cielo un secondo uomo nudo, legato e inchiodato come il primo, ma questi ha i capelli lisci, e con la testa reclinata guarda, se ancora ce la fa, il suolo, e la sua faccia, magra e scarna, suscita
tanta pena, al contrario del ladrone dall’altro lato, che persino nell’ultimo frangente di sofferenza agonica possiede ancora la forza di mostrarci un viso che facilmente possiamo immaginare rubicondo, doveva passarsela bene quando rubava, sebbene qui ci manchino i colori. Magro, capelli lisci, la testa piegata verso la terra che dovrà inghiottirlo, due volte condannato, a morte e all’inferno, questo misero relitto può essere solo il Cattivo Ladrone, in fin dei conti un uomo rettissimo, cui è rimasto quel po’ di coscienza che gli impedisce di fingere di credere, al riparo di leggi umane e divine, che un minuto di pentimento basti per riscattare una vita intera di malvagità o una sola ora di debolezza. Sopra di lui, anch’essa piangente e implorante come il sole che le sta di fronte, vediamo la luna, raffigurata da una donna con un incongruente cerchietto all’orecchio, una licenza che nessun artista o poeta si sarà mai permesso prima, e c’è da dubitare che se la sia concessa anche dopo, malgrado l’esempio. Il sole e la luna illuminano entrambi la terra, ma la luce diffusa è circolare, senza ombre, ecco perché si può vedere così nitidamente ciò che si trova sopra l’orizzonte, sullo sfondo, torri e mura, un ponte levatoio sopra un fossato in cui brilla l’acqua, alcune guglie gotiche e, laggiù, sul crinale dell’ultima collina, le pale immobili di un mulino. Un po’ più vicino, per l’illusione della prospettiva, quattro cavalieri con elmo, lancia e armatura fanno volteggiare le cavalcature in destrezze d’alta scuola, ma i loro gesti suggeriscono che sono ormai al termine dell’esibizione, stanno salutando, per così dire, un pubblico invisibile. La stessa impressione di epilogo della festa ce la dà quel fante che sta facendo il primo passo per ritirarsi, portando via e tenendo con la mano destra qualcosa che, a questa distanza, sembra un pezzo di stoffa, ma che potrebbe essere un mantello o una tunica, mentre altri due militari mostrano segni di irritazione e dispetto, ammesso che da così lontano si possa decifrare sui visi minuscoli un sentimento, come di chi ha giocato e perduto. Al di sopra di simili banalità, come eserciti e città recintate da mura, aleggiano quattro angeli, di cui due a tutto campo, che piangono e si lamentano, mentre uno, con espressione seria, è assorto nel suo compito di raccogliere in un recipiente fino all’ultima goccia lo zampillo di sangue che sprizza dal lato destro del Crocifisso. Su questo luogo chiamato Golgota molti hanno avuto lo stesso fatale destino, e tanti altri lo avranno, ma quest’uomo nudo, inchiodato piedi e mani a una croce, figlio di Giuseppe e Maria, di nome Gesù, è l’unico cui il futuro concederà l’onore dell’iniziale maiuscola, gli altri non saranno che crocifissi minori. È lui, in fondo, l’uomo verso cui volgono lo sguardo Giuseppe d’Arimatea e Maria Maddalena, lui che fa piangere il sole e la luna, lui che poco fa ha lodato il Buon Ladrone e disprezzato il Cattivo perché non ha capito che non c’è alcuna differenza tra l’uno e l’altro o, se si ha una differenza, non è quella, ché il Bene e il Male non esistono in se stessi, ciascuno di essi è solo l’assenza dell’altro. Sopra la testa, risplendente di raggi di luce, più del sole e della luna insieme, ha un
cartiglio scritto con lettere romane che lo proclama Re dei Giudei, e a cingerlo una dolorosa corona di spine, come ce l’hanno, senza saperlo, anche quando non sanguinano all’esterno del corpo, quegli uomini cui non è permesso di essere re di se stessi. Gesù non gode di alcun sostegno per i piedi, come ce l’hanno i ladroni, tutto il peso del corpo graverebbe sulle mani inchiodate al legno se non gli restasse ancora un barlume di vita, quanto basta per mantenerlo eretto sulle ginocchia rigide, ma ben presto la vita gli si esaurirà, se il sangue continuerà a sprizzargli dalle ferite al costato, come si è detto. Fra i due cunei che tengono ben salda la croce, anch’essi come la croce conficcati in una scura fessura del suolo, una ferita della terra non più incurabile di una qualunque sepoltura d’uomo, c’è un cranio, e accanto una tibia e un’omoplata, ma a noi interessa il cranio, perché cranio significa Golgota, non sembrano la stessa parola, eppure qualche differenza la noteremmo se invece di scrivere cranio e Golgota avessimo scritto golgota e Cranio. Non si sa chi abbia messo qui questi resti e per quale fine, a meno che non sia solo un ironico e macabro avvertimento agli infelici suppliziati sul loro futuro stato, prima di diventare terra, polvere e niente. Ma c’è anche chi sostiene che sia il cranio di Adamo, emerso dalle tenebre profonde degli strati geologici arcaici, e adesso, non potendovi tornare, condannato eternamente ad avere davanti agli occhi la terra, suo unico paradiso possibile e per sempre perduto. Laggiù, sullo stesso campo in cui i cavalieri eseguono un ultimo volteggio, un uomo si allontana, il viso ancora rivolto da questa parte. Con la mano sinistra porta un secchio e, con la destra, una canna. Sull’estremità della canna dev’esserci una spugna, è difficile distinguerlo da qui, e il secchio, potremmo scommetterci, contiene acqua e aceto. Quest’uomo, un giorno, e poi per sempre, sarà vittima di una calunnia, quella di aver offerto, per malvagità o scherno, dell’aceto a Gesù che gli chiedeva acqua, mentre gli avrà certo dato la mistura che ha con sé, acqua e aceto, una fra le migliori bevande per ammazzare la sete, com’era noto e praticato allora. Se ne va, non rimane fino alla fine, ha fatto il possibile per alleviare l’arsura dei tre condannati, e senza alcuna differenza tra Gesù e i ladroni, per la semplice ragione che queste sono cose terrene, che rimarranno sulla terra, e con le quali si fa l’unica storia possibile. 2. La notte ha un lungo cammino davanti a sé. Il lume a olio, appeso a un chiodo accanto alla porta, è acceso, ma la fiamma, come una piccola mandorla luminosa che vibra, riesce a stento, tremula e instabile, a contrastare la massa scura che la circonda e che riempie da cima a fondo la casa, fino agli angoli più remoti, là dove le tenebre sono talmente fitte da sembrare solide. Giuseppe si è svegliato di soprassalto, come se qualcuno lo avesse bruscamente scosso per le spalle, ma dev’essere stata
l’illusione di un sogno subito svanito, perché in questa casa ci vive solo lui, con la moglie, che non si è mossa e dorme. Non è sua abitudine svegliarsi così, nel cuore della notte, in genere non si desta prima che un’ampia fessura della porta cominci a emergere dal buio, grigia e fredda. Un’infinità di volte aveva pensato di chiuderla, niente di più facile per un falegname, preparare e inchiodare una semplice tavola di legno avanzata da qualche lavoro, ma era talmente abituato a trovarsi davanti, appena apriva gli occhi, quella bacchetta verticale di luce, preannuncio del giorno, da giungere al punto di immaginare, senza badare all’assurdità dell’idea, che se gli fosse venuta a mancare avrebbe potuto non essere più in grado di uscire dalle tenebre del sonno, le tenebre del proprio corpo e quelle del mondo. La fessura della porta faceva parte della casa, come le pareti o il soffitto, come il forno o il pavimento di terra battuta. A voce bassa, per non svegliare la moglie che ancora dormiva, pronunciò la prima benedizione del giorno, quella che bisogna sempre dire quando si torna dal misterioso paese del sonno, Ti ringrazio, Signore, Dio nostro, re dell’universo, che per il potere della Tua misericordia mi restituisci così, viva e perseverante, la mia anima. Ma forse non era altrettanto sveglio in ciascuno dei suoi cinque sensi, ammesso che allora, all’epoca di cui stiamo parlando, gli uomini non ne stessero ancora apprendendo qualcuno o, al contrario, ne andassero perdendo altri che oggi ci sarebbero utili, e quindi Giuseppe si osservava come se stesse seguendo a distanza la lenta occupazione del proprio corpo da parte di un’anima che pian piano riaffiorava, simile a rivoli d’acqua che, avanzando sinuosi nel letto dei ruscelli, penetrassero la terra fino alle più fonde radici, trasportando poi la linfa fino all’interno degli steli e delle foglie. E, nel vedere quanto fosse faticoso quel ritorno, guardando la moglie accanto a sé, ebbe un pensiero che lo turbò, che lei addormentata lì fosse davvero un corpo senz’anima, che l’anima non è presente nel corpo dormiente, altrimenti non avrebbe senso chiedere a Dio tutti i giorni di restituircela quando ci svegliamo, e a quel punto una voce interiore gli domandò, Cos’è che in noi sogna ciò che sogniamo, Forse i sogni sono i ricordi che l’anima ha del corpo, pensò subito dopo, ed era una risposta. Maria si mosse, forse la sua anima era lì accanto, già dentro casa, ma poi non si svegliò, doveva essere solo un sogno agitato, e con un profondo sospiro, rotto come un singhiozzo, si accostò al marito, con un movimento sinuoso, ma incosciente, che non avrebbe mai osato da sveglia. Giuseppe si tirò il lenzuolo spesso e ruvido sulle spalle e si rannicchiò sulla stuoia, senza scostarsi. Sentì il calore della moglie, denso di odori, come quello di una cassa chiusa stracolma di erbe secche, che a poco a poco cominciava a impregnargli la tunica, unendosi al calore del suo stesso corpo. Poi, lasciando che le palpebre si abbassassero pian piano, ormai dimentico d’ogni pensiero, incurante dell’anima, si abbandonò al sonno che tornava.
Si svegliò solo quando cantò il gallo. La fessura della porta faceva trapelare un colore grigiastro e sfumato, da acquerello sporco. Pazientemente, il tempo si era accontentato di attendere che scemassero le forze della notte, e adesso stava preparando il campo perché il mattino si affacciasse sul mondo, come ieri e come sempre, non ci troviamo in quei giorni favolosi in cui il sole, al quale dovremmo già tanto, spinse la sua benevolenza al punto di fermare su Gabaon il proprio viaggio, dando così a Giosuè il tempo di vincere, con comodo, i cinque re che assediavano la città. Giuseppe si sedette sulla stuoia, scostò il lenzuolo, e in quel momento il gallo cantò per la seconda volta, rammentandogli di essere in debito di una benedizione, quella dovuta alla parte di meriti che spettò al gallo al momento della distribuzione che ne fece il Creatore alle sue creature, Che Tu sia lodato, Signore, Dio nostro, re dell’universo, che hai dato al gallo intelligenza per distinguere il giorno dalla notte, ecco cosa disse Giuseppe, e il gallo cantò per la terza volta. Solitamente, al primo segno di questa sveglia, si rispondevano a vicenda i galli del vicinato, ma oggi sono rimasti tutti zitti, come se per loro la notte non fosse ancora finita, o fosse appena cominciata. Giuseppe, perplesso, guardò la sagoma della moglie, stupito da quel sonno pesante, lei che al minimo rumore si destava, come un uccellino. Era come se una forza esterna, calando o librandosi su Maria, le comprimesse il corpo contro il suolo, ma non al punto da immobilizzarla del tutto, si poteva addirittura notare, malgrado la penombra, come fosse percorsa da tremori improvvisi, simile all’acqua di una cisterna sfiorata dal vento. Starà male, pensò, ma ecco che un segnale urgente lo distrasse dalla preoccupazione incipiente, un pressante bisogno di urinare, anch’esso piuttosto insolito, poiché questi piaceri in lui solitamente si manifestavano più tardi, e mai così vivacemente. Si alzò, circospetto, per evitare che la moglie si accorgesse di quanto si accingeva a fare, giacché è scritto che in ogni modo bisogna preservare il rispetto di un uomo, a meno che ciò non sia assolutamente possibile, e, aperta pian piano la porta cigolante, uscì nel cortiletto. Era l’ora in cui il crepuscolo mattutino ricopre di grigio i colori del mondo. Si avviò verso una piccola tettoia, che era il riparo del somaro, e lì si liberò, ascoltando, con una soddisfazione semincosciente, il rumore forte dell’urina sulla paglia sparsa per terra. L’asino voltò la testa, facendo brillare nell’oscurità gli occhi sporgenti, poi scosse con forza le orecchie pelose e rificcò il muso nella mangiatoia, soppesando i residui della sua razione con le labbra grosse e sensibili. Giuseppe si avvicinò all’orcio per le abluzioni, lo inclinò, si fece scorrere un po’ d’acqua sulle mani, e poi, mentre se le asciugava nella tunica, lodò Iddio che nella sua saggezza infinita aveva formato e creato nell’uomo gli orifizi e i vasi che gli servono in vita, ché se appena uno si chiudesse o si aprisse al momento sbagliato, l’uomo avrebbe la morte assicurata. Giuseppe guardò il cielo e, in cuor suo, si stupì. Il sole tarda a spuntare, non c’è, in tutto lo spazio celeste, il più pallido indizio dei toni
rossi dell’albeggiare, neppure una tenue pennellata di rosa o di arancia ancora acerba, niente, lungo l’intero orizzonte, a quanto i muretti del cortile gli lasciano vedere, per la totale estensione di un soffitto immenso di nuvole basse, simili a piccoli gomitoli schiacciati, tutti uguali, nient’altro che un unico colore violetto che già comincia a farsi vibrante e luminoso dove irromperà il sole e progressivamente va scurendosi, sempre di più, fino a confondersi con ciò che, al di là, è ancora notte. In vita sua, Giuseppe non aveva mai visto un cielo come questo, benché nei lunghi colloqui con gli anziani non fossero rare le notizie di prodigiosi fenomeni atmosferici, tutte dimostrazioni del potere di Dio, arcobaleni che occupavano metà della volta celeste, scale vertiginose che un tempo collegavano il firmamento alla terra, provvidenziali piogge di pan degli angeli, che poi era manna, eppure mai questo colore misterioso che poteva essere, è vero, uno dei colori primordiali, ma anche uno degli ultimi, fluttuando e indugiando così sul mondo, un soffitto di migliaia di nuvolette che quasi si sfioravano, sparpagliate in tutte le direzioni come le pietre del deserto. Con il cuore gonfio di timore, Giuseppe immaginò che il mondo stesse per finire, e lui, li, unico testimone della sentenza finale di Dio, si, unico, c’è un silenzio totale sia in cielo che in terra, non si ode un rumore dalle case vicine, nemmeno una voce, il pianto di un bambino, una preghiera o un’imprecazione, un alito di vento, il belato di una capra, l’abbaiare di un cane, Perché i galli non cantano, mormorò, e ripeté la domanda, ansiosamente, come se dal canto dei galli dipendesse l’ultima speranza di salvezza. Il cielo, allora, cominciò a cambiare. Pian piano, quasi impercettibilmente, il violetto cominciava a tingersi e ad acquistare, all’interno del soffitto di nuvole, un colore rosa pallido, che poi si arrossava, fino a scomparire, era lì e un attimo dopo non c’era più, e d’improvviso lo spazio esplose in un vento luminoso, moltiplicandosi in lance d’oro che centravano e trapassavano le nuvole che, non si sa bene né dove né quando, erano aumentate, divenute enormi, imbarcazioni gigantesche che issavano vele incandescenti e solcavano un cielo finalmente libero. A Giuseppe si aprì l’anima, senza più timore, i suoi occhi si dilatarono per lo sgomento e la riverenza, non c’è da stupirsi, tanto più che era l’unico spettatore, e la sua bocca pronunciò con voce forte le dovute lodi al creatore delle opere della natura, quando la sempiterna maestosità dei cieli, divenuta ormai pura ineffabilità, non può attendersi dall’uomo altro che le più semplici parole, Che Tu sia lodato, Signore, per questo, per quello, per quell’altro. Così disse lui, e in quell’istante il sussurro della vita, quasi lo avesse convocato la sua voce o fosse entrato all’improvviso da una porta spalancata senza pensare granché alle conseguenze, occupò lo spazio poco prima appartenuto al silenzio, lasciandogli appena qualche occasionale territorio, superfici minime, come quei piccoli stagni che le foreste mormoranti circondano, occultandoli. Il mattino avanzava, si espandeva, ed era davvero una visione di bellezza quasi
insopportabile, due mani immense che affidavano all’aere e al volo un immenso e scintillante uccello del paradiso, che apriva come un radioso ventaglio la sua ruota dai mille occhi, facendo cantare lì vicino, semplicemente, un uccello senza nome. Un alito di vento appena nato colpì allora Giuseppe in viso, gli agitò i peli della barba, gli scosse la tunica, e poi lo circondò come un mulinello nel deserto, o forse ciò che gli somigliava era soltanto lo stordimento provocato da un repentino turbamento del sangue, quel brivido sinuoso che gli stava percorrendo il dorso come un dito infocato, segnale di un’altra e ben più pressante urgenza. Quasi muovendosi all’interno della turbinante colonna d’aria, Giuseppe entrò in casa, chiuse la porta dietro di sé e vi rimase appoggiato per un minuto, aspettando che gli occhi si abituassero alla penombra. Accanto a lui, il lume brillava fiocamente, quasi senza irradiare luce, inutile. Maria, supina, era sveglia e vigile, guardava fissamente un punto davanti a sé, e sembrava in attesa. Senza pronunciare una parola, Giuseppe le si avvicinò e, piano piano, scostò il lenzuolo che la copriva. Lei sviò lo sguardo, sollevò leggermente la parte inferiore della tunica, ma alzandola soltanto fino all’altezza del ventre, mentre lui si chinava e faceva lo stesso con la propria, e Maria, nel frattempo, aveva aperto le gambe, oppure le aveva divaricate durante il sogno, lasciandole poi così, magari per inusitata indolenza mattutina o forse per un presentimento di moglie consapevole dei propri doveri. Dio, che è dappertutto, era anche lì, ma essendo ciò che è, puro spirito, non poteva accorgersi come la pelle dell’uno sfiorasse quella dell’altro, come la carne di lui penetrasse quella di lei, entrambe create apposta, e forse ormai non era più lì quando il seme sacro di Giuseppe si riversò nel sacro interno di Maria, entrambi sacri perché fonte e coppa della vita, in realtà vi sono cose che neppure Dio capisce, anche se le ha create. Uscito quindi nel cortile, Dio non poté udire il suono ansimante, quasi un rantolo, che uscì di bocca all’uomo nel momento cruciale, e tanto meno l’impercettibile gemito che lei non fu capace di reprimere. Solo un minuto, e forse neanche tanto, riposò Giuseppe sopra il corpo di Maria. Mentre lei si tirava giù la tunica e si copriva col lenzuolo, nascondendo il viso con l’avambraccio, lui, in piedi, in mezzo alla casa, le mani alzate, guardando il soffitto, pronunciò la più terribile fra le benedizioni, riservata agli uomini, Che Tu sia lodato, Signore, Dio nostro, re dell’universo, per non avermi fatto donna. Orbene, a questo punto, ormai neppure nel cortile doveva essere Dio, giacché non tremarono le pareti della casa né crollarono, e la terra non si aprì. Ma per la prima volta si udì Maria, mentre diceva umilmente, come sempre ci si aspetta dalla voce delle donne, Lode a Te, Signore, che mi hai fatto secondo la Tua volontà, orbene, fra queste parole e le altre, note e acclamate, non c’è differenza alcuna, attenzione, Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto, è chiaro che chi ha detto queste parole, in fondo avrebbe potuto pronunciare
anche quelle. Poi, la moglie del falegname Giuseppe si alzò dalla stuoia, l’arrotolò insieme a quella del marito e ripiegò il lenzuolo comune. 3. Vivevano Giuseppe e Maria in un piccolo paese chiamato Nazaret, terra di miseri e di miseria, in quel di Galilea, in una casa pressoché identica a quasi tutte le altre, una sorta di cubo sbilenco fatto di mattoni e argilla, povero fra poveri. Invenzioni dell’arte architettonica, nessuna, appena la banalità uniforme di un modello instancabilmente ripetuto. Per risparmiare qualcosa nei materiali, l’avevano costruita sul pendio della collina, poggiata al declivio, scavato un po’ all’interno a crearvi una parete intera, quella posteriore, con il vantaggio inoltre di avere un facile accesso alla terrazza che costituiva il tetto. Sappiamo che Giuseppe fa il falegname, esperto entro la norma nel lavoro, ma privo di talento per perfezionismi, casomai gli richiedano qualcosa di più fino. Queste carenze non dovrebbero scandalizzare gli impazienti, giacché il tempo e l’esperienza, ciascuno dotato di un proprio ritmo, non sono ancora abbastanza per conferire, al punto da risaltare nel lavoro quotidiano, il sapore artigianale e la sensibilità estetica a un uomo che ha appena compiuto vent’anni e che vive in una terra con così poche risorse e ancor minori necessità. Eppure, giacché non vanno misurati i meriti degli uomini unicamente con il metro delle loro competenze professionali, è bene dire che, malgrado la sua giovane età, il nostro Giuseppe è fra i più timorati e giusti che a Nazaret si possano trovare, solerte nella sinagoga, puntuale nell’adempimento dei doveri, e, pur non avendo avuto tanta fortuna da essere dotato da Dio di una facondia tale da distinguerlo dai comuni mortali, capace tuttavia di discorrere con proprietà e di commentare con giudizio, tanto più se gli capita di introdurre nel discorso un’immagine o una metafora riguardante il suo mestiere, per esempio la falegnameria dell’universo. Ma, visto che gli è mancato fin dall’inizio il colpo d’ali di un’immaginazione veramente creativa, mai nella vita sarà capace di produrre una parabola che si ricordi, un detto meritevole di restare nella memoria delle genti di Nazaret e di essere legato per i posteri, o tanto meno uno di quei precisi epiloghi in cui l’esemplarità della lezione traspare immediatamente dalle parole, una lezione talmente luminosa da respingere in futuro l’intromissione di qualunque glossa, oppure, al contrario, abbastanza oscura o ambigua da trasformarsi nei giorni avvenire in piatto succulento per eruditi e specialisti vari. Quanto alle doti di Maria, per il momento, c’è solo da cercarle con il lanternino, e comunque non troveremmo altro se non quanto è legittimo attendersi da chi non ha neppure sedici anni e, benché donna sposata, è solo una ragazzina fragile, due soldi di cacio, per così dire, ché anche allora, pur essendoci diversi denari, queste
monete qui non mancavano. Malgrado l’esile figura, Maria lavora come le altre donne, cardando, filando e tessendo la biancheria di casa, cuocendo tutti i santi giorni il pane per la famiglia nel forno domestico, scendendo alla fonte per attingere l’acqua, e poi di nuovo su per il pendio, fra ripidi sentieri, la brocca panciuta in testa, un orcio poggiato sul fianco e, infine, sul far della sera, spingendosi fra stradelle e piste abbandonate dal Signore a raccogliere legna e a fare stoppia, portandosi per giunta dietro un cesto con cui raccattare non solo lo sterco secco del bestiame, ma anche tutti quei cardi e rovi che abbondano sulle declivi alture di Nazaret, quanto di meglio è riuscito a inventare Dio per accendere un fuoco e intrecciare una corona. Tutto questo arsenale messo insieme sarebbe un carico più adatto da trasportare a casa in groppa a un mulo, non fosse per la convincente circostanza che l’animale è rigorosamente adibito al servizio di Giuseppe e al trasporto del legname. Scalza alla fonte va Maria, scalza va nei campi, con quei suoi poveri vestiti che nel lavoro tanto più si sporcano e si consumano, e che bisogna stare sempre lì a lavare e a rammendare, i panni nuovi e le maggiori cure sono per il marito, donne del genere si contentano di una cosa qualunque. Maria va alla sinagoga, entra dalla porta laterale, quella che la Legge impone alle donne, e se, supponiamo, vi si trovano già lei e trenta sue compagne, o magari tutte le donne di Nazaret, o tutta la popolazione femminile della Galilea, dovranno comunque aspettare che arrivino almeno dieci uomini perché il servizio del culto, cui solo da passive assistenti parteciperanno, possa essere celebrato. Al contrario di Giuseppe, suo marito, Maria non è né timorata né giusta, ma non è certo sua la colpa di queste piaghe morali, la responsabilità è della lingua che parla, se non degli uomini che l’hanno inventata, visto che le parole giusto e timorato, semplicemente, non hanno il femminile. Orbene, accadde che un bel giorno, passate circa quattro settimane da quell’alba indimenticabile in cui le nuvole del cielo erano straordinariamente apparse di un colore violetto, Giuseppe era a casa, più o meno all’ora del tramonto, e stava consumando la sua cena, seduto per terra e con le mani nel piatto come si usava allora, e Maria, in piedi, aspettava che finisse per poi mangiare. Erano entrambi taciturni, l’uno perché non aveva niente da dire, l’altra perché non sapeva come dire quanto aveva in mente. Accadde dunque che andò a bussare al cancelletto del cortile uno di quei poveri mendicanti che, pur non essendo un’assoluta rarità, erano assai poco frequenti lì, tenendo conto dell’umiltà del luogo e della norma degli abitanti, senza contare l’arguzia e l’esperienza della gente che mendica, ogniqualvolta c’è da ricorrere al calcolo delle probabilità, minime in questo caso. Eppure, delle lenticchie stufate con cipolla e della zuppa di ceci che stavano per diventare la sua cena, Maria ne mise una buona porzione in una scodella e la portò al mendicante, che si sedette a terra per mangiare, fuori della porta che non aveva varcato. Non c’era stato bisogno
che Maria chiedesse il permesso al marito ad alta voce, glielo concesse lui o gliel’ordinò con un cenno del capo, ché già si sa quanto siano superflue le parole di questi tempi, quando un semplice gesto basta per uccidere o lasciar vivere, tale e quale nei giochi del circo si muove il pollice dei cesari, puntando in su o in giù. Benché diverso, anche questo crepuscolo era stupendo, con quei mille filamenti di nuvola sparsi nella vastità, rosa, madreperla, salmone, ciliegia, sono modi di dire terreni per poterci capire, giacché questi colori, e tutti gli altri, a quanto si conosce non hanno nomi celesti. Senza dubbio, il mendicante doveva avere una fame arretrata, questa sì che è fame, se ha ingollato tutto e si è leccato il piatto in così pochi minuti, ma eccolo, sta bussando di nuovo alla porta per restituire la scodella e ringraziare per l’elemosina. Maria andò ad aprire, l’accattone era lì, in piedi, ma inaspettatamente grande, assai più alto di quanto le era parso prima, in fondo è giusto quel che si dice, c’è davvero una differenza enorme fra il mangiare e il non aver mangiato, tant’è che a quest’uomo pareva addirittura che gli risplendesse il viso e gli brillassero gli occhi, mentre gli abiti che indossava, vecchi e cenciosi, si agitavano sotto un vento venuto da non si sa dove, e con quell’incessante movimento ci si confondeva la vista, al punto che, per un istante, quei cenci sembrarono degli eleganti e sontuosi drappi, ma solo a vederlo ci si potrebbe credere. Maria tese le mani per riprendere la scodella che, per un’illusione ottica davvero portentosa, suscitata forse dalle luci cangianti del cielo, pareva essersi tramutata in un vaso dell’oro più puro, e, nel preciso istante in cui la ciotola passava da queste mani a quelle, disse il mendico con voce potentissima, ché anche in questo il povero cristo si era trasformato, Che il Signore ti benedica, donna, e ti dia tutti i figli che a tuo marito piacerà, ma che non ti consenta di vederli come adesso vedi me, io che non ho, o vita mille volte dolorosa, dove posare il capo. Maria stringeva la scodella con le mani a conca, coppa su coppa, come in attesa che il mendico vi deponesse qualcosa dentro, e lui senza spiegazioni così fece, si chinò e raccolse un pugno di terra che, dopo aver alzato la mano, lentamente fece scivolare fra le dita, mentre diceva con voce sorda e risonante, L’argilla all’argilla, la polvere alla polvere, la terra alla terra, nulla comincia che non debba finire, tutto ciò che comincia nasce da ciò che è finito. Maria, turbata, domandò, Cosa vuol dire, e il mendico rispose solo, Donna, tu porti un figlio nel tuo ventre, ed è questo l’unico destino degli uomini, avere inizio e fine, avere fine e inizio, Come hai saputo che sono incinta, Non è ancora cresciuto il ventre, ma i figli brillano già negli occhi della madre, In tal caso, mio marito avrebbe dovuto vedere nei miei occhi il figlio che ha generato, Ma forse non ti guarda quando lo guardi tu, E chi sei tu, che non hai avuto bisogno di udirlo dalle mie labbra, Io sono un angelo, ma non dirlo a nessuno. In quell’istante, gli abiti risplendenti ridivennero cenci, quella figura di titanico gigante rimpicciolì e si consumò quasi l’avesse lambita una repentina lingua di fuoco,
e avvenne appena in tempo la prodigiosa trasformazione, grazie a Dio, perché subito dopo la prudente ritirata Giuseppe era già quasi sulla porta, attratto dal brusio delle voci, più soffocate che in una conversazione lecita, ma soprattutto dall’eccessivo dilungarsi della moglie, Cos’altro voleva da te, quel povero, domandò, e Maria, non sapendo quali parole poteva pronunciare, seppe rispondergli solo, Dall’argilla all’argilla, dalla polvere alla polvere, dalla terra alla terra, nulla comincia che non debba finire, nulla finisce che non cominci, L’ha detto lui, Sì, e ha aggiunto che i figli degli uomini brillano negli occhi della donna, Guardami, Ti sto guardando, Mi pare di vedere un bagliore nei tuoi occhi, furono le parole di Giuseppe, e Maria rispose, Sarà tuo figlio. Il crepuscolo si era tinto di azzurro, stava già acquistando il primo colore della notte, adesso si notava come dall’interno della scodella si irradiasse una sorta di luce nera che delineava sul viso di Maria delle fattezze che non erano mai state sue, gli occhi sembravano appartenere a qualcuno più vecchio. Sei incinta, domandò infine Giuseppe, Sì, gli rispose Maria, Perché non me l’hai detto prima, Te l’avrei detto oggi, aspettavo che finissi di mangiare, E poi è arrivato quel mendicante, Sì, Cos’altro ti ha detto, senza dubbio di tempo ce n’è stato, Che il Signore mi conceda tutti i figli che vorrai, Cos’hai, lì nella scodella, di così brillante, Ho della terra, L’humus è nero, l’argilla verde, la sabbia bianca, soltanto la sabbia brilla, se vi batte il sole, e adesso è notte, Sono una donna, non so spiegarlo, quell’uomo ha raccolto un po’ di terra e l’ha messa dentro, mentre pronunciava queste parole, La terra alla terra, Sì. Giuseppe andò ad aprire il cancello, guardò da un lato e dall’altro. Non lo vedo più, è sparito, disse, ma Maria stava già rientrando tranquillamente in casa, sapeva che il mendicante, se era davvero chi aveva detto di essere, solo di sua volontà avrebbe permesso che lo vedessero. Posò la scodella sulla pietra del focolare, prese dalla cenere un po’ di brace, con cui accese il fuoco, soffiandovi fino ad attizzare una fiammella. Giuseppe rientrò, aveva un’espressione interrogativa, uno sguardo perplesso e sospettoso che tentava di nascondere muovendosi con la lentezza e la solennità del patriarca, che non gli donavano affatto, tant’era giovane. Discretamente, cercando di non farsi vedere, andò a sbirciare la scodella, la terra luminosa, assumendo un’aria di scetticismo ironico, ma se era una dimostrazione di virilità quella che voleva dare, non gliene valse la pena, Maria teneva gli occhi bassi, era come assente. Con uno stecco, Giuseppe smosse la terra, incuriosito nel vederla scurirsi mentre la agitava per poi riacquistare la sua brillantezza, su una luce costante, quasi smorta, serpeggiavano rapidi bagliori, Non capisco, qui dev’esserci un mistero, o la terra l’aveva con sé e tu hai creduto che l’abbia raccolta dal suolo, sono i trucchi di un mago, nessuno ha mai visto brillare la terra di Nazaret. Maria non rispose, mangiava quel poco che era rimasto delle lenticchie e della zuppa di ceci, accompagnandolo con un tozzo di pane unto d’olio. Spezzandolo, aveva detto, come
sta scritto nella Legge, ma nel tono modesto che si addice alla donna, Che Tu sia lodato, Adonai, nostro Dio, re dell’universo, che fai uscire il pane dalla terra. Mangiava in silenzio, mentre Giuseppe, lasciando vagare i pensieri come se stesse commentando nella sinagoga un versetto della Torah o la parola dei profeti, rifletteva sulla frase appena udita dalla moglie, la stessa che aveva recitato anche lui nell’atto di dividere il pane, e tentava di immaginare che messe avrebbe potuto nascere e fruttificare da una terra che brillava, che pane avrebbe dato, che luce avremmo avuto dentro di noi, se ce ne fossimo cibati. Sei sicura che quel mendicante abbia raccolto la terra qui, le domandò di nuovo, e Maria rispose, Sì, sono sicura, E prima non brillava, Per terra non brillava. Tanta decisione dovrebbe scuotere il tipico atteggiamento di sistematico sospetto di chiunque sia posto di fronte ai detti e ai fatti delle donne in genere, e della propria in particolare, ma per Giuseppe, come per qualunque uomo di quei tempi e luoghi, era dottrina assai pertinente quella che riteneva il più saggio degli uomini colui che meglio sappia difendersi dalle arti e dalle furbizie femminili. Parlare poco con loro e ascoltarle ancora meno è il motto di ogni uomo prudente che non abbia dimenticato gli avvertimenti del rabbi Josaphat ben Yohanan, parole sagge quanto mai, Nell’ora della morte si dovrà chiedere conto all’uomo di ogni conversazione inutile che abbia avuto con sua moglie. Si chiese Giuseppe se questa conversazione con la moglie avrebbe potuto essere annoverata fra le inutili e, dopo averne concluso affermativamente, prendendo in considerazione la singolarità dell’evento, giurò comunque a se stesso di non dimenticare mai le sante parole del rabbi suo omonimo, è bene ricordare che Josaphat significa Giuseppe, per non doversi ritrovare con dei rimorsi tardivi nell’ora della morte, che a Dio piacendo dovrebbe essere un riposo. E infine, interrogatosi se fosse il caso di informare gli anziani della sinagoga del sospetto caso del mendicante sconosciuto e della terra luminosa, convenne di doverlo fare, per la tranquillità della propria coscienza e la pace domestica. Maria finì di mangiare. Portò fuori le scodelle per lavarle, tranne quella, inutile dirlo, usata dal mendicante. In casa c’erano adesso due luci, quella del lume, che lottava faticosamente contro la notte ormai definitivamente insediatasi, e quell’alone luminescente, vibratile ma costante, come un sole che non si decidesse a sorgere. Seduta per terra, Maria continuava ad aspettare che il marito le rivolgesse la parola, ma Giuseppe non ha altro da dirle, adesso è impegnato a comporre mentalmente le frasi del discorso che pronuncerà domani davanti al consiglio degli anziani. Lo irrita non sapere esattamente cosa sia successo fra la moglie e il mendicante, cos’altro possano essersi detti, ma non vuole domandarglielo di nuovo, perché non si aspetta certo che lei aggiunga qualcosa a quanto ha già raccontato, e quindi lui dovrebbe prendere per vero il resoconto già fatto per ben due volte, e se in fin dei conti lei sta
mentendo, lui non potrà saperlo, ma lei sì, saprà di mentire e di aver mentito, e se la riderà sotto il velo, come vi sono ottime ragioni per credere che abbia riso Eva di Adamo, in modo più dissimulato, è chiaro, perché allora non esisteva ancora un velo che la coprisse. Giunto a questo punto, il pensiero di Giuseppe fece il seguente e inevitabile passo, ed eccolo quindi raffigurarsi il misterioso mendicante come un emissario del Tentatore, il quale, visto quanto sono cambiati i tempi e premunite le persone, non è caduto certo nell’ingenuità di ripetere l’offerta di un semplice frutto naturale, sembra piuttosto che sia venuto a recare la promessa di una terra diversa, luminosa, sfruttando all’uopo, come al solito, la credulità e la malizia delle donne. Giuseppe ha la testa che gli scoppia, ma è soddisfatto di se stesso e delle conclusioni cui è giunto. Dal canto suo, non sapendo nulla dei meandri di analisi demonologica tra cui si è avventurata la mente del marito, e tanto meno delle responsabilità che le sono attribuite, Maria tenta di capire quella strana sensazione di mancanza che sta provando da quando ha annunciato al marito la gravidanza. Non un’assenza interiore, certo, perché oltre tutto sa di trovarsi in quel momento, e nel senso più rigoroso del termine, occupata, ma una vera e propria assenza esterna, come se il mondo, da un attimo all’altro, si fosse spento o allontanato. Ricorda, ma è come se stesse rammentando un’altra vita, che dopo quest’ultimo pasto, e prima di distendere le stuoie per dormire, aveva sempre qualche lavoro da finire, vi passava il tempo, mentre adesso sta pensando che non dovrebbe più muoversi dal punto in cui si trova, lì, seduta per terra, a guardare la luce che tracima dal bordo della scodella e ad aspettare che il figlio nasca. Diciamo adesso, a onore della verità, che i suoi pensieri non furono così chiari, in fin dei conti il pensiero, lo hanno già detto altri, o forse anch’io, è come un grosso gomitolo di filo arrotolato su se stesso, lento in alcuni punti, in altri stretto fino alla soffocazione e allo strangolamento, è qui, dentro la testa, ma è impossibile conoscerne tutta l’estensione, bisognerebbe srotolarlo, tenderlo e infine misurarlo, ma questo, per quanto lo si tenti, o si finga di tentarlo, non si può fare da soli, senza aiuto, dev’esserci qualcuno che un giorno venga a dirti dove tagliare il cordone che lega l’uomo al suo ombelico, dove legare il pensiero alla sua causa. Il mattino seguente, dopo una notte di pessimo sonno, durante la quale si era svegliato in continuazione per l’incubo di vedersi cadere e ricadere in un’immensa ciotola capovolta, che era come un cielo stellato, Giuseppe si recò alla sinagoga per chiedere consiglio e rimedio agli anziani. Il suo insolito caso era talmente straordinario, anche se lui non poteva neppure immaginare fino a che punto, giacché, come sappiamo, gli mancava il meglio della storia, cioè la conoscenza dell’essenziale, ché se non fosse per l’ottima opinione che hanno di lui i veterani di Nazaret, magari dovrebbe tornarsene per la stessa strada, sentendo come un riecheggiante suono di
bronzo la sentenza dell’Ecclesiaste con cui lo avrebbero fulminato, Chi si fida con troppa facilità è di animo leggero, e lui, poverino, armato dello stesso Ecclesiaste, e a proposito del sogno che lo aveva perseguitato tutta la notte, sarebbe stato privo della presenza di spirito per ribattere, Lo specchio e i sogni sono cose simili, sono come l’immagine dell’uomo di fronte a se stesso. Concluso dunque il racconto, gli anziani si guardarono l’un l’altro e poi, tutti insieme, fissarono Giuseppe, e il più vecchio, traducendo in una domanda diretta la discreta sospettosità del consiglio, disse, È la verità, tutta la verità e solo la verità quanto ci hai appena raccontato, e il falegname rispose, La verità, tutta la verità e nient’altro che la verità, il Signore mi sia testimone. Discussero gli anziani lungamente fra di loro, mentre Giuseppe aspettava in disparte, e infine lo chiamarono per annunciargli che, per via di certe discordanze che ancora sussistevano sui procedimenti più opportuni, avevano deciso di inviare tre emissari a interrogare direttamente Maria sugli strani eventi e indagare su chi fosse mai quel mendicante che nessun altro aveva visto, che aspetto avesse, quali precise parole avesse pronunciato, se si aggirasse abitualmente per Nazaret a chiedere l’elemosina, raccogliendo peraltro, di passaggio, quante altre notizie avrebbe potuto dare il vicinato circa il misterioso personaggio. Gioì in cuor suo Giuseppe perché, pur non volendo confessarlo, l’intimoriva il pensiero di dover affrontare da solo la moglie, per quel particolare atteggiamento che aveva assunto, sempre con gli occhi bassi, come detta la discrezione, certo, ma insieme con una mal celata espressione provocante, l’espressione di chi sa più di quanto voglia ammettere, e vuole che si noti. In verità, in verità vi dico, non c’è limite alla malizia delle donne, soprattutto delle più innocenti. Partirono dunque gli emissari, Giuseppe in testa, a fare strada, ed erano Abiatar, Dotain e Zacchia, nomi che si registrano qui per stornare ogni sospetto di frode storica che potrebbe eventualmente perdurare nello spirito di tutti coloro che di questi fatti e delle loro versioni siano venuti a conoscenza da altre fonti, magari più accreditate dalla tradizione, ma non per questo più autentiche. Enunciati i nomi, provata l’effettiva consistenza di personaggi che li usavano, i dubbi ancora sussistenti perdono molta della loro forza, sebbene non la loro legittimità. Ma non capitava tutti i giorni che uscissero tre anziani emissari, come si rivelavano dalla particolare dignità dell’incedere, dalle tuniche e dalle barbe al vento, e quindi furono ben presto circondati da un gruppo di ragazzini che, con le intemperanze tipiche dell’età, risate, grida, schiamazzi, accompagnarono i delegati della sinagoga fino alla casa di Giuseppe, che il rumoroso e denunciante corteo aveva cominciato a infastidire alquanto. Attratte dal baccano, le donne delle case vicine si affacciarono agli usci e, fiutando qualche novità, mandarono i figli a scoprire che cosa fosse quell’assembramento davanti alla porta della vicina Maria. Fatica sprecata, ché entravano soltanto gli uomini. La porta si chiuse con autorità, fino ai nostri giorni,
nessuna delle curiose di Nazaret ha mai saputo quanto accadde nella casa del falegname Giuseppe. E, dovendo immaginare qualcosa per alimentare la curiosità insoddisfatta, finirono per fare del mendico, che non riuscirono mai a vedere, un ladro che svaligiava gli alloggi, davvero una grande ingiustizia, ché l’angelo, ma non dite a nessuno che era un angelo, quel che ha mangiato non l’ha di certo rubato e, per giunta, ha lasciato un pegno soprannaturale. Fatto sta che, mentre i due anziani di maggiore età continuavano a interrogare Maria, il meno vecchio dei tre, Zacchia, raccolse nei paraggi ricordi di un mendicante così e così, secondo gli indizi forniti dalla moglie del falegname, ma nessuna vicina seppe dargli alcuna notizia, nossignore, ieri non si è visto nessun mendicante, e se è passato davanti alla mia porta, non ha bussato, doveva essere un ladro di passaggio che, trovando gente in casa, ha finto di essere un povero mendicante e poi ha preso il largo, è un trucco conosciuto dacché mondo è mondo. Tornò Zacchia senza notizie a casa di Giuseppe proprio mentre Maria stava ripetendo per la terza o quarta volta quanto già sappiamo. Erano tutti dentro casa, lei ritta in piedi, come imputata di un delitto, la scodella per terra, e dentro, persistente, come un cuore palpitante, l’enigmatica terra, Giuseppe da una parte e gli anziani seduti davanti, come giudici, e Dotain, il mediano d’età, diceva, Non è che non vogliamo credere a quanto ci racconti, ma bada che sei l’unica ad aver visto quell’uomo, se era un uomo, tuo marito sa soltanto di averne sentito la voce, e adesso Zacchia ci viene a dire che nessuna delle tue vicine lo ha visto, Ne sarò testimone di fronte al Signore, Egli sa che la verità parla attraverso la mia bocca, Sì, la verità, ma chissà se è tutta la verità, Berrò l’acqua della prova del Signore, ed Egli dimostrerà se sono colpevole, La prova delle acque amare è riservata alle donne sospette d’infedeltà, tu non potevi essere infedele a tuo marito, non ne avevi il tempo, La menzogna, si dice, è tale e quale all’infedeltà, Un’altra, non questa, La mia bocca è fedele quanto me. Prese poi la parola Abiatar, il più vecchio dei tre anziani, e disse, Non ti domanderemo altro, il Signore ti ripagherà sette volte se avrai detto la verità, o sette volte incasserà da te se con la menzogna ci avrai ingannato. Tacque e rimase in silenzio, poi aggiunse, rivolgendosi a Zacchia e Dotain, Che ne facciamo di questa terra che brilla se, come consiglia la prudenza, qui non deve rimanere, giacché può anche darsi che questi siano artifici del Demonio. Disse Dotain, Che torni alla terra da cui è venuta, che torni a essere scura come era in precedenza. Disse Zacchia, Non sappiamo chi fosse il mendicante, né perché abbia voluto farsi vedere solo da Maria, né cosa significhi un pugno di terra che brilla sul fondo di una scodella. Disse Dotain, Portiamola nel deserto e spargiamola lì, lontano dalla vista degli uomini, perché il vento la disperda nell’immensità e la pioggia la spenga. Disse Zacchia, Se questa terra è un bene, non bisogna allontanarla da dove sta, e se, al contrario, è un
male, vi siano esposti solo coloro che sono stati prescelti a riceverla. Domandò Abiatar, Cosa proponi, allora, e Zacchia rispose, Si scavi un buco qui e vi si depositi nel fondo la scodella, coperta affinché non si unisca alla terra naturale, un bene, anche se sotterrato, non si perde, e un male avrà meno potere lontano dalla vista. Disse Abiatar, Cosa ne pensi tu, Dotain, e questi rispose, È giusto quanto propone Zacchia, facciamo come dice. Allora Abiatar disse a Maria, Ritirati e lascia che agiamo, Dove devo andare, domandò lei, ma Giuseppe, improvvisamente turbato, disse, Se dobbiamo sotterrare la scodella, che sia fuori di casa, non voglio dormire con una luce sepolta sotto di me. Disse Abiatar, Sia fatto come dici, e rivolto a Maria, Tu resterai qui. Uscirono gli uomini nel cortile, la scodella in mano a Zacchia. Poco dopo si udirono colpi di vanga, ripetuti e secchi, era Giuseppe che stava scavando, e qualche minuto più tardi si sentì la voce di Abiatar che diceva, Basta, è già sufficientemente profonda. Maria sbirciò dalla fessura della porta, vide il marito ricoprire la scodella con un pezzo ricurvo di brocca e poi calarla, per tutta la lunghezza del braccio, dentro la fossa, infine rialzarsi e, di nuovo afferrando la vanga, cominciare a riversarvi dentro della terra, pressandola quindi con i piedi. Gli uomini sostarono ancora per qualche momento nel cortile, parlando fra loro e guardando la macchia di terra fresca, quasi avessero appena nascosto un tesoro e volessero fissare il punto nella memoria. Ma non stavano certo discutendo di questo, perché all’improvviso si udì, più forte, la voce di Zacchia, con un tono che sembrava di benevolo rimprovero, Suvvia, Giuseppe, che razza di falegname saresti, se non sei neppure capace di fare un letto, adesso che tua moglie è incinta. Gli altri risero, e Giuseppe li imitò, un po’ per compiacenza, come chi sia stato colto in fallo e voglia far finta di niente. Maria li vide incamminarsi verso il cancello e uscire, e adesso, seduta presso il focolare, vagava con lo sguardo per la casa, cercando il posto dove avrebbe potuto mettere il letto, se il marito si fosse deciso a farlo. Non voleva pensare a quella scodella né alla terra luminosa, né tanto meno se il mendicante fosse davvero un angelo o un commediante andato li a divertirsi alle sue spalle. Una donna, se le promettono un letto per la sua casa, deve pensare solo al posto dove si adatterà meglio. 4. Fu nel trascorrere dei giorni dal mese di Tammuz a quello di Ab, quando si raccoglievano le uve nei vigneti e i primi fichi maturi cominciavano a colorirsi nell’ombra verde delle foglie ruvide, che accaddero questi eventi, alcuni soliti e normali, del tipo che un uomo si è accostato carnalmente alla propria moglie e che, trascorso il tempo, lei gli dice, Sono incinta, altri davvero straordinari, come quando le primizie dell’annuncio spettano a un mendicante di passaggio, il quale,
razionalmente, non dovrebbe entrarci per niente, essendo soltanto l’autore del prodigio finora inspiegabile di quella terra luminosa, messa così fuori portata e investigazione dal sospetto di Giuseppe e dalla prudenza degli anziani. Arriveranno i grandi caldi, i campi saranno spelacchiati, solo stoppie e arsura, Nazaret è un piccolo paese bigio, circondato di silenzio e solitudine nelle ore soffocanti del giorno, in attesa della notte stellata per poter udire il respiro del paesaggio occultato dall’oscurità e la musica delle sfere celesti che scorrono l’una sull’altra. Dopo cena, Giuseppe andava a sedersi in cortile, a destra della porta, per prendere un po’ d’aria, gli piaceva sentirsi sfiorare il viso e la barba dalla prima brezza rinfrescante del crepuscolo. Quando ormai era buio pesto, Maria lo raggiungeva e si sedeva per terra, come il marito, dall’altro lato della porta, e rimanevano lì, senza parlare, tutt’e due ad ascoltare il brusio proveniente dalla casa dei vicini, la vita delle famiglie, ciò che loro non erano ancora perché mancavano i figli, Piaccia al Signore che sia un maschio, pensava ogni tanto Giuseppe, durante il giorno, e anche Maria considerava, Piaccia al Signore che sia un maschio, ma non lo pensava certo per le stesse ragioni. Il ventre di Maria cresceva senza fretta, dovettero passare settimane e mesi prima che si notasse chiaramente il suo stato, e giacché lei non era tipo da legare con le vicine, discreta e modesta qual era, fu generale la sorpresa, come se si fosse gonfiata dalla notte al giorno. Ma il silenzio di Maria era forse dovuto a un’altra e più segreta ragione, e cioè che mai, perché mai era esistito, si potesse stabilire un nesso fra la sua gravidanza e il passaggio del misterioso mendicante, una precauzione che dovrebbe sembrarci assurda, sapendo come sono andate le cose, a meno che Maria, in qualche momento di debolezza del corpo o di sfrenata fantasia dello spirito, sia arrivata a domandarsi, ma perché, Dio Santo, atterrita dalla stoltezza di quel dubbio e insieme turbata da un tremito interiore, chi mai potesse essere, reale e vero, il padre della creatura che le si stava formando dentro. Le donne, si sa, quando si trovano in stato interessante, sono propense a nausee e fantasie, talvolta anche peggiori di questa, sulla quale manterremo il segreto perché nessun’onta ricada sulla buona fama della futura madre. Passava il tempo, un mese dopo l’altro lentamente, quello di Elul, ardente come una fornace, con il vento desertico del sud che spazzava e infocava l’aria, quando i datteri e i fichi diventano gocce di miele, quello di Tishri, quando le prime gocce dell’autunno ammorbidiscono la terra e richiamano al lavoro dei campi per la semina, e fu nel mese successivo, quello di Marheshvan, il tempo della raccolta delle olive, che finalmente, rinfrescatisi un po’ i giorni, Giuseppe si decise a costruire una rustica branda, ché per un letto degno di tal nome sappiamo già come la scienza non gli basti, su cui Maria, dopo avere tanto atteso, poté adagiare il suo pesante e ingombrante ventre. Negli ultimi giorni del mese di Kisleu e quasi per tutto quello di
Tebet si ebbero le grandi piogge, ragion per cui Giuseppe dovette interrompere il lavoro nel cortile e, per lavorare, approfittare solo delle brevi schiarite perché erano pezzi di grosse dimensioni, se ne stava perlopiù dentro casa, in modo da ricevere la luce proveniente dalla porta, e li raschiava e levigava i gioghi lasciati grezzi, ricoprendo il pavimento di trucioli e segatura che poi Maria spazzava, andando a buttarli nel cortile. Nel mese di Shebat fiorirono i mandorli e si era già in quello di Adar, dopo la festa di Purim, quando comparvero a Nazaret alcuni soldati romani, di quelli che allora giravano per la Galilea, di paese in villaggio, di villaggio in paese, mentre altri nelle restanti zone del regno di Erode, rendendo noto alle popolazioni che, per ordine di Cesare Augusto, tutte le famiglie residenti nelle province governate dal console Publio Sulpicio Quirino avevano l’obbligo di censirsi, e che il censimento, destinato come altri ad aggiornare il registro dei contribuenti di Roma, doveva avvenire, senza eccezione, nei luoghi di cui le famiglie erano originarie. Alla maggior parte della gente radunatasi in piazza per udire il bando gliene importava ben poco dell’avviso imperiale, visto che, essendo nativi di Nazaret o avendo preso casa lì da generazioni, si sarebbero notificati sul posto. Alcuni, però, giunti dalle diverse regioni del regno, da Gaulanitide o da Samaria, dalla Giudea, dalla Perea o dall’Idumea, da qua e da là, da vicino e da lontano, ben presto cominciarono a pensare alla vita futura e al viaggio, brontolando contro i capricci e l’avidità di Roma e parlando dello scompiglio che ci sarebbe stato per mancanza di braccia, ora che stava arrivando il tempo di mietere il lino e l’orzo. E chi aveva una famiglia numerosa, con figli in tenera età o genitori e nonni decrepiti, se non possedeva un mezzo di trasporto idoneo, già pensava a chi poter chiedere in prestito o a noleggio per un giusto prezzo il mulo o i muli necessari, soprattutto se il viaggio si presentava lungo e difficoltoso, con viveri sufficienti per il cammino, otri d’acqua se c’era da attraversare il deserto, stuoie e coperte per la notte, stoviglie per mangiare, oltre a qualcosa per coprirsi giacché le piogge e il vento non sono ancora passati del tutto e qualche volta si dovrà pur dormire all’aria aperta. Giuseppe venne a sapere dell’editto in un tempo successivo, quando i soldati erano ormai ripartiti per recare la buona novella altrove, fu un vicino della casa accanto, un certo Anania, che gli si presentò agitato a dargli la notizia. Era uno di quelli che non dovevano muoversi da Nazaret per il censimento, beato lui che se l’era schivata, e avendo deciso che, per via dei raccolti, quest’anno non sarebbe andato a Gerusalemme per celebrare la Pasqua, se si era sottratto a un viaggio, un altro non lo avrebbe fatto. Va quindi, Anania, a informare il suo vicino, come si conviene, ed è contento, benché dall’espressione del viso sembrino un po’ troppo accentuate le dimostrazioni di quel sentimento, voglia Iddio che non sia per il fatto di essere latore di una spiacevole notizia, ché anche i migliori vanno soggetti alle più calamitose
contraddizioni, e il nostro Anania non lo conosciamo abbastanza per distinguere se, in questo caso, si tratti di perseveranza in un comportamento abituale o della tentazione di un angelo di Satana che, al momento, poteva non aver altro di più importante da fare. E fu così che Anania andò a battere al cancello e chiamò Giuseppe, che all’inizio non sentì perché stava lavorando rumorosamente con martello e chiodi. Maria, invece sì, lei aveva un udito più fine, ma era il marito che stavano chiamando, non poteva mica andare a tirargli la manica della tunica, dicendogli, Sei sordo, non senti che ti stanno chiamando. Anania urlò più forte, allora Giuseppe sospese il suo martellare e andò a vedere che cosa volesse il vicino. Anania entrò e, dopo averlo salutato, gli domandò, col tono di chi voglia accertarsene, Di dove sei Giuseppe, e Giuseppe, senza sapere che era proprio ciò che volevano, rispose, Sono di Betlemme, in Giudea, Che si trova vicino a Gerusalemme, Sì, vicinissimo, E vai a fare Pasqua a Gerusalemme, non è vero, domandò Anania, e Giuseppe rispose, No, quest’anno ho deciso di non andare, ché mia moglie sta per finire il tempo, Ah, E tu, perché lo vuoi sapere. A quel punto Anania alzò le braccia al cielo, assumendo un’espressione di pena inconsolabile, Ah, povero te, che travagli ti attendono, che stanchezza, che immeritata fatica, così preso come sei dagli obblighi del tuo mestiere, e adesso dovrai abbandonare tutto e metterti in cammino e andare, sì, lontano, sia lodato il Signore che tutto riconosce e a tutto pone rimedio. Giuseppe non volle essere da meno nelle dimostrazioni di fede e, senza approfondire le cause di quella tiritera del vicino, disse, Il Signore, volendolo, porrà rimedio anche per me, e Anania, senza abbassare la voce, Sì, al Signore nulla è impossibile, tutto conosce e tutto ottiene, così in terra come in cielo, sia lodato per l’eternità, ma in questo caso, che Dio mi perdoni, non so se ti potrà aiutare, ché sei nelle mani di Cesare, Che cosa vuoi dire, Che sono stati qui dei soldati romani per avvisare che entro l’ultimo giorno del mese di Nissan tutte le famiglie di Israele dovranno recarsi al censimento nei luoghi d’origine, e tu, poverino, vieni da così lontano. Ebbene, prima che Giuseppe avesse il tempo di rispondere, entrò nel cortile la moglie di Anania, che si chiamava Chua, e, puntando diritto su Maria, in attesa sulla soglia di casa, attaccò a gemere come il marito, Oh, povera donna, ah, delicata, che ne sarà di te, così prossima al parto, e dovrai andare chissà dove, A Betlemme di Giudea, la informò il marito, Uh, com’è lontano, esclamò Chua, e non lo diceva soltanto per parlare, perché una volta, durante uno dei pellegrinaggi a Gerusalemme, si era spinta fino a Betlemme, lì vicino, per pregare sulla tomba di Rachele. Maria non rispose, aspettava che prima parlasse il marito, ma Giuseppe appariva contrariato, avrebbe dovuto essere lui a comunicare alla moglie una notizia di questa importanza, di prima mano, con le parole adatte e, soprattutto, con il tono giusto, mica così, strappandosi i capelli, quei vicini che gli irrompono in casa, urlando. Per nascondere la
propria contrarietà, assunse un’espressione di composta serietà e disse, È pur vero che non sempre Dio sceglie di potere ciò che può Cesare, ma Cesare non può nulla di fronte al volere di Dio. Fece una pausa, quasi avesse bisogno di penetrare nella profondità delle parole appena pronunciate, e aggiunse, Celebrerò la Pasqua qui, come avevo deciso, e poi andrò a Betlemme, giacché dovrà essere così, e se il Signore lo consente saremo di ritorno in tempo sicché Maria partorisca a casa, ma se, al contrario, il Signore non lo vorrà, allora mio figlio nascerà nelle terre dei suoi avi, A meno che non nasca strada facendo, mormorò Chua, ma non così piano da non farsi sentire da Giuseppe, che disse, Tanti sono i figli di Israele nati lungo la via, il mio sarà uno in più. Era una sentenza di un certo peso, irrefutabile, e come tale l’accettarono Anania e sua moglie, ammutolita d’improvviso. Erano andati lì per consolare i vicini della contrarietà di un viaggio forzato e per compiacersi della propria bontà, ma adesso avevano l’impressione di essere messi in strada, senza cerimonie, quando Maria si avvicinò a Chua e la pregò di accomodarsi dentro casa, ché voleva chiederle consiglio su certa lana che aveva da cardare, e Giuseppe, nel desiderio di attenuare la durezza con cui si era espresso, disse ad Anania, Da buon vicino, ti chiedo di vegliare sulla mia casa durante la mia assenza, anche se tutto andrà bene, io non sarò di ritorno prima di un mese, contando il tempo per il viaggio più i sette giorni di isolamento di mia moglie, o quanto potrebbe sovrapporvisi se nascerà una figlia, che il Signore non lo permetta. Rispose Anania che, sì, stesse tranquillo, avrebbe badato alla casa come se fosse sua, e poi gli domandò, gli era venuto in mente all’improvviso, mica ci aveva pensato prima, Giuseppe, vuoi onorarmi con la tua presenza nella celebrazione della Pasqua, unendoti ai miei parenti e amici, visto che non hai famiglia a Nazaret e non ce l’ha neppure tua moglie, da quando le sono morti i genitori, già così avanti nell’età all’epoca della sua nascita che, ancor oggi, la gente si domanda come sia stato possibile per Gioacchino generare una figlia con Anna. Disse Giuseppe, riprendendolo bonariamente, Oh, Anania, ricordati delle rimostranze di Abramo, fra sé e sé incredulo, quando il Signore gli annunciò che gli avrebbe concesso discendenti, se un bimbo poteva nascere da un uomo di cent’anni e se una donna di novanta era in grado di generare, ebbene, Gioacchino e Anna non erano vegliardi quanto Abramo e Sara al tempo loro, quindi per Dio sarà stato ben più facile, ma per Lui non c’è niente di impossibile, far nascere tra i miei suoceri un virgulto. Disse il vicino, Erano altri tempi, il Signore manifestava la Sua presenza tutti i giorni, non solo nelle opere, e Giuseppe, forte della sua dottrina, replicò, Dio è il tempo, mio caro Anania, per Dio il tempo è un tutt’uno, e Anania non seppe cosa rispondere, non era certo il momento di introdurre nella conversazione la controversa e irrisolta polemica sui poteri, non solo consustanziali ma anche delegati, di Dio e di Cesare. Al contrario di quanto potrebbero far sembrare questi sfoggi di teologia pratica, Giuseppe non
aveva dimenticato l’inatteso invito di Anania a celebrare insieme a lui e ai suoi la Pasqua, solo che non voleva mostrarsi troppo precipitoso nell’accettare, come aveva deciso fin dall’inizio, ma lo sanno tutti come sia dimostrazione di cortesia e buona educazione accogliere con gratitudine i favori che ci fanno, senza tuttavia eccedere in contentezza, non sia mai che l’altro possa pensare che ci si aspetti troppo. Insomma, adesso stava ringraziando lui, magnificando i suoi sentimenti di generosità e disponibilità, mentre Chua si accingeva a uscire portandosi Maria, a cui diceva, Che buona mano hai per cardare, e Maria arrossiva come una giovincella, perché la stavano lodando davanti al marito. Un bel ricordo che Maria finì per serbare di questa Pasqua tanto promettente fu il non aver dovuto partecipare alla preparazione del cibo e l’essere dispensata dal servire gli uomini, lavori che le furono risparmiati dalla solidarietà delle altre donne, Non ti stancare, può farti male, le dissero, e dovevano saperlo bene, essendo quasi tutte madri a loro volta. Lei si limitò, poco più poco meno, a occuparsi del proprio marito, che se ne stava lì seduto per terra insieme agli altri uomini, chinandosi solo per riempirgli il bicchiere o per rifornirgli il piatto di quei rustici manicaretti, il pane azzimo, la carne d’agnello, le erbe amare, ma anche certe gallette fatte con farina di locuste secche, una leccornia di cui Anania si vantava tanto, essendo una tradizione della sua famiglia, ma di fronte alla quale taluni invitati storcevano il naso, sia pur vergognandosi di quella mal celata ripugnanza, giacché nel loro intimo si riconoscevano indegni dell’esempio edificante di tutti quei profeti che, nel deserto, avevano fatto di necessità virtù, e di locuste manna. Verso la fine della cena la povera Maria, ormai seduta in disparte, con l’enorme ventre posato sulla base delle cosce, in un bagno di sudore, udiva a stento le risa, i detti e le storie, e le continue citazioni della Scrittura e, istante dopo istante, si sentiva sul punto di abbandonare definitivamente il mondo, come se fosse sospesa a un filo sottile che avrebbe potuto essere il suo ultimo pensiero, un semplice cogitare senza oggetto né parole, sapendo solo di pensare, ma non riuscendo ad avere chiaro che cosa e a che scopo. Si destò di soprassalto perché nel sonno, improvvisamente, spuntando da tenebre ancora più fitte, le apparve il viso del mendicante, e poi quel suo enorme corpo coperto di cenci, l’angelo, se era un angelo, era entrato nel sogno senza annunciarsi, neppure con un fortuito ricordo, e la fissava con aria assorta, fors’anche con una vaghissima espressione di interrogativa curiosità, o magari neanche, perché non c’era neppure stato il tempo di notarlo, e il cuore di Maria adesso palpitava come un uccello spaventato, e lei non sapeva se fosse stata preda della paura o se qualcuno le avesse sussurrato all’orecchio una parola inattesa e imbarazzante. Gli uomini e i ragazzi erano ancora lì, seduti per terra, mentre le donne, accaldate, andavano e venivano,
offrendo gli ultimi cibi, ma ormai si notavano i segni della sazietà, solo il brusio delle conversazioni, animate dal vino, era salito di tono. Maria si alzò, e nessuno le badò. Era scesa la notte, la luce delle stelle, nel cielo limpido e senza luna, sembrava creare una specie di risonanza, un ronzio che sfiorava le frontiere dell’inaudito, ma che la moglie di Giuseppe poteva sentire sulla pelle, e insieme nelle ossa, in un modo che non avrebbe saputo spiegare, quasi una dolce e voluttuosa convulsione che sembrava non finire. Maria attraversò il cortile e andò a guardare nella via. Non vide nessuno. Il cancello di casa sua, lì accanto, era chiuso, tale e quale l’aveva lasciato, ma l’aria si muoveva, come se qualcuno fosse appena passato, di corsa o volando, per non lasciare di quel transito nient’altro che un fugace segno, che altri non avrebbero saputo comprendere. 5. Passati che furono tre giorni, accordatosi con i clienti che gli avevano commissionato dei lavori e che avrebbero dovuto attendere il suo ritorno, porti i saluti nella sinagoga, e affidati la casa e i beni visibili ivi contenuti alle cure del vicino Anania, se ne partì da Nazaret il falegname Giuseppe con la moglie, diretto a Betlemme, dove va a censirsi, e lei pure, secondo i decreti giunti da Roma. Se per qualche ritardo nelle comunicazioni o per qualche intoppo nella traduzione simultanea non è ancora arrivata in cielo la notizia di questi ordini, sarà davvero sorpreso il Signore Iddio nel vedere così radicalmente mutato il paesaggio di Israele, con nugoli di gente in viaggio in ogni direzione, mentre sarebbe giusto e naturale, in questi giorni immediatamente successivi alla Pasqua, che si muovessero tutti, salvo giustificate eccezioni, in modo per così dire centrifugo, imboccando la via di casa da un unico punto centrale, sole terrestre o luminoso ombelico, stiamo parlando di Gerusalemme, è chiaro. Senza dubbio la forza dell’abitudine, benché fallibile, e la perspicacia divina, questa invece assoluta, faciliteranno il riconoscimento e l’identificazione, anche da un punto così alto, di quella lenta avanzata che palesa il rientro dei pellegrini alle città e ai paesi loro, ma ciò che comunque non può non confondere la vista è l’incrocio di queste rotte, tutte ben note, con altre che sembrano tracciate a caso e che sono, né più né meno, gli itinerari di chi, avendo o meno celebrato a Gerusalemme la Pasqua del Signore, obbedisce adesso ai profani ordini di Cesare, per quanto non dovrebbe essere granché difficile sostenere una tesi diversa, e cioè che in fondo sia Cesare Augusto colui che, senza saperlo, stia obbedendo alla volontà del Signore, se è vero che Dio ha deciso, per ragioni solo a Lui note, che Giuseppe e sua moglie siano destinati, a questo punto della vita, a recarsi a Betlemme. A prima vista estemporanee e fuori luogo, queste considerazioni vanno comunque prese come assai pertinenti, tenendo conto che solo grazie a esse ci sarà
possibile arrivare a una smentita obiettiva di quanto a taluni piacerebbe trovare qui, immaginare, per esempio, che i nostri viaggiatori attraversino soli soletti quelle zone inospitali, quegli inquietanti luoghi solitari, senza un’anima viva prossima e fraterna, affidati unicamente alla misericordia di Dio e alla custodia degli angeli. Orbene, subito dopo l’uscita da Nazaret si è potuto vedere che non andrà così, perché insieme a Giuseppe e Maria viaggeranno altre due famiglie, di quelle numerose, in tutto una ventina di persone, tra vecchi, adulti e bambini, quasi una tribù. È vero, questi non sono diretti a Betlemme, una famiglia si fermerà a metà strada, in un paese vicino a Ramalà, e l’altra proseguirà verso sud, fino a Bercheva, ma anche se dovranno separarsi prima, perché alcuni hanno più fretta di altri, ipotesi pur sempre probabile, comunque si metteranno in strada nuovi viandanti, senza contare, poi, quelli che procedono in senso inverso, andando forse, chissà, a censirsi a Nazaret, da dove adesso stanno partendo questi. Gli uomini camminano in testa, in schiera compatta, e insieme a loro ci sono i ragazzi che hanno già compiuto tredici anni, mentre le donne, giovani e vecchie, di tutte le età, formano un altro gruppo confuso, laggiù, accompagnate dai ragazzini più piccoli. Al momento di mettersi in marcia, gli uomini, in coro solenne, alzarono la voce per intonare le devozioni di circostanza, mentre le donne le ripetevano discretamente, quasi in sordina, come chi sa che, reclamando, colui che ha ben poche speranze d’essere ascoltato non ottiene niente, anche quando non ha chiesto né chiederà niente, e tutto stia lodando. Fra le donne, l’unica così avanti nella gravidanza è Maria, e tali sono le sue difficoltà che, se non fosse per la Provvidenza che ha dotato gli asini da lei creati di una pazienza infinita e di forza non minore, dopo pochi passi quest’altra sua creatura avrebbe già reso l’anima, implorando di lasciarla lì, sul ciglio della strada, in attesa della sua ora, che noi sappiamo che sta per arrivare, chissà dove e quando, ma questa non è gente dedita al piacere delle scommesse, in questo caso indovinare quando e dove nascerà il figlio di Giuseppe, una sensata religione, questa che ha vietato l’azzardo. Finché non arriva il momento, e per tutto il tempo che dovrà ancora sopportare l’attesa, la gestante potrà contare, più che sulle scarse e distratte attenzioni del marito, intento com’è a discutere con gli anziani, sulla provata mansuetudine e sui docili lombi della bestia, che si stupisce anch’essa, ammesso che cambiamenti di vita e di carico possano giungere a intendimento d’asino, per la mancanza dei colpi di frusta, e soprattutto per il fatto che le sia concesso di procedere senza fretta, all’andatura normale, la sua, sua e dei suoi simili, ché in viaggio ce ne sono altri della sua specie. Per via di questa differenza, si attarda a volte il gruppo delle donne e, quando accade, gli uomini là davanti fanno una sosta e aspettano che si avvicinino, ma non al punto di riunirsi, donne e uomini, questi arrivano addirittura a fingere di essersi fermati solo per riposare, non c’è dubbio, la
strada è di tutti, ma si sa già che dove cantano i galli non devono razzolare le galline, al massimo possono fare coccodè se hanno deposto l’uovo, così è imposto e proclamato dal buon ordinamento del mondo in cui ci è toccato vivere. Viene dunque Maria cullata dalla dolce andatura del suo corsiero, regina fra le donne, ché solo lei è in groppa a un animale, gli altri asini trasportano il solito carico. E perché non siano tutti sacrifici, tiene in braccio, ora l’uno ora l’altro, tre bimbi della compagnia, con la qual cosa respirano un po’ le rispettive madri, e lei comincia ad abituarsi al fardello che l’aspetta. In questo primo giorno di viaggio, le gambe non ancora avvezze a camminare, la tappa non fu molto lunga, non bisogna dimenticare che nella compagnia ci sono vecchi e bambini piccoli, i primi, avendo vissuto, hanno esaurito tutte le loro forze e adesso non ce la fanno più a fingere di averne, mentre i secondi, non sapendo dosare quelle che cominciano ad avere, le esauriscono in un paio d’ore di sentieri disastrati, come se il mondo stesse per finire e valesse la pena di approfittare dei suoi ultimi istanti. Sostarono in un paesone chiamato Izreel, dove c’era un caravanserraglio, in cui trovarono, essendo questi, come si è detto, giorni di traffico intenso, una confusione e un baccano da matti, anche se, a dir la verità, era più il baccano della confusione perché, dopo un po’ di tempo, abituatisi vista e udito, in quella folla di gente e di animali in continuo movimento entro le quattro mura si poteva intuire prima e identificare poi la volontà di un ordine non organizzato né cosciente, come un formichiere spaventato che tentasse di riconoscersi e ricomporsi nella propria dispersione. Le tre famiglie ebbero comunque la fortuna di potersi rifugiare sotto un’arcata, gli uomini da un lato e le donne dall’altro, ma questo in seguito, quando la notte si rabbuiò del tutto e il caravanserraglio, bestie e uomini, si abbandonò al sonno. Prima, le donne avevano dovuto preparare il cibo e riempire gli otri al pozzo, mentre gli uomini scaricavano gli asini e li portavano ad abbeverarsi, ma in un momento in cui non ci fossero cammelli all’abbeveratoio, perché questi, con due sole brusche sorsate, prosciugavano il recipiente dell’acqua e si doveva riempirlo un’infinità di volte prima che gli asini fossero soddisfatti. Finalmente, sistemati prima gli animali alla mangiatoia, i viandanti si sedettero a desinare, a cominciare dagli uomini, ché già sappiamo come le donne siano in tutto secondarie, basti ricordare un’altra volta, e non sarà l’ultima, che Eva fu creata dopo Adamo e da una sua costola, quand’è che impareremo che certe cose cominceremo a capirle solo quando ci accingeremo a risalire alle fonti. Ebbene, dopo che gli uomini ebbero mangiato, e mentre le donne, nel loro cantuccio, si cibavano di quanto era avanzato, accadde che un anziano fra gli anziani, che viveva a Betlemme ma andava comunque a censirsi a Ramalà e si chiamava Simeone, con l’autorità conferitagli dall’età e la saggezza che si ritiene ne sia una
diretta conseguenza, interpellò Giuseppe su come pensava di doversi comportare qualora si fosse verificata l’ipotesi, ovviamente possibile, che Maria, non ne pronunciò il nome, non partorisse prima dell’ultimo giorno della scadenza stabilita per il censimento. Si trattava ovviamente di una questione accademica, ammesso che il termine sia adeguato al tempo e al luogo, in quanto solo ai censori, edotti nelle sottigliezze procedurali della legge romana, sarebbe spettato di decidere su casi tanto dubbiosi, come quello di una donna che si presenti al censimento con il ventre gravido, Siamo qui per iscriverci, e non sia possibile appurare in loco se porti dentro di sé un maschio o una femmina, per non parlare, poi, della non disprezzabile probabilità di una nidiata di gemelli dello stesso o di entrambi i sessi. Da perfetto ebreo che si vantava d’essere, sia nella teoria sia nella pratica, giammai il falegname avrebbe pensato di rispondere facendo leva sulla semplice logica occidentale, per cui non spetta certo a chi è sottoposto alla legge il compito di supplire alle lacune che vi si possano riscontrare, e che se Roma non è stata capace di prevedere queste e altre ipotesi, allora significa che le fanno difetto legislatori ed ermeneuti. Di fronte alla difficile questione, Giuseppe si dilungò a riflettere, cercando nella sua testa il modo più sottile di dare una risposta, una risposta che, dimostrando all’assemblea riunita intorno al fuoco le sue doti di argomentatore, fosse al tempo stesso formalmente brillante. Conclusa la lunga riflessione, alzando lentamente gli occhi che, per tutto il tempo, avevano fissato le sinuose fiamme del falò, disse il falegname, Se, giunto l’ultimo giorno del censimento, mio figlio non sarà ancora nato, sarà perché il Signore non vuole che i romani lo conoscano e lo iscrivano nelle loro liste. Disse Simeone, Grande presunzione è la tua, che ti arroghi così la scienza di ciò che il Signore vuole o non vuole. Disse Giuseppe, Dio conosce tutti i miei cammini e conta tutti i miei passi, e queste parole del falegname, che possiamo trovare nel libro di Giobbe, significavano che lì, nel contesto della discussione, al cospetto dei presenti e senza escludere gli assenti, Giuseppe riconosceva e ribadiva la propria obbedienza al Signore e l’umiltà, tutti sentimenti contrari alla diabolica pretesa insinuata da Simeone, di aspirare a indagare gli enigmatici voleri di Dio. Così doveva averlo inteso l’anziano, poiché se ne rimase in silenzio e in attesa, per cui Giuseppe ne approfittò per tornare alla carica, Il giorno della nascita e il giorno della morte di ogni uomo sono sigillati e custoditi dagli angeli fin dall’inizio del mondo, e solo il Signore, quando gli piaccia, ne infrange prima uno e poi l’altro, tante volte contemporaneamente, con la mano destra e con quella sinistra, e in certi casi indugia talmente a infrangere il sigillo della morte che sembra addirittura essersi dimenticato di quella creatura vivente. Fece una pausa, ebbe un attimo di esitazione, ma poi concluse, sorridendo maliziosamente, Dio non voglia che questa conversazione gli faccia venire in mente te. Risero gli astanti, ma dietro le barbe, perché era chiaro che il falegname non aveva
saputo mantenere intatto il rispetto che si deve a un anziano, anche quando l’intelligenza e l’assennatezza, per via dell’età, non abbondano più nei suoi giudizi. Il vecchio Simeone accennò un gesto di collera, dandosi uno strattone alla tunica, e rispose, Iddio, forse, ha infranto il sigillo della tua nascita anzitempo, e tu non dovresti ancora essere al mondo, se ti comporti in modo così impertinente e presuntuoso con gli anziani che hanno vissuto di più e in tutte le cose ne sanno più di te. Disse Giuseppe, Simeone, mi hai domandato come ci si dovrebbe comportare se mio figlio non nascesse prima dell’ultimo giorno del censimento, e la risposta a quella domanda io non potevo dartela perché non conosco la legge dei romani, con la quale neppure tu, io credo, hai dimestichezza, Non la conosco, Allora ti ho detto, So quello che mi hai detto, non affannarti a ripetermelo, Hai cominciato tu a parlare con parole improprie quando mi hai domandato chi credessi di essere per pretendere di conoscere le volontà di Dio prim’ancora che si manifestino, e se in seguito ti ho oltraggiato, ti chiedo di perdonarmi, ma la prima offesa è venuta da te, ricorda che, essendo anziano, e perciò mio maestro, non puoi essere tu a dare l’esempio dell’offesa. Intorno al falò ci fu un mormorio discreto di approvazione, il falegname Giuseppe aveva chiaramente la vittoria nella discussione, ma vediamo adesso come ne esce Simeone, quale risposta gli darà. Ed ecco come fece, senza spirito né fantasia, Per rispetto, com’è tuo dovere, non dovevi far altro che rispondere alla mia domanda, e Giuseppe disse, Se ti avessi risposto come volevi, sarebbe subito apparsa chiara la vanità della questione, dovrai quindi ammettere, per quanto ti costi, che è stato segno di maggior rispetto quanto ho fatto, facilitandoti, ma tu non hai voluto capirlo, l’occasione per dissertare su un tema che interesserebbe tutti, e cioè se il Signore vorrebbe o potrebbe mai nascondere il proprio popolo agli occhi del nemico, Adesso stai parlando del popolo di Dio come se si trattasse del figlio che non ti è ancora nato, Non mettermi in bocca, o Simeone, parole che non ho detto né dirò, ascolta ciò che dev’essere inteso in un modo e ciò che va capito in un altro. A questa sparata, Simeone non replicò, si alzò dal cerchio e andò a sedersi nell’angolo più buio, seguito dagli altri uomini della famiglia, costretti dalla solidarietà del sangue, ma contrariati nell’intimo per la tristissima figura fatta dal patriarca nella tenzone verbale. Lì, nella compagnia, coprendo il silenzio che seguì i rumori e i bisbigli di chi si stava accingendo al riposo, di nuovo si fece percettibile il mareggiare sordo delle voci nel caravanserraglio, inframmezzate da qualche esclamazione più sonora, dai respiri e dagli sbuffi delle bestie e, a tratti, dal bramito duro, grottesco, di un cammello in calore. Fu allora che, tutti insieme, concertando il ritmo della recitazione, i viandanti di Nazaret, senza più badare alla recente discordia, intonarono a voce bassa, ma rumorosamente perché erano tanti, l’ultima e la più lunga fra tutte le preghiere che al Signore sono rivolte nel corso della giornata e che recita così, Che Tu sia lodato, Dio
nostro, signore dell’universo, che fai cadere i vincoli del sonno sui miei occhi e il torpore sulle mie palpebre, e non sottrai la luce alle mie pupille. Sia per volontà Tua, Signore mio Dio, che adesso io riposi in pace e domani possa destarmi a una vita felice e pacifica, consentimi di obbedire ai Tuoi precetti e non lasciare che io mi adegui ad alcun atto di trasgressione. Non permettere che io cada in potere del peccato, della tentazione e della vergogna. Fa’ sì che in me prevalgano i buoni propositi, non lasciare che s’impossessino di me quelli cattivi. Liberami dalle intenzioni malvagie e dalle malattie mortali, e fa’ in modo che io non sia turbato da sogni malevoli e da cattivi pensieri, a meno di non sognare la Morte. Era trascorso appena qualche minuto, e i più giusti, se non i più stanchi, dormivano già, qualcuno russando non certo spiritualmente, e gli altri non dovettero aspettare molto, erano tutti lì, protetti unicamente, per la maggior parte, dalle tuniche, solo i più vecchi e i più giovani, gli uni altrettanto fragili degli altri, avevano il conforto della piega di un ruvido lenzuolo o di una misera coperta. In mancanza di alimento, il falò si andava smorzando, appena qualche pallida fiamma danzava al di sopra dell’ultimo ciocco messo sul fuoco a quest’utile scopo. Sotto l’arcata che accoglieva la gente di Nazaret, tutti dormivano. Tutti, tranne Maria. Non poteva sdraiarsi per quel suo ventre enorme, che a prima vista sembrava contenere piuttosto un gigante, e quindi si era appoggiata a un mucchio di bisacce, cercando un minimo sostegno per le sue povere reni. Come gli altri, aveva ascoltato la discussione fra Giuseppe e il vecchio Simeone, gioendo per la vittoria del marito, com’è dovere di ogni donna, anche nel caso di sfide incruente, come lo è stata questa. Ma già non ricordava più quello di cui avevano discusso, o forse la memoria del dibattito era stata sommersa dalle sensazioni che nel suo corpo andavano e venivano, tali e quali le maree dell’oceano che non aveva mai visto, ma di cui doveva aver sentito parlare, che fluivano e refluivano fra gli incalzanti colpi delle onde che erano il figlio che si muoveva, ma in modo singolare, come se lì, dentro di lei, volesse sollevarla di peso sulle proprie spalle. Solo gli occhi di Maria erano aperti, splendenti nella penombra, e continuarono a brillare anche quando il fuoco si spense del tutto, ma non c’è niente da stupirsi, capita a tutte le madri fin dall’inizio del mondo, eppure noi ce ne siamo accorti quando alla moglie del falegname Giuseppe è apparso un angelo, ché lo era, stando a quanto ha detto egli stesso, malgrado si sia presentato sotto le spoglie di un mendico vagabondo. Anche nel caravanserraglio cantavano i galli al primo fresco dell’alba, ma i viandanti, mercanti, mulattieri, cammellieri, spinti dal dovere, a stento attesero il primo canto e si accinsero ben presto ai preparativi per il viaggio, caricando le bestie con i beni e gli averi personali, o con le mercanzie, e sollevando così nell’accampamento un chiasso che si lasciava dietro a perdita d’occhio, o d’orecchio, per usare il termine esatto, la gazzarra della sera prima. Quando se ne saranno
andati, il caravanserraglio trascorrerà qualche ora assai tranquilla, come un lucertolone bigio spaparanzato al sole, perché vi rimarranno solo gli ospiti che hanno deciso di riposare un giorno intero, fino a quando, all’avvicinarsi del pomeriggio, comincerà ad arrivare il nuovo turno di viaggiatori, l’uno più sporco dell’altro, ma tutti stanchi, ma comunque con le potenti corde vocali intatte, non sono ancora entrati e stanno già urlando come indemoniati, non sia mai. Che la compagnia di Nazaret prosegua da qui rimpolpata non deve stupire nessuno, perché vi si sono unite una decina di persone, si sbaglia di grosso chi immagina questa terra come un deserto, soprattutto in un periodo così festoso, di censimento e di Pasqua, come si è già spiegato. Aveva già capito Giuseppe, da solo, che il suo dovere sarebbe stato quello di fare pace con il vecchio Simeone, non perché ritenesse che, dopo una notte, le sue argomentazioni avessero perduto forza e ragione, ma perché era stato educato al rispetto dei più vecchi, e specialmente degli anziani che, poverini, dopo una lunga vita che adesso si ripaga rubandogli spirito e intelletto, non di rado si vedono trascurati dai giovani. Gli si avvicinò, quindi, e disse con tono misurato, Vengo a chiederti scusa, se ti sono sembrato insolente e un po’ esagerato, ma sai come vanno le cose, una parola tira l’altra, le buone tirano le cattive, e si finisce sempre per dire di più di quanto avremmo voluto. Simeone lo ascoltò, lo ascoltò a testa bassa, e infine rispose, Sei scusato. In cambio della sua mossa generosa, era naturale che Giuseppe si aspettasse una risposta più benevola dal vecchio testardo e, sperando ancora di udire qualche parola che pensava di meritare, gli camminò accanto per un bel po’ di tempo e di strada. Ma Simeone, con gli occhi fissi alla polvere, fingeva di non accorgersi della sua presenza, finché il falegname, giustamente irritato, fece per allontanarsi. Soltanto allora il vecchio, quasi lo avesse abbandonato di colpo il pensiero fisso che lo occupava, mosse rapidamente un passo e lo afferrò per la tunica, Aspetta, disse. Sorpreso, Giuseppe si voltò verso di lui. Simeone si era fermato e ripeteva, Aspetta. A poco a poco passarono gli altri uomini, ed ecco questi due in mezzo alla strada come in una terra di nessuno, fra il gruppo degli adulti che si allontanava e la brigata delle donne, laggiù, sempre più vicina. Spiccando fra le teste, si vedeva la sagoma di Maria, ondeggiante al ritmo dettato dall’andatura del somaro. Avevano lasciato la valle di Izreel. La strada, costeggiando le rocce, scalava faticosamente il primo pendio per inoltrarsi, poi, fra le montagne della Samaria, a occidente, lungo degli aridi roveti al di là dei quali, declinando in direzione del Giordano e trascinando verso sud la sua livella ardente, il deserto di Giudea bruciava e ribruciava l’antichissima cicatrice di una terra che, promessa com’era stata ad alcuni, non avrebbe mai saputo a chi consegnarsi. Aspetta, aveva detto Simeone, e il falegname aveva obbedito, adesso inquieto, spaventato, ma senza sapere per che
cosa. Le donne erano ormai vicine. Allora il vecchio riprese a camminare, aggrappandosi alla tunica di Giuseppe, come se le forze gli venissero a mancare, e disse, Ieri sera, dopo essermi ritirato per la notte, ho avuto una visione, Una visione, Sì, ma non una visione di cose, come capita, è stato piuttosto come se avessi potuto vedere quanto c’è dietro le parole, quelle che hai pronunciato, che se tuo figlio non fosse ancora nato all’ultimo giorno del censimento, sarebbe perché il Signore non vuole che i romani sappiano di lui e lo iscrivano nelle loro liste, Sì, ho detto questo, ma tu, che cos’hai visto, Non ho visto cose, è stato come se, all’improvviso, avessi la certezza di quanto sarebbe meglio che i romani non sapessero dell’esistenza di tuo figlio, che nessuno ne venisse mai a conoscenza e che, se proprio deve arrivare in questo mondo, che almeno ci viva senza gloria né dolore, come quegli uomini laggiù e quelle donne che si stanno avvicinando, ignorato come chiunque di noi fino all’ora della sua morte e oltre. Essendo il padre la nullità che sono, un falegname di Nazaret, l’esistenza che gli auguri è quella che mio figlio avrà di certo, Non sei l’unico a disporre della vita di tuo figlio, Certo, ogni potere è nel Signore Iddio, Egli è colui che sa, Così è sempre stato e così noi crediamo, Ma parlami di mio figlio, cos’hai saputo di lui, Niente, soltanto quelle tue parole che, in un baleno, mi sono parse pregne di un significato diverso, come se guardando per la prima volta un uovo avessi la percezione del pulcino che racchiude, Dio ha voluto ciò che ha fatto e ha fatto ciò che ha voluto, mio figlio è nelle Sue mani, io non ho alcun potere. In verità, è così, ma in questi giorni Dio condivide ancora con la donna il possesso della creatura, Che poi, se sarà maschio, apparterrà a me e a Dio, Oppure solo a Dio, Tutti gli apparteniamo, Non tutti, alcuni sono condivisi da Dio e dal Demonio, Come saperlo, Se la Legge non avesse messo a tacere per sempre le donne forse, poiché hanno inventato quel primo peccato da cui tutti gli altri discendono, saprebbero dirci quanto ancora non conosciamo. Che cosa, Quali parti divina e demoniaca le compongono, che specie di umanità recano in sé, Non ti capisco, mi pareva che stessi parlando di mio figlio, Non dicevo di tuo figlio, parlavo delle donne e di come generano gli esseri che noi siamo, a meno che non sia per loro volontà, ammesso che lo sappiano, che ciascuno di noi è questo poco e questo tanto, questa bontà e questa malvagità, questa pace e questa guerra, ribellione e mansuetudine. Giuseppe si voltò indietro, Maria era lì sul somaro, con un bimbo seduto davanti a sé, a cavalcioni, come un uomo, e per un istante immaginò che fosse già suo figlio, mentre Maria gli parve di vederla per la prima volta, in testa a quella truppa femminile ormai aumentata. Gli risuonavano ancora nelle orecchie le strane parole di Simeone, ma stentava ad accettare che una donna potesse avere così tanta importanza, o perlomeno la sua non gli aveva mai mostrato, per quanto mediocre fosse, di valere più delle altre. Ebbene, fu a questo punto, mentre si stava girando per
guardare avanti, che si rammentò del mendicante e della terra luminosa. Rabbrividì dalla testa ai piedi, e ancor di più quando, voltandosi di nuovo verso Maria, vide con i suoi stessi occhi camminare accanto a lei un uomo alto, così alto che si scorgevano le sue spalle spuntare da sopra le teste delle donne, ed era certo, da questi indizi, il mendicante che non era mai riuscito a vedere. Tornò a guardare, quello era ancora là, presenza insolita, totalmente incongruente, senza nessun motivo umano per ritrovarsi lì, uomo fra le donne. Stava per chiedere a Simeone di guardare anche lui indietro, di confermare questi fatti impossibili, ma il vecchio era già più avanti, aveva detto quanto doveva dire e adesso stava raggiungendo gli uomini della sua famiglia per riprendere il suo semplice ruolo di anziano, che è sempre quello che dura di meno. Il falegname, allora, non avendo altri testimoni, guardò di nuovo la moglie. L’uomo non c’era più. 6. Diretti a sud, avevano attraversato tutta la regione della Samaria, e lo avevano fatto con marce forzate, un occhio attento alla strada e l’altro, inquieto, a scrutare i dintorni, timorosi dei sentimenti di ostilità, ma sarebbe più esatto dire di avversione, degli abitanti di quelle terre, discendenti in malefatte ed eredi in eresie degli antichi coloni assiri che si trasferirono da queste parti al tempo di Salmanassar, re di Ninive, dopo la cacciata e la dispersione delle Dodici Tribù, e che, essendo parzialmente ebrei, ma soprattutto pagani, come Legge sacra riconoscono solo i Cinque Libri di Mosè e affermano che il luogo scelto da Dio per il suo Tempio non fu Gerusalemme, bensì, pensate, il monte Garizim, situato nei loro territori. Avanzarono a spron battuto gli uomini di Galilea, ma comunque dovettero trascorrere due notti in territorio nemico, all’aperto, con sentinelle e ronde, casomai i malvagi avessero attaccato nottetempo, capaci come sono delle peggiori azioni, al punto di rifiutare un goccio d’acqua a chi, di puro ceppo ebreo, stesse morendo, per non parlare di qualche eccezione conosciuta, altro non essendo, appunto, che un’eccezione. E tale fu l’angoscia dei viaggiatori durante il tragitto che, contrariamente al solito, gli uomini si divisero in due gruppi, in testa e in coda a donne e bambini, per proteggerli da eventuali insulti o da cose ben peggiori. Alla fin fine, in quei giorni dovevano essere pacificamente ben disposti gli abitanti della Samaria, fatto sta che, oltre a quelli incontrati via facendo, anch’essi in viaggio, che appagavano il loro rancore lanciando ai galilei occhiate di scherno e qualche parolaccia, nessuna banda ufficiale e organizzata si lanciò all’assalto giù dalle colline o, in qualche imboscata, prese a sassate lo spaventato e inerme distaccamento. Poco prima di arrivare a Ramalà, dove i credenti più fervidi o con l’olfatto più fino giuravano di fiutare già il santissimo odore di Gerusalemme, abbandonarono il
gruppo il vecchio Simeone e i suoi, i quali, come si è detto, vanno a censirsi in un villaggio nei dintorni. Lì, in mezzo alla strada, tra una devozione e l’altra, si congedarono i viandanti, le madri di famiglia subissarono Maria di mille e una raccomandazione figlie dell’esperienza, e poi tutti si rimisero in cammino, chi scendendo a valle, dove ben presto avrebbe potuto riposare dalle fatiche di quattro giorni di marcia, chi diretto a Ramalà, dove avrebbe trascorso la notte che sta calando ancora nel caravanserraglio. E poi, infine, a Gerusalemme dovranno separarsi tutti i restanti del gruppo partito da Nazaret, la maggior parte diretta a Bercheva, con ancora due giorni di viaggio davanti, e il falegname e sua moglie che si fermeranno proprio lì vicino, a Betlemme. Nella confusione degli abbracci e degli addii, Giuseppe chiamò in disparte Simeone e, con grande deferenza, gli domandò se nel frattempo gli fosse sovvenuto qualche altro ricordo della visione, Che non è stata una visione, te l’ho già detto, Sia quel che sia, ciò che interessa a me è sapere quale destino avrà mio figlio, Se non ti è dato di conoscere nemmeno il tuo destino, e tu sei qui, vivo e loquace, come puoi pretendere di sapere qualcosa di ciò che ancora neppure esiste, Gli occhi dello spirito si spingono oltre, ecco perché ho pensato che i tuoi, aperti dal Signore sulla chiarezza degli eletti, fossero riusciti a scoprire quanto per me è solo tenebra, Forse il destino di tuo figlio non lo conoscerai mai, forse la tua stessa sorte sta per compiersi, non domandare, uomo, non cercare di sapere, ma vivi il tuo giorno. E, dopo aver pronunciato queste parole, Simeone posò la mano destra sul capo di Giuseppe, mormorò una benedizione che nessuno poté udire e raggiunse i suoi, che lo attendevano. Per un tortuoso sentiero, in fila, cominciarono a scendere a valle dove, ai piedi di un altro pendio, quasi confuso fra i sassi che spuntavano dal suolo come ossa stanche, c’era il villaggio di Simeone. Giuseppe non avrebbe più avuto sue notizie, seppe soltanto, ma dopo lungo tempo, che era morto prima di censirsi. Dopo le due notti trascorse alla luce delle stelle e al freddo, in aperta campagna, giacché non avevano acceso neppure i fuochi per paura di attacchi di sorpresa, al gruppo di Nazaret non parve vero di potersi riparare ancora una volta fra le pareti e le arcate di un caravanserraglio. Le donne si affrettarono ad aiutare Maria a scendere dal somaro, dicendole, caritatevoli, Ti manca poco, e quella povera donna mormorava che sì, doveva essere così, come del resto ne era segno, a tutti evidente, il repentino, o perlomeno tale sembrava, ingrossamento del ventre. La sistemarono alla meglio in un angolo appartato e si accinsero a occuparsi della cena, già in ritardo, cui tutti si precipitarono. Quella sera non vi furono conversazioni, né preghiere, né storie raccontate intorno al fuoco, come se la vicinanza di Gerusalemme costringesse al silenzio, ciascuno guardando dentro di sé e domandandosi, Chi sei tu che mi somigli, ma che non riconosco, però non lo dicevano davvero, mica ci si mette così a parlare più o meno da soli, e neppure lo pensavano coscientemente, sta di fatto che
per un silenzio come questo, quando si fissano zitti le fiamme di un falò, se vogliamo tradurlo a parole, non ce ne sono altre, solo quelle, ed esprimono tutto. Dal punto in cui Giuseppe era seduto, vedeva la sagoma di Maria stagliarsi contro il fulgore del fuoco, il chiarore rossastro, riflesso, conferiva una luce sfumata a questo lato della figura, disegnandole il profilo con luce e controluce, e lui, stupito di pensarlo, trovò che la moglie era proprio una bella donna, ammesso che la si potesse definire già una donna, con quel viso da bambina, certo, adesso il corpo è sformato, ma la memoria gli riporta un’immagine diversa, agile e delicata, ben presto, dopo la nascita del bambino, tornerà come prima. Mentre Giuseppe stava pensando a questo, d’improvviso, inaspettatamente fu come se tutti i mesi addietro, di forzata castità, si fossero ribellati, risvegliando un desiderio pressante che cominciava a diffonderglisi nel sangue, a ondate successive, irradiando indistinti appetiti carnali che cominciavano a stordirlo, per poi refluire, più forti, scanditi dall’immaginazione, al punto di partenza. Udì Maria emettere un gemito, ma non le si avvicinò. Si era rammentato, e il ricordo, come un getto d’acqua gelida, raffreddò di colpo le sensazioni voluttuose che stava provando, si era ricordato dell’uomo visto due giorni prima, per un fugace istante, camminare accanto a sua moglie, quel mendicante che lo perseguitava fin dall’annuncio della gravidanza di Maria, perché adesso Giuseppe non aveva dubbi che, pur non essendo ricomparso fino al giorno in cui era riuscito a vederlo anche lui, il misterioso personaggio era sempre stato, durante i nove mesi di gestazione, nei pensieri di Maria. Giuseppe non aveva osato domandare alla moglie chi fosse quell’uomo e se sapesse dov’era andato, tanto si era dileguato in fretta, perché non voleva udire la risposta che temeva, una domanda stupita, Un uomo, che uomo, e se avesse insistito, senza dubbio Maria avrebbe chiamato a testimoniare le altre donne, Voi avete visto qualcuno, c’era qualcuno nel gruppo delle donne, e quelle avrebbero negato e scosso la testa con aria scandalizzata, e forse una, più svelta di lingua, avrebbe aggiunto, Deve ancora nascere l’uomo che, se non per qualche necessità del corpo, si avvicini al fianco delle donne e vi si trattenga. Ciò che Giuseppe non avrebbe potuto immaginare è che non vi sarebbe stata alcuna malizia nella sorpresa di Maria, perché lei non lo aveva visto davvero il mendicante, né uomo in carne e ossa né apparizione. Ma come può essere vero se lui era lì, accanto a te, se l’ho visto con questi miei occhi, avrebbe domandato Giuseppe, e Maria avrebbe risposto, forte della sua ragione, In tutto, così mi hanno detto che è scritto nella Legge, la moglie dovrà rispetto e obbedienza al marito, quindi non ripeterò che quell’uomo non era al mio fianco, giacché tu sostieni il contrario, dico solo che io non l’ho visto, Era il mendicante, E come puoi saperlo se non sei riuscito a vederlo il giorno della sua comparsa, Doveva essere lui, Piuttosto doveva essere qualcuno che se ne andava per la sua strada e, visto che camminava più lentamente di noi, lo
abbiamo superato, prima gli uomini, poi le donne, casualmente era al mio fianco quando tu hai guardato, è stato questo e nulla di più, Allora tu confermi, No, cerco solo una spiegazione soddisfacente per te, com’è dovere delle buone mogli. Con gli occhi socchiusi, quasi addormentato, Giuseppe tenta ancora di leggere una verità sul viso di Maria, ma l’espressione di lei si è oscurata come l’altra faccia della luna, il profilo è appena una linea che si staglia nel chiarore ormai smorto delle ultime braci. Giuseppe reclinò il capo come se avesse definitivamente rinunciato a capire, portandosi nel sonno un’idea del tutto assurda, l’idea che quell’uomo poteva essere stato un’immagine di suo figlio divenuto uomo e giunto dal futuro per dirgli, Un giorno io sarò così, ma tu non riuscirai a vedermi, e così Giuseppe si addormentò, con un sorriso rassegnato sulle labbra, ma era triste, come si sarebbe sentito se avesse udito Maria che gli diceva, Che il Signore non lo voglia, ma so per certo che quell’uomo non sa dove posare il capo. In verità, in verità vi dico che molte cose di questo mondo si potrebbero conoscere prima che ne accadano altre che ne sono frutto, se marito e moglie fossero soliti parlarsi l’un l’altra come tali. Il giorno dopo, di buon’ora, molti dei viaggiatori che avevano trascorso la notte nel caravanserraglio partirono per Gerusalemme, ma i gruppi di viandanti, casualmente, si formarono in modo che Giuseppe, pur rimanendo in vista dei conterranei diretti a Bercheva, stavolta accompagnava la moglie, procedendole accanto, per così dire a staffetta, proprio come il mendicante, o chiunque fosse, aveva fatto il giorno prima. Ma Giuseppe, in questo momento, non vuole pensare al misterioso personaggio. Ha la certezza intima e profonda di essere stato gratificato con un particolare ossequio da Dio, il quale gli ha concesso di vedere il proprio figlio ancora prima della nascita, non avvolto nelle fasce e nei pannolini da debolezza infantile, un esserino incompleto, puzzolente e rumoroso, ma come un uomo fatto, alto un buon palmo più di suo padre e più di quanto sia la norma di questa razza. Giuseppe è felice di occupare il posto di suo figlio, è al tempo stesso il padre e il figlio, e si tratta di un sentimento così intenso che di colpo non ha più alcun significato il suo vero figlio, quel bimbo che lì, dentro il ventre della madre, sta andando a Gerusalemme. Gerusalemme, Gerusalemme, urlano i viandanti devoti alla vista della città, sorta all’improvviso come un’apparizione, laggiù, in cima alla collina, al di là della valle, davvero una città celeste, centro del mondo, che adesso diffonde migliaia di scintille in tutte le direzioni, sotto la luce intensa del mezzogiorno, come una corona di cristallo, ma che sappiamo diventerà d’oro puro quando la luce dell’occaso la toccherà e che sarà di un bianco latteo sotto il chiaro di luna, Gerusalemme, o Gerusalemme. Il Tempio appare come se giusto in quell’istante ve l’avesse posto Dio, e l’improvvisa brezza che percorre l’atmosfera e sfiora il viso, i capelli, le vesti dei
pellegrini e dei viaggiatori è forse il movimento dell’aria spostata dal gesto divino, tant’è che, a ben guardare le nuvole del cielo, possiamo notare la mano immensa che si ritrae, le lunghe dita sporche di argilla, la palma su cui sono tracciate le linee della vita e della morte degli uomini e di tutti gli altri esseri dell’universo, ma che insieme, è ora che si sappia, è anche la linea della vita e della morte dello stesso Dio. I viaggiatori sollevano in aria le braccia tremanti di emozione, prorompono le devozioni, irresistibili, non più in coro, ma ciascuno in preda al proprio slancio, e c’è chi, più sobrio per natura in queste mistiche espressioni, quasi non si muove, guarda il cielo e pronuncia le parole con una sorta di durezza, come se in questo momento gli fosse concesso di parlare da pari a pari al suo Signore. La strada è in discesa, e mentre i viaggiatori scendono a valle, prima di affrontare la nuova salita che li condurrà a questa porta della città, il Tempio sembra innalzarsi sempre di più, nascondendo per effetto della prospettiva l’esecrata Torre Antonia dove, anche a questa distanza, s’intravedono le sagome dei soldati romani di sentinella sulla terrazza e fugaci bagliori d’armi. Qui si accomiatano i due di Nazaret, perché Maria è esausta e non sopporterebbe il duro trotto della sua cavalcatura giù per la discesa, se dovesse seguire l’andatura rapida, quasi precipitosa, che ha preso tutta questa gente alla vista delle mura della città. Giuseppe e Maria sono rimasti soli per la strada, lei tentando di recuperare le forze che l’hanno abbandonata, lui un po’ impaziente per il ritardo, proprio adesso che sono ormai così vicini alla meta. Il sole cala a piombo sul silenzio che circonda i viaggiatori. All’improvviso un gemito sordo, irreprimibile, esce dalla bocca di Maria. Giuseppe si agita, domanda, Sono i dolori che cominciano, e lei risponde, Sì, ma proprio in quell’istante un espressione di incredulità le si diffonde sul viso, come se si fosse trovata di fronte a qualcosa di inaccessibile alla sua comprensione, fatto sta che, in verità, il dolore non lo aveva mica avvertito, o meglio, lo aveva sentito, sì, ma come un dolore provato in realtà da qualcun altro, ma da chi, da quel figlio dentro di lei, come può succedere una cosa simile, che un corpo possa avvertire un dolore che non gli appartiene, e per di più consapevolmente, e comunque sentirlo ancora di più come se fosse un proprio dolore, o magari non esattamente in questo modo e con queste parole, diciamo piuttosto come un’eco che, per una strana deformazione dei fenomeni acustici, si udisse con maggiore intensità del suono che l’ha prodotta. Titubante. quasi non volendolo sapere, Giuseppe le domandò, Continua a dolerti, e lei non sa come rispondergli, mentirebbe se dicesse di no, mentirebbe se dicesse di sì, perciò tace, ma il dolore c’è, e lei lo sente, eppure è come se stesse solo guardandolo, senza poter fare niente, nel ventre le pulsano i dolori di suo figlio, e lei, così lontana, non può aiutarlo. Nessuno ha urlato alcun ordine, Giuseppe non ha usato la frusta, certo è che il somaro ha ripreso ad andare con animo pimpante, sale per conto
proprio il ripido pendio che porta a Gerusalemme e procede leggero, come chi abbia sentito dire che lo aspetta una mangiatoia piena e, finalmente, un meritato riposo, mentre ancora non sa che dovrà percorrere un bel po’ di strada prima di arrivare a Betlemme, e quando infine vi si troverà, capirà che le cose in fondo non sono così semplici come sembravano, è chiaro, sarebbe veramente bello poter annunciare, Veni, vidi, vici, lo ha proclamato Giulio Cesare ai suoi gloriosi tempi, e poi si è visto com’è andata, ha finito per morire proprio per mano di suo figlio, che non aveva altra scusante se non quella di essere adottivo. Viene da lontano e promette di non aver fine la guerra tra padri e figli, l’eredità delle colpe, il rifiuto del sangue, il sacrificio dell’innocenza. Quando stavano ormai per varcare la porta della città, Maria non poté trattenere un gemito di dolore, stavolta lancinante, quasi una lancia l’avesse trapassata. La udì solo Giuseppe, tanto era alto il rumore della gente, quello degli animali un po’ meno, ma uniti finivano per creare una gazzarra da mercato che a stento lasciava intendere quanto si fosse detto accanto. Giuseppe si dimostrò sensato, Non sei in condizioni di proseguire, sarà meglio cercare alloggio qui, e domani mi recherò a Betlemme, al censimento, e riferirò che stai per partorire, se sarà necessario andrai dopo, non conosco le leggi dei romani, forse è sufficiente che si presenti il capofamiglia, soprattutto in un caso come questo, e Maria rispose, Non sento più i dolori, ed era proprio così, quel colpo di lancia che l’aveva fatta urlare si era tramutato nella puntura di una spina, continua, sì, ma sopportabile, qualcosa che si faceva ricordare appena, come un cilicio. Giuseppe ne fu sollevato quanto si può immaginare perché lo intimoriva la prospettiva di dover cercare un riparo nel labirinto delle strade di Gerusalemme in circostanze così penose, la moglie in doloroso travaglio di parto e lui, come qualunque altro uomo, spaventato dalla responsabilità, ma senza tuttavia volerlo confessare. Arrivando a Betlemme, pensava lui, che non dev’essere granché diversa da Nazaret per dimensione e importanza, le cose saranno certamente più facili, lo sanno tutti come nei paesi piccoli, dove ci si conosce, la solidarietà sia di solito una parola meno vacua. Se Maria non si lamenta più, o le sono cessati i dolori, o riesce a sopportarli, e in un caso e nell’altro tant’è, andiamo a Betlemme. Il somaro riceve una manata sulle terga, il che, a ben notare, è più l’affettuosa manifestazione del sollievo di Giuseppe che non lo stimolo a decidersi a ravvivare un po’ l’andatura, risoluzione peraltro alquanto difficile nell’indescrivibile confusione del traffico in cui sono finiti. I commerci sommergono le viuzze, c’è gente di mille razze e mille lingue che si accalca, e il passaggio, quasi per miracolo, si sblocca e defluisce solo quando in fondo alla via compare una pattuglia di soldati romani o una carovana di cammelli, allora è come se si separassero le acque del Mar Rosso. A poco a poco, con garbo e con pazienza, i due di Nazaret e il loro somaro si sono
lasciati alle spalle questo gesticolante e convulso bazar, gente ignara e distratta, cui non servirebbe a niente dire, Quello là, vedi, è Giuseppe, e la donna, quella incinta, grossa come un uovo, sì, si chiama Maria, vanno a Betlemme per il censimento, e se è vero che non servirebbero a nulla queste nostre identificazioni, il motivo è che viviamo in una terra così abbondante di nomi predestinati che se ne trovano a bizzeffe, da quelle parti, di Giuseppi e di Marie di tutte le età e condizioni, per così dire dietro l’angolo, e non dimentichiamo, poi, che i nostri conoscenti non devono essere certo gli unici con quei nomi in attesa di un figlio, come del resto non ci sorprenderebbe, per concludere, se a quest’ora e in questi paraggi nascessero contemporaneamente, e separati solo da una strada o da un campo di grano, due creature dello stesso sesso, a Dio piacendo maschi, ma che sicuramente avranno destini diversi, anche se, ultimo tentativo di materializzare le primitive astrologie di quest’antica età, finissimo per dare loro lo stesso nome, Jeshua, come a dire Gesù. E non si dica che ci stiamo già anteponendo agli eventi, dando il nome a un bambino che deve ancora nascere, la colpa è del falegname che da un pezzo ha già deciso che questo sarà il nome del suo primogenito. Sono usciti i viandanti dalla porta sud, imboccando la strada per Betlemme, a cuor leggero adesso che la meta si avvicina, potranno finalmente riposare dal lungo e duro viaggio, benché un’altra, e non certo piccola, fatica aspetti la povera Maria, ché lei, e soltanto lei, avrà il travaglio per partorire il figlio, solo Dio sa dove e come. Fatto sta che per quanto Betlemme, secondo le Scritture, sia il luogo della dimora e della stirpe di Davide, cui Giuseppe afferma di appartenere, con il passare del tempo i parenti si sono estinti, o di averli tuttora non è al corrente il falegname, circostanza negativa che lascia immaginare, mentre siamo ancora in viaggio, non poche difficoltà di alloggio per la coppia, all’arrivo, Giuseppe non può davvero bussare a una porta qualunque e dire, C’è qui mio figlio che vuole nascere, e la padrona di casa, allegra e arzilla, Entri, entri, signor Giuseppe, l’acqua sta già bollendo, la stuoia è lì per terra, la fascia di lino è pronta, si accomodi, è casa sua. Sarebbe avvenuto così nell’età dell’oro, quando il lupo, per non dover uccidere l’agnello, si nutriva di erbe selvatiche, ma questa è un’età dura e di ferro, il tempo dei miracoli, o è già passato, o deve ancora arrivare, e inoltre il miracolo, proprio il miracolo, nonostante quanto ci dicono, non è mica una cosa buona, se bisogna piegare la logica e la ragione intima delle cose per renderle migliori. Giuseppe vorrebbe quasi rallentare il passo per ritardare le difficoltà che lo aspettano, ma il pensiero che avrà problemi ben più grandi se il figlio gli nascerà in mezzo alla strada lo spinge a sollecitare l’andatura del somaro, un animale rassegnato e talmente stanco che soltanto lui sa come riesce ad andare avanti, perché Dio, ammettendo che ne sappia qualcosa, appartiene agli uomini, e comunque neanche a tutti, ché sono tanti quelli che vivono da somari, o
anche peggio, e Dio non si è affatto curato di appurarlo e di provvedervi. A Giuseppe un compagno di viaggio aveva detto che a Betlemme c’era un caravanserraglio, provvidenza sociale che a prima vista potrebbe risolvere il problema della difficoltà di sistemazione poc’anzi analizzata minuziosamente, ma persino un rustico falegname ha diritto ai suoi pudori, immaginatevi la vergogna di quest’uomo nel vedere la propria moglie esposta a curiosità malsane, un caravanserraglio intero a mormorare volgarità, tanto più che questi cammellieri e mulattieri sono rozzi quanto le bestie che accompagnano, con l’aggravante, gli uomini, di avere il dono divino della parola, mentre gli animali ne sono sprovvisti. Allora Giuseppe decide che andrà alla sinagoga a chiedere consiglio e aiuto agli anziani, stupito fra sé e sé di non averci pensato prima. Adesso, col cuore sollevato dalle preoccupazioni, gli è venuto in mente che sarebbe stato giusto domandare a Maria se avesse o meno i dolori, ma la parola non l’ha pronunciata, ricordiamoci che tutto è sporco e impuro, dalla fecondazione alla nascita, quel terrificante sesso della donna, vortice e abisso, sede di tutti i mali del mondo, l’interno labirintico, il sangue e gli umori, i mestrui, la rottura delle acque, la ripugnante placenta, mio Dio, perché hai voluto che i Tuoi diletti figli, gli uomini, nascessero dall’immondezza, quando sarebbe stato meglio, per Te e per noi, che li avessi creati da luce e trasparenza, ieri, oggi e domani, il primo, il mediano e l’ultimo, e così per tutti, senza differenza fra nobili e plebei, fra re e falegnami, magari potevi mettere solo un segno spaventoso su coloro che, crescendo, fossero destinati a diventare, senza rimedio alcuno, immondi. Trattenuto da tanti scrupoli, Giuseppe finì per rivolgerle la domanda con tono quasi indifferente, come se, assorbito da argomenti superiori, condiscendesse a informarsi dei servi più umili, Come ti senti, disse, ed era proprio il momento giusto per udire una risposta nuova, perché Maria, alcuni istanti prima, aveva cominciato a notare una certa differenza nel tipo di dolori che stava provando, che parola magnifica, questa, ma usata al contrario, perché con ben altra precisione si direbbe che erano i dolori, alla fin fine, che stavano provando lei. A quel punto avevano già fatto più di un’ora di cammino, Betlemme non poteva essere lontana. Ebbene, senza che se ne riuscisse a comprendere il motivo, ma non sempre le cose possiedono globalmente una loro spiegazione, la strada era deserta fin da quando i due erano usciti da Gerusalemme, caso alquanto strano perché, essendo Betlemme così vicina alla città, sarebbe stato oltremodo naturale che ci fosse un turbinio continuo di gente e di animali. Dal punto in cui, pochi stadi dopo Gerusalemme, la strada si biforcava, una diramazione per Bercheva, questa per Betlemme, era come se il mondo si fosse ritirato, piegato su se stesso, se lo si potesse raffigurare come una persona diremmo che si era coperto gli occhi con il mantello, con l’intenzione di ascoltare solo i passi dei viandanti, proprio come orecchiamo il
canto degli uccelli che non riusciamo a vedere, nascosti fra i rami, loro, ma pure noi, perché così dovranno immaginarci i volatili celati tra le frasche. Giuseppe, Maria e l’asinello avevano attraversato il deserto, perché il deserto non è quello che normalmente si crede, deserto è tutto quanto sia privo di uomini, anche se non dobbiamo dimenticare che non è raro trovare deserti e aridità mortali tra le folle. A destra c’è la tomba di Rachele, la sposa per cui Giacobbe dovette attendere quattordici anni, allo scadere dei sette anni di servizio gli aveva dato Lia e solo dopo altrettanti la donna amata, che sarebbe morta a Betlemme dando alla luce la creatura alla quale lui avrebbe posto il nome di Beniamino, che significa Figlio della mia destra, ma che lei, prima di morire, chiamò Ben-Oni, che vuol dire Figlio del mio dolore, consenta Iddio che non sia un presagio. Adesso si distinguono già le prime case di Betlemme, d’un colore terreo come quelle di Nazaret, ma queste sembrano impastate di giallo e di grigio, livide sotto il sole. Maria sta per svenire, sul basto il suo corpo perde l’equilibrio ogni momento, Giuseppe deve sostenerla e lei, per potersi reggere meglio, gli passa un braccio intorno alla spalla, peccato che siamo nel deserto e che non ci sia nessuno a vedere questa bella scena, tanto fuori del comune. E così stanno entrando a Betlemme. Giuseppe domandò, malgrado tutto, dove fosse il caravanserraglio perché aveva pensato che avrebbero magari potuto riposare lì per il resto della giornata, e poi la notte, visto che, anche se Maria continuava a lamentarsi dei dolori, non sembrava che il bimbo stesse ancora per nascere. Ma nel caravanserraglio, all’altro capo del paese, sporco e rumoroso, un misto di bazar e stalla come tutti, per quanto non risultasse pieno essendo ancora presto, non c’era un posto libero e un po’ appartato, e verso sera sarebbe stato anche peggio, con l’arrivo di cammellieri e mulattieri. Tornarono indietro i viandanti, Giuseppe lasciò Maria in una piazzetta fra le case, sotto l’ombra di un fico, e si mise in cerca degli anziani, com’era stata sua prima intenzione. Chi si trovava nella sinagoga, un semplice ispettore, non poté fare altro che chiamare uno dei ragazzini che se ne stavano nei pressi a giocare, ordinandogli di guidare il forestiero da uno degli anziani che, si sperava, avrebbe provveduto. La sorte, protettrice degli innocenti quando se ne ricorda, volle che Giuseppe, in questa nuova missione, dovesse ripassare per la piazza in cui aveva lasciato la moglie, fortuna per Maria, l’ombra malefica del fico la stava quasi ammazzando, una mancanza di attenzione imperdonabile da parte dell’uno e dell’altro, in una terra che di questi alberi ne possiede a bizzeffe e che ha il dovere di sapere quanto di buono e di cattivo ce ne si può aspettare. Da lì si mossero in gruppo, come condannati, in cerca dell’anziano che, alla fin fine, era in campagna e non sarebbe tornato tanto presto, questa fu la risposta che diedero a Giuseppe. Allora il falegname si fece coraggio e, a voce alta, domandò se in quella casa, o in un’altra, Se
mi state ascoltando, qualcuno volesse, nel nome di Dio che tutto vede, dare asilo a sua moglie, che sta per dare alla luce un figlio, ci sarà pure un angolo appartato, le stuoie le portava lui, E inoltre dov’è che in questo paese posso trovare una levatrice che assista al parto, il povero Giuseppe, vergognandosi, diceva queste cose enormi e intime, e si vergognava sempre di più accorgendosi di arrossire mentre le diceva. La schiava che gli aveva aperto la porta rincasò con il messaggio, la richiesta e la lagnanza, si trattenne un po’ e poi ricomparve con la risposta che lì non potevano restare, che cercassero un’altra casa, ma senza sperarci troppo, e la padrona mandava a dire che sarebbe stato meglio se si fossero rifugiati in una delle tante grotte sparse su quel pendio, E la levatrice, chiese Giuseppe, al che la schiava rispose che, se l’autorizzavano i padroni e lui accettava, avrebbe potuto assisterla lei stessa perché, in tanti anni, in casa non le erano mancate le occasioni di vedere e imparare. In verità, sono tempi davvero duri, e questa è la conferma, è venuta a bussare alla porta una donna che sta per avere un figlio, e noi le abbiamo rifiutato persino la tettoia nel cortile, mandandola a partorire in una tana, come le orse e le lupe. La coscienza, però, ci ha messo in allarme e ci siamo alzati, andando alla porta a vedere chi mai sia in cerca di un rifugio per un motivo così urgente e fuori del comune, e quando abbiamo visto l’espressione dolente di quella sventurata, il nostro cuore di donna si è impietosito e, con parole misurate, abbiamo giustificato il rifiuto, perché abbiamo la casa piena, Ci sono tanti figli e figlie in questa casa, e i nipoti e le nipoti, i generi e le nuore, ecco perché non potete fermarvi, ma la schiava vi condurrà in una grotta che ci appartiene e che fungeva da stalla, lì starete comodi, adesso animali non ce ne sono, e dopo averlo detto, e aver ascoltato i ringraziamenti di quella povera gente, ci siamo ritirati nell’intimità della nostra casa, provando nel profondo dell’animo quell’ineffabile conforto che dà la coscienza a posto. Con tutto questo andare e venire, questo camminare e fermarsi, questo chiedere e domandare, l’azzurro carico del cielo ha cominciato a sbiadirsi, e fra poco il sole si nasconderà dietro quel monte. La schiava Zelomi, si chiama così, procede in testa, facendo strada, e porta un orcio con la brace per il fuoco, una casseruola d’argilla per riscaldare l’acqua, del sale per strofinare il neonato, così non prenderà infezioni. E, visto che di fasce Maria è ben fornita e il coltello con cui si dovrà tagliare il cordone ombelicale ce l’ha Giuseppe nella bisaccia, a meno che Zelomi non preferisca reciderlo con i denti, il bimbo ormai può nascere, in fondo una stalla funge altrettanto bene che una casa, e solo chi non ha mai avuto la fortuna di dormire in una mangiatoia ignora come non vi sia niente al mondo di più simile a una culla. Il somaro, almeno, non troverà alcuna differenza, la paglia è uguale in cielo e sulla terra. Giunsero alla grotta verso l’ora terza, quando il crepuscolo, incerto, ancora indorava le colline, ma il ritardo non fu dovuto tanto alla distanza, quanto al fatto che
Maria, adesso che aveva l’alloggio garantito e, finalmente, si era potuta abbandonare alla sofferenza, pregava per tutti gli angeli che la portassero con mille cautele, perché ogni scivolone degli zoccoli dell’asino sui sassi la faceva agonizzare. L’interno della grotta era buio, l’indebolita luce esterna si fermava all’ingresso, ma in poco tempo, avvicinando una manciata di paglia alle braci e soffiando, con le fascine la schiava fece un falò che sembrava un’aurora. Poi accese il lume che era già lì, appeso a una sporgenza della parete, e dopo aver aiutato Maria a sdraiarsi, andò a prendere un po’ d’acqua ai pozzi di Salomone, proprio nei pressi. Di ritorno, trovò Giuseppe fuori di sé, non sapeva che cosa fare, e non dobbiamo biasimarlo, perché agli uomini non insegnano a rendersi utili in simili occasioni, loro non vogliono saperne, al massimo saranno capaci di tenere la mano alla moglie sofferente, restandosene ad aspettare che tutto vada per il meglio. Maria, però, è sola, il mondo morirebbe di sgomento se un ebreo di questo tempo osasse compiere quel minimo. Entrò la schiava, rivolse una parola di sostegno, Coraggio, poi si inginocchiò fra le gambe aperte di Maria, proprio nella posizione in cui devono stare le gambe delle donne per ciò che entra e ciò che esce, ormai Zelomi aveva perso il conto dei bimbi che aveva visto nascere, e il patimento di questa poverina è tale e quale a quello di tutte le altre donne, come ha deciso il Signore Iddio quando Eva commise il peccato di disobbedienza, Moltiplicherò le sofferenze della tua gravidanza, i tuoi figli nasceranno nel dolore, e oggi, trascorsi ormai tanti secoli, accumulato tanto dolore, ancora Dio non si dà per soddisfatto, e l’agonia continua. Giuseppe non è più lì, e neppure all’ingresso della grotta. È scappato via per non udire le urla, ma le grida lo seguono, è come se urlasse la terra, tanto che tre pastori, che si trovavano nei pressi con le loro greggi di pecore, si avvicinarono a Giuseppe e gli domandarono. Che cos’è, sembra che la terra stia urlando, e lui rispose, È mia moglie, sta partorendo laggiù, in quella grotta, e quelli dissero, Non sei di queste parti, non ti conosciamo, Siamo venuti da Nazaret in Galilea per il censimento, appena arrivati le sono aumentati i dolori, e adesso sta nascendo. Il crepuscolo lasciava intravedere a stento i visi dei quattro uomini, ben presto i lineamenti sarebbero svaniti, ma le voci proseguivano, Hai da mangiare, domandò uno dei pastori, Poco, rispose Giuseppe, e la stessa voce, Quando sarà tutto finito, avvertimi e ti porterò un po’ di latte delle mie pecore, e poi si udì la seconda voce, E io ti darò un po’ di formaggio. Poi ci fu un lungo e inesplicabile silenzio, prima che il terzo pastore parlasse. Infine, con una voce che sembrava provenire anch’essa da sottoterra, disse, E io vi porterò del pane. Come tutti i figli degli uomini, il figlio di Giuseppe e Maria nacque sporco del sangue di sua madre, vischioso delle sue mucosità e soffrendo in silenzio. Pianse perché lo fecero piangere, e avrebbe pianto per quest’unico e solo motivo. Avvolto nelle fasce, riposa nella mangiatoia, non lontano dall’asino, ma non c’è pericolo di
morsi, ché la bestia l’hanno legata corta. Zelomi è andata fuori a sotterrare la placenta, mentre Giuseppe si sta avvicinando. Lei aspetta che lui entri e si ferma a respirare l’aria fresca dell’imbrunire, stanca come se avesse partorito lei stessa, nell’immaginazione, perché di figli non ne ha mai avuti. Scendendo dal pendio, tre uomini si avvicinano. Sono i pastori. Entrano insieme nella caverna. Maria è sdraiata e tiene gli occhi chiusi. Giuseppe, seduto sopra un sasso, ha il braccio posato sulla mangiatoia e sembra guardare il figlio. Si fece avanti il primo pastore e disse, Con queste mani ho munto le mie pecore e ho raccolto il loro latte. Maria, aprendo gli occhi, sorrise. Avanzò il secondo pastore e disse, Con queste mani ho lavorato il latte e ho fatto il formaggio. Maria accennò col capo e sorrise di nuovo. Poi si avvicinò il terzo pastore, per un istante parve riempire la grotta con la sua statura e disse, senza guardare né il padre né la madre del bimbo appena nato, Con queste mani ho impastato il pane che ti offro, col fuoco che esiste solo dentro la terra io l’ho cotto. E Maria seppe chi era. 7. Come sempre dacché mondo è mondo, per uno che nasce c’è un altro che agonizza. L’attuale, parliamo di chi è prossimo alla morte, è il re Erode, che soffre, al di là e molto peggio di quanto si possa dire, di un terribile prurito che lo porta alle soglie della pazzia, come se le minuscole e feroci mandibole di centomila formiche gli stessero rodendo il corpo, instancabili. Dopo aver provato, senza alcun miglioramento, tutti i balsami mai usati fino a oggi in tutto l’orbe conosciuto, ivi compresi Egitto e India, i medici regali, ormai persa la testa o, più esattamente, per paura di perderla, si sono buttati a comporre bagni e clisteri a caso, mescolando con acqua od olio qualunque erba o polvere di cui sia mai stato detto bene, sia pur in contrasto con le indicazioni della farmacopea. Il re, infuriato e pazzo di dolore, la bocca schiumante quasi l’avesse morso un cane rabbioso, minaccia di farli crocifiggere tutti se non scopriranno presto un rimedio per i suoi mali che, come già si è premesso, non si limitano al bruciore insopportabile della pelle nonché alle convulsioni che spesso lo prostrano, lo buttano per terra, facendone un gomitolo contorto, agonizzante, con gli occhi fuori delle orbite, le mani che strappano le vesti, sotto le quali le formiche, moltiplicandosi, proseguono la loro devastante opera. La cosa peggiore, peggiore veramente, sono la gangrena, che si è manifestata negli ultimi giorni, e quell’orrore senza nome né spiegazione di cui si parla segretamente a palazzo, e cioè i vermi che infestano gli organi genitali della regal persona e che, loro sì, la stanno divorando viva. Le urla di Erode risuonano nelle sale e nelle gallerie del palazzo, gli eunuchi al suo diretto servizio non dormono né riposano più, gli schiavi di grado inferiore rifuggono dal ritrovarsi sulla sua strada. Trascinando un corpo in
odore di putrefazione, malgrado i profumi di cui sono imbevuti gli abiti e unti i capelli tinti, Erode si tiene ancora in vita solo con il furore. Trasportato in lettiga, circondato di medici e guardie armate, percorre il palazzo da un capo all’altro in cerca di traditori, è da molto tempo che li vede o li immagina dappertutto, e il suo dito punta all’improvviso, può essere un capo di eunuchi che stava acquistando troppa influenza, o un fariseo recalcitrante che se ne va in giro a protestare contro chi disobbedisce alla legge, dovendo essere il primo a rispettarla, in tal caso non c’è neppure bisogno di pronunciare un nome per sapere di chi si tratti, possono anche essere i suoi figli, Alessandro e Aristobulo, arrestati e immediatamente condannati a morte da un tribunale di nobili convocato in tutta fretta per quest’unica sentenza, ebbene, che cos’altro poteva fare questo re se nei suoi sogni allucinati vedeva i suoi figli cattivi andargli incontro a spada tratta e se, nel più abominevole degli incubi, fissava come in uno specchio la propria testa mozzata. Della terribile fine è riuscito a liberarsi, adesso può contemplare tranquillamente i cadaveri di coloro che un minuto fa erano ancora gli eredi a un trono, i propri figli, rei di cospirazione, abuso e arroganza, uccisi per strangolamento. Ma ecco, adesso, che un altro incubo, emerso dalle ombre più profonde del cervello, lo strappa, urlante, ai brevi sonni inquieti cui si abbandona solo perché esausto, quando lo spirito turbato gli fa apparire il profeta Michea, quello che visse al tempo di Isaia, testimone delle terribili guerre che gli assiri portarono in Samaria e in Giudea, che tuona contro i ricchi e i potenti, come a un profeta spetta e all’uopo conviene. Coperto dalla polvere delle battaglie, la tunica macchiata di sangue vivo, Michea irrompe nel sogno con un fragore che non può essere di questo mondo, quasi spingesse con mani fiammeggianti enormi porte di bronzo, e annuncia con voce stentorea, Il Signore uscirà dalla Sua dimora, scenderà e camminerà sulle alture del paese, e poi minaccia, Guai a coloro che meditano l’iniquità, a coloro che tramano il male sui loro giacigli, e alla luce dell’alba lo compiono, perché in mano loro è il potere, e denuncia, Sono avidi di campi e li usurpano, sono avidi di case e se ne impadroniscono, così opprimono l’uomo e la sua casa, il proprietario e la sua eredità. Poi, ogni notte, ogni volta, dopo aver detto questo, come a un segnale solo a lui percettibile, Michea scompare, quasi stemperandosi in fumo. Eppure, ciò che fa risvegliare Erode fra affanni e sudori non è tanto lo sgomento per le profetiche esclamazioni, ma l’impressione angosciante che il suo visitatore notturno si ritiri proprio nell’istante in cui, sul punto di rivelare qualcos’altro, l’accenno di un gesto, la bocca che si apre, infine lo serbasse per la prossima volta. Orbene, tutti sanno che questo re Erode non è uomo da spaventarsi per le minacce, se non prova neppure rimorso per le innumerevoli morti che gli pesano nella memoria. Non dimentichiamo che ha ordinato di affogare il fratello della moglie, più di tutti amata nella vita,
Mariamne, che ne ha fatto strangolare il nonno, prima, e infine pure lei, dopo averla accusata di adulterio. È pur vero che, poi, è sprofondato in una specie di delirio in cui invocava Mariamne come se fosse ancora viva, ma è rinsavito giusto in tempo per scoprire che la suocera, anima di ben altri maneggi precedenti, tramava una cospirazione per privarlo del potere. In meno di un credo, la pericolosa cospiratrice è andata a raggiungere il panteon della famiglia cui Erode, in un momento disgraziato non solo per gli uni ma anche per gli altri, si era legato. Erano rimasti quindi al re, quali eredi al trono, i tre figli, Alessandro e Aristobulo, della cui sventurata fine abbiamo già avuto notizia, e Antipatro, che avrebbe imboccato ben presto la stessa strada. E ricordiamo fin d’ora, perché nella vita non tutto è tragedia e orrore, che per rifocillare e consolare il corpo Erode è arrivato ad avere dieci spose, magnifiche quanto a doti fisiche, le quali tuttavia, a questo punto, gli servono a ben poco, è chiaro, e lui a loro affatto. Ebbene, che quel collerico fantasma di un profeta adesso vada a spaventare le notti del potente re di Giudea e Samaria, di Perea e Idumea, di Galilea e Gaulanitide, di Traconitide, Auranitide e Batanea, quel mirabile monarca che di tutto è signore e tutto ha creato, comunque non sarebbe niente se non fosse per quell’indefinibile minaccia cui il sogno si ferma ogni volta, per quell’istante che dopo aver promesso non dà e che, non avendo dato, lascia intatta la promessa di un’altra minaccia di morte, quale, come, quando. Nel frattempo, là a Betlemme, per così dire a fianco a fianco con il palazzo di Erode, Giuseppe e la sua famiglia continuavano a vivere nella grotta, perché la permanenza prevista era così breve che non valeva la pena cercare casa, tanto più che il problema dell’alloggio era un rompicapo già a quell’epoca, con l’aggravante che ancora non avevano inventato il beneficio sociale e usuraio dell’affittanza delle camere. L’ottavo giorno dopo la nascita, Giuseppe portò il suo primogenito alla sinagoga per farlo circoncidere e, lì, il sacerdote tagliò abilmente, con un rozzo coltello e la destrezza di un esperto, il prepuzio del bimbo in lacrime, il cui solo destino, parliamo del prepuzio, mica del bambino, costituirebbe già materia per un romanzo, partendo da qui, dal momento in cui non è altro che un pallido anello di pelle appena sanguinante, e poi la sua gloriosa santificazione, al tempo di papa Pasquale Primo, nell’ottavo secolo di questa nostra era. Chi lo voglia vedere, oggi, non deve far altro che recarsi alla parrocchia di Calcata, nei pressi di Viterbo, una graziosa cittadina nella quale si trova in reliquiaria mostra a edificazione di credenti incalliti e a sfruttamento di curiosi increduli. Disse Giuseppe che suo figlio si sarebbe chiamato Gesù, e così fu registrato nel catasto di Dio dopo esserlo già stato nei registri di Cesare. Non si rassegnava il pargolo alla menomazione appena subita nel corpo, senza neppure la contropartita di un sensibile aumento dello spirito, e pianse per tutto il santo cammino di ritorno alla grotta, dove lo aspettava la madre ansiosa,
e non c’è da stupirsene, era il primo, Poverino, poverino, esclamò lei, e immediatamente, scostando la tunica, lo mise a poppare, prima il seno sinistro, probabilmente perché più vicino al cuore. Gesù, ma lui non può ancora sapere di chiamarsi così, giacché è soltanto un esserino naturale, come il pulcino di una gallina, il cucciolo di una cagna, l’agnello di una pecora, Gesù, dicevamo, sospirò con deliziata soddisfazione, avvertendo sulla guancia il dolce peso del seno, l’umidità della pelle a contatto di un’altra pelle. La bocca gli si riempì del sapore dolciastro del latte materno e l’offesa in mezzo alle gambe, insopportabile prima, si fece distante, stemperandosi in una sorta di piacere che nasceva e non finiva mai di nascere, quasi lo trattenesse una soglia, una porta chiusa, o una proibizione. Crescendo, finirà per dimenticare queste prime sensazioni, al punto di non poter neppure immaginare di averle provate, capita a tutti noi, dovunque siamo nati, sempre da donna, e qualunque sia il destino che ci aspetta. Se avessimo osato fare a Giuseppe una simile domanda, invadenza da cui Dio ci libererà, avrebbe risposto che sono altre e ben più serie le preoccupazioni di un capofamiglia, alle prese, d’ora in poi, con il problema di sfamare due bocche, un facile modo di dire cui la scena del figlio che succhia direttamente il latte dalla mamma non toglie, comunque, forza e proprietà. Ma è vero che Giuseppe ha seri motivi per preoccuparsi, e cioè come vivrà la famiglia fino a quando si potrà far ritorno a Nazaret, ché Maria si è debilitata con il parto e non sarebbe in condizioni di affrontare il lungo viaggio, senza contare che dovrà pur attendere che scada il periodo dell’impurità, trentatré giorni dovrà restare nel sangue della sua purificazione, partendo da quello in cui siamo, cioè il giorno della circoncisione. Il denaro portato da Nazaret, che era già poco, sta per finire, e per Giuseppe è impossibile esercitare qui il suo mestiere di falegname, in mancanza di attrezzi e di fondi per acquistare il legno. Già a quei tempi la vita dei poveri era difficile, e Dio non poteva provvedere a tutto. Dall’interno della grotta si è udito un breve e inarticolato vagito, subito interrotto, segno che Maria aveva spostato il figlio dal seno sinistro a quello destro, e il bambino, frustrato per un attimo, aveva sentito riacutizzarsi il dolore nella parte lesa. Fra poco, sazio, si addormenterà in braccio alla madre e non si sveglierà neppure quando lei, con mille cure, lo deporrà nel grembo della mangiatoia, come in custodia a un’anima amorevole e fedele. Seduto sulla soglia della grotta, Giuseppe continua ad arrovellarsi nelle sue riflessioni, a fare conti, sa bene di non avere alcuna alternativa a Betlemme, neppure come salariato, ci aveva già provato, senza risultati, tranne le solite parole, Quando avrò bisogno di un aiutante, ti manderò a chiamare, sono promesse che non riempiono la pancia, anche se questo popolo continua a viverci da quando è nato. Mille volte l’esperienza ha dimostrato, pure con gente non particolarmente incline alla riflessione, che la maniera migliore di arrivare a una buona idea è quella di
lasciare libero il pensiero secondo le proprie inclinazioni, seppur sorvegliandolo con un’attenzione apparentemente distratta, quasi fingendo di pensare ad altro, e d’improvviso lo si coglie alla sprovvista, balzando come una tigre sulla preda. Fu così che le false promesse dei mastri falegnami di Betlemme portarono Giuseppe a pensare a Dio e alle Sue, di Lui, promesse vere e, di lì, al Tempio di Gerusalemme nonché ai lavori ancora in corso, insomma, se è bianco l’ha fatto la gallina, lo sanno tutti che dove ci sono lavori, in genere ci vogliono lavoratori, muratori e scalpellini prima di tutto, ma pure falegnami, se non altro per squadrare travetti e piallare assi, operazioni basilari, alla portata di Giuseppe. L’unico neo che presenta la soluzione, supponendo che gli diano un posto, è la distanza dal luogo di lavoro, un’abbondante ora e mezzo di cammino, o più, andando di buon passo, ché da qua a là è tutta una salita, senza neppure un santo alpinista a darti una mano, a meno di non portarsi l’asino, ma in tal caso Giuseppe dovrebbe risolvere il problema di un posto sicuro dove lasciare l’animale, non è mica perché questa terra è, sopra tutte, prediletta da Dio che non ci sono più ladri, ci basti ricordare quello che tutte le notti va a dire il profeta Michea. Giuseppe stava elucubrando su queste complesse questioni quando Maria uscì dalla grotta, dopo avere allattato e messo nella mangiatoia il figlio. Come sta Gesù, domandò il padre, consapevole del tono un po’ ridicolo di una domanda formulata in tal modo, ma incapace di resistere all’orgoglio di avere un figlio e di chiamarlo per nome. Il bambino sta bene, rispose Maria, per la quale la cosa meno importante era proprio il nome, avrebbe addirittura potuto chiamarlo Bambino per tutta la vita, se non avesse avuto la certezza che fatalmente sarebbero arrivati altri figli, a chiamarli tutti Bambino ne nascerebbe una confusione tipo quella di Babele. Pronunciando le parole come se stesse solo pensandole a voce alta, in modo da non dare troppa confidenza, Giuseppe disse, Devo darmi da fare finché stiamo qua, a Betlemme non si trova un lavoro. Maria non rispose né le spettava di farlo, si trovava lì solo per ascoltare, ed era già un grosso favore che il marito le elargiva. Giuseppe guardò il sole per calcolare il tempo di cui poteva disporre per andare e venire, entrò nella grotta a prendere il mantello e la bisaccia e, quando fu di ritorno, annunciò, Con Dio me ne vado e a Dio mi affido perché mi dia lavoro nella Sua dimora, se con la Sua misericordia immensa troverà meriti in chi ripone in Lui tutta la speranza. Incrociò l’ala destra del mantello sulla spalla sinistra, vi sistemò la bisaccia e, senza dire altro, si mise in cammino. In verità, vi sono momenti felici. Benché le opere del Tempio fossero in uno stadio avanzato, c’era ancora lavoro per nuovi arrivati, soprattutto se non erano esigenti nel momento di pattuire la paga. Giuseppe superò senza difficoltà le prove attitudinali cui vagamente lo sottopose un capomastro falegname, un risultato inatteso che dovrebbe farci riflettere se non siamo stati un po’ ingiusti nei commenti
dispregiativi che, dall’inizio di questo vangelo, abbiamo fatto sulla competenza professionale del padre di Gesù. Se ne andò, dunque, il novello operaio del Tempio, rendendo innumerevoli grazie a Dio, più volte bloccando nel cammino i viandanti che lo incrociavano per pregarli di unirsi a lui nelle lodi del Signore, e quelli, benevoli, lo compiacevano con grandi sorrisi, ché in questo popolo la gioia di uno è sempre stata la gioia di tutti, stiamo parlando del popolino, è chiaro. Quando giunse all’altezza della tomba di Rachele, a Giuseppe venne un pensiero che dovette nascergli più dalle viscere che dal cervello, e cioè che questa donna che aveva tanto desiderato un altro figlio finì per morire, ci si consenta l’espressione, per mano sua, senza neppure avere il tempo di conoscerlo, non una parola, non uno sguardo, un corpo che si separa da un altro corpo, indifferente come un frutto che si stacca dall’albero. Poi gli sovvenne un pensiero anche più triste, che i figli muoiono sempre a causa dei genitori che li hanno generati e delle madri che li hanno messi al mondo, e allora provò una gran pena per il proprio figlio, condannato a morte senza colpa. Addolorato, confuso, ritto davanti alla tomba della sposa più amata da Giacobbe, Giuseppe il falegname lasciò ricadere le braccia e reclinò il capo, mentre il corpo gli si copriva di un sudore freddo e lungo la strada non passava nessuno cui poter chiedere aiuto. Capì che, per la prima volta in vita sua, stava dubitando del significato del mondo e, come chi rinuncia all’ultima speranza, disse a voce alta, Io morirò qui. Forse queste parole, in altri casi, se fossimo capaci di pronunciarle con tutta la nostra forza e convinzione, come la forza e la convinzione dei suicidi, queste parole potrebbero, senza dolore né lacrime, aprirci da sole la porta attraverso la quale si esce dal mondo dei vivi, ma gli uomini soffrono generalmente di instabilità emotiva, li distrae persino una nuvola lassù, un ragno che tesse la sua tela, un cane appresso a una farfalla, una gallina che raspa per terra e chiama rumorosamente i figli, o magari qualcosa anche più semplice, del corpo, come la sensazione di prurito al viso che spinge a grattarsi, per poi domandarsi, Che cosa stavo pensando. Ecco perché da un momento all’altro la tomba di Rachele si trasformò in quello che era, una piccola costruzione di calce, senza finestre, simile a un dado smarrito, dimenticato perché inutile al gioco, la pietra che chiude l’ingresso macchiata dal sudore e dalla sporcizia dei pellegrini venuti qui fin dai tempi remoti, e circondata da ulivi che magari erano già vecchi quando Giacobbe scelse questo posto come ultima dimora della povera madre, sacrificando il necessario per spianare il terreno, in fondo si può ben dire che il fato esiste, il destino di ognuno è proprio nelle mani degli altri. Poi Giuseppe si allontanò, ma dopo aver pronunciato un’altra devozione, quella che ritenne più adatta all’occasione e al luogo, e disse, Benedetto Tu sia, o Signore, nostro Dio e Dio dei nostri genitori, Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe, grande, potente e meraviglioso Dio, che Tu sia benedetto. Quando entrò nella grotta, prim’ancora di annunciare alla moglie di
avere trovato lavoro, Giuseppe si avvicinò alla mangiatoia per guardare il figlio, che dormiva. Disse fra sé e sé, Morirai, dovrai morire, e il cuore gli si strinse, ma poi pensò che, secondo l’ordine naturale delle cose, lui sarebbe morto prima, e quella sua morte, sottraendolo ai vivi, tramutandolo in assenza, avrebbe dato al figlio una specie di, come dire, eternità limitata, ci si consenta la contraddizione, ché l’eternità significa continuare ancora per un po’ di tempo quando coloro che conosciamo e abbiamo amato non esistono più. Giuseppe non aveva avvertito il suo capoccia che sarebbe rimasto solo poche settimane, certo non più di cinque, il tempo di portare il figlio al Tempio, di purificarsi la madre e di fare i bagagli. Lo aveva taciuto per paura che non lo prendessero, particolare che dimostra come il falegname nazareno non fosse aggiornato sui rapporti di lavoro nel suo paese, probabilmente perché si riteneva ed era realmente un lavoratore autonomo, e quindi indifferente alle realtà del mondo operaio, a quel tempo costituito quasi esclusivamente da cottimisti. Stava ben attento al conto dei giorni che mancavano, ventiquattro, ventitré, ventidue, e per non sbagliarsi aveva improvvisato un calendario su una parete della grotta, diciannove, con varie tacche che andava spuntando una dopo l’altra, sedici, di fronte allo stupore rispettoso di Maria, quattordici, tredici, che ringraziava il Signore per averle dato, nove, otto, sette, sei, un marito capace in tutto. Giuseppe le aveva detto, Partiremo subito dopo essere stati al Tempio, ché a Nazaret mi aspettano i clienti che ho lasciato, e lei, dolcemente, per non dare l’impressione di riprenderlo, Ma non possiamo andarcene senza ringraziare la padrona della grotta e la schiava che mi ha assistito e che viene a trovarci quasi tutti i giorni, a informarsi del bambino. Giuseppe non rispose, non avrebbe mai confessato di non aver pensato a un gesto così elementare, e lo dimostrava il fatto che la sua prima intenzione era stata quella di portarsi via l’asino già caricato, di lasciarlo così durante il rito e, poi, via verso Nazaret, senza perdere tempo in ringraziamenti e saluti. Maria aveva ragione, era una villanata andarsene senza una parola, ma se la verità, povera lei, prevalesse ovunque, sarebbe stato costretto a confessare di essere piuttosto carente quanto a buona educazione. Per circa un’ora, a causa di quel suo errore, si sentì irritato verso la moglie, un sentimento che solitamente gli serviva per mettere a tacere certe recriminazioni di coscienza. Sarebbero quindi rimasti due o tre giorni in più, avrebbero salutato tutti nella buona forma dovuta, con tali e tanti inchini da non restare né in dubbio né in debito e, poi, finalmente, sarebbero partiti, lasciando negli abitanti di Betlemme il buon ricordo di una famiglia di galilei caritatevoli, ben educati e rispettosi del dovere, una notevole eccezione, quindi, tenendo conto dell’opinione piuttosto scarsa che gli abitanti di Gerusalemme e dintorni, in genere, hanno della gente della Galilea.
Finalmente è arrivato il memorabile giorno in cui il piccolo Gesù viene portato al Tempio fra le braccia della madre, in groppa all’asino paziente che aiuta e accompagna questa famiglia fin dall’inizio. Giuseppe tiene il somaro per la cavezza, non vede l’ora di arrivare perché non vuole perdere un intero giorno di lavoro, benché sia alla vigilia della partenza. Altro motivo, questo, per cui erano usciti da casa così presto, quando il fresco albeggiare stava ancora spingendo con le sue mani aurorali l’ultima ombra della notte. La tomba di Rachele è laggiù, quando le sono passati accanto, le infocava il frontale un ardente color granata, non sembrava neppure la stessa parete che la notte opaca rende livida e che la luna alta soffonde di un minaccioso chiarore d’ossa o, sorgendo, copre di sangue. D’un tratto, il piccolo Gesù si svegliò, ma stavolta sul serio, ché prima, quando la madre lo aveva fasciato per il viaggio, aveva aperto gli occhi a stento, e reclamò da mangiare con quella sua voce piangente, l’unica di cui ancora dispone. Un giorno, come ognuno di noi, finirà per apprendere altre voci, grazie alle quali saprà esprimere altre fami e provare altre lacrime. Ormai vicini a Gerusalemme, sul ripido sentiero la famiglia si è confusa tra la folla di pellegrini e venditori che affluivano in città, mostrando tutti di voler essere i primi ad arrivare, ma, per prudenza, moderando la fretta e frenando l’eccitazione alla vista dei soldati romani, che a coppie sorvegliavano gli assembramenti, e di questo o quel gruppo dell’esercito mercenario di Erode, in cui poteva trovarsi di tutto, coscritti ebrei, ovviamente, ma anche idumei, galati e traci, germani e galli, e perfino babilonesi, per quella loro fama di abilissimi arcieri. Giuseppe, falegname e uomo di pace, combattente con quelle pacifiche armi che si chiamano pialla e ascia, maglio e martello, o chiodi e cavicchi, prova verso tali fortebracci un sentimento misto, molto timore, un po’ di disprezzo, che non gli consente di essere naturale neppure nel modo di guardare. Perciò passa tenendo gli occhi bassi, ed è Maria, lei che se ne sta sempre chiusa dentro casa, e tanto più riguardata in queste ultime settimane, nascosta in una grotta, visitata solo da una schiava, è Maria che guarda tutt’intorno, curiosa, col visino all’insù per comprensibile orgoglio, perché è lì con il suo primogenito, lei, una donna debole ma tanto più capace, com’è evidente, di dare figli a Dio e al marito. È così raggiante nella sua felicità che un gruppo di rozzi e bruti mercenari gallici, biondi, dai lunghi baffi, le armi in resta, ma in fondo, si presume, dal cuore tenero di fronte a questo rinnovamento del mondo rappresentato da una donna e dal suo primo figlio, questi guerrieri incalliti sorrisero al passaggio della famiglia, mostrando i denti marci, sì, ma ciò che conta è l’intenzione. Ecco il Tempio. Visto così da vicino, dal piano inferiore dove ci troviamo, è una costruzione che dà le vertigini, una montagna di sassi sopra sassi, alcuni che nessun potere del mondo sembrerebbe in grado di approntare, sollevare, deporre e
incastrare, eppure sono lì, uniti dal loro stesso peso, senza malta, semplicemente, come se il mondo fosse tutto una costruzione da montare, fino alle altissime cimase che, viste dal basso, sembrano sfiorare il cielo, come un’altra e diversa torre di Babele che la protezione di Dio non riuscirà comunque a salvare, perché l’attende lo stesso destino, rovina, confusione, sangue versato, voci che mille volte domanderanno, Perché, immaginando che esista una risposta, ma che prima o poi finiranno per tacere, perché solo il silenzio è sicuro. Giuseppe andò a lasciare l’asino in custodia presso un caravanserraglio di bestie, dove nel periodo di Pasqua o di altre feste non ci sarebbe stato neppure lo spazio sufficiente perché un cammello si scacciasse le mosche con la coda, ma che in questi giorni, scaduto il termine del censimento e tornati i viaggiatori alle proprie terre, si presentava occupato entro la norma. fors’anche un po’ meno in questo momento, data l’ora mattutina. Ma nel cortile dei Gentili, che circondava, all’interno del grande quadrilatero delle arcate, il recinto del Tempio vero e proprio, c’era già una gran folla, cambiavalute, uccellieri, mercanti che vendevano agnelli e capretti, pellegrini in continuo arrivo per un motivo o per l’altro, nonché molti stranieri condotti qui dalla curiosità di conoscere il Tempio fatto edificare dal re Erode di cui si parla in tutto il mondo. Ma, viste le dimensioni del cortile, immense, se qualcuno si fosse trovato al lato opposto, non sarebbe parso più grande di un minuscolo insetto, come se gli architetti di Erode, assumendo lo sguardo di Dio, avessero voluto sottolineare l’insignificanza dell’uomo di fronte all’Onnipotente, soprattutto nel caso di Gentili. Perché gli ebrei, a meno che non vi vadano a passeggiare oziosamente, nel punto centrale del cortile hanno il loro obiettivo, il centro del mondo, l’ombelico degli ombelichi, il santo dei santi. Là si dirigono il falegname e sua moglie, là viene portato Gesù, dopo che il padre ha acquistato due tortore da un commissario del Tempio, ammesso che la designazione si adatti a chi si occupa del monopolio di questo religioso affare. I poveri volatili non sanno ciò che li aspetta, anche se il sentore di carne e di penne bruciate che si diffonde nell’aria non dovrebbe ingannare nessuno, per non parlare di odori ben più forti, come quello del sangue o dello sterco dei buoi trascinati al sacrificio e che disgraziatamente s’insudiciano per premonitoria paura. Giuseppe porta le tortore, rannicchiate nel cavo di quelle sue mani da operaio, e loro, illuse, soltanto per soddisfazione gli danno qualche beccatina alle dita ricurve a mo’ di gabbia, quasi volessero dire al nuovo padrone, Meno male che ci hai comprato, vogliamo stare con te. Maria non si accorge di nulla, adesso ha occhi solo per il figlio, e la pelle di Giuseppe è troppo dura per avvertire e decifrare l’amorevole alfabeto morse della coppia di tortorelle. Entreranno per la porta della Legna, uno dei tredici passaggi attraverso cui si accede al Tempio, e che, come le altre porte, mostra una lapide scolpita in greco e
latino, che dice così, A nessun Gentile è permesso di varcare questa soglia e la barriera che circonda il Tempio, chi ne avrà l’ardire, pagherà con la vita. Giuseppe e Maria entrano, entra Gesù portato da loro due, e a suo tempo ne usciranno salvi, mentre le tortore, ma già lo sapevamo, moriranno, così vuole la Legge per riconoscere e confermare la purificazione di Maria. Uno spirito voltairiano, ironico e irriverente, benché nient’affatto originale, non si lascerebbe sfuggire l’occasione di osservare che, tutto considerato, sembra sia condizione per mantenere la purezza nel mondo il fatto che vi esistano degli animali innocenti, tortore o agnelli che siano. Salgono Giuseppe e Maria i quattordici scalini con cui si accede, finalmente, alla piattaforma su cui si trova il Tempio. Ecco il cortile delle Donne, a sinistra c’è il deposito dell’olio e del vino usati nella liturgia, a destra la camera dei nazirei, e cioè di quei sacerdoti che non appartengono alla tribù di Levi, ai quali è proibito tagliarsi i capelli, bere vino e avvicinarsi a un cadavere. Di fronte, sull’altro lato, accanto alla porta dirimpetto a questa, e sempre a sinistra e a destra, rispettivamente, ci sono la camera dove i lebbrosi che si ritengono guariti aspettano che i sacerdoti vadano a esaminarli e il deposito in cui si tiene la legna, ispezionata tutti i giorni perché il fuoco dell’altare non può essere alimentato con ciocchi marci o carichi di vermi. Maria non ha più molti passi da fare. Salirà ancora i quindici scalini semicircolari che conducono alla porta di Nicanore, detta anche Preziosa, ma lì si fermerà perché alle donne non è permesso entrare nel cortile degli Israeliti, su cui si affaccia la porta. All’ingresso ci sono i leviti in attesa di coloro che vanno per offrire sacrifici, ma qui l’atmosfera sarà tutto tranne che pietosa, a meno che la pietà non fosse allora intesa diversamente, e non si tratta solo dell’odore e del fumo del grasso bruciacchiato, del sangue fresco, dell’incenso, ma anche del vociare umano, urla, belati, muggiti di animali che aspettano il loro turno nel mattatoio, l’ultimo graffiante gracchio di un uccello che prima sapeva cantare. Maria dice al levita, lì a riceverli, che è andata a purificarsi, e Giuseppe consegna le tortore. Per un istante, Maria sfiora con le mani i piccoli volatili, sarà il suo unico gesto, e il levita e il marito si allontanano e scompaiono al di là della porta. Maria non si muoverà da lì fino al ritorno di Giuseppe, spostandosi appena solo per non ostruire il passaggio, e, con il figlio tra le braccia, aspetta. L’interno è una fucina, una macelleria e un mattatoio. Sopra due grandi tavoli di pietra si preparano le vittime, le più grandi, buoi e vitelli soprattutto, ma anche montoni e pecore, capre e capretti. Accanto ai tavoli vi sono degli alti pilastri ai quali sono appese, con ganci conficcati nella pietra, le carcasse degli armenti, e si nota la frenetica attività dell’arsenale dei macelli, coltelli e coltellacci, accette e seghe, l’aria è impregnata dei fumi della legna e dell’afrore delle interiora bruciate, del vapore di sangue e di sudore, qualunque anima, che non dovrà neppure essere santa, un’anima normale troverà difficile capire come Dio possa sentirsi felice in mezzo a una simile
carneficina, essendo, come dice di essere, il padre degli uomini e delle bestie. Giuseppe deve fermarsi al di là della balaustra che separa il cortile degli Israeliti da quello dei Sacerdoti ma, dal punto in cui si trova, può guardare agevolmente il Grande Altare, alto quattro volte più di un uomo, e laggiù, in fondo, il Tempio, finalmente parliamo di quello autentico, perché qui è come in quelle casse abissali che già in questo periodo si costruiscono in Cina, una dentro l’altra, lo avvistiamo da lontano e diciamo, Il Tempio, quando entriamo nel cortile dei Gentili diciamo di nuovo, Il Tempio, e adesso Giuseppe il falegname, appoggiato alla balaustra, guarda e dice, Il Tempio, e ha ragione lui, eccola lì, la grande facciata con le quattro colonne conficcate nella parete, coi suoi capitelli infestonati di foglie di acanto, alla greca, e l’altissimo vano della porta, ma privo di uscio reale, eppure, per arrivare là dentro, dove abita Dio, al Tempio dei Templi, bisognerebbe infrangere tutte le proibizioni, attraversare il luogo santo detto Hereal, e finalmente penetrare nel Debir che, ultima e finale cassa, è il Santo dei Santi, quella terribile stanza di pietra, vuota come l’universo, senza finestre, dove la luce del giorno non è mai entrata né entrerà mai, salvo quando suonerà l’ora della distruzione e della rovina, e tutte le pietre saranno l’una simile all’altra. Dio è tanto più Dio quanto più inaccessibile sia, e Giuseppe non è che il padre di un bambino ebreo tra i bambini ebrei, che vedrà morire due tortore innocenti, il padre, non il figlio, perché questi, anche lui innocente, è rimasto tra le braccia della madre, immaginando, se gli è possibile, che il mondo sarà sempre così. Presso l’altare, fatto di grosse pietre grezze che nessuno strumento metallico ha mai toccato da quando furono strappate alla cava per andare a occupare il loro posto nella gigantesca costruzione, un sacerdote scalzo, con indosso una tunica di lino, aspetta che il levita gli consegni le tortore. Prende la prima, la porta in un angolo dell’altare e, con un sol colpo, le spicca la testa dal corpo. Il sangue sprizza. Il sacerdote ne asperge la parte inferiore dell’altare e poi depone l’uccello decapitato in un colatoio, dove finirà di dissanguarsi e dove, terminato il turno di servizio, andrà a prenderselo, perché ormai appartiene a lui. All’altra tortora sarà riservata la dignità del sacrificio completo, il che significa che verrà bruciata. Il sacerdote sale la rampa che conduce alla sommità dell’altare, dove arde il fuoco sacro e dove, sopra la cornice, nel secondo angolo dello stesso lato, l’angolo a sud-est, mentre prima era a sud-ovest, decapita l’uccello, segna con il sangue il pavimento della piattaforma, ai cui angoli sono visibili alcune decorazioni simili a corna di montone, e gli strappa le interiora. Nessuno presta attenzione a quello che succede, è solo una piccola morte. Giuseppe, il capo sollevato, vorrebbe capire, identificare nel fumo e negli odori generali, il fumo e l’odore del suo sacrificio, quando il sacerdote, dopo aver cosparso di sale la testa e il corpo dell’uccello, li lancerà nel fuoco. Non può averne nessuna certezza. Ardendo tra le fiamme ribelli, attizzate dal grasso, il corpicino sventrato e
flaccido della tortora non riempie neppure il buco di un dente di Dio. E laggiù, dove inizia la rampa, ci sono già tre sacerdoti in attesa. Un vitello si abbatte fulminato dalla gorbia, mio Dio, mio Dio, come ci hai fatto fragili e com’è facile morire. Giuseppe ormai non ha altro da fare lì, deve ritirarsi, portare via moglie e figlio. Maria è di nuovo pulita, di vera e propria purezza non si parla, ovviamente, non potrebbero certo aspirare a tanto gli esseri umani in generale, e le donne in particolare, fatto sta che con il tempo le si sono regolarizzati i flussi, tutto è tornato com’era prima, l’unica differenza è che nel mondo ci sono due tortore in meno e un bambino in più, che le ha fatte morire. Uscirono dal Tempio per la porta da cui erano entrati, Giuseppe andò a prelevare l’asino e, mentre Maria, issandosi su un sasso, si sistemava in groppa all’animale, il padre tenne il figlio, era già capitato altre volte, ma adesso, forse per quella tortora cui aveva visto strappare le interiora, ebbe un attimo di esitazione nel restituirlo alla madre, quasi pensasse che mai altre braccia avrebbero potuto difenderlo meglio delle sue. Accompagnò la famiglia fino alla porta della città e poi si recò al Tempio, al lavoro. Vi ritornerà l’indomani, per concludere la settimana, ma poi, per l’eternità sia lodato il potere di Dio, che non si perda neppure un istante, faranno ritorno a Nazaret. Proprio quella sera, il profeta Michea rivelò ciò che fino ad allora aveva taciuto. Mentre il re Erode, nei suoi agonizzanti ma ormai rassegnati sogni, aspettava che l’apparizione se ne andasse dopo i soliti strepiti, resi innocui dal loro ripetersi, ancora una volta lasciando all’ultimo istante a fior di labbra la minaccia in sospeso, s’ingigantì all’improvviso la terribile figura e si udirono altre parole, E tu, Betlemme, così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi è uscito colui che dovrà essere il dominatore in Israele. In quel preciso istante, il re si svegliò. Come il suono della corda più lunga di un’arpa, le parole del profeta continuarono a risuonare nella stanza. Erode rimase quindi a occhi aperti, cercando di scoprire il significato remoto della rivelazione, ammesso che ci fosse, tanto assorto nei suoi pensieri da sentire a stento le formiche che lo rodevano sotto la pelle e i vermi che sbavavano sulle sue ultime fibre più intime, imputridendole. La profezia non era una novità, come tutti gli ebrei la conosceva, ma non aveva mai perso tempo a badare ad annunci premonitori, gli bastavano le cospirazioni che aveva dentro casa. Quello che lo turbava, adesso, era una vaga inquietudine, una sensazione di angosciante stranezza, come se le parole udite fossero quelle, ma nel contempo altre, e occultassero in una breve sillaba, in una semplice particella, in un rapido suono, una pressante e temibile minaccia. Tentò di fugare quell’ossessione, di riaddormentarsi, ma il corpo si rifiutava e si abbandonava ai dolori, tagliuzzato fino alle budella, il pensare era quasi una protezione. Con gli occhi fissi alle travi del soffitto, le cui decorazioni sembravano mosse dal chiarore, attenuato dai paralumi, di due torce profumate, il re Erode
cercava una risposta e non la trovava. Allora chiamò il capo degli eunuchi che vigilavano sul suo sonno e sulla sua veglia e ordinò che si presentasse al suo cospetto, Senza indugio, disse, un sacerdote del Tempio e che portasse con sé il Libro di Michea. Tra l’andata e il ritorno, dal palazzo al Tempio e dal Tempio al palazzo, trascorse quasi un’ora. Il mattino cominciava a rischiararsi quando il sacerdote fece il suo ingresso nella camera. Leggi, disse il re, e quello cominciò, Parola del Signore, rivolta a Michea di Moreset, al tempo di Iotam, di Acaz e di Ezechia, re di Giuda. Continuò a leggere finché Erode disse, Avanti, e il sacerdote, confuso, senza capire il motivo per cui lo avevano chiamato, saltò a un altro passo, Guai a coloro che meditano l’iniquità e tramano il male sui loro giacigli, ma a questo punto si interruppe, atterrito per l’involontaria imprudenza e, con parole concitate, quasi volesse far dimenticare quanto aveva letto, proseguì, Alla fine dei giorni il monte del Tempio del Signore resterà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, Avanti, bofonchiò Erode, impaziente per l’indugio nell’arrivare al passo che gli interessava, e il sacerdote, finalmente, E tu, Betlemme, così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele. Erode alzò la mano, Ripeti, disse, e il sacerdote obbedì, Di nuovo, e il sacerdote rilesse, Basta, disse il re dopo un lungo silenzio, Ritirati. Adesso si spiegava tutto, il libro annunciava una nascita futura, solo questo, mentre l’apparizione di Michea gli diceva che quella nascita era già avvenuta, Da te mi è uscito, parole chiarissime, come del resto tutte quelle dei profeti, anche se ci ostiniamo a interpretarle male. Erode pensò e ripensò, l’espressione del suo viso cominciò a incupirsi, fino a divenire spaventosa, poi mandò a chiamare il comandante delle guardie e gli impartì un ordine da eseguire all’istante. Quando il comandante tornò, Missione compiuta, gli diede un altro ordine, ma per il giorno dopo, di lì a poche ore. Non ci sarà bisogno, dunque, di aspettare molto tempo per sapere che il sacerdote non riuscì a campare quel breve lasso di tempo, perché fu ucciso da un gruppo di soldati prima di arrivare al Tempio. Ragioni ce n’erano in sovrappiù per ritenere che sia stato proprio questo il primo dei due ordini, tanto vicini sono la probabile causa e il necessario effetto. Quanto al Libro di Michea, esso scomparve, immaginatevi che perdita se fosse stato l’unico esemplare. 8. Falegname tra i falegnami, Giuseppe aveva finito di mangiare il suo spuntino, gli rimaneva ancora un po’ di tempo, a lui come ai suoi compagni, prima che il capomastro desse il segnale per riprendere il lavoro, poteva restarsene seduto, o magari sdraiarsi, chiudere gli occhi e abbandonarsi compiaciuto alla contemplazione di piacevoli pensieri, immaginare di essere già in cammino, fra i monti della Samaria,
o meglio ancora, a guardare da una collina il suo paese, Nazaret, per cui tanto aveva sospirato. Si rallegrava in cuor suo e ripeteva fra sé e sé che questo, finalmente, era l’ultimo giorno della lunga separazione, e l’indomani, di buon’ora, quando nel cielo, ormai spenti gli ultimi bagliori degli astri, sarebbe rimasta a brillare solo la stella del mattino, avrebbe preso la via del ritorno, cantando le lodi del Signore che custodisce la nostra casa e guida i nostri passi. Aprì di colpo gli occhi, di soprassalto, credendo di essersi addormentato e di non aver udito il segnale, ma si era appisolato un attimo, i compagni erano tutti lì, chi conversando, chi dormicchiando, e il capomastro era tranquillo, quasi avesse deciso di concedere un giorno di festa e non avesse la minima idea di rimangiarsi quella generosità. Il sole è a picco, un vento forte, a brevi raffiche, sospinge di lato la fumata dei sacrifici, e in questo avvallamento che dà sui lavori dell’ippodromo, non arriva neppure la voce cantilenante dei mercanti del Tempio, è come se la macchina del tempo si fosse fermata e immobilizzata, anch’essa, in attesa di un ordine dal grande capo delle ere e degli spazi universali. All’improvviso, Giuseppe cominciò ad agitarsi, lui, che un momento prima era così felice. Si guardò intorno, ed era la solita vista conosciuta del cantiere cui si era abituato in quelle settimane, le pietre e il legname, la macina bianca e ruvida per i sassi, la segatura che neppure al sole riusciva ad asciugarsi del tutto, e, immerso nella confusione di una repentina e opprimente angoscia, tentando di trovare una spiegazione per uno stato d’animo così avvilito, pensò che potesse trattarsi del naturale sentimento di chi sta per essere costretto a lasciare un lavoro a metà, anche se non si tratta di un proprio lavoro e vi siano validi motivi per partire. Si alzò, calcolando il tempo di cui avrebbe potuto disporre, il capomastro non lo guardò neppure, e lui decise di fare rapidamente un giro di quella parte della costruzione cui aveva lavorato, per congedarsi, diciamo, dalle assi che aveva piallato, dalle travi che aveva spianato, ammesso che fosse possibile identificarle, qual è l’ape che possa dire, Questo miele l’ho fatto io. Alla fine di quella breve passeggiata, quando ormai era sul punto di tornare al dovere, si fermò un istante a contemplare la città che s’innalzava sul pendio dirimpetto, tutta costruita a gradoni, con quel tipico colore di pietra brunita simile alla tinta del pane, probabilmente il capomastro aveva già chiamato, ma adesso Giuseppe non avvertiva alcuna fretta, guardava la città e aspettava, senza sapere che cosa. Passò un po’ di tempo e non accadde nulla, Giuseppe mormorò, col tono di chi rinuncia a qualcosa. Bene, devo andare, e in quell’istante udì alcune voci che provenivano da una strada sottostante al punto in cui si trovava e, sporgendosi dal muretto di pietra che lo separava, vide che si trattava di tre soldati. Venivano certo per quella strada, ma adesso erano fermi, due di loro, tenendo la punta della lancia a terra, ascoltavano il terzo, più anziano e probabilmente un loro superiore gerarchico,
anche se cogliere la differenza non era facile per chi non fosse informato sul disegno, sul numero e sulla disposizione dei gradi, a forma di stelle, barre o greche, come al solito. Le parole, di cui confusamente era arrivato il suono alle orecchie di Giuseppe, dovevano essere una domanda, sul tipo, E a che ora sarà, visto che il subalterno stava dicendo, adesso chiaramente in tono di risposta, All’inizio dell’ora terza, quando tutti saranno ormai rincasati, e uno dei due domandò, In quanti andremo, Ancora non lo so, ma saremo abbastanza per circondare il paese, E quindi l’ordine è di ucciderli tutti, Tutti no, solo i minori di tre anni, Fra due e quattro anni, sarà difficile sapere la loro vera età, E quanti ce ne sarebbero, chiese il secondo soldato, In base al censimento, ha detto il capo che ce ne saranno all’incirca venticinque. Giuseppe aveva gli occhi spalancati, come se il significato di quello che sentiva potesse entrarvi dentro, più che attraverso le orecchie, gli tremava tutto il corpo, perlomeno era chiaro ed evidente che quei soldati stavano parlando di andare a uccidere delle persone, Persone, quali persone, si interrogava dentro di sé, disorientato, tormentato. No, non erano persone, o forse sì, persone davvero, ma bambini, Quelli minori di tre anni, aveva detto il caporale, o forse era un sergente, o un furiere, E dove, dove succederà, Giuseppe non poteva mica sporgersi dal muro e domandare, Dov’è la guerra, ragazzi, adesso era in un bagno di sudore, gli traballavano le gambe, e in quell’istante si udì nuovamente la voce del subalterno, ma con un tono serio e, insieme, sollevato, Per fortuna nostra e dei nostri figli non viviamo a Betlemme, E si conosce già il motivo per cui ci fanno uccidere i bambini di Betlemme, domandò un soldato, Il capo non me l’ha detto, credo che non lo sappia neanche lui, è un ordine del re, e basta. L’altro soldato, tracciando una linea per terra con la punta della lancia, come il destino che separa e risepara, disse, Siamo davvero sventurati, noi, non basta la parte di male che ci tocca fare per natura, dobbiamo anche essere il braccio della malvagità di altri e del loro potere. Parole, queste, che Giuseppe non udì, perché si era allontanato dal suo provvidenziale palco, prima pian piano, un piede avanti all’altro, e subito dopo in una corsa folle, saltando sui sassi come un capretto, angosciato, ragion per cui è lecito dubitare, in mancanza di un testimone, dell’autenticità di quella filosofica riflessione, sia nel contenuto sia nella forma, tenendo conto della più che ovvia contraddizione fra la notevole proprietà dei concetti e l’infima condizione sociale di chi li aveva enunciati. Sconvolto, adesso urtando contro chiunque gli si parasse davanti, travolgendo banchi di frutta e gabbie d’uccelli, e perfino il tavolo di un cambiavalute, quasi senza udire gli strilli degli ambulanti del Tempio, Giuseppe pensa soltanto al fatto che vanno ad ammazzargli il figlio, e non ne conosce neppure il motivo, una situazione drammatica, quest’uomo ha dato la vita a una creatura, un altro gliela vuole togliere, e una volontà vale quanto l’altra, fare e disfare, annodare e slegare, creare e
sopprimere. Di colpo si ferma, si accorge del pericolo, non può continuare a correre all’impazzata, spuntano le guardie del Tempio e ti arrestano, è una fortuna inspiegabile che ancora non si siano accorti di quella baraonda. Allora, dissimulando quanto più gli fu possibile, come un pidocchio che si intrufola in una cucitura, sgusciò tra la folla e, in un attimo, divenne anonimo, con l’unica differenza che camminava un poco più in fretta, ma questo, in mezzo a quel labirinto umano, si notava a stento. Sa che non deve correre fino a quando non avrà raggiunto la porta della città, ma lo angoscia il pensiero che i soldati potrebbero essere già in cammino, spaventosamente armati di lancia, pugnale e odio immotivato, e se per disgrazia ce ne fosse qualcuno a cavallo, al trotto come se si trattasse di una passeggiata, allora non ci sarebbe modo di raggiungerli, Quando arriverò mio figlio sarà morto, povero piccolo, Gesù, anima mia, orbene, proprio in questo frangente di più acuta pena, uno stupido pensiero irrompe come un insulto nella mente di Giuseppe, la paga, la paga della settimana che sarà costretto a perdere, ed è tale il potere di queste vili cose materiali che il passo accelerato, non arrivando al punto di fermarsi, un minimo gli si rallenta, come per dar tempo allo spirito di ponderare le possibilità di unificare i due profitti, la borsa e la vita, per così dire. Fu tanto sottile la meschina idea, come una luce velocissima comparsa e subito sparita senza lasciare memoria imperiosa di un’immagine ben definita, che Giuseppe non provò neppure un po’ di vergogna, quel sentimento che tante volte, ma mai abbastanza, è il nostro più efficace angelo custode. Finalmente Giuseppe lascia la città, la strada è sgombra di soldati fin dove arriva lo sguardo, e non c’è traccia di subbuglio popolare a questa uscita, come accadrebbe di certo se vi fosse stata una parata militare, ma l’indizio più preciso glielo forniscono i bambini intenti ai loro giochi innocenti, senza dar mostra di quell’eccitazione bellica che li pervade quando bandiera, tamburo e tromba sfilano, e quell’ancestrale abitudine di seguire l’esercito, se fossero passati dei soldati non si vedrebbe intorno un solo ragazzino, come minimo scorterebbero la guarnigione fino alla prima curva, e magari qualcuno, con una più marcata vocazione castrense, deciderebbe di accompagnarli fino all’obiettivo della missione, e così verrebbe a sapere cosa lo aspetta nel futuro, uccidere ed essere ucciso. Ora Giuseppe può mettersi a correre, e corre, corre, sfrutta il pendio per quanto glielo consente l’intralcio della tunica, anche se la tiene sollevata fino alle ginocchia, ma, come in un sogno, ha l’angosciante sensazione che le gambe non riescano a seguire lo slancio della parte superiore del corpo, cuore, testa e occhi, mani che vogliono proteggere e tardano così tanto. Lungo la strada c’è chi si ferma a guardare, stupito, l’allucinata corsa, davvero strabiliante, visto che questo popolo generalmente coltiva la dignità dell’espressione e la compostezza del portamento, l’unica giustificazione di Giuseppe non è che va a salvare il figlio, ma che è galileo, appartiene a quella gente rustica,
senza educazione, come più di una volta si è già detto. Eccolo passare davanti alla tomba di Rachele, di questa donna che non ha mai pensato che avrebbe avuto tanti motivi per piangere i figli, per coprire di urla e di lamenti le cineree colline circostanti, per graffiarsi il viso, strapparsi i capelli o ferirsi il cranio denudato. Ora Giuseppe, poco prima di entrare a Betlemme, lascia la strada e si inoltra nei campi, Prendo una scorciatoia, ecco ciò che risponderebbe se volessimo sapere il motivo di questa novità, e forse lo è davvero, ma non è certo la via più comoda. Evitando chi lavorava nei campi, strisciando fra i sassi per non farsi vedere dai pastori, Giuseppe ha dovuto compiere un’ampia deviazione per arrivare alla grotta dove la moglie non lo aspetta a quest’ora, e il figlio né a questa né a un’altra, perché sta dormendo. A mezza costa dell’ultima collina, scorgendo già davanti a sé la nera fenditura della grotta, Giuseppe è assalito da un terribile pensiero, e cioè che la moglie sia scesa al paese con il figlio, sarebbe la cosa più naturale, visto come sono le donne, ha approfittato di essere sola per salutare in santa pace la schiava Zelomi e quelle madri di famiglia con cui più ha legato durante queste settimane, a Giuseppe toccherebbe di ringraziare formalmente i padroni della grotta. Per un istante, vide se stesso correre per le strade del paese, bussando alle porte, C’è per caso mia moglie, sarebbe ridicolo dire, C’è per caso mio figlio, e di fronte alla sua angoscia qualcuno, magari una madre con il figlio in braccio, gli domanderebbe, C’è qualche novità, e lui, No, no, nessuna novità, è che partiamo domattina presto e dobbiamo fare i bagagli. Visto da qui, con le case tutte uguali, le terrazze piane, il paese ricorda il cantiere del Tempio, una gran quantità di sassi sparpagliati in attesa che gli operai vadano a metterli l’uno sull’altro e costruiscano una torre per la vedetta, un obelisco per i trionfi e un muro per i pianti. Un cane ha abbaiato lontano, altri gli hanno risposto, ma l’infocato silenzio dell’ultimo crepuscolo aleggia ancora sul paese come una devozione dimenticata, quasi perdendo la sua virtù, simile a un filamento di nube che svanisce. La sosta è durata appena il tempo di pronunciarla. Con un’ultima corsa, il falegname arrivò all’ingresso della grotta. chiamò, Maria, ci sei, e lei rispose dall’interno, e solo allora Giuseppe si rese conto di quanto gli tremassero le gambe, senza dubbio per lo sforzo fatto ma, adesso, anche per l’emozione di sapere che il figlio era salvo. Dentro, Maria stava tagliando le verdure per la cena, il bambino dormiva nella mangiatoia. Privo di forze, Giuseppe si accasciò al suolo, ma subito si rialzò, dicendo, Andiamocene, andiamocene, e Maria lo guardò senza capire, Ce ne andiamo, domandò, e lui, Sì, immediatamente, Ma tu hai detto, Taci e prepara la roba, mentre io bardo l’asino, Non ceniamo, prima, Ceneremo strada facendo, Fra poco sarà notte, ci perderemo, allora Giuseppe cacciò un urlo, Taci, ti ho detto, e fa’ quello che ti ordino. A Maria spuntarono le lacrime, era la prima volta che il marito alzava la voce con lei, e senza aggiungere altro cominciò a riordinare e a insaccare i
poveri averi, Presto, presto, ripeteva lui, mentre metteva il basto all’asino e stringeva la cinghia, poi, a caso, riempiva le ceste con quello che gli capitava sottomano, mischiando tutto dinanzi allo sgomento di Maria, che non riconosceva più il marito. Erano ormai sul piede di partenza, non rimaneva altro che ricoprire di terra il fuoco e andarsene, quando Giuseppe, dopo aver fatto cenno alla moglie di non seguirlo, si avvicinò all’ingresso della grotta e sbirciò fuori. Un crepuscolo grigiastro confondeva il cielo con la terra. Il sole non era ancora tramontato, ma la foschia densa, seppure abbastanza sollevata da non pregiudicare la vista dei campi intorno, impediva alla luce di diffondersi. Giuseppe tese l’orecchio, fece qualche passo e, d’improvviso, gli si rizzarono i capelli dal terrore, nel paese qualcuno aveva urlato, un urlo acutissimo che non sembrava neppure di una voce umana, e poco dopo, ancora l’eco sembrava risuonare di collina in collina, un clamore fatto di urla e pianti saturò l’atmosfera, non erano certo gli angeli in lacrime per la sventura degli uomini, erano gli uomini impazziti sotto un cielo vuoto. Piano piano, come temendo che lo udissero, Giuseppe indietreggiò fino all’ingresso della grotta, bloccando Maria che non aveva rispettato l’ordine. Lei tremava tutta, Che cosa sono quelle urla, domandò, ma il marito non le rispose, la spinse dentro e, con gesti rapidi, cominciò a ricoprire di terra il fuoco. Che cos’erano quelle urla, domandò di nuovo Maria, invisibile nell’oscurità, e dopo un breve silenzio Giuseppe rispose, Stanno uccidendo qualcuno. Fece una pausa e aggiunse, come in segreto, Bambini, per ordine di Erode, e la voce gli si ruppe in un singhiozzo, Perciò volevo che partissimo. Si udì un rumore di panni e paglia smossa, Maria stava prendendo il figlio dalla mangiatoia e lo stringeva al seno, Gesù, ti vogliono ammazzare, all’ultima parola la soffocarono le lacrime, Taci, disse Giuseppe, non fare rumore, può darsi che i soldati arrivino fin qui, l’ordine è di uccidere i bambini di Betlemme minori di tre anni, Come l’hai saputo, L’ho sentito dire al Tempio, perciò sono tornato di corsa, E adesso, cosa facciamo, Noi siamo fuori del paese, non è naturale che i soldati passino in rivista tutte queste grotte, l’ordine dev’essere stato di cercare solo nelle case, se nessuno ci denuncia siamo salvi . Andò di nuovo a sbirciare, facendo appena capolino, le urla erano cessate, non si udiva altro che un pianto lamentoso che stava scemando a poco a poco, la strage degli innocenti era finita. Il cielo appariva ancora coperto, i primi accenni della sera e la foschia alta avevano cancellato Betlemme dall’orizzonte degli abitanti celesti. Affacciandosi nella grotta, Giuseppe disse, Non uscire da qui, arrivo fino alla strada per vedere se i soldati se ne sono andati, Fa’ attenzione, disse Maria, e non le venne in mente che il marito non correva alcun pericolo, la morte era destinata ai bambini minori di tre anni, a meno che qualcuno, andato in giro con lo stesso scopo, non lo denunciasse, Quello è Giuseppe il falegname, padre di un bambino che non ha ancora due mesi e si chiama Gesù, forse è lui quello della profezia, perché dei nostri figli non
abbiamo mai letto o udito che fossero destinati ad alcuna regalità, e tanto meno adesso, che sono morti. Dentro la grotta il buio si poteva palpare. Maria aveva paura dell’oscurità, fin da bambina si era abituata alla presenza costante di una luce in casa, del focolare o del lume, o di tutt’e due, e la sensazione, adesso più minacciosa perché si trovava nel cuore della terra, che le dita delle tenebre le sfiorassero le labbra la terrorizzava. Non voleva disobbedire al marito né esporre il figlio a una possibile morte, uscendo dalla caverna, ma un secondo dopo l’altro la paura le montava dentro e ben presto avrebbe sbaragliato le precarie difese del buon senso, e non serviva a niente pensare. Se nell’aria non c’era nulla prima che si spegnesse il fuoco, non c’è neppure adesso, insomma, a qualcosa le deve pur essere servito quel pensiero, ché a tentoni posò il figlio nella mangiatoia e poi, strisciando con mille cautele, cercò il punto dov’era il fuoco, con un pezzo di legno scostò la terra che lo ricopriva finché spuntò qualche brace che non si era ancora spenta, e a quel punto la paura si allontanò dal suo spirito, le era venuta in mente la terra luminosa, la stessa luce tremula e palpitante percorsa da rapidi bagliori come una fiaccola in corsa sulla cresta di un monte. Comparve l’immagine del mendicante e subito sparì, fugata dall’urgenza più pressante di fare luce sufficiente in quella spaventosa grotta. Maria, a tastoni, andò a prendere un po’ di paglia nella mangiatoia, indietreggiò guidata dalla fioca illuminazione per terra e, dopo un istante, riparato in un cantuccio che lo occultava a chi guardasse dall’esterno, il lume rischiarava le pareti più vicine della grotta con un alone fioco, evanescente, ma tranquillizzante. Maria si avvicinò al figlio che continuava a dormire, indifferente a ogni sorta di paura, agitazione e morte violenta, e, tenendolo in braccio, andò a sedersi accanto al lume, in attesa. Trascorse qualche tempo, il figlio si svegliò, ma senza spalancare gli occhi, all’improvviso mostrò una faccia da pianto che Maria, da madre ormai esperta, bloccò con il semplice gesto di aprire la tunica e di offrire il petto all’avida bocca del piccino. Erano tutt’e due così quando, fuori, si udirono dei passi. In un primo momento, a Maria parve che il cuore le si fermasse, Saranno i soldati, ma erano i passi di un uomo solo, se fossero stati i militari sarebbero arrivati almeno in due, insieme, secondo la tattica e l’abitudine, e trattandosi di ricerche con un preciso obiettivo, l’uno coprendo le spalle all’altro in caso di qualche sorpresa inaspettata, È Giuseppe, pensò, temendo di essere rimproverata per avere acceso il lume. I passi, lenti, continuarono ad avvicinarsi, Giuseppe stava per entrare ma, all’improvviso, un brivido percorse il corpo di Maria, pesanti e duri, quelli non erano i passi di Giuseppe, forse si trattava di un vagabondo in cerca di un rifugio per la notte, era accaduto per ben due volte, e se in quelle occasioni Maria non si era spaventata, non potendo neppure immaginare che un uomo, per quanto crudele e infame fosse, si azzardasse a fare del male a una donna
con il figlio tra le braccia, neppure le venne in mente che avevano ucciso i bambini di Betlemme, alcuni, chissà, proprio in braccio alle madri, come adesso lo è Gesù, mentre stavano ancora succhiando il latte della vita, quegli innocenti, la lama del pugnale feriva la loro pelle e si conficcava nella carne tenera, ma quegli assassini erano dei soldati, non un vagabondo qualunque, c’è una bella differenza, e neppure minima. Non era Giuseppe, non era un soldato in cerca di un’impresa di guerra da non dover spartire, non era un vagabondo senza dimora né lavoro, ma era di nuovo, sotto le spoglie di un pastore, colui che sotto le apparenze di un mendicante le era apparso una prima e una seconda volta, colui che parlando di se stesso le aveva annunciato di essere un angelo, senza comunque specificare se del cielo o dell’inferno. Sulle prime, Maria non aveva pensato che potesse essere lui, ma adesso si rendeva conto che non poteva trattarsi di nessun altro. Disse l’angelo, La pace sia con te, moglie di Giuseppe, e sia con tuo figlio, entrambi fortunati di avere questa grotta come casa, ché, altrimenti, uno di voi adesso sarebbe straziato e morto, mentre l’altro si ritroverebbe vivo, ma straziato. Disse Maria, Ho udito le urla. Disse l’angelo, Sì, le hai solo sentite, ma un giorno le grida che tu non hai lanciato urleranno al posto tuo, e prim’ancora di quel tempo sentirai mille volte urlare accanto a te. Disse Maria, Mio marito si è spinto fino alla strada per vedere se i soldati se ne sono andati, non sarebbe conveniente che ti trovasse qui. Disse l’angelo, Non ti preoccupare, me ne andrò prima che arrivi, sono soltanto venuto a dirti che non mi rivedrai molto presto, tutto quanto era necessario che succedesse è accaduto, mancavano queste morti, mancava, prima, il delitto di Giuseppe. Disse Maria, Il delitto di Giuseppe, mio marito non ha commesso alcun delitto, è un uomo buono. Disse l’angelo, Un uomo buono che ha commesso un delitto, non immagini neppure quanti, prima di lui, ne abbiano commessi, è che i delitti degli uomini buoni non si contano e, contrariamente a quanto si pensa, sono gli unici che non possono essere perdonati. Disse Maria, Che delitto ha commesso, mio marito. Disse l’angelo, Tu lo sai, non voler essere colpevole come lui. Disse Maria, Lo giuro. Disse l’angelo, Non giurare, oppure giura, se vuoi, ché un giuramento fatto davanti a me è come un soffio di vento che non si sa dove vada a finire. Disse Maria, Che cosa abbiamo fatto. Disse l’angelo, È la crudeltà di Erode che ha fatto sguainare i pugnali, ma il vostro egoismo e la vostra vigliaccheria sono le corde che hanno legato mani e piedi alle vittime. Disse Maria, Che cosa avrei potuto fare. Disse l’angelo, Tu, niente, ché lo hai saputo troppo tardi, ma il falegname avrebbe potuto fare tutto, avvertire il paese che i soldati stavano andando a uccidere i bambini, c’era ancora tempo perché i genitori li prendessero e scappassero, potevano per esempio nascondersi nel deserto, fuggire in Egitto, in attesa che morisse Erode, il quale è lì lì. Disse Maria, Non ci ha pensato. Disse l’angelo, No, non ci ha pensato, e questo non lo
discolpa. Disse Maria piangendo, Tu che sei un angelo, perdonalo. Disse l’angelo, Non sono l’angelo del perdono. Disse Maria, Perdonalo. Disse l’angelo, Te l’ho già detto, non c’è perdono per questo delitto, Erode sarebbe perdonato ben prima di tuo marito, a un traditore si perdonerà prima che a un rinnegato. Disse Maria, Che cosa faremo. Disse l’angelo, Vivrete e soffrirete come tutti. Disse Maria, È mio figlio. Disse l’angelo, Sul capo dei figli dovrà sempre ricadere la colpa dei padri, l’ombra della colpa di Giuseppe sta già oscurando la fronte di tuo figlio. Disse Maria, Poveri noi. Disse l’angelo, Così è, e non avrete rimedio. Maria chinò il capo, strinse a sé il figlio per difenderlo dalle sventure promesse e, quando rialzò gli occhi, l’angelo non c’era più. Ma questa volta, contrariamente a quanto era accaduto prima, quando le si era avvicinato, non si udirono passi, Se n’è andato volando, pensò Maria. Poi si alzò, si avvicinò all’ingresso della grotta, casomai vi fosse ancora qualche traccia dell’angelo nell’aria, o magari Giuseppe stesse arrivando. La nebbia si era dissolta, le prime stelle brillavano metalliche, dal paese si udivano ancora i lamenti. Fu allora che un pensiero di smisurata presunzione, forse di peccaminoso orgoglio, sovrapponendosi ai funerei avvertimenti dell’angelo, fece girare la testa di Maria, se la salvezza di suo figlio non fosse magari stata un gesto di Dio, il fatto che qualcuno sia scampato alla crudele morte per forza deve significare qualcosa, quando tanti altri, costretti a morire, non possono far altro che aspettare l’occasione di chiedere proprio a Dio, Perché ci hai ammazzato, e accontentarsi della risposta, una qualunque. Non durò a lungo quel delirio di Maria, dopo un istante stava già pensando che anche lei, come le mamme di Betlemme, avrebbe potuto essere lì a cullare un figlio morto e, buon pro per lo spirito e la salvezza dell’anima sua, gli occhi le si riempirono di lacrime, come due fontane. Era lì quando arrivò Giuseppe, lo sentì venire, non le importava niente di essere rimproverata, ora Maria stava piangendo insieme alle altre donne, tutte sedute in circolo coi figli in grembo, in attesa della risurrezione. Giuseppe la vide piangere, capì e tacque. Nella grotta, Giuseppe non si accorse del lume acceso. Per terra, i tizzoni si erano coperti di un sottile strato di cenere, ma nel fuoco, tra le braci, cercando forza, ancora palpitava una piccolissima fiammella. Mentre scaricava l’asino, Giuseppe disse, Non corriamo più alcun pericolo, sono andati via, e la cosa migliore che possiamo fare è passare la notte qui, partiamo domani. prima del sorgere del sole, facciamo le scorciatoie e, dove non ne esistono, prendiamo quello che capita. Maria sussurrò, Quanti bambini uccisi, e Giuseppe, brusco, le domandò, Come lo sai, sei andata a contarli, e lei, Alcuni me li ricordo, Piuttosto, ringrazia Dio se tuo figlio è ancora vivo, Lo farò, E non fissarmi come se avessi fatto qualcosa di male, Non ti stavo guardando, E non parlarmi neppure con quel tono da giudice, Starò zitta, se vuoi, Sì, è meglio che tu stia zitta. Giuseppe legò l’asino alla mangiatoia dove, sul
fondo, era rimasta un po’ di paglia, non deve avere granché fame questa bestia, infatti ha vissuto a sbafo, piatto pieno e pancia all’aria, ma fra breve basta, ormai manca poco che torni alle fatiche del carico e del lavoro. Maria adagiò il figlio e disse, Vado ad attizzare il fuoco, Perché, Per la cena, Non voglio luci che possano attirare gente, potrebbe passare qualcuno del paese, mangiamo quello che c’è e com’è. Fecero così. Il lume a olio illuminava spettralmente i quattro abitanti della caverna, l’asino, immobile come una statua, col muso sopra la paglia, ma senza sfiorarla, il bimbo addormentato, mentre l’uomo e la donna ingannavano la fame con qualche fico secco. Maria distese le stuoie sul terreno sabbioso, le coprì con le lenzuola e, come tutti i giorni, aspettò che il marito si coricasse. Ma prima Giuseppe ritornò a spiare la notte, tutto era tranquillo in terra e in cielo, e dal paese non si udivano più né grida né lamenti, ormai le forze di Rachele bastavano solo per gemere e sospirare, nelle case, con l’anima e la porta chiuse. Giuseppe si distese sulla stuoia, improvvisamente esausto come non lo era mai stato in vita sua, dopo tutta quella corsa e quella paura, e non poteva neanche dire di aver salvato la vita al figlio con le proprie forze, i soldati avevano eseguito rigorosamente gli ordini, Uccidere i bambini di Betlemme, ma comunque, per sua fortuna, senza neppure un pizzico d’iniziativa nell’azione militare come, per esempio, cercare nelle grotte dei dintorni, casomai vi si fosse nascosto qualche fuggiasco, oppure, una mancanza che fa davvero un gravissimo errore, ci vivessero abitualmente intere famiglie. A Giuseppe, generalmente, non dava fastidio l’abitudine di Maria di coricarsi solo quando lui si era già addormentato, ma ora non poteva sopportare l’idea di ritrovarsi, sprofondato nel sonno, a viso nudo, sapendo che la moglie lo vegliava e lo avrebbe osservato senza pietà. Disse, Non restartene lì, coricati. Maria obbedì ma, come sempre, prima andò ad accertarsi che l’asino fosse ben legato e poi, sospirando, si distese sulla stuoia, chiuse gli occhi, che il sonno venisse o meno, lei aveva ormai rinunciato a guardare. Nel cuore della notte, Giuseppe fece un sogno. Cavalcava lungo una strada in direzione di un paese di cui s’intravedevano già le prime case, indossava un’uniforme con le insegne militari, era armato di spada, lancia e pugnale, un soldato fra tanti altri, e il comandante gli domandava, Tu, falegname. dove stai andando, al che lui rispondeva, orgoglioso di conoscere tanto bene la missione di cui era stato incaricato, Vado a Betlemme a uccidere mio figlio, e nell’istante in cui pronunciava queste parole si svegliò con un rantolo terribile, il corpo rattrappito, in preda al terrore, mentre Maria gli domandava, Che cosa c’è, cos’è successo, e lui, tremante, riusciva soltanto a ripetere, No, no, no, e poi, di colpo, per il dolore scoppiò in un pianto convulso, fra singhiozzi che gli squarciavano il petto. Maria si alzò, prese il lume, gli rischiarò il viso, Ti senti male, domandò, ma lui si copriva la faccia con le mani, Togli quella roba, donna, e all’istante, ancora singhiozzando, si levò e corse alla mangiatoia, per
controllare come stava il figlio, Sta bene, signor Giuseppe, non si preoccupi, è un bimbo che non dà nessun daffare, un pacioccone pacifico, mangia e dorme, come se non fosse appena scampato per miracolo a una morte orribile, pensate, finire per mano di quello stesso padre che gli ha dato l’esistenza, sì, lo sappiamo, è il destino da cui non ci si libera, ma ci sono modi e modi. Terrorizzato che il sogno si ripetesse, Giuseppe non tornò alla sua stuoia, si avvolse in una coperta e si sedette all’ingresso della grotta, al riparo di uno spuntone roccioso che formava una specie di tettoia naturale, mentre la luna proiettava sull’imboccatura un’ombra scurissima che la fioca luce del lume, dentro, non sfiorava neppure. Perfino Erode, se per caso fosse passato, sulle spalle degli schiavi, circondato dalle sue legioni di barbari assetati di sangue, avrebbe detto, tranquillamente, Non vi scomodate a frugare, proseguite, lì ci sono solo sassi e ombra, noi cerchiamo carne fresca e viva, appena nata. Giuseppe rabbrividì, pensando al sogno, si domandò che senso potesse avere, se per la verità, una verità lampante davanti agli occhi dei cieli che tutto vedono, lui si era precipitato, correndo come un pazzo, per quelle strade, una via dolorosa che solo lui sapeva quanto, scavalcando rocce e mura, e da buon padre era accorso in difesa del figlio, mentre il sogno lo raffigurava sotto le spoglie e con la furia di un carnefice, è proprio vero, come dice il proverbio, che nei sogni non c’è certezza, È opera del Demonio, pensò, e fece uno scongiuro. Come proveniente dalla gola di un uccello invisibile, si udì un fischio nell’aria, avrebbe potuto essere anche il segnale di un pastore, ma non a quell’ora, quando il bestiame sta dormendo e solo i cani vegliano. Però la notte, tranquilla e distante, estranea agli esseri e alle cose, con quella suprema indifferenza che immaginiamo all’universo, o quell’altra, assoluta, l’indifferenza del vuoto che rimarrà, ammesso che il vuoto possa essere qualcosa, quando il fine ultimo di tutto si sarà compiuto, la notte, dicevamo, ignorava il significato e l’ordine plausibile che sembrano governare questo mondo nei momenti in cui crediamo ancora che esso sia stato creato per accoglierci, noi e la nostra follia. Nel ricordo di Giuseppe, a poco a poco il terribile sogno diventava irreale, assurdo, smentito da questa notte e da questo chiaro di luna, sconfessato da quel bimbo addormentato nella mangiatoia, ma, soprattutto, negato da quell’uomo sveglio, padrone di se stesso e, per quanto possibile, dei propri pensieri, adesso teneri e pacifici, ma comunque in grado di creare un mostro, come la gratitudine a Dio perché i soldati gli avevano lasciato vivo il figlio tanto amato, per ignoranza e negligenza, è vero, loro che tanti ne avevano ammazzati. La stessa notte copre Giuseppe il falegname e le madri dei bambini di Betlemme, per non parlare dei padri, e neppure di Maria, ché qui non c’entrano, anche se non capiscono i motivi di una simile esclusione. Le ore passarono tranquille e, quando l’alba si annunciò coi primi segni, Giuseppe si alzò, andò a caricare l’asino e, poco dopo, approfittando dell’ultimo chiarore lunare prima che il cielo si
rischiarasse, la famiglia al completo, Gesù, Giuseppe e Maria, si mise in cammino, per fare ritorno in Galilea. Lasciando per un’ora la casa dei padroni, dove due bimbi erano stati uccisi, al mattino la schiava Zelomi raggiunse la grotta, sicura che la stessa sorte fosse toccata al piccolo che aveva aiutato a nascere. La trovò abbandonata, solo qualche impronta di passi e zoccoli, sotto la cenere braci quasi estinte, nessuna traccia di sangue. Non c’è più, disse, da questa prima morte si è salvato. 9. Otto mesi erano ormai trascorsi dal felice giorno in cui Giuseppe era tornato a Nazaret con la famiglia, sani e salvi gli esseri umani, malgrado i molti pericoli, un po’ peggio l’asino che zoppicava sulla destra, quando si seppe che il re Erode era morto a Gerico, nei suoi palazzi, dove si era ritirato agonizzante all’arrivo delle prime piogge per sfuggire ai rigori dell’inverno, che a Gerusalemme non risparmia nessuno che sia malato o, perlomeno, di salute cagionevole. Si diceva inoltre che il regno, orfano di così gran signore, era stato diviso fra tre dei figli rimasti dopo le razzie famigliari, e cioè Erode Filippo, che avrebbe mantenuto il governo dei territori a est della Galilea, Erode Antipa, che avrebbe avuto il bastone del comando in Galilea e in Perea, e Archelao, cui erano toccate Giudea, Samaria e Idumea. Uno di questi giorni, un mulattiere di passaggio, di quelli che sanno raccontare stupendamente le storie, non solo le reali ma anche le inventate, farà alla gente di Nazaret il resoconto del funerale di Erode, di cui era stato, giurava, testimone oculare, Era in un sarcofago tutto risplendente di pietre, anche la carrozza, tirata da due buoi, era dorata, coperta di tessuti color porpora, e di Erode, anche lui avvolto nella porpora, si distinguevano soltanto la sagoma e una corona al posto della testa, i musicanti che lo seguivano, suonando i pifferi, e poi le prefiche appresso ai musicanti, loro sì, dovevano certo respirare l’odore pestilenziale che li colpiva in pieno, sul ciglio della strada c’ero io, e per poco non mi si rivoltava lo stomaco, e dietro le guardie reali, a cavallo, in testa all’esercito, armato di lance, spade e pugnali, come se andasse alla guerra, sfilavano e sembrava che non finissero mai, come un serpente di cui non vediamo né testa né coda e che, muovendosi, sembra non avere fine, la paura ti s’insinua nel cuore, tali e quali erano i soldati che marciavano dietro il feretro, ma anche in direzione della propria morte, quella che tocca a ciascuno di noi, che può magari sembrare in ritardo, ma che finisce sempre per bussare alla nostra porta, È ora, ti dice puntuale, senza fare differenza, sia che si tratti di re o di schiavi, uno un po’ più avanti, carne morta e corrotta, in testa al corteo, altri in coda alla processione, a mangiare la polvere di un intero esercito, per il momento ancora vivi, ma tutti alla ricerca del luogo dove resteranno per sempre. A quanto pare, questo mulattiere starebbe meglio,
peripatetico, a passeggiare sotto i capitelli corinzi di qualche accademia piuttosto che in giro con gli asini per le strade di Israele, dormendo nei caravanserragli o raccontando storie a rustici come questi di Nazaret. Fra gli astanti, nella piazza davanti alla sinagoga, c’era Giuseppe, transitava di lì per caso e si fermò ad ascoltare, per la verità, all’inizio non aveva prestato granché attenzione ai particolari descrittivi del corteo funebre, o forse sì, un po’ gliel’aveva prestata, ma gli erano sfuggiti subito, quando l’aedo era passato chiaramente allo stile elegiaco, e il falegname aveva motivi fondati e quotidiani per essere più sensibile a questa corda dell’arpa che ad altre. Del resto, bastava guardarlo, un’espressione inequivocabile, un conto era la sua antica compostezza, la serietà e la ponderazione con cui cercava di compensare la giovane età, e un altro conto, ben diverso, è questa espressione amara che gli sta scavando alcune rughe agli angoli della bocca, profonde come cicatrici. Ma sul viso di Giuseppe la cosa davvero inquietante è l’espressione dello sguardo, a meno che non sia più esatto dire la mancanza di espressione, perché i suoi occhi danno l’idea di essere morti, coperti di un pulviscolo cinereo sotto cui, come brace inestinguibile, brilli una fiamma incandescente d’insonnia. È vero, Giuseppe quasi non dorme. Il sonno è il suo nemico di tutte le notti, deve combatterlo quasi all’ultimo sangue, ed è una guerra che perde sempre, anche se vince qualche battaglia, perché infallibilmente arriva il momento in cui il corpo esausto si arrende e si addormenta, per vedere automaticamente spuntare sulla strada un drappello di soldati, fra i quali avanza cavalcando lui stesso, a volte facendo roteare la spada sopra il capo, e a quel punto, quando il terrore comincia ad avvilupparsi alle difese coscienti di quello sventurato, il comandante della spedizione gli domanda, Tu, falegname, dove stai andando, e il poveretto non vuole rispondere, resiste con le poche forze che gli rimangono, quelle dello spirito, ché il corpo ha ceduto, ma il sogno è più forte, con mani di ferro gli apre la bocca e lui, ormai singhiozzante e sull’orlo del risveglio, deve dare quella terribile risposta, Vado a Betlemme a uccidere mio figlio. Non domandiamo a Giuseppe se ricordi quanti buoi tiravano la carrozza di Erode morto e se erano bianchi o maculati, ora, tornando a casa, i suoi pensieri sono occupati solo dalle ultime parole del racconto di quel mulattiere, quando ha detto che quel mare di gente al seguito del funerale, schiavi, soldati, guardie reali, prefiche, suonatori di pifferi, governatori, principi, futuri re, e tutti noi, dovunque ci troviamo e chiunque siamo, nella vita altro non facciamo se non cercare il luogo dove resteremo per l’eternità. Non va sempre così, rifletteva Giuseppe, con un’amarezza talmente profonda da non ammettere la rassegnazione che attenua i dolori più grandi e accettare soltanto quello spirito rinunciatario di chi non conta più su alcun rimedio, Non va sempre così, ripeteva, ce ne sono tanti che non hanno mai lasciato il posto in cui sono nati e la morte li ha colti là, per cui è
dimostrato che l’unica cosa veramente sicura, certa e garantita, è il destino, è così facile, Santo Dio, basta restare lì ad attendere che tutto si compia nella vita e poi potremo dire, Era destino, era destino di Erode morire a Gerico ed essere portato in carrozza al suo palazzo e fortezza di Herodium, mentre ai bambini di Betlemme la morte ha risparmiato qualunque viaggio. E quello di Giuseppe che, all’inizio, considerando i fatti dal punto di vista dell’ottimismo, sembrava fare parte di un disegno trascendente per la salvezza delle innocenti creature, in fondo non è servito a niente, perché il nostro falegname ha sentito ma ha poi taciuto, è corso a salvare il proprio figlio e ha abbandonato quelli degli altri al loro fatale destino, mai parola è stata così appropriata. Ecco perché Giuseppe non dorme, o forse dorme e si sveglia angosciato, scagliato in una realtà che non gli fa dimenticare il sogno, tant’è che si potrebbe dire che, da sveglio, sogna il sogno del suo sonno e che, dormendo, anche se cerca disperatamente di sfuggirvi, sa già che può soltanto ritrovarlo, di nuovo e sempre, questo sonno è una presenza immobile sulla soglia della porta che separa il sogno dalla veglia, e Giuseppe, entrando e uscendo, sa di doverlo affrontare. Ormai si è capito come la parola che definisce esattamente questo groppo sia rimorso, ma l’esperienza e la pratica delle comunicazioni, nel corso delle età, hanno dimostrato che la sintesi è solo un’illusione, è come un’invalidità del linguaggio, a quanto pare, non è come il desiderio di pronunciare la parola amore e non disporre della lingua, ma possedere la lingua e non avere abbastanza amore. Maria è di nuovo incinta. Nessun angelo sotto le spoglie di un mendicante è andato a bussare alla sua porta per annunciare l’arrivo di questo figlio, nessun vento improvviso ha spazzato le alture di Nazaret, nessuna terra luminosa si è affiancata all’altra, Maria l’ha comunicato a Giuseppe con le parole più semplici, Sono incinta, non gli ha detto per esempio, Guarda i miei occhi, come vi brilla il nostro secondo figlio, e lui non ha risposto, Non credere che non l’abbia notato, stavo solo aspettando che me lo annunciassi, ha ascoltato e taciuto, dicendo solo, Ah, per poi continuare a piallare l’asse, con una forza efficace ma indifferente, il suo pensiero sappiamo noi dov’è. E lo sa anche Maria, fin da quando una notte più tormentata il marito ha permesso che il suo segreto, fino ad allora così ben custodito, affiorasse, e lei, in fondo, non se n’è neppure stupita, era inevitabile, ricordiamoci di quello che le ha detto l’angelo nella grotta, Sentirai urlare mille volte accanto a te. Una buona moglie direbbe al marito, Lascia perdere, ormai è fatta, e inoltre il tuo primo dovere era quello di salvare tuo figlio, non avevi altri obblighi, ma la verità è che, secondo il senso comune, Maria non è più la buona moglie che aveva dimostrato di essere all’inizio, forse perché aveva udito dall’angelo quelle parole severe che, dal tono, apparentemente non escludevano nessuno, Non sono l’angelo del perdono. Se Maria fosse autorizzata a parlare con Giuseppe di queste cose tanto segrete, forse lui, così
versato nelle Scritture, potrebbe riflettere sulla natura di un angelo che, giunto non si sa da dove, ci viene a dire di non essere quello del perdono, una dichiarazione in apparenza irrilevante, essendo risaputo come le creature angeliche non siano dotate del potere di perdonare, che appartiene solo a Dio. Che un angelo affermi di non essere l’angelo del perdono, o non vuol dire niente, o significa troppo, andiamo per ipotesi, che sia l’angelo della condanna, sarebbe come se esclamasse, Perdonare io, che stupidaggine, io non perdono, castigo. Ma gli angeli, per definizione, tranne quei cherubini dalla spada fiammeggiante messi dal Signore a sorvegliare la crescita dell’albero della vita perché ai suoi frutti non si avvicinassero i nostri primi genitori o i loro discendenti, che siamo noi, gli angeli, dicevamo, non sono poliziotti, non si fanno certo carico di quegli sporchi, ma socialmente necessari, compiti di repressione, gli angeli esistono per facilitarci la vita, ci trattengono quando stiamo per cadere nel pozzo, ci guidano nel pericoloso passaggio di un ponte sopra il precipizio, ci tirano per un braccio quando stiamo per essere travolti da una quadriga senza blocco o da un’automobile senza freni. Un angelo veramente degno del suo nome avrebbe anche potuto risparmiare a Giuseppe queste agonie, bastava che apparisse in sogno ai padri dei bambini di Betlemme, dicendo a ognuno, Alzati, prendi il bimbo e la madre, fuggi in Egitto e restaci fino a mio avviso, perché Erode cercherà il piccolo per ucciderlo, e così tutti i bambini si sarebbero salvati, Gesù nascosto nella grotta con mamma e papà, e gli altri in viaggio per l’Egitto, da dove sarebbero rientrati solo quando lo stesso angelo, riapparendo ai loro padri, avesse detto, Alzati, prendi il bambino e la madre, e recati nella terra di Israele, perché sono morti coloro che attentavano alla vita del piccolo. È chiaro che, tramite questo avvertimento, in apparenza benevolo e protettore, l’angelo avrebbe in realtà smistato i vari bambini nei luoghi dove, chiunque essi fossero, a tempo debito avrebbero trovato la loro morte ultima, ma gli angeli, pur avendo tanto potere come si è visto, hanno dei limiti per nascita, in quanto sono come Dio, non possono evitare la morte. Pensando e ripensando, Giuseppe poteva anche arrivare alla conclusione che l’angelo della grotta fosse, in fondo, un emissario dei poteri infernali, un demonio, stavolta sotto le spoglie di un pastore, per cui sarebbe di nuovo dimostrata la debolezza delle donne e delle loro viziose e acquisite propensioni, qualora fossero sottoposte agli assalti di un qualunque angelo perduto. Se Maria parlasse, se Maria non fosse questo scrigno chiuso, se Maria non tenesse per sé le più straordinarie peripezie della sua annunciazione, sarebbe un altro gallo a cantare per Giuseppe, altre argomentazioni andrebbero a rafforzare le sue tesi, la più importante delle quali, senza dubbio, sarebbe il fatto che il presunto angelo non ha mica proclamato, Sono un angelo del Signore, oppure, Vengo in nome del Signore, no, ha detto solo, Sono un angelo, tutelandosi subito, Ma non lo dire a nessuno, come se avesse paura che si venisse a
sapere. Senz’altro qualcuno starà già ribattendo che simili quisquilie esegetiche non contribuiscono affatto a chiarire una storia in fin dei conti arcinota, ma al narratore di questo vangelo non sembra la stessa cosa, sia per quanto concerne il passato sia per quanto riguarderà il futuro, che si sia annunciato come un angelo del cielo o come un angelo dell’inferno, e le differenze non sono soltanto formali, ma toccano l’essenza, la sostanza e il contenuto, è pur vero che chi ha creato certi angeli ha fatto anche gli altri, ma poi si è corretto. Maria, come del resto suo marito, anche se, ormai si sa, non per le stesse ragioni, mostra talvolta un’aria assorta, un’espressione assente, le mani le si bloccano nel bel mezzo di un lavoro, il gesto interrotto, lo sguardo distante, niente di strano in realtà per una donna nel suo stato, se non fosse per i pensieri che l’assorbono, riassumibili tutti, sia pur con infinite variazioni, in questa semplice domanda, Perché mi è apparso l’angelo ad annunciare la nascita di Gesù e adesso, per questo figlio, no. Maria guarda il suo primogenito, che si muove gattonando come tutti i cuccioli d’uomo della sua età, lo osserva e cerca in lui un particolare, un segnale, una stella in fronte, un sesto dito della mano, ma vede solo un bimbo uguale agli altri, sbava, si sporca e piange come gli altri, l’unica differenza è che si tratta di suo figlio, i capelli somigliano a quelli del padre e della madre, le iridi stanno cominciando a perdere quella sfumatura biancastra, che noi definiamo di latte anche se non è così, e ad assumere il loro colore naturale, quello dell’eredità genetica diretta, un castano scurissimo che acquista gradatamente, man mano che si allontana dalla pupilla, una tonalità che ricorda il verde ombra, se si può definire così un tono cromatico, ma queste caratteristiche non sono uniche, assumono un’importanza reale solo quando il figlio è nostro oppure, giacché stiamo parlando di lei, di Maria. In capo a qualche settimana, questo bimbo farà i suoi primi tentativi di rizzarsi in piedi e camminare, finirà con le mani per terra un mucchio di volte e rimarrà lì, a guardare avanti, il capo faticosamente sollevato, mentre ascolta la voce della madre che gli dice, Vieni qua, vieni qua, tesoro mio, e, non molto tempo dopo, avvertirà il primo bisogno di parlare, quando dei suoni nuovi gli si cominceranno a formare nella gola, e all’inizio non saprà che cosa farsene, li confonderà con altri già noti e continuerà a provare, l’urlo, il pianto, ma ben presto comprenderà che deve articolarli in modo diverso, più compenetrato, imitando e aiutandosi con i movimenti delle labbra della madre e del padre, fino a quando riuscirà a pronunciare la prima parola, che non ci è noto quale potrà essere, forse papa, forse papà, forse mamma, mentre sappiamo bene che, d’ora in poi, il piccolo Gesù non dovrà mai più fare quel gesto con l’indice della mano destra sulla palma di quella sinistra se la madre o le vicine gli domanderanno di nuovo, Dove fa l’uovo la gallina, è un’infamia cui si costringe l’essere umano, trattarlo come un cagnolino addestrato a rispondere a uno stimolo sonoro, voce, fischio o
schiocco della frusta. Adesso Gesù è in grado di rispondere che la gallina può andare a fare l’uovo dove le pare, purché non glielo faccia nella palma della mano. Maria guarda il figlio, sospira, peccato che l’angelo non torni, Non mi rivedrai molto presto, ha detto, se adesso fosse qui, lei non si farebbe intimidire come le altre volte, lo metterebbe alle strette con le sue domande fino a farlo arrendere, una donna con un figlio fuori e uno dentro non è mica come un agnello innocente, ha imparato a proprie spese cosa siano i dolori, i pericoli e le pene, e con simili pesi sul piatto dalla sua parte, può certo far pendere a suo favore qualunque bilancia. Non bastava che l’angelo le avesse detto, Ti consenta il Signore di non vedere tuo figlio come ora vedi me, che non so dove posare il capo, primo, avrebbe dovuto spiegare chi fosse quel Signore nel cui nome sembrava parlare, secondo, se fosse proprio vero che non aveva un posto dove posare il capo, cosa alquanto difficile da capire trattandosi di un angelo, o se lo dicesse solo perché rientrava nella sua parte di mendicante, terzo, quale futuro annunciassero a suo figlio le oscure e minacciose parole che aveva pronunciato, e, infine, quarto, quale mistero fosse mai quello della terra luminosa, sepolta accanto alla porta, là dove era spuntata, dopo il rientro da Betlemme, una strana pianta, solo tronco e foglie, che avevano ormai rinunciato a tagliare, dopo avere inutilmente tentato di sradicarla perché ogni volta rinasceva, e più forte di prima. Due fra gli anziani della sinagoga, Zacchia e Dotain, avevano esaminato il caso e, benché poco esperti in scienze botaniche, avevano concordato nel ritenere che dovesse provenire dal seme trasportato nella terra che, al momento giusto, era germogliato, Com’è legge del Signore della vita, aveva sentenziato Zacchia. Maria si era abituata alla visione di quell’ostinata pianta, addirittura pensava che le rallegrasse un po’ l’ingresso, mentre Giuseppe, tutt’altro che rassegnato e con nuovi e palpabili motivi ad alimentare i suoi sospetti, aveva trasferito il bancone da falegname in un altro punto del cortile e fingeva di non accorgersi di quella detestata presenza. Dopo l’accetta e la sega, aveva provato con l’acqua bollente ed era arrivato a circondare il fusto di carboni ardenti, ma non aveva osato, per una sorta di superstizioso rispetto, mettere mano alla zappa e scavare fino al punto in cui doveva trovarsi l’origine del male, la scodella con la terra luminosa. Fu allora che nacque il secondo figlio, cui imposero il nome di Giacomo. Per un po’ di anni non vi furono cambiamenti nella famiglia tranne che la nascita di altri figli maschi, oltre che di due femmine, e la perdita nei genitori dell’ultimo vigore della gioventù che ancora rimaneva. Niente di strano in Maria, è risaputo come le gravidanze, tanto più se numerose, finiscano per distruggere una donna, se ne vanno pian piano la bellezza e la freschezza, ammesso che le avesse, tristemente appassiscono il viso e il corpo, basti pensare che dopo Giacomo nacque Lisia, dopo Lisia, Giuseppe, dopo Giuseppe, Giuda, dopo Giuda, Simone, poi Lidia,
Giusto, Samuele, e se ce ne fu qualcun altro, morì subito, senza avere il tempo di lasciare traccia. I figli sono la gioia dei genitori, si dice, e Maria faceva di tutto per apparire contenta ma, per mesi e mesi, c’era da portare faticosamente nel corpo stanco tutti quei frutti ghiotti delle sue forze e, a volte, un sentimento di impazienza le pervadeva l’anima, un’indignazione alla ricerca della sua causa, ma il tempo era quello che era, e lei non pensò mai di incolpare Giuseppe, e tanto meno quel Dio supremo che decide della vita e della morte delle Sue creature, prova ne è che neppure un capello ci cade dalla testa se non per Sua volontà. Dei come e dei perché si facessero i figli, Giuseppe ne capiva poco o, meglio, aveva i rudimenti della ragion pratica, per così dire empirici, che riducevano tutti gli enigmi a una sola evidenza, quella per cui dall’unione di maschio e femmina, dove lui conosceva lei, risultavano alquanto elevate le probabilità che l’uomo generasse nella donna un figlio, che al termine di nove mesi, raramente sette, nasceva completo di ogni organo. Il seme del maschio, lanciato nel ventre della donna, aveva già in sé, miniaturizzato e invisibile, il nuovo essere prescelto da Dio per proseguire il popolamento del mondo da Lui creato, ma non sempre andava così, l’impenetrabilità dei disegni di Dio, qualora ci fosse bisogno di una dimostrazione, la si trovava nel fatto che non fosse condizione sufficiente, benché assolutamente necessaria, per generare un figlio che il seme del maschio si riversasse nell’interno naturale della donna. Lasciandolo scorrere a terra, come aveva fatto lo sventurato Onan, punito dal Signore con la morte per non aver voluto generare figli con la vedova del proprio fratello, era sicuro e garantito che la donna non sarebbe rimasta incinta, ma tante di quelle volte, come si suol dire, va la gatta al lardo che finisce a tre per nove ventisette. È dimostrato, dunque, che dev’essere stato Dio a mettere Isacco in quel po’ di linfa che Abramo riusciva ancora a produrre, e deve averlo ficcato nel ventre di Sara, che non aveva più neppure le sue regole. Considerando il problema da questa angolazione, diciamo teogenetica, se ne può concludere, senza abusare della logica, che a tutto deve presiedere in questo mondo e negli altri, che era Dio stesso a spingere e a stimolare Giuseppe nella frequentazione così assidua di Maria, facendone un suo strumento per cancellare, per compensazione numerica, i rimorsi che provava da quando aveva consentito, o voluto, senza prendersi la briga di pensare alle conseguenze, l’uccisione degli innocenti di Betlemme. Ma la cosa più curiosa, e che dimostra quanto i disegni del Signore, oltre che ovviamente imperscrutabili, siano anche sconcertanti, è che Giuseppe, seppure in modo confuso, quasi a sfiorargli la coscienza, supponeva di agire per proprio conto e, lo creda chi può, con lo stesso intento di Dio, e cioè quello di restituire al mondo, in un accanito tentativo di procreazione, se non proprio i bambini uccisi, almeno tanti quanti erano stati, il numero esatto, in modo che non si trovasse alcuna differenza al prossimo censimento. Il rimorso di Dio e quello di
Giuseppe erano un rimorso solo, e se ai vecchi tempi si diceva già, Dio non dorme, oggi siamo in condizione di saperne il motivo, Dio non dorme perché ha commesso una mancanza imperdonabile persino a un uomo. A ogni figlio che procreava Giuseppe, Dio tirava un po’ più su la testa, ma non l’alzerà mai del tutto, perché i bambini uccisi a Betlemme erano stati venticinque e Giuseppe non sarebbe vissuto abbastanza per generare una così gran quantità di figli con una donna sola, e Maria, ormai così stanca, così dolente nell’anima e nel corpo, non avrebbe potuto sopportare tanto. Il cortile e la casa del falegname apparivano pieni di bambini, eppure era come se fossero vuoti. Quando arrivò ai cinque anni, il figlio di Giuseppe cominciò ad andare a scuola. Tutte le mattine, allo spuntar del giorno, la madre lo portava dall’incaricato della sinagoga, il quale, trattandosi di studi di grado elementare, all’uopo bastava, e lì, nella sinagoga trasformata in aula, lui e gli altri ragazzini di Nazaret, fino ai dieci anni, adempivano la sentenza del saggio, Il bambino deve essere allevato nella Torah come il bue nel recinto. La lezione finiva all’ora sesta, cioè al nostro mezzogiorno, Maria era già lì ad aspettare il figlio e, povera donna, non poteva neppure domandargli quale fosse il suo profitto, non ha nemmeno questo semplice diritto, perché la massima conclusiva del saggio recita, Meglio che la Legge perisca tra le fiamme piuttosto che sia affidata alle donne, anche se non va trascurata la possibilità che il figlio, ormai abbastanza edotto sul ruolo delle donne nel mondo, ivi comprese le madri, le potesse dare una di quelle risposte in grado di ridurti a niente, ciò che in fondo siamo tutti, pensate a Erode, tanto potere, tanto potere, e se andassimo a vederlo adesso non potremmo neppure recitare, Giace morto e imputridisce, ora è tutto un fetore, polvere, ossa sconnesse e drappi sudici. Quando Gesù entrava in casa, il padre gli domandava, Cos’hai imparato oggi, e il bambino, che aveva avuto la fortuna di nascere con un’ottima memoria, ripeteva per filo e per segno, immancabilmente, la lezione del maestro, dapprima i nomi delle lettere dell’alfabeto, poi le parole principali e, più avanti, frasi complete della Torah, brani interi, che Giuseppe seguiva con movimenti cadenzati della mano destra, mentre annuiva lievemente con il capo. Così Maria, in disparte, veniva a sapere quello che non poteva domandare, è un vecchio metodo femminile, perfezionato con secoli e millenni di pratica, quando non le autorizzano ad apprendere in proprio, loro si mettono lì ad ascoltare, e in breve sanno tutto, fino al punto, che è il massimo della saggezza, di separare il falso dal vero. Eppure, quello che Maria non conosceva, o perlomeno non a sufficienza, era lo strano legame che univa il marito a quel figlio, anche se neppure a un estraneo sarebbe passata inosservata quell’espressione, un misto di dolcezza e pena, che spuntava appena sul viso di Giuseppe quando parlava al suo primogenito, come se stesse pensando, Questo figlio tanto amato è il mio dolore. Maria sapeva solo che gli
incubi di Giuseppe, come una malattia dell’anima, non gli davano mai tregua, ma quel tormento notturno, così ripetuto, era ormai divenuto un’abitudine, come dormire sul fianco destro o svegliarsi assetato nel cuore della notte. E se Maria, da buona e degna sposa, non aveva smesso di preoccuparsi per il marito, la cosa più importante di tutte, per lei, era vedere il figlio sano e salvo, segno che la colpa non era stata poi così grande, altrimenti il Signore avrebbe già mandato un castigo, senza pensarci troppo, come al suo solito, pensate a Giobbe, distrutto, con la lebbra, eppure era sempre stato un uomo integro e retto, timorato di Dio, la sua sfortuna fu quella di essere divenuto involontario oggetto di una disputa fra Satana e lo stesso Dio, ciascuno aggrappato alle proprie idee e prerogative. E poi ci si stupisce che un uomo si disperi e urli, Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui fui concepito, quel giorno sia tenebra, non si aggiunga ai giorni dell’anno e non entri nel conto dei mesi, e quella notte sia sterile e priva di giubilo, è vero che Giobbe fu ricompensato da Dio con la restituzione del doppio di quanto gli aveva tolto, ma per gli altri uomini, nel cui nome non si è mai scritto nessun libro, è tutto un togliere e non dare, un promettere e non esaudire. Nella casa di questo falegname la vita, malgrado tutto, scorreva tranquilla, e sulla tavola, seppur senza l’abbondanza della prosperità, non era mai mancato il pane quotidiano e quel tanto di companatico che aiuta l’anima a tenersi legata al corpo. Fra i beni di Giuseppe e i beni di Giobbe l’unica somiglianza che comunque potrebbe ritrovarsi sarebbe nel numero dei figli, sette figli e tre figlie ebbe Giobbe, sette figli e due figlie aveva Giuseppe, con un vantaggio per il falegname, quello di aver messo al mondo una donna in meno. Ma, prima che Dio gli raddoppiasse i beni, Giobbe era già proprietario di settemila pecore, tremila cammelli, cinquecento paia di buoi e cinquecento asine, senza contare gli schiavi, a profusione, mentre Giuseppe possiede quell’asino che conosciamo e nient’altro. In verità, una cosa è lavorare per mantenere due persone appena, e poi una terza, ma questa, nel primo anno, per via indiretta, un’altra cosa è vedersi intorno un nugolo di figli che, crescendo il corpo e il bisogno, reclamano cibi solidi e a tempo debito. E, visto che i guadagni di Giuseppe non bastavano per assumere dei lavoranti, il naturale rimedio stava nei figli, per così dire da seminare, e del resto è un obbligo di ogni genitore, ché lo dice anche il Talmud, Così come è doveroso nutrire i figli, è altrettanto doveroso insegnare loro una professione, perché non facendolo si renderebbe il figlio un delinquente. E se pensiamo a che cosa insegnavano i rabbi, L’artigiano intento al proprio lavoro non ha il dovere di alzarsi al cospetto del più gran dottore, possiamo immaginare con quale orgoglio professionale Giuseppe si disponesse a istruire i figli maggiori, l’uno dopo l’altro, a mano a mano che ne avevano l’età, prima Gesù, poi Giacomo, poi Giuseppe, poi Giuda, nei segreti e nelle tradizioni dell’arte carpentiera, nonché nel rispetto di quell’antica costumanza popolare che dice, Per quanto sia poco il lavoro del bambino,
chi ne fa a meno è un gran cretino, è proprio quello che in seguito si è chiamato lavoro minorile. Quando riprendeva il lavoro dopo il pasto serotino, papà Giuseppe era aiutato dai figli, vero e proprio esempio di un’economia famigliare che avrebbe potuto dare infine, ai nostri giorni, degli eccellenti frutti, magari una vera dinastia di falegnami, se Dio, che sa bene ciò che vuole, non avesse voluto tutt’altra cosa. 10. Come se all’empia superbia dell’impero non bastassero le vessazioni cui sottoponeva il popolo ebreo da più di settant’anni, con il pretesto della divisione dell’antico regno di Erode, Roma decise di aggiornare l’ultimo censimento, stavolta dispensando gli uomini, comunque, dal recarsi ai luoghi d’origine, con i ben noti scompigli nell’agricoltura e nel commercio, nonché alcune conseguenze marginali, come nel caso di Giuseppe il falegname e della sua famiglia. Col nuovo sistema, girano i censori di villaggio in villaggio, di paese in paese, di città in città, convocano nella piazza principale o su uno spiazzo aperto gli uomini del posto, capifamiglia o meno, e sotto la protezione della guardia, calamo in pugno, vanno registrando negli elenchi finanziari nomi, incarichi e beni racimolabili. Orbene, vale la pena di ricordare che simili procedimenti non sono visti di buon occhio in questa parte del mondo, e non solo adesso, basti pensare quanto si narra nella Scrittura sulla malaugurata idea che venne al re Davide quando ordinò a Ioab, capo del suo esercito, di andare a fare il censimento d’Israele e di Giuda, parole sue, che pronunciò così, Percorri tutte le tribù di Israele, da Dan fino a Bersabea, e fa’ il censimento del popolo, affinché io conosca il numero della popolazione, e siccome parola di re è regale, Ioab tacque i suoi dubbi, radunò l’esercito, e tutti si misero in cammino, alle prese con il lavoro. Quando tornarono a Gerusalemme erano passati nove mesi e venti giorni, e Ioab aveva bell’e pronti i dati del censimento, in Israele c’erano ottocentomila guerrieri che maneggiavano la spada, in Giuda cinquecentomila. Orbene, è noto come Dio non gradisca che si facciano conti in vece Sua, e specialmente con questo popolo che gli appartiene per elezione e che, perciò, non potrà mai avere altri signori e padroni, tanto meno Roma, governata come sappiamo da falsi dei e falsi uomini, primo, perché questi dei di fatto non esistono e, secondo, perché, anche se malgrado tutto dotati di una certa esistenza in quanto bersagli di un culto privo di oggettività effettiva, la stessa vacuità del culto dimostrerà la falsità degli uomini. Ma, per il momento, lasciamo perdere Roma e ritorniamo al re Davide che, nel preciso istante in cui il capo dell’esercito gli illustrò i dati, ebbe un tuffo al cuore, troppo tardi, a nulla gli servirono il rimorso e l’aver detto, Ho commesso un grave peccato per quanto ho fatto, Signore, ma perdona l’iniquità del Tuo servo, poiché io ho compiuto una grande stoltezza, e il caso volle che un profeta di nome Gad, veggente del re e, per così dire,
suo intermediario per arrivare all’Altissimo, gli si presentasse il mattino dopo, al risveglio, e dicesse, Il Signore mi ordina di chiederti che cosa preferisci, tre anni di carestia nel paese, tre mesi di sconfitte davanti al nemico che ti insegue, oppure tre giorni di pestilenza su tutta la nazione. Davide non domandò quanta gente sarebbe morta in ciascun caso, calcolò che in tre giorni di peste, sarebbero comunque morte sempre meno persone che in tre mesi di guerra o in tre anni di carestia, Sia fatta la Tua volontà, Signore, che venga la peste, disse. E Dio mandò la peste, e morirono settantamila uomini del popolo, senza contare le donne e i bambini che, come al solito, non furono registrati. Verso la fine, il Signore acconsentì a ritirare la peste in cambio di un altare, ma ormai i morti c’erano, o Dio non se ne ricordava, o non trovava conveniente la risurrezione se, come c’è da supporre, si stava ormai discutendo e litigando su eredità e spartizioni, mica perché sta scritto che un popolo appartiene direttamente a Dio può rinunciare così ai beni del mondo, a maggior ragione se si tratta di beni legittimi, guadagnati con il sudore della fronte o delle battaglie, ma tant’è, quello che conta, in fondo, è il risultato. Bisogna comunque tenere conto, per l’esattezza dei giudizi che pure daremo sulle azioni umane e divine, che Dio, il quale si era ripagato dell’errore di Davide con prontezza e con mano pesante, adesso sembra assistere estraneo alle vessazioni esercitate da Roma sui Suoi figli prediletti e si dimostra indifferente, massima perplessità, all’irriverenza nei confronti del proprio nome e potere. Orbene, in questi casi, e cioè quando è ormai chiaro che Dio non interviene né c’è traccia che interverrà molto presto, l’unico rimedio per l’uomo è di farne le veci e di allontanarsi da casa propria per andare a mettere ordine nel mondo offeso, dalla casa che è sua e nel mondo che appartiene a Dio. Quindi, come si è detto, giravano i censori con l’insolenza tipica di chi tutto comanda, per di più con le spalle coperte dai soldati, una metafora espressiva anche se equivoca per dire solo che i militari erano lì a proteggerli da insulti e maltrattamenti, quando cominciò a divampare la protesta in Galilea e Giudea, prima soffocata, come chi per il momento voglia soltanto saggiare le proprie forze, valutarle, soppesarle, e poi, gradatamente, con singoli gesti di disperazione, un artigiano che si avvicina al tavolo del censore e dice, a voce alta, che non gli strapperanno neanche il nome, un commerciante che si rinchiude nella tenda con la famiglia e minaccia di spaccare tutti i vasi e di strappare tutti i tessuti, un agricoltore che appicca il fuoco al campo e si presenta con un cesto pieno di cenere, dicendo, Ecco le monete con cui Israele paga chi l’offende. Venivano tutti arrestati immediatamente, buttati in carcere, picchiati e umiliati, e visto che la resistenza umana ha dei limiti ridotti, quanto ci hai fatto deboli, tutti nervi e fragilità, a un certo punto il coraggioso crollava, l’artigiano rivelava senza un minimo di vergogna i segreti più intimi, il commerciante proponeva una, o magari due figlie come imposta
aggiuntiva, l’agricoltore si cospargeva di cenere e si offriva come schiavo. Alcuni non cedevano, pochi, e perciò morivano, mentre altri, imparata la miglior lezione, che l’occupante buono è anche quello morto, presero le armi e se ne andarono sui monti. Diciamo armi, ma erano sassi, fionde, bastoni e clavette, qualche arco con le frecce, quanto bastava per cominciare un’intifada, e, dopo un po’ di tempo, un certo numero di spade e lance recuperate in qualche rapida scaramuccia, ma che al momento opportuno non servivano a granché, abituati com’erano tutti, fin dai tempi di Davide, a rustiche salmerie, da pacifici pastori e non certo da guerrieri convinti. Un uomo, però, che sia giudeo o no, si abitua alla guerra come difficilmente riesce ad adeguarsi alla pace, soprattutto se ha trovato un capo e, ancor più che credere in lui, ha fede in ciò in cui quel capo crede. Questo condottiero, il capo della rivolta contro i romani, iniziata quando il primogenito di Giuseppe aveva undici anni, si chiamava Giuda ed era nato in Galilea, per cui lo chiamavano Giuda il Galileo o Giuda di Galilea. Non c’è niente da stupirsi in queste primitive identificazioni, peraltro assai comuni, è facile per esempio trovare un Giuseppe d’Arimatea, un Simone di Cirene, o Cireneo, una Maria Maddalena, o di Magdala, e se il figlio di Giuseppe potrà vivere e prosperare, non abbiamo alcun dubbio che lo chiameranno semplicemente Gesù di Nazaret, o Gesù Nazareno, o addirittura, più semplicemente ancora, infatti non si sa mai fin dove possa arrivare l’identificazione di una persona con il luogo in cui è nata o, come in questo caso, in cui è diventata uomo o donna, il Nazareno. Ma queste sono predizioni, il destino, non lo si ripeterà mai abbastanza, è uno scrigno come altri non ne esistono, aperto e contemporaneamente chiuso, si guarda dentro e si può vedere quanto è successo, la vita passata, destino ormai compiuto, ma di quanto dovrà accadere non si ottiene niente, solo qualche presentimento, qualche intuizione, come nel caso di questo vangelo, che adesso non si scriverebbe se non fosse stato per quegli straordinari avvertimenti, iniziatori forse di un destino maggiore che non di una pura e semplice vita. Per riprendere il filo, la ribellione, come stavamo dicendo, era impastata nel sangue della famiglia di Giuda il Galileo, il cui padre, il vecchio Ezechia, era già entrato in lotta, con un suo esercito, all’epoca delle rivolte popolari che, dopo la morte di Erode, erano scoppiate contro i presunti eredi, prima che Roma confermasse la spartizione del regno e l’autorità dei nuovi tetrarchi. Sono cose che non si riescono a spiegare, come mai, tutti fatti come siamo delle stesse umanissime materie, questa carne, queste ossa, questo sangue, questa pelle e questo sorriso, questo sudore e queste lacrime, alcuni poi vengano fuori codardi e altri impavidi, chi uomo di guerra e chi di pace, per portare un esempio, quanto è servito per fare un Giuseppe è stato utilizzato anche per creare un Giuda, e mentre questi, figlio di suo padre e padre dei suoi figli, seguendo l’esempio dell’uno e dando un esempio agli altri, ha abbandonato la tranquillità per andare a difendere in battaglia i diritti di Dio,
Giuseppe il falegname se n’è rimasto a casa, con i suoi nove figli piccoli e la loro madre, aggrappato al suo bancone e alla necessità di guadagnarsi il pane oggi, ché il domani chissà a chi appartiene, qualcuno dice a Dio, un’ipotesi buona quanto un’altra, e cioè che non appartenga a nessuno e che tutto, lo ieri, l’oggi e il domani, altro non siano che diversi nomi dell’illusione. Ma da questo paese di Nazaret alcuni uomini, soprattutto fra i più giovani, andarono a unirsi ai guerriglieri di Giuda il Galileo, generalmente scomparivano senza avvisare, si dileguavano, per così dire, da un momento all’altro, tutto rimaneva nell’intimo segreto della famiglia, e la tacita regola del sigillo era imperiosa a un punto tale che a nessuno veniva in mente di fare domande, Dov’è Natanaele, non lo vedo da giorni, se Natanaele non si presentava più alla sinagoga o se, nei campi, la fila dei mietitori si era accorciata di un uomo, tutti si comportavano come se Natanaele non fosse mai esistito, ma non era proprio così, ogni tanto si veniva a sapere che Natanaele era rientrato in paese, da solo, nel buio della notte, e se n’era riandato ai primi segni dell’alba, l’unico indizio di questo andirivieni era il sorriso di sua moglie, ma certi sorrisi esprimono tutto, una donna è lì, immobile, lo sguardo perso nel vuoto, e di punto in bianco comincia a sorridere, un sorriso vago, riflesso, come un’immagine che appare sull’acqua e tremola sulla superficie agitata, solo un cieco, perché non lo può vedere, potrebbe pensare che la moglie di Natanaele ha trascorso un’altra notte senza il marito. E il cuore umano è così strano che tante donne, le quali pure godevano della continua presenza dei mariti, si mettevano a sospirare immaginando quegli incontri e, facendo una gran confusione, si facevano intorno alla moglie di Natanaele come le api sopra un fiore traboccante di polline. Non era il caso di Maria, con quei nove figli e un marito che, tutte le notti, gemeva e gridava di angoscia e terrore, tanto da svegliare i bambini che, a loro volta, scoppiavano a piangere. Con il passare del tempo, per fortuna, o forse non tanto, finirono per abituarsi, ma il maggiore, che qualcosa, non ancora un sogno, spaventava nel sonno, continuava a svegliarsi, le prime volte chiedeva alla madre, Che cos’ha papà, e lei rispondeva, quasi a non darvi importanza, Sono brutti sogni, non poteva mica dire al figlio, Tuo padre stava sognando di trovarsi con i soldati di Erode sulla via di Betlemme, Quale Erode, Il padre di quello che ci governa, Ed era questo il motivo per cui gemeva e gridava, Sì, proprio questo, Non capisco perché il fatto di essere il soldato di un re ormai morto provochi brutti sogni, Tuo padre non è mai stato un soldato di Erode, ha sempre fatto il falegname, Allora perché lo sogna, Gli uomini non scelgono i sogni che fanno, Allora sono i sogni che scelgono gli uomini, Non l’ho mai sentito dire a nessuno, ma dev’essere così, Perché quelle urla, mamma, perché quei gemiti, È che tutte le notti tuo padre sogna di andare a ucciderti, ovvio, Maria non poteva arrivare a quel punto, a rivelare la causa dell’incubo del marito proprio a chi,
in quel sogno angoscioso, aveva come Isacco, figlio di Abramo, la parte di vittima mai consumata, ma condannata inesorabilmente. Un giorno, mentre aiutava il padre a montare una porta, Gesù prese coraggio e glielo domandò, e lui, dopo un lungo silenzio, senza neppure alzare gli occhi, rispose solo questo, Figlio mio, ormai conosci i tuoi doveri e i tuoi obblighi, adempi a tutti e troverai giustificazione di fronte a Dio, ma bada anche di cercare nella tua anima se ve ne siano altri che non ti sono stati insegnati, È questo il tuo sogno, padre, No, ne è solo il motivo, l’aver dimenticato un giorno un dovere, o anche peggio, Peggio, come, Non ho pensato, E il sogno, Il sogno è quel pensiero che non si è avuto nel momento in cui era necessario, adesso ce l’ho tutte le notti, non posso dimenticarlo. E che cosa avresti dovuto pensare, Né tu puoi farmi tutte le domande, né io posso darti tutte le risposte. Stavano lavorando nel cortile, all’ombra, perché si era in estate e il sole bruciava. Lì accanto, giocavano i fratelli di Gesù, tranne il più piccolo, che si trovava dentro casa, a tettare in braccio alla mamma. Anche Giacomo li aveva aiutati, ma poi si era stancato, o forse stufato, non c’è da stupirsi, a quest’età un anno fa molta differenza, e a Gesù ormai manca poco per entrare nella maturità della conoscenza religiosa, ha concluso l’istruzione elementare e adesso, oltre che a proseguire lo studio della Torah, o Legge scritta, deve incominciare quello della Legge orale, ben più ardua e complessa. Sarà quindi più comprensibile come, giovane qual è, possa avere sostenuto questa conversazione seria con il padre, usando con proprietà le parole e discutendo con ponderatezza e logica. Gesù sta per compiere dodici anni, fra poco sarà un uomo, e potrebbe magari riprendere l’argomento lasciato in sospeso se Giuseppe fosse disposto a riconoscersi colpevole davanti al figlio, come non fece Abramo con il proprio figlio Isacco, quel giorno fu tutto un riconoscere e un lodare il potere di Dio. Ma è proprio vero che la retta scrittura di Dio coincide ben poco con le linee contorte degli uomini, guardate, appunto, il caso di Abramo cui, all’ultimo momento, comparve l’angelo dicendo, Non alzare la mano su tuo figlio, e osservate il caso di Giuseppe, il quale, anche se Dio gli aveva messo sulla strada, al posto dell’angelo, un caporale e tre soldati chiacchieroni, non ha approfittato del tempo a disposizione per salvare dalla morte i bambini di Betlemme. Ma se Gesù, che ha cominciato tanto bene, non si perderà strada facendo con l’età, forse arriverà pure a chiedersi il perché Dio abbia salvato Isacco e non abbia fatto niente per portare a salvamento quegli sventurati infanti che, immuni dal peccato come il figlio di Abramo, non hanno trovato pietà dinanzi al trono del Signore. E, in tal caso, Gesù potrà dire al suo progenitore, Padre, non devi sopportare tutta la colpa, e nel segreto del proprio cuore magari oserà domandare, Quando arriverà, o Signore, il giorno in cui verrai a noi per riconoscere i Tuoi errori dinanzi agli uomini.
Mentre all’interno della casa e dell’anima Giuseppe il falegname e suo figlio Gesù vagliavano, fra ciò che esprimevano e ciò che tacevano, questi elevati argomenti, proseguiva la guerra contro i romani. Durava da più di due anni e, ogni tanto, giungevano a Nazaret notizie funeree, È morto Efraim, è morto Abiezer, è morto Neftali, è morto Eleazaro, ma i corpi non si sapeva con certezza dove fossero, fra due rocce sul monte, in fondo a un crepaccio, portati via dalla corrente del fiume, sotto l’inutile ombra di un albero. Chi è rimasto a Nazaret può anche lavarsene le mani e, non potendo neppure celebrare il funerale dei morti, dire, Le nostre mani non hanno versato questo sangue e i nostri occhi non lo hanno visto. Ma giungevano anche notizie di grandi vittorie, i romani cacciati dalla città di Sefforis, lì vicino, a due ore di cammino da Nazaret, di vaste zone della Giudea e della Galilea dove l’esercito nemico non osava penetrare, e nel paese di Giuseppe è da oltre un anno che non si vede un soldato di Roma. Chissà che non sia magari stato proprio questo a spingere il vicino del falegname, il curioso e disponibile Anania, di cui non c’era più stato bisogno di parlare, a spingerlo, dicevamo, in questi giorni, a entrare nel cortile con aria misteriosa, dicendo, Seguimi, e ha buoni motivi per chiederglielo, ché nelle case di questa gente, piccole come sono, è impossibile un minimo di intimità, dove c’è uno ci sono tutti, la notte mentre dormono, di giorno in qualunque circostanza e occasione, buon pro per il Signore Iddio che così potrà più facilmente riconoscere i Suoi nel giorno del Giudizio Universale. Non si stupì Giuseppe di quella richiesta, neppure quando Anania aggiunse in gran segreto, Andiamo nel deserto, ebbene, sappiamo come il deserto non sia soltanto quello che la nostra mente ha l’abitudine di raffigurarci quando leggiamo o udiamo questa parola, un’enorme distesa di sabbia, un mare di dune ardenti, i deserti, come li si intende anche qui, ci sono persino nella verde Galilea, sono i campi incolti, i luoghi dove non vivono uomini né si scorgono le tracce del loro assiduo lavoro, dire deserto significa affermare, Quando ci saremo noi, non lo sarà più. In questo caso, però, con due soli uomini in cammino attraverso la boscaglia, ancora in vista di Nazaret, diretti verso tre grandi rocce che spuntano sulla sommità della collina, è chiaro che non si può parlare di popolamento, il deserto sarà di nuovo tale quando i due l’avranno abbandonato. Si sedette per terra Anania, e accanto a lui Giuseppe, c’è la differenza di età che è sempre esistita, è chiaro, il tempo trascorre per tutti uguale, ma così non sono i suoi effetti, ecco perché Anania, che non se la passava neanche male per l’età che aveva quando lo abbiamo conosciuto, oggi sembra un vecchio, e ciò malgrado il tempo non abbia risparmiato neppure Giuseppe. Anania sembra esitante, l’aria risoluta con cui era entrato in casa del falegname si è persa strada facendo, e adesso occorrerà che Giuseppe lo rincuori con una breve frase, che non dovrà sembrare una domanda, sul tipo, Ci siamo allontanati un bel po’, è un buon aggancio per Anania, e gli permetterà di dire, Non
era argomento da potersi trattare in casa tua o mia. D’ora in poi, la conversazione potrà seguire le normali vie, per quanto scabroso possa essere il motivo che li ha portati in questo luogo appartato, come adesso si vedrà. Disse Anania, Un giorno mi hai chiesto di custodirti la casa durante la tua assenza, e io l’ho fatto, Sempre ti fui grato per quel favore, disse Giuseppe, e Anania proseguì, Adesso è arrivato il momento di chiederti di custodirmi la casa durante la mia assenza, Parti con tua moglie, No, da solo, Ma, se rimane lei, Chua si trasferirà a casa di certi parenti pescatori, Non vorrai dirmi che hai presentato a tua moglie l’atto di divorzio, Non ho divorziato da lei, se non l’ho fatto quando ho saputo che non poteva darmi figli, non lo farei neppure adesso, ma dovrò assentarmi da casa per un periodo, ed è meglio che Chua stia con i suoi, Starai via molto tempo, Non so, dipende da quanto durerà la guerra, Che cosa c’entra la guerra con la tua assenza, disse Giuseppe, sorpreso. Vado a cercare Giuda il Galileo, E cosa vuoi da lui, Voglio chiedergli se accetta di accogliermi nel suo esercito, Ma tu, Anania, sei sempre stato un uomo di pace e adesso ti vuoi immischiare in questa guerra contro i romani, pensa a cosa è capitato a Efraim e Abiezer, E anche a Neftali ed Eleazaro, Allora ascolta la voce del buon senso, Ascoltami tu, Giuseppe, qualunque sia la voce che parla per bocca mia, oggi ho l’età di mio padre quando è morto, e lui nella vita ha fatto molto di più di questo suo figlio che non è riuscito neppure ad avere dei figli, io non sono saggio come te per diventare, un giorno, uno degli anziani della sinagoga, d’ora in poi non avrò altro da fare se non attendere la morte tutti i giorni, accanto a una donna che non desidero più, Allora, divorzia, Qui non si tratta di separarmi da lei, dovrei divorziare da me stesso, e ciò non è possibile. E tu, che cosa potresti fare in guerra, tu, con quelle poche forze, Vado in guerra come se pensassi di andare a fare un figlio, Non ho mai sentito dire una cosa del genere, Neanch’io, ma è un’idea che mi è venuta adesso, Baderò alla tua casa fino a quando tornerai, Se non tornerò, se ti diranno che sono morto, promettimi che avvertirai Chua perché prenda possesso di quanto le appartiene, Te lo prometto, Andiamocene, adesso sono in pace, In pace quando decidi di andare in guerra, davvero non capisco, Ah, Giuseppe, Giuseppe, chissà per quanti secoli dovremo aumentare la scienza del Talmud per poter arrivare a comprendere le cose più semplici, Per quale motivo siamo venuti fin qui, non c’era bisogno di allontanarci tanto, Non volevo parlarti di fronte a testimoni, Basterebbe il testimone assoluto che è Dio, questo cielo che ci sovrasta ovunque andiamo, queste rocce, Le rocce sono sorde e mute, non possono testimoniare, È vero, ma in un futuro, se tu e io decidessimo di mentire su quanto si è detto qui, ci accuserebbero e continuerebbero ad accusarci fino a trasformarsi loro in polvere e noi in niente, Andiamocene, andiamo. Strada facendo, Anania si voltò più volte indietro a guardare le rocce, che infine scomparvero alla loro vista, nascoste da un colle, nei pressi del
quale Giuseppe domandò, Chua lo sa già, Sì, gliel’ho detto, E lei, È ammutolita, poi mi ha detto che tanto valeva ripudiarla, adesso non fa che piangere, Poverina, Quando sarà con la famiglia mi scorderà, se morirò mi dimenticherà di nuovo, è la legge della vita, l’oblio. Entrarono in paese e, quando arrivarono a casa del falegname, la prima delle due per chi proveniva da questa direzione, Gesù, che stava giocando nella strada con Giacomo e Giuda, disse che la madre si trovava dalla vicina. Mentre i due uomini si allontanavano, si udì la voce di Giuda che, in tono autoritario, diceva, Io sono Giuda il Galileo, allora Anania si voltò a guardare e disse a Giuseppe, sorridendo, Guarda il mio capitano, là, ma il falegname non ebbe il tempo di rispondere perché risuonò un’altra voce, quella di Gesù, che diceva, Il tuo posto, allora, non è qui. Giuseppe avvertì una specie di puntura al cuore, come se quelle parole fossero rivolte a lui, quasi lo scherzo puerile fosse strumento di un’altra verità, e poi gli vennero in mente le tre rocce e cercò, ma senza sapere perché lo facesse, di immaginare la propria vita come se, da allora in poi, solo di fronte a esse avrebbe dovuto pronunciare ogni parola e compiere ogni azione, ma un attimo dopo il suo cuore fu pervaso da un sentimento di terrore, perché aveva capito di avere dimenticato Dio. A casa di Anania trovarono Maria che tentava di consolare Chua in lacrime, ma il pianto cessò appena entrarono gli uomini, non che Chua avesse smesso di piangere, fatto sta che le donne hanno imparato sulla propria pelle a inghiottire le lacrime, ecco perché diciamo, Tanto piangono quanto ridono, ma non è vero, in genere stanno piangendo dentro. Non esattamente dentro, ma con tutte le angosce dell’anima e tutte le lacrime degli occhi pianse la moglie di Anania il giorno in cui lui partì. Dopo una settimana, vennero a prenderla quei parenti che vivevano in riva al mare. Maria li accompagnò fino all’uscita del paese e lì presero commiato. A quel punto, Chua non piangeva più, ma i suoi occhi non sarebbero mai più stati asciutti, per quel pianto cui non c’è rimedio, per quel fuoco perenne che brucia le lacrime ancor prima che spuntino e scivolino sulle guance. 11. Così trascorsero i mesi, le notizie della guerra arrivavano in continuazione, ora buone, ora cattive, ma mentre le notizie buone non erano null’altro che vaghe allusioni a vittorie che poi risultavano sempre limitate, le cattive notizie, quelle sì, già cominciavano a parlare di pesanti e sanguinose sconfitte dell’esercito ribelle di Giuda il Galileo. Un giorno portarono la nuova che, in un’imboscata guerrigliera, era morto Baltat che i romani avevano colto di sorpresa, così il malocchio si era ritorto contro il fattucchiere, c’erano stati tanti morti, ma di Nazaret soltanto lui. E un altro giorno qualcuno andò a raccontare di aver sentito dire che Varo, il governatore romano della Siria, stava arrivando con due legioni per debellare una volta per tutte
quell’intollerabile insurrezione, che ormai durava da tre anni. Proprio la vaghezza dell’annuncio, Sta arrivando, con quell’imprecisione, diffondeva fra la gente un insidioso sentimento di timore, come se da un momento all’altro dovessero spuntare dietro la curva. issate alla testa della colonna punitiva, le terribili insegne di guerra e la sigla con cui si omologano e si sigillano qui tutte le imprese, SPQR, il senato e il popolo di Roma, è sempre in nome di simili cose, lettere, libri e bandiere, che la gente si ammazza a vicenda, come nel caso di quell’altro e ben noto acronimo, INRI, Jesus Nazarenus Rex Judaeorum, e delle sue conseguenze, ma non anticipiamo, lasciamo passare il giusto tempo, per il momento, e fa una strana impressione saperlo e poterlo dire, quasi stessimo parlando di un altro mondo, non è ancora morto nessuno per causa sua. Dappertutto si annunciano grandi battaglie, c’è chi, di fede robusta, promette che non passerà l’anno senza che i romani siano cacciati dalla santa terra d’Israele, ma non manca neppure chi, davanti a queste euforie, scuote tristemente la testa e comincia a valutare il disastro che si avvicina. E infatti. Per varie settimane dopo che si era sparsa la voce dell’avanzata delle legioni di Varo non accadde nulla, e i guerriglieri, quindi, ne approfittarono per insistere a tormentare l’esercito sbandato contro cui lottavano, ma la ragione strategica di questa apparente inattività fu ben presto chiara, quando le sentinelle del Galileo passarono parola che una legione aveva proseguito verso sud in una manovra di accerchiamento, lungo il fiume Giordano, girando poi a destra all’altezza di Gerico, per riprendere, come una rete lanciata in acqua e ritirata con mano sapiente, il movimento in direzione nord, come una specie di sciabica che peschi qua e là, mentre l’altra, seguendo un metodo simile, si dirigeva a sud. Potremmo definirla la tattica della tenaglia se non fosse piuttosto il movimento concertato di due pareti che si avvicinano gradualmente, travolgendo chi non riesce a scappare, ma che riservano per l’ultimo istante l’effetto principale, lo schiacciamento. Per le strade, le valli e le colline della Giudea e della Galilea, l’avanzata delle legioni era segnata dalle croci su cui morivano, piedi e mani inchiodati, i combattenti di Giuda, ai quali, per finirli più in fretta, si spezzavano le tibie a colpi di maglio. I soldati invadevano gli abitati, rastrellavano casa dopo casa in cerca di sospetti, ché per portare questi uomini al patibolo non c’era bisogno di più certezze di quante possa offrirne, volendo, il semplice sospetto. Quegli sventurati, ci si perdoni la tragica ironia, erano ancora fortunati, perché, crocifissi per così dire davanti alla porta di casa, immediatamente accorrevano i parenti a riprenderseli appena spiravano, ed era uno spettacolo penoso da vedere e da udire, i pianti delle madri, delle spose e delle fidanzate, gli strilli dei poveri bambini che restavano senza padre, mentre il martire veniva calato dalla croce con mille precauzioni, ché non c’è niente di più toccante della caduta a piombo di un corpo morto, tant’è che persino i vivi sembrano risentire del contraccolpo. Il crocifisso, poi, era portato nella tomba,
dove restava ad aspettare il giorno della risurrezione. Ma ce n’erano altri che, catturati durante qualche combattimento sulle montagne o in luoghi disabitati, venivano abbandonati ancora vivi dai soldati e, adesso sì, nel più assoluto di tutti i deserti, quello della morte solitaria, restavano lì, cotti lentamente dal sole, esposti agli avvoltoi e, con il passar del tempo, si staccavano le carni dalle ossa, erano ridotti a misere spoglie informi, ripugnanti persino all’anima. Forse a un curioso, se non addirittura a uno scettico, già convocato in altre occasioni per contrastare quel sentimento di rassegnazione con cui generalmente si accolgono le informazioni correnti di un vangelo come il nostro, piacerebbe sapere come fosse possibile ai romani crocifiggere una così grande quantità di giudei, soprattutto nelle vaste aree deforestate e desertiche che abbondano da queste parti, dove non si riesce a trovare altro, e mica tanto, che un po’ di vegetazione rachitica qua e là, che non riuscirebbe a sostenere neppure la crocifissione di un’anima. Ma si dimentica che l’esercito romano è un esercito moderno, per il quale logistica e intuizione non sono termini vuoti, nel corso di questa lunga campagna il rifornimento di croci è stato ampiamente garantito, basta guardare la lunga fila di asini e mule che procede in coda alla legione, trasportando i singoli pezzi, la crux e il patibulum, l’asta verticale e la traversa, tant’è che, giunti sul posto, c’è solo da inchiodare il condannato alla traversa, con le braccia aperte, issarlo sulla cima del palo piantato per terra e poi, dopo avergli fatto piegare le gambe da un lato, fissare alla croce, con un sol chiodo, di piatto, i due calcagni sovrapposti. Qualunque boia della legione direbbe che l’operazione, solo apparentemente complessa, alla fin fine è più difficile da spiegare che da eseguire. È lo sbaraglio, avevano ragione i pessimisti. Da nord a sud e da sud a nord, c’è gente in preda al panico che scappa davanti alle legioni, alcuni in quanto possibili sospetti di aver collaborato con i guerriglieri, altri spinti da pura e semplice paura, ché, lo sappiamo, non c’è bisogno di avere colpe per essere incolpati. Orbene, uno di quei fuggiaschi, rallentando di qualche istante la ritirata, andò a bussare alla porta del falegname Giuseppe per dirgli che il suo vicino, Anania, si trovava a Sefforis, ferito a colpi di spada, e che, ecco il messaggio, La guerra è perduta, ma io non fuggo, ormai puoi avvertire mia moglie che vada a occuparsi di quanto le appartiene, Nient’altro, domandò Giuseppe, Altro non ha detto, rispose il messaggero, E tu, perché non lo hai portato via con te, visto che dovevi passare di qui, Nello stato in cui si trova, avrebbe rallentato la mia marcia, e pure io ho la mia famiglia, che devo proteggere prima di tutto, Prima di tutto, sì, ma non soltanto, Che cosa vuoi dire, ti vedo lì circondato di figli, se tu non fuggi insieme a loro, evidentemente non sei in pericolo, Non trattenerti, vai, e che il Signore ti accompagni, il pericolo c’è dove non sia il Signore, Uomo senza fede, il Signore è ovunque, Sì, ma ogni tanto non ci guarda, e tu, non parlare di fede perché, abbandonando il mio vicino, hai mancato, Perché non vai a
prenderlo tu, allora, Andrò. Questo accadde verso metà pomeriggio, era una bella giornata di sole, con qualche nuvola bianca, qua e là, vagante nel cielo come una barca che non ci fosse bisogno di governare. Giuseppe andò a slegare l’asino, chiamò la moglie e, senza spiegarle altro, le disse, Vado a Sefforis a prendere il nostro vicino Anania, non ce la fa a camminare da solo. Maria fece appena un cenno d’assenso con il capo, ma Gesù si avvicinò al padre, Posso venire con te, gli domandò. Giuseppe guardò il figlio, gli posò la mano destra sul capo e disse, Rimani a casa, io vado e torno immediatamente, camminando di buona lena forse sarò di ritorno ancora con la luce del giorno, e poteva anche darsi, visto che, ormai lo sappiamo, Nazaret dista da Sefforis non più di otto chilometri, quanto da Gerusalemme a Betlemme, il mondo, ripetiamolo ancora una volta, è davvero pieno di coincidenze. Giuseppe non montò in groppa all’asino, voleva mantenerlo fresco per il ritorno, ben saldo sulle zampe e con la groppa morbida, come conviene a chi dovrà trasportare un infermo o, per meglio dire, un ferito di guerra, che è una patologia ben diversa. Transitando ai piedi della collina dove, quasi un anno prima, Anania gli aveva comunicato la decisione di unirsi ai ribelli di Giuda il Galileo, il falegname alzò gli occhi verso quelle tre rocce che, lassù in cima, vicine come gli spicchi di un frutto, sembravano attendere che dal cielo e dalla terra venisse loro la risposta alle domande che fanno tutti gli esseri e le cose, con la loro semplice esistenza, anche senza formularle, Perché sono qui, Quale motivazione nota o sconosciuta mi spiega, Come sarà il mondo in cui io non esisterò più, se l’attuale è quello che è. Ad Anania, se fosse lui a domandarlo, potremmo rispondere che almeno le rocce sono tali e quali a prima, se il vento e la calura le hanno corrose e consumate è stato qualcosa di impercettibile, e che fra venti secoli probabilmente ci saranno ancora, e poi per altri venti secoli dopo quei primi venti, mentre tutt’intorno il mondo si trasforma, ma per le prime due domande non esiste ancora una risposta. Lungo la strada c’erano gruppi di persone in fuga, con quella stessa espressione di paura che aveva il messaggero di Anania, guardavano Giuseppe con sorpresa, e un uomo lo trattenne per il braccio, disse, Dove vai, e il falegname rispose, A Sefforis, per un amico, Se sei amico di te stesso, non andare, Perché, I romani si stanno avvicinando, per la città non c’è salvezza, Devo andarci, il mio vicino è mio fratello, non ha nessuno che vada a prenderlo, Pensaci bene, e il prudente consigliere proseguì per la sua strada, lasciando Giuseppe immobile in mezzo alla via, alle prese coi suoi pensieri, a chiedersi se veramente fosse amico di se stesso o se, visto che di motivi ce n’erano, si detestasse o si disprezzasse, e dopo aver riflettuto, ne concluse che non si trattava né dell’una né dell’altra cosa, in fondo si guardava con un sentimento di indifferenza, come si guarda il vuoto, nel vuoto non esiste né vicino né lontano su cui posare lo sguardo, mica è possibile fissare un’assenza. Pensò poi che fosse suo dovere di padre tornare indietro, in fondo anche lui aveva dei figli da
proteggere, non c’era motivo di andare in cerca di qualcuno che era soltanto un vicino, e adesso neanche più di tanto, ché aveva lasciato la casa e mandato la moglie altrove. I figli, però, erano al sicuro, i romani non avrebbero fatto loro alcun male, quelli andavano a caccia di ribelli. Quando il filo del pensiero lo condusse a questa conclusione, Giuseppe si ritrovò a dire ad alta voce, quasi rispondesse a una preoccupazione occulta, E neanch’io sono un ribelle. Immediatamente, diede una manata sul fianco della bestia, esclamò, Oh, oh, asino, e proseguì. Quando entrò a Sefforis, era il tramonto. Le lunghe ombre delle case e degli alberi, prima distese per terra e ancora riconoscibili, cominciavano gradatamente a svanire, quasi fossero giunte all’orizzonte e lì sparissero, simili all’acqua scura di una cascata. C’era poca gente per le strade della città, nessuna donna, nessun bambino, solo uomini stanchi che posavano le fragili armi e si sdraiavano, ansimando per il combattimento da cui erano reduci o, forse, perché ne fuggivano. A uno di quegli uomini Giuseppe domandò, Sono vicini i romani. L’uomo chiuse gli occhi, poi lentamente li riaprì e disse, Saranno qui domani, e sviando lo sguardo, Vattene, prendi il tuo asino e vattene via, Sto cercando un amico che è stato ferito, Se i tuoi amici sono tutti i feriti, sei l’uomo più ricco del mondo, E dove sono, Lì, dappertutto, anche qui, Ma c’è un qualche posto, in città, Sì, al di là di queste case, c’è un deposito, con un mucchio di feriti, forse ci troverai il tuo amico, ma fa’ presto, ormai sono più quelli che portano via morti di quelli che entrano ancora vivi. Giuseppe conosceva la città, c’era stato varie volte, sia per ragioni professionali, quando era venuto a lavorare in opere imponenti, assai frequenti nella ricca e prospera Sefforis, sia in occasione di feste religiose meno importanti, ché davvero non avrebbe avuto senso andare sempre a Gerusalemme, lontana com’è e con tutta la fatica che ci vuole per arrivarci. Scoprire quel deposito fu dunque facile, d’altronde bastava seguire l’odore di sangue e di corpi sofferenti che aleggiava, si potrebbe addirittura pensare a un gioco del genere Acqua, acqua, fuoco, fuoco, secondo se si allontanasse o si avvicinasse il cercatore, Duole, non duole, i dolori erano ormai insopportabili. Giuseppe legò l’asino a una lunga stanga lì davanti ed entrò nella buia camerata in cui il deposito era stato trasformato. Per terra, fra le stuoie, alcuni lumini accesi rischiaravano fiocamente, come stelline nel cielo tutto buio, con una luce che bastava solo a segnalarne la posizione, vedendole da così lontano. Giuseppe percorse lentamente le file di uomini sdraiati in cerca di Anania, nell’aria si mescolavano odori forti, quello dell’olio e del vino con cui si curavano le ferite, quello del sudore, quello delle feci e dell’urina, ché alcuni di quegli sventurati non riuscivano neppure a muoversi e, lì dov’erano, rilasciavano ciò che il corpo, più forte della volontà, non voleva più trattenere. Qui non c’è, disse Giuseppe fra sé e sé quando giunse alla fine del corridoio. Riprese a camminare in senso inverso, più lentamente, scrutando,
cercando qualche somiglianza, ma erano tutti simili fra di loro, la barba, i visi scavati, le orbite infossate, il luccichio opaco e untuoso del sudore. Tra i feriti, qualcuno lo seguiva con uno sguardo ansioso, avrebbe voluto credere che quell’uomo sano fosse lì per lui, ma subito svaniva quella fugace luminosità che aveva ravvivato il suo sguardo, e l’attesa, di chi, a che pro, continuava. Davanti a un uomo anziano, barba e capelli bianchi, Giuseppe si fermò, È lui, disse, eppure i capelli non erano così quando lo aveva visto l’ultima volta, li aveva bianchi, sì, e pure folti, ma non erano questa specie di neve sporca in mezzo a cui le sopracciglia, simili a tizzoni, erano ancora nere come un tempo. L’uomo teneva gli occhi chiusi e respirava a fatica. Con un filo di voce Giuseppe lo chiamò, Anania, poi ripeté più forte e più vicino, Anania, e pian piano l’uomo prese a sollevare le palpebre e quando le aprì del tutto si vide che era proprio Anania, il vicino che aveva abbandonato casa e moglie per andare a combattere contro i romani, e adesso eccolo lì, col ventre squarciato e con un odore di carne che comincia a imputridire. Sulle prime, Anania non riconobbe Giuseppe, la luce dell’infermeria serve a ben poco, e ancor meno quella dei suoi occhi, ma è certo che sia lui quando il falegname ripete, adesso con un tono diverso, forse d’amore, Anania, gli occhi del vecchio si riempiono di lacrime, ripete una, due volte, Sei tu, sei tu, cosa sei venuto a fare qua, cosa sei venuto a fare qua, e tenta di sollevarsi su un gomito, di tendere un braccio, ma gli mancano le forze, il corpo ricade, il viso gli si contrae per il dolore. Sono venuto a prenderti, disse il falegname. ho l’asino fuori, saremo a Nazaret in un batter d’occhio. Non dovevi venire, fra poco i romani saranno qui, e io non posso muovermi, questo è il mio ultimo letto da vivo, e con le mani tremanti aprì la tunica stracciata. Sotto quei cenci inzuppati di vino e olio si scorgevano le feroci labbra di due lunghe e profonde ferite, mentre un odore dolciastro e nauseabondo, di putrefazione, faceva rabbrividire le narici di Giuseppe, che distolse gli occhi. Il vecchio si ricoprì, abbandonò le braccia lungo i fianchi, come se lo sforzo lo avesse esaurito, Ti rendi conto che non posso alzarmi, mi uscirebbero le budella dalla pancia se tu mi portassi via da qui, Con una benda stretta intorno al corpo e andando piano, insistette Giuseppe, ma ormai senza convinzione, era evidente che il vecchio, ammesso che riuscisse a montare sull’asino, ci sarebbe rimasto lungo il cammino. Anania aveva richiuso gli occhi e, senza aprirli, disse, Vattene via, Giuseppe, va’ a casa, guarda che i romani stanno arrivando, I romani non attaccheranno di notte, stai tranquillo, Va’ a casa, va’ a casa, sospirò Anania, e Giuseppe disse, Dormi. Tutta la notte vegliò Giuseppe. Con l’animo fluttuante nelle prime nebbie di un sonno che temeva e al quale perciò tentava di resistere, Giuseppe si domandò più volte perché mai fosse andato in quel posto, se in realtà non c’era mai stata fra lui e il vicino una vera amicizia, prima di tutto per la differenza d’età, ma anche per un atteggiamento un po’ meschino di Anania e della moglie, curiosi, impiccioni, da un
lato disponibili, ma dando comunque l’idea di aspettare una ricompensa il cui valore doveva essere fissato solo da loro. È il mio vicino, pensò Giuseppe, e non trovava risposta migliore per i suoi dubbi, è il mio prossimo, un uomo che sta morendo, ha chiuso gli occhi mica perché non desidera vedermi, ma perché non vuole perdere un solo movimento della morte che si avvicina, e io non posso lasciarlo solo. Si era seduto nel piccolo spazio fra la stuoia su cui giaceva Anania e un’altra, dove c’era un giovane poco più grande di suo figlio Gesù, un povero ragazzo che gemeva sottovoce, che mormorava parole incomprensibili, le labbra spaccate dalla febbre. Giuseppe gli prese la mano per calmarlo, proprio nel momento in cui quella di Anania, a tentoni, sembrava in cerca di qualcosa, un arma per difendersi, una mano da stringere, e si ritrovarono così tutt’e tre, un vivo fra due moribondi, una vita fra due morti, mentre il tranquillo cielo notturno faceva ruotare le stelle e i pianeti, avvicinando dall’altro capo del mondo una luna bianca, splendente, che fluttuava nello spazio e ricopriva d’innocenza tutta la terra di Galilea. A notte fonda, Giuseppe emerse dal torpore in cui, senza volerlo, era sprofondato, si svegliò con un senso di sollievo perché stavolta non aveva sognato la strada di Betlemme, aprì gli occhi e lo vide, Anania era morto, anche lui con gli occhi aperti, all’ultimo istante non era riuscito a sopportare la visione della morte, gli stringeva la mano con tanta forza da comprimergli le ossa, allora Giuseppe, per potersi affrancare da quell’angosciante sensazione, liberò la mano che stringeva quella del ragazzo e, ancora in uno stato di semincoscienza, si accorse che la febbre gli si era abbassata. Giuseppe guardò fuori, attraverso la porta spalancata, ormai la luna era tramontata e adesso si scorgeva la luce dell’alba, sfumata e grigiastra. Nel deposito si muovevano figure indistinte, erano i feriti che riuscivano ad alzarsi, andavano a vedere il primo annuncio del giorno, magari si chiedevano l’un l’altro, o al cielo direttamente, Che cosa vedrà questo sole che sta per nascere, un giorno forse impareremo a non fare domande inutili, ma fino a quando non arriva quel momento approfittiamone per domandarci, Che cosa vedrà questo sole che sta per nascere. Giuseppe pensò, Me ne vado, qui non posso fare più nulla, ma nelle sue parole c’era quasi un tono interrogativo, tanto che proseguì, Posso portarlo a Nazaret, e l’idea gli parve così ovvia che si convinse di essere venuto apposta per ritrovare Anania vivo e riportarlo a casa morto. Il ragazzo chiese un po’ d’acqua. Giuseppe gli accostò un boccale alle labbra, Come ti senti, domandò, Un po’ meglio, La febbre, almeno, sembra scesa, Vedo se riesco ad alzarmi, disse il ragazzo, Fa’ attenzione, e Giuseppe lo sostenne, all’improvviso gli era venuta un’altra idea, per Anania ormai non poteva far altro che seppellirlo a Nazaret, ma a questo ragazzo, da qualunque luogo venisse, poteva ancora salvare la vita, sottrarlo al funebre deposito, un vicino, per così dire, prendeva il posto dell’altro. Anania non gli faceva più pena, un corpo morto, l’anima sempre più lontana ogni volta che lo guardava. Sembrava
che il giovane capisse che stava forse per accadergli qualcosa di favorevole, gli brillarono gli occhi, ma non riuscì a rivolgergli neppure una domanda perché Giuseppe si era allontanato, voleva riprendere l’animale, portarlo dentro, sia benedetto il Signore che riesce a mettere in testa agli uomini delle idee così eccellenti. L’asino non c’era più. Della sua presenza era rimasto solo un pezzetto di corda legato alla stanga, il ladro non aveva perso tempo a sciogliere quel semplice nodo, con un coltello affilato aveva sistemato ogni cosa molto più in fretta. Le forze di Giuseppe cedettero di schianto di fronte a quel disastro. Come un vitello fulminato, tali e quali li aveva visti sacrificare al Tempio, cadde in ginocchio e, con le mani sul viso, scoppiò a piangere tutte le lacrime che da tredici anni andava accumulando in attesa del giorno in cui avrebbe potuto perdonarsi o avrebbe dovuto affrontare la condanna definitiva. Dio non perdona i peccati che ordina di commettere. Giuseppe non rientrò nel deposito, aveva capito che il significato del suo gesto era ormai perduto per sempre, e il mondo, neppure il mondo, aveva più senso, stava sorgendo il sole, e a che pro, Signore, c’erano mille nuvolette nel cielo, sparpagliate in ogni direzione, come sassi nel deserto. Vedendolo lì, ad asciugarsi le lacrime con la manica della tunica, chiunque avrebbe pensato che gli fosse morto un parente tra i ricoverati nel deposito, mentre Giuseppe, certo, stava piangendo le sue ultime lacrime naturali, quelle del dolore per la vita. Quando, dopo aver vagato per oltre un’ora, ancora con un filo di speranza di ritrovare l’animale rubato, si accingeva a fare ritorno a Nazaret, lo presero i soldati romani che avevano circondato Sefforis. Gli domandarono chi era, Sono Giuseppe, figlio di Eli, da dove veniva, Da Nazaret, e dove andava, A Nazaret, cosa faceva a Sefforis, Mi hanno detto che c’era un mio vicino, chi era quel vicino, Anania, e lo aveva trovato, Sì, dove lo aveva trovato, In un deposito, in mezzo ad altri, altri chi, Feriti, e dove in città, Là. Lo portarono in una piazza dove c’erano altri uomini, dodici, quindici, seduti per terra, alcuni visibilmente feriti, e gli dissero, Siediti là. Giuseppe, intuendo che quegli uomini erano dei ribelli, protestò, Io sono un falegname e un uomo pacifico, e uno degli uomini seduti aggiunse, Non lo conosciamo, ma il sergente che comandava la squadra di sorveglianza dei prigionieri non volle saperne, con un urtone spinse Giuseppe in mezzo agli altri, Ti muoverai da lì solo per andare a morte. In un primo momento, il duplice colpo, della caduta e della sentenza, lasciò Giuseppe come svuotato. Poi, quando si riprese, si rese conto di avere dentro una grande tranquillità, come se tutto fosse un brutto sogno dal quale era certo di risvegliarsi e, quindi, non valesse la pena di tormentarsi per quelle minacce, perché sarebbero svanite appena aperti gli occhi. Si rammentò allora che, anche quando sognava la strada di Betlemme, era sicuro di svegliarsi, eppure, all’improvviso, cominciò a tremare, finalmente gli si era chiarito, e crudamente, il destino che lo aspettava, Morirò, e morirò innocente. Sentì una mano
posarsi sulla sua spalla, era il vicino, Quando verrà il comandante della coorte gli diremo che tu non c’entri niente con noi e ti manderà via, E voi, I romani hanno crocifisso tutti, appena catturati, non andrà certo diversamente questa volta, Dio vi salverà, Dio salva le anime, non i corpi. Portarono altri uomini, due, tre, e poi un folto gruppo, una ventina. Intorno alla piazza si erano radunati gli abitanti di Sefforis, donne e bambini in mezzo agli uomini, li si udiva mormorare inquieti, ma non potevano allontanarsi finché i romani non li avessero autorizzati, erano già fortunati che non li sospettassero di essere in combutta coi ribelli. Dopo un po’ di tempo fu portato un altro uomo, i soldati che lo accompagnavano dissero, Per il momento non ce ne sono altri, e il sergente urlò, In piedi, tutti. I prigionieri credettero che il comandante della coorte si stesse avvicinando, il vicino di Giuseppe disse, Preparati, e voleva intendere, Preparati a essere liberato, come se per la libertà ci fosse bisogno di preparazione, ma se qualcuno stava arrivando non era certo il comandante della coorte, e non si seppe neppure chi fosse, perché il sergente, senza fermarsi, aveva impartito un ordine ai soldati, in latino, a proposito, non abbiamo ancora spiegato che finora i romani hanno parlato sempre in latino, mica si abbassano, i figli della lupa, a imparare lingue barbare, gli interpreti ci sono apposta, ma in questo caso, trattandosi di discorsi fra militari, la traduzione non serviva, rapidamente i militi circondarono i prigionieri, Avanti marsc’, e il corteo, condannati in testa, seguito dalla popolazione, si diresse fuori città. Vedendosi portato via così, senza nessuno cui poter chiedere misericordia, Giuseppe alzò le braccia e si mise a urlare, Salvatemi, io non sono uno di loro, salvatemi, io sono innocente, Ma accorse un soldato e con la lancia gli tirò un colpo sulle spalle che quasi lo buttò per terra. Disperato, Giuseppe odiò Anania, per colpa sua sarebbe morto, ma anche questo sentimento, dopo averlo bruciato dentro, scomparve com’era nato, lasciandolo come un deserto, quasi pensasse, Non c’è più dove andare, ma si sbagliava, ormai manca poco per arrivarci. Per quanto sia difficile crederlo, la certezza della morte lo tranquillizzò. Vide intorno a sé i compagni di martirio, camminavano sereni, alcuni prostrati, sì, ma a testa alta. Erano perlopiù farisei. Per la prima volta, allora, Giuseppe pensò ai figli, un pensiero, ma fugace, lo rivolse anche alla moglie, ma erano tanti di quei visi e di quei nomi che la sua mente svanita per mancanza di sonno e di cibo, infine, se li perse per la strada, finché non gli rimase solo Gesù, il primo figlio, l’ultimo castigo. Ripensò a come avessero parlato di quel suo sogno, di come lui gli avesse detto, Né tu puoi farmi tutte le domande, né io posso darti tutte le risposte, ormai stava per concludersi il tempo di rispondere e domandare. Fuori città, su una piccola altura che la dominava, erano piantati verticalmente, a file di otto, quaranta grossi pali, abbastanza robusti da sostenere un uomo. Accanto a ciascuno, per terra, c’era un lungo travetto, sufficiente per ricevere un uomo con le
braccia aperte. Alla vista di quegli strumenti di supplizio, alcuni condannati cercarono di scappare, ma i soldati conoscevano bene il loro mestiere e, gladio in pugno, tagliarono loro la fuga, e uno dei ribelli, che tentò inutilmente di scagliarsi sull’arma, fu subito trascinato alla prima croce. Cominciò poi il lento lavoro, inchiodare i condannati ciascuno al proprio travetto e issarlo sulla cima dell’enorme asta verticale. Dappertutto si udivano urla e gemiti, tutta Sefforis piangeva di fronte al miserevole spettacolo cui, per castigo, era costretta ad assistere. Cominciarono pian piano a formarsi le croci, ciascuna col proprio uomo lì sospeso, le gambe piegate, come si è detto, e ci chiediamo il perché, forse per un ordine di Roma inteso a razionalizzare il lavoro e l’economia del materiale, chiunque, sia pur non avendo esperienza di crocifissioni, può osservare come la croce, per un uomo disteso, non ripiegato, dovrebbe essere più alta, e quindi ci sarebbero più spreco di legno, maggior peso da trasportare, più grandi difficoltà di manovra, senza contare il fatto, a vantaggio dei condannati, che avendo i piedi così in basso li si poteva schiodare facilmente, senza bisogno di scale, e passandoli, per così dire, direttamente dalle braccia della croce a quelle della famiglia, se ce l’avevano, o dei becchini, che mica li avrebbero abbandonati lì. Giuseppe fu l’ultimo a essere crocifisso e quindi dovette assistere, l’uno dopo l’altro, al supplizio dei suoi trentanove compagni sconosciuti, e quando arrivò il suo turno, perduta ogni speranza, non ebbe neppure la forza di ripetere le sue rivendicazioni di innocenza, chissà, forse ha perso l’occasione di salvarsi quando il soldato, con il martello in mano, disse al sergente, È il tizio che diceva di non avere colpa, il sergente ebbe un istante di esitazione, proprio l’attimo in cui Giuseppe avrebbe dovuto urlare, Sono innocente, invece tacque, aveva mollato, allora il sergente lo guardò, magari avrà pensato che ne avrebbe sofferto la simmetria se non utilizzava l’ultima croce, che quaranta è un numero tondo e perfetto, fece un gesto e i chiodi furono piantati, Giuseppe urlò e continuò a gridare, poi lo sollevarono di peso, sostenuto per i polsi attraversati dai pezzi di ferro, e poi altre urla, il lungo chiodo che gli perforava i calcagni, Oh, mio Dio, è questo l’uomo che hai creato, lode a Te, giacché non è lecito maledirti. All’improvviso, come se qualcuno avesse dato il segnale, gli abitanti di Sefforis scoppiarono in un triste fragore, ma non fu soltanto per pietà dei condannati, divampavano incendi in tutta la città, le fiamme, ruggendo, come una miccia divoravano le case, gli edifici pubblici, gli alberi dei cortili interni. Indifferenti al fuoco che i soldati andavano appiccando, quattro militi del plotone di esecuzione percorrevano le file dei condannati, spaccando metodicamente le loro tibie con delle sbarre di ferro. Sefforis bruciò tutta, da punta a punta, mentre, l’uno dopo l’altro, morivano i crocifissi. Il falegname di nome Giuseppe, figlio di Eli, era un uomo giovane, nel fiore degli anni, da poco ne aveva compiuti trentatré.
12. Quando questa guerra finirà, e ci manca poco, ché ne stiamo già vedendo gli ultimi e fatali rantoli, si farà il conteggio di quanti vi hanno perso la vita, tanti qui, tanti lì, alcuni più vicino, altri più lontano, e se è vero che, con il passar del tempo, il numero di quelli che sono stati uccisi nelle imboscate o nelle battaglie campali ha finito per perdere importanza o per essere completamente dimenticato, tutti i crocifissi, all’incirca duemila, secondo le statistiche più degne di fede, rimarranno nel ricordo delle genti di Giudea e di Galilea, tanto che se ne parlerà ancora per un bel po’ di anni, quando nuovo sangue sarà versato in una nuova guerra. Duemila crocifissi sono un gran numero di morti, ma ci sembrerebbero ancora di più se li immaginassimo piantati a intervalli di un chilometro lungo una strada, o a circoscrivere, è solo un esempio, quel paese che un giorno si chiamerà Portogallo e la cui dimensione, alle frontiere, si aggira più o meno intorno a quel valore. Tra il fiume Giordano e il mare, piangono le vedove e gli orfani, è un’usanza antica, proprio per questo sono vedove e orfani, per piangere, poi c’è solo da attendere che i bambini crescano e vadano a una nuova guerra, altre vedove e altri orfani prenderanno il loro posto e, se nel frattempo sono cambiate le mode, se il lutto, da bianco, è diventato nero, o viceversa, se sui capelli, che prima venivano strappati, adesso si mette un velo di pizzo, le lacrime, purché sentite, sono sempre le stesse. Maria non piange ancora, ma nell’animo ha già un presentimento di morte, giacché il marito non è tornato a casa, e a Nazaret corre voce che Sefforis sia stata bruciata e gli uomini crocifissi. Accompagnata dal figlio primogenito, Maria ripete il cammino che Giuseppe ha percorso ieri, e molto probabilmente, in qualche punto, posa i piedi sulle orme dei sandali del marito, non è stagione di piogge, il vento è solo una dolce brezza che a stento sfiora il suolo, ma le impronte di Giuseppe sono già come le vestigia di un animale antico che avesse abitato da queste parti in un’era estinta diciamo ieri, ma è come se dicessimo, Mille anni fa, il tempo non è una corda che si può misurare a nodi, il tempo è una superficie obliqua e oscillante che solo la memoria riesce a far muovere e avvicinare. Con Maria e Gesù vanno degli abitanti di Nazaret, chi spinto dalla carità, chi soltanto curioso, e c’è anche qualche lontano parente di Anania, ma questi torneranno a casa con gli stessi dubbi con cui sono partiti, morto non lo hanno trovato e quindi può darsi che sia vivo, non hanno mica pensato, loro, a cercarlo negli angoli di quel deposito, e quand’anche ci avessero pensato, chissà se avrebbero riconosciuto il loro morto fra gli altri morti, tutti il medesimo carbone. Quando, a metà strada, questi nazareni incrociarono una compagnia di soldati inviati al loro villaggio per certe perquisizioni, alcuni sarebbero tornati indietro, preoccupati per la sorte dei loro beni, ché non si può mai prevedere
cosa possano fare dei soldati che, bussando alla porta di una casa, non ottengano risposta dall’interno. Volle sapere il comandante che cosa andava a fare quella caterva di rustici a Sefforis e gli fu risposto, A vedere il fuoco, un chiarimento che soddisfece il militare, giacché fin dall’aurora del mondo gli incendi hanno sempre attirato gli uomini, qualcuno dice che si tratta addirittura di una sorta di richiamo interiore, inconsapevole, una reminiscenza del fuoco originario, come se le ceneri potessero mai aver memoria di quanto hanno bruciato, giustificandosi così, secondo questa tesi, l’espressione affascinata con la quale contempliamo persino il semplice falò presso cui ci riscaldiamo o la fiamma di una candela nel buio della camera. Se fossimo così imprudenti, o così audaci, come le farfalle, le falene e altri lepidotteri, e ci lanciassimo nel fuoco tutti insieme, la specie umana in blocco, può darsi che una combustione così enorme, un simile chiarore, attraversando le palpebre serrate di Dio, lo desterebbe dal Suo sonno letargico, troppo tardi per conoscerci, questo è vero, ma ancora in tempo per vedere il principio del nulla, dopo la nostra scomparsa. Maria, pur avendo lasciato una casa piena di figli senza protezione, non è tornata indietro, ma è comunque relativamente tranquilla, perché non capita tutti i giorni che in un paese irrompano i soldati a uccidere bambini, senza contare che, in genere, i nostri romani non solo permettono loro di crescere, ma addirittura li esortano a farlo il più possibile, e poi si vede, dipende se hanno il cuore docile e i balzelli aggiornati. Ormai madre e figlio procedono soli per la strada, i famigliari di Anania, che sono una mezza dozzina e camminano chiacchierando, sono rimasti indietro, mentre Maria e Gesù non avrebbero altro da scambiarsi se non parole inquietanti, e perciò se ne stanno ciascuno in silenzio per non affliggere l’altro, e quello strano mutismo sembra coprire tutto, non si sentono uccelli cantare, il vento è calato, solo il rumore dei passi, ma anche la brezza indietreggia, intimidita, come un intruso in buona fede che si affacci in una casa deserta. Sefforis è comparsa all’improvviso dietro l’ultima curva della strada, qualche casa ancora in fiamme, sottili colonne di fumo qua e là, pareti annerite, alberi bruciati da capo a piedi, ma ancora con il fogliame, adesso di un color ruggine. Da questo lato, alla nostra destra, le croci. Maria si è messa a correre, ma la distanza è troppa perché possa farcela d’un fiato, poco dopo rallenta, con tutti quei parti consecutivi il cuore di questa donna vacilla facilmente. Da figlio rispettoso, Gesù vorrebbe seguire la madre, starle accanto, adesso e poi laggiù, per provare insieme la stessa gioia o uniti patire lo stesso dispiacere, ma lei avanza così lentamente, le pesa tanto muovere le gambe, Così non arriviamo più, mamma, lei fa un gesto, come a dire, Se vuoi, vai tu, e lui, tagliando attraverso il campo, come seguendo una scorciatoia, si lancia in una corsa folle, Padre, padre, lo dice con la speranza che non sia lì, lo dice con il dolore di chi lo ha già trovato. È arrivato alle prime file, alcuni crocifissi sono ancora appesi, altri li
hanno tirati giù, sono per terra, in attesa, ben pochi hanno una famiglia intorno, il fatto è che questi ribelli per la maggior parte vengono da lontano, appartengono a un esercito diverso che ha combattuto qui la sua ultima battaglia unita, ormai sono definitivamente dispersi, ciascuno per sé, nell’inesprimibile solitudine della morte. Gesù non vede il padre, il cuore vorrebbe riempirsi di gioia, mentre la ragione dice, Aspetta, non siamo ancora alla fine, ma ecco davvero la fine, sdraiato per terra c’è il padre che stavo cercando, quasi non ha sanguinato, solo quelle piaghe sui polsi e sui piedi, sembra che tu stia dormendo, padre mio, invece no, non stai riposando, non potresti con le gambe così storte, è già un atto di grande carità che ti abbiano calato dalla croce, ma i morti sono talmente tanti che quelle buone anime non hanno avuto il tempo di raddrizzarti le ossa spezzate. Il ragazzino di nome Gesù è inginocchiato accanto al cadavere, piange, vorrebbe toccarlo, ma non osa, arriva però il momento in cui il dolore è più forte del timore della morte, allora abbraccia quel corpo inerte, Padre mio, padre mio, dice, e un altro grido si unisce al suo, Povero Giuseppe, povero marito mio, è Maria che finalmente è arrivata, esausta, aveva cominciato a piangere già da lontano perché fin da quell’istante, vedendo il figlio fermarsi, sapeva ciò che l’aspettava. Il pianto di Maria aumenta quando lei si accorge della crudele torsione delle gambe del marito, in realtà dopo morti non si sa che cosa accada dei dolori provati in vita, soprattutto degli ultimi, può darsi che con la morte finisca veramente tutto, ma niente ci garantisce che, almeno per qualche ora, una memoria di sofferenza non persista in un corpo che noi diciamo morto, e non sarebbe neppure da escludere che la putrefazione sia l’ultima risorsa che rimane alla materia per liberarsi definitivamente del dolore. Con una dolcezza, una tenerezza che con il marito vivo non avrebbe mai osato mostrare, Maria tentò di ridurre quelle penose angolature delle gambe di Giuseppe che la tunica, rimasta un po’ sollevata da quando lo avevano calato dalla croce, lasciava intravedere, conferendogli l’aspetto grottesco di un fantoccio con le articolazioni spezzate. Gesù non toccò il padre, si limitò ad aiutare la madre ad abbassare la tunica, ma rimasero comunque in vista i magri stinchi del falegname, forse la parte che, nel corpo umano, ci dà la più penetrante impressione di fragilità. I piedi, per la rottura delle tibie, ricadevano lateralmente, mostrando le ferite sui calcagni, da cui bisognava scacciare di continuo le mosche attratte dall’odore del sangue. I sandali di Giuseppe erano lì, accanto al grosso tronco di cui era stato l’ultimo frutto. Consumati, coperti di polvere, sarebbero potuti rimanere lì abbandonati se Gesù non li avesse raccolti, e lo fece soprappensiero, quasi avesse ricevuto un ordine allungò il braccio, Maria non si accorse neppure del movimento, e se li legò alla cintura, e forse è nata così quella che oggi è l’eredità simbolica più perfetta dei primogeniti, ci sono cose, tipo questa, che cominciano in maniera tanto semplice, ecco perché si dice ancora oggi, Con gli stivali di mio padre, anch’io sono
uomo, oppure, secondo una versione più radicale, È solo con gli stivali di mio padre che sono uomo. Poco distante, un gruppo di soldati romani vigilava, pronto a intervenire casomai ci fossero atteggiamenti o strilli sediziosi da parte di coloro che, piangendo e lamentandosi, si occupavano di quei poveri sventurati. Ma quella non era gente di stampo guerriero, oppure non lo dimostrava, si limitavano a recitare le orazioni funebri, andavano da un crocifisso all’altro, e così trascorsero più di due ore, delle nostre, nessuno di questi morti rimase senza il benedetto viatico delle preghiere e della lacerazione delle vesti, a sinistra i parenti, a destra chi non lo era, nella tranquillità del pomeriggio si udivano le voci intonare le litanie, Signore, che è quest’uomo che Tu ne fai tanto conto, che è questo figlio dell’uomo a cui rivolgi la Tua attenzione, l’uomo è come un soffio, i suoi giorni passano come l’ombra, qual è l’uomo che vive e non vede la morte, o risparmia la sua anima sfuggendo alla sepoltura, l’uomo, nato di donna, breve di giorni e sazio di inquietudine, come un fiore spunta e avvizzisce, fugge come l’ombra e mai si ferma, che è quest’uomo per cui ti ricordi di lui, e questo figlio dell’uomo perché Tu lo visiti. Eppure, dopo quest’ammissione dell’irrimediabile insignificanza dell’uomo di fronte al suo Dio, proferita in un tono così profondo che sembrava venisse più dalla coscienza che dalla voce al servizio delle parole, il coro saliva e raggiungeva una specie di esultanza, per proclamare al cospetto di Dio una grandiosità inattesa, Ricordati, però, che di poco inferiore agli angeli hai fatto l’uomo, e di gloria e onore l’hai coronato. Quando arrivarono a Giuseppe, che non conoscevano, ed era l’ultimo dei quaranta, non si trattennero così a lungo, eppure il falegname si era portato all’altro mondo tutto quanto ci voleva, ma la fretta era giustificata dal fatto che la Legge non consente che i crocifissi rimangano fino al giorno successivo senza sepoltura, e il sole ormai sta tramontando, fra poco sarà il crepuscolo. Essendo ancora molto giovane, Gesù non doveva strapparsi la tunica, era esentato da questa manifestazione di lutto, ma la sua voce, sottile, vibrante, si udì più forte delle altre quando intonò, Benedetto sia Tu, o Signore, nostro Dio, re dell’universo, che con giustizia ti ha creato, che con giustizia ti ha mantenuto in vita, che con giustizia ti ha nutrito, che con giustizia ti ha fatto conoscere il mondo, che con giustizia ti farà risorgere, benedetto sia Tu, Signore, che risusciti i morti. Sdraiato per terra, se ancora avverte i dolori dei chiodi, forse Giuseppe può sentire anche queste parole, ma solo lui saprà quale posto ha veramente occupato la giustizia di Dio nella sua vita, adesso che non può attendersi più niente né dall’una né dall’altra. Concluse le preghiere, bisognava seppellire i morti, ma erano tanti e la notte era ormai vicina, e quindi non è possibile trovare un posto per ognuno. una tomba vera, da poter chiudere con una pietra circolare, e quanto ad avvolgere i corpi nelle bende mortuarie, o magari nel semplice sudario,
neanche a pensarci. Decisero quindi di scavare una fossa lunga per tutti, non è la prima volta, questa, né sarà l’ultima, i corpi scenderanno nella terra vestiti come sono, anche a Gesù hanno dato una vanga, e lui si è distinto nel lavoro accanto agli adulti, ecco il destino che, in tutto più saggio, ha voluto che nel terreno scavato dal figlio fosse sepolto il padre, compiendosi così la profezia, Il figlio dell’uomo seppellirà l’uomo, ma egli stesso rimarrà insepolto. Queste parole, a prima vista enigmatiche, che non suscitino in voi pensieri elevati, sono decisamente un’ovvietà, vogliono soltanto dire che l’ultimo uomo, proprio perché ultimo, non avrà nessuno che gli dia sepoltura. Orbene, non sarà il caso di questo giovane che ha appena seppellito il padre, il mondo non finirà con lui, ci resteremo ancora per millenni e millenni, fra nascite e morti, e se l’uomo è stato, con altrettanta costanza, lupo e boia di se stesso, a maggior ragione continuerà a essere il suo becchino. Il sole ha ormai superato il crinale della montagna. Grandi nuvole scure sovrastano la valle del Giordano, spostandosi lentamente verso ponente, come attratte dall’ultima luce che ne tinge di rosso il nitido bordo superiore. L’aria è rinfrescata all’improvviso, è probabile che stanotte piova, anche se non è stagione. I soldati si sono ormai ritirati, approfittando dell’ultima luce diurna per rientrare all’accampamento che si trova nei dintorni e dove probabilmente sono già arrivati i loro compagni d’arme, recatisi a Nazaret in veste di investigatori, ecco come si fa una guerra moderna, con grande coordinazione, non nel modo in cui è andato a farla il Galileo, e il risultato è lì davanti agli occhi, trentanove guerriglieri crocifissi, il quarantesimo era un povero innocente, è venuto per fare del bene, e male gliene incolse. La gente di Sefforis andrà a cercare nella città bruciata un posto dove trascorrere la notte e, domattina presto, ogni famiglia passerà in rassegna quanto è rimasto della propria casa, se qualcosa è scampato all’incendio, e poi forza e coraggio, a rifarsi una vita, ché Sefforis, non solo l’hanno bruciata, ma Roma non permetterà certo che sia ricostruita tanto presto. Maria e Gesù sono due ombre in mezzo a una foresta di soli tronchi, la madre stringe a sé il figlio, due paure in cerca di un po’ di coraggio, il cielo nero non aiuta affatto, e i morti sottoterra sembra che vogliano afferrare i piedi dei vivi. Gesù disse alla madre, Dormiamo in città, e Maria rispose, Non possiamo, i tuoi fratelli sono soli e hanno fame. A stento vedevano dove mettere i piedi. Finalmente, dopo una serie di inciampate e una caduta, raggiunsero la strada, che ricordava il greto asciutto di un fiume che apriva una pallida traccia nella notte. Si erano ormai lasciati Sefforis alle spalle quando cominciò a piovere, prima dei goccioloni che sulla spessa polvere della strada facevano un rumore soffice, se le parole così accoppiate hanno un senso. Poi la pioggia aumentò, continua, insistente, ben presto la polvere divenne fango, Maria e il figlio dovettero sfilarsi i sandali per non perderli nel cammino. Procedono silenziosi, la madre cerca di coprire col suo
mantello la testa del figlio, non hanno niente da dirsi, forse si trovano addirittura a pensare, confusamente, che non è poi così sicuro che Giuseppe sia morto, può darsi che giunti a casa lo trovino che accudisce i figli, cercando di fare del proprio meglio, e che domandi alla moglie, Che cosa vi è venuto in mente di andarvene in città senza il mio permesso, ma gli occhi di Maria sono di nuovo pieni di lacrime, e non soltanto per il dispiacere e il lutto, c’è anche questa stanchezza infinita, questo castigo della pioggia, questa notte senza scampo, è tutto troppo triste e nero perché Giuseppe possa essere vivo. Un giorno, qualcuno andrà a raccontare alla vedova che si è verificato un prodigio alle porte di Sefforis, che sono nate radici e foglie ai tronchi usati per il supplizio, e non si abusa del termine parlando di prodigio, primo perché, contrariamente all’abitudine i romani, andandosene, non li hanno portati via, e, secondo, perché è impossibile che dei tronchi così tagliati, alla base e alla cima, contenessero ancora un po’ di linfa e dei germogli capaci di tramutare dei pezzi di legno insanguinati in alberi vivi. È stato il sangue dei martiri, dicevano i credenti, è stata la pioggia, ribattevano gli scettici, ma né il sangue versato né la pioggia del cielo erano mai riusciti prima a rinverdire tante croci abbandonate sui pianori di montagna o nel piattume del deserto. Ciò che nessuno ebbe il coraggio di dire è che era stata la volontà di Dio, non solo perché questa volontà, qualunque essa sia, è imperscrutabile, ma anche perché non si trovavano ragioni e meriti particolari negli uomini crocifissi a Sefforis per essere beneficiari di una così singolare manifestazione della grazia divina, più tipica di dei pagani. Per lungo tempo questi alberi resteranno qui, e verrà un giorno in cui si sarà ormai persa ogni memoria dell’accaduto, e allora, visto che gli uomini vogliono per ogni cosa una spiegazione, falsa o vera, si inventeranno storie e leggende, all’inizio ancora con qualche relazione con i fatti, che poi sarà sempre più tenue, fino a quando si trasformerà tutto in pura fabula. E arriverà un altro giorno in cui gli alberi moriranno di vecchiaia o saranno tagliati, e un altro ancora in cui, per un’autostrada, o una scuola, o un’abitazione, o un centro commerciale, o un fortino, le scavatrici rivolteranno il terreno e riporteranno alla luce, così rinati, gli scheletri che sono giaciuti lì per duemila anni. Arriveranno allora gli antropologi e un professore di anatomia esaminerà i resti, per annunciare poi al mondo scandalizzato che, a quel tempo, gli uomini alla fin fine venivano crocifissi con le gambe piegate. E giacché il mondo non potrebbe esautorarlo in nome della scienza, lo ha aborrito in nome dell’estetica. Quando Maria e Gesù arrivarono a casa, senza neppure un filo asciutto addosso, inzaccherati di fango e battendo i denti per il freddo, i bambini erano più tranquilli di quanto si sarebbe potuto immaginare, grazie alla disinvoltura e all’iniziativa dei maggiori, Giacomo e Lisia, i quali, accorgendosi che stava rinfrescando, avevano pensato di accendere il forno, ed erano tutti lì accoccolati,
tentando di compensare i morsi della fame con il conforto del caldo. Udendo sbattere il cancello del cortile, Giacomo andò ad aprire la porta, la pioggia si era trasformata in un diluvio a cui sfuggivano la madre e il fratello, e quando i due entrarono fu come se la casa venisse inondata di colpo. I bambini li guardarono, quando la porta si richiuse seppero che il padre non sarebbe tornato, ma tacquero, e fu Giacomo a domandare, Papà. Il pavimento d’argilla assorbiva lentamente l’acqua gocciolante dalle tuniche inzuppate, nel silenzio si udiva il crepitio della legna umida che ardeva all’imboccatura del forno, i bambini guardavano la madre. E Giacomo ripeté la domanda, Papà. Maria aprì la bocca per rispondere, ma la parola fatale, come la corda della forca, le compresse la gola e fu Gesù a dover dire, Papà è morto, e senza sapere bene perché lo facesse, o forse perché era la prova inconfutabile della definitiva assenza, slegò dalla cintura i sandali bagnati e li mostrò ai fratelli, Ecco. Erano già spuntate le prime lacrime negli occhi dei più grandicelli, ma fu la vista di quei sandali che fece scoppiare il pianto, adesso piangevano tutti, la vedova e i suoi nove figli, e lei non sapeva chi confortare, alla fine si inginocchiò per terra, stremata, e i bambini le si avvicinarono e la circondarono, un grappolo vivente che non aveva bisogno di essere calpestato per sprizzare quel sangue bianco che sono le lacrime. Solo Gesù rimase in piedi, stringendo i sandali al petto, pensando vagamente che un giorno, o in quell’istante se ne avesse avuto il coraggio, li avrebbe calzati. A poco a poco, i bambini si scostarono dalla madre, i maggiori per quella specie di pudore che ci porta a soffrire da soli, i più piccoli perché si erano staccati i fratelli e loro non riuscivano a provare un vero sentimento di dolore, piangevano soltanto, sotto questo aspetto i bambini sono come i vecchi, piangono per un nonnulla, anche quando ormai non provano più niente, o forse proprio perché non provano più niente. Maria rimase lì, inginocchiata nella casa, per un po’ di tempo, come se aspettasse una decisione o una sentenza, il segnale le fu dato da un lungo brivido, gli abiti bagnati addosso, allora si alzò, aprì la cassa e ne trasse una tunica del marito vecchia e rammendata, la porse a Gesù dicendo, Togliti quella che indossi, metti questa e va’ a sederti accanto al fuoco. Poi chiamò le due figlie, Lisia e Lidia, disse loro di reggere una stuoia, a mo’ di paravento, dietro cui anche lei si cambiò d’abito e dopo, con il poco cibo che c’era in casa, cominciò a preparare la cena. Presso il forno, Gesù si riscaldava nella tunica del padre, che gli era lunga di maniche e d’orlo, è ovvio, in un’altra occasione i fratelli lo avrebbero deriso per quell’aspetto da spaventapasseri, ma oggi non avrebbero osato, non solo in virtù del grande dolore, ma anche per quell’aria di adulta maestà che promanava da quel ragazzo, come se da un momento all’altro fosse cresciuto alla massima altezza, e quest’impressione si rafforzò quando lui, con movimenti lenti e misurati, sistemò i sandali umidi del padre in modo che ricevessero il calore del forno, un gesto privo di qualsiasi fine pratico, ché il loro padrone non era più di questo
mondo. Giacomo, il secondogenito, andò a sederglisi accanto e domandò a voce bassa, Cos’è accaduto a nostro padre, Lo hanno crocifisso con i guerriglieri, rispose Gesù, anch’egli sussurrando, Perché, Non lo so, ce n’erano quaranta, e nostro padre era uno di loro, Forse era un guerrigliero, Chi, Papà, Non lo era, stava sempre qui, impegnato nel suo lavoro, E l’asino, lo avete trovato, Né vivo né morto. La madre aveva finito di preparare la cena, si sedettero tutti intorno alla ciotola comune e mangiarono quello che c’era. Alla fine, ai più piccoli ciondolava la testa per il sonno, è pur vero che lo spirito era ancora inquieto, ma il corpo stanco reclamava il riposo. Lungo la parete di fondo furono stese le stuoie dei maschi, Maria aveva detto alle figlie, Coricatevi qui con me, e si sdraiarono ciascuna da un lato per evitare gelosie. Dalla fessura della porta entrava un’aria fredda, ma la casa era riscaldata, c’era ancora il calore del forno, quello dei corpi vicini, e la famiglia, a poco a poco, malgrado la tristezza e i sospiri, cominciava ad abbandonarsi al sonno, Maria dava l’esempio, tratteneva le lacrime, desiderava che i figli si addormentassero in fretta, autonomamente, per potersi anche ritrovare sola con il proprio dolore, con gli occhi spalancati sulla sua futura vita senza un marito e con nove figli da crescere. Ma anche per lei, a metà di un pensiero, è svanito il dolore dell’anima, il corpo indifferente ha accolto il sonno senza resistenza, e adesso dormono tutti. Nel pieno della notte un gemito svegliò Maria. Pensò di essere stata proprio lei, durante un sogno, ma non stava sognando, e il gemito si era ripetuto, più forte. Si rizzò a sedere, attenta a non svegliare le figlie, si guardò intorno, ma la luce del lume non arrivava al fondo della casa, Chi sarà, pensò, ma in cuor suo sapeva che chi stava gemendo era Gesù. Si alzò senza un rumore, andò a prendere il lume dal gancio sulla porta e, sollevandolo sopra la testa per fare più luce, passò in rivista i figli addormentati, Gesù, è lui che si agita e mormora, come se stesse lottando in un incubo, sta certo sognando il padre, un ragazzo di questa età che ha visto ciò che ha visto, morte, sangue e tortura. Maria pensò che avrebbe dovuto svegliarlo, interrompere quest’altra specie di agonia, ma non lo fece, non voleva udire il figlio raccontarle ciò che sognava, un motivo che dimenticò appena si accorse che Gesù aveva calzato i sandali del padre. Quel fatto insolito la sconcertò, che stupidaggine, non c’era giustificazione, e inoltre, che mancanza di rispetto, mettersi i sandali del padre proprio il giorno della sua morte. Tornò alla stuoia, senza sapere più che cosa pensare, forse il figlio stava ripetendo in sogno, per via dei sandali e della tunica, l’avventura mortale del padre dopo la partenza da casa, e in tal caso era entrato nel mondo degli uomini, cui apparteneva già secondo la Legge di Dio, ma dove adesso si installava con un nuovo diritto, quello di succedere al padre nei beni, sia pur che fossero una vecchia tunica e un paio di sandali scalcagnati, e nei sogni, anche solo per
rivivere i suoi ultimi passi sulla terra. Non pensò Maria che il sogno potesse essere un altro. Il mattino spuntò limpido, senza nuvole, il sole caldo e luminoso, niente faceva temere un ritorno della pioggia. Maria uscì presto di casa, con tutti i figli maschi in età scolare e con Gesù, il quale, come si è detto, ha già concluso la sua istruzione. Si recava alla sinagoga ad annunciare la morte di Giuseppe e le presumibili circostanze che vi avrebbero concorso, aggiungendo che, malgrado tutto, sia a lui che agli altri sventurati, fatto non disprezzabile, erano stati resi gli onori funebri che la fretta e il luogo consentivano, ma comunque sufficienti, in qualità e numero, per poter affermare che, in linea generale, il rituale era stato rispettato. Durante il ritorno a casa, finalmente sola con il figlio maggiore, Maria pensò che fosse un’occasione propizia per domandargli il motivo per cui avesse calzato i sandali del padre, ma all’ultimo momento fu trattenuta da uno scrupolo, era molto probabile che Gesù non sapesse darle alcuna spiegazione e, quindi, umiliato, vedesse confuso agli occhi della madre il proprio gesto, indubbiamente eccessivo, con la banalissima mancanza di un bambino che si alza di notte per andare di nascosto a mangiare un dolce, potendo comunque, se colto sul fatto, addurre la fame a discolpa, il che dell’episodio dei sandali non si sarebbe potuto dire, a meno che non si trattasse di un’altra specie di fame, ma che neppure noi sapremmo spiegare. A Maria venne in mente, poi, un’altra idea, che adesso il figlio era il capo della casa e della famiglia, e quindi era bene che lei, madre e sottoposta, si impegnasse nel mostrargli il rispetto e l’attenzione che gli si confacevano, come per esempio interessarsi di quella pena dello spirito che aveva turbato il suo sogno, Hai sognato tuo padre, gli domandò, e Gesù finse di non aver sentito, voltò la faccia dall’altro lato, ma la madre, decisa, insistette, Hai sognato, non si aspettava che il figlio le rispondesse prima, Sì, e subito dopo, No, e che si incupisse in quel modo, come se addirittura avesse di nuovo davanti agli occhi il padre morto. Proseguirono in silenzio e, arrivati a casa, Maria si mise a cardare un po’ di lana, pensando subito che per la necessità di mantenere la famiglia avrebbe dovuto cominciare a farlo su commissione, approfittando della buona mano che aveva per quel mestiere. A sua volta Gesù, che aveva guardato il cielo per trovare conferma delle buone disposizioni del tempo, si avvicinò al bancone da falegname, appartenuto al padre, che si trovava sotto la tettoia, e cominciò a controllare, a uno a uno, i lavori interrotti, e poi lo stato degli attrezzi, della qual cosa Maria si rallegrò in cuor suo, vedendo che il figlio, fin dal primo giorno, prendeva tanto sul serio le sue nuove responsabilità. I più giovani fecero ritorno dalla sinagoga e tutti si riunirono per mangiare, e solo un osservatore attentissimo potrebbe notare che, poche ore fa, questa famiglia ha subito la perdita del suo capo naturale, marito e padre, e tranne Gesù, le cui nere sopracciglia aggrottate seguono un pensiero occulto, tutti gli altri,
compresa Maria, sono apparentemente tranquilli, pervasi da una composta serenità, perché è scritto, Piangi amaramente e abbandonati a grida di dolore, osserva il lutto secondo la dignità del morto, un giorno o due per via dell’opinione pubblica, poi consolati della tua tristezza, ed è scritto anche, Non abbandonare il tuo cuore alla tristezza, ma tienila lontana e rammenta la tua fine, non te ne dimenticare perché non vi sarà ritorno, al morto non servirai a nulla e causerai solo danno a te stesso. Ancora è troppo presto per il riso, che verrà a suo tempo, come i giorni si susseguono ai giorni e le stagioni alle stagioni, ma la miglior lezione è quella dell’Ecclesiaste, dove si legge, Per questo ho esaltato la gioia, non c’è di meglio per l’uomo, sotto il sole, che mangiare e bere e godersela, è questo che lo accompagna nelle sue fatiche, per tutti i giorni che Dio gli concederà sotto il sole. Nel pomeriggio, Gesù e Giacomo salirono sulla terrazza della casa per chiudere con un impasto di paglia e argilla le crepe del soffitto da cui, per tutta la notte, era entrata acqua, nessuno certo si stupirà che allora non si sia parlato di così umili particolari della nostra vita quotidiana, la morte di un uomo, innocente o meno, dovrà sempre prevalere su tutte le cose. Giunse di nuovo la sera, un altro giorno stava per cominciare, alla meglio cenò la famiglia e si coricò sulle stuoie. Verso le prime luci dell’alba, Maria si destò impaurita, non era lei che sognava, no, ma suo figlio, e adesso fra pianti e gemiti da spezzare il cuore, tanto che si svegliarono anche i fratelli più grandi, per gli altri ci sarebbe voluto ben altro per strapparli al sonno profondo dell’innocenza di queste età. Maria si precipitò dal figlio che si dibatteva, con le braccia alzate, come se cercasse di difendersi da colpi di spada o di lancia, pian piano si chetò, o perché gli assalitori si erano ritirati, o perché la vita lo stava abbandonando. Gesù aprì gli occhi, si aggrappò con forza alla madre come se non fosse quel piccolo uomo che è, capo della sua famiglia, perfino un adulto, se piange, diventa un bambino, loro non vogliono confessarlo, poveri sciocchi, ma il cuore addolorato si culla nelle lacrime. Che cos’hai, figlio mio, che cos’hai, gli domandò Maria, preoccupata, e Gesù non riusciva a rispondere, o forse non voleva, una smorfia in cui non c’era più nulla d’infantile gli sigillava le labbra, Dimmi che cos’hai sognato, insisteva Maria, e quasi tentando di aprirgli un varco, Hai visto tuo padre, il ragazzo fece un brusco gesto di diniego, poi si divincolò dalle braccia della madre e si abbandonò sulla stuoia, Va’ a dormire, disse, e rivolgendosi ai fratelli, Non è niente, dormite, sto bene. Maria se ne tornò accanto alle figlie ma, quasi fino all’albeggiare, rimase a occhi aperti, vigile, aspettando che da un momento all’altro il sogno di Gesù si ripetesse, che sogno poteva essere stato per addolorarlo così tanto, ma non accadde niente. Maria non pensò che il figlio potesse essere rimasto sveglio solo per impedirsi di sognare di nuovo, ma piuttosto notò la coincidenza, davvero singolare, che Gesù, dopo aver sempre avuto sonni tranquilli, aveva cominciato a essere preda degli incubi subito
dopo la morte del padre, Signore, mio Dio, fa’ che non sia lo stesso sogno, lo implorò, per sua tranquillità, il buon senso le suggeriva che i sogni non si tramandano né si ereditano, ma si sbaglia di grosso, non c’è alcun bisogno che gli uomini si comunichino i sogni che fanno perché li possano avere uguali padri e figli, e negli stessi momenti. Finalmente albeggiò, la fessura della porta si illuminò. Quando Maria si svegliò, vide che il posto del suo primogenito era vuoto, Dove sarà andato, pensò, si alzò rapidamente, aprì la porta e sbirciò fuori, Gesù era lì, seduto sotto la tettoia, sulla paglia sparsa per terra, con la testa fra le braccia che teneva sopra le ginocchia, immobile. Rabbrividendo per il freddo del mattino, ma anche, benché non ne fosse cosciente, per la visione della solitudine del figlio, la madre gli si avvicinò, Ti senti male, gli domandò, il ragazzo alzò la testa, No, non sono malato, Allora, che cosa ti succede, Sono questi miei sogni, Sogni, dici, Un sogno solo, lo stesso, stanotte e quell’altra, Hai sognato tuo padre sulla croce, Ti ho già detto di no, sogno mio padre, è vero, ma non lo vedo, Mi avevi detto che non hai sognato lui, Perché non lo vedo, ma sono certo che nel sogno c’è, E qual è questo sogno che ti tormenta. Gesù non rispose subito, guardò la madre con espressione smarrita, e Maria sentì come un dito toccarle il cuore, suo figlio era lì, con quel viso ancora da bambino, lo sguardo spento di chi non ha dormito, e la prima peluria, teneramente ridicola, era il suo primogenito, a lui si affidava e si dedicava per il resto dei suoi giorni, Raccontami tutto, lo pregò, e Gesù, finalmente, disse, Sogno di trovarmi in un paese che non è Nazaret e tu sei con me, ma non sei proprio tu, perché la donna che nel sogno è mia madre ha un viso diverso, e ci sono altri ragazzi della mia età, non so quanti, e delle donne che sono le madri, non so se quelle vere, qualcuno ci ha radunato tutti nella piazza, e siamo in attesa di un gruppo di soldati che devono ucciderci, noi li udiamo nella strada, si avvicinano, ma non li vediamo, in quel momento non ho ancora paura, so che è un brutto sogno, nient’altro, ma all’improvviso ho la certezza che mio padre stia arrivando fra i soldati, mi rivolgo a te perché tu mi difenda, anche se non sono sicuro che sia tu, ma te ne sei andata via, tutte le madri se ne sono andate, siamo rimasti solo noi, che a quel punto non siamo più dei ragazzi, ma bambini molto piccoli, io sono sdraiato per terra e comincio a piangere, e tutti gli altri piangono, ma io sono l’unico il cui padre arriva con i soldati, guardiamo verso l’entrata della piazza, sappiamo che arriveranno da lì, ma non entrano, siamo in attesa del loro ingresso ma non entrano, ed è anche peggio, i passi si avvicinano, è il momento, tuttavia non lo è, ancora non arriva, allora mi vedo come sono adesso, vedo un bimbo che sono sempre io e comincio a fare uno sforzo enorme per uscirne, è come se fossi legato per i piedi e per le mani, chiamo te, che te ne sei andata, chiamo mio padre, che viene a uccidermi, e poi mi sono svegliato, questa notte e l’altra. Maria rabbrividiva per l’orrore, fin dalle prime parole, appena compreso il significato del sogno, aveva
abbassato gli occhi addolorati, in fondo stava accadendo ciò che aveva tanto temuto, contrariamente a ogni senso comune e a ogni ragione Gesù aveva ereditato il sogno di suo padre, non esattamente nello stesso modo, ma come se il padre e il figlio, ciascuno al proprio posto, lo stessero facendo contemporaneamente. E tremò veramente di terrore quando udì il figlio domandarle, Qual era il sogno che mio padre faceva tutte le notti, Be’, un brutto sogno, come chiunque, Ma quel sogno, che cos’era, Non lo so, non me lo ha mai raccontato, Mamma, non devi nascondere la verità a tuo figlio, Per te non sarebbe un bene conoscerla, Che cosa puoi saperne tu di ciò che è bene o male per me, Un po’ di rispetto per tua madre, Sono tuo figlio, hai il mio rispetto, ma adesso mi stai nascondendo ciò che appartiene alla mia vita, Non costringermi a parlare, Un giorno ho chiesto a mio padre il motivo del suo sogno ed egli mi ha risposto che né io potevo porgli tutte le domande né lui poteva darmi tutte le risposte, Ecco, accetta le parole di tuo padre, Le ho accettate finché lui era vivo, ma adesso sono il capo della famiglia, da lui ho ereditato una tunica, un paio di sandali e un sogno, ormai potrei andarmene, ma ho bisogno di sapere quale sogno porterei con me, Figlio mio, forse non lo sognerai più. Gesù guardò fissamente la madre, la costrinse a fare altrettanto e disse, Rinuncerò a conoscerlo se la prossima notte il sogno non tornerà, se non si ripresenterà mai più, ma se si ripeterà, giurami che mi dirai tutto, Lo giuro, rispose Maria, che non sapeva più come difendersi dall’insistenza e dall’autorità del figlio. Nel silenzio del suo cuore angosciato, si levò un appello a Dio, senza parole, o, se le avesse avute, avrebbero potuto essere, Passa a me, o Signore, questo sogno, che fino al giorno della mia morte io possa patirlo istante dopo istante, ma mio figlio, no, mio figlio, no. Disse Gesù, Dovrai ricordarti di ciò che hai promesso, Me ne rammenterò, rispose Maria, ma continuava a ripetere fra sé e sé, Mio figlio, no, mio figlio, no. Mio figlio, sì. Venne la notte, all’alba cantò un gallo nero e il sogno si ripeté, dietro l’angolo comparve il muso del primo cavallo. Maria udì i gemiti del figlio, ma non andò a consolarlo. E Gesù, tremando in un bagno di sudore, non ebbe bisogno di chiedere niente per sapere che anche la madre si era svegliata, Che cosa mi racconterà, pensò, mentre Maria, accanto a lui, rimuginava, Come glielo racconterò, e cercava un modo per non rivelargli tutto. Al mattino, quando si alzarono, Gesù disse alla madre, Ti accompagno a portare i miei fratelli alla sinagoga, poi verrai con me nel deserto, dobbiamo parlare. Mentre preparava il pasto per i figli, alla povera Maria cadevano le cose dalle mani, ma il vino dell’agonia era stato servito, adesso bisognava berlo. Lasciati i più giovani a scuola, madre e figlio si allontanarono dal paese e, lì, in un luogo deserto, si sedettero sotto un ulivo, nessuno, tranne Dio, ammesso che sia da queste parti, potrà udire ciò che diranno, sappiamo già che i sassi non parlano, neanche se li picchiamo gli uni contro gli altri, e quanto alla terra profonda, è proprio
il luogo in cui le parole si tramutano in silenzio. Gesù disse, Rispetta il tuo giuramento, e Maria rispose senza tergiversare, Tuo padre sognava che da soldato, con altri commilitoni, andava a ucciderti, A uccidermi, Sì, È il mio sogno, Sì, confermò lei, sollevata, In fondo è stato semplice, pensò, e a voce alta, Ora lo conosci, torniamo a casa, i sogni sono come le nuvole, vanno e vengono, tu hai amato molto tuo padre e perciò ne hai ereditato il sogno, ma lui non ti ha ucciso né ti ucciderebbe mai, e anche se fosse stato per ordine del Signore, all’ultimo momento l’angelo gli avrebbe trattenuto la mano, come fece con Abramo quando stava per sacrificare suo figlio Isacco, Non parlare di ciò che non conosci, la interruppe bruscamente Gesù, e Maria si rese conto che il vino amaro doveva essere bevuto fino alla fine, Consentimi, figlio mio, almeno di sapere che nulla si può opporre alla volontà del Signore, qualunque essa sia, e che se il Signore ha mostrato adesso una volontà e subito dopo ne palesa un’altra, contraria, né tu né io siamo parte nella contraddizione, rispose Maria e, incrociando le mani in grembo, rimase in attesa. Gesù le chiese, Risponderai a tutte le domande che ti farò, Risponderò, disse Maria, Quando mio padre ha cominciato a fare quel sogno, Molti anni fa, Quanti, Quando sei nato tu, Lo ha sognato tutte le notti, Sì, tutte le notti, credo, negli ultimi tempi non mi svegliavo più, ci si abitua, Sono nato a Betlemme in Giudea, Infatti, Che cosa è accaduto alla mia nascita perché mio padre sognasse di uccidermi, Non è stato alla tua nascita, Ma tu hai detto, Il sogno comparve qualche settimana dopo, Che cosa successe a quell’epoca, Erode fece uccidere tutti i bambini di Betlemme che avevano meno di tre anni, Perché, Non lo so, Mio padre lo sapeva, No, Ma non hanno ucciso me, Vivevamo in una grotta, fuori del paese, Vuoi dire che i soldati non mi hanno ucciso soltanto perché non mi hanno visto, Sì, Mio padre era un soldato, Non lo è mai stato, Che cosa faceva, allora, Lavorava nelle opere del Tempio, Non capisco, Sto rispondendo alle tue domande, Se i soldati non mi videro, se vivevamo fuori paese, se mio padre non era un militare, se non aveva alcuna responsabilità, se non si sapeva neppure per quale motivo Erode avesse ordinato di uccidere i bambini, Sì, tuo padre non sapeva per quale motivo Erode ordinò di ammazzare i bambini, Allora, Niente, se non hai altre domande da farmi, io non ho altre risposte da darti, Mi nascondi qualcosa, O tu non sei capace di vederlo. Gesù tacque, sentiva svanirgli, come acqua su un terreno arido, l’autorità con cui si era rivolto alla madre, mentre in qualche recesso dell’animo gli sembrava di vedere svilupparsi un’idea ignobile, fra linee che appena si muovevano, ma già mostruose alla nascita. Sulle pendici di una collina lì di fronte passava un gregge di pecore che, come il pastore, erano del colore della terra, terra in movimento su terra. Il viso teso di Maria rivelò un’espressione di sorpresa, quel pastore alto, quel modo di camminare, tanti anni dopo e proprio in quel momento, che segnale poteva essere, vi concentrò lo sguardo e titubò, ma era uno dei vicini di Nazaret che portava al pascolo
le sue poche pecore, stentate quanto lui. Nell’anima di Gesù, l’idea finì di formarsi, tentò di uscire all’esterno del corpo, ma la lingua le ostacolò il passaggio, infine, con voce timorosa di se stessa, disse, Mio padre sapeva che quei bambini sarebbero stati uccisi. Non era stata una domanda, perciò Maria non dovette rispondere. Come lo aveva saputo, adesso sì, questa era una domanda, Stava lavorando al Tempio, a Gerusalemme, quando udì dei soldati parlare di ciò che dovevano fare, E poi, Tornò di corsa per salvarti, E poi, Pensò che non fosse necessario fuggire, e rimanemmo in quella grotta, E poi, Nient’altro, i soldati fecero quanto era stato loro ordinato e se ne andarono, E poi, Poi tornammo a Nazaret, E cominciò quel sogno, La prima volta accadde nella grotta. Le mani di Gesù salirono d’improvviso al volto come se lo volessero graffiare, la voce si mutò in un grido irreparabile, Mio padre ha ucciso i bambini di Betlemme, Che follia stai dicendo, li hanno uccisi i soldati di Erode, No, donna, li ha uccisi mio padre, li ha ammazzati Giuseppe figlio di Eli, il quale, sapendo che i bambini sarebbero stati uccisi, non ha avvertito i loro genitori, e una volta pronunciate tutte queste parole fu definitivamente persa ogni speranza di consolazione. Gesù si buttò per terra, piangendo, Poveri innocenti, poveri innocenti, ripeteva, sembra incredibile che un semplice ragazzo di tredici anni, un’età in cui è facile spiegare e scusare l’egoismo, possa aver subito un trauma così forte per via di una notizia che, se tenessimo conto di ciò che sappiamo del nostro mondo contemporaneo, lascerebbe indifferente la maggior parte della gente. Ma gli uomini non sono tutti uguali, eccezioni ce ne sono nel bene e nel male, e questa è senza dubbio tra le migliori, un ragazzino in lacrime per un vecchio errore commesso dal proprio padre, e che forse sta piangendo anche per se stesso, se, come pare, amava quel padre due volte colpevole. Maria tese la mano al figlio, voleva toccarlo, ma lui si scansò, Non toccarmi, c’è una ferita nella mia anima, Gesù, figlio mio, Non chiamarmi figlio tuo, anche tu sei colpevole. Ecco come sono i giudizi dell’adolescenza, radicali, in verità Maria era innocente quanto i bambini assassinati, sono gli uomini, mio caro, a decidere tutto, si è presentato mio marito e ha detto, Andiamocene, poi ha cambiato idea, Non ce ne andiamo, e senza spiegazioni, ho dovuto chiedergli io, Che cosa sono quelle grida. Maria non rispose al figlio, sarebbe stato facile dimostrargli di non essere colpevole, ma pensò al marito crocifisso, anche lui morto innocente, e si accorse, fra lacrime e vergogna, di amarlo adesso più di quando era vivo, perciò tacque, la colpa che si è portato uno può portarla anche l’altro. Disse Maria, Andiamo a casa, non abbiamo altro da dirci qui, e il figlio le rispose, Vai tu, io resto. Sembrava che si fosse persa ogni traccia di pecore e pastore, il deserto era realmente un deserto e persino le case, laggiù, sparse qua e là lungo il pendio, sembravano grandi massi squadrati, come un cantiere abbandonato che pian piano stesse sprofondando nel suolo. Quando Maria scomparve nella profondità grigiastra di una valle, Gesù,
inginocchiato, urlò, e il corpo gli bruciava tutto come se stesse sudando sangue, Padre, padre mio, perché mi hai abbandonato, ecco, infatti, ciò che sentiva quel povero ragazzo, abbandono, disperazione, la solitudine infinita di un altro deserto, né padre né madre né fratelli, l’inizio di un lungo cammino disseminato di morti. Da lontano, seduto e confuso fra le pecore, il pastore lo guardava. 13. Trascorsi due giorni, Gesù se ne andò da casa. Nel frattempo si contarono le parole che pronunciò e le notti le passò in bianco, solo perché non riusciva a dormire. Immaginava l’orribile carneficina, i soldati che irrompevano nelle case e frugavano nelle culle, le spade che si abbattevano o si conficcavano nei teneri corpicini scoperti, le urla folli delle madri, i padri che bramivano come tori incatenati, e si figurava anche se stesso, dentro una grotta che non aveva mai visto, e in quei momenti, a tratti, come dense e lente ondate che lo sommergessero, sentiva l’inspiegabile desiderio di essere morto, di non essere vivo, almeno. Lo ossessionava una domanda, che non aveva mai posto alla madre, quanti bambini erano stati uccisi, nella sua mente erano tanti, accatastati uno sull’altro, come agnelli decapitati e gettati nel mucchio, in attesa del grande falò che li avrebbe consumati e portati in cielo stemperati in fumo. Ma non lo aveva chiesto al momento della rivelazione, e adesso gli sembrava un gesto di cattivo gusto, se l’espressione era già in uso allora, andare dalla madre e dire, Mamma, l’altro giorno ho dimenticato di chiederti quanti furono i pargoli passati a miglior vita laggiù a Betlemme, e lei avrebbe risposto, Ah, figlio mio, non pensarci, neanche una trentina, e poi, se sono morti, l’ha certo voluto il Signore, ché era in suo potere evitarlo se gli fosse convenuto. Fra sé e sé, incessantemente, Gesù si chiedeva, Quanti, guardava i fratelli e domandava, Quanti, avrebbe voluto sapere la quantità di corpi morti che c’era stato bisogno di porre sull’altro piatto perché l’ago della bilancia dichiarasse equilibrata la sua vita salva. La mattina del secondo giorno, Gesù disse alla madre, Non ho pace né riposo in questa casa, tieniti i miei fratelli, ché io parto. Maria alzò le braccia al cielo, piangente e stupefatta, Che significa, che significa, un figlio primogenito non abbandona la propria madre vedova, dove si è mai visto, addio mondo sempre peggiore, e perché, perché, se questa è la tua casa e questa la tua famiglia, come vivremo noi se non ci sarai tu, Giacomo ha soltanto un anno meno di me, provvederà lui, come dovrei fare io in mancanza di tuo marito, Mio marito era tuo padre, Non voglio parlarne, non voglio parlare di nient’altro, dammi la tua benedizione per il viaggio, se vuoi, io me ne vado comunque, E dove vuoi andare, figlio mio, Non so, forse a Gerusalemme, forse a Betlemme, per vedere il paese in cui sono nato, Ma là nessuno ti conosce, Buon per me, dimmi, mamma, che cosa pensi che mi farebbero se sapessero chi sono, Taci, che i tuoi fratelli ti sentono, Un giorno
anche loro conosceranno la verità, E adesso, su queste strade, con i romani che vanno a caccia dei guerriglieri di Giuda, andrai incontro a tanti pericoli, I romani non sono peggiori dei soldati dell’altro Erode, non mi si scaglieranno certo addosso con la spada in pugno per uccidermi, né mi inchioderanno su una croce, io non ho fatto niente, sono innocente, Anche tuo padre lo era, e vedi che cosa è successo, Tuo marito è morto innocente, ma non ha vissuto da tale, Gesù, il Demonio parla per bocca tua, Come puoi sapere che non sia Dio colui che parla per bocca mia, Non pronunciare il nome del Signore invano, Nessuno può sapere quando il nome di Dio è pronunciato invano, non lo sai tu né lo so io, soltanto il Signore può fare la distinzione e noi non potremmo comprendere le sue ragioni, Figlio mio, Dimmi, Non so dove tu, così giovane, sia andato a trovare queste idee, questa scienza, E io non saprei dirtelo, forse gli uomini nascono con la verità dentro di sé e non la rivelano solo perché non credono che sia il vero, Te ne vuoi proprio andare, Sì, E tornerai, Non lo so, Se proprio vuoi, se questo ti tormenta, va’ pure a Betlemme, va’ a Gerusalemme, al Tempio, parla con i dottori, interrogali, ti illumineranno, e poi torna da tua madre e dai tuoi fratelli che hanno bisogno di te, Non ti prometto di tornare, E di che cosa vivrai, tuo padre non è campato a sufficienza per insegnarti il mestiere, Lavorerò nei campi, farò il pastore, chiederò ai pescatori di portarmi con loro in mare, Non desiderare di essere pastore, Perché, Non lo so, è una specie di presentimento, Ciò che dovrà essere, sarà, e adesso, madre mia, Non puoi andartene così, devo prepararti del cibo per il viaggio, denaro ce n’è poco, ma qualcosa si rimedierà, prendi la bisaccia di tuo padre, per fortuna che l’ha lasciata, Prenderò il cibo, ma non la bisaccia, È l’unica che abbiamo, tuo padre non aveva mica la lebbra, né la rogna, Non posso, Un giorno dovrai piangere tuo padre e non lo avrai, L’ho già pianto, Lo piangerai di più, e allora non vorrai sapere le sue colpe, a queste parole della madre Gesù non rispose. I fratelli più grandi gli si avvicinarono, domandando, Te ne vuoi proprio andare, non sapevano alcunché delle motivazioni segrete di quella conversazione con la madre, e Giacomo disse, Vorrei venire con te, lo attiravano l’avventura, il viaggio, il pericolo, un orizzonte diverso, Tu devi restare, rispose Gesù, qualcuno dovrà pure occuparsi di nostra madre che è vedova, si trattò di parole che gli uscirono sfuggendo alla sua volontà, fece per mordersi il labbro come per trattenerle, ma ciò che non riuscì a fermare furono le lacrime, il ricordo vivo del padre, inatteso, lo aveva colpito come un fascio di luce insopportabile. Fu dopo che ebbero mangiato, tutta la famiglia riunita, che Gesù partì. Si congedò dai fratelli, a uno a uno, si accomiatò dalla madre che piangeva, dicendole, senza capire perché, In un modo o nell’altro, tornerò, e poi, mettendosi la bisaccia in spalla, attraversò il cortile e aprì il cancello che dava sulla strada. Lì si fermò, come se riflettesse su quanto stava per fare, lasciare la casa, la madre, i fratelli, quante e
quante volte, sulla soglia di una porta o di una decisione, un’improvvisa e nuova motivazione, o qualcosa che l’ansia del momento come tale ha raffigurato, ci fa trattenere la mano, ci porta a considerare il detto come non detto. Lo pensò anche Maria, e una felice sorpresa le si stava già dipingendo sul viso, ma ebbe breve durata, perché il figlio, prima di tornare indietro, posò la bisaccia per terra, dopo una lunga pausa durante la quale aveva dato l’impressione di dibattere fra sé e sé un problema di difficile soluzione. Gesù passò tra i suoi famigliari senza guardarli ed entrò in casa. Quando ne uscì di nuovo, alcuni istanti dopo, in una mano aveva i sandali del padre. Taciturno, con gli occhi bassi, come se il pudore o una mal celata vergogna non gli consentissero di affrontare altri sguardi, infilò i sandali nella bisaccia e, senza altre parole o gesti, se ne andò. Maria corse al cancello, la seguirono tutti i figli, i più anziani con l’aria di non dare grande importanza al caso, ma non vi furono gesti di saluto perché Gesù non si voltò neppure una volta. Una vicina che, passando, assistette alla scena, domandò a Maria, Dove va tuo figlio, e Maria rispose, Ha trovato lavoro a Gerusalemme, starà lì per qualche tempo, una sfacciata menzogna, come sappiamo, ma questa faccenda del mentire e del dire la verità è una lunga storia, è meglio non azzardare giudizi morali assoluti perché, se daremo abbastanza tempo al tempo, arriverà sempre il giorno in cui la verità diventerà menzogna e la menzogna si trasformerà in verità. Quella notte, mentre in casa dormivano tutti, tranne Maria che fantasticava su come e dove fosse a quell’ora il figlio, se in salvo in qualche caravanserraglio, se sotto qualche albero, se fra i sassi di qualche burrone tenebroso, se nelle grinfie dei romani, che il Signore non lo permetta, udì il cigolio del cancello sulla strada e il cuore le balzò in gola, È Gesù che ritorna, pensò e, in un primo momento, la gioia la lasciò paralizzata e confusa, Che cosa devo fare, non voleva andare ad aprirgli la porta con aria trionfante, Hai visto, tanta durezza con tua madre e neppure una notte hai resistito fuori, per lui sarebbe stata un’umiliazione, le conveniva restarsene lì tranquilla e silenziosa, far finta di dormire, lasciarlo entrare, e se lui vorrà coricarsi sulla stuoia alla chetichella, senza dire, Sono qui, domattina si fingerà stupita per il ritorno del figliol prodigo, mica perché le assenze sono brevi la gioia sarà minore, in fondo anche l’assenza è una morte, l’unica e importante differenza è la speranza. Ma quanto gli ci vuole per arrivare alla porta, chissà, forse agli ultimi passi si è bloccato, esitante, ma questo pensiero Maria non è riuscita a sopportarlo, ecco lì la fessura della porta attraverso cui potrà spiare senza essere vista, avrà il tempo di tornare alla sua stuoia se il figlio deciderà di entrare, avrà il tempo di trattenerlo se si pentirà e tornerà sui suoi passi. In punta di piedi, scalza, Maria si avvicinò e si mise a spiare. C’era la luna, il suolo del cortile brillava come acqua. Una sagoma alta e nera si muoveva lentamente, avanzava verso la porta, e Maria, appena la vide, si tappò la bocca con le mani per non urlare. Non era il figlio,
enorme, gigantesco, immenso, era il mendicante, coperto di stracci come la prima volta e, sempre come in quella prima occasione, adesso forse per effetto del chiaro di luna, improvvisamente rivestito di abiti sontuosi, che un forte alito di vento agitava. Maria, spaventata, bloccava la porta, Che cosa vuole, che cosa vuole, mormoravano le sue labbra tremanti, e d’improvviso non seppe che cosa pensare, l’uomo che aveva detto di essere un angelo si scostò di lato, era lì accanto alla porta ma non entrava, lei riuscì a sentire solo il respiro e poi un rumore simile a un graffio, come se la terra fosse squarciata crudelmente da una ferita che si trasformava in una bocca abissale. Maria non aveva bisogno di aprire né di domandarlo per sapere quanto stava accadendo dietro la sua porta. La sagoma massiccia dell’angelo riapparve, per un breve istante il grande corpo riempì tutto il campo visivo di Maria e poi, senza neppure uno sguardo alla casa, la figura si allontanò verso il cancello, portando con sé, dalla radice all’ultima foglia, l’enigmatica pianta che era nata tredici anni prima nel punto in cui la scodella era stata seppellita. Il cancello si aprì e si chiuse, fra un movimento e l’altro l’angelo si trasformò e apparve il mendicante, chiunque fosse scomparve al di là del muro, trascinando le lunghe frasche come un serpente piumato, adesso senza il minimo rumore, come se quanto era successo non fosse stato altro che sogno e immaginazione. Maria aprì la porta lentamente e, timorosa, fece capolino. Il mondo, fin dall’alto e inaccessibile cielo, era tutto un chiarore. Lì vicino, rasente al muro della casa, c’era il buco nero da cui la pianta era stata strappata, e, partendo dal bordo, verso il cancello, una scia luminosa brillava come una Via Lattea, ammesso che allora si chiamasse così, giacché Cammino di Santiago non può essere, perché chi dovrà dargli questo nome per il momento è ancora solo un ragazzino della Galilea, più o meno coetaneo di Gesù, Dio solo sa dove saranno, l’uno e l’altro, in questo momento. Maria pensò al figlio, ma questa volta senza che il cuore le si stringesse per la paura, niente di male gli sarebbe potuto accadere sotto un cielo così, bello, sereno, imperscrutabile, e questa luna, come un pane fatto di sola luce, che alimenta le fonti e le linfe della terra. Con animo tranquillo, Maria attraversò il cortile, calpestando senza timore le stelle del suolo, e aprì il cancello. Guardò fuori, vide che la scia terminava poco più avanti, come se la potenza iridescente delle foglie si fosse estinta o, altro delirio della fantasia di questa donna che a discolpa non potrà più invocare il fatto di essere incinta, come se il mendicante avesse ripreso le sembianze dell’angelo, servendosi finalmente, giacché si trattava di un’occasione speciale, delle ali. In cuor suo, Maria ponderò questi rari eventi e li trovò semplici, naturali e giustificati, tanto quanto la visione delle proprie mani sotto il chiaro di luna. Rientrò poi in casa, prese dal gancio alla parete il lume e andò a far luce nell’ampia buca lasciata dalla pianta sradicata. Sul fondo c’era la scodella vuota. Infilò la mano nella fossa e la tirò fuori, era soltanto quella banale ciotola di cui si ricordava, solo con
qualche rimasuglio di terra dentro, ma le luci erano spente, un prosaico utensile domestico ritornato alle funzioni originarie, d’ora in poi servirà di nuovo per il latte, l’acqua o il vino, secondo l’appetito e le possibilità, è proprio vero ciò che si è detto, a ognuno la sua ora e ogni cosa a suo tempo. Per quella sua prima notte da viandante, Gesù ebbe il conforto di un tetto. Il crepuscolo lo ha colto lungo la via, in vista di un paesino che si trova prima della città di Jenin, e ha voluto la sorte, che tanti brutti annunci gli ha promesso e concretato fin dalla nascita, che gli abitanti della casa dove, senza sperarci troppo, ha bussato per chiedere alloggio, fossero gente compassionevole, di quella che passerebbe il resto della vita fra i rimorsi se lasciasse un ragazzino come questo senza un tetto, specialmente in un periodo così tormentato da guerre e assalti, quando per un nonnulla si crocifiggono anime e si accoltellano creature innocenti. Gesù dichiarò ai suoi benevoli ospiti che veniva da Nazaret e andava a Gerusalemme, ma non ripeté la vergognosa menzogna udita sulla bocca della madre, che andava a lavorare, disse solo che aveva l’incarico di interrogare i dottori del Tempio su un punto della Legge cui la sua famiglia era particolarmente interessata. Il padrone di casa si stupì che una missione di tale responsabilità fosse affidata a un ragazzo così giovane, anche se già entrato, come si capiva chiaramente, nella maturità religiosa, e Gesù spiegò che non poteva essere altrimenti, essendo lui il maschio più anziano della famiglia, ma del padre non disse una sola parola. Cenò con i padroni di casa e poi se ne andò a dormire sotto la tettoia del cortile, perché non c’erano comodità migliori per gli ospiti di passaggio. Nel cuore della notte, di nuovo lo assalì quel sogno, ma con qualche variante rispetto a quanto di solito sognava, e cioè che il padre e i soldati non si avvicinarono molto, neppure il muso del cavallo comparve dietro l’angolo, ma non c’è da farsi illusioni, non furono perciò minori l’angoscia e il terrore, mettiamoci al posto di Gesù, sognare che nostro padre, quello che ci ha dato la vita, ci si avvicina a spada tratta per ammazzarci. Nessuno, in casa, si accorse della passione che lì, a pochi passi, si rappresentava, anche nel sonno Gesù stava ormai imparando a controllare la paura, la coscienza tormentata gli metteva, come ultima risorsa, una mano sulla bocca, e le urla vibravano terribilmente, sì, ma in silenzio, soltanto nella sua testa. Il mattino dopo, Gesù fu partecipe del primo pasto della giornata, ringraziando e lodando poi i suoi benefattori con una compostezza così seria e con parole così appropriate che tutta la famiglia, nessuno escluso, si sentì per qualche istante vicina all’ineffabile pace del Signore, malgrado fossero tutti soltanto degli sconsiderati samaritani. Si accomiatò Gesù e partì, serbando nelle orecchie le ultime parole pronunciate dal padrone di casa, e cioè, Benedetto sia Tu, Signore nostro Dio, re dell’universo, che indirizzi i passi dell’uomo, al che lui aveva risposto benedicendo lo stesso Signore, Dio e re, che provvede a tutti i bisogni, una dimostrazione che
l’esperienza della vita crea giorno dopo giorno persuasivamente, secondo la sacrosanta regola della proporzione diretta che detta di concedere di più a chi più ne abbia. Il resto del viaggio fino a Gerusalemme non fu così facile. Primo, ci sono samaritani e samaritani, il che vuol dire che già a quel tempo una rondine non bastava per fare primavera, ce n’era bisogno, come minimo, di due, stiamo parlando delle rondini, non delle primavere, a condizione che siano un maschio e una femmina fertili e abbiano prole. Le porte a cui Gesù andò a bussare non si aprirono più, e al viandante non rimase che dormire lì, da solo, una volta sotto un fico, di quelli grossi e rampicanti, simili a una gonna a ruota, un’altra protetto da una carovana cui si era unito e che, essendo esaurito il caravanserraglio più vicino, aveva dovuto, fortunatamente per Gesù, accamparsi in aperta campagna. Fortunatamente, abbiamo detto, perché nel frattempo, mentre intrepido attraversava i monti deserti, il povero piccolo era stato assalito da due malfattori, vigliacchi e imperdonabili, che gli avevano rubato quel poco di denaro che possedeva, ragion per cui Gesù non poté ripararsi in nessuna locanda dove, secondo le leggi di un sano commercio, chi non fa il nodo perde il punto, come a dire che nessuno fa niente per niente. Fu una pena, ammesso che vi fosse qualcuno a impietosirsi, vedere lo sconforto del meschino dopo che i ladri se n’erano andati, ancora ridendosela, con tutto quel cielo sopra e le montagne intorno, l’infinito universo privo di significato morale, popolato di stelle, ladri e crocifissori. E non ribatteteci, per favore, che un ragazzino di tredici anni non avrebbe mai la cultura scientifica o la competenza filosofica, e neppure la mera esperienza di vita che simili riflessioni presupporrebbero, e che questo, in particolare, benché edotto dagli studi nella sinagoga e dotato di una certa dichiarata agilità mentale, non sarà giustificato nelle parole e nei fatti per la particolare attenzione di cui lo abbiamo fatto oggetto. Figli di falegname non ne mancano davvero in queste terre, tanto meno difettano figli di crocifissi, ma, supponendo che ne avessimo scelto un altro, non dubitiamo che, chiunque fosse, tanta abbondanza di argomentazioni utili ci avrebbe dato questi come ce la sta dando l’altro. In primo luogo perché, come non è più un segreto per nessuno, ogni uomo è un mondo, sia per le vie del trascendente sia per i cammini dell’immanente, e in secondo luogo perché questa terra è sempre stata diversa dalle altre, basti vedere la quantità di gente di alta, media o bassa condizione che l’ha sempre percorsa predicando o profetizzando, a cominciare da Isaia, e via via fino a Malachia, nobili, sacerdoti, pastori, di tutto un po’, per cui conviene essere prudenti nell’esprimere opinioni, l’umile esordio del figlio di un falegname non ci dà il diritto di pronunciare giudizi prematuri che, sembrando definitivi, possono compromettere fin dall’inizio una carriera. Questo ragazzo diretto a Gerusalemme, mentre la maggior parte dei suoi coetanei non si azzarda ancora a
mettere un piede fuori della porta, forse non è proprio un’aquila quanto a perspicacia né un portento in fatto di intelligenza, ma merita il nostro rispetto, ha una ferita nell’anima, come egli stesso ha dichiarato, e giacché la sua natura non gli consente di aspettare che gliela guarisca la semplice abitudine a conviverci, fino al punto di cicatrizzazione che è il non pensare, è andato in cerca del mondo, forse, chissà, per moltiplicare le ferite e, unendole tutte, per farne un solo e definitivo dolore. Supposizioni del genere potrebbero magari sembrare inadeguate, non solo alla persona, ma anche al tempo e al luogo, attribuendo sentimenti moderni e complessi alla mente di un rustico palestinese nato tanti anni prima che Freud, Jung, Groddeck e Lacan siano venuti al mondo, ma il nostro errore, ci sia consentita questa presunzione, non è né crasso né scandaloso, purché si tenga conto del fatto che abbondano, negli scritti da cui questi giudei traggono il nutrimento spirituale, tanti e tali esempi che ci autorizzano a pensare che un uomo, qualunque sia l’epoca in cui viva o sia vissuto, è mentalmente contemporaneo di un altro individuo di una qualsiasi altra epoca. Le uniche e indubitabili eccezioni conosciute sono Adamo ed Eva, non perché siano stati il primo uomo e la prima donna, ma per il motivo che non hanno avuto infanzia. E non vengano a ribatterci, la biologia e la psicologia, che nella mentalità di un uomo di Cro-Magnon, per noi inimmaginabile, erano già iniziati i cammini che avrebbero portato alla testa quale l’abbiamo oggi sulle spalle, è una discussione che qui non ci potrebbe entrare per niente, visto che di quell’uomo di Cro-Magnon non si parla nel libro della Genesi, che è l’unica lezione sui primordi del mondo che Gesù abbia imparato. Distratti da queste riflessioni, non del tutto trascurabili rispetto ai punti essenziali del vangelo che abbiamo via via spiegato, ci siamo dimenticati di seguire, come sarebbe stato nostro dovere, il resto del viaggio del figlio di Giuseppe a Gerusalemme, di cui è appena giunto in vista, senza un soldo, ma sano e salvo, coi piedi segnati dal lungo viaggio, ma con il cuore saldo come quando ha varcato la porta della sua casa, tre giorni fa. Non è la prima volta che viene qui, perciò non è eccitato più di quanto ci si aspetti da un devoto cui il suo dio sia ormai divenuto familiare o stia per diventarlo. Da questo declivio, chiamato Getsemani, sulla costa del monte degli Ulivi, si scorge, maestosamente disteso, il disegno architettonico di Gerusalemme, Tempio, torri, palazzi, abitazioni, e la città ci sembra tanto vicina che si ha l’impressione di toccarla con le dita, purché la febbre mistica sia abbastanza alta da far sì che il credente e sofferente finisca per confondere le poche forze del proprio corpo con la potenza inesauribile dello spirito universale. Il pomeriggio sta per finire, il sole tramonta sul mare distante. Gesù sta scendendo a valle, domandandosi fra sé e sé dove mai dormirà questa notte, se dentro o fuori città, tutte le volte che c’è venuto con il padre e la madre, nel periodo di Pasqua, la famiglia si è accampata in tende
fuori delle mura, benevolmente fatte issare dalle autorità civili e militari per accogliere i pellegrini, tutti separati, non ci sarebbe neppure bisogno di dirlo, gli uomini con gli uomini, le donne con le donne, i minori ugualmente divisi per sesso. Quando Gesù arrivò alle mura, ormai sul far della sera, le porte si stavano chiudendo, a stento i guardiani gli consentirono di entrare, e dietro di lui piombarono le spranghe nei grossi legni, se Gesù avesse avuto qualche penosa colpa sulla coscienza, di quelle che dappertutto trovano allusioni indirette agli errori commessi, forse avrebbe pensato a una trappola che scattava, a denti di ferro che afferravano lo stinco della preda, a un bozzolo di bava che avviluppava la mosca. A tredici anni, però, i peccati non possono essere molti né terribili, non è ancora tempo di uccidere o di rubare, di testimoniare il falso, di desiderare la donna d’altri, né la casa, né il campo, né lo schiavo, né la schiava, né il bue, né la giumenta, né niente che non appartenga a lui, e dunque questo giovane è puro e senza la macchia di un proprio errore, anche se ha già perduto l’innocenza, ché non si può vedere la morte ed essere tale e quale a prima. Le strade cominciano a svuotarsi, è ora di cena per le famiglie, fuori sono rimasti solo mendicanti e vagabondi, ma si stanno ritirando anche questi, hanno pur sempre le loro gilde, i loro gruppi corporativi, fra poco le pattuglie di soldati romani cominceranno a percorrere la città, alla ricerca dei facinorosi che arrivano a compiere le loro malefatte e iniquità addirittura nella capitale del regno di Erode Antipa, malgrado i supplizi cui vengono sottoposti se li acciuffano, come si è visto a Sefforis. In fondo alla strada, ecco una di queste ronde notturne che si fa luce con alcune torce, sfila fra un tintinnio di spade e scudi, al passo, piedi calzati in sandali da guerra. Nascosto in un cantuccio, il ragazzo attese che i militari scomparissero, poi si mise alla ricerca di un posto dove dormire. Finì per trovarlo, come pensava, nei sempiterni cantieri del Tempio, uno spazio fra due grandi massi già collocati, sopra i quali fungeva da soffitto una grande lastra. Lì, sbocconcellò l’ultimo tozzo di pane duro e raffermo che gli rimaneva, accompagnandolo con qualche fico secco ritrovato sul fondo della bisaccia. Aveva sete, ma si rassegnò a non bere. Infine distese la stuoia, si coprì con la piccola coperta che faceva parte del suo bagaglio di viandante e, ben avvolto per proteggersi dal freddo che penetrava dai due lati di quel precario rifugio, riuscì ad addormentarsi. La circostanza di trovarsi a Gerusalemme non gli impedì di sognare, ma non fu certo un vantaggio di poco conto il fatto che, forse per via della presenza così prossima di Dio, il sogno si limitasse alla ripetizione delle solite scene, confuse con la sfilata della ronda che aveva incontrato. Si svegliò quando il sole era appena sorto. Si trascinò fuori dal suo buco, freddo come una tomba, e, avvolto nella coperta, fissò davanti a sé Gerusalemme, le case basse, di pietra, sfiorate dalla luce rosata. Allora, con una solennità maggiore, perché pronunciate dalle labbra di quel bambino che ancora era, recitò le parole della devozione, Ti rendo grazie, Signore, Dio
nostro, re dell’universo, che con la potenza della Tua misericordia mi hai restituito così, viva e perseverante, la mia anima. Ci sono momenti, nella vita, che andrebbero fissati, protetti dal tempo, e non solo affidati, per esempio, a questo vangelo o alla pittura o, più recentemente, alla fotografia, al cinema, al video, sarebbe importante che coloro che li hanno vissuti o fatti vivere potessero restare presenti in eterno agli occhi dei posteri e che a noi, oggi, fosse possibile andare fino a Gerusalemme per vedere coi nostri occhi questo ragazzino, Gesù, figlio di Giuseppe, avvolto nella sua povera coperta, mentre fissa le case di Gerusalemme e rende grazie al Signore perché neppure questa volta ha perduto l’anima. Essendo ancora all’inizio della vita, ha solo tredici anni, c’è da supporre che il futuro gli abbia riservato ore più allegre o più tristi di questa, più felici o più sventurate, più amene o più tragiche, ma noi sceglieremmo questo istante, la città addormentata, il sole immobile, la luce intangibile, un ragazzino che guarda le case avvolto in una coperta e con una bisaccia ai piedi, e tutto il mondo, vicino e lontano, sospeso, in attesa. Non è possibile, si è già mosso, l’istante è arrivato ed è passato, il tempo ci porta fin dove s’inventa una memoria, era così oppure no, è tutto come noi diremo che è stato. Adesso Gesù sta camminando per le stradine che cominciano a riempirsi di gente, è ancora presto per andare al Tempio, come sempre e dovunque i dottori cominciano ad apparire solo più tardi. Non sente più freddo, ma lo stomaco lancia qualche segnale, i due fichi rimastigli sono serviti solo a stimolargli la saliva, il figlio di Giuseppe ha fame. Adesso, sì, sente davvero la mancanza dei soldi che gli hanno rubato quei malvagi, perché la vita della città non è mica come vagabondare per la campagna, fischiettando in cerca di quello che potrebbero aver lasciato i contadini che osservano le leggi del Signore, verbi gratia, Quando, mietendo il tuo campo, dimenticherai qualche mannello, non tornerai indietro a prenderlo, quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornerai indietro a ripassare i rami, quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare, lo lascerai per il forestiero, per l’orfano e per la vedova, ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto. Orbene, essendo una grande città, e benché Dio vi abbia fatto erigere la sua dimora terrena, a Gerusalemme non arrivano questi precetti umanitari, ragion per cui, per chi non abbia quattrini in saccoccia, l’unico rimedio è chiedere, con il probabile rischio di vedersi respingere perché importuno, oppure rubare, con il pericolo certissimo di dover subire il castigo della flagellazione e del carcere, se non addirittura qualcosa di peggio. Rubare, questo ragazzo non può, chiedere, questo ragazzo non vuole, si limita a sfiorare con lo sguardo le pile di pane, le piramidi di frutta, i cibi cucinati esposti sui banconi lungo le strade, e quasi sviene, come se tutte le carenze nutritive di questi tre giorni, scontando la mensa del samaritano, si fossero riunite in quest’ora dolorosa, è vero che la sua meta è il Tempio, ma il corpo, per quanto affermino il contrario i sostenitori del digiuno mistico, meglio accoglierà la
parola di Dio se il cibo gli avrà rinforzato le facoltà dell’intelletto. Per fortuna, un fariseo che stava passando si accorse del giovane e se ne impietosì, l’ingiusto futuro s’incaricherà di forgiare una pessima reputazione a questa gente, ma in fondo erano brave persone, come si evince in questo caso, Chi sei, gli domandò, e Gesù rispose, Sono di Nazaret, in Galilea, Hai fame, il ragazzo abbassò gli occhi, non c’era bisogno di parlare, glielo si leggeva in faccia, Non hai famiglia, Sì, ma sono venuto solo, Sei fuggito da casa, No, e infatti non era scappato, ricordiamo come la madre e i fratelli lo avessero salutato con tanto amore sulla soglia di casa, il fatto che lui non si fosse girato una sola volta non stava a significare che era fuggito, sono così le nostre parole, pronunciare un sì o un no è la cosa più semplice di tutte e, di norma, la più convincente, ma per la verità bisognerebbe cominciare col dare una risposta un po’ esitante, Be’, scappare, scappare nel senso stretto del termine, non sono scappato, eppure, e a questo punto dovremmo risentire tutta la storia, ma tranquillizziamoci, non succederà, primo, perché il fariseo non ha bisogno di conoscerla e, secondo, perché noi la sappiamo meglio di chiunque altro, basti pensare a quel poco che i personaggi più importanti di questo vangelo sanno gli uni degli altri, Gesù che non sa tutto della madre e del padre, Maria che non conosce ogni cosa del marito e del figlio, e Giuseppe che non sa niente di niente, perché è morto. Noi, al contrario, conosciamo tutto quanto fino a oggi è stato fatto, detto e pensato, sia da loro sia dagli altri, anche se siamo costretti a procedere come se lo ignorassimo, in un certo senso siamo quel fariseo che ha domandato, Hai fame, quando la faccia pallida e smagrita di Gesù, già di per sé, voleva dire, Non domandarmelo, dammi da mangiare. Fu quanto fece, infine, quell’uomo impietosito, comprò due pani ancora caldi di forno e una ciotola di latte, e senza una parola li porse a Gesù, ma nel passaggio dall’uno all’altro un po’ di liquido gli si versò sulle mani, e allora tutt’e due, contemporaneamente con lo stesso gesto, portarono la mano umida alla bocca per lambire il latte, un gesto simile a quello di baciare il pane quando cade per terra, peccato che non si ritroveranno più insieme, questi due, visto che sembrava che avessero firmato un patto così bello e simbolico. Se ne tornò il fariseo alla sua vita, ma prima trasse dalla borsa due monete, dicendo, Prendi questo denaro e torna a casa, il mondo è ancora troppo grande per te. Il figlio del falegname teneva fra le mani la scodella e il pane, all’improvviso gli era passata la fame o, meglio, ce l’aveva ancora, ma non l’avvertiva più, guardava il fariseo allontanarsi e solo allora lo ringraziò, ma a voce così bassa che l’altro non avrebbe potuto sentirlo, se fosse stato un tipo che si aspettava di essere ringraziato, avrebbe pensato di aver fatto del bene a un monello ingrato e senza educazione. In quello stesso luogo, nel mezzo della strada, Gesù, cui l’appetito era tornato di colpo, mangiò il pane e bevve il latte, poi andò a riconsegnare la scodella vuota al venditore, che gli disse, È pagata, tienila, È un’usanza di Gerusalemme comprare il latte con le
scodelle, No, ma quel fariseo ha voluto acquistarla, non si sa mai quello che passa per la testa di un fariseo, Allora posso tenerla, Te l’ho già detto, è pagata. Gesù avvolse la scodella nella coperta e la infilò nella bisaccia mentre pensava che, d’ora in avanti, sarebbe dovuto stare attento al modo in cui l’avrebbe maneggiata, sono cocci fragili, delicati, non sono che una manciata di terra cui la fortuna, precariamente, ha dato consistenza, come all’uomo in fondo. Nutrito il corpo, risvegliato lo spirito, Gesù diresse i propri passi verso il Tempio. 14. C’era già molta gente sulla spianata che fronteggiava la ripida scalinata di accesso. Ai due lati, lungo le mura, si trovavano le tende degli ambulanti, altre in cui si vendevano gli animali per i sacrifici, e qua e là, sparpagliati, i cambiavalute coi loro banchi, gruppi che conversavano, mercanti che gesticolavano, guardie romane a piedi e a cavallo che sorvegliavano, lettighe portate da schiavi, e poi dromedari e asini oppressi dal carico, dovunque un vocio frenetico, qualche flebile belato di agnelli e capretti, alcuni trasportati in braccio o sulle spalle, come bambini stanchi, altri trascinati, la corda al collo, ma tutti diretti alla morte per mannaia e alla consumazione per mezzo del fuoco. Gesù attraversò lo spogliatoio per purificarsi, poi salì la scalinata e, senza fermarsi, percorse l’atrio dei Gentili. Entrò nell’atrio delle Donne dalla porta fra la sala degli Oli e quella dei Nazareni, e trovò quello che era venuto a cercare, gli anziani e gli scribi che, secondo l’antica usanza, dissertavano sulla Legge, rispondevano alle domande e davano consigli. C’erano alcuni gruppi, il ragazzo si avvicinò al meno numeroso nell’istante in cui un uomo alzava la mano per porre una domanda. Lo scriba annuì con un cenno e l’uomo disse, Ti chiedo di spiegarmi se dobbiamo intendere, parola per parola, significato per significato, com’è scritto, le leggi che il Signore ha dato a Mosè sul monte Sinai, quando promise di far regnare la pace nel nostro paese e che nessuno avrebbe turbato il nostro sonno, quando annunciò che avrebbe fatto sparire le bestie nocive e che la spada non sarebbe passata per le nostre terre e che, se avessimo inseguito i nostri nemici, essi sarebbero caduti dinanzi a noi colpiti di spada, cinque di voi ne inseguiranno cento, e cento di voi ne inseguiranno diecimila, disse il Signore, e i vostri nemici cadranno dinanzi a voi colpiti di spada. Lo scriba guardò con espressione sospettosa l’interlocutore, se magari non fosse un ribelle intrufolatosi, mandato da Giuda il Galileo per attizzare gli animi con malevole insinuazioni sulla passività del Tempio dinanzi al potere di Roma, e rispose, brusco e lapidario, Così parlò il Signore quando i nostri padri erano nel deserto, perseguitati dagli egiziani. L’uomo alzò di nuovo la mano, segnale di un’altra domanda, Devo intendere che le parole del Signore pronunciate sul monte Sinai valevano solo per quei tempi, quando i nostri padri
cercavano la terra promessa, Se le hai intese così, non sei un buon israelita, le parole del Signore valevano, valgono e varranno per tutti i tempi passati, presenti e futuri, le parole del Signore erano nella Sua mente prima che Egli parlasse e vi sono ancora, adesso che tace, Sei tu che hai detto quanto proibisci a me di pensare, Che cosa pensi, tu, Che il Signore acconsente che le nostre spade non si levino contro la forza che ci sta opprimendo, che cento di noi non osino sollevarsi contro cinque di loro, che diecimila giudei debbano ritirarsi di fronte a cento romani, Sei nel Tempio del Signore e non su un campo di battaglia, Il Signore è il dio degli eserciti, Ma, ricordati, il Signore ha dettato le sue condizioni, Quali, Se osserverete le mie leggi, se rispetterete i miei precetti, ha detto il Signore, Quali leggi non abbiamo osservato e quali precetti non abbiamo rispettato per essere costretti ad accettare come giusta e necessaria, come castigo dei peccati, la dominazione di Roma, Lo sa il Signore, Sì, lo sa il Signore, quante volte l’uomo pecca senza saperlo, ma spiegami perché mai il Signore debba servirsi del potere di Roma per castigarci, invece di farlo Lui direttamente, faccia a faccia con coloro che ha eletto a Suo popolo, Il Signore conosce i propri fini, il Signore sceglie i propri mezzi, Vuoi forse dirmi che è volontà del Signore che i romani comandino su Israele, Sì, Se è come dici, dobbiamo concluderne che i ribelli impegnati nella lotta contro i romani stanno combattendo anche contro il Signore e la Sua volontà, Ne concludi male, E tu ti contraddici, scriba, Il volere di Dio può essere un non volere, il Suo non volere la Sua volontà, Soltanto il volere dell’uomo è vero volere, e non ha importanza di fronte a Dio, Infatti, Allora, l’uomo è libero, Sì, per poter essere castigato. Un sussurro passò fra gli astanti, alcuni guardarono colui che aveva posto le domande, senza dubbio pertinenti alla mera luce dei testi, ma politicamente sconvenienti, lo fissarono come se fosse lui a dover assumere su di sé tutti i peccati di Israele e pagare per essi, e comunque rincuorati i sospettosi dal trionfo dello scriba che accettava, con un sorriso di compiacimento, i complimenti e gli elogi. Sicuro di sé, il maestro si guardò intorno, sollecitando un’altra domanda, come il gladiatore cui è capitato un avversario debole ne reclama un altro, ben più prestante, che gli dia maggior gloria. Un altro uomo alzò la mano, un’altra domanda si presentava, Il Signore parlò a Mosè e gli disse, Tratterete il forestiero che vive fra di voi come uno dei vostri compatrioti, e tu lo amerai come te stesso, perché anche voi siete stati stranieri nel paese d’Egitto, questo disse il Signore a Mosè. Non riuscì a finire perché lo scriba, ancora eccitato per la prima vittoria, lo interruppe con ironia, Presumo che tu non stia pensando di domandarmi come mai non trattiamo i romani come nostri compatrioti, giacché sono dei forestieri, Te lo chiederei se i romani ci trattassero come loro concittadini, senza badare, né noi né loro, ad altre leggi e ad altri dei, Osi venire a provocare l’ira del Signore con interpretazioni diaboliche della Sua parola, lo interruppe lo scriba, No, voglio soltanto che tu mi dica se in verità pensi
che rispettiamo la parola santa qualora fossero davvero forestieri, non riguardo alla terra in cui viviamo, ma alla religione che professiamo, A chi ti riferisci in particolare, Ad alcuni di oggi, a molti del passato, forse più ancora nel futuro, Sii chiaro, per favore, non posso perdere tempo con enigmi e parabole. Quando siamo venuti dall’Egitto, vivevano nel paese che chiamiamo di Israele altre nazioni contro cui abbiamo dovuto combattere, in quei giorni i forestieri eravamo noi e il Signore ci ordinò di uccidere e annientare coloro che si opponevano alla Sua volontà, La terra ci è stata promessa, ma doveva essere conquistata, non l’abbiamo comprata né ce l’hanno regalata, E oggi viviamo sotto un dominio straniero, il paese che avevamo reso nostro non lo è più, L’idea di Israele dimora eternamente nello spirito del Signore perciò, dovunque sia il Suo popolo, riunito o disperso, lì si troverà l’Israele terreno, Se ne deduce, suppongo, che in ogni luogo dove noi, giudei, vivremo, gli altri uomini saranno sempre forestieri, Agli occhi del Signore, senza dubbio, Ma il forestiero che viva con noi sarà, secondo la parola del Signore, nostro compatriota e lo dovremo amare come noi stessi perché siamo stati forestieri in Egitto, Il Signore lo ha detto, Ne concludo, allora, che il forestiero che dobbiamo amare è colui che, vivendo con noi, non sia tanto potente da opprimerci, come oggigiorno è il caso dei romani, Ne concludi bene, Adesso mi dirai, secondo quanto ti consigliano i tuoi lumi, se un giorno che saremo potenti il Signore permetterà di opprimerci a quei forestieri che Egli stesso ci ha ordinato di amare, Israele potrà volere solo ciò che il Signore vuole, e il Signore, avendo scelto questo popolo, vorrà tutto quello che sarà bene per Israele, Sia pur non amando chi si dovrebbe, Sì, se questa sarà la Sua volontà, Di Israele o del Signore, Di entrambi, perché essi sono uno solo, Non violerai il diritto del forestiero, parola del Signore, Quando il forestiero lo avrà e noi glielo riconosceremo, disse lo scriba. Di nuovo si udirono mormorii di approvazione che illuminarono gli occhi dello scriba come quelli di un vincitore di pancrazio, un discobolo, un reziario, un conduttore di carri. La mano di Gesù si alzò. Nessuno dei presenti si stupì che un ragazzo di quell’età si presentasse a interrogare uno scriba o un dottore del Tempio, adolescenti pieni di dubbi ce ne sono sempre stati, fin da Caino e Abele, in genere fanno domande che gli adulti accolgono con un sorriso di condiscendenza e una pacca sulle spalle, Cresci, cresci, e vedrai come ciò non sia importante, i più comprensivi diranno, Quando avevo la tua età, anch’io la pensavo così. Taluni dei presenti si allontanarono, altri si accingevano a fare altrettanto, di fronte alla mal celata contrarietà dello scriba che si vedeva sfuggire un pubblico fino ad allora così attento, ma la domanda di Gesù fece ritornare alcuni di quelli che riuscirono a udirla, Quanto voglio sapere riguarda la colpa, Parli di una colpa tua, Parlo di una colpa in generale, ma anche di quella che potrei avere io pur non avendo peccato direttamente, Spiegati meglio, Ha detto il Signore che i padri non moriranno per i figli né i figli per i padri, e
che ciascuno sarà condannato a morte per il proprio delitto, Infatti, ma sappi che si trattava di un precetto per i tempi antichi, quando la colpa di un membro era pagata dalla famiglia intera, compresi gli innocenti, Eppure, giacché la parola del Signore è eterna e la fine delle colpe invisibile, ricordati di quanto hai detto tu stesso poco fa, che l’uomo è libero per poter essere castigato, credo che sia legittimo pensare che il delitto del padre, pur essendo stato punito, non si estingua con la punizione ed entri a far parte dell’eredità che spetta al figlio, così come gli uomini di oggi hanno ereditato la colpa di Adamo ed Eva, i nostri primi genitori, Sono stupito che un ragazzo della tua età e della tua condizione mostri una conoscenza così profonda delle Scritture e sia capace di discuterle con tanta disinvoltura, So solo ciò che ho imparato, Da dove vieni, Da Nazaret, in Galilea, Infatti mi sembrava, dal modo di parlare, Rispondi a quanto ti ho domandato, per favore, Possiamo ammettere che la principale colpa di Adamo ed Eva, quando disobbedirono al Signore, non sia stata quella di aver assaggiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, ma la conseguenza che fatalmente ne sarebbe scaturita, e cioè di impedire con il loro peccato che il Signore potesse portare a compimento il progetto che aveva in mente quando creò l’uomo e poi la donna, Vuoi forse dirmi che ogni azione umana, la disobbedienza nel paradiso o qualunque altra, interferisce sempre con la volontà di Dio e che, in fondo, potremmo paragonare questo Suo volere a un’isola nel mare, circondata e assalita dalle acque ribelli delle volontà degli uomini, fu una domanda, questa, rivolta dal secondo degli interlocutori, ché a tanto non si sarebbe azzardato il figlio di un falegname, Non è proprio così, rispose cautamente lo scriba, la volontà del Signore non si accontenta di prevalere su ogni cosa, è essa stessa a far sì che tutto sia com’è, Ma tu hai detto che la disobbedienza di Adamo è la causa per cui non conosciamo il progetto che Dio aveva concepito per lui, Infatti, secondo la ragione, ma nella volontà di Dio, creatore e reggente dell’universo, sono contenute tutte le volontà possibili, la Sua, ma anche quella di tutti gli uomini nati e che dovranno nascere, Se fosse come tu dici, intervenne Gesù, con repentina illuminazione, ogni uomo sarebbe una parte di Dio, Probabilmente, ma la porzione rappresentata da tutti gli uomini insieme sarebbe come un granello di sabbia nel deserto infinito che Dio è. L’uomo presuntuoso che fino ad allora era stato lo scriba scomparve. È seduto per terra, come prima, e davanti a lui, in circolo, gli astanti lo guardano con un sentimento misto di rispetto e di timore, quasi si trovassero di fronte a un mago che involontariamente avesse invocato e fatto apparire forze di cui, da quel momento in poi, avrebbe potuto essere solo suddito. Curve le spalle, tirati i lineamenti, le mani abbandonate sulle ginocchia, tutto il suo corpo sembrava chiedere che lo lasciassero alla sua angoscia. I presenti cominciarono ad alzarsi, chi s’incamminava verso l’atrio degli Israeliti, chi si avvicinava ai gruppi dove proseguivano le discussioni. Gesù disse,
Non hai risposto alla mia domanda. Lo scriba rizzò lentamente la testa, lo guardò con l’espressione di chi sia appena uscito da un sogno e, dopo un lungo silenzio quasi insopportabile, disse, La colpa è un lupo che mangia il figlio dopo aver divorato il padre, Quel lupo di cui parli ha già sbranato mio padre, Allora non resta altro che divori te, E tu, in vita tua, sei stato mangiato o divorato, Non solo mangiato e divorato, ma anche vomitato. Gesù si alzò e se ne andò. Si diresse verso la porta da cui era entrato, si fermò e si voltò. La colonna di fumo dei sacrifici saliva a destra verso il cielo, pian piano si dissolveva e scompariva sopra le colline, come se fosse soffiata dai giganteschi movimenti del polmone divino. Era mattino inoltrato, la folla aumentava e, all’interno del Tempio, c’era un uomo distrutto e dilacerato dal vuoto, in attesa che si ricostituisse in lui l’osso della consuetudine, la pelle dell’abitudine, per poter dare delle risposte, di lì a poco o l’indomani, tranquillamente, a chiunque si presentasse con l’uzzolo di chiedergli, per esempio, se il sale in cui si trasformò la moglie di Lot fosse salgemma o sale marino, o se l’ubriachezza di Noè fosse dovuta a vino bianco o rosso. Fuori del Tempio, Gesù domandò quale fosse la strada per Betlemme, la sua seconda meta, per ben due volte si smarrì nella confusione delle vie e della gente, finché trovò la porta da cui, nel ventre della madre, era uscito tredici anni prima, ormai sul punto di venire al mondo. Non crediate, però, che Gesù abbia questo pensiero, è fin troppo noto che le prove dell’ovvietà mozzano le ali all’inquieto uccello dell’immaginazione, faremo un esempio e basta, guardi il lettore di questo vangelo una foto di sua madre, che la ritragga incinta, e poi ci dica se riesce a immaginarsi lì dentro. Gesù scende verso Betlemme, adesso potrebbe riflettere sulle risposte fornite dallo scriba, non solo al suo quesito ma anche ai precedenti, eppure lo turba la fastidiosa sensazione che tutte le domande siano state, in fin dei conti, una sola, e che la risposta data a ciascuna potrebbe valere per tutte, soprattutto per l’ultima, che riassumeva tutto, la fame perpetua del lupo della colpa che eternamente mangia, divora e vomita. Spesso, per la debolezza della memoria, non sappiamo, o li conosciamo ma vorremmo dimenticarli, la causa, il motivo, la radice della colpa o, per parlare in senso figurato, alla maniera dello scriba, la tana da cui è uscito il lupo per darci la caccia. Gesù la conosce ed è diretto proprio lì. Non ha la minima idea di cosa sia venuto a fare, ma il fatto di essere in quel luogo è come dichiarare, di qua e di là della strada, Eccomi, in attesa che gli si pari dinanzi qualcuno, che cosa vuoi, castigo, perdono, oblio. Come il padre e la madre avevano fatto a loro tempo, si fermò davanti alla tomba di Rachele per pregare. Poi, sentendo i battiti del cuore che acceleravano, proseguì. Ecco laggiù le prime case di Betlemme, l’ingresso del paese da cui tutte le notti irrompevano, in sogno, il padre assassino e i soldati di pattuglia, in realtà non sembra un luogo adatto a simili orrori, e non è solo il cielo a negarlo,
questo cielo percorso da nuvole bianche e pacifiche come benevoli cenni di Dio, persino la terra sembra dormire sotto il sole, forse sarebbe meglio dire, Lasciamo le cose come stanno, non smuoviamo le ossa del passato, e prima che una donna con un bambino in braccio possa affacciarsi a una di queste finestrelle domandando, Chi cerchi, tornare indietro, cancellare le impronte dei passi che ci hanno portato qui e implorare che il movimento perpetuo del setaccio del tempo ricopra con una rapida e impalpabile polvere persino il più tenue ricordo di questi avvenimenti. Troppo tardi. C’è un momento, un attimo prima di sfiorare la tela, in cui la mosca farebbe ancora in tempo a sfuggire alla trappola, ma se l’ha toccata, se la pania ha catturato l’ala diventata inutile, ogni movimento servirà solo a far sì che l’insetto s’imprigioni sempre più fino a immobilizzarsi, irrimediabilmente condannato, anche se il ragno disprezzasse, perché insignificante, questa preda. Per Gesù, il momento è già passato. Al centro di uno slargo, in un angolo del quale si trova un fico ramuto, si vede una piccola costruzione a cubo che non c’è bisogno di guardare una seconda volta per capire che è una tomba. Gesù si avvicinò, vi fece un lento giro intorno, si trattenne a leggere le iscrizioni sbiadite su una delle lastre, e, alla fine, capì di aver trovato quello che era venuto a cercare. Una donna che attraversava lo slargo tenendo per mano un bambino sui cinque anni si fermò, guardò con curiosità il forestiero e chiese, Da dove vieni, e come se trovasse necessario giustificare la domanda, Non sei di qui, Sono di Nazaret, in Galilea, Hai famiglia da queste parti, No, sono andato a Gerusalemme e, visto che era vicino, ho deciso di vedere com’è Betlemme, Sei di passaggio, allora, Sì, tornerò a Gerusalemme appena il pomeriggio comincerà a rinfrescare. La donna sollevò il bambino, lo appoggiò sul braccio sinistro, disse, Che il Signore sia con te, e fece per andarsene, ma Gesù la trattenne, domandandole, Di chi è questa tomba. La donna strinse il bimbo al petto, quasi volesse proteggerlo da una minaccia, e rispose, Ci sono venticinque bambini uccisi molti anni fa, Quanti, Venticinque, te l’ho detto, No, gli anni, Ah, quasi quattordici, Sono tanti, Devono essere, io credo, più o meno gli anni che hai tu, Infatti, ma io stavo parlando dei bambini, Ah, uno era mio fratello, Uno dei tuoi fratelli è lì dentro, Sì, E quello che hai in braccio è tuo figlio, Il mio primogenito, Per quale motivo li hanno uccisi, quei bambini, Non si sa, allora io avevo solo sette anni, Ma certo lo avrai sentito raccontare dai tuoi genitori e dagli altri adulti, Non ce n’era bisogno, ho visto io stessa ucciderne alcuni, Anche tuo fratello, Anche mio fratello, E chi li ha uccisi, Comparvero dei soldati del re in cerca di bambini maschi fino a tre anni e li uccisero tutti, E dici di non conoscerne il motivo, Non si è mai saputo, fino a oggi, E dopo la morte di Erode, non avete cercato di scoprirlo, non siete andati al Tempio a chiedere ai sacerdoti di indagare, Questo non lo so, Se i soldati fossero stati romani, poteva ancora essere spiegabile, ma così, proprio il nostro re che ordina di uccidere i suoi sudditi, dei bambini di tre anni, una ragione ci
sarà pur stata, La volontà dei re non è alla portata del nostro intelletto, che il Signore sia con te e ti protegga, Non ho più tre anni, Nell’ora della morte, gli uomini hanno sempre tre anni, disse la donna, e si allontanò. Rimasto solo, Gesù si inginocchiò accanto alla pietra che chiudeva l’ingresso della tomba, trasse dalla bisaccia un tozzo di pane ormai duro che gli era avanzato, ne sbriciolò un pezzo nelle palme delle mani e lo sparse davanti all’entrata, come un’offerta alle bocche invisibili degli innocenti. In quell’istante, spuntando dall’angolo più prossimo, comparve un’altra donna, ma molto vecchia, curva, che camminava aiutandosi con un bastone. Confusamente, perché la vista non glielo consentiva in modo migliore, aveva scorto il gesto del ragazzo. Si fermò, attenta, poi lo vide alzarsi, reclinare la testa, come se recitasse una preghiera per il riposo di quelle sfortunate creature, che, malgrado la consuetudine, non oseremo auspicare eterno, essendoci venuta meno l’immaginazione quando, un’unica volta, abbiamo tentato di raffigurarci come potesse essere il riposare eternamente. Gesù concluse il suo responsorio e si guardò intorno, muri ciechi, porte chiuse, solo una vecchia tremendamente vecchia, immobile, con indosso una tunica da schiava, la rappresentazione vivente, appoggiata al suo bastone, della terza parte del famoso enigma della sfinge che dice, Qual è quell’animale che cammina su quattro zampe al mattino, due a mezzogiorno e tre all’imbrunire. È l’uomo, rispose il furbissimo Edipo, ma non gli venne in mente che alcuni non riescono ad arrivare neppure a mezzogiorno, solo a Betlemme, tutti in una volta, se ne sono andati venticinque. La donna si era avvicinata, piano piano, ed eccola davanti a Gesù, torce il collo per poterlo guardare meglio, e gli domanda, Cerchi qualcuno. Il ragazzo non rispose subito, per la verità non andava in cerca di persone, quelle che aveva trovato sono lì morte, a due passi, e non si potrebbe nemmeno dire che fossero persone, a una schiera di infanti con pannolini e ciuccio, frignanti e mocciolosi, la morte era arrivata improvvisamente e li aveva trasformati in presenze gigantesche, impossibili da contenere sia in ossari sia in cassette, e tutte le notti, se esiste giustizia, si riversano nel mondo mostrando le loro ferite mortali, le porte da cui la vita li ha lasciati, aperte a colpi di spada, No, disse Gesù, non sto cercando nessuno. La vecchia non si allontanò, sembrava aspettare che lui proseguisse, e fu proprio quell’atteggiamento a togliere di bocca a Gesù alcune parole che non aveva pensato di pronunciare, Sono nato in questo paese, in una grotta, e mi piacerebbe vedere il posto. Con difficoltà, la vecchia indietreggiò di un passo, affinò lo sguardo più che poteva e, con la voce tremante, domandò, Tu, come ti chiami, da dove vieni, chi sono i tuoi genitori. A una schiava dovrà rispondere solo chi lo voglia, ma il prestigio dell’ultima età, nonostante la condizione inferiore, ha una certa forza, ai vecchi, a tutti, si deve rispondere sempre perché, essendogli rimasto ormai così poco tempo per fare domande, sarebbe una crudeltà terribile lasciarli senza risposte, non
dimentichiamo che una potrebbe anche essere quella che si aspettava. Mi chiamo Gesù e vengo da Nazaret, in Galilea, disse il ragazzo, e non faceva che ripeterlo da quando aveva lasciato la casa. La vecchia avanzò del passo che prima era retrocessa, E i tuoi genitori come si chiamano, Mio padre si chiamava Giuseppe, mia madre è Maria, Quanti anni hai, Vado per i quattordici. La donna si guardò intorno, quasi cercasse dove sedersi, ma una piazza di Betlemme, in Giudea, non è mica come il giardino di Sao Pedro de Alcantara, pieno di panchine e con una piacevole veduta del castello, qui ci si siede per terra, nella polvere, al massimo sulla soglia della porta, o, se c’è una tomba, sulla pietra che si pone accanto all’ingresso per il riposo e lo sfogo dei vivi che vanno a piangere i loro cari, o magari, chissà, proprio dei fantasmi che escono dalle tombe per piangere le lacrime avanzate loro dalla vita, come nel caso di Rachele, qui vicina, in verità è scritto, È Rachele che piange i suoi figli e non vuole essere consolata perché non esistono più, non c’è bisogno di essere arguti come Edipo per accorgersi di quanto il luogo sia adatto alla situazione e il pianto alla causa. La vecchia si sedette faticosamente sopra il sasso, il ragazzo accennò un gesto per aiutarla, ma non fece in tempo, gli atti non totalmente sinceri sono sempre in ritardo. Io ti conosco, disse la vecchia, Ti sbagli, rispose Gesù, non sono mai stato qui e non ti ho mai visto a Nazaret, Le prime mani che ti hanno toccato non sono state quelle di tua madre, ma le mie, Come può essere, Il mio nome è Zelomi e sono stata la tua levatrice. Nell’impulso di un istante, dimostrandosi così l’autenticità caratterologica dei movimenti fatti per tempo, Gesù s’inginocchiò ai piedi della schiava, inconsapevolmente esitante fra una curiosità che sembrava sul punto di essere soddisfatta e un semplice dovere di contegno sociale, quello di manifestare riconoscenza a colei che, per la sola responsabilità di essere stata presente in quel momento, ci ha tratti da un limbo senza memoria, per poi abbandonarci in una vita che non sarebbe niente senza di lei. Mia madre non mi ha mai parlato di te, disse Gesù, Non doveva, i tuoi genitori si presentarono a casa del mio padrone chiedendo aiuto, e visto che io avevo una certa esperienza, Fu all’epoca della strage degli innocenti che sono in questa tomba, Sì, tu sei stato fortunato, non ti hanno trovato, Perché vivevamo nella grotta, Sì, o forse perché eravate partiti prima, non l’ho mai saputo, quando andai per vedere quello che vi era accaduto, trovai la grotta vuota, Ti ricordi di mio padre, Sì, me ne ricordo, allora era un uomo giovane, di bell’aspetto, e una brava persona, È morto, Poverino, com’è stata breve la sua vita, e tu, che sei il primogenito, perché hai lasciato tua madre, suppongo che sia ancora viva, Sono venuto per conoscere il luogo in cui sono nato, e inoltre per sapere dei bambini che furono uccisi, Solo Dio sa perché sono morti, l’angelo della morte, prendendo le sembianze dei soldati di Erode, scese su Betlemme e li condannò, Credi allora che sia stata la volontà di Dio, Io sono soltanto una vecchia schiava ma, da quando sono nata,
sento dire che tutto quanto è successo nel mondo, persino la sofferenza e la morte, è potuto accadere solo perché Dio, prima, lo ha voluto, Così è scritto, Capisco come Dio, uno di questi giorni, potrà volere la mia morte, ma non quella di creature innocenti, La tua morte la stabilirà Dio, a suo tempo, la morte di quei bambini la decise la volontà di un uomo, Può ben poco, in fondo, la mano di Dio, se non riesce a interporsi fra la scure e il condannato, Non offendere il Signore, o donna, Chi, come me, non sa nulla, non può offendere, Oggi, nel Tempio, ho sentito dire che ogni azione umana, per quanto insignificante sia, interferisce con la volontà di Dio e che l’uomo è libero soltanto per poter essere castigato, Non dal fatto di essere libera viene il mio castigo, ma da quello di essere schiava, rispose la donna. Gesù tacque. Aveva udito a stento le parole di Zelomi perché un pensiero, come un improvviso spiraglio, gli si era aperto sull’offuscante evidenza che l’uomo è un semplice balocco nelle mani di Dio, eternamente soggetto a fare solo quello che a Dio piaccia, sia quando crede di obbedirgli in tutto sia quando in tutto suppone di contrariarlo. Il sole tramontava, l’ombra maligna del fico si avvicinava. Gesù indietreggiò di qualche passo e chiamò la donna, Zelomi, a fatica lei alzò la testa, Che cosa vuoi, domandò, Portami alla grotta in cui sono nato, o dimmi dov’è, se non puoi camminare, Faccio fatica a camminare, sì, ma non la troveresti se non ti accompagnassi, È lontana, No, ma ce ne sono altre, sembrano tutte uguali, Andiamo, Sì, andiamo, disse la donna. A Betlemme, chi vedeva passare Zelomi con quel ragazzo a tutti ignoto si domandava dove mai si fossero conosciuti. Non lo avrebbero mai saputo, perché la schiava mantenne il silenzio per i due anni che le rimasero da vivere, e Gesù non sarebbe mai più tornato al paese natio. Il giorno dopo, Zelomi si recò nella grotta dove aveva lasciato il ragazzo. Non lo trovò. In cuor suo, era proprio quello che sperava. Non avrebbero avuto nulla da dirsi se lui fosse stato ancora lì. 15. Tanto si è detto delle coincidenze di cui la vita è fatta, intessuta e composta, ma quasi nulla si è raccontato degli incontri che, giorno dopo giorno, si verificano, nonostante che, quasi sempre, siano proprio questi eventi a indirizzarla e a determinarla, benché, a difesa di quella parziale percezione delle contingenze vitali, si possa ribattere che un incontro, a stretto rigor di termini, è una coincidenza, il che non significa, è chiaro, che tutte le coincidenze debbano essere incontri. Nella maggior parte dei casi di questo vangelo ci sono state coincidenze a iosa, e quanto ai particolari della vita di Gesù propriamente detta, soprattutto dal momento in cui, uscito da casa, abbiamo cominciato a dedicargli tutta la nostra attenzione, si può notare come gli incontri non siano mancati. Tralasciando la sfortunata peripezia coi ladri lungo la strada, non essendo ancora prevedibili gli effetti che in un futuro
prossimo e distante potrebbe avere, questo primo viaggio indipendente di Gesù si è dimostrato alquanto ricco di incontri, come l’apparizione provvidenziale del fariseo filantropo, grazie al quale il ragazzo, in fin dei conti fortunato, non solo è riuscito a rifocillarsi, ma anche, avendo impiegato a mangiare né più né meno il tempo occorsogli per arrivare al Tempio al momento giusto per udire le domande e ascoltare le risposte che, per così dire, avrebbero costituito la base dell’interrogativo che si portava da Nazaret, sulle responsabilità e le colpe, se ben ci ricordiamo. Dicono gli esperti nelle regole della buona narrazione che gli incontri decisivi, proprio come succede nella vita, dovranno essere inframmezzati e incrociati con altri mille di poca o nulla importanza, talché l’eroe della storia non si veda trasformato in un essere eccezionale al quale nella vita potrà accadere di tutto, tranne che banalità. E aggiungono che questo procedimento narrativo è il migliore ai fini della verosimiglianza, perché se l’episodio immaginato e descritto non é né potrà mai diventare un fatto, un dato della realtà, ed entrare in essa, che almeno sia in grado di sembrarlo, non come in questo nostro racconto, nel quale si è abusato troppo palesemente della fiducia del lettore, portando Gesù a Betlemme e, lì, appena arrivato, facendogli incontrare faccia a faccia, senza né a né ba, la donna che era stata la levatrice durante la sua nascita, come se già non avessero passato i limiti l’incontro e le battute anticipate da quell’altra donna, con il figlio in braccio, messa lì apposta per le prime informazioni. Ma la cosa più difficile da credere deve ancora venire, dopo che la schiava Zelomi avrà accompagnato Gesù alla grotta, lasciandocelo come lui le ha chiesto senza indugi, Lasciami solo, fra queste buie pareti, in questo grande silenzio, voglio ascoltare il mio primo grido, ammesso che gli echi possano durare tanto, sono queste infatti le parole che la donna crede di aver udito ed ecco perché si riportano, anche se costituiscono decisamente un’ulteriore offesa alla verosimiglianza, costringendoci a imputarle, per precauzione logica, all’evidente senilità dell’anziana. Si allontanò Zelomi con la sua vacillante andatura da vecchia, passo dopo passo, tastando la sicurezza del suolo, il bastone impugnato con tutt’e due le mani, ebbene, sarebbe stato tutt’altro gesto se il ragazzo avesse aiutato la povera e sacrificata creatura a tornare a casa, ma la gioventù è così, egoista, presuntuosa, e Gesù, che lui sappia, non ha motivi per essere diverso dai suoi coetanei. Se ne sta lì, seduto sopra un sasso e accanto, sopra un altro sasso, il lume acceso rischiara fiocamente le pareti rugose, la macchia più scura dei carboni nel punto in cui c’era il fuoco, le braccia abbandonate, deboli, l’espressione seria, Sono nato qui, pensava, ho dormito in quella mangiatoia, sopra il sasso su cui sono assiso si sedettero mio padre e mia madre, qui siamo rimasti nascosti mentre in paese i soldati di Erode andavano a uccidere gli innocenti, per quanto possa fare non riuscirò a udire
il grido di vita che ho emesso nascendo, e tanto meno sento le urla di morte dei bambini e dei genitori che li vedevano morire, niente viene a rompere il silenzio di questa grotta in cui si sono uniti un principio e una fine, pagano i padri per le colpe che hanno, i figli per quelle che avranno, così mi hanno spiegato al Tempio, ma se la vita è una sentenza e la morte una giustizia, allora non è mai esistita al mondo gente più innocente di quella di Betlemme, di quei bambini morti senza colpa e di quei padri che quella responsabilità non hanno avuto, né dev’esserci stata gente più colpevole di mio padre, che tacque quando avrebbe dovuto parlare, e adesso io, cui la vita fu risparmiata perché conoscessi il delitto che mi ha salvato, anche se non avrò altre colpe, questa mi ucciderà. Nella semioscurità della grotta, Gesù si alzò, quasi volesse fuggire, ma riuscì a fare solo due passi incerti, all’improvviso le gambe gli cedettero, le mani accorsero in aiuto degli occhi per tamponare le lacrime in procinto di spuntare, povero ragazzo, rannicchiato lì a contorcersi nella polvere come se provasse un dolore infinito, eccolo, lo vediamo soffrire per il rimorso di ciò che non ha fatto, ma di cui dovrà essere, finché vivrà, l’insanabile contraddizione, il primo colpevole. Questo fiume di angoscianti lacrime, diciamolo subito, lascerà per sempre negli occhi di Gesù una traccia di tristezza, un continuo, umido e desolato luccichio, come se, a ogni istante, avesse appena pianto. Passò un po’ di tempo, il sole cominciò a tramontare, si allungarono le ombre sulla terra, preannunciando la grande ombra che calerà dall’alto con la notte, e il mutamento del cielo si poteva notare persino all’interno della grotta, le tenebre cominciano ad assediare e soffocare la minuscola mandorla luminosa del lume, dev’essere l’olio che sta finendo, e accadrà la stessa cosa anche quando il sole sarà sul punto di spegnersi, quando gli uomini si diranno l’un l’altro, Stiamo perdendo la vista, senza sapere che gli occhi, a loro, non servono più a niente. Adesso Gesù sta dormendo, si è arreso alla misericordiosa stanchezza di questi giorni, la morte terribile del padre, l’eredità dell’incubo, la rassegnata conferma della madre, e poi quel penoso viaggio a Gerusalemme, il Tempio che incuteva timore, le sconfortanti parole pronunciate dallo scriba, la discesa a Betlemme, la meta, la schiava Zelomi emersa dalle profondità del tempo per recargli la conoscenza ultima, non c’è da stupirsi che il corpo estenuato avesse trascinato nel suo crollo il misero spirito, sembravano riposare entrambi, ma ecco che lo spirito si muove e, in sogno, spinge il corpo ad alzarsi per accompagnarlo a Betlemme e, lì, in mezzo alla piazza, a confessare la terribile colpa, Io sono, dirà lo spirito con la voce del corpo, colui che ha portato la morte ai vostri figli, giudicatemi, condannate questo corpo che vi porto, il corpo di cui io sono l’animo e l’anima, perché lo possiate tormentare e torturare, giacché sappiamo bene come soltanto con il castigo e il sacrificio della carne si potranno ottenere l’assoluzione e il premio per lo spirito. Nel sogno ci sono le madri di Betlemme coi figli morti in braccio, solo uno è vivo e la
madre è quella donna comparsa davanti a Gesù portando il figlio, e risponde, Se non puoi restituire loro la vita, taci, dinanzi alla morte non ci vogliono parole. Lo spirito, umiliato, si è rinchiuso in se stesso come una tunica ripiegata tre volte, consegnando il corpo inerme alla giustizia delle madri di Betlemme, ma Gesù non saprà mai che avrebbe potuto mettere in salvo il corpo, stava per annunciarglielo la donna con il figlio ancora vivo in braccio, Non è colpa tua, vattene, ma qualcosa che gli parve un improvviso e offuscante chiarore inondò la caverna e lo destò di colpo, Dove sono, fu il suo primo pensiero, e sollevando faticosamente dal suolo polveroso gli occhi pieni di lacrime, vide un uomo alto, gigantesco, con una testa di fuoco, ma subito si accorse che quella che lui credeva essere una testa era una torcia sollevata con la mano destra fino quasi al soffitto della grotta, la testa vera era un poco più in basso, dalle dimensioni poteva essere quella di Golia, ma l’espressione del viso non aveva niente della furia guerresca, era piuttosto il sorriso compiaciuto di chi, dopo tante ricerche, abbia finalmente trovato. Gesù si alzò e indietreggiò fino alla parete della grotta, adesso riusciva a vedere meglio la faccia del gigante, che in fondo non lo era poi tanto, appena un palmo più alto degli uomini di maggior statura di Nazaret, le illusioni ottiche, senza le quali non esistono prodigi né miracoli, non sono una scoperta dei nostri tempi, basti pensare come lo stesso Golia non fu un giocatore di basket solo perché nacque anzitempo. Tu chi sei, domandò l’uomo, ma si capiva che era solo un modo per attaccare discorso. Incastrò la torcia in una fenditura della roccia, appoggiò alla parete due bastoni che aveva con sé, uno levigato dall’uso, costellato di nodi, mentre l’altro sembrava appena tagliato dall’albero, ancora con la corteccia, e poi andò a sedersi sul sasso più grande, sistemandosi sulle spalle l’ampio mantello che lo avvolgeva. Sono Gesù di Nazaret, rispose il ragazzo, Che cosa sei venuto a fare qui, se sei di Nazaret, Sono di Nazaret, ma nacqui in questa grotta, sono venuto a vedere il posto in cui sono nato, Dove sei nato tu è nel ventre di tua madre, e lì non ci potrai andare mai. Non avendole mai sentite prima, così crude, quelle parole fecero arrossire Gesù, che ammutolì. Sei scappato da casa, domandò l’uomo. Il ragazzo ebbe un attimo di esitazione, quasi stesse esaminando in cuor suo se potesse davvero chiamarsi fuga la sua partenza, e infine rispose, Sì, Non andavi d’accordo coi tuoi genitori, Mio padre è morto, Ah, fece l’uomo, ma Gesù provò una strana e indefinibile sensazione, che lui già lo sapesse, e non solo questo, ma che conoscesse anche tutto il resto, quanto era già stato detto e quanto c’era ancora da dire. Non hai risposto alla mia domanda, proseguì l’uomo, Quale, Se non andavi d’accordo coi tuoi genitori, Sono fatti miei, Parlami con rispetto, ragazzo, o mi sostituisco a tuo padre per castigarti, qui non ti sentirebbe neppure Dio, Dio è occhio, orecchio e lingua, vede tutto, sente tutto, e non dice tutto solo perché non lo vuole, Che cosa ne sai tu, di Dio, moccioso, Quello che ho imparato alla sinagoga, Alla sinagoga non puoi aver
sentito dire che Dio è un occhio, un orecchio e una lingua, È la mia conclusione, se Dio non lo fosse, non sarebbe Dio, E per quale motivo credi che Dio sia un occhio e un orecchio e non due occhi e due orecchie come ce li abbiamo tu e io, Affinché un occhio non inganni l’altro e un orecchio l’altro orecchio, per la lingua non c’è bisogno, è una sola, Anche la lingua degli uomini è duplice, serve tanto alla verità quanto alla menzogna, A Dio non è permesso mentire, Chi glielo impedisce, Lo stesso Dio, altrimenti si negherebbe da solo, L’hai già visto, Chi, Dio, C’è chi l’ha visto e l’ha annunciato. L’uomo rimase in silenzio a osservare il ragazzo, come se vi cercasse dei lineamenti conosciuti, e poi disse, Sì, è giusto, c’è chi ha ritenuto di vederlo. Fece una pausa e poi proseguì, adesso con un sorriso malizioso, Ancora non mi hai risposto, A cosa, Se ti trovavi male coi tuoi genitori, Me ne sono andato da casa perché volevo conoscere il mondo, La tua lingua conosce l’arte di mentire, ragazzo, ma io so bene chi sei, sei nato da un falegname chiamato Giuseppe e da una cardatrice di lana chiamata Maria, Come lo sai, Un giorno l’ho saputo e non l’ho dimenticato, Spiegati meglio, Sono pastore, da tanti anni sono qui con le mie pecore e le mie capre, e il becco e il montone, casualmente mi trovavo da queste parti quando sei venuto al mondo, ed ero nei pressi anche quando vennero a uccidere i bambini di Betlemme, ti conosco da sempre, come vedi. Gesù guardò l’uomo con timore e domandò, Qual è il tuo nome, Per le mie pecore non ho nome, Io non sono una delle tue pecore, Chissà, Dimmi come ti chiami, Se t’interessa tanto darmi un nome, chiamami Pastore, è quanto basta per avermi, se mi chiamerai, Vuoi portarmi con te, come aiutante, Stavo aspettando che me lo chiedessi, E allora, Ti accolgo nel mio gregge. L’uomo si alzò, prese la torcia e uscì all’aria aperta. Gesù lo seguì. Era notte fonda, la luna non era ancora sorta. Radunate all’ingresso della grotta, senz’altro rumore che non il tintinnio di alcuni campanelli, le pecore e le capre, tranquille, sembravano in attesa che si concludesse la chiacchierata fra il loro pastore e il nuovo aiutante. L’uomo sollevò la torcia per mostrare le teste nere delle capre, i musetti biancastri delle pecore, alcune dai lombi magri e sudati, altre dalle groppe arrotondate e lanose, e disse, Questo è il mio gregge, bada di non perdere neppure uno di questi animali. Seduti all’imbocco della caverna, alla luce tremolante della torcia, Gesù e il pastore mangiarono del formaggio e del pane duro delle bisacce. Poi il pastore entrò e prese il bastone nuovo, quello che aveva ancora la corteccia. Accese un falò e, a poco a poco, muovendolo abilmente tra le fiamme, ne bruciò la scorza, che poi strappò a lunghe strisce, e infine ne allisciò rozzamente i nodi. Lo lasciò raffreddare per un po’ e quindi lo rimise sopra il fuoco, adesso muovendolo più in fretta, senza dar tempo alle fiamme di bruciarlo, cosicché si scurisse e si rafforzasse l’epidermide del legno, come se su quel giovane virgulto si fossero anticipati gli anni. Finito il lavoro, disse, Ecco qui, forte e dritto, il tuo bastone da pastore, è il tuo terzo braccio. Benché non fosse di mani delicate,
Gesù fu costretto a lasciar cadere il bastone, tant’era caldo. Come ha fatto a tenerlo, si domandò, e non trovava risposta. Quando finalmente sorse la luna, entrarono nella grotta per dormire. Li seguirono alcune pecore e alcune capre e si distesero accanto a loro. Spuntavano le prime luci del mattino quando il pastore scosse Gesù, dicendogli, Alzati, ragazzo, basta dormire, il mio bestiame ha fame, d’ora in avanti il tuo lavoro sarà condurlo al pascolo, non farai altro di più importante in vita tua. Lentamente, perché a regolare l’andatura era il passo ridotto e contenuto del gregge, il pastore in testa, l’aiutante dietro, si allontanarono tutti, gli esseri umani e gli animali, in un’alba fresca e tersa che sembrava non aver fretta di far nascere il sole, gelosa di un chiarore simile a un mondo appena iniziato. Molto più tardi, un’anziana donna, che camminava a stento, aiutandosi con un bastone come una terza gamba, arrivò dalle case nascoste di Betlemme ed entrò nella grotta. Non fu granché sorpresa di non trovarvi Gesù, probabilmente non avrebbero avuto più nulla da dirsi. Nella solita semioscurità di quell’antro brillava la mandorla luminosa del lume, che il pastore aveva rifornito d’olio. Fra quattro anni Gesù incontrerà Dio. Nel fare questa inattesa rivelazione, forse prematura alla luce delle norme della buona narrazione sopra ricordate, l’unica intenzione è quella di predisporre il lettore di questo vangelo a farsi intrattenere con alcuni banali episodi di vita pastorale, anche se, e lo si anticipa subito per scusare chiunque fosse tentato di passare oltre, non arrecano nulla di sostanziale all’argomento principale. Eppure, quattro anni sono pur sempre quattro anni, soprattutto in un’età di così grandi mutamenti fisici e mentali, il corpo che cresce in maniera tanto squilibrata, la barba che comincia a scurire una pelle già di per sé bruna, la voce che si fa profonda e reboante come un sasso che rotola giù dal monte, la testa fra le nuvole e i sogni a occhi aperti, sempre biasimabili, soprattutto quando ci sono compiti di sorveglianza da rispettare, come nel caso delle sentinelle nelle caserme, nei castelli e negli accampamenti, per esempio, oppure, per rimanere nella nostra storia, di questo novello aiutante pastore cui hanno detto che non può perdere di vista le capre e le pecore del padrone. Il quale, a ben dire, non si sa chi sia. Fare il pastore, in questi tempi e luoghi, è lavoro per un servo o uno schiavo rozzo, costretto, pena il castigo, a rendere conto, costante e puntuale, del latte, del formaggio e della lana, per non parlare del numero dei capi di bestiame, che dovrà sempre aumentare, perché i vicini possano dire che gli occhi del Signore contemplano benignamente il devoto proprietario di beni così abbondanti, il quale, se vuole conformarsi alle regole del mondo, dovrà fidarsi più della benevolenza del Signore che non della forza generatrice dei montoni del suo gregge. Lo strano, però, è che Pastore, come ha voluto che lo chiamassimo, non sembra avere un padrone sopra di sé, giacché durante questi quattro anni nessuno andrà nel deserto a ritirare la lana, il
latte o il formaggio, né lui, il capo, lascerà mai il bestiame per andare a rendere conto del proprio incarico. Tutto funzionerebbe se il pastore fosse, nel significato usuale e noto del termine, il signore di queste capre e di queste pecore, ma è piuttosto difficile credere che lo sia realmente chi, come lui, lascia andare in malora una quantità di lana al di là di ogni immaginazione, chi, a quanto pare, tosa le pecore solo perché non muoiano di caldo, chi utilizza il latte, se lo utilizza, solo per fare il formaggio quotidiano e scambiare quanto avanzi con fichi, datteri e pane, e chi, infine, ma enigma fra gli enigmi, non vende un agnello o un capretto del suo gregge neppure a Pasqua, quando è tale la richiesta che raggiungono un ottimo prezzo. Non c’è quindi da stupirsi che il gregge cresca senza sosta, come se, ostinatamente e con l’entusiasmo di chi sa garantita una giusta durata della vita, osservasse quel famoso ordine che il Signore diede, forse poco fiducioso dell’efficacia dei dolci istinti naturali, Crescete e moltiplicatevi. In questo gregge insolito e vagabondo si muore di vecchiaia, ed è lo stesso Pastore in persona che serenamente aiuta a morire, ammazzandoli, gli animali che per malattia o senilità non riescono più a seguire il gregge. Gesù, la prima volta che ciò accadde da quando aveva preso a lavorare per il pastore, protestò contro quella fredda crudeltà, ma lui gli rispose semplicemente, O li ammazzo, come ho sempre fatto, o li abbandono a morire da soli in queste lande desolate, o trattengo il gregge e resto qui ad aspettare che tirino le cuoia, sapendo che, se moriranno dopo giorni e giorni, il pascolo finirà per non bastare per quelli ancora vivi, dimmi tu come ti comporteresti se fossi al mio posto e se, come me, fossi signore della vita e della morte del tuo gregge. Gesù non seppe che cosa rispondere e, per cambiare argomento, gli domandò, Se non cedi la lana, se abbiamo più latte e più formaggio di quanto ci serve per vivere, se non vendi gli agnelli e i capretti, perché tieni al tuo gregge e lo fai vivere e crescere così, al punto che un giorno, di questo passo, coprirà tutti questi monti e affollerà la terra intera, e Pastore rispose, Il gregge era qui, qualcuno doveva badarci, difenderlo dall’avidità, è capitato a me, Qui, dove, Qui, là, dappertutto, Vorresti dire, se non mi sbaglio, che il gregge c’è sempre stato, è sempre esistito, Più o meno, Ma le hai comprate tu la prima pecora e la prima capra, No, Allora chi è stato, Le ho trovate, non so se qualcuno le avesse comprate, ed erano già un gregge quando le ho trovate, Te le hanno date, Non me le ha date nessuno, le ho trovate, loro hanno trovato me, Allora tu sei il padrone, Non sono il padrone, niente di quanto esiste al mondo mi appartiene, Perché tutto appartiene al Signore, dovresti saperlo, Lo dici tu, Da quanto tempo sei pastore, Lo ero già quando sei nato, Da quando, Non lo so, forse cinquanta volte l’età che hai, Solo i patriarchi di prima del diluvio sono vissuti tanti o anche più anni, nessun uomo, adesso, può aspettarsi una vita così lunga, Lo so bene, Se lo sai, e insisti di aver vissuto tutto questo tempo, ammetterai che io possa pensare che tu non sia un uomo, Lo ammetto. Orbene, se
Gesù, che si era tanto ben avviato nell’ordine e nella sequenza dell’interrogatorio, come se avesse imparato le arti della maieutica analitica sull’abbecedario socratico, se Gesù domandasse, Chi sei allora, giacché uomo non sei, sarebbe molto probabile che Pastore accetterebbe di rispondergli con l’aria di chi non vuole dare grande importanza all’argomento, Sono un angelo, ma non dirlo a nessuno. Capita spesso che non facciamo le domande perché non saremmo ancora pronti per udire le risposte, o semplicemente perché ne avremmo paura. E quando troviamo il coraggio di formularle, non è raro che non ci rispondano, come farà Gesù quando, un giorno, gli domanderanno, Che cos’è la verità. Allora tacerà fino a oggi. Comunque sia, quello che Gesù ormai sa, senza bisogno di chiederlo, è che il suo enigmatico compagno non è un angelo del Signore, perché queste creature cantano ogni momento del giorno e della notte le glorie del Signore, non sono mica come gli uomini, che lo fanno solo perché obbligati e nelle occasioni canoniche, è anche vero che gli angeli hanno motivi più prossimi e giustificati per cantare tanto, perché con il Signore, appunto, ci vivono in cielo, per così dire sono pappa e ciccia. La cosa che, prima di tutto, stupì Gesù fu che, usciti dalla grotta all’alba, Pastore non si fosse comportato come lui, benedicendo Dio per quello che sappiamo, l’avergli restituito l’anima, l’aver dato intelligenza al gallo, e, avendo avuto la necessità di appartarsi dietro quelle frasche per urinare e andare di corpo, ringraziarlo per gli orifizi e i vasi esistenti nell’organismo umano, provvidenziali nel senso assoluto della parola, perché vorrei vedere a farne a meno. Pastore guardò il cielo e la terra come fa chiunque appena alzato dal letto, mormorò alcune parole sul bel tempo che l’aria prometteva e, portando due dita alla bocca, lanciò un fischio stridente che mise il gregge in piedi come un sol uomo. Nient’altro. Gesù pensò che dovesse essere stata una dimenticanza, come può accadere quando si ha lo spirito impegnato, per esempio era possibile che Pastore stesse pensando al modo migliore per insegnare il duro mestiere a un giovane abituato alle comodità della bottega di un falegname. Orbene, noi sappiamo che, in una situazione normale, fra gente comune, Gesù non avrebbe dovuto aspettare molto per mettersi al corrente dell’effettivo grado di religiosità del suo capoccia, visto che i giudei di allora pronunciavano devozioni una trentina di volte al giorno, per un nonnulla, come abbondantemente si è visto nel corso di questo vangelo, e non essendoci quindi alcuna necessità di dimostrarlo meglio adesso. Passò la giornata, e non vi fu nessuna orazione, venne la notte, trascorsa all’umido, alla bell’e meglio, e neanche la maestosità del cielo di Dio riuscì a risvegliare nell’anima e nella bocca di Pastore una sola parolina di lode e gratitudine, in fondo avrebbe potuto anche piovere e invece ciò non accadeva, e questo era, a tutti i titoli, non solo umani ma anche divini, un indubbio segno che il Signore vegliava sulle sue creature. Il mattino seguente, dopo aver mangiato, e mentre il capoccia si
accingeva a fare un giro tra il gregge per controllare, per vedere se qualche capra irrequieta non avesse deciso di avventurarsi nei dintorni, Gesù annunciò con voce ferma, Me ne vado. Pastore si bloccò, lo guardò senza cambiare espressione, disse soltanto, Buon viaggio, non ho bisogno di dirti che non sei mio schiavo né esiste alcun contratto legale fra di noi, puoi andartene quando vuoi, Non vuoi sapere perché me ne vado, La mia curiosità non è tale da costringermi a domandartelo, Parto perché non posso vivere accanto a una persona che non compie i propri doveri verso il Signore, Quali doveri, I più elementari, quelli che si esprimono con le devozioni e i ringraziamenti. Pastore rimase in silenzio, con un sorrisetto che si rivelava più negli occhi che sulle labbra, poi disse, Non sono giudeo, non devo compiere doveri che non mi spettano. Gesù indietreggiò di un passo, scandalizzato. Che la terra di Israele brulicasse di forestieri e seguaci di falsi dei, lo sapeva per certo, ma non gli era mai capitato di dormire accanto a uno di loro, di mangiare il suo pane e di bere il suo latte. Perciò, come se tenesse davanti a sé una lancia e uno scudo protettivo, esclamò, Solo il Signore è Dio. Il sorriso di Pastore si smorzò, la bocca assunse d’improvviso una piega amara, Sì, se Dio esiste, dovrà essere un unico Signore, ma sarebbe meglio che fossero due, così si avrebbe un dio per il lupo e un dio per la pecora, uno per chi muore e l’altro per chi ammazza, un dio per il condannato e un dio per il boia, Dio è uno, tutto e indivisibile, esclamò Gesù, e quasi piangeva d’indignazione, al che l’altro gli rispose, Non so come Dio possa vivere, ma la frase non proseguì perché Gesù, con l’autorità di un dottore della sinagoga, lo interruppe, Dio non vive, Egli è, Di queste differenze non me ne intendo, ma quel che posso dire è che non mi piacerebbe vedermi nella pelle di un dio che guida la mano del pugnale assassino e, insieme, offre la gola che sarà tagliata, Tu offendi Dio, con questi pensieri empi, Non valgo tanto, Dio non dorme, un giorno ti punirà, Meno male che non dorme, così facendo evita gli incubi del rimorso, Perché mi parli di incubi e di rimorso, Perché stiamo parlando del tuo Dio, E il tuo, chi è, Io non ho alcun dio, sono come una delle mie pecore, Almeno loro danno i figli per gli altari del Signore, E io ti dico che quelle madri, se lo sapessero, ululerebbero come lupi. Gesù impallidì e non seppe rispondere. Adesso il gregge era intorno a loro, attento, in silenzio. Il sole era sorto, e la sua luce tingeva di rubino il vello delle pecore e le corna delle capre. Gesù disse, Me ne vado, ma non si mosse. Appoggiato al bastone, tranquillo, quasi sapesse di avere tutto il futuro a disposizione, Pastore aspettava. Finalmente, Gesù avanzò di qualche passo, facendosi largo fra le pecore, ma si fermò di colpo e domandò, Che cosa ne sai tu di rimorso e di incubi, Che tu sei l’erede di tuo padre. Parole che Gesù non riuscì a sopportare. In quello stesso istante gli si piegarono le ginocchia, dalla spalla gli scivolò la bisaccia dalla quale, per caso o per necessità, spuntarono i sandali del padre, mentre si udiva il rumore della scodella del fariseo che si spaccava. Gesù
scoppiò a piangere come un bambino abbandonato, ma Pastore non si avvicinò e, dal punto in cui si trovava, gli disse solo, Ricordati sempre che io so tutto di te da quando sei stato concepito, e adesso deciditi una volta per tutte, o te ne vai, o resti, Prima dimmi chi sei, Non è ancora il momento che tu lo sappia, E quando lo saprò, Se resterai, ti pentirai di non essere andato, se te ne andrai, rimpiangerai di non essere rimasto, Ma se me ne andassi via, non saprei mai chi sei, Ti sbagli, dovrà arrivare la tua ora e, in quel momento, io sarò presente per dirtelo, e adesso basta con le chiacchiere, il gregge non può stare qui tutto il giorno ad aspettare che tu ti decida. Gesù raccolse i cocci della scodella, li guardò come se gli costasse separarsene, in realtà non ce n’era motivo, ieri, a quest’ora, ancora non aveva neppure incontrato il fariseo, e inoltre le scodelle d’argilla sono così, si rompono con la massima facilità. Abbandonò i frammenti a terra come se li seminasse, e fu allora che Pastore disse, Avrai un’altra scodella, ma quella non si romperà finché vivrai. Gesù non lo udì, teneva i sandali di Giuseppe in una mano e rifletteva se non fosse il caso di calzarli, certo è che in un così breve lasso i piedi non potevano mica essergli cresciuti fino alla misura giusta, ma il tempo, lo sappiamo bene, è quello che è, a Gesù sembrava di avere i sandali del padre nella bisaccia da un’eternità, sarebbe stata davvero una sorpresa se gli fossero ancora larghi. Li calzò e, senza sapere perché lo facesse, conservò i suoi. Disse Pastore, Piedi cresciuti non si ritirano più, e tu non avrai figli che ereditino la tua tunica, il mantello e i sandali, ma Gesù non li buttò via, il loro peso serviva a tenere salda sulla spalla la bisaccia quasi vuota. Non ci fu bisogno della risposta che Pastore aveva chiesto, Gesù prese il suo posto dietro il gregge, incerti i sentimenti fra un’indefinibile impressione di terrore, come se la sua anima fosse in pericolo, e un’altra, ancora più indeterminabile, di oscura seduzione. Devo sapere chi sei, mormorava Gesù, mentre in mezzo alla polvere sollevata dal gregge spingeva una pecora ritardataria, spiegandosi così, pensava lui, il motivo per cui aveva infine deciso di rimanere con l’enigmatico pastore. Questo avvenne il primo giorno. Di argomenti di fede ed empietà, di vita, morte e proprietà, non si parlò più, ma Gesù, che si era messo a osservare persino i più semplici movimenti e gesti di Pastore, notò che, quasi sempre in coincidenza con le volte in cui lui benediceva il Signore, il suo compagno si chinava e accostava leggermente le palme di entrambe le mani alla terra, curvando il capo e chiudendo gli occhi, senza dire una parola. Un giorno, quando era ancora un bambino piccolo, Gesù aveva sentito alcuni vecchi viandanti di passaggio a Nazaret raccontare che nell’interno del mondo esistevano immense caverne in cui si trovavano, come sulla superficie, città, campagne, fiumi, boschi e deserti, e che quel mondo inferiore, in tutto copia e riflesso di quello nel quale viviamo, era stato creato dal Diavolo dopo che Dio lo aveva precipitato dall’alto dei cieli, per castigarlo della sua ribellione. E
giacché il Diavolo, che all’inizio era stato amico di Dio e da Lui favorito, al punto che nell’universo si diceva che fin dai tempi infiniti non si era mai vista un’amicizia come quella, giacché il Diavolo, dicevano i vecchi, era stato presente al momento della nascita di Adamo ed Eva e aveva potuto imparare le modalità dell’atto, aveva poi ripetuto nel secondo mondo sotterraneo la creazione di un uomo e di una donna, con la differenza, al contrario di Dio, di non aver loro proibito nulla, ragion per cui nel mondo del Diavolo non ci sarebbe stato il peccato originale. Uno dei vecchi osò addirittura dire, E visto che non è esistito il peccato originale, non ce ne sono stati altri. Dopo che i vecchi se n’erano andati, allontanati con l’aiuto di qualche sassata persuasiva dai nazareni furiosi che, alla fin fine, avevano capito dove volessero mai arrivare quegli empi con le loro chiacchiere insidiose, c’era stata una breve scossa sismica, una cosa leggera, non più che un segnale di conferma proveniente dalle profondissime viscere della terra, o perlomeno era quanto aveva pensato allora Gesù, in grado com’era già, quel piccino, di collegare un effetto alla sua causa, malgrado la giovane età. E adesso, davanti al pastore accoccolato, con il capo chino, le mani poggiate sulla terra, leggere, come per rendere più sensibile il contatto con ogni granello di sabbia, con ogni sassolino, con ogni radichetta salita in superficie, il ricordo di quell’antica storia si risvegliò nella memoria di Gesù e lui credette, per un momento, che quest’uomo fosse un abitante dell’occulto mondo creato dal Diavolo a somiglianza di quello visibile, Che cosa sarà venuto a fare qua, pensò, ma la sua immaginazione non ebbe il coraggio di spingersi oltre. Allora, quando Pastore si alzò, gli domandò, Perché fai così, Mi accerto che la terra sia ancora sotto di me, Non ti bastano i piedi per averne la certezza, I piedi non avvertono nulla, la conoscenza è nelle mani, quando tu adori il tuo Dio non sono mica i piedi che innalzi verso di Lui, ma le mani, eppure potresti alzare qualunque parte del corpo, persino ciò che hai fra le gambe, se non sei un eunuco. Gesù arrossì violentemente, la vergogna e una sorta di spavento lo soffocarono, Non offendere il Dio che non conosci, esclamò infine, e Pastore, di ritorno, Chi ha creato il tuo corpo, Me lo ha creato Dio, Così com’è e con tutto quello che ha, Sì, C’è qualche parte del tuo corpo che sia stata creata dal Diavolo, No, no, il corpo è opera di Dio, Allora tutte le parti del tuo corpo sono uguali dinanzi a Dio, Sì, Potrebbe forse rifiutare Dio come opera non sua, per esempio, quello che hai fra le gambe, Suppongo di no, ma il Signore, che ha creato Adamo, lo ha cacciato dal paradiso, e Adamo era opera sua, Rispondimi in modo diretto, ragazzo, non parlarmi come un dottore della sinagoga, Vuoi costringermi a darti le risposte che ti fanno gioco, se necessario, e io ti elenco tutti i casi in cui l’uomo, giacché l’ha ordinato il Signore, non potrà, pena la contaminazione e la morte, scoprire una nudità altrui o propria, prova che quella parte del corpo è, di per sé, maledetta, Non più maledetta della bocca quando mente e calunnia, eppure ti serve
per lodare il tuo Dio prima della menzogna e dopo la calunnia, Non voglio ascoltarti, Devi farlo, se non altro per rispondere alla domanda che ti ho posto. Quale domanda, Se Dio potrà rifiutare come opera non Sua ciò che hai fra le gambe, dimmi si o no, Non può, Perché, Perché il Signore non può non volere quanto ha voluto in precedenza. Pastore annuì con il capo, lentamente, e disse, In altre parole, il tuo Dio è l’unico custode di una prigione in cui il solo prigioniero è Lui stesso. L’ultima eco della tremenda affermazione vibrava ancora nelle orecchie di Gesù quando Pastore, adesso con un tono di falsa naturalezza, riprese a parlare, Scegli una pecora, disse, Che cosa, domandò Gesù, disorientato, Ti ho detto di scegliere una pecora, a meno che tu non preferisca una capra, A che scopo, Ne avrai bisogno, se davvero non sei un eunuco. Il significato sotteso colpì il ragazzo con la forza di un cazzotto. Ma la cosa peggiore fu la vertigine di un’orribile voluttà che dallo sprofondare nella vergogna e nella ripugnanza per un attimo emerse e prevalse. Si coprì il viso con le mani e disse con la voce roca, Questa è la parola del Signore, L’uomo che si abbrutisce con una bestia dovrà essere messo a morte, e dovrete uccidere anche la bestia, e poi ha affermato, Maledetto sia chi si unisce con qualsiasi bestia, L’ha detto il tuo Signore, Sì, e io ti dico di allontanarti da me, abominevole creatura che non appartieni a Dio, ma al Diavolo. Pastore udì e non si mosse, come se stesse aspettando che le irate parole di Gesù producessero tutto il loro effetto, qualunque esso fosse, scarica fulminante, corrosione da lebbra, morte improvvisa del corpo e dell’anima. Non accadde nulla. Giunse una folata di vento fra i sassi, sollevò una nuvola di polvere che attraversò il deserto e poi nulla, il silenzio, l’universo cheto a contemplare gli uomini e le bestie, forse anch’esso in attesa di conoscere il significato che gli attribuiscono, o vi ritrovano, o riconoscono, gli uni e le altre, consumandosi in quell’attesa, il fuoco primordiale ormai circondato di ceneri, mentre si cerca la risposta che non arriva. All’improvviso, Pastore alzò le braccia ed esclamò, con voce stentorea, rivolto al gregge, Udite, udite, pecore che siete lì, udite cosa ci viene a insegnare questo saggio ragazzo, che non è lecito fornicare con voi, Dio non lo permette, potete stare tranquille, ma tosarvi sì, maltrattarvi sì, ammazzarvi sì, e mangiarvi, perché all’uopo vi ha creato la Sua legge e vi mantiene la Sua provvidenza. Poi emise tre lunghi fischi, agitò il bastone sopra il capo, Avanti, avanti, gridò, e il gregge si mise in movimento, nella direzione in cui era scomparsa la colonna di polvere. Gesù rimase lì, immobile, a guardare, finché l’alta figura di Pastore cominciò a svanire in lontananza e i dorsi rassegnati delle bestie si confusero con il colore della terra. Non vado con lui, aveva detto, ma vi andò. Sistemò la bisaccia sulla spalla, si aggiustò le stringhe dei sandali appartenuti al padre e seguì da lontano il gregge. Vi si unì quando fu notte, emerse dal buio, diretto verso la luce del falò, e disse, Eccomi.
16. Il tempo insegue il tempo, è un detto conosciuto e molto usato, ma non tanto ovvio quanto possa sembrare a chi si accontenta del significato prossimo delle parole, sia isolate, a una a una, sia raggruppate e articolate, ché tutto nasce dal modo di pronunciarle, e questo varia in base al sentimento di chi le esprime, non è lo stesso che le pronunci chi, giacché la vita gli va male, aspetta giorni migliori, o le butti là come minaccia, come una vendetta promessa che il tempo dovrà esaudire. Il caso più estremo sarebbe quello di chi, senza motivi validi e oggettivi di lagnarsi della salute e del benessere, sospirasse malinconicamente, Il tempo insegue il tempo, solo perché di natura pessimista e incline a prevedere il peggio. Non sarebbe del tutto credibile che Gesù, alla sua età, avesse queste parole sulle labbra, qualunque sia il significato con cui potrebbe usarle, ma noi sì, noi che, come Dio, sappiamo tutto del tempo che fu, è e sarà, noi possiamo pronunciarle, sussurrarle o sospirarle mentre lo vediamo, lì, intento al suo lavoro di pastore, su quei monti di Giuda, o quando scende, a tempo debito, alla valle del Giordano. E non tanto perché si tratta di Gesù, ma per il motivo che ciascun essere umano ha davanti a sé, in ogni momento della vita, cose belle e cose brutte, queste appresso a quelle, appresso al tempo, il tempo. Essendo, con ogni evidenza, Gesù l’eroe di questo vangelo, che non ha mai avuto il proposito di contrastare quello che hanno scritto altri e che, pertanto, non oserà certo sostenere che non è accaduto ciò che si è compiuto, mettendo al posto di un sì un no, essendo Gesù questo eroe e conosciute le sue prodezze, ci sarebbe molto facile avvicinarci a lui e annunciargli il futuro, quanto sarà bella e meravigliosa la sua vita, miracoli che daranno da mangiare, altri che restituiranno la salute, uno che sconfiggerà la morte, ma non sarebbe assennato farlo, perché il ragazzo, benché versato per la religione ed esperto di patriarchi e profeti, gode del robusto scetticismo tipico della sua età e ci manderebbe a quel paese. Cambierà idea, è chiaro, quando incontrerà Dio, ma questo decisivo avvenimento non è previsto per domani, e fino ad allora Gesù dovrà salire e scendere molti monti, mungere tante capre e tante pecore, aiutare a fare il formaggio, andare a barattare quei prodotti nei paesi. Ammazzerà anche qualche bestia malata o storpia, e piangerà. Ma quello che non gli accadrà mai, si tranquillizzino gli spiriti sensibili, è di cadere nell’orribile tentazione di usare, come gli ha proposto quel malizioso e pervertito di un Pastore, una capra o una pecora, o tutt’e due, per scaricarsi e soddisfare il lurido corpo con cui l’anima limpida deve convivere. Dimentichiamo, ché non è questo il posto adatto per analisi intime, possibili soltanto in tempi futuri a questo, che tante volte, per poter esibire e per vantarsi di un corpo puro, l’anima si è presa su di sé tanta tristezza, invidia e immondezza.
Pastore e Gesù, superati quegli scontri etici e teologici dei primi giorni, e comunque per qualche tempo ancora recidivanti, finché furono insieme trascorsero piacevolmente la vita, l’uomo insegnando senza l’impazienza del più vecchio le arti della pastorizia, il ragazzo apprendendole come se la propria esistenza dovesse dipendere soprattutto da esse. Gesù imparò a lanciare il bastone che, vorticando e sibilando, andava a ricadere sulla groppa di quelle pecore che, per distrazione o audacia, si allontanavano dal gregge, ma fu un apprendistato alquanto doloroso, perché un giorno, ancora incerto nella tecnica, Gesù lanciò il bastone troppo basso, col tragico risultato di centrare, nella traiettoria, il collo esile e fragile di un capretto di pochi giorni, il quale morì all’istante. Incidenti del genere possono capitare a chiunque, persino un pastore abile e di grande esperienza potrebbe avere questa iella, ma il povero Gesù, che ha già tante pene, sembrava la statua dell’angoscia quando raccolse da terra, ancora caldo, il caprettino. Non c’era niente da fare, persino la capra madre, dopo aver annusato per un momento il figlio, si allontanò e riprese a pascolare, brucando l’erbetta dura che scostava con bruschi movimenti del muso, È inutile piangere sul latte versato, come a dire, Ogni lasciata è persa. Pastore accorse a vedere che cos’era successo, Peggio per lui che è morto, non rattristarti, L’ho ucciso, si lamentava Gesù, ed era così piccolo, Certo, se fosse stato un caprone brutto e puzzolente non ti farebbe pena, o almeno non tanto, posalo per terra, me ne occupo io, e tu vattene laggiù, c’è una pecora che sta per partorire, Che cosa farai, Lo scuoierò, che cosa credi, la vita non gliela posso restituire, non sono competente in opere miracolose, Giuro di non mangiare questa carne. Mangiare l’animale che abbiamo ammazzato è l’unica maniera di rispettarlo, il male è che alcuni si cibino di quanto altri hanno dovuto uccidere, Non lo mangerò, Allora non mangiarlo, ce ne sarà di più per me. Pastore trasse il coltello dalla cintura, guardò Gesù e disse, Prima o poi, dovrai imparare anche questo, come siano dentro quelli che sono stati creati per servirci e nutrirci. Gesù volse la faccia altrove e fece un passo per allontanarsi, ma Pastore, che aveva interrotto il movimento del coltello, aggiunse, Gli schiavi vivono per servirci, forse dovremmo aprirli per sapere se hanno altri schiavi dentro, e poi tagliare un re per vedere se c’è un altro re dentro la pancia, e bada che se incontrassimo il Diavolo e lui ci permettesse di aprirlo, forse avremmo la sorpresa di veder balzare fuori Dio. Prima parlavamo di recidive degli scontri di idee e convinzioni tra Gesù e Pastore, ed eccone un esempio. Ma, col tempo, Gesù aveva imparato che la migliore risposta era il silenzio, non farsi prendere dalle provocazioni, anche dure come questa, ed è ancora fortunato, poteva andare anche peggio, s’immagini lo scandalo se a Pastore fosse venuto in mente di aprire Dio per vedere se dentro c’era il Diavolo. Gesù andò in cerca della pecora che doveva partorire, almeno lì non lo aspettavano sorprese, ne sarebbe uscito un agnello tale e quale agli altri, proprio a
immagine e somiglianza della madre, a sua volta ritratto fedele delle sorelle, ci sono esseri così, si portano dentro solo questo, la certezza di una pacifica e inequivocabile continuità. La pecora aveva già partorito, per terra l’agnello sembrava tutto gambe e la madre tentava di aiutarlo ad alzarsi spingendolo delicatamente con il muso, ma quello, poverino, stordito, riusciva soltanto a compiere bruschi movimenti con la testa, come se cercasse la visuale migliore per capire il mondo in cui era nato. Gesù lo aiutò a rizzarsi sulle zampe, gli rimasero le mani inumidite dagli umori della placenta della pecora, ma non gliene importava niente, ecco che cosa significa vivere in campagna con gli animali, sputo e bava è tutta la stessa cosa, quest’agnello arriva al momento giusto, così carino, col pelo riccioluto, la sua bocca rosea e frenetica stava già cercando il latte dov’era, in quelle mammelle che non aveva mai visto prima, che non poteva neppure aver sognato nell’utero della madre, in realtà non c’è una sola creatura che possa lamentarsi di Dio se, appena nata, è già al corrente di tante cose utili. Laggiù, Pastore aveva teso la pelle del capretto su una sorta di armatura di legno a forma di stella, il corpo scuoiato, ficcato nella bisaccia avvolto in un pezzo di stoffa, verrà salato quando il gregge si fermerà per passare la notte, tranne la parte con cui Pastore intenderà prepararsi la cena, ché Gesù ha già dichiarato che non mangerà nessuna carne alla quale, senza volerlo, ha tolto la vita. Per la religione che pratica e le usanze cui obbedisce, questi scrupoli di Gesù sono sovversivi, pensate alla strage di quegli innocenti sacrificati tutti i giorni sugli altari del Signore, soprattutto a Gerusalemme, dove le vittime si contano a ecatombi. In fondo, può darsi che il caso di Gesù, a prima vista incomprensibile nelle circostanze di quel tempo e di quel luogo, sia solo una questione di sensibilità, per così dire, verso la carne viva, ricordiamo quanto sia recente la morte di Giuseppe, quanto siano vicine le insopportabili rivelazioni di ciò che è accaduto a Betlemme quindici anni or sono, c’è piuttosto da sorprendersi che questo ragazzo sia ancora nel pieno possesso delle sue facoltà, che abbia ancora tutte le rotelle a posto, malgrado quei sogni che non lo abbandonano, ultimamente non se n’è parlato, ma continuano. Quando la sofferenza diventa insopportabile, fino al punto di trasmettersi persino al gregge che, a notte fonda, si desta credendo che vadano a ucciderlo, Pastore lo sveglia dolcemente, Che cosa c’è, che cosa c’è, dice, e Gesù esce dall’incubo fra le sue braccia, come se fosse quel suo sventurato padre. Un giorno, proprio all’inizio, Gesù raccontò a Pastore quello che sognava, ma tentando di nascondere le radici e le cause di quella sua notturna e quotidiana agonia, ma questi disse, Basta, non vale la pena che me lo racconti, so tutto, anche quello che stai cercando di nascondermi. E questo accadde proprio nei giorni in cui Gesù rimproverava Pastore per la sua mancanza di fede e le carenze e le cattiverie che si deducevano e che si riconoscevano nel suo comportamento, ivi compreso, scusateci se torniamo sull’argomento, quello sessuale. Ma Gesù, a ben
vedere, non aveva nessuno al mondo, se escludiamo la famiglia, da cui si è allontanato e che ha quasi dimenticato, tranne la madre, che è sempre colei che ci ha dato l’esistenza e che talvolta nella vita avrebbe avuto voglia di dire, Meglio che non te l’avessi data, e poi, oltre alla madre, solo la sorella Lisia, non si sa perché, la memoria fa di questi scherzi, ha i suoi motivi per ricordare e dimenticare. Stando così le cose, Gesù finì per trovarsi bene in compagnia di Pastore, riflettiamo un momento, il conforto di non vivere soli con la nostra colpa, la presenza di qualcuno che la conosca e che, non dovendo fingere di perdonare ciò che non può essere perdonato, ammesso che fosse in suo potere farlo, si comporti con noi rettamente, misurando bontà e severità secondo la giustizia di cui sia meritevole quella parte di noi che, assediata dalle colpe, ha conservato una sua innocenza. Ci è capitato di chiarirlo adesso, approfittando dell’occasione per poter capire meglio le ragioni e accettarle come buone, per cui Gesù, in tutto così diverso e contrario rispetto al suo rozzo ospite, alla fin fine rimarrà con lui fino all’annunciato incontro con Dio, che tanto dovrà attendere, giacché Dio non andrebbe certo a comparire a un semplice mortale senza avere valide ragioni. Prima, però, le circostanze, le casualità e le coincidenze di cui tanto si è parlato richiederanno che Gesù incontri sua madre e alcuni dei suoi fratelli, a Gerusalemme, in occasione di questa prima Pasqua che credeva di passare lontano dalla famiglia. Che Gesù volesse celebrare la Pasqua a Gerusalemme, per il pastore avrebbe potuto essere causa di stupore e motivo di rifiuto, visto che si trovavano entrambi nel deserto e per il gregge c’era bisogno di sorveglianza e di cure attente, senza contare, è chiaro, che non essendo Pastore un giudeo e non avendo alcun dio da onorare, avrebbe potuto dire, se non altro per antipatica caparbietà, Allora non ci vai, nossignore, il tuo posto è qui, il padrone sono io e non mi trovo in vacanza. Orbene, bisogna ammettere che non andò così, Pastore gli domandò soltanto, Tornerai, anche se dal tono della voce sembrava essere certo che Gesù sarebbe tornato, e infatti il ragazzo gli replicò, senza esitazione, ma sorpreso, lui sì, che la risposta gli fosse venuta così prontamente, Tornerò, Allora scegliti un agnello pulito e portalo con te per il sacrificio, giacché voi siete avvezzi a tali usi e costumi, ma questo Pastore lo disse per metterlo alla prova, voleva vedere se Gesù fosse capace di condurre a morte un agnello di quel gregge che gli dava tanto daffare per sorvegliarlo e difenderlo. Gesù non fu avvertito da nessuno, mica gli si avvicinò quatto quatto un angelo, di quelli piccoli e quasi invisibili, sussurrandogli all’orecchio, Attento, guarda che è una trappola, non ti fidare, questo tipo è capace di tutto. Fu la sua sensibilità che gli fece trovare la risposta giusta, o forse si trattò, chi lo sa, del ricordo del capretto morto e dell’agnello appena nato, Non voglio nessun agnello di questo gregge, disse, Perché, Non porterei a morte colui che ho aiutato a crescere, A me sembra giusto, ma avrai
pensato, credo, che lo dovrai prendere in un altro gregge, Non posso farne a meno, gli agnelli non scendono dal cielo, Quando vuoi partire, Domattina presto, E tornerai, Tornerò. Su questo argomento non aggiunsero altro, benché ci rimanga qualche dubbio su come potrà Gesù, che non è ricco e lavora per mangiare, comprare l’agnello pasquale. Libero com’è da tentazioni che costino denaro, c’è da presumere che abbia ancora con sé quelle poche monete che gli ha dato il fariseo quasi un anno fa, ma è davvero poco, sapendo, come si è già detto, che in questo periodo dell’anno i prezzi del bestiame in generale, e degli agnelli in particolare, schizzano ad altezze così speculative che, veramente, Dio ci aiuti. Nonostante le cose cattive che gli sono capitate, ci piacerebbe dire che questo ragazzo è aiutato e protetto da una buona stella, se non fosse una sospettosissima debolezza, soprattutto sulla bocca di un evangelista, questo o qualunque altro, il credere che dei corpi celesti così lontani dal nostro pianeta possano produrre effetti decisivi sull’esistenza di un essere umano, per quanto siano proprio questi gli astri invocati, studiati e descritti dai solenni maghi che, se è vero quanto si dice, avrebbero vagato per queste pianure tanti anni fa, con l’unico risultato di vedere quanto videro e riprendere la loro strada. Ciò che s’intende dire con questo lungo e tortuoso discorso è che il nostro Gesù dovrà certo trovare il modo di presentarsi degnamente al Tempio col suo agnellino, compiendo quanto ci si aspetta dal buon giudeo che ha dimostrato di essere, in condizioni tanto difficili quali sono stati i valorosi scontri che ha sostenuto con Pastore. In quel periodo, godeva il gregge degli abbondanti pascoli della valle di Ayalon, che sta fra le città di Gazara ed Emmaus. A Emmaus, Gesù tentò di guadagnare qualche soldo con cui poter comprare l’agnello che gli serviva, ma giunse ben presto alla conclusione che un anno da pastore lo aveva specializzato a tal punto da renderlo inadatto per altri mestieri, ivi compreso quello di falegname, in cui peraltro non era progredito granché a causa della mancanza di tempo. Si avviò quindi sulla strada che da Emmaus sale verso Gerusalemme, rimuginando su quella vita dura, del fatto che non possa comprare già eravamo a conoscenza, che non voglia rubare già lo sapevamo, e sarebbe un miracolo più che una fortuna se trovasse un agnello smarrito lungo la strada per Emmaus. I poveri innocenti, qui, non mancano di certo, con una corda al collo appresso alle famiglie, o in braccio, se gli è toccato il conforto di un padrone caritatevole, ma visto che gli hanno inculcato in quelle giovani testoline l’idea di essere a passeggio, sono eccitati, nervosi, vogliono sapere tutto e, non potendo porre domande, si servono degli occhi, come se quelli bastassero per capire un mondo fatto di parole. Gesù si sedette sopra un sasso, sul ciglio della strada, pensando a come risolvere il problema materiale che gli impedisce di compiere un dovere spirituale, sarebbe una speranza vana, per esempio, che gli spuntasse davanti un altro fariseo, o magari lo stesso se fa pratica quotidiana di queste azioni,
domandandogli, stavolta si, a parole, Hai bisogno di un agnello, come già gli aveva chiesto, Hai fame. La prima volta non c’era stato bisogno che Gesù mendicasse perché gli fosse dato, adesso, senza la certezza che gli diano qualcosa, sarà costretto a chiedere. È già lì con la mano tesa, una postura così eloquente da non aver bisogno di spiegazioni e così espressiva che perlopiù sviamo lo sguardo come distogliamo gli occhi da una piaga o da un’oscenità. Nella conca della mano di Gesù, qualche moneta l’hanno lasciata cadere i viandanti meno distratti, ma sono così poche che non sarà certo con quest’andazzo che la via di Emmaus giungerà fino alle porte di Gerusalemme. Sommando il denaro che possedeva con quanto gli hanno dato, ne risulta che non basta neppure per mezzo agnello, ed è arcinoto come il Signore non accetti sui Suoi altari nulla che non sia perfetto e completo, ecco perché rifiuta l’animale cieco, storpio o mutilato, rognoso o pieno di verruche, s’immagini lo scandalo nel Tempio se ci presentassimo al sacrificio coi quarti posteriori di un animale, e comunque nella condizione che i suoi testicoli non fossero stati pestati, schiacciati, spaccati o mozzati, nel qual caso l’esclusione sarebbe altrettanto certa. Nessuno pensa di chiedere al ragazzo a cosa gli serva il denaro, ma appena abbiamo cominciato a scriverlo, un uomo di una certa età, con una lunga barba bianca, si stava avvicinando a Gesù, staccandosi dalla numerosa famiglia che, per deferenza verso il patriarca, si fermò in mezzo alla strada, in attesa. Gesù pensò che andasse a dargli un’altra moneta, ma si sbagliava. Il vecchio gli domandò, Chi sei, e il ragazzo si alzò per rispondere, Sono Gesù di Nazaret, Non hai famiglia, Sì, Allora perché non sei con la tua famiglia, Sono venuto a fare il pastore in Giudea, e fu un modo menzognero di dire la verità o di mettere la verità al servizio della menzogna. Il vecchio lo guardò con un’espressione di curiosità insoddisfatta e, infine, domandò, Perché chiedi l’elemosina, se hai un mestiere, Lavoro per mangiare e non ho abbastanza soldi per comprare l’agnello di Pasqua, La chiedi per questo, Sì. Il vecchio fece un cenno a uno degli uomini del gruppo, Da’ un agnello a questo ragazzo, ne compreremo un altro arrivando al Tempio. Gli agnelli erano sei, legati a un’unica corda, l’uomo sciolse l’ultimo e lo portò al vecchio, che disse, Eccoti il tuo agnello, così il Signore non noterà alcuna mancanza nei sacrifici di questa Pasqua, e senza aspettare i ringraziamenti se ne tornò dalla famiglia, che lo accolse sorridente e con grandi plausi. Gesù lo ringraziò quando ormai lui non poteva più sentirlo e, non si sa come né perché, in quell’istante la strada fu all’improvviso deserta, tra una curva e l’altra c’erano solo loro due, il ragazzo e l’agnello, ritrovatisi finalmente sulla via di Emmaus per la bontà di un vecchio giudeo. Gesù stringe il capo dello spago con cui l’agnello era legato alla corda, la bestia guardò il suo nuovo padrone e belò, fece beeeee con quel tono timido e tremulo degli agnelli che moriranno giovani perché tanto amati dagli dei. Questo suono, udito migliaia di volte durante la sua nuova attività di pastore, toccò il cuore di
Gesù al punto che sentì le membra dissolversi dalla pena, lui era lì, come non gli era mai accaduto prima in maniera così assoluta, signore della vita e della morte di un altro essere, quest’agnello bianco, immacolato, privo di volontà e di desideri, che protendeva verso di lui un musetto interrogativo e fiducioso, gli si vedeva la lingua rosea mentre belava e, sotto la lanugine, era roseo l’interno delle orecchie, e rosee erano anche le unghie, che non si sarebbero mai indurite, modificando in zoccoli un termine che aveva per il momento in comune con gli uomini. Gesù accarezzò la testa dell’agnello, che gli rispose sollevandola e sfiorandogli la palma della mano con il naso umido, facendolo rabbrividire. L’incanto si dissolse com’era iniziato, in fondo alla strada, dalla parte di Emmaus stavano già spuntando tanti altri pellegrini in una svolazzante confusione di tuniche, bisacce e bastoni, con altri agnelli e altre lodi al Signore. Gesù prese in braccio il suo agnello, come un bambino, e cominciò a camminare. Non era più tornato a Gerusalemme da quel lontano giorno in cui ve lo aveva portato il bisogno di sapere quanto valgano colpe e rimorsi, e come si possano sopportare nella vita, se spartiti, al pari dei beni di un’eredità, o serbati insieme, come a ciascuno la propria morte. La folla, per le strade, sembrava un fiume di fango brunastro che si riversava nel grande spiazzo antistante la scalinata del Tempio. Con l’agnello fra le braccia, Gesù vedeva la gente sfilare, chi andava, chi veniva, quelli portando gli animali al sacrificio, questi senza più niente, il viso gioioso, esclamando, Alleluia, Osanna, Amen, oppure tacendolo perché disdicevole all’occasione, come del resto sarebbe sconveniente che qualcuno uscisse esclamando, Evoé o urlando, Hip hip hurrah, per quanto, in fondo, le differenze fra queste espressioni non siano così grandi quanto sembrano, le usiamo come se fossero quintessenze del sublime, e poi, con il passare del tempo e dell’abitudine, nel ripeterle, ci domandiamo, Ma, in definitiva, a che cosa serve, e non sappiamo più rispondere. Sopra il Tempio, l’alta colonna di fumo, avvoltolata, continua, mostrava a chiunque nei dintorni come tutti coloro che si erano recati lì per il sacrificio fossero diretti e legittimi discendenti di Abele, quel figlio di Adamo ed Eva che, a suo tempo, aveva offerto al Signore i primogeniti del suo gregge e il loro grasso, benignamente accolti, mentre suo fratello Caino, che aveva da presentare soltanto semplici frutti della terra, vide il Signore, per motivi fino a oggi sconosciuti, distogliere lo sguardo, e neppure i suoi occhi si soffermarono su di Lui. Se il motivo per cui Caino ha ucciso Abele è questo, oggi possiamo vivere tranquilli perché questi uomini non si ammazzeranno a vicenda, visto che tutti sacrificano, in modo identico, la stessa cosa, e bisogna vedere come crepita il grasso, come sfrigola la carne, Dio, nell’alto dei Suoi empirei, aspira, compiaciuto, gli odori del carname. Gesù si stringe al petto l’agnello, non capisce perché Dio non possa accettare che sull’altare si versi un mestolo di latte, quel succo dell’esistenza
che passa da un essere all’altro, o vi si sparga, con gesto da seminatore, una manciata di grano, materia fra tutte sostantiva del pane immortale. Il suo agnello, che solo poco fa è stato il sorprendente dono di un vecchio a un ragazzo, non vedrà tramontare il sole di questo giorno, è tempo di salire la scalinata del Tempio, tempo di condurlo alla mannaia e al fuoco, come se non fosse meritevole di vivere o avesse commesso, contro l’eterno custode dei pascoli e delle favole, il delitto di abbeverarsi al fiume della vita. Allora Gesù, quasi gli fosse nata dentro una luce, decise, contro il rispetto e l’obbedienza, contro la Legge della sinagoga e la parola di Dio, che questo agnello non sarebbe morto, che quanto gli era stato dato per morire avrebbe continuato a vivere e che lui, venuto a Gerusalemme per sacrificare, dalla città se ne sarebbe andato più peccatore di quando vi era entrato, non gli bastavano le vecchie mancanze, adesso è caduto anche in questa, e arriverà il giorno, giacché Dio non dimentica, in cui dovrà pagarle tutte. Per un attimo, il timore del castigo lo fece esitare ma, con un’immagine rapidissima, la mente gli presentò la visione terrorizzante di un mare di sangue infinito, il sangue degli innumerevoli agnelli e di altri animali sacrificati fin dalla creazione dell’uomo, perché l’umanità è stata posta su questo mondo proprio per adorare e sacrificare. A tal punto lo turbarono queste fantasie che gli parve di vedere la scalinata del Tempio allagata di rosso, gocciolante di gradino in gradino, e lui lì in mezzo, con i piedi nel sangue, che sollevava al cielo il suo agnello sgozzato morto. Astratto, era come se Gesù si trovasse dentro una bolla di silenzio, quando all’improvviso quell’involucro scoppiò, si frantumò, e lui si ritrovò di nuovo immerso nella baraonda delle parole, delle benedizioni, degli appelli, delle urla, dei cantici, delle patetiche voci degli agnelli e, in un attimo che sopraffece tutto il resto, il muggito profondo, tre volte ripetuto, del buccino, il lungo e modulato corno del montone divenuto tromba. Con l’agnello avvolto nella bisaccia, come per difenderlo da una minaccia ora imminente, Gesù si precipitò fuori della piazza, si perse fra le strade più strette, senza badare alla direzione in cui andava. Quando si riprese, si trovava in campagna, era uscito dalla città attraverso la porta nord, quella di Ramalà, la stessa da cui era entrato venendo da Nazaret. Si sedette sotto un ulivo, sul ciglio della strada, e trasse l’agnello dalla bisaccia, nessuno si sarebbe stupito di vederlo, avrebbero pensato, Sta riposando per la camminata, riprendendo le forze per portare l’agnello al Tempio, com’è carino, ma noi non sapremo mai se, nella mente di chi lo avrà pensato, fosse carino l’agnello oppure Gesù. Noi abbiamo la nostra opinione, che lo sono tutt’e due, ma se dovessimo votare, così, a prima vista, daremmo la mela all’agnello, ma a una condizione, che non cresca. Gesù è sdraiato supino, stringe l’estremità dello spago perché l’agnello non scappi, ma non ce ne sarebbe bisogno, le sue forze sono ridotte al lumicino, non solo per la giovane età, ma anche per l’agitazione, questa corsa, questo continuo avanti e indietro, per non
parlare del poco cibo con cui l’hanno lasciato oggi, ché non sarebbe conveniente né decoroso che qualcuno, agnello o martire che sia, vada a morire con la pancia piena. Gesù, dunque, se ne sta lì sdraiato, a poco a poco gli è passato l’affanno, e guarda il cielo fra i rami dell’ulivo che il vento smuove dolcemente, facendogli danzare sugli occhi i raggi del sole che attraversano il fogliame, dev’essere più o meno l’ora sesta, la luce allo zenit rimpicciolisce le ombre, nessuno direbbe che la notte verrà a spegnere, con il suo lento soffio, questo splendore. Ora Gesù si è riposato e sta parlando all’agnello, Ti porterò al gregge, dice, e fa per alzarsi. Passa qualcuno per la strada, altra gente sta arrivando, e quando Gesù posa lo sguardo su quei viandanti sussulta, il suo primo impulso è quello di fuggire, ma è chiaro che non lo farà, e come potrebbe, se le persone che stanno arrivando sono la madre con alcuni dei suoi fratelli, i più grandi, Giacomo, Giuseppe e Giuda, insieme a Lisia, ma lei è una donna, va citata a parte, non come le spetterebbe naturalmente se seguissimo l’ordine di nascita, fra Giacomo e Giuseppe. Ancora non lo hanno visto. Gesù si rimette in cammino, di nuovo con l’agnello in braccio, ma adesso c’è il sospetto che lo faccia per avere le braccia occupate. Il primo a notarlo è Giacomo, alza un braccio, poi parla precipitosamente con la madre, e Maria guarda, adesso tutti affrettano il passo, e quindi anche Gesù si sente obbligato a fare la sua parte di strada, ma con quell’agnello sulle braccia non può correre, ci vuole tanto di quel tempo a spiegarlo che sembra che siamo noi a non volere che si incontrino, ma non è così, l’amore materno, fraterno e filiale metterebbe loro le ali, ma esiste qualche riserva, qualche blocco, siamo al corrente di com’è andata la separazione, sì, ma non sappiamo quali effetti hanno prodotto tanti mesi di lontananza e di assenza di notizie. Cammina, cammina, alla fine si arriva, ed eccoli lì, faccia a faccia, Gesù dice, La tua benedizione, madre, e la madre dice, Che il Signore ti benedica, figlio mio. Si abbracciarono, poi fu il turno dei fratelli, per ultima Lisia, dopo di che, come s’era previsto, nessuno sapeva che cosa dire, Maria non avrebbe certo esclamato al figlio, Che sorpresa, da queste parti, né lui alla madre, Non pensavo d’incontrarti, come mai sei venuta in città, l’agnello dell’uno e quello degli altri, ché ce l’avevano anche loro, parlavano da soli, è la Pasqua del Signore, la differenza è che uno morirà e l’altro ormai è salvo. Non ti sei più fatto vivo, disse Maria alla fine e, nello stesso istante, le si aprirono le fontanelle degli occhi, davanti a lei c’era proprio il suo primogenito, così alto, la faccia ormai da uomo, con un alone di barba, e la pelle scura di chi passi la vita sotto il sole, contro il vento e la polvere del deserto. Non piangere, mamma, ho il mio lavoro, sono pastore, Pastore, Sì, Credevo che avresti seguito il mestiere che tuo padre ti ha insegnato, Mi è capitato di lavorare come pastore e lo faccio, Quando tornerai a casa. Ah. questo non lo so, un giorno, Vieni almeno con tua madre e i tuoi fratelli, andiamo insieme al Tempio, Io non vado al Tempio, mamma, Perché, hai ancora con te l’agnello, Questo
agnello non va al Tempio, Ha qualche difetto, Nessuno, questo agnello morirà solo quando sarà giunta la sua ora naturale, Non ti capisco, Non c’è bisogno che tu capisca, se salvo questo agnello è perché qualcuno salvi me, Allora non vieni con la tua famiglia, Ero già di partenza, Dove vai, Al gregge cui appartengo, E dove va il gregge, Adesso si trova nella valle di Ayalon, Dov’è questa valle di Ayalon, Dall’altro lato, Dall’altro lato di che, Di Betlemme. Maria arretrò di un passo, impallidì, si poteva notare quanto fosse invecchiata, anche se aveva appena trent’anni, Perché parli di Betlemme, domandò, Perché è lì che ho incontrato il pastore che mi comanda, Chi è, e prima che il figlio avesse il tempo di rispondere disse agli altri, Andate avanti, aspettatemi alla porta, poi prese Gesù per mano, lo tirò verso il ciglio della strada, Chi è, ripeté, Non lo so, rispose Gesù, Non ha un nome, Se ce l’ha, non me lo ha detto, io lo chiamo Pastore e basta, Com’è, Grande, Dov’eri quando lo hai incontrato, Nella grotta in cui sono nato, Chi ti ci ha portato, Una schiava di nome Zelomi che era presente alla mia nascita, E lui, Lui, che cosa, Che ti ha detto, Niente che tu non sappia. Maria si accasciò al suolo come se una mano possente l’avesse spinta, Quell’uomo è un demonio, Come lo sai, te lo ha detto lui, No, la prima volta che lo vidi mi disse che era un angelo, ma che non lo raccontassi a nessuno, Quando lo hai visto, Il giorno in cui tuo padre seppe che ero incinta di te, si presentò alla nostra porta come un mendicante e disse che era un angelo, Lo hai visto altre volte, Per la strada, quando tuo padre e io ci recammo a Betlemme per il censimento, nella grotta dove sei nato e la notte seguente al giorno in cui te ne andasti via da casa, entrò nel cortile, io pensai che fossi tu, ma era lui, dalla fessura della porta lo vidi strappare l’albero accanto all’ingresso, ti ricordi, la pianta che era nata nel punto in cui era stata sotterrata la scodella con la terra che brillava, Che scodella, che terra, Non ne hai mai saputo nulla, era quello che il mendicante mi aveva dato prima di andarsene, un po’ di terra che brillava dentro la scodella nella quale aveva mangiato quanto gli avevo offerto, Se della terra ha fatto luce doveva essere davvero un angelo, All’inizio lo credetti, ma anche il Diavolo possiede le sue arti. Gesù si era seduto accanto alla madre e aveva sciolto l’agnello, Sì, ho già capito che, quando si mettono d’accordo, non si può distinguere un angelo del Signore da uno di Satana, disse, Rimani con noi, non tornare da quell’uomo, te lo chiede la tua mamma, Ho promesso che sarei tornato, rispetterò la parola data, Promesse al Diavolo, solo se per ingannarlo, Quest’uomo, che non è un uomo, lo so bene, quest’angelo o questo demonio mi accompagna da quando sono nato e voglio conoscerne il motivo, Gesù, figlio mio, vieni al Tempio con tua madre e i tuoi fratelli, porta quell’agnello all’altare com’è tuo dovere e suo destino, e chiedi al Signore che ti liberi da possessione e cattivi pensieri, Questo agnello morirà quando sarà il suo giorno, È questo il suo giorno, Mamma, gli agnelli che sono nati da te dovranno perire, ma tu non dovrai volere che muoiano
prima del loro tempo, Gli agnelli non sono uomini, tanto meno se quegli uomini sono dei figli, Quando il Signore ordinò ad Abramo di uccidere il proprio figlio Isacco, allora non si capiva la differenza, Sono soltanto una donna, non ti so rispondere, ti chiedo solo di abbandonare questi cattivi pensieri, Mamma, i pensieri sono quelli che sono, ombre passeggere, e non sono buoni o cattivi in se stessi, contano soltanto le azioni, Sia lodato il Signore che mi ha dato un figlio saggio, a me che sono una povera ignorante, ma ti ripeto che questo non è sapere di Dio, Anche con il Diavolo si impara, E tu sei in suo potere, Se questo agnello ha avuto salva la vita per suo potere, qualcosa si è pur ottenuto nel mondo, oggi. Maria non rispose. Proveniente dalla porta della città, si stava avvicinando Giacomo. Allora Maria si alzò, Ho trovato mio figlio e l’ho perso di nuovo, disse, e Gesù rispose, Se non lo avevi già smarrito, non lo hai perso certo adesso. Infilò la mano nella bisaccia, ne trasse il denaro racimolato, tutto con le elemosine, È quanto possiedo, Tanti mesi per così poco, Lavoro per mangiare, Devi volere molto bene a quell’uomo, per accontentarti di così poco, Il Signore è il mio pastore, Non offendere Dio, tu che vivi con un demonio, Chissà, madre mia, chissà, può darsi che sia l’angelo servitore di un altro dio che vive in un altro cielo, Il Signore ha detto, Io sono il Signore Iddio tuo, non avrai altro Dio all’infuori di me, Amen, concluse Gesù. Prese l’agnello fra le braccia e disse, Sta arrivando Giacomo, addio, madre mia, e Maria replicò, Sembra addirittura che tu abbia a cuore quell’agnello più che la tua famiglia, In questo momento, sì, rispose Gesù. Soffocata dal dolore e dall’indignazione, Maria lo lasciò e corse incontro all’altro figlio. E non si voltò indietro. All’esterno delle mura, ora per un’altra strada, attraverso i campi, Gesù incominciò la lunga discesa verso la valle di Ayalon. Si fermò in un paese, con i soldi che la madre non aveva voluto accettare, comprò qualcosa da mangiare, pane e fichi, latte per sé e per l’agnello, si trattava di latte di capra e se c’erano differenze non si notavano, almeno in questo caso è possibile ammettere che una madre valga l’altra. A chi si stupisse di vederlo da quelle parti a quell’ora, a buttar soldi per un agnello che avrebbe dovuto essere già morto, potremmo rispondere che questo ragazzo prima era padrone di due agnelli, che uno era stato sacrificato, e ora si trova nella gloria del Signore, e che questo secondo il Signore lo ha rifiutato perché segnato da un difetto, un orecchio graffiato, Guarda, Ma l’orecchio è integro, gli hanno detto, Se è integro, allora lo graffio io, avrebbe risposto Gesù e, caricandosi l’agnello sulle spalle, avrebbe ripreso la sua strada. Avvistò il gregge quando ormai l’ultima luce del meriggio scemava, ancora più rapidamente perché il cielo si era adombrato di basse nuvole scure. Aleggiava nell’aria la tensione che annuncia i temporali e, a confermarlo, il primo lampo squarciò il cielo nel preciso istante in cui il gregge comparve davanti agli occhi di Gesù. Non piovve, era uno di quei temporali che chiamiamo asciutti,
spaventosi più degli altri perché davanti a essi ci sentiamo davvero senza difesa, senza la cortina, per così dire, che d’altronde non riterremmo mai protettiva, della pioggia e del vento, questa battaglia è davvero uno scontro diretto fra un cielo che si squarcia e tuona e una terra che trema e si contrae, impotente a rispondere ai colpi. A cento passi da Gesù, una luce splendente, insopportabile, percorse dall’alto in basso un ulivo, che prese immediatamente fuoco, ardendo vigorosamente come una torcia imbevuta di nafta. Il rimbombo e il fragore del tuono, come se il cielo si fosse squarciato definitivamente da un orizzonte all’altro, scaraventarono al suolo Gesù, privo di conoscenza. Altri due fulmini, uno qui, uno là, come due parole decisive, e poi, a poco a poco, si cominciarono a sentire i tuoni che si allontanavano, fino a scemare in un gradevole sussurro, una conversazione amichevole fra il cielo e la terra. L’agnello, uscito illeso dalla caduta, passata la paura si avvicinò e andò a sfiorare con la bocca le labbra di Gesù, non emise alcun rumore, non lo annusò, si trattò di un contatto minimo e fu, chi siamo noi per dubitarne, quanto bastò. Gesù aprì gli occhi, vide l’agnello, poi il cielo scurissimo, simile a una mano nera che soffocasse quanto restava del giorno. L’ulivo bruciava ancora. Nel muoversi, Gesù provò qualche dolore, ma capì di essere ancora padrone del proprio corpo, ammesso che lo si possa dire di qualcosa che può essere distrutto e scaraventato a terra con tanta facilità. Faticosamente riuscì a sedersi e, più per un presentimento tattile che non per un accertamento oculare, verificò di non essere bruciato né leso, di non avere nessun arto spezzato e, tranne un fortissimo sibilo nella testa, che comunque sembrava interminabile, il suono di un buccino, di essere ancora vivo e vegeto. Avvicinò l’agnello a sé e, andando a prendere le parole dove non sapeva di averle, disse, Non aver paura, ha solo voluto mostrarti che avrebbe potuto ucciderti, se avesse voluto, e a me ha ricordato che non sono stato io a salvarti la vita, ma Lui. Un ultimo e lento tuono riecheggiò nello spazio come un sospiro, la macchia biancastra del gregge, laggiù, era un’oasi in attesa. Lottando ancora contro le membra intorpidite, Gesù cominciò a scendere il pendio. L’agnello, ancora legato solo per prudenza, gli trotterellava accanto come un cagnolino. Alle loro spalle, l’ulivo bruciava. E fu nella luce proiettata dall’albero, piuttosto che in quella del crepuscolo, che andava scemando, che Gesù vide levarglisi davanti, come un’apparizione, l’alta figura di Pastore, avviluppato in quel mantello che sembrava non aver fine, impugnando quel bastone con cui, se l’avesse alzato, avrebbe potuto raggiungere le nuvole. Disse Pastore, Sapevo che il temporale ti stava aspettando, E avrei dovuto saperlo anch’io, disse Gesù, Che cos’è quell’agnello, Il mio denaro non bastava per comprare l’agnello pasquale, perciò mi sono messo sul ciglio della strada a mendicare, ma è arrivato un vecchio e mi ha dato questo che vedi, Perché non lo hai sacrificato, Non ho potuto, non ce l’ho fatta. Pastore sorrise, Ora comprendo meglio, ti ha aspettato, ti ha fatto
arrivare tranquillamente fino al gregge per mostrarti, al mio cospetto, la Sua forza. Gesù non rispose, aveva detto all’agnello più o meno le stesse cose, ma non voleva, appena arrivato, innescare una nuova discussione sulle motivazioni di Dio e sui Suoi atti. E adesso, di questo agnello, che cosa intendi fare, Niente, L’ho portato qui perché stia con il gregge, Gli agnelli bianchi sono tutti uguali, domani non lo riconoscerai più, in mezzo agli altri, Lui mi conosce, Arriverà il giorno in cui comincerà a dimenticarti, bisognerebbe marchiarlo, fargli un taglio su un orecchio, per esempio, Povera bestiola, Non vedo perché, anche tu sei marchiato, ti hanno tagliato il prepuzio perché tu sappia a chi appartieni. Non è lo stesso, Non dovrebbe esserlo, ma lo è. Mentre parlavano, Pastore aveva radunato un po’ di legna ed era intento ad accendere un falò, ravviando il fuoco. Disse Gesù, Sarebbe più facile andare a prendere un ramo di quell’ulivo che sta bruciando, e Pastore rispose, Bisogna lasciare che il fuoco del cielo si estingua da solo. Adesso, il tronco dell’ulivo era una sola brace, splendente nell’oscurità, il vento ne strappava faville, frammenti incandescenti di corteccia, ramoscelli che volavano via ardenti e subito si spegnevano. Il cielo era sempre coperto, insolitamente presente. Pastore e Gesù cenarono con i cibi consueti, il che spinse Pastore a commentare, ironico, Quest’anno non mangerai l’agnello pasquale. Gesù lo ascoltò e tacque, ma in cuor suo non se ne rallegrò, d’ora in poi il suo problema sarebbe stato l’irriducibile contraddizione tra il mangiare gli agnelli e il non ucciderli. Allora, che cosa ne facciamo, domandò Pastore, e soggiunse, L’agnello, o lo si marchia o non lo si marchia, Non ce la faccio, disse Gesù, Da’ qua, me ne occupo io. Con mossa rapida e sicura del coltello, Pastore gli mozzò la punta di un orecchio e poi, mostrando il lembo tagliato, domandò. Cosa vuoi che ne faccia, che lo sotterri, che lo butti via, e Gesù, senza pensarci su, rispose, Dammelo, e lo lasciò cadere nel fuoco. Come hanno fatto con il tuo prepuzio, disse Pastore. Dall’orecchio dell’agnello gocciolava un sangue denso, pallido, che ben presto si sarebbe fermato. Dalle fiamme, attraverso il fumo, emanava l’odore inebriante della tenera carne bruciata. Così, a conclusione di quel lungo giorno, dopo tante ore passate fra dimostrazioni puerili e presuntuose di un volere contrario, il Signore finalmente aveva quanto gli era dovuto, fors’anche grazie a quel maestoso e rimbombante avvertimento di tuoni e lampi che, tramite l’irresistibile via delle causalità profonde, doveva aver trovato la strada per farsi obbedire dai pastori renitenti. Cadde un’ultima goccia di sangue dall’agnello e subito la terra l’assorbì, perché non sarebbe stato giusto, dopo un sacrificio tanto contestato, che andasse perduta la parte più preziosa. Orbene, fu proprio questo l’animale che, circa tre anni dopo, ormai trasformato dal tempo in una normalissima pecora, diversa dalle altre solo per la mancanza della punta di un orecchio, finì per smarrirsi in una zona incolta a sud di Gerico, confinante con il deserto. In un gregge numeroso come questo, una pecora in più o in meno non
fa una grande differenza, ma queste bestie, se ancora c’è bisogno di ricordarlo, non sono come le altre, e tanto meno i pastori sono simili a quelli che conosciamo di vista o per sentito dire, ragion per cui non c’è da stupirsi che Pastore, guardando da una collina sovrastante, si accorgesse della mancanza di un capo di bestiame senza averli comunque dovuti contare tutti. Chiamò Gesù e gli disse, La tua pecora non è nel gregge, va’ a cercarla, e visto che Gesù, in risposta, non gli domandò, E come lo sai che si tratta della mia pecora, non lo chiederemo neanche noi. Invece, quello che adesso importa è vedere come, nonostante la scarsa conoscenza dei luoghi e la fallace intuizione di strade mai tracciate prima, Gesù riesca a orientarsi in questo circolo completo dell’orizzonte. Giacché venivano dalle zone fertili di Gerico, dove non si erano voluti trattenere, prediligendo la tranquillità di un continuo vagabondaggio rispetto al facile commercio con le genti, sarebbe la cosa più probabile che l’uomo, o la pecora, si perdesse, soprattutto se ciò fosse fatto a ragion veduta, in un posto dove la troppa stanchezza per la ricerca del cibo non potrebbe dirsi un’aggravante per la solitudine tanto agognata. Secondo questa logica, era chiaro che la pecora di Gesù, fingendo di non farlo apposta, doveva essere rimasta indietro, e adesso probabilmente stava brucando sulla fresca e verdeggiante sponda del Giordano, in vista di Gerico, per maggior sicurezza. Ma la logica non è tutto nella vita e, non di rado, proprio la previsione, essendo tale in quanto epilogo più plausibile di una sequenza, o perché semplicemente lo si era già annunciato prima, non di rado, dicevamo, la previsione, indotta da ragioni note solo a essa, finisce con lo scegliere, con il rivelarsi infine una conclusione per così dire aberrante, sia rispetto al luogo sia riguardo alla circostanza. In tal caso, allora, il nostro Gesù dovrà andare a cercare la pecora smarrita non in quei rigogliosi prati alle sue spalle, ma nell’arida e riarsa siccità del deserto che ha davanti a sé, e non servirebbe a niente la facile obiezione che la pecora non avrebbe certo deciso di smarrirsi per andare a morire di fame e di sete, primo, perché nessuno sa quello che passa veramente nella testa di una pecora e, secondo, per la suddetta imprevedibilità cui la previsione talvolta ricorre. Quindi Gesù andrà nel deserto, eccolo, si sta avviando, senza che Pastore sia sorpreso dalla decisione, anzi, l’ha approvata in silenzio, con un lento e solenne cenno del capo che, strana idea, potrebbe anche essere preso come un cenno di commiato. Questo deserto non è una di quelle vaste, lunghe e conosciute estensioni di sabbia che assumono lo stesso nome. Questo deserto è piuttosto un mare di aride e compatte colline sabbiose, accavallate l’una sull’altra a formare un labirinto inestricabile di valli, in fondo alle quali sopravvive a stento qualche pianta che sembra fatta soltanto di spini e di rovi, e alla quale forse potrebbero osare avvicinarsi le solide gengive di una capra, ma che graffierebbero al minimo contatto le labbra sensibili di una pecora. Questo deserto è più spaventoso di quelli formati solo da distese
sabbiose e da quelle dune instabili che cambiano continuamente di forma e d’aspetto, in questo deserto ogni collina occulta e annuncia la minaccia che ci aspetta all’altura seguente, e quando stiamo per arrivarci, avvertiamo che la minaccia, sempre la stessa, ce l’abbiamo dietro le spalle. Qui, il nostro urlo non risponderà con l’eco alla voce che l’ha emesso, ma sentiremo, questo sì, come risposta, il grido delle colline, o lo sconosciuto, l’ignoto, che si ostina a nascondervisi dentro. Ecco, dunque, che Gesù, munito solo del bastone e della bisaccia, è entrato nel deserto. Qualche passo avanti, appena varcata la soglia del mondo, comprese improvvisamente che i vecchi sandali, un tempo di suo padre, gli si stavano dissolvendo sotto i piedi. Erano durati a lungo, comunque grazie alla virtù rappezzatrice di quelle toppe applicate così assiduamente, talvolta in extremis, ma adesso le arti di commettitura e di calzoleria di Gesù non riuscivano più a soccorrere dei sandali che avevano calcato innumerevoli strade e che avevano amalgamato tanto sudore alla polvere. Come se stessero obbedendo a un ordine, si sfacevano gli ultimi fili, ormai indebolite si staccavano le stringhe, si spezzavano irrimediabilmente i legacci, in meno di quanto c’è voluto a raccontarlo Gesù si ritrovò coi piedi scalzi e i sandali a brandelli. Si ricordò il ragazzo, lo chiamiamo così per abitudine, ché a diciott’anni, da buon giudeo, è più un uomo fatto e rifatto che non un giovinetto adolescente, si ricordò Gesù, dicevamo, dei suoi vecchi sandali, per tutto questo tempo trasportati nella bisaccia come una reliquia sentimentale del passato, e, mosso da una speranza vana, tentò di calzarli. Aveva ragione Pastore quando gli diceva, Piedi che crescono, non tornano più indietro, Gesù non riusciva a capacitarsi di come i suoi piedi fossero riusciti a entrare in quei sandali così piccoli. Se ne stava lì, scalzo, di fronte al deserto, come Adamo quando fu cacciato dal paradiso, e, come lui, esitò avanti di fare il primo doloroso passo su quel suolo che lo chiamava. Ma poi, senza neppure essersi chiesto il motivo per il quale lo avrebbe fatto, forse soltanto perché gli era venuto in mente Adamo, abbandonò la bisaccia e il bastone e, sollevando l’orlo della tunica, se la sfilò dalla testa con un sol gesto, restando, come Adamo, nudo. Dal punto in cui si trova, non scorge più Pastore, nessun agnello curioso lo ha seguito, dall’alto lo vede solo qualche uccello che si è spinto coraggiosamente sopra questa frontiera e le bestie da terra, e cioè le formiche, qualche millepiedi, uno scorpione che, spaventato, rizza il suo aculeo velenoso, ma questi non hanno memoria d’uomo nudo in tali luoghi né sanno a che cosa serva. Se chiedessero a Gesù, Perché ti sei denudato, forse lui risponderebbe in maniera incomprensibile per l’intelletto di emitteri, miriapodi e aracnidi, Nel deserto si può andare solo nudi. Nudi, aggiungiamo noi, malgrado gli spini che graffiano la pelle e rizzano i peli del pube, nudi malgrado gli sterpi che graffiano e le sabbie che scorticano, nudi malgrado il sole che brucia, riverbera e abbaglia, nudi, infine, per cercare la pecora smarrita, quella che ci appartiene perché l’abbiamo segnata col
nostro marchio. Il deserto si apre davanti ai passi di Gesù per richiudersi subito, quasi a tagliargli la via della ritirata. Il silenzio risuona nelle orecchie col timbro di un buccino, uno di quelli che approdano morti e vuoti sulla spiaggia e vi rimangono, a riempirsi dell’immenso rumore delle onde finché qualcuno passa e li trova e, avvicinandoli pian piano all’orecchio, si mette ad ascoltare e dice, Il deserto. I piedi di Gesù sanguinano, il sole scaccia le nuvole per ferirgli le spalle come una spada, gli spini ghermiscono la pelle delle sue gambe come unghie avide, gli sterpi lo frustano, Pecora, dove sei, grida lui, e le colline si passano parola, Dove sei, dove sei, se lo dicessero davvero sapremmo finalmente cos’è l’eco perfetta, ma il lungo e remoto suono del buccino si sovrappone, sussurrando, Diiiiiiooo, Diiiiiiooo, Diiiiiiooo. Allora, come se all’improvviso le colline si fossero allontanate dalla sua strada, Gesù sboccò da quel labirinto di valli in uno spazio circolare pianeggiante e sabbioso dove, nel centro esatto, vide la pecora. Le corse incontro, quanto glielo permettevano i piedi feriti, ma una voce lo trattenne, Aspetta. Una nuvola, alta come due uomini, simile a una colonna di fumo lentamente vorticante su se stessa, era lì davanti a lui, e la voce proveniva da essa. Chi mi parla, domandò Gesù, rabbrividendo, ma immaginando già la risposta. La voce disse, Io sono il Signore, e Gesù seppe perché aveva dovuto spogliarsi al limite del deserto. Mi hai fatto venire qui, che cosa vuoi da me, domandò, Per ora niente, ma un giorno da te vorrò tutto, Che cosa significa tutto, La vita, Tu sei il Signore, ci togli sempre le vite che ci dai, Non ho altro rimedio, mica posso congestionare il mondo, E la mia vita, a che scopo la vuoi, Non è tempo che tu lo sappia, hai ancora molto da vivere, ma sono qui per annunciarti, perché tu possa prepararti con lo spirito e il corpo, il grandioso destino che sto approntando per te, Signore, mio Signore, non capisco né cosa Tu dica né cosa Tu voglia da me, Avrai il potere e la gloria, Che potere, che gloria, Lo saprai quando arriverà l’ora di richiamarti, Quando sarà, Non avere fretta, vivi la tua vita come puoi, Signore, eccomi qui, se mi hai portato nudo al Tuo cospetto, non indugiare, dammi oggi quanto tieni in serbo per il mio domani, Chi ti ha detto che intendo darti qualcosa, Lo hai promesso, Uno scambio, nient’altro che uno scambio, La mia vita per che cosa, Per il potere, E per la gloria, non l’ho dimenticato, ma se non mi dici quale potere, e su che cosa, quale gloria, e davanti a chi, sarà come una promessa fatta troppo presto, Mi incontrerai di nuovo quando sarai pronto, ma d’ora in poi i miei segnali ti accompagneranno, Signore, dimmi, Zitto, non domandare altro, l’ora arriverà, né prima né dopo, e allora saprai che cosa voglio da te, Udirti, mio Signore, significa obbedire, ma voglio farti ancora una domanda, Non mi infastidire, Signore, è necessario, Parla, Posso riprendere la mia pecora, Ah, era questo, Sì, solo questo, allora posso, No, Perché, Perché me la sacrificherai a suggello dell’alleanza che ho appena stipulato con te, Questa pecora, Sì, Te ne sacrifico un’altra, vado un attimo
dov’è il gregge e torno subito, Non contrariarmi, voglio questa, Ma guarda, Signore, che ha un difetto, un orecchio mozzo, Ti sbagli, la pecora è integra, guarda, Com’è possibile, Io sono il Signore, e al Signore niente è impossibile, Ma questa è la mia pecora, Ti sbagli di nuovo, l’agnello era mio e tu me l’hai sottratto, adesso la pecora paga il debito, Sia come vuoi Tu, tutto il mondo ti appartiene e io sono il Tuo servo. Allora sacrificala, altrimenti non ci sarà nessuna alleanza, Ma vedi, Signore, che sono nudo, non ho né mannaia né coltello, parole che Gesù rivolse con una grande speranza di poter ancora salvare la vita della pecora, e Dio gli rispose, Non sarei il tuo Signore se non potessi risolverti questo problema, eccola. Non erano ancora terminate queste parole che ai piedi di Gesù comparve una mannaia nuova, Dai, sbrigati, ho ben altro da fare, disse Dio, non posso restare qui in eterno. Gesù impugnò la mannaia, avanzò verso la pecora che sollevava la testa, esitante nel riconoscerlo, ché mai lo aveva visto nudo e, com’è risaputo, l’olfatto di questi animali non vale granché. Stai piangendo, domandò Dio, I miei occhi sono sempre così, rispose Gesù. La mannaia si alzò, assunse la corretta angolatura e si abbatté rapidamente come l’ascia nelle esecuzioni o la ghigliottina che ancora dev’essere inventata. La pecora non emise alcun suono, si udì soltanto un aaah, era Dio che sospirava di soddisfazione. Gesù domandò, E adesso, me ne posso andare, Sì, e non dimenticare, da oggi appartieni a me, col sangue, Come devo ritirarmi dal Tuo cospetto, Teoricamente è lo stesso, per me non esiste né davanti né dietro, ma di solito ci si allontana indietreggiando e inchinandosi, Signore, Quanto sei noioso, uomo, che altro c’è, Il pastore del gregge, Quale pastore, Quello che sta con me, Ebbene, È un angelo o un demonio, È uno che conosco, Ma, dimmi, è angelo o demonio, Te l’ho già detto, per Dio non c’è né davanti né dietro, sta’ bene. La colonna di fumo sparì, la pecora era scomparsa, si scorgeva ancora solo il sangue, che tentava di nascondersi nella terra. Quando Gesù tornò, Pastore lo guardò fissamente e domandò, La pecora, e lui rispose, Ho incontrato Dio, Non ti ho chiesto se hai incontrato Dio, ti ho domandato se hai trovato la pecora, L’ho sacrificata, Perché, Dio era là, è stato necessario. Con la punta del bastone, Pastore tracciò un segno per terra, profondo come il solco di un aratro, insormontabile come un fossato di fuoco, poi disse, Non hai imparato niente, vattene. 17. Come posso andarmene, se ho i piedi in questo stato, si domandò Gesù, vedendo Pastore allontanarsi verso l’altro capo del gregge. Dio, che tanto bellamente aveva fatto scomparire la pecora, dall’interno della nuvola non gli aveva concesso la grazia del Suo divino sputo perché il mortificato Gesù potesse, con esso, ungersi e
sanare le ferite da cui il sangue continuava a sgorgare, brillando sui sassi. Pastore non lo aiuterà, ha pronunciato le sue parole comminatorie e si è ritirato, come chi aspetta che la sentenza sia eseguita e non intende presenziare ai preparativi della partenza né tanto meno prendere congedo. A fatica, trascinandosi sulle ginocchia e sulle mani, Gesù raggiunse il bivacco dove, a ogni sosta, si disponevano gli utensili per la cura del gregge, i secchi per il latte, gli assi per la spremitura, nonché le pelli di pecora e di capra che si andavano conciando e con le quali, a scambio, si acquistavano i beni di cui c’era bisogno, una tunica, un mantello, qualche cibo diverso. Gesù pensò che non avrebbero potuto accusarlo se si fosse pagato il salario da sé, ritagliando dalle pelli di pecora qualche forma per dei sandali o per dei coturni con cui avvolgere i piedi, utilizzando poi come stringhe alcune strisce di pelle di capra, più facile da lavorare perché meno pelosa. Mentre li confezionava, si domandò se la lana dovesse andare all’interno o all’esterno e finì per usarla come fodera, dentro, visto il misero stato dei piedi. Il peggio è che le ferite si sarebbero appiccicate ai peli, ma lui ha già deciso di avviarsi lungo la riva del Giordano e quindi sarà sufficiente immergere nell’acqua i piedi così calzati e, a poco a poco, si dissolverà il grumo secco del sangue. Il peso stesso degli stivaloni, è la cosa cui assomigliano di più, infilati nell’acqua e inzuppati, aiuterà i piedi a staccarsi dolcemente dal lanoso batuffolo, senza asportare le protettive e benefiche croste che lentamente si vanno formando. Un po’ di sangue portato via dalla corrente costituirebbe un segno, con quel suo bel colore, che le ferite non dovrebbero ancora essersi infettate, per quanto si stenti a crederlo. Nella sua lenta camminata verso nord, Gesù faceva poi lunghe soste, se ne restava lì, seduto sulla riva del fiume, con i piedi nell’acqua, a godersi il refrigerio e il medicamento. Gli doleva essere stato cacciato in quel modo, dopo l’incontro con Dio, un evento inaudito nel senso più ampio del termine, giacché non c’era, che lui sapesse, alcun uomo in tutto Israele che potesse vantarsi di aver visto Dio ed essere sopravvissuto. È pur vero che vederlo, come si suol dire, lui non lo aveva veduto, ma se una nuvola ci si presenta nel deserto sotto forma di una colonna di fumo e dice, Io sono il Signore, sostenendo poi una conversazione non solo logica e sensata, ma con un tono autoritario irrefutabile che poteva essere solo divino, qualunque dubbio, per quanto piccolo, sarebbe un’offesa. Che il Signore fosse il Signore lo aveva dimostrato la risposta data quando lui gli aveva domandato qualcosa su Pastore, quelle parole noncuranti, nelle quali si evidenziava una venatura di disprezzo ma anche di intimità, il che era stato rafforzato dal rifiuto di rispondere se fosse un angelo o un demonio. Ma la cosa più interessante era che le parole di Pastore, dure e apparentemente estranee al nocciolo della questione, non facevano che confermare la verità soprannaturale di quell’incontro, Non ti ho chiesto se hai incontrato Dio, come se stesse dicendo, Quello già lo so, quasi l’annuncio non lo avesse colto di sorpresa,
quasi lo sapesse in anticipo. Ma, certo, non doveva avergli perdonato l’uccisione della pecora, altro non potevano significare le sue ultime parole, Non hai imparato niente, vattene, e poi si era diretto ostentatamente verso l’altra estremità del gregge, dov’era rimasto, con le spalle voltate, finché lui non se n’era andato. Orbene, in una di queste occasioni, mentre Gesù si abbandonava con l’immaginazione a previsioni su ciò che il Signore avrebbe voluto da lui quando si fossero rincontrati, le parole di Pastore gli risuonarono improvvisamente nelle orecchie, chiare e distinte come se fosse proprio lì accanto a lui, Non hai imparato niente, e in quell’istante la sensazione di assenza, di mancanza, di solitudine fu così forte che il suo cuore emise un gemito, lui era lì, da solo, seduto sulla riva del Giordano, che si guardava i piedi nella trasparenza del fiume e vedeva sgorgare da uno dei calcagni un sottile rivolo di sangue, e lentamente si muoveva fra due acque, all’improvviso non gli appartenevano né il sangue né i piedi, era suo padre, arrivato lì zoppicando con i suoi calcagni forati, che si godeva il fresco del Giordano e gli diceva proprio come Pastore, Devi ricominciare daccapo, non hai imparato niente. Gesù, come sollevando dal suolo una pesante e lunga catena di ferro, ripensava alla propria vita, anello dopo anello, il misterioso annuncio del suo concepimento, la terra luminosa, la nascita in quella grotta, i bambini di Betlemme, la crocifissione del padre, l’eredità degli incubi, la fuga da casa, la discussione nel Tempio, la rivelazione di Zelomi, l’apparizione del pastore, la vita con il gregge, l’agnello salvato, il deserto, la pecora morta, Dio. Ma quest’ultima parola era di troppo perché il suo spirito potesse occuparsene e quindi si fissò ossessivamente su un pensiero, perché mai un agnello salvato dalla morte dovesse morire da pecora, un problema che sembra stupido, ma che si comprenderà meglio se tradotto così, Nessuna salvezza è sufficiente, ogni condanna è definitiva. L’ultimo anello della catena è questo, il ritrovarsi sulla riva del fiume Giordano ad ascoltare il canto doloroso di una donna che da quel punto è impossibile vedere, nascosta tra i papiri, forse a fare il bucato, forse a prendere un bagno, e Gesù vuole capire come mai possano essere un tutt’uno l’agnello vivo che si è trasformato in una pecora morta, i piedi che gli sanguinano del sangue di suo padre e la donna che canta, nuda, supina sull’acqua, i turgidi seni sporgenti, il pube nero ondeggiante nella brezza, per la verità, fino a oggi Gesù non ha mai visto una donna nuda, ma se un uomo, partendo unicamente da una semplice colonna di fumo, può mettersi a prevedere come sarà l’incontro con Dio quando arriverà il giorno per l’uno e per l’altro, non si capirebbe il motivo per cui i particolari di una donna nuda, supponendo che la parola sia adatta, non potrebbero essere immaginati e creati da una melodia che le si sente cantare, pur non sapendo se le parole siano rivolte a noi. Giuseppe non è più qui, ha fatto ritorno alla fossa comune di Sefforis, di Pastore non c’è neppure l’ombra del batocchio, e Dio, se è dappertutto, come si suol dire, non ha scelto una
colonna di fumo per mostrarsi, forse è in quell’acqua corrente, la stessa in cui si bagna la donna. Il corpo di Gesù lanciò un segnale, gli si gonfiò tra le gambe, come capita a tutti gli uomini e a tutti gli animali, il sangue si concentrò velocemente in un unico punto, tanto che le ferite gli si seccarono all’improvviso, Signore, com’è forte questo corpo, ma Gesù non si mise a cercare una donna, e le sue mani respinsero le mani della violenta tentazione della carne, Non sarai nessuno se non amerai te stesso, non giungerai a Dio se non arriverai prima al tuo corpo. Chi abbia pronunciato queste parole non si sa, ma Dio non le direbbe, non sono grani del Suo rosario, ma di quello di Pastore, sì, potrebbero esserlo, se non fosse così lontano, forse, in fin dei conti, erano le parole della canzone che cantava la donna, in quel momento Gesù pensò a quanto sarebbe stato piacevole andare a chiederle una spiegazione, ma non si udiva più la voce, magari l’aveva portata via la corrente, o la donna, semplicemente, era uscita dall’acqua per asciugarsi e vestirsi, tacitando così il proprio corpo. Gesù si infilò quelle sue babucce inzuppate e si rizzò in piedi, spruzzando acqua dappertutto, come una spugna. Che risate si farà la donna, se sta venendo da questa parte, incontrando quelle enormi e grottesche ciocie, ma può anche darsi che quel riso di scherno non duri molto, quando i suoi occhi risaliranno lungo il corpo di Gesù, indovinando le forme che la tunica nasconde, e indugeranno negli occhi di lui, addolorati per antiche cause e adesso, per un nuovo motivo, ansiosi. Con poche parole, o magari nessuna, il corpo di lei tornerà a svestirsi e, quando sarà accaduto quello che in questi casi c’è sempre da aspettarsi, lei gli toglierà i sandali con grande sollecitudine, gli curerà le ferite sfiorandogli i piedi con un bacio e poi avvolgendoglieli, come se si trattasse di un uovo o di un bozzolo, con i capelli umidi. Per la strada non c’è nessuno, Gesù si guarda intorno e sospira, cerca un nascondiglio e vi si dirige, ma all’improvviso si ferma, si è ricordato per tempo che il Signore tolse la vita a Onan che aveva sparso il suo seme per terra. Orbene, se Gesù avesse considerato in modo più analitico l’episodio classico, il che peraltro si adatterebbe ai suoi procedimenti mentali, forse non lo avrebbe trattenuto l’impietosa severità del Signore, e questo per due motivi, primo, perché non c’era una cognata con cui, per legge, dovesse dare posterità a un fratello morto e, secondo motivo, forse più valido del primo, perché il Signore, in base a quanto gli aveva comunicato nel deserto, possedeva alcune salde, per quanto non rivelate, idee circa il suo futuro, e non era pertanto credibile né logico che si dimenticasse delle promesse fatte, buttando tutto all’aria perché una mano priva di guida aveva osato avvicinarsi là dove non doveva, quando il Signore sa bene quali siano i bisogni del corpo, non si tratta mica solo banalmente di mangiare e di bere, banalmente, diciamo, visto che esistono pure altri digiuni, non certo meno duri da patire. Queste e altre riflessioni simili, che avrebbero dovuto portare Gesù a persistere nell’umanissima intenzione di cercare, all’uopo, un
rifugio lontano dalla vista, finirono per avere un effetto controproducente, il pensiero si allontanò da quanto aveva nella mente, si trovò coinvolto nei meandri del proprio pensare e il risultato fu che gli passò l’uzzolo di ciò che voleva, e non parliamo neppure di desiderio, il quale, peccaminoso com’è, per un’inezia esita e subito svanisce. Rassegnato alla propria virtù, Gesù si pose la bisaccia a tracolla, afferrò il batocchio e si mise in cammino. Nel primo giorno di questo viaggio lungo la riva del Giordano, l’abitudine a quattro anni di isolamento aveva spinto Gesù a tenersi lontano dai pochi abitati che sorgevano da quelle parti. Però, a mano a mano che si avvicinava al lago di Gennesaret, gli divenne sempre più difficile aggirare i villaggi, tanto più che erano circondati da campi coltivati, non sempre comodi da attraversare, sia per le deviazioni che era costretto a fare sia per i sospetti che la sua aria da vagabondo suscitava nei contadini. Gesù decise quindi di affacciarsi nel mondo, e per la verità non gli dispiacque affatto ciò che vide, lo infastidiva enormemente solo il rumore, di cui si era quasi dimenticato. Nel primo dei paesi in cui entrò, una torma scatenata di ragazzini gli rivolse un terribile schiamazzo per quei suoi stivali, e fu un bene, in fondo, perché Gesù aveva abbastanza soldi per comprarsi dei sandali nuovi, ricordiamo che non tocca il denaro che possiede a cominciare da quello regalatogli dal fariseo, vive da quattro anni con talmente poco da non aver avuto bisogno di spenderlo, adesso è un bel gruzzolo, non c’è da chiedere niente al Signore. Ora, acquistati i sandali, il tesoro gli si è ridotto a due monete di scarso valore, ma la penuria non lo preoccupa, ormai gli manca poco per arrivare alla meta, a Nazaret, a casa, dov’è sicuro che tornerà, perché un giorno, nel lasciarla, e sembrava che l’abbandonasse per sempre, aveva detto, In un modo o nell’altro, comunque tornerò. Cammina senza fretta, fiancheggiando le mille curve del Giordano, è pur vero che la condizione dei suoi piedi non gli avrebbe permesso di procedere a grandi falcate, ma la ragione principale di quella lentezza stava proprio nella certezza di arrivare, quasi pensasse, È come se ci fossi già, ma un altro sentimento, un po’ meno consapevole, gli frenava il passo, qualcosa che si potrebbe esprimere con parole come queste, Quanto più in fretta arriverò, tanto più in fretta ripartirò. Procedeva lungo la riva del lago, diretto a nord, ormai è all’altezza di Nazaret, se volesse arrivare rapidamente a casa non dovrebbe far altro che girare i talloni verso ponente, ma le acque del lago, azzurre, vaste, tranquille, lo trattengono. Gli piace sedersi sulla riva e osservare il lavoro dei pescatori, una volta, da piccolo, è venuto da queste parti con i genitori, ma non si era mai trattenuto a guardare attentamente l’attività di questi uomini che lasciano dietro di sé tutti gli odori del pesce, come se fossero anch’essi degli abitanti marini. Finché si trovò in questi luoghi, Gesù si guadagnò da vivere aiutando in ciò che conosceva, che era nulla, e in ciò che poteva, che era poco, tirare una barca in secco o
spingerla in acqua, aiutare a trasbordare qualche rete, i pescatori gli leggevano in faccia il bisogno e. come paga, gli davano due o tre pesci pieni di lische, sul tipo degli scorfani. All’inizio, timido, se ne andava ad arrostirli e a mangiarli in disparte ma, essendosi trattenuto per tre giorni, già al secondo i pescatori lo chiamarono perché si unisse a loro. E l’ultimo giorno Gesù andò persino a pesca, sulla barca di due fratelli che si chiamavano Simone e Andrea, più grandi di lui, tutt’e due sulla trentina. In mezzo alle acque, Gesù, che del mestiere non era esperto e rideva da solo della propria inettitudine, si azzardò, incitato dai nuovi amici, a lanciare la rete, con quell’ampio gesto che, visto da lontano, assomiglia a una benedizione o a una sfida, ottenendo come risultato quello di essere sul punto di finire in acqua in uno dei tentativi. Simone e Andrea si fecero grasse risate, sapendo che Gesù ne capiva solo di capre e di pecore, e Simone disse, Miglior vita sarebbe la nostra se questo bestiame si lasciasse portare avanti e indietro, e Gesù rispose, Almeno loro non si perdono, non si smarriscono, sono tutti qui nella conca del mare, ogni giorno a sfuggire alla rete, ogni giorno a finirci dentro. La pesca non era stata fruttuosa, il fondo della barca era pressoché vuoto, e Andrea disse, Fratello, andiamocene a casa, questo giorno ci ha già dato quanto aveva da offrirci. Simone assentì, Hai ragione, fratello, andiamocene. Infilò i remi negli scalmi e, quando fu in procinto di dare la prima remata che li avrebbe riportati a riva, Gesù, non crediamo proprio per ispirazione o per un presentimento di maggior portata, fu solo un modo, benché inspiegabile, di dimostrare la propria gratitudine, propose di fare gli ultimi tre tentativi, Chissà, forse il gregge dei pesci, condotto dal suo pastore, è venuto dalla nostra parte. Simone rise, Ecco un altro vantaggio delle pecore, si possono vedere, e rivolto ad Andrea, Cala la rete, non c’è niente da perdere, e Andrea calò la rete, che fu recuperata piena. I due pescatori strabuzzarono gli occhi, ma lo stupore si tramutò in sconcerto e meraviglia quando la rete, calata un’altra volta e poi ancora un’altra, fu sempre issata a bordo piena. Da un abisso prima apparentemente privo di pesci, come l’acqua di una brocca all’imboccatura della fonte limpida, emergevano, con una profusione sconosciuta, torrenti luccicanti di branchie, dorsi e pinne in cui la vista si confondeva. Simone e Andrea gli domandarono come potesse sapere che il pesce era arrivato lì da un momento all’altro, con quale occhio di lince avesse notato il movimento profondo delle acque, e Gesù rispose che non lo sapeva, che era stata soltanto un’idea, il voler tentare la fortuna un’ultima volta prima di rientrare. I due fratelli non avevano alcun motivo per dubitare, il caso fa questi e altri miracoli, ma Gesù dentro di sé rabbrividì e, nel silenzio della sua anima, si domandò, Chi ha fatto tutto ciò. Disse Simone, Dammi una mano a scegliere, ed ecco, quindi, una buona occasione per spiegare come non sia certo nata in questo lago di Gennesaret l’ecumenica sentenza, Tutto ciò che finisce nella rete è pesce, i criteri sono diversi, qui, sarà pur pesce tutto quanto è
finito nella rete, ma la Legge è chiarissima su questo punto, come su tutti, Ecco quelli che potrete mangiare dei vari animali acquatici, potrete cibarvi di quanti hanno pinne e squame, sia nei mari sia nei fiumi, ma di tutti gli animali che si muovono o vivono nelle acque, nei mari e nei fiumi, quanti non hanno né pinne né squame, lì terrete in abominio. Essi saranno per voi in abominio, non mangerete la loro carne e abominerete i loro cadaveri, tutto ciò che nelle acque non ha né pinne né squame sarà per voi in abominio. I pesci reprobi, dalla pelle liscia, quelli che non possono comparire sulla tavola del Signore, furono quindi restituiti agli abissi, tanti, addirittura, ci avevano già fatto l’abitudine e non si preoccupavano quando finivano nelle reti, sapevano che presto sarebbero tornati in acqua, senza neppure rischiare di morire soffocati. Nella loro mente, i pesci credevano di godere di una speciale benevolenza del Creatore, se non addirittura di un amore particolare, il che li portò, dopo un certo tempo, a ritenersi superiori agli altri pesci, a quelli che rimanevano nelle barche, i quali dovevano aver compiuto tali gravi mancanze nell’oscurità delle acque perché Dio, così, senza pietà, li lasciasse morire. Quando finalmente arrivarono a riva, con mille artifici e precauzioni per non colare a picco, giacché la superficie del lago lambiva il bordo della barca come se volesse inghiottirla, la sorpresa delle genti non ebbe spiegazione. Vollero sapere com’era possibile, visto che gli altri pescatori erano tornati con il fondo asciutto, ma di tacito e comune accordo nessuno dei tre fortunati parlò delle circostanze di quella pesca prodigiosa, Simone e Andrea per non vedere pubblicamente sminuiti i propri meriti, Gesù perché non voleva che gli altri pescatori lo mettessero, come un richiamo, nei rispettivi equipaggi, la qual cosa, diciamo noi, sarebbe stata pienamente giusta, per finirla una volta per tutte con queste disparità tra figli e figliastri che tanto male hanno recato al mondo. Pensando a questo, quella sera stessa Gesù annunciò che il mattino dopo sarebbe partito per Nazaret, dove lo aspettava la famiglia dopo quattro anni di assenza e di vagabondaggi che, tant’erano stati faticosi, potevano ben dirsi demoniaci. Si rammaricarono molto Simone e Andrea per quella decisione che li privava del miglior guardiano di bestiame acquatico di cui vi fosse memoria negli annali di Gennesaret, come del resto si dispiacquero altri due pescatori, Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, due sempliciotti cui, per burla, si soleva domandare, Chi è il padre dei figli di Zebedeo, e i due meschini restavano interdetti, smarriti, e neanche il fatto che conoscessero la risposta, perché evidentemente la sapevano, essendo loro i figli, neppure questo risparmiava loro un attimo di perplessità e di angoscia. Il dispiacere che provavano per la partenza di Gesù non era dovuto solo al fatto che si vedevano sfuggire l’opportunità di una pesca celebrata, ma, giovani com’erano, Giovanni aveva proprio la stessa età di Gesù, avrebbero voluto creare insieme a lui un equipaggio di gioventù per cimentarsi con la generazione più vecchia. La loro
semplicità di spirito non era stupidità né tardità d’ingegno, loro vivevano come se stessero sempre pensando ad altro, ecco perché all’inizio esitavano quando veniva loro chiesto come si chiamava il padre dei figli di Zebedeo e non capivano il perché la gente se la ridesse così di gusto quando, trionfalmente, rispondevano, Zebedeo. Giovanni fece un ultimo tentativo, si avvicinò a Gesù e gli disse, Rimani con noi, la nostra barca è più grande di quella di Simone, prenderemo più pesce, e Gesù, saggio e caritatevole, rispose, La misura del Signore non è la misura dell’uomo, ma quella della Sua giustizia. Giovanni ammutolì, si allontanò con il capo chino e, senza altre sollecitazioni interessate, fu trascorsa la serata. Il giorno dopo, Gesù prese congedo dai primi amici che si era fatto nei suoi diciott’anni di vita e, con la bisaccia colma, volgendo le spalle a questo lago di Gennesaret dove, a meno che non si sbagliasse di grosso, Dio gli aveva inviato un segnale, diresse i propri passi verso i monti, verso Nazaret. Volle comunque il destino che, passando per la città di Magdala, gli si riaprisse, sul piede, una ferita ormai renitente a guarire, e con una tale virulenza che il sangue sembrava non volersi fermare. Volle inoltre il destino che il pericoloso incidente avvenisse all’uscita da Magdala, proprio di fronte, per meglio dire davanti al portone di una casa che si trovava lì, separata dalle altre, come se non volesse avvicinarsi, o le altre la respingessero. Vedendo che il sangue non accennava a fermarsi, Gesù chiamò, Ohi, voi di casa, e immediatamente una donna si affacciò alla soglia, quasi stesse aspettando solo che la chiamassero, anche se, da una lieve aria di sorpresa che cominciò ad apparirle sul viso, potremmo essere portati a pensare che doveva risultare piuttosto abituata alla gente che le entrava in casa senza bussare, il che, tutto considerato, avrebbe meno ragion d’essere che in qualunque altro caso, giacché questa donna è una prostituta e il rispetto che deve alla sua professione le impone di chiudere il portone quando riceve un cliente. Gesù, che era seduto per terra, a comprimersi la ferita, guardò di sfuggita la donna che gli si avvicinava, Aiutami, disse, e dopo aver afferrato la mano che lei gli tendeva, riuscì a rizzarsi in piedi e a fare qualche passo, zoppicando. Non sei in grado di camminare, disse lei, entra, me ne occupo io di quella ferita. Gesù non disse né sì né no, l’odore della donna lo intontiva, tanto che, da un momento all’altro, gli era scomparso il dolore provocato dall’apertura della piaga e adesso, con un braccio sulle spalle di lei e sentendosi cingere la vita da un altro che ovviamente non poteva essere il suo, si accorse del tumulto che gli squassava il corpo in tutte le direzioni, a meno che non sia più esatto dire in tutti i sensi, perché nei sensi, o meglio in uno che così si definisce, ma che non è né la vista né l’udito né l’odorato né il gusto né il tatto, sia pur avendo di ciascuno una parte, proprio lì andava a finire tutto, a quanto pare. La donna lo aiutò a entrare nel cortile, chiuse il portone e lo fece sedere, Aspetta, disse. Si diresse in casa e ne uscì con una bacinella d’argilla e un panno bianco. Riempì d’acqua la
bacinella, bagnò il panno e, inginocchiatasi ai piedi di Gesù, reggendo con la palma della mano sinistra il piede ferito, lo lavò premurosamente, ripulendolo dalla terra, ammorbidendone la crosta crepata da cui, con il sangue, scaturiva una materia giallastra, purulenta, di pessimo aspetto. Disse la donna, Non sarà certo l’acqua a guarirti, e Gesù disse, Ti chiedo solo di fasciarmi la ferita in modo che io possa arrivare a Nazaret, poi me la curerò, e stava per aggiungere, Mia madre mi accudirà, ma si trattenne perché non voleva apparire agli occhi di questa donna come un ragazzino che, inciampato in un sasso, si mette a piangere, Mamma, mamma, aspettando la carezza, la soffiatina sul dito offeso, il tocco dolce delle dita, Non è niente, bambino mio, è passato. Da qui a Nazaret hai ancora molto cammino, ma se è questo che vuoi, aspetta solo che ti metta un unguento, disse la donna, ed entrò in casa, dove si sarebbe trattenuta qualche momento più di prima. Gesù si guardò intorno nel cortile, sorpreso perché in vita sua non aveva mai visto nulla di così pulito e ordinato. Sospetta che la donna sia una prostituta, non per una sua particolare abilità nell’indovinare a prima vista le professioni, solo pochi giorni fa anche lui avrebbe potuto essere identificato dall’afrore di bestiame che emanava, e adesso tutti diranno, È un pescatore, è svanito un odore e ne è venuto un altro, che non olezza di meno. La donna odora di profumo, ma Gesù, malgrado la sua innocenza, che non è ignoranza, giacché non gli sono mancate le occasioni di vedere come lo facevano caproni e montoni, possiede abbastanza buon senso per considerare che il fatto che un corpo abbia un così gradevole profumo non è una ragione sufficiente per affermare che una donna sia una prostituta. Per la verità, una prostituta dovrebbe odorare di ciò che frequenta, l’uomo, come il capraio olezza di capra e il pescatore di pesce, ma forse, chissà, queste donne si profumano proprio perché vogliono occultare, o addirittura dimenticare, l’odore dell’uomo. La donna ricomparve con un vasetto, sorridendo, come se qualcuno dentro casa le avesse raccontato una storiella. Gesù la vedeva avvicinarsi, ma, se gli occhi non lo ingannavano, si appressava molto lentamente, come accade talvolta nei sogni, la tunica si muoveva, fluttuava, modellando all’andatura il ritmico ondeggiare delle cosce, e i lunghi capelli neri le danzavano sulle spalle come succede con il vento che agita le spighe dei campi di grano. Non c’era alcun dubbio, anche per un ignorante la tunica era da prostituta, il corpo da cantante, il sorriso da cortigiana. Gesù, addolorato, chiese alla memoria di soccorrerlo con qualche massima appropriata del celebre autore suo omonimo, Gesù, figlio di Sira, e la memoria gli rese un buon servizio, sussurrandogli discretamente, dall’interno dell’orecchio, Non incontrarti con una donna cortigiana, che tu non abbia a cadere nei suoi lacci, e subito dopo, Non frequentare una cantante per non esser preso nelle sue moine, e infine, Non dare l’anima alle prostitute, per non perdere te e il tuo patrimonio, che questo nostro Gesù si possa perdere potrebbe anche capitare,
essendo uomo, e per di più giovane, ma, quanto al patrimonio, sappiamo già che lui non corre alcun pericolo perché non lo possiede, ragion per cui potrà dirsi al sicuro quando, al momento opportuno, prima di concludere il contratto, la donna gli domanderà, Quanto hai. Gesù, quindi, è pronto a tutto, ecco perché non lo coglie di sorpresa la domanda che la donna gli ha rivolto adesso mentre con il piede di lui adagiato sul proprio ginocchio gli spalmava d’unguento la ferita, Come ti chiami, Gesù, risponde lui, e non ha aggiunto, Di Nazaret, perché l’aveva già detto prima, come del resto lei, vivendo qui, non ha specificato di Magdala quando, avendole lui a sua volta chiesto il nome, ha risposto, Maria. Fra queste mosse e queste osservazioni, Maria di Magdala finì di medicare il dolorante piede di Gesù, concludendo l’operazione con una salda e adeguata fasciatura, Ecco fatto, disse lei, Come posso ringraziarti, domandò Gesù, e per la prima volta i suoi occhi sfiorarono quelli di lei, neri, luccicanti come carboni, ma percorsi, come acqua corrente sull’acqua, da una specie di voluttuoso velo che colpì in pieno il corpo segreto di Gesù. La donna non rispose subito, a sua volta lo guardava come se lo valutasse, che tipo di persona era, ché di quattrini si vedeva bene quanto fosse sprovvisto quel povero ragazzo, e infine disse, Serbami nel tuo ricordo, nient’altro, e Gesù, Non scorderò la tua bontà, e poi, facendosi coraggio, E non dimenticherò neppure te, Perché, sorrise la donna, Perché sei bella, Non mi hai incontrato al tempo della mia bellezza, Ti conosco nella tua bellezza attuale. Il sorriso di lei svanì, si spense, Sai chi sono, quello che faccio, di che vivo, Lo so, Mi hai soltanto guardato e sai già tutto, Non so nulla, Che sono una prostituta, Questo lo so, Che vado con gli uomini per denaro, Sì, Ecco quello che voglio dire, sai tutto di me. Io so soltanto questo. La donna gli si sedette accanto, gli sfiorò dolcemente il capo con una mano, gli toccò la bocca con la punta delle dita, Se vuoi ringraziarmi, rimani con me oggi, Non posso, Perché, Non ho di che pagarti, Che novità, Non ridere di me, Forse non ci crederai, ma riderei più facilmente di un uomo con la borsa piena, Non è solo questione di denaro, E allora di che cosa. Gesù ammutolì e volse la faccia dall’altra parte. Lei non lo aiutò, avrebbe potuto domandargli, Sei vergine, ma tacque, in attesa. Calò un silenzio così denso e profondo che sembrava che risuonassero solo i due cuori, più forte e veloce quello di lui, inquieto per l’agitazione quello di lei. Gesù disse, Le tue chiome sono come un gregge di capre che scende dalle pendici del Galaad. La donna sorrise e tacque. Poi Gesù disse, I tuoi occhi sono come i laghetti di Chesbòn, presso la porta di Bat-Rabbìm. La donna sorrise di nuovo, ma non parlò. Allora Gesù volse lentamente il viso verso di lei e disse, Non conosco donna. Maria gli prese le mani, Tutti dobbiamo pur sempre cominciare così, uomini che non conoscevano donna, donne che non conoscevano uomo, un giorno chi lo sapeva ha insegnato, chi non sapeva ha imparato, Vuoi insegnarmi tu, Perché tu debba ringraziarmi di nuovo, In tal modo, non cesserò mai di
ringraziarti, E io non finirò mai di insegnarti. Maria si alzò, andò a chiudere il portone del cortile, ma prima appese qualcosa all’esterno, un segnale per gli eventuali clienti, con il quale intendeva dire che lei aveva chiuso il suo spiraglio perché era giunto il momento di cantare, Levati, aquilone, e tu, austro, vieni, soffia nel mio giardino perché si effondano i suoi aromi, venga il mio diletto nel suo giardino e ne mangi i frutti squisiti. Poi insieme, con Gesù appoggiato, come aveva fatto in precedenza, alla spalla di Maria, di questa prostituta di Magdala che lo ha curato e che lo accoglierà nel suo letto, entrarono in casa, nella propizia penombra di una stanza fresca e linda. Il letto non è quella rozza stuoia distesa per terra, con un lenzuolo scuro buttato sopra, che Gesù ha sempre visto nella casa dei genitori finché ci è vissuto, questo è un vero letto, simile a quello di cui si è detto, Ho adornato il mio letto di drappi, di tessuti bordati di lino d’Egitto, l’ho profumato con mirra, aloe e cinnamomo. Maria di Magdala condusse Gesù presso il forno, dove il pavimento era lastricato di mattoni, e lì, rifiutandone ogni aiuto, con le sue mani lo spogliò e lo lavò, sfiorandogli più volte il corpo, qui e lì, e lì, con la punta delle dita, baciandolo lievemente sul petto e sui fianchi, da un lato e dall’altro. Quei dolci sfioramenti facevano rabbrividire Gesù, le unghie della donna che gli percorrevano la pelle, Non aver paura, disse Maria di Magdala. Lo asciugò e lo condusse per mano fino al letto, Sdraiati, io torno subito. Fece scorrere un telo su una corda, si udirono altri rumori d’acqua, poi una pausa, all’improvviso l’aria divenne profumata e Maria di Magdala comparve, nuda. Ed era nudo anche Gesù, come lei lo aveva lasciato, il giovane pensò che fosse giusto così, coprire quel corpo che lei aveva denudato sarebbe stata una sorta di offesa. Maria si fermò accanto al letto, lo guardò con espressione ardente e nel contempo dolce, e disse. Sei bello, ma per essere perfetto, devi aprire gli occhi. Esitante, Gesù li spalancò e immediatamente li chiuse, abbagliato, tornò ad aprirli e in quell’istante seppe ciò che davvero volevano dire quelle parole del re Salomone, Le curve dei tuoi fianchi sono come monili, il tuo ombelico è una coppa rotonda, colma di vino profumato, il tuo ventre è un mucchio di grano, circondato da gigli, i tuoi seni sono come due cerbiatti, gemelli di una gazzella, ma lo seppe anche meglio, e definitivamente, quando Maria si sdraiò accanto a lui e, prendendogli le mani, attirandole a sé, le fece muovere lentamente lungo tutto il proprio corpo, i capelli e il viso, il collo, le spalle, i seni, che compresse dolcemente, il ventre, l’ombelico, il pube, su cui indugiò, intrecciando e sciogliendo le dita, la rotondità delle cosce morbide, e mentre faceva tutto questo, diceva a voce bassa, quasi in un sussurro, Impara, impara il mio corpo. Gesù si guardava le mani, che Maria stringeva, e desiderava averle libere perché potessero frugare ogni sua parte, ma lei continuava, ancora una volta, di nuovo, e diceva, Impara il mio corpo, impara il mio corpo. Gesù respirava affannosamente, ma vi fu un istante in cui gli parve di soffocare, e ciò avvenne quando le mani di lei, la
sinistra posata sulla fronte, la destra sulla caviglia, intrapresero una lenta carezza, l’una verso l’altra, entrambe attratte da quell’unico punto centrale su cui, una volta giunte, non si trattennero più di un istante, per ritornare con la medesima lentezza al luogo di partenza e poi riprendere lo stesso movimento. Non hai imparato niente, vattene, gli aveva detto Pastore, e chissà, forse aveva voluto dire che non aveva imparato a difendere la vita. Ma adesso Maria di Magdala glielo aveva insegnato, Impara il mio corpo, e ripeteva, ma in un altro modo, cambiando una parola, Impara il tuo corpo, e lui l’aveva lì, quel suo corpo, teso, duro, eretto, e sopra di lui, nuda e stupenda, Maria di Magdala, che lo rassicurava, Non ti preoccupare, non ti muovere, lascia che sia io a occuparmi di te, allora sentì che una parte del suo corpo, quella, era scomparsa nel corpo di lei, che un anello di fuoco lo circondava, avanti e indietro, che un fremito lo scuoteva dentro, come un pesce che si agita e che, all’improvviso, gli sfuggiva gridando, impossibile, non può essere, i pesci non gridano, era lui, invece, che urlava, mentre Maria, gemendo, si abbandonava con il proprio corpo su quello di lui, bevendogli il grido dalla bocca, con un bacio avido e ansioso che scatenò nel corpo di Gesù un secondo e interminabile fremito. Per tutto il giorno, nessuno andò a bussare al portone di Maria di Magdala. Per tutto il giorno, Maria di Magdala servì e insegnò al ragazzo di Nazaret, il quale, non conoscendola né in bene né in male, era andato a chiederle di alleviargli i dolori e di curargli le piaghe che, ma questo lei non lo sapeva, erano nate da un altro incontro, nel deserto, con Dio. Dio aveva detto a Gesù, Da oggi appartieni a me, col sangue, e il Demonio, ammesso che lo fosse, lo aveva spregiato, Non hai imparato niente, vattene, e Maria di Magdala, coi seni imperlati di sudore, i capelli sciolti che paiono fumanti, la bocca turgida, occhi come acqua scura, Non ti legherai di certo a me per ciò che ti ho insegnato, ma resta qui stanotte. E Gesù, sopra di lei, rispose, Ciò che insegni non è prigione, ma libertà. Dormirono insieme, ma non soltanto quella notte. Quando si destarono era già mattino inoltrato, e dopo che i loro corpi si furono cercati e ritrovati una volta ancora, Maria volle vedere lo stato della ferita al piede di Gesù, Ha un aspetto migliore, ma non dovresti ancora riprendere il viaggio, ti farà male, con quella polvere, Non posso restare, e se anche tu dici che sto meglio, Rimanere puoi, è questione di volontà, quanto al portone del cortile, sarà chiuso per tutto il tempo che vorremo, La tua vita, La mia vita adesso sei tu, Perché, Ti rispondo con le parole del re Salomone, Il mio diletto ha messo mano nello spiraglio della porta e un fremito mi ha sconvolto il cuore, E come posso essere il tuo diletto se non mi conosci, se sono soltanto un uomo venuto a chiederti aiuto e di cui tu hai avuto pena, pena per i miei dolori e per la mia ignoranza, Perciò ti amo, perché ti ho aiutato e ti ho insegnato, ma sarai tu a non potermi amare, giacché non mi hai insegnato alcunché né mi hai aiutato, Non hai una ferita, La troverai, se la cercherai, Che ferita
è, Quel portone aperto da cui entravano gli altri, ma non il mio diletto, Hai detto che sono il tuo diletto, Ecco perché il portone si è chiuso dopo che sei entrato tu, Non so nulla che ti possa insegnare, conosco solo ciò che ho appreso da te, Insegnami anche questo, perché io sappia com’è ad apprenderlo da te, Non possiamo vivere insieme, Vuoi dire che non ti è possibile vivere con una prostituta, Sì, Per tutto il tempo che starai con me, non sarò una prostituta, non lo sono da quando sei entrato, è nelle tue mani che io continui a non esserlo, Mi chiedi troppo, Nulla che tu non possa darmi per un giorno, per due giorni, per il tempo che il tuo piede richiederà per guarire, perché poi si riaprirà la mia ferita, Mi ci sono voluti diciott’anni per arrivare qui, Qualche giorno in più, non sarà per te una grande differenza, sei ancora giovane, Anche tu sei giovane, Più vecchia di te, più giovane di tua madre, Conosci mia madre, No, Allora perché lo hai detto, Perché io non potrei mai avere un figlio della tua età, Quanto sono stupido, Non sei stupido, solo innocente, Non sono più innocente, Perché hai conosciuto donna, Non lo ero più già quando ho giaciuto con te, Parlami della tua vita, ma non adesso, adesso voglio soltanto che la tua mano sinistra riposi sotto il mio capo e la destra mi abbracci. Gesù rimase a casa di Maria di Magdala per una settimana, il tempo necessario perché sotto la crosta della ferita si formasse la nuova pelle. Il portone del cortile rimase sempre chiuso. Alcuni uomini impazienti, per gelosia o per dispetto, andarono a bussare, ignorando deliberatamente il segnale che avrebbe dovuto tenerli lontani. Volevano sapere chi mai si soffermasse così a lungo, e qualcuno, più spiritoso, lanciò al di là del muro un mottetto, Sarà magari perché non ce la fa, sarà magari perché non lo sa, aprimi la porta, Maria, che glielo insegno io come si fa, e Maria di Magdala uscì nel cortile per rispondergli, Chiunque tu sia, ciò che potevi non lo potrai più, ciò che facevi non lo farai più, Maledetta, Vattene, che ti sbagli di grosso, non troverai al mondo donna più benedetta di me. Che fosse per questo incidente, o perché così doveva essere, nessun altro andò a bussare al portone, e comunque la cosa più probabile è che nessuno di tutti quegli uomini, abitanti di Magdala o passanti allertati, abbia voluto rischiare di udire quella maledizione che li avrebbe condannati all’impotenza, giacché è convinzione diffusa che le prostitute, soprattutto quelle d’alto bordo, diplomate o con un nutrito curricolo, sapendo tutto sulle arti di rallegrare il sesso di un uomo, sono altrettanto competenti nel ridurlo a un irrimediabile silenzio, moscio, senza vigore né appetiti. Ebbero, quindi, Gesù e Maria una gran tranquillità durante quegli otto giorni, nei quali le lezioni impartite e ricevute finirono per diventare un unico discorso, fatto di gesti, scoperte, sorprese, sussurri, invenzioni, come un mosaico di tessere che non sono nulla prese una per una e finiscono per essere tutto se unite e sistemate al proprio posto. Più di una volta Maria di Magdala manifestò ancora la curiosità di conoscere la vita del suo diletto, ma
Gesù cambiava argomento, rispondeva, per esempio, Nel mio giardino, sorella mia, mia sposa, raccolgo la mia mirra e il mio balsamo, mangio il mio favo e il mio miele, bevo il mio vino e il mio latte, e dopo averlo detto così appassionatamente, passava subito dalla recitazione del versetto all’atto poetico, in verità, in verità ti dico, amato Gesù, così non si può conversare. Ma un giorno Gesù decise di parlare del padre falegname e della madre cardatrice di lana, dei suoi otto fratelli, e di come, seguendo le usanze, avesse cominciato con l’imparare il mestiere paterno, ma poi fosse stato pastore per quattro anni, e adesso era lì di passaggio diretto a casa, aveva trascorso qualche giorno con alcuni pescatori, ma non c’era stato abbastanza tempo per impararne l’arte. Gesù raccontò tutto questo in un tardo pomeriggio, stavano mangiando nel cortile, di tanto in tanto alzavano il capo per osservare il rapido volo delle rondini che passavano emettendo quei loro striduli suoni, e dal silenzio che calò fra di loro parve che tutto fosse stato detto, l’uomo si era confessato con la donna, ma questa, come se niente fosse, gli domandò, Soltanto questo, lui fece un cenno affermativo, Sì, soltanto questo. Il silenzio fu assoluto, le rondini volteggiavano sopra altri luoghi e Gesù disse, Mio padre è stato crocifisso quattro anni fa a Sefforis, si chiamava Giuseppe, Se non mi sbaglio, sei il primogenito, Sì, sono il primogenito, Allora non capisco perché tu non sia rimasto con la tua famiglia, era tuo dovere, Vi sono state alcune divergenze, e non chiedermi altro, Nulla che riguardi la tua famiglia, ma di quegli anni da pastore, parlami di quel periodo, Non c’è niente da dire, è sempre uguale, le capre, le pecore, i capretti, gli agnelli, il latte, tanto latte, latte dappertutto, Ti è piaciuto fare il pastore, Sì, Perché te ne sei andato, Mi ero stancato, avevo nostalgia della famiglia, Nostalgia, che cos’è, Pena per la lontananza, Stai mentendo, Perché dici che sto mentendo, Perché ho visto paura e rimorso nei tuoi occhi. Gesù non rispose. Si alzò, fece un giro nel cortile, poi si fermò davanti a Maria, Un giorno, quando ci rincontreremo, forse ti racconterò il resto, se mi prometterai di non parlarne con nessuno, Risparmieremmo tempo se tu lo facessi subito, Te ne parlerò, sì, ma solo se ci rincontreremo, Ti aspetti che quel giorno io non sia più una prostituta, per ora non puoi avere fiducia in questa donna, pensi che sarei capace di vendere i tuoi segreti per denaro o di cederli a chiunque venisse, per divertimento, in cambio di una notte d’amore più gloriosa di quelle che ho dato a te e che tu hai dato a me, Non è questa la ragione per cui preferisco tacere, Allora io ti dico che Maria di Magdala sarà accanto a te, prostituta o no, quando ne avrai bisogno, Chi sono io per meritarlo, Tu non sai chi sei. Quella notte, l’antico incubo tornò, dopo essere stato negli ultimi tempi soltanto una sorta di vaga angoscia che si infiltrava negli interstizi dei soliti sogni, finalmente abituale e sopportabile. Ma quella notte, forse perché era l’ultima che Gesù passava in quel letto, forse perché aveva parlato di Sefforis e degli uomini crocifissi, l’incubo, come una gigantesca serpe che stesse risvegliandosi
dall’ibernazione, prese a srotolare lentamente i suoi anelli, a sollevare l’orribile testa, e Gesù si svegliò urlando, in un bagno di sudore freddo, Che hai, che hai gli domandava Maria, preoccupata, Un sogno, nient’altro che un sogno, si schernì lui, Raccontamelo, e questa semplice parola fu pronunciata con tanto amore e con tanta tenerezza che Gesù non riuscì a trattenere le lacrime e, dopo le lacrime, le parole che voleva nascondere, Sogno che mio padre viene a uccidermi, Ma tuo padre è morto, e tu sei qui, vivo, Io sono un bambino, mi trovo a Betlemme in Giudea e mio padre viene a uccidermi, Perché a Betlemme, È là che sono nato, Forse pensi che tuo padre non voleva che tu nascessi, è il significato del sogno, Tu non sai nulla, No, non so, Tanti bambini di Betlemme sono morti a causa di mio padre, Li ha ammazzati lui, Li ha uccisi perché non li ha salvati, non è stata la sua mano a stringere il pugnale. E nel tuo sogno, sei uno di quei bambini, Sono morto mille volte, Povero te, povero Gesù, È questo il motivo per cui me ne sono andato da casa, Finalmente capisco, Tu credi di capire, Che cos’altro manca, Qualcosa che ancora non posso dirti, Qualcosa che mi dirai se ci incontreremo di nuovo, Sì. Gesù si addormentò con la testa sulla spalla di Maria, respirando sul suo seno. Lei rimase sveglia per tutta la notte. Il suo cuore era addolorato perché il mattino ben presto li avrebbe separati, ma la sua anima poteva dirsi serena. L’uomo che riposava al suo fianco era, lo sapeva, colui che aveva atteso per tutta la vita, quel corpo che le apparteneva e al quale il suo spettava, vergine quello di lui, usato e sporco quello di lei, ma era iniziato il mondo, per quel che significa iniziare, da otto giorni appena, e solo quella notte si era consolidato, otto giorni non sono niente a paragone con un futuro per così dire integro, tanto più che è così giovane questo Gesù, e io, Maria di Magdala, eccomi qui, a letto con un uomo, come molte altre volte, ma adesso innamorata e senza età. Trascorsero la mattina a preparare il viaggio, come se il giovane dovesse andare in capo al mondo, mentre il cammino che lo aspetta non è neanche di duecento stadi, niente che un uomo di costituzione media non possa fare tra mezzogiorno e il crepuscolo del meriggio, sia pur tenendo conto che da Magdala a Nazaret non è tutta strada piana, ci sono pendii, scarpate e dirupi sassosi. E fa’ attenzione, che girano bande che guerreggiano contro i romani, diceva Maria, Ancora, domandò Gesù, Tu sei vissuto lontano, qui siamo in Galilea, E io sono un galileo, non mi faranno alcun male, Ma non lo sei, perché sei nato a Betlemme in Giudea, I miei genitori mi hanno concepito a Nazaret e io, per la verità, neppure a Betlemme sono nato, sono venuto al mondo in una grotta, nell’interno della terra, e adesso mi sembra addirittura di essere rinato qui, a Magdala, Da una prostituta, Per me, tu non sei una prostituta, disse Gesù con irruenza, Lo sono stata. A queste parole seguì un lungo silenzio, Maria aspettando che Gesù parlasse, Gesù alle prese con un’inquietudine che non riusciva a dominare. Infine le domandò, Quello che hai appeso al portone perché nessun uomo
entrasse, lo toglierai. Maria di Magdala lo guardò con espressione seria, poi sorrise con malizia, Non potrei tenere dentro casa due uomini contemporaneamente, Cosa significa, Che tu te ne vai, ma sarai sempre qui. Fece una pausa e concluse, Il segnale appeso sul portone rimarrà dov’è, Penseranno che sei con un uomo, Se lo penseranno, faranno bene, perché sarò con te, Non entrerà più nessun altro, Lo hai detto tu, questa donna che chiamano Maria di Magdala ha cessato di essere una prostituta quando sei entrato tu, Di che cosa vivrai, Solo i gigli di campo crescono senza lavorare né filare. Gesù le prese le mani e disse, Nazaret non è lontano da Magdala, uno di questi giorni tornerò a trovarti, Se mi cercherai, mi incontrerai qui, Il mio desiderio sarà di trovarti sempre, Mi troveresti anche dopo morto, Vuoi dire che morirò prima di te, Io sono più vecchia, morirò certo prima, ma nel caso tu morissi prima di me, io continuerei a vivere solo perché tu possa incontrarmi, E se sarai tu la prima a morire, Benedetto sia chi ti ha messo su questo mondo mentre c’ero ancora io. Poi, Maria di Magdala portò qualcosa da mangiare a Gesù e non vi fu alcun bisogno che lui dicesse, Siediti con me, perché fin dal primo giorno, in quella casa chiusa, quest’uomo e questa donna avevano condiviso e moltiplicato fra loro i sentimenti e i gesti, gli spazi e le sensazioni, senza troppo rispetto per regole, norme o leggi. Di certo, non saprebbero che cosa risponderci se domandassimo loro come si comporterebbero se non si trovassero protetti e al riparo di queste quattro pareti, tra le quali hanno potuto, solo per pochi giorni, modellare un mondo a semplice immagine e somiglianza di uomo e donna, forse più di lei che di lui, detto fra parentesi, ma, visto che sono stati entrambi così perentori riguardo ai loro futuri incontri, basta avere la pazienza di aspettare il luogo e l’ora in cui, insieme, affronteranno il mondo fuori del portone, dove già si domandano con inquietudine, Che cosa sta succedendo lì dentro, e non è certo a bagordi letterecci che stanno pensando. Dopo aver mangiato, Maria infilò i sandali a Gesù e gli disse, Devi andare, se vuoi arrivare a Nazaret prima di sera, Addio, disse Gesù e, presi bisaccia e bastone, uscì nel cortile. Il cielo era rannuvolato come una fodera di lana sporca, per il Signore non doveva essere facile capire, dall’alto, che cosa stessero facendo le Sue pecore. Gesù e Maria di Magdala si salutarono con un abbraccio che sembrò interminabile, si baciarono anche, ma con minor indugio, e non c’è da stupirsi, mica si usava tanto a quel tempo. 18. Il sole era ormai tramontato quando Gesù tornò a calcare il suolo di Nazaret, dopo quattro lunghi anni, settimana più settimana meno, dal giorno in cui ne era fuggito, ancora bambino, con una disperazione mortale nel cuore, alla ricerca di qualcuno che lo aiutasse a capire la prima insopportabile verità della sua vita. Quattro
anni, sia pur faticosi, possono magari essere insufficienti per sanare un dolore, ma in genere lo assopiscono. Aveva posto i propri quesiti al Tempio, ripercorso le vie della montagna con il gregge del Diavolo, incontrato Dio, dormito con Maria di Magdala, quest’uomo che si sta avvicinando non sembra più soffrire, a parte quell’umidore degli occhi di cui si è detto, ma che, a ben riflettere sulle possibili cause, potrebbe anche essere un effetto ritardato del fumo dei sacrifici, o un’emozione dell’animo suscitata dagli orizzonti degli alti pascoli, o la paura di chi, solo nel deserto, ha sentito dire, Io sono il Signore, o, infine, ed è forse la cosa più probabile perché si tratta della più recente, il desiderio e il ricordo di un corpo lasciato qualche ora prima, Sostenetemi con focacce d’uva passa, rinfrancatemi con pomi, perché io sono malato d’amore, una dolce verità che Gesù potrebbe essere andato a rivelare a sua madre e ai suoi fratelli, ma il piede gli si è fermato sul limitare della porta, Chi sono mia madre e i miei fratelli, si domanda, e non perché lui non lo sappia, il problema è se loro sanno chi è lui, colui che ha posto domande al Tempio, che ha contemplato gli orizzonti, che ha incontrato Dio, che ha conosciuto l’amore carnale e vi si è riconosciuto uomo. Proprio qui, di fronte alla porta, un tempo si è fermato un mendicante che ha detto di essere un angelo e che, pur potendo irrompere in casa, se era davvero una creatura celeste, con il turbinio delle sue ali ribelli, ha preferito bussare e chiedere con parole da mendico l’elemosina. La porta è chiusa solo con il saliscendi. Gesù non avrà bisogno di chiamare come ha dovuto fare laggiù a Magdala, entrerà tranquillamente in questa casa che gli appartiene, notate come la piaga al piede gli sia guarita, è proprio vero che sono le più facili da curare, quelle di sangue e pus. Non aveva bisogno di bussare, ma lo fece. Aveva udito delle voci al di là del muro, più lontana riconobbe quella della madre, ma non ebbe il coraggio di spingere semplicemente la porta annunciando, Eccomi, come qualcuno che, sapendosi desiderato, vuole fare la sorpresa che renderà tutti felici. Andò ad aprire una bambina, sugli otto o nove anni, che non riconobbe il visitatore, la voce del sangue non le fornì alcun aiuto dicendo, Quest’uomo è tuo fratello, non ti ricordi, Gesù, il primogenito, e fu lui che, malgrado i quattro anni passati sia per l’uno sia per l’altra e la fioca luce dell’imbrunire, disse, Tu sei Lidia, e lei rispose, Sì, pronta a meravigliarsi che uno sconosciuto sapesse il suo nome, ma lui ruppe ogni incantesimo dicendo, Sono tuo fratello Gesù, fammi entrare. Nel cortile, presso la casa e sotto la tettoia, vide alcune sagome simili a ombre, dovevano essere i suoi fratelli, e guardavano verso la porta, due di loro, i maggiori, Giacomo e Giuseppe, si stavano avvicinando, non avevano sentito quanto aveva detto Gesù, ma non valeva la pena andare a identificare il visitatore, Lidia, stava già urlando, entusiasta, È Gesù, è nostro fratello, a quel punto tutte le ombre si mossero e, sulla soglia di casa, comparve Maria, con Lisia accanto, l’altra figlia, alta quasi quanto la madre, e insieme esclamarono, quasi
l’avessero detto con una sola voce, Ah, figlio mio, Ah, fratello mio, e un attimo dopo erano tutti li abbracciati, in mezzo al cortile, era davvero la gioia delle famiglie ritrovate, un evento generalmente notevole, soprattutto, come in questo caso, quando si tratta del primogenito che torna alle nostre carezze e cure. Gesù ossequiò la madre, salutò i fratelli uno per uno, da tutti fu ricambiato con calorose espressioni di benvenuto, Fratello Gesù, che bello vederti, Fratello Gesù, credevamo che ci avessi dimenticati, un solo pensiero non si udì, Fratello Gesù, non sembra che tu sia tornato ricco. Entrarono in casa e si sedettero per cenare, ché la famiglia vi si stava accingendo quando Gesù aveva bussato alla porta, a questo punto verrebbe da dire, giacché Gesù arriva da dove sappiamo, da quegli eccessi della carne peccatrice e da cattive frequentazioni morali, a questo punto verrebbe da dire, con la rude franchezza della gente semplice che di colpo si vede ridurre la razione, All’ora di mangiare, il Diavolo ne aggiunge sempre uno. Qui non lo dissero, e sarebbe apparso sconveniente se lo avessero detto, ché al coro masticante si era aggiunta solo una bocca, quasi non si nota differenza, dove mangiano nove, possono mangiare anche dieci, e questi ne ha più diritto. Durante la cena, i fratelli più giovani vollero sapere delle sue avventure, mentre la madre e i figli maggiori si accorsero subito che non era avvenuto alcun cambiamento di professione dal loro incontro a Gerusalemme, tanto più che l’odore del pesce era svanito già prima e quanto agli effluvi peccaminosi di Maria di Magdala, ci avevano pensato il vento, le ore di cammino e la polvere, a meno che non avessimo avvicinato il naso alla tunica di Gesù, ma poiché neanche la sua famiglia avrebbe osato fino a quel punto, figuriamoci noi. Gesù raccontò che aveva fatto il pastore con il gregge più grande che mai si fosse visto, che negli ultimi tempi era andato sull’onde a pescare, contribuendo a cavare dagli abissi enormi e meravigliosi bottini, e che gli era anche capitata l’avventura più straordinaria che potesse accadere nella fantasia e nella speranza degli uomini, ma della quale avrebbe potuto parlare solo in un’altra occasione, e non a tutti. Erano lì, i più piccoli, a insistere, Racconta, racconta, quando il mediano, di nome Giuda, domandò, ma senza alcun fine malevolo, Dopo tanto tempo, quanti soldi ci porti, e Gesù rispose, Neppure tre monete, né due, né una, niente, e per provarlo, perché a tutti doveva sembrare impossibile una simile penuria dopo quattro anni di lavoro, vuotò in quell’istante la bisaccia, ed era veramente la più grande povertà mai vista, di beni e attrezzi, un coltello dalla lama consumata e storta, un pezzo di spago, un tozzo di pane durissimo, due paia di sandali ridotti a brandelli, ciò che restava di una vecchia tunica strappata, È quella di tuo padre, disse Maria toccandola e poi, sfiorando i sandali, Erano di vostro padre. Si chinarono le teste dei fratelli, un sentimento di nostalgia rammentò l’infelice trapasso del genitore, poi Gesù prese a riporre nella bisaccia quel misero contenuto, ma all’improvviso notò che una punta della tunica creava un voluminoso
nodo e si accorse che il rigonfiamento era pesante e, in tal caso, pensandolo gli affluì il sangue al viso, poteva contenere solo del denaro, quello che aveva appena detto di non possedere, e che il denaro ce lo doveva aver messo Maria di Magdala, pertanto era guadagnato non con il sudore della fronte, come detta la dignità, ma con falsi gemiti e traspirazioni sospette. La madre e i fratelli fissarono la delatrice punta della tunica, poi, quasi avessero concertato il movimento, guardarono Gesù e lui, tra il fingere e occultare la prova di una menzogna e l’esibirla senza poterne dare una spiegazione che la moralità della famiglia accondiscendesse ad accettare, scelse la mossa più difficile, sciolse il nodo, rivelò il tesoro, venti monete, come non si erano mai viste in quella casa, e disse, Non sapevo di avere questi soldi. La silenziosa riprovazione della famiglia attraversò l’aria come un vento rovente del deserto, che vergogna, un primogenito bugiardo. Gesù rifletteva in cuor suo e non vi ritrovava alcuna irritazione contro Maria di Magdala, solo una gratitudine infinita per la sua generosità, per quella delicatezza nel dargli del denaro che, ne era certa, lui avrebbe avuto vergogna di accettare direttamente dalle sue mani, perché una cosa è l’aver detto, La tua mano sinistra è sotto il mio capo e la tua destra mi abbraccia, e un’altra sarebbe non pensare che altre mani sinistre e altre mani destre ti hanno abbracciato, senza neppure voler sapere se mai il tuo capo abbia desiderato un semplice sostegno. Adesso è Gesù che guarda la famiglia, sfidandola ad accettare la sua parola, Non sapevo di avere questi soldi, indubbiamente la verità, ma una verità nel contempo intera e incompleta, e insieme invitandola in silenzio a porgli l’irrefutabile domanda, Se non sapevi di averlo, come ne spieghi il possesso, una domanda alla quale non può certo rispondere, Ce l’ha messo una prostituta, con cui sono stato in questi ultimi otto giorni, che lo ha guadagnato con gli uomini con cui è stata prima. Sopra la tunica sudicia e sfilacciata dell’uomo che è morto crocifisso quattro anni prima, e le cui ossa hanno conosciuto l’ignominia di una fossa comune, brillano le venti monete, come la terra luminosa che una notte ha folgorato proprio questa casa, ma oggi non verranno gli anziani della sinagoga a dire, Seppellitele, come del resto nessuno domanderà, Da dove vengono, perché la risposta non li costringa a rifiutarle, contro la volontà e il bisogno. Gesù raccoglie le monete con le mani a conca e ripete, Non sapevo di avere questo denaro, come chi offra ancora un’ultima occasione e poi, guardando la madre, Non è denaro del Diavolo. Tremarono terrorizzati i fratelli, ma Maria, senza alterarsi, rispose, Non viene neppure da Dio. Gesù fece rimbalzare le monete, una, due volte, giocherellando, e disse con noncuranza, quasi annunciasse che il giorno dopo sarebbe tornato al suo bancone da falegname, Madre mia, di Dio parleremo domani, e rivolto ai fratelli Giacomo e Giuseppe, Parlerò anche con voi, soggiunse, è bene comunque che non si creda che sono state parole deferenti da primogenito, ormai i due fratelli sono entrati nella maggiorità religiosa e, di diritto, sono ammessi agli argomenti
riservati. Eppure Giacomo capì che, vista la suprema importanza del tema, qualcosa riguardo ai motivi della conversazione promessa andava anticipato subito, non può mica arrivarti un fratello, per quanto primogenito sia, e dire, Dobbiamo fare due chiacchiere su Dio, e quindi, con un sorriso insinuante, soggiunse, Se come ci hai detto hai trascorso quattro anni da pastore tra questi monti e queste valli, non dovrà esserti rimasto molto tempo per frequentare sinagoghe e imparare tanto al punto che, appena tornato a casa, ci dica che vuoi parlarci del Signore. Gesù avvertì l’ostilità al di sotto della lusinga e rispose, Povero Giacomo, quanto poco ne sai tu di Dio se ignori che non abbiamo bisogno di andare a cercarlo quando Lui ha deciso di trovarci, Se ho ben capito, ti stai riferendo a te stesso. Non farmi domande fino a domani, domani ti parlerò di tutto quello di cui dovrò parlarti. Giacomo borbottò alcune parole che non si udirono, ma che dovevano essere state un acido commento su quelli che presumono di sapere tutto. Con aria stanca, Maria disse a Gesù, Domani ci dirai, o dopodomani, o quando vorrai, ma adesso di’, a me e ai tuoi fratelli, che cosa intendi farne di quel denaro, ci troviamo in un momento di grande bisogno, Non vuoi sapere come l’ho avuto, Hai detto che non sapevi di averlo, Ed è vero, ma ci ho pensato e adesso conosco il modo in cui l’ho avuto, Se non si trova malamente nelle tue mani, così non starà neppure in quelle della tua famiglia, È tutto quanto hai da dire su questo denaro, Sì, Allora lo utilizzeremo, com’è giusto, per la gestione della casa. Si udì un generale mormorio di approvazione, persino Giacomo fece un cenno di amichevole congratulazione, e Maria disse, Se non ti dispiace, potremmo conservarne una parte per la dote di tua sorella, Non mi avevate ancora detto che Lisia è già prossima al matrimonio, Sì, sarà in primavera, Dimmi di quanto hai bisogno, Non so quanto valgano quelle monete. Gesù sorrise e disse, Non lo so neanch’io quanto valgano, conosco soltanto il valore che hanno. Scoppiò in una risata acuta e stonata, come se avesse trovato divertenti le proprie parole, e tutta la famiglia lo guardò, confusa. Solo Lisia aveva abbassato gli occhi, ha quindici anni e il pudore immacolato, tutte le misteriose intuizioni dell’età, e, fra i presenti, è la più turbata da quel denaro che nessuno vuole sapere a chi sia appartenuto, da dove sia venuto e come sia stato guadagnato. Gesù consegnò una moneta alla madre e disse, Domani la cambierai, così ne conosceremo il valore, Mi chiederanno certo come sia entrata tanta ricchezza nella nostra casa, giacché chi può mostrare una simile moneta dovrà averne in serbo altre, Rispondi solo che tuo figlio Gesù è tornato dal viaggio e che non c’è ricchezza più grande del ritorno del figliol prodigo. Quella notte Gesù sognò il padre. Era andato a dormire nel cortile, sotto la tettoia, perché vedendo avvicinarsi l’ora di coricarsi sentì che non avrebbe sopportato la promiscuità della casa, quelle dieci persone sparpagliate in ogni angolo alla ricerca di un impossibile raccoglimento, non era come quando non si notava una grande
differenza fra questa scena e un gregge di agnellini, adesso ci sono gambe, braccia, contatti e incompatibilità dappertutto. Prima di addormentarsi, Gesù pensò a Maria di Magdala e a tutte le cose fatte insieme, e se è vero che quei pensieri lo avevano turbato al punto di alzarsi per ben due volte dal pagliericcio per fare un giro nel cortile e rinfrescarsi il sangue, è altrettanto veritiero che, entrato finalmente nel sonno, finì per dormire difilato e tranquillo, da bimbo innocente, come un corpo che scivolasse nel fiume, abbandonato alla lenta corrente, vedendosi passare sopra il capo i rami e le nuvole, con un uccello senza voce che appariva e scompariva. Il sogno di Gesù cominciò quando credette di aver sentito una leggera scossa, come se il suo corpo, galleggiando, avesse sfiorato un altro corpo. Pensò che si trattasse di Maria di Magdala e sorrise, sorridendo volse il capo verso di lei, ma chi veniva trascinato in quell’acqua, sotto lo stesso cielo e gli stessi rami, sotto gli svolazzamenti dell’uccello silenzioso, era suo padre. L’antico urlo di terrore prese a formarglisi in gola, ma si bloccò subito, non era il solito sogno, lui non si trovava, bambino, in una piazza di Betlemme con altri bimbi in attesa della morte, non si udivano passi e nitriti di cavalli né il tintinnio e lo stridore delle armi, soltanto il serico scorrere dell’acqua, i due corpi simili a una zattera, il padre e il figlio, trasportati nello stesso fiume. In quell’istante, la paura scomparve dall’animo di Gesù e, al suo posto, irreprimibile, come uno slancio di commozione, esplose un sentimento di esultanza, Padre mio, disse lui, sognando, Padre mio, ripeté, ormai sveglio, ma adesso stava piangendo perché si era accorto di essere solo. Voleva riprendere il sogno, ripeterlo fin dal primo istante per riprovare, ormai aspettandola, la sorpresa di quella scossa, rivedere il padre e abbandonarsi insieme a lui nella corrente, fino alla fine delle acque e dei tempi. Non gli è riuscito quella notte, ma il vecchio sogno non tornerà, d’ora in poi invece che paura proverà esultanza, invece che solitudine avrà compagnia, Invece che la morte rinviata la vita promessa, adesso ce lo spieghino, se possono, i saggi della Scrittura, che cos’è quel sogno fatto da Gesù, che cosa significano il fiume e la corrente, e i rami sospesi e le nuvole fluttuanti, e l’uccello silenzioso, e perché grazie a tutto ciò, riunito e ordinato, padre e figlio abbiano avuto la possibilità di rincontrarsi, anche se per la colpa dell’uno non c’è perdono e per il dolore dell’altro non esiste rimedio. Il giorno dopo, Gesù voleva aiutare Giacomo nei lavori di falegnameria, ma fu subito chiaro che i suoi buoni propositi non sarebbero bastati per supplire alla mancanza di scienza per cui, fino agli ultimi tempi del suo apprendistato, con il padre in vita, non era mai arrivato a meritarsi la sufficienza. Per le richieste della clientela, Giacomo era diventato un falegname alquanto discreto e persino Giuseppe, benché avesse appena quattordici anni, di queste arti del legno ne conosceva già abbastanza per dare lezioni al fratello maggiore, ammesso che un simile attentato alle precedenze dell’età fosse consentito dalla rigida gerarchia famigliare. Giacomo rideva
delle carenze artigiane di Gesù e gli diceva, Chi ti ha reso pastore, ti ha perduto, delle parole semplici, di simpatica ironia, che non si poteva immaginare che celassero un pensiero segreto o suggerissero un secondo senso, ma che spinsero Gesù ad allontanarsi bruscamente dal bancone e Maria a dire al suo secondogenito, Non parlare di perdizione, non richiamare il Diavolo e il male sulla nostra casa. E Giacomo, stupefatto, Ma io non ho richiamato alcunché, madre mia, ho solo detto, Sappiamo ciò che hai detto, tagliò corto Gesù, nostra madre e io sappiamo ciò che hai detto, chi ha collegato nella mente pastore e perdizione è stata lei, non tu, e le ragioni tu non le conosci, ma lei sì, Io ti ho avvertito, disse Maria impetuosamente, Mi hai avvertito quando il male era fatto, se poi è stato un male, perché mi osservo e non lo trovo, rispose Gesù, Non c’è peggior cieco di colui che non vuol vedere, disse Maria. Queste parole irritarono molto Gesù, che rispose con tono di biasimo, Taci, donna, se gli occhi di tuo figlio hanno visto il male, lo hanno veduto dopo di te, ma proprio questi occhi, che a te sembrano ciechi, hanno guardato anche ciò che tu non hai mai visto e certamente non vedrai mai. L’autorità da figlio primogenito e la durezza del tono, oltre che le enigmatiche parole finali, fecero cedere Maria, ma nella sua risposta era ancora presente un ultimo avvertimento, Perdonami, non era mia intenzione offenderti, che il Signore voglia serbarti sempre la luce degli occhi e quella dell’anima, disse. Giacomo guardava la madre e poi il fratello, intuiva che doveva esserci un conflitto, ma non immaginava quali antiche cause potessero spiegarlo, giacché non sembrava che ci fosse stato abbastanza tempo per nuove cause. Gesù si avviò verso casa, ma sulla soglia si voltò e disse alla madre, Ordina ai tuoi figli di uscire e di divertirsi fuori, ho bisogno di parlarti da sola, con Giacomo e Giuseppe. I fratelli uscirono e la casa, un minuto prima affollata di gente, fu all’improvviso vuota, appena quattro persone sedute per terra, Maria fra Giacomo e Giuseppe, e Gesù di fronte. Vi fu un lungo silenzio, come se tutti, di comune accordo, stessero dando tempo agli indesiderati o ai non meritevoli di allontanarsi fin dove neppure l’eco di un grido potesse arrivare, e finalmente Gesù disse, buttando là le parole, Ho visto Dio. Il primo sentimento che si poté distinguere sui visi della madre e dei fratelli fu di timore reverenziale, il secondo di cauta incredulità e poi, fra l’uno e l’altro, passò qualcosa di simile a un’espressione di malevolo sospetto in Giacomo, un accenno di stupefatta eccitazione in Giuseppe, una punta di amarezza rassegnata in Maria. Nessuno disse niente e Gesù ripeté, Ho visto Dio. Se un improvviso istante di silenzio è, a detta popolare, conseguenza del passaggio di un angelo, qui non smettevano più di passare, Gesù aveva detto tutto, i suoi parenti non sapevano che cosa replicare, poco ci manca che si alzino e ciascuno riprenda la propria vita, domandandosi se per caso non abbia fatto un sogno simile, così difficile da credere. Se glie ne diamo il tempo, però, il silenzio possiede la virtù, che apparentemente lo nega, di costringere a
parlare. Perciò, quando non si riuscì più a sopportare la tensione di quell’attesa, Giacomo fece una domanda, la più innocua di tutte, pura e gratuita retorica, Ne sei sicuro. Gesù non rispose, lo guardò appena, come probabilmente Dio aveva guardato lui dall’interno della nuvola, e per la terza volta disse, Ho visto Dio. Maria non rivolse alcuna domanda, disse soltanto, Sarà stata una tua illusione, Madre, le illusioni esistono, ma non parlano, e Dio mi ha parlato, rispose Gesù. Giacomo aveva riacquistato la sua presenza di spirito, gli sembrava una storia da matti, un fratello che parlava con Dio, che sciocchezza, Allora chissà che non sia stato il Signore a metterti quel denaro nella bisaccia, e sorrideva ironicamente mentre lo diceva. Gesù arrossì, ma rispose con durezza, Dal Signore ci viene tutto, sempre Egli trova e apre le vie per arrivare fino a noi, e quel denaro, che in verità non proviene da Lui, è giunto attraverso di Lui, E che cosa ti ha detto il Signore, dov’eri quando lo hai visto, dormivi o vegliavi, Ero nel deserto, cercavo una pecora e Lui mi ha chiamato, Che cosa ti ha detto, se ti è consentito ripeterlo, Che un giorno mi chiederà la vita, Tutte le vite appartengono al Signore, Glie l’ho detto, E Lui, Che in cambio della vita che dovrò dargli, avrò potere e gloria, Avrai potere e gloria dopo la morte, domandò Maria, che credeva di aver sentito male, Sì, madre, Che gloria, che potere potranno essere, dati a chi è morto, Non lo so, Stavi sognando, Ero sveglio e cercavo la mia pecora nel deserto, E quand’è che il Signore ti chiederà la vita, Non lo so, ma mi ha detto che lo incontrerò di nuovo quando sarò pronto. Giacomo guardò il fratello con espressione inquieta, poi palesò un suo dubbio, Il sole del deserto ti ha dato alla testa, ecco di che si tratta, e Maria, inaspettatamente, E la pecora, che ne è stato della pecora, Il Signore mi ha ordinato di sacrificargliela come suggello dell’alleanza. Queste parole indignarono Giacomo, che protestò, Tu offendi il Signore, il Signore ha stretto un’alleanza con il Suo popolo, adesso non la farebbe con un semplice uomo come te, figlio di un falegname, pastore e chissà che altro. Maria, dall’espressione del viso, sembrava seguire con grande attenzione il filo di un pensiero, come se temesse di vederselo spezzare davanti agli occhi, ma alla fine trovò la domanda che doveva porre, Che pecora era, L’agnello che avevo con me quando ci siamo incontrati a Gerusalemme, presso la porta di Ramalà, insomma, quello che avevo negato al Signore, ma Lui me l’ha strappato dalle mani, E Dio, com’era Dio quando lo hai visto, Una nuvola, Spessa o evanescente, domandò Giacomo, Una colonna di fumo, Tu sei matto, fratello, Se sono pazzo, il Signore mi ha fatto impazzire, Sei in potere del Diavolo, disse Maria, e la sua frase era un grido, Non era il Diavolo che ho incontrato nel deserto, era il Signore, e se è vero che sono in potere del Diavolo, il Signore ha voluto così, Il Diavolo è con te da quando sei nato, Ne sei sicura, Sì, lo sono, hai vissuto con lui e senza Dio per quattro anni, E dopo quattro anni passati con il Diavolo, mi sono ritrovato con Dio, Stai dicendo soltanto orrori e falsità, Io sono il
figlio che tu hai messo al mondo, credimi o ripudiami, Non ti credo, E tu, Giacomo, Non ti credo, E tu, Giuseppe, che porti il nome di nostro padre, Io ti credo, ma non reputo vero quello che dici. Gesù si alzò, li guardò dall’alto e disse, Quando in me si compirà la promessa che il Signore ha fatto, sarete costretti a credere a ciò che allora si dirà di me. Andò a prendere la bisaccia e il bastone e s’infilò i sandali. Raggiunto l’uscio, divise il denaro in due parti e disse, Questa è la dote di Lisia, per la sua vita coniugale, e lo dispose per terra, una moneta accanto all’altra, sulla soglia, Il resto ritornerà alle mani da cui proviene, chissà, forse lì si trasformerà anch’esso in dote. Si voltò verso la porta, stava per uscire senza neppure congedarsi quando Maria disse, Ho visto che nella bisaccia non hai neppure una scodella per mangiare, Ce l’avevo, ma si è rotta, Là ce ne sono quattro, scegline una e prendila. Gesù appariva esitante, voleva andarsene a mani vuote, ma si avvicinò al forno dove, l’una sull’altra, c’erano quattro scodelle. Scegline una, ripeté Maria. Gesù le guardò, ne scelse una, Prendo questa, che è la più vecchia, Hai scelto quella che meglio ti si adatta, disse Maria, Perché, È del colore della terra nera, non si rompe né si consuma. Gesù ripose la scodella nella bisaccia, picchiò con il bastone a terra, Perseverate nel dire che non mi credete, Non ti crediamo, disse la madre, e adesso meno di prima perché hai scelto il segnale del Diavolo, Di che segnale parli, Di quella scodella. In quel momento, dal profondo della memoria, giunsero alle orecchie di Gesù le parole di Pastore, Avrai un’altra scodella, ma quella non si spaccherà finché vivrai. Sembrava che una corda fosse stata stesa e tirata in tutta la sua lunghezza e, alla fin fine, ci ritroviamo con un cerchio chiuso da un nodo appena stretto. Per la seconda volta, Gesù si allontanava dalla sua casa, ma adesso non disse, Comunque tornerò. Ciò che pensava mentre, voltate le spalle a Nazaret, stava scendendo il primo pendio della montagna, era molto più semplice e malinconico, che forse neppure Maria di Magdala gli avrebbe creduto. Quest’uomo, che reca in sé una promessa di Dio, non ha altro luogo dove andare se non la dimora di una prostituta. Non può tornare al gregge, Vattene, gli ha detto Pastore, né a casa sua, Non ti crediamo, gli ha detto la famiglia, e adesso i suoi passi appaiono esitanti, ha paura di camminare, ha paura di arrivare, è come se fosse nuovamente nel deserto, Chi sono io, i monti e le valli non gli rispondono, né il cielo che tutto copre e tutto dovrebbe sapere, se adesso tornasse a casa e ripetesse la domanda, sua madre gli direbbe, Sei mio figlio, ma non ti credo, in tal caso, quindi, è tempo che Gesù si sieda sopra il sasso che lo aspetta in questo luogo da che mondo è mondo, e lì, seduto, pianga lacrime di abbandono e di solitudine, chissà, forse il Signore deciderà di apparirgli di nuovo, sia pure sotto l’aspetto di fumo e di nuvola, basta che gli dica, Uomo, non è poi così grave, lacrime, singhiozzi, che significa, abbiamo tutti i nostri bocconi amari, ma c’è un punto importante di cui non abbiamo
mai parlato, te lo dico adesso, nella vita, capisci, tutto è relativo, una cosa brutta può diventare addirittura sopportabile se la paragoniamo a qualcosa di peggio, quindi asciugati quelle lacrime e comportati da uomo, hai già fatto pace con tuo padre, che cos’altro vuoi, quanto alla fissa di tua madre, me ne occuperò io al momento opportuno, ciò che non mi è piaciuto granché è la storia con Maria di Magdala, una puttana, ma comunque hai l’età giusta, approfittane, una cosa non impedisce l’altra, c’è un tempo per mangiare e uno per digiunare, un tempo per peccare e uno per aver paura, un tempo per vivere e uno per morire. Gesù si asciugò le lacrime col dorso della mano, si soffiò il naso, e soltanto Dio sa con che cosa, non valeva davvero la pena restare lì tutto il giorno, il deserto è tale e quale si vede, ci circonda, ci accerchia, in qualche modo ci protegge, ma quanto a dare, non dà alcunché, ci guarda soltanto, e se il sole si è coperto all’improvviso e perciò diciamo, Il cielo accompagna il mio dolore, siamo degli stupidi, perché in questo esso è di un’imparzialità perfetta, non gioisce per le nostre letizie né s’intristisce per le nostre pene. Arriva gente da questa parte, diretta verso Nazaret, e Gesù non vuole suscitare risate, un uomo fatto e con la barba che gli incornicia il viso che sta piangendo come un bambino che vuole essere preso in braccio. Si incrociano sulla strada rari viandanti, chi sale, chi scende, si salutano con la nota esuberanza, ma solo dopo essersi accertati della bontà delle intenzioni, perché da queste parti, quando si parla di banditi, può trattarsi sia degli uni che degli altri. Ce ne sono della specie ladra e brigantesca, come quei malvagi che hanno derubato anche Gesù cinque anni or sono, mentre il poverino andava a Gerusalemme in cerca di sollievo per le sue pene, e ce ne sono di quella degna specie guerrigliera che, sia pur non facendo certo della strada il proprio transito abituale, a volte vi fa qualche puntata, sotto travestimento, per spiare i trasferimenti dei contingenti militari romani, pensando alla prossima imboscata, oppure allo scoperto, per lasciare senza un grammo d’oro e d’argento, o senza il sia pur minimo pezzo di valore, i riccastri collaborazionisti che, in genere, neppure le nutrite scorte che si portano dietro riescono a salvaguardare dall’oltraggio. Gesù non avrebbe i suoi diciott’anni se qualche fantasia di avventura bellica non gli passasse per la mente di fronte a queste solenni montagne nei cui burroni, grotte e anfratti si nascondono i continuatori delle grandi lotte di Giuda il Galileo e dei suoi compagni, e quindi si è messo a fantasticare su quale decisione prenderebbe se gli si parasse sulla via un drappello di guerriglieri a sfidarlo perché si unisse a loro, scambiando le amenità della pace, sia pure indigente, con la gloria delle battaglie e il potere del vincitore, perché è scritto che un giorno la volontà del Signore farà nascere un Messia, un emissario, affinché una volta per tutte il Suo popolo sia libero dalle oppressioni del momento e rinvigorito per i combattimenti del futuro. Una brezza di speranza folle e di orgoglio irresistibile spira, come un segno dello Spirito, sulla fronte di Gesù, e il figlio del
falegname si vede, giusto il tempo di una rapida vertigine, capitano, generale e comandante supremo, spada in resta, a spaventare, con la sola apparizione, le legioni romane, lanciate all’impazzata come branchi di porci in preda a tutti i demoni, senatus populusque romanus, e allora. Poveri noi, perché un istante dopo Gesù si è rammentato che il potere e la gloria gli sono stati promessi, sì, ma dopo la sua morte, ragion per cui è meglio approfittare della vita, e se dovesse andare in guerra, porrebbe una condizione, e cioè che, in caso di tregua, potesse allontanarsi dalle file per trascorrere alcuni giorni con Maria di Magdala, a meno che negli eserciti dei patrioti non siano ammesse vivandiere per un soldato solo, perché per tanti sarebbe prostituzione, e Maria di Magdala ha già detto di aver chiuso. Speriamo di sì, perché a Gesù sono venute nuove forze al ricordo della donna che gli ha curato una piaga dolorosa, sostituendola con l’insopportabile ferita del desiderio, ed ecco la domanda, come potrà affrontare quel portone chiuso e segnato senza la certezza assoluta di trovare al di là soltanto ciò che immagina di avervi lasciato, qualcuno che nutre una sola attesa, quella del suo corpo e della sua anima, ché Maria di Magdala non accetta una cosa senza l’altra. Sul far della sera, in lontananza si vedono già le case di Magdala, raccolte come un gregge, ma quella di Maria è come una pecora che si sia allontanata, da qui non è possibile distinguerla fra i grandi massi che fiancheggiano la strada, curva dopo curva. Per alcuni istanti, a Gesù è venuta in mente la pecora, quella che ha dovuto ammazzare per suggellare con il sangue l’alleanza che il Signore gli ha imposto, e il suo spirito, adesso lontano da battaglie e trionfi, si è commosso all’idea che stava cercandola di nuovo, la sua pecorella, non per ucciderla, non per ricondurla al gregge, ma per salire insieme là dove si trovano i pascoli vergini, ché a ben cercare ancora ce ne sono nel vasto e navigato mondo, e gli inesplorati valichi che a cercar meglio possiamo scovare nelle pecore che siamo. Gesù si è fermato davanti al portone, con mano discreta ha controllato che sia chiuso dall’interno. Il segnale è ancora appeso, Maria di Magdala non riceve. A Gesù basterebbe chiamare, dire, Sono io, e dall’interno si udirebbe il canto gioioso, Una voce, quella del mio diletto, eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline, eccolo dietro il nostro muro, dietro questa porta, sì, ma Gesù preferirà bussare con il pugno, una, due volte, senza parlare, e attendere che vadano ad aprirgli, Chi siete e che cosa volete. hanno chiesto dall’interno, ed ecco che Gesù ha avuto una pessima idea, contraffare la voce e comportarsi come un cliente con denaro e fretta, per esempio dire, Apri, fiorellino, e non ti pentirai né del compenso né del servizio, ma è pur certo che la frase sarebbe suonata falsa, comunque le parole devono essere state quelle vere, Sono Gesù di Nazaret. Maria di Magdala ha tardato qualche momento ad aprire, sospettando di quella voce che non si addiceva all’annuncio, ma anche perché le sembrava impossibile che fosse già di ritorno, dopo una notte appena, dopo un
giorno, l’uomo che le aveva promesso, Uno di questi giorni tornerò a trovarti, Nazaret non è lontano da Magdala, quante volte si dicono cose del genere, solo per compiacere chi ci ascolta, uno di questi giorni potrebbe anche voler dire fra tre mesi, ma mai l’indomani. Maria di Magdala apre la porta, si butta fra le braccia di Gesù, non vuole neppure credere a tanta felicità, ed è talmente commossa da immaginare, assurdamente, che sia tornato perché gli si è riaperta la piaga al piede, ed è con questo pensiero che lo accompagna dentro, lo fa sedere e gli avvicina un lume, Il tuo piede, mostrami il piede, ma Gesù le dice, Il mio piede è guarito, non lo vedi. Maria di Magdala potrebbe avergli risposto, No, non lo vedo, perché quella era la verità suprema dei suoi occhi rigati di lacrime. Dovette sfiorare con le labbra il dorso di quel piede coperto di polvere, slegare pian piano i legacci che fissavano il sandalo alla caviglia, accarezzare con la punta delle dita la sottile pelle ricresciuta, per accertarsi delle auspicate virtù lenitive dell’unguento e, nel più intimo dei suoi pensieri, per accettare che il suo amore potesse aver avuto qualche merito nella guarigione. Mentre cenavano, Maria di Magdala non fece domande, volle solo sapere, e questo, inutile dirlo, non significava fare domande, se il viaggio fosse andato bene, se avesse fatto brutti incontri lungo la strada, banalità, cose del genere. Terminato il pasto, tacque, aprì e mantenne uno spazio di silenzio, perché non era il suo turno di parlare. Gesù la guardava fissamente, come se dalla cima di uno scoglio stesse misurando le proprie forze con il mare, non per timore che al di sotto della liscia superficie si nascondessero animali divoratori o scogliere graffianti, ma come chi, semplicemente, saggi il proprio coraggio di saltare. Conosce questa donna da circa una settimana, tempo e vita sufficienti per sapere che se le si accostasse troverebbe le braccia aperte e un corpo che gli si offre, ma lo intimorisce rivelarle, perché senza dubbio è arrivato il momento, ciò che solo poche ore prima è stato oggetto di rifiuto da parte di coloro che, proprio perché della sua medesima carne, avrebbero dovuto essere anche del suo stesso spirito. Gesù esita, cerca la strada per la quale condurre le parole, e ciò che gli sovviene non è la lunga spiegazione necessaria, ma una frase per guadagnare tempo, a meno che non sia più esatto dire per perderlo, Non ti sei stupita che sia tornato così presto, Ho cominciato ad aspettarti quando sei partito, non ho contato il tempo fra la tua partenza e il tuo ritorno, come del resto non avrei fatto se tu avessi tardato per dieci anni. Gesù sorrise, fece un movimento con le spalle, ormai avrebbe dovuto saperlo, con questa donna non servivano né finzioni né parole evasive. Erano seduti per terra, l’uno di fronte all’altra, con un lume in mezzo e gli avanzi del cibo. Gesù prese un pezzo di pane, lo spartì e, dandone una parte a Maria, disse, Che questo sia il pane della verità, mangiamolo per credere e non dubitare, qualunque cosa diremo e sentiremo adesso, Così sia, rispose Maria di Magdala. Gesù mangiò il proprio pezzo di pane, attese che anche lei finisse il suo e,
per la quarta volta, pronunciò le parole, Ho visto Dio. Maria di Magdala non mostrò turbamento, solo le mani che teneva incrociate in grembo si mossero appena, e domandò, Era questo che dovevi dirmi se ci fossimo rincontrati, Sì, oltre a quanto mi è successo da quando me ne sono andato da casa, quattro anni fa, perché mi sembra che siano cose tutte legate l’una all’altra, anche se non so spiegarne il motivo né lo scopo, Sono come la tua bocca e le tue orecchie, rispose Maria di Magdala, ciò che racconterai lo dirai a te stesso, io sono soltanto colei che sta in te. Ora Gesù finalmente può cominciare a parlare, perché entrambi hanno mangiato il pane della verità, e nella vita non sono davvero molti i momenti come questo. La notte si fece alba, la luce della lampada due volte morì e altrettante risuscitò, tutta la storia di Gesù che già conosciamo fu narrata, ivi compresi, addirittura, alcuni particolari che allora non avevamo ritenuto che valessero granché, e tanti e tanti pensieri che ci eravamo lasciati sfuggire, non per il motivo che Gesù ce li nascondesse, ma semplicemente perché non potevamo, noi evangelisti, essere dappertutto. Quando, con una voce che d’improvviso si era fatta stanca, Gesù stava per cominciare a raccontare quanto era accaduto dopo il suo ritorno a casa, il dispiacere lo rese in qualche modo titubante, come l’aveva bloccato quell’oscuro presentimento prima che bussasse al portone, e Maria di Magdala, rompendo per la prima volta il silenzio, domandò, sia pur con il tono di chi conosce in anticipo la risposta, Tua madre non ti ha creduto, Proprio così, rispose Gesù, E perciò sei tornato in questa casa, Sì, Magari potessi mentirti e dirti che non ti credo neppure io, Perché, Perché rifaresti ciò che hai fatto, te ne andresti da qui come se te ne andassi da casa tua e io, non credendoti, non dovrei seguirti, Questo non risponde alla mia domanda, Hai ragione, non ti risponde, Allora, Se io non credessi in te, non dovrei vivere al tuo fianco le cose terribili che ti aspettano, E come puoi sapere, tu, che mi attendono cose terribili, Io non so niente di Dio, se non che devono essere davvero spaventosi sia le sue preferenze sia i suoi disprezzi, Dove sei andata a prendere un’idea così strana, Dovresti essere donna per sapere che cosa significa vivere con il disprezzo di Dio, e adesso dovrai essere molto più che un uomo per vivere e morire come Suo eletto, Vuoi spaventarmi, Ti racconterò un sogno che ho fatto, una notte mi è apparso un bambino, è comparso all’improvviso, dal niente, e ha affermato che Dio è terribile, lo ha detto ed è scomparso, non so chi fosse quella creatura, da dove venisse e a chi appartenesse, Sogni, Nessuno più di te può pronunciare questa parola con quel tono, E, dopo, che cosa è accaduto, Poi ho cominciato a fare la prostituta, Ormai hai lasciato quella vita, Ma il sogno non si è smentito, neppure dopo che ti ho conosciuto, Ripetimelo, quali erano le parole, Dio è terribile. Gesù vide il deserto, la pecora morta, il sangue sulla sabbia, udì la colonna di fumo trarre un sospiro di soddisfazione e disse, Forse, forse, ma una cosa è udirlo in sogno, un’altra sarà provarlo nella vita,
Volesse Iddio che tu non arrivassi a saperlo, Ciascuno deve vivere il proprio destino, E del tuo hai già avuto il primo solenne avvertimento. Sopra Magdala e il mondo gira lentamente la cupola di un cielo trapunto di stelle. In qualche luogo dell’infinito, o forse infinitamente riempiendolo, Dio fa avanzare e indietreggiare le pedine di altri giochi, è troppo presto per preoccuparsi di questa, adesso deve solo lasciare che gli eventi seguano naturalmente il loro corso, riservandosi di dare, quando sia necessario, un tocco appropriato con la punta del mignolo, affinché un gesto o un pensiero fuori rotta non infrangano l’implacabile armonia dei destini. Ecco perché non bada a interessarsi al resto della conversazione che Gesù e Maria di Magdala proseguono, E adesso, che cosa pensi di fare, domandò lei, Hai detto che verresti con me ovunque io andassi, Ho detto che starei con te ovunque tu fossi, Qual è la differenza, Nessuna, ma puoi restare qui per il tempo che vorrai, se non ti importa di vivere con me nella casa dov’ero prostituta. Gesù pensò, rifletté, infine disse, Cercherò un posto dove lavorare a Magdala e vivremo insieme come marito e moglie, Prometti troppo, è già tanto che tu mi consenta di stare accanto a te. Lavoro, Gesù non ne trovò, ma ottenne quello che avrebbe dovuto aspettarsi, derisioni, dileggi e insulti, realmente ce n’era ben donde, un uomo, poco più che adolescente, che vive con la Maria di Magdala, quella là, Fate passare qualche giorno e lo vedremo addirittura seduto davanti al portone di casa, aspettando che esca il cliente. Due settimane venne sopportata quella situazione, ma alla fine Gesù disse a Maria, Me ne vado via da qui, Dove, Verso il mare. Partirono alle prime luci dell’alba e gli abitanti di Magdala non fecero in tempo a profittare di qualcosa nella casa che bruciava. 19. Trascorsi alcuni mesi, in una piovosa e fredda sera d’inverno un angelo entrò nella casa di Maria di Nazaret, e fu come se non fosse entrato nessuno, perché la famiglia continuò nelle proprie occupazioni, solo Maria si accorse dell’arrivo dell’ospite, e d’altronde non avrebbe certo potuto far finta di niente visto che l’angelo le rivolse direttamente la parola, in questi termini, Sappi, o Maria, che il Signore ha mischiato il Suo seme con quello di Giuseppe nella mattina in cui concepisti per la prima volta e che, di conseguenza, è dal Suo seme, cioè da quello del Signore, e non dal germine di tuo marito, benché legittimo, che è stato generato tuo figlio Gesù. Maria rimase sbigottita dalla notizia, la cui sostanza, per fortuna, non andò perduta nella confusa formulazione dell’angelo, e gli domandò, Allora Gesù è figlio mio e del Signore, Donna, quale mancanza di educazione, devi prestare attenzione alle gerarchie, alle priorità, del Signore e mio dovresti dire, Del Signore e tuo, No, del Signore e tuo, Non mi confondere le idee, rispondi a quello che ti ho
chiesto, se Gesù è figlio, Be’, figlio, per ciò che significa figlio, è solo del Signore, e tu, all’occorrenza, sei stata solo una madre portatrice, Allora il Signore non mi ha prescelto, Macché, il Signore passava di lì per caso, chiunque stesse guardando lo avrebbe capito dal colore del cielo, ma notò che tu e Giuseppe eravate sani e robusti, e allora, se ancora ti ricordi come si manifestano questi bisogni, gli venne la voglia, e il risultato, nove mesi dopo, fu Gesù. Ma è sicuro, proprio sicuro, che sia stato davvero il seme del Signore a generare il mio primo figlio, Be’, la questione è delicata, adesso pretendi da me, senza togliere né aggiungere niente, una vera e propria indagine sulla paternità, mentre per la verità, in questi connubi misti, per quante analisi, per quanti test, per quanti conteggi di globuli si facciano, di certezze assolute non se ne possono avere mai, Povera me che, ascoltandoti, ho persino immaginato che quel mattino, il Signore mi avesse scelto come Sua sposa, e in fondo è stato soltanto un caso, potrebbe essere così, ma potrebbe essere anche il contrario, ti dico che sarebbe stato addirittura meglio che tu non fossi sceso fino a Nazaret, lasciandomi nell’ignoranza, d’altronde, se vuoi che ti parli con franchezza, di un figlio del Signore, sia pur avendo me come madre, ce ne saremmo accorti subito al momento della nascita e poi, crescendo, del Signore avrebbe avuto il portamento, l’aspetto e la favella, insomma, per quanto si dica che l’amore materno è cieco, mio figlio Gesù non risponde a questi requisiti, Maria, il tuo primo grande errore è quello di credere che io sia venuto fin qua solo per parlarti di quel vecchio episodio della vita sessuale del Signore, il tuo secondo invece è quello di pensare che la bellezza e la facondia degli uomini siano a immagine e somiglianza del Signore, quando il Suo sistema, te lo dico io che sono di casa, è quello di essere sempre il contrario di come gli uomini lo immaginano, e inoltre, in confidenza, io credo che il Signore non saprebbe neppure vivere in altra maniera, la parola che la Sua bocca pronuncia il più delle volte non è il sì, ma il no, Ho sempre sentito dire che il Diavolo è lo spirito che nega, No, figlia mia, il Diavolo è lo spirito che si nega, se in cuor tuo non ti rendi conto della differenza, non saprai mai a chi appartieni, Appartengo al Signore, Macché, dici di appartenere a Lui e sei caduta nel terzo e più grande degli errori, cioè in quello di non avere creduto a tuo figlio, A Gesù, Sì, a Gesù, nessuno degli altri ha visto Dio, o mai lo vedrà, Dimmi, angelo del Signore, è proprio vero che mio figlio Gesù ha visto Dio, Sì, e come un bimbo che abbia trovato il suo primo nido, è corso a mostrartelo, e tu, scettica, tu, sospettosa, hai detto che non poteva essere vero, che se un nido c’era, era vuoto, che se uova conteneva, erano andate a male, e che se non ce n’erano, le aveva mangiate il serpente, Perdonami, angelo mio, di avere dubitato, Adesso non so se stai parlando con me o con tuo figlio, Con lui, con te, con tutt’e due, che cosa posso fare per riparare al male fatto, Che cosa ti consiglierebbe il tuo cuore di madre, Di andare a cercarlo, di dirgli che gli credo, di chiedergli di perdonarmi e di tornare a casa, dove il
Signore verrà a cercarlo, giunta l’ora, Francamente, non so se sei in tempo, non esiste persona più sensibile di un adolescente, rischi di sentirti dire parole malvagie e di prenderti la porta in faccia, Se accadrà, la colpa sarà di quel demonio che l’ha stregato e perduto, non so neppure come il Signore, da padre, gli abbia concesso tanta libertà, tanta briglia sciolta, Di quale demonio parli, Del pastore con cui mio figlio ha trascorso quattro anni, sorvegliando un gregge che nessuno sa a che cosa serva, Ah, il pastore, Lo conosci, Frequentavamo la stessa scuola, E il Signore permette che un tale demonio resista e prosperi, Lo richiede il buon ordine del creato, ma l’ultima parola sarà sempre quella del Signore, solo che noi non sappiamo quando la pronuncerà, ma vedrai che un bel mattino ci sveglieremo e scopriremo che nel mondo non esiste più il male, e adesso devo andarmene, se hai altre domande da pormi, approfittane, Soltanto una, Ottimo, Perché il Signore vuole mio figlio, Tuo figlio per modo di dire, Agli occhi del mondo Gesù è mio figlio, Perché lo vuole, tu mi chiedi, guarda che è proprio una buona domanda, sissignore, la cosa peggiore è che io non so risponderti, allo stato attuale la faccenda riguarda loro due, e non credo che Gesù sappia di più di quanto ti avrà detto, Mi ha detto che avrà potere e gloria dopo morto, Anche di questa parte sono al corrente, Ma che cosa dovrà fare in vita per meritarsi tutte le cose meravigliose che il Signore gli ha promesso, Via, via, tu credi, donna ignorante, che quella parola esista agli occhi del Signore, che possano avere valore e significato quelli che presuntuosamente chiamate meriti, non so davvero che cosa vi crediate, mentre non siete altro che miseri schiavi della volontà assoluta di Dio, Non dirò altro, sono veramente la schiava del Signore, si compia in me la Sua parola, dimmi soltanto, dopo tutti questi mesi dove potrò trovare mio figlio, Cercalo, ché è tuo dovere, anche lui è andato in cerca della pecora smarrita, Per ucciderla, Sta’ tranquilla, che non ti ammazzerà, tu invece lo ucciderai con la tua assenza nell’ora della sua morte, Come sai che non morirò prima io, Sono abbastanza addentro ai centri decisionali per saperlo, e adesso addio, hai fatto le domande che volevi, forse non ne hai poste alcune che dovevi, ma questo non mi riguarda più, Spiegamelo, Spiegatelo da sola. Con queste ultime parole, l’angelo scomparve e Maria aprì gli occhi. I figli dormivano tutti, i maschi divisi in due gruppi di tre, Giacomo, Giuseppe e Giuda, i più grandi, in un angolo, in un altro angolo i più giovani, Simone, Giusto e Samuele, e accanto a lei, una per parte, come al solito, Lisia e Lidia, ma gli occhi di Maria, ancora turbati dalle notizie dell’angelo, si spalancarono all’improvviso, esterrefatti, vedendo Lisia discinta, praticamente nuda, la tunica rimboccata fin sui seni, che dormiva profondamente e sospirava sorridendo, mentre un impercettibile velo di sudore le brillava sulla fronte e sul labbro superiore, che sembrava morso di baci. Se non fosse per la certezza che lì c’era stato solo un angelo chiacchierone, i segni mostrati da Lisia avrebbero fatto gridare e proclamare che un incubo demoniaco, di quelli che attentano
maliziosamente alle donne addormentate, aveva fatto i propri comodi col corpo inesperto della fanciulla, mentre la madre si lasciava distrarre dalla conversazione, magari è sempre andata così e noi non lo sapevamo, ché gli angeli si muovono sempre in coppia ovunque vadano, e mentre uno attacca a raccontare fiabe per intrattenere, facendo da spalla, zitto zitto l’altro compie l’actus nefandus, si fa per dire, ché nefando a rigor di termini non è, visto che tutto indica che la volta successiva si scambieranno ruoli e posizioni perché non si perda, né nel sognatore né nel sognato, il benefico significato della dualità della carne e dello spirito. Maria coprì la figlia alla bell’e meglio, tirandole la tunica fino all’altezza di ciò che, se scoperto, è indecoroso e, quando la reputò decente, la svegliò e le domandò a voce bassa, Che cosa stavi sognando. Colta di sorpresa, Lisia non poteva mentire, rispose di aver sognato un angelo, ma che questi non le aveva detto nulla, l’aveva solo guardata, e con un’espressione così tenera e così dolce che non avrebbero potuto essere più belli gli sguardi del paradiso. Non ti ha toccato, domandò Maria, e Lisia rispose, Ma mamma, gli occhi non servono a questo. Incerta se dovesse tranquillizzarsi o preoccuparsi per quanto era successo accanto a lei, Maria, con voce ancora più bassa, disse, Anch’io ho sognato un angelo, E il tuo ha parlato, oppure è rimasto zitto anche lui, domandò Lisia innocentemente, Ha parlato per rivelarmi che tuo fratello Gesù diceva il vero quando ci ha annunciato di avere visto Dio, Ah, mamma, come ci siamo comportati male, allora, non abbiamo creduto alle parole di Gesù, e lui è tanto buono, arrabbiato com’era avrebbe persino potuto riprendersi il denaro della mia dote, e invece non l’ha fatto, Adesso dobbiamo cercare di rimediare, Non sappiamo dove sia, notizie non ne ha date, ma l’angelo, lui sì che avrebbe potuto aiutarci, sanno tutto gli angeli, Invece no, non mi ha aiutato, mi ha detto solo di cercare tuo fratello, che era nostro dovere, Ma mamma, allora se è vero che Gesù è stato con il Signore, d’ora in avanti la nostra vita sarà diversa, Diversa forse, ma peggiore, Perché, Se noi non abbiamo creduto a Gesù né alle sue parole, come speri che possano farlo gli altri, non pretenderai che si vada per le strade e le piazze di Nazaret a predicare, Gesù ha veduto il Signore, Gesù ha veduto il Signore, ci prenderebbero a sassate, Ma il Signore, visto che lo ha scelto, ci difenderebbe, noi siamo la sua famiglia, Non esserne tanto sicura, quando il Signore ha fatto la Sua scelta, noi non c’eravamo, per Dio non esistono genitori né figli, ricordati di Abramo, ricordati di Isacco, Ah, mamma, che dolore, È più prudente tenerci queste cose nel cuore, figlia mia, e parlarne il meno possibile, Allora, che cosa faremo, Domani manderò Giacomo e Giuseppe a cercare Gesù, Ma dove, in Galilea, che è immensa, o in Samaria, ammesso che sia andato là, o in Giudea, o in Idumea, che si trova proprio in capo al mondo, È più probabile che tuo fratello si sia diretto verso il mare, ricordati cosa ci ha detto quando è tornato, che era stato con alcuni pescatori, E non potrebbe piuttosto essere tornato al suo gregge,
Quel periodo è finito, Come lo sai, Dormi, che il mattino è ancora lontano, Può darsi che sogneremo nuovamente i nostri angeli, Può essere. Fu impossibile comprendere se l’angelo di Lisia, sfuggito casualmente alla compagnia del confratello, fosse di nuovo andato a movimentarle il sonno, ma il messaggero della rivelazione, anche se si era dimenticato qualche particolare, non poté tornare perché Maria rimase sempre con gli occhi aperti nella semioscurità della casa, ciò che sapeva le era d’avanzo, ciò che immaginava lo temeva. Sorse il giorno, si arrotolarono le stuoie e Maria, davanti alla famiglia riunita, comunicò che dopo aver lungamente pensato, negli ultimi tempi, al modo in cui si erano comportati con Gesù, A cominciare da me che, essendo la madre, avrei dovuto dimostrarmi più benevola e comprensiva, sono arrivata a una conclusione assai chiara e giusta, che dovremmo andare a cercarlo e chiedergli di tornare a casa, perché gli crediamo e, a Dio piacendo, crederemo quello che ci ha detto, furono queste le parole di Maria, che non si accorse di ripetere quanto aveva detto suo figlio Giuseppe, lì presente, nel drammatico momento del rifiuto, chissà, forse Gesù sarebbe ancora qui, oggi, se quel sussurro discreto, quale in effetti fu, di fatto avesse espresso, anche se allora non lo abbiamo fatto notare, la voce di tutti. Maria non parlò di angeli né di rivelazioni celesti, ma semplicemente del dovere di tutti nei confronti del primogenito. Giacomo non osò contestare i nuovi punti di vista, anche se in cuor suo non si smuoveva dalla convinzione che il fratello fosse fuori di senno o, al massimo, eventualità da tenere sempre in considerazione, che fosse stato oggetto di una ripugnante mistificazione da parte di gente empia. Anticipando già la risposta, domandò, E chi, fra i presenti, andrà a cercare Gesù, Ci andrai tu, che sei il secondogenito, e Giuseppe verrà con te, insieme sarete più al sicuro, Da dove cominceremo a cercare, Da quello che è chiamato il mare di Galilea, sono sicura che lo troverete lì, E quando partiamo, Sono passati mesi da quando Gesù se n’è andato, non dobbiamo perdere neppure un giorno, Sta piovendo, madre mia, e non è il tempo indicato per viaggiare, Figlio, l’occasione può sempre creare una necessità, ma se la necessità è impellente, dovrà essere questa a creare l’occasione. I figli guardarono Maria sorpresi, in realtà non erano abituati a udire dalla bocca della madre sentenze così lapidarie, sono ancora molto giovani per sapere che la frequentazione degli angeli produce questi risultati, e anche di migliori la prova, ma gli altri non lo sospettano neppure, ce la fornisca Lisia in questo momento, giacché non può significare altro quel suo lento, sognante cenno affermativo della testa. Terminò il consiglio di famiglia, Giacomo e Giuseppe andarono a vedere se le meteore dell’aria fossero chete, perché, se proprio dovevano andare alla ricerca di un fratello con un simile tempo, che almeno potessero mettersi in marcia durante una schiarita, e si dà il caso che il cielo sembrava essere lì ad ascoltarli, giacché proprio dalla parte
del cosiddetto mare di Galilea si stava aprendo uno sprazzo di azzurro che sembrava promettere un pomeriggio senza pioggia. Accomiatatisi dentro casa, discretamente, giacché Maria riteneva che i vicini non dovessero saperne più di tanto, finalmente partirono i due fratelli, non imboccando la strada che portava a Magdala, ché non avevano motivo di pensare che Gesù avesse seguito quella direzione, ma prendendone un’altra, quella che direttamente, e con maggior comodità, li avrebbe condotti alla nuova città di Tiberiade. Erano scalzi perché, con le strade trasformate in pantani, in poco tempo dai piedi gli sarebbero caduti a pezzi quei sandali che adesso si trovavano in salvo nelle bisacce, in attesa di un tempo più benigno. Due buone ragioni ebbe Giacomo per scegliere la strada di Tiberiade, la prima delle quali era la sua curiosità di paesano che aveva sentito parlare di palazzi, templi e altre simili grandiose costruzioni, e la seconda che la città, a quanto aveva udito raccontare, si trovava fra le estremità nord e sud della riva di qua, più o meno a metà strada. Siccome avrebbero dovuto guadagnarsi la vita nel periodo della ricerca, Giacomo sperava che fosse facile trovare lavoro nei cantieri della città, malgrado quello che dicevano gli ebrei devoti di Nazaret, e cioè che si trattava di un luogo impuro per via dell’aria malsana e delle acque solforose che si trovavano lì nei pressi. Non riuscirono a raggiungere Tiberiade quello stesso giorno perché, alla fin fine, le promesse del cielo non vennero mantenute, non era ancora trascorsa un’ora dacché avevano intrapreso il cammino quando cominciò a piovere, e furono fortunati a trovare una grotta dove entrarono e si ripararono prima che la pioggia avesse modo di portarli via in un torrente. Dormirono lì e, il mattino del giorno dopo, ormai sospettosi per esperienza, gli ci volle un bel po’ per convincersi che il tempo era davvero migliorato e che potevano arrivare a Tiberiade con gli abiti più o meno asciutti. Il lavoro che trovarono nei cantieri fu di trasportare sassi, ché né il sapere dell’uno né quello dell’altro serviva a qualcosa di più, fortunatamente dopo qualche giorno ritennero di avere già guadagnato abbastanza, non perché il re Erode Antipa fosse un pagatore generoso, ma perché, essendo talmente limitate e così poco pressanti le necessità, potevano vivere senza doverle soddisfare tutte. Lì, a Tiberiade, domandarono se vi fosse stato o passato un certo Gesù di Nazaret, che è nostro fratello, d’aspetto così e così, di modi così e cosà, è per caso in compagnia, questo proprio non lo sappiamo. Gli dissero che in quel cantiere, no, e allora fecero il giro di tutti i cantieri della città, fino ad accertarsi che, lì, Gesù non c’era mai stato, cosa di cui non ci si poteva neppure sorprendere, perché se il fratello aveva deciso di riprendere il suo iniziale mestiere di pescatore, non sarebbe certo rimasto lì, avendo il mare davanti agli occhi, a penare fra duri sassi e durissimi capoccia. Con il denaro guadagnato, anche se poco, il problema da risolvere adesso era se la ricerca lungo la costa, di villaggio in villaggio, di pescatori in pescatori, di barca in barca, dovesse proseguire verso nord o verso sud.
Giacomo finì per scegliere il sud perché la strada gli sembrava più facile, con pochissime insenature, mentre verso nord l’orografia si faceva più accidentata. Il tempo appariva stabile, il freddo sopportabile, la pioggia si era allontanata, e un qualsiasi senso della natura più esperto di quello dei due ragazzi sarebbe stato in grado di avvertire, dall’odore dell’aria e dal palpitare del suolo, i primi timidi indizi di primavera. La ricerca del fratello da parte di fratelli, ordinata per motivi superiori, stava trasformandosi in un’escursione piacevole ed egoistica, una passeggiata in campagna, una vacanza sulla riva di uno specchio d’acqua, ci mancava poco che Giacomo e Giuseppe si dimenticassero di che cosa erano andati a fare da quelle parti quando, all’improvviso, dai primi pescatori che incontrarono ricevettero notizie di Gesù, fornite per giunta nel modo più strano, giacché furono queste le parole degli uomini, Lo abbiamo visto, sì, e lo conosciamo, e visto che voi andate a cercarlo, se lo incontrate, ditegli che lo stiamo aspettando come chi aspetta il pane quotidiano. Si stupirono i due fratelli e non riuscirono a credere che i pescatori stessero parlando di Gesù, oppure si trattava di un altro Gesù conosciuto da loro, Dagli indizi che ci avete dato, risposero i pescatori, è lo stesso Gesù, se venga da Nazaret non lo sappiamo, ché non ce l’ha detto, E per quale motivo dite che lo aspettate come il pane quotidiano, domandò Giacomo, Perché se c’è lui, dentro una barca il pesce si riversa nelle reti come non si è mai visto in alcun tempo, Ma nostro fratello non è granché esperto nell’arte della pesca, allora non è lo stesso Gesù, Ma noi non abbiamo mica affermato che questo Gesù possiede i segreti del pescare, lui non pesca, dice solo, Calate la rete da questo lato, e noi la scendiamo e la rete si riempie, In tal caso, come mai non è con voi, Perché dopo qualche giorno se ne va, dice che deve andare ad aiutare altri pescatori, e in effetti corrisponde al vero, è già stato con noi per tre volte, ognuna delle quali ha detto che sarebbe tornato, E adesso, dov’è, Non lo sappiamo, dopo essere stato qui l’ultima volta si è diretto a sud, ma è anche possibile che sia andato verso nord senza che ce ne accorgessimo, lui compare e scompare a sua volontà. Disse Giacomo a Giuseppe, Allora andiamo verso sud, perlomeno sappiamo che nostro fratello si trova su questa riva. Sembrava facile, ma c’è da considerare che al loro passaggio Gesù poteva anche trovarsi al largo su qualche barca, impegnato in una delle sue miracolose pesche, in genere non diamo importanza a questi particolari, ma il destino non è affatto quello che crediamo, noi pensiamo che tutto sia deciso fin da un principio, mentre la verità è ben diversa, notate che, perché possa compiersi il destino di un incontro di certe persone con altre, come nel caso attuale, bisogna che tutti riescano a radunarsi in uno stesso punto e alla medesima ora, il che non è fatica da poco, sarebbe sufficiente che ci fossimo attardati, per quanto poco, a guardare una nuvola in cielo, ad ascoltare il canto di un uccello, a contare le entrate e le uscite da un formicaio, o, al contrario, che per distrazione non avessimo guardato
né ascoltato né contato e avessimo proseguito, ed ecco che sfumerebbe quello che sembrava così ben avviato, il destino è la cosa più difficile che esista al mondo, fratello Giuseppe, vedrai quando arriverai alla mia età. Così allertati, i due fratelli guardavano con mille occhi, facevano soste lungo la strada in attesa di veder approdare una barca che tardava, e moltissime volte tornarono rapidamente indietro, con lo scopo di cogliere alle spalle un’eventuale comparsa di Gesù in qualche luogo imprevisto. Giunsero così alla fine delle acque. Attraversarono il Giordano e ai primi pescatori che incontrarono chiesero di Gesù. Ne avevano sentito parlare, sissignore, di lui e della sua magia, ma lì non si era visto. Giacomo e Giuseppe tornarono sui loro passi, facendo rotta verso nord, con maggiore attenzione, anch’essi come dei pescatori che stessero tirando una rete a strascico nella speranza di catturare il re dei pesci. Una notte che accadde loro di dormire per strada, fecero turni di sentinella, casomai Gesù approfittasse del chiaro di luna per recarsi da un posto all’altro, alla chetichella. Vagando e domandando, arrivarono all’altezza di Tiberiade, dove non ebbero bisogno di entrare in cerca di lavoro, giacché i soldi non erano ancora finiti, grazie anche all’ospitalità dei pescatori che donavano loro del pesce, il che portò Giuseppe a dire, Fratello Giacomo, hai pensato che questo pesce che stiamo mangiando potrebbe essere stato pescato da nostro fratello, e Giacomo rispose, Non è più saporito per questo, parole malvagie che non ci si aspetterebbe come pegno di un amore fraterno, ma che l’irritazione di chi va in cerca di un ago nel pagliaio giustifica. Incontrarono Gesù a un’ora di cammino, un’ora delle nostre, beninteso, dopo Tiberiade. Il primo a scorgerlo fu Giuseppe, che aveva una vista acutissima in lontananza, È lui, laggiù, esclamò. Infatti procedono in questa direzione due persone, ma una è una donna, e Giacomo dice, Non è lui. Un fratello minore non si impunta mai con uno maggiore, ma Giuseppe, dalla contentezza, non è disposto a rispettare né norme né convenzioni, Ti dico che è lui, Ma c’è una donna, C’è una donna e c’è un uomo, e l’uomo è Gesù. Per un sentiero lungo la riva, in un campo pianeggiante fra due colline le cui falde quasi sfioravano l’acqua, procedevano camminando Gesù e Maria di Magdala. Giacomo si fermò, in attesa, e disse a Giuseppe di stargli vicino. Il ragazzo obbedì, contrariato perché il suo desiderio era di correre dal fratello finalmente ritrovato, di abbracciarlo, di saltargli al collo. Giacomo era turbato dalla creatura che accompagnava Gesù, chi era, non voleva credere che il fratello già conoscesse donna, ma sentiva che quella semplice eventualità lo allontanava infinitamente dal primogenito, come se Gesù, che si gloriava di aver visto Dio, solo per questa ragione, cioè quella, insomma, di conoscere donna, appartenesse definitivamente a un altro mondo. Da una riflessione si passa alla successiva, e spesso ci si arriva senza accorgersi del percorso che le unisce, è come passare da una sponda
all’altra di un fiume su un ponte coperto, procedendo senza vedere la meta ultima, si attraverserebbe un corso d’acqua di cui non conoscevamo l’esistenza, e fu così che Giacomo, senza capire come, si ritrovò a pensare che non era giusto essere rimasto lì immobile, come se fosse lui il primogenito che il fratello doveva andare a riverire. La sua mossa liberò Giuseppe, che corse da Gesù a braccia aperte, fra esclamazioni di gioia, facendo alzare in volo uno stormo di uccelli che, nascosti fra l’erba alta della riva, cercavano nel fango il loro cibo. Giacomo accelerò il passo per impedire che Giuseppe si incaricasse di messaggi che appartenevano solo a lui, poco dopo era di fronte a Gesù e stava dicendo, Rendo grazie al Signore per aver voluto che trovassimo il fratello che cercavamo, e Gesù rispose, Rendo grazie di vedervi in buona salute. Maria di Magdala si era fermata poco più indietro. Gesù domandò, Cosa siete venuti a fare in questi luoghi, fratelli, e Giacomo disse, Spostiamoci un po’ da questa parte per poter parlare in pace, In pace lo siamo già, rispose Gesù, e se lo hai detto per via di questa donna, sappi che tutto ciò di cui tu voglia informarmi, e che io scelga di udire da te, lo può sentire anche lei come se fossi io stesso. Vi fu un silenzio così denso, così spinto, così profondo che sembrava che fosse un silenzio del mare e dei monti in comunione, e non quello di quattro semplici persone faccia a faccia, che riprendevano le forze. Adesso Gesù sembrava più adulto di prima, la pelle più scura, ma gli si era stemperata la febbre dello sguardo e, sotto la folta barba nera, il volto appariva pacato, tranquillo, benché visibilmente contratto per quell’incontro inatteso. Chi è questa donna, domandò Giacomo, Si chiama Maria e sta con me, rispose Gesù, Ti sei sposato, Sì e no, no e sì, Non capisco, Del resto non confidavo che tu capissi, Devo parlarti, Ebbene, parla, Ti porto un messaggio di nostra madre, Ti ascolto, Preferirei comunicartelo in privato, Hai sentito quello che ho detto. Maria di Magdala fece due passi, Posso allontanarmi dove non vi senta, disse, Non c’è nel mio animo un pensiero che tu non conosca, è quindi giusto che tu sappia quali sono i pensieri di mia madre su di me, così mi risparmierai la fatica di doverteli riferire dopo, rispose Gesù. L’irritazione fece montare il sangue alla testa a Giacomo, che indietreggiò di un passo, come per andarsene, mentre lanciava a Maria di Magdala uno sguardo incollerito, nel quale tuttavia si avvertiva anche un sentimento confuso, di desiderio e di rancore. Fra i due, Giuseppe tendeva le mani per trattenerli, era tutto ciò che poteva fare. Alla fine Giacomo si calmò e, dopo una pausa di concentrazione mentale, per ricordarsi, recitò, Nostra madre ci ha mandato a cercarti per chiederti di tornare a casa, perché ti crediamo e, a Dio piacendo, arriveremo a credere a quanto ci hai detto, Solo questo, Sono le sue parole, Vuoi forse dirmi che, per quanto vi riguarda, non farete nulla per credere a quello che vi ho raccontato, che vi limiterete ad aspettare che il Signore modifichi il vostro intendimento, Intendere o non intendere, è tutto nelle mani del Signore, Ti sbagli, il Signore ci ha dato le gambe
perché camminassimo e noi camminiamo, che io sappia nessun uomo ha mai aspettato che il Signore gli ordinasse, Cammina, lo stesso avviene con l’intelletto, se il Signore ce l’ha dato è perché lo usassimo secondo il nostro desiderio e la nostra volontà, Non voglio discutere con te, Fai bene, non prevarresti nella discussione. Che risposta devo portare a nostra madre, Dille che le parole del suo messaggio sono arrivate troppo tardi, quelle parole che a suo tempo ha saputo pronunciare Giuseppe ma che lei non ha fatto sue, e anche se le apparisse un angelo del Signore a confermare tutto quanto vi ho narrato, convincendola finalmente della volontà divina, a casa io non tornerò, Sei caduto in un peccato d’orgoglio, Un albero geme se lo tagliano, un cane guaisce se lo picchiano, un uomo cresce se lo offendono, È tua madre, siamo i tuoi fratelli, Chi è mia madre, chi sono i miei fratelli, i miei fratelli e mia madre sono coloro che hanno creduto alla mia parola nel momento in cui l’ho pronunciata, i miei fratelli e mia madre sono coloro che quando andiamo al largo confidano in me per nutrirsi più abbondantemente che in precedenza di ciò che pescano, mia madre e i miei fratelli sono coloro che non hanno bisogno di aspettare l’ora della mia morte per impietosirsi della mia vita, Non hai altri messaggi da affidare, Altri messaggi non ne ho, ma sentirete parlare di me, rispose Gesù e, rivolgendosi a Maria di Magdala, disse, Andiamocene, Maria, le barche stanno uscendo per la pesca, i banchi di pesci si radunano, è tempo di mietere questa messe. Si stavano ormai allontanando quando Giacomo urlò, Gesù, devo dire a nostra madre chi è quella donna, Dille che sta con me e che si chiama Maria, e la voce riecheggiò fra le colline e sopra le acque. Disteso per terra, Giuseppe piangeva per il dispiacere. 20. Quando Gesù va al largo con i pescatori, di solito Maria di Magdala lo aspetta seduta sopra un sasso in riva all’acqua, o su un poggio, se ce n’è qualcuno, da cui possa meglio seguire la rotta e osservare la navigazione. Le battute di pesca, adesso, non si protraggono a lungo, non c’è mai stata in queste acque una tale abbondanza di pesce, direbbero gli ingenui, è come pescare con le mani in un secchio pieno, ma poi osservano che l’abilità non è identica per tutti, il secchio è come sempre, poco meno che vuoto, e se Gesù non è presente nell’equipaggio le mani e le braccia si affannano a calare la rete e si scoraggiano vedendola risalire con un pesce qua e uno là imprigionati fra le maglie. Ecco perché tutti i pescatori della costa occidentale del cosiddetto mare di Galilea chiedono di Gesù, reclamano Gesù, pretendono Gesù, e in qualche posto è già successo che lo abbiano accolto con festeggiamenti, applausi e fiori, quasi fossimo nella domenica delle Palme. Ma visto che il pane degli uomini è quello che è, un miscuglio di invidia e di malizia, talvolta un po’ di carità, in cui fermenta un lievito di paura che fa crescere ciò che è cattivo e afflosciare ciò che è
buono, è già successo pure che abbiano litigato pescatori con pescatori e paesi con paesi, perché tutti volevano avere Gesù solo per sé, che gli altri se la sbrigassero alla bell’e meglio. Quando accadeva, Gesù si ritirava nel deserto e faceva ritorno quando i rissosi pentiti andavano a implorarlo di perdonare i loro eccessi, che tutto era una conseguenza di quanto lo amavano. Quello che resterà per sempre da spiegare è perché i pescatori della sponda orientale non abbiano mai mandato un delegato su quest’altra riva con l’intento di discutere e stabilire un patto adeguato che beneficiasse equamente tutti, tranne i Gentili di vario colore e fede che qui non mancano. Quelli dell’altra sponda avrebbero anche potuto, in assetto da battaglia navale, armati di reti e picche e coperti da una notte senza luna, venire a rapire Gesù all’Occidente, condannandolo di nuovo a un vitto di stenti, quel territorio che ormai si è abituato a una pietanza ricca. È ancora il giorno in cui Giacomo e Giuseppe sono andati a chiedere a Gesù di tornare alla casa che era la sua, lasciandosi alle spalle quella vita di vagabondaggi, anche se l’industria della pesca e derivati se ne stava avvantaggiando. A quest’ora i due fratelli, ciascuno col proprio sentimento, Giacomo infuriato, Giuseppe piagnucolante, camminano di buona lena per monti e valli, diretti a Nazaret, dove la madre si domanda per la centesima volta se, avendo visto uscire due figli, ne vedrà entrare tre, ma della qual cosa dubita. La via del ritorno che i fratelli dovettero prendere, essendo la più vicina al punto della costa in cui avevano incontrato Gesù, li fece passare per Magdala, città di cui Giacomo conosceva ben poco e Giuseppe nulla, ma che, a giudicare dalle apparenze, non meritava né sosta né attenzione. Si rinfrescarono dunque di passaggio, i due fratelli, e proseguirono. Uscendo dall’abitato, parola che qui usiamo solo perché esprime un’opposizione logica e chiara al deserto che tutto circonda, poco più avanti videro, sulla sinistra, una casa che mostrava i segni di un violento incendio, i resti di quattro mura al vento. Il portone del cortile, indubbiamente semidistrutto da uno scasso, non era bruciato, il fuoco, che aveva raso al suolo tutto, era rimasto all’interno. In casi del genere il passante, chiunque esso sia, pensa sempre che sotto le macerie potrebbe essere celato un tesoro e, se ritiene che non vi sia pericolo che una trave gli piombi addosso, entra per tentare la fortuna, avanza prudentemente, con la punta del piede smuove le ceneri, qualche tizzone, pezzi di carbone mal bruciato, sperando di veder spuntare all’improvviso, brillante, la moneta d’oro, l’incorruttibile diamante, il diadema di smeraldi. Soltanto la curiosità spinse Giacomo e Giuseppe a entrare, non sono ingenui fino al punto di immaginare che gli avidi vicini non siano già andati in cerca di quello che gli abitanti della casa non fossero riusciti a salvare, ma, essendo la costruzione così piccola, è probabile che i beni più preziosi siano stati portati via e che siano rimaste solo le pareti, giacché altrove se ne possono erigere di nuove. Dentro quella
che un tempo era una casa, la volta del forno è crollata, le mattonelle del pavimento, disvelte, si sono staccate dal cemento e traballano sotto i piedi, Non c’è niente, andiamocene, disse Giacomo, ma Giuseppe domandò, E quello lì, che cos’è. Era una specie di piano di legno con le gambe bruciate, tutto semicarbonizzato, e ricordava un trono largo e massiccio, ancora con dei brandelli penzolanti di tessuto bruciato, È un letto, disse Giacomo, c’è chi dorme su queste cose, i ricchi, i signori, Anche nostra madre ci dorme, Infatti, ma non c’è paragone con quello che dev’essere stato questo, Non sembra da ricchi una casa del genere, Le apparenze ingannano, disse Giacomo argutamente. Mentre uscivano, Giuseppe vide che sul portone del cortile era appesa, all’esterno, una canna, di quelle che si adoperano per raccogliere i fichi dagli alberi, certo, doveva essere stata più lunga quando veniva usata, poi dovevano averla tagliata. Che ci fa qui, domandò, e senza aspettare la risposta, né la propria né quella del fratello, staccò la pertica ormai inutile e la prese, ricordo di un incendio vano, di una casa bruciata, di gente sconosciuta. Nessuno li aveva visti entrare, nessuno li ha veduti uscire, sono solo due fratelli che tornano a casa con le tuniche sporche di fuliggine e una brutta notizia. Per distrarsi, a uno il pensiero ha suggerito il ricordo di Maria di Magdala, il pensiero dell’altro è più attivo e meno frustrante, aspetta di trovare un modo per riporre la canna mozza fra i suoi giocattoli. Seduta sopra il sasso, in attesa che Gesù torni dalla pesca, Maria di Magdala pensa a Maria di Nazaret. Fino al giorno in cui ci troviamo, per lei, la madre di Gesù era stata soltanto questo, la madre di Gesù, ma adesso sa, perché poi lo ha domandato, che anche il suo nome è Maria, in sé si tratta di una coincidenza, d’importanza minima visto che sono tante le Marie sulla terra, e altre ce ne saranno se la moda si diffonde, ma noi ci arrischieremmo a supporre che esista un sentimento di più intima fratellanza fra coloro che hanno nomi uguali, ciò che pensiamo proverà Giuseppe quando gli viene in mente l’altro Giuseppe che era suo padre, non figlio, ma fratello, ecco qual è il problema di Dio, non c’è nessuno che abbia il Suo stesso nome. Spinte a tale estremo, riflessioni del genere non sembrano frutto di un discernimento come quello di Maria di Magdala, per quanto non ci manchino informazioni che ne abbia, e capace di ben altre, d’importanza non certo minore, fatto sta che procedono in direzioni diverse, in questo caso, per esempio, una donna ama un uomo e pensa alla madre di lui. Maria di Magdala non conosce, per esperienza diretta, l’amore di una madre per il figlio, ma ha conosciuto l’amore di una donna per il proprio uomo dopo avere, in precedenza, imparato e sperimentato tutto del falso amore, dei mille modi di non amare. Ama Gesù come donna, ma desidererebbe amarlo anche come madre, forse perché non è poi così lontana dall’età della madre vera, quella madre che ha mandato un messaggio al figlio chiedendogli di far ritorno a casa, e il figlio non è tornato, adesso c’è una domanda che Maria di Magdala si pone, che dolore proverà
Maria di Nazaret quando glielo diranno, ma non è certo come immaginare la pena che proverebbe lei stessa se non avesse più Gesù, le mancherebbe l’uomo, non il figlio, Concedimi, Signore, i due dolori insieme, se dovrà essere. E quando la barca si avvicinò e fu tirata in secco, quando i cesti carichi di pesce scivoloso cominciarono a essere scaricati, mentre Gesù, con i piedi nell’acqua, aiutava ridendo come un bambino, Maria di Magdala vide se stessa come se fosse Maria di Nazaret e, alzandosi da dove si trovava, si avvicinò alla riva, entrò nell’acqua per stare accanto a lui e disse, dopo averlo baciato sulla spalla, Figlio mio. Nessuno udì che Gesù avesse detto, Madre mia, perché si sa, per le parole pronunciate dal cuore non c’è lingua che possa articolarle, le blocca un nodo in gola e solo negli occhi si possono leggere. Maria e Gesù ricevettero dalle mani del capobarca il cesto di pesce con cui veniva pagato il lavoro, e, come facevano sempre, si ritirarono nella casa dove avrebbero pernottato, perché la loro vita era questa, non possedere una casa, passare da una barca all’altra e da una stuoia all’altra, ogni tanto, all’inizio, Gesù diceva a Maria, Questa vita non fa per te, cerchiamo una casa tutta per noi e io vi farò ritorno ogni volta che sarà possibile, al che Maria rispondeva, Non voglio aspettarti, voglio stare dove sei tu. Un giorno, Gesù le domandò se avesse dei parenti che potevano accoglierla, e lei disse di avere un fratello e una sorella che vivevano nel paese di Betania, in Giudea, Marta e Lazzaro, ma che li aveva lasciati quando si era prostituita e, perché non si vergognassero di lei, se n’era andata lontano, di paese in paese, fino ad arrivare a Magdala. Allora il tuo nome dovrebbe essere Maria di Betania, se sei nata là, disse Gesù, Sì, sono nata a Betania, ma tu mi hai incontrato a Magdala e perciò voglio continuare a essere Maria di Magdala, Io non vengo chiamato Gesù di Betlemme, anche se lì sono nato, né posso dirmi di Nazaret, perché loro non mi vogliono e io non voglio loro, forse dovrei chiamarmi Gesù di Magdala, come te, per lo stesso motivo. Ricordati che abbiamo appiccato il fuoco alla casa, Ma non al ricordo, disse Gesù. Del ritorno di Maria a Betania non si parlò più, per loro questa riva del cosiddetto mare di Galilea è il mondo intero, dovunque l’uomo si trovi, con lui sarà il dovere. Dice il popolo portoghese, diciamo noi, ma probabilmente lo dicono tutte le genti, visto che l’esperienza dei mali è così generale e universale, che sotto i piedi nascono i travagli. Un detto simile, a meno di non sbagliarci, potrebbe averlo inventato solo un popolo legato alla terra, a furia di inciampate e passi falsi, di incertezze, attese e spine assassine. Poi, in virtù delle suddette genericità e universalità, si sarà diffuso un po’ dappertutto, dettando legge, ma comunque, supponiamo noi, con una certa riluttanza ad accettarlo da parte di gente marinara e piscatoria, ben consapevole che esistono delle profondissime profondità fra i propri piedi e il suolo, quando non abissali abissi. Per la gente di mare i travagli non vengono dal suolo, per la gente di mare i travagli si abbattono dal cielo, si chiamano vento e
bufera, sono loro che sollevano onde e cavalloni, creano tempeste, strappano la vela, spezzano l’albero maestro, fanno affondare il legno fragile, e il luogo in cui questi uomini di pesca e di navigazione muoiono, veramente, è fra il cielo e la terra, il cielo che le mani non raggiungono, il suolo cui i piedi non arrivano. Il mare della Galilea è quasi sempre un tranquillo, placido e mite lago, ma giunge pure il giorno in cui le furie oceaniche, sbandando, si ritrovano da queste parti ed è un si salvi chi può, e a volte, disgraziatamente, non tutti ce la fanno. Avremo modo di parlare anche di un caso del genere, ma prima bisogna tornare a Gesù di Nazaret e ad alcune sue recenti preoccupazioni che dimostrano quanto il cuore dell’uomo sia eternamente insoddisfatto e il semplice dovere compiuto, in fondo, non procuri poi tanta soddisfazione come continuano a ripeterci coloro che si accontentano di poco. Senza dubbio, si può dire che, grazie al continuo andirivieni di Gesù tra l’alto e il basso Giordano, non c’è penuria di cibo, né carenze occasionali, su tutta la sponda occidentale, al punto tale che beneficia di questa abbondanza anche chi non era pescatore, perché la copiosità di pesce ha fatto abbassare i prezzi, e questo evidentemente ha permesso a più gente di mangiarne in quantità maggiore e a prezzo più basso. È vero che, qua e là, c’è stato qualche tentativo di mantenere i prezzi alti con il ben noto sistema corporativo di ributtare in acqua una parte del pescato, ma Gesù, da cui in ultima istanza dipendeva la maggiore o minore fortuna delle battute di pesca, ha minacciato di andarsene altrove, e i prevaricatori della nuova legge sono andati a chiedergli scusa, vedi un po’. Tutti, quindi, sembrano avere dei motivi per essere contenti, ma non Gesù. Pensa, Gesù, che questa non è vita, andare continuamente su e giù, imbarcarsi e sbarcare, sempre gli stessi gesti, sempre le stesse parole, e che, considerato che il potere di fare comparire il pesce gli viene certo dal Signore, non si comprende il motivo per cui lo stesso Signore voglia che la sua vita si consumi in questa monotonia fino a quando arriverà il giorno in cui sarà chiamato, come ha promesso. Che il Signore sia con lui, Gesù non ne dubita, visto che il pesce non fa che accorrere quando lui lo chiama, e questa circostanza, per un processo deduttivo inevitabile di cui non riteniamo qui necessario dare la dimostrazione e presentarne la sequenza, alla fine, con il tempo, lo ha spinto a domandarsi se per caso non vi fossero altri poteri che il Signore era disposto a cedergli, non per delega o autorizzazione, è chiaro, ma solo in prestito e a condizione di farne buon uso, cosa che, come abbiamo visto, Gesù era in grado di garantire, si pensi alle grane di cui si è fatto carico, con l’unica intenzione di aiutare. Il modo per saperlo era facile, facile come dire ai, sarebbe stato sufficiente fare la prova, se avesse avuto buon esito significava che Dio era favorevole, se non fosse riuscita, Dio manifestava di essere contrario. C’era soltanto una questione preliminare da risolvere, ed era quella della scelta. Non essendo possibile consultare direttamente il
Signore, Gesù avrebbe dovuto rischiare, selezionando fra i poteri auspicabili quello che gli sembrasse offrire minore opposizione e che non balzasse più potentemente all’occhio, ma che non fosse neppure troppo discreto da passare inosservato all’eventuale beneficiario e al mondo, per la qual cosa ne avrebbe sofferto la gloria del Signore, che in tutto deve prevalere. Ma Gesù non si decideva, aveva paura che Dio lo canzonasse, che lo umiliasse, come era accaduto nel deserto e come avrebbe potuto fare in seguito, si sentiva ancora rabbrividire al pensiero della vergogna che avrebbe provato se, quando per la prima volta aveva detto, Calate la rete da questo lato, l’avesse vista risalire vuota. Tanto lo assorbivano questi pensieri che una notte sognò che qualcuno gli sussurrava all’orecchio, Non temere, ricordati che Dio ha bisogno di te, ma al risveglio ebbe qualche dubbio sull’identità del consigliere, avrebbe potuto essere un angelo, uno dei tanti che girano con i messaggi del Signore, ma si sarebbe potuto trattare anche di un demonio, uno degli altrettanti che servono Satana in tutto, al suo fianco Maria di Magdala sembrava profondamente addormentata, perciò non poteva essere stata lei, né Gesù lo pensò. Un bel giorno, che dagli indizi non mostrava affatto di essere diverso dagli altri, Gesù se ne andò in barca per il solito miracolo. Il cielo era coperto, uno strato di nuvole basse, minacciava di piovere, ma un pescatore non resta certo a casa per così poco, saremmo davvero fortunati se nella vita fossero tutte delizie e benessere. È toccato alla barca di Simone e Andrea, quei due fratelli pescatori che sono stati testimoni del primo prodigio, e insieme, di conserva, c’è anche quella dei figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni, visto che, pur non essendo uguale l’effetto miracoloso, la barca che si trovi nei dintorni approfitta comunque di una parte del pesce che può esserci. Il forte vento li spinge rapidamente in mezzo al lago, abbassate le vele i pescatori cominciano, sia nell’una sia nell’altra barca, a svolgere le reti, in attesa che Gesù dica da quale lato devono calarle. Quand’ecco che, all’improvviso, sorgono i travagli sotto forma di una tempesta che si abbatté dall’alto senza preavviso, ché un semplice cielo coperto non poteva certo lasciar presagire qualcosa di simile, e fu tale che le onde sembravano quelle del mare vero, alte come case, sospinte da un vento folle, di qua e di là, e, in mezzo, quei piccoli gusci di noce che ballonzolavano ingovernati, ché di manovre non c’era verso contro la furia degli elementi scatenati. La gente che stava sulla riva, vedendo il pericolo in cui si trovavano quelle povere creature indifese, cominciò a urlare forsennatamente, c’erano mogli e madri e sorelle e figli piccoli, qualche suocera di buon carattere, ed era tale il clamore che non si sa come mai non arrivò fino al cielo, Ah, il mio povero marito, Ah, il mio povero figlio, Ah, il mio povero fratello, Ah, povero genero, Che tu sia maledetto, mare, Signore degli Addolorati, aiutateci, Signore del Buon Viaggio, soccorrili, i bambini sapevano solo piangere, ma niente da fare. Anche Maria di Magdala era tra quelli e mormorava. Gesù, Gesù, ma
non certo rivolta a lui, giacché sapeva che il Signore gli aveva riservato un’altra occasione, mica una banale tempesta sull’acqua, senza altra conseguenza che un bel po’ di morti annegati, ripeteva, Gesù, Gesù, come se ridicendolo potesse dare un qualche aiuto ai pescatori, ché quelli, sì, pareva proprio che si stesse compiendo il loro destino. Ebbene, Gesù, là nella barca, vedendo lo sconforto e lo smarrimento diffondersi tra gli equipaggi intorno e le onde avventarsi dentro bordo e allagare tutto lo scafo, e gli alberi maestri spezzarsi ed essere trascinati via con le vele libere, e la pioggia abbattersi a torrenti che, da soli, sarebbero stati sufficienti ad affondare una nave dell’imperatore, Gesù, vedendo tutto questo, disse fra sé e sé, Non è giusto che questi uomini muoiano e io rimanga in vita, senza contare che il Signore mi strillerebbe di sicuro, Avresti potuto trarre a salvamento gli uomini che si trovavano con te e non li hai salvati, non ti è bastato tuo padre, il dolore di quel ricordo riscosse Gesù che, a quel punto, ritto in piedi, saldo e sicuro come se fosse sostenuto da un solido suolo, urlò, Taci, e questo era rivolto al vento, Calmati, e questo era indirizzato al mare, non aveva ancora finito di pronunciare queste parole che si calmarono il vento e il mare, si aprirono le nuvole nel cielo e il sole spuntò in gloria, come sempre è e come sempre sarà, almeno per chi vive meno di lui. Non si può immaginare la felicità su quelle barche, i baci, gli abbracci, i pianti di gioia a terra, dove gli astanti non sapevano come mai la tempesta fosse finita così improvvisamente, mentre gli altri, laggiù, come risuscitati, non pensavano ad altro che alla pelle salvata, e se alcuni esclamarono, Miracolo, miracolo, in quei primi attimi non si resero conto che qualcuno doveva esserne stato l’autore. Ma, d’improvviso, sul mare calò il silenzio, le altre barche circondavano quella di Simone e Andrea, e tutti i pescatori guardavano Gesù, ammutoliti per lo sgomento, malgrado il fragore della tempesta avevano sentito le parole gridate, Taci, Calmati, ed eccolo lì, Gesù, l’uomo che aveva urlato, colui che ordinava ai pesci di balzare dalle acque verso gli uomini, colui che intimava alle acque di non trascinare gli uomini verso i pesci. Gesù si era seduto sul banco dei rematori, la testa china, con una vaga e contraddittoria sensazione di trionfo e di sciagura, come se, salito fin sulla cima di una montagna, in quell’istante avesse iniziato la malinconica e inevitabile discesa. Ma adesso, disposti in circolo, gli uomini aspettavano una sua parola, non bastava che avesse dominato il vento e placato le acque, doveva spiegare loro come avesse potuto farlo un semplice galileo, figlio di un falegname, quando persino Dio sembrava averli abbandonati al freddo abbraccio della morte. Allora Gesù si alzò e disse, Quello che avete appena visto non è opera mia, gli ordini che hanno allontanato la tempesta non sono stati impartiti da me, è il Signore che ha parlato attraverso la mia bocca, io sono soltanto la lingua di cui Dio si è servito per parlare, ricordatevi dei profeti. Disse Simone, che si trovava sulla stessa barca, Così come ha fatto venire la tempesta, il Signore avrebbe potuto allontanarla,
e noi avremmo detto solo, Il Signore l’ha portata, il Signore l’ha levata, ma sono state la tua volontà e la tua parola a renderci salva la vita quando, davanti agli occhi di Dio, la credevamo già perduta, È opera di Dio, vi ripeto, non mia. Disse allora Giovanni, il figlio minore di Zebedeo, mostrando così di non essere affatto un sempliciotto, Senza dubbio è opera di Dio, giacché in Lui risiedono ogni forza e ogni potere, ma lo ha fatto per tuo tramite, per cui ne traggo la conclusione che Dio vuole che ti conosciamo, Già mi conoscete, Perché sei comparso venendo da chissà dove, perché ci hai riempito le barche di pesce chissà come, Sono Gesù di Nazaret, figlio di un falegname che è morto crocifisso per mano dei romani, un tempo pastore del più grande gregge di pecore e capre che mai si sia visto, adesso con voi e, forse fino all’ora della mia morte, pescatore. Disse Andrea, il fratello di Simone, Siamo noialtri che dobbiamo stare con te, perché se a un uomo comune, come affermi di essere, sono stati dati simili poteri e la potestà di usarli, povero te, ché la solitudine ti sarebbe più pesante di una pietra al collo. Disse Gesù, Rimanete pure con me se ve lo chiede il cuore, ma non dite niente a nessuno di quanto è accaduto qui, perché non è ancora giunto il tempo che il Signore confermi la volontà che intende realizzare in me, se, come dice Giovanni, Iddio vuole che mi conosciate. Disse allora Giacomo, il figlio maggiore di Zebedeo, semplice, in fin dei conti, quanto suo fratello, Non pensare che il popolo tacerà, guarda quegli individui laggiù sulla riva, vedi come ti aspettano per acclamarti, e alcuni, impazienti, stanno già spingendo le barche in acqua per unirsi a noi, ma se anche riuscissimo a frenare il loro entusiasmo, se anche li convincessimo a mantenere, per quanto possibile, il segreto, potrai avere, tu, la certezza che in un qualunque momento, sia pur contro il tuo desiderio, Dio non si manifesterà, più che nella tua presenza, per tuo tramite. Gesù reclinò il capo, era la rappresentazione vivente della tristezza e dell’abbandono, e disse, Siamo tutti nelle mani del Signore, Tu più di noi, disse Simone, perché Lui ti ha preferito, ma noi saremo con te, Fino alla fine, disse Giovanni, Fino a quando ci vorrai, disse Andrea, Fin dove potremo, disse Giacomo. Si avvicinarono le barche provenienti dalla riva, dentro si sbracciavano gli uomini, si moltiplicavano le benedizioni e le lodi, e Gesù, rassegnato, disse, Andiamo, il vino è nella brocca, bisogna berlo. Non cercò Maria di Magdala, sapeva che lei lo aspettava a terra, come sempre, che nessun miracolo avrebbe modificato la costanza di quell’attesa, e un sentimento di contentezza grata e umile gli pacificò il cuore. Quando sbarcò, più che abbracciarla, si avvinghiò a lei e ascoltò senza stupirsi le parole che Maria di Magdala gli disse in un sussurro, all’orecchio, il suo viso contro la barba bagnata, Perderai la guerra, ineluttabilmente, ma vincerai tutte le battaglie, e poi, insieme, mentre lui salutava a destra e a sinistra gli astanti che lo festeggiavano, come un generale tornato vincitore dal suo primo combattimento, accompagnati
dagli amici, risalirono il ripido viottolo che conduceva a Cafarnao, il paese sovrastante il mare in cui vivevano Simone e Andrea, nella cui casa adesso abitavano. Aveva detto bene Giacomo, smentendo la speranza di Gesù, che la conoscenza del miracolo della tempesta chetata potesse rimanere circoscritta a coloro che ne erano stati testimoni. Dopo pochi giorni, nei dintorni non si parlava d’altro, anche se, stranamente, visto che questo mare che, come si è detto, non era tale né immenso e, da un punto alto e con l’aria limpida, si poteva vedere tutto, da una sponda all’altra e da un’estremità all’altra, anche se, dicevano, nessuno a Tiberiade, per esempio, si era accorto del temporale e, quando era giunta la notizia che un uomo che viveva con i pescatori di Cafarnao aveva fatto cessare una tempesta con la sola voce, ne aveva ricevuto per tutta risposta, Quale tempesta, il che aveva lasciato a bocca aperta l’informatore. Che tuttavia ci fosse stata una tempesta è fuor di dubbio, c’era lì pronto ad affermarlo e a confermarlo lo spavento preso dai protagonisti dell’episodio, diretti e indiretti, ivi compresi alcuni mulattieri di Safed e Cana che si trovavano là per affari. Furono loro a diffondere la notizia nell’entroterra, infiorettata secondo le rispettive ali della fantasia, ma non riuscirono comunque a cogliere tutto, e quanto alle notizie, sappiamo bene come vanno, perdono forza col tempo e la distanza, e quando la nuova, che ormai non poteva più dirsi tale, arrivò a Nazaret, non si sapeva se il miracolo fosse avvenuto realmente o si fosse trattato solo di una fortuita coincidenza fra una parola pronunciata al vento e una corrente d’aria che si era stancata di spirare. Un cuore di mamma però non si sbaglia, e a Maria bastarono gli echi quasi spenti di un prodigio di cui ormai si cominciava a dubitare per avere, in cuor suo, la certezza che lo aveva compiuto il figlio assente. Pianse di nascosto l’orgoglio della sua infima autorità materna che l’aveva spinta a nascondere a Gesù l’apparizione dell’angelo e le rivelazioni di cui era latore, confidando che un semplice messaggio di una mezza dozzina di parole reticenti avrebbe ricondotto a casa chi se n’era andato con il cuore sanguinante. Per sfogarsi di pene così amare e dolorose, Maria non aveva accanto a sé la figlia Lisia, che nel frattempo si era sposata trasferendosi a Cana. Con Giacomo non avrebbe osato parlare, era tornato infuriato dall’incontro con il fratello, non tacendo della donna che a lui si accompagnava, Potrebbe essere sua madre, mamma, e aveva l’aria di saperla lunga della vita e di tante altre cose che non menziono, anche se, e questo va detto a onore del vero, l’esperienza di Giacomo, in questo buco di mondo che è il suo paese, è sicuramente molto scarsa come termine di paragone. Si sfogò allora Maria con Giuseppe, quel figlio che, dal nome e dall’aspetto, le ricordava di più il marito, ma lui non poté consolarla, Madre mia, stiamo pagando quello che abbiamo fatto, e il mio timore, io che l’ho visto e l’ho udito, è che sarà per sempre, che non tornerà mai più dal luogo in cui sta, Sai cosa si dice di lui, che ha parlato con una tempesta ed essa si è placata,
ascoltandolo. Sapevamo anche che con il suo potere riempiva di pesce le barche dei pescatori, ce lo hanno detto loro stessi, Aveva ragione l’angelo, Quale angelo, domandò Giuseppe, e Maria gli raccontò tutto quanto era accaduto, dall’apparizione del mendicante che aveva versato nella scodella la terra luminosa fino all’angelo del sogno. Una conversazione, questa, che non fecero in casa, dove non era possibile, vista la famiglia ancora così numerosa, questa gente, quando vuole parlare di argomenti riservati, se ne va nel deserto dove, magari, può addirittura incontrare Dio. Stavano ancora parlando quando, a un certo punto, Giuseppe vide passare in lontananza, sulle colline cui la madre voltava le spalle, un gregge di pecore e capre con il pastore. Gli parve che il gregge non fosse grande né il pastore alto, cosicché lo scorse e tacque. E quando la madre disse, Non vedrò mai più Gesù, le rispose pensieroso, Chissà. Aveva ragione Giuseppe. Passato un po’ di tempo, qualcosa come un anno, giunse un messaggio di Lisia per la madre, con l’invito, a nome dei suoceri, a recarsi a Cana in occasione delle nozze di una cognata, sorella del marito, e portasse con sé chi voleva, che sarebbero stati tutti i benvenuti. Come invitata, Maria aveva il diritto di scegliere chi avrebbe dovuto accompagnarla, ma siccome per rispetto non voleva essere d’incomodo, posto che ben poche cose sono deprimenti quanto una vedova con tanti figli, decise di portarne solo due, il suo prediletto attuale, Giuseppe, e Lidia cui, essendo una ragazza, feste e distrazioni non sarebbero mai state di troppo. Cana non è distante da Nazaret, poco più di un’ora delle nostre di cammino e, in questo periodo dolcemente autunnale, sarebbe stata una passeggiata tra le più piacevoli, anche se l’obiettivo finale del viaggio non fosse stato uno sposalizio. Uscirono da casa poco dopo il sorgere del sole per arrivare a Cana ancora in tempo perché Maria potesse dare una mano nelle ultime incombenze di un atto cerimoniale e festivo in cui la fatica è direttamente proporzionale a quanto la gente ne gioisce e si diverte. Lisia corse incontro alla madre e ai fratelli rivolgendo loro grandi manifestazioni d’affetto, da un lato ci si informò del benessere e della salute, dall’altro della salute e della felicità, e poi, giacché il lavoro premeva, si diressero, lei e Maria, verso la casa dello sposo dove, secondo l’usanza, sarebbe stata celebrata la festa, andavano a badare alle pentole con le altre donne della famiglia. Giuseppe e Lidia si trattennero in cortile, a scherzare con i loro coetanei, i ragazzi svagandosi con i ragazzi, le ragazze ballando con le ragazze, fino al momento in cui si accorsero che la cerimonia stava per cominciare. Corsero tutti, adesso senza alcuna discriminazione di sesso, dietro agli uomini che accompagnavano lo sposo, i suoi amici, i quali reggevano le tradizionali torce, e in una mattinata come questa, piena di luce splendente, il fatto perlomeno potrà servire a dimostrare che un chiaro in più, sia pur di torcia, non è mai da disprezzare, anche se brilla il sole. I vicini, con aria festosa, si affacciavano sulla
soglia a salutare, serbando le benedizioni per qualche momento dopo, quando il corteo sarebbe tornato indietro con la sposa. Giuseppe e Lidia, però, non riuscirono a vedere il resto, e comunque non sarebbe stata una vera novità per loro, perché a suo tempo avevano avuto uno sposalizio in famiglia, lo sposo che bussa alla porta e chiede di vedere la sposa, lei che avanza circondata dalle amiche, anch’esse con delle luci, per quanto modeste, dei semplici lumicini come si conviene alle donne, perché una torcia è roba da uomini sia per il fuoco sia per la dimensione, e poi lo sposo che solleva il velo della sposa e lancia un’esclamazione di giubilo dinanzi al tesoro ritrovato, come se negli ultimi dodici mesi, ché tanti ne durava il fidanzamento, non l’avesse vista mille volte e non ci fosse andato a letto ogniqualvolta l’aveva desiderato. Giuseppe e Lidia non videro queste esibizioni perché lui, guardando per un attimo fugace nello scorcio di una strada, vide spuntare in lontananza due uomini e una donna, e, con la sensazione di vivere quel momento per la seconda volta, riconobbe suo fratello Gesù e la donna che lo accompagnava. Gridò alla sorella, Guarda, è Gesù, corsero entrambi in quella direzione, ma d’improvviso Giuseppe si fermò, gli era sovvenuta la madre, e gli venne in mente anche la durezza con la quale il fratello lo aveva accolto laggiù, sulla riva del lago, non proprio lui, certo, ma il messaggio di cui insieme a Giacomo era latore, e pensando che poi avrebbe dovuto spiegare a Gesù il motivo che lo spingeva a comportarsi così, fece marcia indietro. Svoltando l’angolo della strada, lanciò un’altra occhiata e, roso dalla gelosia, scorse il fratello che prendeva Lidia fra le braccia come una piuma volteggiante e vide lei coprirgli il viso di baci, mentre la donna e l’altro uomo sorridevano. Con gli occhi offuscati da lacrime di avvilimento, Giuseppe si mise a correre, e corse, corse, entrò in casa, attraversò il cortile, saltando per non calpestare le tovaglie e le vivande disposte per terra e sui tavolinetti bassi, e chiamò, Mamma, mamma, la nostra salvezza è che abbiamo ciascuno la nostra voce, non sarebbero certo mancate le madri che avrebbero girato la testa per guardare un figlio non loro, invece si voltò solo Maria, si girò e capì, e quando Giuseppe le disse, Sta arrivando Gesù, lei già lo sapeva. Impallidì, arrossì, sorrise, divenne seria e pallida di nuovo, e il risultato di tutti questi cambiamenti fa che si portò una mano al petto come se il cuore le mancasse e indietreggiò di due passi come se avesse sbattuto contro un muro. Chi c’è con lui, domandò, perché aveva la certezza che qualcuno lo accompagnasse, Un uomo e una donna, e Lidia, che si è fermata insieme a loro, La donna, è quella che hai visto tu, Sì, mamma, ma l’uomo non lo conosco. Si avvicinò Lisia, curiosa, immaginando a stento, Che cosa c’è, madre mia, Tuo fratello è qui e sta venendo alle nozze, Gesù è a Cana, Lo ha visto Giuseppe. L’emozione di Lisia non fu particolarmente evidente, ma sul viso le spuntò un sorriso che sembrava non aver fine, e lei sussurrò, Mio fratello, si noti, per chi non lo sappia, che si tratta di compiacimento, un sorriso come quello di Lisia e
un sussurro che vale altrettanto, Andiamogli incontro, disse, Vai tu, io rimango qui, si schermì la madre e, rivolta a Giuseppe, Accompagna tua sorella. Ma Giuseppe non intendeva essere secondo negli abbracci in cui Lidia era stata la prima e, giacché Lisia da sola non osava muoversi, rimasero lì tutt’e tre, come colpevoli in attesa di una sentenza, incerti sulla misericordia del giudice, ammesso che le parole giudice e misericordia siano appropriate in questo frangente. Comparve Gesù sulla soglia, teneva in braccio Lidia, e dietro c’era Maria di Magdala, ma prima aveva fatto il suo ingresso Andrea, perché era lui l’altro uomo della compagnia, parente dello sposo come si capì subito, e a coloro che erano accorsi sorridenti a riceverlo diceva, No, Simone non è potuto venire, e mentre alcuni erano felicemente immersi in questo incontro famigliare, altri, lì presenti, si guardavano come sull’orlo di un abisso, domandandosi chi sarebbe stato il primo a posare un piede su quel lungo e fragile ponte che, malgrado tutto, collegava un lato all’altro. Non affermeremo, come ha detto un poeta, che la cosa più bella del mondo sono i bambini, ma è grazie a loro che talvolta gli adulti riescono a fare, senza scacco all’orgoglio, certi passi difficili, anche se ci si accorge in seguito che la strada non passava per di lì. Lidia si divincolò dalle braccia di Gesù e corse dalla madre, e fu una sorta di teatro delle marionette, un movimento ne determinò un altro, e tutt’e due un terzo, Gesù si avvicinò alla madre e la salutò, insieme ai fratelli, con le parole, sobrie e prive di emozione, di chi si incontra tutti i giorni. Dopo di che proseguì, lasciando Maria irrigidita come una statua di sale, e smarriti i fratelli. Maria di Magdala lo seguì, passando accanto a Maria di Nazaret, e le due donne, l’onesta e l’impura, si guardarono fugacemente senza ostilità né disprezzo, bensì con un’espressione di reciproca e complice considerazione che solo agli esperti dei labirintici meandri del cuore femminile è dato comprendere. Gli invitati si stavano avvicinando, si udivano le esclamazioni e le parole, il battito tremulo e vibrante dei tamburelli, i suoni sottili e prolungati delle arpe, il passo ritmato delle danze, un vocio di gente che parlava contemporaneamente, un attimo dopo il cortile si gremì, quasi sospinti entrarono gli sposi fra evviva e applausi e si avviarono a ricevere la benedizione dei genitori e dei suoceri, che li aspettavano. Anche Maria, che si era trattenuta lì, li benedisse, come tempo addietro aveva benedetto la figlia Lisia senza avere al suo fianco, adesso come allora, né il marito né il figlio primogenito che, quanto a potere e autorità, ne facesse le veci. Si sedettero tutti, a Gesù fu subito offerto un posto d’onore perché Andrea, a mezza bocca, aveva informato i genitori che quello era l’uomo che attirava i pesci nelle reti e domava le tempeste, ma Gesù lo rifiutò e andò a sedersi insieme agli altri, mettendosi a capo di una delle file di invitati. Gesù veniva servito da Maria di Magdala, che nessuno si domandò chi fosse, un paio di volte si accostò anche Lisia, e, nei modi, lui non mostrò alcuna disparità tra le due
donne. Maria serviva dall’altro lato e, negli andirivieni, incrociava spesso Maria di Magdala, si scambiavano lo stesso sguardo, ma non parlavano, finché la madre di Gesù con un cenno indicò all’altra di appartarsi in un angolo del cortile e, senza preamboli, le disse, Prenditi cura di mio figlio, ché un angelo mi ha detto che lo attendono grandi travagli e io non posso nulla per lui, Ne avrò cura, lo difenderò con la mia vita se valesse tanto, Come ti chiami, Sono Maria di Magdala, e facevo la prostituta fino a quando ho conosciuto tuo figlio. Maria rimase zitta, nella sua mente si andavano ordinando, a uno a uno, certi fatti del passato, quel denaro e ciò che al riguardo avrebbero voluto insinuare le mezze parole di Gesù, il racconto irritato di Giacomo e le sue opinioni sulla donna che accompagnava il fratello, e, ormai al corrente di ogni cosa, disse, Io ti benedico, Maria di Magdala, per il bene che hai fatto a mio figlio, oggi e per sempre ti benedico. Maria di Magdala le si avvicinò per baciarle la spalla in segno di rispetto, ma l’altra le buttò le braccia al collo, la strinse a sé, e le due donne rimasero lì abbracciate, in silenzio, fino a quando si separarono e tornarono al lavoro, che non poteva attendere. La festa proseguiva, dalle cucine, una dopo l’altra, arrivavano le portate, dalle anfore scorreva il vino, la gioia esplodeva in canti e balli, quando, all’improvviso, un allarme fu trasmesso in segreto dal maestro di tavola ai genitori degli sposi, Ci sta finendo il vino, li avvertiva. Il disappunto e l’agitazione si abbatterono su di loro come se il soffitto gli fosse crollato addosso, E adesso, che cosa facciamo. come diremo agli invitati che il vino è terminato, domani non si parlerà d’altro a Cana, Povera figlia mia, si lamentava la madre della sposa, chissà quanto la prenderanno in giro d’ora in poi, ché alle sue nozze è mancato addirittura il vino, non meritavamo questa vergogna, che brutto inizio. Ai tavoli si scolavano gli ultimi fondi dei bicchieri, alcuni invitati cominciavano già a guardarsi intorno in cerca di qualcuno che avrebbe dovuto essere lì pronto a servirli, ed ecco che Maria, adesso che aveva passato all’altra donna gli incarichi, i doveri e gli obblighi che il figlio rifiutava di accettare dalle sue mani, in un lampo d’intelligenza, volle avere anche lei la prova dei decantati poteri di Gesù, dopo di che avrebbe potuto ritirarsi nella sua casa in silenzio, come chi abbia ormai concluso la propria missione nel mondo e aspetti soltanto che lo vadano a prendere. Cercò con gli occhi Maria di Magdala, la vide serrare adagio le palpebre e fare un cenno d’assenso, e, senz’altro indugio, si avvicinò al figlio e gli disse, col tono di chi è sicuro di non dover confidare tutto per essere capito, Non hanno più vino. Lentamente, Gesù rivolse il viso verso la madre, la guardò come se lei gli avesse parlato da molto lontano e domandò, Che cosa c’è fra te e me, o donna, parole tremende, udite da chi era presente lì, ma lo sgomento, la sorpresa e l’incredulità, Un figlio non tratta così la madre che gli ha dato vita, faranno sì che il tempo, le distanze e le diverse volontà ne cerchino traduzioni, interpretazioni, versioni, sfumature atte a
mitigare la durezza e, se possibile, diano il detto per non detto o facciano affermare l’esatto contrario, perciò in futuro si scriverà che Gesù disse, Perché vieni a importunarmi con questa storia, oppure, Che cosa ho da spartire io con te, oppure, Chi ti ha detto di impicciartene, oppure, Che cosa c’entriamo noi, oppure, Lasciami fare, non c’è bisogno che tu me lo chieda, oppure, Perché non me lo chiedi apertamente, sono ancora il figlio mansueto di sempre, oppure, Farò come tu vuoi, fra noi non c’è disaccordo. Maria incassò il colpo in pieno viso, sostenne lo sguardo che la respingeva e mettendo così il figlio fra l’incudine e il martello, concluse la sua sfida dicendo ai servitori, Fate quello che vi dirà. Gesù vide la madre allontanarsi, non disse una parola, non fece un gesto per trattenerla, aveva capito che il Signore si era servito di lei come in precedenza aveva utilizzato la tempesta o il bisogno dei pescatori. Alzò il bicchiere, in cui c’era ancora un po’ di vino, e disse ai servitori, Riempite d’acqua le giare, erano sei giare di pietra che servivano per le purificazioni, ed essi le colmarono fino all’orlo, ciascuna contenente due o tre barili, Portatemele, disse, e così fecero. Allora Gesù versò in ciascuna giara una parte del vino che aveva nel bicchiere, poi disse, Portatene al maestro di tavola. Orbene, questi, che non sapeva da dove venissero quelle giare, dopo che ebbe assaggiato l’acqua che la piccola quantità di vino non era neppure arrivata a colorare, chiamò lo sposo e gli disse, Tutti servono da principio il vino buono e, quando gli invitati hanno ben bevuto, mesciono quello meno pregiato, ma tu hai serbato fino a ora il migliore. Lo sposo, che durante tutta la sua vita non aveva mai visto usare quelle giare per il vino, e che inoltre sapeva che era finito, assaggiò anche lui e assunse l’espressione di chi, con mal celata modestia, si limita a confermare qualcosa di cui era sicuro, l’eccellente qualità del nettare, per così dire un vintage. Se non fosse stato per la voce del popolo, rappresentata in questo caso da alcuni servitori che il giorno dopo spifferarono tutto, sarebbe risultato un miracolo vano, giacché il maestro di tavola, se era ignaro della tramutazione, tale sarebbe rimasto, allo sposo ovviamente non conveniva sbottonarsi sullo strano fatto, Gesù non era certo tipo da andarsene in giro dicendo, Ho fatto i miracoli tali e tali, Maria di Magdala, che aveva preso parte alla trama fin dal principio, non si sarebbe certo messa a farne pubblicità, Ha fatto un miracolo, ha fatto un miracolo, e tanto meno Maria, la madre, perché il problema fondamentale riguardava lei e il figlio, quanto era accaduto in più era stata un’aggiunta, in tutti i sensi della parola, se non è vero lo dicano gli invitati, che si ritrovarono di nuovo coi bicchieri pieni. Maria di Nazaret e il figlio non si parlarono più. Verso metà pomeriggio, senza neppure salutare la famiglia, Gesù partì con Maria di Magdala diretto a Tiberiade. Nascosti alla sua vista, Giuseppe e Lidia lo seguirono fino all’uscita del paese e lì si fermarono a guardarlo finché scomparve dietro una curva della strada.
21. Cominciò allora il tempo della grande attesa. I segni con cui fino ad allora il Signore si era manifestato nella persona di Gesù non erano più che semplici prodigi caserecci, abili prestidigitazioni, mosse del tipo più-rapido-dello-sguardo, poco diversi in fondo dai trucchi che certi maghi dell’Oriente adoperavano con arte assai meno rustica, come per esempio lanciare una corda in aria e arrampicarvisi, senza che si capisse se il capo, lassù, fosse legato a un solido gancio o l’invisibile mano di un genio aiutante lo reggesse. Per compiere quelle azioni, a Gesù bastava volerlo, ma, se qualcuno gli avesse domandato perché le aveva fatte, non avrebbe saputo dargli una risposta, o soltanto che doveva essere così, dei pescatori senza pesce, una tempesta senza scampo. delle nozze senza vino, in realtà non era ancora arrivata l’ora in cui il Signore avrebbe cominciato a parlare per bocca sua. La voce che girava per i paesi di questa zona della Galilea parlava di un uomo dotato di certi poteri che solo Dio poteva avergli dato, e lui non lo negava, tuttavia, poiché si dimostrava totalmente sprovvisto di motivazioni, ragioni e contropartite, non c’era altro da fare che approfittare dell’abbondanza senza domandare niente. È chiaro, Simone e Andrea non la pensavano così, né i figli di Zebedeo, ma quelli erano amici suoi e temevano per lui. Tutte le mattine, quando si svegliava, Gesù si domandava in silenzio, Sarà per oggi, talvolta lo diceva a voce alta perché Maria di Magdala lo potesse udire, ma lei taceva, sospirando, e poi lo circondava con le braccia, lo baciava sulla fronte e sugli occhi, mentre lui aspirava l’odore dolce e tiepido che promanava dai suoi seni, così ci furono giorni nei quali si riaddormentava, altri in cui dimenticava l’interrogativo e l’ansia e si rifugiava nel corpo di Maria di Magdala come se entrasse in un bozzolo da cui sarebbe potuto solo rinascere trasformato. Poi scendeva alla riva, dai pescatori che lo aspettavano, molti dei quali non avrebbero mai capito, e glielo dissero, perché anch’egli non si comprasse una barca, scontandola dai guadagni futuri, e non si mettesse a lavorare in proprio. Talvolta, quando al largo si prolungavano gli intervalli fra le manovre della pesca, pur sempre necessarie, benché tutto ormai fosse facile e rilassato come uno sbadiglio, Gesù aveva un repentino presentimento e il cuore gli si stringeva, comunque gli occhi non li volgeva al cielo, dov’è risaputo che dimora Dio, fissava invece, con ossessiva avidità, la superficie calma del lago, le acque immobili che brillavano come una pelle levigata, e aspettava, con desiderio e con timore, qualcosa che dovesse apparire dalle profondità, il nostro pesce, avrebbero detto i pescatori, la voce che ritarda, pensava forse Gesù. La pesca si concludeva, la barca rientrava carica e Gesù, abbattuto, si rimetteva in cammino lungo la riva, con Maria di Magdala appresso, alla ricerca di qualcuno che avesse bisogno dei suoi servigi gratuiti di vedetta. Così passarono le settimane e i mesi, trascorsero anche gli anni, i soli
cambiamenti visibili quelli di Tiberiade, dove aumentavano gli edifici e gli archi, per il resto erano le solite e risapute repliche di una terra che d’inverno sembra morirci fra le braccia e in primavera pare risuscitare, osservazione falsa, grossolano errore dei sensi, ché la forza della primavera non sarebbe niente se non avesse dormito l’inverno. Quand’ecco che, finalmente, Gesù andava per i venticinque anni, parve che l’universo intero cominciasse d’improvviso a muoversi, nuovi segnali si susseguirono, l’uno dopo l’altro, come se qualcuno, con repentina fretta, volesse riavere indietro un tempo che aveva male impiegato. A ben vedere, il primo di quei segnali non fu, propriamente parlando, un vero miracolo, in fondo non è mica una cosa dell’altro mondo il fatto che la suocera di Simone fosse affetta da una febbre indefinibile e che Gesù si accostasse al suo capezzale, le ponesse una mano sulla fronte, un gesto che abbiamo fatto tutti, per un semplice impulso del cuore, non certo sperando di vedere guariti in maniera così rudimentale e un tantino magica i mali dell’infermo, ma quello che non era mai successo è che la febbre scomparisse sotto le dita di Gesù come acqua maligna assorbita e annientata dalla terra e che, subito dopo, la donna si alzasse e dicesse, di certo a proposito, Chi è amico di mio genero, è amico mio, e riprendesse le faccende di casa come se niente fosse. Questo fu il primo segnale, domestico, privato, ma del secondo c’è ben altro da raccontare perché rappresentò una sfida aperta di Gesù alla Legge scritta e rispettata, forse giustificabile, tenendo conto dei normali comportamenti umani, perché lui viveva con Maria di Magdala senza essere sposato, con una che, per giunta, era stata una prostituta, quindi non c’è da stupirsi che, mentre un’adultera veniva lapidata secondo la legge di Mosè, e dovendo perciò morire, comparisse Gesù, immischiandosi e dichiarando, Alto là, chi di voi è senza peccato, sia il primo a scagliarle una pietra, come se stesse dicendo, Anch’io, se non vivessi in concubinato, come vivo, se fossi esente da atti e pensieri impuri, sarei lì con voi a compiere giustizia. Corse un bel rischio il nostro Gesù, perché poteva anche capitare che uno o più fra i lapidatori, avendo il cuore duro e ritrovandosi incallito nel peccato in generale, facesse orecchie da mercante a quel rimprovero e continuasse nella lapidazione, senza nessun timore, quello sì, della Legge che stava applicando, poiché era destinata alle donne. Quello che Gesù non sembra aver pensato, forse per mancanza di esperienza, è il fatto che, se ci fermassimo ad aspettare la comparsa nel mondo di questi giudici senza peccato, secondo lui gli unici che avrebbero il diritto morale di condannare e punire, temo proprio che nel frattempo il crimine aumenterebbe a dismisura e il peccato prospererebbe e le adultere andrebbero a briglia sciolta, ora con questo, ora con quello, e chi dice adultera, dice tutto, ivi compresi i mille nefandi vizi che spinsero il Signore a mandare una pioggia di fuoco e zolfo sulle città di Sodoma e Gomorra,
riducendole in cenere. Ma il male, che è nato con il mondo e, a quanto è dato sapere, ha imparato da questo, fratelli amati, il male è come la famosa e invisibile araba fenice che, mentre sembra che stia morendo nel fuoco, da un uovo che le sue stesse ceneri hanno generato torna a rinascere. Il bene è fragile, delicato, è sufficiente che il male gli spiri sul viso l’alito caldo di un semplice peccato perché gli si bruci per sempre la purezza, gli si spezzi lo stelo di giglio e appassisca la zagara. Gesù disse all’adultera, Va’ e, d’ora in poi, non ricadere nel peccato, ma in cuor suo era pieno di dubbi. Un altro rilevante episodio accadde sull’altra sponda del lago, dove Gesù riteneva giusto andare di tanto in tanto perché non si dicesse che le sue premure e attenzioni erano tutte riservate alla riva occidentale. Chiamò dunque Giacomo e Giovanni, e disse loro, Andiamo sull’altra riva, dove vivono i gadareni, vediamo se ci si offre qualche avventura, e al ritorno ci preoccuperemo della pesca, così non sarà un viaggio a vuoto. Concordarono i figli di Zebedeo sulla convenienza di quell’idea e, decisa la rotta della barca, cominciarono a remare, sperando che poco più in là un venticello potesse portarli a destinazione con uno sforzo minimo. Così avvenne, infatti, ma all’inizio si spaventarono tremendamente perché di punto in bianco sembrò che stesse per scoppiare una tempesta tale da oscurare quella di tanti anni prima, ma Gesù disse alle acque e all’aria, Allora, allora, come se parlasse a un monello, e subito le onde si calmarono e il vento riprese a soffiare con la giusta forza e nell’esatta direzione. Sbarcarono tutt’e tre, Gesù davanti, Giacomo e Giovanni appresso, non erano mai stati da queste parti e ogni cosa sembrava loro una sorpresa e una novità, ma la più grande, tale da stringergli il cuore, fu che all’improvviso, strada facendo, si parò dinanzi a loro un uomo, se tale si poteva definire quella figura coperta di sporcizia, con la barba e i capelli spaventosi, impregnato dell’odore di putrefazione delle tombe dove, come vennero a sapere in seguito, costui aveva l’abitudine di nascondersi ogniqualvolta riusciva a spezzare i ceppi e le catene con cui, per via che era posseduto, avrebbero voluto soggiogarlo in carcere. Se fosse stato soltanto un matto, anche se sappiamo bene che gli si raddoppiano le forze quando sono infuriati, per mantenerlo rinchiuso sarebbe stato sufficiente impiegare altrettanti ceppi e catene. Lo avevano fatto invano in un’occasione e ripetuto senza risultati tante altre volte, perché lo spirito immondo che viveva in quell’uomo e lo dominava se la rideva di qualunque prigione. Giorno e notte, l’indemoniato vagava per i monti, fuggendo da se stesso e dalla propria ombra, ma sempre tornava a nascondersi fra le tombe, e spesso al loro interno, da dove lo estraevano a forza, terrorizzando la gente che lo vedeva. Così lo incontrò Gesù, le guardie che gli davano la caccia si sbracciarono nella sua direzione perché si mettesse in salvo, ma Gesù era lì proprio per un’avventura e non se la sarebbe certo persa. Malgrado la paura di quello
spettro, Giovanni e Giacomo non abbandonarono l’amico e, quindi, furono loro i primi testimoni di parole che nessuno ha mai pensato che si potessero pronunciare e udire, perché andavano contro il Signore e le Sue leggi, come fra poco si vedrà. La belva si avvicina, mostrando gli artigli e digrignando i denti, da cui pendono rimasugli di carni putrefatte, e a Gesù gli si rizzano i capelli dal terrore, ma ecco che, quando è a due passi, si prostra a terra e proclama a voce alta, Che cosa vuoi da me, Gesù, figlio dell’Altissimo Iddio, ti prego, non tormentarmi. Ebbene, fu la prima volta che in pubblico, non in sogni privati, dei quali lo scetticismo e la prudenza hanno sempre consigliato di dubitare, si levò una voce, ed era una voce diabolica, per annunciare che questo Gesù di Nazaret era figlio di Dio, cosa che persino lui fino ad allora ignorava, giacché durante la conversazione che aveva intrattenuto con Dio nel deserto il problema della paternità non era stato sollevato, Avrò bisogno di te più in là, era tutto quanto gli aveva detto il Signore, e d’altro canto non era neppure possibile basarsi sulle somiglianze, considerando che il Signore gli si era mostrato sotto l’aspetto di nuvola, di colonna di fumo. Il posseduto si rivoltolava lì ai suoi piedi, la voce dentro di lui aveva pronunciato ciò che fino a quel momento non era mai stato detto e adesso taceva, e in quell’istante Gesù, come uno che si fosse appena riconosciuto nell’altro, si sentì anche lui posseduto, pervaso da certi poteri che non sapeva dove o a che cosa lo avrebbero portato, ma senza dubbio, alla fine di tutto, alla morte e alle tombe. Domandò allo spirito, Qual è il tuo nome, ed egli rispose, Legione, perché siamo tanti. Disse Gesù, imperiosamente, Esci da quell’uomo, spirito immondo. Non appena pronunciò questa parola, si levò il coro delle voci diaboliche, alcune sottili e acute, altre possenti e roche, alcune dolci come quelle di una donna, altre simili a delle seghe che tagliassero la pietra, alcune con un tono di sarcasmo provocante, altre con un tono di falsa umiltà da mendicante, alcune altere, altre lamentose, alcune che ricordavano un bimbetto che impara a parlare, altre che erano soltanto urla di fantasma e gemiti di dolore, ma tutte supplicavano Gesù di farli rimanere lì, nei luoghi che ormai conoscevano, gli sarebbe bastato dare l’ordine di espulsione e loro avrebbero abbandonato il corpo di quell’uomo, ma che, per favore, non li scacciasse da quella regione. Domandò Gesù, E dove volete andare. Ebbene, lì nei pressi della montagna stava pascolando un numeroso branco di porci, e gli spiriti immondi implorarono Gesù, Mandaci dai porci ed entreremo in loro. Gesù rifletté e gli parve una buona soluzione, considerando che quelle bestie dovevano appartenere a dei Gentili, giacché la carne del maiale è impura per gli ebrei. L’idea che, cibandosi dei maiali, i Gentili avrebbero potuto ingerire anche i demoni che vi si trovavano dentro ed esserne posseduti, a Gesù non venne in mente, come del resto non gli sovvenne quello che in seguito disgraziatamente accadde, ma la verità è che neppure un figlio di Dio, peraltro non ancora abituato a una parentela così importante, poteva
prevedere, come negli scacchi, tutte le conseguenze di una singola mossa, di una decisione semplice. Gli spiriti immondi, in preda all’eccitazione, aspettavano la risposta di Gesù, facevano scommesse, e quando arrivò la risposta, Sì, potete entrare nei maiali, all’unisono lanciarono un grido sfacciato di gioia e, violentemente, penetrarono nei porci. Vuoi per la sorpresa del colpo, vuoi perché i maiali non erano abituati ad avere i demoni dentro, il risultato fu che impazzirono all’improvviso e si lanciarono dal precipizio, tutt’e duemila quanti erano, finendo in mare, dove morirono annegati. È indescrivibile la rabbia dei padroni di quelle bestie innocenti che un minuto prima erano ancora lì, pacifiche, a grufolare nel terreno soffice, se lo trovavano, in cerca di radici e vermi, raschiando quel po’ d’erbaccia dalle superfici risecchite, e adesso, visti da quassù, quei poveri porcellini facevano pena, certuni galleggiando ormai privi di vita, mentre altri, mezzo morti, compiendo ancora uno sforzo titanico per tenere le orecchie fuori dell’acqua, perché è risaputo che i maiali non possono chiudere i condotti uditivi, gli entra un sacco d’acqua e, in meno di un credo, si ritrovano allagati dentro. I mandriani, infuriati, da lontano lanciavano sassi a Gesù e a chi lo accompagnava e si erano già messi a correre con l’intento, giustissimo, di pretendere il risarcimento da chi aveva provocato il danno, un tot a capo, da moltiplicare per duemila, i conti sono facili da fare. Ma non da pagare. I pescatori sono gente con pochi soldi, vivono di lische, e Gesù non era neanche pescatore. Il nazareno avrebbe magari voluto attendere i reclamanti, spiegare che nel mondo la cosa peggiore di tutte è il Diavolo, che al suo confronto duemila porci non tolgono né aggiungono niente, e che tutti siamo condannati a subire qualche perdita nella vita, materiale e d’altro tipo, Abbiate pazienza, fratelli, avrebbe detto Gesù se ne avessero parlato. Ma Giacomo e Giovanni non furono d’accordo nel rimanere lì ad aspettare quell’incontro che, a quanto pareva, non sarebbe stato pacifico, essendo totalmente inutili la buona educazione e le ottime intenzioni da una parte contro la brutalità e la ragione dall’altra. Gesù non voleva, ma dovette cedere ad argomenti che acquistavano sempre più potere persuasivo a ogni sasso che cadeva lì vicino. Scesero a precipizio il pendio fino alla riva, con un balzo salirono in barca e, a forza di remi, ben presto furono in salvo, mentre gli altri non sembravano affatto gente portata per la vita dei pescatori, perché se barche c’erano, comunque non si trovavano in vista. Sono andati perduti dei porci, un’anima si è salvata, ci ha guadagnato Dio, disse Giacomo. Gesù lo guardò come se pensasse ad altro, a qualcosa che i due fratelli, fissando lui, volevano conoscere e di cui erano ansiosi di parlare, l’eccezionale rivelazione, fatta dai demoni, che Gesù fosse figlio di Dio, ma Gesù aveva rivolto lo sguardo verso la sponda da cui erano fuggiti, guardava le acque, i porci che galleggiavano e fluttuavano, duemila bestie senza colpa, una sorta di inquietudine gli montava dentro, tentava di irrompere, e all’improvviso, I demoni, dove sono i
demoni, esclamò, e poi scoppiò in una risata rivolta al cielo, Ascoltami, o Signore, o hai scelto male il figlio che hanno detto che io sia e che dovrà realizzare i Tuoi disegni, o fra i Tuoi mille poteri manca quello di un’intelligenza capace di dominare quella del Diavolo, Che cosa vuoi dire, domandò Giovanni, atterrito dall’audacia di quella frase, Intendo dire che i demoni che abitavano quel posseduto adesso sono liberi, perché i demoni, come sappiamo, non muoiono, amici miei, neanche Dio li può ammazzare, e quello che io ho fatto è stato come tagliare il mare con una spada. Dall’altro lato stava scendendo verso la riva una grande folla, chi si lanciava in acqua per recuperare i maiali che galleggiavano più vicino, chi saltava in barca per andare a caccia. Quella sera, nella casa di Simone e Andrea, che si trovava accanto alla sinagoga, i cinque amici si riunirono in segreto per discutere il terribile argomento che Gesù fosse, secondo le rivelazioni dei demoni, figlio di Dio. Dopo quell’evento più che strano, si erano accordati di rimandare alla sera l’inevitabile conversazione, ma adesso era arrivato il momento di chiarire ogni cosa. Gesù cominciò col dire, Non si può dare credito a ciò che afferma il padre della menzogna, riferendosi, è ovvio, al Diavolo. Disse Andrea, La verità e la menzogna passano per la stessa bocca e non lasciano traccia, mica il Diavolo non è più tale per aver detto una volta la verità. Disse Simone, Che tu non fossi un uomo come noi, lo sapevamo già, si pensi al pesce che non avremmo mai pescato senza di te, alla tempesta che stava ammazzandoci, all’acqua che hai tramutato in vino, all’adultera che hai salvato dalla lapidazione, e adesso ai demoni scacciati da un posseduto. Disse Gesù, Non sono stato l’unico a far uscire dei demoni da qualcuno, Hai ragione, disse Giacomo, ma sei stato il primo dinanzi a cui essi si sono umiliati, chiamandoti figlio dell’Altissimo Iddio, Non mi è servita granché quella sottomissione, alla fin fine l’umiliato sono stato io, Non è questo ciò che conta, io c’ero e l’ho sentito, interloquì Giovanni, perché non ci hai detto di essere figlio di Dio, Non so se io sia figlio di Dio, Com’è possibile che lo sappia il Diavolo e non tu, Buona domanda, davvero, ma la risposta te la sapranno dare soltanto loro, Loro, chi, Dio, di cui il Diavolo dice che sono figlio, e il Diavolo, che solo da Dio potrebbe averlo appreso. Si fece silenzio, come se tutti i presenti volessero dar tempo ai personaggi invocati di pronunciarsi, e alla fine Simone affrontò la questione fondamentale, Che cosa c’è fra te e Dio. Gesù sospirò, Ecco la domanda che mi aspettavo da voi fin da quando sono arrivato qui, Non avremmo mai pensato che un figlio di Dio volesse diventare un pescatore, Ve l’ho già detto, non so se io sia figlio di Dio, Che cosa sei, insomma. Gesù si coprì il viso con le mani, cercava nei ricordi del passato un punto da cui iniziare la confessione che gli chiedevano, all’improvviso vide la propria vita come se fosse appartenuta a un altro, eccolo, se i demoni hanno detto il vero, allora tutto quanto gli è accaduto prima deve avere un significato diverso da quello originario, e alcuni di quegli avvenimenti possono essere intesi solo adesso,
alla luce di questa rivelazione. Gesù allontanò le mani dal viso, guardò gli amici a uno a uno, con espressione supplice, quasi ammettendo di chiedere loro una fiducia più grande di quella che un uomo può concedere a un altro, e dopo un lungo silenzio disse, Ho visto Dio. Nessuno proferì parola, ma tutti lo fissarono. Lui proseguì, tenendo gli occhi bassi, L’ho incontrato nel deserto e Lui mi ha annunciato che quando sarà giunta l’ora mi darà gloria e potere in cambio della mia vita, ma non ha detto che io fossi Suo figlio. Altro silenzio. E come si è mostrato Dio ai tuoi occhi, domandò Giacomo, Come una nuvola, una colonna di fumo, Non di fuoco, No, non di fuoco, di fumo, E non ti ha detto nient’altro, Che sarebbe tornato allorquando fosse arrivato il momento, Il momento di che, Non so, forse di venire a prendere la mia vita, E quella gloria, quel potere, quando te li darà, Non lo so. Nuovo silenzio, nella casa in cui si trovavano si soffocava per il caldo, ma tutti tremavano. Poi Simone domandò seraficamente, Non sarai per caso il Messia, che dovremo chiamare figlio di Dio perché verrà a riscattare il popolo di Dio dalla servitù in cui si trova, Io, il Messia, Non sarebbe certo più sorprendente del fatto che fossi il figlio diretto del Signore, sorrise nervosamente Andrea. Disse Giacomo, Messia o figlio di Dio, quello che non capisco è come abbia potuto saperlo il Diavolo, se il Signore non l’ha annunciato neanche a te. Disse Giovanni, pensoso, Chissà quali cose a noi ignote ci saranno mai fra il Diavolo e Dio. Si guardarono timorosi, perché avevano paura di conoscerle, e Simone domandò a Gesù, Che cosa farai, e Gesù rispose, L’unica cosa che posso fare, aspettare l’ora. Ormai l’ora era molto vicina, ma Gesù, prima che arrivasse, per ben due volte ebbe ancora occasione di manifestare i suoi poteri miracolosi, anche se sulla seconda sarebbe preferibile far calare un velo di silenzio perché si trattò di un suo equivoco, il cui risultato fu la morte di un fico, esente da ogni male quanto quei poveri porci che i demoni precipitarono tra i flutti. Il primo di questi atti, però, meritava proprio di essere portato a conoscenza dei sacerdoti di Gerusalemme perché rimanesse inciso a lettere d’oro sul frontale del Tempio, giacché non si era mai veduta prima una cosa simile, né mai più si sarebbe rivista, fino al giorno d’oggi. Non concordano gli storici sui motivi che avrebbero portato tanta gente così diversa a radunarsi in quel luogo, sulla cui localizzazione, sia detto di passaggio e all’uopo, abbondano peraltro i dubbi, essendovi chi afferma, quanto ai motivi, che si trattava semplicemente di un pellegrinaggio tradizionale la cui origine si sarebbe ormai persa nella notte dei tempi, alcuni che, nossignore, dicono invece che era corsa voce, in seguito dimostratasi infondata, che era arrivato un plenipotenziario da Roma con l’annuncio di una riduzione delle tasse, e infine altri che, pur non proponendo alcuna ipotesi o soluzione al problema, sostengono che soltanto degli ingenui potrebbero credere a diminuzioni di oneri fiscali e a revisioni del carico tributario favorevoli al contribuente, e che, quanto all’origine ipoteticamente sconosciuta del pellegrinaggio, si potrebbe
pur sempre scoprire qualche indizio sulle cause primigenie se tutti coloro cui piace trovare sempre le cose bell’e pronte si prendessero la briga di indagare nell’immaginario collettivo. Quello che è certo e risaputo è che erano presenti fra i quattromila e i cinquemila uomini, senza contare donne e bambini, e che tutta questa gente, a un certo punto, si ritrovò senza avere di che mangiare. Come sia possibile che un popolo così previdente, così avvezzo a viaggiare e a premunirsi del fagottino anche quando si trattava di andare da qui a lì, si ritrovasse all’improvviso sprovvisto di un tozzo di pane e di una fetta di companatico, è qualcosa che nessuno, oggi, riesce a spiegarsi, e tanto meno ci prova. Ma i fatti sono fatti, e questi ci dicono che c’erano fra le dodici e le quindicimila persone, se questa volta non dimentichiamo di contare le donne e i bambini, con lo stomaco vuoto da non si sa quante ore e che dovevano prima o poi far ritorno a casa, col pericolo di rimanere lungo la strada a morire di inedia o affidandosi alla carità e alla buona sorte di qualche viandante. I bambini, che in questi casi sono sempre i primi a dare il segnale, già reclamavano impazienti, qualcuno piagnucolando, Mamma, ho fame, e la situazione minacciava di diventare, da un momento all’altro, come si diceva allora, incontrollabile. Gesù si trovava in mezzo a quella folla con Maria di Magdala, c’erano anche i suoi amici Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni, che dall’episodio dei porci e da quanto si era venuto a sapere in seguito, lo accompagnavano quasi sempre, ma che, al contrario di tutti gli altri presenti, si erano premuniti recando con sé qualche pesce e qualche pane. Erano, per così dire, serviti. Il mettersi a mangiare lì, davanti a tutta quella gente, oltre che essere la prova di un terribile egoismo, comportava alcuni rischi, visto che dalla necessità alla legge c’è solo un brevissimo passo, e la giustizia più rapida, lo sappiamo fin da Caino, è quella che ci si fa con le proprie mani. Gesù non era nemmeno sfiorato dall’idea di poter aiutare tante persone in un simile frangente, ma Giacomo e Giovanni, con la sicurezza che caratterizza i testimoni oculari, gli si avvicinarono e gli dissero, Se sei stato capace di far uscire dal corpo di un uomo i demoni che lo stavano uccidendo, devi anche essere in grado di far entrare nel corpo di questa gente il cibo di cui ha bisogno per campare, E come posso farlo se non possediamo altro che quanto abbiamo portato, Sei il figlio di Dio, puoi farlo. Gesù guardò Maria di Magdala, che gli disse, Ormai sei arrivato a un punto da cui non puoi tornare indietro, e l’espressione del suo viso appariva addolorata, Gesù non capì se fosse per lui o per tutta quella gente così affamata. Allora, prendendo i sei pani che avevano portato, li spezzò ciascuno in due metà e li distribuì fra i suoi compagni, lo stesso fece con i pesci, tenendo per sé un pane e un pesce. Poi disse, Venite con me e fate ciò che farò io. Ci è noto quello che fece, ma non sapremo mai come riuscì a farlo. Passava dall’uno all’altro, spartendo e consegnando il pane e il pesce, però ciascuno riceveva, in ogni pezzo, un pesce e un pane interi. Allo stesso modo
procedevano Maria di Magdala e i quattro amici, e dove passavano era come se un vento benevolo spirasse sulle messi, sollevando a una a una le spighe reclinate, con un forte rumore di ariste che erano, qui, le bocche che masticavano e ringraziavano, È il Messia, dicevano alcuni, È un mago, replicavano altri, ma a nessuno venne in mente di domandare, Sei il figlio di Dio. E Gesù diceva a tutti, Chi ha orecchie per intendere, intenda, se non dividerete, non moltiplicherete. Che Gesù lo abbia insegnato, è bene, perché ce n’era l’occasione. Ma quello che non va bene è che egli stesso abbia preso alla lettera la lezione quando non doveva, come nel summenzionato caso dell’albero di fico. Camminava Gesù lungo una strada di campagna quando avvertì una certa fame e, scorgendo in lontananza un fico ben fronzuto, andò a vedere se per caso non trovasse qualcosina, ma, arrivato sotto la pianta, non vide altro che foglie, giacché non era tempo di fichi. Disse allora, Non nasca mai più frutto da te, e all’istante l’albero si seccò. Disse Maria di Magdala, che era con lui, Darai a chi ne avrà bisogno, non chiederai a chi non avrà nulla. Pentito, Gesù ordinò al fico di risuscitare, ma quello era definitivamente morto. 22. Mattina di nebbia. Il pescatore si alza dal giaciglio, guarda dalla finestrella di casa lo spazio bianco e dice alla moglie, Oggi non vado, con una nebbia così persino i pesci si sperdono nell’acqua. Ha affermato questo e, con parole uguali o simili, lo hanno detto anche gli altri pescatori, sull’una e sull’altra riva, perplessi per la straordinaria novità di quella nebbia inconsueta per l’epoca dell’anno in cui siamo. Solo uno, che pescatore di mestiere non è, si affaccia alla porta di casa come per accertarsi che il suo giorno sia oggi e, guardando il cielo opaco, dice rivolto all’interno, Vado al lago. Alle sue spalle, Maria di Magdala ha domandato, Devi proprio andare, e Gesù ha risposto, Era ora, Non mangi, Gli occhi sono a digiuno quando si aprono al mattino. L’ha abbracciata e ha detto, Finalmente saprò chi sono e a quale scopo servo, poi con incredibile sicurezza, giacché la nebbia non consentiva di vedere neppure i propri piedi, è sceso per il pendio che conduceva all’acqua, è salito su una delle barche che erano ormeggiate lì e ha cominciato a remare verso il punto invisibile che si trovava in mezzo al lago. Il suono dei remi che sfioravano e picchiavano sul bordo della barca, gli spruzzi dell’acqua che colava, riecheggiavano su tutta la superficie e costringevano a restare a occhi aperti quei pescatori cui le buone mogli avevano detto, Se non puoi andare a pesca, approfittane e dormi. Inquieta, turbata, la gente dei dintorni guardava la nebbia impenetrabile nella direzione in cui doveva esserci il lago e inconsciamente aspettava che il rumore dei remi e dell’acqua si arrestasse all’improvviso, per rientrare in casa e, con chiavi, chiavistelli e catenacci, sprangare tutte le porte, pur sapendo che un soffio appena potrebbe abbatterle, se
l’uomo che si trova laggiù è colui che immaginano e se decidesse di spirare da questa parte. La nebbia si apre per lasciare passare Gesù, ma lo sguardo arriva al massimo alla punta dei remi, e alla poppa dove quella semplice traversa funge da panca. Il resto è un muro, all’inizio opaco e grigio, poi, man mano che la barca si avvicina alla meta, un chiarore indefinito comincia a rendere bianca e brillante la nebbia, che vibra come se cercasse nel silenzio, senza coglierlo, un suono. In un cerchio di luce più ampio la barca si ferma, è il centro del lago. Seduto sulla panca, a poppa, c’è Dio. Non è, come la prima volta, una nuvola, una colonna di fumo, ché oggi, con questo tempo, avrebbero potuto perdersi e confondersi con la nebbia. È un uomo massiccio e vecchio, con una fluente barba sparsa sul petto, il capo scoperto, i capelli lunghi, il viso largo e forte, la bocca turgida, che parlerà senza che le labbra sembrino muoversi. È vestito come un ricco ebreo, con la tunica lunga, color magenta, un mantello con le maniche, azzurro, bordato d’oro, ma ai piedi calza dei sandali grossolani, rustici, buoni, come si dice, per camminare, il che dimostra che non dev’essere un tipo dalle abitudini sedentarie. Quando non sarà più qui, ci domanderemo, Com’erano i capelli, e non ricorderemo se bianchi, neri o castani, dall’età dovrebbero essere bianchi, ma c’è gente cui la canizie viene tardi, forse è il nostro caso. Gesù tirò i remi in barca, come chi calcoli che la conversazione sarà lunga, e disse semplicemente, Eccomi qua. Senza fretta, metodicamente, Dio si sistemò il mantello sulle ginocchia e disse, Eccoci qua. Dal tono della voce, avremmo detto che aveva sorriso, ma le labbra rimasero immobili, si mossero solo i lunghi peli dei baffi e il mento, come le vibrazioni di una campana. Disse Gesù, Sono venuto per sapere chi sono e che cosa dovrò fare per rispettare, nei Tuoi confronti, la mia parte del contratto. Disse Dio, Si tratta di due cose diverse, quindi dobbiamo procedere per gradi, da quale vuoi cominciare, Dalla prima, chi sono io, domandò Gesù, Non lo sai, ribatté Dio, Pensavo di saperlo, credevo di essere figlio di mio padre, A quale padre ti riferisci, Al mio, al falegname Giuseppe, figlio di Eli, o di Giacobbe, non so bene, Quello che è morto crocifisso, Non pensavo che ce ne fosse un altro, È stato un tragico errore dei romani, quel padre è morto innocente e senza colpa, Hai detto quel padre, ciò significa che ce n’è un altro, Ti ammiro, sei un ragazzo sveglio, intelligente, In questo caso non è l’intelligenza che mi ha soccorso, l’ho udito dalla bocca del Diavolo, Te la fai con il Diavolo, Non me la faccio con il Diavolo, è venuto a trovarmi lui, E che cosa hai udito dalla sua bocca. Che sono Tuo figlio. Compassato, Dio fece un cenno affermativo con il capo e disse, Sì, sei mio figlio, Ma un uomo, come può essere figlio di Dio, Se sei il figlio di Dio, non sei un uomo, Io sono un uomo, vivo, mangio, dormo, amo come un uomo, quindi sono un uomo e da tale morirò, Al posto tuo, non ne sarei così sicuro, Che cosa vuoi dire, Questa è la seconda questione, ma abbiamo tempo, che cos’hai risposto al Diavolo quando ti ha detto che eri mio figlio, Al
riguardo niente, ho deciso di aspettare il giorno in cui ti avrei incontrato, e lui l’ho scacciato dal posseduto che stava tormentando, si chiamava Legione ed erano tanti, Dove sono adesso, Non lo so, Hai detto di averli cacciati via, Come certo saprai meglio Tu di me, quando si cacciano dei demoni da un corpo, non si sa mai dove vadano, E perché dovrei essere al corrente di materie diaboliche, Essendo Dio, devi sapere tutto, Fino a un certo punto, soltanto fino a un certo punto, A quale punto, Quello in cui comincia a essere interessante far finta di ignorare, Almeno saprai come, perché e a che scopo sono Tuo figlio, Considerata la situazione, noto che sei molto più sbrigativo, e anche leggermente impertinente, di quando ti ho incontrato la prima volta, Ero un ragazzo spaventato, adesso sono un uomo, Non hai paura, No, L’avrai, sta’ tranquillo, la paura arriva sempre, persino a un figlio di Dio, Ne hai altri, Altri che, Figli, Me ne serviva solo uno, E io, come sono arrivato a essere Tuo figlio, Tua madre non te l’ha detto, Mia madre lo sa, Ho mandato un angelo a spiegarle com’erano andate le cose, pensavo che te l’avesse raccontato, E quell’angelo quando si è recato da mia madre, Lasciami pensare, se non sbaglio di molto i calcoli, è stato dopo che te ne sei andato da casa la seconda volta e prima che facessi quella del vino a Cana, Allora mia madre lo sapeva e non me l’ha detto, le avevo raccontato di averti incontrato nel deserto e lei non mi aveva creduto, comunque avrebbe dovuto credermi dopo l’apparizione dell’angelo, ma non ha voluto riconoscerlo davanti a me, Devi pur saperlo come sono le donne, con una ci vivi, ché io lo so, hanno quei loro pudori, quegli scrupoli, soltanto loro, Che pudori, che scrupoli, Capirai, io avevo mischiato il mio seme con quello di tuo padre prima che tu fossi concepito, era il modo più facile, dava meno nell’occhio, Ma visto che i semi erano mischiati, come puoi essere certo che io sia figlio Tuo, È pur vero che in generale, riguardo a questi argomenti, non è prudente mostrare sicurezza, tanto meno assoluta, ma io ce l’ho, a qualcosa mi servirà pure essere Dio, E per quale motivo hai voluto un figlio, Siccome non ne avevo nessuno in cielo, ho dovuto trovarmelo sulla terra, niente di originale, persino nelle religioni popolate di dei e dee che potevano fare figli insieme, se n’è visto qualcuno scendere sulla terra, per variare, suppongo, e nello stesso tempo per migliorare un po’ una parte del genere umano, creando eroi e fenomeni vari, E questo figlio che sono io, perché lo hai voluto, Certamente, non per il gusto di variare, inutile dirlo, Allora perché, Perché mi serviva qualcuno che mi aiutasse qui sulla terra, Da Dio, quale Tu sei, non dovresti avere bisogno di aiuto, Ecco la seconda questione. Nel silenzio che seguì si cominciò a sentire dall’interno della nebbia, ma come se non provenisse da una direzione precisamente individuabile, il rumore di qualcuno che stesse avvicinandosi a nuoto e che, a giudicare dal respiro, o non apparteneva a nessuna corporazione di maestri nuotatori, o era sul punto di giungere al limite delle forze. A Gesù parve di vedere che Dio sorridesse e prolungasse apposta la pausa, per
dare tempo al nuotatore di affacciarsi nel cerchio limpido e senza nebbia di cui la barca costituiva il centro. Si levò a dritta, inaspettata, mentre si sarebbe detto che stava per arrivare dall’altro lato, una macchia scura indefinita in cui, al primo istante, l’immaginazione di Gesù credette di scorgere un maiale con le orecchie tese fuori dell’acqua, ma che, dopo qualche altra bracciata, si vide essere un uomo o qualcosa che di un uomo aveva tutte le apparenze. Dio volse il capo verso il nuotatore, non solo con curiosità, ma pure con interesse, come se volesse incitarlo nell’ultimo sforzo, e questo gesto, forse per l’eccelsa provenienza, sortì un effetto immediato, le ultime bracciate furono rapide e armoniose, non sembrava neppure che il nuovo arrivato venisse da così lontano, dalla riva, vogliamo dire. Le mani si aggrapparono al bordo della barca mentre la testa si trovava ancora per metà immersa nell’acqua, ed erano mani larghe e possenti, dalle unghie forti, le mani di un corpo che, come quello di Dio, doveva essere massiccio, alto e vecchio. La barca oscillò sotto lo slancio, la testa emerse dall’acqua, il tronco la seguì gocciolando a mo’ di cataratta, le gambe appresso, era il leviatano che sorgeva dalle remote profondità, era, come si vide, il pastore che, dopo tutti quegli anni, diceva, Eccomi qua, mentre si piazzava sul bordo della barca, esattamente a mezza via fra Gesù e Dio, eppure, caso singolare, questa volta l’imbarcazione non s’inclinò dalla sua parte, come se Pastore avesse deciso di liberarsi del proprio peso o levitasse pur sembrando seduto. Eccomi qua, ripeté, spero di essere arrivato in tempo per assistere alla conversazione, Eravamo già abbastanza avanti, ma non ancora giunti al punto cruciale, disse Dio e, rivolgendosi a Gesù, Questo è il Diavolo, di cui stavamo parlando poco fa. Gesù guardò l’uno, poi l’altro, e vide che, tranne che per la barba di Dio, erano come gemelli, certo, il Diavolo sembrava più giovane, con meno rughe, ma doveva essere un’illusione ottica o un inganno da lui stesso perpetrato. Disse Gesù, So chi è, ho vissuto quattro anni in sua compagnia, quando si chiamava Pastore, e Dio rispose, Dovevi pur vivere con qualcuno, con me non era possibile, con la tua famiglia non volevi, rimaneva soltanto il Diavolo, È stato lui a venire a cercarmi, oppure Tu a mandarmi da lui, A rigore, né l’una né l’altra cosa, diciamo che eravamo d’accordo che fosse la soluzione migliore per il tuo caso, Perciò lui sapeva quello che diceva quando, per bocca di quel posseduto gadareno, mi ha chiamato figlio di Dio, Proprio così, Ciò vuol dire che sono stato ingannato da entrambi, Come sempre succede agli uomini, Avevi detto che non sono un uomo. E lo confermo, potremmo piuttosto dire, qual è il termine tecnico, potremmo dire che ti sei incarnato, E adesso, che cosa volete da me, A volere sono io, non lui, Siete qui tutt’e due, mi sono accorto, sai, che la sua comparsa non ti ha sorpreso affatto, quindi lo aspettavi, Non precisamente, sebbene, per principio, si debba sempre tenere conto del Diavolo, Ma se la questione che dobbiamo trattare Tu e io riguarda soltanto noi, perché mai è venuto anche lui, perché non lo mandi via, Si
può sempre congedare il popolino che il Diavolo tiene al suo servizio, qualora cominci a costituire un incomodo con atti o con parole, ma il Diavolo, lui in persona, no, Quindi è venuto perché questa conversazione riguarda anche lui, Figlio mio, non dimenticare quello che sto per dirti, tutto quanto interessa Dio, interessa anche il Diavolo. Pastore, che talvolta chiameremo così per non menzionare ogni momento il nome del Nemico, ascoltò il dialogo senza mostrare alcun interessamento, come se non si stesse affatto parlando di lui, negando apparentemente in questo modo l’ultima e fondamentale affermazione di Dio. Ma si vide subito che il disinteresse non era altro che finzione, bastò che Gesù dicesse, Parliamo adesso della seconda questione, ed eccolo allerta. Eppure, dalla sua bocca non uscì una sola parola. Dio trasse un profondo respiro, guardò la nebbia intorno e mormorò, col tono di chi abbia appena fatto una scoperta inattesa e curiosa, Non ci avevo pensato, qui è come stare nel deserto. Volse lo sguardo verso Gesù, fece una lunga pausa e poi, come chi si rassegni all’inevitabile, esordì, L’insoddisfazione, figlio mio, è stata posta nel cuore degli uomini dal Dio che li ha creati, e cioè da me, è chiaro, ma questa insoddisfazione, come tutto il resto che ho fatto a mia immagine e somiglianza, sono andato a prenderla là dove si trovava, nel mio cuore, e il tempo da allora trascorso non l’ha fatta svanire, al contrario, posso dirti che il tempo l’ha resa addirittura più intensa, più pressante, più inappagabile. A questo punto, Dio fece una breve pausa, come per assaporare l’effetto dell’introduzione, poi proseguì, È da quattromila anni che sono il Dio degli ebrei, gente per sua natura litigiosa e complicata, ma con cui, stilato un bilancio dei nostri rapporti, non mi sono trovato male, visto che mi prendono sul serio e continueranno a farlo fino a dove la mia visione del futuro può arrivare, Dunque, sei soddisfatto, disse Gesù, Lo sono e, nel contempo, non lo sono, o meglio, lo sarei se non fosse per questo mio cuore inquieto che tutti i giorni mi ripete, Sissignore, che bel destino ti ritrovi, dopo quattromila anni di fatiche e di preoccupazioni, ché i sacrifici sugli altari, per quanto abbondanti e vari siano, non ti ripagheranno mai, sei sempre il Dio di un popolo piccolissimo che vive in una parte minuscola del mondo che tu hai creato con tutto quello che c’è sopra, dimmi tu, figlio mio, se posso vivere soddisfatto avendo, per così dire, questa dimostrazione frustrante davanti agli occhi tutti i giorni, Non ho creato nessun mondo, non posso giudicare, disse Gesù, Infatti, non puoi giudicare, ma aiutare sì, Aiutare a che cosa, Ad allargare la mia influenza, a essere il Dio di molta più gente, Non capisco, Se interpreterai bene la tua parte, cioè il ruolo che ti ho riservato nel mio piano, sono sicurissimo che in poco più di una mezza dozzina di secoli, sia pur dovendo lottare, tu e io, contro tante avversità, da Dio degli ebrei diventerò Dio di coloro che chiameremo cattolici, alla greca, E qual è il ruolo che mi hai destinato nel Tuo piano, Quello di martire, figlio mio, quello di vittima, quanto c’è di meglio per diffondere una
dottrina e infervorare una fede. Le parole martire e vittima, a Dio uscirono dalla bocca come se la lingua all’interno fosse di latte e miele, ma un improvviso gelo fece rabbrividire le membra di Gesù, quasi la nebbia lo avesse avvolto, mentre il Diavolo lo guardava con un’espressione enigmatica, un misto di interesse scientifico e di involontaria pietà. Mi hai detto che mi avresti dato potere e gloria, balbettò Gesù, ancora tremante di freddo, E te li darò, te li darò, ma ricordati del nostro accordo, li avrai, ma dopo la tua morte, E a che cosa mi serviranno potere e gloria, se sarò morto, Be’, non sarai proprio morto, perlomeno non nel senso stretto della parola, giacché, essendo tu figlio mio, sarai con me, o in me, non ho ancora ben deciso, Secondo la Tua concezione, che cosa significa non essere morto, Significa, per esempio, vedere per l’eternità come ti venereranno nei templi e sugli altari, al punto che, posso già anticipartelo, in futuro la gente si dimenticherà parzialmente del Dio originario che sono io, ma questo non ha importanza, il molto si può spartire, il poco non va diviso. Gesù guardò Pastore, lo vide sorridere e comprese, Adesso capisco perché è qui presente il Diavolo, se la Tua autorità finirà per estendersi sopra altre genti e altri paesi, anche il suo potere sugli uomini aumenterà, giacché i Tuoi limiti sono anche i suoi, né un passo di più né uno di meno, Hai perfettamente ragione, figlio mio, mi rallegro per la tua perspicacia, e la prova la ritrovi nel fatto, cui non si bada mai, che i demoni di una religione non possono mai interferire in un’altra, come un dio, supponendo che sia entrato in diretta concorrenza con un altro, non lo può vincere né esserne sconfitto, E la mia morte, come sarà, A un martire si addice una morte dolorosa e, se possibile, infame perché l’atteggiamento dei credenti sia più facilmente disponibile, appassionato, emotivo, Non tergiversare oltre, dimmi che morte sarà la mia, Dolorosa, infame, sulla croce, Come mio padre, Tuo padre sono io, non dimenticarlo, Se mi è ancora possibile scegliere un padre, scelgo lui, anche se è stato, com’è stato, infame in un momento della vita, Sei stato scelto, non puoi scegliere, Rompo il contratto, mi dissocio da Te, voglio vivere come un uomo qualunque, Parole inutili, figlio mio, ancora non hai capito che sei in mio potere e che tutti quei documenti suggellati che chiamiamo accordo, patto, trattato, contratto, alleanza, nei quali io figuro come parte, potrebbero contenere una sola clausola, per un minore spreco di inchiostro e carta, una clausola che prescrivesse senza infioramenti, Tutto quanto la Legge di Dio voglia, è obbligatorio, comprese le eccezioni, ebbene, figlio mio, essendo tu, in un certo e notevole senso, un’eccezione, finisci per essere obbligatorio com’è la Legge, e io che l’ho fatta, Ma con il potere che Tu solo hai, non ti sarebbe più facile, ed eticamente più corretto, andare di persona alla conquista di quei paesi e di quelle genti, Non può essere, lo impedisce il patto che esiste fra gli dei, quello sì, inviolabile, di non interferire mai direttamente nei conflitti, immaginati me in una piazza pubblica, circondato di Gentili e di pagani, mentre tento
di convincerli che il loro dio è una frode e che quello vero sono io, non sono cose che un dio possa fare a un altro, e inoltre a nessun dio piace che gli vadano a fare dentro casa ciò che sarebbe scorretto che lui andasse a fare in casa d’altri, Allora, vi servite degli uomini, Sì, figlio mio, l’uomo è un pezzo di legno buono per ogni cucchiaio, da quando nasce fino al momento in cui muore è sempre pronto a obbedire, lo mandano lì e lui ci va, gli dicono di fermarsi e lui si ferma, gli ordinano di tornare indietro e lui indietreggia, l’uomo, sia in pace che in guerra, per dirla con termini generici, è la miglior cosa che potesse capitare agli dei, E il pezzo di legno di cui, essendo uomo, sono fatto, a quale cucchiaio servirà, essendo figlio Tuo, Sarà il cucchiaio che io immergerò nell’umanità per ritirarlo pieno di quegli individui che crederanno nel Dio nuovo in cui mi trasformerò, Pieno di uomini, per divorarli, Non ha bisogno di essere divorato da me colui che si sbranerà da solo. Gesù mise i remi in acqua, disse, Addio, me ne vado a casa, tornatevene per la strada da cui siete venuti, tu, a nuoto, e Tu, che sei comparso di punto in bianco, scompari nello stesso modo. Né Dio né il Diavolo si mossero da dove stavano e, ironico, Gesù soggiunse, Ah, preferite la barca, infatti è meglio, sissignori, vi porto fino a riva perché finalmente tutti possano vedere Dio e il Diavolo in persona, più se la intendono e più si somigliano. Gesù fece virare la barca di mezzo giro, puntandola verso la sponda da cui era venuto e, con un paio di remate ampie e robuste, si infilò nella nebbia, talmente fitta che in quel preciso istante Dio non si vide più, e del Diavolo si perse anche la sagoma. Si sentì forte e felice, pieno di un vigore straordinario, dal punto in cui era non riusciva a vedere la prua della barca, ma la sentiva sollevarsi a ogni remata come la testa di un cavallo al galoppo, che da un momento all’altro sembra voglia staccarsi dal pesante corpo, ma deve rassegnarsi a trascinarselo fino alla fine. Gesù remò, remò, la riva dovrebbe ormai essere vicina, si domanda quale sarà l’atteggiamento delle genti quando dirò loro, Quello con la barba è Dio, l’altro è il Diavolo. Gesù lanciò un’occhiata dietro di sé, dov’era la costa, intravide un chiarore diverso e dichiarò, Ci siamo, e continuò a remare. Da un momento all’altro si aspettava di udire la chiglia scivolare sul fango denso della riva, sfiorare i sassolini crepitanti, ma la prua della barca, che non vedeva, era invece rivolta verso il centro del lago, e quanto alla luce che aveva scorto, era di nuovo quella del brillante cerchio magico, quella della sfolgorante trappola cui Gesù pensava di essere sfuggito. Esausto, reclinò il capo sul petto, incrociò le braccia sopra le ginocchia, i polsi l’uno sull’altro, come se aspettasse che qualcuno andasse a legarglieli, e non pensò neppure a tirare i remi a bordo, tanto gli si era fatta imperiosa ed esclusiva la consapevolezza dell’inanità di qualunque gesto avesse compiuto. Non sarebbe stato il primo a parlare, non avrebbe ammesso ad alta voce la sconfitta né chiesto perdono per non avere rispettato la volontà e i decreti di Dio, attentando
indirettamente agli interessi del Diavolo, naturale beneficiario dei secondi, benché non secondari, effetti dell’uso della volontà e dell’effettiva realizzazione dei progetti del Signore. Dopo quel tentativo frustrato, il silenzio fu breve, là sulla panca, Dio, accomodatosi un lembo della tunica e il cappuccio del mantello con la falsa solennità rituale del giudice in procinto di emettere la sentenza, disse, Riprendiamo, ricominciamo dal momento in cui ti ho detto che sei in mio potere, perché tutto quanto non sia una tua accettazione, umile e serena, di questa verità è tempo che tu non dovresti perdere né costringere me a sprecare, Ricominciamo pure, disse Gesù, ma prendi nota fin da ora che io rifiuto di compiere quei miracoli della cui opportunità non sia convinto, e, senza miracoli, il Tuo progetto è inutile, un acquazzone che scende giù dal cielo, ma che non basta a spegnere nessuna sete, Avresti ragione se fosse in mano tua il potere di fare o no miracoli, E non lo è, Che idea, i miracoli, sia i piccoli sia i grandi, sono sempre io a farli, in tua presenza, è chiaro, perché tu possa ottenere i vantaggi che mi convengono, in fondo sei superstizioso, credi che il miracolante debba stare al capezzale dell’infermo perché il miracolo si compia, ebbene, se io lo volessi, un uomo sul punto di morire senza nessuno accanto, nella più grande solitudine, senza medici né infermieri né parenti amati a portata di mano o di voce, se io lo volessi, ripeto, quell’uomo si salverebbe e continuerebbe a vivere, come se nulla gli fosse capitato, Perché non lo fai, allora, Perché lui penserebbe che la guarigione gli sia venuta per i suoi meriti personali, prenderebbe a dire cose del tipo, Uno come me non poteva morire, ebbene, c’è già troppa presunzione nel mondo che ho creato, non posso certo permettere che la confusione nelle opinioni arrivi a tanto, Quindi, tutti i miracoli sono Tuoi, Quelli che hai fatto e quelli che farai, e pur ammettendo, ma si tratta di una semplice ipotesi, utile unicamente a chiarire la questione che ci ha portati qui, pur ammettendo che tu spingessi oltre quest’ostinazione contro la mia volontà, andandotene in giro per il mondo, è solo un esempio, ad annunciare ai quattro venti che non sei il figlio di Dio, la mia azione sarebbe quella di provocare al tuo passaggio tanti e tali miracoli che non potresti far altro che arrenderti di fronte a chi ringraziasse te, e di conseguenza me, Non ho via d’uscita allora, Nessuna, e non fare come l’agnello inquieto che non vuole andare al sacrificio, si agita, geme da strapparti il cuore, ma il suo destino è scritto, il sacrificante lo aspetta con il coltello, Sono io quell’agnello, Tu sei, figlio mio, l’agnello di Dio, l’agnello che Dio porta personalmente al suo altare, che è quello che stiamo preparando qui. Gesù guardò Pastore come se ne aspettasse, non un aiuto ma, essendo inevitabilmente diverso il suo modo di intendere le cose del mondo, ché uomo lui non è né mai è stato, come non è mai stato dio né mai lo sarà, forse uno sguardo o un cenno con le sopracciglia che potesse suggerirgli una risposta furba, dilatoria, capace
di cavarlo, sia pure soltanto per qualche tempo, da quella situazione da animale braccato in cui si trova. Ma ciò che Gesù legge negli occhi di Pastore sono le parole con cui lo ha scacciato dal gregge, Non hai imparato niente, vattene, adesso Gesù capisce che disobbedire a Dio una volta non basta, colui che non gli ha sacrificato l’agnello, non deve immolargli la pecora, ché a Dio non si può dire, Sì, per poi dirgli, No, come se il sì e il no fossero la mano sinistra e la mano destra, e fosse buono soltanto il lavoro fatto da entrambe. Dio, malgrado le solite dimostrazioni di forza, è l’universo e le stelle, è i fulmini e i tuoni, è le voci e il fuoco sulla vetta della montagna, non aveva alcun potere per costringerti a uccidere la pecora, eppure tu, per ambizione, l’hai uccisa, il sangue che la pecora ha versato non è stato tutto assorbito dalla terra del deserto, vedi, è arrivato fino a noi, è quella striscia rossa sull’acqua che, quando ce ne andremo, dovrà venirci dietro seguendo le nostre tracce, te, Dio e me. Gesù disse a Dio, Annuncerò agli uomini che sono Tuo figlio, l’unico figlio che Dio abbia, ma non credo che, anche in queste terre che ti appartengono, questo sia sufficiente perché, in ottemperanza al Tuo desiderio, si estenda il Tuo dominio, Finalmente, ti riconosco figlio mio, ora che hai abbandonato quelle noiose velleità di resistenza, con le quali sei arrivato quasi a irritarmi, ed entri con i tuoi piedi nel modus faciendi, ebbene, fra le innumerevoli cose che agli uomini possono essere dette, qualunque sia la loro razza, il loro colore, il loro credo o filosofia, una sola è pertinente a tutti, una sola, nel senso che nessuno di quegli uomini, saggio o ignorante, giovane o vecchio, potente o miserabile, oserebbe risponderti, Questo non mi riguarda, Di che si tratta, domandò Gesù, senza più celare il suo interesse, Ogni uomo, rispose Dio con il tono di chi sale in cattedra, chiunque egli sia, ovunque si trovi, qualunque cosa faccia, è un peccatore, e il peccato, per così dire, è tanto inscindibile dall’uomo quanto questi è divenuto inseparabile dal peccato, l’uomo è una moneta, rivoltala e troverai il peccato, Non hai risposto alla mia domanda, Sto rispondendo, sì, e in questo modo, l’unica parola che nessun uomo può respingere come qualcosa che non gli appartenga è, Pentiti, perché tutti gli uomini sono caduti nel peccato, sia pure una volta sola hanno avuto un cattivo pensiero, hanno infranto un’usanza, hanno commesso un delitto più o meno grave, hanno disprezzato chi aveva bisogno di loro, hanno mancato ai doveri, hanno offeso la religione e i suoi ministri, hanno rinnegato Dio, a quegli uomini tu non dovrai dire altro che, Pentitevi, pentitevi, pentitevi, Per così poco non dovresti aver bisogno di sacrificare la vita di colui del quale dici di essere padre, basterebbe che facessi apparire un profeta, Il tempo in cui li ascoltavano ormai è passato, oggi si raggiunge l’obiettivo solo con un revulsivo forte, qualcosa capace di colpire la sensibilità e di scuotere i sentimenti, Un figlio di Dio sulla croce, Per esempio, E che cos’altro dovrei dire a quella gente, oltre che intimare loro un dubbioso pentimento se, stufi del Tuo
messaggio, mi voltassero le spalle, Be’, ordinargli di pentirsi non credo che sia sufficiente, dovrai ricorrere alla fantasia, e non dire che non ne possiedi, ancora oggi mi sorprende il modo in cui sei riuscito a non sacrificarmi quell’agnello, È stato facile, quell’animale non aveva niente di cui pentirsi, Risposta spiritosa, ma senza senso, eppure anche questo è utile, può lasciare la gente inquieta, dubbiosa, spingerla a pensare che se non riesce a capire, la colpa è soltanto sua, Devo raccontare delle storie, allora, Sì, storie, parabole, esempi morali, anche se dovrai forzare un po’ la Legge, non badarci, è un ardimento che gli uomini timorati apprezzano sempre negli altri, anche a me, ma non certo perché sia timorato, è piaciuto il modo con il quale hai salvato dalla morte quell’adultera, e guarda che è già tanto che io lo dica, giacché quella giustizia ce l’ho messa io nelle regole che vi ho dato, Dunque permetti che si sovvertano le tue leggi, è un brutto segno, Lo consento quando mi serve, e addirittura lo esigo quando mi è utile, ricorda quanto ti ho spiegato su Legge ed eccezioni, quello che vuole la mia volontà diventa obbligatorio all’istante, Hai detto che morirò sulla croce. È questa la mia volontà. Gesù guardò fugacemente il pastore, ma questi aveva un’espressione assente, come se stesse contemplando un momento del futuro e faticasse a credere quanto vedevano i suoi occhi. Gesù lasciò ricadere le braccia e disse, Sia fatta allora in me la Tua volontà. Dio stava per congratularsi, alzandosi dalla panca per abbracciare il figlio amato, quando un gesto di Gesù lo bloccò, A una condizione, Sai bene che non puoi porre condizioni, rispose Dio con espressione contrariata, Non chiamiamola condizione, chiamiamola richiesta, la semplice richiesta di un condannato a morte, Parla, Tu sei Dio, e Dio non può che rispondere con la verità a qualunque domanda gli venga rivolta, e quindi, essendo Dio, conosci tutto il tempo passato, la vita attuale, che si trova nel mezzo, e tutto il tempo futuro, Infatti, io sono il tempo, la verità e la vita, Allora, in nome di tutto ciò che affermi di essere, dimmi come sarà il futuro dopo la mia morte, che cosa ci sarà che non sarebbe esistito se io non avessi accettato di sacrificarmi alla Tua insoddisfazione, a quel Tuo desiderio di regnare su altre genti e altri paesi. Dio ebbe un moto di fastidio, come chi si ritrova imprigionato nella rete creata dalle proprie parole, e tentò, senza grande convinzione, una risposta evasiva, Be’, figlio mio, il futuro è enorme, e per raccontarlo ci vuole molto tempo, Da quanto tempo siamo qui tra le acque, circondati dalla nebbia, domandò Gesù, un giorno, un mese, un anno, ebbene, restiamoci un altro anno, un altro mese, un altro giorno, che il Diavolo se ne vada pure, se vuole, comunque ha già la sua parte garantita, e se i vantaggi saranno in proporzione, come appare giusto, quanto più Dio crescerà, tanto più crescerà il Diavolo, Rimango, disse Pastore, era la sua prima parola da quando si era annunciato, Rimango, ripeté, e aggiunse, Anch’io posso scorgere alcune cose del futuro, ma non sempre riesco a distinguere se ciò che credo di vedere sia verità o
menzogna, cioè, le mie menzogne le vedo per quello che sono, le mie verità, ma non so mai fino a quale punto le menzogne degli altri siano le loro verità. La labirintica sparata richiedeva, perché avesse una degna conclusione, che Pastore dicesse che cosa vedeva del futuro, ma la sua bocca si chiuse bruscamente, come chi abbia capito all’improvviso di avere parlato troppo. Gesù, che non aveva distolto lo sguardo da Dio, disse, con una sorta di triste ironia, A che pro fingere di non sapere quello che conosci, sapevi che ti avrei fatto questa richiesta, sai che mi dirai ciò che voglio sapere, quindi non ritardare ulteriormente il momento in cui comincerò a morire, Hai cominciato a morire quando sei nato, Infatti, ma adesso andrò più in fretta. Dio guardò Gesù con un’espressione che, in un essere umano, avremmo definito d’improvviso rispetto, tutto il Suo essere e il Suo modo di fare si umanizzarono e, anche se apparentemente gli eventi non erano correlati, ma noi non sapremo mai quali profonde relazioni esistano fra tutte le cose e le azioni, la nebbia avanzò verso la barca, la circondò come un’insormontabile muraglia, perché non ne uscissero e si diffondessero nel mondo le parole di Dio sugli effetti, sui risultati e sulle conseguenze del sacrificio di questo Gesù, figlio Suo, come sostiene, e di Maria, ma il cui vero padre è Giuseppe, secondo quella legge non scritta che fa credere solo in ciò che si vede, anche se, ormai si sa, non sempre noi uomini vediamo le medesime cose alla stessa maniera, il che d’altronde si è dimostrato eccellente per la sopravvivenza e la relativa salute mentale della specie. Disse Dio, Ci sarà una Chiesa che, come tu sai, vuol dire assemblea, una società religiosa che fonderai, o che nel tuo nome sarà edificata. il che, se ci atteniamo all’essenziale, è più o meno la stessa cosa, e questa Chiesa si diffonderà nel mondo fino a confini ancora da scoprire, si chiamerà cattolica perché sarà universale, ma ciò purtroppo non eviterà discordie e dissensi fra coloro che avranno te come riferimento spirituale, piuttosto che, come ti ho già detto, me stesso, tuttavia questo avverrà solo per qualche tempo, solo per qualche migliaio di anni, perché io esistevo già prima che esistessi tu ed esisterò sempre, dopo che tu non sarai più quello che sei e quello che sarai, Parla chiaro, lo interruppe Gesù, Non è possibile, disse Dio, le parole degli uomini sono come ombre, e le ombre non potrebbero mai spiegare la luce, fra le ombre e la luce c’è, e si frappone, il corpo opaco che le genera, Ti ho chiesto del futuro, E io sto parlando di quello, Ma io voglio che Tu mi dica come vivranno gli uomini che verranno dopo di me, Ti riferisci a quelli che ti seguiranno, Sì, se saranno più felici, Più felici, per quello che intendiamo con il termine felice, non direi, ma avranno la speranza di una felicità lassù, nel cielo dove io vivo eternamente, e quindi la speranza di vivere per sempre con me, Nient’altro, Ti pare poco, vivere con Dio, Poco, molto o tutto, lo si saprà soltanto dopo il Giudizio Universale, quando giudicherai gli uomini per il bene e il male che avranno fatto, per il momento vivi da
solo nel Tuo cielo, Ho i miei angeli e i miei arcangeli, Ti mancano gli uomini, Infatti, mi mancano, ed è proprio perché essi vengano a me che tu sarai crocifisso, Voglio sapere di più, disse Gesù quasi con violenza, come se volesse allontanare l’immagine di sé che gli si era presentata, appeso a una croce, insanguinato, morto, Voglio sapere come arriveranno gli uomini a credere in me e a seguirmi, e non dirmi che sarà sufficiente quello che dirò loro, non dirmi che basterà ciò che dopo di me diranno nel mio nome coloro che in me credevano, ti faccio un esempio, i Gentili e i romani, che hanno altri dei, non venirmi a raccontare che senza dire né a né ba li scambieranno con me, Con te, no, con me, Con te o con me, sei Tu a dire che è lo stesso, non giochiamo con le parole, rispondi alla mia domanda, Chi avrà fede, verrà a noi, Così, senza nient’altro, semplicemente come lo stai dicendo, Gli altri dei resisteranno, E tu lotterai contro di loro, certo, Che sciocchezza, tutto quello che succede, è sulla terra che accade, il cielo è eterno e pacifico, il destino degli uomini lo compiono gli uomini là dove si trovano, Per dirla chiaramente, per quanto le parole siano ombre, moriranno degli uomini per Te e per me, Gli uomini sono sempre morti per gli dei, persino per dei falsi e menzogneri, Ma possono mentire gli dei, Eccome, E Tu, fra tutti, sei l’unico e il vero, Unico e vero, sì, E pur essendo vero e unico, non puoi comunque evitare che gli uomini muoiano per Te, loro che dovrebbero essere nati per vivere per Te, sulla terra, intendo dire, non in cielo, dove Tu non potrai donare loro nessuna delle gioie della vita, Gioie false, anch’esse, perché sono nate con il peccato originale, chiedilo al tuo Pastore, ti spiegherà lui com’è andata, Se fra Te e il Diavolo esistono segreti non condivisi, spero che uno sia quello che ho appreso da lui, anche se lui afferma che non ho imparato niente. Scese il silenzio, Dio e il Diavolo si guardarono in faccia per la prima volta, entrambi diedero l’impressione di essere sul punto di parlare, ma non accadde nulla. Disse Gesù, Sto aspettando, Che cosa, domandò Dio, come se fosse distratto, Che Tu mi dica quanta morte e quanta sofferenza costerà la Tua vittoria sugli altri dei, con quanta sofferenza e con quanta morte si pagheranno le lotte che, nel Tuo nome e nel mio, gli uomini che crederanno in noi scateneranno gli uni contro gli altri, Insisti nel volerlo sapere, Insisto, Ebbene, si edificherà l’assemblea di cui ti ho parlato, ma le sue fosse, per essere ben salde, dovranno essere scavate nella carne, e le sue fondamenta composte da un cemento di rinunce, lacrime, dolori, torture, di tutte le morti oggi immaginabili e di altre che solo nel futuro si conosceranno, Finalmente, adesso sei chiaro e immediato, continua, Per cominciare da chi conosci e ami, il pescatore Simone, che chiamerai Pietro, sarà come te crocifisso, ma con la testa all’ingiù, e crocifisso dovrà essere anche Andrea, su una croce a forma di X, il figlio di Zebedeo, quello di nome Giacomo, lo decolleranno, e Giovanni e Maria di Magdala invece moriranno di morte naturale, quando saranno finiti i loro giorni, ma avrai altri amici, discepoli e apostoli come
quelli già nominati, che non sfuggiranno ai supplizi, come per esempio un Filippo, legato alla croce e lapidato fino a quando la vita gli si sarà spenta, un Bartolomeo, che sarà scuoiato vivo, un Tommaso, che ammazzeranno a colpi di lancia, un Matteo, che adesso non ricordo come morirà, un altro Simone, segato a metà, un Giuda, ucciso a colpi d’accetta, un altro Giacomo, lapidato, un Mattia, decollato con una scure, e anche Giuda Iscariota, ma di questo ne saprai meglio tu di me, tranne la morte, impiccato con le sue stesse mani a un fico, Dovranno morire tutti per Te, domandò Gesù, Se la metti in questi termini, sì, moriranno tutti per causa mia, E poi, Poi, figlio mio, sarà una storia interminabile di ferro e sangue, di fuoco e ceneri, un mare infinito di sofferenza e lacrime, Racconta, voglio sapere tutto. Dio sospirò e, col tono monocorde di chi abbia preferito soffocare la pietà e la misericordia, attaccò la litania, in ordine alfabetico per evitare suscettibilità in merito alla precedenza, Adalberto di Praga, ucciso con uno spuntone a sette punte. Adriano, ucciso a martellate sopra un’incudine, Afra di Asburgo, morta sul rogo, Agapito di Preneste, morto sul rogo, appeso per i piedi, Agata di Sicilia, morta con i seni recisi, Agricola di Bologna, crocifisso e trafitto di chiodi, Alfegio di Canterbury, ucciso a colpi di osso di bue, Anastasia di Sirmio, morta sul rogo coi seni recisi, Anastasio di Salona, impiccato e decapitato, Ansano di Siena, ucciso per eviscerazione, Antonino di Pamiers, ucciso per squartamento, Antonio di Rivoli, ucciso a sassate e bruciato, Apollinare di Ravenna, ucciso a mazzate, Apollonia di Alessandria, morta sul rogo dopo che le avevano strappato i denti, Augusta di Treviso, uccisa per decapitazione e bruciata, Aura di Ostia, annegata con una mola al collo, Aurea di Siria, morta dissanguata, seduta sopra una sedia ricoperta di chiodi, Auta, ammazzata a frecciate, Babila di Antiochia, ucciso per decapitazione, Barbara di Nicomedia, uccisa per decollazione, Barnaba di Cipro, lapidato e bruciato, Beatrice di Roma, uccisa per strangolamento, Benigno di Digione, ucciso a colpi di lancia, Biagio di Sebaste, ucciso con carde di ferro, Blandina di Lione, uccisa a cornate da un toro selvaggio, Callisto, strangolato con una mola, Cassiano di Imola, ucciso dai suoi alunni con uno stiletto, Castulo, sepolto vivo, Caterina di Alessandria, uccisa per decapitazione, Cecilia di Roma, uccisa per decollazione, Chiaro di Nantes, ucciso per decapitazione, Chiaro di Vienna, ucciso per decapitazione, Chiteria di Coimbra, decapitata dal proprio padre, un orrore, Cipriano di Cartagine, ucciso per decapitazione, Ciro di Tarso, ucciso ancora bambino da un giudice che gli batté la testa contro le scale del tribunale, Clemente, annegato con un’ancora al collo, Crispino e Crispiniano di Soissons, uccisi per decapitazione, Cristina di Bolsena, uccisa con tutto quanto si possa fare con mola, ruota, tenaglie, frecce e serpenti, Cucufate di Barcellona, ammazzato e sventrato, arrivato alla fine della lettera C, Dio disse, Poi è tutto uguale, o quasi, ormai sono poche le varianti possibili, tranne che nei particolari, i quali sono talmente raffinati che ci vorrebbe un
mucchio di tempo a spiegarli, fermiamoci qui, Continua, disse Gesù, e Dio continuò, abbreviando il più possibile, Donato di Arezzo, decapitato, Elifio di Rampillon, gli hanno segato la calotta cranica, Emanuele, Sabele e Ismaele, il primo col petto trafitto di chiodi, più un chiodo che gli attraversava la testa da un orecchio all’altro, tutti decollati, Emerano di Ratisbona, legato a una scala e ammazzato, Emerita, bruciata, Emilio di Trevi, decapitato, Engarcia di Saragozza, decapitata, Erasmo di Gaeta, detto anche Telmo, dimembrato con un argano, Ermenegildo, finito ad accettate, Eschilo di Svezia, lapidato, Escubiculo, decapitato, Eufemia di Calcedonia, infilzata con una spada, Eulalia di Merida, decapitata, Eutropio di Saintes, testa mozzata con una scure, Fabiano, spada e carde di ferro, Fede di Agen, decollata, Fedele di Sigmaringen, mazza chiodata, Felice e il fratello Adaucto, teste mozzate con la spada, Felicita e i sette figli, idem, Ferreolo di Besançon, decapitato, Filomena, frecce e ancora, Firmino di Pamplona, decapitato, Flavia Domitilla, idem, Fortunato di Evora, forse idem, Fruttuoso di Tarragona, bruciato, Gaudenzio di Francia, decapitato, Gelasio, idem più carde di ferro, Gengulfo di Borgogna, cornuto, assassinato dall’amante della moglie, Gennaro di Napoli, decapitato dopo essere stato condannato alle fiere e buttato dentro un forno, Gerardo Sagredo di Budapest, lancia, Gercone di Colonia, decapitato, Gervasio e Protasio, gemelli, idem, Giovanna d’Arco, bruciata viva, Giovanni di Brito, decollato, Giovanni Fisher, decapitato, Giovanni Nepomuceno di Praga, annegato, Giulia di Corsica, seni recisi e poi crocifissa, Giuliana di Nicomedia, decapitata, Giusta e Rufina di Siviglia, una sulla ruota, l’altra strangolata, Giustina di Antiochia, bruciata con pece infocata e decapitata, Giusto e Pastore, ma non questo che abbiamo qui, di Alcal de Henares, decapitati, Godeliva di Ghistelles, strangolata, Goretti Maria, idem, Grato di Aosta, decapitato, Ignazio di Azevedo, ammazzato dai calvinisti, questi non sono cattolici, Ines di Roma, sventrata, Ippolito, strascinato da un cavallo, Juan di Prado, pugnalato alla testa, Kilian di Würzburg, decapitato, Léger d’Autun, idem dopo avergli cavato gli occhi e strappato la lingua, Leocadia di Toledo, scaraventata da un precipizio, Lievin di Gand, lingua strappata e decapitato, Longino, decapitato, Lorenzo, bruciato sopra una griglia, Ludmilla di Praga, strangolata, Lucia di Siracusa, decollata dopo averle cavato gli occhi, Magino di Tarragona, decapitato con una falce seghettata, Mama di Cappadocia, sbudellato, Margherita di Antiochia, torcia e pettine di ferro, Mario di Persia, spada, amputazione delle mani, Martina di Roma, decapitata, i martiri del Marocco, Berardo, Pietro, Accursio, Adiuto e Ottone, decollati, quelli del Giappone, ventisei, crocifissi, infilzati con lance e bruciati, Maurizio di Agaunum, spada, Meinrado di Einsiedeln, mazza, Mena di Alessandria, spada, Mercurio di Cappadocia, decapitato, Moro Tommaso, idem, Nicasio di Reims, idem, Odilia di Huy, frecce, Pafnuzio, crocifisso, Paio, squartato, Pancrazio, decapitato, Pantaleone di Nicomedia,
idem, Patroclo di Troyes e di Soest, idem, Paolo di Tarso, a cui dovrai la tua prima Chiesa, idem, Perpetua e Felicita di Cartagine, Felicita era la schiava di Perpetua, incornate da un toro infuriato, Piat di Tournai, sfondamento del cranio, Pietro di Tortosa, decapitato, Pietro di Verona, mannaia sulla testa e pugnale nel petto, Policarpo, pugnalato e bruciato, Prisca di Roma, sbranata dai leoni, Processo e Martiniano, la stessa morte, credo, Quintino, chiodi nella testa e in altre parti, Quirino di Rouen, cranio spaccato, Regina di Alise, gladio, Restituta di Napoli, rogo, Rinaldo di Dortmund, a mazzuolate, Rolando, spada, Romano di Antiochia, lingua strappata, strangolamento, ancora non sei stufo, domandò Dio a Gesù, e Gesù rispose, Dovresti rivolgerla a Te stesso questa domanda, continua, e Dio proseguì, Sabiniano di Sens, decollato, Sabino di Assisi, lapidato, Saturnino di Tolosa, strascinato da un toro, Sebastiano, frecce, Secondo di Asti, decapitato, Servazio di Tongres e di Maastricht, ucciso a zoccolate, per quanto sembri impossibile, Severo di Barcellona, chiodo conficcato nella testa, Sidwel di Exeter, decapitato, Sigismondo re dei burgundi, scagliato in un pozzo, Sinforiano di Autun, decapitato, Sisto, idem, Stefano, lapidato, Tarcisio, lapidato, Tecla di Iconio, mutilata e bruciata, Teodoro, rogo, Tiburzio, decapitato, Timoteo di Efeso, lapidato, Tirso, segato, Tommaso Becket di Canterbury, spada conficcata nel cranio, Torpete di Pisa, decapitato, Torquato e i ventisette, uccisi dal generale Muça alle porte di Guimaraes, Urbano, decapitato, Valeria di Limoges, idem, Valeriano, idem, Venanzio di Camerino, decollato, Vincenzo di Saragozza, mola e griglia con punte, Virgilio di Trento, ecco un altro ucciso a zoccolate, Vitale di Ravenna, lancia, Vittore, decapitato, Vittore di Marsiglia, decollato, Vittoria di Roma, ammazzata dopo averle strappato la lingua, Wilgefortis, o Liberata, o Eutropia, vergine barbuta, crocifissa, e altri, altri, altri, idem, idem, idem, basta. Non basta, disse Gesù, a quali altri alludi, Lo ritieni proprio indispensabile, Sì, Mi riferisco a quelli che, non essendo stati martirizzati e morendo di morte naturale, hanno sofferto il martirio delle tentazioni della carne, del mondo e del Demonio e che, per vincerle, hanno dovuto mortificare il proprio corpo col digiuno e la preghiera, c’è persino un caso interessante, un tale John Schorn, il quale ha passato tanto di quel tempo inginocchiato a pregare che alla fine aveva i calli, Dove, Ma sulle ginocchia, ovviamente, e si dice pure, questo riguarda te, che rinchiuse il Diavolo in uno stivale, ah, ah, ah, Io, in uno stivale, Pastore manifestò i suoi dubbi, sono leggende, per potermi rinchiudere in uno stivale, ce ne sarebbe voluto uno grande quanto il mondo, e comunque vorrei proprio vedere chi sarebbe riuscito a calzarlo e a sfilarselo, Solo con il digiuno e la preghiera, domandò Gesù, e Dio rispose, Offenderanno il corpo anche con dolore, sangue e un mucchio di schifezze, e tante altre penitenze, portando cilici e flagellandosi, ci sarà pure chi non si laverà per tutta la vita, o quasi, chi si precipiterà nelle foreste e si rivolterà nella neve per placare le brame della
carne suscitate dal Diavolo, cui si devono tutte queste tentazioni, perché il suo scopo è quello di distogliere gli animi dalla retta via che li condurrebbe al cielo, donne nude e mostri spaventosi, creature aberranti, lussuria e paura, ecco le armi con cui il Demonio tormenta le povere vite degli uomini, Farai tutto questo, domandò Gesù a Pastore, Più o meno, rispose lui, mi sono limitato a prendere ciò che Dio non ha voluto, la carne, con la sua gioia e la sua tristezza, la gioventù e la vecchiaia, la freschezza e il marciume, ma non è vero che la paura sia una mia arma, non ricordo di essere stato io a inventare il peccato e il suo castigo, e la paura che li accompagna sempre, Taci, lo interruppe Dio, spazientito, il peccato e il Diavolo sono i due nomi di una stessa cosa, Che cosa, domandò Gesù, La mia assenza, E l’assenza di Te, a che cosa si deve, al fatto che ti sia ritirato Tu o che si siano allontanati da Te, Io non mi ritiro mai, Ma consenti che ti abbandonino, Chi mi abbandona, mi cerca, E se non ti trova, la colpa, ormai si sa, è del Diavolo, No, la causa di questo non è sua, è colpa mia, che non riesco ad arrivare là dove mi cercano, parole che Dio pronunciò con una pungente e inattesa tristezza, come se all’improvviso avesse scoperto dei limiti al proprio potere. Gesù disse, Continua, Ce ne sono altri, riprese lentamente Dio, che si ritirano in luoghi solitari e agresti e, fra grotte e caverne, in compagnia di bestie, conducono una vita solitaria, altri che si fanno rinchiudere, altri che si arrampicano sulla cima di alte colonne e lì vivono per anni e anni di fila, altri, e qui la voce si fece più bassa, si smorzò, Dio contemplava adesso una sfilza interminabile di gente, migliaia e migliaia, migliaia di migliaia di uomini e donne, in tutto il globo, che entravano in conventi e monasteri, qualche rustica costruzione, molti palazzi splendidi, Si ritirano lì per servirci, me e te, dalla mattina alla sera, con veglie e preghiere, e, tutti con lo stesso scopo e il medesimo destino, per adorarci e morire con i nostri nomi sulle labbra, adotteranno appellativi diversi, saranno benedettini, bernardini, certosini, agostiniani, gilbertini, trinitari, francescani, domenicani, cappuccini, carmelitani, gesuiti, e saranno tanti, tanti, tanti, ah, come mi piacerebbe poter esclamare, Mio Dio, per quanti sono. A questo punto, il Diavolo disse, rivolto a Gesù, Osserva come, in ciò che ha raccontato, vi siano due maniere per perdere la vita, una con il martirio, l’altra con la rinuncia, non basta che debbano morire quando arriva l’ora, c’è bisogno che, in un modo o nell’altro, le corrano pure incontro, crocifissi, sbudellati, decollati, scuoiati, incornati, seppelliti, segati, ammazzati a colpi di lancia e di frecce, mutilati, oppure, dentro e fuori le celle, i capitoli e i chiostri, castigandosi per essere nati con il corpo che Dio ha dato loro e senza il quale non saprebbero dove porre l’anima, tormenti simili non li ha inventati questo Diavolo che ti sta parlando. È tutto, domandò Gesù a Dio, No, mancano ancora le guerre, Ci saranno anche guerre, E stragi, Per quanto riguarda le stragi ne sono al corrente, avrei potuto addirittura morirne, e a ben vedere è stato davvero deplorevole, adesso
non ci sarebbe un crocifisso ad aspettarmi, Ho portato l’altro padre tuo nel luogo appropriato perché potesse sentire quello che io volevo che i soldati dicessero, in fondo ti ho risparmiato la vita, Mi hai risparmiato la vita per farmi morire quando ti pareva e ti faceva comodo, è come se mi uccidessi due volte, I fini giustificano i mezzi, figlio mio, A quanto ho udito dalle Tue labbra da quando siamo qui, credo di sì, rinuncia, clausura, sofferenza, morte, e adesso le guerre e le stragi, che sono guerre anch’esse, Tante, a non finire, ma soprattutto quelle che si faranno contro di te e contro di me, in nome di un dio che deve ancora apparire, Com’è possibile che un dio debba apparire, un dio, se lo è veramente, può solo esistere da sempre e per sempre, Lo ammetto, è difficile comprenderlo, quasi quanto spiegarlo, ma accadrà proprio come ti dico, un dio arriverà e si scaglierà contro di noi e contro tutti quelli che ci seguiranno, popoli interi, no, non ho parole sufficienti per raccontarti dei massacri, delle carneficine, dei macelli, immagina il mio altare di Gerusalemme moltiplicato per mille, metti degli uomini al posto degli animali, e neanche così riuscirai a sapere di preciso che cosa sono state le crociate, Crociate, di che cosa si tratta, e perché dici che sono state se devono ancora avvenire, Ricordati che io sono il tempo e, dunque, tutto quanto deve accadere per me è già avvenuto, tutto quanto è avvenuto, accade tutti i giorni, Raccontami questa storia delle crociate, Be’, figlio mio, questi luoghi in cui ci troviamo adesso, compresi Gerusalemme e altri territori a nord e a occidente, dovranno essere conquistati dai seguaci di quel dio tardivo di cui ti parlavo, e i nostri, quelli schierati dalla nostra parte, faranno di tutto per cacciarli dai luoghi che tu con i tuoi piedi hai calpestato e che io con tanta assiduità frequento, Per scacciare i romani, oggi, non hai fatto granché, Ti sto parlando del futuro, non mi distrarre, Prosegui, allora, Aggiungi che tu sei nato qui, qui sei vissuto e qui sei morto, Per il momento, non sono ancora morto, All’uopo, tant’è, ti ho spiegato or ora che cosa significa, dal mio punto di vista, avvenire ed essere avvenuto, e, per favore, non continuare a interrompermi se non vuoi che taccia per sempre, Sto zitto, Ebbene, a queste zone i posteri daranno il nome di Luoghi Santi, per il motivo che tu sei nato, vissuto e morto qui, perciò non sarebbe opportuno, per la religione che diventerai, che la sua culla si trovasse nelle mani indegne di infedeli, un motivo, come puoi immaginare, più che sufficiente per giustificare che grandi eserciti venuti da Occidente, per quasi duecento anni, tentino di conquistare e di conservare alla nostra religione la grotta in cui sei nato e il monte su cui morirai, per dire solo dei luoghi principali, E quegli eserciti costituiscono le crociate, Infatti, E hanno conquistato quello che si prefiggevano, No, ma hanno ammazzato un mucchio di gente, E i crociati, Ne sono morti altrettanti, se non di più, E tutto questo, in nome nostro, Andranno in guerra urlando, Dio lo vuole, E devono essere morti dicendo, Dio l’ha voluto, Sarebbe stato un bel modo di finire, Di nuovo un sacrificio di cui non valeva la
pena, Figlio mio, l’anima per salvarsi ha bisogno del sacrificio del corpo, Con queste o con altre parole, te l’ho già sentito dire prima, e tu, Pastore, che cosa ci racconti di questi futuri e portentosi avvenimenti, Dico che nessuno che possieda appieno il proprio senno potrà affermare che il Diavolo sia stato, sia o sarà colpevole di un tale massacro e di simili cimiteri, a meno che a qualche malvagio non venga in mente il calunnioso pensiero di attribuirmi la responsabilità della nascita di quel dio che sarà nemico di questo, Mi sembra chiaro e ovvio che la colpa non è tua e, quanto al timore che scarichino su di te le responsabilità, potrai sempre rispondere che il Diavolo, essendo menzogna, non potrebbe mai generare la verità che Dio è, Ma allora, domandò Pastore, chi creerà quel dio nemico. Gesù non sapeva rispondere, Dio, che taceva, continuò nel Suo silenzio, ma dalla nebbia calò una voce che disse, Forse questo Dio e quello che dovrà venire non sono che eteronimi, Di chi, di che cosa, domandò, curiosa, un’altra voce, Di Pessoa, fu quanto si capì ma poteva anche essere stato, Della Pessoa, e cioè, Della persona. All’inizio, Gesù, Dio e il Diavolo finsero di non avere sentito, ma subito dopo si sogguardarono spaventati, la paura comune è così, unifica facilmente le differenze. Trascorse un po’ di tempo, la nebbia non disse altro e Gesù domandò, adesso con il tono di chi si aspetti solo una risposta affermativa, Nient’altro. Dio ebbe un attimo di esitazione e poi, con tono stanco, disse, C’è ancora l’Inquisizione ma, se non ti dispiace, potremmo parlarne un’altra volta, Che cos’è l’Inquisizione, L’Inquisizione è un’altra storia interminabile, Voglio conoscerla, Sarebbe meglio se non ti fosse nota, Insisto, Nella tua vita odierna soffrirai di rimorsi che appartengono al futuro, E Tu, no, Dio è Dio, non ha rimorsi, Quanto a me, se ho già questo fardello di dover morire per Te, posso anche sopportare i rimorsi che dovrebbero essere Tuoi, Preferirei risparmiarti, Tant’è che non hai fatto altro da quando sono nato, Sei un ingrato, come lo sono tutti i figli, Smettiamola con le finzioni, dimmi che cosa sarà l’Inquisizione, L’Inquisizione, detta anche tribunale del Santo Uffizio, è il male necessario, lo strumento crudelissimo con cui debelleremo l’infezione che un giorno, e per lungo tempo, si insinuerà nel corpo della tua Chiesa tramite le nefande eresie in generale e i suoi derivati e conseguenti minori, cui vanno sommate un buon numero di perversioni fisiche e morali, e questo, riunito e posto nello stesso sacco di orrori, senza badare a priorità e ordine, comprenderà luterani e calvinisti, molinisti e giudaizzanti, sodomiti e stregoni, tutte le piaghe, insomma, alcune delle quali apparterranno al futuro e altre a ogni tempo, E, vista la necessità di cui parli, come procederà l’Inquisizione per ridurre questi mali, L’Inquisizione è una polizia e un tribunale, perciò dovrà arrestare, giudicare e condannare come fanno i tribunali e le polizie, Condannerà a che cosa, Al carcere, all’esilio, al rogo, Al rogo, dici, Sì, nel futuro, moriranno bruciati migliaia e migliaia di uomini e di donne, Di alcuni mi hai già
parlato prima, Quelli erano stati messi al rogo per il motivo che credevano in te, gli altri lo saranno perché ne dubiteranno, Non è permesso dubitare di me, No, Ma noi possiamo dubitare che il Giove dei romani sia un dio, L’unico Dio sono io, io sono il Signore e tu sei mio figlio, Moriranno a migliaia, A centinaia di migliaia, Moriranno centinaia di migliaia di uomini e donne, la terra si empirà di urla di dolore, di grida e rantoli di agonia, il fumo degli arsi vivi offuscherà il sole, il loro grasso sfrigolerà sulle braci, il puzzo sarà un tormento, e tutto avverrà per colpa mia, Non per colpa, ma per causa tua. Padre, allontana da me questo calice, Che tu lo beva è la condizione per il mio potere e la tua gloria, Non desidero questa gloria, Ma io voglio questo potere. La nebbia prese a scomparire nella direzione da cui era venuta, intorno alla barca si vedeva l’acqua, piatta e opaca, senza un’increspatura provocata dal vento o una minima agitazione suscitata da qualche pinna. Allora il Diavolo disse, Bisogna proprio essere Dio per amare tanto il sangue. La nebbia ritornò ad avanzare, qualcosa di nuovo stava per accadere, un’altra rivelazione, un altro dolore, un altro rimorso. Ma fu Pastore che parlò, Ho una proposta da farti, disse, rivolgendosi a Dio, e Dio, sorpreso, Una proposta, tu, e che proposta sarà mai, il tono era ironico, superiore, tale da ridurre al silenzio chiunque non fosse il Diavolo, conoscente e intimo di lunga data. Pastore rimase per un attimo in silenzio, come se cercasse le parole più appropriate, e poi spiegò, Ho ascoltato con molta attenzione tutto quanto si è detto in questa barca e, benché avessi già intravisto, da solo, alcune luci e alcune ombre nel futuro, non ho realizzato che le luci erano quelle dei roghi e le ombre quelle di tanta gente morta, E questo ti infastidisce, Non dovrebbe disturbarmi, visto che sono il Diavolo, e il Diavolo trae sempre qualche vantaggio dalla morte, persino più di Te, ché non c’è bisogno di dimostrare che l’inferno sarà sempre più popolato del cielo, Allora di che cosa ti lamenti, Non mi lamento, faccio una proposta, Avanti, falla, ma in fretta, non posso mica rimanere qui eternamente, Tu sai, nessuno meglio di Te lo sa, che anche il Diavolo ha un cuore, Sì, ma ne fa un cattivo uso, Oggi voglio farne un buon uso, per cui accetto e voglio che il Tuo potere si estenda fino agli estremi della terra, senza che debba morire tanta gente, e giacché tutto quello che ti disobbedisce e ti nega lo attribuisci al male che io sono e che governa il mondo, la mia proposta è questa, accoglimi di nuovo nel Tuo cielo, perdonandomi i mali passati per quelli che in futuro non dovrò commettere, accetta e serba la mia obbedienza, come nei tempi felici in cui ero uno dei Tuoi angeli prediletti, Lucifero mi chiamavi, colui che porta la luce, prima che l’ambizione di essere uguale a Te mi divorasse l’anima e mi facesse ribellare alla Tua autorità, E mi vuoi spiegare perché dovrei accoglierti e perdonarti, Perché se lo farai, se mi concederai adesso quel perdono che in futuro prometterai tanto facilmente a destra e a manca, allora il male finirà qui, oggi, non ci sarà bisogno che Tuo figlio muoia, il
Tuo regno non sarà solo questa terra di ebrei, ma il mondo intero, quello conosciuto e quello da scoprire e, più che il mondo, l’universo, dovunque impererà il bene e io canterò, nell’ultima e umile fila degli angeli che ti sono rimasti fedeli, a quel punto più fedele di ogni altro perché pentito, io canterò le Tue lodi, tutto si concluderà come se non ci fosse stato, tutto comincerà a essere come se fosse sempre stato così, Hai davvero un gran talento per irretire le anime e perderle, già lo sapevo, ma non ti avevo mai sentito fare un discorso simile, una vocazione oratoria, una parlantina, non c’è dubbio, quasi mi convincevi, Non mi accetti, non mi perdoni, Non ti accetto, non ti perdono, ti voglio come sei e, se possibile, anche peggiore di adesso, Perché, Perché il bene che io sono non esisterebbe senza il male che sei tu, un bene che dovesse esistere senza di te sarebbe talmente inconcepibile che neppure io riesco a immaginarlo, insomma, se tu finisci, finisco anch’io, perché io sia il bene, è necessario che tu continui a essere il male, se il Diavolo non sussiste come Diavolo, Dio non esiste come Dio, la morte di uno sarebbe la morte dell’altro. È la Tua ultima parola, La prima e l’ultima, la prima perché non l’ho mai pronunciata in precedenza, l’ultima perché non la ripeterò più. Pastore fece spallucce e guardò Gesù, Che non si dica che un giorno il Diavolo non ha tentato Dio, e, alzatosi, mentre stava per passare una gamba sopra il bordo della barca, all’improvviso si bloccò e disse, Nella tua bisaccia, hai una cosa che mi appartiene. Gesù non ricordava di aver portato la bisaccia in barca, ma in effetti era lì, afflosciata, ai suoi piedi, Che cosa, domandò e, aprendola, vide che dentro c’era soltanto la vecchia scodella presa a Nazaret, Questa, Proprio quella, rispose il Diavolo, e gliela tolse dalle mani, Un giorno tornerà in tuo potere, ma tu non arriverai a sapere di averla. Infilò la scodella sotto il rozzo vestito da pastore che indossava e si calò in acqua. Non guardò Dio, ma disse, come rivolgendosi a un pubblico invisibile, Ci vediamo, l’ha voluto Lui. Gesù lo seguì con gli occhi, mentre si allontanava pian piano verso la nebbia, non aveva pensato a domandargli per quale capriccio fosse venuto e se ne andasse così, a nuoto, in lontananza sembrava di nuovo un maiale con le orecchie tese fuori dell’acqua, si sentiva un respiro bestiale, ma un udito fine non avrebbe avuto alcuna difficoltà a cogliere, frammisto, un suono quasi di paura, non di affogare, che idea, il Diavolo, ne siamo appena venuti a conoscenza, non ha fine, ma di dover esistere per sempre. Pastore stava ormai scomparendo nel limitare sfumato della nebbia quando la voce di Dio risuonò all’improvviso, affrettata, come chi sia in procinto di partire, Manderò un uomo di nome Giovanni ad aiutarti, ma dovrai convincerlo che sei quello che dici di essere. Gesù guardò, ma ormai Dio era scomparso. Nello stesso istante la nebbia si alzò e si dissipò nell’aria, lasciando il cosiddetto mare di Galilea limpido e piatto da un capo all’altro, fra monti e monti, nell’acqua non c’era alcuna traccia del Diavolo, nell’aria nessun segno di Dio.
Sulla riva da cui era partito, Gesù vide, malgrado la distanza, un grande assembramento di persone, e un gran numero di tende dietro la folla, come se il posto si fosse trasformato in un sito residenziale di gente che, non essendo di lì, e non avendo perciò un luogo dove dormire, era stata costretta a organizzarsi per conto proprio. Trovandolo curioso, ma null’altro, Gesù calò i remi e orientò la barca in quella direzione. Sforzando lo sguardo, vide che alcune barche venivano spinte in acqua e poi, affinando ulteriormente la vista, riconobbe Simone e Andrea, e Giacomo e Giovanni, in mezzo ad altri che non ricordava di aver veduto, o forse alcuni sì, da quelle parti. Tant’era la foga con cui manovravano i remi, ben presto gli si avvicinarono e, giunti a tiro di voce, Simone gli urlò, Dove sei stato, non era certo questo che voleva sapere, è chiaro, ma in qualche modo doveva pur cominciare, Qui al largo, rispose Gesù, con parole altrettanto inutili, sembra proprio che non abbiano un buon esordio le comunicazioni in questa nuova epoca della vita del figlio di Dio, di Maria e di Giuseppe. Dopo neanche un attimo, Simone era balzato nella barca di Gesù, e tutto ciò che era incomprensibile, impossibile, assurdo si venne a sapere, Sai quanto tempo sei rimasto al largo, in mezzo alla nebbia, senza che potessimo calare in acqua le nostre barche, ché ogni volta una forza invincibile ci respingeva, domandò Simone, Tutto il giorno, fu la risposta di Gesù, un giorno e una notte, soggiunse, per rispondere all’eccitazione di Simone con una previsione appropriata, Quaranta giorni, urlò Simone, e poi, a voce più bassa, Quaranta giorni ci sei stato, quaranta giorni in cui la nebbia non si è alzata neanche di un palmo, come se volesse nascondere alla nostra vista quello che succedeva tra le acque, che cosa sei rimasto a fare là, se in quaranta giorni di numero non ci è stato concesso di prendere un solo pesce in queste acque. Gesù aveva ceduto a Simone uno dei remi, adesso vogavano tutt’e due e chiacchieravano, spalla a spalla, sereni, niente di meglio per una confidenza, ecco perché, prima che accostassero altre barche, Gesù disse, Sono stato con Dio e conosco il mio futuro, il tempo che vivrò e la vita dopo la mia vita, Com’è, com’è Dio, voglio dire, Dio non si mostra sotto un’unica forma, può venire sia come una nuvola, una colonna di fumo, sia come un ricco ebreo, lo si riconosce soprattutto dalla voce, dopo averlo udito una volta, Che cosa ti ha detto, Che sono Suo figlio, Lo ha confermato, Sì, lo ha confermato, Allora aveva ragione il Diavolo in occasione della vicenda dei porci, Stavolta c’era anche il Diavolo nella barca, ha assistito a tutto, sembra che di me ne sappia quanto Dio, ma in certi casi penso ne conosca anche di più, E dove, Dove, che cosa, Dove stavano, Il Diavolo sul bordo della barca, proprio lì, fra te e Dio, che è sempre stato sulla panca a poppa, Che cosa ti ha detto Dio, Che sono Suo figlio e che sarò crocifisso, Vattene sui monti a combattere a fianco dei ribelli, se tu andrai, verremo con te, Verrete con me, ma non sui monti, ciò che importa non è vincere Cesare con le armi, ma far trionfare Dio con la parola, Soltanto,
E pure con l’esempio, e con il sacrificio delle nostre vite quando sarà necessario, Sono parole di tuo Padre, Da oggi in poi tutte le mie parole saranno parole Sue, e coloro che crederanno in Lui, crederanno in me, poiché non è possibile aver fede nel Padre e non credere nel figlio, se la nuova strada che il Padre ha scelto per sé, solo nel figlio che io sono potrà avere inizio, Hai detto che saremmo venuti con te, a chi ti riferisci, A te, in primo luogo, ad Andrea, tuo fratello, ai due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni, a proposito, Dio ha detto che avrebbe mandato un uomo chiamato Giovanni ad aiutarmi, ma non dev’essere quello, Non c’è bisogno di altri, non è mica una corte di Erode, Altri verranno e, chissà, forse alcuni di loro sono già lì, in attesa di un cenno, un segnale che Dio manifesterà in me, affinché mi credano e mi seguano tutti coloro da cui Egli non si fa vedere, Che cosa annuncerai agli uomini, Che si pentano dei loro peccati, che si preparino al nuovo tempo di Dio che sta arrivando, il tempo in cui la Sua spada fiammeggiante costringerà a piegare il collo tutti coloro che si saranno rifiutati di accogliere la Sua parola e vi avranno sputato sopra, Dirai loro che sei il figlio di Dio, non puoi farne a meno, Dirò che mio padre mi ha chiamato figlio, e queste parole si trovano nel mio cuore da quando sono nato, e che adesso anche Dio è venuto a dirmi figlio mio, un padre non fa dimenticare l’altro, ma oggi colui che comanda è il Padre Dio, obbediamogli, Allora lascia fare a me, disse Simone, e immediatamente mollò il remo, si spostò a prua e, poiché la voce poteva già raggiungerli, urlò, Osanna, sta arrivando il figlio di Dio, colui che è stato in mezzo alle acque per quaranta giorni a parlare con il Padre e adesso torna a noi affinché ci si penta e ci si prepari, Non dire che c’era anche il Diavolo, si affrettò ad avvertirlo Gesù, temendo che diventasse di pubblico dominio una situazione che avrebbe avuto un mucchio di difficoltà a chiarire. Simone lanciò un altro urlo, ma più alto, per cui tutte le persone che aspettavano sulla riva presero a tumultuare, e poi tornò di corsa al suo posto, dicendo a Gesù, Lasciami quel remo e mettiti a prua, in piedi, ma non dire niente, finché non scenderemo a terra non pronunciare una sola parola. Così fecero, Gesù in piedi, sulla prua della barca, con la sua vecchia tunica, la bisaccia vuota in spalla, le braccia semisollevate, come se stesse per salutare o benedire, ma fosse trattenuto dalla timidezza o da una sorta di sfiducia nelle proprie capacità. Fra coloro che lo aspettavano, tre, più impazienti degli altri, entrarono in acqua fino alla cintola e, avvicinatisi alla barca, l’afferrarono e cominciarono a spingerla e a tirarla, mentre dall’esterno, con la mano libera, uno di loro tentava di toccare la tunica di Gesù, non per il motivo che fosse convinto della verità dell’annuncio di Simone, ma perché gli sembrava già un fatto straordinario che un uomo avesse resistito in mezzo alle acque per quaranta giorni, come se fosse andato nel deserto alla ricerca di Dio e, che lo avesse visto o meno, stesse ritornando adesso dalle fredde viscere di una montagna di nebbia. Sembra inutile aggiungere che non si parlò d’altro in questi villaggi e nei
dintorni, molti dei presenti, che erano accorsi per via del fenomeno meteorologico, appena sentirono dire che là dentro c’era stato un uomo esclamarono, Poveraccio. La barca approdò senza un sobbalzo, come se l’avessero deposta delle ali angeliche. Simone aiutò Gesù a scendere, respingendo con un’insofferenza repressa a stento i tre che erano entrati in acqua e perciò si ritenevano creditori di un compenso ben diverso, Lasciali, disse Gesù, un giorno sentiranno dire che sono morto e si addoloreranno di non aver potuto trasportare il mio cadavere, lascia che mi aiutino mentre sono vivo. Gesù si avviò verso un poggio e domandò ai suoi, Dov’è Maria, ma la vide nell’istante in cui fece la domanda, come se l’atto di pronunciare il nome l’avesse fatta comparire dal nulla o dalla nebbia, sembrava che non ci fosse, ma bastava articolarne il nome e lei era lì, Eccomi, Gesù, Vieni accanto a me, venite anche voi, Simone e Andrea, vengano Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, questi sono coloro che mi conoscono e credono in me, che già mi conoscevano e mi credevano quando ancora io non potevo dire loro, e neppure a voi, che sono il figlio di Dio, quel figlio che il Padre ha chiamato e con il quale ha trascorso quaranta giorni in mezzo alle acque, e che è tornato per annunciarvi che il tempo del Signore è giunto e che dovete pentirvi prima che il Diavolo venga a raccogliere le spighe guaste che sono cadute dalla messe che Dio trasporta nel Suo grembo, ché quelle spighe siete voi se, per vostra sventura, volete sottrarvi all’amoroso abbraccio di Dio. Un mormorio percorse la folla, rotolando sulle teste come quelle piccole onde che si scorgono sul lago, in realtà molti dei presenti avevano udito dei miracoli compiuti in vari luoghi da quell’uomo, alcuni, addirittura, ne erano stati diretti testimoni e beneficiari, Io ho mangiato quel pane e quel pesce, diceva uno, Io ho bevuto quel vino, diceva un altro, Io ero accanto a quell’adultera diceva un terzo, ma fra tali imprese, per quanto trascendenti potessero essere state o sembrate, e questo proclamato prodigio supremo di essere figlio di Dio e, quindi, Dio anch’egli, la distanza è come quella che intercorre dalla terra al cielo, che si sappia, fino a oggi, non è ancora stata misurata. Dalla folla si levò allora una voce, Dacci una prova che sei il figlio di Dio e io ti seguirò, Tu mi seguiresti se il tuo cuore ti portasse a me, ma il tuo cuore è imprigionato dentro un petto, perciò mi chiedi una prova che i tuoi sensi possano comprendere, ebbene, adesso ti fornirò una prova che soddisferà i tuoi sensi, ma che la tua testa rifiuterà, e alla fine, diviso e perplesso come sarai fra i sensi e la testa, non potrai fare altro che venire a me con il tuo cuore, Chi può intendere, intenda, io non ci riesco, disse l’uomo, Come ti chiami, Tommaso, Vieni qui, Tommaso, vieni con me fin sulla riva, mi vedrai fare degli uccelli con questo fango che raccolgo a piene mani, guarda com’è facile, formo e modello il corpo e le ali, plasmo la figura della testa e del becco, incastono questi sassolini che diventano gli occhi, aggiusto le penne lunghe della coda e sistemo zampe e dita, e dopo questo primo
esemplare, ne faccio altri undici, eccoli, uno, due, tre, quattro. cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici, dodici uccelli di fango, pensa, se vogliamo, possiamo addirittura dar loro un nome, questo è Simone, questo è Giacomo, questo è Andrea, questo è Giovanni, e questo, se non ti dispiace, si chiamerà Tommaso, quanto agli altri, aspetteremo che i nomi si presentino, i nomi, spesso, indugiano strada facendo, arrivano più tardi, e adesso guarda che cosa faccio, lancio questa rete sopra gli uccellini perché non possano fuggire, casomai non prestassimo la dovuta attenzione, Vuoi forse dirmi che se questa rete viene sollevata, gli uccelli voleranno via, domandò incredulo Tommaso, Sì, se la rete viene alzata, gli uccelli volano via, Ed è la prova con cui vorresti convincermi, Sì e no, Come sì e no, La miglior prova, ma quella non dipende da me, sarebbe che tu non sollevassi la rete e credessi che gli uccelli volerebbero via se tu la alzassi, Sono fatti di argilla, non possono volare via, Prova, anche Adamo, il nostro primo genitore, in origine fu di argilla, e tu discendi da lui, Ad Adamo, Dio gli diede la vita, Non dubitare oltre, Tommaso, e solleva la rete, io sono il figlio di Dio, L’hai voluto tu, ecco, questi uccelli non voleranno, con mossa rapida Tommaso alzò la rete e gli uccelli, liberi, spiccarono il volo, cinguettando volteggiarono per due volte sopra la folla meravigliata e poi scomparvero nello spazio. Disse Gesù, Guarda, Tommaso, il tuo uccello se n’è andato, e Tommaso rispose, No, Signore, è qui inginocchiato ai Tuoi piedi, sono io. Dalla folla si staccarono alcuni uomini, e dietro di questi, ma non subordinate a loro, altrettante donne. Si avvicinarono e dissero i loro nomi, Io sono Filippo, e Gesù vide in lui le pietre e la croce, Io sono Bartolomeo, e Gesù vide un corpo scuoiato, Io sono Matteo, e Gesù lo vide morto fra genti barbare, Io sono Simone, e Gesù vide in lui la sega che lo tagliava, Io sono Giacomo, figlio di Alfeo, e Gesù vide che lo lapidavano, Io sono Giuda Taddeo, e Gesù vide una mazza che gli si abbatteva sul capo, Io sono Giuda Iscariota, e Gesù ebbe pena per lui perché lo vide impiccarsi con le proprie mani a un fico. Poi Gesù chiamò gli altri e disse, Adesso ci siamo tutti, è arrivata l’ora. E rivolto a Simone, fratello di Andrea, aggiunse, Poiché abbiamo un altro Simone con noi, tu d’ora in avanti ti chiamerai Pietro. Voltarono le spalle alle acque e si misero in cammino, seguiti dalle donne, di gran parte delle quali non abbiamo avuto il tempo di sapere i nomi, ma in realtà non hanno alcuna importanza, sono quasi tutte Maria, e quand’anche non lo fossero risponderebbero a quel nome, chi dice donna, dice Maria, e loro guardano e vengono a servirci. 23. Gesù e i suoi giravano per le strade e i villaggi, e Dio parlava per bocca di Gesù, ed ecco ciò che diceva, Si è compiuto il tempo e il regno di Dio è prossimo, pentitevi e credete alla buona novella. Nell’udire questo, il popolino pensava che non poteva
esserci una grande differenza tra il compimento del tempo e la sua fine, e che quindi stava per arrivare la fine del mondo, che è il luogo dove il tempo si misura e si spreca. Tutti rendevano grazie a Dio per la misericordia di aver mandato, ad avvisare formalmente dell’imminenza dell’evento, uno che si diceva Suo figlio, il che poteva anche essere vero, dal momento che senza tanti preamboli compiva miracoli ovunque passasse, l’unica condizione, se la si può chiamare così, comunque imprescindibile, era la fede convinta di chi glieli implorasse, come il caso di quel lebbroso che lo supplicò, Se lo vuoi, puoi sanarmi, e Gesù, addolorato per quello sventurato coperto di piaghe, lo toccò e ordinò, Lo voglio, sii risanato, non appena pronunciate le parole, la carne putrida divenne sana all’istante, quello che non esisteva più fu ricostituito, e al posto di un lebbroso orrendo e sudicio, da cui tutti rifuggivano, si vedeva adesso un uomo lindo e perfetto, ben capace di tutto. Un altro fatto, altrettanto degno di nota, fu quello del paralitico che, per via della folla davanti alla porta, dovettero far salire e poi calare con la sua branda da un buco sul tetto della casa in cui si trovava Gesù, che doveva essere quella di Simone, detto Pietro, e giacché una fede così grande meritava un premio, Gesù disse, Figlio mio, i tuoi peccati ti sono rimessi, orbene, il caso volle che fossero presenti anche degli scribi sospettosi, di quelli che vedono in tutto un motivo per recriminare e che hanno la Legge sulla punta della lingua, i quali, udendo le parole di Gesù, non persero l’occasione di ribattere, Perché parli così, stai bestemmiando, i peccati li può rimettere soltanto Dio, e Gesù replicò loro con una domanda, Che cosa è più facile, dire al paralitico, I tuoi peccati ti sono rimessi, oppure, Alzati, prendi la tua branda e cammina, e, senza aspettare che qualcuno gli rispondesse, concluse, Ebbene, perché tu sappia che ho il potere sulla terra di rimettere i peccati, io ti dico, e questo era rivolto al paralitico, alzati, prendi il tuo lettuccio e vattene a casa, e a quelle parole si vide il miracolato alzarsi in piedi, per giunta rinvigorito, malgrado l’inazione dovuta alla paralisi, poi prendere la branda, caricarsela sulle spalle e andarsene, glorificando Dio. È chiaro, mica tutti se ne vanno in giro a chiedere miracoli, ciascuno di noi, col tempo, si abitua alle sue piccole, o medie, magagne e ci convive senza che mai gli passi per la testa di importunare i poteri eccelsi, ma i peccati sono un’altra cosa, i peccati ti tormentano sotto ciò che si vede, non sono la gamba zoppa o il braccio monco, non è la lebbra esterna, ma quella interiore. Perciò aveva proprio ragione Dio quando aveva detto a Gesù che ogni uomo ha perlomeno un peccato di cui pentirsi, e la cosa più solita e normale è che ne abbia moltissimi. Orbene, visto che questo mondo è sul punto di finire e sta per sorgere il regno di Dio, più che la voglia di entrarci con un corpo rifatto a furia di miracoli, l’importante è che vi si possa essere avviati da un’anima, la nostra, purificata dal pentimento e sanata dal perdono. Del resto, se il paralitico di Cafarnao aveva trascorso una parte della vita in un giaciglio
era perché aveva peccato, infatti è risaputo che la malattia è una conseguenza del peccato, e perciò, conclusione oltremodo logica, la vera condizione per una buona salute, oltre che esserlo per l’immortalità dello spirito, e non sappiamo se magari anche del corpo, potrà essere soltanto un’integerrima purezza, un’assoluta mancanza di peccato, per passiva ma efficace ignoranza, oppure per ripudio attivo, sia nelle opere sia nei pensieri. Non si creda, però, che il nostro Gesù girasse per quelle terre del Signore scialando il potere di guarire e l’autorità di perdonare che dal Signore stesso gli erano stati concessi. Non che lui non lo desiderasse, è chiaro, giacché il suo buon cuore lo avrebbe portato a trasformarsi in panacea universale piuttosto che, com’era costretto a fare per ordine di Dio, dover annunciare a tutti la fine dei tempi e reclamare da ciascuno un pentimento, e affinché i peccatori non perdessero troppi momenti in riflessioni che tendevano unicamente a rimandare la difficile decisione di riconoscere, Ho peccato, il Signore metteva sulla bocca di Gesù delle parole terribili e promettenti, del tipo, In verità vi dico che alcuni di coloro che sono qui non sperimenteranno la morte senza prima avere veduto l’avvento del regno di Dio con tutto il Suo potere, immaginatevi gli effetti devastanti che un simile annuncio poteva avere sulle coscienze dei popoli, da ogni dove accorrevano a frotte, anelanti, e prendevano a seguire Gesù come se lui direttamente, dovesse condurli al nuovo paradiso che il Signore avrebbe instaurato sulla terra e che si sarebbe distinto dal primo perché adesso erano tanti coloro che ne avrebbero goduto, avendo riscattato con preghiera, penitenza e pentimento il peccato di Adamo, detto anche originale. E visto che, perlopiù, questa gente fiduciosa proveniva da strati sociali bassi, artigiani e zappatori, pescatori e donnettine, Gesù si spinse, un giorno in cui Dio gli aveva lasciato maggior libertà, a improvvisare un discorso che avvinse tutti gli ascoltatori, e per il quale si versarono lacrime di gioia che si potrebbero concepire solo di fronte a una salvezza ormai insperata, Beati, disse Gesù, beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio, beati voi che ora avete fame perché sarete saziati, beati voi che ora piangete, perché riderete, ma a questo punto Dio si rese conto di quello che stava succedendo e, non potendo sconfessare ciò che era stato detto da Gesù, lo costrinse a pronunciare altre parole, per cui le lacrime di felicità si tramutarono in funeste lamentele per un futuro nero, Beati voi quando gli uomini vi odieranno, quando vi metteranno al bando, vi insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del figlio dell’Uomo. Quando Gesù ebbe concluso il suo discorso, fu come se l’anima gli fosse caduta ai piedi, perché in quello stesso istante gli si raffigurò nello spirito la tragica visione dei tormenti e delle morti che Dio gli aveva annunciato sulla barca. Perciò, davanti alla folla che lo guardava agghiacciata dal terrore, Gesù cadde in ginocchio e, prostrato, pregò in silenzio, nessuno dei presenti poteva immaginare che lui stesse chiedendo a tutti perdono, lui che si gloriava, da figlio di
Dio qual era, di poter perdonare agli altri. Quella notte, nell’intimità della tenda in cui dormiva con Maria di Magdala, Gesù disse, Io sono il pastore che, con lo stesso bastone, conduce al sacrificio gli innocenti e i colpevoli, i salvi e i perduti, i nati e coloro che devono ancora nascere, chi mi libererà da questo rimorso, oggi che mi vedo come mio padre allora, ma lui deve rispondere di venti vite appena, e io di venti milioni. Maria di Magdala pianse con Gesù e gli disse, Non l’hai voluto tu, Peggio ancora, rispose lui, e lei, come se fin dall’inizio già conoscesse tutto ciò che noi abbiamo visto e udito a poco a poco, È Dio colui che traccia i cammini e indica coloro che devono percorrerli, ti ha scelto perché tu aprissi, a Suo beneficio, una strada fra le strade, ma tu non la percorrerai, e non costruirai nessun tempio, altri lo edificheranno sul tuo sangue e le tue viscere, quindi sarebbe meglio che accettassi con rassegnazione il destino che Dio ha già ordinato e scritto per te, giacché ogni tuo gesto è previsto, le parole che pronuncerai ti aspettano là dove andrai, ci saranno gli zoppi cui restituirai le gambe, i ciechi cui darai la vista, i sordi cui ritornerai l’udito, i muti cui renderai la voce, i morti cui potresti ridare la vita, Non ho nessun potere nei confronti della morte, Non lo hai mai provato, Sì, l’ho fatto, ma il fico non è risuscitato, I tempi adesso sono diversi, tu sei costretto a volere ciò che vuole Dio, ma Dio non può negarti ciò che tu vuoi, Che mi liberi da questo peso, non lo voglio più, Vuoi l’impossibile, Gesù, l’unica cosa che Dio veramente non può è non volere se stesso, Come lo sai, tu, Le donne hanno altri modi di pensare, forse perché il nostro corpo è diverso, dev’essere per questo, sì, dev’essere per questo. Un giorno, poiché la terra è sempre troppo grande per le forze di un uomo, sia pur quando si tratti solo di una sua piccolissima parte, come in questo caso la Palestina, Gesù decise di mandare i suoi amici, a coppie, ad annunciare nelle città, nei paesi e nei villaggi la prossima venuta del regno di Dio, insegnando e predicando dappertutto, come faceva lui. Così, ritrovatosi da solo con Maria di Magdala, perché le altre donne avevano seguito gli uomini, secondo i gusti e le preferenze degli uni e delle altre, gli venne in mente di recarsi con lei a Betania, che si trova vicino a Gerusalemme, prendendo in tal modo, con tutto il rispetto, due piccioni con una fava, Maria recandosi a visitare la famiglia, ché ormai sarebbe giunto il tempo che si riconciliassero i fratelli e si conoscessero i cognati, per poi recarsi in gruppo, di nuovo riuniti, a Gerusalemme, poiché Gesù aveva dato appuntamento a tutti i suoi amici, da lì a tre mesi, proprio a Betania. Su ciò che fecero i dodici nei territori d’Israele non c’è molto da dire, in primo luogo perché, tranne alcuni particolari della vita e alcune circostanze della morte, non siamo qui per raccontare la loro storia, e, in secondo luogo, perché a loro era stato concesso solo il potere di ripetere, sia pure sulla base di un proprio personale verso, le lezioni e le opere del maestro, il che vuol dire che insegnarono come lui, ma curarono come poterono. Peccato che Gesù avesse
ordinato tassativamente loro di non mettersi appresso ai Gentili e di non entrare nelle città dei samaritani, perché con questa manifestazione di sorprendente intolleranza, che non c’era proprio da aspettarsi da una persona così ben istruita, si perse l’occasione di scongiurare travagli futuri, giacché, visto il proposito di Dio, tanto chiaramente espresso, di ampliare i Suoi territori e la Sua influenza, prima o poi bisognava pur arrivarci, e non solo ai samaritani, ma soprattutto ai Gentili, sia qui che altrove. Gesù li aveva esortati a guarire gli infermi, a risuscitare i morti, a sanare i lebbrosi, a scacciare i demoni, ma in realtà al di là di qualche allusione vaga e piuttosto generica, non pare che sia rimasta nota né memoria di queste azioni, ammesso che le abbiano veramente compiute, il che in ultima analisi serve a dimostrare come Dio non possa certo fidarsi di chiunque, per quanto accurate siano le raccomandazioni. Quando saranno di nuovo con Gesù, senza dubbio i dodici dovranno pur raccontargli qualcosa, dai risultati di quella loro predica al pentimento che sono andati a diffondere, ma potranno riferire ben poco riguardo alle guarigioni, tranne la cacciata di un certo numero di demoni inferiori, di quelli per cui non servono esorcismi particolarmente imperiosi per farli balzare da una persona all’altra. Diranno invece, questo sì, che talvolta sono stati loro a essere scacciati o mal accolti da certuni che non erano Gentili o da città che non appartenevano ai samaritani, con l’unica consolazione, andandosene, di scuotersi la polvere dai piedi, come se la colpa fosse di quella povera polvere che tutti calpestano e che non si lamenta mai di nessuno. Ma Gesù aveva detto che avrebbero dovuto agire così in casi del genere, come testimonianza contro chi non aveva voluto ascoltarli, una deplorevole, rassegnata risposta, davvero, giacché si trattava proprio della parola di Dio che veniva respinta in quel modo, dal momento che Gesù stesso era stato molto esplicito, Non preoccupatevi di quello che dovrete raccontare, l’ispirazione vi soccorrerà per ciò che dovrete dire. Ebbene, può darsi che alla fin fine le cose possano anche non andare così lisce, è possibile che in questo, come in altri casi, la solidità della dottrina, che sta sopra, dipenda dal fattore personale, che sta sotto, ma la lezione, se non è azzardato anticiparlo, ci sembra buona, approfittiamone. Casualmente il tempo era come le rose appena colte, fresco e profumato, e le strade pulite e amene come se un gruppo di angeli andasse in avanscoperta spruzzando il cammino di rugiada, per poi spazzarlo con scope di alloro e mirto. Gesù e Maria di Magdala viaggiarono in incognito, non pernottando mai nei caravanserragli, evitando di unirsi alle carovane, dov’era maggiore il rischio di incontrare qualcuno che lo riconoscesse. Non che Gesù stesse trascurando i propri doveri, e del resto la puntigliosa sorveglianza di Dio non glielo avrebbe consentito, ma sembrava che il Signore in persona avesse deciso di concedergli alcuni giorni di ferie, giacché strada facendo non c’erano né lebbrosi a implorare le sue cure né posseduti a
respingerle, e i paesi che attraversavano si deliziavano bucolicamente nella pace del Signore, come se, per virtù propria, si fossero avviati sulla via del pentimento. Dormivano dove capitava, senza badare ad altro conforto che non fosse il grembo dell’altro, e spesso avendo per tetto solo il firmamento, quell’immenso occhio nero di Dio punteggiato di quelle luci che sono il riflesso lasciato dagli sguardi degli uomini che hanno contemplato il cielo, generazione dopo generazione, interrogando il silenzio e ascoltando l’unica risposta che esso dà. In seguito, quando sarà sola al mondo, Maria di Magdala cercherà di ricordare questi giorni e queste notti, e ogni volta sarà costretta a una lotta immane per difendere la memoria dagli assalti del dolore e dell’amarezza, come se stesse proteggendo un’isola d’amore dagli attacchi di un mare in tempesta e dei suoi mostri. Quel tempo ormai non è lontano, ma guardando la terra e il cielo non si distinguono i segnali dell’avvicinamento, proprio come un uccello che vola nello spazio aperto e non si accorge del rapido falco che, con gli artigli protesi, si abbatte come un sasso. Gesù e Maria di Magdala cantano durante il cammino, e i viandanti, che non li conoscono, dicono, Gente felice, e per il momento non c’è verità più vera. Così arrivarono a Gerico e, da lì, con calma, impiegandoci due lunghi giorni perché il caldo era tanto e di ombre non ce n’erano, salirono a Betania. Dopo tutti quegli anni, Maria di Magdala non sapeva come l’avrebbero accolta i suoi fratelli, tanto più che se n’era andata da casa per condurre una mala vita, Forse pensano addirittura che sia morta, diceva, forse desiderano proprio che io lo sia, e Gesù tentava di scacciarle dalla mente quelle brutte idee, Il tempo guarisce tutto, sentenziava, e non pensava a quanto la ferita, che per lui era la sua famiglia, fosse ancora viva e aperta, e continuasse a sanguinare. Entrarono a Betania, Maria coprendosi mezzo volto per la vergogna che i vicini la riconoscessero, e Gesù, dolcemente, la rimproverava, Da chi ti nascondi, non sei più la donna che faceva la vita, quella non esiste più, Non sono più quella di un tempo, è vero, ma sono chi ero, e la donna che sono e quella che ero sono ancora legate l’una all’altra dalla vergogna di quella che fui, Adesso sei quella che sei, e stai con me, Sia benedetto Iddio per questo, Lui che un giorno ti strapperà a me, e Maria lasciò ricadere il mantello, mostrando il viso, eppure nessuno disse, Ecco la sorella di Lazzaro, quella che è andata a fare la prostituta. Questa è la casa, disse Maria di Magdala, ma le mancò il coraggio per bussare e la voce per annunciarsi. Gesù spinse adagio il cancello, che era appena accostato, e domandò, C’è nessuno, dall’interno una donna rispose, Chi è, e quasi la risposta l’avesse condotta fino alla porta, ecco comparire Marta, la sorella di Maria, gemella ma non identica, perché su questa donna aveva fatto più danno l’età, o il lavoro, o il carattere e il modo di essere. Prima lanciò uno sguardo a Gesù, e il suo viso, quasi si fosse alzata una nuvola che lo oscurava, si fece di colpo luminoso e chiaro, ma subito
dopo, vedendo la sorella, ebbe un attimo di esitazione, e sui lineamenti le si stampò un’espressione di malcontento, Chi è lui, per stare con lei, potrebbe aver pensato, o forse, Come può stare con lei, se è colui che sembra, ma Marta non avrebbe saputo dire, neanche se glielo avessero imposto, che quello le sembrava Gesù. E dev’essere stato questo il motivo per cui, invece di domandare alla sorella, Come stai, oppure, Che cosa vieni a fare, pronunciò le parole, Chi è quest’uomo che ti accompagna. Gesù sorrise, e quel sorriso colpì direttamente il cuore di Marta con la velocità e l’impatto di una frecciata, e lì rimase a far male, male, come un piacere strano e sconosciuto, Mi chiamo Gesù di Nazaret, disse lui, e sto con tua sorella, parole che, mutatis mutandis, come saprebbero dire i romani nel loro bel latino, erano equivalenti a quelle che aveva urlato a suo fratello Giacomo quando si era separato da lui sulla riva del lago, Si chiama Maria di Magdala e sta con me. Marta spalancò la porta e disse, Entrate, sei a casa tua, ma non si seppe mai a chi dei due stesse pensando. Nel cortile, Maria di Magdala trattenne per un braccio la sorella e le disse, Appartengo a questa casa come le appartieni tu, appartengo a quest’uomo che non appartiene a te, sono in regola con te e con lui, quindi non sbandierare la tua virtù e non sentenziare sulla mia manchevolezza, sono venuta in pace e in pace voglio restare. Marta disse, Ti ricevo come sorella di sangue e spero che possa arrivare il giorno in cui ti accoglierò con amore, ma non oggi, e stava per proseguire quando un pensiero la trattenne, fatto sta che non sapeva se l’uomo che accompagnava la sorella fosse a conoscenza o meno della vita che lei aveva condotto, che forse faceva ancora, e allora, a questo punto del ragionamento il viso le si coprì di rossore e confusione, per un attimo odiò quei due e se stessa, infine parlò Gesù, perché Marta udisse ciò che era necessario, non è poi granché difficile immaginare quello che passa nel pensiero della gente, Dio ci giudica tutti e per ciascuno di noi lo farà in modo diverso, secondo ciò che siamo giorno dopo giorno, ebbene, Marta, se Dio dovesse giudicarti oggi, non credere che ai Suoi occhi saresti diversa da Maria, Spiegati meglio, non ti capisco, E io non ti dirò altro, serba le mie parole nel tuo cuore e ripetile a te stessa quando guarderai tua sorella, e non più Maria, Vuoi sapere se non sono più una puttana, domandò bruscamente Maria di Magdala, forzando la reticenza della sorella. Marta indietreggiò, con le mani sul viso, No, no, non voglio che tu me lo dica, mi bastano le parole di Gesù, e non riuscendo a trattenersi scoppiò a piangere. Maria le si avvicinò, l’abbracciò come se la cullasse, Marta ripeteva fra i singhiozzi, Che vita, che vita, ma non si capiva se stesse parlando della sorella o di se stessa. E Lazzaro, dov’è, domandò Maria, Alla sinagoga, E di salute, come sta, Continua a soffrire di quei suoi vecchi soffocamenti, ma per il resto non sta male. Le venne voglia di aggiungere, in un impeto di amarezza, che quella sollecitudine era piuttosto in ritardo, ché in tutti quegli anni di colpevole assenza la sorella prodiga, prodiga di tempo e di corpo, pensò
Marta con una sorta di risentita ironia, non aveva mai pensato di chiedere notizie della famiglia, specie di un fratello la cui salute cagionevole sembrava sul punto di spezzarsi definitivamente da un momento all’altro. Rivolgendosi a Gesù, che a due passi di distanza osservava attentamente il mal celato conflitto, Marta disse, Nostro fratello copia rotoli per la sinagoga, ad altro non gli basta la salute, e con il tono, malgrado l’intenzione non fosse certamente quella, di chi non potrà mai capire come sia possibile vivere senza questa forza diligente, senza questo continuo lavoro, concluse, Cosicché durante tutto il santo giorno non ho un attimo di riposo. Di che cosa soffre Lazzaro, domandò Gesù, Di soffocamenti, come se il cuore gli si dovesse fermare, poi diventa pallido, sembra che debba restarci. Marta fece una pausa e poi aggiunse, È più giovane di noi, e lo disse senza pensare, forse perché improvvisamente si era resa conto della giovinezza di Gesù, di nuovo venne assalita dalla confusione, un senso di gelosia le sfiorò il cuore, e il risultato di tutto ciò furono alcune parole che suonarono in modo strano per la presenza di Maria di Magdala, la quale, invece, avrebbe avuto il dovere e il diritto di pronunciarle, Sei stanco, siediti, e lascia che ti lavi i piedi. Poco più tardi Maria, trovandosi sola con Gesù, gli disse, tra il serio e il faceto, A quanto pare, queste sorelle sono nate per innamorarsi di te, e Gesù rispose, Il cuore di Marta è colmo di tristezza perché non ha vissuto, Non è questa la sua pena, è triste perché pensa che non vi sia più giustizia in cielo se l’impura è colei che riceve il premio, mentre la virtuosa ha il corpo vuoto, Dio le riserverà altri compensi, Può darsi, ma Dio, che ha creato il mondo, non dovrebbe privare di nessuno dei frutti della sua opera le donne di cui, peraltro, è stato autore, Conoscere uomo, per esempio, Sì, come tu hai conosciuto donna, e non dovresti aver bisogno d’altro, essendo, come sei, il figlio di Dio, Chi dorme con te non è il figlio di Dio, ma il figlio di Giuseppe, In verità, da quando sei arrivato, non ho mai avuto la sensazione di giacere con il figlio di un dio, Di Dio, vuoi dire, Magari tu non lo fossi. Tramite un ragazzino, figlio di vicini, Marta fece avvertire il fratello del ritorno di Maria, ma non senza aver esitato a lungo, perché così avrebbe ridotto l’inevitabile e gustosa notizia che la sorella di Lazzaro, la prostituta, era tornata a casa, con la qual cosa la famiglia finiva di nuovo sulle bocche del mondo dopo che il tempo le aveva più o meno messe a tacere. Si domandava fra sé e sé con quale faccia sarebbe uscita per la strada il giorno dopo e, peggio ancora, se avrebbe avuto il coraggio di portarsi dietro la sorella, giacché si sarebbe trovata costretta a parlare con vicine e amiche, dicendo per esempio, Ti ricordi di mia sorella Maria, è qui, è tornata a casa. e l’altra, con aria saccente, Mi ricordo, mi ricordo, e chi non se ne ricorda, speriamo che simili inezie prosaiche non scandalizzino chi ci spende qui il suo tempo, la storia di Dio non è mica tutta divina. Si biasimò Marta per quei meschini pensieri quando Lazzaro, arrivando, abbracciò Maria e le disse con semplicità. Benvenuta sorella mia, come se
il dolore per quegli anni di assenza e di tacita pena avesse parzialmente cessato di opprimerlo, e visto che un segno di buon umore adesso le toccava pur darlo, Marta indicò Gesù e disse al fratello, Questo è Gesù, nostro cognato. I due uomini si guardarono con simpatia e subito si sedettero a chiacchierare, mentre le donne, riprendendo gesti e movimenti un tempo comuni, cominciarono a preparare da mangiare. Orbene, dopo aver cenato, Lazzaro e Gesù uscirono nel cortile per prendere il fresco della sera, dentro casa rimasero le sorelle, a risolvere la difficile questione di come disporre le stuoie, tenendo conto del mutamento occorso nella composizione della famiglia, e dopo un lungo silenzio, Gesù, guardando le prime stelle che spuntavano nel cielo ancora chiaro, domandò, Sei malato, Lazzaro, e Lazzaro rispose, con voce stranamente tranquilla, Sì, sono malato, Non lo sarai più, disse Gesù, Certo, quando sarò morto, No, adesso, Non mi avevi detto di essere un medico, Fratello, se fossi un medico non saprei come guarirti, E non ti è possibile sanarmi, pur non essendolo, Sei guarito, mormorò Gesù dolcemente, prendendogli una mano. In quell’istante Lazzaro sentì che il male gli scorreva via dal corpo come un’acqua scura divorata dal sole, che il respiro gli si espandeva e gli ringiovaniva il cuore e, non riuscendo a capire che cosa stesse succedendo, ebbe paura, Che cos’è, domandò, e la voce gli si era arrochita per l’angoscia, Chi sei tu, Medico, non sono, sorrise Gesù, In nome di Dio, dimmi chi sei, Non invocare il nome di Dio invano, Che cosa devo capire, Chiama Maria, te lo dirà lei. Non fu necessario, attirate dal repentino mutamento delle voci, Marta e Maria comparvero sulla soglia, che i due uomini stessero litigando, ma si accorsero subito che non era così, nel cortile tutto era sereno, al pari dell’aria, e Lazzaro, tremante, indicava Gesù, Chi è quest’uomo, domandava, che solo per avermi sfiorato con la mano e avermi detto, Sei guarito, mi ha sanato. Marta si avvicinò al fratello per calmarlo, come poteva essere guarito se tremava in quel modo, ma Lazzaro la allontanò e disse, Parla tu, Maria, che lo hai portato qui, chi è. Senza muoversi dalla soglia della porta dove si era trattenuta, Maria di Magdala disse semplicemente, È Gesù di Nazaret, figlio di Dio. Orbene, pur essendo questi luoghi, e, in essi, il tempo fin dal principio del mondo, così regolarmente favoriti da rivelazioni profetiche e annunci apocalittici, la cosa più naturale della vita sarebbe che Lazzaro e Marta manifestassero una perentoria incredulità, perché un conto è il fatto di ritrovarsi improvvisamente guariti per ovvio effetto di un miracolo, e un altro è che ti vengano a dire che l’uomo che ti ha sfiorato la mano liberandoti dal male è il figlio di Dio in persona. La fede e l’amore, però, possono molto, c’è addirittura chi sostiene che non debbano procedere necessariamente di pari passo perché possano ogni cosa, e fu così che Marta, piangendo, si buttò fra le braccia di Gesù, ma poi, spaventata per quell’audacia, scivolò a terra, dove rimase, riuscendo solo a mormorare, con il viso trasfigurato, Ti
ho lavato i piedi, ti ho lavato i piedi. Lazzaro non si era mosso, paralizzato dallo sgomento, si può addirittura supporre che se l’improvvisa rivelazione non lo ha fulminato è stato soltanto perché un opportuno gesto d’amore, un minuto prima, gli aveva messo un cuore nuovo al posto di quello che aveva. Sorridendo, Gesù gli si accostò per abbracciarlo e per dirgli, Non sorprenderti nel vedere che il figlio di Dio è figlio di un uomo, in realtà Dio non sapeva più dove scegliere, come gli uomini che scelgono le loro donne e le donne che scelgono i loro uomini. Le ultime parole erano destinate a Maria di Magdala, che le avrebbe prese per il verso giusto, ma a Gesù non sovvenne che avrebbero contribuito ad accrescere la sofferenza di Marta e la disperazione per la sua solitudine, ecco qual è la differenza fra un Dio e un figlio Suo, Dio lo avrebbe fatto apposta, al figlio è accaduto di farlo solo per umanissima incapacità. Insomma, in questa casa oggi la gioia è grande, domani Marta tornerà a soffrire e a sospirare, ma almeno un sollievo potrà averlo di sicuro, perché nessuno avrà l’ardire di trascinare per le strade, le piazze e i mercati di Betania la vita dissoluta di sua sorella quando si verrà a sapere, e se ne occuperà personalmente Marta, che l’uomo venuto insieme a lei ha guarito Lazzaro dal suo male senza pozioni né tisane. Erano in casa, riuniti ad ammazzare il tempo, quando Lazzaro disse, Di tanto in tanto, giungevano notizie che un uomo di Galilea girava facendo miracoli, ma non che fosse il figlio di Dio, Certe nuove corrono più in fretta di altre, disse Gesù, Sei tu quell’uomo, Lo hai detto tu. Gesù, allora, raccontò la sua vita fin dall’inizio, ma non integralmente, di Pastore niente, di Dio disse soltanto che gli era apparso per annunciargli, Sei mio figlio. Se non fosse stato per quelle prime notizie di certi lontani miracoli, trasformati in inconfutabile verità dalla palpabile evidenza dell’attuale, se non fosse stato per il potere della fede, se non fosse stato per l’amore e i suoi poteri, di certo Gesù avrebbe incontrato molte difficoltà, con una sola, laconica frase, benché messa in bocca allo stesso Dio, a convincere Lazzaro e Marta che l’uomo che poco dopo si sarebbe coricato con la loro sorella fosse costituito di spirito divino, se con la sua umana carne si era avvicinato a lei, che aveva conosciuto tanti uomini senza alcun timore di Dio. Perdoniamo Marta per l’orgoglio che la spinse a dire a bassa voce, con la testa sotto il lenzuolo per non vedere né sentire, Io ne sarei più degna. Il mattino dopo, la notizia si sparse velocissima, a Betania non si faceva che lodare e rendere grazie al Signore, e perfino coloro che, modesti, all’inizio erano in qualche modo dubbiosi, considerando che il paese fosse troppo piccolo perché vi potessero accadere grandi cose, anch’essi furono obbligati ad arrendersi al cospetto del miracolato Lazzaro, del quale non si dovrà mai dire che si era messo a vendere salute, perché era talmente di buon cuore che, potendolo, l’avrebbe donata tutta. Davanti alla porta di casa cominciarono a radunarsi i curiosi che volevano vedere con i propri occhi, ovviamente non menzogneri, l’autore di quell’impresa e se possibile, per
accertarsene in modo definitivo, toccarlo con mano. Giunsero anche, chi con le proprie gambe, chi portato in barella o a spalla dai parenti, numerosi infermi, tanti che non si riusciva più a passare per la stradina in cui abitavano Lazzaro e le sue sorelle. Appena seppe di quell’assembramento, Gesù mandò a dire che avrebbe parlato a tutti nella piazza principale del paese, che loro cominciassero ad avviarsi, lui li avrebbe raggiunti subito. Ebbene, chi ha un uccello in mano non sarà certo così stupido da farselo scappare, piuttosto con le dita gli fa una gabbia più sicura. Sulla base di questa prudenza, o diffidenza, nessuno si mosse, e Gesù dovette mostrarsi e uscire come uno qualunque, tale e quale a noi che ci affacciamo nel vano di una porta, senza musica né splendore, senza che la terra tremi o i cieli si spostino da una parte all’altra, Eccomi, disse, tentando di parlare con tono naturale, ma, supponendo che vi fosse riuscito, erano parole tali che, da sole, vista la provenienza, sarebbero state in grado di far inginocchiare un paese intero, a chiedere pietà, Salvaci, gridavano questi, Guariscici, imploravano quelli. Gesù ne guarì uno che, muto com’era, non poteva chiedere niente, e gli altri li rimandò a casa perché non avevano abbastanza fede, che tornassero un altro giorno, ma prima di tutto bisognava che si pentissero dei peccati, perché il regno di Dio era vicino e il tempo sul punto di compiersi, dottrina già nota. Sei tu il figlio di Dio, gli domandarono, e Gesù rispose nel modo enigmatico cui aveva abituato chi lo ascoltava, Se io non lo fossi, Dio ti renderebbe muto prima ancora di consentirti di domandarmelo. Con questi celebri avvenimenti ebbe inizio la permanenza di Gesù a Betania, nell’attesa che arrivasse il giorno dell’appuntamento coi discepoli, in giro per lontani lidi. Appare evidente che, non appena si sparse la notizia che l’uomo che faceva i miracoli nel nord adesso si trovava a Betania, cominciò ad arrivare gente dalle città e dai paesi dei dintorni. Gesù non avrebbe neppure avuto bisogno di uscire dalla casa di Lazzaro, perché tutti vi accorrevano come a un luogo di pellegrinaggio, ma lui non li riceveva, ordinava loro di radunarsi su un certo monte fuori del paese, dove sarebbe andato a predicare il pentimento e a compiere alcune guarigioni. Tanto si parlò e si disse che le voci arrivarono a Gerusalemme, facendo ingrossare le folle e portando Gesù a domandarsi se fosse il caso di fermarsi lì, col rischio di quei tumulti che si creano sempre negli eccessivi assembramenti. Con la speranza di salvezza e guarigione, da Gerusalemme dapprima era venuto il popolino, ma ben presto cominciarono a comparire anche alcuni delle classi elevate, nonché un buon numero di farisei e di scribi i quali si rifiutavano di credere che uno, nel pieno possesso delle sue facoltà, avesse l’audacia, per così dire suicida, di definirsi, per esteso, figlio di Dio. Se ne tornavano a Gerusalemme irritati e perplessi perché Gesù non rispondeva mai affermativamente quando glielo domandavano e tutti i suoi discorsi, quanto a discendenze, si limitavano ad autodefinirsi figlio dell’Uomo, e se per caso, parlando di
Dio, gli accadeva di dire, Padre, si capiva che si trattava del padre di tutti, e non soltanto del suo. Restava quindi, come argomento difficilmente polemico, il potere curativo di cui aveva dato ripetute prove, esercitato senza passi lambiccati di magia, nel modo più semplice, una o due parole, Cammina, Alzati, Parla, Guarda, Sei guarito, una toccatina di mano, niente di più di un leggero sfioramento con la punta delle dita, e di colpo la pelle dei lebbrosi brillava come la rugiada colpita dalla prima luce del sole, i muti e i balbuzienti si ubriacavano nel flusso torrenziale della parola liberata, i paralitici balzavano dai lettucci e ballavano fino all’esaurimento delle forze, i ciechi non credevano a quello che i loro occhi riuscivano a vedere, gli zoppi correvano e correvano e poi, per la gioia, si fingevano ancora storpi per rimettersi a correre di nuovo, Pentitevi, diceva loro Gesù, Pentitevi, e non chiedeva altro. Ma i sacerdoti del Tempio, conoscendo più di chiunque altro tutti i subbugli e i turbamenti storici che in altre epoche avevano scatenato profeti e annunciatori di varia natura, dopo aver considerato e valutato tutte le parole udite da Gesù, stabilirono che il loro tempo non avrebbe visto sovvertimenti religiosi, sociali e politici del tipo di quelli avvenuti in passato e che in futuro avrebbero prestato grande attenzione a quello che il galileo potesse fare o dire, perché, in caso di bisogno, e ogni elemento indica che ci arriveremo, il male che si annuncia sia tagliato e stroncato alla radice, giacché, diceva il sommo sacerdote, A me, lui non imbroglia, il figlio dell’Uomo è il figlio di Dio. Gesù non era certo andato a seminare a Gerusalemme, ma a Betania intagliava, forgiava e affilava la falce con cui, proprio là, lo avrebbero dovuto mietere. Eravamo a questo punto quando, due oggi, due domani, sempre a coppie, o in quattro se si erano incontrati lungo la strada, i discepoli cominciarono ad arrivare a Betania. Divergendo appena, gli uni e gli altri, in qualche particolare e circostanza di scarso rilievo, recando tutti la stessa notizia, e cioè che nel deserto era comparso un uomo che predicava alla vecchia maniera, come se con la voce facesse rotolare grandi massi e con le braccia smuovesse le montagne, annunciando castighi al popolo e l’imminente venuta del Messia. Non erano riusciti a vederlo perché si spostava continuamente da un luogo all’altro, ragion per cui le informazioni che portavano, sebbene in generale coincidenti, potevano dirsi tutte di seconda mano, e, aggiungevano, non erano andati a cercarlo soltanto perché stava arrivando la scadenza dei tre mesi sulla quale si erano accordati e non volevano mancare all’appuntamento. Domandò allora Gesù se conoscessero il nome di quel profeta e gli risposero, Giovanni, ebbene, era proprio il nome dell’uomo che avrebbe dovuto aiutarlo, secondo quanto gli aveva annunciato Dio nel congedarsi. È arrivato, disse Gesù, e gli amici non capirono che cosa intendesse con quelle parole, lo comprese soltanto Maria di Magdala, ma lei sapeva tutto. Gesù voleva andare subito in cerca di Giovanni, il quale, certo, stava cercando lui, ma dei dodici mancavano ancora
Tommaso e Giuda Iscariota, e visto che, magari, avrebbero potuto recare notizie più recenti e complete, quel ritardo lo irritava. Ma ne valse la pena di aspettare, i ritardatari avevano visto Giovanni e parlato con lui. Accorsero tutti gli altri dalle tende in cui risiedevano, fuori Betania, per ascoltare il racconto di Tommaso e di Giuda Iscariota, seduti tutti in circolo nel cortile della casa di Lazzaro, mentre Marta e Maria, insieme alle altre donne, li servivano. Quindi parlarono a turno Giuda Iscariota e Tommaso, ed ecco quanto dissero, Giovanni si trovava nel deserto quando Dio gli si era rivolto, dopo di che si è spostato sulle rive del Giordano a predicare un battesimo di penitenza per la remissione dei peccati, ma le folle che accorrevano per farsi battezzare erano accolte con queste urla, che pure noi abbiamo udito, e dalle quali siamo rimasti sbigottiti, Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire all’ira imminente, mostrate dunque frutti degni di un sincero pentimento e non illudete voi stessi dicendo che avete Abramo per padre, perché io vi dico che Dio può far nascere nuovi virgulti ad Abramo anche da queste pietre grezze, lasciandovi nell’abiezione, attenti, la scure è già posta alla radice degli alberi e, perciò, ogni pianta che non porta buoni frutti sarà tagliata e buttata nel fuoco, ebbene, le folle, terrorizzate, gli domandarono, Che cosa dobbiamo fare, e Giovanni rispose loro, Chi ha due tuniche, ne dia una a chi ne è sprovvisto, e chi ha da mangiare faccia altrettanto, e ai pubblicani che riscuotono le imposte disse, Non esigete nulla di più di quanto non sia fissato dalla legge, ma non crediate che la legge sia giusta solo perché la chiamate legge, e ai soldati che gli chiesero, E noi che cosa dobbiamo fare, rispose, Non maltrattate nessuno, non denunciate ingiustamente e accontentatevi delle vostre paghe. A questo punto tacque Tommaso, che aveva iniziato e, prendendo la parola, proseguì Giuda Iscariota, Gli domandarono allora se non fosse lui il Messia, ed egli rispose, Io vi battezzo nell’acqua per condurvi al pentimento, ma verrà uno che è più forte di me, al quale io non sono degno neppure di sciogliere il legaccio dei sandali, che vi battezzerà nello Spirito Santo e nel fuoco, e nelle mani ha il ventilabro per ripulire la sua aia e raccogliere il frumento nel granaio, ma brucerà la pula con fuoco inestinguibile. Non disse altro Giuda Iscariota e tutti attesero che Gesù parlasse ma, con un dito, Gesù tracciava segni enigmatici per terra e sembrava in attesa che qualcun altro violasse il silenzio. Allora Pietro disse, Sei tu il Messia che Giovanni è venuto ad annunciare, e Gesù, continuando a disegnare la polvere, Lo dici tu, non io, perché a me Dio ha detto soltanto che ero Suo figlio, fece una pausa e poi concluse, Vado in cerca di Giovanni, Veniamo con te, disse quello che si chiamava anche lui Giovanni ed era figlio di Zebedeo, ma Gesù scosse lentamente il capo, Andrò da solo, con Tommaso e Giuda Iscariota perché lo conoscono, e poi rivolto a Giuda Iscariota, Com’è, Più alto di te e molto più forte, ha una grande barba che sembra fatta di spine, se ne va in giro nel deserto con rozze pelli di cammello strette in vita da una striscia di
cuoio e dicono che si cibi di locuste e miele selvatico. Sembra il Messia, molto più di me, disse Gesù, e si allontanò dal cerchio. Partirono presto, il mattino dopo, tutt’e tre, e sapendo che Giovanni non si tratteneva mai per molti giorni in uno stesso luogo, ma che la cosa più probabile, in ogni caso, sarebbe stata di trovarlo a battezzare sulle rive del Giordano, scesero dalle alture di Betania fino a Bet-Araba, che si trova sulla riva del Mar Morto, con l’idea di risalire poi lungo il fiume, sempre, fino al cosiddetto mare di Galilea, e ancora più a settentrione, fino alla sorgente se fosse stato necessario. Ma quando partirono da Betania non avrebbero mai potuto immaginare che il viaggio sarebbe stato così breve, e infatti proprio a Bet-Araba, solo soletto, come se stesse aspettando, trovarono Giovanni. Lo videro da lontano, la minuscola sagoma di un uomo seduto in riva al fiume, circondato da montagne livide che ricordavano dei teschi e da valli simili a cicatrici ancora dolenti, mentre sulla destra, minacciosamente luccicante sotto il sole e il cielo bianco, si stendeva la superficie terribile del Mar Morto, come uno stagno liquefatto. Quando furono alla distanza di un tiro di fionda, Gesù domandò ai compagni, È lui, i due guardarono con attenzione, proteggendosi gli occhi con la mano tesa sulle sopracciglia, e risposero, Se non lo fosse, sarebbe il suo gemello, Aspettate qui finché ritorno, disse Gesù, non vi avvicinate, qualunque cosa accada, e senza aggiungere altro cominciò a scendere verso il fiume. Tommaso e Giuda Iscariota si sedettero sul suolo riarso, osservarono Gesù allontanarsi, visibile o invisibile a seconda degli accidenti del terreno, e poi, ormai giunto sulla riva, incamminarsi verso il punto in cui si trovava Giovanni, che nel frattempo non si era mosso. Speriamo di non esserci sbagliati, disse Tommaso, Dovevamo avvicinarci un po’ di più, disse Giuda Iscariota, ma Gesù aveva avuto l’immediata certezza appena lo aveva visto, gliel’aveva domandato tanto per interrogarli. Laggiù, Giovanni si era alzato e guardava Gesù avvicinarsi. Che cosa si diranno, domandò Giuda Iscariota, Forse Gesù ce lo racconterà, forse no, disse Tommaso. Adesso i due uomini, in lontananza, erano l’uno di fronte all’altro e parlavano animatamente, lo si poteva capire dai gesti, dai movimenti dei loro bastoni, trascorso qualche tempo entrarono in acqua, da qui non si riesce a vederli perché il rilievo della sponda li nasconde, ma Giuda e Tommaso sapevano che cosa stava accadendo perché anche loro si erano fatti battezzare da quell’uomo, immergendosi nella corrente fino a mezzo busto, mentre Giovanni prendeva l’acqua con le mani a conca, la alzava al cielo e la lasciava scorrere sul capo di Gesù dicendo, Io ti battezzo con acqua, sia essa ad alimentare il tuo fuoco. Detto, fatto, Giovanni e Gesù escono adesso dal fiume, hanno raccolto da terra i bastoni, staranno senz’altro scambiandosi qualche parola di commiato, l’hanno detta e si sono abbracciati, poi Giovanni s’incammina lungo la riva, verso nord, e Gesù sta venendo dalla nostra parte. Tommaso e Giuda Iscariota lo aspettavano in piedi, lui
arriva e, di nuovo senza dire una parola, li oltrepassa e prosegue sulla via di Betania. I discepoli lo seguono un po’ indispettiti, rosi dalla curiosità insoddisfatta, e a un certo punto Tommaso non riuscì più a trattenersi e, incurante del gesto di Giuda che intendeva bloccarlo, gli chiese, Non vuoi raccontarci ciò che ti ha detto Giovanni, Ancora non è l’ora, rispose Gesù, Ti ha detto almeno che sei il Messia, Ancora non è l’ora, ripeté Gesù, e i discepoli non riuscirono a capire se avesse solo ripetuto quanto aveva detto in precedenza o se li stesse informando che l’ora in cui sarebbe venuto il Messia non era ancora giunta. Per quest’ultima ipotesi decise di propendere Giuda Iscariota quando, scoraggiati, si attardarono mentre Tommaso, scettico per risoluta e renitente inclinazione dello spirito, opinava che fosse stata una mera ripetizione, E anche spazientita, soggiunse. Di quanto era accaduto, solo Maria di Magdala venne a conoscenza quella notte, e nessun altro, Non si è detto granché, disse Gesù, c’eravamo a malapena salutati che subito mi ha chiesto se fossi io colui che deve venire, o se avessimo dovuto aspettarne un altro, E tu, che cosa gli hai risposto, Gli ho detto che i ciechi riacquistano la vista e gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati e i sordi odono, e la buona novella è annunciata ai poveri, E lui, Non c’è bisogno che il Messia si presti a tanto, a patto che faccia quanto deve, Te l’ha detto lui, Sì, sono state le sue precise parole, E che cosa deve fare il Messia, Gliel’ho domandato, E lui, Mi ha risposto che avrei dovuto scoprirlo da me, E poi, Nient’altro, mi ha portato nel fiume, mi ha battezzato e poi se n’è andato, E con quali parole ti ha battezzato, Ha detto, Io ti battezzo con acqua, sia essa ad alimentare il tuo fuoco. Dopo questa conversazione con Maria di Magdala, Gesù non parlò più per una settimana. Lasciò la casa di Lazzaro e si trasferì fuori Betania, nel posto in cui si trovavano i discepoli, ma si ritirò in una tenda appartata, vi si tratteneva tutto il giorno, da solo, neppure Maria di Magdala vi poteva entrare, e ne usciva la sera per recarsi sui monti deserti. I discepoli talvolta lo seguivano clandestinamente, giustificandosi con la scusa di proteggerlo da un attacco di animali selvatici, di cui per la verità non c’era notizia, e videro che cercava una radura e li si sedeva, guardando non il cielo, ma fisso davanti a sé, come se, dall’ombra inquietante delle valli o dalla cima di una collina, si aspettasse di veder comparire qualcuno. C’era la luna, chiunque si fosse avvicinato sarebbe stato visto da lontano, ma non comparve mai nessuno. Quando l’alba posava il piede sulla prima soglia della luce, Gesù si alzava e rientrava all’accampamento. Mangiava solo una piccola parte del cibo che Giovanni e Giuda Iscariota, ora l’uno ora l’altro, gli portavano, ma non rispondeva ai loro saluti, e una volta accadde addirittura che congedasse bruscamente Pietro, il quale voleva soltanto sapere come stava e ricevere ordini. Non aveva sbagliato del tutto, Pietro, a fare quel passo, ma fu compiuto troppo presto, comunque sia, al termine di otto giorni, Gesù uscì dalla tenda in piena
luce, si avvicinò ai discepoli e mangiò insieme a loro, e alla fine disse, Domani saliremo a Gerusalemme, al Tempio, dove farete quello che farò io, ormai è tempo che il figlio di Dio sappia a che cosa gli serve la casa del Padre e che il Messia cominci a fare ciò che deve. I discepoli gli domandarono di quali cose stesse mai parlando, ma Gesù non disse loro altro che questo, Non ci sarà bisogno che viviate a lungo per saperlo. Orbene, i discepoli non erano abituati a sentirlo parlare con quel tono né a vedergli quell’espressione dura sul viso, non sembrava neppure il Gesù che conoscevano, dolce e tranquillo, che Dio portava dovunque gli paresse e che difficilmente si lamentava. Non potevano sussistere dubbi che la causa del cambiamento fosse nelle ragioni, per ora sconosciute, che lo avevano spinto a separarsi dalla comunità degli amici e a vagare, quasi fosse in preda ai demoni della notte, per quei monti e quei burroni alla ricerca di una parola, ciò che in fondo si cerca sempre. Ma Pietro, quale anziano del gruppo, osservò che non era corretto che Gesù, senza spiegazioni, avesse ordinato, Saliamo a Gerusalemme, come se loro fossero soltanto delle marionette buone da portare avanti e indietro, ma non per conoscere i motivi di quell’andirivieni. E allora disse, Riconosciamo sempre il tuo potere e la tua autorità e ci adeguiamo, sia per quanto dici sia per quanto hai fatto, sia perché sei figlio di Dio sia per l’uomo che altrettanto sei, ma è ingiusto che tu ci tratti come se fossimo dei bambini scervellati o dei vecchi decrepiti, non comunicandoci il tuo pensiero, bensì soltanto che dovremo fare ciò che farai tu, senza richiedere al nostro senno di giudicare ciò che pretendi da noi, Perdonatemi tutti, rispose Gesù, ma non so neppure io che cosa mi porta a Gerusalemme, mi è stato detto soltanto che devo andarci, nient’altro, però voi non siete obbligati ad accompagnarmi, Chi ti ha detto che devi andare a Gerusalemme, Qualcuno che è entrato nella mia testa per decidere su quanto dovrò fare e non fare, Sei cambiato moltissimo da quando hai incontrato Giovanni, Ho capito che non basta recare la pace, ma che bisogna portare anche la spada, Se il regno di Dio è vicino, a che cosa serve la spada, domandò Andrea, Dio non mi ha detto per quale cammino giungerà il Suo regno, abbiamo sperimentato la pace, saggiamo adesso la spada, e Dio farà la Sua scelta, ma, lo ripeto, non siete obbligati ad accompagnarmi, Sai bene che verremo con te dovunque andrai, disse Giovanni, e Gesù rispose, Non giuratelo, lo sapranno coloro che vi saranno andati. Il mattino dopo, recatosi Gesù a casa di Lazzaro, non tanto per congedarsi, ma per dare un benevolo segnale di essere ritornato all’abituale convivenza con tutti, gli fu detto da Marta che il fratello era già andato alla sinagoga. Gesù e i suoi, allora, si avviarono verso Gerusalemme, e Maria di Magdala e le altre donne li accompagnarono fino alle ultime case di Betania, dove si fermarono indirizzando ai partenti cenni di saluto, a loro bastava farli, ché gli uomini non si voltarono neppure
una volta. Il cielo è nuvoloso, minaccia pioggia, chi non ha motivi di forza maggiore per recarsi a Gerusalemme se n’è rimasto in casa, ad aspettare che gli astri decidano. Procedono, quindi, i tredici su una strada spesso deserta, mentre i nuvoloni grigiastri si avviluppano alle cime dei monti come se, finalmente, e per sempre, il cielo e la terra si fossero incastrati l’un l’altro, lo stampo e il modello, il maschio e la femmina, il concavo e il convesso. Giunti però alle porte della città, videro subito che non c’erano grandi differenze di varietà e numero per quanto riguardava la folla, e che, come al solito, ci sarebbero voluti molto tempo e un sacco di pazienza per farsi strada e arrivare al Tempio. Non andò così, tuttavia. L’aspetto dei tredici uomini, quasi tutti scalzi, coi loro alti bastoni, le barbe lunghe, i pesanti e scuri mantelli sopra certe tuniche che sembravano aver visto il principio del mondo, faceva scostare la gente che, intimorita, si domandava, Chi sono, chi è quello che procede in testa, e non sapevano rispondere, finché uno, venuto dalla Galilea, disse, È Gesù di Nazaret, colui che dice di essere il figlio di Dio e che compie i miracoli, E dove vanno, si domandavano tutti, e giacché l’unica maniera per saperlo era quella di seguirli, gli andarono appresso in molti, tanto che arrivati all’ingresso del Tempio non erano più tredici, ma mille, i quali però si fermarono lì, all’esterno, in attesa che gli altri soddisfacessero la loro curiosità. Gesù si diresse verso i mercanti e disse ai discepoli, Ecco che cosa siamo venuti a fare, e cominciò a rovesciare i banchi, spintonando e poi picchiando chi comprava e vendeva, per cui si creò un subbuglio tale da non permettere di sentire le parole che pronunciava se, per uno strano caso, la sua voce non avesse preso a risuonare stentorea come il bronzo, Della casa che dovrebbe essere di preghiera per tutti i popoli, voi ne avete fatto una spelonca di ladri, e continuava a ribaltare i banchi, facendo sparpagliare e schizzar via le monete, con l’enorme gaudio di quanti, fra i mille, erano corsi a raccogliere quella manna. Lo stesso facevano i discepoli, e alla fine anche le sedie dei venditori di colombe vennero scaraventate a terra, e le colombe, libere, presero a svolazzare sopra il Tempio, turbinando come impazzite, laggiù, intorno al fumo dell’altare, su cui non sarebbero state bruciate perché era arrivato il loro salvatore. Giunsero le guardie del Tempio, armate di bastoni, per punire e acciuffare o sbattere fuori i riottosi, ma, per loro sventura, si ritrovarono davanti tredici rudi galilei che, batocchio in mano, spazzavano via chiunque volesse bloccarli e urlavano, Venite, venite tutti, ché Dio arriverà per tutti, e caricavano le guardie e sbaragliavano i banconi, di punto in bianco spuntò una torcia accesa, ben presto s’appizzarono i tendoni, un’altra colonna di fumo s’innalzava nell’aria, qualcuno urlò, Chiamate i soldati romani, ma nessuno gli badò, capitasse qualsiasi cosa, ma i romani, era la Legge, non avrebbero messo piede nel Tempio. Accorsero altre guardie, stavolta armate di spada e lancia, cui si unirono qualche commerciante e qualche venditore di colombe, decisi a non lasciare
unicamente in mano altrui la difesa dei propri interessi, e, a poco a poco, la sorte cominciò a girare, ché se questa lotta, come nelle crociate, la voleva Dio, non sembrava proprio che vi mettesse abbastanza impegno perché la vincessero i Suoi. Eravamo a questo punto quando, in cima alla scalinata, comparve il sommo sacerdote, accompagnato dai suoi pari e da tutti quegli anziani e scribi che era stato possibile radunare in gran fretta, e parlò con una voce che non aveva niente da invidiare a quella di Dio, dicendo, Per questa volta lasciatelo andare, se tornerà, allora lo strapperemo e lo butteremo via, come si fa con la zizzania quando fra le messi è troppa e minaccia di soffocare il grano. Disse Andrea a Gesù, che si batteva accanto a lui, Hai detto bene di essere venuto a portare la spada e non la pace, adesso sappiamo almeno che i bastoni non sono certo spade, e Gesù rispose, È nel braccio che brandisce il bastone e impugna la spada che si vede la differenza, Allora che cosa facciamo, domandò Andrea, Torniamo a Betania, rispose Gesù, non è la spada che ancora ci manca, ma il braccio. Si ritirarono in buon ordine, coi bastoni puntati contro gli insulti e gli scherni della folla, che a imprese più ardite non si azzardava, e in breve riuscirono a uscire da Gerusalemme, dopo di che, tutti stanchi, alcuni pesti, presero la via del ritorno. Quando entrarono a Betania, notarono che i vicini si affacciavano alle porte e li guardavano con un’espressione di pietà e di dolore, che accettarono come un fatto naturale, visto il penoso stato in cui ritornavano dalla tenzone. Ben presto, però, si resero conto della causa reale, bastò imboccare la strada in cui viveva Lazzaro e subito capirono che era successa una disgrazia. Gesù si precipitò avanti a tutti, entrò nel cortile, persone dall’aria compunta gli fecero largo per lasciarlo passare, all’interno si udivano i pianti e i lamenti, Ah, fratello mio, questa era la voce di Marta, Ah, fratello mio, e questa la voce di Maria. Sdraiato per terra, sopra una stuoia, vide Lazzaro, tranquillo come se fosse addormentato, il corpo e le mani composti, ma non dormiva, era morto, per quasi tutta la vita il cuore aveva minacciato di abbandonarlo, poi era guarito, poteva testimoniarlo tutta Betania, e adesso l’aveva raggiunto la morte, per il momento si presenta sereno quasi fosse di marmo, intatto come se fosse entrato nell’eternità, ma non ci vorrà molto perché dall’interno della sua morte venga alla superficie il primo segnale di putredine, a rendere ancor più insopportabili l’angoscia e il terrore di questi vivi. Gesù, come se gli avessero reciso di colpo i tendini poplitei, cadde in ginocchio e cominciò a lamentarsi, piangendo, Com’è successo, com’è successo, è un pensiero che ci soccorre sempre di fronte a ciò per cui non vi è rimedio, domandare agli altri com’è accaduto, una maniera disperata e inutile per distrarci dal momento in cui dovremo accettare la verità, proprio così, vogliamo sapere com’è successo, ed è come se ancora potessimo sostituire la morte con la vita, al posto di quanto è successo ciò che avrebbe potuto essere. Dal fondo del suo
dirotto e amaro pianto, Marta disse a Gesù, Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto, ma io so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Lui te l’accorderà, come ti ha concesso la vista per i ciechi, la guarigione per i lebbrosi, la voce per i muti, e tutti gli altri prodigi che risiedono nella tua volontà e attendono la tua parola. Gesù le disse, Tuo fratello risusciterà, e Marta rispose, So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno. Gesù si alzò, sentì che una forza infinita gli trascinava lo spirito, in quel momento supremo poteva attuare qualsiasi cosa, compiere tutto, scacciare la morte da questo corpo, restituirgli l’esistenza e l’essere, la parola, il gesto, il sorriso, anche le lacrime, ma non di dolore, poteva dire, Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se muore, vivrà, e avrebbe chiesto a Marta, Tu credi questo, e lei avrebbe risposto, Sì, io credo che tu sia il figlio di Dio che deve venire nel mondo, ebbene, in tal caso, compiuti e ordinati tutti i passi necessari, la forza e il potere, e la volontà di usarli, ci mancava solo che Gesù, guardando il corpo abbandonato dall’anima, tendesse verso di lui le braccia come a rappresentare la via attraverso la quale essa doveva tornare, e dicesse, Lazzaro, alzati, e Lazzaro si sarebbe alzato perché questo sarebbe stato il volere di Dio, ma in quell’istante, ultimo e finale, Maria di Magdala posa una mano sulla spalla di Gesù e dice, Nessuno ha compiuto tanti peccati in vita per meritare di morire due volte, a quel punto Gesù lasciò ricadere le braccia e si allontanò per piangere. 24. Come un soffio gelato, un freddo agghiacciante, la morte di Lazzaro spense di colpo l’ardore combattivo che Giovanni aveva suscitato nell’animo di Gesù e in cui, durante una lunga settimana di riflessione e qualche breve istante d’azione, si erano confusi, in un sentimento unico, il servizio di Dio e quello del popolo. Passati i primi giorni di lutto, mentre pian piano gli obblighi e le abitudini quotidiane cominciavano a riacquistare lo spazio perduto, pagandolo con momentanei assopimenti di un dolore senza remissione, Pietro e Andrea si recarono a parlare con Gesù, a domandargli quali progetti avesse, se avrebbero ripreso a predicare per le città o se sarebbero tornati a Gerusalemme per un nuovo assalto, giacché i discepoli avevano preso a lamentarsi della prolungata inattività, così non può essere, non è per questo che abbiamo lasciato casa, lavoro e famiglia. Gesù li guardò come se non lì distinguesse fra i suoi pensieri, li ascoltò come se dovesse identificarne le voci in mezzo a un coro di urla discordanti e, dopo un lungo silenzio, li pregò di aspettarlo per qualche altro tempo, che ancora doveva pensare, che si sentiva come se stesse per accadere qualcosa che avrebbe definitivamente deciso delle loro vite e delle loro morti. Aggiunse che ben presto si sarebbe unito a loro nell’accampamento e, questo non riuscirono a capirlo né Pietro né Andrea, che avrebbe lasciato che le sorelle rimanessero da sole quando
non era ancora stato deciso che cosa avrebbero fatto gli uomini, Non c’è bisogno che torni fra noi, è meglio se rimani, disse Pietro, il quale non poteva sapere come Gesù stesse vivendo fra due tormenti, quello dei suoi doveri verso gli uomini e le donne che avevano lasciato e abbandonato tutto per seguirlo, e l’altro qui, in questa casa, l’obbligo verso queste due sorelle, uguali e nemiche come il viso e lo specchio, una continua, minuziosa, rabbrividente lacerazione morale. Lazzaro era presente e non se ne andava. Era presente nelle dure parole di Marta, che non perdonava a Maria di avere impedito la risurrezione del proprio fratello, che non poteva perdonare a Gesù quella rinuncia a servirsi di un potere che aveva ricevuto da Dio. Era presente nelle lacrime inconsolabili di Maria che, per non sottoporre il fratello a una seconda morte, avrebbe dovuto vivere, per sempre, con il rimorso di non averlo liberato da questa. Era presente, infine, corpo immenso che riempiva tutti gli spazi e gli angoli, nella mente turbata di Gesù, nella quadrupla contraddizione in cui si trovava, concordare con quanto aveva detto Maria e biasimarla per averlo detto, comprendere la richiesta di Marta e rimproverarla per averla fatta. Gesù guardava la sua povera anima e la vedeva come se quattro cavalli infuriati la stessero tirando e ritirando in quattro direzioni opposte, come se quattro cime arrotolate a quattro argani gli strappassero lentamente ogni fibra dello spirito, come se le mani di Dio e quelle del Diavolo, divinamente e diabolicamente, si divertissero, giocando ai quattro cantoni, con ciò che restava di lui. Alla porta della casa che era stata di Lazzaro andavano a bussare i miseri e i piagati, implorando la guarigione dei corpi offesi, talvolta si affacciava Marta a scacciarli, come se volesse protestare, Salvezza non c’è stata per mio fratello, per voi non ci sarà guarigione, ma quelli ricomparivano più tardi, tornavano sempre, finché riuscivano ad arrivare dov’era Gesù, che li guariva e li congedava, ma non diceva loro, Pentitevi, guarire era come rinascere senza essere morti, chi nasce non ha peccati propri, non deve pentirsi di ciò che non ha fatto. Ma queste opere di rigenerazione fisica, a meno che non sembri sconveniente dirlo, pur essendo di grandissima misericordia, lasciavano nel cuore di Gesù un sapore asprigno, una specie di amaro retrogusto, perché in realtà non erano altro che dilazioni di inevitabili decadenze, chi oggi se n’è andato da qui sano e contento, domani tornerà piangendo nuovi dolori per cui non vi sarà rimedio. A tal punto giunse la tristezza di Gesù che un giorno Marta gli disse, Adesso non morirmi tu, altrimenti conoscerei quello che avrei provato se Lazzaro fosse morto di nuovo, e Maria di Magdala, nel segreto della notte buia, sussurrando sotto il lenzuolo comune, si lamenta e geme come un animale che si è nascosto per soffrire, Oggi hai bisogno di me come non ne hai mai avuto prima, perché ti sei barricato dietro una porta che non è per forze umane, e Gesù, che a Marta aveva risposto, Nella mia morte saranno tutte le morti di Lazzaro, sarà sempre lui a morire e non potrà essere risuscitato, implorò Maria, Anche se non puoi entrare,
non allontanarti da me, tendimi sempre la mano anche quando non ti è possibile vedermi, se tu non lo facessi, mi dimenticherei della vita, o sarebbe la vita a dimenticare me. Trascorsi alcuni giorni, Gesù andò a raggiungere i discepoli, e Maria di Magdala lo accompagnò, Guarderò la tua ombra se non vuoi che guardi te, gli disse, e lui rispose, Voglio essere ovunque sia la mia ombra, se là saranno i tuoi occhi. Si amavano e si dicevano parole come queste, non solo perché belle o vere, se possono esserlo contemporaneamente, ma perché intuivano che il tempo delle ombre si stava avvicinando e dovevano cominciare ad abituarsi, ancora insieme, all’oscurità dell’assenza definitiva. Giunse, allora, all’accampamento la notizia dell’arresto di Giovanni il Battista. Si sapeva soltanto questo, che era stato imprigionato e, inoltre, che l’aveva fatto incarcerare personalmente Erode, ragion per cui, non potendosi immaginare altro, Gesù e la sua gente furono indotti a ritenere che la causa dell’accaduto potesse essere ricercata solo negli incessanti annunci dell’arrivo del Messia, cosa che in fondo Giovanni proclamava dappertutto, fra un battesimo e l’altro, Uno verrà che vi battezzerà nel fuoco, tra un’imprecazione e l’altra, Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire all’ira imminente. Gesù disse allora ai discepoli di prepararsi a vessazioni e persecuzioni d’ogni genere, giacché era credibile che, correndo ormai per il paese, e non da poco tempo, la voce che anche loro andavano facendo e dicendo le stesse cose, Erode ne concludesse che due più due fa quattro e si mettesse in cerca del figlio di un falegname, che si vantava di essere figlio di Dio, e dei suoi seguaci, quella seconda e più potente testa di drago che minacciava di rovesciarlo dal trono. Indubbiamente non è meglio una cattiva notizia piuttosto che nessuna, ma è giustificabile che l’accolgano con animo sereno coloro che, avendo atteso e anelato un tutto, negli ultimi tempi sono stati posti davanti a un nulla. Si domandavano l’un l’altro, e tutti a Gesù, che cosa dovessero fare, se rimanere insieme, e uniti affrontare la malvagità di Erode, oppure sparpagliarsi per le città, o magari ritirarsi nel deserto, cibandosi di miele selvatico e locuste, come aveva fatto Giovanni prima di abbandonarlo, a vantaggio della gloria di Gesù e, a quanto pare, per sua sfortuna. Ma non c’era alcun segno che i soldati di Erode stessero andando a Betania per ammazzare quest’altri innocenti e, quindi, Gesù e i suoi poterono indugiare a riflettere sulle varie alternative, ed erano intenti a ciò quando giunsero, d’un sol colpo, una seconda e una terza notizia, che Giovanni era stato decapitato e che il motivo dell’incarcerazione e dell’esecuzione non aveva niente a che vedere con gli annunci di un Messia o di regni di Dio, ma si trattava del fatto che lui se n’era andato in giro a urlare e a vociferare contro l’adulterio che commetteva anche Erode, avendo sposato Erodiade, sua nipote e cognata, quando era ancora in vita il marito. La morte di Giovanni fu causa di tante lacrime e lamenti in tutto l’accampamento, senza alcuna
differenza, fra uomini e donne, nelle espressioni di dolore, ma che fosse stato ucciso per il motivo che si è detto era qualcosa che sfuggiva alla comprensione di quanti si trovavano lì, perché un’altra ragione, e questa davvero suprema, doveva aver prevalso nella sentenza di Erode, e, alla fin fine, era come se oggi non esistesse né dovesse avere alcuna importanza domani, come ripeteva in preda alla collera Giuda Iscariota che, ci si ricorderà, Giovanni aveva battezzato, Che cosa significa, chiedeva poi a tutta la compagnia riunita, donne comprese, Giovanni annuncia che sta arrivando il Messia per redimere il popolo e lo ammazzano per una denuncia di concubinato e adulterio, di letto e matrimonio fra zio e cognata, come se non sapessimo che è sempre stato questo il modo di vivere comune e corrente di quella famiglia, dal primo Erode ai nostri giorni, Che significa, ripeteva, se è stato Dio a ordinare a Giovanni di annunciare il Messia, e io non ho dubbi, per la semplice ragione che nulla può accadere senza che lo abbia voluto Dio, se è stato Dio, mi spieghi allora chi lo conosce meglio di me perché mai debba volere che i Suoi disegni siano così sviliti sulla terra, e, per favore, non venitemi a ribattere che Dio sa e noi non possiamo sapere, perché vi risponderei che io voglio sapere proprio quello che sa Dio. Un brivido di paura percorse tutta l’assemblea, come se l’ira del Signore fosse già in movimento per fulminare l’ardito e tutti quelli che, immediatamente, non gli avevano fatto pagare quella bestemmia. Orbene, non essendo Dio presente per dare soddisfazione a Giuda Iscariota, la sfida poteva essere raccolta solo da Gesù, e cioè da colui che frequentava più strettamente il supremo interpellato. Se fosse stata un’altra religione, e un’altra situazione, forse le cose si sarebbero fermate qui, a questo sorriso enigmatico di Gesù, nel quale, per quanto accennato e fugace, era stato possibile riconoscere tre parti, una di sorpresa, un’altra di benevolenza e un’altra ancora di curiosità, il che, pur sembrando tanto, in effetti era niente, giacché la sorpresa è istantanea, condiscendente la benevolenza e stanca la curiosità. Ma il sorriso, com’era apparso, sparì, e ciò che rimase al suo posto era un pallore cadaverico, un volto improvvisamente scavato, di chi abbia appena visto, in figura e in presenza, il proprio destino. Con voce pacata, quasi priva di espressione, alla fine Gesù disse, Che le donne si ritirino, e la prima ad alzarsi fu Maria di Magdala. Poi, quando il silenzio a poco a poco si tramutò in muraglia e tetto per chiuderli nella più profonda caverna della terra, Gesù disse, Se Giovanni chiede a Dio per quale motivo ha fatto morire in quel modo, per una causa così meschina, chi era venuto ad annunciare cose tanto grandi, dopo aver pronunciato queste parole tacque per un istante, e nel momento in cui Giuda Iscariota sembrava voler intervenire, alzò la mano per fermarlo e concluse, Il mio dovere, l’ho capito adesso, è dirvi quanto io so di ciò che sa Dio, a meno che non me lo impedisca proprio Lui. Fra i discepoli montò un brusio di parole scambiate con voce alterata, un’inquietudine, un’eccitazione
turbata, temevano di sapere ciò che bramavano di conoscere, solo Giuda Iscariota manteneva quell’espressione di sfida con cui aveva provocato la discussione. Disse Gesù, Conosco il mio destino e il vostro, conosco il destino di tanti che dovranno nascere, conosco i motivi di Dio e i Suoi disegni, e di tutto ciò devo parlarvi perché riguarda tutti e ben di più vi riguarderà in futuro, Perché, domandò Pietro, per quale motivo dobbiamo sapere quanto ti è stato trasmesso da Dio, sarebbe meglio se tacessi, Dio avrebbe il potere di farmi tacere all’istante, Allora, che tu taccia o che tu parli ha la stessa importanza per Dio, significa lo stesso nulla, e se Dio ha parlato per bocca tua, per bocca tua continuerà a parlare, anche quando, come adesso, tu ritieni di contrariare la Sua volontà, Tu sai, Pietro, che sarò crocifisso, Me l’hai detto, Ma non ti ho detto che anche tu e Andrea e Filippo lo sarete, che Bartolomeo sarà scuoiato, che Matteo lo uccideranno i barbari, che Giacomo, figlio di Zebedeo, lo decolleranno, che l’altro Giacomo, figlio di Alfeo, sarà lapidato, che Tommaso sarà ucciso a colpi di lancia, che Giuda Taddeo sarà ammazzato ad accettate, che Simone sarà tagliato con una sega, questo non lo sapevi, ma adesso lo sai, e lo sanno tutti. La rivelazione fu accolta in silenzio, non c’era più motivo di temere un futuro ormai noto, era come se, in fondo, Gesù avesse detto loro soltanto, Morirete, e quelli gli avessero risposto in coro, Che novità, lo sapevamo già. Ma Giovanni e Giuda Iscariota non si sentirono nominare e perciò gli domandarono, E io, e Gesù disse, Tu, Giovanni, arriverai alla vecchiaia, e vecchio morirai, quanto a te, Giuda Iscariota, evita gli alberi di fico, non passerà molto tempo che ti impiccherai a uno con le tue stesse mani, Allora moriremo per causa tua, disse una voce, ma non si seppe di chi fosse. Per causa di Dio, non mia, rispose Gesù, Che cosa vuole Dio, alla fine, domandò Giovanni, Vuole un’assemblea più grande di quella che ha, vuole il mondo tutto per sé, Ma se Dio è il signore dell’universo, come può non appartenergli il mondo, e non da ieri o da domani, ma da sempre, domandò Tommaso, Questo non lo so, disse Gesù, Ma tu, che hai vissuto a lungo con queste cose nel cuore, perché ce le vieni a raccontare adesso, Lazzaro, che ho guarito, è morto, Giovanni Battista, che mi ha annunciato, è morto, la morte è già fra di noi, Tutti gli esseri devono morire, disse Pietro, gli umani come gli altri, In futuro ne moriranno tanti per volontà di Dio e per causa Sua, Se è la volontà di Dio, è una causa santa, Moriranno perché non sono nati prima né dopo, Saranno accolti nella vita eterna, disse Matteo, Sì, ma non dovrebbe essere tanto dolorosa la condizione per poter accedervi, Se il figlio di Dio ha detto ciò che ha detto, allora ha negato se stesso, ribatté Pietro, Ti sbagli, solo al figlio di Dio è permesso parlare così, ciò che sulla tua bocca sarebbe blasfemo, sulla mia è l’altra parola di Dio, rispose Gesù, Parli come se dovessimo scegliere fra te e Dio, disse Pietro, La vostra scelta dovrà sempre essere fra Dio e Dio, io mi trovo, come voi e gli altri uomini, nel mezzo, Che cosa ci ordini di fare, allora, Che mi aiutiate a far sì che la mia morte risparmi le
vite di coloro che verranno, Non puoi andare contro la volontà di Dio, No, ma è mio dovere tentare, Tu sei salvo perché sei il figlio di Dio, ma noi perderemo la nostra anima, No, se deciderete di obbedirmi, è pur sempre a Dio che starete obbedendo. All’orizzonte, laggiù, alla fine del deserto, comparve una falce di luna rossa. Parla, disse Andrea, ma Gesù attese che la luna si separasse dalla terra, enorme e sanguigna, la luna, e solo dopo disse, Il figlio di Dio dovrà morire sulla croce perché si compia la volontà del Padre, ma se al suo posto mettessimo un semplice uomo, Dio non potrebbe più sacrificare il figlio, Vuoi mettere un uomo al tuo posto, uno di noi, domandò Pietro, No, sarò io a occupare il posto del figlio, In nome di Dio, spiegati, Un semplice uomo, sì, ma un uomo che si fosse proclamato re dei giudei, che avesse cercato di sollevare il popolo per detronizzare Erode e cacciare i romani dal paese, ecco quanto vi chiedo, che uno di voi corra al Tempio, dicendo che quell’uomo sono io, e forse, se la giustizia sarà rapida, la Legge di Dio non avrà il tempo di correggere quella degli uomini, come è accaduto quando la mano del boia ha decapitato Giovanni. Lo sgomento strozzò la voce a tutti, ma per poco, ché da tutte le bocche uscirono immediatamente parole di indignazione, di protesta, di incredulità, Se sei il figlio di Dio, come tale devi morire, protestava uno, Ho mangiato del pane che hai spartito, come potrei denunciarti adesso, gemeva un altro, Non voglia essere re dei giudei colui che sarà re del mondo, diceva questi, Muoia all’istante chi si muoverà da qui per accusarti, minacciava quegli. Fu allora che si udì, chiara, distinta, al di sopra del frastuono, la voce di Giuda Iscariota, Andrò io, se così vuoi. Lo afferrarono gli altri, tutti insieme, e già era comparso qualche coltello estratto dalle pieghe delle tuniche, quando Gesù ordinò, Lasciatelo, che nessuno gli faccia del male. Poi si alzò, lo abbracciò e lo baciò sulle guance, Va, la mia ora è la tua. Senza una parola, Giuda Iscariota si buttò il lembo del mantello sulla spalla e, come se la notte lo avesse inghiottito, scomparve nell’oscurità. Le guardie del Tempio e i soldati di Erode vennero ad arrestare Gesù alle prime luci del mattino. Dopo avere accerchiato silenziosamente l’accampamento, irruppero in gruppo, armati di spade e lance, e il loro comandante gridò, Dov’è quello che afferma di essere il re dei giudei, e di nuovo, Si faccia avanti colui che dice di essere il re dei giudei, allora Gesù uscì dalla sua tenda, insieme a Maria di Magdala che piangeva, e disse, Io sono il re dei giudei. Gli si avvicinò subito un soldato che gli legò le mani, sussurrandogli nel contempo, Anche se oggi vieni arrestato, se un giorno sarai il mio re, ricordati che l’ho fatto per ordine altrui, e se allora mi ordinerai di imprigionarlo, io ti obbedirò, come obbedisco adesso, e Gesù disse, Un re non arresta un altro re, un dio non ammazza un altro dio, proprio perché ci fosse chi arrestasse e chi uccidesse sono stati fatti gli uomini comuni. A Gesù legarono anche una corda ai piedi in modo che non potesse scappare, ed egli disse fra sé e sé, perché lo credeva,
Troppo tardi, sono già fuggito. Solo in quel momento Maria di Magdala emise un grido come se le si stesse spezzando l’anima, e Gesù disse, Tu piangerai per me, e voi, donne, piangerete tutte, se giungerà un’ora simile per coloro che sono qui presenti e per voi stesse, ma sappiate che per ogni vostra lacrima se ne verserebbero mille nel tempo avvenire se io non morissi secondo la mia volontà. E, rivolgendosi a chi comandava, aggiunse, Lascia andare questi uomini che erano con me, sono io il re dei giudei, non loro, e avanzò verso i soldati, che lo circondarono. Il sole era sorto e sovrastava le case di Betania quando la folla, con Gesù innanzi, fra due soldati che tenevano i due capi della corda che gli legava le mani, cominciò a salire verso Gerusalemme. Seguivano i discepoli e le donne, irati quelli, singhiozzando queste, ma tanto valevano i singulti quanto la collera, Che cosa dobbiamo fare, si domandavano a mezza voce, assalire i soldati e cercare di liberare Gesù, magari morendo nella lotta, oppure disperderci prima che arrivi un ordine di arresto anche per noi, ma non riuscivano a scegliere fra questo e quello e perciò non fecero alcunché, continuarono a seguire, a distanza, il drappello dei militari. A un certo punto, videro che il gruppo in testa si era fermato e non ne capirono il motivo, a meno che non fosse giunto un contrordine e stessero sciogliendo i nodi della corda che imprigionava Gesù, ma per pensare una cosa simile bisognava essere davvero matti, e qualcuno lo era, ma non a sufficienza. Un nodo si era sciolto, infatti, ma quello della vita di Giuda Iscariota, ché lì, a un albero di fico sul ciglio della strada per cui Gesù sarebbe dovuto passare, appeso per il collo, c’era il discepolo che si era offerto perché si compisse l’ultima volontà del maestro. Il comandante della scorta fece segno a due soldati di tagliare la corda e di calare il corpo, È ancora caldo, disse uno, era anche possibile che Giuda Iscariota, seduto su un ramo del fico, già con il cappio al collo, fosse rimasto pazientemente ad aspettare di veder spuntare Gesù, laggiù, dalla curva della strada, per lasciarsi cadere dal ramo, in pace con se stesso per aver compiuto il proprio dovere. Gesù si avvicinò, i soldati non glielo impedirono, e osservò lungamente il viso di Giuda, sfigurato dalla rapida agonia, È ancora caldo, ripeté il soldato, allora Gesù pensò che, se avesse voluto, avrebbe potuto compiere su quest’uomo ciò che non aveva fatto su Lazzaro, risuscitarlo, perché potesse avere, in altro giorno e in altro luogo, la propria e irrinunciabile morte, distante e oscura, e non la vita e il ricordo interminabili di un tradimento. Ma è risaputo che soltanto il figlio di Dio ha il potere di risuscitare, non certo il re dei giudei che si trova qui, lo spirito taciturno, con le mani e i piedi legati. Il comandante disse, Lasciatelo lì, che ci pensino quelli di Betania a sotterrarlo, o che se lo mangino i corvi, ma prima guardate se ha qualcosa di valore, e i soldati lo frugarono, ma non trovarono niente, Neanche una moneta, disse uno, non c’era da stupirsi, il contabile della comunità era Matteo, che conosceva il mestiere essendo stato pubblicano al tempo in cui si chiamava Levi. Non l’hanno
pagato per la denuncia, mormorò Gesù, e uno, che lo aveva udito, rispose, Volevano, ma lui ha risposto che aveva l’abitudine di saldare i suoi conti, ed eccolo lì, adesso non paga più. Riprese la marcia, alcuni discepoli si attardarono a guardare pietosamente il cadavere, ma Giovanni disse, Lasciamolo, non era dei nostri, e l’altro Giuda, quello che era anche Taddeo, soggiunse, Che lo vogliamo o no, dovrà sempre essere dei nostri, non sapremo che cosa farcene di lui, eppure continuerà a essere dei nostri. Proseguiamo, disse Pietro, il nostro posto non è a fianco di Giuda Iscariota, Hai ragione, disse Tommaso, il nostro posto dovrebbe essere accanto a Gesù, ma è vuoto. Alla fine, entrarono a Gerusalemme, e Gesù fu condotto dinanzi al consiglio degli anziani, principi di sacerdoti e scribi. Tra questi, era il sommo sacerdote, che gioì nel vederlo e gli disse, Ti avevo avvertito, ma tu non hai voluto darmi ascolto, adesso il tuo orgoglio non potrà difenderti e le tue menzogne ti condanneranno, Quali menzogne, domandò Gesù, Una, quella di essere il re dei giudei, Io sono il re dei giudei, L’altra, quella di essere il figlio di Dio, Chi ti ha detto che io affermo di essere il figlio di Dio, Tutti, Non devi prestar loro ascolto, io sono il re dei giudei, Allora, confessi di non essere il figlio di Dio, Ripeto che sono il re dei giudei, Fa’ attenzione, bada che è sufficiente quest’unica menzogna perché tu sia condannato, Quello che ho detto, ho detto, Molto bene, ti manderò davanti al prefetto dei romani, il quale è ansioso di far conoscenza dell’uomo che vuole scacciarlo e sottrarre questi domini al potere di Cesare. Da lì, i soldati condussero Gesù al palazzo del governatore e, poiché si era sparsa la notizia che colui che affermava di essere il re dei giudei, colui che aveva picchiato i cambiavalute e appiccato il fuoco alle tende, era stato arrestato, tutti accorrevano a vedere che faccia avesse un re trascinato per le strade davanti al popolino, le mani legate come un comune delinquente, essendo indifferente, nella fattispecie, se fosse un re autentico o uno di quelli che presumevano di esserlo. E come sempre accade, perché il mondo non è tutto uguale, c’era chi provava pena e chi no, chi diceva, Lasciamolo andare, è matto, e chi, al contrario, pensava che punire un misfatto servisse a dare un esempio, e se quelli sono tanti, questi non sono certo di meno. In mezzo alla folla, confondendosi con essa, vagavano smarriti i discepoli, al pari delle donne che li avevano seguiti e che si riconoscevano subito per il pianto, ce n’era solo una che non piangeva ed era Maria di Magdala, perché le lacrime le bruciavano dentro. Non era grande la distanza fra la casa del sommo sacerdote e il palazzo del prefetto, ma Gesù aveva l’impressione di non arrivarci mai, e non perché fossero a tal punto insopportabili i fischi e gli insulti della folla, delusa dalla magra figura che stava facendo quel re, ma per il motivo che non vedeva l’ora di presentarsi all’appuntamento, fissato di sua volontà, con la morte, a meno che Dio non stesse ancora guardando da questa parte e dicesse, Che significa, non stai rispettando gli
accordi presi. Alla porta del palazzo c’erano alcuni soldati di Roma, cui quelli di Erode e le guardie del Tempio consegnarono il prigioniero, restando poi all’esterno, in attesa della deliberazione, entrarono con lui soltanto quei sacerdoti che avevano l’autorizzazione. Seduto sullo scranno da prefetto, Pilato, si chiamava così, vide entrare una specie di straccione, barbuto e scalzo, la tunica impataccata di macchie antiche e recenti, queste dei frutti maturi che gli dei avevano creato per un altro scopo, e non perché facessero da insegna a rancore e ignominia. In piedi, davanti a lui, il prigioniero aspettava, teneva la testa eretta, ma lo sguardo era perso nel vuoto, in un punto vicino, ma indefinibile, fra gli occhi dell’uno e quelli dell’altro. Pilato conosceva solo due tipi di accusati, quelli che abbassavano gli occhi e quelli che se ne servivano come un guanto di sfida, i primi li disprezzava, i secondi li temeva sempre un po’ e perciò li condannava più rapidamente. Ma questo se ne stava lì come se si trovasse altrove, talmente sicuro di sé quasi fosse, di fatto e di diritto, una persona regale cui, essendo tutto un deplorevole malinteso, ben presto sarebbero stati restituiti la corona, lo scettro e il mantello. Pilato finì per concluderne che sarebbe stato più conveniente includere questo prigioniero nel secondo gruppo e giudicarlo di conseguenza, dopo di che passò all’interrogatorio, Come ti chiami, Gesù, figlio di Giuseppe, sono nato a Betlemme in Giudea, ma mi conoscono come Gesù di Nazaret perché a Nazaret, in Galilea, ho vissuto, Tuo padre, chi era. Te l’ho già detto, il suo nome era Giuseppe, Che mestiere faceva, il falegname, Allora spiegami come da un Giuseppe falegname sia venuto fuori un Gesù re, Se un re può avere figli falegnami, un falegname deve poter avere figli re. A questo punto, intervenne uno fra i sacerdoti più importanti, dicendo, Ti ricordo, o Pilato, che quest’uomo ha inoltre sostenuto di essere il figlio di Dio, Non è vero, io affermo soltanto di essere il figlio dell’Uomo, rispose Gesù, e il sacerdote, Pilato, non farti ingannare, nella nostra religione è identico dire figlio dell’Uomo o figlio di Dio. Pilato fece un gesto indifferente con la mano, Qualora se ne andasse in giro a proclamare di essere figlio di Giove, tenendo conto che altri ce ne sono stati prima, il caso mi riguarderebbe, ma che egli sia, o non sia, figlio del vostro dio, è un fatto senza importanza, Allora giudicalo perché si proclama re dei giudei, questo ci basta, Bisogna vedere se è sufficiente anche per me, rispose Pilato sgarbatamente. Gesù aspettava tranquillamente la fine del dialogo e la ripresa dell’interrogatorio. Chi dici di essere, domandò il governatore, Quello che sono, il re dei giudei, E che cosa pretende colui che afferma di essere il re dei giudei, Tutto quanto spetta a un re, Per esempio, Governare il suo popolo e proteggerlo, Proteggerlo da che cosa, Da tutto quanto gli sia contrario, Proteggerlo da chi, Da tutti coloro che siano contro di lui, Se ho ben capito, lo proteggeresti da Roma, Hai capito bene, E per proteggerlo, tu attaccheresti i romani, Non c’è altro modo, E li cacceresti da queste terre, Una cosa tira l’altra, ovviamente, Quindi, tu sei nemico di Cesare,
Sono il re dei giudei, Confessi di essere nemico di Cesare, Sono il re dei giudei, la mia bocca non si aprirà per dire altro. Esultante, il sacerdote alzò le braccia al cielo, Ecco, o Pilato, egli confessa, e tu non puoi salvare la vita a chi, davanti a testimoni, si è dichiarato contro di te e contro Cesare. Pilato sospirò, poi disse al sacerdote, Taci, e rivolgendosi a Gesù gli domandò, Cos’altro hai da dire, Niente, rispose Gesù, Mi costringi a condannarti, Fa’ il tuo dovere, Vuoi scegliere la tua Morte, L’ho già scelta, Quale, La croce, Morirai sulla croce. A questo punto, gli occhi di Gesù cercarono gli occhi di Pilato e si fissarono in essi, Posso chiederti un favore, gli domandò, Se non è contrario alla sentenza che hai udito, Ti chiedo di far apporre sopra la mia testa un’iscrizione in cui si dica, affinché mi conoscano, chi e che cosa sono, Nient’altro, Nient’altro. Pilato rivolse un cenno a un subalterno, il quale gli portò l’occorrente e di suo pugno scrisse Gesù di Nazaret, re dei giudei. Il sacerdote, che si era abbandonato alla contentezza, si rese conto di quanto stava accadendo e protestò, Non puoi scrivere re dei giudei, bensì che si dichiarava re dei giudei. Ma Pilato era irritato con se stesso, gli sembrava che avrebbe dovuto prosciogliere quest’uomo, giacché persino il più sospettoso dei giudici sarebbe stato in grado di vedere che un tale nemico non avrebbe potuto cagionare alcun male a Cesare, e perciò gli rispose bruscamente, Non mi scocciare, quello che ho scritto, ho scritto. Fece segno ai soldati di portar via il condannato e ordinò dell’acqua per lavarsi le mani, com’era sua abitudine dopo i giudizi. Da lì condussero Gesù verso una collina che chiamavano Golgota e, visto che le gambe cominciavano a cedergli sotto il peso del patibolo, malgrado la costituzione robusta, il centurione che comandava il drappello ordinò a un passante, fermatosi un momento a guardare il corteo, di trasportare il carico. Degli insulti e dei fischi si è già detto, come della folla che li lanciava. E anche di quella rara pietà. Quanto ai discepoli, sono ancora lì nei pressi, soltanto poco fa una donna ha chiesto a Pietro, Tu non sei per caso uno di quelli che erano con lui, e Pietro ha replicato, Io, no, e dopo aver pronunciato queste parole si è nascosto dietro agli altri, ma ha incontrato di nuovo la stessa donna, ripetendole, Io, no, e visto che non c’è due senza tre, essendo a tre il conto che Dio ha fatto, Pietro fu interpellato per la terza volta e ancora rispose, Io, no. Le donne salgono a fianco di Gesù, alcune qui, altre là, e Maria di Magdala è quella più prossima, ma non gli si può avvicinare troppo perché i soldati non glielo consentono, come non faranno passare nessun uomo e nessuna donna nelle adiacenze del luogo dove sono erette tre croci, due delle quali già occupate da altrettanti uomini che urlano e gridano e piangono, e la terza, nel mezzo, in attesa del proprio uomo, diritta e verticale come una colonna a sostegno del cielo. I soldati dissero a Gesù di sdraiarsi ed egli si adagiò, gli aprirono le braccia sul patibolo e, quando il primo chiodo, sotto il brutale colpo di martello, gli perforò il polso nello
spazio fra le due ossa, il tempo retrocesse in una vertigine istantanea, e Gesù provò il dolore che aveva sentito suo padre, si vide come aveva veduto lui, crocifisso a Sefforis, poi l’altro polso e, immediatamente, la prima lacerazione delle carni quando il patibolo cominciò a essere issato a strattoni verso la cima della croce, l’intero peso sostenuto dalle fragili ossa, e fu quasi un sollievo quando gli spinsero le gambe verso l’alto e un terzo chiodo gli attraversò i calcagni, adesso non c’è più niente da fare, c’è solo da attendere la morte. Gesù muore, muore, e quando la vita comincia ad abbandonarlo, all’improvviso, il cielo sopra il suo capo si spalanca e appare Dio, vestito come sulla barca, e la Sua voce risuona per tutta la terra, Tu sei il mio diletto figlio, in te ho riposto la mia gratificazione. Allora Gesù capì di essere stato portato all’inganno come si conduce l’agnello al sacrificio, che la sua vita era destinata a questa morte fin dal principio e, ripensando al fiume di sangue e di sofferenza che sarebbe nato spargendosi per tutta la terra, esclamò rivolto al cielo, dove Dio sorrideva, Uomini, perdonatelo, perché non sa quello che ha fatto. Poi, a poco a poco, si spense in un sogno, si trovava a Nazaret e sentiva il padre che, facendo spallucce anch’egli e sorridendo, gli diceva, Né io posso farti tutte le domande, né tu puoi darmi tutte le risposte. Quando aveva ancora un barlume di vita, sentì che una spugna imbevuta di acqua e aceto gli sfiorava le labbra, e allora, guardando verso il basso, scorse un uomo allontanarsi con un secchio e una canna in spalla. Ma non riuscì a vedere, lì per terra, la scodella nera dentro cui gocciolava il suo sangue.