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STUDI SULLA BIBBIA E IL SUO AMBIENTE
Romano Penna
I RITRATTI ORIGINALI DI GESÜ IL CRISTO Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaría
II. Gli sviluppi
SAN PAOLO
ROMANO PENNA, nato a Castiglione Tinella (Cuneo) nel 1937, del presbiterio di Alba, é ordinario di Nuovo Testamento presso la Pontificia Universitá Lateranense. É autore di numeróse pubblicazioni a carattere esegetico, tra cui presso le Edizioni Paideia, Lo Spirito di Cristo (1976), // "Mysterion" paolino (1978); presso le Edizioni Dehoniane, Lettera agli Efesini (1988), L'ambiente storico-culturale delle origini cristiane (19913); presso le Edizioni Borla, Letture evangeliche (1989) e infine presso le Edizioni San Paolo, L'apostolo Paolo. Studi di esegesi e teología (1991), Paolo di Tarso. Un cristianesimo possibile (19942), Una fede per vivere (1992).
Romano Penna
I RITRATTI ORIGINALI DI GESÜ IL CRISTO Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria II. Gli sviluppi
SAN PAOLO
r Seconda edizione 2003
EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 1999 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Corso Regina Margherita, 2 - 10153 Torino
PREFAZIONE
A circa due anni di distanza dal primo, questo secondo volume continua, amplia e conclude l'indagine sulla cristologia del Nuovo Testamento. Seguendo lo stesso criterio storico, esso prende in considerazione tutti gli sviluppi canonici, cresciuti sulla base dei due inizi (la vita terrena di Gesù e la sua risurrezione), che furono materia del volume precedente. È in questo secondo momento che propriamente si trovano moltiplicati i ritratti di Gesù il Cristo, come essi si ricavano da almeno sette fasi diverse, a cui corrispondono anche altrettanti complessi letterari: 1. il giudeo-cristianesimo palestinese; 2. l'apporto geniale dell'apostolo Paolo; 3. la sua prosecuzione nella tradizione che a lui si richiama; 4. l'originale contributo della Lettera agli Ebrei; 5. le tradizioni sinottiche confluite in Mc-Mt-Lc; 6. l'elaborazione della tradizione risalente al Discepolo prediletto; 7. la prospettiva apocalittica di Giovanni a Patmos. La molteplicità delle interpretazioni di Gesù, a cui approda la ricerca neotestamentaria, non fa che confermare il principio ermeneutico formulato a suo tempo da L. Pareyson, secondo cui l'interpretazione non solo è l'unica forma di conoscenza ma è anche necessariamente molteplice; e questa pluralità, tutt'altro che rappresentare un difetto, è il segno più sicuro della ricchezza del pensiero umano (compresa la fede, aggiungiamo noi) e insieme del suo oggetto, come preciseremo nella Conclusione generale. Certo, ciò che valeva già per gli autori delle origini cristiane vale anche per chi oggi fa di essi materia di studio; quindi, la nostra presentazione dei molteplici ritratti originali di Gesù non è esente essa stessa da una propria interpretazione. Da questo circolo, del resto, non si può uscire, se non rimandando continuamente all'oggetto stesso dell'ermeneutica: noi ai testi, i testi a Gesù, e Gesù a Dio (cf. Gv 1,18)! Intento di questo studio, come già nel caso del primo volume, è di offrire una presentazione critica della cristologia neotestamentaria, che perciò insieme alla descrizione del suo sviluppo tenga presente due altre esigenze: da una parte, inserire il discorso neotesta-
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PREFAZIONE
mentano, per quanto possibile, nel quadro delle precomprensioni religioso-culturali del tempo, e, dall'altra, aggiornare il Lettore sulle odierne discussioni in materia mediante riferimenti bibliografici specifici. Ripeto qui i ringraziamenti già formulati all'inizio del primo volume, insieme all'auspicio che la fatica condotta a termine contribuisca almeno a far intravedere l'insondabile identità di colui che ha segnato indelebilmente non solo la cosiddetta civiltà occidentale ma soprattutto la vita concreta di numerosissimi suoi discepoli. Pasqua 1998
Romano Penna
I
LA CHIESA GIUDEO-CRISTIANA DI GERUSALEMME
Premesse Di una prima comunità cristiana formatasi in seguito ai fatti del "terzo giorno" siamo chiaramente informati in pratica solo per quanto riguarda Gerusalemme. Certo è del tutto verosimile che in città e villaggi della Galilea esistessero già all'indomani della Pasqua dei gruppi di discepoli rimasti in qualche modo fedeli agli insegnamenti del Gesù terreno; lo si desume, sia dal fatto che Mt 28,16-20 e per accenno anche Me 16,7 (cf. pure Gv 21 [ma non Le 24 né Gv 20]) ambientano le loro tradizioni sulle cristofanie pasquali proprio là, sia dalla particolare menzione in ICor 15,6 di ben "500 fratelli" che vanno collocati probabilmente in quella regione (essendo impossibile pensarli così numerosi in Giudea: cf. At 1,15 [solo dopo la Pentecoste aumenteranno: At 2,41; 4,4]), sia dal cenno fugace di At 9,31 ("la chiesa per tutta la Giudea e la Galilea e la Samaria era in pace"), sia da posteriori ed esplicite fonti tanto rabbiniche quanto cristiane1. Né si può negare l'esistenza di piccole enclaves cristiane nelle regioni della Samaria e della Decapoli, che erano state luoghi di almeno un parziale ministero di Gesù. Ma è a Gerusalemme che si ricostituisce poi il gruppo dei Dodici (cf. le tradizioni raccolte da Le 24; At 1-7 e da Gv 20) ed è comun1 Sull'importanza della Galilea per il cristianesimo delle origini, cf. E. Lohmeyer, Galilàa und Jerusalem, FRLANT, Vandenhoeck, Gòttingen 1936 (che per primo cercò di descrivere l'esistenza di una proto-comunità cristiana in Galilea, indipendente da quella di Gerusalemme); L.E. Elliott-Binns, Galilean Christianity, London 1956; W. Marxsen, L'evangelista Marco. Studi sulla storia della redazione del vangelo, Present. B. Maggioni, Piemme, Casale Monferrato 1994 (orig. ted., Gòttingen 1956); H. Kasting, Die Anfànge christlicher Mission. Eine historische Untersuchung, Munchen 1969; in particolare S. Freyne, Galilee from Alexander the Great to Hadrian, Wilmington 1980, pp. 344-391; e C. Perrot, Jesus, Christ et Seigneur des premiers chrétiens, Desclée, Paris 1997, pp. 93-96 (e pp. 119-124 sui due gruppi dei Nazareni e degli Ebioniti). È documentata anche l'esistenza di nipoti di Gesù, che ebbero responsabilità su chiese galilaiche alla fine del sec. I: vedi in proposito la testimonianza di Egesippo circa l'indagine operata da Domiziano sui discendenti di Davide (cf. Eusebio, H. E., 3,19.20,1-6).
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LA CHIESA GIUDEO-CRISTIANA DI GERUSALEMME
que su questa chiesa che abbiamo la documentazione maggiore2, anche se essa non si può separare dal più ampio cristianesimo palestinese (cf. le "chiese della Giudea" in Gal 1,22; lTs 2,14)3. Ciò che però a noi interessa non è soltanto la collocazione geografica dei primi cristiani post-pasquali, né la loro eventuale organizzazione interna, quanto piuttosto le concezioni teologiche che li contraddistinguevano e in particolare quelle cristologiche. A questo punto ci scontriamo con lo spinoso problema del giudeo cristianesimo. Si tratta di un fenomeno storico non facile da delimitare, soprattutto dal punto di vista dell'individuazione delle fonti che ne permettano una precisa configurazione, e di conseguenza anche per quanto riguarda una sua comprensiva definizione ideale. Gli studi in materia non fanno altro che rilevarne la complessità4, e forse occorre rinunciare a raccogliere il fenomeno 2 Cf. L. Cerfaux, La communauté apostolique, Paris 31956; L. Schenke, Die Urgemeinde. Geschichtliche und theologische Entwicklung, Stuttgart-Berlin-Kòln 1990; D. Fiensy, The Composition o/the Jerusalem Church, in R. Bauckham, ed., The Book ofActs in Its Palestinian Setting, "The Book of Acts in its First Century Setting" 4, Eerdmans-Paternoster, Grand Rapids-Carlisle 1995, pp. 213-236. Per estensione cf. E. Testa, La fede della chiesa madre di Gerusalemme, Roma 1995 (che però riguarda i secoli posteriori). 3 Cf. C.C. Torrey, The Aramaic Period of the Nascent Christian Church, ZNW 44(1952/1953)205-223; L. Randellini, La Chiesa dei Giudeo-cristiani, SB 1, Brescia 1968; G. Theissen, Gesù e Usuo movimento. Analisi sociologica della comunità cristiana primitiva, Torino 1979; B. Bagatti, Alle origini della chiesa -1. Le comunità giudeo-cristiane, Città del Vaticano 1981; R.A. Pritz, Nazarene Jewish Christianity. From the End ofthe New Testament Period Until Its Disappearance in the Fourth Century, Jerusalem-Leiden 1988; L. Schenke, Die Urgemeinde, pp. 198-216; S. Heid, DosHeiligeLand. Herkunft und Zukunft der Judenchristen, Kairos 34-35 (1992-1993) 1-26; B. van Elderen, Early Christianity in TransJordan, TyndBull 45 (1994) 97-117. 4 Cf. S.C. Mimouni, Le judéo-christianisme dans l'historiographie du XJXme e du XXmesiede, RevEtudJuiv 151 (1992)419-428: l'A. esamina opere di studiosi tedeschi (F.C. Baur, A. Hilgenfeld, G. Hoennicke, W. Bauer, H.J. Schoeps, L. Goppelt, G. Ludemann), inglesi (F.J.A. Hort, G. Dix), francesi (M. Simon, J. Daniélou), e italiani (E. Testa, B. Bagatti, E Manns). Vedi inoltre: A.F.J. Klijn, TheStudy of Jewish Christianity, NTS 20 (1974) 419-431; S.K. Riegei, Jewish Christianity: Definitions and Terminology, NTS 24 (1978) 410-415; M. Simon - A. Benoit, Giudaismo e cristianesimo, Roma-Bari 1978, specie pp. 236-254; F. Manns, Bibliographie du Judéo-Christianisme, StBiblFranc Analecta 13, Jerusalem 1979; J.E. Taylor, The Phenomenon of Early Jewish-Christianity: Reality or Scholarly Invention?, Vigiliae Christianae 44 (1990) 313-334; S.C. Mimouni, Pour une définition nouvelle du judéo-christianisme ancien, NTS 38 (1992) 161-186 (sul fenomeno posteriore al sec. I); G. Schille, Early Jewish Christianity, in ABD, voi. 1, pp. 935-938; e soprattutto C. Vidal Manzanares, Eljudeocristianismo palestino en el siglo I. De Pentecostés a Jamnia, Trotta, Madrid 1995. Per una sistematizzazione del dibattito, cf. J.-D. Kaestli, Où en est le débat sur le judéochristianisme?, in D. Marguerat, ed., Le déchirement. Juifs et chrétiensau premier siede, "Le monde de la Bible" 32, Labor et Fides, Genève 1995, pp. 243-272. Vedi anche V. Fusco, Le prime comunità cristiane. Tradizioni e tendenze nel cristianesimo delle origini, "La Bibbia nella storia" 8, Dehoniane, Bologna 1997, pp. 13-29.
PREMESSE
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sotto un unico comune denominatore, tanto diversificate sono le sue concezioni soprattutto se considerate su di un arco di tempo piuttosto esteso. Un punto fermo è costituito dal fatto incontestabile che il movimento di Gesù apparve fin dall'inizio come un fenomeno interno al giudaismo del tempo, anche se proteso a un suo parziale superamento. Ma ciò che vale ovviamente per la fase gesuana va detto anche per il primo cristianesimo postpasquale, non solo in quanto geograficamente esso mosse i suoi primi passi all'interno della terra di Israele, ma soprattutto in quanto i suoi primi adepti non furono altro che degli ebrei e perciò esso dovette essere condizionato da inevitabili precomprensioni di stampo giudaico. In questa sede, per quanto ci riguarda, noi intendiamo per "giudeo-cristianesimo" la prima manifestazione postpasquale del movimento di Gesù, e lo esaminiamo perciò come fenomeno contrassegnato dai seguenti fattori: - limitato cronologicamente ai primi due decenni successivi alla morte di Gesù (cioè fino alla comparsa dei primi scritti epistolari di Paolo), ma calcolando la possibilità che per l'esplosione della cristologia sia bastato un numero di anni molto inferiore; - limitato geograficamente alla terra d'Israele, con una necessaria prevalente attenzione data alla chiesa di Gerusalemme; - caratterizzato in senso etnico, in quanto ristretto a cristiani di provenienza ebraica (siano essi di origine giudaico-palestinese o giudaico-ellenistica) ; - caratterizzato a livello confessionale, in quanto si esprime con formulazioni di fede fondate su moduli di schietta origine giudaica5; - comunque giudicato positivamente come la prima, legittima espressione del cristianesimo post-pasquale, che, se pur successivamente soggetta a sviluppi, non va perciò affatto etichettata come un fenomeno eresiologico6. Per venire alla cristologia delle prime comunità giudeo-cristiane, dobbiamo riconoscere che gli studi globali in materia finora
5 In seguito il giudeo-cristianesimo non solo si estenderà su di un ampio arco di tempo (fino almeno al secolo IV), ma raggiungerà anche zone al di fuori della terra d'Israele (cf. per esempio Elchasai nella Partia), e dal punto di vista confessionale potrà comprendere anche cristiani di origine gentile (sia che questi fossero precedentemente dei "timorati di Dio" o proseliti, sia che provenissero direttamente dal paganesimo in seguito a un influsso giudaico o a una missione giudeo-cristiana). 6 Cf. J.-D. Kaestli, Où en est le débat, p. 272 (contro la posizione di A. Harnack).
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non solo sono scarsi, ma sono guidati da scelte metodologiche non del tutto soddisfacenti. Mi riferisco in particolare alle opere di Longenecker7, di Schenke8, e di Vidal Manzanares 9 . Di ciascuno di essi però accogliamo almeno una suggestione. Di Longenecker è accettabile l'affermazione, secondo cui l'incipiente chiesa di Gerusalemme dal punto di vista socio-religioso doveva essere di composizione marcatamente mista; infatti si annoverano tra i suoi membri tanto degli àmmé ha-àres (cf. At 4,13; 6,1) quanto anche dei farisei (cf. At 15,5), dei sadducei (cf. At 6,7), degli ellenisti (cf. At 6-7), e probabilmente pure degli esseni (cf. At 21,20), mentre appena al di là dei suoi confini confluivano anche dei samaritani (cf. At 8,5-25) e persino un centurione romano con la sua famiglia (cf. At IO)10. Di Schenke invece riteniamo l'affermazione, secondo cui la chiesa primitiva concentrò, accumulandole su Gesù, le più disparate concezioni del giudaismo contemporaneo su varie figure ideali di salvatori o di mediatori, che là non erano integrate in alcun quadro unitario: fu lui a diventarne il loro punto storico di fusione. "In questo contesto bisogna anche considerare che lo sviluppo e il dispiegamento della cristologia della prima comunità si compì in un lasso di tempo sorprendentemente breve. È probabile che nelle sue componenti principali essa si sia dispiegata già prima che gli ellenisti dovessero abbandonare Gerusalemme. An7
Cf. R.N. Longenecker, The Christology o/Early Jewish Christianity, London 1970; l'A. esamina la cristologia giudeo-cristiana da uno spettro di fonti troppo vasto, che comprende tre settori enormi: materiale giudaico non canonico (per le affinità con Qumran; lEn 37-71; Test. XII Patr.), materiale giudeo-cristiano non canonico (Vangeli-Atti-Apocalissi apocrife; Codici diNag Hammadi; Ps.-Clementine; e poi lClem; Herma; e soprattutto Did., non esclusi il Giustino del "Dialogo con Trifone", Papia di Gerapoli ed Egesippo), scritti canonici giudeo-cristiani (dove si spazia da Mt e Gc fino addirittura a Gv, l-3Gv, Eb, lPt, comprese 2Pt-Giud e Apoc), e poi Paolo (per aspetti presenti di riflesso) e At (prima parte); questo quadro è dovuto al fatto che l'A. non si limita a studiare una fascia di tempo ben precisa come invece intendiamo fare noi. In una prospettiva piuttosto larga si colloca anche A. Vivian, Cristologia dei giudeo-cristiani, RivBibl 22 (1974) 237-256. 8 Cf. L. Schenke, Die Urgemeinde, pp. 116-156 ("Die christologischen Anschauungen der àltesten Kirche"); accanto a suggestioni molto interessanti, l'A. adotta delle posizioni assai criticabili, come quando vede nella risurrezione di Gesù il vero inizio della cristologia e perciò sostiene che le qualifiche di Messia e di Figlio dell'Uomo attribuite a Gesù risalgono solo alla chiesa post-pasquale (cf. invece il nostro voi. I). 9 Cf. C. Vidal Manzanares, El judeo-cristianismo palestino, pp. 245-277; l'A. prende in considerazione solo una serie di titoli e locuzioni cristologiche (ben 19), e perdipiù pone tra di essi anche alcune espressioni giovannee (come "agnello", "il primo e l'ultimo", e persino la formula "io sono"), che, se pur potessero spiegarsi come giudeo-cristiane, appartengono però quasi sicuramente a un periodo posteriore a quello iniziale che noi vogliamo qui esaminare. 10 Cf. R.N. Longenecker, The Christology, p. 8.
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che l'idea della preesistenza di Gesù, sia pur in forma provvisoria, si sviluppò già in Gerusalemme in connessione con le speculazioni sulla Sapienza proprie del giudaismo ellenistico. Non c'è dunque un grosso spazio cronologico a disposizione per scaglionare in fasi successive lo svolgimento della cristologia della comunità primitiva" 11 . Per parte sua, Vidal Manzanares ha ragione di richiamare il fatto che già il primo giudeo-cristianesimo palestinese attribuì a Gesù un vero culto, senza doversi rivolgere alle religioni misteriche e senza dover attendere gli apporti cristologici paolini12. In effetti, fin dall'inizio, già da sola l'inaudita proclamazione della risurrezione di Gesù andava molto al di là di due altre possibili precomprensioni. L'una di queste consisteva nella concezione giudaica di un semplice rapimento al cielo di uomini santi (cf. Enoch, Elia, Mosè, ecc.), che semmai sarebbero dovuti poi tornare soltanto alla fine dei tempi: questo schema ora veniva di gran lunga superato non solo con l'annuncio della risurrezione corporea di Gesù ma anche con quella di una sua sessione alla destra di Dio. L'altra riguardava la verosimile attesa dell'instaurazione immediata dell'universale regno di Dio, ampiamente predicata da Gesù durante la sua vita: Dio però, invece di imporre questa regalità, aveva risuscitato il suo annunciatore, attirando dunque su di lui la principale attenzione. Già da sola, dunque, la risurrezione di Gesù racchiudeva in sé, sia pure «in nuce», l'intera cristologia. Su questa base alcuni Autori ritengono che all'interno della prima comunità gerosolimitana, tenuto conto anche di una più sfumata concezione dei rapporti tra giudaismo ed ellenismo (di cui il caso delle due componenti segnalate in At 6,1 sarebbe solo una variante), si dovrebbe propriamente parlare non di cristologie diverse ma solo di diverse accentuazioni cristologiche, coesistenti tra loro senza alcun problema 13 . In pratica ciò significa, per esempio, che 11 L. Schenke, Die Urgemeinde, p. 121; l'A. a questo proposito fa propria la posizione di M. Hengel, Christologie und neutestamentliche Chronologie, in Neues Testament und Geschichte: Oscar Cullmann zum 70. Geburtstag, edd. H. Baltensweiler und B. Reicke, Mohr, Tubingen 1972, pp. 43-67. Anche M. Simonetti, Cristologia giudeocristiana: Caratteri e limiti, August 28 (1988) 51-69, pur occupandosi soprattutto degli sviluppi successivi, invita a studiare il periodo neotestamentario e a puntare l'attenzione, più che su di una cristologia angelica (contro J. Daniélou), sulle componenti di derivazione sapienziale. 12 Cf. C. Vidal Manzanares, El judeo-cristianismo palestino, pp. 274-277. 13 Cf. L. Schenke, Die Urgemeinde, pp. 118-119. Dopo che già H. Marshall, Palestinian and Hellenistic Christianity: Some Criticai Comments, NTS 19 (1972-73) 271-287, aveva criticato come gratuita la contrapposizione tra una chiesa giudeocristiana e un'altra ellenistico-cristiana (contro W. Heitmùller, F. Hahn, R.H. Fui-
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il modulo dell'intronizzazione regale non andrebbe considerato più giudaizzante di quello della morte espiatrice oppure che una cristologia della sapienza preesistente e inviata nel mondo non dovrebbe essere ritenuta più ellenizzante di una cristologia del giusto sofferente. Tutte queste concezioni infatti si radicano paritariamente nella tradizione giudaica, tanto essa è multiforme. Tuttavia una posizione del genere, che pure ha il merito di richiamare l'attenzione sulla comune radice giudaica della teologia cristiana e quindi anche della cristologia, disconosce alcune cose importanti, come sono per esempio la persecuzione scatenatasi a Gerusalemme soltanto contro la componente di origine giudeo-ellenistica della chiesa (cf. At 8,1-4; 11,19-20)14 e il reale contrasto emerso poi tra Paolo (cristiano di origine giudeo-ellenistica) e Giacomo (cristiano di origine giudeo-palestinese)15. Le fonti che ci permettono di analizzare l'incipiente cristologia della comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme non sono certo molte. Alcune però ci riportano sicuramente agli anni più arcaici del cristianesimo palestinese, dischiudendoci i primi tentativi di ripensare la figura di Gesù in base sia alla sua storia terrena sia all'evento del terzo giorno. Esse, a parte le confessioni di fede già analizzate nel volume primo per quanto riguarda la risurrezione, prendono forma essenzialmente in tre tipi di scritti: - (1) in primo luogo ci sono le più antiche tradizioni sul Gesù terreno rintracciabili nel loro stadio pre-redazionale all'interno dell'attuale redazione dei Sinottici. L'esistenza di antiche raccolte parziali del materiale gesuano, orali o scritte ma anteriori alla stesura dei singoli vangeli, è oggi data per certa e la si può dedurre, per esempio, dall'impostazione a blocchi riscontrabile nel vangelo marciano (cf. le cinque dispute in Me 2,1 - 3,6; la raccolta di parabole in 4,1-34; la raccolta di miracoli in 4,35 - 5,43 ecc.); ciascuno di questi tentativi, sia pure settoriale, comporta la messa in atto di una ler), ora C.C. Hill, Hellenists andHebrews. Reappraising Division within theEarliest Church, Minneapolis 1992, sottolinea il fatto che anche tra gli "ebrei" e gli "ellenisti" di Gerusalemme non si devono marcare eccessivamente le differenziazioni teologiche come se gli uni fossero esclusivamente dei conservatori e gli altri solo dei «liberals». 14 Vedi i commenti, per esempio C.K. Barrett, I, in ICC, Edinburgh 1994, p. 390. 15 La menzione di Giacomo ci dà modo qui di escludere la lettera canonica che porta il suo nome dalle fonti del primitivo giudeo-cristianesimo, contrariamente a ciò che pensano altri Autori (cf. le Introduzioni al N.T.). Sulla sua figura cf. W. Pratscher, Der Herrenbruder Jakobus und die Jakobustradition, FRLANT 139, Gòttingen 1987.
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particolare prospettiva cristologica, per cui la figura di Gesù viene considerata da un proprio, diverso angolo visuale16. Ma esistono soprattutto due blocchi pre-redazionali, che più degli altri sono ben individuabili ed esprimono una specifica cristologia della comunità tradente, di sicura origine palestinese: uno è // racconto premarciano della Passione, e l'altro è dato dalla fonte Q, che esamineremo in dettaglio. - (2) La sezione di Atti 2-5 (e 15), che più direttamente concerne la prima comunità di Gerusalemme, per quanto contrassegnata dalla redazione lucana, conserva certamente del materiale cristologico di tipo arcaico, che cercheremo di individuare e di mettere a frutto separatamente. - (3) Anche l'epistolario paolino ci ha conservato dei frammenti dell'originaria cristologia giudeo-cristiana, che l'Apostolo (a parte il probabile ritocco in Rm 1,3b-4a; cf. volume primo) generalmente condivide. Parte di questo materiale l'abbiamo già studiato (cf. ib., II, 5.1-2) e altro ancora lo riserviamo al capitolo della cristologia Paolina come suo punto di partenza17. Ma alcuni elementi rientrano ottimamente nel presente stadio in esame: per non parlare della dimensione espiatrice della morte di Gesù (cf. Rm 3,25 che probabilmente trasmette materiale tradizionale), mi riferisco in particolare all'invocazione aramaica conservata in ICor 16,22 (Maranatha!) con la cristologia che essa sottende, e alle informazioni che ne deduciamo circa il permanente valore della Legge accanto alla fede in Gesù. - (4) Lasciamo da parte invece la lettera di Giacomo. Anche se alcuni Autori la considerano molto arcaica (scritta prima del concilio di Gerusalemme), i più la ritengono pseudepigrafica e la collocano nell'ultimo quarto del secolo I. Per la verità, la questione della sua paternità non dovrebbe ridursi alla semplice alternativa tra autenticità o inautenticità; infatti è del tutto possibile che essa, pur databile redazionalmente in periodo tardo e testimone tipico di una visione giudeo-cristiana, tuttavia conservi e tramandi elementi arcaici del primo cristianesimo palestinese18. In ogni caso, 16 Cf. V. Fusco, La tradizione evangelica nelle prime comunità cristiane, in M. Laconi, a cura, Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, "Logos. Corso completo di studi biblici" 5, Leumann 1994, pp. 99-118. 17 Mi riferisco in particolare all'inno cristologico conservato in Fil 2,6-11 (per cui vedi sotto: cap. II, 3). 18 Oltre al citato W. Pratscher, cfr. A. Wikenhauser - J. Schmid, Introduzione al Nuovo Testamento, pp. 612-628, e B.S. Childs, The New Testament as Canon: An Introduction, SCM, London 1984, pp. 431-445.
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a parte gli interessi etici dello scritto, va riconosciuto che la sua cristologia è pressoché inesistente, riducendosi la menzione di Gesù Cristo a due sole frasi contestualmente non rimarcate (1,1; 2,1), anche se vi è presente il titolo tradizionale di Kyrios19.
1. Il racconto pre-marciano della Passione Com'è noto, il racconto della passione di Gesù è presente in tutti e quattro i vangeli canonici; anzi, nonostante il taglio proprio di ciascun evangelista, su di esso converge di fatto l'intera narrazione precedente: segno evidente del peculiare interesse che la passione di Gesù suscitò sulle comunità dei suoi discepoli. A questo proposito è diventato giustamente celebre l'assioma di M. Kàhler, secondo cui i vangeli non sono altro che "un racconto della Passione con un'ampia introduzione" 20 . L'interesse per l'ultima drammatica vicenda di Gesù si espresse sicuramente prestissimo. Il nostro interrogativo di partenza è questo: Me che, come vuole la teoria delle due fonti, è stato il primo vangelo ad essere messo per scritto, ha forse composto autonomamente un tale racconto oppure lo ha già ricevuto dalla tradizione? e quindi: la cristologia che esso implica è soltanto marciana o già pre-marciana? Noi adottiamo la seconda di queste due possibilità, e per farlo procediamo per gradi.
1.1 Esistenza, estensione e origine di un racconto pre-redazionale 1.1.1 Esistenza. La questione è dibattuta e ha comunque molti risvolti 21 . A prescindere dal fatto se un tale eventuale racconto coincida esattamente con quello attuale di Me (così soprattutto R. Pesch) op19 Vedi i Commenti, in particolare H. Frankemòlle, Der Brief des Jakobus, III, "Òkumenischer Taschenbuchkommentar zum Neuen Testament" 17/1.2, Gùtersloher Verlagshaus, Gùtersloh 1994 (inoltre: R. Fabris, G. Marconi, F. Mussner, F. Schnider). 20 M. Kàhler, Der sogenannte historische Jesus und der geschichtliche, biblische Christus, Leipzig 1892 (21896), riedito a cura di E. Wolf, Kaiser, Mùnchen 1961 (trad. ital., D'Auria, Napoli 1993), p. 60 nota 3. 21 Vedi l'Appendice IX curata da M.L. Soards, The Question of a Premarcan Passion Narrative, in R.E. Brown, The Death of the Messiah, II, pp. 1492-1524, dove vengono passate in rassegna le posizioni di ben 34 studiosi, i quali offrono altrettante ricostruzioni di un possibile racconto pre-marciano ma con notevoli divergenze reciproche.
IL RACCONTO PRE-MARCIANO DELLA PASSIONE
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pure se quello di Me ne rappresenti già un ritocco (così perlopiù) 22 , l'esistenza di una narrazione del genere, almeno parziale, è comunque suggerita da varie considerazioni. 1.1.1.1 Innanzitutto va richiamato il tenore del kerygma primitivo, che normalmente concentra appunto la sua attenzione sulla morte di Gesù: cf. ICor 15,3; e At 2,23; 3,13-15; 4,27-28; 5,30; 10,3%; 13,27-29 (un'eccezione è costituita solo da Rm l,3b-4a); evidentemente non si poteva parlare di lui senza riferirsi all'evento finale della sua vita, che ne rappresentava non solo un episodio ma qualcosa di assolutamente decisivo e degno di ogni considerazione 23 . 1.1.1.2 Anche la presenza del racconto in tutti e quattro i vangeli canonici è eloquente, tanto più che esso offre la stessa successione dei fatti in cinque momenti: l'ultima cena 24 , l'arresto nell'Orto degli ulivi mediato dal tradimento di Giuda 25 , il processo davanti ai Giudei con la condanna da parte del Sommo Sacerdote per bestemmia 26 , il processo davanti ai Romani con la condanna da parte di Pilato per lesa maestà 27 , il viaggio al Calvario con la crocifissione, la morte e la sepoltura.
22 Vedi R. Pesch, // vangelo di Marco, CTNT II/2, Paideia, Brescia 1982 (orig. ted., Freiburg i.B. 1977, 21980), pp. 18-54 (l'A. addirittura fa iniziare la storia premarciana della Passione in Me 8,27-33 e la fa proseguire attraverso 9,2-13.30-35; 10,1.32-34.46-52; 11,1-23.27-33; 12,1-17.34-37.41.44; 13,1-2, fino a culminare in 14,1-16,8); vedi anche G. Schneider, Das Problem einer vormarkinischen Passionserzàhlung, BZ 16 (1972) 222-244; J. Ernst, Die Passionserzàhlung des Markus und dieAporien der Forschung, TheolGl 70 (1980) 160-180; W. Reinbold, Das àlteste Bericht tiber den Tod Jesu. Literarische Analyse und historische Kritik der Passionsdarstellung der Evangelien, BZNW 69, Berlin - New York 1993. Interessato solo alla redazione marciana invece è J. Schreiber, Die Markuspassion. Eine redaktionsgeschichtliche Untersuchung, BZNW 68, Berlin - New York 1993 (U970); G.W.E. Nickelsburg, Passion Narratives, in ABD 5, pp. 172-177. Si segnala a parte la posizione di J.D. Crossan, The Cross that spoke. The origins of the Passion Narratives, San Francisco 1988, secondo cui all'origine c'è nientemeno che l'apocrifo Vangelo di Pietro 9,35 - 11,49 (in proposito, cf. R.E. Brown, The Death of the Messiah, II, pp. 1317-1349). 23 Cf. già R. Bultmann, Die Geschichte der synoptischen Tradition, Gòttingen 6 1921, 1957, pp. 297-298. 24 Sia pure con un diverso trattamento nei Sinottici (istituzione dell'eucaristia) e in Gv (lavanda dei piedi ai discepoli). 25 È nel contesto della preghiera di Gesù nel Getsemani che il solo Me riporta l'invocazione Abbà (Me 14,36). 26 Con rispettive variazioni: comparsa di Gesù davanti a una seduta notturna del Sinedrio (Mc-Mt) o davanti al solo Annas (Gv), e poi davanti a una seduta mattutina del Sinedrio stesso (Mc-Mt-Lc) o davanti al solo Caifa (Gv). In Gv non è formulata un'esplicita accusa di bestemmia (cf. 18,12-28), ma tutto il Quarto Vangelo è in realtà un processo a Gesù, a partire dall'interrogatorio rivolto a Giovanni Battista (cf. 1,19) fino alla decisione finale di farlo morire (cf. 11,49-53). 27 Anche qui le variazioni di Mt (cf. l'episodio della moglie di Pilato), di Le (cf. il rinvio Pilato-Erode-Pilato), e di Gv (cf. il dialogo Pilato-Gesù) si innestano su di una comune griglia narrativa di base.
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LA CHIESA GIUDEO-CRISTIANA DI GERUSALEMME
1.1.1.3 Particolarmente interessante è la qualità stessa del racconto; vanno infatti notate queste caratteristiche: la notevole ampiezza (in Me esso occupa più di 1/6 di tutto il vangelo), la ricchezza di dettagli (topografici, cronologici, prosopografici), il rapporto tra l'estensione letteraria e l'arco di tempo in cui si svolgono gli avvenimenti (questo è inversamente proporzionale a quella: per un arco di tempo minimo [dalla sera al pomeriggio del giorno dopo] abbiamo la massima concentrazione di interesse narrativo: caso unico), e il trattamento realistico dei personaggi che non subiscono alcuna eroizzazione (a parte il caso di Giuda, persino Pietro tradisce ripetutamente Gesù, tutti gli altri discepoli fuggono, e lo stesso Gesù è più che mai presentato secondo uno spessore umano assai marcato [cf. l'agonia nel Getsemani e il grido di abbandono in croce]). 1.1.1.4 In particolare la redazione di Me tradisce dei segni di utilizzazione di un originale, autonomo racconto della Passione. Per esempio, in 14,43 si dice che Giuda, accompagnatore del gruppo che andava per arrestare Gesù nel Getsemani, era "uno dei Dodici"; ma il lettore del vangelo non ha bisogno che gli venga detto questo, poiché lo sa già (cf. 3,19; 14,10): l'inutile ripetizione della qualifica (contraddistinta anche dal fatto che qui non viene riportato l'epiteto di "Iscariota", che nei due passi anteriori era unito al nome di "Giuda") è quindi un probabile indizio che essa faceva parte di un insieme narrativo pre-esistente in forma indipendente, che cominciava poco prima 28 . 1.1.1.5 La conclusione migliore, pertanto, è di ritenere che "Me usa una fonte per scrivere il suo racconto della Passione. Tuttavia noi possiamo conoscere questa fonte soltanto in quanto incorporata nello stesso Me. La grande sfida che ci si offre è di non separare la tradizione dalla redazione di Me (...). Piuttosto dobbiamo investigare i vari strati di tradizione che incontriamo nella forma del racconto marciano" 29 . In concreto, lasciando da parte la pericope della cena (poiché in Gv essa ha un trattamento troppo diverso), ci limitiamo a studiare l'insieme costituito dai seguenti quattro atti: i fatti del Getsemani, il processo davanti ai Giudei, quello davanti a Pilato e i fatti del Calvario 30 . Il testo preso in esame sarà quello di Me 14,32 - 15,47, che in ogni caso ci dà la redazione più antica del racconto. 1.1.2 Data e luogo di origine. Una datazione arcaica è suggerita da Pesch sulla base di due indizi 31 . Il primo è offerto da Paolo in ICor 28
Per una analisi dello stile, che in Me acquista ora delle connotazioni singolari, cf. R. Pesch, Me, II, pp. 21-25. 29 M.L. Soards, The Question of a Premarcan Passion Narrative, pp. 1523-1524. Vedi anche J.B. Green, The Death of Jesus. Tradition and Interpretation in the Passion Narrative, WUNT 2,33, Tùbingen 1988. 30 Cf. anche A. Vanhoye, Structure et théologie des récits de la Passion dans les évangiles synoptiques, NRT 89 (1967) 135-163; B. Maggioni, Iracconti evangelici31della Passione, Assisi 1994. Cf. R. Pesch, Me, II, pp. 44-45.
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11,23-25 nel contesto di una paradosi dell'ultima cena: l'espressione "nella notte in cui veniva tradito" suppone di fatto una storia già esistente, di cui viene data qui una scansione cronologica. L'altro consiste nella constatazione che in Me 14 (vv. 53.54.60.61.63) si parla del "Sommo Sacerdote" (ó àpxtepeus) senza nominarlo mai 32 ; noi sappiamo da altre fonti che si trattava di Caifa (gr. Kata9oc<;), suocero di Annas o Anano e rimasto in carica negli anni dal 18 al 36 33 , ma evidentemente i primi lettori o ascoltatori della storia non avevano bisogno che glielo si precisasse, perché dovevano conoscere bene la situazione locale e lo stesso Caifa doveva essere ancora in funzione: egli era "// Sommo Sacerdot e " del momento. Il primo racconto quindi deve risalire agli anni compresi tra la morte di Gesù e la deposizione di Caifa, cioè fra il 30 e il 36. La provenienza pertanto dev'essere sicuramente Gerusalemme. Lo dimostrano anche i seguenti indizi: la conoscenza dei luoghi menzionati (Betania, Betfage, Monte degli Ulivi, Getsemani, Golgota; casa del Sommo Sacerdote, casa di Pilato o pretorio), i riferimenti a varie persone (Simone il lebbroso, Simone di Cirene con i figli Alessandro e Rufo, le donne di Galilea, Giuseppe di Arimatea), e le reminiscenze dell'originaria lingua aramaica (quali sono l'invocazione Abbà, che è presente solo in Me 14,36; e il grido in croce in 15,34, che in Mt tende a diventare di pronuncia ebraica).
1.2 La
cristologia
1.2.1 II racconto in quanto tale. Una prima osservazione consiste nel rilevare che la valenza cristologica di un simile racconto inerisce già al suo semplice darsi. Evidentemente la fede nella risurrezione di Gesù, tutt'altro che distogliere l'attenzione dall'umiltà della sua morte per dimenticarne l'obbrobrio, ha invece concentrato proprio su di essa l'attenzione più minuta e più accurata. È come se nulla dovesse andare perduto di quei momenti supremi. Piuttosto si rinunciò a moltissimo materiale riguardante non solo la precedente vita privata ma anche e soprattutto la vita pubblica di Gesù, 32 A differenza di Mt 26,3.57; Gv 11,49; 18,13.14.24.28; quanto a Le, la sua menzione è già presente in 3,2 (cf. anche At 4,6). 33 Vedi le notizie in FI. Giuseppe, Ant. 18,35 e 95; inoltre B. Chilton, Caiaphas, in ABD 1, pp. 803-806. Recentemente nei pressi di Gerusalemme è stato scoperto un ossuario con una iscrizione interpretata in riferimento al nome di Caifa: cf. Discovery of the Caiaphas Family Tomb, Jerusalem Perspectives IV/4-5 (1991); Z. Greenhut, Burial Cave of the Caiaphas Family, BiblArchRev 18 (1992/5) 28-36 e 76. Ma serie obiezioni a questa identificazione, specie di tipo linguistico, sono state avanzate da É. Puech, È stata scoperta la tomba del sommo sacerdote Caifa?, Il Mondo della Bibbia n. 21,5 (1994/1) 48-53.
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LA CHIESA GIUDEO-CRISTIANA DI GERUSALEMME
per non dire persino dei racconti concernenti le cristofanie pasquali, tanto diversificati e non facilmente conciliabili tra loro (cf. voi. I, cap. II). È invece nella passione e morte di Gesù che fin dall'inizio la chiesa fissò lo sguardo più interessato, scorgendovi il suo tesoro più prezioso. Proprio l'ampiezza narrativa è segno non solo di una maggiore verificabilità storica degli avvenimenti, ma anche di una specialissima attenzione ad essi34. In più va precisato che un tale racconto fu curato non certo per motivi di propaganda o di apologetica, poiché non c'era nulla di particolarmente attraente o di raccomandabile nella sorte estrema subita da Gesù35. Alla base invece c'è sicuramente un'esigenza di memoria, comunque la si debba specificare, che è tutta interna alla comunità cristiana36. Ma soprattutto c'è il desiderio di capire, non solo perché Gesù fosse morto a quel modo 37 , ma perché proprio lui fosse morto così. Già qui dunque, tra le righe stesse del racconto, c'è un interesse cristologico. 1.2.2 La elaborazione cristologica del racconto. Il racconto stesso 34 D'altronde, come osserva acutamente M. Hengel, Jesus, the Messiah of Israel, in Id., Studies in Early Christology, pp. 1-72, "nell'antichità, dato che gli scrittori consideravano troppo disgustoso l'argomento, noi troviamo pochissime descrizioni di una crocifissione, e il resoconto di Me 15,20-39, con il suo parallelo negli altri tre vangeli, è di gran lunga il più esteso di tutti" (p. 48). 35 Ne abbiamo una comprova molto netta nella reazione negativa testimoniata posteriormente, sia in campo giudaico (cf. Trifone in Giustino, Dial. 79,1-2: "Disse Trifone: Sappi che tutta la nostra razza attende il Cristo... Ma che il Cristo sia stato così ignominiosamente crocifisso, di questo proprio non sappiamo risolverci"), sia in campo pagano (cf. Celso in Origene, Contra Cels. 2,17-44: "Qual dio, o qual demone, o quale uomo intelligente, prevedendo che dovevano capitargli tali cose, non avrebbe fatto tutto il possibile per sfuggirle, ma si sarebbe lasciato sorprendere dai malanni che aveva previsto?... Chi vieta di credere che anche gli altri, i quali sono stati condannati e hanno fatto una fine ancor più brutta, siano degli angeli più grandi e più divini di lui?"). 36 A suo tempo M. Dibelius, Die Formgeschichte des Evangeliums, Tùbingen 1919, 21933, pp. 21 e 285, ipotizzava che il racconto della Passione fosse stato composto per le necessità della predicazione e della catechesi (cf. At 2,42). Altri invece hanno pensato a un Sitz im Leben di tipo liturgico, forse per l'occasione della celebrazione della Pasqua; cf. G. Schille, Das Leiden des Herrn. Die evangelische Passionstradition und ihr Sitz im Leben, ZTK 52 (1955) 161-205. Una serie di Leitmotive era già stata elencata anche da R. Bultmann, Die Geschichte der synoptischen Tradition, pp. 303-308 (cioè: appoggio a predizioni veterotestamentarie, interessi parenetici e preoccupazioni dogmatiche, insieme a tratti puramente novellistici). 37 È interessante la posizione di A. Yarbro Collins, From Noble Death to Crucified Messiah, NTS 40 (1994) 481-503, secondo cui già prima di Me s'impose ai cristiani l'esigenza di spiegarsi perché Gesù, che pure (si) era considerato Messia, non abbia avuto una "morte nobile" (tipo quella eroica di Achille o quella filosofica di Socrate o quella didattica dei martiri maccabei), e allora si ricorse alle Scritture per rivendicarlo comunque come Messia a dispetto della sua morte ignominiosa, inaugurando un nuovo genere di racconto di morte.
IL RACCONTO PRE-MARCIANO DELLA PASSIONE
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(Me 14,32 -15,47) rivela uno specifico taglio cristologico, che rappresenta già una originale ermeneutica della Passione di Gesù da parte della prima comunità cristiana. La collaterale presenza di un intento parenetico non disturba affatto il tentativo di fondo di comprendere adeguatamente la figura di Gesù nei suoi momenti supremi 38 . La dimensione cristologica del racconto è percepibile doppiamente, a un livello negativo e poi soprattutto positivo. 1.2.2.1 Negativamente, rileviamo due assenze. - (1) In tutto il racconto mancano confessioni cristologiche esplicite o comunque di un certo rilievo, riconducibili direttamente al narratore. Al loro posto abbiamo tre tipi di identificazione titolare di Gesù, inserite nello sviluppo dell'azione. Innanzitutto, ci sono tre autoqualifiche personali sulla bocca di Gesù stesso: "pastore" (Me 14,27 = Zc 13,7), con valore secondario finalizzato solo a spiegare la fuga dei discepoli narrata poco dopo; "figlio", indirettamente presente nell'invocazione di Dio come Abbà (14,36); e "figlio dell'uomo" escatologico (14,62: combinazione di Dn 7,13 e di Sai 110,1; cf. anche 14,41), come correzione dell'ammissione della messianicità in risposta al Sommo Sacerdote. Il secondo e il terzo titolo sono importanti per l'autocomprensione del Gesù terreno, e noi li abbiamo già esaminati più sopra (cf. volume primo). In secondo luogo, una particolare qualifica è presente nella proclamazione ufficiale del capo d'accusa, scritto come titulus appeso alla croce: "il re dei Giudei" (15,26; cf. "il re d'Israele" in 15,32); l'appellativo domina tutto il cap. 15 (cf. vv. 2.9.12.18.32), ma, per modo di contrasto, ricorre sempre in rapporto all'umiliazione e all'impotenza del protagonista 39 ; esso comunque non è accettato dalla chiesa
38 Cf. J. Gnilka, Jesus Christus nach fruhen Zeugnissen des Glaubens, Mùrichen 1970, pp. 97-101. L'intento parenetico si legge tra le righe prevalentemente nel cap. 14: la preghiera di Gesù nel Getsemani fonda l'ammonizione a vegliare e pregare nell'ora della prova (cf. 14,32-42); questa vale anche per i momenti successivi: sia per il momento in cui tutti i suoi discepoli fuggono mentre Gesù viene arrestato (cf. 14,50), sia per quando Pietro rinnega il suo Maestro, proprio nel momento drammaticamente contemporaneo a quello in cui Gesù confessa audacemente la propria identità davanti al Sommo Sacerdote (cf. 14,66-72). Uno sviluppo più ampio della cristologia nel racconto pre-marciano della Passione si trova in E.K. Broadhead, Prophet, Son, Messiah. Narrative Form and Function in Mark 14-16, JSNT SS 97, Sheffield 1994, ma in quanto il racconto è messo in connessione con la strategia narrativa dell'intero vangelo. 39 L'accusa di ribellione politica viene così contraddetta nei fatti (tutta un'altra fenomenologia rivelano invece i vari Giuda, Simone e Atronge, secondo FI. Giuseppe, Ant. 17,271-272.278-281; Bell. 2,57-59) e si tramuta in una occasione di fede per il Lettore.
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primitiva come titolo cristologico40. Infine abbiamo la confessione del centurione romano ai piedi della croce: "Veramente quest'uomo era figlio di Dio" (15,39). Questa confessione però non va enfatizzata. Se essa segna certamente una notevole distanza tra il centurione e i discepoli di Gesù, a favore del primo, il suo valore cristologico va comunque contenuto a motivo delle seguenti osservazioni: la confessione non riguarda la divinità di Gesù, né in sé né in quanto egli venga visto associato alla croce, ma il modo con cui la sua morte avvenne ("vistolo spirare a quel modo"), cioè accompagnata da fenomeni cosmici e dallo squarcio del velo nel Tempio41; il titolo "figlio di Dio" manca dell'articolo e quindi considera Gesù semplicemente come "un figlio di Dio"42; inoltre la qualifica è riferita al passato ("era") e non esprime una piena fede pasquale. Proprio per questo tuttavia è verosimile che essa ci riporti allo stadio gesuano. A tutto ciò si aggiunga la prospettiva derivante da Sap 2,12-20; 5,1-7, su cui torneremo circa la componente positiva della cristologia del racconto. - (2) Un altro aspetto è vistosamente assente dal racconto pre-marciano della Passione, mentre sarà invece sviluppato altrove e anche molto presto (cf. ICor 15,3): la dimensione soteriologica delle sofferenze e della morte di Gesù. Prescindendo dal brano concernente l'ultima cena e dalle parole pronunciate sul calice (cf. Me 14,24), che probabilmente almeno in parte riflettono già uno stadio successivo43, la descrizione dei vari patimenti subiti da Gesù, a partire dall'agonia nel Getsemani fino alla sua dolorosissima morte in croce, non fa mai riferimento in alcun modo al fatto che egli sopportò tutto questo in 40 Molto diverso invece sarà il trattamento riservato dal Quarto Vangelo a questa qualifica di Gesù nel suo dialogo con Pilato (cf. Gv 18,33-37; 19,19-22). 41 Cf. R.H. Gundry, Mk, p. 974. Vedi anche la discussione di R.E. Brown, The Death of the Messiah, II, pp. 1160-1167. 42 Ci risulta anche da un confronto con ciò che Plutarco scrive della morte di Cleomene re di Sparta (nel 235-219 a . C ) , scuoiato e crocifisso per ordine di Tolomeo IV Filopatore re d'Egitto: "Coloro che montavano la guardia al corpo crocifisso di Cleomene videro un grosso serpente avvolgergli la testa nelle sue spire e coprirgli il volto, così che nessun rapace potesse beccarlo. Il re (Tolomeo) fu allora colto da superstizioso terrore, dicendosi che era stato soppresso un uomo caro agli dèi e di natura superiore all'umana. La gente di Alessandria poi prese a recarsi sul luogo e a rivolgersi a Cleomene come a un eroe, figlio di dèi (0«òvTOXÌ&X)"(Cleom. 39). 43 Se da una parte il brano viene visto come parte integrante del racconto premarciano della Passione (così R. Pesch, Dos Abendmahl undJesu Todesverstàndnis, in K. Kertelge, ed., Der Tod Jesu. Deutungen im Neuen Testament, Freiburg i.B. 1976, pp. 137-187), dall'altra c'è chi vi scorge già l'influsso del culto post-pasquale (così J. Jeremias, Le parole dell'Ultima cena, Brescia 1973 [orig. ted., Gòttingen 4 1967], pp. 127-167).
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funzione salvifica; infatti non incontriamo mai formule del tipo "per noi", "per gli uomini", o simili (nemmeno nei pronunciamenti dello stesso Gesù, siano essi di istruzione ai discepoli, di preghiera nel Getsemani, di risposta all'interrogatorio nei due processi, o sulla croce)44. Evidentemente il racconto non sviluppa nessuna theologia crucis. Ciò non significa però che esso non implichi una «teologia della Passione», che anzi gli è propria, come vediamo subito45. 1.2.2.2 Positivamente, osserviamo che il racconto implica una sua cristologia specifica. Ed essa (a parte la confessione messianica di 14,62) si può definire essenzialmente come cristologia del giusto sofferente; il racconto quindi può essere etichettato come passio iusti46. Il tema è antico, ed è documentato tanto in Israele quanto fuori di esso47. Nel racconto della Passione, esso traspare soprattutto dall'utilizzazione di alcuni Salmi di lamentazione, ol-
44 Ciò vale del resto per i Sinottici in generale; cf. H.-W. Kuhn, Jesus als Gekreuzigter in der frùhchristlichen Verkiindigung bis zur Mitte des 2. Jahrhunderts, ZTK 72 (1975) 1-46. 45 Cf. D. Sànger, Die Verkiindigung des Gekreuzugten und Israel. Studien zum Verhàltnis von Kirche und Israel bei Paulus und im frùhen Christentum, WUNT 75, Tùbingen 1994, p. 223. 46 A questo proposito vedi in particolare L. Ruppert, Jesus als der leidende Gerechte? Der Weg Jesu im Lichte eines alt- und zwischentestamentlichen Motivs, Stuttgart 1972 (in parziale polemica con E. Schweizer, Cristologia neotestamentaria: il mistero pasquale, Bologna 1969 [orig. ted., Zùrich 1961], a cui aggiunge il motivo del profeta perseguitato), e M.-L. Gubler, Diefruhesten Deutungen des Todes Jesu, Freiburg/Schw.-Gòttingen 1977, pp. 95-205 ("Die Passion Jesu als Leiden des Gerechten"). Vedi anche G. Barth, Il significato della morte di Gesù. L'interpretazione del Nuovo Testamento, Torino 1995, pp. 44-50. 47 Già accennato per contrasto in Ger 12,2 ("Vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia: Perché le cose degli empi prosperano?"; il profeta stesso è un giusto perseguitato: cf. 11,19), esso è sviluppato nei Salmi di lamentazione (22; 31; 34; 37; 69; 140), nel libro di Sap ( cf. 2,10-20; 5,1-5), e negli scritti apocalittici (cf. lEn 47,1-2; 95,7; 4Esd 8,27; 2Bar 48,48-50). Ma l'affermazione che il giusto deve soffrire è universale: cf. Platone, Apol. "ila. (Socrate: "Se c'è di mezzo la giusta causa, io per paura della morte non saprei piegare la testa davanti a nessuno"); Gorg. 521b ("Non ripetere quello che tante volte mi hai già detto...: 'Un malvagio farà morire un buono' " ) ; Cicerone, Nat. deor. 80-85 (dopo aver fatto un elenco di persone buone perite tragicamente ["Perché Annibale uccise Marcello?... Perché Regolo fu consegnato alla crudeltà dei Cartaginesi? Perché Africano non fu protetto dalle pareti di casa?"], come se gli dèi avessero eliminato ogni distinzione tra buoni e cattivi, conclude: "Non voglio continuare, altrimenti sembrerebbe che io dessi licenza di peccare; e avresti ragione, se non fosse che la coscienza buona o cattiva costituisce un valore in se stessa a prescindere da una spiegazione divina"); Luciano, Iup. conf. 17 ("Perché i malvagi e i furfanti sguazzano fra tutte le felicità, e gli uomini buoni sono sbattuti qua e là, afflitti da povertà, da malattie, e da mille altri mali?").
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tre che da altri passi veterotestamentari 48 . Il tema è già preparato nel cap. 14, ma è sviluppato soprattutto nel cap. 15. Qui di seguito ne diamo l'elenco delle ricorrenze. -14,55: "cercavano di farlo mo-% rire"
-14,56-57: "molti testimoniavano il falso" -15,24: "si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse" -15,27: "con lui crocifissero anche due ladroni"; + 15,28 (solo nel textus receptus): "e si adempì la Scrittura che dice: E fu annoverato fra gli empi" - 15,29: "i passanti lo insultavano"
- ib.: "scuotendo il loro capo"
- 15,33: "venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra"
- 15,34: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?"
- Sai 31,14: "insieme contro di me congiurano, tramano di togliermi la vita"; inoltre, cf. Sai 37,32; 38,13; 54,5; 63,10; 70,3; 86,14; 109,16; - Sai 27,12: "contro di me sono insorti falsi testimoni"; cf. anche Sai 35,11 49 ; - Sai 22,19: "si dividono le mie vesti, sul mio vestito gettano la sorte"; - Is 53,12: "è stato annoverato fra gli empi";
- Sai 31,12s: "sono l'obbrobrio dei mei nemici,...chi mi vede per strada mi sfugge,...sono divenuto un rifiuto" (cf. Sai 109,3-5); - Sai 22,8: "mi scherniscono quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo" (cf. Sai 109,25); - Am 8,9: "in quel giorno farò tramontare il sole a mezzodì e oscurerò la terra in pieno giorno"; - Sai 22,2 (cf. sotto);
48 Cf. E. Flessman van Leer, Die Interpretation der Passionsgeschichte vom Alteri Testament aus, in H. Conzelmann e altri, Zur Bedeutung des Todes Jesu. Exegetische Beitràge, Gùtersloh 1967, pp. 79-96; H.D. Lange, The Relationship Between Psalm 22 and the Passion Narrative, Concordia Theological Monthly 48 (1972) 610-621; J.G. Reumann, Psalm 22 at the Cross. Lament and Thanksgiving for Jesus, Interpr 28 (1974) 39-58. 49 Entrambi questi passi si ritrovano in Mt, ma sono assenti in Le e in Gv.
IL RACCONTO PRE-MARCIANO DELLA PASSIONE
- 15,36 : "uno corse a inzuppare di aceto una spugna... e gli dava da bere" -15,39: "quest'uomo era figlio di Dio"
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- Sai 69,22: "quando avevo sete mi hanno dato aceto"; - Sap 2,18: "se il giusto è figlio di Dio, egli l'assisterà"; 5,5: "egli è considerato tra i figli di Dio" (cf. Sai 22,9).
Come si vede, gli accostamenti all'AT sono impressionanti, tanto più che nessuno di essi viene introdotto mediante una esplicita formula di citazione, essendo semplicemente integrati nel discorso del narratore. Ma, per quanto ci si possa richiamare a storie di singole figure veterotestamentarie (come Giuseppe in Egitto, Ester, Daniele, Susanna, forse Eleazaro)50, va osservato che nessuno di quei racconti di giusti sofferenti viene ripreso nemmeno per allusione. La prevalenza dei riferimenti a Sai 22 e in genere ai Salmi (oltre a Is 53 e Am 8), dove non si tratta di nessuna figura storica specifica, dice invece che nel caso di Gesù si tratta della realizzazione di un tipo, ma in modo tale da far vedere che uno schema generale si compie in un personaggio singolare. Infatti, il fatto che nessuna determinata figura dell'AT venga richiamata dipende probabilmente dalla unicità del caso-Gesù, che il narratore sa essere molto di più di tutti loro in quanto Messia, Figlio dell'uomo e Figlio di Dio. Il tema del giusto sofferente inoltre viene anche superato da un'altra considerazione di tipo storico: alla base del racconto non c'è solo l'affermazione che il giusto-Gesù ha sofferto, ma soprattutto c'è il dato oggettivo che egli ha subito una morte infamante, maledetta dalla Legge. Ed è come se il narratore di fronte a ciò non disponesse ancora di una vera spiegazione; ma ha bisogno almeno di farne memoria, nonostante tutto. Un'attenzione particolare, a questo proposito, merita il testo di Me 15,34 dove si registra il grido d'abbandono di Gesù morente, derivante da Sai 22/21,2: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". Diamo qui un confronto sinottico di tutte le sue ricorrenze nelle sei fonti diverse in cui è riscontrabile:
5 P Cf. G.W.E. Nickelsburg, The Geme and Function of the Markan Passion Narrative, HTR 73 (1980) 154-184.
24
LA CHIESA GIUDEO-CRISTIANA DI GERUSALEMME ™
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Me 15,34 eXcot eXan Xefxa aa[3ax6avi = ó Geo? [xou ó 0eó<; [xoo, tic, TÌ èyxaxéXi7ré(j fxe; Mt 27,46 T)Xi rjXt
Xe|xa aa(3ax0avi = Osé (xou 0eé [xou, watt fxe èyxaxéXiue<;; Vangelo di Pietro 19 r\ Suvaptg [xou, r\ 8ÓVOC[JU<; (xou,
xaréXet^à? fxe!
Da questo quadro (senza tener conto delle varianti testuali dei due vangeli canonici) risulta la vicinanza di Me a una dizione aramaica, forse più arcaica51. Il problema posto dai seguenti vv. 35-36, secondo cui alcuni dei presenti, ascoltando Gesù, dissero: "Ecco, chiama Elia" (Me 15,35), si può spiegare linguisticamente richiamandosi a Sai 22,11 ("Dal grembo di mia madre il mio Dio sei tu"). Quest'ultima frase in ebraico suona 'èli 'attùh (cf. anche Sai 31,15; 63,2; 118,28; 140,7; aramaico: 'èlaht 'antàh) e gli astanti potrebbero averla fraintesa in aramaico come 'elià' tà, "Elia, vieni!" 52 . Ma questa è una soluzione storicizzante, che prescinde dal fatto che il nostro racconto intende la frase di Gesù (subito tradotta in greco) in un altro senso, cioè in quello del primo versetto 51 II verbo aramaico sebaq corrisponde all'ebraico cùzab, "andarsene, abbandonare, lasciare". Ma, mentre ci sono commentatori che ritengono che Gesù si sia espresso in aramaico (così M.-J. Lagrange, R. Pesch, R.H. Gundry, R.E. Brown; e M. Wilcox, Semitisms in the New Testament, in ANRW 11/25.2, pp. 978-102o! qui 1004-1007), altri pensano piuttosto a una originale formulazione in ebraico (così V. Taylor, P. Bonnard). 52 Così X. Léon-Dufour, Di fronte alla morte: Gesù e Paolo, Torino 1982 (orig. frane, Paris 1979), pp. 160-161, riprendendo l'ipotesi che fu già di H. Sahlin (in Bibl 33 [1952] 62-63) e di T. Boman (in StTh 17 [1963] 103-119).
IL RACCONTO PRE-MARCIANO DELLA PASSIONE
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del Salmo 22, che sembra affermare da parte di Gesù la percezione di una derelizione totale da parte di Dio. Ovviamente una simile dichiarazione pone uno speciale problema cristologico: quale fu in realtà o almeno come viene vista dal narratore l'esperienza intima provata da Gesù in quel momento? 53 . Da una parte è vero che il Sai 22 non è propriamente un Salmo di disperazione, ma implica atteggiamenti vari da parte dell'orante: lamento, ringraziamene, lode, e quindi anche fiducia54. Però, se il testo evangelico pensasse solo a un atteggiamento di fiducia, avrebbe scelto qualche altro versetto del Salmo (dal v. 23 in poi) 55 . Inoltre, è difficile pensare che il narratore volesse dire che Gesù recitò di fatto l'intero Salmo, visto che il lamento non viene introdotto da alcuna formula di citazione ma semplicemente dalla frase: "Gesù gridò a gran voce". Evidentemente al narratore interessa il grido in sé e per sé, come una parola propria di Gesù e non della Scrittura56. D'altra parte, va notato che Gesù si rivolge a Dio non con l'appellativo fiduciale di Abbà, che pur aveva impiegato nella preghiera del Getsemani (cf. 14,36): segno evidente che ora egli prova un reale abbandono, espresso con forza e senza mezzi termini. Sulla croce Gesù ha umanamente sperimentato quello che oggi viene chiamato "il silenzio di Dio" 5 7 , cioè la sua apparente assenza in una situazione di prova; invece di chiedere l'aiuto di Dio (per es. con le parole di Sai 27,9: "Non abbandonarmi, Dio della mia salvezza"), Gesù sa e dice che ormai Dio in questo momento invece di soccorrerlo lo consegna alla morte, anzi a una maledetta morte di croce. Siamo quindi di fronte a un'ulteriore espressione della passio iusti, in cui il lamento stesso diventa paradossalmente 53
Oltre ai Commenti, vedi in particolare G. Rosse, // grido di Gesù in croce: una panoramica esegetica e teologica, Roma 1984; L. Caza, "Mon Dieu, pourquoi m'as-tu abandonné?", Montreal-Paris 1990. 54 Cf. G. Ravasi, // libro dei Salmi. Commento e attualizzazione, I, Bologna 6 1985, 1993, pp. 395-424. 55 Del resto, la frase pronunciata da Gesù contrasta con una bella preghiera di fiducia, che un manoscritto di Qumràn pone in bocca al patriarca Giuseppe provato in Egitto: "Padre mio, Dio mio, non abbandonarmi (7 rzbny) nelle mani delle nazioni; fammi giustizia, perché non periscano i poveri e gli afflitti" (4Q372 1,16-17); cf. E. Schuller, 4Q372 1: A Text About Joseph, RQ 55 (1990) 349-376. 56 D'altronde questo grido viene omesso dalle redazioni di Le e di Gv, che lo sostituiscono con altri versetti dello stesso Salmo 22, ma più 'positivi' e quindi con significati del tutto diversi (cf. una Sinossi). 57 Esso è stato teorizzato a proposito di Auschwitz e dell'olocausto del popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale (cf. Cattedra dei non credenti, Chi è come te fra i muti? L'uomo di fronte al silenzio di Dio, Lezioni promosse e coordinate da Carlo Maria Martini, Garzanti, Milano 1993).
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LA CHIESA GIUDEO-CRISTIANA DI GERUSALEMME
una manifestazione di confronto soltanto con Dio e di autoconsegna a lui58. 1.2.3 In conclusione, possiamo dire che l'intero racconto della Passione, tutt'altro che un resoconto neutrale e oggettivo, va letto ''non come una notizia di giornale, ma come «teologia narrativa»" 5 9 ; infatti esso reca i segni propri di un tentativo messo in atto per scoprire sotto i nudi fatti la dimensione propria della morte subita da Gesù. La cristologia qui dispiegata si potrebbe considerare di basso profilo, se confrontata con altri e più ricchi sviluppi successivi, ma è comunque interessante e tipica di un'incipiente, attenta lettura della figura straordinaria di Gesù di Nazaret negli ultimi momenti della sua vita.
2. La raccolta delle parole di Gesù: fonte Q Un altro, precoce tentativo di riflettere sulla figura di Gesù consistette in una raccolta antologica dei suoi pronunciamenti orali; ipotizzata fin dalla fine del sec. XVIII, essa ricevette dal 1890 il nome siglato Q (tedesco Quelle, "fonte [sottinteso: dei loghia]")60. 58 Analogamente, cf. Gb 6,4; 7,20; 16,13 ("I suoi arcieri mi circondano, mi trafigge i fianchi senza pietà"). In ogni caso il grido di Gesù non è certo di disperazione, ma equivale alla domanda di un uomo che è comunque fedele a Colui del quale non comprende l'agire: cf. J.-N. Aletti, Morì de Jesus et théorie du récit, RechSR 73 (1985) 147-160. 59 G. Rosse, Il grido di Gesù, p. 52. Recentemente, per esempio, T.E. Schmidt, Mark 15.16-32: The Crucifixion Narrative and the Roman Truiumphal Procession, NTS 41 (1995) 1-18, ha proposto di vedere nella pericope di Me 15,16-32 (pretorio e coorte, manto di porpora e incoronazione di spine, viaggio al Calvario, requisizione di Simone di Cirene, crocifissione, derisione con l'appellativo di Re d'Israele) lo schema del corteo trionfale romano, presentato però come un "anti-trionfo" per suggerire che l'apparente scandalo della croce implica in realtà e paradossalmente una esaltazione di Cristo. 60 Diamo qui in proposito una bibliografia essenziale: S. Schulz, Q - Die Spruchquelle der Evangelisten, Zùrich 1972; J. Delobel, ed., Logia. Les paroles de Jesus - The Sayings of Jesus. Mémorial J. Coppens, Leuven 1982; J. S. Kloppenborg, The Formation ofQ, Philadelphia 1987; A.D. Jacobson, The First Gospel. An Introduction to Q, Sonoma CA 1992; W.G. Dever, Q (Gospel Source), in ABD 5, pp. 567-573; D.R. Catchpole, The Questfor Q, Edinburgh 1993; B.L. Mack, The Lost Gospel. The Book ofQ& Christian Origins, San Francisco 1993; R.A. Piper, ed., The Gospel behind the Gospels. Current Studies on Q, Leiden 1995; C.M. Tuckett, Q and the History of Early Christianity. Studies on Q, Edinburgh 1996. Un "International Q Project" è stato presentato da J.M. Robinson, A Criticai Text ofthe Sayings Gospel Q, RevHistPhilRel 72 (1992) 15-22. Una collana 'Documenta Q' sotto la direzione di J.M. Robinson, P. Hoffmann, J.S. Kloppenborg, è stata inaugurata con il volume di S. Carruth e A. Garsky, Q ll:2b-4, Peeters, Leuven 1996.
LA RACCOLTA DELLE PAROLE DI GESÙ: FONTE Q
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Essa comprende tutto quel materiale (di circa 230 versetti), che è comune a Mt-Lc ma che manca in Me.
2.1 Esistenza, estensione e origine di Q Nonostante qualche tentativo in contrario 61 , oggi la quasi totalità degli studiosi ritiene che una forma di Q sia esistita prima della redazione dei Vangeli. I motivi a favore sono di vario genere e traggono forza dalla loro cumulazione 62 . 2.1.1 Mt e Le hanno in comune una serie di passi, il cui tenore verbale concorda strettamente: vedi per esempio la pericope delle tentazioni nel deserto (Mt 4,1-11/Lc 4,1-13); ma cf. anche Mt 3,7-12/Lc 3,7-9.16-17 (predicazione del Battista); Mt 11,2-11.16-19/Lc 7,18-28.31-35 (legazione del Battista e loghion sui bambini capricciosi); Mt 23,37-39/Lc 13,34-35 (lamento su Gerusalemme); la spiegazione più probabile è che entrambi abbiano usato una fonte comune. D'altra parte si constata che essi divergono in altro materiale comune (come la similitudine dell'uomo che costruisce la casa sulla roccia: Mt 7,21.24-27/Lc 6,46-49; e la parabola dei talenti: Mt 25,14-30/Lc 19,11-27): perché dunque concordano su alcune tradizioni ma ne hanno rivisto delle altre? La risposta è che essi abbiano utilizzato Q in stadi diversi della sua edizione. 2.1.2 Anche l'ordine della successione, in cui si trovano collocate in Mt/Lc le tradizioni non-marciane, depone a favore di una fonte comune, non potendo il fatto essere puramente casuale. Questa infatti è la situazione di almeno una parte della fonte nei due evangelisti: Mt 3,7-9/Lc 3,7-9 (predicazione penitenziale del Battista); Mt 3,11-12/Lc 3,16-17 (predicazione messianica del Battista); Mt 4,1-11/Lc 4,1-13 (tentazioni di Gesù); Mt 5,3.6/Lc 6,20b-21 (le beatitudini dei poveri e degli affamati di giustizia); Mt 5,11-12/Lc 6,22-23 (beatitudine della persecuzione e invito a gioire per la ricompensa); Mt 39b-42/Lc 6,29-30 ("chi ti percuote sulla guancia,... chi ti toglie il mantello,... a chi ti chiede, 61 Cf. M.D. Goulder, On putting Q to the Test, NTS 24 (1978) 218-234; Id., Is Qa Juggernaut?, JBL 115 (1996) 667-681 (sarebbe Le a dipendere da Mt); E. Linnemann, Is There a Gospel ofQ?, BibRev 11 (1995) 18-23 e 42-43 (le differenze tra i vangeli si spiegherebbero solo in base alle reminiscenze dei testimoni oculari! Analogamente Ead., The Gospel ofQ- Fact orFantasy?, TrinJourn 17 [1996] 3-18); E. Powell, The Myth ofthe Lost Gospel. A layman's letter to the Jesus Seminar, Symposium Books, Westlake Village CA 1995 (riproposizione dell'ipotesi Griesbach). 62 Cf. C.M. Tuckett, The Existence of Q, in R.A. Piper, The Gospel Behind the Gospels, pp. 19-47 (leggermente ampliato in Q and the History of Early Christianity, pp. 1-39); G. Stanton, Gospel Truth? New Light on Jesus and the Gospels, London 1995, pp. 63-76; V. Fusco, Le prime comunità cristiane, pp. 123-151. Vedi 2anche B. Corsani, Introduzione al Nuovo Testamento, 1. Vangeli e Atti, Torino 1991, pp. 157-167.
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dà"); Mt 5,44-47/Lc 6,32-35 (l'amore per i nemici); Mt 5,48/Lc 6,36 {loghion sull'imitazione di Dio perfetto/misericordioso); Mt 7,1-2/Lc 6,37-38 ("non giudicate..."); Mt 7,3-5/Lc 6,41-42 (la pagliuzza e la trave); Mt 7,16-18/Lc 6,43-44 (dal frutto si conosce l'albero); Mt 7,21/Lc 6,46 ("non chi mi dice: Signore, Signore..."); Mt 7,24-27/Lc 6,47-49 (la casa sulla roccia); Mt 8,5-13/Le 7,1-10 (guarigione del servo del centurione); Mt 11,2-6/Lc 7,18-23 (legazione del Battista); Mt 11,7-11/Le 7,24-28 (testimonianza di Gesù sul Battista); Mt 11,16-19/Lc 7,31-35 (similitudine dei bambini capricciosi). La parallela regolarità della successione fa pensare a un modello unico, a cui si attinge ordinatamente. 2.1.3 Un detto comune ai tre Sinottici (per es. "Chi ha gli sarà dat o . . . " : Mc4,25/Mt 13,12/Lc8,18 [con anacoluto]) si trova a volte raddoppiato in una forma non-marciana nei soli Mt/Lc (così: Mt 25,29/Lc 19,26: "A chiunque ha sarà dato..." [senza anacoluto]) 63 . Questo tipo di doppioni suppone un'altra fonte oltre Me. 2.1.4 L'ipotesi contraria, che sostiene una dipendenza di Le da Mt (annullando così l'esistenza di Q a favore del solo Mt) 64 è insostenibile. Infatti: (1) se Le utilizzasse Mt, bisognerebbe dire che ne ha snaturato l'impostazione, poiché egli, visto che non organizza le parole di Gesù in grandi unità didattiche ma le colloca in contesti narrativi diversificati, avrebbe spezzato e sparpagliato i cinque discorsi matteani in tanti piccoli frammenti, snaturandone l'impostazione originaria (per esempio Mt 10 si trova sparso in non meno di sette capitoli lucani); (2) se Le utilizzasse Mt, ci aspetteremmo di trovare in lui anche qualche allargamento di quelli che Mt ha operato nei confronti di Me (per esempio le parole sul primato di Pietro a Cesarea di Filippo in Mt 16,17-19), ma ciò non avviene: dove Mt e Me hanno la stessa tradizione, Le opta per la versione di Me e ignora quella di Mt; (3) se Le utilizzasse Mt, dato che nella formulazione delle parole di Gesù ci sono immancabilmente delle variazioni, bisognerebbe sostenere che è stato sempre lui a cambiare la primitiva forma matteana della tradizione, mentre dobbiamo supporre che anche Mt lo abbia fatto. La conclusione migliore, perciò, è che entrambi Mt e Le dipendano ciascuno per conto proprio da una fonte comune, utilizzata in vario modo da ciascuno dei due. 2.1.5 La verosimiglianza storica di un documento che concentrasse l'attenzione solo sulle parole di Gesù, senza narrazioni, è confermata dalla scoperta del "Vangelo di Tommaso" (rinvenuto tra i manoscritti copti di Nag Hammadi nel 1945); esso è solo una raccolta di 114 detti
63 Cf. anche il detto "Chi mi vuole seguire rinneghi se stesso..." (Me 8,34s/Mt 16,24s/Lc 9,23s): esso si ritrova in Mt 10,38s/Lc 14,27 + 17,33.
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di Gesù, e quindi, pur essendo questi di tipo gnostico, con esso può reggere il confronto anche una pur ipotetica Q 65 . Il materiale di Q si estende dalla predicazione del Battista (Le 3,7-9.15-18/Mt 3,7-12) fino alla promessa rivolta ai Dodici di sedere su 12 troni per giudicare le 12 tribù d'Israele, pronunciato forse nel contesto dell'ultima cena (Le 22,29-30/Mt 19,28). Pertanto Q manifesta disinteresse non solo per i racconti di miracolo (unica eccezione è la guarigione del servo del centurione), ma anche sorprendentemente per il racconto della Passione. Quanto all'ordine del materiale e al suo tenore più originale, si tende ormai a privilegiare la versione di Le per vari motivi, di tipo sia contestuale sia linguistico66. La situazione socio-ecclesiale presupposta da Q è sostanzialmente quella di una comunità giudeo-cristiana, che mantiene la validità della Legge (cf. Le 16,17/Mt 5,18), è povera soprattutto per scelta volontaria (cf. Le 9,57-60/Mt 8,18-22; Le 9,3-4 e 10,4/Mt 10,9-11), ed è impegnata in una predicazione itinerante; questa poi è probabilmente limitata a Israele, verso cui ci si rivolge con forti accenti polemici: il rifiuto dei predicatori è modellato secondo uno schema deuteronomistico, secondo cui Dio manda i suoi profeti a Israele per richiamarlo alla conversione, ma la risposta è negativa e i profeti soffrono rifiuto e violenza (cf. Le 11,39-52/Mt 23,23-25.6.27-28.4.29-36.13)67. Però il fatto che ci sia una disponibilità all'ingresso dei Gentili (cf. Le 13,28-30/Mt 8,11-12.16) può significare che Q fu composta in un tempo in cui la controversia sulla Legge non era ancora emersa. Tutto ciò ci riporta a un originario Sitz im Leben, che non può essere altro che quello palestinese dei primi anni dopo la morte di Gesù 68 . Tuttavia, anche se è possi65 Ci si potrebbe anche richiamare a Paolo, il quale (almeno stando a ICor 7,10: "Ai coniugati ordino non io ma il Signore"; 7,25: "Quanto alle vergini non ho un comando dal Signore") dà a intendere di conoscere tutte le parole di Gesù, anche se non possiamo pretendere che egli conoscesse Q. Per un'ampia documentazione sui possibili paralleli formali di Q, cf. J.S. Kloppenborg, The Formation of Q, pp. 262-316 ("Q and Ancient Sayings Collections": si va dalle antiche Istruzioni egiziane fino al Demonatte di Luciano). 66 Cf. V. Taylor, The Originai Order ofQ, in H.J. Higgins, ed., New Testament Essays in Memory of T. W. Manson, Manchester 1959, pp. 246-269. Vedi anche le Sinossi di Q, redatte da A. Polag, Fragmenta Q. Textheft zur Logienquelle, Neukirchen-Vluyn 1979; W. Schenk, SynopsezurRedenquellederEvangelien, Dusseldorf 1981; e soprattutto J.S. Kloppenborg, QParallels. Synopsis, Criticai Notes, and Concordance, Sonoma CA 1988; F. Neirynck, Q-Synopsis. The Doublé Tradition Passages in Greek, Leuven 1988,21995. Ci sono anche commenti a Q: cf. T.W. Manson, I 2detti di Gesù nei vangeli di Matteo e di Luca, Brescia 1980 (orig. ingl., London 1949, 1971); D. Zeller, Kommentar zur Logienquelle, Stuttgart 1984. 67 Cf. soprattutto O.H. Steck, Israel und das gawaltsame Geschick der Propheten,68Neukirchen-Vluyn 1967; A.D. Jacobson, The First Gospel, specie pp. 253-255. Un'ambientazione in Galilea è sostenuta da J.S. Kloppenborg, Literary Convention. Self-Evidence and the Social History of the Q People, Semeia 55 (1991)
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LA CHIESA GIUDEO-CRISTIANA DI GERUSALEMME
bile che si debba calcolare con l'ipotesi di strati redazionali diversi 6 9 , ciò non p u ò comunque comportare una eccessiva dissomiglianza cristologica con la fonte M e 7 0 .
2.2 La
cristologia
La cristologia di Q è un dato complesso. Possiamo farcene anticipatamente un'idea anche solo sulla base di un semplice status quaestionis della storia della ricerca. L'affermarsi di un interesse cristologico per la fonte Q è un fatto piuttosto recente: infatti risale soltanto al 195971. Prima di allora, poiché nella fonte è assente ogni interesse per la morterisurrezione di Gesù, da considerarsi come il cuore del kerygma e quindi dell'evangelo, Q era vista solo connotata da istruzioni di tipo etico e quindi aliena da ogni dimensione propriamente «evangelica»72. Tòdt parla invece di due ambiti della tradizione, uno incentrato sulla Passione e l'altro sui detti di Gesù: questo secondo ambito sarebbe in realtà il più antico, e in esso avrebbe preso forma la prima cristologia, che l'Autore vede essenzialmente imperniata sulla figura escatologica del Figlio dell'uomo, che la comu77-102; Id., The Sayings Gospel Q: Recent Opinion on the People behind the Document, Currents in Research: Biblical Studies 1 (1993) 9-34. Pensa invece a Galilea e Siria H.O. Guenther, The Sayings Gospel Q and the Aramaic Sources: Rethinking Christian Origins, Semeia 55 (1991) 41-76. Quanto al suo autore, M. Hengel, Aufgabe der neutestamentlichen Wissenschaft, NTS 40 (1994) 321-357, ritiene che si tratti soltanto della "testa di un teologo pensante, discepolo di Gesù" (p 336 nota 45)! 69 Infatti, oltre all'ipotesi di una sola mano redazionale sia pur su tradizioni diverse (D. Lùhrmann, 1969), c'è chi ne ipotizza due (S. Schulz, 1972) o tre (soprattutto A. Polag, 1977; D. Zeller, 1982; J.S. Kloppenborg, 1987; e B. L. Mack, 1993) o anche più (cf. F.W. Horn, 1991; A.D. Jacobson, 1992). Lasciamo da parte altri problemi concernenti, per esempio, la lingua originale del documento (probabilmente Lc/Mt lo utilizzano già in greco) e la sua forma orale o scritta (forse la seconda), per i quali cf. J.S. Kloppenborg, The Formation of Q, pp. 41-88. 70 Questa istanza è fortemente rivendicata da E.P. Meadors, Jesus the Messianic Herald of Salvation, Tùbingen 1995, che giunge anche a negare l'esistenza di strati diversi in Q e ad affermare comunque la sua vicinanza al Gesù terreno. La dipendenza di Me da Q è affermata da H.T. Fleddermann, Mark and Q. A Study ofthe Overlap Texts, BETL 122, Leuven 1995. 71 Di quell'anno infatti è l'importante volume di H.E. Tòdt, Der Menschensohn in der synoptischen Uberlieferung, Gùtersloh 1959; noi ci riferiamo all'edizione inglese: TheSon ofMan in thesynoptic Tradition, Westminster, Philadelphia 1965. 72 Cf. per esempio T.W. Manson, I detti di Gesù, p. 232: "L'opera non rispecchia il vangelo predicato nella chiesa primitiva, ma un supplemento al vangelo"; cf. p. 11: "L'insegnamento di Gesù era singolarmente atto a preparare la via al vangelo".
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nità di Q avrebbe identificato con Gesù. Questa comunità riprese la predicazione gesuana in proposito e la considerò ancora valida per annunciare Gesù, nonostante la sua morte. "Secondo questa comunità, la passione e la risurrezione non erano ciò che andava predicato, ma ciò che fondava la possibilità di predicare" 73 . La conclusione minimale è che Q va considerata un vero « vangelo » e non solo un complemento secondario ad esso. Su questa base si sono sviluppati sostanzialmente due modi di considerare il genere letterario di Q, che hanno delle inevitabili ricadute sulla sua cristologia. Secondo alcuni, Q sarebbe un'opera di genere profetico, e il Gesù che ne emerge è appunto una figura di profeta impegnato nel rinnovamento del popolo di Israele74. Sulla base di questa prospettiva viene sviluppata soprattutto la dimensione escatologica della predicazione di Gesù secondo Q, ricuperando le componenti cristologiche sia di inviato da Dio, sia di ammonitore di Israele, sia anche della qualifica di Figlio dell'uomo. Secondo altri, Q sarebbe invece una composizione di tipo sapienziale. Messa in luce già da alcuni studi del passato (fin dagli anni '20), ma senza una vera valorizzazione cristologica, questa prospettiva è stata ripresa e sottolineata soprattutto da alcuni Autori recenti. Ma la dimensione sapienziale di Q viene vista a un doppio livello: sia come prosecuzione della tradizione didattica dei saggi d'Israele, specialmente intesa come critica delle ricchezze, dell'arroganza, e dell'ipocrisia, e qui sarebbe presente però un modello di tipo cinico75, sia 73
H.E. Tòdt, The Son of Man, p. 250. Cf. soprattutto M. Sato, Q und Prophetie. Studien zur Gattungs- und Traditionsgeschichte der Quelle, Tùbingen 1987 (vedine la discussione a opera di J.M. Robinson, in EvTh 53 [1993] 367-389); R.A. Horsley, Q and Jesus: Assumptions, Approaches, and Analyses, Semeia 55 (1991) 175-209; e C.M. Tuckett, Q and the History, pp. 139-163, 209-237, 325-354. 75 Cf. J.M. Robinson, Logoi sophon: On the Gattung of Q, in H. Koester & J.M. Robinson, Trajectories Through Early Christianity, Philadelphia 1971, pp. 71-113; F.G. Downing, Quite Like Q. A Genrefor 'Q': The Lives of Cynic Philosophers, Bib 69 (1988) 196-224; Id., A Genrefor Q and a Socio-Cultural Context for Q: Comparing Sets of Similarities with Sets of Differences, JSNT 55 (1994) 3-26; H. Koester, Ancient Christian Gospels. Their History and Development, LondonPhiladelphia 1990, pp. 149-162; B.L. Mack, The Lost Gospel, p. 245; L.E. Vaage, Q and Cynicism: On Comparison and Social Identity, in R.A. Piper, ed., The Gospel Behind the Gospels, pp. 195-229 (questo saggio è una risposta alla critica di C.M. Tuckett, A Cynic Q?, Bib 70 [1989] 349-376). Anche secondo J.S. Kloppenborg, The Formation ofQ, pp. 244-245, "una collezione di discorsi e ammonizioni sapienziali costituì il dato iniziale nella formazione di Q, mentre gli oracoli di giudizio profetico e gli apoftegmi sul conflitto di Gesù con 'questa generazione' sono secondari"; l'A. però precisa che questo suo giudizio è di tipo letterario, non 74
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minare e orientare la vita presente del discepolo in questo mondo con i suoi annunci e con le sue istruzioni, nell'attesa dei tempi ultimi. Non ciò che ha fatto, ma ciò che ha detto è perennemente valido; infatti chi ascolta le sue parole è simile a chi edifica la propria casa sulla roccia, pronta a sfidare ogni avversità (cf. Le 6,47-49/Mt 7,24-27). Cosicché il suo insegnamento, di cui sono portatori i suoi discepoli, è visto non tanto come un fatto del passato quanto come un valore continuo per il presente; e un loghion come quello di Le 10,16/Mt 10,40 lo rivela chiaramente: "Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me". 2.2.2 La passione-morte di Gesù. Questo argomento pone un problema, poiché esso è assente non solo come racconto, ma anche come enunciazione di una prospettiva futura nei termini della triplice predizione sinottica. In passato, come abbiamo già accennato, questo fatto portava a concludere che Q non sarebbe un vero vangelo poiché ignorerebbe il dato del mistero pasquale, che è fondamentale per la fede cristiana. Oggi però le cose vengono viste in un modo un po' diverso. Il punto di partenza è la constatazione che in Q c'è una serie di testi, i quali considerano Gesù come un profeta rifiutato dal suo popolo ed esposto a una fine violenta; ne diamo qui un elenco: - la similitudine dei bambini insensibili ai suoni di lamento o di gioia (Le 7,31-35/Mt 11,16-19); - condanna delle città di Galilea, che non hanno accolto il messaggio di Gesù (Le 10,13-15/Mt 11,21-23); - "chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato" (Le 10,16b/Mt 10,40b); - la sorte tragica dei profeti e dei giusti, da Abele a Zaccaria (Le 11,47-51/Mt 23,29-36); - Gesù come causa di divisione, non di pace (Le 12,51-53/Mt 10,34-36); - la non conoscenza dei segni del tempo (Le 12,54-56/Mt 16,2-3); - il lamento su Gerusalemme, che uccide i profeti e lapida gli inviati (Le 13,34-35/Mt 23,37-39);
anche come ripresa della figura della Sapienza personificata e rigettata dagli uomini 76 . Qui di seguito esamineremo questi due aspetti cristologici, a prescindere dalla questione della loro eventuale rispettiva priorità redazionale77. Vi premettiamo però due altre considerazioni di carattere fondamentale 78 . 2.2.1 // Gesù di Q è l'uomo della parola. Le narrazioni sono ridotte a poca cosa (tentazioni nel deserto, guarigione del servo del centurione); prevalgono invece i detti, anche se Q ce ne dà solo una raccolta antologica, che comunque è fortemente significativa79. Gesù quindi è tramandato come colui che ha sempre qualcosa di importante da dire alla sua comunità, sia come maestro sia come profeta. In effetti Q rivela il culto della parola di Gesù; e questa è presentata secondo vari risvolti: da una parte, essa proietta la comunità verso immancabili orizzonti escatologici (cf. Le 12,8-9/Mt 10,32-33), e contemporaneamente ne configura la vita al suo interno (cf. Le 17,3-4/Mt 18,15.21-22), mentre la conforta anche di fronte agli oppositori (cf. Le 6,22-23/Mt 5,11-12). Certo è che Q non presenta Gesù come un taumaturgo potente in cui confidare nei momenti di bisogno80. Egli non è neanche visto come salvatore, cioè come colui che è morto per i peccati degli uomini, poiché loghia di questo tipo mancano 81 . Egli è piuttosto colui che può illutradizionale (cioè riguarda la messa per iscritto del materiale, non l'inizio della sua trasmissione orale). 76 Cf. soprattutto F. Christ, Jesus Sophia. Die Sophia-Christologie bei den Synoptikern, Zùrich 1970. 77 Anzi, "la versione originale di Q deve aver incluso detti sapienziali tanto quanto anche detti escatologici. Non si può dimostrare che all'origine Q presentasse Gesù soltanto come maestro di sapienza senza alcun messaggio escatologico" (H. Koester, Ancient Christian Gospels, p. 150). 78 Tralasciamo perciò l'impostazione 'evoluzionistica' di A. Polag, Die Cristologie der Logienquelle, Neukirchen-Vluyn 1977, che distingue piuttosto gratuitamente una "Primàrtradition" (dove Gesù è considerato nella sua funzione profetica di ultimo intervento salvifico di Dio; solo questo stadio ci darebbe l'autentica pretesa di Gesù), una "Hauptsammlung" (qui confluiscono elementi sapienziali e apocalittici, in cui la comunità riconosce Gesù come propria guida e salvatore), e una "spàte Redaktion" (quando la riflessione cristologica sviluppa l'idea del rapporto filiale di Gesù con Dio). 79 Una opportuna distinzione tra logia (pronunciamenti conservati dal passato) e logoi (parole in cui è presente Gesù vivente), in favore di questa seconda designazione, è proposta da D. Lùhrmann, Q: Sayings of Jesus or Logia?, in R.A. Piper, ed., The Gospel Behind the Gospels, pp. 97-116. 80 L'episodio della guarigione del servo del centurione (Le 7,1-10/Mt 8,5-13) è conservato soprattutto per l'atteggiamento di grande fede dimostrato dal centurione stesso. 81 Anche la parabola della pecorella smarrita (Le 15,4-7/Mt 18,12-14) in realtà non ha una vera dimensione soteriologica su base cristologica, poiché il responsa-
bile delle pecore non è neanche qualificato come "pastore" ma solo come "un uom o " (cf. S. Schulz, Q, p. 389: "Chiunque farebbe così"!), rivelando di fatto una preoccupazione che è piuttosto ecclesiologica o comunque di ricerca del peccatore e di invito alla conversione; la dimensione cristologica è presente soltanto in Le, dato che qui il contesto (cf. Le 15,1-2) fa riferimento alla commensalità di Gesù con i peccatori: ma si tratta di un 'cappello' redazionale dell'evangelista (cf. J. Dupont, La parabole de la brebis perdue, in Id., Études sur les évangiles synoptiques, II, Leuven 1985, p. 628 e nota 8).
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- il discepolo che non prende la sua croce non è degno di Gesù (Le 14,27/Mt 10,38: unica presenza del termine "croce" in Q; formulazione negativa rispetto a Mt 16,24/Mc 8,34/Lc 9,23). Lo studio di Steck del 1967 ha qualificato questo stato di cose come schema deuteronomistico. Secondo questo schema la storia di Israele è dipinta come una sequenza di disobbedienze; di fronte ad esse sta la pazienza di Dio, che si dimostra instancabile nell'invio di profeti con lo scopo di ammonire il popolo e invitarlo a ritornare al Signore; ma la risposta è negativa, e gli inviati vengono rigettati e persino uccisi; solo allora segue una manifestazione storica dell'ira di Dio (cf. per esempio 2Re 17,13-20; Ne 9,26-32)82. Questa prospettiva induce a vedere il livello cristologico di Q in modo assai diverso. Anche Gesù (analogamente pure Giovanni) di fatto è visto come parte di una serie di profeti inviati da Dio per chiamare Israele alla conversione, ma è destinato a scontrarsi con il rifiuto del popolo. Proprio questo tema può e deve essere considerato come un modo indiretto di spiegare la morte di Gesù. Questa però non può essere considerata semplicemente come la sorte di un martire o di un profeta come tutti gli altri; infatti, se Q presenta Gesù come Figlio di Dio nelle tentazioni, se lo qualifica come Figlio dell'uomo, e se ritiene che egli si rapporti a Dio come al proprio Padre, la sua morte non può essere omologata al destino tipico di qualunque altro profeta83. In ogni caso Q ha una propria interpretazione di questa morte, e, anche se essa non è di conio prettamente cristiano ma piuttosto giudaico, permette però di inquadrare la sorte tragica di Gesù in uno specifico piano divino di salvezza (offerta e rifiutata). Pure in Q, dunque, a parte il fatto dell'impossibilità che un qualunque discepolo di Gesù ignorasse la sua morte, questa è comunque presupposta come fondamento della fede84.
82 Cf. O.H. Steck, Israel und das gewaltsame Geschick der Propheten, pp. 26-58, 222-239; e A.D. Jacobson, The First Gospel, pp. 72-76. Vedine le correzioni in E.P. Meadors, Jesus the Messianic Herald of Salvation, pp. 296-307. 83 Cf. E.P. Meadors, Jesus the Messianic Herald of Salvation, p. 303; secondo questo Autore, la tradizione deuteronomistica non è comunque esclusiva di Q, poiché è attestata anche in Me 12,1-11 (parabola dei vignaioli omicidi) (cf. ib., pp. 307-309). 84 Lo ammette persino un bultmanniano come H. Conzelmann, Teologia del Nuovo Testamento, Brescia 1991 (orig. ted., Tùbingen 41987), p. 187. Quanto all'assenza del kerygma della risurrezione (che secondo P. Hoffmann, Studien zur Theologie der Logienquelle, pp. 139-142, sarebbe però presente nel loghion sull'apocalisse del Figlio [Le 10,21s/Mt 11,25-27]), cf. J.S. Kloppenborg, Easter Faith' and the Sayings Gospel Q, Semeia 49 (1990) 71-99, che lo vede sostituito dalla identificazione funzionale di Gesù con la Sapienza.
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2.2.3 La dimensione sapienziale della cristologia di Q. La figura di Gesù viene ripensata da Q sotto un duplice profilo di tipo sapienziale. 2.2.3.1 In primo luogo, egli appare come un saggio che propone e richiede ai suoi discepoli un comportamento etico particolare 85 . Già il discorso inaugurale (Le 6,20-49)86 appare sostanzialmente un discorso sapienziale, a prescindere dalle Beatitudini che in più implicano una evidente componente di ordine escatologico (cf. Le 6,20-26/Mt 5,2-12)87. Infatti, sapienziali sono le lunghe istruzioni che riguardano l'amore per i nemici (Le 6,27-36/), compresa la cosiddetta «regola aurea» (Le 6,31/Mt 7,12), e poi l'invito a non giudicare (Le 6,37-42/, con il mashal sulla pagliuzza e la trave), e infine la similitudine sull'albero buono e l'albero cattivo (Le 6,43-45/) e quella sulla casa costruita sulla roccia o sulla sabbia (Le 6,46-49/). Vi si possono aggiungere: il passo con le tre richieste di seguire Gesù e gli altrettanti meshalim molto incisivi pronunciati da lui (Le 9,57-62/Mt 8,18-22), le istruzioni sull'ascetismo dei predicatori (Le 10,2-16/Mt 9,37-38; 10,16.9-13.8.7.14-15) e quelle sulla preghiera efficace (Le 11,9-13/Mt 7,7-11), le esortazioni a temere solo Dio e non chi può uccidere il corpo (Le 12,2-7/Mt 10,26-31) e quelle all'abbandono alla Provvidenza (Le 12,22-34/Mt 6,19-21.25-34). In tutti questi passi Gesù appare come il maestro e la guida della sua comunità, per la quale traccia le linee di uno specifico com85 Cf. in specie R.A. Piper, Wisdom in the Q-Tradition. The Aphoristic Teaching of Jesus, SNTS MS 61, Cambridge 1989; l'Autore distingue cinque raccolte fondamentali: Le ll,9-13/(sulla preghiera efficace); 12,22-31/(abbandono alla Provvidenza); 6,37-42/(l'invito a non giudicare); 6,43-45/(il frutto si conosce dall'albero); 12,2-9/(esortazione a temere Dio e non chi uccide il corpo); ad esse si aggiungerebbero poi Le 6,27-36/Mt 5,44-48; Le 16,1-13, e aforismi sparsi fuori collezione (Le 6,40/Mt 10,25a; Le 10,2/Mt 9,37-38; Le 10,7b/Mt 10,10b), di cui alcuni in annunci escatologici (Le 17,37b/Mt 24,28; Le 3,9b/Mt 3,10b; Le 19,26/Mt 25,29). 86 II parallelo con Mt rivela che questo evangelista ha sparpagliato il materiale in oggetto in diversi luoghi della sua composizione; infatti a Le 6,20-49 corrispondono i seguenti passi: Mt 5,2-12.38-42; 7,12; 5,46-48; 15,14; 10,24-25; 7,35.18.16; 12,34-35; 7,21-27. Secondo H.D. Betz, TheSermon on theMount. A Commentary on the Sermon on the Mount including the Sermon on the Plain (Matthew 5,3 7,27 and Luke 6,20-49), Minneapolis 1995, p. 88, si tratta di "due epitomi create dal primitivo movimento di Gesù: uno (il discorso della montagna) per istruire i convertiti dal giudaismo, e l'altro (il discorso del piano) per istruire quelli provenienti da un ambito greco". 87 L'interconnessione è particolarmente evidente nel tema della persecuzione (che in Mt 5,10 diventa argomento di una specifica beatitudine); esso infatti è caratteristico sia della tradizione sapienziale (cf. Sap 2,12, e persino il Socrate di Platone, Respubl. 361e-362a) sia di quella profetica (cf. lEn 95,7, e l'apocrifo Vitae prophetarum).
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portamento etico: la "regola aurea" è forse il testo che, sia pur con un principio generale, maggiormente esprime la necessità di un concreto atteggiamento reciproco di rispetto e nello stesso tempo più riecheggia un patrimonio sapienziale assai diffuso88. La richiesta del pane quotidiano, insieme a quella della venuta del Regno come realtà egualitaria, ha persino indotto a pensare a Gesù in termini di teologia della liberazione89. Va però osservato che, se da una parte tutti questi concetti si radicano nella tradizione dell'insegnamento sapienziale, dall'altra se ne staccano per due motivi: perché le esigenze etiche sono molto più radicali e perché i destinatari di questo insegnamento non sono dei semplici individui ma formano una comunità in cui è già presente il regno di Dio. "Il comportamento che Gesù richiede è una dimostrazione della presenza del regno, cioè di una società governata da nuovi principi etici. Ciò non solo attribuisce una dimensione kerygmatica alle domande etiche di Gesù, ma presenta Gesù stesso come un profeta più che come un maestro di sapienza" 90 . Nello stesso momento in cui Q dimostra di essere in debito verso la tradizione sapienziale, appare però qualcosa che la eccede. 2.2.3.2 In secondo luogo, vediamo operarsi in Q una originale associazione tra Gesù e la Sapienza personificata, che tende a esprimere una cristologia comunque interessante. I testi in questione sono quattro: - il detto sulla giustificazione della Sapienza, al termine della risposta di Gesù ai messi del Battista ("ma la Sapienza è stata giustificata da tutti i suoi figli": Le 7,31-35/Mt 11,16-19): come la Sapienza (cf. Pr 4,lss), Gesù viene rifiutato dalla massa ma accolto dai suoi "figli"; il testo sembra associare a Gesù anche il Battista, ma a quest'ultimo si può riferire Sap 7,27 secondo cui la sapienza "forma amici di Dio e profeti"; - il grido di giubilo (Le 10,21-22/Mt 11,25-27): anche se qui è rintracciabile qualche elemento di tipo apocalittico ("hai rivelato queste cose"), il parallelo con la tradizione sapienziale è comunque evidente nel tema dell'apertura ai semplici e agli stolti (cf. Pr 1,22; 8,5; 9,4; Sir 51,23; Sai 19,8; HQPsal54: 18,3-8); è invece 88 Cf. A. Dihle, Die Goldene Regel, SAW 7, Gòttingen 1962; Id., art. Goldene Regel, in RAC 11, coli. 930-940. 89 Cf. J.M. Robinson, The Jesus of Q as Liberation Theologian, in R.A. Piper, ed., The Gospel Behind the Gospels, pp. 259-274 (vi si analizzano anche Le 10,6; 11,9; 12,22-31; 13,25-29/). 90 H. Koester, Ancient Christian Gospels, p. 160.
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senza confronti il tema polemico della chiusura ai saggi e agli intelligenti (cf. comunque Is 5,21; 29,14; Ger 9,22), anche se lo si potrebbe far rientrare in quello del rifiuto della sapienza; - la Sapienza invia i suoi messaggeri (Le 11,49-51/Mt 23,34-36): anche se questo tema non è chiaramente documentabile in ambito sapienziale (cf. però Pr l,20ss; 8,lss; e soprattutto 2Cr 36,16; Ne 9,26), è chiara tuttavia la dimensione divina della Sapienza (cf. Pr 8,22ss); la portata cristologica del loghion viene esplicitata dalla versione di Mt, che invece di "la Sapienza" legge " i o " (detto da Gesù); - l'apostrofe rivolta a Gerusalemme (Le 13,34-35/Mt 23,37-39): sullo sfondo di questo rimprovero si intravede il tema della Sapienza che abita nella città santa (cf. Sir 24,10-12), che ha tratti materni (cf. Sir 15,2), e che come Legge di vita si occupa del benessere di Israele, il quale viene ammonito a seguirla (cf. Pr 1,32-33; Sir 24,22; Bar 4,1). Il problema è di sapere se questi testi implichino una equazione diretta tra Gesù e la Sapienza oppure se Gesù venga semplicemente inteso come inviato della Sapienza e quindi solo come suo rappresentante 91 ; in ogni caso, la negazione della stessa esistenza di una vera cristologia sapienziale in Q mi sembra insostenibile92. 91 Nel primo senso va lo studio di F. Christ, Jesus Sophia, mentre la seconda possibilità fa parte del consenso comune tra gli studiosi (a partire da S. Schulz, 1972; fino a C.M. Tuckett, 1996); da parte sua J.S. Kloppenborg, Wisdom Christology in Q, Lavai Théologique et Philosophique 34 (1978) 129-147, sostiene che la dimensione sapienziale di Q non ci riporta al Gesù terreno ma esprime soltanto l'autocomprensione della comunità, i cui membri si considerano come i veri sapienti. Una continuità tra le due fasi pur diverse è comunque sostenuta da S. Vollenweider, Christus als Weisheit. Gedanken zu einer bedeutsamen Weichenstellung in der frùhchristlichen Theologiegeschichte, EvTh 53 (1993) 290-310. 92 Contro E.P. Meadors, Jesus the Messianic Herald of Salvation, pp. 40-71. Secondo questo Autore, il linguaggio sapienziale di Q sarebbe sulla linea di quella tradizione giudaica, in cui esso è collegato o con la sovranità di Dio sulla storia (Dio conduce il saggio Giuseppe al successo; nell'esodo si dimostra superiore alla sapienza umana; e nella sapienza di Daniele manifesta la propria superiorità sulle vicende terrene) o con la persona del re (cf. Davide, Salomone, Ezechia) o con il tema del regno di Dio (cf. Pr 8,14-16 ecc.) o con la figura del Messia (cf. Is 11,2; Ps.Sal. 18,8; lEn 49,2b.3a; 51,3); pertanto, i passi sapienziali di Q non farebbero che rivelare il potere e l'autorità di Gesù nella sua unica relazione con Dio e vanno spiegati sulla falsariga di una semplice caratterizzazione messianica (come sostituzione della qualifica di "Cristo", che appunto in Q manca). A parte il fatto che Meadors dà semplicemente un'etichetta diversa a un linguaggio riconosciuto comunque come sapienziale, egli in tutta la sua opera è preoccupato di dimostrare che la teologia di Q sostanzialmente non ha nulla di originale e quindi non si distingue da quella di Me e dei Sinottici in generale e come quelli non fa che ricondurci al Gesù terreno. Certo è che anche Me conosce il tema del rifiuto degli inviati di Dio (cf. Me 12,1-12), ma esso è trattato in una prospettiva deuteronomistica e non sapienziale.
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Certo non è di tipo sapienziale l'affermazione che la Sapienza invia dei suoi messaggeri, poiché secondo la tradizione giudaica è piuttosto essa stessa ad essere inviata. Ma va osservato che il tema del rifiuto di Gesù non è riconducibile soltanto allo schema deuteronomistico, di cui si è detto sopra, poiché fa parte integrante anche della tradizione sapienziale (cf. Pr 1,20-32: "La Sapienza grida per le strade... Vi ho chiamato e avete rifiutato..."), sicché esso si trova alla confluenza dei due modelli. Da questo punto di vista, occorre riconoscere che in primo piano sta certo la presentazione di Gesù come inviato, ma che in secondo piano si intravede pure una sua qualche stretta associazione personale, non sviluppata, con la stessa Sapienza personificata93. 2.2.4 La dimensione profetico-escatologica della cristologia di Q è molto ben visibile. Per quanto Q si possa globalmente determinare in base alla letteratura sapienziale, ciò non potrà mai spiegare la presenza dei temi del Regno di Dio e del Figlio dell'uomo, dato che essi non appartengono a questo genere. E si tratta degli argomenti più trattati in Q. Il punto di riferimento in questo caso potrebbe essere piuttosto il libro di Daniele, nel quale la dimensione sapienziale si fonde insieme a quelle della profezia, del Figlio dell'uomo, dell'escatologia e del linguaggio apocalittico 94 . 2.2.4.1 La caratterizzazione profetica di Gesù appare non dall'attribuzione a lui del titolo di "profeta", che di fatto manca, ma da altre proprietà 95 . A parte la sua chiamata durante il battesimo nel Giordano (a cui si può allacciare il loghion sulla esclusiva conoscenza del Padre: cf. Le 10,22/Mt 11,27), rileviamo in particolare la sua reazione all'atteggiamento di ostinazione dimostrato dalla maggioranza del popolo d'Israele del suo tempo. È eloquente in-
93 Cf. in particolare B. Witherington III, Jesus the Sage. The Pilgrimage of Wisdom, Edinburgh 1994, pp. 147- 208 ("Wisdom in Person: Jesus the Sage")- Vedi anche M. de Jonge, Christology in Context, pp. 79-84, specie 73-76; qui l'A. mette in luce le differenze tra Gesù e Giovanni: pur essendo entrambi visti come inviati di Dio, tuttavia come si legge in Le 16,16/Mt 11,12, la Legge e i Profeti (cioè l'Antico Testamento) vanno fino a Giovanni, ma è da allora in poi cioè solo con Gesù che il Regno viene evangelizzato. 94 Vedi la particolare accentuazione posta sul rapporto di Q con Dn da parte di E.P. Meadors, Jesus the Messianic Herald of Salvation, pp. 97-123. 95 La monografia di M. Sato, Q und Prophetie, pp. 96-196, fondandosi soprattutto sul libro di Isaia, identifica quattro maggiori caratteristiche profetiche: uno speciale intervento di Dio sul chiamato, l'allocuzione diretta a un uditorio specifico, l'intreccio fra presente e futuro escatologico, e collegamento con la tradizione profetica (evidenziata dall'uso di "Mikrogattungen" o piccole forme letterarie, uso di immagini particolari, e riferimento a profeti precedenti).
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fatti la polemica nei confronti di quella che viene designata negativamente come "questa generazione" 96 . L'espressione ricorre almeno quattro volte (Le 7,31/: " A chi paragonerò gli uomini di questa generazione?"; 11,31.32.51/)97; essa, appunto, dà corpo a un rimprovero rivolto al popolo, e, oltre a un ovvio valore generazionale, ne ha soprattutto uno qualitativo di ordine morale: infatti ha sempre una valenza negativa, e in questo senso si spiega al meglio sulla falsariga dell'antica generazione del deserto, di cui si legge in alcuni passi dell'A.T. (cf. Sai 78,8: "Generazione ribelle e ostinata, generazione dal cuore incostante e dallo spirito infedele a Dio"; cf. 95,8-11; Nm 32,13; Dt 32,5.20; Ger 7,29: "Il Signore ha rigettato e abbandona^) la generazione che è oggetto della sua ira"; cf. anche Giub. 23,14-16.22). Nell'intenzione di Q, Gesù fa fronte comune con Giovanni contro l'ostinazione dei suoi contemporanei, ma il fatto che i detti vengano tutti attribuiti a lui contribuisce a ritagliare soprattutto la sua persona in conflitto con un consistente gruppo che lo osteggia e rifiuta il suo annuncio. È proprio qui che emerge in particolare la sorte del profeta inascoltato e rifiutato. A questi detti si possono aggiungere alcuni solenni "Guai!", rivolti sia alle città della Galilea (cf. Le 10,13/Mt 11,22), sia agli scribi miopi e insopportabili (cf. Le 11,46/Mt 23,4; Le 17,1/Mt 18,7), sia ai farisei che per osservare regole minute trascurano i grandi comandamenti (cf. Le 11,42-44/Mt 23,23.6-7. 27-28); questi pronunciamenti manifestano l'inconsueta autorità di Gesù, anche per il fatto che insistono su di un rifiuto che unisce insieme il suo messaggio e la sua persona. È come se egli volesse dire che la mancata accettazione di lui significa lasciar cadere l'ultimo invito di salvezza rivolto da Dio al suo popolo; infatti il mashal sui segni del tempo atmosferico (cf. Le 12,54-56/Mt 16,2-3) suggerisce l'idea che il tempo presente, connotato dalla predicazione di Gesù, va letto intelligentemente come decisivo per la salvezza. 2.2.4.2 Soprattutto Q, concordando in ciò con Me, sa che il tema centrale della predicazione di Gesù è il regno di Dio. Esso è 96
In proposito vedi la discussione in C.M. Tuckett, Q and the History, pp. 196-207. 97 Probabilmente anche Le ll,50/("perché sia chiesto conto a questa generazione del sangue di tutti i profeti") appartiene alla stessa fonte. L'uso della locuzione in Q è molto più omogeneo che non in Me (8,12.38; 9,19; 13,30): infatti, mentre in Q essa è sempre al genitivo, in Me ricorre sia al nominativo sia al dativo. Cf. A.D. Jacobson, The First Gospel, pp. 120-121.
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oggetto di almeno undici detti . Esaminiamone brevemente un paio, rispettivamente di timbro diverso, che possono rappresentare la duplice dimensione inerente al tema. L'uno è la domanda del Pater: "Venga il tuo regno" (Le 11,2/Mt 6,10). Da questa formulazione, che non ha paralleli nella letteratura giudaica circa l'associazione del regno con il verbo "venire", appare comunque la dimensione futura del regno stesso. La domanda richiama quei testi, in cui si prospetta la venuta escatologica di Dio in persona (cf. Is 35,4: "Dite agli smarriti di cuore: Coraggio! Non temete; ecco il vostro Dio,... egli viene a salvarvi") 99 . Essa pertanto invoca l'universale e definitiva manifestazione della signoria salvifica di Dio. L'altro testo è inserito nella controversia circa i rapporti di Gesù con Beelzebul: "Se io scaccio i demoni con il dito [Mt: con lo spirito] di Dio, allora è giunto per voi il regno di Dio" (Le 11,20/Mt 12,28)100; la formulazione lucana è probabilmente quella originale (per l'antropomorfismo del dito di Dio, cf. Es 8,15). Il detto esprime chiaramente la presenzialità del regno nel ministero esoreistico di Gesù, come risulta sia dall'impiego del verbo (lett. "arrivare prima, anticipare") 101 , sia dal complemento pronominale "per voi", sia dal contesto della controversia. Quindi, a prescindere dalla sua accettazione, il regno è già presente in Gesù. Per spiegare la tensione inerente alla coesistenza di queste due dimensioni apparentemente opposte, non è necessario ipotizzare due diversi strati redazionali di Q. Questa fonte può aver benissimo registrato un'antinomia, che è insieme di origine gesuana e inerente al tema in se stesso. In ogni caso Q vede il regno di Dio come una realtà dinamica, che caratterizza doppiamente l'intervento di Dio, sia nel ministero di Gesù, sia nel tempo escatologico. Per quanto riguarda la sua portata cristologica, essa ripete questa dualità, ma resta comunque di impronta escatologica, in un doppio senso:
98 Cf. la tabella offerta da E.P. Meadors, Jesus the Messianic Herald ofSalvation, p. 150. I detti sono questi: (1) Le 6,20b/Mt 5,3s; (2) Le 7,28/Mt 11,11; (3) Le 10,9/Mt 10,7; (4) Le 11,2/Mt 6,9a.l0a; (5) Le 11,20/Mt 12,28; (6) Le 12,31/Mt 6,33; (7) Le 13,18s/Mt 13,31.32; (8) Le 13,2-21/Mt 13,33; (9) Le 13,28/Mt 8,12b.llb.l2a; (10) Le 13,29/Mt 8,Ila; (11) Le 16,16/Mt 11,12. 99 Ma si possono citare anche Is 40,9-10; Zac 14,5; lEn 1,3-9; 25,3; Giub 1,22-28; Test. Lev. 5,2; Ass. Mos. 10,1-12; Tg Zac 2,14-15. 100 La controversia è presente anche in Me (cf. 3,22-27), ma il detto è esclusivo di Q. 101 L'aoristo in più precisa il verificarsi puntuale dell'azione, di cui si dice non solo che è avvenuta, ma che è avvenuta in un momento o in momenti determinati (cf. anche C.H. Dodd, Le parabole del regno, SB 10, Brescia 1970, pp. 44s).
tanto presenziale, in quanto è Gesù che ha già inaugurato la salvezza escatologica sperimentabile nell'oggi della sua azione e della sua sequela102, quanto anche futura, in quanto egli proietta Dio e se stesso nel futuro, quando non solo verrà in pienezza il regno ma verrà egli stesso come Figlio dell'uomo 103 . 2.2.4.3 Giungiamo così a vedere quali sono i titoli cristologici caratteristici di Q. A parte il fatto che alcuni sono sorprendentemente assenti (come "Cristo" e "Profeta"), se ne possono enumerare cinque o al massimo sei. Il primo è "il figlio dell'uomo", di gran lunga il più usato (almeno dieci volte)104; di esso abbiamo già parlato nel primo volume a livello gesuano (cf. pp. 134-143). La sua frequenza dice da sola che non solo Q ritiene Gesù ben diverso dalle tradizionali caratterizzazioni messianiche, ma anche che egli è considerato molto più di un profeta. Dei tre gruppi di contesti, distinti a suo tempo da R. Bultmann (venuta futura, ministero terreno, contesto di passione), manca totalmente il terzo. Il secondo gruppo è connesso con il tema già accennato del rifiuto da parte di "questa generazione" 105 . Più caratteristica è la sua associazione con il tema della venuta finale. A questo proposito è degno di nota, perché unico nel suo genere, un certo modo di esprimersi che fa leva sul "giorno del Figlio dell'uomo" (cf. Le 17,24.26.30/). Con questi termini si opera una fusione tra il titolo e l'antica locuzione pro-
102 Quindi Q 11,23 ("Chi non è con me è contro di me e chi non raccoglie con me disperde") non si riferisce soltanto alla raccolta escatologica,, a cui sono associati i collaboratori di Gesù (così A.T. Jacobson, The First Gospel, pp. 163-164), ma vuole porre già oggi il lettore di fronte a un'opzione per Gesù nel riconoscimento del suo ruolo unico al servizio del Regno (così J. Schlosser, Q 11,23 et la cristologie, p. 223). 103 Cf. G. Segalla, La cristologia escatologica della «Quelle», Teologia 3 (1979) 119-177. 104 Questa è l'enumerazione: (1) Le 6,22/Mt 5,11; (2) Le 7,34/Mt 11,19; (3) Le 9,58/Mt 8,20; (4) Le 11,30/Mt 12,40; (5) Le 12,8/Mt 10,32; (6) Le 12,10/Mt 12,32; (7) Le 12,40/Mt 24,44; (8) Le 17,24/Mt 24,27; (9) Le 17,26/Mt 24,37; (10) Le 17,30/Mt 24,39; (11) infine Le 22,28 viene integrato solo da Mt 19,28 con la menzione del titolo, e in questa forma appartiene probabilmente a Q (cf. J.S. Kloppenborg, QParallels, p. 202; W. Schenk, Synopse, pp. 129-130). Ricordiamo che in Me esso è presente 14 volte. Sulla problematica inerente al titolo in Q soprattutto dal punto di vista della sua autenticità gesuana, cf. E.P. Meadors, Jesus the Messianic Herald of Salvation, pp. 124-145. 105 Nonostante che questo tipo di occorrenza sia limitato di fatto a sole tre volte (cf. Le 6,22/; 7,34/; 9,58/), esso è ritenuto addirittura centrale da G. Stanton, On the Christology of Q, in B. Lindars & S.S. Smalley, edd., Christ and Spirit in the New Testament. In Honour ofC.F.D. Moule, Cambridge 1973, pp. 27-42 qui 39.
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fetica concernente "il giorno del Signore" come momento del giudizio finale106. A parte il loghion del riconoscimento davanti agli angeli di colui che lo riconoscerà davanti agli uomini (Le 12,8/Mt 10,32)107, egli appare sostanzialmente come figura di giudice più che di salvatore. Comunque la doppia dimensione, presente e futura, di questa figura (corrispondente all'uso del titolo in rapporto al ministero di Gesù e alla sua venuta escatologica) è omogenea a quella duplice del regno di Dio, già iniziato eppure ancora da compiersi. Il secondo titolo è ó èpxófxevos, lett. "colui che viene" (solo Le 7,19/Mt 11,3); la sua forma assoluta è particolarmente solenne. Esso si trova in bocca ai messi del Battista come interrogativo sull'identità di Gesù, e, in base a possibili testi veterotestamentari di sfondo, potrebbe essere visto in riferimento a una figura o di profeta (cf. Dt 18,15.18: "Io susciterò loro un profeta in mezzo ai tuoi fratelli") oppure di messia (cf. Sai 118,26: "Benedetto colui che viene nel nome del Signore"), dato che entrambi i titoli mancano in Q108. Certo la locuzione allude all'inauguratore di una nuova fase storico-salvifica, anche se la risposta di Gesù non è conforme alle aspettative di Giovanni. Un terzo titolo è quello di "figlio di Dio" (senza articolo: Le 4,3.9/Mt 4,3.6), ricorrente solo nell'episodio delle tentazioni nel deserto e quindi privo di una particolare accentuazione, se non in rapporto a un concetto di potenza prodigiosa. Esso comunque, stante lo schema dell'esodo soggiacente alla pericope, allude per contrasto al popolo d'Israele, che non è stato figlio autentico e obbediente nelle prove. Il quarto titolo è semplicemente "il Figlio" (due volte in Le 10,21-22/Mt 11,25-27), che abbiamo già esaminato nel volume pri106 Cf. A.D. Jacobson, The First Gospel, p. 237; ma la supposizione che si tratti di una figura simbolica per il popolo fedele a Dio, che in base a un senso di frustrazione proprio della comunità di Q giudicherebbe gli altri (cf. ib., p. 238), non risulta fondata nei testi. 107 Questa formulazione va probabilmente ritenuta originale rispetto a quella sinottica di Me 8,38/Mt 16,27/Lc 9,26 (cf. S. Schulz, Q, pp. 66-76). "La profezia proclama la benedizione e la maledizione su coloro che, nella comunità, confessano il Cristo o lo rinnegano, nell'atto che stabilisce in essa io jus talionis escatologico" (E. Kàsemann, Proposizioni di diritto sacro nel Nuovo Testamento, in Id., Saggi esegetici, introd. M. Pesce, "Dabar" 3, Marietti, Genova 1985, pp. 69-82 qui 79). 108 Ricordiamo che il significato del participio presente di un verbo oscilla tra il presente continuo e il futuro; l'uso dell'articolo poi allude a un personaggio oggetto di una precisa attesa (la locuzione è diversa da ó néXXwv gpxeoOai, "colui che dovrà venire", detto di Elia in Mt 11,14 solo in rapporto al futuro).
LA RACCOLTA DELLE PAROLE DI GESÙ: FONTE Q
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mo a livello gesuano (cf. pp. 143-153). Esso esprime una relazione speciale e unica con il Padre; ma la sua rarità dice che non è tipico diQ. In quinto luogo abbiamo il titolo di "Signore" (reduplicato in Le 6,46 + 13,26-27a/Mt 7,21-23a). Esso unisce insieme etica ed escatologia, poiché suppone che la sua pronuncia non basta per entrare nel regno, se non è connessa con l'esecuzione della volontà di Dio109. Un ultimo caso potrebbe essere l'implicito titolo di "Sapienza" (Le 7,35/Mt 11,51), di cui abbiamo già detto sopra. Tutti questi titoli hanno di fatto una portata escatologica, sia essa futura o presenziale: l'incontro con Gesù è comunque connesso con Yéschaton, poiché ha in sé qualcosa di definitivo! Tutti poi hanno in primo piano un carattere funzionale ed esprimono quindi la missione propria di Gesù come giudice finale (il 1°), come consumatore delle attese (il 2°), come investito di potenza divina (il 3°), come rivelatore (il 4°), come guida della comunità (il 5°). Solo indirettamente si può rilevare, soprattutto in "il Figlio" (e "Sapienza"), una dimensione di trascendenza. 2.2.5 Conclusione. Le due componenti fondamentali della cristologia di Q, quella sapienziale e quella escatologica, sembrerebbero a prima vista inconciliabili a motivo della loro notevole diversità contenutistica. La tradizione sapienziale, infatti, di norma riflette sul comportamento in questo mondo, mentre l'escatologia si proietta sul futuro ultimo. Per risolvere l'apparente dilemma, non è necessario pensare a strati redazionali diversi, ricorrendo così a una soluzione di tipo estrinseco. È molto meglio invece valutare lo schema deuteronomistico interno a Q, di cui abbiamo parlato. Esso infatti combina insieme il presente con una prospettiva storicosalvifica, che si estende dall'esemplarità del passato al giudizio futuro sulla generazione disobbediente110. Così in Q: l'interesse di Gesù per il presente si scorge non solo nell'insegnamento circa la vita interna della comunità dei discepoli, ma anche nella predicazione del regno, parzialmente già realizzato, e nel rimprovero per 109 II passo di Le in questo caso è molto più cristologizzato, perché ciò che in Mt è "la volontà del Padre mio" qui diventa "quello che dico (io)". Comunque la sua valenza in Q è quella di un "authoritative teacher" (C.M. Tuckett, Q and the History, p. 215). 110 Cf. P.J. Hartin, The Wisdom and apocalyptic layers of the Sayings Gospel Q: What is their significance?, Hervormde Teologiese Studies [Pretoria] 50 (1994) 556-582 (contro J.S. Kloppenborg).
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l'ostinazione di Israele; su questa base si sviluppa la prospettiva futura, che è quella di un giudizio sull'incredulità della generazione presente. In questa confluenza di temi la figura di Gesù giganteggia come quella di chi appunto è "più di Salomone" e insieme anche "più di Giona" (Le 11,31-32/Mt 12,41-42). 3. Altre fonti della primitiva cristologia giudeo-cristiana Ci sono ancora almeno due altri luoghi, da cui possiamo dedurre elementi cristologici caratteristici del primo giudeo-cristianesimo: Atti 2-5 e ICor 16,22. Li esaminiamo separatamente a motivo delle diverse questioni metodologiche che essi pongono, non foss'altro perché il primo è di composizione molto più recente rispetto al secondo. 3.1 La cristologia di At 2-5 Che questa sezione degli Atti (certo insieme ad altre) conservi tradizioni arcaiche è comunemente ammesso, anche se non è facile individuarle con precisione111. Infatti, se qualcuno ha ipotizzato che la cristologia degli Atti in generale è pre-paolina, altri hanno sostenuto al contrario che essa è anti-paolina (e quindi postpaolina), mentre è possibile anche ritenere che in realtà sia l'autore stesso del libro ad esprimersi ancora negli anni 80-90 del secolo. I negli stessi termini di chi rifletteva su Gesù già negli anni 30112. I testi in cui si potrebbe esprimere la cristologia della prima chiesa di Gerusalemme sono i cinque discorsi contenuti in questi capitoli: quattro attribuiti a Pietro (2,22-36, come parte del discorso di Pentecoste; 3,12-26, davanti al popolo nel portico di Salomone; 4,8-12, davanti al Sinedrio; 5,29-32, di nuovo davanti al Sinedrio) e uno 111 Cf. G. Lùdemann, Das fruhe Christentum nach den traditionen der Apostelgeschichte. Ein Kommentar, Vandenhoeck, Gòttingen 1987, pp. 27-28. Per una discussione sulle fonti di At 1-15, cf. G. Schneider, Gli Atti degli Apostoli, I, CTNT V / l , Paideia, Brescia 1985 (orig. ted., Freiburg i.B. 1980), pp. 117-122; e in particolare su At 1-5: J. Dupont, Etudes sur les Actes des Apótres, LD 45, Du Cerf, Paris 1967, pp. 33-40. 112 Cf. C.K. Barrett, The Acts of the Apostles, pp. 131-133 (con riferimenti rispettivamente a P. Vielhauer e a W. Schmithals): è possibile che quando il libro fu scritto ci fossero ancora dei cristiani (compreso lo stesso Luca) che predicavano ancora nei termini di una cristologia elementare arcaica.
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attribuito a tutta la comunità (4,24-30, dopo la liberazione di Pietro e Giovanni). È comunque fuor di dubbio che in questi passi esiste una prospettiva cristologica elementare, non sviluppata113. Ciò risulta non solo dall'assenza di un linguaggio di incarnazione che implichi quindi la divinità di Gesù (cf. 2,22: "uomo approvato da Dio per voi con potenze e prodigi e segni, che Dio operò mediante lui in mezzo a voi")114, ma anche dall'assenza della dimensione salvifica sia della sua morte che della sua risurrezione. Queste infatti sono viste rispettivamente solo come effetto di una cospirazione dei giudei insieme ai gentili (cf. 4,25-27) e come rivendicazione e intronizzazione di Gesù da parte di Dio (cf. 2,24-36; 5,30-31). Tuttavia, l'inserimento della morte di Gesù all'interno di un prestabilito disegno di Dio (cf. 2,23; 3,18; 4,28) le conferisce una particolare valenza soteriologica, che permette almeno di superare lo scandalo da essa suscitato. Per la verità, questi elementi appartengono sostanzialmente anche agli altri discorsi degli Atti, e si possono quindi considerare propri della redazione lucana115. Ma ci sono alcuni altri fattori che ci riportano con ogni probabilità a un arcaico stadio pre-redazionale. Li distinguiamo in tre momenti. 3.1.1 Titoli cristologici esclusivi. Alcuni titoli cristologici sono esclusivi di questi capitoli, in quanto non ricorrono altrove né negli Atti né soprattutto nel resto del NT, e che perciò si possono ricondurre con più probabilità alla primitiva comunità gerosolimitana. Se ne incontrano tre. (1) riats 0eou (aikou): 3,13.26; 4,27.30. In base alla doppia semantica del primo sostantivo in greco, l'espressione si potrebbe tradurre doppiamente sia con "servo di Dio" sia con "figlio di Dio". Il 113 Vedi in genere i Commenti; in particolare, cf. S. Sabugal, Los kérygmas de Pedro ante el Sanedrin judaico (Act 4,8-12; 5,29-32). Anàlisis histórico-tradicional, Estudio Agustiniano [Valladolid] 25 (1990) 3-14. 114 Si noti la sottolineatura della totale umanità di Gesù (il termine greco per " u o m o " , àvT|p, allude propriamente alla mascolinità di Gesù, non all'umanità in senso generale), il quale da Dio è solo "approvato" e opera prodigi non a titolo proprio ma solo per virtù di Dio. 115 Vedi almeno i grandi discorsi: di Stefano (cf. 7,52), di Pietro davanti a Cornelio (cf. 10,39-40), di Paolo ad Antiochia di Pisidia (cf. 13,27-30). Però nel discorso di Paolo all'Areopago la morte di Gesù è assente e la sua risurrezione è vista solo come un'abilitazione al giudizio escatologico (cf. 17,22-31). Cf. in generale H.C. Kee, Good News to the Ends of the Earth. The Theology of Acts, LondonPhiladelphia 1990, pp. 6-27.
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primo significato è qui il più verosimile, poiché più conforme a un contesto giudaico116. Peraltro, solo nel primo passo è visibile sullo sfondo il quarto canto del Servo sofferente di Yhwh (cf. Is 52,13-53, 12), poiché la frase presente in At 3,13 ("Dio glorificò il suo servo Gesù...") richiama con sufficiente chiarezza Is 52,13 LXX ("Il mio servo sarà esaltato e glorificato molto"). Tuttavia tale designazione, almeno negli altri passi, non si può ridurre a questa sola dimensione. Infatti, da una parte, essa nell'AT vale sia per Abramo (cf. Gen 18,3.5) che per i profeti (cfr. Is 20,3; Ger 42 [TM 35],15; Bar 2,20), e, dall'altra, in At 4,25 essa è usata anche in riferimento a Davide117. Quindi non è escluso che nei nostri testi acquisti addirittura una sfumatura semantica di tipo regale e che come tale, cioè come "figlio" messianico, sia stata intesa in alcuni strati della tradizione (giudeo-ellenistica?). (2) "Il santo e (il) giusto" (TÒV aytov xaì Sixatov)118: solo in At 3,14 occorre questa coppia di aggettivi in forma assoluta con valore di designazione personale (altrove essi sono spaiati: il primo in 4,27.30 [ma come qualificativo di ITOCI?], e il secondo in 7,52; 22,14 [in forma assoluta]). Non è chiaro se si debbano intendere entrambi in senso forte come designazioni messianiche (così E. Haenchen e R. Pesch), oppure in senso puramente morale per esprimere contestualmente un contrasto con Barabba qualificato invece come "assassino" (così G. Schneider), oppure se sia stato Luca a spostare su di un piano morale dei concetti originariamente messianici (così H. Conzelmann), oppure ancora se a monte si debba attribuire una portata diversa a ciascuno dei due termini (così A. Wikenhauser e C. K. Barrett). Quest'ultima posizione sembra la migliore. Infatti, mentre non è attestata nel giudaismo una tradizione messianica a proposito de "il Santo" (ci sono solo fonti cristiane: Me 1,24/Lc 4,34; Gv 6,69; lGv 2,20; Ap 3,7), il titolo de "il Giusto" gode di una certa attestazione (cfr. Is 53,11 119 ; lEn. 38,2 ["Quando ap116 Solo in un più accentuato contesto ellenistico l'espressione dev'essersi sviluppata nel senso di 'figlio'; cf. E. Lohse, Compendio di teologia del Nuovo Testamento, Brescia 1987, pp. 72-73. 117 Cf. in generale W. Zimmerli - J. Jeremias, art.TOÙCGeoC, GLNT IX, coli. 275-440 (ma Jeremias estende e maggiora eccessivamente il titolo). Vedi anche E. Krànkl, Jesus der Knecht Gottes. Die heilsgeschichtliche Stellung Jesu in den Reden der Apostelgeschichte, BU 8, Pustet, Regensburg 1972. 118 La presenza di un solo articolo davanti ad entrambi i termini li congiunge strettamente e non permette di scorgervi un'allusione a due distinti indirizzi cristologici. 119 In questo testo è notevole la discrepanza tra il TM ("Il giusto mio servo giustificherà molti") e i LXX (il Signore "vuole giustificare il giusto che ha reso un buon servizio a molti"): solo nel primo caso il termine ha valore titolare, anche se non in forma assoluta.
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parirà il Giusto al cospetto dei giusti"]; 53,6 ["Dopo di ciò, il Giusto e l'Eletto mostrerà la sua casa"]). D'altronde in At solo "il Giusto" occorre in forma separata altre due volte (cf. 7,52; 22,14). Esso indica, da una parte, una particolare condizione di vicinanza a Dio, e, dall'altra, una sorte di sofferenza subita da parte dei malvagi120. (3) "La guida alla vita" (ó àpxnyòt; xr\<; CCOTJI;): questa originale e suggestiva designazione cristologica si trova solo in At 3,15 (in contrasto con l'affermazione: "Voi lo avete ucciso, ma Dio lo risuscitò dai morti") 121 , e mai altrove nel Nuovo Testamento. I significati possibili del primo sostantivo in greco (capo, autore, fondatore; origine, protettore; sovrano) derivano il loro valore dal significato aggettivale, che resta determinante: "colui che inizia, che origina" 122 . Il titolo perciò allude fondamentalmente non a una mediazione nella erezione primordiale, ma al fatto che Gesù Cristo recò storicamente la vita nel mondo, originando così una nuova era; o forse meglio: egli è colui che con la sua risurrezione ha iniziato per sé una nuova vita e ad essa come leader conduce anche i suoi fedeli. Infatti in 2,28 egli proclama con le parole del Salmista: "Mi hai fatto conoscere le strade della vita, mi riempirai di gioia alla tua presenza" (= Sai 15,11 LXX) 123 . 3.1.2 At 2,36. Il discorso di Pietro a Pentecoste si conclude con una solenne dichiarazione, che letteralmente suona così: "Sappia con certezza tutta la casa di Israele che 'e Signore e Cristo' Dio lo ha costituito, questo Gesù che voi avete crocifisso" (2,36). L'arcai120 Si può anche rilevare che in Ps. Sai. 17,32-41 si trova pure sviluppata l'associazione del tema della giustizia con il titolo di Unto del Signore (certo sulla linea di Is 11,4-5). Il valore sostanzialmente ontologico di questi titoli, accostati alla cristologia funzionale di At 3,13, è affermato da H.F. Bayer, Christ-Centered Eschatology in Acts 3:17-26, in J.B. Green & M. Turner, edd., Jesus of Nazareth: Lord and Christ. Essays on the Historical Jesus and New Testament Christology. Eerdmans-Paternoster, Grand Rapids-Carlisle 1994, pp. 236-250, qui 242. 121 L'occorrenza del solo termine à^yr^óc, privo di specificazioni in 5,31 (però in coppia con aco-nf)p) esprime probabilmente una sfumatura diversa, condizionata dal secondo titolo (la stessa Bibbia CEI rende 3,15 con "autore" e 5,31 con "capo"). 122 Cf. P.-G. Mùller, APXHrOE THS ZQHS. Der religionsgeschichtliche und theologische Hintergrund einer neutestamentlichen Christuspràdikation, Europ. Hochschulschr. 23, Teol. 28, Lang, Bern 1973. Invece G. Johnston, Christ as Archegos, NTS 27 (1981) 381-385, preferisce scorgervi una dimensione messianica e intenderlo come 'principe' (con rimando a Nm 13,2-3; 16,2; Gdc 5.15B; lCr 26,26; Ne 2 [12],9; Is 30,4). 123 Vedi anche At 26,23: Paolo afferma "che il Cristo sarebbe morto e che, primo tra i risorti da morte, avrebbe annunziato la luce al popolo e ai gentili" (così infatti H. Conzelmann commenta l'espressione in 3,15: "àpxTiyó? è parafrasato in 26,23 come «primo dalla risurrezione»").
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cita pre-lucana di questa affermazione non è condivisa da tutti 124 , ma un paio di motivi ci portano in questa direzione. L'uno è che Luca, come risulta dal suo vangelo, sa già per conto suo che Gesù è Cristo-Messia fin dalle origini della sua vita terrena (cf. Le 2,11) e quindi non solo a partire dalla sua risurrezione. L'altro è che la cristologia del nostro passo, di tipo tendenzialmente adozionista, coincide di fatto con quella dell'arcaica confessione di Rm l,3b-4a (cf. voi. I, pp. 201-208). Si ripropone dunque qui, da parte della comunità gerosolimitana, una cristologia fondata sul motivo biblico della intronizzazione regale, quale è attestato in alcuni passi veterotestamentari (cf. Sai 2,7; 89,27-28; 110,1). La cosa nuova è che, invece del titolo "figlio di Dio" (certamente messianico), abbiamo qui due altri titoli: "Signore e Cristo". La loro congiunzione potrebbe derivare dal Salmo 2,2, dove si legge: "Insorgono i re della terra e i prìncipi congiurano insieme contro il Signore e contro Usuo Cristo". È importante però notare che, mentre i due titoli là presenti si riferivano a due persone diverse (rispettivamente a Dio e al re), qui invece essi sono entrambi associati a definire una sola persona, Gesù in quanto risorto. Analogo però è il contesto di sofferenza, per cui la proclamazione di Pietro va vista nell'ottica di un marcato contrasto, e cioè come l'affermazione di una rivendicazione divina del crocifisso umiliato. Quanto alla portata delle due qualifiche cristologiche, va osservato quanto segue. A proposito di quella di "Cristo", esiste comunque una novità rispetto al suo impiego a livello gesuano (cf. voi. I, pp. 122-133). Infatti la cosa sorprendente è che essa viene ora attribuita a uno che è stato condannato alla pena più infamante. Era più facile pensare alla messianicità di Gesù, o comunque sperare in essa, finché egli non fosse morto, soprattutto di una morte di croce (cf. la delusione di Giuda e forse anche di Pietro). Ma dire che un crocifisso era il Messia andava contro tutte le precomprensioni possibili in campo giudaico e, se ciò da una parte supponeva un fatto nuovo che giustificasse l'enorme svolta (la risurrezione), dall'altra esigeva comunque un notevole ardire nel proclamarlo 125 . Tuttavia va anche riconosciuto che la stessa sua proclamazione in base a un evento come la risurrezione era senza confronto alcuno. Si vede bene qui che una rilettura dell'evento-Cristo da parte dei 124 È ritenuta pre-lucana per esempio dai commenti di E. Haenchen, R. Pesch, C.K. Barrett, mentre è considerata redazionale da H. Conzelmann, G. Schneider. 125 Vedi infatti il concetto di 7rappT)ata, "libertà di parola, ardire, fiducia", che scandisce il racconto in At 2,29; 4,13.29.31.
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primi cristiani era inevitabile e, inoltre, che essa avvenne con l'applicazione a Gesù di moduli già esistenti nel giudaismo e solo reinterpretati. A proposito poi della qualifica di "Signore", la sua dimensione divina probabilmente qui non va eccessivamente sottolineata. Infatti il Salmo 110,1, appena citato da Pietro nel precedente v. 34 ("Disse il Signore al mio signore"), utilizza il medesimo titolo in due sensi diversi. Perciò, nonostante il possibile richiamo fatto sopra al Sai 2,2, esso va visto probabilmente come coordinato a quello di "Cristo". Ma, anche se di questo rappresenta solo una specificazione, "Signore" ha comunque un valore tendenzialmente forte a motivo della possibile ideologia antica che gli sta a monte 126 (vedi anche sotto, a proposito dell'invocazione "Maranatha"). 3.1.3 At 3,19-21. Nel discorso di Pietro davanti al popolo presso la porta del Tempio detta Bella (in 3,12-26), l'apostolo così esorta i suoi ascoltatori: "Pentitevi dunque e convertitevi, perché siano cancellati i vostri peccati e così possano giungere i tempi del refrigerio da parte del Signore {pTziàC, av eXGcoatv xatpoì àvacc|>ó£eco<; ànò 7rpoacÓ7roo -eoo xupiou) ed egli mandi quello che vi aveva destinato come Messia, Gesù (xocì àTcoaxetXT) xòv Tzpoxtxtipio[i.i\>ov ufjuv xpwròv 'Ir]aoGv): egli dev'essere accolto in cielo (ov Sei oupocvòv [xèv 8é£oca9ai) fino ai tempi della restaurazione di tutte le cose (axpi yjpóvoìv à^oxaxaaxàaeax;rcàvToov),come ha detto Dio fin dall'antichità per bocca dei suoi santi profeti" (3,19-21).
Il passo, già a livello puramente formale, presenta vari problemi di traduzione, sui quali qui non ci soffermiamo (cf. i commenti). Piuttosto è a livello ermeneutico che appare la sua maggiore complessità. In passato ci fu addirittura chi intese questo testo in assoluto come la più arcaica espressione della cristologia127, in quanto qui si attesterebbe la fede più antica della chiesa primitiva, 126 Infatti, non va dimenticato che in antico al re di Gerusalemme potevano essere riconosciuti anche degli attributi divini, come avviene esplicitamente in Sai 45,7 ("Il tuo trono, o dio, dura per sempre [...]. O dio, il tuo Dio ti ha consacrato con olio di letizia..."); 12 ("Al re piace la tua bellezza; egli è il tuo Signore: prostrati a lui"), ma anche con altre metafore come "soffio vitale" e "albero della vita" (entrambe presenti in Lam 4,20). Sul tema-problema dell'ideologia regale nell'antico Israele, cf. i Commenti ai testi rispettivi e in particolare la sintesi di K.W. Whitelam, King and Kingship, in ABD 4, pp. 40-48. 127 Così J.A.T. Robinson, The Most Primitive Christology ofAll?, JTS 7 (1956) 177-189 (la prospettiva del testo è stata definita come "cristologia pre-messianica"); sulla sua linea si collocano anche le cristologie di F. Hahn e di R.H. Fuller.
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secondo cui Gesù sarebbe stato dichiarato Messia solo nel futuro escatologico al momento della parusìa (quindi egli né avrebbe pensato di essere tale durante la sua vita terrena [come si suppone nei Sinottici], né sarebbe stato proclamato tale a partire dalla risurrezione [come appare da At 2,36]), mentre nell'attuale periodo intermedio egli vivrebbe in una condizione di pura inattività. A questo assunto si sono opposte due diverse interpretazioni principali. L'una consiste nel dimostrare che il testo del discorso è caratterizzato da vari lucanismi e che quindi la sua cristologia in realtà è di tipo redazionale e cioè lucana128. Un'altra soluzione consiste nel ritenere che il passo non si riferisca alla venuta futura di Cristo ma alla sua prima venuta storica, e che quindi 1"'accoglienza in cielo" riproponga semplicemente l'idea giudaica della 'preesistenza' del Messia anteriormente alla sua apparizione tra gli uomini 129 . Su queste due tesi occorre fare alcune semplici considerazioni. Quanto alla redazionalità del testo, certo parzialmente innegabile, va osservato che tanto Lohfink quanto Barbi annotano come indubitabile la presenza di alcuni elementi provenienti dalla tradizione giudaica, in quanto si rifanno all'ambito dell'apocalittica: così è, oltre all'idea del "refrigerio", anche il tema della 'conservazione' del Messia per il tempo della sua manifestazione futura e quello della funzione escatologica di Elia130. D'altronde, se il testo si dovesse spiegare soltanto sulla base della preoccupazione lucana di fornire a Israele una ulteriore occasione di salvezza (consistente nella predicazione della chiesa, dopo l'occasione persa della predicazione di Gesù), non si comprende perché l'autore debba estendersi così tanto su di una prospettiva cristologico-escatologica, 128 Vedi in particolare G. Lohfink, Christologie und Geschichtsbild in Apg 3,19-21, BZ 13 (1969) 223-241: egli legge il testo secondo la preoccupazione propria di Luca di far vedere che Israele, rifiutando Gesù, ha perso l'occasione della sua salvezza ma Dio gli offre un'altra possibilità di conversione prima dell'ultima venuta del Messia. Su posizioni analoghe si pone A. Barbi, // Cristo celeste presente nella Chiesa. Tradizione e redazione in Atti 3,19-21, AB 64, PIB, Roma 1979 (cf. p. 143: "La cristologia dei versetti esaminati [...] riflette chiaramente una prospettiva lucana"). 129 Cf. J. Carrón, Jesus, elMesias manifestado. Tradición literaria y trasfondo judio deHch 3,19-26, Studia Semitica Novi Testamenti, Ciudad Nueva, Madrid 1993. 130 Annotiamo qui che l'idea origeniana della 'apocatastasi' universale, con i suoi ascendenti nello stoicismo (per una informazione sommaria, cf. P. Siniscalco, Apocatastasi, in A. Di Berardino, a cura, Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, Marietti, Casale Monferrato 1983, voi. I, pp. 273-274), oggi non è più accolta nell'interpretazione del nostro passo.
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che perdipiù negli altri inviti alla conversione presenti negli Atti non ritorna più. Perciò, i temi sia del refrigerio sia della 'conservazione' sia della funzione 'restauratrice' di Elia si possono considerare elementi arcaici, visto pure che in questi termini non ricorrono altrove negli scritti più recenti del Nuovo Testamento 131 . Quanto poi alla tesi di Carrón, va invece osservato che secondo Luca la 'conservazione' di Gesù in cielo è un dato non del passato, ma attuale, in quanto egli ha già raccontato fin dall'inizio degli Atti la sua ascensione al cielo (cf. At 1,9-11). D'altronde, il participio perfetto 7ipoxexeip«J(xévov significa letteralmente "che è stato reso pronto (ad agire in un determinato modo)", cioè è stato posto in una condizione tale da essere disposto a intervenire come Messia132. Luca tuttavia sa già e crede che Gesù è Messia fin dalla sua nascita (cf. Le 2,11); e la chiesa primitiva, da parte sua, connette questa qualifica perlomeno alla risurrezione (cf. At 2,36; Rm l,4a), ma, data l'inverosimiglianza religionista di un inizio assoluto di questo titolo solo in quel momento, essa suppone certamente che Gesù si considerasse e fosse tale già durante la sua vita terrena (cf. più sopra). Il parallelismo con il giudaismo apocalittico, dove si afferma il nascondimento del Figlio dell'uomo fin da prima della creazione del mondo (cf. lEn. 48,2-3.6; 62,7) e ancor più la conservazione del Messia "per la fine dei giorni" (4Esd 12,32; cf. 13,26), non rappresenta che un background di conferma per la dichiarazione di Pietro, con la differenza che ciò che là valeva per la prima venuta del Messia qui vale per la seconda. Orbene, la funzione escatologica di Gesù, che condurrà con sé "i tempi del refrigerio" 133 , cioè darà inizio al tempo messianico del riposo e della liberazione da ogni affanno, è fondamentalmente descritta come "restaurazione di tutte le cose". Questa idea nel-
131 "L'insieme va considerato come arcaica tradizione cristiana sulla conversione [dei Giudei], situata in una comunità giudeo-cristiana dalla fede fortemente orientata verso il futuro" (G. Lùdemann, Dos friihe Christentum, p. 59). 132 "Il perfetto suggerisce che egli ora è pronto ad agire così, e non dice in quale momento egli diventò pronto cioè divenne Messia, eccetto che ciò dev'essere in un tempo anteriore a quello in cui Pietro sta parlando. Ciò può essere stato alla risurrezione, al suo battesimo, o al momento della sua nascita" (C.K. Barrett, Acts, p. 204). 133 Cf. l'accurata analisi di questo sintagma in A. Barbi, // Cristo celeste, pp. 46-68 (con rimando a una serie di passi di 4Esd e di 2Bar). Va inoltre segnalata la posizione del citato H.F. Bayer, Christ-Centered Eschatology, che in tutta la sezione At 3,17-26 vede l'escatologia fortemente influenzata dalla cristologia (non viceversa).
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l'apocalittica è ben espressa con i concetti di trasformazione e di rinnovamento del mondo, quindi di nuova creazione alla fine dei tempi (cf. lEn. 45,4s; 91,16; Giub. 4,26; 4Esd. 7,75; 2Bar. 50,3; 57,2; Or. Syb. 5,273)134. Ma non bisogna perdere di vista anche il possibile nesso con la funzione escatologica riconosciuta ad Elia in MI 3,23-24 LXX, dove si riscontra l'uso dello stesso etimo lessicale: "Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore, perché converta (TM wehèStv, LXX bq àrcoxaTacrcTiaet) il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri" (cf. anche Sir 48,10). In base a questo insieme di prospettive, la chiesa primitiva crede che con la venuta escatologica di Gesù il mondo verrà ripristinato, non solo nella sua dimensione cosmologica ma anche in quella etico-interpersonale, al di là di ogni tipo di corruzione.
3.2 L'invocazione "Signore"
"Maranatha!"
(ICor 16,22) e il titolo di
Al termine della sua prima lettera canonica ai Corinzi Paolo ci fa la sorpresa di riportare quella che sicuramente è la più antica attestazione dell'uso del titolo di "Signore" in riferimento a Gesù Cristo: "Se qualcuno non ama il Signore sia anatema. Maranatha" (16,22). La sua formulazione in lingua aramaica (che suppone la traslitterazione di un originale consonantico mrn'f) all'interno di una lettera scritta a una comunità di lingua greca dice da sola quanto veneranda l'espressione fosse sentita. La sua provenienza infatti non può che essere dall'area siro-palestinese, che era sostanzialmente l'unica in cui nel secolo I si parlasse ancora l'aramaico135. E non si può che pensare alle prime comunità cristiane di questa zona, appunto di lingua almeno parzialmente aramaica, all'interno delle quali l'Apostolo aveva mosso i suoi primi passi di convertito (Damasco, Gerusalemme, Antiochia). Del resto, anche il con134 È possibile che a questo ambito di idee appartenga anche l'affermazione presente nei manoscritti di Qumràn, secondo cui agli eletti "spetterà tutta la gloria di Adamo" (1QS 4,23). Da parte sua G. Ferraro, «Kairoi anapsyxeos»: Annotazioni su Atti 3,20, RivBibl 23 (1975) 67-78, colloca l'espressione sullo sfondo del riposo sabbatico di Es 23,12 ed Eb 3,7 - 4,13. 135 Solo da questa zona (estendentesi dall'alto corso dell'Eufrate fino alla Nabatea) provengono infatti i testi scritti, epigrafici e letterari, del Medio-Aramaico (ca. 200 a.C. - ca. 250 d . C ) ; cf. S.A. Kaufman, Aramaic (Languages), in ABD 4, pp. 173-178 (con bibliografia).
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testo epistolare dell'invocazione richiama un probabile, originario ambito liturgico (eucaristico?) pre-paolino, all'interno del quale essa veniva pronunciata136. Esiste una discussione sull'esatta lettura del termine, che nei manoscritti si presenta come un solo vocabolo, ma che è composto sicuramente di due parole137. Mentre alcuni vi leggono la dichiarazione Maran 'àta\ con il senso di "Il Signore nostro viene (cioè: è qui presente) [oppure: è venuto]", altri più giustamente scompongono la locuzione in Murano' to'138 con il seguente significato: "Signore nostro, vieni!". Nel primo caso, ci si riferirebbe al momento forte del culto per confessarvi la presenza attuale del Signore139. In questa direzione sembrerebbe andare un testo, che offre la stessa traslitterazione direttamente dall'aramaico, e che si trova nello scritto giudeo-cristiano Did. 10,6 al termine di una preghiera eucaristica: "Venga la grazia e passi questo mondo! Osanna al Dio di David! Chi è santo si avvicini, chi non lo è si converta. Maranatha. Amen". Nel secondo caso, invece, si tratterebbe di una invocazione di tipo escatologico, orientata verso la venuta della parusìa. In questo senso essa trova un parallelo significativo in Ap 22,20, che reca la medesima invocazione, certo in lingua greca ma con un chiaro imperativo, al termine del libro: "Colui che attesta queste cose dice: Sì, vengo presto. Amen. Vieni, Signore Gesù (epxou> xupte 'iTjaoG)". Del resto, lo stesso Paolo poco prima in ICor 11,26 aveva scritto a proposito del mangiare il pane e del bere il calice nella cena eucaristica: "Ogni volta (...) voi annunziate la morte del Signore finché egli venga". Quest'ultimo passo suggerisce di non disgiungere come alternative le due possibilità, poiché può ben essere stato in contesto eucaristico che l'invocazione della pa136 Oltre ai Commenti, cf. soprattutto l'analisi di P.-É. Langevin, Jesus Seigneur et l'eschatologie. Exégèse des textes prépauliniens, "Studia" 21, Desclée, BrugesParis 1967, pp. 179-194. 137 Una buona discussione in materia si può trovare in K.G. Kuhn, |zapavoc6<4, in GLNT VI, coli. 1249-1266, e in P.-É. Langevin, Jesus Seigneur et l'eschatologie, soprattutto pp. 168-178 (però qui, a p. 170 in alto, la distinzione tra la forma dell'imperativo e quella del perfetto va invertita). Vedi anche S. Schulz, Maranatha und Kyrios Jesus, ZNW 53 (1962) 125-144. 138 In questo caso la forma ta' sarebbe abbreviata in quanto presenterebbe una elisione del primo aleph e della sua vocale; infatti, la forma normale dell'imperativo dovrebbe essere 'età'. 139 Di minor credito gode comunque l'ipotesi, secondo cui si tratterebbe di una semplice invocazione del Signore perché egli si renda presente a confermare l'esternazione della maledizione immediatamente precedente ("Se qualcuno non ama il Signore sia anathema!"); cf. C.F.D. Moule, A Reconsideration ofthe Context of Maranatha, NTS 6 (1959-60) 307-310.
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rusìa si facesse più pressante. Inoltre, sulla stessa linea della formula Maranathà come invocazione escatologica, si p u ò forse leggere tanto la confessione paolina " I l Signore è vicino" (Fil 4,5: ó xupios iyyuq) q u a n t o quella analoga del giudeo-cristiano Gc 5,8: " L a parusìa del Signore è ormai vicina" (rj roxpouatoc TOU xupiou riyytxev)140. Da una parte, dunque, vediamo che il titolo di " S i g n o r e " in funzione cristologica è ben consolidato nell'uso cristiano; dall'altra, constatiamo che esso conosce c o m u n q u e un impiego particolare in prospettiva escatologica 1 4 1 . Cosa p u ò significare tutto ciò? 3.2.1 L o sfondo culturale-religioso del titolo. Certo nel giudaismo la qualifica di " S i g n o r e " non è di tipo messianico. Il Messia non viene mai designato con questo titolo. Quindi a b b i a m o nel caso di Gesù una vera novità. M a vediamone l'uso nel dettaglio, partendo dalla formulazione aramaica del nostro passo. In aramaico il sostantivo "Signore" ha varie forme lessicali, a seconda delle fonti in cui viene attestato (bibliche, qumraniche, rabbiniche, per non dire di quelle epigrafiche e papiracee): mare' [stato assoluto singolare; stato costrutto singolare e plurale], mòra' [stato assoluto; stato enfatico], maràh, mar, mar142. I suoi corrispettivi linguistici sono: in ebraico 'adòn, in greco xópto?. Il senso del vocabolo è fondamentalmente quello di "superiore, sovrano, padrone", e viene impiegato a vari livelli. Un uso profano dell'appellativo aramaico è attestato fin dai papiri di Elefantina del secolo V a . C , dove un'autorità amministrativa può essere designata sia come mr'y, "mio signore", sia come mr'n, "no-
140 Anche Giud 14s ("Profetò per loro Enoch, settimo dopo Adamo, dicendo: Ecco, il Signore è venuto [^XOev xupio?] con le sue miriadi di angeli per fare il giudizio contro tutti...") è stato accostato alla nostra invocazione da M. Black, The Maranathà invocation and Jude 14,15 (I Enoch 1:9), in B. Lindars & S.S. Smalley, edd., Christ and Spirit. InHonourofC.F.D. Moule, Cambridge 1973, pp. 189-196. Questo testo rappresenta una ripresa di lEn 1,9 ("Ed ecco: Egli è venuto con 10.000 santi, per far giustizia su loro..."; trad. L. Fusella), e l'aoristo greco, che ha comunque un riferimento al giudizio finale e quindi al futuro, dovrebbe rendere un originale perfetto aramaico 'àta'con valore di futuro (perfectumpropheticum), equivalente a: "Il Signore verrà...". 141 Forse si possono rapportare al nostro discorso anche quei testi paolini, nei quali il sintagma cristologico 'nostro Signore' appare in contesto escatologico (cf. ICor 1,9; Fil 3,20; lTs 1,3); ma qui si tratta certo di uno sviluppo rispetto all'invocazione aramaica, di cui stiamo parlando. 142 Cf. M. Jastrow, A Dictionary of the Targumim, the Talmud Babli and Yerushalmi, and the Midrashic Literature, New York (1903) 1985; anche J.A. Fitzmyer & D.J. Harrington, A Manual of Palestinian2 Aramaic Texts (Second Century B.C. - Second Century A.D.), PIB, Roma 1978, 1994, e C. Perrot, Jesus, Christ et Seigneur, pp. 244-249.
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stro signore" 143 . Su questa linea si pone anche Dn 4,17.21 ("mio signore", detto nei confronti di Nabucodònosor). Ma pure a Qumràn lo stesso appellativo è testimoniato come rivolto da una moglie allo sposo (cf. lQapGen 2,9.13), da un figlio al padre (cf. ib. 2,24), da un suddito al re (cf. ib. 20,25), e persino dal re di Sodoma ad Abramo (cf. ib. 22,18). In particolare il significato regale dell'epiteto aramaico è testimoniato più volte a proposito dei re nabatei 144 . In questo senso lo si trova anche in Filone Al., In Flaccum 39; qui, narrando del passaggio di Erode Agrippa II ad Alessandria nell'estate del 38 d . C , diretto a ereditare la tetrarchia di Filippo donatagli da Caligola, il sovrano giudeo viene canzonato dagli alessandrini: "Dalla folla circostante risuonò un grido strano, Marin ($or\ TU; OLIOTZOS, Màptv), poiché dicono che in Siria si chiami così il sovrano (xòv xuptov); sapevano infatti che Agrippa era di razza siriana e che una parte importante della Siria era quella su cui doveva regnare" 145 . Infine, nel rabbinismo esso è usato a volte nei confronti di un maestro in segno di grande rispetto (cf. y.Peah 8,21b), a volte come sinonimo di cittadino (cf. Gen. R. 58,6: lett. "padrone di casa"), e persino in senso ironico (cf. TgN Gen 37,17: detto di Giuseppe "maestro di sogni"). Ma il termine vale anche come appellativo religioso nei confronti di Dio (rarissimamente però nella letteratura rabbinica). Così già in Dn il Dio d'Israele è qualificato come "il Signore dei r e " (2,47: mare' malkin) e "il Signore del cielo" (5,23: marè'-semayya'). Ma in particolare a Qumràn esso è attestato come epiteto divino, sia in forma assoluta (cf. HQtgJob 5,1 [su 21,20]: "l'ira del Signore"; lQapGen 20,13: "Tu sei Signore e padrone ['nth mrh wsly] su tutto e hai potere di fare giustizia a tutti i re della terra"; 4QEn b ar 4,5), sia anche e soprattutto in quanto specificato da aggettivi o stati costrutti: "Mio Signore" (4QTLevi*ar 1,10; 2,6; lQapGen 20,12.14.15), "Signore eterno" (1Q20 fr. 2,5), "Signore grande" (lQapGen 2,4), "Signore del cielo" (ib. 7,7), "Signore di tutti i re della terra" (ib. 20,15s), "Signore dei secoli" (ib.
143 Cf. rispettivamente le lettere 3,5; 4,2; 10,1-2 (in G.R. Driver, Aramaic Documents of the Fifth Century B.C., University Press, Oxford 1957, pp. 23s e 33), e la lettera 27, (recto)!. 11 .(versó)2\ .23 (in A. Cowley, Aramaic Papyri of the Fifth Century B.C., Univ. Press., Oxford 1923, pp. 99-100). 144 Cf. H. Merklein, Marano ("unser Herr") als Bezeichnung des nabatàischen Kònigs. Eine Analogie zur neutestamentlichen Kyrios-Bezeichnung?, in R. Hoppe & U. Busse, edd., Von Jesus zum Christus. Christologische Studien. Festgabefùr P. Hoffmann zum 65. Geburtstag, de Gruyter, Berlin - New York 1998, pp. 25-41: l'Autore dà il testo di 24 iscrizioni nabatee comprese tra il secolo I a.C. e il secolo I d.C. 145 La vocalizzazione Marin potrebbe corrispondere a un'effettiva terminazione pronominale, testimoniata anche in una iscrizione religiosa ad Hatra (vedi sotto). Si noterà comunque la sua eguaglianza consonantica con Maran di ICor 16,22, comprendente il pronome di prima persona plurale.
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21,2), "Signore del cielo e della terra" (ib. 22,16.21). Una testimonianza interessante riguarda alcune divinità siriane: il titolo infatti è usato per il dio Melqart già su di una stele del secolo IX a.C. (da Bredsch, 7 km N di Aleppo) e poi per almeno altre tre divinità sul muro di un tempio dei secoli M I d.C. (ad Hatra, 50 km NW di Assur); in quest'ultimo caso, si tratta addirittura di una triade divina, di cui ciascun membro è rispettivamente chiamato: mrn ("nostro Signore" = Hadad, equivalente di Zeus), mrtn ("nostra Signora" = Atargatis), e br mryn ("il figlio di nostro Signore" = Simios, l'equivalente di Asclepio o Hermes) 146 . Il titolo quindi all'origine non è specificamente religioso. Con esso piuttosto si riferiscono a Dio delle qualità derivanti fondamentalmente da ambiti profani, che si compendiano tutte nell'idea di "sovrano", inteso sia come proprietario sia anche come giudice. In base a questa constatazione si può capire perché i primi cristiani potevano qualificare Gesù come Maran o Muraria', "Signore nostro", senza con ciò urtare direttamente il monoteismo giudaico 147 ; e lo si vedrà bene nella distinzione che farà Paolo a proposito dell'esistenza di "un solo Dio" e insieme di "un solo Signore" (cf. ICor 8,6; vedi sotto). Tuttavia, il titolo implicava necessariamente anche una dimensione divina, che non poteva comunque non imporsi. Ed è a questo punto che possiamo porre il problema storico concernente anche l'origine del titolo greco di Kupio? attribuito a Gesù. 3.2.2 La valenza cristologica del titolo. Come sappiamo, esso prenderà sempre più piede nelle chiese di lingua greca. Il fatto deve avere una sua spiegazione poiché, da una parte, in queste comunità non poteva facilmente imporsi il barbaro termine aramaico, e, dall'altra, non è documentabile un uso titolare di questo genere a livello gesuano (se non forse, tutt'al più, in senso estenuato come appellativo di cortesia)148, che possa spiegare adeguatamen-
146 Cf. H. Donner - W. Ròlling, Kanaanàische und aramàische Inschriften, voi. II, Harrassowitz, Wiesbaden 1964, 21968, rispettivamente Nr. 201 (pp. 203s) e Nr. 246 (pp. 298-299); il titolo è ancora detto di Hadad nel Nr. 245 e altre quattro volte dell'intera triade ai Nrr. 247, 248, 251, 256. 147 Cf. P.-É. Langevin, Jesus Seigneur et l'eschatologie, p. 178. 148 Così in Me 7,28 (da parte della donna siro-fenicia). Un altro problema sembra posto dal testo di Me 11,3 in cui i discepoli di Gesù dicono al proprietario dell'asinelio requisito per il solenne ingresso in Gerusalemme: "Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito" (versione CEI); ma che la designazione non abbia valore divino risulta dalla costruzione greca della frase, che esigerebbe quest'altra versione: "Il suo padrone ne ha bisogno", cioè Gesù esercita qui il suo diritto rega-
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te l'imporsi e il diffondersi post-pasquale dell'appellativo cristologico. La designazione di Gesù come "Signore", dunque, a differenza degli altri grandi titoli cristologici (profeta, messia, figlio dell'uomo, figlio di Dio), è sostanzialmente di origine post-pasquale, derivando dalla fede della chiesa. Il fatto è messo bene in luce, oltre che dal già citato At 2,36, soprattutto da quella sezione del cosiddetto inno cristologico (pre-paolino) Fil 2,9-11, dove si dichiara apertamente che solo al crocifisso risorto Dio concesse la qualifica di Kyrios ("il nome che è sopra ogni altro nome"). Noi esamineremo più avanti questo passo importante (cf. sotto: cap. II, 3.6); ma in proposito occorre subito notare almeno che appartengono alla coscienza più antica della chiesa due cose: da una parte, esiste una connessione strettissima tra la "Signorìa" di Gesù e la sua nuova condizione di glorificato; dall'altra, la dimensione di "Signore" da lui acquisita dopo la sua vita terrena comporta una semantica molto forte. Circa l'origine del titolo cristologico, oggi è di fatto abbandonata la tesi dello studioso tedesco W. Bousset (1913), passata poi ampiamente nella scuola bultmanniana, secondo cui il titolo sarebbe nato soltanto nelle chiese di lingua greca come adattamento cristologico di un appellativo originariamente rivolto a divinità cultuali di tipo pagano 149 . Assolutamente precaria è anche la teoria di F. Hahn (1962), secondo cui già le chiese palestinesi avrebbero usato il titolo per Gesù, non però in rapporto alla sua divinità ma solo nel significato di "Maestro" (in base al linguaggio sinottico); secondo Hahn, inoltre, l'appellativo di Dio come Mari, "Mio Signore", sarebbe di recente attestazione, addirittura post-tannaitica, mentre solo l'ellenismo contemporaneo alle origini cristiane testimonierebbe il valore divino dell'appellativo Kyrios e solo da
le di nuovo possessore messianico in conformità ai testi di Gn 49,11 e Zc 9,9; in più, nel successivo 14,14 gli stessi discepoli si rivolgono al padrone della casa in cui mangeranno la Pasqua dicendo soltanto: "Il maestro dice..." (cf. R. Pesch, Me, II, pp. 275-276; e R.H. Gundry, Mk, pp. 627s). 149 II riferimento è sia a divinità misteriche specie di origine egiziana, come Iside e Serapide, sia anche al culto ellenistico dei sovrani e poi a quello dell'imperatore (ma già in Pindaro, Isth. 5,52 Zeus è cantato come óTOXV-CCOVxópto?, "il Signore di tutti [o: di tutte le cose]"). Cf. W. Bousset, Kyrios Christos. Geschichte des Christusglaubens von den Anfàngen des Christentums bis Irenaeus, Gòttingen 1913, pp. 91-101; così anche R. Bultmann, Theologie des NT, Tùbingen 1958,51965, p. 127. Una buona confutazione di questa tesi si può trovare in D.B. Capes, Old Testament Yahweh Texts in Paul's Christology, WUNT 2.47, Tùbingen 1992, pp. 20-31. Contro di essa si pone anche un post-bultmanniano come G. Strecker, Theologie des NT, Hrsg. F.W. Horn, De Gruyter, Berlin - New York 1996, pp. 91-98.
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qui deriverebbe il senso forte che esso assume poi negli autori cristiani a partire da Paolo 150 . A confutare questo assunto sono bastati i manoscritti di Qumràn (e in particolare lQapGen; cf. sopra), dove la valenza divina del titolo mr' (mrh) è ampiamente attestata. Più sottile è l'obiezione avanzata per esempio da H. Conzelmann contro l'argomento, secondo cui l'uso cristiano greco di definire Gesù come Kupio? deriverebbe dalla prassi dei LXX di rendere con questo titolo greco il tetragramma divino ebraico YHWH 151 . Egli ricorda che tale prassi è testimoniata solo dai molti manoscritti di età cristiana, mentre quelli giudaici (sia pre-cristiani, sia di Aquila, Simmaco, Teodozione), anche se pochi, o non traducono il tetragramma lasciandolo in ebraico o ne danno una semplice traslitterazione greca (tipo IAQ) oppure lo rendono curiosamente con le lettere greche n i n i 1 5 2 . Quindi sarebbe del tutto inusuale anche nell'ambito del giudaismo ellenistico designare Dio come "Signore". Tuttavia, come fa notare Capes 153 , biso150 Cf. F. Hahn, Christologische Hoheitstitel, pp. 74-91 e 118s: secondo questo A. nella fase gesuana la qualifica di kyrios equivaleva semplicemente a quella ebraica di rabbi (greco didaskalos), "maestro" (cf. Me 10,51: paP(3ouvi/Lc 18,41: xupte), e in questo senso profano essa sopravvisse anche dopo la Pasqua, assumendo solo poco per volta il significato forte di titolo divino in contrapposizione all'uso dello stesso titolo nei culti misterici e nel culto dell'imperatore (per un riferimento a questo culto, cf. anche O. Cullmann, Lafoi et le eulte de l'église primitive, Delachaux, Neuchàtel 1963, pp. 56-66). Ma una tale posizione dimentica o sottovaluta alcune cose: il valore di svolta cristologica decisiva inerente alla Pasqua, l'uso religiosodivino dell'aramaico mar attestato già ai tempi del NT, e il fatto che l'acclamazione xupto; Kataap è attestata solo nel secolo II in Mart. Polyc. 8,2 (mentre il titolo viene ancora rifiutato da Augusto [cf. Svetonio, Aug. 53] e s'impone mano a mano solo da Nerone in poi, quando il cristianesimo ha già almeno vent'anni di vita; cf. W. Foerster, in GLNT V, coli. 1382-1391). 151 Cf. H. Conzelmann, Teologia del NT, pp. 132-133. Da parte sua G. Howard, The Tetragram and the New Testament, JBL 96 (1977) 63-83, ipotizza addirittura che i primi autori del Nuovo Testamento abbiano collocato il tetragramma nelle loro citazioni o allusioni all'Antico Testamento e che solo i copisti abbiano poi utilizzato in un secondo tempo il greco! 152 Se ne può vedere una documentazione in: Psalterii Hexapli Reliquiae, cura et studio lohannis Card. Mercati - 1 . Codex Rescriptus Bibliothecae Ambrosianae O 39 SVP., Bybliotheca Vaticana 1958: tavola 3 riga 34, tavola 5 righe 5 e 28; P.W. Skehan, The Divine Name at Qumran, in the Masada Scroll, and in the Septuagint, Bulletin of the International Organization for Septuagint and Cognate Studies 13 (1980) 14-44; Pietersma A., Kyrios or Tetragram: A Renewed Questfor the Originai LXX, in A. Pietersma - C. Cox, edd., De Septuaginta. Studies in Honour of J. W. Wevers, Benben Publications, 1984, pp. 85-101; E. Tov, The Greek Minor Prophets Scrollfrom NaalHever(8HevXIIgr), DJD 8, Clarendon, Oxford 1990, p. 77; P.W. Skehan - E. Ulrich - J.E. Sanderson, Qumran Cave 4 - IV, DJD 9, Clarendon, Oxford 1992, pp. 169-172, 174, 176; P.-M. Bogaert, Septante et versions grecques, in DBS fase. 68, Paris 1993, coli. 536-676 + 677-692 specie 661-663. Vedi anche F. Vattioni, // tetragramma divino nelPFuad inv. 266, Studia Papyrologica 18 (1979) 17-29. Sui più antichi testimoni della LXX, cf. Passoni Dell'Acqua A., Versioni antiche e moderne della Bibbia, in R. Fabris e altri, Introduzione generale alla Bibbia, "Logos" 1, LDC, Leumann (Torino) 1994, pp. 347-372, specie 350s. 153 Cf. D.B. Capes, Old Testament Yahweh Texts, pp. 40-43.
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gna tenere presente che: (1) questa teoria è basata su di un uso non uniforme, visto che almeno in un frammento di 2Re 23,34 scoperto nella Geniza del Cairo, il greco reca un'abbreviazione di xupto<;; (2) non sappiamo come questi passi venissero letti ad alta voce nelle sinagoghe della diaspora di lingua greca, ma è ragionevole pensare che il nome divino fosse sostituito da un termine greco; (3) di fatto già nel Nuovo Testamento tutti gli autori quando citano l'Antico Testamento sostituiscono il tetragramma sacro con Kupio<;. Quest'ultima osservazione vale analogamente anche per Filone Al., che attesta il medesimo uso (cf. in particolare Abr. 121: "Il padre dell'universo è chiamato 'colui che è' [...] La potenza regale è detta Kyrios, poiché è giusto che colui il quale ha fatto ciò che è lo governi e 10 domini") 154 . Quanto a Flavio Giuseppe, va osservato il fatto seguente. Egli impiega Kupto? soltanto una volta per designare Dio (cf. Ant. 13,68), ma solo in una citazione di Is 19,19 ("In quel giorno ci sarà un altare dedicato al Signore in mezzo al paese d'Egitto") che perdipiù risulta ritoccata rispetto ai LXX (non solo -co> xupuo, ma più compiutamente xupteo TW Geco); altrimenti egli come equivalente di Yhwh usa il termine 8earò$T7K (cf! Ant. 1,20.72; 2,270; 4,40; 5,41.93; 11,64-65; 8,111); 11 motivo può essere che lo storico ebreo volesse evitare di attribuire al Dio d'Israele lo stesso titolo che al suo tempo, almeno a partire da Nerone, si erano assunti gli imperatori romani o almeno era stato loro attribuito. D'altra parte, notiamo invece che i LXX impiegano rarissimamente questo termine (solo in Is 1,24; Pr 29,25; in Gio 4,3 i due vocaboli sono associati: 8éa7roxa xupi&); il loro normale ricorso a Kupio? dipende forse dal fatto che al tempo della versione questo termine non era ancora invalso come diffuso epiteto pagano delle divinità 155 : certo è che nei LXX per designare Dio non si trova mai l'appellativo ava!;, "signore, padrone, capo", che veniva impiegato già fin dai tempi omerici per designare gli dèi (cf. //. 3,351; in Eschilo, Suppl. 524, Zeus è cantato come òcvoclj àvàxtoov, "Signore dei signori"). La conclusione, dunque, è molteplice: (1) l'uso cristiano di designare Gesù come " S i g n o r e " è già di origine semitica, siro-palestinese, come dimostra l'invocazione aramaica presente in ICor
154 Yedi in particolare J.R. Royse, Philo, Kyrios, and the Tetragrammaton, in D.T. Runia, ed., The Studia Philonica Annual. Studies in Hellenistic Judaism, III, Scholars, Atlanta 1991, pp. 167-183; secondo l'Autore, anche se per Vit.Mos. 2,114.132 si deve supporre che Filone abbia letto il tetragramma nella sua Bibbia, tuttavia nella sua abitudine costante di ricorrere al nome Kyrios per tradurre i testi dell'A.T. abbiamo la prova più antica e sicura di questa forma scritta. 155 Così ipotizza W. Foerster, in GLNT V, col. 1451. Ma vedi anche la voce omonima in C. Spicq, Note di lessicografia neotestamentaria, I, GLNT Suppl. 4, Brescia 1988, pp. 925-937.
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16,22156; (2) questa invocazione non può avere una semantica estenuata di tipo profano nel senso di "maestro", sia perché l'uso divino della medesima è già ampiamente attestato nell'aramaico del tempo, sia perché sarebbe stato incongruo rivolgersi al Gesù risorto con un epiteto che valeva pienamente solo per la sua vita terrena157, tanto più in un contesto eucaristico; (3) anche il titolo greco Kupio? dato a Gesù ha quindi un precedente palestinese158, e questo all'interno dello stesso movimento cristiano. Qui esso può valere come versione dell'aramaico Mare', con cui egli veniva già designato; ma non si può non pensare anche a una ripresa della prassi dei LXX, le cui Scritture venivano abitualmente lette anche nell'ambito del culto cristiano, e in esse il titolo vale come traduzione del tetragramma divino Yhwh, oltre che del ricorrente titolo Adonay detto spesso di Dio 159 . Sicché l'innovazione capitale del Nuovo Testamento, a partire già dalla comunità giudeo-cristiana palestinese, consiste proprio nell'applicare a Gesù di Nazaret una qualifica, che non apparteneva certo alla tradizione messianica, ma che più di ogni titolo messianico comportava un riferimento alla sua dimensione divina160. 156 Che il titolo Mare' in questo passo designi specificamente Gesù e non genericamente Dio, risulta sia dall'uso del titolo Kyrios nella ICor (già in 1,2 i destinatari sono qualificati come "coloro che invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo", e in 8,6 Paolo distingue fra "un solo Dio" e "un solo Signore Gesù Cristo"), sia dal contesto eucaristico dell'invocazione (cf. Did. 10,6), sia dal parallelo Apoc 22,20 ("Vieni, Signore Gesù"). 157 Sull'ipotesi che il titolo aramaico fosse già usato nei confronti di Gesù durante la sua vita terrena come mero sinonimo di Rabbi e che dopo la Pasqua si sia caricato di un senso forte, cf. sopra: nota 148. 158 Contro l'antica tesi di W. Bousset su di una origine extra-palestinese, cf. gli argomenti addotti da D.B. Capes, Old Testament Yahweh Texts, pp. 20-31: (1) non bisogna separare fittiziamente un giudaismo ellenistico da uno palestinese; (2) l'uso cristologico del titolo non è equivalente al suo uso pagano a motivo della struttura della fede cristiana; (3) il problema posto dall'uso forte del titolo al monoteismo ebraico non è sentito come un dramma né da Paolo e nemmeno dai suoi oppositori giudeo-cristiani. 159 II greco Kupio? infatti nella LXX traduce 6.156 volte il tetragramma YHWH e 439 volte l'appellativo divino àdonay; cf. G. Quell, in GLNT V, col. 1392; e C. Westermann, Dizionario teologico dell'Antico Testamento, I, col. 28. 160 Cf. già A. Deissmann, Licht vom Osten, pp. 298-304 (vedi p. 298: "Si può dire con certezza che al tempo delle origini cristiane Signore era un appellativo divino, comprensibile come tale in tutto il Mediterraneo orientale"). Per quanto riguarda l'ambito latino, si può aggiungere che la dimensione divina del titolo è attestata da fatti come i seguenti: Augusto rifiutò sempre con modestia l'appellativo di Dominus "come un'ingiuria e un obbrobrio (...) una adulazione indecorosa" (Svetonio, Aug. 53); e dopo la morte di Domiziano (che negli atti ufficiali aveva arrogantemente preteso di essere qualificato come Dominus ac deus noster; cf. Svetonio, Dom. 13) il poeta Marziale scriverà con sollievo nei confronti del più umile successore Nerva: "Non dirò più «Nostro dio e signore» (...) Qui non c'è un Signore, ma solo un imperatore" (Epigr. 10,72,3.8).
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Il titolo, peraltro, nel suo uso corrente è sempre espressione di una celebrazione altrui 161 . Esso infatti esprime non un'autocomprensione personale da parte di Gesù, che nella sua vita terrena non se lo è mai attribuito 162 , ma una convinzione propria di altri, cioè di chi sa di stare con lui in un rapporto di dipendenza e di affidamento: un "signore", a meno che non sia un tiranno oppressore, lo si sceglie liberamente in base ad alcuni dati oggettivi e lo si confessa poi come tale. Non per nulla, l'arcaica designazione aramaica Maranatha parla di Gesù non in assoluto come di un "Signore" {Mare'), ma in senso relativo come del "Signore nostro" (Marano'o Marari), dove cioè risulta per così dire costitutiva della Signoria di Gesù la dimensione ecclesiale dei credenti in lui. La comunità dei battezzati quindi è in qualche modo co-essenziale a questa Signoria, di cui costituisce l'altro polo: è tra di loro che essa realizza appieno la sua natura. L'orientamento escatologico dell'invocazione ci riporta alla tematica di un passo come quello di At 3,19-21, esaminato sopra. La dimensione della speranza e dell'attesa in senso cristologico appare quindi in primo piano come un dato arcaico della fede cristiana; essa sarà riformulata ben presto anche da Paolo (cf. lTs 1,10: "...attendere dai cieli il Figlio suo") e diventerà poi tradizionale (cf. 2Tm 4,8 dove i cristiani sono definiti come "coloro che attendono con amore la sua epifania"). Il probabile nesso con la celebrazione eucaristica implica anche un richiamo a quei passi sinottici, secondo cui Gesù durante l'Ultima cena operò un riferimento essenziale al banchetto del regno futuro (cf. Me 14,25 p a m ; Le 22,15-16). È anche possibile che l'invocazione implichi una funzione giudiziale-condannatoria connessa con la venuta di Gesù, tenuto conto che essa è collocata immediatamente a ridosso di una esecrazione ("...sia anathemal")163. Tuttavia, i paralleli segnalati con ICor 11,26; Ap 22,20; Did. 10,6 ci impediscono di restringere la sua interpretazione entro queste maglie negative. In quanto tale il grido aramaico può ben leggersi anche come espressione di quel161 Cf. la documentazione di tipo comparatistico a livello religioso, offerta da C. Spicq, Note di lessicografia neotestamentaria, I, pp. 929-932 (a proposito di dèi e sovrani in età ellenistica e imperiale). 162 Circa l'eccezione che potrebbe costituire Me 11,3 vedi sopra: nota 148. 163 Come tale, quasi come un'apposizione all'esecrazione, è stata storicamente compresa per esempio dal Concilio di Toledo del 733, di cui un canone, contro chi si fosse opposto a quegli statuti, così minaccia: "Qui contra nane definitionem praesumpserit, anathema maranatha, hoc est perditio in adventu domini sit" (citato in P.-E. Langevin, Jesus Seigneuret l'eschatologie, p. 204). Vedi anche sopra: nota 139.
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la " e s u l t a n z a " segnalata in At 2,46 come caratteristica delle prime celebrazioni liturgiche. In ogni caso, che non si tratti di una semplice fuga in avanti risulta proprio dalla qualifica di "Signore nostro". Già oggi la comunità confessa che Gesù è suo Signore a pieno titolo; e l'invocazione della sua venuta (ultima) non deve nascondere il fatto che i cristiani nel loro insieme vivono fin d ' o r a una speciale comunione con lui. T u t t ' a l più la chiesa confessa in questo m o d o la propria certezza di essere, anche al m o m e n t o del giudizio escatologico, al riparo da ogni sentenza condannatoria, poiché il suo Signore garantisce per lei 164 .
4. Gesù Cristo e lo Spirito Santo Un capitolo a parte della cristologia giudeo-cristiana, e di un certo rilievo, è sicuramente quello che riguarda il nesso tra la persona di Gesù e lo Spirito Santo. Per la verità, è difficile a questo p r o p o sito rifarsi a un preciso tipo di fonti, poiché se ne parla un p o ' in tutti gli scritti del Nuovo Testamento. La difficoltà concerne la possibilità di determinare cronologicamente l'arcaicità palestinese della loro stesura o almeno delle loro concezioni in materia. Ciò che c'interessa infatti non è il tema in quanto tale; esso, per esempio, riceverà in Paolo degli sviluppi peculiari e interessanti: m a a p p u n t o di sviluppi si tratta. La cosa importante invece è di stabilire quali sono gli elementi pre-paolini, proto-cristiani e possibilmente già palestinesi di questo specifico tema. U n a cosa è certa: nella tradizione giudaica di sfondo (biblica ed extrabiblica) la dotazione pneumatica del Messia è ben documentata, e qui ne offriamo i dati principali. A parte l'affermazione di ISam 16,13, secondo cui dopo la sua unzione "lo Spirito di Yhwh entrò in Davide da quel giorno in poi", il testo più importante a questo riguardo nei libri canonici è sicuramente Is 11,1-4: "Un germoglio nascerà dal tronco di Isai, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui riposerà lo Spirito \rùah\ di Yhwh, Spirito di sapienza e d'intelligenza, Spirito di consiglio e di fortezza, Spirito di conoscenza e di timore di Yhwh [questa sesta caratteristica è inve164 È su questa linea che andrà letta la rassicurante affermazione di Paolo, secondo cui alla parusìa "andremo incontro al Signore nell'aria, e così saremo sempre con il Signore" (lTs 4,17). Più ampi sviluppi alle pp. 154-156.
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ce così sostituita nei LXX: e di pietà]; si compiacerà del timore di Yhwh. (...) Giudicherà con giustizia i miseri (...). Colpirà il violento con la verga della sua bocca e con lo Spirito delle sue labbra ucciderà l'empio". Questo passo, che ha dei paralleli nel testamento di Davide in 2Sam 23,1-7, dipinge il re davidico dotato in pienezza di una potenza divina, che gli permette un governo totalmente giusto dalle caratteristiche persino paradisiache 165 . Il passo eserciterà uno straordinario influsso sulla successiva tradizione giudaica (a livello di messianologia) e anche su quella cristiana (a livello di cristologia) 166 . Ne troviamo gli echi in Ps. Sai. 17,37 ("Dio lo ha reso forte con uno spirito santo" [ó 0eò<; xaxeipyàaaxo aùxòv Suvaxòv èv 7rv£U{jLaxi àyito], e contesto); 18,7 ("Beati coloro che vivranno in quei giorni... sotto il bastone della correzione dell'Unto del Signore nel timore del suo Dio, con ammaestramento di spirito e di giustizia e di forza"); lEn. 49,3 ("In lui alberga lo spirito di sapienza e lo spirito che rende intelligenti, lo spirito di dottrina e di forza, lo spirito di coloro che dormono nella giustizia. Ed egli giudica le cose nascoste..."); 62,2 ("E il Signore degli spiriti stava sul trono della sua Gloria e lo spirito di giustizia scorreva su di Lui e la parola della sua bocca uccideva tutti i peccatori e tutti i perversi"); Test. Lev. 18,7 ("La gloria dell'Altissimo sarà pronunciata sopra di lui e lo spirito di intelligenza e di santità riposerà su di lui [sull'acqua]"); Test. Jud. 24,2.5-6; lQSb 5,24s ("Con lo spirito delle tue labbra ucciderai gli empi [...] e con la forza eterna, con lo spirito della conoscenza e del timore di Dio"); HQMelch 2,18 ("E il messaggero è l'unto dello spirito..."; qui il richiamo è piuttosto a Is 61,1, ma forse si potrebbe già considerare questo passo come una rilettura di Is 11,1-4). Da parte sua il Targum tradurrà parafrasando così Is 11,1: "E un re uscirà dai figli di lesse, e il Messia sarà esaltato dai figli dei suoi figli" 167 . Una particolare dotazione pneumatica, ma non di tipo messianico, è testimoniata a Qumràn a proposito dell'autore degli Inni, il Maestro di giustizia. Così leggiamo per esempio in 1QH 12,11-13: " E io, l'Istruttore, ti ho conosciuto, mio Dio, per lo spirito che mi hai dato, ho ascoltato fedelmente il tuo segreto meraviglioso grazie al tuo santo spirito" (trad. C. Martone; vedi anche 1QH 7,6; 9,32; 13,19; 14,25; 16,11; 17,17). Ma questa mah termina esclusivamente nella persona dell'orante e non si fa promotrice di alcun intervento né giudiziale né salvifico al di fuori
165 vedi per esempio L. Alonso Schòkel e J.L. Sicre Diaz, IProfeti, Boria, Roma 1984, pp. 182-185. 166 Vedi M.-A. Chevallier, L'Esprit et le Messie dans le Bas-Judaisme et le Nouveau Testament, PUF, Paris 1958, e R. Penna, Lo Spirito di Cristo, pp. 59-144. 167 Nel Nuovo Testamento se ne trovano numerosi echi: del v. 1 (in Mt 2,23; Eb 7,14; Ap 5,5), del v. 2 (in Mt 3,16; Gv 1,32; Ef 1,17; lPt 4,14; Ap 1,4), e del v. 4 (in 2Ts 2,8; Ap 19,15.21).
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di lui, il quale appare quindi come esponente di una spiritualità propria di tutta la comunità che si considera erede dello Spirito escatologico di Dio168. Se da questi ambiti passiamo alla figura storica di Gesù, stando ai Sinottici, sorprende constatare che egli non si richiama mai allo Spirito di Dio né per fondare il suo comportamento né per convalidare le sue parole. Infatti nel loghion della fonte Q Le 11,20 / Mt 12,28, la versione lucana ("Se io scaccio i demoni con il dito di Dio...") ha tutti i titoli per essere considerata quella originale rispetto alla variante matteana "con lo Spirito di Dio" 169 . Più significativo è il loghion circa il peccato contro lo Spirito Santo (cf. Me 3,28 parr.: il contesto è la controversia su Beelzebul), che di fatto va spiegato come un peccato contro Gesù stesso, in quanto lo si accusa di essere guidato da uno "spirito impuro" invece che dallo Spirito di Dio (vedi i Commenti); il detto suppone comunque in Gesù la coscienza di una specialissima dotazione pneumatica, anche se questa non viene propriamente tematizzata. Del resto, la non infrequente definizione di Gesù come "profeta" nelle narrazioni evangeliche (cf. Me 6,4.15; 8,28; Mt 21,11; Le 4,18; 7,16; 24,19; Gv 6,14; 7,40) esprime la persuasione delle prime comunità sul fatto che in Gesù "Dio ha visitato il suo popolo" (Le 7,16)170. Se le redazioni evangeliche hanno rispettato la sostanziale reticenza di Gesù in materia, ciò è avvenuto per due motivi fondamentali: (1) Gesù nella sua vita terrena non si è dimostrato quel Messia potente atteso dalla tradizione giudaica, secondo cui appunto lo Spirito è una dotazione di forza irresistibile; non per nulla egli è condotto nel deserto dallo Spirito (cf. Me 1,12 parr.) solo per superare delle tentazioni che avrebbero voluto persuaderlo a esibizioni di potenza; (2) la chiesa primitiva sa che la connessione di Gesù con lo Spirito è un dato pasquale, e nessuno come Gv 7,39 lo dichiarerà tanto apertamente: "Lo Spirito non era ancora stato dato, poiché Gesù non era ancora glorificato". 168 Cf. A.E. Sekki, The Meaning of Ruah at Qumran, SBL DS 110, Scholars, Atlanta 1989. 169 Oltre ai Commenti, cf. C.K. Barrett, The Holy Spirit and the Gospel Tradition, SPCK, London 1966 (U947), pp. 62-63. 170 A questo proposito occorre non maggiorare la portata di quei testi giudaici che sembrano affermare l'estinzione dello Spirito Santo in Israele dopo la morte di Aggeo, Zaccaria e Malachia (cf. soprattutto t.Sota 13,2-4; e poi Sai 74,9; IMac 4,46; 9,27; 14,41; 2Bar 85,3; FI. Giuseppe, C. Ap. 1,37-41); vedi in merito J.R. Levison, Did the Spirit Withdraw from Israel? An Evaluation of the Earliest Jewish Data, NTS 43 (1997) 35-57.
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Spettò alla riflessione cristologica della prima comunità giudeocristiana operare finalmente un nesso esplicito tra Gesù e lo Spirito. Ciò avvenne in rapporto a tre momenti dell'esistenza di Gesù.
4A La risurrezione Il primo e più certo concerne la sua risurrezione. Infatti nell'arcaica confessione di fede riportata in Rm l,3b-4a si dichiara che Gesù "fu costituito figlio di Dio in potenza secondo lo Spirito di santità dalla risurrezione dei morti" (cf. voi. I, pp. 201-208). L'espressione "Spirito di santità", unica nel suo genere in tutto il Nuovo Testamento, è, tra altri, un indizio chiaro di pre-redazionalità, che ci riporta a un linguaggio palestinese. Infatti, la sua formulazione greca (uveGu,a àyicaauvr)?) trova un parallelo letterale nell'apocrifo Test. Lev. 18,11 ("Darà da mangiare dell'albero della vita ai santi e su di essi starà lo spirito di santità"), ma è un semplice calco dell'ebraico ruah haqqódes che è testimoniato sia nel TM (cf. Is 63,10.11; Sai 51,13) sia a Qumran (cf. 1QS 9,3; 1QH 16,3; 17,26; CD 2,12), e significa semplicemente "Spirito santo". L'affermazione di Rm l,4a può essere letta a un doppio livello, a seconda che si vincola lo Spirito con due diversi elementi della frase: (1) un primo vincolo può essere visto in una connessione sintattica di questo tipo: "Fu costituito...secondo (xoc-cà) lo Spirito Santo"; in questo caso, il nesso inteso è quello che corre tra l'atto divino della risurrezione di Gesù e lo Spirito, come a dire che quell'evento è riconducibile soltanto allo Spirito di Dio171 (analogamente a ciò che dirà Paolo in Rm 6,4: "Cristo fu risuscitato dai morti mediante [Sta] la gloria del Padre"; cf. 2Cor 13,4: "egli vive per [ex] la potenza di Dio"); ciò che balza in primo piano è la dimensione teo-logica dell'evento 172 . (2) Ancor più evidente è un altro vincolo, quello che connette lo Spirito santo con il Risorto stesso. Infat171 Sullo sfondo allora si potrebbero vedere almeno due testi veterotestamentari, che connettono l'azione dello Spirito con due momenti decisivi e fondamentali: la creazione del mondo (cf. Sai 104,30; Gen 1,2) e la ri-creazione di Israele dopo l'esilio (cf. Ez 37: visione delle ossa aride; cf. v. 14: "Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete"). 172 Vedi anche Ap 11,11 : "Dopo tre giorni e mezzo, un soffio di vita procedente da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi". In questo senso si può ricordare la preghiera liturgica ebraica delle Diciotto Benedizioni, di cui la prima suona così: "Sii tu benedetto, YHWH, che vivifichi i morti" (accostabile a un testo come Rm 4,17: "Dio vivifica i morti e chiama all'esistenza le cose che non esistono").
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ti il complemento modale (parallelo al precedente del v. 3b: "Nato dal seme di Davide secondo la carne") concerne primariamente la figura stessa di Gesù e in particolare connota la sua nuova condizione di "figlio potente". Proprio come si dice in Ps. Sai. 17,37 (cf. sopra), lo Spirito Santo è ciò che rende potente il Risorto; o meglio: tutta la nuova potenza del Risorto consiste essenzialmente nello Spirito Santo. Questa prospettiva è gravida di conseguenze cristo-soteriologiche. Ciò significa non solo che Gesù ora è stato investito dallo Spirito così da essere innalzato a un nuovo tipo di esistenza, ma pure che egli ora dispone personalmente dello Spirito, che lo rende in grado di intervenire costantemente per il bene (cioè la santità) dei suoi discepoli. È possibile, invece, che l'affermazione secondo cui Gesù dona lo Spirito stesso si fondi su di una successiva fase di riflessione. Su questa linea infatti si spiega la frase di Pietro nel discorso di Pentecoste: "(Gesù) innalzato dalla destra di Dio 173 , e ricevuto dal Padre lo Spirito Santo della promessa, lo ha effuso come voi vedete e udite" (At 2,33; cf. 1,4). Non si può dire che questa formulazione sia stata coniata al momento dei fatti, ma l'idea ivi espressa sviluppa semplicemente una concezione tipica già della primitiva comunità giudeo-cristiana. Se la potenza del Risorto consiste tutta nella sua nuova dotazione pneumatica, se ne poteva dedurre logicamente che il suo stesso dono pasquale, che egli era stato messo in condizione di comunicare, fosse anch'esso di tipo pneumatico 174 .
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ti e tre i Sinottici (e affermato dal quarto evangelista in Gv 1,32-34) depone certamente a favore dell'arcaicità del racconto, tenuto conto anche del fatto che "il cristianesimo primitivo si inscrive fondamentalmente nel campo dei movimenti battistici giudaici" 175 . Il dato storico del battesimo di Gesù, per molti versi risultante problematico 176 , non poteva non originare una specifica riflessione da parte della prima comunità giudeo-cristiana. Ne è segno eloquente lo scenario che segue il fatto essenziale dell'immersione nell'acqua, composto da: la visione dei cieli aperti, la simbologia dello Spirito che scende come colomba, e la frase pronunciata da una voce proveniente dall'alto. Senza addentrarci qui nei dettagli del racconto teofanico (tutti d'impronta fortemente giudaica), possiamo fare sostanzialmente nostra la proposta, secondo cui è possibile scorgere in questa teofania un tentativo ermeneutico, di conio antico, per spiegare non tanto il rito in se stesso quanto piuttosto l'identità di Gesù177. Infatti, "il suo forte contenuto cristologico compensa nella mente dei lettori la sconcertante umiliazione del battesimo" 178 . In ogni caso, dire che lo Spirito scese su Gesù significa affermare che egli è stato chiamato e inviato da Dio come suo figlio e suo servo dalle particolari connotazioni profetiche (che Le 4,16-30 espliciterà chiaramente).
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K. Berger, Theologiegeschichte des Urchhstentums, p. 106. II problema posto dal battesimo di Gesù consiste, da una parte, nel fatto che egli vi si sottopone benché non sia un peccatore bisognoso di conversione, e, dall'altra, nel fatto che egli è il Messia, "il più forte" (Me 3,11; cf. Gv 1,15), che ciononostante si confonde anonimamente tra la gente accorsa da Giovanni. Il problema è percepito esplicitamente da Mt 3,14-15 e dall'apocrifo Vangelo secondo gli Ebrei (in Gerolamo, C. Pel. 3,2: alla madre e ai suoi fratelli che gli dicono di andare da Giovanni che "battezza per la remissione dei peccati", Gesù ribatte in modo un po' sibillino: "Che peccati ho fatto io, per andare a farmi battezzare da lui? A meno che proprio ciò che ho detto sia frutto di ignoranza"). Persino il quarto vangelo ha voluto togliersi dall'imbarazzo tralasciando addirittura la narrazione del battesimo e limitandosi a una generica dichiarazione del Battista sul dono dello Spirito a Gesù (cf. Gv 1,32-34). Altrettanto problematico è il fatto che Gesù durante il suo ministero non battezza (probabilmente egli appartenne al movimento battista di Giovanni, dal quale poi si staccò; cf. C.H. Dodd, Historical Tradition in theFourth Gospel, University Press, Cambridge 1963, pp. 251-301) e che nella sua vita terrena non c'è alcun loghion che raccomandi ai suoi discepoli di amministrare il battesimo. 177 Vedi F. Lentzen-Deis, Die Taufe Jesu nach den Synoptikern. Literarkritische und gattungsgechichtliche Untersuchungen, Knecht, Frankfurt a.M. 1970. 178 S. Legasse, Alle origini del battesimo. Fondamenti biblici del rito cristiano, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, p. 63. In sintesi, sui problemi posti dall'origine storica e dai significati propri del battesimo, cf. L. Hartman, Baptism, in ABD 1, pp. 583-594. 176
4.2 II Battesimo al Giordano L'attenzione si sposta poi al battesimo, avvenuto al Giordano per mano di Giovanni Battista. Il fatto che esso sia narrato da tut173 Questa traduzione è preferibile a quella che dice "Innalzato alla destra di Dio" (CEI, Haenchen, Conzelmann, Schneider, Pesch); infatti il complemento TTJ 8egi? xoG 0eoG si intende al meglio come strumentale (cf. At 2,32 e 5,31; così anche BJ, Stàhlin, Wikenhauser, Barre») sulla falsariga di Sai 118,15b-18 LXX: "La destra del Signore ha compiuto una meraviglia, la destra del Signore mi ha innalzat o " (cf. la metafora del braccio teso in Es 6,6; Dt 4,34). 174 È anche per questo che R. Pesch, Die Apostelgeschichte (Apg 1-12), I, EKKV/1, Zùrich-Einsiedeln 1986, scorge nel discorso di Pietro a Pentecoste la cristologia più antica (cf. pp. 126-128). Del resto, tutta la pneumatologia degli Atti è di tipo pre-paolino; infatti lo Spirito vi è presentato non tanto come un principio interiore di vita nuova quanto piuttosto come una forza propulsiva che spinge e sostiene nei compiti della testimonianza, della predicazione, e della missione (cf. J.H.E. Hull, The Holy Spirit in the Acts of the Apostles, Lutterworth, London 1967).
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4.3 // concepimento Con un passo ulteriore si giunge a connettere l'intervento dello Spirito Santo con il concepimento stesso di Gesù. I testi in proposito sono solo due: Mt 1,20 e Le 1,35179. Anche se recano i segni di una redazione propria di ciascuno dei due evangelisti (quindi tardivi), non si può dubitare che essi raccolgano una tradizione preredazionale che in ultima analisi è di tipo giudeo-cristiano. Oltre tutto il resto, la menzione stessa dello Spirito ci porta in questa direzione. Essa distanzia il caso-Gesù sia dai racconti di concepimento straordinario propri della tradizione biblica, dove si tratta sempre di donne sterili (di cui si suppone comunque che siano fecondate dal marito; cf. Sara, madre di Isacco; la moglie di Manoach, madre di Sansone; Anna, madre di Samuele; ed anche Elisabetta, madre di Giovanni), sia dai parallelismi con le storie di concepimenti avvenuti per l'unione di un dio con una donna mortale, presenti nella mitologia greca (cf. per esempio Perseo, Eracle, Asclepio, i Dioscuri), oltre che in alcune notizie su determinati personaggi storici (come Alessandro Magno e Ottaviano Augusto)180. In tutti questi casi non si parla mai di un intervento dello Spirito. Né fa eccezione la notizia fornitaci da Plutarco, secondo cui "gli egizi fanno una distinzione, comunemente accettata, secondo la quale non è impossibile che lo spirito di un dio (7cveGfxa GeoG) avvicini una donna e deponga in lei i germi di una generazione, mentre è impossibile l'unione e il rapporto carnale di un uomo con una dea"181. Come si vede, sia qui sia nei casi suddetti si tratta 179 Oltre i commenti, vedi in proposito R.E. Brown, La nascita del Messia secondo Matteo e Luca,Cittadella, Assisi 1981 (orig. ingl., New York 1977, 21993), rispettivamente pp. 173-181 e pp. 417-424; R. Laurentin, Les évangiles de l'Enfancedu Christ, Desclée, Paris 1982 (trad. ital., Paoline, Cinisello Balsamo 1985), rispettivamente pp. 321-323 e pp. 189-194, con una sintesi alle pp. 470-505. 180 Per Alessandro, cf. Plutarco, Vit. Alex. 2-3 (qui però si registrano racconti diversi, riguardanti non solo il concepimento [secondo alcuni la madre Olimpiade sarebbe rimasta incinta da un fulmine o da un serpente], ma anche sull'atteggiamento di Olimpiade verso il figlio [secondo alcuni scrittori essa avrebbe confidato ad Alessandro il segreto del suo concepimento, mentre secondo altri essa ripudiava tutte queste credenze!]). Per Augusto, cf. Svetonio, Aug. 94,3-5 (secondo cui la madre Atia sarebbe stata messa incinta da Apollo durante una notte passata da lei nel tempio del dio). 181 Vit. Num. 4; l'affermazione è fatta per sottolineare l'eccezionalità di Numa, secondo re di Roma, il quale al contrario, pur essendo un mortale, si unì a una dea, la ninfa Egeria, da cui trasse anche ispirazione per stendere la legislazione fondamentale per la città. Tuttavia, è interessante osservare che poco dopo lo stesso Plutarco accetta come possibile una ipotesi per così dire 'laica', secondo cui Numa
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comunque sempre di un intercorso carnale, quindi propriamente di un concepimento non verginale. I due testi evangelici invece intendono proprio questo. Il testo più forte è quello di Le 1,35 dove si leggono due frasi in parallelismo sinonimico: "Lo Spirito Santo verrà (è7reXeuarixai) su di te e la potenza dell'Altissimo ti adombrerà (Ì7cicjxtà<jei)". È evidente anzitutto la corrispondenza tra Spirito e dynamis, come del resto si nota spesso anche altrove (cf. Le 4,14; At 1,8; 6,8.10; 10,38; Rm l,4a; 15,13.18; ICor 2,4; 5,4; lTs 1,5; 2Tm 1,7). Quanto ai due verbi, il primo richiama un testo come Is 32,15 LXX ("Verrà su di noi uno Spirito dall'alto"), dove si parla della trasformazione escatologica del deserto in un giardino; il secondo invece richiama l'idea biblica della nube che, come metafora della presenza di Dio, riempiva la Tenda del Convegno durante l'esodo nel deserto (cf. Es 40,35: "La nube dimorava [TM: Mkan\ LXX: Ì7teaxtaCev] su di essa e la gloria del Signore riempiva la Dimora"). Anche se il testo suggerisce una interessante mariologia, va precisato che il suo intento primario è di sottolineare non tanto la grandezza della madre quanto quella del figlio suo: "Colui che nascerà santo sarà chiamato Figlio di Dio" (Le l,35b)182. Risulta comunque chiaro che la pneumatologia ha già le sue radici nel giudeo-cristianesimo palestinese, e che un suo settore specifico, forse il più antico a livello di attestazione, riguarda proprio il rapporto dello Spirito con la persona di Gesù. Se la prima comunità considerava il Gesù terreno passivamente condotto dalla forza dello Spirito, alla maniera degli antichi profeti, essa ora vede in lui come Risorto il depositario messianico e quindi il dispensatore attivo del medesimo. Quest'ultimo aspetto però non è sviluppato; spetterà soprattutto a Paolo, e poi a Giovanni, enuclearne tutte le virtualità183. (al pari di Licurgo e di altri sovrani legislatori), "dovendo muovere moltitudini impetuose e restie a introdurre grandi innovazioni nei loro Stati, finsero di godere della stima di Dio" (come a dire che il racconto dell'unione con Egeria era solo un «instrumentum regni»)! 182 Cf. S. Zedda, "Colui che nascerà santo sarà chiamato Figlio di Dio". I. Breve storia dell'esegesi recente, RivBibl 33 (1985) 29-43; //. Questioni sintattiche ed esegesi, ib. 165-189. 183 Dei due tipi di formula, che F.W. Horn, Dos Angeld des Geistes, pp. 62-65, considera più tipiche per esprimere la partecipazione allo Spirito (cioè: "Dio ci ha dato lo Spirito" [At 5,32; 15,8; Rm 5,5; 11,8; 2Cor 1,22; 5,5; lTs 4,8; 2Tm 1,7; lGv 3,24; 4,13] e "Voi avete ricevuto lo Spirito" [Gv 7,39; 14,17; 20,22; At 2,33.38; 8,15.17.19; 10,47; 19,23; Rm 8,15; ICor 2,12; 2Cor 11,4; Gal 3,2.14; lGv 2,27]), la prima è da considerarsi più antica dell'epistolario paolino, forse anche perché non fa alcun riferimento a una mediazione cristologica nel dono.
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5. II Tempio e la Legge Verso due delle componenti fondamentali del giudaismo la prima generazione cristiana adottò atteggiamenti diversi. 5.1 // Tempio A seguito della critica pur parziale già condotta da Gesù, la prima comunità di Gerusalemme prese le distanze dalle liturgie sacrificali del Tempio, apparendo in ciò piuttosto vicina agli esseni e ai battisti. Il Tempio resta luogo di preghiera (cf. At 2,46; 3,1)184 e tutt'al più luogo deputato per lo scioglimento di un voto (cf. At 21,26). Ma per Stefano e il suo gruppo è fatto oggetto di forte critica (cf. At 6,13; 7). Ormai "per le comunità primitive Tempio e sinagoga erano soprattutto luoghi di predicazione e di missione"185, tant'è vero che il momento forte dell'espressione religiosa avviene con "lo spezzare il pane nelle varie case" (At 2,46.42), in ambito familiare, dove si raduna l'assemblea cristiana (cf. Fm 2)186. Questo superamento del concetto di luogo sacro, deputato ai riti di espiazione, raggiungerà il suo culmine in Paolo, che definirà sorprendentemente la comunità stessa "tempio di Dio" (ICor 3,16-17), e nel Quarto Vangelo, che dichiarerà decaduto ogni luogo di culto (cf. Gv 4,20-24) identificandolo ormai nel corpo di Cristo (cf. 2,21)187. Ma il primo passo di questo cammino venne intrapreso già dalla comunità di Gerusalemme188, ed è espresso 184
In questo senso va anche la notizia di Eusebio, H.E. 2,23,6, secondo cui solo a Giacomo era permesso di entrare nel Santuario e là stava "in ginocchio a implorare perdono per il popolo, al punto che le ginocchia gli si erano fatte dure come quelle di un cammello per il continuo prosternarsi a Dio in adorazione e chiedere perdono". Comunque queste notizie, che sanno di agiografia popolare, mancano nel passo in cui FI. Giuseppe, Ant. 20,197-203, ci parla di lui e della sua morte. 185 F. Hahn, // servizio liturgico nel cristianesimo primitivo, SB 20, Paideia, Brescia 1972 (orig. ted., Stuttgart 1970), p. 47. 186 vedi in merito H.-J. Klauck, Hausgemeinde und Hauskirche imfruhen Christentum, SBS 103, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1981. 187 Questo atteggiamento negativo verso il Tempio e i suoi sacrifici proseguirà non solo in ambito anti-giudaico (cf. Ep. Barn. 2,6: "Dio ha abolito tutti questi [sacrifici]"), ma anche nella tradizione giudeo-cristiana (cf. Ps.-Clemente, Ricogn. 1,64: "Noi sappiamo con certezza che Dio è esasperato per i sacrifici che voi offrite, e tanto più ora che è finito il tempo dei sacrifici"; in 1,55 ai sacrifici viene contrapposto il battesimo). 188 Cf. C. Grappe, D'un Tempie à l'autre. Pierre et l'Église primitive de Jérusalem, EHPR 71, PUF, Paris 1992, che studia appunto il passaggio dal Tempio
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icasticamente nell'annotazione sinottica (di timbro giudeo-cristiano) secondo cui alla morte di Gesù "il velo del Tempio si squarciò in mezzo da cima a fondo" (Me 15,38//): è come dire che Dio ormai non è più là, ma sulla croce189. Vi si legge una soteriologia implicita, che comporta evidentemente anche un giudizio su Gesù e sulla sua funzione salvifica. Anche se questo collegamento con il Tempio troverà poi solo in Eb la sua massima esplicitazione cristologica, l'indicazione non va trascurata a motivo della direzione in cui essa è già decisamente orientata. 5.2 La Legge Ma è soprattutto nel settore della Legge che si gioca maggiormente la comprensione del ruolo di Gesù e la sorte del vincolo che lega la chiesa a Israele, poiché ancor più del Tempio essa sta nel cuore della rivelazione di Dio al suo popolo. Ebbene, detto subito in termini generali, i primi cristiani vogliono evitare due opposti poli di una falsa cristologia: da una parte, sganciare Gesù e se stessi dalla matrice giudaica e, dall'altra, nascondere lo scarto provocato dalla sua figura e dalla propria fede. Ora, le più antiche fonti giudeo-cristiane non tematizzano l'argomento; anzi, esse offrono indizi di una varietà di posizioni anche contrastanti. Così, per esempio, mentre la fonte Q non presenta una vera valutazione negativa della Legge190, ancora una volta Stefano e il suo gruppo sono invece piuttosto critici (cf. At 6,13-14)191; da parte sua, Mt sottoligerosolimitano a quello della chiesa. Qualcosa di analogo avveniva già nella coscienza degli uomini di Qumràn, come si legge per esempio in 1QS 8,7-10 (cf. G. Gàrtner, The Tempie and Community in Qumran and the New Testament, SNTS MS 1, University Press, Cambridge 1965). 189 Cf. C. Perrot, Jesus, Christ et Seigneur, p. 165. Vedi anche l'ottimo commento di S. Legasse, L'évangile de Marc, II, LD Commentaires 5, Cerf, Paris 1997, pp. 976-979. 190 Lo si vede in Le 16,16.17/Mt 11,12; 5,18. A questo proposito già S. Schulz, Q, pp. 114-116 e 261-264, commentava il doppio loghion nel senso che tra il tempo della Legge e il tempo del Regno non c'è alternativa ma solo successione in quanto, se nel tempo della Legge e dei Profeti il Regno non era una presenza di salvezza, ora però nel tempo del Regno la Legge e i Profeti continuano il loro ruolo. Sulla stessa linea ora vedi anche W.R.G. Loader, Jesus' Attitude towards the Law. A Study ofthe Gospels, WUNT 2.97, Mohr, Tubingen 1997, pp. 390-431. 191 Per quanto il racconto di At 6-7 sia segnato dalla redazione lucana (enfatizzata da S. Legasse, Stephanos. Histoire et discours d'Etienne dans les Actes des Apótres, LD 147, Cerf, Paris 1991), non si può negare che Luca sia stato vincolato da determinate tradizioni in materia (cf. C.K. Barrett, Acts, p. 321, e C. Perrot, Jesus, Christ et Seigneur, p. 101 nota 1).
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nea esplicitamente il valore positivo della Legge fin nei suoi dettagli (cf. Mt 5,17-19). Certo è che, se dobbiamo retroproiettare alla prima generazione il posteriore giudizio espresso dagli Ebioniti, dobbiamo credere che i giudeo-cristiani "consideravano indispensabile la stretta osservanza della legge mosaica, poiché credevano che la sola fede in Cristo e la vita ad essa conforme non sarebbero bastate a salvarli"192! Del resto, la frequente polemica paolina su questo punto (cf. tutta la lettera ai Galati) ci informa indirettamente sulla consistenza e sul peso che il giudeo-cristianesimo nomista della prima ora aveva persino fuori di Gerusalemme. Un apporto alla questione ci può venire anche dal cosiddetto « decreto apostolico», che, rappresentando un compromesso pastorale tipicamente giudeo-cristiano (circa la comunione tra cristiani provenienti dal giudaismo e quelli provenienti dal gentilesimo), può indirettamente gettare luce anche sulle concezioni cristologiche dei primi cristiani gerosolimitani, di matrice giudaica. Lasciando da parte alcune questioni di contorno193, se ne possono trarre in breve le seguenti conclusioni sulla scorta del più recente studio in materia194. Il decreto dimostra anzitutto che la chiesa di Gerusa192 Eusebio, H.E. 3,27,2; secondo Eusebio, furono già i primi cristiani a imporre loro il nome di "ebioniti" (dall'ebraico 'ebyón, "povero, indigente") "poiché avevano idee povere e meschine su Cristo" (ib. 3,27,1). Vedi anche analogamente Ireneo, Adv. haer. 1,26,2 ("si fanno circoncidere e conservano le consuetudini della legge e il modo di vivere dei Giudei"); e Origene, C. Cels. 2,1 ("i Giudei che credono in Cristo non hanno affatto abbandonato la patria legge"). Anche gli Elcasaiti già in età traianea facevano gran conto della Legge giudaica (cf. L. Cirillo, Elettaseli e gli elchasaiti. Un contributo alla storia delle comunità giudeo-cristiane, Marra, Cosenza 1984, pp. 79-84). Del resto, l'ammonimento di Ignazio, AdMagn. 8,1 ("se vogliamo vivere secondo la regola del giudaismo [xaxà VÓJJLOV TouSaiafióv], confessiamo di non aver ricevuto la grazia"), suppone chiaramente che al suo tempo alcuni settori del cristianesimo su questo punto erano giudaizzanti. Una particolare valorizzazione della Legge è testimoniata poi dallo Ps.-Clemente, come si legge per esempio in Ricogn. 1,35 (dove la Legge data al Sinai è definita "la nuova legge di vita"); 2,55 ("Fantasticano assurdità contro Dio coloro che non leggono la Legge come viene trasmessa dai maestri"); cf. L. Cirillo, L'antipaolinismo nelle Pseudoclementine, RSB 1 (1989/2) 121-137. 193 Esse riguardano la datazione (durante il concilio di Gerusalemme secondo At 15,20.29? Oppure dopo, quando ad Antiochia si presenta il problema della comunione di mensa dei giudeo-cristiani con i pagano-cristiani, secondo Gal 2,11-14? Meglio la seconda possibilità), la redazione (la sequenza delle quattro clausole in At 15,20 [idoli, impudicizia, soffocato, sangue] è preferibile a quella di At 15,29; 21,25 [idolotiti, sangue, soffocato, impudicizia]), e il successivo impatto (per esempio in Ps.-Clemente, Hom. 7,8,1-2; 8,19,1; Recogn. 4,36,4, l'elenco è allungato a 7-8 clausole). 194 Cf. J. Wehnert, Die Reinheit des "christlichen Gottesvolkes" aus Juden und Heiden. Studien zum historischen und theologischen Hintergrund des sogenannten Aposteldekrets, FRLANT 173, Vandenhoeck, Gòttingen 1997: l'Autore ci tiene a
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lemme, di cui è emanazione, resta fermamente ancorata a una spiritualità della Legge. Il suo testo è comprensibile sulla base di Lv 17-18 (che si rivolge sia agli israeliti sia ai gherim o "stranieri" che vivono con loro) e in particolare del suo Targùm (che ne precisa e attualizza il contenuto)195. Esso in sostanza vuole applicare sia ai giudeo-cristiani sia ai cristiani di provenienza gentile le stesse regole di purità allo scopo di fare partecipare anche i secondi all'unico popolo di Dio, secondo un modello che sarà poi esplicitato in Ef 2,11-22: "Non siete più estranei né forestieri, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio" (v. 19). Ciò che emerge in primo piano quindi è una ecclesiologia, che riflette sulla partecipazione dei gentili alla 'santità' originaria dei giudeo-cristiani. Ma c'è una fondamentale differenza con il giudaismo che ammette nel proprio seno dei gentili definiti con la categoria di Proseliti: la loro piena partecipazione alla comunità giudaica è vincolata alla circoncisione e alla totale osservanza della Torah. Invece qui la libertà dalla circoncisione, concessa ai cristiani di origine gentile, rispecchia il fatto decisivo che "la comunione tra i cristiani di origine giudaica e quelli di origine gentile non si basava primariamente sull'ideale dell'obbedienza alla Legge, ma sulla confessione di Gesù come Messia del Dio d'Israele"196. Se questo atteggiamento ha un risvolto liberale e comporta il notevole vantaggio di non livellare le differenze tra le due componenti della comunità cristiana, esso però dimostra pur sempre l'alta considerazione della Legge da parte giudeo-cristiana197. Ed è proprio questa seconda componente della loro identità che Paolo non accetterà, così come si opporrà a Pietro nel cosiddetto incidente di Antiochia (narrato in Gal 2,11-14). Egli infatti intravedeva in un simile comportamento compromis-
dire che questa è la prima monografia sull'argomento dal 1912; poiché egli si misura con le posizioni dei maggiori studiosi in materia, vi si potrà trovare anche tutta la bibliografia specifica. 195 Per esempio, Lv 17,7 ("Essi non offriranno più i loro sacrifici ai satiri") diventa in TPsJ: "Essi non offriranno più i loro sacrifici agli idoli, che sono equiparabili ai demoni"; e a proposito di Lv 18,17 circa la proibizione di rapporti sessuali con parenti stretti si impiega il termine "prostituzione", aram. zenù (= z'nùtà', ebr. zenùt), a cui corrisponde altrove nei LXX il grecorcopvelapresente nel decreto. Cf. J. Wehnert, Die Reinheit, pp. 209-238. 196 J. Wehnert, Die Reinheit, p. 250. 197 Anche se il decreto ha proprio la funzione di evitare l'incomunicabilità tra i due gruppi, superando la drastica raccomandazione che si legge per esempio in Giub. 22,6: "Separati dai pagani, non mangiar con loro, non agir come loro e non esser loro amico poiché le loro azioni sono impure e tutto il loro modo di vivere è immondo" (trad. L. Fusella)!
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sorio un attacco alla purezza dell'evangelo, secondo cui i gentili vanno accolti senza alcuna condizione, perché Gesù Cristo e la Legge sono alternativi (cf. Gal 2,16.21). Proprio la loro coesistenza, invece, è caratteristica del giudeo-cristianesimo fin dalle sue origini. 6. Conclusione La prima cristologia giudeo-cristiana, partendo dall'annuncio della risurrezione, si concentra prevalentemente su due momenti concernenti la figura di Gesù. 6.1 II primo riguarda la sua passata vita storica, all'interno della quale si rivela comunque l'identità personale di Gesù. Per quanto possiamo giudicare dalle fonti, questo livello cristologico prende forma almeno con la stesura di un racconto della sua passione, con la raccolta dei suoi detti e anche con la tradizione del suo battesimo, se non anche della sua nascita. Al di fuori di questo materiale di ascendenza gesuana, impastato comunque con una riflessione su Gesù, la cristologia si esprime in modo più autonomo con la creazione di alcuni titoli cristologici, di cui alcuni hanno anche un riferimento alla fase gesuana (cf. "servo di Dio", "il giusto e il santo"). A questo livello, Gesù viene considerato essenzialmente come il Giusto per eccellenza (cf. il racconto della passione), inserito nella serie storico-salvifica degli inviati di Dio, dei quali condivide la sorte drammatica (cf. Q); in particolare, si delinea la figura complessa di un saggio maestro di vita e di un profeta ultimo della regalità di Dio (cf. Q). Nel suo accostamento alla personificazione israelitica della Sapienza traspare anche la dimensione profonda di una sua associazione alla divinità; e in questo senso va pure l'attenzione alla qualifica di Figlio (di Dio). 6.2 II secondo centro d'interesse è di tipo escatologico e guarda verso il futuro. Questo livello cristologico si esprime particolarmente nell'attenzione alla qualifica gesuana di Figlio dell'uomo (cf. Q). Essa però si sviluppa nella concezione del suo futuro invio dai cieli come restauratore universale (cf. At 3,19-21). La stessa invocazione della sua venuta come Signore (cf. il Maranatha) proietta la comunità credente verso gli orizzonti ultimi dell'incontro con lui al momento della parusia. 6.3 Tuttavia, anche il presente della chiesa, tutt'altro che essere un tempo di assenza, neutro e insignificante, risulta cristologica-
CONCLUSIONE
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mente connotato. Infatti: la passione di Gesù ha un valore esemplare per i suoi discepoli; le sue parole di sapiente normano costantemente la loro vita attuale; e la sua risurrezione gli dà la possibilità di operare con forza in favore della sua comunità. In particolare la sua qualifica già arcaica di Signore, fondata sulla risurrezione (cf. At 2,36 e soprattutto Fil 2,9-11), pone la chiesa in uno stretto rapporto di dipendenza e di appartenenza esclusiva nei suoi confronti. 6.4 In rapporto a Israele, Gesù Cristo è considerato certamente come Messia e quindi in una dimensione ulteriore sia al Tempio sia alla Legge. Ma, se questa concezione rivela una considerazione altissima della persona e del ruolo soteriologico di Gesù (ma non è sicuro che si professasse esplicitamente la sua divinità), essa però coesiste in particolare con una sopravvivente estimazione della Legge, che tende a vincolare la giustificazione del peccatore all'osservanza dei suoi precetti (cf. Ps.-Clemente, Ep. a Giacomo 9: è attraverso le opere dell'amore del prossimo che "voi vi comprate la felicità eterna").
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Katholisches Bibelwerk,
Premesse All'interno del cristianesimo delle origini Paolo di Tarso, com'è noto, occupa un posto di primaria importanza. Anzi, dal punto di vista documentaristico egli è il personaggio più rimarcato, poiché abbiamo di lui una serie di lettere, documenti di prima mano, in cui egli presenta in prima persona se stesso e il suo pensiero1. Precisiamo subito che in questo capitolo prendiamo in considerazione il pensiero soltanto del cosiddetto Paolo storico, non della tradizione paolina (a cui riserviamo il capitolo successivo); perciò la nostra ricerca si limita per ora all'ambito delle sette lettere che oggi sono comunemente ritenute autentiche: Rm, l-2Cor, Gal, Fil, lTs, Fm2. Gli studi globali e autonomi sulla cristologia paolina, anche se non mancano e qualcuno è meritatamente celebre, tuttavia non sono molti3. In particolare, il classico volume di Cerfaux si presta ad 1 È appena il caso di ricordare che una fortuna del genere non è toccata neanche a Gesù (che noi conosciamo solo per testimonianze altrui; cf. voi. I, cap. I), per non dire della rimanente letteratura canonica, che ci si presenta o come anonima (Sinottici-At, Gv, Eb, l-3Gv) o come pseudepigrafica (lettere cattoliche), a parte l'Apocalisse di Giovanni. 2 Cf. per esempio J. Becker, Paolo l'apostolo dei popoli, presentazione di R. Penna, "Biblioteca Biblica" 20, Queriniana, Brescia 1996; e soprattutto R.E. Brown, An Introduction to the New Testament, Doubleday, New York-London 1997, p. 419; da parte sua, J.D.G. Dunn, The Theology of Paul the Apostle, T&T Clark, Edinburgh 1998, aggiunge anche Col e 2Ts. 3 Ogni "Teologia del NT" ha ovviamente un capitolo su Paolo, all'interno del quale si tratta anche la sua cristologia; lo stesso si dica per le presentazioni globali della figura di Paolo stesso. Quanto alle monografie specifiche, vedi soprattutto quella di L. Cerfaux, // Cristo nella teologia di san Paolo, AVE, Roma 1969 (orig. frane, Paris 21954); inoltre: S.G. Sinclair, Jesus Christ according to Paul. The Christologies ofPaul's Undisputed Epistles and the Christology o/Paul, Bibal Press, Berkeley CA 1988 (pagine 150; un sommario della cristologia di ciascuna delle sette lettere autentiche, con un capitolo finale di sintesi); J.B. Reid, Jesus: God'sEmptiness, God's Fullness. The Christology o/Paul, Paulist Press, New York-Mahwah 1990 (pagine 145; impostato su di un confronto tematico tra Col 1,19; 2,9 [pléroma] e Fil 2,5-8 [kénosis]).
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alcune critiche, che sminuiscono in parte la consistenza storica della sua ricostruzione4. Ma prima di iniziarne l'esposizione è importante dibattere almeno brevemente alcune questioni metodologiche introduttorie. Una prima questione riguarda l'eredità teologica da lui ricevuta. È vero infatti che egli è forse il pensatore più creativo delle origini cristiane5. Tuttavia, gran parte di ciò che costituisce il contenuto e l'espressione del suo pensiero egli la deriva da una doppia matrice: il giudaismo di origine e il cristianesimo a lui anteriore. Sul secondo ritorneremo più sotto. Sul primo, che richiederebbe una trattazione qui impossibile6, ci accontentiamo di osservare che 4 Egli imposta l'insieme in tre parti, secondo tre temi di fondo che corrisponderebbero ad altrettanti gruppi di lettere cronologicamente successivi (escluse le Pastorali): 1. Il Cristo come autore della salvezza (sulla base di l-2Ts e ICor 15: l'escatologia fondata sulla risurrezione di Gesù); 2. Il dono del Cristo (sulla base di l-2Cor, Gal, Rm: la soteriologia in quanto imperniata sull'evento della croce e sulla partecipazione del cristiano alla vita del Risorto); 3. Il mistero di Cristo (sulla base di Fil, Col, Ef: qui l'interesse si concentra sull'identità personale di Cristo, compresa la sua divinità). Le critiche possibili, oltre al fatto che Cerfaux non mette a parte 2Ts, Col, Ef come pseudepigrafiche, riguardano soprattutto l'imposizione di uno schema preconcetto, che di fatto non riesce a isolare nei tre momenti tutto ciò che è ritenuto caratteristico di ciascuno: per esempio, già nel primo ci sono espressioni di tipo "mistico" che starebbero meglio nel secondo o nel terzo (cf. lTs 1,1; 2,14); nel secondo momento, poi, si anticipano delle espressioni cristologicamente già molto forti (come le formule di missione in Gal 4,4; Rm 8,3); nel terzo, infine, a parte il fatto che il concetto di "mistero" è inteso in senso ontologico più che apocalittico (e comunque in Ef ha una valenza piuttosto ecclesiologica), Fil è in una posizione forzata anche perché l'Autore non ritiene pre-paolino il testo di 2,6-11. Ma ci sarebbe da ridire anche sul fatto che la cristologia è trattata come un dato oggettivo a prescindere dalla decisiva valenza ermeneutica svolta dall'esperienza personale di Paolo sulla strada di Damasco. 5 Senza voler ripetere ciò che scrisse A. Schweitzer, secondo cui "Paolo ha assicurato per sempre nel cristianesimo il diritto di pensare" (Die Mystik des Apostels Paulus, Mohr, Tùbingen 1930, p. 365), è vero ciò che scrive O. Kuss: "Egli è sempre 'per strada', sempre pronto ad affrontare nuove situazioni dal centro della sua fede, senza alcun modello di appoggio, senza la conferma di un regolamento adatto alle varie circostanze. Il suo compito è di aprire nuove vie dappertutto, lasciando ad altri le vie normali; naturalmente egli risolve non pochi problemi, ma al contempo ne suscita altrettanti" (Paolo. La funzione dell'Apostolo nello sviluppo teologico della Chiesa primitiva, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1974, p. 341). 6 Come bibliografia maggiore, cf. W.D. Davies, Paul and Rabbinic Judaism, SPCK, London 1958; Id., Paul and the People of Israel, NTS 24 (1977) 4-39; M. Barth, St. Paul - A Good Jew, Horizons in Biblical Theology 1 (1979) 7-45; G. Lùdemann, Paulus und das Judentum, "Theologische Existenz Heute" 215, Kaiser, Mùnchen 1983; J. Fischer, Paul in his Jewish Context, EvangQuart 57 (1985) 211-236; E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese, "Biblioteca teologica" 21, Paideia, Brescia 1986 (orig. ingl., London 1977); Id., Paolo, la legge e il popolo giudaico, SB 86, Paideia, Brescia 1989 (orig. ingl., Philadelphia 1983). Appartengono a questa tematica anche tutti gli studi sull'uso paolino dell'Antico Testamento (cf. per esempio R. Penna, Atteggiamenti di Paolo verso l'Antico Testamento,
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lo studio stesso della teologia e in specie della cristologia di Paolo sarebbe materialmente impossibile se non si operasse un continuo rimando a contrappunto con la letteratura giudaica, sia con quella canonica sia con quella extracanonica. Sarà quindi l'esposizione stessa della materia a documentare il debito dell'Apostolo verso questo versante. Una seconda questione potrebbe riguardare un eventuale sviluppo cristologico all'interno del pensiero paolino. Va subito detto che non è facile ricostruirne uno 7 . È vero, per esempio, che in lTs non si trovano ancora le cosiddette « formule di missione » di Gal 4,4 e Rm 8,3, che presuppongono l'idea di una pre-esistenza. Ma vanno fatte in proposito due osservazioni. L'una è che la presenza in lTs di alcuni titoli cristologici forti (come "Figlio" in 1,10 e "Signore" specie in 1,6 e 5,9), insieme alla formula d'impronta 'mistica' "in Cristo" (in 2,14; 4,16; 5,18), lascia intuire che Paolo fin dall'inizio pensava al Cristo in termini molto alti. L'altra osservazione è che egli era già fornito di un bagaglio concettuale forte, derivante non solo dalla chiesa primitiva (come diremo più sotto), ma anche dalla sua matrice giudaica in cui era ampiamente sviluppata la speculazione su tutta una serie di intermediari anche celesti8. D'altronde, come vedremo, già l'inno pre-paolino di Fil 2,6-11 implica la fede nella pre-esistenza di Cristo. in L'apostolo Paolo. Studi di esegesi e teologia, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1991, pp. 436-469; C D . Stanley, Paul and the language ofScripture. Citation technique in the Pauline Epistles and contemporary literature, SNTS MS 69, University Press, Cambridge 1992; T. Sòding, Heilige Schriftenfùr Israel und die Kirche. Die Sicht des "Alten Testamentes" bei Paulus, MTZ 46 [1995] 159-181). 7 Cf. M. Casey, Chronology and the Development of Pauline Christology, in M.D. Hooker & S.G. Wilson, a cura, Paul and Paulinism. Essays in honour of C.K. Barrett, SPCK, London 1982, pp. 124-134; S. Schulz, Derfrìihe undderspàte Paulus. Uberlegungen zur Entwicklung seiner Theologie und Ethik, TheolZeit 41 (1985) 228-236; J.D.G. Dunn, Prolegomena to a Theology ofPaul, NTS 40 (1994) 407-432 qui 424; H.D. Betz, art. " P a u l " , in ABD 5, pp. 186-201 specie 196-199. È sintomatico che U. Schnelle, Wandlungen im paulinischen Denken, SBS 137, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1989, tra gli argomenti giudicati in corso di assestamento in Paolo (cioè: soprattutto escatologia, Legge, Israele, ma pure antropologia, etica, missione) non comprenda anche la cristologia. Analogamente S. Kim, The Origin of Paul's Gospel, WUNT 2.4, Mohr, Tùbingen 1981, pp. 100-268, pone già nell'esperienza di Damasco la concezione di Cristo come "immagine di Dio"; anche lo studio di C.C. Newman, Paul's Glory-Christology: Tradition and Rhetoric, NT Suppl. 69, Brill, Leiden-New York 1992, scorge nella cristofania di Damasco l'origine della cristologia paolina, la quale vede in Cristo la rivelazione della gloria di Dio, cioè "the place where the divine presence of God is (now) to be found" (p. 222). 8 Cf. P.G. Davis, Divine Agents, Mediators, and New Testament Christology, JTS 45 (1994) 479-503.
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Un'ulteriore questione consiste nel chiedersi se in generale la teologia (e in particolare la cristologia) di Paolo possa essere studiata globalmente per sintesi oppure lo debba essere analiticamente lettera per lettera. In questo secondo senso non mancano vistosi tentativi recenti9. Essi però partono dal presupposto un po' pessimistico, secondo cui nelle lettere il pensiero di Paolo non rivelerebbe alcuna coerenza interna e anzi comporterebbe delle vere contraddizioni. Qui occorre fare un'osservazione importante. Se ci confinassimo alle singole lettere vi troveremmo soltanto una teologia controversistica, ma non il pensiero globale di Paolo che invece sta alle loro spalle10. In effetti, l'Apostolo nei suoi scritti non tratta mai appositamente a parte la sua cristologia, facendone oggetto d'interesse per se stessa. I suoi enunciati su Cristo sono sempre inseriti nel contesto di altri temi, che sono affrontati più diffusamente, siano essi di controversia o di semplice istruzione. Persino l'inno di Fil 2,6-11 è posto all'interno di una parenesi e al suo servizio (cf. sotto). Risulta perciò evidente che "la cristologia è la premessa indiscussa e persino ovvia, dalla quale vengono sviluppate altre questioni, soprattutto di tipo soteriologico"11. Tuttavia va detto che, se è pur vero che la cristologia entra nel discorso paolino solo come premessa delle sue argomentazioni, essa però proprio per questo rappresenta il fattore fondamentale, costante e ineliminabile delle argomentazioni stesse, il loro essenziale punto di riferimento. Paolo quindi, anche se non dedica appositamente pagine intere a trattare di Gesù Cristo in forma diretta, ha evidentemente una sua cristologia. Se egli parte da Cristo per risolvere le varie questioni postegli (cf. per esempio ICor 1,18-2,16 circa il problema delle fazioni a Corinto) o se semplicemente si rifa a lui per spiegare i tratti tipici dell'identità cristiana (cf. per esempio Rm 3,21 5,21 circa la giustificazione per fede o Rm 6,1-11 circa la partecipazione del cristiano alla morte e risurrezione di Cristo), è segno non solo che Gesù Cristo è per lui il dato determinante del discorso ma che esiste pure una precisa concezione su di lui. Anche
9 Cf. J.M. Bassler, ed., Pauline Theology -I. Thessalonians, Philippians, Galatians, Philemon, Fortress, Minneapolis 1991; D.M. Hay, ed., Pauline Theology - IL 1 and 2 Corinthians, Fortress, Minneapolis 1993, e il già citato H. Hubner, Biblische Theologie des Neuen Testaments - 2. Die Theologie des Paulus und ihre neuiestamentliche Wirkungsgeschichte, Gòttingen 1993. 10 Cf. J.D.G. Dunn, Prolegomena to the Theology of Paul, pp. 415-423. 11 H. Hubner, Biblische Theologie des Neuen Testaments - 2. Die Theologie des Paulus und ihre neutestamentliche Wirkungsgeschichte, pp. 324s.
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se questa non è esposta sistematicamente, è comunque presente in modo risolutivo. Spetta appunto a noi allora ricavarla dai testi ed enuclearla sinteticamente con precisione. Un'altra questione ancora si fa luce quando ci si chiede se la teologia di Paolo abbia un suo punto focale, un centro organizzatore, e quale esso sia12. Una prima soluzione, com'è noto, è quella della tesi luterana classica, secondo cui il centro del paolinismo consisterebbe nel tema di tipo 'giuridico' della giustificazione per fede, interpretato in senso più o meno individualistico (cf. ancora R. Bultmann, E. Kàsemann, P. Stuhlmacher)13. Essa però nel nostro secolo è stata sottoposta a critica da vari Autori (cf. W. Wrede, A. Schweitzer, W.D. Davies, E.P. Sanders), secondo i quali al centro della teologia paolina sta piuttosto il tema della partecipazione 'mistica' alla morte e alla vita di Cristo14. Altri vedono il punto decisivo del paolinismo nella chiamata di Paolo a svolgere una missione dal carattere universale, volta particolarmente ad annunciare l'evangelo ai Gentili15. C'è anche chi rivendica l'importanza della dimensione teocentrica16, dimenticando forse che essa 12 Cf. H.W. Boers, The Foundations ofPaul's Thought: A Methodological Investigation - The Problem of the Coherent Center ofPaul's Thought, StTheol 42 (1988) 55-68 (con preferenza per l'antitesi fede-opere); D.G. Reid, Did Paul Have a Theology? Reconstructing the story that unites the apostle's letters, Christ Today 39 (1995) 18-22; R. Penna, Introduzione al paolinismo, in L'apostolo Paolo. Studi di esegesi e teologia, Paoline, Cinisello Balsamo 1991, pp. 13-29 qui 21-26; e soprattutto C.A. Davis, The Structure ofPaul's Theology. "The Truth Which Is the Gospel", Mellen Biblical Press, Lewiston-Lampeter-Queenston 1995, pp. 1-15. 13 Vedi per esempio H. Hubner, Pauli Theologiae Proprium, NTS 26 (1980) 445-473; J. Reumann, "Righteousness" in the New Testament, with responses by J.A. Fitzmyer - J.D. Quinn, Fortress/Paulist, Philadelphia/New York 1982, pp. 41-125. L'impostazione bultmanniana, pur essendo di tipo antropologico ("L'uomo prima della pistis" e "L'uomo sotto \apistis"), rientra di fatto in questa prospettiva. 14 Vedi particolarmente E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese. Studio comparativo su modelli di religione, BT 21, Paideia, Brescia 1986 (orig. ingl., London 1977), specie pp. 595-606. Da parte sua, anche J.C. Beker, Paul the Apostle. The Triumph ofGod in Life and Thought, T&T Clark, Edinburgh 1980; Id., Recasting Pauline Theology. The Coherence-Contingency Scheme as Interpretative Model, in J.M. Bassler, ed., Pauline Theology, pp. 15-24, condivide fondamentalmente questa impostazione, ma sottolineando la dimensione apocalittica del pensiero paolino come suo substrato e universo simbolico (che egli preferisce chiamare "coherence" piuttosto che "center"), in quanto con la morte-risurrezione di Cristo è stata inaugurata una nuova età di cui il cristiano è entrato a far parte. 15 Cf. K. Stendahl, Paolo tra ebrei e pagani, e altri saggi, introduzione di P. Ribet, "Piccola collana moderna" serie teologica 74, Claudiana, Torino 1995, pp. 21-45 ("L'apostolo Paolo e la coscienza introspettiva dell'Occidente": orig. ingl. in Harvard Theological Review 66 [1963] 199-215). 16 Cf. J. Plevnik, The Center of Pauline Theology, CBQ 51 (1989) 461-478.
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era propria già del fariseo Saulo. A mio parere non se ne esce finché non si scorge proprio in Gesù Cristo il motore propulsore di tutto il pensiero dell'Apostolo, sia che lo si intenda nel senso ontologico della divinità (cf. la tradizionale posizione cattolica; in specie L. Cerfaux) o in quello funzionale della soteriologia (cf. Melantone e la tradizionale posizione protestante) o ancora in quello piuttosto kerygmatico dell'annuncio della morte-risurrezione (per esempio R. Schnackenburg)17. A ragione Barrett individua comunque nel solus Christus il principio fondamentale del pensiero di Paolo 18 ; da parte nostra, rimandiamo all'ultimo paragrafo di questo capitolo. Certo è che, senza Gesù Cristo, Paolo non solo non avrebbe intrapreso la sua impegnativa attività missionaria, ma non avrebbe neanche ripensato e risistemato il suo patrimonio religiosoculturale di fariseo osservante. Questa osservazione ci conduce a formulare un'ultima questione. Quale dev'essere il punto di partenza per una esposizione della cristologia di Paolo? Secondo quale angolo visuale essa va studiata? Noi scartiamo una serie di impostazioni, che riteniamo insufficienti e improprie. Così si dica innanzitutto di una impostazione sistematica, che non solo colloca la cristologia all'interno di una cornice di tipo dogmatico ma che tratta la medesima secondo un rigoroso quanto anacronistico sistema catechistico19. Lo stesso vale per l'impostazione fondata sulla successione cronologica delle 17 Giustamente J. Plevnik fa osservare che non bisogna confondere ciò che è specificamente paolino con ciò che è centrale: così, essendo la giustificazione per fede l'effetto della morte di Cristo (cf. Rm 3,21-26) e lo scopo della sua risurrezione (cf. Rm 4,25-26), ne consegue che la morte e risurrezione di Cristo hanno valore primario rispetto alla giustificazione per fede (cf. The Center ofPauline Theology, p. 476). Ma la stessa cosa vale anche per le categorie di tipo partecipativo (come "essere in Cristo", ecc.). 18 Cf. C.K. Barrett, Paulus. An Introduction to His Thought, G. Chapman, London 1994 (trad. ital., San Paolo, Cinisello Balsamo 1996), p. 174: "Solus Christus è l'essenza della teologia di Paolo, e la giustificazione per fede è la sua lama tagliente". Un importante contributo al tema è quello di C. A. Davis, The Structure ofPaul's Theology, che individua come centro coerente di tutta la teologia Paolina quattro idee fondamentali: A. la morte di Cristo; B. la risurrezione e la vita escatologica di Cristo; C. la morte dei cristiani con Cristo; D. la risurrezione e la vita escatologica dei cristiani con Cristo; attorno ad essi si coagulano tutte le altre componenti del pensiero teologico dell'Apostolo, suddivise in quattordici temi. Come si vede, anche qui è Gesù Cristo l'elemento organizzatore dell'intera teologia Paolina, sia nelle sue dimensioni oggettive (A. la morte di Cristo; B. la risurrezione di Cristo), sia nei suoi risvolti soteriologici (C. la morte dei cristiani con Cristo; C. la risurrezione dei cristiani con Cristo). 19 Cf. per esempio D.E.H. Whiteley, The Theology o/St. Paul, Fortress, Philadelphia 1964, pp. 99-154.
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lettere, seguita da Cerfaux, che in proposito legge in esse uno sviluppo tematico eccessivo e in parte arbitrario. Anche un'impostazione che privilegi un tema centrale, tale da reggere tutti gli altri, sarebbe comandata da una preoccupazione tendenzialmente presuntuosa di sintesi dogmatica 20 . D'altronde, sarebbe altrettanto e inevitabilmente monca, ancorché preziosa, una trattazione per soli titoli cristologici, poiché questi rappresentano soltanto dei filoni settoriali ma non possono racchiudere in sé l'intera concezione Paolina in materia 21 . Un'osservazione fondamentale ci permette finalmente di entrare fin dentro la cristologia di Paolo. Essa riguarda il fatto che l'Apostolo non specula in astratto su verità teoriche ed eterne, come potrebbe fare qualche filosofo a tavolino. Egli, infatti, ha davanti a sé non tanto dei concetti da chiarire, quanto piuttosto una storia da interpretare, materiata da queste tre componenti di fondo: l'evento oggettivo della morte-risurrezione di Gesù, la personale esperienza sulla strada di Damasco e la situazione vissuta delle varie chiese a cui si rivolge. Forse più che mai vale per Paolo l'oltrepassamento di una metafisica disincarnata e l'applicazione del principio secondo cui "l'essere non si dà se non nell'evento" 22 . Non che il suo pensiero si risolva tutto superficialmente in soteriologia, quasi che non implicasse anche un'ontologia cristologica. Tutt'altro. Però egli parte di fatto dall'esistenza storica concreta, e perdipiù sa di essere personalmente coinvolto nelle tematiche trattate. "Una teologia separata dalla vita di ogni giorno non sarebbe una teologia di Paolo" 2 3 . Ciò risulta già dal fatto che le nostre fonti del suo 20 Questo vale per J. Bonsirven, // vangelo di Paolo, Ed. Paoline, Roma 1963 (orig. frane, Paris 1946), imperniato sul concetto di mediazione. Qualcosa di analogo, anche se più critico, ha fatto per il tema dell'incarnazione J.D.G. Dunn, Christology in the Making. A New Testament Inquiry into the Origins of the Doctrine ofthe Incarnation, SCM, London 1980, che peraltro riguarda l'intero NT e quindi stempera il caso-Paolo all'interno di una trattazione più globale. 21 Cf. il classico W. Bousset, Kyrios Christos. Geschichte des Christusglaubens von den Anfangen des Christentums bis Irenaeus, Vandenhoeck & Ruprecht, Gòttingen 1965 ('1913), pp. 104-154; W. Kramer, Christos Kyrios Gottessohn. Vntersuchungen zu Gebrauch und Bedeutung der christologischen Bezeichnungen bei Paulus und den vorpaulinischen Gemeinden, Zwingli, Zùrich/Stuttgart 1963. 22 È il principio heideggeriano ripreso per esempio da G. Vattimo, La traccia della traccia, in J. Derrida e G. Vattimo, a cura, Annuario Filosofico Europeo La religione, "Biblioteca di cultura moderna" 1082, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 75-89 qui 79. 23 J.D.G. Dunn, Prolegomena to a Theology of Paul, p. 412. Forse a questo proposito si potrebbe opportunamente parlare di "fusione di orizzonti", secondo il linguaggio di H.G. Gadamer. Da parte sua H. Merklein, Der Theologe als Pro-
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pensiero sono delle semplici lettere, strumenti diretti di una comunicazione immediata e viva, in dialogo con i suoi destinatari. E d'altronde, come abbiamo accennato, il suo discorso su Cristo non è mai fine a se stesso, ma rappresenta sempre un risvolto (quello basilare!) delle sue riflessioni sulla giustificazione del singolo, sulla storia della salvezza, sull'esito escatologico e sui rapporti intra- (ed extra-) ecclesiali. In conclusione, per sapere chi è veramente il Cristo secondo Paolo noi prenderemo come punto di partenza il suo personale incontro con lui sulla strada di Damasco. È questo che sta all'origine della sua nuova identità di cristiano, di missionario e di pensatore. L'Apostolo infatti, anche se aveva sicuramente sentito parlare di Cristo anche prima di allora, solo in quell'evento riuscì a rendersi conto della decisività di quella persona, non solo nel quadro generale della storia della salvezza, quanto soprattutto (per cominciare!) nel quadro della sua stessa vita. Solo su questa base si potranno poi comprendere le varie dimensioni che la cristologia assume nel suo pensiero e che noi potremo di volta in volta enucleare.
1. L'incontro personale con Cristo 1.1 I precedenti Certo Paolo aveva sentito parlare di Gesù anche prima di Damasco. Lo possiamo dedurre non soltanto dal fatto che egli condusse una fiera persecuzione nei confronti della comunità dei suoi discepoli (cf. Gal 1,13-14; e At 8,3)24, ma anche da quei passi delle lettere in cui si può intravedere un riferimento autobiografico sufficientemente chiaro alle sue concezioni su Gesù anteriori all'evento damasceno. Per esempio, se in ICor 1,23 egli dichiara che Gesù crocifisso è "scandalo per i Giudei", possiamo ben ritenere
phet. Zur Funktion prophetischen Redens im theologischen Diskurs des Paulus, NTS 38 (1992) 402-429, sottolinea il fatto che la teologia di Paolo è più che non un semplice sviluppo del kerygma, poiché egli parla anche come un profeta che si colloca tra il dato kerygmatico tradizionale e la situazione viva delle varie comunità. 24 Cf. M. Hengel, Il Paolo precristiano, SB 100, Paideia, Brescia 1992 (orig. ingl., London 1991), pp. 153-192 ; B. Wander, Trennungsprozesse zwischen fruhem Christentum und Judentum im 1. Jahrhundert n. Chr., "Texte und Arbeiten zum neutestamentlichen Zeitalter" 16, Francke, Tùbingen-Basel 1994, pp. 146-167.
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che tale in passato egli fosse considerato anche da lui, che era stato un giudeo quanto mai rigoroso. Analogamente, se in Gal 3,13 egli cita il passo di Dt 21,23 secondo cui "è maledetto chiunque sia appeso al legno", è evidente che il testo biblico deve essergli servito già prima come motivo di rifiuto e di condanna del crocifisso Gesù. C'è poi il passo problematico ma significativo di 2Cor 5,16b25, che però a volte viene tradotto male (così la CEI: "Anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così"), dando l'idea che Paolo affermi di avere storicamente conosciuto il "Cristo secondo la carne", cioè il Gesù terreno, mentre invece non abbiamo nessuna informazione circa un incontro tra il fariseo Saulo e Gesù di Nazaret 26 . In realtà, il testo Paolino dovrebbe essere tradotto letteralmente in questo modo: "Anche se abbiamo conosciuto secondo la carne Cristo, ora non lo conosciamo più così". Il complemento "secondo la carne", cioè, va unito al verbo "abbiamo conosciuto" e non al nome "Cristo" 27 ; proprio questo infatti è il tenore del v. 16a (lett.: "Noi d'ora in avanti nessuno conosciamo secondo la carne"). Evidentemente i verbi sinonimi qui impiegati eidénai e ginóskein, "conoscere", significano in questo caso "giudicare, considerare, valutare, stimare" (come in lTs 5,12). L'Apostolo vuole dire che, se precedentemente egli ha giudicato Gesù Cristo alla maniera puramente umana come privo di ogni spessore particolare di tipo cristologie©, ora invece non la pensa più così28. In sostanza abbiamo qui l'ammissione di una considerazione non cristiana di Cristo, che ca-
25 Vedi la buona discussione del passo in J.W. Fraser, Paul's Knowledge of Jesus: II Corinthians V.16 once more, NTS 17 (1971) 293-313. 26 Si potrebbe forse ipotizzare che in occasione della Pasqua dell'anno 30, quando Gesù venne condannato a morte, a Gerusalemme ci fosse anche Saulo di Tarso, data la prescrizione della Torah: "Tre volte l'anno (cioè, per le feste di Pasqua, Pentecoste e Tabernacoli) ogni tuo maschio comparirà alla presenza del Signore Dio" (Es 23,7; 34,23; vedi anche J. Jeremias, Gerusalemme al tempo di Gesù. Ricerche di storia economica e sociale per il periodo neotestamentario, Dehoniane, Roma 1989 [orig. ted., Gòttingen 31962], pp. 130-142: "Excursus. Il numero dei pellegrini in occasione della Pasqua"). Ma non si può dire nulla di più; anzi, pur se Paolo fu allora presente a Gerusalemme, egli dev'essere stato totalmente estraneo al fatto di quella condanna, come uno dei tanti membri della folla anonima convenuta nella Città santa. 27 II complemento modale denota il nome solo quando lo segue (come in Rm 9,5; cf. anche Rm 1,3; 4,1; ICor 1,26; 10,18), non quando lo precede come nel nostro caso. 28 Cf. V.P. Furnish, II Corinthians, "Anchor Bible" 32A, Doubleday, Garden City 1984, pp. 311-315 e 329-331, e soprattutto M.E. Thrall, The Second Epistle to the Corinthians, I, ICC, T&T Clark, Edinburgh 1994, pp. 412-420.
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ratterizzò Paolo prima della sua conversione, la quale però ha operato in lui un ribaltamento dei giudizi di valore concernenti la figura di Gesù. 1.2 L'evento di Damasco Con l'evento di Damasco le cose subirono un drastico capovolgimento. L'importanza di ciò che successe allora va valutata non solo oggettivamente in rapporto al cristianesimo in generale (tanto che un discepolo come Luca lo racconta per ben tre volte nel suo libro degli Atti degli Apostoli), ma anche soggettivamente come punto di svolta nella vita di Paolo e come riassestamento di tutto ciò che costituiva il suo mondo ideale29. A noi perciò, più che il racconto lucano, interessano i passi autobiografici delle sue lettere. Qui egli non obiettiva mai l'evento in una narrazione distaccata, ma lo ricorda e lo propone nella sua decisività esistenziale, andando dritto al significato di ciò che allora in modo tanto sorprendente esperimentò30. Da quel momento infatti egli parla di Cristo non più per sentito dire, ma perché lo ha personalmente incontrato sulla propria strada, anzi si è scontrato con lui; e, più che subirne il fascino, ne è stato letteralmente conquistato (cf. Fil 3,12: "sono stato ghermito"!). La cristologia di Paolo ha dunque un punto di partenza non dottrinale, ma vissuto; ed è di qui che si spiega la freschezza del suo dire e in certo senso l'impeto profetico del suo discorso, che differenzia l'Apostolo da tutti gli altri scrittori del Nuovo Testamento31. I passi epistolari che direttamente o indirettamente hanno a che 29 Sull'evento e la sua importanza, cf. G. Lohfink, La conversione di San Paolo, SB 4, Paideia, Brescia 1969 (orig. ted., Stuttgart 1965); J. Blank, Paulus und Jesus. Eine theologische Grundlegung, SANT 18, Kòsel, Mùnchen 1968, pp. 184-248 ("Die Berufung des Paulus als offenbarungshafter Grund seines Christusverhàltnisses, seines Apostolats und seiner Theologie"); S. Kim, The Origin ofPaul's Gospel; C. Dietzfelbinger, Die Berufung des Paulus als Ursprung seiner Theologie, WMANT 58, Neukirchener, Neukirchen-Vluyn 1985. 30 Va annotato peraltro che il suo caso è uno dei pochi nell'antichità, che vengano esplicitamente attestati in più fonti e diffusamente raccontati; cf. R. Penna, Tre tipi di conversione raccontati nell'antichità: Polentone di Atene, Izate dell'Adiabene, Paolo di Tarso, in L. Padovese, a cura, Atti del IV Simposio di Tarso su S. Paolo apostolo, Pont. Ateneo Antoniano, Roma 1996, pp. 73-92. 31 Nessuno infatti degli altri redattori neotestamentari, di cui ci sfugge persino l'identità anagrafica (come gli evangelisti), ci testimonia alcunché sugli inizi della propria esistenza cristiana e quindi nessuno scrive con tanto pathos da coinvolgere manifestamente se stesso in ciò che comunica.
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fare con quell'evento sono i seguenti: ICor 9,1; 15,8; 2Cor 4,6; Gal 1,12.15-16; 2,20; Fil 3,7-10.12. Di questi prendiamo brevemente in considerazione con un esame più ravvicinato il testo di Gal 1,15s, che in modo più completo espone il significato della cristofania che allora si verificò32. Esso suona così: "Quando Colui, che mi mise a parte fin dal seno di mia madre e mi chiamò per la sua grazia, si compiacque di rivelare /'/ Figlio suo in me, perché lo evangelizzassi tra le genti e c c . " . Qui emergono chiaramente alla coscienza di Paolo le tre componenti fondamentali di quell'evento. (1) La prima è di carattere teologico: Dio è menzionato fin dall'inizio come il primo responsabile ed è presentato in rapporto non solo alla personale esperienza di Paolo stesso (= "mi mise a parte", "mi chiamò", "rivelare in me"), ma anche alla qualifica di Gesù come Figlio "suo"; l'evento perciò è radicalmente connotato dalla "grazia" di Dio e dal suo libero, insondabile "beneplacito"33. Questa dimensione è presente altrove solo in 2Cor 4,6 dove, richiamandosi addirittura a Gen 1,3 ("Sia la luce!"), si afferma che "Dio stesso rifulse nei nostri cuori per illuminare la conoscenza dello splendore divino sul volto di Gesù Cristo"; ciò significa che, se Paolo ha scoperto in Cristo una insospettata profondità divina, egli lo deve quasi a un atto di luminosa creazione di Dio stesso34. (2) La seconda componente, quella centrale, è di carattere cristologia): tutto ciò che avvenne allora consistette appunto nel disvelare a Paolo l'identità di 32 Bisogna infatti distinguere tra la cristofania in se stessa e l'interpretazione che Paolo ne dà; egli offre ben pochi dettagli circa la prima, mentre espone quasi solo il significato che essa ebbe per lui. Cf. C.C. Newman, Paul's Glory-Christology, pp. 64-183, dove si recuperano al tema anche altri passi paolini come Rm 10,2-4; ICor 9,16-17; 2Cor 5,16-17; Ef 3,1-13, e quei testi in cui si fa ricorso al termine X
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Gesù come "Figlio" di Dio. È vero che questo titolo da solo non dice tutta la ricchezza cristologica e soteriologica del pensiero dell'Apostolo (anche perché, come vedremo, esso non è poi molto frequente nel suo epistolario); ma l'uso che ne vien fatto nella stessa Gal lascia intendere che possiamo ben connettere ad esso i vari aspetti del discorso paolino su Cristo e persino sull'impatto antropologico della sua opera salvifica, come si vede in 2,20 ("...vivo nella fede al Figlio di Dio..."), in 4,4 ("Dio mandò il Figlio suo, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare..."), e 4,6 ("Dio mandò lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori..."). È questa la dimensione costante di tutti i passi citati sopra, sia che essa venga espressa mediante concetti, che si rifanno al dato oggettivo dell'evento, come quelli di visione (in ICor 9,1) o di apparizione (in ICor 15,8), sia che ne venga colta maggiormente la risonanza e l'esperienza interiore mediante concetti di tipo 'mistico' o partecipativo, come quelli del "Cristo in me" (in Gal 2,20) o di "io nel Cristo" (in Fil 3,9). Quest'ultimo passo in particolare fa vedere quanto forte e sconvolgente sia stato l'impatto di Cristo nell'esistenza dell'Apostolo, fino al punto da fargli considerare una perdita e spazzatura tutto ciò che prima era stato per lui guadagno e ragione di vita35. (3) La terza componente è di carattere missionario e promana dalle due precedenti, dando corpo allo scopo della chiamata: la predicazione dell'evangelo tra i Gentili (cf. Rm 11,13); si vede di qui che teologia e cristologia non sono fine a se stesse, ma vengono pensate in funzione di un universalismo che superi ogni restrizione storica e culturale (cf. Rm 10,12-13)36. Il Cristo dunque diventa d'ora in poi per Paolo l'unica ragione di vita. È sintomatica in Gal 1,15s (e negli altri passi, anche se in Fil 3 vi è un richiamo contestuale) l'assenza di ogni riferimento alla Legge, con la quale peraltro l'Apostolo polemizza poi a lungo nel corpo della lettera. Ciò significa che a partire da allora essa, che pure per il fariseo Saulo costituiva il dato centrale del suo essere35
Andrebbe letto l'intero passo di Fil 3,7-11, dove si contemperano bene i due aspetti: 'mistico' (espresso dall'idea della comunione di Paolo con Cristo) e 'giuridico' (espresso dall'idea della giustificazione per fede); cf. E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese, p. 667. Vedi anche più sotto: 5.3. 36 Cf. R. Penna, Aperture universalistiche in Paolo e nella cultura del suo tempo, Ricerche Storico-Bibliche 10 (1998); T.L. Donaldson, Paul and the Gentiles. Remapping the Apostle's Convictional World, Fortress, Minneapolis 1997, di cui però è problematica l'attribuzione a Paolo dell'idea del pellegrinaggio dei popoli a Sion (cf. R. Penna, Le collette di Paolo per la chiesa di Gerusalemme, in PSV 31, Dehoniane, Bologna 1995/1, pp. 179-190).
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giudeo, perse del tutto la funzione di mediatore tra l'uomo e Dio, essendo sostituita in ciò dalla persona vivente del Cristo. La chiara percezione che "Cristo è il termine della Legge" (Rm 10,4), prima che venisse giocata su scala storico-salvifica generale (come appunto in Rm), fu sperimentata individualmente da Paolo come concreta alternativa esistenziale37. Su ciò torneremo più avanti. 1.3 Conversione o chiamata? Ci si potrebbe chiedere a questo punto (e la cosa ha pure un risvolto cristologico) se l'esperienza vissuta da Paolo a Damasco possa essere definita con la tradizionale categoria di «conversione» o se invece sia più appropriata la definizione di «chiamata». Questa seconda sarebbe più pertinente, stando al giudizio di alcuni esegeti, dato che l'Apostolo per illustrare il proprio caso non fa mai ricorso allo specifico vocabolario di conversione (come [xexavoetv, "pentirsi", o èiciorp^etv, "rivolgersi, tornare") ma utilizza vocaboli di altro tipo (come xocXetv, "chiamare", àcpopiCeiv, "mettere a parte, scegliere", e &7coxocXuirceiv, "rivelare"), che insistono meno sul livello antropologico dell'evento e più su quello propriamente teologico; perciò, il caso-Paolo viene accostato a quello degli antichi profeti come Isaia e Geremia, di cui appunto non si può dire che si siano convertiti ma solo che sono stati chiamati38. A questo proposito vanno messe in luce due componenti tipiche dell'esperienza paolina. 1.3.1 Ciò che avvenne sulla strada di Damasco rappresenta qualcosa di più di una normale vocazione profetica, per il fatto che la figura di Cristo là manifestatasi non è identificabile né con il Dio invisibile né con un semplice uomo sia pur redivivo. Le testimo-
37 Cf. C. Dietzfelbinger, Die Berufung des Paulus, pp. 90-125; e particolarmente T.L. Donaldson, Zealot and Converti The Origin ofPaul's Christ-Torah Antithesis, CBQ 51 (1989) 655-682; inoltre: R. Penna, Infrazione e ripresa del rapporto Legge-Sapienza in Paolo, in L'apostolo Paolo, pp. 519-549. 38 In questo senso cf. soprattutto K. Stendahl, Paolo tra ebrei e pagani, pp. 55-76 (cf. p. 59: "Ci troviamo di fronte a una chiamata alla missione, non a una conversione"); al suo seguito si pongono vari commentatori di Gal. Vedi anche G. Pani, Vocazione di Paolo, o conversione?, in L. Padovese, a cura, Atti del I Simposio di Tarso su S. Paolo apostolo, Pont. Ateneo Antoniano, Roma 1993, pp. 47-63; Id., Conversione di Paolo o vocazione? La documentazione della lettera ai Romani, in Id., a cura, Atti del II Simposio di Tarso..., ib. 1994, pp. 73-88.
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nianze personali dell'Apostolo, come rilevano alcuni Autori39, fanno invece pensare che questi abbia interpretato l'evento secondo categorie mistico-apocalittiche, che hanno la loro matrice ultima nella visione del 'carro' (merkavah) di Ez 1, specie là dove si legge: "Apparve... su questa specie di trono, in alto, una figura dalle sembianze umane (ófxouofjux o><; dho<; àv0pcÓ7cou)... Tale mi apparve l'aspetto della gloria del Signore (rj opocau; ó(xouó[Aon;o<; hó^r\<; xupioo)" (Ez 1,26-28 LXX; cf. 8,2). Questo collegamento tra divinità e aspetto d'uomo40 caratterizza appunto la percezione paolina della cristofania di Damasco. Ed è su questa linea che vanno letti anche l'esclusivo appellativo cristologico paolino di "Signore della gloria" (ICor 2,8) o l'espressione circa "l'evangelo della gloria di Cristo" (2Cor 4,4) per non dire di quella riguardante "il corpo della sua gloria" (Fil 3,21). La figura umana del Cristo risorto, dunque, viene vista accanto a quella di Dio stesso come partecipe dello splendore di lui. Sullo sfondo di questa concezione è forse possibile, da un punto di vista giudaico, scorgere già un abbozzo di quella 'eresia' circa i "due poteri in cielo" (Seté reMyòt baSSamayim), che sarà successivamente combattuta dal rabbinismo ma che traspare già addirittura in Filone Alessandrino41. In questa luce l'esperien39 Vedi soprattutto C.C. Newman, Paul's Glory-Christology. Tradition and Rhetoric, NT Suppl. 69, Brill, Leiden 1992, e anche A.F. Segai, Paul the Convert. The Apostolate and Apostasy o/Saul the Pharisee, Yale University Press, New Haven 1990, specie pp. 34-71. 40 Esso del resto ha poi una sua storia che continua nel giudaismo anche dopo Ez: così soprattutto Dn 7,13, ma anche 1 En. 14,18b-21; 45,1-3; 55,3-4; 61,8; 62,16; 69,29; Test. Lev. 35; 2 En. 22,7 ecc. (cf. C.C. Newman, Paul's Glory-Christology, pp. 79-153). 41 I testi rabbinici in proposito sono stati raccolti e commentati da A.F. Segai, Two Powers in Heaven. Early rabbinic reports about christianity and gnosticism, SJLA 25, Brill, Leiden 1977, e i principali sono: Mek. Ex. 20,2 ("«Io sono il Signore tuo Dio»: da ciò si può trarre una confutazione degli eretici [minìm] che dicono: «Ci sono due poteri»"); SifreDt. 32,39; Si/reNum. 15,30; m.Meg. 4,9. Lo stesso Autore studia anche i passi di Filone Al., per es. Somn. 1,228, dove a proposito del passo di Gn 31,13 LXX ("Io sono il Dio che ti è apparso nel luogo di Dio"; TM: "Io sono il Dio di Betel") si commenta: " È un bellissimo motivo di vanto per un'anima il fatto che Dio la giudichi degna di apparirle e di intrattenersi con essa; però non sorvolare sul linguaggio impiegato, ma esamina a fondo se davvero ci sono due dèi, poiché è detto 'Io sono il Dio che ti è apparso' non nel mio luogo ma 'nel luogo di Dio', come se fosse il luogo di un altro" (e Filone continua precisando che la prima ricorrenza del termine " D i o " ha l'articolo, mentre la seconda no); in Quaest. in Gen. 2,62 Filone poi nega che "alcun mortale possa essere fatto a immagine dell'unico Dio Altissimo e Padre dell'universo, ma solo a immagine del secondo Dio che è il suo Logos". Vedi anche Id., The Risen Christ and theAngelic Mediator Figures in Light of Qumran, in J.H. Charlesworth, ed., Jesus and the Dead Sea Scrolls, Doubleday, New York-London 1992, pp. 302-328. Inoltre, a proposito di Mek. Ex. 15,1 (che commenta Es 20,2 ["Io sono il Signore,
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za di Paolo potrebbe addirittura essere indirettamente sottintesa anche in un passo come 2Cor 3,16, dove nel contesto di una riflessione sul velo che perdura sul cuore di Israele egli finalmente si augura: "Quando ci sarà la conversione al Signore (èàv è7ctarpécj>ri 7tpò<; xupiov), quel velo sarà tolto". Anche se qui il titolo di Kyrios ha probabilmente un valore strettamente teo-logico42, non è affatto impossibile scorgervi una tacita estensione alla figura di Gesù; ma allora vi si leggerà anche un personale riferimento di Paolo alla propria esperienza di conversione, almeno nel senso che per lui "il Signore" ormai non è più soltanto il Dio d'Israele ma anche Gesù di Nazaret; e ciò è ben lontano dal ridurre l'Apostolo al piano del: le antiche vocazioni profetiche. 1.3.2 La seconda osservazione concerne la discontinuità verificatasi nella biografia dell'Apostolo, sia nel senso che egli da persecutore divenne un evangelizzatore, mettendo in atto quindi un cambiamento di non poco conto, sia soprattutto nel senso che ciò che prima era per lui un guadagno e un vanto e cioè l'onore tributato alla Legge divenne poi, come abbiamo visto, perdita e spazzatura43. Ciò non avviene in nessuno dei profeti, i quali anzi impostano di regola la loro predicazione proprio sul tema del ritorno all'osservanza della Torah come espressione dell'amore di Dio. Dunque, è giusto dire che, "se questi radicali mutamenti non equivalgono a una conversione, allora è difficile sapere in che cosa essa debba consistere. Ciò tuttavia non deve indurci a eliminare o a sottovalutare l'elemento di vocazione"44, che resta comunque caratteristico45. È comunque chiaro dal caso di Paolo che propriamente non ci si converte né ad una dottrina né ad una istituzione ma ad una pernio Dio"] col precisare: "La Scrittura non vuole dare una occasione ai popoli del mondo di dire: Esistono due poteri, ma dichiara: Io sono il Signore, tuo Dio"), cf. F. Manns, L'Israele di Dio. Sinagoga e Chiesa alle origini cristiane, Dehoniane, Bologna 1998, pp. 261-276. 42 Cf. R. Penna, Lo Spirito di Cristo, pp. 187-205. 43 Sul tema della Legge in rapporto alla cristologia paolina, cf. sotto il § 6. 44 C.K. Barrett, The Acts of the Apostles, I, ICC, T&T Clark, Edinburgh 1994, p. 442. 45 Si deve avere presente infatti che proprio in Gal 1,15 l'espressione "mi ha messo a parte fin dal seno di mia madre" richiama necessariamente il tema della chiamata, presente con frase analoga sia in Is 49,1 sia in Ger 1,5; entrambi questi testi, perciò, suggeriscono di vedere espresse nella coscienza di Paolo due componenti complementari circa il suo apostolato: quella di essere un particolare "servo" del Signore (infatti Is 49,1-6 costituisce il secondo Canto del Servo nel deutero-Isaia) e quella di essere "profeta delle nazioni" (come dice appunto Ger 1,5 e come si legge anche in Is 49,1).
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sona, così da stabilire con essa una relazione viva e totalizzante. Nient'altro che questo significa l'Apostolo quando scrive: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 2,20) o quando dice: "Per me vivere è Cristo" (Fil 1,21); cioè: la persona di Cristo è ormai la vera ragion d'essere e costituisce tutto il senso della vita di Paolo dopo l'incontro con lui. Infine va osservato che la cristofania di cui egli fu beneficiario è considerata tanto personale che ne parla solo per difendere il proprio apostolato, ma non vi ricorre mai per fondare il contenuto della sua teologia46. Essa infatti resta il motore segreto della sua attività, e non viene addotta come prova delle sue tesi né cristologiche né altro. Essa, cioè, offre a lui e solo a lui la precomprensione di fondo di tutto il suo agire e di tutto il suo pensare, che pertanto ne rimangono connotati fin nelle loro profondità anche se non viene confessato. 2. Il debito verso le tradizioni gesuane 2.1 Un secondo fondatore del cristianesimo? Ha pesato a lungo sugli studi delle origini cristiane, e in parte pesa ancora su certi esponenti della cosiddetta cultura laica, l'assioma formulato all'inizio del sec. XX dall'esegeta luterano tedesco Wrede, secondo cui "Paolo va considerato come il secondo fondatore del cristianesimo", in quanto avrebbe "trasformato il cristianesimo in una religione di redenzione", non prevista da Gesù47. Lo stesso giudizio vale ancora per qualche raro studioso 46 Si può vedere in ciò un parallelo con la prassi rabbinica che rifiuta di fondare una halakah o direttiva di comportamento su di una qualche bat-qòl o voce dal cielo, che è ritenuta valida solo per dare conferma del valore di un Maestro in generale (cf. t.Sot. 13,2-4). 47 W. Wrede, Paulus, Halle 1904, pp. 104 e 103 (riprodotto in K.H. Rengstorf, ed., Das Paulusbild in der neueren deutschen Forschung, "Wege der Forschung" 24, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1969, pp. 1-97 qui 96 e 95). Del resto, l'opposizione tra Paolo e Gesù è tipica di vari autori del secolo XIX, tra cui E. Renan (Saint Paul, Paris 1969, p. 569: "Non è più l'epistola ai Romani a riassumere il cristianesimo, ma è il Discorso della montagna...") e F. Nietzsche (L'Anticristo, Adelphi, Milano 1987, pp. 55 e 90: "In Paolo si incarna il tipo antitetico alla 'buona novella', il genio nell'odio, nella visione dell'odio, nella spietata logica dell'odio. Che cosa non ha sacrificato all'odio questo disangelista? Innanzitutto il redentore: lo inchiodò alla sua croce... Questo falsario..."). Vedi anche V. Macchioro, Orfismo epaolinismo, Bastogi, Foggia 1982 [prima ediz. 1922] (cap. I: "L'origine orfica della cristologia paolina", pp. 7-112).
IL DEBITO VERSO LE TRADIZIONI GESUANE
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ebreo 4 8 , forse motivato dal fatto che ai suoi occhi Paolo risulta ormai irrecuperabile per il giudaismo. A questo proposito bisognerebbe in primo luogo discutere il concetto stesso di "redenzione" per vedere se quello di Paolo collima davvero con quello delle religioni misteriche. Ma non possiamo anticipare già qui tutto ciò che diremo in seguito. Ci accontentiamo per ora di qualche cenno; altri più specifici si troveranno più sotto nel § 3.3 (a proposito di Fil 2,6-11). Certo è che gli studiosi di storia delle religioni, e in particolare dell'antica religione greca, oggi non parlerebbero tanto a cuor leggero di parallelismo tra i due versanti, anche se il problema del comparatismo esiste e va affrontato 49 . Per esempio su ABD, tra i possibili sfondi concettuali del concetto neotestamentario di redenzione si enumerano il vocabolario della LXX, la teologia del martirio, e la prassi della manomissione degli schiavi, ma non si accenna neppure ai culti misterici50. Il fatto è che la rispettiva soteriologia diverge anche troppo. Da una parte, il concetto di peccato, centrale nel cristianesimo (e non solo nel paolinismo!), è del tutto assente nei culti misterici51. Dall'altra, è totalmente assente nella concezione cristiana l'idea, centrale
48 Vedi l'eloquente titolo di H. Maccoby, The Mythmaker. Paul and the Invention ofChristianity, Harper & Row, New York 1986, il quale nega persino che Paolo fosse un Fariseo (cf. p. 16: "Il mito centrale della nuova religione fu quello di una morte espiatrice di un essere divino. [...] Paolo derivò questa religione da fonti ellenistiche" [con particolare riferimento al culto di Attis], amalgamando il tutto con le tradizionali Scritture di Israele e ricavandone così un ibrido inconsueto). Va però ricordato che altri ebrei parlano di Paolo in toni ben diversi, come per esempio R.L. Rubenstein, My brother Paul, Harper & Row, New York 1972 (cf. pp. 114-143 sul fatto che Paolo non cessò mai di considerarsi un buon giudeo; in più, egli viene psicanaliticamente lodato perché "risolse il conflitto tra esperienza e tradizione a vantaggio del preminente valore della sua propria esperienza" [p. 6]); cf. anche il già citato A.F. Segai, Paul the Covert. Più in generale, cf. D.A. Hagner, Paul in Modem Jewish Thought, in D.A. Hagner & M.J. Harris, edd., Pauline Studies. Essayspresented to Prof. F.F. Bruce, Paternoster, Exeter 1980, pp. 143-165; e soprattutto S. Meissner, Die Heimholung des Ketzers. Studien zur jùdischen Aùseinandersetzung mit Paulus, WUNT 2.87, Mohr, Tùbingen 1996. 49 Cf. B.M. Metzger, Methodology in the Study of the Mistery Religions and Early Christianity, in Historical and Literary Studies: Pagan, Jewish, and Christian, NTTS 8, Brill, Leiden 1968, pp. 1-24; A.J.M. Wedderburn, Baptism and Resurrection. Studies in Pauline Theology against Its Graeco-Roman Background, WUNT 44, Tùbingen 1987, pp. 90-163. 50 Cf. G.S. Shogren, Redemption (New Testament), in ABD 5, pp. 654-657. Vedi anche R. Penna, Salut (Théologie biblique), in J.-Y. Lacoste, ed., Dictionnaire critique de Théologie, PUF, Paris 1998, pp. 1049-1052. 51 Si potrebbe semmai richiamare l'orfismo e il suo mito della "colpa precedente", che pone tutti gli uomini in uno stato di punizione da cui occorre liberarsi; ma il tema è essenzialmente riferito alla drammatica contrapposizione antropologica fra il corpo e l'anima (cf. U. Bianchi, Prometeo, Orfeo, Adamo. Tematiche religiose sul destino, il male, la salvezza, Ateneo & Bizzarri, Roma 1976, pp. 55-70).
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invece nei misteri, del sacrificio dell'essere divino che garantisce l'ordine esistente, avendo la "funzione di momento fondante di un certo tipo di attualità dalla quale non si può in nessun modo evadere" 52 . Lo si vede in particolare proprio nel culto di Attis, associato a quello di Cibele, dove "si rievoca una vicenda divina in cui il dio è soggetto a prove, scomparsa e morte, ma anche alla 'sopravvivenza' nella sua capacità di garante della fertilità vegetale. (...) L'abbondanza di benedizioni a livello terreno e collettivo può essere considerato il beneficio maggiore, cercato attraverso la celebrazione del culto" 5 3 . Ricordiamo qui due caratteristiche di questo culto, che non possono comunque aver influito su Paolo: (1) l'una è il titolo di crcoxrip testimoniato al femminile per Cibele (acótetpa) anche in rapporto alla salvaguardia dei valori morali; nelle lettere autentiche di Paolo non si trova mai questo titolo per designare Gesù (eccetto in Fil 2,20, dove però è giudaicamente riferito al momento escatologico); (2) inoltre, va tenuto presente che il celebre taurobolium ebbe in un primo tempo una valenza solo pubblica prò salute dell'Imperatore e altre autorità, e solo a partire dal secolo III acquistò anche una dimensione privata per il bene dell'individuo (come bagno rinnovatore nel sangue del toro è attestato in congiunzione con il culto di Cibele-Attis solo a partire dalla metà del secolo II d . C ) : il caso di un tauroboliatus che si proclama in aeternum renatus è appena dell'anno 376 (cf. CIL VI,5IO)54. In buona sostanza, la soteriologia dei vari culti misterici consiste doppiamente: in questa vita come semplice protezione dai malanni di ogni genere, e dopo la morte come preservazione da supplizi infernali o da reincarnazioni punitive e dolorose, quindi in una vita beata 55 . Ma la distanza da Paolo e dal cristianesimo in ge-
52 I. Chirassi Colombo, Il sacrificio dell'essere divino e l'ideologia della salvezza nei tre più noti sistemi misterici dei primi secoli dell'Impero, in U. Bianchi - M. J. Vermaseren, edd., La soteriologia dei culti orientali nell'Impero Romano. Atti del Colloquio Internazionale di Roma 24-28 settembre 1979, EPRO 92, Brill, Leiden 1982, pp. 308-330 qui 314 (i culti presi in considerazione, dopo alcuni cenni su Eleusi, Dionisismo e Orfismo, sono: Mitraismo, Iside-Osiride, e Attis-Cibele). 53 G. Sfameni Gasparro, Soteriology and Mystic Aspects in the Cult ofCybele and Attis, EPRO 103, Brill, Leiden 1985, p. 84; l'Autrice ritiene superata la formula "dying and rising gods" coniata a suo tempo da J.G. Frazer (cf. ib., pp. XVXVI, 29-30) e preferisce quella di "mystic gods" in quanto figure sopra-umane in stretto rapporto con gli uomini, la cui nuova condizione viene definita in virtù della loro partecipazione al culto che celebra la vicenda del dio (sulla dimensione sopraumana di Attis, cf. ib., pp. 29-43). Vedi anche M.J. Vermaseren, Cybele and Attis. TheMyth and the Cult, with 112 illustrations, Thames and Hudson, London 1977. 54 Cf. R. Duthoy, The Taurobolium. Its Evolution and Terminology, EPRO 10, Brill, Leiden 1987, p. 18; M.J. Vermaseren, Cybele and Attis, pp. 101-107; G. Sfameni Gasparro, Soteriology, pp. 107-118. 55 Cf. R. Turcan, Les cultes orientaux dans le monde romain, Les Belles Lettres, Paris 1989, pp. 14 e 31. Vedi anche S.G.F. Brandon, ed., The Saviour God. Comparative Studies in the Concepì of Salvation, presented to E.O. James, Manchester 1963; W. Burkert, Antichi culti misterici, Laterza, Roma-Bari 1989.
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nere dovrebbe essere evidente. Tuttavia, anche se Paolo non si spiega mediante un ricorso all'ambito pagano, occorre ancora vedere se egli è in sintonia con Gesù. Certo P a o l o non è stato un discepolo del Gesù terreno. Forse è anche per questo che egli si distingue per l'originalità della sua riflessione cristologica. Essa però, onestamente, va verificata in due direzioni: prima nei confronti di Gesù e poi anche nei confronti della chiesa primitiva. Infatti, come diremo ancora, tra Gesù e Paolo non c'è il vuoto. P a o l o , cioè, storicamente non si aggancia (o si sgancia?) direttamente a Gesù, m a alla comunità cristiana che lo precede e che sta in mezzo ad entrambi e perciò costituisce il loro trait-d'union. Sicché, l'eventuale problema richiamato da Wrede dovrebbe porsi in primo luogo n o n circa i rapporti intercorrenti tra Paolo e Gesù, bensì circa i rapporti che intercorrono tra la chiesa primitiva e Gesù. Il problema della continuità o discontinuità si pone già a m o n t e , e concerne la relazione tra la chiesa gerosolimitana e Gesù. Q u a n t o a P a o l o , d u n q u e , non c'è solo la questione della sua fedeltà a Gesù, m a anche e prima ancora quella concernente il suo vincolo e quindi la sua fedeltà alla chiesa tradente 5 6 . A questo argomento dedicheremo il prossimo paragrafo. Infatti, dato che all'origine di tutta la vicenda cristiana c'è il Gesù terreno, è di qui che cominciamo la nostra verifica. Gli interrogativi che d a n n o corpo alla questione sono i seguenti: Paolo rappresenta davvero un prolungamento omogeneo con l'insegnamento di Gesù di Nazaret? È possibile stabilire che egli non ha costruito u n a sua aut o n o m a immagine di Gesù m a che conosceva il materiale gesuano e lo ha fatto valere nel suo sistema di pensiero? Quali sono allora le componenti della vicenda di Gesù, in azioni e parole, che sopravvivono in lui? Gli articoli come studi settoriali in materia non mancano 5 7 . An56 La sua cristologia è il risultato della convergenza di questi due fattori: cf. P. Stuhlmacher, Zur paulinischen Cristologie, ZTK 74 (1977) 449-463. 57 Tra i più recenti, cf. D. Dungan, The Sayings of Jesus in the Churches of Paul, Blackwell, Oxford 1971 (sui testi di ICor 7,10-11 e 9,14); T.J. Keegan, Paul and the Historical Jesus, Angelicum 53 (1975) 302-339, 450-484 (Paolo era familiarizzato con la tradizione su Gesù, ma per lui era più importante la sua presente relazione con il Signore risorto); D.G. Allison, The Pauline Epistles and the Synoptic Gospels: The Pattern ofParallels, NTS 28 (1982) 1-32 (distinguendo tra citazioni, allusioni e paralleli, stabilisce che la tradizione su Gesù è più importante per Paolo di quanto possa apparire); F. Neirynck, Paul and the Sayings of Jesus, in A. Vanhoye, ed., L'apótrePaul: Personnalité, style et conception du ministère, BETL 73, Leuven 1986, pp. 265-321 (non si può dimostrare che Paolo facesse uso
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zi, finalmente disponiamo anche di una estesa monografia curata da Wenham58. Ma va subito detto che in questa materia occorre una molteplice messa in guardia. La prima riguarda la quantità delle parole di Gesù riscoperte nelle lettere paoline: la prudenza non deve mai farci maggiorare i testi (come dire: pochi ma buoni piuttosto che molti ma incerti). La seconda si basa sulla constatazione che Paolo, quando sembra rifarsi alla tradizione gesuana, non impiega mai il nome proprio di "Gesù" ma usa sempre la qualifica di "Signore": ciò significa che ci possono essere anche molte allusioni alla vicenda di Gesù ma questa non è mai considerata per se stessa bensì solo attraverso il prisma della fede pasquale. La terza, più importante, riguarda il fatto che i rapporti di Paolo con Gesù non si misurano soltanto in base a eventuali, singoli detti gesuani riportati o allusi dall'Apostolo, ma soprattutto per la consonanza
di detti di Gesù così come essi sono stati conservati nei vangeli sinottici); S.J. Patterson, Paul and the Jesus Tradition: It is Time for Another Look, HTR 84 (1991) 23-41 (rifacendosi al Vangelo di Tommaso, si sostiene che Paolo rifiutò la tradizione dei detti di Gesù perché, nella forma da lui incontrata a Corinto, essa era di tipo esoterico e non si interessava alla morte di Gesù); S. Kim, Jesus (Sayings of), in G.F. Hawthorne - R.P. Martin - D.G. Reid, edd., Dictionary of Paul and His Letters, InterVarsity, Grand Rapids-Leicester 1993, pp. 474-492 [trad. ital.: San Paolo, Cinisello Balsamo 1998] (Paolo conobbe certamente la tradizione su Gesù, ma non può essere paragonato a un rabbino o a un filosofo ellenista che citano il loro maestro); J.M.G. Barclay, Jesus and Paul, in ib., pp. 492-503 (non si possono negare le differenze, ma ci sono sufficienti prove per dire che Paolo semplicemente sviluppò il senso fondamentale della vita e della morte di Gesù); J.D.G. Dunn, Jesus Tradition in Paul, in B. Chilton & C.A. Evans, edd., Studying the Historical Jesus. Evaluation of the State of Current Research, Leiden 1994, pp. 155-178 (una certa libertà è dimostrata da Paolo anche nei confronti dell'A.T.; la tradizione su Gesù doveva essere ben presente nella memoria delle comunità cristiane [oltre che non essere ancora ben fissata], così da non essere necessaria una sua utilizzazione su vasta scala); J.P. Arnold, The Relationship of Paul to Jesus, in J.H. Charlesworth & L.L. Johns, edd., Hillel and Jesus. Comparisons of Two Major Religious Leaders, Fortress, Minneapolis 1997, pp. 256-288 (il collegamento di Paolo con Gesù è sicuro, sia pur con la mediazione della prima comunità cristiana). Vedi anche J.D.G. Dunn, The Theology of Paul, pp. 182-206 ("Jesus the man"), 58 Cf. D. Wenham, Paul: Follower of Jesus or Founder of Christianity?, Eerdmans, Grand Rapids-Cambridge 1995. Più settoriale era lo studio di E. Jùngel, Paolo e Gesù. Alle origini della cristologia, Paideia, Brescia 1978 (orig. ted., Tùbingen 1962, 41972), che confronta il tema paolino della giustificazione e la predicazione gesuana del Regno e del Figlio dell'uomo. Altri temi vengono confrontati o solo accostati dal già citato J. Blank, Paulus und Jesus; da E.E. Ellis - E. Gràsser, edd., Jesus und Paulus. Festschrift W.G. Kummel, Gòttingen 21978, e da H. Merklein, Studien zu Jesus und Paulus, WUNT 43, Tùbingen 1987. Interessante è pure la raccolta di studi in A.J.M. Wedderburn, ed., Paul and Jesus. Collected Essays, JSNT Suppl. 37, JSOT, Sheffield 1989 (si ipotizza che Paolo ricorra poco all'insegnamento di Gesù perché al suo tempo esso era « in mani nemiche », cioè usato in senso legalistico dai suoi avversari giudaizzanti).
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di temi e atteggiamenti di fondo, che possono essere ancor più decisivi della presenza di detti anche ove questi mancassero. Quindi procediamo secondo una triplice suddivisione. 2.2 Riferimenti evidenti a Gesù In primo luogo rileviamo che l'Apostolo è a conoscenza di alcuni fatti riguardanti la vicenda terrena di Gesù. Egli sa bene che Gesù era veramente uomo (cf. Gal 4,4; Fil 2,7), discendente dai patriarchi di Israele (cf. Gal 3,16; Rm 9,5) e di origine davidica (cf. Rm l,3b), aveva alcuni "fratelli" (ICor 9,5; Gal 1,19), celebrò l'ultima cena della sua vita nella notte in cui veniva tradito (cf. ICor 11,23). Soprattutto Paolo sa benissimo che Gesù morì crocifisso; anzi, è proprio su questo dato che costruisce gran parte della sua cristologia, come vedremo più avanti. Possiamo aggiungere che Paolo è al corrente sia del gruppo dei Dodici (di origine gesuana: cf. ICor 15,5) sia della funzione preminente di Cefa al loro interno (cf. Gal 1,18; 2,11-14). Poiché queste notizie sono tutto ciò che abbiamo del Gesù terreno in Paolo, va subito notata l'estrema scarsità del suo interesse per la storia gesuana, essendo evidenti le forti lacune in materia. In secondo luogo, per quanto riguarda le parole di Gesù, non siamo molto più fortunati. A rigor di termini, le volte in cui l'Apostolo si rifa esplicitamente e con certezza a qualche suo pronunciamento sono soltanto tre, e sempre nella ICor: 7,10 (circa l'indissolubilità del matrimonio: cf. Me 10,11-12)59; 9,14 (circa la necessità che chi annuncia l'evangelo venga mantenuto dalla comunità: cf. Le 10,7)60; e 11,24-25 (circa le parole dell'ultima cena sul pane e sul vino: cf. Mt 26,26-28//)61. Altri tre casi, in cui egli sembra rifarsi direttamente a una parola del Signore, sono discutibili. Il primo è lTs 4,15-17: qui sono certo riferibili a Gesù secondo Mt 24,30-31 alcuni elementi dello scenario escatologico (la venuta dal cielo, il suono della tromba, l'intervento angelico, la riunione degli eletti), ma non è riconducibile a lui l'affermazione centrale del 59 Ma vi si aggiunge subito una eccezione, che è nota sotto il nome di «privilegio paolino»: ICor 7,12-16. 60 Ma nel contesto Paolo afferma di non attenersi a questa norma, poiché preferisce mantenersi con il lavoro delle proprie mani. 61 Ma va notato che la trasmissione di queste parole concorda più con la tradizione propria di Le che non con quella di Mc-Mt.
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passo, e cioè che nell'ultimo giorno risorgeranno prima i defunti e poi i viventi superstiti si assoderanno a loro per unirsi tutti insieme al Signore62. Il secondo passo si trova in Gal 6,2 ("Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo"; cf. anche ICor 9,21); a questo proposito è ormai abbandonata la tesi, secondo cui Paolo intenderebbe una nuova Torah emanata dal Gesù terreno, rinvenibile soprattutto nel Discorso della montagna di Mt 5-7 (cf. W.D. Davies e C.H. Dodd); in alternativa, i commentatori rimandano normalmente al comandamento dell'amore inteso come compendio di tutta l'etica gesuana (cf. F. Mussner, J.D.G. Dunn); tuttavia, sono possibili anche altre interpretazioni, così da pensare: o alla stessa legge mosaica in quanto compendiata da Gesù nel precetto dell'amore e osservabile mediante la fede in Gesù (cf. E.P. Sanders, A. Pitta, J.L. Martyn), o alla legge dello Spirito dato da Gesù perché la vita cristiana porti frutti (cf. B. Corsani), o al fatto che Gesù stesso è diventato legge per il cristiano in quanto ha dato se stesso per gli altri (cf. O. Hofius, R.B. Hays). Il terzo testo infine è Rm 14,14 ("So e sono persuaso nel Signore Gesù che nulla è impuro per se stesso"), dove parrebbe echeggiare una halakah come quella che leggiamo in Me 7,14-23/Mt 15,10-20 ("Non c'è nulla che entri nell'uomo e possa contaminarlo..."); ma si pone il problema di sapere se Paolo si fondi su una reale tradizione gesuana (cf. Cranfield, Moo), oppure se la sua concezione derivi semplicemente dal fatto di vivere in Cristo (risorto) così da essere illuminato da Lui (cf. Kàsemann, Schlier, Dunn, Byrne)63. Il risultato è che l'aggancio di questi tre testi alla tradizione gesuana appare perlomeno problematico; ma basterebbero i primi tre a dimostrare che comunque Paolo ne era a conoscenza. In terzo luogo, ricordiamo quei passi in cui Paolo si propone come imitatore di Cristo (o invita i suoi lettori a fare altrettanto). Così per esempio leggiamo in ICor 11,1: "Siate miei imitatori come io lo sono di Cristo"; in lTs 1,6: "Voi siete diventati imitatori miei e del Signore"; e in Fil 2,5: "Abbiate fra di voi gli stessi senti62 Da parte sua, T. Holtz, Der erste Brief an die Thessalonicher, EKK XIII, Zùrich-Neukirchen 1986, p. 184, pensa che si possa trattare di un vero detto di Gesù altrimenti sconosciuto. Invece P. lovino, La prima lettera ai Tessalonicesi, SOC 13, Bologna 1992, p. 223 nota 176, preferisce pensare a un generico rimando di tipo apocalittico all'autorià del Signore. 63 In questo secondo senso vanno anche i commenti di J. Ziesler, L. Morris, P. Stuhlmacher, J.A. Fitzmyer; incerto invece si dimostra U. Wilckens.
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menti che furono in Cristo Gesù"64. A questo proposito, dobbiamo constatare che Paolo, per descrivere il rapporto suo e del cristiano nei confronti di Gesù, non impiega mai né il verbo "seguire" (àxoXouGéw) né il sostantivo "discepolo" (\icf.Br\vf\^), che invece sono tipici delle tradizioni gesuane (cf. Sinottici e Gv). Egli invece fa uso dei termini "imitare-imitatore" (\ii\iio\ioi.i-[ii[i.r\xr\<;), che però, pur con una terminologia di diversa origine, hanno di mira lo stesso dato di una fedele adesione a Cristo. Sullo sfondo c'è sicuramente un riferimento al Gesù terreno: ma non per proporre la ripetizione dettagliata di tutti i suoi singoli comportamenti (per esempio, Paolo stesso non lo imita nel fatto che lavora con le proprie mani), bensì per richiedere di adottare come metro di misura della propria vita sia la netta conformazione alla volontà di Dio e sia soprattutto l'attenzione alle esigenze degli altri, la ricerca del vantaggio altrui (cf. Rm 15,2-3!)65. 2.3 Allusioni alla tradizione sinottica Molto più frequenti sono invece i casi, in cui è possibile sentire risuonare almeno indirettamente elementi della tradizione gesuana. Senza voler esagerare66, sono almeno una ventina i passi delle lettere paoline (autentiche), in cui possiamo legittimamente pensare che l'Apostolo sia debitore di detti risalenti a Gesù67. Ci accontentiamo qui solo di fare qualche esempio. Ciò che leggiamo in lTs 5,2 ("Voi sapete molto bene che il giorno del Signore viene come un ladro di notte") non si spiegherebbe solo con un rimando alle 64 Così la versione CEI e la maggior parte dei Commentatori (cf. P.T. O'Brien, Commentary on Philippians, NIDTC, Eerdmans, Grand Rapids 1991). Altri invece, per il fatto che il complemento "in Cristo Gesù" in Paolo designa sempre una qualità della condizione cristiana, preferiscono tradurre più letteralmente: "Abbiate tra di voi i sentimenti che (conviene avere) in Cristo Gesù" (cf. per esempio J. Gnilka, La lettera ai Filippesi, CTNT X/l, Brescia 1972). La prima versione sembra però la migliore poiché l'inno cristologico che segue propone appunto la vicenda di Gesù come paradigma di umiltà per il comportamento cristiano. 65 Cf. W. Michaelis, ^néo^ai XTX, in GLNT VI, coli. 253-298; H.D. Betz, Nachfolge und Nachahmung Jesu Christi im Neuen Testament, BhT 37, Tùbingen 1967; J.B. Webster, The Imitation of Christ, TyndBull 37 (1986) 95-120, e l'esegesi di ICor 11,1 in G. Barbaglio, La prima lettera ai Corinzi, SOC 7, Bologna 1996, p. 504. 66 Per esempio A. Resch, Der Paulinismus und die Logia Jesu im ihren gegenseitigen Verhàltnis untersucht, Leipzig 1904, credeva di poter computare addirittura un migliaio di paralleli fra i Sinottici e le lettere paoline! 67 Vedi l'utile tabella proposta da S. Kim, Jesus (Sayings of), p. 481, che ne computa 26 (più 5 nelle deuteropaoline Col, Ef, 2Ts).
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profezie veterotestamentarie; infatti, se è di qui che proviene in ultima analisi l'idea del giorno del Signore, tuttavia l'esempio del ladro nella notte si trova soltanto in un passo della fonte Q (Mt 24,43/Lc 12,39), che del resto sta all'origine di una tradizione rinvenibile anche altrove68; in più, il riconoscimento che i destinatari "sanno bene" di cosa si tratta suppone che essi siano familiarizzati con l'immagine addotta. Inoltre, l'affermazione di ICor 1,27-28 ("Dio ha scelto le cose stolte di questo mondo...") riecheggia l'insegnamento gesuano sui poveri e sui semplici come veri destinatari dell'annuncio (cf. Mt 5,3; 11,25; 19,30; Le 14,21). In 2Cor 12,12 ("Si sono realizzati tra di voi i segni dell'apostolo [...] con segni, prodigi e miracoli") si riattualizza la consegna di Gesù quando chiamò i Dodici e, mandandoli a predicare, "diede loro potere sugli spiriti immondi" (Me 6,7; 3,14; 16,17s). L'accenno all'obbedienza di Gesù in Fil 2,8 ("...facendosi obbediente fino alla morte") non può non richiamare, oltre il comportamento concreto di Gesù, anche suoi detti specifici che esaltano il valore della totale sottomissione alla volontà di Dio (cf. Mt 6,10; Me 3,35; 14,36; Gv 4,34). Infine, nella parenesi di Rm 12,9-21 ("Amatevi gli uni gli altri... Non maledite... Vivete in pace con tutti... Vinci con il bene il male...") risuonano molti detti gesuani sull'amore fraterno e sulla non-violenza, riscontrabili nel Discorso della montagna (cf. Mt 5,23s.39.44)69.
2.4 Consonanze tematiche tra Paolo e Gesù Ciò che abbiamo visto finora riguarda di fatto solo riporti o echi di singoli insegnamenti di ordine pratico. Più importante sarebbe poter constatare la ripresa di dottrine di fondo, per esempio sul
68
L'immagine si ritrova anche in 2Pt 3,10; Ap 3,3; e Vangelo di Tommaso 21. Più problematico mi sembra dover ricondurre a Gesù ciò che Paolo dice in ICor 3,16 e 6,15 sulla comunità come Tempio di Dio e sui cristiani come membra di Cristo (così E.E. Ellis, Tradiiions in 1 Corinthians, NTS 32 [1986] 481-501 specie 485-490), poiché far valere il detto gesuano sulla distruzione del Tempio di Gerusalemme non è sufficiente, tanto più che questo era ancora in piedi mentre l'Apostolo scriveva la ICor. Più interessante, anche se non del tutto convincente, è il tentativo di altri Autori di collegare 2Cor 5,1 (circa la dimora àxeipo7roiT)-co<;, "non fatta da mani d'uomo", che attende il cristiano nei cieli) con il detto gesuano di Me 14,58 dove abbiamo il medesimo aggettivo concernente la ricostruzione del Tempio identificato con il Cristo risorto (cf. A. Feuillet, La demeure celeste et la destinée des chrétiens. Étude de II Cor, VJ-10, RcSR 44 [1956] 161-192, 360-402). 69
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valore della Legge, sull'identità profonda di Gesù, e sulla portata salvifica della sua morte. A questo proposito va metodologicamente osservato che in Paolo è possibile rilevare consonanze del genere, anche se non vi si riscontra lo stesso vocabolario o la stessa fraseologia gesuana. Infatti può accadere che si intendano le stesse cose pur servendosi di termini diversi. Ed è proprio a questo livello che si può notare la maggiore e più decisiva continuità tra Gesù e Paolo. Qui di seguito presenteremo tre di questi casi. 2.4.1 Regno di Dio e giustificazione per fede10. Come abbiamo visto nel volume I (cf. pp. 102-113), l'annuncio gesuano del Regno (o regalità) di Dio è strettamente connesso con due dati di fondo, peraltro connessi tra di loro. L'uno è la richiesta di una pura disponibilità nei suoi confronti, scevra da pretese condizionanti, che corrisponda alla totale gratuità con cui il Regno viene offerto; infatti, quando si dice che esso è riservato a coloro che sono come i bambini (cf. Mt 18,1-4//; 19,14), si intende dire che omogenei al Regno sono solo i poveri, quelli che si fanno piccoli davanti a Dio perché sanno di non avere nulla da offrirgli al di fuori della propria nuda accettazione. L'altro fattore è che il Regno, di conseguenza, viene accolto da coloro che non hanno alcun merito da accampare come titolo di vanto davanti a Dio, cioè dai peccatori (cf. Mt 21,31: " I pubblicani e le prostitute vi precedono..."; e la parabola del fariseo e del pubblicano in Le 18,9-14); è con essi infatti che Gesù pratica più volentieri la commensalità, suscitando le critiche dei benpensanti orgogliosi di sé (cf. l'episodio della peccatrice perdonata in Le 7,36-50; e l'intero Le 15 introdotto al v. 2 con l'annotazione che i farisei e gli scribi mormoravano disapprovando che egli accogliesse i peccatori e mangiasse con loro). Se ora confrontiamo questo tipico tratto gesuano con la dottrina di Paolo, vediamo delle coincidenze sorprendenti, che resistono anche al di là della differenza di linguaggio. Certo l'Apostolo parla molto poco del Regno di Dio, e lo fa quasi esclusivamente in contesti parenetici (cf. Rm 14,17; ICor 4,20; 6,9-10; 15,24.50; Gal 5,21; lTs 2,12). Viceversa, Gesù non ragionava in base al concetto di "giustizia (di Dio)", che è invece tipico di Paolo 71 ; anzi, 70
Cf. E. Jùngel, Paolo e Gesù, pp. 29-89, 313-338; D. Wenham, Paul, pp. 34-103. 71 Ricordiamo qui che il termine SixatoouvT), presente ben 34 volte nella sola Rm, si trova soltanto 7 volte in Mt, mai in Me, una sola volta in Le (ma non in bocca a Gesù), e due volte in Gv. Viceversa, alle 8 ricorrenze di "regno (di Dio)" in Paolo corrispondono le 51 ricorrenze in Mt, 14 in Me, 38 in Le (e solo 2 in Gv).
ma^t^^^m^m^m^mmtmmmmmmmmm^^m^^mm^^mmmmmmm
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dove esso appare in Mt soprattutto 5,20 designa giudaicamente la osservanza della Legge72. Inoltre, Gesù connetteva l'irruzione del Regno già con la sua parola e la sua azione terrene, pur riservandone il compimento nel futuro escatologico (cf. voi. I, pp. 102-113); Paolo invece, che comunque concorda sulla piena dimensione futura della salvezza (cf. Rm 5,9-10; 8,24), collega la giustificazione del peccatore con la fede nel Cristo morto e risorto (cf. Rm 4,25; 5,18; 8,32). Ma, se non c'è esatta corrispondenza di vocabolario, corrisponde invece molto bene la tematica di fondo. Infatti, l'insegnamento paolino circa la giustificazione per fede senza le opere della Legge comporta la stessa gratuità del dono, da una parte, e la stessa immeritata accettazione dall'altra73. Cosicché, l'esigenza che per Gesù si esprimeva ancora con il concetto di "conversione", in Paolo acquista la nuova designazione di "fede"74. Il fatto è che "l'esperienza di Gesù divenne il convincimento cristologico di Paolo: che cioè la salvezza è ormai venuta con Gesù"75. L'accordo dunque è nel fondo delle cose, dove le parole cedono il passo alla realtà significata. Constatazioni analoghe si potrebbero fare circa il valore della Legge: in entrambi i casi si dimostra un atteggiamento di grande libertà nei suoi confronti (cf. le infrazioni di Gesù: voi. I, pp. 74-86) eppure qua e là ne viene fatto l'elogio76. 2.4.2 L'identità di Gesù. Sull'identità umana di Gesù secondo 72
5-22. 73
Cf. G. Barbaglio, Paolo e Matteo: due termini di confronto, RSB 1 (1989)
Le parabole matteane del servo spietato (cf. Mt 18,23-35) e degli operai nella vigna (cf. Mt 20,1-16) esprimono in termini narrativi esattamente ciò che Paolo dice in termini più teologici a proposito dell'assoluto primato della grazia di Dio (cf. Rm745,8; 9,15-16; Gal 2,21). Vedi A.J.M. Wedderburn, Paul and Jesus, pp. 102-110. Cf. R. Penna, Pentimento e conversione nelle lettere di San Paolo: la loro scarsa rilevanza soteriologica confrontata con lo sfondo religioso, in Id., a cura, Vangelo, religioni e cultura. Miscellanea di studi in memoria di mons. P. Rossano, San75 Paolo, Cinisello Balsamo 1993, pp. 57-103. D. Wenham, Paul, p. 51. Inevitabilmente quindi, "non ci può essere fede in Dio che non passi per Gesù Cristo" (E. Jùngel, Paolo e Gesù, p. 326). Del resto, le stesse realtà paoline di giustizia, pace, gioia, libertà, vita ecc., sono implicate nella predicazione gesuana del Regno e sono ora rese disponibili mediante la morte di Gesù; "perciò il fatto che il vangelo gesuano del Regno sia sostituito dal vangelo paolino della morte e risurrezione di Gesù non significa alcuna discontinuità tra Gesù e Paolo. È vero piuttosto il contrario: esso doveva essere sostituito in questo modo" (S. Kim, Sayings, p. 483). 76 D'altronde, in entrambi i casi le molteplici esigenze della Legge vengono ridotte all'unico comandamento dell'amore, come si rileva dal confronto fra Me 12,28-34// e Rm 13,8-10; Gal 5,14 (anche se in Gesù ci sono i due comandamenti dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo, mentre in Paolo c'è solo il secondo).
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Paolo, abbiamo già detto sopra. L'importante è vedere almeno se i titoli cristologici gesuani si ritrovino in Paolo (pur riservando a questo argomento un apposito paragrafo più avanti). L'Apostolo non conosce la qualifica di Figlio dell'uomo77, mentre in più impiega il titolo forte di "Signore" che non proviene certo da Gesù ma dalla prima chiesa post-pasquale (cf. sopra: cap. I, 3.2). Tuttavia lo spessore divino di Gesù è ugualmente espresso in entrambi, sia pur in maniera discreta. Così il titolo di "Figlio (di Dio)", raro in bocca a Gesù (appena tre volte: cf. voi. I, pp. 150-153), è altrettanto raro nelle lettere di Paolo (appena 15 volte contro le quasi 300 del titolo-nome di "Cristo"). È vero poi che l'invocazione aramaica 'Abba è ora attestata in bocca ai cristiani e non più in bocca a Gesù (cf. Rm 8,15; Gal 4,6); però l'Apostolo è cosciente che essa proviene loro dallo "Spirito del Figlio" (Gal 4,6) e quindi costituisce un'assimilazione a lui, per il quale essa vale in senso pieno. D'altronde, l'espressione di conio paolino che designa Dio come "padre del signore nostro Gesù Cristo" (Rm 15,6; 2Cor 1,3; 11,31) suppone un rapporto particolarissimo di lui con Dio Padre78; esso è ulteriormente evidenziato dal fatto che il concetto esclusivamente paolino di "filiazione adottiva" (uìoGeawc: Rm 8,15.23; 9,4; Gal 4,5) è riservato solo ai cristiani in modo tale da distinguerli nettamente dal tipo di filiazione che caratterizza Gesù, "figlio" senza limitazioni. 2.4.3 // valore della morte di Gesù. Questo è forse uno dei punti più discussi circa la continuità tra Gesù e Paolo. Dato che sul tema ritorneremo in seguito, ci accontentiamo qui solo di qualche cenno fondamentale79. Il pensiero di Paolo in materia non è del tutto omogeneo: a volte egli pensa alla morte di Gesù come a un sacrificio espiatorio in base al quale noi veniamo perdonati (cf. Rm
77 L'equiparazione stabilita da D. Wenham, Paul, pp. 126-129, tra questo titolo e la dimensione cristologica di Adamo secondo Paolo sarebbe convincente solo se l'espressione avesse un semplice significato creaturale e non derivasse da Dn 7,13; ma come abbiamo visto nel voi. 1, pp. 134-143, ciò è impossibile, e anche il tentativo di vedere in Fil 2,7 una combinazione di "Adamic and Danielic ideas" è una forzatura. 78 Va infatti osservato che essa ricorre in contesto di euloghia; in questo senso è analoga a quella giudaica che dice per esempio: "Sii benedetto, Signore Dio di Israele, nostro padre, ora e sempre" (lCr 29,10; e la seconda benedizione che precede la recita dello Sh'ma0): l'idea qui espressa di paternità-filiazione a dimensione collettiva, intesa come unica nel suo genere, si ritrova in senso individuale nel caso di Gesù. 7 » Cf. D. Wenham, Paul, pp. 138-164.
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3,24-26), altre volte invece essa è presentata come un atto al quale anche noi partecipiamo per morire e vivere insieme a lui (cf. Rm 6,1-11)80. Alla base c'è un diverso concetto di peccato. Il primo modo è più tradizionale, mentre il secondo è più tipicamente Paolino. Ma non va dimenticato che a volte l'Apostolo lega la salvezza del cristiano alla semplice confessione della risurrezione di Gesù, senza riferimenti alla sua morte (cf. Rm 10,9-10), ricordando in più che nel passo pre-paolino riportato e condiviso da Paolo in Fil 2,6-11 (cf. sotto) alla morte di Gesù non è connesso un esplicito valore salvifico. In ogni caso, l'Apostolo considera la morte di Gesù non come un incidente della storia, ma come un evento escatologico che è ritenuto punto centrale del piano divino di salvezza per il mondo, in quanto implica la redenzione degli uomini dalla loro situazione peccaminosa, e che perciò sta all'origine di tutta l'esistenza cristiana. Orbene, c'è sicuramente un linguaggio soteriologico paolino che non troviamo in Gesù: così il concetto cultuale di iXacrtriptov ("luogo o strumento di espiazione": Rm 3,25) e quello più partecipazionista oufxcpuToi TOU BavdcTou atkou ("connaturati alla sua morte": Rm 6,5), oltre a quelli di liberazione, riconciliazione, giustificazione ecc. Tuttavia, anche qui, la consonanza va ben oltre il lessico. Come abbiamo visto nel volume I, è innegabile anche in Gesù una soteriolgia almeno implicita. Da una parte, egli ha considerato tutto il proprio ministero pubblico come l'espressione della misericordia divina in favore dei peccatori (cf. Me 2,17: "Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori"). Dall'altra, il detto tramandato da Me 10,45/Mt 20,28 ("Il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito ma per servire e dare la sua vita in riscatto per i molti") e le parole pronunciate sul pane e sul vino nell'ultima cena ("...il mio corpo dato per voi... la nuova alleanza nel mio sangue": ICor 11,24-25/Lc 22,19-20)81 esprimono con sufficiente chiarezza la cosciente intenzione di Gesù di conferire alla propria morte una destinazione salvifica in favore degli uomini82.
80 Cf. G. Barth, // significato della morte di Gesù. L'interpretazione del Nuovo Testamento, Claudiana, Torino 1995, pp. 155-174. 81 È indifferente osservare che la tradizione Paolo-Lc attribuisce un valore salvifico a entrambi, mentre la tradizione Mc-Mt lo riconosce solo al vino (cf. Me 14,22-24/Mt 26-28). 82 Cf. il volume I, rispettivamente pp. 74-86 e 153-166.
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2.5 Conclusione La questione del rapporto di Paolo con Gesù è complessa, poiché ha due facce. Il rischio è di farne prevalere una sola sull'altra. L'una, forse la più evidente a prima vista, consiste nella novità del genio teologico dell'Apostolo, che non è un mero ripetitore ma rielabora personalmente e originalmente i dati ricevuti così da dare l'impressione di ricominciare le cose da capo. L'altra, più nascosta ma reale, è quella della fedeltà di fondo ai dati ricevuti, che fa dire con onestà al diretto interessato di considerarsi uno "schiavo di Cristo" (Rm 1,1 ecc.) e non certo un suo usurpatore. Perciò non è possibile accostare le due figure nello stile delle Vite parallele di Plutarco. Prima c'è Gesù Cristo, e poi solo a una certa distanza viene Paolo di Tarso, che, se tra i cristiani del secolo I è certamente quello dai contorni biografici e ideali più risentiti, non per questo però cessa di essere totalmente al servizio di Gesù, che un giorno lo ghermì sulla strada di Damasco83. Altra questione è chiedersi se il materiale gesuano sia centrale o periferico alla teologia paolina e in specie alla sua cristologia84. La risposta non può che essere bilanciata. Al centro del pensiero di Paolo c'è indubbiamente la figura di Gesù, così come egli l'ha ricevuta dalla tradizione ecclesiale. Però la sua dimensione storica ancorché reale è piuttosto sfumata; anche il materiale gesuano delle parole (dato che quello delle azioni, a parte la morte considerata però più come evento che come un fatto, è pressoché inesistente) sta piuttosto sullo sfondo che non in primo piano. Il motivo è che egli incontrò nella propria vita non il Terreno ma il Glorificato. Ed è a questi che Paolo attribuisce persino delle parole ignote ad altri (cf. 2Cor 12,8-9: "...e mi disse: Ti basta la mia grazia, poiché la forza si perfeziona nella debolezza"). Scopriamo dunque un tratto essenziale del Gesù di Paolo. A differenza degli evangelisti che invece vi annettono molta importanza, Gesù per l'Apostolo non è né un taumaturgo né un maestro85. 83 "Paolo sarebbe inorridito all'idea di essere il secondo fondatore del cristianesimo. Per lui la sorgente della teologia era Gesù: sia quello che incontrò sulla strada di Damasco, sia quello della tradizione cristiana. Naturalmente egli identificò i due. Paolo vide se stesso come lo schiavo di Gesù Cristo, non come il fondatore del cristianesimo" (D. Wenham, Paul, pp. 409-410). 84 Nel primo senso, cf. D. Wenham, Paul, pp. 399-400; nel secondo senso cf. N. Walter, Paul and the Early Christian Jesus-Tradition, in A. J.M. Wedderburn, ed., Paul and Jesus, pp. 51-80. 85 Paolo non rimanda mai a nessuno dei miracoli compiuti dal Gesù terreno, ma accenna appena a "segni e prodigi" compiuti dal Risorto (cf. Rm 15,18-19).
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Il punto decisivo sta qui: Gesù per Paolo non è un personaggio del passato, ma è oggi "nostra sapienza da Dio e giustizia e santificazione e redenzione" (ICor 1,30). Con lui non c'è un rapporto estrinseco, distaccato: non certo commemorativo ma neppure di semplice esemplarità. Il Gesù di Paolo non sta davanti a noi, diverso da noi, ma sta dentro di noi, parte viva di noi, anzi propulsore della nostra vita (cf. Gal 2,20: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me"). Egli non è tanto una parallela che corre accanto al cristiano quanto piuttosto una perpendicolare che investe in pieno la sua identità e la sua esistenza. Il Gesù terreno sta alla base di tutto ciò, ne è l'imprescindibile punto di partenza, è lo zoccolo duro dell'aggancio con la storia. E Paolo lo sa. Ma egli respira con altri polmoni, che non sono quelli dello storico bensì quelli del 'mistico'. Non è comunque un altro Gesù quello che egli annuncia. Il fatto è che Gesù stesso conosce almeno due fasi di esistenza: una storica e una metastorica, che hanno il loro punto di coincidenza nella sua morte-risurrezione. Se per la prima vale la memoria, la seconda assicura una presenza. Paolo è ancorato a quella, ma si libra interamente nell'atmosfera di questa86. Tutto ciò andrà ulteriormente verificato in seguito.
3. L'eredità cristologica pre-paolina 3.1 77 triangolo Damasco-Gerusalemme-Antiochia Come abbiamo accennato sopra, tra Gesù e Paolo non c'è il vuoto, ma è presente la primitiva chiesa dell'area siro-palestinese. Né si può dire che Paolo, il quale non fu discepolo del Gesù terreno, abbia derivato l'intero suo patrimonio ideale di cristiano dall'incontro folgorante con il Risorto sulla strada di Damasco. Fu appunto la chiesa a fare da concreta mediazione storica tra il Nazareno e l'Apostolo. È da lei che gli provengono i tratti fondamentali della sua fede cristologica, o almeno è nel suo seno che egli ha la possibilità di formulare il contenuto della nuova fede. Lo ricoCosì egli non impiega mai a suo riguardo la qualifica né di Rabbi né di Maestro (il titolo di BiBàoxaXo? è usato solo per designare una funzione ministeriale all'interno della chiesa: cf. ICor 12,28-29). 86 Cf. J. Becker, Paolo l'apostolo dei popoli, p. 384: "Nell'Apostolo la cristologia entra in questione solo e sempre in quanto contenuto di quel Vangelo che ora viene annunciato nella forza dello Spirito".
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nosce personalmente in modo chiaro quando scrive ai Corinzi: "Vi ho trasmesso ciò che anch'io ho ricevuto" (ICor 15,3). Paolo quindi, tutt'altro che un iniziatore, appare chiaramente come un anello della catena della tradizione. Per quanto vistoso questo anello possa sembrare, è solo sulla tradizione che egli innesta e sviluppa gli apporti originali del suo pensiero, anche se è ipotizzabile che della tradizione egli selezioni proprio ciò che è più conforme alla propria ermeneutica dell'evangelo87. Si pone però il problema di sapere quale chiesa abbia concretamente influito sulla formazione cristiana dell'Apostolo, sapendo che i suoi primi anni di 'convertito', anteriori alla prima missione, egli li trascorse all'interno del triangolo geografico DamascoGerusalemme-Antiochia di Siria88. Certo è a questa regione che rimandano per esempio le invocazioni aramaiche Maranathà (ICor 16,22), Abbà (Rm 8,15; Gal 4,6), e l'appellativo Kephà (ICor 1,12, 9,5; 15,5; Gal 1,18; 2,9.11.14). Quanto a Damasco, la menzione dell'oscuro Anania in At 9,10-17 (cf. 22,12-16) allude discretamente al primo evangelizzatore di Paolo, anche se di quel giudeo-cristiano e della sua opera non sappiamo altro. Quanto a Gerusalemme, Paolo deve avervi imparato davvero molto; ma per questo rimandiamo a quanto abbiamo già scritto nel capitolo precedente. Resta da considerare Antiochia, dove si era formata una comunità cristiana vivace e aperta, all'interno della quale Paolo trascorse almeno un anno (cf. At 11,26) prima della sua attività missionaria; egli ne divenne anche uno dei suoi esponenti principali (cf. At 13,1-2), tanto da poter essere chiamato "missionario e teologo antiocheno"89. Agli stimoli provenienti da questa chiesa egli deve forse alcuni aspetti decisivi del suo pensiero, compresi alcuni aspetti della cristologia, alla cui formulazione peraltro dobbiamo pensare che egli abbia cooperato in prima persona90. 87
Cf. K. Wengst, Der Apostel und die Tradition. Zur theologischen Bedeutung urchristlicher Formeln bei Paulus, ZTK 69 (1972) 145-162. Vedi anche R. 2Penna, Paolo di Tarso. Un cristianesimo possibile, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, pp. 37-52. 88 Vedi ora in proposito lo studio complessivo di M. Hengel e A.M. Schwemer, Paul Between Damascus and Antioch. The Unknown Years, SCM, London 1997. 89 J. Becker, Paolo l'apostolo dei popoli, pp. 89-129. 90 Vedi in particolare L. Schenke, Die Urgemeinde, pp. 317-347; E. Rau, Von Jesus zu Paulus. Entwicklung und Rezeption der antiochenischen Theologie im Urchristentum, Kohlhammer, Stuttgart-Berlin 1994; e A. Dauer, Paulus und die christliche Gemeinde im syrischen Antiochia, BBB 106, Beltz Athenàum, Bonn 1996. Cf. anche R.E. Brown, Antiochia e Roma. Chiese-madri della cattolicità antica, Cittadella, Assisi 1987, specie pp. 41-60. Per un inserimento della città nell'ambito
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Rilevare all'interno dell'epistolario paolino i testi pre-redazionali non è cosa facile91. Ancor più difficile è stabilire da quale ambito ecclesiale essi provengano, e quindi non stupisce che gli Autori in materia possano divergere. Così Schenke e Dauer non sono d'accordo sull'ambientazione di testi come Rm l,3b-4a e Rm 3,25, che il primo fa risalire a Gerusalemme, mentre il secondo li riporta ad Antiochia. In generale però essi concordano (cf. anche Becker) nell'attribuire alla chiesa antiochena non solo il concetto di euanghelion, comprendente la riflessione su di una missione ai Gentili libera dall'obbligo della circoncisione, ma anche per quanto interessa a noi più da vicino: - la concezione di un epocale superamento della Legge da parte di Cristo (cf. Rm 10,4); - l'attribuzione a Gesù del titolo di "Signore" non tanto nella sua formulazione aramaica Mar-Mar' (cf. cap. I, C, 2) quanto soprattutto in quella greca di Kyrios (presente in formule come Rm 10,9; ICor 8,6; 12,3 e Fil 2,9-11); - gran parte delle confessioni di fede (come quelle presenti in Rm 4,25; 8,32; ICor 15,3-5); - le dichiarazioni sull'autodonazione di Cristo (cf. Gal 1,4; 2,20); - sulla sua morte "per" (cf. Rm 5,8); - sulla sua missione come preesistente (cf. Rm 8,3; Gal 4,4); - e quelle sulla Parusìa e sulla sua configurazione (cf. lTs 4,16-17). Tuttavia Hengel92 mette fortemente in guardia dal rischio di un "panantiochenismo", che finisce per enfatizzare oltre il dovuto la funzione storico-teologica della chiesa antiochena. Secondo Hengel, infatti, le componenti essenziali della fede cristiana (come il titolo di "Signore", l'idea della preesistenza, e persino quella sulla mediazione nella creazione) si sono formate tutte già nella chiesa di Gerusalemme. Fu là che avvenne l'esplosione cristologica, e il gruppo degli "Ellenisti" ne favorì anche un ripensamento alla greca. Perciò fu di là che Paolo portò questo patrimonio con sé ad Antiochia. Così i testi pre-paolini sia di Rm sia di ICor sono riconducibili solo alla chiesa palestinese per vari motivi. Da una parte, la chiesa di Roma era stata fondata a partire da Gerusalemme e Paolo, che su di essa era stato informato dai giudei romani Aquila e Prisca, voleva ingraziarsela riportando affermazioni cristologiche ad essa ben note (cf. Rm l,3b-4a; 3,25; 4,25; 8,32). Dall'altra, i testi chiaramente tradizionali di ICor (cf. 11,23-27 sull'ultima ce-
della Siria, cf. R. Tracey, Syria, in D.W.J. Gill & C. Gempf, edd., The Book of Acts in Its Graeco-Roman Setting, "The Book of Acts in Its First Century Setting" 2, Eerdmans-Paternoster, Grand Rapids-Carlisle 1994, pp. 223-278 specie 236-239. 91 L. Schenke enumera otto criteri, in base ai quali poter isolare materiale di tipo "formulare", risalente a uno stadio anteriore alla composizione scritta (cf. Die Urgemeinde, pp. 326-327). 92 Cf. Paul Between Damascus and Antioch, pp. 279-300.
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na; 15,3-5 sui fatti pasquali) rimandano inequivocabilmente ad eventi verificatisi proprio a Gerusalemme o in Giudea. Del resto, da Gerusalemme provengono i primi importanti collaboratori di Paolo, come Barnaba e Sila/Silvano. In più, avendo incontrato per vari giorni Cefa proprio a Gerusalemme (cf. Gal 1,18), l'Apostolo stesso può dichiarare con sicurezza la propria comunione di fede con quella chiesa: "Sia io che loro così predichiamo e così avete creduto" (ICor 15,11). Tutto ciò non si può negare. In ogni caso, c'è un punto che va tenuto presente e che favorisce l'idea di un apporto determinante di Antiochia all'elaborazione del pensiero di Paolo. È la notizia fornitaci da Luca, secondo cui "ad Antiochia cominciarono a parlare anche ai Greci [cioè ai Gentili], predicando l'evangelo del Signore Gesù" (At 11,20)93. Ciò avrà delle conseguenze notevoli anche sulla cristologia per quanto riguarda il rapporto tra Gesù e la Legge. Poiché gli sviluppi in materia ci sono testimoniati solo dalle lettere di Paolo, li consideriamo caratteristici della sua cristologia (e li tratteremo più sotto: cf. § 6). D u n q u e , i debiti di Paolo nei confronti della cristologia primitiva sono indubitabili, in qualunque direzione ecclesiale essi possano essere ricondotti. Noi abbiamo già preso in esame due determinanti confessioni di fede della chiesa primitiva, che non a caso ci sono conservate proprio dalle lettere di Paolo (cf. Rm l,3b-4a; ICor 15,3-5) 94 . Esse vanno richiamate in questa sede dal Lettore per avere un q u a d r o più completo della situazione. Ora invece, qui di seguito, per non frammentare eccessivamente l'esposizione addentrandoci in piccole locuzioni del discorso paolino (su cui peraltro ci soffermeremo nei successivi paragrafi della ricerca), dedichiam o la nostra attenzione a un unico b r a n o , che spicca per la sua ampiezza e omogeneità, oltre che per la sua importanza: Fil 2,6-11.
3.2 Pre-redazionalità
e struttura
di Fil 2,6-11
L'attuale stato della ricerca in materia deve registrare che la quasi totalità degli studiosi concorda sul fatto che in Fil 2,6-11 Paolo 93 È vero che questa notizia non si accorda bene con il precedente episodio del battesimo del pagano Cornelio (cf. At 10), ma proprio perché stride con l'impostazione storiografica lucana essa va considerata tradizionale (cf. G. Lùdemann, Das frùhe Christentum, p. 142). Ad Antiochia perciò "inizia una nuova epoca nella storia della missione cristiana, in un certo senso quella più importante" (E. Haenchen, Apg, p. 310), e ciò è almeno indirettamente riconosciuto anche da Hengel-Schwemer, Paul Between Damascus and Antioch, p. 183. 94 Cf. volume I, pp. 196-210.
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L'APOSTOLO PAOLO
riporta una composizione precedente alla scrittura della lettera 95 . I motivi principali, in ordine crescente, sono i seguenti: - (1) si riscontrano alcuni hapax legomena paolini, a livello sia lessicale ((jiopcpT), l'aoc, àproxypiói;, u7tepoc|)óco, xaxaxOóvio?) sia di fraseologia ("stimare una rapina", "essere uguale a Dio", "svuotò... se stesso", "gli fece grazia del nome"); - (2) si tratta di una lunga composizione cristologica che rompe vistosamente il contesto, il quale ha un tutt'altro interesse di tipo pareneiico (e il v. 5 rappresenta un trait-d'union tra le due prospettive); - (3) il modello cristologico umiliazione-esaltazione non ha confronti in Paolo, poiché dove l'Apostolo ricorre al binomio morterisurrezione non fa menzione della pre-esistenza (cf. per esempio Rm 4,25; 2Cor 13,4), e viceversa dove allude alla pre-esistenza non giunge a parlare di risurrezione (cf. Gal 4,4; Rm 8,3)96; - (4) la menzione della croce al v. 8 è contestualmente collegata solo con un inusuale valore di esemplarità nell'obbedienza, non con i concetti paolini della sua dimensione salvifica (cf. Rm 4,25; 5,6-8) né tantomeno con quello di una partecipazione da parte dell'apostolo (cf. 2Cor 13,3-4; 4,10)97; - (5) infine e soprattutto si vede bene che la dimensione semantica del brano eccede notevolmente quella del suo contesto. Infatti solo i vv. 6-8 hanno una vera funzione contestuale in quanto sono ordinati a fondare la parenesi sui rapporti comunitari, presente nei precedenti vv. 1-5 con l'esortazione a evitare ogni vanagloria e a ricercare l'umiltà nei comportamenti vicendevoli (vedi infatti la corrispondenza tra la xa7reivo9pcoauv7], "umiltà", richiesta ai destinatari nel v. 3 e il rimando esemplare a Cristo che IxowceCvwaev, "umi95 II primo proponente di questa tesi fu E. Lohmeyer in uno studio del 1927 e poi nel suo commento a Fil del 1930 (cf. Meyer Kommentar, Gòttingen 61964). Per un breve ma documentato status quaestionis, vedi A. Dauer, Paulus und die christiiche Gemeinde, pp. 106-108 + 248-250: tra i pochi negatori della pre-redazionalità vanno aggiunti E. Lupieri, La morte di croce. Contributi per un'analisi di Fil. 2,611, RivBibl 27 (1979) 271-311; e ora R. Brucker, 'Christushymnen'oder 'epideiktische Passagen '? Studien zum Stilwechsel im Neuen Testament und seiner Umwelt, Vandenhoeck, Gòttingen 1997, pp. 308-320. 96 Un'eccezione è rappresentata da Rm 1,3-4 dove risulta una cristologia a tre stadi (pre-esistenza, nascita davidica, risurrezione), ma: da una parte, la nascita non è intesa come una umiliazione; dall'altra, non si parla affatto della morte; e soprattutto siamo in presenza di una confessione pre-paolina che assume una diversa prospettiva nel nuovo contesto epistolare (cf. voi. I, pp. 201-208). 97 Anzi è curioso osservare che, mentre non si dice affatto che la morte di Cristo sia avvenuta "per noi" (o simili), in 1,29 si afferma al contrario che ai filippesi è stato dato di "soffrire per Cristo" (cf. anche 2Cor 12,10)!
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liò" se stesso)98, oltre che sulla testimonianza nel mondo (cf. 2,12-18). Invece, i seguenti vv. 9-11 non hanno alcuna immediata ricaduta contestuale, visto che essi non sono funzionali a fondare la fede o la speranza nella risurrezione dei destinatari, né in se stessa né come ricompensa a una vita di prove 99 . Questa osservazione fa chiaramente intendere che qui è stato collocato di peso un brano che a rigor di logica, per adattarsi meglio al discorso circostante, avrebbe dovuto essere scomposto; essendo invece stato preso in blocco, anche se non tutto serve agli scopi contestuali, è segno che all'origine esso faceva un tutt'uno come composizione autonoma 100 . Quanto alla struttura del testo, le proposte fatte dagli Autori vanno da un massimo di sei strofe101 a un minimo di due 102 . Mi pare 98 In questo senso è molto pertinente il titolo della monografia di J. Heriban, Retto
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però che una articolazione in tre strofe103 renda meglio ragione degli altrettanti momenti, che scandiscono l'incomparabile itinerario percorso dal Cristo, cioè rispettivamente: A. la preesistenza (v. 6); B. la kenosi fino alla croce (vv. 7-8); C. la glorificazione (vv. 9-11). Il testo pertanto risulta tradotto così: A B
C
" 6 I1 quale, pur essendo in condizione di Dio, non ritenne un privilegio geloso l'essere come Dio, 7 ma spogliò se stesso assumendo una condizione di schiavo, diventando partecipe degli uomini, e, trovato all'apparenza come uomo, 8 umiliò se stesso diventando obbediente fino alla morte e a una morte di croce. 9 Perciò Dio lo sovraesaltò e lo gratificò del nome che è superiore a ogni altro nome, 10 perché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio di ciò che è nei cieli e sulla terra e sottoterra, n e ogni lingua confessi che «Signore» è Gesù Cristo, a gloria di Dio padre".
Come si può notare, è vero che il passaggio da A a B sintatticamente non è così rimarcato come quello tra B e C 104 . Ma l'avversativa che inizia il B segna comunque uno stacco tematico molto vantaggio di non essere soltanto formale, ma di mettere in luce due centri tematici fondamentali dell'inno. Una proposta di A. Feuillet (cf. RB 72 [1965] 352-380, 481-507) in quattro strofe (vv. 6-7a: spoliazione; 7b-8: umiliazione fino alla morte; 9: esaltazione e dono del nome; 10-11: sottomissione dell'universo) lascia da parte lo stadio della preesistenza e scompone indebitamente il momento della glorificazione. 103 Così J. Jeremias, Zur Gedankenfùhrung in den paulinischen Briefen, in J.N. Sevenster-W.C. van Unnik, edd., Studia Paulina in Honorem J. de Zwaan, Haarlem 1953, pp. 146-154 qui 152-154, e anche E. Lupieri, La morte di croce, p. 275, che parla opportunamente di Tesi, Antitesi, e Sintesi; vedi pure A. Spreafico, 0EO2/ANePQriO£. Filippesi 2,6-11, RivBibl 28 (1980) 407-415. Nel caso di Jeremias bisogna però rinunciare alla sua pretesa di leggere già nel v. 7a (iauxòv ixévwaev) un riferimento alla morte di croce con allusione a Is 53,12 (cf. NT 6 [1963] 182-188), poiché tra il v. 6 e il v. 7 ci sarebbe un passaggio troppo brusco. 104 Qui infatti al v. 9 la congiunzione consecutiva Sto, "perciò", segna maggiormente lo stacco sintattico con i vv. anteriori (tanto che viene fatta precedere da un punto). Invece al v. 7 la congiunzione avversativa àXXà, "ma", segna un passaggio all'interno dello stesso periodo (tanto che viene fatta precedere da una semplice virgola).
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netto con l'affermazione precedente, cosicché tra il v. 6 ("forma di Dio") e il v. 7 ("forma di schiavo") viene a darsi una vera contrapposizione, sulla quale non si può sorvolare facendo finta di niente.
3.3 Lo sfondo culturale Le due affermazioni fondamentali dell'inno circa il doppio passaggio, l'uno da una condizione divina a una condizione umana e l'altro dalla condizione mortale a una gloriosa, hanno dei paralleli nelle antiche letterature greca e giudaica105. Vi accenniamo almeno in breve per notare affinità e divergenze. 3.3.1 Ambiente greco. Addirittura Giustino nel secolo II osserverà che nel caso della nascita verginale, della morte in croce, della risurrezioe e dell'ascensione di Gesù Cristo "nulla di nuovo diciamo rispetto a coloro che presso di voi parlano dei figli di Zeus" (I Apol. 21,1; con correzione circa la croce in 55,1-7). In effetti possiamo trovare delle analogie in tre ambiti diversi. A proposito degli dèi olimpici, la mitologia ci racconta i casi di una serie di divinità, che si sottopongono a metamorfosi di vario genere per avere contatti con gli uomini; ne ricordiamo quattro. (1) Zeus si unisce a donne mortali per fecondarle, sia sotto forme non umane (come cigno con Leda, da cui nascono Elena e i Dioscuri; come pioggia d'oro su Danae, da cui nasce Perseo; come toro con Europa, da cui nasce Minosse ecc.) sia sotto forma umana (con Semele di Tebe, da cui nacque Dioniso; con Alcmena moglie di Anfitrione, da cui nacque Eracle). (2) Apollo si unisce a Coronide, da cui nasce Asclepio. In più, per aver ucciso i Ciclopi costruttori del fulmine (con cui Zeus aveva fatto morire Asclepio dietro preghiera di Ade che si vedeva sottratti i sudditi per i successi del dio della medicina), Apollo fu cacciato dal cielo e venne ridotto a far da bovaro per un anno al servizio di Admeto, re di Fere in Tessaglia (cf. Luciano, De sacrif. 4: àv0pco7itvTi xp^ófievoi; vbyrù(3) Atena nell'Odissea si sottopone a una decina di metamorfosi, non sempre umane, per entrare in rapporto con Telemaco e altri, tanto che Omero esclama: "È difficile, o dea, riconoscerti quando t'incontra un mortale, anche se è molto avveduto; tu infatti ti rendi simile a chiunque" (13,312s); e Odisseo che si presenta in incognito tra i Proci suscita 105 La proposta di D. Seeley, The Background ofthe Philippians Hymn (2:6-11), Journal of Higher Criticism 1 (1994) 49-72, che suggerisce una combinazione di tre elementi diversi (Is 45, racconti di giusti sofferenti, e il culto greco-romano dei sovrani), è insufficiente.
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l'interrogativo: " E se fosse un èTioupàvio? Geo??" (17,484-487). (4) Dioniso, che ritorna a Tebe per instaurarvi il proprio culto, oltre che per vendicare contro Penteo la morte della madre, secondo Euripide dice: " H o mutato il mio aspetto in una natura d'uomo" (Bacc. 54: fjiop
Cf. Inni 2,401-403: "Ogni volta che la terra si coprirà dei fiori odorosi, / multicolori, della primavera, allora dalla tenebra densa / tu sorgerai di nuovo (avei, lett. : « fai salire, produci »), meraviglioso prodigio per gli dèi e gli uomini mortali" (trad. F. Cassola). 108
De diis et mundo
4,9: T<XUT<X 8è èyéve-co (xèv oùSércoTe, eoxt hi àe£!
Cf. K. Kerényi, Gli Dei e gli Eroi della Grecia, Garzanti, Milano 1984, voi. II, pp. 11-31. 109 II papiro è del tardo secolo II d.C, ma si ispira a Esiodo: "Beato, compiuta la grande impresa, fra gli Immortali dimora, esente da dolore e senza invecchiare per sempre" (Theog. 954-955). Così anche Ovidio canta la sua morte sulla pira in Tessaglia e poi la sua glorificazione: "Il padre onnipotente ( = Giove), avvoltolo con nuvole dense, lo rapì e con un cocchio tirato da quattro cavalli lo portò tra gli astri radiosi" (Metam. 9,271-272: Quem pater omnipotens Inter cava nubila raptum / quadriiugo curru radiantibus intulit astris).
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innegabile dimensione mitica, cioè astorica (tanto che non ne esiste alcuna tomba) 110 . A proposito di tutte queste figure di divinità e di eroi, bisogna assolutamente aver presente che esse appartengono alla mitologia, e cioè sono patrimonio della sola poesia. Sono i poeti infatti che danno forma ai miti e celebrano le rispettive figure che ne sono protagoniste; in quanto mitografi essi svolgono un ruolo costitutivo nell'ambito della religione greca. Ma ciò significa che né la storiografia né la filosofia s'interessano di queste "storie". Anzi Platone dedica un'ampia sezione della Repubblica per confutare le favole dei poeti come inadatte all'educazione dei giovani, soprattutto per motivi morali (cf. 376e-383c); così per esempio in 377cd si legge: "Dobbiamo ripudiare la maggior parte delle favole,... che ci hanno raccontato Omero, Esiodo e gli altri poeti". Resta comunque il valore comparatistico di vari elementi messi in luce sopra. 3.3.2 Ambiente giudaico. Ci sono vari filoni della tradizione giudaica, che possono costituire degli interessanti paralleli con le affermazioni centrali del nostro inno. In primo luogo, va ricordato il tema del servo sofferente di Is 53. Un parallelismo potrebbe basarsi sul fatto che anche qui è celebrato chiaramente il doppio momento dell'umiliazione (cf. 53,2-10a.llb.l2b) e della susseguente esaltazione (cf. 53,10b-lla.l2a) di una misteriosa figura di cEbed Yhwh (cf. voi. I, pp. 163-164), anche se richiami linguistici veri e propri non sono possibili111. Tuttavia, si devono rilevare due differenze importanti: da una parte, in Is 53 manca del tutto l'idea di una preesistenza del Servo, che in più non è certo una figura divina, come invece risulta in Fil 2,6; dall'altra, in Fil manca del tutto la dimensione della sofferenza espiatrice-vicaria, che invece è ripetutamente presente in Is 53,4-6.8b. IOa. 1 lb. 12b. Il tema si amplia nella tradizione giudaica mediante il paradigma del giusto sofferente, variamente giocato nei testi post-esilici (cf. Sai 34,19-20; 49,16; 69,8-10; Gb 12,4; 16,12-14; 19,25-27; 30,20a; Sap 2,10-20; 5,1-7; 1QH 5,5-18; Filone Al., Leg. ad C. 196)112. 110
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Cf. F. Pfister, Herakles und Christus, Archiv fùr Religionswissenschaft 34 (1937) 42-60. 111 Contro J. Jeremias e R.P. Martin, che nella frase èautòv èxévwaev di Fil 2,7 scorgono una dizione equivalente a quella di Is 53,12b LXX (7tap£&ó0T] et? Oàvaxov fi 4>i>xf| aikou, "la sua anima fu consegnata alla morte"): da una parte infatti l'accostamento è troppo stiracchiato; dall'altra esso anticipa indebitamente in Fil 2,7a ciò che verrà detto a pieno titolo solo in 2,8c. 112 Cf. K.T. Kleinknecht, Der leidende Gerechtfertigte. Die alttestamentlichjùdische Tradition vom "leidenden Gerechten" und ihre Rezeption bei Paulus, WUNT 2.13, Tubingen 1984; il tema nel giudaismo riceve questi trattamenti: Yhwh interviene in questa vita e oltre la morte; la sofferenza ha un valore pedagogico; essa ha anche un valore espiatorio, sia per l'individuo (cf. Sai. Salom. 10,1- 2; 13,8-10) sia per il popolo (cf. Is 53; 2Mac 7,37; 4Mac 6,28-29; 17,21-22); su Fil 2,6-11 cf. ib., pp. 189s, 311-312.
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Un tema analogo anche se più generale è quello dell'abbassamentoesaltazione, espresso nella sentenza di tipo sapienziale: "Ciò che è basso sarà elevato e ciò che è alto sarà abbassato" (Ez 21,31; cf. Gb 22,29; Pro 3,34; Sap 4,14; e Mt 23,12; Le 14,11; 18,14; lPt 5,5). Alcuni Autori vogliono spiegare Fil 2,6-11 sulla base di questa tematica 113 ; essa è certamente importante, ma la sua insufficienza appare dal fatto che in Fil si presuppone la preesistenza (come in nessun giusto), cosicché l'umiliazione sta già nella kenosis, anteriormente all'obbedienza. Va fatto riferimento anche alla tradizione sapienziale, che conosce bene la personificazione della Sapienza, di cui si enumerano due momenti di esistenza. L'uno è quello di una figura preesistente; così in Pro 8,23: "Dall'eternità sono stata costituita, fin dal principio, dagli inizi della terra"; secondo Sap 8,3 è "in comunione di vita con Dio", e in 9,9 si confessa: "Con te (o Dio) è la sapienza che conosce le tue opere, che era presente quando creavi il mondo". L'altro momento è quello di una sua abitazione storica in seno a Israele; così in Sir 24,8-11: "Allora il creatore dell'universo... mi disse: Fissa la tenda in Giacobbe e prendi in eredità Israele. Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi creò... e mi sono stabilita in Sion, nella città amata mi ha fatto abitare ecc."; e anche in Bar 3,29.38 si legge: "Chi è salito al cielo per prenderla e farla scendere dalle nubi?... È apparsa sulla terra e ha vissuto fra gli uomini". Come si vede, un parallelismo con Fil 2,6s è possibile. Ma va precisato che in Sir e Bar la Sapienza che si fa vedere tra gli uomini è identificata con la Torah; inoltre, nei testi sapienziali non c'è alcun cenno alla morte e di conseguenza neanche a una successiva esaltazione. Anche la tradizione apocalittica potrebbe essere richiamata, per quanto riguarda la figura del Figlio dell'uomo. A parte Dn 7,13 ("Ecco apparire sulle nubi del cielo uno simile a un figlio d'uomo"), è soprattutto il cosiddetto "Libro delle parabole" di lEn 37-73 che tratteggia questa figura secondo due stadi: quello di un nascondimento presso Dio prima della creazione del mondo e poi quello della sua manifestazione per la salvezza e per la condanna (cf. 48,2-3.5-6). Altri filoni potrebbero essere ricordati, come quello dell'"angelo del Signore" e in genere di vari arcangeli che appaiono in forme ben visibili in contesto umano 114 . Ma nel giudaismo, a prescindere dai frequenti antropomorfismi (già nella storia della creazione), si tratta sostanzialmente di mere personifi-
113 Cf. E. Schweizer, Erniedrigung und Erhòhung bei Jesus und seinen Nachfolgern, Zwingli, Zùrich 21962 (trad. hai., Dehoniane, Bologna 1969, pp. 117-127); F. Manns, Un hymne judéo-chrétien: Philippines [sic!] 2,6-11, Euntes Docete 29 (1976) 259-290; C.C. Marcheselli, La celebrazione di Cristo Signore in Fil 2,6-11, Asprenas 25 (1978) 361-379. 114 Vedi in proposito C.H. Talbert, The Myth of a Descending-Ascending Redeemer in Mediterranean Antiquity, NTS 22 (1976) 418-440 specie 422-430.
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cazioni. E anche se Filone l'Ebreo giunge a dire che "è più facile che Dio si trasformi in un uomo che non un uomo in dio" (Leg. ad C. 118), ciò va spiegato in base al contesto storico della frase, scritta in polemica con la pretesa di Caligola di farsi dio. Per il resto vale come regola l'assioma formulato in Qo 5,1: "Dio è in cielo e tu sei sulla terra", come a dire che non bisogna mai confondere i ruoli o invertire le parti! 115 .
3.4 La preesistenza (A) "Pur essendo in condizione di Dio, non reputò un tesoro geloso l'essere come Dio". Che questa affermazione, così tradotta, intenda riferirsi a uno stadio di preesistenza divina è comunemente ammesso dagli studiosi116. Pochi altri però la interpretano in riferimento all'esistenza terrena di Gesù, soprattutto sulla base di due supposizioni: nel v. 6a l'espressione [xop^ GeoG alluderebbe in generale all'uomo come immagine di Dio (secondo ciò che si dice di Adamo in Gn 1,27), e nel v. 6b l'essere uguale a Dio sarebbe stata una tentazione del Gesù terreno (conformemente a quella di Gn 3,5), alla quale però egli non avrebbe ceduto117. Esaminiamo perciò brevemente le due parti della frase. 115 Un discorso a parte meriterebbe il celebre "Inno della perla" in Atti di Tommaso 108-113 (che può risalire al secolo II), dove si narra di un principe il quale, per andare in cerca di una perla preziosa, lascia il suo palazzo regale, veste abiti sporchi, va in Egitto, dove però dimentica la sua missione; allora il re gli scrive una lettera per ricordargli il suo compito, ed egli, trovata la perla, ritorna al palazzo dove riveste i suoi abiti sontuosi. Il passo potrebbe ben essere letto come una rielaborazione di Fil 2,6-11 (anche se solo in funzione dell'apostolo); ma cf. sotto: cap. VI, nota 82. Diversa invece è la mitologia gnostica del più tardo Corpus Hermeticum; qui in 1,12.14.15 leggiamo: "Il Nous, Padre di tutti gli esseri, essendo vita e luce, generò un Uomo simile a lui (aùxtò taov), di cui si invaghì...; infatti era bellissimo, in quanto riproduceva l'immagine del Padre. Infatti Dio si invaghì realmente della propria forma (TT|<; ì8ias |i.op
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(1) Il senso di fxopcpr] 0eoG. Il primo sostantivo, pur significando lett. "forma, figura, apparenza", in realtà dice più di
125; M. Rissi, Der Christushymnus in Phil. 2,6-11, in ANRW 11/25/'4 (Berlin-New York 1987), pp. 3314-3326. Da parte sua J. Heriban, Retto 9poveìv, pp. 269-274 (specie con l'appoggio di P. Grelot, in Bibl 53 [1972] 495-507), riferisce il versetto alla condizione terrena di Gesù soprattutto per il fatto che l'originale greco taoc non è un aggettivo (come è per esempio in Saffo 31,1: "Mi sembra che quell'uomo sia uguale agli dèi, tao? 0éoiatv") ma un avverbio (in forma di neutro plurale, come in Omero, Od. 15,520: "Ora gli Itacesi guardano a lui come a un dio, -còv vuv iaa 0eà>... etaopócoai..."), che non indicherebbe uguaglianza di natura ma semplice corrispondenza di condizione ( = ó>s); perciò in Fil 2,6 si vorrebbe dire che Gesù nella sua vita terrena non rivendicò i diritti e i privilegi derivanti dalla sua condizione divina (ma si umiliò, come si legge in Gv 13,1-13 sulla lavanda dei piedi). Ma, a parte tutti gli altri casi, presenti anche nei LXX (cf. Gb 5,14; 13,12.28), quando l'avverbio viene usato specificamente a proposito di un dio o degli dèi c'è da dubitare che esso dica qualcosa di meno dell'aggettivo, come si può vedere nel confronto fra i passi citati di Saffo e di Omero. 118 Resp. 38le; cf. anche 380d: "Credi tu che il dio sia un ciarlatano capace di apparire a piacimento ora secondo un aspetto ora secondo un altro (èv àXXocu; tSéai?), mutando la sua apparenza (J8o?) in molte forme (eì? %ok\kc, piopcpài;)... o che invece sia semplice...". 119 Cf. E. Kàsemann, Kritische Analyse von Phil. 2,5-11, in Id., Exegetische Versitene und Besinnungen, I, Gòttingen 1960, pp. 51-95. 120 In questo senso vedi anche Paolo in Rm 8,29; 12,2; 2Cor 3,18; Gal 4,19; Fil 3,10.21.
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gine121. Addirittura c'è chi ha proposto di vedere nella frase del v. 6a un riferimento alla filiazione divina di Gesù, per il doppio motivo che il termine fxopcpri può essere impiegato per esprimere la somiglianza verso i genitori (cf. 4Mac 15,4; Filone Al., Leg. ad C. 55) e perché lo stesso nostro inno culmina con la menzione di "Dio Padre" (v. 11)122. (2) Il v. 6b cambia di significato a seconda del senso che si dà al raro termine àp7caffxó<;123. È vero che lessicalmente esso è un nome attivo e letteralmente vuol dire "raptus, atto di rapina, furto, usurpazione"; ma questo va escluso, poiché nel nostro caso non fa senso. Il senso invece va dedotto dall'intera frase "non ritenne un àpnciLy\i.ó<; l'essere come Dio" (cioè: non ritenne che l'essere uguale a Dio fosse un cupncny\ió<;), che implica una dimensione oggettiva. Allora, cosa non infrequente nel greco ellenistico, esso va inteso in senso passivo (come ocproxffAa), ma con due diverse possibilità: o come res rapienda, quindi "rapina ancora da compiere, bene desiderabile, cosa a cui tendere perché se ne è privi", o al contrario come res rapta, quindi "rapina già compiuta" e per estensione "bottino, tesoro, bene proprio, privilegio da conservare gelosamente, condizione da cui trarre vantaggio' '. Che questa seconda possibilità sia da preferire risulta dal semplice fatto che tale è il normale significato del termine in greco124; in più, si può trovare una costruzione simile in Rm 15,3 dove leggiamo che "Cristo non piacque a se stesso, ma..."; 121 Inoltre C. Spicq, Note di lessicografia neotestamentaria, II, pp. 191-197, nota che nei papiri e nelle iscrizioni è proprio della ixop<pri modificarsi, mentre l'immagine resta immutabile. Interessante sembrerebbe intendere \i.op
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cioè: egli non godette narcisisticamente della propria condizione, ma andò oltre se stesso e sostenne la sofferenza. Quindi, l'idea di preesistenza è la più confacente al testo: appartiene all'identità del Cristo una originaria eguaglianza con Dio, che però egli non considerò come qualcosa da usare a proprio vantaggio.
3.5 La kenosi (B) I vv. 7-8 rappresentano la vera antitesi del precedente v. 6 e spiegano in che senso il Cristo Gesù non trasse vantaggio dalla sua eguaglianza con Dio. Ciò viene spiegato in due momenti. (1) Innanzitutto egli éocuxòv èxévcoaev, lett. "svuotò se stesso". È l'affermazione fondamentale dell'inno e dà senso ai due estremi, sia della preesistenza così da far intendere quanto enorme sia stato il passo compiuto verso il basso (A), sia della susseguente glorificazione che perciò apparirà come sollevazione e promozione da una assoluta insignificanza (B)125. Occorre però stare attenti a non trascurare il valore metaforico della frase, quasi si volesse dire che il Cristo abbandonò totalmente la propria divinità126. In realtà l'espressione va intesa come espressione grafica di una completa rinuncia ed equivale a "si privò, si spogliò", come a dire che egli occultò il suo modo d'essere divino rinunciando a imporre la propria precedente fxop<pr|. Infatti l'affermazione viene propriamente spiegata, non col dire che il Cristo abbandonò qualcosa che aveva, ma col precisare che egli assunse qualcosa che non aveva, cioè la fxop<pr)v SouXou, "una condizione di schiavo"127. Allora la frase si può accostare a quella di 2Cor 8,9: "Voi conoscete la bontà del signore nostro Gesù Cristo, poiché per voi si fece povero (è7rcó>xeu-
125 Cf. R. Penna, / gradi della kenosi del Figlio di Dio secondo il Nuovo Testamento, in G. lammarrone et al., Gesù Cristo, volto di Dio e volto dell'uomo, Seraphicum, Herder, Roma 1992, pp. 7-34.
126 Del resto, il verbo viene sempre usato d a P a o l o in senso metaforico (cf. R m 4,14; I C o r 1,17; 9,15; 2Cor 9,3). P e r u n a esposizione e confutazione teologica del-
la teoria kenotica dell'incarnazione, cf. L. lammarrone, La teoria chenotica e il testo di FU 2,6-7, Divus Thomas 82 (1979) 341-373. 127 II participio aoristo Xajitóv, "assumendo", indica la contemporaneità con l'indicativo del verbo principale, e potrebbe addirittura essere considerato pleonastico, equivalente alla semplice preposizione "con" (cf. BDR § 419,1); quindi: lo svuotamento o spoliazione avvenne appunto mediante una nuova assunzione, che risulta contrastante e stridente con la condizione precedente.
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aev) essendo ricco"128. Il paradosso è ancor più evidente in 2Cor 5,21: "Colui che non ha conosciuto peccato Dio lo fece peccato (àfxapxtav èrcoiTjaev) per voi". Sono tutte espressioni di timbro poetico, dove il senso letterale non può essere sostenuto se non da una lettura miope. Del resto, va tenuto presente il genere della composizione che è di tipo celebrativo, non narrativo, ed è quindi al suo livello che va inteso il linguaggio impiegato129. In ogni caso, l'affermazione forte è che ora ciò che appare in primo piano non è un dio ma uno "schiavo". Per intendere esattamente l'idea di BoGXo<; bisogna aver presenti due caratteristiche, proprie dei suoi due sfondi culturali possibili: da una parte, c'è la radicale opposizione che la figura dello schiavo evoca nei confronti della divinità, la quale nelle concezioni religiose comuni è l'essere glorioso e libero per eccellenza, non sottoposto ad alcuno; dall'altra, c'è l'idea semiticobiblica, secondo cui il servo-schiavo può essere una figura di grandi responsabilità in quanto viene impiegato per svolgere missioni di assoluta fiducia (cf. Gn 24 e Is 42,1-7; 49,1-6; 50,4-10; 52,13 - 53,12). Nel nostro testo però, anche se la seconda componente non va trascurata, è la prima ad essere sottolineata, poiché si rimarca la completa condivisione dell'umanità nel v. 7b, sia come affinità di base (cf. il concetto di ó|Aotcon<x)130 sia come apparenza esterna (cf. il concetto di oxfjiia)131. (2) Il secondo momento (è-ca7mv
128 II verbo va inteso in senso traslato come in Rt 1,21 dove Noemi si lamenta: "Ero partita piena e il Signore mi fa tornare vuota. Perché chiamarmi Noemi ( = graziosa), quando il Signore mi ha umiliato?". 129 Esso perciò non è neanche di tipo metafisico, come invece lo intendevano sia Hegel (col dire che il movimento kenotico è interno alla stessa divinità, per cui "Dio stesso è morto") sia Schelling (col dire invece che la kenosi non tocca affatto il divino perché Cristo è solo intermedio tra Dio e l'uomo); cf. X. Tilliette, // Cristo dei non-credenti e altri saggi di filosofia cristiana, a cura di G. Lorizio, RdT books 8, AVE, Roma 1994, pp. 122-141; M. Cacciari, Dell'inizio, Adelphi, Milano 1990, pp. 202-208. 130 Cf. U. Vanni, 'Oiioto^a in Paolo (Rm 1,23; 5,14; 6,5; 8,3; FU2,7). Un'interpretazione esegetico-teologica alla luce dell'uso deiLXX, Greg 58 (1977) 321-345, 431-470. 131 Ricordiamo che il sostantivo greco deriva dal verbo ix*u ed equivale esattamente al latino habitus nel senso di "portamento, aspetto esteriore" (da cui "abitudine").
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cisazione132. L'autoumiliazione viene specificata ancora una volta mediante una frase participiale: "facendosi obbediente" (yivó\itvo<; ùnrixooq). È nell'obbedienza che si opera l'abbassamento del Cristo. A questo proposito vanno fatte un paio di osservazioni. L'accenno all'obbedienza avviene in forma assoluta: non si dice a chi egli abbia obbedito; l'attenzione è attirata sul dato dell'obbedienza in se stessa come valore assoluto della vita di Gesù. In primo piano tuttavia, pur senza dimenticare ciò che si legge circa i rapporti con i genitori (cf. Le 2,51), si deve pensare a quelle tradizioni evangeliche che si riferiscono alla piena obbedienza alla volontà di Dio Padre (cf. Me 3,35 parr.; 14,36; Mt 6,10; Gv 4,34: "Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato"; ed Eb 10,7-8). Inoltre, questa obbedienza si estende su tutto l'arco della vita di Gesù fino a inglobare la morte, che perdipiù è una morte di croce (Gavàxou 8è axaupoG). Questa però non rappresenta soltanto un estremo cronologico, in quanto fine dell'esistenza terrena di Gesù, ma soprattutto un estremo assiologico, come a dire: Ecco fin dove giunse l'umiliazione! È il tipo di morte che viene evidenziato, come risulta dall'assenza dell'articolo davanti a "croce". Di fatto, quindi, non è la specifica croce di Cristo che il testo intende ricordare e celebrare, ma il tipo di morte ignominiosa e infamante da lui subita133. L'inno non contiene nessun cenno alla dimensione salvifica di quella morte, la quale invece viene considerata solo nella sua valenza esemplare di autoabbassamento, di rinuncia, come "il gradino più basso della scala"134. L'inno quindi celebra ciò che l'obbedienza di Cristo significò non per noi ma per lui.
132 Anzi, come giustamente osserva L.W. Hurtado, Jesus as Lordly Example in Philippians 2:5-11, in P. Richardson & J.C. Hurd, edd., From Jesus to Paul. Studies in Honour ofF. W. Beare, Wilfrid Laurier Univ. Press, Waterloo Ont. 1984, pp. 113-126, la stessa affermazione della kenosi avvenuta a partire dalla condizione divina invisibile è condizionata da ciò che storicamente Gesù ha vissuto e quindi da ciò che il cristianesimo primitivo sapeva e tramandava circa la sua vita terrena, cosicché sarebbe addirittura il v. 8 a comandare ciò che viene detto nei vv. 6-7. 133 Sulla pena della crocifissione nell'antichità, di cui oggi mancano le precomprensioni adeguate per intenderla nella sua valenza socialmente disonorante, cf. M. Hengel, Crocifissione ed espiazione, pp. 31-129. 134 R.P. Martin, Carmen Christi, p. 221. "È precisamente sotto l'aspetto dell'infamia e del disonore che la morte in croce viene considerata segnando il punto più profondo dell'umiliazione di Cristo e presentando nello stesso tempo l'estremo contrasto con la dignità, i diritti e i privilegi provenienti dal suo status divino, ai quali Cristo durante la sua esistenza terrena liberamente rinunciò" (J. Heriban, Retto ippoveìv, p. 314).
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3.6 L'esaltazione (C) La congiunzione 8ió che apre la terza strofa (vv. 9-11) indica chiaramente una conseguenza, che, posta la condizione dell'umiliazione precedentemente esposta, è ritenuta quasi necessaria e che comunque spiega il valore per così dire esplosivo, insito nell'umiliazione stessa (come per esempio in Is 53,12: "Egli si addosserà la loro iniquità;perciò io gli darò in premio le moltitudini"; o in Sap 4,14: "La sua anima fu gradita al Signore; perciò egli lo tolse in fretta di tra i malvagi"). Appare qui un nuovo soggetto, "Dio", prima assente, che agisce in prima persona. A lui sono riferiti i due verbi "sovra-esaltò" e "gratificò", che esprimono la sua risposta al dato dell'umiliazione; ed è una risposta che consiste in un intervento sorprendente, tale da ribaltare letteralmente la situazione. Il primo verbo (urcepucjxoaev) richiama inevitabilmente un testo come ISam 2,7-8 LXX: "Il Signore rende poveri e arricchisce, umilia ed esalta (TOCTCSIVOI xal àvu
oi)... Solleva dalla polvere il misero e dall'immondizia innalza il povero per farli sedere con i capi del popolo e assegna loro un trono di gloria". Ma la preposizione del verbo composto allude a qualcosa di straordinario, che va oltre le comuni aspettative inerenti alla tradizionale teologia del giusto o del servo sofferente. Infatti il secondo verbo (èxapkaxo, lett. "fece grazia, concesse")135 si riferisce al dono e quindi al conferimento di un nome specialissimo, "il nome superiore ad ogni altro nome". Dietro questa frase c'è la teologia veterotestamentaria del Nome, ebr. sèm, che sta per lo specifico Dio d'Israele, r/iw^-Kupio?. Di questo Nome, oltre che ha stabilito la propria dimora nel tempio di Gerusalemme (cf. Dt 12,5.11.21; IRe 8,29), si legge che va conosciuto (cf. Is 52,6: "Il mio popolo conoscerà il mio nome"), amato (cf. Sai 5,12: "In te si allieteranno quanti amano il tuo nome"), invocato e celebrato (cf. Sai 8,2: "Quanto grande è il tuo nome su tutta la terra!"; Dn 3,52: "Benedetto il tuo nome glorioso e santo") 1 3 6 . In particolare vanno ricordati quei testi, che proprio in y/iw/i-Kupio? individuano il Nome per eccellenza di Dio: "Signore è il suo nome" (TM Yhwh sèma, LXX xupio? 135
Ricordiamo qui che questo è l'unico caso in tutto il Nuovo Testamento, in cui136 si affermi una "grazia" data a Cristo. Cf. E. Jenni - C. Westermann, Dizionario Teologico dell'Antico Testamento, a cura di G.L. Prato, Marietti, Casale Monferrato 1982, 21990, coli. 845-869. Nel rabbinismo poi la semplice dizione "il Nome" tende a sostituire sempre più la lettura del tetragramma sacro (cf. H. Bietenhard, in GLNT VIII, coli. 753-755).
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ó Geo? ó ^avxoxpàxcop 6vo[jia OCÙTCÒ: Am 5,8; 9,6; più semplicemente Sai 68,5 LXX ha xupxo? òvo(xa aÒTcò); inoltre: "Io sono il Signore: questo è il mio nome" (Is 42,8), "Sapranno che il mio nome è Signore" (Ger 16,21), "Sappiano che tu hai nome 'Signore', tu solo sei l'Altissimo su tutta la terra" (Sai 83,19) ecc.
Sono questi passi che spiegano l'inusitata affermazione di Fil 2,9-11, che attribuisce a Gesù il nome divino di "Signore"137. Qui dunque si celebra il fatto che il Crocifisso-Risorto è stato gratificato della stessa elevatezza del Dio d'Israele, in un doppio senso: sia come dignità personale, per così dire ontologica, sia come funzione da svolgere in rapporto al cosmo intero che gli è sottomesso. Ciò è tanto più evidente in quanto le due frasi "ogni ginocchio si pieghi... e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è Signore" richiamano necessariamente il passo di Is 45,23b LXX, dove Dio stesso proclama: "Davanti a me si piegherà ogni ginocchio e ogni lingua confesserà a Dio...". Inevitabilmente perciò "la linea di demarcazione tra i due diventava fluida"138. Il fatto poi che proprio in questo contesto venga ricordato il nome anagrafico di "Gesù" (vv. 10.11: uniche sue ricorrenze in tutto l'inno) dice che non si perde affatto di vista il concreto riferimento storico di tutto il discorso, come a sottolineare che è proprio l'uomo-Gesù, con tutta la sua drammatica vicenda di abbassamento, ad essere stato innalzato a un tale incomparabile traguardo139.
IL CROCIFISSO RISORTO
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rata da due punti di vista: a parte ante come preesistenza del Cristo "in forma di Dio", za parte post come innalzamento dell'uomo Gesù al livello divino di "Signore". (2) L'uso di confessioni di fede, di inni e acclamazioni a Gesù come Kyrios (da confrontare anche con ICor 16,22; 12,3; 1,2; e Rm 10,9-13) dice che il cristianesimo primitivo praticava un vero culto nei suoi confronti, qualunque forma esterna esso comportasse; certo sono rarissime le preghiere indirizzate direttamente a lui (cf. 2Cor 12,8; lTs 3,12-13), poiché prevale la sua funzione mediatrice (cf. sotto), ma egli è comunque oggetto di venerazione. (3) Per quanto riguarda il problema posto al monoteismo dei primi cristiani di origine giudaica, particolarmente emergente nella formula 'binitaria' di ICor 8,6 (cf. più sotto), esso viene spiegato in due modi: o collocando la figura di Gesù sullo sfondo di quelle dei vari agenti-rappresentanti divini presenti nella letteratura giudaica del tempo140, oppure, visto che Gesù di fatto non è solo considerato un rappresentante di Dio ma viene equiparato a Dio stesso, ripensando il monoteismo stesso nella sua modalità pre-rabbinica come una realtà molto composita, capace di prendere forma in vari modi e tale da ridurre lo stesso Yhwh a uno dei molti Figli dell'Altissimo, identificabile con lo stesso Messia141. Si deve comunque ricordare che il problema risale già ai comportamenti e alle parole del Gesù terreno, che aveva posto le basi necessarie per la fede post-pasquale.
3.7 Conclusione
4. Il Crocifisso risorto
L'esame di Fil 2,6-11 ci porta ad alcune conclusioni interessanti, che brevemente accenniamo. (1) Già il giudeo-cristianesimo prePaolino credeva alla divinità di Gesù, che perdipiù veniva conside-
Il dato che più chiaramente Paolo ha derivato dalla tradizione è l'antitesi morte-risurrezione di Gesù. Lo si vede bene in specie nella confessione di fede di ICor 15,3-5 e nell'inno cristologico di
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Sull'origine e la portata di questo titolo, rimandiamo a quanto già detto sopra: pp. 52-62 sull'invocazione aramaica Maranatha. 138 D.B. Capes, Old Testament Yahweh Texts in Paul's Christology, p. 166; per quanto ciò comporti che Gesù sia considerato molto di più che un semplice uomo, mi sembra però un po' forzato dire che Paolo "credeva che Cristo fosse in un certo senso Yahweh stesso" (ib., p. 164). 139 Evidentemente quindi, nonostante l'apparenza del v. IOa ("perché nel nome di Gesù..."), il nome donato non è quello di Gesù, poiché viene a lui conferito solo con la sua esaltazione. Perciò si potrebbe anche intendere il genitivo del v. IOa in questo modo: "Nel nome (nuovo) che appartiene a Gesù, cioè nel nome di Signore che ora è proprio di Gesù" (così P.T. O'Brien, Philippians, p. 240).
140 Cf. L.W. Hurtado, One God, One Lord. Early Christian Devotion and Ancient Jewish Monotheism, SCM, London 1988. L'A. distingue tre categorie maggiori di "divine agencies": attributi divini personificati (come Sapienza e Logos), patriarchi glorificati (come Enoch e Mosè), angeli (come Michele, Yahoel, e anche Melchisedek); Gesù sarebbe stato considerato come il "Chief Agent" di Dio, che in più rispetto agli altri venne fatto oggetto di culto. 141 Cf. D.B. Capes, Old Testament Yahweh Texts, pp. 169-183 (molta enfasi viene posta sull'Apocalisse di Abramo e sulla figura dell'angelo Yahoel, che è identificato con Dio stesso); e soprattutto M. Barker, The Great Angel. A Study ofisrael's Second God, SPCK, London 1992, secondo cui Gesù fu riconosciuto come Figlio di Dio, Messia e Signore, in quanto manifestazione di Yhwh Figlio di Dio. Vedi anche sopra: nota 41.
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Fil 2,6-11 (dove lo stadio della preesistenza in pratica è preparatorio alla celebrazione innica della suddetta antitesi). M a questo dato viene rielaborato e sviluppato dall'Apostolo su vasta scala, conducendoci a delle constatazioni molto interessanti 1 4 2 . Tuttavia dobbiamo renderci conto che Paolo a volte sembra sottolineare più il primo e a volte più il secondo aspetto. Così, rivolto persino agli stessi destinatari, da una parte, possiamo leggere che egli non ritenne di sapere nulla tra i Corinzi " s e non Gesù Cristo e questi crocifisso" (ICor 2,2); dall'altra, egli proclama fortemente che " s e Cristo non è risuscitato allora è vana la nostra predicazione e vana anche la vostra f e d e " (ib. 15,14; cf. v. 17). Forse egli è indeciso sulla centralità da attribuire a ciascuno dei due momenti? Un'analisi del linguaggio impiegato ci fa capire bene a quale componente vada la sua preferenza.
4.1 La
terminologia
Presentiamo qui innanzitutto uno spoglio completo del vocabolario impiegato dall'Apostolo rispettivamente circa la morte e la risurrezione di Gesù. 4.1.1 II primo momento viene riferito, in ordine decrescente quanto a frequenza, con questi termini: - àTToGvriaxeiv, "morire": 15 volte (Rm 5,6-8; 6,8.9; 8,34; 14,9.15; l C o r 8 , l l ; 15,3; 2Cor 5,14.15bis; Gal 2,21; lTs 4,14; 5,10 + Col 2,20); - Oàvaxo?, "morte": 8 volte (Rm 5,10; 6,3.4.5; ICor 11,26; Fil 2,8bis; 3,10 + Col 1,22); - cjTOcupó?, "croce": 7 volte (ICor 1,17.18; Gal 5,11; 6,12.14; Fil 2,8; 3,18 + Col 1,10; 2,14; Ef 2,16); - crcocupouv, "crocifiggere": 6 volte (Rm 6,6; ICor 1,23; 2,2.8; 2Cor 13,4; Gal 3,1; cf. ICor 1,13; Gal 5,24; 6,14); -ocV«, "sangue": 5 volte (Rm 3,25; 5,9; ICor 10,16; 11,25-27 + Col 1,10; Ef 1,7; 2,13);
142
Sul valore insieme letterario e teologico delle antitesi in Paolo, si possono leggere ancora con interesse le osservazioni di A. Brunot, Le genie littéraire de Saint Paul, LD 15, Paris 1955, pp. 28-41; quanto all'origine del suo diffuso impiego nelle lettere paoline, viene citata, oltre l'educazione retorica, l'esperienza di Damasco che ha rivelato all'Apostolo la centralità del Crocifisso maledetto diventato il Risorto trionfante. In generale sull'uso stilistico e teologico dell'antitesi in Paolo, cf. N. Schneider, Die rhetorischeEigenart derpaulinischen Antithese, HUTh 11, Mohr, Tùbingen 1970.
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-TOxpaSiBóvai,"consegnare (alla morte)": 4 volte, di cui 2 con Dio come soggetto (Rm 4,25; 8,32), 1 con Gesù stesso come soggetto (Gal 2,20), e 1 volta col soggetto indeterminato (ICor 11,23: Dio, Gesù, Giuda, o altri); cf. 2Cor 4,11 (+ Ef 5,25); - TWcBrifiocTa, "sofferenze": 2 volte (2Cor 1,5; Fil 3,10 + Col 1,24); - à7toxxeivetv, "uccidere": lTs 2,15; - véxpcoats, "il morire": 2Cor 4,10; - xpefxàvvofxi, "appendere": Gal 3,13 (= Dt 21,23); - 0à7cxetv, "seppellire": ICor 15,4; - Ó7tT|xoo<;, "obbediente": solo in Fil 2,8; - va poi ricordato l'aggettivo vexpó<;, "morto", che ricorre ben 14 volte ma sempre al plurale e nella formula stereotipa "risuscitato dai morti''' (es. Rm 1,4 + altre 4 volte nelle Deuteropaoline); - a parte ricordiamo anche i verbi èxévcoaev, "spogliò", eTa7tetva>aev, "umiliò", èTCxcóxeuaev, "si fece povero": il loro valore è generico ma certo essi S;i riferiscono allo stadio di umiltà anteriore alla risurrezione. 4.1.2 II secondo momento invece è riferito con un vocabolario che abbiamo già analizzato 143 e che qui semplicemente ricordiamo velocemente secondo i tre tipi di linguaggio là evidenziati: (a) - èyeipco, "risuscitare": è il verbo più usato (mai il sostantivo), ma bisogna distinguere: 10 volte all'attivo con Dio come soggetto grammaticale (cf. Rm 4,24: "Colui che ha risuscitato dai morti Gesù Cristo nostro Signore") ( + Col 2,12; Ef 1,20); 5 volte al passivo con Dio come agente (cf. Rm 4,25: "Fu risuscitato per la nostra giustificazione") 1 4 4 ; 7 volte al medio-passivo sempre al perfetto (quindi con la doppia possibilità semantica "fu risuscitato" o "risuscitò"; solo in ICor 15,4.12.13.14.16.17.20 + lTm 2,8); - àvtóoù:, "sovraesaltare": solo in Fil 2,9 (cf. sopra); - èv Seijta TOG 9eoG, "alla destra di Dio": solo in Rm 8,34 ( + Col 3,1; Ef 1,20); (e) - Càw, "vivere": 5 volte (Rm 6,10bis; 14,9; 2Cor 13,4; Gal 2,20); - CWTJ, "vita": 3 volte (Rm 5,10; 2Cor 4,10.11). Se facciamo un conto puramente materiale della frequenza dei rispettivi vocabolari nelle lettere autentiche, troviamo sorprendentemente che il primo (senza contare l'aggettivo plurale vexpoi, che
143
Cf. voi. I, pp. 190-195. A questo uso passivo appartiene anche il participio aoristo ópiotìévToi;, "costituito (Figlio di Dio)", in Rm 1,4. 144
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per il sintagma in cui appare può appartenere anche all'altro campo semantico) gode di ben 54 attestazioni, mentre il secondo ne ha solo 36. Se è vero che le parole sono il veicolo del pensiero di un autore, la differenza di un terzo tra le due costellazioni semantiche, a favore di quella concernente la morte di Gesù, deve voler dire qualcosa di particolare. È un chiaro indizio che Paolo, nonostante qualche nostra affrettata precomprensione, attribuisce un valore maggiore all'evento della croce, che per lui quindi non è affatto risucchiato dalla gloria della risurrezione, ma resta assolutamente primario. Vediamo dunque di dettagliare il significato che ciascuna delle due componenti ha per la cristologia dell'Apostolo.
4.2 // valore fondamentale
della morte di Gesù145
Paolo s'interessa della morte di Gesù, non per descriverla narrativamente come fanno gli evangelisti, ma per riflettere sulle sue dimensioni per così dire «profetiche», cioè sulla sua intenzionalità profonda 146 . Riservando al paragrafo seguente la sua specifica portata soteriologica, ne mettiamo qui in luce due aspetti particolari. 4.2.1 Un riscatto di amore. Paolo si aggancia chiaramente alla tradizione, quando riporta la confessione secondo cui "Cristo morì per i nostri peccati" (ICor 15,3). La preposizione greca wrép unita al genitivo, come qui, può avere più significati (escludendo quello locale di "sopra" che qui non fa senso): "a favore di", per esprimere una finalità di vantaggio; "al posto di", per esprimere una rappresentatività (= "a nome di") più che una sostituzione vicaria147; e "a motivo di", per esprimere una causalità. Che il pri145 Cf. G. Delling, Der Kreuzestod Jesu in der urchristlichen Verkùndigung, Vandenhoeck, Gòttingen 1972, pp. 17-26; H.-W. Kuhn, Jesus als Gekreuzigter in der frùhchristlichen Verkùndigung bis zur Mitte des 2. Jahrhunderts, ZTK 72 (1975) 1-46; G. Friedrich, Die Verkùndigung des Todes Jesu im Neuen Testament, Neukirchen 1982; A.T. Hanson, The Paradox ofthe Cross in the Thought o/St. Paul, JSNT Suppl. 17, Sheffield 1987; M. Gourgues, Le Crucifié. Du scendale à l'exaltation, Bellarmin, Montreal 1988; M.D. Hooker, Not Ashamed of the Gospel. New Testament Interpretations of the Death ofChrist, Eerdmans, Grand Rapids 1995, pp. 20-46; J.D.G. Dunn, The Theology of Paul, pp. 207-233.
1 46 Sul rapporto storia-profezia, vedi il celebre libro di O. Cullmann, Cristo e il tempo. La concezione del tempo e della storia nel Cristianesimo primitivo, Il Mulino,147 Bologna 1965, 3 1967 (orig. ted., Zùrich 1946), p p . 120-133.
Questa viene propriamente espressa dall'uso della preposizione àvxt con il genitivo, "invece di, in cambio di". Essa però non viene mai impiegata da Paolo,
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mo di questi tre significati sia quello prevalente risulta dall'uso che ne vien fatto nei vari contesti, come diremo fra poco. Per ora va notato che l'Apostolo amplifica molto questo dato tradizionale. Da una parte, infatti, egli ripete ed estende la costruzione "morire per (con ùnip e il genitivo)", dovendo però distinguere: unitamente a "peccati" ricorre soltanto una volta (in Gal 1,4); normalmente invece egli personalizza la formula con le seguenti locuzioni: "per noi-voi" (Rm 5,8; 8,31; ICor 1,13; 2Cor 5,21; 11,24; lTs 5,10), "per noi tutti" (Rm 8,32), "per tutti" (2Cor 5,15bis), "per me" (Gal 2,20; 3,13), "per gli empi" (Rm 5,6), "per il quale" (Rm 14,15)148. Dall'altra, egli ricorre anche ad altre formulazioni per esprimere la stessa idea. Così egli usa la preposizione 8ià con l'accusativo, "a motivo di" (compresa una sfumatura finale: "allo scopo di"), in Rm 4,25 ("per le cadute"); ICor 8,11 ("per il quale fratello]"); 2Cor 8,9 ("per voi"). Inoltre usa pure la preposizione ntpi con il genitivo, "riguardo a, in rapporto a", in Rm 8,3. Però l'interpretazione di questo testo ("Dio... mandando il proprio Figlio in una carne di peccato e in vista del peccato condannò il peccato nella carne") è discussa. Secondo alcuni commentatori l'espressionercepìàfxapxia? deriverebbe esattamente dal greco dei LXX di Lv 5,6-7.11; 16,3.5.9; Nm 6,16; 7,16 ecc. (dove traduce l'ebraico lehattàt) nel senso cultuale tecnico di "sacrificio per il peccato" e quindi alluderebbe alla morte sacrificale di Gesù (così E. Kàsemann, U. Wilckens, J.D.G. Dunn, D. Moo, B. Byrne). Secondo altri invece si tratterebbe soltanto di un'allusione generica alla condizione umana peccaminosa condivisa da Gesù nell'incarnazione, come risulterebbe dal tema dell'invio del Figlio da parte di Dio (così C.K. Barrett, C.E.B. Cranfield, L. Morris, J.A. Fitzmyer). Infatti nei LXX il suddetto complemento è sempre accompagnato da verbi di tipo cultuale (soprattutto "espiare" e "condurre-presentare" [cioè la vittima, avente il sacerdote come soggetto]: ii*-iXàaxea0ai, 7tpoa-9épeiv, 7tpoaàyeiv), che qui mancano del tutto. Probabilmente però non si possono scindere le due prospettive: se è vero che la locuzione può richiamare i testi sacrificali dell'AT, è anche vero che il contesto non prepara affatto una dichiarazione sulla morte di Gesù come sacrificio, mentre semmai è la sua intera esistenza nella carne che è rivolta alla condanna del peccato;
trovandosi solo in Me 10,45/Mt 20,28, e in lTm 2,6 (e fuori del NT in 4Mac 6,29); ad essa si accosta anche il concetto di 'àsàm in Is 53,10 ("offrirà la sua vita in espiazione/risarcimento' ')• 148 Su questa preposizione va osservato che con tutta probabilità, a proposito della morte di Cristo, essa non implica alcun riferimento di tipo cultuale, dato che nei LXX non ricorre mai nei testi sui sacrifici di espiazione, dove invece ricorre semprercepi(cf. Lv 16,3.6.7.9.17.24.25.27.30.33; Nm 29,11); anche in Is 53 si trova sia uept (vv. 4.10) sia 8ià (vv. 5bis.l2), ma mai órcép.
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in ogni caso, qui Paolo sembra unire insieme la theologia crucis con la theologia incamationis, così che la prima rappresenta l'inevitabile punto d'arrivo della seconda (così W. Schmithals). L'importante nella nostra interpretazione di Paolo è di evitare la concezione giuridica della sostituzione penale, come se egli affermasse che Dio abbia voluto castigare in Cristo tutti i peccatori, ricevendo così soddisfazione per gli oltraggi da loro ricevuti. I testi infatti dicono che Cristo ha preso su di sé non una maledizione o un castigo, ma semplicemente i nostri peccati. Anche se in Is 53 c'è l'idea di un castigo del Servo per i peccati altrui (cf. Is 53,5b: lett. "la punizione [TM musar; LXX 7cou8eta] per la nostra pace fu su di lui"), il caso di Gesù va ben oltre, e non solo perché Isaia non viene affatto citato. È vero che in Gal 3,13 si legge che "Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando maledizione per noi (ónèp rjfxwv xocxàpoc), come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno". Bisogna però stare attenti a non maggiorare lo schema di sostituzione, che sta alla base della frase, fino a dire che Cristo assunse su di sé l'identità del maledetto. Infatti, a proposito della frase "diventando maledizione per noi" vanno fatte due osservazioni. L'una è che il "diventare maledizione" allude semplicemente al fatto storico della morte di Gesù in croce (con citazione di Dt 21,23; analogamente, a Qumràn si stabilisce di seppellire i crocifissi il giorno stesso della pena, "poiché sono maledetti da Dio e dagli uomini coloro che sono appesi al legno" [11QT 64,12]): quindi la maledizione di Gesù non si spiega affatto come assunzione di un castigo. L'altra osservazione è che il "per noi" (con la preposizione hypér e non ariti) esprime soltanto l'impatto salvifico di quella morte e non una sostituzione: quindi la maledizione di Gesù è soltanto funzionale a togliere una maledizione di altro genere, cioè quella comminata ai trasgressori della Legge (secondo Dt 27,26 citato poco prima in Gal 3,10). Un'allusione all'idea di una punizione sostitutiva si potrebbe anche intravedere in 2Cor 5,21 : "Colui che non conobbe peccato (Dio) lo fece peccato per noi (urcèp Tjfxcòv àfiocpTtocv inoir\ozv), affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui". La concezione circa Cristo "senza peccato" probabilmente deriva a Paolo dalla tradizione (cf. anche Eb 4,15; 5,7-9; IPt 1,19; 3,18) e in ultima analisi potrebbe supporre l'affermazione di Is 53,9 ("Gli si diede sepoltura con gli empi..., sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno
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nella sua bocca"; vedi anche Sai. Salom. 17,36). Ma un riferimento al concetto cultuale di "sacrificio per il peccato" secondo il libro del Levitico (cf. Lv 4,8.20.24.29.33.34, dove questo è il significato del semplice sostantivo "peccato" sia in TM che in LXX) è assai improbabile. Infatti: il verbo "fare" con semantica cultuale in Lv ricorre in una costruzione diversa (solo in Lv 9,7.22:TCOIEIVXÒrcepìx9]c, à^apTia?, lett. "fare ciò che riguarda il peccato", cioè il sacrificio previsto); d'altronde, il contestuale concetto paolino di riconciliazione (cf. 2Cor 5,18bis. 19bis.20) nell'AT non ricorre mai a proposito dei sacrifici per indicare il loro effetto di perdono; inoltre, e analogamente, l'effetto positivo del sacrificio per il peccato né in Lv né nell'intero AT viene mai espresso con la famiglia lessicale della "giustizia" come invece avviene qui; infine, va preso atto del linguaggio iperbolico e antitetico proprio di Paolo, che al contrario gli fa dire in ICor 1,10 che Cristo divenne "per noi giustizia". Il senso dunque, come in Rm 8,3, è che Cristo ha condiviso la condizione dell'umanità peccatrice in generale, sottomettendosi al Peccato come potenza dominante al fine di ottenerne un risultato contrapposto 149 . Qui lo schema di una mera sostituzione non funziona, e doppiamente: (1) esso normalmente punta solo sul dato di una pena da subire a ogni costo, senza tener conto di chi sia il punito, mentre invece qui Gesù è innocente e non corrisponde alla clausola di Dt 21,22 ("Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte...") [quanto all'idea del capro espiatorio, vedi più sotto]; (2) una sorta di «benedizione» si realizzò prima di tutto nello stesso Gesù, in quanto egli non rimase nella maledizione ma anzi la sua morte sfociò nella sua risurrezione (cf. Fil 2,8-9); in questo processo ciò che risulta determinante è che egli visse la maledizione, sia in conformità alla volontà di Dio e non in opposizione a lui (cf. Gal l,4b), sia nella solidarietà con gli uomini invece che nel disinteresse nei loro confronti (cf. Gal 2,10). Si vede bene quindi che l'importante non è la morte subita come pena, ma è l'elemento-amore che la informa dal di
149 Su Gal 3,13 cf. soprattutto M. D. Hooker, Interchange in Christ, in Id., From Adam to Christ. Essays on Paul, University Press, Cambridge 1990, pp. 13-25 specie 14-16 ( = JTS 22 [1971] 349-361); A. Vanhoye, La lettera ai Galati. Seconda parte, Ad uso degli studenti, Editrice P.I.B., Roma 1989, pp. 81-91; A. Pitta, Gal. p. 192. Su 2 Cor 5,21 cf. K. Kertelge, «Rechtfertigung» bei Paulus, pp. 99,107; V.P. Furnish, 2Cor, pp. 340 e 351; M.E. Thrall, 2Cor, pp. 439-442.
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dentro e che sempre dall'interno svuota il principio negativo della Legge punitrice150. La chiave ermeneutica della donazione di Cristo sulla croce si può considerare fornita da un doppio schema veterotestamentario, dove si mettono in luce due diverse dimensioni dell'amore. L'uno è lo schema dell'offerta di Isacco da parte di Abramo (cf. Gn 22 = la caqedah): l'amore di obbedienza, esercitato sia dal patriarca nei confronti di Dio sia da Isacco nei confronti di Abramo, diventa in Paolo amore di donazione sia da parte di Dio, che consegna il figlio Gesù (cf. Rm 4,25; 5,8; 8,32), sia da parte di Gesù stesso soprattutto nei confronti dell'uomo (cf. Gal 2,20; in LAB 32,3 Isacco dice: "Che sarebbe successo, se non fossi nato per essere offerto in sacrificio a colui che mi ha fatto?"). A tutto ciò soggiace la categoria di un sacrificio sui generis, totalmente informato dall'amore (cf. Filone Al., Abr. 196: "Chi offre il solo figlio che ha da amare compie un atto superiore a ogni parola"). L'altro schema è quello dell'esodo: come allora Dio agì sovranamente e liberamente, intervenendo per puro amore verso il suo popolo (cf. Es 15,13: "Guidasti con il tuo favore questo popolo che hai riscat-
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Tutto ciò va detto contro la tesi di B.H. McLean, The Cursed Christ. Mediterranean Expulsion Rituals and Pauline Soteriology, JSNT Suppl. 126, Academic Press, Sheffield 1996. Egli parla di "cristologia apotropaica", rifacendosi ad antichi rituali greci di espulsione dalla città di animali (capri, vitelli, maiali) o uomini (schiavi, criminali, poveri) denominati pharmakoi, designati come vittime per allontanare la minaccia o la realtà di un pericolo (peste o altro): in questi casi, la vittima assumeva totalmente su di sé il male da rimuovere e con l'espulsione (l'uccisione si praticava solo per gli animali), purificava e liberava la comunità dal male stesso (cf. i testi riportati alle pp. 88-100 e in specie T. Livio 10,28-29). Ma le differenze, per limitarci ai pharmakoi umani, sono troppo rilevanti: (1) normalmente la vittima viene scelta; (2) solo raramente la vittima si offre spontaneamente (così Gio 1,12), probabilmente perché essa viene ricompensata con vestiti e abbondante nutrimento (testimonianza sulle città della Ionia e su Marsiglia), a volte anche con denaro; (3) la vittima viene scelta o viene accettata tra coloro che sono già socialmente marginalizzati; (4) inoltre essa riceve una investitura solenne, trattandosi quindi di un vero rito pubblico e contemplato dalla tradizione; (5) quasi mai viene uccisa (solo il grammatico bizantino Tzetzes dice che il pharmakós veniva bruciato su di una pira; ma la cosa è discussa). Tutto ciò è ben lontano dal caso-Gesù, per il quale in più Paolo fa riferimento a un dato esclusivamente giudaico come la Legge, il cui trattamento rientra in un'ottica esclusivamente paolina: ciò che l'Apostolo dice in Gal 3,10 (che cioè Gesù "divenne maledizione") o in 2Cor 3,21 (che cioè egli "divenne peccato") non si riscontra nei casi riportati da McLean, dove semmai la vittima diventa pharmakós, cioè "rimedio". Se quest'ultimo concetto si ritrova apparentemente anche in Paolo a proposito di Gesù (cf. maledizione — benedizione; peccato — giustizia), vanno comunque notati i nomi astratti, che suggeriscono piuttosto un'esperienza di solidarietà e di partecipazione, non solo di Gesù con gli uomini ma anche e soprattutto, come risultato, degli uomini con Gesù.
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tato"; Dt 7,7: "Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti... perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri"; Is 63,8b-9 LXX: " E divenne per loro una salvezza da ogni tribolazione. Non un inviato né un angelo, ma il Signore stesso li salvò perché li amava e ne aveva compassione; egli li riscattò e li sollevò e li innalzò per tutti i giorni del tempo"), così ora egli, nel Cristo immolato come nuovo agnello pasquale (cf. ICor 5,7) è intervenuto "riconciliando a sé il mondo" (2Cor 5,19) con la dimostrazione del "suo amore verso di noi perché, mentre ancora eravamo peccatori, Cristo è morto per noi" (Rm 5,8). La morte di Gesù dunque fu essenzialmente un atto di amore personale: sia da parte di Dio (cf. Rm 8,31b-32: "Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio figlio [come Abramo: cf. Gn 22], ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?"), sia da parte di Gesù stesso (cf. Gal 2,20: "Mi amò e diede se stesso per me"), che si trovano perfettamente fusi insieme (cf. Rm 8,39: "Nessuna creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio in Cristo Gesù nostro Signore") 151 . Ci sono tre concetti che più di altri permettono a Paolo di esprimere e riassumere questa visione delle cose. (1) Uno è quello di "riscatto" (da è^ayopàCeiv, "comperare"; in ICor 6,20; 7,23; Gal 3,13; 4,5) con i suoi sinonimi "redenzione" (da àrcoXueiv, "slegare, rilasciare, liberare, affrancare", col derivato àTroXikpcoat*;, "redenzione"; in Rm 3,24; 8,23; ICor 1,30) e "liberazione" (da èXeuGepoGv, "liberare"; in Rm 6,18.22; 8,2; Gal 5,1)152. Tutti e tre provengono dall'ambito dei rapporti commerciali, sia 151 Sull'insieme cf. K. Romaniuk, L'amour du Pére et du Fils, 1961; W. Popkes, Christus Traditus, 1967. In particolare sulla caqedah vedi R. Penna, // motivo della " c aqedah" sullo sfondo di Rm 8,32, in Id., L'apostolo Paolo, pp. 171-199. Sull'importanza di questo modello biblico vedi anche J.D. Levenson, The Death and Resurrection of the Beloved Son. The Transformation of Child Sacrifice in Judaism and Christianity, Yale University Press, New Haven-London 1993; alla p. 230 l'A. fa notare la differenza con la parabola sinottica dei vignaioli omicidi (cf. Me 12,1-12 parr.), secondo cui il proprietario manda il figlio senza alcuna intenzione di offrirlo: qui, a differenza di Paolo, l'attenzione cade non sulla bontà del padre ma sulla malvagità dei vignaioli (= i Giudei, che l'Apostolo invece non menziona mai nel contesto della morte di Gesù [eccetto lTs 2,15 che è ritenuto una interpolazione]). Vedi anche M. Perez Fernàndez, TheAqedah in Paul, in F. Manns, ed., The Sacrifice of Isaac in the Three Monotheistic Religions, Franciscan Printing Press, Jerusalem 1995, pp. 81-94. 152 Cf. S. Lyonnet - L. Sabourin, Sin, Redemption, and Sacrifice. A Biblical andPatristic Study, AB 48, PIB, Rome, rispettivamente pp. 104-119 e 79-103; S. Vollenweider, Freiheit als neue Schòpfung. Eine Untersuchung zur Eleutheria bei
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che si debba sottintendere o meno la pratica della manomissione degli schiavi o quella della liberazione dei prigionieri o forse meglio lo schema veterotestamentario della liberazione d'Israele dall'Egitto 153 . Essi perciò descrivono l'operato di Cristo come una sottrazione a una precedente proprietà. Questa poi non è mai designata come il Diavolo, ma di volta in volta come la carne, la legge, il peccato, la maledizione, la paura: non proprietari personali, ma condizioni negative che schiavizzano l'uomo. A questo ambito semantico si riconducono anche affermazioni come queste: "Voi non appartenete più a voi stessi" (ICor 6,19), "Per la libertà Cristo ci ha liberati" (Gal 5,1), e "Voi siete stati messi a morte quanto alla Legge mediante il corpo di Cristo per appartenere a un altro" (Rm 7,4). (2) Il secondo concetto è quello di "riconciliazione" (xaxocXXocyri, da xocxaXXàaaeiv; in Rm 5,10bis.ll; 2Cor 5,18bis.l9bis.20)154. Evidentemente esso proviene dall'ambito delle comuni relazioni interpersonali di amicizia, che secondo Paolo vanno ristabilite perché si suppongono infrante. È interessante osservare che nel greco extrabiblico questo vocabolario, non solo non viene mai attestato in ambito religioso (e in questo senso nei LXX si trova solo in 2Mac 1,5; 5,20; 7,33; 8,29), ma là dove occorre (tralasciando come non pertinente al nostro caso l'idea [all'attivo] che una persona ne riconcili altre due tra di loro) implica sempre che ad essere riconciliato (al passivo) sia colui che è irritato perché offeso o che sia lui a "riconciliarsi" cioè a dimostrarsi placato (al medio); quindi "riconciliare" significa "placare". Invece in Paolo ad essere riconciliati siamo noi (cf. Rm) oppure è il mondo (cf. 2Cor), mai Dio; ciò significa, non solo che l'iniziativa della riconciliazione appartiene solo a Dio, ma che essa (tutt'altro che "placare o propiziare") implica
Paulus und in seiner Unwelt, FRLANT 147, Vandenhoeck, Gòttingen 1989. Osserviamo che il termine (àv-u)Xu-cpov, propriamente "prezzo del riscatto", ricorre solo fuori di Paolo in Me 10,45/Mt 20,28; lTm 2,6 (il verbo in Le 24,21; Tt 2,14; lPt 1,18); però vedi ICor 6,20; 7,23. 153 In quest'ultimo senso, cf. W. Haubeck, Loskauf durch Christus. Herkunft, Gestalt und Bedeutung des paulinischen Loskaufmotivs, Giessen 1985. Su tutto il problema, vedi il breve ma pertinente status quaestionis in G. Barth, Il significato della morte di Gesù, pp. 106-110. 154 Cf. C. Breytenbach, Versòhnung. Eine Studie zur paulinischen Soteriologie, WMANT 60, Neukirchen 1989; Id., Versòhnung, Stellvertretung und Suhne. Semantische und traditionsgeschichtliche Bemerkungen am Beispiel der paulinischen Briefe, NTS 39 (1993) 59-79. Questo tema è stato addirittura proposto come chiave per tutta la teologia e l'attività missionaria di Paolo da R.P. Martin, Reconciliation. A Study of Paul's Theology, Atlanta-London 1981.
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già all'origine un atteggiamento di benevolenza con cui viene rimosso l'ostacolo del peccato dell'uomo e perciò equivale a un puro atto dell'amore e della grazia di Dio stesso. (3) Il terzo concetto è quello di "espiazione", che in Paolo ricorre solo una volta nell'espressione "strumento o luogo di espiazione" (iXoccroripiov: Rm 3,25; con ogni probabilità abbiamo a che fare qui con una formulazione giudeo-cristiana di tipo tradizionale155). Esso potrebbe derivare da un ambito cultuale giudaico 156 , anche se mediato dalla concezione del valore espiatorio della morte dei martiri secondo l'apocrifo 4Mac 17,22 ("Mediante il sangue di quei giusti e l'espiazione attuata con la loro morte [oià xoG a!'|i.ocTo<;... xaì xoG IXaaxripiou xoG Gavàxou aùxcòv] la divina provvidenza salvò Israele, che prima era oppresso") 157 . In ogni caso vi è insita una critica al culto del Tempio: il luogo della presenza di Dio che espia i peccati ormai non è più né il Santo dei Santi né un altro luogo sacrale o gesto rituale, ma è il sangue di un Crocifisso. Anche se l'affermazione dovesse essere interpretata a prescindere dallo specifico concetto di sacrificio espiatorio 158 , resta 155 Oltre ai Commenti, cf. W. Kraus, Der Tod Jesu als Heiligtumsweihe. Eine Untersuchung zum Umfeldder Sùhnevorstellung in Rómer3,25-26a, WMANT 66, Neukirchen 1991, specie pp. 92-167 (discutibile però è la sua tesi, secondo cui la morte di Cristo sarebbe in rapporto diretto non con i peccati degli uomini ma con la purificazione del Tempio escatologico). Più in generale vedi anche S. LyonnetL. Sabourin, Sin, Redemption, and Sacrifice, pp. 120-184; R. Penna, Il sangue di Cristo nelle letterepaoline, in Id., L'apostolo Paolo, pp. 395-417. 156 Normalmente ci si richiama al rito specifico dello Yòm kippùr (cf. Lv 16, dove il termine traduce l'ebraico kapporet: coperchio dell'arca dell'alleanza nel Santo dei Santi), ma è possibile anche pensare che ci si riferisca più genericamente a un luogo di espiazione (cf. Ez 43,14.17.20, dove esso traduce l'ebraico czàrah: piattaforma dell'altare dei sacrifici). Per un puntuale riassetto delle questioni letterarie, cronologiche, e teologiche, afferenti ai testi biblici dello Yòm Kippùr, cf. G. Deiana, Il giorno dell'espiazione. Il kippur nella tradizione biblica, RivBibl Suppl. 30, Bologna 1995. 157 II valore sacrificale della morte dei martiri, paragonata a un rito di purificazione, è sostenuto da A. O'Hagan, The Martyr in the Fourth Book of Maccabees, StudBiblFranc 24 (1974) 94-119. Vedi anche D. Seeley, The Noble Death. GraecoRoman Martyrology and Paul's Concept of Salvation, JSNT Suppl. 28, Sheffield 1990. Proprio il concetto giudeo-ellenistico di martirio sarebbe stato il tramite ermeneutico per interpretare la morte di Gesù in senso espiatorio secondo W. Zager, Wie kam es im Urchristentum zur Deutung des Todes Jesu als Sùhnegeschehen?, ZNW 87 (1996) 165-186. 158 Così B.H. McLean, The Absence of an Atoning Sacrifice in Paul's Soteriology, NTS 38 (1992) 531-553 (con riferimento a G. Fitzer, Der Ort der Versòhnung nach Paulus. Zu Froge des «Sùhnopfers Jesu», TZ 22 [1966] 161-183), che interpreta lo hilastérion solo come luogo della presenza di Dio e il riferimento al sangue come mera allusione al dono della vita. Certamente comunque non si può pensare che il rito del Kippur comportasse l'idea della sostituzione vicaria dell'offerente con
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comunque il fatto che il passo di Rm 3,25 richiama il dato della totale offerta di sé fatta da Cristo per i peccati degli uomini159. 4.2.2 Scandalo e stoltezza come potenza e sapienza di Dio. In un solo ma celebre passo delle sue lettere (ICor 1,18-25) Paolo esprime una originale dimensione della croce di Cristo160. Il punto di partenza del suo discorso è propriamente l'annuncio evangelico della croce più che non la croce stessa come evento. Tuttavia evento e parola finiscono per identificarsi, tanto che i concetti paralleli di scandalo e stoltezza investono paritariamente entrambi i momenti. Perciò, se da una parte la predicazione come "parola della croce" (v. 18) condivide la medesima stoltezza della croce, questa a sua volta risulta "evento di 'apocalisse' divina: Dio vi si disvela per quello che è"161. Ciò che si rivela nella croce di Cristo è appunto un Dio umanamente inimmaginabile, che mette in scacco
la vittima (cf. G. Deiana, Il giorno dell'espiazione, p. 182 e G. Barth, Il significato della morte di Gesù, pp. 76-84); sul fatto che esso invece valesse come vero sacrificio espiatorio per i peccati, e non solo come rito di purificazione per la contaminazione del Tempio (così J. Milgrom, Leviticus, I, AB 3, Doubleday, New York-London 1991, pp. 253-258), cf. G. Deiana, Il giorno dell'espiazione, p. 180 (con rimando a N. Kiuchi, The Purification Offering in the Priestly Literature. Its Meaning and Function, JSOT Suppl. 56, Sheffield 1987, pp. 65-66). 159 Quanto alla dibattuta questione se riconciliazione ed espiazione siano coincidenti e se quindi le categorie cultuali siano determinanti per comprendere la morte di Gesù secondo Paolo (risponde negativamente ad entrambi gli interrogativi G. Friedrich, affermativamente invece P. Stuhlmacher), vedi la documentata e bilanciata risposta di C. Breytenbach, Versòhnung, specie pp. 193-215. Questo A., tendenzialmente favorevole a Friedrich, nega l'interpretazione cultuale della morte di Cristo sia nelle formuìe-hypér sia in Rm 3,25; 8,3; 2Cor 5,21; in più egli ritiene che già la comprensione pre-paolina della morte di Cristo non fosse di tipo cultuale; sicché nel NT l'idea della morte di Cristo come "sacrificio" sarebbe presente solo in ICor 5,7; Ef 5,2; e in Eb (ma si dovrebbero aggiungere testi come IPt 1,2.19; IGv 1,7; le tradizioni sull'Ultima cena; e forse anche Ap 5,6.12; 7,14; 13,8). 160 Oltre ai Commenti, cf. soprattutto K. Miiller, IKor 1,18-25. Die eschatologisch-kritische Funktion der Verkùndigung des Kreuzes, BZ 10 (1966) 246-272; H.K. Nielsen, Paulus' Verwendung des Begriffes Dynamis. Eine Replik zur Kreuzestheologie, in S. Pedersen, ed., Die paulinische Literatur und Theologie, Aros-Vandenhoeck, Arhus-Gòttingen 1980, pp. 137-158; H. Merklein, Die Weisheit Gottes und die Weisheit der Welt (IKor 1,21), in Id., Studien zu Jesus und Paulus, pp. 376-384; R. Penna, Logos paolino della croce e sapienza umana (ICor 1,18 - 2,6), in I. Sanna, ed., Il sapere teologico e il suo metodo, Dehoniane, Bologna 1993, pp. 233-255. 161 G. Barbaglio, La prima lettera ai Corinzi, SOC 7, Dehoniane, Bologna 1996, p. 135. Nel contesto, il concetto di stoltezza non riguarda solo la forma disadorna della predicazione (v. 18: "la parola della croce") ma anche la croce come suo contenuto (v. 23: "il Cristo crocifisso"); cf. D. Litfin, St. Paul's Theology ofProclamation. 1 Corinthians 1-4 and Greco-Roman rhetoric, SNTS MS 79, University Press, Cambridge 1994, pp. 193-201.
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la presunzione religiosa della sapienza umana. Più che mai qui cristologia e teologia si toccano e si sovrappongono162. Tutto ciò che si pensava di Dio come supremamente bello e potente viene contraddetto dall'umiliazione del Crocifisso. In lui si infrangono sia la richiesta di segni gloriosi da parte dei Giudei, per cui egli diventa uno scandalo-inciampo alla loro fede, sia la ricerca di una sapienza intellettualmente appagante da parte dei Greci, per cui egli diventa una incomprensibile follia. Se Dio si rivela nella croce di Cristo, allora bisogna proprio ammettere che di lui prima non si sapeva nulla163. In definitiva, infatti, "ciò che occhio mai non vide né orecchio udì né mai salì in cuore d'uomo" (ICor 2,9) riguarda proprio questa forma di rivelazione e il tipo di Dio che ne risulta: un Dio che la ragione umana in quanto tale (cf. 1,20: "il ricercatore di questo mondo") fa fatica a incasellare nei propri schemi, ma che si dimostra felicemente sorprendente per la sua imprevedibilità. Egli perciò è anche colui che trasforma un evento umanamente inteso come stoltezza e scandalo in un evento di potenza e di sapienza, nella misura in cui vi annette una possibilità di salvezza prima ignorata164. E se la croce di Cristo è la strada di Dio, insospettata ma comunque l'unica possibile (cf. Is 55,8: "I miei pensieri non sono i vostri pensieri..."), allora il prendere posizione di fronte al Crocifisso finisce necessariamente per comportare un'anticipata discriminazione escatologica tra "coloro che si perdono e coloro che si salvano" (1,18).
162 "Di fronte alla croce di Gesù è di Dio che si parla" (H. Weder, Das Kreuz Jesu bei Paulus. Ein Versuch, ùber den Geschichtsbezug des christlichen Glaubens nachzudenken, FRLANT 125, Gòttingen 1981, p. 139). 163 L'apparente contraddizione con Rm 1,18-23, dove si afferma che gli uomini hanno conosciuto Dio pur senza venerarlo come tale, si risolve dando significati diversi non tanto allo stesso verbo "conoscere" (che in ICor 1,21 significherebbe "riconoscere"), ma al sostantivo "Dio": infatti "il testo di Rm 1,19-21 è in prospettiva cosmologica e afferma l'effettiva raggiungibilità di Dio...; invece ICor 1,18ss si pone in prospettiva soteriologica e afferma la non raggiungibilità del tipico Dio cristiano, quale si rivela nella croce di Cristo" (R. Penna, Dialettica tra ricerca e scoperta di Dio nell'epistolario paolino, in Id., L'apostolo Paolo, pp. 593-629, qui 609 nota 38). 164 Perciò la cosiddetta theologia crucis non deve intendere il rapporto debolezzapotenza solo come un paradosso; esso invece "va inteso come dialettica, nel senso che la debolezza per così dire provoca un vuoto, che la potenza di Dio può riempire" (H.K. Nielsen, Paulus' Verwendung, pp. 156-157, con opportuno rimando a 2Cor 12,10: "Quando sono debole, allora sono potente").
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4.3 La portata della risurrezione Se nel brano paolino appena citato Cristo viene qualificato come "potenza di Dio", ciò significa certamente che la predicazione del Crocifisso è causa di conversione e di santificazione per i credenti; ma, in più, vuol anche dire che proprio in lui si è dispiegata la potenza di Dio con il suo intervento di risurrezione165. È ciò che leggiamo in 2Cor 13,4: "Egli fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio"; e, stante un certo parallelismo tra questo passo e Rm 6,4 ("Cristo fu risuscitato dai morti mediante la gloria del Padre"), viene a darsi un accostamento semantico tra i concetti di potenza e di gloria (infatti in ICor 2,8 leggiamo: "Se l'avessero conosciuto, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria"), che in più si concretizzano in Cristo stesso. Egli "non è solo un mezzo per la dimostrazione della potenza e della sapienza di Dio, poiché personalmente pure le incorpora in sé" 166 . Perciò egli in persona è "potenza di Dio". La risurrezione di Gesù come atto di questa potenza rappresenta l'esatto risvolto della sua impotenza come crocifisso. Non per nulla è ad essa che già la tradizione pre-paolina, come abbiamo visto, collega le fondamentali qualifiche cristologiche di "Signore" (cf. Fil 2,9-11) e addirittura di "Figlio di Dio" (Rm l,4a). Anche qui, allora, parlare del Risorto significa inevitabilmente parlare di Dio; è significativo infatti notare che Paolo, nel contesto di un discorso sulla risurrezione di Cristo e dei cristiani, per confutare coloro che sembrano negarla dice: "Alcuni dimostrano di non conoscere Dio" (ICor 15,34)! Ci sono poi tre caratteristiche del discorso paolino sul Risorto che meritano di essere sottolineate. 4.3.1 Accessibilità al valore salvifico della croce. Insieme a Paolo bisogna innanzitutto stare attenti a non enfatizzare l'evento pasquale al punto da mettere in ombra la croce. Questa non è solo un momento di passaggio, quasi che sia stata cancellata dallo splendore della risurrezione e perciò debba essere dimenticata. Tutt'al-
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Cf. K. Muller, / Kor 1,18-25, p. 268; R. Penna, Il vangelo come "potenza di Dio" secondo ICor 1,18-25, in Id., L'apostolo Paolo, pp. 281-294; S. Virgulin, La croce come potenza di Dio in ICor 1,18.24, in Aa.Vv., La sapienza della croce oggi, I, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 1976, pp. 144-150. Vedi anche J.D.G. Dunn, The Theology of Paul, pp. 234-265. 166 W. Schrage, Der erste Brief an die Korinther, I, EKK VII/1, ZùrichNeukirchen 1991, p. 188.
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tro. Non è senza significato che in Paolo, come abbiamo visto, il vocabolario della morte supera di un terzo quello della risurrezione. Il fatto è che "finalmente la croce, mediante la risurrezione, diventa dicibile come luogo della potenza di Dio" 167 . La risurrezione, cioè, rivela e insieme rende accessibile la profonda virtualità salvifica della croce, che senza di quella sarebbe rimasta nascosta e infruttuosa. È questo che vuol dire Paolo quando scrive: Cristo "fu consegnato per le nostre cadute e fu risuscitato per la nostra giustificazione" (Rm 4,25). La ripetizione retorica della medesima preposizione nelle due parti della frase (8tà, "per", con l'accusativo) suppone comunque due valori diversi, causale nella prima e finale nella seconda, segnando anche un leggero crescendo verso il concetto di giustificazione. Infatti, la frase immediatamente seguente (Rm 5,1: "Giustificati dunque per la fede siamo in pace con Dio") riprende e ribadisce la stessa idea di giustificazione, che perciò viene strettamente collegata con la risurrezione di Gesù. Si spiega allora l'affermazione perentoria che leggiamo in ICor 15,17: "Se Cristo non è risuscitato, vana è la vostra fede: siete ancora nei vostri peccati". Quindi, la giustificazione è saldamente radicata nella croce, ma è resa possibile dalla risurrezione, che rende la croce feconda applicandone i frutti. Su questa linea si può parzialmente interpretare l'originale definizione cristologica di Gesù come "ultimo Adamo diventato Spirito vivificante" (iweGfxoc Ctoorcoiouv: ICor 15,45). L'esame del contesto mostra che la definizione va primariamente intesa in senso risurrezionistico-escatologico, non soteriologico-presenziale: cioè, essa dice che il Risorto, superando di gran lunga Adamo, non è soltanto diventato "vivente" ma in più ha acquisito la prerogativa divina di "vivificare" i morti alla fine dei tempi (vedi: il richiamo di ICor 15,22; il rimando a Gn 2,7; il parallelismo climatico con il primo Adamo diventato 'anima vivente'; l'assenza di ogni vocabolario amartiologico) 168 . Tuttavia, anche se solo per estensione, si può pure scorgere nel sintagma "Spirito vivificante" un'allusio-
167 H. Weder, Das Kreuz Jesu bei Paulus, p. 140, dove si continua: "Detto altrimenti: nella risurrezione di Gesù l'evento storico della sua morte non viene sorpassato, al contrario Dio stesso si impegna talmente su quell'evento che esso proprio in quanto contingente riceve un valore infinito". 168 Oltre ai Commenti, cf. M. Teani, Corporeità e risurrezione. L'interpretazione di 1 Corinti 15,35-49 nel Novecento, "Aloisiana" 24, Gregorian UniversityMorcelliana, Roma-Brescia 1994; R. Penna, Cristologia adamica e ottimismo antropologico in ICor 15,45-49, in Id., L'apostolo Paolo, pp. 240-268.
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ne alla funzione salvifica globale del Risorto. Ciò può fondarsi sul fatto che C<*>o7rotoGv in quanto participio presente non ha di per sé alcuna funzione temporale, ma indica solo la qualità dell'azione e definisce il soggetto in quanto "vivificante": il Risorto già lo è diventato e tale certamente sarà in futuro, ma non si può escludere che egli lo è anche adesso. Una conferma proviene dallo sfondo di alcuni passi biblici che sembrano andare in questo senso; così infatti il Salmista riconosce con gratitudine: "Mi hai fatto provare molte e brutte tribolazioni, ma ripensandoci mi hai vivificato e di nuovo mi hai tratto dagli abissi della terra" (Sai 70,20 LXX; cf. Sai 40/39,3); e a proposito della Sapienza si legge che essa "vivificherà chi è dalla sua parte" (Qo 7,12 LXX). D'altronde, l'affermazione paolina, secondo cui il Risorto è "alla destra di Dio e intercede per noi" (Rm 8,34), esprime un'attuale, incessante funzione soteriologica di Cristo, che da una parte mette il cristiano al sicuro da ogni possibile condanna (cf. Rm 8,31-39) e dall'altra gli garantisce positivamente un intervento attivo in suo favore. Resta il fatto che la risurrezione rimanda inevitabilmente alla croce. È impossibile parlare della risurrezione per se stessa, senza richiamare la croce; sarebbe, come si dice, filare per la tangente, cioè svignarsela a buon mercato per non affrontare ciò che sembra duro ma in realtà è decisivo. Un celebre saggio di Kàsemann a suo tempo sottolineò molto bene questo rapporto, negando che la teologia della croce possa diventare un semplice capitolo di una teologia della risurrezione169. Certo "il Risorto è colui che assume la signoria. Ma la croce non diviene la via per giungervi e il prezzo che bisogna pagare: rimane invece il contrassegno del Risorto. Questi non avrebbe un volto (...) se non fosse quello del Crocifisso. (...) Solo il Crocifisso è risorto, e oggi la dominazione del Risorto giunge fin dove si serve il Crocifisso" 170 . Dunque, croce e risur169 Cf. E. Kàsemann, // valore salvifico della morte di Gesù in Paolo, in Id., Prospettive paoiine, SB 18, Paideia, Brescia 1972 (orig. ted., Tùbingen 1969, 21972). 170 E. Kàsemann, // valore salvifico, pp. 88-89 (cf. anche p. 85: "Il contrassegno che distingue la sua signoria da quella di altri fondatori di religioni è senza dubbio unicamente la croce"). Il punto di partenza è la feconda posizione di Lutero là dove scrive: Cruxsola est nostra theologia (WA 5,176; cf. B. Gherardini, Theologia crucis. L'eredità di Lutero nell'evoluzione teologica della Riforma, Paoiine, Roma 1978). "In generale, i sostenitori di una teologia della risurrezione e dei fatti salvifici non intendono eliminare la teologia della croce, ma inserirla in un contesto più ampio. Non vedono così che la teologia della croce viene livellata, relativizzata e praticamente contestata nell'intenzione originaria. Crux nostra theologia si può dire solamente se così si designa il tema centrale, e in certo senso unico, della teologia cristiana. Dirlo diviene retorica, se la croce rappresenta un anello in una
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rezione rappresentano le due facce della stessa medaglia, che è Gesù. L'una non può stare senza l'altra. Egli è definito da entrambe. Nella croce di Cristo c'è il thesaurus ecclesiae, e nella sua risurrezione è data la possibilità di attingervi171. Il racconto giovanneo del Risorto che offre a Tommaso le mani e il costato tuttora piagati (cf. Gv 20,27) potrebbe essere il commento migliore a questo insieme di cose; lo stesso si dica dell'immagine dell'Agnello dell'Apocalisse, che sta ritto in piedi pur essendo sgozzato (cf. Ap 5,6). Facciamo questi accostamenti solo per mettere in luce che i maggiori teologi del Nuovo Testamento convergono sul dato di fondo della complementarità tra la morte e la risurrezione di Gesù. Ma Paolo è il primo scrittore a tematizzare l'argomento, non mediante racconti o immagini, bensì con l'eloquenza di una riflessione e di un vocabolario propri, con cui provvidenzialmente si fanno emergere i vari aspetti di una ricchezza altrimenti insondabile. 4.3.2 Presenza del Signore alla sua chiesa. La risurrezione di Gesù fonda ed è garanzia del fatto che egli ormai è costantemente presente alla sua comunità, come del resto Paolo stesso ne aveva fatto l'esperienza sulla strada di Damasco. Ci accontentiamo qui di accenni, dato che il tema è talmente centrale che in parte lo abbiamo già incontrato e in parte lo riprenderemo in seguito. Infatti, abbiamo visto sopra come già per la tradizione pre-paolina fosse fondamentale la qualifica di Gesù come Kyrios legata alla sua esaltazione in Fil 2,9-11 (cf. sopra: 3.6). Ma questo titolo non ha soltanto una portata strettamente cristo-logica, poiché, se è vero che esso riconosce a Gesù una dimensione divina, è altrettanto vero ed è importante avere ben presente che esso definisce anche Gesù nei suoi rapporti con il cristiano e con la chiesa. Come vedremo più sotto (cf. 7.2), infatti, il battezzato vive "nel Signore", cioè in un aggancio diretto con il Risorto che è accol-
catena, sia pure il più importante. Piaccia o non piaccia, in questo caso la croce rimane all'ombra della risurrezione e degli eventi salvifici. Allora però la sezione di ICor 1-2 è pura retorica" (E. Kàsemann, ib., p. 77). 171 "La risurrezione non è l'annullamento ma il frutto della morte di maledizione patita sulla croce. Anche la risurrezione dei cristiani non costituisce un nuovo tipo di salvezza che si aggiunga a quella fondata nella morte di Cristo, ma non è altro che il suo dispiegamento; si potrebbe anche dire: La risurrezione non è che la conseguenza della giustificazione in rapporto alla corporeità dell'uomo" (H. Merklein, Die Bedeutung des Kreuzestodes Christifùr die paulinische Gerechtigkeits- und Gesetzesthematik, in Id.., Paulus und Jesus, pp. 1-106 qui 56).
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to e confessato come il punto di riferimento determinante per la sua vita. Le stesse esortazioni morali di Paolo tendono a suggerire ai destinatari come sia possibile "piacere al Signore" (ICor 7,10.32) nella concreta vita quotidiana; addirittura il cristiano vive e muore per lui (cf. Rm 14,8). Ed è frequentissimo in Paolo parlare del "Signore nostro" (in prosecuzione già dell'aramaico Maran: cf. ICor 16,22)172. Con ciò appare all'evidenza, da una parte, che la Signorìa di Gesù si esercita fondamentalmente nel vincolo che lo lega alla sua ekklesia e, dall'altra, che il cristiano sa di dovere tutta la sua identità al rapporto di adesione a lui (cf. ICor 12,3: "Nessuno può dire 'Gesù Signore', se non nello Spirito Santo"). D'altronde è in quanto risorto che Gesù viene invocato (cf. Rm 10,12-13; ICor 1,2) e a lui, sia pur con rare attestazioni, viene anche rivolta la preghiera (cf. 2Cor 12,8) che invece viene normalmente rivolta a Dio173. Soprattutto il linguaggio pneumatologico circa "lo Spirito di Cristo" (Rm 8,9), "del Figlio" (Gal 4,6), "di Gesù Cristo" (Fil 1,19) evidenzia al massimo appunto la presenza attiva del Risorto fin nel cuore del singolo cristiano (cf. anche Rm 5,5), così come l'attribuzione allo Spirito dei vari carismi che fanno la diversità all'interno della comunità (cf. ICor 12,4-11) dice quanto il Risorto sia in stretta connessione con la sua chiesa. 4.3.3 Parusia e intercessione escatologica. La risurrezione di Gesù ha anche degli inevitabili riflessi escatologici. In primo luogo, essa rende possibile la parusia, cioè la venuta pubblica, gloriosa e festosa di Gesù alla fine dei tempi 174 ; la prima lettera ai Tessalonicesi è lo scritto neotestamentario che ne parla di più (cf. 2,19; 3,13; 4,15; 5,23; inoltre ICor 15,23). In secondo luogo, essa anticipa ma anche inaugura la risurrezione generale dei morti; il tema è già presente nella confessione pre-paolina di Rm l,4a ("dalla risurrezio-
172 Si noti che il possessivo "nostro" unito a Signore si trova 12 volte in Rm, 12 volte in ICor, 3 in 2Cor, 1 in Gal, 6 in lTs, mentre fuori di Paolo è presente solo1732 volte in At! Cf. G. Lohfink, Gab es im Gottesdienst der neutestamentlichen Gemeinden eine Anbetung Christi?, BZ 18 (1974) 161-179: la documentazione maggiore si trova fuori di Paolo (cf. soprattutto Mt, Le, Ap) o negli inni (cf. Fil 2; Col 1; lTm 3; Gv 1), e comunque "nel NT la proskynesis davanti al Cristo glorioso in definitiva non è un'adorazione isolata della persona di Cristo, ma adorazione del Dio che si rivela in Cristo" (p. 178). 174 Cf. C. Spicq, Note di lessicografia neotestamentaria, II, pp. 331-333; R. Penna, L'ambiente, pp. 170-172, e soprattutto J. Plevnik, Paul and the Parusia. An Exegetical and Theological Investigation, Hendrickson, Peabody 1997.
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ne dei morti"; cf. voi. I, p. 203) e nell'arcaica qualifica cristologica àpxrrfòs TTJC Cani? (cf. sopra: cap. I, 3.1.1). Ma Paolo sviluppa l'idea definendo esplicitamente il Risorto come "primizia (àrcapxTi) dei dormienti" (ICor 15,20 e 23): Gesù, tutt'altro che un caso isolato, è destinato ad essere soltanto il primo anello di una catena. Così Paolo sottolinea il fatto che con la risurrezione di Gesù Yéschaton è già iniziato e noi viviamo alla "fine dei tempi" (ICor 10,11). In terzo luogo, e soprattutto, la stessa salvezza escatologica è legata al fatto che il Cristo è vivo per poter intercedere in nostro favore nell'ultimo giudizio (cf. Rm 5,9-10; 8,1.34; lTs 1,10; 5,9). Anche nel giudaismo contemporaneo era viva in varie forme la discussione circa la presenza di un intercessore nel giudizio escatologico175. (1) Una corrente affermava fiduciosamente un ruolo del genere, sia pure svolto da personaggi diversi, che avrebbero dato sostegno al defunto davanti al tribunale di Dio. Così in HQMelch 2,6 si legge di Melchisedek che, come in un nuovo giubileo, "proclamerà per loro la liberazione, affrancandoli (dal peso di) tutte le loro iniquità". Soprattutto in Apoc. Sof. 11,1-4 vediamo che i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe pregano per coloro che sono già nei tormenti, da cui quindi si spera che la misericordia di Dio li libererà. Altrettanto in Test. Abr. 14,5-8 Abramo dice a Michele: "Offriamo una preghiera in favore di quest'anima e vediamo se Dio vi presta attenzione. (...) Ed essi offrirono suppliche e preghiere e Dio prestò loro attenzione". Un'intercessione di Mosè è affermata in Test. Mos. 11,17; 12,6. Anche in 2Enoch 64,5 si dice di Enoc: "Il Signore ti ha scelto per porti (come) colui che toglie i nostri peccati", ma con tutta probabilità si tratta di un'idea popolare, che l'autore del libro non condivide. (2) Infatti in 2Enoch 53,1 si fa questa raccomandazione: "Non direte, mieifigli:'Nostro padre è con il Signore e intercederà per noi per il (nostro) peccato'". Allo stesso modo in LAB 33,5 leggiamo: "Finché è in vita, l'uomo può pregare per sé e per i suoi figli, ma dopo la morte non potrà pregare (...) Così non sperate nei vostri padri. Essi non vi serviranno a niente, a meno che cerchiate di rassomigliare a loro". Il più radicale è 4Esd., poiché a una precisa domanda ("Mostrami... se nel giorno del 175 Cf. in generale D.S. Russell, The Method and Message of Jewish Apocalyptic 200 BC-AD 700,Westminster Press, Philadelphia 1964 (trad. ital., Paideia, Brescia 1991), pp. 360-361; R. Le Déaut, Aspects de l'intercession dans le Judaisme ancien, JSJ 1 (1970) 35-57. Vedi anche P. Volz, Die Eschatologie der jtidischen Gemeinde im neutestamentlichen Zeitalter, Georg Olms, Hildesheim 1966 (= Tùbingen 1934), pp. 288-304; P. Sacchi, L'apocalittica giudaica e la sua storia, pp. 152-153.
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giudizio i giusti potranno intercedere per gli empi") si dà una netta risposta: "Il giorno del giudizio è rigoroso (...) Nessuno pregherà per un altro in quel giorno, né uno passerà il suo fardello al suo compagno, perché tutti porteranno ciascuno la sua rettitudine o la sua iniquità (...) Allora, perciò, nessuno potrà avere compassione di colui che sarà stato vinto in giudizio, né sopraffare chi sarà risultato vittorioso" (7,102.104-105; analogamente 2Baruch 85,12: "Non vi sarà più luogo per la penitenza [...] né suppliche per le colpe né invocazioni di padri né preghiera di profeti né aiuto di giusti"). Su questa linea si porrà anche il detto mishnico di R. Eliezer ben Jaqob in PirqéAbot 4,11: "Chi compie un precetto si procura un avvocato (peraqlèt = paràkletos), ma chi commette una trasgressione si procura un accusatore; conversione e buone opere sono uno scudo di fronte al castigo". Secondo Paolo, fa parte essenziale della fede cristiana il fatto che il Cristo risorto assolverà proprio a una decisiva funzione di intercessore escatologico: "Noi attendiamo dai cieli il Figlio suo, che (Dio) risuscitò dai morti, Gesù, il quale ci libera dall'ira ventur a " (lTs 1,10); "la nostra cittadinanza è nei cieli, da cui attendiamo come salvatore il signore Cristo Gesù" (Fil 3,20); "se infatti essendo nemici siamo stati riconciliati con Dio mediante la sua morte, quanto più essendo riconciliati saremo salvati nella sua vita" (Rm 5,10). È anche su questa base che Paolo gioiosamente proclama: "Non c'è più dunque nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù" (Rm 8,1; cf. 8,31-39). La vittoria del Risorto sulla morte si è tramutata nella vittoria del cristiano su ogni tipo di accusatore. È probabilmente a questa luce che si dovranno leggere anche quei testi in cui si parla del "tribunale di Cristo" (2Cor 5,10) e di una sua funzione giudiziale (cf. Rm 2,16; ICor 4,5).
5. La partecipazione del peccatore alla morte (e risurrezione) di Cristo Fa parte integrante della cristologia paolina una tipica concezione dell'impatto antropologico della morte (e risurrezione) di Gesù. Si tratta di un aspetto assolutamente proprio e peculiare della soteriologia, che va evidenziato a parte. È qui infatti che più che mai si deve dar ragione a Melantone, quando afferma che conoscere Cristo significa soprattutto conoscere i suoi benefici. Ciò che è propriamente in ballo nel discorso sulla redenzione è il nesso intercorrente tra la morte di Gesù e il peccatore che ne be-
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neficia gli effetti. A questo proposito è possibile constatare la coesistenza di due concezioni diverse, di cui la prima si fonda su categorie di tipo tradizionale (proprie sia del giudaismo sia del giudeocristianesimo), mentre l'altra rappresenta piuttosto il punto di vista originale di san Paolo. 5.1 Concezione di partenza:
l'assoluzione
Bisogna riconoscere che tanto la categoria del riscatto quanto quella dell'espiazione (cf. sopra), pur essendo fondamentali, rischiano di favorire una interpretazione della morte di Gesù in senso meramente sostitutivo o di soddisfazione vicaria. In tal caso il rapporto Gesù-peccatore viene a configurarsi in senso puramente estrinseco, nel senso che, se Gesù è soltanto morto "al mio posto" o ha "pagato per me", allora a me viene soltanto applicata dall'esterno una dichiarazione di assoluzione, come se mi venisse consegnato un certificato liberatorio175bls. Paolo conosce bene questo tipo di soteriologia, in quanto lo ha ereditato dalla prima chiesa palestinese (cf. ICor 15,3; Rm 3,25). Infatti in Rm 4,7-8 egli ripete con il Salmista: "Beati coloro, le cui iniquità sono state perdonate e i cui peccati sono stati ricoperti; beato l'uomo, il cui peccato il Signore non computa più" (Sai 32/31,1-2). All'origine di questa concezione c'è un paio di dati determinanti che dobbiamo mettere bene in chiaro. Si tratta di due caratteristiche fondamentali della soteriologia propria del giudaismo del Secondo Tempio, che hanno caratterizzato anche la soteriologia del cristianesimo primitivo (e non solo di quello). L'uno riguarda i mezzi considerati validi per la cancellazione dei peccati, e l'altro riguarda il concetto stesso di peccato che vi sta a monte. 5.1.1 / mezzi per la cancellazione dei peccati. Il primo e più importante di essi nel giudaismo del Secondo Tempio consiste nella prassi rituale-liturgica dei sacrifci espiatori, basati perlopiù sul sangue, regolamentati e interpretati dalle prescrizioni levitiche (cf. Lv 4-5 e 16) e compiuti nel Tempio di Gerusalemme176. In questa prospettiva una vittinsbis Qualcosa di analogo si intravede in Col 2,14-15 con l'immagine dell'annullamento del documento del nostro debito, inchiodato da Dio alla croce di Cristo (ma l'immagine è integrata contestualmente da categorie partecipative: cf. 2,12); vedi il capitolo seguente. Vedi anche Is 43,25: "Io, io cancello i tuoi misfatti, per riguardo a me non ricordo più i tuoi peccati". 176 Cf. R. De Vaux, Le Istituzioni dell'Antico Testamento, Marietti, Casale Monferrato 1964, pp. 404-441; J. Maier, Sunne und Vergebung in der judischen
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ma animale muore, se non proprio in sostituzione del trasgressore offerente (cf. sopra: nota 158), certo in favore della sua purificazione (cf. Lv 4,35: "Il sacerdote farà per lui il rito espiatorio per il peccato commesso e gli sarà perdonato"; 5,26: "Il sacerdote farà il rito espiatorio per lui davanti al Signore e gli sarà perdonato, qualunque sia la mancanza di cui si è reso colpevole"; lo stesso vale per il popolo nel suo insieme: cf. 4,20). Altri mezzi previsti sono il pentimento personale del trasgressore e il digiuno. Il primo, che deve comunque accompagnarsi all'offerta di un sacrificio (cf. IRe 8.35.38)177, è inteso fondamentalmente dai profeti secondo la categoria del "ritorno", che viene richiesto come mezzo adeguato per il conseguimento della misericordia divina: "Ritorna, Israele ribelle... Non ti mostrerò la faccia sdegnata perché io sono pietoso, dice il Signore... Ritornate, figli traviati, io risanerò le vostre ribellioni" (Ger 3,12.22); a questo ambito appartiene anche il tema deuteronomistico della "circoncisione del cuore" (cf. Dt 10,16; 30,6; IRe 8,47-48; Ger 4,4; Giub. 1,23). Il digiuno è una prassi piuttosto secondaria, ritenuta però necessaria soprattutto durante il Yòm Kippùr (cf. Lv 16,29; 23,27-32; Nm 29,7; e la semplice denominazione di questo giorno come "il Digiuno" ancora in Filone Al., Spec. leg. 1,186-187: ri vrj
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cita di fare la volontà del Signore (cf. Ger 24,7; Ez 36,26) 179 . Il risultato è solo quello di essere di nuovo considerati puri (o giusti) da parte di Dio 180 . 5.1.2 Alla base di queste concezioni c'è una precisa idea di peccato. Esso è considerato come una trasgressione nei confronti delle singole prescrizioni della Legge in quanto norme stabilite dalla volontà di Dio (cf. Sai 51,6: "Contro di te, contro te solo ho peccato; quello che è male ai tuoi occhi io l'ho fatto"). La loro infrazione, provocando l'ira di Dio, colloca l'uomo in una condizione di colpa e di impurità, che appunto viene eliminata con i mezzi richiamati sopra. Certo nell'Antico Testamento è attestata l'idea di una universale presenza del male (cf. Qo 7,20: "Non c'è sulla terra un uomo così giusto, che faccia solo il bene e non pecchi"), come del resto si rileva anche nella letteratura dell'Antico Vicino Oriente 181 . Ma è assente una vera riflessione sull'origine del male nel mondo. Il racconto del peccato di Adamo in Gn 3 viene inteso in senso più paradigmatico che eziologico182, e comunque a esso non viene collegata l'origine del male (se non nel tardivo Sir 25,24 ma in quanto denigrazione di Eva nel quadro di una contrapposizione, tra la donna malvagia e la donna virtuosa). Quindi il peccato è sostanzialmente sempre un atto personale compiuto liberamente, di cui perciò si è individualmente responsabili 183 (cf. l'immagine del peccato accovacciato alla porta in Gn 4,7). Questa idea in Israele al tempo delle origini cristiane è particolarmente rappresentata dal fariseismo, che non per nulla FI. Giuseppe paragona allo stoicismo (cf. Ant. 18,13; Vita 12). Ed è a questo punto che si può misurare l'originalità della prospettiva Paolina per quanto riguarda il modo di concepire sia il peccato sia il suo superamento. 179
Cf. G. Ravasi, // libro dei Salmi, II, p. 51. 180 y a comunque notato che la terminologia della giustificazione non si trova mai nei testi della Torah che trattano dei sacrifici e della connessa remissione dei peccati; qui si trova piuttosto il lessico della purificazione (xaGaptCttv, xaGapiajjió;, xaGapó?; cf. Lv 16,19.20.30; Es 30,10). Quest'ultimo invece in Paolo di fatto non ricorre mai (cf. solo Rm 14,20 e 2Cor 7,1, dove peraltro né si tratta della remissione dei peccati né si fa alcun cenno a procedimenti rituali, ma è in questione solo una181purezza interiore di tipo generale). Vedi per esempio un testo accadico di incantesimo: "Chi non ha commesso una trasgressione contro il suo dio? Chi mai ha sempre osservato un comandamento? Gli uomini, in quanto vivono, sono perciò stesso sottomessi alla trasgressione" (da M.-J. Sex, Hymnes et prières aux dieux de Baby Ione et d'Assyrie, LAPO 8, Du Cerf, Paris 1976, p. 207). Persino un filosofo romano come Seneca riconosce: "Cominciamo col persuaderci che nessuno di noi è senza colpa... Chi può dichiarare182di non avere mai violato una legge?" (De ira II, 28,1-2). Cf. C. Westermann, Genesis, I, BK 1/1, Neukirchen-Vluyn 1974, p. 377. 183 Giustamente tuttavia J. Maier, Judisches Grundempfinden von Sùnde und Erlòsung in frùhjùdischer Zeit, in H. Frankemòlle, ed., Sùnde und Erlòsung im Neuen Testament, QD 161, Herder, Freiburg i.B. 1996, pp. 53-75, ricorda che il peccatore è sempre parte del popolo eletto e la sua responsabilità va misurata anche nei suoi confronti.
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Con questa concezione delle cose è connesso il tema della fede. È la fede infatti la risposta adeguata e omogenea alla morte sacrificale di Gesù, che vale come definitivo pronunciamento di assoluzione o remissione dei peccati. In questo senso è sintomatico che in Rm 3,25, dove si parla di Gesù come "strumento di espiazione" (iXocaxrjpiov), tra questa qualifica e la specificazione "nel suo sangue" si trovi inserito il complemento "mediante la fede" (Sta xr\q Tzioizox;, sia che esso si debba ritenere un'aggiunta paolina a una formulazione tradizionale oppure no) 184 . Il dato di fondo è che
184 Ovviamente riteniamo che il concetto di fede (analogamente al genitivo m'art? XptaxoG ricorrente sette volte: Rm 3,22.26; Gal 2,16bis; 2,20; 3,22; Fil 3,39) si riferisca all'atteggiamento fiducioso del credente nei confronti di Cristo, e non al comportamento di Cristo in quanto fedele al Padre fino alla morte. Questa seconda opzione esegetica è sostenuta da vari Autori, a partire da G. Howard, On the "Faith ofChrist", Harvard Theological Review 60 (1967) 459-465, fino almeno a B.W. Longenecker, in Romans3.25: NeglectedEvidencefor the "Faithfulness o/Christ"?, NTS 39 (1993) 478-480, che parlano di genitivo soggettivo invece che oggettivo. Contro questa comprensione delle cose, tuttavia, si possono far valere le seguenti ragioni: (1) Il senso oggettivo del sintagma genitivale in questione, anche se non ricorre nei LXX, è però documentato non solo nel NT (cf. Me 11,22; At 3,16; Fil 1,27; Col 2,12; 2Ts 2,13; Gc 2,1; vedi anche l'espressione TI yvwai? XpiaroG 'iTjaoG in Fil 3,8), ma anche nella grecità extrabiblica (cf. la "fede negli dèi", TÙV 0EG>V, in Euripide, Med. 413; Filodemo, Philos. 6,6; cf. Plutarco, Mor. 167e, detto dell'incredulità). (2) Oltre al supposto impiego del sostantivo, l'obbedienza-fedeltà di Cristo a Dio non viene mai qualificata né con il verborciorEueive neanche con l'aggettivo ;u
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siamo "giustificati nel suo sangue" (Rm 5,9). Con la morte di Cristo, infatti, Dio "rivela la sua giustizia nel tempo presente per essere egli giusto e giustificante colui che si basa sulla fede in Gesù" (Rm 3,26). L'atto di fede perciò rappresenta propriamente il " s ì " umile e gioioso del peccatore al gesto misericordioso e assolutorio di Dio in Cristo; con esso il peccatore accoglie nudamente l'intervento divino a lui favorevole e viene così reso giusto davanti a Lui. Si comprende quindi che, come in una immediata successione di dichiarazioni, si legga subito dopo in Rm 3,28: "Riteniamo infatti che l'uomo venga giustificato per fede, senza opere della Legge" (cf. 3,21; Gal 2,16)185.
5.2 Concezione di arrivo: la partecipazione Paolo però va molto oltre il predetto modo di vedere le cose, che pur rappresenta un elemento costitutivo della sua soteriologia. Egli giunge fino a considerare il rapporto Cristo-peccatore in termini di tipo 'mistico'. Questo rapporto si può cogliere in tutta la sua verità, solo se si considera prima il diverso concetto di peccato che vi sta alla radice. 5.2.1 II tipico pensiero paolino sul peccato diverge da quello che abbiamo esposto sopra 186 . L'Apostolo conosce certamente l'idea tradizionale di peccato come violazione di una norma da parte del singolo187. Tuttavia, come appare soprattutto dalla lettera ai Romani, egli si caratterizza per la elaborazione di tre aspetti diversi e complementari, (a) L'universalità. Secondo Paolo, l'umanità in-
>85 Sul tema della fede in Paolo, cf. specialmente W. Mundle, Der Glaubensbegriff des Paulus, Wiss. Buchgesellschaft, Darmstadt 1977 (= Leipzig 1932); A. von Dobbeler, Glaube als Teilhabe, WUNT 2.22, Mohr, Tùbingen 1987; G. Helewa, Obbedire a Cristo Signore: un aspetto primario della fede secondo San Paolo, Teresianum 42 (1991) 381-412. Sulla questione se il sintagma TUOTI? XpioroG-'IriaoG debba essere inteso come un genitivo oggettivo ( = fede in Cristo) o soggettivo ( = fede di Cristo), cf. anche J.-N. Aletti, La lettera ai Romani e la giustizia di Dio, Boria, Roma 1997, pp. 104-108 (= genitivo di qualificazione: "fede nel Dio che ha perdonato in Gesù Cristo"). 186 Vedi soprattutto R. Penna, Apocalittica enochica in s. Paolo: il concetto di peccato, RSB 7 (1995) 61-84; H. Merklein, Paulus und die Sùnde, in H. Frankemòlle, ed., Sùnde und Erlòsung im Neuen Testament, QD 161, Herder, Freiburg i B. 1996, pp. 123-163, e J.D.G. Dunn, The Theology of Paul, pp. 111-127. 187 Cf. il sostantivo al plurale "peccati" in ICor 15,3.17; lTs 2,16; Gal 1,4; Rm 4,7 (= Sai 32,1); 11,27 (= Is 27,9) e il verbo "peccare" (che indica il compiersi di un'azione) per esempio in Rm 2,12; 5,12; ICor 6,18; 8,12.
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tera prima e fuori di Cristo è segnata da un marchio peccaminoso: "Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio" (Rm 3,23; cf. 5,12); a questo livello non c'è alcuna differenza tra il Giudeo e il Greco (cf. 3,9.22; 10,12), poiché tutti hanno trasgredito qualche norma morale: "Non c'è un giusto, neanche u n o " (3,10 = Qo 7,20). (b) La personificazione. Sulle 58 occorrenze del termine "peccato" nelle sue lettere autentiche, Paolo lo impiega ben 51 volte al singolare (àfjuxpTtoc) e ne parla in modo tale da tratteggiarne dei lineamenti personificanti. Del peccato infatti si dice che entra nel mondo (5,12)188, dove regna (5,21; 6,12) e signoreggia (6,14) non solo come un carceriere (Gal 3,22; Rm 3,9; 11,32) ma come un tiranno che rende gli uomini schiavi (6,6.17.20) e venduti a esso (7,14) così da riceverne un salario che è la morte (6,23); è persino paragonato a un inquilino che abita 'a casa mia' privandomi dei miei diritti di proprietario (7,17.20), inganna e uccide (7,11), ma infine è oggetto di una sentenza di condanna (8,3). Nessuno mai prima di Paolo aveva parlato del peccato in questi termini, e se dovessimo cercare una spiegazione di questo linguaggio potremmo trovarla, come vedremo più sotto, soltanto nella figura di Cristo che lo ha detronizzato, (e) L'indipendenza dalla Legge. Ciò che più colpisce per originalità e radicalità nella concezione paolina del peccato è che esso preesiste alla Legge e quindi all'atto della sua trasgressione. Questa caratteristica appare chiaramente dalle seguenti affermazioni: il peccato era nel mondo già prima della Legge (Rm 5,13-14); esso è presente e sonnecchia nell'uomo come morto, ma si risveglia e diventa omicida in base allo stimolo del comandamento (Rm 7,8-10); la concupiscenza è un dato non previo ma conseguente al peccato (Rm 7,8, dove è sintomatica la differenza con Gc 1,14-15); anche la prossimità semantica con il concetto negativo di carne (cf. Rm 8,3: "la carne del peccato") 189 e di morte (cf. Rm 188 Cf. in proposito J.A. Fitzmyer, The Consecutive Meaning o/ècp'a> in Romans 12.8, NTS 39 (1993) 321-339, che al celebre complemento preposizionale attribuisce un significato non causale ("poiché tutti peccarono") né condizionale ("posta la premessa che tutti peccarono"), ma consecutivo ("with the result that ali have sinned"), che tra l'altro, oltre ad essere ben fondato filologicamente, sembra anche più conforme alla tradizionale dottrina del peccato originale. 189 Questa espressione è vicina a quella qumranica sód besar càwel, lett. "sodalizio della carne della malvagità" (trad. C. Martone: "malvagia assemblea di carne"), che in 1QS 11,9 è semplice apposizione di 'àdàm rifràh, "umanità empia", e addirittura di sód rimmàh, ' 'assemblea dei vermi", di cui l'autore riconosce di far parte con le sue colpe, i suoi peccati, le sue ribellioni e con la perversione del suo cuore (1QS 11,9-10; cf. anche 1QM 4,3; 12,11-12). Vedi E. Brandenburger, Fleisch und Geist. Paulus und die dualistische Weisheit, WMANT 29, Neukirchen-Vluyn 1968, pp. 100-101.
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7,24: "chi mi libererà da questo corpo di morte?") 190 ne fa una realtà diffusa e onnicomprensiva; infine la stessa immagine della sua universale tirannia, non applicata invece alla Legge, suggerisce di vedervi un dato antecedente o comunque indipendente da essa. Il peccato dunque non solo etichetta singoli atti di trasgressione, ma contrassegna uno status individuale e collettivo assolutamente anteriore ad essi. Esso caratterizza una situazione, è un fattore di base, che mi condiziona fin là dove "io non voglio" (Rm 7,19-20). Il risultato è che esso provoca e fa sperimentare una sorta di alienazione, che inevitabilmente precede e insieme infirma la responsabilità individuale dei discendenti di Adamo. Se poi volessimo chiederci di dove Paolo possa aver derivato una concezione del genere, non potremmo limitarci né all'Antico Testamento191 né eventualmente alla grecità pagana192. Come abbiamo già ricordato, neanche il racconto del peccato di Adamo era di fatto utilizzato nel giudaismo del Secondo Tempio per spiegare l'origine del male nel mondo. In questo senso, l'unico confronto possibile sarebbe con l'apocrifo Vita di Adamo ed Eva (cf. 44, dove Adamo dice ad Eva: "Hai attirato una grave calamità e peccati su tutta la nostra discendenza") e la parallela Apocalisse di Mosè (cf. 32, dove Eva esclama: "Tutto il peccato che ha coinvolto la creazione è avvenuto per causa mia"), che però sono sostanzialmente contemporanei di Paolo stesso. Ancor più esplicite saranno le apocalissi di fine secolo I, 2Bar. (cf. 56,6: "Quando Adamo trasgredì... la grandezza dell'umanità fu umiliata e la grazia si seccò"; ma in 54,19 si precisa: "Non è Adamo la causa, se non per sé solo. Noi 190 Qui "corpo di morte" è una semplice variazione di "corpo di peccato" (Rm 6,6), mentre il concetto di morte ci riporta alle funeste conseguenze indotte dal peccato (ib. 7,10-11.13). 191 Tutt'al più si possono richiamare alcuni rari testi, che comunque con Gn 3 non hanno nulla a che fare, come Gn 8,21 ("L'istinto del cuore umano è incline al male fin dall'adolescenza"); Gb 4,17 ("Può il mortale essere giusto davanti a Dio o innocente l'uomo davanti al suo creatore?"); Is 6,7 ("Il tuo peccato è espiato"); essi però sull'origine del male non forniscono una spiegazione adeguata. Cf. P. Sacchi, Sacro profano, impuro puro: una categoria ebraica perduta, in Aa.Vv., I segni di Dio. Il Sacro-Santo: valore, ambiguità, contraddizioni, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, pp. 25-53 specie 31-35. 192 I miti di Prometeo e di Pandora evocano soltanto l'origine del dolore e della morte (cf. Esiodo, Op. 42-105); analogo è il mito delle cinque età decrescenti (cf. ib. 106-201). Quanto alla "sciagura primigenia" di cui parla Eschilo in Agam. 1192 (rtpcÓTapxo? &TT|), essa concerne soltanto la famiglia degli Atridi. Più pertinente sembrerebbe il mito orfico della "colpa precedente" che pone tutti gli uomini in stato di punizione, ma esso è essenzialmente riferito alla fatale contrapposizione tra l'anima e il corpo (cf. U. Bianchi, Prometeo, Orfeo, Adamo, pp. 55-70); probabilmente è su questa linea che si deve anche leggere Filone AL, Vit. Mos. 2,147: "il peccare è connaturale" («rufiepuè? xò à^apxàvetv iaxiv, sott. "all'uomo").
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tutti, ognuno di noi è divenuto Adamo per se stesso") e 4Esd. (cf. 7,118: "Cos'hai fatto, Adamo! Se infatti peccasti, la rovina non è stata solo tua, ma anche di tutti noi che siamo discesi da te!"); ma questi scritti sono posteriori all'Apostolo193. Resta soltanto la possibilità di ricorrere alla tradizione apocalittica di tipo enochico, che fa capo al "Libro dei Vigilanti" in lEn. 1-36, certamente anteriore al secolo II a.C.194. Qui si narra di un altro peccato, quello degli angeli (cf. anche Gn 6,1-4) guidati da Azazel e da Semeyaza, che hanno contaminato tutto il creato e l'intera umanità: "Tutta la terra si è corrotta per aver appreso le opere di Azazel ed ascrivi a lui tutto il peccato!" (10,8). Su questa linea si collocano anche Giub. (cf. 5,2) e soprattutto i manoscritti del Mar Morto. A Qumràn infatti è vivissima l'idea del peccato come dato basilare e pervasivo, tanto che l'autore degli Inni esclama: "Io non sono che... un insieme di ignominia e una fonte di impurità, una fornace di iniquità e una struttura di peccato, uno spirito di errore e perverso" (1QH 1,21-22; cf. anche il già citato 1QS 11,9-10). L'operazione di Paolo consistette di fatto nell'applicare al peccato di Adamo le conseguenze disastrose di quello degli angeli. Ciò che è senza paragone nel Medio Giudaismo (a parte i deboli cenni in Apoc. Mos.-Vit. Ad. etEv.) non è tanto il fatto della corruzione universale, che anzi nelPessenismo giunge a sminuire il valore della libertà del singolo195, ma è il fatto che una tale corruzione venga fatta risalire ad Adamo. L'Apostolo privilegia questa figura per motivi cristologici: solo in Adamo infatti egli trova il perfetto antonimo di Cristo, poiché il complesso tematico disobbedienza-peccato-condanna che caratterizza il progenitore corrisponde esattamente al complesso obbedienza-grazia-giustificazione che è connesso con il redentore (cf. Rm 5,12-21). L'uomo dunque secondo Paolo è caratterizzato da un asservimento totale al peccato, che lo signoreggia come una potenza schia193 Cf. J.R. Levison, Portraits o/Adam in Early Judaism. From Sirach to 2 Baruch, JSP Suppl. 1, J S O T , Sheffield 1988, dove si esaminano nell'ordine: Sir, Sap, Filone Al., Giub., FI. Giuseppe, 4Esd., 2Bar., Apoc. Mos.-Vit. Ad. et Ev. 194 c f p Sacchi, // problema del male nella riflessione ebraica dall'VIII sec. a.C. al I d.C, PSV 19 (1989) 9-27; M . C . de Boer, Paul and Jewish Apocalyptic Eschatology, in J. Marcus - M . L . Soards, edd., Apocalyptic and the New Testament. Essays in Honor ofJ.L. Martyn, JSNT Suppl. 24, Sheffield 1989, pp. 169-190; E. Lupieri, Il problema del male e della sua origine nell'apocalittica giudaica, in C. Gianotto, a cura, La domanda di Giobbe e la razionalità sconfitta, " L a b i r i n t i " 11, 195 Dipart. Se. Filol. e Stor. Università degli Studi, Trento 1995, p p . 31-51.
In materia cf. anche la notizia di FI. Giuseppe, Ant. 13,172: "Il fato è signore di ogni cosa e all'uomo non succede nulla che non sia in accordo con il suo decreto".
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vizzante e lo tiene invischiato nella ragnatela della carne come sfera opposta a Dio e al suo Spirito (cf. Rm 8,1-11; Gal 5,16-24). Ciò non significa affatto che l'Apostolo incorra in forme di dualismo radicale, se non altro perché la sua concezione del peccato non è assolutamente inserita in un quadro demonologico; anzi è interessantissimo notare che la sua trattazione in materia prescinde del tutto da prospettive del genere: proprio là dove l'argomento è tematizzato (cf. Rm 1,18 - 3,20; 5,12-21; 6,12 - 7,24) non c'è mai alcuna minima allusione al demonio o a un qualche principio del male esterno all'uomo 196 ! L'unico principio,-che poi è una personificazione e quindi in definitiva lascia l'uomo solo con se stesso, è appunto // Peccato, che in ogni caso è molto di più della semplice somma di tutti i singoli peccati. Come uscire da questa situazione? 5.2.2 La partecipazione a Cristo. Se il peccato è la potenza di cui abbiamo detto, allora non solo nessuno può uscirne con le proprie forze, ma non sono adeguati neppure i tradizionali mezzi né dei sacrifici cultuali né del pentimento o del digiuno o delle opere buone. Infatti, non può valere il criterio dell'assoluzione quando il peccato che mi caratterizza non dipende da me ma è pre-dato, anteriore a ogni mia responsabile trasgressione. Se io vi sono invischiato già "dall'utero di mia madre" 197 , allora per liberarmene non basta che una qualche vittima muoia al mio posto o comunque in mio favore, poiché questa è una logica rituale che vale tradizionalmente solo per i peccati intesi come personali violazioni della Legge. L'importante invece è che anch'io muoia personalmente con la vittima del sacrificio, che cioè io stesso sia coinvolto nell'offerta sacrificale a Dio. Se il peccato mi connota alla radice, è necessario che alla radice io venga sottratto alla sua signoria. Questo scopo non viene ottenuto da una morte che avvenga solo fuori di me; bisogna che io stesso muoia. È necessario quindi un mio coinvolgimento, una mia partecipazione all'evento sacrificale198. Deve in196
Ricordiamo invece a Qumràn il cosiddetto "Trattato sui due Spiriti" in 1QS 3,13 - 4,26, secondo cui l'umanità è deterministicamente suddivisa tra il dominio del Principe delle Luci e quello dell'Angelo delle Tenebre. Sul problema in generale, cf. M. Hengel, Judentum und Hellenismus, pp. 418-442; P . Sacchi, Storia del Secondo Tempio, pp. 302-329; C. Martone, La "Regola della Comunità", pp. 81-88. 197 Così si esprime significativamente un inno di Qumràn: "Egli (l'uomo) è nella colpa fin dall'utero di sua madre e fino alla vecchiaia è nell'iniquità della malizia; e io ho capito che all'uomo non appartiene la giustizia e che al figlio dell'uomo non appartiene la perfezione" (1QH 4,29-31). 198 È interessante osservare che anche a questo livello si dà una analogia con la comunità di Qumràn. Qui a proposito del peccatore si afferma a chiare lettere:
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fatti verificarsi un cambiamento radicale di appartenenza, un trasferimento di proprietà, una sostituzione di signoria199. Paolo lo dice, anche se a proposito della Legge, con l'efficace paragone di una donna sposata: "Finché vive il marito, essa è considerata adultera se passa a un altro uomo; ma se il marito muore, è libera dalla legge. Così, fratelli miei, anche voi siete stati messi a morte mediante il corpo di Cristo perché possiate appartenere a un altro, a colui che è risuscitato dai morti" (Rm 7,3-4; cf. 2Cor 5,15)200. Il testo fondamentale in cui l'Apostolo tratta questo tema è Rm 6,1-11, che vale la pena di riportare almeno in parte: "[3] Forse ignorate che quanti siamo stati battezzati in (et?) Cristo Gesù siamo stati battezzati nella (et?) sua morte? [4] Dunque siamo stati consepolti (ouveTa^fxev) con lui mediante il battesimo nella (et?) morte, affinché come Cristo fu risuscitato dai morti mediante la gloria del Padre, così anche noi camminiamo in novità di vita. [5] Se infatti siamo diventati connaturati (cjófxcpuToi ye-j*óva[xev: sott. "a lui") mediante la condivisione della sua morte (TW ó|j.oi<ó|j.aTi -eoo Gavdc-cou atkou), lo saremo anche della risurrezione. [6] Questo sappiate: il nostro uomo vecchio (ó 7rocXouò<; T)[ACÒV avOpomoi;) è stato concrocifisso (auvecjTaupcóBr)), affinché venisse eliminato (xamp-priGri) il corpo del peccato così che non serviamo più al peccato. (...) [8] E se siamo morti con (à7re0àvo[xev ouv) Cristo, crediamo che anche vivremo con (ouCrjaofxev) lui. (...) [9] Egli, morendo, morì al peccato una volta per sempre (itpàna.%), e vivendo vi-
"Chiunque si rifiuti di entrare nel patto di Dio per procedere nell'ostinazione del suo cuore (...) non sarà giustificato a causa della trasgressione del suo cuore ostinato (...). Non si purificherà grazie alle espiazioni, né sarà purificato dalle acque lustrali, né sarà santificato da mari o fiumi, né sarà purificato da tutta l'acqua delle abluzioni. Impuro, impuro sarà finché rifiuterà i precetti di Dio, senza venire istruito dalla comunità del Suo consiglio. Le vie dell'uomo infatti — cioè le sue colpe — sono espiate per mezzo dello spirito del veritiero consiglio divino affinché possa contemplare la luce della vita; e l'uomo è purificato da tutte le sue colpe per mezzo dello spirito di santità dato alla Comunità grazie alla Sua verità" (1QS 2,25 - 3,9). Ad espiare i peccati, dunque, non soltanto non sono sufficienti le ripetute abluzioni rituali (che a Qumràn equivalevano alle assenti liturgie sacrificali), ma non vale propriamente neanche la mera osservanza della Legge; l'elemento decisivo invece è la partecipazione alla comunità, che non per nulla si definisce come "nuova alleanza" (CD 6,19; 8,21; 19,33-34; 20,12); in più lQpAb 8,3 aggiunge addirittura la "fede nel Maestro di Giustizia". 199 Cf. le belle pagine di E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese, pp. 634-647 (dove si parla apertamente di transfer); inoltre H. Merklein, Paulus und die Sùnde, pp. 150-154, e G. Barth, Il significato della morte di Gesù, pp. 110-123. 200 Si noti che il tema della morte nei due versetti subisce un significativo slittamento di applicazione: prima viene riferito alla persona del marito-legge (-peccato) e poi a quella degli stessi cristiani, come a dire che la morte dell'uno non basta se non c'è anche quella dell'altro.
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ve per Dio. [10] Così anche voi ritenete di essere morti (vexpou?) al peccato e di vivere (Ccòvra?) per Dio in Cristo G e s ù " .
Rileviamo in questo passo alcuni elementi, che sono decisivi per la comprensione dell'argomento in questione201, e li ampliamo accostandoli ad altri testi. Innanzitutto va osservato che in primo piano c'è una catechesi non tanto sul battesimo quanto sulla dimensione salvifica della morte di Cristo 202 . Paolo infatti non fa che applicare al battesimo (e solo qui, poiché l'altro solo passo è Col 2,12-13, probabilmente pseudepigrafico) una terminologia e una concettualità che altrove e ripetutamente gli serve solo per esprimere la sufficienza salvifica della croce di Cristo, come si vede in 2Cor 5,14b ("uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti"); in Gal 2,19 ("sono stato crocifisso con Cristo"); 5,24 ("quelli di Cristo hanno crocifisso la carne"); 6,14 ("mediante la croce del Signore nostro Gesù Cristo, per me il mondo è stato crocifisso e io per il mondo"). Lo si vede anche nella stessa Rm, dove gli accenni alla virtualità soteriologica della morte di Cristo sono numerosi, anche senza alcun accenno al battesimo: "strumento di espiazione nel suo sangue... per la remissione dei peccati passati" (3,25), "giustificati per il suo sangue" (5,9), "per l'opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita" (5,18), "siete stati messi a morte... mediante il corpo di Cristo" (7,4), "è morto ed è tornato in vita per essere signore dei morti e dei vivi" (14,9). Di conseguenza, è probabile che Paolo si agganci, sì, alla tradizione, ma che sia tutta sua l'interpretazione circa l'intima associazione alla morte di Cristo 203 . Il dato tradizionale si intravede nel v. 3a ("quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù"), la cui formulazione abbrevia l'espressione concernente il battesimo "nel no-
201 Oltre ai Commenti, cf. R. Penna, Battesimo e partecipazione alla morte di Cristo in Rm 6,1-11, in Idi., L'apostolo Paolo, pp. 150-170; S. Legasse, Étre baptisé dans la mort du Christ. Étude de Romains 6,1-14, RB 98 (1991) 544-559, e più in generale R.C. Tannehill, Dying and Rising with Christ. A Study in Pauline Theology, ZNT Bh. 32, Tòpelmann, Berlin 1967. 202 Così già pensava Origene, Commento alla lettera ai Romani Vili ( = 1039 D), a cura di F. Cocchini, Marietti, Casale Monferrato 1985, I, p. 281. 203 Cf. S. Legasse, Alle origini del battesimo. Fondamenti biblici del rito cristiano, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, pp. 133-139. Vedi anche il buon quadro sulla fenomenologia del battesimo nel giudaismo e nelle origini cristiane fornito da K. Berger, Theologiegeschichte des Urchristentums, pp. 106-128 (pp. 118-120 su Rm 6).
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me di (= ebr. lesèm, "in conto di") Gesù" (At 2,38; 8,16; 10,48; 19,5; cf. ICor 1,13.15); con essa già si esprimeva un'assegnazione del battezzato alla proprietà e alla signoria di Cristo. Ma la nuova e più breve formulazione paolina "si presta a un significato locale figurato, dando così un senso più intrinseco e meno formale dell'unione tra il battezzato e Cristo. Paolo sottolinea in modo caratteristico che il Cristo, con cui si è stati uniti nel battesimo, non è altri che il Cristo morto in croce" 204 ; ed è appunto questa morte che viene evocata in primo piano (tanto che nei soli vv. 2-11 la si richiama con vari lemmi ben 14 volte)205. Su di essa si innesta e si nutre la nuova vita del cristiano (cf. il paradosso di Rm 6,11: "morti... e viventi"), la quale si dispiega a tre livelli: mistico, per l'unione intima con Cristo (cf. Rm 6,3.5a.llb), morale, per il nuovo comportamento che essa richiede (cf. Rm 6,4b), ed escatologico, perché la risurrezione di cui si parla riguarda il futuro (cf. Rm 6,8). Il fattore essenziale, quello della partecipazione, è doppiamente espresso: lessicalmente con la frequenza delle preposizioni auv, "con" (quattro volte: vv. 4.5.6.8), che appunto esprime l'idea dell'associazione, ed tlq, " i n " (moto a luogo figurato, tre volte: vv. 3bis.4), che esprime l'idea di una introduzione e anzi di una immersione in Cristo e nella sua morte; e poi concettualmente soprattutto con i verbi "consepolti, connaturati, concrocifisso" e con il sostantivo "condivisione". Tra questi evidenziamo in particolare la frase aufjt4>oTot yeyóvafxev, "siamo diventati congeniti, connaturali" (v. 5), che più di ogni altra espressione evoca il dato di una fusione intima tra due soggetti omogenei206. Essa sottintende il complemento pronominale " a lui, con lui" (come nel v. 4), così che il complemento seguente "per la condivisione della sua morte" va inteso come un dativo non sociativo ma strumentale 207 . In più va osserva204
A.J.M. Wedderburn, Baptism and Resurrection, p. 60. Analogamente Paolo sul dato del battesimo "in Cristo" innesta altrove la metafora del rivestimento di Cristo come un nuovo abito avvolgente e distintivo (cf. Gal 3,27; Rm 13,14; ripresa poi in Col 3,10; Ef 4,24). 206 Vedi per esempio, per analogia, come si esprime Aristotele: "Gli amanti per il loro fortissimo amore desiderano fondersi in un'unica natura (oufKptkaOat) e diventare di due una sola persona" (Po/. 2,4,6, 1262 b 13: riporto di una sentenza di Aristofane). Cf. C. Spicq, Note di lessicografia, II, pp. 605-608. 207 Ciò significa che la frase "siamo diventati connaturati" non si collega direttamente con l'idea di ocotona, quasi che si alludesse a una somiglianza tra la morte di Cristo e il rito dell'immersione battesimale (così si interpreta a partire dalla fine del secolo IV con le Costituzioni Apostoliche 3,17,3: "L'immersione significa il morire insieme, l'emersione il risorgere insieme"). Questa esclusione si fonda non solo sulla non pertinenza della presunta somiglianza, dato che né Cristo morì per an205
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to che l'uso del perfetto greco dice che la connaturalità in questione ebbe, sì, un inizio nel passato ( = la morte di Gesù e il nostro battesimo), ma poi non venne mai revocata e quindi tuttora perdura sempre funzionante come caratteristica di base che definisce il cristiano. La profondità e l'oggettività del discorso paolino risulta dal fatto che l'Apostolo intende sottolineare nel battezzato una qualità stabile tale da connotare una nuova ontologia del cristiano. Ciò viene confermato da vari motivi. Una prima osservazione, di carattere negativo, consiste nel rilevare un'assenza: in Rm 6,1-11 manca vistosamente il tema della fede e quello parallelo della giustificazione, che riguardano la soggettività del credente208. Soprattutto però occorre richiamare in questo ambito il tema parallelo, e oggettivo, della "nuova creatura" (xoctvf) xxfeis)209. È significativo che entrambe le sue occorrenze (2Cor 5,17: "Se qualcuno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate, ecco, altre nuove sono sorte"; Gal 6,15: "Non la circoncisione né il prepuzio contano qualcosa, ma la nuova creatura") si trovino immediatamente collegate nel contesto con il tema della morte di Cristo (cf. 2Cor 5,14b-15: "Uno solo morì per tutti, dunque tutti sono morti; e morì per tutti, affinché coloro che vivono non vivano più per se stessi..."; Gal 6,14: " A me non avvenga di gloriarmi se non nella croce del Signore nostro Gesù Cristo..."). Si può discutere sul valore attivo o passivo di xxtai? ("creazione" o "creatura"); l'importante è che comunque con questo termine viene evocato un innegamento né il battesimo del cristiano avviene per crocifissione, ma soprattutto sul significato filologico del sostantivo ó{iouona, che in base al suo uso nei LXX si tradurrebbe meglio con "affinità (ontologica), condivisione, partecipazione" (cf. U. Vanni, '0(xoiw(jia in Paolo, che alle pp. 445-454 intende il battesimo stesso come "espressione percettibile" della morte in Cristo). Perciò, la sepoltura di cui si parla al v. 4 ha tutt'al più un valore metaforico, ma non simbolico (cf. L. Àlvarez Verdes, El imperativo cristiano en San Pablo. La tensión indicativo-imperativo en Rm 6. Analisis estructural, Institución San Jerónimo, Valencia 1980, p. 167). 208 La frase presente in 6,7 ("Chi è morto è ormai libero [BtBixaiwxai] dal peccato") viene perlopiù ritenuta dai commentatori come una sorta di proverbio generale (cf. Sifr. Nm. 112 su Nm 15,31: "Chiunque muore ottiene l'espiazione mediante la morte"), quindi non specificamente cristiana né paolina (cf. H. Schlier, U. Wilckens, W. Schmithals, J.D.G. Dunn, B. Byrne). Essa comunque rappresenta un aggancio fra il tema della partecipazione e quello dell'assoluzione. 209 Cf. B. Rey, Créés dans le Christ Jesus. La création nouvelle selon saint Paul, LD 42, Du Cerf, Paris 1966; P. Stuhlmacher, Erwàgungen zum ontologischen Charakter der xaivri x-ciai<; bei Paulus, ET 27 (1967) 1-35; U. Meli, Neue Schòpfung. Eine traditionsgeschichtliche und exegetische Studie zu einem soteriologischen Grundsatz paulinischer Theologie, ATANT 47, De Gruyter, Berlin-New York 1989.
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ter vento divino che cambia le cose alla radice. L'idea è presente in testi giudaici di varia provenienza, dove però l'idea riguarda soltanto il futuro rinnovamento escatologico210. Dove invece si tratta della conversione di un proselito211, essa di fatto non viene interpretata come un'anticipazione escatologica. Eppure è proprio questo che Paolo vuole dire: chi è unito a Cristo già realizza in sé la novità dell'éschatonl Si comprende così tutto il valore dell'espressione èv Xpiotcò, "in Cristo" (almeno 40 volte nelle lettere autentiche: cf. Rm 6,11; ÌCor 4,15; 2Cor 5,17; Gal 3,28; Fil 3,14; lTs 5,18; Fm 9)212. Essa è esclusiva dell'apostolo Paolo e diventa sotto la sua penna una formula standard per significare ciò che è tipico dell'identità e della vita cristiana, il fatto cioè che Cristo ne è l'origine, lo strumento, il connettivo, l'atmosfera. Ad essa corrispondono altre espressioni equivalenti: "essere di Cristo" (Rm 8,9; ÌCor 6,15; 2Cor 10,7; Gal 5,24), "nel Signore" (ÌCor 7,39; Fil 4,1.2), e soprattutto la formulazione inversa "Cristo in me, in voi" (2Cor 13,3.5; Gal 2,20; 4,19). Quest'ultima in particolare, per così dire, chiude il cerchio vitale che viene a stabilirsi tra Cristo e il cristiano: si evidenzia così la loro mutua compenetrazione, che, pur con le debite precisazioni, non è improprio definire di tipo mistico213. Sicché il cristiano o è un mistico o non è214. 210 Cf. Is 43,18-19; 65,17; 66,22 ("i nuovi cieli e la nuova terra che io farò"); e poi Giub. 4,26; lEn. 72,1; 1QH 13,11-12; e infine 4Esd. 7,75; 2Bar. 32,6; 44,12; 57,2. 211 Cf. Gius, e As. 15,4 ("Ecco, a partire da oggi sarai rinnovata e riplasmata e rivivificata [àvaxatvi<j9T)(rr) xaì àva7iXaa0r|aT) xat àva£coorcoiT]()T|(y7]])"; ma l'intento è solo quello di dire che con la conversione al giudaismo ci si innalza a persone di prima categoria (cf. U. Meli, Neue Schòpfung, pp. 226-249). Nel rabbinismo si trova addirittura l'espressione beriyyàh hadàsah, "una creatura nuova" (cf. Ber. R. 39,14 su Gn 12,5: "Chi avvicina un pagano e lo converte, è come se lo avesse creato"), ma da una parte essa ricorre in testi non anteriori al secolo IV, dall'altra si tratta solo di un paragone, e soprattutto l'espressione non ha alcuna valenza escatologica (cf. U. Meli, Neue Schòpfung, pp. 182-185). 212 Cf. R. Penna, Lo Spirito di Cristo, pp. 248-257; L. Klehn, Die Verwendung von èv Xpiarcò, bei Paulus. Erwàgungen zu den Wandlungen in der paulinischen Theologie, Biblische Notizen 74 (1994) 66-79; M. RiSkovà, "Jetzt gibt es keine Verurteilung mehrfùr die, welche in Christus sind". Eine bibeltheologische undfundamentalethische Untersuchung zum paulinischen en Christo-Gebrauch, EOS, St. Ottilien 1994. Per le sue connessioni con il concetto di nuova creatura, cf. le buone pagine di M.E. Thrall, / / Cor., pp. 425-429. 213 Oltre a R. Penna, Problemi e natura della misticapaolina, in Id., L'apostolo Paolo, pp. 630-673, vedi anche J.D.G. Dunn, The Theology ofPaul, pp. 390-412. Per una derivazione di questa prospettiva dal giudaismo ellenistico (mediata dalla diffusa concezione antica della possibile presa di possesso di un uomo da parte di una divinità), espresso soprattutto da Filone Alessandrino, cf. G. Sellin, Die religionsgeschichtlichen Hintergrunde der paulinischen "Christusmystik", TQ 176(1996) 8-27 specie 15-18. 214 Sul celebre passo di Gal 2,20 ("Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me"), oltre ai Commenti, cf. E. Farahian, Le "je"paulinien. Étudepour mieux
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Un ultimo concetto paolino rientra in questa semantica e, pur definendo la nuova antropologia del cristiano, in realtà si spiega solo in base alla cristologia: è il concetto di "adozione filiale" (utoGeata: Rm 8,15.23; Gal 4,5; e poi solo Ef 1,5)215. Pur essendo il termine assente dal greco dei LXX e pur essendo ignorato l'istituto giuridico in Israele, è qui che si trovano i suoi precedenti, dato che in Grecia l'adozione è conosciuta ma non nel senso religioso traslato. Come Israele afferma la propria filiazione nei confronti di Dio in quanto espressione della sua grazia (cf. Es 4,22; Dt 33,6; Os 11,1; Is 1,2; 63,16; Paolo stesso gliela riconosce in Rm 9,4), così ora è per i cristiani. L'idea esplicita di adozione (che nei testi dell'AT è solo implicita) comporta due nozioni importanti e complementari: da una parte, si evidenzia tutta l'iniziativa e la libertà di un atto divino, che non si fonda su alcun diritto dell'adottato, e, dall'altra, si esprime il carattere soltanto indiretto della filiazione ottenuta. Figlio di Dio a titolo pieno, infatti, è solo Gesù (cf. più avanti), sicché ancora una volta viene a trovarsi in primo piano il fatto della partecipazione. È lo Spirito (di Dio e insieme di Cristo) che lega entrambi in un vincolo comune, come significativamente si deduce dal fatto che di esso si parla proprio nei testi che affermano l'adozione a figli (Rm 8,9-15; Gal 4,5-6). Una questione a parte è quella che riguarda le possibili analogie, se non addirittura i condizionamenti culturali, della concezione paolina circa la partecipazione alla morte e alla vita di Cristo. Si può scartare tutta una serie di proposte, che potremmo variamente denominare così216: la misterica (per la mancanza della terminologia basata sulla preposizione syn); la politica (nel senso di un'affermata unità tra i sudditi e il loro sovrano, almeno perché non si parla della loro unione alla sua morte); la gesuana (concernente il tema sinottico della sequela, che però storicamente non portò affatto i discepoli a morire con Gesù e comunque è ignorato da Paolo); la escatologica (come se l'unione a Cristo nel battesimo derivasse dall'idea dell'associazione a lui nella parusìa, mentre invece l'unione è già anticipata alla sua morte); l'adamica (come se Paolo presupponesse per contrasto il rapporto Adamo-Cristo di Rm 5,12-21, mentre egli parla già di una concrocifissione con Cristo
comprendre Gal. 2,19-21, Anal. Greg. 253, PUG, Roma 1988, pp. 233-282, anche se l'A. maggiora la portata autobiografica dell'"io" in questo passo. 215 Cf. T.J. Burke, The Characteristics of Paul's Adoptive-Sonship (Huiothesia) Motif, Irish Biblical Studies 17 (1995) 62-74, che ne sottolinea la dimensione escatologica. 216 Cf. A.J.M. Wedderburn, Baptism and Resurrection, pp. 342-356.
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in Gal 2,19; 6,14 dove Adamo è del tutto assente); e quella sociologica (o della personalità corporativa, con il richiamo di Abramo, "nel quale" i discendenti sono benedetti: cf. Gal 3,8-9; ma, stante l'analogia della solidarietà e della rappresentatività, i termini con cui Paolo parla del rapporto di Cristo con i peccatori è di ben altro genere, per quanto riguarda sia la loro morte sia la loro vita in lui). Da parte nostra abbiamo anche già escluso qualsiasi riferimento alle liturgie sacrificali del Tempio di Gerusalemme, le quali non comportano alcun tipo di comunione con il dio d'Israele, Yhwh (cf. sopra). Il Wedderburn da parte sua 217 propone di rifarsi alla tradizione giudaica della Pasqua, così com'è testimoniata in m.Pes. 10,5: "In ogni generazione ciascuno deve considerarsi come se egli stesso fosse uscito dall'Egitto...", a cui la Haggadàh aggiunge: "Non solo i nostri padri il Santo liberò, ma anche noi liberò insieme con loro (cimmahem); perciò è nostro dovere ringraziare, lodare, celebrare, glorificare, esaltare, magnificare colui che fece per i nostri padri e per noi questi prodigi: ci trasse dalla schiavitù alla libertà, dalla soggezione alla redenzione, dal dolore alla gioia, dal lutto alla festa, dalle tenebre a una fulgida luce". Per quanto suggestivo possa essere questo richiamo, va osservato che Paolo differisce dalla tradizione rabbinica, i cui testi sono comunque posteriori, in due punti tutt'altro che secondari: l'uno è che egli non si riferisce a un evento politico-religioso come l'esodo ma a una morte profana sia pur interpretata in senso sacrificale; l'altro è che la partecipazione in oggetto riguarda l'adesione a un singolo, Cristo, e non a un gruppo di 'padri' (per cui la dimensione collettiva concerne semmai solo i 'discendenti' ma non il termine della partecipazione). Perciò, data per scontata l'originalità paolina di fondo 218 , un qualche collegamento con i culti misterici ellenistici non è da escludere del tutto, almeno come remota precomprensione di Paolo 219 . Quattro ele217 Cf. A.J.M. Wedderburn, Baptism and Resurrection, pp. 343-345; vedi anche Id., The Soteriology o/the Mysteries and Pauline Baptismal Theology, NT 29 (1987) 53-72. 218 In questo senso, una stretta analogia con i misteri non è possibile per almeno due motivi che contrastano fortemente con essi: il primo è che la morte di Cristo, e quella associata del cristiano, riguarda il peccato (il termine in Rm 6,1-11 ricorre sette volte ed è centrale in tutto l'evento a cui si riferisce), e il secondo è che questa morte, tutt'altro che ripetersi, è avvenuta una volta sola (èipdmai-: 6,10). Entrambi, a diverso titolo, sono del tutto estranei ai culti misterici. Cf. G. Wagner, Pauline Baptism and the Pagan Mysteries. The Problem of the Pauline Doctrine of Baptism in Romans VI.1-11, in the Light of its Religio-Historical "Parallels", Oliver & Boyd, Edinburgh-London 1967 (orig. ted., Zurich 1962). 219 A questo proposito, vedi le ottime pagine di W. Burkert, Antichi culti misterici, pp. 119-134. Piuttosto restio si presenta S. Legasse, Paul et les mystères, in J. Schlosser, ed., Paul de Torse, LD 165, Cerf, Paris 1996, pp. 223-241, che però non considera i testi avanzati da Burkert. Assolutamente superficiali e improprie si presentano invece le affermazioni massimaliste di H. Maccoby, Paul and Hellenism, SCM, London 1991, pp. 54-89.
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menti comparatistici lo suggeriscono. (1) Un frammento di Aristotele afferma che nello stadio finale dei misteri non c'è più un apprendimento (jiaGeiv) ma un'esperienza (TOX0£IV), che ridefinisce l'intera persona dell'iniziato (8ta-ce6f)vai); in questo senso un retore testimonia questa sensazione da parte dell'iniziato a Eleusi: "Uscii dalla sala dei misteri sentendomi straniero a me stesso" (Sopatro, in Rhet. Gr. Vili, 114s). (2) Una lamina aurea da Turi dei secoli IV-III a.C. reca queste parole: "Sii felice di aver patito i patimenti che non hai patito prima" (cf. O. Kern, Orphicorum fragmenta, Berlin 1922, 32s); "sfuggii al cerchio, che dà pesante dolore,... e mi immersi nel grembo della signora, regina sotterranea" (Orfici, Frammenti, scelta di G. Arrighetti, Boringhieri, Torino 1968, n. 36). (3) Dei misteri di Iside si legge che "fanno rinascere... nella forma di una morte volontaria e di una salvezza ottenuta pregando" (Apuleio, Metamorf. 11,21,1). (4) Infine, ricordiamo appena le posteriori attestazioni circa il bagno di sangue nel taurobolium del culto di Mitra e il conseguente appellativo di renatus per l'iniziato 220 .
5.3
Conclusione
Diciamo solo u n a parola sulla vexata quaestio del r a p p o r t o tra la concezione giuridica e quella mistica della redenzione secondo il pensiero di P a o l o , che noi a b b i a m o etichettato come "assoluz i o n e " e " p a r t e c i p a z i o n e " . La prima linea costituisce la posizione classica del protestantesimo (da Lutero fino agli anni recenti), mentre la seconda ne rappresenta storicamente una contestazione (di cui ricordiamo almeno A . Schweitzer ed E . P . Sanders) 2 2 1 . U n a loro contrapposizione non è onestamente sostenibile. La esclude un testo come Fil 3,9-11 dove Paolo esprime il desiderio di "[9] essere trovato in lui (Cristo), non con una mia giustizia (&V xatoouvri) derivante dalla Legge ma con quella che è mediata dalla fede (Sia -crjc 7tiaxeco<;), la giustizia che viene da Dio basata sulla fede, [10] per conoscere ( = sperimentare) lui e la potenza della sua risurrezione e la comunione (xoivcovtoc) dei suoi patimenti, conformandomi (ou^xu,op
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Come si vede, i concetti di giustizia e di fede, da una parte, e quelli di comunione e conformazione, dall'altra, si fondono perfettamente insieme. I primi costituiscono la premessa di ciò che gli altri esprimono in pienezza222. Anzi, i due aspetti si richiamano a vicenda a gran voce. Non è possibile partecipare alla morte di Cristo, senza che i peccati vengano perdonati e quindi senza la fede nella grazia di Dio. D'altronde, data l'incombenza oppressiva del peccato come potenza, non è sufficiente venire assolti, se ciò non comportasse anche un trapasso di signoria con una piena partecipazione al destino stesso di Cristo. È vero, dunque, che "ora non c'è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù" (Rm 8,1): assoluzione e vita in Cristo vanno di pari passo per costituire insieme la libertà radicale e la piena realizzazione del cristiano223. 6. Cristo e la Legge Un capitolo peculiare della cristologia paolina è dato dal rapporto che l'Apostolo stabilisce fra queste due grandezze. Nessun altro scrittore delle origini cristiane tematizza tanto l'argomento224, poiché nessun altro percepisce così acutamente il problema che un tale rapporto suscita. Qui più che mai si coglie la diastasi tra paolinismo e giudeo-cristianesimo. E Paolo vi insiste ampiamente, soprattutto nelle due grandi lettere ai Galati e ai Romani. Una importante osservazione preliminare è che la Legge non si può porre semplicemente sul piano delle varie entità detronizzate da Cristo, come sono il peccato, la carne, la morte, o le potenze 222 Non si può quindi sostenere che "la soteriologia del passo (esser trovati in Cristo, soffrire e morire con lui, raggiungere la risurrezione) avrebbe potuto essere scritta senza che comparisse affatto il termine 'giustizia' " (E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese, p. 691). Piuttosto, come fa notare il commento di P.T. O'Brien, anche se la menzione della "giustizia" fosse dovuta soltanto a intenzioni polemiche nei confronti di giudei o giudeo-cristiani, ciò non si spiegherebbe se in qualche modo il concetto non costituisse un motivo-chiave della teologia paolina (Phil., p. 416). Lo stesso Sanders, tuttavia, in seguito precisò le cose fino a scrivere che " 'essere giustificati per fede' e 'essere in Cristo' indicano la stessa realtà, mentre le categorie di 'partecipazione' servono a definire quelle 'giuridiche' " (Paolo, la legge e il popolo giudaico, p. 24 nota 15). 223 Opportunamente V. Koperski, The Knowledge of Christ, pp. 225-226, combina insieme i due aspetti parlando di "participatory character of righteousness", e al testo di FU 3,7-11 associa quelli di 2Cor 5,21; ICor 1,30; 6,11; Gal 2,17.1921;224 3,25-29; Rm 8,9-10, tutti uniti dal primato della prospettiva cristologica. Neanche Gesù l'aveva fatto: cf. voi. I, pp. 74-86.
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cosmiche. Questi infatti sono dati universali, che riguardano trasversalmente l'umanità intera e che comunque sono negativamente considerati come un male da tutti i popoli, compreso Israele. La Legge invece è un dato religioso-culturale di prim'ordine e ben preciso, nel quale si riconosce positivamente la tradizione di un intero popolo, quello giudaico. Va infatti precisato che ó vó[xo?, "la legge", di cui parla Paolo è fondamentalmente quella mosaica, non un vago e generale principio legalistico di autoaffermazione225. Perciò, trattare del rapporto Cristo-Legge significa inevitabilmente trattare del rapporto Cristo-Israele; il discorso allora si fa subito storico. Va tuttavia precisato bene il tema di questo capitolo. Qui non è in gioco l'intero problema del rapporto tra Paolo e la Legge, che richiederebbe un ben diverso spazio226. Ciò che c'interessa invece è di stabilire quale nesso intercorra per Paolo tra la figura di Cristo e le sue tesi negative circa la Legge. Cominciamo quindi di qui227. 225 Questa seconda interpretazione, di marca luterana e sostenuta ancora dalla scuola bultmanniana, si può dire oggi abbandonata soprattutto per merito degli studi di E.P. Sanders. Il riferimento a Israele è ben stabilito da M. Winger, By What Law? TheMeaning o/Nó(xo? in the Letters ofPaul, SBL DS 128, Scholars, Atlanta 1992. Tuttavia, un più generale riferimento alle "opere" come espressione di un tentativo di salvezza non solo di tipo giudaico è presupposto nelle deuteropaoline Ef e Pastorali e può avere degli agganci anche nel Paolo storico, come sostiene I.H. Marshall, Salvation, Grace and Works in the La ter Writings in the Pauline Corpus,226NTS 42 (1996) 339-358. Quanto alla bibliografia degli ultimi vent'anni, cf. soprattutto E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese (cit.); Id., Paolo, la legge e il popolo giudaico, SB 86, Paideia, Brescia 1989 (orig. ingl., Philadelphia 1983); H. Hubner, Das Gesetz bei Paulus. Ein Beitrag zum Werden der paulinischen Theologie, FRLANT 119, Vandenhoeck, Gòttingen 1977, 31982 (trad. hai., SB 109, Paideia, Brescia 1995); H. Ràisànen, Paul and the Law, WUNT 29, Mohr, Tùbingen 1983; S. Westerholm, Israel's Law and the Church 's Faith. Paul and His Recent Interpreters, Eerdmans, Grand Rapids 1988 (con esame di altri tredici Autori); B.L. Martin, Christ and the Law in Paul, NT Suppl. 62, Brill, Leiden 1989; R. Penna, Il problema della Legge nelle lettere di San Paolo, in Id., L'apostolo Paolo, pp. 496-518; T.R. Schreiner, The Law and Its Fulfillment. A Pauline Theology of Law, Baker, Grand Rapids 1993; F. Thielman, Paul & the Law. A Contextual Approach, InterVarsity, Downers Grove 1994. Vedi anche E.J. Christiansen, The Covenant in Judaism and Paul. A Study of RitualBoundaries asIdentity Markers, AGAJU 27, Brill, Leiden 1995. Resta comunque vero che "la concezione paolina della Legge è il capitolo più complicato della sua teologia" (H.J. Schoeps, Paulus. Die Theologie des Apostels im Lichte der jùdischen Religionsgeschichte [Mohr, Tùbingen 1959], Wiss. Buchgesellsch., Darmstadt 1972, p. 174). 227 Diamo per scontato ciò che andrebbe premesso a tutto il discorso, cioè il valore enorme che la Legge aveva per il giudaismo del Secondo Tempio come incorporazione dell'assoluta volontà di Dio (Paolo stesso riconosce che per il giudeo "in essa prende forma la conoscenza e la verità": Rm 2,20). Cf. M. Limbeck, Die
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6.1 // giudizio negativo sulla Legge
6.2 La motivazione cristologica
A più riprese l'Apostolo si esprime sulla Legge in termini pesanti, che sarebbero comunque impensabili sotto la penna di qualunque altro ebreo228. Essa è variamente definita come potenza del peccato (ICor 15,56), causa di maledizione invece che di giustificazione (Gal 3,10-13.21s), pedagogo nel senso deteriore di tiranno e carceriere (Gal 3,23-25; 4,1-5), occasione per conoscere e commettere il peccato (Rm 3,20; 5,13.20; 7,7-11.13), quindi stimolo dell'ira di Dio (Rm 4,15); addirittura in Gal 3,19 se ne mette in questione l'origine divina. Quanto ai giudizi più positivi che si possono leggere in Rm 7,12.14.16 ("la legge è santa..., spirituale..., e buona"), mi pare che si debbano spiegare retoricamente come una mera concessione all'avversario229. In più, Paolo riduce tutta la Legge al solo comandamento dell'amore, anche se non fa neanche parte del Decalogo (cf. Lv 19,18 citato in Gal 5,14; Rm 13,8-10). Inoltre, quando deve richiamare i suoi destinatari a compiere la volontà di Dio, egli non li invita a cercarla nella Torah ma semplicemente a discernere, al di fuori di ogni codice scritto, "ciò che è buono, a lui gradito e perfetto" (Rm 12,2; cf. Fil 1,9-11)230.
Per spiegare come l'Apostolo sia pervenuto a sostenere queste inaudite posizioni, si è fatto ricorso ad alcuni motivi231. Uno, privilegiato in passato, consisterebbe in una amara esperienza personale dello stesso Paolo, che con la conversione si sarebbe finalmente liberato di un dramma interiore derivante dall'impossibilità di osservare la Legge. Questa interpretazione psicologizzante si basa su di una lettura autobiografica di Rm 7,7-25, che però oggi è sostanzialmente abbandonata232, anche perché nel passo sicuramente autobiografico di Fil 3,6 egli dichiara apertamente di essere stato "irreprensibile" nella sua osservanza. Un'altra spiegazione, di tipo sociologico, sostiene che Paolo deluso per i suoi insuccessi come missionario tra i Giudei passò a fondare delle comunità di Gentili, nelle quali la Legge di fatto non aveva più alcun valore233. Ma, oltre al fatto che le lettere non tradiscono alcun senso di delusione in Paolo, bisogna ricordare che egli attribuisce a Israele una funzione storico-salvifica fortemente positiva (cf. Rm 9-11). Se invece partiamo da due passi sicuramente autobiografici, vediamo che le cose stanno diversamente. In Gal 1,15-16 l'Apostolo ricorda l'evento decisivo della strada di Damasco e ne individua doppiamente il significato nella rivelazione di Gesù come Figlio di Dio e nella missione di annunciarlo tra le genti; ma nulla è detto della Legge, che viene dimenticata proprio nel momento in cui egli trapassa da un atteggiamento di persecutore zelante nelle tradizioni dei padri a un'adesione incrollabile al Cristo. In Fil 3,7-11, invece, dove viene interpretato il senso esistenziale del medesimo trapasso, la Legge viene menzionata, ma per dire paradossalmente che essa prima era per Paolo "un guadagno" (xépSTj), mentre poi divenne "una perdita" (C*ipuoc); anzi, con accenti emotivi che tradiscono l'incisività dell'esperienza vissuta, egli confessa: "Tutto or-
Ordnung des Heils. Untersuchungen zum Gesetzesverstàndnis des Fruhjudentums, Patmos, Dusseldorf 1971; E.P. Sanders, Jewish Lawfrom Jesus to the Mishnah, SCM, London 1990. Sui suoi rapporti con la Sapienza, cf. E.J. Schnabel, Law and Wisdomfrom Ben Siro to Paul, WUNT 2.16, Mohr, Tùbingen 1985 (che identifica le due realtà come entrambe preesistenti); G. Boccaccini, The Preexistence of the Torah: A Commonplace in Second Tempie Judaism, or a Later Rabbinic Development?, Henoch 17 (1995) 329-350 (che considera la loro identificazione in Sir 24 come puramente funzionale sul piano storico, mentre di preesistenza della Torah si parla solo nel rabbinismo a partire dal TgN su Gn 3,24). 228 L'unico confronto potrebbe farsi con le parole violente pronunciate da Zimri (ucciso poi da Pincas) nel deserto dell'esodo secondo FI. Giuseppe, Ant. 4,145-149 (con riferimento al racconto di Nm 25): "Osservale tu, o Mosè, queste leggi che sei stato impaziente di emanare,... per procurare a noi l'inganno e a te il comando con il pretesto di leggi addirittura di Dio, sottraendoci la dolcezza della vita e la decisione personale...". 229 Cf. R. Penna, Legge e libertà nel pensiero di S. Paolo, in J. Lambrecht, ed., The Truth of the Gospel (Galatians 1:1-4:11), Monogr. Ser. "Benedictina", Bibl.Ecum. Sect. 12, St. Paul's Abbey, Rome 1993, pp. 249-276 qui 253. Per una valutazione più positiva, ma a mio parere difficilmente difendibile, cf. J.M. Diaz-Rodelas, Pablo y la ley. La novedad de Rm 7,7-8,4 en el conjunto de la reflexión paulina sobre la ley, Verbo Divino, Estella 1994. 230 Discutibile è la posizione di K. Finsterbusch, Die Thora als Lebensweisung fùr Heidenchristen. Studien zur Bedeutung der Thora fiir die paulinische Ethik, SUNT 20, Vandenhoeck, Gòttingen 1996, secondo cui la Legge sarebbe stata data anche per le nazioni: occorre infatti rilevare che i testi addotti da LAB 11,1 ("Darò la luce al mondo,... stabilirò la mia alleanza con i figli degli uomini") e da 2Bar. 48,40 ("Ciascuno degli abitanti della terra sapeva, quando commetteva scelleratez-
ze") non vanno maggiorati, dato che in entrambi i casi l'affermazione viene limitata in funzione di Israele (cf. LAB 11,1 : "... e glorificherò il mio popolo più di tutte le nazioni"; 2Bar. 48,40: "... e non conobbero la mia legge per il loro orgoglio"). 231 Accenniamo appena che non basta richiamarsi né al Gesù terreno (che Paolo non cita mai per fondare le sue tesi) né al caso-Stefano (che riguarda soprattutto il valore del Tempio). 232 II punto di svolta è segnato da W.G. Kummel, Ròmer 7 und die Bekehrung des Paulus, "Untersuchungen zum Neuen Testament" 17, Hinrichs, Leipzig 1929. 233 Cf. F. Watson, Paul, Judaism and the Gentiles. A Sociologica! Approach, SNTS MS 56, University Press, Cambridge 1986 (recensione critica di W.S. Campbell, in ScottJournTheol Al [1989] 457-467).
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mai reputo una perdita a motivo della sovraeminente conoscenza di Cristo Gesù mio signore, a causa del quale tutto è andato in perdita e ritengo spazzatura, per guadagnare lui ed essere trovato in lui, non avendo come mia giustizia quella che viene dalla Legge ma quella che è mediata dalla fede in Cristo"234. Come si vede, punto di partenza per la svolta della sua vita non è né una riflessione sui limiti della Legge e la sua insopportabilità né un ripiegamento su di sé e sulle proprie insufficienze nell'osservarla. C'è invece la persona di Gesù Cristo. Evidentemente secondo Paolo è stato lui a mettere in scacco la Legge e a proporsi come la sua vera alternativa. Secondo il fortunato slogan di Sanders, per Paolo "la soluzione precede il problema" nel senso che "non v'è ragione di pensare che Paolo sentisse il bisogno di un salvatore universale prima di essere convinto che Gesù lo era"235. Detto in termini astratti, la suddetta critica paolina alla Legge non si basa né su di una toralogia né su di una antropologia, ma nient'altro che sulla cristologia. In concreto ciò significa che Paolo non trova nulla da ridire sulla Legge in quanto tale; essa all'origine è davvero "buona, spirituale e santa" (Rm 7,12.14.16), poiché i suoi comandamenti sono dati "per la vita" (Rm 7,10) e per la "giustificazione" (Rm 9,31). Ma essa non regge il confronto con Cristo! Solo alla luce feconda della fede in lui e della partecipazione alla sua morte e alla sua vita, appare evidente a Paolo che lo scopo della Legge era irraggiungibile (cf. Rm 8,3: TÒ àSuvaxov TOG vóyiou, "l'incapacità della Legge")236. La frase sibillina che si legge in Rm 9,31 (lett.: "Israele, perseguendo una legge di giustizia, non pervenne alla legge") è scritta secondo una precomprensione cristiana: Israele, pur venerando la Legge e sforzandosi di osservare le opere da essa co-
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mandate (su cui cade comunque un giudizio positivo), non giunse in realtà a ottenere ciò per cui essa era stata data, cioè la vita piena con Dio, non solo perché la considerò a un livello troppo nazionalistico (così Dunn) ma anche perché la concentrazione sulle opere gli precluse quella prospettiva di fede (cf. Rm 9,32a; 3,27) che invece trionfa appieno nell'evento-Cristo e nell'adesione a lui. Ecco perché, a differenza dei Gentili, i Giudei "inciamparono nella pietra d'inciampo" quale per loro appunto si rivelò il Cristo (Rm 9,32b-33 con citazione di Is 28,16; 8,14)237. Per l'Apostolo infatti resta verissima l'audace espressione di Isaia: "Sono stato trovato da coloro che non mi cercavano" (Rm 10,20 = Is 65,1). Dio infatti in Cristo ha dimostrato di percorrere "sentieri ininvestigabili" (Rm 11,33; cf. ICor 1,19-21), per conoscere i quali occorre una disponibilità totale e non prevenuta all'inatteso. Si comprende allora l'assioma lapidario di Rm 10,4: "Fine della Legge è Cristo per la giustizia di chiunque crede". Per quanto si discuta se il termine greco xiXoc, vada inteso come "la fine" piuttosto che come "il fine", il senso generale della frase è sufficientemente chiaro: Cristo e la Legge non stanno insieme238. Dove arriva l'uno, l'altra deve cedere il passo; come principi salvifici essi sono alternativi, così come sono alternativi i loro corrispettivi, fede e opere (cf. Gal 2,16; Rm 3,28)239. Ed è probabile che quando Paolo parla della Legge la intenda in senso globale, appunto come principio di giustificazione, senza adottare la distinzione tra precetti morali e cerimoniali, che è solo tardiva e non di matrice giudaica240. Del resto Paolo si era già ripetutamente espresso in 237
234 Analogamente in 2Cor 3,4-18 all'Antica Alleanza Paolo riconosce un suo splendore proprio (8ó?a), che però in Cristo e solo in lui viene superato. Vedi V. Koperski, The Knowledge of Christ Jesus my Lord. The High Christology ofPhilippians 3:7-11, "Contributions to Biblical Exegesis and Theology" 16, Kok Pharos, Kampen 1996. 235 E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese, pp. 606-613, qui 608. 236 L'espressione paolina riguarda l'incapacità della Legge non a promuovere un comportamento etico, ma a dare la giustizia e la vita; in questo senso va anche il connesso sintagma TÒ 8txaiw[xa xou vó(Aou, "il giusto intento della Legge" (Rm 8,4), che solo lo Spirito di Cristo porta all'attuazione; cf. R. Penna, Legge e libertà, pp. 265-267; N.T. Wright, The Climax of the Covenant. Christ and Law in Pauline Theology, T&T Clark, Edinburgh 1991, p. 202. Inaccettabile invece è l'esegesi di K. Finsterbusch, Die Thora als Lebensweisung fiir Heidenchristen, pp. 174-176, che non tiene esattamente conto del testo, secondo il quale il "compimento" della Legge non è operato da noi ma avviene in noi, e quindi è un fatto di grazia.
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Cf. W. Reinbold, Paulus und das Gesetz. Zur Exegese von Róm 9,30-33, BZ 38 (1994) 253-264. 238 Cf. R. Badenas, Christ the End of the Law. Romans 10.4 in Pauline Perspective, JSNT Suppl. 10, JSOT Press, Sheffield 1985; B.L. Martin, Christ and the Law, pp. 129-134; S.R. Bechtler, Christ, the T£Xo<; of the Law: The Goal of Romans 10:4, CBQ 56 (1994) 288-308; A. Gignac, Le Christ, xéXos de la Loi (Rm 10,4); une lecture en termes de continuité et de discontinuité, dans le cadre du paradigme paulinien de l'élection, Science et Esprit 46 (1994) 55-81. 239 Parafrasando dai Vangeli il detto della fonte Q, in cui Gesù afferma: "Qui c'è più di Salomone... più di Giona" (Le 11,31-32/Mt 12,42.41), o quello matteano in cui egli dichiara: "Qui c'è qualcosa più grande del Tempio" (Mt 12,6), si potrebbe dire analogamente che per Paolo Gesù è "più grande della Legge". 240 In favore della distinzione, cf. B.L Martin, Christ and the Law, pp. 32-34 (con altri Autori). Contro: E.P. Sanders, Judaism: Practice and Belief, 63 BCE66CE, SCM Press, London 1992, p. 194; R. Penna, L'apostolo Paolo, pp. 501-502. L'intangibilità di tutta la Legge, anche a costo della vita, è ben espressa dagli encomi che ne fa FI. Giuseppe, Contro Ap. 1,42-43, ecc.; e nell'apocrifo 4Mac 5,20-21 è detto con chiarezza a proposito dei cibi impuri: "Trasgredire la Legge in cose
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termini molto generali e onnicomprensivi: "Non voglio annullare la grazia di Dio, poiché se la giustizia viene attraverso la Legge, allora Cristo è morto invano" (Gal 2,21); "Non siete più sotto la Legge ma sotto la grazia" (Rm 6,14); "La legge dello Spirito e della vita ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte" (Rm 8.2)241. Ed è in questa luce che assume tutto il suo rilievo l'incisiva enunciazione di Gal 5,1: "Per la libertà Cristo ci ha liberati! State dunque saldi e non sottoponetevi di nuovo al giogo della schiavitù". È come dire che la libertà cristiana, la quale consiste nell'essere sottratti al principio condizionatore della Legge (cf. Gal 3,23ss), degli "elementi del mondo" (Gal 4,8-9), della carne (cf. Gal 5,13-24), e del peccato (cf. Rm 8,2), ha una tipica radice cristologica. Ciò che dicevamo più sopra circa il riscatto (cf. 4.2.1) va ricordato qui: Cristo ci ha affrancati da tutto ciò che pretende di umiliare la dignità e la responsabilità dell'uomo242. 7. I titoli cristologia Constatiamo innanzitutto che in Paolo mancano alcuni titoli specifici della tradizione gesuana: maestro, profeta, figlio dell'uomo, (e servo). L'Apostolo invece desume dalla tradizione cristiana primitiva soltanto tre titoli fondamentali, che sono anche i più usati nelle sue lettere; ad essi si aggiunge poi una serie di altre qualifiche cristologiche esclusivamente sue. 7.1 Reimpiego dei titoli tradizionali 7.1.1 Cristo (Xpicrcós). È l'appellativo più frequente (ca. 270 volte, a cui se ne aggiungono 114 nelle lettere deuteropaoline). Il propiccole o grandi ha lo stesso peso ({aoSóvajxóv ioriv) perché in ambedue i casi la Legge risulta disprezzata in uguale misura (ó[ioiùì<;)" (cf. C. Kraus Reggiani, 4 Maccabei, Marietti, Genova 1992, pp. 95-96). 241 In quest'ultimo testo il termine "legge" va probabilmente inteso in senso generale come "principio, criterio": cf. H. Ràisànen, Paul and the Law, pp. 50-52 (contro H. Hùbner e altri). 242 Sul tema, cf. K. Niederwimmer, Der Begriff der Freiheit im Neuen Testament, TBT 11, Tòpelmann, Berlin 1966; A. Gùemes, La libertad en San Pablo, Universidad de Navarra, Pamplona 1971; F. Stanley Jones, "Freiheit" in den Briefen des Apostels Paulus. Eine historische, exegetische und religionsgeschichtliche Studie, GTA 34, Vandenhoeck, Gòttingen 1987; S. Vollenweider, Freiheit als neue Schòpfung (cit.); H. Ràisànen, Freiheit vom Gesetz im Urchristentum, ST 46 (1992) 55-67; R. Penna, Legge e libertà, pp. 263-270.
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blema che lo riguarda è che esso tende ormai a perdere il suo originario valore titolare di «Messia» e a diventare sempre più un semplice nome proprio di persona, non solo quando è accostato in coppia a quello anagrafico di "Gesù" (cf. Rm 1,1 ecc.) ma anche da solo (evidente in ICor 1,12). Questo processo iniziò sicuramente già prima di Paolo, poiché il suo comportamento in materia è talmente massiccio da far pensare che egli abbia ereditato una prassi già consolidata. Infatti è rarissimo che si possano individuare dei casi, in cui il termine conservi un evidente valore di titolo: probabilmente soltanto in Rm 9,5 ("...dai quali proviene il Cristo secondo la carne") e forse in ICor 10,4 ("la pietra che li seguiva era il Cristo")243. Va comunque fatta una doppia osservazione: se è vero, da una parte, che Paolo non afferma mai esplicitamente che Gesù è il Cristo-Messia promesso nei testi dell'Antico Testamento, dall'altra è pur vero che egli probabilmente presuppone comunque l'originario valore titolare del termine per il fatto che non scrive mai "Signore è Cristo" ma soltanto "Signore è Gesù" (Rm 10,9; ICor 12,3; o "Signore è Gesù Cristo" in Fil 2,11; o "il Signore nostro Gesù Cristo" o simili)244. Per comprendere appieno la semantica del titolo-nome è importante avere presenti i suoi ambiti di ricorrenza245. Esso si trova in connessione con: - formule di fede nelle loro varie enunciazioni, sempre associate ai cosiddetti Heilsbegriffe, o concetti pertinenti all'evento salvifico, come sono la croce, i patimenti, la risurrezione, il corposangue, lo Spirito, l'agape, la gloria, la liberazione, la riconcilia243 Questa in sostanza è la conclusione dell'analisi condotta da W. Kramer, Christos Kyrios Gottessohn. Untersuchungen zu Gebrauch und Bedeutung der christologischen Bezeichnungen bei Paulus und den vorpaulinischen Gemeinden, ATANT 44, Zwingli, Zùrich/Stuttgart 1963, pp. 203-214. 244 Cf. M. Hengel, Erwagungen zum Sprachgebrauch von Xpurtó? bei Paulus und in der "vorpaulinischen" Uberlieferung, in M.D. Hooker e S.G. Wilson, edd., Paul and Paulinism. Essays in honour ofC.K. Barrett, SPCK, London 1982, pp. 135-158 qui 138-139. Questo comportamento va confrontato con l'uso giudaico della formula "l'Unto del Signore" (Lm 4,20; Ps. Sai. 17,32; cf. Ap 12,10), che in Le 2,11 diventa addirittura "l'Unto Signore"! Altrove nel Nuovo Testamento l'associazione dei due titoli si trova solo in lPt 3,15 ("Santificate nei vostri cuori il Cristo come Signore", che è rilettura di Is 8,13); in ib. 2,3 la citazione di Sai 33,9 LXX ("Gustate come è buono [ys>f\
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zione, la giustificazione, la fede; per esempio, non si dice "i patimenti del Signore, ò del Figlio" ma "i patimenti di Cristo" (2Cor 1,5; Fil 3,10) ecc. Dunque "Cristo" designa la persona dell'evento salvifico; - locuzioni ecclesiologiche, siano esse di tipo individuale (cf. apostolo, servo, diacono: sempre "di Cristo") o comunitario (tipico è il sintagma "corpo di Cristo"; ma cf. chiamati, eredi, voi [per indicare appartenenza, come "quelli di Cristo": ICor 15,23]) anche in riferimento al costitutivo della vita cristiana (cf. "in Cristo"); - espressioni parenetiche; in questo caso possiamo avere il cosiddetto 'schema di conformità' (cf. Rm 15,2-3.7: "Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo accolse voi"), dove appare con chiarezza che l'etica ha un fondamento cristologico, consistente nell'opera salvifica di Cristo; il rapporto individuale con lui come senso di tutta la vita è ben espresso sia nella frase di tipo mistico "non sono più io che vivo ma Cristo vive in me" (Gal 2,20) sia in quella di tipo impegnato "per me vivere è Cristo" (Fil 1,21); - la parusìa (solo in ICor 15,23; cf. anche "il giorno di Cristo": Fil 1,6.10; 2,16). Il termine, come si vede, viene caricato di uno spessore semantico straordinario, che non ha nessuna corrispondenza con la prassi linguistica messianica del giudaismo (da cui esso pur proviene)246. Dire "Cristo", o da solo o unito al nome "Gesù", significa far riferimento al protagonista concreto degli eventi salvifici e di conseguenza all'oggetto essenziale della fede e al dato distintivo dell'identità cristiana che da lui dipende247. Esso riassume in sé gli aspetti funzionali fondamentali della persona di Gesù nell'evento della salvezza.
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II problema storico di sapere come mai un ex fariseo come Paolo, che non solo era abituato fin da sempre a usare il termine soltanto in senso titolare ma che addirittura aveva perseguitato la prima comunità cristiana proprio perché non sopportava lo scandalo di un Messia crocifisso, possa dispiegare nelle sue lettere un impiego di questo genere, si può spiegare solo pensando anche a una sua forte 'conversione linguistica', resa possibile dall'evento di Damasco e dalla viva eredità della chiesa siro-palestinese; del resto, solo la distanza cronologica tra Damasco e le lettere (ca. vent'anni) può dar conto del fatto che questa nuova prassi linguistica si sia imposta fino al punto da diventargli completamente familiare. 247 Non per nulla i suoi seguaci sono stati detti (da altri!) "cristiani", xpi<"iavoi, e non «gesuani» o altro. Cf. O. Montevecchi, Nomen christianum, in R. Cantalaméssa e L.F. Pizzolato, a cura, Paradoxos politela. Studi patristici in onore di G. Lazzari, Vita e Pensiero, Milano 1979, pp. 485-500; M. Karrer, Der Gesalbte, pp. 48-87; J. Taylor, Why were the Disciplesfirst called "Christians" at Antioch? (Acts 11,26), RB 101 (1994) 75-94.
I TITOLI CRISTOLOGICI
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7.1.2 Signore (xupio<;)248. Lo spoglio statistico di questo titolo fa problema quanto alla sua semantica, poiché delle 190 occorrenze nelle lettere autentiche (altre 82 sono nelle deuteropaoline) una buona parte si riferisce direttamente a Dio, conformemente del resto alla tradizione giudaica da cui proviene249. Gli impieghi cristologici innegabili sono quelli in cui il titolo è unito o al nome di Gesù o a quello di Cristo o a tutti e due insieme. In questo senso, disponiamo solo di 64 casi assolutamente sicuri (per esempio Rm 14,14: "Io so e sono persuaso nel Signore Gesù"; ICor 9,1: "Non ho io visto il Signore Gesù?"; 2Cor 8,9: "Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo"; lTs 3,13: "Nella parusìa del Signore nostro Gesù"). Ad essi però ne vanno certamente aggiunti altri, che individuiamo in base ad alcuni criteri. - (1) Il riferimento cristologico risulta inevitabile dalla frase in cui è inserito, come per esempio: "...non avrebbero crocifisso il Signore della gloria" (ICor 2,9); "Dio risuscitò il Signore" (ICor 6,14); "ordino non io ma il Signore" (ICor 7,10, con riferimento al precetto gesuano sul matrimonio indissolubile; così analogamente 7,12.25 e 9,14); "il calice del Signore" (ICor 10,21; ll,27a); "il corpo e il sangue del Signore" (ICor 11,27b); "annunciate la morte del Signore" (ICor 11,26); "i fratelli del Signore" (ICor 9,5 e Gal 1,19). Lo stesso vale per l'intera pericope Rm 14,6-9 dove il titolo è presente ben sei volte ed è condizionato dal tema pasquale del morir e-vivere di Cristo: da lui come Signore prende senso anche la vita e la morte del cristiano. - (2) Il frequente sintagma èv xopuo, "nel Signore" (ben 30 volte; cf. Rm 16,2; ICor 7,22; 2Cor 2,12; Gal 5,10; Fil 1,14; lTs 3,8; Fm 16), quasi certamente va ritenuto cristologico; infatti, nono248
Sulla sua origine storica, cf. sopra: cap. I, 3.2.1. Più in generale, cf. W. Kramer, Christos Kyrios Gottessohn, pp. 61-103 e 149-181; L.W. Hurtado, Lord, in G.F. Hawthorne - R.P. Martin, Dictionary of Paul and His Letters, InterVarsity, Downers Grove 1993, pp. 560-569. 249 Ciò è ben evidente là dove si fa riferimento a un passo biblico con la formula "dice il Signore" (cf. Rm 14,11; ICor 14,21) o dove il titolo ricorre nello stesso testo della citazione biblica (cf. Rm 15,11 con Sai 117,1: "Lodate genti tutte il Signore"; ICor 3,20 con Sai 95,11: "Il Signore sa che i pensieri dei sapienti sono vani" ecc.) o viene riecheggiato un testo biblico (cf. lTs 4,6: "Il Signore è vindice di tutte queste cose", che richiama Dt 32,35 e Sai 94,1-2; così ICor 1,31 e 2Cor 10,17 richiamano Ger 9,23: "Chi si vanta si vanti nel Signore"). Cf. L. Cerfaux, Kyrios dans les citations pauliniennes de VAncien Testament, ETL 20 (1943) 5-17 ( = Recueil Cerfaux, I, Gembloux 1954, pp. 173-188. Notiamo a parte che solo un paio di volte il termine ha valore religioso-pagano o profano (cf. Rm 14,4; ICor 8,5; Gal 4,1).
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stante che un paio di volte sia una ripresa veterotestamentaria (cf. ICor 1,31 e 2Cor 10,17, che richiamano Ger 9,23), esso non solo è parallelo a "in Cristo" (cf. sopra), ma almeno una volta si trova specificato "nel Signore Gesù" (lTs 4,1). - (3) In alcune citazioni bibliche il titolo appare addirittura interscambiabile tra Dio e Gesù Cristo. Ciò è evidente in Rm 10, dove prima si richiama la confessione di fede "Gesù è Signore" (v. 9) per dire che essa è fatta "per la salvezza" (v. 10) e poi si cita il testo profetico di Gioele 3,5: "Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo" (v. 13); evidentemente in quest'ultimo versetto il titolo, che all'origine ha solo significato teo-logico, passa sorprendentemente a qualificare la persona di Gesù. Lo stesso vale per i testi di: (a) Ger 9,23 in ICor 1,31; 2Cor 10,17; (b) Is 40,13 in ICor 2,16; (e) Sai 24,1 in ICor 10,26. Si tratta di un vero trapasso semantico, che suggerisce inevitabilmente una cristologia «alta» 250 . - (4) Il sintagma di origine veterotestamentaria rjuépa xuptou, "giorno del Signore" (cf. yòm yhwh in Am 5,18.20; Sof 1,14; GÌ 3,4; Is 2,12; Ez 30,3), pur mantenendo qualche volta l'originario senso teo-logico (cf. Rm 2,5: "giorno dell'ira e della manifestazione del giusto giudizio di Dio"; anche 2,16), acquista ormai una evidente connotazione cristologica nell'espressione "giorno del Signore nostro Gesù Cristo" (ICor 1,8; cf. 2Cor 1,14) o più semplicemente "giorno di Cristo" (Fil 1,6.10; 2,16); perciò, anche quando resta la dizione tradizionale "giorno del Signore" (ICor 5,5; lTs 5,2.4) siamo in diritto di scorgervi una dimensione cristologica. Ciò si conferma sia nell'uso del termine parousia (detta "di Cristo": ICor 15,23; "del Signore Gesù": lTs 2,19; 3,13; 5,23; "del Signore": lTs 4,15) sia nelle frasi circa la sua venuta futura (cf. ICor 4,5: "Non giudicate prima del tempo finché venga il Signore"; 11,26: "Annunciate la morte del Signore finché egli venga"; Fil 4,5: "Il Signore è vicino"; lTs 4,17: "Saremo rapiti nelle nubi per andare incontro al Signore nell'aria, e così saremo sempre con il Signore") 251 .
250 p e r l'analisi di tutti questi casi, vedi D.B. Capes, Old Testament Yahweh Texts in Paul's Christology, pp. 115-145, e anche C. J. Davis, The Name and Way of the. Lord. Old Testament Themes, New Testament Christology, JSNT Suppl. 129, Academic Press, Sheffield 1996. 251 Vedi L. J. Kreitzer, Jesus and God in Paul's Eschatology, JSNT Suppl. 19, JSOT Press, Sheffield 1987 (cf. p. 116: "a conceptual overlap between God and Christ").
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In altri casi il significato sembra oscillare tra una portata teologica in senso stretto e quella più propriamente cristologica. Per esempio, ci si può chiedere che valenza abbia il titolo in frasi come queste: "servite il Signore" (Rm 12,11), "consapevoli del timore del Signore" (2Cor 5,11), "il Signore vi faccia crescere e abbondare nell'amore" (lTs 3,12) ecc. Tuttavia, il contesto cristologico delle ricorrenze favorisce una prevalenza di questo tipo di lettura, che comunque sulle 190 attestazioni è certamente maggioritario. La portata cristologica del titolo appare evidente e addirittura stridente là dove esso è accostato ma distinto dal riferimento a " D i o " (cf. per esempio ICor 6,14). Lo si vede bene nella dichiarazione fondamentale di ICor 8,6: "Per noi c'è un solo Dio, il Padre, da cui provengono tutte le cose e noi siamo per lui; e c'è wn solo Signore, Gesù Cristo, mediante il quale sono tutte le cose e noi siamo mediante lui". A monte di questa confessione252 è inevitabile scorgere lo Semcf, la confessione fondamentale della fede ebraica: "Ascolta, Israele: il Signore nostro Dio è un Signore unico" (Dt 6,4 LXX: xupux; ó Beò? TIIXWV xópux; et? iaxiv). Come abbiamo già intravisto in Fil 2,11 (cf. sopra: 3.6, C), l'enorme e scandalosa novità cristiana consiste nello spezzare in qualche modo il ferreo monoteismo ebraico, introducendo una inedita distinzione tra le qualifiche di "Dio" e "Signore", che invece là coincidono perfettamente. Una confessione analoga si potrebbe reperire in Filone Alessandrino, quando scrive di onorare "come padre Colui che ha generato il mondo e come madre la Sapienza mediante la quale è stato compiuto l'universo" 253 . Le affinità, sia nella costruzione bimembre sia nelle 252 Oltre ai Commenti (soprattutto quelli di W. Schrage, C. Wolff, G. Barbaglio), cf. A. Feuillet, Le Christ Sagesse de Dieu d'après les épitres pauliniennes, EB, Gabalda, Paris 1966, pp. 59-85; J.Murphy-O'Connor, / Cor 8.6: Cosmology or Soteriology, RB 85 [1978] 253-267); J.D.G. Dunn, Christology in the Making, pp. 179-183. A questa formulazione andrebbero accostati i saluti iniziali di quasi tutte le lettere (cf. Rm 1,7b: "Grazia a voi e pace da Dio padre nostro e dal Signore Gesù Cristo"; ICor 1,3; 2Cor 1,2; Gal 1,3; Fil 1,2; Fm 3); lo stesso vale per le deuteropaoline (con l'eccezione di Col 1,2 che menziona solo Dio e di Tt 1,4b che invece di "Signore" ha il titolo "Salvatore"). 253
Det. pot.
54 (rcorcépa (xév xòv -yevvtaav-ta xòv xóa[iov, (iTytépa 8è rr)v aocpiav, 8i'rj?
òmeteXéaOr) xòrocv).In altri passi Filone Al. definisce il Logos addirittura come 8tuxepo<; 9tó?, come quando dice che "nulla di mortale può essere fatto a somiglianza dell'unico Altissimo e Padre dell'universo ma (solo) a somiglianza del secondo dio che è il suo Logos" (Quaest. in Gen. 2,62) e a lui attribuisce il titolo di " d i o " ma senza
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funzioni dei rispettivi soggetti, portano a ritenere che Paolo qui intenda il titolo cristologico di Signore alla luce dell'ipostasi della Sapienza. Come Signore perciò Gesù Cristo, che tuttavia non è solo una personificazione ma una vera persona, sulla linea della tradizione sapienziale acquista una interessante connotazione di preesistenza (contro Dunn, che sottolinea solo la sua signoria presente); in più, gli viene riconosciuta una mediazione che non è solo soteriologica ma anche cosmologica (contro Murphy-O'Connor). In definitiva è proprio il tema della mediazione a impedirci di pensare che venga infranto il monoteismo della fede israelitica254. La semantica cristiana del titolo si coglie meglio se notiamo i contesti in cui esso occorre. Sono sostanzialmente due: le acclamazioni, con le quali il cristiano manifesta nel modo più semplice la sua identità riconoscendo Gesù come Signore suo e del mondo (cf. Rm 10,9; ICor 8,6; 12,3; 16,22; Fil 2,11); e le espressioni parenetiche, da cui risulta che, al di fuori del Cristo, il battezzato non ha altri 'signori' a cui rendere omaggio, ma vive tutta la sua esistenza in immediato rapporto con lui (cf. ICor 7,10.32: "come piacere al Signore") 255 . 7.1.3 Figlio di Dio (utò? GeoG). Curiosamente questo titolo, a differenza dei precedenti e a dispetto della sua portata apparentemente molto forte, è rarissimo; infatti si riscontra solo 15 volte (Rm 1,3.4.9; 5,10; 8,3.29.32; ICor 1,9; 15,28; 2Cor 1,19; Gal 1,16; 2,20; 4,4.6; lTs 1,10; inoltre: Col 1,13; Ef 4,13)256. Il suo impiego nella chiesa pre-paolina è testimoniato soprattutto da Rm l,3b-4a, dove è impiegato nell'ottica di una cristologia 'adozionista' legata alla risurrezione come intronizzazione regale (cf. voi. I, pp. 201-
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208)257. Ma, come abbiamo visto, Paolo corregge contestualmente questa concezione poiché ritiene che Gesù sia Figlio da sempre; lo si vede bene in lTs 1,10: benché questo sia l'unico altro caso in cui il titolo è connesso con la risurrezione, tuttavia colui che Dio "risuscitò dai morti" è già connotato come "Figlio suo"! Da parte sua, oltre al citato contesto di risurrezione, l'Apostolo orchestra l'uso del titolo su diversi registri. - Formule di missione. Nei due testi di questo tipo (Gal 4,4; Rm 8,3) si possono rilevare tre costanti: (a) essendo Dio l'inviante, si desume un accenno discreto alla preesistenza del Figlio; del resto, i verbi usati sia in Gal 4,4 (ifc-cécntetXev) sia in Rm 8,3 (7téjxCJNXC) richiamano quelli che si trovano in Sap 9,10.17 dove si chiede l'invio della Sapienza dai cieli258; (b) lo scopo dell'invio ha a che fare con la redenzione dalla Legge, anche se in Rm 8,3 essa è aggravata dalla sua connessione con il peccato; (e) il risultato è comunque quello di costituire i beneficiari nella insperata condizione di "figli adottivi" (Gal 4,6; Rm 8,15)259. Si può supporre che l'impiego del titolo in questi contesti sia la totale fiducia riposta nel "figlio" in quanto tale e quindi nella certezza che egli avrebbe ottenuto l'effetto desiderato (cf. analogamente l'invio del figlio nella parabola sinottica dei vignaioli omicidi: Me 12,6 parr.). - Formule di donazione. Esse integrano le precedenti, in quanto si evidenzia la dimensione di benevolenza insita sia nel gesto della missione sia nel suo scopo. L'atto del donare può avere come soggetto Dio (Rm 5,10; 8,32; qui si può intravedere lo schema 257
articolo determinativo, che è riservato al Dio unico (cf. Somn. 1,227-233). Contro analoghe correnti di pensiero, che possono anche parlare di un Angelo o di altre figure divine (come il Metatron e la Merkabah), polemizza poi la letteratura rabbinica quando rifiuta l'esistenza di "due poteri nel cielo" (setè r'sùyót bàiiamayim); cf. sopra: nota 41. 254 Cf. R. Penna, Infrazione e ripresa del rapporto Legge-Sapienza in Paolo, in Id., L'apostolo Paolo, pp. 519-549 specie 535-538. 255 "Qui non entra in considerazione l'evento salvifico del passato, ma il vincolo esistente fra gli atti concreti del presente e il Kyrios... In tutti gli ambiti della vita la comunità o il cristiano si trovano confrontati con il Kyrios, al quale essi appartengono totalmente" (W. Kramer, Christos Kyrios Gottessohn, pp. 168 e 180). 256 Circa il suo impiego gesuano e il suo sfondo culturale cf. voi. I, pp. 143-153. In generale, cf. W. Kramer, Christos Kyrios Gottessohn, pp. 105-125 e 183-193; L.W. Hurtado, Son ofGod, in Dictionary of Paul and His Letters, pp. 900-906; M. Theobald, 'Sohn Gottes' als christologische Grundmetapher bei Paulus, TQ 174 (1994) 185-207.
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Non è affatto certo invece che anche il testo di lTs 1,9-10 ("vi siete convertiti a Dio dagli idoli, per servire il Dio vivo e vero e per attendere /'/ Figlio suo dai cieli, che egli risuscitò dai morti, Gesù, che ci libera dall'ira ventura") appartenga alla tradizione protocristiana, come qualcuno vorrebbe (E. Best, U. Wilckens); innegabile piuttosto è la presenza di un linguaggio d'impronta giudaica (cf. T. Holtz, Der erste Briefan die Thessalonicher, EKK XIII, Benziger-Neukirchener, ZurichNeukirchen 1986, pp. 54-62; P. Iovino, La prima lettera ai Tessalonicesi, SOC 13, Dehoniane, Bologna 1992, pp. 107-114; vedi anche R. Penna, Pentimento e conversione, pp. 87-88). 258 II testo suona così: "Inviala (è&xmóoTeiXov) dai cieli santi e mandala (rcé|A(|>ov) dal trono della tua gloria... Il tuo consiglio chi lo ha conosciuto, se tu non gli hai dato la sapienza e non hai mandato (tnt\i^a.c;) il tuo santo spirito dall'alto?". 259 Cf. M. Hengel, Il figlio di Dio. L'origine della cristologia e la storia della religione giudeo-ellenistica, SB 67, Paideia, Brescia 1984 (orig. ted., Tubingen 2 1977), pp. 32-38; E. Schweizer, Was meinen wir eigentlich, wenn wirsagen "Gott sanate seinen Sohn..."?, NTS 37 (1991) 204-224; M. Adinolfi, L'invio del Figlio in Rm 8,3, in Id., // Verbo uscito dal silenzio. Temi di cristologia biblica, Dehoniane, Roma 1992, pp. 95-117.
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giudaico della caqedah: cf. più sopra) o Cristo stesso (Gal 2,20)260. - Contenuto dell Evangelo. In quattro testi è in qualità di Figlio di Dio che Gesù appare come contenuto dell'annuncio, tra cui quello concernente il fondamentale evento di Damasco (Gal 1,16; e poi Rm 1,3.9; 2Cor 1,19). - Connotazione della novità antropologica. La "comunione del Figlio suo", anche se avrà una piena realizzazione escatologica (ICor 1,9), connota già l'esistenza storica del cristiano ed è connessa con il dono dello Spirito del Figlio nel battesimo (Gal 4,6); è a questo titolo che si connette il tema dell'adozione filiale dei battezzati: essi costituiscono una sola famiglia di figli di Dio tra i quali Gesù ha il ruolo del primogenito (Rm 8,29)261. - Contesto di parusìa. Anche in quanto venturo alla fine dei tempi, Gesù conserva questa qualifica; essa comprende due aspetti diversi: l'uno concerne la permanenza di una comunione (ICor 1,9) tale da garantire il cristiano di fronte all'ira di Dio (lTs 1,10); l'altro, in quanto riguarda la sottomissione escatologica del Figlio al Padre, sottolinea il teoarchismo e il teotelismo di tutto il processo di salvezza (ICor 15,28): Gesù non è solo "per noi", egli è anche per Dio. Più di ogni altro, questo titolo esprime la vicinanza e l'affinità di Gesù Cristo con Dio; il suo infatti non è un rapporto di adozione ma di generazione. Con ciò non è detto che solo questo titolo affermi la divinità di Gesù; se così fosse, sarebbe sorprendente che essa venga dichiarata tanto raramente, essendo il titolo usato molto poco. Come abbiamo visto, invece, è il titolo Kyrios che implica e suggerisce l'equiparazione di Gesù con Dio. Il titolo di Figlio, in più, esprime il concetto di una relazione che unisce talmente Gesù a Dio da impedire che egli come Signore venga considerato un secondo Dio. 260 Anche qui non si può escludere lo schema della caqedàh, poiché in alcuni testi giudaici del secolo I, a diversità del silenzio di Isacco in Gn 22, questi parla della sua totale disponibilità al sacrificio: cf. LAB 32,3-4 ( " C h e sarebbe successo, se non fossi nato nel m o n d o per essere offerto in sacrificio a colui che mi ha f a t t o ? " ; in 40,2 la figlia di Jefte dice al padre: " N o n ti ricordi di ciò che accadeva al tempo dei nostri patriarchi, quando il padre disponeva il proprio figlio per l'olocausto e questi non fece obiezioni ma gli obbedì nella gioia?") e FI. Giuseppe, Ant. 1,232 (Isacco "esclamò: ' N o n sarebbe servito a nulla essere nato, se rifiutassi la decisione di Dio e del padre mio e non fossi pronto a consegnare me stesso [rcapéxetv aó-róv] ad entrambi' ...; e si slanciò verso l'altare e verso l'immolazione"). 261 Cf. D. Von Allmen, Lafamille de Dieu. La symbolique familiale dans lepaulinisme, OBO 41, Édit. Univers./Vandenhoeck, Fribourg en S.-Gòttingen 1981, p p . 166-175.
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7.2 Titoli nuovi Andando oltre la tradizione ricevuta, pur già elaborata con originalità, Paolo ha occasione di designare Gesù con una titolatura propria. Ne ricordiamo tre forme262. 7.2.1 "Ultimo Adamo" (ò eoxaxo.; 'ASà^x: ICor 15,45b)263. Paolo sviluppa una originale tipologia antitetica Adamo-Cristo in due contesti e con due angolature diverse e complementari, (a) In ICor 15,21-22.45-49 l'attenzione s'incentra sul fatto rispettivamente della morte (fisica) e della risurrezione di tutti gli uomini, (b) In Rm 5,1221 invece la prospettiva è amartiologica e riguarda l'antitesi tra l'invischiamento nel peccato e la redenzione da esso (cf. sopra). In entrambi i casi il punto di partenza ermeneutico non è una autonoma adamologia ma la cristologia. Va anche osservato che Paolo, stabilendo una tipologia con Adamo (e mai con Mosè!), pensa a livello universalistico e mai nazionalistico. 7.2.2 "Immagine di Dio" (etxwv 0eou). In 2Cor 4,4 Cristo è esplìcitamente definito come tale (e Col 1,15 lo ripeterà in un altro contesto: cf. sotto); il fatto che la metafora non venga spiegata suppone che fosse già nota ai destinatari 264 . A monte di questa defi262 Accenniamo appena alla qualifica di "roccia (nlxpaì)" che leggiamo in ICor 10,4b: con riferimento all'acqua che dissetava Israele nel deserto (cf. Es 17,1-7; Nm 20,1-13), Paolo reinterpreta l'episodio col dire che "bevevano da una roccia spirituale che li accompagnava e quella roccia era il C r i s t o " . Due componenti di questa frase hanno paralleli non nella Bibbia m a nel giudaismo del tempo: l'uno riguarda il fatto che la roccia "seguisse" il popolo e lo si trova nell'esegesi rabbinica (cf. tos.Suk. 3,11: " L a roccia saliva con essi sulle montagne e scendeva con essi nelle valli"; Strack-Billerbeck III, p . 408); l'altro riguarda rallegorizzazione della roccia, che è testimoniata in Filone Alessandrino (cf. Leg. 2,86: " L a roccia dura è la Sapienza di Dio..., da cui egli abbevera le anime che amano D i o " ; cf. Sir 15,3). L'originale rilettura cristologica di Paolo, oltre a confermare la prospettiva sapienziale della sua riflessione su Cristo, manifesta anche l'idea che egli si faceva dell'intima unità fra i due Testamenti (cf. A . Feuillet, Le Christ Sagesse de Dieu, p p . 87-111). 263 Cf. R. Penna, Cristologia adamica e ottimismo antropologico in ICor 15,45-49, in là., L'apostolo Paolo, p p . 240-268; Id., Il discorso paolino sulle origini umane alla luce di Gen 1-3 e le sue funzioni semantiche, in RSB 6 (1994) 223-239 specie 229-237. 264 Oltre a F . W . Eltester, Eikon im Neuen Testament, BZNW 23, Tòpelman, Berlin 1958, e J. Jervell, Imago Dei. Gen. 1,26/. im Spàtjudentum, in der Gnosis und in den paulinischen Brie/en, F R L A N T 76, Vandenhoeck, Gòttingen 1960, cf. anche C. Spicq, Note di lessicografia neotestamentaria, I, pp. 474-483; H.-J. Klauck, Erleuchtung und Verkùndigung. Auslegungsskizze zu 2 Kor 4,1-6, in L. De Lorenzi, a cura, Paolo ministro del Nuovo Testamento (2Co 2,14 - 4,6), Serie Monogr. " B e n e d i c t . " , Sez. Bibl.-Ecum. 9, Abbazia di S. Paolo, Roma 1987, p p . 267-297 specie 284-286. Va esclusa dalla concezione paolina l'idea platonica secondo cui immagine di Dio è il m o n d o intero (cf. Platone, Tim. 92c).
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nizione si intravedono tre filoni diversi: il primo è il testo di Gn 1,26 ("Facciamo l'uomo a nostra immagine e secondo la nostra somiglianza"; cf. Gn 9,6); il secondo è la definizione della Sapienza come "riflesso della luce perenne, specchio senza macchia dell'attività di Dio, e immagine della sua bontà" (Sap 7,26); il terzo è la prassi orientale ed ellenistica di onorare anche religiosamente il sovrano come immagine della divinità265. Il titolo perciò esprime un insieme di cose: Cristo non è tanto una copia quanto il rappresentante vivente di Dio; è l'uomo perfetto che inaugura una nuova umanità (cf. 2Cor 5,17); come la Sapienza, egli condivide la stessa natura di Dio (cf. 2Cor 4,6); infine è degno di un culto di adorazione religiosa (anche se raramente attestato in Paolo; cf. 2Cor 12,8-9). E quando l'Apostolo scrive dei cristiani che sono chiamati ad essere "conformi all'immagine del Figlio suo" (Rm 8,29), intende parlare di una effettiva partecipazione alla filiazione di Cristo e ricorda loro l'unico punto di riferimento possibile sul quale normare la propria identità, non solo in questa vita ma anche in quella futura (cf. ICor 15,49; Fil 3,21)266. 7.2.3 "Dio"? In Rm 9,5, secondo le traduzioni correnti, si leggerebbe così: " 5 a Da essi [= gli Israeliti] proviene Cristo secondo la carne, 5begli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen" (CEI, BJ, TOB, la Einheitsùbersetzung; inoltre: Cullmann, Leenhardt, Schlier, Morris, Fitzmyer)267. Grammaticalmente, infatti, è possibile riferire a Cristo la qualifica di " D i o " . Ma se, invece di isolare il testo assolutizzandolo, lo si considera all'interno di tutto il linguaggio paolino e in specie della sua cristologia, la cosa migliore da fare è di disgiungere il v. 5a ("dai quali proviene il Cristo secondo la carne") dal v. 5b (ó tov ini TCÓCVTOOV 9eò<j tù\o*fr\xò<; efc TOÙC oùwvocs), così da vedere in quest'ultima frase una normale
265 Lo troviamo detto per esempio di Artaserse I (464-424 a . C ; cf. Plutarco, Themist. 21 A, in cui il vizir del re dichiara: "Voi, elleni, si dice che ammiriate particolarmente la libertà e l'uguaglianza; a noi invece la consuetudine più bella fra tante pare questa: di onorare il re e inginocchiarsi ad adorarlo come se fosse una immagine di quel Dio che a tutto provvede") e di Tolomeo Epifane (204-180 a . C ; cf. la pietra di Rosetta in OGIS 90,3: "Immagine vivente di Zeus, figlio del Sole"). 266 Cf. W. Thùsing, Per Christian in Deum. Studien zum Verhàltnis von Christozentrik und Theozentrik in den pauiinischen Hauptbriefen, NA, Aschendorff, Mùnster i. W. 1965 (31986), pp. 122-125. 267 Su questa linea si colloca anche M. J. Harris, Jesus as God. The New Testament Use of "Theos" in Reference to Jesus, Baker, Grand Rapids 1992, pp. 143-172, che però si appoggia a motivi prevalentemente grammaticali-sintattici, e non tanto di ermeneutica paolina globale.
LA CRISTOLOGIA COME STRUTTURA DEL PENSIERO PAOLINO
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dossologia a Dio (non a Cristo!), che conclude la serie delle prerogative di Israele enumerate nel v. precedente (cf. anche Rm 1,25). Il testo allora si dovrebbe leggere così: "il quale è sopra ogni cosa. Dio (sia) benedetto nei secoli. Amen"; oppure: "Dio, che è sopra ogni cosa, (sia) benedetto nei secoli. Amen"; o forse meglio: "Colui che è sopra ogni cosa, Dio, (sia) benedetto nei secoli. Amen" (così Thùsing, Kuss, Kàsemann, Wilckens, Dunn, Stuhlmacher, Schmithals, de Jonge, Byrne; tra le versioni, la RSV e la cattolica New American Bible). L'Apostolo, infatti, non solo non attribuisce mai altrove a Cristo la qualifica secca di " d i o " , ma in ICor 8,6 distingue chiaramente tra "un solo Dio" (= il Padre) e "un solo Signore" ( = Gesù Cristo); con ciò egli non nega affatto la divinità a Gesù, ma la afferma in altri modi, alludendovi piuttosto con i titoli di Kyrios, di Figlio e di Immagine (vedi sopra) 268 .
8. La cristologia come struttura fondamentale del pensiero paolino Senza l'incontro con Cristo e la riflessione su di lui, non esisterebbe alcuna specifica teologia paolina. Non lo studio delle Scritture da sole né tantomeno la semplice considerazione della storia o dell'umana natura fornirono all'Apostolo la base su cui sviluppare le sue meditazioni. C'è invece in Paolo un cristocentrismo che è decisivo non solo come punto di partenza ma soprattutto come elemento coagulante degli sfaccettati aspetti del suo pensiero. Esso soltanto infatti è la chiave ermeneutica dei vari capitoli del suo patrimonio ideale, sia di quelli derivanti 268 Del resto in Rm 15,6 Paolo parla del "dio e padre del Signore nostro Gesù Cristo", riservando il concetto di 9eó<; a quello di "padre" di Gesù Cristo, il quale invece da parte sua vi si rapporta al genitivo con i concetti di Figlio e di Immagine. Un altro forte argomento contro la lettura cristologica in Rm 9,5 è che l'immediata connessione della qualifica di Geo? con il Cristo xarà aàpxa (cioè il Terreno! cf. Rm l,3b) appare insopportabilmente stridente, senza una qualche spiegazione, dato che in questo senso l'Apostolo preferisce definire Gesù con l'idea di filiazione (cf. Rm 1,3; 8,3; Gal 4,4). Vedi un'ampia trattazione della questione in O. Kuss, La lettera ai Romani, III, pp. 94-110. In generale, sul valore strettamente teologico del titolo 0£Ói; nel NT come qualifica del Padre, cf. K. Rahner, Theos nel Nuovo Testamento, in Id., Saggi teologici, Paoline, Roma 1965, pp. 467-585 (l'Autore riconosce valore cristologico al titolo in Rm 9,5; Gv 1,1.18; 20,28; lGv 5,20; Tt 2,13; ma è già sospetto il fatto che Rm 9,5 sia l'unico testo del genere nelle lettere paoline autentiche, mentre la cosa non stupisce né nella tradizione paolina [accanto a Tt 2,13 andrebbe collocato anche Col 2,9] né tantomeno nella tradizione giovannea; cf. più sotto).
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dalle precomprensioni giudaiche sia di quelli originati dalla fede cristiana 2 6 9 . Qui di seguito dettagliamo brevemente questi vari capitoli, evidenziando a p p u n t o per ciascuno di essi la centralità dell'ottica cristologica.
8.1 Dio Dio, pur rimanendo fondamentalmente quello dello Sem(f e della fede ebraica, è ora concepibile non più soltanto come padre di Israele (cf. Es 4,22; Dt 32,6; Ger 3,4.19; Os 11,1 ) o del Messia (cf. voi. I, pp. 147-149) o più genericamente come " p a d r e n o s t r o " (ICr 29,10; Is 63,15; Semoneh cesreh; Qaddis; Mt 6,9), m a soprattutto come " P a d r e del Signore nostro Gesù C r i s t o " (Rm 15,6; 2Cor 1,3; 11,31) 270 . Egli è ora definito da una speciale relazione con lui, che è "figlio s u o " (cf. sopra). Lo ha inviato (cf. Rm 8,3; Gal 4,4), lo ha dato senza risparmio (cf. Rm 8,32), lo ha presentato in espiazione (cf. Rm 3,25): non per compiere atti marginali ma per realizzare l'evento decisivo della redenzione. Non vale più quindi la tradizione isaiana, confluita neh"Haggadah pasquale (e basata su Dt 26,8) 2 7 1 , che pensa a Dio come salvatore in proprio, senza l'aiuto di alcun mediatore. L'uso della preposizione Sia, " m e d i a n t e , attraverso, per mezzo d i " (con il genitivo), testimonia massicciamente la funzione mediatrice di Cristo, espressa in vari contesti: a p r o p o sito della sua morte (cf. Rm 7,4 + 5,15-21), della sua vita di Risorto (cf. Rm 5,10-11), della predicazione (cf. Rm 10,17; 1 Cor 1,21; 2Cor 5,18), dello stato attuale e stabile del cristiano (cf. Rm 5,1-2), della preghiera di ringraziamento e di lode (cf. ICor 15,57; 2Cor 1,20; cf. Rm 16,27) e della salvezza dall'ira futura (cf. lTs 1,10) 272 . 269
Vedi in merito il concetto di "cristologizzazione diffusa" come fattore strutturante delle lettere paoline in J.-N. Aletti, Gesù Cristo: unità del Nuovo Testamento?, Boria, Roma 1995 (orig. frane, Paris 1994), pp. 28-72. 270 L'espressione ricorre solo più in Col 1,3; Ef 1,3; lPt 1,3, ed è quindi tipicamente paolina. 271 Cf. M. Pesce, Dio senza mediatori. Una tradizione teologica dal giudaismo al cristianesimo, Paideia, Brescia 1979. 272 In generale, vedi J. Schlosser, Théologie et cristologie dans les lettres de Paul, in ACFEB, Paul de Torse, LD 165, Du Cerf, Paris 1996, pp. 331-359, che fa vedere bene come la figura di Gesù stia al punto d'incrocio tra l'orientamento dell'uomo verso Dio (linea ascendente) e il cammino percorso da Dio verso l'uomo (linea discendente).
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Anche per l'accesso a Dio è ora determinante la mediazione di Gesù Cristo. Lo si vede chiaramente nell'uso del sostantivo 7tpoaaycoyri, che in tutta la Bibbia greca ricorre solo in Paolo (Rm 5,2: "Giustificati dunque per la fede, siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, mediante il quale abbiamo ottenuto l'accesso a questa grazia nella quale stiamo saldi"; e poi Ef 2,18; 3,12)273. Nella grecità, a seconda dei contesti, il termine può significare "approdo" (di una nave a un porto), "ammissione" (all'udienza di un re), "comparizione" (davanti a un giudice), "presentazione" (di un'offerta all'altare). Sempre comunque implica un avvicinamento, cioè il superamento di una distanza e in senso personalistico l'ottenimento di un faccia a faccia. È così che, mediante Gesù Cristo, viene superata alla radice quella condizione di lontananza e di estraneità che normalmente affligge l'homo religiosus di fronte al tremendum della inarrivabile maestà divina. In Cristo ormai a ogni cristiano è concesso di guardare, senza più alcun timore, Dio negli occhi! Resta il fatto che si accede a Dio, non a Cristo; ma è Cristo che introduce.
8.2 L o
Spirito
Anche lo Spirito, che tradizionalmente era detto " d i D i o " o " S a n t o " , ora viene originalmente qualificato come " d i Cristo" (Rm 8,9), "del Figlio" (Gal 4,6), " d i Gesù C r i s t o " (FU 1,19)274. Ricordiamo qui che persino l'augurio trinitario in 2Cor 13,13 inizia con " l a grazia del Signore Gesù C r i s t o " , come a dire che solo alla sua luce si possono comprendere appieno " l ' a m o r e di Dio p a d r e " e " l a comunione dello Spirito S a n t o " .
8.3 L a croce La croce secondo Paolo ha sempre e soltanto una dimensione cristologica (cf. sopra: 4.1.1). Sarebbe impossibile per lui dire in termini antropologici che bisogna " p o r t a r e la propria c r o c e " (come si legge in Mt 10,38 e 16,24 parr.). La croce infatti è solo quella
273 Mentre i LXX usano solo il verbo xpocàfeiv (perlopiù in senso cultuale), Paolo mediante il sostantivo denota una riflessione non sull'atto episodico dell'accesso ma274 sulla natura e sull'importanza dell'accesso medesimo. Le analoghe formulazioni di At 16,7 e lPt 1,11 sono di ascendenza paolina. Sull'insieme vedi R. Penna, Lo Spirito di Cristo (cit.), dove tra l'altro di 2Cor 3,16 ("lo Spirito del Signore") si dà un'interpretazione teo-logica.
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di Cristo: solo in essa si può avere fede, e solo essa è fonte di redenzione. È questa croce che non va svuotata di senso (cf. ICor 1,17), sia perché è quella di Cristo, sia perché essa non fu affatto una metafora! La partecipazione del cristiano ad essa avviene a un duplice livello: innanzitutto e fondamentalmente come immersione del peccatore nella morte redentrice di Cristo (cf. sopra: 5.2), e solo secondariamente come condivisione dei patimenti di Cristo da parte del sofferente. In questo secondo senso, l'unione a lui avviene essenzialmente nel campo delle sofferenze apostoliche sostenute a causa dell'evangelo (cf. 2Cor 4,7-15; 6,3-10; 11,2112, IO)275.
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avrebbe un senso specificamente cristiano, se non si fondasse prioritariamente su questo dato cristologico276.
8.5 // cristiano Il cristiano stesso, come abbiamo visto, ottiene la sua vera fisionomia non dal sostenere determinati valori astratti ma dal vivere "in Cristo Gesù" e corrispondentemente dal fatto che "Cristo vive in m e " (cf. sopra: 5.2.2).
8.6 L'ultimo
giorno
8.4 La chiesa La chiesa stessa viene ora originalmente definita come "corpo di Cristo" (ICor 12,27; cf. Rm 12,4-5). Tralasciamo qui due importanti questioni esegetiche: (1) se la definizione comporti solo un paragone, così che l'equazione più importante sarebbe quella tra chiesa e corpo, oppure se essa implichi una sorta di identificazione, così che l'equazione si giocherebbe tra chiesa e Cristo; (2) quale sia l'origine storico-culturale-religiosa di questa interessante definizione (la concezione stoica del cosmo e della società? l'idea della divinità suprema come figura umana gigantesca? il linguaggio eucaristico? la teoria moderna della personalità corporativa? una prospettiva gnostica?). Ciò che qui importa notare è che la chiesa non esiste senza un rapporto vitale con Cristo, ma riceve solo da lui la propria identità; neanche la definizione di "popolo di Dio"
275 Su questa linea si porrà la deuteropaolina Col 1,24, la cui traduzione corrente (cf. CEI: "Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la chiesa") andrebbe corretta così: "...e completo quello che manca ai patimenti di Cristo nella mia carne...". Infatti la costruzione della frase nel testo originale lascia intendere che, se c'è una mancanza, questa riguarda non i patimenti di Cristo, ma la mia carne; cioè: quello che manca concerne non l'oggettiva passione di Cristo, che è in sé completa e sufficiente, ma la mia soggettiva partecipazione a essa. È "la mia carne", cioè la mia esistenza storica, la mia vita, che è chiamata a corrispondere esattamente, pur nelle sue immancabili manchevolezze, alla totale autodedizione di Cristo per la chiesa fino alla morte. Tra i Commenti, cf. J.- N. Aletti, Col., pp. 121-123. Più in generale, vedi P. Iovino, Chiesa e tribolazione. Il tema della 0XtcjH<; nelle lettere di S. Paolo, Facoltà teologica di Sicilia "Studi" 1, Palermo 1985.
Anche Y ultimo giorno, sulla falsariga del veterotestamentario "giorno del Signore" ( = Yhwh), viene detto "del Signore" (= Gesù risorto; lTs 5,2) o "di Gesù Cristo" (ICor 1,8; FU 1,6); analogamente "il tribunale" del giudizio finale, oltre che essere di Dio (Rm 14,10) è pure di Cristo (2Cor 5,10). Altri concetti, tradizionalmente riservati a Dio, sono ora applicati a Cristo: la grazia (cf. Gal 1,6), l'agape (cf. Rm 8,35), la dynamis (cf. 2Cor 12,9), e persino la Legge (cf. Gal 6,2).
8.7 Conclusione Tutto questo trapasso semantico di concetti teologici era inevitabile, dal momento che per Paolo la figura di Gesù Cristo veniva ad assumere, all'interno della costellazione dei tradizionali contenuti di fede, un ruolo di catalizzatore tale da attrarre, modificare e risistemare i vari elementi costitutivi della fede stessa (di quella ebraica e di quella cristiana). Se questo ruolo era stato storicamente imprevisto, esso però si rivelava necessario a motivo dell'inaudita statura misterica propria di Gesù. 276 Tuttavia H. Merklein, Derpaulinische Leib-Christi-Gedanke, in Id., Studien zu Jesus und Paulus, pp. 319-344, fa osservare che il discorso di Paolo in materia, stante il contesto, non è tanto a servizio della cristologia quanto piuttosto della dimensione ministeriale della comunità cristiana. In più, oltre a E. Kàsemann, Il problema teologico del motivo del corpo di Cristo, in Ib., Prospettive paoline, pp. 149-174, vedi anche H.-W. Park, Die Kirche als "Leib Christi" bei Paulus, TVG Monographien und Studienbucher 378, Brunnen, Giessen-Basel 1992, che si richiama alla tipologia Adamo-Cristo.
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Tuttavia, se è vero che Paolo ripensa la teologia dal punto di vista della fede cristologica, va pur sempre ricordato che "la sua cristologia è teocentrica"277. La figura di Cristo, per quanto idealmente gigantesca, non solo non risucchia in sé tutta la divinità possibile, ma non è neanche quella di un «secondo dio»278. Certo egli è caratterizzato da una inconfondibile e forte ontologia personale; questa però è posta al servizio di una funzione che consiste nel ricondurre l'uomo a una nuova comunione con Dio. C'è un passo in Paolo che sembra addirittura declassare Gesù a servitore temporaneo della gloria di Dio, là dove si dice che "quando sarà la fine egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza;... e quando tutto gli sarà sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti" (ICor 15,24.28). Certamente il contesto prossimo e remoto non lascia alcun dubbio che non si tratta affatto di un'abdicazione dell'identità di Figlio di Dio e che non viene meno la comunione con lui (cf. ICor 1,9; 15,49; Rm 8,29). Del resto, anche l'esercizio storico della signoria di Gesù è chiaramente ordinato "a gloria di Dio Padre" (Fil 2,11). In questo senso l'Apostolo scrive che "Cristo è di Dio" (ICor 3,23), e addirittura altrove egli dice che i cristiani stessi "regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo" (Rm 5,17). Quindi la successione presente nel passo citato (prima la regalità di Cristo e poi quella di Dio) evidenzia soltanto in termini icastici il fatto che la signoria di Cristo è il mezzo privilegiato per realizzare compiutamente la signoria di Dio nel mondo279. Dall'insieme dunque si deduce che il cristiano non è un cristolatra nel senso negativo del termine. Cristo non occupa tutto lo spazio del divino, ma è mediatore tra Dio e l'uomo, inverando in sé entrambi i poli. Perciò è "a Dio che rendo culto nel mio spirito, annunciando il vangelo del Figlio suo" (Rm 1,9).
277 278
W. Thusing, Per Christian in Deum, p. 258. Questo esplicito sintagma sarà proprio di Numenio di Apamea e della letteratura ermetica; cf. A. Magris, La logica del pensiero gnostico, Morcelliana, Brescia2791997, pp. 129s. Oltre ai Commenti, cf. W. Thusing, Per Chrìstum in Deum, pp. 238-254. Più in generale, vedi R. Penna, Dialettica tra ricerca e scoperta di Dio nell'epistolario paolino, in Id., L'apostolo Paolo, pp. 593-629.
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LA TRADIZIONE PAOLINA
Premesse Paolo non rimase un gigante isolato all'interno delle origini cristiane. Egli 'fece scuola'. Oggi, infatti, per quanto si debba constatare che nell'età subapostolica un certo gruppo di scritti lo ignori del tutto (così la Didaché, il Pastore di Herma, le opere di Papia e di Egesippo) e altri ne dimostrino un influsso solo parziale (così Clemente Romano e Ignazio di Antiochia), tende a farsi sempre più strada l'opinione che alcune lettere del suo epistolario canònico siano in realtà il prodotto di vari suoi discepoli, che le hanno scritte dopo la sua morte. Le lettere in questione sono sei: 2Ts, Col, Ef, e le tre Pastorali (l-2Tm, Tt). Su di esse non manca una specifica e abbondante bibliografia1. A queste lettere noi accorpiamo anche la lPt che, pur recando come mittente il nome dell'apostolo Pietro, oggi viene perlopiù considerata uno scritto di eredità paolina, almeno per quanto riguarda alcuni suoi temi importanti2. 1 Vedi soprattutto H.-M. Schenke, Das Weiterwirken des Paulus und die Pflege seines Erbes durch die Paulus-Schule, NTS 21 (1975) 505-518; U.B. Mùller, Zur frùhchristlichen Theologiegeschichte. Judenchristentum und Paulinismus in Kleinasien an der Wende vom ersten zum zweiten Jahrhundert n. Chr., Mohn, Gùtersloh 1976; P. Mùller, Anfànge der Paulusschule. Dargestellt am zweiten Thessalonicherbrief und am Kolosserbrief, AThANT 74, Theologischer Verlag, Zùrich 1988; R.F. Collins, Letters That Paul Did Not Write. The Epistle to the Hebrews and ThePauline Pseudepigrapha, "Good News Studies" 28, Glazier, Wilmington 1988; C.L. Stockhausen, Letters in the Pauline Tradition: Ephesians, Colossians, I Timothy, II Timothy and Titus, "Message of Biblical Spirituality" 13, Glazier, Wilmington 1989; D.L. Mealand, The Extent of the Pauline Corpus. A Multivariate Approach, JSNT 59 (1995) 61-92; R. Fabris, La tradizione paolina, "La Bibbia nella storia" 12, Dehoniane, Bologna 1995. Vedi anche G. Barbaglio, Paolo di Tarso e le origini cristiane, Cittadella, Assisi 1985, pp. 267-314. 2 Oltre alle Introduzioni (come quelle di H.-M. Schenke e K.M. Fischer, Gùtersloh 1978, pp. 199-216; H. Koester, Berlin 1980, pp. 731-733), cf. l'ampia discussione in R.E. Brown & J.P. Meier, Antiochia e Roma, chiese-madri della cattolicità antica, Cittadella, Assisi 1987, pp. 163-169. Ricordiamo qui solo tre dettagli di cornice: la euloghia di 1,3 è chiaramente formulata in base a 2Cor 1,3 ed Ef 1,3; il nome di Silvano in 5,12 ci riporta inevitabilmente a un collaboratore della cerchia paolina (cf. lTs 1,1); il nome di Babilonia come luogo di origine della lettera ri-
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La sottrazione di queste lettere alla paternità dell'autore dichiarato nel prescritto non è altro che una presa d'atto del fenomeno della cosiddetta pseudepigrafia, abbastanza praticato nell'antichità sia in ambito semitico sia in quello greco (non in ambito latino)3. A monte di questa prassi nel Nuovo Testamento, tutt'altro che l'intenzione di falsificare e mettere in cattiva luce il personaggio in nome del quale si scrive, c'è il desiderio di appoggiarsi a lui e attualizzare la sua presenza in nuovi contesti storico-ecclesiali che richiedono un autorevole intervento risolutore. Perciò le nuove lettere sono in realtà un omaggio nei suoi confronti (in questo senso, vedi ciò che nel secolo III d.C. scriverà il filosofo platonico Giamblico, Vit. Pyth. 158, a proposito dei molti pitagorici che avevano scritto sotto il nome del grande Maestro: "Nobile cosa che essi attribuissero tutto a Pitagora e assai di rado si procurassero una gloria personale per le loro scoperte: onde sono assai pochi coloro dei quali si conoscono gli scritti propri"). Oltre tutto, questa prassi costituisce un segno eloquente di continuità della tradizione. Le ragioni per ritenere pseudepigrafico uno scritto sono normalmente di tre tipi: letterario (in quanto il lessico e lo stile non collimano con quelli delle altre lettere), storico (in quanto esse e gli avvenimenti riferiti mal si combinano con il quadro biografico dell'Apostolo), e contenutistico (in quanto la tematica trattata rappresenta una variazione rispetto a quella delle lettere autentiche). Quanto alle deuteropaoline, bisogna certo riconoscervi la presenza di un innegabile paolinismo di fondo; ma ciò che vi si nota di nuovo rispetto alle grandi lettere dell'Apostolo, oltre a un cambiamento di stile sul piano formale, è un originale slittamento tematico, che riguarda una serie di argomenti come la giustificazione per fede, l'ecclesiologia, la parenesi e l'escatologia. Anche il modo di esprimere la fede in Cristo conosce delle interessanti variazioni, che occorre onorare considerandole a parte. Ne rileviamo sei.
chiama la città di Roma, che dopo l'anno 70 viene così qualificata nella letteratura apocalittica (cf. Ap 14,8; 16,19; 17,5; 18,2.10.21; 2Bar 11,1; 67,7; Or. Syb. 5,143.159), e quindi una chiesa segnata dalla corrispondenza e dalla presenza di Paolo. Vedi sotto: §7. 3 Sull'argomento cf. R. Penna, Anonimia e pseudepigrafia nel Nuovo Testamento: comparatismo e ragioni di una prassi letteraria, RivBibl 33 (1985) 319-344; D.G. Meade, Pseudonymity and Canon. An Investigation into the Relationship o/Authorship and Authority in Jewish and Earliest Christian Tradition, WUNT 39, Mohr, Tùbingen 1986.
L'ANNIENTAMENTO ESCATOLOGICO DELL'EMPIO
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1. L'annientamento escatologico dell'Empio (2Ts) La seconda lettera ai Tessalonicesi spicca all'interno del Nuovo Testamento per una pagina particolarmente intrigante anche se di non facile interpretazione (cf. 2,1-12). L'argomento di fondo riguarda il ritardo della parusìa, che distanzia questo scritto dalla prima lettera. Infatti, mentre là Paolo affermava la possibilità che lui e i suoi destinatari potessero essere ancora in vita al momento della seconda venuta di Cristo (cf. lTs 4,15; ma vedi anche Rm 13,11; ICor 15,51), qui invece si invitano i lettori a non lasciarsi facilmente confondere o ingannare "né da pretese ispirazioni, né da parole, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia imminente" (2,2). Il divario fra le due posizioni è evidente, e in più si ricava netta l'impressione che l'autore intervenga per correggere la sensazione suscitata dalla prima lettera come se a scriverla non fosse la stessa persona 4 . Va anche detto che la nuova presa di posizione viene fatta con un linguaggio debitore dell'apocalittica, che non solo accetta il tradizionale calcolo apocalittico del tempo ma accentua anche la distanza esistente tra il presente e il futuro mediante l'inserimento di fasi intermedie (cf. 2,3: "prima dovrà avvenire l'apostasia"; 2,6-7: qualcosa finora la ostacola, ma sarà tolto di mezzo; 2,8: "solo allora...") 5 . La fine ultima viene descritta con lo scenario di una lotta senza quartiere tra due contendenti, ciascuno dei quali dispiega tutta la forza di cui dispone. Da una parte, c'è un personaggio variamente etichettato come "l'uomo iniquo, il figlio della perdizione, colui che si contrappone e s'innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio" (2,3-4). Egli si manifesterà "nella potenza di satana con ogni sorta di portenti, di segni e prodigi menzogneri e con ogni sorta di empio inganno per quelli che vanno in rovina" (2,9-10)6. Dall'altra, c'è "il Signore Gesù che lo distruggerà con
4 Cf. G.S. Holland, "A Letter Supposedly from Us": A Contribution to the Discussion about the Authorship of2 Thessalonians, in R.F. Collins, ed., The Thessalonian Correspondence, BETL 87, University Press, Leuven 1990, pp. 394-402; e più in generale R.F. Collins, Letters That Paul Did Not Write, pp. 209-241. 5 Cf. H. Koester, From Paul's Eschatology to the Apocalyptic Schemata of 2 Thessalonians, in R.F. Collins, ed., The Thessalonian Correspondence, pp. 441-458. 6 Cf. J. Ernst, Die eschatologischen Gegenspieler in den Schriften des Neuen Testaments, BU 3, Pustet, Regensburg 1967, pp. 24-79. Su un piano più divulgativo, cf. B. McGinn, L'Anticristo, Corbaccio, Milano 1996.
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il soffio della sua bocca e lo annienterà all'apparire della sua venuta" (2,8)7. L'Empio, per quanto venga descritto in termini personali, è strettamente collegato con il mistero dell'iniquità diffusamente presente nel mondo8. Egli è soprattutto un anti-Dio, come risulta dai rimandi agli oppositori di Yhwh nell'Antico Testamento (cf. Dn 11,36 [su Antioco IV Epifane]; Ez 28,2 [contro il re di Tiro]; Is 14,13 [sulla morte del re di Babilonia]); perciò contro di lui il Signore Gesù interviene fondamentalmente per incarico di Dio stesso9. Ma l'Empio finisce per essere anche inevitabilmente un anti-Cristo, se non altro perché lo scontro avviene appunto tra l'Empio e Gesù ed è questi che lo sconfigge. Anzi, mentre la comparsa dell'Empio avviene "nella potenza (xa-c'èvépyeiav) di satana", dimostrandosi con ciò alle sue dipendenze, l'intervento di Gesù non è detto avvenire "nella potenza" di nessuno, dando l'impressione che egli agisca in proprio; dunque già qui, ancor prima che nella sua azione vittoriosa, si intravede la grandiosa statura di questo trionfatore. Infatti, è sorprendente rilevare l'estrema diversità di comportamento delle due figure antagoniste. Mentre il primo mette in atto un pomposo dispiegamento di forze come se si trattasse di una inattaccabile dimostrazione di superiorità10, il secondo invece ne ottiene fa7 Tra i due contendenti si frappone una terza figura o una terza forza, detta sia al neutro sia al maschile xò/ó xaxéxov/cov (2,6.7), "ciò/colui che trattiene (sott. l'evento escatologico)". La sua interpretazione, nonostante abbia fatto scorrere i classici fiumi d'inchiostro, resta problematica; vedi l'ampia trattazione di C.H. Giblin, The Threat to Faith. An Exegetical and Theological Re-examination o/2 Thessalonians 2, AB 31, PIB, Rome 1967, pp. 167-242 (cf. anche Id., 2 Thessalonians 2 Re-read as Pseudepigraphal: A Revised Reaffirmation of 'The Threat to Faith ', in R.F. Collins, The Thessalonian Correspondence, pp. 459-469). Mentre Giblin lo identifica negativamente con un movimento pseudocarismatico all'interno della stessa comunità tessalonicese, i più vi scorgono l'allusione a una qualche realtà positiva (sia essa il piano divino di salvezza, la predicazione del vangelo, l'impero romano, o addirittura il ritardo stesso della parusìa: in quest'ultimo senso, cf. W. Trilling, Der zweite Brief, p. 94). 8 Un particolare parallelismo si può notare tra queste espressioni e il manoscritto di Qumràn 1Q27, detto anche "Libro dei misteri", su cui vedi l'ampia trattazione in C.H. Giblin, The Threat to Faith, pp. 168-176. 9 C'è chi ha sostenuto che almeno in 2Ts 1,12 Gesù riceva l'appellativo di "Dio" (cf. J.A. Bailey, Who wrote II Thessalonians?, NTS 25 [1978-79] 131-145, p. 139: questo sarebbe un argomento in più contro l'autenticità paolina); la formula però va letta piuttosto sulla falsariga del saluto nel precedente 1,2 (cf. i Commenti). 10 È interessante il parallelismo con Or. Syb. 3,63-74: "Allora Beliar verrà dai 'Sebastenoi' [- probabile allusione a Nerone, discendente della linea di Augusto; cf. Asc. Is. 4], ed egli... compirà molti segni per gli uomini. Ma essi non avranno conseguenze per lui. Però svierà uomini e svierà molti credenti, ebrei scelti, e anche altri senza legge che non hanno ancora ascoltato la parola di Dio. Ma quando la
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cilmente la sconfitta con ciò che c'è di più fragile e inconsistente, "lo spirito della sua bocca", un soffio, paradossalmente diventato irresistibile. A monte di questo linguaggio c'è il classico testo messianico di Is 11,4 LXX ("Colpirà la terra con la parola della sua bocca, e con lo spirito delle sue labbra toglierà di mezzo l'empio"), che qui viene caricato di una inedita valenza cristologica11. La cristologia della nostra lettera, dunque, si distingue per la sua impronta non tanto escatologica quanto apocalittica, nel senso che al Signore Gesù viene riconosciuto un risolutivo intervento vittorioso nello scontro finale con il mistero dell'iniquità (cf. Ap 19,11-21; 20,7-10). Ma non si tratta soltanto di un duello isolato. Secondo la nostra lettera i due attori principali coinvolgono nelle proprie sorti l'intera umanità, provocandone la spaccatura: dietro l'Empio stanno "quelli che si perdono" (2,10b-12), mentre con il Kyrios ci sono i cristiani (di Tessalonica) che "Dio ha scelto fin dall'inizio (àTt'àpxris; oppure àrcapxriv, 'come primizia') per la salvezza" (2,13-14). È propriamente questo tema che all'autore della lettera sta a cuore di affrontare, sia per esortare i destinatari alla saldezza spirituale (cf. 2,15; 3,6) sia per assicurarli che sono amati dal Signore, il quale "ci ha dato una consolazione eterna e una buona speranza" (2,16). Sicché in definitiva la cristologia è posta al servizio della pastorale. 2. "Il Diletto" (Ef 1,6) Nella euloghia iniziale della lettera agli Efesini si celebra, tra l'altro, l'elargizione di un'abbondante grazia da parte di Dio, avvenuta "nel Diletto (èv xw T^O.TO\\LÌ^), nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati" (Ef 1,6). Il senso di questa affermazione viene parzialmente spiegato in un passo parallelo della lettera ai Colossesi, dove leggiamo che Dio "ci strappò dal potere delle tenebre e ci traspose nel regno del Figlio del suo amore (ó uìò? vr\<; àyó.Tzr\s ocù-cou), nel quale abbiamo la minaccia del grande Dio si avvicina e una forza bruciante viene attraverso il mare verso terra, essa brucerà anche Beliar e tutti gli uomini prepotenti, quanti pongono fede in lui" (cf. J.J. Collins, Sybilline Oracles, in J.H. Charlesworth, ed., The Old Testament Pseudepigrapha, I, p. 360). 11 Sulla fortuna del testo isaiano nel giudaismo, cf. M.-A. Chevallier, L esprit et le Messie dans le Bas-judaisme et le Nouveau Testament, PUF, Paris 1958; in particolare, vedi R. Penna, Lo Spirito di Cristo, pp. 173-186.
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redenzione, la remissione dei peccati" (Coi 1,13-14). In quest'ultimo passo, a parte l'interessante concezione secondo cui i credentibattezzati sono già oggi collocati nel Regno (cf. anche 2,12; 3,1-2), notiamo che la locuzione cristologica è letterariamente un semitismo e si può ben tradurre "Figlio suo diletto". La formulazione di Ef 1,6, costruita con un participio perfetto, è unica nel suo genere. Essa si differenzia dal più ricorrente aggettivo verbale àyaizr\-zó<; (solo nei Sinottici: Me 1,11//[battesimo al Giordano]; Me 9,7/Mt 17,5 [trasfigurazione]; Me 12,6/Lc 20,13 [parabola dei vignaioli omicidi]), in un doppio senso. Innanzitutto, a differenza di questo, essa insiste non tanto sul fatto oggettivo dell'amore di Dio nei confronti di Cristo quanto soprattutto sul fatto che questo amore è vivo e perdurante nel tempo12; ed è interessante osservare che la stessa forma verbale serviva ai LXX per tradurre il vezzeggiativo ebraico yesurun, con cui nell'Antico Testamento si qualifica il popolo d'Israele come il prediletto di Dio (cf. Dt 32,15; 33,5.26; Is 44,2)13. Il titolo, dunque, esprime una relazione di particolare intimità paterna tra Dio e Gesù. In secondo luogo, va notato il contesto della sua occorrenza, che è quello dell'effusione del sangue e quindi della passione (appena alluso nella suddetta parabola sinottica)14, con la connessa remissione dei peccati. Sullo sfondo si intravede lo schema veterotestamentario della Aqedah o sacrificio di Isacco in Gn 22, dove Dio chiede ad Abramo di sacrificargli "il figlio unico che ami" (così TM; invece i LXX hanno: "il figlio diletto che ami")15. In questo modo si suggerisce, caso unico nel Nuovo Testamento, che l'amore di Dio accompagnò il Figlio fin nel dramma della sua passione e morte, anche se sarebbe forse eccessivo vedere qui un commento della chiesa primitiva al grido di abbandono emesso da Gesù sulla croce secondo Me 15,34/Mt 27,46.
12 II tema esplicito dell'amore di Dio nei confronti di Gesù è presente poi solo in Gv 3,15; 10,17; 15,9; 17,24.26. 13 Nulla prova che "il Diletto" fosse un titolo messianico per gli ebrei, mentre probabilmente lo diventò per i primi cristiani come risulta da Ignazio, ad Smyrn. incipit; Barnaba, Epist. 3,6; 4,3.8 (cf. A.T. Lincoln, Ephesians, WBC 42, Word Books, Dallas TX 1990, pp. 26-27). 14 Vedi anche Gv 10,17: "Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita...". 15 Filone Al. integra i due aggettivi dicendo che Abramo donò a Dio "il figlio unico e diletto" (DeAbr. 196); analogamente FI. Giuseppe scrive che Abramo "amava appassionatamente (Ù7t6pr)Yà7ta)" Isacco in quanto "unigenito" {Ant. 1,222).
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Il tema dell'amore di Dio verso gli uomini in genere e verso i cristiani in specie è diffuso nel Nuovo Testamento (cf. per esempio Gv 3,17; e Rm 8,37), ma il testo di Ef 1,6 (e Col 1,13) resta singolare per dire che l'amore con cui Dio è legato a Gesù Cristo non ha confronti. Indirettamente i cristiani stessi sono invitati a ritenere che essi, in quanto tali, non sono amati da Dio se non in quanto compresi nell'amore incomparabile che egli ha per colui che è Figlio suo nel senso più pieno del termine. 3. "Capo" (Col-Ef) Il titolo cristologico di xt
16 In ICor 12,21 il termine è presente all'interno dell'apologo sul corpo umano ("non può il capo dire ai piedi: Non ho bisogno di voi"), al quale Paolo paragona l'articolazione ministeriale della comunità cristiana, ma non ha alcuna valenza cristologica. Questo può essere uno dei motivi per affermare che Col-Ef sono deuteropaoline.
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Nel testo colossese è da notare la pregnante espressione xpaxóòv T7]v xt<pa.Xr\v, "afferrarsi al capo, tenere saldamente il capo". Essa esprime molto bene la necessità di agganciarsi a un sicuro punto di appoggio per non cadere nel vuoto o meglio per non perdersi in inutili esteriorità. Contestualmente infatti (cf. Col 2,16-23) l'autore invita pressantemente i lettori a non far consistere la propria identità cristiana in questioni di cibo e di bevanda (vv. 16a.21) o in questioni di feste e tempi sacri (v. 16b) o peggio in un'abnorme venerazione di angeli (v. 18). Tutto ciò è tacciato di ombra (v.l7a), vano orgoglio di una mente carnale (v. 18), prescrizioni di uomini destinate a scomparire (v. 22), espressioni di una religiosità affettata (v. 23). Il fatto è che al di fuori di Cristo non ci sono né pratiche religiose né potenze intermedie che possano fare da surrogato alla sua unica e sufficiente funzione salvifica. Se tutto il resto è ombra, egli solo è la realtà corposa a cui potersi aggrappare17. Ma, poiché il concetto di corpo richiama inevitabilmente la chiesa di cui egli è il capo (cf. Col 1,18), a lui si può saldamente aggrappare solo chi partecipa alla comunità cristiana. È il contesto efesino a sviluppare più ampiamente i risvolti ecclesiologici del titolo. Infatti, tenendo presente che il discorso riguarda il Risorto, vi vengono esplicitate due funzioni complementari di Cristo-capo. L'una è che ciascuno nella chiesa ha in dono da lui una misura di grazia ("secondo la misura del dono di Cristo": Ef 4,7; cf. Rm 12,6; ICor 12,7.27; lPt 4,10), cosicché ogni battezzato ha una propria funzione da svolgere all'interno della comunità cristiana con piena responsabilità e dignità di adulto. L'altra è che a Cristo va ricondotta anche una serie di ministeri qualificati, poiché "egli diede alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come annunciatori, altri come pastori e maestri" (Ef 4,11)18.
"CAPO"
È interessante osservare che, mentre Paolo attribuiva la molteplicità dei ministeri allo Spirito (cf. ICor 12,7.11), qui il solo donatore è il Cristo risorto ("colui che ascese al di sopra di tutti i cieli": Ef 4,10a); inoltre, mentre al v. 7 si parla di un dono di grazia fatto a ciascuno, nel v. 11 sono i ministeri ad essere considerati essi stessi dei doni alla chiesa19. Dicendo che il Risorto è stato innalzato "per riempire il tutto" (4,10b), si vuol sottolineare che i suoi doni non sono un suo surrogato sostitutivo, ma un suo modo di presenza viva e dinamica. Se poi osserviamo che i doni ministeriali elencati non sono tanto quelli riconducibili alla fase del Gesù terreno ma provengono dalla sua condizione gloriosa, ne risulta che « fondatore » della chiesa non è soltanto colui che patì sotto Ponzio Pilato ma anche colui che ora siede alla destra di Dio. Ciò significa che il cristianesimo e la chiesa soggiacciono a una perenne rifondazione, cosicché, tutt'altro che vivere per forza d'inerzia, essi sono incessantemente e attualmente vivificati dal Cristo risorto. Il passo di Ef 5,22-33 evidenzia a suo modo questo rapporto sempre fresco mediante la metafora dell'unione sponsale tra Cristo e la chiesa20. Qui l'idea di capo è congiunta a quella di salvatore21 e, pur supponendo una specifica concezione del rapporto matrimoniale, culturalmente condizionata (cf. ICor 11,3-10: l'uomo capo della donna)22, è per così dire temperata dal tema dell'amore dello sposo verso la sposa (cf. vv. 25.28-29.33). La frase "Cristo amò la chiesa e diede se stesso per lei" è enunciata quasi come un assioma che, da una parte,.suppone già note le modalità concrete di questa dimostrazione di amore (cf. 5,2), e, dall'altra, attribuisce alla chiesa-comunità il ruolo di un partner personificato, oggetto delle 19
Cf. A.T. Lincoln, Ephesians, p. 241. Essa va oltre il passo di 2Cor 11,2 ("Vi ho promessi a un unico sposo come vergine casta da presentare a Cristo"), dove la frase non solo è pronunciata di passaggio ed è priva di qualunque sviluppo, ma è detta della sola chiesa corinzia; in Ef, invece, abbiamo un'intera sezione epistolare dedicata al tema e soprattutto la ekklesia di cui si parla è quella universale (secondo una semantica che inizia appunto con Ef). 21 La frase del v. 23 ("Cristo è capo della chiesa, essendo egli salvatore del corpo") si spiega in definitiva, non secondo improbabili concezioni gnostiche, ma riconoscendo che il secondo titolo spiega di fatto il primo: Cristo ha acquisito la qualifica di capo solo perché ha salvato la chiesa sacrificandosi per essa, come l'autore ha già detto in 5,2 e ripeterà poco dopo in 5,25-27 (cf. R. Penna, Lettera agli Efesini, SOC 10, Dehoniane, Bologna 1988, p. 232). 22 Ma evidentemente in Ef, stando all'affermazione di 5,23, "l'origine della relazione si colloca fuori da considerazioni di tipo antropologico, sociale o morale" (M. Bouttier, L'Épìtre de Saint Paul aux Éphésiens, CNT IXb, Labor et Fides, Genève 1991, p. 242), essendo invece di ordine squisitamente cristologico. 20
17 L'opposizione formulata in Col 2,17 tra axtà e acòfia (cf. le diverse traduzioni del v. 17b: "la realtà è Cristo" [CEI, Einheitsubersetzung], "la realtà è il corpo del Cristo" [BJ, Peretto], "la realtà è del Cristo" [Aletti], "il corpo è di Cristo" [Lohse], "la réalité relève du Christ" [TOB], "the reality belongs to Christ" [New American Bible]) è di timbro platonico (cf. ombra-immagine in Eb 10,1) e trova equivalenti lessicali sia in Filone Al. (cf. De decal. 82, dove a proposito del secondo comandamento si dice che "il nome viene al secondo posto dopo l'oggetto, proprio come l'ombra che si accompagna al corpo") sia in FI. Giuseppe (cf. Bell. 2,28 a proposito di Archelao che, poco dopo la morte di Erode, si presenta ad Augusto "per chiedere al despota l'ombra di quella potestà regale di cui già aveva usurpato la sostanza"). Sulle sue ascendenze platoniche, cf. W.C. Vergeer, Sxtà and ow|xa. The strategy of contextualisation in Colossians 2:17. A Contribution to the guest for a legitimate contextual theology today, Neotest 28 (1994) 379-393. 18 Cf. H. Merklein, Das kirchliche Amt nach dem Epheserbrief, SANT 33, Kòsel, Mùnchen 1973, pp. 235-392.
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cure premurose di Cristo. A monte di una simile concezione ci sono sicuramente delle precomprensioni di provenienza non tanto pagana23 quanto biblica; infatti il tema dell'amore sponsale è trattato nelle Scritture, sia per descrivere la comune esperienza del rapporto tra un uomo e una donna (cf. Gn 2,24; Sai 45; Pro 30,19d; Ct), sia per qualificare il rapporto di Yhwh con Israele (cf. Os 1-2; Is 54,5-8; Ez 16,8-14), per non dire della sua proiezione escatologica a proposito della Gerusalemme celeste (cf. Ap 21,2). Ma s'impone l'originalità del nostro passo, che in termini inediti riferisce il mistero del matrimonio "a Cristo e alla chiesa" (5,32). Nel nostro passo si intrecciano inestricabilmente tre livelli: uno antroposociologico che parla di matrimonio come esperienza naturalecreaturale, uno ecclesiologico che intende globalmente la comunità cristiana come sposa e quindi come unica amata, e uno cristologie© che scorge in Cristo il principio di una gratuita e generosa iniziativa di amore, rivolta alla chiesa non perché essa abbia già una sua propria nativa bellezza ma al contrario per donargliela ex novo e quindi renderla finalmente bella, senza macchie né rughe (cf. 5,26-27).
3.2 Capo del cosmo e delle potenze angeliche Le due lettere Col-Ef sviluppano anche una originale concezione circa il ruolo di Pantokràtor esercitato dal Cristo risorto sull'intero mondo creato; esso, in particolare, viene specificato in rapporto a tutte quelle potenze che, in alternativa a Cristo stesso, possono pretendere di esercitare un dominio alienante sull'uomo. Per chiarezza, ma anche per maggiore fedeltà ai testi, distinguiamo i due ruoli, cominciando dal secondo. 3.2.1 Già Paolo aveva parlato della sottomissione a Cristo di "ogni principato e ogni potestà e potenza" (ICor 15,24), ma solo in prospettiva escatologica ("quando consegnerà il regno a Dio padre"). Ma Col-Ef ne parlano in una prospettiva molto diversa: qui si tratta di realtà che già sono in qualche modo sottoposte a Cristo fin dalla creazione (cf. Col 1,16: l'elenco comprende "troni, signorie, principati e potestà") e che poi sono state definitivamente sconfitte dalla sua morte (cf. Col 2,15: Dio, "avendo spogliato i prin23 Cf. l'excursus sullo hieròs gàmos o "nozze sacre" tra gli dèi in H. Schlier, Efesini, pp. 325-342.
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cipati e le potestà, ne ha fatto pubblico spettacolo dietro al corteo trionfale di Cristo")24 e soprattutto dalla sua risurrezione (cf. Ef 1,21: "al di sopra di ogni principato e potestà, di ogni potenza e signoria e di ogni altro nome che si possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro"); anche se possono ancora insidiare l'esistenza storica del cristiano (cf. Ef 6,12: "la nostra lotta infatti non è contro creature fatte di carne e di sangue, ma contro i principati e le potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti")25, occorre però che la chiesa indirizzi anche a loro l'annuncio della multiforme sapienza di Dio manifestatasi in Cristo (cf. Ef 3,10: "ai principati e alle potestà"). Che si tratti di forze avverse è chiaramente detto già nel passo paolino (cf. ICor 15,25: "Bisogna infatti che egli regni, finché abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi", con chiara allusione a Sai 110,1); anzi, esse sono affini al potere della morte, che sarà "l'ultimo nemico ad essere annientato" (ICor 15,26; cf. Ef 2,2)26. Sullo sfondo di questo tema cristologico si possono intravedere vari schemi ermeneutici, che possiamo elencare così: (1) l'immagine del Dio guerriero nell'AT (cf. soprattutto il Sai 68; e poi anche Gn 14,19-20; Gdc 5,4-5; Is 19,1; 1QM 11,4-5) con il sottotema dello herem o sterminio a cui vengono votati i nemici d'Israele (cf. Dt 13,16; Gs 10,40; ISam
24 A proposito di questo testo osserviamo che qualche Autore vuole tradurre letteralmente il participio medio ÒOTE.x8uaà[i£vo(;, non all'attivo "avendo spogliato", ma come un riflessivo "essendosi spogliato" (sott. "nella morte") per dire che solo in questo modo Cristo smascherò i suoi avversari (così R. Yates, Colossians 2.15: Christ Triumphant, NTS 37 [1991] 573-591); ma poiché il participio è immediatamente seguito dall'accusativo "i principati e le potestà", è meglio intenderlo come il complemento oggetto di un verbo attivo (cf. J.-N. Aletti, Col., p. 157). 25 Ma già Rm 8,38 affermava con sicurezza che "né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio che è in Cristo Gesù signore nostro". 26 Più discutibile è il senso degli "arconti di questo mondo" (ICor 2,6.8), di cui Paolo dice che se avessero conosciuto la gloria che ci era riservata non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. A fronte di una interpretazione di tipo demonologico (cf. J.L. Kovacs, The Archons, the Spirit, and theDeath of Christ, ìnApocalyptic and the New Testament. FSL. Martyn, Sheffield 1989, pp. 217-236; W. Schrage, Der erste Briefan die Korinther (lKor 1,1-6,11), EKK VII/1, Zùrich/Neukirchen Vluyn 1991, pp. 250 e 253-254), forse più probabile, ce n'è un'altra che invece storicizza questi esseri in rapporto ai capi terreni giudaici, responsabili della morte di Gesù (cf. M. Pesce, Paolo e gli arconti a Corinto. Storia della ricerca (1888-1975) ed esegesi di ICor 2,6.8, Paideia, Brescia 1977; G. Barbaglio, La prima lettera ai Corinzi, SOC 7, Dehoniane, Bologna 1995, pp. 169s e 172s).
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15,3-20 ecc.)27; (2) il tema del re davidico che deve trionfare dei suoi nemici fino ad averli come sgabello sotto i piedi (cf. Sai 110,1; Dn 7,14); (3) il tema di Adamo, sotto i cui piedi Dio ha posto tutte le cose (cf. Sai 8,6); (4) e infine lo schema del trionfo celebrato dai generali romani al Campidoglio (la cui descrizione maggiore è forse quella fornitaci da Plutarco, Aem.Paul. 32-34, che riguarda il trionfo del console Lucio Emilio Paolo dopo la vittoria sulla Macedonia a Pidna nel 168 a.C; vedi anche il trionfo di Vespasiano e Tito in F. Giuseppe, Bell. 7,121-157). Ci si potrebbe chiedere quale sia la differenza fra le varie designazioni, almeno fra quelle più ricorrenti che sono "i principati e le potestà"28, e quindi quale sia la loro natura29. Intanto bisogna notare alcune caratteristiche: essi non sono né nomi propri (come Belial e simili) né semplici nomi astratti (come Inganno, Peccato ecc.), inoltre ricorrono normalmente al plurale (riferendosi perciò a intere categorie di esseri), forse implicano una scalarità o gerarchizzazione interna (poiché ciascuno di essi fa parte di una serie), e infine sono ritenute come entità oggettive (infatti non abitano negli esseri umani o negli idoli) e non sotterranee (infatti il loro ambito d'azione è detto spazialmente «il cielo e la terra» oppure temporalmente «questo eone»). Ebbene, queste osservazioni ci rimandano a degli esseri angelici, ben configurabili su di uno sfondo giudaico30. Infatti nella chiesa di Colosse c'era almeno la mi27 Cf. T. Longman, The Divine Warrior: The New Testament Use of an Old Testament Moti/, WestTheolJourn 44 (1982) 290-307. 28 1 due termini, in greco, ricorrono quasi sempre uniti; cf. rispettivamente per il primo: Rm 8,38; ICor 15,24; Col 1,16; 2,10.15; Ef 1,21; 3,10; 6,12; e per il secondo: ICor 15,24; Col 1,16; 2,10.15; Ef 1,21; 2,2; 3,10; 6,12. 29 Oltre ai Commenti, cf. in particolare H. Schlier, Principati e potestà nel Nuovo Testamento, Morcelliana, Brescia 1967; i quattro volumi di W. Wink, Naming the Powers. The Language of Power in the New Testament, Fortress, Philadelphia 1984; Unmasking the Powers. The Invisible Forces That Determine Human Existence, ib., 1986; Engaging the Powers. Discernment and Resistance in a World of Domination, ib., Minneapolis 1992; Cracking the Gnostic Code. The Powers in Gnosticism, SBL MS 46, Scholars, Atlanta 1993; e poi: W. Carr, Angels and Principalities. The Background, Meaning and Development ofthe Pauline Phrase "hai archai kai hai exousiai", SNTS MS 42, University, Cambridge 1992; C E . Arnold, Powers ofDarkness: Principalities and Powers in Paul's Letters, InterVarsity, Downers Grove 1992; D.G. Reid, Principalities and Powers, in G.F. Hawthorne & R.P. Martin, edd., Dictionary of Paul and His Letters, InterVarsity, Downers Grove/Leicester 1993, pp. 746-752. 30 Cf. in particolare lEn 61,10: "(Quando) Egli chiamerà tutte le schiere del cielo e tutti i santi dall'alto e l'esercito di Dio, allora i Cherubini, i Serafini, gli Ofanim e tutti gli angeli della potenza, quelli delle Signorie, l'Eletto e l'altra potenza che è sulla terra e sul mare, in quel giorno prenderanno una voce e benediranno, magnificheranno, loderanno ed esalteranno con spirito di fede, di sapienza
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naccia di un alternativo "culto degli angeli" (Col 2,18), che stornava l'attenzione dalla centralità di Cristo e che aveva certo a che fare con i principati e le potestà (cf. Col 2,6-10). Si potrà discutere sulla specifica configurazione di questa concezione delle cose, che gli studiosi definiscono come «eresia colossese»31. L'importante è osservare che appunto questi esseri sono dotati di un potere, il quale svanisce di fronte a quello di Cristo; quindi, se per natura essi possono incutere timore all'uomo, il cristiano però sa che il loro è un potere debole poiché Cristo ha trionfato su di loro. Una reinterpretazione in chiave moderna potrà leggere in essi una metafora di tutte quelle strutture culturali, politiche, religiose, sociali, ideologiche, e persino psichiche, che rischiano di condizionare in qualunque modo e in definitiva di schiavizzare l'uomo32. Ma una demitizzazione di queste potenze è già presente in Paolo stesso, in quanto esse sono ormai depotenziate e quindi in linea di principio ormai inoffensive per chi si attiene saldamente a Cristocapo33. Solo in lui si trova ora la propria pienezza (cf. Col 2,10). 3.2.2. Ma il dominio di Cristo risorto si estende al cosmo intero, come leggiamo in Ef 1,10.22. Qui si fa un'affermazione fondamentale, che riguarda l'intestazione (anakefaldiosis) di tutte le cose in Cristo, quelle nei cieli e quelle sulla terra. L'esegesi del testo34 ci conduce a individuare alcuni suoi punti-forza. Il raro verbo impiegato, àvocxecpaXoucóaaaGai, suggerisce due idee importanti e complementari. L'una viene dal suo significato di "ricapitolare, compendiare, sintetizzare", ma nel senso non di ridurre a un breve riassunto bensì di "raccogliere elementi sparsi" e quindi "unificare". Cristo cioè riconduce a unità ciò che nel cosmo appare non solo frammentato ma anche diviso e lacerato. Egli assolve così alla stessa ecc.". Cf. anche 2En 20,1: "Là (= nel settimo cielo) vidi una luce molto grande e tutte le milizie di fuoco dei grandi arcangeli e degli incorporei, delle Virtù e delle Dominazioni, dei Principati e delle Potenze, Cherubini e Serafini, Troni e angeli dai molti occhi, dieci falangi, gli Ofanim che stavano brillanti..." (una recensione più breve parla solo di "tutte le milizie di fuoco degli angeli incorporei e gli Ofanim"). 31 Tra la vasta bibliografia in materia, cf. almeno lo studio di L.T. Stuckenbruck, Angel Veneration and Christology. A Study in Early Judaism and in the Christology of the Apocalypse of John, WUNT 2.70, Mohr, Tùbingen 1995, pp. 111-119, dove si trova un buono status quaestionis. Da parte sua J.D.G. Dunn, The Colossian Philosophy. A Confident Jewish Apologia, Bibl 76 (1995) 153-181, pensa che si tratti di una posizione dei giudei di Colosse che intendevano denigrare i cristiani locali per la loro pretesa di partecipare alla eredità d'Israele. 32 Cf. M. Barth, Ephesians 1-3, AB 34, Doubleday, Garden City 1974, pp. 170-183 specie 174-175; H. Berkhof, Christ and the Powers, Herald, Scottdale 1977. 33 Cf. W. Wink, Naming the Powers, pp. 50-53. 34 Cf. R. Penna, La lettera agli Efesini, pp. 98-100 e 118-120.
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funzione che nello stoicismo ha la figura del Logos e che nella Bibbia ha la Sapienza: elemento agglutinante e armonizzante, oltre che nobilitante, delle molteplici e multiformi realtà cosmiche. L'altra idea è suggerita dall'imparentamento etimologico del verbo con il concetto di "capo": Cristo non è spersonalizzato nel cosmo come una diffusa anima mundi, ma vi sta di fronte e anzi sopra come suo preposto e suo leader. Anzi, propriamente parlando, l'infinito aoristo medio del verbo orienta a intendere la frase nel senso che tutte le cose tendono a convergere verso di lui come verso il proprio punto di raccolta. Questa idea è confermata da Ef 1,22 che dovrebbe essere tradotto così: "(Dio) sottopose tutte le cose sotto i suoi piedi e lo diede come capo su tutte le cose alla chiesa {xtyoXrp ÓTuèproxvxoc-cf] èxxXrjata), che è il suo corpo". Si noti il parallelismo sinonimico inverso tra "porre tutto sotto i suoi piedi"35 e "porre lui come capo su tutto", il cui effetto è di evidenziare al massimo l'idea della universale sottomissione a Cristo ribadita con quella inversa del suo dominio universale. La cosa nuova è il dativo "alla chiesa". Il significato fondamentale di questa precisazione è: il Cristo che Dio ha consegnato alla chiesa è un pantokràtor, il signore di tutte le cose; e la chiesa deve esserne cosciente. Ciò implica un paio di sfumature interessanti e complementari: (1) la chiesa non può pretendere di far combaciare il Cristo esattamente con i propri confini, poiché egli è più grande di lei; la chiesa perciò deve umilmente riconoscere che al di fuori di sé non esiste né il vuoto né l'inferno, ma si estende il raggio d'azione del Cristo e ferve la convergenza di tutte le cose verso di lui; (2) però soltanto nella chiesa ci può essere la piena consapevolezza di questa signoria universale di Cristo, poiché soltanto ad essa Dio lo ha consegnato in proprio; del resto, non il cosmo ma solo la chiesa è il corpo di Cristo! Infatti, il rapporto di Cristo-capo con la chiesa è fisiologico, cioè vivo e omogeneo: egli la innerva dal di dentro (cf. Ef 4,15); invece il suo rapporto con il cosmo è di tipo 'politico', di guida, e quindi piuttosto estrinseco, ancorché di forte portata cristologica.
35 L'affermazione ripete quella del Sai 8,7, che però riguarda l'uomo in generale di cui si celebra la superiorità su tutte le cose; in Ef abbiamo dunque una inedita rilettura cristologica del Salmo che propriamente non corrisponde al testo originale (lo stesso avviene in Eb 2,5-9). In più si può anche percepire l'eco del Sai 110,1 (= collocazione dei nemici come sgabello sotto i piedi del re-messia).
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4. La creazione in Cristo (Col 1,15-20) Già nelle lettere autentiche di Paolo si afferma l'originale mediazione di Cristo nell'apparire di tutte le cose all'esistenza (cf. ICor 8,6, su cui vedi quanto abbiamo già detto nel capitolo precedente al 7.2); ma in proposito bisogna fare alcune osservazioni: innanzitutto si tratta di un caso unico36; inoltre l'affermazione è secca e, nonostante la sua portata straordinaria, non viene affatto sviluppata; in più la formula in cui essa si trova è verosimilmente di tipo tradizionale pre-paolino37; e infine manca palesemente in essa ogni verbo di creazione, oltre all'idea di una creazione "in" Cristo. Ben diverso è il caso di Col 1,15-20, che non solo tematizza il fatto della mediazione di Cristo nella creazione primordiale, ma anche lo celebra con toni forti che stanno tra la confessione di fede e la composizione innica38. Accettiamo la suddivisione corrente del testo in due strofe a seconda del doppio ruolo di mediazione esercitato da Cristo: nella creazione (w. 15-17) e nella redenzione (w. 18-20). Ne diamo una traduzione strutturata e su di essa faremo un'analisi di tipo globale. "15Egli è l'immagine (etxwv) del Dio invisibile, primogenito (TCPCÙTÓ-COXOS) di ogni creatura, 16 poiché in lui (èv atkw) furono create (èxxia0Ti) tutte le cose nei cieli e sulla terra, le visibili e le invisibili, sia i troni sia le signorie sia i principati sia le potestà: tutto è stato creato (ex-ciaxai) mediante lui (oi'aù-coG) e per lui {de, OCUTÓV); 17
ed egli è prima di ogni cosa (rcpò uàvxwv) e tutto sussiste in lui (ev aù-ccò auvécro)xev)". 36 Ciò è tanto vero che non la seconda metà cristologica trova un parallelo, ma solo la prima, che è teo-logica, come si vede in Rm 11,36. 37 Questa tesi è fortemente sostenuta da W. Schrage, Der erste Brief an die Korinther, EKK VII/2, pp. 221-225 e 241-245; vedi anche C. Wolff, Der erste Brief des Paulus an die Korinther, THNT 7, Evangelische Verlagsanstalt, Berlin 1996, pp. 172-176; G. Barbaglio, La prima lettera ai Corinzi, pp. 400-404. 38 Sull'insieme, cf. J.-N. Aletti, Colossiens 1,15-20. Geme et exégèse du texte. Fonction de la thématique sapientielle, AnBi 91, Biblical Institute Press, Rome 1981; Id., Lettera ai Colossesi, SOC 12, Dehoniane, Bologna 1994, pp. 83-107. Inoltre: L.L. Helyer, Cosmic Christology and Col 1:15-20, JETS 37 (1994) 235-246; J. Murphy-O'Connor, Tradition andRedaction in Col 1:15-20, RB 102 (1995) 231-241; F.J. Monroy Rodriguez, Jesucristo y el universo: Colosenses 1,15-20. Un himno al Sehor Jesus: Origen, destino, fundamento y salvación del cosmos, Mayeutica 21 (1995) 61-119; C. Gunton, Atonement and the Project of Creation: An Interpretation of Colossians 1:15-23, Dialog 35 (1996) 35-41.
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Ed egli è il capo (xe9<xXr|) del corpo, la chiesa, essendo principio (àpxrj), primogenito dei morti, così da essere lui primo in tutto (èv nàcsw upcoxeucov), 19 poiché in lui (Dio) si compiacque di far abitare tutta la pienezza (itàv xò TcXrjptofxa xaxoixfiaai) 20 e mediante lui riconciliare (à7rox<xTaXXà£at) tutte le cose, per lui, pacificando (etpr)vo7rotriaa?) mediante il sangue della sua croce sia le cose sulla terra sia quelle nei cieli". Una prima decisiva osservazione riguarda il fatto che non vi si dice nulla di Dio, se non solo in obliquo nel genitivo del v. 15, nei due passivi del v. 16, e come sottinteso nel v. 19. Al centro dunque campeggia assolutamente la figura di Cristo (la cui ultima menzione era "figlio del suo amore" nel v. 13) e tutto converge sulla relazione tra lui e "tutte le cose" 39 . Inoltre, l'impiego di molteplici preposizioni (èv [vv. 16a.l7b], Sta ed et? [v. 16e]) evidenzia una insistenza sulla mediazione, tale da ribadire fuor di ogni dubbio che tutti gli esseri senza eccezione dipendono da Cristo a tutti i livelli40. Facciamo poi una distinzione fra attributi e funzioni in ciascuna delle due strofe. Nella prima il v. 15 contiene due attributi cristologici (immagine e primogenito), che fondano le due funzioni espresse nei vv. 16-17 (la creazione primordiale e la coesione di tutte le cose in lui). Nella seconda si attribuisce a Cristo la qualifica multiforme di "capo-principio-pienezza" nei w . 18-19, a cui si aggancia la funzione di riconciliatore universale nel v. 20. Tra i due fattori c'è un mutuo condizionamento ermeneutico.
4.1 Gli attributi Quanto al primo, "immagine di Dio", va ricordato che era già un titolo cristologico impiegato da Paolo in 2Cor 4,4 (cf. il capito39 Questa dimensione universale cosmica è evidenziata al massimo nelle forme del distributivo "ogni creatura" (v. 15), nel neutro plurale tà 7tàvxa (quattro volte come soggetto [vv. 16bis.17.20]; due volte nei complementi preposizionali "prima di tutte le cose" [v. 17] e "in tutto" [v. 19]), nelle espressioni universalistiche "nei cieli e sulla terra" (vv. 16.20), "le visibili e le invisivili" (v. 16c), e nella enumerazione delle potenze celesti (v. 16d). In questo modo non solo non si lasciano dubbi in materia, ma anche non si lascia più alcuno spazio per altre eventuali signorie, che sono pertanto escluse. 40 Cf. J.-N. Aletti, Lettera ai Colossesi, p. 89. Sul tema della pre-esistenza in questo testo, cf. J. Habermann, Pràexistenzaussagen im Neuen Testament, Europ. Hoschulschriften 23 Theol 362, Lang, Frankfurt a.M.-New York 1990, pp. 225-266.
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lo precedente al 7.4.2), ma qui esso assume una coloritura specifica a motivo dei richiami sapienziali suggeriti dal contesto creazionale (per cui si esclude un rimando a Gn 1,26). In tal senso si possono addurre in parallelo due passi chiarificatori. Nell'uno (Sap 7,26), la celebrazione della sapienza come "immagine della bontà di Dio" fa parte di una serie di definizioni encomiastiche, presenti in ib.t vv. 25-29: una emanazione della potenza di Dio, un effluvio della sua gloria, un riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia dell'attività di Dio, più bella del sole, sebbene unica essa può tutto; in 8,6 essa è esplicitamente detta xtyy'\.x\.<;, "artefice", e in 9,9 si dichiara che essa era presente (roxpoGaoc) quando Dio creava il mondo41. Nell'altro (Filone Al., Leg. alleg. 1,43.44), si legge: "La sapienza ha dei nomi molteplici (TTOXOÓ>VU[AOV ouaocv), poiché egli l'ha chiamata 'principio' e 'immagine' e 'visione di Dio'; di essa, in quanto archetipo (àpxTrcu7to<;), è imitazione la sapienza terrena... Ma il mondo intero non sarebbe un luogo e un soggiorno degni di Dio, poiché egli stesso è il suo proprio luogo ed egli è riempito di se stesso ed egli è sufficiente a se stesso; le altre cose, essendo povere e solitarie e vuote, le riempie e le contiene (TCXTIPWV xocìrcepiéxtov)lui, ma egli non è contenuto da nient'altro, essendo lui uno e il tutto (et? xocì TÒrcàvaùxó<;)". In questo contesto, definire Cristo come immagine del Dio invisibile significa esprimere una funzione mediatrice, che approssima al creato il Dio trascendente e inaccessibile rendendolo in qualche modo visibile e percepibile, senza suggerire con ciò che essa faccia parte delle cose create 42 . "Primogenito di ogni creatura". Tenuto conto che il greco 7rpcoT
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gare una certa ambiguità di significato, che si ritrova poi anche nel v. 17a ("egli è prima di ogni cosa"): si vuole forse suggerire solo la preminenza di Cristo su tutte le cose oppure anche la sua preesistenza?44. Ciò che invita a preferire la seconda alternativa è una doppia considerazione. L'una è che l'aggettivo "primogenito" implica l'idea di una generazione, che nelle pagine bibliche non viene mai applicata al creato in quanto tale, poiché suppone un rapporto specialissimo con Dio che il cosmo non ha45; del resto, già in Col 1,13 il Cristo è stato definito "figlio dell'amore" di Dio. L'altra riguarda il contesto, nel quale le idee di preminenza e di pre-esistenza non solo non si escludono a vicenda ma sono intimamente intrecciate così che l'una si spiega con l'altra: il Cristo è sopra tutte le cose perché è generato da Dio, e proprio questa generazione lo colloca in una posizione di differenza qualitativa oltre che di superiorità. "Capo-principio-pienezza',46. Uniamo insieme queste molteplici attribuzioni dei vv. 18-19 poiché qui il discorso si sposta ad una prospettiva soteriologica; questa però è complessa, poiché considera insieme il rapporto di Cristo sia con la chiesa sia con il cosmo. (1) "Capo" della chiesa, agganciandosi alla strofa precedente, vuol dire che nessuna delle potenze celesti può rivendicare una qualche autorità sul corpo dei credenti, i quali dunque non aderiscono ad altri se non a Cristo. (2) "Principio" va probabilmente unito al seguente "primogenito dei morti", che grammaticalmente ne è apposizione; il senso però è che Gesù va considerato non solo temporalmente come l'inizio di una catena, ma anche e soprattutto come un vertice eminente, di cui appunto si dichiara che dev'essere "primo in tutto"; egli infatti propriamente non è parte della chiesa ma è sopra di essa o comunque è suo responsabile che la innerva e la vivifica (cf. Col 2,19). (3) La frase sulla "pienezza" che abita in lui, nonostante i problemi esegetici che pone, si risolverà al meglio richiamando affermazioni analoghe dell'AT dove si parla dell'abitazione di Dio nel Tempio di Gerusalemme (cf. Sai 44 Ricordiamo che anche della Sapienza si dice che esiste "dall'eternità" (Pro 8,23 LXX: npò xoG <xìà>vo<;), "prima di ogni cosa" (Sir 1,4:7tpoxépa 7càv-co)v), ma rispettivamente in quanto Dio "l'ha fondata (iOefxeXiwoev)" o in quanto "è stata creata (txTi
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67,17LXX: "il monte, sul quale Dio si è compiaciuto di abitare") 47 ; ma la pienezza in questione non è tanto quella della divinità48 quanto piuttosto quell'insieme di grazia e di potenza vivificante di cui il Cristo risorto dispone per santificare la chiesa e riconciliare il mondo (su questa linea cf. anche Gv 1,14: "Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia"). 4.2 Le funzioni Le tre qualifiche suddette, che propriamente riguardano la relazione di Cristo con Dio, fondano la possibilità di una sua peculiare relazione con il cosmo, di cui si parla nei successivi vv. 16-17. Ed è qui che si esprime la maggiore originalità di ciò che viene detto di lui. "In lui tutto è stato creato"*9. Questa affermazione è incentrata sul complemento "in lui", dove la preposizione "in" non può essere ridotta a semplice valore strumentale. Infatti lo stesso v. 16 distingue chiaramente le tre preposizioni iv, 8ià, eì?, che richiamano quelle di origine stoica ex, 8ià, et? (presenti in Rm 11,36), dove ognuna ha il suo significato specifico50: mentre la seconda esprime davvero una causalità strumentale e la terza lo scopo dell'azione, la prima invece suggerisce l'idea che l'attività creatrice di Dio (il passivo rimanda comunque a lui) è stata impregnata dalla pre47 Si esclude perciò un aggancio con lo gnosticismo, che solo in testi tardivi oppone dualisticamente il pléroma divino al kénoma del mondo. Lo stesso si dica di quei testi in cui si parla del Pléroma come unico Dio che permea il Tutto (cf. C.H. 16,3). 48 Questo invece è il senso di Col 2,9 ("In lui abita somaticamente tutta la pienezza della divinità"), la cui differenza semantica rispetto a 1,19 era già notata da Tommaso d'Aquino. Comunque si voglia interpretare la portata dell'avverbio o
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senza del Figlio, a lui associato come fattore unificante, che quindi risulta quasi come il comune denominatore di tutte le cose. Uno sfondo possibile per comprendere meglio il testo potrebbe essere quello della teologia sapienziale. Così per esempio leggiamo in Sai 104/103,24: "Tutto hai fatto in sapienza (LXX:rcàvTaèv aoipi'oc ÌTCOÌT]aa<;)"; ciò significa non solo che Dio ha fatto tutto saggiamente, ma pure che egli ha operato servendosi della Sapienza come di uno strumento necessario, come si legge in Pro 3,19: "Il Signore ha fondato la terra con la sapienza (LXX: xr\ aocpia), ha consolidato i cieli con intelligenza (LXX: èv 9povéaei)". Analogamente si legge in Pro 8,30: "Allora io ero con lui come architetto (TM 'amóri', LXX àp[xó£ouaa)"51. Ma, mentre qui si tratta soltanto di mediazione strumentale, potrebbe essere più vicino a ciò che vuol dire Col 1,16a quello che leggiamo in Filone Alessandrino, solo che mettiamo a parte l'impostazione platonica del suo pensiero: "Come il progetto di una città elaborato nel pensiero di un architetto non era in alcun luogo esteriore, ma era impresso nell'anima dell'artista, così il mondo fatto di idee non potrebbe avere altro luogo che il Logos divino, il quale le ha organizzate... Il mondo intelligibile non è altro che il Logos di Dio già in atto di creare" (Opif. 20.24)52. "In lui tutto sussiste"5*. Questa affermazione è strettamente unita alla precedente, a cui aggiunge l'idea che il creato, oltre che essere segnato dalla figura di Cristo fin dalla sua origine, lo è anche nella sua permanente attualità. La sua spiegazione, oltre che dai testi della tradizione sapienziale come Sir 43,26 ("Con la sua parola tutte le cose sono tenute insieme, aóyxeiTou") e Sap 1,7 ("Lo Spirito abbraccia, auvéxov, ogni cosa") 54 , viene anche da una diffusa concezione platonica e stoica che riflette sulla mirabile unità del cosmo, passata pure nel giudaismo ellenistico55. Proprio que51 È interessante vedere come il midrash rabbinico Gen.R. 1, identificando la Sapienza con la Torah, spiega questo testo: "La Torah dice: Io ero lo strumento di lavoro del Santo, Egli sia benedetto. Comunemente un re mortale che costruisce un palazzo, non lo costruisce secondo il proprio criterio, ma secondo quello dell'architetto; e neppure questo lo realizza esclusivamente secondo il suo criterio, ma ha pergamene e tabelle, per poter sapere come deve eseguire le camere, come fare gli usci. Così il Santo, Egli sia benedetto, guardò la Torah e creò l'universo" (trad. A. Ravenna). 52 Cf. J.L. Moreno Martinez, El logos y la creación: la referencia al Logos en el "principio" de Gen. 1,1 segùn Filón de Alejandria, ScrTh 15 (1983) 381-419. 53 Cf. A. Feuillet, Le Christ sagesse de Dieu, pp. 213-217. 54 Cf. G. Scarpat, Libro della Sapienza, I, pp. 120-121 (con citazione di altri testi di Cicerone e di Seneca). 55 Troviamo infatti la presenza del medesimo verbo "sussistere", ouvioràvai (o quello simile auvi^tw "tenere insieme"), in Platone: "Nel modo migliore in cui tali
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sto dunque è il ruolo che il nostro inno celebra in Cristo: non solo quello di essere presente al momento della creazione, ma quello di fungere da elemento coesivo dell'universo (più che non di mantenere tutto nell'esistenza), sicché ciò che viene detto qui non vale propriamente di lui in quanto Risorto (come in E f 1,10) ma si riferisce a una sua dignità originaria e nativa 56 . "Mediante lui sono riconciliate tutte le cose". Il ruolo di Cristo non riguarda soltanto l'evento della creazione ma anche quello della redenzione. Però, sebbene il concetto di riconciliazione sia Paolino (cf. Rm 5,10-11; 2Cor 5,18-20), qui esso viene espresso con un verbo composto diverso (che si ritrova solo in Ef 2,16) e viene impiegato in una prospettiva non più antropologica ma cosmica57. La sua presenza, integrata dal verbo "pacificare" (hi nel NT), dice che si tratta non tanto di una redenzione escatologica del creato dalla sua corruttibilità insieme all'uomo (come in Rm 8,18-23) ma piuttosto di rimediare a una situazione di inimicizia o di alienazione che caratterizza misteriosamente l'universo intero. A questo proposito ci si può certo rifare a un passo di Filone Alessandrino che parla di Dio come operatore e preservatore di una pace cosmica58. Ma qui la funzione riconciliatrice attribuita a Cristo, avente come perno il sangue della croce, è paragonabile a quella che in Ef 2,14-18 viene attribuita a lui in senso ecumenico, tra Giudei e Gentili. Purtroppo il testo del nostro inno colossese non dice chi siano i partopere si possono ordinare (au
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ners della riconciliazione59; ma il fatto che essi non vengano specificati significa che all'autore sta a cuore di esprimere semplicemente l'ampiezza sconfinata dell'opera redentrice di Cristo, la quale riguarda, sì, l'uomo ma anche l'intero teatro della sua esistenza nel mondo60. In conclusione, potrebbe essere interessante chiedersi quali moduli religioso-culturali stiano sullo sfondo di queste affermazioni cristologiche come loro eventuali condizionamenti. Nel secolo I molti giudei, senza compromettere il loro monoteismo, speculavano su di uno o più esseri mediani tra Dio e gli uomini, dalle molteplici funzioni. C'è chi li ha classificati in tre categorie: attributi divini personificati, come la Sapienza e il Logos; patriarchi o antenati glorificati, come Enoch, Abramo, o Mosè; e angeli superiori agli altri come Michele61. Di tutte queste figure solo la personificazione della Sapienza (ed eventualmente della Parola) potrebbe fare al caso nostro62. Si dovrà tuttavia notare che nella tradizione d'Israele la sapienza non è né Dio né uguale a Dio, anche se viene da Dio63; ciò spiega perché il Cristo non venga mai esplicitamente designato come «la Sapienza»: in questo modo, da una parte si rispetta l'ambiguità del concetto biblico, mentre dall'altra si suggerisce la non perfetta equivalenza tra Cristo e la Sapienza, se non altro perché il primo è un individuo storico ben preciso che finisce per introdurre in Dio l'idea rivoluzionaria di una molteplicità di persone. 59
Essa infatti potrebbe avvenire (1) o tra i due poli degli esseri terrestri e di quelli celesti, (2) o all'interno stesso delle due categorie degli esseri terrestri e di quelli celesti, (3) o fra gli esseri terrestri e celesti da una parte e Dio dall'altra. 60 Cf. J.-N. Aletti, Colossiens 1,15-20, p. 92. 61 Così L.W. Hurtado, One God, One Lord. Early Christian Devotion and Ancient Jewish Monotheism, Fortress, Philadelphia 1988. Invece P.G. Davis, Divine Agents, Mediators, and New Testament Christology, JTS 45 (1994) 479-503, ha tentato di cambiare l'approccio classificando i mediatori sulla base di uno schema temporale che evidenzi l'atto della mediazione come tipico del passato (vedi Abramo, Mosè, Davide) o del presente (vedi gli angeli) o del futuro (vedi Elia e varie figure messianiche), mentre solo raramente i tre patterns si combinano insieme (vedi Michele [nel Libro dei Vigilanti e nella Vita di Adamo ed Eva], lo Spirito della Luce [a Qumràn], ed Enoch [nella letteratura enochica]); ma a nessuna di queste figure vengono attribuite funzioni paragonabili a quelle di Col 1,15-20: presenza nell'atto della creazione, armonizzazione del tutto e riconciliazione universale. 62 Contro J. Fossum, Colossians 1.15-18 in the Light of Jewish Mysticism and Gnosticism, NTS 35 (1989) 183-201, che pensa ad una "Anthropos-Christology" modellata sull'ingigantimento della figura di Adamo. Diverso è il caso di chi vi scorge un rapporto di tipo midrashico con Gn 1,1.26 per il tramite dell'idea di Sapienza come Arche: cf. C F . Burney, Christ as the APXH ofCreation (Prov. Vili22, Col. 115-18, Rev. Ili 14), JTS 27 (1926) 160-177; F. Manns, Col 1,15-20: midrash chrétien de Gen 1,1, Rev SR 53 (1979) 100-110; N.T. Wright, Poetry and Theology in Colossians 1.15-20, NTS 36 (1990) 444-468. « Cf. J.-N. Aletti, Colossiens 1,15-20, p. 176.
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5. Il "mysterion" (Col-Ef) C'è un termine nelle due lettere ai Colossesi e agli Efesini, concettualmente molto denso, che racchiude in sé tutta una serie di aspetti tematici e può valere come esponente di una sintesi teologica: "il mistero", xò u-uorripiov. Rifacendosi a un uso sporadicamente attestato in Paolo64, soprattutto in ICor 2,1.7 dove si parla del Cristo crocifisso, le due lettere sviluppano ulteriormente il concetto in senso nuovo e originale65. Qui si tratta sostanzialmente di un doppio ampliamento semantico: ecumenico-ecclesiologico, nel senso che tanto i Giudei quanto i Gentili convergono a formare insieme l'unico corpo di Cristo, e cosmologico, in quanto tutte le cose del cielo e della terra sono sottomesse all'unico Signore risorto. A monte però c'è un fondamentale dato cristologico, che regge tutto l'impianto concettuale. Per la sua esatta comprensione anche solo formale, è importante collocare il concetto sul suo specifico sfondo storico-culturale, che non è tanto quello della prassi ellenistico-pagana dei culti misterici (né tanto meno quello di tipo gnostico-intellettualistico, comunque successivo, di verità inaccessibili alla ragione) quanto invece l'ambito apocalittico giudaico di una rivelazione celeste e in particolare del mistero degli ultimi tempi. Nel giudaismo esiste tradizionalmente una certariluttanzaa parlare dirivelazioneall'infuori della Torah; così per esempio Bar 3,9 - 4,4, identificando la Legge con la Sapienza, esclama: "Beati noi, o Israele, perché ciò che piace a Dio ci è statorivelato",sottinteso nella Torah e quindi non altrove (4,4; cf. persino Rm 2,10). Ma, ciononostante, il medio giudaismo ci fornisce un'ampia documentazione secondo cui si pensa64 Qui esso ha un valore non tanto di sintesi quanto piuttosto settoriale, come si vede bene là dove è impiegato distributivamente al plurale (in ICor 4,1; 13,2; 14,2); uguale valore può avere anche al singolare, quando si limita a esprimere solo un dato nascosto, finora non rivelato, come la trasformazione escatologica del corpo (in ICor 15,51) o il superamento escatologico dell'ostinazione d'Israele (in Rm 11,25-26). 65 Cf. R. Penna, // "mysterion" paolino. Traiettoria e costituzione, RivBibl Suppl 10, Paideia, Brescia 1978; M.N.A. Bockmuehl, Revelation and Mystery in Ancient Judaism andPauline Christianity, WUNT 2.36, Mohr, Tubingen 1990; C. Reynier, Évangile et mystère. Les enjeux théologiques de l'épitre aux Éphésiens, LD 149, Cerf, Paris 1992 (quest'ultimo Autore alle pp. 239-263 parla addirittura dell'"atto di nascita di un nuovo linguaggio teologico"); J.-N. Aletti, Sagesse et mystère chez Paul. Réflexions sur le rapprochement de deux champs lexicographiques, in ACFEB, La sagesse biblique de i'Ancien au Nouveau Testament, LD 160, Cerf, Paris 1996, pp. 357-384.
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va che Dio continuasse a parlare anche alla generazione attuale, soprattutto sulla base di intuizioni ispirate (sia esegetiche sia visionarie) concesse a interpreti privilegiati della parola di Dio. "Mistero" è il nome dato spesso al contenuto di tale rivelazione. Il greco fiua-cripiov nella versione dell'AT non rende mai l'ebraico sòd (lat. consilium, nel duplice senso di assemblea e di decisione riservata), per il quale tuttavia usa ben undici vocaboli diversi66, ma solo l'ebraico-aramaico raz presente in Dn (8 volte; cf. Dn 2,28: "C'è Dio in cielo che rivela i misteri... che devono avvenire alla fine dei giorni"); inoltre è presente nei deuterocanonici Tb 12,7.11 ("è bello nascondere il mistero [la decisione! del re"); Gdt 2,2 ("condivise loro il mistero della sua decisione" [CEI: "tenne con loro consiglio segreto"]); Sap 2,22 (i malvagi "non hanno conosciuto i misteri di Dio"); 6,22; 14,15.23; Sir 3,18 (ma solo S2: "ai miti rivela i suoi misteri")67. In Filone Al. il concetto è riferito all'interpretazione biblica: egli qualifica il significato allegorico con "grandi misteri" in opposizione al senso letterale definito "piccoli misteri" (cf. Leg. alleg. 3,100; Cher. 49). Giuseppe FI. dimostra scarso interesse per questa terminologia, opponendosi in genere ai culti misterici col dire che il giudaismo come religione di rivelazione non consiste nell'espletare riti nascosti poiché Mosè parlò apertamente e senza segreti (cf. Ant. 16,43; C. Ap. 2,168ss). Più interessante può essere il Targum e in particolare i due Tg N/Tg Ps-Jo a Gn 49,1 dove Giacobbe morente dice ai suoi figli: "Vi annuncerò i misteri (rzyy*) nascosti e i tempi (qysyyh) segreti, la retribuzione fatta ai giusti, il castigo degli empi e ciò che sarà la felicità dell'Eden", ma poi il testo continua rispettivamente così: "Essi si riunirono... perché fosse loro annunciato il tempo della benedizione e della consolazione; ma dopo che il tempo (qysh) gli fu rivelato, il mistero (/%*) gli fu nascosto" (Tg N); e: "Ma dopo che si manifestò la gloria della Shekinah di YHWH, il tempo fissato per la venuta del Re Messia fu nascosto" (Tg Ps-Jo). Approdiamo così all'ambito apocalittico, che si caratterizza proprio per la comunicazione di misteri celesti68. Questi possono essere anche di tipo cosmologico, ma riguardano in special modo l'escatologia. I testi sono moltepici; vedi lEn 52,2-4: "Là i miei occhi videro i segreti del cielo, tutto quel che sarà sulla terra: il monte di ferro, il monte di rame, il monte d'argento, il monte d'oro, il monte di piombo, il monte 66 M.N.A. Bockmuehl, Revelation and Mystery, p. 102, ipotizza che la riluttanza dei LXX nell'impiegare il vocabolo si spieghi per il rifiuto di una terminologia colorata da inaccettabili connotazioni pagane proprie dei culti misterici (che invece risuonano in casi negativi come Nm 25,3: "Israele fu iniziato [hz\iaQr\, TM: aderì] al culto di Baal-Peor"). 67 In Sir 22,22; 27,16.17.21 e 2Mac 13,2 c'è il tema negativo della perdita di fiducia per chi manifesta i segreti dell'amico. 68 Vedi le buone pagine di M.N.A. Bockmuehl, Revelation and Mystery, pp. 24-56.
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di stagno. E chiesi all'angelo che andava meco: 'Che sono quelli che vedo nascosti?'. E mi rispose: 'Tutti quelli che hai visto sono per la potenza del Messia, affinché comandi e diventi potente sulla terra'"; 4Esd 14,4: "Ho parlato a Mosè... gli mostrai i segreti dei tempi, gli feci conoscere la fine delle epoche"; 2Bar 48,3: "Tu solo conosci la durata delle generazioni, e non riveli i tuoi misteri ai molti"; 81,4: "L'Altissimo... mi ha fatto conoscere i misteri dei tempi e mi ha mostrato l'avvento dei momenti"; Test. L. 2,10 dove l'angelo dice a Levi per quando sarà nel terzo cielo: "Sarai vicino al Signore. Sarai suo ministro, rivelerai agli uomini i suoi misteri e annunzierai riguardo a chi verrà a riscattare Israele. Attraverso te e Giuda Dio apparirà agli uomini salvando in se stesso tutto il genere umano". A Qumràn il vocabolo raz, tipicamente apocalittico, è impiegato non solo in riferimento alle prescrizioni della Legge e a dimensioni cosmologiche, ma anche in particolare per riflettere sul male nel mondo (cf. lQapGen 1,2: "il mistero del male"; 1Q27 1,2: "i misteri del peccato... il mistero dell'esistenza") e sulla fine dei tempi (cf. lQpHab 7,5-14: "Si procrastinerà il periodo ultimo e oltrepasserà tutto ciò che dicono i profeti, perché i misteri di Dio sono meravigliosi... Tutti i periodi di Dio giungeranno al momento giusto, come decise per loro nei misteri della sua saggezza"); si noterà tuttavia che la specifica dimensione messianica è assente dai testi misteriologici di Qumràn. Tornando alle lettere sinottiche Col-Ef, dove il termine occorre dieci volte, si noterà che, benché solo in un paio di casi si parli esplicitamente del "mistero di Cristo" (Col 4,3; Ef 3,4), tuttavia esso poggia sempre sul Cristo come proprio referente ermeneutico: cioè, senza di lui non si possono comprendere appieno neanche le altre componenti costitutive. Lo stadio apparentemente a-cristologico è quello che riguarda il suo nascondimento in Dio già prima del tempo (cf. Col 1,26; Ef 3,9), ma esso evidenzia soltanto il fatto che la componente fontale del mistero è la insindacabile volontà divina, tanto che esso rimane fondamentalmente "di Dio" anche dopo la sua rivelazione. Il suo contenuto però, già prima della sua realizzazione, è configurabile solo in riferimento a Cristo. Infatti "il mistero della sua volontà" (Ef 1,9), oltre che riferirsi al Crocifisso come scandalosa espressione di una sapienza non comprensibile con categorie umane (cf. Paolo in ICor 1,18 - 2,9 su cui vedi il cap. precedente 4.2.2), prende forma a due altri livelli, per culminare poi in un terzo 69 . 69 Acutamente J.-N. Aletti, Sagesse et mystère chez Paul, pp. 376-377, osserva che si tratta dell"'uso paradossale di un termine scritturistico per giustificare
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In primo luogo, c'è una dimensione ecumenica. Il mistero della volontà, facendo perno su Gesù Cristo, intende rendere i Gentili "coeredi e concorporei e compartecipi" delle promesse fatte a Israele e realizzate in Cristo (Ef 3,6)70. In questo senso "egli è la nostra pace" (Ef 2,14), in quanto ha unificato in se stesso e quindi fra di loro i due tronconi, prima divisi e nemici, dei giudei e dei pagani in "una cosa sola... in un solo uomo nuovo... in un solo corpo... in un solo spirito" (Ef 2,14.15.16.18)71. Proprio a questo dunque tendeva il progetto divino. In secondo luogo, il mistero ha una dimensione cosmica. Di questa abbiamo già parlato più sopra a proposito della qualifica di Cristo come "capo" (con riferimento soprattutto a Ef 1,9-10.20-22), a cui rimandiamo. Infine dobbiamo constatare, come dato riassuntivo, che lo stesso Cristo in persona è definito "mistero". Il testo in proposito è Col 2,2b-3: "... per conoscere il mistero di Dio, Cristo (-co [xucjxriptov xoù Geoù, Xpta-coG), nel quale si trovano, nascosti, tutti i tesori della sapienza e della conoscenza". La tormentata tradizione manoscritta concernente l'asindeto dei due genitivi72 è segno che esso ha sempre causato disagio. Pur accettando la suddetta ricostruzione critica del testo (che oltre al codice B gode anche della testimonianza di P46), si pone poi ancora il problema della sua traduzione, che noi comunque risolviamo nei termini proposti. In essa vanno colte due sfumature importanti: l'una è che il nome "Cristo" va inteso come apposizione di tutto il precedente sintagma "il mistero di l'impiego di termini non scritturistici (come corpo, capo ecc.)--- per far entrare nell'intelligenza della sapienza eterna di Dio, nella coerenza paradossale dei suoi disegni". 70 Nei precedenti vv. 4-5 questo evento è solennemente definito "il mistero di Cristo che non fu manifestato alle altre generazioni dei figli degli uomini come ora è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti nello Spirito". Cf. R. Penna, // "mysterion"paolino, pp. 67-79; C. Reynier, Évangile et mystère, pp. 105-123 (che insiste sull'integrazione di due campi semantici: la corporeità e la costruzione). 71 Sul diverso tipo di pace realizzato da Cristo nella chiesa in confronto con quello politico-romano contemporaneo, oltre ai Commenti, cf. E. Faust, Pax Christi et Pax Caesaris. Religionsgeschichtliche, traditionsgeschichtliche und sozialgeschichtliche Studien zum Epheserbrief, NTOA 24, Universitàtsverlag/Vandenhoeck, Freiburg i.d. Schweiz/Gòttingen 1993. 72 Vi si contano almeno sette varianti: "di Dio", "di Cristo", "di Dio che è Cristo", "di Dio che è in Cristo", "di Dio padre di Cristo", "di Dio e padre di Cristo", "di Dio e padre e di Cristo" (cf. Nestle-Aland, 27 a edizione); la Vg da parte sua legge: in agnitionem mysterii Dei Patris et Christi Iesu, disgiungendo dunque Dio e Cristo.
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Dio"73, così come poco prima si parlava del "mistero tra le genti, che è Cristo in voi" (Col 1,27); l'altra è che il secondo genitivo non ha solo valore parentetico, quasi che la frase seguente si collegasse direttamente con "il mistero di Dio" e solo indirettamente con "Cristo", poiché al contrario lo spiccato interesse di Col per il primato di Cristo invita a riferire immediatamente il complemento "nel quale" al più vicino "Cristo" (che d'altronde è appunto una apposizione del suddetto sintagma). Allora balza in primo piano la portata straordinaria dell'insieme, la cui semantica globale si può percepire in due affermazioni di fondo74. a) La prima è che in Cristo "si trovano, nascosti, tutti i tesori della sapienza e della conoscenza". In questa frase confluiscono tradizioni tanto sapienziali (cf. Pro 2,3-6; Sap 7,8-14) quanto apocalittiche (cf. il Figlio dell'uomo in lEn 46,3; 49,2-3; 51,3: "L'Eletto in quei giorni siederà sul trono e tutti i segreti della saggezza usciranno dal pensiero della sua bocca"), che conferiscono a Cristo la dimensione di un inesauribile deposito di ricchezze spirituali a cui attingere in pienezza (cf. 2,9). È vero che il contesto immediato insiste sui concetti apparentemente intellettualistici di sapienza e di conoscenza, per dire che il cristiano ha in Cristo e non in altri la chiave di volta della propria visione sapienziale del mondo. Ma la polemica contro la vuota filosofia degli uomini (cf. Col 2,8) suppone più in generale una cornice di fede salda (cf. 2,5) e di radicamento vissuto in lui (cf. 2,6-7), che sfocia in un discorso battesimale (cf. 2,11-12) e di assoluta libertà esistenziale (cf. 2,16-23) fondata sulla concreta e deschiavizzante autodonazione che Cristo ha fatto di se stesso sulla croce (cf. 2,13-15). Il nostro testo perciò si potrebbe commentare opportunamente con altri due passi biblici solo apparentemente diversi: "Insieme con essa mi sono venuti tutti i beni" (Sap 7,11), e "Dove è il tuo tesoro lì sarà pure il tuo cuore" (Mt 6,21/Lc 12,34 Q). Infatti, la presenza in Cristo di tutti i tesori desiderabili induce a non cercare altrove ciò che potrebbe essere soltanto o una imitazione o un falso, e quindi invita a considerare già oggetto presente di fruizione ciò che altri potrebbero attendere solo dal futuro. 73 Ci sono altre due alternative: (1) che "Cristo" sia apposizione del solo termine " D i o " , ma è improbabile l'affermazione esplicita della divinità di Cristo nel contesto; (2) che il genitivo Xpioroù, senza farlo precedere da una virgola, dipenda direttamente dal termine precedente (= "del Dio di Cristo"), ma è inusuale senza la specificazione del "padre". 74 Cf. R. Penna, // "mysterion"paolino, pp. 64-67.
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b) La seconda affermazione è che Cristo riassume in sé "il mistero di Dio". Ciò significa che il Cristo nella sua totalità, e non solo in un aspetto della sua persona o in un momento della sua esistenza, reca in sé la pienezza dell'insondabile piano divino di salvezza. Come figlio del falegname, come amico dei pubblicani e dei peccatori, come crocifisso, come risorto e Signore, egli rivela dove stanno riposti "tutti i tesori della sapienza e della scienza". In lui e in tutte le componenti della sua figura prende forma "la multiforme sapienza di Dio", che la chiesa è chiamata a rendere nota sino ai principati e alle potestà nei cieli (Ef 3,10). Quindi, Cristo non è soltanto l'occasione o lo strumento estrinseco che rende possibile al mistero della volontà di Dio di manifestarsi nella storia; egli stesso invece fa parte essenziale del Mistero, cosicché ormai non è possibile pensare e adorare la eudokia divina senza confrontarsi personalmente con lui, nel quale il mystérion davvero si incarna. Si perviene così a incontrare 'Tininvestigabile ricchezza di Cristo" (Ef 3,8) che sta oltre ogni umana comprensione: non che Dio non abbia lasciato impronte del suo passaggio, quasi che questo si sottragga a ogni possibile investigazione, ma esse sono solo tracce di un Indiziato che rimane per natura sua insondabile e inesauribile75. Tutt'al più si può giungere a rendersi conto di "quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità" (Ef 3,18) di questo mistero, il quale in definitiva è un mistero di amore "che sorpassa ogni conoscenza" (Ef 3,19), dove cioè le mere categorie intellettuali risultano insufficienti76.
75 L'aggettivo àve^viaaro?, che nella grecità oltre a Ef 3,8 e Rm 11,33 è attestato soltanto in LXX Gb 5,9 (Dio "fa cose grandi e incomprensibili, meraviglie senza numero"); 9,10; 34,24 (e mai nel greco extrabiblico), deriva dall'etimo txvo?> "traccia, orma, pista, impronta, indizio", e non significa assenza di tracce, poiché il privativo àv va letto insieme alla preposizione è? per dire che la presenza pur evidente di tracce chiare non permette tuttavia di giungere a esaurire pienamente l'identità di chi le ha lasciate. Infatti "il dio che sia stato compreso è sempre un idolo" (citazione di Gaugler in M. Barth, Ephesians, I, p. 341). 76 L'obiezione rivoltami da M.N.A. Bockmuehl, Revelation and Mystery, p. 188, secondo cui la prospettiva di Col 2,2 non sarebbe ontologica ma epistemologica a motivo del tema contestuale della conoscenza, tocca solo l'apparenza; infatti, non si può dire che il "mistero di Dio" sia sinonimo tout court del messaggio evangelico, ma semmai del suo contenuto (cf. Col 1,27!): quindi tra il Mistero e Cristo si dà una identificazione che va oltre la semplice funzionalità dell'annuncio e attinge invece la natura delle cose.
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6. "Salvatore" e "mediatore" (Lettere Pastorali) Il titolo (jcoTTip è piuttosto tardivo nella letteratura neotestamentaria e risulta sostanzialmente tipico delle lettere deuteropaoline e in particolare delle Pastorali77 (nelle quali peraltro è sorprendente l'assenza del titolo di "Figlio di Dio"). Qui lo si trova impiegato secondo una doppia attribuzione. Una prima serie di testi lo applica nient'altro che a Dio: lTm 1,1; 2,3; 4,10; Tt 1,3; 2,10; 3,4. Anche se questa prassi non fa direttamente al caso della cristologia, è necessario tuttavia sottolinearla poiché della cristologia costituisce una premessa indispensabile. Bisogna infatti osservare che nel greco dei LXX, dove esso ricorre 35 volte (traducendo sia il verbo yaScf sia i sostantivi astratti yeMcah e yèscf), il titolo esprime una funzione propria di Dio. Vedi per esempio Dt 32.15: "Giacobbe... ha disprezzato la Roccia, sua salvezza (LXX: suo salvatore)"; Gdt 9,11 : "Tu sei il Dio degli umili,... il salvatore dei disperati"; Sai 24/25,5: "Sei tu il Dio della mia salvezza (LXX: il mio salvatore)"; Is 12,2: "Ecco, Dio è la mia salvezza (LXX: il mio salvatore)"; Sir 51,1: "Ti loderò, Dio mio salvatore"; Sap 16,7: "Chiunque... era salvato solo da te, salvatore di tutti"78. Quindi, quando si legge per esempio in lTm 4,10 che "noi abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente, il quale è il salvatore di tutti gli uomini, soprattutto dei credenti", non si sente altro che risuonare l'antica fede giudaica nell'unico Dio soccorritore del suo popolo: "Il nostro Dio è un Dio che salva" (Sai 68,21); "Dio viene a salvarvi" (Is 35,4); "Io sono con te per salvarti" (Ger 1,19; 15,20; 30,11; 42,11). 77 Fuori di questo gruppo epistolare, infatti, la situazione è la seguente: (1) nelle lettere autentiche di Paolo il titolo si incontra una sola volta, e solo in senso cristologico, in Fil 3,20, dove per di più appare in contesto escatologico come a dire che Gesù sarà salvatore soltanto alla fine dei tempi; (2) nell'opera lucana è presente una volta in senso teologico (cf. Le 1,47) e tre volte in senso cristologico (cf. Le 2,11; At 5,31; 13,23), mentre una semantica mista rivela il sostantivo aonripiov, "strumento di salvezza" (Le 2,30; 3,6; At 28,28); (3) nel corpus giovanneo ricorre solo due volte in senso cristologico (cf. Gv 4,42; lGv 4,14); infine (4) lo si incontra nelle lettere parallele Gd-2Pt in senso sia teologico (cf. Gd 25) sia soprattutto cristologico (cf. 2Pt 1,1.11; 2,20; 3,2.18). In linea di massima non prendiamo in considerazione né il verbo "salvare" né il sostantrivo astratto "salvezza", sia perché solo raramente essi sono connessi direttamente con il Cristo risorto (cf. il verbo in Rm 5,9-10 ma con riferimento escatologico; e il sostantivo in 2Tm 2,10), sia perché è il titolo a definire più icasticamente la qualità e la funzione di chi lo porta. 78 In generale, cf. G.G. O'Collins, Salvation, in ABD 5, pp. 907-914.
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Una seconda serie di testi invece lo applica a Gesù Cristo: oltre che Ef 5,23, vedi soprattutto 2Tm 1,10; Tt 1,4; 2,13; 3,6. L'originalità di questa attribuzione a un uomo consiste doppiamente nel fatto che essa non ha paralleli di rilievo nella tradizione giudaica, certo non in rapporto al Messia79, e che essa equipara indirettamente Gesù a Dio. È possibile che in questo passaggio di attribuzione del titolo abbia giocato anche l'etimologia del nome ebraico di Gesù (Yèhósucf, in forma abbreviata Yesùcf = "Yhwh è salvezza"), la cui esplicitazione risale già a un'antica tradizione giudeocristiana (cf. Mt 1,21; Le 2,11; At 5,31; 13,21), oltre al fatto che l'autore lo aveva anche trovato in Paolo, sia pure una volta sola (cf. Fil 3,20) e con riferimento escatologico80. Interessante può essere anche un ricorso all'ambito greco pagano. Qui infatti il titolo è attribuito non solo a varie divinità, sia olimpiche (soprattutto Zeus, ma anche Atena e Apollo), sia intermedie (figli di un dio e di una mortale: i Dioscuri, Eracle, Asclepio), sia misteriche (Cibele, Iside, Serapide), ma anche a uomini di varia specie: a chi in genere è un soccorritore nei pericoli (cf. per esempio Tiresia in Sofocle, Edipo re 302-304), ai filosofi (per esempio in Dione Crisostomo, Or. 32,18), agli uomini di stato (per esempio già Filippo il Macedone in Demostene, Or. 18,43; il primo romano fu il console Tito Quinzio Flaminino dopo la dichiarazione della libertà della Grecia nel 196 a.C, in Plutarco, Tit. Flam. 10 e 16), e in specie ai sovrani ellenistici (specie i Tolomei in Egitto) e infine all'imperatore romano (così già Cesare e Augusto, ma solo in Oriente; diventerà diffuso con Adriano)81. Ma per comprendere adeguatamente la semantica del titolo bisogna pure tenere conto del fatto che nelle Pastorali esso si combi79 Infatti, nonostante che l'AT conosca varie figure di liberatori di varia specie (cf. Abramo, Mosè, i Giudici, Davide, i re, il Servo), solo in quattro casi il titolo nei LXX è riferito a degli uomini, ma ciò avviene o episodicamente (cf. Gdc 3,9: Otniel; Gdc 3,15: Eud) o per negare che alcuni si siano dimostrati tali (cf. Gdc 12,3: gli Efraimiti) o con un riferimento generico a imprecisati "liberatori" inviati da Dio nella storia d'Israele (cf. Ne 9,27). Soprattutto si noterà che il titolo non viene mai applicato al Messia, neppure nella cosiddetta letteratura intertestamentaria: cf. W. Foerster, awxrip, in GLNT XIII, 552-601 specie 579-582; J.J. Collins, The Scepter and the Star. The Messiahs ofthe Dead Sea Scrolls and Other Ancient Literature, Dobleday, New York-London 1995. 80 Cf. J. Roloff, Der erste Brief an Timotheus, EKK XI, Zùrich/Neukirchen Vluyn 1988, pp. 358-365 ("Exkurs: Zur Christologie") qui p. 363. 81 Cf. la documentazione in W. Foerster, cit., 555-577, dove si mette anche in luce che per i sovrani ellenistici (e poi per l'imperatore romano) il titolo non è automatico e non comporta necessariamente l'idea di un salvatore del mondo, avendo la sua ragion d'essere in ben determinate imprese compiute (cf. coli. 565, 569, 572).
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na con il concetto di èmepàveta, "manifestazione" (che appartiene pure alla terminologia religiosa ellenistica)82. In un paio di casi infatti i due termini compaiono insieme, là dove si dice che la grazia "è stata rivelata ora con la manifestazione del salvatore nostro Gesù Cristo, che ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l'immortalità" (2Tm 2,10) e che la grazia di Dio ci insegna a vivere "nell'attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo" (Tt 2,13). Ma, come si vede bene da questi due testi, la semantica in questione è duplice. Da una parte, infatti, si dice che Gesù si è già manifestato come salvatore nel passato, e anzi il testo in oggetto è l'unico del genere. Dall'altra, invece, la manifestazione di Gesù-salvatore è riservata e attesa per il futuro (cf. anche lTm 6,14; 2Tm 4,1.8). Se in questo secondo caso è più evidente il modulo giudaico della speranza escatologica, bisogna però osservare che anche nel primo caso la funzione salvatrice di Gesù non gli è attribuita in proprio ma è subordinata a quella di Dio; infatti in Tt 3,4 si legge che parimenti al passato "si sono manifestati la bontà di Dio, nostro salvatore, e il suo amore per gli uomini". Quindi Dio e Gesù sono coordinati insieme, ma in modo dialettico. Infatti, mentre nel citato Tt 2,13 Gesù è definito senza mezzi termini "nostro grande Dio e salvatore", esprimendo così una cristologia alta (ma legata a una prospettiva futura)83, in lTm 2,5-6 invece se ne parla nei termini di una cristologia bassa (legata all'evento salvifico del passato): "Uno solo è Dio (tì<; Geo?) e uno solo il mediatore (et<; xat u-eai-nr]?) fra Dio e gli uomini, l'uomo (avGpw7to<;) Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti". È fin troppo chiaro che qui l'autore costruisce la sua confessione di fede utilizzando materiale tradizionale, sia per quanto riguarda il monoteismo giudaico (cf. Dt 6,5) sia per quanto riguarda la soteriologia cristiana (cf. ICor 15,3; Gal 2,20)84. Ma bisogna notarvi al82 In merito, cf. C. Spicq, Note di lessicografia neotestamentaria, I, pp. 632-636; per esempio la sconfitta dei Galli, che assalirono il tempio di Delfi nel 278 a.C, è attribuita alla "manifestazione-apparizione" salvatrice di Apollo (in W. Dittenberger, Sylloge Inscriptionum Graecarum 398,1-21); vedi anche gli interventi di Dio in2Mac2,21; 15,27. 83 In proposito vedi M.J. Harris, Titus 2.13 and the Deity of Christ, in D.A. Hagner & M.J. Harris, edd., Pauline Studies. Essayspresented to F.F. Bruce, Paternoster, Exeter 1980, pp. 262-277; Id., Jesus as God. The New Testament Use of 'Theos' in Reference to Jesus, Baker, Grand Rapids 1992, pp. 173-185. 84 Cf. H. Simonsen, Christologische Traditionselemente in den Pastoralbriefen, in S. Pedersen, ed., DiePaulinischeLiteratur und Theologie, Aros/Vandenhoeck, Arhus/Gòttingen 1980, pp. 51-62.
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cune cose caratteristiche: (1) è affermata l'esistenza di un mediatore fra Dio e gli uomini, contro una tradizione giudaica che la nega nella storia d'Israele85; (2) questo mediatore è pienamente umano, non un angelo (cf. Eb 4,15); (3) egli, a differenza di Mosè e dei profeti, svolge la sua funzione non tra Dio e Israele ma tra Dio e "gli uomini", quindi secondo un orizzonte universalistico (cf. lTm 2,4); (4) la mediazione si attua essenzialmente nell'autodonazione di Gesù come "riscatto" (àv-uXinpov: cf. Tt 2,14 e Me 10,45) anch'esso a destinazione universale; (5) infine va rilevato che questo "uomo" non è limitato in una cornice puramente creaturale, poiché è lo stesso Cristo Gesù di cui poco prima l'autore ha detto che "è venuto nel mondo per salvare i peccatori" (lTm 1,15)86. Evidentemente la cristologia delle Pastorali combina insieme motivi molto vari. Dopo le posizioni minimaliste di Windisch (secondo cui la epiphàneia riguarderebbe più il periodo post-pasquale che non l'incarnazione, e di pre-esistenza non si parlerebbe se non a proposito della sola volontà salvifica di Dio, essendo l'interesse riservato a Gesù come uomo e alla sua esaltazione), sia pur insistendo opportunamente sulla sua dimensione tradizionale87, oggi si tende a valorizzare maggiormente la complessità del discorso cristologico nelle nostre lettere. Oltre a inserire di più la cristologia nel contesto delle lettere88, c'è chi all'opposto di Windisch ha parlato piuttosto di una 'modernità' delle Pastorali a motivo del loro progetto di "teosoteriologia" che vuole insistere sulla trascendenza di Dio in rapporto all'ambiente ellenistico del momento89, mentre altri ha voluto unire di più insieme l'evento storico di Cristo e il kerygma pasquale90. 85 Essa è attestata a proposito dell'esodo dall'Egitto, sia in Is 63,9 ("Non un inviato né un angelo li ha salvati, ma egli stesso li ha salvati"), sia nella Haggadà pasquale su Dt 26,8; cf. M. Pesce, Dio senza mediatori. Una tradizione teologica dal giudaismo al cristianesimo, Paideia, Brescia 1979, specie pp. 206-207. 86 Lo studio di D.R. de Lacey, Jesus As Mediator, JSNT 29 (1987) 101-121, rifacendosi all'idea di mediatore nel giudaismo, distingue due tipi di mediazione: uno è quello di chi si pone fra due poli per tenerli distinti (così Mosè; cf. Es 19,24; 20,19), l'altro invece è quello di chi si frappone fra di essi per congiungerli insieme (così Gesù). 87 Cf. H. Windisch, Zur Cristologie der Pastoralbriefe, ZNW 34 (1935) 213-238; Y. Redalié, PaulaprèsPaul. Letemps, lesalut, la moraleselon lesépitres à Timothée et à Tite, "Le monde de la Bible" 31, Labor et Fides, Genève 1994, pp. 228-230. 88 Cf. I.H. Marshall, The Christology of the PastoralEpistles, SNTU 13 (1988) 157-177. 89 Cf. V. Hasler, Epiphanie und Christologie in den Pastoralbriefen, TZ 33 (1977) 193-209. 90 Cf. L. Oberlinner, Die Epiphàneia des Heilswillens Gottes in Christus Jesus. Zur Grundstruktur der Christologie der Pastoralbriefe, ZNW 71 (1980) 192-213.
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Due recenti analisi più globali91 hanno messo bene in luce la continuità sostanziale del messaggio cristiano nelle Pastorali, le quali hanno saputo preservare il contenuto tradizionale della fede rivestendolo con una nuova espressione linguistica: il messaggio della "epifania" di Cristo-salvatore, che implica comunque la sua preesistenza (cf. lTm 1,15: "è venuto nel mondo..."; 3,16; Tt 1,3), sottolinea la verità essenziale del kerygma apostolico, e cioè che l'offerta di grazia da parte di Dio è per la redenzione di ogni peccatore con la mediazione di Cristo crocifisso e risorto. 7. Gli apporti della lPt Se collochiamo la lPt nell'ambito della tradizione paolina, è perché in essa si scoprono degli elementi linguistici e teologici che la agganciano in qualche modo al paolinismo92. Così si dica per esempio della formula iniziale de\Veuloghia (cf. lPt 1,3 con 2Cor 1,3), dell'espressione "in Cristo" (lPt 3,16; 5,10.14), del termine "giustizia' ' (lPt 2,24), dei gentili trattati come figli di Sara e di Abramo (cf. lPt 3,6 con Gal 4,21-31), della richiesta di non vivere più nel peccato ma per la giustizia (cf. lPt 2,24 con Rm 6,11), della fusione tra le metafore della "pietra di fondamento" e "pietra di inciampo", derivanti da Is 28,16 e 8,14s (cf. lPt 2,6-8 con Rm 9,33), e dell'utilizzo della stessa metafora architettonica per definire la chiesa (cf. lPt 2,2.5a con ICor 3,10-17; Ef 2,21-22). Va comunque ricordato che la lettera non contiene altri temi paolini di prim'ordine, come quelli della chiesa corpo di Cristo, della giustificazione per fede senza le opere della legge, del conflitto carne-Spirito e del rapporto tra Israele e la comunità cristiana. 91 Cf. A.Y. Lau, Manifest in Flesh. The Epiphany Christology of the Pastoral Epistles, WUNT 2.86, Mohr, Tùbingen 1996; K. Lager, Die Christologie der Pastoralbriefe, HTS 12, Lit, Mùnster 1996. 92 Oltre la Nota 2 (v. sopra), cf. anche H. Goldstein, Paulinische Gemeinde im Ersten Petrusbrief, SB 80, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1975; N. Brox, Der erste Petrusbrief in der literarischen Tradition des Urchristentums, Kairos 20 (1978) 182-192; E. Cothenet, Les orientations actuelles de l'exégèse de la première lettre de Pierre, in C. Perrot, ed., Études sur la Première Lettre de Pierre, LD 102, Cerf, Paris 1980, pp. 13-42. Anche il recente commento di P.J. Achtemeier, 1 Peter, "Hermeneia", Fortress, Minneapolis 1996, pp. 15-19, pur ritenendo non pertinente attribuire la lettera alla scuola paolina, ammette almeno che vi sia un linguaggio da considerarsi paolino più di quanto lo sia il contenuto teologico (cf. p. 19). Da parte sua, J. Herzer, Petrus oder Paulus? Studien ùber das Verhàltnis des Ersten Petrusbrief es zur paulinischen Tradition, WUNT 103, Mohr, Tùbingen 1998, ritiene che l'aggancio con Paolo avvenga non direttamente ma già mediante un lessico e una concettualità diventati tradizionali.
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1 A TRADIZIONE PAOLINA
Va quindi precisato che gli elementi paolineggianti si inseriscono nel quadro di un particolare apprezzamento dell'eredità giudaica. Pur essendo i destinatari provenienti dal paganesimo (cf. 1,14.18; 2,10), alla loro vita cristiana vengono applicati schemi tipici dell'AT, come quelli dell'esodo (cf. "i fianchi cinti" in lPt 1,13; "il sangue di Cristo agnello senza macchia" in lPt 1, 18-19) e dell'esilio o della peregrinazione verso la terra promessa (cf. i concetti di 8tàa7topoc e 7rapotxioc in 1,1.17; 2,11)93. L'eredità Paolina si combina con una serie di agganci più generali con la tradizione cristiana precedente, di cui sono segno alcuni frammenti innici che esprimono al meglio la cristologia dell'autore94. La cristologia di lPt infatti ha una sua particolare configurazione95 e la si può ben individuare sulla base di quattro brani epistolari, che sul piano formale si presentano in forma quasi innica: 1,18-21; 2,4-8; 2,21-25; 3,18-22. In essi si trovano cinque interessanti caratterizzazioni di Cristo, che finora sostanzialmente non abbiamo ancora incontrato altrove e che secondo una certa progressione tematica possiamo coordinare così: agnello, servo sofferente, redentore dei defunti, pietra angolare, pastore. Analizzeremo brevemente ciascuna di queste qualifiche, premettendovi però una considerazione sull'uso cristologico dell'AT che in questa lettera è particolarmente evidente. 93 Per una interpretazione sociologica di questi concetti, cf. J.H. Elliott, A Home for the Homeless. A Sociological Exegesis of 1 Peter, Its Situation and Strategy, Fortress, Philadelphia 1981; Id., Disgraced Yet Graced. The Gospel according to 1 Peter in the Key of Honor and Shame, BibTheolBull 25 (1995) 166-178. Una maggiore valutazione teologica si trova invece in R. Feldmeier, Die Christen als Fremde. Die Metapher der Fremde in der antiken Welt, im Urchristentum und im 1. Petrusbrief, WUNT 64, Mohr, Tùbingen 1992. Il loro timbro comunque cristiano è ben sottolineato da E. Bosetti, / cristiani come stranieri nella Prima lettera di Pietro, Ricerche Storico-Bibliche 8 (1996) 317-334. 94 Cf. R. Bultmann, Bekenntnis- und Liedfragmente im ersten Petrusbrief, in Id., Exegetica, Mohr, Tùbingen 1967, pp. 285-297 (lo studio è del 1947); M.-E. Boismard, Quatre hymnes baptismales dans la première épìtre de Pierre, Cerf, Paris 1961. Non è però il caso di pensare a una cristologia particolarmente primitiva, come fa invece P.E. Davies, Primitive Christology in I Peter, in E.H. Barth & R.E. Cocroft, edd., Festschrift to Honor F. Wilbur Gingrich, Leiden, Brill 1972, pp. 115-122. 95 Si noti per esempio che lPt non impiega mai il titolo di "Figlio di Dio". Sulla cristologia della lettera, oltre a specifici Excursus offerti dai Commenti, cf. in particolare E. Bosetti, // pastore. Cristo e la chiesa nella Prima lettera di Pietro, RivBibl Suppl 21, Dehoniane, Bologna 1990; J. Cervantes Gabarrón, La pasión de Jesucristo en la Primera carta de Pedro. Centro Literario y Teològico de la Carta, "Instit. San Jerónimo" 22, Verbo Divino, Estella 1991.
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7.1 // ricorso all'Antico Testamento9^ Fin dall'inizio del suo scritto l'autore formula l'originale tesi, secondo cui già i profeti dell'antica alleanza erano condotti dallo Spirito di Cristo (cf. 1,11: essi "cercavano di indagare quale o di qual sorta fosse il tempo a cui accennava lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che dovevano seguirle"). Si afferma così un'eccedenza di senso presente nelle profezie, che solo il cristiano può scoprire nell'ottica della fede pasquale (cf. Le 24,26-27)97, e che è dovuta a una pre-esistenza 'pneumatica' di Cristo ispiratore (cf. anche 1,20)98. Secondo il nostro autore, esiste dunque una continuità e una omogeneità tra le profezie d'Israele e il vangelo cristiano, dovute al fatto che lo stesso Cristo ne è l'anima segreta, sia come ispiratore sia come unico contenuto. Allora si spiega come mai lPt, proprio nei brani citati, faccia tanto ricorso alle Scritture e da esse desuma lo stesso linguaggio cristologico fondamentale.
7.2 "Agnello senza difetti e senza macchia'" Si tratta di una originale metafora che incontriamo utilizzata e leggermente sviluppata in 1,18-19, dove si legge così: 96 Cf J. Schlosser, Ancien Testament et Christologie dans la Prima Petri, in C. Perrot, ed., Études sur la première lettre de Pierre, LD 102, Cerf, Paris 1980, pp. 65-95. 97 Che Cristo ispirasse i profeti dell'AT è un tema diffuso negli scritti subapostolici: cf. Ignazio, Ad Magn. 8,2 ("I santi profeti vissero secondo Gesù Cristo ... essendo ispirati dalla sua grazia"); Barn. 5,6 ("I profeti, ricevuta la sua grazia, parlarono di lui"); Giustino, / Apol. 36,1 ("Quando ascoltate le parole dei profeti, non dovete credere che siano dette da essi stessi mentre sono ispirati dal Verbo divino che li muove"); Dial. 34,2; 56,4. 98 Si potrà discutere come intendere esattamente il sintagma "Spirito di Cristo" (lo Spirito che parlava di Cristo? lo Spirito rivelatosi poi in Cristo? Cristo stesso come Spirito? meglio: lo Spirito che è proprio di Cristo), ma si dovrà tenere conto del fatto che la formulazione all'origine è di conio paolino (cf. Rm 8,9; [Gal 4,6;] Fil 1,19) ed esprime la connessione personale raggiunta da Gesù Cristo con lo Spirito Santo mediante la propria passione e risurrezione. La lPt non avrebbe potuto esprimersi in questi termini, se non presupponesse la fede nel mistero pasquale e quindi nel fatto che solo con la Pasqua il Cristo giunse a disporre pienamente dello Spirito di Dio; non per nulla, del resto, l'affermazione in 1,11 fa riferimento alle sue "sofferenze" e alle sue "glorie" (quest'ultimo plurale, a meno di considerarlo un 'plurale d'intensità', potrebbe alludere alle fasi gloriose del Cristo: la risurrezione, l'ascensione, la sessione alla destra di Dio e la parusìa).
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"18Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili come l'argento e l'oro foste riscattati [èXuxp(ó0T)xe] dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, 19ma con il sangue prezioso di Cristo come agnello senza difetti e senza macchia (co? à[xvou àfKÓpiou xocì àaruXoo)". Volendo conoscere la provenienza e quindi il significato della metafora cristologica, dobbiamo escludere due possibilità apparentemente utili. Innanzitutto, va ammesso che essa non corrisponde propriamente all'agnello pasquale, sia perché il lessico non corrisponde", sia perché là l'atto di redenzione non è direttamente connesso eoo l'agnello, che ha solo valore apotropaico, ma con la potenza dell'intervento personale di Dio stesso100. Inoltre, essa ha ben poco in comune con Is 53,7 LXX ("come pecora venne condotto al macello e come agnello muto di fronte al tosatore non aprì bocca"): qui infatti il paragone evidenzia soltanto l'estrema docilità del Servo, ma come tale l'agnello non è direttamente connesso con una funzione redentrice. È meglio perciò, insieme al commento di Achtemeier, scorgere nella metafora un riferimento al culto sacrificale israelitico in generale, che richiedeva come offerta al Signore solo animali perfetti, senza alcun difetto 101 . Nell'esclusione dell'argento come prezzo del riscatto riecheggia invece il testo di Is 52,3 che prospetta a Gerusalemme una liberazione gratuita dall'oppressione babilonese: "Senza prezzo foste venduti, e senza denaro sarete riscattati, où \itià àpyupiou XuxpcoGrjaeaGe"). In lPt 1,18-19 il prezzo del riscatto è costituito dal "sangue prezioso" di Cristo, cioè dalla sua morte costosa (cf. i passi paolini di ICor 6,20; 7,23; Rm 3,24.25); ma qui, a motivo del contrasto con "le cose corruttibili" del passato pagano dei destinatari, l'accento cade non tanto sul prezzo pagato quanto sul fatto che la redenzione è stata procurata non con
99 Infatti in Es 12,5 LXX si parla propriamente di un rcpópaiov réXetov... arcò TÒ>V àpvà>v (lett.: "un ovino perfetto ... preso tra gli agnelli"). 100 Infatti in Es 6,6s Dio dice: "Vi riscatterò (Xuxpcó<jo(iai) con braccio teso e con grandi castighi e vi prenderò come mio popolo personale e sarò il vostro Dio". Si noti che l'uso dello stesso verbo e con lo stesso riferimento all'intervento di Dio nell'esodo è presente solo più in Es 15,13 ("Guidasti con il tuo favore questo popolo che hai riscattato, ov èXuxptóaw, lo conducesti con forza alla tua santa dimora"). 101 Di "agnello-i senza difetti" come vittime sacrificali perfette (con l'uso dello stesso aggettivo à[i
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ciò che poteva caratterizzare la precedente condotta dei lettori ma con un nuovo, gratuito intervento di Dio in Cristo (cf. Wpassivum divinum "foste riscattati" e i seguenti vv. 20-21).
7.3 // tema del Servo sofferente È sviluppato nel brano 2,21-25, che si stacca dal contesto (contenente dal v. 18 una parenesi agli schiavi) come un'autonoma confessione innica della fede cristiana, sia pur ricordata a fini esortatori 102 : "21bAnche Cristo soffrì per voi, lasciandovi un esempio perché seguiate le sue orme: 22 lui che 'non commise peccato né fu trovato inganno nella sua bocca': 23 lui che oltraggiato non ricambiava con oltraggi e soffrendo non minacciava, ma (si) consegnava a Colui che giùdica con giustizia:
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lui che 'portò i nostri peccati' nel suo corpo sul legno perché distaccati dai peccati vivessimo per la giustizia: lui, 'per le cui piaghe foste guariti'. 25 Eravate infatti 'come pecore erranti', ma ora siete stati ricondotti al pastore e guardiano delle vostre anime".
Non si può comprendere adeguatamente questo brano, se non si tiene conto della forte influenza che ebbe su di esso il quarto carme del Servo di Yhwh isaiano 103 , di cui si trovano qui almeno quattro riporti pressoché letterali104. Anche il linguaggio paolino 102 Al contesto però è anche collegato per il tema della sofferenza; ma, come fa notare N. Brox, Der erste Petrusbrief EK XXI, Benziger/Neukirchener, Zùrich/Neukirchen Vluyn 1979, 21986, pp. 139-140, il tema di contorno non è tanto la schiavitù intesa per se stessa quanto piuttosto quello della sofferenza innocente esemplificata all'evidenza nella condizione degli schiavi ma tipica di tutti i cristiani che soffrono ingiustamente da parte di una società ostile. In specie cf. anche T.P. Osborne, Guide Lines for Christian Suff ering: A Source-Critical and Theological Study ofl Peter 2,21-25, Bibl 64 (1983) 381-408. 103 Oltre ai commenti, cf. O. Hofius, Das vierte Gottesknechtslied in den Briefen des Neuen Testaments, in B. Janowski e P. Stuhlmacher, edd., Der leidende Gottesknecht: Jesaja53 undseine Wirkungsgeschichte, FzAT 14, Mohr, Tubingen 1996, pp. 107-127 qui 125-126. 104 Essi sono segnalati nella nostra traduzione e corrispondono rispettivamente a Is 53,9; 53,4.12; 53,5; 53,6. In più, si possono scorgere un paio di allusioni anche nel v. 23b ("soffrendo non minacciava"; cf. Is 53,7: "Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca") e nel v. 24b ("perché... vivessimo per la giustizia"; cf. Is 53,llb: il Servo "giustificherà molti").
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è particolarmente presente nel v. 24b con le sue antitesi "peccati -giustizia", "distaccati-viviamo" (cf. Rm5,17.21; 6,12-13.16-23; 8,10). Certo questo è il testo neotestamentario, che più direttamente e diffusamente si aggancia a Is 53 per esprimere la dimensione redentrice della morte di Cristo. Ma si deve notare che queste sofferenze, per quanto siano proposte ai cristiani come modello da imitare, vengono ricordate e quasi proclamate per se stesse, nel loro valore irripetibile105. Infatti l'impatto salvifico di cui sono gravide (cf. "per voi", "portò i nostri peccati", "per le sue piaghe foste guariti") non è affatto esemplare, non essendo attribuito alle sofferenze del cristiano alcun risultato del genere.
7.4 "Pietra viva" Questa metafora, che nel contesto ha una tipica dimensione ecclesiologica, si legge in 2,4-8: '^Stringendovi a lui, pietra viva, scartata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, 5anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo. 6Si legge infatti nella Scrittura: 'Ecco, io pongo in Sion una pietra angolare, scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà confuso' (Is 28,16). 7 Onore dunque a voi che credete; ma per gli increduli 'la pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta la pietra angolare, 8sasso d'inciampo e pietra di scandalo' (Sai 117,22; Is 8,14)". Senza commentare l'intero brano, vogliamo almeno sottolineare la novità dell'appellativo cristologico "pietra viva". Ricordiamo a questo proposito che, se l'AT ebraico definisce più volte Dio come "pietra, roccia" (sur, seta0, eberi) che dà sicurezza a chi si rifugia in lui (cf. Dt 32,4; Sai 31,4; Is 26,4 ecc.), la versione greca 105 "più che narrata la passione viene qui proclamata" (E. Bosetti, Il Pastore, p. 107; la stessa Autrice, contro Spicq, rileva il carattere teologico della "grazia" di cui si parla al v. 19: le sofferenze dei cristiani sono "situazione favorevole e segno concreto della loro chiamata alla salvezza" [ib., p. 103]). Da parte sua J. Cervantes Gabarrón, Lapasión de Jesucristo, p. 384, fa giustamente notare che in lPt l'unico verbo avente "Cristo" come soggetto è nàoxeiv, "soffrire" (2,21; 3,18; 4,1): "Quésto fatto mostra che l'autore della lettera concepisce la passione di Cristo come l'aspetto più rilevante di tutta la sua cristologia. Si tratta dell'unica affermazione positiva ed esplicita su Cristo. Le altre considerazioni cristologiche della lettera vanno subordinate a questa caratteristica essenziale" (ib.).
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dei LXX rende questi termini con dei sostantivi astratti ("aiuto, sostegno, rifugio") e quasi mai invece con Xt9o?/7téxpa, se non proprio nei testi citati dal nostro autore, quando cioè si tratta almeno indirettamente del Messia o comunque di una prospettiva escatologica106. Ma la vera novità sta nell'aggettivo "viva (Cwv)", che nei testi citati dall'AT non si trova mai (a differenza dell'altra ricorrente aggettivazione: "scelta, preziosa, angolare [e all'opposto: scartata, d'inciampo, di scandalo]"). Il sintagma non è neanche proprio della lingua greca, mentre lo è della latina: qui saxum vivum significa né più né meno ciò che significa nella nostra lingua, cioè una pietra o roccia che non è ricoperta di terriccio o altro ma risplende intatta per la sua immediata freschezza e naturalezza107. In quanto tale, essa dà garanzia di affidabilità, come la pietra su cui il saggio costruisce la propria casa (cf. Mt 7,24/Lc 6,48). Poiché nel linguaggio cristiano l'aggettivo "vivo, vivente" si applica al Risorto (cf. Le 24,5; At 1,3; Ap 1,18), non si può comprendere appieno il nostro testo senza far riferimento a lui (cf. anche lPt 3,18), tenendo conto però che, paradossalmente, prima di diventare "viva" questa pietra è stata "scartata' '. Quindi la fede in Cristo comprende tutto il suo mistero di passione e risurrezione; solo in questo modo egli può costituire il fondamento saldo della nuova costruzione che è la chiesa108.
7.5 "Pastore" Questo titolo, che finora non abbiamo ancora incontrato, è presente in lPt due volte: 106 Anche nella tradizione giudaica extrabiblica abbiamo un trattamento analogo, come testimoniano sia 1QS 8,7-8 ("Il consiglio della comunità... sarà la muraglia provata, la pietra d'angolo preziosa... le cui fondamenta non vacilleranno") sia il Tg di Is 28,16 ("Ecco, io pongo in Sion un re, un re forte, potente e terribile. Io lo rafforzerò e lo irrobustirò"). Addirittura il testo di Sai 118,22 ("La pietra [eben] scartata dai costruttori è divenuta testata d'angolo") viene letto dal Targum Onkelos con un leggero ritocco lessicale: "Il figlio (ben) scartato dai costruttori..." (cf. F. Manns, 'La maison où réside l'Esprit': 1 P2,5 etson arrière-planjuif, SBFLA 34 107 [1984] 207-224 qui 222). Cf. Virgilio, Aen. 1,167 (in un antro si trovano acque dolci vivoquesediliasaxo, "e sedili nella pietra viva"); 3,688; Ovidio, Metam. 5,317 (le Ninfe si sedettero su sedili fatti di pietra viva: factaque de vivo pressere sedilia saxo); 7,204 (Medea: quando voglio "smuovo le pietre vive e le querce sradicate dalla loro terra") ecc. (cf. P.J. Achtemeier, 1 Peter, p. 154 nota 58; alla nota 60 si attribuisce l'uso del sintagma in greco a scritti medici dei posteriori secoli VI-VII nel senso di "magnete"). 108 Cf. A. Vanhoye, Sacerdoti antichi e nuovo sacerdote secondo il Nuovo Testamento, Elle Di Ci, Torino-Leumann 1985 (orig. frane, Paris 1980), p. 201.
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"Eravate 'come pecore erranti' (Is 53,6), ma ora siete stati ricondotti al pastore e guardiano (ini -còv 7coifxévoc xoct imaxonov) delle vostre anime" (2,25). "Esorto i presbìteri... Quando apparirà il pastore supremo (ó àpxt7toifA7|v), riceverete la corona della gloria che non appassisce" (5,1.4).
Lo studio della Bosetti, fondato sull'analisi del testo e sul confronto con le tradizioni giudaiche109, ha chiarito bene il rapporto tra gli appellativi di "pastore" e "guardiano": solo il primo va considerato un vero titolo o comunque il principale termine di riferimento, mentre il secondo vi è subordinato ed esprime solo una funzione propria del primo110. In questa prospettiva, il secondo verbo della coppia antitetica "errare/ricondurre" (7rXocvoófxevoi/è7reaTpà97]Te) va inteso come un vero passivo transitivo: "foste ricondotti" (quindi non: "vi siete convertiti" o "siete tornati" [CEI]), poiché in tutti i testi biblici è sempre Dio che agendo come un pastore riconduce personalmente il suo popolo disperso (cf. Ger 3,14-15; 23,3-4; Mie 2,12; 4,6-7; Ez 34,16; Sir 18,13): "Nell'essere ricondotti non c'è quindi alcuna allusione a una conversione che precede la salvezza: questa è tutta e soltanto un atto di grazia". Ma va precisato che, a differenza dei testi biblici dove il punto di arrivo della riconduzione è la terra d'Israele o Dio stesso, qui invece la riconduzione come opera di Dio termina per così dire non in un ovile ma nel consegnare gli erranti a Cristo: lui "è il punto di arrivo cui tende l'intero processo salvifico. Egli è stato stabilito da Dio 'pastore e custode' del gregge ricondotto"; ma "a differenza dei confini della terra o del recinto dell'ovile, il pastore rappresenta un punto d'arrivo dinamico. Egli è per definizione colui che conduce, che precede il suo gregge e lo porta al pascolo. Così l'immagine di arrivo rimanda a quella di partenza: 'Perché seguiate le sue orme' (2,21)'" n . Che poi Cristo venga detto "pastore su109
Cf. E. Bosetti, Il Pastore, pp. 117-158. Cf. Ger 23,2: "Così dice il Signore Dio d'Israele a coloro che pascolano il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore e le avete scacciate e non le avete sorvegliate"; Zc 10,3; 11,16; Ez 34,1 l-12a; Filone Al., Agric. 49: "La sorveglianza di Dio è ... quella di un pastore senza confronti, assolutamente buono"; a Qumràn si dice del "sorvegliante" (mebaqqef) della comunità: "Avrà pietà di essi come un padre dei suoi figli e farà tornare tutti i traviati come un pastore al suo gregge" (CD 13,9; trad. C. Martone); un midrash rabbinico sul testo di Gn 48,15 ("Dio davanti al quale camminarono i miei padri") spiega così: "Rabbi Johanan disse: (Ciò si riferisce) a un pastore che sta in piedi e sorveglia il suo gregge" (Gen.R. 97,2). Vedi anche At 20,28: "Badate a tutto il gregge, nel quale lo Spirito Santo vi ha posti come guardiani per pascere la chiesa di Dio". 111 E. Bosetti, Il pastore, pp. 131.133.135. 110
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premo" (5,4; cf. Eb 13,20), significa, da una parte, che egli è tanto superiore a tutti i pastori della chiesa da giudicarli al momento della sua parusìa, e, dall'altra, che questi comunque sono chiamati a condividere un ministero pastorale che è solo suo112. 7.6 Predicazione ai defunti? Accenniamo a parte alla problematica funzione attribuita a Cristo nei due passi 3,18-22 e 4,6, che nel NT rappresentano un unicum112. Per un'esatta comprensione delle cose occorre esaminarli a parte, dato che sono separati da 4,1-5 dove si tratta di un confronto fra la sorte dei gentili e quella dei cristiani. In primo luogo quindi diamo la traduzione di 3,18-22: " 1 8 Anche Cristo soffrì una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per condurvi a Dio, messo a morte nella carne ma reso vivo nello Spirito, 19 nel quale andò ad annunziare anche agli spiriti in prigione, 20 a coloro che un tempo erano stati infedeli, quando la magnanimità di Dio pazientava nei giorni di Noè mentre si costruiva l'arca in cui poche persone cioè otto furono salvate per mezzo dell'acqua, 21così come ora il battesimo quale antitipo salva voi, non come rimozione di una sporcizia del corpo ma come invocazione di una buona coscienza a Dio, per mezzo della risurrezione di Gesù Cristo, 22che è alla destra di Dio dopo essere andato in cielo e aver ottenuto la sottomissione degli angeli e delle autorità e delle potenze". Secondo una certa interpretazione 1 1 4 , questo passo viene collegato con l'articolo del Credo concernente la discesa di Cristo agli 112
Cf. N. Brox, lPt, p. 232; E. Bosetti, // Pastore, p. 220; P.J. Achtemeier, IPt, p. 329. 113 In specie il v. 19 è tuttora considerato una vera crux interpretum, dato che si continuano a ripetere le tradizionali ammissioni di una particolare difficoltà ermeneutica, che già facevano dire per esempio a Lutero: "Questo è un testo oscuro come nessun altro nel N.T. tanto che io non so ancora con certezza ciò che S. Pietro volesse dire" (citato in P.J. Achtemeier, IPt, p. 252 nota 146). 114 Cf. per esempio C.E.B. Cranfield, The Interpretation of I Peter III.19 and IV.6, ExpT 69 (1958) 369-372; J. Galot, La descente du Christ aux enfers, NRT 83 (1961) 471-491. Una variante è quella di H.-J. Vogels, Christi Abstieg ins Totenreich und das Làuterungsgericht art den Toten. Eine bibeltheologìsche-dogmatische Untersuchung zum Glaubensartikel "descendit ad inferos", FTS 102, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1976.
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Inferi durante il triduum mortis per annunciare la salvezza a tutti i defunti (o almeno a quelli della generazione di Noè). Va subito detto che l'esegesi odierna è orientata a non interpretare più il testo in questo modo 115 . Le domande fondamentali stimolate dal testo per una sua esatta comprensione sono quattro: Chi sono gli "spiriti" a cui è rivolto l'annuncio? Qual è la prigione in cui essi si trovano? Quand'è che Cristo glielo rivolge? In che cosa consiste l'annuncio? Le risposte che oggi si tendono a dare, presentate in estrema sintesi, sono le seguenti: (1) Gli "spiriti" sono gli angeli malvagi di cui si parla in Gn 6,1-6 e negli sviluppi di lEn. 6-16; Giub. 7,21, cioè i figli di Dio che si sono uniti alle figlie degli uomini e con esse generarono i giganti: essi, che sono comunque collegati con la storia di Noè, stanno all'origine del male nel mondo. (2) La prigione non è ben definita, ma indica il luogo in cui quegli spiriti cattivi sono trattenuti, siano essi sulla terra (cf. lEn. 10,4; Giub. 5,10; 1QH 3,18) o nei cieli (cf. 2En. 7,1-3; Ef 6,12) o all'estremità del cielo e della terra (cf. lEn. 1,5; 21,1-10). (3) A rivolgere l'annuncio è il Cristo risorto, e la doppia ricorrenza del verbo wopeuGei's (vv. 19 e 22) viene intesa in riferimento a un unico evento: quello dell'esaltazione del Risorto, come suggerisce anche il v. 18 (quindi senza alcuna allusione al triduum mortis). (4) L'annuncio non riguarda la salvezza degli "spiriti in prigione", ma la proclamazione del trionfo di Cristo su di loro 116 ; di salvezza invece si parla in 115 D'altronde, la fede nel descensus ad inferos si è formata inizialmente non in base ai testi petrini ma alla concezione giudaica del soggiorno dell'anima del defunto tra i morti, a cui viene collegata anche la predicazione di Cristo sepolto (cf. Vangelo di Pietro 41-42; Odi di Salomone 42,11-20; Giustino, Dial. 72,4; Melitone, Perì Pascha 101-102; Ireneo, Adv. haer. IV 27,2 [con aggancio a Ef 4,9]; Origene, C. Cels. 2,43); la prima connessione sufficientemente chiara con il nostro passo è in Clemente Al., Strom. VI 44,5-45,4. In merito vedi soprattutto W.J. Dalton, Christ's Proclamation to the Spirits. A Study of 1 Peter 3:18-4,6, AB 23, Biblical Institute, Rome 1965, 21989; e i commenti di K.H. Schelkle, N. Brox (di cui vedi l'Excursus "Zur Nachgeschichte von IPetr 3,19f/4,6 [Der 'Hòllenabstieg' Christi]", pp. 182-189), e P.J. Achtemeier. 116 Così almeno in base al v. 22. Però resta problematico il rapporto con lEn. 12,4-6, dove il Signore incarica Enoch di annunziare impietosamente agli angeli decaduti che per loro "non vi sarà pace sulla terra né remissione del peccato... e che imploreranno in eterno e non vi sarà per loro né perdono né pace"; forse che lPt attribuisce a Gesù la stessa missione di Enoch? Ma ciò non sarebbe in flagrante contrasto con la sua universale missione salvifica, così da dover intendere anche qui un annuncio di salvezza (così K.-H. Schelkle)? Tuttavia, ciò non sarebbe un cedimento all'ottimismo origeniano sulla salvezza universale? La semplice proclamazione della sua vittoria sarebbe invece una soluzione bilanciata (anche se N. Brox, lPt, p. 175, preferisce lasciare la questione irrisolta), tanto più che si ripeterebbe qui ciò che abbiamo già visto più sopra sulla sottomissione a Cristo di tutte le potenze e potestà avverse (cf. 3.2.1).
CONCLUSIONE
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rapporto al battesimo e quindi ai destinatari della lettera (cf. v. 21), che ormai appartengono alla sfera di potenza del Risorto e non ad altre potenze concorrenti. Per quanto riguarda il secondo passo117, esso letteralmente suona così: "4-6Per questo infatti anche ai morti fu evangelizzato, affinché giudicati nella carne secondo gli uomini vivano nello Spirito secondo Dio". Se "i morti" non si vogliono intendere in senso allegorico come spiritualmente morti per il peccato durante la loro vita (così per esempio S. Agostino), rimangono solo due spiegazioni. (1) Essi vanno intesi non in senso generale, ma in riferimento ai cristiani destinatari della lettera, che durante la loro vita hanno accolto il vangelo annunziato e poi, pur avendo dovuto patire un giudizio negativo dagli uomini (così è detto anche di Cristo in 4,1), con la loro morte però ricevono il giudizio di Dio che li fa vivere nello Spirito (cf. 3,18)118. Ma il precedente v. 5 ("Renderanno conto a colui che è pronto a giudicare i vivi e i morti") richiede che ai "morti" si dia in entrambi i casi lo stesso significato. (2) Si tratta di coloro che sono morti prima di Cristo: anche ad essi è stata data in qualche modo (da chi? dove? quando?) la possibilità di accogliere l'evangelo al fine di superare il giudizio finale e ottenere la vita119.
8. Conclusione Come si vede la riflessione cristologica della tradizione paolina si presenta molto sfaccettata. Ciò è certamente indice della geniale capacità espressiva della fede cristiana, ma insieme anche del fatto che la figura di Cristo si presta per natura sua (cioè, per l'incomparabilità della sua persona e delle funzioni da lui svolte) a sempre inediti approfondimenti.
117 È interessante notare che N. Brox lo ritiene "ancora più oscuro di 3,19-22" (lPt, p. 196). 118 Così pensano Dalton e Achtemeier. 119 In questo senso vanno Schelkle e Brox.
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Premesse Al di là delle molte questioni che riguardano questo scritto, una cosa è chiarissima: esso si caratterizza per una sua specifica cristologia, che nell'ambito del NT spicca fortemente per la sua consistenza e per la sua originalità1. Accenniamo tuttavia molto brevemente ad alcuni interrogativi di carattere generale, che esso pone a livello d'insieme. Composto per rafforzare i destinatari in una loro situazione di alcune difficoltà, sia esterne per accenni di persecuzione, sia interne per il rischio di apostasia e di un ritorno al giudaismo (cf. 3,12.14; 5,11; 6,4-6.lls; 10,25.26-29.32-34; 12,3-4.15-16; 13,9), Eb tende a dimostrare non tanto che la morte di Gesù fu un sacrificio per i peccati (cosa comunemente ammessa dai cristiani), ma piuttosto e doppiamente che essa sostituisce ogni altro sacrificio e che i suoi effetti sono permanenti, così che non occorre rivolgersi a pratiche rituali di altro genere2. Perciò la cristologia che vi viene sviluppata ha fondamentalmente un intento parenetico: essa implica una forte esortazione a restare fedeli alla propria identità cristiana e ad accedere con fiducia al trono della misericordia ( = Dio che si rivela nella croce di Cristo) per attingervi in ogni tempo la grazia della salvezza (cf. 4,16)3. Si
1 Oltre ai Commenti, cf. H. Feld, Der Hebràerbrief: Literarische Form, religionsgeschichtlicher Hintergrund, theologische Fragen, in ANRW 11/25.4, pp. 3522-3601. 2 Cf. B. Lindars, The Rhetorical Structure ofHebrews, NTS 35 (1989) 382-406; Id., La teologia della Lettera agli Ebrei, Paideia, Brescia 1993 (orig. ingl., Cambridge 1991), pp. 18-31. 3 Vedi soprattutto F. Laub, Bekenntnis und Auslegung. Dieparànetische Funktion der Christologie im Hebràerbrief, BU 15, Pustet, Regensburg 1980; inoltre R. Schnackenburg, // messaggio morale del Nuovo Testamento, II, Paideia, Brescia 1990 (orig. ted., Freiburg i.B. 1988), pp. 310-326; E. Gràsser, An die Hebràer, I, EKK 17/1, Zùrich-Neukirchen Vluyn 1990, pp. 25-27.
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spiega così il procedimento generale dello scritto che, per ammissione dello stesso autore, non è altro che "un discorso di esortazione" (13,22), sia pure inviato in forma epistolare. Si discute semmai se dal punto di vista retorico il discorso appartenga al genere epidittico (dimostrazione di una tesi) o piuttosto deliberativo (invito a prendere una decisione)4. La stessa struttura della composizione rivela un tipo di argomentazione che frammischia insieme, alternandole, cristologia ed esortazione in maniera indissolubile. E gli studiosi, ove non rinuncino a una vera struttura5 o non si affidino a un vecchio schema di struttura bipartita (dogmatica e parenesi)6, si differenziano tra di loro a seconda che evidenzino l'una o l'altra delle due componenti. Da una parte, infatti, alcuni preferiscono sottolineare l'importanza della parenesi e ad essa subordinano la cristologia7. Dall'altra, invece, si vuole maggiormente evidenziare l'intento dottrinale dello scritto, incentrato sul sacerdozio di Cristo, a cui viene rapportata anche la parenesi8. Noi ci atteniamo a questa seconda scelta. Pur non essendo facile determinare con precisione né la data di
4 Cf. in generale N. Casalini, Agli Ebrei. Discorso di esortazione, Franciscan Printing Press, Jerusalem 1992; G. Marconi, Omelie e catechesi cristiane nel I secolo, Dehoniane, Bologna 1994, pp. 9-67; P. Garuti, Alle origini dell'omiletica cristiana: La lettera agli Ebrei, Franciscan Printing Press, Jerusalem 1995 (sulla definizione del genere, cf. ib., p. 200 e nota 79). 5 Così H. Braun. 6 Così già Tommaso d'Aquino: I. Excellentia Christi: 1,1 - 10,18 (ancora suddivisi: quantum adangelos [1-2]; quantum adMoysen [3-4]; quantum adsacerdotium Veteris Testamenti [5,1 - 10,18]); II. Fides: 10,19 - 13,25. Per altre divisioni bipartite, cf. H. Feld, Der Hebràerbrief, pp. 3528s. 7 Così in specie H.-F. Weiss, che divide in tre parti: I. La rivelazione definitiva di Dio nel Figlio (1,1 - 4,13); II. Il fondamento cristologico dell'esortazione alla fede (4,14 - 10,18); III. L'esortazione alla fede (10,19 - 13,25). Analogamente H. Hegermann ed E. Gràsser. 8 Così la struttura proposta da A. Vanhoye, La structure littéraire de l'épitre aux Hébreux, Desclée, Bruges-Paris 1963, 21976; Id., Discussions sur la structure de l'Épitre aux Hébreux, Bibl 55 (1974) 349-380 (essa gode della simpatia di H. Feld, Der Hebràerbrief, ed è stata ripresa dai commenti di N. Casalini e di P. Ellingworth). Vanhoye divide lo scritto in cinque parti: - Esordio (1,1-4); - I. Il Figlio è superiore agli angeli (1,5 - 2,18); - IL Un Sommo sacerdote misericordioso e degno di fede (3,1 - 5,10); - III. Aspetti specifici del sacerdozio di Cristo (5,11 -10,39, così suddiviso: A. Secondo l'ordine di Melchisedeq; B. Esercizio atipico del sacerdozio; C. Causa di una salvezza eterna); - IV. Il valore fondamentale della fede (11,1 - 12,13); - V. Esortazioni morali (12,14 - 13,17); - Conclusione (13,19-21); - Parola d'invio (13,22-25). Come si vede, le sezioni più specificamente cristologiche sono le prime tre.
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composizione9, né l'identità dell'autore10, è invece relativamente agevole valutare l'eccellenza sia del livello letterario11 sia soprattutto della cristologia che vi è configurata, per quanto sfaccettata questa si presenti. Evidentemente l'autore, che si rivela comunque un uomo di grande responsabilità sul piano ecclesiale e pastorale, appare come una persona dalle grandi qualità sul piano tanto dello stile quanto del pensiero. 1. Panoramica sulle qualifiche cristologiche presenti nella lettera •Più che mai in Eb la cristologia è connessa con dei titoli, che la esprimono e la sintetizzano in modo inequivocabile. Qui di seguito li elenchiamo in ordine crescente di frequenza, per soffermarci poi diffusamente sugli ultimi due. a) "Pastore grande", no\.\ii\v fiÉya (solo in 13,20): è detto di Gesù in quanto Risorto, e in questo senso è accostabile a lPt 2,25; 9 Alcuni vorrebbero collocare lo scritto prima dell'anno 70, soprattutto per il fatto che il culto nel Tempio di Gerusalemme sembra ancora in pieno svolgimento, come risulterebbe soprattutto da 10,1-3 (così per esempio A. Vanhoye, La lettera agli Ebrei, in A. George - P. Grelot, Introduzione al Nuovo Testamento - 3. Le lettere apostoliche, Boria, Roma 1978 [orig. frane, Paris 1977], pp. 185-216 qui 213-214; P. Ellingworth, The Epistle to the Hebrews, NIGTC, Eerdmans/Paternoster, Grand Rapids/Carlisle 1993, pp. 29-33). Altri invece vi scorgono alcuni elementi, come l'assenza dei termini tecnici Upóv (l'area sacra in cui il Tempio è costruito) e vaó? (il Tempio vero e proprio) a favore del più arcaico <JXT|VT| (Tenda), e l'allusione al tempo di una generazione cristiana più recente (cf. 2,2-3), che sposterebbero la composizione agli anni successivi, comunque prima di IClem 36,2 (così per esempio A. Wikenhauser - J. Schmid, Introduzione al Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1981 [orig. ted., Freiburg i.B. 1966], p. 610; E. Gràsser, An die Hebràer, p. 25). Su questa seconda ipotesi si colloca anche M.E. Isaacs, Sacred Space. An Approach to the Theology o/the Epistle to the Hebrews, JSNT Suppl. 73, JSOT Press, Sheffield 1992, secondo cui è la distruzione del Tempio nel 70 che spiega sia l'affiorare di una questione centrale soggiacente alla lettera (e urgente per una comunità giudeo-cristiana), cioè come sia possibile ora l'accesso a Dio, sia anche la risposta che vi viene data, cioè che l'unico vero spazio sacro ora è il cielo dove è il trono della grazia e dove Gesù continua a svolgere il suo ufficio sacerdotale. 10 Un certo legame con Paolo sembrerebbe suggerito dalla menzione di Timoteo in 13,23, ma l'universo concettuale e linguistico dello scritto lo distanzia inesorabilmente dalla biografia dell'Apostolo. Quanto al nome anagrafico dell'autore, si è creduto di individuarlo di volta in volta in Luca, Barnaba, Apollo, o altri. In ogni caso, l'anonimìa dello scritto e l'indeterminatezza dei destinatari sottolinea l'importanza di un orizzonte ecclesiale di tipo universale. 11 Cf. E. Norden, La prosa d'arte antica, I, Salerno Ed., Roma 1986 (orig. ted., Stuttgart 1909), p. 509, dove si riporta il giudizio critico di Origene, secondo cui rispetto a Paolo Eb è "più greca nella costruzione del discorso, come riconoscerebbe ogni persona che sappia distinguere le differenze di stile" (in Eusebio, H.E. 6,25,11).
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Gv 10,11.14.16 (cf. anche Mt 26,31 = Zc 13,7). Ampiamente usato nell'antichità a proposito delle guide dei popoli 12 , lo si trova nell'AT detto di Mosé (cf. Is 63,11) e di Davide (cf. 2Sam 5,2), oltre che dei re in generale (cf. Ez 34), in quanto condividono una proprietà di Dio stesso (cf. Sai 22). La sua funzione semantica è di esprimere, da una parte, la garanzia di una vita sicura e, dall'altra, una piena fiducia. b) "Inviato", tócrcoXos (solo in 3,1): è l'unico caso in cui il NT attribuisce a Gesù Cristo questo epiteto (anche nei LXX non ricorre mai, eccetto 3Re 14,6 [ma solo in Origene]). L'idea di Gesù come inviato celeste è ben presente anche altrove (cf. Mt 15,24; Me 9,37; Le 10,16; Gal 4,4; Gv 3,17 ecc.); qui però il titolo spicca particolarmente anche per il fatto che l'autore non lo impiega mai in riferimento ai Dodici, del resto neppure menzionati13. Nell'AT sono inviati da Dio soprattutto Mosè (cf. Es 3,10) e il messaggero escatologico (cf. MI 3,1). Poiché in Eb 3,1 il titolo è in endiadi con quello di Sommo Sacerdote, lo si può intendere semplicemente come sua apposizione, cioè "Sommo Sacerdote inviato" (quindi autorevole e degno di fede) forse sulla falsariga di Mosè e Aronne (cf. ISam 12,8: "Il Signore mandò loro Mosè ed Aronne", che si spiega con rimando a Es 4,10-16), il quale ultimo in 5,4 viene portato come paradigma del chiamato da Dio. e) "Guida, iniziatore", àpxriyó? (due volte in 2,10, "della loro salvezza", e in 12,2, "della fede"). La costruzione di 2,10 ("guida della loro salvezza") è parallela con quella di 5,9 ("causa, amo?, di salvezza eterna"). Il parallelo con At 3,15; 5,31 conferma la funzione di primo responsabile di un nuovo percorso di vita (cf. 10,20). Sinonimo può essere considerato l'appellativo di "precursore", 7tpó8po[Ao<; (6,20), detto di Gesù che ha preceduto i cristiani oltre il velo del santuario celeste, diventando fin d'ora per loro "un'ancora" di sicura salvezza (6,19). d) "Mediatore", [iiokr\c; (con il suo sinonimo "garante", eyyuoi;, in 7,22), detto in rapporto a un'alleanza che di volta in volta è qua12 Vedi Hammurapi, Codice 1 ("Io sono Hammurapi, il pastore, l'eletto di Enlil"); Omero, //. 2,243 ("pastore di popoli", detto di Agamennone). In un inno egiziano ad Ammone del periodo del Nuovo Regno (dinastie XVIII-XX) il dio è celebrato così: "Tu sei buono per ognuno, tu pastore che conosci la compassione" (E. Bresciani, Letteratura e poesia dell'Antico Egitto, Einaudi, Torino 1969, p. 412), mentre in un altro si dice che egli "fa vivere ... ogni buon pastore", cioè ogni sovrano (ib., p. 384). 13 Cf. P. Ellingworth, Hebr., p. 199.
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lificata come "migliore" (7,22; 8,6), "nuova" (9,15), "recente" (12,24)14. Come avviene anche nel passo di lTm 2,5 (cf. cap. precedente), l'idea di mediazione è essenzialmente connessa con la morte di Gesù, che in Eb è particolarmente sottolineata dalla frequente menzione del sangue della vittima sacrificale. e) "Signore", xupioc. Usato più spesso con valenza teologica (12 volte: cf. 7,21; 8,2.8.9.10.11 ecc.), il titolo ha quattro volte significato cristologico: 1,10 ( = Sai 101,26); 2,3; 7,14; 13,20. Come abbiamo già avuto modo di vedere a proposito sia del giudeocristianesimo sia di Paolo, il titolo è certamente tradizionale. Eb però, tutto sommato, lo impiega poco in rapporto a Cristo, anche se, proporzion fatta, il senso cristologico sembra prevalere su quello teologico15. f) "Cristo". Nove volte questo appellativo ricorre da solo (cf. 3,6.14; 5,5; 6,1; 9,11.14.24.28; 11,26). Mai però ha valore titolare 16 , ma equivale semplicemente a un altro nome per Gesù ed è normalmente connesso con la sua qualifica di Figlio o con i momenti della sua sofferenza. La messianicità di Gesù non forma mai oggetto di una specifica riflessione in Eb. g) "Gesù (Cristo)". Sorprendentemente il nome storico-anagrafico di Gesù è frequentissimo in Eb: ben 13 volte, contro le appena 15 dell'intero epistolario paolino 17 ! Ciò significa che il nostro autore sa di discorrere non di un personaggio astratto e disincarnato, magari in prospettiva docetista, ma di un uomo storico, concreto, come quando parla di lui applicandogli l'inno all'uomo di Sai 8 (cf. Eb 2,5-9); e ciò è vero anche quando dice che egli è entrato nel santuario celeste (cf. 6,20)18.
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II titolo è usato in riferimento a Mosè da Filone Al., Vit. Mos. 2,166, nel contesto dell'episodio dell'adorazione del vitello d'oro: "In quanto mediatore e riconciliatore (|iem-n)i; xoct SiaXXaxxri?)... egli innanzitutto, a nome del popolo, fece suppliche e preghiere domandando il perdono dei loro peccati". 15 Lo si intuisce da un confronto con una lettera di lunghezza analoga come 2Cor, dove la diversa semantica è rispettivamente di 8 casi contro ben 29. 16 P. Ellingworth, p. 448, ritiene che almeno in 9,11 abbia valore di titolo, ma i motivi addotti non sono affatto cogenti. A proposito dello stesso passo, ricordiamo piuttosto che secondo A. Vanhoye, Lastructure, p. 137, il nome "Cristo" con cui inizia la frase in 9,11 costituirebbe il centro esatto di tutta la struttura della lettera. 17 Le ricorrenze del nome "Gesù" sono le seguenti: 2,9; 3,1; 4,14; 6,20; 7,22; 10,10 (con "Cristo").19; 12,2.24; 13,8 (con "Cristo"). 12.20.21 (con "Cristo"). In 4,818invece 'IT)<JOG<; sta per "Giosuè", come nei LXX. Vedi in proposito il buon excursus di H.-F. Weiss, Der Briefan die Hebràer, Meyers Kommentar, Vandenhoeck, Gòttingen 1991, pp. 321-327 ("Der irdische Jesus im Hebràerbrief").
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h) Ci sono poi altri due titoli, "figlio (di Dio)", uió? (TOU 0eou), e "(sommo) sacerdote", (àpx)t£peu<;, che non soltanto sono i più frequenti (ricorrono rispettivamente 13 e 17 volte)19 ma si presentano anche vicendevolmente collegati, cosicché non è possibile studiare l'uno senza l'altro. Da essi dunque dipende e in essi si concentra tutta la cristologia del nostro scritto. Per questo li consideriamo diffusamente a parte20. 2. Mutuo intreccio dei titoli "Figlio" e "Sacerdote" In alcuni passi decisivi i due titoli si trovano non solo affiancati ma anche strettamente intrecciati. Di fatto, ciò avviene fin dall'apertura della lettera: sia nell'esordio (1,1-4), sia nella prima parte (1,5-2,18), che esaminiamo in successione. Se poi nel prosieguo dello scritto i due titoli verranno trattati separatamente, non bisognerà dimenticare che essi fanno comunque parte integrante di una medesima composizione globale, la quale nel NT si caratterizza appunto per il loro mutuo intreccio21.
19 "Figlio (di Dio)": l,2.5bis.8; 3,6; 4,14; 5,5.8; 6,6; 7,3.28; 10,29; a queste ricorrenze va aggiunto il titolo affine di "primogenito", TtpwTÓxoxoi;, in 1,6. "(Sommo) sacerdote": 2,17; 3,1; 4,14.15; 5,5.6.10; 6,28; 7,11.15.17.21.26; 8,1.4; 9,11; 10,21 (altre sette volte il titolo non ha valenza cristologica). 20 Come bibliografia specifica e globale sul tema, oltre al datato F. Bùchsel, Die Christologie des Hebrderbriefes, Gùtersloh 1922, rimandiamo ai seguenti lavori: A. Stadelmann, Zur Christologie des Hebrderbriefes in der neueren Diskussion, TheolBer 2 (1973) 135-221; E. Gràsser, Zur Christologie des Hebrderbriefes, in H.D. Betz & L. Schottroff, edd., Neues Testament und christliche Existenz. FurH. Braun, Mohr, Tùbingen 1973, pp. 195-206; J.D.G. Dunn, Christology in theMaking, SCM Press, London 1980, pp. 52-56; W.R.G. Loader, Sohn und Hoherpriester. Eine traditionsgeschichtliche Untersuchung zur Christologie des Hebrderbriefes, WMANT 53, Neukirchener, Neukirchen-Vluyn 1981; P.E. Hughes, The Christology ofHebrews, SWJT 28 (1985) 19-27; M.C. Parsons, Son and High Priest: A Study in the Christology ofHebrews, EvQuart 60 (1988) 195-216. Vedi anche gli appositi Excursus nei Commenti, come quelli di R. Fabris, Lettera agli Ebrei, in G. BarbaglioR. Fabris, Le lettere di Paolo, voi. 3, Boria, Roma 1980, pp. 535-539; H. Hegermann, Der Brief an die Hebràer, THNT 16, Evangelische Verlagsanstalt, Berlin 1988, pp. 41-49; H.W. Attridge, The Epistle to the Hebrews, "Hermeneia", Fortress, Philadelphia 1989, pp. 54-55 e 97-103; W.L. Lane, Hebrews 1-8, WBC 47A, Word Books, Dallas 1991, pp. cxxv-cxliv. 21 Anche in 5,8-10 si affermerà che Gesù in quanto Figlio fu perfezionato dalla sofferenza e (perciò) venne dichiarato Sommo Sacerdote da Dio stesso (cf. anche 4,14; 5,5), combinando così in forma consequenziale le due prerogative.
MUTUO INTRECCIO DEI TITOLI "FIGLIO" E "SACERDOTE"
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2.1 L'esordio: 1,1-4 La combinazione delle due qualifiche in questo inizio dà come il "la" a tutta la composizione. Essa si nota nel fatto che, da una parte, si dice che Dio in questi ultimi giorni parlò a noi "in un Figlio" (v. 2), mentre dall'altra si precisa che questo Figlio sedette alla destra della maestà divina "dopo aver fatto la purificazione dei peccati" (v. 3), cioè dopo aver svolto una funzione prettamente sacerdotale. Tutto ciò ha certamente nell'intenzione dell'autore un valore programmatico per l'intero scritto22. 2.1.1 La prima qualifica cristologica di Eb ci viene incontro fin dall'inizio con la frase: "(Dio) ci parlò mediante un figlio, èv uio>" (1,2; CEI: "per mezzo del Figlio"). Ma il costrutto greco va ben interpretato. Infatti la versione CEI non coglie adeguatamente la sfumatura importante della mancanza dell'articolo determinativo nel complemento. Poiché in greco l'articolo ha sostanzialmente il valore di un dimostrativo, così da indicare concretamente un oggetto preciso e circoscritto, la sua assenza invece evidenzia piuttosto la qualità o la natura dell'oggetto stesso (che in italiano si rende con l'articolo indeterminativo). Nel nostro caso, va ben osservato che il suddetto costrutto si oppone significativamente a èv TOT<; 7tpocpr|-cais, "per mezzo dei profeti", dove l'articolo rimanda ai profeti non in quanto tali ma in quanto quei portaparola di Dio che sono ben noti ai lettori del testo. L'autore vuole mettere in risalto la differenza qualitativa esistente tra coloro che sono "i profeti" e colui che invece è "un figlio", così da sottolineare lo scarto non trascurabile tra due fasi della storia della salvezza. Si noti che la presenza del verbo "parlare" allude discretamente ma decisamente al ministero terreno di Gesù e quindi alla fase storica della sua esistenza. La traduzione migliore dovrebbe'essere: "Dio... parlò 22 Cf. soprattutto W.G. Uberlacker, Der Hebrderbrief als Appell. Untersuchungen zu exordium, narratio und postscriptum (Hebr 1-2 und 13,22-25), ConBibl NT Series 21, Almquist & Wiksell, Stockholm 1989, pp. 106-139 (secondo questo Autore poi 1,5-2,18 costituirebbe una narratio e 2,17-18 ìapropositio di un discorso deliberativo). Anche P. Garuti, Alle origini dell'omiletica cristiana, p. 212, riconosce che, se non è possibile scorgere in 1,1-4 un vero e proprio exordium retorico alla lettera, è però possibile che esso equivalga a una propositio e quindi segnali il tenore di un percorso argomentativo. Secondo E. Gràsser, Hebr., I, pp. 64-65, il v. 3 con la sua affermazione sul xaGapiqxói; può valere come "il versetto-chiave dell'intera Eb", purché non lo si disgiunga dal precedente v. 2 e quindi dal tema del "figlio".
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a noi per mezzo di uno che è Figlio" 23 . L'insieme della costruzione lascia poi sufficientemente intendere che il Figlio di cui si tratta ha una pre-esistenza divina, poiché colui che "parla" è già "figlio", senza nessun indizio che lo diventi solo in seguito. Del resto, la natura divina di questo Figlio risalta bene dal contesto immediato, che addirittura elenca una serie di proprietà dal profilo cristologico molto alto, organizzate soprattutto sul registro di una teologia della parola creatrice di Dio: (1) "(Dio) lo costituì erede di tutte le cose", così che egli è come il luogotenente di Dio stesso sull'intero universo (più che ICor 15,25 cf. Ef 1,10.22); (2) "mediante lui fece anche i secoli", nel senso che non solo il mondo ma anche il tempo è connotato dalla sua superiorità, dalla sua centralità, e dal fatto che egli ne segnerà anche la consumazione (cf. Gv 1,2; ed Eb 9,26; 11,3); (3) "egli è riflesso (àroxuYocapux) della sua gloria e impronta (xapaxxrjp) della sua sostanza", cioè: da una parte, egli irradia lo splendore di Dio, come dire che brilla di luce divina ma riflessa (analogamente a ciò che si legge della Sapienza divina in Sap 7,25-26), e dall'altra reca anche profondamente inciso in sé il segno dell'essenza divina, di cui partecipa; (4) "regge tutte le cose con la parola della sua potenza (di Dio)", cioè egli non solo nel suo essere riflette l'essenza di Dio, ma anche nel suo agire rivela la potenza divina (cf. Col 1,17). 2.1.2 Qualifica complementare è quella di tipo sacerdotale, presente qui non in un titolo ma nella dichiarazione: "dopo aver fatto la purificazione dei peccati..." (l,3c: xa9ocpi<j[AÒv xóàv àpiapxióòv 7ionr]aàfAevo<;). A monte di questa frase riecheggia chiaramente il testo di Es 30,10 LXX: "Una volta l'anno su di esso (altare), sui suoi corni, Aronne farà l'espiazione: con il sangue della purificazione dei peccati (àtiò xoG od'[xocxo<; xou xoc9ocpiafjiou xcòv à[xocpxtcùv; TM: middam hatta't hakkippurim) vi farà una volta l'anno l'espiazione per le vostre generazioni". Va però notato che in Eb questa funzione sacerdotale, secondo la sintassi del periodo, è doppiamente subordinata: primo, al fatto che il soggetto principale dell'azione resta 23 Così H. Braun: "in einem, der Sohn ist"; H.W. Attridge: "through a Son"; TOB: "en un fils". L'impiego dell'articolo indeterminativo nella traduzione non suggerisce che Gesù possa essere considerato come uno di tanti figli possibili come se fosse un figlio qualunque (così N. Casalini, p. 82), sia perché l'autore sa che questa qualifica di Figlio vale in realtà solo per Gesù, sia perché da tutto il contesto la sua distinzione dai "molti figli" (2,10) resta assolutamente intatta (cf. P. Ellingworth, p. 93). Quindi, per quanto l'articolo italiano sia indeterminativo, esso non vuole rimarcare l'indeterminatezza del personaggio quanto invece la specifica qualifica di Figlio che lo contraddistingue.
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il Figlio del v. 2 (ripreso dal pronome relativo del v. 3a), sicché è a lui che si attribuisce una qualità sacerdotale (non viceversa): l'essere Figlio precede e fonda l'agire da Sacerdote; secondo, l'esercizio del sacerdozio sfocia in una fase successiva e conseguente che è la sessione "alla destra della maestà nell'alto dei cieli" (cf. anche 10,12), sicché il soggetto di tutta la proposizione, cioè il pronome relativo del v. 3a, trova finalmente qui il suo verbo principale: "sedette" (exàGioev). In quest'ultima frase risuona sicuramente il testo di Sai 110,1 che, se è fondamentale per la riflessione cristologica di tutto il cristianesimo primitivo24, svolge un ruolo particolarmente importante nella nostra lettera: non solo per quanto riguarda il tema specifico della sessione alla destra di Dio (cf. 1,13; 8,1; 10,12; 12,2)25, ma anche perché Sai 110,4 contiene la confessione "Tu sei sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedeq", su cui il nostro autore giocherà ampiamente in seguito (cf. 5,6.10; 6,20; 7,11.15.17). Va subito detto che il Salmo interessa a Eb, non tanto per la sua prospettiva escatologica ("finché ponga i tuoi nemici...") quanto per l'attuale situazione gloriosa di Cristo e per la funzione di intercessore che egli attualmente può svolgere nel tempo fra la risurrezione e la parusia in favore di chi ricorre a lui (cf. 4,14-16). 2.1.3 Per il passaggio alla sezione seguente è decisiva l'ultima frase dell'esordio: "divenuto (yevófxevo?) tanto superiore agli angeli, in quanto ha ereditato un nome (xexXrjpovóixTixev ovo[xa) molto diverso dal loro" (1,4). Dal punto di vista formale, osserviamo che, secondo una tecnica messa in luce da Vanhoye, in Eb l'ultima affermazione di una sezione prepara e annuncia il tema della sezione successiva26. In questo caso, l'aggancio è costituito dal termine "angeli", sul confronto con i quali verterà la sezione immediata24 Nel NT esso è utilizzato in una ventina di passi; cf. D. Hay, Glory at the Right Hand. Psalm 110 in Early Christianity, Abingdon, Nashville 1973; M. Gourgues, À la droite de Dieu. Résurrection de Jesus et actualisation du Psaume 110,1 dans le Nouveau Testament, EB Gabalda, Paris 1978; W.R.G. Loader, Christ at the right Hand - Ps. CX.I in the New Testament, NTS 24 (1978) 199-217; M. Hengel, 'Sit at My Right Hand!'. The Enthronement of Christ at the Right Hand of God and Psalm 110:1, in Id., Studies in Early Christology, T&T Clark, Edinburgh 1995, pp. 119-225. 25 Si noti che l'autore di Eb è l'agiografo del NT che più di ogni altro fa ricorso a Sai 110 (per 5 volte), mentre Paolo in tutte le sue lettere vi ricorre appena 2 volte (in Rm 8,34; ICor 15,25) e altrettanto la tradizione paolina lo utilizza solo in Col 3,1; Ef 1,20. Secondo G.W. Buchanan, p. XIX, l'intera Eb non sarebbe altro che "un midrash omiletico basato sul Sai 110". 26 Cf. A. Vanhoye, La structure littéraire de l'épitre aux Hébreux, pp. 37-38.
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mente seguente, che costituisce anche la prima parte della lettera. Dal punto di vista semantico, il problema maggiore del v. 4 sta nel precisare in che cosa consista il nuovo "nome" ereditato da Gesù, su cui appunto si gioca la sua superiorità. Una ricerca sullo status quaestionis rivela brevemente quanto segue. (1) La maggior parte degli Autori propende per la qualifica di "figlio"27, visto che nel v. 5 immediatamente seguente si sottolinea questo aspetto. (2) Alla posizione precedente però si può obiettare che Gesù è dichiarato "figlio" già fin dal v. 2: anzi, tutto ciò che viene detto di lui, compreso il fatto che "ereditò un nome", lo riguarda già come "figlio"; pertanto, oltrepassando il contesto immediato, si può ritenere che il nome sia quello veramente nuovo di "sommo sacerdote", con cui si conclude tutta la prima parte (in 2,17s)28. (3) Qualcun altro, invece, punta più giustamente sul significato di "nome" non in quanto titolo unico e specifico, ma nel senso generico di una nuova dignità che esprime l'acquisizione di una nuova identità29; in effetti, non solo il termine "nome" è indeterminato30, ma la sezione successiva comprende varie denominazioni di Gesù: oltre a "figlio" (l,5a.5b) e "primogenito" (1,6), anche "dio" (1,8.9), "signore" (1,10; 2,3), "il pioniere della salvezza" (2,10), e finalmente "sommo sacerdote" (2,17)31. Di tutto questo bisognerà tenere conto nell'interpretazione del testo.
27 Vedi i Commenti di G.W. Buchanan, p. 13; H. Braun, p. 35; H. Hegermann, p. 39; H.W. Attridge, p. 47; E. Gràsser, p. 66; H.-F. Weiss, p. 153; W.L. Lane, I, pp. 9, 17, 24. 28 Così A. Vanhoye, Sacerdoti antichi e nuovo sacerdote, pp. 73-75; a questa interpretazione è aperto anche il commento di P. Ellingworth, p. 106. In effetti, in 1,4 il greco ovofia, "un nome", è lasciato indeterminato, quasi per suscitare un senso di attesa di una sua successiva determinazione. 29 Così già B.F. Wetscott, The Epistle to the Hebrews, London 3 1903, p. 17: il Nome riassume "tutto ciò che il Cristo è per i credenti", e anche N. Casalini, p. 85. Il senso potrebbe essere vicino all'espressione moderna "farsi un nome", che del resto è documentato nella letteratura greca (cf. Senofonte, Cyrop. 4,2,3: "Il suo nome era diventato grandissimo"; inoltre Erodoto 1,71,2; Polibio 15,35,1). 30 È diverso il caso di Fil 2,9, dove al Risorto viene dato "// nome che è al di sopra di ogni altro nome", cioè il nome di Kyrios (cf. sopra: cap. II 3.6). Più prossimo invece è il caso di Ef 1,21, dove del Risorto si dice che Dio lo pose "al di sopra di ogni principato e autorità e potenza e signorìa e ogni altro nome esistente non solo nel mondo presente ma anche nel futuro": qui " n o m e " significa soltanto una speciale dignità. 31 Analogamente, anche di Gerusalemme il profeta dice che sarà chiamata "con un nome nuovo, che la bocca del Signore indicherà" (Is 62,2); dal contesto, poi, risulta che non si tratta di un nome unico ma di almeno due: "Tu sarai chiamata 'Mio compiacimento' e la tua terra 'Sposata'" (Is 62,4).
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2.2 Gesù Cristo e gli angeli: 1,5 - 2,18 Viene svolta qui una particolare argomentazione basata sul confronto fra Gesù e "gli angeli", che comprende i primi due capitoli32 e che, screditando la categoria angelica, esalta per converso l'identità del Figlio. Riassumendo, il confronto si esprime in una serie di sette affermazioni negative sugli angeli, ciascuna delle quali ovviamente ha il corrispondente positivo riguardante Gesù. 2.2.1 A nessuno degli angeli Dio ha rivolto l'appellativo di Figlio (cf. 1,5); l'autore lo dimostra adducendo due passi biblici significativi come sono Sai 2,7 e 2Sam 7,14. Questa prima dichiarazione, se da una parte è in continuità con l'identificazione già dichiarata in 1,2, dall'altra prepara quella di Sacerdote che giungerà al termine della sezione e che si fonda sulla qualifica di Figlio. 2.2.2 Gli angeli devono solo porsi in atteggiamento di adorazione (cf. 1,6-12), essendo in realtà soltanto dei servitori (cf. 1,7 [con citazione di Sai 103,4] e 14). Il Figlio invece, non solo è ulteriormente specificato come "primogenito"33, ma è addirittura celebrato come "dio" 34 (vv. 8-9 con citazione di Sai 45,7-8), e "signo32 Infatti in Eb il termine è concentrato quasi esclusivamente nei primi due capitoli, dove occorre ben 11 volte (a cui si aggiungono appena altre due occorrenze di minor rilievo nei capp. 12 e 13). Su questi capitoli, cf. A. Vanhoye, Situation du Christ. L'épìtre aux Hébreux 1-2, LD 58, Cerf, Paris 1969; L.D. Hurst, The Christology of Hebrews 1 and 2, in L.D. Hurst & N.T. Wright, edd., The Glory of Christ in the New Testament. Studies in Christology in Memory ofG.B. Caird, University Press, Oxford 1987, pp. 151-164. 33 La qualifica di 7CPWTOTOXO<; si riferisce con ogni probabilità non alla nascita terrena (contro Spicq e Attridge; così in 10,5 ma con il termine XÓOJJLOI;) e neanche alla parusia (contro Braun e Hegermann, con appoggio su 2,5), ma all'esaltazione gloriosa di Gesù (così Gràsser, Weiss, Casalini, Ellingworth; inoltre: Loader, Sohn, pp. 7-15; Vanhoye, Sacerdoti, p. 125). Sullo sfondo si sente Sai 88,27-28 LXX (a commento della profezia di Natan in 2Sam 7,14, appena citata in Eb l,5b): "Egli mi invocherà: Padre mio sei tu, Dio mio e garante della mia salvezza. E io lo costituirò primogenito (xà-fù jrpaycÓToxov 8r|aofiou ocù-cóv) al di sopra dei re della terra". Testi vicini sono Col 1,18 e Ap 1,5. 34 Tuttavia il titolo forte di ó Geo?, al vocativo, dato a Gesù mediante la citazione di Sai 45 in Eb 1,8 ("Del Figlio invece afferma: 'Il tuo trono, o Dio, sta in etern o ' " [Sai 45,7]), e forse anche in 1,9 (CEI: " . . . perciò ti unse Dio, il tuo Dio" [Sai 45,8]; TOB: " . . . c'est pourquoi, ò Dieu, ton Dieu te donna l'onction"), non va letto in chiave di pre-esistenza; infatti, essendo Sai 45 un salmo di intronizzazione regale (dove il titolo divino viene dato al davidide re di Gerusalemme secondo una titolatura aulica orientale, che soltanto enfatizza la dignità regale; cf. G. Ravasi, // libro dei Salmi, I, pp. 81 ls), la sua attribuzione a Gesù rientra nella celebrazione della sua identità di Risorto glorificato (analogamente a Col 2,9).
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re" 35 (vv. 9-12 con citazione di Sai 101,26-28). I testi biblici riportati fondano nella Scrittura stessa la rispettiva diversità. 2.2.3 Nessuno degli angeli, né è mai stato invitato da Dio a sedere alla propria destra, né ha mai ricevuto la promessa di una sottomissione dei nemici (cf. 1,13 come richiamo, ampliato, di l,3d; vedi anche 10,13)36. 2.2.4 Gli angeli sono stati mediatori di una legge (designata come "parola") certamente lodevole37; essa però è stata superata da una "salvezza" incomparabile, che ha avuto inizio mediante il Signore stesso (Sta TOG xuptou si oppone a Bi'àyyéXtov), è stata confermata da coloro che l'avevano ascoltata, e venne rafforzata da Dio stesso con molti prodigi e con la distribuzione dello Spirito Santo (cf. 2,2-4). 2.2.5 A nessuno degli angeli è stato sottomesso "il mondo futuro" come ora invece esso è sottoposto a Cristo (cf. 2,5-9). Il riferimento escatologico è in consonanza, sia con la precedente affermazione in 1,13, sia con la già avvenuta inaugurazione della salvezza dichiarata in 1,2 e in 2,3 (tanto che in 6,5 si dirà che il cristiano ha già gustato "le meraviglie del mondo futuro"). Per la verità, il giudaismo conosce l'idea di un governo del mondo da parte degli angeli38; ma, da una parte, essa non riguarda il mondo escatologico, e, dall'altra, essa può anche implicare una dimensione negativa39. La cosa più interessante qui è che Sai 8, che canta la 35 Osserviamo che la valenza cristologica di questo titolo, che in Fil 2,9-11 identifica "il nome che è sopra ogni altro nome", qui non viene sottolineata. In Eb infatti su 16 occorrenze di Kyrios ben 12 sono connesse con altrettante citazioni dell'AT o rimandi ad esso; solo le altre 4 hanno chiaro valore cristologico (cf. 2,3; 7,14; 12,14; 13,20). Tuttavia, anche in 1,10, dove si cita Sai 102,26 ("Tu, Signore, da principio hai fondato la terra e opera delle tue mani sono i cieli"), il riferimento a motivo del contesto è cristologico! 36 Forse l'unico testo comparabile è 4Q491 fr. 11 1,12-15, dove si celebra Michele (non citato per nome) seduto in cielo su un particolare trono di gloria: "Un trono di forza nella congregazione degli angeli, su cui non siederà nessun re dell'Oriente... La mia gloria non ha uguali e non è esaltato nessuno all'infuori di me; e nessuno viene a me, perché io sto nel cielo... Io sono annoverato fra gli esseri divini... E chi è simile a me nella mia gloria?". Tuttavia, non solo qui non c'è alcun riferimento al Salmo 110, ma il trono di cui si parla è tutto proprio ed è solo tra gli angeli così che il personaggio è tutt'al più il primo di essi, ma egli non è associato al trono di Dio! 37 L'intervento degli angeli nel dono della Legge al Sinai è un elemento proprio della letteratura post-biblica: cf. Giub. 1,27.29; 2,1; Test. Dan 12,1; Filone Al., Somn. 1,141-143; Giuseppe FI., Ant. 15,136; nel NT anche At 7,38.53. La loro presenza mediatrice ha la funzione di sottolineare la trascendenza di Dio. 38 Vedi Dt 32,8 LXX ("delimitò le nazioni secondo il numero degli angeli di Dio"); Sir 17,17 LXX; Dn 10,13.20; lEn. 60,16-21; Giub. 35,17. 39 II tema di un loro pesante influsso negativo sul mondo è sviluppato nel "Li-
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dignità dell'uomo in generale, viene piegato a una originale interpretazione cristologica (cf. Eb 2,5-9). Ciò che il Salmo dice come celebrazione dell'uomo ("lo hai fatto di poco inferiore agli angeli", "lo hai coronato di gloria e di onore", "tutto hai sottoposto ai suoi piedi"), di cui però Eb precisa che "ora non vediamo ancora che tutto gli sia sottomesso" (2,8b), viene qui riferito a Cristo: "Invece Gesù, che è stato fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore per aver patito la morte, così che gustasse la morte per ciascuno di noi" (2,9). Ciò che favorisce la rilettura cristologica di questo Salmo antropologico è l'affermazione concernente la sottomissione di tutto "sotto i suoi piedi", che si ritrova anche in Sai 110,1 già citato prima in 1,13. Quindi è Sai 110 che ha la priorità logica e rappresenta la chiave ermeneutica di Sai 840. Quest'ultimo in pratica diventa una sorta di oracolo sull'umiliazione ed esaltazione di Gesù, dove però paradossalmente l'accento è posto più sul passaggio attraverso la sofferenza che non sul suo termine d'arrivo che è la gloria. 2.2.6 Infatti, nessuno degli angeli ha dimostrato una tale solidarietà con gli uomini né ha subito la morte per essi, come invece ha fatto Gesù (cf. 2,10-16). Qui si afferma molto di più della generica umanità, implicita nella precedente citazione di Sai 8, poiché si insiste sulla totale condivisione della condizione umana. Questa solidarietà è ripetutamente e variamente affermata con un ricco vocabolario: "tutti sono della stessa natura" (v. Ila: il évo? nàvztc), cioè sia Gesù sia gli uomini sono accomunati da una medesima natura41; "non si vergogna di chiamarli fratelli" (àSeXcpot: vv. llb.12.17a; cf. Rm 8,29; Gv 20,17); "i figli hanno in comune la carne e il sangue" (xexotvcóvexev: v. 14a; l'affermazione generale prepara la seguente); "anch'egli ne divenne partecipe allo stesso mobro dei Vigilanti" in lEn. 1-36 (cf. Gn 6,1-3), dove essi stanno all'origine di tutto il male, cosmico e morale, di cui si può fare esperienza. 40 Qualcosa di analogo avviene in Ef 1,20-22, dove si comincia con l'affermare la risurrezione di Gesù richiamando Sai 110 (in Ef 1,20: "lo fece sedere alla sua destra nell'alto dei cieli") e si culmina con la dichiarazione della sua signorìa universale citando il Sai 8 ("tutto ha posto sotto i suoi piedi"). 41 Oltre a questa interpretazione (che intende il greco come un complemento di materia al neutro; così Vanhoye, Weiss, Gràsser [che si richiama al concetto greco di synghéneia o parentela comune] e sembra anche Ellingworth; cf. 2,14 e Ap 21,21), il costrutto può anche essere inteso come complemento di origine al maschile, nel senso che tanto Gesù quanto gli uomini derivano tutti da uno solo: sia che questi si intenda Adamo (così alcuni antichi; cf. At 17,26) o Abramo (così Buchanan; cf. Eb 2,16 e 11,12 [ma qui con la preposizione arcò]) o Dio stesso (così i più: oltre agli antichi, anche Braun, Hegermann, Lane, Attridge, Casalini; cf. ICor 8,6a).
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fifa" (Tcapa7cXT)aico? [xexéaxev: v. 14b; l'aoristo esprime l'azione storica puntuale dell'incarnazione); "non certo degli angeli si prende cura, ma del seme di Abramo si prende cura" (£7tiXafxPdcveToci bis: v. 16; l'opposizione sottolinea bene da quale parte egli sta)42; "bisognava che egli venisse assimilato in tutto ai fratelli" (xaxà 7càvxa ófxoio>0f|vai: v. 17a; cf. 4,15); "egli ha sofferto, essendo stato messo alla prova" (7ré7cov0ev aùxò? weipaoSeC?: v. 18; cf. 4,15-16)43. 2.2.7 Perciò, soltanto a Gesù conviene il titolo conclusivo di "sommo sacerdote (àpxiepeu?) misericordioso e degno di fede", in quanto può espiare presso Dio i peccati del popolo (cf. 2,17-18). La qualifica era già preparata nel v. 11 con il verbo "santificareconsacrare" (à-ftàCetv, ebr. qàdas), che nella Bibbia greca significa prima di tutto dedicare a Dio qualcosa o qualcuno che perciò appartiene esclusivamente a lui (cf. Gn 2,3 ecc.; in Es 29,1 e Lv 8,30 Mosè consacra Aronne e i suoi figli) e poi può anche essere sinonimo di "purificare" dal peccato (cf. Ef 5,26); esso è preferito da Eb, che lo impiega ancora in 9,13; 10,10.14.29; 13,12. Ma in 2,17 abbiamo il verbo "espiare", tXàaxeaBou (ebr. kàfar, che i LXX traducono preferibilmente con il composto élj- avente di norma "il sacerdote" come soggetto): presente solo qui in tutta la lettera44, esso è tradizionalmente legato al culto, in specie al "sacrificio per il peccato" e al Kippùr (cf. Lv 4,20, 5,10, 16,34), e quindi è particolarmente adatto a richiamare l'attività sacerdotale di Gesù (cf. più avanti). La tematica da esso suscitata verrà trattata nei capitoli centrali della lettera (8,1 - 10,18).
42 Ellingworth, p. 176, rimanda opportunamente al testo di Is 41,8-10 LXX: "Ma tu, Israele, figlio mio Giacobbe, che ho eletto, seme di Abramo, che ho amato, sei tu che ho preso (àvTeXa(ìó[xr)v) dai confini della terra e ti ho chiamato dai suoi estremi, e ti ho detto: 'Tu sei mio figlio (naiq), ti ho eletto e non ti ho abbandonato; non temere, poiché sono con te; non smarrirti, poiché io sono il tuo dio che ti dà forza e ti vengo in aiuto (i$orfir\
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2.3 Conclusione È dunque sintomatico che tanto l'esordio 1,1-4 (cf. vv. 2.3c) quanto l'intera sezione 1,5-2,18 (cf. 1,5 e 2,17s) siano racchiusi fra i due titoli di Figlio e di Sommo Sacerdote, che appaiono così inscindibilmente intrecciati. E non è senza significato che l'intera argomentazione inizi con il primo titolo e termini con il secondo, a indicare che la qualifica di Sacerdote presuppone e si fonda necessariamente su quella di Figlio. Altra questione è di sapere perché mai il nostro autore instauri questo originale tipo di confronto fra Cristo e gli angeli e lo faccia in termini così polemici. A questo proposito, gli studiosi si suddividono secondo cinque posizioni diverse45. Secondo alcuni, i destinatari dello scritto praticavano un pericoloso culto agli angeli, a cui l'autore vuole drasticamente ovviare (cf. analogamente Col). Secondo altri, i destinatari concepivano la mediazione di Cristo riducendolo al piano di una mera figura angelica (ciò è testimoniato in successivi ambiti giudeo-cristiani). Ancora secondo altri, i destinatari pensavano di partecipare già fin d'ora a una adorazione di Dio insieme agli angeli (analogamente a ciò che avveniva a Qumràn secondo 1 lQShirShab). Altri ancora ritengono che l'autore, insieme ai suoi destinatari, fosse a conoscenza della tradizionale angelologia giudaica, giudicata tanto forte da temere che potesse contaminare negativamente la comunità cristiana e perciò cerca di prevenirne i possibili effetti. Per altri, infine, la tematizzazione dell'inferiorità degli angeli sarebbe un mero artificio retorico, impiegato dall'autore solo per far emergere la superiorità di Cristo e della nuova economia salvifica rispetto all'antica. Va comunque tenuto conto del fatto che anche altrove nel NT il tema dell'adorazione degli angeli è sempre connesso con la confessione dell'esaltazione di Cristo (cf. Fil 2,10; Ef 1,20-21 ; Col 2,15; lPt 3,22; Ap 5,6.11)46. Viene perciò spontaneo pensare che a monte di Eb ci sia una effettiva, diffusa preoccupazione pastorale nei confronti
45 Cf. l'ottimo status quaestionis, con ampia bibliografia, in L.T. Stuckenbruck, Angel Veneration and Christology. A Study in Early Judaism and in the Christology of the Apocalypse of John, WUNT 2.70, Mohr, Tùbingen 1995, pp. 119-139 (l'Autore si allinea ingiustificatamente con l'ultima delle posizioni enumerate). 46 Si veda anche l'apocrifo cristiano Ascensione di Isaia (databile tra la fine del sec. I e l'inizio del sec. II) 10,8-15; 11,23-32, dove Gesù dopo essere disceso nel mondo risale fino al settimo cielo, adorato e glorificato dagli angeli.
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di una reale possibilità di scambiare la signorìa di Cristo con quella di potenze angeliche intermedie, sia pur variamente denominate 47 . Il nostro autore intende appunto ribadire la superiorità incontrastata di Gesù glorificato48.
3. Figlio (di Dio) Sviluppiamo ora a parte questo primo pannello della cristologia di Eb in tre momenti, di cui il primo è di fatto introduttorio.
3.1 Portata tradizionale del titolo A livello di pura formulazione titolare (altra cosa invece è la semantica che qui viene ad assumere) Eb non innova, ma attinge alla precedente tradizione della fede cristiana che già si era espressa in questi termini. Per la verità, come abbiamo avuto modo di vedere a proposito sia del Gesù terreno sia della cristologia paolina, nel cristianesimo della prima generazione il titolo è meno attestato di altri (per esempio: Figlio dell'uomo, Cristo, Signore). Il motivo 47 Per uno sguardo generale sull'angelologia giudaica pre-rabbinica, vedi M. Mach, Entwicklungsstadien des jiidischen Engelglaubens in vorrabbinischer Zeit, TSNJ 34, Mohr, Tùbingen 1992. In particolare, a Qumràn non solo la comunità stessa pensa di partecipare al culto angelico (in 4QShirShab, dove gli angeli sono detti elim/elohim; cf. L. Rosso Ubigli, / Canti per l'Olocausto del Sabato e la venerazione degli angeli), ma, da una parte, è particolarmente venerata la figura di Michele (cf. sopra: nota 36), e, dall'altra, giunge persino a raffigurarsi Melchisedeq come un angelo dalle funzioni escatologico-sacerdotali (in 4QAmram b fr. 3,1-3; cf. F. Manzi, Melchisedek e l'angelologia nell'epistola agli Ebrei e a Qumràn, AnB 136, PIB, Roma 1997, pp. 32-39 e 231-241). Anche il giudaismo ellenistico documentato da Filone Al. attesta ampiamente una identificazione del Logos divino come angelo o arcangelo (cf. Cher. 3.35; Fug. 5; Deus imm. 182; Leg. alleg. 3,177; Conf. ling. 28.62-63; Rer. div. her. 205; Mut. nom. 87; Abr. 173; Post C. 91; Somn. 1,115; Agr. 51). Altrettanto in ambienti cristiani, se non proprio già nel NT (ma cf. J.E. Fossum, Kyrios Jesus as the Angel ofthe Lord in Jude 5-7, NTS 33 [1987] 226-243; anche in Ap 12 fa problema il fatto che la vittoria contro il drago viene attribuita prima all'arcangelo Michele [vv. 7-9] e poi al sangue dell'Agnello [v.l la]), certo dalla fine del secolo I a tutto il II secolo e oltre, una simile identificazione è stata fatta a livello cristologico, come si vede già nel Pastore di Erma (cf. mand. 5,1,7: "Furono giustificati dall'angelo venerabilissimo"; sim. 5,44) e poi in Giustino, Dial. 34,2: "Cristo è stato annunciato come re, sacerdote, dio, signore, angelo, uomo, arcistratega, pietra, bambino generato,..." (cf. 61,1; 126,6: "Dio e angelo"; 128,4). Cf. J. Daniélou, La teologia del giudeo-cristianesimo, Il Mulino, Bologna 1974 (orig. frane, Tournai 1958), pp. 215-244; B. Bagatti, Alle origini della chiesa -1. Le comunità giudeo-cristiane, Città del Vaticano 1981, pp. 174-184. 48 Cf. anche W.R.G. Loader, Sohn und Hoherpriester, pp. 21-29.
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può consistere nel fatto che già all'interno della matrice giudaica della fede cristiana esso non implicava una dignità particolarissima49. Sintetizzando, possiamo tuttavia ridurre a quattro stadi i momenti della sua applicazione a Gesù da parte della comunità primitiva (a prescindere dunque dalla coscienza che Gesù stesso ne ebbe durante la sua vita terrena). a) All'inizio, il kérygma originario associa il titolo all'evento della risurrezione, ritenuta come il momento fondante della filiazione divina di Gesù o almeno della sua percezione (così è nell'arcaica confessione pre-paolina di Rm l,3b-4a; ma cf. anche il discorso di Paolo nella sinagoga di Antiochia di Pisidia in At 13,33 con citazione di Sai 2,7: "Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato"). b) In un secondo momento, le redazioni evangeliche connettono il titolo con l'inizio del ministero pubblico di Gesù, cioè con il battesimo al Giordano, dove è addirittura una voce dal cielo a garantire pubblicamente questa peculiare identità (cf. Me 1,11//; ma in Gv 1,34 l'identificazione è fatta più realisticamente da Giovanni Battista). e) Con un passo ulteriore, due testimoni della tradizione giudeocristiana anticipano la filiazione divina di Gesù già al momento del suo concepimento miracoloso nel seno della madre per opera dello Spirito Santo (cf. Mt 1,21-23; Le 1,32.35), con la differenza però che in Mt Gesù è detto "figlio" di Dio solo nella citazione di un testo veterotestamentario originariamente riferito a Israele (cf. Os 11,1 in Mt 2,15), mentre in Le è l'angelo dell'annuncio a Maria che lo definisce "figlio dell'Altissimo" e "figlio di Dio". d) Infine, la filiazione divina di Gesù è anticipata fin nella sua pre-esistenza ab aeterno (infatti, prima ancora delle espressioni forti di Gv, la qualifica è suggerita dalla cosiddetta "formula di missione" paolina in Rm 8,3; Gal 4,4: "Dio mandò il figlio suo"; cf. anche Rm 1,3a). L'originalità di Eb in rapporto a questa tradizione è che il nostro scritto conosce soltanto il 1 ° e il 4° di questi stadi e soprattutto che esso li combina paradossalmente insieme, in modo tale da suscitare l'impressione netta di una antinomia 50 . Infatti, se il 1° stadio dice di fatto che Gesù è diventato "figlio" solo in quanto 49
Cf. voi. I, pp. 146-149, e anche J.D.G. Dunn, Christology in theMaking, p. 15. In Paolo invece, come abbiamo visto (cf. voi. I, pp. 201-208), l'antinomia è superata dal fatto che la confessione pre-redazionale su colui che "nasce dal seme di Davide" (Rm l,3b) è corretta da Paolo stesso col dire che egli era già "il figlio suo", cioè di Dio (Rm l,3a). 50
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risorto e il 4° invece afferma che egli lo era da sempre, come non scorgervi un contrasto? Sembrano affermazioni inconciliabili. Infatti, c'è chi a questo proposito ha parlato di una aporia senza via d'uscita51. Ma, come vedremo subito, in buona retorica un'antinomia non è un'antitesi e può quindi ben esprimere aspetti contrastanti, purché non si confondano gli aspetti formali del discorso. 3.2 Gesù è figlio eppure lo diviene La lettera agli Ebrei discorre della filiazione di Gesù, per così dire, su un doppio registro, quello dell'essere e quello del divenire. Un tale accostamento di due contrari a proposito di uno stesso soggetto ottiene l'effetto retorico di creare uno "straniamento" intellettuale (in quanto acutum dicendi genus)52; esso invita inevitabilmente il lettore a un lavoro di riflessione per rendere ragionevolmente comprensibile un'affermazione inconsueta e sorprendente, così da passare da una pura reazione emotiva a un aumento del sapere. Vediamo i due momenti in successione logica. 3.2.1 La pre-esistenza del Figlio. Una prima serie di testi implica una dimensione perenne della filiazione di Gesù come sua proprietà ontologica. Quanto a 1,2 abbiamo già visto sopra come la qualifica di Figlio ("parlò a noi in uno che è figlio"), in opposizione a quella dei profeti, va intesa in senso forte: la filiazione divina definisce Gesù già alla radice. Nei due passi 5,8 ("pur essendo figlio imparò l'obbedienza... e, reso perfetto,...") e 7,28 ("...il figlio è stato reso perfetto in eterno") la qualifica di Figlio è associata all'idea di un perfezionamento acquisito, su cui torneremo più avanti. Ciò che qui c'interessa notare brevemente è che colui il quale viene perfezionato è comunque già Figlio, senza doverlo diventare solo in seguito. In questa linea ci sono ancora due altri testi analoghi tra di loro: 6,6 ("essi di nuovo crocifiggono per proprio conto il Figlio e lo espongono all'infamia") e 10,29 ("di quanto maggior castigo pensate che sarà ritenuto degno chi avrà calpestato il Figlio di Dio"). L'autore si riferisce a qualche episodio doloroso di apostasia, che 51 52
Così H. Braun, An die Hebràer, pp. 32-33. Cf. H. Lausberg, Elementi di retorica, Il Mulino, Bologna 1969 (orig. ted., Mùnchen 1949, 1967), 37,1; 84-90; 166,6; lo straniamento, contrapposto alla noia del solito, confina con il paradosso e l'arguzia, e vale come una forma della varietas.
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dovette verificarsi nella comunità dei destinatari della lettera (cf. anche 3,12). Nel primo caso l'allusione alla passione del Gesù terreno è evidente, ed è alla sua luce che riceve forza l'idea di una rinnovata "crocifissione", altrettanto infamante anche se ora solo metaforica. Lo stesso vale per l'efficace metafora del "calpestare", per quanto nuova possa sembrare53. In ogni caso, colui che viene (così come era stato) crocifisso e calpestato è già Figlio, ed è come tale che ora viene esposto al ludibrio così come già lo fu nel passato. Anzi, sulla base di 3,12 ("Guardate, fratelli, che non si trovi in nessuno di voi un cuore perverso e senza fede che si allontani dal Dio vivente"), si può concludere che chi si comporta in questo modo con Gesù si allontana dal Dio vivente, dove tra Gesù e Dio si suppone un vincolo indissolubile. 3.2.2 La filiazione acquisita da Gesù. Un'altra serie di testi insiste invece sull'ottenimento della condizione di Figlio, come se Gesù non lo fosse stato prima. Il testo fondamentale è 1,5 dove il titolo è ripetuto due volte, tratto da due testi biblici: "Infatti a quale mai degli angeli disse: 'Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato' (Sai 2,7)? E ancora: 'Io sarò per lui un padre ed egli sarà per me un figlio' (ISam 7,14)?". La portata esatta di questa filiazione si comprende in base all'affermazione del precedente v. 4, dove si dice che Gesù con la sessione alla destra di Dio "ha ereditato un nome superiore a quello degli angeli" (cf. sopra). Poiché già in 1,2 Gesù è definito Figlio in tutto il suo essere, bisogna concludere che l'eredità acquisita consiste in una nuova dimensione di questa filiazione: infatti, dato che in 1,3d si è affermato che egli si è assiso alla destra di Dio, la nuova filiazione consiste nient'altro che nella sua intronizzazione regale, come appunto confermano i due testi biblici ivi citati54. In 3,5-6 si instaura un confronto tra Mosè e Gesù in rapporto alla rispettiva funzione "nella casa di Dio", cioè nel suo popolo. Quest'ultima espressione deriva da Nm 12,7, dove il confronto è tra un qualunque profeta (a cui Dio si rivela solo in visione o in sogno) e Mosè (a cui, come uomo di piena fiducia [ne'èman], 53 Mai usato nella Bibbia greca con Dio o Cristo come oggetto, il verbo xaxowra-cito qui impiegato richiama il calpestìo profanatore del Tempio da parte dei pagani al tempo dei54Maccabei (cf. IMac 3,45.51; 4,60; Dn 8,13), anticipato già in Is 63,18. Qualcosa di analogo avviene in Rm 1,3-4, dove l'affermazione "costituito figlio di Dio in potenza mediante la risurrezione" (v. 4a) si aggiunge alla certezza di una filiazione ontologica affermata già con la precedente dichiarazione che il Vangelo "riguarda il figlio suo, nato dal seme di Davide" (v. 3ab).
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Dio parla invece "bocca a bocca", senza enigmi). Ora in Eb la metafora della casa trapassa dal referente "popolo d'Israele" al nuovo referente "noi-chiesa" (cf. 3,6). Ebbene, mentre Mosè è qualificato solo come "servo" (<ó? 0£pà7twv), Gesù invece è designato come "figlio" (o>c mó<;). È di lui che ora si dice che è "degno di fede" (7EIOTÓ<;): sia perché è stato lui stesso a costruire la casa (cf. 3,3), sia perché Dio in persona "lo ha fatto" (3,2: TO> 7rotT|aocvTi atkóv) cioè lo ha designato-stabilito-costituito55 nella sua nuova funzione. Non facile è catalogare il testo 4,14 ("avendo un sommo sacerdote grande che ha attraversato i cieli, Gesù il figlio di Dio, teniamo ferma la confessione"), in cui il titolo è presente in forma assoluta, privo di particolari specificazioni semantiche. Perciò è possibile pensare che anche qui la qualifica di Figlio preceda e fondi quella di Sacerdote. È però anche possibile che, poiché sintatticamente il titolo di Figlio segue quello di Sacerdote, esso sia connesso con un intervento divino in materia (come nel caso del testo precedente). Si dovrà quindi forse propendere per un significato funzionale, data la sua associazione contestuale al fatto che il Sommo Sacerdote "ha attraversato i cieli", cioè alla sua esaltazione connessa con la risurrezione. In 5,5-6 la designazione di Figlio (tratta da una nuova citazione di Sai 2,7) è strettamente correlata a quella di Sacerdote (tratta dalla citazione di Sai 110,4), per dire che Sacerdote egli non è diventato da se stesso ma per iniziativa divina ("Tu sei sacerdote in eterno"), così come Dio stesso gli aveva detto: "Mio figlio sei tu; io oggi ti ho generato". L'accento principale dunque non sta tanto sulla qualità della nomina quanto sull'atteggiamento di umiltà da parte di Cristo. In 7,3 è detto di Melchisedeq che, "reso simile (à
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che Melchisedeq "è senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita") si deduce che qui la filiazione di Gesù non riguarda né la pre-esistenza (perché è detto "senza padre"; ma egli ha Dio per padre) né l'incarnazione (perché è detto "senza madre, senza genealogia"; ma egli ebbe una madre e fu generato), ma la glorificazione della risurrezione, che rappresenta un evento nuovo, al di fuori di tutti gli schemi generativi57. Alla base c'è l'idea di una figura senza tempo, che però riguarda non tanto l'origine quanto piuttosto la perdurante funzione sacerdotale acquisita, come evidenzia la frase conclusiva del testo. 3.2.3 Conclusione. L'antinomia che risulta dalle due serie di testi non si può risolvere in altro modo che nel senso di una inevitabile coesistenza tra due dimensioni, ontologica e funzionale, della qualifica di Figlio. Però la sua designazione nel momento della glorificazione va fondamentalmente considerata come una specificazione ulteriore e nuova di questa identità. Il secondo stadio della filiazione, da una parte, coinvolge l'umanità storica di Gesù nell'arco completo della sua esistenza terrena e, dall'altra, lo costituisce nell'esercizio di una nuova mansione (cf. 5,5). Infatti, mentre Eb scrive più volte che Sommo Sacerdote Gesù lo è "diventato" (cf. l'uso di ytvo[xat in 2,17; 5,5; 6,20), non dice mai che egli sia "diventato" Figlio58.
3.3 'Tu reso perfetto" Il punto d'incontro, storico e ideale, fra la condizione di Figlio e quella di Sacerdote avviene nel fatto del "perfezionamento" (-reXetGXJK;) di Gesù. Per quanto risulti insolito e apparentemente stravagante, questo concetto nel nostro scritto è assolutamente tipico e centrale59. 57 "La sua risurrezione è stata una nuova generazione della sua natura umana, nella quale non sono intervenuti né padre umano, né madre umana, e che ha fatto di lui un 'primogenito' (Eb 1,6) senza genealogia" (A. Vanhoye, Sacerdoti antichi e nuovo sacerdote, p. 125). 58 II participio -fevó[ievoi; in 1,4, come abbiamo visto, si riferisce all'acquisizione di uno status connesso con il "nome" superiore a quello degli angeli: indirettamente perciò riguarda anche la qualifica di Figlio, ma insieme a una serie di altri titoli che costituiscono il nuovo "nome". 59 Cf. soprattutto D. Peterson, Hebrews andPerfection. An Examination o/the Concept of Perfection in the "Epistle to the Hebrews", SNTS MS 47, University Press, Cambridge 1982; e A. Vanhoye, La 'teleiósis' du Christ: Point capital de la cristologie sacerdotale d'Hébreux, NTS 42 (1996) 321-338. Vedi anche H.W. Attridge, Hebrews, pp. 83-87 (Excursus: The Language of "Perfection").
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Certo la semantica del termine greco è molto varia 60 . Ma resta il fatto che mai altrove nel NT si usa il verbo "perfezionare" avente Gesù come complemento oggetto (cf. 2,10) o come soggetto passivo (cf. 5,9; 7,28)61. Proprio questi tre sono i testi che c'interessano per la loro originale cristologia. 2,10: "Era giusto che colui, per il quale e mediante il quale sono tutte le cose, volendo portare molti figli alla gloria, rendesse perfetto (xeXetòaou) mediante la sofferenza l'iniziatore della loro salvezza". 5,8-10: "Ed essendo figlio imparò da ciò che patì l'obbedienza, 9e reso perfetto (xtltioìBtiq) divenne per tutti coloro che gli obbediscono causa di salvezza eterna, 10proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l'ordine di Melchisedeq". 7,27-28: "Egli non ha bisogno di offrire sacrifici ogni giorno, come fanno i sommi sacerdoti, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo, poiché ha fatto questo una volta per tutte offrendo se stesso. 28 La Legge infatti stabilisce come sommi sacerdoti degli uomini deboli, mentre la parola del giuramento [cf. 7,20-22], che va oltre la Legge, (stabilisce) un Figlio reso perfetto (xexeXeta>(j.évov) per sempre". Su questi testi si possono fare alcune osservazioni generali, tali da individuare i loro elementi comuni. Innanzitutto va notato che a monte del processo di perfezionamento c'è sempre Dio in persona, come rivela la forma del verbo impiegato (attivo nel primo caso, passivo negli altri due): è lui il regista degli eventi. In secondo luogo, osserviamo che il soggetto «perfezionato» è costantemente indicato come Figlio, sia implicitamente (come nel primo caso: cf. 2,10.13b.l4a) sia esplicitamente (in 5,9; 7,28): è in quanto tale che 60 Già Aristotele, Metaphysica 5,16 (1021 b), distingueva quattro accezioni generali del concetto di "perfezione": (1) ciò al di fuori del quale è impossibile trovare anche solo una delle sue parti; (2) ciò che, in rapporto alla virtù o alla bontà, non può essere superato; (3) la virtù stessa è una forma di perfezione; (4) perfetto è detto anche ciò che ha raggiunto la sua fine o la sua consumazione. A questi si possono aggiungere anche un significato organico, quando si dice che un uomo o un evento è maturo; e iniziatico, con riferimento alla iniziazione a qualche culto misterico. Nella Bibbia, poi, è attestato anche un significato cultuale, in rapporto alla consacrazione di un sacerdote (cf. sotto). 61 L'unica eccezione è Le 13,32 ("Andate a dire a quella volpe: Ecco, io scaccio i demoni e compio guarigioni oggi e domani, e il terzo giorno avrò finito, TEXEIOUixou"); ma, comunque si voglia intendere l'espressione (come conclusione di un'attività o come compimento dell'opera di salvezza), essa è inserita in uno schema cronologico che le conferisce in ogni caso la dimensione di una successione temporale. Proprio questa dimensione invece è assente da Eb, che invece prende in considerazione la dimensione personale di Gesù: ciò che viene condotto a perfezione non è l'opera di Gesù (qualcosa di esterno a lui), ma egli stesso.
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egli diventa poi anche Sacerdote. La terza osservazione riguarda l'importanza del tema della sofferenza, costantemente presente: "mediante la sofferenza" (2,10), "da ciò che patì imparò l'obbedienza" (5,8), "offrì se stesso" in un sacrificio cruento (7,27); non esiste perfezionamento, se non mediato appunto da un'esperienza di dolore. Infine, notiamo che è altrettanto sempre presente il tema della salvezza come effetto di quella esperienza: "iniziatore della loro salvezza" (2,10), "causa di salvezza eterna" (5,9), "perciò può salvare pienamente coloro che per mezzo suo si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore" (7,25). Inoltre, da un testo all'altro è possibile verificare un progresso logico, così da individuare in ciascuno di essi una caratteristica tematica propria. 3.3.1 La piena solidarietà con gli uomini: 2,10. Già in quanto semplice uomo, Gesù condivide la comune condizione dell'umana infermità. A questo proposito è sufficiente richiamare quanto abbiamo già detto sopra circa il confronto cristologico con gli angeli. In questo contesto, il perfezionamento di Gesù passa ineluttabilmente attraverso la piena condivisione della debolezza umana. Aggiungiamo che il complemento "mediante (Sia) la sofferenza" va letto nel senso che la sofferenza è considerata in se stessa come mezzo di trasformazione e che quindi il perfezionamento non consegue né all'evasione da essa né tantomeno alla sua negazione. 3.3.2 L'esperienza cruciale della passione e della morte segna un passo avanti rispetto allo stadio precedente. Essa è messa bene in luce in 5,5-8, dove si prepara la seconda ricorrenza dell'idea di perfezionamento (enunciata in 5,9). Questa esperienza va intesa non solo come momento culminante della solidarietà con gli uomini, ma anche e soprattutto come momento decisivo di obbedienza a Dio 62 . Notiamo gli elementi principali del testo. Il tema centrale è quello della totale umiltà di Cristo e viene svolto in vari momenti. (1) Anzitutto, egli non dichiara se stesso sacerdote ma viene dichiarato tale da Dio (come il Sommo Sacerdote giudaico: cf. 5,l-4.5-6) 63 . (2) Inoltre, Gesù affronta il peso doloroso della sofferenza nella sua passione: l'espressione "offrendo preghiere e suppliche... con 62 Cf. A. Vanhoye, Sacerdoti antichi e nuovo sacerdote, pp. 98-106; e soprattutto C. Zesati Estrada, Hebreos 5,7-8. Estudio histórico-exegético, AnB 113, PIB, Roma 1990. 63 II riferimento è al momento fondante della scelta di Aronne, sacerdote per vocazione divina (cf. Es 28,1); ma successivamente il sacerdozio fu ereditario. Cf. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, pp. 342-395.
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forti grida e lacrime" richiama sicuramente il momento dell'agonia nel Getsemani e al Calvario (cf. Mt 26,38-46)64. (3) Con ciò egli dimostrò la propria fiduciosa "sottomissione" (5,7: eùXàfkia, lett. "rispetto profondo"; cf. anche 12,28) verso Dio 65 . (4) In più, come qualunque mortale, imparò dal dolore l'obbedienza 66 , cioè ad affidarsi totalmente a Dio ma con una dedizione unica nel suo genere (vedi anche 10,5-10, secondo cui l'obbedienza contrassegna Gesù fin dall'inizio della sua esistenza terrena). Secondo l'autore, le preghiere e suppliche di Gesù erano indirizzate "a colui che poteva salvarlo dalla morte", ma l'insistenza sull'atteggiamento interiore di Gesù ci dice che in realtà "l'oggetto della preghiera diviene secondario. Ciò che prima di tutto importa è la relazione con Dio" 6 7 , è il rimettersi totalmente nelle sue mani, è l'abbandono alla sua volontà come atto sommamente religioso (cf. Mt 26,39.42). E se di un esaudimento si parla (cf. ebaxoua0ei<j)> esso consiste non tanto nell'acquisizione di una forza maggiore per poter bere il calice della sofferenza, ma neanche tanto nella successiva esaltazione dopo la morte, bensì piuttosto nella vittoria sulla morte mediante la morte stessa in quanto questa significò la disfatta del principe della morte e la liberazione dell'umanità da lui tenuta prigioniera (cf. 2,14-15)68. Ma il risultato immedia64 Va notato che qui il verbo "offrire" (v. 7: npoatviyx<x<;), avente per oggetto "preghiere e suppliche", contrasta con l'offerta (v. 1: npoo
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to di questa esperienza di sofferenza è appunto il "perfezionamento" di Gesù, su cui ritorneremo. 3.3.3 L'integrità morale di Gesù e l'unicità della sua offerta sono gli ultimi presupposti enunciati insieme dall'autore in 7,26-27 come requisiti del suo "perfezionamento" (7,28). Infatti, dopo aver apertamente dichiarato l'abrogazione del sacerdozio levitico per la sua debolezza e inutilità (cf. 7,18), l'autore in 7,26 enumera una serie di caratteristiche positive, che invece abilitano Cristo alla funzione sacerdotale: da una parte, egli è "santo", "innocente", "senza macchia", "separato dai peccatori", cioè risponde in pienezza alle richieste bibliche per la purità levitica (cf. Lv 21,1 - 22,9), e dall'altra è addirittura "innalzato sopra i cieli" e quindi può senza interruzione intercedere per noi (cf. 7,25). In più, si afferma qui per la prima volta che egli "ha offerto se stesso una volta sola" (ècpàTOx£ éocu-còv àvevéyxa?), introducendo così il tema della seguente sezione epistolare (8,1 - 9,28) che tratterà appunto della perfezione di Gesù Sacerdote 69 . Significativamente nel v. 28 si pone un contrasto tra i "sommi sacerdoti" e "un figlio" per suggerire che, paradossalmente, coloro che detenevano il sacerdozio erano soggetti alla debolezza e in definitiva all'inefficacia, mentre colui che all'origine non era un sacerdote "è stato reso perfetto" sulla base della sua filiazione70. 3.3.4 Conclusione 3.3.4.1 In che cosa consiste la perfezione ottenuta dal Figlio? Lasciando da parte una improbabile soluzione gnostica71, si possono prendere in considerazione tre diverse interpretazioni. (1) Ultimante: definiamo così la soluzione di chi pensa che il lessico della perfezione esprima soltanto il raggiungimento di un fine72; ma ciò 69 La funzione retorica del participio "reso perfetto", che chiude enfaticamente il v. 28, è messa bene in luce da A. Vanhoye, La 'teleiosis' du Christ, pp. 323s. 70 Va colta la differenza temporale fra i due participi: aoristo in 5,9 (TEXEICOGEI?) e perfetto in 7,28 (xeTeXeiwfxévo?). Il primo indica un atto puntuale, collegato con l'evento unico della morte e come sua precisa conseguenza. Il secondo è invece connesso con l'idea di una condizione stabile che caratterizza Gesù, sia in quanto costitutivamente "senza peccato", sia soprattutto in quanto ora perennemente vivo dopo la sua esaltazione. Cf. H.-F. Weiss, p. 427. 71 Cf. H. Braun, p. 146: "Significa miticamente la sottrazione alla morte e la trasposizione nel mondo celeste inteso in senso dualistico e locale" ( = glorificazione nell'immortalità). Ma, a parte la tardività delle fonti, nella celebrazione dei misteri (che stanno a monte dello gnosticismo) si impiega il verbo -ceXetv (non -ceXeioGv) e in più si ricorre a un cerimoniale e ad esperienze estatiche, che sono tutti elementi assenti da Eb. 72 Le versioni BJ e CEI in nota a 5,9 spiegano: "Consumato il proprio ufficio di sacerdote e vittima".
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non rende ragione dell'accentuazione data al tema della sofferenza in 2,10 e 5,8, secondo cui il perfezionamento non è posteriore ma conseguente al patire, con il quale dunque è intimamente connesso. (2) Morale: secondo alcuni Gesù maturò una perfezione morale in quanto raggiunse il livello massimo di una perfetta virtù 73 . Effettivamente da alcuni testi sembrerebbe che l'esperienza della sofferenza abbia portato Gesù a un superiore livello morale (cf. 2,10; 4,15; 5,9); ma le affermazioni presenti in 4,15 e 7,26 non lasciano dubbi sul fatto che egli era "senza peccato", "separato dai peccatori" : non si può quindi pensare che egli fosse prima moralmente imperfetto e che solo in un secondo tempo abbia raggiunto la perfezione di una piena santità. (3) Sacerdotale: il perfezionamento di Gesù consiste semplicemente nell'essere costituito sacerdote74. Ma ciò è comprensibile se teniamo presenti due aspetti diversi e complementari. In primo luogo, va osservato che all'origine esiste una dimensione cultuale-rituale del concetto. Infatti nell'Antico Testamento si descrive la consacrazione sacerdotale con l'espressione letterale "perfezionare ( = riempire) le mani" (LXX: xeXeiouv xà? x£ipas; TM: mille' yad; cf. Es 29,9.29.33.35; inLv4,5 si parla del "sacerdote unto consacrato [cioè: a cui sono state riempite le mani: ó ìepeù? ó XP10™? ó TexeXeuo[jiévo(; TOC? x^p«d" ecc.) e il sacrificio di investitura è detto letteralmente "perfezionamento" (LXX: xeXetcoai.?; TM: millu'im; cf. Es 29,22.27.31 ecc.)75. In secondo luogo, però, bisogna tener conto che questo concetto rituale è stato completamente rielaborato dal nostro autore in un doppio senso: esistenziale e relazionale. Da una parte, infatti, il "perfezionamento" di Cristo non avviene con la messa in scena di alcuna cerimonia, ma con la dolorosa offerta di se stesso attraverso la sofferenza e la morte (cf. più avanti). D'altra parte, egli ha perfezionato anche il proprio rapporto, sia nei confronti di Dio mediante una estrema docilità nei confronti della sua volontà, tale da fargli accettare una sorte che non meritava affatto (da questo punto di vista è possibile recuperare parte dell'interpretazione morale), 73
Cf. O. Cullmann, Christologie, pp. 82-86. Questa è oggi l'interpretazione di gran lunga la più diffusa, sia pur con sfumature diverse; oltre ai Commenti, vedi soprattutto gli studi di D. Peterson e A. Vanhoye. 75 L'espressione "riempire la mano" può significare all'origine o prendere le porzioni della vittima da porre sull'altare per presentarle a Dio (cf. Lv 8,27-28) o ricevere lo stipendio necessario al sacerdote per il suo ingaggio (cf. Gdc 17,10: 18,4) oppure si allude a una parte delle rendite e delle offerte fatte al santuario come "diritto del sacerdote" (cf. ISam 2,13). Cf. R. De Vaux, Le istituzioni dell'AT, pp. 343-344. 74
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sia attraverso la totale solidarietà con gli uomini (cf. 2,9-18; e 8,1), che il rituale del Levitico non conosce nemmeno 76 . Questo concetto di solidarietà merita un paio di riflessioni ulteriori. (1) L'una riguarda il confronto con il sacerdozio giudaico. Mentre l'AT insiste sulla separazione-diversità dei Sommi Sacerdoti rispetto al popolo (cf. Es 28-29; Lv 8-10; la lamina d'oro posta sul turbante di Aronne recava la scritta QodeS FYHWH, "consacrato a YHWH" [Es 28,36]; e secondo la Mishnah il Sommo Sacerdote veniva isolato dalla famiglia sette giorni prima dello Yòm Kippùr in una stanza annessa al Tempio [Yom. 1,1]), Eb invece insiste sulla profonda solidarietà di Gesù con gli uomini (cf. 2,9-18; 4,14-15; 5,7-8). (2) La seconda osservazione riguarda il messianismo. Mentre la cristologia tradizionale insiste ancora, nonostante tutto, sulle categorie regali del davidismo, qui invece si passa decisamente alla categoria di un messianismo sacerdotale, ritoccata però nel senso che l'espiazione è operata dal sacerdote non ritualmente ma (e questo è inaudito) personalmente-esistenzialmente; così si recuperano tutti gli aspetti di debolezza, umiliazione, sofferenza, morte, che erano incompatibili con il messianismo regale. Infatti, le due menzioni di Davide in Eb 4,7 e 11,32 non hanno nulla di messianico, e comunque i citati Salmi 2 e 110 vengono ora riletti secondo categorie sacerdotali77. 3.3.4.2 Perfezionamento e sacerdozio. Se l'offerta di Gesù sulla croce lo rende «perfetto», cioè lo costituisce sacerdote, allora si pone un altro interrogativo: in che rapporto sta l'esercizio del suo sacerdozio con il momento del suo "perfezionamento"? L'esercizio di questo sacerdozio è solo una conseguenza del perfezionamento oppure ne fa già parte? Si potrebbe infatti pensare che la teléiosis avvenuta nella sofferenza sia soltanto una premessa per l'esercizio di un sacerdozio che si svolge tutto e solo in cielo, nel santuario celeste (cf. 8,1-2; 9,11-12.24; vedi più sotto) 78 . Ciò significhe76 Cf. A. Vanhoye, La 'teleiosis' du Christ, pp. 330-337; l'Autore a p. 337 ricorda che Aronne era stato costituito sacerdote "per Dio" (Es 28,1.4; 29,1), e che, se in Eb 5,1 si legge che "ogni sommo sacerdote viene costituito per gli uomini" (ùrcèp àv9pcÌ7tuv), in realtà questo rapporto non viene mai richiamato nel rituale del Levitico e quindi deriva da una sua rilettura fondata già sulla fede cristologica. 77 Per la discussione su due manoscritti di Qumràn, dove sembrerebbe che in uno si parli della morte del Messia (4Q285) e in un altro si accenni a una espiazione esercitata esistenzialmente da un Sommo Sacerdote escatologico (4Q541), cf. il nostro voi. I, rispettivamente p. 156 nota 385 e p. 159 nota 395. 78 Così W.R.G. Loader, Sohn und Hoherpriester, pp. 46 e 121. Questo Autore, del resto, tratta prima di Gesù come intercessore celeste ("Jesus der Fùrbitter": pp. 142-160) e solo dopo prende in considerazione la sua offerta personale ("Jesu Selbstopfer": pp. 161-202).
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rebbe in ultima analisi che la morte di Gesù in croce non è stata un vero atto sacerdotale, ma solo una sua condizione previa. A questo problema, e per attrarre comunque l'offerta in croce nel concetto di sacerdozio, si possono dare due tipi di soluzione. (1) L'una consiste nel considerare l'effusione del sangue come puramente funzionale alla sua successiva offerta dentro il santuario, così da concludere che il sacrificio in croce fu intrinsecamente anch'esso «un atto celeste» perché ordinato per natura sua al ministero sacerdotale esercitato poi all'interno del santuario celeste. Rifacendosi in questo modo alla successione rituale dello Yòm Kippur, ne risulta che il secondo momento (più importante) risucchia in sé anche il primo, sicché tanto la croce quanto l'ingresso nel Santo dei Santi celeste diventano parti della medesima azione sacerdotale 79 . (2) Un'altra spiegazione, più convincente, si rifa essa pure e necessariamente allo schema soggiacente dello Yòm Kippùr, ma da un punto di vista ben diverso. Secondo Eb, infatti, esiste una vistosa differenza tra la festa giudaica e la morte di Gesù. Mentre là l'immolazione del capro era solo una preparazione all'atto di espiazione vero e proprio, che consisteva nella successiva aspersione del sangue compiuta nel Santo dei Santi, qui invece l'espiazione vera e propria avviene già nell'effusione del sangue di Gesù80. Lo rivela il nesso esplicito fra redenzione e morte in questi passi: 9,15 ("essendo ormai intervenuta la morte per la redenzione delle colpe"); 9,26 ("...è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso"); e 10,10 ("siamo stati santificati per mezzo dell'offerta del corpo di Cristo"). Perciò, riferire l'infinito presente tXàaxeaGou in 2,17 solo a una attuale e continua attività espiatrice di Gesù sembra improprio 81 . È nell'insieme del suo
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sacrificio che il sangue di Cristo risulta più eloquente di quello di Abele (cf. 12,24), soprattutto di quello di capri e di tori (cf. 9,12-14), e diventa il sangue di una nuova alleanza (cf. 8,1 - 9,28). Per la verità, là dove ricorrono gli specifici termini cultuali concernenti il "sacrificio" (Guata: 15 volte) e la sua "offerta" (àva
4. (Sommo) Sacerdote 79 Così A. Cody, Heavenly Liturgy, pp. 170-172: già l'immolazione è una liturgia celeste, nel senso che è stata compiuta da un mediatore che è una persona celeste e che è specificata dal suo termine nel santuario celeste. Così anche D. Peterson, Hebrews andPerfection, pp. 191-195, il quale si appoggia sul fatto che secondo Lv 16,15 l'immolazione del capro avveniva fuori (davanti) al Santuario vero e proprio, ma già con l'intenzione di ministrare poi il sangue all'interno del Santuario stesso. 80 Anche W.R.G. Loader, Sohn und Hoherpriester, pp. 182-192, riconosce questa differenza, ma non sembra trarne le dovute conseguenze. 81 Contro A. Vanhoye (Situation, pp. 380-381), E. Gràsser (I, p. 154) e P. Ellingworth (p. 188). L'inclusione di un riferimento al sacrificio della croce è sostenuto da H. Braun (p. 70: anche se l'accento cade sulla manipolazione del sangue nel Santuario, "non ne segue che l'espiazione avvenga soltanto nel cielo e non già sulla croce"), W.L. Lane (I, p. 66: "Il concetto implica sacrificio, e in questo contesto l'opera del Figlio consistette nel dare la sua vita per gli altri"), e H.W. Attrid-
Il titolo è presente nelle due forme, semplice e composta 83 . La prima è propria di Sai 110,4 e si trova di fatto solo in quei passi che fanno riferimento al Salmo, ripetendolo; la seconda invece ri-
ge (p. 96 nota 195: l'infinito presente "espiare" ha tanto poco il valore di un'azione continua quanto il successivo infinito aoristo (BoT)0f)vai, "venire in aiuto", non ha solo valore puntuale per indicare un solo atto di soccorso). 82 Cf. C. Zesati Estrada, Hebreos 5,7-8, pp. 128-141, dove si fa vedere bene che in 5,7 il contesto sacrificale, l'uso del verborcpocNpépco,e l'idea della preghiera come sacrificio, inducono a ritenere che il dono di sé nella morte fu già un'oblazione sacerdotale. 83 Vedi sopra: nota 19.
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corre in passi che spiegano il senso del Salmo applicandolo a Gesù. La differenza fra le due, dunque, a parte la maggiore ampollosità della seconda, è praticamente nulla84. 4.1 Premesse al tema 4.1.1 L'ambiente storico-religioso*5. A livello di fenomenologia storica comparata, risulta che nelle religioni il sacerdote all'inizio è piuttosto l'uomo dell'oracolo86; ma egli diventa poi man mano il professionista del sacrificio; in riferimento a questa doppia funzione, gli si riconosce anche la funzione di custode delle norme soprattutto rituali87. Ma, mentre la religione greca è stata definita una religione senza sacerdoti, almeno nel senso istituzionale del termine, in quanto non è previsto un ceto sacerdotale con le caratteristiche di un gruppo a sé stante88, in Israele invece 84 Non è il caso quindi di pensare a una duplice fonte dottrinale, come riteneva G. Schille, Erwàgungen zur Hohepriesterlehre des Hebràerbriefes, ZNW 46 (1955) 81-109. 85 Cf. G. Schrenk, iepeu<, GLNT1V, 839-845 (Grecità), 845-855 (Israele); àPXiepeu?, ib. 862-866 (Grecità), 867-883 (Israele); R. De Vaux, Le istituzioni dell'AT, pp. 290-441; A. Cody, A History of Old Testament Priesthood, AnB 35, PIB, Rome 1969; L. Sabourin, Priesthood. A Comparative Study, Brill, Leiden 1973, specie pp. 35-43 (sulla Grecia antica), 98-157 (sull'Israele antico), e 158-177 (sul giudaismo al tempo di Gesù). 86 Così nella Bibbia (cf. Es 17,9; Dt 33,8-11; Gdc 17,5-6; ISam 14,41) e anche in 87 Omero (cf. //. 1,62). Così nella Bibbia (cf. Dt 33,11: "Insegneranno le tue tórót a Israele"; Mie 3,11; Ger 18,18) e in Platone {Leg. 800ab: sacerdoti e sacerdotesse sono vofiocpuXaxe?, "custodi delle leggi", anche se nel contesto si gioca sul doppio significato di nomos come "legge" e come "canto"). 88 In Grecia è impossibile individuare un elemento unitario che qualifichi lo statuto sacerdotale. In teoria, sacrifica chiunque lo desideri e abbia i mezzi per farlo, anche casalinghe o schiavi; solo presso i santuari ci sono figure fisse di sacerdoti (o sacerdotesse), i quali però, ove non appartengano ereditariamente a determinate famiglie (per esempio ad Atene gli Eteobutadi, a Eleusi gli Eumolpidi ecc.), vengono eletti in carica perlopiù annualmente (ma a Delfi sono nominati a vita) ed è richiesta loro una purezza rituale (fatta di abluzioni, esenzione da mutilazioni, astensione da cadaveri, da certi cibi ecc.); secondo Platone, Leg. 759d, chi vuole esercitare questo ufficio non deve avere meno di sessant'anni; certo non esisteva un Sommo Sacerdote unico (un "primo sacerdote" annuale viene ipotizzato da Platone, Leg. 947ab, per il suo stato ideale). Diverso è il caso di Roma, dove un Ponti/ex Maximus presiedeva il collegio dei pontifices (composto dal rex sacrorum, i flamini e le vestali), che controllavano il culto e si pronunciavano su questioni religiose e di calendario (cf. Tacito, Ann. 3,58,3; 59,1; 71,2-3); dal 12 a.C. la carica passò all'imperatore. Altra è la tipologia nel Medio Oriente, dove abbondano le figure di sacerdoti in un solo tempio (per esempio, secondo Luciano, De dea syria 42-43, nel santuario di Gerapoli in Siria ve ne erano almeno trecento, senza contare i can-
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esiste tutta una tribù deputata all'esercizio del sacerdozio (Levi) e almeno dall'esilio babilonese in poi si impone una forte istituzionalizzazione che distingue chiaramente cariche e ruoli. In particolare, venne istituita la carica di Sommo Sacerdote, che, sia sotto i Persiani sia sotto i Seleucidi, fungeva da autorità massima della nazione89. Secondo la storiografia impostasi dopo l'esilio babilonese, il Sommo Sacerdote apparteneva alla famiglia di Sadoq a partire da Salomone (cf. IRe 2,27.35; Ez 40,46), e tale fu fino a Onia III, fatto assassinare nel 175 a.C. a Dafne presso Antiochia di Siria dall'usurpatore Menelao, un beniaminita, che aveva comprato la carica da Antioco IV Epifane con denaro (cf. 2Mac 4.23-38)90. A Menelao successe Alcimo, aronita ma non sadoqita, che morì nel 159 (cf. IMac 9,54-56). Dopo una vacanza di 7 anni (fino al 153 a.C.) e a conclusione dell'epopea maccabaica, il re Alessandro figlio e successore di Antioco IV, nominò Gionata Maccabeo (cf. IMac 10,18-21); la sua estraneità alla famiglia di Sadoq provocò probabilmente la secessione della comunità di Qumràn che si definisce dei "figli di Sadoq" (cf. 1QS 5,2.9; lQSa 1,24; lQpAb 9,9). La carica rimase appannaggio dei sovrani asmonei fino all'avvento di Erode il Grande nel 37 a.C. Da allora fino al 70 d.C. venne conferita ad arbitrio prima da Erode e poi dai governatori romani, passando a varie famiglie. Tra di esse fu particolarmente importante la famiglia di Annas: questi fu Sommo Sacerdote dal 6 al 15, e tali furono poi anche non solo il genero Caifa (anni 18-37), ma anche vari figli: Eleazaro (16-17), Gionata (37), Teofilo (37-41), Mattia (43), Anano (62; responsabile della morte di Giacomo il fratello del Signore)91.
tori e i "galli"). Cf. W. Burkert, / Greci, I, "Storia delle religioni" 8/1, Jaca Book, Milano 1983 (orig. ted., Stuttgart 1977), pp. 141-147; I. Chirassi Colombo, La religione in Grecia, UL 640, Laterza, Roma-Bari 1983, pp. 76-82; J. Scheid, La religione a Roma, UL 620, Laterza, Roma-Bari 1983, pp. 80-91. 89 Nella Bibbia greca il titolo di àpxiepeu; su 46 ricorrenze è presente ben 37 volte in l-4Mac. Più rari sono gli equivalenti "il sacerdote dominante" (ó Upeu? ó àpx
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Quando Eb viene scritta, prima o dopo l'anno 70, la carica di Sommo Sacerdote godeva comunque di un prestigio enorme, non solo per la sua forza rappresentativa della nazione giudaica92, ma anche perché solo a lui era riservato di penetrare una sola volta l'anno nel Santo dei Santi per celebrare il Kippùr (vedi sotto) 93 . 4.1.2 Portata tradizionale del tema. All'interno del NT il titolo cristologico è esclusivo di Eb. Nei Sinottici, in Gv e in At, è impiegato solo in riferimento ai sacerdoti giudaici (cf. Me 15,3//; Gv 7,32; At 4,6). Nelle lettere paoline addirittura non s'incontra mai, né in un senso né nell'altro. In Ap è presente solo il plurale, ma come designazione di tutti i cristiani (cf. 1,6; 5,10; 20,6)94. Tuttavia, elementi cristologici di risonanza sacerdotale si trovano nel NT anche fuori e prima di Eb. La situazione è la seguente: - Lettere paoline: Rm 3,25 ("strumento di espiazione", ìXaaxTjpiov: cf. Lv 16)95; Ef 5,2 ("offerta e sacrificio",rcpoacpopàvxaì Guaiocv: cf. Es 29,18). - Sinottici: Mt 26,28 ("questo è il sangue della nuova alleanza ...versato per la remissione dei peccati", di; à^saiv àfxapxtwv: cf. Es 24,8 + Is 53,12)96. - Atti degli Apostoli: nulla (il testo di 20,28 ["... la chiesa, che egli si è acquistata, 7i£pie7totricjocTO, con il proprio sangue"] non impiega un verbo cultuale). - Quarto Vangelo: in 17,19 ("per essi io santifico àyiàCw me stesso, 92 Cf. la lettera del re Agrippa II, nipote di Erode il Grande all'imperatore Caio Caligola (in occasione del progetto di quest'ultimo di erigere una propria statua nel Tempio di Gerusalemme), riportata da Filone Al.: "Io sono nato giudeo, come sai; ho come patria Gerusalemme, dove si trova il tempio santo del Dio Altissimo. Ho l'onore di aver avuto come avi e antenati dei re, che venivano più spesso designati come Sommi Sacerdoti, poiché si poneva la regalità al secondo posto dopo il sacerdozio, stimando che il Sommo Pontificato superasse la regalità di quanto Dio supera in eccellenza gli uomini" (Legatio ad Caium 278). 93 Lo stesso Filone Al. fa del Sommo Sacerdote addirittura un simbolo del Logos divino (cf. Fug. 109.117s). Cf. H.W. Attridge, Hebrews, pp. 97-103 ("Excursus: The Antecedents and Development of the High-Priestly Christology"). 94 II titolo cristologico si ritrova poi in lClem 36,1 ("La via nella quale noi troviamo la nostra salvezza, o carissimi, è Gesù Cristo, il sommo sacerdote delle nostre offerte, il patrono e aiuto della nostra debolezza"; segue poco dopo il richiamo di Eb 1,3-4) e 61,3 ("Noi ti ringraziamo per mezzo del sommo sacerdote e patrono delle nostre anime, Gesù Cristo"). Altrove nel NT ricorre solo il sostantivo astratto "sacerdozio", ìepà-ceufia (lPt 2,5.9), detto di tutta la comunità cristiana sulla falsariga di Es 19,6. 95 Vedi sopra: cap. II, 4.2.1 (3). Più discusso è il testo di 2Cor 5,21 (cf. i Commenti). 96 Ricordiamo che il loghion di Me 10,45 ("in riscatto per molti") impiega un linguaggio, che appartiene non alla sfera cultuale ma a quella del diritto commerciale.
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perché siano anch'essi santificati Tj-ftaoiiivoi nella verità") è presente un verbo che viene impiegato nei LXX per la consacrazione di sacerdoti in vista del loro servizio (cf. Es 28,41; 40,13; Lv 8,30; 2Cr 5,11). Analogamente vedi lGv 2,2 ("egli è vittima di espiazione iXaa[xó<; per i nostri peccati")97. - Apocalisse: in 5,9 ("...poiché sei stato immolato èa
4.2 Gesù, sommo (3,1 - 5,10)
sacerdote degno di fede e misericordioso
Come abbiamo già detto sopra, nella conclusione della prima parte della lettera in 2,17-18 si annuncia il tema della seconda: Gesù è un sommo sacerdote "misericordioso e degno di fede" (eXerpcov xaì 7uaró<;). La nuova sezione 3,1-5,10 sviluppa il tema invertendo le due qualifiche: "degno di fede" (3,1-6), "misericordioso" (4,15 - 5,10), e inserendovi una lunga esortazione parenetica (cf. 3,7-4,14). Noi abbiamo già in parte affrontato la prima definizione a pro-
97 Forse non si possono vedere risonanze sacerdotali in Gv 1,29 ("...che toglie il peccato ó atpcov TT)V àjxapxtav del mondo"; cf. lGv 3,5), poiché l'espressione richiama piuttosto Is 53,4 (anche se là c'è il verbo tpépeiv). 98 Cf. sopra: nota 8. 99 Vedi anche la proposta di struttura avanzata da G.H. Guthrie, The Structure of the Book of Hebrews. A Text-Linguistic Analysis, NT Suppl. 73, Brill, LeidenNew York 1994: mettendo a parte le sezioni parenetiche (2,1-4; 3,1 - 4,13; 5,11 6,12; 10,26 - 13,19), l'Autore divide l'intero scritto in due blocchi, così da mettere bene in risalto una prima parte (1,5 - 2,18: la posizione del Figlio in rapporto agli angeli) rispetto alla seconda (4,14 - 10,25: la posizione del Figlio, nostro Sommo Sacerdote, in rapporto al sistema sacrificale terrestre), che comunque acquista un'ampiezza sproporzionata.
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posito del titolo di Figlio, da cui appare la superiorità di Gesù nei confronti di Mosè (cf. sopra: 3.2.2). Nella sezione parenetica, l'autore paragona la situazione dei suoi destinatari a quella degli antichi ebrei in cammino verso la terra promessa: anche per i cristiani c'è sempre un "oggi" (cf. 3,7.13.15; 4,7: ripreso da Sai 95,7) in cui decidersi fra ribellione e adesione al Signore, prima di entrare nel riposo dell'ultimo sabato. In questo cammino Gesù vale come guida sicura100. Anche della seconda qualifica (sviluppata in 4,15 - 5,10) abbiamo già visto l'importanza in rapporto all'idea di perfezionamento (cf. sopra: 3.3.2). Qui va soprattutto notato il passo di 4,15-16: mentre il primo v. ripropone la figura di Gesù come un sacerdote che ha condiviso in tutto l'umana debolezza e quindi sa comprendere ogni necessità101, il secondo v. di conseguenza invita ad accostarsi fiduciosamente al "trono della grazia". Se in parte la terminologia impiegata è di derivazione cultuale102, essa viene però applicata alla vita quotidiana dei cristiani, che è vista così come una liturgia gioiosa. L'intera sezione 3,1-5,10 vale comunque come preparazione generale a ciò che di più specifico si dirà in seguito sul sacerdozio di Cristo. 4.3 Confronto tipologico con Melchisedeq (cap. 7) Una nuova, lunga sezione parenetica (cf. 5,11- 6,20) termina sulla curiosa combinazione della doppia immagine (nautica e cultuale) di Gesù come ancora sicura e salda103, gettata fin dentro il Santo 100 Secondo A. Vanhoye, Structure, p. 87, il titolo di àTtóaroXo? dato a Gesù in 3,1 equivale a quello di àpxTjyó? datogli in 2,10. 101 II concetto del Messia esente dal peccato è presente in Salmi di Salom. 17,36 ("E lui stesso è puro dal peccato così da poter governare un grande popolo e poter confondere i potenti e cancellare i peccatori con la forza della parola"), ma qui non c'è alcuna misericordia. 102 Ciò vale soprattutto per il verbo 7tpoaépxta6<xi, "accostarsi, presentarsi", che nei LXX è ampiamente usato in ambito cultuale per designare l'atto di chi (non solo dei sacerdoti) si pone alla presenza del Signore (cf. Es 16,9; Lv 9,5.7.8 ecc.) e che anche in Eb mantiene questo significato, con riferimento sia all'AT (cf. 10,1; 12,18) sia a Cristo (cf. 7,25; 10,22; e anche 12,22). Quanto invece all'espressione Opóvo? vf\c, xàpitoi;, sembra improbabile qui un'allusione diretta all'Espiatorio dello Yòm Kippùr e più verosimile un riferimento alla sede gloriosa di Dio (cf. Sai 10,5; Ez 1,26; Dn 7,9), alla cui destra ora è seduto il Cristo (cf. 8,1), tutt'al più con un'allusione al trono del giudizio (cf. Sai 9,8-9) dal quale però per intercessione di Cristo (cf. Eb 7,25) ci si può aspettare solo un esercizio di misericordia. 103 L'immagine non è biblica ma ben presente nella letteratura antica; cf. T. da Castel S. Pietro, Metafore nautiche in Ebrei 2,1-3; 6,19, RivBibl 6 (1959) 33-49.
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dei Santi, dove egli "entrò per noi come precursore, divenuto Sommo Sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedeq" (6,20). Questo riferimento a Melchisedeq (che fa inclusione con la fine della sezione precedente: cf. 5,10.6), viene sviluppato in tutto il cap. 7 e costituisce uno degli elementi più originali dell'intera lettera104. Cominciamo col notare che attribuire a Melchisedeq un ingresso nel Santo dei Santi, dal punto di vista storico, è totalmente improprio: sia perché quando visse Melchisedeq il Tempio non esisteva ancora (anzi, Gerusalemme non era ancora una città giudaica), sia perché egli non era né ebreo né tantomeno apparteneva alla classe sacerdotale levitica. Ma proprio in questo paradosso si accenna già una delle tesi più originali della lettera. Infatti, la tipologia di Melchisedeq è costruita sulla opposizione con Aronne come esplicitamente si dichiara in 7,11: "Se la perfezione fosse stata possibile per mezzo del sacerdozio levitico,... che bisogno c'era che sorgesse un altro sacerdote 'alla maniera di Melchisedeq' e che (quindi) non venisse detto 'alla maniera di Aronne'?" 105 . Il confronto fra i due comporta, anche al semplice livello della frequenza dei nomi, una insistenza molto maggiore su Melchisedeq106. Da questa constatazione deduciamo tre osservazioni. (1) Il confronto con Melchisedeq è sempre positivo, mentre quello con Aronne è sempre negativo; un'apparente eccezione sembra essere 5,4 concernente la chiamata di Aronne, ma, come abbiamo visto sopra, il confronto positivo con Gesù si ferma lì, poiché l'esercizio del sacerdozio è totalmente diverso. (2) Entrambi i personaggi praticamente scompaiono dopo 7,17 (infatti in 7,21 Melchisedeq non è più menzionato nella citazione di Sai 110,4; e Aronne in 9,4 non è più termine di confronto), perché ormai il discorso si concentra esclusivamente sulla figura e sull'azione di Gesù107. (3) Anche se Eb ricama su questi personaggi dell'AT e soprattutto su Melchisedeq e sui due testi che lo riguardano (cioè Sai 104 Cf. N. Casalini, Eb 7,1-10: Melchisedek prototipo di Cristo, Liber Annuus 34 (1984) 149-190. 105 Notiamo che nel complemento modale xaxà xr\\> xàiltv (Vg: secundum ordinerri) il sostantivo non significa "ordine (gerarchico o di successione)", né tantomeno l'ordine sacramentale, ma semplicemente "qualità, natura, condizione, maniera" (cf. 7,15: " a somiglianza xocxà rr\\> ò\ioióxr\-za. di Melchisedeq"), specificato però in senso sacerdotale e quindi: "ordinamento, tipo, classificazione". 106 La situazione in tutta la lettera è la seguente: Aronne in 5,4; 7,5.9.11; 9,4; Melchisedeq in 5,6.10; 6,20; 7,1.11.15.17.21. 107 Cf. H. Braun: "L'antitipo non può diventare troppo grande accanto al tipo Gesù" (p. 137).
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110,4; Gn 14,17-20), tuttavia è chiaro che il suo p u n t o di partenza non è la riflessione sui personaggi o sui testi biblici che parlano di loro; il nostro autore infatti parte già da Gesù e dalla meditazione sulla sua figura e sulla sua funzione, tanto che i passi (positivi) su Melchisedeq appaiono solo al cap. 5 della lettera 1 0 8 . È quindi del tutto evidente che il ricorso all'AT, benché a b b o n d a n t e , è però secondario in q u a n t o interamente posto al servizio di una fede cristologica già formatasi a u t o n o m a m e n t e . 4.3.1 La figura di Melchisedeq come base dell'argomentazione. Data l'importanza di questo personaggio per la cristologia di E b , in quanto è assunto come referente principale del pensiero dell'autore, occorre esaminare più da vicino le sue caratteristiche proprie. Excursus sulla figura di Melchisedeq109. Nell'antichità extrabiblica Melchisedeq ebbe una fortuna notevole, in alcuni casi persino sorprendente. Di lui, attorno agli inizi dell'era cristiana, sono documentabili tre tipi d'interpretazioni. (1) Melchisedeq come figura celeste. A Qumràn almeno due manoscritti gli riconoscono questa dimensione: 4QAmram b 3,2-3 ("Io ho tre nomi: Michele e principe della luce e Melkisedeq"; cf. 4QM 17,6-9) e 4QShirShab b 11,3 (unico angelo menzionato per nome come sacerdote nell'assemblea celeste). In 1 lQMelch al suo nome è connesso un decisivo intervento salvifico nella grande battaglia escatologica per sconfiggere Belial e i suoi accoliti. Il nome però, riferito comunemente al personaggio biblico in una sua straordinaria funzione, potrebbe essere inteso in senso etimologico come un semplice epiteto divino, in quanto Dio stesso come "re di giustizia" (2,25) opererà il giudizio finale 110 . 108 È vero che Sai 110 nel suo v. 1 è già utilizzato in Eb l,3d e lo sarà ancora in 12,2 (passando per 1,13; 8,1; 10,12); ma là si tratta della figliazione divina e della sessione alla destra di Dio. Ciò che abbiamo già rilevato circa il discorso su GesùFiglio che precede quello su Gesù-Sacerdote si riflette già in qualche maniera nella successione stessa dei versetti del Salmo 110, dove l'affermazione circa il sacerdozio nel v. 4 si fonda su quella precedente circa la sessione alla destra di Dio nel v. 1. 109 Cf. C. Gianotto, Melchisedek e la sua tipologia. Tradizioni giudaiche, cristiane e gnostiche (sec. Ila.C.-sec. IlId.C), RivBibl Suppl 12, Paideia, Brescia 1984. 110 Questa è la inedita presa di posizione propria di F. Manzi, Melchisedek e l'angelologia nell'epistola agli Ebrei e a Qumran, che si oppone a tutti coloro (compreso C. Gianotto) che invece qui ritengono l'ebraico malkisedeq come nome proprio del personaggio biblico (cf. pp. 64-94); la sua argomentazione è fondata, sia sull'accertamento di un impiego dell'onomastica ebraica per designare Dio stesso, sia sul fatto che all'interno del manoscritto il soggetto dell'intervento escatologico non si colloca mai tra Dio e gli uomini ma si identifica con Dio stesso ("messaggero" è sempre un altro: 2,18-19), sia sul fatto che le funzioni giudiziarie e militari del protagonista sono proprie di Dio in quanto il suo dominio riguarda la totalità degli uomini e degli angeli. Tuttavia in 2,13 sembrerebbe imporsi una distinzione: "Ma // re di giustizia farà vendetta con i giudizi di Dio" (cf. 2,23).
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Anche nel successivo ambiente cristiano, tra il 200 e il sec. VI, sono documentati molti gruppi che veneravano in Melchisedeq una dynamis celeste, angelica, a volte addirittura superiore a Cristo o identificata con lo Spirito Santo e con lo stesso Figlio di Dio; ma è assente una funzione escatologica 111 . (2) Melchisedeq e il sacerdozio terreno. Il giudaismo attesta quattro posizioni diverse in materia. Filone Alessandrino riconosce a Melchisedeq un sacerdozio "imparato e insegnato da solo" (Congr. 99: (xùxo\i(xBr\<; xoù ocikoSiBocx-roi;) in quanto non gli fu trasmesso da nessun altro ma direttamente da Dio (poiché è il primo nella Bibbia a ricevere il titolo di koheri); egli perciò è figura del Logos-sacerdote e fa bere vino alle anime perché siano misticamente possedute da un'ebbrezza divina (cf. Leg. alleg. 3,79-82). Giuseppe Flavio invece ne parla a proposito della polemica insorta nel sec. II a.C. tra il Tempio samaritano del monte Garizim e il Tempio giudaico di Gerusalemme, che leggevano l'episodio genesiaco come rispettiva leggenda di fondazione e legittimazione (cf. Bell. 6,438-439; così anche Ps.-Eupolemo in Eusebio, H.E. 9,17,4-5; 9,18,2)112. L'apocrifo 2Enoch 71-72 è su di una posizione del tutto originale. Qui si narra di una certa Sofonim, moglie del sacerdote Nir (fratello di Noè), la quale nella vecchiaia concepì senza il concorso del marito e per i rimproveri di lui morì; dal suo cadavere uscì un fanciullo, che recava sul petto il sigillo del sacerdozio, e lo chiamarono Melchisedeq; a Nir che interroga il Signore sul destino del fanciullo, gli viene risposto: "Sarà il mio sacerdote dei sacerdoti nei secoli... Melchisedeq sarà il capo dei sacerdoti in un'altra stirpe" 113 ; poi Michele viene mandato a prelevare il fanciullo per deporlo nell'Eden e preservarlo per il futuro. Nel rabbinismo, al contrario, si percepisce la potenziale pericolosità di Melchisedeq, un cananeo a cui Abramo rende omaggio pagando le decime e ottenendone la benedizione: quindi, anche in funzione anti-cristiana, il Targum o lo identifica com Sem (cf. Tg Ps.-Jon, Tg N) o lo priva del sacerdozio attribuendolo ad Abramo (cf. Tg O) o elimina addirittura il suo nome da Sai 110,4 (cf. Tg Ps) 114 . (3) Melchisedeq come «tipo». In Eb Melchisedeq diventa il tipo di Cristo a motivo del suo sacerdozio non appartenente a quello levitico (cf. sotto). E nella tradizione cristiana posteriore egli verrà poi inteso 111 Cf. C. Gianotto, Melchisedek e la sua tipologia, pp. 238-251; F. Manzi, Melchisedek e l'angelologia, pp. 83-86. 1,2 Esisteva evidentemente una discussione sul nome Salem, che ancora S. Gerolamo identificava con "Salim" vicino a Scitopoli-Beth Shean, quindi molto più a nord di Gerusalemme (cf. Ep. 73). 113 II riferimento è certamente alla futura generazione successiva al diluvio e forse anche a "una qualche setta di tipo sadocita e in definitiva essenica" (P. Sacchi, Apocrifi dell'Antico Testamento, II, UTET, Torino 1989, p. 591). 114 Però anche in lQapGen 22,17 colui che dà la decima non è Melchisedeq ma Abramo!
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come prefigurazione del sacerdote cristiano, in particolare nella celebrazione dell'eucaristia a motivo della sua offerta di pane e di vino (così a partire da Clemente AL, Strom. 4,161,3). Tornando a Eb, possiamo ora constatare che la sua utilizzazione della figura di Melchisedeq rappresenta solo uno dei molti modi con cui nel secolo I ci si rifaceva al misterioso personaggio biblico. Ma è importante osservare che mai altrove viene fatto ricorso al testo di Sai 110,4, come invece viene fatto qui. È necessario quindi chiedersi: che cosa significa la frase "Tu sei sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedeq"? Prima di renderci conto della portata della dichiarazione all'interno della nostra lettera, bisogna stabilire quale fosse il suo significato originario nel Salmo citato. A questo proposito, va osservato che, appartenendo il Salmo al genere dell'intronizzazione regale, il testo riconosce al re una qualifica sacerdotale115. L'associazione regalità-sacerdozio è attestata fin dall'antichità extrabiblica, prima in ambiente mesopotamico e poi ellenistico-romano (dai Sumeri fino agli imperatori romani). In Israele a volte qualche re è detto aver compiuto atti sacerdotali (cf. Salomone a Gabaon e poi nel Tempio: IRe 3,4-15; 8,5.62-64); ma dopo l'esilio questa funzione è riservata in esclusiva ai sacerdoti (cf. 2Cr 26,18)116. Anche per questo l'ipotesi di datazione del Salmo al secolo II a.C. (con cui si sarebbe voluto legittimare il sacerdozio e la regalità dei discendenti dei Maccabei) è perlopiù abbandonata, sia perché il linguaggio riporta a età più remote, sia perché l'assunzione delle due dignità avvenne in tempi diversi (il titolo di Sommo Sacerdote fu concesso a Gionata nel 152 a.C, mentre il titolo di re fu assunto poi da Aristobulo nel 104 a.C; solo di Simone Maccabeo si legge in IMac 13,42 che divenne "sommo sacerdote, stratega e capo dei Giudei" nel 142 a.C). Ciò su cui occorre puntare è la presenza del nome di Melchisedeq: che ci sta a fare un re cananeo in un oracolo d'investitura regale rivolto al re di Gerusalemme? La risposta più ovvia è che con la sua intronizzazione il re ebreo riceveva in eredità e garantiva la prosecuzione delle antiche tradizioni gebusee-cananee proprie della città-stato di Gerusalemme: "Questa trasposizione di antichissime tradizioni a Davide e alla sua dinastia avviene mediante l'assunzione degli ordinamenti e delle convenzioni cultuali
115 Cf. H.-J. Kraus, Psalmen, II, Neukirchen-Vluyn 2 1961, pp. 752-764; G. Ravasi, // libro dei Salmi, III, Dehoniane, Bologna 1985, 6 1993, pp. 284-291; M.C. Astour, Melchizedek, in ABD 4, pp. 684-686. 116 Cf. R. De Vaux, Le istituzioni, pp. 120-121.
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gebusee"117. Così per esempio già il Tempio di Salomone è strutturato alla maniera dei templi cananei, come risulta dalle rovine di quello di Hazor. Del resto, non per nulla Melchisedeq è un nome cananeo118 e nel racconto di Gn 14,18-20 è detto "re di Salem" (che in Sai 76,3 sta per "Gerusalemme") e in più "sacerdote di 'ErElyón" cioè "di El come dio supremo" del pantheon fenicio (attestato a Ugarit). 4.3.2 L'attribuzione a Gesù della qualifica sacerdotale di Melchisedeq. Dopo aver detto già in 5,6.10 e 6,20 che egli è diventato "Sommo Sacerdote alla maniera di Melchisedeq" (non certo nel senso letterale del Salmo), finalmente nel cap. 7 l'autore spiega di che cosa si tratta. La sua argomentazione vuole dimostrare la diversità e la superiorità del sacerdozio di Gesù rispetto a quello levitico, che egli non ha condiviso. Il senso del discorso, come abbiamo già accennato sopra, sta tutto in questa contrapposizione. La figura di Melchisedeq serviva ottimamente per esprimerla, ed Eb 7 ne trae tutte le conseguenze possibili rifacendosi sia a Gn 14,18-20 sia a Sai 110. Gli elementi di superiorità, sui quali si gioca, sono ben cinque. Due di essi (cf. Eb 7,4-10) hanno una mera valenza storico-narrativa e sono perciò privi di riferimento tipologico: (1) Melchisedeq ha dato la benedizione ad Abramo, e chi benedice è superiore a chi è benedetto; (2) Abramo ha omaggiato Melchisedeq offrendogli la decima di quanto aveva, e chi offre la decima è inferiore a colui al quale essa viene offerta. Altri tre elementi hanno invece una valenza tipologica (di essi il primo è derivato sia da Gn 14,18-20 sia da Sai 110,4, mentre il secondo e il terzo provengono solo da Sai 110,4). (1) Il sacerdozio di Gesù è eterno. Il punto di partenza è Melchisedeq in quanto "senza principio né fine" (Eb 7,3 = Gn 14,18-20) e in quanto sacerdote "per sempre" (Eb 7,21 = Sai 110,4). Il tema percorre un po' tutta la pagina: 7,1-3 ("per sempre", cioè per 117 H.-J. Kraus, Psalmen, II, p. 761. La verosimiglianza di queste assunzioni diventa ancor più forte in base al recente studio di R. Gelio, L'ingresso di Davide a Gerusalemme, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, secondo cui la conquista di Gerusalemme da parte di Davide avvenne mediante l'alleanza di ebrei e gebusei contro gli occupanti filistei: l'alleanza dei primi due gruppi etnici non poteva non confluire nell'accettazione da parte ebraica di vari elementi della cultura e della religione cananea, che erano molto superiori a quelle dei nuovi padroni della città. 118 Infatti è paragonabile con "Adonisedeq re di Gerusalemme" (Gs 10,1). Etimologicamente, essendo la /soltanto paragogica, significa "re di giustizia"; ma Eb 7,2, oltre a tradurre esattamente in questo modo, suppone anche un salòm invece di salem e lo intende anche come "re di pace" (così pure Filone Al., Leg. alleg. 3,79).
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il continuo, ininterrottamente, in perpetuo); 7,8 (i sacerdoti levitici che prendono la decima muoiono, ma di Melchisedeq si dice che vive); 7,16 (Melchisedeq è diventato sacerdote non per una norma caduca, ma per la potenza di una vita indefettibile [àxocxàXuxos, ' 'non sciolta, intatta, permanente"]); 7,23-25 (gli altri sacerdoti muoiono anche in quanto tali, mentre di lui si dice che ha un sacerdozio àrcxpàPaxov, "inviolabile, immutabile, che non cade", poiché egli vive per sempre). (2) Il sacerdozio di Gesù comporta una trasposizione 'istituzionale'. Il tema è trattato in 7,11-19 e ha come punto di partenza l'espressione xocxà XT]V xà£iv derivata da Sai 110,4b. Il sacerdozio di Gesù appartiene all'"ordinamento" di Melchisedeq, perché non è basato sulla discendenza levitica (cf. 7,13-14; cf. 8,4: "Se Gesù fosse sulla terra, egli non sarebbe neppure sacerdote"): sociologicamente parlando, all'interno di Israele Gesù era un laico! L'attribuzione della dimensione sacerdotale a un laico non può non comportare una "abrogazione" (7,18: à9r|xeai$, lett. "deposizione, abolizione") dell'ordinamento precedente, con allusione a tutte le prescrizioni levitiche (specie Dt 33,8-11). Quella xàfo è ormai considerata superata, "inutile" (àva^eXrjc)119. Se poi si aggiunge che Melchisedeq non apparteneva neanche al popolo d'Israele, ma era un pagano, la divaricazione con il sacerdozio levitico diventa davvero incolmabile; ma bisogna riconoscere che Eb non batte questa pista (forse perché troppo shoccante?). (3) Il sacerdozio di Gesù ha dalla sua il giuramento di Dio 120 . Il tema è trattato in 7,20-28 e ha come punto di partenza Sai 110,4a. La premessa sottintesa è che la Scrittura non dice nulla del genere a proposito del sacerdozio levitico. Il nostro autore fa tre affermazioni su Gesù in antitesi con i sacerdoti levitici: mentre questi erano molti (cf. 7,23), Gesù è uno solo ("7w sei sacerdote..."); mentre quelli erano deboli e peccatori, Gesù è santo, esente da debolezza (7,26.28); mentre le offerte di quelli dovevano ripetersi quotidianamente, quella di Gesù è avvenuta "una volta sola" (7,27). 119 Su questa linea si può leggere quanto scriverà Ignazio, ad Magn. 8,1: "Non ingannatevi con opinioni estranee né con vecchi mitemi, che sono inutili; se infatti continuiamo a vivere secondo la legge del giudaismo, confessiamo di non aver attinto la grazia". 120 Filone Alessandrino critica l'attribuzione del giuramento a Dio come antropomorfismo indegno di lui, poiché "Dio è degno di fede quando non fa altro che parlare, cosicché le semplici sue parole, a motivo della loro sicurezza, non differiscono in nulla dai giuramenti" (Sacr. 93; cf. 91-96); altrove però egli accetta che Dio giuri per se stesso adducendo se medesimo come garante e testimone di ciò che promette (cf. Leg. alleg. 3,203-207).
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4.4 Esercizio atipico del sacerdozio di Cristo confrontato con quello levitico (capp. 8-9) Dopo il confronto con Melchisedeq, dove atipico risultava semmai il sacerdozio dello stesso antico re di Gerusalemme, segue ora un confronto con il sacerdozio levitico, dove atipico risulta invece il sacerdozio di Gesù. Ciò significa che il nostro autore pensa all'ordinamento levitico come al più caratteristico per la religione d'Israele, anche se ne prende le distanze. Il confronto in effetti è di tipo dialettico: ci sono degli elementi di somiglianza e altri, prevalenti, di dissomiglianza. 4.4.1 La somiglianza. Anzitutto occorre stabilire il fattore di somiglianza, che in qualche modo accomuna il sacrificio di Cristo con i sacrifici levitici e stabilisce nonostante tutto una continuità con l'AT 121 . Esso è dato dall'effusione del sangue della vittima sacrificale (anche se va subito precisato che l'accostamento è prevalentemente formale)122. In 9,22 infatti è detto a chiare lettere: "Secondo la legge quasi tutto viene purificato nel sangue, e senza spargimento di sangue (oujjiaxexxucna: hi) non esiste perdono" (cioè, dei peccati; cf. 9,26; 10,4.11.18). A monte di questo principio si intravede nettamente l'assioma di Lv 17,11: "Poiché la vita della carne è nel sangue,... il sangue espia in quanto è la vita" 123 . Pur sapendo però che nel rituale giudaico il sangue non è l'unico elemento purificatore (cf. il "quasi tutto") 124 , il nostro autore sottolinea comunque la necessità del versamento del sangue per la remissione dei peccati. La formulazione di questo principio trova dei paralleli solo tardivi nel
121 Sulla prassi dei sacrifici israelitici, cf. R. De Vaux, Le istituzioni, pp. 404ss e G.A. Anderson, Sacrifice and sacrificial offerings (OT), in ABD 5, pp. 870-886. Per una discussione sulla linea dell'antropologia culturale, cf. J. Dunnill, Covenant and sacrifice in the Letter to the Hebrews, SNTS MS 75, University Press, Cambridge 1992. 122 Cf. A. Vanhoye, // sangue di Cristo nell'epistola agli Ebrei, in F. Vattioni, a cura, Sangue e antropologia biblica, II, Pia Unione Preziosissimo Sangue, Roma 1981, pp. 819-829. 123 Filone Al., Spec. leg. 1,205, commenta ottimamente dicendo che "propriamente parlando, il sangue (effuso) è una libagione della vita". Per le analogie con l'Antico Vicino Oriente, cf. R. Gelio, Il sangue nei rituali. Analogie e individualità tra mondo biblico e anatolico-mesopotamico, in F. Vattioni, a cura, Sangue e antropologia biblica, II, Pia Unione Preziosissimo Sangue, Roma 1981, pp. 425-451. 124 Infatti in Lv 5,11-13 è prevista per il povero l'offerta di una quantità di farina, che il sacerdote brucerà come rito espiatorio. Altre volte si richiede una lustrazione d'acqua, ma solo per le impurità rituali, non per il peccato (cf. Lv 15,10.13; 16,26.28; ecc.).
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giudaismo 125 . Quindi essa, nella sua assolutezza, in Eb si spiega solo sulla base dell'avvenuto sacrificio cruento di Cristo 126 . Il modello del rito del sangue, a cui Eb concretamente si riferisce, è duplice. (1) L'uno è la stipulazione dell'alleanza al Sinai, dove vennero immolati alcuni giovenchi: qui però il sangue era solo parte di un "sacrificio di comunione" (ebr. sflamini), che comportava cioè anche un pasto alla presenza del Signore (cf. Es 24,1-8 in Eb 9,18-20, dove però l'elemento-pasto è assente); esso in Eb è il meno sviluppato127. (2) Soprattutto però viene fatto riferimento al rito annuale dello Yòm Kippur, dove è centrale l'immolazione del capro espiatorio: esso è essenzialmente un "sacrificio per il peccat o " (ebr. hattà't), privo di pasto, ma con la peculiarità che il sangue della vittima veniva portato dal Sommo Sacerdote "oltre il velo" (cf. Lv 16 in Eb 5,3; 9,1-7; e la ricorrente formula "capri e arieti" o "capri e vitelli" in 9,12.13.19; 10,4)128. Il fatto che Eb menzioni solo il sangue del Kippur e non la componente del digiu125 Così nel Talmud babilonese: "Non c'è nessuna espiazione, se non attraverso il sangue" (Yom. 5a); "Appena il sangue raggiunge l'altare, ne consegue il perdono" (Zeb. 6a). Cf. Strack-Billerbeck, III, p. 742. 126 Del resto, va notato non solo che Eb è lo scritto del NT che impiega di più il vocabolo ai(xa, "sangue" (ben 21 volte contro le 11 volte di Mt e le 12 volte dell'intero epistolario paolino), ma soprattutto che lo fa quasi sempre in rapporto al sangue di Cristo, sia direttamente (cf. 9,12.14.20; 10,19.29; 11,28; 12,24; 13,12.20) sia indirettamente (quando si parla dei sacrifici antichi); solo in due casi non ha valenza cristologica (cf. 2,14; 12,4). 127 Altra cosa è il tema dell'alleanza, che si arricchisce con la citazione di Ger 31,31-34 (cf. Eb 8,7-13); vedi sotto. 128 La celebrazione dello Yòm Kippur (attestata, con alcune variazioni, in varie fonti: Lv 16; 23,26-32; Nm 29,7-11;11QT 25,10- 27,10; Filone Al.,Spec.leg. 1,188; FI. Giuseppe, Ant. 3,240-243; Giustino, Dial. 40,4; Mishnah, Yoma) comportava: (1) in primo luogo l'osservanza di un rigoroso digiuno (cf. Lv 23,29: "Chi non digiuna in questo giorno sarà estirpato dal suo popolo"); (2) sul piano rituale: (a) alcuni olocausti (cf. Nm 29,8); (b) l'immolazione di un vitello per i peccati del Sommo Sacerdote; (e) l'immolazione di un capro per i peccati del popolo ("toccato in sorte al Signore"), di cui il Sommo Sacerdote portava il sangue nel Santo dei Santi (TM debir o qodes haqqàdasim; i LXX traslitterano semplicemente il primo [cf. IRe 6,16] e rendono il secondo con tò ayiov TÒ>V àyiwv [cf. Es 26,33]) per aspergere il coperchio dell'arca dell'alleanza o Espiatorio (TM kappóret; LXX iXaa-cTjptov: esso però dopo l'esilio consisteva solo più in un semplice rialzo di tre dita dal pavimento: m. Yom. 5,2; secondo FI. Giuseppe, Bell. 5,219, addirittura nel Santo dei Santi "non c'era assolutamente nulla"; e Tacito conferma quando, a proposito di Pompeo che vi entrò per curiosità nel 63 a . C , riferisce che il romano vi trovò "vacuam sedem et inania arcana" [Hist. 5,9]!); (d) l'invio nel deserto di un altro capro caricato dei peccati di tutti gli Israeliti ("toccato in sorte ad Azazel": ma questo termine è interpretato come nome comune sia dai LXX [Ò.TZOKO\LTVXXO<;] sia dalla Vg [emissarius]). Sull'insieme, cf. R. De Vaux, Le istituzioni, pp. 486-489; e soprattutto G. Deiana, Il giorno dell'espiazione. Il kippur nella tradizione biblica, RivBibl Suppl 30, Dehoniane, Bologna 1994, che tra l'altro data la redazione di Lv 16 nel secolo III a.C.
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no, che pur era non solo essenziale alla festa ma forse anche il suo elemento più originario 129 , dice che il punto di partenza della riflessione dell'autore è solo l'evento-Cristo 130 . 4.4.2 Le dissomiglianze. C'è però una serie di dissomiglianze, che distanziano irrimediabilmente il sacrificio di Cristo da quelli dell'antica economia salvifica. 4.4.2.1 Sul piano sociologico Gesù non apparteneva al sacerdozio levitico (cf. 7,13s; 8,4). Pertanto egli non sarebbe stato abilitato a compiere alcun atto sacrificale previsto dalla Torah. I temi già esaminati della solidarietà con tutti gli uomini (cf. 2,10-18; 4,15) e dell'appartenenza all'ordinamento di Melchisedeq (cf. cap. 7) vogliono sottolineare in lui rispettivamente l'assenza di ogni dimensione elitaria e l'estraneità alla linea levitica. 4.4.2.2 Cristo non offrì vittime rituali, ma soltanto se stesso. Anticipato in 5,7-8 (in opposizione a 5,1; cf. sopra), il tema viene sviluppato nel cap. 9: v. 12: "Non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue (Sta TOU ìBtou al'{xaxo(;)". v. 14: "Con uno Spirito eterno offrì se stesso (éocuxòv 7cpoor|veYxev) senza macchia a Dio". v. 25: "Non per offrire se stesso (rcpoacpépT] éocuxóv) più volte... con sangue altrui". v. 28: "Così anche Cristo, offertosi (TcpoaevexBei?) una volta sola per togliere i peccati di molti". Va notato in particolare il v. 14, poiché contiene un'affermazione molto densa che comprende i seguenti elementi: (a) l'integrità personale di Gesù (cf. 4,15), contrastante con il fatto che i sacerdoti levitici non potevano offrire se stessi perché peccatori (cf. 7,26)131; 129 Infatti Filone Alessandrino chiama la festa solo tre volte con il nome di iXaatxó?, "espiazione" (cf. Congr. 89.107; Plant. 61; ma qui il termine non è direttamente collegato con il rito del sangue), mentre il più delle volte la designa come ^ a x e i a , "il digiuno" (cf. Decal. 159; Spec. leg. 1,168.186; 2,41.193.194.197.200; Mos. 2,23; Legat. 306) e addirittura alcune volte connette il concetto di espiazione a quello di digiuno (cf. Poster. 48; Leg. alleg. 3,174). Anche nel NT essa viene denominata così in At 27,9. Sull'insieme, cf. G. Deiana, // giorno dell'espiazione, pp. 141-145. 130 La stessa cosa va detta a proposito del fatto che Eb non fa alcuna menzione del cosiddetto "capro emissario", non essendo collegato con il sangue. Sull'insieme, cf. anche N. Casalini, Dal simbolo alla realtà. L'espiazione dall'Antica alla Nuova Alleanza secondo Eb 9,1-14, Franciscan Printing Press, Jerusalem 1989. 131 II presupposto è che nel "sacrificio per il peccato" l'animale offerto dev'essere "senza difetto" (cf. Lv 4,3.14).
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(b) l'impulso dello Spirito Santo: il sacrifico di Gesù non consiste in un mero slancio personale di generosità, ma è avvalorato dall'azione di Dio stesso che gli conferisce una dimensione di eternità132; (e) soprattutto è importante il tema dell'offerta personale: mentre nelTAT il valore del sacrificio proveniva dal sangue versato (cf. Lv 17,11), ora in un certo senso avviene il contrario, in quanto il sangue di Cristo acquista valore dalla sua offerta, che non è cerimoniale ma esistenziale. Quest'ultimo aspetto è ripreso e ampliato in 10,5-10: "5Perciò, entrando nel mondo, dice: Sacrificio e offerta non hai voluto, ma un corpo mi hai preparato; 6 olocausti e sacrifici per il peccato non hai gradito. 1Allora ho detto: Ecco, io vengo (poiché nel rotolo del libro sta scritto di me) per fare, o Dio, la tua volontà (Sai 40,7-9). 8Dopo aver detto prima: Sacrifici e offerte e olocausti e sacrifici per il peccato non hai voluto né gradito, cose tutte che si fanno secondo la Legge, 9 allora aggiunge: Ecco vengo per fare la tua volontà. Abolisce così il primo (culto) per stabilirne un altro, 10e in quella volontà siamo stati santificati mediante l'offerta del corpo di Gesù Cristo una volta per sempre". Il testo del citato Sai 40,7-9 è solo uno dei molti, con cui già nell ' A i Dio esprimeva il suo disgusto per gli sgozzamenti e le cerimonie rituali 133 . Ma proprio questo testo era particolarmente opportuno per il nostro autore. Infatti, nel v. 7 del Salmo va notata la differenza tra l'originale ebraico ("gli orecchi mi hai scavato") e il greco dei LXX qui ripreso: "Un corpo mi hai preparato" 134 . L'accento perciò cade non più sul semplice ascolto ma su di una effettiva donazione. A questo proposito, va notato che le offerte
132 Una improbabile interpretazione trinitaria è suggerita da J.J. McGrath, Through the Eternai Spirit. An Historical Study ofthe Exegesis ofHebrews 9:13-14, Pont. Università Gregoriana, Roma 1961. Da parte sua, invece, A. Vanhoye, Esprit éternel etfeu du sacrifice en He 9,14, Bibl 64 (1983) 263-274, vi vede una connessione con il fuoco perenne dell'altare dei sacrifici, che consuma le vittime offerte (cf. Lv 6,5-6; lEsd 6,23). 133 Cf. anche ISam 15,22; Sai 49,13-15; 50,18s; Is 1,11; Ger 6,20; 7,22; Os 6,6; Am 5,22.25. 134 In più, Eb omette il v. 9b del Salmo ("Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore"), dove si suggerisce che ciò che l'uomo deve fare per piacere a Dio è racchiuso nel rotolo della Torah. Infatti Eb ha un concetto di Legge come realtà imperfetta, se non negativa (cf. 10,1.8.9), poiché essa è del tutto incapace di realizzare una mediazione efficace tra Dio e il suo popolo (vedi A. Vanhoye, L'ombre et l'image. Discussions sur He 10,1, in "Ouvrir les Écritures". Mélanges offerts à Paul Beauchamp, LD 162, Cerf, Paris 1995, pp. 267-282; e soprattutto Id., La Loi dans l'Épitre aux Hébreux, in C. Focant, ed., La Loi dans l'un et l'autre Testament, LD 168, Cerf, Paris 1997, pp. 271-298).
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esteriori vengono tutte escluse (cf. sacrifici, offerte, olocausti, sacrifici per il peccato), e al loro posto subentra l'offerta personale di sé ("ecco, io vengo"). Questa poi è totale, perché è insieme interiore ( = appropriazione della volontà di Dio [cf. 10,7c: "per fare, o Dio, la tua volontà"] da parte della volontà di Gesù [cf. 10,10a: "e in quella volontà noi siamo stati santificati"]) ed esteriore ( = coinvolgimento del "corpo": 10,5b ripreso in 10,10b; cf. Rm 7,4; lPt 2,24) e soprattutto costante, poiché inizia fin dal primo momento dell'esistenza terrena 135 . 4.4.2.3 II sacrificio di Gesù si svolse in un luogo sommamente profano: "fuori della porta" (13,11-12: e£co rr\<;TOJXTK,derivato dal biblico "fuori dell'accampamento"). Questa annotazione ci dà non solo un'informazione biografico-topografica sulla crocifissione di Gesù (cf. anche Gv 19,20: "il luogo era prossimo alla citta") 136 , ma soprattutto una sua interpretazione del tutto a-cultuale. Secondo le regole levitiche, infatti, i cadaveri degli animali immolati nel giorno del Kippùr (il giovenco prima e il capro poi) dovevano essere portati "fuori dell'accampamento" e là bruciati (cf. Lv 16,27); ma la loro immolazione doveva avvenire all'interno dell'area sacra del Tempio e perdipiù con un abbigliamento sacerdotale specifico e solenne (cf. Lv 16,4.7). "Fuori dell'accampamento" dovevano andare solo gli scarti, che non servivano al sacrificio vero e proprio, cioè al rito del sangue137. Tutt'altro che ambito sacrale, e ancor meno che solo laico o profano, quello è piuttosto lo spazio del disonore, dell'ignominia (cf. Eb 12,2) e dell'obbrobrio (cf. Eb 13,13). Proprio questo vuole sottolineare il nostro autore per distanziare ancor di più l'atto sacerdotale del sacrificio di Gesù da ogni ammanto rituale. 4.4.2.4 II sacrificio di Cristo come dono di sé nella morte avvenne "una volta sola/una volta per sempre/una volta per tutte": ècpàTcd; (7,27; 9,12; 10,10), arcai; (9,26.28); altrettanto avvenne con il suo ingresso nel santuario celeste (cf. 9,12). Questa unicità è affermata anche con le espressioni "un solo sacrificio" (10,12: [xia Guata) e "una sola offerta" (10,14: (xtarcpoocpopà).L'affermazione,
135 "L'intera vita di Gesù, cominciando dal suo ingresso nel mondo (10,5) fino alla sua esaltazione (10,12), è un cammino diritto verso il Santo dei Santi" (F.-J. Schierse, Verheissung und Heilsvollendung. Zur theologischen Grundfrage des Hebràerbriefes, Zink, Munchen 1955, p. 57). 136 Per la crocifissione extra portam, cf. Plauto, Miles gloriosus 359s. 137 Si noti che quello era anche lo spazio destinato alla pubblica lapidazione dei bestemmiatori (cf. Lv 24,14), dei violatori del sabato (cf. Nm 15,36), e degli adulteri (cf. Dt 22,24).
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oltre che col fatto naturale che "gli uomini muoiono una sola volt a " (9,27), sta in parallelo col fatto rituale dell'ingresso del Sommo Sacerdote "una sola volta l'anno" nel Santo dei Santi (9,7); ma ha soprattutto una portata polemica contro la molteplicità e la ripetizione anche quotidiana dei sacrifici antichi (cf. 7,27: "ogni giorno"; 9,25; 10,1.3: "ogni anno"; 9,25; 10,11: "molte volte"; 10,1: "continuamente") 138 . In più essa suggerisce l'originale idea che, a differenza del Sommo Sacerdote nel Kippùr, Gesù entrò nel santuario celeste per non uscirne più, perché oltre a offrire il proprio sangue si sedette anche per sempre alla destra della Maestà divina (cf. l,3d). L'affermazione poi ha soprattutto un risvolto soteriologico, per dire che il sacrificio di Gesù è da solo sufficiente per la redenzione o "santificazione" dei credenti (cf. 10,12). La base di questa tesi sull'unicità del sacrificio di Gesù non è altro che l'identità filiale di Gesù, di cui abbiamo già detto sopra. 4.4.2.5 Cristo è entrato a completare il suo ufficio sacerdotale in un Santuario celeste (cf. 4,14; 6,19s; 8,1-2; 9,11-12.24; e anche 6,19; 10,20s). A questo ambito tematico appartengono anche tutti quei passi in cui, facendo ricorso a Sai 110,1, si professa la sessione di Gesù glorificato alla destra di Dio (a partire fin da l,3cd, dove tale sessione è direttamente conseguente alla espletazione della purificazione dei peccati). L'idea di un santuario celeste (attualmente esistente) è tradizionale nel giudaismo139. In esso esercitano il culto a Dio gli angeli (cf. Giub. 31,14; 4QShirShab; Filone Al., Spec. leg. 1,66: "Il più eminente e vero tepóv di Dio è l'universo intero, che ha come vaó? il cielo e come lepet? 138 Poiché in Eb 7,27 e 10,11 si parla di sacrifici compiuti "ogni giorno" (xaQ'i\[iipav), il riferimento non può che essere al sacrificio del tamid (= "perpetuo"), compiuto due volte al giorno (cf. Es 29,38-42; 30,7-8; Nm 28,2-8). Esso però è un olocausto (di due agnelli, uno al mattino e uno al crepuscolo), unito a un'offerta di farina impastata con olio, a una libagione di vino, e a un'offerta d'incenso sull'altare dei profumi; quindi, non essendo un sacrificio basato sul sangue, di conseguenza non ha valore espiatorio ma solo di ringraziamento e di lode. In più esso non è compiuto dal Sommo Sacerdote (ma secondo m. Yom. 1,2 egli compie il sacrifico quotidiano per i sette giorni precedenti il Kippùr e ogni volta che lo vuole) e comunque non per i peccati propri del sacerdote offerente. Tuttavia, poiché anche Filone Al. parla di sacrifici quotidiani del Sommo Sacerdote (cf. Spec. leg. 3,131) e ritiene che l'offerta della farina nel Tamid fosse per gli stessi sacerdoti offerenti (cf. Rer. div. her. 174), è possibile che anche il nostro autore "non fosse del tutto familiare con il rituale del Tempio, ma basasse la sua comprensione delle cose su una sua interpretazione dei sacri testi filtrati da una tradizione esegetica" (H.W. Attridge, p. 214). 139 Cf. H. Braun, pp. 71-74.
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gli angeli"; 2En. 20,1-21,1; Ap 4,5; 8,2), in particolare Raffaele (cf. Tb 12,15), Gabriele (cf. Le 1,19), e Michele (specie nel Talmud). Ai fini dell'interpretazione di Eb è interessante ricordare due casi analoghi alla mediazione di Gesù. L'uno è quello di Elia, identificato con Pinchas, di cui si dice che "sta in piedi e opera l'espiazione fino alla risurrezione dei morti" (SifréNum. 25,13 § 131: Strack-Billerbeck IV, p. 463). L'altro è il Logos filoniano, che come Arcangelo intercede tra l'Immortale e il mortale, assicurando il primo che il mondo non si ribellerà mai e il secondo che Dio non lo abbandonerà mai (cf. Rer. div. her. 205-206). Eb attribuisce a Gesù la stessa funzione esercitata dal Sommo Sacerdote nello Yòm Kippùr quando, dopo aver attraversato lo Hèkal, entra nel Debìr; questo perciò è il modello di riferimento. La differenza, però, è che Gesù entra "non in un Santuario fatto da mani d'uomo, che è solo figura di quello vero, ma nel cielo stesso per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore" (9,24)140. Il testo più importante è quello che si legge in 9,11-12: "Cristo, diventato Sommo Sacerdote dei veri beni, attraverso la tenda più grande e più perfetta (8ià xfjs [xei^ovo? xoù xsXetoxépoc<; ax.r\vr\<;) non fatta da mani d'uomo, cioè non di questa creazione, 12e non con (8ià) sangue di capri e di vitelli ma con il proprio sangue (Sta xoG tSiou al'jxaxoi;), entrò una volta per sempre nel Santuario (di; xà ayia), ottenendo una redenzione eterna"141. Secondo il senso più ovvio, abbiamo qui una descrizione metaforica dell'incedere solenne di Gesù Sommo Sacerdote negli spazi simbolici del Tempio celeste: egli attraversa il Santo ("la tenda") recando il proprio sangue e giunge al Santo dei Santi ("il Santuario") 142 che è la sede di Dio, dove la sua offerta ottiene finalmen-
140 Ciò che si legge in 10,20, dove si parla del "sangue di Gesù, che inaugurò per noi una strada nuova e viva attraverso il velo, che è la sua carne", sembra identificare simbolicamente il velo del Tempio con la carne di Gesù. Poiché le precedenti due menzioni del velo hanno un significato letterale (cf. 9,3), sia pure traslato (cf. 6,19), risulta sorprendente questa identificazione: la spiegazione migliore sarà quella di pensare che secondo Eb l'ingresso al cospetto di Dio non avvenne attraverso un passaggio cultuale ma attraverso la sua concreta offerta di sé mediante il sacrificio del suo corpo (cf. la discussione in H.W. Attridge, pp. 285-287). La metafora quindi non va presa troppo letteralmente. 141 Secondo A. Vanhoye, La structure littéraire, p. 137, questi vv. (e in particolare il nome iniziale "Cristo") stanno addirittura al centro anche materiale di tutta la lettera. 142 Cf. A.P. Salom, « Ta Hagia» in the Epistle to the Hebrews, Andrews University Seminary Studies 5 (1967) 59-70.
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te la redenzione (almeno nel senso che viene accettata da Dio e se ne applicano gli effetti agli uomini). Questa interpretazione è stata contraddetta da due altre proposte ermeneutiche. C'è chi intende la frase (e in particolare la preposizione Sia) in senso modale: con la menzione tanto della Tenda quanto anche del sangue Eb vorrebbe solo indicare il modo con cui Cristo ha svolto la sua mediazione sacerdotale. Perciò si insiste sul fatto che il testo non parla propriamente dell'attraversamento del Tempio ma solo della comparizione del Sommo Sacerdote davanti a Dio 143 . Tuttavia, a parte il fatto che il modo della redenzione è molto più consono con il "sangue" che non con la "tenda" (poiché "entrando" Gesù porta con sé il sangue, non la tenda!), occorre notare che nella Mishnah il trattato Yomà (termine aramaico per indicare il "Giorn o " per eccellenza, cioè quello dell'Espiazione) menziona esplicitamente l'attraversamento del Tempio da parte del Sommo Sacerdote (cf. m. Yom. 5,1: "Egli attraversava il Tempio finché arrivava alle due tende che separavano il Santo e il Santissimo") 144 . Del resto, in Eb 4,14 si parla esplicitamente dell'"attraversamento dei cieli" da parte di Gesù Sommo Sacerdote. Altri invece intendono "la tenda più grande e più perfetta" in senso strettamente cristologico, cioè come una semplice metafora del corpo di Gesù visto come mezzo di accesso a Dio 145 . I motivi addotti possono essere di tre tipi: il valore strumentale della duplice ricorrenza della preposizione Side con il genitivo nel v. 12 (cosicché anche nel v. 11 essa dovrebbe avere valore strumentale ["per mezzo"] e non spaziale ["attraverso"]); il parallelismo con 10,20 (circa l'identificazione del velo con la carne di Cristo); e il confronto con Me 14,58 (dove il corpo di Gesù è presentato come un Tempio non manufatto). 143 Così N. Casalini, Dal simbolo alla realtà, pp. 81-87 (a p. 58 si precisa che l'attraversamento del Tempio era un atto irrilevante nella liturgia del Kippùr). 144 Traduzione di V. Castiglioni. È vero che qui l'attraversamento è menzionato esplicitamente solo a proposito del sacrificio del profumo; a proposito del sangue, invece, si dice soltanto che dopo averlo preso (all'esterno) "rientrava nel luogo dove era già entrato" (ib. 5,3.4), ma si suppone certamente la medesima azione precedente, cioè appunto l'attraversamento. 145 Questa interpretazione può assumere varie sfumature. (1) Il corpo terreno di Gesù; così A. Cody, A Heavenly Sanctuary, pp. 156-165. (2) Il corpo glorificato di Gesù; così A. Vanhoye, "Par la tente plus grande et plus par/aite... " (Hebr 9,11), Bibl 46 (1965) 1-28; Id., Sacerdoti antichi, pp. 150-154. (3) Il corpo eucaristico di Gesù; così J. Swetnam, "The Greater and More Perfect Tent". A Contribution to the Discussion of Hebrews 9,11, Bibl 47 (1966) 91-106. Occorre dire che questa ermeneutica, per quanto mi risulta, non è stata seguita dai commentatori.
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Tuttavia, ci sono altri motivi che inducono a ritenere il senso spaziale della "tenda più grande e più perfetta" 146 . Infatti, a parte che il valore della preposizione può essere determinato dal nome seguente (e la "tenda", a differenza del "sangue", indica appunto uno spazio), tutto il contesto (cf. 9,1-10) tratta dell'opera redentrice di Cristo sulla falsariga della liturgia del Kippùr, dove gli elementi centrali sono il sangue e l'attraversamento del velo da parte del Sommo Sacerdote; nulla invece rimanda al corpo di Cristo. Inoltre, il termine "tenda" in Eb indica altrove (cf. 8,2.5; 9,1.2.3.6.8.21; 13,10) sempre il Tempio come dimora di Dio in terra, quindi non ha mai valore cristologico147. Si aggiunga che in Eb la funzione dinamica di Cristo come iniziatore (cf. 2,10), precursore (cf. 6,20), e costruttore di una nuova strada verso Dio (cf. 10,20), mal si concilia con l'immagine statica di una tenda. In più, sarebbe meglio richiamare come passo parallelo non Me 14,58 ("distruggerò questo Tempio manufatto e in tre giorni ne costruirò un altro non manufatto") quanto invece il discorso di Stefano in At 7,48 ("l'Altissimo non abita in dimore manufatte, come dice il profeta: Il cielo è il mio trono e la terra è lo sgabello dei miei piedi [Is 66, ls]"), tanto più che là nel contesto si parla anche della "tenda" del deserto (At 7,44s)148. Del resto, in Eb 9,24 si afferma che Cristo "non entrò in un Santuario manufatto", distinguendo bene dunque tra ciò che è manufatto ( = il Tempio terreno) e ciò che non lo è (= il Tempio celeste). Infine, si può ben scorgere sullo sfondo di Eb 9,11 l'idea di un Tempio celeste che è superiore a quello terreno in quanto gli serve da modello o typos ed è quindi "quello vero" (8,2). Così si legge in 8,5 che i sacerdoti quaggiù "attendono a un servizio che è una copia e un'ombra (uTCÓBeryna xai axtà) delle realtà celesti, secondo quanto fu detto da Dio a Mosè quando stava per costruire la Tenda: «Guarda, disse, di fare ogni cosa secondo il modello (xoc-rà TÒV XUTCOV) che ti è stato mostrato sul monte» (Es 25,40)" 149 . Ebbene, è in questo Tempio celeste che Cristo 146 Oltre ai Commenti, vedi anche P. Andriessen, Das gròssere und vollkommenere Zelt (Hebr 9,11), BZ 15 (1971) 76-92. 147 È vero che in Eb 9 l'espressione "la prima tenda" ha un doppio significato: mentre in 9,6 si allude alla prima parte del Tempio ( = il Santo, in rapporto alla "seconda Tenda" di 9,7 che è il Santo dei Santi), invece in 9,8 si fa riferimento all'insieme del Tempio terreno come simbolo di quello celeste (cf. 9,9). Vedi A. Cody, Heavenly Liturgy, pp. 146-150. 148 Cf. anche L.D. Hurst, The Epistle, pp. 92-93 e 97. 149 Sullo sfondo c'è l'idea platonica del modello eterno (rcapàSei-ffia) con cui il sommo Artefice costruì l'universo: " È assoluta necessità che questo mondo sia im-
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è penetrato, modello di quello terreno imperfetto, cioè si è presentato (certo come Risorto) direttamente davanti al trono di Dio, non più davanti a una sua ombra-immagine, come invece faceva il Sommo Sacerdote nello Yòm Kippùr. Egli realizzò ciò a cui Giobbe inutilmente aspirava: "Oh, potessi sapere dove trovarlo, potessi arrivare fino al suo trono! Esporrei davanti a lui la mia causa e avrei piene le labbra di ragioni" (Gb 23,3-4). Questo ha fatto Cristo Gesù davanti al trono celeste, dove patrocina la nostra causa (cf. Eb 7,25) con le ragioni del suo stesso sangue, ben più eloquente di quello di Abele (cf. 12,24)!
4.5 Efficacia e permanenza del sacrificio di Cristo Con il suo sacrificio sacerdotale (fatto di solidarietà umana, di totale offerta di sé, di gradimento da parte di Dio) e con il suo ingresso nel Santuario celeste (per offrire il proprio sangue e sedere alla destra di Dio), superando lo schema levitico, Gesù Cristo garantisce la perdurante applicabilità del suo sacrificio. Lo possiamo vedere particolarmente in tre affermazioni150. 4.5.1 In primo luogo c'è l'assicurazione della continua, attuale intercessione di Gesù nel Santuario celeste (cf. 7,25; 9,24), che è cosa relativamente originale151. Nel giudaismo del tempo, infatti, a parte l'intercessione rituale del Sommo Sacerdote, si legge di una intercessione legata all'atto storico della morte dei martiri 152 o di una intercessione espletata in futuro da vari personaggi nel giudimagine di qualche cosa" (Tim. 28c-29b). Si comprende perciò il commento di Filone Al. al testo dell'Esodo citato in Eb 8,5: "Mosè... ebbe una visione spirituale delle idee immateriali corrispondenti agli oggetti materiali da realizzare, e secondo le quali bisognava riprodurre le imitazioni sensibili a partire dall'archetipo originale e dai modelli concettuali... Così la forma del modello (turco? TOGrcapa8ei"f[ia-co<;)fu impressa come un sigillo nello spirito del profeta... La realizzazione fu compiuta in conformità con questa forma" (Vit. Mos. 2,74.76). Vedi anche H.-F. Weiss, pp. 436-437. 150 Esse divergono dalle tre funzioni della liturgia celeste, di cui parla A. Cody, Heavenly Liturgy, pp. 180-202: purificazione del tempio celeste (cf. 9,23), il comparire alla presenza di Dio (cf. 9,24), e l'intercessione in nostro favore (cf. 7,25). Infatti, quanto alla prima il testo non parla del Tempio ma può ben essere inteso nel senso delle coscienze (cf. H.W. Attridge, pp. 261-262); quanto alla seconda, non si tratta di una funzione vera e propria, e in più finisce per risolversi nella terza; questa però si integra con altre, che ora passiamo in rassegna. 151 Cf. R. Le Déaut, Aspects de l'intercession dans le Judaisme ancien, JSJ 1 (1970) 35-57. 152 Cf. 2Mac 7,37-38; 4Mac 6,28-29. Di essi si può anche dire che "stanno ora accanto al trono di Dio e vivono la beata eternità" {4Mac 17,18), ma non che intercedono per gli uomini (cf. anche Ap 7,15; e Test. Job 33,3).
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zio escatologico153. Così pure si legge di un'attuale esistenza celeste di vari personaggi154. Una attuale intercessione celeste in favore di Israele e in generale degli uomini è chiaramente attribuita all'arcangelo Michele155; la superiorità di Gesù rispetto agli angeli è già stata dimostrata dal nostro autore in 1,5 - 2,18 (cf. sopra). Perciò il tema di un'attuale intercessione da parte di Gesù è sostanzialmente originale. Esso d'altronde è stato reso possibile in un'ottica cristiana, perché collegato con la risurrezione di Gesù e in specie con la sua sessione alla destra di Dio, oltre che con la piena solidarietà vissuta da lui con gli uomini (cf. sopra). In definitiva, lo schema che gioca in Eb è quello di un nuovo Sommo Sacerdote che entra nel Santo dei Santi, ma sottintendendo che non vi esce più; in aggiunta va rilevato che Gesù non solo si presenta a Dio, ma sulla base di Sai 110,1 condivide anche ormai il suo trono. È proprio questo che permette all'autore di esortare ad accedere finalmente con piena fiducia al trono della grazia (cf. 4,16)156. 4.5.2 Particolarmente importante è la dichiarazione che si legge in 10,14, secondo cui Gesù Cristo "con una sola offerta (fiiarcpoacpopa)rese perfetti per sempre coloro che vengono santificati (TeteXetwxev de, xò Birivexè? TOÙ<; àyiaCofxévou?)". È l'unica volta che il verbo "perfezionare" in Eb ha Cristo come soggetto. All'autore quindi interessa dire che non solo egli è 153 Così Mosè in Test. Mos. 11,17; 12,6; Enoc in 2En. 64,5. Invece Abramo, Isacco e Giacobbe, in Apoc. Sof. 11,1-4, intercedono per coloro che sono già nei tormenti (cf. anche Test. Abr. 14,5-8). Da parte sua il Figlio dell'Uomo sarà, sì, un "bastone di appoggio" ma solo "dei santi e dei giusti" (lEn. 48,4). 154 Così Enoc (cf. 2En. 24,1: "Il Signore mi chiamò e mi mise alla sua sinistra più vicino di Gabriele e io adorai il Signore"); Mosè (cf. Ezechiele il Tragico, Exagogé 68-89 [in Eusebio, Praep. ev. 9,29,4], dove Mosè stesso racconta di aver visto in sogno Dio in trono: "Con la destra mi fece un cenno e io mi fermai davanti al trono. Mi consegnò lo scettro e sul trono grande disse di sedere. Mi diede anche il regale diadema... e io rimirai tutta la terra rotonda... Poi, spaventato, mi desto dal sonno" [trad. L. Troiani]; e alcuni midrashim tardivi); Davide (cf. b.Chag. 14a). 155 Cf. Dn 12,1; Test. Levi 5,6; Test. Dan 6,2. In lEn. 40,9 egli è detto "misericordioso", ma in 68,4 si dice che "non ebbe successo" (presso Dio). In 4Q491 fr. 11 si legge un supposto "Canto di Michele", in cui egli dice di "essere annoverato tra gli esseri divini" (r. 14), ma non si parla di una intercessione. Più sopra abbiamo ricordato anche Elia e il Logos filoniano; ma il primo è presente solo in testi rabbinici posteriori, e il secondo non è identificato con nessun personaggio storico. 156 Sull'idea del trono nell'antichità in generale, cf. M. Philonenko, ed., Le TrónedeDieu, WUNT 69, Mohr, Tùbingen 1993, dove purtroppo non c'è nessun contributo dedicato a Eb.
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stato perfezionato, come abbiamo visto sopra (cf. 2,10; 5,9; 7,28), ma che proprio in quanto tale egli ora può anche comunicare la sua perfezione e quindi rendere "perfetti" altri. L'uso del verbo greco al perfetto rimarca l'efficacia permanente del sacrificio di Cristo, come d'altronde risulta anche dal bel contrasto tra "una sola offerta" e "per sempre". Il concetto di base è che ora anche i cristiani hanno libero accesso a Dio, come quello che prima era riservato al solo Sommo Sacerdote e che invece Cristo, facendolo proprio, ha reso possibile a tutti. A questa immagine soggiace l'idea che tutti i cristiani sono ormai sacerdoti (anzi, Sommi Sacerdoti!), diventati per analogia a lui «santi, innocenti, senza macchia, separati dai peccatori» (cf. 7,26) perché di lui "partecipi" (3,14). Anche se Eb non tratta esplicitamente il tema del sacerdozio di tutti i credenti157, lo abbiamo qui velatamente ma fermamente adombrato 158 . Il contesto è quello di una presa di distanza dalla Legge levitica e da ciò che essa non poteva offrire: "Essendo infatti la legge un'ombra dei beni futuri e non l'immagine stessa delle cose, non ha il potere di rendere perfetti coloro che si accostano (a Dio) ogni anno offrendo sempre gli stessi sacrifici" (10,1). La conclusione sulla sterilità della Legge è comandata da due presupposti: la continua ripetizione dei sacrifici e la riemergente coscienza dei peccati compiuti. Quest'ultimo aspetto, presente più volte nello scritto (cf. 9,9.14; 10,2-3.22; 13,18)159, evidenzia l'effetto incisivo, profondo e duraturo, della purificazione connessa con l'atto sacrificale di Cristo, il quale secondo Eb toglie addirittura la coscienza del peccato (cf. in specie 9,14)160! Ciò è confermato dalla
157 Esso è presente invece esplicitamente in lPt 2,9; Ap 1,6; 5,10. Ma il tema non si può non intravedere implicitamente presente anche in quei testi dove si parla dellaprosagoghé o libero accesso dei battezzati a Dio (cf. Rm 5,2; Ef 2,18-19; 3,12). 158 Cf. A. Vanhoye, Sacerdoti antichi, pp. 172-173; P. Ellingworth, p. 511. Generalmente questa particolare prospettiva non viene colta dai commentatori (essa infatti è assente da Buchanan, Braun, Weiss, Attridge, Hegermann, Casalini). 159 Vedi G.S. Selby, The Meaning and Function of 'syneidesis' in Hebrews 9 and 10, Restoration Quarterly 28 (1985-86) 145-154. 160 y ec ii invece Filone Alessandrino: "Preghiamo Dio, noi che siamo accusati dalla coscienza dei nostri peccati, perché ci punisca piuttosto di lasciarci liberi. Infatti, se ci lascia liberi farà di noi degli schiavi, non più della sua misericordia bensì della creazione che è senza misericordia; ma se ci castiga, riparerà le nostre mancanze con dolcezza e indulgenza, inviando nel nostro spirito il suo stesso Logos come contestatore e correttore, mediante il quale lo guarirà facendolo arrossire e biasimandolo per gli errori commessi" (Det. pot. ins. 146). Peraltro è curioso notare come lo stesso Filone ritenga che la semplice esposizione delle prescrizioni religiose sul 7° giorno, sul 7° anno, e sul 50° anno, "è sufficiente a rendere perfetti nella virtù i meglio dotati e a rendere più docili i caratteri ribelli e duri" (Spec. leg. 2,39).
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citazione di Ger 31,33-34 sulla nuova alleanza escatologica, interiore e radicale, che prepara la conclusione in Eb 10,18: "Dove c'è il perdono di queste cose, non c'è più bisogno di alcuna offerta per il peccato' '. Quanto al verbo "santificare", esso appartiene quasi esclusivamente al greco biblico161 e rende normalmente l'ebraico qadas, "santificare, consacrare" (luoghi, cose, persone), nel senso di sottrarre all'uso profano (cf. Lv 21,8: "Io il Signore, che vi santifico, sono santo"). Nel NT esso acquista una valenza più personalistica sul piano di una nuova antropologia (cf. ICor 1,2: "resi santi in Cristo Gesù"; 6,11; At 20,32; 26,18). Decisamente anti-cultuale è l'uso nel nostro scritto (cf. Eb 13,12: "Perciò anche Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta"; vedi sopra). Tuttavia c'è un nesso stretto tra questa santificazione e il perfezionamento operato da Gesù: coloro che aderiscono a lui egli li associa alla propria perfezione sacerdotale (cf. 5,9: "reso perfetto, egli divenne per quanti gli obbediscono causa di una salvezza eterna"). È giusto quindi dire che Eb non presenta affatto la morte di Gesù come un atto di soddisfazione e quindi di propiziazione verso un Dio irato, ma piuttosto semmai come un mezzo "per dare soddisfazione all'uomo", cioè per venirgli in aiuto (cf. 2,15) come un amico solidale con lui162. 4.5.3 Un'ultima, sintetica affermazione si legge in 13,8: "Gesù Cristo ieri e oggi, lo stesso anche nei secoli". Essa può valere come compendio di tutto il discorso cristologico precedente. Ma se ne possono dare diverse letture. (1) Potrebbe trattarsi di una semplice ripresa dell'inizio della lettera, dove in 1,10-12 si citava il Sai 101,26-28: "Tu fin dall'inizio, Signore, hai fondato la terra... Ma tu sei lo stesso e i tuoi anni non avranno fine"; ritornano infatti gli stessi concetti di immutabile perennità, che nel Salmo valevano per il Dio d'Israele e in Eb vengono attribuiti a Cristo. Ma in 13,8 spiccano come peculiari le tre suddivisioni del tempo, che possono avere diverse spiegazioni. (2) Una serie di testi antichi celebrano la divinità come immutabile pur nel trascorrere del tempo; in merito, ci sono abbondanti testimonianze tanto pagane163 quanto an161
Cf. O. Procksch, in GLNT I, 298-299. Così opportunamente N. Casalini, Dal simbolo alla realtà, p. 131. In Sofocle, Antig. 456s, lo schema è rivolto verso il passato (si tratta delle "leggi non scritte, divine, che né da oggi né da ieri, ma da sempre sono in vita"). Platone invece, riflettendo sul tempo, scrive: "L'era e il sarà sono forme generate del tempo, che noi inconsapevolmente riferiamo a torto all'essere eterno. Infatti noi diciamo che esso era ed è e sarà, e tuttavia solo lo è gli conviene veramente, 162
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che giudaiche164. È possibile che questo schema costituisca una precomprensione dèi nostro autore. Tuttavia, è bene non fermarsi a esso e leggere Eb 13,8 alla luce della tematica propria della lettera. (3) Perciò, i tre momenti potrebbero essere intesi anche come le tre tappe della storia della salvezza incentrata su Cristo: il passato della rivelazione veterotestamentaria (cf. 1,1), il presente della fede e della vita cristiana (cf. l'"oggi" in 3,7.13.15; 4,7), e il futuro del sabato eterno (cf. 4,9.11 ; 9,28). (4) Infine, i tre momenti potrebbero riferirsi rispettivamente al Gesù terreno (cf. 2,10-18; 5,7-8), all'oggi della sua attuale intercessione alla destra di Dio (cf. 7,25; 8,1-2), e al futuro di questa stessa funzione ritenuta incessante ("sempre"). In questo modo, Eb offre ai suoi lettori la garanzia dell'indefettibile valore del sacrificio di Cristo, i cui effetti salvifici sono sempre disponibili "per coloro che gli obbediscono" (5,9), cioè si rifanno a lui come unica causa di salvezza165. 4.5.4 In definitiva, è su queste basi che si fonda l'invito dell'autore alla fiducia, sviluppato soprattutto nella quarta parte della Lettera (11,1 - 12,13). Qui d'altronde Gesù, oltre al gran numero di testimoni enumerati nel cap. 11, viene proposto egli stesso come
mentre Vera e il sarà si devono dire solo di ciò che è generato nel tempo" (Tim. 37e-38a). In un'epigrafe a Eleusi di età augustea, dedicata ad Aiòn, si legge che egli "è ed era e sarà" (Dittenberger, Syll. 3,1125). Plutarco attesta un'iscrizione sulla statua di Iside in Egitto: "Io sono tutto ciò che è stato e ciò che è e ciò che sarà" (Dels. et Osir. 9 [354C]). Infine in Pausania si legge di un inno a Zeus cantato nel santuario di Dodona: "Zeus era, Zeus è, Zeus sarà" (10,12,5). 164 Vedi già FI. Giuseppe: "Dio è l'inizio e il mezzo e la fine di tutte le cose" (Contro Ap. 2,190). Interessante è poi l'interpretazione rabbinica di Es 3,14 ("Io sono colui che sono"); questo testo viene variamente letto così: "Colui che parlò e il mondo fu, fin dall'inizio, e colui che deve dirgli 'Sii' ed esso sarà" (TgN), "Io sono colui che è e che sarà" (TgJ I), "Io sono colui che sono stato e sono lo stesso ora e nel futuro" (Ex. R.). A proposito di Es 15,3 la Mek. Ex. integra così: "Il Signore... è lui che era in Egitto e che era al mare (rosso). È lui che era nel passato e che sarà nel futuro. È lui che è in questo mondo e che sarà nel mondo a venire, come è detto: 'Ora vedete che io, io sono quello' (Dt 32,39); e dice anche ...: 'Io, il Signore, sono il primo e con gli ultimi sono lo stesso' (Is 41,4)". Il TgJ I a Dt 32,39 dice: "Quando il Memrà" [= la Parola] del Signore sarà rivelato per redimere il suo popolo, dirà a tutte le nazioni: Ora vedete che io sono colui che è e che era e io sono colui che sarà, e non c'è altro Dio fuori di me" (TgJ I). Infine citiamo un bel testo di Gen. R. 81: "Che cos'è la verità ('mt)l Disse R. Laqish: ' (aleph) è la prima delle lettere, m (mem) è la mediana, / (tau) l'ultima. Perché: 'Io sono il primo e io sono l'ultimo; e all'infuori di me non esiste Dio' (Is 44,6)". 165 "Causa di salvezza completa" (amo? aco-cripia? Ttav-ceXod;) è detto il serpente di bronzo di Nm 21,8 da Filone Al., Agric.96; altrove lo stesso Filone dice dell'uomo virtuoso che "non sarà mai causa di male, ma piuttosto dell'acquisizione e del godimento del bene per tutti coloro che gli si sottomettono" (Abr. 261:rcàatv-coi? u7rr)xóoi(;).
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ii testimone supremo della perseveranza nel cammino non solo incerto ma soprattutto faticoso della vita terrena: "Teniamo fisso lo sguardo su Gesù, iniziatore e perfezionatore della fede, il quale, in cambio (àv-u) della gioia che gli stava davanti, sopportò la croce disprezzando l'ignominia e sedette alla destra del trono di Dio" (12,2). Notiamo subito che questo è l'unico passo in tutta la lettera in cui ricorre il termine "croce"; tenendo conto che vi ricorre anche il nome proprio di "Gesù", si vede bene che l'autore ha in mente l'esempio concreto, storico della sofferenza suprema da lui patita. Ma, a differenza di chi vorrebbe scorgere qui un invito a preferire la croce invece della gioia come norma di vita alternativa166, occorre vedere il senso del testo nel fatto che Gesù sostenne la croce in vista della gioia che lo attendeva alla destra di Dio, anche se ciò che sta immediatamente davanti è solo una lotta (cf. 12,l) 167 . In questo senso egli è iniziatore e guida e capo di tutti coloro che sostengono la corsa della fede. Si vede bene pure che la "fede" di cui qui si tratta non è quella cristologica (fede in Cristo) ma, in senso tipicamente ebraico, è la tenacia e la costanza di un totale abbandono a Dio nella prospettiva della realizzazione delle sue promesse escatologiche; quindi si accenna anche implicitamente alla fede di Cristo stesso168. In questo modo l'autore offre anche un fondamento per le esortazioni dettagliate della quinta parte della lettera (12,14 - 13,21)169.
166 Cf. P. Andriessen, Renoncant à la joie qui lui revenait, NRT 107 (1975) 424-438, e anche il commento di W.L. Lane, II, p. 413. 167 Cf. P.-E. Bonnard, La traduction de Hébreux 12,2: "C'est en vue de la joie que Jesus enduro la croix, NRT 97 (1975) 415-423; così in genere anche i Commenti. La preposizione àvxi ha lo stesso significato in 12,26. 168 Vedi particolarmente D. Hamm, Faith in the Epistle to the Hebrews: The Jesus Factor, CBQ 52 (1990) 270-291. Da parte sua, H.-F. Weiss, p. 632, pone questo linguaggio sullo sfondo della tradizione martirologica giudaica e fa riferimento in particolare a 4Mac 17,7.10.12.17. 169 L'esortazione rivolta ai cristiani perché si accostino con fiducia a Dio (npoaipXea6ai:cf. 4,16; 7,25; 10,1.22; 11,6; 12,18.22) si fonda su e corrisponde esattamente all'ingresso celeste di Cristo (àaépxeaGai: cf. 6,19.20; 9,12.24; vedi anche 9,25; e 10,5); essa costituisce "la vera e propria punta di aggancio da parte della cristologia sacerdotale con la parenesi" (F. Laub, Bekenntnis und Auslegung, p. 265).
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5. Conclusione In definitiva, ciò che si realizza per il cristiano nella sua adesione a Cristo-Sacerdote è l'esperienza vissuta della " n u o v a alleanz a " . Da questo punto di vista la lunga citazione di Ger 31,31-34 (LXX 38,31-34) in E b 8,8-12 occupa un posto centrale nella lettera: non solo per la sua collocazione materiale, ma anche per la sua determinante portata cristologico-soteriologica. Va tenuto presente, infatti, che mai altrove, non solo nel N T , ma né nell'AT né nel giudaismo contemporaneo 1 7 0 , l'alleanza viene correlata a un nuovo sacerdozio; comprendiamo allora q u a n t o originale e importante sia la posizione del nostro scritto 1 7 1 . Ora, la citazione di Geremia, che verrà parzialmente ripresa in 10,15-17, non ha solo la funzione negativa di critica dell'alleanza antica, ma ha anche e soprattutto il ruolo positivo di sottolineare la differenza qualitativa tra le due. La nuova infatti, da una parte, è interiore, incisa non più su tavole di pietra m a nel cuore dell'uomo; dall'altra, essa perdona davvero e definitivamente i peccati. Al centro di questa novità, come abbiamo visto, sta fermamente Gesù Cristo, Figlio di Dio e S o m m o Sacerdote. Il suo sacrificio oggettivo e l'influsso che esso esercita sui credenti rendono possibile per sempre l'accesso a Dio e quindi la comunione con lui. Appendice sull'Eucaristia Dato che Eb discorre a lungo del sacrificio e del sacerdozio di Gesù nei termini di ' 'sangue' ' e di ' 'offerta' ', fra gli studiosi della lettera si discute se e fino a che punto sia presente in essa il riferimento all'Eucarestia. Questa, infatti, stante il racconto sinottico della sua istituzione (cf. Me 14,22-25//; vedi anche Gv 6,51), è sempre stata pensata dalla tradizione cristiana con la categoria del sacrificio. Quindi, un nesso tra cristologia ed eucarestia in Eb sembrerebbe a priori non solo opportuno ma necessario 172 . Eppure le posizioni degli Autori variano moltissimo, tanto che si va dall'estremo di definire l'intera lettera come un'omelia sull'eucaristia173 all'altro estre170 La comunità di Qumràn si ritiene la comunità della nuova alleanza (cf. 1QS 1,16-20; 5,7-11; CD 3,12-21), ma, nonostante il suo interesse per il sacerdozio e anche per la liturgia celeste, essa non associa mai i due termini. Cf. H.W. Attridge, p. 220. 171 Vedi in proposito A. Vanhoye, La novità del sacerdozio di Cristo, La civiltà cattolica n. 3541 (3 gennaio 1998), pp. 16-27. 172 Cf. in merito J. Swetnam, Christology and the Eucharist in the Epistle to the Hebrews, Bibl 70 (1989) 74-95. 173 Così N. Hugedé, Le Sacerdoce du Fils. Commentaire de l'épitre aux Hébreux, Fischbacher, Paris 1983, pp. 157, 246.
CONCLUSIONE
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mo o di considerare eventuali cenni ad essa come una polemica contro una concezione sacramentale della fede cristiana 174 o addirittura di negare che la comunità di Eb celebrasse la stessa Eucaristia 175 . Altri Autori si collocano invece su posizioni possibiliste intermedie 176 . Possibili allusioni vengono intraviste nei passi seguenti: 6,4 ("quelli che hanno gustato il dono celeste sono diventati partecipi dello Spirito Santo"); 9,20 ("Mosè asperse il libro e tutto il popolo dicendo: 'Questo è il sangue dell'alleanza che Dio ha stabilito con voi' [Es 24,8]"); 10,29 ("Di quanto maggior castigo pensate che sarà ritenuto degno chi avrà calpestato il Figlio di Dio e ritenuto profano quel sangue dell'alleanza dal quale è stato un giorno santificato...?"); 13,10 ("Noi abbiamo un altare, del quale non hanno alcun diritto di mangiare quelli che sono al servizio della Tenda"). L'ipotesi è sostenuta dal fatto incontrovertibile che i destinatari praticavano l'assemblea comune, dato che l'autore li esorta a "non disertare le nostre riunioni (TT)V èuiauvaycoyriv), come alcuni hanno l'abitudine di fare" (10,25). Tuttavia, rimandando ai commenti per ognuno di questi testi 177 , ci sono almeno due osservazioni generali da rilevare in senso contrario. L'una è che, mentre l'autore fa riferimento con sufficiente chiarezza al battesimo con la menzione dell'acqua purificatrice (cf. 10,22: "accostiamoci... con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura"; cf. lPt 3,21), egli non fa altrettanto con l'eucaristia, visto che mancano del tutto i classici termini eucaristici "pane, vino, cena, mangiare-bere" 178 . L'altra è che di fatto gli eventuali riferimenti eucaristici non hanno comunque valore argomentativo nello sviluppo della cristologia dello scritto; essi infatti non vengono addotti in appoggio all'argomentazione cristologica, né d'altronde ci si serve di questa argomentazione, pur nuova e originale, per spiegare e illuminare la prassi eucaristica della chiesa. 174 Così R. Williamson, The Eucharist and the Epistle to the Hebrews, NTS 21 (1975) 300-312, e H.-F. Weiss, pp. 726-729 ("Exkurs: Das Abendmahl im Hebràerbrief). 175 Così F. Schròger, Der Gottesdienst der Hebràerbriefgemeinde, MTZ 19 (1968) 161-181. 176 Così P. Andriessen, L'Eucharistie dans l'épitre aux Hébreux, NRT 94 (1972) 269-277, e A. Vanhoye, Sacerdoti, p. 180. 177 In particolare, sull'"altare" in 13,10 come semplice metonimia per la morte sacrificale di Gesù, cf. M.E. Isaacs, Hebrews 13.9-16 Revisited, NTS 43 (1997) 268-284. 178 II binomio "cibi-bevande" in 9,10 non solo ricorre al plurale e non solo è costituito da termini generici, ma è anche inserito in un contesto ( = riferimento ai sacrifici del Santuario antico, che non possono rendere perfetto l'offerente, "trattandosi soltanto di cibi e bevande e di varie abluzioni... valide fino al tempo in cui sarebbero state riformate") in cui si tratta di vari atti sacrificali dell'Antico Testamento. Inoltre, interpretare sacramentalmente "cibi e bevande" in rapporto all'eucaristia e le "abluzioni" in rapporto al battesimo perde di vista il fatto che quegli atti vengono giudicati comunque imperfetti (cf. (lóvov, "soltanto"!).
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Evidentemente, pur non potendo assolutamente negare che l'autore conoscesse e celebrasse questo peculiare momento comunitario, egli è interessato a operare una straordinaria concentrazione cristologica così da sottolineare al massimo il valore decisivo dell'iyó.na.% per i cristiani di tutti tempi. Essi conoscono un solo Yòm Kippùr: quello del sacrificio di Cristo sulla croce e della sua glorificazione celeste. Tutta la vita cristiana, compresa l'eucaristia, trae di là la sua ragion d'essere. Ed è per quel sacrificio cruento che i lettori sono invitati piuttosto ad "offrire continuamente a Dio un sacrificium laudis" (13,15; cf. lPt 2,5).
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V
LE REDAZIONI SINOTTICHE
Premesse Dopo i fatti del "terzo giorno", l'interesse della prima comunità cristiana cominciò a concentrarsi sulla passione di Gesù (cf. cap. 1,1) e poi man mano si estese a ciò che egli aveva detto e fatto durante il suo ministero terreno. In base a particolari criteri di scelta, tra cui ci fu certamente il bisogno di rapportare le parole e le azioni di Gesù alla vita attuale delle stesse comunità, si raccolse tutto un materiale narrativo e discorsivo che per un certo tempo venne trasmesso all'interno delle varie comunità cristiane in blocchi separati e soprattutto in forma orale, anche se dobbiamo calcolare l'esistenza di alcuni parziali tentativi di una prima messa per iscritto (cf. sopra: cap. 1,2). In un secondo tempo, questo materiale finì per ricevere anche una redazione scritta globale, anzi più redazioni, delle quali quelle sinottiche sono le più antiche (almeno rispetto al Quarto Vangelo). Certo la datazione esatta dei tre scritti MtMc-Lc non è cosa molto agevole, non solo perché vi mancano indicazioni cronologiche specifiche, ma anche a motivo della loro anonimia e della loro dipendenza da una tradizione multiforme già consolidata. Tuttavia, in base alla critica interna, oltre ad alcune indicazioni dell'antica tradizione post-apostolica, la stesura dei Sinottici può essere compresa grosso modo nel quarto di secolo che sta tra gli anni 60 e la fine degli anni 80 (inizio anni 90)1. 1
Cf. le introduzioni al NT; il tentativo fatto da J.A.T. Robinson, Redating the New Testament, SCM Press, London 1976, di porre tutti gli scritti del NT prima dell'anno 70, è stato criticato (cf. D.M. Smith jr., in DukeDivSchRev 42 [1977] 193-205; J.A. Fitzmyer, in Interpretation 32 [1978] 309-313). Inoltre: I. de la Potterie, ed., De Jesus aux Évangiles. Tradìtion et Rédaction dans les Évangiles Synoptiques, BETL 25, Duculot, Gembloux 1967 (trad. ital., Assisi 1971); G. Segalla, Evangelo e vangeli. Quattro evangelisti, quattro Vangeli, quattro destinatari, Dehoniane, Bologna 1992; V. Fusco e M. Laconi, Introduzione ai Sinottici, in M. Laconi e collab., Vangeli Sinottici e Atti degli Apostoli, Logos 5, Elle Di Ci, Leumann/Torino 1994, pp. 33-192. Per quanto riguarda l'ipotesi concernente il papiro 7Q5, riconosciuto da alcuni come un frammento di Me 6,52-54 degli inizi degli
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Ciò che più importa rilevare, ai nostri fini, è che i tre vangeli, pur essendo sinottici cioè confrontabili insieme, non sono affatto la copia l'uno dell'altro ma divergono da molti punti di vista. Su questo fatto, che fin dal sec. II fu sentito come un problema2, si fondò negli anni '50 del nostro secolo XX la critica redazionale per confutare Va priori della precedente critica morfologica, secondo la quale gli evangelisti non sarebbero stati altro che scialbi trascrittori di ciò che le comunità anonime avrebbero prodotto. Al contrario, andando ben oltre l'analisi isolata e frammentaria delle singole unità letterarie che compongono il materiale evangelico, la "storia della redazione" (Redaktionsgeschichte)3 evidenziò globalmente l'apporto complessivo di ciascun evangelista come vero autore di un'opera unitaria. Di ciascuno di essi risultarono così, doppiamente, il diverso genio letterario e il diverso genio teologico. Si giustifica perciò il fatto che, pur avendo noi già utilizzato settorialmente i Sinottici per ricostruire il ritratto del Gesù terreno (cf. voi. I, cap. I) e per reperire elementi della cristologia della prima comunità palestinese (cf. sopra: cap. I), ora esaminiamo singolarmente ciascuno di essi come opera propria di uno scrittore a sé stante, il quale è ben configurabile, non solo per il suo stile, ma soprattutto per un suo personale modo di vedere e di ritrarre la figura di Gesù. A questo punto si pone la questione di sapere a quale genere letterario appartengano i nostri scritti. Certo essi non sono dei trattati teorici di morale o di teologia, poiché la loro caratteristica specifica è di raccontare. D'altronde però, il loro impianto narrativo li differenzia sicuramente dal romanzo, produzione di consumo o di puro intrattenimento, che, consistendo normalmente in avventure intricatissime di due innamorati, rappresenta l'irruzione del privato nella letteratura narrativa4. Viene invece spontaneo pensare alla biografia. Ma il racconto dei Vangeli, diversamente da anni 50, la critica è per lo più concorde nel rifiutarla: cf. gli interventi in materia raccolti da F. Dalla Vecchia, ed., Ridatare i Vangeli?, GdT 247, Queriniana, Brescia 1997. 2 Cf. R. Penna, Il fatto sinottico e le sue soluzioni. Annotazioni in margine a una nuova Sinossi dei Vangeli, Lateranum 59 (1993) 143-160. 3 Cf. gli studi di G. Bornkamm e W. Trilling per Mt, di W. Marxsen per Me e di H. Conzelmann per Le. 4 Esempio tipico di romanzo è quello di Caritone di Afrodisia, Le avventure di Cherea e Calliroe, composto a cavallo tra sec. I e II, che è anche l'esempio più antico di romanzo completo giunto fino a noi. Vedi in generale L. Canfora, Storia della letteratura greca, Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 575-579.
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quanto avviene negli esempi del genere, prescinde in gran parte dalla preoccupazione di riferire con precisione i dati sia cronologici (cf. per es. Mt 3,1) sia topografici della vicenda narrata, essendo questi ultimi a volte neanche identificabili (per es. in Me 8,10). Si aggiunga che, secondo la distinzione antica, la biografia non va neppure identificata con la storia, in quanto intende sorvolare su tanti particolari e offrire un ritratto tipico del personaggio in oggetto5. Inoltre, il quadro narrativo dei vangeli è sbilanciato a favore di un interesse maggiore dedicato agli ultimi giorni del protagonista, come non avviene né per la sua infanzia (addirittura assente in Me) né per la sua vita di adulto, essendo totalmente taciuto il lungo periodo della vita privata a Nazaret6. In più, va ammesso che il loro livello letterario non è di tipo colto, e ciò li accosta più alla letteratura popolare (Kleinliteratur) che a quella dotta di autore7. Infine, ma non ultimo, il vangelo scritto ha un proprio taglio kerygmatico, che lo differenzia da qualunque biografia, in quanto "racconta una storia del passato, ma che parla al presente, e invita il lettore o l'uditore a coinvolgersi mediante la fede"8. Resta però il fatto che l'insieme dell'esposizione evangelica ruota precisamente intorno al personaggio centrale di Gesù di Nazaret come protagonista indiscusso. Sicché, nonostante tutte le differenze, il genere più prossimo resta appunto la biografia antica, ma quella di tipo ellenistico9, tra cui spicca il genere delle vite dei 5 Vedi Polibio X,24 e Plutarco, Alex. 1 (testi in R. Penna, L'ambiente, pp. 198-199). Cf. A. Momigliano, Lo sviluppo della biografia greca, Einaudi, Torino 1974 (orig. ingl., Harvard 1971). 6 Vedi la celebre definizione già citata di M. Kàhler, Der sogenannte historische Jesus und der geschichtliche, biblische Christus, Leipzig 1892 (21896), riedito a cura di E. Wolf, Kaiser, Mùnchen 1961 (trad. hai., D'Auria, Napoli 1993), p. 60 nota 3: i vangeli sono "una storia della Passione con un'ampia introduzione"! 7 Già E. Norden, La prosa d'arte antica dal VI secolo a.C. alla Rinascenza, Salerno Editrice, Roma 1986 (orig. ted., Stuttgart 1898), poneva "i Vangeli... interamente fuori della letteratura d'arte" (p. 489). La distinzione netta tra Kleinliteratur e Hochliteratur è stata poi formulata apertamente dai padri del metodo storicomorfologico M. Dibelius, K.L. Schmidt, R. Bultmann. 8 G. Segalla, Evangelo e vangeli, p. 20. 9 In proposito, vedi lo studio globale di R.A. Burridge, What are the Gospels? A Comparison with Graeco-Roman Biography, SNTS MS 70, University Press, Cambridge 1992, 21995, che offre anche un utile status quaestionis. L'autore opera un confronto tra i Vangeli e una decina di biografie antiche, suddivise tra le prime produzioni (Isocrate, Evagora; Senofonte, Agesilao; Satiro, Euripide; Nepote, Attico; Filone AL, Afose) e quelle più recenti (Tacito, Agricola; Plutarco, Catone Minore; Svetonio, Vite di XII Cesari; Luciano, Demonatte; Filostrato, Apollonio di Tiana); il confronto viene fatto in base a determinate caratteristiche esterne (estensione, proporzione dei personaggi, uso di fonti) e interne (luoghi, topoi [genealo-
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filosofi10, e comunque non quella rabbinica che di fatto è inesistente11. Tuttavia, tenuto conto che i Vangeli (Sinottici) rappresentano il caso di più "vite" di autori diversi sulla medesima persona, la cosa migliore sarebbe di confrontarli non con un numero X di biografie scritte su altrettanti personaggi, ma con un caso analogo di più biografie, possibilmente contemporanee, scritte su di un medesimo personaggio. Ebbene, il caso più prossimo al nostro è indubbiamente quello di Alessandro Magno, della cui spedizione in Asia abbiamo testimonianza diretta nel racconto di almeno quattro storici suoi compagni (Callistene, Onesicrito, Tolemeo, Aristobulo)12. Ora, la cosa più interessante da osservare, ai nostri fini, è che le loro testimonianze, pur convergendo sui dati di fondo dell'impresa del Macedone, divergono notevolmente sia nel riferire alcuni fatti compiuti da Alessandro, sia nel trasmettere l'immagine globale di lui e della sua impresa. Essa, appunto, per l'uno ha il tono epico di una crociata panellenica e di una guerra di rivincita contro la Persia come tradizionale nemico della Grecia (Callistene), per un altro è l'impresa civilizzatrice di un re-filosofo che introduce presso i barbari le regole della civiltà e della cultura greca per fondere insieme due mondi diversi (Onesicrito), per un già, nascita, infanzia, gesta, virtù, morte e sue conseguenze], stile, tipo di caratterizzazione, ambito sociale e intenzione dell'autore [individuata a sette livelli: encomiastici informative; entertainment value; to preserve memory; didactic; apologetic and polemic]). 10 "Esse sono scritte da filosofi e fanno l'elogio di filosofi. Ora ogni elogio, considerato dal punto di vista del suo autore, è confessione di fede, proclamazione dei suoi propri valori. In tal senso, queste biografie sono dei manifesti. E se il manifesto filosofico non costituisce una formulazione definitiva della dottrina, esso espone comunque il programma in termini essenziali" (R. Goulet, Les vies desphilosophes dans l'antiquité tardive et leurportée mystérique, in F. Bovon, M. van Esbroeck e altri, Les Actes Apocryphes des Apótres. Christianisme et monde paien, Labor et Fides, Genève 1981, pp. 161-219 qui 162). Esempi tipici possono essere, non tanto l'opera enciclopedica Vitae philosophorum di Diogene Laerzio, quanto piuttosto il Mosè di Filone Al. e il Demonatte di Luciano. 11 Cf. P.A. Alexander, Rabbinic Biography and the Biography of Jesus: A Survey of the Evidence, in C.M. Tuckett, ed., Synoptic Studies: The Ampleforth Conferences of 1982 and 1983, JSNTSS 7, JSOT Press, Sheffield 1984, pp. 19-50. Nella letteratura rabbinica l'attenzione si concentra non sulla figura dei singoli maestri, ma sulla loro interpretazione della Torah di cui essi sono posti a servizio (cf. ib., p. 41: "Il centro del giudaismo rabbinico era la Torah; il centro del cristianesimo era la persona di Gesù"). Tutt'al più sono confrontabili singole unità narrative, ma non la forma del Vangelo nel suo insieme, come fanno vedere M. Hilton & G. Marshall, The Gospels and Rabbinic Judaism, SCM Press, London 1988. 12 Vedi il richiamo alla opportunità di un simile confronto in R. Penna, Kerygma e storia alle origini del cristianesimo. Nuove considerazioni su di un annoso problema, Annali di scienze religiose [Milano] 2 (1997) 239-256, e P. Pédech, Historiens compagnons d'Alexandre, Les Belles Lettres, Paris 1984.
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altro ancora si tratta di un'impresa esclusivamente macedone, che ignora la fusione culturale dei popoli e presenta Alessandro come genio militare, sovrano religioso e giustiziere severo (Tolemeo), e per un altro infine si tratta di difendere la memoria del condottiero da tutti gli attacchi dei detrattori di cui nel frattempo era stato fatto oggetto, così da farlo risultare un uomo semplice e virtuoso che mediante prove spossanti va alla scoperta di paesi sconosciuti (Aristobulo). Sicché, in definitiva, non è affatto facile per lo storico ricostruire il vero, originale Alexanderbild. Qui più che mai si verifica il principio, secondo cui la verità (anche quella storica) è accessibile solo mediante la sua interpretazione, anzi mediante una inevitabile pluralità di interpretazioni13. Analogamente Mt-Mc-Lc ci danno altrettante interpretazioni diverse della figura di Gesù; ed è bene che sia così, poiché in questo modo ci si rende umilmente conto sia della parzialità dei nostri approcci a lui, sia della sua inesauribile identità. Del resto, vari studi in materia confermano e insieme esaltano le rispettive diversità14. Aggiungiamo così alla galleria dei ritratti di Gesù altre tre tele. Un'ultima questione ci si pone, alla quale soltanto accenniamo, prima di iniziare l'esame dei singoli Sinottici: da quale di essi dobbiamo cominciare? Nessuno ritiene l'ordine canonico Mt-Mc-Lc corrispondente alla loro successione storica. Una prima soluzione, proposta da Griesbach nel 1777 e oggi seguita da alcuni contemporanei, vede le cose schematicamente così: Mt-Lc-Mc. Ma la grande maggioranza degli studiosi ritiene che, per ragioni tanto letterarie quanto teologiche, Me sia stato il primo vangelo scritto, accan-
13 Cf. L. Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1971, 19914. "Della verità non c'è che interpretazione... E la pluralità dell'interpretazione, lungi dall'essere un difetto o uno svantaggio, è il segno più sicuro della ricchezza del pensiero umano... Il principio fondamentale dell'ermeneutica è appunto che l'unica conoscenza adeguata della verità è l'interpretazione; il che vuol dire che la verità è accessibile e attingibile in molti modi... E c'è interpretazione soltanto quando la verità s'identifica addirittura con la sua formulazione, senza tuttavia confondersi con essa, sì da mantenerne la pluralità" (ib., pp. 53, 57, 81; corsivo originale). 14 Cf. G.M. Styler, Stages in Christology in the Synoptic Gospels, NTS 10 (1964) 398-409; B. Papa, La cristologia dei Sinottici e degli Atti degli Apostoli, Ecumenica Editrice, Roma 1972; J.D. Kingsbury, Jesus Christ in Matthew, Mark, and Lutee, Fortress, Philadelphia 1981; G.N. Stanton, The Gospels and Jesus, University Press, Oxford 1989; R. Schnackenburg, La persona di Gesù Cristo nei quattro vangeli, CTNT Suppl. 4, Paideia, Brescia 1995 (orig. ted., Freiburg i.B. 1993); R.A. Burridge, Four Gospels, One Jesus? A Symbolic Reading, Eerdmans, Grand Rapids 1994.
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to alla fonte Q (teoria delle due fonti), e ritiene questa sequenza: Mc-Mt-Lc15. Ad essa noi ci atteniamo. 1. Il vangelo secondo Marco Occorre subito dire fin dall'inizio, contro i pochi autori contrari, che Me esprime davvero una sua propria concezione cristologica; il fatto che essa non sia facilmente configurabile non significa che non esista16. Per individuarla, non conviene puntare sui titoli dati a Gesù (cioè "Cristo", 'Tiglio di Dio", "Figlio dell'uomo", "re"), come spesso si fa, sia perché essi perlopiù sono già tradizionali, sia perché rivelano prospettive solo parziali17. D'altronde, privilegiare il cosiddetto "segreto messianico" significherebbe voler spiegare obscurum per obscurius, a meno di reinterpretare il lemma nel senso più generale del "mistero di Gesù" (cf. sotto). Il solo modo adeguato per comprendere l'intento cristologico marciano è di giudicare lo scritto nella sua globalità. Ovviamente, anche ogni singolo brano ha una sua propria dimensione cristologica. Ma, se vogliamo parlare di una tipica cristologia marciarla, dobbiamo necessariamente prendere in esame la sua strategia letteraria globale o perlomeno partire da essa. Ciò può essere fatto in due momenti. L'uno consiste nel valutare l'originalità stessa dell'intera composizione rispetto alla pluralità delle varie tradizioni precedenti. Per primo infatti Me organizza un materiale sicuramente tradizionale, 15 In proposito vedi soprattutto P.M. Head, Christology and the synoptic problem. An Argument for Markam priority, SNTS MS 94, University Press, Cambridge 1997, che rinverdisce e rivaluta "l'argomento cristologico" già impiegato fin dal 1700 in favore della priorità di Me: la sua forza si può constatare nell'esame comparato non tanto delle singole pericopi quanto piuttosto nell'uso dei titoli cristologia; ne risulta che Mt compie un chiaro passo in avanti nella cristologia rispetto a Me, mentre non si spiegherebbe che fosse questi a compiere un passo indietro. Inoltre, cf. anche V. Fusco, Introduzione ai Sinottici, pp. 87-98; C.M. Tuckett, Synoptic Problem, in ABD 6, pp. 263-270; e G. Theissen & A. Merz, Der historische Jesus. Ein Lehrbuch, Vandenhoeck, Gòttingen 1996, pp. 41-48. 16 Contro R. Pesch, // vangelo di Marco, II, CTNT II/2, Paideia, Brescia 1982 (orig. ted., Freiburg i.B. 21980), p. 73: "Marco non possiede alcuna concezione cristologica chiaramente autonoma; la cristologia del suo vangelo è determinata essenzialmente da quella delle sue tradizioni". Da parte sua R. Schnackenburg, La persona di Gesù Cristo, p. 114, parla di un'immagine di Gesù non coerente e non unitaria. 17 Contro J.D. Kingsbury, The Christology of Mark's Gospel, Fortress, Philadelphia 1983, pp. 47ss; P.J. Achtemeier, Mark. Gospel of, in ABD 4, pp. 541-557 qui 551-553.
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alla cui trasmissione in forma slegata conferisce appunto una inedita unità18. Egli connette insieme tutta una varietà di elementi: una serie di racconti di miracolo (dall'esorcismo di 1,21-28 fino al fico seccato in 11,20-24), un complesso di parole (non nella forma di Q; cf. le parabole in 4,1-34 e il discorso escatologico in 13), di cui qualcuna esprime anche il valore redentivo della morte di Gesù (cf. 10,45), una serie di controversie (cf. 2,1 - 3,6; 11,27 - 12,37), e un dettagliato racconto della passione (cf. 14-15). Questi blocchi, presi separatamente uno per uno, possono apparire eterogenei nella forma e nel contenuto e suggerire visioni contrastanti della figura di Gesù; così infatti si è comportata la tradizione (vedi per esempio la distanza cristologica tra Q e alcune confessioni di fede testimoniate da Paolo). Se Me li ha uniti, è per trasmettere una determinata immagine di Gesù in quanto comune denominatore di tutto ciò, per dire che Dio è venuto incontro all'uomo nell'insieme della sua attività, della sua morte e della sua risurrezione. Non solo il Gesù taumaturgo, non solo il Gesù maestro, non solo il Gesù profeta o apocalittico, non solo il Gesù sofferente, e non solo il Gesù risorto rende visibile e presente l'intenzione salvifica di Dio, ma tutta intera la sua esistenza terrena (sia pur limitata al ministero pubblico). Non si può negare che in questa operazione e nel suo sforzo di sintesi, c'è un chiaro intento cristologico. Il Gesù di Me combina in unità una serie di aspetti, che la tradizione teneva separati, e da questa operazione emerge un personaggio indubbiamente sfaccettato e ricco di molte virtualità. Un secondo momento, che si innesta sul precedente e lo prolunga, consiste nel valutare l'arte narrativa di Me considerata per se stessa, come fondamento ed espressione di una specifica dimensione cristologica19. L'impianto narrativo globale, infatti, parten18 Cf. E. Schweizer, // vangelo secondo Marco, Nuovo Testamento 1, Paideia, Brescia 1971 (orig. ted., Gòttingen 1967), pp. 406-410; vedi anche W.H. Kelber, Mark and Orai Tradition, Semeia 16 (1979) 7-55. 19 Un qualificato impulso in questo senso è stato dato da R.C. Tannehill, The Gospel o/Mark as Narrative Christology, Semeia 16 (1979) 57-95: è il "plot" della composizione narrativa che rivela la "depth rhetoric" con cui Me trasmette il suo ritratto di Gesù (cf. p. 59: "Noi stessi comprendiamo la nostra stessa vita e la vita degli altri dando loro forma di racconti [by shaping them into stories], e la forma del racconto della nostra vita può essere influenzata da racconti che abbiamo letto o sentito"). Vedi anche J.R. Donahue, Jesus as the Parable o/God in the Gospel o/Mark, Interpr 32 (1978) 369-386; e soprattutto D. Rhoads & D. Michie, Mark as Story. An Introduction to the Narrative of a Gospel, Fortress, Philadelphia 1982; O. Davidsen, The Narrative Jesus. A Semiotic Reading of Mark's Gospel, University Press, Aarhus 1993 (troppo polemico verso l'esegesi storico-critica).
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do dalla predicazione del Battista e culminando nella scoperta del sepolcro vuoto, pur passando attraverso una serie di sommari che lasciano intendere l'omissione di altro abbondante materiale narrativo (cf. 1,32-33.39; 3,7-12; 6,54-56; 10,13-16), rivela alcune caratteristiche non trascurabili e significative, che possiamo percepire a un doppio livello.
1.1 Alcune tecniche letterarie Alcune tecniche letterarie implicano già di per sé una sottintesa valenza cristologica. Facciamo qualche esempio20. (1) Me nel suo racconto, a partire da 1,12, impiega molto spesso il presente storico, che le traduzioni non sempre onorano; anche se a volte è coordinato ad altri tempi verbali (cf. 3,13: lett. " E sale sul monte e chiama quelli che voleva e andarono da lui") e denota carenza nella coordinazione sintattica, tuttavia la sua frequenza (ca. 150 volte [contro le 78 di Mt e le 5 di Le]) ci fa pensare che vi soggiaccia l'intenzione di rendere Gesù presente ai lettori del vangelo, come per dire che ciò che Gesù disse o fece, lo dice e lo fa tuttora per loro: la sua storia passata si riverbera sul presente. (2) L'uso frequentissino dell'avverbio (xoù) eù0u?, "(e) subito" (a partire da 1,10 fino a 15,1: ben 42 volte [contro le 7 di Mt e l'I di Le]), per quanto lo si possa filologicamente spiegare come un semitismo24, imprime al racconto marciano un passo veloce, un dinamismo, quasi un'urgenza motivata dalla presenza irresistibile di Gesù, che spinge comunque a una presa di posizione. (3) Analogamente ciò vale per l'uso di (rip^a(v)xo), "cominciò, cominciarono", come verbo ausiliare (cf. 1,45: "Cominciò a proclamare"; 6,55: "Cominciarono a portargli i malati"), che Me utilizza 26 volte (contro le 9 di Mt e le 19 di Le): anche se grammaticalmente è ridondante, esso nell'insieme suggerisce l'idea di un nuovo inizio contrassegnato appunto dall'azione e dalle parole di Gesù. Sicché l'ineleganza stilistica nasconde probabilmente una interessante lezione cristologica.
20 Cf. V. Taylor, The Gospel according to St. Mark, Macmillan, London 1963 (= 1952), pp. 46, 48, 61s. 21 Cf. l'ebraico v^hinnèh, "ed ecco", che però i LXX traducono con xoù ì8ou (cf. Gn 22,13; Ez 1,4; 8,2.7).
IL VANGELO SECONDO MARCO 1.2 L'insieme
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narrativo
Ma è soprattutto la struttura dell'insieme narrativo che comporta una cristologia massiccia. Già l'originale incipit "Principio del vangelo di Gesù Cristo [Figlio di Dio]" (1,1) concentra l'attenzione senza alcuna sbavatura sulla figura centrale di Gesù, comunque si debba interpretare il greco àpxri, se in senso cronologico ( = Me comincia non con la nascita di Gesù ma con la predicazione di Giovanni, anzi con un testo dell'A.T.!) 22 oppure in senso assoluto come "dato fondamentale, base costante" dell'annuncio riguardante Gesù23. Poi la struttura dello scritto è impostata in modo tale da favorire un approccio sempre rinnovato a Gesù e al suo mistero, a passi successivi di sempre maggiore approfondimento 24 . Le due figure del Battista all'inizio e del "giovane"- angelo alla fine fanno semplicemente da contorno a tutta la trama narrativa, favorendo, rispettivamente, il pronunciamento fuori campo della voce di Dio nel momento del battesimo e la comprensione del sepolcro vuoto come segno del tremendum della risurrezione. Fra questi elementi di prologo e di epilogo si snoda tutto un itinerario di comprensione dell'identità del protagonista, che va dallo stupore interrogante della folla nella sinagoga di Cafarnao (1,27: "Che significa questo?") fino all'esclamazione credente del centurione ai piedi della croce (15,39: "Veramente quest'uomo era figlio di Dio"). Si potrebbe ipotizzare che la confessione del centurione valga come appropriazione credente della definizione iniziale di Gesù, che al Battesimo è dichiarato "figlio diletto" (1,11); ma, poiché questa definizione viene dal cielo, è più omogeneo confrontare fra loro due dichiarazioni 'storiche': appunto, la reazione iniziale della gente a Cafarnao e la confessione del centurione al Calvario. Ebbene, fra questi due estremi esiste un marcato contrasto, che consiste non
22 Oltre a W. Marxsen, L'evangelista Marco, p. 115, cf. i Commenti di V. Taylor, E. Schweizer, J. Gnilka, e R.H. Gundry (di cui cf. i testi citati a p. 31). Solo per estensione arche potrebbe anche riferirsi all'intero racconto e quindi a tutta la vita terrena di Gesù intesa come inizio di un'opera di evangelizzazione, che la chiesa continua tuttora al tempo dei lettori. 23 Cf. R. Pesch, Me, I, p. 142; da parte sua M. Adinolfi, APXH, EYArTEAION, XPI2T02. Note filologiche a Me 1,1, RivBib 43 (1995) 211-224, lo intende nel senso di "rudimenti, i primi elementi, un compendio essenziale". 24 L'interrogativo "Chi è costui?" è ritenuto tipico di Me da P. Mùller, "Wer ist dieser?" Jesus im Markusevangelium, "Biblisch-theologische Studien" 27, Neukirchener, Neukirchen-Vluyn 1995.
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solo nel diverso atteggiamento assunto di volta in volta nei confronti di Gesù, ma soprattutto nel fatto che il primo è occasionato da un prodigioso intervento di potenza (la guarigione di un indemoniato), mentre il secondo è connesso con il momento della suprema impotenza della morte in croce. Il vangelo di Marco è tutto racchiuso in questo intreccio paradossale, in questa dialettica. Da una parte, l'evangelista narra di un Gesù che compie prodigi in favore dell'uomo, i quali suscitano su di lui giudizi favorevoli e aspettative, in cui però egli non si riconosce. Dall'altra, Me richiama l'attenzione su di un Gesù umiliato e sofferente, nel quale egli si riconosce appieno ma che la folla e persino i discepoli vogliono evitare e respingere. Questa dualità sembra avere in Me addirittura un valore strutturante 25 . Infatti, in una prima fase che va fino alla confessione di Pietro a Cesarea di Filippo (cf. 8,27-30), si succedono ripetuti interrogativi su Gesù (cf. 1,27; 2,18; 4,41; 6,2). Essi ottengono risposte divaricanti: da una parte, Gesù viene giudicato in termini assolutamente negativi (cf. 3,21 : " È fuori di sé"; 3,22: "Ha Beelzebul"), mentre dall'altra vengono espressi giudizi assai positivi (cf. 6,14-15: Gesù è identificato con Giovanni redivivo, con Elia, con uno dei profeti) che culminano nella emblematica risposta di Pietro: "Tu sei il Cristo" (8,29). Ma in entrambi i casi non si coglie nel segno ciò che Gesù veramente è. Certo la confessione di Pietro è il massimo che i discepoli abbiano potuto capire e dire di lui; ed è il massimo che anche la folla potesse esprimere a suo riguardo, come si vedrà durante il suo osannato ingresso a Gerusalemme (cf. 11,1 -10). Giudicato da un punto di vista meramente giudaico, ciò è veramente tanto. Tuttavia, Me sa che Gesù non è soddisfatto, e lo fa vedere: sia riferendo il rimprovero di Gesù a Pietro (cf. 8,30), sia facendo iniziare subito dopo una nuova fase di insegnamento da parte di Gesù. Infatti, con 8,31 l'evangelista opera per così dire un giro di boa nella sua presentazione del protagonista, poiché da quel momento egli "cominciò a insegnare loro che il figlio 25 Interessante, perché cristologicamente rilevante, è pure la struttura proposta da B. Standaert, L'évangile selon Marc. Composition et geme littéraire, Stichting Studentenpers, Nijmegen 1978, 21984; Id., // vangelo secondo Marco, Boria, Roma 1984. La sua divisione in tre parti (1,14 - 6,13: esposizione del fatto-Gesù, che suscita l'interrogativo della sua identità; 6,14 - 10,52: Gesù viene identificato e se ne propone la sequela; 11-15: soluzione drammatica della vicenda di Gesù nell'ultima settimana a Gerusalemme) colloca la massima rivelazione della sua triplice identità nella breve sezione 8,27 - 9,13 dove egli è confessato da Pietro come "Cristo", presenta se stesso come "Figlio dell'uomo sofferente", ed è proclamato da Dio sul monte della trasfigurazione come "Figlio di Dio".
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dell'uomo doveva soffrire molto...". D'ora in poi si succedono tre predizioni della passione (cf. 8,31 ; 9,31 ; 10,33-34), che fanno ormai precipitare il racconto verso il dramma finale. Ed è tragicamente sintomatico il fatto che i discepoli stessi, che sono chiamati a stare con Gesù e ai quali egli confida in maniera privilegiata il mistero del regno di Dio (cf. 3,14; 4,11), invece con un crescendo di ottusità e incomprensione, umanamente spiegabilissime26, giungono fino al tradimento di Giuda, al rinnegamento di Pietro, e alla fuga di tutti gli altri (cf. 14,50).
1.3 La dimensione cristologica In tutto ciò è presente una dimensione cristologica: Me sottolinea il fatto che il mistero di Gesù, inopinatamente, sfugge persino ai suoi intimi, come a dire che egli eccede l'umana comprensione. A ciò è connesso un intento missionario e indirettamente ammonitorio, poiché, al contrario, la confessione di fede più alta verrà fatta da un estraneo, un centurione pagano, e proprio ai piedi della croce, da cui i discepoli erano fuggiti (cf. 15,39). È a questo punto che possiamo accennare alla questione del 'segreto messianico'. Secondo l'originale proposta ermeneutica avanzata circa un secolo fa da Wrede27, questa formula vorrebbe dire che, non avendo mai Gesù pensato di essere Messia ed essendo invece questa la convinzione della chiesa post-pasquale, la tradizione pre-marciana e poi Me intenderebbero creare un ponte tra le due cristologie mediante l'introduzione nella storia di Gesù di un divieto concernente la dichiarazione della sua messianicità. Non si può nascondere l'impressione che questa costruzione abbia qualcosa di artificiale. Certo è che Me tematizza la reticenza di Gesù in materia, come si vede dalla ripetuta ingiunzione del silenzio a coloro che hanno percepito la sua identità: soprattutto ai beneficiari di un miracolo (così il lebbroso in 1,40-45; la figlia di Giairo risuscitata in 5,35-43; il sordomuto in 7,31-37; il cieco di Betsaida in 8,22-26), ma anche agli indemoniati (cf. 1,34; 3,1 ls) e ai discepoli (cf. 8,30; 9,9). Ma qual è il senso di questo comportamento di Gesù secondo Me? La spiegazione di Wrede, 26 Cf. 8,32s: reazione di Pietro che si oppone alla prospettiva della passione; 10,28: l'interrogativo rivendicazionista di Pietro; 10,35-40: la richiesta dei figli di Zebedeo (ma vedi già i precedenti rimproveri riportati in 4,40; 6,51-52; 8,17). 27 Cf. W. Wrede, // segreto messianico nei vangeli. Contributo alla comprensione del Vangelo di Marco, Classici Neotestamentari 3, D'Auria, Napoli 19% (orig. ted., Gòttingen 1901), con una introduzione di V. Fusco (pp. 5-50).
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che ha originato una bibliografia enorme 28 , ha ricevuto tali critiche che oggi è ritenuta insostenibile; infatti: (1) in Me 9,9 all'ingiunzione del silenzio viene dato come scadenza l'evento della risurrezione, ma è sorprendente osservare che proprio secondo Me in 16,7-8 riappaiono nelle donne, testimoni del sepolcro vuoto, gli stessi motivi di incomprensione e di timore che si riscontrano in tutto il vangelo 29 ; (2) in effetti, dopo 9,9 e quindi nella seconda parte del vangelo non c'è più nessun segreto da mantenere (anzi, vedi la folla in 11,1-10 e la confessione di Gesù di fronte al Sinedrio in 14,61-62): esso appartiene curiosamente solo alla prima parte, dove c'è la maggior parte dei miracoli; (3) la teoria del segreto messianico fa soltanto parte di un tema più vasto, che riguarda l'incomprensione di Gesù da parte dei discepoli non solo nei confronti della sua messianicità ma anche della sua predicazione e del suo destino di sofferenza; (4) molte sezioni di Me, anche nella prima parte, sono dominate dal tema contrario della pubblicità, come si vede nel blocco delle controversie in 2,1 - 3,6 e nel racconto delle guarigioni dell'indemoniato di Cafarnao (1,23-28), del paralitico (2,1-12), dell'uomo con la mano rattrappita (3,1-6) e di quelle menzionate in qualche sommario (1,32-34; 3,7-12), compiute sotto gli occhi di tutti; (5) alcuni Autori richiamano il fatto che Gesù si sia conformato a un topos proprio del giudaismo, secondo cui il Messia non doveva né rivelarsi né essere rivelato da altri, se non da Dio stesso30; (6) i quattro miracoli suddetti, in occasione dei quali si ingiunge il silenzio, trattano di un lebbroso, di un defunto, di un sordo e di un muto: essi corrispondono semplicemente ai segni messianici indicati in Q ("I ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono" : Le 7,22/Mt 11,4s), ma, se Q ha una cristologia di 'pubblicità messianica' e Me invece preferisce insistere sul 'segreto messianico', significa soltanto che la tecnica marciana è spiegabile a livello reda28 Vedi almeno E. Bickermann, Das Messiasgeheimnis und die Komposition des Markusevangeliums, ZNW 22 (1923) 122-140; G. Ebeling, Das Messiasgeheimnis und die Botschaft des Marcus-Evangelisten, BZNW 19, de Gruyter, Berlin 1939; U. Luz, Das Geheimnismotiv und die markinische Christologie, ZNW 56 (1965) 9-30; G. Minette de Tillesse, Le secret messianique dans l'Évangile de Marc, LD 47, Cerf, Paris 1968; C.M. Tuckett, ed., The Messianic Secret, Issues in Religion and Theology 1, Fortress, Philadelphia 1983; H. Ràisànen, The 'Messianic Secret' in Mark, T.&T. Clark, Edinburgh 1990. 29 Cf. B. Papa, La cristologia, p. 52. 30 Cf. J.C. O'Neill, WhoDid Jesus Think He Was?, BIS 11, Brill, Leiden 1995, pp. 42-54 ("The Hidden Messiah"), con rimandi a lEn 62,6-7; LAB6\,9; 4Esd 13,52 ("Come nessuno può scrutare né sapere quello che sta nel profondo del mare, così nessuno sulla terra potrà vedere il mio servo, o coloro che sono con lui, se non quando verrà questo giorno"); d'altronde, sia il Maestro di Giustizia a Qumràn sia i vari pretendenti di cui parla FI. Giuseppe sia successivamente Bar Kochebah, pur considerando ciascuno la propria missione in termini messianici, furono riservatissimi nell'impiegare titoli messianici per sé. Su questa linea, vedi anche D.E. Aune, TheProblemof the Messianic Secret, NT 11 (1969) 1-31; R. Longenecker, The Messianic Secret in the Light of Recent Discoveries, EvQ 41 (1969) 207-215 qui 213ss.
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zionale senza con ciò voler pregiudicare le cose al livello del Gesù terreno; (7) infine si fa notare che, se la designazione di Gesù come Messia non rimontasse già alla sua coscienza storica, non ci sarebbe alcuna ragione per spiegare l'attribuzione del titolo a lui da parte della chiesa postpasquale, sia perché il titolo non era affatto comune nel giudaismo in quel periodo, sia perché non avrebbe avuto senso alcuno la sua connessione con un crocifisso. Altre spiegazioni perciò sono state avanzate e si possono suddividere in due tronconi 31 . Secondo alcuni, la prassi marciana non va intesa a livello redazionale ma corrisponde semplicemente e interamente al dato gesuano: Gesù voleva evitare ogni pubblicità per non favorire malintesi di tipo politico-nazionalistico, connessi con una certa aspettativa messianica del tempo 32 . Bisogna però riconoscere che la richiesta del silenzio non avviene in tutti i casi (cf. sopra). Secondo altri, invece, bisognerebbe prendere sul serio una operazione redazionale di Me, la quale allora viene interpretata in modi diversi: (1) Me vuole spiegare perché Gesù non ebbe successo e proprio fra i giudei (cf. M. Dibelius, W. Schmithals); (2) il divieto sarebbe solo un espediente di Me finalizzato a sottolineare l'epifania del Figlio di Dio, in modo che la trasgressione del divieto fa risaltare maggiormente l'inarrestabile manifestazione di Gesù (cf. G. Ebeling, W. Marxsen); (3) Me vuole insegnare che essere discepoli di Gesù non significa avere una vita di successo, poiché il segreto è svelato solo a chi segue Gesù sulla via della croce (cf. U. Luz, G. Minette de Tillesse); (4) Me vuole privilegiare il momento della piena rivelazione che è la Pasqua: solo dopo la risurrezione Gesù può essere correttamente inteso dalla fede (cf. G. Strecker, J. Gnilka); (5) Me vuole opporsi alla cristologia difettiva della fonte Q (priva di racconti di miracoli) e respingere la pretesa di quei cristiani che si appellavano a un Gesù terreno connotato da una cristologia bassa: anche prima della Pasqua i discepoli hanno capito chi è Gesù, ma questi proibì loro di divulgarlo (cf. H. Ràisànen). In conclusione, la teoria del segreto messianico in senso stretto va superata, poiché esige come controparte una teoria della rivelazione. In essa infatti si compendiano molti motivi cristologici, come il rifiuto di un'immagine di Cristo "entusiastico", uno sguardo inevitabile sulla via della croce, l'unione di croce-risurrezione come decisivi fattori di salvezza, e la dialettica tra incomprensione e comprensione 33 . 31 32
Vedi il quadro offerto da H. Ràisànen, The 'Messianic Secret', pp. 38-75 e 242-258. Cf. per esempio O. Cullmann, Christologie du Nouveau Testament, Delachaux et Niestlé, Neuchàtel 1958, pp. 107-108; e anche R. Pesch, Me, II, pp. 68-73. 33 Cf. J. Ernst, Das sog. Messiasgeheimnis - kein "Hauptschlùssel" zum Markusevangelium, in J. Hainz, ed., Theologie im Werden. Studien zu den theologischen Konzeptionen im Neuen Testament, Schòningh, Paderborn 1992, pp. 21-56. Giustamente F. Fendler, Studien zum Markusevangelium. Zur Gattung, Chronologie, Messiasgeheimnistheorie und Uberlieferung deszweiten Evangeliums, GTA 49, Vandenhoeck, Gòttingen 1991, p. 146, scrive che con il segreto messianico Me "relativizza ogni rivelazione
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Stante la dialettica, di cui abbiamo detto, non stupisce che gli studiosi discutano quale progetto cristologico essa nasconda. Me infatti dedica circa il 30% del suo materiale al tema dei miracoli, soprattutto in forma di racconti (15), ma anche di sommari (4) e di una discussione (in 3,22-27). Tutto questo materiale, benché si trovi quasi interamente nella prima parte (eccetto 3 racconti)34, dimostrerebbe un peculiare interesse dell'evangelista alla figura di Gesù come inviato di Dio potente e glorioso35. Altri invece hanno pensato che Me abbia accolto tanti miracoli nel suo vangelo solo per combattere la cristologia da essi suggerita, quella cioè di un Gesù irresistibilmente potente, e correggerla con la prospettiva della croce e dell'umiltà che essa comporta36. Entrambe le tesi sono eccessive e parziali, ma entrambe evidenziano elementi interessanti che si integrano a vicenda. Da una parte, bisogna riconoscere che, se i racconti di miracolo avessero solo una valenza anti-cristologica, non si spiegherebbe la loro quantità notevole, sicché è meglio pensare che per Me essi esprimano comunque una parte della rivelazione di Dio e della sua regalità in Gesù; il lettore però viene a sapere che, secondo Me, se questa rivelazione fosse ristretta ai miracoli sarebbe limitata e imperfetta. Infatti, altre considerazioni sembrano andare nel senso di una predilezione per una cristologia della croce: la presenza dei miracoli è preponderante solo nella prima parte; Gesù rifiuta di compiere un particolare segno dal cielo (cf. 8,11-12); eloquenti sono le richieste al discepolo di seguire Gesù nella via della croce e non del successo (cf. 8,34-38; 10,4245)37; l'intero vangelo, che già in 3,6 prospetta sul dramma finale, affrettata dell'essere di Gesù ... ed è in grado così di esporre sul piano della storia la dialettica dogmatica tra il Figlio dell'uomo sofferente e il Figlio di Dio glorioso". 34 I 15 racconti della prima parte, oltre agli eventi celesti nel Battesimo al Giordano (in 1,10-11), si trovano in 1,23-28 (indemoniato di Cafarnao).29-31 (la suocera di Pietro).40-45 (un lebbroso); 2,1-12 (un paralitico); 3,1-5 (una mano rattrappita); 4,35-41 (la tempesta sedata); 5,1-20 (indemoniato di Gerasa).22-24 + 35-42 (la figlia di Giairo).25-34 (l'emorroissa); 6,30-44 (prima moltiplicazione dei pani).48 (cammino sulle acque); 7,24-30 (la figlia della Cananea).31-37 (un sordomuto); 8,1-9 (seconda moltiplicazione).22-26 (il cieco di Betsaida). I 4 sommari sono in 1,32-34; 3,10-11; 6,5; 6,54-56. I 3 racconti della seconda parte, oltre la Trasfigurazione (in 9,2-9), si trovano in 9,14-29 (un fanciullo indemoniato); 10,46-52 (il cieco di Gerico); 11,12-14 + 20-24 (il fico maledetto). 35 Addirittura il commento di R.H. Gundry, Mark. A Commentary on HisApologyfor the Cross, Eerdmans, Grand Rapids 1993, è comandato dalla tesi che Me abbia scritto "una teologia della gloria" (p. 1024), quindi allo scopo non di preservare eventuali cristiani in pericolo di apostatare a motivo della vergogna della croce, ma per convertire dei non-cristiani a dispetto della vergogna della croce (cf. p. 1026). 36 Così L. Schenke, Die Wundererzàhlungen des Markusevangeliums, SBB 5, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1974. 37 Cf. L.H. Hurtado, Following Jesus in the Gospel of Mark - and Beyond, in
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culmina poi nel racconto della passione (cf. 14-15), a cui segue persino il silenzio delle donne circa la sua risurrezione (cf. 16,8)38. Su questa linea dovrebbe essere letto anche il tema della messianicità di Gesù in rapporto con l'ascendenza davidica. Ebbene, dalla redazione dei brani corrispondenti (cf. l'invocazione "figlio di Davide" da parte del cieco Bartimeo in 10,47-48; l'acclamazione durante l'ingresso a Gerusalemme in 11,1-10; la questione del tributo a Cesare in 12,13-17; e la discussione circa la discendenza davidica del Messia in 12,35-37) si rileva che secondo Me Gesù non rivendica alcuna concezione politica e tantomeno trionfalistica della propria identità; egli così non solo rispetta la tradizione gesuana, ma dà anche una lezione a eventuali circoli cristiani della chiesa del suo tempo39. Me dunque propone alla vita della chiesa la figura di Cristo in tutto l'arco del suo vangelo, a partire dal battesimo (che come per Gesù così inizia anche l'esistenza del cristiano) fino alla croce (cf. 8,34: "Se qualcuno vuol venire dietro di me...") e al silenzio circa la risurrezione (il cui mistero continua a sovrastare ciascun cristiano). Anche la relazione dell'ultima cena si colloca in questo ambito di riflessioni, in cui Gesù e la chiesa sono intimamente intrecciati, in quanto l'una nel suo cammino verso il compimento escatologico (cf. 14,25) sperimenta la presenza viva dell'altro40. In parR.N. Longenecker, ed., Patterns of Discipleship in the New Testament, Eerdmans, Grand Rapids 1996, pp. 9-29. 38 Quanto ai due 'miracoli' del Battesimo e della Trasfigurazione, essi non vanno letti solo come epifanie gloriose, ma racchiudono anche allusioni al tema della sofferenza: nel primo caso, la menzione del "figlio diletto" implica un rimando a Isacco, che, benché fosse il figlio amato di Abramo (cf. Gn 22,2), venne destinato ad essere sacrificato; nel secondo caso, la presenza di Mosè e di Elia va spiegata anche per il fatto che essi, come Gesù, furono perseguitati (cf. rispettivamente Es 2,11-22 e IRe 19,1-8). 39 Cf. S.H. Smith, The Function of the Son of David Tradition in Mark's Gospel, NTS 42 (1996) 523-539. 40 Problematica tuttavia è l'interpretazione proposta da A. Vògtle, Das markinische Verstàndnis der Tempelworte, in U. Luz - H. Weder, edd., Die Mitte des Neuen Testaments. Festschrift E. Schweizer, Vandenhoeck, Gòttingen 1983, pp. 362-383 (e condivisa da R. Schnackenburg, La persona di Gesù Cristo, pp. 73-74; ma cf. già F. Flùckiger, in TZ 26 [1970] 395-409 specie 405), secondo cui le parole di Gesù sulla costruzione di un nuovo Tempio non fatto da mani d'uomo (cf. 14,58) andrebbero riferite alla comunità cristiana in quanto sostitutiva della comunità dell'antico Tempio, il cui velo ormai è stato strappato (cf. 15,38). Contro di essa vanno queste constatazioni: l'uso del termine "tempio" invece di "casa" non favorisce l'idea del regno messianico d'Israele come avviene invece in 2Sam 7,16; inoltre, l'uso dell'aggettivo àXXo?, "altro" (invece di «epos), suggerisce l'idea di un tempio dello stesso genere; in più, se Gesù avesse voluto riferirsi alla chiesa, è quasi impossibile che Me potesse caratterizzare le sue parole come una falsa testimonianza (cf. 14,57); infine, la definizione della chiesa come "tempio" sia in Paolo (cf. ICor
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ticolare, colpisce in. Me l'uso frequente della parola eùorpféXiov, "evangelo" (sette volte [contro 4 volte in Mt e mai in Le]; assoluto: 1,15; 8,35; 10,29; 13,10; 14,9; specificato: 1,1.14), a cui si aggiunge l'uso del sinonimo ó Xóyo?, "la parola", nel senso tecnico della predicazione evangelica (in 2,2; 4,14.15bis.l6.17.18.19.20. 33)41. Questo tipo di impiego può essere accostato al linguaggio paolino. Tuttavia, se l'uso del termine è già anteriore a Me, spetta però a Me un doppio primato: di averlo introdotto nella redazione sinottica, e soprattutto di averlo esteso a etichettare l'intero ministero di Gesù. Per lui il vangelo è doppiamente, sia la predicazione di Gesù, sia la predicazione su Gesù. Dunque, la storia stessa di Gesù diventa annuncio; sicché, il vangelo non ha soltanto Gesù come oggetto, poiché "il vangelo è Gesù", tutto intero 42 .
1.4 Titoli cristologia marciarti Su questo sfondo si spiegano anche i titoli cristologici marciani. Per la verità, Me non ha molti titoli originali, poiché li deriva quasi tutti dalla tradizione. Probabilmente fanno eccezione solo un paio di appellativi. Uno è la qualifica di Gesù come "Nazareno", utilizzato quattro volte (cf. 1,24; 10,47; 14,67; 16,6) contro la totale assenza in Mt (che ha due volte il più enigmatico "Nazoreo") e solo due volte in Le (più una volta Nazoreo). Evidentemente Me pone l'accento su una delle fondamentali coordinate dell'incarnazione, cioè il luogo preciso della provenienza geografico-sociale di Gesù; "Nazareno" è il nome della concretezza storica, della normalità quotidiana: egli è nazareno come tanti altri lo erano, anche se i lettori probabilmente non ne conoscevano altri (è assente quindi la sfumatura di celebrità, che traspare da altre designazioni solo apparentemente analoghe come "lo Stagirita, l'Uticense, l'Aquinate ecc."). Un altro appellativo originale sembra essere quello di "sposo" in 2,19-20, dove è Gesù stesso a parlare dei suoi disce-
3,16-17; 6,19; 2Cor 6,16) sia in lPt (2,4-8: "casa"; cf. Ap 3,12) non parla mai di un tempio "non fatto da mani d'uomo", che ha piuttosto una venatura escatologica o comunque celeste (cf. 2Cor 5,1; Eb 9,11) (cf. R.H. Gundry, Mk, pp. 900-901). 41 La frequenza di queste dieci ricorrenze, quasi tutte nella sezione della parabola del seminatore o della semina, contrasta con quella dei passi paralleli in Mt 13,19-23 (dove si riducono a sei) e in Le 8,11-21 (dove si riducono ancora a cinque). 42 Cf. le belle pagine di W. Marxsen, L'evangelista Marco, pp. 110-120, citazione p. 119.
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poli come amici dello sposo, i quali non possono digiunare finché questi è con loro. Certo non si tratta che di una metafora, e forse non è neanche il caso di scorgervi il senso forte di un'allusione al fatto che Dio nell'AT è definito come tale in rapporto a Israele (cf. Is 54,5; 61,10; 62,5). Ma, tenuto conto che nel giudaismo la qualifica di sposo non ha mai una valenza messianica, anche il semplice riferimento alla comune prassi nuziale evoca sentimenti di festosità e di gioia, che qui sono connessi appunto con Gesù. Certo è che dopo Me questa metafora cristologica conoscerà uno sviluppo piuttosto considerevole in rapporto a Gesù43. Certamente originale comunque è il modo con cui Me utilizza soprattutto la qualifica tradizionale di "figlio di Dio". Oltre alla sua presenza già nell'incipit redazionale (dove però è testualmente incerto), esso compare cinque volte e racchiude per così dire l'intero racconto: da una parte la voce di Dio nel battesimo al Giordano (cf. 1,11), dall'altra la confessione del centurione ai piedi della croce (cf. 15,39). Fin dall'inizio, quindi, il lettore sa già che tutto ciò che leggerà nel vangelo riguarda un personaggio che Dio stesso ha dichiarato come figlio proprio, nel quale si compendiano almeno tre caratteristiche derivanti dall'AT: la messianicità, l'amore del Padre, la funzione di servo44. Ma questo titolo, se comincia col richiamare un'idea di forza irresistibile (soprattutto nei confronti di Satana, a partire dalle tentazioni nel deserto, appena accennate, e poi nella guarigione degli indemoniati), come abbiamo visto, viene poi corretto da una inattesa connessione con la passione e la morte, come del resto suggerisce anche la parabola dei vignaioli omicidi (cf. 12,1-11). Evidentemente Me è fedele alla propria impostazione cristologica: nella sua identità profonda, Gesù non corrisponde alle precomprensioni umane; al contrario, bisogna calcolare degli esiti inattesi, che rivelano Gesù nella profondità del suo mistero. Lo si vede bene anche nell'uso del titolo di "figlio dell'uomo" 43 Pre-marciana è soltanto l'allusione di Paolo in 2Cor 11,2, mentre certamente post-marciani e quindi sviluppi ulteriori sono i passi di Mt 22,1-2 (parabola del banchetto di nozze per il figlio di un re); 25,1-13 (parabola delle dieci vergini); Gv 2,29 (dove il Battista si proclama soltanto amico dello sposo; cf. anche Gv 2,1-11); Ef 5,22-33 (rapporto nuziale Cristo-Chiesa); e Ap 19,7; 21,2.9 (le nozze con la Gerusalemme celeste). 44 La dichiarazione celeste, infatti, richiama Sai 2,7 ("Tu sei mio figlio..."; salmo di intronizzazione regale); Gn 22,2 LXX ("Prendi tuo figlio, // diletto [TM: l'unico], quello che ami"); Is 42,1 ("Ecco il mio servo,... in cui mi compiaccio; ho posto il mio spirito su di lui").
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(14 volte): sia all'inizio (cf. 2,10: perdono dei peccati) che alla fine (cf. 14,62: venuta sulle nubi del cielo), l'impiego di questo titolo è connesso con una manifestazione di potenza; tuttavia, a partire da 8,31 esso è collegato con il tema inaudito della sofferenza, che in 10,45 trova la sua espressione migliore e più tipica: "Il figlio dell'uomo è venuto non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti". Qui la mera e tradizionale dimensione apocalittica giudaica è del tutto superata, e la figura del Figlio dell'uomo è ricondotta dalle nubi del cielo fin sulla terra, dove sia il perdono dei peccati sia la cacciata di Satana sono visti come forme di servizio all'uomo. Il lettore di Me viene così a sapere compiutamente di dovere tutta la propria novità a questo Gesù, tanto concreto e terreno e tuttavia anche tanto sorprendente e razionalmente inarrivabile. 2. Il vangelo secondo Matteo Rispetto a Me, la figura di Gesù acquista in Mt dei lineamenti un po' diversi, comunque nuovi45. Certo, il protagonista del racconto è sempre lo stesso; anzi, ancora una volta la cristologia si dipana attraverso un impianto narrativo, che segue un filo sostanzialmente identico46. Tuttavia ci sono delle novità.
45 Sulla specifica cristologia matteana cf. soprattutto J.D. Kingsbury, Matthew: Structure, Christology, Kingdom, Fortress, Philadelphia 1975, pp. 40ss; D. Hill, Son and Servant. An Essay on Matthean Christology, JNTS 6 (1980) 2-16; D.J. Verseput, The Rote andMeaning o/the "Son o/God" Title in Matthew's Gospel, NTS 33 (1987) 532-556; M. Quesnel, Jésus-Christ selon Saint Matthieu. Synthèse théologique, Desclée, Paris 1991; D.C. Allison, The New Moses. A Matthean Typology, T&T Clark, Edinburgh 1993; U. Luz, Die Jesusgeschichte des Matthàus, Neukirchener, Neukirchen-Vluyn 1993; D.D. Kupp, Matthew's Emmanuel. Divine Presence and God's People in the First Gospel, SSNT MS 90, University Press, Cambridge 1996. 46 Non mi addentro nel problema della struttura di Mt, a proposito della quale si fronteggiano soprattutto due soluzioni. L'una insiste sui cinque grandi discorsi, che scandiscono l'intera narrazione (posizione piuttosto comune, che ha preso forma in particolare nella 'teoria pentateucale' di B.W. Bacon, Studies in Matthew, New York 1930). L'altra punta invece sulla frase "Da allora cominciò", che ricorre due volte in 4,17 e 16,21, per dividere l'insieme in sole tre parti (cf. J.D. Kingsbury; così anche il commento di J. Gnilka). Altri Autori invece evidenziano semplicemente la forma mista di alternanza fra discorsi e narrazioni (cf. i commenti di R.H. Gundry, W.D. Davies & D.C. Allison, U. Luz).
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2.1 // materiale evangelico A livello di semplice materiale evangelico, a parte piccoli brani esclusivi sparsi qua e là, occorre notare soprattutto la presenza e quindi l'apporto cristologico proprio di due nuovi blocchi consistenti. (1) L'uno riguarda il cosiddetto 'vangelo dell'infanzia' dei primi due capitoli . Esso comprende la genealogia di Gesù (cf. 1,1 -17) e un insieme di cinque fatti che contornano la sua nascita (cf. 1,18 - 2,23: il concepimento verginale, la nascita a Betlemme con la connessa visita dei Magi, la fuga in Egitto, la strage degli innocenti, e l'insediamento a Nazaret). La totale assenza di questo materiale in Me ci dice che, viceversa, Mt vi annette una particolare importanza: non tanto per estendere una mera curiosità biografica a parte ante così da colmare il vuoto narrativo di Me anteriore alla vita pubblica, quanto piuttosto, come vedremo, per rileggere l'intera vita di Gesù secondo una particolare ottica cristologica. (2) Il secondo blocco nuovo concerne un insieme di parole pronunciate da Gesù (cf. Q). Esse sono comprese soprattutto in cinque grandi discorsi, che intervallano il materiale narrativo secondo uno schema peraltro di difficile ricostruzione: il discorso della montagna, dove Gesù delinea lo statuto del discepolo (cf. 5-7), il discorso missionario, con cui si inviano i discepoli a predicare (cf. 10), il discorso in parabole, che svela la natura del Regno annunciato (cf. 13,1-52), il discorso sulla vita comunitaria, imperniato sul tema dell'accoglienza reciproca (cf. 18), e il discorso escatologico, che proietta la comunità cristiana verso l'orizzonte della consumazione finale (cf. 24-25). Un altro discorso, immediatamente a ridosso di quest'ultimo ma non integrabile in esso, è contenuto nel lungo cap. 23 (che sviluppa ampiamente il breve testo di Me 12,37b-40) e dà corpo a una polemica anti-farisaica dai toni molto duri, la quale in realtà ha di mira i rapporti vissuti dalla chiesa matteana con il giudaismo del suo tempo (cioè quello posteriore al 70 e caratterizzato dal celebre Sinodo di Jamnia o Jabne); essa punta perentoriamente sulla decisività di Gesù per l'identità del suo discepolo. Nell'insieme, comunque, questo particolare interesse per i pronunciamenti di Gesù deve pur significare qualcosa ai fini dell'immagine di Gesù, che Mt vuole trasmettere. 2.2 La strategia narrativa Ma è la strategia narrativa di Mt che, in quanto ingloba anche il materiale suddetto, rivela una cristologia propria. La narrati vita
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matteana è stata particolarmente studiata47; anche se varie acquisizioni in materia si possono applicare ad altri evangelisti, è indubbio che ne risultano conclusioni specifiche. Diamo due esempi, uno di tipo lessicale e uno a livello di intreccio. È già sintomatico confrontare con gli altri Sinottici la particolare frequenza della preposizione npóq, "verso", in alcuni verbi composti: "avvicinarsi" (rcpoaépxeaGou: 52 volte in Mt, contro le 5 di Me e le 10 di Le), "prostrarsi in adorazione" (7tpoaxuv&tv: 13 volte in Mt, contro le due ciascuno di Me e di Le), "portare a, presentare" (7cpoa9épetv: 15 volte in Mt, contro le 3 di Me e le 4 di Le); lo stesso vale, analogamente, per il verbo "seguire" (àxoXouGetv: 25 volte in Mt, contro le 18 di Me e le 17 di Le)48. Questa prassi linguistica ha delle inevitabili ricadute sulla comprensione dell'interesse narrativo proprio dell'autore: secondo Mt, Gesù non è solo il punto focale di tutta la vicenda narrata, ma emana anche una forza centripeta tale da far muovere e attirare a sé i più vari personaggi del racconto (il diavolo, gli angeli, i discepoli, i malati, la folla, i farisei, i sadducei ecc.). Tutto ruota letteralmente attorno a lui. Altro esempio eloquente è offerto dal confronto fra i due estremi dell'intera composizione. A differenza di Me, infatti, lo scritto matteano comincia con la carta d'identità giudaica di Gesù "figlio di Davide, figlio di Abramo" (1,1), e si conclude con il comando del Risorto di andare a predicare e battezzare tutte le genti (cf. 28,19-20). È evidente che Mt concepisce la storia di Gesù in modo aperto, sia a parte ante, presentandola come conclusione di una lunga linea di preparazione, sia a parte post, in quanto punto di partenza di un impegno missionario che mira alla chiesa dei tempi successivi. Le due estremità però sono anche apparentemente in contrasto l'una con l'altra; infatti, mentre all'inizio viene evidenziata al massimo la giudaicità di Gesù, alla fine invece egli viene proiettato su di un orizzonte universalistico e addirittura cosmico
47 La tecnica narrativa di Mt è stata particolarmente studiata da R.A. Edwards, Matthew's Story of Jesus, Fortress, Philadelphia 1985; J.D. Kingsbury, Matthew as Story, Fortress, Philadelphia 1986, 21988; Id., The Rhetoric of Comprehension in the Gospelof Matthew, NTS 41 (1995) 358-377; D. Howell, Matthew's Inclusive Story. A Study in the Narrative Rhetoric of the First Gospel, JSNTSS 42, JSOT Press, Sheffield 1990; J.C. Anderson, Matthew's Narrative Web. Over, and Over, and Over Again, JSNT Suppl. 91, JSOT Press, Sheffield 1994. 48 Su questo insieme cf. R. Morgenthaler, Statistik des neutestamentlichen Wortschatzes, Gotthelf, Zùrich 1958, 41992.
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(cf. 28,18ss), che contrasta anche con l'ingiunzione data prima ai missionari di non andare tra i pagani (cf. 10,5-6)49. Come si vede, si tratta di una cristologia complessa che va considerata nelle sue varie componenti e che viene rivelata dal modo di procedere proprio del narratore. Noi qui di seguito rinunciamo ad analizzare il trattamento redazionale dei classici titoli di Figlio dell'uomo e Figlio di Dio, che non costituiscono il proprium dell'evangelista, il quale li condivide con la tradizione da cui li riceve50. Così tralasciamo di rilevare la portata cristologica della predicazione del Regno di Dio, di cui bisogna pur riconoscere che Mt accentua i dati della tradizione. Tentiamo invece di sintetizzare la cristologia di questo vangelo secondo tre qualifiche principali, che ci offrono lo specifico taglio matteano. Però non le consideriamo per se stesse, ma come esponenti dell'impianto e della tecnica narrativa del vangelo nel quale sono inserite e del quale fanno da esponenti. Utilizzando una distinzione propria della linguistica, le consideriamo non tanto come significante ( = la superficiale evidenza del vocabolo) quanto piuttosto come significato ( = il livello profondo del concetto), sapendo che il secondo supera sempre di gran lunga il primo51. 2.2.1 Gesù come Messia. Letteralmente la qualifica ebraicoaramaica di "Messia", Meaatas, in Mt non esiste52. Come abbiamo visto, la chiesa post-pasquale ha persino trasformato ben presto il suo equivalente greco Christós in un nome proprio. Tuttavia 49
Ritengo con i più che Mt sia stato scritto secondo un'ottica giudeo-cristiana, aperta però a orizzonti universalistici. Vedi in materia le buone pagine di R. Schnackenburg, La persona di Gesù Cristo, pp. 131-138, che risolve la contraddizione esistente fra 10,5-6 e 28,19-20, sia distinguendo i due momenti storico-salvifici diversi (il Gesù terreno e la chiesa post-pasquale), sia richiamando il fatto che già il Gesù terreno tende a infrangere la cornice giudaica e a offrire la salvezza al mondo intero (cf. 2,1-10; 8,10-12). In riferimento alla prospettiva universalistica conclusiva del vangelo, M. Quesnel, Jésus-Christ, p. 198, scrive in termini stimolanti: "Mt fa compiere al lettore un vero itinerario cristologico; percepito all'inizio come il Messia storico d'Israele, Gesù alla fine è identificato come il Figlio unico di Dio in un mondo privo di popolo eletto". Ma in Mt cristologia ed ecclesiologia sono intimamente unite, cosicché non solo Gesù ma anche la chiesa compie le attese d'Israele (cf. W. Trilling, Das wahre Israel, pp. 21-51). 50 In proposito, cf. R. Schnackenburg, La persona di Gesù Cristo, pp. 147-156. Certo il titolo di "Figlio di Dio" è trattato da Mt con un'accentuazione più forte rispetto a Me, se non altro perché vi si leggono due forti autodesignazioni del genere da parte di Gesù stesso: in 11,27 ("Nessuno conosce il Padre se non il Figlio...") e 28,19 ("...battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo"). 51 Cf. F. de Saussure, Corso di linguistica generale, a cura di T. De Mauro, BUL 79, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 84-85. 52 Anzi, in tutto il NT essa è presente solo in Gv 1,41; 4,25.
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bisogna riconoscere che Mt rivela un interesse particolare sul significato titolare di questo nome (che comunque in lui è presente 17 volte, contro le 7 di Me e le 12 di Le). La messianicità di Gesù secondo Mt consiste essenzialmente nel fatto che egli compie le attese di Israele. L'evangelista lo fa vedere in due modi. Innanzitutto, si sottolinea la definizione di Gesù come figlio di Davide, e ciò viene fatto in forme diverse. Addirittura Mt apre il suo scritto offrendo la genealogia di Gesù, la quale ha certamente lo scopo generale di presentarlo per così dire come ebreo di pura razza (cf. "figlio di Abramo": forse anche in quanto compie la promessa della benedizione divina a tutte le genti?), ma insiste ancor più particolarmente sulla sua davidicità richiamandola più volte (cf. 1,1.6.7.17)53. Anche l'episodio narrato in 2,1-10, comunemente noto come "Adorazione dei Magi", dovrebbe essere meglio intitolato "Nascita a Betlemme"; infatti, l'unico testo biblico ivi citato al v. 6 è tratto da Mie 5,1.3 (contaminato con 2Sam 5,2) ed evoca l'origine betlehemita di Davide come re pastore; anche se Mt a proposito del borgo natio di Davide corregge il testo originale (invece di "sei il più piccolo", scrive "non sei affatto il più piccolo"), egli vuole però richiamare il nesso persino topografico con il luogo di origine del grande re israelitico (cf. ISam 16,1-13). Inoltre, Mt impiega più volte il titolo esplicito di "figlio di Davide" (8 volte, contro le due ciascuno di Me e di Le, e mai in Q): 1,1 (redazionale); 9,27 (due ciechi in Galilea); 12,23 (la folla); 15,22 (la donna cananea); 20,30 (due ciechi a Gerico).31 (id.); 21,9 (la folla). 15 (i fanciulli); a questi testi si dovrebbe aggiungere 1,20, detto però dall'angelo a proposito di Giuseppe54. Per quanto l'epiteto abbia delle radici nella Bibbia e nel giudaismo contemporaneo, è interessante notare che, rispetto alla componente politica connessa con Davide e a quella sapienziale connessa con Salomone, nel caso di Gesù Mt evidenzia una terza componente. Infatti, il figlio di Davide matteano è un terapeuta dei mali dell'uomo 53 È interessante l'accostamento fatto da W.D. Davies & D.C. Allison, Mt, I, p. 187, con la periodizzazione della storia in alcune apocalissi giudaiche (Dn 9,24-27; lEn 93,3-30; 91,12-17; 2Bar 67,1-74), dove l'epoca dell'esilio è posta immediatamente prima dell'epoca della redenzione; anche la genealogia di Mt, divisa in tre periodi, pone l'apparizione di Gesù al termine dell'era dell'esilio come compimento escatologico. Vedi anche M. Orsatti, Un saggio di teologia della storia. Esegesi di Mt 1,1-17, SB 55, Paideia, Brescia 1980, pp. 96-97. 54 Diverso invece è il caso della disputa sulla discendenza davidica del Messia in 22,42 (parallelo in Me e Le), dove la qualifica è usata dai Farisei ma è corretta da Gesù, come abbiamo già visto.
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(il titolo è connesso prevalentemente con momenti di guarigione), a cui si collega l'aspetto a-politico e di umiltà, messo bene in luce dalla citazione di Zc 9,9, esclusivamente matteana, nel contesto del solenne ingresso a Gerusalemme (cf. Mt 21,9: "Ecco il tuo re, viene a te mansueto e montato su un'asina...")55. È su questa base che si comprende la discussione polemica sulla vera discendenza del Messia in 22,41-46. In secondo luogo, Mt allude alla messianicità di Gesù riferendo esplicitamente a lui le profezie dell'Antico Testamento. Qui più che mai prende corpo una riflessione tutta personale dell'evangelista sull'importanza della figura di Gesù in rapporto alle attese d'Israele56. Essa si esprime in tutta una serie di formule di compimento, che costellano e accompagnano lo sviluppo narrativo del vangelo57. La loro costruzione più completa suona così: "Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta: '...'", ma si può anche trovare in forma abbreviata: "Allora si adempì ciò che era stato detto dal profeta: '...'", o simili. La formula ricorre ben dodici volte (1,22; 2,15.17.23; 4,14; 8,17; 12,17; 13,14.35; 21,4; 26,56; 27,9; [contro le due volte ciascuno in Me e in Le]); ad esse bisogna aggiungere almeno la frase simile: "Come si potranno compiere le Scritture, secondo cui deve avvenire così?" (26,54), ma anche l'altra ancora più celebre: "Non sono venuto ad abolire, ma a compiere" (5,17). La formula è ripetuta in questi contesti: a proposito di alcune vicende dell'infanzia (cf. Is 7,14; Mie 5,1.3; Os 11,1; Ger 31,15)58, nel trapasso dalla vita 55 Cf. M. Karrer, Der Gesalbte. Die Grundlagen des Christustitels, FRLANT 151, Vandenhoeck, Gòttingen 1991, pp. 281-283. Vedi anche D.C. Duling, The Therapeutic 'Son of David': An Element in Matthew's Christological Apologetic, NTS 24 (1977-78) 392-410; Id., Matthew's Plurisignificant 'Son of David' in Social Science Perspective: Kinship, Kingship, Magic, andMiracle, BTB 22 (1992) 99-116; W.R.G. Loader, Son of David, Blindness, Possession and Duality in Matthew, CBQ 44 (1982) 570-585. 56 È possibile che Mt sviluppi in materia dei tentativi già anteriori a lui, che però si riferivano sostanzialmente soltanto ai fatti della passione o della risurrezione (cf. Me 14,49; 15,28; e ICor 15,3.5: "secondo le Scritture"), ma non all'intero arco della vita di Gesù. Colpisce in particolare l'attenzione prestata ai fatti dell'infanzia (cf. G. Segalla, Una storia annunciata, Queriniana, Brescia 1987). 57 Cf. U. Luz, Das Evangelium nach Matthàus, I, EKK 1/1, Benziger/Neukirchener, Zùrich/Neukirchen 1985, pp. 134-140 ("Exkurs: Die Erfùllungszitate"), con bibliografia; R. Schnackenburg, La persona di Gesù Cristo, pp. 161-171. 58 A proposito di Mt 2,23 ("e venne ad abitare in una città chiamata Nazaret, perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti: Sarà chiamato Nazoreo [NaCcopato?]"), va notato che la mancata citazione di uno specifico testo biblico che parli di Nazaret, e tanto più di un collegamento del Messia con questa città, denota che Mt procede partendo non dalla Bibbia ma dalle vicende storiche di Gesù. In
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privata di Nazaret a quella pubblica di Cafarnao (cf. Is 8,23 - 9,1), a proposito dell'insegnamento normativo (senza citazione: "Non sono venuto ad abolire...") e dell'attività taumaturgica (cf. Is 53,4; 42,1-4), per spiegare la tecnica delle parabole (cf. Is 6,9-10; Sai 78,2), nell'ingresso a Gerusalemme (cf. Zc 9,9), nell'arresto al Getsemani ("le Scritture dei profeti", senza citazione; ma cf. anche 26,31), e alla morte di Giuda (cf. Zc 11,12-13)59. In tutti questi passi si ripete un verbo, che è il perno dell'intera formulazione: 7cXT)pouv, "riempire; compiere, adempiere". Il senso fondamentale è che ora finalmente le lunghe, classiche aspettative messianiche del popolo d'Israele si sono realizzate pienamente in Gesù. Questo significato è certamente inteso anche là dove il verbo non è presente ma si fa riferimento alla Scrittura come testo autorevole e normativo (cf. 2,5; 3,3; 24,15). Si potrà discutere se in questo procedimento matteano sia latente una semplice preoccupazione didattica (infatti abitualmente la formula ha l'apparenza di un commento a ciò che è stato appena narrato) o una sottile intenzione polemica nei confronti del giudaismo del tempo (che globalmente non ha accettato Gesù come Messia). Probabilmente non bisogna escludere nessuna delle due; ma sicuramente è presente soprattutto la tendenza a rileggere cristologicamente la storia e le Scritture d'Israele. Sicché abbiamo qui una cristologia che è strettamente connessa a una nuova concezione della storia della salvezza. Il lettore di Mt deve sapere che ormai in Gesù il piano salvifico di Dio si è compiuto, e questo a dispetto di ogni suo rifiuto 60 .
Lo conferma l'uso abbondante dell'Antico Testamento, che non è limitato alla formula suddetta ma fa costantemente da contrappunto alla narrazione: a proposito di Giovanni (cf. 3,3 = Is 40,3), nelle tentazioni nel deserto (cf. 4,1-11 - Dt 8,3; Sai 91,11-12; Dt 6,16.13), nelle sei antitesi del discorso della montagna (cf. 5,21-48 = Es 20,13.14; Dt 24,1; Es 20,7; Nm 30,3; Is 66,1; 21,24; Lv 19,18), a proposito dei dissensi causati dall'adesione a lui (cf. 10,35 = Mie 7,6), per spiegare "le opere del Cristo" (cf. 11,5 = vari passi isaiani), per dare un giudizio su Giovanni (cf. 11,10 = MI 3,1), per condannare Cafarnao (cf. 11,23 = Is 14,13.15), per spiegare il segno di Giona (cf. 12,40 = Gio 2,1), in polemica con le tradizioni farisaiche (cf. 15,3-9 = Es 20,12; 21,17; Is 29,13), a condanna del divorzio (cf. 19,4-5.7 = Gn 1,27; 2,24; Dt 24,1), come rimando ai comandamenti (cf. 19,18-19), come espressione di gioia della folla di Gerusalemme (cf. 21,9 = Sai 118,25-26), durante l'intervento nel Tempio (cf. 21,13.16 = Is 56,7; Sai 8,3), a conclusione della parabola dei vignaioli omicidi (cf. 21,42 = Sai 118,22-23), nella disputa sulla risurrezione dei morti (cf. 22,24.32 = Dt 25,5; Es 3,6), per esprimere il comandamento più grande (cf. 22,37.39 = Dt 6,5; Lv 19,18), nella disputa sulla discendenza del Messia (cf. 22,44 = Sai 110,1), nel lamento su Gerusalemme (cf. 23,38.39 = Ger 7,14; Sai 118,26), per descrivere le prove escatologiche (cf. 24,15.21.29 = Dn 9,27; 12,1; Am 8,9) e la comparsa del Figlio dell'uomo (cf. 24,30 = Zc 12,10-12; Dn 7,13-14), per spiegare la paga ottenuta da Giuda (cf. 26,15 = Zc 11,12), per predire la fuga dei discepoli (cf. 26,31 = Zc 13,7), per rispondere al Sommo Sacerdote (cf. 26,64 = Dn 7,13; Sai 110,1), sulla bocca della gente ai piedi della croce (cf. 27,43 = Sap 2,18-20), come grido finale prima di morire (cf. 26,46 = Sai 22,2), e come autodefinizione prima della missione conclusiva (cf. 28,18 = cf. Dn 7,14).
particolare, l'originale epiteto riportato viene comunemente spiegato come variazione di due termini ebraici: o nazir, "nazireo" (cf. Nm 6,1 ss), magari scritto secondo la vocalizzazione di qadós, "santo" (in base a una variante di Gdc 13,5 LXX; cf. E. Zuckschwerdt, Nazoraios in Matth. 2,23, TZ 31 [1975] 65-77), oppure nèser, "virgulto" (cf. Is 11,1); altri pensano all'infinito assoluto nasòr, "l'osservare, l'osservante" (dal verbo nàsar, "vegliare, custodire, proteggere; osservare, mantenere, conservare"; cf. M.L. Rigato, "Sarà chiamato Nazoreo"[Mt 2,23], in A. Serra e A. Valentini, edd., / Vangeli dell'infanzia, I, RSB 4 [1992] 129-141). 59 Cf. M. Trimaille, Citations d'accomplissement et architecture de l'Evangile selon S. Matthieu, EB 48 (1990) 47-79; M. Quesnel, Jésus-Christ, pp. 113-163. Sulla forma di testo biblico, non conforme ai LXX, cf. J.-M. van Cangh, La Bible de 60 Matthieu: les citations d'accomplissement, RTL 6 (1975) 205-211. J.-N. Aletti, Mort de Jesus et théorie du récit, RcSR 73 (1985) 147-160, osserva giustamente che in Mt 26,31.54.56 il tema del compimento delle Scritture non è più opera del narratore ma si trova direttamente in bocca a Gesù, attore primario del racconto; evidentemente, ciò contribuisce all'identificazione della cristologia propria del narratore, che attribuisce al protagonista nel momento supremo della sua vita una forte coscienza di ciò che si sta per compiere.
Solo pochi di questi passi sono in comune con Me, mentre molti lo sono con Q. Altri invece sono propri di Mt (così le sei antitesi, l'interpretazione del segno di Giona, l'acclamazione dei fanciulli nel Tempio, la frase sulle tribù della terra che si batteranno il petto alla venuta del Figlio dell'uomo, la spiegazione della paga di Giuda, la reazione della gente ai piedi della croce, e l'autodefinizione finale): uniti a quelli delle formule di compimento, essi costituiscono un materiale considerevole che in ultima analisi ha la sua spiegazione più piena solo nella statura di Gesù e nella decisività della sua vicenda, in cui i testi antichi trovano non solo il loro compimento ma in definitiva anche il loro senso più pieno. 2.2.2 Gesù come Maestro. Mt usa il titolo specifico di "maestro" (sia nella forma greca di BtSàaxaXo? sia in quella ebraica di rabbi)
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non più di quanto lo usi Me. Quindi a livello di puro 'significante' esso non dimostra alcuna originalità. Ma a livello di 'significato' le cose stanno ben diversamente. Una prima originalità in proposito si constata nel modo con cui Mt apre il ministero pubblico di Gesù. Mentre in Me egli si dimostra subito un potente esorcista nella sinagoga di Cafarnao (cf. Me 1,21-28), in Mt invece Gesù comincia con una corposa attività magisteriale in quanto, mediante il lungo discorso della Montagna (cf. Mt 5-7), istruisce subito e solennemente i suoi discepoli e le folle sulle esigenze che devono caratterizzare chi vuole mettersi al suo seguito. La prima immagine che Mt offre di Gesù a livello pubblico non è, dunque, quella di un taumaturgo ma quella di un maestro autorevole61. Una seconda originalità, di segno apparentemente opposto, la constatiamo a livello di persone, che nella trama del racconto impiegano l'appellativo. Infatti, mentre in Me non solo gli estranei ma anche i discepoli si rivolgono a Gesù chiamandolo in questo modo (cf. Me 4,38: "Maestro, non t'importa che moriamo?"; 9,5: "Maestro, è bello per noi essere qui"), Mt invece nei dialoghi diretti si preoccupa, da una parte, di correggere queste allocuzioni con il titolo di "Signore"62, e, dall'altra, di riservare l'epiteto marciano solo a coloro che non sono intimi di Gesù, siano essi indemoniati guariti (cf. Mt 8,19: "Maestro, ti seguirò dovunque vada") o il giovane ricco (cf. 19,16: "Maestro, che devo fare di buono per avere al vita eterna?") oppure anche Giuda (cf. 26,49: "Salve, rabbi!"). 61 H.-D. Betz, The Sermon on the Mount, Hermeneia, Fortress, Philadelphia 1995, pp. 80-81, fa notare l'intenzione redazionale di Mt, che va ben oltre il mero livello gesuano. Infatti, "i discepoli" a cui Gesù rivolge il suo discorso (5,1) non sono soltanto i quattro, di cui è stata narrata poco prima la vocazione (cf. 4,18-22), ma sono tutti coloro ai quali è già stato annunciato "il vangelo del regno" (4,17.23). Il discorso perciò rappresenta già una istruzione per "progrediti". Se poi alla fine si parla di "folle" (7,28-29), ciò significa che la funzione magisteriale di Gesù non è di tipo esoterico, ma anzi svolge una importante funzione nell'attrarre la gente alla chiesa. Evidentemente, come sottolinea J.D. Kingsbury, Reflections on 'the Reader' o/Matthew's Gospel, NTS 34 (1988) 442-460, il lettore ideale a cui l'evangelista si rivolge non è quello contemporaneo ai fatti (lettore primario), ma forse neanche soltanto quello contemporaneo all'evangelista (lettore designato), bensì più in generale quello in cui l'intenzione del testo si trova realizzata (lettore implicito); infatti lo scopo principale dei discorsi in Mt è di legare insieme la vita dei discepoli con la figura di Gesù (cf. Id., Matthew as Story, p. 105). 62 Secondo Mt, dunque, il modo più corretto di rivolgersi a Gesù da parte di un discepolo o di chiunque abbia fiducia in lui è quello di "Signore"; cf. J.D. Kingsbury, The Title 'Kyrios' in Matthew's Gospel, JBL 94 (1975) 246-255.
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In contrasto con questa prassi, però, c'è in Mt (e solo in Mt) un passo importante, in cui Gesù, nell'atto di proibire questo titolo ai suoi discepoli, lo avoca ripetutamente a sé in esclusiva: "Voi non fatevi chiamare 'rabbi'; uno solo infatti è il vostro maestro (StSàCTxaXo?), ma voi siete tutti fratelli; ... uno solo è il vostro maestro (xoc0T]-priTT)s), il Cristo" (23,8.10). Questa designazione di Gesù come maestro, che sembra contraddire quanto dicevamo sopra, si spiega considerando che: (1) il titolo appare in un contesto di polemica contro "gli scribi e i farisei", che "si sono seduti sulla cattedra di Mosè: ...tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini, ...amano anche sentirsi chiamare 'rabbi' dalla gente" (23,2.7)63; Gesù dunque proibisce questo vanaglorioso esibizionismo; (2) il titolo non appartiene a un discorso diretto, ma è proposto da Gesù stesso come propria definizione ed esprime la relazione a cui sono vincolati i suoi discepoli ("vostro maestro"; egli non dice mai né poteva dire "vostro Signore"!)64; (3) la relazione intesa dal titolo è quella tra un docente e dei discenti, e in quanto tale l'appellativo esprime comunque una caratteristica di Gesù, che almeno secondo Mt è fondamentale65. Infatti, nei vari discorsi che scandiscono il racconto evangelico (cf. sopra), il Gesù matteano si presenta più che mai come un maestro, che ha delle parole decisive da dire alla sua comunità; e la comunità matteana ha evidentemente bisogno degli insegnamenti di Gesù. Qui più che mai vale l'affermazione di Gesù-Maestro: "Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno" (24,35//). Se è vero che questo loghion appartiene alla triplice tradizione, va però riconosciuto che Mt si diversifica sia da Me, che neppure ha la maggior parte dei discorsi suddetti, sia anche da Le, che non presenta le parole di Gesù nella forma sistematica propria 63
II riferimento non è all'ambiente gesuano ma a quello contemporaneo della redazione di Mt; solo dopo il 70 infatti i Farisei o comunque i Rabbini si insediarono "sulla cattedra di Mosè", adottando una posizione determinante nell'interpretazione normativa della legge mosaica. Cf. J. Gnilka, Mt, II, pp. 402-403; in particolare G. Stemberger, // giudaismo classico. Cultura e storia del tempo rabbinico (dal 70 al 1040), Città Nuova, Roma 1991 (orig. ted., Munchen 1979), specie pp. 98-110; e più in generale J. Neusner, // Giudaismo nella testimonianza della Mishnah, Dehoniane, Bologna 1995 (orig. ingl., Chicago 1981, 21988). 64 Può essere istruttivo ricordare che dai rabbini Mosè viene abitualmente qualificato come rabbènù, "nostro maestro". 65 Al limite si potrebbe anche sostenere l'autenticità gesuana del detto, come fa R. Riesner, Jesus als Lehrer. Eine Untersuchung zum Ursprung der EvangelienUberlieferung, WUNT 2.7, Mohr, Tùbingen 1981, pp. 259-264; ma, poiché esso è esclusivo di Mt, a noi qui interessa la sua dimensione redazionale.
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di Mt. In più, la pericope sul valore della Legge (5,17-20) e le successive antitesi in 5,21-45, che reinterpretano la Legge con quell'autorevole "Ma io vi dico", sono in gran parte esclusive di Mt e, insieme alle istruzioni contenute soprattutto nei capitoli 18 e 23 (ma cf. anche 10 e 24-25), denotano il particolarissimo interesse dell'evangelista per la dimensione magisteriale di Gesù66. Della Legge egli appare qui come l'interprete escatologico. Si potrebbe forse scorgere un parallelo di questa funzione nella figura qumranica del "Maestro di Giustizia", in quanto questi è considerato anche come "intreprete della Legge". Infatti, commentando Nm 21,18 ("Pozzo che scavarono i principi, che resero più profondo i nobili del popolo col bastone"), CD 6,4-11 precisa che "il pozzo è la legge" e che "il bastone è l'interprete della legge (dórès hattòràh)... fino a che sorga colui che insegna la giustizia alla fine dei tempi"; altrove si parla di "tutti quelli che si serbano saldi in queste norme... e prestano orecchio alla voce del Maestro di Giustizia, e non rifiutano le norme sante quando le odono; essi gioiranno e si rallegreranno e il loro cuore sarà forte, e domineranno su tutti i figli del mondo" (CD 20,27-34; cf. 1QS 9,9-11). Inoltre, nelpesher lQpAb 7,4-5 il testo profetico (concernente la visione di cui si parla in Ab 2,2: "Perché la si legga speditamente") è commentato così: "La sua interpretazione si riferisce al Maestro di Giustizia, a cui Dio ha fatto conoscere tutti i misteri delle parole dei suoi servi i profeti". Proprio perché a Qumràn il Maestro di Giustizia è considerato un interprete ispirato, la fede in lui (cf. lQpAb 8,2-3) non riguarda tanto una sua inesistente funzione salvifica, quanto l'esattezza del suo insegnamento, che darà la salvezza solo se sarà seguito. Sullo sfondo abbiamo l'esempio di Mosè, a cui il Signore dice: "...perché il popolo senta quando io parlerò con te e credano sempre anche a te" (Es 19,9). È difficile non scorgere un'analogia tra questi testi e le parole di Gesù, per esempio quando rimprovera coloro che si accontentano dell'invocazione "Signore, Signore" ma non compiono nella vita la volontà di Dio (cf. 7,21). Anche la richiesta di una "giustizia maggiore di quella degli scribi e dei farisei" (5,20) va in questo senso: certo Gesù esige dai suoi discepoli misericordia, povertà nello spirito, umiltà, disponibilità alla sofferenza, e un cambiamento interiore che li porti ad essere come i bambini. Ma tutto questo è proposto nella linea della Legge, a cui Gesù non si proclama mai 66 G. Bornkamm, Uberlieferung und Auslegung, p. 32, scorgeva qui, forse un po' iperbolicamente, "la cristologia propriamente matteana".
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superiore, mentre dice di esserlo nei confronti del Tempio (cf. 12,6), di Giona (cf. 12,41), di Salomone (cf. 12,42), e indirettamente persino di Davide (cf. 22,41-45). Si pone perciò la questione di sapere fino a che punto, semmai, Gesù venga visto da Mt come un nuovo Mosè, e quindi con la caratteristica di un nuovo legislatore, secondo una tipologia più volte riproposta 67 . Certo bisogna escludere alcuni estremismi incompatibili con il nostro vangelo, quasi che Mt volesse semplicemente scrivere la sua opera come un nuovo pentateuco 68 . Però lo studio di Allison, oltre a elencare tutta una serie di figure tanto giudaiche quanto cristiane che sono state storicamente assimilate a Mosè69, analizza dettagliatamente il vangelo per mettere in luce i molti innegabili agganci tra la storia di Gesù e quella del grande legislatore d'Israele 70 . Per cominciare con Mt 1-2, non si può fare a meno di convincersi che nei racconti dell'infanzia di Gesù è presente in filigrana la storia di Mosè, documentata non solo dalla Bibbia ma anche da varie tradizioni giudaiche extrabibliche. Il parallelismo dipende non tanto dalla citazione di Os 11,1 in Mt 2,15 ("Dall'Egitto ho chiamato mio figlio"), che comunque collega esplicitamente il racconto matteano con l'antico evento dell'esodo, quanto piuttosto da una serie di altre osservazioni. Si vedano infatti: l'annuncio 67 Dopo il già citato B.W. Bacon, cf. ora soprattutto D.C. Allison, Jr., The New Moses. A Matthean Typology, T&T Clark, Edinburgh 1993. Un tentativo di collocare il Gesù matteano all'interno della tradizione rabbinica da Esdra alla Mishnah è proposto da P. Sigal, The Halak'ah of Jesus of Nazareth according to the Gospel of Matthew, University Press of America, Lanham-New York 1986, ma il trattamento delle fonti non è sufficientemente critico. 68 Ciò vale non solo per il supposto calco dei cinque discorsi sui cinque libri del Pentateuco (cf. Bacon), ma anche per la proposta di scorgere tra le "beatitudini" di 5,1-12 e i "guai" del cap. 23 un rapporto corrispondente alle benedizioni e alle maledizioni di Dt 27-28 (cf. R. Le Déaut, La Nuit Pascale, Ab 22, PIB, Rome 1963, pp. 314-315), oltre che vedere in 23,2.8-10 la pretesa di Gesù di sedere lui solo sulla cattedra di Mosè (cf. D.E. Garland, The Intention of Matthew 23, NT Suppl. 52, Brill, Leiden 1979, pp. 60-61). Addirittura H.M. Teeple, The Mosaic EschatologicalProphet, SBL MS 10, Society of Biblical Literature, Philadelphia 1957, pp. 94-97, giunse a sostenere che, mentre Paolo-Gv-Eb ci offrono un Gesù superiore a Mosè, Mt invece vuole tratteggiare un Gesù del tutto uguale a lui! In tutti questi casi si tratta di palesi forzature. 69 Cf. D.C. Allison, The New Moses, pp. 9-134; se non sorprende, per esempio, che Esdra sia stato accostato a Mosè in 4Esd (oltre che in t.Sanh. 4,7), meraviglia invece che persino Paolo nel secolo VI sia stato definito un "nuovo Mosè" da 70Eustrazio di Costantinopoli (cf. ib., rispettivamente pp. 62-65 e 109)! Cf. ib., pp. 135-270. Bisognerebbe però non estendere l'analisi al materiale della triplice tradizione, ma attenersi soltanto a quei passi evangelici che sono propri di Mt.
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dell'angelo in sogno a Giuseppe angosciato, prima della nascita di Gesù (cf. l'apparizione di Dio stesso in sogno ad Amram, angosciato padre di Mosè, prima della sua nascita: FI. Giuseppe, Ant., 2,210-216); l'ordine di Erode di uccidere i bambini (cf. l'ordine del Faraone di uccidere i primogeniti degli ebrei: Es 1), motivato dalla paura di un nuovo liberatore d'Israele (cf. il sogno del Faraone su di un usurpatore ebreo: FI. Giuseppe, Ant. 2,206; Targum Ps.-Jon. a Es 1,15), con la conseguente consultazione degli scribi del popolo (cf. la consultazione del Faraone con i maghi e i loro capi Jannes e Jambres: ib.)\ i Magi vedono la stella come segno della nascita di un salvatore (cf. gli innominati astrologi che prevedono un liberatore d'Israele: Ex.R. 1,22; b.Sanh. lOla; inoltre b.Meg. 14a dice che quando Mosè nacque tutta la casa si riempì di luce); Gesù fugge dal suo paese (cf. Mosè che fugge a Madian: Es 2,15); dopo la morte di Erode, Giuseppe riceve l'ordine di tornare nel suo paese (cf. l'ordine a Mosè di tornare in Egitto dopo la morte del Faraone: Es 4,19, "poiché sono morti quanti insidiavano la tua vita" [ = Mt 2,20]); Giuseppe prende il figlio e la moglie e torna in Israele (cf. Mosè che prende i figli e la moglie e torna in Egitto: Es 4,20). Gli accostamenti a Mosè continuano nel racconto delle tentazioni nel deserto (fonte Q). Le molte citazioni bibliche rimandano comunque alla storia dell'esodo. Ma in particolare, il digiuno per "quaranta giorni e quaranta notti" richiama non tanto la permanenza di Israele nel deserto, quanto piuttosto quella di Mosè sul Sinai (cf. Es 24,18; Dt 9,9), e lo sguardo su tutti i regni della terra da un monte alto evoca quello di Mosè sulla terra promessa dal monte Nebo (cf. Dt 34,1-4). Il discorso della Montagna, da parte sua (si noti che il parallelo lucano è un discorso 'del piano': Le 6,17!), evoca inevitabilmente e in forma massiccia Mosè sul monte Sinai. Ciò è piuttosto evidente nel fatto che Gesù "sale" sul monte (cf. Es 19,3.12.13; 24,12.13.18), vi "si siede" (cf. il tema del trono di Mosè sul Sinai nel giudaismo), e dà istruzioni ai discepoli, sia riaffermando il valore impreteribile della Legge (cf. Mt 5,17-20), sia anche reinterpretandola autorevolmente in termini nuovi (cf. le antitesi di Mt 5,21-48, che iniziano con la formula solenne: "Avete udito che fu detto... Ma io vi dico..."). Pure la doppia immagine conclusiva, che pone in contrasto le costruzioni del saggio e dello stolto, rispettivamente sulla roccia e sulla sabbia, richiama l'antitesi tra la vita e la perdizione, presente in Dt 30,15-20 LXX71.
71 Circa la distanza che separa Mt da Paolo sul tema della Legge, cf. G. Barbaglio, Paolo e Matteo: due termini a confronto, RSB 1 (1987, 2) 3-22.
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Anche alcuni miracoli di Gesù richiamano l'operato di Mosè. Così la moltiplicazione dei pani rimanda naturalmente alla manna nel deserto (cf. Mt 14,13-21 con Es 16,1-10); lo stesso si dica della guarigione di un lebbroso (cf. Mt 8,1-4 con Nm 12,10-16); inoltre, una tradizione extrabiblica riferisce che Mosè risuscitò anche dei morti (cf. Artapano in Clemente Al., Strom. 1,23,154,3)72. Come si vede, gli elementi maggiori della tipologia sono presenti in Mt soprattutto nei racconti dell'infanzia e nel discorso della Montagna (pur dovendo tener presente che nella tradizione giudaica Mosè era considerato non soltanto come legislatore, ma anche come profeta e come taumaturgo). Essi tuttavia sono elementi sufficienti per ritenere che il Gesù matteano è rivestito del mantello di Mosè. Ciò non significa che per Mt Gesù sia un semplice imitatore di Mosè. Al contrario, egli è superiore a lui. Ma il rimando a Mosè permette a Mt, da una parte, di proporre più facilmente la figura di Gesù alla comprensione dei suoi lettori giudeo-cristiani, e, dall'altra, di introdurre con più verosimiglianza l'idea della sua superiorità su Mosè, il quale in definitiva riveste solo la funzione di un precursore. Infatti Mt ha qualcosa da dire su Gesù che va ben oltre questa tipologia. 2.2.3 Gesù come Emmanuele. Solo Mt tra gli scrittori del NT evoca esplicitamente il nome simbolico attribuito da Is 7,14; 8,8.10 (TM cimmanù 'èl, LXX 'EfXfxavouTjX) a un personaggio, che, per quanto discusso nella sua identificazione, appare comunque portatore di una speranza radiosa per il regno di Giuda 73 . Il passo isaiano è citato direttamente in Mt 1,23 (con traduzione greca del nome ebraico: [xe8'r)u.wv ó Geo?, "Dio con noi") a proposito del concepimento verginale di Gesù. L'interpretazione messianica del passo isaiano è cosa propria di Mt stesso, non essendo mai testimoniata prima 74 . In più, la citazione profetica costituisce il primo testo biblico riportato dall'evangelista, che con esso perciò dà come il 'la' all'intera sua composizione. Infatti, è possibile leggere tutto il vangelo alla luce di una cristologia ancorata allo specifico tema della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. 72 Eccessivo, tuttavia, sarebbe sostenere che i dieci miracoli raccontati in Mt 8-9 corrisponderebbero alle dieci piaghe di Es 7-12 (cf. H.A. Brongers, citato in D.C. Allison, The New Moses, p. 208 nota 164), oppure accostare il racconto della tempesta sedata (cf. Mt 8,23-27) alla divisione del Mar Rosso operata da Mosè (cf. Eusebio, Dem. ev. 3,2). 73 Oltre ai Commenti, vedi uno status quaestionis in J. Jensen, Immanuel, ABD 3, pp. 392-395. 74 Cf. la discussione del testo in R.E. Brown, La nascita del Messia, secondo Matteo e Luca, Cittadella, Assisi 1981 (orig. ingl., New York 1977), pp. 181-196.
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Infatti, l'idea torna chiaramente nel vangelo di Mt soprattutto in altri due casi: in 18,20 ("Dove due o tre sono radunati nel mio nome, là sono io in mezzo a loro, èv [xéaw ocikwv") e in 28,20 ("Ed ecco, io sono con voi [èyò> [jieB'ufjLwv] tutti i giorni fino alla fine del mondo"). La collocazione strategica di questi passi nella composizione matteana, rispettivamente all'inizio, al centro, e al termine, permette di leggere l'intero vangelo alla luce di un tema cristologicamente forte. Anzi, il tema è ulteriormente presente, sia dove riappare il complemento pronominale (cf. fjie0'óu.còv in 17,17: "Fino a quando sarò con voi?"; e 26,29: "...fino a quel giorno, in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio"), sia soprattutto dove il tema della presenza di Gesù risuona variamente anche in forma indiretta (così nell'episodio della tempesta sedata: 8,23-27; nel loghion della presenza di uno più grande del Tempio: 12,6; nell'episodio della presenza di Gesù sul lago di Tiberiade mentre i discepoli faticano per il vento contrario: 14,22-33 [cf. v. 27: "Coraggio, sono io: non temete"]; e nel discorso sull'identificazione di Gesù con gli affamati, gli assetati, gli ignudi, ecc.: 25,31-46). Mt dunque si dimostra particolarmente sensibile al doppio tema complementare della presenza di Dio in Gesù e della presenza di Gesù in mezzo ai suoi. L'argomento è stato particolarmente studiato da Kupp 75 , che dedica pure due buoni capitoli allo sfondo veterotestamentario. In Israele, infatti, la presenza di Dio è particolarmente tematizzata in tre momenti successivi: nella teofania fondatrice del Sinai, nelle promesse legate a Gerusalemme tanto per la monarchia davidica quanto per la dimora di Dio nel Tempio, e poi a dimensione più trascendente dopo la distruzione del Tempio come costante vicinanza di Dio al suo popolo. Qui giocano un ruolo particolare i concetti ebraici di pànim, "volto", kabòd, "gloria", lem, "nome", maqòm, "luogo" efrkinàh, "dimora", intesi come altrettante proprietà di Dio che assicura la sua presenza confortatrice in mezzo al suo popolo. In particolare, bisogna rifarsi a quei testi biblici, in cui ricorre la formula del "Dio con noi/voi", 75 Cf. D.D. Kupp, Matthew's Emmanuel, cit.; egli si rifa in particolare a H. Frankemòlle, Jahwebund und Kirche Christi. Studien zur Form- und Traditionsgeschichte des Evangelìums nach Matthàus, NTA 10, Aschendorff, Mùnster 1974; e più in generale a S. Terrien, The Elusive Presence. Toward a New Biblica! Theology, Harper & Row, San Francisco-London 1978. Ma già W.C. van Unnik, 'Dominus vobiscum'. The Background of a LiturgicalFormula, in A.J.B. Higgins, ed., New Testament Essays. Studies in Memory of T. W. Manson, University Press, Manchester 1959, pp. 270-305, aveva riconosciuto l'esistenza di una inclusione tra Mt 1,23 e 28,20.
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enunciata sia alla terza persona (cf. Dt 20,1: "Non li temere, perché è con te il Signore tuo Dio"; cf. anche 1QM 12,8: "Il re della gloria è con noi") sia soprattutto alla prima persona come promessa personale di Dio stesso (cf. Gs 1,5: "Come sono stato con Mosè, così sarò con te"; ISam 20,13: "Il Signore sarà con te come è stato con mio padre"; IRe 11,38: "Se ascolterai quanto ti comando,... io sarò con te"). In questo caso, rispetto al TM i LXX aumentano le ricorrenze di nove casi, di cui quattro nuovi rispetto al TM (Gn 31,13; Est 6,13; Is 58,11; Ger 1,17) e cinque nei libri greci (3Esd 1,25; 2,3; Gdt 5,17; 13,11; 3Mac 6,15), mentre le tre preposizioni ebraiche c /m,"con" 'et, "in, verso", ty { = beqereb/betòk), "in mezzo", vengono ridotte tutte alla sola \itià+ gen., "con", formalizzando perciò l'idea. Ciò che importa osservare è che nell'uso di questo tema da parte di Mt risultano assenti alcune componenti, che invece sono tipiche del giudaismo: così è della presenza di Dio non solo nella guerra (santa), ma anche nel culto e nell'obbedienza alla Legge. Soprattutto queste ultime due assenze (ritenendo ovvia la prima) sono assai eloquenti, tanto più che Mt sottolinea più di ogni altro agiografo cristiano il valore della Legge, come abbiamo visto. Per Mt la presenza di Dio è limitata, o meglio concentrata nella persona viva di Gesù: il suo solo esserci è segno della presenza di Dio, sia in assoluto (come in 1,23), sia in rapporto alla comunità dei suoi discepoli (come in 18,20; 28,20). Il suo esserci infatti è soteriologicamente connotato. Mt del resto è l'unico autore neotestamentario a spiegare l'etimologia del nome "Gesù": "Egli infatti salverà il suo popolo dai loro peccati" (1,21), echeggiando Sai 130,8 dove si dice di Yhwh che "redimerà Israele da tutte le sue colpe". È possibile che una tale trasformazione del tema israelitico della presenza di Dio in senso cristologico abbia a che fare storicamente con iìparting ofthe ways, cioè con la biforcazione delle strade avvenuta verso la fine del secolo I tra il cristianesimo e il rabbinismo (se non anche abbia a che fare con una polemica interna alla comunità matteana). Certo il passo di 18,20 potrebbe essere letto come contrapposizione nei confronti della valorizzazione rabbinica della Torah secondo quanto si legge nella Mishnah: "Rabbi Chananjà ben Teradjon dice: Se due siedono insieme, e le parole tra di loro non sono di Torà, questa è una seduta di beffardi... Ma se due siedono insieme e vi sono tra loro parole di Torà, la Shekhinà è in mezzo a loro" {m.Ab. 3,2); "Rabbi Chalaftà di Kefar Chananjà dice: Quando dieci siedono intenti allo studio della Torà, la
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Shekhinà dimora in mezzo a loro" (ib. 3,7)76. E si può ben interpretare la frase di Gesù "nel mio nome" come equivalente dell'ebraico liSmf nel senso di "per amor mio"77. Ma il parallelismo con la Shekinà è comunque piuttosto forte, essendo questa l'ipostasi della presenza di Dio nel mondo, cioè dell'immanenza divina78. È lecito perciò chiedersi se Mt con la cristologia dell'Emmanuele intenda parlare direttamente della divinità di Gesù. Certo egli non dice mai che Gesù è "Dio"; d'altronde, il nome biblico di "Emmanuele" è piuttosto un simbolo funzionale, detto già in Is di un nascituro rappresentante di Dio ma non Dio egli stesso. Tuttavia, il già notato uso matteano del verbo icpooxuveiv, "adorare", è sintomatico di qualcosa di forte. Soprattutto va notato il detto conclusivo del Gesù risorto. Attribuendogli le parole "Io sono con voi tutti i giorni...", Mt sostituisce la promessa dello Spirito, con cui concludono sia Le 24,49 (cf. anche At 1,8) sia Gv 20,19-25 (e i discorsi dell'ultima cena), per non dire di ICor 15,45. Secondo Mt la presenza di Gesù in mezzo alla sua comunità si misura non tanto con il suo Spirito quanto piuttosto con la sua dimensione personale, viva e immediata. In questo senso, c'è una continuità con ciò che si legge nell'AT a proposito di Yhwh stesso che assicura la propria presenza in mezzo al suo popolo: "Io sono con voi" (Ag 1,13; 2,4).
3. Il vangelo secondo Luca (e Atti) La prima, fondamentale novità che incontriamo in Luca è che egli, a differenza di Matteo e di Marco, non si limita a narrare una storia di Gesù, ma concepisce un disegno letterario-teologico di più vasto respiro, facendo vedere che l'evento salvifico iniziato da Gesù prosegue nella storia della chiesa. Tra il vangelo e gli Atti, infatti, c'è una omogeneità di fondo, assicurata non solo dal fatto 76 Traduzione di A. Mello, Detti dei Rabbini. Pirqè avot con i loro commenti tradizionali, Comunità di Bose 1993, pp. 101 s, 105. 77 Così suggerisce D. Flusser, "Io sono in mezzo a loro" (Mt 18,20), in Id., // Giudaismo e le origini del cristianesimo, Marietti, Genova 1995, pp. 163-174, che però intende le parole di Gesù nel senso estenuato del detto di R. Hillel: "Se io sono qui, tutto è qui; e se io non sono qui, che cosa è qui?" (ARN A 12; b.Sukk. 53a). 78 Cf. E.E. Urbach, Les sages d'Israel. Conceptions et croyances des maitres du Talmud, Cerf, Paris 1996 (orig. ebr., 1979), p. 46; l'Autore, a proposito dei due passi citati dalla Mishnah, fa notare a p. 48 che essi sono i soli due in cui il termine ricorre in tutta l'opera e che appartengono all'epoca di Bar Kochebah.
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che i due libri sono stati redatti da un medesimo autore, ma soprattutto dalla semplice progressione narrativa di momenti storici successivi (tra i quali il doppio racconto dell'ascensione al cielo in Le 24,50-51 e in At 1,9-11 rappresenta una sutura evidente). Perciò, a dispetto della separazione prodotta dall'elenco canonico e dai due prologhi, l'opera lucana risulta un insieme unitario e come tale va considerata79. Nel vangelo, tuttavia, è presente una cristologia più complessa e intrigante che non negli Atti, poiché è impastata dentro lo stesso racconto della vicenda terrena di Gesù, mentre in At essa appartiene piuttosto all'annuncio missionario della chiesa. Anche se il vangelo (come del resto le altre redazioni sinottiche) riflette pure una cristologia post-pasquale, questa è intrecciata a una narrazione su Gesù, che, pur analoga a quelle di Me e di Mt, si aggiunge alla loro, trasmettendoci un approccio cristologico diverso, caratterizzato da nuovi, originali tratti dell'immagine di Gesù. La complessità maggiore, tuttavia, sta sempre nell'intera opera presa nel suo insieme. Si può ammettere che "forse l'opera lucana è il primo saggio di cristologia veramente narrativa"80, almeno nel senso della sua ampia estensione storica e della varietà del suo contenuto. Ma resta difficile reperirvi un principio cristologico unificatore81. Buckwalter ritiene di individuare un criterio di coerenza fra i due libri nella dimensione di servizio (the servanthood) 79 Vedi in proposito R.C. Tannehill, The Narrative Unity of Luke-Acts. A Literary Interpretation, MI, Fortress, Philadelphia 1986-1990; J.-N. Aletti, // racconto come teologia. Studio narrativo del terzo Vangelo e del libro degli Atti degli Apostoli, Dehoniane, Roma 1996. Discussa peraltro è la questione se il prologo di Le 1,1-4 possa valere per tutta l'opera, compresi gli Atti: a favore C F . Evans, J.A. Fitzmyer; contro H. Schurmann, C. Nolland; ad affermare la differenza tende anche L. Alexander, The preface ofLuke's Gospel. Literary convention and social context in Luke 1.1-4 andActs 1,1, SNTS MS 78, University Press, Cambridge 1993 (che però è fermo allo stato della ricerca del 1978), mentre l'unità è affermata da I.H. Marshall, Acts and the 'Former Treatise', in B.W. Winter & A.D. Clarke, eds., The Book of Acts in ItsAncient Literary Setting, Eerdmans/Paternoster, Grand Rapids/Carlisle 1993, pp. 163-182. Vedi anche R.J. DiUon, Previewing Luke's Project from His Prologue (Luke 1:1-4), CBQ 43 (1981) 205-227. 80 J.-N. Aletti, // racconto come teologia, p. 211. 81 Vedi in particolare il tentativo di H.D. Buckwalter, The character and purpose ofLuke's christology, SNTS MS 89, University Press, Cambridge 1996. Per uno status quaestionis circa la ricerca sull'impostazione della cristologia di Lc-At, con bibliografia, rimandiamo a ib., pp. 6-24. Cf. anche G.C. Bottini, Introduzione all'opera di Luca. Aspetti teologici, Franciscan Printing Press, Jerusalem 1992, pp. 77-134 ("Cap. Ili: Cristologia", impostata sull'analisi di tre aspetti: Profeta, Salvatore, Valore salvifico della morte); e R.F. O'Toole, L'unità della teologia di Luca, LDC, Torino Leumann 1994 (orig. ingl., Wilmington 1984), che vede l'unità della teologia lucana nel tema della salvezza.
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del Signore Gesù: Le, che dipenderebbe sia da Me (di cui svilupperebbe tre temi: il significato della risurrezione, il rapporto di Gesù con lo Spirito e le implicazioni storico-salvifiche della passione di Gesù) sia da Paolo (specie da Fil 2,6-11) avrebbe scritto "per dimostrare ai suoi lettori che durante la sua umiliazione il Gesù terreno si comportò in mezzo ai suoi come uno che serve (cf. Le 22,25-27), e che come Signore glorificato co-equale al Padre egli continua a mettersi al servizio dei suoi, confortandoli e incoraggiandoli nella loro testimonianza su di lui nel mondo"82. Pur in questa ottica 'ministeriale', l'Autore salvaguarda sia i termini di una cristologia forte ( = la signoria di Gesù è uguale a quella di Yhwh) sia la proiezione escatologica dell'attività di Gesù e della vita della chiesa (contro Conzelmann). Ma viene da osservare che quod nimisprobat nihilprobatì Del resto, perché confrontare Le con Me e non con Mt (con cui peraltro condivide il materiale di Q)? e perché ridurre Paolo all'inno cristologico dei Filippesi, se Luca sottovaluta poi la tipica idea paolina della morte salvifica di Gesù (al punto da omettere persino Me 10,45)? Pertanto, e nonostante tutto, sembra meglio considerare a parte il vangelo come espressione di una cristologia più organica, pur premettendo alcune considerazioni sull'insieme dell'opera lucana.
3.1 Le e At Non si può, dunque, percepire pienamente la cristologia di Le, se non si tiene presente almeno all'orizzonte anche la composizione di At, che insieme al vangelo costituisce la grande tela di fondo sulla quale il ritratto di Gesù viene disegnato e dal quale esso spicca con un risalto suo proprio. Gli At infatti fanno emergere all'evidenza che Gesù sta, per così dire, "al centro del tempo"83, in quanto, dopo aver detto precedentemente che in lui si compie tutto ciò che era scritto nella legge di Mosè e nei profeti (cf. Le 24,44), 82
H.D. Buckwalter, The character and pur pose, pp. 283-284. Questo era il titolo significativo del contributo redaktionsgeschichtlich di H. Conzelmann, Die Mitte der Zeit. Studien zur neologie des Lukas, BhT 17, Mohr, Tubingen 1954, 51964 (trad. ital., Piemme, Casale Monferrato 1997). Ma lo studio di Conzelmann era comandato dal presupposto che Le avesse scritto per appianare le preoccupazioni derivanti dal ritardo della parusia; Le avrebbe quindi concepito uno schema di storia della salvezza in tre momenti (AT, Gesù, chiesa) che dà tempo alla parusia conferendo consistenza al tempo della chiesa. 83
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ora Luca fa vedere che da lui prende avvio una storia di evangelizzazione, che non solo prosegue il suo esempio ma attua anche il suo comando (cf. At 1,8). Il nuovo e fondamentale apporto cristologico di At rispetto a Le consiste in uno slittamento verso il tema della missione: in At il protagonista dell'azione non è più il Gesù storico, ma sono i suoi testimoni (cf. At 4,33) e in definitiva la chiesa (tanto che il termine èxxXrjaia, mai presente in Le, ricorre 23 volte in At); anzi, a ben vedere, è lo Spirito effuso a Pentecoste (= Spirito pasquale per eccellenza!), che in At 16,7 è chiaramente detto "Spirito di Gesù"84. Proprio il tema dello Spirito, d'altronde, rappresenta il comune denominatore dei due racconti. Infatti, come la storia di Gesù comincia doppiamente con una dotazione pneumatica, sia nel concepimento da parte di Maria (cf. Le 1,35) sia poi nel battesimo al Giordano (cf. Le 3,21-22)85, così la storia della chiesa inizia con l'effusione pentecostale dello Spirito che investe potentemente la comunità dei discepoli per un impegno testimoniale (cf. At 2,1-13). E come lo Spirito conduce Gesù (cf. Le 4,1), così esso induce ineluttabilmente i suoi testimoni a far vedere e sentire qualcosa che si impone all'attenzione di tutti (cf. At 2,33b)86. L'unica vera differenza è che nella storia di Gesù questi è ricettore passivo dello Spirito, alla maniera degli antichi profeti, mentre nella storia della chiesa, in base alla sua risurrezione dai morti, egli si dimostra ormai donatore attivo del medesimo (cf. At 2,33a); sicché, se nella sua vita terrena ciò che agisce in lui non è altro che il tradizionale "Spirito Santo", 84 Cf. J.H.E. Hull, The Holy Spirit in the Acts of the Apostles, Lutterworth, London 1967, p. 175, e R. Penna, Lo 'Spirito di Gesù'in Atti 16,7. Analisi letteraria e teologica, RivBibl 20 (1972) 241-261. 85 II conflitto presente nel raffronto fra le due prospettive (del resto già latente in Mt 1,20; 3,13-17) non si può che risolvere in base alla supposizione di due tradizioni diverse recepite entrambe dall'evangelista (cf. R. Schnackenburg, La persona di Gesù Cristo, pp. 200-202). 86 La tecnica e la funzione del parallelismo tra Le e At è stata messa bene in evidenza da J.-N. Aletti, // racconto come teologia, rifacendosi alla tecnica classica della synkrisis, "confronto". Forse il caso più evidente è quello di Stefano che prima di morire lapidato riformula le parole di Gesù in croce (cf. Le 23,46: "Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito" / At 7,59: "Signore Gesù accogli il mio spirito"; inoltre Le 23,34: "Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno" / At 7,60: "Signore, non imputare loro questo peccato"). Ma i casi sono frequenti, compreso il parallelismo Gesù-Paolo (vedi il confronto fra le 'due passioni' in ib., pp. 68-80). Cf. anche J. Dupont, Il punto dipartenza dell'affermazione cristologico nei discorsi degli Atti degli Apostoli, in Pontificia Commissione Biblica, Bibbia e cristologia, Paoline, Cinisello Balsamo 1987, pp. 223-239.
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ora invece ciò che agisce sui suoi testimoni è appunto "lo Spirito di Gesù"87. 3.2 Dati linguistici tipici Limitandoci ora al Vangelo, cominciamo col rilevare l'esistenza e la funzione di alcuni dati linguistici tipici del racconto lucano e tra loro connessi, di importante rilevanza cristologica. (1) Una prima sorprendente constatazione riguarda l'intervento del narratore stesso, che nel suo testo professa apertamente la propria fede personale in Gesù come "Signore", Kupto?. A differenza di Me e di Mt, che impiegano il titolo unicamente nel discorso diretto (cioè, sulla bocca di coloro che parlano con Gesù o sulla bocca di alcuni personaggi all'interno di parabole), Le lo impiega nel proprio racconto come espressione della propria penna, là dove è lui a narrare in terza persona, sia ciò che Gesù fa o dice, sia il modo con cui altri si rapportano a lui. Così leggiamo, per esempio: "Il Signore disse... Il Signore voltatosi guardò Pietro", oppure: "Stando ai piedi del Signore... Non trovarono il corpo del Signore Gesù". Ciò succede per ben 14 volte (cf. 7,13.19; 10,1.39.41; 11,39; 12,42; 17,5.6; 18,6; 19,8; 22,61bis; 24,3)88. In questo modo l'agiografo si rende personalmente presente nel suo racconto, supponendo la stessa fede pasquale nel suo destinatario Teofilo e in generale nei suoi lettori. (2) Inoltre, nessun altro evangelista usa l'avverbio greco orpepov, "oggi", per indicare l'importanza del tempo connotato dalla presenza di Gesù. Le invece lo impiega cinque volte: in bocca agli angeli al momento della nascita (cf. 2,11: "Oggi è nato per voi un salvatore") e in bocca a Gesù stesso, nella sinagoga di Nazaret (cf. 4,21: "Oggi questa Scrittura si è compiuta nelle vostre orecchie"), in casa di Zaccheo (cf. 19,5: "Oggi devo fermarmi in casa tua"; 19,9: "Oggi è avvenuta la salvezza per questa casa"), e in risposta al buon ladrone (cf. 23,43: "Oggi sarai con me nel paradiso"). Evidentemente a Le interessa far notare che con la pre87 C.K. Barrett, TheActs of the Apostles, I, ICC, T&T Clark, Edinburgh 1994, p. 150, cita S. Agostino: Accepit quippe ut homo et ejJudit ut deus {De Trinitate 15,26). Il tema specifico di Gesù risorto come Salvatore è ben sviluppato da R.F. O'Toole, L'unità, pp. 34-55. 88 Alla totale assenza di questa prassi negli altri due Sinottici si può accostare anche il Quarto Vangelo, che si comporta al modo lucano solo in tre casi (cf. Gv 4,1; 6,23; 11,2).
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senza viva di Gesù e con la sua accoglienza si compie qualcosa di decisivo per gli uomini, cioè si pongono le basi della loro salvezza89 . (3) In più, nessuno degli altri Sinottici ricorre mai al termine x«Pl?> "grazia", che invece Le impiega otto volte90, di cui almeno la metà con forte valenza teologica: 1,30 ("Hai trovato grazia presso Dio", detto a Maria); 2,40 ("La grazia di Dio era su di lui", Gesù); 52 ("Gesù progrediva nella grazia presso Dio e gli uomini"); e 4,22 ("Si stupivano per le parole della grazia che uscivano dalla sua bocca")91. Evidentemente per Le questo concetto riveste una notevole importanza, tenuto anche conto che egli connette la grazia di Dio solo con Maria e con Gesù. (4) Soprattutto, infine, per ben 17 volte (contro le 6 di Me e le 8 di Mt) Le sottolinea il fatto che, direttamente o indirettamente, in Gesù c'è qualcosa che "deve", Bei (o "doveva", è'Sei), necessariamente avvenire92. Questa idea di una ineluttabilità degli avvenimenti, dipendenti dal piano salvifico di Dio, attraversa e in qualche modo regge tutta la composizione lucana e il suo messaggio93.
3.3 L'idea di necessità Infatti, è soprattutto l'idea di una misteriosa ma inderogabile "necessità" a immetterci nel vivo del racconto lucano, della sua 89 Cf. B. Prete, Prospettive messianiche nell'espressione ori^epov (oggi) del Vangelo di Luca, in Id., L'opera di Luca. Contenuti e prospettive, LDC, Torino Leumann 1986, pp. 104-117, con accostamento all'altro avverbio temporale vGv, "ora, adesso" che in Le è presente 14 volte (contro le 3 di Me e le 4 di Mt). 90 In più vanno aggiunte altre otto volte in senso teologico negli Atti. È interessante notare che il Quarto Vangelo lo impiega solo tre volte e soltanto nel Prologo. 91 In quest'ultimo caso bisogna conferire alla frase un senso forte: non "parole di grazia" (CEI), come se si trattasse di "parole graziose" o ben dette; infatti il greco ha l'articolo, "parole de//a grazia", e allude alla rivelazione della grazia di Dio! Questa infatti è la prassi di Luca anche in At 14,3 e 20,32, che ricevono senso da ciò che si legge in At 20,24: "Devo condurre a termine il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza all'evangelo della grazia di Dio" ( = synkrisis tra Gesù e Paolo). 92 Cf. Le 2,49; 4,43; 9,22 / / ; 11,42 (Q); 12,12; 13,16.33; 15,32; 17,25; 18,1; 19,5; 21,9 / / ; 22,7.37; 24,7.26.44; come si vede, solo in tre casi Le condivide con altri l'uso del verbo. Un uso proprio sarebbe anche 13,14, ma è privo di valore cristologia). 93 Anche in At il verbo è caratteristico, con ben 24 occorrenze (cf. At 1,16.21; 3,21; 4,12; 5,29; 9,6.12; 14,22; 15,5; 16,30; 17,3; 18,21; 19,21.36; 20,35; 21,22; 23,11; 24,19; 25,10.24; 26,9; 27,21.24.26). Sull'insieme, cf. C.H. Cosgrove, The Divine AEI in Luke-Acts. Investigations info the Lukan Understanding of God's Providence, NT 26 (1984) 168-190; J.T. Squires, The pian ofGodin Luke-Acts, SNTS MS 76, University Press, Cambridge 1993, pp. 166-185.
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teologia e della sua cristologia. A questo proposito non sarebbe affatto sufficiente parlare soltanto di "provvidenza", anche se particolare, sia perché la matrice greca del concetto implica, sì, una razionalità, ma del tutto fisica e immanente94, e sia soprattutto perché esso non si applica ai singoli individui ma univocamente e indistintamente all'insieme di tutti gli esseri95. Quando invece il Gesù di Le dice, per esempio: "Non sapevate che è necessario che io mi occupi delle cose del Padre mio?" (2,49), oppure: "È necessario che oggi e domani e il giorno seguente io vada per la mia strada" (13,33), oppure ancora: "Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?" (24,26), egli si riferisce a un piano specifico del Dio biblico che deve compiersi nel proprio ministero e nella propria passione. Del resto, solo Luca parla esplicitamente di un "piano di Dio" (r\ $ou\r\ xoG Qeou), e per ben tre volte: quando Gesù accusa i farisei e gli scribi di non aver accolto Giovanni (cf. Le 7,30), quando Pietro a Pentecoste parla della crocifissione di Gesù (cf. At 2,23), e quando Paolo a Mileto si riferisce al contenuto del suo annuncio (cf. At 20,27). Abbiamo così i tre momenti fondamentali del piano divino secondo Luca: la preparazione alla comparsa di Gesù, il punto centrale della sua morte, e il dispiegamento missionario del vangelo post-pasquale. Se quest'ultimo costituisce piuttosto il tema degli Atti, i primi due caratterizzano invece il Vangelo96. In ogni caso, l'importante è di non opporsi a questo piano per non trovarsi ad essere "oppo94
Così è il concetto di Prónoia, "provvidenza (divina)", che nello stoicismo diventa sinonimo di Heimarméne, "fato, destino", Tyche, "sorte, fortuna", Ananke, "necessità", ed è connesso con quelli di logos e di physis. Cf. A. Magris, L'idea di destino nel pensiero antico, Del Bianco, Udine 1985, voi. II, pp. 609-709. 95 Vedi per es. M.T. Cicerone: "Tutto avviene per volere del fato, e fato io chiamo quello a cui i Greci danno il nome di heimarméne, cioè una serie concatenata di cause ed effetti, da cui hanno origine tutte le cose. È questa una verità eterna che affonda le sue radici nell'eternità; e perciò, dato che le cose stanno così, nulla è mai accaduto che non dovesse accadere e, parimenti, nulla accadrà di cui non esistano già in natura le cause che ne provocheranno il verificarsi" (De div. 1,55,125). Solo tardivamente emerge qualche accenno di provvidenza individuale, ma non sviluppato, come nel Panegirico di Traiano di Plinio il Giovane: "Se si fosse potuto dubitare finora che i reggitori del mondo fossero scelti per puro caso o per un certo volere divino, sarebbe pur sempre manifesto che il nostro Principe è stato largito dal cielo. E certo non per l'occulto potere del destino (non enima occulta potestate fatorum), ma palesemente e sotto gli occhi di tutti fu rivelato dallo stesso Giove (sedab love ipso coram acpalam repertus est), poiché questo nostro Principe venne eletto fra are ed altari, colà appunto dove questo dio risiede manifesto e presente [cioè sul Campidoglio], come sul cielo e sulle stelle" (1,4-5). 96 Soltanto sulla passione di Gesù e sulla missione ai Gentili insiste J.T. Squires, The pian of God, pp. 185, 188-189.
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sitori di Dio" (0eo|xàxoi: At 5,39; cf. Le 7,30). La figura di Gesù è comunque il punto focale, l'epicentro, attorno a cui ruota e si dipana il racconto dell'opera intera (dall'annuncio dell'angelo fatto al padre di Giovanni nel Tempio di Gerusalemme fino all'arrivo e alla permanenza di Paolo come prigioniero a Roma) e soprattutto del primo libro (dove il Tempio di Gerusalemme fa da inclusione fra l'annuncio a Zaccaria in 1,5-20 e la preghiera degli apostoli dopo l'Ascensione in 24,53). Non che egli sia una semplice pedina che si lascia muovere passivamente dalle mani di Dio, poiché invece egli è l'esecutore attivo del piano divino e sa di esserlo (cf. il pronome di prima persona in 4,43; 13,33; 19,5). 3.4 Manifestazione e dimostrazione della grazia Ma qual è il contenuto centrale di questo piano? Esso è essenzialmente una manifestazione e una dimostrazione di grazia, del fatto cioè che Dio rivela in Cristo finalmente in pienezza le sue "viscere di misericordia, visitandoci dall'alto come sole che sorge" (Le 1,78)97. I due momenti, la manifestazione e la dimostrazione, sono ben rappresentati da alcune pagine del Vangelo, che prendiamo brevemente in considerazione. 3.4.1 Una prima manifestazione avviene, quasi come introduzione, fin dai primi due capitoli dedicati agli avvenimenti dell'infanzia di Gesù. A differenza di Mt, in Le 1-2 sono già rivelati fin dall'inizio al lettore tutti i principali titoli cristologici, e ciò avviene direttamente a opera delle voci celesti di Gabriele nell'annunciazione a Maria (cf. 1,32-33.35: figlio dell'Altissimo, re messianico, figlio di Dio) e dell'angelo innominato di Natale (cf. 2,11: Salvatore, Cristo Signore)98, prima ancora che da attori umani come 97 Oltre a ciò che dicevamo sopra sull'uso del termine x«P1?. "grazia", bisogna sapere che più di ogni altro evangelista Le impiega anche il termine eXeo?, "misericordia" (6 volte contro le 3 di Mt e lo 0 di Me e di Gv), soprattutto nei canti di Maria (1,50.54) e di Zaccaria (1,72.74), oltre a 1,58; 10,37. 98 Questi due titoli sono particolarmente interessanti. Il primo, infatti, aw-crip, oltre che attestare uno stadio avanzato della cristologia neotestamentaria (cf. sopra: cap. 3,6) e mancare del tutto in Mc-Mt, è usato due volte da Le, di cui una con valore teologico (in 1,47) e 2,11 con valore cristologico, quasi a indicare la paritarietà del senso. Quanto al secondo, osserviamo che il sintagma greco xpterrò? xupto?, "unto Signore" (invece del più tradizionale xpi<"ò? xupiou, "unto del Signore": cf. Lm 4,20; Sai 2,2; lEn. 48,10; Ps. Sai. 18,5; anche Ap 11,15; 12,10) è particolarmente forte, tanto che qualche raro manoscritto lo corregge secondo la forma più giudaica.
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il vecchio Simeone (cf. 2,30.32.34: strumento di salvezza, luce delle nazioni e gloria dei popolo d'Israele; segno di contraddizione)99. Anche il concepimento verginale è particolarmente sottolineato nel dialogo tra Gabriele e Maria (cf. 1,30-35) per evidenziare al massimo l'origine divina di Gesù100. Da parte sua, la contrapposizione strutturale con Giovanni (due annunciazioni, due nascite, due presentazioni) fa emergere l'unicità incomparabile del figlio di Maria, rispetto al quale l'altro è solo un'ombra, per quanto consistente. Nell'insieme però i testi rivelano un'ottica cristologica di stampo giudeo-cristiano, in quanto il protagonista è sostanzialmente relazionato a Israele e comunque all'AT e a una prospettiva storico-salvifica, prescindendo dall'affermazione della sua pre-esistenza101. Lo si vede bene negli inni tanto di Maria (cf. 1,46-55) quanto di Zaccaria (cf. 1,68-79), del tipo delle berakòt giudaiche, dove si canta il fatto che ora Dio compie finalmente le promesse di salvezza per il suo popolo; ma la cristologia in questi inni è quasi assente, essendo essenzialmente una celebrazione di Dio e della sua fedeltà a Israele102. Tuttavia, il tema dialettico dell'abbassamento dei potenti e dell'innalzamento degli umili (cf. 1,52-53), adombrato nelle figure degli attori stessi come canamm, "poveri" (cf. Maria, i pastori, Anna, Simeone), anticipa già quel sovvertimento di valori che si concretizzerà nell'azione del Messia Ge99
"La cristologia viene proposta prima ancora di essere proclamata dalle voci umane, sotto forma oracolare, profetica... A livello degli enunciati e del numero dei titoli, la cristologia raggiunge la sua pienezza e la sua estensione massima in Le 1-2, anche se le profezie devono ancora ottenere una precisazione e la loro realizzazione nella vita di Gesù" (J.-N. Aletti, L'art de raconter, p. 200). 100 Giustamente R.E. Brown, La nascita del Messia, p. 421, spiega che l'espressione "ti coprirà della sua ombra" non va intesa nel senso di una generazione di stampo sessuale, come se Dio prendesse il posto del principio maschile nell'unirsi a Maria: "Si tratta piuttosto di una connotazione di carattere creativo. Maria non è sterile, quindi nel suo caso il bambino non viene alla luce perché Dio coopera con l'azione generatrice del marito, togliendo di mezzo la sterilità. Invece, Maria è una vergine che non ha conosciuto uomo, per cui il bambino è completamente opera di Dio, una nuova creazione". 101 Si discute se la frase di Zaccaria àvaxoXT] i\ o<|>ou<;, "un sole che sorge dall'alto" (1,78) vada intesa in senso messianico oppure, forse meglio, in senso strettamente teologico in riferimento alla visita di Dio (cf. la discussione in J. Nolland, Lk, I, p. 90). Quanto poi alla dichiarazione di Gesù dodicenne nel Tempio, secondo cui egli deve stare "nelle cose" (altri preferiscono tradurre: "nella casa") del Padre suo (cf. 2,49), se è vero che Gesù manifesta con ciò la forte coscienza di un particolare rapporto con Dio, questo però non implica necessariamente l'affermazione della sua divinità. 102 Cf. R. Penna, Da Israele al cosmo: Ampliamenti dell'orizzonte cristologico nello sviluppo dell'innografia neotestamentaria, in P. Coda, a cura, L'unico e i molti, pp. 49-66.
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su come rivelazione della "misericordia di Dio per coloro che lo temono" (1,50)103. 3.4.2 La manifestazione personale della grazia di Dio da parte di Gesù avviene, appunto quasi come in un 'manifesto', all'inaugurazione del suo ministero nella sinagoga di Nazaret (cf. 4,1630)104. La sua collocazione in apertura della vita pubblica svolge una importante funzione ermeneutica per la comprensione dell'intero Vangelo: ciò che qui caratterizza la figura di Gesù vale come in musica il 'la' per l'intera composizione successiva105. Ora, il brano è costruito su due estremi (la lettura del profeta Isaia e la reazione negativa degli astanti), che fanno da contorno a una inaudita autorivelazione di Gesù. Questa consiste nei tratti di un profeta pneumaticamente dotato, che inaugura l'ultimo anno giubilare106. Le sue funzioni infatti sono proprie di un annunciatore di grazia, che reca il buon annuncio della liberazione ai poveri, ai prigionieri, ai ciechi, agli oppressi. Al di là della citazione di Is 61,l-2a non si può non intravedere anche un richiamo alla legislazione concernente il giubileo in Lv 25,8-17, almeno a motivo del ricorrente terminefyeaic,"remissione, liberazione" (tre volte in Lv LXX, due volte nel riporto isaiano di Le107). E se è vero che l'istituto giubilare in Israele non venne mai applicato, restando let103 Cf. U. Mittmann-Richert, Magnifìkat und Benediktus. Die àltesten Zeugnisse der jùdenchristlichen Tradition von der Geburt des Messias, WUNT 2.90, Mohr, Tubingen 1996, specie pp. 97-100, 210. 104 Oltre ai Commenti, vedi le due buone monografie di U. Busse, Das Nazareth Manifest. Eine Einfùhrung in das lukanische Jesusbild nach Lk 4,16-30, SBS 91, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1978, e di G.K.-S. Shin, Die Ausrufung des endgùltigen Jubeljahres durch Jesus in Nazareth. Eine historisch-kritische Studie zu 105 Lk 4,16-30, EH 23 Th 378, Lang, Bern-Frankfurt 1989. In questo senso, il brano corrisponde alla guarigione dell'indemoniato nella sinagoga di Cafarnao secondo Marco (cf. Me 1,21-28) e al discorso della Montagna106in Matteo (cf. Mt 5-7). Va sempre tenuto presente che la citazione profetica termina in 4,19 con Is 61,2a sulla frase: "A proclamare un anno gradito al Signore" oppure "...un anno di gradimento [= di favore, di grazia] del Signore" (xTjpuijai iviau-ròv xupiou Bex-cóv, sostanzialmente uguale ai LXX; cf. TM: "A promulgare l'anno di misericordia del Signore"). Si omette così ciò che segue immediatamente in Is 61,2b: "un giorno di vendetta per il nostro Dio"! Non va dimenticato che ai lineamenti del profeta si aggiungono anche quelli del Messia, come rileva R.F. O'Toole, DoesLuke Also Portray Jesus As the Christ in Luke 4,16-30?, Bibl 76 (1995) 498-522, accostando la citazione isaiana in Le 4,18-19 con la risposta di Gesù agli inviati di Giovanni in 7,18-23. 107 È da notare che la seconda occorrenza del termine in Le 4,18 ("a rimandare gli oppressi in libertà, èv àcpioei") rappresenta una confezione lucana, poiché non proviene da Is 61 ma da Is 58,6: forse per aggiungere una presenza in più del termine?
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ter a morta come pura legge utopistica108, secondo Le invece esso è stato finalmente proclamato da Gesù e concretizzato nel suo ministero, anche se l'originaria liberazione sociale diventa per lui metafora di una più radicale liberazione interiore dal peccato (cf. la peccatrice perdonata: 7,36-50; e il pubblicano Zaccheo: 19,1-10) e in generale dalle prescrizioni legali (cf. 16,16: "La legge e i profeti fino a Giovanni") 109 . Questa proclamazione è sottolineata dalla frequenza lucana del verbo "evangelizzare" (eùocffeXiCsiv: 10 volte in Le contro 1 in Mt e 0 in Me) 110 , con cui l'agiografo ricorda che Gesù (dopo gli angeli in 1,19; 2,10; e dopo Giovanni in 3,18) a diverse riprese si è fatto portavoce della grazia di Dio. È vero che a Nazaret egli non riferisce esplicitamente a sé il testo profetico, accontentandosi di commentare un po' sibillinamente: "Oggi si è compiuta questa Scrittura nei vostri orecchi" (4,21), ma questo significa soltanto che molto è lasciato all'intelligenza degli ascoltatori e dei lettori. Da una parte, infatti, queste parole per un orecchio semitico sono già sufficientemente significative (cf. Dt 5,1), e, dall'altra, il successivo riferimento a Elia e ad Eliseo, che si erano rivolti a persone estranee a Israele (rispettivamente la vedova di Sarepta di Sidone, e il ministro Naaman di Siria; cf. 4,25-26), non solo conferma ulteriormente la statura profetica di Gesù, ma dice pure quanto essa si ponga a dimensione universalistica. Proprio qui si scatena l'incredulità degli astanti nei suoi confronti, giungendo fino a cacciarlo dalla città (cf. 4,28-29). Anche queste reazioni, previste da Gesù stesso (cf. 4,24), incidono paradossalmente a tratteggiarlo come "un profeta dalla statura imponente: non solo egli sa di essere inviato, sa a chi è inviato e sa che la sua missione è escatologica, ma offre anche il criterio che permette di verificare l'autenticità della sua chiamata", poiché "nel momento in cui egli viene escluso e spinto fuori della città dai suoi concittadi108
Così R. De Vaux, Le Istituzioni dell'Antico Testamento, pp. 182-184. Perciò mi lascia perplesso la tesi di M. Pettem, Luke's Great Omission and His View of the Law, NTS 42 (1996) 35-54, secondo cui l'omissione lucana della discussione sulla purità alimentare in Me 7,1-23 sarebbe segno di una sua correzione intenzionale, per sostituirla poi in At 10,1 - 11,18 con la visione di Pietro, con cui però si dichiarerebbe soltanto che tutti i popoli sono puri. Infatti è lucano il tema della condivisione del cibo da parte di Gesù con i peccatori (cf. Le 15,1-2). 110 II fatto che, inversamente, il sostantivo eùay-réXiov non ricorra mai in Le e solo due volte in At (contro le 4 volte di Mt e le 7 + 1 volta in Me) dice soltanto che l'uso del verbo (che in At è poi presente altre 15 volte) mette in luce il comportamento concreto e attivo di Gesù e dei suoi testimoni, mentre l'uso del sostantivo è piuttosto indice di una riflessione un po' astratta. Sull'uso lucano, cf. G. De Virgilio, EùayyeXi'Cetv nel terzo vangelo, CristStor 16 (1995) 587-598. 109
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ni, egli è profeta e la sua parola non potrebbe avere un'autorità maggiore" 111 . In ogni caso, la misericordia è stata offerta, e il suo rifiuto per quanto ostinato e violento non può metterla in crisi. 3.4.3 Di questa misericordia Le narra, e con un rilievo particolare, non soltanto l'annuncio verbale ma anche e soprattutto la dimostrazione effettiva nel ministero vissuto di Gesù. Il terzo vangelo, infatti, oltre ai paralleli con Me o con Q, ha tutto un materiale proprio che insiste appunto su questa sua dimensione tipica. Si pensi, nell'ordine, alla risurrezione del figlio della vedova di Nain (cf. 7,11-17), alla peccatrice perdonata (cf. 7,36-50), alla parabola del buon samaritano (cf. 10,29-37), alla guarigione della donna curva (cf. 13,10-17), alla parabola dell'amministratore astuto (cf. 16,1-9) e a quella del ricco epulone (cf. 16,19-31), al detto sui servi inutili (cf. 17,7-10), alla guarigione dei dieci lebbrosi (cf. 17,11-19), alla parabola del giudice e della vedova (cf. 18,1-8) e a quella del fariseo e del pubblicano (cf. 18,9-14), all'incontro con Zaccheo (cf. 19,1-10), al dialogo con il buon ladrone (cf. 23,39-43) e all'esperienza dei discepoli di Emmaus (cf. 24,13-35). In particolare, il cap. 15 tematizza ampiamente questa caratteristica lucana e può ben essere considerato "il cuore del terzo vangelo" 112 . Lo si vede già nella sua apertura redazionale ("Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo; ma i farisei e gli scribi mormoravano: 'Costui riceve i peccatori e mangia con loro' " : 15,1-2), che ricapitola altri racconti del genere (come il pubblicano Levi in 5,27-32 e il capo dei pubblicani Zaccheo in 19,1-10). Essa peraltro introduce e viene per così dire commentata dalle tre parabole che seguono immediatamente, dette appunto della misericordia: la pecora (vv. 3-7), la dracma (vv. 8-10) e il figlio (vv. 11-32) perduti e ritrovati. Particolarmente significativa è la cosiddetta parabola del figliol prodigo (15,11-32), la cui lezione ha un valore emblematico per l'intero Vangelo113. Essa combina insieme il tema della grazia e quello già visto di una superiore, divina necessità. Infatti, com'è noto, 111
J.-N. Aletti, L'art de raconter, p. 49. L. Ramaroson, Le coeur du Troisième Évangile: Le 15, Bibl 60 (1979) 348-360. 113 Ciò è stato ben compreso e messo a fuoco dall'analisi che ne ha fatto J.-N. Aletti, L'art de raconter..., pp. 206-209; Id., // racconto come teologia, pp. 167-205. La parabola, più che «del figliol prodigo», potrebbe essere meglio intitolata «del padre misericordioso». 112
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al suo culmine si leggono le parole conclusive del padre: "Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato a vivere, era perduto ed è stato ritrovato" (15,32). Poiché Le non dà mai una definizione esplicita né della grazia né della necessità, essa va ricavata nient'altro che dal racconto, in cui si trova di fatto inscritta. Ebbene, ciò che importa notare è che in realtà il figlio minore torna a casa non per una vera conversione interiore e perché sia realmente pentito di ciò che ha fatto, ma semplicemente perché vuole soddisfare meglio la propria fame, quindi solo per interesse e per calcolo (cf. 15,17-19: "Quanti salariati di mio padre abbondano di pane, mentre io qui muoio [di fame]. Mi alzerò e andrò da mio padre...")- Allora, però, appare chiaro che tutto il senso del racconto consiste nell'opporre questi calcoli, fondati nient'altro che sul diritto della retribuzione (cf. 15,19: "Trattami come uno dei tuoi servi"), alla totale mancanza di calcolo propria del padre114. Al figlio maggiore che protesta, poiché vorrebbe applicato lo stretto schema retributivo, il padre non dice che le sue ragioni siano fuori posto. Egli interviene piuttosto a un altro livello, quello di un'altra necessità: l'inderogabile necessità della misericordia. La decisione del padre tende a ridonare al figlio la sua identità, ed è irrevocabile: egli può soltanto invitare il maggiore a condividere la sua decisione e convincerlo a prendere parte alla festa. "Il 'bisognava' è quello dell'amore estraneo a ogni calcolo, è proprio di un perdono senza condizioni; in breve, è quello dell'umanità di Dio"115. La misericordia festosa è il punto focale. Infatti il parallelismo strutturale con le due parabole precedenti, della pecora e della dracma, mostra che la sezione dedicata al fratello maggiore (cf. 15,25-32) corrisponde semplicemente alla conclusione di quelle altre parabole, le quali culminano sulla gioia che si prova in cielo per un solo peccatore che si converte (cf. 15,7.10). Così qui la figura del padre che, senza neanche pronunciare la parola "peccato", si getta commosso al collo del figlio tornato e poi il suo fermo invito alla festa sottolineano all'evidenza la tenerezza
114 È vero che poi davanti al padre, il figlio minore non ripete "Trattami come uno dei tuoi salariati". Ma ciò si spiega solo perché non ne ha avuto il tempo: "Infatti il figlio sta ancora recitando la sua lezione quando il padre l'interrompe: il greco va letto come segue: 'A/a il padre disse ai servi...'. Il padre non ha voluto sentirne di più: quando il giovane gli dichiara di non meritare più di essere figlio, taglia corto, rifiutando questa eventualità, e, al contrario, si affetta a (ri)dare al figlio tutti i segni della sua dignità" (J.-N. Aletti, Il racconto come teologia, p. 183). 115 J.-N. Aletti, L'art de raconter, p. 208.
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di questo personaggio, che a buon diritto può essere considerato il vero protagonista del racconto. Come si vede, la parabola verte direttamente sulla figura di Dio più che non su quella di Gesù. Ma allora, che senso può avere in rapporto alla cristologia di Luca? A questo proposito, è determinante ricordare l'introduzione del capitolo (vv. 1-2), che per così dire enuncia una tesi: Gesù non può fare a meno di stare dalla parte dei peccatori (cf. anche 5,32; 19,10). La sua dimostrazione è poi offerta in ciò che segue, non mediante un ragionamento astratto bensì nei termini più sfumati e concreti di un racconto. Ma la conclusione è inevitabile: se nella parabola è il padre che accoglie il figlio, nella realtà è Gesù che accoglie i peccatori e mangia con loro; e se nella parabola è il figlio maggiore a lamentarsene, nella realtà sono i farisei e gli scribi a mormorare. In ogni caso, è il contesto della vita di Gesù che rende pienamente possibile l'interpretazione della parabola. La valenza cristologica è chiara: nel comportamento di Gesù non fa che manifestarsi e dimostrarsi la misericordia di Dio stesso. Ciò che nella parabola è semplice racconto, nella vita di Gesù invece è evento116! E un evento emblematico è l'incontro personale fra Gesù e Zaccheo (cf. 19,1-10), che con il cap. 15 rivela uno stretto nesso logico e un progresso narrativo. Ora Gesù non solo si lascia circondare dai pubblicani, ma si reca egli stesso presso uno di loro, che per di più è un capo (cf. vv. 2.5); inoltre, non sono più i farisei e gli scribi a mormorare contro Gesù, ma tutti i presenti alla scena (cf. v. 7); infine, Gesù risponde non più servendosi di un racconto fittizio, ma dimostrando di essere personalmente impegnato a cercare e salvare un uomo perduto (cf. vv. 9-IO)117. Del resto, tanto la parabola del padre misericordioso quanto l'episodio di Zaccheo ter116 Cf. H. Weder, Metafore del Regno. Le parabole di Gesù: ricostruzione e interpretazione, Paideia, Brescia 1991 (orig. ted., Gòttingen 1978,31984 rist. 1989), pp. 307s. L'idea che la parabola senza la sua applicazione è monca ("il racconto è solo 'metà' della parabola": p. 156) viene ben sviluppata da V. Fusco, Oltre la parabola. Introduzione alle parabole di Gesù, Boria, Roma 1983, pp. 144-168: "Nelle parabole di Le 15, ad esempio, Gesù non illustra genericamente la misericordia di Dio come verità astratta ed atemporale, ma difende la propria prassi di accogliere pubblicani e peccatori fino al punto di offrire loro la sua commensalità. E proprio qui c'è qualcosa di strano, di misterioso: gli avversari non avevano criticato Dio ma Gesù, eppure Gesù risponde parlando di Dio. Come mai? Tale replica sarebbe incongrua se non presupponesse, pur senza formularlo esplicitamente, che Dio agisce qui e adesso attraverso Gesù, che attraverso Gesù è Dio stesso che cerca e trova i suoi figli 'perduti'" (pp. 160-161). 117 Cf. J.-N. Aletti, L'art de raconter, p. 30.
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minano ugualmente affermando l'idea della salvezza di ciò che era perduto (cf. rispettivamente 15,32: "...era perduto ed è stato ritrovato"; 19,10: "Il Figlio dell'uomo è venuto per cercare e salvare ciò che era perduto"). Proprio il concetto di salvezza è caratteristico del terzo vangelo118, e nel nostro caso è Gesù stesso a esprimerlo: "Oggi la salvezza è venuta per questa casa" (v. 9); egli, anzi, evita per delicatezza di ricordare il peccato dell'interlocutore, che lo ammette da solo (cf. v. 8), e insiste soltanto sugli aspetti positivi del rapporto con lui. Decisivo è l'"oggi" dell'incontro, con cui Le dice appunto che con la presenza di Gesù la situazione viene ribaltata e ciò che prima era perduto è tratto in salvo119.
3.5 Problema del valore della Croce Constatata l'insistenza sulla manifestazione e sulla dimostrazione della grazia di Dio in Gesù, sorprende che Luca non colleghi esplicitamente questa grazia con la croce e quindi non sottolinei altrettanto chiaramente la portata espiatrice della morte di Gesù, tanto più che quando l'evangelista scrive ormai il tema è tradizionale. Il problema non è recente e non è di facile soluzione120. Ciò che colpisce maggiormente è l'assenza del celebre, illuminante loghion marciano concernente il Figlio dell'uomo che "dà la vita in riscatto per i molti" (Me 10,45/Mt 20,28)121. Forse Luca non conosceva il tema? Impossibile, poiché in ogni caso esso riecheggia in Le 22,19-20 (parole sul pane e sul vino) e in At 20,28 (discorso di Paolo a Mileto). Forse vuol essere più fedele al Gesù terreno, considerando il detto non storico? Ma questa problematica è mo-
118 Notiamo che Le è l'unico fra i Sinottici a impiegare il sostantivo awrr)pia, "salvezza", e lo fa quattro volte: 1,69.71.77; 19,9. 119 Non si comprende come si possa negare che il racconto su Zaccheo riguardi la salvezza del pubblicano e sostenere che esso verta soltanto sulla restituzione del suo buon nome (così R.C. White, Vindication for Zacchaeus, ExpT 91 [1979] 21; D.A.S. Ravens, Zacchaeus: The Final Part of a Lucan Trìptych?, JSNT41 [1991] 19-32), anche perché l'etimologia del nome (ebr. zak, "puro, innocente") è insufficiente. 120 Cf. una buona trattazione in V. Fusco, // valore salvifico della croce nell'opera lucana, in Aa.Vv., Testimonium Christi. Scritti in onore di J. Dupont, Paideia, Brescia 1985, pp. 205-236 (con bibliografia). Inoltre: G.C. Bottini, Valore salvifico della morte di Gesù, in Id., Introduzione all'opera di Luca, pp. 112-129 (e pp. 129-134: "Excursus. Gli orientamenti attuali sul valore salvifico della morte di Gesù nell'opera lucana"). 121 Cf. voi. I, pp. 161-164.
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derna e non può essere lucana. Forse egli è comandato da altre tradizioni e altre prospettive? Questo sembra certo. In realtà, Le non ha omesso solo il loghion ma tutto l'episodio che lo precede, cioè la sfacciata richiesta a Gesù dei due figli di Zebedeo (cf. Me 10,5-40/Mt 20,20-23). Invece la parenesi su chi debba considerarsi il più grande tra i discepoli, che in Me segue immediatamente l'episodio e che è incentrata su di un capovolgimento di ruoli (cf. Me 10,41-45/Mt 20,24-28), viene da Le spostata nel contesto dell'ultima cena (cf. Le 22,24-27) e ritoccata in modo tale che al loghion marciano corrisponda in perfetto parallelismo quest'altro: "Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sono in mezzo a voi come colui che serve". Mi pare giusto considerare comunque questo pronunciamento come una sostanziale equivalenza lucana del detto marciano adattato al contesto della cena122. In ogni caso l'immagine del servire a tavola suscita inevitabilmente l'idea del porsi a vantaggio altrui. Le sa che il corpo di Cristo è stato "dato per voi" e che il suo sangue è stato "versato per voi" (Le 22,19.20); egli sa anche che la chiesa è stata acquistata da Dio con il sangue del proprio Figlio (cf. At 20,28). Ma non insiste su ciò 123 . Luca piuttosto si rivolge ai suoi lettori, collegando il tema della rivelazione della grazia di Dio più con la vita di Gesù che con la sua morte. È come se l'evangelista fosse condotto dall'intenzione di stabilire che la morte non interrompe il filo continuo della vita che lega insieme lo stadio terreno e quello glorioso dell'esistenza di Gesù. La vita soprattutto interessa a Le. È per questo che anche negli Atti la predicazione degli Apostoli insiste molto più sulla risurrezione che non sulla morte di Gesù (cf. At 4,33; ciò vale per i discorsi sia ai Giudei sia ai Gentili); questa tutt'al più fa parte di uno schema di contrasto fra l'azione degli uomini e quella di Dio, ma appunto in vista della risurrezione (cf. At 2,22-36). Anche la necessità divina, di cui abbiamo detto, racchiude la morte di Gesù nel mistero di un progetto insondabile e perciò le conferisce uno 122 Gli Autori si dividono nel considerare Le 22,27 o come una versione più arcaica di Me 10,45 o come una sua posteriore versione ellenistica oppure, secondo i più, come espressione di una tradizione indipendente (cf. G. Rosse, Le, pp. 884-885). Purtroppo il citato studio di H.D. Buckwalter, che pur imposta il suo studio sul concetto di servizio, non dedica a questo testo alcuna attenzione specifica. 123 Certo però in Le non manca una specifica theologia crucis, svolta però secondo il modulo del giusto sofferente derivante da Sap e dal Salterio; così, insistendo su Le 23,46-47, P. Doble, The Paradox of Salvation. Luke's theology of the cross, SNTS MS 87, University Press, Cambridge 1996.
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spessore teologico unico. Ma ancora una volta, se "bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze" non è altro che "per entrare nella sua gloria" (Le 24,26). E tuttavia, in questa gloria egli entra come colui che ha rivelato la grazia di Dio e lo ha fatto in modo tale che essa gli è come rimasta addosso per sempre. La grazia elargita ai peccatori durante la sua vita terrena lo contraddistingue e lo identifica per tutte le generazioni successive e per tutti gli uomini (cf. At 4,12). Lo si vedrà bene ancora nelle parole pronunciate da Pietro durante il concilio di Gerusalemme: " È per la grazia del Signore Gesù che noi crediamo di essere salvati allo stesso modo di loro" (At 15,11; cf. Gal 2,15-16)!
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VI
IL QUARTO VANGELO (e 1GV)
Premesse Se c'è nel NT uno scritto che abbia un intento cristologico dichiarato, questo è proprio il Quarto vangelo. Nessun altro autore infatti afferma di scrivere con uno scopo così preciso come quello che leggiamo in Gv 20,31: "Queste cose sono state scritte perché crediate che Gesù è il Cristo il Figlio di Dio, e perché credendo abbiate la vita nel suo nome". La seconda metà della dichiarazione riguarda piuttosto l'impatto salvifico della fede sul credente1, ma questa fede ha comunque Gesù come oggetto e del resto la prima metà della dichiarazione lo dice all'evidenza. C'è però una difficoltà, ed è che queste parole, se da una parte riprendono almeno parzialmente la formulazione tradizionale della fede cristologica (richiamando i titoli "Cristo" e "Figlio di Dio"), dall'altra invece esse non corrispondono del tutto a ciò che l'evangelista ha precedentemente sviluppato nell' esprimere il mistero dell'identità di Gesù; per esempio, qui non si fa alcun cenno né alla solenne qualifica di Logos, con cui si apre l'intero vangelo, né alle sue dichiarazioni sull'identità con Dio, né alle varie metafore del pane, della luce, della vite ecc. Quindi non coglieremmo affatto la portata della cristologia di Gv, se ci fermassimo alla dichiarazione conclusiva. Occorre invece caricare queste parole di quelle qualifiche e di quei sintagmi che costituiscono la vera originalità del Quarto vangelo nelPesprimere l'ontologia personale di Gesù2. 1 Prescindiamo qui dalla questione se il verbo originale greco, testualmente incerto, debba essere letto mareÓTi-re (congiuntivo presente: "perché continuiate a credere") oppurerci
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IL QUARTO VANGELO (e IGV)
La peculiarità della presentazione giovannea di Gesù si nota subito, se vi si giunge provenendo dai Sinottici. L'atmosfera cristologica è molto diversa, come risulta da alcuni confronti3. Anzitutto, qui manca la ricorrente compassione di Gesù per gli uomini, che nei Sinottici si manifesta ripetutamente in esorcismi e guarigioni, anche solo nei ricorrenti sommari. Gv invece, mentre da una parte racconta pochissimi miracoli (mai esorcismi) e addirittura omette ogni contatto con i peccatori (l'episodio dell'adultera perdonata è di origine posteriore), dall'altra, anche quando ci presenta tratti molto umani di Gesù (cf. i racconti della Samaritana al pozzo, del paralitico di Betesda, della moltiplicazione dei pani, del cieco nato, della risurrezione di Lazzaro), trapassa subito a una profondità di riflessione sulla figura del protagonista, che nei Sinottici è del tutto assente. Inoltre, il concetto di fede diverge moltissimo: mentre là è piuttosto fiducia nella possibilità che Gesù operi una determinata guarigione, qui invece essa è adesione alla persona di Gesù, al mistero della sua identità divina e quindi alla rivelazione da lui apportata; in più ha valore salvifico, tanto che è connessa con la "vita eterna" (cf. 5,24). Infine, mentre nei Sinottici Gesù non parla quasi mai di sé e procede senza mai autodefinirsi (se non alla fine davanti al Sommo Sacerdote), qui invece quasi non parla altro che di se stesso. Ciò è tanto vero che, mentre nei Sinottici il tema centrale della predicazione di Gesù alle folle riguarda il regno di Dio4, in Gv invece esso è ridotto ai minimi termini (in 3,5: solo a Nicodemo, e di notte!), mentre appunto al centro del suo annuncio c'è la sua stessa identità personale. Lo si vede bene nelle lunghe sezioni dei discorsi di Gesù, sia quando vengono rivolti a individui come Nicodemo (cap. 3) e la Samaritana (cap. 4), sia dopo i miracoli (capp. 5 [paralitico]; 6 [pani]; 9 [cieco nato]; 11 [Lazzaro]), sia nel confronto con i Giudei a Gerusalemme (capp. 7-9), sia durante l'ultima cena (capp. 13-17). Essi HBS 12, Herder, Freiburg i.B. 1997, secondo cui l'evangelista vuole esplicitamente rifarsi agli elementi del kerygma tradizionale per opporsi a una comunità dalla cristologia troppo legata a un messianismo connotato dalla gloria terrena, e quindi per dire che Gesù non è solo "il Messia" ma anche e soprattutto "il Figlio di Dio" (cf. più avanti). 3 J.-N. Aletti, Gesù Cristo: unità del Nuovo Testamento?, Boria, Roma 1995 (orig. frane, Paris 1994), p. 217, parla di "una cristologizzazione amplificata". Più in specie, cf. R. Schnackenburg, Synoptische und johanneische Christologie - ein Vergleich, in F. Van Segbroeck e altri, edd., The Four Gospels. Festschrift Franz Neirynck, III, BETL 100, University Press, Leuven 1992, pp. 1723-1750. 4 Vedi voi. I, pp. 102-113.
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mancano del tutto nei Sinottici e vanno considerati il vero veicolo della cristologia dell'evangelista. Non che i racconti non implichino anch'essi una cristologia; anzi, la designazione dei miracoli come "segni" è già molto eloquente circa la loro portata 'significante' in senso cristologico5. Ma i discorsi vertono direttamente sull'identità di Gesù, e in più impiegano un linguaggio tanto caratteristico da distanziarlo notevolmente dall'identità del Gesù sinottico. In qualche caso è persino possibile supporre che il testo riporti piuttosto un commento dell'evangelista stesso6. È legittimo perciò porsi il problema della loro gesuanità. Ebbene, se è vero che Gv ci conserva una migliore memoria storica su aspetti cronologici e topografici della vicenda terrena di Gesù, non si può dire altrettanto circa il riporto delle sue parole7. In effetti, "l'evangelista fa parlare Gesù nella sua lingua, con la sua mentalità, gli fa prendere posizione su temi che erano attuali nel suo tempo"8. Perciò storia e kerygma, resoconto storiografico e inter5 Cf. R.T. Fortna, The Gospel ofSigns. A Reconstruction ofthe Narrative Source underlying theFourth Gospel, SNTS MS 11, University Press, Cambridge 1970. Più in generale, vedi J.A. du Rand, The characterization of Jesus as depicted in the narrative of the fourth gospel, Neot 19 (1985) 18-36. 6 Ciò vale soprattutto nel caso del cap. 3: qui sia i vv. 13-21 (in apparente prosecuzione delle parole di Gesù) sia i vv. 31-36 (in apparente prosecuzione delle parole del Battista) possono ben costituire un apporto personale dell'evangelista e riportare una confessione di fede della comunità giovannea, dato che già al v. 11 si passa alla prima persona plurale e l'insieme ha un tono dichiaratorio che si stacca da quello colloquiale precedente. Così R. Schnackenburg, // vangelo di Giovanni, I, CTNTIV/1, Paideia, Brescia 1973, pp. 543-579, dove in più l'ordine del testo viene spostato in questo modo: 3,31-36+13-21: "Si può dire che in esso siano condensate le idee fondamentali del vangelo di Giovanni e della teologia giovannea: l'annuncio della venuta del rivelatore escatologico... a salvezza del mondo" (pp. 343s). Da parte sua, C.K. Barrett, The Gospel according to St John, SPCK, London 1965, p. 176, ritiene che già in 3,11 sia la comunità a prendere la parola rivolgendosi alla Sinagoga. 7 Vedi C.H. Dodd, La tradizione storica nel quarto vangelo, Paideia, Brescia 1986 (orig. ingl., Cambridge 1963): pur affermando che Gv conserva una tradizione migliore dei Sinottici circa il racconto della Passione e vari aspetti del ministero di Gesù e anche del Battista, l'Autore riconosce che l'insegnamento di Gesù è incorporato in forme letterarie che sono una creazione originale dell'evangelista. 8 A. Wikenhauser - J. Schmid, Introduzione al Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1981 (orig. ted., Freiburg i.B. 1963, 21966), p. 381. Analogamente, a proposito delle forti dichiarazioni di Gesù circa la propria divinità, scrive F. Dreyfus: "Gesù avrebbe riconosciuto in queste affermazioni parole che, se non pronunziò, avrebbe almeno potuto pronunziare, perché corrispondono a quello che egli pensava di sé, della sua persona e del suo mistero" (Gesù sapeva d'essere Dio?, Paoline, Cinisello Balsamo 1985, p. 9). L'opera classica che tratta del mutuo intreccio tra la storia di Gesù e la storia della chiesa giovannea è di J.L. Martyn, History and Theology in the Fourth Gospel, Abingdon, Nashville 1979 (= 2a ediz. migliorata rispetto alla prima del 1968).
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IL OlJARTO VANGELO (e 1GV)
pretazione di fede si trovano qui strettamente intrecciati. Certo il rapporto fra teologia e storia in Gv è intricato e dibattuto. M a potrebbe aver ragione chi sostiene che tutta l'impresa di Gv è consistita nel liberare il significato universale di Gesù e che quindi in definitiva " è il non-storico che dà senso alla s t o r i a " 9 . Questa constatazione ci conduce a un altro problema: quello della comunità di origine sia del vangelo sia delle lettere giovannee e dei condizionamenti che vi fanno da contorno. Da un po' di tempo ormai, per spiegare l'origine di questi scritti, si parla di circolo giovanneo, di scuola giovannea, o semplicemente della comunità giovannea come ambito ben caratterizzato e anche assai travagliato al suo interno 10 . A parte i conflitti di base con il giudaismo 11 , la comunità giovannea ebbe una storia di aspri confronti interni, imperniati appunto attorno alla cristologia. Dando per scontato che all'inizio della tradizione giovannea c'è la figura sia pure un po' misteriosa del Discepolo prediletto, possiamo compendiare in tre momenti l'iter dello sviluppo cristologia) vissuto dal gruppo che a lui si richiama12. 9 Così E.C. Hoskyns (1940) citato in C.K. Barrett, // vangelo di Giovanni fra simbolismo e storia, '"Brevi studi" 4, Claudiana, Torino 1983, p. 91; in ib., p. 73, si fa un paragone con Chopin: come nelle sue composizioni si trovano tracce di musica popolare polacca, che rappresenta un punto di partenza ma che è assorbita e riformulata con altre componenti col risultato di un insieme diverso, così "se non ci fosse stato un Gesù storico non ci sarebbe stato neanche un quarto vangelo". Da questo punto di vista è ben difficile accogliere le conclusioni nettamente negative, sul piano sia storico sia teologico, elaborate da M. Casey, Is John's Gospel True?, Routledge, London-New York 1996. 10 Vedi soprattutto O. Cullmann, Der johanneische Kreis, Mohr, Tùbingen 1975 (trad. ital. Origine e ambiente dell'evangelo secondo Giovanni, Marietti, Casale Monferrato 1976); D. Moody Smith, Johannine Christianity: Some Reflections on its Character and Delineation, NTS 21 (1974-75) 222-248; R.A. Culpepper, The Johannine School, SBL DS 26, Scholars, Missoula 1975; R.E. Brown, La comunità del discepolo prediletto, Cittadella, Assisi 1982 (orig. ingl., New York 1979); K.M. Bull, Gemeinde zmschen Integration und Abgrenzung. Ein Beitrag zur Frage nach dem Ort der Joh Gemeinde(n) in der Geschichte des Urchristentums, BbET 24,11Lang, Frankfurt-Bern-New York 1992. Cf. in breve G. Segalla, Evangelo e vangeli, pp. 354-355. Più specificamente vedi W. Rebell, Gemeinde als Gegenwelt. Zur soziologischen und didaktischen Funktion des Johannesevangeliums, BET 20, Lang, Frankfurt-Bern-New York 1987, specie pp. 100-123. 12 Cf. U.B. Muller, Die Geschichte der Cristologie in der johanneischen Gemeinde, SBS 77, Kathol. Bibelwerk, Stuttgart 1975; R.E. Brown, La comunità, pp. 127-144; e J. Rinke, Kerygma und Autopsie (cit.). Da parte sua K.-M. Bull, Gemeinde zmschen Integration und Abgrenzung (cit.), distingue tre fasi: (1) quella dell'evangelista, impegnato in una cristologia che, presentando Gesù come Figlio di Dio e unico Rivelatore, rende definitiva la separazione dalla Sinagoga (cf. 20,31); (2) quella della seconda redazione, occupata nel problema del rapporto conflittuale tra la comunità e il mondo (cf. 13,31 - 17,26); (3) quella della terza redazione, impegnata in questioni interne alla comunità stessa come il rapporto tra Pietro e il Discepolo prediletto (cf. 21,24-25).
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(1) All'inizio la comunità è caratterizzata da una cristologia della gloria, contraddistinta dai seguenti elementi: scarsi riferimenti alla croce (nel prologo del vangelo essa è assente); insistenza sul privilegio di una testimonianza oculare (cf. Gv 1,14b ; 1 Gv 1,1 ) e limitazione a una cristologia del taumaturgo, di cui non si accentua l'origine divina (cf. i "segni"). (2) L'evangelista, da parte sua, fa un'operazione complessa. In primo luogo, reinterpreta i "segni" (che rischiano di essere intesi solo in funzione di un'automanifestazione del rivelatore) come "opere" che invece spostano l'accento sull'unità dell'inviato con il Padre 13 . Di conseguenza insiste non più sulla visione dei primi testimoni, ma sulle parole di Gesù disponibili a tutti (cf. 1,18: anche se nessuno ha visto Dio, noi però abbiamo la rivelazione di Gesù) e perciò sulla fede (cf. 20,29, con cui l'evangelista si apre sulle generazioni future) 14 . Inoltre, egli prende in considerazione il problema della morte di Gesù; ma, sia pure accettando alcuni tratti della tradizione cristiana sul suo valore espiatorio (cf. 1,29; 6,5 le; 11,50s), ne parla soprattutto per dimostrare che Gesù l'ha oltrepassata: lo si vede dalla sottolineatura dei temi dell'esaltazione e della glorificazione che trasfigurano la morte assumendola in una cornice quasi di trionfo 15 . Più in
13 Cf. J. Rinke, Kerygma und Autopsie, pp. 126-128 ("Die theologische Differenz zwischen den epya und den arpeTa"). Già J. Becker, Wunder und Christologie. Zum literarkritischen und christologischen Problem der Wunder im Johannesevangelium, NTS 16 (1970) 130-148, riteneva che l'evangelista avesse rielaborato la cosiddetta "fonte dei segni" (Semeia-Quelle) passando da una cristologia epifanica, in cui ciò che contava era l'azione prodigiosa di Gesù, a una cristologia incentrata più sull'interpellazione della parola. 14 Tuttavia una nuova valorizzazione del "vedere" nella tradizione giovannea, dal primo stadio del Discepolo prediletto al secondo del Redattore del vangelo fino al terzo del circolo giovanneo di l-3Gv, è offerta da C. Hergenròder, Wir schauten seine Herrlichkeit, Wùrzburg 1996 (cf. in specie le pagineriassuntive641-647). L'Autore interpreta il macarismo di Gv 20,29 in senso non polemico ma inclusivo ( = beati sono non soltanto i discepoli che hanno visto Gesù, ma anche quelli delle generazioni successive; cf. p. 562). Resta il fatto che il "vedere" dei testimoni in Gv è espresso con almeno tre verbi diversi, che indicano di volta in volta una diversa percezione; vedi per esempio il seguente parallelismo: il Battista il discepolo prediletto 1,29: "Vede (fJXÉTtet) Gesù venire verso 20,5: "Chinatosi vede ((ìXércet) le bende di lui". per terra". 1,32: "Ho visto (teGéaiiai) lo Spirito 20,6: "(Pietro) vede (8«opeI) le bende per scendere". terra". 1,34: "Io ho visto (écópaxa) e ho testi- 20,8: entrato nel sepolcro "vide (efàev) moniato...". e credette". Di volta in volta si registra un approfondimento sempre maggiore dal primo al terzo, passando da una visione meramente esteriore a una di tipo interiore e credente. Cf. I. de la Potterie, Studi di cristologia giovannea, Marietti, Genova 1986, pp.15294-295. L'impiego cristologico dei due verbi SoljàCeiv e ó<> | oGv è caratteristico del Quarto vangelo: il primo è presente 19 volte (fuori di Gv solo 1 volta in At), il secondo 4 volte (fuori 2 volte in At e 1 volta in Paolo). Cf. W. Thùsing, Die Erhóhung und Verherrlichung Jesu im Johannesevangelium, NT A 21, Aschendorff, Mùnster 1960.
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IL QUARTO VANGELO (e IGV)
generale l'evangelista, pur affermando solennemente che Gesù ha una umanità reale, mette piuttosto l'accento sulla gloria che risplende attraverso di essa16. (3) Proprio questo atteggiamento ambiguo diede origine alla formazione di due gruppi all'interno della comunità con loro proprie cristologie contrastanti: (a) da una parte, si formò un gruppo secessionista, che sosteneva solo una rivelazione della gloria del Figlio di Dio sulla terra, senza ritenere che egli fosse realmente morto (cf. lGv 5,6); in questo modo si diede forma a una radicalizzazione ultragiovannea delle concezioni dell'evangelista stesso; (b) dall'altra, e in opposizione ai secessionisti, si collocò l'autore di lGv (diverso dall'evangelista) per il quale la piena umanità di Gesù e in specie la sua morte espiatrice diventano il punto centrale della fede cristiana (cf. lGv 3,5.8; 4,2; 2Gv 7)17. L'attuale stato redazionale del vangelo può ben integrare in sé materiale proveniente dalla comunità giovannea, con cui l'evangelista forse non sempre è d'accordo. Sicché vi si possono anche constatare delle tensioni di vario genere (tra una cristologia alta e una bassa, tra un'escatologia realizzata e una futura ecc.). Tuttavia, è lecito e doveroso assumere l'intero scritto come una unità tanto letteraria quanto teologica e tentare di vedere quale sia il suo progetto di comunicazione. In parte lo si vede già nella sua struttura 18 , che secondo una sentenza abbastanza comune è bipartita: un «libro dei segni» (o «rivelazione davanti al mondo»; capp.
16 Si spiegano perciò posizioni contrastanti di chi afferma che Gv indulge a forme di un docetismo ingenuo (così E. Kàsemann, L'enigma del quarto vangelo. Giovanni: una comunità in conflitto2 col cattolicesimo nascente?, Claudiana, Torino 1977 [orig. ted., Tùbingen 1966, 1967]) e di chi invece sostiene il contrario (cf. U. Schnelle, Antidoketische Christologie im Johannesevangelium, FRLANT 144, Vandenhoeck, Gòttingen 1987). Una intenzione polemica contro la mistica della Merkavah, fondata su Ez 1, è individuata da J.J. Kanagaraj, 'Mysticism' in the Gospel o/John. An Inquiry into its Background, JSNT Suppl. 158, Academic Press, Sheffield 1998, particolarmente nella dimensione storica di Gesù e soprattutto nella sua morte di croce. 17 Pur nella continuità di una comune tradizione, la differenza di autore fra Gv e lGv si nota a livello sia stilistico (per esempio, la congiunzione conclusiva "dunque", ouv, presente ben 202 volte in Gv manca del tutto in lGv) sia contenutistico (per esempio: il "principio" di lGv 1,1 ha un significato diverso da Gv 1,1; la metafora della "luce" in Gv è applicata a Gesù, mentre in lGv 1,5 è detta di Dio; il "Paraclito" in lGv 2,1 è Gesù e non più lo Spirito). Vedi anche K. Wengst, Hàresie und Orthodoxie im Spiegeldes ersten Johannesbriefes, Mohn, Gùtersloh 1976; R.E. Brown, The Epistles of John, AB 30, Doubleday, Garden City 1982 (trad. hai., Cittadella, Assisi 1986), pp. 47-115; H.-J. Klauck, Der erste Johannesbrief, EKK 23/1, Benziger/Neukirchener, Zùrich/Neukirchen 1991, pp. 32-47. 18 Cf. la buona discussione del problema (con status quaestionis) in G. Segalla, Evangelo e vangeli, pp. 274-316.
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1-12) e un «libro dell'ora» (o «rivelazione davanti alla comunità»; capp. 13-20/21). Da essa risulta per esempio che, mentre la prima parte si chiude con una constatazione di incredulità nei confronti di Gesù (cf. 12,37ss), la seconda invece culmina su un pieno atto di fede in lui (cf. 20,28). Soprattutto a noi importa chiederci quale possa essere la sua specifica cristologia, che d'altronde costituisce il punto focale esplicito dell'intera composizione. A questo proposito è comunque importante andare al di là dei semplici titoli presenti in 20,31, anche supponendo che gli sviluppi interni al vangelo vogliano soltanto riflettere in modo nuovo sulla fede tradizionale da essi espressa e che si può considerare il vero punto di riferimento dell'evangelista. Ma, dato che questi sviluppi finiscono per tracciare una cristologia assai sfaccettata, l'importante è di coglierne l'elemento centrale, il suoproprium, se mai ce ne fosse uno. I tentativi fatti finora, sia per descrivere tale cristologia, sia soprattutto per individuarne il punto centrale, sono tanti 19 . Secondo uno studio recente, essi si possono raccogliere attorno a cinque modi diversi di approccio al 19 Diamo qui la bibliografia maggiore in rapporto all'insieme del vangelo: J. Dupont, Essai sur la christologie de saint Jean, Abbaye de St. André, Bruges 1951; F.-M. Braun, Jean le Théologien - III/l. Sa théologie: Le mystère de Jésus-Christ, Gabalda, Paris 1966; S. Sabugal, Christos. Investigación exegética sobre la cristologia joannea, Herder, Barcelona 1972; G. Segalla, Rassegna di cristologia giovannea, StPat 18 (1972) 693-732; R.T. Fortna, Christology in the Fourth Gospel: Redaction-critical Perspectives, NTS 21 (1975) 489-504; M. de Jonge, Variety and Development in Johannine Christology, in Jesus: Stranger from Heaven and Son ofGod, SBLSBS 11, Scholars, Missoula 1977, pp. 193-222; D.L. Mealand, The Christology of the Fourth Gospel, SJT 31 (1978) 449-467; J. Becker, Ich bin die Auferstehung und das Leben: Eine Skizze der johanneischen Christologie, ThZ 39 (1983) 138-151; W. Grundmann, Der Zeuge der Warheit. Grundziige der Christologie des Johannesevangeliums, ed. W. Wiefel, Evangelische Verlagsanstalt, Berlin 1985; S. Panimolle, L'evangelista Giovanni. Pensiero e opera letteraria dèi Quarto Vangelo, Boria, Roma 1985, pp. 97-203; I. de la Potterie, Studi di cristologia giovannea, cit.; G. Mlakuzhyil, The Christocentric Literary Structure of the Fourth Gospel, AnB 117, PIB, Rome 1987; U. Schnelle, Antidoketische Christologie im Johannesevangelium, FRLANT 144, Vandenhoeck, Gòttingen 1987; M.-É. Boismard, Moìse ou Jesus. Essai de christologie johannique, BETL 84, University Press, Leuven 1988; W. Loader, The Christology of the Fourth Gospel: Structure and Issue, Peter Lang, Frankfurt a.M.-Bern-New York 1989; P. Létourneau, Jesus, Fils de l'Homme et Fils de Dieu. Jean 2,23 - 3,26 et la doublé christologie johannique, Bellarmin/Cerf, Montreal/Paris 1993; R. Schnackenburg, La persona di Gesù nei quattro vangeli, Paideia, Brescia 1995 (orig. ted., Freiburg i.B. 1993), pp. 313-413; P.N. Anderson, The Christology of the Fourth Gospel. Its Unity and Disunity in theLight ofJohn 6, WUNT 2.78, Mohr, Tùbingen 1996. Infine, circa il particolare influsso esercitato da Gv sullo sviluppo dogmatico prima di Nicea, cf. T.E. Pollard, Johannine Christology and the Early Church, SNTS MS 13, University Press, Cambridge 1970.
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IL QUARTO VANGELO (e 1GV)
problema20. Questa molteplicità, se non altro, ci documenta quanto sia ricca e complessa la posta in gioco e insieme ci stimola a percorrere una nostra via. Ciò che mi pare importante per capire Gv è individuare innanzitutto una categoria fondamentale, portante, che fondi tutti gli sviluppi dottrinali e, giustificandoli, permetta di comprenderli. Essa funzionerebbe come un criterio formale e sintetico, tale da conferire senso e sostegno a tutte le componenti contenutistiche dello scritto 21 . Ebbene, la nostra scelta metodologica consiste nel procedere in tre semplici momenti. In primo luogo, vogliamo mettere in luce la categoria cristologica di fondo, quella di Gesù come «rivelatore», che regge tutto il discorso del Quarto vangelo sulla figura di Gesù stesso (e non solo su di essa). In secondo luogo, analizzeremo le varie componenti, che da quella si irradiano e che formano la materia concreta della definizione di Gesù secondo la cristologia giovannea. Infine, vedremo la rilevanza cristologica dello Spirito, in quanto egli conferma la rivelazione arrecata da Gesù.
1. Gesù, il rivelatore celeste Anche se mai in Gv s'incontra il titolo specifico di «rivelatore» attribuito a Gesù, tuttavia la sua azione di base consiste proprio neh'arrecare al mondo una "verità" prima sconosciuta (su Gesù stesso, su Dio e sull'uomo), che appunto è dischiusa come oggetto di una manifestazione o rivelazione particolare, non altrimenti 20 Cf. P.N. Anderson, The Christology oftheFourth Gospel, pp. 17-32. I cinque modi sono: (1) stendere delle sintesi generali, che descrivono e rinunciano agli approfondimenti; (2) partire da singole unità letterarie prese come chiavi cristologiche dell'insieme; (3) raccogliere il tutto attorno a qualche tema specifico, come il rapporto di Gesù con il Padre, o a qualche titolo; (4) valorizzare sincronicamente la dimensione letteraria dell'insieme e la sua retorica interna; (5) basarsi sulla situazione storico-ecclesiale dell'autore e sulle fasi di sviluppo della comunità giovannea. 21 A questo proposito valgono più che mai le parole di Gadamer sull'esperienza ermeneutica: "Chi si mette a interpretare un testo, attua sempre un progetto. Sulla base del più immediato senso che il testo gli esibisce, egli abbozza preliminarmente un significato del tutto... In tal modo, il movimento del comprendere va continuamente dal tutto alla parte e dalla parte al tutto. Il criterio per stabilire la correttezza delle interpretazioni è l'accordarsi dei particolari nel tutto. Se tale accordo manca, l'interpretazione è fallita" (Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, 101995, pp. 314 e 341).
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attingibile se non attraverso l'intervento specifico di Gesù. Lo vediamo in tre diversi momenti.
ÌA La rivelazione come tema programmatico vangelo
e unificante del
La conclusione del prologo in 1,18 rappresenta la vera porta d'ingresso al Quarto vangelo: "Dio, nessuno lo ha mai visto; ma l'unigenito dio, che è nel seno del Padre, lui lo ha spiegato (èxeTvo? èjjrppfiaaxo)". Questa frase, che ha tutta l'aria di una tesi da svolgere o di un assioma programmatico, è densissima di concetti fondamentali. Innanzitutto, essa implica una distinzione tra " D i o " e " d i o " , che già era presente in 1,1 (rispettivamente con e senza articolo: "Il Logos era rivolto verso Dio, e il Logos era dio"); essa pone una opportuna distinzione tra l'unico Dio della tradizione israelitica e, per dir così, il 'dio per partecipazione' della fede cristiana, cioè il Logos-Gesù; il riferimento bilaterale alla generazione con la doppia qualifica di "unigenito" e di " P a d r e " evidenzia al massimo, pur nell'uguaglianza di natura, le differenze di persone e di ruoli, proprie di ciascuno22. Il secondo concetto, tipico specialmente dell'oriente semitico, concerne l'impossibilità per l'uomo di realizzare la sua aspirazione forse più profonda, quella di vedere Dio (cf. anche lGv 4,12.20). Ciò era già stato impedito a Mosè secondo una celebre pagina biblica (cf. Es 33,18-23)23. Ma che egli sia "lontano da noi come la profondità dei cieli" è convinzione che appartiene anche all'antica sapienza mesopotamica 24 e viene ripetuto dal biblico Siracide: "Chi mai lo ha veduto, così da raccontarlo (xoù èx8tT)yTiaexaO?" 22 La questione di critica testuale, che divide anche i traduttori nell'opzione tra "unigenito dio" oppure "unigenito figlio", mi pare che si debba risolvere a favore della prima possibilità a motivo del maggior peso delle testimonianze manoscritte (cf. P 6 6 S B C L, oltre a Ireneo e Origene). Vedi anche B.A. Mastin, A Neglected Feature ofthe Christology oftheFourth Gospel, NTS 22 (1975) 32-51, con sottolineatura del valore ontologico di questa designazione. 23 Perciò anche le frasi bibliche circa un'avvenuta visione di Dio (cf. Giacobbe in Gn 32,31: " H o visto Dio faccia a faccia"; lo stesso Mosè e gli Anziani in Es 24,10s: "Videro il Dio d'Israele"; Giobbe in 42,5: "I miei occhi ti vedono"; Isaia in 6,1: "Io vidi il Santo seduto su un trono") vanno intese come pure metafore di una particolarissima esperienza religiosa, come per il Salmista che in vista dell'ascesa al Tempio prega: "Quando verrò e vedrò il volto di Dio?" (Sai 42,3). 24 Cf. R. Labat e altri, Les religions du Proche-Orient asiatique. Textes babyloniens, ougaritiques, hittites, Fayard, Paris 1970, p. 323.
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(43,31). Questo richiamo all'insondabilità di Dio è fatto in vista dell'affermazione inaudita che segue. Il terzo concetto infatti riguarda la rivelazione apportata da Gesù. A questo proposito facciamo due osservazioni fondamentali. La prima è che la rivelazione riguarda propriamente Dio stesso, così che non è improprio dire che "il Quarto vangelo è un libro su Dio più che un libro su Gesù"25; la cristologia perciò appare qui più che mai strettamente connessa con la teo-logia (cf. sotto). La seconda poi, più specifica, riguarda il verbo impiegato dal testo: esso non è di origine apocalittica e propriamente non significa 'rivelare' nel senso di far vedere, mostrare con evidenza; più discretamente esso rimanda a un disvelamento di altro genere, che, senza annullare il mistero, è fatto da chi è ben al corrente delle cose e perciò le espone con conoscenza di causa26. Nel nostro caso il riferimento è alla parola come mezzo di manifestazione; infatti, nonostante Gesù affermi poi che in lui si vede il Padre (cf. 14,8-9), è prevalentemente alla parola detta o scritta che Gesù e l'evangelista connettono la rivelazione27. E il fatto che a parlare sia "l'unigenito dio" conferisce a questa parola una garanzia ineguagliabile (cf. 8,38: "Io dico le cose che ho visto presso il Padre"). Bisogna però riconoscere che la rivelazione di cui si tratta in Gv non è solo quella attribuita alla parola di Gesù durante la sua vita terrena, ma in qualche modo comprende anche la parola scritta dell'evangelista. Il verbo con cui si chiude il prologo in realtà si riferisce anche al racconto che è proprio dell'autore del vangelo: la 'spiegazione' data da Gesù praticamente si identifica con quella dello 25
C.K. Barrett, // quarto Vangelo fra simbolismo e storia, p. 73. Un ottimo parallelo si può considerare Gb 28,20-28 dove alla constatazione che la Sapienza "è nascosta agli occhi di ogni vivente" si aggiunge però: "Dio solo ne conosce la via, lui solo sa dove si trovi... Egli la vide e la spiegò (così nei LXX: xaì èipTpriaa-co aùrrjv, "la raccontò", cioè "disse in che cosa consiste"; diverso il TM: hàqaràh, "la scrutò, la investigò") e disse all'uomo: "Ecco, il timor di Dio è sapienza e astenersi dal male è intelligenza". Di tutt'altro genere è la proposta di I. de la Potterie, "C'est lui qui a ouvert la voie". La finale du Prologue johannique, Bibl 69 (1988) 340-370, che accoglie il significato di "condurre, guidare" (verso il Padre) con riferimento a Gv 14,6; questo tipo di lettura, non solo trascura il fatto che il verbo è in forma assoluta privo di complementi (sicché il suo riferimento più ovvio è alla prima metà della frase), ma in più tende a chiudere il prologo su se stesso invece di aprirlo sul resto del Vangelo. 27 Cf. X. Léon-Dufour, Lettura dell'evangelo secondo Giovanni, I, Paoline, Cinisello Balsamo 1990, pp. 198-201. Si può anche far riferimento a ciò che Platone scrive del ruolo di Apollo a Delfi in rapporto ai culti cittadini: "Questo dio, interprete (èirnmTr|<;) patrio di queste cose per tutti gli uomini, le spiega (è^yetTat) sedendo sull'ombelico della terra" (Resp. 427c). Del resto, Filone Al. definisce il Logos "interprete (ipwvzùt;) e profeta di Dio" (Deus imm. 138; cf. Leg. ali. 3,207). 26
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scrittore che riferisce tale spiegazione. Ma lo scrittore non ci dà soltanto delle parole; infatti la sua opera non è equiparabile né alla sinottica fonte Q né all'apocrifo vangelo di Tommaso, che appunto raccolgono soltanto parole di Gesù. Egli invece ha dato un impianto narrativo alla sua composizione, sicché anche le maggiori rivelazioni verbali hanno la cornice di un racconto: e di un racconto dove è importante non solo il personaggio centrale ma anche la trama di cui egli è il protagonista28. Sicché, è possibile cogliere nel testo una doppia omogeneità o corrispondenza: la prima, che travalica il racconto, è tra la materia della narrazione e l'evangelista narratore, se non altro perché per il lettore del testo un piano si sovrappone all'altro; la seconda, interna al racconto stesso, è tra la parola pronunciata oralmente da Gesù e le azioni da lui compiute. L'importante conclusione che ne deriva è che la rivelazione avviene non solo oralmente ma anche fattualmente29. Il fondamento ultimo di questa affermazione sta nel fatto che fin dal centro del prologo si confessa il paradosso del Logos divino diventato "carne", cioè soggetto storico, limitato e fragile, comunque contestualizzato. Ebbene, nel corso del vangelo Gesù non è presentato soltanto come un oracolo vivente; egli non sta, come Apollo a Delfi, seduto immobile sull'ombelico della terra per emettere solo responsi e sentenze. Al contrario, Gesù ha una storia vissuta, che è fatta di incontri, di avvenimenti, e in ultimo di sofferenza e di morte, prima ancora che di risurrezione. È tutto questo insieme, secondo la conclusione di 20,30 ("molti altri segni fece Gesù"), ad essere "segno" che rimanda alla sua profondità personale e funzionale. Anzi, non sono le parole di Gesù a essere qualificate da Gv come segni, ma i suoi interventi operativi; essi perciò in Gv hanno uno spessore cristologico non inferiore ma analogo a quello dei discorsi (che peraltro ne sono spesso solo delle esplicitazioni). Questa precisazione è importante, perché c'è stato chi, enfatizzando indebitamente la frase che leggiamo in 15,3 ("Voi siete già mondi a motivo della parola che vi ho annunciato"), ha ritenuto che il fondamento della purificazione espletata da Gesù risiedesse
28 Vedi le belle pagine metodologiche sul rapporto narrativa-personaggi in R. Vignolo, Personaggi del Quarto Vangelo. Figure della fede in San Giovanni, Glossa, Milano 1994, pp. 7-50. 29 Cf. anche I. de la Potterie, Cristo centro della forma della rivelazione secondo S. Giovanni, in Id., Studi, pp. 261-278.
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"soltanto nella parola del Rivelatore"30. Ma bisogna pur riconoscere che in definitiva "una dicotomia tra l'azione salvifica di Gesù e la sua parola salvifica non corrisponde al pensiero di Giovanni"31. Infatti, l'azione di Gesù che lava i piedi ai suoi discepoli, purificandoli (cf. 13,10), allude all'intero servizio di amore reso da Gesù verso gli uomini e culminato nella sua morte32. Perciò, anche se l'evangelista ha utilizzato una supposta 'fonte dei segni' (Semeiaquelle) contenente solo una serie di miracoli33, al livello attuale del racconto anche la morte di Gesù è inevitabilmente un "segno", sia pur congiunto con quello della risurrezione34. 1.2 Legittimazione e itinerario del Rivelatore35 In Gv Gesù si presenta come uno che non agisce e non parla in proprio, ma, provenendo da un'origine superiore, deve tutto a Dio: questi lo ha mandato e gli ha donato tutto ciò che lo caratterizza; da parte sua, Gesù parla solo di ciò che ha visto e udito presso di lui, poiché da lui è disceso e a lui deve di nuovo ascendere. Questo vario modo di esprimersi è totalmente tipico del Quarto vangelo, essendo poco o nulla presente nei Sinottici. 1.2.1 Missione36. Gv impiega due verbi (a7roaTéXXetv e 7té^7reiv, entrambi col significato di "mandare, inviare") per indicare che Gesù adempie una missione e quindi non si presenta per una pro30 R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, Vandenhoeck, Gòttingen 81962, p. 410. 31 R.E. Brown, Giovanni. Commento al vangelo spirituale, Cittadella, Assisi 1979 (orig. ingl., Garden City 1966), pp. 817s. 32 Cf. C.K. Barrett, pp. 364, 368, 395; e soprattutto T. Knòppler, Die theologia crucis des Johannesevangeliums. Das Verstàndnis des Todes Jesu im Rahmen der johanneischen Inkarnations- und Erhòhungschristologie, WMANT 69, Neukirchener, Neukirchen-Vluyn 1994. 33 Cf. B. Corsani, / miracoli di Gesù nel quarto vangelo. L'ipotesi della fonte dei segni, SB 65, Paideia, Brescia 1983; W.J. Bittner, Jesu Zeichen im Johannesevangelium. Die Messias-Erkenntnis im Johannesevangelium vor ihrem jùdischen Hintergrund, WUNT 2.26, Mohr, Tùbingen 1987; R.T. Fortna, Signs/Semeia Source, in ABD 6, pp. 18-22. 34 Cf. J. Zumstein, Le signe de la croix, LV 41 (1992) 68-82. 35 Cf. R. Penna, Lessico di rivelazione e cristologia nel Quarto Vangelo, VH 8 (1997) 141-168 specie 145-155. 36 Soprattutto due Autori hanno studiato questo linguaggio: J.P. Miranda, Der Vater, der mich gesandt hat. Religionsgeschichtliche Untersuchung zu den johanneischen Sendungsformeln. Zugleich ein Beitrag zur johanneischen Cristologie und Ekklesiologie, Lang, Bern 1972; J.-A. Bùhner, Der Gesandte und Sein Weg im 4. Evangelium. Die kultur- und religionsgeschichtlichen Grundlagen der johanneischen Sendungschristologie sowie ihre traditionsgeschichtliche Entwicklung, Mohr, Tùbingen 1977.
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pria iniziativa autonoma37. Anzi, i due verbi sono sempre all'attivo con Dio come soggetto; per esempio: "Dio ha mandato il figlio nel mondo non per giudicare il mondo, ma perché il mondo fosse salvato mediante lui" (3,17); "Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha inviato" (4,34). Il confronto con i Sinottici dà questi risultati: il primo dei due, utilizzato da Gv diciassette volte (più tre volte in lGv), nei Sinottici è rarissimo38; il secondo poi, presente ben ventitré volte in Gv, nei Sinottici è addirittura assente. Evidentemente ci troviamo di fronte a un'espressione privilegiata della cristologia giovannea, che ama richiamare l'origine divina del ministero di Gesù. 1.2.2 Donazione. Affine al precedente è il linguaggio espresso dal verbo BiBóvou, "dare, concedere, offrire", quando ha Dio come soggetto e Gesù come oggetto o destinatario. Attestato ben venticinque volte, esso in questo senso è di fatto esclusivo di Gv. Solo raramente si dice che il dono di Dio è Gesù in persona: "Dio ha tanto amato il mondo da aver dato il figlio unigenito" (3,16; cf. anche 6,32); qui la sintassi della frase fa vedere bene che il dono del Figlio è un atto di amore estremo39, tanto più che egli è dato per "il mondo" e cioè per una realtà fondamentalmente nemica di Dio40. Perlopiù invece si tratta di un dono fatto da Dio a Gesù; vedi soprattutto 17,11.12: "Custodiscili nel tuo nome, che mi hai dato", dove addirittura si afferma il dono del nome divino a Gesù e quindi la sua uguaglianza con Dio41. Più che mai dunque Gesù risulta essere il vero plenipotenziario di Dio, il suo unico rappresentante nel mondo.
37 I due verbi ricorrono rispettivamente nei passi seguenti: il primo in 3,17.34; 5,36.38; 6,29.57; 7,29; 8,42; 10,36; 11,42; 17,3.8.18.21.23.35; 20,21; il secondo in 4,34; 5,23.24.30.37; 6,38.39.44; 7,16.18.28.33; 8,16.18.26.29; 9,4; 12,44.45.49; 14,24; 15,21; 16,5. 38 Una volta sola nella triplice tradizione (cf. Mt 10,10/Mc 9,37/Lc 9,48), due volte in Mt (15,24; 21,37), tre volte in Le (4,18 [citazione di Is 61,2]; 4,43; 10,16); altrove in At 3,26.1 due verbi sono presenti solo una volta per uno in Paolo (rispettivamente in Gal 4,4; Rm 8,3). Vedi anche l'inusuale qualifica di Gesù come "apostolo" in Eb 3,1. 39 Non è escluso che sullo sfondo sia implicito un riferimento al figlio unico e dilettissimo di Gn 22 (cf. la Aqedah). 40 Cf. J. Mateos - J. Barreto, Dizionario teologico del Vangelo di Giovanni, Cittadella, Assisi 1982 (orig. spagn., Madrid 1980), pp. 203-207. 41 Questa versione del testo è dunque ben diversa da quella che si trova nella Bibbia CEI ("Custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato"); cf. G. Segalla, La preghiera di Gesù al Padre (Gv 17), SB 63, Paideia, Brescia 1983, pp. 149-151: "si penetra così nel più profondo del mistero trinitario" (p. 151).
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1.2.3 Visione e audizione. Varie volte in Gv, e soltanto in Gv, Gesù dice di parlare solo di ciò che ha visto e udito presso il Padre (cf. ópàv, "vedere": cinque volte; àxouetv, "udire, sentire, ascoltare": quattro volte). Anche se possono essere uniti (cf. 3,32: "Ciò che ha visto e sentito, questo egli testimonia"), perlopiù i due verbi appaiono separati. Quanto alla visione, Gv non specifica tanto ciò che Gesù ha visto42 quanto piuttosto insiste semplicemente sul fatto stesso che egli ha visto. Ebbene, da una parte, il fatto di una visione a cui egli solo ha avuto accesso (cf. 1,18) fonda la possibilità di una testimonianza unica nel suo genere (cf. 3,11). L'idea giovannea di testimonianza (cf. il verbo {xapxupetv: 33 volte in Gv e 6 volte in lGv [nei Sinottici solo una volta in Mt e Le]; e il sostantivo (juxpxupux: 14 volte in Gv e 6 volte in lGv [contro tre in Me e una in Le]), si fonda proprio su questa prerogativa. A parte il tema di una molteplice testimonianza resa da altri su Gesù (cf. soprattutto 5,31-40), è quella resa da Gesù che qui più c'interessa43. Egli dichiara con piena coscienza: "Noi parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo veduto" (3,11). "Anche se io testimonio di me stesso, la mia testimonianza è veritiera perché so donde vengo e dove vado" (8,14; cf. 8,18). Essa dunque ha valore per se stessa, tanto che Gesù non ne dà alcuna prova. Solo in 5,31-38 si richiama alle "opere" del Padre. Ma normalmente "invece di richiamarsi ai segni... Gesù esige la fede nella sua parola e basta: questa parola è quella di un 'testimone'. Gesù non espone pensieri propri, ma 'ciò che egli sa' attualmente per averlo veduto (e udito: 3,32) presso il Padre" 44 . Dall'altra, la sua genericità, che suggerisce comunque un vasto spettro di 'cose viste', contribuisce a collocare Gesù in un particolare alone di mistero. Quanto poi all'audizione, essa ha una portata cristologica ancora più forte poiché, se Gesù dice solo le cose che ha udito dal Padre (cf. 15,15: "Vi chiamo amici, poiché tutto ciò che ho sentito dal Padre mio ve l'ho fatto conoscere") anche se esse non sono specificate, indirettamente si afferma che tutto
42 Infatti, mentre solo una volta oggetto della visione è personalmente "il Padre" (6,46bis), le altre volte si tratta genericamente soltanto di "ciò che abbiamo visto" (3,11), "ciò che ha visto" (3,32), oppure "ciò che è presso il Padre" (8,38). 43 Cf. J.M. Boice, Witness and Revelation in the Gospel of John, Paternoster, Exeter 1970; J. Beutler, Martyria. Traditionsgeschichtliche Untersuchungen zum Zeugnisthema bei Johannes, FTS 10, Knecht, Frankfurt a.M. 1972; E. Cothenet, Le témoignage selon saint Jean, Esprit et Vie 101 (1991) 401-407. 44 X. Léon-Dufour, Lettura dell'evangelo secondo Giovanni, I, p. 399.
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ciò che dice Gesù viene da Dio. È così fondata la legittimità e quindi l'affidabilità di tutte le parole di Gesù nel Quarto vangelo: "La parola che ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato" (14,24). 1.2.4 Discesa e ascesa. Gv impiega tutta una serie di vocaboli per esprimere un doppio spostamento spaziale e insieme qualitativo di Gesù da un originario ambito celeste a quello terrestre, e viceversa45. Distinguiamo chiaramente i due campi semantici, premettendo che il semplice verbo "essere" può far da cerniera tra entrambi, essendo riferito tanto verso il basso (cf. 8,23bis: "Io sono dall'alto... Io non sono di questo mondo"; così anche 17,14.16) quanto verso l'alto (cf. 14,3: "... affinché dove sono io siate anche voi"; 17,11: "Non sono più del mondo"; vedi anche 6,46; 17,24). 1.2.4.1 II lessico della discesa è costituito da quattro verbi e da un avverbio. (1) "Venire", gpxeaGoci, è il più frequente46. A parte un paio di volte in cui la venuta non è precisata (cf. 10,10; 12,47), esso è sempre specificato da un complemento di provenienza o di arrivo: "da Dio" (3,2), "nel mondo" (3,19; 6,14; 12,46; 16,28; 18,37), "dall'alto... dal cielo" (3,31bis), "nel nome del Padre mio" (5,43), "non da me stesso" (7,28), "di dove" (8,14), "in questo mondo" (9,39). In più, a parte due soli casi, il verbo si trova sempre in bocca a Gesù a esprimere la sua personale autocoscienza. (2) "Uscire", è!--épxtaGai (sei volte), è sempre specificato con il punto di provenienza nella forma "da Dio" (con le preposizioni ex in 8,42, àmó in 13,3; 16,30, eroxpàin 16,27.28; 17,8). Nei Sinottici non c'è mai 47 . (3) "Scendere", xatapaivetv (otto volte), è sempre specificato 45 Ovviamente le ricorrenze lessicali che prendiamo in considerazione sono quelle di carattere cristologico, non narrativo. Oltre a J.P. Miranda, Der Valer, pp. 39-82, vedi anche W.A. Meeks, The Man front Heaven in Johannine Sectarianism, JBL 91 (1972) 44-72: il linguaggio di discesa-ascesa occorre sempre in contesti che sottolineano l'impossibilità degli "uomini di questo mondo" e specialmente dei Giudei di comprendere e accettare Gesù. In particolare, cf. V. Pasquetto, Incarnazione e comunione con Dio. La venuta di Gesù nel mondo e il suo ritorno al luogo d'origine secondo il IV Vangelo, Teresianum, Roma 1982, specie pp. 23-168. 46 La ricorrenza è di 14 volte. Nei Sinottici la situazione è la seguente: una sola volta nella triplice tradizione (cf. Mt 9,13/Mc 2,17/Lc 5,32: "Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori"); una volta in Mc-Mt (cf. 10,45/20,28: sul Figlio dell'uomo che "è venuto non per essere servito"); una volta in Q (cf. Le 7,19/Mt 11,3: interrogativo su "colui che deve venire"); cinque volte nel solo Mt, mai nel solo Le; comunque il verbo non è mai accompagnato dai complementi esplicativi che troviamo in Gv. Cf. E. Arens, The r\\Qo\>-Sayings in the Synoptic Tradition. A Historic Criticai Investigation, OBO 10, Fribourg-Gòttingen 1976. 47 Quanto all'apparente eccezione di Me 1,38, cf. i Commenti.
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con il complemento "dal cielo" (3,13; 6,33.38.41.42.50.51.58)48. Nei Sinottici non c'è mai. (4) "Giungere, arrivare",fyceiv:solo in Gv 8,42 ("Io sono uscito e giungo da Dio") e lGv 5,20 ("Sappiamo che il Figlio di Dio è venuto/giunto"). (5) Anche l'avverbio 7ró0ev, "di dove", come interrogativo indiretto, in Gv ha una rilevanza cristologica particolare. Raramente presente nei Sinottici (cf. Me 6,2: "Di dove gli vengono queste cose?"), esso è caratteristico del Quarto vangelo, che su tredici volte ne testimonia solo tre o quattro in senso narrativo. Normalmente invece serve per esprimere il mistero di un'origine che sfugge alla comprensione umana, a partire dal vino di Cana (cf. 2,9), passando per tutto il corpo del vangelo (cf. 3,8; 4,11; 6,5; 7,27.28; 8,14; 9,29.30), fino all'interrogativo di Pilato: "Di dove sei tu?" (19,9). 1.2.4.2 II lessico di ascesa è ancor più ampio, comprendendo almeno sette verbi. (1) "Salire", àvocpociveiv, è presente solo quattro volte ma sempre in bocca a Gesù ed è accompagnato dalla specificazione del termine di arrivo: "nel cielo" (3,13), "dove era prima" (6,62), "presso il Padre" (20,17), "presso il Padre mio e Padre vostro" (20,27). Particolarmente 6,62, dicendo che il termine di arrivo corrisponde al precedente punto di partenza, chiude perfettamente il cerchio dell'intera esistenza di Gesù, che dunque torna all'ambito divino di partenza (cf. anche 17,5: "Glorificami, Padre, presso te stesso con la gloria che avevo prima che il mondo fosse, presso di te") 49 . (2) "Andarsene, tornare", wràyeiv, è il più frequente (15 volte); lasciando perlopiù nell'indeterminatezza il termine dell'andata, il verbo rimanda alla misteriosità del viaggio percorso da Gesù, anche se esso è nascosto solo ai Giudei non credenti (cf. 8,21: "Dove io vado voi non potete venire"), mentre ai discepoli è concesso di intravedere il punto di arrivo: "Ora io vado presso colui che mi ha mandato, e nessuno di voi mi chiede: Dove vai?" (16,5). Per la verità, sia Simon Pietro sia Tommaso gli hanno già chiesto "Dove vai?" (cf. 13,36; 14,5), ma probabilmente senza alcun riferimento alla gloria che lo attendeva. (3) Il verbo "venire", che abbiamo già visto per il movimento di discesa, viene 48
II fatto che ricorra quasi sempre nel discorso sul "pane di vita" del cap. 6 dipende dal riferimento alla manna nella citazione in 6,31 del Sai 78,24 ("Un pane dal cielo hai dato loro da mangiare"), che a sua volta dipende da Es 16,4 ("Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi"). 49 "La gloria che Gesù possedeva 'prima che il mondo fosse' non si riferisce soltanto all'esistenza del Logos anteriore al mondo, ma anche a quella superiore al mondo, in ultima analisi alla sovramondanità del Rivelatore divino" (R. Schnackenburg, // vangelo di Giovanni, III, p. 279).
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anche impiegato per quello di ascesa (due volte in 17,11.13: "Ora io vengo a te"). (4) Il composto àir-épxeaBai, "partire, allontanarsi, andarsene", è usato in forma assoluta per evidenziare il fatto della partenza in quanto tale (due volte in 16,7: "Conviene a voi che io mene vada, poiché se non me ne vado...". (5) "Lasciare, abbandonare' ', à
1.3 Proprietà del Rivelatore Le precedenti constatazioni portano inevitabilmente a una molteplice conclusione sull'identità e sulla funzione di Gesù, che possiamo enucleare in tre aspetti: Gesù "sa" chi è e cosa deve dire e fare; egli infatti costituisce un tutt'uno con la verità; il suo solo compito è di comunicarla. 1.3.1 La conoscenza. L'evangelista distingue due tipi di conoscenza in Gesù, a seconda dei suoi oggetti. C'è anzitutto una conoscenza umana, acquisita per così dire naturalmente, a cui si fa riferimento con l'impiego del verbo "conoscere", ytvcóoxeiv, che implica un apprendimento basato sull'osservazione (cf. 2,24-25; 5,6.42; 6,15; 10,14; 16,19). Ma per la conoscenza divina, impossibile all'uomo, usa invece il verbo "sapere", ofàa, che indica possesso stabile e tranquillo (almeno dieci volte: cf. 3,11; 5,32; 7,29; 8,14.55ter; 11,42; 12,50; 13,3)51. Fondamentale a questo proposi-
50 In 16,28b, se i due punti di partenza ("lascio il mondo") e di arrivo ("presso il Padre") sono ben specificati e persino contrapposti (ma cf. 3,16!), essi esprimono anche nettamente due sfere di esistenza, di cui la seconda appare come quella più normale, poiché la menzione del Padre richiama l'idea della 'casa' propria di Gesù; ciò è tanto più vero in quanto già 16,28a esprime il movimento anteriore, quasi di una precedente uscita di casa: "Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo". 51 Cf. I de la Potterie, OIAA e riNQSKQ. I due modi del "conoscere" nel Quarto vangelo, in Id., Studi di cristologia giovannea, pp. 303-315; e K.J. Cari, The
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to è la dichiarazione di 8,14: "Io so di dove vengo e dove vado; voi non sapete di dove vengo né dove vado". Sia pure in termini polemici, Gesù esprime così il punto focale della sua conoscenza, che riguarda essenzialmente la propria origine e la propria destinazione, e cioè la propria natura celeste o divina (cf. sopra). Connessa a questa conoscenza di sé è quella che riguarda il Padre, che infatti lo ha mandato e dal quale proviene: "Voi non lo conoscete, io invece lo conosco; e se dicessi che non lo conosco, sarei come voi un mentitore; ma lo conosco" (8,55; cf. 7,29: "... Io lo conosco poiché vengo da lui ed egli mi ha inviato"). Altri fattori appartenenti a questo tipo superiore di conoscenza riguardano essenzialmente la sua "ora" (cf. 13,1), e quindi ciò che gli sarebbe successo nella passione (cf. 18,4), e il fatto che sulla croce tutto ormai è compiuto (cf. 19,28)52. È forse nel senso di questa conoscenza assoluta che Pietro gli dirà: "Signore, tu sai tutto" (21,17). 1.3.2 La verità, r\ àXrjGeia. È uno dei più tipici concetti giovannei concernenti la semantica della rivelazione53. A partire dalla sua prima occorrenza nel prologo (cf. 1,14: "pieno di grazia e di verità"; cf. più avanti), si vede subito che il termine suppone uno sfondo biblico-semitico, in cui esso significa all'origine "fermezza, solidità", tanto più se è connesso con Dio (cf. trad. CEI di Sai 25,10: "Tutti i sentieri del Signore sono verità e grazia"; 40,10-11: "Non ho nascosto la tua grazia e la tua fedeltà alla grande assemblea" ecc.)54. Non è pertinente quindi cercare il senso del lemma nella Idea of 'Knowing' in the Johannine Literature, Bangalore Theological Forum 25 (1993) 53-75. 52 Sul tema specifico, cf. l'importante studio di G. Ferraro, L'"ora" di Cristo nel quarto vangelo, "Aloisiana" 10, Herder, Roma 1974. 53 II sostantivo occorre 25 volte (contro le appena tre volte ciascuno di Mc-Lc e una di Mt); in più bisognerebbe aggiungere gli aggettivi àXTjOifa, "vero, veritiero" (14 volte, contro una in Mt e Me), e àXr\Bwó<;, "veridico, verace" (9 volte, contro una in Le); anche il pur raro lessico di segno contrario (J>eG8o<;, "menzogna" (8,44), e ej>eu(m)<;, "menzognero" (8,44.55), appartiene a questa semantica ed è assente dai Sinottici. Sull'insieme, cf. soprattutto I. de la Potterie, La vérité dans Saint Jean, I-II, AnB 73-74, PIB, Roma 1977; Id., "Io sono la via, la verità e la vita" (Gv 14,6), in Studi, pp. 124-154. Inoltre: J. Suggit, John XVII.17: HO LOGOS HO SOSALETHEIA ESTIN, Journal for Theological Studies 35 (1984) 104-117; D J . Hawkin, The Johannine Concepì of Truth and its Implications for a Technological Society, Evangelische Quartalschrift 59 (1987) 3-13; P. Mourlon Beernaert, La vérité au sens biblique: approche de saint Jean, Lumière et Vie 46 (1991) 287-300; D.R. Lindsay, What Is Truth? 'AXrjGeia in the Gospel of John, Restoration Quarterly 35 (1993) 129-145; M.-L. Gubler, 'Ich bin der Weg und die Wahrheit unddas Leben' (Joh 14.6), Diakonia 24 (1993) 373-382. 54 Nel greco dei LXX infatti il sostantivo greco, che ricorre 128 volte, per ben 83 volte traduce l'ebraico 'emet e 23 volte il sinonimo 'emùnàh, che significano
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concezione intellettualistica ed essenzialistica della filosofia greca55, ma neanche nei suoi nessi con la mitologia misterica56. La prospettiva giovannea, legata a una precisa concezione di Dio, da una parte è più dinamica e relazionale, e dall'altra non riguarda direttamente verità antropologiche. Infatti, sulla base del fatto che Gesù ha "udito la verità da Dio" (8,40), si comprende la sua assicurazione: "Se rimanete nella mia parola... conoscerete la verità e la verità vi farà liberi" (8,32). Questo duplice nesso con uno specifico ascolto da parte di Dio e con la parola viva di Gesù ci dice che "verità" equivale addirittura a rivelazione, nella misura in cui essa viene dal cielo con lo scopo di liberare (ib.) e vivificare (8,12). In questo senso il diavolo non è nella verità ma nella menzogna, perché sa solo "dire del suo" e quindi uccide (8,44). Gesù invece sintetizza la sua missione di rivelatore proprio col dire, fin davanti a Pilato, che è "venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità" (18,37), cioè per proclamare una parola che non è originariamente sua. In definitiva, la domanda inevitabile "Che cosa è la verità?" (di cui si fa interprete Pilato in 18,38), trova la sua definizione più significativa quando Gesù rispondendo a un'altra domanda di Tommaso (in 14,5: "Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?") afferma solennemente: "Sono io la via, la verità e la vita" (14,6a). Il senso di queste parole si può rendere insieme a de la Potterie con questa parafrasi: "Io sono la via, perché sono la verità "fermezza, sicurezza, stabilità, costanza", da cui "fede" nel senso di adesione o fiducia ferma, tenace, perseverante, quindi "fedeltà". 55 Qui infatti la verità o si misura sul piano ontologico, e allora si identifica semplicemente con l'essere, oppure sul piano gnoseologico, e allora è la perfetta corrispondenza e adeguazione del pensare all'essere: così la Metafisica di Aristotele, rispettivamente 2, 993b 3-31; 6, 1027b 21-28 (da cui la adequatio rei et intellectus degli Scolastici). 56 Bello comunque è ciò che Epitteto dice di Crisippo, il quale con i suoi libri procura serenità e impassibilità. Prima lo definisce "grande benefattore che addita la via" (Beixvuwv rr\\> ó8óv: Diatr. 1,4,29); poi, paragonandolo all'eroe eleusino Trittolemo (che, per avere i suoi genitori dato ospitalità a Demetra in cerca di Persefone, ricevette dalla dea il primo chicco di grano e l'ordine di seminare grano per gli uomini), continua: " A Trittolemo tutti gli uomini hanno offerto sacrifici e altari,... ma a chi ha trovato la verità, l'ha messa in luce, l'ha portata a tutti gli uomini (•eco 8è T?)V àXrjGetav eùpóvu xal 9COT(OOVTI xaì el?rcàvcai;àv8pa>7iou<; èijeveYxóvri), e non la verità che fa vivere ma quella che fa ben vivere (où -n)v 7tepì -co £fjv, àXXà TT)V npò? tò eu CTÌV), chi di voi ha elevato per questo beneficio un altare...? Perché ci hanno dato la vite e il grano, noi sacrifichiamo agli dèi, ma perché hanno prodotto nel pensiero umano un frutto così bello (-coiouxov l%r\\>iyxa.v xaprcòv iv àvOpcorcivr) Biavota), grazie al quale dovevano mostrarci la verità circa la felicità (rnv àXfjOeiav TTJV nepì eù8ai(i.oviai; Seiijeiv), per questo non dobbiamo ringraziare Dio?" (Diatr. 1,4,30-32).
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e quindi anche la vita" 57 , o forse meglio: "Io sono la via, perché rivelo la verità che dona la vita". In ogni caso, vanno notati in questa frase due elementi complementari: l'uno è che Gesù stesso si identifica con la verità e quindi non è solo un suo insegnante, cioè egli non funge soltanto come rivelatore di cose altre da sé ma è la rivelazione stessa in pienezza e in persona; l'altra è che, essendo la "verità" un concetto funzionale che sta per "rivelazione", la definizione va intesa in senso non tanto ontologico quanto piuttosto funzionale. Tuttavia, questa funzione può essere rettamente intesa solo risalendo alla profonda comunione interpersonale che unisce il Figlio al Padre celeste e che è resa possibile anche per chi cerca Dio, come si deduce dall'immediata prosecuzione della frase: "Nessuno va al Padre se non per mezzo di m e " (14,6b). Quindi "adorarlo in spirito e verità" (4,23.24) significa che il vero culto avviene mediante la rigenerazione nello Spirito (cf. 3,5-6) e nell'accoglienza della sua parola giunta agli uomini per il tramite di Gesù (cf. 1,17)58. 1.3.3 La comunicazione. Gesù non solo ha qualcosa da dire e da dare agli uomini, ma lo fa realmente. Egli comunica la verità, e questo atto di comunicazione fa parte essenziale della rivelazione stessa. In quanto 'manifestazione' (cf. il verbo 9<xvepoGv), essa ha per oggetto la sua gloria (cf. 2,11) e il nome del Padre (cf. 17,6). I modi in cui avviene sono le parole e le azioni. 1.3.3.1 La sfera della parola è la privilegiata. Basti pensare alla funzione rivelatrice che in Gv hanno i grandi discorsi (nei capp. 5.6.7-8.10.14-17) e i colloqui con vari interlocutori (cf. Nicodemo nel cap. 3; la Samaritana nel 4; il cieco nato nel 9; Lazzaro nell' 11 ;
57 I. de la Potterie, "Io sono la via, la verità e la vita", p. 142. Formule come "via della verità" (cf. Sai 86,11) o "via della vita" (cf. Pro 5,6) sono già bibliche. Anche a Qumràn si impiega il concetto di "verità", 'mt, per indicare sia Dio (cf. 1QH 4,40: "Tu sei la verità"; 11,7: "Io so che c'è la verità nella tua bocca") sia il Maestro di Giustizia (cf. 1QH 2,10: "Mi hai reso... fondamento di verità e di intelligenza per quelli di retto comportamento"), ed essa si irradia sugli eletti (cf. 1QH 14,2: "Uomini di verità"; 1QS 2,24: "Comunità di verità"); vi si parla anche di "via", ma per designare la comunità stessa nel suo impegno di adesione al Signore (cf. 1QS 9,21). Ma ciò che caratterizza Gv è la forte concentrazione cristologica di questo linguaggio (cf. R. Fabris, Giovanni, Boria, Roma 1992, pp. 774-775). Su un ben altro versante si colloca il filosofo M. Henry, Io sono la verità. Per una filosofia del cristianesimo, Queriniana, Brescia 1997, secondo cui il concetto di Verità si identifica in definitiva con quello di Vita per dire in sostanza che immanentisticamente la Vita stessa è Dio, il quale non rivela altro che se stesso (cf. pp. 41-52). 58 Oltre ai commenti, cf. la miscellanea di P.C. Bori, a cura, In spirito e verità. Letture di Giovanni 4,23-24, EDB, Bologna 1996.
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Pilato nel 18)59. A questo proposito, l'evangelista impiega tutto un lessico dallo spessore cristologico ignoto ai Sinottici. (1) I due sinonimi per "la parola" (Xóyo?: 21 volte; pfjfxa: 10 volte): la parola di Gesù è prima di tutto parola di Dio (cf. 3,34; 5,38; 8,55; 17,6.14.17; come quella della Scrittura: 10,35)60. Per questo essa ha una dignità e un'efficacia tutta particolare: suscita la fede (cf. 2,22; 4,41.50), dona la vita eterna (cf. 5,24; 6,63.68), purifica chi l'accoglie (cf. 15,3), mentre il suo rifiuto provoca una condanna escatologica (cf. 12,48). Quindi bisogna conservarla (cf. 8,51-52: esattamente come Gesù "conserva" la parola del Padre: 8,55) e "rimanere in essa" (8,31; cf. 15,7: "le mie parole rimangano in voi") allo stesso modo in cui si è invitati a rimanere in Cristo stesso (cf. 15,4: come il tralcio rimane nella vite)61. (2) A questo tipo di linguaggio appartiene anche il verbo "rendere noto, far conoscere" (greco yvwptCeiv): presente solo tre volte e nei discorsi di addio (cf. 15,15; 17,26bis: " H o fatto conoscere loro il tuo nome e ancoralo farò conoscere"), esso è determinante nel precisare l'oggetto e l'importanza della comunicazione agli uomini62. (3) Infine ci sono altri tre termini congeneri , "insegnare - dottrina - maestro" (rispettivamente: 8i8àaxeiv, 8t8<xxr|, 8i8àaxaXo<;), che rientrano a pieno titolo nella semantica della comunicazione. Se già all'inizio Nicodemo riconosce che Gesù è venuto da Dio come maestro (cf. 3,2), Gesù 59 Cf. G.R. O'Day, Revelation in the Fourth Gospel. Narrative Mode and Theological Claim, Fortress, Philadelphia 1986; V. Mannucci, Giovanni, il vangelo narrante, pp. 45-55. 60 Ciò è ben confermato dall'uso del verbo XaXelv che, se nel greco significa in primo luogo "chiacchierare" (e solo in secondo luogo "parlare, dire"), in Gv assume una forte valenza di rivelazione; infatti, almeno in una trentina di occorrenze esso ha un notevole spessore cristologico: "Colui che Dio ha mandato dice le parole di Dio" (3,34); "Come il Padre mi ha insegnato, così io parlo" (8,28); "Le cose che io dico, come il Padre le ha dette a me, così le dico" (12,50). 61 Può essere interessante osservare che il verbo (iévtiv, "rimanere", è tipico di Gv (ben 40 volte, a cui si aggiungono 23 volte in lGv, contro le appena 17 volte di tutto l'epistolario paolino, dove in più il termine non ha la pregnanza teologica giovannea). In proposito cf. J. Heise, Bleiben. Menein in den Johanneischen Schriften, HUT 8, Mohr, Tùbingen 1967, il quale sottolinea come Gv abbia caricato una ordinaria parola greca con una profonda semantica teologica che ne ha cambiato il significato originario; inoltre P.-M. Jerumanis, Réaliserla communion avecDieu. Croire, vivre et demeurer dans l'évangile selon S. Jean, EB n.s. 32, Gabalda, Paris 1996, che al verbo "rimanere" unisce anche i concetti omogenei del "credere" e della "vita" (cf. specie pp. 359-528). 62 II futuro in 17,26b allude al fatto che "la sua croce sarà la rivelazione piena e definitiva della persona del Padre, manifestando tutta la portata del suo amore ... Frutto della sua morte sarà la comunicazione anche ai discepoli dello Spirito che fu comunicato a Gesù" (J. Mateos - J. Barreto, // vangelo di Giovanni, Cittadella, Assisi 1982, p. 685).
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stesso dichiara di parlare come il Padre gli ha insegnato (cf. 8,28), cosicché la dottrina che egli espone è solo di colui che lo ha mandato (cf. 7,16), e anche chi vuol fare la volontà di Dio conoscerà se questa dottrina viene da Dio o se Gesù parla da se stesso (cf. 7,17)63. Se poi teniamo presente l'analoga funzione attribuita allo Spirito (cf. 14,26: "Il Paraclito, lo Spirito di verità, che il Padre manderà in mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa"; cf. sotto), constatiamo l'esistenza di un insegnamento dato agli uomini, che parte dal Padre e viene poi impartito anche dallo Spirito, ma che fa essenzialmente perno sulla persona e attività di Gesù, il quale rivela il primo e fonda il secondo64. 1.3.3.2 Le azioni di Gesù fanno parte inscindibile della sua missione rivelatrice. Gv lo dice ricorrendo a due termini complementari: "opera", spyov, e "segno", aripieiov. Quanto al primo vocabolo, anche se può essere impiegato per indicare le opere malvagie degli uomini (cf. 3,19-21), tuttavia la sua notevole frequenza rispetto ai Sinottici65 e soprattutto il suo originale impiego in riferimento cristologico66 invitano a scorgervi un significato molto forte. Altrettanto tipico è il secondo termine. Anche se a volte esso è soltanto sinonimo di miracolo (cf. 4,48), tuttavia il suo impiego pressoché esclusivo rispetto ad altri sinonimi tradizionali67 sta a indicare che per l'evangelista gli interventi operati da Gesù non vanno letti nella loro materialità prodigiosa, poiché rimandano a
63 In questo senso, agli occhi dei Giudei (cf. il rimprovero in 7,15) Gesù è davvero "un maestro irregolare poiché non aveva ricevuto la sua dottrina da un maestro riconosciuto", ma la sua risposta è che avendo ricevuto la sua dottrina dal Padre celeste "è stato alla migliore di tutte le scuole rabbiniche" (R.E. Brown, Gv, I, p. 408)! 64 Cf. G. Ferraro, Gli autori divini dell'insegnamento nel quarto Vangelo: Dio Padre, Gesù Cristo, lo Spirito, Studia Missionalia 37 (1988) 53-76. 65 La frequenza è di 27 volte contro le 6 di Mt e le 2 di Me e Le. 66 Diciotto volte: 4,34; 5,20.36bis; 7,3.21; 9,3.4; 10,25.32.33.37.38; 14,10.11.12; 15,24; 17,4; mai nei Sinottici. Solo in Le 24,19 i discepoli di Emmaus si riferiscono a Gesù come "uomo profeta potente in opera e in parola davanti a Dio e a tutto il popolo"; poiché una formula analoga è presente in At 7,22 a proposito di Mosè, la frase lucana suggerisce di vedere in Gesù il profeta escatologico. 67 La frequenza è di 16 volte: 2,11.18.23; 3,2; 4,54; 6,2.14.26.30; 7,31; 9,16; 10,41; 11,47; 12,18.37; 20,30. Nei Sinottici il termine è impiegato in tutt'altro senso: o negativamente come rifiuto di un segno (così Me 8,11-12) o limitativamente in rapporto al "segno di Giona" (così Mt 12,38-39/Lc 11,29-30) o genericamente in riferimento ai "segni dei tempi" (Mt 16,3) o escatologicamente per i segni della parusìa (cf. Mt 24,3.24.30/Mc 13,4.22/Lc 21,7.11.25) o miracolisticamente come desiderio di Erode Antipa (cf. Le 23,8); solo una volta Gesù stesso è detto profeticamente "segno di contraddizione" (Le 2,34).
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un significato superiore ben più profondo68. In un certo senso, e nonostante la possibile distinzione tra di essi69, i due termini si sovrappongono, in quanto le stesse "opere" vanno viste come "segni". Lo si scorge con sufficiente chiarezza per esempio là dove Gesù dice: "Le opere che il Padre mi ha dato da compiere, queste io faccio" (5,36; cf. 10,25; 14,12). La stessa incredulità dei Giudei, spiegata in 12,38-41 con la citazione di Is 53,1 e 6,10, è rapportata ai "molti segni" da lui compiuti e non percepiti come tali. Quindi secondo Gv i " segni " operati da Gesù hanno la funzione di rivelare l'intervento di Dio in favore suo e degli uomini (cf. 3,2: "Nessuno può fare i segni che tu compi, se Dio non è con lui")70. Del resto, la loro associazione ai concetti di gloria e di fede (cf. 2,11) li pone ad un livello di inaudita manifestazione divina e di decisività esistenziale71.
1.4 Conclusione In conclusione, e a mo' di bilancio, è importante chiedersi quale sia il possibile modello ermeneutico che sta a monte del linguaggio di rivelazione esaminato. L'interrogativo allora è il seguente: la concezione che sta dietro il suddetto vocabolario è forse di esclusiva matrice giovannea oppure è possibile trovare parallelismi di tipo religionista che ne costituiscano un punto di aggancio esterno? A questo proposito si possono enumerare almeno quattro tentativi, riscontrabili nella storia della ricerca. 1.4.1 Un primo riferimento è quello sottolineato da Miranda e 68 Sullo sfondo c'è la teologia veterotestamentaria del "segno" (ebr. 'ót), che riguarda sia la storia dell'esodo (cf. Es 4,8-9.30; Dt 6,22; 7,19; 26,8) sia la tradizione profetica (cf. Is 7,14; Ger 44,29; Ez 4,3). Vedi K.H. Rengstorf, arnietov XTX, in GLNT XII, coli. 17-172 specie 125-162; F. Genuyt, L'economiedessignes, Lumière et Vie 41 (1992) 19-35; K.-M. Bull, Gemeinde zwischen Integration und Abgrenzung, pp. 79-92. 69 Cf. sopra: nota 13. 70 Per una disamina filologica, cf. C. Spicq, Note di lessicografia neotestamentaria, II, GLNT Suppl. 4*, Paideia, Brescia 1994, pp. 531-538, dove si mette bene in luce il valore di "segnale, prova" inerente al termine greco. Per una valutazione teologica, cf. L.L. Johns - D.B. Miller, The Signs as Witnesses in the Fourth Gospel: Reexamining the Evidence, CBQ 56 (1994) 519-535. 71 Ricordiamo qui che tra le azioni del Gesù giovanneo, a differenza di quello sinottico, non c'è mai l'incontro e il perdono dei peccatori. Infatti la pericope dell'adultera in 7,53 - 8,11 è deutero-giovannea (cf. G. Colombo, La critica testuale di fronte alla pericope dell'adultera, RivBibl42 [1994] 81-102; J. Rius-Camps, Origen lucano de lapericopa de la mujer adultera [Jn 7,53-8,11], Filol NT 6 [1993/12] 149-175); essa, tuttavia, può valere come fulgido esempio di come la vita dispensata da Gesù superi di gran lunga le meschine categorie umane.
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poi da Boismard, che puntano sull'importanza della figura del profeta escatologico alla pari di Mosè come modello della cristologia giovannea; il testo-madre in questo caso è ovviamente Dt 18,15-19 ("Il Signore tuo Dio susciterà in mezzo ai tuoi fratelli un profeta pari a me... Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto")72. 1.4.2 Un'altra proposta è quella di Biihner. Anch'egli evidenzia l'importanza della tradizione profetica, però non per la connotazione escatologica di una precisa figura bensì per il profeta in quanto tale, inteso sia come Sàliah, "inviato come rappresentante", sia come mal'ak, "messaggero (inviato con un mandato; angelo)", di Dio. In più, però, per spiegare la qualifica celeste dell'inviato, calcola anche la possibilità che all'origine ci sia una concezione apocalittica del profeta, nella misura in cui questi si congiunge con la dottrina del Figlio dell'uomo per le sue connotazioni celesti73. 1.4.3 Una terza possibilità è quella che tende a valorizzare la figura tradizionale della Sapienza personificata74. Esiste infatti almeno un paio di coincidenze con la cristologia del Quarto vangelo: come Gesù, anche la Sapienza preesiste in forma divina, interviene nella creazione del mondo e viene inviata dal cielo sulla terra per svolgere una missione di redenzione; questa poi, benché esposta al rifiuto, è legata all'accettazione della Sapienza stessa. 1.4.4 Un'ultima spiegazione è quella che prende in considerazione eventuali connessioni con il fenomeno gnostico75. Certo, 72 Cf. J.P. Miranda, Der Vater, der mich gesandt hat, pp. 308-388; M.-É. Boismard, Moise ou Jesus, specie pp. 58-89. 73 Cf. J.-A. Biihner, Der Gesandte undsein Weg, specie pp. 269-421. Su questa linea si colloca anche P. Létourneau, Jesus, Fils de l'Homme et Fils de Dieu, specie pp. 231-339, che distingue tra uno schema giuridico ( = il Figlio di Dio, inviato) e uno schema apocalittico ( = il Figlio dell'uomo, di origine celeste). 74 Oltre alla valorizzazione di questo modello da parte del commento di R.E. Brown (sia a proposito del prologo 1,1-18 sia anche in seguito, per esempio a proposito di 17,5), vedi in particolare M.E. Willett, Wisdom Christology in theFourth Gospel, University Press, San Francisco 1992; M. Scott, Sophia and the Johannine Jesus, JSNT Suppl. 71, JSOT, Sheffield 1992 (quest'ultimo libro, ritenendo che la cristologia di Gv non sia altro che una cristologia della Sapienza, si occupa piuttosto di un problema di 'genere', stabilendo l'identità del Logos di genere maschile con la Sophia di genere femminile). 75 A partire da R. Bultmann questa pista è stata percorsa da vari Autori; ancora la L. Schottroff, Der Glaubende und die feindliche Welt, Neukirchen-Vluyn 1970, sostiene che Gesù per Gv "dev'essere senz'altro definito un rivelatore gnostico" (p. 289). Ma vedi una disamina equilibrata di questo modello in J.P. Miranda, Der Vater, der mich gesandt hat, pp. 147-307. È comunque vero che la cristologia di Gv "non ha nulla che le somigli così tanto nel mondo antico quanto il mito gnostico della rivelazione; lo specifico concetto di salvezza come rivelazione, di cui oc-
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quando si tenta di accostare il Quarto vangelo allo gnosticismo occorre sfoderare tutta la prudenza possibile76. Infatti, Gv non conosce il tema della connaturalità divina dei destinatari del messaggio, ignora tutte le sfrenate speculazioni sul pleroma divino (il termine in 1,17 ha un ben altro significato), e lo spessore storico della figura di Gesù è ben lontano dalle figure di Rivelatori proprie dei sistemi gnostici successivi77. Ma il tema della rivelazione nello gnosticismo è talmente centrale che persino la figura del Rivelatore, pur essendo rimarcata78, perde spesso d'importanza rispetto al fatto della rivelazione in quanto tale. 1.4.5 Bilancio conclusivo. Le diverse proposte manifestano già da sole la complessità del dato in questione. Certo c'è un elemento comune alle figure sia del Profeta sia dell'Inviato sia della Sapienza sia del Rivelatore gnostico, ed è proprio il tema della rivelazione; infatti, esse sono tutte incaricate di manifestare e apportare agli uomini appunto le cose nascoste in Dio, che sono utili alla loro salvezza. Con ciò, anche se non si spiega tanto il lessico di visione corre appropriarsi mediante la conoscenza (cf. 17,3), è universalmente caratteristico dello gnosticismo, e nel NT è proprio soltanto del Quarto vangelo" (G.W. MacRae, Gnosticism and the Church ofJohn's Gospel, in Ch.W. Hedrick & R. Hodgson, edd., Nag Hammadi, Gnosticism and Early Christianity, Hendrickson, Peabody MS 1986, p. 93). Più in generale cf. anche K.M. Fischer, Der johanneische Christus und der gnostische Erlòser, in K.-W. Tròger, ed., Gnosis und Neues Testamene Mohn, Gutersloh 1973, pp. 245-266; e G. Filoramo, // Vangelo di Giovanni fra gnosi e gnosticismo, Ricerche Storico-Bibliche 3 (1991) 123-145. 76 Senza voler riproporre qui tutta la polemica innescata dalle posizioni di R. Bultmann (già ridimensionate per esempio da R. Schnackenburg, // vangelo di Giovanni, I, pp. 596-615), vedi le sagge osservazioni metodologiche di J.-M. Sevrin, Le Quatrième Évangile et le gnosticisme: questions de méthode, in J.D. Kaestli, J.-M. Poffet - J. Zumstein, edd., La communauté johannique et son histoire. La trajectoire de l'évangile de Jean aux deuxpremiers siècles, '"Le Monde de la Bible", Labor et Fides, Genève 1990, pp. 251-268; l'Autore ritiene superflua l'ipotesi gnostica per la cristologia giovannea (cf. pp. 264-265), potendosi questa spiegare in base a modelli più 'economici' come quello giudeo-ellenistico della Sophia. 77 Vedi anche A. Magris, La logica del pensiero gnostico, Morcelliana, Brescia 1997, pp. 143-150, 411-429 (e quanto si dice a p. 271 sulla "pregiudiziale docetistica" dello gnosticismo). Ottimamente G. Lettieri, Il fondamento cristologico del mito gnostico: la teofania sulle acque, Cassiodorus 1 (1995) 151-165, sostiene che semmai, inversamente, è la storia di Gesù a fornire i moduli per le vicende del Pieroma, che, pur rappresentando la vera storia della redenzione, di fatto però è soltanto una reduplicazione mitologica di quella storia. 78 Negli scritti gnostici il Rivelatore può di volta in volta assumere connotati diversi e avere anche nomi diversi: Simon Mago (secondo varie fonti patristiche), Seth (nel Vangelo degli Egiziani), Eleleth (nella Ipostasi degli Arconti), Derdekeas (nella Parafrasi di Shem), il Messaggero della conoscenza (in Zostriano), Allogeno (nel trattato omonimo di Nag Hammadi), la Epinoia (nell'Apocrifo di Giovanni), la Protennoia (nella Triforme Protennoia), Poimandres (nel Corpus Hermeticum I), e Gesù stesso (nella Pistis Sophia e altri testi), per non dire poi di Mani.
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e audizione, si rende ottimamente ragione almeno del lessico della comunicazione, se non anche di quello della illuminazione (cf. sotto)79. C'è però un importante elemento della cristologia giovannea, al quale né il modello del Profeta né quello della Sapienza offrono una spiegazione adeguata: è il tema del ritorno di Gesù al Padre. Come abbiamo visto, infatti, c'è indubbiamente in Gv un abbondante vocabolario sui tre temi complementari della missione di Gesù da parte di Dio, della sua donazione da parte del Padre e della sua discesa dal cielo; essi possono certamente ritrovarsi almeno parzialmente nel modello profetico e in quello sapienziale, soprattutto se uniti insieme. Ma il Quarto vangelo dispiega pure una ragguardevole ampiezza lessicale (6-7 verbi!) per esprimere il fatto che Gesù, compiuta la sua missione, torna al luogo celeste di dove era venuto. Ebbene, di fatto la tradizione giudaica non conosce nulla del genere a proposito delle figure suddette80. Quale dovrebbe essere allora il modello da richiamare per il Quarto vangelo? Un punto di riferimento sicuro si potrebbe rinvenire nell'angelologia, che presenta alcuni casi evidenti di discesa-ascesa di singoli angeli81. Bisogna però osservare che nei testi corrispon-
79 Cf. G. Iacopino, // Vangelo di Giovanni nei testi gnostici copti, "Studia Ephemeridis Augustinianum" 49, Roma 1995; alle pp. 214-221, l'Autrice propone un'utile sintesi circa la forma del dialogo di rivelazione, assunto come genere letterario peculiare dalla produzione letteraria gnostica sulla falsariga della tecnica giovannea. 80 Si potrebbero ricordare due precedenti. (1) L'uno è il tema della Parola di Dio, di cui Isaia dice: "Non tornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata" (Is 55,10-11). Ma, a parte che l'affermazione non è sviluppata, si tratta di una semplice metafora, con cui si esprime poeticamente il fatto della sicura efficacia della parola, analogamente a quanto si legge in 2Sam 1,22 circa la spada di Saul che "non tornava mai vuota" ! (2) L'altro si potrebbe scorgere in / Enoc 42,1-2 ("La saggezza non trovò posto dove stare e la sua sede era nei cieli. Essa venne a stare tra i figli degli uomini e non trovò posto. Ritornò alla propria sede e si mise tra gli angeli"); ma il senso del passo è totalmente negativo: la sapienza torna in cielo delusa, perché sulla terra non ha trovato alcuna accoglienza (infatti il testo continua parlando invece della ingiustizia, che ne occupa il posto: "Si assise in mezzo a loro come pioggia nel deserto e rugiada sulla terra assetata"; trad. L. Fusella). (3) Una terza possibilità, rappresentata dalle ascensioni al cielo nella letteratura apocalittica (cf. M. Himmelfarb, Ascent to Heaven in Jewish and Christian Apocalypses, University Press, Oxford 1993), non fa al caso nostro, trattandosi qui di una ascesa anteriore per ricevere rivelazioni! 81 Vedi lo studio di C.H. Talbert, The Myth ofa Descending-Ascending Redeemer in Mediterranean Antiquity, NTS 22 (1976) 418-440 specie 422-426, dove si rimanda a Gdc 13,20; Tb 12,20; Gius, e As. 17,8-9; Test. Giob. 5,2; Apoc. Mos. 37,5-6 (ma qui Michele porta solo in cielo l'anima di Adamo); Test. Abr. 7,4. Da parte sua J.-A. Bùhner, Der Gesandte undsein Weg, pp. 316-373, aggiunge dalla
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denti, a parte le questioni inerenti alla loro datazione, la funzione dell'angelo è quanto mai limitata ed episodica, non essendo egli latore di una rivelazione paragonabile nella forma e nei contenuti a quella giovannea. Un altro ambito culturale di comparazione potrebbe essere proprio quello gnostico, dove il Rivelatore torna al Pleroma divino dopo aver espletato la sua missione82; ma la posteriorità di questa letteratura può far supporre al contrario, e a ragione, una sua dipendenza dallo stesso Gv. In buona sostanza, risulta assai difficile ridurre il linguaggio giovanneo a un solo modello ermeneutico. Per quanto salomonico il giudizio possa apparire, è molto meglio ipotizzare che il lessico di rivelazione proprio del Quarto vangelo, con le concezioni cristologiche che esso implica, abbia più di una matrice e che quindi Gv rappresenti un punto di convergenza di più modelli. A sua volta, egli diventa punto di partenza e di riferimento di molteplici sviluppi successivi soprattutto di tipo gnostico.
letteratura rabbinica Ber. R. 97,3 (dove l'Angelo del Signore, stante l'invocazione di Mosè in Es 33,15, dice: "Non potei salire perché non avevo compiuto la mia missione, e non sono potuto scendere perché ancora egli pregava"), notando però che Mek. Ex. 12,1 distingue tra i messaggeri degli uomini (che devono tornare a chi li ha mandati) e i messaggeri di Dio (che non hanno bisogno di tornare perché dovunque vadano sono sempre alla sua presenza). Una coincidenza di natura tra Dio e il suo angelo si può intravedere in 1QS 3,24-25: "Il Dio di Israele e l'angelo della Sua verità aiutano tutti i buoni" (trad. C. Martone). 82 Per esempio, secondo i carpocraziani "la sua anima ( = di Gesù) ferma e pura ha ricordato le cose da lei viste nel soggiorno presso il Dio ingenerato... e resa libera da tutti è risalita a Dio" (in Ireneo, Adv. haer. 1,25,1); cf. anche VApocrifo di Giovanni in NHC II 31,26-27 ("Ed ecco, ora salirò all'eone perfetto; io ho compiuto ogni cosa per voi nel vostro ascolto"); Zostrianos in NHC Vili 129,22-24; e C.H., Poimandres 27. Un caso tipico in questo senso potrebbe essere anche il celebre "Inno della perla" negli Atti di Tommaso 108-113 (= § 108: il figlio di un re d'oriente riceve la missione di cercare in Egitto una perla preziosa; §§ 109-11 la: giunto in Egitto in abiti poveri, in un primo tempo egli dimentica sia la sua natura sia il suo compito, ma in un secondo tempo viene risvegliato dal suo torpore e trova la perla; §§ 11 lb-113: ritorno alla casa del padre e rivestimento degli antichi abiti preziosi); questo testo è stato recentemente inteso come un poema allegorico circa il destino non di un rivelatore ma dell'anima di ogni uomo, mandata da Dio nella creazione e destinata a tornare nella sua casa celeste (cf. J. Davidson, The Robe ofGlory. An Ancient Parable ofthe Soul, Element, Shaftsbury 1992); tuttavia, il passo è complesso: da una parte, è vero che la funzione di risvegliare dal torpore è riservata non a un rivelatore vero e proprio ma a una semplice lettera del padre-re, dall'altra però la distinzione tra la perla da cercare (che altrove può ben essere una metafora dell'anima perduta o del bene sommo della conoscenza: cf. Ireneo, Adv. haer. 1,8,4; NHC VI.2-4) e il figlio regale che la trova, induce a scorgere in quest'ultimo i lineamenti di un salvatore, sia pure nella forma di un salvator salvatus (cf. A. Magris, La logica del pensiero gnostico, pp. 377-380,423-425, e 468).
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2. Le molteplici definizioni di Gesù Stabilito il tema di fondo, che evidenzia al massimo la centralità di Cristo nella sua funzione di Rivelatore, su cui si regge tutto il Quarto vangelo, occorre ora precisare gli aspetti vari con cui l'evangelista dettaglia, per così dire, l'identità di questo protagonista83. Messi innanzitutto da parte i titoli tradizionali, vedremo poi la specifica e molteplice titolatura cristologica giovannea. 2.1 / titoli tradizionali Alcuni di questi affondano le loro radici nella fase gesuana, mentre altri risalgono alle confessioni post-pasquali. Tanto in un caso quanto nell'altro, Gv li riprende non senza segnarli con la propria impronta. 2.1.1 Titoli di origine gesuana84 2.1.1.1 "Profeta" è attribuito direttamente a Gesù solo quattro volte, di cui il testo più esplicito proviene dalla gente in 6,14: "Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo" (inoltre: 4,19 [la Samaritana]; 7,40 [alcuni gerosolimitani]; 9,17 [il cieco nato]; cf. anche 1,21; 4,44). La definizione, da una parte, richiama ovviamente il passo di Dt 18,18 ("Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò; se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto"), e, dall'altra, non solo distingue Gesù da Mosè, come si prevede nello stesso Dt 18,15 ("il Signore susciterà un profeta pari a me") ma suggerisce anche una presa di distanza da lui (cf. 1,17 dove si distingue nettamente l'economia della "legge" da quella della "grazia" legate rispettivamente ai due nomi)85. 2.1.1.2 "Il figlio dell'uomo" è presente tredici volte e, diversamente dai Sinottici, non è mai direttamente collegato né con la descrizione del ministero terreno di Gesù e neppure con la sua appa83
Vedi anche G. Segalla, San Giovanni, Esperienze, Fossano 1972, pp. 78-107. Sugli specifici titoli cristologici impiegati dal Gesù terreno, cf. il nostro voi. I, pp. 118-153. 85 Giustamente perciò M.-É. Boismard già nel titolo del suo libro sulla cristologia giovannea, Moise ou Jesus, pone un'alternativa tra i due personaggi. Vedi anche W.A. Meeks, The Prophet-King. Moses Traditions and the Johannine Christology, NT Suppl. 14, Brill, Leiden 1967, specie pp. 32-99 e 286-319: Gesù è più grande di Mosè così come egli è "più grande del nostro padre Giacobbe" (4,12 = Samaritani) e "più grande del nostro padre Abramo" (8,53 = Giudei). 84
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rizione escatologica. Esso invece è preferibilmente connesso con una dimensione celeste e comunque gloriosa: sia quando si tratta della sua origine (cf. 1,51; 3,13) o della sua funzione di giudice (cf. 5,27: unico riferimento a Dn 7,13 ma in senso attuale) oppure in connessione con il pane disceso dal cielo (cf. 6,27.53) o come termine della fede (cf. 9,35) e persino a proposito della sua crocifissione intesa in termini originalissimi come esaltazione (cf. 3,14; 8,28; 12,23.34bis)86 per non dire infine della sua glorificazione (cf. 6,62; 13,31). Tuttavia, questi vari aspetti del tema sono sempre e soltanto sfaccettature della dimensione umana di Gesù, in dipendenza dall'incarnazione. Infatti, il titolo in Gv riguarda comunque "il Logos incarnato che è nello stesso tempo il rivelatore e la rivelazione di Dio tra gli uomini, colui che è venuto per portare luce e vita a quelli che avrebbero creduto in lui"87. 2.1.1.3 "Il figlio". La filiazione divina di Gesù88, che nei Sinottici si trova appena tre volte sulla sua bocca a esprimere la sua personale coscienza89, in Gv è invece abbondantemente attestata da lui in prima persona: ben ventitré volte90. Nella maggior parte dei casi abbiamo la semplice forma assoluta "il Figlio" (18 volte), che, se da una parte mette in primo piano una relazione filiale unica nel 86 Anche se si può ipotizzare un parallelo fra questi tre passi e le tre predizioni sinottiche della passione, è comunque inevitabile scorgerne nello stesso tempo l'enorme differenza di linguaggio; cf. F.J. Moloney, The Johannine Son ofMan, BSR 14, LAS, Roma 1975, 21978, p. 215. Questa resta tuttora la migliore monografia sul titolo giovanneo; ma cf. anche R. Schnackenburg, La persona di Gesù Cristo, pp. 367-382. 87 F.J. Moloney, The Johannine Son o/Man, p. 216. Lo stesso Autore, ib., pp. 202-207, ritiene che anche la dichiarazione di Pilato "Ecco l'uomo" (19,5) implichi un riferimento al titolo "Figlio dell'uomo", ma i motivi addotti sono troppo deboli e giustamente R. Fabris, Gv, pp. 934-935, rifiuta il collegamento, anche se la dichiarazione può richiamare testi come Nm 24,17 LXX ("Sorgerà un uomo da Israele") o Zc 6,12 (detto del sommo sacerdote Giosuè: "Ecco un uomo, il cui nome è Germoglio"), che però appartengono a un altro campo semantico, più o meno messianico. 88 Si noti che un paio di volte egli viene detto senza mezzi termini "figlio di Giuseppe" (1,45: da Filippo; 6,42: dai Giudei), mai contraddetto. 89 Senza contare la confessione da parte di altri, che si riscontra tre volte nella triplice tradizione (cf. Mt 3,17//; 8,29//; 17,5//), due volte in Q (cf. Le 4,3.9/), due volte in Mc-Mt (cf. Me 14,61/; 15,29/), sei volte nel solo Mt (2,15; 4,33; 16,16; 27,40.43; 28,19), e quattro volte nel solo Le (cf. 1,32.35; 4,41; 22,70). 90 Senza contare la confessione da parte di altri: una volta nel Prologo (1,18), una volta ciascuno sulla bocca del Battista (1,34), di Natanaele (1,49), di Marta (11,27), dei Giudei (19,7), del redattore (20,31). Si noti la proporzione inversa rispetto ai Sinottici: mentre in questi la maggior parte delle occorrenze non è in bocca a Gesù, in Gv invece la situazione è all'opposto. In più vanno computate le ben 22 occorrenze sotto la penna dell'autore della lGv.
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suo genere, dall'altra però è contestualmente connesso non tanto con affermazioni di carattere metafisico circa il rapporto di natura col Padre quanto piuttosto con la missione da lui ricevuta per la salvezza del mondo91. Lo si vede all'evidenza nella celebre dichiarazione: "Dio ha tanto amato il mondo da aver dato il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non perisca ma abbia la vita eterna" (3,16); come si vede, abbiamo qui in primo piano una funzione svolta da Gesù per l'incarico di una missione da compiere, anche se alla base c'è sicuramente una precomprensione di tipo ontologico sull'identità dell'Inviato stesso. L'osservazione inversa va fatta a proposito di un'altra dichiarazione: "Io e il Padre siamo una cosa sola" (10,30), dove in primo piano spicca l'affermazione di una fortissima unità che sfiora la metafisica (cf. 17,1 lb), ma che implica anche una unione funzionale fatta di obbedienza e di amore (cf. 3,35; 4,34; 10,17; del resto, in 5,30 Gesù afferma: "Io non posso fare nulla da me stesso")92. In ogni caso, anche se si può discutere se gli oppositori di Gesù abbiano davvero inteso nelle sue parole una reale minaccia all'infrazione del monoteismo giudaico, Gv è sicuramente orientato su questa linea93. 2.1.1.4 "Cristo". A prescindere dalle rare volte in cui il termine appare come un nome abbinato a "Gesù" (1,17; 17,3; così di norma in lGv), esso in Gv ha sempre valore titolare in tutti gli altri diciassette casi. Come nei Sinottici, esso non si trova mai in bocca a Gesù (anche se egli vi si riconosce in risposta alla Samaritana: cf. 4,26). Due osservazioni meritano attenzione. La prima è che solo Gv in tutto il NT riporta l'originale epiteto [xeaata<; ( = traslitterazione greca dell'aramaico mesìha'\ 1,41; 4,25), attestando così 91
Cf. R. Schnackenburg, Gv, II, pp. 207-227: Excursus. 'Il Figlio'come autodefinizione di Gesù nel Vangelo di Giovanni. Analogamente G. Segalla, Dio Padre di Gesù nel quarto Vangelo. Cristocentrismo verso il teocentrismo, Scuola Cattolica 117 (1989) 196-224, anche se la relazione è considerata dal punto di vista della paternità di Dio. 92 Ricordiamo qui che l'identità filiale di Gesù in Gv-lGv viene ben distinta da quella dei cristiani anche sul piano linguistico, poiché solo per lui si usa il termine uió?, sostantivo maschile che rimanda allo status perfetto e legittimo del suo rapporto con il Padre, mentre i battezzati sono qualificati come xéxva (lett. "partoriti"), sostantivo neutro che vale per uomini e donne in senso generico (cf. Gv 1,12; 11,52; lGv 3,1.2.10; 5,2; 2Gv 1.4.13; 3Gv 4). 93 Cf. M. Theobald, Gott, Logos und Pneuma. "Trinitarische" Rede von Gott im Johannesevangelium, in H.-J. Klauck, ed., Monotheismus und Christologie. Zur Gottesfrage im hellenistischen Judentum und im Urchristentum, QD 138, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1992, pp. 41-87; J.C. O'Neill, 'Making himselfequal with God' (John 5.17-18): The Alleged Challenge to Jewish Monotheism in the Fourth Gospel, IrBblSt 17 (1995) 50-61.
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un interessante ancoraggio al primitivo ambito di lingua semitica. La seconda riguarda la disputa riportata in 7,27.41-42 circa l'origine del Messia (cf. 1,46); qui la notorietà della provenienza di Gesù da Nazaret è stimata una controindicazione della sua messianicità, in quanto contrasta con due teorie circa l'origine del Messia: quella di un'origine misteriosa (cf. 7,27) e quella più diffusa dell'origine davidica (cf. 7,41-42). Se ne deduce che con ogni probabilità l'evangelista non conosce la tradizione dell'origine betlehemita di Gesù, ma insiste sulla sua origine misteriosa: egli è Messia non in forza di un'origine storica ma per una provenienza trascendente (cf. 7,28: "Certo voi mi conoscete e sapete di dove sono; eppure io non sono venuto da me...") 94 . 2.1.2 Titoli di origine pasquale 2.1.2.1 "Signore" è il tipico titolo cristologico della fede pasquale, come risulta all'evidenza da Fil 2,9-11 (oltre che dall'aramaico di ICor 16,22)95. Assente in l-3Gv, il suo impiego nel Quarto vangelo non differisce gran che da quello dei Sinottici96. La sua valenza cristologica si misura soprattutto nel linguaggio narrativo del redattore, dove egli appunto narra di Gesù chiamandolo "Signore", così per esempio dove si legge che ' 'Maria era quella che aveva unto di olio profumato il Signore" (Gv 11,2; cf. 4,1 ; 6,23). Quando si trova in bocca ai personaggi del racconto è difficile, come anche nei Sinottici, riconoscervi una valenza cristologica (per esempio in 11,3 : "Signore, colui che ami è malato"). Certo invece essa è molto forte in bocca a Tommaso dopo la Pasqua e a conclusione del vangelo: "Signore mio e Dio mio" (20,28: ó xupió? [xou xoù ó 0eó<; ptou). Questa con94 Del resto, come dimostra K.E. Pomykala, The Davidic Dynasty Tradition in Early Judaism. Its History and Significance for Messianism, Scholars, Atlanta 1995, nel giudaismo del tempo l'attesa di uno specifico Messia davidico non era né diffusa né dominante, come risulta dai pretendenti regali di cui ci dà notizia FI. Giuseppe e poi dal caso di Bar Kochebah. 95 Cf. sopra: cap. I, 3.2; cap. II, 3.6. 96 La frequenza è la seguente: Mt 77 volte, Me 15 volte + 2 volte, Le 102 volte, Gv 54 volte. Ma, dove esso non sia una qualifica strettamente teo-logica in senso veterotestamentario (cf. Mt 22,37/Mc 12,30: "Amerai il Signore Dio t u o " [ = Dt 6,5]; Le 1,11: "Gli apparve l'angelo del Signore"), in bocca ai personaggi è difficile determinare se l'appellativo sia un semplice nome di cortesia (come in Me 7,28, dove la donna siro-fenicia dice: "Sì, Signore, ma anche i cagnolini...") o esprima un vero riconoscimento cristologico: in questo secondo caso vi si dovrebbe vedere un condizionamento post-pasquale (cf. Mt 14,30, dove Pietro grida: "Signore, salvami!"). Altro è il caso in cui il titolo si trova sotto la penna stessa del narratore nei passi di raccordo dell'azione di Gesù (quindi al di fuori della trama delle parabole): assente da Mt-Mc, questa prassi è frequente in Le (cf. Le 7,14: "Vedendola [la vedova di Nain] //S/grtoreebbecompassionedilei";eanche7,19; 10,1; 12,42; 17,5.6; 19,8;22,61bis).
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fessione di fede giunge al termine di tutta una serie di altre confessioni97 e ne rappresenta il culmine. Il titolo di Kyrios non è nuovo in Gv, ma qui esso acquista una valenza cristologica che prima non aveva. Infatti: (a) è oggettivamente una confessione pasquale rivolta al Risorto; (b) il suo abbinamento a "Dio" gli conferisce una densità inusuale98; (e) la doppia specificazione "mio" aggiunge la nota personale di un rapporto vitale determinante e molto intimo. I due appellativi non possono essere disgiunti, al contrario si illuminano a vicenda99; e anche se Tommaso non dice propriamente « Tu sei Dio » non si può in alcun modo sminuire la confessione della divinità di Gesù. A monte della formulazione giovannea si può intravedere il testo di Sai 34,23 LXX ("Destati... per la mia causa, Dio mio e Signore mio" [TM: "Signore Dio mio"]); solo secondariamente vi si può scorgere un'allusione polemica alla pretesa dell'imperatore Domiziano, che aveva stabilito di essere chiamato Dominus et Deus noster100. In Gesù, Tommaso incontra Dio stesso. 2.1.2.2 "Salvatore". Come abbiamo già visto più sopra101, questo titolo nella sua valenza cristologica non solo è post-pasquale ma è anche piuttosto tardivo. Assente in Paolo (eccetto Fil 3,20 ma in riferimento al futuro escatologico), esso è caratteristico degli scritti neotestamentari più recenti102. A questi appartengono sicuramente anche il Quarto vangelo e la prima Lettera giovannea; in entrambe le composizioni ricorre una sola volta la stessa, forte locuzione cristologica "salvatore del mondo" (Gv 4,42; lGv 4,14; cf. Gv 3,17: "perché il mondo venga salvato mediante 97
Vedi 1,34: "Questi è il figlio di Dio"; 1,49: "Rabbi, tu sei il figlio di Dio, tu sei il re d'Israele"; 4,42: "Questi è veramente il salvatore del mondo"; 6,69: "Tu sei il santo di Dio"; 9,38: '"Credo, Signore', e lo adorò"; 11,27: "Tu sei il Cristo, il figlio di Dio che deve venire nel mondo"; 13,13: "Voi mi chiamate 'Maestro' e 'Signore'". 98 Molto opportunamente B.A. Mastin, A Neglected Feature, pp. 50-51, fa notare che la definizione di Gesù come " d i o " in Gv occorre tre volte e sempre con un riferimento diverso: in 1,1 per il Logos pre-esistente, in 1,18 per il Logos incarnato, e in 20,28 per il Cristo risorto; in questo modo la divinità di Gesù è affermata in modo completo come una sua proprietà ineliminabile, a prescindere dal fatto se essa presupponga una controversia antigiudaica e in più polemizzi con il culto imperiale di Domiziano. 99 Lo stesso si può dire di 1,49, dove la qualifica di "figlio di Dio" viene per così dire attutita dalla specificazione "il re d'Israele"; al contrario, in 13,13 l'appellativo "Maestro" viene rafforzato (ma non troppo) da quello di "Signore". 100 Svetonio, Domit. 13. 101 Cf. cap. Ili, 6. 102 Questi i luoghi e la frequenza delle occorrenze: Luca (Le 2,11; At 5,31; 13,23), Ef (5,23), Pastorali (4 volte), 2Pt (5 volte).
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lui")103. L'originalità della formula giovannea sta tutta nel genitivo "del mondo": mentre negli altri casi l'oggetto della salvezza è sempre formulato in termini antropologici104, qui invece la prospettiva è talmente universalistica da riguardare il cosmo intero. Il termine appartiene al tipico linguaggio giovanneo e connota l'ambito dell'opposizione a Dio (cf. più sotto a proposito del titolo "agnello"). Ma che esso venga impiegato non in senso meramente cosmologico bensì in riferimento all'umanità risulta da una doppia osservazione: l'una è che a pronunciare la confessione cristologica sono i Samaritani, i quali, separati dal resto d'Israele, in questo modo oltrepassano i propri confini e coinvolgono anche tutti i diversi da sé; l'altra è che nel contesto Gesù invita senza mezzi termini a superare tutte le contrapposizioni socio-religiose (cf. 4,21: né su questo monte né a Gerusalemme). Tuttavia è da rilevare che proprio Gv afferma con ogni chiarezza che "la salvezza viene dai Giudei" (1,22), nel doppio senso che Israele è eletto da Dio come sua "peculiare proprietà tra tutti i popoli" (Es 19,5; cf. anche ìs 2,3) e che Gesù stesso è storicamente un Giudeo (cf. 4,9)105.
2.2 Gli specifici titoli giovannei Il quarto evangelista dimostra la sua maggiore originalità nell'esprimere la fede cristologica con un'ampia titolatura, che non ha
103 II fatto che nel primo caso esso si trovi in bocca ai Samaritani dice da solo quanto sia improbabile che appartenga al livello gesuano. Infatti, se pensiamo che il titolo neotestamentario ha le sue possibili ascendenze solo nell'AT e nel politeismo ellenistico, è impossibile che i Samaritani ne fossero condizionati, sia perché delle Scritture d'Israele essi riconoscono solo il Pentateuco e qui il titolo è assente (solo il greco di Dt 32,15 LXX ha il titolo personale divino, mentre l'ebraico definisce Dio con l'astratto "sua salvezza"), e comunque l'idea di salvezza è semmai connessa con Dio e non con il Messia, sia perché la loro chiusura etnica e confessionale rende praticamente impossibile una dipendenza dall'ellenismo.
104 v e d i per esempio la differenza dal testo a p p a r e n t e m e n t e più vicino di l T m 1,15: " G e s ù Cristo è venuto nel m o n d o per salvare i p e c c a t o r i " , dove si distingue n e t t a m e n t e tra mondo e peccatori.
105 Quanto poi al titolo "il re" (6,15; 8,37) che riceve la specificazione "di Israele" (1,49), "di Sion" (12,15 = Zc 9,9), e soprattutto "dei Giudei" (18,33.39; 19,3.14.15.19.21), si può ipotizzare che Gv rilegga Tg Gn 49,8.10-12, dove si precisa, non solo che da Giuda prenderanno nome tutti i Giudei, ma che da essi verrà "il re Messia, a cui appartiene la regalità e a cui si sottometteranno tutti i regni: Com'è bello il re Messia che deve sorgere da quelli della casa di Giuda!..." (cf. in merito l'interessante studio di V. Lopasso, // titolo 'il re dei giudei' in Giovanni e il Targum di Gn 49,8.10-12, Vivarium 3 [1995] 363-385).
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confronti nella letteratura canonica. Qui di seguito passiamo in rassegna i cinque modi principali che la d o c u m e n t a n o . 2.2.1 II Logos. Nel prologo al vangelo 1,1-18, e solo qui, si legge la triplice affermazione della preesistenza del Logos divino, della sua diffusa presenza nel m o n d o , il quale anzi dalla sua mediazione trae origine, e della sua incarnazione storica. A parte i problemi di u n a originaria esistenza a u t o n o m a del prologo come inno a sé stante e del suo r a p p o r t o con il resto del vangelo (dove curiosamente il titolo n o n ricorre più, come pure negli altri scritti giovannei) 106 , è chiara l'intenzione globale dell'evangelista di dimostrare che il vero inizio di Gesù è quello del Logos stesso 1 0 7 , anche se la loro identificazione esplicita avviene solo alla fine della composizione nei vv. 17-18. U n a tale identificazione di Gesù ci porta a precisare che cosa si intendesse al t e m p o di Gv con il termine " L o g o s " , poiché tutta l'originalità di questa cristologia consiste a p p u n t o nell'attribuzione a Gesù di u n a tale qualifica 108 . Il termine Xó-fo<;, lasciando da parte la sua mera valenza lessicale109, cambia la sua portata semantica a seconda che lo si consideri su di uno sfondo culturale greco-pagano o su di uno sfondo giudaico. (1) Nel primo caso, entrano in conto alcune sentenze di Eraclito, per il quale il 106 Sulla forma pre-redazionale dell'inno, cf. P. Hofrichter, Im Anfang war der "Johannesprolog". Das urchristliche Logosbekenntnis - die Basis neutestamentlicher undgnostischer Theologie, BU 17, Pustet, Regensburg 1986, che peraltro enfatizza troppo la sua importanza per tutta la teologia neotestamentaria e gnostica. Sul rapporto con il resto del vangelo e con la lGv, cf. M. Theobald, Die Fleischwerdung des Logos. Studien zum Verhàltnis des Johannesprologs zum Corpus des Evangeliums und zu 1 Joh, NTA 20, Aschendorff, Mùnster 1988, che, nonostante le divergenze, comunque connette la composizione al corpus evangelico; in questo senso anche J. Zumstein, Le prologue, seuil du quatrième évangile, RechSR 83 (1995) 217-239. 107 Cf. M. Theobald, Die Fleischwerdung, p. 490. 108 Per una lettura filosofica di questa celebre pagina giovannea, cf. X. Tilliette, // Cristo della filosofia. Prolegomeni a una cristologia filosofica, Morcelliana, Brescia 1997 (orig. frane, Paris 1990), pp. 149-185 (con saggi su Herder, Hegel, Fichte, Schelling, Solov'ev, Maine de Biran). 109 Nella lingua greca è uno dei vocaboli dal significato più sfaccettato. Il ricco e accuratissimo Vocabolario della lingua greca di F. Montanari (Loescher, Torino 1995, s.v.) elenca quattro significati fondamentali, ciascuno dei quali a sua volta si scompone in varie sfumature: (1) parola, discorso; dichiarazione, decisione, dottrina, definizione; fama, tradizione, notizia; oracolo, responso; argomento, materia, oggetto; (2) favella; colloquio, dialogo, discussione; racconto, mito, storia; orazione, trattato, libro; (3) conto; spiegazione; stima, valutazione; valore, significato; regola, norma; (4) ragionamento, argomentazione; ragione, pensiero, buon senso; motivo, causa, fondamento; piano, progetto, disegno.
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Logos è la legge comune che governa tutte le cose, includendo razionalità e intelligenza (cf. soprattutto fr. 2: "Bisogna seguire ciò che è comune; ma pur essendo questo logos comune, la maggior parte degli uomini vivono come se avessero una loro propria saggezza") e poi soprattutto lo stoicismo. Per gli Stoici il Logos è ragione seminale di tutte le cose, è la realtà divina immanente; esso perciò ha soprattutto una rilevanza ontologica, oltre che fungere anche da principio normativo in etica e da principio di verità in logica (cf. Cleante, Inno a Zeus, 19-20: "Tu infatti adattasti tutto nell'unità, così che si costituisse un logos unico di tutte le cose, sempre esistente, che abbandonano fuggendo quanti tra i mortali sono malvagi"; Crisippo, in SVF 2,913, lo identifica con il fato come "Logos del mondo, secondo cui avvennero le cose passate, avvengono le presenti, avverranno le future"). (2) Nel giudaismo bisogna distinguere. Nell'uso biblico e targumico, il termine Logos nei LXX traduce l'ebraico dabar come "parola" tanto creatrice e sostentatrice del mondo (cf. Sai 33,6: "Dalla parola del Signore furono fatti i cieli"; in Sap 9,1-2 essa sta in parallelismo con la "sapienza") quanto anche forza vivificante e salvifica (cf. Sai 107,20: "Mandò la sua parola e li fece guarire, li salvò dalla distruzione"; Is 40,8: "La parola del nostro Dio dura per sempre"; 55,10-11: "Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano..., così sarà della parola uscita dalla mia bocca..."), mentre nell'aramaico la paroìa-Memrah di Dio viene addirittura personificata (cf. TgN a Gn 1,1 ss: "...La parola di Yhwh disse: Vi sia la luce, e vi fu la luce secondo l'ordine della sua parola..."; Tg a Is 42,12: " I o ho creato ogni cosa con il mio Memrah"). Quanto poi a Filone Alessandrino, nei suoi scritti il Logos è personificato e assume i tratti dell'intermediario per eccellenza tra Dio e il mondo, tra Dio e l'uomo, e tende a superare le rispettive distanze con funzioni salvifiche: così esso è paragonato sia all'architetto che progetta una città (cf. Opif. 20) sia allo strumento con cui essa viene costruita (cf. Cher. 127), perciò è "il vincolo universale che tiene insieme tutte le cose" (Fug. 112); in più, esso inabita e circola in coloro che onorano la vita dell'anima (cf. Post.C. 122; Deus imm. 134: "il tutore, il padre, il maestro o comunque si voglia nominare il sacerdote che solo può correggerci e farci rinsavire"; altri nomi in Conf. 146: primogenito di Dio, arcangelo, arche ecc.). È probabile che l'idea giovannea di Logos abbia le sue radici principali nella teologia giudaica della parola e della sapienza 1 1 0 ; m a
1,0 Cf. R. Schnackenburg, La persona di Gesù Cristo, p. 401, dove si ricorda che entrambi i concetti si ritrovano in quello di Torah (cf. 2Bar. 54,13-14: "Ti hai stabilito presso di te ogni fonte di luce e hai preparato sotto il tuo trono depositi di sapienza. E giustamente periscono coloro che non hanno amato la tua legge").
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non si può ignorare la matrice greca. Tuttavia l'identità del Logos nel prologo giovanneo supera entrambe le ascendenze. Essa infatti può essere colta secondo tre aspetti, che sono anche i tre momenti della sua esistenza, secondo la seguente ripartizione del testo 111 : " 1,1 In principio era il Logos e il Logos era presso Dio e dio era il Logos. 2 Egli era in principio presso Dio. 3 Tutto avvenne mediante lui e senza di lui non avvenne nulla. 4 Ciò che avvenne in lui era vita e la vita era la luce degli uomini 5 e la luce brilla nelle tenebre e le tenebre non l'hanno afferrata... 9 Egli era la luce vera, che venendo nel mondo illumina ogni uomo. 10 Era nel mondo e il mondo avvenne mediante lui e il mondo non lo riconobbe. 11 Venne a casa propria, ma i suoi non lo accolsero. 12 A quanti però lo accolsero diede loro la possibilità di diventare figli di Dio... 14 E il Logos carne divenne e si attendò in mezzo a noi; e vedemmo la sua gloria,
L'esclusività dell'A.T. come fonte del Prologo è fortemente sostenuta da C.A. Evans, Word and Glory. On the Exegetical and Theological Background of John 's Prologue, JSNT Suppl. 89, Academic Press, Sheffield 1993. 111 II v. 18 va considerato una conclusione che in realtà funge da raccordo tra il prologo e il corpus del Vangelo. Per il problema della struttura del prologo giovanneo, oltre ai Commenti cf. anche O. Hofius, Struktur und Gedankengang des Logos-Hymnus in Joh 1:1-18, ZNW 78 (1987) 1-25, che, ritenendo redazionali i vv. 6-8.12d-13.15.17-18, suddivide la composizione in due parti: (1) i vv. 1-9 riguarderebbero il Logos àsarkos (con due strofe: i vv. 1-3 sulla preesistenza divina e la mediazione nella creazione; e i vv. 4-5.9 sulle sue proprietà di vita e di luce); (2) i vv. 10-16 riguarderebbero invece il Logos énsarkos (altrettanto con due strofe: i vv. 10-12c sulla presenza del Logos nel cosmo; e i vv. 14.16 sulla sua incarnazione storica e gli effetti per la comunità credente). Bisogna però riconoscere che pure le inserzioni redazionali fanno parte dell'attuale prospettiva cristologica dell'evangelista, per quanto riguarda sia la contrapposizione del Logos con il Battista (vv. 6-8.15) sia la filiazione divina di coloro che credono in lui (vv. 12c-13) sia anche la differenziazione da Mosè (v. 17) sia soprattutto la sua funzione di rivelatore storico (v. 18; cf. sopra).
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gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità... 16 Infatti dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia, 17 poiché la Legge fu data per mezzo di Mosè, ma la grazia e la verità avvennero per mezzo di Gesù Cristo. 18 Dio, nessuno lo ha mai visto, ma l'unigenito dio, che è nel seno del Padre, lui lo ha spiegato". In primo luogo (vv. 1-3), è celebrata la dimensione protologica e archetipica del Logos, di cui si dice che è insieme preesistente ("in principio era"), divino (theós) eppure personalmente distinto da Dio (ho theós), e mediatore nella creazione ("tutto avvenne mediante lui"). In secondo luogo (vv. 4-5.9-12), si afferma la dimensione della sua 'parusia' o presenza diffusa nel mondo mediante i concetti di vita e di luce, distinguendo tra gli opposti atteggiamenti assunti dagli uomini nei suoi confronti: coloro che non lo riconobbero e coloro che accogliendolo possono diventare figli di Dio. Certo si può pensare che queste affermazioni si riferiscano già al ministero terreno di Gesù (cf. i temi giovannei della vita, della luce, e della fede), ma poiché è solo nei vv. successivi che si parla della sua incarnazione, è più che possibile scorgere qui solo una eco delle concezioni stoica, sapienziale e filoniana in materia. In terzo luogo, infatti (vv. 14-18), si canta finalmente la sua incarnazione 112 , intesa soprattutto come limitazione nella fragilità di un'esistenza mortale (cf. il concetto biblico di "carne" in Is 40,6: "Ogni carne [TM: basar, LXX: «rapi;; CEI: uomo] è come l'erba e tutta la sua gloria è come un fiore del campo") ma anche come visibile insediamento nella storia degli uomini ("si attendò [ = si acquartierò, abitò] fra noi"). Risuona qui l'idea anticotesta-
H2 Precisiamo qui che la lettura del v. 13 al singolare ("// quale non da sangue ... ma da Dio è stato generato"), proposta da alcuni Autori (cf. J. Galot, Ètre né deDieu: Jean 1,13, AnB 37, PIB, Rome 1969; P. Hofrichter, Im Anfang, pp. 45-54; I. de la Potterie, La concezione e la nascita verginale di Gesù secondo il Quarto Vangelo, in Id., Studi di cristologia, pp. 58-67), non è stata accetta dai commentatori, sia perché la tradizione manoscritta non l'appoggia (a favore solo poche testimonianze latine: Tertulliano e Ireneo-latino [Clemente Al. applica il singolare a ogni cristiano; Origene e Ambrogio al cristiano e a Cristo; mai comunque in un66commento a Gv]; contro: tutta la tradizione greca a partire dall'importante P ), sia perché contestualmente il tema della generazione nel v. 12 riguarda solo coloro che credono, sia perché il tema della concezione verginale di Gesù è di fatto estraneo a Gv (cf. 1,45; 6,42; 7,41-42.52).
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mentaria dell'abitazione di Dio in mezzo al suo popolo (cf. Es 25,8: "Essi mi faranno un santuario e io abiterò [TM: sàkantì; LXX: «xpGriaofiai, 'mi mostrerò'] in mezzo a loro"; 40,34: "La gloria del Signore riempì la Dimora [TM: miskan; LXX: cjei -co ovofxà [xou] in mezzo agli Israeliti per sempre"), oltre a quella della sua Sapienza (cf. Sir 24,8: "Allora il creatore dell'universo... mi disse: Fissa la tenda [xac-caaxTivooaov] in Giacobbe"; analogamente Bar 3,38: "Per questo è apparsa sulla terra e ha vissuto fra gli uomini")113. È questo terzo stadio la componente più originale e anzi inaudita, se non scandalosa (cf. l'ossimoro "Logos carne"), di tutto l'inno al Logos; di una sua incarnazione infatti poteva parlare solo chi avesse già davanti a sé il caso storico e ben preciso di Gesù e fosse già guidato dalla fede in lui114. Perciò, la dichiarazione del v. 14 va letta non solo e non tanto in riferimento alla mera nascita terrena di Gesù quanto piuttosto come un giudizio dato su tutta la sua vita d'uomo; infatti, mai come sulla croce il Logos si fece carne, ma lo stesso vale per tutti i momenti della sua vita terrena (cf. in particolare la sua stanchezza quando siede presso il pozzo di Si-
char [in 4,6]; il suo pianto di fronte all'amico Lazzaro morto [in 11,33]; e l'umiliazione quando lava i piedi ai suoi discepoli [in 13,1-11]). Paradossale in senso contrario è invece l'affermazione che nella "carne" assunta dal Logos si sia potuto scorgere la sua "gloria"; si vuol dire con ciò che lo spessore e l'opacità della debolezza umana non solo non hanno potuto offuscare lo splendore del Logos divino, ma anzi gli hanno reso possibile di manifestarsi agli occhi dell'uomo115. In definitiva, è solo in questa dimensione storica di totale dedizione personale (e non nella legge di Mosè: cf. v. 17) che Dio ha proposto agli uomini la "pienezza della grazia e della verità" (v. 14). In quest'ultimo costrutto risuona la bella definizione anticotestamentaria di Dio "misericordioso e pietoso, lento all'ira, ricco di grazia e di fedeltà" (Es 34,6), come per dire che Dio, tutt'altro che accontentarsi di mere dichiarazioni di amore, nel Verbo Incarnato le ha mantenute fino in fondo (per analogia cf. anche 2Cor l,20a: "Tutte le promesse di Dio in lui sono divenute 'sì'"); sicché lo stesso Verbo incarnato è la massima grazia di Dio agli uomini (cf. 3,16), e in lui prende letteralmente corpo la verità o (in senso anticotestamentario) la fedeltà di Dio116. La comunità giovannea lo riconosce con gioia, confessando il pro-
113 L'idea sarà poi sviluppata nel rabbinismo giocando ampiamente sul concetto di una personificazione della Shekinah, "dimora o presenza dimorante (di Dio)". Vi si legge, per esempio, che essa ha conosciuto un progressivo allontanamento dall'uomo mediante il peccato e poi un suo progressivo riavvicinamento fino alla Legge data a Mosè: "La Shekinah... quando Adamo peccò salì al primo cielo; peccò Caino, salì al secondo; con la generazione di Enosh, al terzo; con quella del diluvio, al quarto; con la generazione della torre di Babele, al quinto; coi Sodomiti, al sesto; e con gli Egiziani del tempo di Abramo, al settimo. In opposizione a loro sorsero sette giusti, che sono Abramo, Isacco, Giacobbe, Levi, Qehat [figlio di Levi], Amram [figlio di Qehat e padre di Aronne e Mosè] e Mosè. Sorse Abramo e la Shekinah scese al sesto; con Isacco dal sesto al quinto; con Giacobbe dal quinto al quarto; con Levi dal quarto al terzo; con Qehat dal terzo al secondo; con Amram dal secondo al primo. Sorse Mosè e la fece scendere dal disopra al disotto" (Gen.R. 19,7). Secondo il Talmud, poi, essa non abbandona mai Israele: "Dovunque andarono esuli, la Shekinah era con loro" (b.Meg. 29a). Vedi E.E. Urbach, Les sages d'Israel, conceptions et croyances des maìtres du Talmud, Cerf, Paris 19%, pp. 43-72: "La Shekhina, présence de Dieu dans le monde". 114 E celebre e sempre suggestivo il commento che ne fa S. Agostino in Confess. 7,9,13-14: riferendosi alle sue precedenti letture di alcuni scritti platonici (probabilmente Plotino e Porfirio), egli afferma di avervi letto già tutto quello che si dice nel prologo giovanneo fino al v. 13, ma non che la Parola di Dio si fece carne e abitò fra gli uomini né che annientò se stesso facendosi in tutto simile all'uomo ecc. In effetti, l'affermazione di un divenire e apparire del Logos divino in forma umana contrasta non solo con la filosofia greco-platonica, secondo cui il Dio è immutabile (cf. sopra: cap. Ili, 4 [1]), ma anche con la fede israelitica, secondo cui Dio è e resta trascendente.
115 Si allude all'esperienza storica dei discepoli di fronte ai segni compiuti da Gesù (cf. 2,11), alla sua morte e risurrezione come glorificazione definitiva (cf. 7,39; 12,23; 17,1), non esclusa anche la sua gloria escatologica (cf. 17,24); vedi in merito C. Hergenròder, Wir schauten seine Herrlichkeit, pp. 336-351. 116 Non condividiamo perciò la traduzione del v. 14e "pieno della grazia della verità", proposta da S.A. Panimolle, // dono della legge e la grazia della verità (Gv 1,17), Ave, Roma 1973 (ripresa da I. de la Potterie, La vérité, pp. 139-141, e da X. Léon-Dufour, Gv, I, pp. 178-180), che scorgendovi una endiadi dissolve il concetto di grazia in quello di verità ( = la verità come grazia o dono). È vero che del binomio biblico "grazia e verità" (hesed weemet, lett. "misericordia e fedeltà": Es 34,6; Gs 2,14; 2Sam 15,20; Sai 85,11: "Misericordia e verità s'incontreranno"; 138,2; Pro 3,3; 14,22; 16,6; 20,28) il primo termine è reso normalmente dai LXX con éleos e non con charis, ma: (1) il contesto immediatamente seguente in Gv 1,16-17, tutt'altro che stemperare il concetto di grazia in quello di verità, insiste invece proprio su di esso (tanto più che il termine in Gv ricorre solo qui); (2) altrove in Gv la verità è associata spesso con lo Spirito, sia nella forma "Spirito di verità" (14,17; 15,26; 16,13) sia nella forma simile alla presente "Spirito e verità" (4,23.24); ma, dato che lo Spirito è del tutto assente dal prologo, si può pensare che esso sia qui sostituito proprio dal concetto di grazia. È meglio perciò lasciare intatto il binomio nelle sue due componenti distinte (come del resto fa la maggior parte dei commentatori (cf. Barrett, Brown, Schnackenburg, Mateos-Barreto, Segalla, Fabris), che sono comunque strettamente correlate fra di loro. E. Jenni - C. Westermann, Dizionario teologico dell'Antico Testamento, I, Marietti, Torino 1978, col. 176, addirittura subordinano il secondo concetto al primo traducendo il binomio ebraico con "benevolenza durevole", cioè una solida manifestazione di bontà di cui ci si può fidare.
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prio debito nei suoi confronti in quanto da quella pienezza "noi tutti abbiamo attinto grazia su grazia" (v. 16)117. 2.2.2 L'unigenito (\iovoytvf\<;). Nel NT solo Gv impiega questo termine con valenza cristologica (in 1,14.18; 3,16.18; a cui va aggiunto lGv 4,9) 118 . All'interno del prologo, esso introduce una idea nuova, non ancora espressa prima, che ha un doppio aspetto: che cioè il Logos sta con Dio in un rapporto di filiazione e che questa filiazione è unica nel suo genere119. L'idea viene poi ulteriormente precisata con altre due sfumature apparentemente contrastanti ma vicendevolmente complementari. Da una parte, infatti, leggiamo non solo che l'unigenito è " d i o " ma che è "nel seno del Padre" (1,18), secondo una toccante immagine che evoca una strettissima intimità120 (a prescindere dal fatto se l'evangelista intenda l'intimità divina propria del Logos preesistente o quella attuale di Gesù risorto e glorificato). Dall'altra, invece, si afferma che questo Unigenito è stato dato al mondo per un atto di amore (cf. 3,16; lGv 4,9). Nella dialettica tra la sua dimensione ontologica e la sua funzione dinamica sta tutto il mistero della figura e del destino di Gesù. 2.2.3 L'agnello di Dio. In Gv 1,29 leggiamo questa originalissima definizione di Gesù: "Ecco l'agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo" (cf. 1,36: "Ecco l'agnello di Dio"). La sua identificazione metaforica con un agnello sorprende alquanto, soprattutto perché non è ulteriormente ripresa né sviluppata; al contrario, in 10,1-18 si svilupperà un'altra metafora apparentemente contrastante: quella di Gesù come (buon) pastore. Due considerazioni possono aiutarci a capire meglio ciò di cui si tratta 121 . La prima riguarda la possibile origine anticotestamentaria della metafora: de117 In questa celebrazione del Logos trapela la felice sorpresa di fronte a una novità inaudita, che peraltro permea di sé l'intero vangelo; in merito cf. G. Ghiberti, "Vecchio" e "nuovo" in Giovanni. Per una rilettura di Giovanni (vangelo e lettere), RivBibl 43 (1995) 225-251. 118 Cf. G. Pendrick, Movo^evri?, NTS 41 (1995) 587-600. 119 È possibile che a monte ci sia l'idea anticotestamentaria del figlio insieme unico e diletto, come nel caso di Isacco per Abramo (cf. Gn 22,1-2), anche se i LXX qui120 non impiegano il vocabolario giovanneo. L'immagine è impiegata nell'AT soprattutto per l'intimità coniugale (cf. Gn 16,5; Dt 13,7; 28,54.56 ecc.) e per la posizione del bimbo in grembo alla madre (cf. IRe 3,20; 17,19); cf. anche il piccolo Astianatte, figlio di Ettore e Andromaca, in braccio alla madre (Omero, //. 6,400). 121 Lasciamo da parte la questione del genitivo: agnello "di Dio" cosa significa? forse che ha in sé una dimensione divina? o semplicemente che appartiene a Dio? o che proviene da Dio come suo donatore? o che è destinato in sacrificio a Dio?
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terminarla con esattezza significherebbe risolvere in gran parte il problema. Noi rimandiamo ad altra sede l'indagine in materia 122 . Per ora ci accontentiamo di richiamare sullo sfondo, sia pure con i loro limiti, le due figure dell'agnello pasquale (che però non ha valore espiatorio) e del servo sofferente di Yhwh secondo Is 53 LXX (dove però al v. 7 l'agnello è un mero paragone addotto come esempio di sopportazione in quanto "muto di fronte a chi lo tosa"). L'altro motivo principale che ci permette di comprendere la definizione giovannea è la specificazione immediatamente seguente: egli "toglie il peccato del mondo (ó alpoav rr]v àfxocpTiav TOU xóafxou)". Il verbo impiegato significa propriamente "sollevare, togliere, prendere su di sé, eliminare, far sparire, annullare" e implica una dimensione di espiazione (analogamente a Is 53,4.12: "Egli si è caricato [LXX: 9épei] le nostre sofferenze,... ha portato [LXX: àvVive-yxev] i peccati di molti") 123 ; in questo senso si legge in lGv 3,5: "Egli è apparso/?er togliere i peccati". Ma l'uso del participio presente con articolo costituisce un vero titolo definitorio di Gesù: egli è colui che per natura sua toglie (non soltanto: che ha tolto o che toglierà) il peccato; togliere il peccato è una funzione che definisce l'agnello. Rapportandoci al racconto evangelico, si dovrà dire che una tale definizione si riferisce non solo alla morte in croce (cf. 3,14-15; 6,5lb; 12,32) ma a tutta la vita di Gesù, compresa la parola di rivelazione (cf. 8,32; 15,3)124. Evidentemente il peso dell'affermazione cade sull'oggetto della eliminazione: il peccato del mondo. L'espressione, anche se può trovare un parallelo in lGv 2,2 ("Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati: non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo), di fatto è unica in tutto il NT. La sua originalità sta nel singolare "il peccato" e insieme nella sua diretta attribu-
122 Cf. più avanti il cap. VII sull'Apocalisse, dove la metafora cristologica dell'agnello viene sviluppata con ben altra ampiezza. 123 Infatti nell'uso dei LXX il verbo semplice può avere come oggetto à^àp-apa (ISam 15,25) e àvó^na (ISam 25,28); da parte sua, il composto è?-aipw ha come oggetto "il malvagio" (Dt 17,7.12; 19,19; 21,21; 22,22.24; 24,7), "la maledizione" (Gs 7,12.13), "il male" (Gdc 20,13), "le immondezze" (IMac 14,7), "ogni iniquo e malvagio" (ib. 14,14), "l'ingiustizia" (Sir 7,6), "il temerario" (ib. 19,3), "l'ignominia" (ib. 47,4), "gli abomini dell'empietà" (ib. 49,2), "gli idoli" (Is 30,22), "la prostituzione" (Os 2,4), "i nomi dei Baal" (ib. 2,17), "i nemici" (Na 1,2), "gli iniqui" (Sof 1,3), "lo spirito impuro" (Zc 13,2). 124 Cf. M. Hasitschka, Befreiung von Sùnde nach dem Johannesevangelium. Eine bibeltheologische Untersuchung, ItS 27, Tyrolia, Innsbruck-Wien 1989, pp. 131-133.
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zione non a una persona ma al "mondo". È evidente che esso, proprio perché "del mondo" come realtà impersonale e generale, non qualifica un atto singolo di trasgressione; esso, semmai, diventa proprio delle singole persone nella misura in cui queste partecipano della negatività peccaminosa del mondo. Tuttavia il peccato in questione è qualcosa di preciso, data la presenza dell'articolo determinativo. Dobbiamo quindi comprendere bene di che cosa si tratta. In Gv, dove mancano cataloghi di peccati come invece troviamo sia nei Sinottici (cf. Me 7,20-21 /Mt 15,18-19) sia in Paolo (cf. ICor 6,9-10; Gal 5,19-21), il termine ricorre preferibilmente al singolare: 13 volte su 17 volte (analogamente in lGv: 10 volte su 17 volte). Vedi per esempio: "Io vado e mi cercherete ma morirete nel vostro peccato" (8,21); "Chiunque fa il peccato è schiavo del peccato" (8,34); "Se foste ciechi, non avreste un peccato; ma poiché dite 'Noi vediamo' il vostro peccato rimane" (9,41); "Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero un peccato, ma ora non hanno scusa per il loro peccato" {15,22); "Venendo egli convincerà il mondo circa il peccato...: quanto al peccato, perché non credono in me" (16,8-9). In lGv 3,4 si legge addirittura una definizione, secondo cui "il peccato è la mancanza di legge" (rj àfxapua èemv r\ àvojxta). Ma nella anomia bisognerà scorgere non la semplice violazione della legge, neanche della legge dell'amore, bensì, con i commentatori più recenti, un riferimento alla situazione escatologica di una diffusa iniquità, conformemente all'idea apocalittica del nesso tra anticristo e anomia (cf. 2Ts 2,2.3.7; Did. 16,4), tanto più che nel contesto prossimo lGv 2,18.22; 4,3 definisce "anticristi" coloro che si sono separati dalla comunità giovannea preferendo la menzogna alla verità125.
Come si vede, il peccato in Gv non solo non è un atto individuale, ma non è neppure la somma di vari peccati. Esso piuttosto è un atteggiamento fondamentale e unitario, che si manifesta poi nella molteplicità di concreti atti singoli. Nell'insieme si può dire che es-
125 Cf. i commenti di R.E. Brown, pp. 399-400, e di H.-J. Klauck, pp. 186-187; inoltre I. de la Potterie, "Ilpeccato è l'iniquità" (1 Giovanni3,4), in I. de la PotterieeS. Lyonnet, La vita secondo lo Spirito, condizione del cristiano, Ave, Roma 2 1971, pp. 75-97. Addirittura F. Manns, '"Le péché, c'est Bélial". Un: 3,4 à la lumière du judaisme, RevSR 62 (1988) 1-9, traduce anomia con Bélial sulla base del fatto che in Sai 18,5 ("Mi circondavano flutti diemorte, mi travolgevano torrenti impetuosi") l'ultimo vocabolo, che nel TM è b liyacal (lett. "torrenti di Bélial [cioè: senza valore; quindi: malvagi]"), dai LXX è reso appunto col genitivo àvo(x(a? (lett. "torrenti di iniquità").
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so consiste semplicemente nella "risposta negativa dell'uomo nel suo confronto col Cristo Gesù" 126 e più specificamente nel fatto che non si riconosce né lui né il Padre (cf. 8,21; cf. IGv 3,6)127. Questo in definitiva è "il peccato che conduce alla morte" (IGv 5,16) in quanto l'uomo non accoglie la rivelazione dell'amore di Dio in Gesù Cristo, poiché solo l'amore conduce dalla morte alla vita (cf. IGv 3,14-15)128. Il peccato del mondo è quello che già il prologo annunciava: "Era nel mondo e il mondo avvenne mediante lui e il mondo non lo riconobbe. Venne nella sua casa, ma i suoi non lo accolsero" (1,10-11). Si tratta dunque di una situazione oggettiva di cecità e di tenebra (cf. 1,5; 9,5), che non è soltanto la conseguenza di un rifiuto, ma che consiste doppiamente: anzitutto nella stessa non-conoscenza di Dio da parte del mondo, manifestata e resa cosciente da Gesù129; e poi anche nella responsabile non-accoglienza della luce della rivelazione avvenuta in Cristo e quindi della verità che è lui stesso130. Nel concreto racconto giovanneo, questo atteggiamento è impersonato da "i Giudei", di fatto sempre connotati negativamente (70 volte contro 6 volte in Me; eccezione: Gv 4,22); proprio questa tipizzazione però non permette di parlare di semplice 'antigiudaismo' in Gv 131 . Il tema dell'espiazione cioè della eliminazione (cf. "togliere") di una tale situazione emerge ogni tanto nelle formule giovannee "per la vita del mondo" (6,51c), "per le pecore" (10,11.15), "per il popolo" (11,50), "per loro" (17,19); esso è anche adombrato nella similitudine del grano che cade in terra e muore per dare frutto (cf. 12,24) e nella lavanda dei piedi dei discepoli come atto che unisce in sé inscindibilmente umiliazione da una parte e purificazione dall'altra (cf. 13,6-8). 126 127 128 129
I. de la Potterie, "Il peccato è l'iniquità" (1 Giovanni 3,4), p. 95. Cf. M. Hasitschka, Befreiung von Sùnde, pp. 124-127, 202-204. Cf. H.J. Klauck, Der erste Johannesbrief, pp. 328-329. "La serietà della drammatica situazione dell'uomo non sarebbe neanche stata conosciuta senza larivelazionedi Dio in Gesù Cristo" (D. Moody Smith, The Theology of the Gospel of John, University Press, Cambridge 1996, p. 82). 130 Si potrebbe ipotizzare un parallelismo tra il concetto giovanneo di "mondo" e quello paolino di "carne". Giustamente R. Schnackenburg, Gv, L, p. 397, osserva: "L'agnello di Dio non toglie il peccato che è nel mondo, ma il peccato del mondo"; cioè: non è che togliendo il peccato, come se si trattasse di un semplice accessorio, "il mondo" resti quello di prima, ma togliendo il peccato scompare anche "il mondo" stesso nella sua accezione negativa, ed esso non è più quello di prima. 131 Cf. M. de Jonge, The Conflict between Jesus and the Jews and the Radicai Christology of the Fourth Gospel, PerspRelStud 20 (1993) 341-355.
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2.2.4 Gli "Io sono"predicativi. Più volte nel Quarto Vangelo e solo in esso Gesù si autodefinisce mediante l'applicazione a sé di tutta una serie di metafore. Le passiamo in rassegna singolarmente. 2.2.4.1 "Io sono il pane della vita" (6,33.48.5la), specificato anche così: "Io sono il pane disceso dal cielo" (6,41). A monte di questa immagine, che insiste sul concetto di nutrimento, c'è il riferimento alla manna donata da Dio nel deserto al popolo dell'esodo; infatti la frase citata in 6,31 ("diede loro da mangiare un pane dal cielo": Sai 78,24) richiama apertamente il racconto di Es 16, e tutto il cosiddetto 'discorso sul pane di vita' ne costituisce un commento, quasi un midrash132. Un'accurata esegesi di tutto il discorso dovrà distinguere tra una prima, lunga sezione (6,32-5lab, comprendente le citate definizioni), in cui tanto il pane quanto il mangiare sono intesi metaforicamente (nel senso che il pane è Gesù stesso nell'interezza del suo mistero personale, e il mangiare è la semplice adesione di fede a lui)133, e una seconda sezione (6,51c-58), in cui il discorso trapassa in una prospettiva eucaristica con la nuova menzione del binomio "carne e sangue". Per entrambi i livelli vale l'autodefinizione di Gesù134. Anche la cosiddetta 'formula di mutua immanenza' che si legge in 6,56 (in senso eucaristico: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui") vale semplicemente per la vita cristiana in quanto contrassegnata dallo Spirito pasquale (cf. 14,20: "Allora conoscerete che... voi siete in me e io in voi")135. 2.2.4.2 "Io sono la luce del mondo" (8,12; cf. 12,46: "Io come luce sono venuto nel mondo"). È interessante notare che la definizione usata da Gesù in Mt 5,14 per definire i suoi discepoli ("Voi siete la luce del mondo"), in Gv egli la riserva per se stesso. La circostanza storica che spiega questa dichiarazione è data dalla fe132 Oltre ai Commenti, cf. soprattutto P. Borgen, Bread front Heaven. An Exegetical Study ofthe Concept of Manna in the Gospel of John and the Writings of
Philo, N T Suppl. 10, Brill, Leiden 1965; i maggiori passi di Filone Al. presi in considerazione sono tratti d a Mut. nom. 253-263; Leg. alleg. 3,162-168. 133 134
Cf. il commento di S. Agostino, In Iohannem 25,1: "Crede et manducasti"! Secondo M.J.J. Menken, John 6,51c-58: Eucharist or Christology?, Bibl 74 (1993) 1-26, anche il binomio carne-sangue nella seconda parte si riferisce primariamente a Gesù crocifisso e solo secondariamente all'eucaristia. Vedi anche G. Segalla, Gesù, Pane del cielo per la vita del mondo. Cristologia ed eucaristia in Giovanni, Messaggero, Padova 1976. 135 Cf. I. de la Potterie, L'emploi du verbe 'demeurer' dans la mystique johannique, NRT 117 (1995) 843-859.
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sta autunnale dei Tabernacoli (cf. 7,2.37), caratterizzata appunto dall'accensione di grandi e alti candelabri d'oro che dall'area del Tempio illuminavano l'intera città di Gerusalemme136. Ma la definizione cristologica richiama testi come quello di Is 42,6 sul servo di Yhwh ("Ti ho formato e stabilito... luce delle nazioni"; cf. 49,6; 51,4) o di lEn. 48,4 sul Figlio dell'Uomo: "Egli sarà il bastone dei santi e dei giusti affinché si appoggino ad esso e non cadano, e sarà luce dei popoli e speranza per coloro che soffrono nel loro animo"137. L'orizzonte universalistico della funzione rischiaratrice di Gesù è esplicito, ed essa riguarda non solo l'uomo e il mondo, ma soprattutto Dio e Gesù stesso. A lui infatti si può applicare il testo di Sai 36,10: "Alla tua luce vedremo la luce"138. 2.2.4.3 "Io sono la porta" (10,7 ["delle pecore"].9). Anche se il primo dei due vv. colloca la metafora all'interno di una allegoria pastorale (= la porta di un ovile)139, il secondo con la sua prosecuzione le conferisce il vero significato traslato: "Se qualcuno entra per mezzo di me (Bi'èfxoG) sarà salvo, ed entrerà e uscirà e troverà pascolo". Insieme a una garanzia di sicurezza, l'immagine dunque vuole esprimere soprattutto l'idea di una mediazione necessaria, che Gesù svolge per l'accesso al Padre. Lo si legge a chiare lettere in 14,6: "Nessuno va al Padre se non per mezzo di me"140. Sullo sfondo si può intravedere Sai 118,20: "Questa è la porta del Signore: soltanto i giusti vi possono entrare" (tanto più che il Salmo è interpretato messianicamente nell'acclamazione della folla all'ingresso di Gesù in Gerusalemme; cf. Gv 12,13: "Benedetto co-
136 "Non v'era cortile in Gerusalemme che non splendesse della luce di questa illuminazione" (m.Suk. 5,3; secondo la tradizione, questi candelabri erano alti cinquanta braccia, cioè ca. 25 metri: cf. V. Castiglioni, Mishnaiot, I, p. 204 nota 6). 137 Anche D n 2,22 ("Presso di lui è la l u c e " , detto di Dio) verrà letto da un rabbino posteriore in senso messianico: " S i riferisce al re Messia, come è detto: Sorgi, rivestiti di l u c e " (Gen R. 1,6, c o n r i m a n d o a Is 60,1). 138 v e d i la bella preghiera di Filone A l . , Spec. leg. 1,42: " S e desidero sapere qual è la t u a essenza, n o n trovo in nessuna parte dell'universo chi possa insegnarmelo. Perciò ti prego e ti scongiuro di esaudire la richiesta di un supplicante, che ti a m a e vuole servire te solo. Poiché, come la luce non è conosciuta d a nient'altro m a è essa stessa motivo della sua conoscenza, così anche tu e soltanto tu puoi manifestare te stesso".
139 In Ne 3,1.31; 12,39, a proposito del Tempio ricostruito dopo l'esilio, si parla di una "Porta delle Pecore", che doveva essere situata sul lato nord della costruzione; ma non ne sappiamo nulla per il tempo di Gesù. La metafora di Gv 10 è chiaramente collegata con l'attività pastorizia e non con l'architettura del Tempio.
1 40 Cf. A . Bottino, La metafora 207-215.
della porta
(Gv 10,7.9),
RivBibl 39 (1991)
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lui che viene nel nome del Signore" [Sai 118,25]). E un buon commento può essere considerato il passo di una lettera di Ignazio di Antiochia: "Egli è la porta del Padre, attraverso la quale entrarono Abramo, Isacco, Giacobbe, i profeti, gli apostoli e la chiesa: tutto questo per condurre all'unità in Dio" (ai Filad. 9,1)141. 2.2.4.4 "Io sono il buon pastore" (10,11.14). Continua e anzi si personalizza l'allegoria pastorale 142 , dove non è certo originale di Gv il titolo cristologico di "pastore" in quanto tale (cf. infatti Eb 13,20; lPt 2,25; e anche Mt 26,31 = Zc 13,7) mentre lo è la formulazione nel suo insieme. Qui spicca subito la contrapposizione contestuale con il mercenario (cioè il sostituto prezzolato del pastore), che conferisce alla metafora una componente polemica143 per dire che solo Gesù è il pastore " b u o n o " (ó xaXó?), cioè quello vero, genuino, di cui ci si può veramente fidare, con il quale si può stare al sicuro. La metafora del pastore è antichissima nel mondo mediterraneo per definire la funzione di un sovrano. Così già Hammurapi, Codice 1: "Io sono Hammurapi, il pastore, l'eletto di Enlil". In un inno egiziano ad Ammone del periodo del Nuovo Regno (dinastie XVIII-XX) il dio è celebrato così: "Tu sei buono per ognuno, tu pastore che conosci la compassione" (E. Bresciani, Letteratura e poesia dell'Antico Egitto, Einaudi, Torino 1969, p. 412), mentre in un altro si dice che egli "fa vivere... ogni buon pastore", cioè ogni sovrano (ib., p. 384). Anche Omero applica la metafora "pastore di popoli" al mitico Driante (//. 1,262) e ad Agamennone (ib. 2,243 e 254). Nell'AT è Dio il pastore per eccellenza, che assiste sia il popolo sia l'individuo (cf. Sai 23; 78,52-53; 80,2; 100,3; Is 40,11; Ger 31,10; Mie 2,12-13); ma questa funzione è partecipata da altri, come Mosè (cf. Is 63,11) insieme ad Aronne (cf. Sai 77,21), e poi Giosuè (cf. Nm 27,17), Davide (cf. 2Sam 5,2; Sai 78,70-72), i sacerdoti
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(cf. Ger 2,8). In particolare, mentre prende corpo una forte polemica contro il "pastore stolto che abbandona il gregge" (Zc 11,15-17), la metafora è applicata a più riprese al messia davidico che raccoglie le speranze di tutto il popolo (cf. Ez 34,11-16.23-24; 37,24-25; Mie 5,1-3). La prova decisiva della legittimità pastorale di Gesù sta nel fatto che egli, come il vero pastore, "dà la vita per le sue pecore" (10,llb.l5b), mentre il mercenario pensando solo a se stesso fugge di fronte al lupo permettendogli di sbranarle. Una tale dedizione si spiega perché le pecore sono proprietà del pastore ed egli le conosce bene (cf. 10,14). Suo compito anzi è di condurre (sott. al pascolo) anche altre pecore al fine di formare "un solo gregge sotto un solo pastore" (10,16)144. Si realizza così la profezia di Ez 37,34: "Il mio servo Davide sarà su di loro e non vi sarà che un unico pastore per tutti". 2.2.4.5 "Io sono la risurrezione e la vita" (11,25). Questa autodichiarazione acquista senso nel contesto della risurrezione di Lazzaro ed è la punta più esplicita della sua dimensione cristologica. Ma qui la cristologia diventa fondamento e costitutivo di una nuova escatologia. Infatti, l'affermazione di Gesù è in realtà una risposta velatamente polemica alla professione giudaica della fede di Marta; poiché questa crede soltanto alla risurrezione futura (cf. 11,24: "So che risusciterà nell'ultimo giorno"), Gesù vuole condurla sul piano di un'altra prospettiva, in cui il fattore decisivo è la sua stessa personale e attuale presenza. Egli infatti precisa il senso delle sue parole con ciò che segue subito dopo: "Chi crede in me, anche se muore, vivrà; anzi, chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno" (11,26). Traspare qui tutta la novità dell'escatologia giovannea: senza negare la tradizionale componente al futuro (cf. 6,39.40), Gv si caratterizza piuttosto per il fatto che Véschaton è già anticipato e vissuto ora nell'adesione di fede a Gesù145. Lo
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In una prospettiva diversa si pone invece Odi di Salomone 17,8-10: "Io aprii le porte che eran serrate. Le sbarre di ferro io infransi... Nulla m'apparve più chiuso, perché la porta d'ogni cosa io ero diventato" (trad. M. Erbetta), dove a parlare è l'anonimo compositore cristiano, che impersona la figura del redento. 142 Per la combinazione di questa metafora con la precedente, cf. I. de la Potterie, Il buon pastore, in Id., Studi di cristologia giovannea, pp. 82-109; più in particolare A.J. Simonis, DieHirtenrede im Johannesevangelium. Versuch einerAnalyse von Johannes 10,1-18 nach Entstehung, Hintergrund und Inhalt, AB 29, PIB, Roma 1967. 143 Essa, a seconda dei livelli di lettura (gesuano o redazionale), può essere diretta contro i capi sacerdotali d'Israele (forse anche contro falsi Messia?) oppure vi si può scorgere un intento pastorale diretto ai ministri delle comunità cristiane; su questa seconda possibilità, cf. P.-R. Tragan, La parabole du "pasteur" et ses explications: Jean, 10,1-18, '"Studia Anselmiana" 67, Anselmiana, Roma 1980.
144 La traduzione latina della Vg, unum ovile, "un solo ovile", sposta l'attenzione sullo spazio che raccoglie le pecore, mentre il greco jùarcoi(jiv7)evidenzia piuttosto l'unità delle pecore in " u n solo gregge" in quanto tale unità è costituita dalla conduzione di "un solo pastore" (la cui collocazione al culmine della frase sottolinea ancor più questa funzione). 145 Cf. P. Ricca, Die Escatologie des Vierten Evangeliums, Gotthelf, ZùrichFrankfurt 1966: "La venuta del Figlio ha creato una situazione, in cui ogni domanda sul futuro diventa superflua" (p. 120); "L'escatologia giovannea è totalmente incentrata e riassunta nella persona di Cristo, il preesistente, incarnato, crocifisso, risorto, e vivente in cielo come sulla terra mediante il suo alter ego che è lo Spirito. Essa si può pertanto definire una 'escatologia personalizzata'" (p. 128: eine personalisierte Eschatologie).
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si legge chiaramente in 5,24, detto per di più con una formula solenne: "In verità, in verità vi dico: Chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita (\izi<x$i$r\xtv ex TOG Gavàxou de, xt)v £GOT|V)". L'aggettivo "eterna", che non a caso in Gv è unito soltanto al concetto di "vita", non rinnega la temporalità, ma le conferisce una nuova sostanza, una nuova qualità. Anche il concetto di giudizio (xpiat?) cambia ora significato; se leggiamo che Gesù è "venuto nel mondo per un giudizio, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi" (9,39), ciò significa semplicemente che nell'atteggiamento assunto nei suoi confronti si decide hic et nunc la propria sorte definitiva. Sicché l'alternativa tra salvezza e giudizio coincide con l'alternativa tra fede e incredulità, che perciò è diventata una scelta assolutamente decisiva146. E "il possente grido con cui Gesù fa uscire Lazzaro dal sepolcro (11,43) non è che una debole eco di quel grido con cui egli, l'Inviato di Dio, chiama tutti gli uomini, che credono in lui, alla vita di Dio (cf. 5,24s)"147. 2.2.4.6 "Io sono la via e la verità e la vita" (14,6). Caso unico in Gv, qui l'"io sono" è seguito da tre predicati. Una tale formulazione sa di compendio del già detto; e infatti noi abbiamo già incontrato e considerato i tre concetti uno per uno148. Ora vogliamo solo fare due precisazioni. L'una riguarda il contesto, che privilegia il primo dei tre sostantivi. Infatti, l'affermazione di Gesù è una risposta all'interrogativo di Tommaso: "Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?" (14,5). In più, la sua risposta prosegue immediatamente così: "Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me". La questione semmai consiste nel coordinare i due termini seguenti il primo. Tra le soluzioni possibili149, va preferita quella che intende tutti e tre i predicati co146
Blank J., Krisis. Untersuchungen zur johanneischen Christologie und Eschatologie, Lambertus, Freiburg i.B. 1964, p. 131. 147 R. Schnackenburg, Gv, II, p. 549. 148 Sul concetto di "via", che esprime la mediazione di Gesù, cf. quello che abbiamo detto a proposito dell'immagine della porta (sopra: 2.2.4.3). Su quello di "verità", cf. sopra: 1.3.2. Su quello di "vita", cf. sopra: 2.2.4.5. 149 I Padri alessandrini preferivano tradurre: "Io sono la via che conduce alla verità e alla vita"; in questo caso, verità e vita sarebbero lo scopo del cammino, intendendole come sinonimi dell'essenza divina; ma Gesù precisa subito che la via conduce al Padre, lasciando capire che la verità non si identifica semplicemente e ontologicamente con lui (cf. più sopra). Gli altri Padri greci e latini preferivano invece tradurre: "Io sono la via che attraverso la verità conduce alla vita"; in questo modo, pur rispettando maggiormente il concetto giovanneo di verità, si vede
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me altrettante specificazioni cristologiche: è in quanto personalmente verità e vita che Gesù conduce il credente al Padre. La seconda osservazione è che, se altrove Gesù si definisce "via" (o porta) e "vita" (insieme a risurrezione), non si proclama invece mai soltanto "verità". C'è però in tutto il vangelo una stretta connessione tra i due poli, come si può rilevare per esempio da questa dichiarazione: "Se rimanete fedeli alla mia parola..., conoscerete la verità e la verità vi farà liberi" (8,32). Nell'adesione alla parola di Gesù e in definitiva a Gesù stesso c'è la radice della libertà cristiana. Bisogna però guardarsi dall'interpretare questa libertà in senso puramente morale come mera possibilità conferita alla volontà di non peccare. La alétheia di Gesù conduce a una libertà molto più radicale, poiché sottrae il credente alla servitù stessa del "mondo" e lo fa partecipe dello Spirito: "Se il Figlio vi renderà liberi, voi sarete realmente òVtcx; liberi" (8,36). Essa quindi è anche sinonimo di "vita" come bene supremo per cui egli è venuto sulla terra: "Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in sovrabbondanza" (10,10; cf. sopra). 2.2.4.7 "Io sono la vite e voi i tralci" (15,5.1: "Il Padre mio è il vignaiolo"). Questa originale autodefinizione di Gesù giunge per ultima in Gv e coinvolge anche i suoi discepoli. Come si vede, tutti gli elementi metaforici dell'allegoria sono decodificati, e quindi è facile l'interpretazione di superficie. Ma l'importante è di scoprirne il significato di fondo. A monte della metafora c'è sicuramente la tradizione biblica, che identifica allegoricamente il popolo d'Israele con una vite (o vigna) che Dio ha trapiantato dall'Egitto nella terra promessa150. I testi principali, se
nello scopo del cammino soltanto la vita, con la quale viene impropriamente identificato il Padre. La terza e migliore possibilità, come abbiamo visto sopra, rende il passo così: "Io sono la via, perché sono la verità e anche la vita" (oppure: "Io sono la via, perché rivelo la verità che dona la vita"); in questo caso, tutti e tre i predicati acquistano una valenza esclusivamente cristologica che getta una luce maggiore sull'identità e la funzione proprie di Gesù. Cf. I. de la Potterie, La vérité, I, pp. 242-249, 266s. 150 Cf. R. Borig, Der wahre Weinstock. Untersuchungen zu Jo 15,1-10, SANT 16, Kòsel, Mùnchen 1967, che esclude un'ascendenza mandea e insiste appunto sull'AT. Anche l'immagine dell'albero della vita è insufficiente a spiegare il passo giovanneo, poiché qui, a differenza di quel mithologoumenon, si insiste sul tema del portare frutto: cf. A. Jaubert, L'image de la Vigne (Jn 15), in Oikonomia. Festschrift O. Cullmann, Hamburg 1967, pp. 93-99. Ricordiamo che la vite, insieme all'olivo e al fico, rappresentava una pianta tipica dell'agricoltura palestinese (cf. lRe5,5; Ct 2,15; 6,11; 7,9.13; 8,12).
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si esclude Sai 80,9-12.15-17 ("Asportasti una vite dall'Egitto..."), sono tutti profetici: Os 10,1 ("Rigogliosa vite era Israele, che dava frutto abbondante..."); Is 5,1-2 ("Canterò per il mio diletto il mio cantico d'amore per la sua vigna... Egli aspettò che producesse uva, ma essa fece uva selvatica"); Ger 2,21 ("Io ti avevo piantata come vigna scelta, tutta di vitigni genuini; ora come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda?"); Ez 19,10-14 ("Tua madre era come una vite piantata vicino alle acque... Ora è trapiantata nel deserto, in una terra secca e riarsa"). Nonostante la delusione dei suoi frutti bastardi, il profeta intravede però un futuro diverso: "In quel giorno si dirà: La vigna deliziosa: cantate di lei!... Israele fiorirà e germoglierà, riempirà il mondo di frutti" (Is 27,2-3.6). Inoltre, secondo la testimonianza di FI. Giuseppe sul portale del Santo all'interno del Tempio erano raffigurate delle "viti d'oro da cui pendevano grappoli della grandezza di un uomo" (Bell. 5,210; anche Tacito Hist. 5,5 scrive che nel Tempio fu trovata una vite d'oro): forse è una reminiscenza del "tralcio con un grappolo d'uva, che portarono in due con una stanga" (Nm 13,23), frutto dell'esplorazione della terra promessa da parte di coloro che vi erano stati inviati da Mosè e simbolo di grande fecondità. È possibile che l'allegoria abbia una sfumatura polemica concernente la secessione di parte della comunità giovannea, se non anche in rapporto alla rottura storica con il giudaismo (cf. nel v. 6 i tralci "gettati fuori") 151 . Certo è che, a differenza delle metafore precedenti, quella della vite evoca una dimensione collettiva. Ciò vale anche se non si deve pensare a una vera e propria vigna 152 . Infatti, non c'è vite senza tralci, anzi in un certo senso sono proprio i tralci a rendere possibile l'esistenza stessa della vite nella sua pienezza, a meno di pensare soltanto al ceppo. Ma l'audacia giovannea sta nel riferire solo a Gesù una metafora che nella tradizione biblica valeva per Israele e i suoi membri: Lui solo è la vite che porta tralci fecondi153. L'intenzione giovannea pertanto è sicuramente di carattere «mistico», cioè partecipativo-unitivo. Infatti nel testo Gesù insiste sull'idea del "rimanere in" lui, dalla quale dipende poi anche quella del portare frutto: "Come il tral-
151 Così F. Grob, Jesus: la vigne. Jean 15 et la rupture avec la synagogue, Foi e Vie 86 (1987) 9-16. 152 Si noti in greco la differenza tra àA | 7C6Xo<;, "vite", e &\iKÌkó>v, "vigna"; nei testi dell'AT secondo i LXX citati sopra abbiamo sempre il primo termine (come in Gv 15), eccettuato l'ultimo (come nelle parabole dei Sinottici: cf. Mt 20,1-8; Mt 21,28-41/Mc 12,1-9/Lc 20,9-16; Le 13,6). !53 Cf. X. Léon-Dufour, Gv, III, pp. 202-206.
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ciò non può portare frutto da se stesso, se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in m e " <15,4)154. Si vuol dire dunque che Gesù include individualmente una pluralità. Il concetto centrale è quello dell'unità di molti in uno solo (cf. analogamente Gal 3,28). La cristologia ha dunque un interessante risvolto ecclesiologico: il discepolo, sia singolarmente sia comunitariamente, deve la propria esistenza e soprattutto la propria produttività spirituale soltanto al proprio inserimento in Gesù. Di qui l'imperativo: "Rimanete in me e io in voi,... poiché senza di me non potete far nulla" (15,4.5)155. È vero che il testo non precisa mai quali siano i frutti possibili che si possono dare rimanendo in Gesù. Tuttavia non è possibile restringerne il significato al solo ambito missionario (come è il caso di 4,36; 12,24). Piuttosto la genericità del linguaggio permette di pensare all'intera vita cristiana e soprattutto ai frutti dell'amore vicendevole secondo il comandamento nuovo formulato in 13,34-35 (cf. anche lGv 3,11-23). 2.2.5 Gli "Io sono" assoluti (iyé d\u). Una vera originalità cristologica del Quarto vangelo sono quelle dichiarazioni di Gesù, nelle quali egli afferma il proprio essere senza alcuna specificazione. Ciò avviene almeno quattro volte: "Se non credete che io sono, morirete nei vostri peccati" (8,24); "Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, allora saprete che io sono" (8,28); "In verità, in verità vi dico: Prima che Abramo fosse io sono" (8,58); "Ve lo dico fin d'ora prima che accada, perché quando sarà avvenuto crediate che io sono" (13,19)156. Queste dichiarazioni, per il loro alto profilo cristologie©, possono addirittura essere considerate cone la chiave che apre l'ingresso alla comprensione dell'intero messaggio di Gv 157 .
154 Nei soli vv. 4-8 il verbo "rimanere" ricorre sette volte (15 volte nella sola lGv). Vedi sopra: nota 61. P.-M. Jerumanis, Réaliser la communion avec Dieu, pp. 512-525, sottolinea il valore della compenetrazione, o immanenza reciproca Gesù/discepoli, che la metafora vuole suggerire; sulla formula di mutua immanenza, cf. R. Borig, Der wahre Weinstock, pp. 215-236. Un riferimento eucaristico, nonostante l'affinità con Gv 6,56, è escluso da R. Schnackenburg, Gv, HI, p. 163. 155 Quanto alla prima metà della citazione è discusso il senso preciso della frase "e io in voi": ha forse un valore soltanto comparativo (= "così come io sono in voi")? o intende esprimere una conseguenza (= "allora io rimango in voi")? oppure esprime la constatazione di una realtà (= "per il fatto che io sono in voi")? 156 In altri tre casi la portata della formulazione non è così forte: 4,26 (alla samaritana: "Sono io che ti parlo"; è un riferimento alla questione del Messia posta dalla donna); 6,20 (ai discepoli: "Sono io, non temete"; è un'assicurazione per dissipare la loro paura); 18,5.6.8 (ai soldati nel Getsemani: "Sono io"; è una risposta alla loro ricerca di Gesù il Nazareno). 157 Così U. Wilckens, Das Evangelium nach Johannes, p. 332.
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Il dato ha suscitato ovviamente una sfaccettata ricerca circa la sua semantica, indagata sul suo possibile sfondo storico religiosoculturale158. Innanzitutto colpisce la formulazione giovannea, in quanto, costituendo un apparente nonsense poiché tralascia ogni predicato, da una parte suppone che il suo lettore-modello conosca bene la portata della locuzione e dall'altra stimola il lettoreempirico a esplorarne il significato vero. Inoltre va ammesso che tra gli "Io sono" assoluti e quelli predicativi ci dev'essere una connessione, così che non si può pensare agli uni senza riferirsi anche agli altri 159 ; probabilmente, infatti, sono gli assoluti che fondano l'autorità dei predicativi, e se noi li abbiamo lasciati per ultimi è solo perché rappresentano il culmine di una cristologia forte. Essi infatti riflettono un punto di vista che va oltre il tempo narrativo (cf. specialmente 8,58) e implicano più che mai una prospettiva divina160. Il loro nesso contestuale con fattori di tipo giudaico (cf. il Figlio dell'uomo, Abramo, e in genere il concetto di fede) rimanda inevitabilmente a uno sfondo dello stesso genere. Li passiamo brevemente in rassegna per collocarli sul loro possibile sfondo storicosemantico161. Gv 6,20. Anche se con una certa esitazione (anche a motivo del suo parallelismo sinottico: cf. Mt 14,27/Mc 6,50), inseriamo questo testo tra gli "Io sono" assoluti. Infatti, l'invito a non temere 158
Lo studio di D.M. Ball, 'I Am' in John's Gospel. Literary Function, Background and Theological Implications, JSNT Suppl. 124, Academic Press, Sheffield 1996, che peraltro prende in considerazione anche gli "Io sono" predicativi, quando traccia la storia della ricerca alle pp. 23-45 (con bibliografia), elenca quattro possibili ambiti di derivazione: (1) il mondo greco, comprendente uno dei Papiri Magici, due iscrizioni di Iside, il primo trattato del Corpus Hermeticum, il mandesimo, e due scritti della letteratura gnostica copta di Nag Hammadi; (2) il giudaismo, con rimandi all'AT, a Qumràn, e al rabbinismo; (3) Nuovo Testamento, con richiami a Me 13,6; 14,61-62; Gv 1,20; (4) ellenismo e giudaismo combinati insieme. L'Autore computa tra gli "Io sono" assoluti anche i tre testi della nota precedente, che però non sono del tutto omogenei con gli altri; opportuna invece è la sua distinzione tra gli "Io sono" davvero assoluti (così 8,58: lo sguardo è rivolto al passato) e quelli inseriti in una clausola dichiarativa con OTI (COSÌ 8,24.28; 13,19: lo sguardo è rivolto al futuro). 159 Cf. in merito H. Zimmermann, Das Absolute "Ego eimi" als die neutestamentliche Offenbarungsformel, BZ 4 (1960) 54-69, 266-276, specie 271-273; H. Thyen, Ich bin das Licht der Welt. Das Ich-und Ich-Bin-Sagen Jesu im Johannesevangelium, JahrAntChrist 35 (1992) 19-46. 160 Cf. D.M. Ball, 'IAm' in John's Gospel, p. 159; mi pare pertinente la specificazione che fa l'Autore a proposito degli "Io sono" predicativi, che sottolineano l'identità di Gesù in rapporto alla sua funzione nei confronti degli altri, e gli "Io sono" assoluti, che evidenziano piuttosto l'identità di Gesù in se stesso (cf. p. 174). 161 Cf. D.M. Ball, 'I Am' in John's Gospel, pp. 177-203.
LE MOLTEPLICI DEFINIZIONI DI GESÙ
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con l'assicurazione della presenza del Signore Dio è frequente nell'AT (cf. Gn 26,24: "Io sono il Dio di Abramo tuo padre; non temere, poiché sono con te"; 46,3; Ger 1,8: "Non temere il loro volto, poiché io sono con te per proteggerti"; 1,17; 46[LXX 26],28; 42[LXX 49],11). Anche se là gli "Io sono" sono sempre specificati o con un titolo o con un verbo, lo specifico invito a non temere è connesso con un intervento divino (cf. analogamentee Le 1,30). Gv 8,24.28. Soprattutto il primo v. trova un doppio parallelo in Is 43,10 ("Voi siete miei testimoni... perché conosciate e crediate e comprendiate che Io sono [LXX: o-ci èycó et(j.t; TM: ki-'ànthùT\) e in Is 43,25 ("Mi stai davanti nei tuoi peccati e nelle tue ingiustizie. Io sono, Io sono che cancello le tue iniquità per riguardo a me, e dei tuoi peccati non mi ricorderò più"). Il secondo v. ha il suo parallelo in Is 52,6: "In quel giorno il popolo conoscerà il mio nome, poiché io sono colui che dice: Sono presente". La formula ebraica 'anihù' di Is è emblematica per esprimere l'esclusiva divinità di Yhwh: "Io sono Dio, dall'eternità Io sono" (43,13 TM: 'ani-'el, gàm-miyyòm 'anihù', lett. "Io Dio, anche dal giorno [sott. "dell'inizio" con i LXX: àTt'àpxris] io sono quello, cioè il medesimo") 162 . Gv 8,58. Qui al parallelo dei testi biblici citati si deve aggiungere il Tg Is 43,10-13: "Io sono fin dall'inizio, sì, i tempi eterni sono miei, e accanto a me non c'è alcun dio. Io, proprio io sono il Signore; e accanto a me non c'è nessun salvatore. Io ho spiegato ad Abramo vostro padre ciò che doveva avvenire; Io vi ho liberati dall'Egitto... Sì, da sempre io sono lo stesso, e non c'è nessuno che vi strappi dalla mia mano". Ciò che colpisce qui è la menzione di Abramo, mai presente altrove in tutto il testo di Isaia. Proprio questo particolare accosta sorprendentemente il passo targumico a Gv 8,58. Questa affermazione di Gesù viene così a dare senso completo anche alle due precedenti, da cui diverge leggermente in quanto non è più dichiarativa; ma proprio per questo, affermando la sua preesistenza, essa sottolinea ancor più la divinità di Gesù (cf. 10,33)163. 162 In altro modo traduce C. Westermann, Isaia, capitoli 40-66, Paideia, Brescia 1978, p. 149: "Io sono Dio 'dall'inizio', anche 'oggi' sono il medesimo". 163 Quanto all'affermazione secondo cui "Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno: lo vide e se ne rallegrò" (8,56), essa si riferisce probabilmente al riso con cui Abramo accolse l'annuncio della nascita di Isacco (che etimologicamente significa "egli ha riso") da lui e da Sara pur nella loro tarda età. Vedi l'interpretazione di Giub. 15,17: "Abramo si prostrò con la faccia a terra e si rallegrò"; Filone Al., Mut. nom. 154: "Egli rise di un riso dell'anima". Abramo vide già in Isacco, che gli assicurava una discendenza, la certezza che il giorno del Messia si sarebbe compiuto.
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Gv 13,19. Questo passo non aggiunge nulla di particolare alla semantica dei testi precedenti, se non il riferimento al tradimento di cui si parla in 13,18 e più in generale alla Passione. Si dà quindi un contrasto fra gli eventi preannunciati della sofferenza e l'affermazione della dimensione divina di Gesù, che in quegli eventi è difficile scorgere. Il passo più chiarificatore resta sempre Is 43,10; in questo caso è interessante il parallelismo tra ciò che là si dice sulla scelta operata dal Signore Dio ("Voi siete miei testimoni, oracolo del Signore, miei servi che io ho scelto") e quella di Gesù nei confronti dei suoi discepoli: "Io conosco quelli che ho scelto" (Gv 13,18). In conclusione, è evidente che con gli "Io sono" assoluti il Gesù giovanneo attribuisce a se stesso una qualità che è propria di Dio soltanto. Alle spalle di questi passi c'è più evidentemente il DeuteroIsaia, ma non si può escludere anche il testo forte di Es 3,14, "Io sono colui che sono". Gesù perciò non può essere semplicemente collocato nella serie dei grandi personaggi storici iniziata con Abramo, ma appartiene a un altro ordine di esistenza, al di fuori del contesto temporale164. Come Yhwh nella fede giudaica, egli è Signore della storia, redentore d'Israele e dell'umanità. 3. Lo Spirito, conferma della rivelazione La menzione dello Spirito in Gv, se confrontata con i Vangeli sinottici, non è lessicalmente la più frequente: appena 24 volte (contro le 19 volte di Mt, le 23 volte di Me, e le 37 volte di Le). Eppure il discorso giovanneo in materia spicca in tutto il NT per la sua indiscussa originalità165. Dimensione fondamentale di questa originalità è appunto il nesso con la cristologia166. Certo lo Spirito ha un'origine divina, ben espressa nell'affermazione "Dio è Spirito" (4,24), che però, essendo analoga ad altre (cf. lGv 1,5: "Dio è luce"; 4,8.16: 164 Cf. CU. Dodd, L'interpretazione del Quarto Vangelo, Pakleia, Brescia 1974 (orig. ingl., London 51953), p. 326. 165 Per esempio, è già significativa una piccola caratteristica: in Gv il termine pneuma connota praticamente sempre una realtà divina positiva e, anche se solo tre volte esso è qualificato come "santo" (1,33; 14,26; 20,22), tuttavia, contrariamente a quanto avviene nei Sinottici, non è mai unito all'aggettivo "impuro" in senso demoniaco (così 3 volte in Mt, 11 volte in Me, 8 volte in Le). 166 vedi I. de la Potterie, Gesù e lo Spirito secondo il vangelo di Giovanni, in Id., Studi di cristologia giovannea, pp. 279-289; e soprattutto G. Ferraro, Lo Spirito e Cristo nel vangelo di Giovanni, SB 70, Paideia, Brescia 1984.
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"Dio è amore"), non definisce tanto la natura ontologica di Dio in prospettiva filosofica quanto una sua funzione soteriologica in rapporto agli uomini: in questo caso essa consiste nella comunicazione di una rivelazione, che stabilisce una reciprocità sperimentata non in particolari luoghi di culto ma in Gesù Cristo167. Il nesso con Gesù è scaglionato sull'arco di momenti diversi. 3.1 Lo Spirito dato a Gesù Conformandosi alla tradizione sinottica, Gv afferma il dono dello Spirito a Gesù nel momento del battesimo al Giordano, sia pur semplificando il racconto (cf. 1,32-33: omissione della descrizione della teofania, sostituita dalla testimonianza personale del Battista). 3.2 La promessa dello Spirito ai discepoli In 7,37-39 l'evangelista, situandolo nell'ultimo giorno della festa dei Tabernacoli, riporta un invito solenne di Gesù ad andare a lui per bere l'acqua viva che disseta e che egli è in grado di donare personalmente, in quanto sgorgherà dal suo seno168. In questo contesto è importante il v. 39: "Questo disse a proposito dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui; infatti non c'era ancora lo Spirito, poiché Gesù non era ancora stato glorificato". Viene così a darsi una originale equivalenza tra lo Spirito e l'acqua viva. Essa, da una parte, è nuova poiché neh'AT l'acqua è piuttosto im167 168
Cf. sopra: 1.3.2. C'è una discussione tra i commentatori sulla base di quale punteggiatura si debba leggere il testo: (1) "Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno": in questo caso, il rimando scritturistico (letteralmente introvabile; ma vi si può scorgere un triplice riferimento: alla roccia nel deserto dell'esodo [cf. Es 17,1-7; Sai 78,15-16; ICor 10,4], al tempio di Gerusalemme [cf. Ez 47,1-2.5; Zc 14,8; Ap 22,1] e alla sapienza o al sapiente [cf. Pro 18,4; IQH 8,16: "Tu, mio Dio, hai posto nella mia bocca una fonte di acque vive"]) si riferisce a Gesù stesso come donatore dell'acqua viva (così R.E. Brown, I. de la Potterie, G. Ferraro); (2) "Chi ha sete venga a me e beva. Chi crede in me, come dice la Scrittura, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno": in questo caso, il rimando scritturistico è al credente nel senso di 4,14: "L'acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna" (così C.K. Barrett, R. Schnackenburg). In favore della prima possibilità c'è non solo il parallelo con l'apocrifo Vangelo di Tommaso 13 ("Tu hai bevuto e ti sei inebriato alla sorgente d'acqua zampillante che io ho misurato"), ma soprattutto la spiegazione che viene subito data in Gv 7,39.
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magine della parola di Dio a cui dissetare la propria arsura (cf. Am 8,11; Is 55,1-3; Sir 24,20), ma dall'altra essa è anche preparata sia dalla descrizione del dono dello Spirito con il verbo "versare" (cf. Is 44,3; GÌ 3,1-2; Zc 12,10) sia dal significato più ampio dell'acqua come metafora della salvezza (cf. Is 12,3: "Attingerete con gioia acqua alle sorgenti della salvezza"; 55,1: "O voi tutti assetati, venite all'acqua..."), sia anche dall'occasionale relazione tra lo Spirito stesso e la parola (cf. Pr 1,23: "Ecco, verserò per voi il mio Spirito, farò conoscere a voi le mie parole"). L'importante è osservare che solo con la glorificazione pasquale si ritiene che Gesù sia in grado di donare egli stesso lo Spirito. Con ciò Gv raggiunge l'idea paolina, secondo cui la novità della pneumatologia consiste appunto nel fatto che lo Spirito "Santo" (o "di Dio") della tradizione giudaica viene condiviso dal Risorto diventando in qualche modo anche suo169.
3.3 // dono effettivo dello Spirito La glorificazione di Gesù in Gv riguarda certamente la sua risurrezione ma con ogni probabilità comprende anche la sua crocifissione, in quanto egli allora viene "innalzato" da terra (cf. 3,14; 8,28; 12,32)170. (1) Alcuni Autori infatti leggono una effusione dello Spirito già nella morte di Gesù, espressa con la frase "consegnò lo spirito" (19,30:rcocpéScoxevxò TweGfxa)171; ma, per quanto la lo169 Vedi le formule "Spirito di Cristo" (Rm 8,10), "Spirito del Figlio" (Gal 4,6), "Spirito di Gesù Cristo" (Fil 1,19). 170 Cf. X. Léon-Dufour, Gv, I, pp. 405-407: mentre per Paolo e i Sinottici la croce è considerata solo come momento di umiliazione e sofferenza, in Gv essa ingloba in qualche modo anche l'esaltazione di Gesù ed esprime già in sé la pienezza della regalità. "Con ciò l'evangelista porta a termine il movimento che, nella tradizione, tendeva ad anticipare questa manifestazione ( = della gloria escatologica di Cristo): per i Sinottici essa avrebbe dovuto manifestarsi alla fine dei tempi, al momento della parusìa; per Paolo essa esplode già nella risurrezione; per Gv essa si verifica già fin dalla morte" (p. 406). 171 Così I. de la Potterie, La passione di Gesù secondo il vangelo di Giovanni, Paoline, Cinisello Balsamo 1988, pp. 143-145; G. Ferraro, Lo Spirito e Cristo, p. 301; J. Swetnam, Bestowal of the Spirit in theFourth Gospel, Bibl 74 (1993) 556-576. Alcuni commentatori invece parlano solo di prolessi (come simbolismo redazionale) rispetto a 20,22 per significare la portata vivificante della morte di Gesù (cf. R.E. Brown, Gv, II, pp. 1159s [limitatamente alla madre e al discepolo prediletto]; X. Léon-Dufour, Gv, IV, pp. 203-205). Altri ancora sono contrari a una simile lettura (cf. C.K. Barrett, John, p. 460; R. Schnackenburg, Gv, III, pp. 462-463; R. Fabris, Gv, p. 983).
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cuzione giovannea sia originale per esprimere l'esalazione dell'ultimo respiro e tenendo anche conto del fatto che l'evangelista non specifica a chi Gesù consegni lo Spirito, si può sempre considerare l'espressione come una variante di Me 15,37 (èl;é7cveuaev, di cui è già una variante anche Mt 27,50: à
172 Probabilmente diverso è il senso che si può trarre da lGv 5,6: "Questi è colui che è venuto con acqua e sangue: non con l'acqua soltanto, ma con l'acqua e con il sangue". Il contesto e la diversa successione dei due nomi implicano una polemica contro coloro che accettavano il Cristo battezzato al Giordano ma rifiutavano il Cristo morto umiliato sulla croce (cf. R.E. Brown, Uohn, pp. 573-578; H.J. Klauck, Uoh, pp. 293-298). 173 Vedi R. Fabris, Gv, pp. 987s; cf. D. Senior, La passione di Gesù nel vangelo di Giovanni, Ancora, Milano 1993 (orig. ingl., Collegeville 1991), pp. 116-131, e X. Léon-Dufour, Gv, IV, pp. 210-220. 174 Vedi i paralleli con Mt 16,19; 18,18. Cf. G. Ghiberti, I racconti pasquali del capitolo 20 di Giovanni, SB19, Paideia, Brescia 1972, pp. 159-167; e la dettagliata analisi di A. Gangemi, / racconti post-pasquali nel Vangelo di San Giovanni, II, Galatea, Acireale 1990, pp. 74-119.
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"alitare, soffiare": il suo uso da parte dei LXX in rapporto alla creazione dell'uomo (cf. Gn 2,7; Sap 15,11), alla risurrezione di un defunto (cf. IRe 17,21: Elia), e alla risurrezione escatologica (cf. Ez 37,9-10), conferisce al gesto compiuto dal Risorto la dimensione di una nuova creazione o almeno di una nuova vita che va ben oltre quella terrena. L'altra annotazione riguarda il potere di rimettere i peccati: Gv, che non specifica alcun ministero, non può che riferirsi in termini molto generali alla prassi della riconciliazione cne avviene nella chiesa, comprendendo "tutta la vasta gamma di significati che vanno dalla remissione dei peccati nel sacramento del battesimo alla predicazione e all'annuncio del perdono dei peccati mediante la proclamazione del vangelo"175. Il dono dello Spirito da parte di Gesù avviene "senza misura" (3,34b: où yàp ex (xérpou Siocoaiv TÒ 7cveGfxa). La discussione suscitata dal testo, se cioè il soggetto del verbo "dare" sia Dio nei confronti di Gesù oppure Gesù nei confronti dei suoi discepoli, va con ogni probabilità risolta nel secondo senso, sia per il contesto immediato (cf. 3,34a: "Colui che Dio ha mandato trasmette le parole di Dio" = parallelismo "trasmettere-dare") sia rifacendosi al prologo (cf. 1,16: "Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo attinto")176.
3.4 La funzione dello Spirito nella vita dei discepoli A parte quanto si dice nel dialogo con Nicodemo sulla rinascita dall'alto (cf. 3,4-6), è soprattutto nei discorsi d'addio che l'insegnamento sullo Spirito viene impartito in maniera diretta (capp.
175 G. Ferraro, Lo Spirito e Cristo, p. 320 (con rimando in nota sia a Le 24,46-47 ["Nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati"] sia alla formula prevista dal Missale Romanum dopo la lettura del vangelo: "Per evangelica dieta deleantur nostra delieta"). X. Léon.Dufour, Gv, IV, p. 311, richiamando il fatto che questa parola di Gesù segue immediatamente quella sul dono pasquale dello Spirito, precisa che i discepoli, a cui Gesù si rivolge, in Gv rappresentano tutti i credenti. 176 Così commenta Origene: "Ci sono stati uomini sapienti i quali, possedendo Dio, ne hanno riferito le parole; essi tuttavia avevano solo parzialmente lo Spirito di Dio... Invece il Salvatore, mandato a trasmettere le parole di Dio, non dona lo Spirito parzialmente, perché egli non lo dona agli altri avendolo ricevuto egli stesso; bensì lui che è mandato dall'alto ed è superiore a tutti, dona lo Spirito essendone la sorgente" (Fr. 48 [GCS 523, 5-9]; citato da I. de la Potterie, Gesù e lo Spirito, p. 283).
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13-17)177. Ed è un insegnamento che, anche quando tratta del rapporto dello Spirito con Cristo, riguarda comunque il suo intervento e la sua presenza nella vita cristiana. Il rapporto con Cristo è variamente espresso. Da una parte, è l'intercessione di Gesù che ne ottiene l'invio da parte del Padre (cf. 14,16.26). Dall'altra, Gesù promette di essere lui stesso a inviarlo, sia pur precisando che lo Spirito procede dal Padre (cf. 15,26). Una cosa è certa: poiché l'invio è espresso al futuro, lo Spirito risulta per eccellenza il dono pasquale di Gesù (cf. sopra). In quanto tale, egli svolge la funzione precipua di ricondurre tutta l'attenzione dei cristiani nient'altro che sulla storia pre-pasquale di Gesù. Lo esprimono bene tutti i verbi di cui lo Spirito è fatto soggetto: "Vi insegnerà (oioàijei.) ogni cosa e vi ricorderà (ùiro^vriaet) tutto ciò che vi ho detto" (14,26); "Egli mi renderà testimonianza" (15,26: fjtapxupTiaet); "Vi guiderà (óoTrpriaei) alla verità tutta intera, perché non parlerà (XaXr|aei) da sé ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà (òvoc-n'eXei) le cose future; egli mi glorificherà (Sol-daet), perché prenderà del mio (ix -cou èjxou Xr^eTou) e ve lo annunzierà" (16,13-14). Egli dunque non fa che confermare la rivelazione portata da Gesù e tutt'al più condurre a una sua migliore comprensione178. È come dire che il contenuto della testimonianza dello Spirito è identico al contenuto del vangelo giovanneo: egli infatti insegna a riconoscere Gesù proprio come questi in Gv ha parlato e ha annunciato se stesso179. Se in più si dice che egli "an177 Sul genere letterario di questi discorsi e sulla loro destinazione (= il testamento di Gesù per la comunità giovannea), cf. M. Winter, Das Vermàchtnis Jesu und die Abschiedsworte der Vàter. Gattungsgeschichtliche Untersuchung der Vermàchtnisrede im Blick auf Joh. 13-17, FRLANT 161, Vandenhoeck, Gòttingen 1994. Oltre ai Commenti, vedi anche il buon esame esegetico e teologico dei testi in C. Dietzfelbinger, Der Abschied des Kommenden. Eine Auslegung der johanneischen Abschiedsreden, WUNT 95, Mohr, Tubingen 1997: l'Autore è particolarmente interessato a mettere in luce il rapporto corroborante dello Spirito con la contrastata presenza della comunità dei discepoli nel mondo (lo Spirito infatti in Gv 13-17 non ha alcuna dimensione missionaria vera e propria). 178 Ciò è ribadito dal verbo composto àvorpféXXeiv, che ricorre due volte: pur significando "annunciare", esso implica propriamente l'idea di "ripetere", a motivo della preposizione àvà, "di nuovo"; lo Spirito è espressione di Gesù stesso, e analogamente questo vale anche per tutti gli evangelizzatori (cf. lGv 1,5: "Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che ora annunciamo [àvoqnréXXoiiev] a voi"). 179 Cf. U. Wilckens, Das Evangelium, p. 228. Secondo X. Léon-Dufour, Gv, III, p. 310, lo Spirito è "l'interprete di Gesù". Una particolare sottolineatura della dimensione post-pasquale di Gv, documentata soprattutto dai discorsi d'addio, è proposta da C. Hoegen-Rohls, Der nachòsterliche Johannes. Die Abschiedsreden als hermeneutischer ScMùssel zum vierten Evangelium, WUNT 2.84, Mohr, Tubingen 1996.
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nunzierà le cose future (xà èpxó[xeva)", è perché la sua funzione comprende anche la spiegazione di quanto (nel momento in cui Gesù parla) deve ancora avvenire, ma sempre con un riferimento cristologico, riguardante cioè: il mistero della sua passione e risurrezione (cf. 18,4: "Gesù allora, conoscendo tutto quello che gli doveva accadere [7ràvxa xà èpxófxeva]..."), la presa di dimora del Padre e del Figlio nel credente (cf. 14,23: "Noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui"), non escluso il futuro escatologico (cf. 14,3: "Ritornerò e vi prenderò con me"; 5,28s; 6,39s.44.54). Anche la sua azione di accusa nei confronti del mondo e del suo peccato (cf. 16,8: IXé^ei) riguarda il fatto che esso non ha creduto in Gesù. Del resto, la sua definizione come "Spirito di verità" (14,17; 15,16; 16,13) va in questo senso: lo Spirito cioè partecipa della verità che è Gesù stesso (cf. 1,14; 14,6) e che con la sua glorificazione diventa piena e visibile180. Una evidente componente cristologica è implicata anche nell'originale definizione dello Spirito come "il Par adito", ó TtocpàxXir)TO? (Gv 14,16.26; 15,26; 16,7; lGv 2,1)181. Stabilito che il termine (lett. "chiamato accanto") significa essenzialmente "avvocato, difensore, patrono, confortatore (secondo alcuni anche: ammonitore)", è decisivo prendere atto del fatto che egli182 viene inteso essenzialmente come un "altro" (14,16: àXXos) cioè un sostituto rispetto a Gesù, il quale perciò è inteso come il primo e fondamentale "avvocato/difensore" dei cristiani (cf. lGv 2,1!). Infatti, il Paraclito viene proprio perché Gesù se ne è andato (cf. 14,18-20; 16,5-7), e perciò quasi ne prende il posto nella vita dei discepoli. Infatti il problema di fondo, percepito dalla comunità giovannea,
180 Questa definizione dello Spirito si trova anche a Qumràn, ma in riferimento a un suo intervento escatologico, in quanto alla fine dei tempi Dio per il suo tramite purificherà totalmente l'uomo: "Allora Dio purificherà con la sua verità (ba'àmitto) tutte le opere dell'uomo, e purgherà così la struttura dell'uomo sradicando ogni spirito di eingiustizia dall'interno della sua carne, e purificandolo con lo spirito di santità (b ruah qòdéS) da ogni azione empia. Si verserà su di lui, come acque lustrali, lo spirito di verità {mah 'èmet), [per purificarlo] da tutti gli abomini di falsità e dalla contaminazione dello spirito impuro" (1QS 4,20-22; trad. Martone); in ib. 3,18s c'è la distinzione tra gli opposti "spiriti della verità e della menzogna {rùhót hà'èmet wehacàwet),\ che sono rispettivamente connaturali con la luce e con le tenebre, e che governano tutta la vita degli uomini. 181 Cf. U.B. Mùller, Die Parakletenvorstellung im Johannesevangelium, ZTK 71 (1974) 31-77, e C. Dietzfelbinger, Der Abschied des Kommenden, pp. 202-226. 182 La sua personalità viene discretamente suggerita dall'inconsueta concordanza grammaticale tra il neutro pneùma e il pronome personale maschile ekeinos in 15,26 e 16,13 (cf. 16,8).
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è quello di sapere come sia possibile la continuità della rivelazione nell'assenza di Gesù183. Sulla base di alcuni eloquenti moduli anticotestamentari e giudaici184, Gv risponde appunto con il tema dello Spirito Paraclito: è lui che rende presente Gesù assente; è quindi per la sua presenza che i discepoli non sono orfani (cf. 14,18); è dunque lui ora che assiste e stimola la sua comunità. Anzi, egli permette addirittura ai discepoli di compiere "opere più grandi" (14,12), non nel senso qualitativo del termine ma in quanto la testimonianza dei discepoli va molto oltre il limite spaziale e temporale che era stato quello del ministero terreno di Gesù185. Dunque, con lo Spirito pasquale la figura di Gesù viene compresa in pienezza e la sua storia continua.
183 184
Cf. C. Dietzfelbinger, Der Abschied des Kommenden, pp. 83-96 e 206-208. Cf. la successione di Mosè con un profeta simile a lui (in Dt 18,15.18) e con Giosuè (in Dt 31,1-8), la sostituzione di Samuele con Saul (in 2Sam 12,2: "Da questo momento il re procede davanti a voi. Quanto a me sono diventato vecchio..."), la successione di Elia con Eliseo (in 2Re 2,1-15), la presenza di Baruc dopo la distruzione di Gerusalemme (in 2Bar. 77,5-6: "Ecco, voi siete qui con me. Se dunque correggerete le vostre vie..."), e la funzione di Esdra come un nuovo Mosè (in 4Esd. 14).
185
Cf. C. Dietzfelbinger, Der Abschied des Kommenden, p. 48.
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VII
L'APOCALISSE DI GIOVANNI
Premesse Fin dall'inizio dell'Apocalisse ci si accorge di avere a che fare con un libro tutt'altro che facile. Ma, se è vero che proprio per questo esso più di ogni altro scritto del NT ha bisogno di un commento 1 , non è affatto garantita la comprensione che alla fine si pensa di averne tratto 2 . Esso infatti, più che un libro di parole, è un libro di immagini, ma di immagini insieme grandiose ed enigmatiche, che mettono alla prova tanto la capacità esegetica del dettaglio quanto quella ermeneutica dell'insieme. "In una cultura come la nostra, che idolatra la scienza e il calcolo, l'apocalittica testimonia una realtà che sfida tutti i nostri metri, poiché attesta l'esistenza di un altro mondo che sfugge a tutte le misurazioni scientifiche e trova invece espressione in simboli e visioni" 3 . Un velo alla sua esatta comprensione, del quale perciò bisogna liberarsi, è già il significato di cui purtroppo è stato caricato nelle nostre lingue il termine stesso di "apocalisse", comunemente inteso come sinonimo di tregenda e di catastrofe a dimensione collettiva e cosmica. In realtà, il greco àKox.vX'ofa (che è anche la prima 1 Cf. W.J. Harrington, Revelation, "Sacra Pagina" 16, Liturgical Press, Collegeville 1993, p. XIII. 2 "L'esegeta deve cercare il cammino stretto tra l'abisso delle speculazioni fantasiose e quello delle banalità storiche. Per spiegarla bisogna avere l'audacia e insieme l'umiltà della fede": così W.A. Visser't Hooft (Segretario Generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese dal 1938 al 1966) nella sua "Préface" al fortunato libro di C. Brùtsch, La clarté de l'Apocalypse, Labor et Fides, Genève 1940,51966, p. 10. Del resto, già Dionigi vescovo di Alessandria nel secolo III così si esprimeva: "Non misuro né giudico queste cose con il mio ragionamento ma, attribuendo maggior valore alla fede, le considero troppo alte per essere comprese da me, e così non disapprovo ciò che non vi ho scorto, ma piuttosto l'ammiro proprio per il fatto che non sono stato in grado di vederlo" (in Eusebio, H.E. 7,25,5). 3 R.E. Brown, An Introduction to the New Testament, Doubleday, New YorkLondon 1997, p. 810. In particolare sul simbolismo, cf. U. Vanni, L'Apocalisse: ermeneutica, esegesi, teologia, RivBibl Suppl 17, Dehoniane, Bologna 1988, pp. 31-61. Già S. Girolamo, Ep. 53,9, riconosceva che l'Apocalisse di Giovanni contiene tanti misteri quante sono le parole: "Tot habet sacramenta, quot verba".
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L'APOCALISSE DI GIOVANNI
parola del nostro libro) equivale semplicemente a "rivelazione". In quanto tale esso, da una parte, ci introduce in tutto quell'ambito del mondo antico in cui prevaleva come criterio di conoscenza non la ricerca condotta dalla ragione ma l'accoglienza di verità provenienti dal cielo, e, dall'altra, ci mette a contatto con forme specifiche di un genere letterario, che adotta una tecnica espressiva del tutto originale rispetto sia al racconto storiografico sia alla trattazione filosofica. Questa temperie culturale è certamente documentata in ambito ellenistico-pagano4, ma lo è soprattutto sul versante giudaico mediante la letteratura apocalittica. Qui però s'incontra una doppia difficoltà, che consiste anzitutto nell'individuare quanti e quali siano gli scritti che ne fanno parte (e quindi anche quali ne siano le caratteristiche letterarie) e poi nel dare una definizione esatta del messaggio che la contraddistingue sul piano dei contenuti. La discussione è tuttora in corso; ma possiamo per accenni generali risolvere così le due questioni: (1) alla letteratura apocalittica, oltre ad alcuni manoscrtitti di Qumràn (cf. 1QM, 1Q27, 4Q246, 4Q552, HQMelch), appartengono soprattutto gli apocrifi lEn. o Enoch etiopico, 4Esdra, 2Baruch5; (2) il messaggio dell'apocalittica, fondato sostanzialmente su di una riflessione circa la presenza del male nel mondo, consiste nell'individuare la sua origine e nell'assicurarne l'eliminazione futura al momento escatologico (sia che il rapporto giusti-peccatori si identifichi nel rapporto Israele-nazioni sia che esso attraversi indifferentemente l'intera umanità)6. 4 Su questo versante, se si eccettuano i culti misterici eleusini (ma privi di produzione letteraria) e la sibillistica più antica (i Libri Sibillini, che sarebbero risaliti a Tarquinio Prisco ed erano custoditi nel Tempio Capitolino, vennero accidentalmente bruciati nell'83 a . C ) , si tratta di una letteratura tutta di epoca imperiale: così il Corpus hermeticum e gli Oracoli caldaici; altri Libri Sibillini, a noi sconosciuti, furono raccolti da Augusto e vennero distrutti verso il 400 da Stilicone. Diverso è il caso degli Oracoli Sibillini: anche se raccolte del genere dovettero circolare in ambito ellenistico, la collezione che oggi abbiamo è di composizione ebraica e cristiana. Infine, su questo versante si possono collocare anche i molti scritti propri dello gnosticismo, seguendo l'ipotesi diffusa che questo movimento sia almeno in parte di origine pagana. 5 In campo cristiano, oltre che nel nostro libro, il genere è documentato sia all'interno del NT (cf. Me 13; ICor 15; 2Ts 2) sia al di fuori del canone (cf. Pastore di Herma; Apocrifo di Giovanni; Apocalisse di Pietro; Apocalisse di Paolo). Vedi J. Lambrecht, ed., L'Apocalypse johannique et l'Apocalyptique dans leNouveau Testament, BETL 53, University Press, Leuven 1980; e B. Corsani, L'Apocalisse e l'apocalittica del Nuovo Testamento, Dehoniane, Bologna 1996. 6 Sull'insieme, cf. P. Sacchi, L'apocalittica giudaica e la sua storia, Paideia, Brescia 1990; e i vari studi raccolti in R. Penna, a cura, Apocalittica e origini cristiane, Ricerche storico-bibliche 7/2, Dehoniane, Bologna 1995 (con ampia bibliografia).
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Collocare l'Apocalisse di Giovanni su questo sfondo significa evidentemente condizionarne in parte la comprensione, almeno sul piano formale. Ma alcune considerazioni suggeriscono di superare il semplice schema apocalittico7. Anzitutto bisogna avere sempre ben presente che lo scritto è comunque un'apocalisse cristiana, il cui autore non discorre più sulla base di una mera speranza ma, come vedremo, sulla base della certezza che l'evento decisivo si è ormai compiuto nella storia8. Inoltre, l'autore designa le sue come "parole di profezia" (1,3; 22,7.10.18.19) e se stesso come facente parte "dei fratelli, i profeti" (22,9)9. D'altra parte, tanto la sua viva preoccupazione pastorale verso sette chiese dell'Asia Minore (cf. 2-3: Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia, Laodicea) quanto anche il fatto che egli non si nasconde dietro un nome fittizio conferiscono al libro un tono molto concreto di indirizzo a una situazione ecclesiale precisa. Quindi, se è vero che in generale l'apocalittica offre di fatto una risposta di conforto a credenti che vivono un'esperienza di sofferenza e di persecuzione, l'interpretazione globale della nostra Apocalisse deve riguardare non soltanto il futuro, tantomeno quello storico (come voleva Gioacchino da Fiore), quanto piuttosto il tempo storico contemporaneo al veggente, sia pure con un occhio rivolto all'escatologia. Questioni connesse sono quelle che riguardano l'identità dell'autore, il tempo di composizione, e la situazione storico-ecclesiale a cui il libro intende fare fronte; qui le possiamo toccare solo brevemente. Il concetto di rivelazione è particolarmente sottolineato da C. Rowland, The Open Heaven. A Study of Apocalyptic in Judaism andEarly Christianity, Crossraod, New York 1982. Un nesso con gli scritti mistici del giudaismo noti come Hekalót è stabilito da P. Prigent, Qu'est-ce qu'une apocalypse?, RevHistPhilRel 75 (1995) 77-84. 7 Vedi in merito l'eccellente disamina dei problemi in C. Doglio, Quanto apocalittica è l'Apocalisse di Giovanni?, Ricerche storico-bibliche 7/2, Dehoniane, Bologna 1995, pp. 103-135. 8 Vedi in questo senso l'originale interpretazione di E. Corsini, Apocalisse prima e dopo, SEI, Torino 1980: Giovanni "vede il senso della storia come l'esplicarsi perenne di un giudizio di Dio sul mondo e sull'uomo... L'esecutore di questo giudizio divino, in atto fin dalla creazione, per Giovanni è Gesù Cristo. In questo senso, tutta la storia, e non soltanto la sua conclusione è 'apocalisse', cioè 'rivelazione di Gesù Cristo'" (p. 103). Per una discussione di questo lavoro, cf. J. Lambrecht e al., Per una interpretazione dell"Apocalisse' canonica, Rivista di Storia e Letteratura Religiosa 21 (1985) 456-479. 9 Cf. l'analisi di D.E. Aune, La profezia nel primo cristianesimo e il mondo mediterraneo antico, "Biblioteca di storia e storiografia dei tempi biblici" 10, Paideia, Brescia 1996 (orig. ingl., Grand Rapids 1983, 1991), pp. 511-536; R. Bauckham, La teologia dell'Apocalisse, Paideia, Brescia 1994 (orig. ingl., Cambridge 1993), pp. 132-150 e 172-184.
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L'APOCALISSE DI GIOVANNI
(1) L'autore. Il nome di "Giovanni" che il veggente si attribuisce (cf. 1,1.4.9; 22,8) non risolve ancora la sua identità; già nell'antichità, infatti, se da una parte Giustino lo identifica con l'apostolo omonimo figlio di Zebedeo (cf. Dial. 81,4), dall'altra il vescovo Dionigi di Alessandria, sulla base di una vera e propria critica letteraria comparata con il Quarto vangelo, vede in lui Giovanni il Presbitero di cui parlava già Papia di Gerapoli (cf. Eusebio, H.E. 7,25). Tenuto conto che il greco di Ap è povero (solo 916 parole) e anche sgrammaticato 10 , si può avanzare l'ipotesi che l'autore sia "un profeta apocalittico giudeo-cristiano che lasciò la Palestina al tempo della guerra giudaica della fine degli anni 60 trasferendosi nell'Asia Minore (probabilmente a Efeso, di dove venne esiliato nell'isola di Patmos)" 1 1 . La questione è connessa con quella dei rapporti con il Quarto vangelo: una serie di somiglianze (es.: metafora cristologica dell'agnello [benché con un lessico diverso]; Cristo come luce [Ap 21,23-24; Gv 8,12] e come sorgente di acqua viva [Ap 22,1; Gv 7,37-39], la madre del Messia come "donna" [Ap 12,1.4.13; Gv 2,4; 19,26], atteggiamento ostile verso i "Giudei" [Ap 2,9; 3,9; Gv passim], la passione di Gesù come parto doloroso [Ap 12; Gv 16,19-22] ecc.) e una serie più consistente di dissomiglianze (es.: diversa lingua greca, assenza di numerosi concetti centrali in Gv [come "verità, pace, gioia, amore, Dio come Padre di Cristo"] e diseguaglianza d'impostazione dell'escatologia [presenziale in Gv, solo futura in Ap dove in più spicca il tema del millennio] e della cristologia [come nella fisionomia di un Cristo sterminatore dei nemici, che contrasta con la dolcezza di quello di Gv], unitamente al modo di utilizzare l'AT [frequentissimo ma mai introdotto con formule di citazione, diversamente che in Gv, e in più vicino all'ebraico più che ai LXX]) portano a ritenere che si tratti di un personaggio che ha avuto certamente dei contatti con la tradizione giovannea, di cui egli recepisce alcune istanze ma amalgamandole in una costruzione teologica propria espressa con un linguaggio proprio 12 . (2) Datazione. Un buon indizio si può trovare in 17,9-11: "Le sette teste sono i sette colli, sui quali la donna (prostituta) è seduta. E sono anche sette re. I primi cinque sono caduti, ne resta uno ancora in vita, l'altro non è ancora venuto ma quando sarà venuto dovrà rimanere per
10 Cf. S.E. Porter, The Language ofthe Apocalypse in Recent Discussion, NTS 35 11 (1989) 582-603. R.E. Brown, An Introduction, p. 803. La tesi di un cristiano di origine gentile è invece sostenuta da R.K. MacKenzie, The Author of the Apocalypse. A Review ofthe Prevailing Hypothesis of Jewish-Christian Authorship, Mellen, Lewiston NY 1997. 12 Un nesso con la tradizione giovannea è ammesso, sia pur con accenti diversi, da J.-W. Taeger 1989 (Ap come scritto deutero o tritogiovanneo) e da J. Frey 1993 (consonanza di vari temi). Perorano invece una vicinanza con il paolinismo E. Schùssler Fiorenza 1977, M. Karrer 1986, E. Lohse 1988; ma gli elementi presi in considerazione (specie la cornice epistolare del libro nel suo insieme) sono troppo periferici.
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poco. Quanto alia bestia che era e non è più, è a un tempo l'ottavo re e uno dei sette, ma va in perdizione". Alla questione preliminare, se si debba riferire questo testo a Roma, rispondiamo metodologicamente di sì con quasi tutti gli studiosi 13 . Altre questioni sono: (1) Nella serie dobbiamo computare anche Galba-Otone-Vitellio (dal 9 giugno del 68 al 20 dicembre del 69)? Sembra di no per la loro brevità: Svetonio parla solo di "rebellio trium principum" (Vesp. 1). (2) Quando iniziare il computo? Se iniziamo da Augusto, il sesto vivente è Vespasiano (così Charles, Lohse, Giesen) e l'ottavo è Domiziano, uno dei sette tornato in vita 14 ; in questo caso, il veggente scrive sotto Domiziano ma lascia volutamente l'impressione di scrivere sotto Vespasiano (così Charles, Lohse, Giesen, Cerfaux-Cambier, Wikenhauser). Altri iniziano da Caligola (sia perché viene dopo Tiberio che è l'imperatore della morte-risurrezione di Cristo: Prigent; sia perché è stato nemico dei giudei: Mùller) e giunge a Domiziano come sesto, identificando il settimo-ottavo con Nerone redivivo personificazione di Satana e dell'Anticristo. In ogni caso si dà ragione a Ireneo, secondo cui Giovanni scrisse "alla fine del regno di Domiziano, quasi al tempo della nostra generazione" (Adv. haer. 5,30,3)15. (3) Situazione storica (tenendo conto che l'area geo-culturale di Ap è l'Asia Minore: cf. le sette chiese e l'isola di Patmos). Più di una volta l'autore si riferisce a esperienze apparentemente di persecuzione: 1,9 ("Io, Giovanni,... vostro compagno nella tribolazione"); 2,13 ("Antipa, il mio fedele testimone, fu messo a morte nella vostra città [Pergamo], dimora di satana"); 6,9 ("coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa"); 12,17 (il drago fa guerra agli altri discendenti della Donna); 13,10 (prospettiva della prigionia e della spada); 17,6 ("sangue dei santi e dei martiri di Gesù"); 13 Invece E. Lupieri, Esegesi e simbologie apocalittiche, Annali di storia dell'esegesi 7 (1990,2) 379-3%, ritiene che il testo, collocandosi sullo sfondo della tradizione enochica (cf. En.etiop. 18,13 - 19,1: "E vidi una cosa terribile: sette stelle come grandi montagne ardenti..."), intenda parlare non di "colli" ma di "monti", che sarebbero equiparati con altrettante stelle o angeli dominatori dei vari regni anteriori a quello messianico e quindi in rapporto alla settimana cosmica: l'ottavo che "va in perdizione" (17,11) sarebbe nient'altro che satana il quale fallisce il suo scopo di dominare il mondo. Noi adottiamo la sentenza comune per lasciare ulteriore spazio a un maggior approfondimento di questa originale posizione (come14spiegare per esempio che "una donna siede" sui sette monti?). Vari testi del tempo attestano il mito di Nero redivivus, cioè di un ritorno di Nerone redivivo: Svetonio, Nero 57; Plinio il G., Paneg. 53,4; e gli apocrifi Or. Syb. 5,28-34; 4,119-122; Asc. Is. 4,2-14. 15 Un tutt'altro computo è proposto da J.C. Wilson, The Problem ofthe Domitianic Date of Revelation, NTS 39 (1993) 587-605, che, sulla base di Ap 11,1-2, ritiene ancora funzionante il Tempio di Gerusalemme e, iniziando da Cesare o da Augusto, giunge agli ultimi mesi di Nerone o ai pochi mesi di Galba; ma i commentatori fanno notare che il Tempio in 11,1-2 va inteso come metafora della chiesa (cf. 3,12).
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20,4 ("Vidi anche le anime dei decapitati a causa della testimonianza di Gesù"); 21,4 ("Non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento"). Eusebio di Cesarea convaliderà dal punto di vista storico la tesi di una persecuzione dei cristiani sotto Domiziano (cf. H.E. 3,17), ed essa è ripresa dalla maggior parte dei commentatori moderni 16 . Questa tesi, tuttavia, viene oggi sempre più messa in discussione sulla base non solo del fatto che in 3,10 "l'ora della tentazione" è al futuro ( = "sta per venire sul mondo intero"; cf. anche 2,10) ma soprattutto perché una persecuzione contro i cristiani in Asia Minore al tempo di Domiziano (di cui sono attestati atti di violenza limitati a Roma) non è suffragata da alcun'altra testimonianza letteraria 17 . Perciò si cercano altre motivazioni per spiegare la presa di posizione da parte di Giovanni 18 . C'è chi, ritenendo che non ci fosse conflitto di alcun genere, pensa che l'autore proietti nella vita dei cristiani la propria visione di antitesi tra la chiesa e il mondo e voglia semplicemente spingere i cristiani a porsi in conflitto con la società in una sorta di "cosmopolitan sectarianism" (Thompson). Altri insistono sulla pervadenza e la pericolosità del culto imperiale, di fronte al quale, visto che i Nicolaiti vi si sottomettono, i cristiani corrono il rischio di adorare la bestia e abbracciare così una servitù tale da far loro dimenticare che il vero signore della storia è Dio e il suo Cristo (Klauck, Mùller, Giesen; sintomatico diventa l'invito in 18,4: "Uscite da Babilonia, popolo mio, per non associarvi ai suoi peccati"). Qualcuno infine sottolinea l'oppressione socio-economica e politica dei cristiani d'Asia o di un loro gruppo, dal cui punto di vista Ap è scritta come protesta di liberazione (Schùssler Fiorenza, Slater). Questa oppressione tuttavia doveva anche comportare il pericolo della vita, se da una parte abbiamo il caso sia pur singolo di Antipa e se, dall'altra, Plinio il Giovane scrive a Traiano verso il 112 che già vent'anni prima (quindi verso l'inizio degli anni 90) alcuni cristiani denunciati (forse per intervento dei Giudei locali? cf. 2,9) avevano rinnegato il proprio nome per non essere condannati (cf. Ep. 10,96,6)19. Resta il fatto che Ap è prevalentemente scritta non per consolare sulla base di tormenti subiti, ma per incoraggiare in vista di una fedeltà da mantenere. 16 Oltre ai Commenti, cf. anche A. Yarbro Collins, Persecution and Vengeance in the Book of Revelation, in D. Hellholm, ed., Apocalypticism in the Mediterranean World and Near East, Mohr, Tubingen 1983, pp. 729-749. 17 Cf. H. Giesen, Das Ròmische Reich im Spiegel der Johannes-Apokalypse, in ANRW, II, 26/3, de Gruyter, Berlin-New York 19%, pp. 2501-2614 specie 2515-2522. 18 Cf. soprattutto L.L. Thompson, The Book of Revelation. Apocalypse and Empire, University Press, Oxford 1990; E. Schùssler Fiorenza, Revelation. Vision o/a Just World, T&T Clark, Edinburgh 1991, specie pp. 119-131; H.-J. Klauck, Das Sendschreiben nach Pergamon und der Kaiserkult in der Johannesoffenbarung, Bibl 73 (1992) 153-182; H. Giesen, Ermutigung zur Glaubenstreue in schwerer Zeit. Zum Zweck der Johannesoffenbarung, TTZ 105 (19%) 61-76; T.B. Slater, On the Social Setting of the Revelation of John, NTS 44 (1998) 232-256. 19 Cf. anche R.E. Brown, An Jntroduction, pp. 805-809.
IL PROBLEMA DELLA CRISTOLOGIA
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1. Il problema della cristologia Per lungo tempo ha pesato su Ap un giudizio negativo circa il suo spessore cristologico. Ciò poteva avvenire in maniera indiretta, come in Gioacchino da Fiore, per il quale il libro racchiuderebbe solo una serie di predizioni sul futuro della chiesa e del mondo fino alla sua consumazione, quando finalmente Cristo apparirà come "fructus spei et premium operis nostri", cioè come rivelatore definitivo della verità e come giudice degli uomini; è in questo senso che va letta la frase conclusiva del suo commento: "Ipse enim est finis libri" (su 22,20)20: la cristologia è vista in una dimensione soltanto escatologica ma non ha rilevanza di proclamazione per la fede e la vita presente del cristiano. Più diretta è invece la critica luterana classica. Nella Prefazione all'Apocalisse contenuta nella Septemberbibel del 1522, Lutero scriveva drasticamente: "Non considero questo libro né apostolico né profetico... È per me sufficiente, per non stimarlo molto, il fatto che non vi è insegnato né riconosciuto Cristo, mentre questo sarebbe il compito principale di un apostolo" 21 . Successivamente però nella Prefazione alla Bibbia pubblicata nel 1530, con riferimento sia al senso nascosto del libro e sia per estensione all'identità del cristiano che è nascosta al mondo, precisò: "Finché la sola parola del Vangelo rimane pura presso di noi, e noi l'abbiamo cara e la stimiamo, non dobbiamo dubitare che Cristo sia presso e con noi, anche se le cose del mondo vanno nel modo peggiore; come vediamo qui in questo libro, che Cristo — attraverso e oltre tutte le piaghe, le fiere, gli angeli cattivi — rimane tuttavia presso e con i suoi santi, e alla fine vince" 22 . Particolarmente pesante, più sulla linea del primo Lutero, suona ancora il giudizio di Bultmann: "Si dovrà definire il cristianesimo di Ap come un giudaismo debolmente cristianizzato. L'importanza di Cristo si limita al fatto che egli conferisce alla speranza ardente la certezza che manca agli apocalittici giudaici... La certezza della speranza e la convinzione che la fine è vicina (cf. 22,10) fanno sì che il presente sia già illuminato dalla luce del
20 Cf. Gioacchino da Fiore, Expositio in Apocalypsim, Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527 (riedita a Francoforte 1964-1965; cf. anche Olms Verlag, Hildesheim). In italiano esiste la versione solo dell'Enchiridion super Apocalypsim, a cura di A. Tagliapietra, Feltrinelli, Milano 1994. 21 M. Lutero, Prefazioni alla Bibbia, a cura di M. Vannini, Marietti, Genova 1987, p. 181. 22 Ib., p. 189.
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futuro... Ma il presente fondamentalmente non è inteso in modo diverso dall'apocalittica giudaica, cioè come tempo della provvisorietà e dell'attesa. E che la nitrziq sia essenzialmente intesa come u7to(jLovri alla pari del giudaismo, è il sintomo chiaro di questo stato di cose" 23 . Le cose sono cambiate molto a partire dagli anni '60 del secolo XX. Le monografie pionieristiche del luterano Holtz 24 e del cattolico Comblin25 hanno aperto la strada a tutta una serie di studi, di cui è difficile qui dare conto, ma ai quali faremo riferimento nel corso dell'esposizione26. Sul mutamento d'indirizzo hanno influito certamente le nuove ricerche sull'apocalittica cristiana in confronto con quella giudaica27. Certo è che il nostro libro ha una cri-
23 R. Bultmann, Theologie des Neuen Testaments, Mohr, Tubingen 51965, pp. 525-526. 24 T. Holtz, Die Christologie der Apokalypse des Johannes, TU 85, Akademie Verlag, Berlin 1962, 2 1971. L'Autore divide il suo studio in due parti: (1) Il presente di Cristo (pp. 27-165): l'intronizzazione, il fondamento della sua sovranità nella morte, la signoria sulla chiesa e sul mondo; (2) Il futuro di Cristo (pp. 166-215): la parusia come insediamento della sua signoria nel mondo, i suoi beni salvifici nel nuovo eone, consumatore della storia. 25 J. Comblin, Le Christ dans l'Apocalypse, Desclée, Paris-Tournai 1965. L'Autore divide il suo studio in cinque capitoli: l'Agnello, servitore di Dio; Colui che viene (il Figlio dell'uomo, la parola di Dio, Gesù imperator, il Figlio dell'uomo e il Maestro in 1QS, la Sapienza); il Testimone; il Cristo (in rapporto al Regno di Dio e al Padre); il Vivente. 26 Oltre al descrittivo E. Schmitt, Die christologischeInterpretation als das Grundlegende der Apokalypse, TQ 140 (1960) 257-290, citiamo qui solo un paio di studi complessivi. L'uno, di A. Satake, Christologie in der Johannesapokalypse im Zusammenhang mit dem Problem des Leidens der Christen, in C. Breytenbach - H. Paulsen, edd., Anfànge der Christologie. Festschrift F. Hahn, Vandenhoeck, Gòttingen 1991, pp. 307-322, si preoccupa giustamente di collegare il discorso su Cristo con l'esigenza di spiegare le sofferenze a cui sono esposti i cristiani. L'altro, più originale, è di M.E. Boring, Narrative Christology in the Apocalypse, CBQ 54 (1992) 702-723, e pretende di individuare in Ap quattro livelli narrativi: (1) la storia di Giovanni e delle chiese, nella cornice epistolare; (2) la storia di Cristo e di Dio, nelle visioni che riguardano Dio, Cristo, la sala del trono celeste, la vittoria del Messia, il millennio; (3) la storia del mondo, nelle azioni drammatiche che sviluppano le visioni, cioè la rottura dei 7 sigilli, il suono delle 7 trombe, il versamento delle 7 coppe; (4) la storia di Dio, cioè la macrostoria non raccontata ma presupposta da ciascuno dei tre livelli precedenti; solo i primi tre livelli comporterebbero una cristologia. Il tentativo è interessante, ma resta a livello di superficie, senza scendere in profondità nei contenuti specifici del discorso del Veggente; più utili sono le pp. 715-719 dove si distingue tra l'attività di Cristo nel passato (solo protologia; nulla sull'incarmazione, pochissimo sul Terreno, che interessa solo per la sua morterisurrezione), nel presente (la sovranità sulla chiesa e sul mondo) e futura (alla fine dei tempi). 27 Vedi in particolare la tesi forte di E. Kàsemann agli inizi degli anni '60, secondo cui l'apocalittica è "la madre di tutta la teologia cristiana" (cf. un resoconto della discussione in R. Penna, a cura, Apocalittica e origini cristiane, pp. 11-17).
AGGANCI CON LA TRADIZIONE
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stologia "militante" 28 , nel senso che essa è rivolta come arma della fede contro ogni tipo di oppressione in atto e contro ogni possibilità di tradire la posizione cristiana di netta contrapposizione a questo mondo. Infatti, Ap dispiega un paio di dualità che implicano un'antitesi, determinante per la comprensione dell'intero scritto. Essa è espressa doppiamente sotto l'immagine di due città (Babilonia e Gerusalemme) e di due donne (la meretrice e la sposa); ad esse soggiace un'altra dualità, di valore portante, sotto l'immagine di due bestie, la cui antitesi è già ben eloquente a livello di metafora: il drago (con altre bestie che ne derivano) e l'Agnello che le vince. L'insieme dà corpo inevitabilmente a una dimensione drammatica, che percorre e vivacizza l'intero libro. Nostra preoccupazione sarà di distinguere, come sempre, tra gli agganci di Ap con la cristologia tradizionale (§ 2) e lo sviluppo della cristologia propria del libro (§ 3).
2. Agganci con la tradizione Prima ancora di sviluppare una propria cristologia, Ap si innesta su quella della chiesa primitiva, dimostrando di conoscerla, prima ancora di volerla proseguire in termini propri. Ciò è caratteristico di tutti i grandi teologi, che riprendono ma anche ripensano e ri formulano la comune fede cristiana. In Ap la tradizione è doppiamente presente: come ripresa sia della dimensione storica del personaggio sia della titolatura cristologica protocristiana. 2.1 Identificazione storica di Gesù 2.1 A II nome "Gesù". Anche se non risulta che il Veggente abbia conosciuto la redazione scritta dei Vangeli29, va notato il rilievo dato ali 'uso del nome "Gesù": su 14 ricorrenze, in ben 9 casi esso spicca da solo (cf. l,9bis; 12,17; 14,12; 17,6; 19,10bis; 20,4; 2 » A. Yarbro Collins, Revelation, Book of, ABD 5, Doubleday, New YorkLondon 1992, pp. 694-708 qui 705. 29 Cf. in merito L.A. Vos, The Synoptic Traditions in the Apocalypse, Kok, Kampen 1965. Il Veggente tuttavia sa che Gesù ha avuto degli apostoli (cf. 21,14) e che è stato crocifisso (cf. 11,8); inoltre, almeno il loghion sulla distinzione tra Dio e Cesare (cf. Me 12,17//) gioca di fatto in Ap un ruolo fondamentale.
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22,16) senza l'aggiunta di altri titoli, i quali del resto sono presenti soltanto in passi di cornice epistolare (con "Cristo": 1,1.2.5; con "Signore": 22,20.21). La mancanza di altri appellativi mette in risalto il fatto che esso è fondamentalmente "espressione di umanità" 30 e richiama perciò il personaggio storico concreto anche senza la specificazione di "Nazareno" che si trova nei Vangeli. D'altronde, il nome non serve per rievocare fatti o detti della vita terrena, poiché è utilizzato nel corpo del libro (non nella sezione delle sette lettere nei capp. 2-3) nel contesto delle visioni apocalittiche. Ma proprio la sua presenza in questo ambito conferisce ad esse una nuova dimensione di tipo profetico e di testimonianza vissuta, come a dire che per quanto inusitate e shoccanti siano le visioni, esse non riescono a nascondere i lineamenti tipici e storici di Gesù che sta alla base di tutta la fede cristiana. In effetti, a parte l'autodesignazione nell'epilogo 31 , il nome ricorre praticamente sempre in connessione con il concetto di testimonianza. Colpisce in proposito il costrutto [xapxupia 'IrjaoG, lett. "testimonianza di Gesù" (1,2.9; 12,17; 19,10bis; 20,4), che potrebbe essere inteso come genitivo oggettivo (= "testimonianza resa dai discepoli a Gesù") 32 oppure soggettivo (= "testimonianza resa personalmente da Gesù stesso"). Questa seconda possibilità sembra la migliore33; infatti: (1) dove la "testimonianza di Gesù" è in parallelismo con "la parola di Dio" (1,2.9; 20,4), il genitivo dev'essere in entrambi i casi di tipo soggettivo (come è Dio a parlare così è Gesù a testimoniare); (2) la frase "avere la testimonianza di Gesù" (12,17 [parallelismo con "osservare i comandamenti"]; 19,10; cf. 6,9) si riferisce a qualcosa che i cristiani hanno ricevuto, non che essi danno; (3) la qualifica di "testimone" riconosciuta esplicitamente a Gesù stesso (1,5; 3,14) fa di lui il vero soggetto di una testimonianza decisiva resa a Dio e alla sua volontà mediante la sua morte in croce. I suoi discepoli sono semplicemente chiama-
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ti a parteciparvi nelle loro prove (cf. 2,13; 11,3; 17,6), così come in altri passi è detto che essi partecipano alla regalità e al sacerdozio. La testimonianza implica un impegno, il cui soggetto ultimo è lo Spirito dei profeti d'Israele (cf. 19,10: "La testimonianza è lo Spirito di profezia") 34 ; se colleghiamo questa affermazione con la finale delle lettere alle sette chiese ("Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese": 2,7.11.17.29; 3,6.13.22), ci si rende conto che è proprio la testimonianza resa da Gesù il contenuto e la sorgente di ogni annuncio profetico (cf. Gv 15,26: "Il paraclito, lo Spirito di verità testimonierà su di me"; 16,14: "Egli prenderà del mio e ve lo annunzierà"). L'intera Ap è percorsa da questa idea (da 1,2 fino a 20,4), nella quale si intrecciano cristologia ed ethos cristiano. Dunque il nome di "Gesù" è strettamente connesso con la fiera testimonianza da lui resa a prezzo della sua vita (cf. anche ITim 6,3: " H a dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato"; 2,6-7: " H a dato se stesso in riscatto per tutti; questa testimonianza egli l'ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto banditore e apostolo") 35 . 2.1.2 La davidicità di Gesù. In secondo luogo, viene affermata quattro volte la davidicità di Gesù, con una metafora sempre diversa. (1) "Colui che ha la chiave di David, colui che apre e nessuno chiuderà e chiude e nessuno apre" (3,7). C'è qui un richiamo a Is 22,22 ( = costituzione di Eliachim a maggiordomo al posto di Sebnà: "Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di David: se egli apre nessuno chiuderà, se egli chiude nessuno potrà aprire"). Bisogna però riconoscere che il riferimento a Davide è piuttosto estrinseco, poiché l'affermazione centrale è quella di un potere esclusivo, anche se non è subito del tutto chiaro a che cosa ci si riferisca nel caso di Gesù36. Tenendo conto del seguente v. 12 ("Il vincito34
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W. Foerster, in GLNT, IV, col. 917. In 22,16 Gesù si presenta come l'ispiratore diretto della "rivelazione": si tratta di una ripresa e di una correzione cristo-logica dell'affermazione teo-logica di 22,6 e in ultima analisi di una chiusura del cerchio con 1,1. 32 Cf. P. Vassiliadis, The Translation of Martyria Iesou in Revelation, Bible Translator 36 (1985) 129-134. 33 Essa è sostenuta in genere dai commentatori (cf. per es. Charles, Wikenhauser, Prigent, Giesen); vedi anche J. Comblin, Le Christ, pp. 141, 152; R. Filippini, La forza della verità. Sul concetto di testimonianza nell'Apocalisse, RivBibl 38 (1990) 401-449; e soprattutto I. Donegani, "À cause de la parole de Dieu et du témoignage de Jesus...", pp. 353-388. 31
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Su questa linea è la tradizione giudaica concernente il profeta perseguitato (specie Elia, Amos, Geremia); cf. gli apocrifi Giub. 1,12 ("Per far testimoniare contro di loro, invierò testimoni-profeti presso di loro ed essi non ascolteranno, uccideranno il teste e perseguiteranno anche quelli che cercano la legge") e in genere Vitae proph. Secondo B. Moriconi, Lo Spirito e le chiese. Saggio sul termine "TtveG|j.a" nel libro dell'Apocalisse, Teresianum, Roma 1983, la pneumatologia di Ap è costantemente legata alla chiesa. 35 Discutibile è il caso di Ap 14,12 dove si parla della morti; 'IT)<JOO: secondo alcuni si dovrebbe anche qui leggere un genitivo soggettivo ("la fede-fedeltà che fu quella propria di Gesù": cf. Harrington), ma secondo i più si tratterebbe della "fede dei cristiani in Gesù" (Wikenhauser, Prigent, Muller, Giesen); cf. 2,13. 36 Si fanno alcune ipotesi per determinare su che cosa si eserciti questo potere: (1) sulle Scritture o sulla rivelazione di Dio in generale (alcuni Padri); (2) sulla di-
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re lo porrò come una colonna nel tempio del mio Dio e non ne uscirà mai più"), si può pensare che a Gesù spetta la possibilità di decidere chi possa entrare nella nuova Gerusalemme; egli solo cioè ha quel potere che in Mt 16,19 viene delegato a Pietro37. (2) "Il leone della tribù di Giuda" (5,5: ó Xécov). Il riferimento è a Gn 49,9-10 ("Un giovane leone è Giuda... non sarà tolto lo scettro da Giuda... finché verrà colui al quale esso appartiene") e soprattutto al suo Targum: "Io ti paragonerò, o Giuda, figlio mio, al piccolo dei leoni... Tu ti riposerai e in mezzo al combattimento sarai come il leone e come la leonessa e non ci sarà né popolo né regno che resista contro di te. I re non mancheranno tra quelli della casa di Giuda... finché venga il re-messia, a cui appartiene la regalità e a cui si sottometteranno tutti i regni" (TgN). Viene così evocata icasticamente l'idea di forza e di primato regale. (3) "La radice di David" (5,5: rj piCa; cf. 22,16). È un richiamo al celebre testo di Isaia 11,1.10:' 'Un germoglio (TM: hoter; LXX: pà(38o<;) spunterà dal tronco (TM: gezcf\ LXX: pi'Coc) di lesse e un virgulto (TM: nèser; LXX: àvGos) germoglerà dalle sue radici (TM: serastm; LXX: piCa)... In quel giorno la radice (TM: sores; LXX: pt£oc) di lesse si leverà a vessillo per i popoli". La sostituzione del nome di lesse con "David" fa emergere più direttamente Gesù come davidide. L'interpretazione rabbinica di Is 11,1 in senso messianico è esplicita nel seriore midrash Tanhumà a Gn 49,8: "Perché i tuoi fratelli, o Giuda, ti loderanno?... Perché da te uscirà il Messia che redimerà Israele, come è detto: Una verga uscirà dal tronco di lesse". (4) "La stella radiosa del mattino" (22,16: ó àarrjp Ó XajArcpòs ó rcp
mora dei morti, con riferimento a 1,18 ("Ho le chiavi della morte e dell'Ade"): ma per regolare l'accesso e l'uscita? o nel senso che la Morte personificata è stata vinta da Cristo? (3) sulla possibilità di scomunicare i Giudei come risposta all'esclusione dei giudeo-cristiani dalle sinagoghe? (3) sulla nuova Gerusalemme, di cui quella di Davide era solo un'immagine, e quindi sul regno escatologico? 37 Così in genere i commentatori: cf. Wikenhauser, Ford, Prigent, Mùller, Giesen. L'ipotesi di un contrasto storico con la prassi della sinagoga locale nello scomunicare i Giudei cristiani è avanzata da R.H. Mounce, The Book of Revelation, NICNT, Eerdmans, Grand Rapids-Cambridge 1998 (• 1977), p. 100. 38 Sulla 'stella di David' come simbolo storico di Israele, cf. per esempio J. Maier-P. Schàfer, Piccola enciclopedia dell'ebraismo, Marietti, Casale Monferrato 1985 (orig. ted., Stuttgart 1981), coli. 587-588.
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dell'inizio secolo II a.C.): "Come astro mattutino fra le nubi, come la luna..., come il sole..., come l'arcobaleno"; nel giudaismo cosiddetto intertestamentario la metafora è ampiamente applicata al Messia39. Probabilmente essa, in riferimento a Venere come stella del mattino, era anche simbolo di vittoria e di potere nella simbologia dei Cesari40. Questi riferimenti alla davidicità di Gesù sono più frequenti che in qualsiasi altro libro del NT. Essi, come era inevitabile, sono connessi con idee di forza, di potere, di vittoria, di splendore. Perciò si combinano bene con le concezioni messianico-regali del medio giudaismo. Tuttavia, mai nel contesto di questi passi si trova il titolo "Cristo": segno evidente che si tratta di due serie di testi diversificate e che questo secondo titolo è più specifico della fede cristiana in quanto tale (cioè in quanto comprende anche l'idea della morte). 2.2 Reimpiego della titolatura cristo logica tradizionale 2.2.1 "Figlio dell'uomo" (1,13; 14,14). A differenza dei Vangeli, in Ap questa qualifica non serve a designare un personaggio storico, poiché il contesto di ricorrenza, come di norma nell'apocalittica giudaica, è quello della gloria celeste. Un aggancio con il linguaggio gesuano è oggettivamente innegabile, ma è molto indiretto41. Infatti la presentazione di questa figura diverge dai testi evangelici fondamentalmente perché in Ap non si tratta di un personaggio terreno ma di un'apparizione celeste, posta in mezzo a sette candelabri; a ciò si aggiungono altre osservazioni di corollario: l'apparizione è corredata dalla descrizione di vari dettagli meravigliosi (cf. 1,13-16: abito talare, cintura d'oro al petto, capelli candidi, occhi fiammeggianti, piedi come il bronzo, una voce come il fragore delle acque, con sette stelle nella destra e una spada 39
Cf. Test. Lev. 18,3; Test. Jud. 24,1; 1QM 11,6; lQSb 5,27; 4QTest 9-13; CD 7,18-19. Nel Tg a Ester 10,3 si legge che Mardocheo era come "la stella del mattino che brilla tra gli astri". 40 Cf. H. Giesen, Das Ramisene Reich, p. 2546, dove, partendo dalla stella del mattino come simbolo di sovranità già per i babilonesi, si citano alcuni versi di Stazio, poeta di corte di Domiziano: " E sorge col nuovo sole, con gli astri sublimi, / brillando con più chiarezza e anche maggiore della stella del mattino" (Silvae 4,1,3-4: "Atque oritur cum sole novo, cum grandibus astris / Clarius ipse nitens et primo maior Eoo"). 41 Cf. voi. I, pp. 134-143.
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affilata che esce dalla bocca), mentre sul piano letterario la formulazione (ofxotov utòv àvGpcÓTcou, "simile a figlio d'uomo") diverge doppiamente da quella evangelica in quanto non ha nessun articolo e in più la figura è presentata solo come un paragone. In quanto tale, l'espressione si aggancia direttamente alla visione di Dn 7,13 (a)? utò? <xv9pó)7cou, "come figlio d'uomo"), a cui si aggiungono tratti sia del Vegliardo divino (cf. i capelli candidi in Dn 7,9), sia dell'uomo vestito di lino (cf. Dn 10,5-6), sia del davidide che giudica la terra (cf. Is 11,4; e ancora Ap 19,15). Soprattutto il personaggio rimanda esplicitamente alla propria risurrezione: "Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra l'ade" (1,18)42. Si può dunque dire con una certa sicurezza che la designazione proviene sì dalla tradizione, ma non da quella della cristologia gesuana o protocristiana 43 . In ogni caso, si allude alla dimensione umana di Gesù sia pure collocato in una atmosfera celeste. 2.2.2 "Cristo" (solo sette volte). Nelle prime tre ricorrenze (1,1.2.5: cornice introduttoria) il termine è associato a "Gesù" e vale quindi come nome proprio (analogamente avviene già in Paolo e negli altri scrittori neotestamentari). L'originalità maggiore si trova in 11,15 e 12,10 (contesto innico). Qui il nome ha chiaro valore titolare, non solo perché è usato con l'articolo, ma soprattutto perché è unito a un aggettivo possessivo come mai altrove in tutto il NT: "il suo Cristo", cioè di Dio. La formulazione è tipicamente giudaica e richiama espressioni come le seguenti: "Egli concede misericordia al suo Unto" (2Sam 22,51); "Insorgono i re della terra e i principi congiurano insieme contro il Signore e contro // suo Unto" (Sai 2,2; cf. Sai 19,50; 20,6; 28,8 ecc.); "In quei giorni i re e i potenti... cadranno innanzi a lui e... non vi sarà chi li faccia alzare, perché hanno rinnegato il Signore degli spiriti e il suo Unto" (lEn. 48,10); "Per il giorno della misericordia Dio purifichi Israele... riconducendo il suo Unto" (Sai. Saloni. 18,5). A monte c'è l'espressione ebraica meslah Yhwh 42 Sull'insieme, oltre ai Commenti, cf. U. Vanni, L'Apocalisse, pp. 115-136. Sull'eventuale dimensione sacerdotale di questa figura, vedi più avanti (2.2.8). 43 Vedi in questo senso A. Yarbro Collins, The "Son of Man" Tradition and the Book of Revelation, in J.H. Charlesworth, ed., The Messiah. Developments in Earliest Judaism andChristianity, Fortress, Minneapolis 1992, pp. 536-568. Da parte sua, L.T. Stuckenbruck, Ange! Veneration and Christology. A Study in Early Judaism and in the Christology ofthe Apocalypse of John, WUNT 2.70, Mohr, Tubingen 1995, pp. 218-221, vi scorge una identificazione angelica sulla base di parallelismi con le angelofanie di Apoc.Abr. 10,1-11,6; Apoc.Sof. 6,15.
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(Lam 4,20)^, che indica la dipendenza del Messia rispetto a Dio e insieme la sua stretta associazione funzionale a lui. Il contesto in Ap infatti è quello della regalità condivisa con Dio (vedi sotto). Ciò avviene anche nelle altre due ricorrenze nel contesto del regno millenario (cf. 20,4.6), di cui diremo più avanti. 2.2.3 "Signore". Su 21 ricorrenze, nella maggior parte è una designazione di Dio in senso stretto (cf. 1,8; 4,8.11 ecc.). Discutibile può essere il passo di 14,13: "Beati quelli che sono morti nel Signore"; l'espressione può essere intesa o in senso giudaico (cf. Sap 5,15s: "I giusti vivono per sempre, la loro ricompensa è presso il Signore") o in senso cristiano (cf. ICor 15,18: "Coloro che si sono addormentati in Cristo"), ma è la seconda possibilità che viene preferita da tutti i commentatori 45 . Solo 5 volte il titolo Kyrios ha sicuramente valenza cristologica: 11,8 ("...dove appunto il loro Signore fu crocifisso"); 17,14 ("L'Agnello li vincerà perché è il Signore dei signori"); 19,16 (detto del cavallo bianco: "Re dei re e Signore dei signori"); 22,20 ("Vieni, Signore Gesù").21 ("La grazia del Signore Gesù sia con tutti voi"). I testi più tradizionali sono gli ultimi due (cf. rispettivamente l'invocazione aramaica Maranatha in ICor 16,22 e i saluti epistolari nell'escatocollo delle lettere paoline). Esaminiamo brevementre gli altri tre. In 11,8 il nesso tra Signore e croce è quanto mai stridente (vi si può scorgere un parallelo con ICor 2,8: "Se l'avessero conosciuto, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria"). Evidentemente abbiamo un riferimento a Gesù e alla sua morte, e si ribadisce che il Signore dei cristiani reca paradossalmente i tratti infamanti di un condannato alla croce. In Ap la relazione contestuale con "i due testimoni" (11,3.10: "i due profeti"), da identificare probabilmente con Elia e Mosè come tipo dei cristiani perseguitati46, sot-
44 Essa è tradotta in greco con xpt<"°S Kupiou, come si legge nei LXX (cf. 2Sam 1,14; 19,21 ecc.) e in Sal.Salom. (cf. 17,32; 18, titolo e v. 7). Vedi in generale M.de Jonge, The Use of the Expression ó xP""ó<; in the Apocalypse of John, in J. Lambrecht, ed., L'Apocalypse johannique, pp. 267-281. 45 Invece E. Corsini, Apocalisse, pp. 392-394, riferisce il passo ai giusti dell'A.T. che hanno votato la loro vita alla testimonianza della Legge e all'attesa del Messia (cf. 14,12). 46 La portata simbolico-collettiva dei due testimoni era propria già di J.S. Considine, The Two Witnesses, Apoc 11:3-31, CBQ 8 (1946) 377-392; ma vedi soprattutto I. Donegani, "À cause de la parole de Dieu et du témoignage de Jesus... ", pp. 382-445; tra i commentatori, è messa fortemente in risalto da H. Giesen, pp. 251 ss. Per una identificazione di Mosè come sostituto di Enoc, cf. E. Lupieri, Apocalisse di Giovanni e tradizione enochica, RSB 7 (1995,2) 137-150 specie 146-148.
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tolinea la semantica propria del titolo di Kyrios dato a Gesù, che è pienamente tale solo in rapporto con la comunità cristiana e soprattutto quando essa è chiamata a condividere la sua stessa testimonianza fino alla morte (e alla risurrezione). L'acclamazione "Signore dei signori" (ripetuta in 17,14 e 19,16) richiama alcuni testi dell'AT. Così leggiamo in Dt 10,17: "Yhwh vostro Dio è il Dio degli dèi, il Signore dei signori (TM: 'adone hà'àdonim; LXX: xópto? TÓÒV xupt'cuv), il Dio grande, forte e terribile"; e in Sai 136,3: "Lodate il Signore dei signori, perché eterna è la sua misericordia"47. Essa dunque implica un'allusione sufficientemente chiara alla divinità del celebrato48. Questa acclamazione nei due passi citati è accompagnata da quest'altra: "Re dei re", che perciò ha pure valore cristologico. All'origine epiteto dei sovrani assiro-babilonesi e poi persiani49, essa passa poi a designare il Dio d'Israele (cf. 2Mac 13,4; 1QM 14,16; m.P.Ab. 3,1: "Davanti a chi dovrai rendere conto? Davanti al Re dei re, il Santo, benedetto egli sia"); anche in lTm 6,15 è una designazione di Dio. Entrambe perciò celebrano la divinità di Gesù, di cui esprimono la caratteristica del potere e del dominio50. 2.2.4 "Figlio di Dio" è presente solo in 2,18 (lettera alla chiesa di Tiatira; l'attribuzione a lui di occhi di fuoco e di piedi bronzei richiama la precedente figura del "figlio dell'uomo"). Nonostante l'unica ricorrenza del titolo, l'idea ricorre altre volte là dove si accenna al "Padre" suo (cf. 1,6; 3,5.21; 14,1). Curiosamente, l'unico altro passo in cui si parla di una filiazione divina riguarda il 47 Vedi anche lEn. 9,4: "(Allora Michele, Gabriele, Suriele e Uriele) dissero al loro Signore, al re: Poiché sei Signore dei signori, Re dei re, Dio degli dèi, poiché il trono della tua gloria è eterno e il tuo nome è santo e glorioso in eterno..., vedi allora quel che ha fatto Azazel [responsabile del male sulla terra]". Da parte sua G.K. Beale, The Origin o/the Title 'King ofKings and Lord o/the Lords' in Revelation 17.14, NTS 31 (1985) 618-620, attira l'attenzione su Dn 4,37 LXX: "Egli è il dio degli dèi e il signore dei signori e il re dei re, che toglie il regno ai re e ne insedia altri al loro posto". 48 Forse essa implica una venatura polemica contro l'imperatore Domiziano (anni 81-96), che aveva deciso di essere designato in tutti gli scritti e i discorsi come Dominus et deus noster (cf. Svetonio, Dom. 13); anche nel contemporaneo Marziale, Epigr. 7,34 e 10,72, si trova il binomio Dominus deusque. 49 Cf. Nabucodònosor in Ez 26,7 e Dn 2,37; Artaserse in Esd 7,12. Erodoto impiega il titolo analogo ó [ilya./; PaaiXeu? (cf. 1,188,1 ecc.); così anche Eschilo, Pers. 24. Vedi anche A. Deissmann, Licht vom Osten, Mohr, Tùbingen 1908, 41923, pp. 3l0s, e T. Holtz, Die Christologie, pp. 154-156. 50 Per la loro associazione, cf. Plutarco: dopo l'uccisione di Cesare, "Cassio occupò Rodi, ma non si comportò con mitezza, quantunque a coloro che lo acclamavano quale Re e Signore dell'isola, mentre entrava in città, avesse risposto: 'No, no, né re né signore; io, anzi, ho ucciso il signore e il re' " (Bruto 30,3).
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cristiano vincitore del mondo (cf. 21,7: "Sarò per lui dio [non "padre"!] ed egli sarà per me figlio"), riferendo a lui il testo ritoccato di 2Sam 7,14 che propriamente parla di Salomone e, in prospettiva, del Messia! Il cristiano dunque partecipa pienamente alla filiazione di Gesù. Ma in 2,18 la funzione del Figlio di Dio è quella di un giudice sovrumano, tanto che gli si attribuisce la facoltà di "scrutare i reni e i cuori" (2,23), secondo un'espressione che nell'AT è riservata a Dio soltanto (cf. ISam 16,7; Sai 7,10; Ger 11,20). 2.2.5 "Il Santo" (3,7), "// Verace" (3,1 A4; 19,11), "l'Amen" (3,14). Queste tre definizioni le abbiamo già incontrate altrove, sia pur in forma sparsa: rispettivamente in Atti (3,14; 4,27.30), nel Quarto vangelo (Gv 1,9; 6,32; 15,1: ma come mero aggettivo), e in Paolo (cf. 2Cor 1,20). È da notare che i primi due in Ap sono anche titoli di Dio stesso (cf. 6,10). Il primo, ó órfto<;, indica separazione, diversità rispetto a ciò che è comune e profano. Il secondo, ó à\r\8ivó<;, equivale in greco ad "autentico, genuino", e, secondo il corrispondente aggettivo ebraico 'amen, significa "affidabile, sicuro": in quanto tale, c'è equivalenza con la definizione cristologica di ó TUCTCÓS (cf. 1,5; 3,14; 19,11; 22,6), già nota in forma aggettivale da Eb 2,17; 3,2. Il terzo, ó à^v, è l'unico caso in cui l'aggettivo ebraico si trova sostantivato e usato come titolo cristologico; probabilmente è un richiamo di Is 65,16 in cui due volte Dio è definito 'èlohé 'amen, che viene variamente tradotto con "il Dio fedele" (CEI), "il Dio di verità" (BJ), "il Dio dell'amen" (TOB)51. 2.2.6 "Il principio della creazione" (3,14: r\ àpyj] vr\<; x-uaeax;). Un parallelo neotestamentario di questa definizione cristologica si trova in Col 1,15 con cui condivide anche lo sfondo sapienziale anticotestamentario di Pro 8,22: "Il Signore mi ha formata rè'Mt darekò" (= "primizia della sua via", cioè del suo modo di agire"; LXX: àpxrjv ó&tòv aikou). Il termine ebraico rè'Sit, oltre a "principio, capo, inizio", significa spesso "primizia, primo frutto, primogenito, ciò che c'è di meglio" (cf. Gn 49,3; Dt 21,17; Sai 78,51), ma nel rabbinismo verrà addirittura personalizzato per interpretare Gn 1,1: "Il Santo, benedetto egli sia, guardò la Torah e creò l'universo ... E Rè'Sit è la Torah, come dice: Il Signore mi ha posseduta nel principio delle sue vie (= Pro 8,22)"52. Su questo sfon51 Cf. G.K. Beale, The Old Testament Background o/Rev 3.14, NTS 42 (1996) 133-152. 52 Ber.R. 1,1 (trad. A. Ravenna); in ib. 1,10 si legge: "L'universo e quanto esso contiene non sono stati creati se non con la Torah, com'è detto: Il Signore con
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do Cristo va inteso non come primo essere creato ma come 'architetto' che sta al fianco di Dio (cf. Pro 8,30) e che nello stesso midrash citato è definito "strumento di lavoro del Santo, benedetto egli sia", il suo assistente e addirittura il suo criterio di costruzione. In più, dato l'ambiente efesino di Ap, è forse possibile rifarsi anche ai Presocratici della scuola di Mileto (secoli VI-V a.C), che erano mossi dalla ricerca dell'arche o principio di tutte le cose53. 2.2.7 "Ilprimo e l'ultimo" (1,17; 2,8; 22,13), "l'alfa e l'omega" (22,13), "l'inizio e la fine" (22,13). Queste tre definizioni cristologiche equivalgono a quella che abbiamo già trovato in Eb 13,8 e alla spiegazione di quel testo rimandiamo (cf. sopra: cap. IV, 4.5.3). In più facciamo qui un paio di rilievi: innanzitutto, più che mai in Ap le definizioni spaziano sul piano della storia, di cui Cristo insieme a Dio è Signore; inoltre, va osservato che tutte e tre le definizioni in Ap valgono in primo luogo per Dio (cf. rispettivamente 1,4.8 e 4,8, poi 1,8 e 21,6, e infine ancora 21,6), alla cui natura e funzione Cristo soltanto partecipa54. 2.2.8 Sacerdote? Alcuni ritengono di vedere anche la definizione di sacerdote, precisamente in 1,13: "In mezzo ai candelabri c'era uno simile a figlio d'uomo, vestito con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d'oro". L'interpretazione sacerdotale si fonda essenzialmente sul fatto che il vestito richiama quello del Sommo Sacerdote secondo la descrizione che ne dà FI. Giuseppe (cf. Ant. 3,153-154)55. Ma, per quanto il carattere sacerdotale
la Sapienza fondò la terra ( = Pro 3,19)". Vedi anche T. Holtz, Die Christologie, pp. 143-148. 53 Ricordiamo che Varche per Talete era l'acqua, per Anassimandro era l'àpeiron, per Anassimene l'aria, e per Eraclito il fuoco. Di essi già Aristotele scriveva: "I più degli antichi filosofi pensarono che i princìpi di tutte le cose (àpxà; TOXVTCOV) fossero solo nella qualità della materia. Infatti, ciò di cui sono fatti tutti gli esseri, ciò da cui derivano originariamente e in cui si risolvono infine gli esseri..., questo essi dicono essere elemento e principio delle cose che sono (a-coixeiov xat àpxrjv xùv òVcwv)" (Met. A 983 b 7-12). 54 Oltre ai Commenti, vedi in particolare G. Ciolini, 'E-foó eìjit TÒ "A xocì tò "fi (Ap 1,8), in E. Lupieri, F. Cardini, et al., Attualità dell'Apocalisse, Ed. Augustinus, Palermo 1992, pp. 85-116 ( = definizione di omogeneità con Dio). Rileviamo però che la definizione "Colui che è e che era e che viene" (1,4.8; 4,8) è esclusivamente teo-logica in senso stretto, anche se a volte è detto di Cristo che "viene" (1,7; 2,16; 3,11; 16,15; 22,7.12) e la sua venuta è invocata dalla Sposa (cf. 22,17.20). Cf. J.F. Toribio Cuadrado, El Viniente. Estudio exegético y teològico del verbo epxecrOai en la literatura joanica, "Monografias de 'Mayeùtica'" 1, Zaragoza 1993, pp. 57-238. 55 A favore si computano, oltre già a Ireneo (cf. Adv. haer. 4,20,11: "La tunica lunga fino ai piedi significa il potere sacerdotale: appunto per questo Mosè vestì
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di Gesù in Ap si possa considerare implicito (cf. sotto: 3.2.1), "tuttavia la sua funzione e i suoi attributi sacerdotali sono fortemente attutiti e incomparabilmente meno evidenti dei suoi attributi regali. Ciò si comprende dal fatto che Gesù, essendo posto al fianco di Dio, è considerato come oggetto di culto più che come mediatore... D'altra parte (come Agnello sgozzato) egli è soprattutto considerato come la vittima del sacrificio. Perciò restava poco spazio per spiegarsi sul suo sacerdozio"56. 2.3 Le due componenti del mistero pasquale Anche gli eventi pasquali, che sono storicamente il punto di partenza della fede cristologica della chiesa, sono riferiti in Ap; o, meglio, ad essi viene fatto riferimento come al contenuto determinante dell'intera visione della storia, oltre che della vita cristiana. Ma non è affatto tradizionale la loro formulazione, che perciò esaminiamo a parte. 2.3 A La morte come sgozzamento. Sul lessico della morte di Gesù vanno fatte le seguenti osservazioni. Sono tradizionali, ma rarissimi, soltanto i termini "crocifiggere" (solo in 11,8; nel NT: 45 volte), "morto", in contesto di risurrezione (tre volte: 1,5.18; 2,8), e "sangue" (quattro volte: 1,5; 5,9; 7,14; 12,11 [anche 19,13?]). Sono poi del tutto assenti altri termini cristologici già propri della tradizione: "croce" (NT: 27 volte), "morte" (NT: 19 volte), "morire" (NT: 6 volte), "uccidere" (NT: 15 volte)57, "soffrire" (NT: 21 volte), "sofferenze" (NT: 7 volte). Del tutto nuovo, invece, e assolutamente originale è l'impiego del verbo "sgozzare", a9<xCeiv (5,6.9.12; 13,8), omogeneo alla metafora dell'agnello (cf. sotto). il Sommo Sacerdote secondo quel modello", con rimando a Es 28,4; Lv 8,7), soprattutto Wikenhauser, Cerfaux-Cambier, Vanni, Mùller; addirittura Mounce, pp. 57s, ipotizza che qui culmini la presentazione di Gesù nei suoi tria munera: in 1,1 egli era presentato come profeta, in 1,5 come re, e in 1,13 come sacerdote. Contrari invece sono Charles, Prigent, Giesen, secondo i quali si tratta solo della descrizione di un personaggio importante (come in Dn 10,5; Ez 9,2), privo di funzioni sacerdotali; su questa linea vedi in particolare P.R. Carrell, Jesus and the angels. Angelology and the christology of the Apocalypse of John, SNTS MS 95, University Press, Cambridge 1997, pp. 129-174, il quale sostiene trattarsi di una cristofania sotto forma di angelofania (con rimando anche a Ap. Abr. 11,2; Ap. Sof. 6,11-12; Gius, e As. 14,8-9; 22,7; lEn. 102,2-5). 56 J. Comblin, La christologie, pp. 188s. 57 C'è però il verbo "trafiggere" in 1,7 (derivato da Zc 12,10 secondo l'ebraico), impiegato anche in Gv 19,37.
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2.3.2 La risurrezione come vittoria. Sul lessico della risurrezione va osservato quanto segue. Sono tradizionali le espressioni "primogenito dai morti" (1,5; cf. Col 1,18; Rm 8,29; Eb 1,6) e "vivente" (l,18bis; cf. Paoristo in 2,8; altrove l'associazione della vita con il Risorto nel NT: 10 volte). Non sono mai usati i verbi tradizionali dcvt'<mr)(Ai58 ed èyetpw; sono anche assenti altri verbi sia paolini ("sovraesaltare", urcepucjjóco) sia soprattutto giovannei ("innalzare, glorificare", òcJ>óoo e 8o£àCw); così, non essendo mai citato il Salmo 110, non si trova neanche la frase tradizionale "sedere alla destra" (presente nei Sinottici, in Paolo, in At, in Eb); è però vicina a Eb l'idea dell'associazione al "trono" di Dio (vedi sotto; il termine ricorre 45 volte su 60 nel NT; cf. Eb 8,1; 12,2). Completamente nuove e tipiche di Ap sono invece altre due espressioni: "stare ritto in piedi", detto dell'Agnello sgozzato (cf. il participio perfetto in 5,6: i<svr\xóq; 14,1: éaró
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3. La cristologia dell'Agnello La più importante qualifica cristologica in Ap è certamente la metafora de "l'agnello", TÒ àpvtov62. Il suo valore centrale e determinante per la comprensione della cristologia del libro è suggerito da una serie di osservazioni: la metafora è di fatto esclusiva del libro stesso63; essa è sconosciuta al giudaismo come titolo messianico (cf. sotto); il vocabolo risulta sempre in forma assoluta (senza alcuna specificazione come quella che si legge in Gv 1,29.36) e quindi si tratta di una figura fortemente evidenziata; per la sua frequenza, essa innerva materialmente pressoché l'intero scritto (con l'esclusione dei soli capitoli iniziali contenenti le lettere pastorali alle sette chiese); infine, la metafora risulta applicata ai tre stadi dell'esistenza e della funzione salvatrice di Gesù: egli è l'Agnello sgozzato nel passato, è l'Agnello che oggi siede sul trono di Dio, ed è l'Agnello delle nozze escatologiche64. È necessario dunque che studiamo da vicino questo originale tipo di linguaggio.
3.1 Origine e significato della metafora Nonostante i vari e generosi tentativi fatti in questo senso, bisogna fin d'ora riconoscere che "non si è ancora riusciti a indicare i contesti storico-religiosi che possano adeguatamente spiegare questo titolo"65. Passiamo comunque in rassegna i cinque possibili ambiti di derivazione, partendo da quelli più periferici. 62 Essa ricorre ben 28 volte: 5,6.8.12.13; 6,1.16; 7,9.10.14.17; 12,11; 13,8; 14,1.4bis.l0; 15,3; 17,14bis; 19,7.9; 21,9.14.22.23.27; 22,1.3. A questi passi si può aggiungere 13,11, dove il termine, pur essendo solo un paragone per descrivere "la bestia che sale dalla terra" (di cui si dice che "aveva due corna simili a quelle di un agnello ma parlava come un drago"), serve per designare una delle concretizzazioni dell'Anticristo, il quale perciò qui è anche un 'anti-agnello'. 63 Ciò vale certamente per quanto riguarda il termine greco (propriamente diminutivo di àpr|v, "agnello", ma con significato uguale), che non si trova mai altrove detto di Gesù. Infatti, nel celebre passo di Gv 1,29.36 ("Ecco l'agnello di Dio...") è impiegato il diverso vocabolo à^vó? (così anche in At 8,32 [= Is 53,7] e lPt 1,19) e, nonostante l'elemento comune di una portata redentrice, vi mancano due altri elementi importanti per Ap, cioè l'idea di trionfo sulle forze avverse e quella della regalità sulla storia degli uomini. Da ultimo notiamo che in Gv 21,15 c'è il plurale àpvia, "agnelli", ma è metafora dei cristiani che Pietro è incaricato di pascere. 64 Sulla densità tematica della metafora in quanto unisce in sé cristologia e soteriologia, cf. R. Infante, L'Agnello nell'Apocalisse, Vetera Christianorum 32 (1995) 321-338. 65 E. Lohse, Wie christlich ist die Offenbarung des Johannes?, p. 329.
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L'APOCALISSE DI GIOVANNI
3.1.1 II sacrificio del Tamid ( = "per sempre, perpetuo") compiuto quotidianamente nel Tempio di Gerusalemme: qui ogni giorno, mattino e sera, si offriva due volte in olocausto al Signore un agnello, secondo il rituale prescritto in Es 29,38-42 e Nm 28,3-8. Ma vi si oppongono varie obiezioni: l'animale nel greco dei LXX è detto dcjxvós (TM: kebes); il rito è quello dell'olocausto, dove quindi il fattore-fuoco prevale su quello del sangue; si tratta di una ripetizione continua; e infine al tempo di Ap il Tempio non esisteva più. 3.1.2 In Ger 11,19 si legge: "Io ero come un agnello (TM: kebes; LXX: àpviov) innocente, che viene condotto al macello (0ueaGoci: ad essere immolato)". Ma, nonostante la presenza dello stesso sostantivo greco, qui si tratta di un semplice paragone autobiografico; in più esso non è addotto per sviluppare alcun impatto salvifico delle prove sofferte dal profeta; inoltre il verbo impiegato nei LXX per indicare l'immolazione non è mai presente in Ap. 3.1.3 L'agnello pasquale potrebbe avere dalla sua alcune possibilità66. Infatti nella descrizione del rito in Es 12,6 ("L'assemblea della comunità d'Israele lo immolerà [acpàCooaiv] al tramonto") è presente lo stesso verbo impiegato in Ap; esso inoltre è simbolo della redenzione dalla schiavitù dell'Egitto e in più è garanzia di protezione dall'Angelo sterminatore a motivo del "sangue" cosparso sugli stipiti delle case. Ma i LXX non hanno il termine "agnello" bensì Tcpóporrov, lett. "capo di bestiame" e in specie "pecora", con il quale rendono l'ebraico seh, che di per sé significa genericamente "ovino" 6 7 ; inoltre, l'agnello pasquale, avendo solo una funzione apotropaica, non ha alcun valore espiatorio dei peccati, a differenza dell'agnello di Ap; si aggiunga che l'agnello di Ap non è affatto mangiato, come invece è essenziale che avvenga per quello pasquale. 3.1.4 La figura del Servo di Yhwh68. In Is 53,7 leggiamo: "Era come agnello (TM: kasseh; LXX: à><; 7rpó(3ocTov) condotto al macello (TM: lattebah; LXX: ini <j
66 Cf. soprattutto T. Holtz, Die Cristologie, pp. 43-46; H. Giesen, pp. 165-166. Anche U. Vanni, L'Apocalisse, p. 178, vede qui "il punto di contatto più aderente", ma lo unisce alla possibilità successiva (Is 53), in cui vede "il punto di partenza ispiratore". 67 Infatti il midrash Mek. Ex. su Es 12,3 spiega chiaramente: "Nel vocabolo seh sono inclusi sia capretti sia agnelli (tlh wgdy), poiché è detto: '(Potrete mangiare...) il seh delle pecore e il seh delle capre' (Dt 14,4)". 68 Cf. soprattutto J. Comblin, La cristologie, pp. 17-47, e Wikenhauser, p. 84.
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senza del termine
69 Tra i commentatori, cf. soprattutto P. Prigent, pp. 193-195; e anche Mounce, pp. 132-133. 70 Esso suona così: " E vidi che da Giuda nacque una vergine vestita di bisso e da essa nacque un agnello senza macchia...; tutte le bestie lo assalivano, ma l'agnello le vinse e le distrusse calpestandole". Secondo J. Jeremias, Das Lamm, das aus der Jungfrau hervorging (Test. Jos. 19,8), ZNW 57 (1966) 216-219, si tratta di un'interpolazione cristiana. Ma il fatto è evidente soprattutto in Test. Jos. 19,11 (versione greca): "Onorate Levi e Giuda, perché da loro sorgerà per voi l'agnello di Dio che toglie il peccato del mondo, salvando tutti i popoli e Israele" (trad. P. Sacchi; la versione armena ha soltanto: " . . . sorgerà la salvezza d'Israele"). Probabilmente la stessa cosa va detta di Test.Ben. 3,8 (versione greca): "Si realizzerà la profezia celeste riguardante l'agnello di Dio e il salvatore del mondo" (anche la versione armena, pur non menzionando l'agnello, è probabilmente interpolata: "Si realizzerà la profezia celeste che dice: Colui che è senza macchia si contaminerà per i trasgressori della Legge e colui che è senza peccato morirà per gli empi").
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nascere nell'assemblea d'Israele e per suo mezzo tutta la terra d'Egitto è destinata a essere devastata'" (segue l'ordine di uccidere i figli maschi degli ebrei). È testimoniata qui una antica tradizione probabilmente di origine pre-cristiana71. Il termine aramaico impiegato ha il doppio significato di "giovane ragazzo, servitore" e appunto di "agnello" 72 ; nel testo esso designa evidentemente Mosè e si riferisce al fatto che egli fu vittorioso sugli Egiziani. Anche in Ap 15,3 abbiamo un accostamento dei due termini nella stessa frase, dove si dice che i vincitori della Bestia "cantano il canto di Mosè, servo di Dio, e il canto dell'Agnello" (cf. anche 17,14: " E l'Agnello li vincerà", cioè i dieci re avversari). È come dire che il trionfo ottenuto da Mosè è ripetuto dall'Agnello, la cui vittoria pertanto è implicitamente paragonata a quella dell'esodo. L'utilizzo dell'immagine in Ap è anche omogenea con quella più rara di "leone" (cf. sopra), che ancor più evidenzia l'idea di forza invincibile73. Essa si trova anche altrove collegata con la metafora dell'agnello74. L'obiezione maggiore a questa matrice culturale della metafora è che in Ap l'Agnello è sgozzato e versa il suo sangue, mentre nei testi giudaici citati non c'è nulla del genere; quindi il confronto regge solo per l'idea di vittoria ma non per quella di una anteriore (apparente) sconfitta. 71 Per il testo e la sua antichità, cf. M. McNamara, The New Testament and the Palestinian Targum to the Pentateuch, AnB 27, PIB, Rome 1966, pp. 93-96. Vedi anche K. Koch, Das Lamm, das Àgypten vernichtet, ZNW 57 (1966) 79-93 (escludendo però la sua tesi, secondo cui "agnello" sarebbe stato un titolo messianico). 72 Cf. M. Jastrow, A Dictionary of the Targumim..., The Judaica Press, New York 1985 ( = Philadelphia 1903), s.v., e J. Jeremias, in GLNT, I, coli. 919-920. 73 Cf. M. Hasitschka, 'Uberwunden hat der Lòwe aus dem Stamm Juda' (Offb 5,5). Funktion und Herkunft des Bildes vom Lamm in der Offenbarung des Johannes, ZKT 116 (1994) 487-493. 74 È il caso di lEn. 89,45; 90,6.9.37: " E il Signore delle pecore [ = Israele] mandò la pecora [ = Samuele] da un'altra pecora [ = Davide] e la suscitò perché divenisse caprone [ = re] e guidasse le pecore invece di quella pecora [ = Saul]... E i piccoli agnellini [ = il movimento maccabaico] furono generati da quelle pecore... fin quando spuntarono le corna di quelle pecore, e si aprirono i loro occhi [segue il giudizio di Dio contro i nemici d'Israele]... E vidi che era nato un bue bianco [ = il Messia], dalle grandi corna, e tutti gli animali della selva e tutti gli uccelli del cielo lo temevano e lo pregavano per tutto il tempo" (trad. L. Fusella). In comune con Ap ci sono le corna (cf. Ap 5,6b) e anche la funzione pastorale (cf. Ap 7,17). Le varianti del caprone e del bue, pur diverse dall'agnello, si collocano comunque in una simbologia messianica teriomorfa; in ogni caso, gli "agnellini" simbolo del movimento maccabaico richiamano l'idea della vittoria che appunto i Maccabei riportarono sui Seleucidi nel secolo II a.C.
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In conclusione, è difficile esprimersi per una sola delle possibilità elencate. Le più probabili sono le nn. 3-4-5, che evocano rispettivamente i concetti di sgozzamento (collegato con una liberazione), di espiazione (basata sulla sofferenza), e di memorabile vittoria sui nemici. È possibile che su Giovanni abbia influito più di una matrice, come dà a vedere il fatto stesso che la metafora non si presta a un'interpretazione univoca. La n. 5 è contestualmente la più sottolineata in Ap (cf. sotto): lo si vede anche dal fatto che, non essendo mai l'Agnello descritto con le qualifiche di "senza macchia" o "perfetto" 75 , egli non è prevalentemente considerato nella sua funzione vittimale. Ad essa possono essersi aggiunte la n. 3 per il tema dello sgozzamento (pasquale) e la n. 4 per la valenza soteriologica dell'uccisione.
3.2 Le funzioni
dell'Agnello
L'identificazione esplicita dell'Agnello con Gesù Cristo non avviene mai. La si deduce indirettamente da allusioni, come quella del sangue (cf. l,5b; 7,14), della radice di Davide che apre il libro (cf. 5,5-9), e dei suoi 12 apostoli (cf. 21,14). L'indeterminatezza contribuisce molto a ritagliare l'Agnello come figura a sé stante, dal forte spessore simbolico. In tutto il libro questa figura è soggetto di alcune funzioni fondamentali, che solo parzialmente si rifanno a quelle della cristologia tradizionale, mentre per lo più esprimono nuovi sviluppi dovuti allo stesso Giovanni. Ne individuiamo sei. 3.2.1 Lo sgozzamento e i suoi effetti', la morte di Gesù e la funzione soteriologica del suo sangue76. Il libro comincia di fatto con una dossologia cristologica che celebra l'opera salvifica di CristoAgnello: " A colui che ci ama e ci ha riscattati dai nostri peccati col suo sangue e ha fatto di noi un regno, dei sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la forza nei secoli" (l,5b). Vi si riconosce anzitutto che alla radice del riscatto c'è un atto di amore, 75 In Ap l'Agnello non è mai qualificato con nessuno dei due aggettivi àfiwixo? e TÉXEIO? (TM: tam), che nel Pentateuco esprimevano una richiesta fondamentale delle vittime da offrire in sacrificio, compresi gli agnelli (cf. Es 12,5; 29,38; Lv 12,6; 14,10; Nm 6,14; 28,3.9 ecc.), come si vede anche in lPt 1,19. 76 Si noti che il sangue dell'"Agnello" in 5,9; 7,14; 12,11 è lo stesso di quello attribuito a "Gesù Cristo" in 1,5.
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segnato dal sangue, che contraddistingue Gesù come un perenne "amante" (cf. il participio presente: TO> àyanàvti r\\iSi<;, "a colui che ci ama"), ma che in concreto si è puntualmente dispiegato nel passato (cf. l'aoristo Xuaavxt; e 3,9: "ti ho amato"). Questo amore dunque ha due momenti: quello del suo esercizio costoso e quello della sua fecondità per i beneficiari. 3.2.1.1 La morte di Gesù in quanto tale non è molto evidenziata. A parte l'unica occorrenza, per di più quasi marginale, del verbo "crocifiggere" (cf. 11,8), essa è segnalata soprattutto da un'altra, triplice forma di linguaggio. (1) Innanzitutto abbiamo il verbo "sgozzare" (5,6.9.12; 13,8), che allude alla morte violenta patita da Gesù. È proprio questa dimensione vittimale di violenza, più che non quella specificamente sacrificale, ad essere sottolineata nei passi in cui esso ricorre; infatti, di volta in volta lo sgozzamento è collegato con idee di forza come lo stare in piedi connotato da simboli di potere (5,9), l'apertura dei sigilli del libro e l'acquisizione di un popolo (5,9), l'ottenimento di potenza-gloria-onore (5,12). Lo stesso avviene in 13,8, dove si legge letteralmente così: "L'adoreranno ( = la Bestia) tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto nel libro della vita dell'Agnello sgozzato fin dalla fondazione del mondo". Qui, a parte la bella immagine del libro della vita77, si pone un problema d'interpretazione che consiste nel sapere se il complemento conclusivo ("fin dalla fondazione del mondo") vada collegato con la frase "non è stato scritto" oppure con 1'"Agnello sgozzato". Questa seconda possibilità sembrerebbe migliore per via dell'accostamento sintattico78. Ma in questo modo, a parte il fatto che sarebbe stemperata la storicità di Gesù, si andrebbe contro l'evidente parallelo in 17,8 ("E gli abitanti della ter-
77 Essa si ritrova in 3,5; 17,8; 20,12.15; 21,27 e ha dei chiari precedenti sia biblici (cf. Es 32,32s; Sai 69,29; Dn 7,10; 12,1; MI 3,16; cf. anche Sai 56,9; 139,16; e anche Fil 4,3 oltre a Le 10,20; Eb 12,23) sia extrabiblici (cf. Giub. 30,22: "Se avranno deviato... saranno iscritti come nemici nelle tavole del cielo e saranno cancellati dal libro dei vivi"; lEn. 47,3: "Vidi il Capo dei Giorni assiso sul trono della sua gloria e innanzi a lui erano aperti i libri dei viventi"; 104,1). Secondo l'espressione di K. Barth, " è un libro che non ha due colonne, ma una sola" (KD 11/2,15, citato in C. Brùtsch, La clarté, p. 80), cioè contiene solo il nome degli eletti. 78 Così infatti (dopo già Tommaso d'Aquino in Sum.Th. Ili, p. 83, a.l: "Christus dici immolari etiam in figuris Veteris Testamenti", cioè da Abele in poi) ritengono Lutero, Charles, Prigent, Mounce, Corsini; quest'ultimo scrive che si tratta di un "effetto per così dire anticipato del sacrificio di Cristo... che si compie anche attraverso la morte degli innocenti e dei giusti vittime della violenza" (pp. 350-353). In questo caso, il passo riguarderebbe la soteriologia del sacrificio di Cristo nei suoi effetti sovratemporali.
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ra, il cui nome non è scritto nel libro della vita fin dalla fondazione del mondo, stupiranno...")79. È perciò preferibile la prima possibilità. Comunque, in 13,8 come anche in 21,7 il libro della vita è detto "dell'Agnello": la precisazione è fondamentale per dire che il rapporto con Cristo è risolutivo, poiché il disegno del Creatore tende già fin dall'inizio verso l'evento pasquale della sua morte, attorno a cui si organizza tutta la storia della salvezza80. (2) In secondo luogo, incontriamo l'originale immagine delle sofferenze del parto in 12,2.5: "(Una donna vestita di sole) era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto... Essa partorì un figlio maschio". Anche se alcuni commentatori riferiscono questi dolori all'imminenza dell'evento escatologico cioè all'ultima venuta di Cristo81, sembra meglio leggervi un riferimento ai dolori della Passione di Gesù, il quale, Messia proveniente dalla donna-Israele, realizza l'evento escatologico già nascendo il mattino di Pasqua82. L'idea della morte di Gesù come un parto infatti è giovannea, essendo presente anche in Gv 16,21-22. In più, anche a Qumràn si può leggere di una nascita già attuale della comunità stessa, avvenuta nei dolori del parto83. (3) Soprattutto abbiamo poi l'uso del sostantivo "sangue" (1,5; 5,9; 7,14; 12,11). A parte l'ultima di queste ricorrenze, dove è connesso con un'idea di vittoria esterna (contro il Drago), nelle altre esso è sempre collegato con un evento di riscatto e quindi con l'idea di un evento che riguarda positivamente l'identità interiore dei beneficiari. 79 Così in genere le traduzioni (CEI, BJ TOB, TILC) e i commentatori Wikenhauser, Lohse, Mùller, Giesen; da parte sua, T. Holtz, Die Christologie, p. 151, accenna al rischio gnosticheggiante di una avversione verso la storia. In questo caso, il passo riguarda la teologia della predestinazione (come in Mt 25,34; Ef 1,4). 80 Cf. P. Prigent, p. 411. 81 Cf. Mùller e soprattutto Giesen; su questa linea anche U. Vanni, L'Apocalisse, pp. 240-241. In questa prospettiva la donna è l'attuale comunità cristiana perseguitata, che attende la nascita del Messia come evento che deve ancora verificarsi. Per un'interpretazione che non esclude la prospettiva mariologica, cf. P. Farkas, La "donna" di Apocalisse 12. Storia, bilancio, nuove prospettive, "Tesi Gregoriana, serie teol." 25, PUG, Roma 1997. 82 Cf. il commento di P. Prigent e lo studio di A. Feuillet, Le Messie et sa Mère d'après le chap. XII de l'Apocalypse, in Id., Études johanniques, Desclée, Paris 1962, pp. 272-310. 83 In 1QH 3,7-12 si mettono in contrasto due donne incinte: una che dà alla luce "un consigliere miracoloso con la sua forza" e un'altra che "è incinta del serpente"; all'interpretazione escatologizzante, che riferisce i due nati al Messia venturo e all'Anticristo, è forse preferibile l'interpretazione storicizzante, che identifica i nati rispettivamente nella comunità stessa di Qumràn e in una setta rivale (cf. C. Martone in F.G. Martinez - C. Martone, Testi di Qumràn, Paideia, Brescia 19%, p. 530 note 2 e 4).
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3.2.1.2 La fecondità della morte di Gesù è giocata su due registri, individuale e comunitario. 3.2.1.2.1. Per quanto riguarda il suo impatto sull'individuo, esso è prevalente in alcuni testi, in cui viene variamente descritto come uno "scioglimento-liberazione dai peccati" (l,5b: Xuw)84, come un imbianchimento delle vesti (7,14: Xeuxatvco), e come un "riscatto-acquisto" (5,9: àyopàCw; cf. 14,3.4)85. Particolarmente originale è l'idea dell'imbianchimento: "Questi sono coloro che vengono dalla grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti e le hanno rese bianche nel sangue dell'Agnello" (7,14). Di grande efficacia è il contrasto fra il sangue (rosso) e il colore bianco che esso produce, a indicare il forte potere purificante che gli è proprio. L'immagine, oltre che richiamare Gn 49,11 ("Giuda... lava nel vino la veste e nel sangue dell'uva il manto": ma qui si vuol soltanto esprimere un'idea di abbondanza col dire che il vino sarà più abbondante dell'acqua) ed Es 19,14 ("Mosè... fece purificare il popolo ed essi lavarono le loro vesti", cioè per essere pronti all'incontro con Dio al Sinai), riprende soprattutto Is 1,18 ("Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve; se fossero rossi come porpora, diventerannno come lana"). Il colore bianco nella tradizione biblica esprime sia un'idea di vittoria sia la caratteristica della gloria divina, a cui perciò il redento partecipa86. La frase implica probabilmente un riferimento al battesimo, tanto più che spesso nel NT esso è spiegato come un lavaggio (cf. At 22,16; ICor 6,11; Ef 5,26; Tt 3,5; Eb 10,22; cf. Gv 13,10; lPt 3,20-21), mentre altre volte si attribuisce al sangue di Cristo un potere di purificazione (cf. Eb 9,14; lGv 1,7: "Il sangue di Gesù figlio suo ci purifica da ogni peccato")87. Problematico in-
84 II greco Xuaavn, " a colui che ci ha sciolti-riscattati", è testualmente preferibile alla variante Xoóoocvxt, " a colui che ci ha lavati"; in ogni caso, non si può negare che la formula abbia un "Sitz im Leben" di carattere battesimale (cf. E. Schùssler Fiorenza, Redemption as Liberation: Ape 7:5/. and 5,9f., CBQ 36 [1974] 220-232). 85 II riscatto è detto avvenire "dalla terra" (14,3; cf. 14,4: "dagli uomini"), nel senso che i cristiani hanno ormai un altro orizzonte di vita. 86 Cf. W. Michaelis, Xeuxó?, in GLNT, VI, coli. 657-682 (cf. in questo senso anche i "capelli candidi" del Vegliardo in Dn 7,9, attribuiti al Figlio dell'uomo in Ap 1,14). 87 Forse è in questa prospettiva che va considerato anche il numero dei 144.000, che hanno segnato in fronte il nome dell'Agnello e quello del Padre suo (cf. 14,1); essi sono detti "primizia per Dio e per l'Agnello" (14,4), o come porzione consacrata a Dio (cf. Ez 45,1; 48,9) o come gruppo che preannuncia una totalità (cf. Ap 7,9: "una moltitudine che nessuno poteva contare").
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vece è ciò che leggiamo a proposito dei 144.000 contrassegnati: "Questi sono coloro che non si sono contaminati (oux èfxoXuvOrjaav) con donne, poiché sono vergini e seguono l'Agnello dovunque vada" (14,4). Di questa frase, se non la si vuole considerare forzatamente come un'interpolazione88, si danno comunemente due interpretazioni, letterale o simbolica. Alla lettera essa sarebbe indice di un radicale encratismo, per di più antifemminista89; ma allora i 144.000 dovrebbero essere tutti di sesso maschile, il che è inverosimile. In senso simbolico, essa viene riferita ai fedeli di Cristo in generale in quanto non si sono macchiati con l'idolatria (del culto a Cesare), visto che il verbo impiegato sembra già essere stato usato proprio in questo senso in 3,4 ("A Sardi vi sono alcuni che non hanno macchiato [oùx è^xóXuvav] le loro vesti: essi mi scorteranno in vesti bianche perché ne sono degni; il vincitore sarà dunque vestito di bianche vesti..."); a monte allora viene visto il concetto profetico dell'idolatria d'Israele come prostituzione ad altri dèi (cf. Os 2; Ger 3,6-13; Ez 16; 23)90. Ma che le donne siano intese come simbolo degli idoli è del tutto inusitato, per non dire che il verbo in 3,4 si riferisce meglio al comportamento morale dell'uomo nel suo insieme91 (cf. Zc 3,3-6, dove a Giosuè che indossa vesti immonde l'angelo del Signore dice: "'Ecco, io ti tolgo di dosso il peccato; fatti rivestire di abiti da festa', e... lo rivestirono di candide vesti"; vedi anche Mt 22,11-14). Bisogna perciò calcolare il fatto che il Veggente voglia qui semplicemente presentare il suo proprio ideale ascetico di continenza, che doveva costituire la sua personale forma di vita e forse anche quella di un circolo a cui egli apparteneva92. Essi fanno parte del corteo dell'Agnello, ma sono gli esponenti di tutti coloro che "hanno lavato le loro vesti nel sangue dell'Agnello" (17,14) e che egli "condurrà alle fonti della vita" (7,17). 88
Così Charles, II, p. 8. Su questa linea erano alcuni Padri della Chiesa come Gerolamo; cf. G. Sfameni Gasparro, Enkrateia e antropologia, Augustinianum, Roma 1984, pp. 295-296. 90 Così in genere i commentatori: Wikenhauser, Lohse, Prigent, Giesen. Altri invece (cf. Caird, Ford) pensano che giochi qui la categoria della purità sessuale richiesta in vista della guerra santa (cf. Dt20; 23,9-10; cf. lSam21,5; 2Sam 11,11; 1QM 7,3s) condotta dall'Agnello; ma, anche se in Ap si parla di una vittoria al plurale (cf. 12,11: "essi lo vinsero"), il combattimento al plurale invece, se non riguarda Michele con i suoi angeli (cf. 12,7) o gli accoliti della Bestia (cf. 17,14), è sempre al singolare e il soggetto è solo Cristo (cf. 2,16; 19,11; anche in 12,11 si specifica: "mediante il sangue dell'Agnello"). 91 Cf. Mùller, p. 126; contro W. Hauck, fxoXuvw, in GLNT, VII, coli. 463-465. 92 Così il commento di Mùller e lo studio di G. Kretschmar, Ein Beitrag zur Froge nach dem Ursprung frùhchristlicher Askese, ZTK 61 (1964) 27-67. 89
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3.2.1.2.2 A proposito dell'efficacia più propriamente comunitaria della morte di Gesù abbiamo la chiara affermazione di 1,6: " E fece di noi 93 un regno, sacerdoti per il Dio e Padre suo", a cui è parallela quella di 5,9-10: "Fosti sgozzato e riscattasti per Dio col tuo sangue (uomini) di ogni tribù e lingua e popolo e nazione e facesti di essi per il nostro Dio un regno e dei sacerdoti" 94 . Alla base c'è un evidente riferimento biblico al testo di Es 19,6: "Voi sarete per me un regno di sacerdoti", che viene reso diversamente dai LXX ("Voi sarete per me un sacerdozio regale"), dal targum TgN ("Voi sarete per il mio nome re e sacerdoti") e da lPt 2,5.9 ("per un sacerdozio santo... regale sacerdozio"). La traduzione che abbiamo dato in 1,6 "un regno, sacerdoti" rende fedelmente l'accostamento dei due nomi, che non sono coordinati con un complemento ("un regno di sacerdoti") ma solo in forma appositiva ((3ocaiXeiav tepei? [invece di tepéwv]); l'autore in questo modo dà una versione servile dell'ebraico mamleket kohanim, che grammaticalmente forma un sintagma unico ("regno di sacerdoti") ma che lessicalmente appare come semplice giustapposizione di due nomi (come si vede ancor più chiaramente nel testo di 5,10 e nel Tg). Nei due passi l'azione di Cristo-Agnello è descritta con tre verbi che si richiamano in entrambi i casi secondo questa struttura: l,5b-6 " A colui che ci ama e ci ha liberati... e fece di noi un regno, sacerdoti per il Dio e Padre suo".
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5,9b-10 "Fosti sgozzato e hai riscattato... e facesti di essi per il nostro Dio un regno e dei sacerdoti".
Su questo pronome personale c'è una questione di carattere testuale che ha degli importanti risvolti teologici: la nostra versione "facesti di noi (^(xa?)" afferma che tutti i cristiani individualmente sono essi stessi dei sacerdoti; invece la diversa lezione "facesti per noi (f|(xtv)" supporrebbe che tra i cristiani ci sono solo alcuni sacerdoti che esercitano il loro ufficio per tutti gli altri. Se questa seconda lezione ha a suo favore una discreta tradizione manoscritta (il codice maiuscolo A, del secolo V, e un certo numero di minuscoli), la prima è certamente da preferire per la maggiore attestazione (il codice maiuscolo S, del secolo IV, e la stragrande maggioranza dei minuscoli) e per un'altra variante Ì\[LCÌV che va nello stesso senso (col codice maiuscolo C, del secolo V, e pochi minuscoli). 94 Un terzo passo in 20,6 ("Saranno sacerdoti di Dio e di Cristo, e regneranno con lui mille anni") non è connesso col sangue dell'Agnello ma con la gloria millenaristica.
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Un ottimo commento a questi due passi è stato fatto da Vanhoye95, che ne trae una serie di considerazioni. (1) Innanzitutto vi si scopre una triplice contrapposizione con Es 19,6: figli d'Israele - cristiani; "sarete" - "fece"; verbo di stato - verbo di azione che ha per soggetto Gesù Cristo. (2) C'è poi un legame stretto fra liberazione dal peccato e consacrazione sacerdotale: l'azione di Cristo ha un effetto negativo di distruzione e un effetto positivo di trasformazione. (3) L'azione di Cristo è stata fatta "per Dio" che è anche "Padre suo": soltanto il Figlio poteva innalzare gli uomini al livello del suo puro rapporto col Padre. (4) Ap non usa il collettivo hieràteuma (come nei LXX e in lPt) ma il plurale concreto e personale hierets: la dignità sacerdotale è propria di ogni singolo cristiano, cosicché la prospettiva non è tanto quella di un sacerdozio collettivo quanto piuttosto di una pluralità di sacerdoti (cf. quattro volte il pronome " n o i " in l,5b-6). Con il suo sangue, dunque, Cristo-Agnello ha posto in essere una nuova comunità. Per i suoi membri egli ha ottenuto la possibilità di un accesso senza ostacoli a Dio suo padre, come solo dei sacerdoti possono fare96. Il concetto di regalità, da parte sua, esprime la relazione dei cristiani con il mondo, a cui non sono più sottomessi; ma essa è possibile solo in base al loro rapporto sacerdotale con Dio, che si esercita anche nelle prove della sofferenza e della persecuzione. 3.2.2 L'associazione al trono di Dio. È al suo sgozzamento e quindi al suo sangue che Gesù deve la sua intronizzazione. Questa esprime fondamentalmente una dignità acquisita, ma forse non è esclusa una dimensione di tipo ontologico. 3.2.2.1 Già nella lettera alla chiesa di Laodicea è scritto che egli si è seduto sul trono del Padre suo come conseguenza di una sua vittoria (cf. 3,21). L'affermazione qui è formulata come risvolto di una promessa al cristiano vincitore nelle prove, al quale appunto viene prospettata la possibilità di condividere il trono di Cri§to
95 Cf. A. Vanhoye, Sacerdoti antichi e sacerdote nuovo secondo il Nuovo Testamento, LDC, Torino-Leumann 1985, pp. 219-224 e 224-230. Sull'insieme del tema vedi anche l'importante monografia di E. Schùssler Fiorenza, Priesterfùr Gott. Studien zum Herrschafts- undPriestermotiv in der Apokalypse, NA N.F. 7, Aschendorff, Munster 1972. 96 II tema concernente l'ottenimento dell'accesso e della familiarità con Dio è tipico già di Paolo e della tradizione paolina; cf. R. Penna, "Voi non siete più stranieri né ospiti": E/2,19; cf. Col 1,21, Parola Spirito e Vita 28 (1993,2) 183-198.
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così come egli ha vinto e condivide il trono di Dio; la prospettiva dunque è parenetica prima che cristologica. Del resto, il tema dell'associazione dei discepoli al trono celeste è già presente nei Sinottici (cf. Mt 19,28/Lc 22,30). Anche quello dell'associazione di Cristo al trono di Dio è tradizionale (sulla base di Sai 110,1; cf. sopra: 3.3.2). Ma in 3,21 abbiamo soltanto un'anticipazione della sezione delle visioni, dove il tema viene sviluppato più ampiamente e con un linguaggio del tutto originale. In 5,6 infatti il Veggente vede **/« mezzo al trono (èv (xéaco TOG Gpóvou)... un Agnello ritto in piedi come sgozzato". I paradossi qui si accumulano. Non solo l'Agnello sta sulle sue zampe pur essendo sgozzato, ma egli pur essendo sul trono vi sta in piedi, non seduto. Infatti, "colui che siede" sul trono (13 volte: 4,2.3.9.10; 5,1.7 ecc.) è sempre Dio, mai l'Agnello; anzi, in 5,13 si distingue chiaramente tra l'uno e l'altro. L'attenzione dunque è rivolta all'importanza del trono stesso come sede di un potere e manifestazione di una gloria apparentemente inaccessibili perché riservate a Dio soltanto97. Ciò è molto ben sottolineato già nell'intero cap. 4, con cui inizia tutta la serie delle visioni98. Qui una vera moltiplicazione di immagini descrive fantasmagoricamente il Sedente (in 4,2-3) e il trono (in 4,5a), la sua collocazione al di là di un mare cristallino (in 4,6a)99, la composizione della corte che lo attornia (in 4,4.5b.6b-7: 24 vegliardi100, 7 lampade accese101, 4 esseri
97 Sull'idea di trono nell'antichità, cf. O. Schmitz, Opóvo?, in GLNT, IV, coli. 573-590; M. Philonenko, ed., Le Tròne deDieu, WUNT 69, Mohr, Tùbingen 1993. 98 A monte vi stanno le pagine di Is 6,1-3; Ez 1,4-25; 10,1; Dn 7,9-10; lEn. 71,7 (angeli che "non dormono e custodiscono il trono della sua gloria"); cf. anche Es 19,16. Vedi in proposito S. Tengstròm, Les visionsprophétiques du tròne de Dieu et leur arrière-plan dans l'Ancien Testament, in M. Philonenko, ed., Le Tròne de Dieu, pp. 28-99. 99 Questa circostanza insieme al fatto che il Sedente non è mai identificato per nome esprimono la sua trascendenza. [°° È molto discussa la loro identità (angeli? santi?) come anche il valore simbolico del numero (astrale [doppio zodiaco]? israelitico [il doppio delle tribù]? sacerdotale [cf le 24 classi sacerdotali in lCr 24,4-19]? solare [cf le 24 ore del giorno; così in Test. Ad. 1-2]?). La loro identificazione con i santi-testimoni-martiri è sostenuta da U. Vanni, L'Apocalisse, pp. 175-177; H. Giesen, pp. 149-152. 101 L'immagine risale a Zc 4,10 ("Le sette lucerne rappresentano gli occhi del Signore che scruta tutta la terra"). Probabilmente è un altro modo per significare "i sette spiriti" (1,4; 3,1; 4,5; 5,6), la cui identificazione da parte dei commentatori oscilla tra la pienezza dello Spirito Santo (Prigent, Mùller, Moriconi [Lo Spirito e le chiese, pp. 41-51], Vanni [L'Apocalisse, pp. 184-188]; cf. la finale delle lettere alle sette chiese) e una semplice interpretazione angelica (Lohse, Giesen [p. 76: Ap "non presenta mai una dottrina trinitaria"]; cf. 8,2; e Tb 12,15).
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viventi102; e in 5,11: miriadi di miriadi di angeli103), e i gesti che i vari personaggi celesti compiono (in 4,8-11: canti di lode, prostrazioni, lanci di corone). Ebbene, il fatto che l'Agnello sia paradossalmente "in mezzo" al trono, senza specificare il suo rapporto di collocazione con il Sedente che già lo occupa probabilmente pure al centro, dice che egli condivide in pienezza l'autorità di Dio stesso104. Nel libro dell'Apocalisse l'Agnello compare per la prima volta in questo contesto di regalità divina trionfante. In 5,12 l'innumerevole corte angelica riconosce e celebra il passaggio a lui di una serie di sette proprietà ("potenza, ricchezza, sapienza, forza, onore, gloria, benedizione"), di cui alcune già in 4,11 erano attribuite al Sedente, e che comunque nella tradizione giudaico-biblica appartengono soltanto a Dio; così infatti si legge per esempio in lCr 29,11-12: "Tua, Signore, è la grandezza, la potenza, la gloria, lo splendore e la maestà... Signore, tuo è il regno; tu ti innalzi sovrano sopra ogni cosa. Da te provengono la ricchezza e la gloria...: nella tua mano c'è forza e potenza; dalla tua mano ogni grandezza e potere" (cf. lCr 16,27-28). Inoltre, l'omaggio di "lode, onore, gloria, e potenza" proveniente a lui dai tre livelli del creato in 5,13 ("Tutte le creature del cielo e della terra e sotto la terra e nel mare, e tutte le cose ivi contenute") richiama la confessione innica di Fil 2,10 che riconosce al Risorto il titolo divino di Kyrios105. In questo senso vanno lette le due affermazioni complementari, secondo cui l'Agnello "ha sette corna" e "sette occhi che sono i sette spiriti di Dio inviati su tutta la terra" (5,6b). Con ciò si espri-
102 L'immagine deriva da Ez 1,5-12 e il numero indica i quattro punti cardinali, quindi l'intero creato sottomesso a Dio. 103 Questa quantità innumerevole ha dei precedenti in Dn 7,10; lEn. 14,22; in 2En. 20,1 gli angeli sono suddivisi in nove gruppi.
104 v e d i M . Hengel, Die Throngemeinschaft hannesapokalypse, T B 27 (1996) 159-175.
des Lammes
mit Gott in der Jo-
105 Un parallelo si trova anche nell'apocrifo lEn. 61,8: "Il Signore avrà posto l'Eletto sul trono della sua gloria e giudicherà le azioni dei Santi, dall'alto dei cieli, e peserà con le bilance le loro azioni"; ma qui si tratta di un'associazione puramente funzionale in vista del giudizio (dei santi: non così in Ap); invece in Ap 5 (e poi 22,1-3; cf. sotto) si tratta di una vera condivisione della divinità. Secondo P. Borgen, Moses, Jesus, and The Roman Emperor. Observations in Philo's Writings and the Revelation of John, NT 38 (1996) 145-159, il Veggente descrive Gesù nella corte celeste secondo il modulo giudaico di una "moseologia" o esaltazione di Mosè (cf. Filone Al., Vit.Mos. 1,149-163), che a sua volta dipenderebbe dall'immagine pubblica dell'imperatore romano con le sue prerogative divine (specie Caligola).
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mono rispettivamente la pienezza del potere106 e l'onniscienza e onnipresenza di Dio107. 3.2.2.2 Nei passi citati non sembra mai affermata la pre-esistenza di Cristo-Agnello, ma soltanto l'acquisizione di una condizione divina ( = associazione al Trono) dopo la vittoria connessa con lo sgozzamento e dunque mediante la risurrezione. Tuttavia, c'è un passo che potrebbe andare in altro senso ed è quello che descrive la visione di un cavallo bianco e del suo cavaliere, di cui fra l'altro si dice: "Porta scritto un nome che nessuno conosce all'infuori di lui" (19,12). A questa affermazione sembra contraddire quella del versetto immediatamente seguente: "Il suo nome è chiamato la Parola di Dio". Ma non può essere questo il "nome che nessuno conosce", sia perché questo è palesemente noto, sia perché esso richiama i tratti guerrieri della Parola divina in Sap 18,15. Questo piuttosto è il nome della rivelazione (non solo "scritto" ma "chiamato"): esso esprime appunto un'idea di manifestazione, alla cui base e origine però c'è un nome ulteriore "che nessuno conosce". Secondo alcuni si tratterebbe del nome stesso di Dio, del tetragranima sacro YHWH che nessuno può e deve leggere, perché partecipa della santità suprema interdetta agli uomini108. Ma si possono richiamare anche i passi di Gn 32,30 e Gdc 13,17s, in cui l'angelo del Signore non vuole rivelare il proprio nome (rispettivamente a Giacobbe e a Manoach), che perciò resta misterioso perché partecipa della divinità che è indicibile (cf. analogamente Es 3,13-14). All'origine della reticenza c'è un doppio fattore: l'ineffabilità del nome stesso, e cioè della persona che lo porta, e il timore che esso, in quanto posseduto e quindi disponibile, possa essere asservito a interessi umani109. Dunque Ap 19,12 allude a un nome e quindi 106 Sui "corni" come simbolo di potenza, cf. Nm 23,22; Dt 33,17; ISam 2,10; Sai 75,11; 89,18.25: "Nel mio nome si innalzerà il suo corno (CEI: la sua potenza)"; in Mesopotamia, Siria, e Fenicia, le divinità recano spesso una tiara con corna. Cf. W. Foerster, xépoc?, in GLNT, V, coli. 349-358. 107 Conformemente al citato Zc 4,10: "Le sette lucerne rappresentano gli occhi del Signore che scruta tutta la terra"; analogo è il senso di Sap 1,7: "Lo spirito del Signore riempie l'universo e, abbracciando ogni cosa, conosce ogni voce". Cf. B. Monconi, Lo Spirito e le chiese, pp. 51-62. 108 Così O. Cullmann, Christologie du Nouveau Testament, Delachaux, Neuchàtel 1958, p. 273; cf. la scritta Qodes layhwh, "consacrato al Signore", sul turbante del Sommo Sacerdote (secondo Es 28,36-38; 39,20). Così anche Prigent, p. 583. 109 Questo aspetto è ben documentato nell'antichità. Lo si vede anzitutto nella concezione del dio "dai molti nomi": cf. Ade (in Omero, Inno a Demetra, 18), Bacco (in Sofocle, Antigone 1115), Artemide (in Aristofane, Tesmofor. 320), Zeus (in Cleante, Inno a Zeus 1), Physis (in Inni Orfici 9,13); ciò significa non solo che il dio è venerato in molti luoghi sotto varie forme, ma anche che è difficile cono-
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a una profondità personale che è ineffabile, indicibile, misteriosa e perciò sconosciuta, che è indizio della dimensione inattingibile e quindi divina della persona di Cristo110. 3.2.3 Apertura del libro dai sette sigilli. Il Sedente, personaggio dominante nella corte celeste, tiene nella destra un libro (PtpXtov, un rotolo), che quindi gli appartiene in proprio; esso è scritto di dentro e di fuori (cioè, è opistografo) a indicare pienezza e totalità, e in quanto tale richiama quello di Ez 2,9 m . Esso non va identificato né con "il libro della vita" (che appare già in 3,5 ma non
scerne e possederne l'identità, che sfugge alla comprensione umana; lo si vede bene nel Corpus Hermeticum, dove si legge che "Dio è troppo grande per avere un nome" (V,l) e nello stesso tempo che "egli ha tutti i nomi poiché tutto viene da quest'unico padre" (V,9); vedi P. Festugière, La révélation d'Hermes Trismégiste -IV. Le Dieu inconnu et la gnose, Gabalda, Paris 1954, pp. 65-77. È poi nei Papiri Magici che appare il desiderio di attingere l'insondabilità del divino per piegarlo alle proprie necessità; qui più volte si allude al "grande nome", "vero nome", "nome segreto" del dio da invocare, che viene poi riportato in forme pressoché impronunciabili , come in PGM 1,160-163 : "Tu digli : 'Qual è il tuo nome divino? Rivelamelo di buon grado, così che io possa invocarlo'. Esso consiste di 15 lettere: SOUESOLYR PHTHE MOTH" (H.D. Betz, The Greek Magical Papyri in Translation, University Press, Chicago & London 1986, 21992, p. 7; cf. anche p. 11 dove il dio invocato reca i nomi di Apollo, Zeus, la, Michele, Gabriele, Adonai, Aiòn). Qualcosa di analogo si trova nell'apocrifo Dialogo del Salvatore (Cod. Br. 40), a cavallo dei secoli II-III, dove dietro insistente richiesta dei suoi discepoli Cristo rivela loro il nome della grande potenza presente in tutti i luoghi, che nella forma più semplice è &T)T)coa>xaa<xTiOxCa (cf. M. Erbetta, Gli apocrifi del N.T. -1/1. Vangeli, Marietti, Casale Monferrato 1975, p. 333). Il Prigent, p. 583, cita anche i testi gnostici del Vang. di Filippo (in NHC 11,54,5-12: "Un solo nome non viene proferito nel mondo: il nome del Padre... Quelli che hanno questo nome lo conoscono ma non lo pronunciano") e del Vang. di verità (in NHC 1,38,7-24: "Il nome del Padre è il Figlio... Egli è il nome; egli è il Figlio. È possibile per lui essere visto. Ma il nome è invisibile perché esso solo è il mistero dell'invisibile, che giunge alle orecchie completamente piene di esso. Infatti in verità il nome del Padre non è pronunciato, ma esso è apparente attraverso il Figlio"); cf. J.M. Robinson, ed., TheNag Hammadi Library in English, Brill, Leiden 1977, p. 47. 110 II passo richiama la frase analoga di 2,17: "Al vincitore darò... una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all'infuori di chi la riceve" (cf. 3,12). Richiamando Is 62,2 (su Gerusalemme: "Ti si chiamerà con un nome nuovo che la bocca del Signore indicherà"; 65,15), si vuol alludere alla nuova identità del cristiano vincitore nelle prove e partecipe della comunione con Gesù in una nuova vita. 111 Anche se in Ez 2,9 non si dice in quale mano fosse il libro, il fatto che in Ap 5,1 si precisa che esso è nella mano destra di Dio non dovrebbe significare una grande differenza. Giesen invece (p. 161), fondandosi sul fatto che la destra nell'antichità era simbolo di felicità e di salvezza, vi scorge solo un'allusione alla salvezza dei cristiani, quasi che il libro non comprenda anche "lamenti, pianti e guai" come in Ezechiele; ma, come vedremo, lo scioglimento dei sigilli comporta anche lo scatenamento di varie piaghe e tormenti.
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è sigillato)112 né con il "libretto ((3ipXaptoiov) aperto" (10,2) che è in mano a un angelo e che il veggente è invitato a divorare per poter profetizzare "su molti popoli, nazioni e re" (cf. 10,8-10)113. Sua caratteristica precipua è di essere sigillato, anzi chiuso con sette sigilli; il numero implica semiticamente un'idea di completezza (cf. i frequenti settenari in Ap), per dire che esso, oltre a contenere un segreto garantito, è comunque ermeticamente chiuso114. Questo fatto, a dispetto del forte desiderio di rendersi conto del suo contenuto, rende difficilissima la sua apertura, tanto che "nessuno né in cielo né in terra né sotto terra era in grado di aprire il libro e di leggerlo" (5,3). È a questo punto che il Veggente introduce la figura dell'Agnello il quale, dopo aver preso il libro dalla mano del Sedente (cf. 5,7), risulta l'unico capace e soprattutto l'unico degno di aprirlo e di leggerlo (cf. 5,5.7.9). Il motivo di questa sua riuscita è che egli è stato immolato e ha riscattato per Dio un popolo sacerdotale e multietnico (cf. 5,9-10; cf. sopra), cosicché ancora una volta si rivela determinante e risolutivo il sacrificio della sua morte. È inevitabile a questo punto chiedersi quale sia il significato del libro aperto dall'Agnello. Si possono registrare in proposito tre interpretazioni principali. (1) L'una vi scorge l'Antico Testamento, il quale resterebbe lettera morta se Cristo non ne chiarisse il senso115; a supporto si citano i passi di Le 24,27 ("... spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui") e 2Cor 3,15 ("Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore..."). Ma si deve obiettare che al tempo in cui Ap venne scritta non esisteva ancora il concetto di AT come "libro"; non solo, infatti, il canone non era ancora completato, ma il singolare biblion era usato solo per un singolo libro (cf. Le 4,17; Eb 10,7)116, mentre per l'insieme si usavano i plurali bibita (cf. IMac 12,9) o bybloi (cf. Dn 112 L'equivalenza fra i due è invece sostenuta da Corsini, pp. 194-195, che in esso113vede contenuta l'opera della redenzione compiuta da Gesù Cristo. Così Giesen, pp. 231s e 236s (contro F.D. Mazzeferri, The Gerire oftheBook of Revelation from a Source-critical Perspective, BZNW 54, de Gruyter, BerlinNew York 1989, p. 273). 114 Solo secondariamente i 7 sigilli potrebbero anche richiamare la prassi romana del testamento, che era sigillato sia dal testatore sia da sei testimoni (cf. O. Roller, Das Buch mit den sieben Siegeln, ZNW 36 [1937] 98-113). 115 Così Cerfaux-Cambier, Feuillet, Prigent, con richiamo all'antica interpretazione di Ippolito, Origene, Vittorino di Pettau, Ambrogio, Agostino, Lutero. 116 Anche il plurale xà (3i(3Xta -rà Syta, "i libri santi", di 2Mac 12,9 corrisponde al singolare TÒ (BtfìXtov xoG vó[xou, "il libro della Legge", del parallelo IMac 3,48.
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9,2; Lettera di Aristea 46; FI. Giuseppe, Ant. 9,28; 16,164). (2) Altri invece intendono nient'altro che lo stesso intero libro dell'Apocalisse come rivelazione che Giovanni ha ricevuto da Gesù (cf. 1,1) e che al termine egli è chiamato a non sigillare (cf. 22, IO)117. Ma occorre notare che, mentre la "rivelazione" avviene a partire dall'inizio di Ap, l'apertura del libro dai sette sigilli invece avviene soltanto al cap. 5; e se essa è segno di una particolare potenza concessa all'Agnello, va osservato che, mentre questo concetto manca all'inizio del libro, nel cap. 5 invece manca del tutto il lessico di rivelazione118. (3) Secondo i più, il libro si riferisce semplicemente al contenuto dei singoli sette sigilli, la cui apertura segue a partire da 6,1 fino a 8,1; con questa apertura l'Agnello mette in moto tutto lo scenario successivo dell'Apocalisse stessa, secondo questo svolgimento: l'apertura del settimo sigillo occasiona la serie delle sette trombe (= 8,2 - 11,14); l'ultima tromba dà l'avvio ai tre segni nel cielo ( = 11,15 -16,16, cioè la donna [cf. 12,1], il drago con le due bestie [cf. 12,3], e i sette flagelli delle sette coppe versate dai sette angeli [cf. 15,1]); la settima coppa a sua volta scatena il processo della condanna definitiva del male e della connessa esaltazione del bene (in 16,17 - 22,5)119. Ma, a rigor di termini, con i primi sei sigilli si compie già l'intero contenuto del libro, e la sezione 6,9-17 potrebbe già costituire la fine dell'Apocalisse (infatti, la sezione 21,1 - 22,5 non farà che riprenderne il tema del compimento)120. Perciò, l'intera sezione di Ap 8,1 - 22,5 non fa che descrivere ulteriormente il contenuto del libro sigillato. Anzi, da 5,9 in poi 1,7 Così Giesen, al seguito di Caird e sulla scorta di R. Bergmeier, Die Buchrolle und das Lamm (Ape 5 und 10), ZNW 76 (1985) 225-244. 118 Una certa attenzione invece va dedicata al richiamo fatto da Giesen (sulla scorta di H.-P. Muller, Die himmlische Ratsversammlung. Motivgeschichtliches zu Ape 5,1-5, ZNW 54 [1963] 254-267, e altri) al tema della vittoria di Marduk nel poema babilonese della creazione, secondo cui il dio riuscì vincitore tra gli dèi perché ottenne la consegna della "tavoletta dei destini" (cf. Enuma elish 2,43; 3,47.105). Tuttavia, a parte l'eccessiva distanza cronologica del poema rispetto ad Ap e la mancanza del contesto politeistico, va osservato che in Ap manca del tutto il gesto significativo del fissare la tavoletta sul petto di Marduk. 119 Questa successione corrisponde alla struttura letteraria di Ap proposta da U. Vanni, La struttura letteraria dell'Apocalisse, "Aloisiana" 8, Herder, Roma 1971, 2 1980. 120 Così A. Vògtle (1981) citato e condiviso da G. Biguzzi, I settenari nella struttura dell'Apocalisse. Analisi, storia della ricerca, interpretazione, RivBiblSuppl 31, Paideia, Brescia 1996, pp. 214-216, dove si attira l'attenzione sul fatto singolare che in Ap ci sono due narratori (Giovanni e l'Agnello) e due libri (infatti il termine biblion è impiegato a proposito del libro di Giovanni [cf. 1,11; 22,7.9.10.18bis. 19] prima e oltre che per il libro dai sette sigilli [cf. 5,1.2.3.4.5.8.9]), ma c'è una sola vicenda, che è narrata a incastro da un libro inserito in un altro.
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l'immagine del libro (sigillato) scompare del tutto: il suo contenuto non viene formalmente né menzionato né espressamente notificato, ma è semplicemente sviluppato nella descrizione di "ciò che deve avvenire presto" (1,1)121. Il libro dunque contiene il piano divino sul mondo e sulla storia: in esso ci sono i decreti e i giudizi di Dio "sul mondo e sull'umanità, in particolare sul regno ostile a Cristo, e il compimento della storia del mondo e dell'umanità che sfocia nella creazione di un mondo nuovo e nella fondazione del regno eterno di Dio" 122 . Dunque, ciò che era esclusivo possesso della conoscenza di Dio (cioè nella sua destra) viene condiviso dall'Agnello-Cristo: non perché quesji lo tenga per sé, ma perché lo manifesti apertamente. La sua manifestazione poi deve avvenire non verbalmente (l'Agnello infatti non parla mai) bensì avvenimenzialmente, col mettere in moto una serie di eventi che senza di lui non si sarebbero verificati o non sarebbero stati intesi nella loro vera causalità123. La rivelazione perciò è veramente provocatrice, nel senso che l'Agnello "sgozzato eppure ritto in piedi" provoca una reazione a catena di eventi storico-escatologici drammatici e conferisce loro il senso della propria presenza dinamica124. Probabilmente è proprio qui che acquista il suo vero significato quella apokàlypsis lesoti Christoù con cui si apre l'Apocalisse stessa (cf. 1,1), la quale in ultima analisi non si propone altro che esporre ciò che Gesù Cristo rivela e ciò che in essa si rivela di Gesù Cristo (soggetto e oggetto nello stesso tempo). Nei capp. 6-22 si configurano altre tre dimensioni cristologiche, che caratterizzano più da vicino l'identità e la funzione di CristoAgnello. Infatti, se le prime tre sono piuttosto oggetto delle visioni di Giovanni, queste altre tre appartengono più propriamente a ciò che l'Agnello rivela di se stesso nel decorso delle reazioni suscitate dalla sua apertura dei sigilli. 121 Cf. anche N. Hohnjec, Das Lamm -xò àpvtov in der Offenbarung des Johannes. Eine exegetisch-theologische Studie, PUG, Rom 1980, p. 41. 122 A. Wikenhauser, p. 82. 123 Secondo J.P. Heil, The Fifth Seal (Rev 6,9-11) as a Key to the Book o/Revelation, Bibl 74 (1993) 220-243, è anche la preghiera dei martiri in 6,9-11 ("Fino a quando, Sovrano,... non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?": è l'unica supplica in Ap) a stare in relazione sia con ciò che precede all'interno del libro sia soprattutto con ciò che segue. 124 Altra cosa poi è interpretare gli avvenimenti descritti in Ap 6-22. Nella storia dell'ermeneutica essi sono stati riferiti o alle cose ultime (così nei Padri della Chiesa) o alla storia futura (così nel Medioevo, sia Gioacchino da Fiore sia Lutero) o alla storia contemporanea all'autore (così prevalentemente oggi).
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3.2.4 La funzione pastorale dell'Agnello. Innestandosi sulla tradizione (cf. Gv 10; Eb 13,20; lPt 2,25; 5,4), il nostro Giovanni sviluppa in modo originale la metafora del pastore, se non altro perché, al di là di ogni verosimile aspettativa, attribuisce la qualifica a un "agnello". Forse la sua immagine più prossima è quella che si legge in Isaia, dove si dice che il vitello e il leoncello pascoleranno insieme "e un fanciullo li guiderà" (Is 11,6). Due volte in Ap l'Agnello è fatto soggetto del verbo "pascere", Tcotfxaivetv, e ambedue le volte in una prospettiva diversa. 3.2.4.1 In 12,5 si legge del Figlio maschio partorito dalla donna che "pascerà tutte le genti con bastone di ferro" (ripetuto in 19,15). La frase riecheggia Sai 2,8-9 dove, a proposito del re intronizzato come figlio di Dio, si dice: "Ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra; le spezzerai (TM: terocèm [dal verbo rcfrfY LXX: Travet? ["pascerai", corrispondente al verbo rcfah\ aÙTou?) con bastone di ferro, come vasi d'argilla le frantumerai"125. Il Salmo, ricorrendo ai moduli dell'encomiastica curiale126, promette al sovrano un dominio che va ben oltre la sola terra di' Canaan e gli offre gli stessi poteri e la stessa giurisdizione di Dio. La tipologia del re-pastore è diffusa in tutta l'antichità12?. Ma il parallelismo nel testo ebraico "spezzerai... frantumerai" suppone un'operazione di repressione dei ribelli più che una funzione pastorale vera e propria. Questa semmai è intesa solo in senso indiretto. Infatti nel celebre Sai 23 tra gli strumenti usati dal pastore ("il tuo bastone e il tuo vincastro"128) il primo ha effettivamente lo scopo deterrente di difesa per tenere lontani dal gregge gli animali pericolosi (il secondo invece serviva per appoggiarsi). Ap intende riconoscere a Cristo un dominio universale, al quale nessuno è sottratto e al quale nessuno può resistere. Tutte le genti sono a lui sottomesse129, ed egli non è sottomesso a nessuno di loro. In 2,27 questa stessa signoria viene garantita al testimone di Cristo. 3.2.4.2 Una prospettiva prevalentemente escatologica è presen125 Si noti che i LXX suppongono un altro verbo ebraico (rispetto al TM) e che Ap in questo caso dipende dalla tradizione greca. ,,.., inoc ™ Cf. G. Ravasi, // Libro dei Salmi, I, Dehomane, Bologna 1985, 6 1993, pp. 105-107. 127 Cf. sopra: cap. V, 2.2.4.4. ™ TM: sibfkà ùmifantekò; LXX: if) ^àpSo? aou xaì *i (kx-n)p£a aou. 129 Vedi la cristologia analoga in Ef 1,10.22, espressa però con la metafora dell'intestazione (o ricapitolazione).
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te in 7,17: "L'Agnello che è in mezzo al trono li [= 7,14: "coloro che vengono dalla grande tribolazione"] pascolerà e li condurrà alle sorgenti di acque vive e Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi". A monte di questo passo ci sono i testi di Sai 23,2 ("ad acque tranquille mi conduce") e soprattutto di Is 49,10 ("li condurrà alle sorgenti d'acqua"); cf. anche Ez 34,23. Ma in Ap il pastore non è Dio, bensì il Cristo-Agnello, il quale perciò svolge un ruolo divino. È lui il "buon pastore" che procura al suo gregge luoghi di nutrimento e di ristoro perché possa rifarsi da ogni penuria e tribolazione. Ma, se ci ricordiamo che la stessa metafora l'abbiamo in Gv 10, non è escluso che questa funzione pastorale si eserciti già fin d'ora a vantaggio della chiesa come comunità di salvati; a questa idea ci porta anche l'impiego del verbo "condurrà" (óBriyriaei), che si trova pure in Gv 16,13 a proposito dello Spirito di verità. La funzione pastorale dell'Agnello, dunque, ha due risvolti complementari, uno negativo e uno positivo, che corrispondono rispettivamente allo stadio storico dell'umanità e a quello escatologico. Ma se soltanto neìì'éschaton egli sembra compiere una funzione pastorale esplicitamente positiva, tuttavia anche la sua funzione polemica nella storia implica indirettamente una funzione analoga, poiché egli è già fin d'ora difensore e garante della serenità dei suoi seguaci. 3.2.5 ''L'ira dell'Agnello" (6,16). Con questa metafora assolutamente paradossale (poiché l'agnello è da sempre simbolo di mansuetudine) si esprime la funzione giudiziale dell'Agnello-Cristo, la quale in concreto è di tipo condannatorio130. Con ciò si affronta anche il tema più sviluppato in tutto il libro, che perciò va enucleato per gradi. 3.2.5.1 II punto di partenza logico, ma anche strategico-letterario, è dato dal grido dei martiri in 6,10: "Fino a quando, o Sovrano, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e non vendicherai (où xpivei? xoù èxBtxeT?) il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?" 131 . Il tema del giudizio in effetti comincia solo da questo 130 La versione CEI in 18,8.10 rende troppo esplicitamente l'originario concetto greco di "giudizio" con quello di "condanna"; più giustamente invece la TOB conserva in entrambi i luoghi l'idea di giudizio, mentre BJ rende il v. 8 con il concetto di condanna e il v. 10 con quello di giudizio. Propriamente in Ap non ricorre mai l'esplicito vocabolario di condanna (xa-caxpivco, xataxpiats, xa-càxpi(xa) ma solo quello del giudizio (xpivco, 9 volte; xpiai?, 4 volte; xpi[xa, 3 volte). 131 Vedi lo studio citato di J.P. Heil, The Fifth Seal (Rev 6,9-11) as a Key to the Book of Revelation, Bibl 74 (1993) 220-243.
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punto132 ed è strettamente associato a una condanna più che a un premio, come si leggerà in 19,2 ("egli ha giudicato la grande meretrice... vendicando su di lei il sangue dei suoi servi") dove, con l'impiego degli stessi verbi, abbiamo la risposta alla supplica riportata in 6,10. L'appello dei giusti alla vendetta divina è ben noto alle apocalissi giudaiche, come si legge per esempio in lEn. 47,1.2 ("E in quel tempo sarà salita la preghiera dei giusti... affinché innanzi al Signore degli Spiriti essa non sia vana e affinché si faccia loro giustizia e non debbano pazientare in eterno"); 104,3 ("Le anime dei giusti nei loro depositi" chiedono: "Fino a quando resteremo qui, e quando verrà il frutto nell'aia della nostra ricompensa?"); cf. anche ib. 22,5-7; 97,3.5; 99,3.16. Si potrebbe edulcorare il testo, dicendo che esso "insiste più sull'idea del compimento del piano di Dio al momento del giudizio che sull'aspetto di una vendetta personale"133, ma in realtà è evidente da una parte il marchio formale dell'apocalittica giudaica come genere di origine e dall'altra la vera, angosciosa domanda di giustizia134. 3.2.5.2 Cristologia e teo-logia mai come in questo caso sono intimamente intrecciate. Infatti bisogna notare che, propriamente parlando, il giudizio è condotto da Dio, non dall'Agnello; infatti, solo Dio è il soggetto del verbo "giudicare" e il responsabile dei "giudizi" emessi. Anche l'ira è fondamentalmente quella di Dio (cf. "il calice della sua ira" in 14,10; 16,19). Ma essa è comunque condivisa dall'Agnello (cf. 6,16) tanto che si parla della "loro ira" (6,17). E, a proposito del cavaliere sul cavallo bianco (cf. sopra), si dirà che egli personalmente "pigerà nel tino dell'ira furiosa del Dio onnipotente" (19,15). Quest'ultima immagine, tanto vivida ed efficace, risale ai profeti e la troviamo sia in Gioele 4,13 ("Date mano alla falce, perché la messe è matura; venite, pigiate, perché il torchio è pieno e i tini traboccano: tanto grande è la loro malizia") sia in Isaia 63,1-6 (cf. v. 3: "Nel tino ho pigiato da solo e 132
La frequenza è la seguente: xpCveiv 9 volte (6,10; 11,18; 16,5; 18,8.20; 19,2.11; 20,12.13), xpbic 4 volte (14,7; 16,7; 18,10; 19,2), xpifia 3 volte (17,1; 18,20; 20,4). 133 P. Prigent, p. 227. 134 "Gli esegeti, che non patiscono un'oppressione insopportabile e non sono tormentati dall'apparente tolleranza dell'ingiustizia da parte di Dio, tendono a etichettare questo grido come non cristiano e contrario alla predicazione del vangelo. Tuttavia, è possibile giudicare in termini teologici l'interrogativo centrale dell'Apocalisse, solo se si comprende l'angoscia che alimenta questo grido per la giustizia e l'affermazione di un diritto, per la rivincita divina e la restituzione di tante vite strappate, e per tanto sangue gratuitamente versato" (E. Schùssler Fiorenza, Revelation, p. 64).
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del mio popolo nessuno era con me; li [ = i popoli nemici d'Israele; cf. 34,1-7] ho pigiati con sdegno..."); cf. anche Lm 1,15. Ma in Ap il pigiatore escatologico è Cristo: è lui che ora "aiuta" Dio; anzi, è attraverso di lui e quindi attraverso il suo giudizio che si esprime e si manifesta Tira di Dio 135 . 3.2.5.3 In realtà, è fondamentale osservare che nell'Ap il giudizio di condanna non è rivolto ai reprobi in senso antropologico, cioè non si tratta di uomini, ma ha per oggetto delle entità immaginose, mitiche, che danno corpo a figure e istituzioni oppressive dei cristiani e dell'umanità. Sono queste realtà a costituire i molti, veri antagonisti di Dio e dell'Agnello; e, se è vero che hanno dei sicuri precedenti nella letteratura d'Israele, essi acquistano ora sotto la penna del Veggente delle nuove, originali connotazioni136. In pratica ne possiamo individuare cinque. "La bestia che sale dall'abisso" (11,7; cf. 17,8): la menzione dell'Abisso come luogo di origine esprime bene il suo carattere demoniaco e infernale (cf. 9,1-2; 2Pt 2,4; lEn. 10,4-6.12-14; 18,11-16; 22,2-13; 88,1: "Questo abisso era stretto, profondo, orribile e tenebra"). Identificare la bestia è difficile, ma il doppio fatto che in greco "la bestia", xò GTJPIOV, sia designata con l'articolo e che sia determinata da un participio presente (xò <xva(3ocivov) significa, da una parte, che essa dev'essere già sufficientemente nota ai lettori, e, dall'altra, che essa si ripresenta continuamente a compiere la sua opera devastatrice. Essa infatti sta all'origine dell'ostilità dichiarata ai testimoni. È possibile che vada letta alla luce di quella che sorge dal mare (cf. 13,1-9; vedi sotto). "Il drago" (cap. 12; cf. anche cap. 20). È la figura più esplicitamente impegnata in una lotta accanita con avversari diversi in momenti successivi137: prima con il Figlio maschio partorito dalla Donna, che però gli viene sottratto, rapito in cielo (cf. 12,3-5), poi con la Donna stessa fuggita nel deserto (cf. 12,6.13.15), e infine con il resto della discendenza di lei (cf. 12,17)138. La figura del dra135 Si potrebbe pensare al Cristo irato del Giudizio Universale di Michelangelo. Molto diverso è il Cristo dolce del Giudizio del Beato Angelico!
136 v e d i in particolare J. Ernst, Die eschatologischen Gegenspieler in den Schriften des Neuen Testaments, B U 3, Pustet, Regensburg 1967, p p . 104-160. 137
Su Ap 12 e la sua importanza per i capp. successivi, vedi A. Yarbro Collins, The Combat Myth in the Book of Revelation, "Harvard Dissertations in Religion" 9, Scholars, Missoula 1976. 138 Lasciamo da parte la questione dell'identificazione della Donna (si noti bene però che essa è solo un "segno" e in quanto tale rimanda ad altro da sé); in prima battuta essa ha con ogni probabilità una valenza collettiva in quanto perso-
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go ha dei chiari precedenti nell'AT, dove appare sia come mostro marino e quindi personificazione del caos (cf. Gb 7,12; Sai 74,13s; Is 27,1; Am 9,3)139, sia come allusione mitologica al Faraone (cf. Ez 29,3) e a Nabucodònosor (cf. Ger 51,34), classici oppressori e persecutori di Israele. Per il Veggente dell'Ap la sua identificazione è evidente in 12,9. lOb: "Il serpente antico, detto diavolo e satana, l'ingannatore di tutta la terra abitata... l'accusatore dei nostri fratelli"140. Esso è stato ormai cacciato dal cielo e gettato sulla terra (cf. 12,9b.l3), cioè è stato detronizzato e la sua potenza è stata per così dire spuntata. Infatti, anche se ha ancora a disposizione un certo tempo, questo è ormai "poco" (12,12) poiché è un tempo contato, corrispondente a tre anni e mezzo (cf. v. 6: "1260 giorni"; v. 14: "un tempo e tempi e metà d'un tempo"), cioè appena la metà di una settimana di anni141. Il drago in effetti è già stato vinto da Michele (cf. 12,7)142, le cui gesta sono di fatto una parte della vittoria di Cristo143, poiché il momento supremo della vittoria è legato essenzialmente al sangue dell'Agnello, e ad essa partecipano anche i cristiani (cf. 12,11; 7,14), "La bestia che sale dal mare" (13,1-9). Come la seguente ("dalla terra": 13,11-18) è una emanazione del Drago (cf. 13,2b; di lui infatti in 12,12 si dice che discese verso la terra e verso il mare). Il "mare" può essere inteso in senso simbolico-generale come caos primordiale sul quale Dio trionfa con la creazione (cf. Gn 1,2; Sai nificazione del popolo di Dio e della chiesa (cf. U. Vanni, L'Apocalisse, pp. 227-251; B. Corsani, L'Apocalisse, pp. 108-118; sullo sfondo mitico di Ap 12 cf. l'Excursus di Giesen, pp. 295-299). Il fatto che il Veggente distingua la Donna (cf. 12,6.13-16) dai figli di lei (cf. 12,17) non significa che si intendano cose diverse (come la chiesa giudeo-cristiana e quella pagano-cristiana) ma soltanto che si considera la chiesa prima nel suo insieme e poi nei suoi singoli componenti (cf. Wikenhauser, Muller, Prigent [con rimando alla profezia di Gn 3,15], Giesen [con rimando a un'analoga distinzione in Ap 19,7.9]). 139 Questo aspetto mitico sopravvive in Ap 12,15 dove il drago-serpente vomita dalla sua bocca un fiume d'acqua per sommergere la Donna. 140 Cf. anche U. Vanni, L'Apocalisse, pp. 241-244. 141 La cifra si legge già in Dn 7,25 come allusione alla permanenza dei Santi in balìa della quarta bestia che fu il seleucide Antioco IV Epìfane (cf. anche la profezia delle 70 settimane in Dn 9,24-27). È anche la cifra che in Ap delimita la dominazione pagana sulla città santa (cf. 11,2), la connessa predicazione dei due testimoni (cf. 11,3), e il potere concesso alla bestia proveniente dal mare (cf. 13,5). 142 In quanto patrono celeste di Israele (cf. Dn 10,13.21; 12,1), anche a Qumràn Michele è parte decisiva nella battaglia escatologica contro i nemici dei figli della luce (cf. 1QM 17,6-7). 143 L'ipotesi che Michele sia semplicemente un altro nome di Cristo (cf. A. Satake, Cristologie in der Johannesapokalypse, p. 312) non viene accettata né dai commentatori né da P.R. Carrell, Jesus and the Angels, pp. 208-209.
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74,13-14; 89,10-11) oppure in senso geografico-specifico come Mar Mediterraneo in quanto mare del dominio romano. Già in Dn 7,2ss vengono dal mare 4 bestie, le cui fattezze si ritrovano in Ap 13,1-2; la quarta bestia, che in Dn si riferiva ai Macedoni-Seleucidi, al tempo di Ap era riferita ai Romani 144 . La bestia dunque simboleggia il potere politico di Roma che soggiogò "ogni stirpe, popolo, lingua e nazione" (13,7b), facendo anche guerra ai santi e vincendoli (cf. 13,7a). Adorando lei (cf. 13,8) gli uomini in realtà adorano il drago (cf. 13,4), cioè il diavolo che la sostiene e di cui essa è una concretizzazione145. "La bestia che sale dalla terra" (13,11-18). Questa non ha corrispondenti in Daniele. Essa è al servizio della precedente e reca dei tratti religioso-cultuali: opera prodigi per sedurre all'adorazione della prima bestia e della sua statua, di cui pretende l'erezione e il culto sotto pena di morte. Persino la vita quotidiana (cf. 13,17: "comprare o vendere") diventa impossibile senza il marchio della bestia come segno di appartenenza 146 . Con tutto ciò è fatto riferimento con sufficiente chiarezza al culto dell'imperatore e alla sua presenza in Asia147. Questa bestia richiede un particolare marchio (cf. 16,2), e "il suo numero è 666" (13,18; cf. 13,16; 20,4); per risolvere la sua enigmaticità il testo ci offre solo un indizio col precisare che esso è "un numero d'uomo". Per risolvere l'enigma è inevitabile fare ricorso alla gematria, cioè a un calcolo che sommi il valore numerico di ogni singola lettera dell'alfabeto che compone il nome del personaggio. Ma la difficoltà sta ap144 Cf. Wikenhauser, p. 150. Già in Salmi di Salom. 2,25-29 Pompeo era paragonato a un drago superbo, ridotto a nulla sulla terra e sul mare; e in 4Esd. 11-12 si allude a Rm con l'immagine di un'aquila che viene dal mare. 145 Corsini, p. 333, nota giustamente che l'atteggiamento di Giovanni nei riguardi dell'impero romano non è più quello di Paolo (cf. Rm 13,1-7); quanto alle bestemmie proferite dalla bestia, esse "rappresentano la tentazione dell'apoteosi, della divinizzazione, che accompagna il potere politico nelle sue forme assolute" (p. 334). 146 Già in 3Mac 2,27-29 si legge che Tolomeo IV Filopatore, dopo la battaglia di Rafia (217 a . C ) , fece marchiare gli ebrei egiziani per "disprezzo contro la nostra stirpe" con un decreto di questo tenore: " È vietato entrare nei templi a chi non sacrifica; tutti gli ebrei devono essere registrati e ridotti alla condizione servile; coloro che esprimessero dissenso siano presi con la forza e perdano la vita. Coloro che vengono registrati siano marchiati a fuoco sul corpo con la foglia di edera, l'emblema di Dioniso, e siano discriminati nella condizione di diritti limitati stabilita in precedenza" (trad. A. Passoni Dell'Acqua). 147 A proposito di Ap 13 e con riferimento ai monumenti romani eretti a Efeso sotto Domiziano (il Tempio dei Sebastoi, e il ginnasio-bagno in onore di Domiziano come Zeus Olympios), cf. S. Friesen, Ephesus: Key to a Vision in Revelation, BibArchRev 19 (1993,3) 24-37.
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punto nel sapere di quale personaggio si tratti e perciò su quale nome si debba fare il calcolo. Tra i vari tentativi di soluzione ne ricordiamo tre. (1) Già Ireneo (cf. Adv. haer. 5,30,3: "Questo nome contiene l'evocazione di una punizione...; quel nome è regale o piuttosto tirannico") aveva supposto di individuare il personaggio di Prometeo nascosto sotto il nome di Titano, in greco Teitan (infatti: t = 300, e = 5, i = 10, t = 300, a = 1, n = 50; totale: 666), vedendo probabilmente in lui lo smisurato orgoglio dell'impero romano. (2) La soluzione più diffusa pensa al nome di Nerone, ma secondo l'alfabeto consonantico ebraico e quindi sotto la forma QsrNrwn, cioè "Cesare Nerone" (infatti: q = 100, s = 60, r = 200, n = 50, r = 200, w = 6, n = 50; totale: 666 [la variante 616 del codice C deriverebbe anch'essa dall'ebraico, ma secondo la pronuncia latina Nero]), inteso però non tanto come il Nerone storico ma come il Nerone redivivus identificato con Domiziano (cf. sopra); del resto, secondo l'ebraico lo stesso termine greco "bestia", Gripiov, traslitterato in trywn dà il medesimo totale (infatti: t = 400, r = 200, y= 10, w = 6, n = 50). (3) Basandosi sul parallelo di Or. Syb. 1,326-330 (dove il nome greco di Gesù 'iTjaou? viene reso con il numero 888 [t = 10, r\ = 8, a = 200, o = 70, u = 400, 5 = 200]), che attribuisce a Gesù il significato della pienezza, anzi di un'eccedenza della perfezione in quanto va oltre il numero perfetto 777, si interpreta il 666 come numero di imperfezione e debolezza; in questo caso, il numero non allude a nessun personaggio specifico, ma soltanto connota la bestia nella sua irrimediabile inferiorità, come a dire che il suo potere è solo apparente, mentre in realtà è spuntato148. L'unica vera difficoltà per quest'ultima interpretazione è che essa apparentemente non rende ragione del "numero d'uomo" richiesto dal testo; tuttavia, è del tutto possibile che si faccia riferimento a un qualche personaggio (anche lo stesso Nerone) inteso come Anticristo, ma in quanto inefficace e quindi privo di un vero motivo perché lo si debba temere149. "La grande prostituta... seduta sopra una bestia scarlatta" (cap. 17). La figura della prostituta evoca la predicazione profetica classica, che applicava la metafora a varie città, cioè Gerusalemme (cf. Is 1,21; Ez 16,15s; 23,ls), Tiro (cf. Is 23,16s), Ninive (cf. Na 3,4), in quanto infedeli al vero Dio. Il nostro Veggente la identifica espli-
148 Mentre la prima interpretazione è oggi sostanzialmente abbandonata (ma Corsini, pp. 343-345, la riprende per un'altra via), i maggiori commentatori contemporanei si dividono tra la seconda (cf. Wikenhauser, Mùller, Giesen) e la terza (cf. Prigent). 149 Qualcosa di analogo si legge in 2Ts 2, dove l'Iniquo con la sua seducente apparizione escatologica mediante mirabolanti prestazioni viene spazzata via da Gesù Cristo con il semplice "soffio della sua bocca"!
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citamente con "Babilonia la grande, la madre delle prostitute" (17,5), che però a sua volta è una designazione criptica di Roma (cf. 17,18: "La città grande, che regna su tutti i re della terra"), tanto più che le sette teste della bestia, su cui la prostituta è seduta, sono decifrate come "i sette colli cui quali è seduta la donna" (17,9). Del resto, l'equazione 'Babilonia = Roma' è tipica del linguaggio apocalittico posteriore all'anno 70, cioè alla conquista di Gerusalemme da parte dei Romani150. Il colore porpora e scarlatto (cf. 17,4) è simbolo non solo di ricchezza e di prestigio ma anche di potere: così infatti era il vestito dei re ellenistici e poi la toga dell'imperatore romano, e anche la toga praetexta dei magistrati e dei sacerdoti, ornata di una lista di porpora (come quella dei fanciulli liberi fino all'età virile), il mantello dei soldati e dei Littori151. La prostituta è detta "ubriaca del sangue dei santi e del sangue dei testimoni di Gesù" (17,6) per esprimere l'ostinata ostilità di Roma verso i cristiani, anche se forse non ci si deve riferire a persecuzioni particolari ma ai martiri in generale come testimonianza impegnata e contrastata dal potere politico-religioso152. 3.2.5.4 La vittoria di Cristo su questi mostri lo ritaglia nella dimensione di un vero imperator storico e celeste153. Essa infatti è a due fasi: l'una, storica, consiste nella sua morte-risurrezione, l'altra, escatologica, nel regno e nel giudizio finale. Lo si vede bene nel caso del Drago, di cui si afferma una vittoria già nel cap. 12 e poi un'altra definitiva nel cap. 20 (cf. sotto); infatti della bestia 150 Lo si vede bene sia nei testi giudaici del tempo (cf. 2Bar. 11,1-2; 67,7; Or.Syb. 5,143.159; 4Esd. 3,1-2.28) sia in quelli cristiani (cf. lPt 5,13; Tertulliano, Adv.Marc. 3,13; Eusebio, HE. 2,15,2: "Pietro nomina Marco nella sua prima lettera, che dicono compose proprio a Roma, città da lui stesso indicata, chiamandola metaforicamente Babilonia"). Per una diversa e originale interpretazione, che identifica Babilonia con Gerusalemme, cf. Corsini, pp. 438-470. Sulla posizione di E. Lupieri, cf. sopra: nota 13. Da parte sua M. Rissi, Die Hure Babylon und die Verfùhrung der Heiligen. Eine Studie zur Apokalypse des Johannes, BWANT 136, Kohlhammer, Stuttgart 1995, identifica la prostituta in senso astratto con l'empietà del sincretismo religioso che avrebbe costituito il vero problema delle chiese d'Asia. 151 Vedi per contrasto il vestito dato a Gesù per scherno in Mt 27,28; Me 15,17! Quanto al simbolismo della sessione della prostituta sulla bestia, esso è interpretato diversamente in riferimento o al culto della Dea Roma (cf. H. Giesen, Das ramisene Reich, p. 2510) o al culto di Cibele (cf. F. Bovon, Possession ou enchantement. Les institutions romaines selon l'Apocalypse, Cristianesimo nella storia 7 [1986] 221-238 qui 234s). 152 Cf. H. Giesen, Die Offenbarung, p. 373. 153 Sulla dimensione 'imperiale' di Cristo in Ap, cf. J. Comblin, La christologie, pp. 91-106, eE.P. Janzen, The Jesus of the Apocalypse Wears the Emperor's Clothes, in E.H. Lovering, ed., Society of Biblica!Literature 1994 Seminar Papers, SBL Seminars Papers 33, Scholars, Atlanta 1994, pp. 637-661.
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su cui siede la prostituta si legge che "era e non è e riapparirà" (17,8). Per quanto riguarda la vittoria storica, rimandiamo a ciò che è già stato detto più sopra. Quanto invece alla vittoria escatologica, vanno notati due diversi momenti. 3.2.5.4.1 Anzitutto si allude alla battaglia "nel luogo detto in ebraico Armaghedón" (16,16), dove vengono radunati tutti i re della terra "per la guerra del gran giorno di Dio onnipotente" (16,14). Il nome misterioso 'Ap(Aaye8cóv viene per lo più inteso come composizione di due parole ebraiche: Har, "montagna", e Maghedón, "Meghiddo". Nell'AT la città di Meghiddo è collegata a diversi momenti lieti o tristi della storia d'Israele: la vittoria di Barak sui re cananei verso il 1100 a.C. (cf. Gdc 5,19), la morte del re Acazia inseguito da Jeu nel 841 a.C. (cf. 2Re 9,27), e poi la sconfitta del re Giosia da parte del faraone Necao nel 609 a.C. (cf. 2Re 23,29; 2Cr 35,22; Zc 12,11). Quanto alla Montagna che sta vicino a Meghiddo, si tratta del Carmelo che vide il trionfo del profeta Elia sui profeti di Baal sgozzati poi nel vicino torrente Kison (cf. IRe 18,20-40). Il luogo dunque, per i suoi ricordi cruenti di pubbliche vicende, poteva ben evocare la battaglia escatologica definitiva. Ma una recente proposta sposta l'interpretazione in tutt'altra direzione154: il nome non sarebbe altro che una servile traslitterazione greca di un composto ebraico e andrebbe letto da destra a sinistra. In questo modo si ottengono due nomi di località uniti insieme, Nod e Gomorra. Il loro valore simbolico dipende dal ruolo che le rispettive località hanno nel libro della Genesi: Gomorra è chiaramente la città emblema di vizio insieme a Sodoma, distrutta dal Signore al tempo di Abramo (cf. Gn 19,25s); Nod invece è il nome della regione, peraltro sconosciuta ma "a oriente di Eden", dove Caino si ritirò dopo l'uccisione di Abele (cf. Gn 4,16)155. Cu-
154 Cf. M. Oberweis, Erwàgungen zur apokalyptischen Ortsbezeichnung "Harmagedon", Bibl 76 (1995) 305-324. 155 È interessante osservare (insieme a Giesen, p. 362) che alla storia di Caino può essere collegato anche il grido con cui i martiri chiedono vendetta al Signore in Ap 6,9-10 (cf. sopra) e che ha un precedente significativo nella voce di Dio a Caino in Gn 4,10: "Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!". Questo passo viene così parafrasato in lEn. 22,5-7: "Io vidi gli spiriti degli uomini morti e la loro voce giungeva fino al cielo e piangeva. Allora interrogai Raffaele, l'angelo che stava con me e gli dissi: 'Di chi è questo spirito la cui voce giunge e piange?'. E mi rispose e disse: 'Questo spirito è quello uscito da Abele che fu ucciso dal proprio fratello Caino e piangerà fin quando la sua [ = di Caino] stirpe sarà dispersa dalla faccia della terra e di fra le stirpi degli uomini sarà distrutta la sua stirpe'".
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riosamente le due località sono accostate anche nella Lettera di Giuda (cf. vv. 7 e 11) come simbolo di peccato e di punizione. Il fatto che in Ap 16,16 si parli solo di un raduno per la battaglia, ma senza alcuna descrizione della battaglia vera e propria, attira l'attenzione sul semplice concentramento degli avversari di Dio156. La loro disfatta però segue immediatamente con il versamento della settima coppa (16,17-21), che dà inizio alla condanna definitiva del male. 3.2.5.4.2 Se nella metafora di Armaghedón non c'è alcuna cristologia, questa invece entra in primo piano nel combattimento escatologico descritto in 19,11-21 con l'apparizione del cavallo bianco e del suo cavaliere (cf. già sopra: 3.2.2.2). L'immagine più eloquente in questo ambito guerriero è quella della spada affilata che esce dalla bocca del cavaliere (cf. 19,15 e 1,16). All'origine c'è il testo di Is 11,3-4, ampiamente utilizzato nel giudaismo intertestamentario per esprimere la speranza messianica157 (cf. anche 2Ts 2,8); ma qui ciò che esce dalla bocca è "lo spirito", che nel Targum diventa "la parola". Anche il nome del cavaliere, che "viene dal cielo" (19,11), è "parola di Dio" (19,13). Ma il suo intervento richiama le movenze guerriere presenti già in Sap 18,15s (con riferimento alla strage dei primogeniti degli Egiziani): "La tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo ordine inesorabile. Fermatasi, riempì tutto di morte". Tuttavia, il "mantello intriso di sangue" (Ap 19,13), con cui il cavaliere è vestito ancor prima della battaglia, non allude al sangue dei nemici (né a quello dei martiri) ma a quello vittorioso della sua morte e quindi al sangue di Cristo stesso158. In più, sullo sfondo è presente la figura solenne e terribile del Figlio dell'uomo, menzionato già in 1,13 (i suoi occhi "fiammeggianti come fuoco" si ritrovano in 19,12a) e in 14,14 (dove ha come arma "una falce affilata" che vale come metafora della mietitura escatologica, derivante da GÌ 4,13). La sovrapposizione di immagini tanto eterogenee (in 19,15b c'è anche quella della pigiatura) non impedisce di scorgervi comunque un rimando di base a Dn 7,13, dove il personaggio appare in contrapposizione a quattro bestie, che sono i quat156 Per una comprensione del nome come Har mocèd, "monte dell'assemblea", cf. M.G. Kleine, Har Magedon: The End of the Millennium, JETS 39 (1996) 207-222. 157 Cf. M.-A. Chevalier, L'Esprit et le Messie dans le Bas-judaìsme et le Nouveau Testament, PUF, Paris 1958, pp. 5-50. 158 Cf. U. Vanni, L'Apocalisse, p. 323; Giesen, p. 422.
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tro regni succedutisi nel dominio del mondo (Babilonesi, Medi, Persiani, Macedoni) e sui quali egli ottiene il potere di giudizio159. 3.2.5.4.3 Ma l'aspetto che più colpisce nella trattazione della vittoria di Cristo secondo Ap è il regno dei mille anni (cf. cap. 20, soprattutto i vv. 1-10). Accenniamo appena al doppio versante storico di questo testo: a monte, infatti, esso è già debitore di uno schema apocalittico-giudaico160, mentre, a valle, esso ha esercitato un enorme influsso sui secoli successivi161. In mezzo c'è appunto 159
Cf. J.J. Collins, Daniel, "Hermeneia", Fortress, Minneapolis 1993, pp. 294-324. Oltre al passo di Sai 90,4 ("Ai tuoi occhi, mille anni sono come il giorno di ieri che è passato"), che risuona in Giub. 4,30 ("Alla fine del 19° giubileo, nel settimo settennio, nel sesto anno, Adamo morì [ = nel 930 dalla creazione]... e mancavano 70 anni ai 1000 anni poiché, nella testimonianza dei cieli, mille anni equivalgono a un solo giorno"), ciò che entra in gioco è soprattutto lo schema della settimana cosmica, anche se non sempre connotato da aspettative messianiche (cf. E. Lupieri, The Seventh Night: Visions ofHistory in the Revelation of John and the Contemporary Apocalyptic, Henoch 14 [1992] 113-132). In lEn. 93,2-10 si tratta ancora di una settimana storica (la prima è quella di Adamo, la settima quella che sta tra il ritorno dall'esilio e il tempo dell'autore). Lo schema millenario compare per la prima volta in 2En. 33,1-2 (ree. A: "L'ottavo giorno stabilii che l'ottavo sia il primo,... affinché essi ritornino in figura di settemila e siano agli inizi degli ottomila") e sarà ripreso in campo cristiano dalla Lettera di Barnaba 15,4-8 ("Il Signore condurrà a termine l'universo in seimila anni; infatti un giorno è per lui mille anni... Quando il suo Figlio verrà a distruggere questo secolo iniquo... allora egli riposerà definitivamente nel settimo giorno... Darò principio all'ottavo giorno, cioè a un mondo nuovo"). Invece 4Esd. 7,28-30 conosce lo schema di soli 400 anni di regno del Messia, dopo i quali addirittura morirà, mentre 2Bar. prospetta un regno messianico indefinito dove passeranno la malattia e il dolore "e tornerà la gioia in tutta la terra" (73,2). Nel rabbinismo, dove è frequente lo schema dei due eoni, il regno del Messia può durare dai 40 ai 7.000 anni (cf. P. Volz, Die Eschatologie derjùdischen Gemeinde im neutestamentlichen Zeitalter.Oìms, Hildesheim 1966 [= Tubingen 1934], pp. 226-227). La nostra Apocalisse dà semplicemente una rilettura cristologica dello schema. 161 Già Giustino darà una interpretazione letterale al nostro testo (cf. Dial. 80,5: " I o , e con me tutti i cristiani veramente ortodossi, sappiamo che ci sarà una risurrezione della carne e un periodo di mille anni in Gerusalemme ricostruita, abbellita e ampliata"); analogamente Ireneo, con riferimento a un'abbondanza spropositata (cf. Adv. haer. 5,33,3-35,2); addirittura secondo Cerinto "dopo la risurrezione della carne si realizzerà in terra il regno di Cristo e gli uomini vivranno di nuovo a Gerusalemme e saranno ancora schiavi delle passioni e dei piaceri" (in Eusebio, H.E. 3,28,2). Invece Agostino spiritualizzò il concetto, scorgendo nei mille anni il tempo della Chiesa (cf. C/v. Dei 20,7,9).Vedi una utile raccolta di testi dei primi due secoli cristiani in C. Nardi, a cura, // millenarismo. Testi dei secoli I-II, ' ' 'Biblioteca patristica' ' 27, Nardini, Fiesole 1995; e C. Mazzucco - E. Pietrella, // rapporto tra la concezione del millennio nei primi autori cristiani e l'Apocalisse di Giovanni, Augustinianum 18 (1978) 29-45. Sulle attese medioevali dell'anno mille, cf. G. Duby, L'Anno Mille. Storia religiosa e psicologia collettiva, Einaudi, Torino 1976, pp. 25-28. Più in generale, cf. gli studi di H. Bietenhard, Dos Tausendjàhrige Reich. Eine biblisch-theologische Studie, Zùrich 1944, 21955; C E . Hill, Regnum caelorum. Patterns of Future Hope in Early Christianity, University Press, Oxford 1992; S. Heid, Chiliasmus und AntichristMythos. Einefhihchristliche {Controverse um das Heilige Land, "Hereditas" 6, Borengàsser, Bonn 1993; e anche l'Excursus in Giesen, pp. 443-444. 160
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il nostro scritto, che però è certamente cristiano e comunque anteriore a tutte le riletture storiche; si suppone quindi che esso abbia un suo messaggio proprio da trasmettere, e noi ci limitiamo a tentarne una comprensione fedele in base alla sua semplice struttura. Il centro d'interesse del cap. 20 riguarda essenzialmente la radicale eliminazione del potere malvagio dalla storia, e il discorso in proposito si svolge in due momenti, tra i quali si inserisce il discorso positivo sul regno millenario162. Vv. 1-3: dopo la vittoria sui due accoliti, la bestia e il suo profeta (cf. 19,20; essi equivalgono alle due bestie "dal mare" e "dalla terra", di cui al cap. 13: cf. sopra), è ora la volta del loro capo, il drago, di cui già si è parlato nel cap. 12 e che qui viene ripreso con gli stessi epiteti (cf. 20,1 con 12,9); egli viene incatenato nell'Abisso per mille anni. Vv. 7-10: dopo i mille anni satana viene liberato e insieme a Gog e Magog (figure mitologiche provenienti da Ez 38-39) marciano per assediare "l'accampamento dei santi e la città diletta"; a questo punto interviene la loro disfatta definitiva, che non consiste in una battaglia ma in un fuoco che scende dal cielo e repentinamente li divora; così il diavolo è gettato "nello stagno di fuoco e zolfo" (20,10; cf. 14,10; 19,20), dove sono già la bestia e il suo profeta, e lì è tormentato "per i secoli dei secoli". Quanto ai vv. 4-6, essi sono inseriti tra le due pericopi come un interludio che contiene la visione dei martiri ("le anime dei decapitati a causa della testimonianza di Gesù e della parola di Dio"), i quali "ripresero vita e regnarono con Cristo per mille anni" (20,4; cf. v. 6: "regneranno con lui per mille anni"). Si noti, anzitutto, che l'atto del regnare riguarda propriamente non Cristo ma i martiri. Inoltre, lo scambio dei tempi verbali non può che significare, doppiamente, sia che il regno è già iniziato sia che esso durerà senza fine. Infatti è solo lo scatenamento dell'iniquità che ha un termine, mentre il regno di Cristo e dei cristiani vittoriosi è illimitato, e di questo fatto lo schema millenario è solo un simbolo. Il problema semmai è di sapere quando computare l'inizio dei mille anni, se già nel passato o solo nel futuro163. In favore della 162 vedi la buona analisi di R. Studerus, Das Millennium der Apokalypse, Erbe und Auftrag 70 (1994) 118-131. 163 p e r "passato" intendiamo il momento della vittoria di Cristo sul drago mediante la sua morte e risurrezione; in questo caso i mille anni si riferiscono "all'epoca presente considerata come escatologica a partire dall'avvenimento centrale, che è la morte e la risurrezione di Cristo" (Prigent, p. 605), riguardante perciò non solo i martiri ma tutti i cristiani. Un riferimento al passato veterotestamentario è
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prima possibilità si possono addurre alcuni motivi. Infatti, oltre ai tempi segnalati del verbo "regnare", va osservato anzitutto che il regno dei mille anni è contestualmente funzionale e coestensivo ai mille anni dell'imprigionamento del drago. Ma, mentre del millennio di lui c'è un inizio e una fine, di quello dei martiri con Cristo c'è di fatto soltanto l'inizio, non la fine; cioè, quando il millennio di satana finirà, la regalità dei martiri proseguirà indefinitamente. Inoltre, e parallelamente, va notato l'uso del verbo "vincere" in Ap (cf. sopra): solo nei capp. 1-2, cioè nelle lettere alle sette chiese, esso è usato al presente con valore esortativo in rapporto al cristiano perseverante nella prova (cf. 2,7.11.17.26; 3,5.12.21; così anche in 21,7); già qui tuttavia l'auspicata vittoria del cristiano è presentata sul modello di quella di Cristo già avvenuta (cf. 3,21: "... come anch'io ho vinto"). Nei successivi capitoli delle visioni, la vittoria dei cristiani è presentata ancora due volte ma al passato (cf. 12,11; 15,2); ora infatti si insiste sulla partecipazione alla vittoria decisiva di Cristo-Agnello, che già è avvenuta a beneficio dei suoi seguaci e che costituisce la svolta epocale della storia (cf. 5,5; 6,2 e 12,11: "Lo hanno vinto mediante il sangue dell'Agnello"). Solo in 17,14 si dice al futuro che "l'Agnello li vincerà", prospettando ancora una ulteriore vittoria definitiva e sicura su tutti coloro che continuano a sedurre i cristiani inducendoli ad adorare la bestia. Quindi la regalità di Cristo è già cominciata164, anche se Ap 20,1-10 associa ad essa soltanto i martiri165. Se poi confrontiamo Ap 20 con le dottrine millenaristiche giudaiche, vediamo che il nostro testo non adotta nessuno dei loro temi tipici166: — non il regno visibile-politico-temporale; infatti non è Cristo che viene a fondare un nuovo regno nel mondo, ma sono i santi che vanno a regnare con Cristo: a lui viene già riconoinvece sostenuto da Corsini, p. 496. L'alternativa di un inizio nel futuro escatologico al momento della parusia è propria di molti autori, tra cui Giesen e in particolare J.W. Mealy, After the Thousand Years. Resurrection and Judgment in Revelation 20, JSNT Suppl. 70, Academic, Sheffield 1992 (su cui vedi la recensione critica di G.K. Beale, in EvQ 66 [1994] 229-249). 164 Cf. anche U. Vanni, // regno millenario di Cristo e dei suoi (Apoc 20,1-10), Studia Missionalia 42 (1993) 67-95. 165 Cf. V.S. Poythress, Geme and Hermeneutics in Rev 20:1-6, JournEvangTheolSoc 36 (1993) 41-54 = "a heavenly vindication of martyrs"; Mounce, pp. 360 e 369. Wikenhauser, pp. 21 ls, cita Cipriano, secondo cui solo i martiri vanno in paradiso subito dopo morte, mentre gli altri pii defunti devono attendere nell'oltretomba fino alla risurrezione universale. 166 Cf. J. Comblin, La cristologie, pp. 214-218.
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sciuto un regno "nei secoli dei secoli" (11,15); già fin d'ora infatti egli è "Re dei re e Signore dei signori" (cf. sopra); — non la risurrezione dei corpi e la loro vita sulla terra; infatti il verbo eCrjaav in 20,4 significa solo l'inizio di una vita: quella che i martiri godono tra la loro morte e il giudizio finale in quanto hanno partecipato alla immolazione di Gesù167; del resto, se la prima risurrezione segue alla prima morte (fisica), la seconda risurrezione (corporale) non segue alla seconda morte (eterna!): quindi solo la seconda risurrezione è fisica e generale, mentre la prima riguarda oggi i martiri già immolati e uniti a Cristo168; — non i mille anni futuri; infatti l'interpretazione millenaristica è costretta a preferire il contesto lontano ed estrinseco dell'apocalittica giudaica, mentre il contesto prossimo e interno delle visioni nella stessa Ap orienta a vedere una condizione in cui già ora i santi-testimoni sono vincitori (cf. 12,11), servono Dio come sacerdoti nel suo santuario e davanti al suo trono (cf. 6,15), sono persino risorti (cf. 11,11), hanno la veste candida e le palme del trionfo (cf. 6,11; 7,9.14), e cantano un cantico nuovo (cf. 14,2-3; 15,2-3; 19,1.6). Alla base di tutto il discorso c'è in sostanza il tema di uno schietto personalismo comunionale, che è fondato sul kerygma della vittoria di Cristo sulla morte e che ricorda da vicino sia S. Paolo (cf. lTs 4,17: "E così saremo sempre con il Signore") sia il Quarto vangelo (cf. Gv 12,26: "Se qualcuno mi serve,... dove sono io sarà anche il mio servo"). 3.2.6 "Le nozze dell'Agnello" (19,7.9). Questa è l'ultima funzione con cui si esprime la cristologia dell'Agnello; essa ne esalta al massimo la componente comunionale-escatologica. Il tema, annunciato in 19,7.9, non viene subito sviluppato (infatti in 19,11-21 c'è ancora una pagina dai toni forti sul giudizio impietoso condotto dal cavaliere sul cavallo bianco; cf. sopra). La trattazione invece comprende tutta la sezione conclusiva: 21,1 - 22,5169. L'immagine delle nozze tra Dio e il popolo è frequente nell'AT (cf. Os 2,16.19.21; Is 54,1.5; 61,10; 62,5; 64,4-5; Ger 2,2; 3,1-4; 50,1; 60,10; Ez 16,7-8; Sai 45; Ct). "Però in tutta la letteratura del tardo-giudaismo non esiste neppure un testo in cui l'allegoria 167 Cf. 6,9: essi sono "sotto l'altare", cioè "dei sacrifici", ai cui piedi scorreva il sangue delle vittime, sede della vita. 168 Ciò significa che non si tratta di tutti i cristiani vivi (contro Prigent). 169 Analogamente in 14,8 si preannunciava la caduta di Babilonia, descritta poi solo nei capp. 17-18.
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dello sposo sia applicata al Messia"170. Poiché dunque "sposo" non è un titolo messianico nel giudaismo, s'impone l'originalità del NT, che documenta anche a livello di metafora la novità della cristologia rispetto alla messianologia di partenza. Il tema infatti ha un'ampia attestazione in vari scritti delle origini cristiane (cf. Me 2,19-20; Mt 22,1-14; 25,1; Gv 3,29; 2Cor 11,2; Ef 5,25-27), ma è appunto in Ap che raggiunge il suo culmine. Abbiamo però ancora una volta una asimmetria di immagini. Come partner dell'Agnello infatti non corrisponde né un'agnella né alcun altro simbolo zoomorfo. La sua partner femminile, invece, è una "donna" (YUVTI: già in 12,lss [ma con valore di madre del Messia!] e poi in 19,7; 21,9), alla quale "fu dato di vestirsi di lino puro splendente" (19,8a)171; e, come subito precisa il testo (cf. 19,8b: "la veste di lino sono le opere giuste dei santi")172, è chiaro che essa appare come personificazione della chiesa. Essa è anche detta "sposa" (vu[x<pri, propriamente "fidanzata, sposa novella": 21,2.9; 22,17), che ha una doppia connotazione: è la chiesa-fidanzata del tempo presente che grida "Vieni!" (22,17) ed è anche la chiesa-sposa del tempo futuro, la escatologica Gerusalemme celeste (cf. 21,2.9). Le nozze escatologiche dell'Agnello sono l'argomento dell'ultima parte del libro: 21,1 - 22,5. Per la verità, le nozze in quanto tali non sono affatto descritte, essendo supposte sullo sfondo. Piuttosto l'attenzione del Veggente si sofferma su tre componenti specifiche dell'evento: lo scenario, la Sposa, e il paradiso restituito173. Bisogna riconoscere che, dal nostro punto di vista, la cristologia vera e propria qui non è più in primo piano come nelle sezioni precedenti. L'interesse primario infatti va rispettivamente a ciò che Dio crea di nuovo (21,1-8), alla descrizione della Sposa (21,9-27), e alla restituzione del paradiso perduto (22,1-5). Tuttavia, l'intero
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J. Jeremias, VU^TI, in GLNT, VII, coli. 1447s. Si noti come, anche attraverso il colore bianco del lino, questa donna si opponga nettamente alla Grande Prostituta del cap. 17, vestita di porpora e scarlatto (cf. sopra). 172 Contro chi vorrebbe vedere in questa spiegazione una glossa successiva estranea al testo, per il fatto che in Ap le vesti bianche simboleggerebbero soltanto la trasfigurazione escatologica dei credenti (così Charles, Lohse, Muller), giustamente Giesen p. 413 fa notare che la metafora delle vesti significa anche le opere (cf. 3,4.18; 7,14; 22,14). 173 Per questa struttura seguiamo J. Comblin, La liturgie de la nouvelle Jérusalem, ETL 29 (1953) 5-40, e P. Prigent, pp. 636ss. Altri suddividono in due sole sezioni (cioè: 21,1-8 e 21,9 - 22,5), per di più strettamente associate fra di loro (cf. Giesen, pp. 451 ss).
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testo va visto nella luce dell'evento nuziale escatologico, che riguarda appunto PAgnello-Cristo, il quale comunque riemerge nettamente nella seconda e terza sezione. 3.2.6.1 II teatro delle nozze, il loro scenario proprio (21,1-8). Esso è specificato fin dall'inizio come "un nuovo cielo e una nuova terra" (v. la), secondo un linguaggio che riprende quello di un celebre passo isaiano: "Ecco, io creo nuovi cieli e nuova terra" (Is 65,17), a sua volta ripetuto nell'apocalittica174. Corollario necessario di questa novità è la scomparsa di ogni lacrima (cf. Is 25,8: "Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto"; 65,17: "Non si ricorderà più il passato") come affermazione indiretta, in forma di litote, della gioia piena e duratura175. Viene così evidenziato il contesto cosmico dell'evento nuziale, per dire che ad esso partecipa tutto il creato (cf. Rm 8,18-22); esso anzi viene talmente sottolineato da negare anche ogni sopravvivenza del contesto precedente: "Infatti il cielo di prima e la terra di prima erano scomparsi, e il mare non c'era più" (v. Ib). La scomparsa del cielo e della terra anteriori significa il superamento totale del contesto in cui si esercitava l'antagonismo dualistico tra Dio e Cristo da una parte e il drago con le sue bestie dall'altra (cf. cap. 12); quanto al mare, esso non è soltanto il luogo da cui proveniva la prima bestia del cap. 13, ma anche lo spazio-ostacolo esistente davanti al trono di Dio (cf. 4,6) che evidenziava la sua lontananza dagli uomini. Ora si realizza in pienezza la comunione dell'alleanza secondo l'antica promessa: "Stabilirò la mia dimora in mezzo a voi e non vi respingerò. Camminerò in mezzo a voi, sarò vostro Dio e voi sarete il mio popolo" (Lv 26,11-12). Ma quest'ultima frase biblica, ora riferita agli uomini in generale, in 21,3 viene ritoccata in maniera assolutamente interessante al plurale: "Ed essi saranno suoi popo174
Per la letteratura intestamentaria, cf. soprattutto Giub. 1,29 ("... dal giorno della nuova creazione, allorché si rinnoveranno i cieli, la terra e tutte le loro creature... fino a che sarà creato il Santuario del Signore, in Gerusalemme, sul monte Sion"); lEn. 45,4-5 ("In quel giorno porrò in mezzo a loro il mio eletto, e muterò il cielo... e muterò la terra..."); 4Esd. 7,75 ("... se verremo conservati in riposo fino a quel tempo in cui dovrai rinnovare il creato"); 2Bar. 32,6 ("Non dobbiamo affatto addolorarci per il male che ora è venuto... Il Potente rinnoverà la sua creazione"); 1QS 4,25 (i due spiriti "Dio li ha disposti in parti uguali fino al momento finale fissato e alla nuova creazione"); 2Pt 3,13. 175 Vedi anche Is 35,10 ("Fuggiranno tristezza e pianto"); 4Esd. 8,53 ("La malattia è stata da voi estinta, la morte è stata nascosta, l'inferno è fuggito, la corruttibilità è dimenticata, sono passati i dolori"); 2Bar. 21,23 ("Sgrida dunque l'angelo della morte e sia veduta la tua gloria e conosciuta la grandezza della tua bellezza, e sia sigillato lo Sheol, così che da ora non prenda più i mortali").
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li", per mettere in luce anche la dimensione universalistica dell'evento stesso176, il quale ormai va ben oltre i confini dell'Israele storico: le stesse nazioni dei Gentili si trasformano in altrettanti popoli (di Dio). Infatti, ciò che conta non è più l'appartenenza a un popolo eletto (anzi, cf. 7,9!), ma semplicemente il fatto di essere "vincitore" (sottinteso: della bestia). Ed è questo che porta alla rilettura assolutamente inconsueta della profezia di Natan in 2Sam 7,14, che ora al v. 7 viene applicata non più a un davidide ma appunto a ogni vincitore! A tutti costoro spetta come ricompensa l'acqua della vita (cf. 21,6; 22,1), a cui è premura dell'Agnello-pastore di condurre i suoi testimoni (cf. 7,17). Ne restano esclusi tutti i "vili e increduli e abominevoli e omicidi e immorali e fattucchieri e idolatri e tutti i mentitori" (v. 8). Questo catalogo di otto vizi, che si compendia di fatto nel peccato di infedeltà al Signore come dedizione all'idolatria e al culto della bestia (l'imperatore), ha indirettamente un chiaro scopo parenetico per i lettori del libro. La sorte inevitabile di questi trasgressori è lo stagno ardente di fuoco e zolfo, cioè la Geenna, e dunque la "morte seconda" (21,8; 20,14; 2,11)177. 3.2.6.2 "La sposa dell'Agnello... la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio" (21,9-10; cf. 21,2: "la nuova Gerusalemme ... pronta come una sposa ornata per il suo uomo"). La semantica di questa metafora oscilla tra una dimensione spaziale (una città) e una dimensione personalistica (una donna): probabilmente, combinandole insieme, essa va intesa come il luogo in cui si ritrova la comunità cristiana; la sposa infatti ha evidentemente una dimensione collettiva, e la 176 Dal punto di vista testuale il plurale Xaoi è solo appena meglio attestato del singolare X<xó<;, ma va ritenuto anche perché è lectio difficilior, cosicché l'altra lezione sa di correttura intenzionale. Forse il testo si può giustificare anche in base a Zc 2,15: "Nazioni numerose aderiranno in quel giorno al Signore e diverranno suo177popolo ed egli dimorerà in mezzo a te". L'espressione "morte seconda" designa la dannazione eterna ed è frequente nei Targum (mwf tnyn'; cf. Tg Dt 33,6; Tg Is 22,14; 65,15; Tg Ger 51,39.57); la stessa espressione greca BeuTepo? 9àvaxo<; si trova anche in Plutarco, Mor. 942F, dove però sta a significare la separazione del noùs dalla psyché, conseguente a quella di ambedue dal sòma. Una interpretazione come esclusione dalla risurrezione è sostenuta da J. Roloff, Weltgericht und Weltvollendung in der Offenbarung des Johannes, in H.-J. Klauck, ed., Weltgericht und Weltvollendung. Zukunftsbilder im Neuen Testament, QD 150, Herder, Freiburg i.B. 1994, pp. 106-127 qui 119; tuttavia, anche se è vero che a Qumràn si parla di "oscurità del fuoco eterno" e di "ignominia della distruzione per mezzo del fuoco delle regioni tenebrose" (1QS rispettivamente 2,8 e 4,13), in Dn 12,2 è esplicitamente prevista una risurrezione anche per la vergogna e l'infamia eterna (cf. J.J. Collins, Daniel, p. 393).
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sua identificazione con la comunità credente è senza alternative (cf. 3,12; 19,7-8). Ma viene precisato doppiamente che la sua origine è celeste e perciò che la sua bellezza reca il timbro di quella divina (cf. Ef 5,26-27)178. Il tema della nuova Gerusalemme è omogeneo al precedente; infatti, esso è già presente in Isaia nello stesso passo dei cieli nuovi e della terra nuova, dove si continua così: " E farò di Gerusalemme una gioia, del suo popolo un gaudio: io esulterò di Gerusalemme, godrò del mio popolo; non si udranno più in essa voci di pianto, grida di angoscia" (Is 65,18b-19; soprattutto Is 60!). Invece il tentativo di una minuta descrizione della nuova città deriva da Ez 40-48, dove il profeta esprime la sua utopia sulla ricostruzione della città santa dopo l'esilio babilonese (cf. pure Zc 12,1 -13,6), anche se non mancano paralleli nella grecità179. Ma il tema è comunque colorato dalle tradizioni apocalittiche in materia, dove esso è trattato variamente180: Ap si inserisce in un filone di pensiero, secondo cui la Gerusalemme definitiva già preesiste ma sarà manifestata solo nei tempi ultimi. L'atmosfera dominante è quella dello splendore, della preziosità e quindi della bellezza (cf. l'utilizzo dei nomi di varie pietre preziose, oltre all'oro "puro come cristallo"). Ad esso è connesso il tema di un'unione con Dio quanto mai intima, che prescinde da ogni mediazione: infatti abbiamo qui l'inaudita affermazione che non vi è nessun Tempio, "perché il Signore Dio, l'Onnipotente, e l'Agnello sono il suo Tempio" (21,22); addirittura vi mancano sia il sole sia la luna, "perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l'Agnello" (21,23). Riecheggiano qui alcuni testi profetici, come Is 60,19 ("Il Signore sarà per te luce eterna, il tuo Dio 178 Cf. É. Cothenet, L'Église, Épouse du Christ (Ep 5; Ap 19 et 21), in Id., Exégèse et Liturgie, LD 133, Cerf, Paris 1988, pp. 237-261. 179 Caso classico è la descrizione della città di Babilonia in Erodoto 1,178-183 (dove anche si descrivono l'estensione, le mura, le porte, la presenza di un fiume, della reggia e del tempio in mezzo ad essa; in particolare abbiamo la stessa impostazione quadrangolare, -cexpórfoùvo?: Ap 21,16 ed Erodoto 1,178,2), presentata come città perfetta; in subordine, cf. anche la descrizione di Alessandria in Strabone 17,6-10. Vedi in generale U. Sim, Das himmlische Jerusalem in Apk 21,1-22,5 im Kontext biblisch-jùdischer Tradition und antiken Stàdtebaus, Bochumer Altertumswissenschaft Coli. 25, Wissenschaft Verlag, Trier 1996. 180 Vi si possono individuare tre prospettive diverse sulla nuova Gerusalemme: o è una realtà terrestre degli ultimi tempi (cf. lEn. 90,29; Or.Syb. 1,102-101.112-116; Test.Dan 5,12; 2Bar. 32,2-4) o è una realtà celeste a cui bisogna ascendere (cf. 4Esd. 8,52; 2Bar. 4,1-7; 4Bar. 5,35; Eb 12,22-24) o è una realtà celeste che discende sulla terra (cf. 4Esd. 7,26; 10,25-54; 13,36; Ap 21); vedi P.J. King, Jerusalem, in ABD 3, pp. 747-766 qui 765.
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sarà il tuo splendore") ed Ez 48,35 ("Il nome della città sarà da quel giorno: Yhwh è lì"). Rispetto ad essi la novità più significativa è la presenza dell'Agnello, che condivide le stesse proprietà di Dio: insieme essi sono "Tempio" (21,22), e la distinzione tra "gloria" e "lampada" (21,23) dice che l'Agnello-Cristo è semplicemente il modo concreto con cui la gloria di Dio brilla nella città181. È come dire che la Sposa trova nel suo Sposo Dio stesso. 3.2.6.3 II paradiso terrestre restituito (cf. 22,1-5). Il contenuto di questa sezione è riassumibile attorno a tre immagini di spicco, che, per la mediazione di altrettanti testi profetici, collegano la pagina al racconto genesìaco delle origini. Prima immagine: "Un fiume d'acqua viva, limpida come cristallo, scaturiva dal trono di Dio e dell'Agnello" (22,1); sullo sfondo immediato c'è il passo di Ez 47,1-5: "Sotto la soglia del Tempio usciva acqua verso oriente... era un fiume che non potevo attraversare"; ma a monte ci sta Gn 2,10: "Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino". Seconda immagine: "In mezzo alla sua piazza182, da una parte e dall'altra del fiume, c'è un albero di vita che fa dodici frutti, uno al mese... le foglie serviranno per guarire le nazioni" (22,2; cf. anche 2,7); sullo sfondo ancora una volta abbiamo Ez 47,7-12: "Sulla sponda del fiume vi era una grandissima quantità di alberi da una parte e dall'altra... i loro frutti matureranno ogni mese... le foglie serviranno come medicina"; ma a monte c'è sicuramente Gn 2,9: "Il Signore Dio fece germogliare ogni sorta di alberi... tra cui l'albero della vita in mezzo al giardino". Terza immagine: " E non vi sarà più maledizione" (22,3); l'affermazione richiama Zc 14,11: "Non vi sarà più sterminio"; ma sullo sfondo si intravede necessariamente Gn 3,16-22 con la sentenza di condanna comminata da Dio ad Adamo ed Eva dopo il peccato. Come si vede, il richiamo ai primi capitoli del Genesi è evidente, ed esso ha lo scopo di dire che nell'éschaton, da una parte, vengono ripristinate le condizioni di vita e prosperità simboleggiate dall'acqua e dall'albero, e, dall'altra, viene finalmente revocata ogni sanzione punitiva poiché non
181 Sullo sfondo si possono intravedere testi del Quarto Vangelo tematicamente omogenei, come quelli dell'inutilità di ogni tempio (cf. Gv 4,21.23-24), di Cristo stesso come tempio (cf. Gv 2,21) e come luce (cf. Gv 8,12), e quello basilare della gloria divina che risplende nel Verbo incarnato (cf. Gv 1,14).
182 N o t i a m o che il termine greco nkaiiìa. (Ap 11,8; 21,21; 22,2) p r o p r i a m e n t e n o n significa " p i a z z a " (che sarebbe agorà): esso è soltanto aggettivo femminile di rcXaTui; e, per q u a n t o sostantivato, si riferisce a ogni spazio a m p i o presente in u n a città, s o p r a t t u t t o a u n a strada (cf. G n 19,2 L X X ; Le 10,10; S t r a b o n e 17,1,10).
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ha più alcuna ragion d'essere. Ebbene, è in questo contesto paradisìaco che è collocato "il trono di Dio e dell'Agnello" (22,1.3): esso oramai non è più in una lontana corte celeste separata dagli uomini (come all'inizio delle visioni nei capp. 4-5), ma è "in mezzo alla città", nel cuore della convivenza umana. Esso, inoltre, associa Dio e l'Agnello al punto che nei vv. 3-4 ("i suoi servi lo adoreranno e vedranno il suo volto e porteranno il suo nome sulla loro fronte") i pronomi "lo" e "suoi-suo (lett. di lui)" sono usati al singolare in riferimento a entrambi, Dio e l'Agnello, indistintamente insieme. È vero che questo singolare si può spiegare grammaticalmente come semplice concordanza con il sostantivo singolare "trono"; ma non è in rapporto al trono che si parla di adorazione-volto-nome: questi sono concetti personali, ed è perciò evidente che Dio e l'Agnello sono sussunti in una sola realtà183. Di fatto è su questa prospettiva di comunione escatologica che si chiude il libro delle visioni, ed è una comunione che riguarda sopratutto quella vicendevole tra Dio e l'Agnello, la quale però è funzionale a quella degli eletti con loro.
4. Cristologia e celebrazione innica Caratteristica inconfondibile della nostra Apocalisse è che essa esprime anche una intensa celebrazione ecclesiale della fede cristiana. La dimensione ecclesiale è constatabile a tre livelli: — tutto il libro si presenta in una cornice epistolare, come una sola lettera inviata "alle sette chiese che sono in Asia" (1,4), di cui le sette lettere dei capp. 2-3 non sono che una parte e una specificazione184; — il libro si suppone letto durante un'assemblea liturgica (cf. 1,3: "Beato chi legge e quelli che ascoltano") tenuta "nel giorno del Signore" (1,10) a una comunità in ascolto che interviene esclamando: "Sì, amen" (1,7) e "Vieni, Signore Gesù" (22,17.20)185; — c'è poi l'assemblea celeste, costituita non solo dai 24 Anziani (cf. 183 Cf. Sai 17,15: "Contemplerò il tuo volto... mi sazierò della tua presenza"; lGv 3,2: "Lo vedremo così come egli è"; ICor 13,12: "Allora vedremo faccia a faccia" (proprio come a Mosè non era stato concesso in Es 33,20-23). 184 Vedi in proposito il lavoro di M. Karrer, Die Johannesoffenbarung als Brief. Studien zum literarischen, historischen und theologischen Ort des Werkes, FRLANT 140, Vandenhoeck, Gòttingen 1986. 185 Cf. U. Vanni, L'Apocalisse, pp. 73-86 ("L'assemblea ecclesiale 'soggetto interpretante' dell'Apocalisse") e pp. 87-97 ("L'assemblea liturgica si purifica e discerne nel giorno del Signore").
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4,4.10...), ma anche dai 144.000 segnati (cf. 7,4; 14,1) e soprattutto da "una moltitudine immensa che nessuno poteva contare" (7,9; cf. 5,11)186. Ebbene, a ciascuno dei tre livelli è presente e rimarcata la confessione cristologica. Essa però nel terzo livello diventa vera e propria celebrazione innica, che si esprime in molteplici pezzi di confessione gioiosa della fede cristiana. È qui che si addice più che mai all'Apocalisse di Giovanni la definizione di "vangelo innico"187. Ma bisogna precisare quante sono e a chi sono rivolte le composizioni inniche isolabili dal contesto narrativo. E allora risulta che dei sedici inni configurabili come tali188 la proporzione è la seguente: - nove sono rivolti soltanto a Dio: 4,8; 4,11; 7,12; 11,17-18; 15,3-4; 16,5-6; 16,7; 19,1-3; 19,5; - cinque sono rivolti insieme a Dio e a Cristo: 5,13; 7,10; 11,15; 12,10-12; 19,6-8; - due sono rivolti soltanto all'Agnello: 5,9-10; 5,12. Questa proporzione stabilisce anche l'esatto rapporto fra teologia e cristo-logia. L'esaltazione di Cristo non deve mai perdere di vista che ciò di cui si tratta è "il mistero di Dio" (10,7), sia pure da intendersi in senso funzionale e storico-salvifico. Cristo è associato al trono di Dio e alle sue funzioni, e solo in quanto tale merita lode e adorazione189. Come abbiamo visto a proposito di 21,23, 186
Cf. analogamente a Qumràn i "Canti dell'olocausto del sabato" in 4Q400-406e 11Q17. 187 Vedi in merito i due studi di K.-P. Jòrns, Das hymnische Evangelium. Untersuchungen zu Aufbau, Funktion und Herkunft der hymnischen Stucke in der Johannesoffenbarung, "Studien zum Neuen Testament" 5, Mohn, Gòtersloh 1971 (l'Autore sostiene, mi pare giustamente, che i brani innici presenti in Ap sono dovuti non a una tradizione pre-redazionale ma allo stesso compositore del libro); e D.R. Carnegie, Worthy is theLamb: TheHymns in Revelation, in H.H. Rowdon, ed., Christ the Lord. Studies in Christology Presented to D. Guthrie, InterVarsity, Leicester 1982, pp. 243-256. 188 Questo è di fatto il computo di K.-P. Jòrns, Das hymnische Evangelium, pp. 19-21, contro S. Làuchli, Eine Gottesdienststruktur in der Johannesoffenbarung, ThZ 16 (1960) 359-378, che ne computava ben 27: da essi però vanno esclusi i pezzi tratti dalla cornice epistolare (quattro in l,5b.5c.6b.7-8; e cinque in 22,12. 13.17.20.21). 189 Tuttavia è eccessivo ridurre la cristologia di Ap a un mero subordinazionismo, come fa K.-P. Jòrns, Das hymnische Evangelium, pp. 172-173; nel libro c'è comunque l'idea forte della pre-esistenza di Cristo insieme a quella della condivisione della divinità da parte del Risorto, che non vanno trascurate (cf. M. Hengel, Die Throngemeinschaft, cit.). Quanto alla cristologizzazione della teo-logia in Ap, cf. J.-N. Aletti, Gesù Cristo: unità del Nuovo Testamento?, Boria, Roma 1995 (orig. frane, Paris 1994), pp. 240-243.
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lo splendore della dqxa è di Dio, ma essa rifulge attraverso il /yc/wos-lampada che è l'Agnello. Anche la chiesa storica lo sa e lo confessa e lo canta, poiché essa è sempre ancora la fidanzata, la sposa promessa, che giubilando invoca: "Vieni!" (22,17; cf. 22,10).
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Vili
CONCLUSIONE GENERALE
Il cammino che abbiamo percorso alla ricerca dei ritratti originali di Gesù il Cristo all'interno del Nuovo Testamento è stato lungo e sfaccettato. Esso è partito sulla scorta di un principio metodologico fondamentale, che qui ripetiamo: il cristianesimo è nato due volte, una volta in Galilea con la predicazione del regno di Dio da parte di Gesù e una volta a Gerusalemme con l'annuncio della sua risurrezione da parte della chiesa. Analogamente, la cristologia ha avuto due basi, necessarie e complementari: l'autocomprensione personale di Gesù e l'annuncio pasquale dei suoi primi testimoni (e ciò è stato materia del volume I). Tutto il resto è sviluppo; e si è rivelato uno sviluppo quanto mai ricco e differenziato, tale appunto da non permettere di parlare di un solo ritratto di Gesù ma di tanti quanti sono gli scrittori che di lui si sono interessati fin dalle prime generazioni cristiane (e questo è stato materia del volume II). La nostra indagine ha evidentemente privilegiato l'analisi, insieme letteraria e storica, dei singoli autori-ritrattisti. E non poteva avvenire diversamente, se volevamo essere fedeli al genus historicum della ricerca e persino della teologia biblica. Del resto, è proprio questo tipo di approccio che ci ha permesso di renderci conto, da una parte, di quante voci sia già composta la polifonia delle prime riflessioni su Gesù Cristo, e, dall'altra, di quanto superiore sia la sua personalità completa rispetto al quadro che ogni singolo pensatore ne ha delineato. Ma a questo punto ci si impongono due questioni generali e conclusive, alle quali occorre almeno tentare di dare una risposta. La prima è di carattere diacronico, e riguarda l'inaudito trapasso che la figura di Gesù ha sperimentato nella confessione della fede cristiana da semplice predicatore galileo a Signore del mondo e della storia associato a Dio stesso: come giustificare un simile processo? Il punto di arrivo è ancora fedele al punto di partenza? La seconda questione è di carattere sincronico, e si chiede se mai sia possibile, al di là e a dispetto della molteplicità di ritratti che abbiamo
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CONCLUSIONE GENERALE
ricavato dalle fonti, stabilire tra di essi una omogeneità tale da poter dire che si tratta comunque sempre dello stesso personaggio: è ancora reperibile l'uno nei molti? Cioè, dobbiamo rassegnarci all'esistenza di molte cristologie incompatibili tra di loro oppure è possibile stabilire l'esistenza di un'unità nella cristologia neotestamentaria? Qui di seguito prendiamo brevemente in considerazione ciascuno di questi due problemi. 1. La crescita della cristologia neotestamentaria Nella storia della ricerca la presa di coscienza di una eventuale diastasi tra il Gesù soggetto e il Gesù oggetto di predicazione, e quindi il problema della coerenza o incoerenza tra le due fasi, è relativamente recente. Qui ne richiamiamo solo i momenti forti per venire alla discussione attuale. La sua prima formulazione risale all'età dell'illuminismo e venne fatta in Germania. Fu Samuel Reimarus nel secolo XVIII a sostenere per primo che dopo la morte di Gesù i discepoli, delusi per la non avvenuta redenzione terrenapolitica predicata dal maestro, inventarono la figura di un redentore sofferente che agisce nella sfera spirituale del peccato1. La radicale discontinuità proposta da questa tesi fu in parte superata dal binomio impostosi alla fine del secolo XIX con Martin Kàhler, che distingueva tra il Gesù storico e il Cristo biblico a tutto vantaggio del secondo2, imponendo una terminologia fortunata che conobbe ulteriori variazioni (come: il Gesù della storia e il Cristo della fede; oppure: il Gesù storico e il Cristo kerigmatico). La distinzione venne ripresa ed enfatizzata nel secolo XX da Rudolf Bultmann in senso unilaterale con la svalutazione della storia di Gesù e l'affermazione della sola fede pasquale come distintiva dell'identità cristiana. Nel giro di due secoli si raggiunse così l'esatto contrario di ciò che all'inizio si voleva affermare: la ricerca del Gesù storico, da cui si era partiti, venne abbandonata per insistere soltanto sul Cristo predicato dalla chiesa. Ma da almeno un trentennio sono stati apportati i necessari aggiustamenti a questi sbilanciamenti er1 Le tesi di Reimarus furono pubblicate postume da Lessing nel 1778 nello scritto "Sullo scopo di Gesù e dei suoi discepoli", reperibile in italiano nell'opera: H.S. Reimarus, Iframmenti dell'Anonimo di Wolfenbiittelpubblicati da G.E. Lessing, a cura di F. Parente, "Istituto Italiano per gli studi filosofici -Testi" 3, Bibliopoli^, Napoli 1977, pp. 349-534. 2 Cf. il volume I, p. 11 nota 13.
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meneutici (cf. per esempio Ernst Kàsemann), sicché oggi possiamo dire di poggiare i piedi su di una posizione più sicura ed equilibrata3. Tuttavia il problema di fondo rimane, ed è sempre quello del rapporto tra gesuologia e cristologia: se, cioè, per conoscere in pienezza la figura di Gesù sia sufficiente ricostruire le coordinate geografiche-storiche-ideali della sua vita e della sua predicazione all'interno di Israele o se occorra in più inserire nella definizione della sua identità le varie componenti elaborate dalla chiesa postpasquale e dai suoi portavoce più eminenti come Paolo e altri. I termini di questo problema si devono ulteriormente precisare così: ciò che fu detto di lui dopo la sua morte-risurrezione può essere visto in continuità omogenea con ciò che egli storicamente ritenne di se stesso oppure rappresentò un passo in avanti eterogeneo e ormai inconciliabile? Come superare "l'orribile largo fossato" {der garstige breite Graberi), non traghettabile, di cui parlava Lessing già due secoli fa4? In sostanza, ha forse ragione Nietzsche a dire che "il Vangelo morì sulla croce" e che quel che venne dopo fu soltanto "una cattiva novella"5? Certamente per rispondere a un interrogativo tanto bruciante la ricerca storica non basta, ed è invece decisiva la fede, a cui del resto l'incredulità è soltanto specularmente contraria. Del resto, già fin dalle origini fu così, ben prima di ogni questione posta a tavolino dai critici, quando si trattò di decidere per la prima volta se Gesù era soltanto un bestemmiatore (cf. Mt 26,65) e un malfattore (cf. Gv 18,30), come molti e anzi i più sostennero, oppure confes3 Al punto che, sia pure da parte di un filosofo e non di un neotestamentarista, si è giunti a invertire significativamente i termini del suddetto binomio nel titolo di un recente libro di C.S. Evans, The Historical Christ and the Jesus of Faith. The4 Incarnational Narrative as History, Clarendon, Oxford 1996. Cf. G.E. Lessing, Uber den Beweis des Geistes und der Kraft, 1777, traduzione italiana: "Sul cosiddetto 'argomento dello spirito e della forza"', in Id., La religione dell'umanità, a cura di N. Merker, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 65-71. Egli parlava appunto di un fossato, che riteneva invalicabile in un doppio senso: da una parte, su un piano piuttosto storico, esso consiste in una incolmabile distanza cronologica e qualitativa tra l'esperienza privilegiata e irripetibile dei primi discepoli con Gesù e noi posteri, che non avremmo a disposizione altra evidenza all'infuori di semplici notizie su quell'esperienza stessa; dall'altra e soprattutto, su un piano più teorico, esso consiste in uno iato incolmabile che si interpone tra le verità storiche e le verità razionali, essendo le seconde non deducibili dalle prime, così che risulterebbe impossibile il passaggio da una sponda all'altra (cf. l'aristotelica metabasis in alium genus). 5 F. Nietzsche, L'Anticristo. Maledizione del cristianesimo, Adelphi, Milano 8 1987, p. 50.
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sare che egli era il Cristo, il figlio del Dio vivente (cf. Mt 16,16), e riconoscere che se egli non fosse risorto noi saremmo ancora nei nostri peccati (cf. ICor 15,17), come fecero invece i suoi discepoli. L'incredulità fu degli estranei; la fede invece fu degli intimi, anche se maturata su non poche incertezze, ottusità e viltà. Una cosa è sicura: la storia del cristianesimo non comincia con l'incredulità di Erode, di Caifa, o di Pilato, ma con la confessione forte di un discepolo, del tipo "Signore mio e Dio mio" (Gv 20,28), o anche solo con quella più estenuata che però ammette: "Quest'uomo era veramente figlio di Dio" (Me 15,39). Negli anni recenti il problema è stato di nuovo sollevato in termini icastici da uno studioso inglese con un libro dal titolo quanto mai provocatorio: Da profeta giudeo a dio pagano6. Anche se la discussione da esso suscitata, per quanto mi risulta, è stata condotta solo in ambito anglosassone7, vale però la pena di prendere in considerazione le sue tesi. L'Autore non intende tanto emettere un personale giudizio di rifiuto sul passaggio da un polo all'altro quanto invece confrontare storicamente la fede cristologica delle origini cristiane con il monoteismo giudaico di provenienza, da cui essa si sarebbe gradatamente staccata. La discussione perciò verte sulla possibilità che gli sviluppi più forti della cristologia possano ancora vantare un aggancio con la matrice giudaica oppure se si debba ammettere una soluzione di continuità tale da costituire una metabasis in alium genus, cioè un trapasso in qualcosa di irrimediabilmente diverso. Partendo dal presupposto di otto caratteristiche ritenute come altrettanti contrassegni dell'identità giudaica8, 6 P.M. Casey, From Jewish Prophet to Gentile God. The Origins and Development of New Testament Christology, The Edward Cadbury Lectures at the University of Birmingham 1985-1986, James Clarke, Cambridge 1991, pagine 197. 7 Su un versante critico si sono pronunciati: J.C. O'Neill, An Introduction to a Discussion with Dr. Maurice Casey about His Recent Book, IrBiblStud 14 (1992) 192-198; L.W. Hurtado, WhatDo WeMeanby 'First-Century JewishMonotheism'?, in E.H. Lovering, Jr., ed., Society of Biblica! Literature: 1993 Seminar Papers, Scholars Press, Atlanta 1993, pp. 348-368; J.D.G. Dunn, The Making of Christology - Evolution or Unfolding?, in J.B. Green & M. Turner, edd., Jesus of Nazareth: Lord and Christ. Essays on the Historical Jesus and New Testament Christology, Eerdmans/Paternoster, Grand Rapids/Carlisle 1994, pp. 437-452. L'Autore, da parte sua, è tornato sulle sue tesi con due altre pubblicazioni: From Jewish Prophet to Gentile God. A Replay to Professor O'Neill, IrBiblStud 16 (1994) 50-65, e soprattutto The Deification of Jesus, in E.H. Lovering, Jr., ed., Society of Biblica! Literature: 1994 Seminar Papers, Scholars Press, Atlanta 1994, pp. 697-714. 8 Questi "identity markers" sono: l'appartenenza etnica, il riferimento alle Scritture, la fede monoteistica, la pratica della circoncisione, l'osservanza del sabato, le norme alimentari, le leggi di purità e le festività maggiori. Vengono invece considerati secondari altri due fattori: il Tempio (poiché, a parte il caso di Leontopoli,
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la diversità viene delineata in rapporto non solo al giudaismo ma anche al primo dei tre stadi in cui l'Autore divide lo sviluppo della cristologia neotestamentaria. Questi sono così pensati: primo, quando sia Gesù sia le comunità cristiane sono naturalmente inseriti nel quadro del monoteismo giudaico (essendo la chiesa formata solo da ebrei convertiti); secondo, quando le comunità cristiane sono composte in forma mista, ma ancora bilanciata, da ebrei e da gentili convertiti; terzo, quando esse sono ormai costituite soltanto o prevalentemente da gentili che hanno comunque il sopravvento religioso-culturale. Cronologicamente i primi due sono anteriori al 70; il terzo invece appartiene alla fine del secolo I e coincide essenzialmente con la comunità giovannea. Infatti, mentre un testo come Fil 2,6-11 non avrebbe ancora nulla a che vedere con l'affermazione della natura divina di Gesù, il testimone dell'avvenuto trapasso sarebbe il Quarto Vangelo con la sua cristologia tanto alta da fare ormai di Gesù un dio, anche se non un 'secondo dio' 9 : a questo punto la rottura con il monoteismo giudaico sarebbe ormai completa e irrevocabile. Ne sono segno, da parte giudaica, l'espulsione dei cristiani dalle sinagoghe (cf. Gv 9,22; 10,42) e, da parte cristiana, il giudizio completamente negativo dato sui Giudei e sulla loro incredulità (da Gv 1,11 fino a 20,19)10. Su questa ricostruzione si devono necessariamente fare alcuni rilievi critici. Il rilievo fondamentale riguarda la semplificazione dei dati. Casey infatti trascura di prendere in considerazione due fattori che sono decisivi per comprendere e raffigurarsi adeguatamente lo sviluppo della cristologia neotestamentaria. L'uno concerne le premesse anticotestamentarie e giudaiche, che costituiscono il Sitz im Leben generale delle origini cristiane, compresa la predicazione di Gesù, e che vertono sulla figura e celebrazione di particolari in-
alcuni giudei si consideravano tali pur senza frequentarlo, come gli esseni) e la terra d'Israele (poiché, mentre da una parte vari gentili abitavano in essa, molti ebrei invece vivevano ormai stabilmente nella diaspora). 9 Cf. l'analisi negativa che di Gv fa lo stesso P.M. Casey, Is John's Gospel True?, Routledge, London 1996. 10 Secondo Casey, il collegamento della comunità giovannea con il giudaismo sarebbe costituito soltanto da un punto e mezzo (sugli otto sopraelencati), cioè: mezzo punto dall'appartenenza etnica, in quanto l'esclusione dalle sinagoghe suppone in essa una buona componente giudaica; mezzo punto dall'impiego delle Scritture, in quanto la comunità le accettava solo come testimonianza su Gesù, rifiutando la halakah fondata su di esse; mezzo punto dal monoteismo, in quanto essa, rifiutando il culto ad altri dèi, si poteva considerare monoteistica da un punto di vista gentile, ma non dal punto di vista giudaico (cf. The Deification of Jesus, p. 707).
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termediari 'divini'11. Troppo sbrigativamente egli accenna sia a Sap 10-11 (per dire che, se anche la Sapienza appare qui come conduttrice della storia della salvezza secondo un ruolo che è proprio di Dio stesso, essa però non viene mai presentata come una divinità) sia all'uso estenuato della qualifica "dio" (tanto per gli angeli a Qumràn quanto per Mosè o il Logos in Filone Alessandrino). Come ha fatto notare Hurtado, il monoteismo giudaico del tempo coesiste sia con la personificazione di particolari attributi divini (come la Sapienza, il Logos, lo Spirito) sia con l'esaltazione di alcune figure di patriarchi (come Enoch e Mosè), oltre che con la statura 'divina' di alcuni angeli (soprattutto Michele; a Qumràn detti addirittura 'elim, "dèi"). L'esaltazione di Gesù, del resto, non viene presentata con i moduli greco-romani dell'apoteosi dell'eroe, ma affonda le sue radici ermeneutiche nell'humus del giudaismo. In effetti, in lui come personaggio storico concreto si fondono tre dimensioni che nel giudaismo si trovano unite solo in alcuni personaggi, cioè la funzione di iniziatore, quella di un intervento attuale, e quella di una consumazione futura; esse si trovano insieme soltanto in Michele, nell'Angelo della luce (a Qumràn), in Mosè, e soprattutto in Enoch12. L'altro fattore riguarda la possibilità che a Gesù siano stati attribuiti dei tratti divini già ben prima del cosiddetto terzo stadio. Infatti, in nessun ambito del giudaismo contemporaneo esiste nei confronti dei suddetti intermediari una venerazione e tantomeno un culto paragonabili a ciò che si è verificato per Gesù certamente già prima del 7013. Infatti, che il crocifisso-risorto sia stato pen11 Vedi in merito l'importante libro di L.W. Hurtado, One God One Lord. Early Christian Devotion andAncient Jewish Monotheism, SCM Press, London 1988 (con la recensione di P. Rainbow, Jewish Monotheism as the Matrix for New Testament Christology: A ReviewArtide, NT 33 [1991] 78-91); inoltre: Id., WhatDo WeMean by 'First-Century Jewish Monotheism'?, (cit.), e in particolare P.G. Davis, Divine Agents, Mediators, and New Testament Christology, JTS 45 (1994) 479-503. 12 Cf. P.G. Davis, Divine Agents, pp. 491-497; in altre figure di intermediari il fattore-tempo viene invece trattato in forma separata: nel passato Abramo e Davide, nel presente gli angeli (specie Gabriele e Raffaele), nel futuro Elia, il figlio di David, e il figlio dell'uomo. 13 In proposito vengono enumerati sei fattori caratteristici: la composizione di inni in suo onore (cf. Fil 2,6-11; Col 1,15-20; Gv 1,1-18; l'utilizzo del Salmo 110); la preghiera rivolta a Cristo (cf. ICor 1,2; 2Cor 12,2-10; lTs 3,11-13; gli auguri epistolari della grazia e della pace; inoltre: At 7,59-60); il nome di Cristo invocato nel battesimo (cf. Rm 10,9-13; At 9,14.21; 22,16) e acclamato nelle assemblee (cf. ICor 5,4; 12,3; 16,22); la celebrazione della Cena del Signore (cf. ICor 11,23-26); la confessione della fede in Gesù (cf. ICor 15,3-5; Rm l,3b-4a; Mt 10,32); espressioni di profezia nel suo nome (cf. At 16,7; Ap 1,17 - 3,22).
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sato come glorificato alla destra di Dio, portatore del nome divino di Kyrios, atteso come Figlio dell'uomo nella gloria, e che sia diventato oggetto di preghiera e di venerazione, tutto questo richiede un impulso che va ben oltre quello che lo sfondo giudaico poteva provvedere e che invece consistette semplicemente nella vitamorte-risurrezione di Gesù stesso, oltre che in una imprevedibile ma determinante esperienza dello Spirito14. Tutto ciò ha comportato inevitabilmente un qualche mutamento all'interno del monoteismo giudaico, avvenuto molto presto; la formula che leggiamo in ICor 8,6, con l'inaudita distinzione tra "Dio" e "Signore", che nello Èemac di Dt 6,4 sono assolutamente identificati, lo fa già vedere con grande chiarezza. Del resto, una lettura diversa di Fil 2,6-11 conduce a ritenere che "nel giro di neanche due decenni il fenomeno cristologico è andato incontro ad un processo le cui proporzioni sono maggiori di quelle più tardi raggiunte durante i successivi sette secoli"15. I motivi di un tale mutamento sono di vario genere. Il primo motivo è già P autocomprensione che il Gesù terreno aveva di se stesso: senza voler ripetere qui ciò che abbiamo già detto (cf. volume I, capitolo 1), ricordiamo soltanto che in Me 8,38 egli afferma che l'atteggiamento adottato nei suoi confronti assume un rilievo decisivo ai fini della salvezza escatologica; ciò in Israele non era mai avvenuto a proposito di nessun uomo. Del resto, tutti gli sviluppi successivi della cristologia post-pasquale si agganciano precisamente a quel personaggio storico, nonostante avesse subito la pena infamante della crocifissione: questi sviluppi non avrebbero potuto verificarsi, se quello stesso personaggio non li avesse in qualche modo giustificati; d'altronde, le più comuni tradizioni gesuane hanno avuto corso nelle chiese del secolo I esattamente insieme alle più alte celebrazioni di lui. // secondo motivo è dato dall'inaspettata esperienza degli incontri pasquali con il Risorto: è allora che la comunità cristiana si è resa conto pienamente per la prima volta che "la gloria di Dio brilla sul volto di Cristo" (2Cor 4,7) e ne ha trat14 Cf. B. Byrne, Christ's Pre-Existence in Pauline Soteriology, "Theological Studies" 58 (1997) 308-330, p. 313. 15 M. Hengel, Il figlio di Dio. L'origine della cristologia e la storia della religione giudeo-ellenistica, SB 67, Paideia, Brescia 1984 (orig. ted., Tùbingen 21977), p. 18. Il medesimo Autore propugna la decisività per lo sviluppo del dogma cristologico della chiesa di Gerusalemme già prima di quella di Antiochia, soprattutto per il motivo del tema della Sapienza divina pre-esistente applicato a Gesù: cf. M. Hengel & A.M. Schwemer, Paul Between Damascus and Antioch. The Unknown Years, SCM Press, London 1997, per esempio pp. 101-105.
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to le dovute conseguenze. Senza la risurrezione, delle due l'una: o non ci sarebbe stato cristianesimo oppure esso si sarebbe limitato a una setta come quella di Qumràn e Gesù avrebbe avuto tutt'al più una sorte analoga a quella del Maestro di Giustizia. Essa invece ha avuto il doppio effetto di ricuperare la dimensione del passato terreno di Gesù, soprattutto della sua passione, e di scatenare una serie di esplicitazioni circa la sua identità, che altrimenti sarebbero state larvatamente nascoste. Invece, avendo constatato per fede che Gesù sedeva ormai alla destra di Dio in una dimensione celeste, diventava logico concluderne che a lui era stata riservata la dignità divina di "Signore" (Fil 2,9-11) e quindi associarlo inscindibilmente a Colui che siede sul trono (cf. Ap 5,6; 22,3-4). Solo come terzo motivo si può addurre la polemica antigiudaica come risposta ai sospetti e alle opposizioni manifestate appunto dal giudaismo nei confronti del nuovo gruppo nato di recente nel suo seno. La polemica, cioè, favorì una più precisa messa a punto dei termini della cristologia. Ma, pur assumendo il periodo fra le due guerre giudaiche e quindi l'emergenza del rabbinismo come momento decisivo per la separazione definitiva delle strade fra giudaismo e cristianesimo16, non è corretto dire che l'espulsione dalle sinagoghe precedette, invece di seguire, l'affermarsi di una cristologia forte17. Può ben essere vero che le ragioni maggiori di controversia tra giudaismo e cristianesimo, oltre alla missione ai gentili con la connessa necessità o meno di imporre loro l'osservanza della Torah, all'inizio riguardarono più l'affermazione di Gesù come Messia crocifisso che non la sua divinità. Ma questa seconda è implicita almeno in alcuni settori del giudeo-cristianesimo iniziale: non in quelli che originarono i canti del Magnificat e del Benedictus, ma in quelli che favorirono la formulazione dell'inno colossese e del prologo giovanneo. Infatti, stanti le categorie giudaiche che li connotano, all'origine si tratta sempre di giudeo-cristianesimo18. Perciò, se, da una parte, non 16 Cf. J.D.G. Dunn, The Parting of the Ways Between Christianity and Judaism and their Significale f or the Character of Christianity, SCM Press, London 1991, pp. 238-243. 17 Così J.T. Sanders, Schismatics, Sectarians, Dissidents, Deviants. The First One Hundred Years of Jewish-Christian Relations, SCM Press, London 1993, p. 45. Anche P.M. Casey, The Deification, p. 703, sostiene che all'inizio non ci fu una vera controversia sulla divinità di Gesù, sicché la fede cristiana non venne percepita come un pericolo per il monoteismo giudaico. 18 Cf. R. Penna, Da Israele al cosmo. Ampliamenti dell'orizzonte cristologico nello sviluppo dell'innografia neotestamentaria, in P. Coda, a cura, L'Unico e i molti. La salvezza in Gesù Cristo e la sfida del pluralismo, "Sapientia Christiana" 3, PUL-Mursia, Roma 1997, pp. 49-66.
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bisogna dire che alcuni Giudei del tempo abbandonarono il monoteismo ma invece che il monoteismo giudaico era talmente variegato da poter contenere in sé espressioni diverse19, dall'altra, di conseguenza, va riconosciuto che persino per quanto concerne il Quarto vangelo "lo sviluppo nel Nuovo Testamento riguarda il passaggio non da profeta giudaico a dio pagano quanto piuttosto da profeta giudaico a dio giudaico"20. In definitiva, si realizza all'evidenza nel caso-Gesù un principio fondamentale in psicologia, secondo cui l'identità profonda di una persona è difficilmente incasellabile in schemi precostituiti ma va scoperta gradualmente in tutta la sua pienezza. È in questo senso che "lo sviluppo va ritenuto un elemento costitutivo della stessa cristologia"21. Di qui la preferenza data al concetto di "sviluppo" invece che a quello di "evoluzione"22 per esprimerne più la continuità qualitativa che non la discontinuità. 2. L'unità della cristologia neotestamentaria Un aspetto sicuramente sorprendente nella cristologia del Nuovo Testamento è la molteplicità delle definizioni che essa offre a proposito di Gesù Cristo, osservando soprattutto che esse non si trovano mai unite in un solo scrittore ma variano da un autore all'altro. Così, per esempio, mentre "Figlio dell'uomo" è presente in tutti i vangeli e persino nell'Apocalisse (ma qui con tratti diversi: cf. sopra), il titolo è invece assente nel pur ampio epistolario Paolino. E se il Quarto vangelo sorprende per il solenne titolo iniziale di "Logos", dobbiamo constatare che esso non solo è assente da tutti gli altri scritti neotestamentari ma che scompare poi dallo stesso vangelo giovanneo. Da parte sua Paolo non conosce il titolo metaforico di "Agnello", mentre la letteratura giovannea è 19 Cf. P. Hayman, Monotheism - A Misused Word in Jewish Studies, JJS 42 (1991) 1-15; inoltre: M. Barker, The Great Angel. A Study oflsrael's Second God, SPCK, London 1992 (cf. p. 3: "Yhwh, il Signore, poteva manifestarsi sulla terra in figura umana, come un angelo o nel re davidico; fu come manifestazione di Yhwh che Gesù venne riconosciuto come Figlio di Dio, Messia e Signore"). 20 J.D.G. Dunn, The Making of Christology, p. 447. 21 Pontificia Commissione Biblica, Bibbia e Cristologia, Prefazione di H. Cazelles, Paoline, Cinisello Balsamo 1987, p. 42: "Progressio... habenda est elementum constitutivum ipsius christologiae". 22 Cf. C.F.D. Moule, The Origin of Christology, University Press, Cambridge 1977, pp. 1-10; J.D.G. Dunn, The Making of Christology - Evolution or Unfolding?
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all'oscuro della qualifica di "Secondo Adamo". Quanto poi al titolo di "Sacerdote", che costituisce il punto forte del discorso della Lettera agli Ebrei, esso è sconosciuto sia ai vangeli sia a Paolo. E si potrebbe continuare. Un interrogativo si impone: come mettere insieme tante definizioni e tanto diverse? non si tratterà forse di approcci eterogenei fra di loro? Il primo atteggiamento da adottare di fronte a questo fatto consiste nel non nasconderlo e anzi nel sottolinearlo con ogni evidenza. Si potrebbe persino parlare di «Cristologie» al plurale, avendo presente però che tutto verte nient'altro che su Gesù Cristo. È proprio vero che egli appare insieme "uno e molti"23. Noi l'abbiamo evidenziato fin nel titolo del libro, che parla di "ritratti originali". Nello stesso tempo il concetto di ritratto rimanda inevitabilmente all'unità del soggetto in questione. Analogamente, la stessa cosa avviene quando pittori diversi dovessero dipingere uno stesso personaggio o una stessa scena: la diversa interpretazione di ciascuno, unita alla diversa tecnica stilistica, condurrebbe necessariamente a risultati pittorici diversi24. Tuttavia, il metodo storico-letterario da noi adottato, che ci ha permesso uno studio analitico e dettagliato della cristologia neotestamentaria, se da una parte mette doverosamente in luce la pluralità e quindi la ricchezza delle interpretazioni cristologiche, dall'altra non può sottrarsi a un'esigenza di sintesi che è richiesta come bilancio della ricerca stessa. "Se la ricerca analitica è condizione d'autenticità, il proposito di sintesi è, anch'esso, condizione di intelligibilità ultima"25. Ebbene, è necessario partire da un'osservazione fondamentale, che riguarda non solo le varie cristologie ma l'intero Nuovo Testamento26. A questo proposito mi pare importante la propo23 Cf. il titolo del libro, peraltro non molto utile, di E. Richard, Jesus One and Many. The Christological Concepì of New Testament Authors, Glazier, Wilmington DE 1988. 24 Ci si può immaginare, per esempio, se a ritrarre Monna Lisa, "la Gioconda", di Leonardo da Vinci fosse stato chiamato Pablo Picasso! 25 J. Dorè, Presentazione, in J.-N. Aletti, Gesù Cristo: unità del Nuovo Testamento, Boria, Roma 1995 (orig. frane, Paris 1994), p. 5. 26 La loro diversità è ben sottolineata dall'importante studio di J.D.G. Dunn, Unity and Diversity in the New Testament. An Inquiry into the Character ofEarliest Christianity, SCM Press, London 1977: mentre da una parte l'Autore afferma che l'identità dell'uomo Gesù con il Signore risorto costituisce la base e il vincolo che tiene insieme le diverse espressioni del cristianesimo del I secolo, dall'altra egli sostiene giustamente che la diversità è altrettanto essenziale quanto l'unità; ma il dire che "nel NT non esiste un'unica cristologia strettamente definita" (p. 230: there
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sta globale di Aletti27 che, superando ogni altra impostazione di tipo antropologico, apocalittico e simili, riconduce le diversità a una comune omologia di fondo. Essa viene espressa con i termini (a detta dello stesso Autore poco felici, ma comodi) di "gesucristologia" e "gesucristologizzazione". Con il primo si intende ogni discorso su Gesù Cristo, qualunque sia il suo genere (narrativo, epistolare, omiletico, apocalittico, sistematico); con il secondo si intende l'utilizzazione del motivo gesucristologico nei vari settori della fede e della vita cristiane (teo-logia, storia della salvezza, ecclesiologia, etica, escatologia). Con ciò si vuol mettere in luce un paio di elementi.importantissimi, tra loro complementari, che unificano tutto il discorso del Nuovo Testamento sia su Gesù che su tutto il resto. L'uno riguarda l'unità esistente tra Gesù e il Cristo, cioè tra la storia del Terreno e la condizione del Risorto: essi vanno visti in continuità, e comunque per la fede cristiana l'uno non sta senza l'altro; si uniscono così quelli che noi abbiamo chiamato 'i due inizi' non solo della cristologia ma del cristianesimo stesso. Il secondo elemento consiste nel fatto che la fede in Gesù Cristo, comunque essa venga espressa, informa di sé sia le varie forme letterarie sia le varie componenti della fede cristiana in tutti i suoi settori, e in questo modo rappresenta davvero l'elemento coesivo di tutto il Nuovo Testamento. Aletti infatti dimostra che la gesucristologia, invece di distinguere tra un centro e una periferia (come fa Dunn), accorcia le distanze fra i vari scritti e i vari temi, rendendoli più simili fra loro molto più di quanto si pensi. Lo si vede per esempio nei racconti evangelici della passione di Gesù, dove le varie differenze28 vengono superate da alcuni dati comuni soggiacenti e perciò unificanti29. Persino nella Lettera di Giacomo viene individuata, se non proprio una cristologia (come specifico di-
is no single closely defined christology in the NT) dimostra un frammentarismo e in definitiva un pessimismo certamente eccessivo e insostenibile. Giustamente J.N. Aletti, Gesù Cristo, p. 265, precisa che per diversità non si deve intendere incompatibilità e disarmonia. 27 Cf. sopra: nota 25. 28 Cioè: in Mc/Mt prevale lo schema del giusto iniquamente perseguitato; Le invece mette in evidenza la sua totale fiducia in Dio; in Gv poi i nemici sono scomparsi e addirittura neanche si menziona Dio (cf. p. 223: il racconto giovanneo della passione è "un deserto teo-logico"), perché è Gesù stesso che da una posizione divina trasmette lo Spirito e crea una nuova famiglia. 29 Cioè: Gesù resta saldamente ancorato a Dio fino alla morte; egli non grida vendetta contro nessuno; la sua morte non è l'ultima tappa del cammino ma soltanto precede la risurrezione.
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scorso su Cristo), almeno una certa cristologizzazione, consistente nello spazio concesso al discorso di Gesù stesso mediante i molti riferimenti al suo insegnamento etico30. Ma, lasciando da parte il discorso generale sull'unità del canone neotestamentario 31 , passiamo a considerare più specificamente il problema posto dalle cristologie vere e proprie, che abbiamo scoperto come un dato incontrovertibile nell'analisi dei vari testi. L'interrogativo allora suona così: che cos'è che le tiene insieme? Qual è il loro comune denominatore? C'è forse una cristologia più forte delle altre tanto da unirle tutte sotto il proprio lemma? Oppure è meglio ricorrere a categorie ermeneutiche particolari che agiscano dall'esterno come maglie di sistema? A livello di mere definizioni cristologiche, bisogna certamente lasciare da parte quelle che appaiono solo in un autore (come la qualifica di "Nuovo-Secondo Adamo" in Paolo e di "Sacerdote" in Eb) o solo in un piccolo gruppo di scritti (come " C a p o " in ColEf e "Agnello" in Gv-Ap [ma qui con semantiche diverse]); altrettanto occorre tralasciare il termine "Cristo", che nel linguaggio cristiano è diventato abitualmente non più un titolo ma un semplice nome di persona. Allora constatiamo che la definizione cristologica di gran lunga la più ricorrente nel Nuovo Testamento è quella di "Signore", che in più ha il vantaggio di esprimere una cristologia forte in quanto assimila Gesù addirittura a Yhwh! Ma c'è una difficoltà non secondaria: questo "nome che è al di sopra di ogni altro nome" è tipico ed esclusivo della fede pasquale; esso cioè non 'copre' la fase gesuana, essendo assente dalle espressioni dell'autocomprensione di Gesù (i due passi di Me 11,3 e Gv 13,13 sono troppo tenui e problematici). Si potrebbe allora pensare a un'altra qualifica, di attestazione più generale e già caratteristica della coscienza del Gesù terreno, che dunque più della precedente potreb-
30 Cf. J.-N. Aletti, Gesù Cristo, pp. 103-110. Sui richiami dell'insegnamento di Gesù in Gc, cf. F. Mussner, La lettera di Giacomo, CTNT 13/1, Paideia, Brescia 1970 (orig. ted., Freiburg 1964), pp. 74-79. 31 A. Weiser, Jesus und die neutestamentliche Theologie. Zur Frage nach dem Einheitsgrund des Neuen Testaments, ZNW 87 (1996) 146-164, suggerisce di considerare il canone stesso come fattore di unità nel NT e, dichiarandosi contrario a ogni criterio restrittivo del tipo "canone nel canone" (cf. E. Kàsemann), individua un principio unificatore generale nell'intervento salvifico di Dio attraverso la vitamorte-risurrezione di Gesù in quanto avvenuto per amore e prima di ogni agire umano (cf. pp. 161-163). In proposito vedi anche R. Penna, Il canone del Nuovo Testamento come garanzia di unità e pluralismo nella chiesa, Protestantesimo 49 (1994) 296-311.
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be tenere insieme gli scritti e le varie fasi di sviluppo della cristologia neotestamentaria: essa consiste nel titolo di "Figlio (di Dio)". Tuttavia, a parte il fatto che esso è variamente attestato a seconda dei vari scrittori (ben 29 volte nel solo Quarto vangelo e appena 17 volte in tutto l'epistolario paolino), esso è sorprendentemente assente da alcuni scritti significativi come le Lettere Pastorali, la Lettera di Giacomo, e la Prima lettera di Pietro. È dunque ben difficile affidare l'unità della cristologia neotestamentaria a ciò che in realtà ne è solo un'espressione fra le molte. Meglio sembrerebbe ricorrere a uno schema di sintesi, che raccolga e abbracci possibilmente tutte le espressioni cristologiche della fede cristiana32. Esso si può individuare nella categoria delle fasi temporali, con le quali la fede ha sempre visto connessa la figura di Gesù. Di lui cioè è stata coltivata la memoria, di lui è creduta e percepita la presenza viva nel cristiano e nella chiesa, e lui ancora è fatto oggetto di un'attesa costante. La memoria rimanda al passato del Gesù terreno e di tutto ciò che lo ha caratterizzato in parole e azioni (e passione!), ancorando la fede cristiana allo zoccolo duro della storia e delle sue coordinate spazio-temporali33. La presenza viva di lui, fondata sulla sua risurrezione, rende significativa tutta l'esperienza del cristiano nella storia e nel mondo, conferendole dignità e spessore salvifico. L'attesa infine proietta il credente verso un compimento futuro, che da una parte rivelerà ulteriormente Gesù stesso e dall'altra non permette al discepolo di adagiarsi e isterilirsi nella relatività dell'oggi. I vari aspetti della cri-
32 Vedi anche la proposta dei 'modelli' avanzata da G. Segalla, La cristologia del Nuovo Testamento. Un saggio, SB 71, Paideia, Brescia 1985, pp. 151-165, e ciò che ne abbiamo detto nel volume I, p. 23. 33 Originale è la recente proposta di M. Karrer, Jesus Christus im Neuen Testamenti "Grundrisse zum N T " 11, Vandenhoek, Gòttingen 1998: pur partendo dalla risurrezione di Gesù e dalle sue confessioni (pp. 23-71), l'A. dedica tutto il resto della sua esposizione (pp. 72-334) nient'altro che al recupero della vicenda del Gesù terreno (cf. p. 327: "Non solo il Gesù terreno appartiene alla cristologia, ma è la sua comprensione che le conferisce gli impulsi essenziali"), il cui senso viene studiato in base sia ai racconti evangelici sia soprattutto alle riflessioni degli altri scrittori (specie di Paolo). Il tentativo, considerato dal punto di vista della tipica fede cristiana, è certamente interessante e fecondo. Esso però, considerato dal punto di vista dello storico, rischia di appiattire sul Gesù terreno tutto ciò che invece appartiene alla riflessione posteriore (cf. per esempio gli sviluppi sul "per" come intenzionalità della morte di Gesù: pp. 106-132). In più, finisce per non onorare adeguatamente alcuni settori della cristologia neotestamentaria, come quelli espressi in Eb e Ap. In ogni caso è appunto la memoria che viene privilegiata e collocata assolutamente in primo piano.
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CONCLUSIONE GENERALE
stologia neotestamentaria sono riconducibili a uno o più o a tutti e tre questi livelli. Sarebbe interessante passare in rassegna l'intero linguaggio cristologie© neotestamentario per classificarlo in funzione delle tre fasi enunciate. Ma ci accontentiamo di qualche esempio veloce. Così, "il Figlio dell'uomo" copre soprattutto la prima e la terza fase34; "il Sacerdote" invece vale per la prima e la seconda35; "il Capo" solo per la seconda36; una buona parte dei titoli le riguarda tutte e tre: il "Figlio", il "Signore", il "Mediatore", il "Salvatore", 1'"Agnello" 37 . Inoltre, persino uno scritto cristologicamente povero come la Lettera di Giacomo testimonia di fatto tutti e tre i livelli di rapporto con Gesù: la memoria, infatti, è ben coltivata mediante il molteplice riferimento all'insegnamento del Gesù terreno (cf. sopra); la presenza è attestata dal richiamo morale all'esclusione dei favoritismi personali {prosopolempsià) motivata dalla "fede nel Signore nostro Gesù Cristo glorioso" (Gc 2,1); l'attesa poi è esplicitamente affermata con l'esortazione: "Siate pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore... Rinfrancate i vostri cuori perché la venuta del Signore è vicina... Ecco, il giudice è alle porte" (Gc 5,7.8.9). Lo schema proposto però non rende conto di tutti gli aspetti della cristologia. Infatti ne restano fuori sia quelli che riguardano la storia pre-cristiana della salvezza (cf. i titoli paolini di Ultimo Adamo in 34 Infatti riguarda il ministero terreno di Gesù e la sua venuta nella gloria (cf. volume I, pp. 134-143); la visione di lui nella gloria da parte di Stefano (cf. At 7,55-56) e del veggente dell'Apocalisse (cf. Ap 1,13; 14,14) non implica di per sé un rapporto dinamico con la vita concreta del cristiano nel presente. 35 Infatti l'autore di Eb collega il titolo con la morte storica di Gesù e con la sua attuale intercessione celeste. 36 Nella doppia relazione che connota Gesù nel presente con la chiesa e con il mondo (cf. Col-Ef). 37 Infatti, la qualifica di "Figlio" appartiene già alla coscienza del Gesù terreno (cf. volume I, pp. 143-153), caratterizza la fede attuale del cristiano (cf. Gal 2,20) ed è inscindibile dall'identità di colui che è atteso (cf. lTs 1,10). La qualifica di "Signore" è fondamentalmente legata alla glorificazione del Risorto (cf. Fil 2,9-11), ma è retroproiettata dalla fede cristiana nella vita terrena di Gesù (cf. soprattutto il linguaggio matteano e lucano), e caratterizza anche colui che deve venire (cf. "il giorno del Signore"). Anche quella di Mediatore copre l'intero arco dell'esistenza di Gesù, di cui troviamo affermato il nesso con il suo sacrificio (cf. lTm 2,5-6), con la sua attività presente (cf. il paolino Sta) e con il suo intervento futuro (cf. lTs 1,10; Rm 5,9). Il titolo di "Salvatore" è pure associato sia alla, nascita terrena di Gesù (cf. Le 2,11; lGv 4,14), sia a un'attuale possibilità del cristiano (cf. 2Cor 6,2; Le 4,19.21), sia alla sua venuta escatologica (cf. Rm 5,9; Fil 3,20). Infine, 1'"Agnello" è colui che ha dato il suo sangue, che ora pasce il suo popolo conducendolo alle acque vive e che verrà per le nozze escatologiche.
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ICor 15,22.45 e di Roccia in ICor 10,4), sia quelli che ci riportano addirittura alla pre-esistenza e alla mediazione nella creazione (cf. il Logos in Gv 1,1-3.14, e il Primogenito in Col 1,15-17), sia quelli che ci danno piuttosto la dimensione ontologico-trascendente di Gesù (cf. Immagine di Dio, P"Io sono" di Gv, e addirittura "dio"). Si potrebbe forse dire che il primo e il secondo gruppo appartengono alla memoria, ma in quanto espansa, cioè non pertinente al Gesù terreno: essi rappresentano piuttosto una rilettura cristiana sia della macrostoria sia dell'intero cosmo. Il terzo gruppo invece, non appartenendo a nessuno dei livelli suddetti, appartiene in realtà a tutti e, nella misura in cui espande la qualifica di "Figlio", ne rappresenta il fondamento ultimo. In definitiva, ciò che fa l'unità della cristologia neotestamentaria non è altro che la persona stessa di Gesù Cristo. I modi per 'dirlo' sono molti, ma è sempre lui che costituisce il perno fermo dell'interesse e del linguaggio di fede, per quanto variegato questo sia. Parafrasando Aristotele, potremmo dire che Cristo, come l'essere,TCOXXOCXGX;Xéyexai, multipliciter dicitur, "lo si esprime in molti modi", perché non è univoco ma polivoco (non equivoco)38. Del resto, secondo l'ermeneutica di Pareyson, "l'unica conoscenza adeguata della verità è l'interpretazione; il che vuol dire che la verità è accessibile e attingibile in molti modi... È appunto l'interpretazione che mantiene la verità come unica nell'atto stesso che ne moltiplica senza fine le formulazioni" 39 . A questo proposito, torna opportuno richiamare ciò che ha scritto uno dei nostri letterati sui quattro evangelisti, che noi estendiamo all'insieme degli autori del Nuovo Testamento: "Gesù non è affatto un Dio alla ricerca della propria identità. Piuttosto ha lasciato a noi il compito di stabilirla. Si è manifestato, ci ha parlato, ma non si è definito... Ammettiamo per un istante, per ipotesi — per ipotesi, badi — che veramente fosse Dio. Dio, ci pensi: l'infinito, una gamma infinita di possibilità. E lei pretende che si definisse! Si provano a capirlo, in qualche modo lo interrogano, ciascuno si sforza di farne emergere un aspetto, di metterne in evidenza una delle tante possibilità, quella che più gli riesce accessibile o che più l'ha colpito. E senza pretendere... senza mai pretendere d'esaurire il discorso. In margine, rimane sempre lo spazio per altre ipotesi, e al limite il miste-
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Cf. Aristotele, Fisica, A, 2-3. L. Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1971, 1994, pp. 57 e 61.
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ro. In ogni caso, gli evangelisti aprono e non chiudono. La gamma d'ipotesi che nel loro insieme ci presentano... non solo ci mostra quanto fosse complessa la personalità di Gesù ed è una riprova implicita della sua statura eccezionale — se posso dir così, della sua divinità —, ma è il punto di partenza dell'avventura del cristiano, la piattaforma della nostra libertà. Al modo degli evangelisti noi continuiamo a domandarci chi fosse Gesù, coscienti che non avremo mai la formula giusta entro la quale racchiuderlo. Guai del resto se fosse altrimenti: avremmo chiuso con Gesù... Il semplice fatto di cercare la verità approda inevitabilmente a una crescita del messaggio... Ma possono pretendere d'affermare di averlo definito, quando ognuno poi deborda, esplora altre possibilità, l'immagine del Cristo gli si moltiplica tra le mani, s'è appena provato a fissarla ed ecco, gli è sfuggita?... Si possono moltiplicare i punti di vista intorno a lui, come appunto hanno fatto costoro, ma col risultato che immancabilmente ne emerge solo l'indecifrabilità... Non ci sono gerarchie tra le testimonianze che si tramandano di lui... Significa solo che da quel nodo d'indefinite possibilità che fu, nel suo insieme, la persona di Gesù, ciascuno ha desunto quel tanto che poteva secondo il suo talento o il compito cui era eletto"40. Il Nuovo Testamento, in conclusione, ci propone di non eliminare ma al contrario di mantenere ben ferma la molteplice possibilità di definire Gesù. Esso, parafrasando la prima lettera di Giovanni, ci invita a considerare Gesù più grande di tutte le nostre ermeneutiche (cf. lGv 3,20). Certo bisogna stare attenti a non naufragare nell'indistinto. La polimorfia del Salvatore era già un antico tema gnostico 41 . Ma se lo spogliamo di quanto esso aveva di docetistico e di astorico, resta intatta la sua affermazione dell'inarrivabile mistero di Gesù, come risulta da questi due testi apocrifi: "Gesù chiese ai suoi discepoli: 'Paragonatemi con qualcuno e ditemi a chi assomiglio'. Simon Pietro gli rispose: T u assomigli ad un angelo giusto'. Rispose Matteo: T u assomigli ad un filosofo, ad un uomo sapiente'. Tommaso invece gli disse: 'Maestro, la mia bocca non arriverà mai al punto di dire a chi assomigli'. E Gesù allora: 'Io non sono il tuo maestro, perché tu hai bevuto e ti sei inebriato alla fonte zampillante che ti ho messo a disposizion e ' " (Vangelo di Tommaso 13 = NHC II, 34,30 - 35,7). 40
M. Pomilio, Il quinto evangelio, Rusconi, Milano 1975, pp. 328s, 350, 368,
369.
41
Cf. A. Magris, La logica del pensiero gnostico, Morcelliana, Brescia 1997, pp. 421-422, da cui è tratta anche la versione dei due testi riportati sotto.
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"Gesù li ha imbrogliati tutti, giacché non si è manifestato per quello che era, ma solo nella maniera in cui essi erano in grado di vederlo. Si è manifestato bensì a tutti: ai grandi si è mostrato grande; ai piccoli si è mostrato piccolo; agli angeli si è rivelato come angelo; agli uomini come uomo. Per questo il suo logos è rimasto a tutti nascosto... Lui era grande, ma fece anche grandi i suoi discepoli affinché riuscissero a contemplarlo nella sua grandezza" (Vangelo di Filippo 26 = NHC II, 57,28 - 58,10).
BIBLIOGRAFIA
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ABBREVIAZIONI
Analecta Biblica The Anchor Bible Dictionary Arbeiten zur Geschichte des Antiken Judentums und des Urchristentums Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo Arbeiten zur Kirchengeschichte Arbeiten zur Literatur und Geschichte des Hellenistischen Judentums Aufstieg und Niedergang der Ròmischen Welt Abhandlungen zur Theologie des Alten und Neuen Testaments Biblioteca de Autores Cristianos Bonner Biblische Beitràge Beitràge zur Biblischen Exegese und Theologie Biblioteca di Cultura Religiosa Blass F. - Debrunner A. - Rehkopf F., Grammatica del Greco del Nuovo Testamento, GLNT Suppl. 3, Paideia, Brescia 1982 (orig. ted., Gòttingen 197614) Bibliotheca Ephemeridum Theologicarum Lovaniensium Beitràge zur Historischen Theologie Biblica Bibel und Leben Biblical Interpretation Series Biblioteca Minima di Cultura Religiosa Biblioteca di Scienze Religiose Biblioteca Teologica Biblische Untersuchungen Biblioteca Universale Laterza Biblioteca Universale Rizzoli Beitràge zur Wissenschaft von Alten und Neuen Testament Biblische Zeitschrift Beihefte zur Zeitschrift fùr die Alttestamentliche Wissenschaft
546 BZNW CB NTS CBQ ChicStud CivCatt CTNT DJD DSD EB EH EKK EphLit EPRO ETL EvTh FreibZeitPhilTheol FRLANT FzB GdT GLNT hi HTKNT HTR ICC Interpr JBL JerusPersp JETS JJS JournRel JournSemitStud JSJ JSNT JSOT MS JSP JTS LAPO LD
ABBREVIAZIONI = Beihefte zur Zeitschrift fùr die Neutestamentliche Wissenschaft = Coniectanea Biblica, New Testament Series = Catholic Biblical Quarterly = Chicago Studies = Civiltà Cattolica = Commentario Teologico del Nuovo Testamento = Discoveries in the Judaean Desert = Dead Sea Discoveries = Études Bibliques = Europàische Hochschulschriften = Evangelisch-katholischer Kommentar (zum Neuen Testament) = Ephemerides Liturgicae = Études Préliminaires aux Religions Orientales dans l'Empire Romain = Ephemerides Theologicae Lovanienses = Evangelische Theologie = Freiburger Zeitschrift fùr Philosophie und Theologie = Forschungen zur Religion und Literatur des Alten und Neuen Testament = Forschung zur Bibel = Giornale di Teologia = Grande Lessico del Nuovo Testamento = hapax legomenon, detto una volta sola = Herders Theologischer Kommentar zum Neuen Testament = Harvard Theological Review = The International Criticai Commentary = Interpretation = Journal of Biblical Literature = Jerusalem Perspective = Journal of the Evangelical Theological Society = Journal of Jewish Studies = Journal of Religion = Journal of Semitic Studies = Journal for the Study of Judaism = Journal for the Study of the New Testament = Journal for the Study of the Old Testament, Monograph Series = Journal for the Study of the Pseudepigrapha = Journal of Theological Studies = Littératures Anciennes du Proche-Orient = Lectio Divina
ABBREVIAZIONI LXX NDTB
NT NTOA NTS NTTS OBO PIB PUL PUU QD RAC RB RivBibl RQ RSB SANT SB SBL SBLDS SBL MS SBS SC ScandJournOldTest SUD SJLA SNT SNTS MS StrackBillerbeck StudPatav Suppl. SVTP Teol TheolRev TheolStud ThQ TM TrierTheolZeit TRSR
547 Versione greca dell'A.T. detta dei Settanta Nuovo dizionario di teologia biblica, a cura di Rossano P. - Ravasi G. - Girlanda A., San Paolo, Cinisello Balsamo 1988 Novum Testamentum Novum Testamentum et Orbis Antiquus New Testament Sudies New Testament Tools and Studies Orbis Biblicus et Orientalis Pontificio Istituto Biblico Pontificia Università Lateranense Pontificia Università Urbaniana Quaestiones Disputatae Reallexikon fùr Antike und Christentum Revue Biblique Rivista Biblica Revue de Qumran Ricerche Storico-Bibliche Studien zum Alten und Neuen Testament Studi Biblici Society for Biblical Literature Society for Biblical Literature, Dissertation Series Society for Biblical Literature, Monograph Series Stuttgarter Bibel-Studien Sources Chrétiennes Scandinavian Journal of the Old Testament Schriften des Institutum Judaicum Delitzschianum Studies in Judaism in Late Antiquity Studien zum Neuen Testament Society for New Testament Studies, Monograph Series H.L. Strack & P. Billerbeck, Kommentar zum N. T. aus Talmud und Midrasch, I-V, Mùnchen 19654 Studia Patavina Supplement(o) Studia in Veteris Testament Pseudepigrapha Teologia Theological Review Theological Studies Theologische Quartalschrift Testo Masoretico Trierer Theologische Zeitschrift Testi e Ricerche di Scienze Religiose
548
ABBREVIAZIONI
TU TyndBull UL WMANT
= = = =
WUNT
=
ZEE ZNW ZTK
= = =
Texte und Untersuchungen Tyndale Bulletin Universale Laterza Wissenschaftliche Monographien zum Alten und Neuen Testament Wissenschaftliche Untersuchengen zum Neuen Testament Zeitschrift fùr die Evangelische Ethik Zeitschrift fùr die Neutestamentliche Wissenschaft Zeitschrift fùr Theologie und Kirche
N.B.: Una sigla di citazione biblica al seguito del nome di un autore (es.: W. Schrage, IKor, p. tale) rimanda al commento dello stesso autore (riportato nella bibliografia) al libro biblico citato.
Indice delle fonti Questo indice è stato redatto dalla prof.ssa suor Roberta Cavalieri, alla quale sono vivamente grato.
I. SCRITTI CANONICI Antico Testamento Genesi 1 1,1 1,1.26
U
1,3 1,26 1,26-27 1,27 2,3 2,7 2,9 2,10 2,11-22 2,15 2,24 3 3,5 3,6 3,13-14 3,14 3,15 3,16-22 4,7 4,8-9.30 4,10 4,16 4,19 4,20 6,1-3 6,1-4 6,1-6 7-12 8,21 9,6 12,5
358 473 236 65, 499 99 190, 231 130 129, 353 278 151, 444 513 513 343 358 224, 353 159 129 353 490 317, 440 499 513 159 409 503 503 358 358 277 164 256 359 163 190 170
14,17-20 14,18-20 14,19-20 15,2 15, 6 16,5 18, 3.5 19,2 LXX 19,25s 19,27 22 22,1-2 22,2 22,13 24 26,24 31,13 LXX 32, 30 32,31 46,3 48,15 49,1 49,3 49,9-10 49,11 Esodo 3,10 4,10-16 4,22 6,6 8,15 12,5 LXX 12,6 15,13 16
300 303 225 288 160 426 46 513 503 288 144, 145, 188, 220 278, 399 426 343, 345 336 133 439 102, 361 490 395 439 254 238 473 468 57, 484 268 268 171, 192, 232 LXX 66, 250 40 250, 481 478 144, 250 430
550 16,1-10 16,4 16,9 17,1-7 17, 9 18,25 19,3.12.13 19,5 19,6 19, 9 19,14 19,16 19,24 20,2 20,7 20,12 20,13.14 20,19 21,17 23,7 23,12 24,1-8 24,8 24,10s 24,12.13.18 24,18 25,8 25,40 26,33 28-29 28,1 28,1.4 28,4 28,36 28,36-38 28,41 29,1 29,9.29.33.35 29,18 29,22.27.31 29,38 L X X 29,38-42 30,7-8 30,10 32,32s 33,15 33,18-23 33,20-23 34,6 34,23
INDICE DELLE FONTI
359 402 298 189 441 294 284 358 419
39,20 40,13 40,34 40,35
Levitico 3 4,3.14
296, 486, 487 4,5 356 4-5.16 484 4,8.20.24.29.33.
488 246 102 353 353 353 246 353 97 52 306
34
4,20 4,35 5,6-7.11 L X X 5,10 5,10.13 5,11-13 5,23 5,26 6,5-6 7,11-36 296, 321 8-10
395 358 358 424 313 306 291 287 291 475 291 490 297
8,7 8,27-28 8,30 9,5.7.8 9,7.22 12,6 14,10
16
16,3.5.9 L X X 16,3.6.7.9.17.24. 25.27.30.33LXX 16,4.7 16,15 16,19.20.30 250, 278,291 290 16,26.28 296 16,27 290 16,29 250, 481 16,34 310, 478 17-18 310 17,7 159, 272 L X X 17,11 482 18,17 413 19,18 395 21,1-22,29 514 21,8 425 21,10 97 22,17-25
490 297 424 69 158 307 290 157 143 158 278 158 141 278 305 305 131 158 308 158 291 475 290 278 297 298 143 250, 481 250, 481 147, 296, 306
141 141 309 292 159 305 309 158 278 73 73 305, 308 73 176, 353 289 317 295 250
INDICE DELLE FONTI 23,18 23,26-32 23,27-32 23,29 24,14 25,8-17 26,11-12
Numeri 6,ls 6,14 6,16 L X X 7,16 L X X 12,7 12,10-16 13,2-3 13,23 15,36 16,2 20,1-13 21,8 21,18 23,22 24,17 L X X
25 25,3 27,17 28-29 28,2-8 28,3-8 28,3.9 28,3.9.27 29,7 29,7-11 29,8 29,11 L X X 30,3 32,13 35,25.28 32
Deuteronomio 8,3 4,34
5,1 6,4 L X X
6,5 6,6.13 6,22
7,7 7,19
551 250 1 9,9 306 10,16 158 10,17 306 12,5.11.21 309 13,7 371 13,16 510 14,4 17,7.12 18,15 352 18,15.18 250, 481 18,18 141 18,15-19 141 19,19
383 20 359 20,1 47 1 21,17 423 21,21 309 21,22 4 21,22.24 189 21,23 318 22,24 356 23,9-10 490 24,1 415, 468 24,7 176 25,5 238 26,8 432 27-28 250 27,26 310 28,54.56 478 30,6 481 30,15-20 L X X 250 31,1-8 158 32,4 306 32,5.20 306 32,6 141 32,8 L X X 353 32,15 39 | 32,35 295 32,39 33,5.26 33,8-11 353 33,11 66 33,17 372 34,1-4 185, 531 245, 353, 417 Giosuè
353 1,5 409 2,14 145 7,12.13 409 1 10,1
358 158 472 135 426 225 478 427 414 42, 447
414 410 427 485 361 473 427 143 427 97, 139, 142
309 485 353 427 353 192, 246, 409
357 142 426 158, 171
358 447 252 39 192 276 220, 243, 419
183 317 220 294, 304
294 490 358 361 425 427 303
552 10,40 13,5 L X X 20,6
INDICE DELLE FONTI
225 1 22,51 352 23,1-7 295
Giudici
3,9
17,5-6 17,10 18,4 20,13
244 244 225 503 244 490 412 54 294 290 290 427
Rut 1,21
133
3,15 5,4-5 5,19 12,3 13,17s 13,20
14s
1 Samuele 2,7-8 L X X 2,10 2,13 7,14 12,6 12,8 14,41 15,3-20 15,22 15,25 16,1-13 16,7 16,13 20,13 21,5 25,28 2 Samuele 1,14 1,22
5,2 7,14 7,16 11,11 12,2 15,20 19,21
135 490 290 283 284 268 294
226 308 427 350 473 62 361 485
1 Re 2,27.35 3,4-15 3,20
4,2 5,5 6,16 8,5.62-64 8,13 8,29 8,35.38 8,47-48 11,38 17,19 17,21 L X X 18,20-40 19,1-8 2 Re 2,1-15 9,27 14,6 (3Re L X X ) 17,13-20 23,29 23,34 25,18 / Cronache 16,27-28 24,4-19 26,26 27,5 29,10 29,11-12
470 63 295 302 426 295 435 306 302 424 135 158 158 361 426 444 503 343 447 503
268 34 503 59 295 489 488 47 295 115, 192
489
427
2 Cronache 5,11 24,11 471 26,18 412 26,20 268, 350, 432 30,18 272, 473, 511 35,22 343 36,16
485 447 425 471
Esdra 2 (12),9 7,12
297 295 302 295 278 503 37 47 472
553
INDICE DELLE FONTI Neemia 3,1.20 3,1.31 9,26 9,26-32 9,27 12,39 13,28 Tobia 12,7.11 12,15 12,20
295 431 37 34 244 431 295
311, 488
412
15,8
238 295 361 243 361 295
Ester 6,17 L X X
361
4,6.8.14 5,17 L X X 9,11
13,11 LXX
1 Maccabei
1-4 3,45.51 3,48 4,46 4,60 9,27 9,54-56 10,18-21 12,9 12,20 13,42 14,7 14,14 14,20 14,41 15,2 2 Maccabei 1,5 L X X 4,23-38 5,20 L X X 7,33 L X X 7,37 127 7,37-38
Giobbe 4,17 5,9 L X X 5,14
6,4 238
Giuditta
2,2
8,29 L X X 12,9 13,2 13,4
295 283 492 64 283 64 295 295 492 295 302 427 427 295 64 295 146 295 146 146
7,12 7,20 9,10 L X X 12,4 13,12.28 16,12-14 16,13 19,25-27 22,29 23,3-4 L X X 28,20-28 30,20a 34,24 L X X 42,5 Salmi 2
2,2 2,7 2,8-9 5,12 7,10
8 8,2 8,3 8,6 8,7 9,8-9 10,5
15,11 LXX 17,15 18,5 19,8 19,50 20,6
22 22,2 22,8
314 1 22,9
146 492 238 472 163 242 130 26 499 26 242 127 130 127 26 127 128 314 396 127 242 395 291 48, 49, 369, 470 48, 275, 281, 283, 284, 345
495 135 473 269, 276, 277
135 353 226 228 298 298 47 514 428 36 470 470 21, 23, 25, 268 22, 23, 353
22 23
554 22,11 22,19 22,23
23 23,2 24,1 24/25,5 25,10 27,9 27,12 28,8
31 31,4 31,12s 31,14 31,15 32,1 32/31,1-2 33,6 L X X 33,9 L X X
34 34,19-20 34,23 L X X 35,11 36,10
37 37,32 38,13 40/39,3 40,7 40,7-9 40,9b 40,10-11 42,3
45 45,7 45,8 45,7-8 45,12 49,13-15 49,16 50,18s 51,6 51,9-12 51,13 54,5 56,9 63,2 63,10 67,17 L X X
INDICE DELLE FONTI
24 22 25
68 68,5 L X X 68,21
432, 495 69 496 69,8-10 184 69,22 243 69,29 404 70,3 25 70,20 L X X 22 74,9 470 74,13s 21 74,13-14 252 75,11 22 76,3 22 77,21 24 78,2 161 78,8 157 78,15-16 421 78,24 181 78,51 21 78,52-53 127 78,70-72 418 80,2 22 80,9-12.15-17 431 83,19 21 85,11 22 86,11 22 86,14 152 88/89,27 L X X 308 88,27-28 L X X 308 89,10-11 308 89,18.25 404 89,27-28 395 90.4 224, 275, 508 91,11-12 49, 275 94,1-2 275 95,7 275 95,8-11 49 95,11 308 100,3 127 101,26 308 101,26-28 159 102,26 158 103,4 65 104/103,24 22 104,30 482 107,20 L X X 24 109,3-5 22 109,16 233 109,25
225 136 243 21 127 23 482 22 152 64 499 450 490 303 432 352 39 441 402, 430
473 432 432 432 436 139 425 406 22 232 275 450 490 48 505 353 183 298 39 183 432 269 276, 317
276 275 234 65 421 22 22 22
555
INDICE DELLE FONTI
110 110,1
110,4 110,4a 110,4b 117,1 117,22 118,15b L X X 118,20 118,22-23 118,25-26 118,26 118,28 130,8 136,3 138,2 139,16
140 140,7
Proverbi l,20s 1,20-32 1,22 1,23 1,32-33 2,3-6
3,3 3,19 3,34 4,ls
5,6 8,ls
8,5 8,14-16 8,22 L X X 8,22s 8,23 8,30
9,4 14,22 16,6 18,4
273, 277, 291, 120,28 300, 303, 476, 29,25 530 30,19d 19, 48, 49,225, 226, 228, 273, Qoèlet 277, 300, 310, 5,1 315, 353, 488 7,12 L X X 273, 284, 293, 7,20 299, 300, 301, 302, 303 Cantico 304 2,15 304 6,11 183 7,9.13 252 8,12
66 431 353 353
Sapienza 1,7
2,10-20 42, 353 2,12 24 2,12-50 361 2,18 472 2,18-20 425 2,22 482 4,14 21 5,1-5 24 5,1-7 5,5 5,15s 37 6,22 38 7,8-14 36 7,11 442 7,25-26 37 7,25-29 241 7,26 425 7,27 234, 474 8,3
128 36 406 37 36 37 231, 473
37 128, 232 L X X
8,6 9,1-2 L X X
9,9 9,10.17 10-11 14,15.23
15,11 LXX 16,7 18,15
425 59 224 129 152 159, 162
435 435 435 435 234, 490 21, 127
35 20 23 353 238 128, 135
21 20, 127 23
471 238 241 241 272 231 131, 190, 231
36 128 231 421 128, 231
187 530 238 444 243 490, 504
234, 474
36 Siracide 425 1,4 425 3,18 441 1 7,6
231, 232
238 427
556 15,2 15,3 17,17 LXX 18,13 19,3 22,22 24 24,8 24,8-11 24,9 24,10-12 24,20 24,22 25,24 27,16.17.21 43,26 43,31 47,4 48,10 49,2 50,6 51,1 Isaia 1,2 1,11 1,18 1,21 1,24 2,3 2,12 5,1-2 5,21 6,1 6,1-3 6,7 6,9-10 6,10 7,14 8,8.10 8,13 8,14 8,23-9,1 11,1 11,1 11,1-4 11,1.10 11,2 11,3-4 11,4
37 189 276 254 427 238 176 424 128 231 37 442 37 159 238 234 296 427 52 427 468 243 171 308 484 501 59 419 184 436 37 395 488 163 352 409 351, 359, 409 359 181 179, 247, 252 352 468 63 62, 63 468 37, 63 504 63
11,4 LXX 11,4-5 11,6 12,2 12,3 14,13 14,13.15 19,1 19,19 20,3 21,24 22,22 23,16 25,8 26,4 27,1 27,2-3.6 27,9 28,16 29,13 29,14 30,4 30,22 32,15 LXX 34,1-7 35,4 35,10 40,3 40,6 40,8 LXX 40,9-10 40,11 40,13 41,4 41,8-10 LXX 42,1 42,1-4 42,1-7 42,6 42,8 43,10 43,13 43,18-19 43,25 44,2 44,3 44,6 45 45,23b LXX 49,1
557
INDICE DELLE FONTI
INDICE DELLE FONTI
49,1-6 49,6 49,10 50,4-10 51,4 52,6 52,13 LXX 52,13-53,12 53
219, 470 47 495 243 442 218 353 225 59 46 353 467 501 510 252 499 436 161 179, 247, 252 353 37 47 427 69 498 40, 243 510 353 425 421 40 432 184 318 278 345 352 133 431 136 439, 440 439 170 157, 439 220 442 318 125 136 103
53,1 53,2-10a.llb.l2b 53,3 53,4 53,4-6.8b.l0a. Ilb.l2b 53,4.10 LXX 53,4.12 53,5 53,5.12 LXX 53,5-6.10a.l2c 53,5b 53,6 53,7 LXX 53,9 53,10 53,10b.lla.l2a 53,llb 53,12 53,12a 53,12b LXX 54,1.5 54,5 54,5-8 55,1 55,1-3 55,8 55,10-11 56,7 58,6 58,11 LXX 60 60,1 60,19 61 61,1 61,l-2a
I
103, 133 431 496 133 431 135, 439 46 46, 133 23, 127, 142, 252, 427 LXX 478, 479 409 127 250 297, 352 127
141
61,2 61,2a 61,2b 61,10 62,2 62,4 62,5 63,1-6 63,3 63,8b-9 LXX 63,9 63,10.11 63,11 63,15 63,16 63,18 64,4-5 1 65,1 65,15 65,16 65,17 65,18b-19 66,1 66,22
251, 427 251 141 479 142 251, 254 250, 251, 427, 477, 478 Geremia 142, 251 1,5 141 1,8 127 1,17 LXX 251 i 1,19 22, 124, 135, 2,2 296 2,8 479 2,21 127 3,1-4 508 3,4.19 345 3,6-13 224 3,12.22 442 3,14-15 442 4,4 149 6,20 412, 421 7,14 353 7,22 371 7,29 361 9,22 512 9,23 431 11,19 512 11,20 371 12,2 63 15,20 371 1 16,21
399 371 371 345, 508 274, 491 274 345, 508 497 497 145 246 65 268, 432 192 171 283 508 179 491 473 170, 510 512 313, 353 170 103 439 361, 439 243 508 433 436 508 192 485 158 254 158 308 353 308 39 37 183, 184 21, 478 475 21 243 136
INDICE DELLE FONTI
558 18,18 23,2 23,3-4 24,7 30,11 31,10 31,15 31,31-34 31,33-34 38/31,9 L X X 38,31-34 L X X 42,11 44,29 51,34 60,10
Lamentazioni 1,15 4,20
Baruc 2,20 3,29.38 3,38
4,1 4,4
294 254 254 159 243 432 351
29,3 30,3
34
34,ll-12a 34,11-16.23-24 34,16 34,23 306, 320 36,26 317 37,9-10 L X X 232 37,14 320 37,24-25 243 37,34 409 38-39 499 40-48 508 40,46 43,7 43,14.17.20 498 43,22-23 49, 181, 369, 471 45,1 46,4.13 47,1-2.5 46 47,1-5 128 47,7-12 424 48,9 37 48,35
499 184 268 254 433 254 496 159 444 65 433 433 506 512 295 424
147 250 484 250
441 513 513 484 513
237 Daniele
Ezechiele 1 1,4 1,4-25 1,5-12 1,20 1,26-28 L X X
2,9 4,3 8,2 8,2.7
9,2 10,1
16 16,7-8 16,8-14 16,15 19,10-14 21,31
23 23,1 26,7 28,2
102 336 488 489 298 102 491 409 102 336 475 488 485 508 224 501 436 128 485 499 472 218
2,22 2,28 2,37 2,47 3,52 4,17.21 4,37 L X X 5,23 7,2s 7,3-14
7,9 7,9-10 7,10 7,13 7,14 7,25 8,13
9,2 9,24,27 9,27 10,5
431 238 472 55 135 55 472 55 500 353
53*
INDICE DELLE FONTI i0,5-6 10,13.20 10,13.21 11,36 12,1 12,2 Osea 1-2 2 2,4 2,16.19.21 2,17 6,6 10,1 11,1
470 Abacuc 276 2,2 499 2,4 218 315, 353, 482, Sofonia 499 1,3 511 1,14
19, 102,115, 128, 353,415, 470, 504 226, 353
499 283 493 350,499 353 475
1,1.12.14 1,13 2,3.5
2,4
Giona 1,12 2,1
144 353
Michea 2,12 2,12-13 3,11 4,6-7 5,1.3 5,1-3 7,6 Naum 1,2 3,4
254 432 294 254 350, 351
295 362 295 322
Zaccaria
Amos 5,8 5,18.20 5,22.25 8 8,9 8,11 9,3 9,6
298, 470, 484
488 482, 489
427 184
Aggeo 224 485 427 508 427 308 436
2,15 171, 192, 281, 3,1.9 351, 357 3,3-6 4,10 6,11 442 6,12 184 9,9 184 497, 504 10,3 11,12 136 11,12-13 186 11,15-17 308 11,16 23 i 12,1-13,6 22, 353 12,10 442 12,10-12 499 12,11 136 13,2 13,7
Gioele 3,1-2 3,4 3,5 4,13
356 160
14,5 14,8 14,11 14,14
Malachia 3,1 3,16 3,23-24 L X X
511 295 485 488, 490 295 415 57, 351, 352, 419
254 353 352 433 254 512 442, 475
353 503 427 19, 268, 353, 432
40 441 513 57 268, 353
482 52
433 353 Nuovo Testamento
427 Matteo 501 \ 1-2
357
560
1,1 1,1-17 1,1.6.7.17 1,18-2,23 1,20 1,21 1,21-23 1,22 1,23 1,35 2,1-10
2,5 2,6 2,15 2,15.17.23 2,20 2,23
3,1 3,3 3,7-9 3,7-12 3,10b 3,11-12 3,13-17 3,14-15 3,16 3,17 4,1-11 4,3.6 4,14 4,17 4,17.23 4,18-22 4,33
5-7 5,1 5,1-12 5,2-12 5,2-12.38-42
5,3 5,3.6 5,10 5,11 5,11-12 5,14 5,17 5,17-19 5,17-20 5,18
INDICE DELLE FONTI
348, 350 1 5,20 347 5,21-45 350 5,21-48 347 5,23s.39.44 350, 365 5,44-47 244, 361 5,44-48 281 5,46-48 351 5,48 359, 360, 361 6,9 68 6,9a.l0a 349, 350 6,10 352 6,16 350 6,19-21.25-34 281, 357, 415 6,21 351 6,33 358 7,1-2 63, 351 7,3-5 331 7,7-11 352, 353 7,12 27 7,18-16 27, 29 7,21 35 7,21-23a 27 7,21.24-27 365 7,21-27 67 7,24 63 7,24-27 415 7,28-29 27, 353 7,35.18.16
42 351 346 354 354 415
8-9
8,1-4 8,5-13 8,10-12 8,11-12.16 8,lla 110, 347, 354, 8,12b.llb.l2a 371 8,17 354 8,18-22 357 8,19 35 8,20 35 8,23-27 40, 112 8,29 27 9,13 35 9,27 41 9,37-38 27, 32 10 430 10,5-6 351 10,7 72 10,9-11 356, 358 10,10 29, 71 110,10b
114, 356
356 353, 358
112 28 35 35 28 192 40 40, 112, 128
415 35 241 40 28 28 35 35, 35
28 28, 356
43 27 35 253 28, 33
354 35 359 359 28, 32
349 29 40 40 351 29, 35
354 41 359, 360
415 401 350 35, 35 28, 347, 356
349 40 29 399 35
INDICE DELLE FONTI
10,16.9-13.8.7. 14-15 10,24-25 10,25a 10,26-31 10,32 10,32-33 10,34-36 10,35 10,38 10,40 10,40b 11,2-6 11,2-11.16-19 11,3 11,4s 11,5 11,7-11 11,10 11,11 11,12 11,14 11,16-19 11,19 11,21-23 11,22 11,23 11,25 11,25-27 11,27 11,51 12,6 12,17 12,23 12,28 12,32 12,35-34 12,38-39 12,40 12,41 12,41-42 12,42 12,42.41 13,1-52 13,12 13,14.35 13,19-23 13,31.32 13,33 14,13-21
35 35 35 35 41, 42, 530
32 33 353 28, 34, 193
33 33 28 27 42, 401
340 353 28 353 40
14,22-23 14,27 14,30 15,3-9 15,10-20 15,14 15,18-19 15,22 15,24 16,2-3 16,3 16,16 16,17-19 16,19 16,21 16,24s 16,27 17,5 17,17
18
18,1-4 18,7 28, 33, 36 18,12-14 41 18,15.21-22 33 18,20 39 18,23-35 353 19,4-5.7 112 19,14 34, 36, 42 19,16 38, 349 19,18-19 43 19,28 179, 357, 360 19,30 351 20,1-8 350 20,1-16 40, 64 20,20-23 41 20,24-28 35 20,28 38, 40, 71
42
408 41, 353 20,30.31 357 21,4 44 21,9 357 21,9.15 179 21,11 347 21,13.16 28 21,28-41 351 21,31 344 21,37 40 21,42 40 22,1-2 359 22,1-14
562 22,11-14 22,24.32 22,37 22,37.39 22,41-45 22,41-46 22,42 22,44
23 23,2.7 23,2.8-10 23,4 23,8.10 23,12 23,23.6-7.27-28 23,29-36 23,34-36 23,37-39 23,38.39 24-25 24,3.24.30 24,15 24,15.21.29 24,27 24,28 24,30 24,30-31 24,35 24,37 24,39 24,43 24,44 25,1 25,1-13 25,14-30 25,29 25,31-46 25,34 26-28 26,3.57 26,15 26,26-28 26,28 26,29 26,31 26,31.54.56 26,38-46 26,39.42 26,46
INDICE DELLE FONTI
485 353 417 353 357 351 350 353
26,49 26,54 26,56 26,64 26,65 27,9 27,28 27,40.43 347, 356, 357 27,43 355 27,46 357 27,50 39 28,16-20 355 28,18 128 28,19 39 28,19-20 33 28,20 37 39b-42 27, 33, 37
353 347, 356
408 352 353 41 35 353 109 355 41 41 112 41 509 345 27 28, 35
360 483 116 17 353 109 296 360
Marco 1,1 1,1.14 1,10 1,10-11 1,11
354 351 351 353 527 351 502 415 353 24, 220
443 7 349, 349, 348, 360,
353 415 349 361
27 337 344 336 342 220, 281, 337,
345 1,12 1,14-6,13 1,15 1,20 1,21-28 1,23-28 1,23-28.29-31. 40-45 1,24 1,27 1,32-33.39 1,32-34 1,34 1,40-45 1,45 2,1-12 2,1-3,6
2,2
2,10 268, 352, 353, 2,17 432 2,18 352 2,19-20 288 3,1-5 288 3,1-6
353 1 3,6
64, 336
338 344 68 335, 354, 371
340 342 46, 344 337, 338
336 340, 342
339 339 336 340, 342 12, 335, 340
344 346 116, 401
338 344, 509
342 340 342
563
INDICE DELLE FONTI 3,7-12 3,10-11 3,11 3,13 3,14 3,19 3,21 3,22 3,22-27 3,35 4,1-34 4,11 4,14.15.16.17. 18.19.20.33 4,25 4,35-41 4,35-5,43 4,38 4,40 4,41 5,1-20.22-24. 35-42.25-34 5,35-43
6,2 6,4.15
6,5 6,7 6,14-15 6,14-10,52 6,30-44.48 6,50 6,51-52 6,54-56 6,55 7,1-23 7,14-23 7,20-21 7,24-30.31-37 7,28 7,31-37 8,1-9.22-26 8,10 8,11-12 8,12.38 8,17 8,22-26 8,27-30 8,27-33 8,27-9,13 8,28
336, 340 1 8,29 342 8,30 67, 339 8,31 336 8,32 112, 284, 339 8,34 16 8,34-38 338 8,35 338 8,38 40, 342 9,2-9 112, 134 9,2-13.30-35 12, 335 9,5
339
9,7 9,9
344 9,14 28 9,14-29 342 9,19 12 9,31 354 9,37 339 10,1.32-34.46-52 338 10,5-40 10,11-12 10,13-16 10,28 338, 402 10,29 64 10,33-34 342 10,35-40 112 10,41-45 338 10,42-45 338 10,45
342 339
342 438 339 336, 342
336 372 110 428 342 56, 417 339 342 331 342, 408
10,46-52 10,47 10,47-48 10,51 11-15 11,1-10 11,1-23.27-33 11,3 11,12-14.20-24 11,20-24 11,22 11,27-12,37 12,1-9 12,1-11 12,1-12 12,1-17.34-37. 41.44
39 339 339 338 15 338 64 1 12,6
338 338, 339 338, 339, 346 339 28, 34, 343 342 344 42, 531 342 15 354 220 339 109 342 39 339 268, 399 15 377 . 109 336 339 344 339 339 377 342 116, 146, 246, 296, 335, 346, 364, 376, 377, 401 342 344 343 58 338 338, 340, 343 15 56, 61, 536 342 335 160 335 436 34, 345 37, 145 15 187, 220
564 12,13-17 12,17 12,28-34 12,30 12,35-37 12,37b-40
13 13,1-2 13,4.22 13,6 13,10 13,30
14 14-15 14,1-16,8 14,9 14,10 14,22-24 14,22-25 14,24 14,25 14,27 14,32-42 14,32-15,47 14,36 14,41 14,43 14,49 14,50 14,53.54.60.61.
63 14,55 14,56-57 14,58 14,61 14,61-62 14,62 14,66-72 14,67
15 15,1 15,2.9.12.18.32 15,3 15,16-32 15,17 15,20-39 15,24 15,26
INDICE DELLE FONTI
343 1 15,27 465 15,28 114 15,29 417 15,32 343 15,33 347 15,34 335, 458
15 408 438 344 39 19, 22 335, 343
15 344 16 116 320 20
15,35 15,35-36 15,36 15,37 15,38 15,39 16,6 16,7 16,7-8 16,8 16,17
22 22, 351 22, 415
19 22 17, 22, 23, 24,
220 24 24 23 443 71, 343 20, 23, 337, 339, 345, 528
344 7 340 343 112
61, 343 Luca
19 19 16, 19 15, 17, 19, 25, 112, 134
19 16 351 19, 339
17 22 22 112, 312, 313,
343 415 340, 438 19, 21, 346
1-2 1,5-20 1,11 1,19 1,30 1,30-35 1,32-33.35 1,32.35 1,35 l,35b 1,46-55 1,47 1,50 1,50.54 1,52-53 1,58 1,68-79 1,69.71.77 1,72.74 1,78 2,10 2,11
19 344 22 336 19 296 26 2,30 502 2,30.32.34 18 2,34 22 2,40 19 12,49
369, 370
369 417 311, 372 367, 439
370 369 281, 415 69, 365
69 370 243, 369
371 369 370 369 370 376 369 369, 370
372 48, 51, 181, 243, 244, 366, 369, 369, 418, 538
243 370 408 367 367, 368, 370
565
INDICE DELLE FONTI
2,51 2,52 3,2 3,6 3,7-9 3,7-9.15-18 3,7-9.16-17 3,9b 3,16-17 3,21-22 4,1 4,1-13 4,3.9 4,14 4,16-30 4,17 4,18 4,18-19 4,19 4,19.21 4,21 4,22 4,24 4,25-26 4,28-29 4,34 4,41 4,43 5,27-32 5,32 6,17 6,20b 6,20b-21 6,20-26 6,20-49 6,22 6,22-23 6,27-36 6,29-30 6,31 6,32-35 6,36 6,37-38 6,37-42 6,40 6,41-42 6,43-44 6,43-45 6,46 6,46-49
134 I 6,47-49 6,48 7,1-10 243, 369 7,11-17 27 7,13.19 29 7,14 27 7,16 35 7,18-23 27 7,18-28.31-35 365 7,19 365 7,22 27 7,24-28 42, 415 7,28 69 7,30 371 7,31 492 7,31-35 64, 371, 399 7,34 371 7,35 371 7,36-50 538 8,11-21 366, 372 8,19 367 9,3-4 372 9,22 372 9,23 372 9,26 46 9,48 415 9,57-60 367, 369, 399 9,57-62 373 9,58 374, 375, 401 10,1.39.41 358 10,2 40 10,2-16 27 10,4 35 10,7 35, 35 10,7b 41 10,9 27, 32 10,10 35, 35 10,13 27 10,13-15 35 10,16 28 10,16b 28 10,20 28 10,21 35, 35 10,21-22 35 10,22 28 10,29-37 28 10,37 35, 35 11,2 11,9-13 28,43 27, 35 1 11,20
367 17
28, 33 253 28, 32 373 366 417 64 28 27 42, 401 340 28 40 368, 369 39 28, 33, 36 41 43 113, 372, 373 344 28 29 367 28, 34 42 399 29 35 41 366 35 35 29 109 35 40 513 39 33 33, 268, 399 33 482 34 36, 42 38 373 369 40 35, 35 40, 64
566 11,23 11,24-25 11,29-30 11,30 11,31-32 11,31.32.51 11,39 11,39-52 11,42 11,42-44 11,46 11,47-51 11,49-51 11,50 12,2-7 12,2-9 12,8 12,10 12,12 12,22-31 12,22-34 12,8-9 12,31 12,34 12,39 12,40 12,51-53 12,54-56 13,2-21 13,6 13,10-17 13,14 13,16.33 13,18 13,26-27a 13,28 13,28-30 13,29 13,32 13,33 13,34-35 14,11 14,21 14,27 14,27
15 15,1-2 15,2 15,2.5
INDICE DELLE FONTI
41 1 15,3-7 109 15,4-7 408 15,7 41 15,7.10 44, 179
39 366 29 366, 367
39 39 33 37 39 35 35 41,42
41 367 35 35 32 40 241 112 41 33 33, 39
40 436 373 367 367 40 43 40 29 40 286 368, 369 27, 33, 37
128 112 34 28 373, 375 33, 372, 373,
375 113 375 I
15,8 15,8-10 15,9 15,9-10 15,11-32 15,17-19 15,19 15,25-32 15,32 16,1-9 16,1-13 16,16 16,16.17 16,17 16,19-31 17.1 17,3-4 17,5.6 17,740 17,11-19 17,24 17,24.26.30 17,25 17,26 17,30 17,33 17,37b 18,1 18,1-8 18,6 18,9-14 18,13 18,14 19,1-10 19,5 19,8 19,9 19,10 19,11-27 19,26 20,5 20,6 20,8 20,9-16 20,13 21,7.11.25
373 324 375 374 376 373 376 375 373 374 374 374 367, 374, 376
373 35 38, 40, 372
71 29 373 39 32 366 373 373 41 41 367 41 41 28 35 367 373 366 113, 373
278 128 372, 373, 375 366, 367, 369
366 366, 376 375, 376
27 28, 26
391 391 391 436 220 408
567
INDICE DELLE FONTI 21,9 22,7.37 22,15-16 22,19-20 22,24-27 22,25-27 22,27 22,28 22,29-30 22,30 22,61 22,70 23,8 23,34 23,39-43 23,43 23,46 23,46-47 24 24,3 24,5 24,7.26.44 24,13-35 24,19 24,21 24,26 24,26-27 24,27 24,44 24,46-47 24,49 24,50-51 24,53 Giovanni 1 1-12 1,1 1,1-3 1,1-3.14 1,1-9 1,1-14 1,1-18 1,2 1,4-5.9 1,4-5.9-12 1,5 1,6-8.12d-13.15. 17-18 1,6-8.15
367 I 1,9 367 1,10-11 61 l,10-12c 116, 376, 377 1,10-16 377 1,11 364 1,12 377 l,12c-13 41 1,13 29 1,14
488 366 415 408 365 373 366 365, 443
377 7 366 253 367 373
l,14b l,14c 1,14.16 1,14.18 1,14-18 1,16 1,16-17 1,16-18 1,17 1,17-18 1,18
1,19 1,20 368, 378 1,21 249 1,22 492 1,29 364 1,29.36 444 1,32 362 1.32-33 363 1,32-34 369 1,33 1,34 69, 408
146
1,36 1,41 392, 395, 418 1,45 422, 423 1,46 539 1,49 422 1,51 422 2,1-11 191, 410, 420 2,4
154 393
272 422 423 429
2,9 2,11 2,11.18.23 2,21
1 2,22 422 | 2,24-25 422 1 2,29
473 429 422 422 529 416, 423 422 423, 424 233, 404, 424, 446, 513 391 425 422 426 423 426, 444 425 423 406, 411, 414, 416, 422, 425 420 5, 391, 395, 400, 418, 422, 426 15 438 414 419 297, 391, 426 477 63, 391 441 67 440 281, 391, 415, 418 426 349, 416 415, 423 417 415, 418, 419 415 345 460 402 406, 409, 425 408 70, 513 407 403 345
568
3 3,2 3,4-6
3,5 3,5-6
3,8 3,11 3,13 3,13-21 3,13-31 3,14 3,14-15 3,15 3,16 3,16.18 3,17 3,17.34 3,19 3,19-21 3,29 3,31 3,31-36 3,32 3,34 3,34a 3,34b 3,35
4 4,1 4,6 4,8.16
4,9 4,11 4,12 4,14 4,19 4,20-24 4,21 4,21.23-24 4,22 4,23.24 4,24 4,25 4,26 4,34 4,36
INDICE DELLE FONTI
388, 389, 406 4,41.50 401, 407, 408, 4,42 409 4,44 444 4,48 388 4,54
406 402
5
5,6.42 389, 400, 403 5,20.36 402, 415 5,23.24.30.37 389 5,24 389 5,27 415, 442 5,28 427 5,30 220 5,31-38 399, 403, 416, 5,31-40 425, 426 5,32 426 5,36 221, 268, 399, 5,36.38 418 5,38 399 5,43
401 408 509 401 389 400 407 444 444 416 388, 406 366, 417
425 440 419 402 414 441, 443
414 70 419 513 429 406, 425
440 349, 416 416, 437 112, 134, 399,
6 6,2.14.26.30
6,5 6,14 6,15 6,20 6,23 6,27.53 6,29.57 6,31 6,32 6,32-5 lab 6,33.38.41.42. 50.51.58 6,33.48.51a 6,38.39.44 6,39.40 6,39.44.54 6,41 6,42 6,46 6,51 6,51b 6,51c 6,51c-58 6,56 6,62 6,63.68 6,69
408 437 17
407 243, 418, 418
414 408 408 388, 406
403 408 399 388, 407, 434
415 446 416 400 400 403 409 399 407 401 388, 402, 406
408 402 64, 401, 414
403 437, 438 366, 417
415 399 402, 430 399, 473
430 402 430 399 433 446 430 415, 423 400, 401
320 427 391, 429 430, 443 430, 437 402, 415
407 46, 418
406
569
INDICE DELLE FONTI
7-9 7,2.37 7,3.21 7,11 7,15 7,16 7,16.18.28.33 7,17 7,18-23 7,27 7,27-28 7,27.41-42 7,28 7,29 7,31 7,32 7,37-39 7,39 7,40 7,41-42 7,41-42.52 7,53-8,11
8 8,12 8,14 8,14.55 ter 8,16.18.26.29 8,18 8,21 8,23 8,24 8,24.28 8,28 8,31 8,32 8,34 8,36 8,38 8,40 8,42 8,44 8,44.55 8,51-52 8,53 8,55 8,56
388 8,58 430 9 408 9,3.4 401 9,4 408 9,5 408 9,16 399 9,17 408 9,22 371 9,29-30 417 9,35 402 9,38 417 9,39 401, 417 9,41 399, 402, 404 10
408 296
10,1-18 460, 441 10,7.9 64, 69, 425, 441, 10,10 443 10,11.14 64, 414 10,11.14.16 417 10,11.15 423 10,llb.l5b 409 10,14 406 10,16 405, 430, 460, 10,17 513 10,25 400, 401, 402, 10,25.32.33.37.
404 403 399 400 402, 428, 429
401 437 438, 439 407, 415, 437,
38 10,30 10,33 10,35 10,36 10,41 10,42
11
11,2 442 11,3 407 11,24 11,25 405, 427, 435 428 11,27 435 11,33 396, 400 11,42 405 11,43 399, 401, 402 11,47 11,49 404, 405 404 11,49-53 407 11,50 414 11,52 404, 407 12,13 439 1 12,15
437, 438, 439 388, 406
408 399 429 408 414 529 402 415 418 401, 434
428 406, 431, 495,
496 426 431 401, 435
432 268 429 433 403, 433
433 220, 416
409 408 416 439 407 399 408 529 388, 406 366, 417
417 433 433 415, 418
425 399, 403
434 408 17 15 391, 429
416 431 419
570 12,18.37 12,23 12,23.34 12,24 12,26 12,32 12,37 12,38-41 12,44.45.49 12,46 12,47 12,48 12,50 13-17 13,1 13,1-11 13,3 13,6-8 13,10 13,13 13,19 13-20/21 13,1-13 13,13 13,18 13,19 13,31 13,31-17,26 13,34-35 13,36 14,10.11.12 14-17 14,2.3.12.28 14,3 14,5 14,6 14,6a 14,6b 14,8-9 14,12 14,16 14,16.26 14,17 14,18 14,18-20 14,20 14,23 14,24 14,26
INDICE DELLE FONTI
408 425 415 429, 437
508 427, 442
393 409 399 401, 430
401 407 403 388, 445 403, 404, 443
15,1 15,3 15,4 15,4.5 15,4-8 15,5.1 15,6 15,7 15,9 15,15 15,16 15,21 15,22 15,24 15,26
473 397, 407, 427 407, 437
437 437 435 436 407 220 400, 407
446 399 428 408 425, 445, 446,
425
467
401, 403
399, 402
16,5 429 16,5-7 398, 484 16,7 536 16,8 437, 438 16,8-9 393 16,13 130 16,13-14 418 16,14 440 16,19 440 16,19-22 415 16,21-22 390 16,27-28 437 16,28 402 16,28a 408 16,28b 406 16,30 403 17,1 401, 446 17,3 402, 405, 434 17,3.8.18.21.23. 396, 431, 434, 35 446 17,4 405 17,5 406 17,6 396 17,6.14.17 409, 447 17,8 446 17,11.12 446, 445 17,11.13 69, 425, 446 17,llb 447 17,14.16 446 17,19 430 17,24 446 17,24.26 399, 401 17,26 408, 440, 445 18
446 403, 446
446 428 425, 446, 496
445 467 403 460 483 401 401, 403
403 403 401 425 411, 416
399 408 131, 402, 410
406 407 401 399 403 416 401 296, 429 401, 425
220 407 406
571
INDICE DELLE FONTI
18,4 18,5.6.8 18,12-28 18,13.14.24.28 18,30 18,33-37 18,33.39 18,37 18,38 18,41 19,3.14.15.19.21 19,5 19,7 19,9 19,19-22 19,20 19,26 19,28 19,30 19,34 19,37
404, 446 1 2-5 437 2,1-13 15 2,22 17 2,22-36 527 2,23 20 2,24-36 419 2,28 401, 405 2,29 405 2,32 58 2,33 419 2,33.38 415 2,33a 415 2,33b 402 2,34 20 2,36 309 2,38 460 2,41 404 2,42 442 2,46 443 2,46.42
475 7
3,1
3,12-26 3,13 529 3,13-15 362 3,13.26 399 3,14 69, 440 3,15 443 3,16 153, 402 3,17-26 191, 393, 417, 3,19-21 418, 528 3,21 391 3,26 20,29 397, 408 4,4 20,30 387, 390, 393, 4,6 20,31 415 4,12 7 4,13 21 477 4,13.29.31 21,15 404 4,24-30 21,17 21,24-25 390 4,25 4,25-27 4,27-28 Atti degli Apostoli 1-5 44 4,27.30 44 4,28 1-15 253 4,33 1,3 66 5,29 1,4 7 5,29-32 1,7 69, 362, 365 5,30 1,8 51, 363 5,30-31 1,9-11 7 5,31 1,15 367 1,16.21
20
20,17 20,19 20,19-25 20,21 20,22 20,22-23 20,27 20,28
277, 402
13,44
365 45 44, 377 15, 45, 368
45 47 48 66 66 69 365 365 49 47, 50, 51, 57, 75
168 7 18 62, 70
70 70 44, 49 46, 47 15,45
45 46, 473 47, 268
160 51 49, 61, 74
367 399 7 17, 295 367, 378
10 48 45 46 45 15 45, 46, 473
45 365, 377
367 44 15 45 47, 66, 243, 244, 268, 418
572 5,32 5,39
6-7 6,1 6,7 6,8.10 6,13 6,13-14
7 7,22 7,38.53 7,44 7,48 7,52 7,55-56 7,59 7,59-60 7,60 8,1-4
8,3 8,5-25 8,15.17.19 8,16 8,32 9,6.12 9,10-17 9,14.21 9,31
10 10,1-11,18 10,38 10,39-40 10,39b 10,47 10,48 11,19-20 11,20 11,26 13,1-2 13,21 13,23 13,27-29 13,27-30 13,33 14,3 14,22 15,5 15,8 15,11 15,20
INDICE DELLE FONTI
69 369
15,20.29 15,29 10, 71 16,7 10, 11 16,30 10 17,3 69 17,22-31 70 18,21 71 19,5 70 19,21.36 408 19,23 276 20,24 313 20,27 313 20,28 45, 46, 47 538 20,32 365 20,35 530 21,22 365 21,25 12 21,26 96 22,12-16 10 22,14 69 22,16 168 23,11 477 24,19 367 25,10.24 119 26,9 530 26,18 7 26,23 10, 121 27,9 372 27,21.24.26 69 28,28
45 15 69 168 12 120 119 119 244 243, 418
15 45 281 367 367
193, 365, 530
1,1 1,3 1,3-4 l,3a l,3ab l,3b
l,7b
1,9 1,17 1,18-23 1,18-3,20 1,19-21 1,25
367 367 45 367 168 367 69 367 368
2,5
254, 296, 376,
3,9
377 317, 367
367 367 72 70 119 46, 47 484, 530
367 367 367 367 317 47 307 367 343
Romani 117, 181 97, 191
122 281 283 66, 109, 191,
2,10 2,12 2,16 2,20 3,9.12 3,10 3,20 3,21 3,21-26 3,21-5,21 3,22.26 3,23 3,24 3,24.25 3,24-26 3,25 3,26 3,27 3,28
4,1 4,7 4,7-8 4,14 4,15 4,16 4,17 4,24 4,25
281 l,3b-4a 1,3.4.9 1,3.9 1,3-4
1,4 69 l,4a 378 72 I 1,5
10, 367
72 72
13, 15, 48, 65, 120, 121, 186, 281, 530
4,25-26
5,1
186 188 283 139
5,1-2
65, 69, 150, 154,
5,6-8
293 99
573
INDICE DELLE FONTI
5,2 5,5 5,6 5,8
185 196 160 149 165 149 191 184 237 161
5,9
138, 161, 538 114, 155, 243 138, 139, 156, 186, 187 146, 192, 235 161, 162 164, 165, 189
5,9-10 5,10
5,10-11 5,12 5,12-21 5,13-14 5,13.20 5,15-21 156, 184 5,17 175. 5,17.21 162 5,18 162 5,21 162 6,1-11 176 6,3.4.5
161 94 92 160 162 145 250 116 13, 116, 120, 138, 147, 148, 157, 160, 192, 296 161 179 161, 179
97 161 157 132 176 160 65 139
65, 150
6,6.17.20 6,8.9 6,10 6,11 6,12 6,12-13.16-23 6,12-7,24 6,14 6,18.22 6,23 7,3-4
7,4 7,7-11.13 7,7-75
7,8
8,1
193, 316 8,1-11 69, 154 8,1.34
141
92, 116, 166 138
6,4 6,5 6,6
7,8-10 7,10 7,10-11.13 7,11 114, 120, 122, 7,12.14.16 139, 141, 144, 7,14 151 7,17.20 94 7,19-20 151 7,24
192
162 176 192 196 252 114 162
8,2
122, 138 8,3 114, 120, 141, 144, 145
116 163 162 138 139, 167
247 162 252 165 162, 180
145 162 166 146, 192, 309
176 177 162 162 178 163 162 176, 178
162 162 163 163 156 165 155 145, 180 90 91, 120,122, 141, 143, 148,162, 178, 187, 191, 192, 281, 399
574
INDICE DELLE FONTI
575
INDICE DELLE FONTI
186 178
8,3.29.32
8,4 8,9
154, 193, 249
8,9-10 8,10 8,15
252, 442 69, 115, 119,
8,15.23 8,18-22 8,18-23 8,23 8,24 8,29 8,31 8,31b-32 8,31-39 8,32 8,34 8,35 8,37 8,38 8,39 9-11
9,4 9,5 9,5a 9,5b 9,15 9,15-16 9,23 9,31 9,32a 9,32b-33
10 10,2-4 10,4 10,7 10,9 10,9-10 10,9-13 10,10 10,12 10,12-13 10,13
174 187 115 510 235 145 114, 293 130, 188, 190, 196, 277, 476
141 145 152, 114, 120, 141, 144, 187, 138, 139,
156 139, 160, 192 152,
273 195 221 225, 226
145 177 115 97, 109, 181, 190, 191
190 190 132 114 247 178 179 179 184 99
10,17 10,20 11,8 11,13 11,25-26 11,27 11,32 11,33 11,36 12,2 12,4-5 12,6 12,9-21 12,11 13,1-7 13,8-10 13,11 14,6-9 14,8 14,9 14,9.15 14,10 14,11 14,14 14,15 14,17 14,20 15,2-3 15,2-3.7 15,3 15,6 15,11 15,13.18 15,15 15,18-19 16,2 16,27
1-2
139 120, 181, 184, 1,3
1,8 1,9
137, 530
184 162
179, 242 229, 233 130, 176
194 222 112 185 500 114, 176
217 183 154 139 138 195 183 110, 183
141 113 159 111 182 131 115, 191, 192
183 69 99 117 183 192
1 Corinti
101, 120, 179 1,2
186 116
192 179 69 100 237 161 162
1,10 1,12 100, 154 1,13 184 1,13.15
153 60, 137, 154, 317, 530
185 184, 195 54, 186, 188,
196 143 119, 181
141 168
1,17 1,17.18 1,18 1,18-25 1,18-2,9 1,18-2,16 1,19-21 1,20 1,21 1,23 1,26 1,27-28 1,30 1,31 2,1.7
132, 193 17,39
138
8,5 148, 149 8,6 148 239 92 8,6a 179 8,11 149 8,12 149, 192 9,1 96, 148 9,5 97 9,14 112 9,16-17 118, 145, 171 9,21 183, 184 10,4
237 138 10,4b 69 10,11 225 1 10,16
2,2 2,4 2,6.8
2,8 2,9 2,12 2,16 3,10 3,10-17 3,16 3,16-17 3,20 3,23
4,1 4,5 4,15 4,20
5,4 5,5 5,7 6,9-10 6,11 6,14 6,15 6,18 6,19 6,20 7,10 7,10.32 7,12-16 7,12.25 7,22 7,23 7,25
10,18 10,21 69 10,26 184 11,1 99 11,3-10 247 11,23 112 11,23-26 70, 344 11,23-27 183 11,24-25 196 11,25-27 237 11,26 156, 184 170 ll,27a 113 ll,27b 69, 530 12,3
102, 150, 471 149, 183
184 12,7.11 12,7.27 12,21 12,27 12,28-29 161 13,2 146, 344 13,12 145, 146, 250 1 14,2 29, 109, 183 14,21 154, 186 14,57
145, 113, 171, 317, 183, 112,
148 428 484 185 170
109 183 183
15 15,3
56, 60, 120, 137, 185, 186, 191, 229, 233, 531
277 138, 141
161 99, 100, 183 109, 119, 183
183 99 110 181, 284, 441,
539 189 155 138 97 183 184 110, 111
223 109, 139
530 120 116 138 53, 61, 138, 183,
184 183 183 120, 137, 154, 181, 186, 530
223 222 221 194 118 237 514 237 183 343 90, 458 15, 20, 119, 138, 140, 157, 245,
293
145, 146, 250,
293 29
170 183
15,3-5
120, 121, 137,
530
I 576 15,3.5 15,3.17 15,4 15,4.12.13.14. 16.17.20 15,5 15,6 15,8 15,10 15,11 15,14 15,17 15,18 15,20.23 15,21 15,21-22.45-49 15,22 15,22.45 15,23 15,24 15,24.28 15,24.50 15,25 15,26 15,28 15,34 15,45 15,45b 15,49 15,51 15,56 15,57 16,22
2 Corinti
1,2 1,3 1,5 1,14 1,19 1,20 l,20a 1,22 1,29 2,12 3,4-18
351 1 3,15 161 3,16 139 3,18 3,21
139
4,4
109, 119 4,6
7
4,7
99, 100 4,7-15 99 4,10 120 4,10.11 138 4,11 138, 151, 528 5,1
471 155 139 189 151 539 154, 182, 184 224, 226
196 113 225, 272, 273
225 186, 188
150 151, 362
189 190, 196 217, 237
176 192
5,5 5,10 5,11 5,14.15 5,14b 5,14b-15 5,15 5,15.19.20 5,16-17 5,16a 5,16b 5,17 5,18 5,18.19.20 5,18-20 5,19 5,21
6,2
6,3-10 13, 44, 52, 55, 6,16 60, 119, 137, 7,1 154, 186, 417, 8,9 471, 530 9,3 10,7 10,17 185 11,2 115, 192, 215, 11,4 247 11,21-12,10 139, 182 11,24 184 11,31 186, 188 12,2-10 192, 473 12,8 425 12,8-9 69 12,9 122 12,10 183 12,12 178 1 13,3-4
13,3.5 13,4
492 103, 193
130 144
13,13
102, 189, 230 99, 190
Galati
531 194 122, 139
139 139 344 69 156, 195
185 138 167 169 141, 166
143 99 97 97
1,3 1,4 1
l,4b
1,6 i 1
1 1
169, 170, 190
192 146 235 145
|
1,12.15-16 1,13-14 1,15 1,15-16 1,16 1,18 1,19 1,22 2,9.11.14 2,10 2,11-14 2,15-16 2,16 2,16.21 2,17.19-21 2,19 2,20
133, 141, 142, 148, 174, 296
538 194 344 159
2,21 2,26
3,1
132, 141, 183
132 170 183, 184 223, 345, 509
69 194 141
|
3,2.14 3,2b 3,8-9 3,10 3,10-13.21 3,11 3,13
115, 192
530 137, 154 117, 190
195 122, 149
112 122
577
INDICE DELLE FONTI
INDICE DELLE FONTI
3,16 3,19 3,22 3,23-25 3,25-29 3,27 3,28
170
4,1
65, 122, 139, 4,1-5
150 193
4,4
185 4,4.6 120, 141, 161 4,5 143 4,5-6 195 99 96
4,6
99, 100, 103 4,8-9 177 4,19 186, 188 4,21-31 109, 119, 120 5,1 109, 183 5,10 8 5,11 119 5,12-21 143 5,13-24 72, 73, 109 5,14 378 5,16-24 160, 161, 179 5,19-21 74 5,21 174 5,24 167, 172 6,2 99, 100, 104, 6,12.14 118, 120, 139, 6,14 141, 144, 145, 6,15 160, 170, 182, 186, 188, 245 Efesini 114, 138, 180, 1,3
538 160 268 69 180 172
1,4 1,5 1,6 1,7 1,9
1,9-10.20-22 142, 144 1,10 176 1,10.22 160 1,17 97, 139, 141, 1,20 142, 143, 145 1,20-21 109 1,20-22 176 1,21 160, 162 1,22
176 174 168
2,2 2,11-22 2,13
170, 437 1 2,14
183 176 90, 91, 100, 109, 120, 122, 187, 191, 192, 268, 281, 399
186 115, 145, 171
171 100, 115, 119, 154, 187, 188, 193, 249, 442
180 130, 170
247 145, 146, 180
183 138 171 180 114, 176
165 428 113 167, 170 110, 195
138 167, 168, 172
169 192, 215
483 171 219, 220, 221
138 239 240 235 227, 272, 495
63 139, 273, 277
279 277 226, 274
228 225 73 138 240
578 2,14.15.16.18 2,14-18 2,16 2,18 2,18-19 2,19 2,21-22 3,1-13
3,4 3,4-5
3,6 3,8 3,9 3,10 3,12 3,18 3,19
4,7 4,9 4,10a 4,10b 4,11 4,13 4,15 4,15-16 4,24
5,2 5,22-23 5,23 5,25 5,25-27 5,25.28-29.33 5,26 5,26-27 5,32 6,12 Filippesi
1.2 1,6 1,6.10 1,9-11 1,14 1,19
INDICE DELLE FONTI
240 1 2,5 235 2,5-8 138, 235 2,6 193 316 73 2,6-7 247 2,6-7a 99 2,6-8 239 2,6-11 240 240 242 239
2 2,1-5
2,3
89 124, 125, 127, 128, 130, 131,
132 134 124
226, 242 193, 316 2,6a 242 2,6ab.7ab.7bc. 8ab.9ab,10a.ll a 242 222, 223 2,6b
256 223 223
2,7
2,7-8 222, 223 2,7a 186 2,7b 228 2,7b-8
221 168
2,8
148, 223, 296 2,8-9 223, 345 2,8c 223, 244, 418 2,9 139 2,9-11 223, 509
223 278, 484
224 224
122, 123 13, 90, 91, 92, 105, 116, 121, 123, 124, 127, 128, 129, 136, 138, 364, 529, 530, 531 129, 131 123 129, 131 109, 115, 124, 125, 127, 131 124, 132 124, 127
133 124 112, 134, 138,
139 143 123, 127 124, 139, 274 57, 75, 120, 123, 124, 135, 136, 150, 153, 276,
417 2,10
279, 489, 532,
538
226, 256 2,10-11 2,10a 2,10b 185 2,11
195 182, 184 2,llb 176 2,12-18 183 2,16 154, 193, 249, 2,20
442 1,21 1,27
110, 122
3
104, 182 3,6 160 3,7-10.12 123, 154 3,7-11
122 3,8 122 1 3,9
124, 136
136 123 131, 181, 185, 186, 196
123 123 182, 184
106 100 177 99 100, 174, 177
160 100
579
INDICE DELLE FONTI 3,9-11 3,10 3,10-11 3,10.21 3,12 3,14 3,18 3,20 3,20-21 3,21 3,39 4,1.2
4,3 4,5 Colossesi
1 1,2 1,3 1,10 1,13 1,13-14 1,15 1,15-17 1,15-20 1,16 1,16-17 1,16.17.20 l,16a l,16a.l7b l,16b l,16c l,16d l,16e 1,16.20 1,17 l,17a l,17b 1,18 1,18-19 1,18-20 l,18b 1,19 1,20 1,21 1,22 1,24
173 1 1,26 138, 139, 182 1,27 123 2,2b-3
130 98 170 138
2,5 2,6-7 2,6-10
2,8
54, 156, 243, 2,9 418, 538 123 2,10 102, 190 2,10.15 160 2,11-12 170 2,12
482 54, 184 2,12-13 2,13-15 2,14 154 2,14-15 185 2,15 192 2,16-23 138 2,16a.21 186, 221, 230, 2,16b 232 2,17 220 2,17a 189, 230, 473 2,17b 229, 539 2,18 229, 236, 530 2,18-19 224, 226, 230, 2,19 233 2,20 230, 233 2,22 230 2,23 233, 234 3,1 230 3,1-2 233 3,10
230 230 230 230
4,3 6,12
239 240, 242
240 241 241 227 241 89, 191, 233, 241, 275
227 226 241 139, 157, 160,
220 167 241 138 157 224, 224, 279 222, 241
222 222 222 222 222 222, 227
221 232 138 222 222 139, 273
220 168, 225
239 225
1 Tessalonicesi
230, 372
90, 215
232 233
54 69
1,1 1,3 1,5 222, 275, 476 1,6 230, 232
229 231
1,9-10 1,10
89, 230, 233 230, 233 2,12 225 2,14 138 2,15 139, 194 1 2,16
91, 110
187 61, 91, 155, 156, 186, 187, 188, 192, 538
113 8, 90, 91 139, 145
161
580 2,19 3,11-13 3,12 3,12-13 3,13
4,1 4,6 4,8 4,14 4,15 4,15-17 4,16 4,16-17 4,17
5,2 5,2.4
5,9 5,10 5,12 5,18 5,23 2 Tessalonicesi
1,2 1,12
2 2,1-12
2,2 2,2.3.7
2,3 2,3-4 2,6-7 2,6.7
2,8 2,9-10 2,10b-12 2,13 2,13-14 2,15 2,16
3,6
154, 156, 184 1 2,6 530 2,6-7
185 137
2,8 3
154, 183, 184 3,16 184 4,10
183 69
6,3
6,14 138, 139 6,15 154, 184, 217 109 2 Timoteo
91 120
1,7
1,10 62, 184, 508 2,10 111, 195 4,1.8
184 91, 155 138, 141
4,8
1,15
2,3 2,4 2,5 2,5-6
i '
1,4 I
1,5 1,5-2,18 i
l,5a.5b l,5b
69 244
1,6
243, 245 245 61
1,6-12
1,7 1,8
Tito
97
1,3 91, 170 1,4 154, 184 l,4b 2,10 2,13 218 2,14
218
3,4 . 458, 501 3,5 217 3,6 217 428 Filemone 217 2 217 3 217 9 218 16
1,9 243,247 244 185 243
i
191, 244, 245 146, 246
243 484 244
;
243 246, 247, 419
243 246 269 245, 538
1,9-12 1,10 1,10-12 1,13 1,14 2,1-4 2,2-3 2,2-4
2,3 2,5 70 185 170 185
,
2,5-9 2,5-18 2,8b
63, 217, 218,
504 217 219 160 219 219 219 219
l,3cd l,3d 1,3-4
1,8.9
2,9 Ebrei
1-2 1,1 1,1-4 1,1-4,13 1,1-10,8
1,2
1 Timoteo
1,1
141, 146 467 139 154 247 243 467 245 472
l,2.3c l,2.5bis.8
1,3 l,3a l,3b l,3c
2,9-18 2,10
266 318 266, 270,271,
279 266 266 271, 272,274, 275, 276,282,
283 279 270 271 272 283 272
581
INDICE DELLE FONTI
INDICE DELLE FONTI
!
2,10-16 2,10-18 2,10.13b,14a 2,11 2,lla 2,llb.l2.17a 2,14 2,14-15 2,14a 2,14b 2,15 2,16
310 1 2,17 276, 300, 310 296 2,17-18 273, 274, 283, 2,17a 285 2,18 273, 275, 279, 283 3-4 266, 270, 271, 3,1 275, 279, 297, 315 3,1-4,13 274 3,1-5,10 275 3,1-6 270, 274, 285, 3,2
476 275 275 275
3,3 3,5-6
3,6
3,6.14 274, 275 3,7-4,13 275 3,7-4,14 276 3,7.13.15 269, 274, 276 3,12 317 3,12.14 273, 276, 277, 3,14
300 275 297 267 276
4,7 4,8
4,9.11 4,11 4,12 269, 274, 276 4,14
275 288, 269, 276, 4,14-10,18 277 4,14-10,25 278 4,14.15 277 4,14-16 269, 277 4,15
291 268, 272, 274, 4,15-16 286, 287, 290, 4,15-5,10 298, 313, 316 4,16
277
5
307, 318 5,1 286 5,1-4.5-6 278 5,1-10,18
277 277
5,3 5,4 277, 306 5,5 288 5,5-6 277 5,5-8 277 5,5.6.19 317 5,5.8 277 1 5,6.10
270, 274, 278, 292, 473 271, 278
278 279 266 268, 269, 270, 298, 399
297 266, 297, 298
297 284, 473
284 283 270, 284
269 52 297 298, 318
283 265 316 291, 298, 318
269 318 312 312 270, 284, 319,
312 266 297 270, 291
273 142, 246, 278, 290, 307 278, 298
297 265, 315, 319
300 291, 307
287 266 306 268, 299 269, 270, 285
284 287 270 270 273, 299, 303
582 5,7 5,7-8 5,7-9
5,8 5,8-10
5,9 5,10.6 5,11 5,11-6,12 5,11-6,20 5,11-10,39
6,1 6,4 6,4-6.1ls
6,5 6,6 6,19 6,19.20 6,20 6,28
7 7,1-3 7,1.11.15.17.21
7,2 7,3 7,3.28 7,4-10 7,5.9.11
7,8 7,11 7,11.15.17 7,11.15.17.21.26 7,11-19 7,13 7,13-14 7,14 7,15 7,16 7,17 7,18 7,20-22 7,20-28 7,21 7,22 7,23 7,23-25
INDICE DELLE FONTI 288, 293 7,25 291, 307, 318 142 7,26 282, 287, 290 286 7,26-27 268, 286, 287, 7,26.28 289, 290, 316, 7,27 317, 318 299 7,27-28 265 7,28
297 298 266 269 321 265 276
8-9 8,1
8,1-2 8,1-4 8,1-9,28 270, 282 8,1-10,18 268 310, 311 8,2 319 8,2.5 268, 269, 273, 8.2..9.10.11 285, 299, 303, 8,4
313 270 298 299, 303 303 299 303
8,5 8,6 8,7-13 8,8-12
9
9,1-7 284, 303 9,1-10 270 9,1.2.3.6.8.21
304 299 303 299 273 270 304 307 304
9,3 9,4 9,5 9,6 9,7 9,8 9,9
9,9.14 9,10 63, 269, 276 9,11
299 304 299
9,11-12 9,11-12.24 289, 304 9,11.14.24.28 286 9,12 304 9,12.13.19 269, 299, 303 9,12-14 268, 269 9,12.14.20 304 9,12.24 304 1 9,13
287, 289, 298, 314, 318, 319 289, 290, 307,
316 289 304 287, 293, 304, 310
286 282, 286, 289,
316 305 273, 291, 298, 300, 476 291, 318
270 289, 293
278 313 313 269 304, 307 313, 314
269 306 320 307, 313
306 313 313 311 299 278 313 310, 313
313 313 315 321 269, 270, 313,
344 311 291 269 293, 309
306 293 306 319 278
583
INDICE DELLE FONTI 9,14 9,15 9,18-20 9,20 9,22 9,24 9,25 9,26 9,26.28 9,27 9,28 10,1 10,1-3 10,1.8.9 10,1.22 10,2-3.22 10,4 10,4.11.18 10,5 10,5-10 10,5b 10,7 10,7-8 10,7c 10,10 10,10a 10,10b 10,10.14.29 10,10.19 10,11 10,12 10,13 10,14 10,15-17 10,18 10,19-13,25 10,19.29 10,20 10,21 10,22 10,25 10,25.26-29. 32-34 10,26-13,19 10,29
11 11,1-12,13
272 250, 307, 315, 484 1 11,3 269, 292 11,6 319 306 11,12 277 321 11,26 269 305 11,28 306 311, 313, 314 11,32 291 310, 319 12-13 275 12,1 272, 292, 305 319 268, 300, 309, 319, 476 293, 309 12,2 310 12,2.24 269 289, 318 12,3-4.15-16 265 222, 298, 310, 12,4 306 315, 316 12,14 276 267 12,14-13,17 266 308 12,14-13,21 319 319 12,18 298 315 12,18.26 319 306 12,22 298 305 12,22-24 512 275, 309, 319 12,23 482 269, 293, 306, 314 288, 308 12,24 309 12,26 319 492 12,28 288 317, 318, 474 134 13,8 309 13,8.12.20.21 269 292, 293, 309 13,9 265 313, 321 309 13,10 309 13,11-12 309 278, 317 278 13,12 269 13,12.20 306 310 13,13 309 273, 293, 300, 13,15 322 309, 310 13,18 315 276 13,19-21 266 255, 267, 269, 309, 315 1 13,20 276, 432, 495 319 317 13,22 266 266 13,22-25 266 306 13,23 267 268, 310, 311, 312, 313 Giacomo 270
298, 321, 484
321
1,1 1,14-15
2,1 5,7.8.9
265 297 270, 282, 321
318
5,8 1 Pietro
1,1-17 266, 318 1 1,2.19
14 162
14, 160, 538
538 54 248 148
584 1,3 1,11 1,13 1,14.18 1,18 1,18-19 1,18-21 1,19 1,20 1,20-21 2,2-5a
2,3 2,4-8
2,5 2,5.9 2,6-8
2,9 2,10 2,11 2,18 2,19 2,21 2,21-25 2,23b 2,24 2,25
3,6 3,9-22 3,15 3,16 3,18 3,18-22 3,19 3,20-21 3,21 3,22
4,1 4,1-5
4,5 4,6 4,10 4,14 5,1.4
5,4 5,5 5,10.14 5,12 5,13
INDICE DELLE FONTI
192, 247 2 Pietro 249 1,1.11
248 248 146
1,1.4.9
243 498 243 243 112 510
2,4
2,20 3,2.18 248, 250, 293 3,10 248 3,13 142, 250, 477, 481 1 Giovanni
249 25 247 181
1,1 1,5 1,7 2,1 248 252, 344 2,2 322 2,18.22 296, 486 2,20 247 2,27 316 3,1.2.10
248 248 251 252
3,2 3,4 3,5 3,5.8
252, 254 3,6 248, 251 3,11-23 251 3,14-15 247 251, 309 3,20 254 266, 432 3,24
247 257 181 247
4,2 4,3 4,9
4,12.20 142, 252, 256, 4,13 257 4,14 248, 255 5,2 255, 256 5,6 484 5,16 257, 321 5,20 256, 279 257 2 Giovanni 255 1,4.13
257 255 222 63 254
7
1,2 1,2.9
1,3 1,4 1,4.8
1,5 391, 392, 440, 148, 293, 392, 297,
392 445 484 446 427
1,5.18 l,5b l,5b.5c.6b.7-8 l,5b-6
428 46 69 416 514 428
1,6
1,8 1,9
297, 427
1,10 1,11 1,13
392 429 437 429 540 69 392 428 426 395 69
1,13-16 1,16 1,17 1,17-3,22 1,18
1-2 1,1
2,7.11.17.26 2,7.11.17.29
243, 418, 538
416
2,8 2,9
392, 443
429 191, 402
2,10 2,11 2,13 2,16 2,17 2,18 2,20 2,23 2,27 2,28
416 392 504 507
3,1 3,3 3,4
466, 475, 479,
494 1.1.2.5
474
3,4.18
466, 470
M
3,9
275, 466, 473, 3,10 475, 476, 481, 3,11 483 3,12
475 479, 481, 484 3,14 515 3,21 486, 487 296, 316, 472, 4
4-5
474, 475, 486, 4,2-3 514 4,2.3.9.10 471, 474 4,4.5b.6b-7 461, 465 4,4.10
514 493
4,5 4,5a
469, 474, 504, 4,6 538 4,6a
469 504 474 530
4,8 4,8-11 4,8.11 4,11
253, 468, 470, 5
476 2-3 2,7
255, 495 Apocalisse
128 247 215 502
460 1 3,5 467 3,5.12.21 466 3,5.21 459, 514 3,6.13.22 63, 484, 488, 3,7 514 3,7.14
486 1,7
Giuda
1,7.11
585
INDICE DELLE FONTI
5,1
459, 466, 514 5,1.2.3.4.5.8.9 513 5,1.7 476, 507 5,3
467
5,5
474, 475, 476 460, 462 5,5-9 462 5,5.7.9 475, 511 5,6 461, 467 474, 485 5,6.8.12.13 491 5,6.9.12 472, 473 5,6.11 479 5,6.12 473 5,6b
495 5,7 468 5,9 488 112 485 5,9-10 509 1 5,9b-10
491 476, 507
472 467 46, 467, 473
473 460, 482
462 474 344, 461, 467, 491, 512 466, 473 476, 487, 488,
507 488 514 488 488 488 515 311, 488
488 510 488 474, 515
489 471 489, 515 489, 493
491 493 488 492 63, 468, 476,
507 481 492 153, 297, 476, 488, 532
477 475, 482
279 148 480, 489
492 297, 475, 481, 482, 483, 484,
493 486, 492, 515
486
w INDICE DELLE FONTI 586 5,11 5,10 5,12 5,13 6-22
6,1 6,1.16
6,2 6,3-8
6,9 6,9-10 6,9-11 6,9-17 6,10 6,11 6,15 6,16 6,17
7,3 7,4 7,9 7,9.10.14.17 7,9.14 7,10 7,12 7,14 7,15 7,17
8,1 8,1-22,5
8,2 8,2-11,14 9,1-2 9,11 10,2 10,7 10,8-10 11,1-2 11,2 11,3 11.3.10 11,7 11,8 11,11 11,15
587
INDICE DELLE FONTI 489, 296, 316, 482, 489, 488, 489,
515 486 515 515
11,15-16,16 11,17-18 11,18
12
494 493 477
515 515 509 314 480, 485, 496, 511
493 493 311, 488
493 498 473 492 479, 515
492 461 499 467, 499
471 476, 498 465, 471, 475, 479, 482, 513 65, 508 369, 470, 508, 515
280, 460, 498, 499, 502, 506,
510
12,1 476, 507 12,1.4.13 476 12,2.5 461, 466, 508 12,3 503 12,3-5 494 12,5 493 12,6 473, 496, 497 12,6.13.15 508 12,6.13.16 508 12,7 496, 497 12,7-9 497 12,9 479 12,9.10b 515 12,9b.l3 484, 511, 515 12,10 477 12,10-12 508 12,11 148, 475, 481, 483, 484, 499,
493 515 497
12,lla 12,12 12,14 12,15 12,17
13 13,1-2 13,1-9 13,2b 13,4 13,5 13,7 13,7a 13,7b 13,8 13,10 13,11 13,11-18 13,16 13,17 13,18 14,1
493, 509
460 483 493 498 495 499 498 499 485, 499
28 506 499 499
181, 369, 470 515 476, 477, 481, 483, 485, 499, 507, 508
280 499 499 499 461, 465, 466, 498, 499 500, 506, 510
500 498, 499
499 500 499 476 500 500 148, 475, 477, 482 483, 500
461 477 499, 500
500 500 500 472, 476, 484, 515
14,1.4.10 14,2-3 14,3 14,3.4 14,4 14,7 14,8 14,10 14,12 14,13 14,14 15,1 15,2 15,3 15,3-4 16,2 16,5 16,5-6 16,7 16,14 16,15 16,16 16,17-21 16,17-22,5 16,19
17 17-18 17,1 17,4 17,5 17,6 17,8 17,9 17,9-11 17,14 17,18 18,2.10.21 18,4 18,8 18,8.10 18,8.20 18,10 18,20 19,1-3 19,1.6 19,2 19,2.5
477 1 19,2.11 508 19,5 484 19,6-8 484 19,7 484, 485 19,7-8 497 19,7.9 216, 508 19,8a 497, 506 19,8b 465, 467, 471 19,10 471 19,11 469, 504, 538 19,11-16 493 19,11-21 476, 507 19,12 477, 479, 480 19,12a 515 19,13 500 19,15
497 515 497, 515
503 474
19,15.21 19,15b 19,16 19,20
503, 504 20 504 20,1 493 20,1-3 216, 497 20,1-10 509 20,4
508 497 502
20,4-6 216, 502 20,4.6 461, 465, 467, 20,6 502 20,7-10 482, 498, 503 20,10 502 20,12.13 460 20,12.15 471, 472, 476, 20,14 477, 480, 485, 21 507 21,1 502 21,1-5 216 21,1-8 462 21,1-22,5 496 21,la 496 21,lb 497 21,2 496, 497 21,2.9 497 21,3 515 21,4 508 21,6 497 21,7
479
497 515 515 345, 509
512 477, 499, 508
509 509 465, 466, 467 485, 504
476 219, 504, 508
490 504 475, 504 470, 495, 497,
504 63 504 471, 472
506 498, 502 506, 507
506 506 505, 507 462, 465, 466, 467, 497, 500, 506, 508
506 471 296, 486, 506 219, 506
506 497 482 511 512 444 509 509, 510
493, 508, 509 510 510 224, 511 345, 509
510 462 474, 511
473 476, 483, 507, 511
588 21,8 21,9 21,9-10 21,9-22,5 21,9-27 21,9.14.22.23.27 21,14 21,16 21,21 21,22 21,23 21,23-24 21,27 22,1 22,1-3 22,1.3 22,1-5 22,2
INDICE DELLE FONTI
465, 277, 512, 512, 513, 460, 511, 477,
511 509 511 509 509 477 481 512 513 513 515 460 482 513 489 514 513 513,
22,3 22,3-4 22,6 22,7.9.10.18.19 22,7.10.18.19 22,7.12 22,8 22,9 22,10 22,12.13.17.20. 21 22,13 22,14 22,16 22,17 22,17.20 22,20 22,20.21
513 514, 532 466, 473, 479 493 459 474 460 459 463, 493, 516
466, 474, 53, 60, 61, 466,
515 474 509 468 516 514 463 471
INDICE DELLE FONTI
589
II. APOCRIFI E PSEUDEPIGRAFI 1,3-9 1,5 1,9 470 6,16 475 1 9,4 10,4 10,4-6.12-14 163 12,4-6 412 14,18b-21 14,22 17,11 475 18,11-16 470 18,13-19,1 155, 315 21,1-10 22,2-13 22,5-7 40 25,3 37-71 37-73 38,2 512 40,9 216 42,1-2 502 45,1-3 510 45,4s 179, 510 45,4-5 170 46,3 239 47,1-2 176, 177 47,3 21 48,2-3.5-6 52 48,2-3.6 170 48,4 421 48,10 163 49,2b.3a 163 49,2-3 52 49,3 350 51,3 216, 502 52,2-4 505 53,6 447 55,3-4 239 60,16-21 64 61,8 156 61,10 62,1-6 62,2 512 62,6-7 62,7 68,4 164, 277 69,29
1. Dell'Antico Testamento Apocalisse di Abramo 10,1-11,6 11,2 Apocalisse di Mosè 32 37,5-6 Apocalisse di Sofonia 6,11-12 6,15 11,1-4 Assunzione di Mosè 10,1,12 2 Baruc 4,1-7 11,1 11,1-2 21,23 32,6 44,12 48,3 48,40 48,48-50 50,3 52,2 54,13-14 54,19 56,6 57,2 67,1-74 67,7 73,2 77,5-6 81,4 85,3 85,12 4 Baruc 5,35 1 Enoch 1-36
40 256 54 256 472 256 498 256 102 489 461 498 461 256 498 497, 503 40 10 128 46 315 412 102 52 510 241 21, 497 482 128 51 315, 431 369, 470 37 241 63 37, 241 238 47 102 276 102, 489 226 102 63 340 51 315 102
r
590
"
71,7 72,1 88,1 89,45 90,6.9.37 90,29 91,12-17 91,16 93,2-10 93,3-30 95,7 97,3.5 99,3.16 102,2-5 104,1 104,3
488 170 498 480 480 512 350 52 505 350 21, 35 497 497 475 482 497
2 Enoch 7,1-3 20,1 20,1-21,1 22,7 24,1 33,1-2 53 64,5 71-72
256 227, 489 311 102 315 505 155 155, 315 301
4 Esdra 3,1-2.28 7,26 7,28-30 7,75 7,102.104-105 7,118 8,52 8,53 10,25-54 11-12 12,32 13,26 13,36 13,52 14 14,4 Giubilei 1,12 1,22-28 1,27.29
502 512 505 52, 170, 510 155, 156 164 512 510 512 500 51 51 512 340 447 239 467 40 276
INDICE DELLE FONTI
1,29 2,1 4,26 4,30 5,2 5,10 7,21 15,17 22,6 23,14-16.22 30,22 31,14 35,17
510 276 52, 170 505 164 256 256 439 73 40 482 310 276
Libro delle antichità bibliche (LAB) 176, 177 11,1 144 32,3 32,3-4 188 155 33,5 40,2 188 61,9 340 3 Maccabei 2,27-29
591
INDICE DELLE FONTI
17,36 17,37 18 (titolo) 18,5 18,7 18,8 Testamento di Adamo 1-2
143, 298 1 18,3 6:1, 66 18,7 471 18,11 369, 470 35 63, 471 37 Vita di Adamo ed Eva 44
4 Maccabei 5,20-21 6,28-29 6,29 15,4 17,7.10.12.17 17,18 17,21-22 17,22
179 127, 314 141 131 319 314 127 147
Oracoli sibillini 1,326-330 3,63-74 1,102-102.112-116 4,119-122 5,28-34 5,143.159 5,273
501 218 512 461 461 216, 502 52
Salmi di Salomone 2,25-29 10,1-2 13,8-10 17,32 17,32-41
500 127 127 181, 471 47
163
488 2. Del Nuovo Testamento
Testamento di Abramo 7,4 14,5-8 Testamento di Giobbe 5,2 33,3 Testamento di Mosè 11,17 12,6
412 155, 315 412 314 155 315 155 315
Testamenti dei dodici Patriarchi 500
469 63 65 102
Apocrifo di Giovanni NHC II 31,26-27
413
Ascensione di Isaia 4 4,2-14 10,8-15 11,23-32
218 461 279 279
Atti di Tommaso 108-113
129 432 256
Test. Ben. 3,8
479
Odi di Salomone 17,8-10 42,11-20
Test. Dan 5,12 6,2 12,1
512 315 276
Vangelo di Filippo NHC II, 54,5-12 NHC II, 57,28-58,10
Test. Jos. 19,8 19,11
479 479
Test. Jud. 24,1 24,2.5-6
Vangelo di Pietro 9,35-11,49 19 41-42
469 63
Test. Lev. 2,10 5,6
Vangelo di Tommaso 13 = NHC II, 34,30-35 239 13 315 1 21
491 541
15 24 256
540 441 112
«
592
INDICE DELLE FONTI III. SCRITTI DI QUMRÀN
lQapGen (Apocrifo della Genesi) 1,2 239 2,4 55 2,9.13 55 2,24 55 7,7 55 20,12.14.15 55 20,13 55 20,15 55 20,25 55 21,2 56 22,16.21 56 22,17 301 22,18 55 1QH (Inni) 1,21-22 2,10 2,25-3,9 3,7-12 3,18 4,29-31 4,40 5,5-18 7,6 8,16 9,32 11,7 12,11-13 13,11-12 13,19 14,2 14,25 16,3 16,11 17,17 17,26 1QM (Rotolo della guerra) 4,3 7,35 11,4-5 11,6 12,11-12 14,16 17,6-7
164 406 166 483 256 165 406 127 63 441 63 406 63 170 63 406 63 65 63 63 65
162 485 225 469 162 472 499
1QS (Regola della Comunità) 1,16-20 320 2,8 511 2,24 406 3,13-4,26 165 3,18 446 3,24-25 413 4,13 511 4,20-22 446 4,23 52 4,25 510 5,2.9 295 5,7-11 320 8,7-8 253 8,7-10 71 9,3 65 9,9-11 356 9,21 406 162 11,9 11,9-10 162, 164 IQSa 1,24
295
IQSb 5,24 5,27
63 469
IQpAb (Comm. di Abacuc) 7,4-5 7,5-14 8,2-3 8,3 9,9
356 239 356 166 295
1Q20 fr.2,5
55
1Q27 1,2
218 239
4QAmram 3,1-3 3,2-3
280 300
4QEn ar 4,5
55
593
INDICE DELLE FONTI 4QM 17,6-9
300
4QShirShab 11,3
300
4QTest 9-13
469
155 300 63 300 300
HQPsa 154
4QTLevi 1,10 2,6
55 55
4Q285
291
4Q372 1,16-17
25 515
4Q400-406 4Q491 fr.ll, 1,12-15 fr.11,14 4Q541 UQMelch 2,5
2,6 2,13 2.18 2,18-19 2,23
276, 315 315 291
(Melchisedek) 300
18,3-8
36
UQShirShab
279
1JQT (Rotolo del Tempio) 25,10-27,10 64,12 11Q17
306 142 515
Documento di Damasco (CD) 2,12 65 3,12-21 320 6,4-11 356 6.19 166 7,18-19 469 8,21 166 13,9 254 19,33-34 166 20,12 166 20,27-34 356
594
INDICE DELLE FONTI IV. TARGUMIM
Tg. N. (Neofiti) Tg.Gen. l,ls 3,24 37,17 49,8.10-12 49,9-10 Tg.Es. 3,14 19,6
Tg. Ger. 51,39.57 421 55 55 419 468 318 486
Tg.J. (Jonathan) Tg.Dt. 33,6 Tg.Est. 10,3 Tg. Is. 11,1 22,14 28,16 42,12 43,10-1 65,1
Tg. Zc. 2,14-15
V. LETTERATURA CLASSICA GRECO-ROMANA
40
Es 1,15 3,14
479 318
Dt 32,39
318
Tg.O. 301 253
Tg.Gen 49,1 Tg.Es 1,15 Tg.Lv 17,7 18,17 Tg.Dt 33,6
Tesmofor. 320
173
Diatr. 1,4,29 1,4,30-32
405 405
Eraclito fr.2
421
238 358 73 73 511
490 Erodoto
Aristotele Fisica A.2-3
539
Metafisica 2,993b 3-31 5,16 (1021b) 6,1027b 21-28
Hist. 1,71,2 1,178-183 1,178,2 1,188,1
405 286 405
Eschilo
Politica 2,4,6 1262 b 13
Tg. PS.-J. (Pseudo-Jonathan) 63 511 253 421 439 511
Metamorf. 11,21,1 Aristofane
511 469
Epitteto
Apuleio 511
Tg.J.I.
Sai 110,4 118,22
595
INDICE DELLE FONTI
168
Cicerone Div. 1,55,125 Nat. deor. 80-85
368 21
Cleante Inno a Zeus 1 19-20
490 421
Crisippo SVF 2,913
Agam. 177-178 1192
288 163
Pers. 24
472
Suppl. 524
59
Esiodo Op. 42-105
163
Theog. 954-955
126
Euripide 421
Dione Crisostomo Or. 18,43 32,18
274 512 512 472
244 244
Bacc. 45 54
126 126
Med. 413
160
596
INDICE DELLE FONTI
Filodemo
Inno a Demetra 18
Philos. 6,6
160
Giamblico
Orfici (Kern) Frammenti 32s 36
490
216
T. Livio Hist. 10,28-29 Luciano De dea syria 42-43 De sacrif. 4
Inni 9,13
173 173 490
Metamorph. 5,317 7,204 9,271-272
253 253 126
Pausania 10,12,5
318
294 125 Pindaro
Iup. conf. 17
21
Isth. 5,52
Marziale
57
Platone Epigr. 7,34 10,72
472 472
Omero //. 1,62 1,100 1,262 2,243 2,254 3,351 6,400 Od. 3,320 13,312s 15,520 17,484-487 Inni 2,401-403
Apol. 32a Gorg. 521b
294 278 432 268 432 59 426
Leg. 759d 800ab 947ab
278 125 130 126
Respubl. 361e-362a 376e-383c 377cd 380d 381c 427c 530a
126
Tim. 28c-29b
Miles gloriosus 359s
318 189
Paneg. 1,4-5 53,4
Ps.-Aristotele De mundo 6 (397b) 462 123 368 461
160 131 318 511
Aem. Paul. 32-34
21
Alex. 2-3
294 294 294
Brut. 30,3
35 127 127 130 130 396 235
Cleom. 39 Flam. 10.16 Num. 4 Themist. 27,4
314
226
De diis et mundo 4,9
69 190
126
Seneca 159
Senofonte Cyrop. 4,2,3
274
Memorab. 4,3,13
235
Sofocle
68 1 Antigone 456s 1115 472 Edipo re 302-304 20 Sopatro 244
235
Sallustio Secondo
De ira 11,28,1-2
Vit. 21
274
309
Plutarco Mor. 167e 330d 354c 942f
Polibio Hist. 15,35,1
Plinio il Giovane Epist. 10,96,6 10,96,7
Ovidio 144
37e-38a 92c Plauto
Vit. Pyth. 158
597
INDICE DELLE FONTI
Reth. Gr. Vili 114s
317 490
244
173
Stazio Silvae 4,1,3
469
598
INDICE DELLE FONTI
Strabone
i
Dom. 13 Nero 57
461 Decal. 82 159
222 307
475 170 412 475
Det. pot. 54 146
185 316
159
Deus imm. 134 138 182
421 396 180
315
Fug. 5 109 112 117
280 296 421 296
Anonimo 513 512
Svetonio Aug. 53 94,3-5
VI. LETTERATURA GIUDAICO-ELLENISTICA
Vesp.
1
Geogr. 17,1,10 17,6-10
INDICE DELLE FONTI
58, 60 69
60, 418, 472
461
Tacito Ann. 3,58,3 59,1 71,2-3
294 294 294
Hist. 5,5 5,9
436 306
Virgili Aen. 1,167 3,688
Gius, e As. 14,8-9 15,4 17,8-9 22,7 Aristea Lettera 46 Ezechiele il Tragico
253 253
Exagogé 68-69 Filone Alessandrino
In Flaccum 39
55
59 280 144, 220 318
131 129 127 296
Agric. 49 51 96
Leg. ad C. 55 118 196 278
254 280 318
Cher. 3 35 49 127
280 280 238 421
Leg. alleg. 1,43 1,43.44 3,79 3,79-82 3,96 3,100 3,162-168 3,174 3,177 3,203-207 3,207
131 231 303 301 131 238 430 307 180 304 396
Mut. nom. 87 154 253-263
280 439 430
Abr. 121 173 196 261
Conf. ling. 28 62 63 146 164 Congr. 89 99 107
280 131, 280 280 232, 421 131
307 Opif. 301 20 307 1 20.24
421 234
600 Plant. 61 Post. C. 48 91 122 Quaest. in Gen. 2,62 Rer. div. her. 22-29 23 174 205 205-206 281.311
INDICE DELLE FONTI
307 307 280 421 102, 185 288 235 310 280 311 235
304 304
Somn. 1,115 1,141-143 1,215 1,227-233 1,228 1,238-240
280 276 232 186 102 131
Vit. Mos. 1,149-163 2,23 2,74.76 2,114.132
169 269
Giuseppe Flavio
Sacr. 91-96 93
Spec. leg. 1,42 1,66 1,168.186 1,186-187 1,188 1,205 2,39 2,41.193.194.197. 200 3,131
2,147 2,166
Ant. 1,20-72 1,222 1,232 2,206 2,210-216 2,270 3,153-154 3,240-243 4,40 4,145-149 5,41.93 8,3 9,28 11,64-65 13,62-73.285 13,68 13,172 15,136 16,43 16,164 17,271-272. 278-281 18,13 18,35.95 20,197-203
59 220 188 358 358 594 474 306 59 176 59 59 493 59 295 59 164 276 238 493 19 159 17 70
431 310 307 158 306 305 316
Bell. 2,28 2,57-59 5,210 5,219 6,438-439 7,121-157
222 19 436 306 301 226
307 310
C. Ap. 1,37-41 1,42-43 2,168s 2,190
64 179 238 318
489 307 314
Vita
59 1 12
159
601
INDICE DELLE FONTI VII. SCRITTI RABBINICI Mishna Abot 3,1 3,2 3,7 4,11
472 361 361 156
Berakhot 1
65
Megilla 4,9
102
306
Zebahim 6a
306
Talmud Palestinese - Yerushalmi Peah 8,21b
55
Midrashim
291 310 312 306 312
Gen. R. (= Ber. R.) 1 1,1 1,6 19,7 39,14 58,6 81 97,2 97,3
234 473 431 424 413 55 318 254 413
357
Ex. R. 1,22 3,14
358 318
Mek. Ex. 12,1 12,3 15,1 15,3 20,20
413 478 102 318 102
102 169 311
102
Sukkot 5,3
431
Yoma 1,1 1,2 5,1 5,2 5,3.4 Tosefta Sanhedrin 4,7
Yoma 5a
Sota 13,2-4
64, 104
Sukkot 3,11
189
Talmud Babilonese Megilla 14a 29a
358 424
Sifré Num. 15,30 15,31 25,13
Sanhedrin 102a
358
Sifré Dt. 32,39
602
INDICE DELLE FONTI Vili. SCRITTI PATRISTICI
1. Padri apostolici Didachè 10,6 16,4 Lettera di Clemente 36,1 36,2 61,3
Clemente Alessandrino 53, 60, 61 428
Strom. 1,23,154,3 4,161,3 44,5-45,4
359 302 256
Romano 296 267 296
Costituzioni Apostoliche 3,17,3
168
Eusebio
Ad Philad. 9,1 Epist. Barn. 2,6 3,6 4,3.8 5,6 15,4-8 36,1 55,1-7 Mart. Polyc. 8,2
72, 304 249 432 70 220 220 249 505 249 125
Dem. ev. 3,2
359
H. E. 2,15,2 2,23,6 3,17 3,19.20,1-6 3,27,1 3,27,2 3,28,2 7,25 7,25,5 9,17,4-5 9,18,2
502 70 462 7 72 72 505 460 457 301 301
Praep. ev. 9,29,4
315
58 Girolamo
Pastore di Erma 5,1-7 5,44
280 280
2. Padri posteriori
C. Pel. 3,2 Ep. 53,9 73
Agostino Civ. Dei 20,7,9
505
Confess. 7,9,13-14
424
In Iohannem 25,1
430
67 457 301
Giustino Dial. 34,2 40,4 56,4 61,1
72,4 79,1-2 80,5 81,4 126,6 128,4
256 1 Origene 18 505 Contro Cels. 460 2,1 280 2,17-44 280 2,43
249, 280 306 249 280
72 18 256
Ps. -Clemente / Apol. 21,1 36,1 55,1-7
125 249 125
Ireneo
Lettere di Ignazio di Antiochia Ad Magn. 8,1 8,2
603
INDICE DELLE FONTI
Adv. haer. 1,8,4 1,25,1 1,26,2 4,20,11 4,21,3 4,27,2 5,30,3 5,33,3-35,2
413 413 72 474 476 256 461, 501 505
Melitone
Ep. a Giacomo 9
75
Hom. 7,8,1-2 8,19,1
72 72
Ricogn. 1,35 1,55 1,64 2,55 4,36,4
72 70 70 72 72
Tertulliano Adv. Marc. 3,13
502
Tommaso d'Aquino Perì Pascha 101-102
256
Sum. Th. Ili, p.83 a.l
482
604
INDICE DELLE FONTI
IX. SCRITTI GNOSTICI (oltre agli Apocrifi del NT) Corpus Hermeticum (CH) I (Poimandres),12,14.15 1,27 V,l V,9 XVI.3
129 413 491 491 233
Dialogo del Salvatore
INDICE DEI NOMI
Codex Brucianus 40
491
Vangelo di verità NHC 1,38,7-24
491
Zostrianos NHC VI 2-4 NHC Vili 129,22-24
413 413
X. ISCRIZIONI E PAPIRI Hammurapi Codice 1
268, 432
Iscr. aramaiche Nr.201,245,246,247,248 251,256
56
Papiri di Elefantina Lettere 3,5;4,2;10,l-2; 27, (recto) 2.11. (verso) 21.23
55
Papiri Magici PGM 1,160-163
491
P. Oxy. XVII,2075.16-19
126
SylI. 3,1125
318
Achtemeir P. J., 247, 250, 334 Adinolfi M., 187, 337 Adriano, 244 Africano, 21 Agostino, 233, 366, 424, 430, 492, 505 Agrippa II, 296 Alessandro Magno, 68, 131, 295, 332 Aletti J.-N., 26, 192, 194, 222, 225, 229-230, 232, 236-237, 239, 352, 363, 365,370,373-375, 388, 515, 534-536 Alexander L., 363 Alexander P. A., 332 Allison D. C , 346, 350, 357, 359 Allison D. G., 107 Alonso Schòkel L., 63 Àlvarez Verdes L., 169 Ambrogio, 423, 492 Anassimandro, 374 Anassimene, 474 Anderson G. A., 305 Anderson J. C , 348 Anderson P. N., 393-394 Andriessen P., 313, 319, 321 Annibale, 21 Antioco IV Epifane, 295, 499 Apuleio, 173 Aquila, 58 Archelao, 222 Arens E., 401 Aristobulo, 332 Aristofane, 168, 490 Aristotele, 168, 173, 286, 405, 474, 539 Arnold C. E., 226 Arnold J. P., 108 Arrighetti G., 173 Artaserse I., 190
Astour M. C , 302 Attridge H. W., 270, 272, 274-275, 277, 285, 292-293, 296, 310-311, 314, 316, 320 Augusto, 58, 60, 68, 218, 222, 224, 458, 461 Aune D. E., 340, 459 Bachmann M., 476 Bacon B. W., 346, 357 Badenas R., 179 Bagatti B., 8, 280 Bailey J. A., 218 Ball S. M., 438 Baltensweiler H., 11 Bar Kochebah, 362, 417 Barbaglio G., I l i , 114, 148, 185, 215, 225, 229, 270, 358 Barbi A., 50-51 Barclay J. M. G., 108 Barker M., 137, 533 Barnaba, 220 Barrato J., 399, 407, 425 Barrett C. K., 12, 44, 46, 48, 51, 64, 66, 71, 94, 103, 141, 366, 389-390, 396, 398, 425, 441-442 Barth E. H., 248 Barth G., 21, 116, 146, 148, 166 Barth K., 482 Barth M., 90, 227, 242 Bassler J. M., 92-93 Bauckham R., 8, 459 Bauer W., 8 Baur F. C , 8 Bayer H. F., 47, 51 Beale G. K., 472-473 Bechtler S. R., 179 Becker J., 89, 118-120, 391, 393 Beker J. C , 93 Benoit A., 8
606 Berger K., 67, 167 Bergmeier R., 493 Berkhof H., 227 Best E., 187 Betz H. D., 35, 91, 111, 270, 354, 491 Beutler J., 400 Bianchi U., 105-106, 163 Bickermann E., 340 Bietenhard H., 135, 505 Biguzzi G., 493 Billerbeck P., 306, 311 Bittner W. J., 398 Black M., 54 Blank J., 98-99, 108, 434 Boccaccini G., 176 Bockmuehl M. N. A., 237-238, 242 Boer M. C. de, 164 Boers H. W., 93 Bogaert P.-M., 58 Boice J. M., 400 Boismard M.-E., 248, 393, 410, 414 Boman T., 24 Bonnard P., 24 Bonnard P.-E., 319 Bonsirvern J., 95 Borgen P., 430, 489 Bori P. C., 406 Borig R., 435, 437 Boring M. E., 464 Bornkamm G., 330, 365 Bosetti E., 248 Bottini G. C., 363, 376 Bottino A., 431 Bousset W., 57, 60, 95 Bouttier H., 223 Bovon F., 502 Brandenburger E., 162 Brandon S. G. F., 106 Braun F. M., 393 Braun H., 272, 274-275, 277, 282, 288-289, 292, 299, 310, 316, 333 Bresciani E., 268, 432 Breytenbach C , 146, 148, 464 Broadhead E. K., 19 Brongers H. A., 359 Brown R. E., 14-15, 20, 24, 68, 89, 119, 215, 359, 370, 390, 392, 398, 408, 410, 425, 428, 441-443, 457, 460, 462
INDICE DEI NOMI
Brox N., 247, 251 Brucker R., 122 Brunot A., 138 Brutsch C , 457, 482 Buchanan G. W., 274, 277, 316 Buchsel F., 270 Buckwalter H. D., 363-364, 377 Bùhner J.-A., 398, 410, 412 Bull K.-M., 390, 409 Bultmann R., 15, 18, 41, 57, 93, 99, 248, 331, 398, 410-411, 463-464, 526 Burke T. J., 171 Burkert W., 106, 172, 295 Burney C. F., 236 Burridge R. A., 331 Busse U., 55, 371 Byrne B., 110, 141, 169, 191, 531 Cacciari M., 133 Caird G. B., 485, 493 Caligola, 55, 129, 296, 461, 489 Callistene, 332 Cambier J., 461, 475, 492 Campbell W. S., 177 Canfora L., 330 Cangh J.-M. van, 352 Cantalamessa R., 182 Capes D. B., 57-58, 60, 136-137, 184 Cardellini I., 158 Cardini F., 474 Cantone di Afrodisia, 330 Cari K. J., 403 Carnegie D. R., 515 Carr W., 226 Carrell P. R., 475, 499 Carrón J., 50-51 Carruth S., 26 Casalini N., 272, 274-275, 277, 299, 307, 312, 316-317 Casey M., 91, 390 Casey P. M., 528-529, 532 Cassio, 472 Cassola F., 126 Castiglioni V., 312, 431 Catchpole D. R., 26 Caza L., 25 Cazelles H., 533
INDICE DEI NOMI
Cerfaux L., 8, 89, 94-95, 183, 461, 475, 492 Ceduto, 505 Cesare, 244, 461, 472 Cevantes Gabarrón J., 248 Chalaftà, 361 Chananjà ben Teradjon, 361 Charles R. H., 461, 466, 475-476, 482, 485, 509 Charlesworth J. H., 102, 108, 219, 470 Chevallier M.-A., 63, 219, 504 Childs B. S., 13 Chilton B., 17, 108 Chirassi Colombo I., 106, 295 Chopin F., 390 Christ F., 32, 37 Christiansen E. J., 175 Cicerone M. T., 21, 234, 368 Ciolini G., 474 Cipriano, 507 Cirillo L., 72 Clarke A. D., 363 Cleante, 421, 490 Clemente (re), 20 Clemente Al., 302, 423 Clemente Romano, 215 Cocchini F., 167 Cocrofi R. E., 248 Coda P., 370, 532 Cody A., 292, 294, 312-314 Collins J. J., 219, 244, 505, 511 Collins R. F., 215, 217-218 Colombo C , 409 Comblin J., 464, 466, 475, 478, 502, 507, 509 Considine J. S., 471 Conzelmann H., 22, 34, 46-48, 58, 66, 330, 364 Cornelio, 45, 121 Corsani B., 27, 110, 398, 458, 499 Corsini E., 459, 471, 482, 492, 500-502, 507 Cortese E., 158 Cosgrove C. H., 367 Cothenet E., 247, 400, 512 Cowley A., 55 Cox C , 58 Cranfield C. E. B., 110, 141 Crisippo, 405, 421
607 Crisostomo, 233 Crossan J. D., 15 Cullmann O., 58, 140, 190, 290, 341, 390, 490 Culpepper R. A., 390 Da Castel S. Pietro T., 298 Dalla Vecchia F., 330 Daniélou J., 8, 11, 280 Dauer A., 119-120, 122 Davidsen O., 336 Davidson J., 413 Davies P. E., 248 DaviesW. D., 90, 93, 110, 346, 350 Davis C. A., 93-94 Davis C. J., 184 Davis P. G., 91, 236, 530 De Lorenzi L., 189 De Mauro T., 349 De Vaux R., 157, 287, 290, 294-295, 302, 305-306, 372 De Virgilio G., 372 Deiana G., 147-148, 158, 306-307 Deichgràber R., 123 Deissmann A., 60, 472 Delling G., 140 Delobel J., 26 Demostene, 244 Derrida J., 95 Dever W. G., 26 De Berardino A., 50 Diaz-Rodelas J. M., 176 Dibelius M., 18, 331, 341 Dietzfelbinger C , 98, 101, 445-447 Dihle A., 36 Dillon R. J., 363 Diogene Laerzio, 332 Dione Crisostomo, 244 Dionigi di Al., 457, 460 Dittenberger W., 245, 318 Dix G., 8 Dobbeler A. von, 161 Doble P., 377 Dodd C. H., 40, 67, 110, 389, 440 Doglio C , 459 Domiziano, 7, 60, 418, 461-462, 469, 472, 500-501 Donahue J. R., 336 Donaldson T. L., 100-101
608 Donegani L, 466, 471 Donner H., 56 Dorè J., 534 Downing F. G., 31 Dreyfus F., 389 Driver G. R., 55 Duby G., 505 Duling D. C., 351 Dungan D., 107 Dunn J. D. G., 89, 91-92, 95, 108, 110, 129, 140-141, 150, 161, 169-170, 185-186, 191, 227, 235, 270, 281, 528, 532-535 Dunnil J., 305 Dupont J., 44, 365, 393 Duthoy R., 106, 173 Ebeling G., 340-341 Edwards R. A., 348 Egesippo, 7, 10, 215 Eliezer ben Jaqob R., 156 Ellingworth P., 266-267, 269, 272, 274-275, 277-278, 284, 292, 316 Elliot J. H., 248 Elliott-Binns L. E., 7 Ellis E. E., 108, 112 Eltester F. W., 189 Epitteto, 405 Eraclito, 420, 474 Erbetta H., 432, 491 Ernst J., 15, 217, 341, 498 Erode, 222, 295-296, 358 Erode Agrippa, 55 Erode Antipa, 408 Erodoto, 274, 472, 512 Eschilo, 59, 163, 288, 472 Esiodo, 126-127, 163 Euripide, 126, 160 Eusebio, 7, 70, 72, 301, 315, 457, 460, 462, 502-505 Eustrazio di Costantinopoli, 357 Evans C. A., 108, 422 Evans C. F., 363 Evans C. S., 527 Fabris R., 14, 58, 123, 215, 270, 406, 415, 425, 442-443 Farahian E., 170 Farkas P., 483 Farmer W. R., 28
INDICE DEI NOMI
Faust E., 240 Feldmeier R., 248 Fendler F., 341 Ferraro G., 52, 404, 408, 440-442, 444 Festugière P., 491 Feuillet A., 112, 124, 185, 189, 232-235, 476, 483, 492 Fichte J. G., 420 Fiensy D., 8 Filippini R., 466 Filippo il Macedone, 244 Filippo tetrarca, 55 Filodemo, 160 Filone Al., 55, 59, 102, 127, 129, 131, 144,158, 163-164, 170,185, 189, 220, 222, 231-232, 234-235, 238, 276, 280, 288, 296, 301, 303-307, 310, 314, 316, 318, 331-332, 396, 421, 430-431, 439, 489, 530 Filoramo G., 411 Filostrato, 331 Finsterbusch K., 176, 178 Fischer J., 90 Fischer K. M., 215, 411 Fitzer G., 147 Fitzmyer J. A., 54, 93, 110, 141, 162, 190, 329, 363 Fleddermann H. T., 30 Flessman van Leer E., 22 Fluckiger F., 343 Flusser D., 362 Focant C., 308 Foerster W., 59, 244, 466, 490 Ford, 468, 485 Fortna R. T., 389, 393, 398 Fossum J. E., 236, 280 Foul S. E., 123 Frankemòlle H., 14, 159, 161, 360 Fraser J. W., 97 Frazer J. G., 106 Frey J., 460 Freyne S., 7 Friedrich G., 140, 148 Fuller R. H., 11, 49 Furnish V. P., 97, 99, 143 Fusco V., 8, 13, 27, 329, 334, 339, 375-376 Fusella L., 480
INDICE DEI NOMI
Gadamer H. G., 95, 394 Galba, 461 Galot J., 423 Gangemi A., 443 Garland D. E., 357 Garsky A., 26 Gàrtner G., 71 Garuti P., 271 Gaugler, 242 Gelio R., 303, 305 Gempf C , 120 Genuyt F., 409 George A., 267 Gerolamo, 67, 233, 301, 457, 485 Gherardini B., 152 Ghiberti G., 426, 443 Giamblico, 216 Gianotto C., 164, 300-301 Giblin C. H., 218 Giesen H., 461-462, 466-469, 471, 475, 476, 478, 483, 485, 488, 491-493, 499, 501-503, 507, 509 Gignac A., 179 Gill D. W. J., 120 Gioacchino da Fiore, 459, 463, 494 Giroud J.-C., 476 Giuseppe FI., 17, 19, 59, 64, 70, 159, 164, 176, 179, 188,220,222, 226, 238, 276, 295, 301, 306, 318, 340, 358, 417, 436, 473, 493 Giustino, 10, 18, 125, 249, 280, 306, 460, 505 Gnilka J., 19, 111, 123, 337, 341, 346, 355 Goldstein H., 247 Goppelt L., 8 Goulder M. D., 27 Goulet R., 332 Gourgues M., 140, 273 Grappe C., 70 Gràsser E., 108, 270-271, 274-275, 277, 292 Green J. B., 16, 47, 528 Greenhut Z., 17 Grelot P., 130, 267 Griesbach, 27-28, 333 Grob F., 436 Grundmann W., 393 Gubler M.-L., 21, 404 Gùemes A., 180
609 Guenther H. O., 30 Gundry R. H., 20, 24, 57, 337, 342, 344, 346 Gunton C., 229 Guthrie G. H., 297 Habermann J., 129, 230, 235 Haenchen E., 46, 48, 66, 121 Hagner D. A., 105, 245 Hahn F., 11, 49, 57-58, 70 Hainz J., 341 Hamm D., 319 Hanson A. T., 140 Harnack A., 9, 288 Harrington D. J., 54 Harrington W. J., 457, 467 Harris M. J., 105, 190, 245 Hartin P. J., 43 Hartman L., 67 Hasitschka M., 427, 429, 480 Hasler V., 246 Haubeck W., 146 Hauck W., 485 Hawkin D. J., 404 Hawthorne G. F., 108, 183, 226 Hay D., 273 Hay D. M., 92 Hayman P., 533 Hays R. B., 110 Head P. M., 334 Hedrick Ch. W., 411 Hegel G. W. F., 133, 420 Hegermann H., 270, 274-275, 277, 316 Heid S., 8, 505 Heil J. P., 494, 496 Heise J., 407 Heitmùller W., 11 Helewa G., 161 Hellholm D., 462 Helyer L. L., 229 HengelM., 10, 18,30,96, 119-121, 134, 165, 187, 273, 489, 531 Henry M., 406 Herder, 420 Hergenròder C., 391, 425 Heriban J., 123, 130, 134 Herzer J., 247 Higgins A. J. B., 360 Higgins H. J., 29
610 Hildescheim, 463 Hilgenfeld A., 8 Hill C. C , 12 Hill C. E., 505 Hill D., 346 Hillel R., 362 Hilton M., 332 Hodgson R., 411 Hoegen-Rohls C , 445 Hoennicke G., 8 Hoffmann P., 26, 34 Hofius O., 251, 422 Hofrichter P., 420, 423 Hohnjec N., 494 Holland G. S., 217 Holtz T., 110, 187, 464, 472, 474, 478, 483 Hooker M. D., 91, 140, 143, 181 Hoppe R., 55 Horn F. W., 30, 57, 69 Horsley R. A., 31 Hort F. J. A., 8 Howard G., 58, 160 Howell D., 348 Hubner H., 92-93, 175, 180 Hugedé N., 320 Hughes P. E., 270 Hull J. H. E., 365 Hurd J. C , 134 Hurst L. D., 129, 275, 313 Hurtado L. H., 342 Hurtado L. W., 134, 137, 183, 186, 236, 528, 530 Iacopino G., 412 Iammarrone G., 132 Iammarrone L., 132 Ignazio di Antiochia, 72, 215, 220, 249, 304 Immelfarb M., 412 Infante R., 477 Iovino P., 110, 187, 194 Ippolito, 492 Ireneo, 72, 395, 413, 423, 461, 474, 476, 501, 505 Isaacs M. E., 321 Isocrate, 331 Jacobson A. D., 26, 29-30, 34, 39, 41-42
INDICE DEI NOMI Janowski B., 251 Janzen E. P., 502 Jastrow M., 54, 480 Jaubert A., 435 Jenni E., 135, 425 Jensen J., 359 Jeremias J., 46, 97, 124, 127, 479-480, 509 Jerumanis P.-M., 407, 437 Jervell J., 189 Johns L. L., 108, 409 Johnston G., 47 Jonge M. de, 38, 191, 393, 429, 471 Jòrns K.-P., 515 Jùngel E., 108, 113-114 Kaestle J.-D., 8-9, 411 Kàhler M., 14, 331, 526 Kanagaraj J. J., 392 Karrer M., 181-182, 351, 460, 514, 537 Kàsemann E., 42, 93, 110, 130, 141, 152-153, 191, 195,392,464,527, 536 Kasting H., 7 Kaufmann S. A., 52 Kee H. C., 45 Keegan T. J., 107 Kelber W. H., 335 Kerénji K., 126 Kern O., 173 Kertelge K., 20, 143 Kim S., 91, 98, 108, 111, 114 King P. J., 512 Kingsbury J. D., 333-334, 346, 348, 354 Kiuchi N., 148 Klauck H.-I., 70, 189, 392, 416, 428-429, 443, 462, 511 Klehn L., 170 Kleine M. G., 504 Kleinknecht K. T., 127 Klijn A. F. J., 8 Kloppenborg J. S., 26, 29-31, 34, 37, 41, 43 Knòppler T., 398 Koch K., 480 Koester H., 31-32, 36, 215, 217 Koperski V., 174, 178 Kovacs J. L., 225
INDICE DEI NOMI Kramer W., 95, 181, 183, 186 Krànkl E., 46 Kraus H.-J., 302-303 Kraus W., 147 Kraus Reggiani C , 180 Kreitzer L. J., 184 Kretschmar G., 485 Kuhn H.-W., 21, 140 Kuhn K. G., 53 Kummel W. G., 177 Kupp D. D., 346, 360 Kuss O., 90, 191 Labat R., 395 Lacey D. R. de, 246 Laconi M., 13, 329 Lacoste J. Y., 105 Lager K., 247 Lagish R., 318 Lagrange M.-J., 24 Lambreckt J., 176, 458-459, 471 Lane W. L., 270, 274, 277, 292, 319 Lange H. D., 22 Langevin P.-É., 53, 56, 61 Lau A. Y., 247 Laub F., 319 Laùchli S., 515 Laurentin R., 68 Lausberg H., 282 Le Déaut R., 155, 314, 357 Leenhardt, 190 Legasse S., 67, 71, 167, 172 Lentren-Deis F., 67 León-Dufour X., 24, 396, 400, 425, 436, 442-445 Leonardo da Vinci, 534 Lessing G. E., 527 Létourneau P., 393, 410 Lettieri G., 411 Levenson J. D., 145 Levison J. R., 64, 164 Licurgo, 69 Limbeck M., 175 Lincoln A. T., 220, 223 Lindars B., 41, 54 Lindsay D. R., 404 Linnemann E., 27 Litfin D., 148 Livio T., 144 Loader W. R. G., 71, 270, 273, 275,
611 280, 291-292, 351, 393 Lohfink G., 50, 98, 154 Lohmeyer E., 7, 122-123 Lohse E., 46, 222, 231, 460-461, 477, 483, 485, 488, 509 Longenecker B. W., 160 Longenecker R., 340 Longenecker R. N., 10, 343 Longman T., 226 Lopasso V., 419 Lorizio G., 133 Lovering E. H., 502, 528 Luciano, 21, 29, 125, 294, 331-332 Lucio Emilio Paolo, 226 Ludemann G., 8, 44, 51, 90, 121 Luhrmann D., 30, 32 Lupieri E., 122, 124, 164, 461, 471, 474, 505 Lutero M., 152, 173, 463, 482, 492, 494 Luz U., 340-341, 343, 346, 351 Lyonnet S., 145, 147, 428 Macchioro V., 104 Maccoby H., 105, 172 Mack B. L., 26, 30-31 Mack M., 280 Mackenzie R. K., 460 MacRae G. W., 411 Maggioni B., 7, 16 Magris A., 196, 368, 411, 413, 540 Maier J., 157, 159 Maine de Biran, 420 Manns F., 8, 103, 128, 145, 236, 428 Manson T. W., 29-30 Manzi F., 280, 300-301 Marcello, 21 Marcheselli C. C., 128 Marconi G., 14 Marcus J., 164 Marguerat D., 8 Marshall G., 332 Marshall I. H., 175, 246, 363 Martin B. L., 175, 179 Martin R. P., 108, 123, 127, 134, 183, 226 Martinez F. G., 483 Martini C. M., 23 Martone C., 63, 162, 165, 413, 446, 483
612 Martyn J. L., 110, 389 Marxsen W., 7, 330, 337, 341, 344 Marziale, 60, 472 Mastin B. A., 395, 418 Mateos J., 399, 407, 425 Mayer J., 468 Mazzeferri F. D., 492 Mazzucco C , 505 McGinn B., 217 McGrath J. J., 308 McLean B. H., 144, 147 McNamara M., 480 Meade D. G., 216 Meadors E. P., 30, 34, 37-38, 40-41 Mealand D. L., 215, 393 Mealy J. W., 507 Meeks W. A., 101, 414 Meier J. P., 215 Melantone, 94, 156 Meli U., 169-170 Mello A., 362 Menken M. J.J., 430 Mercati card. J., 58 Merker N., 527 Merklein H., 55, 95, 108, 148, 153, 161, 166, 195, 222 Merz A., 334 Metzger B. M., 105 Michaelis W., 484 Michie D., 336 Milgrom J., 148, 158 Miller D. B., 409 Mimouni S. C., 8 Minette de Tillesse G., 340-341 Miranda J. P., 398, 401, 409-410 Mittmann R., 371 Mlakuzhyil G., 393 Moloney F. J., 415 Momigliano A., 331 Monroy Rodriguez F. J., 229 Montanari F., 420 Montevecchi O., 182 Moo D., 110, 141 Moody Smith D., 390, 429 Moreno Martinez J. L., 234 Morgenthaler R., 348 Monconi B., 467, 488, 490 Morris L., 110, 141, 190 Moule C. F. D., 53, 533 Mounce R. H., 468, 475, 479, 482
INDICE DEI NOMI
Mourlon Beernaert P., 404 Mùller, 461-462 468, 475-476, 483, 485, 488, 499, 501, 509 Mùller H.-P., 493 Mùller K., 148, 150 Mùller P., 215, 337 Mùller P.-G., 47 Mùller U. B., 215, 390, 446 Mundle W., 161 Murphy-O'Connor J., 129, 185187, 229 Mussner F., 14, 110, 536 Nardi C., 505 Neirynck F., 29, 107 Nepote, 331 Nerone, 58-59, 218, 461, 504 Nerva, 60 Neusner J., 355 Newman C. C , 91, 99, 102 Nickelsburg G. W. E., 15, 23 Niederwimmer K., 180 Nielsen H. K., 148-149 Nietzsche F., 104, 527 Nolland C., 363 Nolland J., 370 Norden E., 331 Numa, 68 Numenio di Apamea, 196 Oberlinner L., 246 Oberweiss M., 503 O'BrienP. T., I l i , 123, 129, 136, 174 O'Collins G. G., 243 O'Day G. R., 407 Ofius O., 110 O'Hagan A., 147 Olms Verlag, 463 Omero, 125-127, 130, 278, 294, 426, 432, 490 O'Neil J. C., 340, 416, 528 Onesicrito, 332 Orchard B., 28 Origene, 18, 72, 167, 395, 423, 444, 492 Orsatti H., 350 Osborne T. P., 251 Otone, 461 O'Toole R. F., 363, 366, 371
613
INDICE DEI NOMI
Ovidio, 126 Padovese L., 98, 101 Pani G., 101 Panimolle F., 393, 425 Papa B., 333, 340 Papia di Gerapoli, 10, 215, 460 Parente F., 526 Pareyson L., 5, 333, 539 Park H.-W., 195 Parsons M. C , 270 Pasquetto V., 401 Passoni Dell'Acqua A., 58, 500 Patterson S. J., 108 Paulsen H., 464 Pédech P., 332 Pederson S., 148, 245 Pendrick G., 426 Penna R., 6, 63, 89-90, 93, 98, 100-101, 103, 105, 114, 119, 132, 145, 147-151, 154, 161, 167, 170, 173, 175-176, 178-180, 186-187, 193, 196, 216, 219, 223, 227, 237, 240-241, 295, 330, 332, 365, 370, 398, 414, 458, 464, 487, 532, 536 Peretto E., 222 Perez Fernàndez M., 145 Perrot C , 7, 54, 71, 247, 249 Pesce M., 42, 192, 225, 246 Pesch R., 14-16, 20, 24, 46, 48, 57, 66, 337, 341 Peterson D., 285, 290, 292 Pettem H., 372 Pfister F., 127 Philonenko M., 315, 488 Phisis, 490 Picasso P., 534 Pietersma A., 58 Pietrella E., 505 Pindaro, 57 Piper R. A., 26-27, 31-32, 35-36 Pitagora, 216 Pitta A., 110, 143 Pizzolato L. F., 182 Platone, 21, 35, 127, 130, 189, 234, 294, 317, 396 Plauto, 309 Plevnik J., 93-94, 154 Plinio il Giovane, 123, 368, 461-462 Plotino, 424
Plutarco, 20, 68-69, 117, 131, 160, 190, 226, 318, 331, 472, 511 Poffet J.-M., 411 Polag A., 29-30, 32 Polibio, 274, 331 Pollard T. E., 393 Pomilio M., 540 Pompeo, 306, 500 Pomykala K. E., 417 Popkes W., 145 Porfirio, 424 Porter S. E., 460 Potterie I. de la, 329, 391, 393, 396-397, 403-406, 423, 425, 428-430, 432, 435, 440-442, 444 Powell E., 27 Poythress V. S., 507 Prato G. L., 135 Pratscher W., 12-13 Prete B., 367 Prigent P., 459, 461, 466-468, 475-476, 479, 482-483, 485, 488, 490-492, 497, 499, 501, 506, 508-509 Pritz R. A., 8 Procksch O., 317 Ps.-Aristotele, 235 Ps.-Clemente, 70, 72, 75 Ps.-Eupolemo, 301 Puech É., 17 Quell G., 60 Quesnel M., 346, 349, 352 Quinn J. D., 93 Rahner K., 191 Rainbow P., 530 Ràisànen H., 175, 180, 340-341 Ramaroson L., 378 Rand J. A. du, 389 Randellini L., 8 Rau E., 119 Ravasi G., 25, 159, 275, 302, 495 Ravenna A., 235, 473 Ravens D. A. S., 376 Rebell W., 390 Redalié Y., 246 Regolo, 21 Reicke B., 11 Reid D. G., 93, 108, 226
614 Reid J. B., 89 Reimarus H. S., 526 Reinbold W., 15, 179 Renan E., 104 Rengstorf K. H., 104, 409 Resch A., I l i Reuman J. G., 22 Reumann J., 93 Rey B., 169 Reynier C , 237, 240 Rhoads D., 336 Ribet P., 93 Ricca P., 433 Richard E., 534 Richardson P., 134 Riegei S. K., 8 Riesenfeld H., 123 Riesner R., 355 Rigato M. L., 352 Rinke J., 387, 390-391 RiSkovà M., 170 Rissi M., 130 Rius-Camps J., 409 Robinson J. A. T., 329 Robinson J. M., 26, 31, 36, 49, 491 Roller O., 492 Ròlling W., 56 Roloff G., 244, 511 Romaniuk K., 145 Rosse G., 25-26, 377 Rosso Ubigli L., 280 Rowdon H. H., 515 Rowland C , 459 Royse J. R., 59 Rubenstein R. L., 105 Rumia D. T., 59 Ruppert L., 21 Russell D. S., 155 Sabourin L., 145, 147, 294 Sabugal S., 45, 393 Sacchi P., 155, 163-165, 301, 458, 479 Saffo, 130 Sahlin H., 24 Sallustio Secondo Saturnino, 126 Salom A. P., 311 Sanders E. P., 90, 93, 100, 110, 166, 173-176, 178-179 Sanders J. T., 532
INDICE DEI NOMI Sanderson J. E., 58 Sandnes K. O., 99 Sànger D., 21 Sanna I., 148 Satake A., 464, 499 Satiro, 331 Sato M., 31, 38 Saussure F. de, 349 Scarpat G., 231, 234 Schàfer P., 468 Scheid J., 295 Schelling, 133, 420 Schenk W., 29, 41 Schenke H.-M., 215 Schenke L., 8, 10-11, 119-120, 342 Schierse F.-J., 309 Schille G., 8, 18, 294 Schlier H., 110, 169, 190, 224, 226 Schlosser J., 41, 172, 192, 249 Schmid J., 13, 389 Schmidt K. L., 331 Schmidt T. E., 26 Schmithals W., 44, 142, 169, 191, 341 Schmitt E., 464 Schmitz O., 488 Schnabel E. J., 176 Schnackenburg R., 94, 333, 343, 349, 351, 365, 388-389, 393, 402, 411, 415-416, 421, 425, 429, 434, 437, 441-442 Schneider G., 15, 44, 46, 48, 66 Schneider N., 138 SchnelleU., 91, 392-393 Schnider F., 14 Schoeps H. J., 175 Schottroff L., 270, 410 Schrage W., 150, 185, 225, 229 Schreiber J., 15 Schreiner T. R., 175 Schrenk G., 294 Schròger F., 321 Schuller E., 25 Schulz S., 26, 30, 33, 37, 42, 53, 71, 91 Schùrmann H., 363 Schussler Fiorenza E., 460, 462, 484, 487, 497 Schweitzer A., 90, 93, 173 Schweizer E., 21, 128, 187, 335, 337
INDICE DEI NOMI Schwemer A. M., 119, 121, 531 Scott M., 410 Seeley D., 125, 147 Segai A. F., 102, 105 Segalla G., 41, 329, 331, 351, 390, 392-393, 399, 414, 416, 425, 430, 537 Sekki A. E., 64 Sellin G., 170 Seneca, 159, 234 Senior D., 443 Senofonte, 235, 274, 331 Serra A., 352 Sevenster J. N., 124 Sevrin J.-M., 411 Sex M.-J., 159 Sfameni Gasparro G., 106, 485 Shin G. K.-S., 371 Shogren G. S., 105 Sicre Diaz J. L., 63 Sigal P., 357 Sim U., 512-513 Simmaco, 58 Simon M., 8 Simonetti M., 11 Simonis A. J., 432 Simonsen H., 245 Sinclair S. G., 89 Siniscalco P., 50 Skehan P. W., 58 Slater T. B., 462 Smalley S. S., 41, 54 Smith D. M. jr., 329 Smith S. H., 343 Soards M. L., 14, 16, 164 Socrate, 18, 21, 35 Sòding T., 91 Sofocle, 244, 317, 490 Solov'ev, 420 Sopatro, 173 Spick C., 59, 61, 99, 131, 154, 168, 189, 245, 275, 409 Spreafico A., 124 Squires J., 20, 367-368 Stadelmann A., 270 Stàhlin, 66 Standaert B., 338 Stanley C. D., 91 Stanley Jones F., 180 Stanton G., 27, 41
615 Stanton G. N., 333 Stazio, 469 Steck O. H., 29, 34 Stemberger G., 355 Stendahl K., 93, 101 Stilicone, 458 Stockhausen C. L., 215 Strabone, 512 Strack H. L., 306, 311 Strecker G., 57, 341 Stuckenbruck L. T., 227, 279, 470 Studerus R., 506 Stuhlmacher P., 93, 107, 110, 148, 169, 191, 251 Styler G. M., 333 Suggit J., 404 Svetonio, 58, 60, 68, 331, 418, 461, 472, Swetnam J., 278, 312, 320, 442 Tacito, 294, 306, 331, 436 Taeger J.-W., 460, 476 Tagliapietra A., 463 Talbert C. H., 128, 412 Talete, 474 Tannehill R. C., 167, 335, 363 Tarquinio Prisco, 458 Taylor J., 182 Taylor J. E., 8 Taylor V., 24, 29, 336, 337 Teani M., 151 Teefle H. M., 357 Tengstròm S., 488 Teodoro di Mopsuestia, 233 Teodozione, 58 Tertulliano, 423, 502 Testa E., 8 Theissen G., 8, 334 Theobald M., 186, 416, 420 Thielman F., 175 Thien H., 438 Thompson L. L., 462 Thrall M. E., 97, 143, 170 Thùsing W., 190-191, 196, 391 Tilliette X., 133, 420 Tito, 226 Tito Quinto Flaminio, 244 Tòdt H. E., 30-31 Tolemeo, 332 Tolomeo Epifane, 190
616 Tolomeo IV Filopatore, 20, 500 Tommaso d'Aquino, 233, 482 Toribio Cuadrado J. F., 474 Torrey C. C , 8 Tow E., 58 Tracey R., 120 Tragan P.-R., 432 Traiano, 462 Trilling W., 330, 349 Tròger K.-W., 411 Troiani L., 315 Tuckett C. M., 26-28, 31, 37, 39, 43, 332, 334, 340 Turcan R., 106 Turner M., 47, 528 Tzetzes, 144 Ubrich E., 58 Unnik W. C. van, 124 Vaage L. E., 31 Valentini A., 352 Van Elderen B., 8 Vanhoye A., 16, 107, 143, 266-267, 269, 273-275, 277, 285, 287-292, 298, 305, 308, 311-312, 316, 320-321, 487 Vanni U., 133, 169, 231, 470, 475, 478, 483, 488, 493, 499, 504, 507, 514 Vannini M., 463 Van Segbroeck F., 388 Vassiliadis P., 466 Vattimo G., 95 Vattioni F., 58, 305 Vergeer W. C , 222 Vermascren M. J., 106 Verseput D. J., 346 Vespasiano, 226, 461 Vidal Manzanares C , 8, 10-11 Vielhauer P., 44 Vignolo R., 397 Virgulin S., 150 Visser't Hooft W. A., 457 Vitellio, 461 Vittorino di Pettau, 492 Vivian A., 10 Vògtle A., 343, 493 Vollenweider S., 37, 145, 180 Volz P., 155, 505
INDICE DEI NOMI Von Allmen D., 188 Vos L. A., 465 Wagner G., 172 Walter N., 117 Wanamaker C. A., 131 Wander B., 96 Watson F., 177 Webster J. B., I l i Wedderburn A. J. M., 105, 108, 114, 117, 168, 171-172 Weder H., 149, 151, 343, 375 Wehnert J., 72-73 Weiser A., 536 Weiss H.-F., 269, 274-275, 277, 289, 314, 316, 319, 321 Wengst K., 119, 392 Wenham D., 108, 113-115, 117 Westerholm S., 175 Westermann C , 60, 135, 159, 425, 439 Wetscott B. F., 274 White R. C , 376 Whitelam K. W., 49 Whiteley D. E. H., 94 Wikenhauser A., 13, 46, 66, 389, 461, 466-468, 475-476, 478, 483, 485, 494, 499-501, 507 Wilckens U., 110, 141, 169, 187, 191, 437, 445 Wilcox M., 24 Willett M. E., 410 Williamson R., 321 Wilson J. C., 461 Wilson S. G., 91, 181 Windisch H., 246 Winger M., 175 Wink W., 226-227 Winter B. W., 363 Winter M., 445 Witherington III B., 38 Wolf E., 14, 331 Wolff C , 185, 229 Wrede W., 104, 339 Wright N. T., 131, 178, 236, 275 Yarbro Collins A., 18, 462, 465, 470, 498 Yates R., 225
617
INDICE DEI NOMI Zager W., 147 Zeller D., 29-30 Zesati Estrada C , 287-288, 293 Ziesler J., 110
Zimmerli W., 46 Zimmermann H., 438 Zuckschwerdt E., 352 Zumstein J., 398, 411, 420
•
INDICE GENERALE
Prefazione
pag
CAP. I - LA CHIESA GIUDEO-CRISTIANA DI GERUSALEMME
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Premesse
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1. Il racconto pre-marciano della Passione 1.1 Esistenza, estensione e origine di un racconto pre-redazionale 1.1.1 Esistenza 1.1.2 Data e luogo di origine 1.2 La cristologia 1.2.1 II racconto in quanto tale 1.2.2 La elaborazione cristologica del racconto 1.2.3 In conclusione
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2. La raccolta delle parole di Gesù: fonte Q 2.1 Esistenza, estensione e origine di Q 2.2 La cristologia 2.2.1 II Gesù di Q è l'uomo della parola 2.2.2 La passione-morte di Gesù 2.2.3 La dimensione sapienziale della cristologia di Q 2.2.4 La dimensione profetico-escatologica 2.2.5 Conclusione
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3. Altre fonti della primitiva cristologia giudeo-cristiana 3.1 La cristologia di At 2-5 3.1.1 Titoli cristologici esclusivi 3.1.2 At 2,36 3.1.3 At 3,19-21
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620
INDICE GENERALE
3.2 L'invocazione "Maranatha!" (ICor 16,22) e il titolo di "Signore" pag. 3.2.1 Lo sfondo culturale-religioso del titolo » 3.2.2 La valenza cristologica del titolo »
52 54 56
4. Gesù Cristo e lo Spirito Santo 4.1 La risurrezione 4.2 II battesimo al Giordano 4.3 II concepimento
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62 65 66 68
5. Il Tempio e la Legge 5.1 II Tempio 5.2 La Legge
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70 70 71
6. Conclusione
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74 76
Bibliografia CAP. II - L'APOSTOLO PAOLO Premesse
89 89 96 96 98 101
1. L'incontro personale con Cristo 1.1 I precedenti 1.2 L'evento di Damasco 1.3 Conversione o chiamata? 2. Il debito verso le tradizioni gesuane 2.1 Un secondo fondatore del cristianesimo? 2.2 Riferimenti evidenti a Gesù 2.3 Allusioni alla tradizione sinottica 2.4 Consonanze tematiche tra Paolo e Gesù 2.4.1. Regno di Dio e giustificazione per fede 2.4.2. L'identità di Gesù 2.4.3. Il valore della morte di Gesù 2.5 Conclusione
104 104 109 111 112 113 114 115 117
3. L'eredità cristologica pre-paolina 3.1 II triangolo Damasco-Gerusalemme-Antiochia 3.2 Pre-redazionalità e struttura di Fil 2,6-11 3.3 Lo sfondo culturale 3.3.1. Ambiente greco 3.3.2. Ambiente giudaico
118 118 121 125 125 127
621
INDICE GENERALE
3.4 3.5 3.6 3.7
La preesistenza (A) La kenosi (B) L'esaltazione (C) Conclusione
pag. 129
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132 135 136
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137 138 140 140
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148 150 150 153 154
5. La partecipazione del peccatore alla morte (e risurrezione) di Cristo 5.1 Concezione di partenza: l'assoluzione 5.2 Concezione di arrivo: la partecipazione 5.3 Conclusione
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156 157 161 173
6. Cristo e la Legge 6.1 II giudizio negativo sulla Legge 6.2 La motivazione cristologica
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174 176 177
7. I titoli cristologici 7.1 Reimpiego dei titoli tradizionali 7.1.1 Cristo 7.1.2 Signore 7.1.3 Figlio di Dio 7.2 Titoli nuovi 7.2.1 "Ultimo Adamo" 7.2.2 "Immagine di Dio" 7.2.3 "Dio"?
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180 180 180 183 186 189 189 189 190
8. La cristologia come struttura fondamentale del pensiero paolino 8.1 Dio 8.2 Lo Spirito 8.3 La croce
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191 192 193 193
4. Il Crocifisso risorto 4.1 La terminologia 4.2 II valore fondamentale della morte di Gesù 4.2.1 Un riscatto di amore 4.2.2 Scandalo e stoltezza come potenza e sapienza di Dio 4.3 La portata della risurrezione 4.3.1 Accessibilità al valore salvifico della croce 4.3.2 Presenza del Signore alla sua chiesa 4.3.3 Parusia e intercessione escatologica
622
INDICE GENERALE
8.4 La chiesa 8.5 II cristiano 8.6 L'ultimo giorno 8.7 Conclusione Bibliografia
pag. 194
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195 195 195 197
CAP. Ili - LA TRADIZIONE PAOLINA
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215
Premesse
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215
1. L'annientamento escatologico dell'Empio (2Ts)
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217
2. "Il Diletto" (Ef 1,6)
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219
3. "Capo" (Col-Ef) 3.1 Capo della chiesa 3.2 Capo del cosmo e delle potenze angeliche
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221 221 224
4. La creazione in Cristo (Col 1,15-20) 4.1 Gli attributi 4.2 Le funzioni
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229 230 233
5. Il "mysterion" (Col-Ef)
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237
6. "Salvatore" e "mediatore" (Lettere Pastorali)
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243
7. Gli 7.1 7.2 7.3 7.4 7.5 7.6
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247 249 249 251 252 253 255
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257 258
apporti della lPt II ricorso all'Antico Testamento "Agnello senza difetti e senza macchia" II tema del Servo sofferente "Pietra viva" "Pastore" Predicazione ai defunti?
8. Conclusione Bibliografia
623
INDICE GENERALE
CAP. IV - LA LETTERA AGLI EBREI
pag. 265
Premesse
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265
1. Panoramica sulle qualifiche cristologiche presenti nella lettera
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267
2. Mutuo intreccio dei titoli "Figlio" e "Sacerdote" 2.1 L'esordio: 1,1-4 2.2 Gesù Cristo e gli angeli: 1,5-2,18 2.3 Conclusione
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270 271 275 279
3. Figlio (di Dio) 3.1 Portata tradizionale del titolo 3.2 Gesù è figlio eppure lo diviene 3.2.1 La pre-esistenza del Figlio 3.2.2 La filiazione acquisita da Gesù 3.2.3 Conclusione 3.3 "Fu reso perfetto" 3.3.1 La piena solidarietà con gli uomini: 2,10 3.3.2 L'esperienza cruciale della passione e della morte 3.3.3 L'integrità morale di Gesù e l'unicità della sua offerta 3.3.4 Conclusione
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280 280 282 282 283 285 285 287
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287
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289 289
4. (Sommo) Sacerdote 4.1 Premesse al tema 4.1.1 L'ambiente storico-religioso 4.1.2 Portata tradizionale del tema 4.2 Gesù, sommo sacerdote degno di fede e misericordioso (3,1 - 5,10) 4.3 Confronto tipologico con Melchisedeq (cap. 7) 4.3.1 La figura di Melchisedeq come base dell'argomentazione 4.3.2 L'attribuzione a Gesù della qualifica sacerdotale di Melchisedeq 4.4 Esercizio atipico del sacerdozio di Cristo confrontato con quello levitico (capp. 8-9) 4.4.1 La somiglianza 4.4.2 Le dissomiglianze 4.5 Efficacia e permanenza del sacrificio di Cristo
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293 294 294 296
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297 298 300 303
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305 305 307 314
624
INDICE GENERALE
5. Conclusione Appendice sull'Eucaristia Bibliografia
pag. 320 » 320 » 323
CAP. V - LE REDAZIONI SINOTTICHE
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329
Premesse
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329
1. Il vangelo secondo Marco 1.1 Alcune tecniche letterarie 1.2 L'insieme narrativo 1.3 La dimensione cristologica 1.4 Titoli cristologici marciani
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334 336 337 339 344
2. Il vangelo secondo Matteo 2.1 II materiale evangelico 2.2 La strategia narrativa 2.2.1. Gesù come Messia 2.2.2. Gesù come Maestro 2.2.3. Gesù come Emmanuele
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346 347 347 349 353 359
3. Il vangelo secondo Luca (e Atti) 3.1 Le e At 3.2 Dati linguistici tipici 3.3 L'idea di necessità 3.4 Manifestazione e dimostrazione della grazia 3.5 Problema del valore della Croce Bibliografia
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362 364 366 367 369 376 379
CAP. VI - IL QUARTO VANGELO (e 1GV)
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387
Premesse
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387
1. Gesù, il rivelatore celeste 1.1 La rivelazione come tema programmatico e unificante del vangelo 1.2 Legittimazione e itinerario del Rivelatore 1.2.1 Missione 1.2.2 Donazione 1.2.3 Visione e audizione 1.2.4 Discesa e ascesa
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394
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395 398 398 399 400 401
625
INDICE GENERALE
1.3 Proprietà del Rivelatore 1.3.1 La conoscenza 1.3.2 La verità 1.3.3 La comunicazione 1.4 Conclusione
pag. 403
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403 404 406 409
2. Le molteplici definizioni di Gesù 2.1 I titoli tradizionali 2.1.1 Titoli di origine gesuana 2.1.2 Titoli di origine pasquale 2.2 Gli specifici titoli giovannei 2.2.1 II Logos 2.2.2 L'unigenito 2.2.3 L'agnello di Dio 2.2.4 Gli "Io sono" predicativi 2.2.5 Gli "Io sono" assoluti
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414 414 414 417 419 420 426 426 430 437
3. Lo Spirito, conferma della rivelazione 3.1 Lo Spirito dato a Gesù 3.2 La promessa dello Spirito ai discepoli 3.3 II dono effettivo dello Spirito 3.4 La funzione dello Spirito nella vita dei discepoli Bibliografia
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440 441 441 442 444 448
CAP. VII - L'APOCALISSE DI GIOVANNI
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457
Premesse
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457
1. Il problema della cristologia
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463
2. Agganci con la tradizione 2.1 Identificazione storica di Gesù 2.1.1 II nome "Gesù" 2.1.2 La davidicità di Gesù 2.2 Reimpiego della titolatura cristologica tradizionale 2.2.1 "Figlio dell'uomo" 2.2.2 "Cristo" 2.2.3 "Signore" 2.2.4 "Figlio di Dio" 2.2.5 "Il Santo", "il Verace", "l'Amen"
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465 465 465 467
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469 469 470 471 472 473
626
INDICE GENERALE
2.2.6 "Il principio della creazione" 2.2.7 "Il primo e l'ultimo", "l'alfa e l'omega", "l'inizio e la fine" 2.2.8 Sacerdote? 2.3 Le due componenti del mistero pasquale 2.3.1 La morte come sgozzamento 2.3.2 La risurrezione come vittoria
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474 474 475 475 476
3. La cristologia dell'Agnello 3.1 Origine e significato della metafora 3.2 Le funzioni dell'Agnello 3.2.1 Lo sgozzamento e i suoi effetti 3.2.2 L'associazione al trono di Dio 3.2.3 Apertura del libro dai sette sigilli 3.2.4 La funzione pastorale dell'Agnello 3.2.5 "L'ira dell'Agnello" 3.2.6 "Le nozze dell'Agnello"
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4. Cristologia e celebrazione innica
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CAP. Vili - CONCLUSIONE GENERALE
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1. La crescita della cristologia neotestamentaria
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Bibliografia
2. L'unità della cristologia neotestamentaria Bibliografia Abbreviazioni Indice delle fonti Indice dei nomi
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Questo secondo volume del professore Romano Penna continua, amplia e conclude l'indagine sulla cristologia del Nuovo Testamento. Seguendo il criterio storico, esso prende in considerazione tutti gli sviluppi canonici sulla base dei due inizi, studiati nel primo volume: la vita terrena di Gesü e la sua risurrezione. E in questo secondo momento che propriamente si trovano moltiplicati i ritratti di Gesù il Cristo, come essi si ricavano da almeno sette fasi diverse, a cui corrispondono anche altrettanti complessi letterari: 1. il giudeo-cristianesimo palestinese 2. l'apporto geniale dell'apostolo Paolo 3. la sua prosecuzione nella tradizione paolina 4. Poriginale contributo della lettera agli Ebrei 5. le tradizioni sinottiche confluite in Mc-Mt-Lc 6. l'elaborazione della tradizione risalente al Discepolo prediletto 7. la prospettiva apocalittica di Giovanni a Patmos. Viene cosi offerta una presentazione completa e critica della cristologia neotestamentaria, attenta - da una parte - alie precomprensioni religioso-culturali del tempo, e - dall'altra - impegnata ad aggiornare il lettore sulle odierne discussioni circa Gesü Cristo, anche mediante riferimenti bibliografici specifici. L'originaria molteplicitá delle ermeneutiche cristologiche ("i ritratti originali", appunto) mette bene in luce quanto la statura personale di Gesü superi le nostre comuni comprensioni umane e richiede un'onesta disponibilitá al suo mistero. ISBN 88-215-3880-X
STUDI SULLA BIBBIA E IL SUO AMBIENTE Collana diretta da Romano Penna La Bibbia è per natura sua destinata a incontrare l'uomo nella sua concreta e sofferta vicenda storica. Di questa destinazione essa reca l'impronta fin dalle sue origini, essendo ben radicata nei travagli storico-culturali del popolo d'Israele e della specifica comunità cristiana. La collana intende offrire studi caratterizzati dall'applicazione di una rigorosa metodologia filologica e che insistono non solo sulla Bibbia, ma anche sul suo ambiente. 1. / ritratti originali di Gesù il Cristo: I. Gli inizi, R. Penna, 3' ed. 2. / ritratti originali di Gesù il Cristo: II. Gli sviluppi, R. Penna, 21 ed. 3. L'ingresso di Davide in Gerusalemme capitale. Studio letterario, storico e teologico su II Sam 5,6-8; 6,1-23, R. Gelio 4. // Vangelo in Egitto. Le origini della comunità cristiana di Alessandria, J. J. Femàndez Sangrador 5. / sacrifici dell'antica alleanza. Tipologie, rituali, celebrazioni, I. Cardellini 6. Vangelo e inculturazione. Studi sul rapporto tra rivelazione e cultura nel Nuovo Testamento, R. Penna 7. Quando interrogare è pregare. La domanda nel Salterio alia luce della letteratura accadica, R. Torti Mazzi 8. Timorati di Dio e simpatizzanti. Studio sull'ambiente pagano delle sinagoghe della diaspora, B. Wander 9. Gesù nelle fonti extrabibliche. Le antiche testimonianze sul Maestro di Galilea, R. E. Van Voorst